HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli
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HISTORIA DEL CONCILIO TRIDENTINO
INDICE
Libro primo [1500 - agosto 1544]
Libro secondo [settembre 1544 - marzo 1547]
Libro terzo [aprile 1547 - aprile 1551]
Libro quarto [maggio 1551 - agosto 1552]
Libro quinto [settembre 1552- dicembre 1561]
Libro sesto [1° gennaio - 17 settembre 1562]
Libro settimo [18 settembre 1562 - 15 maggio 1563]
[Libro ottavo [17 maggio 1563 - 12 marzo 1565]
[Dissegno dell'autore]
Il
proponimento mio è di scrivere l'istoria del concilio tridentino,
perché, quantonque molti celebri istorici del secol nostro nelli loro scritti
n'abbiano toccato qualche particolar successo, e Giovanni Sleidano,
diligentissimo autore, abbia con esquisita diligenza narrate le cause
antecedenti, nondimeno, poste tutte queste cose insieme, non sarebbono bastanti
ad un'intiera narrazione.
Io subito
ch'ebbi gusto delle cose umane, fui preso da gran curiosità di saperne
l'intiero, e dopo, l'aver letto con diligenza quello che trovai scritto e li
publici documenti usciti in stampa o divulgati a penna, mi diedi a ricercar
nelle reliquie de' scritti de prelati et altri nel concilio intervenuti, le
memorie da loro lasciate e li voti o pareri detti in publico, conservati dagli
autori proprii o da altri, e le lettere d'avisi da quella città scritte,
non tralasciando fatica o diligenza, onde ho avuto grazia di vedere sino
qualche registro intiero di note e lettere di persone ch'ebbero gran parte in
quei maneggi. Avendo adunque tante cose raccolte, che mi possono somministrar
assai abondante materia per la narrazione del progresso, vengo in risoluzione
di ordinarla.
Racconterò
le cause e li maneggi d'una convocazione ecclesiastica, nel corso di 22 anni
per diversi fini e con varii mezi da chi procacciata e sollecitata, da chi
impedita e differita, e per altri anni 18 ora adunata, ora disciolta, sempre
celebrata con varii fini, e che ha sortita forma e compimento tutto contrario
al dissegno di chi l'ha procurata et al timore di chi con ogni studio l'ha
disturbata: chiaro documento di rasignare li pensieri in Dio e non fidarsi
della prudenza umana.
Imperoché
questo concilio, desiderato e procurato dagli uomini pii per riunire la Chiesa
che comminciava a dividersi, ha cosí stabilito lo schisma et ostinate le parti,
che ha fatto le discordie irreconciliabili; e maneggiato da li prencipi per
riforma dell'ordine ecclesiastico, ha causato la maggior deformazione che sia
mai stata da che vive il nome cristiano, e dalli vescovi sperato per racquistar
l'autorità episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice romano,
l'ha fatta loro perdere tutta intieramente, riducendoli a maggior servitú; nel
contrario temuto e sfugito dalla corte di Roma come efficace mezo per moderare
l'essorbitante potenza, da piccioli principii pervenuta con varii progressi ad
un eccesso illimitato, gliel'ha talmente stabilita e confermata sopra la parte
restatagli soggetta, che non fu mai tanta, né cosí ben radicata.
Non
sarà perciò inconveniente chiamarlo la Illiade del secol nostro,
nella esplicazione della quale seguirò drittamente la verità, non
essendo io posseduto da passione che mi possi far deviare. E chi mi
osserverà in alcuni tempi abondare, in altri andar ristretto, si ricordi
che non tutti i campi sono di ugual fertilità, né tutti li grani
meritano d'esser conservati, e di quelli che il mietitore vorrebbe tenerne
conto, qualche spica anco sfugge la presa della mano o il filo della falce,
cosí comportando la condizione d'ogni mietitura, che resti anco parte per
rispigolare.
[Uso de' concili antichi]
Ma inanzi ad
ogn'altra cosa mi convien ricordare esser stato antichissimo costume nella
Chiesa cristiana di quietare le controversie in materia di religione e
riformare la disciplina trascorsa in corruttela col mezo delle convocazioni de'
sinodi. Cosí la prima che nacque vivendo ancora molti delli santi apostoli, se
le genti convertite a Cristo erano tenute all'osservanza delle leggi mosaiche,
fu composta per riduzzione in Gierusalem di 4 apostoli e di tutti li fedeli che
in quella città si ritrovavano; al cui essempio nelle occorrenze che
alla giornata in ciascuna provincia nacquero, per 200 e piú anni seguenti, anco
nel fervore delle persecuzioni, si congregarono i vescovi et i piú principali
delle Chiese per sedarle e mettervi fine, essendo questo l'unico rimedio di
riunire le divisioni et accordare le opinioni contrarie.
Ma doppo che
piacque a Dio di dar pace alla sua Chiesa con eccitar al favor della religione
Constantino, sí come fu piú facile che molto piú Chiese communicassero e
trattassero insieme, cosí ancora le divisioni si fecero piú communi. E dove che
avanti non uscivano d'una città, overo al piú d'una provincia, per la
libertà della communicazione si estesero in tutto l'Imperio, per il che
anco l'usato rimedio delli concilii fu necessario che si raccogliesse da piú
ampli luoghi. Onde essendo in quel tempo congregato da quel prencipe un concilio
di tutto l'Imperio, ebbe nome di santa e grande sinodo, e qualche tempo doppo
fu anco chiamato concilio generale et ecumenico, se ben non raccolto da tutta
la Chiesa, della quale gran parte si estendeva fuori dell'Imperio romano, ma
perché l'uso di quel secolo era di chiamar l'imperatore patrone universale di
tutta la terra abitata, con tutto che sotto l'Imperio non fusse contenuta la
decima parte d'essa. Ad essempio di questo, in altre occorrenze di dissidii di
religione simili concilii furono congregati dalli successori di Constantino. E
se ben l'Imperio piú volte fu diviso in orientale et occidentale, nondimeno,
maneggiandosi gli affari sotto nome commune, continuò ancora la
convocazione delle sinodi dall'Imperio tutto.
Ma doppo che
fu diviso l'Oriente dall'Occidente, non rimanendovi communione nel principato,
e doppo che l'orientale fu in gran parte da' sarraceni occupato e l'occidentale
partito in molti prencipi, il nome di concilio universale et ecumenico non
derivò piú dall'unità dell'Imperio romano, ma appresso greci dal
convento delli 5 patriarchi, e nelle regioni nostre dall'unità e
communione di quei regni e stati, che nelle cose ecclesiastiche rendevano
obedienza al pontefice romano. E di questi la congregazione si è
continuata, non principalmente per sopir le dissensioni della religione, come
già, ma overo per far la guerra di Terra Santa, o per sopir schismi e
divisioni della Chiesa romana, overo anco per controversie che fussero tra li
pontefici e li prencipi cristiani.
[Prima occasione del Tridentino]
Principiando
il secolo XVI doppo la natività di nostro Signore, non appariva urgente
causa di celebrar concilio, né che per longo tempo dovesse nascere. Perché
parevano a fatto sopite le querele di molte Chiese contra la grandezza della
corte, e tutte le regioni de' cristiani occidentali erano in communione et
obedienza della Chiesa romana. Solo in una picciola parte, cioè in quel
tratto de monti che congiongono le Alpi con li Pirenei, vi erano alcune
reliquie degli antichi valdesi, overo albigesi. Nelli quali però era
tanta semplicità et ignoranza delle buone lettere, che non erano atti a
communicar la loro dottrina ad altre persone, oltre che erano posti in cosí
sinistro concetto d'impietà et oscenità appresso gli vicini, che
non vi era pericolo che la contagione potesse passar in altri.
In alcuni
cantoni ancora di Boemia vi erano alcuni pochi della medesima dottrina,
reliquie pur degli stessi, dalli boemi chiamati picardi, li quali per la stessa
ragione non era da dubitare che potessero aumentarsi.
Nell'istesso
regno di Boemia erano li seguaci di Giovanni Hus, che si chiamavano calistini
overo sub utraque, li quali, fuori che in questo particolare che nella
santissima communione ministravano al popolo il calice, nelle altre cose non
erano molto differenti dalla dottrina della Chiesa romana. Ma né questi
venivano in considerazione, cosí per il loro picciol numero, come perché
mancavano di erudizione, né si vedeva che desiderassero communicar la loro
dottrina, né che altri fossero curiosi d'intenderla.
Vi fu ben
qualche pericolo di schisma. Perché, avendo Giulio II atteso piú alle arti
della guerra che al ministerio sacerdotale et amministrato il pontificato con
eccessivo imperio verso li prencipi e cardinali, aveva necessitato alcuni di
essi a separarsi da lui e congregar un concilio. Al che aggiongendosi che Luigi
XII, re di Francia, scommunicato dallo stesso pontefice, gli aveva levato
l'obedienza e si era congionto con li cardinali separati, pareva che potesse
passar questo principio a qualche termine importante. Ma morto opportunamente
Giulio et essendo creato Leone, con la sua desterità in brevissimo tempo
riconciliò li cardinali et il regno di Francia insieme, sí che fu con
mirabile celerità e facilità estinto un fuoco che pareva dovesse
arder la Chiesa.
[Nel tempo di Leone X]
Leon X, come
quello ch'era nobilmente nato et educato, portò molte buone arti nel
pontificato; fra quali erano una buona erudizione singolare nelle buone lettere
di umanità, bontà e dolcezza di trattare maravigliosa, con una
piacevolezza piú che umana, insieme con somma liberalità et inclinazione
grande a favoriti letterati e virtuosi, che da longo tempo non s'erano vedute
in quella sede né uguali, né prossime alle sue. E sarebbe stato un perfetto
pontefice, se con queste avesse congionto qualche cognizione delle cose della
religione et alquanto piú d'inclinazione alla pietà: dell'una e
dell'altra delle quali non mostrava aver gran cura. E sí come era liberalissimo
e ben intendente dell'arte del donare, cosí in quella dell'acquistare non era
sufficiente da sé, ma si serviva dell'opera di Lorenzo Pucci, cardinal di Santi
Quattro, il qual in questa parte valeva assai.
Ritrovandosi
adunque Leone in questo stato quieto, estinto in tutto e per tutto il schisma,
senza alcun avversario, si può dire, (poiché quei pochi valdesi e
calistini non erano in considerazione), liberale nello spendere e donare, cosí
a parenti, come a corteggiani et alli professori di lettere, essausti gli altri
fonti donde la corte romana suole tirar a sé le ricchezze dell'altre regioni,
pensò valersi di quello delle indulgenze.
Questo modo
di cavar danari fu messo in uso doppo il 1100. Imperoché, avendo papa Urbano II
concessa indulgenza plenaria e remissione di tutti i peccati a chi andava nella
milizia di Terra Santa per conquistar e liberar il sepolcro di Cristo dalle
mani di maometani, fu seguitato per piú centenara d'anni dalli successori,
avendo alcuni d'essi, (come sempre si aggionge alle nuove invenzioni)
aggiontovi la medesima indulgenza a quelli che mantenevano un soldato, non
potendo essi o non volendo personalmente andare nella milizia; e poi, col
progresso, concesso le medesime indulgenze e remissioni anco per far la guerra
a quelli che, se ben cristiani, non erano obedienti alla Chiesa romana; e per lo
piú erano fatte abondantissime essazzioni di danari sotto li pretesti detti di
sopra. Li quali però erano applicati, o tutti, o la maggior parte, ad
altri usi.
Seguendo
questi essempii Leone, cosí consegliato dal cardinal Santi Quattro,
mandò una indulgenza e remissione de peccati per tutte le regioni di
cristiani, concedendola a chi contribuisse danari et estendendola anco a morti:
per i quali, quando fosse fatta l'esborsazione, voleva che fossero liberati
dalle pene del purgatorio; aggiongendo anco facoltà di mangiar ova e
latticini ne' giorni di digiuno, di eleggersi confessore, et altre tali
abilità. E se ben l'essecuzione di questa impresa di Leone ebbe qualche
particolare poco pio et onesto, come si dirà, il quale diede scandalo e
causa di novità, non è però che molte delle concessioni
simili già fatte dalli pontefici per l'inanzi non avessero cause meno
oneste e non fossero essercitate con maggiore avarizia et estorsione. Ma molte
volte nascono occasioni sufficienti per produrre notabili effetti, e svaniscono
per mancamento d'uomini che se ne sappiano valere. E quello che piú importa,
è necessario che per effettuare alcuna cosa venga il tempo nel quale
piaccia a Dio di corregger i mancamenti umani. Queste cose tutte s'incontrarono
nel tempo di Leone, del quale parliamo.
Imperoché
avendo egli del 1517 publicata la universale concessione delle indulgenze,
distribuí una parte delle rendite prima che fossero raccolte né ben seminate,
donando a diversi le revenute di diverse provincie e riserbando anco alcune per
la sua camera. In particolare donò il tratto delle indulgenze della
Sassonia e di quel braccio di Germania che di là camina sino al mare a
Maddalena sua sorella, moglie di Franceschetto Cibo, figlio naturale di papa
Innocenzio VIII. Per ragione del qual matrimonio Leone era stato creato
cardinale in età di 14 anni, che fu il principio delle grandezze
ecclesiastiche nella casa de Medici. Et usò Leone quella
liberalità non tanto per affetto fraterno, quanto per ricompensa delle spese
fatte dalla casa Cibo in quel tempo che stette retirato in Genova, non potendo
dimorar in Roma mentre Alessandro VI era congionto con li fiorentini nemici di
casa Medici, che l'avevano scacciata di Fiorenza. Ma la sorella, acciò
il dono del pontefice gli rendesse buon frutto, diede la cura di mandar a
predicare l'indulgenze e dell'essazzione del danaro al vescovo Aremboldo, il
quale nell'assonzione della dignità e carico episcopale non si era
spogliato di alcuna delle qualità di perfetto mercatante genovese.
Questo diede la facoltà di publicarle a chi offerí di piú cavarne, senza
risguardo della qualità delle persone, anzi cosí sordidamente, che
nissuna persona mediocre poté contrattar con lui, ma solo trovò ministri
simili a sé, non con altra mira che di cavar danari.
Era costume
nella Sassonia che quando dalli pontefici si mandavano l'indulgenze, erano
adoperati li frati dell'ordine degli eremitani per publicarle. A questi non
volsero inviarsi li questori ministri dell'Aremboldo, come a quelli che, soliti
maneggiare simili merci, potevano aver maniera di trarne occultamente frutto
per loro, e da quali anco, come usati a questo ufficio, non aspettavano cosa
straordinaria e che li potesse fruttare piú del solito; ma s'inviarono alli
frati dell'ordine di san Domenico. Da questi, nel publicar l'indulgenze, furono
dette molte novità che diedero scandalo, mentre essi volevano
amplificare il valore piú del solito. Si aggionse la cattiva vita delli
questori, i quali nelle taverne et altrove, in giuochi et altre cose piú da
tacere, spendevano quello che il popolo risparmiava dal suo vivere necessario
per acquistar le indulgenze.
[Le indulgenze contese da Lutero]
Dalle quali
cose eccitato Martino Lutero, frate dell'ordine degli eremitani, li
portò a parlar contra essi questori; prima riprendendo solamente i nuovi
eccessivi abusi, poi, provocato da loro, incominciò a studiare questa
materia, volendo vedere i fondamenti e le radici dell'indulgenza; li quali
essaminati, passando dagli abusi nuovi alli vecchi e dalla fabrica alli fondamenti,
diede fuora 95 conclusioni in questa materia, le quali furono proposte da esser
disputate in Vitemberga; né comparendo alcuno contra di lui, se ben viste e
lette, non furono da alcuno oppugnate in conferenza vocale, ma ben frate
Giovanni Thecel, dell'ordine di san Domenico, ne propose altre contrarie a
quelle in Francfort di Brandeburg.
Queste due
mani di conclusioni furono come una contestazione di lite, perché passò
inanzi Martino Lutero a scrivere in difesa delle sue, e Giovanni Ecchio ad
oppugnarle, et essendo andate cosí le conclusioni, come le altre scritture, a
Roma, scrisse contra Lutero frate Silvestro Prierio dominicano. La qual contesa
di scritture sforzò una parte e l'altra ad uscir della materia e passar
in altre di maggiore importanza.
Perché,
essendo l'indulgenze cosa non ben essaminata ne' precedenti secoli, né ancora
ben considerata come si difendesse e sostentasse, o come si oppugnasse, non
erano ben note la loro essenza e cause. Alcuni riputavano le indulgenze non
esser altro ch'una assoluzione e liberazione, fatta per autorità del
prelato, dalle penitenze che negli antichissimi tempi, per ragion di
disciplina, la Chiesa imponeva a' penitenti, (questa imposizione fu ne'
seguenti secoli dal solo vescovo assonta, poi delegata al prete penitenziario,
e finalmente rimessa all'arbitrio del confessore), ma non liberassero di pagar
il debito alla divina giustizia. Il che parendo ad altri che cedesse piú a
maleficio, che a beneficio del popolo cristiano, il quale, coll'esser liberato
dalle pene canoniche, si rendeva negligente a sodisfar con pene volontarie alla
divina giustizia, entrarono in opinione che fossero liberazione dall'una e
dall'altra. Ma questi erano divisi, volendo alcuni che fossero liberazione
senza che altro fosse dato in ricompensa di quelle, altri, aborrendo un tal
arbitrio, dicevano che, stante la communione in carità delli membri di
Santa Chiesa, le penitenze di uno si potevano communicar all'altro e con questa
compensazione liberarlo. Ma perché pareva che questo convenisse piú agli uomini
di santa et austera vita, che all'autorità de prelati, nacque la terza
opinione che le fece in parte assoluzione, per il che se li ricerchi
l'autorità, et in parte compensazione. Ma non vivendo li prelati in
maniera che potessero dar molto de loro meriti ad altri, si fece un tesoro
nella Chiesa pieno de' meriti di tutti quelli che ne hanno abondanza per loro
proprii. La dispensazione del quale è commessa al pontefice romano, il
quale, dando l'indulgenze, ricompensa il debito del peccatore con assegnare
altretanto valor del tesoro. Né qui era il fine delle difficoltà, perché
opponendosi che essendo i meriti de' santi finiti e limitati, questo tesoro
potrebbe venir a meno, volendolo fare indeficiente, vi aggionsero i meriti di
Cristo che sono infiniti: d'onde nacque la difficoltà a che fosse
bisogno di gocciole de' meriti d'altri, quando si aveva un pelago infinito di
quelli di Cristo. Che fu cagione ad alcuni di fare essere il tesoro delli
meriti della Maestà sua solamente.
Queste cose
cosí incerte allora e che non avevano altro fondamento che la bolla di Clemente
VI fatta per il giubileo del 1350, non parevano bastanti per oppugnar la
dottrina di Martino Lutero, risolvere le sue ragioni e convincerlo; perilché
Thecel, Ecchio e Prierio, non vedendosi ben forti nelli luoghi proprii di
questa materia, si voltarono alli communi e posero per fondamento
l'autorità pontificia et il consenso delli dottori scolastici,
concludendo che, non potendo il pontefice fallare nelle cose della fede et avendo
egli approvata la dottrina de' scolastici e publicando esso le indulgenze a
tutti i fedeli, bisognava crederle per articolo di fede. Questo diede occasione
a Martino di passar dalle indulgenze all'autorità del pontefice, la qual
essendo dagli altri predicata per suprema nella Chiesa, da lui era sottoposta
al concilio generale legitimamente celebrato, del quale diceva esservi bisogno
in quella instante et urgente necessità; e continuando il calore della
disputa, quanto piú la potestà papale era dagli altri inalzata, tanto
piú da lui era abbassata (contenendosi però Martino nei termini di
parlar modestamente della persona di Leone e riservando alle volte il suo
giudicio). E per l'istessa ragione fu anco messa a campo la materia della
remissione de peccati e della penitenza e del purgatorio, valendosi di tutti
questi luoghi i romani per prova delle indulgenze.
Piú
appositamente di tutti scrisse contra Martin Lutero, frate Giacomo Ogostrato,
dominicano inquisitore, il qual tralasciate queste ragioni, essortò il
pontefice a convincer Martino con ferro, fuogo e fiamme.
[Lutero è citato a Roma]
Tuttavia si
andava essacerbando la controversia e Martino passava sempre inanzi a qualche
nuova proposizione, secondo che gli era data occasione. Perilché Leone
pontefice nell'agosto del 1518 lo fece citare a Roma da Gieronimo, vescovo
d'Ascoli, auditore della Camera, e scrisse un breve a Federico, duca di
Sassonia, essortandolo a non protegerlo. Scrisse anco a Tomaso de Vio,
cardinale Gaetano, suo legato nella dieta d'Augusta, che facesse ogni opera per
farlo prigione e mandarlo a Roma. Fu operato col pontefice per diversi mezi che
si contentasse far essaminar la sua causa in Germania; il quale trovò
buono che fosse veduta dal suo legato, al quale fu commesso quel giudicio con instruzzione
che se avesse scoperto alcuna speranza in Martino di resipiscenza, lo dovesse
ricevere e promettergli impunità delli difetti passati, et anco onori e
premii, rimettendo alla sua prudenza; ma quando lo trovasse incorrigibile,
facesse opera con Massimiliano imperatore e con gli altri prencipi di Germania
che fusse castigato.
Martino con
salvocondotto di Massimiliano andò a trovar il legato in Augusta, dove,
dopo una conveniente conferenza sopra la materia controversa, scoprendo il
cardinale che con termini di teologia scolastica, nella professione della quale
era eccellentissimo, non poteva esser convinto Martino, che si valeva sempre
della Scrittura divina, la quale da scolastici è pochissimo adoperata,
si dichiarò di non voler disputar con lui, ma l'essortò alla
retrattazione o almeno a sottometter i suoi libri e dottrina al giudicio del
pontefice, mostrandogli il pericolo in che si trovava persistendo e
promettendogli dal papa favori e grazie. Al che non essendo risposto da Martino
cosa in contrario, pensò che non fosse bene, col molto premere, cavar
una negativa, ma interponer tempo, acciò le minaccie e le promesse
potessero far impressione, per il che lo licenziò per allora. Fece anco
far ufficio in conformità da frate Giovanni Stopiccio, vicario generale
dell'ordine eremitano.
Tornato
Martino un'altra volta, ebbe il cardinale con lui colloquio molto longo sopra i
capi della sua dottrina, piú ascoltandolo che disputando, per acquistarsi
credito nella proposta dell'accommodamento; alla quale quando discese,
essortandolo a non lasciar passare un'occasione tanto sicura et utile, li
rispose Lutero con la solita efficacia che non si poteva far patto alcuno a
pregiudicio del vero, che non aveva offeso alcuno, né aveva bisogno della
grazia di qual si voglia, che non temeva minaccie, e quando fosse tentato cosa
contra di lui indebita, avrebbe appellato al concilio. Il cardinale (al quale
era andato all'orecchie che Martino fosse assicurato da alcuni grandi per tener
un freno in bocca al pontefice) sospettando che parlasse cosí persuaso, si
sdegnò e venne a riprensioni acerbe e villanie, et a conchiudere che i
prencipi hanno le mani longhe, e se lo scacciò dinanzi. Martino, partito
dalla presenza del legato e memore di Giovanni Hus, senza altro dire partí anco
d'Augusta, di dove allontanato e pensate meglio le cose sue, scrisse una
lettera al cardinale, confessando d'essere stato troppo acre e scusandosi sopra
l'importunità de' questori e de' scrittori suoi avversarii, promettendo
di usar maggior modestia nell'avvenire, di sodisfar al papa e di non parlar
delle indulgenze piú; con condizione, però, che i suoi avversarii anco
facessero l'istesso. Ma né essi, né egli potevano contenersi in silenzio, anzi
l'uno provocava l'altro, onde la controversia s'inaspriva.
[Il papa sostenta le indulgenze per una bolla]
Perilché in
Roma la corte parlava del cardinale con gran vituperio, attribuendo tutto il
male all'aver trattato Lutero con severità e con villanie; li
attribuivano a mancamento che non gli avesse fatto promessa di gran richezze,
d'un vescovato et anco d'un capel rosso da cardinale. E Leone, temendo di
qualche gran novità in Germania, non tanto contra l'indulgenze quanto
contra l'autorità sua, fece una bolla sotto il 9 novembre 1518, dove dicchiarò
la validità delle indulgenze e che esso, come successore di Pietro e
vicario di Cristo, aveva potestà di concederle per i vivi e per i morti,
e che questa era la dottrina della Chiesa romana, la quale è madre e
maestra di tutti li cristiani, che doveva esser ricevuta da qualonque vuol
esser nel consorzio della Chiesa. Questa bolla mandò al cardinale
Gaetano, il qual, essendo a Linz in Austria superiore, la publicò e ne
fece far molti essemplari autentici, mandandone a ciascuno dei vescovi di
Germania con commandamento di publicarli e di commandar severamente e sotto
gravi pene a tutti di non aver altra fede.
Da questa
bolla vidde chiaramente Martino che da Roma e dal pontefice non poteva aspettar
altro ch'esser condannato, e sí come per l'innanzi aveva per lo piú riservata
la persona et il giudicio pontificio, cosí doppo questa bolla venne a
risoluzione di rifiutarlo. Perilché mandò fuori un'appellazione: nella
quale, avendo prima detto di non voler contraporsi all'autorità del
pontefice quando insegni la verità, soggionse ch'egli non era essente
dalle communi condizioni di poter fallare e peccare, allegando l'essempio di
san Pietro ripreso da san Paolo gravemente; ma ben era cosa facile al papa,
avendo tante richezze e seguito, senza rispetto d'alcuno, opprimere chi non
sente con lui; a' quali non resta altro rimedio che rifugire al concilio col
beneficio dell'appellazione, poiché per ogni ragione deve esser preposto il
concilio al pontefice. Andò per Germania la scrittura dell'appellazione
e fu letta da molti e tenuta ragionevole; perilché la bolla di Leone non
estinse l'incendio eccitato in Germania.
[Per le medesime ragioni nascono turbamenti in
svizzeri. Giudicii del mondo sopra questi accidenti]
Ma in Roma,
avendo come dato animo alla corte non altrimenti che se il fuoco fosse estinto,
fu mandato fra Sanson da Milano, dell'ordine di san Francesco, a predicare le
medesime indulgenze ne svizzeri; il quale, doppo averle pubblicate in molti
luoghi e raccolto sino a 120 mila scudi, finalmente capitò in Zurich,
dove insegnava Ulrico Zuinglio, canonico in quella chiesa; il quale opponendosi
alla dottrina del frate questore, furono tra loro gravi dispute, passando anco
d'una materia nell'altra non altrimenti di quello che era accaduto in Germania.
Onde avvenne che Zuinglio fosse da molti ascoltato et acquistasse credito e
potesse parlare non tanto contra gli abusi dell'indulgenze, ma contra
l'indulgenze stesse et anco contra l'autorità del pontefice che le concedeva.
Martino
Lutero, vedendo la sua dottrina esser ascoltata et anco passar ad altre
regioni, fatto piú animoso, si pose ad essaminar altri articoli, et in materia
della confessione e della communione si partí dall'intelligenza delli
scolastici e della romana Chiesa, approvando piú la communione del calice usata
in Boemia e ponendo per parte principale della penitenza non la diligente
confessione al sacerdote, ma piú tosto il proposito di emendar la vita per
l'avvenire. Passò anco a parlare delli voti e toccare gli abusi
dell'ordine monastico, e caminando i suoi scritti arrivarono in Lovanio et in
Colonia, dove veduti dalle università di quei teologi et essaminati,
furono da loro condannati. Né questo turbò punto Martino, anzi gli diede
causa di passar inanzi e dichiarare e fortificare la sua dottrina quanto piú
era oppugnata
Con queste
piú tosto contenzioni che risolute discussioni passò l'anno 1519,
quando, moltiplicando gli avisi a Roma delli moti germanici et elvetici,
aumentati con molte amplificazioni et aggionte, come è costume della
fama, massime quando si raccontano cose lontane, Leone era notato di
negligenza, che in tanti pericoli non desse mano a gagliardi rimedii. I frati
particolarmente biasimavano che, attento alle pompe, alle caccie, alle delizie
et alla musica, de quali sopra modo si dilettava, tralasciasse cose di somma
importanza. Dicevano che nelle cose della fede non conviene trascurare cosa
minima, né differire un punto la provisione, la quale, sí come è
facilissima prima che il male prenda radice, cosí quando è invecchiato
riesce tarda; che Arrio fu una minima scintilla che con facilità sarebbe
stata estinta, e pure abbruciò tutto il mondo; che averebbero a
quell'ora fatto altretanto Giovanni Hus e Gieronimo da Praga, se dal concilio
di Costanza non fussero stati oppressi nel principio. In contrario Leone era
pentito di tutte le azzioni fatte da lui in queste occorrenze e piú di tutto
del breve delle indulgenze mandato in Germania, parendogli che sarebbe stato
meglio lasciar disputare i frati tra di loro e conservarsi neutrale e riverito
da tutte le parti, che, col dichiararsi per una, costringer l'altra ad
alienarsi da lui; che quella contenzione non era tanto gran cosa, che non
bisognava metterla in riputazione, e che mentre sarà tenuta per leggiera
pochi ci pensaranno, e se il nome pontificio non fosse entrato sino allora
dentro, averebbe fatto il suo corso e sarebbe dileguata.
[Condannazione di Lutero a Roma]
Con tutto
ciò, per le molte instanze de' prelati di Germania, delle università
che, interessate per la condanna, ricercavano l'autorità pontificia per
sostentamento, e piú per le continue importunità de' frati di Roma,
venne in risoluzione di ceder all'opinione commune. E fece una congregazione di
cardinali, prelati, teologi e canonisti, alla quale rimesse intieramente il
negozio. Da quella con grandissima facilità fu concluso che si dovesse
fulminar contra tanta impietà; ma furono discordi i canonisti dalli
teologi, volendo questi che immediatamente si venisse alla fulminazione, e
dicendo quelli che fosse necessario precedesse prima la citazione. Allegavano i
teologi che la dottrina si vedeva con evidenza empia, et i libri erano
divulgati, e le prediche di Lutero notorie; dicevano gli altri che la
notorietà non toglieva la difesa che è de iure divino et
naturale, correndo alli luoghi soliti: «Adam ubi es?», «Ubi est Abel frater
tuus?» e nell'occorenza delle 5 città, «Descendam et videbo».
Aggiongevano che la citazione dell'auditore dell'anno inanzi, in virtú della
quale il giudicio fu rimesso al Gaetano in Augusta e restò imperfetta,
quando altro non fosse la mostrava necessaria. Doppo molte dispute, nelle quali
i teologi attribuivano a sé soli la decisione, trattandosi di cosa di fede, et
i giurisconsulti se l'appropriavano quanto alla forma di giudicio, fu proposto
composizione tra loro, distinguendo il negozio in tre parti: la dottrina, i
libri e la persona. Della dottrina, concessero i canonisti che si condannasse
senza citazione; della persona, persistevano in sostenere che fosse necessaria;
però non potendo vincer gli altri, che insistevano con maggior acrimonia
e si coprivano col scudo della religione, trovarono temperamento che a Martino
fosse fatto un precetto con termine conveniente, che cosí si risolverebbe in citazione.
Delli libri fu piú che fare, volendo i teologi che insieme con la dottrina
fossero dannati assolutamente, et i canonisti che si ponessero dal canto della
persona e si comprendessero sotto il termine. Non potendosi accordar in questo,
fu fatto l'uno e l'altro: prima dannati di presente, e poi dato il termine ad
abbruciarli. E con questa risoluzione fu formata la bolla, sotto il dí 15
giugno 1520, la quale essendo come principio e fondamento del concilio di
Trento di cui abbiamo da parlare, è necessario rappresentare qui un
breve compendio di quella.
[Bolla di Leone]
Nella quale
il pontefice inviando il principio delle sue parole a Cristo, il quale ha
lasciato Pietro et i suoi successori per vicarii della sua Chiesa, lo eccita ad
aiutarla in questi bisogni; e da Cristo voltatosi a san Pietro, lo prega per la
cura ricevuta dal Salvatore voler attendere alle necessità della Chiesa
romana, consecrata col suo sangue; et passando a san Paulo, lo prega del
medesimo aiuto, aggiongendo che se ben egli ha giudicato l'eresie necessarie
per prova de' buoni, è però cosa conveniente estinguerle nel
principio; finalmente rivoltatosi a tutti i santi del cielo et alla Chiesa
universale, gli prega ad interceder appresso Dio che la Chiesa sia purgata da
tanta contagione. Passa poi a narrare come gli sia pervenuto a notizia et abbia
veduto con gli occhi proprii essere rinovati molti errori già dannati,
de' greci e boemi et altri, falsi, scandalosi, atti ad offender le pie orecchie
et ingannar le menti semplici, seminati nella Germania, sempre amata da lui e
da suoi predecessori, i quali, doppo la translazione dell'Imperio greco, hanno
pigliato sempre defensori da quella nazione e da quei prencipi pii sono emanati
molti decreti contra gli eretici, confermati anco dalli pontefici; perilché
egli, non volendo piú tolerare simili errori, ma provedervi, vuol recitare
alcuni d'essi. E qui recita 42 articoli che sono nelle materie del peccato
originale, della penitenza e remissione de' peccati, della communione, delle
indulgenze, della scommunica, della podestà del papa,
dell'autorità de' concilii, delle buone opere, del libero arbitrio, del
purgatorio, e della mendicità; i quali dice che respettivamente sono
pestiferi, perniziosi, scandalosi, con offesa delle pie orecchie, contra la carità,
contra la riverenza dovuta alla romana Chiesa, contra l'obedienza, che è
nervo della disciplina ecclesiastica; per la quale causa, volendo procedere
alla condannazione, ne ha fatto diligente essaminazione con gli cardinali e
generali degli ordini regolari, con altri teologi e dottori dell'una e l'altra
legge, e per tanto gli condanna e reproba respettivamente come eretici,
scandalosi, falsi, in offesa delle pie orecchie et inganno delle pie menti e
contrarii alla verità catolica, proibisce sotto pena di scommunica e
d'innumerabili altre pene che nissuno ardisca tenerli, defenderli, predicarli o
favorirli. E perché le medesime asserzioni si ritrovano nelli libri di Martino,
però li danna, commandando sotto l'istesse pene che nissuno possa legerli
o tenerli, ma debbiano esser abbrucciati cosí quelli che contengono le
proposizioni predette, come qualunque altri. Quanto alla persona di esso
Martino, dice che l'ha ammonito piú volte, citato e chiamato con promessa di
salvocondotto e viatico, e che se fosse andato, non averebbe trovato tanti
falli nella corte come diceva, e che esso pontefice gli averebbe insegnato che
mai i papi suoi predecessori hanno errato nelle constituzioni loro. Ma perché
egli ha sostenute le censure per un anno et ha ardito d'appellare al futuro
concilio, cosa proibita da Pio e Giulio II sotto le pene degli eretici, poteva
proceder alla condannazione senza altro; nondimeno, scordato delle ingiurie,
ammonisce esso Martino e quelli che lo difendono che debbiano desister da
quelli errori, cessar di predicare, et in termine di 60 giorni, sotto le
medesime pene, aver rivocati tutti gli errori sudetti et abrusciati i libri: il
che non facendo, gli dichiara notorii e pertinaci eretici. Appresso commanda a
ciascuno, sotto le stesse pene, che non tenga alcun libro dell'istesso Martino,
se ben non contenesse tali errori. Poi ordina che tutti debbano schifare cosí
lui, come i suoi fautori; anzi commanda a ognuno che debbiano prenderli e
presentarli personalmente, o almeno scacciarli dalle proprie terre e regioni;
interdice tutti i luoghi dove anderanno; commanda che siano publicati per tutto
e che la sua bolla debba essere letta in ogni luogo, scommunicando chi
impedirà la publicazione; determina che si creda alli transonti, et
ordina che la bolla sia publicata in Roma, Brandeburg, Misna e Manspergh.
Martino
Lutero, avuto nova della dannazione della sua dottrina e libri, mandò
fuori una scrittura facendo repetizione dell'appellazione interposta al
concilio, replicandola per le stesse cause. Et oltre di ciò, perché il
papa abbia proceduto contra uno non chiamato e non convinto, e non udita la
controversia della dottrina, anteponendo le opinioni sue alle Sacre Lettere e
non lasciando luogo alcuno al concilio, si offerí di mostrare tutte queste cose,
pregando Cesare e tutti i magistrati che per diffesa dell'autorità del
concilio ammettessero questa sua appellazione, non riputando che il decreto del
papa oblighi persona alcuna, fin che la causa non sia legitimamente discussa
nel concilio.
[Giudicii degli uomini sopra detta bolla]
Ma gli uomini
sensati, vedendo la bolla di Leone, restarono con maraviglia per piú cose.
Prima quanto alla forma, che con clausule di palazzo il pontefice fusse venuto
a dichiarazione in una materia che bisognava trattare con le parole della
Scrittura divina, e massime usando clausule tanto intricate e cosí longhe e
prolisse, che a pena era possibile di cavarne senso, come se si avesse a far
una sentenza in causa feudale; et in particolare era notato che una clausula,
la quale dice «inhibentes omnibus ne praefatos errores asserere praesumant»,
è cosí allongata, con tante ampliazioni e restrizzioni, che tra
l'«inhibentes» et il «praesumant» vi sono interposte piú di 400 parole.
Altri,
passando poco piú inanzi, consideravano che l'aver proposto 42 proposizioni e
condannate come eretiche, scandalose, false, offensive delle pie orecchie et
ingannatrici delle menti semplici, senza esplicare, quali di loro fossero le
eretiche, quali le scandalose, quali le false, ma con vocabolo «respettivamente»
attribuendo a ciascuna di esse una qualità incerta, veniva a restare
maggior dubio che inanzi, il che era non diffinir la causa, ma renderla piú
controversa che prima, e mostrar maggiormente il bisogno che vi era d'altra
autorità e prudenza per finirla.
Alcuni ancora
restavano pieni d'ammirazione come fosse detto che fra le 42 proposizioni, vi
fossero errori de' greci già dannati. Ad altri pareva cosa nuova che
tante proposizioni in diverse materie di fede fossero state decise in Roma col
solo consiglio de' cortegiani, senza participarne con gli altri vescovi,
università e persone letterate d'Europa.
[In Lovanio e Colonia sono arsi i libri di
Lutero ed egli arde le decretali]
Ma le
università di Lovanio e Colonia, liete che per editto pontificio fosse
dato colore al giudicio loro, abrusciarono publicamente i libri di Lutero. Il
che fu causa ch'egli ancora in Vitemberga, congregrata tutta quella scola, con
forma di giudicio publicamente facesse abrusciare non solo la bolla di Leone,
ma anco insieme le decretali pontificie, e poi con un longo manifesto,
publicato in scritto, rendesse conto al mondo di quella azzione, notando il
papato di tirannide nella Chiesa, perversione della dottrina cristiana et
usurpazione della potestà de' legitimi magistrati.
Ma cosí per
l'appellazione interposta da Lutero, come per queste et altre considerazioni,
ogni uno venne in opinione che fosse necessario un legitimo concilio, per opera
del quale non solo le controversie fossero decise, ma ancora fosse rimediato
agli abusi per longo tempo introdotti nella Chiesa; e sempre tanto piú questa
necessità appariva, quanto le contenzioni crescevano, essendo
continuamente dall'una parte e l'altra scritto. Perché Martino non mancava di
confermare con diversi scritti la dottrina sua e, secondo che studiava,
scopriva piú lume, caminando sempre qualche passo inanzi e trovando articoli ai
quali nel principio non aveva pensato. Il che egli diceva fare per zelo della
casa di Dio. Ma era anco costretto da necessità, perché i pontificii
avendo fatto opera efficace in Colonia con l'elettore di Sassonia, per mezo di
Gieronimo Aleandro, che desse Martino prigione al papa o per altra via gli
facesse levar la vita, egli si vedeva in obligo di mostrare a quel prencipe et
ai popoli di Sassonia et ad ogni altro che la ragione era dal canto suo,
acciò il suo prencipe o qualche altro potente non desse luogo agli
ufficii pontificii contra la vita sua.
[Lutero comparisce in Vormazia in dieta
imperiale. Cesare proscrive Lutero]
Con queste
cose, essendo passato l'anno 1520, si celebrò in Germania la dieta di
Vormazia del 1521, dove Lutero fu chiamato con salvocondotto di Carlo, eletto
due anni inanzi imperatore, per render conto della sua dottrina. Egli era
consigliato a non andarvi poiché già era publicata et affissa la sua
condanna fatta da Leone, onde poteva esser certo di non riportare se non
conferma della condannazione, se pur non gli fosse avvenuto cosa peggiore.
Nondimeno, contra il parere di tutti gl'amici, sentendo egli in contrario,
diceva che, se ben fosse certo d'aver contra tanti diavoli quanti coppi erano
nelli tetti delle case di quella città, voleva andarvi, come fece.
Et in quel
luogo ai 17 d'aprile, in presenza di Cesare e di tutto il convento de'
principi, fu interrogato se egli era l'autore de libri che andavano fuora sotto
suo nome, de' quali furono recitati i titoli e mostratigli gli essemplari posti
in mezo del consesso, e se voleva difendere tutte le cose contenute in quelli o
ritrattarne alcuna. Rispose, quanto alli libri, che li riconosceva per suoi, ma
il risolversi di difendere o no le cose contenute in quelli essere di gran
momento e pertanto avere bisogno di spazio per deliberare. Gli fu concesso
tempo quel giorno per dar risposta il seguente. Il qual venuto, introdotto
Martino nel consesso, fece una longa orazione: scusò prima la sua
semplicità se, educato in vita privata e semplice, non aveva parlato
secondo la dignità di quel consesso e dato a ciascuno i titoli
convenienti; poi confermò di riconoscer per suoi i libri; e quanto al
difenderli, disse che tutti non erano d'una sorte, ma alcuni contenevano
dottrina della fede e pietà, altri riprendevano la dottrina de'
pontificii, un terzo genere era delli scritti contenziosamente contra i
defensori della contraria dottrina. Quanto alli primi, disse che, se li
retrattasse, non farebbe cosa da cristiano e da uomo da bene; tanto piú, quanto
per la medesima bolla di Leone, se ben tutti erano condannati, non però
tutti erano giudicati cattivi. Quanto alli secondi, che era cosa pur troppo
chiara che tutte le provincie cristiane, e la Germania massime, erano espilate
e gemevano sotto la servitú; e però il retrattare le cose dette non
sarebbe stato altro che confermare quella tirannide. Ma nelli libri del terzo
genere confessò d'esser stato piú acre e veemente del dovere, scusandosi
che non faceva professione di santità, né voleva defender i suoi costumi
ma ben la dottrina; che era parato di dar conto a qualonque persona si volesse,
offerendosi non esser ostinato, ma, quando li fosse mostrato qualche suo errore
con la Scrittura in mano, era per gettar i suoi libri nel fuoco. Si
voltò all'imperatore et alli prencipi dicendo esser gran dono di Dio
quando vien manifestata la vera dottrina, sí come il ripudiarla è un
tirarsi adosso causa d'estreme calamità.
Finita
l'orazione fu, per ordine dell'imperatore, ricercato di piana e semplice
risposta, se voleva difender o no i suoi scritti. Al che rispose di non poter
revocar alcuna cosa delle scritte o insegnate, se non era convinto con le
parole della Scrittura o con evidenti ragioni.
Le quali cose
udite, Cesare fu risoluto, seguendo i vestigi de' suoi maggiori, difender la
Chiesa romana et usar ogni rimedio per estinguer quell'incendio; non volendo
però violar la fede data, ma passar al bando dopo che Martino fosse
ritornato salvo a casa. Erano nel consesso alcuni che, approvando le cose fatte
in Costanza, dicevano non doversi servar la fede; ma Lodovico, conte palatino
elettore, si oppose come a cosa che dovesse cadere a perpetua ignominia del
nome tedesco, esprimendo con sdegno esser intolerabile che, per servigio de'
preti, la Germania dovesse tirarsi addosso l'infamia di mancar della publica
fede. Erano anco alcuni, quali dicevano che non bisognava correr cosí
facilmente alla condanna, per esser cosa di gran momento e che poteva apportar
gran consequenze.
Fu ne' giorni
seguenti trattato in presenza d'alcuni de' prencipi, et in particolar
dell'arcivescovo di Treveri e di Gioachino, elettore di Brandeburg, e dette
molte cose da Martino in difesa di quella dottrina e da altri contra, volendo
indurlo che rimettesse ogni cosa al giudicio di Cesare e del consesso e della
dieta, senza alcuna condizione. Ma dicendo egli che il profeta proibiva il
confidarsi negli uomini, eziandio ne' prencipi, al giudicio de' quali nissuna
cosa doveva esser manco permessa che la parola di Dio, fu in ultimo proposto
che sottomettesse il tutto al giudicio del futuro concilio, al che egli
acconsentí, con condizione che fossero cavati prima dai libri suoi gli articoli
ch'egli intendeva sottoporre, e che di quelli non fosse fatta sentenzia se non
secondo le Scritture. Ricercato finalmente che rimedii pareva a lui che si
potessero usare in questa causa, rispose: quelli soli che da Gamaliele furono
proposti agli ebrei; cioè, che se l'impresa era umana, sarebbe svanita,
ma se da Dio veniva, era impossibile impedirla; e che tanto doveva anco
sodisfar al pontefice romano, dovendo esser certi tutti, come egli ancora era,
che se il suo dissegno non veniva da Dio, in breve tempo sarebbe andato in
niente. Dalle quali cose non potendo esser rimosso e restando fermo nella sua
risoluzione che non accettarebbe alcun giudicio se non sotto la regola della
Scrittura, gli fu dato comiato e termine di 21 giorni per tornar a casa, con
condizione che nel viaggio non predicasse, né scrivesse. Di che egli, avendone
rese grazie, a 26 d'aprile si partí.
Dopo, Carlo
imperatore, il giorno 8 di maggio, nel medesimo consesso di Vormazia,
publicò un editto dove, avendo prenarrato che all'ufficio
dell'imperatore tocca aggrandire la religione et estinguer l'eresie che
incominciassero a nascere, passò a raccontare che frate Martino Lutero
si sforzava di macchiare la Germania di quella peste, sí che, non
ovviandosegli, tutta quella nazione era per cadere in una detestabile pernicie;
che papa Leone l'aveva paternamente ammonito, e poi il consiglio di cardinali
et altri uomini eccellenti avevano condannato i suoi scritti e dichiarato lui
eretico, se fra certo termine non rivocava li errori; e di quella bolla della
condanna ne aveva mandato copia ad esso imperatore, come protettor della
Chiesa, per Girolamo Aleandro suo nuncio, ricercandolo che fosse esseguita
nell'Imperio, regni, dominii e provincie sue. Ma che per ciò Martino non
si era corretto, anzi alla giornata moltiplicava libri pieni non solo di nove
eresie, ma ancora di già condannate da' sacri concilii, e non tanto in
lingua latina, ma ancora in tedesca. E nominati poi in particolare molti errori
suoi, conclude non vi esser alcuno scritto dove non sia qualche peste o aculeo
mortale, sí che si può dir che ogni parola sia un veneno. Le quali cose
considerate da esso imperatore e dalli consiglieri suoi di tutte le nazioni
suddite a lui, insistendo ne' vestigii degl'imperatori romani suoi predecessori,
avendo conferito in quel convento di Vormazia con gli elettori et ordini
dell'Imperio, col consiglio loro e assenso, se bene non conveniva ascoltar un
condannato dal sommo pontefice et ostinato nella sua perversità e
notorio eretico, nondimeno, per levar ogni materia di cavillare, dicendo molti
ch'era necessario udir l'uomo prima che venir all'essecuzione del decreto del
pontefice, risolveva mandar a levarlo per uno di suoi araldi, non per conoscere
e giudicare le cose della fede, il che s'aspetta al solo pontefice, ma per
ridurlo alla dritta via con buone persuasioni. Passa poi a raccontare come
Martino fu introdotto nel publico consesso, e quello di che fu interrogato e
ciò che rispose, sí come di sopra è stato narrato, e come fu licenziato
e partí.
Poi segue
concludendo che pertanto, ad onor di Dio e riverenza del pontefice e per debito
della dignità imperiale, con consiglio et assenso degl'elettori,
prencipi e stati, esseguendo la sentenza e condanna del papa, dicchiara d'aver
Martino Lutero per notorio eretico e determina che da tutti sia tenuto per
tale, proibendo a tutti di riceverlo o difenderlo in qualunque modo,
commandando sotto tutte le pene a li prencipi e stati che debbano, passato il
termine delli 20 giorni, prenderlo e custodirlo e perseguitar ancora tutti i
complici, aderenti e fautori suoi, spogliandoli di tutti i beni mobili et
immobili. Commanda ancora che nissuno possi leggere o tenere i libri suoi, non
ostante che vi fosse dentro alcuna cosa buona, ordinando tanto alli prencipi quanto
agli altri che amministrano giustizia che gli abbruscino e destrugghino. E
perché in alcuni luoghi sono composti e stampati libri estratti dalle opere di
quello, e sono divulgate pitture et imagini in vergogna di molti, et anco del
sommo pontefice, commanda che nissuno possi stamparne, dipingerne o tenerne, ma
dalli magistrati siano prese et abbrusciate, e puniti i stampatori, compratori
e venditori; aggiongendo una general legge che non possi essere stampato alcuno
scritto dove si tratta cosa della fede, ben che minimo, senza volontà
dell'ordinario.
[Parigi oppugna Lutero, e similmente Arrigo re
d'Inghilterra]
In questo
medesimo tempo ancora, l'università di Parigi, cavate diverse
conclusioni dalli libri di Lutero, le condannò, parte come renovate dalla
dottrina di Vigleffo e Husso, e parte nuovamente pronunciate da lui contra la
dottrina catolica. Ma queste opposizioni tutte non causavano altro se non che,
rispondendo Lutero, si moltiplicava in libri dall'una parte e dall'altra, e le
contenzioni s'inasprivano e s'eccitava la curiosità di molti che,
volendo informarsi dello stato della controversia, venivano ad avvertire gli
abusi ripresi e cosí si alienavano dalla divozione pontificia.
Tra i piú
illustri contradittori che ebbe la dottrina di Lutero fu Enrico VIII, re
d'inghilterra, il qual, non essendo nato primogenito regio, era stato destinato
dal padre per arcivescovo di Canturberi e però nella puerizia fatto
attendere alle lettere. Ma morto il primogenito, e dopo quello anco il padre,
egli successe nel regno, et avendo per grand'onore adoperarsi in una
controversia di lettere cosí illustre, scrisse un libro de 7 sacramenti,
difendendo anco il pontificato romano et oppugnando la dottrina di Lutero; cosa
che al pontefice fu tanto grata che, ricevuto il libro del re, l'onorò
col solito titolo di difensore della fede. Ma Martino non si lasciò
spaventare dal splendore regio che non rispondesse a quella Maestà con
altretanta acrimonia, veemenzia e poco rispetto, con quanta aveva risposto ai
piccioli dottori. Questo titolo regio entrato nella controversia la fece piú
curiosa, e come avviene nelli combattimenti, che i spettatori s'inclinano
sempre al piú debole et essaltano piú le azzioni mediocri di quello, cosí qui
concitò l'inclinazione universale piú verso Lutero.
[Il moto de' svizzeri continua. Il senato di
Zurigo vi provede per via di conferenza]
Subito che fu
per tutto publicato il bando dell'imperatore, l'istesso mese Ugo, vescovo di
Costanza, sotto la diocese del quale è posta la città di Zurich,
scrisse al collegio de' canonici di quel luogo, nel numero de quali era
Zuinglio, et un'altra lettera al senato della medesima città. In quelle
considerò il danno che le chiese e le republiche ancora pativano per le
novità delle dottrine, con molto detrimento della salute spirituale,
confusione della quiete e tranquillità publica. Gli essortò a
guardarsi dalli nuovi dottori, mostrando che non sono mossi se non dalla
propria ambizione et instigazione diabolica. Manda insieme il decreto di Leone
et il bando di Cesare, essortando che il decreto del papa fosse ricevuto et
obedito, e quello del imperatore immitato, e notò particolarmente la
persona e la dottrina di Zuinglio e de suoi aderenti, sí che constrinse
Zuinglio a dar conto di tutto quello che insegnava alli colleghi e sodisfar il
senato. E scrisse ancora al vescovo, insistendo principalmente sopra questo,
che non erano da tolerar piú longamente i sacerdoti concubinarii, di dove
veniva l'infamia dell'ordine ecclesiastico et il cattivo essempio alli popoli e
la corruzzione della vita generalmente in tutti: cosa che non si poteva levare,
se non introducendo, secondo la dottrina apostolica, il matrimonio. Scrisse
ancora in propria difesa a tutti i cantoni de svizzeri, facendo in particolare
menzione d'un editto fatto dalli loro magistrati maggiori, che ogni prete fosse
tenuto ad aver la concubina propria, acciò non insidiasse la pudicizia
delle donne oneste, soggiongendo che se ben pareva decreto ridiculoso, era
nondimeno fatto per necessità e non doveva esser mutato se non che
quanto era constituito al favor del concubinato, al presente doveva esser
tramutato in matrimonio legitimo.
Il moto del
vescovo indusse i dominicani a predicar contra la dottrina di Zuinglio e lui a
difendersi. Perilché anch'egli scrisse e publicò 67 conclusioni, le
quali contenevano la sua dottrina e toccavano li abusi del clero e delli
prelati. Onde nascendo molta confusione e dissensione, il senato di Zurich
entrò in deliberazione di sedare i tumulti, e convocò tutti i
predicatori e dottori della sua giurisdizzione. Invitò anco il vescovo
di Costanza a mandar qualche persona di prudenza e dottrina per assister a quel
colloquio, a fine di quietare i tumulti e di statuire quello che fosse alla
gloria di Dio. Fu mandato dal vescovo Giacomo Fabro, suo vicario, che fu poi
vescovo di Vienna, e venuto il giorno statuito del congresso, raccolta gran
moltitudine di persone, Zuinglio riprodusse le sue conclusioni, si offerí
difenderle e rispondere a qualunque avesse voluto contradirle. Il Fabro, doppo
molte cose dette da diversi frati dominicani et altri dottori contra Zuinglio,
e da lui risposto, disse che quel tempo e luogo non erano da trattare simile
materia, che la cognizione di simili propositi toccava al concilio, il qual
presto si doveva celebrare, perché cosí diceva esser convenuto il pontefice con
i prencipi e maggiori magistrati e prelati della cristianità. Il che
tanto piú diede materia a Zuinglio di fortificarsi, dicendo che queste erano
promesse per nudrir il popolo con vane speranze e tra tanto tenerlo sopito
nell'ignoranza; che ben si poteva, aspettando anco una piú intiera
dicchiarazione dal concilio delle cose dubie, trattar allora le certe e chiare
nella Scrittura divina e nell'uso dell'antica Chiesa. E tuttavia instando che
dicesse quello che si poteva opponere alle conclusioni sue, si ridusse il Fabro
a dire che non voleva trattare con lui in parole, ma che averebbe risposto alle
sue conclusioni in scritto. Finalmente si finí il consesso, avendo il senato
decretato che l'Evangelio fosse predicato secondo la dottrina del Vecchio e
Nuovo Testamento, non secondo alcun decreto o constituzione umana.
[Il concilio viene desiderato a diversi fini e
con differenti rispetti]
Vedendosi
adonque che le fatiche de' dottori e prelati della Chiesa romana et il decreto
del pontefice, ch'era venuto alla condanna assoluta, et il bando imperiale cosí
severo non solo non potevano estinguer la nuova dotrina, anzi nonostante quella
faceva ogni giorno maggior progresso, ogni uno entrò in pensiero che
questi rimedii non fossero proprii a tal infermità e che bisognasse
venire finalmente a quella sorte di medicina che per il passato, in simili
occasioni usata, pareva avesse sedato tutti i tumulti, il che era la
celebrazione del concilio. Onde questo fu desiderato da ogni sorte di persone
come rimedio salutare et unico.
Veniva
considerato che le novità non avevano avuto altra origine se non dagli
abusi introdotti dal tempo e dalla negligenza delli pastori, e però non
essere possibile rimediare alle confusioni nate, se non rimediando agli abusi
che n'avevano dato causa, né esserci altra via di proveder a quelli
concordemente et uniformemente, se non con una congregazione universale. E questo
era il discorso delli uomini pii e ben intenzionati; non mancando però
diversi generi di persone interessate, a' quali per i loro fini sarebbe stato
utile il concilio, ma cosí regolato e con tali condizioni, che non potesse
essere se non a favor loro e non contrario alli loro interessi. Primieramente
quelli che avevano abbracciate le opinioni di Lutero volevano il concilio con
condizione che in quello tutto fosse deciso e regolato con la Scrittura,
escluse tutte le constituzioni pontificie e le dottrine scolastiche, perché
cosí tenevano certo non solo di difender la loro, ma anco che ella sola
dovess'essere approvata. Ma un concilio che procedesse come era fatto per 800
anni inanzi non lo volevano, e si lasciavano intendere di non rimettersi a quel
giudicio. E Martino usava di dire che in Vormazia fu troppo pusillanime, e che
era tanto certo della sua dottrina che, come divina, non voleva manco
sottometterla al giudicio degli angeli, anzi, che con quella egli era per
giudicare gli uomini e gli angeli tutti. I prencipi et altri governatori de'
paesi, non curando molto quello che il concilio dovesse risolvere intorno alle
dottrine, lo desideravano tale che potesse ridurre i preti e frati al loro
principio, sperando che per quel mezo ad essi dovessero tornare i regali e le
giurisdizzioni temporali, che con tanta abondanzia et ampiezza erano passate
nell'ordine ecclesiastico. E però dicevano che vano sarebbe far un
concilio dove soli i vescovi et altri prelati avessero voto deliberativo,
perché essi dovevano essere riformati, et era necessario che altri ne avessero
il carico, quali dal proprio interesse non fossero ingannati e costretti a
risolvere contra il ben commune della cristianità. Quelli del popolo,
ancora che avessero qualche cognizzione delle cose umane, desideravano moderata
l'autorità ecclesiastica e che non fossero cosí aggravati i miseri
popoli con tante essazzioni, sotto pretesto di decime, limosine d'indulgenze,
né oppressi dalli ufficiali de' vescovi, sotto pretesto di correzzioni e di
giudicii. La corte romana, parte principalissima, desiderava il concilio in
quanto avesse potuto restituire al pontefice l'obedienzia che gli era levata,
et approvava un concilio secondo le forme nelli prossimi secoli usate; ma che
quello avesse facultà di riformar il pontificato e di levare quelle
introduzzioni dalle quali la corte riceveva tanti emolumenti e per le quali
collava in Roma gran parte dell'oro della cristianità, questo non
piaceva loro. Il pontefice Leone, angustiato da ambedue le parti, non sapeva
che desiderare. Vedeva che ogni giorno l'obedienzia andava diminuendosi et i
popoli intieri separandosi da lui, e ne desiderava il rimedio del concilio; il
quale, quando considerava dover esser peggior del male, portando la riforma in
consequenza, l'aborriva. Andava pensando via e modo come far un concilio in
Roma o in qualche altro luogo dello Stato ecclesiastico, come il suo
predecessore et esso avevano celebrato pochi anni innanzi il Lateranense con
buonissimo frutto, avendo con quel mezo sedato lo scisma, ridotto il regno di
Francia ch'era separato e, quello che non era di minor importanza, abolita la
Pragmatica Sanzione, doppiamente contraria alla monarchia romana, sí perché era
un essempio di levarli tutte le collazioni de' beneficii, gran fondamento della
grandezza pontificia, come anco perché era una conservazione della memoria del
concilio basileense, e per conseguente della soggezzione del pontefice al
concilio generale. Ma non vedeva poi come un concilio di quella sorte potesse
rimediar al male, il quale non era nelli prencipi e gran prelati, appresso i
quali vagliono le prattiche et interessi, ma era nei popoli, con quali averebbe
bisognato realtà e vera mutazione.
[Il papa in queste ambiguità si muore e
gli succede Adriano VI]
In questo
stato di cose, nel fine dell'anno 1521, passò di questa vita papa Leone.
E nel principio dell'anno seguente, a 9 di genaro, fu creato Adriano, la cui
assonzione al pontificato, essendo fatta di persona che mai era stata veduta in
Roma, incognita ai cardinali et alla corte e che allora si ritrovava in Spagna,
e, del rimanente, era anco opinione del mondo ch'egli non approvasse i costumi
romani et il libero modo di vivere de' corteggiani, rivoltò i pensieri
di tutti a questo; in modo che le novità luterane non erano piú in nissuna
considerazione. Temevano alcuni ch'egli fosse pur troppo inclinato alla
riforma, altri che chiamasse a sé i cardinali e portasse fuori d'Italia la sede
romana, come altre volte era intervenuto; ma presto restarono quieti di tanto
timore. Perché il novo pontefice il dí seguente doppo avuto l'aviso della sua
elezzione (che fu il 22 dell'istesso mese, nella città di Vittoria in
Biscaglia), non aspettati i legati che gli erano mandati dal collegio de'
cardinali per significargliela et aver il suo consenso, congregati quei pochi
prelati che poté avere, consentí all'elezzione, et assonto l'abito e le insegne
si dicchiarò pontefice e non differí a passar in Barcellona, dove
scrisse al collegio de' cardinali la causa perché aveva assonto il nome et il
carico di pontefice e s'era posto in viaggio senza aspettar i legati,
commettendo anco loro che ciò facessero noto per tutta Italia. Fu
costretto aspettar in Barcellona tempo opportuno per passar il golfo di Lione
assai pericoloso; non però differí piú di quanto era necessario ad
imbarcarsi per venir in Italia, e vi arrivò in fine d'agosto del 1522.
[Adriano VI pensa a' rimedii alle
novità, cominciando per una leggera riforma in Roma]
Ritrovò
Adriano tutta Italia in moto per la guerra tra Cesare et il re di Francia, la
Sede apostolica immersa in guerra particolare con li duchi di Ferrara et
Urbino, Arimini nuovamente occupato da Malatesti, i cardinali divisi e
diffidenti, l'assedio posto da turchi all'isola di Rodi, tutte le terre della
Chiesa essauste et in estrema confusione per 8 mesi di anarchia; nondimeno
applicò principalmente il pensiero a componere le discordie della
religione in Germania, e come quello ch'era dalla fanciullezza nodrito,
allevato et abituato nelli studii della scolastica teologia, teneva quelle
opinioni per cosí chiare et evidenti, che non credeva poter cadere il contrario
in animo d'alcun uomo ragionevole. Perilché non dava altro titolo alla dottrina
di Lutero, se non d'insipida, pazza et irragionevole, e giudicava che nissuna
persona, se non qualche pochi sciocchi, la credessero, e che il seguito che
Martino aveva fosse di persone che in sua conscienzia tenessero per indubitate
l'opinioni romane, fingendo altrimenti, irritati dalle oppressioni. E
però essere cosa facilissima estinguere quella dottrina, che non era
fondata salvo che sopra gl'interessi; onde pensava che col dare qualche
sodisfazzione, facilmente si risanarebbe quel corpo, quale piú tosto faceva
sembiante d'essere infermo che in verità lo fosse. E per esser egli
nativo d'Utrech, città di Germania inferiore, sperava che tutta la
nazione dovesse facilmente porger orecchie alle proposte sue et interessarsi
anco a sostenere l'autorità sua, come d'uomo germano e per tanto
sincero, che non trattasse con arti e per fini occulti. E tenendo per fermo
ch'importasse molto l'usare celerità, deliberò far la prima
proposizione nella dieta che si preparava a Noremberg: la quale, acciò
fosse gratamente udita e le sue promesse fossero stimate reali, inanzi che
trattar cosa alcuna con essi loro, pensava necessario dar saggio con principio
di reforma, levando li abusi stati causa delle dissensioni. A questo effetto
chiamò a Roma Giovanni Pietro Caraffa, arcivescovo di Chieti, e Marcello
Cazele gaetano, uomini stimati di bontà e costumi irreprensibili, e
molto periti delle cose spettanti alla vera disciplina ecclesiastica,
acciò col consiglio loro e delli cardinali piú suoi confidenti trovasse
qualche medicina alle piú importanti corrutele: tra quali prima si
rappresentava la prodigalità delle indulgenze, per aver ella aperta la
via al credito acquistato da' nuovi predicatori in Germania.
Il pontefice,
come teologo che già aveva scritto questa materia prima che mai Lutero
pensasse di trattarla, era in parere di stabilire per decreto apostolico e come
papa quella dottrina che, come privato, aveva insegnata e scritta: cioè
che, concessa indulgenza a chi farà una tal pia opera, è
possibile che da alcuno l'opera sia esseguita in tanta perfezzione che
conseguisca l'indulgenza; se però l'opera manca di quella essattezza,
l'operante non ottiene quella indulgenza tutta, ma solo tanta parte che a
proporzione corrisponda all'opera imperfetta. Riputava il pontefice che in
questa maniera non solo fosse proveduto per l'avvenire ad ogni scandalo, ma
anco rimediato alli passati; poiché potendo ogni minima opera essere cosí ben
qualificata di circostanze che meriti ogni gran premio, restava risoluta
l'obiezzione fatta da Lutero, come per l'oblazione d'un danaro s'acquistasse un
tanto tesoro; e poiché per difetto dell'opera, chi non guadagna tutta
l'indulgenza, ne ottiene però una parte proporzionata, non si ritiravano
i fedeli dal cercare l'indulgenze.
[Il papa è dissuaso dal cardinal
Gaetano]
Ma frate
Tomaso da Gaeta, cardinale di San Sisto, teologo consumato, lo dissuadeva,
dicendogli che ciò era un publicare quella verità, la quale per
salute delle anime era meglio ritenere secreta appresso gli uomini dotti e
ch'era piú tosto disputabile che decisa. Perilché anco esso, qual vivamente in
conscienza la sentiva, nello scrivere però l'aveva in tal maniera
portata che solo gli uomini consumatissimi potevano dalle sue parole cavarla.
La qual dottrina quando fosse divulgata et autorizata, vi sarebbe pericolo che
gl'uomini eziandio letterati non concludessero da quella che la concessione del
papa non giova niente, ma tutto dev'essere attribuito alla qualità
dell'opera, cosa che diminuirebbe affatto il fervore in acquistare l'indulgenze
e la stima dell'autorità pontificia. Aggionse il cardinale che doppo
l'avere, per commandamento di Leone, fatto essatto studio in questo soggetto
l'anno medesimo che nacquero le contenzioni in Germania, e scrittone un pieno
trattato, l'anno seguente, essendo legato in Augusta, ebbe occasione di
ventilarlo e trattarne piú diligentemente, parlando con molti et essaminando le
difficoltà e motivi che turbavano quelle provincie, et in due colloqui
ch'ebbe con Lutero in quella città, discusse pienamente la materia, la
quale avendo ben digerita, non dubitava di poter dire asseverantemente e senza
pericolo di prender errore ch'altra maniera non vi era di rimediare ai scandali
passati, presenti e futuri che ritornando le cose al suo principio. Essere cosa
chiara che, quantunque il papa possi liberare col mezo delle indulgenze i
fedeli da qualsivoglia sorte di pena, legendo però le decretali,
chiaramente apparisce l'indulgenza essere un'assoluzione e liberazione dalle
pene imposte nella confessione solamente. Perilché, ritornando in osservanzia i
canoni penitenziali andati in desuetudine, et imponendo, secondo quelli, le
condecenti penitenze, ognuno chiaramente vedrebbe la necessità et
utilità delle indulgenze e le cercherebbe studiosamente per liberarsi
dal gran peso delle penitenze, e ritornerebbe l'aureo secolo della Chiesa
primitiva, nel quale i prelati avevano assoluto governo sopra i fedeli, non per
altro, se non perché erano tenuti in continuo essercizio con le penitenze; dove
ne' tempi che corrono, fatti oziosi, vogliono scuotersi dalla obedienza. Il
popolo di Germania che, sepolto nell'ozio, presta orecchie a Martino che
predica la libertà cristiana, se fosse con penitenze tenuto in freno,
non pensarebbe a questa novità, e la Sede apostolica potrebbe farne
grazia a chi le riconoscesse da lei.
[Il parere del cardinal Gaetano di rimetter su
l'uso delle penitenze antiche è rifiutato da' deputati alla riforma]
Piaceva al
pontefice questo parere come fondato sopra l'autorità, et al quale non
vedeva che opposizione potesse esser fatta. Lo fece proporre in penitenziaria
per trovar modo e forma come metterlo in uso prima in Roma, poi in tutta la
cristianità. Furono fatte per ciò diverse radunanze dalli
deputati sopra la riforma insieme con li penitenzieri per trattare come
pratticarlo; e tante difficultà si vedevano attraversare, che finalmente
Lorenzo Puccio, fiorentino, cardinale di Santi Quattro, che fu datario di papa
Leone e ministro diligente per ritrovar danari, come già s'è
detto, et ora era sommo penitenziero, col parer universale riferí al pontefice
ch'era stimata irreuscibile la proposta, e che quando fosse tentata, in luogo
di rimediare alli presenti mali, n'averebbe suscitati di molto maggiori. Che le
pene canoniche erano andate in disuso perché, mancato il fervor antico, non si
potevano piú sopportare; però, volendo ritornarle, era necessario prima
ritornare l'istesso zelo e carità nella Chiesa. Che il presente secolo
non era simile alli passati, ne' quali tutte le deliberazioni della Chiesa
erano ricevute senza pensarci piú oltre, là dove al presente ogni uno
vuol farsi giudice et essaminare le ragioni. Il che, se si vede farsi nelle
cose che nulla o poco di gravezza portano seco, quanto maggiormente in una che
sarebbe gravissima. Esser vero che il rimedio è appropriato al male, ma
supera le forze del corpo infermo, et in luogo di guarirlo, sarebbe per
condurlo a morte, e pensando di racquistar la Germania, farebbe perdere
l'Italia prima, et alienare quella maggiormente. Soggionse il cardinale: «Mi
par d'udir uno che dica come san Pietro: "Perché tentar Dio, imponendo
sopra le spalle de' discepoli quello che né noi, né i padri nostri abbiamo
potuto sopportare?'». Si ricordasse Sua Santità di quel celebre luogo
della glosa allegata da lei nel suo quarto delle sentenze, che intorno al
valore delle indulgenze la querela è vecchia et ancor dubia. Considerasse
le quattro opinioni tutte catoliche e tanto diverse che quella glosa riferisce.
Da che appare chiaro che la materia ricerca in questi tempi piú tosto silenzio,
che altra discussione.
[Adriano, perplesso, è raffermato dal
cardinal Soderini]
Penetrarono
queste ragioni nell'animo d'Adriano e lo resero incerto di quello che dovesse
fare, e tanto piú perplesso, quanto non trovava minor difficoltà nelle
altre cose che s'era proposto in animo di riformare. Nella materia delle
dispense matrimoniali, il levar molte delle proibizioni di contrattare
matrimonio tra certo genere di persone, che parevano superflue e difficili da
osservare, a che egli molto inclinava e sarebbe stato gran sollevamento al
popolo, era biasimato da molti come cosa che ralentasse il nervo della
disciplina; il continuarle prestava materia alli luterani di dire ch'erano per
trar danari. Il restringer le dispense ad alcune qualità di persone era
un dare nova materia di querimonie alli pretendenti che nelle cose spirituali et
in quello che al ministerio di Cristo appartiene non vi sia differenzia alcuna
di persone. Il levare le spese pecuniarie per queste cose non si poteva fare
senza ricomprare gli ufficii venduti da Leone, li compratori de' quali traevano
emolumenti da questo. Il che anco impediva da levare i regressi, accessi,
coadiutorie et altri modi usati nelle collazioni de' beneficii, che avevano
apparenza (se, piú veramente, non si deve dir essenza) di simonia. Il
ricomprare gli ufficii era cosa impossibile, attese le gran spese ch'era
convenuto fare e tuttavia continuare. E quel che piú di tutto gli confondeva
l'animo era che quando aveva deliberato di levare qualche abuso, non mancava
chi con qualche colorata apparenza pigliava a sostenere che fosse cosa buona o
necessaria. In queste ambiguità afflisse il pontefice l'animo suo sino
al novembre, desideroso pure di fare qualche notabile provisione che potesse
dar al mondo saggio dell'animo suo, risoluto a porgere rimedio a tutti gli
abusi prima che incomminciare a trattar in Germania.
In fine lo
fermò e fece venir a risoluzione Francesco Soderino, cardinale
prenestino, chiamato di Volterra, allora suo confidentissimo, se bene doppo
entrò cosí inanzi nella disgrazia sua che lo fece anco impriggionare.
Questo cardinale, versatissimo nelli maneggi civili et adoperato nelli
pontificati d'Alessandro, Giulio e Leone, pieni di varii et importanti
accidenti, in ogni ragionamento col pontefice andava gettando parole che
potessero instruirlo: li commendava la bontà et ingenuità sua e
l'animo inclinato alla riforma della Chiesa et all'estirpazione dell'eresie;
aggiongendo però che non poteva avere laude della sola buona intenzione,
insufficiente da se stessa per far il bene, se non vi s'aggiongesse un'essatta
elezzione de' mezzi opportuni et un'essecuzione maneggiata con somma
circonspezzione. Ma quando lo vidde costretto dall'angustia del tempo a
risolversi, li disse non esservi speranza di confondere et estirpare i luterani
con la correzzione de' costumi della corte; anzi questo esser un mezo
d'aummentare a loro molto piú il credito. Imperoché la plebe, che sempre
giudica dalli eventi, quando per l'emenda seguita restarà certificata
che con ragione il governo pontificio era ripreso in qualche parte, si
persuaderà similmente ch'anco l'altre novità proposte abbiano
buoni fondamenti, e gli eresiarchi, vedendo d'averla vinta in una parte, non
cesseranno di riprendere l'altre. In tutte le cose umane avvenire che il
ricevere sodisfazzione in alcune ricchieste dà pretensione di procacciarne
altre e di stimare che siano dovute; che leggendo le passate istorie, dai tempi
che sono state eresie contra l'autorità della Chiesa romana, si
vedrà tutte aver preso pretesto dalli costumi corrotti della corte. Con
tutto ciò mai nissuno pontefice riputò utile mezo il riformarli,
ma sí bene, doppo usate le ammonizioni et instruzzioni, indurre i prencipi a
proteggere la Chiesa. Quello che per il passato è riuscito, doversi
tenere et osservar sempre: nissuna cosa far perire un governo maggiormente che
il mutar i modi di reggerlo; l'aprire vie nuove e non usate esser un esporsi a
gravi pericoli e sicurissima cosa essere caminare per i vestigii de' santi
pontefici che sempre hanno avuto essito felice delle loro imprese. Nissuno aver
mai estinto l'eresie con le riforme, ma con le crucciate e con eccitare i
prencipi e popoli all'estirpazione di quelle. Si ricordasse ch'Innocenzo III
con tale mezo oppresse felicemente gli albigesi di Linguadoca et i pontefici
seguenti non con altri modi estinsero in altri luoghi i valdesi, piccardi,
poveri di Lione, arnaldisti, speronisti e patarini, sí che al presente resta il
solo nome. Non essere per mancare prencipi in Germania, i quali (concedendo
loro la Sede apostolica d'occupare lo Stato de' fautori de' luterani) debbano
avidamente ricevere la condizione, e facendo loro seguito de popoli con le
indulgenze e remissioni a chi anderà a quel soccorso. Li
considerò anco il cardinale che non era da pensare alli moti di
religione in Germania come se non vi fosse altro pericolo imminente alla Sede
apostolica, perché soprastava la guerra d'Italia, cosa di maggior pericolo,
alla quale era necessario applicare principalmente l'animo: nel maneggio della
quale, se si ritrovasse senza nervo, che è il danaro, potrebbe ricevere
qualche notabil incontro, e nissuna riforma potersi fare la quale non
diminuisca notabilmente l'entrate ecclesiastiche, le quali avendo 4 fonti, uno
temporale, le rendite dello Stato ecclesiastico, gli altri spirituali,
l'indulgenze, le dispense e la collazione de' beneficii, non si può
otturar alcuno di questi, che le entrate non restino troncate in un quarto.
Il papa,
conferendo questi discorsi con Gulielmo Encourt, che poi creò cardinale,
e Teodorico Hezio, suoi familiari e confidentissimi, affermava essere misera la
condizione de' pontefici, poiché vedeva chiaro che non potevano far ben neanco
volendo e faticandosene, e concluse che non era possibile inanzi l'espedizione
che doveva far in Germania mandar ad effetto alcun capo di riforma, e che
bisognava che si contentassero di credere alle sue promesse, le quali era
risoluto di mantenere, quando anco avesse dovuto ridursi senza alcun dominio
temporale et anco alla vita apostolica. Diede però stretta commissione
ad ambidue, uno de' quali era datario e l'altro secretario, che nella
concessione delle indulgenze, nelle dispense, ne' regressi e coadiutorie si
usasse parcità, sin tanto che si trovasse come regolarlo con legge e
perpetua constituzione. Le quali cose avendo io letto diffusamente narrate in
un diario del vescovo di Fabriano, dove tenne memoria delle cose notabili da
lui vedute et udite, ho voluto riportarle qui sommariamente, dovendo servir
molto all'intelligenza delle cose che si diranno.
[Adriano manda il vescovo di Fabriano in una
dieta in Norimberga]
Nel primo
concistorio di novembre, col parere de cardinali, destinò Francesco
Chiericato, conosciuto da lui in Spagna e vescovo di Fabriano, (il quale ho
nominato poco fa) per noncio alla dieta di Noremberga, che si celebrava senza
la presenza di Cesare, quale alcuni mesi inanzi era stato sforzato passar in
Spagna per quietar i tumulti e sedizioni nate in quei regni. Arrivò il
noncio a Noremberga nel fine dell'anno, e presentò le lettere del
pontefice agli elettori, prencipi et oratori delle città, scritte in
commune sotto il 25 novembre, nelle quali si doleva prima che, essendo stato
Martino Lutero condannato per sentenza di Leone e la sentenza esseguita per un
editto imperiale in Vormazia, publicato per tutta Germania, nondimeno egli
perseverasse nelli medissimi errori, publicando continuamente libri pieni
d'eresie, e fosse favorito non solo da' plebei, ma anco da' nobili;
soggiongendo che, se ben predisse l'apostolo che le eresie erano necessarie per
essercizio de' buoni, quella necessità, però, era tolerabile
nelle opportunità de' tempi, non in quelli ne' quali, trovandosi la
cristianità oppressa dall'arme de' turchi, si doveva mettere ogni studio
per purgare il mal interno; che il danno et il pericolo, qual da se stesso
porta, impedisce anco l'adoperarsi contra un tanto inimico. Essorta poi i
prencipi et i popoli a non monstrarsi di consentire a tanta sceleratezza col
tolerarla longamente. Gli rappresenta essere cosa vergognosissima che si
lascino condurre da un fraticello fuora della via de' loro maggiori, quasi che
solo Lutero intenda e sappia. Gli avvertisce che se i seguaci di Lutero hanno
levato l'obedienza alle leggi ecclesiastiche, molto maggiormente vilipenderanno
le secolari, e se hanno usurpato i beni della Chiesa, meno si asteneranno da
quei de laici, et avendo ardito di mettere mano nelli sacerdoti di Dio, non
perdoneranno alle case, mogli e figlioli loro. Gli essorta che se non potranno
con le dolcezze ridur Martino et i suoi seguaci nella dritta via, venghino ai
rimedii aspri e di fuoco, per risecare dal corpo i membri morti, come fu fatto
ne' tempi antichi a Datan et Abiron, ad Anania e Saffira, a Gioviniano e
Vigilanzio, e finalmente come i maggiori fecero contra Giovanni Hus e Gieronimo
da Praga nel concilio di Costanza, l'essempio de' quali, quando non possino far
altramente, debbono immitare. Infine si rimette, cosí in quel particolare come
in altri negozii, alla relazione di Francesco Chiericato suo noncio. Scrisse
anco lettere quasi a tutti i prencipi con gl'istessi concetti: all'elettore di
Sassonia, in particolare, scrisse che ben considerasse qual macchia sarebbe
stata alla sua posterità avendo favorito un frenetico che metteva
confusione in tutto 'l mondo con invenzioni empie e pazze, rivoltando la
dottrina stabilita col sangue de' martiri, vigilie de santi dottori et armi di
tanti prencipi fortissimi, caminasse per i vestigii de suoi maggiori, non
lasciandosi abbagliare gli occhi dalla rabbia d'un omicciuolo a seguire gli
errori dannati da tanti concilii.
[Questo noncio presenta la sua instruzione in
dieta]
Presentò
il noncio alla dieta non solo il breve del papa, ma ancora la sua instruzzione,
nella quale gli era commesso di essortar i prencipi ad opporsi alla peste
luterana con 7 ragioni. Prima, perché a ciò li doveva movere il culto di
Dio e la carità verso il prossimo; secondariamente, la infamia della
loro nazione; terzo, il loro onor proprio, mostrandosi non degenerare dalli
loro progenitori che intervennero alla condannazione di Giovanni Hus in
Costanza e delli altri eretici, conducendone alcuni d'essi con le proprie mani
al fuogo, e non volessero mancare della propria parola e costanza, avendo la
maggior parte d'essi approvato l'editto imperiale contra Lutero; quarto, gli
doveva muovere l'ingiuria fatta da Lutero ai loro progenitori publicando
un'altra fede che la creduta da essi e concludendo per conseguenza che tutti
siano all'inferno; quinto, si debbano muovere dal fine che i luterani
pretendono, che è voler snervare la potestà secolare doppo che
averanno anichilata l'ecclesiastica con falso pretesto che sia usurpata contra
l'Evangelio, se ben astutamente mostrano di salvar la secolare per ingannarli.
Nel sesto luogo considerino le dissensioni e turbulenze che quella setta eccita
in Germania, e finalmente avvertano che Lutero usa la medisima via usata
già da Mahometo, permettendo che siano saziate l'inclinazioni carnali,
se ben mostra di farlo con maggior modestia per piú efficacemente ingannarli. E
se alcuno dicesse Lutero esser stato condannato non udito e non difeso, e
però che sia conveniente udirlo, debbia responder: essere giusto udirlo
in quello che tocca al fatto, cioè se ha predicato, scritto o non; ma
sopra le cose della fede o la materia de' sacramenti ciò non esser
conveniente, percioché non s'ha da metter in dubbio quello che una volta
è stato approvato da' concilii generali e da tutta la Chiesa. Poi gli
dà commissione il pontefice di confessar ingenuamente che questa
confusione fosse nata per li peccati degli uomini, massime de' sacerdoti e
prelati, confessando che in quella Santa Sede, già alcuni anni, sono
state fatte molte cose abominevoli, molti abusi nelle cose spirituali, molti
eccessi ne' precetti e finalmente tutte le cose mutate in male, in maniera che
si possa dire che l'infermità sia passata dal capo alle membra, da sommi
pontefici agli inferiori prelati, sí che non vi sia stato chi faccia bene né
pur uno. Alla correzzione del qual male egli, per propria inclinazione e
debito, è deliberato adoperarsi con tutto lo spirito et usar ogni opera
acciò che innanzi ogni altra cosa la corte romana, donde forse tanto mal
è proceduto, si reformi. Il che tanto piú farà, quanto vede che
tutto 'l mondo avidamente lo desidera. Niuno però dover meravigliarsi se
non vederà cosí subito emendati tutti gli abusi. Perché, essendo il male
invecchiato e fatto moltiplice, bisogna a passo a passo procedere nella cura e
cominciar dalle cose piú gravi per non turbar ogni cosa col voler fare tutto
insieme. Gli commise ancora che promettesse per suo nome che egli gli
osservarebbe i concordati e che s'informarebbe de' processi avvocati dalla
rota, per rimetterli ad partes secondo la giustizia. Et in fine che
sollecitasse i prencipi e stati per nome suo a rispondere alle lettere et
informarlo de' mezi per li quali si potesse ovviar piú commodamente ai
luterani. Oltre l'aver presentato il breve del papa e l'informazione, propose
anco il noncio che in Germania si vedeva quasi per tutto i religiosi uscir de'
monasteri e ritornar al secolo et i preti maritarsi con gran sprezzo e
vilipendio della religione, e la maggior parte di loro commetter anco molti
eccessi et enormità; per il che era necessario che fosse pigliata
provisione, per la quale questi sacrileghi matrimonii fossero separati, gli
autori severamente puniti, e gli apostati rimessi nella potestà de' loro
superiori.
[La dieta risponde a' capi della proposta del
noncio]
Fece la dieta
risposta al noncio in iscritto, dicendo d'aver letto con reverenza il breve del
pontefice e l'istruzzione presentata nel negozio della fazzione luterana, e
render grazie a Dio della assonzione di Sua Beatitudine al pontificato,
pregandole dalla Maestà divina ogni felicità. E (dopo aver detto
quello che occorreva circa la concordia tra prencipi cristiani e la guerra
contra turchi) quanto alla domanda d'esseguire la sentenza promulgata contra
Lutero e l'editto di Vormes, risposero essere paratissimi ad impiegar ogni loro
potere per estirpare gli errori, ma aver tralasciato d'esseguir la sentenza e
l'editto per grandissime et urgentissime cause: imperoché la maggior parte del
popolo era persuasa da libri di Lutero che la corte romana avesse inferiti
molti gravami alla nazione germanica; onde se si fosse fatta alcuna cosa per
l'essecuzione della sentenza, la moltitudine sarebbe entrata in sospetto che si
facesse per sostentare e mantenere gli abusi e l'impietà, e ne sarebbono
nati tumulti populari con pericolo di guerre civili. Per tanto esser di bisogno
in simili difficoltà di rimedii piú opportuni, particolarmente
confessando esso noncio, per nome del pontefice, che questi mali venivano per
li peccati degli uomini e promettendo la riforma della corte romana: gli abusi
della quale, se non fossero emendati e levati i gravami e riformati alcuni
articoli, che i prencipi secolari darebbono in iscritto, non era possibile
metter pace tra gli ecclesiastici e secolari, né estirpar i presenti tumulti. E
perché la Germania avea consentito al pagamento delle annate, con condizione
che s'impiegassero nella guerra contra i turchi, e ch'essendo state tanti anni
pagate, né mai convertite in quel uso, pregavano il pontefice che per
l'avvenire non avesse la corte romana cura d'essigerle, ma fossero lasciate al
fisco dell'Imperio per le spese di quella guerra. Et a quello che Sua
Santità ricercava conseglio de' mezi con i quali si potesse ovviar a
tanti inconvenienti, risposero che dovendosi trattar non di Lutero solo, ma
tutt'insieme d'estirpar molti errori e vizii radicati per invecchiata
consuetudine con diversi rispetti, da chi per ignoranza, da chi maliziosamente
difesi, nissun altro rimedio giudicavano piú commodo, efficace et opportuno che
se la Santità Sua, con consenso della Maestà Cesarea, convocasse
un concilio pio, libero e cristiano quanto piú presto fosse possibile, in un
luogo conveniente in Germania: cioè in Argentina, in Mogonza, in
Colonia, overo in Metz, non differendo la convocazione piú d'un anno, e che in
quel concilio a ciascheduno, cosí ecclesiastico, come secolare, fosse concesso
di poter parlare e consegliare a gloria di Dio e salute dell'anime, non ostante
qualonque giuramento e obligazione. Il che tenendo dovere esser esseguito da
Sua Santità con prontezza e celerità, né volendo restar di far al
presente quelle megliori provisioni che possibili siano per il tempo
intermedio, aveano deliberato di procurar con l'elettore di Sassonia che i
luterani non scrivessero né stampassero altro, e che per tutta Germania i
predicatori, tacciute le cose che potevano muover tumulto popolare, dovessero
predicar sinceramente e puramente il santo Evangelio secondo la dottrina
approvata dalla Chiesa, non movendo dispute, ma riservando sino alla
determinazione del concilio tutte le controversie. Che i vescovi deputassero
uomini pii e letterati per sopraintender a predicatori, informarli e
correggerli, ma in maniera che non si potesse sospettare che fosse per impedire
la verità evangelica: che per l'avvenire non si stampi cosa nuova, se
non veduta e riconosciuta da uomini di probità e dottrina: sperando con
questi mezi d'ovviare a tumulti, se la Santità Sua farà la debita
provisione a gravami et ordinarà un libero e cristiano concilio,
sperando che cosí i tumulti si quietarebbono e la maggior parte si ridurebbe a
tranquillità. Perché gli uomini da bene aspettarebbono senza dubbio la
deliberazione del concilio, quando vedessero che si fosse per celebrare presto.
Quanto ai preti che si maritavano e religiosi che ritornavano al secolo, perché
nelle leggi civili non vi era pena, pensavano che bastasse se fossero puniti
dalli ordinarii con le pene canoniche. Ma se commetteranno alcuna sceleratezza,
il prencipe overo podestà, nel territorio de' quali falliranno, lor
dovrà dare il debito castigo.
[Poco gusto d'esso noncio]
Il noncio non
restò sodisfatto di questa risposta e venne in risoluzione di replicare.
E prima, quanto alla causa, perché non si fosse esseguita la sentenza del papa
e l'editto dell'imperatore contra Lutero, disse non sodisfare la ragione
allegata che si fosse restato per fugir i scandali, non convenendo tolerar il
male acciò ne venga il bene e dovendo tenere piú conto della salute
dell'anime che della tranquillità mondana. Aggionse che non si dovevano
scusar i seguaci di Lutero colli scandali e gravami della corte romana, perché,
se ben fossero veri, non però si doveano partire dall'unità
catolica, ma piú tosto sopportar pazientissimamente ogni male. Onde li pregava
per l'essecuzione della sentenza e dell'editto inanzi che la dieta si finisse;
e se la Germania era in alcun conto gravata dalla corte romana, la Sede
apostolica sarebbe pronta di sollevarla, e se vi fossero discordie tra gli
ecclesiastici et i prencipi secolari, il pontefice le componerebbe et
estinguerebbe. Quanto alle annate, altro non diceva per allora, poiché
opportunamente Sua Santità avrebbe dato risposta. Ma quanto alla domanda
del concilio, replicò che sperava non dover dispiacer a Sua
Santità se l'avessero domandato con parole piú convenienti e però
ricercava che fossero levate tutte quelle che potessero dar qualche ombra alla
Beatitudine Sua: come quelle parole che il concilio fosse convocato col consenso
della Maestà Cesarea, e quelle altre che il concilio fosse celebrato piú
in una città che in un'altra, perché, se non si levavano, pareva che
volessero legar le mani alla Santità Sua, cosa che non averebbe fatto
buon effetto. Quanto a predicatori, ricercò che si osservasse il decreto
del pontefice che per l'avvenire nissuno potesse predicar, se la dottrina sua
non fosse essaminata dal vescovo. Quanto agli stampatori e divulgatori de'
libri, replicò che in nissun modo gli piaceva la risposta; che dovessero
esseguir la sentenza del papa e dell'imperatore, che i libri si abbrugiassero e
fossero puniti i divulgatori d'essi, instando et avvertendo che in questo stava
il tutto. E quanto ai libri da stamparsi, si dovesse servare il moderno
concilio lateranense. Ma quanto ai preti maritati, la risposta non gli sarebbe
dispiaciuta, s'ella non avesse avuto un aculeo alla coda, mentre si diceva che,
se commetteranno qualche sceleratezza, saranno puniti dai prencipi o
potestà. Perché questo sarebbe contra la libertà ecclesiastica, e
si metterebbe la falce nel campo d'altri, e si toccarebbono quelli che sono
riservati a Cristo. Conciosiacosa che non dovevano i prencipi presumer di
creder che per l'apostasia si divolvessero alla loro giurisdizzione, né potessero
esser castigati da loro degli altri delitti; imperoché restando in loro il
carattere e l'ordine, sono sempre sotto la potestà della Chiesa; né
possono far altro i prencipi che denonciarli a loro vescovi e superiori, che li
castighino. Concludendo in fine, ricercarli ad aver sopra le suddette cose piú
matura deliberazione e dar risposta megliore, piú chiara, piú sana e meglio
consultata.
Nella dieta
non fu gratamente veduta la replica del noncio, e communemente tra quei
prencipi si diceva il noncio aver una misura del bene e del male per sola
rilazione all'utilità della corte e non alla necessità della
Germania; la conservazione dell'unità catolica dover maggiormente
muovere a far il bene, facile da essequire, che a sopportar il male, difficile
a tolerare. E nondimeno il noncio ricercava che la Germania sopportasse
pazientissimamente le oppressioni inferitegli dalla corte romana, non volendo
essa piegarsi pur un poco al bene, anzi piú tosto a desister dal male, se non
colle sole promesse. Et averebbe mostrato troppo vivo senso quando fosse
restata offesa dalla domanda del concilio tanto modesta e necessaria. E dopo
longa discussione fu risoluto di commun parere di non far altra risposta, ma
aspettar quello che il pontefice risolvesse sopra la già data.
[I prencipi secolari formano lo scritto de'
Cento gravami]
I prencipi
secolari poi a parte fecero una longa querela di ciò che pretendevano
contra la corte romana e contra tutto l'ordine ecclesiastico, riducendola a 100
capi, che per ciò chiamarono centum gravamina. I quali, perché il
noncio, col quale erano stati conferiti, si partí prima che fossero distesi,
mandarono al pontefice con una protesta di non volere né potere tolerarli piú,
e di essere dalla necessità et iniquità loro costretti a cercar di
liberarsene con ogni industria e per le piú commode vie che potessero.
Longo sarebbe
esprimer il contenuto, ma in somma si querelavano del pagamento per le dispense
et assoluzioni, de' danari che si cavavano per l'indulgenze, delle liti che si
tiravano in Roma, delle riservazioni de' beneficii et altri abusi di commende
et annate, dell'essenzione degli ecclesiastici ne' delitti, delle scommuniche
et interdetti ingiusti, delle cause laiche con diversi pretesti tirate
all'ecclesiastico, delle gran spese nelle consecrazioni delle chiese e
cimiteri, delle penitenze pecuniarie, delle spese per aver i sacramenti e la
sepoltura. I quali tutti riducevano a tre principali capi: al metter in servitú
i popoli, spogliarli de' danari et appropriarsi la giurisdizzione del
magistrato secolare.
A 6 di marzo
fu fatto il recesso con i precetti contenuti nella risposta al noncio, e fu
poco dopo ogni cosa stampata, cosí il breve del papa, come anco l'instruzzione
del noncio, le risposte e repliche con li 100 gravami furono divolgati per Germania
e di là passarono ad altri luoghi et anco a Roma. Dove la aperta
confessione del pontefice, che della corte romana et ordine ecclesiastico
venisse l'origine d'ogni male, non piacque e generalmente non fu grata ai
prelati, parendo che fosse con troppo ignominia e che dovesse renderli piú
odiosi al secolo e potesse esser causa anco di farli sprezzare dai popoli, anzi
dovesse far i luterani piú audaci e petulanti. E sopra tutto premeva il vedere
aperta una porta, dove per necessità sarebbe introdotta o la tanto
aborrita moderazione de' commodi loro, overo convinta la
incorrigibilità. E quelli che scusavano piú il pontefice, attribuivano
alla poca cognizione sua dell'arti colle quali si mantiene la potenza
pontificia e l'autorità della corte, fondate sopra la riputazione.
Lodavano papa Leone di giudicio e prudenza, che seppe attribuir la mala
opinione che la Germania aveva de' costumi curiali alla poca cognizione che di
essa avevano. E però nella bolla contra Martino Lutero disse che se
egli, essendo citato, fosse andato a Roma, non averebbe trovato nella corte gli
abusi che si credeva.
Ma in
Germania i mal affetti alla corte romana interpretavano quella candidezza in
sinistro, dicendo che era una solita arte di confessar il male e prometterne il
rimedio, senza alcun pensiero di effettuare cosa alcuna, per addormentar gli
incauti, goder il beneficio del tempo e fra tanto, co 'l mezo delle prattiche
co' prencipi, giustificarsi in modo che potessero meglio assoggettir i popoli e
levarli il potersi opponer ai loro voleri e di parlare dei loro mancamenti. E
perché diceva il pontefice che bisognava nel rimediare non tentar di proveder a
tutto insieme, per il pericolo di causar mal maggiore, ma far le cose a passo a
passo, se ne ridevano, soggiongendo che ben a passo a passo, ma in maniera che
tra un passo e l'altro vi si fraponesse la distanza d'un secolo. Ma attesa la
buona vita tenuta da Adriano inanzi il pontificato, cosí dopo assonto a
vescovato et al cardinalato, come anco per inanzi, e la buona intenzione che si
scopriva in tutte le sue azzioni, gli uomini pii interpretavano il tutto in
buon senso, credendo veramente ch'egli confessasse gli errori per
ingenuità e che fosse anco per porgervi rimedio piú presto di quello che
prometteva. Né l'evento lasciò giudicar il contrario: perché non essendo
la corte degna d'un tal pontefice, piacque a Dio che passasse all'altra vita
quasi subito dopo ricevuta la relazione dal suo noncio di Noremberga. Perché a
13 septembre finí il corso de suoi anni.
Ma in
Germania, quando fu publicato il decreto del recesso di Noremberga con li
precetti sopra le prediche e stampe, dalla maggior parte non ne fu tenuto conto
alcuno, ma gli interessati, cosí quelli che seguivano la Chiesa romana, come i
luterani, l'intesero a loro favore: perché dicendosi che si tacessero le cose
che potessero mover tumulti popolari, intendevano i catolici che si dovessero
tacer le cose introdotte da Lutero nella dottrina e la riprensione degli abusi
dell'ordine ecclesiastico, et i luterani dicevano esser stata mente della dieta
che si dovessero tacer le difese degli abusi, per li quali il popolo si muoveva
contra i predicatori quando udiva rappresentar cosí le cose cattive, come le
buone; e quella parte del decreto che commandava di predicar l'Evangelio
secondo la dottrina de' scrittori approvati dalla Chiesa, i catolici
intendevano secondo la dottrina de' scolastici e degli ultimi postillatori
delle Scritture, ma i luterani dicevano che s'intendeva de' santi padri,
Ilario, Ambrosio, Agostino, Gieronimo et altri tali, interpretando anco che
fosse loro lecito, per virtú dell'editto del recesso, continuar insegnando la
loro dottrina sino al concilio; sí come i catolici intendevano che la mente
della dieta fosse stata che si dovesse continuar nella dottrina della Chiesa
romana. Onde pareva che l'editto, in luogo d'estinguer il fuogo delle
controversie, l'accendesse maggiormente, e restava nelle pie menti il desiderio
del concilio libero, al quale pareva che ambe le parti si sottomettessero,
sperandosi che per quello dovesse seguir la liberazione da tanti mali.
[Clemente VII, eletto papa, prende via diversa
da quella di Adriano]
Dopo la morte
di Adriano fu creato successore Giulio de' Medici, cugino di papa Leone, e fu
chiamato Clemente VII, il quale di subito applicò l'animo alle cose di
Germania; e come quello ch'era molto versato nella cognizione de' maneggi,
vedeva chiaramente che papa Adriano, contra lo stile sempre usato da savi
pontefici, era stato troppo facile cosí in confessar i difetti della corte,
come in prometter la riformazione, e troppo abietto in aver domandato alli
germani consiglio, come si potesse proveder alle contenzioni di quel regno.
Perché con questo egli si aveva tirato adosso la domanda del concilio, che
molto importava, massime con la condizione di celebrarlo in Germania, et aveva
dato troppo animo a prencipi, onde avevano avuto ardire non solo di mandarli,
ma di metter ancor in stampa i 100 gravami, scrittura ignominiosa per l'ordine
ecclesiastico di Germania, ma molto piú per la corte romana. E ben pensate
tutte le cose, venne in risoluzione che fosse necessario dar qualche
sodisfazzione alla Germania, in maniera tale, però, che non fosse posta
in pericolo l'autorità sua, né levati i commodi alla corte.
Considerò che nelli 100 gravami, se ben molti risguardavano la corte, la
maggior parte però toccavano a vescovi, officiali, curati et altri preti
di Germania. Perilché venne in speranza che, se li detti fossero riformati, i
tedeschi facilmente s'averebbono lasciato indur a tacere per allora per quello
che toccava a Roma, e con questa medesima riforma averebbe divertito la
trattazione del concilio. Per tanto giudicò bene spedir subito un legato
di prudenza et autorità alla dieta che si doveva celebrar di là a
3 mesi in Noremberga, con instruzzione di caminar per le sopradette vie; e
sopra tutte le cose dissimular di sapere le proposizioni fatte da Adriano e le
risposte dateli, per non riceverne qualche pregiudicio nelle trattazioni sue e
per poter procedere come in re integra.
Il legato fu
Lorenzo Campeggio, cardinal di Santa Anastasia; il quale, gionto nella dieta,
dopo aver trattato diverse cose con alcuni particolari per disponer il suo
negoziato, parlò anco in publico, dove disse sentir molta maraviglia che
tanti prencipi, e cosí prudenti, potessero sopportare che fosse estinta et
abolita la religione, i riti e ceremonie nelle quali essi erano nati et
educati, et i loro padri e maggiori morti, senza considerare che tal
novità tendesse alla ribellione del popolo contra i magistrati. Che il
pontefice, non mirando ad alcun interesse suo, ma paternamente compatendo alla
Germania, incorsa in spirituali e temporali infermità e soggetta a
maggiori pericoli imminenti, l'aveva mandato per trovar modo di sanar il male.
Non esser intenzione della Santità Sua di prescriver loro cosa alcuna,
né meno di voler che a lui fosse prescritta, ma ben di consegliar insieme i
rimedii opportuni, concludendo che se fosse rifiutata da loro la diligenza
della Santità Sua, non sarebbe poi ragionevole rivoltar colpa alcuna sopra
di quella.
Gli fu
risposto da' prencipi (perché Cesare era in Spagna, come si è detto di
sopra), dopo aver ringraziato il pontefice della benevolenza, che ben sapevano
il pericolo imminente per la mutazione della dottrina nella religione: che
perciò nella dieta dell'anno inanzi avevano mostrato al noncio del
pontefice Adriano il modo e via di componer i dissidii, e gli avevano anco dato
in iscritto tutto quello che desideravano e ricercavano da Roma, la qual
scrittura credevano che fosse stata da Adriano ricevuta, avendo il noncio
promesso di consegnarla; sí come anco tenevano che a tutti fossero noti i
gravami che la Germania riceveva dall'ordine ecclesiastico, essendo publicati
in stampa, e sino a quell'istante erano stati aspettando che i loro giusti desiderii
fossero essauditi, come tuttavia aspettavano. Perilché, s'egli allora aveva
qualche ordine o instruzzione dal pontefice, lo pregavano d'esporlo,
acciò si potesse insieme con lui consegliare il tutto.
[Il cardinale legato sfugge con dissimulazioni
e promesse]
A questo il
legato, seguendo la commissione datagli, replicò: non saper che fosse
stata portata al papa né a cardinali alcuna instruzzione del modo e via di
componer il dissidio della religione; ben gli accertava dell'ottima
volontà del pontefice, dal quale egli aveva pienissimo potere di far
tutto quello che avesse servito a tal fine, ma che toccava a loro di metter
inanzi la via, i quali sapevano la condizione delle persone et i costumi della
regione. Esserli molto ben noto che Cesare, nella dieta di Vormazia, di loro
consenso, aveva publicato un editto contra i luterani, al quale alcuni avevano
obedito et alcuni no; della quale diversità e varietà egli non ne
sapeva la ragione, ma ben li pareva che inanzi ogni altra cosa si dovesse
deliberar del modo d'esseguirlo. Che se ben non aveva ancora inteso che i 100
gravami fossero stati publicati per presentargli al pontefice, sapeva
però esserne stati portati tre essemplari a Roma ad alcuni privati;
ch'egli n'aveva veduto uno, et erano stati veduti anco dal pontefice e da
cardinali, i quali non si potevano persuadere che fossero raccolti per ordine
de' prencipi, ma ben pensavano che da qualche malevolo, per odio della corte
romana fossero mandati fuori; che se ben egli non aveva nissun ordine o instruzzione
dal pontefice in quella materia, non dovessero però pensare che non
avesse autorità di trattarne secondo l'espediente; ben diceva che in
quelle domande n'erano molte che derogavano alla podestà del pontefice e
sentivano d'eresie; ch'egli non poteva trattarne, ma si offeriva di conoscere e
parlar di quelle che non erano contro al pontefice et avevano fondamento
d'equità; che poi, se restasse qualche cosa da trattarsi col pontefice,
la potrebbono proporre, ma con modi piú moderati. Che non poteva restar di
biasimare che si fossero stampati e publicati, parendogli questo troppo; ma
però esser certo che per amor della Germania il pontefice faria ogni
cosa, essendo egli pastore universale; ma se la voce del pastore non fosse
udita, il pontefice et egli non potrebbono far altro che portarlo in pazienza e
rimetter ogni cosa a Dio.
La dieta, se
ben non ebbe per verisimile che il cardinale et il pontefice non fossero
conscii delle cose trattate con Adriano e giudicasse che nelle risposte del
legato vi potessero essere degli artificii, nondimeno desiderando che si
prendesse buona deliberazione al fine della quiete di Germania deputarono
alcuni prencipi per negoziare col cardinale, i quali non potero aver da lui
altro se non ch'egli averebbe fatto una buona riforma per il clero di Germania;
ma quanto agli abusi della corte, non fu possibile farlo condescendere ad
alcuna cosa: perché, quando se n'introduceva ragionamento, o diceva che il
riprenderli fosse eresia, o che se ne rimetteva al pontefice e che con lui bisognasse
trattarne.
[Il cardinale legato tenta d'appagar la dieta
con una leggera riforma]
Fece il
cardinale la riforma della Germania, la quale non toccando se non il clero
minuto (e giudicandosi che dovesse non solo fomentar il male, come fanno sempre
i remedi leggieri, ma che servisse ad accrescere maggiormente il dominio della
corte e de' prelati maggiori, a pregiudicio dell'autorità temporale e
desse adito a maggiori estorsioni di danari) non fu ricevuta, tenendosi che
fosse una mascherata per deludere l'aspettazione della Germania e per ridurla
sotto maggior tirannide, con tutto che il legato facesse accurati ed efficaci
uffici acciò fosse accettata: onde né egli consentí ad alcuna delle
proposizioni fattegli dai deputati della dieta. Vedendosi perciò che
fosse impossibile di concludere alcuna cosa con esso, publicarono il recesso a'
18 aprile, con decreto che dal pontefice, col consenso di Cesare, fosse
intimato quanto prima un concilio libero in Germania, in luogo conveniente, e
che li stati dell'Imperio si congregassero a Spira per li 11 novembre per
determinar che cosa si dovesse seguir tra tanto che fosse dato principio al
concilio. Che ciascun prencipe nel suo Stato congregasse uomini pii e dotti, i
quali raccogliessero le cose da disputare nel concilio; che li magistrati
avessero cura che fosse predicato l'Evangelio secondo la dottrina de' scrittori
approvati dalla Chiesa, e fossero proibite tutte le pitture e libri
contumeliosi contra la corte romana.
Il legato,
avendo risposto a tutti i capi del decreto, e mostrato che non fosse ufficio
de' secolari deliberar alcuna cosa intorno alla fede e dottrina o predicazione
di quella, promise quanto al concilio solamente che n'averebbe dato conto al
pontefice.
Partendosi i
prencipi dalla dieta, fece il legato ufficio con quelli che piú erano aderenti
alle cose romane di ridurli insieme per far publicar la riforma non ricevuta
nella dieta; e si ridussero in Ratisbona con lui, Ferdinando, fratello
dell'imperatore, il cardinale arcivescovo di Salzburg, due delli duchi di
Baviera, i vescovi di Trento e Ratisbona, e gli agenti di 9 vescovi; dove
fecero prima un decreto sotto il dí 6 di luglio: che essendo stato ordinato nel
convento di Noremberga che l'editto di Vormazia contra Lutero fosse esseguito
quanto si poteva, per tanto essi, ad instanzia del cardinale Campeggio legato,
commandavano che fosse osservato in tutti i loro dominii e Stati. Che fossero
castigati gl'innovatori, secondo la forma dell'editto; che non si mutasse cosa
alcuna nella celebrazione della messa e de' sacramenti, si castigassero i
monachi e monache apostati e preti che si maritavano, e quelli che ricevevano
l'eucaristia senza confessarsi, o mangiavano cibi proibiti; e che tutti i loro
sudditi, i quali erano nell'academia di Vitemberg, fra tre mesi partissero,
tornando a casa overo andando in altro luogo. Il giorno seguente, delli 7,
publicò il cardinale le sue constituzioni della riforma, le quali furono
approvate da tutti i sopra nominati prencipi, e commandato che per li loro Stati
e dominii fossero promolgate, ricevute et osservate.
Nel proemio
d'esse constituzioni diceva il cardinale che, essendo di molto momento per
estirpar l'eresia luterana, riformare la vita et i costumi del clero, col
conseglio de' prencipi e prelati seco ridotti, aveva statuito quei decreti, i
quali commandava che fossero ricevuti per tutta Germania dalli arcivescovi,
vescovi et altri prelati, preti e regolari, e publicati in tutte le
città e chiese. Contenevano 37 capi, circa il vestire e conversare dell'ordine
clericale, circa il ministrar gratis i sacramenti et altre fonzioni
ecclesiastiche, sopra i conviti, sopra le fabriche delle chiese, sopra quelli
che s'avevano a ricever alli ordini, sopra la celebrazione delle feste, sopra i
digiuni, contra i preti che si maritavano, contra quelli che non si
confessavano e communicavano, contra i biastematori, sortilegi divinatori et
altre cose tali. Infine era commandata la celebrazione de' concilii diocesani
in ogni anno per osservanzia di quei statuti, dando ai vescovi potestà
d'invocare il braccio secolare contra i transgressori.
Divulgato
l'editto di riforma, i prencipi e vescovi che nella dieta non avevano
consentito alla dimanda del cardinale restarono offesi, cosí di lui, come di
tutti quelli che erano convenuti con esso in Ratisbona, parendo loro restar
ingiuriati dal legato, che avesse voluto far un ordine generale per tutta la
Germania con intervento d'alcuni pochi solamente, e tanto piú dopo che gli era
stato dimostrato che non fosse per riuscirne alcun bene. Si riputarono anco
ingiuriati da que' pochi prencipi e vescovi, che soli s'avessero assonto
d'intervenire ad obligar tutta la Germania, contra il parere degli altri.
S'opponeva anco a quella riformazione: prima, che tralasciate le cose
importanti, come se in quelle non vi fosse alcun disordine, si provedesse alle
cose di leggierissimo rilevo; perché poco male pativa la Germania per gli abusi
del clero minuto, ma gravi per le usurpazioni de' vescovi e prelati, e
gravissimi per quelli della corte romana; e nondimeno, come se questi fossero
stati piú ordinati che nella primitiva Chiesa, non se ne faceva menzione; poi,
per quanto s'aspettava anco al minuto clero, non si trattava delli principali
abusi, ma di quelli che meno importavano, che era quasi un approvar gli altri;
e quelli anco che si riprendevano erano lasciati senza veri rimedii, col solo
notarli, non applicandovi la medicina necessaria per sanar il male.
Ma al legato
et alli sopra detti prencipi con lui convenuti poco importava quello che fosse
detto in Germania, e meno quello che fosse per seguire della publicazione
dell'editto; perché il loro fine non era altro che dar sodisfazzione al
pontefice, né il fine del pontefice altro che mostrar d'aver proveduto, sí che
non vi fosse bisogno del concilio. Perché Clemente, molto versato ne' maneggi
di Stato, eziandio vivendo Adriano, sempre aveva tenuto difeso che nelle
occorrenze di quei tempi fusse consiglio pernizioso valersi del mezo de'
concilii; et era solito dire che il concilio fosse utile sempre che si
trattasse tutt'altro che dell'autorità del papa, ma venendo quella in
contenzione, nissuna cosa fosse piú perniziosa. Perché, sí come per li tempi
passati l'arma de' pontefici fu il ricorrere alli concilii, cosí nel presente
la sicurezza del pontificato consiste in declinarli e fuggirli; tanto piú
ch'avendo già Leone condannata la dottrina di Lutero, non si poteva
trattare la medesima materia in un concilio, né metterla in essame, senza
metter in dubio anco l'autorità della Sede apostolica.
[Biasima Cesare la dieta]
Cesare,
ricevuto il decreto di Noremberga, si commosse assai, parendoli che il trattar
e dar risposta cosí risoluta, senza sua saputa, a prencipe forestiero in cosa
di tanta importanza fosse di poca riputazione alla Maestà Sua imperiale.
Né meno li piacque il rigore del decreto, prevedendo il dispiacere del
pontefice, quale desiderava tenersi grato e ben affetto per la guerra che si
faceva allora da' suoi capitani con francesi. Perilché rescrisse in Germania a'
prencipi, lamentandosi che avendo egli condannato tutti i libri di Lutero, la
dieta si fosse ristretta ai soli contumeliosi. Ma piú gravemente li riprese
ch'avessero fatto decreto di celebrar il concilio in Germania et avessero
ricercato il legato di trattarne col pontefice, quasi che questo non
appertenesse piú ad esso pontefice e a sé che a loro; i quali, se credevano che
fosse tanto utile alla Germania la congregazione d'un concilio, dovevano aver
ricorso a lui che l'impetrasse dal pontefice; con tutto ciò, conoscendo
egli ancora che ciò sarebbe stato utile per la Germania, era risoluto
che si celebrasse, in tempo e luogo, però, quando e dove egli potesse
ritrovarsi in persona. Ma toccando l'aver ordinato una nuova reduzzione in
Spira per regolarvi le cose della religione sino al concilio, disse di non
voler in modo alcuno concederlo; anzi li commandava ch'attendessero ad obedire
all'editto di Vormazia e non trattassero cosa alcuna di religione sin tanto che
non si congregasse un concilio per ordine del pontefice e suo. Le lettere
imperiali, piú imperiose di quello che la Germania era solita ricevere dalli
predecessori, mossero umori assai pericolosi negli animi di molti prencipi, che
fluttuando averebbono facilmente sortito qualche fastidioso termine.
[Il proposito della dieta è sospeso per
li turbamenti]
Ma il moto
presto restò sedato e rimase l'anno seguente 1525 senza nissuna
negoziazione in questa materia. Perché in Germania si eccitò ribellione
de' villani contra i prencipi e magistrati, e la guerra degli anabaptisti che
tenne ognuno occupato; et in Italia successe nel principio dell'anno la
giornata di Pavia e la prigionia del re Francesco di Francia, la quale
inalzò cosí l'animo di Cesare che li pareva aver tutto 'l mondo in suo arbitrio;
ma poi lo tenne tutto occupato per le leghe di molti prencipi che si trattarono
contra di lui, e per la negoziazione della liberazione del re. Il pontefice
ancora, per esser restata l'Italia senza difesa in arbitrio de' ministri
cesarei, pensava a se stesso e come congiongersi con altri che lo potessero
difender dall'imperatore, dal quale si era alienato, vedutolo fatto cosí
potente che il ponteficato li restava a discrezione
Nell'anno
1526 si tornò alle medesime trattazioni in Germania et in Italia. In
Germania, essendo ridotti tutti gli ordeni dell'Imperio alla dieta in Spira nel
fine di giugno, fu posto in deliberazione per ordine speciale di Cesare in che
modo si potesse conservar la religione cristiana e gli antichi costumi della
Chiesa, e castigar i violatori. Et essendo i pareri cosí diversi che non era
possibile concluder cosa alcuna, i rappresentanti cesarei fecero leggere le
lettere imperiali, dove Carlo diceva aver deliberato di passar in Italia et a
Roma per la corona e per trattar col pontefice di celebrar il concilio; per
tanto commandava che nella dieta non si statuisse alcuna cosa contra le leggi,
ceremonie e vecchi usi della Chiesa, ma fosse osservata la formula dell'editto
di Vormazia e si contentassero di portar in pazienza quella poca dimora, sin
che egli avesse trattato col pontefice la celebrazione del concilio, il che
sarebbe in breve, perché col trattar le cose della religione in una dieta, piú
tosto ne nasce male che bene.
[È richiesto un concilio nazionale da'
tedeschi]
Le
città per la maggior parte risposero esser loro desiderio di gratificar
et ubedir Cesare, ma non veder il modo di far quello che egli nelle lettere
commandava, per esser accresciute e crescer continuamente le controversie,
particolarmente sopra le ceremonie e riti; e se per lo passato non s'aveva
potuto osservar l'editto di Vormazia per tema di sedizioni, la
difficoltà esser molto maggiore al presente, come s'era dimostrato al
legato del pontefice; sí che se Cesare si ritrovasse presente e fosse informato
dello stato delle cose, non ne farebbe altro giudicio. Quanto alla promessa di
Sua Maestà per la celebrazione del concilio, diceva ciascuno che egli
poteva effettuarla nel tempo che scrisse le lettere, perché allora era in buona
concordia col pontefice; ma dopo, essendo nati tra loro disgusti et avendosi
armato il pontefice contra lui, non si vedeva come in questo stato di cose si
potesse congregar concilio. Per questi rispetti alcuni proponevano che, per
rimediar ai pericoli imminenti, fosse ricercato Cesare di conceder un concilio
nazionale in Germania; il che se non gli piacesse, almeno, per ovviare alle
gravissime sedizioni, si contentasse di differire l'essecuzione dell'editto di
Vormazia sino al concilio generale. Ma i vescovi, che non avevano altra mira
che a conservar la loro autorità, dicevano nella causa della religione
non doversi venir ad alcuna trattazione duranti le discordie tra Cesare et il
pontefice, ma tutto fosse differito a meglior tempo.
Le opinioni
erano cosí diverse e si eccitò tanta discordia tra gli ecclesiastici e
gli inclinati alla dottrina luterana, che le cose si viddero in manifesto
pericolo di guerra civile, e molti de' prencipi si mettevano in ordine per
partire. Ma Ferdinando e gli altri ministri di Cesare, vedendo chiaramente quanto
male sarebbe nato se con tal dissensione d'animi si fosse dissoluta la dieta e
si fossero partiti i prencipi senza alcun decreto, (perché, secondo i varii
interessi, diversamente averebbono operato, con pericolo di dividere
irreconciliabilmente la Germania), si diedero a placar gli animi de' principali
cosí dell'una come dell'altra parte, e finalmente si venne alla risoluzione di
far un decreto; il qual, se ben in essistenza non concludeva secondo la mente
di Cesare, nondimeno mostrava apparenza di concordia fra li stati et obedienza
verso l'imperatore. Il contenuto suo fu che, essendo necessario per dar ordine
e forma alle cose della religione e per mantenimento della libertà,
celebrar un legitimo concilio in Germania overo un universale di tutta la cristianità,
il quale s'incomminci inanzi che passi un anno, si debbano mandar ambasciatori
a Cesare a pregarlo di voltar l'occhio al misero e tumultuoso stato
dell'Imperio e ritornar in Germania quanto prima a procurarlo. Che fra tanto
che si ottenga o l'un o l'altro de' concilii necessarii, nella causa della
religione e dell'editto di Vormazia tutti li prencipi e stati debbiano nelle
loro provincie e giurisdizzioni governarsi in maniera che possino render buon
conto delle loro azzioni alla Maestà divina et all'imperatore.
[Clemente, ingelosito contra Cesare, fa lega
col re di Francia et altri]
Ma in Italia
Clemente, che aveva passato tutto l'anno inanzi in perplessità e timori,
parendogli di veder Carlo ora armato in Roma per occupar lo Stato ecclesiastico
e racquistare la possessione dell'Imperio romano, occupato coll'arti de' suoi
predecessori, ora di vederlo in un concilio a moderar l'autorità
pontificia nella Chiesa, senza di che ben vedeva esser impossibile diminuire la
temporale, e sopra tutte le cose avendo concetto un mal presaggio che tutti i
ministri mandati in Francia per trattar con la madre del re e col governo
fossero nel viaggio periti, finalmente nell'uscir di marzo di quest'anno
respirò alquanto, intendendo che il re liberato era tornato in Francia.
Mandò in diligenza a congratularsi con lui et a concluder la
confederazione contra l'imperatore; la qual, poiché fu stabilita in Cugnac il
22 maggio tra sé, quel re et i prencipi italiani con nome di Lega santissima,
et assolto il re dal giuramento prestato in Spagna per osservazione delle cose
convenute, liberato dal timore, affetto che lo dominava molto, parendoli
d'esser in libertà, et irritato sommamente perché non solo in Spagna et
in Napoli erano publicate ordinazioni in pregiudicio della corte romana, ma,
quel che piú gli premeva, in quei giorni un notaro spagnolo ebbe ardire di
comparir in Rota publicamente e far commandamento per nome di Cesare a due
napolitani che desistessero di litigar in quell'auditorio, venne in risoluzione
di far palese l'animo suo per dar cuore ai collegati; e scrisse a Carlo sotto
il 23 giugno un breve assai longo in forma d'invettiva, dove commemorati i
beneficii fattigli da sé, cosí essendo cardinale, come doppo nel pontificato,
et i partiti grandi che aveva ricusato da altri prencipi per star nella sua
amicizia, vedendo d'esser mal rimeritato e non essergli corrisposto né in
benevolenza, né meno in osservazione delle promesse, anzi, in contrario,
essergli data molta materia di sospezzione e fatte molte offese, con
eccitamento di nuove guerre in Italia et altrove, le quali tutte
commemorò particolarmente, imputando all'imperatore la colpa di tutti i
mali e mostrando che in tutto la dignità pontificale fosse lesa, e
passando anco ad un altro genere di offensioni fattegli con aver publicato
leggi in Spagna e pragmatiche in Napoli contra la libertà ecclesiastica
e la dignità della Sede apostolica, concluse finalmente non secondo il
consueto de' pontefici con minaccie di pene spirituali, ma protestandogli che
se non vorrà ridursi alle cose del giusto, cessando dall'occupazione
d'Italia e da perturbar le altre parti della cristianità, egli non
sarà per mancar alla giustizia e libertà d'Italia, nella quale
sta la tutela di quella Santa Sede, ma moverà le arme sue giuste e sante
contra di lui, non per offenderlo, ma per defender la commune salute e la
propria dignità.
Ispedito il
dispaccio in Spagna, il dí seguente scrisse et espedí all'imperatore un altro
breve senza far menzione del primo; dove in sostanza diceva che egli era stato
costretto, per mantenere la libertà d'Italia e soccorrere ai pericoli
della Sede apostolica, venir alle deliberazioni che non si potevano tralasciare
senza mancar all'ufficio di buon pontefice e di giusto prencipe, alle quali se
la Maestà Sua vorrà porger il rimedio a lei facile, utile e
glorioso, la cristianità sarà liberata da gran pericolo, di che
gli darà piú ampio conto il suo noncio appresso lui residente; che la
pregava per la misericordia di Dio d'ascoltarlo e proveder alla salute publica
e contener tra i termini del giusto le voglie sfrenate et ingiuriose de' suoi,
acciò gli altri possino restar sicuri de' beni e della vita propria.
Sotto queste ultime parole comprendeva il pontefice principalmente Pompeio
cardinale Colonna, Vespasiano et Ascanio, con altri di quella famiglia seguaci
delle parti imperiali et aiutati dal vicerè di Napoli, da quali riceveva
quotidianamente varie opposizioni a' suoi pensieri. E quello che nel animo suo
faceva impressione maggiore, temeva anco che non gli mettessero in
difficoltà il pontificato. Imperò che il cardinal sudetto, uomo
ardito e fastuoso, non si conteneva di parlar publicamente di lui come di
asceso al pontificato per vie illegitime e, magnificando le cose operate dalla
casa Colonna contra altri pontefici (come egli diceva) intrusi et illegitimi,
aggiongeva esser fatale a quella famiglia l'odio de' pontefici tiranni et ad
essi l'esser ripressi dalla virtú di quella, e minacciava di concilio, facendo
ufficio con tutti i ministri imperiali per indur l'imperatore a congregarlo. Di
che non solo irritato il pontefice, ma ancora per prevenire, publicò un
severo monitorio contra quel cardinale, citandolo a Roma sotto gravissime pene
e censure, nel qual anco toccava manifestamente il vicerè di Napoli et
obliquamente l'imperatore. Ma non passando prosperamente la mossa d'arme in
Lombardia, e differendo a comparir l'essercito del re di Francia, et insieme
essendo successa in Ongaria la sconfitta del essercito cristiano e la morte del
re Ludovico, e moltiplicando tuttavia in Germania il numero di quelli che
seguivano la dottrina di Lutero e ricchiedendo tutti un concilio che
conciliasse una pace universale tra' cristiani e mettesse fine a' tanti
disordini [..]
[Il papa per forza dà qualche
assentimento al concilio]
Il papa,
avendo prima composte le cose coi Colonnesi et abolito il monitorio publicato
contra il cardinale, congregato il consistorio il dí 13 settembre, con
longhissimo discorso commiserò le miserie della cristianità, deplorò
la morte del re d'Ongaria et attribuí ogni infortunio all'ira divina eccitata
per i peccati, confessando che tutti avevano origine dalla deformazione
dell'ordine ecclesiastico; monstrò come era necessario per placarla
incomminciare (cosí disse) dalla casa di Dio, al che voler dar lui essempio
nella propria persona; scusò la mossa delle armi et il processo contra i
Colonna, essortò i cardinali all'emendazione de' costumi; disse che
voleva andar in persona a tutti i prencipi per maneggiar una pace universale,
risoluto piú tosto di lasciar la vita che cessar da questa impresa sin che non
l'avesse condotta ad effetto, avendo nondimeno ferma speranza nell'aiuto di Dio
di vederne la conclusione: la qual ottenuta, era risoluto di celebrar il
concilio generale per estinguer anco la divisione nella Chiesa e sopir
l'eresie. Essortò i cardinali a pensar ciascuno e proporgli tutti quei
mezi che giudicassero poter servire a questi due scopi, d'introdur la pace e
sradicar l'eresie. Si publicò per Roma et anco per Italia il
ragionamento del papa e ne fu mandata copia per mano di molti, e quantonque da'
suoi fosse molto aiutato con la commendazione, ebbe però fede di sincero
appresso pochi.
Ma in Spagna,
essendo state presentate le 2 lettere dal noncio pontificio all'imperatore,
l'una un dí doppo l'altra, eccitò molto pensiero nel conseglio di quel
prencipe. Credevano alcuni d'essi che Clemente, pentito dell'acerbità
della prima, avesse scritta la seconda per medicina, per il che consegliavano
che non convenisse mostrarne risentimento. E questa opinione era fomentata da
una disseminazione sparsa dal noncio, che con la seconda avesse avuto ordine,
se la prima non era presentata, di non darla, ma consegnando solo la seconda,
rimandarla. I piú sensati ben vedevano che non vi essendo differenza maggiore
che d'un giorno, se fosse stato pentimento averebbe il papa potuto, facendo
accelerar il corriere secondo, prevenir il primo; poi non esser verisimile che
un prencipe prudente come quello, senza gran consulta, fosse venuto a deliberazione
di scriver con tanta acerbità. Però riputavano che fosse stato un
artificio di protestare e non voler risposta. E fu risoluto che dall'imperatore
fosse immitato, rispondendo parimente alla prima con i termini convenienti alla
severità, et un giorno doppo alla seconda, correspondendo alla maniera
tenuta in quella.
[Cesare risponde con gravi querele et
imputazioni]
E cosí fu
esseguito, e sotto il 17 settembre scritta dall'imperatore una lettera
apologetica, che nel suo originale conteneva 22 fogli in carta bombacina, la
qual Mercurio da Gattinara cosí aperta presentò al noncio e gliela
lesse, et in sua presenza la sigillò e consegnò acciò la
facesse capitar al papa. Nell'ingresso della lettera mostrò Cesare il
modo tenuto dal pontefice esser disconveniente all'ufficio d'un vero pastore e
non corrispondente alla filial osservanza usata da sé verso la Sede apostolica
e la Santità Sua, la quale lodava tanto le proprie azzioni e condannava
con titoli di ambizione et avarizia quelle di lui, che lo costringeva dimostrar
la sua innocenzia; et incomminciata la narrazione da quello che passò in
tempo di Leone, poi in tempo di Adriano e finalmente nel suo pontificato,
andò mostrando in tutte le sue azzioni aver avuto ottima intenzione e
necessità d'operare come aveva fatto, rivoltando la colpa nel pontefice;
commemorò ancora molti beneficii fattigli, e per il contrario molte
trattazioni di esso pontefice contra di lui in diverse occasioni; e finalmente
concluse che nissuna cosa piú desiderava che la publica quiete e la pace
universale e la giusta libertà d'Italia. Le quali se anco erano
desiderate dalla Santità Sua, ella doveva metter giú l'arme, riponendo
la spada di Pietro nella vagina; perché, fatto questo fondamento, era facile
edificarvi sopra la pace et attender a correger gli errori de' luterani et
altri eretici, in che averebbe trovato lui ossequente figliuolo. Ma se la
Santità Sua facesse altrimenti, protestava inanzi a Dio et agli uomini
che non si poteva ascriver a colpa sua nissuna delle sinistre cose che
sarebbono avvenute alla religione cristiana; promettendo che se Sua
Santità ammetterà le sue giustificazioni, come vere e legitime,
egli non si riccorderà delle ingiurie ricevute. Ma se continuerà
contra di lui con l'arme, poi che ciò non sarà far officio di
padre, ma di parte, né di pastore, ma di assalitore, non sarà
conveniente che sia giudice in quelle cause, né essendovi altro a chi aver
ricorso contro di lui, per propria giustificazione rimetterà tutto alla
recognizione e giudicio d'un concilio generale di tutta la cristianità,
essortando nel Signore la Santità Sua che dovesse intimarlo, in luogo
sicuro e congruo, prefigendovi termine conveniente. Perché vedendo lo stato
della Chiesa e religione cristiana tutto turbarsi, per proveder alla salute
propria e della republica, ricorre ad esso sacro et universal concilio et a
quello appella di tutte le minaccie e futuri gravami.
La risposta
alla seconda fu sotto il 18 et in quella diceva essersi rallegrato vedendo
nelle seconde lettere la Santità Sua trattar piú benignamente e di
meglior animo desiderar la pace. La qual se fosse cosí in potestà di lui
di stabilire, come in mano d'altri il muover la guerra, vederebbe qual fosse
l'animo suo. Se ben tiene che la Santità Sua parli spinta da altri e non
d'animo spontaneo, e spera in Dio che ella debbia piú tosto procurar la salute
publica, che secondar gli affetti d'altri. Perilché la prega a risguardar le
calamità del popolo cristiano. Imperoché egli chiama Dio in testimonio
che sempre è per far che ogni uno conosca lui non aver altro fine che la
gloria di Dio e la salute del suo popolo, come nelle altre lettere ha scritto
piú diffusamente.
[Cesare conferma le stesse cose per lettere al
collegio de' cardinali reiterando la domanda d'un concilio]
Scrisse ancora
l'imperatore, sotto il 6 ottobre, al collegio de' cardinali, sentir grandissimo
dolore che il papa, scordato della dignità pontificia, cercasse turbar
la tranquillità publica, e mentre egli pensava per l'accordo fatto col
re di Francia aver ridotto tutto 'l mondo in pace, gli fossero sopravenute
lettere dal pontefice, quali mai averebbe creduto dover uscir da un padre
commune e vicario di Cristo, le quali ancora ha creduto esser state deliberate
non senza loro conseglio, pensando che il pontefice non tratti cose di tanto
momento, senza communicargliele. Perilché si è molto turbato, vedendo
che da un pontefice e da padri di tanta religione procedessero guerre, minaccie
e perniciosi consegli contra un imperatore protettore della Chiesa, e tanto
benemerito, il qual, per compiacer loro, in Vormazia otturò le orecchie
alle preghiere postegli da tutta la Germania contra le oppressioni e gravami
che pativa dalla corte romana, non tenendo conto delle oneste dimande fattegli,
che fosse convocato un concilio per ovviare alle sudette oppressioni, che
sarebbe ovviate insieme all'eresia luterana. Che per servigio della Sede romana
ha proibito il convento che la Germania aveva intimato in Spira, prevedendo che
sarebbe stato un principio di separar la Germania dall'obedienza romana, et ha
divertito i pensieri di quei prencipi col promettergli il concilio. Di che
avendo scritto al pontefice e datogli conto, la Santità Sua lo
ringraziò che avesse vietato il convento di Spira, e lo pregò a
differir di parlar di concilio a tempo piú opportuno. Et egli, per compiacer
alla Santità Sua, tenne piú conto di sodisfarlo, che delle preci della
Germania tanto necessarie; e con tutto ciò il papa gli scriveva ora
lettere piene di querele et imputazioni, dimandandogli anco cose che non poteva
con giustizia e con sicurtà sua concedere; delle quali lettere manda
loro la copia, avendo voluto significargli il tutto, acciò che
sovvengano alla cristianità cadente e si adoprino a divertir il
pontefice da cosí perniciosa deliberazione; nella quale se persevererà
immobile, lo essortino alla convocazione del concilio; a che quando non voglia
condescendere, secondo l'ordine della legge, ricerca Loro Paternità
Reverendissime et il sacro collegio che, negando o differendo il pontefice la
convocazione, debbiano convocarlo esse, servato il debito ordine. Perché se
esse negheranno di concedergli questa giusta dimanda o differiranno piú di
quello che sia conveniente, egli provederà con l'autorità
imperiale, usando i rimedii giusti et opportuni. Fu presentata questa lettera a
12 di decembre nel consistorio et insieme, anco nel medesimo luogo, fu
presentato al pontefice un duplicato della lettera che fu consegnata al noncio
in Granata.
Furono
immediate stampate in diversi luoghi di Germania, Spagna et Italia tutte queste
lettere e n'andarono per mano degli uomini molti essemplari. Le persone che, se
ben osservano li accidenti del mondo, non sono però di molta
capacità e sogliono viver e regolarsi dagli essempii d'altri e massime
delli grandi, e che per le demonstrazioni fatte da Carlo contra i luterani,
cosí in Vormazia come in altre occasioni, a favore del pontificato, tenevano
che per religione e conscienzia Carlo favorisse la parte del papa, veduta la
mutazione dell'imperatore restarono pieni di scandolo, massime per quel che
diceva, aver otturato l'orrecchie alle oneste preghiere di Germania per far
piacere al pontefice. Et i ben intendenti ebbero openione che quella
Maestà non fosse stata ben consegliata a divulgar un tanto arcano e dar
occasione al mondo di credere che la riverenza dimostrata verso il papa era
un'arte di governo, coperta di manto della religione. Et oltre ciò
aspettavano che per quelle lettere si dovesse veder qualche gran risentimento
del pontefice, avendo l'imperatore toccati due grand'arcani del pontificato:
l'uno, appellando dal papa al futuro concilio contra le constituzioni di Pio e
Giulio secondi; l'altro, avendo invitato i cardinali a convocar concilio in
caso della negativa data o dilazione interposta dal pontefice; et era necessario
che questo principio tirasse seco gran consequenti.
[Invasione de' Colonnesi]
Ma sí come i
semi, quantonque fertilissimi, gettati in terra fuori di stagione non
producono, cosí i gran tentativi fuori dell'opportunità riescono vani. E
tanto avvenne in questa occasione. Perché, mentre il pontefice trattava con le
arme sue e di tanti prencipi risentirsi, per dover poi adoperar i rimedii
spirituali, doppo fatto qualche fondamento temporale, i Colonnesi, o non
fidandosi delle promesse del pontefice o per altra causa, armati gli uomini
delle loro terre et altri seguaci di quella fazzione, s'accostarono a Roma
dalla parte del Borgo il dí 20 settembre; che messe gran spavento nella
famiglia ponteficia, et il papa soprapreso alla sprovista e tutto confuso, non sapendo
che risoluzione prendere, dimandava gli abiti pontificali solenni, dicendo
voler cosí vestito ad imitazione di Bonifacio VIII, sedendo nella Sede
pontificale aspettare di veder se ardissero di aggionger alla prima una seconda
violazione della dignità apostolica nella propria persona del pontefice.
Ma cesse facilmente al consiglio de suoi che lo persuasero a salvar la persona
sua per il corridore nel Castello e non dar occasione d'esser notato
d'imprudenza.
Entrarono i
Colonnesi in Roma e saccheggiarono tutta la supellettile del palazzo ponteficio
e la chiesa di San Pietro. Si estesero ancora alle prime case del Borgo. Ma
facendo resistenza gli abitanti e sopravenendo gli Orsini, contraria fazzione,
in soccorso, furono costretti ritirarsi nell'alloggiamento sicuro che avevano
preso vicino, portando nondimeno la preda del Vaticano con immenso dispiacere
del papa, et in quel luogo ingrossandosi ogni giorno piú con aiuti che
giongevano da Napoli, il papa, temendo qualche maggior incontro, vinto dalla necessità,
chiamò in Castello don Ugo di Moncada, ministro imperiale, concluse con
lui tregua per 4 mesi, con condizione che i Colonnesi et i napolitani si
ritirassero da Roma, et il papa ritirasse le sue genti di Lombardia; il che
esseguendo ambidue le parti, Clemente fece ritornar le genti sue a Roma sotto
pretesto d'osservare i capitoli della tregua, e con quelle assicurato
fulminò contra tutti i Colonnesi, dichiarandoli eretici e scismatici e
scommunicando qualonque gli prestasse aiuto, conseglio o favore overo gli desse
ricetto, e privò ancora il cardinale della dignità cardinalizia;
il qual ritrovandosi in Napoli, non stimate le censure del papa, publicò
un'appellazione al concilio, proponendo non solo l'ingiustizia e nullità
de' monitorii, censure e sentenze, ma ancora la necessità della Chiesa
universale, la quale, ridotta in manifesto esterminio, non poteva esser per
alcun mezo sollevata se non per la convocazione d'un legitimo concilio che la
riformasse nel capo e ne' membri; in fine citando Clemente al concilio che
l'imperatore averebbe convocato in Spira.
Di questa
appellazione o citazione o pur manifesto, da' partegiani de' Colonnesi ne fu
affisso in Roma di notte sopra le porte delle chiese principali et in diversi
altri luoghi l'essemplare e disseminato per Italia: il che a Clemente
causò gran perturbazione, il quale aborriva sommamente il nome di
concilio, non tanto temendo la moderazione dell'autorità pontificia e
de' commodi della corte, quanto per, i rispetti suoi proprii. Imperoché,
quantonque Leone suo cugino, volendolo crear cardinale, facesse provare che tra
la madre sua et il padre Giuliano fosse promessa di matrimonio, nondimeno la
falsità delle prove era notoria, e se ben non vi è legge che
proibisca agli illegitimi d'ascender al pontificato, nondimeno l'openione
vulgare è persuasa che con tal qualità non possi star la
degnità papale. Lo faceva dubitar assai che ad un tal pretesto, se ben
vano, non fosse dato vigore da' suoi nemici sostentati dalla potenza
dell'imperatore. Ma piú ancora temeva perché, conscio a se stesso con che arti
fosse asceso al pontificato e come il cardinale Colonna avesse maniera di
provarle, attesa la severa bolla di Giulio II che annulla l'elezzione simoniaca
e vieta che possi esser convalidata per consenso susseguente, aveva gran
dubitazione che non avvenisse a sé quello che a Baltassar Cossa detto Giovanni
XXIII. Ma che negoziazione fosse di concilio di Spira, non ho potuto venir in
maggior cognizione, non avendone trovato menzione se non nel manifesto
sopradetto et appresso Paulo Giovio nella vita del sopra nominato cardinale.
Nel colmo di questi tumulti venne il fine dell'anno con publica aspettazione e
timore dove fosse per cadere tanta tempesta.
[Il papa è assalito da' cesariani e
Roma è presa e saccheggiata]
Perilché nel
seguente anno 1527 andarono in silenzio le negoziazioni di concilio, secondo
l'uso delle cose umane che ne' tempi della guerra le provisioni delle leggi non
hanno luogo. Successero nondimeno notabili accidenti, i quali è
necessario narrare per l'intelligenzia delle cose che succedettero doppo nella
materia che noi trattiamo. Imperoché, pretendendo il vicerè di Napoli
che il pontefice, col procedere contra i Colonnesi, avesse violata la tregua et
incitato dal cardinale et altri di quella famiglia, ritornò a reinviar
le genti sue verso Roma. E dall'altro canto ancora Carlo di Borbone, capo
dell'essercito imperiale in Lombardia, non avendo da pagar l'essercito e
temendo che si ammutinasse o almeno dileguasse, volendolo in ogni maniera conservare,
l'inviò verso lo Stato ecclesiastico, al che anco era incitato
efficacemente da Giorgio Fransperg, capitano tedesco, il qual avendo condotto
in Italia un numero di
Nel fine di
genaro Borbone passò il Po con tutta questa gente e s'inviò verso
la Romagna, dalla qual mossa Clemente ebbe molta perturbazione, considerando la
qualità della gente e le continue minaccie di Fransperg, che appresso
all'insegna faceva portar un laccio, dicendo con quello voler impiccar il papa,
per inanimir i suoi a star uniti e sopportar di caminare, ancorché non pagati.
Le qual cose tutte indussero il pontefice a dar orecchie a Cesare Fieramosca
napolitano, il quale di nuovo venuto di Spagna, gli aveva portato una longa
lettera di Cesare piena d'offerte; e fattogli fede che l'imperatore aveva
sentito male l'ingresso de Colonnesi in Roma e che era desideroso di pace,
indusse il pontefice a prestare orecchie ad una trattazione di tregua, la qual
si sarebbe maneggiata tra lui et il vicerè di Napoli. E se ben nel marzo
sopravenne un accidente d'apoplessia al capitano Giorgio Fransperg, che lo
condusse quasi a morte, nondimeno, perché l'essercito era già entrato
nello Stato ecclesiastico e tuttavia caminava, in fine del mese si risolse il
papa di venir all'accordo, quantonque lo vedeva dover esser con
grand'indignità et anco con dar sospezzione a' collegati e forse
alienargli dalla sua difesa. Fu adonque stabilita la sospensione d'arme per
otto mesi, pagando il pontefice sessanta mila scudi e concedendo assoluzione
dalle censure a' Colonnesi e la restituzione della dignità al cardinale,
al che condescese con estrema difficoltà.
Ma la tregua,
se ben conclusa col vicerè e seguita la esborsazione de' danari e la
restituzione de' Colonnesi, non fu accettata dal duca di Borbone, il qual,
seguitando il camino, il dí 5 maggio alloggiò appresso Roma, et il
giorno seguente diede l'assalto dalla parte del Vaticano. Dove, quantonque i
soldati del papa e la gioventú romana, massime della fazzione guelfa,
s'opponesse nel principio arditamente, e Borbone restasse morto
d'archibuggiata, nondimeno l'essercito entrò, fuggendo i defensori nel
Borgo. Il pontefice, come ne' casi repentini, pieno di timore, con alcuni
cardinali si salvò nel Castello; e quantonque fosse consegliato non
fermarvisi, ma passar immediate in Roma e di là salvarsi in qualche
luogo sicuro, nondimeno, ripudiato il buono conseglio, forse per disposizione
di causa superiore, risolvé di fermarvisi. La città ritrovandosi senza
capo, restò piena di confusione in maniera che nissun venne al rimedio,
che sarebbe stato proprio in quel tempo, di romper i ponti che sopra il Tevere
passano dal Borgo in Roma e mettersi alla difesa, il che, se fosse stato fatto,
averebbero i romani almeno avuto tempo di retirar le persone di conto e le robe
preciose in luogo sicuro; ma non essendo questo fatto, passarono i soldati
nella città, spogliarono non solo le case, ma le chiese ancora di tutti
gli ornamenti, giettate in terra e conculcate le reliquie et altre cose sacre
non di valore, fecero prigioni i cardinali et altri prelati, facendo anco
derisione delle persone loro con menarli sopra le bestie vili in abito e con
l'insegne pontificali. Certo è che i cardinali di Siena, della Minerva e
Ponceta furono bene battuti e menati vilissimamente in processione, e che i
cardinali spagnoli e tedeschi, con tutto che si fidassero per esser l'essercito
composto de' soldati delle nazioni loro, non furono meno mal trattati delli
altri.
Fu assediato
il papa, retirato nel Castel Sant'Angelo, e fu costretto ad accordarsi, cedendo
il Castello, insieme a' capitani imperiali e consegnando la persona sua
prigione in quello, nel quale anco fu tenuto da loro assai stretto; dove
essendo per le cose successe in grandissima afflizzione, se glien'aggionse una,
secondo la sua stima molto maggiore, che il cardinale di Cortona, il qual era
al governo di Fiorenza per suo nome, immediate udita la nuova, si retirò
dalla città e la lasciò libera; la quale, subito scacciati i
Medici e vindicatasi in libertà, riordinò il suo governo, e la
maggior parte de' cittadini dimostrò tanta acerbità verso il papa
e la casa sua, che scancellò tutte l'insegne di quelli, eziandio ne'
luoghi loro privati, e desformò con molte ferite l'imagini di Leone e di
Clemente che erano nella chiesa della Nonciata.
[Cesare finge dolore e tratta accordo col
pontefice]
Ma
l'imperatore, ricevuto aviso del sacco di Roma e della prigionia del papa,
diede molti segni di grandissimo dolore e ne fece dimostrazione col far
immediate cessar dalle solenni feste che si facevano in Vagliadolid per
essergli nato il figliuolo a 21 di quel medesimo mese; con le qual apparenze
averebbe fatto fede al mondo di pietà e religione, se insieme con quelle
avesse immediate commandato almeno la liberazione della persona del papa. Ma il
mondo, che vidde restar prigione il pontefice ancora 6 mesi, s'accorse quanta
differenzia sia dalla verità all'apparenza.
Fu dato
immediate principio a trattar dell'accommodamento e liberazione del pontefice,
e voleva l'imperatore che fosse condotto in Spagna, giudicando, come veramente
sarebbe stato, sua gran riputazione se d'Italia in 2 anni fossero stati
condotti in Spagna doi cosí gran prigioni, un re di Francia et un pontefice
romano. Ma perché tutta Spagna e specialmente i prelati detestavano di veder
con gli occhi una tanta ignominia della cristianità, che fosse menato
là prigione chi rappresentava la persona di Cristo, cessò da
questa pretensione, avendo anco considerazione di non concitarsi troppo
grand'invidia et irritar l'animo del re d'Inghilterra, del quale temeva molto,
quando l'avesse constretto a congiongersi piú strettamente di quel che era
congionto, per la pace publicata nell'agosto, col re di Francia, il qual aveva
già mandato un potente essercito in Italia et ottenuto diverse vittorie
in Lombardia. Concesse pertanto in fine dell'anno l'imperatore che il pontefice
fosse liberato con questa condizione, che non gli fosse contrario nelle cose di
Milano e Napoli, e per sicurità di ciò gli mettesse in mano
Ostia, Civitavecchia, Civita Castellana e la rocca di Forlí, e statichi
Ippolito et Alessandro suoi nepoti; gli concedesse la cruciata in Spagna et una
decima delle entrate ecclesiastiche di tutti i suoi regni. Conclusa la
liberazione e ricevuta facoltà di partir di Castello il dí 9 decembre,
non si fidò d'aspettar quel tempo, ma ne uscí la notte degli 8 con poca
scorta in abito di mercante, e si ritirò immediate a Monte Fiascone, e
poco fermatosi, di là passò ad Orvieto.
[In questi turbamenti la religione s'altera in
svizzeri e luoghi vicini]
Mentre i
prencipi tutti stavano occupati nella guerra, le cose della religione andavano
alterandosi in diversi luoghi, dove per publico decreto de' magistrati e dove
per sedizione popolare. Imperoché Berna, fatto un solenne convento e de' suoi
dottori e de' forestieri, et udita una disputa di piú giorni, ricevé la
dottrina conforme a Zurich; et in Basilea, per sedizione popolare, furono
ruinate et abbrugiate tutte le imagini e privato il magistrato, et in luogo di
quello creati altri e stabilita la nuova religione. E dall'altro canto si
congregarono 8 cantoni, quali nelle terre loro stabilirono la dottrina della
Chiesa romana, e scrissero una longa essortazione a' bernesi confortandogli a
non far mutazione di religione, come cosa che non può aspettar ad un
popolo o ad una regione, ma al solo concilio di tutto il mondo. Ma con tutto
ciò l'essempio di Berna fu seguitato a Geneva, Costanza et altri luoghi
convicini, et in Argentina fatta una publica disputa, per publico decreto fu
proibita la messa sin tanto che i defensori di questa dimostrassero che fosse
culto grato a Dio, non ostante che dalla camera di Spira gli fosse fatta una
grande e longa rimostranza, che non solo ad una città, ma né anco a
tutti gli ordini dell'Imperio fosse lecito far innovazione di riti e dottrina,
essendo ciò proprio d'un concilio generale o nazionale.
In Italia
ancora, essendo questi 2 anni senza papa, senza corte romana, e parendo che le
calamità di quelli fossero essecuzione d'una sentenzia divina contra
quello governo, molte persone s'accostarono alla riforma, e nelle case private
in diverse città, massime in Faenza terra del papa, si predicava contra
la Chiesa romana e cresceva ogni giorno il numero di quelli che gli altri
dicevano luterani et essi si chiamavano evangelici.
L'anno
seguente
[Il papa entra in trattato con Cesare]
Nel seguente
anno 1529, maneggiandosi la pace tra l'imperatore et il re di Francia, rimesso
l'ardore della guerra, si ritornò alle trattazioni di concilio.
Imperoché avendo Francesco Quignones, cardinale di Santa Croce, venuto di
Spagna, portato da Cesare al papa la rilassazione di Ostia e Civitavecchia et
altre terre della Chiesa consegnate a' ministri imperiali per sicurezza delle
promesse pontificie, insieme con ample offerte per parte dell'imperatore,
Clemente, attesa la trattazione di pace col re di Francia che si maneggiava e
considerando quanto gli interessi suoi ricercassero che si congiongesse
strettamente con Carlo, gli mandò Girolamo, vescovo di Vasone, suo
maestro di casa, in Barcellona per trattar gli articoli della convenzione; alla
conclusione de' quali facilmente si venne, promettendo il papa l'investitura di
Napoli con censo solo d'un caval bianco, il iuspatronato delle 24 chiese, passo
alle sue genti e la corona imperiale; dall'altro canto l'imperatore promettendo
di rimetter in Fiorenza il nipote del papa, figlio di Lorenzo, e dargli
Margarita, sua figlia naturale, per moglie, et aiutarlo alla ricuperazione di
Cervia, Ravenna, Modena e Reggio occupategli da' veneziani e dal duca di
Ferrara. Convennero anco di riceversi insieme alla coronazione con le ceremonie
consuete. Solo un articolo fu longamente disputato, proponendo i pontificii che
Carlo e Ferdinando si obligassero a costringer con le arme i luterani a
ritornare all'ubedienza della Chiesa romana, e ricchiedendo gli imperiali che,
per ridurgli, il papa convocasse il concilio generale: sopra che, doppo longa
discussione, essendo nel resto convenuti, per non troncare tanti altri
importanti dissegni sopra quali erano in buon appontamento, fu deliberato in
questo articolo star ne' termini generali e concluso che per ridur i luterani
all'unione della Chiesa, il pontefice s'averebbe adoperato con i mezi
spirituali, e Carlo e Ferdinando con i temporali; quali sarebbono anco venuti
alle arme, quando quelli fossero stati pertinaci, et il pontefice in quel caso
sarebbe obligato ad operare che gli altri prencipi cristiani gli porgessero
aiuto.
In questo
tenore fu conclusa la confederazione con molta allegrezza di Clemente e
maraviglia del mondo, come avendo perduto tutto lo Stato e la riputazione, in
cosí breve tempo fosse ritornato nella medesima grandezza; il che in Italia, la
qual vidde un accidente cosí pieno di varietà, anzi contrarietà,
da ciascuno era attribuito a miracolo divino, e dalli amatori della corte
ascritto a dimostrazione di favore di Dio verso la sua Chiesa.
Ma in
Germania, essendo intimato un convento in Spira, al qual fu dato principio li
15 marzo, vi mandò il papa Giovanni Tomaso dalla Mirandola per essortare
alla guerra contra il Turco, promettendo di contribuir esso ancora quanto gli
concedessero le sue forze essauste per le calamità patite negli anni
passati, et ad assicurare di adoperarsi con ogni spirito per accordar le
differenze tra l'imperatore et il re di Francia, acciò, quietate tutte
le cose e levati tutti gli impedimenti, si potesse attender quanto prima alla
convocazione e celebrazione del concilio per ristabilire la religione in
Germania.
[Nella dieta di Spira i catolici procacciano
metter dissensione e diffidenza nella parte avversa; poi si fa decreto
d'accomodamento]
Nel convento
si trattò prima della religione, et i catolici pensarono di metter
dissensione tra li avversarii, divisi in 2 openioni, seguitando alcuni la
dottrina di Lutero et altri quella di Zuinglio, se il lantgravio di Assia,
persona prudente et avveduta, non avesse ovviato al pericolo, mostrando che la
differenzia non era di momento e dando speranza che s'averebbe facilmente
concordato, e mostrando il danno che sarebbe nato dalla divisione e
l'avvantaggio che averebbono avuto gli avversarii. Doppo longa disputa nella
dieta per trovar qualche forma di composizione, finalmente si fece il decreto:
che essendo stato con sinistre interpretazioni storto il decreto dell'anterior
convento di Spira a defender ogni absurdità d'openioni, e pertanto
essendo necessario ora dichiararlo, ordinavano che chi aveva osservato l'editto
cesareo di Vormazia dovesse continuare nell'osservazione, costringendo anco a
ciò il popolo fino al concilio, il quale Cesare dava certa speranza che
dovesse esser presto convocato, e chi aveva mutato dottrina e non poteva
retirarsi senza pericolo di sedizione si fermasse in quello che era fatto non
innovando altro di piú sino al tempo del concilio; che la messa non fosse
levata, né meno postole impedimento in nissun luogo dove fosse introdotta la
nuova dottrina; che l'anabatesmo fosse sotto pena capitale, secondo l'editto
publicato dall'imperatore, il qual ratificavano; e che circa le prediche e
stampe fossero servati i decreti delle 2 ultime diete di Norimberga,
cioè che i predicatori siano circonspetti, si guardino dall'offender
alcuno con parole, non diano occasione al popolo di sollevarsi contra il magistrato,
non propongano dogmi nuovi overo poco fondati nelle Sacre lettere, ma
predichino l'Evangelio secondo l'interpretazione approvata dalla Chiesa, senza
toccar altre cose che sono in disputa, aspettando la determinazione del
concilio, dove sarà il tutto legitimamente deciso.
[Il decreto è contradetto da molti
prencipi insieme con molte città, che prendono nome di protestanti]
A questo
decreto s'opposero l'elettor di Sassonia e cinque altri prencipi, dicendo che
non conveniva partirsi dal decreto fatto nell'anterior dieta, nella quale fu
concesso a ciascuno la propria religione sino al concilio, il qual decreto,
essendo fatto di commun consenso di tutti, non si poteva, se non con commun
consenso, mutare. Che nella dieta di Norimberga fu molto chiaramente veduta
l'origine e causa delle dissensioni, et il medesimo pontefice la
confessò, al quale furono mandate le dimande et esplicati i 100 gravami;
né per questo si era veduta alcuna emendazione. Che in tutte le deliberazioni
sempre era stato concluso non esser via piú espediente per levar le
controversie che il concilio. Quale mentre s'aspetta, l'accettar il decreto
fatto da loro sarebbe un negar la parola di Dio pura e monda, et il conceder la
messa rinovar gli disordini. Che lodavano ben quella particola di predicar
l'Evangelio secondo l'interpretazioni approvate dalla Chiesa, ma però
restava in dubio qual fosse la vera Chiesa. Che il stabilir un decreto cosí
oscuro era aprir la strada a molte turbe e controversie, e che però in
nissun modo volevano assentir al decreto, e del suo parer n'averebbono dato
conto a tutti et a Cesare ancora. E mentre che si darà principio ad un
concilio generale di tutta la cristianità, overo nazionale di Germania,
non faranno cosa che con ragione possi essere reprobata.
A questa dicchiarazione
si congionsero 14 città principali di Germania e da questo venne il nome
de' protestanti, col quale sono chiamati quelli che seguitano la religione
rinovata di Lutero, imperoché questi prencipi e città diedero fuora la
loro protesta et appellazione da quel decreto a Cesare et al futuro concilio
generale overo nazionale di Germania et a tutti i giudici non sospetti.
[Origine delle differenze sacramentali tra
Lutero e Zuinglio]
E perché si
è fatta menzione della differenzia d'opinione nella materia
dell'eucaristia tra Lutero e Zuinglio, è ben narrar qui come, essendo
principiata la rinovazione della dottrina in doi luoghi e da due persone
independenti l'una dall'altra, cioè da Lutero in Sassonia e da Zuinglio
in Zurich, essi furono concordi in tutti i capi della dottrina sino al 1525, et
allora, nell'esplicar il misterio del santissimo sacramento dell'eucaristia, se
ben s'accordarono ambidoi con dire che il corpo et il sangue di Nostro Signore
Giesu Cristo sono nel sacramento solamente in uso e sono ricevuti col cuore e
con la fede, nondimeno insegnava Lutero che le parole dette da Nostro Signore:
«Questo è il mio corpo», debbiano esser ricevute in senso nudo e
semplice; et in contrario insegnava Zuinglio, che erano parole figurate spiritualmente
e sacramentalmente, non carnalmente intese; e la contenzione s'accrebbe sempre
e fecesi ogni giorno piú acerba, massime dal canto di Martino, il qual la
trattava con maniera assai aspra verso la contraria parte. E questo diede
materia a' catolici nella dieta di Spira, tenuta questo anno, di valersene
(come s'è detto) a metter in diffidenzia e disgusto una parte con
l'altra. Ma il lantgravio d'Assia, che, scoperto l'artificio delli avversarii,
aveva tenuti i suoi in concordia con speranza di conciliare le contrarie
opinioni, cosí per mantener la sua promessa, come per ovviare a' pericoli
futuri, procurò che si venisse a colloquio; sollecitò i svizzeri
che dovessero mandare i suoi, et assegnò luogo per la conferenzia la
città di Marpurg e tutto l'ottobre dell'istesso anno 1529. Là si
ridussero di Sassonia Lutero con doi discepoli, e di svizzeri Zuinglio et
Ecolampadio. Disputarono Lutero e Zuinglio solamente, e la disputa
continuò piú giorni; con tutto ciò non fu mai possibile che
convenissero, o fosse questo, perché essendo passata la controversia tanto
inanzi, pareva che si trattasse dell'onore delli autori; overo perché, come
avviene in tutte le questioni verbali, la tenuità della differenza
è fomento dell'ostinazione; o per quello che Martino doppo qualche tempo
scrisse ad un amico che, vedendo molto moto eccitato, non volse con la forma di
dire zuingliana, sopra modo aborrita da' romanisti, render i suoi prencipi piú
essosi et esporgli a pericolo maggiore. Ma fosse qual si voglia di queste la
causa, una piú universale è ben vera, che piacque alla Maestà
divina servirsi di quella differenzia d'opinioni per diversi effetti seguiti
doppo. Fu necessario metter fine al colloquio senza conclusione, se non che
convennero per opera del lantgravio in questo, che essendo d'accordo nelli
altri capi, dovessero per l'avvenire astenersi dalle acerbità in questo
particolare, pregando Dio che mostrasse qualche lume di concordia. La qual
conclusione, quantonque deliberata con prudenza e, come essi dicevano, con
carità, non seguita da' successori, ritardò assai il progresso
della rinovata dottrina. Perché nelle cause di religione ogni subdivisione
è potente arma in mano della contraria parte.
[Il papa e Cesare si trovano insieme in
Bologna]
Ma essendo,
come si è detto, conclusa la lega tra 'l papa e l'imperatore, fermato
l'ordine per la coronazione, fu deputata per questo effetto la città di
Bologna, non parendo al papa conveniente che quella solennità si facesse
in Roma con l'intervento di quelli che doi anni prima l'avevano saccheggiata;
cosa che fu anco grata a Carlo, come quella che faceva le ceremonie di piú
breve ispedizione, il che era desiderato da lui per passar in Germania quanto
prima. Arrivò perciò in Bologna prima il pontefice, come
maggiore, e poi l'imperatore a' 5 di novembre, dove si fermò per 4 mesi,
abitando in un istesso palazzo col papa. Molte cose furono trattate da questi
due prencipi, parte per quiete universale della cristianità e parte per
interesse dell'uno e dell'altro. Le principali furono la pace generale d'Italia
e l'estinzione de' protestanti in Germania: della prima non appartiene al
soggetto che si tratta parlare; ma per quello che tocca a' protestanti, da
alcuni conseglieri di Cesare era proposto che, considerata la natura de'
tedeschi, tenaci della libertà, fosse meglio con mezi soavi e dolci
rapresentazioni e dissimulando molte cose, operare che i prencipi
all'obedienzia pontificia ritornassero, perché essendo levata quella
protezzione a' nuovi dottori, al rimanente sarebbe facilmente rimediato. E per
far questo, il vero e proprio rimedio esser il concilio, cosí perché da loro
era richiesto, come anco perché a quel nome augusto e venerando ogni uno
s'inclinerebbe.
Ma il
pontefice, che di nissuna cosa piú temeva che di un concilio, e massime quando
fosse celebrato di là da' monti, libero e con intervento di quelli che
già apertamente avevano scosso il giogo dell'obedienza, vedeva benissimo
quanto fosse facil cosa che da questi fossero persuasi anco gli altri. Oltre di
ciò considerava che, se ben la causa sua era commune con tutti li
vescovi, quali le rinovate opinioni cercavano di privare delle ricchezze
possedute, nondimeno anco tra loro e la corte romana restava qualche materia di
disgusti, pretendendo essi che fosse usurpata loro la collazione de' beneficii
con le reservazioni e prevenzioni, et ancora levata gran parte
dell'amministrazione e tirata a Roma con avocazione di cause, riservazioni di
dispense et assoluzioni et altre tal facoltà, che, già communi a
tutti i vescovi, s'avevano i pontefici romani appropriate. Onde si figurava che
la celebrazione del concilio dovesse esser una totale diminuzione
dell'autorità pontificale. Per il che voltò tutti i suoi pensieri
a persuader l'imperatore che il concilio non era utile per quietare i moti di
Germania, anzi pernizioso per l'autorità imperiale in quelle provincie.
Gli considerava due sorti di persone infette: la moltitudine et i prencipi e
grandi; esser verisimile che la moltitudine sia ingannata, ma il sodisfarla
nella dimanda del concilio non esser mezo per illuminarla, anzi per introdur la
licenzia populare. Se si concedesse di metter in dubio o ricercar maggior
chiarezza della religione, averebbe immediate preteso di dar anco legge al
governo e con decreti restringer l'autorità de' prencipi, e quando
avessero ottenuto di essaminare e discutere l'autorità ecclesiastica,
impararebbono a metter difficoltà anco nella temporale. Gli
mostrò esser piú facile opporsi alle prime dimande della moltitudine
che, doppo, averla compiacciuta in parte, volergli metter termine. Quanto a'
prencipi e grandi, poteva tener per certo essi non aver fine di pietà,
ma d'impadronirsi de' beni ecclesiastici e diventar assoluti, riconoscendo
niente o poco l'imperatore, e molti di loro conservarsi intatti da quella contagione
per non aver ancora scoperto l'arcano, il qual fatto manifesto, tutti
s'adrizzeranno allo stesso scopo. Non esser dubio che il pontificato, perduta
la Germania, perderebbe assai; maggior però sarebbe la perdita imperiale
e della casa d'Austria; a che, volendo provedere, non aveva altro mezo che
severamente adoperare l'autorità e l'imperio, mentre la maggior parte
l'ubidiva; nel che era necessaria la celerità, inanzi che il numero
cresca maggiormente e sia scoperto dall'universale il commodo che vi sia seguendo
quelle opinioni. Alla celerità tanto necessaria niente esser piú
contrario che trattar di concilio; perché, quantonque ognuno s'inclinasse e non
vi fosse posto impedimento alcuno, non si potrà però congregar se
non con longhezza d'anni, né trattar le cose se non con prolissità; il
che solo voleva considerare; perché parlare delli impedimenti che si
eccitarebbono per diversi interessi di persone che con vari pretesti si
opponerebbono, interponendo dilazione per il meno a fine di venirne a niente,
sarebbe cosa infinita. Esser sparsa fama che i pontefici non vogliono concilio
per timore che l'autorità loro sia ristretta: raggione che in lui non fa
impressione alcuna, essendo l'autorità sua data da Cristo immediate con
promessa che manco le porte dell'inferno non potranno prevalere contra quella,
et avendo l'esperienza de' tempi passati mostrato che per nissun concilio
celebrato è stata diminuita l'autorità pontificale; anzi, che
seguendo le parole del Signore, i padri l'hanno sempre confessata assoluta et
illimitata, come è veramente. E quando i pontefici, per umiltà o
per altro rispetto, si sono astenuti d'usarla intieramente, i padri sono stati
autori di fargliela metter tutta in essecuzione. E questo può veder
chiaro chi leggerà le cose passate; perché sempre i pontefici si sono
valuti di questo mezo contra le nuove opinioni di eretici et in ogni altra
necessità con aumento dell'autorità loro. E quando si volesse
anco tralasciar la promessa di Cristo, che è il vero et unico fondamento,
e considerar le cose in termini umani, il concilio consta di vescovi, ai
vescovi la grandezza pontificia è utile, perché da quella sono protetti
contra i prencipi e popoli. I re et altri soprani ancora, che hanno inteso et
intenderanno ben le regole di governo, sempre favoriranno l'autorità
apostolica, non avendo altro mezo di reprimer e tener in ufficio i loro
prelati, quando hanno spirito di trapassare il grado proprio. Concluse il papa
esser nell'animo suo tanto certo dell'essito che poteva parlarne come profeta
et affermare che facendo concilio seguirebbono maggiori disordini in Germania.
Perché chi lo richiede, mette inanzi per pretesto di continuare sino allora
nelle cose attentate; quando da quello le openioni loro saranno condannate, che
altro non può succeder, piglieranno altra coperta per detraer al
concilio, e per fine l'autorità cesarea in Germania resterà
annichilata et in altri luoghi concussa; la ponteficia in quella regione si
diminuirà e nel resto del mondo s'amplificherà maggiormente. E
però tanto piú doveva Cesare creder al parer suo, quanto non era mosso
da proprio interesse, ma da desiderio di veder la Germania riunita alla Chiesa
e l'imperatore ubedito. Che era irreuscibile, se non si fosse trasferito in
Germania quanto prima et immediate usata l'autorità con intimare che
senza alcuna replica fosse esseguita la sentenzia di Leone e l'editto di
Vormazia, non ascoltando qualonque cosa i protestanti siano per dire,
dimandando o concilio o maggior instruzzione, o allegando la loro appellazione
e protesta o altra iscusazione, che tutti non possono esser se non pretesti
d'impietà; ma al primo incontro di disubedienzia passando alla forza, la
quale gli sarebbe stata facile usare contra pochi, avendo tutti i prencipi
ecclesiastici e la maggior parte de' secolari, che s'averebbono armato con lui
a questo effetto; che cosí, e non altrimenti, conviene al ufficio
dell'imperatore, avvocato della Chiesa romana, et al giuramento fatto nella
coronazione d'Aquisgrana e che doverà far nel ricever la corona per mano
sua. Finalmente esser cosa chiara che la tenuta del concilio e qualonque altra
trattazione o negociazione che si introducesse in questa occasione,
necessariamente terminerebbe in una guerra. Esser adonque meglio tentar di
componer quei disordeni col vigor dell'imperio et assoluto commando, cosa che
si può reputar dover riuscir facilmente, e quando ciò non si
potesse ben effettuare, venir piú tosto alla forza et arme, che rilasciar il
freno alla licenzia popolare, alla ambizione de' grandi et alla perversità
degli eresiarchi.
Queste
ragioni, se ben disdicevoli in bocca di frate Giulio de' Medici, cavalier di
Malta (che cosí si chiamava il pontefice inanzi fusse creato cardinale) non che
di Clemente papa VIII, valsero nondimeno appresso Carlo, aiutate dalle
persuasioni di Mercurio da Gattinara, cancellier imperiale e cardinale, al qual
fece il papa molte promesse, e particolarmente d'aver risguardo ai suoi parenti
e dependenti nella prima promozione de' cardinali che preparava far, et anco
dalla propria inclinazione di Cesare d'aver in Germania imperio piú assoluto di
quello che fu concesso al suo avo et all'avo del padre.
[Cesare intima una dieta in Augusta]
Si fecero in
Bologna tutti gli atti e solite ceremonie della coronazione, alla quale fu dato
compimento il 24 febraro, e Cesare, risoluto di passar personalmente in
Germania per metter fine a quei disordeni, intimò la dieta imperiale in
Augusta per li 8 aprile, e nel marzo si pose in viaggio.
Partí
l'imperatore da Bologna con questa ferma risoluzione, di operare nella dieta
con l'autorità e con l'imperio sí, che i prencipi separati ritornassero
all'obedienza della Chiesa romana, e proibir le prediche e libri della rinovata
dottrina; et il pontefice gli diede in compagnia il cardinal Campeggio, come
legato, che lo seguisse nella dieta. Mandò ancora Pietro Paulo Vergerio
noncio al re Ferdinando, dandogli instruzzione di operare con lui che nella
dieta non si disputasse, né si deliberasse cosa alcuna della religione, né meno
si risolvesse di far concilio in Germania a questo effetto, e per aver questo
prencipe favorevole, il quale, come fratello di Cesare e che era stato tanti
anni in Germania, pensava che dovesse poter molto, gli concesse di poter cavar
una contribuzione dal clero di Germania per la guerra contra i turchi e di
potersi anco valere delli ori et argenti deputati ad ornamento delle chiese.
Alla dieta
arrivarono quasi tutti i prencipi inanzi Cesare, il qual vi gionse a' 13 di
giugno, vigilia della festa del Corpus Domini, et intervenne alla processione
il giorno seguente, non avendo però potuto ottenere che i prencipi
protestanti si contentassero d'esser presenti, la qual cosa essendo sentita con
estremo dispiacere dal legato per il pregiudicio fatto al pontefice con quella
(diceva egli) contumacia, per superar questo passo e far intervenire alle
ceremonie della Chiesa romana i protestanti, fu autore che Cesare, 8 giorni
doppo, dovendosi dar principio alla radunanza, ordinò all'elettore di
Sassonia che portasse la spada inanzi, secondo il suo ufficio, nell'andar e star
alla messa. All'elettore pareva di contravenir alla professione sua se
condescendeva, e di perder la dignità sua ricusando, avendo presentito
che sopra la sua repugnanza Cesare era per dar l'onore ad un altro. Ma fu
consegliato da' suoi teologi, discepoli di Lutero, che senza alcun'offesa della
sua conscienzia poteva farlo, intervenendo come ad una ceremonia civile, non
come a religiosa, con l'essempio del profeta Eliseo, il qual non ebbe per
inconveniente che il capitano della milizia di Soria, convertito alla vera
religione, s'inclinasse nel tempio dell'idolo quando s'inclinava il re,
appoggiato sopra il suo braccio. Conseglio che da altri non era approvato,
potendosi da quello concludere che ad ogni uno fosse lecito intervenire a tutti
i riti d'altra religione come a ceremonie civili, non mancando a qual si voglia
persona raggione di necessità, overo utilità, che l'induca
all'intervento. Ma altri, approvando il conseglio e la deliberazione
dell'elettore, concludevano appresso che se i nuovi dottori avessero usato per
il passato et usassero all'avvenire questa ragione, in molte occasioni non
sarebbe aperta la porta a diversi inconvenienti, dovendo con quell'essempio
esser lecito a ciascuno, per conservar la dignità propria o lo stato suo
o la grazia del suo signore o d'altra persona eminente, non ricusar di prestar
assistenza a qualonque azzione alla quale, se ben gli altri intervenissero come
ad atto religioso, esso vi assistesse come a cosa civile.
In quella
messa, inanzi l'offertorio, fece un'orazione latina Vicenzo Pimpinello,
arcivescovo di Rosano, noncio apostolico, nella quale non parlò ponto di
cosa alcuna spirituale o religiosa, ma solo rimproverò alla Germania
l'aver sopportato tanti mali da' turchi senza vindicarsi, e con molti essempi
de' capitani antichi della republica romana gli essortò alla guerra
contra loro; il disavantaggio della Germania disse essere perché i turchi
ubedivano a un solo prencipe, dove in Germania molti non rendevano obedienzia;
che i turchi vivono in una religione et i germani ogni giorno ne fabricano di
nuove e si ridono della vecchia come rancida; gli riprese che volendo far
mutazione di fede, non avessero cercato almeno una piú santa e piú prudente;
che imitando Scipion Nasica, Catone, il popolo romano et i loro maggiori,
averebbono osservato la catolica religione; gli essortò finalmente a
lasciar quelle novità et attender alla guerra.
Nel primo
consesso della dieta il cardinal Campeggio legato presentò le lettere della
sua legazione, e fece un'orazione latina nel convento in presenzia di Cesare,
la sostanza della quale fu che, delle tante sette le quali in quel tempo
regnavano, la causa era la carità e benevolenzia estinta; che la
mutazione della dottrina e de' riti aveva non solo lacerata la Chiesa, ma
orribilmente destrutto ogni polizia. Al qual male per rimediare, i pontefici
passati avendo mandato legazioni alle diete e non essendosi fatto frutto,
Clemente aveva inviato lui per essortar, consegliar et operar quel tutto che
avesse potuto per restituir la religione; e lodato l'imperatore, essortò
tutti ad ubedire quello che ordinerà e risolverà nelle cause
della religione et intorno gli articoli della fede. Essortò alla guerra
contra turchi, promettendo che il papa non perdonerà alla spesa per
aiutargli. Gli pregò per amor di Cristo, per la salute della patria e
loro propria, che deposti gli errori, attendessero a liberar la Germania e
tutto 'l cristianesmo; che cosí facendo il papa, successor di san Pietro, gli
dava la benedizzione.
[I protestanti presentano alla dieta la lor
confessione]
All'orazione
del legato, di ordine dell'imperatore e della dieta, rispose il Magontino: che
Cesare, per debito di supremo avvocato della Chiesa, tenterà tutti i
mezi per componere le discordie, impiegherà tutte le sue forze nella
guerra contra turchi, e tutti i prencipi si giongeranno con lui operando sí
fattamente che le loro azzioni saranno approvate da Dio e dal papa. Udite doppo
questo altre legazioni, l'elettor di Sassonia, con gli altri prencipi e
città protestanti congionte seco, presentò all'imperatore la
confessione della loro fede scritta in latino e tedesco, facendo instanzia che
fosse letta, né volendo l'imperatore che si leggesse in quel publico, fu rimesso
questo al giorno seguente, quando il legato, per non ricever qualche
pregiudicio, non volle intervenire, ma congregati i prencipi inanzi
all'imperatore in una sala capace di circa 200 persone, fu ad alta voce letta,
e le città che seguivano la dottrina di Zuinglio separatamente
presentarono la confessione della loro fede, non differente dalla sudetta, se
non nell'articolo dell'eucaristia.
La
confessione de' prencipi, che poi da questo comizio dove fu letta si
chiamò augustana, conteneva due patti: nella prima erano esposti gli
articoli della loro fede in numero 21 dell'unità divina, del peccato
originale, dell'incarnazione, della giustificazione, del ministerio evangelico,
della Chiesa, del ministerio de' sacramenti, del battesimo, dell'eucaristia,
della confessione, della penitenzia, dell'uso de' sacramenti, dell'ordine
ecclesiastico, de' riti della Chiesa, della republica civile, del giudicio
finale, del libero arbitrio, della causa del peccato, della fede e buone opere,
del culto de' santi. Nella seconda erano esplicati i dogmi differenti della
Chiesa romana e gli abusi che i confessionisti reprobavano; e questi erano
esplicati in articoli 7, assai longamente distesi: della santa communione, del
matrimonio de' preti, della messa, della confessione, della distinzione de'
cibi, de' voti monacali e della giurisdizzione ecclesiastica. Si offerivano in
fine, bisognando, di presentar ancora informazione piú ampla. Ma nel proemio di
essa esposero aver messo in scritto la sua confessione per obedir alla proposta
di Sua Maestà che tutti dovessero presentargli la loro openione; e
però, se anco li altri prencipi daranno in scritto le loro, sono
apparecchiati di conferir amicabilmente per venir ad una concordia; alla quale
quando non si possi pervenire, avendo la Sua Maestà in tutte le
precedenti diete fatto intender di non poter determinare e concludere alcuna
cosa in materia di religione, per diversi rispetti allora allegati, ma ben
esser per operare col pontefice romano che sia congregato un concilio generale,
e finalmente avendo fatto dir nel convento di Spira che, essendo vicino a
componersi le differenzie tra Sua Maestà e l'istesso pontefice, non si
poteva piú dubitare che il papa non fosse per acconsentir al concilio, si
offerivano di comparire e di render ragione e difender la loro causa in un tal
general, libero e cristiano consesso, del quale si è sempre trattato
nelle diete celebrate gli anni del suo imperio. Al qual concilio anco, et a Sua
Maestà insieme, hanno in debita forma di ragione appellato; alla qual
appellazione ancora aderiscono, non intendendo né per questo trattato, né per
alcun altro abandonarla, se la differenzia non sarà prima in
carità ridotta a concordia cristiana
In quel
giorno non si passò ad altro atto. Ma l'imperatore, prima che far
risoluzione alcuna, volle aver l'aviso del legato; il qual letta e considerata
con i teologi, d'Italia condotti, la confessione, se ben il giudicio loro fu
che si dovesse oppugnare e publicare sotto nome di lui una censura, con tutto
ciò egli, prevedendo che averebbe dato occasione di maggiori tumulti, e
dicendo chiaramente che quanto alla dottrina in buona parte la differenzia gli
pareva verbale e poco importava il dir piú ad un modo che ad altro e non esser
ragionevole che la Sede apostolica entri in parte nelle dispute delle scole,
non consentí che il suo nome fosse posto nelle contenzioni. Et all'imperatore
fece risposta che non faceva bisogno per allora entrar in stretto essamine
della dottrina, ma considerare l'essempio che s'averebbe dato a tutti li
spiriti inquieti e sottili, a' quali non averebbono mancato infinite altre
novità da proporre con non minore verisimilitudine, le quali avidamente
sarebbono state udite per il prurito d'orrecchie che eccitano nel mondo le
novità. E quanto agli abusi notati, il correggerli causerebbe maggiori
inconvenienti di quelli che si pensa rimediare. Il suo parere esser che,
essendo letta la dottrina de' luterani, per levare il pregiudizio fosse letta
una confutazione parimente, la quale non si publicasse in copie, per non aprir
strada alle dispute, e s'attendesse col mezo del negozio ad operare che i
protestanti ancora s'astenessero dal caminar piú inanzi, proponendo favori e
minaccie. Ma la confessione letta, negli animi de' catolici che l'udirono fece
diversi effetti: alcuni ebbero i protestanti per piú empii di quello che si
erano persuaso prima che fossero informati delle loro particolari opinioni;
altri, in contrario, rimessero molto del cattivo concetto in che gli avevano,
riputando i loro sensi non tanto assurdi quanto avevano stimato, anzi, quanto a
gran parte degli abusi confessavano che con ragione erano ripresi. Non è
da tralasciare, che 'l cardinal Matteo Langi, arcivescovo di Salzburg, a tutti
diceva esser onesta la riforma della messa e conveniente la libertà ne'
cibi e giusta la dimanda d'esser sgravati di tanti precetti umani, ma che un
misero monaco riformi tutti non esser cosa da sopportare. E Cornelio Scopero,
secretario dell'imperatore, disse che se i predicatori protestanti avessero
danari, facilmente comprarebbono dagli italiani qual religione piú gli
piacesse, ma senza oro non potevano sperare che la loro potesse rilucere nel
mondo.
[Cesare, seguendo il parer del legato, fa
rifiutar detta confessione]
Cesare,
conforme al conseglio del legato, approvato da' conseglieri proprii ancora,
desideroso di componer il tutto con la negoziazione, cercò prima di
separar gli ambasciatori delle città dalla congionzione con i prencipi;
il che non essendo riuscito, fece far una confutazione della scrittura de'
protestanti et una altra a parte di quella che produssero le città, e
convocata tutta la dieta, disse a' protestanti d'aver considerato la
confessione presentatagli e dato ordine ad alcuni pii et eruditi di doverne far
il loro giudicio; e qui fece legger una confutazione d'essa, nella quale,
tassate molte delle opinioni loro, nel fine si confessava nella Chiesa romana
esser alcune cose che meritavano emendazione, alle quali Cesare prometteva che
sarebbe proveduto; e però dovessero i protestanti rimettersi a lui e
ritornar alla Chiesa, certificandoli che ottenerebbono ogni loro giusta
dimanda; ma altrimenti facendo, egli non mancarebbe di mostrarsi protettore e
defensore di quella.
I prencipi
protestanti s'offerirono pronti per far tutto quello che si poteva, salva la
conscienzia, e se con la Scrittura divina in mano gli fosse mostrato esser
qualche errore nella loro dottrina, di correggerlo, o se vi fosse bisogno di
maggiore dichiarazione, dicchiararla. E perché de' capi proposti da loro,
alcuni nella confutazione gli erano concessi, altri rifiutati, se delle
confutazioni gli fosse data copia, si esplicarebbono piú chiaramente.
Dopo molte
trattazioni finalmente furono eletti 7 de' catolici e 7 de' protestanti, i
quali conferissero insieme per trovar modo di composizione; né potendo convenire,
il numero fu ristretto a 3 per parte; e se ben furono accordati alcuni pochi
ponti di dottrina meno importanti et altre cose leggieri appartenenti ad alcuni
riti, finalmente si vidde che la conferenza non poteva in modo alcuno terminar
a concordia, perché nissuna delle parti si disponeva a conceder le cose
importanti all'altra. Consumati molti giorni in questa trattazione, fu letta la
confutazione della confessione presentata dalle città; la qual udita,
gli ambasciatori di quelle risposero che erano recitati molti articoli della
loro scrittura altrimenti che da loro erano stati scritti, e tirate a cattivo
senso molte altre delle cose da loro proposte per rendergli odiosi. Alle quali
obiezzioni tutte averebbono risposto, se gli fosse data copia della
confutazione; fra tanto pregare che non si voglia credere calonnia, ma
aspettare d'udire la loro difesa. Fu negato di dargli copia, con dire che
Cesare non vuole permettere che le cose della religione siano poste in disputa.
Tentò
l'imperatore, per via della prattica, di persuader i prencipi, massime con dire
che essi erano pochi e la loro dottrina nuova. che era stata sufficientemente
confutata in questa dieta; esser grande l'ardire loro di voler dannar d'errore
et eresia e falsa religione l'imperial Maestà, tanti prencipi e stati di
Germania, co' quali comparati essi non fanno numero; e quello che è
peggio, aver anco per eretici i loro proprii padri e maggiori, e dimandar
concilio, ma nondimeno tra tanto volendo caminar inanzi negli errori. Le quali
persuasioni non giovando, poiché negavano la loro dottrina esser nuova et i
riti della romana Chiesa essere antichi, Cesare, mettendo in opera gli altri
rimedii consegliati dal legato Campeggio, fece trattar con ciascuno a parte,
proponendo qualche sodisfazzione nelle cose di loro interesse molto desiderate,
et anco mettendo loro inanzi diverse opposizioni et attraversamenti che egli
averebbe eccitati alle cose loro, mentre persistessero fermi nella risoluzione
di non riunirsi alla Chiesa. Ma, o perché quei prencipi pensassero di far ben i
fatti loro perseverando, o pur perché anteponessero ad ogni altro interesse il
conservar la religione appresa, gli ufficii, se ben potenti, non partorirono
effetto. Nemeno poté ottener Cesare da loro che si contentassero di conceder
nelle loro terre l'essercizio della religione romana, sino al concilio, che
egli prometteva doversi intimare fra 6 mesi, avendo i protestanti penetrato
ciò esser invenzione del legato pontificio, il qual non potendo ottener
di presente il suo intento, giudicava far assai se, con stabilir in ogni luogo
l'uso della dottrina romana, mettesse confusione ne' popoli già
alienati, onde restasse la via aperta alli accidenti che potessero dar
occasione d'estirpar la nuova. Perché, quanto alla promessa d'intimar il
concilio fra 6 mesi, sapeva ben che molti impedimenti s'averebbono potuto alla
giornata pretendere per metter dilazione, e finalmente per deluder ogni
aspettazione.
Non avendosi
potuto concludere alcuna cosa, partirono i protestanti in fine d'ottobre, e
Cesare fece un editto per stabilimento degli antichi riti della religione
catolica romana; il quale insomma conteneva: che non si mutasse cosa alcuna
nella messa, nel sacramento della confirmazione e dell'estrema onzione, che le
imagini non fossero levate d'alcun luogo e le levate fossero riposte, che non
fosse lecito negar il libero arbitrio, né meno tener opinione che la sola fede
giustifica, che si conservassero i sacramenti, le ceremonie, i riti, l'essequie
de' morti nel medesimo modo, che i beneficii si dessero a persone idonee, e che
i preti maritati o lascino le mogli, o siano soggetti al bando, tutte le
vendite de' beni della Chiesa et altre usurpazioni siano irritate,
nell'insegnar e predicar non si possi uscir di questi termini, ma si essorti il
popolo ad udir la messa, invocar la Vergine Maria e gli altri santi, osservar
le feste e digiuni, dove i monasterii et altri sacri edificii sono stati
destrutti, siano reedificati, e sia ricercato il pontefice di far il concilio
et inanzi 6 mesi intimarlo in luogo idoneo, e doppo, fra un anno al piú longo,
dargli principio; che tutte queste cose siano ferme e stabili, e nissuna
appellazione o eccezzione che se gli faccia contra abbia luogo, e che per
conservar questo decreto ogni uno debbia metter tutte le sue forze e
facoltà e la vita ancora et il sangue, e la camera proceda contra chi
s'opponerà.
[Il papa, mal sodisfatto di Cesare, per la
riputazione simula desiderar il concilio]
Il pontefice,
avuta notizia delle cose nella dieta successe per aviso del suo legato, fu
toccato d'un interno dispiacere d'animo, scoprendo che se ben Carlo aveva
ricevuto il suo conseglio, usando l'imperio e minacciando la forza, però
non aveva proceduto come avvocato della Chiesa romana, al quale non appartiene
prender cognizione della causa, ma esser mero essecutore de' decreti del
pontefice; a che era affatto contrario l'aver ricevuto e fatto legger le
confessioni e l'aver instituito colloquio per accordar le differenze. Si doleva
sopra modo che alcuni ponti fossero accordati, e maggiormente che avesse
acconsentito l'abolizione d'alcuni riti, parendogli che l'autorità
pontificia fosse violata quando cose di tanto momento sono trattate senza
participazione sua; se almeno l'autorità del suo legato fosse intervenuta,
s'averebbe potuto tolerare. Considerava appresso che l'aver a ciò
consentito i prelati, era con sommo suo pregiudicio, e sopra tutto gli premeva
la promessa del concilio, tanto aborrito da lui: nella quale, se ben pareva
fatta onorevole menzione dell'autorità sua, però l'aver
prescritto il tempo di 6 mesi a convocarlo e d'un anno a principiarlo era
metter mano in quello che è proprio del pontefice e far l'imperatore
principale et il papa ministro. Osservando questi principii, concluse che poco
buona speranza poteva aver nelle cose di Germania, ma che conveniva pensare ad
un defensivo, acciò il male non passasse all'altre parti del corpo della
Chiesa. E poiché non si poteva rifar altrimenti il passato, era prudenza non
mostrar che fosse contra suo voler, ma farsene esso autore, dovendo in tal modo
ricever minor percossa nella riputazione.
Per tanto
diede conto delle cose passate a tutti i re e prencipi, spedendo sue lettere
sotto il primo decembre, tutte dell'istesso tenore: che sperava potersi
estinguer l'eresia luterana con la presenzia di Cesare, e che per tal causa
principalmente era andato a Bologna per fargliene instanzia, se ben lo
conosceva in ciò da se stesso assai animato; ma avendo avisi
dell'imperatore e del Campeggio, suo legato, che i protestanti si sono fatti
piú ostinati, esso, avendo communicato il tutto con i cardinali et insieme con
loro avendo chiaramente veduto che non vi resta altro rimedio se non l'usato
da' maggiori, cioè un generale concilio, per tanto gli essorta ad aiutar
con la presenzia loro, o veramente per mezo di ambasciatori nel concilio che si
convocherà, una causa cosí santa che egli quanto prima si potrà
ha deliberato metter in effetto, intimando un generale e libero concilio in
qualche luogo commodo in Italia. Le lettere del pontefice furono a tutto 'l
mondo note, facendo opera i ministri pontificii in ogni luogo che passassero a
notizia di tutti; non perché né il papa né la corte desiderassero o volessero
applicar l'animo al concilio, dal quale erano alienissimi, ma per trattener gli
uomini, acciò con l'aspettazione che gli abusi et inconvenienti
sarebbono presto rimediati, restassero fermi nell'ubidienzia. Però pochi
restarono ingannati, non essendo difficile scoprire che l'instanzia fatta a
prencipi di mandare ambasciatori ad un concilio, del quale non era determinato
né tempo né luogo né modo, era troppo affettata prevenzione.
[I protestanti chiedono daddovero il concilio]
Ma i
protestanti da quelle lettere presero essi ancora occasione di scrivere
medesimamente ai re e prencipi; e l'anno seguente nel mese di febraro, per nome
commune di tutti, formarono una lettera a ciascuno di questo tenore: essere
nota alle Maestà loro la vecchia querimonia fatta dalli uomini pii
contra i vizii ecclesiastici, notati da Giovanni Gersone, Nicolò
Clemangis et altri in Francia, e da Giovanni Colletto in Inghilterra, e da
altri altrove; il che anco era avvenuto in questi prossimi anni in Germania,
nata occasione per il detestabile et infame guadagno che alcuni monachi
facevano publicando indulgenze. E da questo passando a narrar tutte le cose
doppo successe sino all'ultima dieta, seguirono dicendo che i loro avversarii
erano intenti ad eccitar Cesare et altri re contra loro, usando varie calunnie,
le quali sí come hanno ributtate nella Germania, cosí piú facilmente le
confuterebbono in un concilio generale di tutto 'l mondo, al quale si
rimetteranno, purché sia tale che in lui non abbiano luogo i pregiudicii et
affetti. Che tra le calonnie date loro questa è la principale, che
dannino i magistrati e sminuiscano la dignità delle leggi; il che non
solo non è vero, ma, sí come hanno mostrato nella dieta d'Augusta, la
loro dottrina onora i magistrati, defende il valor delle leggi piú che sia
stato mai fatto nelle altre età, insegnando a' magistrati che lo stato
loro e quel genere di vita è gratissimo a Dio, e predicando a' popoli
che sono tenuti a prestar onore et obedienza al magistrato per commandamento di
Dio, il quale non lascierà senza punizione i disubedienti, poiché il
magistrato ha il governo per ordinazione divina. Che hanno voluto scriver
queste cose ad essi re e prencipi di tanta autorità per scolparsi
appresso loro, pregandogli a non dar fede alle calonnie e servar il loro
giudicio intiero, sino che gli imputati abbiano luogo di scolparsi
publicamente. E per ciò vogliono pregare Cesare che per utilità
della Chiesa congreghi quanto prima un concilio pio, libero, in Germania, e non
voglia procedere con la forza sino che la cosa non sia disputata e definita
legitimamente.
Rispose il re
di Francia con lettere molto ufficiose, in sostanza rendendo grazie della
communicazione d'un affare di tanto momento: mostrò essergli stato molto
grato intender la loro discolpazione, approvar l'instanza che i vizii siano
emendati, nel che troveranno congionta anco la volontà sua con la loro;
la ricchiesta del concilio esser giusta e santa, anzi necessaria, non solo per
i bisogni di Germania, ma per tutta la Chiesa; non essere cosa onesta venir
alle armi dove si può con la trattazione metter fine alle controversie.
Del medesimo tenore furono anco le lettere del re d'Inghilterra, oltre che in
particolare si dicchiarò desiderare esso ancora il concilio e volersi
interporre con Carlo per trovar modo di concordia.
Andata per
tutta Germania la notizia del decreto imperiale, immediate fu dato principio ad
accusar nella camera di Spira quelli che seguivano la nuova religione, da chi
per zelo e da altri per vendetta di proprie inimicizie e da alcuni ancora per
occupar i beni delli avversarii; furono fatte molte sentenze, molte
dicchiarazioni e molte confiscazioni contra prencipi, città e privati, e
nissuna ebbe luogo, se non qualcuna contra quelli privati, i beni de' quali erano
nel dominio de' catolici. Dalli altri le sentenze erano sprezzate con gran
diminuzione non solo della riputazione della camera, ma anco di quella di
Cesare; il quale si avvide presto che la medicina non era appropriata al male,
che quotidianamente andava facendosi maggiore. Perché i prencipi e città
protestanti, oltre il tener poco conto de' giudicii camerali, si erano
ristretti tra loro e preparati alla difesa e fortificatisi anco con le
intelligenze forestiere, sí che caminando le cose inanzi, si vedeva nascere una
guerra pericolosa per ambe le parti, et in qualunque modo l'essito succedesse,
perniziosa alla Germania. Per il che concesse che alcuni prencipi si
interponessero e trovassero modo di concordia. Per questo effetto anco si
negoziarono molti capi e condizioni di convenzione per tutto questo anno del
1531, e per dargli qualche conclusione fu ordinata una dieta in Ratisbona per
l'anno seguente.
[In svizzeri crescono i turbamenti. Zuinglio
è morto in battaglia]
Tra tanto le
cose restavano piene di sospezzioni, onde le diffidenzie tra l'una parte e
l'altra piú tosto crescevano. Et occorse questo anno anco ne' svizzeri un
notabile evento, il quale fu causa di componer le cose tra loro: imperoché,
quantonque la controversia nata per causa della religione tra quei di Zurich,
Berna e Basilea da una parte contra i cantoni pontificii fosse stata piú volte
per interposizione di diversi sopita per allora, gli animi però
restavano essulcerati, e nascendo quotidianamente qualche nuova occasione di
disgusti, spesso le controversie si rinovavano. Questo anno furono grandissime,
avendo tentato quei di Zurich e di Berna d'impedir le vettovaglie a cinque
cantoni, perilché l'una parte e l'altra s'armarono. Nel campo de' zuricani uscí
con loro Zuinglio, se ben da molti amici essortato a rimaner a casa e lasciar
ch'un altro andasse a quel carico; il che egli non volse a nissun modo, per non
parer che solo nella Chiesa dasse animo al popolo e gli mancasse in occasione
pericolosa. Vennero a giornata alli 11 ottobre, nella quale quei di Zurich
ebbero il peggio e restò anco Zuinglio morto; di che ebbero piú
allegrezza i catolici che della vittoria, anzi, per questo fecero diversi
insulti et ignominie a quel cadavero, e quella morte fu potissima causa che,
per interposizione d'altri, di nuovo s'accommodarono insieme, ritenendo tutte
due le parti la propria religione; tenendo per fermo i cinque cantoni catolici
che, levato di mezo quello che stimavano con le sue prediche esser stato autore
della mutazione di religione nel paese, tutti dovessero ritornar alla vecchia;
nella qual speranza si confermarono tanto piú, perché Ecolampadio, ministro in
Basilea, unanime con Zuinglio, morí pochi giorni doppo per afflizzione d'animo
contratta per la perdita dell'amico, attribuendo i catolici l'una e l'altra
morte alla divina providenza che, compassionando la nazione elvetica, avesse
puniti e levati i ministri della discordia. E certamente è pio e
religioso pensiero l'attribuir alla divina providenza la disposizione d'ogni
evenimento; ma il determinar a che fine siano da quella somma sapienza gli
eventi inviati è poco lontano dalla prosonzione. Gli uomini tanto
strettamente e religiosamente sposano l'opinioni proprie, che si persuadono
quelle esser altretanto amate e favorite da Dio come da loro. Ma le cose
succedute ne' seguenti tempi hanno mostrato che, doppo la morte di questi due,
li cantoni chiamati evangelici hanno fatto maggior progresso nella dottrina da
loro ricevuta: argomento manifesto che da piú alta causa venne che dall'opera di
Zuinglio.
[Cesare conosce la necessità del
concilio e lo richiede a Clemente]
In Germania
si negoziò la concordia de' protestanti con gli altri dalli elettori di
Mogonza e palatino, e molte scritture furono fatte e mutate, perché non davano
intiera sodisfazzione né all'una né all'altra parte. Il che fece venir Cesare
in resoluzione che 'l concilio fusse sommamente necessario, e conferita la sua
deliberazione col re di Francia, mandò uomo in posta a Roma per
trattarne col pontefice e col collegio de' cardinali. Non faceva l'imperatore
capitale di luogo prescritto né di altra condizione speciale, purché la
Germania restasse sodisfatta, sí che i protestanti vi intervenissero e
sottomettessero; la qual sodisfazzione il re ancora diceva esser giusta e s'offeriva
per coadiuvare. Fu esposta l'ambasciata al pontefice in questi termini: che
avendo tentato l'imperatore ogni altra via per riunire i protestanti alla
Chiesa, avendo adoperato l'imperio, le minaccie, gli ufficii et il mezo della
giustizia ancora, non restando piú se non o la guerra o il concilio, né potendo
venir alle arme, poiché le preparazioni che faceva il turco contra lui lo
proibivano, era necessitato ricorrere all'altro partito, e però pregar
la Sua Santità che, imitando i suoi predecessori, si contentasse di
conceder un concilio al quale i protestanti non facessero difficoltà di
sottomettersi, avendo loro piú volte offerto di star alla determinazione d'uno
libero, nel quale debbiano esser giudici persone non interessate.
Il papa, che
in modo alcuno non voleva concilio, udita la ricchiesta, non potendo darvi
aperta negativa, acconsentí, ma in modo che sapeva che non sarebbe accettato.
Propose per luogo una delle città dello Stato ecclesiastico, nominando
Bologna, Parma overo Piacenza, città capaci di ricever una moltitudine
et opulenti per nodrirla e d'aria salubre e con territorio amplo circostante,
dove i protestanti non dovevano far difficoltà d'andare per dover esser
uditi; a quali egli averebbe dato pieno et ampio salvocondotto, e si sarebbe trovato
ancora in persona, acciò le cose fussero trattate con pace cristiana e
non fusse fatto torto ad alcuno. Non poter in alcun modo consentire di
celebrarlo in Germania, perché l'Italia non comportarebbe d'esser posposta, e
la Spagna e Francia, che nelle cose ecclesiastiche cedono all'Italia per la
prerogativa del pontificato che è proprio di quella, non vorrebbono
ceder alla Germania, e sarebbe poco stimata l'autorità di quel concilio
dove vi fussero soli tedeschi e pochi d'altra nazione, perché indubitatamente
italiani, francesi e spagnoli non s'indurrebbono ad andarvi. La medicina non si
mette nella potestà dell'infermo, ma del medico; per il che la Germania,
corrotta per la moltiplicità e varietà delle nuove opinioni, non
potrebbe dare in questa materia buon giudicio come l'Italia, Francia e Spagna
che sono ancora incorrotte e perseverano tutte intiere nella soggezzione della
Sede apostolica, la quale è madre e maestra di tutti i cristiani. Quanto
al modo di definire le cose in concilio, diceva il pontefice non esser
necessario trattar altro, non potendo in questo nascere difficoltà, se
non si voleva far una nuova forma di concilio, non piú nella Chiesa usata:
esser cosa chiara che nel concilio non hanno voto se non i vescovi, per dritto
del canone, e gli abbati, per consuetudine, et alcuni altri per privilegio
ponteficio; gli altri, che pretendono esser uditi, debbono sottomettersi alla
determinazione di questi, facendosi ogni decreto per nome della sinodo, se il
papa non interviene in persona; ché essendovi la sua presenza, ogni decreto si
spedisce sotto suo nome, con la sola approbazione de' padri della sinodo. I
cardinali ancora parlavano nell'istesso tenore, sempre però interponendo
qualche ragione a mostrare che 'l concilio non era necessario, stante la
determinazione di Leone, la qual essequendo, tutto sarebbe rimediato: e chi
ricusa di rimettersi alla determinazione del papa, massime seguita col
conseglio de' cardinali, maggiormente sprezzarà ogni decreto conciliare.
Vedersi chiaro che i protestanti non chiamano concilio, se non per interpor
tempo all'essecuzione dell'editto di Vormazia: perché sanno bene che il
concilio non potrà far altro che approvare quello che Leone ha
terminato, se non vorrà esser conciliabolo, come tutti quelli che si
sono scostati dalla dottrina et ubedienzia pontificia.
L'ambasciator
cesareo, per trovar temperamento, ebbe molti congressi col pontefice e con due
cardinali, da quello sopra ciò deputati. Considerò che non
l'Italia, né la Francia, né la Spagna avevano il bisogno di concilio, né lo
ricchiedevano; però non era in proposito metter in conto i loro
rispetti; che per medicar i mali di Germania era ricercato, a' quali dovendo
esser proporzionato, conveniva eleger luogo dove tutta quella nazione potesse
intervenire; che quanto alle altre, bastavano i soggetti principali, poiché di
quelle non si trattava; che le città proposte erano dotate di ottime
qualità, ma lontane da Germania, e quantonque la fede di Sua
Santità dovesse assicurar ogni uno, però i protestanti esser insospettiti
per diverse ragioni, e vecchie e nuove, tra quali riputavano la minima che
Leone X, suo cugino, già gli aveva condannati e dichiarati eretici. E se
ben tutte le ragioni si risolvono con questo solo, che sopra la fede del
pontefice ogni uno debbe acquetarsi, nondimeno la Santità Sua, per la
molta prudenza e maneggio delle cose, poteva conoscer esser necessario
condescendere all'imperfezzione degli altri, e, compassionando, accommodarsi a
quello che, quantonque secondo il rigore non è debito, però secondo
l'equità è conveniente. E quanto a' voti deliberativi del
concilio, discorreva che, essendo introdotti per consuetudine e parte per
privilegio, s'apriva un gran campo a lui d'essercitar la sua benignità,
introducendo altra consuetudine piú propria a' presenti tempi. Perché, se
già gli abbati per consuetudine furono admessi per essere gli piú dotti
et intendenti della religione, la ragione vuole che al presente si faccia
l'istesso con persone d'ugual o maggior dottrina, se ben senza titolo abbaciale.
Ma il privilegio dar materia di sodisfar ogni uno, perché concedendo simile
privilegio a qualonque persona che possi far il servigio di Dio in quella
congregazione, si farà apponto un concilio pio e cristiano come il mondo
desidera.
[Cesare chiede libertà a' protestanti
fin al concilio]
A queste
ragioni essendo risposto con i motivi detti di sopra, non poté Cesare ottener
altro dal pontefice, onde restò per allora il negozio imperfetto, et
attese l'imperatore a sollecitar il trattato di concordia incomminciato; il
quale ridotto a buon termine, instando la guerra turchesca, fu publicata
finalmente la composizione alli 23 di luglio che fosse pace commune e publica
tra la Cesarea Maestà e tutti li Stati dell'Imperio di Germania, cosí
ecclesiastici come secolari, sino ad un generale, libero e cristiano concilio,
e fra tanto nissuno per causa di religione possi mover guerra all'altro, né
prenderlo o spogliarlo o assediarlo, ma tra tutti sia vera amicizia et
unità cristiana. Che Cesare debbia procurar che 'l concilio sia intimato
fra 6 mesi e fra un anno incomminciato. Il che se non si potesse fare, tutti li
stati dell'Imperio siano chiamati et adunati per deliberare quello che si
doverà fare, cosí nella materia del concilio come nelle altre cose
necessarie. Che Cesare debbia suspendere tutti i processi giudiciali in causa
di religione fatti dal suo fiscale o da altri contra l'elettore di Sassonia e
suoi congionti, sino al futuro concilio overo alla deliberazione sudetta delli
stati.
Dall'altra
parte l'elettor di Sassonia e gli altri prencipi e città promettessero
di servare questa publica pace con buona fede e render a Cesare la debita
ubedienza e conveniente aiuto contra il Turco; la qual pace Cesare con sue
lettere date alli 2 d'agosto ratificò e confermò; sospese anco
tutti li processi, promettendo di dar opera per la convocazione del concilio
fra sei mesi, e per il principio fra un anno. Diede anco conto a' prencipi
catolici della legazione mandata a Roma per la celebrazione del concilio,
soggiongendo che per ancora non si erano potute accordar alcune
difficoltà molto grandi circa il modo e luogo. Però continuerebbe
operando che si risolvessero e che il pontefice venisse alla convocazione,
sperando che non sarebbe per mancar al bisogno della republica et al suo ufficio;
ma quando ciò non riuscisse, intimerebbe un'altra dieta per trovarvi
rimedio.
Fu questa la
prima libertà di religione che gli aderenti alla confessione di Lutero,
chiamata augustana, ottennero con publico decreto, del quale variamente si
parlava per il mondo. A Roma era ripreso l'imperatore d'aver messo (dicevano)
la falce nel seminato d'altri, essendo ogni prencipe obligato con strettissimi
legami di censure all'estirpazione de' condannati dal pontefice romano; in che
debbono ponere l'aver, lo Stato e la vita e tanto piú gli imperatori che fanno
di ciò giuramenti tanto solenni. Ai quali avendo contravenuto Carlo con
inaudito essempio, doversi temere di vederne presto la celeste vendetta. Ma
altri commendavano la pietà e la prudenza dell'imperatore, il qual
avesse anteposto il pericolo imminente al nome cristiano per le arme de'
turchi, che de diretto oppugnano la religione, a' quali non averebbe potuto
resistere senza assicurar i protestanti, cristiani essi ancora, se ben
differenti dalli altri in qualche riti particolari, differenzia tolerabile. La
massima tanto decantata in Roma, che convenga piú perseguitar gli eretici che
gli infideli, essere ben accommodata al dominio pontificio, non però al
beneficio della cristianità. Alcuni anco, senza considerare a' turchi,
dicevano li regni e prencipati non doversi governare con le leggi et interessi
de' preti, piú d'ogni altro interessati nella propria grandezza e commodi, ma
secondo l'essigenza del publico bene, quale alle volte ricerca la toleranza di
qualche difetto. Esser il debito d'ogni prencipe cristiano l'operare ugualmente
che i soggetti suoi tengano la vera fede, come anco che osservino tutti i
commandamenti divini, e non piú quello che questo. Con tutto ciò, quando
un vizio non si può estirpare senza ruina dello Stato, esser grato alla
Maestà divina che sia permesso, né esser maggior l'obligo di punir gli
eretici che i fornicatori, quali se si permettono per publica quiete, non esser
maggior inconveniente se si permetteranno quelli che non tengono tutte le
nostre opinioni. E quantonque non sia facile allegare essempio de' prencipi che
abbiano ciò fatto da 800 anni in qua, chi risguarderà però
i tempi inanzi, lo vederà fatto da tutti e lodevolmente, quando la
necessità ha costretto. Se Carlo, doppo aver tentato per 11 anni di
rimediare alle dissensioni della religione con ogni mezo, non ha potuto
ottenerlo, chi potrà riprenderlo che, per esperimentare anco quello che
si può far col concilio, abbia tra tanto stabilita la pace in Germania
per non vederla andar in rovina? Non saper governar un prencipato altri che il
proprio prencipe, il qual solo vede tutte le necessità.
Distruggerà sempre lo Stato suo qualonque lo governerà
risguardando gli interessi d'altri: tanto riuscerebbe il governar Germania
secondo che i romani desiderano, come governar Roma a gusto de' tedeschi.
A nissuno che
leggerà questo successo doverà esser maraviglia se questi e molti
altri discorsi passavano per mente delli uomini, essendo cosa che a tutti tocca
nell'interno, poiché si tratta se ciascuna delle reggioni cristiane debbiano
esser governate come il loro bisogno et utilità ricercano, o se siano
serve d'una sola città, per mantener le commodità della quale
debbiano le altre spendere se stesse et anco desolarsi. I tempi seguenti hanno
dato e daranno in perpetuo documenti che la risoluzione dell'imperatore fu
conforme a tutte le leggi divine et umane. Il pontefice, che di questo ne fu
piú di tutti turbato, come quello che di governo di Stato era intendentissimo,
vidde bene di non avere ragione di querelarsi, ma insieme anco concluse che gli
interessi suoi non potevano convenire con quei dell'imperatore e però
nell'animo s'alienò totalmente da lui.
[Cesare e 'l papa s'abboccano di nuovo a
Bologna]
Scacciato il
Turco dall'Austria, Cesare passò in Italia et in Bologna venne in
colloquio col pontefice, dove trattarono di tutte le cose communi; e se ben tra
loro fu rinovata la confederazione, dal canto però del pontefice non vi
era intiera sodisfazzione, e per la libertà di religione concessa in
Germania, come si è detto, e perché non erano concordi nella materia del
concilio. Perseverava l'imperatore, conforme alla proposizione
dell'ambasciatore suo l'anno inanzi, ricchiedendo concilio tale che potesse medicar
i mali di Germania: il che non poteva esser, se i protestanti non vi avevano
dentro parte. Il pontefice insisteva nella deliberazione d'allora, che non
averebbe voluto concilio di sorte alcuna, ma pure, quando vi fosse stato
necessità di farlo, che non si celebrasse fuori d'Italia e che non vi
avessero voto deliberativo se non quelli che le leggi pontificie determinavano.
Alla volontà del pontefice Cesare si sarebbe accommodato, quando si
fosse trovato via di operare che i protestanti si fossero contentati, e per
certificar di ciò il pontefice propose che mandasse in Germania un
noncio, et egli un ambasciatore, per trovar forma e temperamento a queste
difficoltà, promettendo che l'ambasciatore suo si reggerebbe secondo la
volontà del noncio. Il pontefice ricevette il partito, non però
pienamente sodisfatto dell'imperatore, tenendo per fermo che quando l'ufficio
di ambedue i ministri non avesse sortito effetto, Carlo averebbe cercato che la
Germania avesse sodisfazzione, e d'allora risolvé Clemente di restringersi col
re di Francia per poter con quel mezo metter sempre impedimento a quello che
l'imperatore proponesse.
In
essecuzione del partito proposto et accettato, doppo la Pasca dell'anno 1533
mandò il pontefice Ugo Rangone, vescovo di Reggio; il qual andato con un
ambasciatore di Cesare a Giovanni Federico, elettore di Sassonia, che pochi
mesi inanzi era successo al morto padre come principale de' protestanti, espose
la sua commissione: che Clemente dal principio del suo pontificato sempre aveva
sopra le altre cose desiderato che le differenze di religione nate in Germania
si componessero, e per ciò vi aveva mandato molte persone eruditissime;
e se bene la fatica loro non era riuscita, ebbe il pontefice nondimeno speranza
che all'andata di Cesare doppo la sua coronazione il tutto si perfezzionasse;
né avendo sortito il fine desiderato, Cesare, ritornato in Italia, gli aveva
dimostrato che non vi era rimedio piú commodo che per un concilio generale,
desiderato ancora da' prencipi di Germania. La qual cosa essendo piacciuta al
pontefice, cosí per bene publico come per far cosa grata a Cesare, aveva
mandato lui per pigliar appuntamento del modo del futuro concilio e del tempo e
del luogo. E che quanto al modo et ordine proponeva il pontefice alcune condizioni
necessarie.
La prima, che
dovesse esser libero e generale, sí come per il passato i padri sono stati
soliti di celebrare. Poi, che quelli da chi è ricercato il concilio
promettino et assicurino di dover ricever i decreti che saranno fatti:
imperoché altrimente la fatica sarebbe presa in vano, non giovando fare leggi
che non si vogliano osservare; poi, ancora, che chi non potrà esser
presente, vi mandi ambasciatori per fare la promessa e dar la cauzione.
Appresso di questo esser necessario che tra tanto tutte le cose restino nello
stato che si ritrovano e non si faccia nissuna novità inanzi il
concilio. Aggionse il noncio che, quanto al luogo, il pontefice aveva avuta
longa, frequente e grande considerazione; imperoché bisognava provederlo fertile
che potesse supplire di vettovaglie ad un tanto celebre concorso, e di aria
salutifero ancora, accioché dalle infirmità non sia impedito il
progresso. E finalmente gli pareva molto commodo Piacenza, Bologna, overo
Mantova, lasciando che la Germania eleggesse qual luogo piú le piaceva di
questi. Ma aggiongendo che, s'alcun prencipe non venirà o non
manderà legati al concilio e recuserà d'ubedire a' decreti,
sarà giusto che tutti gli altri defendano la Chiesa. In fine concluse
che, se dalla Germania sarà risposto a queste proposte convenientemente,
il pontefice immediate tratterà con gli altri re, e tra 6 mesi
intimarà il concilio, da principiarsi un anno dopo, accioché si possa
far provisione di vettovaglie, e tutti, massime i piú lontani, si possano
preparar al viaggio.
[Le proposte intorno al concilio sono
rifiutate da' protestanti in Smalcalda]
Diede il
noncio la sua proposizione anco in scrittura, e l'ambasciatore dell'imperatore
fece l'istesso ufficio coll'elettore. Il qual avendo ricchiesto spacio per
rispondere, sentí il noncio di ciò piacere inestimabile, non desiderando
egli altro che dilazione, et ebbe la risposta per presagio che il suo negozio
dovesse sortir riuscita felice, e non si poté contenere di non lodarlo che
interponesse spacio in una deliberazione che lo meritava. Rispose nondimeno
dopo pochi giorni l'elettore, avere sentito molta allegrezza che Cesare et il
pontefice siano venuti in deliberazione di far il concilio, dove, secondo la
promessa fatta piú volte alla Germania, si trattino legitimamente le
controversie con la regola della parola divina. Che egli, quanto a sé,
volontieri risponderebbe allora alle cose proposte; ma perché sono molti
prencipi e città che nella dieta d'Augusta hanno ricevuta la medesima
confessione che lui, non esser conveniente ch'egli risponda senza loro, né meno
utile alla causa; ma essendo intimato un convento per li 24 di giugno, si
contenti di concedere questa poca dilazione per aver conclusione piú commune e
risoluta. Tanto maggiore fu il piacere e la speranza del noncio, il qual
averebbe desiderato che la dilazione fosse piú tosto d'anni che di mesi. Ma i
protestanti, ridotti in Smalcalda al sudetto tempo, fecero risposta
ringraziando Cesare che, per la gloria di Dio e salute della republica, abbia
preso questa fatica di far celebrar un concilio; la qual fatica vana
riuscirebbe, quando fosse celebrato senza le condizioni necessarie per risanare
i mali di Germania; la quale desidera che in esso le cose controverse siano
definite col debito ordine, e spera d'ottenerlo, avendo anco Cesare in molte
diete imperiali promessone un tale, quale con matura deliberazione de' prencipi
e stati è stato risoluto che si celebrasse in Germania; atteso che
essendo con occasione delle indulgenze predicate scopertosi molti errori, il pontefice
Leone condannò la dottrina et i dottori che manifestarono gli abusi,
nondimeno quella condanna fu oppugnata con i testimonii de' profeti e delli
apostoli. Onde è nata la controversia, la quale non può esser
terminata se non in un concilio, dove la sentenza del pontefice e la potenza di
qual si sia non possa pregiudicar alla causa, e dove il giudicio si faccia non
secondo le leggi delli pontefici o le opinioni delle scole, ma secondo la Sacra
Scrittura. Il che quando non si facesse, vanamente sarebbe presa una tanta
fatica, come si può veder per gli essempii di qualche altri concilii
celebrati per inanzi.
Ora le
proposizioni del pontefice esser contrarie a questo fine, alle ricchieste delle
diete et alle promesse dell'imperatore. Perché, quantonque il papa proponga un
libero concilio in parole, in fatti però lo vuole ligato, sí che non
possano esser ripresi i vizii né gli errori, et egli possa defender la sua
potenza. Non essere domanda raggionevole che alcuno si oblighi a servar i
decreti prima che si sappia che ordine e che modo e forma si debbia tenere in
fargli: se il papa sia per voler che la suprema autorità sia appresso di
lui e de' suoi, se vorrà che le controversie siano discusse secondo le
Sacre Lettere overo secondo le leggi e tradizioni umane. Parergli anco
cavillosa quella clausola che il concilio debbia esser fatto secondo il costume
vecchio: perché, intendendosi di quell'antico, quando si determinava conforme
alle Sacre Lettere, non lo ricusarebbono; ma i concilii dell'età superiore
esser molto differenti da quei piú vecchi, dove troppo è stato
attribuito a' decreti umani e pontificii. Esser speciosa la proposta, ma levar
affatto la libertà dimandata e necessaria alla causa. Pregar Cesare che
voglia operarsi che il tutto passi legitimamente. Tutti i popoli esser attenti
e star in speranza del concilio e domandarlo con voti e preghiere, che si
volterebbono in gran mestizia e crucio di mente, quando questa aspettazione
fosse delusa con dar concilio sí, ma non quale è desiderato e promesso.
Non esser da dubitare che tutti gli ordini dell'Imperio e gl'altri re e
prencipi ancora non siano del medesimo parer di rifiutare quei lacci e legami
con che il pontefice pensa di stringerli in un nuovo concilio; all'arbitrio del
quale se sarà permesso maneggiar le cose, rimetteranno il tutto a Dio e
pensaranno a quello che doveranno fare. E con tutto ciò, se fossero
citati con sicurezza certa e legitima, quando vedessero di poter operare alcuna
cosa in servigio divino, non tralasciarebbono di comparire, con condizione
però di non consentire alle dimande del pontefice né a concilio non
conforme a' decreti delle diete imperiali. In fine pregavano Cesare di non
ricevere la loro risoluzione in sinistra parte et operare che non sia
confermata la potenza di quelli che già molti anni incrudeliscono contra
gli innocenti.
Deliberarono
i protestanti non solo di mandare la risposta al papa et a Cesare, ma di
stamparla ancora, insieme con la proposizione del noncio, la quale dal medesimo
pontefice fu giudicata imprudente e troppo scoperta. Perilché, sotto colore che
fosse vecchio et impotente a sostener il carico, lo ricchiamò e scrisse
al Vergerio, noncio al re Ferdinando, che dovesse ricever quel carico con la
medesima instruzzione, avvertendo ben d'aver sempre a mente di non si partire
in conto alcuno dalla sua volontà, né ascoltar alcuno temperamento,
ancoraché il re lo ricercasse, accioché imprudentemente non lo gettasse in
qualche angustia et in necessità di venir all'atto di concilio, il qual
non era utile per la Chiesa, né per la Sede apostolica.
[Il papa, sdegnato contra Cesare per questa
instanza del concilio, si collega col re di Francia]
Mentre che
queste cose si trattavano, il pontefice, che prevedeva la risposta che sarebbe
venuta di Germania e che già in Bologna aveva concetta poca confidanza
con Cesare, si alienò totalmente dall'amicizia, perché nella causa di
Modena e Reggio, vertente tra Sua Santità et il duca di Ferrara, rimessa
dalle parti al giudicio dell'imperatore, egli prononciò per il duca. Per
tutte le qual cause il papa negoziò confederazione col re di Francia, la
qual si concluse e stabilí anco col matrimonio di Enrico, secondogenito regio,
e di Catarina de' Medici, pronepote di Sua Santità. E per dar perfetto
compimento al tutto, Clemente andò personalmente a Marsilia per
abboccarsi col re. Il qual viaggio intendendo esser dall'universal ripreso,
come non indrizzato ad alcun rispetto publico, ma alla sola grandezza della
casa, egli giustificava, dicendo esser intrapreso a fine di persuader il re a
favorir il concilio per abolire l'eresia luterana. Et è vero che in quel
luogo, oltre le altre trattazioni, fece ufficio con la Maestà
cristianissima accioché si adoperasse con i protestanti, e massime col
lantgravio d'Assia, che doveva andar a trovarlo in Francia, per fargli
desistere dal domandare concilio, proponendo loro che trovassero ogni altra via
per accommodare le differenze e promettendo che esso ancora averebbe coadiuvato
con buona fede et opere efficaci al suo tempo.
Fu l'ufficio
fatto dal re; né però poté ottenere, allegando il lantgravio che nissun
altro modo era per ovviare alla desolazione di Germania, e tanto era non parlar
di concilio, quanto dar spontaneamente nella guerra civile. Trattò in
secondo luogo il re che si contentassero del concilio in Italia; né a questo fu
acconsentito, dicendo i tedeschi, che questo partito era peggiore del primo, il
qual solamente gli metteva in guerra, ma questo in manifesta servitú corporale
e spirituale; a quale non si poteva ovviare, se non col concilio e luogo
libero: onde condescendendo in grazia di Sua Maestà a tutto quello che
si poteva, averebbono cessato d'insistere nella dimanda che si celebrasse in
Germania, purché si deputasse altro luogo fuori d'Italia e libero, eziandio che
fosse all'Italia vicino.
Diede il re,
nel principio dell'anno 1534, conto al pontefice di quello che aveva operato, e
s'offerí di fare che si contentassero i protestanti del luogo di Geneva. Il
pontefice, ricevuto l'avviso, fu incerto se il re, quantonque confederato e
parente, avesse caro di vederlo in travagli, o pur se in questo particolare
mancasse della prudenza che usava in tutti gli affari; ben concluse che non era
utile adoperarlo in questa materia, e gli scrisse ringraziandolo dell'opera
fatta, senza rispondergli al particolare di Geneva, et a molti della corte, che
perciò erano entrati in sollecitudine, fece buon animo, accertandoli che
per niente (diceva egli) era per consentir a tal pazzia.
[L'Inghilterra si separa dalla Chiesa romana
per cagione del divorzio di Enrico VIII]
Ma in questo
anno, in luogo di racquistar la Germania, perdette il pontefice l'ubedienza
d'Inghilterra, per aver in una causa proceduto piú con colera e con affetto,
che con la prudenza necessaria a' gran maneggi. Fu l'accidente di grand'importanza
e di maggiore consequenza; quale per narrare distintamente, bisogna comminciare
dalle prime cause donde ebbe origine.
Era maritata
al re Enrico VIII d'Inghilterra Catarina, infante di Spagna, sorella della
madre di Carlo imperatore. Questa era stata in primo matrimonio moglie di
Arturo, prencipe di Gales, fratello maggiore di Enrico; doppo la morte del
quale con dispensa di papa Giulio II, il padre loro la diede in matrimonio ad
Enrico VIII, rimasto successore. Questa regina molte volte era stata gravida, e
sempre aveva partorito overo aborto, overo creatura di breve vita, se non una
sola figliuola. Enrico, o per ira conceputa contra l'imperatore, o per
desiderio di figliuoli, o per qual causa si sia, si lasciò entrare nella
mente scrupulo che il matrimonio non fosse valido, e conferito questo con i
suoi vescovi, si separò da se stesso dal congresso della moglie. I
vescovi fecero ufficio con la regina che si contentasse di divorzio, dicendo
che la dispensa pontificia non era valida, né vera. La regina non volse dar
orrecchie; anzi di questo ebbe ricorso al papa, al quale il re ancora
mandò a ricchiedere il repudio. Il papa, che si ritrovava ancora
ritirato in Orvieto e sperava buone condizioni per le cose sue, se da Francia
et Inghilterra fossero continuati i favori che tuttavia gli prestavano col
molestar l'imperatore nel regno di Napoli, mandò in Inghilterra il
cardinal Campeggio, delegando a lui et al cardinal Eboracense insieme la causa.
Da questi e da Roma fu data speranza al re che in fine sarebbe stato giudicato
a suo favore; anzi, che per facilitare la risoluzione, acciò le
solennità del giudicio non portassero la causa in longo, fu ancora
formato il breve, nel quale si dicchiarava libero da quel matrimonio con
clausule le piú ample che fossero mai poste in alcuna bolla pontificia, e
mandato in Inghilterra il cardinale con ordine di presentarlo, quando fossero
fatte alcune poche prove, che certo era doversi facilmente fare: e questo fu
1528. Ma poiché Clemente giudicò piú a proposito per effettuare i
dissegni suoi sopra Fiorenza, come al suo luogo si è narrato, di
congiongersi coll'imperatore, che perseverare nella amicizia di Francia et
Inghilterra, del 1529 mandò Francesco Campana al Campeggio con ordine
che abbrugiasse il breve e procedesse ritenutamente nella causa. Campeggio
incomminciò prima a portar il negozio in longo, e poi a metter
difficoltà nell'essecuzione delle promesse fatte al re; onde egli,
tenendo per fermo la collusione del giudice con gli avversarii suoi, mandò
a consultar la causa sua nelle università d'Italia, Germania e Francia,
dove trovò teologi parte contrarii, parte favorevoli alla pretensione
sua. La maggior parte de' parisini furono da quella parte, e fu anco creduto da
alcuni che ciò avessero fatto persuasi piú da' doni del re, che dalla
ragione.
Ma il
pontefice, o per gratificare Cesare, o perché temesse che in Inghilterra, per
opera del cardinale Eboracense, potesse nascer qualche atto non secondo la
mente sua, e per dar anco occasione al Campeggio di partirsi, avvocò la causa
a sé. Il re, impaziente della longhezza, o conosciute le arti, o per qual altra
causa si fosse, dicchiarato il divorzio con la moglie, si maritò in Anna
Bolena, che fu nell'anno 1533; però continuava la causa inanzi al
pontefice, nella quale egli era risoluto di proceder lentamente, per dar
sodisfazzione all'imperatore e non offender il re. Perilché si trattavano piú
tosto articoli che il merito della causa. E si fermò la disputa
nell'articolo degli attentati, nel quale sentenziò il pontefice contra il
re: prononciando che non gli fosse stato lecito di propria autorità,
senza il giudice ecclesiastico, separarsi dal commercio congiugale della
moglie. La qual cosa udita dal re nel principio di quest'anno 1534, levò
l'ubedienza al pontefice, commandando a tutti i suoi di non portar danari a
Roma e di non pagar il solito danaro di san Pietro. Questo turbò
grandissimamente la corte romana e quotidianamente si pensava di porgergli
qualche rimedio. Pensavano di proceder contra il re con censure e con interdire
a tutte le nazioni cristiane il commercio con Inghilterra. Ma piacque piú il
conseglio moderato di andar temporeggiando col re, e per mezo del re di Francia
far ufficio di qualche componimento. Il re Francesco accettò il carico e
mandò a Roma il vescovo di Parigi per negoziare col pontefice la
composizione: nondimeno tuttavia in Roma si procedeva nella causa, lentamente,
però, e con risoluzione di non venir a censure, se Cesare non procedeva
prima o insieme con le armi. Avevano diviso la causa in 23 articoli, e
trattavano allora se il prencipe Arturo aveva avuto congionzione carnale con la
regina Catarina; et in questo si consumò sino passata la meza
quadragesima, quando alli 19 di marzo andò nuova che in Inghilterra era
stato publicato un libello famoso contra il pontefice e tutta la corte romana
et era ancora stata fatta una comedia in presenzia del re e di tutta la corte
in grandissimo vituperio et opprobrio contra il papa e tutti i cardinali in
particolare. Perilché accesa la bile in tutti, si precipitò alla
sentenza, la quale fu prononciata in consistorio li 24 dello stesso mese: che
il matrimonio tra Enrico e la regina Catarina era valido et egli era tenuto
averla per moglie, e che non lo facendo, fosse scommunicato.
Fu il
pontefice presto mal contento della precipitazione usata. Perché 6 giorni dopo
arrivarono lettere del re di Francia, che quello d'Inghilterra si contentava
d'accettare la sentenza sopra gli attentati e render l'ubedienza, con questo
che i cardinali sospetti a lui non s'intromettessero nella causa e si mandasse
in Cambrai persone non sospette per pigliare l'informazione, e già aveva
inviato il re i procuratori suoi per intervenire nella causa in Roma. Per
questo il pontefice andava pensando qualche pretesto con quale poteva sospendere
la sentenza precipitata e ritornar in piedi la causa.
Ma Enrico,
subito veduta la sentenza, disse importare poco, perché il papa sarebbe vescovo
di Roma, et egli unico padrone del suo regno; che l'averebbe fatta al modo
antico della Chiesa orientale, non restando d'esser buon cristiano, né
lasciando introdurre nel suo regno l'eresia luterana o altra; e cosí esseguí.
Publicò un editto dove si dichiarò capo della Chiesa anglicana;
pose pena capitale a chi dicesse che il pontefice romano avesse alcun'autorità
in Inghilterra; scacciò il collettore del danaro di san Pietro, e fece
approvare tutte queste cose dal parlamento, dove anco fu determinato che tutti
i vescovati d'Inghilterra fossero conferiti all'arcivescovo Cantuariense, senza
trattar niente con Roma, e che dal clero fosse pagato al re 150 mila lire
sterlinghe all'anno per defensione del regno contra qualonque.
Questa
azzione del re fu variamente sentita: altri la riputavano prudente, che si
fosse liberato dalla soggezzione romana senza nissuna novità nelle cose
di religione e senza metter in pericolo di sedizione i suoi popoli e senza
rimettersi al concilio, cosa che si vedeva difficile da poter effettuare e
pericolosa anco a lui, non sapendosi vedere come un concilio composto di
persone ecclesiastiche non fosse sempre per sostentare la potenzia pontificia,
essendo quella il sostentamento dell'ordine loro; poiché quello, col
pontificato, è sopraposto ad ogni re et imperatore, che senza quello
bisogna che resti soggetto, non essendovi altro ecclesiastico che abbia
principato con superiorità, se non il pontefice romano. Ma la corte
romana difendeva che non si poteva dire non esser fatta mutazione nella
religione, essendo mutato il primo e principale articolo romano, che è
la superiorità del pontifice, e dover nascere le medesime sedizioni per
questo solo che per tutti gli altri. Il che anco l'evento comprobò,
essendo stato necessitato il re, per conservazione dell'editto suo, di proceder
ad essecuzioni severe contra persone del suo regno, amate e stimate da lui. Non
si può esplicar il dispiacer sentito in Roma e da tutto l'ordine
ecclesiastico per l'alienazione d'un tanto regno dalla soggezzione pontificia,
e diede materia per far conoscer la imbecillità delle cose umane, nelle
quali il piú delle volte s'incorre in estremi detrimenti, donde furono prima
ricevuti supremi beneficii. Imperoché per le dispense matrimoniali e per le
sentenze di divorzio, cosí concesse, come negate, il pontificato romano in
tempi passati ha molto acquistato, facendo ombra col nome di vicario di Cristo
a' prencipi, a' quali metteva conto con qualche matrimonio incesto, o col
discioglier uno per contraerne un altro, unir al suo qualche altro prencipato,
o sopire raggioni di diversi pretendenti, restringendosi per ciò con loro
et interessando la loro potestà a defender quell'autorità, senza
la quale le azzioni loro sarebbono state dannate et impedite; anzi,
interessando non quei prencipi soli, ma tutta la posterità loro per
sostentamento della legitimità de' suoi natali: se ben forsi l'infortunio
nato quella volta si potrebbe ascriver alla precipitazione di Clemente, che non
seppe maneggiar in questo caso la sua autorità, e che, se a Dio fosse
piacciuto lasciarli in questo fatto l'uso della solita prudenza, poteva far
grand'acquisto, dove fece molta perdita.
[Cesare si querela col papa del suo obliquo
procedere nel fatto del concilio]
Ma tornando
in Germania, Cesare, quando ebbe aviso del negoziato dal noncio Rangone in
Germania nella materia del concilio, scrisse a Roma dolendosi che avendo egli
promesso il concilio alla Germania e trattato col pontefice in Bologna nel modo
che conveniva tenere con i prencipi di Germania in questo proposito, nondimeno
dalli noncii di Sua Santità non fosse stato negoziato nella maniera
convenuta, ma s'avesse trattato in modo che i protestanti riputavano esser
stati delusi; pregando in fine di voler trovar qualche modo per dar
sodisfazzione alla Germania. Furono lette in consistorio il dí 8 giugno le
lettere dell'imperatore, e perché poco inanzi era venuto aviso che il
lantgravio d'Assia aveva con le armi levato il ducato di Vittemberg al re
Ferdinando e restituitolo al duca Ulrico, legitimo patrone, perilché anco
Ferdinando era stato sforzato a far pace con loro, per questa causa molti de'
cardinali dissero che, avendo i luterani avuta una tal vittoria, era necessario
dargli qualche sodisfazzione e non proceder piú con arti, ma, venendo
all'essecuzione, fare qualche dimostrazzione d'effetti; massime che, avendo
Cesare promesso il concilio, finalmente bisognava che la promessa fosse attesa;
e se dal pontefice non fosse trovato il modo, era pericolo che Cesare non fosse
constretto condescendere a qualche altro di maggior pregiudicio e danno della
Chiesa. Ma il pontefice e la maggior parte de' cardinali vedendo che non era
possibile far condescender i luterani ad accettar il concilio nella maniera che
era servizio della corte romana, e risoluti di non voler sentir parlar di farlo
altrimenti, vennero in deliberazione di risponder a Cesare che molto ben conoscevano
l'importanza de' tempi e quanto bisogno vi era d'un concilio universale, quale
erano prontissimi d'intimare, purché si potesse celebrar in modo che producesse
i buoni effetti, come il bisogno ricerca; ma vedendosi nascer nuove discordie
tra lui et il re di Francia, e varie dissensioni aperte tra altri prencipi
cristiani, era necessario, che quelle cessassero e gli animi si riconciliassero
prima che il concilio si convocasse. Perché, duranti le discordie, non sarebbe
nissun buon effetto, e meno in questo tempo presente, essendo i luterani in
arme et insuperbiti per la vittoria di Vittemberg.
Ma fu
necessario metter in silenzio li raggionamenti del concilio col pontefice,
perché egli cadette in una infermità longa e mortale, della quale anco
in fine di settembre passò ad altra vita, con allegrezza non mediocre
della corte. La quale, se ben ammirava le virtú di quello, che erano una
gravità naturale et essemplare parsimonia e dissimulazione, odiava
però maggiormente l'avarizia, durezza e crudeltà, accresciute o
manifestate piú del solito, doppo che restò dall'infermità
oppresso.
[È fatto capitolo in conclave intorno
alla convocazione del concilio]
Nelle vacanze
della Sede è costume de' cardinali comporre una modula di capitoli per
reforma del governo pontificio, la quale tutti giurano servare, se saranno
assonti al pontificato, quantunque per tutti gli essempii passati si è
veduto che ciascuno giura con animo di non servargli, se sarà papa; e
subito creato dice non aver potuto obligarsi, e coll'acquisto del pontificato
esserne sciolto. Morto Clemente, secondo il costume, furono ordinati gli
capitoli, fra quali uno fu che il futuro papa fosse tenuto in termine d'un anno
convocare il concilio. Ma i capitoli non potero esser stabiliti e giurati,
perché quel medesimo giorno de' 12 ottobre, nel quale fu serrato il conclave,
sprovistamente fu creato pontefice il cardinal Farnese, chiamato prima nella
creazione Onorio V, e poi nella coronazione Paolo III, prelato ornato di buone
qualità, e che, tra tutte le sue virtú, di nissuna faceva maggior stima
che della dissimulazione. Egli, cardinal essercitato in 6 pontificati, decano
del collegio e molto versato nelle negoziazioni, non mostrava di temer il
concilio, come Clemente, anzi era d'opinione che fosse utile per le cose del
pontificato mostrare di desiderarlo e volerlo onninamente, essendo certo che
non poteva esser sforzato di farlo con modo et in luogo dove non vi fosse suo
avvantaggio, e che, quando avesse bisognato impedirlo, era assai bastante la
contradizzione che gli averebbe fatta la corte e tutto l'ordine ecclesiastico.
Giudicava che questo anco gli avesse dovuto servire per tener la pace in
Italia, la quale gli pareva molto necessaria, per poter governare con quiete.
Vedeva benissimo che questo colore di concilio gli poteva servire a coprire
molte cose et a scusarsi dal far quelle che non fossero state di sua
volontà. Perilché, subito creato, si lasciò intendere che,
quantonque i capitoli non fossero giurati, egli nondimeno era risoluto di voler
osservare quello della convocazione del concilio, conoscendola necessaria per
la gloria di Dio e beneficio della Chiesa; et a' 16 dello stesso mese fece
congregazione universale de' cardinali, che non si chiama consistorio, non
essendo ancora coronato il papa, dove propose questa materia. Mostrò con
efficaci ragioni che la intimazione non si poteva differire, essendo altrimente
impossibile che fra prencipi cristiani potesse seguire buona amicizia e che le
eresie potessero esser estirpate, e però che i cardinali tutti dovessero
pensare maturamente sopra il modo di celebrarlo. Deputò anco tre
cardinali che considerassero sopra il tempo e luogo et altri particolari, con
ordine che, fatta la coronazione, nel primo consistorio dovessero andare col
loro parere. E per incomminciare a far nascere le contradizzioni, delle quali
potesse servirsi alle occasioni, soggionse che sicome nel concilio s'averebbe
riformato l'ordine ecclesiastico, cosí non era conveniente che vi fosse bisogno
di riformar i cardinali, anzi era necessario che essi comminciassero allora a
riformarsi, per essere sua deliberata volontà di cavare frutto dal
concilio, i precetti del quale sarebbono di poco vigore, se ne' cardinali non
si vedessero prima gli effetti.
Secondo il
costume che ne' primi giorni i cardinali, massime grandi, ottengono dal nuovo
pontefice facilmente grazie, il cardinal di Lorena et altri francesi, per nome
ancora del re, gli domandarono che concedesse al duca di Lorena la nominazione
de' vescovati et abbazie del suo dominio: la qual cosa s'intendeva anco che era
per domandar la republica di Venezia de' suoi. Rispose il pontefice che nel
concilio, qual in breve doveva celebrare, era necessario levare tal
facoltà di nominazione a quei prencipi che l'avevano, non senza nota de'
pontefici precessori suoi, che le hanno concesse. Perilché non era cosa
raggionevole accrescer il cumulo delli errori e conceder allora cosa che era
certo dover esser rivocata fra poco tempo con poco onore.
Nel primo
consistorio, che fu alli 12 novembre, tornò a raggionare del concilio e
disse esser necessario inanzi ad ogni altra cosa ottener un'unione de' prencipi
cristiani, o veramente una sicurezza che, per il tempo che durerà il
concilio, non si moveranno le arme. E però voleva mandar nuncii a tutti
i prencipi per negoziare questo capo, et altri particolari che i cardinali
avessero raccordato. Chiamò anco il Vergerio di Germania, per intendere
bene lo stato delle cose in quelle provincie, e deputò tre cardinali,
uno per ciascun ordine, per consultare le cose della riforma. I quali furono il
cardinal di Siena, di San Severino e Cesis; né mai celebrava consistorio, che
non intrasse e parlasse longamente di questa materia, e spesso replicava essere
necessario, perciò, che prima si riformasse la corte e massime i cardinali;
il che da alcuni veniva interpretato esser detto con buon zelo e desiderio
dell'effetto, da altri acciò la corte et i cardinali trovassero modi,
per non venir alla riforma, di metter impedimenti al concilio; e ne prendevano
argomento perché, avendo deputato i 3 cardinali, non aveva eletto né i piú
zelanti, né i piú essecutivi, ma i piú tardi e quieti che fossero nel collegio.
Ma il seguente mese di decembre diede piú ampia materia a' discorsi. Perché
creò cardinali Alessandro Farnese, nepote suo di Pietro Aloisio,
figliuolo suo naturale, e Guido Ascanio Sforza, nipote per Costanza, sua
figliuola, quello di 14 e questo di 16 anni; rispondendo a chi considerava la
loro tenera età, che egli suppliva con la sua decrepità.
L'openione conceputa che si dovesse veder riforma de' cardinali, et il timore
d'alcuni d'essi svaní immediate, non parendo che d'altrove potesse esser
incomminciata che dall'età e nascimento di quelli che si dovevano
creare. Cessò anco il pontefice di piú parlarne, avendo fatto un'opera
che l'impediva il mascherare la mente propria; restava però in piedi la
proposizione di far il concilio.
[Paolo III spedisce suoi noncii a' prencipi
intorno alla convocazione del concilio]
E nel
consistorio di 16 gennaro 1535 fece una longhissima et efficacissima orazione,
eccitando i cardinali di venir a risoluzione di quella materia; perché,
procedendosi cosí lentamente, si dava ad intender al mondo che in verità
il concilio non si volesse, ma fossero parole e pasto dato; e parlò con
cosí gravi sentenzie, che commosse tutti. Fu deliberato in quel consistorio di
spedire noncii a Cesare, al Cristianissimo et ad altri prencipi cristiani, con
commissione d'esporre che il pontefice et il collegio avevano determinato
assolutamente, per beneficio della cristianità, di celebrarlo, con
essortargli a favorirlo et anco ad assicurare la quiete e tranquillità
mentre si celebrarà; ma, quanto al tempo e luogo, di dire che Sua
Santità non era ancora risoluta. E portava anco la instruzzione loro piú
segreta che vedessero destramente di sottrarre qual fosse la mente de' prencipi
quanto al luogo, a fine di poter, saputi gli interessi e fini di tutti, opporre
l'uno all'altro per impedirgli e metter ad effetto il suo. Commise anco a'
noncii di querelarsi delle azzioni del re d'Inghilterra, e quando vedessero
apertura, incitarli contra lui et offerirgli anco quel regno in preda.
Tra questi
noncii fu uno il Vergerio, rimandato con piú speciali commissioni in Germania
per penetrare la mente de' protestanti circa la forma del trattar nel concilio,
per potergli far sopra i riflessi necessarii. Gli commise anco specialmente di
trattare con Lutero e con gli altri principali predicatori della rinovata
dottrina usando ogni sorte di promesse e partiti di ridurgli a qualche
composizione. Riprendeva il pontefice in ogni occasione la durezza del cardinal
Gaetano, che nella dieta d'Augusta del 1518 rifiutasse il partito proposto da
Lutero, che, imposto silenzio agli avversarii suoi, si contentava anco esso di
tacere, e dannava l'acerbità di quel cardinal, che, con voler
ostinatamente la ritrattazione, avesse precipitato quell'uomo in disperazione,
la qual diceva esser costata e dover costar cosí cara alla Chiesa romana,
quanto la metà della autorità sua; che egli non voleva immitare
Leone in questo, che credette i frati esser buoni instromenti di opprimer i
predicatori di Germania; il che la ragione e l'evento aveva mostrato quanto
fosse vano pensiero. Non esservi se non due mezi: la forza e le prattiche,
quali egli era per adoperare, essendo pronto a concordare con ogni condizione,
la quale riservi intiera l'autorità pontificia; perilché anco, dicendo
d'aver bisogno d'uomini di valore e di negozio, creò il 21 maggio 6
cardinali, e pochi giorni doppo il settimo, tutti persone di molta stima nella
corte. Fra quali fu Giovanni Fischerio, vescovo Roffense, che allora si trovava
prigione in Inghilterra per aver ricusato d'aderir al decreto del re nel levare
l'autorità pontificia. Il papa, nell'elegger la sua persona, ebbe
considerazione che onorava la promozione sua, mettendo in quel numero un uomo
letterato e benemerito per la persecuzione che sosteneva, e che, avendolo
accresciuto di dignità, si sarebbe il re indotto a portargli rispetto,
et appresso il popolo sarebbe entrato in credito maggiore. Ma quel cardinalato
non giovò in altro a quel prelato se non ad accelerargli la morte, che
gli fu data 43 giorni dopo con la troncazione del capo in publico.
Ma con tutto
che il papa facesse cosí aperte dimostrazioni di voler il concilio in maniera
che dovesse dar sodisfazzione e ridur la Germania, nondimeno la corte tutta, et
i medesimi intimi del pontefice e che trattavano queste cose intrinsecamente
con lui, dicevano che non poteva esser celebrato altrove che in Italia, perché
altrove non sarebbe stato libero, e che in Italia non si poteva elegger altro
luogo che Mantova.
[Il Vergerio tratta co' protestanti e con
Lutero stesso]
Il Vergerio
ritornato in Germania fece l'ambasciata del pontefice a Ferdinando, prima, e
poi a qualonque de' protestanti che andava a trovar quel re per gli occorrenti
negozii; e finalmente fece un viaggio per trattar anco con gli altri. Da
nissuno d'essi ebbe altra risposta, salvo che averebbono consultato insieme nel
convento che dovevano ridurre nel fine dell'anno, e di commun consenso deliberata
la risposta. La proposizione del noncio conteneva che quell'era il tempo del
concilio tanto desiderato, avendo il pontefice trattato con Cesare e con tutti
i re per ridurlo seriamente, e non come altre volte, in apparenza; et
acciò non si differisca piú, aveva risoluto d'elegger per luogo Mantova,
conforme a quello che già due anni era stato risoluto con l'imperatore.
La qual città essendo di un feudatario imperiale e vicina ai confini di
Cesare e de' Veneziani, potevano tenerla per sicura; senza che il pontefice e
Cesare averebbono data ogni maggior cauzione. Non esser bisogno risolvere, né
parlare del modo e forma di trattare nel concilio, poiché molto meglio
ciò si farà in esso, quando sarà congregato. Non potersi
celebrar in Germania, abondando quella di anabattisti, sacramentarii et altre
sette, per la maggior parte pazzi e furiosi; perilché alle altre nazioni non
sarebbe sicuro andare dove quella moltitudine è potente, e condannare la
sua dottrina. Che al pontefice non sarebbe differenzia di farlo in qualonque
altra regione; ma non vuol apparire che sia sforzato e gli sia levata quella
autorità, che ha avuto per tanti secoli, di prescrivere il luogo de'
concilii generali.
In questo
viaggio il Vergerio trovò Lutero a Vittemberg, e trattò con lui
molto umanamente con questi concetti, estendendogli et amplificandogli assai. E
prima accertandolo che era in grandissima estimazione appresso il pontefice e
tutto 'l collegio de' cardinali, quali sentivano dispiacere estremo che fosse
perduto un soggetto, che, implicatosi ne' servizii di Dio e della Sede
apostolica, che sono congionti, averebbe potuto portare frutto inestimabile;
che farebbono ogni possibile per racquistarlo; gli testificò che il
pontefice biasimava la durezza del Gaetano, la quale non era meno ripresa da'
cardinali; che da quella Santa Sede poteva aspettar ogni favore; che a tutti
dispiaceva il rigore col quale Leone procedette, per instigazione d'altri e non
per propria disposizione; gli soggionse anco che egli non era per disputare con
esso lui delle cose controverse, non professando teologia, ma poteva ben con
raggioni communi mostrargli quanto sarebbe ben riunirsi col capo della Chiesa.
Perché, considerando che solo già 18 anni la dottrina sua era venuta in
luce, e publicandosi aveva eccitato innumerabili sette, che l'una detesta
l'altra, e tante sedizioni populari, con morte et esterminio d'innumerabili
persone, non si poteva concluder che venisse da Dio: ben si poteva tenere per
certo che era perniciosa al mondo, riuscendo da quella tanto male. Diceva il
Vergerio: è un grand'amore di se stesso, et una stima molto grande
dell'opinione propria, quando un uomo voglia turbare tutto 'l mondo per
seminarla. «Se avete - diceva il Vergerio, - innovato nella fede in quale
eravate nato et educato 35 anni per vostra conscienzia e salute, bastava che la
teneste in voi. Se la carità del prossimo vi moveva, a che turbare tutto
'l mondo per cosa di che non vi era bisogno, poiché senza quella si viveva e
serviva a Dio in tranquillità? La confusione - soggiongeva - è
passata tanto oltre, che non si può differir piú il rimedio. Il
pontefice è risoluto applicarlo con celebrar il concilio, dove
convenendo tutti gli uomini dotti d'Europa, la verità sarà messa
in chiaro, a confusione delli spiriti inquieti; et ha destinato per ciò
la città di Mantova. E se ben nella divina bontà conviene aver la
principale speranza, mettendo anco in conto l'opere umane, in potestà di
Lutero è fare che il rimedio riesca facile, se vorrà ritrovarsi
presente, trattare con carità, et obligarsi anco il pontefice, prencipe
munificentissimo e che riconnosce le persone meritevoli». Gli raccordò
l'essempio d'Enea Silvio, che, seguendo le proprie openioni, con molta servitú
e fatica non si portò piú oltre che ad un canonicato di Trento; ma,
mutato in meglio, fu vescovo, cardinale e finalmente papa Pio II. Gli
raccordò Bessarione niceno, che, d'un misero caloiero da Trabisonda,
diventò cosí grande e riputato cardinale e non molto lontano dal
succeder papa.
Le risposte
di Lutero furono, secondo il naturale costume suo, veementi e concitate, con
dire che non faceva nissuna stima del conto in che fosse appresso la corte
romana, della quale non temeva l'odio, né curava la benevolenza; che ne'
servizii divini s'implicava quanto poteva, se ben con riuscita di servo
inutile; che non vedeva come fossero congionti a quei del pontificato, se non
come le tenebre alla luce; nissuna cosa nella vita sua essergli stata piú utile
che il rigore di Leone e la durezza del Gaetano, quali non può imputare
a loro, ma gli ascrive alla providenza divina. Perché in quei tempi, non
essendo ancora illuminato di tutte le verità della fede cristiana, ma
avendo solo scoperto gli abusi nella materia delle indulgenze, era pronto di
tener silenzio, quando da suoi avversarii fosse stato servato l'istesso. Ma le
scritture del maestro del sacro palazzo, la superchiaria del Gaetano e la
rigidezza di Leone l'avevano costretto a studiare e scoprire molti altri abusi
et errori del papato meno tollerabili, i quali non poteva con buona conscienzia
dissimulare et restar di mostrare al mondo. Aver il noncio per sua
ingenuità confessato di non intender teologia, il che appariva anco
chiaro per le raggioni proposte da lui, poiché non si poteva chiamare la dottrina
sua nuova, se non da chi credesse che Cristo, gli apostoli et i santi padri
avessero vivuto come nel presente secolo il papa, i cardinali et i vescovi; né
si può far argomento contra la dottrina medesima dalle sedizioni occorse
in Germania, se non da chi non ha letto le Scritture e non sa questa essere la
proprietà della parola di Dio e dell'Evangelio, che, dove è
predicato, eccita turbe e tumulti, sino al separar il padre dal figliuolo.
Questa esser la sua virtú, che a chi l'ascolta dona la vita, a chi lo ripudia
è causa di maggiore dannazione. Aggionse che questo era il piú
universale difetto de' romani: voler stabilir la Chiesa con governi tratti da
ragioni umane, come se fosse uno stato temporale. Che questa era quella sorte
di sapienza che san Paolo dice esser riputata pazzia appresso Dio, sí come il
non stimare quelle raggioni politiche con che Roma governa, ma fidarsi nelle
promesse divine e rimettere alla Maestà sua la condotta degli affari
della Chiesa, è quella pazzia umana che è sapienza divina. Il far
riuscir in bene e profitto della Chiesa il concilio non essere potestà
di Martino, ma di chi lo può lasciare libero, acciò che lo
spirito di Dio vi preseda e lo guidi, e la Scrittura divina sia regola delle
deliberazioni, cessando di portarvi interessi, usurpazioni et artificii umani:
il che, quando avvenisse, egli ancora vi apportarebbe ogni sincerità e
carità cristiana, non per obligarsi il pontefice, né altri, ma per
servizio di Cristo, pace e libertà della Chiesa. Non poter però
aver speranza di veder un tanto ben, mentre non aparisce che lo sdegno di Dio
sia pacificato per una seria conversione dell'ipocrisia; né potersi far
fondamento sopra la radunanza di uomini dotti e letterati, poiché, essendo
accesa l'ira de Dio, non vi è errore cosí assordo et irragionevole che
Satan non persuada, e piú a questi gran savii che si tengono sapere, i quali la
Maestà divina vuol confondere. Che da Roma non può ricevere cosa
alcuna compatibile col ministerio dell'Evangelio. Né moverlo gli essempii di
Enea Silvio o di Bessarione, perché non stima quei splendori tenebrosi, e
quando volesse anco essaltare se stesso, potrebbe con verità replicare
quello che da Erasmo fu detto facetamente, che Lutero, povero et abietto,
arricchisce et inalza molti; esser molto ben noto ad esso noncio, per non andar
lontano, che al maggio prossimo egli ha avuto gran parte nella creazione di
Roffense et è stato causa totale di quella di Scomberg. Che se poi al
primo è stata levata la vita cosí tosto, questo è d'ascrivere
alla divina providenza. Non poté il Vergerio indurre Lutero a rimetter niente
della sua fermezza, il quale con tanta costanza teneva la sua dottrina come se
fosse veduta con gli occhi, e diceva che piú facilmente il noncio et anco il
papa averebbe abbraciata la fede sua, che egli abbandonatala.
Tentò
ancora il Vergerio altri predicatori in Vitemberg, secondo la commissione del
pontefice, et altrove nel viaggio, né trovò inclinazione, come averebbe
pensato, ma rigidità in tutti quelli che erano di conto, e quelli che si
sarebbono resi, gli trovò di poco valore e di molta pretensione, sí che
non facevano al caso suo.
[Il convento de' protestanti rifiuta tutti i
partiti del papa]
Ma i
protestanti, intesa la proposizione di Vergerio, essendo congregati in
Smalcalda 15 prencipi e 30 città, risposero aver dicchiarato quale fosse
la loro volontà et intenzione circa il concilio in molte diete, et
ultimamente, già 2 anni, al noncio di papa Clemente et all'ambasciatore
dell'imperatore, e che tuttavia desideravano un legitimo concilio, come erano
certi che era desiderato da tutti gli uomini pii, et al qual erano anco per
andare, sí come piú volte era stato determinato nelle diete imperiali. Ma
quanto a quello che il pontefice aveva destinato in Mantova, speravano che
Cesare non fosse per dipartirsi da' decreti delle diete e dalle promesse tante
volte fattegli, che il concilio si dovesse celebrar in Germania; dove che vi
possi esser pericolo, non saperlo vedere, poiché tutti i prencipi e
città ubediscono a Cesare e sono cosí ben ordinate che i forestieri vi
sono ricevuti e trattati con ogni umanità. Ma che il pontefice sia per
proveder alla sicurezza di quelli ch'anderanno al concilio, non sapevano
intender come, massime risguardando le cose occorse nell'età precedente.
Che la republica cristiana ha bisogno d'un pio e libero concilio, e che ad un
tale essi hanno appellato. Che poi non si debbia trattare prima del modo e
forma, altro non significa se non che non vi debbia esser libertà e che
tutto si debbia riferir alla potestà del pontefice, il qual avendo
già dannata la loro religione tante volte, se egli doverà esser
giudice, il concilio non sarà libero. Che il concilio non è un
tribunale del solo pontefice, né de' soli preti, ma di tutti gli ordini della
Chiesa, eziandio de' secolari. Che il voler preponer la potestà del
pontefice all'autorità di tutta la Chiesa è openione iniqua e
piena di tirannide; che defendendo il pontefice l'openione de' suoi, anco con
editti crudeli, sostenendo egli una parte della lite, il giusto vuol che da'
prencipi sia determinato il modo e forma dell'azzione.
Al medesimo
convento di Smalcald mandarono ambasciatori i re di Francia e d'Inghilterra;
quel di Francia, che essendo morto Francesco Sforza, duca di Milano, dissegnava
fare la guerra in Italia, gli ricercò di non accettare luogo per la
celebrazione del concilio, se non con conseglio suo e del re d'Inghilterra,
promettendo che essi ancora non ne accetterebbono nissuno senza di loro. Il re
d'Inghilterra, oltre di ciò, gli fece intendere che stessero ben
avvertiti che non si facesse un concilio, dove, in luogo di moderar gli abusi,
si stabilisse tanto piú la dominazione del pontefice, e gli ricercò che
approvassero il suo divorzio. Dall'altro canto essi proposero che il re
ricevesse la confessione augustana: le quali cose trattate in diversi conventi,
non ebbero conclusione alcuna.
[Il Vergerio riferisce al papa non esservi
altra via che le armi et è mandato per persuadere ad esse Cesare]
Ma il
Vergerio nel principio dell'anno 1536 tornò al pontefice per riferire la
sua legazione. Riportò in somma che i protestanti non erano per ricever
alcun concilio, se non libero, in luogo opportuno, tra i confini dell'Imperio,
fondandosi sopra la promessa di Cesare, e che di Lutero e degli altri suoi complici
non vi era speranza alcuna, né si poteva pensar ad altro che opprimergli con la
guerra. Ebbe il Vergerio per suo premio il vescovato di Capo d'Istria, sua
patria, e dal pontefice fu mandato a Napoli per fare la medesima relazione
all'imperatore, il qual, ottenuta la vittoria in Africa, era passato in quel
regno per ordinare le cose di quello. Et udita la relazione del noncio,
passò Cesare a Roma. Fu a' stretti colloqui col pontefice sopra le cose
d'Italia e del modo di pacificare la Germania, il qual modo persuadendo il
pontefice, secondo il conseglio anco del Vergerio, che non poteva esser altro,
salvo che la guerra, Cesare, che non vedeva il tempo maturo per cavare da
quella il buon frutto che altri persuadeva, e vedendosi anco implicato in
Italia, da che non poteva svilupparsi, se non cedendo lo Stato di Milano, quale
aveva deliberato onninamente d'appropriarsi, e qua tendeva lo scopo principale
di tutte le sue azzioni, allegava, per raggione di differire, esser piú
necessario in quel tempo difendere Milano da' francesi. Dall'altro canto il
papa, il pensiero del quale tutto era volto a far cadere quello Stato in un
italiano, e perciò proponeva la guerra di Germania non tanto per
oppressione de' luterani (come publicamente diceva), ma anco per divertir Cesare
dall'occupare Milano, che era il fine suo principale, se ben segreto, replicava
che piú facilmente egli co' veneziani, usando le arme e le prattiche insieme,
averebbe fatto desistere il re, quando Sua Maestà Cesarea non si fusse
intromessa.
[Cesare finge approvare, ma in prima richiede
concilio]
Ma
l'imperatore, penetrato l'interno del papa, con altrotanta dissimulazione si
mostrò persuaso et inclinato alla guerra di Germania, dicendo
però che, per non aver tutto 'l mondo contra, conveniva giustificare ben
la causa, e col intimar il concilio mostrar che avesse tentato prima ogni altro
mezo. Il pontefice non aveva discaro che, dovendo finalmente intimarlo,
ciò si facesse nel tempo, quando, per aver il re di Francia occupata
già la Savoia et il Piemonte, l'Italia tutta era per ardere di guerra:
onde se gli dava apparentissimo pretesto per circondar il concilio di arme,
sotto colore di custodia e protezzione. Si mostrò contento, purché
fossero statuite condizioni che non derogassero all'autorità e
riputazione della Sede apostolica. L'imperatore, che per la vittoria ottenuta
in Africa aveva l'animo molto elevato e pieno di vasti pensieri, riputava di
dover in 2 anni almeno vincer la guerra di Lombardia e, serrato il re di
Francia di là da' monti, attendere alle cose di Germania senza altro
impedimento. Voleva che il concilio gli servisse a 2 cose: prima, durante la
guerra d'Italia, per raffrenar il papa, se, secondo il costume de' pontefici,
avesse pensato mettersi dalla parte di Francia, quando quella fusse restata
inferiore, per contrapesar il vincitore; poi, per ridur la Germania
all'obedienza sua, a che egli mirava, perché, quanto alla pontificia, l'aveva
per cosa accidentale. Gli piaceva il luogo di Mantova; quanto al rimanente non
curava qual condizione il papa vi apponesse, poiché quando fosse stato ridotto,
egli averebbe potuto mutare quello che non gli fosse piacciuto. Pertanto
concluse che, mentre si facesse il concilio, si contentava d'ogni condizione,
allegando che sperava di persuader, se non a tutta la Germania, poco meno, a
consentirvi finalmente. Fu adonque stabilita la deliberazione dal pontefice con
tutto 'l collegio de' cardinali.
[È pubblicata infine la bolla con
l'intimazione a Mantova]
Perilché
l'imperatore, intervenendo nel consistorio publico a' 28 d'aprile,
ringraziò il pontefice et il collegio che avessero prontamente et
espeditamente deliberata la convocazione del concilio generale, e gli
ricercò appresso che la bolla fosse spedita inanzi la sua partita da
Roma, acciò egli potesse dar ordine al rimanente. Non si poté ordinare
cosí presto, essendo pur necessaria qualche considerazione per mettervi parole
apposite che dessero quanto piú buona speranza di libertà era possibile
et insieme non portassero alcun pregiudicio all'autorità pontificia.
Furono deputati a questo 6 cardinali e 3 vescovi, e finalmente la bolla fu
spedita sotto i 2 di giugno, publicata in consistorio e sottoscritta da tutti i
cardinali. Il tenor di quella era:
Che dal
principio del suo pontificato nissuna cosa aveva piú desiderato che purgare
dalle eresie et errori la Chiesa, raccommandata da Dio alla cura sua, e di
restituire nel pristino stato la disciplina; al che non avendo trovato via piú
commoda che la sempremai usata in simili occorrenze, cioè il concilio generale,
di questo aver scritto piú volte a Cesare et agli altri re con speranza non
solamente d'ottener questo fine, ma ancora che, sedate le discordie tra i
prencipi cristiani, si movesse la guerra agli infedeli per liberar i cristiani
da quella misera servitú e ridurre anco gli infideli alla fede. Perilché, per
la pienezza di potestà che egli ha da Dio, col consenso de' suoi
fratelli cardinali, intima un concilio generale di tutta la cristianità
per i 23 maggio dell'anno seguente
Publicò
anco il papa un'altra bolla, per emendare (sí come diceva) la città di
Roma, capo di tutta la cristianità, maestra della dottrina, di costumi e
della disciplina, di tutti i vizii e mancamenti; acciò che purgata la
casa propria, potesse piú facilmente purgare le altre; al che non potendo
attendere solo pienamente, deputò sopra ciò i cardinali Ostiense,
San Severino, Ginuzio e Simoneta, commandando sotto gravissime pene a tutti di
prestar loro intiera obedienza. Questi cardinali insieme con alcuni prelati,
pur dal papa deputati, si diedero immediate a trattare la riformazione della
penitenziaria, della dataria e de' costumi de' corteggiani: però non fu
posta cosa alcuna in effetto. Ma l'intimazione del concilio parve ad ogni
mediocre ingegno molto poco opportuna in tempo quando tra l'imperatore et il re
di Francia erano in piedi le guerre in Picardia, in Provenza et in Piemonte.
[I protestanti non se ne contentano]
I
protestanti, veduta la bolla, scrissero a Cesare che non vedendosi qual dovesse
essere la forma et il modo del concilio, che da loro era stato sempre domandato
pio, libero et in Germania, e tale sempre promesso, si confidavano che Cesare
averebbe proveduto sí che le loro dimande fussero sodisfatte e la sua promessa
adempita.
Ma nel
principio dell'altro anno 1537 mandò Cesare Mattia Eldo, suo
vicecancellario a' protestanti, ad essortargli a ricever il concilio, il qual
con tanta sua fatica era stato convocato et al quale egli dissegnava trovarsi
in persona, se non intervenisse qualche grand'impedimento di guerra, che lo
constringesse esser altrove. Ricordò loro d'aver appellato al concilio,
e però non esser conveniente che ora, mutato proposito, non volessero
convenire con tutte le altre nazioni che hanno posto in quello tutta la
speranza della riforma della Chiesa. Quanto al pontefice, disse Cesare non
dubitare che non si governi come si conviene al principal capo dell'ordine
ecclesiastico, che se averanno qualche querela contra di lui, la potranno
proseguire nel concilio modestamente. Quanto al modo e forma, non esser
conveniente che essi vogliano prescriverla a tutte le nazioni: pensassero che
non i soli teologi loro siano inspirati da Dio et intendenti delle cose sacre,
ma che anco altrove ve ne siano, a chi non manchi dottrina e santità di
vita. Quanto al luogo, se ben essi hanno dimandato uno in Germania, però
debbono anco pensare quello che sia commodo all'altre nazioni. Mantova è
vicina alla Germania, abondante e salubre e suddita dell'Imperio, et il duca di
quella feudatario cesareo; in maniera che il pontefice non vi ha alcuna
potestà; e se vorranno maggiore cauzione, Cesare esser preparato
dargliela. Parlò anco con l'elettore di Sassonia a parte, essortandolo a
mandar i suoi ambasciatori al concilio, senza usar eccezzioni o scuse, le quali
non possono partorire se non inconvenienti. I protestanti risposero a questa
parte del concilio che, avendo letto le lettere del papa, vedevano non esser
l'istessa mente di quel pontefice e della Maestà Sua Cesarea, e repetite
le cose trattate con Adriano, Clemente e Paolo, conclusero che si vedeva esser
l'istesso fine di tutti. Passarono ad allegare le cose per le quali non
conveniva che il pontefice fosse giudice nel concilio, né meno quelli che gli
sono obligati con giuramento. E quanto al luogo destinato, oltre che è
contra i decreti delle diete imperiali, con nissuna sicurezza potrebbono
andarci senza pericolo. Imperoché avendo il pontefice aderenti per tutta Italia,
che portano acerbo odio alla dottrina de' protestanti, gran pericolo vi
è d'insidie et occulti consegli; oltra che, dovendo andar in persona
molti dottori e ministri, non essendo conveniente trattare cosa di tanta
importanza per procuratori, sarebbe un lasciare le chiese desolate. E come
possono consentire nel giudicio del papa, che non ha altro fine se non
d'estirpare la dottrina loro, che egli chiama eresia, e non si può
contenere di dirlo in tutte le bolle sue, eziandio in quella dove intima il
concilio, e nella bolla che fece simulando di volere riformare la corte romana
espressamente ha detto d'aver convocato il concilio per estirpare l'eresia
luterana; e ne fa dimostrazione con effetto, incrudelendo con tormenti e
supplicii contra i miseri innocenti che per loro conscienza seguono quella
religione? E come potranno accusare il pontefice et i suoi aderenti, quando
egli voglia essere giudice? E l'approvar il suo breve non esser altro che
consentire nel suo giudicio. E però aver domandato sempre un concilio
libero e cristiano, non tanto perché ogni uno possa parlare liberamente, e vi
siano esclusi i turchi et infideli, ma perché quelli che sono collegati insieme
con giuramenti et altri patti non siano giudici, e perché la parola di Dio sia
presidente e definisca tutte le controversie. Che sanno benissimo esser degli
uomini dotti e pii nelle altre nazioni; ma sono anco certi insieme che, se la
immoderata potenza del pontefice sarà regolata, non solo i loro teologi,
ma molti altri che al presente, essendo oppressi, stanno nascosti,
s'affaticheranno per la riforma della Chiesa. Che non vogliono disputare del
sito et opportunità della città di Mantova, ma ben dire che,
essendo la guerra in Italia, non possono esser senza sospetto. Del duca di quella
città bastar dire che egli ha un fratello cardinale de' primi della
corte. Che in Germania sono molte città non meno commode che Mantova,
dove fiorisce l'equità e la giustizia; et in Germania non sono noti et
usitati quei occulti consegli e clandestini modi di levare gli uomini di vita,
come in alcuni altri luoghi. Nelli antichi concilii essere stata sempre cercata
principalmente la sicurità del luogo, la qual però, quantonque
Cesare fosse in persona al concilio, non sarà sufficiente, sapendosi che
i pontefici gli concedono ben luogo nelle consultazioni, ma la potestà
del determinare la riservano a sé soli. Esser noto quello che avvenne a
Sigismondo Cesare nel concilio di Costanza, il salvocondotto del quale fu
violato dal concilio et egli costretto a ricever un tanto affronto. Perilché
pregavano Cesare a considerare quanto queste raggioni importassero.
Era comparso
nella medesima dieta il vescovo d'Ais mandato dal pontefice per invitargli al
concilio; ma non fece frutto, et alcuni anco de' prencipi ricusarono d'ascoltarlo;
e per far note al mondo le loro raggioni, publicarono e mandarono una scrittura
in stampa, dove principalmente si sforzavano di responder a quella obiezzione,
che essi non volessero sottomettersi a nissun giudice, che sprezzassero le
altre nazioni, che fugissero il supremo tribunal della Chiesa, che avessero
rinovate l'eresie altre volte condannate, che abbiano caro le discordie civili,
che le cose da loro riprese de' costumi della corte romana siano leggieri e
tolerabili. Allegarono le cause perché non conveniva che il pontefice solo, né
meno insieme con i suoi, fusse giudice; portarono essempii di molti concilii
ricusati da diversi de' santi padri; implorarono in fine a loro difesa tutti i
prencipi, offerendosi che se in alcun tempo si congregherà un concilio
legitimo, difenderanno in quello la sua causa e daranno conto delle proprie
azzioni. Mandarono anco un ambasciatore espresso al re di Francia per dargli
conto particolare delle medesime cose, il qual anco rispose che quanto al
concilio era del medesimo parere di loro, di non approvarlo se non legitimo et
in luogo sicuro, offerendo anco in questo l'istessa volontà del re di
Scozia, suo genero.
[Il duca di Mantova propuone condizioni per
accettare il concilio nella sua città. Il concilio è sospeso]
Il duca di
Mantova concesse la sua città per far il concilio in gratificazione del
pontefice, senza pensar piú oltre, giudicando, conforme all'opinione commune,
che non si potrebbe effettuare, essendo la guerra in piedi tra Cesare et il re
di Francia, e repugnante la Germania, per la quale il concilio si faceva. Ma
veduta l'intimazione, comminciò a pensare come assicurarebbe la
città, e mandò a proponer al papa che dovendosi introdurre uno sí
gran numero di persone, quali sarebbono convenute al concilio, era necessaria
una grossa guarnigione, la qual egli non voleva dependente da altri e non aveva
da mantenerla del suo: perilché era necessario, che volendo Sua Santità
celebrar il concilio in quella città, gli somministrasse danari per il pagamento
de' soldati. Al che rispose il pontefice che la moltitudine doveva esser non di
persone armate, né professori di milizia, ma de' ecclesiastici e letterati,
quali con un solo magistrato, che egli averebbe deputato per render giustizia
con una picciola corte e guardia, sarebbe stato bastante per contenergli in
ufficio; che una guarniggione di soldati armati sarebbe stata di sospetto a
tutti e poco condecente al luogo d'un concilio, che debbe essere tutto in
apparenza et effetti di pace; e che pure quando vi fosse stato bisogno di arme
per guardia, non essere di raggione che fossero in mano d'altri che del
concilio medesimo, cioè del papa che ne è il capo. Il duca,
considerando che la giurisdizzione si tira sempre dietro l'imperio,
replicò non volere in modo alcuno che nella sua città sia
amministrata la giustizia da altri che dalli ufficiali suoi; il papa,
prudentissima persona, a cui poche volte occorreva di udir risposta non
preveduta, restò pieno di stupore e rispose all'uomo del duca che non
averebbe creduto dal suo patrone, prencipe italiano, la casa del quale aveva
ricevuti tanti beneficii dalla Sede apostolica, che aveva un fratello
cardinale, dovergli essere negato quello che mai piú da nissuno gli fu messo in
controversia, quello che ogni legge divina et umana gli dona, che né anco i
luterani gli sanno negare, cioè l'essere giudice supremo degli
ecclesiastici, e quello che il duca non contrasta al suo vescovo, che giudica
le cause de' preti in Mantova. Nel concilio non dovere intervenire se non
persone ecclesiastiche, le quali sono essenti dal secolare cosí esse, come le
sue famiglie, il che è cosí chiaro che concordemente dalli dottori
è affermato eziandio le concubine de' preti esser del foro
ecclesiastico, et egli vuol negargli d'aver un magistrato che rendi giustizia a
quelli durante il concilio? Non ostante questo, il duca stette fermo cosí in
ricusare di concedere al papa giusdicenti in Mantova, come anco in domandar
soldi per pagar soldati; le quali condizioni parendo al pontefice dure e (come
diceva) contrarie alli antichi costumi et aliene dalla dignità della
Sede et alla libertà ecclesiastica, ricusò di condescendervi e
deliberò di non voler piú concilio a Mantova, raccordandosi molto bene
di quello che avvenne a Giovanni XXIII avendo celebrato concilio dove altri era
piú potente, deliberò di sospendere il concilio, si scusò con una
sua bolla publica, dicendo in sostanza che, se ben con suo dolore era sforzato
deputar altro luogo per il concilio, nondimeno lo sopportava, perché era per colpa
d'altri e non sua propria, e che non potendo cosí sprovistamente risolversi
d'un altro luogo opportuno, sospendeva la celebrazione del concilio sino ad
primo di novembre del medesimo anno.
Publicò
in questo tempo il re d'Inghilterra un manifesto per nome suo e della nobiltà,
contra la convocazione fatta dal pontefice, come da persona che non abbia
potestà, et in tempo di guerra ardente in Italia, et in luogo non
sicuro, soggiongendo che ben desidera un concilio cristiano, ma al pontificio
non è per andare, né per mandarvi ambasciata, non avendo che fare col
vescovo romano, né con i suoi editti, piú che con quelli di qualonque altro
vescovo; che già i concilii solevano essere congregati per
autorità de re, e questo costume maggiormente debbe esser rinovato
adesso, quando che si tratta d'accusar i difetti di quella corte; non esser
cosa insolita a' pontefici di mancar di fede, il che dovea considerare piú lui,
che è acerbissimamente odiato per aver dal suo regno levata quella
dominazione et il censo che gli era pagato. Che il dar la colpa al prencipe di
Mantova, perché non voglia senza presidio admetter tanta gente nella sua
città, è un burlarsi del mondo; sí come anco il prorogar il
concilio sino a novembre e non dire in che luogo si abbia da celebrare; poiché,
se il papa alcun luogo eleggerà, senza dubio o piglierà uno di
quelli dello Stato proprio, overo di qualche prencipe obligatogli. Perilché non
potendo alcun uomo di giudicio sperar d'avere un vero concilio, il meglio di
tutto è che ciascuno prencipe emendi la religione a casa sua;
concludendo in fine che se da alcuno gli fosse mostrata megliore via, egli non
la ricusarebbe.
[Il papa stimolato da' rimproveri, ritorna
alla riforma della sua corte]
In Italia
anco vi era una gran disposizione ad interpretare in sinistro le azzioni del
pontefice, e si parlava liberamente che, quantonque versasse la colpa sopra il
duca di Mantova, da lui però nasceva che il concilio non si facesse, et
esserne manifesto indicio, perché nel medesimo tempo aveva publicata la bolla della
riforma della corte e dato il carico a' quatro cardinali, né a ciò
esservi opposizione del duca, né di altri, che non fosse in sua potestà,
e pur di quella piú non si parlava, sí come anco era stata in silenzio 3 anni
doppo che la propose immediate assonto al pontificato. Per ovviare a queste
diffamazioni deliberò il papa di nuovo ripigliare quel negozio,
riformando prima sé, i cardinali e la corte, per poter levar ad ogni uno
l'obiezzione e la sinistra interpretazione di tutte le azzioni sue; et elesse
quattro cardinali e cinque altri prelati tanto da lui stimati, che quattro di
essi nelli anni seguenti creò poi cardinali, imponendo a tutti 9 di
raccogliere gli abusi che meritavano riforma, et insieme aggiongervi i rimedii
co' quali si potesse prestamente e facilmente levargli, e ridur il tutto ad una
buona riformazione. Fecero quei prelati la raccolta secondo il commandamento
del pontefice, e la ridussero in scritto.
Proposero nel
principio, per fonte et origine di tutti gli abusi, la prontezza de' pontefici
a dar orecchie alli adulatori e la facilità in derogare le leggi, con la
inosservanza del commandamento di Cristo di non cavar guadagno delle cose
spirituali; e descendendo a particolari, notarono 24 abusi nell'amministrazione
delle cose ecclesiastiche, e 4 nel governo speciale di Roma; toccarono
l'ordinazione di clerici, la collazione di beneficii, le pensioni, le
permutazioni, li regressi, le reservazioni, la pluralità di beneficii,
le commende, la residenza, le essenzioni, la deformazione dell'ordine regolare,
la ignoranza de' predicatori e confessori, la libertà di stampare libri
perniciosi, le lezzioni, la toleranza de' apostati, i questuarii; e passando
alle dispensazioni, toccarono prima quella di maritare gli ordinati,
facilità di dispensare matrimonii ne' gradi proibiti, la dispensa a'
simoniaci, la facilità nel conceder confessionali et indulgenze, la
dispensazione de' voti, la licenza di testare de' beni della Chiesa, la
commutazione delle ultime volontà, la toleranza delle meretrici, la
negligenza del governo delli ospedali, et altre cose di questo genere, trattate
minutamente, con esporre la natura degli abusi, le cause et origine loro, le
consequenze dei mali che portano seco, i modi di rimediarvi e conservar il
corpo della corte per l'avvenire in vita cristiana: opera degna d'esser letta,
che se la sua longhezza non avesse impedito, meritava esser registrata di
parola in parola.
Il pontefice,
ricevuta la relazione di questi prelati, la fece considerar a molti cardinali e
propose poi in consistorio la materia per prenderne deliberazione. Frate
Nicolò Scomberg dell'ordine dominicano, cardinale di San Sisto, con
altro nome chiamato di Capua, con longhissimo discorso mostrò, che quel
tempo allora presente non comportava che si riformasse alcuna cosa. Primieramente
considerò la malizia umana, che sempre, quando li è impedito un
corso al male, ne ritrova un peggiore, e che è manco mal tolerar il
disordine conosciuto, e che per esser in uso non dà tanta maraviglia,
che, per rimediar a quello, dar in uno che, come nuovo, restarà piú
apparente e sarà anco piú ripreso. Aggionse che sarebbe dar occasione a'
luterani di vantarsi che avessero sforzato il pontefice a far quella riforma, e
sopra tutte le cose considerava che sarebbe stato principio non di levar gli abusi
soli, ma ancora insieme i buoni usi, e metter in maggior pericolo tutte le cose
della religione: perché con la riforma si confesserebbe che le cose provedute
meritamente erano riprese da luterani, che non farebbe altro che dar fomento a
tutta la loro dottrina. In contrario Giovan Pietro Caraffa, cardinale teatino,
mostrò che la riforma era necessaria e grand'offesa di Dio esser il
tralasciarla, e rispose esser regola delle azzioni cristiane che sí come non
s'ha da far alcun male acciò ne succeda bene, cosí non si debbe
tralasciare alcun bene di obligazione per timore che ne venga il male. Varie
furono le opinioni, e finalmente, dopo detti diversi pareri, fu concluso che si
differisse di parlarne ad altro tempo, e commandò il pontefice che fosse
tenuta segreta la rimostranza fattagli da' prelati. Ma il cardinal Scomberg ne
mandò una copia in Germania, il che da alcuni fu creduto non esser fatto
senza saputa del pontefice, acciò fusse veduto che in Roma vi era
qualche dissegno e qualche opera ancora di riformazione. La copia mandata fu
subito stampata e publicata per tutta Germania, e fu anco scritto contra di
quella da diversi in lingua tedesca e latina. E pur tuttavia nella medesima
regione cresceva il numero de' protestanti, essendo entrati nella loro lega il
re di Dania et alcuni prencipi della casa di Brandeburg.
[Il papa intima il concilio in Vicenza]
Avvicinandosi
il mese di novembre, il pontefice publicò una bolla di convocazione del
concilio a Vicenza, e causando che per la vicinità dell'inverno vi era
bisogno di prorogar il tempo, l'intimò per il primo di maggio dell'anno
seguente 1538, e destinò legati a quel luogo tre cardinali, Lorenzo
Campeggio, già legato di Clemente VII in Germania, Giacomo Simoneta e Gieronimo
Aleandro, da lui creati cardinali.
Uscita la
bolla in luce, in Inghilterra fu publicato un altro manifesto del re contra
questa nuova convocazione, inviato a Cesare et ai re e popoli cristiani, dato
sotto gli 8 aprile dell'istesso anno 1538: che avendo già manifestato al
mondo le molte et abondanti cause per quali aveva ricusato il concilio, che il
papa fingeva voler celebrar in Mantova, prorogato poi senza assignazione di
certo luogo, non gli pareva conveniente, ogni volta che il pontefice avesse
escogitato qualche nuova via, dover esso pigliar fatica di protestare o
ricusare quel concilio che egli mostrasse di voler celebrare. Perilché quel
libello defende la causa sua e del suo regno da tutti i tentativi che si
potessero fare o da Paolo overo da qualonque altro pontefice romano, e
però l'ha voluto confermare con quella epistola, che facilmente lo
doverà iscusare perché non sia piú per andar a Vicenza di quello che non
era per andare a Mantova, quantonque non vi sia chi piú desideri una publica
convocazione de' cristiani, purché sia concilio generale, libero e pio, quale
ha figurato nella protesta contra il concilio di Mantova. E sí come nissuna
cosa è piú santa che una generale convocazione di cristiani, cosí
nissuno può apportare maggiore pregiudicio e pernicie alla religione che
un concilio abusato per guadagni, per utilità, o per confermar errori.
Concilio generale chiamarsi, perché tutti i cristiani possano dire il suo
parere: né potersi dire generale dove siano uditi solamente quelli che averanno
determinato di tener sempre, in tutte le cose, le parti del pontefice e dove
l'istessi siano attori, rei, avvocati e giudici. Potersi replicare sopra
Vicenza tutte le medesime cose che si sono dette nell'altro suo libello di
Mantova. E replicato con brevità un succinto contenuto di quello, seguí
dicendo: se Federico, duca di Mantova, non ha deferito all'autorità del
pontefice in concedergli la sua città in quel modo che egli la voleva,
che raggione vi è che noi debbiamo tanto stimarla in andar dove gli piace?
Se ha il pontefice potestà da Dio di chiamar i prencipi dove vuole,
perché non l'ha di eleggere qual luogo gli piace e farsi ubedire? Se il duca di
Mantova può con raggione negar il luogo eletto dal pontefice, perché non
potranno anco gli altri re e prencipi non andar a quello? E se tutti i prencipi
gli negassero le loro città, dove sarebbe la sua potestà? Che
sarebbe avvenuto, se tutti si fussero messi in viaggio e gionti là
s'avessero trovati esclusi dal duca di Mantova? Quello che di Mantova è
accaduto, può accader di Vicenza.
Andarono i
legati a Vicenza al tempo determinato, et in questo medesimo il pontefice
andò a Nizza di Provenza per intervenir al colloquio dell'imperatore e
del re di Francia, procurato da lui, dando fuori che fosse solamente per metter
quei due gran prencipi in pace, se ben il fine piú principale era di tirar in
casa sua il ducato di Milano. In quel luogo il pontefice, tra le altre cose,
fece ufficio con ambidue che mandassero gli ambasciatori loro al concilio e che
vi facessero anco andare i prelati che erano nelle loro compagnie, e dessero
ordine a quelli che si ritrovavano ne' loro regni di mettersi in viaggio.
Quanto al dar l'ordine, l'uno e l'altro si scusò che era necessario
prima informarsi con i prelati de' bisogni delle loro chiese; e quanto al
mandare quei che erano quivi presenti, che sarebbe stato difficile persuadergli
ad andare soli, senza aver communicato conseglio con altri. Restò tanto
facilmente il papa sodisfatto della risposta, che lasciò dubio se piú
desiderasse l'affermativa che la negativa. Riuscito adonque infruttuoso questo
ufficio, come gli altri trattati dal papa in quel convento, egli se ne partí,
et essendo di ritorno in Genova ebbe lettere da Vicenza da legati che si
ritrovavano ancora là soli, senza prelato alcuno; perilché gli
richiamò, e sotto il 28 giugno per una sua bolla allongò il
termine del concilio sino al giorno della prossima pasca.
[Il papa fulmina la scomunica contra il re
d'Inghilterra]
In questo
anno il pontefice ruppe la prudente pazienza overo dissimulazione usata per 4
anni continui verso Inghilterra, e fulminò contra quel re una terribile
bolla, con modo non piú usato da' suoi precessori, né da successori immitato,
della quale fulminazione, per esser originata da manifesti publicati contra il
concilio intimato in Mantova et in Vicenza, ricerca il mio proposito che ne
faccia menzione; oltre che, per intelligenza di molti accidenti che di sotto si
narreranno, è necessario recitare questo successo con i suoi
particolari.
Avendo il re
d'Inghilterra levata l'ubedienza alla Chiesa romana e dichiaratosi capo
dell'anglicana l'anno 1534, come al suo luogo s'è detto, papa Paolo,
immediate dopo la sua assonzione, dall'imperatore per i proprii interessi, e
dall'instanze della corte, la quale con quel mezo credeva di racquistare overo
abbrugiare l'Inghilterra, fu continuamente stimolato a fulminare contra quel
re; il che egli, come uomo versato nella cognizione delle cose, giudicava poco
a proposito, considerando, se i fulmini de' suoi precessori non avevano sortito
mai buon effetto in quei tempi, quando erano creduti e riveriti da tutti,
minore speranza esserci che, dopo publicata e ricevuta da molti una dottrina
che gli sprezzava, potessero farlo. Teneva per opera di prudenza il contenere
nel fodro un'arma che non ha altro taglio, se non nell'opinione di coloro
contra chi si combatte. Ma del 1535, succeduta la decapitazione del cardinal
Roffense, gli altri cardinali gli furono intorno a rimostrargli quanta fosse
l'ignominia e quanto grande il pericolo di quell'ordine che era stimato
sacrosanto et inviolabile, se fosse lasciato prender piede a quell'essempio;
imperoché i cardinali defendono il pontificato con ardire appresso tutti i
prencipi per la sicurezza della propria vita, la quale, quando fosse levata e
mostrato a' secolari che i cardinali possono esser giustiziati, sarebbono
costretti operare con troppo timore. Il pontefice però non partí dalla
risoluzione sua, ma trovò un temperamento non piú usato da papa alcuno,
di alzare la mano col fulmine e minacciar di tirarlo, ritenendolo però
senza lanciarlo, e con questo modo sodisfare a' cardinali et alla corte et
altri, e non metter in prova la potestà pontificale. Formò per
tanto il papa un processo e sentenza severissima contra quel re sotto il dí 30
agosto 1535, e tutto insieme sospese la publicazione a suo beneplacito,
lasciata però andare la copia occultamente in mano di chi sapeva glie
l'averebbe fatta capitare e facendo caminar il rumore della bolla formata e
della sospensione d'essa, con fama che presto presto, levata la sospensione, si
venirebbe alla publicazione, e con dissegno di non venirci mai.
E se ben non
era senza speranza che il re, o per timore del fulmine fabricato, o per
l'inclinazione del suo popolo, o per sazietà de' supplicii contra gli
inubedienti al suo decreto, s'inducesse, o per interposizione dell'imperatore o
del re di Francia (quando per le occorenze del mondo fosse costretto unirsi con
alcuno di loro) fosse indotto a cedere; principalmente però si mosse per
la causa sudetta, acciò egli medesimo non mostrasse la debolezza delle
arme sue e fermasse il re maggiormente nella separazione. Nondimeno in capo di
3 anni si mosse a mutare proposito per gli irritamenti che gli pareva esser
usati da quel re verso lui senza occasione, in mandare sempre manifesti contra
le sue convocazioni del concilio et oppugnare le sue azzioni, se ben non
indrizzate ad offesa particolare di lui; e nuovamente con aver processato,
citato e condannato per ribelle del regno, con confiscazione de' beni, san
Tomaso cantuariense, prima canonizato da Alessandro III per esser stato ucciso
in difesa della libertà e potestà ecclesiastica sino 1171, del
quale si fa annualmente solenne festa nella Chiesa romana, con essecuzione
della condanna, levando dalla sepoltura le ossa, che furono abbrugiate in
publico per mano del ministro di giustizia e sparse le ceneri nel fiume; posta
la mano ne' tesori, ornamenti et entrate delle chiese dedicate a lui, il che
era l'avere toccato un arcano del pontificato molto piú importante che la
materia del concilio. Alle qual cose gionta qualche speranza, conceputa nel
colloquio col re di Francia, che fosse per somministrare aiuti a' malcontenti
d'Inghilterra come fosse libero dalle guerre con l'imperatore, sotto il 17
decembre vibrò il fulmine lavorato già 3 anni, aperta la mano che
per tanto tempo era stata in atto di fulminare. Le cause allegate furono in
sostanza quella del divorzio e per l'ubedienza levata, per l'uccisione di
Roffense, per la dichiarazione contra san Tomaso. Le pene furono: privazione
del regno, et alli aderenti suoi di tutto quello che possedevano, comandando a'
sudditi di levargli l'ubedienza et a' forestieri di non aver commercio in quel
regno; et a tutti, che si dovessero levare con arme contra lui et i suoi fedeli
e perseguitargli, concedendo in preda li Stati e le robbe et in servitú le
persone di tutti loro.
Ma in quanto
conto fosse tenuto il breve del papa e quanto fossero osservati i commandamenti
suoi lo dimostrano le leghe, confederazioni, paci, trattazioni, che doppo
furono fatte con quel re dall'imperatore, re di Francia et altri prencipi
catolici.
[In Germania è proposto a Francfort un
modo di amichevole composizione, contradetto dal papa]
Nel principio
del anno 1539, essendo eccitate nuove controversie in Germania per le cause
della religione, e forse anco da persone mal intenzionate che le adoperavano
per pretesto, fu tenuto un convento in Francfort, dove Cesare mandò un
commissario, e là, dopo longa disputa, sotto il dí 19 d'aprile, col
consenso di quello, fu concluso di far un colloquio al primo d'agosto in
Noremberga per trattare quietamente et amorevolmente della religione, dove
avessero da intervenire da una parte e dall'altra, oltre i dottori, altre
persone prudenti mandate da Cesare, dal re Ferdinando e da' prencipi per
sopraintendere al colloquio et intromettersi tra le parti; e quello che fosse
di commune consenso determinato, fusse significato a tutti gli ordini
dell'Imperio e nella prima dieta confermato da Cesare. Volevano i catolici che
fosse ricercato il pontefice di mandar esso ancora persona a quel colloquio; ma
i protestanti riputarono questo esser cosa contraria alla loro protestazione,
perilché non fu esseguito. Andata a Roma nuova di questa convenzione, il
pontefice offeso, cosí perché si dovesse far in Germania trattazione della
religione, come perché fosse con gran pregiudicio alla riputazione del concilio
intimato da lui, se bene puoco si curava che fosse celebrato, e piú particolarmente
perché si avesse trattato di admetterci uno mandato dal pontefice e fosse poi
totalmente esclusa la sua autorità, spedí subito il vescovo di
Montepulciano in Spagna, principalmente acciò facesse opera che Cesare
non confermasse, anzi annichilasse i decreti di quella dieta.
Ebbe il
noncio grande e longa instruzzione, prima di dolersi gravemente de' portamenti
del commissario suo, che era Giovanni Vessalio arcivescovo di London, il qual,
smenticatosi del giuramento prestato a quella Sede e d'infiniti beneficii
ricevuti dal pontefice, e dell'instruzzione datagli dall'imperatore, avesse
consentito alle domande de' luterani con pregiudicio della Sede apostolica e
disonore di Sua Maestà Cesarea; che il London era stato corrotto con
doni e promissioni, avendogli la città d'Augusta donato 250 mila fiorini
d'oro et il re di Dania promesso 4 mila fiorini all'anno sopra i frutti del suo
arcivescovato di London occupatogli. Che pensava di pigliar moglie e lasciare
le cose di Chiesa, non avendo mai voluto ricevere gli ordini sacri. Ebbe anco
il noncio ordine di mostrare all'imperatore che le cose concesse dal London,
quando fossero confermate da lui, mostrariano che non fosse vero figliuolo
della Sede apostolica, e che tutti i prencipi catolici di Germania ne facevano
querela e tenevano che la Sua Maestà non la confermarebbe; e di proporli
altri suoi interessi toccanti il ducato di Gheldria e l'elezzione del re de'
Romani per moverlo maggiormente; raccordandogli ancora che per tolerare i
luterani ne' loro errori, non potrà però disponere la Germania,
come London et altri gli deping[o]no, perché è cosa ormai nota che non
si può fidare di conservare gli imperii, dove si perde la religione o
dove due religioni sono comportate. Che ciò è accaduto agli
imperatori orientali, i quali, abandonata l'ubedienza all'universale pontefice
di Roma, persero le forze et i regni. Esser manifeste le fraudi de' luterani,
che hanno proceduto sempre malignamente con Sua Maestà, e che sotto
pretesto di rassettar le cose della religione, vanno procurando altro che
religione. Esserne essempio la dieta di Spira del '26, di Noremberg del '32 e
di Calano del '34, quando il duca di Vitemberg ripigliò il ducato: il
che mostrò che i moti del lantgravio e luterani non furono per causa di
religione, ma per levare quel Stato al re de' Romani. Mettesse in
considerazione che, quando convenisse co' luterani, i prencipi catolici non
potrebbono tolerar un tal disordine, che Sua Maestà potesse piú sopra
loro, che sopra i protestanti, e pensarebbono a nuovi rimedii. Che vi sono
molte altre lecite et oneste vie con le quali le cose di Germania si possono
ridurre, essendo preparato il papa, secondo la qualità delle sue forze,
di non mancargli mai di tutti gli aiuti possibili. E quando Sua Maestà
vi metterà pensiero, troverà non potersi approvare questi
capitoli, che tutta Germania non si faccia luterana, il che sarebbe un levar a
lei tutta l'autorità, perché la loro setta esclude ogni
superiorità, predicando sopra ogni altra cosa la libertà, anzi
licenza. Mettesse in considerazione a Cesare d'accrescere la lega catolica e
levar a' luterani gli aderenti il piú che si potesse, mandando quella maggior
quantità de' danari in Germania che fosse possibile per prometterne e
darne anco con effetto a chi seguisse la lega catolica. Che sarebbe anco bene,
sotto titolo di cose turchesche, mandare qualche numero di gente spagnola o
italiana in quelle parti, tratenendola nelle terre del re de' Romani. Che il
pontefice risolveva di mandare qualche persona a prencipi catolici con danari
per promettere e per gratificare quelli che saranno a proposito per le cose
sue. Confortasse Cesare a far un editto simile a quello che il re d'Inghilterra
aveva fatto nel suo regno, facendo seminare anco destramente che Sua
Maestà avesse maneggio col detto re per farlo ridurre all'ubedienza
pontificia. Diede anco il pontefice commissione allo stesso Montepulciano di
dolersi con Cesare che la regina Maria, governatrice de' Paesi Bassi, sua
sorella, segretamente prestasse favore alla parte luterana, che gli mandasse
uomini a posta; che quando si era per stabilire la lega catolica ella scrisse
all'elettor di Treveri che non v'entrasse, e cosí fu impedita quella santa
opera; che impedí monsignore di Lavaur, oratore del re di Francia, dall'andar
in Germania per consultare col re de' Romani e col legato di Sua Beatitudine
sopra le cose della religione; che credeva ben il pontefice questo non venir da
mala volontà di lei, ma per conseglio de cattivi ministri.
Ma perché si
è fatta menzione d'un editto del re d'Inghilterra in materia della
religione, non sarà fuora di proposito raccontar qui come, in
quell'istesso tempo della dieta di Francfort, Enrico VIII, o perché credesse
far il servizio di Dio non permettendo rinovazione di religione nel suo regno,
o per mostrar costanza in quello che aveva scritto nel libro contra Lutero,
overo per smentire il papa, che nella sua bolla gli imputava d'aver publicato
dottrina eretica nel suo regno, fece publicar un editto, dove commandava che
per tutta Inghilterra fosse creduta la real presenza del vero e natural corpo e
sangue di Cristo, nostro Signore, sotto le specie del pane e del vino, non
rimanendovi la sostanza di quei elementi; che sotto l'una e l'altra delle
specie si conteneva Cristo tutto intieramente; che la communione del calice non
era necessaria; che a' sacerdoti non era lecito contraere matrimonio; che i
religiosi, dopo la professione e voti di castità, erano perpetuamente
ubligati a servarla e vivere ne' monasterii; che la confessione secreta et
auriculare era non solamente utile, ma ancora necessaria; che la celebrazione
delle messe, eziandio private, era cosa santa e che commandava fusse continuata
nel suo regno. Proibí a tutti l'operare o insegnare contra alcuno di questi
articoli, sotto tutte le pene ordinate dalle leggi contra gli eretici. È
ben maraviglia come il papa, che pochi giorni prima aveva fulminato contra quel
re, fosse costretto lodare l'azzioni di lui e proporlo all'imperatore per
essempio da immitare: cosí il proprio interesse fa lodar e biasimar l'istessa
persona.
[Il papa, perplesso nel negozio del concilio,
lo sospende a suo beneplacito]
Ma il papa,
dopo spedito il Montepulciano, avendo veduto che col convocar il concilio e poi
differire il termine assignato, se ben andava trattenendo le persone, nondimeno
perdeva assai della riputazione, giudicò necessario lasciare quel
proceder ambiguo, il quale, se ben per lo passato aveva trattenuto il mondo, in
progresso però poteva partorire qualche sinistro effetto, e fece
risoluzione in se medesimo di volersi dichiarare et uscire dalle
ambiguità; et in consistorio, narrata la serie delle cose successe e
proposto che era necessario far una stabile e ferma risoluzione o in un modo o
in un altro, pose la materia in consultazione. Alcuni de cardinali, per liberarsi
dal timore che ogni altro giorno gli metteva in spavento, non approvavano il
termine di sospensione, ma averebbono voluto una espressa dichiarazione che il
concilio non si farebbe, per non vedersi come superare gli impedimenti prima
che fosse conciliata pace tra i prencipi, mezo necessario, senza il quale non
si poteva sperare di celebrarlo. Ma i piú prudenti erano bilanciati tra questo
et un altro timore, che non si passasse a' concilii nazionali o ad altri
rimedii piú nocivi a loro che il concilio generale; e per ciò la maggior
parte passò nella medesima opinione del sospender a beneplacito:
pensando che, quando non fosse parso utile per loro il venir all'effetto, con
la pretensione della discordia de' prencipi o con altra, s'avesse continuata la
sospensione, e se si fosse attraversato pericolo di concilio nazionale, o di
colloquii, o d'altro, con metter inanzi il concilio generale et assignargli
luogo e tempo, si rimediasse a' pericoli; per far poi, circa il celebrarlo o
no, quello che le opportunità avessero consegliato. Fu il partito
abbracciato, e fu formata una bolla sotto il 13 giugno, per la quale il
concilio intimato veniva sospeso a beneplacito del papa e della Sede
apostolica.
Ma il noncio
Montepulciano, andato in Spagna, esseguí le commissioni sue con Cesare, il
quale per le cause allegate dal noncio o per altri suoi rispetti non si
dichiarò se assentisse o dissentisse al colloquio destinato da farsi
all'agosto in Noremberg; poi, succedendo la morte della moglie e, dopo quella,
ancora la sollevazione di Gant e di parte de' Paesi Bassi, ebbe occasione,
pretendendo affari di maggiore importanza, lasciare la cosa sospesa. E cosí
passò tutto l'anno 1539.
[Cesare consulta di pacificare le cose della
religione per via di conferenza, ma ne è dissuaso dal legato Farnese]
Io, quando mi
son posto a scrivere questa istoria, considerando i molti colloquii che sono
stati parte solamente intimati e parte anco tenuti per componere le differenze
della religione, sono stato in dubio se convenisse fare di tutti menzione,
occorrendomi raggioni concludenti per l'una parte e per l'altra; in fine,
considerato d'aver proposto narrare tutte le cause del concilio tridentino, et
osservando nissun colloquio essere stato intimato o tenuto, se non per
impedire, per divertire, per ritardare, per incitare, o per accelerare il
concilio, ho risoluto meco stesso di far menzione d'ogni uno, massime per il
frutto che si può cavare dalla cognizione de' notabili particolari in
ciascuno occorsi; come in quello che fu instituito l'anno seguente 1540, il
quale cosí ebbe origine.
Cesare,
passando per Francia, andò a' Paesi Bassi per accommodare quelle
sedizioni, e Ferdinando andò a ritrovarlo: dove uno de' principali
negozii conferiti da ambedue fu il trovar componimento alle cose della
religione in Germania. Del che essendosi trattato nel consiglio di Cesare con
molta accuratezza, pareva che tutti inclinassero ad instituire un colloquio
sopra questa materia.
Essendo
ciò penetrato alle orrecchie del Farnese che si trovava ivi legato et
aveva accompagnato Cesare per il viaggio, il qual cardinale, se ben giovene di
sotto gli 20 anni, aveva però in compagnia molte persone di maneggio, e
tra gli altri Marcello Cervino, vescovo di Nicastro, il quale, dopo fatto papa,
fu chiamato Marcello II, si oppose a questa deliberazione, trattando con Cesare
e con Ferdinando e con tutti quelli del conseglio, mettendo in considerazione
che molte volte era stato trattato co' protestanti di concordia, incomminciando
già 10 anni nella dieta d'Augusta, né mai s'aveva potuto concludere cosa
alcuna; e quando ben fosse stata trovata e conclusa qualche concordia, sarebbe
riuscita vana e senza frutto, perché i protestanti mutano alla giornata
opinione, non seguendo una dottrina certa, avendo sino contravenuto alla loro
propria confessione augustana; che sono lubrichi quanto le anguille; si
mostravano prima desiderosi che gli abusi et i vizii fossero levati, ora non
vogliono piú il pontificato emendato, ma estinto, et estirpata la Sede
apostolica et abolita ogni giurisdizzione ecclesiastica. E se mai furono
petulanti, sarebbono allora, quando non era ben fermata la pace con Francia et
il turco soprastava l'Ongaria; non potersi pensare di rimuoverli, per essere le
controversie sopra innumerabili dogmi, et anco, per essere molte le sette tra
loro, esser impossibile il concordare con tutti; senza che la maggior parte di
loro non hanno altro fine, se non d'occupare quel d'altri e rendere Cesare
senza autorità. Esser vero che la guerra de' turchi instante conseglia a
concordare nella religione: ma questo non era da farsi in diete particolari o
nazionali, ma in un concilio generale, il qual si potrebbe intimar immediate;
perché toccando la religione, non è da farsi mutazione senza commun
consenso. Non doversi aver rispetto alla sola Germania, ma alla Francia, Spagna
et Italia et agli altri popoli, senza conseglio de' quali, se la Germania
farà mutazione, ne nascerà una divisione pericolosa di quella
provincia dalle altre. Esser antichissimo costume, sino dagli apostoli, che col
solo concilio sono state terminate le controversie e tutti i re, prencipi et
uomini pii desiderarlo ora. Potersi con facilità concludere ora la pace
tra Cesare et il re di Francia, et immediate far il concilio, e fra tanto
attendere a crescere numero e potenzia alla lega catolica di Germania, il che
farà che i protestanti intimiditi per ciò si sottometteranno al
concilio, overo saranno sforzati da' catolici; e quando sarà necessario
resister al turco, essendo la lega catolica potente, si potrà ridur anco
i protestanti in necessità di contribuire: il che, se non volessero
fare, esser necessario di doi mali elegger il minore, essendo mal maggiore
offender Iddio, abandonata la causa della religione, che mancar dell'aiuto
d'una parte d'una provincia. Massime che non è facile da determinare chi
siano piú contrarii a Cristo, i protestanti, o i turchi, poiché questi mirano a
metter in servitú i corpi, e quelli i corpi e le anime insieme. Tutti i
discorsi e raggionamenti del cardinale avevano per conclusione che conveniva
chiamar il concilio e principiarlo quello istesso anno, e non trattar della
religione nelle diete di Germania, ma attendere ad accrescere la lega catolica
e far la pace col re di Francia.
[Cesare intima una dieta in Aganoa, dove
è concluso che si farà conferenza in Vormazia]
Cesare, dopo
molta deliberazione, concluse di voler tentare la via della concordia, et
ordinò di far una dieta in Germania in quel luogo dove Ferdinando avesse
giudicato bene, invitando i prencipi protestanti a trovarvisi in persona e
promettendo sicurezza publica a tutti. Et il cardinal Farnese, intesa questa
conclusione fatta senza sua saputa, si partí immediate, e passato per Parigi
ottenne dal re un severo editto contra gli eretici e luterani, che publicato in
quella città s'esseguí poi per tutta la Francia con molto rigore.
In Germania
fu da Ferdinando la dieta congregata in Aganoa, dove co' dottori catolici
intervennero molti de' predicatori e ministri luterani; e furono deputati per
mediatori tra le parti l'elettore di Treveri e palatino, col duca Ludovico di
Baviera e Vielmo, vescovo d'Argentina. I protestanti, ricercati che
presentassero i capi della dottrina controversa, risposero che già 10
anni in Augusta avevano presentata la loro confessione et una apologia in
difesa; che perseveravano in quella dottrina, apparecchiati di rendere conto a
tutti; e non sapendo che cosa fosse ripresa dagli avversarii, non avevano che
dire altro di quello, ma aspettavano d'intendere da loro ciò che
riputassero esser contrario alla verità; che cosí la cosa venirà
a colloquio et essi non mancheranno d'aver inanzi gli occhi la concordia. I
catolici subito presero il ponto; et assentendo a quello che gli altri
proponevano, inserivano che conveniva aver per approvate tutte le cose in
quella dieta passate et aver per fermo e stabilito il decreto nel recesso
promulgato, e portar inanzi la forma di riconciliazione in quella dieta
incomminciata. I protestanti, conoscendo il disavantaggio loro proseguendo in
quella forma et il pregiudicio che gli averebbe inferito quel decreto,
instavano per una nuova forma, rimessi tutti i pregiudicii. Dall'altro canto i
catolici, dovendosi rimuovere ogni pregiudicio, domandavano che fossero anco
da' protestanti purgati gli attentati e fossero restituiti i beni delle chiese
occupati. Replicarono i protestanti: i beni non esser stati occupati, ma con la
rinovazione della buona dottrina riapplicati a quei usi legitimi et onesti, a'
quali furono destinati nella prima instituzione, dalla quale avevano gli
ecclesiastici degenerato; e però essere necessario prima decidere i
ponti della dottrina che parlare de' beni; e crescendo le contenzioni,
Ferdinando concluse che s'instituisse una nuova forma non pregiudiciale ad
alcuno e trattassero i dottori d'ambe le parti in numero pari e fosse lecito al
pontefice mandarvi suoi noncii, et il colloquio fosse rimesso a principiarsi in
Vormazia il 28 d'ottobre seguente, sotto il beneplacito di Cesare. Accettarono
il decreto i protestanti, dichiarando che, quanto all'intervenire noncii, non
repugnavano, ma ben non intendevano che fosse per ciò attribuito alcuno
primato al papa, né autorità a loro.
[Il papa manda noncio in dieta il Vergerio e
la fa rompere per sua arte apppresso Cesare]
Cesare
confermò il decreto et ordinò la riduzzione, destinando suo
commissario a quel colloquio il Granvela, il quale andatovi insieme col vescovo
d'Arras, suo figliuolo, che fu poi cardinale, e tre teologi spagnoli, diede
principio facendo un raggionamento molto pio e molto apposito a componere le
differenzie; pochi giorni dopo arrivò Tomaso Campeggio, vescovo di
Feltre e noncio del pontefice: perché il papa, quantonque vedesse che ogni
trattazione di religione in Germania era perniciosa per le cose sue e per
ciò avesse fatto ogni diligenza per interrompere quel colloquio,
nondimeno riputava minor male l'acconsentirvi che il lasciarlo fare senza suo
volere. Il noncio, seguendo l'instruzzione del pontefice, nel suo ingresso fece
un ragionamento, dicendo che la quiete della Germania era stata procurata
sempre da' pontefici e massime da Paulo III, il quale per ciò aveva
intimato il concilio generale in Vicenza, se ben era stato sforzato differirlo
in altro tempo, per non vi esser andato alcuno, et al presente era deliberato
di nuovo intimarlo in luogo piú opportuno: nel quale, acciò là
fossero trattate con frutto le cose della religione, aveva concesso a Cesare
che si potesse tener un colloquio in Germania, che fosse come un preludio per
disponere alla risoluzione del concilio, et aveva mandato lui per intervenirvi
e coadiuvare. Però pregava tutti d'inviar ogni cosa alla concordia,
promettendo che il pontefice sarebbe per fare tutto quello che si potesse,
salva la pietà. Vi arrivò anco il vescovo di Capo d'Istria, di
sopra spesso nominato, il quale, se ben mandato dal pontefice, come molto
versato nell'intendere gli umori di Germania, intervenne però come
mandato da Francia, per meglio far il servizio del papa sotto nome alieno. Egli
fece stampare un'orazione che portava per soggetto l'unità e pace nella
Chiesa: la qual aveva per scopo di mostrare che per ottenere questo fine non
fosse buon mezo il concilio nazionale; e questa la distribuí a quanto piú
persone poté, ad effetto d'interromper quel colloquio, che ne aveva sembianza.
Si consumò gran tempo nel dar forma alla conferenza cosí quanto alla
secretezza, come quanto al numero de' dottori che dovessero parlare: e non
mancavano quelli che studiosamente protraevano il tempo, cosí per i diligenti
ufficii fatti dal noncio Campeggio, come per i maneggi segretti del Vergerio;
finalmente fu ordinato, che parlassero per la parte de' catolici Giovanni
Ecchio e per i protestanti Filippo Melantone, e la materia fosse del peccato
originale. Mentre che queste cose caminavano in Vormazia, il noncio pontificio
residente appresso Cesare non cessava di persuadere la Maestà Sua che
quel colloquio era per partorire qualche gran scisma, per far diventare tutta
la Germania luterana, e non solo levare l'ubedienza al Pontefice, ma anco
indebolire la sua; replicava de quei medesimi concetti usati dal Montepulciano
per impedire il colloquio determinato nella dieta di Francfort, e delli usati
dal cardinale Farnese per impedire quello d'Aganoa. Finalmente Cesare,
considerate quelle raggioni e gli aiuti datigli dal Granvela delle
difficoltà che incontrava, e pensando di far meglio l'opera esso in
propria persona, risolvé che il colloquio non procedesse piú inanzi. Perilché
avendo parlato 3 giorni Ecchio e Melantone, fu interrotto il colloquio, essendo
venute lettere da Cesare che richiamavano il Granvela e rimettevano il
rimanente alla dieta in Ratisbona.
[Cesare intima dieta in Ratisbona, e vi si
trova in persona. Il papa vi manda il cardinal Contarini]
Quella si
comminciò a congregare nel marzo 1541. Si ritrovò Cesare in persona
con speranza grandissima di dover terminare tutte le discordie et unire la
Germania in una religione. Per qual effetto aveva anco pregato il pontefice che
volesse mandar un legato, persona dotta e discreta, con amplissima
autorità, sí che non fosse stato bisogno mandar a Roma per cosa alcuna,
ma s'avesse potuto determinare là immediate tutto quello che dalla dieta
e dal legato fosse stato giudicato conveniente, dicendo che per ciò
aveva esaudite l'efficaci instanze fattegli dal noncio residente appresso sé
per interromper il colloquio di Vormazia.
Mandò
il pontefice legato Gasparo cardinale Contarini, uomo stimato di eccellente
bontà e dottrina; l'accompagnò anco con persone ben instrutte di
tutti gli interessi della corte, con notarii che dovessero far instromento di
tutte le cose che fossero trattate e dette; gli diede in commissione che se
presentisse trattarsi di far cosa in diminuzione della autorità
pontificia, interrompesse con propor il concilio generale, unico e vero
rimedio, e quando l'imperatore fosse sforzato a condescendere a' protestanti in
qualche cosa pregiudiciale, egli dovesse con l'autorità apostolica
proibirla, e se fosse fatta, condannarla e dichiararla irrita e partirsi dal
luogo della dieta, ma non dalla compagnia di Cesare.
Gionto il
legato in Ratisbona, la prima cosa che ebbe a fare con l'imperatore fu scusar
il pontefice che non gli avesse data quella amplissima autorità et
assoluta potestà che Sua Maestà desiderava. Prima, perché
è cosí annessa alle ossa del pontificato, che non può essere
concessa ad altra persona; poi ancora, perché non si trovano parole, né
clausule con quali si possi communicare dal pontefice l'autorità di
determinare le cose controverse della fede, essendo il privilegio di non poter
fallare donato alla sola persona del pontefice in quelle parole: «Ego rogavi
pro te, Petre». Ma ben che Sua Santità gli aveva data ogni
potestà di concordare co' protestanti, purché essi ammettino i
principii: che sono il primato della Sede apostolica, instituito da Cristo, et
i sacramenti, sí come sono insegnati nella Chiesa romana, e le altre cose
determinate nella bolla di Leone, offerendosi nelle altre cose di dar ogni
sodisfazzione alla Germania, ma pregando Sua Maestà che non volesse
ascoltare proposta di cosa, la quale non fosse conveniente concedere senza
saputa delle altre nazioni, acciò non si facesse nella
cristianità qualche divisione pericolosa. Delle cose che in quella dieta
passarono è necessario far particolare menzione, perché quella fu causa
principale che indusse il pontefice non tanto a consentire come prima, ma anco
a metter ogni spirito acciò il concilio si congregasse, et i protestanti
a certificarsi che né in concilio, né dove intervenisse ministro del papa
potevano sperare d'ottenere cosa alcuna.
Si comminciò
la prima azzione a 5 d'aprile, dove fu proposto, per nome di Cesare, come,
vedendo la Maestà Sua il turco penetrato nelle viscere di Germania, di
che ne era causa la divisione delli stati dell'Imperio per il dissidio della
religione, aveva sempre cercato via di pacificarla, et essendogli parsa
commodissima quella del concilio generale, era andato a posta in Italia per
trattarne con Clemente; e dopo, non avendo potuto condurlo ad effetto, era
tornato et andato in persona a Roma per trattarne con Paolo; il quale anco si
era mostrato pronto, ma non avendosi potuto effettuare per varii impedimenti
della guerra, finalmente aveva convocata quella dieta e ricercato il pontefice
di mandarci un legato. Ora non desiderare altro, se non che qualche
composizione si mandi ad effetto e che da ambe le parti sia eletto qualche
picciol numero d'uomini pii e dotti e, conferito amicabilmente sopra le cose
controverse senza pregiudicio d'alcuna delle parti, propongano in dieta i modi
della concordia, acciò, deliberato il tutto col legato, si possa venir
alla desiderata conclusione. Nel modo d'eleggere questi trattatori fu subito
controversia tra i catolici et i protestanti. Perilché Cesare desideroso che
qualche ben si facesse, domandò et ottenne dall'una parte e dall'altra
che concedessero a lui di nominare le persone e si confidassero che non farebbe
se non cosa di beneficio commune. Elesse per i catolici Giovanni Ecchio, Giulio
Flugio e Giovanni Gropero, e per i protestanti Filippo Melantone, Martino
Bucero e Giovanni Pistoria: i quali chiamò a sé e con gravissime parole
gli ammoní a dar bando agli affetti et aver mira alla gloria di Dio. Prepose al
colloquio Federico, prencipe palatino, et il Granvela, aggiontovi alcuni altri
per intervenirvi, acciò il tutto passasse con maggior degnità.
[Cesare fa presentar un libro di concordia,
del quale alcuni articoli sono approvati]
Congregato il
colloquio, Granvela messe fuora un libro, dicendo essere stato dato a Cesare
d'alcuni uomini pii e dotti come buono per la futura concordia et essere
volontà di Cesare che lo leggessero et essaminassero, dovendogli servire
come argomento e materia di quello che dovevano trattare, e che quello che
piacesse a tutti, fosse confermato, quello che dispiacesse, corretto, e dove
non convenissero, si procurasse di ridursi a concordia. Conteneva il libro 22
articoli: della creazione dell'uomo et integrità della natura, del
libero arbitrio, della causa del peccato originale, della giustificazione,
della Chiesa e suoi segni, de' segni della parola di Dio, della penitenzia dopo
il peccato, dell'autorità della Chiesa, dell'interpretazione della
Scrittura, de' sacramenti, del sacramento dell'ordine, del battesmo, della
confermazione, dell'eucaristia, della penitenzia, del matrimonio, dell'estrema
onzione, della carità, della ierarchia ecclesiastica, delli articoli
determinati dalla Chiesa, dell'uso et amministrazione e ceremonie de'
sacramenti, della disciplina ecclesiastica, della disciplina del popolo. Fu
letto et essaminato, et alcune cose furono approvate et altre per commun
consenso corrette; in altre non potero convenire. E queste furono: nel 9 della
potestà della chiesa, nel 14 del sacramento della penitenzia, nel 18
della ierarchia, nel 19 delli articoli determinati dalla chiesa, nel 21 del celibato;
dove restarono differenti, l'una e l'altra parte scrisse il suo parere.
Il che fatto,
nel consesso de tutti i prencipi, Cesare portò le cose convenute et i
pareri differenti de' collocutori, ricercando il parere di tutti et insieme
proponendo l'emendazione dello stato della republica, cosí civile, come
ecclesiastica. I vescovi rifiutarono affatto il libro della concordia e tutta
l'azzione del colloquio: a' quali non consentendo gli altri elettori e prencipi
catolici desiderosi della pace, fu concluso che Cesare, come avvocato della
Chiesa, col legato apostolico essaminasse le cose concordate e, se alcuna cosa
fosse oscura, la facesse esplicare, e trattasse poi co' protestanti che nelle
cose controverse consentissero a qualche cristiana forma di concordia. Cesare
communicò il tutto col legato e fece instanzia che si dovesse riformare
lo stato ecclesiastico. Il legato considerate tutte le cose, diede una risposta
in scritto, non meno chiara degli antichi oracoli, in questa forma,
cioè: che avendo visto il libro presentato all'imperatore e le cose
scritte dalli deputati del colloquio, cosí concordamente con le apostille
dell'una e dell'altra parte, come anco le eccezzioni de' protestanti, gli
pareva che, essendo li protestanti differenti in alcuni articoli dal commun
consenso della Chiesa, ne' quali però non disperava che con l'aiuto di
Dio non fossero per consentire, non si dovesse ordinar altro circa il
rimanente, ma rimettere al sommo pontefice et alla Sede apostolica; il quale, o
nel concilio generale che presto si farà, o in altro modo, se
bisognerà, potrà deffinirle secondo la verità catolica, e
determinare, avuto risguardo a' tempi et a quello che fosse espediente per la
republica cristiana e per la Germania.
Ma quanto
alla riforma dello stato ecclesiastico, si offerí prontissimo, et a questo fine
congregò in casa sua tutti i vescovi e fece loro una longhissima
essortazione. Prima, quanto al modo del vivere, che si guardassero da ogni
scandalo et apparenzia di lusso, avarizia, overo ambizione; quanto alla famiglia
loro, sapessero che da quella il popolo fa congiettura de' costumi del vescovo;
che per custodir il loro grege dimorassero ne' luoghi piú abitati della diocese
e nelli altri luoghi avessero fedeli esploratori, visitassero le diocesi,
conferissero i beneficii a uomini da bene et idonei, dispensassero le rendite
episcopali ne' bisogni de' poveri, fuggendo non solo il lusso, ma il soverchio
splendore; provedessero de predicatori pii e dotti e discreti e non
contenziosi; procurassero che la gioventú fosse ben instituita, vedendosi che i
protestanti per questo tirano a sé tutta la nobiltà. Ridusse in scritto
questa orazione e la diede a Cesare, a' vescovi et a' prencipi; il che fu
occasione a' protestanti di tassare insieme la risposta data a Cesare e l'essortazione
fatta a' prelati: allegando per causa del motivo loro che, essendo publicato il
scritto, parerebbe, dissimulando, che l'approvassero. Non piacque manco a'
catolici la risposta data a Cesare, parendo che approvasse le cose concordate
nel colloquio.
[Cesare propuone che si ricevano gli articoli
concordati fin al concilio]
Ma
l'imperatore diede parte in publica dieta di tutto quello che sino allora era
fatto e communicò le scritture del legato, e concluse che avendo usato
tutte le diligenzie possibili, non vedeva che altra cosa si potesse far di piú,
fuor che deliberare se, salvo il recesso della dieta d'Augusta, si doveva
ricever gli articoli concordati in questa conferenza come cristiani, né
mettergli piú in disputa, almeno sino al concilio generale che presto si
tenerà, come pareva anco esser l'opinione del legato; overo, non
facendosi il concilio, sino ad una dieta, dove però siano essattamente
trattate tutte le controversie della religione.
Dalli
elettori fu risposto, approvando indubitatamente per buono et utile che gli
articoli accordati nel colloquio siano ricevuti da tutti sino al tempo del
concilio, nel quale si potranno di nuovo essaminare; overo, in difetto di
quello, in un concilio nazionale o in una dieta, dovendo questo servire ad
introdur una piú perfetta riconciliazione negli altri articoli non concordati.
Ma ancora pregar Sua Maestà a voler passar piú inanzi, se vi fosse
speranza di concordar altro di piú in quella dieta; e se l'opportunità
nol permetteva, lodavano molto il trattar col pontefice et operar che quanto
prima si congregasse in Germania un concilio generale overo nazionale con sua
buona grazia, per stabilir totalmente l'unione. L'istessa risposta fecero i
protestanti, solo dichiarandosi che, sí come desideravano un libero e cristiano
concilio in Germania, cosí non potevano consentire in uno dove il papa et i
suoi avessero la potestà di conoscere e giudicare le cause della
religione. Ma i vescovi insieme con alcuni pochi prencipi catolici altramente
risposero: prima confessando che in Germania e nelle altre nazioni erano molti
abusi, sette et eresie che non potevano esser estirpate senza un concilio
generale; aggiongendo che non potevano acconsentire ad alcuna mutazione di
religione, ceremonie e riti, poiché il legato ponteficio offerisce il concilio
tra breve tempo, e Sua Maestà è per trattarne con Sua
Santità; ma quando il concilio non si potesse celebrare, pregavano che
il pontefice e Cesare volessero ordinare un concilio nazionale in Germania, il
che, se non piacesse loro, di nuovo si dovesse congregar una dieta per estirpar
gli errori; essendo essi determinati d'aderir alla vecchia religione secondo
che è contenuta nella Scrittura, concilii, dottrina de' padri et anco
ne' recessi imperiali, e massime in quello d'Augusta. Che non consentiranno mai
che siano ricevuti gl'articoli concordati nel colloquio, per esser alcuni
d'essi superflui, come i quattro primi, e perché vi sono forme di parlar in
quelli non conformi alla consuetudine della Chiesa; oltre anco alcuni dogmi,
parte dannabili, parte da essere temperati; et ancora perché gli articoli
accordati sono di minor momento e gli importanti restano in discordia, e perché
i catolici del colloquio avevano concesso troppo a' protestanti, d'onde veniva
lesa la riputazione del sommo pontefice e delli Stati catolici; concludevano
essere meglio che gli atti del colloquio fossero lasciati al suo luogo e tutto
il pertinente alla religione differito al concilio generale o nazionale, o alla
dieta. A questa risposta de' catolici diede occasione non solo il parer a loro
che la proposta di Cesare fosse molto avvantaggiosa per i protestanti, ma
ancora perché i tre dottori catolici del colloquio erano entrati in differenza
tra loro.
[Il Contarini vuole ch'el tutto si rimetta al
papa e contradice ad ogni concilio nazionale]
Ma il legato,
inteso come Cesare l'aveva nominato per consenziente allo stabilimento delle
cose concordate, cosí per proprio timore, come spinto dalle instanze degli
ecclesiastici della dieta, andò a Cesare e si querelò che fosse
stata mal interpretata la sua risposta e che fosse incolpato d'aver consentito
che le cose concordate si tolerassero sino al concilio; che la mente sua era
stata che non si risolvesse cosa alcuna, ma ogni cosa si mandasse al papa: il
qual prometteva in fede di buon pastore et universale pontefice di fare che il
tutto fosse determinato per un concilio generale o per altra via equivalente
con sincerità e senza nissun affetto umano; non con precipizio, ma
maturamente, avendo sempre mira al servizio di Dio. Sí come la Santità
Sua nel principio del pontificato per questo medesimo fine aveva mandate
lettere e noncii a' prencipi per celebrar il concilio, e poi intimatolo e
mandato al luogo i suoi legati; e che se aveva sopportato che in Germania tante
volte s'avesse parlato delle cose della religione con poca riverenzia
dell'autorità sua, alla quale sola aspetta trattarle, l'aveva fatto per
essergli dalla Maestà Sua data intenzione e promesso che ciò si
faceva per bene: esser cosa contra ogni ragione volere la Germania, con
ingiuria della Sede apostolica, assumersi quello che è di tutte le
nazioni cristiane. Perilché non è d'abusar piú la clemenzia del
pontefice, concludendo in una dieta imperiale quello che tocca al papa et alla
Chiesa universale; ma mandare il libro e tutta l'azzione del colloquio, insieme
co' pareri d'una parte e d'altra a Roma, et aspettar dalla Santità Sua
la deliberazione. E non sodisfatto di questo, publicò una terza scrittura,
la quale conteneva che, essendo stata data varia interpretazione alla scrittura
sua, data alla Maestà Sua Cesarea, sopra il trattato del colloquio,
interpretandola alcuni come se avesse consentito che si dovessero osservare
sino al concilio generale gli articoli concordati, et intendendo altri che egli
avesse rimesso al pontefice e quelli e tutte le altre cose, acciò in
questa parte non restasse alcuna dubitazione, dichiara non aver avuto
intenzione con la scrittura decidere alcuna cosa in questo negozio, né che
alcun articolo fosse ricevuto o tolerato sino al futuro concilio, e che meno
allora lo decideva o diffiniva, ma che ha rimesso al sommo pontefice tutto 'l
trattato, e tutti gli articoli di quello, sí come ancora gli rimetteva: il che
avendo dichiarato alla Cesarea Maestà in voce, voleva anco dichiararlo e
confirmarlo a tutto 'l mondo con scrittura.
E non
contento di questo, ma considerando che il voto de tutti i prencipi catolici,
eziandio delli ecclesiastici, concordava in domandar concilio nazionale, e che
nell'instruzzione sua aveva avuta strettissima commissione dal pontefice di
opponersi quando di ciò si trattasse, se ben lo volessero fare con
autorità pontificia e con presenza de legati apostolici, e che mostrasse
quanto sarebbe in pernicie delle anime e con ingiuria dell'autorità
pontificia, alla quale venirebbe levata la potestà, che Dio gli ha data,
per concederla ad una nazione, che raccordasse all'imperatore quanto egli
medesimo avesse detestato il concilio nazionale, essendo in Bologna, conoscendolo
pernicioso all'autorità imperiale; poiché i sudditi, preso animo dal
vedersi concessa potestà di mutare le cose della religione, pensarebbono
anco a mutare lo Stato, e che Sua Maestà, dopo il 1532, non volse mai
piú celebrar in sua presenza dieta imperiale per non dar occasione di domandar
concilio nazionale; fece il cardinale diligentissimamente l'ufficio con Cesare
e con ciascuno de' prencipi, et oltre ciò publicò una altra
scrittura indrizzata a' catolici, in quella dicendo: aver considerato
diligentemente di quanto pregiudicio fosse se le controversie della fede si
rimettessero al concilio d'una nazione, et aver giudicato esser ufficio suo di
ammonirgli che onninamente dovessero levar via quella clausula, essendo cosa
manifestissima che nel concilio nazionale non si ponno determinare le
controversie della fede, concernendo questo lo stato universale della Chiesa, e
se alcuna cosa fosse determinata in quello, sarebbe nulla, irrita e vana; il
che, se essi avessero levato, come egli si persuadeva, sí come sarebbe
gratissimo alla Santità del pontefice, che è capo della Chiesa e
de tutti i concilii, cosí non lo facendo, gli sarebbe molestissimo; essendo
cosa chiara che in questo modo sarebbono per nascere maggiori sedizioni nelle
controversie della religione, cosí nelle altre nazioni, come in quella
nobilissima provincia; che non aveva voluto tralasciare questo ufficio per
obedire all'instruzzione di Sua Santità e per non mancare al carico
della legazione impostagli.
A questa
scrittura del legato risposero i prencipi ch'era in potestà d'esso di
rimediare e prevenire tutti gli inconvenienti che potessero nascere, operando
con Sua Santità che il concilio universale fosse intimato e celebrato
senza piú longa procrastinazione; che cosí li levarebbe ogni occasione di
concilio nazionale, il che tutti li stati dell'Imperio desiderano e pregano; ma
se il concilio generale, tante volte promesso et anco finalmente da lui, non si
riducesse ad effetto, la manifesta necessità della Germania ricercava
che le controversie fossero determinate in uno concilio nazionale o in una
dieta imperiale, con l'assistenza d'un legato apostolico. I teologi protestanti
con una longa scrittura risposero essi ancora, dicendo che non potevano nascer
né maggiori sedizioni, né sedizione alcuna, quando le controversie della
religione saranno composte secondo la parola di Dio, e che i manifesti vizii
saranno corretti secondo la dottrina della Scrittura e gli indubitati canoni
della Chiesa; che ne' tempi passati mai è stato negato a' concilii
nazionali determinare della fede, avendo avuto promessa da Cristo della sua
assistenza, quando fussero due o tre soli congregati nel nome suo. Esservene
numero grande de concilii, non solo nazionali, ma anco di pochissimi vescovi,
che hanno determinato le controversie e fatto instituzioni de' costumi della
Chiesa in Soria, Grecia, Africa, Italia, Francia e Spagna, contra gli errori di
Samosateno, Arrio, Donatisti, Pelagio et altri eretici; le determinazioni de'
quali non si possono dire nulle, irrite e vane, senza impietà. Essere
ben stato concesso alla sedia romana che fosse la prima, et al vescovo di Roma
che fosse tra i patriarchi di prerogativa autorità; ma che sia stato
chiamato capo della Chiesa e de' concilii non trovarsi appresso alcun padre.
Cristo solo è capo della Chiesa; Paulo, Apollo e Ceffa sono ministri
d'essa. Che qual cosa possino aspettar da Roma, la disciplina che vi si osserva
già tanti secoli e la tergiversazione al celebrare un legitimo concilio
lo mostrano.
Ma Cesare,
dopo longa discussione, a 28 di luglio fece il recesso della dieta, rimettendo
ogni azzione del colloquio al concilio generale o alla sinodo nazionale di
Germania, overo ad una dieta dell'Imperio. Promise d'andare in Italia e di
trattar col pontefice del concilio, il quale non potendo ottenere, né generale,
né nazionale, tra 18 mesi intimerebbe una dieta dell'Imperio per assettare le
cose della religione, operando che il pontefice vi mandi un legato.
Commandò a' protestanti di non ricevere nuovi dogmi, se non i concordati,
et a' vescovi, che riformassero le loro chiese. Commandò che non fossero
destrutti li monasterii, né occupati li beni delle chiese, né sollicitato
alcuno a mutare religione. E per dar maggior sodisfazzione a' protestanti
aggionse che, quanto a dogmi non ancora accordati, non gli prescriveva cosa
alcuna; quanto a monasterii de' monachi, che non si dovevano destruggere, ma
ben ridurli ad una emendazione pia e cristiana; che i beni ecclesiastici non si
dovessero occupare, ma fossero lasciati a' ministri, senza avere risguardo di
diversità di religione; che non si possa sollecitar alcuno a mutare
religione, ma ben potessero essere ricevuti quelli che spontaneamente vorranno
mutarla. Sospese ancora il recesso d'Augusta, quanto s'aspetta alla religione et
alle cose che da quello derivano, sino che nel concilio o in dieta le
controversie fossero determinate.
[Cesare abboccatosi col papa, convengono di
tenere il concilio a Vicenza, poi in Trento]
Finita la
dieta, Cesare passò in Italia, et in Lucca ebbe raggionamento col
pontefice sopra il concilio e sopra la guerra de' turchi, e restarono in
conclusione che la Santità Sua per ciò mandasse un noncio in
Germania per prendere risoluzione nell'una e nell'altra materia nella dieta che
doveva esser in Spira nel principio dell'anno seguente, e che il concilio si
facesse in Vicenza, sí come già fu appontato. Significò il papa
la conclusione al senato veneto, al quale non pareva piú per diversi aspetti
essere a proposito che concorresse in quella città tanta moltitudine, e
che si trattasse della guerra de' turchi, come s'averebbe al sicuro fatto, o
con fine di farla in effetto, o per bella apparenza solamente. Laonde rispose
che, per l'accordo fatto da loro nuovamente col Turco, variati i rispetti, non
potevano restare nella stessa deliberazione: perché si sarebbe generato nella
mente di Solimano sospetto che procurassero di far congiurar i prencipi
cristiani contra lui. Onde convenne al papa far altro dissegno. Ma il cardinale
Contarini partí molte calonnie nella corte romana, ove era nata opinione che
egli avesse qualche affetto alle cose luterane; e quelli che meno male
parlavano di lui dicevano che non si era opposto quanto conveniva e che aveva
messo in pericolo l'autorità ponteficia. Il papa non si tenne servito di
lui, se ben era difeso con tutti li spiriti dal cardinale Fregoso. Ma ritornato
al pontefice che si ritrovava in Lucca, aspettando quivi l'imperatore, e reso
conto della legazione, gli diede sodisfazzione pienissima.
In questo
stato di cose finí l'anno 1541, e nel seguente mandò il pontefice a
Spira (dove in presenzia di Ferdinando la dieta si teneva) Giovanni Morone,
vescovo di Modena, il quale, seguendo la commissione datagli quanto al
concilio, espose la mente del pontefice essere la medesima che per il passato:
cioè che il concilio pur una volta si facesse; che l'aveva sospeso con
volontà di Cesare per aprire inanzi qualche adito di concordia in
Germania, la quale vedendo essere stata vanamente tentata, egli ritornava alla
deliberazione di prima, di non differire la celebrazione. Ma quanto al
congregarlo in Germania, non si poteva compiacergli, perché egli voleva
intervenirvi personalmente, e la età sua e la longhezza della strada e
la mutazione tanto diversa dell'aria ostava al trasferirsi in quella regione,
la quale non pareva manco commoda alle altre nazioni; senza che vi era gran
probabilità di temere che in Germania non si potessero trattare le cose
senza torbulenzia; per il che gli pareva piú a proposito Ferrara o Bologna o
Piacenza, città tutte grandi et opportunissime; quali, quando non
piacessero a loro, si contentava di farlo in Trento, città a' confini di
Germania. Che averebbe voluto darci principio alla pentecoste, ma per
l'angustia del tempo l'aveva allongato a' 13 d'agosto. Pregava tutti di voler
convenire in questo e, deposti gli odii, trattare la causa di Dio con
sincerità. Ferdinando et i prencipi catolici ringraziarono il pontefice
dicendo che, non potendo ottenere un luogo atto in Germania, come sarebbe
Ratisbona o Colonia, si contentavano di Trento. Ma i protestanti negarono di
consentire, né che il concilio fosse intimato dal pontefice, né che il luogo
fusse Trento: il che fu causa che in quella dieta, quanto al concilio, non si
fece altra determinazione.
Con tutto
ciò il pontefice mandò fuora la bolla dell'intimazione sotto li
22 maggio di questo anno; nella quale, commemorato il desiderio suo di
provedere a' mali della cristianità, diceva avere continuamente pensato
a' rimedii; né trovandosene piú opportuno che la celebrazione del concilio,
venne in ferma risoluzione di congregarlo; e fatta menzione della convocazione
mantovana, poi della sospensione, e passato alla convocazione vicentina, et
all'altra sospensione fatta in Genova, e finalmente di quella a beneplacito,
passò a narrare le raggioni che l'avevano persuaso a continuare la
stessa sospensione sino allora. Le quali furono: la guerra di Ferdinando in
Ongaria, la ribellione di Fiandria contra Cesare e le cose seguite per la dieta
di Ratisbona, aspettando che fosse il tempo destinato da Dio per questa opera.
Ma finalmente, considerando che ogni tempo è grato a Dio, quando si
tratta di cose sante, era risoluto di non aspettare piú altro consenso de'
prencipi, e non potendo avere piú Vicenza, ma desiderando dare sodisfazzione,
quanto al luogo, alla Germania, intendendo che essi desideravano Trento,
quantonque a lui paresse maggiormente commodo un luogo piú dentro Italia,
nondimeno per paterna carità inchinò la propria volontà
alle loro domande, et elesse Trento per celebrarvi il concilio ecumenico al
primo di novembre prossimo, interponendo quel tempo, accioché il suo decreto
potesse essere publicato et i prelati avessero spacio d'arrivare al luogo.
Perilché per l'autorità del Padre, Figliuolo e Spirito Santo e degli
apostoli Pietro e Paolo, la qual esso essercita in terra, col conseglio e
consenso de' cardinali, levata qualonque sospensione, intima il sacro ecumenico
e generale concilio in quella città, luogo commodo e libero et opportuno
a tutte le nazioni, da essere principiato al primo di quel mese, proseguito e
terminato; chiamando tutti i patriarchi, arcivescovi, vescovi, abbati, e tutti
quelli che per legge o privilegio hanno voto ne' concilii generali, e
commandandogli in virtú del giuramento prestato a lui et alla Sede apostolica e
per santa ubedienzia, e sotto le pene della legge e consuetudine contra gli
inobedienti, che debbiano ritrovarvisi; e se saranno impediti, fare fede
dell'impedimento, o mandare procuratori; pregando l'imperatore, il re
cristianissimo e gli altri re, duchi e prencipi d'intervenirvi, o, essendo
impediti, mandar ambasciatori uomini di gravità et autorità, e
fare venire da' suoi regni e provincie i vescovi e prelati: desiderando questo
piú da' prelati e prencipi di Germania, per causa de' quali il concilio
è intimato nella città desiderata da loro, accioché si possan
trattare le cose spettanti alla verità della religione cristiana, alla
correzione de' costumi et alla pace e concordia de' popoli e prencipi
cristiani, et all'oppressione de' barbari et infideli.
[Guerra tra Cesare e 'l re di Francia]
Fu mandata da
Roma immediate la bolla a tutti i prencipi, la quale poco opportunamente uscí.
Perché nel mese di luglio il re Francesco di Francia, denonciata la guerra a
Cesare con parole atroci, e publicata ancora con un libro mandato fuora, la
mosse tutto in un tempo in Brabanzia, Lucemburgo, Ronciglione, Piemonte et in
Artois.
Cesare,
ricevuta la bolla del concilio, rispose al papa non essere sodisfatto del
tenore di quella; imperoché non avendo egli mai ricusato alcuna fatica, né
pericolo, overo spesa acciò il concilio si facesse, per il contrario,
avendosi il re di Francia adoperato sempre per impedirlo, gli pareva cosa
strana che in quella bolla gli fosse comparato et ugualiato, e narrate tutte le
ingiurie che pretendeva avere ricevute dal re, vi aggionse anco che nell'ultima
dieta di Spira s'aveva adoperato per mezo de' suoi ambasciatori per nutrire le
discordie della religione, promettendo separatamente all'una parte et all'altra
amicizia e favore. In fine rimesse alla Santità Sua il pensare se le
azzioni di quel re servivano per rimediare a' mali della republica cristiana e
per principiare il concilio, il quale sempre aveva attraversato per sua
utilità privata et aveva costretto esso, che se n'era avveduto, a trovar
altra strada per reconciliare le cose della religione. Dovere per tanto la
Santità Sua imputare a quel re, e non a lui, se il concilio non si
celebrarà, e volendo aiutare il publico bene, dichiararseli nemico,
essendo questo mezo unico per venir a fine di fare il concilio, stabilire le
cose della religione e ricuperare la pace.
Il re, come
presago delle imputazioni che gli sarebbono date, d'avere mosso una guerra con
detrimento della religione et impedimento del divino servizio che si poteva
aspettar dal concilio, aveva prevenuto con la publicazione d'un editto contra i
luterani, commandando a' parlamenti l'inviolabile essecuzione, con severi
precetti che fossero denonciati quei che avessero libri alieni dalla Chiesa
romana, che si congregassero in secreti conventicoli, i transgressori de'
commandamenti della Chiesa, e specialmente che non osservassero la dottrina de'
cibi, overo usassero orazione in altra lingua che latina; commandando a'
sorbonisti d'essere, contra tutti questi, diligentissimi esploratori. Poi,
fatto conscio dell'arteficio di Cesare, che per ciò tentava incitargli
contra il pontefice, per rimedio sollecitava che con effetti si procedesse
contra i luterani e commandò che in Parigi s'instituisse una formula di
scoprirli et accusarli, proposto anco pene a chi non gli manifestasse e premii
a' denonciatori. Avuto poi piena notizia di quanto Cesare aveva scritto al
pontefice, gli scrisse ancora una longa lettera apologetica per sé, et
invettiva contra Cesare: primieramente rinfaciandogli la presa e sacco di Roma,
e la derisione aggionta al danno col fare processioni in Spagna per la
liberazione del papa che egli teneva prigione; discorse per tutte le cause
d'offese tra sé e Cesare, imputando a lui ogni cosa. Concluse non potersi
ascrivere a lui che il concilio di Trento fosse impedito o ritardato, essendo
cosa da che non gliene veniva alcuna utilità et era molto lontana dagli
essempii di suoi maggiori, i quali immitando, metteva ogni suo spirito a
conservare la religione, come ben dimostravano gli editti et essecuzioni
ultimamente fatte in Francia. Perilché pregava la Santità Sua di non
dare fede alle calonnie e rendersi certo di averlo sempre pronto in tutte le
cause sue e della Chiesa romana.
[Il papa cerca di pacificargli, et invia suoi
legati a Trento]
Il pontefice,
per non pregiudicare all'ufficio di padre commune, da precessori suoi sempre
ostentato, destinò ad ambedue i prencipi legati per introdurre trattato
di pacificazione, il cardinale Contarini a Cesare et il Sadoleto al re di
Francia, a pregarli di rimetter l'ingiurie private per rispetto della causa
publica e pacificarsi insieme, accioché le loro discordie non impedissero la
concordia della religione; et essendo quasi immediate passato ad altra vita il
Contarini, vi sostituí il cardinale Viseo con maraviglia della corte, perché
quel cardinale non aveva la grazia di Cesare, a cui era mandato. E con tutto
che la guerra ardesse in tanti luoghi, il pontefice, riputando che se non
proseguiva il negozio del concilio, interessava molto la sua riputazione, sotto
li 26 agosto di questo anno 1542 mandò a Trento per legati suoi alla
sinodo intimata i cardinali Pietro Paolo Parisio, Giovanni Morone e Reginaldo
Polo; il primo come dotto e prattico canonista, il secondo intendente de'
maneggi, il terzo a fine di mostrare che, se ben il re d'Inghilterra era
alienato dalla soggezzione romana, il regno però aveva gran parte in
concilio. A questi spedí il mandato della legazione e commesse che si ritrovassero
e trattenessero i prelati e gli ambasciatori che vi fossero andati non facendo
però azzione alcuna publica sino che non avessero ricevuta
l'instruzzione che egli gli averebbe inviato a tempo opportuno.
L'imperatore
ancora, intesa la deputazione de' legati, non con speranza che in quel stato di
cose potesse riuscire alcun bene, ma acciò dal pontefice non fosse
operato alcuna cosa in suo pregiudicio, vi mandò ambasciatori don Diego,
residente per lui in Venezia, e Nicolò Granvela, insieme con Antonio, vescovo
d'Arras, suo figliuolo, et alcuni pochi vescovi del regno di Napoli. Et il
pontefice, oltre i legati, inviò anco alcuni vescovi de' piú fedeli,
ordinando però che lentamente vi si incaminassero. Arrivarono cosí i
ponteficii, come gli imperiali, a tempo determinato. E questi presentarono a'
legati il mandato imperiale: fecero instanza che il concilio si aprisse e fosse
dato principio alle azzioni. Interposero i legati dilazione con dire che non
era degnità incomminciare un concilio con sí poco numero, massime
dovendo trattare articoli di tanta importanza, come quelli che da' luterani
erano rivocati in dubio. I cesarei replicavano che si poteva ben trattare la
materia di riforma, che era piú necessaria, né soggetta a tante
difficoltà, e gli altri allegando che conveniva applicare quella all'uso
di diverse regioni, onde era piú necessario in essa l'intervento di tutti. In
fine passarono a proteste, alle quali non rispondendo i legati, ma rimettendo
la risposta al papa, non si faceva conclusione alcuna.
Approssimandosi
il fine dell'anno, ordinò l'imperatore al Granvela d'andare alla dieta,
che nel principio del seguente si doveva tenere in Noremberga, con ordine a don
Diego di restar in Trento et operare che al concilio fosse dato principio,
overo almeno che i congregati non si disunissero, per valersi di quell'ombra di
concilio nella dieta. Il Granvela in Noremberga propose la guerra contra i
turchi e di dar aiuti a Cesare contra il re di Francia. I protestanti
replicarono, domandando che si componessero le differenze della religione e si
levassero le oppressioni che i giudici camerali usavano contra di loro sotto
altri pretesti, se ben in verità per quella causa; a che rispondendo
Granvela che ciò non si poteva, né doveva fare in quel luogo e tempo,
essendo già congregato per ciò il concilio in Trento, ma riusciva
l'escusazione vana, non approvando i protestanti il concilio e dicendo chiaro
di non volere intervenirvi. La dieta ebbe fine senza conclusione, e don Diego
tornò all'ambasciaria sua a Venezia, quantonque i legati facessero
instanzia che, per dare riputazione al negozio, si trattenesse sino che dal
pontefice avessero risposta.
[Il convento tridentino si dilegua, e 'l papa
s'abbocca con Cesare a Busseto per fini privati]
Partito
l'ambasciatore cesareo, seguirono i vescovi imperiali, e licenziati gli altri
sotto diversi colori, finalmente i legati, dopo esservi stati sette mesi
continui senza alcuna cosa fare, furono dal pontefice richiamati. E fu questo
il fine di quella congregazione. Dovendo essere Cesare di breve in Italia,
partito di Spagna per mare, a fine d'andar in Germania, dissegnava il pontefice
d'abboccarsi con lui in qualche luogo, e desiderava che ciò fosse in
Bologna: et a questo effetto mandò Pietro Aloisio, suo figliuolo, a
Genova ad invitarlo. Ma non volendo l'imperatore uscire di strada, né perdere
tempo in viaggio, mandò il cardinale Farnese ad incontrarlo e pregarlo
di far la via di Parma, dove il pontefice avesse potuto aspettarlo. Ma poi,
essendo difficoltà, come l'imperatore potesse entrare in quella
città, il 21 giugno del 1543 si ritrovarono ambedue in Busseto, castello
de' Pallavicini, posto sopra la riva del Taro, tra Parma e Piacenza. I fini
dell'uno e dell'altro non comportarono che il negozio del concilio e della religione
fosse il principale trattato tra loro. Ma l'imperatore, essendo tutto volto a'
pensieri contra il re di Francia, procurava di concitargli il papa et avere da
lui danari per la guerra. Il pontefice, valendosi dell'occasione, era tutto
intento ad ottenere Milano per i nepoti suoi, a che era per proprio interesse
aiutato da Margarita, figliuola naturale di Cesare, maritata in Ottavio
Farnese, nepote del papa, e per ciò fatta duchessa di Camerino.
Prometteva il pontefice a Cesare di collegarsi con lui contra il re di Francia,
fare molti cardinali a sua nominazione, pagargli per alcuni anni 150 mila
scudi, lasciandogli anco in mano i castelli di Milano e di Cremona. Ma
richiedendo gli imperiali un millione di ducati di presente et un altro in
termini non molto longhi, non potendosi concludere allora, né potendosi Cesare
trattenere piú longamente, fu rimesso di continuare la trattazione per mezo de'
ministri ponteficii che seguirebbono l'imperatore. Del concilio Cesare si
mostrò sodisfatto che con la missione de' legati e con l'andata di quei
pochi prelati i catolici di Germania almeno avessero conosciuto la pronta
volontà; e perché gli impedimenti si potevano imputare al re di Francia,
concluse che non era da pensare che rimedio usare, sino che fosse veduto l'incaminamento
di quella guerra. Si partirono con gran dimostrazioni di scambievole
sodisfazzione, restando però il pontefice in sé medesimo dubioso se
l'imperatore era per dargli sodisfazzione; onde incomminciò a voltare
l'animo al re di Francia.
[Cesare si collega con Inghilterra, e 'l papa
con Francia]
Ma mentre sta
in queste ambiguità, si publicò la lega tra l'imperatore et il re
d'Inghilterra contra Francia: la quale necessitò il papa ad alienarsi
affatto dall'imperatore, imperoché vidde quanto offendesse quella lega
l'autorità sua, essendo contratta con un scommunicato, anatematizato da
lui e maledetto, destinato alla eterna dannazione e scismatico, privato d'ogni
regno e dominio, con annullazione d'ogni confederazione con qual si voglia
contratta, contra il quale anco per suo commandamento tutti i prencipi
cristiani erano obligati mover le arme, e quello che piú di tutto importa, che
restando sempre piú contumace e sprezzando eziandio con aperte parole
l'autorità sua, che questo mostrava evidentemente al mondo, l'imperatore
non avere a lui rispetto alcuno, né spirituale, né temporale, e dava essempio
ad ogni altro di non tenere conto alcuno dell'autorità sua; e tanto
maggiore gli pareva l'affronto, quanto per gli interessi dell'imperatore e per
farli piacere, Clemente, che averebbe potuto con gran facilità
temporeggiare in quella causa, aveva proceduto contra quel re, del rimanente
ben affetto e benemerito della Sede apostolica. A queste offese poneva il papa
nell'altra bilancia che il re di Francia aveva fatto tante leggi et editti di
sopra narrati per conservare la religione e la sua autorità; a quali
s'aggiongeva che al primo d'agosto i teologi parisini a suono di tromba,
congregato il popolo, publicarono i capi della dottrina cristiana,
Ma
l'imperatore a cui notizia erano andate le querele del papa, rispondeva che
avendo il re di Francia fatta confederazione col Turco a danno de cristiani,
come bene mostrava l'assedio posto a Nizza di Provenza dall'armata ottomana,
guidata dal Polino, ambasciatore del re, e le prede fatte nelle riviere del
regno, a lui era stato lecito per diffesa valersi del re d'Inghilterra,
cristiano se ben non riconosce il papa, sí come anco, con buona grazia del
medesimo pontefice, egli e Ferdinando si valevano degli aiuti de' protestanti
piú alieni dalla Sede apostolica che quel re; che averebbe dovuto il papa,
intesa quella collegazione di Francia col Turco, procedere contra lui; ma
vedersi bene la differenza usata: perché l'armata de' turchi, che tanti danni
aveva portati a tutti i cristiani per tutto dove transitato aveva, era passata
amichevolmente per le riviere del papa; anzi, che essendo andata ad Ostia a far
acqua la notte di san Pietro et essendo posta tutta Roma in confusione, il
cardinale de Carpi, che per nome del papa assente commandava, fece fermare
tutti, sicuro per l'intelligenza che aveva co' turchi.
La guerra e
queste querele posero in silenzio per questo anno le trattazioni di concilio;
le quali però ritornarono in campo il seguente 1544, fatto principio
nella dieta di Spira; dove Cesare, avendo commemorato le fatiche altre volte
fatte da lui per porgere rimedio alle discordie della religione, e finalmente
la sollecitudine e diligenza usata in Ratisbona, raccordò come, non
avendosi potuto allora componere le controversie, finalmente la cosa fu rimessa
ad un concilio generale o nazionale, overo ad una dieta, aggiongendo che dopo
il pontefice a sua instanza aveva intimato il concilio, al quale egli medesmo
aveva determinato di ritrovarsi in persona, e l'averebbe fatto, se non fosse
stato impedito dalla guerra di Francia; ora, restando l'istessa discordia nella
religione e portando le medesme incommodità, non essere piú tempo di
differire il rimedio: al quale ordinava che pensassero e proponessero a lui
quella via che giudicassero migliore. Furono sopra il negozio della religione
avute molte considerazioni; ma perché le occupazioni delle guerre molto piú
instavano, fu rimesso questo alla dieta che si doveva celebrare al decembre; e
tra tanto fu fatto decreto che Cesare dasse la cura ad alcuni uomini di
bontà e dottrina di scrivere una formula di riforma, e l'istesso
dovessero fare tutti i prencipi, accioché nella futura dieta, conferite tutte
le cose insieme, si potesse determinare di consenso commune quello che s'avesse
da osservare sino al futuro generale concilio, da celebrarsi in Germania, overo
sino al nazionale. Tra tanto tutti stessero in pace, né si movesse alcun
tumulto per la religione, e le chiese dell'una e dell'altra religione godessero
i suoi beni. Questo recesso non piacque a' catolici generalmente: ma perché
alcuni d'essi s'erano accostati a' protestanti, gli altri approvavano questa
via di mezo. Quelli che non se ne contentavano, veduto essere pochi, si
risolsero di sopportarlo.
Ma seguitando
tuttavia la guerra, il pontefice, aggionto allo sdegno conceputo per la
confederazione con Inghilterra, che l'imperatore non aveva mai assentito ad
alcuno de' molti et ampli partiti offertigli dal cardinale Farnese, mandato
legato con lui in Germania, intorno al concedere a' Farnesi il ducato di
Milano, e che finalmente dovendo intervenire nella dieta di Spira, non aveva
concesso che il cardinale legato lo seguisse a quella, per non offendere i
protestanti, e finalmente considerato il decreto fatto nella dieta, tanto a sé
et alla Sede apostolica pregiudiciale, restò maggiormente offeso vedendo
le speranze perdute e tanto diminuita l'autorità e riputazione sua, e
giudicava necessario risentirsi. E se bene dall'altro canto, considerato che la
parte sua in Germania era indebolita e fosse da' suoi piú intimi consegliato
dissimulare, nondimeno finalmente essendo certo che, dichiarato apertamente
contrario a Cesare, obligava piú strettamente il re di Francia a sostentare la
sua riputazione, si risolse incomminciare dalle parole, per pigliare occasione
di passar a' fatti che le congionture avessero portato.
Et a 25
d'agosto scrisse una grande e longa lettera all'imperatore, il tenor della
quale in sostanza fu: che avendo inteso che decreti erano stati fatti in Spira,
per l'ufficio e carità paterna non poteva restare di dirgli il suo
senso, per non immitare l'essempio di Elí sacerdote, gravemente punito da Dio
per l'indulgenza usata verso i figliuoli. I decreti fatti in Spira essere con
pericolo dell'anima di esso Cesare et estrema perturbazione della Chiesa; non
dovere lui partirsi dalli ordeni cristiani, i quali, quando si tratta della
religione, commandano che tutto debbia essere riferito alla Chiesa romana, e
con tutto ciò, senza tenere conto del pontefice, il qual solo per legge
divina et umana ha autorità di congregare concilii e decretare sopra le
cose sacre, abbia voluto pensare di far concilio generale o nazionale; aggionto
a questo, che abbia concesso ad idioti et eretici giudicare della religione;
che abbia fatto decreti sopra i beni sacri e restituito agli onori i ribelli
della Chiesa, condannati anco per proprii editti; volere credere che queste
cose non sono nate da spontanea volontà di esso Cesare, ma da pernicioso
conseglio de malevoli alla Chiesa romana, e di questo dolersi, che abbia
condesceso a loro; essere piena la Scrittura d'essempii dell'ira di Dio contra
gli usurpatori dell'ufficio del sommo sacerdote, di Oza, di Datan, Abiron e
Core, del re Ozia e d'altri. Né essere sufficiente scusa dire che i decreti
siano temporarii sino al concilio solamente; perché, se bene la cosa fatta
fosse pia, per raggione della persona che l'ha fatta, non gli toccando,
è empia. Dio avere sempre essaltato i prencipi divoti della Sede romana,
capo di tutte le chiese, Constantino, i Teodosii e Carlo Magno; per il
contrario avere punito quelli che non l'hanno rispettata: ne sono essempii
Anastasio, Maurizio, Costante II, Filippo, Leone et altri, et Enrico IV per
questo fu castigato dal proprio figliuolo, sí come fu anco Federico II dal suo.
E non solo i prencipi, ma le nazioni intiere sono per ciò state punite:
i giudei per avere ucciso Cristo, figliuolo di Dio, i greci per avere sprezzato
in piú modi il suo vicario; le quali cose egli debbe temere piú, perché ha
origine da quelli imperatori, i quali hanno ricevuto piú onore dalla Chiesa
romana, che non hanno dato a lei. Lodarlo che desideri l'emendazione della
Chiesa, ma avvertirlo anco di lasciare questo carico a chi Dio n'ha dato la
cura: l'imperatore essere ben ministro, ma non rettor e capo. Aggionse sé
essere desideroso della riforma et averlo dichiarato con l'intimazione del
concilio fatta piú volte e sempre che è comparsa scintilla di speranza
che si potesse congregare; e quantonque sino allora senza effetto, nondimeno
non aveva mancato del suo debito, desiderando molto, cosí per l'universale
beneficio del cristianesmo, come speciale della Germania, che ne ha maggior
bisogno, il concilio, unico rimedio di provedere tutto. Essere già
intimato, se bene per causa delle guerre differito a piú commodo tempo;
però ad esso imperatore tocca aprire la strada che possi celebrarsi, col
fare la pace o differire la guerra, mentre si trattano le cose della religione
in concilio: ubedisca donque a' commandamenti paterni, escluda dalle diete
imperiali tutte le dispute della religione e le rimetta al pontefice, non
faccia ordinazione de' beni ecclesiastici, revochi le cose concesse a' ribelli
della Sede romana, altrimenti egli per non mancar all'ufficio suo, sarà
sforzato usare maggiore severità con lui, che non vorrebbe.
[La pace fatta tra Cesare e 'l re di Francia
dà occasione di ritornare a trattar del concilio]
La guerra tra
l'imperatore et il re di Francia non durò longamente; perché Cesare
conobbe chiaro che, restando egli in quella implicato et il fratello in quella
contra turchi, la Germania s'avvanzava tanto nella libertà, che in breve
manco il nome imperiale sarebbe stato riconosciuto, e che egli, facendo guerra
in Francia, immitava il cane d'Esopo che, seguendo l'ombra, perdette e quella
et il corpo; onde diede orecchie alle proposte de' francesi per fare la pace,
con dissegno non solo di liberarsi da quello impedimento, ma anco, col mezo del
re, accommodare le cose con turchi et attendere alla Germania. Perilché a 24 di
settembre in Crespino fu conclusa fra loro la pace, nella quale, tra le altre
cose, l'uno e l'altro prencipe capitolarono di defendere l'antica religione,
d'adoperarsi per l'unione della Chiesa e per la riforma della corte romana,
d'onde derivavano tutte le dissensioni, e che a questo effetto fosse unitamente
richiesto il papa a congregar il concilio, e dal re di Francia fosse mandato
alla dieta di Germania a far ufficio con i protestanti che l'accettassero. Il pontefice
non si spaventò per il capitolo del concilio e di riformare la corte,
tenendo per fermo che quando avessero posta mano a quella impresa, non
averebbono potuto longamente restare concordi per i diversi e contrarii
interessi loro, e non dubitava che dovendosi esseguire il dissegno per mezo del
concilio, egli non avesse fatto cadere ogni trattazione in modo che
l'autorità sua si fosse amplificata; ma ben giudicò che quando,
avesse convocato il concilio alla richiesta loro, sarebbe stato riputato che
l'avesse fatto costretto, che sarebbe stato con molta diminuzione della sua
riputazione e d'accrescimento d'animo a chi dissegnava moderazione
dell'autorità ponteficia. Per il che non aspettando d'essere da alcuno
di loro prevenuto, e dissimulate le sospizioni contra l'imperatore concepute, e
le piú importanti, che gli rendeva la pace fatta senza suo intervento con
capitoli pregiudiciali alla sua autorità, mandò fuori una bolla,
nella quale, invitando tutta la Chiesa a rallegrarsi della pace, come per quale
era levato l'unico impedimento al concilio, lo stabilí di nuovo in Trento,
ordinando il principio per il 15 marzo.
Vedeva il
termine angusto, et insufficiente a mandare la notizia per tutto, nonché a
lasciare spacio a' prelati di mettersi in ordine e far il viaggio;
riputò nondimeno che fosse vantaggio suo che, se però s'aveva da
celebrare, s'incomminciasse con pochi, e quelli italiani, corteggiani e suoi
dependenti, i quali sarebbono stati i primi, cosí sollecitati da lui, dovendosi
nel principio trattare del modo come proceder nel concilio che è il
principale, anzi il tutto per conservare l'autorità ponteficia; alla
determinazione de' quali sarebbono costretti stare quelli che alla giornata
fossero sopragionti; né essere maraviglia che un concilio generale s'incomminci
con pochi, perché nel pisano e costanziense cosí occorse, i quali ebbero
però felice progresso. Et avendo penetrata la vera causa della pace,
scrisse all'imperatore che in servizio suo aveva prevenuto et usato
celerità nell'intimazione del concilio. Imperoché sapendo come Sua
Maestà, per la necessità della guerra francese, era stata
costretta permettere e promettere molte cose a' protestanti, con l'intimazione
del concilio gli aveva dato modo d'escusarsi nella dieta che si doveva fare al
settembre, se, instante il concilio, non effettuava quello che aveva promesso
concedere sino alla celebrazione di quello.
Ma la
prestezza del pontefice non piacque all'imperatore, né la ragione resa lo
sodisfece: averebbe egli voluto per sua riputazione, per far accettare piú
facilmente il concilio alla Germania e per molti altri rispetti, essere causa
principale; nondimeno, non potendo altro fare, usò però tutti
quei termini che lo potessero mostrare lui autore et il papa aderente,
mandò ambasciatori a tutti i prencipi a significare l'intimazione e
pregargli mandare ambasciatori per onorare quello consesso e confermare i
decreti che si li farebbono. Et attendeva a fare seria preparazione come se
l'impresa fosse stata sua. Diede diversi ordeni a' prelati di Spagna e de'
Paesi Bassi, et ordinò tra le altre cose che i teologi di Lovanio si
congregassero insieme per considerare i dogmi che si dovevano proporre, i quali
ridussero a 32 capi, senza però confermargli con alcun luogo delle Sacre
Lettere, ma esplicando magistralmente la sola conclusione: i quali capi furono
dopo confermati con l'editto di Cesare e divulgati con precetto che da tutti
fossero tenuti e seguiti. E non occultò l'imperatore il disgusto
conceputo contra il pontefice in parole al noncio dette, cosí in quella
occasione, come in altre audienze; anzi, avendo al decembre il papa creati 13
cardinali, tra quali tre spagnoli, gli proibí l'accettare le insegne et usare
il nome e l'abito.
Il re di
Francia ancora fece convenire i teologi parigini a Melun per consultare de'
dogmi necessarii alla fede cristiana che si dovevano proponere in concilio;
dove vi fu molta contenzione, volendo alcuni che si proponesse la confermazione
delle cose statuite in Costanza et in Basilea et il restabilimento della
Pragmatica, et altri dubitando che per ciò il re dovesse restar offeso,
per la destruzzione che ne seguiva del concordato fatto da lui con Leone,
consegliavano di non metter a campo questa disputa. Et appresso, perché in
quella scuola sono varie opinioni anco nella materia de' sacramenti, a' quali
alcuni dànno virtú effettiva ministeriale, et altri no, e desiderando
ogni uno che la sua fosse articolo di fede, non si poté concludere altro, se
non che si restasse ne' 25 capi publicati due anni inanzi.
Ma il
pontefice, significato al re di Francia il poco buon animo dell'imperatore
verso lui, lo richiese che per sostentamento della Sede apostolica mandasse
quanto prima suoi ambasciatori al concilio, et al noncio suo appresso
l'imperatore commise che, stando attento a tutte le occasioni, quando da'
protestanti gli fusse dato qualche disgusto, gli offerisse ogni assistenza dal
pontefice per ricuperare l'autorità cesarea con aiuti spirituali e
temporali; di che avendo il noncio purtroppo spesso avuto occasione, operò
sí che Cesare, comprendendo di potere avere bisogno del papa nell'un e
nell'altro modo, rimise la durezza e ne diede segno concedendo a' nuovi
cardinali di assumer il nome e l'insegne, et al noncio dava audienze piú grate
e con lui conferiva delle cose di Germania piú del solito.
[Il papa delega i legati al concilio]
Fu grande la
fretta del pontefice non solo a convocare il concilio, ma anco ad ispedire i
legati, i quali non volle, sí come alcun consegliava, che per degnità
mandassero prima qualche sostituto a ricevere i primi prelati, per fare poi
essi entrata con incontri e ceremonie, ma che fossero i primi e giongessero
inanzi il tempo. Deputò per legati Giovanni Maria di Monte, vescovo
cardinale di Palestrina, Marcello Cervino, prete di Santa Croce, e Reginaldo Polo,
diacono di Santa Maria in Cosmedin: in questo elesse la nobiltà del
sangue e l'opinione di pietà che communemente si aveva di lui, e l'esser
inglese, a fine di mostrare che non tutta Inghilterra fosse ribelle; in
Marcello la costanza e perseveranza immobile et intrepida, insieme con
isquisita cognizione; nel Monte la realtà e mente aperta, congionta con
tal fideltà a' patroni, che non poteva preporre gli interessi di quelli
alla propria conscienza. Questi spedí con un breve della legazione e non diede
loro, come si costuma a' legati, la bolla della facoltà, né meno scritta
instruzzione, non ben certo ancora che commissioni dargli, pensando di
governarsi secondo che i successi e gli andamenti dell'imperatore
consegliassero, ma con quel solo breve gli fece partire.
Ma oltre il
pensiero che il papa metteva allora alle cose di Trento, versava nell'animo suo
un altro di non minor momento intorno la dieta che si doveva tener in Vormazia,
alla quale si credeva che l'imperatore non interverrebbe; temendo il papa che
Cesare, irritato dalla lettera scrittagli, non facesse sotto mano fare qualche
decreto di maggior pregiudicio alle cose sue, che i passati, overo almeno non
lo permettesse; per questo giudicava necessario avere un ministro
d'autorità e riputazione con titolo di legato in quel luogo. Ma era in
gran dubio di non ricevere per quella via affronto, quando dalla dieta non
fosse ricevuto con onore debito. Trovò temperamento di mandare il
cardinale Farnese, suo nepote, all'imperatore e farlo passare per Vormazia, e
quivi dare gli ordeni a' catolici, e fatti gli ufficii opportuni, passare
inanzi verso l'imperatore, e fra tanto mandare Fabio Mignanello da Siena,
vescovo di Grosseto, per noncio residente appresso il re de' Romani, con ordine
di seguirlo alla dieta.
Poi
applicando l'animo a Trento, fece dare principio a consultare il tenor delle
facoltà che si dovevano dare a' legati. Il che ebbe un poco di
difficoltà, per non avere essempii da seguire. Imperoché al lateranense
precedente era intervenuto il pontefice in persona; inanzi quello, al
fiorentino, parimente intervenne Eugenio IV; il costanziense, dove fu levato il
schisma, ebbe il suo principio con la presenza di Giovanni XXIII, uno de' tre
papi demessi, et il fine con la presenza di Martino V; inanzi di quello, il
pisano fu prima congregato da cardinali e finito da Alessandro V. In tempi
ancora piú inanzi, al vienense fu presente Clemente V; a' doi concilii di Lion,
Innocenzio IV e Gregorio X, et inanzi questi al lateranense, Innocenzio III.
Solo il concilio basileense, in quel tempo che stette sotto l'obedienza
d'Eugenio IV, fu celebrato con presenza de' legati. Ma immitare qualsivoglia
delle cose in quello osservate era cosa di troppo cattivo presagio. Si venne in
risoluzione di formare la bolla con questa clausula, che gli mandava come
angeli di pace al concilio intimato per l'inanzi da lui in Trento; et esso gli
dava piena e libera autorità, accioché per mancamento di quella, la
celebrazione e continuazione non potesse essere ritardata, con facoltà
di presedervi et ordinare qualonque decreti e statuti, e publicarli nelle
sessioni, secondo il costume; proponere, concludere et esseguire tutto quello
che fosse necessario per condannare et estirpare da tutte le provincie e regni
gli errori; conoscere, udire, decidere e determinare nelle cause d'eresia e
qualonque altre concernenti la fede catolica, riformare lo stato della santa
Chiesa in tutti i suoi membri, cosí ecclesiastici, come secolari, e mettere
pace tra i prencipi cristiani, e determinare ogni altra cosa che sia ad onore
di Dio et aummento della fede cristiana, con autorità di raffrenare con
censure e pene ecclesiastiche qualonque contradittori e rebelli d'ogni stato e
preminenza, ancora ornati di dignità ponteficale overo regale, e di fare
ogni altra cosa necessaria et opportuna per l'estirpazione dell'eresie et
errori, riduzzione de' popoli alienati dall'ubedienza della Sede apostolica,
conservazione e redintegrazione della libertà ecclesiastica, con questo
però, che in tutte le cose procedessero col consenso del concilio.
E considerando il papa non meno ad
inviare il concilio che a' modi di dissolverlo quando fosse incomminciato, se
il suo servizio avesse cosí ricercato, per provedersi a buon'ora, seguendo
l'essempio di Martino V, il quale, temendo di quei incontri che avvennero a
Giovanni XXIII in Costanza, mandando i noncii al concilio di Pavia, gli diede
un particolar breve con autorità di prolongarlo, dissolverlo,
trasferirlo dovunque fosse loro piacciuto, arcano per attraversare ogni deliberazione
contraria a' rispetti di Roma. Pochi dí dopo fece un'altra bolla, dando
facoltà a' legati di trasferire il concilio. Questa fu data sotto il 22
febraro dell'istesso anno, della quale dovendo di sotto parlare quando si
dirà della translazione a Bologna, si deferirà sino allora quel
tutto che sopra ciò si ha da dire.
[I due legati giongono in Trento; giongono
anco l'ambasciator cesareo e gli ambasciatori del re de' Romani]
[A'] 13 marzo
gionsero in Trento il cardinale del Monte et il cardinale Santa Croce, raccolti
dal cardinal di Trento, fecero entrata publica in quel giorno e concessero tre
anni et altre tante quarantene d'indulgenza a quelli che si ritrovarono
presenti, se ben non avevano questa autorità dal papa, ma con speranza
che egli ratificarebbe il fatto. Non trovarono prelato alcuno venuto, se ben il
pontefice aveva fatto partire da Roma alcuni, acciò si ritrovassero
là al tempo prefisso.
La prima cosa
che i legati fecero fu considerare la continenza della bolla delle
facoltà dategli, e deliberarono tenerla occulta, et avvisarono a Roma
che la condizione di procedere con consenso del concilio gli teneva troppo
ligati e gli rendeva pari ad ogni minimo prelato, et averebbe difficoltato
grandemente il governo, quando avesse bisognato communicare ogni particolare a
tutti; aggiongendo anco che era un dare troppo libertà, anzi licenza
alla moltitudine. Fu conosciuto in Roma che le raggioni erano buone e la bolla
fu corretta secondo l'aviso, concedendo l'autorità assoluta. Ma i
legati, mentre aspettavano risposta, dissegnarono nella chiesa catedrale il
luogo della sessione capace di 400 persone.
Dieci giorni
dopo li legati, gionse a Trento don Diego di Mendozza, ambasciatore cesareo
appresso la republica di Venezia, per intervenire al concilio con amplissimo
mandato datogli il 20 febraro da Bruselles, e fu ricevuto da' legati con
l'assistenza del cardinale Madruccio e di tre vescovi, che tanti sino allora
erano arrivati, quali, per essere stati i primi, è bene non tralasciare
i nomi loro: e furono Tomaso Campeggio vescovo di Feltre, nepote del cardinale,
Tomaso di San Felicio, vescovo della Cava, fra' Cornelio Musso franciscano,
vescovo di Bitonto, il piú eloquente predicatore di quei tempi. Quattro giorni
dopo fece don Diego la sua proposta in scritto: conteneva la buona disposizione
della Maestà Cesarea circa la celebrazione del concilio e l'ordine dato
a' prelati di Spagna per ritrovarvisi, quali pensava che oramai fossero in
camino; fece scusa di non essere venuto prima per le indisposizioni; ricercò
che s'incomminciassero le azzioni conciliari e la riforma de' costumi, come due
anni prima in quel luogo medesimo era stato proposto da monsignore Granvela e
da lui. I legati in scritto gli risposero, lodando l'imperatore, ricevendo la
scusa della sua persona, e mostrando il desiderio della venuta de' prelati. E
la proposta e la risposta furono dalla parte a chi apparteneva ricevute ne'
capi non pregiudiciali alle raggioni del suo prencipe rispettivamente: cautela
che rende indizio manifesto con qual carità e confidenza si trattava in
proposta e risposta, dove non erano parole che di puro complemento, fuori che
nella menzione di riforma.
I legati,
incerti ancora qual dovesse esser il modo di trattare, facevano dimostrazione
di dovere giontamente procedere con l'ambasciatore e prelati, e di communicare
loro l'intiero de' pensieri: onde all'arrivo delle lettere da Roma o di
Germania convocavano tutti per leggerle. Ma avvedendosi che don Diego si
parteggiava a loro et i vescovi si presumevano piú del costumato a Roma, e
temendo che, accresciuto il numero, non nascesse qualche inconveniente,
avisarono a Roma, consegliando che ogni spacio gli fosse scritto una lettera da
potere mostrare, e le cose secrete a parte, perché delle lettere sino a quel
tempo ricevute gli era convenuto servirsi con ingegno. Dimandarono anco una
cifra per poter communicare le cose di maggior momento. Le qual
particolarità, insieme con molte altre che si diranno, avendole tratte
dal registro delle lettere del cardinale del Monte e servendo molto per
penetrare l'intimo delle trattazioni, non ho voluto tacerle.
Essendo
già passato il mese di marzo e spirato di tanti giorni il prefisso nella
bolla del papa per dar principio al concilio, i legati consegliandosi tra loro
sopra l'aprirlo, risolsero d'aspettar aviso da Fabio Mignanello, noncio
appresso Ferdinando, di quello che in Vormazia si trattava, et anco ordine da
Roma, dopo che il papa avesse inteso la venuta et esposizione di don Diego;
massime che gli pareva vergogna dar un tanto principio con tre vescovi
solamente. Alli 8 d'aprile gionsero ambasciatori del re de' Romani, per
ricevere i quali fu fatta solenne congregazione. In quella don Diego voleva
precedere il cardinale di Trento e sedere appresso i legati, dicendo che,
rappresentando l'imperatore, doveva sedere dove averebbe seduta Sua
Maestà. Ma per non impedire le azzioni fu trovato modo di stare che non
appariva quale di loro precedesse. Gli ambasciatori del re presentarono solo
una lettera del suo prencipe; a bocca esplicarono l'osservanza regia verso la
Sede apostolica et il pontefice, l'animo pronto a favorire il concilio et ample
offerte: soggionsero che mandarebbe il mandato in forma e persone piú
instrutte.
Dopo questo
arrivò a Trento et a Roma l'aspettato aviso della proposta fatta in
dieta il dí 24 marzo dal re Ferdinando, che vi presedeva per nome
dell'imperatore, e della negoziazione sopra di quella seguita: e fu la proposta
del re che l'imperatore aveva fatta la pace col re di Francia per attendere a
comporre i dissidii della religione e proseguire la guerra contra turchi; dal
quale aveva avuto promessa d'aiuti e dell'approbazione del concilio di Trento,
con risoluzione d'intervenirvi o in persona o per suoi ambasciatori. Per questo
stesso fine aveva operato col pontefice che l'intimasse di nuovo essendo stato
per inanzi prorogato, e sollecitatolo anco a contribuire aiuti contra i turchi.
Che dalla Santità Sua aveva ottenuto l'intimazione e già essere
in Trento gl'ambasciatori mandati dall'imperatore e da lui. Che era noto ad
ogni uno quanta fatica avesse usato Cesare per fare celebrare il concilio,
prima con Clemente in Bologna, poi con Paolo in Roma, in Genova, in Nizza, in
Lucca et in Busseto. Che secondo il decreto di Spira, aveva dato ordine ad
uomini dotti e di buona conscienza che componessero una riforma; la qual anco
era stata ordinata. Ma essendo cosa di molta deliberazione et il tempo breve,
soprastando la guerra turchesca, avere Cesare deliberato che, tralasciato di
parlare piú oltre di questo, s'aspettasse di veder prima qual fosse esser il
progresso del concilio e che cosa si poteva da quello sperare, dovendosi
comminciare presto; che, quando non apparisse frutto alcuno, si potrebbe inanzi
il fine di quella dieta intimare un'altra per trattare tutto 'l negozio della
religione, attendendo adesso a quello che piú importa, cioè alla guerra
de' turchi.
[I protestanti rifiutano il concilio
tridentino]
Di questa
proposta presero i protestanti gran sospetto, perché, dovendo durare la pace
della religione sino al concilio, dubitarono che, snervati di danaro per le
contribuzioni contra il Turco, non fossero assaliti con pretesto che il decreto
della pace per l'apertura del concilio in Trento fosse finito. Però
dimandarono che si continuasse la trattazione incomminciata, allegando essere
assai longo il tempo a chi ha timor di Dio, overo almeno si stabilisse di nuovo
la pace sino ad un legitimo concilio tante volte promesso, quale il tridentino
non era, per le raggioni tante volte dette; e dichiararono di non poter
contribuire, se non avendo sicurezza d'ogni pace, non ligata a concilio
ponteficio, quale avevano ripudiato sempre che se n'era parlato; e se ben gli
ecclesiastici assolutamente acconsentivano che la causa della religione si
rimettesse totalmente al concilio, fu nondimeno risoluto d'aspettare la
risposta di Cesare inanzi la conclusione.
Di questa
azzione al pontefice et a' legati, che erano in Trento, tre particolari
dispiacquero. L'uno, che l'imperatore attribuisse a sé d'aver indotto il papa
alla celebrazione del concilio, che pareva mostrare poca cura delle cose della
religione nel pontefice; il secondo d'avere indotto il re di Francia ad
acconsentirvi, che non era con onore della Santità Sua, a cui toccava far
questo; il terzo, che volesse tenergli ancora il freno in bocca di una dieta
futura, accioché, non andando inanzi il concilio, avessero sempre da stare in
timore che non si trattasse in dieta delle cose della religione. Sentiva il
papa molestia perpetua, non meno per le ingiurie che riceveva quotidianamente
da' protestanti, che per le azzioni dell'imperatore, le quali egli soleva dire
che, quantonque avessero apparenza di favorevoli, erano maggiormente perniziose
alla religione et autorità sua. quali non possono essere l'una
dall'altra separate. Senza che gli pareva sempre esser in pericolo che
l'imperatore non s'accordasse co' tedeschi in suo pregiudicio: e pensando a'
rimedii non sapeva trovarne alcuno, se non mettere in piedi una guerra di
religione; poiché con quella ugualmente resterebbono et i protestanti
raffrenati e l'imperatore implicato in difficile impresa, e si metterebbe in
silenzio ogni raggionamento di riforma e concilio. Era in gran speranza che gli
potesse riuscire per quello che il suo noncio gli scriveva, di ritrovare Cesare
sempre piú sdegnato co' protestanti e che ascoltava le proposte del soggiogarli
con le forze: per questo rispetto, oltre il narrato di sopra, d'impedire che in
dieta non fosse fatta cosa pregiudiciale, e far animo et aggionger forza a'
suoi, s'aggiongeva un'altra causa piú urgente, come quella che era d'interesse
privato; che avendo deliberato di dar Parma e Piacenza al figliuolo, non gli
pareva poterlo fare senza gravissimo pericolo, non acconsentendo l'imperatore,
che averebbe potuto trovare pretesti, o perché quelle città altre volte
furono del ducato di Milano, o perché, come avvocato della Chiesa, poteva
pretendere d'ovviare che non fosse lesa. Per questi negozii mandò il
cardinale Farnese legato in Germania con le necessarie instruzzioni.
[I legati in Trento chiedono avviso al papa
intorno all'aprire il concilio]
Ma i legati
in Trento, avendo avuto commissione dal papa che in evento che intendessero
trattarsi della religione nella dieta, dovessero, senza aspettare maggior
numero de' prelati, aprire il concilio con quei tanti che vi fossero, ma non
dovendosi trattarne, si governassero come gli altri rispetti consegliassero,
viddero dalla proposta della dieta non esser astretti, ma ben, dall'altra
parte, il poco numero de' prelati (che sino allora non erano piú di quattro)
persuadergli la dilazione; restavano però in dubio che il pericolo delle
arme turchesche non constringesse Ferdinando a fare il recesso e, secondo la
promessa, intimare un'altra dieta dove si trattasse della religione, ributtando
la colpa in loro con dire d'avergli fatto notificare la proposizione, accioché,
sapendo quello che era promesso con buona intenzione, essi, aprendo il
concilio, dassero occasione che non s'esseguisse. Per la qual causa mandarono
al pontefice in diligenza per ricevere ordine da lui di quello che dovessero
fare in tal angustia di deliberazione, vedendosi dall'un canto necessitati da
un potente rispetto d'accelerare, e dall'altro costretti a soprasedere per
essere quasi come soli in Trento. Misero inanzi al pontefice avere molte
congetture e grandi indicii che l'imperatore non curasse molto la celebrazione
del concilio; che don Diego, dopo la prima comparizione, non aveva mai detto
pur una parola, e che mostrava quasi in fronte avere piacere di quell'ocio e
trascorso di tempo, bastandogli solo la sua comparizione per scolpar il suo
patrone e giustificarlo che, avendo per se stesso e per oratori continuamente
chiesto e sollecitato il concilio, et avendo condotto il negozio al termine, e
non vedendo progresso conveniente, potesse e dovesse intimare l'altra dieta, e
terminare la causa della religione, come raggionevolmente devoluta a Sua
Maestà per la diligenza sua e negligenza del pontefice. Proponevano di
pigliare un partito medio, di cantare una messa dello Spirito Santo prima che
l'imperatore gionga in dieta, la qual sia per principio del concilio e cosí
prevenire tutto quello che l'imperatore potesse fare nel recesso, e dall'altro
canto levare l'occasione che si potesse dire essersi comminciato a trattare le
cose del concilio con 4 persone; restando in libertà di goder il
beneficio del tempo, e potere o procedere piú oltre, o soprasedere, o
trasferire, o serrar il concilio, secondo che gli accidenti consigliassero. Gli
considerarono ancora che, se il concilio fosse aperto dopo che il cardinale
Farnese avesse parlato a Cesare, alcuno averebbe potuto credere che quel
cardinale fosse mandato per impetrare che non si facesse e non avesse potuto
ottenerlo; oltra che crescendo la fama delle arme del Turco, si direbbe che
fosse aperto in tempo, quando bisognava attendere ad altro e si sapeva non
potersi fare. Il cardinale Santa Croce aveva gran desiderio che si mostrassero
segni di devozione e si facesse con le solite ceremonie della Chiesa concorrere
il popolo; e però fu autore che scrivessero tutti al papa dimandando un
breve con l'autorità di dar indulgenze, il quale avesse la data dalla
loro partita, acciò l'indulgenza già concessa da loro nella
entrata fosse valida. Aveva scrupolo quel cardinale che il popolo trovatosi
presente a quel ingresso non fosse defraudato di quei tre anni e quarantene che
concessero, e con questo voleva supplire, senza considerare che
difficoltà nasce, se chi ha autorità di dar indulgenze può
convalidare le concesse da altri senza potestà.
[Il papa si risolve a far aprire il concilio]
Il cardinale
vescovo e patrone di Trento, considerando che quella città in se stessa
picciola e vuota d'abitatori, se il concilio fosse caminato inanzi, restava in
discrezione di forestieri con pericolo di sedizioni, fece sapere al papa che
era necessario un presidio almeno di 150 fanti, massime se venissero i
luterani: qual spesa esso non poteva fare, essendo essausto per i molti debiti
lasciatigli dal suo precessore. A questo rispose il pontefice che il mettere
presidio nella città sarebbe stato un pretesto a' luterani di publicare
che il concilio non fosse libero; che mentre soli italiani erano in Trento,
vano sarebbe aver dubio, e che egli non aveva minor cura della quiete della
città, che esso medesimo cardinale, importando piú al pontefice la
sicurezza del concilio, che al vescovo della città; però
lasciasse la cura a lui e tenesse per certo che starà vigilante e
provederà a' pericoli per suo interesse, né lo aggraverà di far
alcuna spesa; et avendo ben pensato tutte le raggioni che persuadevano e
dissuadevano il dare principio al concilio, per la dissuasione non vedeva
raggione di momento, se non che quando fosse aperto, egli fosse ricercato di
lasciarlo cosí, sino che cessassero gli impedimenti della guerra de turchi et
altri: il che era mettergli un freno in bocca per agitarlo dove fosse piacciuto
a chi ne tenesse le redine, sommo pericolo alle cose sue. Questo lo fece
risolvere stabilmente in se stesso che per niente si doveva lasciarlo stare
ociosamente aperto, né partirsi da questa disgiontiva: che overo il concilio si
celebri, potendo; o non potendo, si serri o si sospenda sino che da lui fosse
publicato il giorno nel quale si avesse da riassumere. E fermato questo ponto,
scrisse a' legati che l'apprissero per il dí di Santa Croce; qual ordine essi
publicarono all'ambasciatore cesareo et a tutti gli altri, senza venire al
particolare del giorno. E poco dopo gionse il cardinal Farnese in Trento per
transitare di là in Vormazia e portò l'istessa commissione, e
consultato il tutto tra lui et i legati, fu tra loro determinato di continuare,
notificando a tutti la commissione d'aprire il concilio in genere, ma non
descendendo al giorno particolare, se non quando egli, gionto in Vormes, avesse
parlato all'imperatore, avendo conceputa molto buona speranza per aver inteso
che l'imperatore, udita l'espedizion della legazione, era rimasto molto
sodisfatto del papa e lasciatosi intendere di volere procedere unitamente con
lui; il che per non sturbare, non volevano senza notizia della Maestà
Sua procedere a nissuna nuova azzione, massime che cosí don Diego, come il
cardinal di Trento consegliavano l'istesso.
Rinovò
don Diego la sua pretensione di precedere tutti, eccetto i legati, allegando
che sí come quando il papa e Cesare fossero insieme, nissuno sederebbe in mezo,
l'istesso si dovesse osservare ne representanti l'uno e l'altro e dicendo
d'aver in ciò il parere e conseglio di persone dotte. Da' legati non fu
risposto se non con termini generali, che erano preparati di dar a ciascuno il
suo luogo, aspettando d'aver ordine da Roma; il che anco piaceva a don Diego,
sperando che là nelli archivi publici si troverebbono decisioni et
essempii di ciò; mostrandosi pronto, fuori del concilio di cedere ad
ogni minimo prete; ma soggiongendo che nel concilio nessuno ha maggior
autorità, dopo il papa, che il suo prencipe. Ad alcuno, nel legere
questa relazione, potrebbe parere che essendo di cose e raggioni leggiere,
tenesse del superfluo: ma lo scrittore dell'istoria, con senso contrario, ha
stimato necessario fare sapere da quali minimi rivoli sia causato un gran lago
che occupa Europa, e chi nel registro vedesse quante lettere andarono e
venirono prima che quell'apertura fosse conclusa, stupirebbe della stima che se
ne faceva e delli sospetti che andavano attorno.
[Il vicerè di Napoli ordina a' vescovi
del regno di nominare quattro procuratori in nome comune di tutti pel concilio.
Il papa rimedia per una bolla generale che divieta le procurazioni in concilio]
In Italia,
poiché si viddero incaminate le cose del concilio con speranza che questa volta
si dovesse pur celebrare, li vescovi pensavano al viaggio. Il vicerè di
Napoli entrò in pensiero che non andassero tutti i suoi: voleva mandare
quattro nominati da lui col mandato degli altri del regno, che passano 100.
Fece perciò il capellan maggior del regno una congregazione de' prelati
in casa sua e gli intimò che facessero la procura: a che molti
s'opposero, dicendo voler andar in persona; che cosí hanno giurato e sono
tenuti, e non potendo, esser di raggione che ciascuno, secondo la propria
conscienzia, faccia procuratore, e non un solo per tutti. S'alterò il
vicerè e di nuovo ordinò al capellan maggior che gli chiamasse e
gli commandasse che facessero la procura, e simil ordine mandò a tutti i
governi del regno. Questo diede pensiero assai al papa et a' legati, non
sapendo se venisse dalla fantasia propria del vicerè, per mostrarsi
sufficiente o per poca intelligenza, o pur se altri glielo facesse fare e
venisse da piú alta radice. E per scoprire l'origine di questo motivo, il papa
fece una bolla severa, che nissun assolutamente potesse comparire per
procuratore; quale i legati ritennero appresso loro secreta e non publicarono,
come troppo severa, per essere universale a tutti i prelati di
cristianità, eziandio a' lontanissimi et impediti, a' quali era cosa
impossibile da osservare, et ancora per essere rigida, statuendo che incorrano ipso
facto in pena di sospensione a divinis et amministrazione delle
chiese, temendo che potesse causare molte irregularità, nullità
d'atti et indebite percezzioni de' frutti, e che per ciò si potesse
svegliare qualche nazione mal contenta ad interporre un'appellazione, et
incomminciare a contender di giurisdizzione. Perilché anco scrissero di non
doverla publicare senza nuova commissione, stimando anco che basti il solo
romore d'essere fatta la bolla, senza che si mostri: di questa bolla si
dirà a suo luogo il fine che ebbe.
Un altro
negozio, se ben di minor momento, non però manco noioso, restava. I
legati, che sino a quel giorno avevano avuto leggieri sussidii per fare le
spese occorrenti, et essendo anco assai poveri per supplire col suo, come in
qualche particolare gli era convenuto fare, continuando in tal guisa non
averebbono potuto mantenersi, onde communicato con Farnese, scrissero al
pontefice che non era riputazione sua far un concilio senza ornamenti et
apparati necessarii e consueti, con quel splendore che tanto consesso ricerca;
a che era necessaria persona con carico proprio; e però sarebbe stato
bene ordinare un depositario con qualche somma di denari per provedere alle
spese occorrenti e per sovvenire a qualche prelato bisognoso, et accarezzare
qualche uomo di conto; cosa molto necessaria per fare avere buon essito al
concilio.
[Si tiene congregazione per cose preparatorie]
Il 3 maggio,
essendo già arrivati 10 vescovi, fecero congregazione per stabilire le
cose preambule; nella quale intimarono publicamente la commissione del
pontefice d'aprire il concilio, aggiongendo che aspettavano a determinare il
giorno, quando ne fosse data parte all'imperatore. Si passò la
congregazione per la gran parte in cose ceremoniali: che i legati, se ben
d'ordine diverso, essendo un vescovo, l'altro prete, et il terzo diacono,
dovessero nondimeno avere i paramenti conformi, portando tutti tre ugualmente
piviali, sí come l'ufficio et autorità loro era uguale in una legazione
et una presidenza; che il luogo delle sessioni dovesse esser adobbato di panni
arazzi, acciò non paresse un consesso di mecanici. Proposero se si
dovevano fare sedie per il pontefice e per l'imperatore, le quali dovessero
esser ornate e restar vacue; si trattò se a don Diego se avesse a dare
un luogo piú onorato degli altri oratori. Si considerò che i vescovi di
Germania, i quali sono anco prencipi d'Imperio, pretendono dovere precedere
tutti gli altri prelati, anco arcivescovi, allegando che nelle diete non solo
cosí si osserva, ma anco che i vescovi non prencipi stanno con la berretta in
mano inanzi loro. Si ebbe in considerazione che l'anno inanzi in quella stessa
città fu disparere sopra ciò, ritrovandosi insieme ad una messa
il vescovo Heicstatense e gli arcivescovi di Corfú et Otranto. Si allegò
anco da alcuni che nella capella ponteficia i vescovi, che sono oratori de
duchi et altri prencipi, precedono gli arcivescovi, onde maggiormente le
persone medesme de' prencipi debbono precedergli. E sopra questo fu concluso di
non risolver cosa alcuna, sino che il concilio non fosse piú frequente, per
veder anco come l'intendono quei di Francia e quei di Spagna. Fu ordinato di
rinovare il decreto di Basilea e di Giulio II nel lateranense, che a nissuno
pregiudichi sedere fuori di luogo suo. Fu commendata la risoluzione d'aspettar
gli avisi del Farnese a determinare il giorno dell'apertura, con molta
satisfazzione di don Diego; mostrarono quei pochi vescovi molta divozione et
ubedienza al pontefice, sí come fece anco dopo il vescovo di Vercelli, che
gionse il dí medesimo, finita la congregazione, insieme col cardinal Polo,
terzo legato.
[Persecuzione in Provenza]
Mentre che si
fa congregazione in Trento per convincere l'eresia col concilio, in Francia
l'istesso s'operò con le arme contra certe poche reliquie de' valdesi
abitanti nelle Alpi di Provenza, che (come di sopra s'è detto) s'erano
conservati dalla ubedienza della Sede romana separati, con altra dottrina e
riti, assai però imperfetti e rozzi, li quali, dopo le renovazioni di
Zuinglio, avevano con quella dottrina fatto aggionta alla propria e ridotti i
riti loro a qualche forma, allora quando Geneva abbracciò la riforma.
Contro quelli già alcuni anni dal parlamento d'Ais era stata pronunziata
sentenzia, la quale non aveva ricevuto essecuzione. Commandò in questo
tempo il re che la sentenzia s'essequisse. Il presidente, congregati i soldati
che poté raccorre dalli luoghi vicini e dallo Stato ponteficio d'Avignone,
andò armato contra quei miseri, i quali né avevano arme, né pensavano a
defendersi se non con la fuga, quei che lo potevano fare. Non si trattò
né d'insegnargli, né di minacciargli a lasciare le loro openioni e riti, ma
empito prima tutto 'l paese di stupri, furono mandati a fil di spada tutti quei
che non avevano potuto fuggire e stavano esposti alla sola misericordia, non
lasciando vivi vecchi, né putti, né di qualonque condizione et età.
Distrussero, anzi spianarono le terre di Cabriera in Provenza e di Merindolo
nel contado di Veinoisin, spettante al papa, insieme con tutti i luoghi di quei
distretti. Et è cosa certa che furono uccise piú di 4000 persone, che
senza fare alcuna difesa chiedevano compassione.
[Cesare gionge in dieta, e 'l Farnese legato
preme al concilio contra le opposizioni de' protestanti]
Ma in
Germania a' 16 di maggio gionse in Vormazia l'imperatore, et il giorno seguente
vi arrivò il cardinal Farnese, il qual trattò con lui e col re
de' Romani a parte; espose le sue commissioni, particolarmente nel fatto del
concilio, facendo sapere che il pontefice aveva dato facoltà a' legati
d'aprirlo; il che aspettavano di fare dopo che avessero inteso da esso lo stato
delle cose della dieta. Considerò all'imperatore che non bisognava avere
alcun rispetto alle opposizioni fatte da' protestanti, poiché l'impedimento da
loro posto non era nuovo e non anteveduto dal giorno, che si comminciò a
parlare di concilio; doversi tener per certo che, avendo essi scosso il giogo
dell'obedienza, fondamento principale della religione cristiana, e proceduto in
tanto empie e scelerate innovazioni contro il rito osservato per centenara d'anni
con l'approbazione di tanti celeberrimi concilii, con la medesima
animosità ricalcitrarebbono contra il concilio che s'incomminciava,
quantonque legitimo, generale e cristiano, essendo certi di dover essere
condannati da quello. Però altro non rimaneva se non che la
Maestà Sua o con l'autorità gli inducesse, o con le forze gli
constringesse ad ubedire. Il che quando non si facesse, e per loro rispetto si
desistesse da procedere inanzi alla condannazione loro, overo dopo condannati
non fossero costretti a deporre i loro errori, si mostraria a tutto 'l mondo
che gli eretici commandano, et il papa con l'imperatore ubediscono. Che sí come
la Sua Santità lodava usare prima la via della dolcezza, cosí riputava
necessario mostrare con effetti che, dopo quella, sarebbe seguita la forza
armata. Gli offerí per questo effetto concessione di valersi di parte delle
entrate ecclesiastiche di Spagna e vendere vassellaggi di quelle chiese, di
sovvenirlo de dannari proprii e di mandargli d'Italia in aiuto 12000 fanti e 500
cavalli pagati, e far opera che dagli altri prencipi d'Italia fossero parimente
mandati altri aiuti, e mentre facesse quella guerra, procedere con arme
spirituali e temporali contra qualonque tentasse molestare i Stati suoi. Espose
anco Farnese all'imperatore il tentativo del vicerè di Napoli di volere
mandare quattro procuratori per nome di tutti i vescovi del regno, con
mostrargli che questo non era né raggionevole, né legitimo modo, né sarebbe
stato con reputazione del concilio; che se vescovi tanto vicini, in numero cosí
grande, avessero potuto scusarsi con la missione di quattro, molto piú
l'averebbe fatto la Francia e la Spagna, e s'averebbe fatto un concilio
generale con 20 vescovi. E pregò l'imperatore a non tolerare un
tentativo cosí contrario all'autorità del papa et alla dignità
del concilio, del quale è protettore, pregandolo a darci rimedio
opportuno. Trattò anco il cardinale sopra la promessa fatta per nome di
Sua Maestà nella proposta mandata alla dieta, cioè che per
terminare le discordie della religione, caso che il concilio non facesse
progresso, si farebbe un'altra dieta; e gli pose in considerazione che, non
restando dalla Santità Sua, né da' suoi legati e ministri, né dalla
corte romana che il concilio non si celebri e non faccia progresso, non poteva
in alcun modo nel recesso intimare altra dieta sotto questo colore; et
inculcò grandissimamente questo ponto, perché ne aveva strettissima
commissione da Roma, e perché il cardinale del Monte, uomo molto libero, non
solo glie ne fece instanza a bocca, ma anco gli scrisse per nome proprio e de'
colleghi dopo che partí da Trento con apertissime parole, che questo era un
capo importantissimo, al quale doveva sempre tenere fissa la mira e non se ne
scordare in tutta la sua negoziazione, avvertendo ben di non ammettere coperta
alcuna, perché questo solo partorirebbe ogni altro buon appontamento. E che
quanto a lui, raccordarebbe a Sua Beatitudine che elegesse piú presto
d'abandonare la Sede e rendere a san Pietro le chiavi, che comportare che la potestà
secolare arrogasse a sé l'autorità di terminare le cause della
religione, con pretesto e colore che l'ecclesiastico avesse mancato del debito
suo nel celebrar concilio, o in altro.
Intorno al
tentativo del vicerè, disse l'imperatore che il motivo non veniva da
altronde che da proprio e spontaneo moto, e che quando non avesse avuto urgente
raggione si sarebbe rimosso. Sopra l'aprire del concilio non gli diede risoluta
risposta, ma, parlando variamente, ora disse che sarebbe stato ben
incomminciarlo in luogo piú opportuno, ora che era necessario inanzi l'apertura
fare diverse provisioni: onde il cardinale chiaramente vedeva che mirava a
tenere la cosa cosí in sospeso e non far altro, per governarsi secondo i
successi o aprendolo, o dissolvendolo. Al non intimare altra dieta per trattare
della religione diede risposta generale et inconcludente, che averebbe sempre
fatto, quanto fosse possibile, la stima debita dell'autorità ponteficia.
Ma alla proposta di fare la guerra a' luterani rispose essere ottimo il conseglio
del pontefice, e la via da lui proposta unica; la quale era risoluto
d'abbracciare, procedendo però con la debita cauzione, concludendo prima
la tregua co' turchi, che col mezo del re di Francia sollecitamente e
secretissimamente trattava, e con avvertenza che, essendo il numero et il poter
de' protestanti grande et insuperabile, se non si divideranno tra loro o non
saranno sprovistamente soprapresi, la guerra sarebbe riuscita molto ambigua e
pericolosa. Che il disegno era da tenersi secretissimo, sin che
l'opportunità apparisse, la quale scoprendosi, egli averebbe mandato a
trattare col pontefice: tra tanto accettava le oblazioni fattegli.
[Farnese tratta dell'infeudazione di Parma e
Piacenza per li suoi]
Oltra questi
negozii publici, ebbe il cardinale un altro privato di casa sua. Il pontefice,
parendogli poco aver dato a suoi il ducato di Camerino e Nepi, pensò
dargli le città di Parma e Piacenza, le quali essendo poco tempo inanzi
state possedute da' duchi di Milano, desiderava che vi intervenisse il consenso
di Cesare per stabilirne meglio la disposizione; e di questo trattò il
cardinale con l'imperatore, mostrando che sarebbe tornato a maggior servizio di
Sua Maestà, se quelle città tanto prossime al ducato di Milano fossero
state in mano d'una casa tanto devota e congionta, piú tosto che in poter della
Chiesa, nella quale succedendo qualche pontefice mal affetto, diversi
inconvenienti potevano nascere; che quella non sarebbe stata alienazione del
patrimonio della Chiesa, poiché erano pervenute primieramente solo in mano di
Giulio II, né ben confirmato il possesso se non sotto Leone; che sarebbe stata
con evidente utilità della Chiesa, perché, in cambio di quelle, il
pontefice gli dava Camerino e, detratte le spese che si facevano nella guardia
di quelle due città e gionti 8000 scudi che averebbe il nuovo duca
pagato, s'averebbe cavato piú entrata di Camerino, che di quelle. A queste
esposizioni aggionse anco il cardinale lettere della figliuola, che per proprio
interesse ne pregava efficacemente l'imperatore, il quale non aveva la cosa
discara, cosí per l'amore della figliuola e de' nepoti, come perché sarebbe
stato piú facile di ricuperarla da un duca che dalla Chiesa. Con tutto
ciò non negò, né acconsentí; disse solamente che non averebbe fatto
opposizione.
Trattò
il legato co' catolici et ecclesiastici massime, confortandogli alla diffesa
della religione vera, promettendogli dal papa ogni favore. Della negoziazione
della guerra, se ben trattata secretamente, ne presero sospetto i protestanti:
perché un frate franciscano, in presenza di Carlo e di Ferdinando e del legato
predicando, dopo una grand'invettiva contra i luterani, voltato all'imperatore
disse il suo ufficio essere di difendere con le arme la Chiesa; che aveva
mancato sino allora di quello che già bisognava avere del tutto
effettuato; che Dio gli aveva fatto tanti beneficii meritevoli che ne mostrasse
ricognizione contra quella peste d'uomini, che non dovevano piú vivere, né
doveva differirlo piú oltre, perdendosi ogni giorno molti per questo, de' quali
Dio domandarà conto da lui, se non vi porgesse presto rimedio. Questa
predica non solo generò sospetto, ma eccitò anco raggionamenti
che dal legato fosse stata commandata, e dalle essortazioni publiche,
concludevano quali dovevano essere le private: al qual romore per rimediare, il
cardinale partí di notte secrettamente e ritornò con celerità in
Italia. Ma la sospezzione de' protestanti s'accrebbe per gli avisi andati da
Roma che il papa, nel licenziare alcuni capitani, avesse loro data speranza
d'adoperargli l'anno futuro.
[I procuratori del Mogontino gionti in Trento]
Ma in Trento
il 18 maggio gionse il vescovo sidoniense con un frate teologo et un secolar
dottore, come procuratori dell'elettor cardinale arcivescovo Mogontino. Il vescovo
fece una meza orazione dell'ossequio dell'elettore verso il papa e la Sede
apostolica, lodando molto la celebrazione del concilio, come solo rimedio
necessario a quelle fluttuazioni della fede e religione catolica. Da' legati fu
risposto commendando la pietà e divozione di quel prencipe, e quanto
all'admissione del mandato, dissero che era necessario prima vederlo, per
essere fatta di nuovo una provisione di Sua Santità, che nissuno possi
dar voto per procuratore, che restavano in dubio se comprendeva un cardinale e
prencipe, che sapevano molto ben la prerogativa che meritava Sua Signoria
Illustrissima, alla quale erano prontissimi di fare tutti gli onori et aver
ogni rispetto. Si misero in confusione questi tre sentendosi fare
difficoltà, e consegliavano di partire. I legati furono pentiti della
risposta, conoscendo di quanta importanza sarebbe stato se il primo prencipe e
prelato di Germania in dignità e ricchezze, si fosse alienato da quel
concilio, et operarono per via d'ufficii fatti destramente dal cardinal di
Trento, dalli ambasciatori et altri che si fermassero, dicendo che la bolla
parlava solo de' vescovi italiani, che da' legati era stato preso errore; i
quali legati si contentarono ricevere questa carica, per ovviare a tanto
disordine.
Scrissero
però a Roma dando conto del successo e richiedendo se dovevano
ricevergli stante la bolla, aggiongendo parergli duro dar ripulsa a'
procuratori d'un tanto personaggio che si mostra fervente e favorevole alla
parte de' catolici, quale per ciò si potrebbe intepidire; instando
d'averne risposta, perché la deliberazione che si facesse in quella causa,
servirebbe per essempio, poiché potrebbono forse mandare procuratori anco gli
altri vescovi grandi di Germania: i quali non sarebbe manco bene che andassero in
persona a Trento, perché, soliti a cavalcar con gran comitive, non potrebbono
capire tutti in quella città; e scrissero che sopra tutto non bisognava
sdegnar i tedeschi, naturalmente sospettosi e che facilmente si risolvono,
tanto piú quando si tratta di persone amorevoli e benemeriti, come il Cocleo,
che è già in viaggio per nome del vescovo Heicstetense, il qual
ha scritto tante cose contra gli eretici, che si vergognerebbono di dire che
non potesse aver voto in concilio. Il pontefice non giudicò ben respondere
precisamente sopra di ciò, attese le difficoltà di Napoli: perché
continuando il vicerè nella sua risoluzione, fu fatto il mandato alli 4
che per nome di tutti intervenissero; quali posti in punto, passarono da Roma,
tacendo d'esser eletti procuratori degli altri e dicendo andare per nome
proprio e che gli altri averebbono seguito. Ma scrisse a' legati che
trattenessero i procuratori, dando buone parole sin che egli dasse altra
risoluzione. I napolitani nell'istesso tenore parlarono anco al loro arrivo in
Trento, dissimulando cosí il papa, come i legati, per aspettare a farne motto
quando fosse risoluto il tempo dell'aprire il concilio.
[I prelati in Trento s'annoiano e si turbano]
Nel fine di
maggio erano gionti in Trento 20 vescovi, 5 generali et un auditor di rota,
tutti già molto stanchi dall'aspettare, i quali lodavano gli altri, che
non essendosi curati d'esser fretolosi, aspettavano di vedere occasione piú
raggionevole di partire da casa: sí come con qualche loro disgusto erano chiamati
corrivi da quelli che non s'erano mossi cosí facilmente. Dimandavano
però a legati abilitazione di poter andare 15 o 20 giorni a Venezia, a
Milano o altrove per fuggire le incommodità di Trento, pretendendo o
indisposizione, o necessità di vestirsi, o altri rispetti. Ma i legati,
conoscendo quanto ciò importasse alla reputazione del concilio, gli
trattenevano, parte con dire che non avevano facoltà di concedere la
licenza e parte con dar speranza che fra pochi giorni s'averebbe dato
principio. L'ambasciatore cesareo ritornò all'ambasciaria sua a Venezia,
sotto pretesto d'indisposizione, avendo lasciato i legati dubii se fosse con
commissione di Cesare con qualche artificio, o pur per stanchezza di star in
ocio con incommodità: promesse presto ritorno, aggiongendo che fra tanto
restavano gli ambasciatori del re de' Romani per aiutare il servizio divino, e
nondimeno che desiderava non si venisse all'apertura del concilio sino al suo
ritorno.
Ma in fine
dell'altro mese la maggiore parte de' vescovi, spinti chi dalla povertà,
chi dall'incommodo, fecero querele grandissime et eccitata tra loro quasi una
sedizione, minacciavano di partirsi, ricorrendo a Francesco Castelalto,
governatore di Trento, qual Ferdinando aveva deputato per tenere il luogo suo,
insieme con Antonio Gineta. Egli si presentò a' legati e fece loro
instanza, per nome del suo re, che ormai si dasse principio, vedendosi quanto
bene sia per seguire dalla celebrazione e quanto male dal temporeggiare cosí.
Di questo i legati si riputarono offesi, parendogli che era un volere mostrar
al mondo il contrario del vero et attribuir a loro quella dimora che nasceva
dall'imperatore; e quantonque avessero tra loro risoluto di dissimulare e rispondere
con parole generali, nondimeno il cardinale del Monte non poté raffrenare la
sua libertà che nel fare la risposta non concludesse in fine,
confortandolo ad aspettare don Diego, il quale aveva piú particolari
commissioni di lui. Grande era la difficoltà in trattenere e consolare i
prelati che sopportavano malamente quella ociosa dimora, e massime i poveri, a'
quali bisognavano danari e non parole: per il che si risolsero di dare a spese
del pontefice 40 ducati per uno a' vescovi di Nobili, di Bertinoro e di Chioza,
che piú delli altri si querelavano: e temendo che quella munificenza non dasse
pretensione per l'avvenire, si dichiararono che era per un sussidio e non per
provisione. Scrissero al pontefice dandogli conto di tutto l'operato e
mostrandogli la necessità di sovvenirgli con qualche maggior aiuto; ma
insieme considerandogli che non fosse utile dar cosa alcuna sotto nome di
provisione ferma, accioché i padri non paressero stipendiarii di Sua
Santità, e restasse fomentata la scusa de' protestanti di non
sottomettersi al concilio per essere composto de soli dependenti et obligati al
papa.
[Cesare cita l'elettor di Colonia, il che
è biasimato a Trento e viepiú dal papa]
In questo
medesimo tempo in Vormazia l'imperatore citò l'arcivescovo di Colonia,
che in termine di 30 giorni comparisse inanzi a sé o mandasse un procuratore
per rispondere alle accuse et imputazioni dategli; commandando anco che tra
tanto non dovesse innuovare cosa alcuna in materia di religione e riti, anzi
ritornare nello stato di prima le cose innovate. Già sino del 1536
Ermanno, arcivescovo di Colonia, volendo riformare la sua chiesa, fece un
concilio de' vescovi suoi suffraganei, dove molti decreti furono fatti e se ne
stampò un libro composto da Giovanni Gropero canonista, che per servizii
fatti alla Chiesa romana fu creato poi cardinale da papa Paolo IV. Ma o non si
satisfacendo l'arcivescovo né il Gropero medesimo di quella riforma, avendo
mutato opinione, del 1543 congregò il clero e la nobiltà e li
principali del suo Stato, e stabilí un'altra sorte di riformazione; la quale,
se ben da molti approvata, non piacque a tutto 'l clero, anzi la maggior parte
se gli oppose, e se ne fece capo Gropero, il qual prima l'aveva consegliata e
promossa. Fecero ufficio con l'arcivescovo che volesse desistere et aspettare
il concilio generale o almeno la dieta imperiale. Il che non potendo ottenere,
del 1543 appellarono al pontefice et a Cesare, come supremo avvocato e
protettore della Chiesa di Dio. L'arcivescovo publicò con una sua
scrittura che l'appellazione era frivola e che non poteva desistere da quello
che apparteneva alla gloria di Dio et emendazione della Chiesa, che egli non
aveva da fare né con luterani, né con altri, ma che guardava la dottrina
consenziente alla Sacra Scrittura. Proseguendo l'arcivescovo nella sua riforma
et instando il clero di Colonia in contrario, Cesare ricevette il clero nella
sua protezzione e citò l'arcivescovo, come s'è detto.
Di questo
essendo andato aviso in Trento, diede materia di passare l'ocio, almeno con
raggionamenti. Si commossero molto i legati, e tra i prelati che si
ritrovavano, quei di qualche senso biasimavano l'imperatore che si facesse
giudice in causa di fede e di riforma; e la piú dolce parola che dicevano era
il procedere cesareo essere molto scandaloso: comminciarono a conoscere di non
esser stimati, e che lo star in ocio era insieme un star in vilipendio del
mondo. Perciò discorrevano essere costretti a dichiararsi d'essere
concilio legitimamente congregato, et a dare principio all'opera di Dio,
incomminciando le prime azzioni dal procedere contra l'arcivescovo suddetto,
contra l'elettore di Sassonia, contra il lantgravio d'Assia et anco contra il
re d'Inghilterra. Avevano concetto spiriti grandi, sí che non parevano piú quei
che pochi giorni prima si riputavano confinati in prigione. Raffrenavano questo
ardore i ministri del Magontino, considerando la grandezza di quei prencipi e
l'aderenza, et il pericolo di fargli restringere col re d'Inghilterra, e metter
un fuoco maggiore in Germania; et il cardinale di Trento non parlava in altra
forma. Ma i vescovi italiani, riputandosi da molto se mettessero mano in
soggetti eminenti, dicevano essere vero che tutto 'l mondo sarebbe stato
attento ad un tal processo, nondimeno che tutta l'importanza era principiarlo e
fondarlo bene. S'incitavano l'un l'altro, dicendo che bisognava resarcire parte
della tardità passata con la celerità. Che si dovesse domandar al
papa qualche uomo di valore che facesse la perorazione contra i rei, come fece
Melchior Baldassino contra la Pragmatica nel concilio lateranense, persuasi che
il privare i prencipi delli Stati loro non avesse altra difficoltà che
di ben usare le formule de' processi. Ma i legati, cosí per questa come per
altra occorrenza, conobbero essere necessario aver un tal dottore, e scrissero
a Roma che fosse proveduto d'alcuno.
Il pontefice,
intesa l'azzione dell'imperatore, restò attonito e dubioso se dovesse
querelarsi o tacere; il querelarsi, non dovendo da ciò succedere
effetto, lo giudicava non solo vano, ma anco una publicazione del poco potere,
e questo lo moveva grandemente. Ma dall'altra parte ben pensato quanto
importasse se egli avesse passato con silenzio una cosa di tanto momento,
deliberò di non fare parole, come a Trento, ma venire a' fatti per
rispondere poi all'imperatore, s'egli avesse parlato. E però sotto il 18
luglio fece un'altra citazione contra l'istesso arcivescovo, che in termine di
60 giorni dovesse comparire personalmente inanzi a lui. Citò ancora il
decano di Colonia e 5 altri canonici de' principali, lasciando in disputa alle
persone in che modo l'arcivescovo potesse comparire inanzi a doi che lo
citavano per la medesima causa in diversi luoghi, nel medesimo tempo, et in che
appartenesse all'onore di Cristo una disputa di competenza di foro. Ma di
questo, quello che succedesse e che termine avesse la causa si dirà al
suo luogo.
[Cesare tenta di far condiscendere i
protestanti a sottomettersi al concilio]
Tornando a
quello che tocca piú prossimo il concilio, furono dall'imperatore fatti diversi
tentativi nella dieta, acciò i protestanti condescendessero ad accordare
gli aiuti contra i turchi, senza far menzione delle cause della religione: al
che perseveravano rispondendo non potere fare risoluzione, se non gli era data
sicurezza che la pace si dovesse conservare e che per la convocazione fatta in
Trento sotto nome di concilio non s'intendesse venuto il caso della pace
finita, secondo il decreto della dieta superiore, ma fosse dichiarato che la
pace non potesse esser interrotta, né essi sforzati per qualonque decreti si
facessero in Trento: perché a quel concilio non possono sottomettersi, dove il
papa, che gli ha già condannati, ha intiero arbitrio. L'imperatore
diceva non potergli dare pace che gli essenti dal concilio, all'autorità
del quale tutti sono sottoposti; che non averebbe modo di scusarsi appresso
agli altri re e prencipi, quando alla sola Germania si concedesse non ubedire
al concilio, congregato principalmente per rispetto di lei. Ma se essi
pretendevano aver causa, come dicevano, di non sottomettersi, andassero al
concilio, rendessero le raggioni perché l'hanno in sospetto; che sarebbono
ascoltati, e se allora gli fosse parso essergli fatto torto, averebbono potuto
ricusarlo, non essendo pertinente il prevenire et insospettirsi di quello che
non appare, e pretendere gravame di cose future, facendo giudicio di quello che
ancora non si vede. A che replicavano non parlare di cose future, ma passate,
essendo la loro religione stata già dannata e perseguitata dal pontefice
e da tutti i suoi aderenti. Onde non avevano d'aspettare giudicio futuro,
essendovi già il passato. Perilché esser giusta cosa che nel concilio il
papa con aderenti suoi di Germania e d'ogni altra regione facessero una parte,
et essi l'altra, e della difficultà circa il modo et ordine di procedere
fossero giudici l'imperatore et i re e prencipi; ma quanto al merito della
causa, la sola parola di Dio.
Né potero
essere mai rimossi da questa risoluzione, ancorché l'ambasciatore di Francia,
che era ivi presente, facesse instanza grandissima che acconsentissero al
concilio con parole che tenevano del minaccievole, dettate a
quell'ambasciatore, quando di Francia partí, da' ministri di quel re fautori
del pontefice. Fu messo in campo da' cesarei di trasferire il concilio in
Germania, sotto promessa dell'imperatore di far efficace opera che il pontefice
vi condescendesse: la qual proposta fu dagli altri accettata sotto condizione
che fosse stabilita la pace sin tanto che fosse quivi congregato. Ma Carlo,
certo che il pontefice mai averebbe acconsentito, vidde che questo era un
dargli pace perpetua, e però meglio era lasciare le cose in sospeso,
concedendola solo fin ad un'altra dieta, vedendosi costretto per non avere
ancora concluso la tregua co' turchi e stimando piú quella guerra, e pensando
che per occasioni d'un colloquio si sarebbono offerti altri mezi raggionevoli
all'avvenire per costringerli di nuovo che acconsentissero al concilio di
Trento, e, recusando, avergli per contumaci e fargli la guerra. Perilché finalmente
a' 4 d'agosto mise fine alla dieta, ordinandone una per il mese di genaro
seguente in Ratisbona, dove i prencipi intervenissero in persona, et
instituendo un colloquio sopra le cause della religione, di 4 dottori e 2
giudici per parte, il qual s'incomminciasse al decembre, acciò la
materia fosse digesta inanzi la dieta; confermando e rinovando i passati editti
di pace, et ordinando il modo di pagare le contribuzioni per la guerra. Come il
colloquio procedesse nel suo luogo si dirà.
Partiti i
protestanti da Vormazia, diedero fuori un libro dove dicevano in somma che non
avevano il tridentino per concilio, come non congregato in Germania, secondo le
promesse di Adriano e dell'imperatore; al che avendo mostrato di sodisfare con
eleggere Trento, era un farsi beffe di tutto 'l mondo, non potendosi dire
Trento in Germania, se non perché il vescovo è prencipe dell'Imperio: ma
per quello che tocca alla sicurtà, essere cosí ben in Italia et in
potere del pontefice, come Roma medesima; e maggiormente non averlo per
legitimo, perché papa Paolo voleva presedere in quello e proponere per i
legati, perché i giudici a lui erano obligati con giuramento; che essendo
contra il papa la lite instituita, non doveva egli essere giudice; che
bisognava trattare prima della forma del concilio che delle autorità
sopra quali si doveva fare fondamento.
Ma ugualmente
in Trento, come a Roma dispiacque sopra modo la resoluzione dell'imperatore,
cosí perché un prencipe secolare s'introme[tte]sse in cause di religione, come
perché gli pareva esser essautorato il concilio, poiché essendo quello
imminente, si dava ordine di trattare altrove le cause della religione. I
prelati che in Trento si ritrovavano quasi con una sola bocca biasimavano il
decreto, dicendo essere peggio che quello di Spira, e maravigliandosi come il
pontefice, che contra quello si era mostrato cosí vivo, avesse tolerato e
tolerasse questo, dopo che era inditto e già congregato il concilio.
Cavavano da questo manifesto indizio che lo star loro in Trento era una cosa
vana e disonorevole: s'ingegnavano i legati quanto potevano di consolargli e
persuadergli che tutto era stato permesso da Sua Santità a buon fine. Ma
essi replicavano che a qualonque fine sia permesso e qualonque cosa ne segua,
non si torrà mai la nota fatta non solo al pontefice e Sede apostolica,
ma al concilio et a tutta la Chiesa; né potevano i legati resistere alle loro
querele, le quali poi terminavano tutte in domandar licenza di partire, alcuni
allegando necessarii et importanti loro affari, altri per ritirarsi in alcune
delle città vicine per infermità o indisposizione. E se ben i
legati non concedevano licenza a nissuno, alcuni alla giornata se l'andavano
prendendo, sí che inanzi il fine del mese di settembre restarono pochissimi. Ma
in Roma, se ben per la negoziazione del cardinale Farnese si prevedeva che cosí
dovesse essere, nondimeno, dopo succeduto, si comminciò a pensarci con
maggior accuratezza: si consideravano i fini dell'imperatore molto differenti
da quello che era l'intenzione del pontefice: perché Cesare, col tenere le cose
cosí in sospeso, faceva molto ben il fatto suo con la Germania, dando speranza
a protestanti che, se fosse compiacciuto, non averebbe lasciato aprire il
concilio, e mettendogli anco in timore che, non compiacciuto l'averebbe aperto
e lasciato procedere contra di loro. Per il che faceva nascere sempre nuovi
emergenti che tenessero le cose in sospeso, trasportando dolcemente il tempo
sotto diversi colori, et alle volte proponendo anco che fosse meglio
trasferirlo altrove, dando anco speranza di contentarsi che si transferisse in
Italia et anco a Roma, accioché piú facilmente il papa et i prelati italiani
porgessero orrecchie alla proposta e tirassero il concilio in longo.
[Il papa si risolve alla traslazione, e
dà l'investitura di Parma e Piacenza al suo figlio naturale]
Il pontefice
era molto angustiato: alle volte si eccitava in lui il desiderio antico de'
suoi precessori che il concilio non si celebrasse, e condannava se stesso
d'aver caminato questa volta tanto inanzi; vedeva però di non poter
senza gran scandalo e pericolo mostrar apertamente di non volerlo, con
dissolvere quella poca di congregazione che era in Trento; vedeva chiaramente
che per estinguer l'eresie non era utile rimedio, perché per quello che s'aspettava
all'Italia, era piú ispediente con la forza e con l'ufficio dell'inquisizione
provedere, dove che l'espettazione del concilio impediva questo che era l'unico
rimedio. Quanto alla Germania appariva ben chiaramente che il concilio piú
tosto difficoltava che facilitava quelle cose; nel rimanente, ancora
celebrandosi, aveva gran dubio se dovesse concedere all'imperatore i mezi
frutti e vassallatici de' monasterii di Spagna; perché non facendolo, Sua
Maestà ne sarebbe restata sdegnata, e facendolo dubitava che nel
concilio scoprissero i prelati spagnuoli alienazione d'animo da lui e dalla
Sede apostolica, che ad altri donava quello che a loro apparteneva. Vedeva anco
una mala sodisfazzione ne' prelati del regno, a' quali averebbe parso
intolerabile il pagare le decime et insieme stare su le spese nel concilio;
giudicava che quelli di Francia si sarebbono accostati con loro e fomentatigli
non per carità, ma per impedire i commodi dell'imperatore. Perilché
comminciò voltare l'animo alla translazione, purché non si trattasse di
portarlo piú dentro in Germania, come era stato trattato in Vormes, al che non
voleva acconsentire mai (diceva egli), se ben s'avesse avuto 100 ostaggi e 100
pegni; massime che col trasferirlo piú dentro in Italia in luogo piú fertile,
commodo e sicuro, gli pareva fuggire l'inconveniente di continuare in quello
stato e tener il concilio sopra le ancore, e tirarlo di stagione in stagione,
peggior deliberazione che si potesse fare per infiniti e perpetui pregiudicii
che potrebbono succedere; oltre che, col tempo che la translazione portava, era
rimediato al male presente, che era avere un concilio in concorrenza d'un
colloquio e d'una dieta instituita per causa di religione, non sapendo che fine
né l'uno né l'altro potessero avere; cosa disonorevole e pericolosa e di mal
essempio, e si sodisfaceva a' prelati col partire da Trento. Cosí deliberato,
per esser provisto a far opportunamente l'essecuzione, mandò a' legati
la bolla di facoltà per trasferirlo, data sotto 22 di febraro, della
qual dí sopra s'è detto.
Non
occupavano questi pensieri né tutto, né la principal parte dell'animo del
pontefice, sí che non pensasse molto piú all'infeudazione di Parma e Piacenza
nella persona del figliuolo, quale aveva a Cesare communicata, e la
mandò ad effetto nel fine d'agosto, senza rispetto dell'universale
mormorio che, mentre si trattava di reformar il clero, il capo donasse
principati ad un figliuolo di congionzione dannata, e quantonque tutto 'l
collegio lo sentisse male, se ben solo Giovan Dominico de Cupis, cardinale de
Trani, con l'aderenza d'alcuni pochi, si opponesse, e Giovan Vega, ambasciator
imperiale, ricusasse intervenirvi, e Margarita d'Austria, sua pronuora, che
averebbe voluto l'investitura in persona del marito, perché perdeva il titolo
di duchessa di Camerino e non ne acquistava altro, se ne mostrasse scontenta.
Dipoi, voltato tutto ad uscire delle difficultà e pericoli che portava
il concilio, stando cosí né aperto, né chiuso, ma sí ben in termine di poter
servire all'imperatore contra di lui, deliberò di mandar il vescovo di
Caserta per trattare con Sua Maestà, proponendo che si aprisse e se gli
dasse principio, overo si facesse una sospensione per qualche tempo; e quando
questo non fosse piacciuto, la translazione in Italia, per dare tempo onestamente
a quello che si fusse trattato nel colloquio e dieta, o qualche altro partito,
che non fosse cosí disonorevole e pericoloso per la Chiesa, come era lo star in
concilio in pendente con i legati e prelati ociosi.
[Il papa si risolve d'aprire il concilio]
Questa
negoziazione s'incaminò con varie difficoltà, perché l'imperatore
era risoluto di non consentire né a suspensione, né a translazione, né
parendogli utile a' suoi fini l'apertura, non negava assolutamente alcuna delle
proposte, né avendo altro partito non sapeva che altro fare se non interporre
difficoltà alle tre proposte. Finalmente nel mezo d'ottobre trovò
temperamento che il concilio si aprisse e trattasse della riformazione,
soprasedendo dalla trattazione delle eresie e de' dogmi, per non irritar i
protestanti. Il pontefice, avisato per lettere del noncio, fu toccato nel
intimo del cuore; vedeva chiaro che questo era dare la vittoria in mano a'
luterani e spogliare lui di tutta l'autorità, facendolo dependere da'
colloqui e diete imperiali, con ordinare in quelle trattazioni di religione e
vietarle al concilio, et indebolirlo con alienargli i suoi per via di riforma,
e fortificare i luterani col sopportare o non condannare l'eresie loro. E
certificato in se stesso che gli interessi suoi e quei di Cesare, per la
contrarietà, non potevano unirsi, deliberò tenergli i suoi fini
occolti et operare come metteva conto alle cose sue: però, senza mostrar
alcuna displicenza della risposta, replicò immediate al Caserta che, per
compiacere a Sua Maestà, deliberava d'aprir il concilio senza
interposizione di tempo, commandando che si dasse principio agl'atti
conciliari, procedendo tutti con piena libertà e con debito modo et
ordine. Il che disse il pontefice cosí con parole generali, per non esprimersi
quali cose dovessero essere prima o dopo proposte e trattate o lasciate in
tutto; essendo risoluto che le cose della religione e de' dogmi fossero
principalmente trattate senza addur altra raggione, quando fosse costretto
dirne alcuna, se non che il trattare della riforma sola era una cosa mai piú
usata, contraria alla riputazione sua e del concilio. Perilché l'ultimo
d'ottobre, avendo communicato il tutto co' cardinali, di loro conseglio e
parere stabilí e scrisse anco a Trento che il concilio dovesse esser aperto per
la futura domenica, Gaudete dell'avvento, la qual doveva esser a' 13
decembre.
Arrivata la
nuova, i prelati mostrarono grandissima allegrezza, vedendo d'essere liberati
dal pericolo che gli pareva soprastare di rimanere in Trento longamente e senza
operare cosa alcuna. Ma poco dopo tornarono in campo le ambiguità,
perché arrivarono lettere dal re di Francia a' suoi prelati, che erano tre, di
dovere partire. A' legati ciò parve cosa importantissima, essendo come
una dichiarazione che la Francia et il re non approvassero il concilio.
Tentarono ogni prattica per impedire quella partita; dicevano a' tre prelati
che quell'ordine era dato dal re in un altro stato di cose e che bisognava
aspettarne un altro nuovo da Sua Maestà, poiché avesse inteso il
presente, raccordando lo scandalo che ne sarebbe successo altrimente facendo e
l'offesa che averebbono ricevuto le altre nazioni. Il cardinal di Trento ancora
et i prelati spagnuoli et italiani protestavano che non fossero lasciati
partire; perilché finalmente presero temperamento che solo monsignore di Renes
partisse per dare conto al re, e gli altri doi rimanessero, il che, quando fu
saputo dal re, fu anco lodato.
L'ultimo di
novembre, avicinandosi il tempo prefisso all'apertura, scrissero i legati a
Roma che, per conservare l'autorità della Sede apostolica, conveniva
nell'aprirlo leggere e registrare una bolla che lo commandasse, e spedirono in
diligenza acciò potesse venir a tempo. Arrivò la risposta con la
bolla alli 11 decembre, per il che il giorno seguente i legati commandarono un
digiuno e processione per quel dí, e fecero una congregazione de tutti i
prelati, dove prima fu letta la sopranominata bolla e poi trattato di tutto
quello che si aveva da fare il dí seguente nella sessione. Il vescovo di
Estorga con dolcissima maniera propose che fosse necessario legger in
congregazione il breve della legazione e presidenza, acciò fosse una
professione dell'obedienza e soggezzione di tutti loro alla Sede apostolica. La
quale richiesta fu approvata da quasi tutta la congregazione, anco con instanza
particolare di ciascuno. Ma il legato Santa Croce, considerando dove poteva la
dimanda capitare e che il publicare l'autorità della presidenza sarebbe
stato con pericolo che fosse limitata, riputando meglio, con tenerla secreta,
poterla usare come gli accidenti comportassero, rispose prontamente che nel
concilio tutti erano un solo corpo e che tanto sarebbe stato necessario leggere
le bolle di ciascun vescovo, per mostrare che egli era tale et instituito dalla
Sede apostolica, che sarebbe cosa longa, e per quelli che veniranno alla
giornata occuperebbe tutte le congregazioni; e con questo mise fine
all'instanza e ritenne la degnità della legazione che consisteva in
esser illimitata.
[Si fa l'apertura del concilio con preghiere e
ceremonie]
Venne
finalmente il 13 di decembre, quando in Roma il papa publicò una bolla
di giubileo, dove narrava aver intimato il concilio per sanare le piaghe
causate nella Chiesa dagli empi eretici. Perilché essortava ogniuno ad aiutare
i padri congregati in esso con le loro preghiere appresso Dio; il che per fare
piú efficacemente e fruttuosamente, dovessero confessarsi e digiunare tre dí, e
ne' medesimi intervenire alle processioni e poi ricevere il santissimo
sacramento, concedendo perdono di tutti i peccati a chi cosí facesse. E
l'istesso giorno in Trento i legati con tutti i prelati, che erano in numero
Le qual cose
fatte secondo il rito del ceremoniale romano, s'inginocchiarono tutti a fare
l'orazione con voce sommessa, accostumata in tutte le sessioni, e poi la
publica: «Adsumus, Domine, ecc., Sancti Spiritus», ecc., che il presidente dice
ad alta voce in nome di tutti, e cantate le letanie, dal diacono fu letto
l'Evangelio: «Si peccaverit in te frater tuus», e finalmente cantato l'imno:
«Veni, creator Spiritus», e sentati tutti a' proprii luoghi, il cardinal del
Monte con la propria voce pronunciò il decreto, per parole
interrogative; leggendo se piaceva a' padri, a laude di Dio, estirpazione
dell'eresie, riformazione del clero e popolo, depressione degli inimici del
nome cristiano, determinare e dicchiarare che il sacro tridentino e general
concilio incomminciasse e fosse incomminciato: al che tutti risposero, prima i
legati, poi i vescovi et altri padri per la parola: «placet». Soggionse poi se,
attesi gli impedimenti che dovevano portare le feste dell'anno vecchio e nuovo,
gli piaceva che la sequente sessione si facesse a' 7 di gennaro, e risposero
parimente che gli piaceva. Il che fatto, Ercole Severalo, promotor del
concilio, fece instanza a' notarii che del tutto facessero instromento. Si
cantò l'inno: «Te Deum laudamus», et i padri, spogliati gli abiti
pontificali e vestiti i communi, accompagnarono i legati, precedendo inanzi
loro la croce. Le qual ceremonie essendo state usate nelle seguenti sessioni
similmente, non si replicaranno piú.
[Sommario del sermone del Bitonto et i
giudizii del mondo]
Stavano la
Germania et Italia in gran curiosità d'intendere le prime azzioni di
questo consesso con tante difficoltà principiato, et i prelati et i loro
famigliari, che si ritrovavano in Trento, incaricati dagli amici d'avisarnegli.
Perilché immediate dopo la sessione fu mandato per tutto copia dell'ammonizione
de' legati e dell'orazione del Bitonto, le quali furono anco presto poste in stampa.
De quali per narrare ciò che fosse detto communemente è
necessario prima riferire in sommario il contenuto dell'orazione. Quella ebbe
principio dal mostrare la necessità di concilio, per essere passati 100
anni dopo la celebrazione del fiorentino, e perché le cose ardue e difficili,
alla Chiesa spettanti, non si possono ben trattare se non in quello. Perché ne'
concilii sono stati fatti i simboli, dannate l'eresie, emendati i costumi,
unite le nazioni cristiane, mandato gente all'acquisto di Terra Santa, deposti
re et imperatori et estirpati i schismi. E che per ciò i poeti
introducono i concilii de' dei. E Moisè scrive che furono voci
conciliari il decreto di fare l'uomo e di confondere le lingue de' giganti. Che
la religione ha 3 capi: dottrina, sacramenti e carità, che tutti tre
chiamano concilio. Narrò le corruttele entrate in tutti questi tre, per
restituire i quali il papa, col favore del imperatore, de' re di Francia, de'
Romani e di Portugallo, e di tutti i principi cristiani, ha ridotta la sinodo e
mandato i legati. Fece digressione longhissima in lode del papa; un'altra poco
piú breve in commendazione dell'imperatore, lodò poi i tre legati,
traendo le commendazioni dal nome e cognome di ciascuno d'essi; soggionse che,
essendo il concilio congregato, tutti dovevano adunarsi a quello, come al caval
di Troia. Invitò i boschi di Trento a risuonare per tutto 'l mondo che
tutti si sottomettino a quel concilio; il che se non faranno, si dirà
con raggione che la luce del papa è venuta al mondo e gli uomini hanno
amato piú le tenebre che la luce. Si dolse che l'imperatore non fosse presente,
o almeno Diego che lo rappresentava. Si congratulò col cardinale
Madruccio che nella sua città il papa avesse congregato i padri dispersi
et erranti. Si voltò a' prelati e disse che aprire le porte del concilio
è aprire quelle del paradiso, di donde debbia descendere l'acqua viva
per empire la terra della scienza del Signore. Essortò i padri ad
emendarsi et aprire il cuore come terra arida per riceverla; soggiongendo che,
se non lo faranno, lo Spirito Santo nondimeno aprirà loro la bocca, come
quella di Caiphas e di Balaam, acciò fallando il concilio, non falli la
Chiesa santa, restando però le menti loro ripiene di spirito cattivo.
Gli essortò a deponere tutti gli affetti, per poter degnamente dire:
«È parso allo Spirito Santo et a noi». Invitò la Grecia, Francia,
Spagna et Italia e tutte le nazioni cristiane alle nozze. In fine si
voltò a Cristo, pregandolo per l'intercessione di san Vigilio, tutelar
della valle di Trento, ad assistere a quel concilio.
L'ammonizione
de' legati fu stimata pia, cristiana e modesta e degna de' cardinali; ma il
sermone del vescovo fu giudicato molto differente; la vanità et
ostentazione d'eloquenzia era notata da tutti: ma le persone intelligenti
comparavano come sentenzia santa ad una empia quelle ingenue e verissime parole
de' legati che, senza una buona recognizione interna, invano s'invocarebbe lo
Spirito Santo, col detto del vescovo tutto contrario, che senza di quella anco
sarebbe dallo Spirito Santo aperta la bocca, restando il cuore pieno di spirito
cattivo. Era stimata arroganzia l'affirmare che errando quei pochi prelati, la
Chiesa tutta dovesse fallare; quasi che altri concilii di 700 vescovi non
abbiano errato, ricusando la Chiesa di ricevere la loro dottrina. Aggiongevano
altri questo non esser conforme alla dottrina de' ponteficii, che non concedono
infallibilità, se non al papa et al concilio per virtú della conferma
papale. Ma l'avere comparato il concilio al caval di Troia, che fu machina
insidiosa, era notato d'imprudenza e ripreso d'irreverenza. L'avere ritorto le
parole della Scrittura, che Cristo e la dottrina sua, luce del Padre, è
venuto al mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, facendo che
il concilio o sua dottrina sia luce del papa aparsa al mondo, che se non fosse
ricevuta, si dovesse dire: gli uomini hanno amato piú le tenebre che la luce,
era stimata una biastema, e si desiderava almeno non fossero prese le parole
formali della divina Scrittura per non mostrare cosí apertamente di
vilipenderla.
[I legati chiedono avviso a Roma intorno a
molte cose]
Ma in Trento,
fatta l'apertura non sapevano ancora, né i prelati, né i legati medesimi, che
cosa si dovesse trattare, né che modo si dovesse servare. Perilché, dando conto
delle cose fatte inanzi et in quella, scrissero i legati a Roma una lettera
degna d'essere reportata in tutte le sue parti. Prima dicevano avere statuito
la seguente sessione al giorno dopo l'Epifania, come termine da non poter essere
tassato né di soverchia prolongazione, né di troppo brevità,
acciò che fra tanto potessero esser avisati come doveranno governarsi
nelle altre sessioni, sopra che desidera[va]no aver lume; e perché potrebbono
esser interpellati ad ogni ora di diverse cose, le quali non avessero spacio
d'avisare et aspettare risposta, ricercavano che se gli mandasse
un'instruzzione piú particolare che fosse possibile, che sopra tutto
desideravano essere avvertiti quanto al modo e forma di procedere e di proporre
e risolvere, e quanto alle materie da trattare; dimandarono specialmente se le
cause dell'eresie averanno da essere le prime e se si averanno da trattare
generalmente o in particolare, dannando la falsa dottrina o le persone degli
eretici famosi principali, o l'uno e l'altro insieme; se proponendo da' prelati
qualche articolo di riforma, alla quale pare che ogni uno miri, si
doverà trattarne insieme con l'articolo della religione, o prima, o
dopo; se il concilio ha da intimare a' popoli e nazioni il suo principio, invitando
i prelati e prencipi et essortando i fideli a pregare Dio per il buon
progresso, o se Sua Santità vorrà farlo essa. Se occorrerà
scrivere qualche lettera missiva o responsiva, che forma s'avrà da usare
e che sigillo; similmente, che forma s'averà da usare nella estensione
de' decreti; se doveranno mostrare di sapere o dissimulare il colloquio e dieta
che si faranno in Germania; se nel procedere doveranno andare tardi o presto,
cosí nel determinare le sessioni, come nel proponere le materie. Avisarono essere
pensiero d'alcuni prelati che si proceda per nazione; il qual modo essi
tenevano per sedizioso, che averebbe fatto ammutinare insieme quelli di
ciascuna, e che il maggior numero degli italiani, che sono i piú fideli alla
Sede apostolica, non averebbe giovato, quando il voto di tutti insieme fosse
stato d'ugual valore a quello di pochi francesi, o spagnoli, o tedeschi.
Avisarono anco che si penetrava altri avere dissegnato di disputare della
potestà del concilio e del papa, cosa pericolosa per fare nascer un
schisma tra i catolici medesimi; e che nella congregazione de' 12 si vidde che
tutti i prelati unitamente persistevano in volere veder il mandato della loro
facoltà, il che con molta arte gli era besognato fugire di mostrare, non
sapendo ancora come si doveva intendere la loro presidenza e quanto la
Santità Sua dissegnasse di farla valere. Dimandavano ancora che fossero
ordinate le cavalcate per tutta la via, accioché potessero ogni giorno et ogni
ora, secondo le occorrenze, mandare e ricever avisi; ricercavano qualche ordine
circa la precedenzia degli oratori de' prencipi, e provisione de danari, poiché
2000 scudi mandatigli qualche giorno inanzi erano spesi nelle provisioni de'
vescovi poveri.
Instavano i
prelati che si dasse principio all'opera; perilché i legati per dargli qualche
sodisfazzione e per mostrare di non star in ocio, a 18 fecero una
congregazione, dove però non fu proposto altro che il modo del vivere e
conversare e di tener le famiglie in ufficio; e molte cose furono dette contra
l'uso introdotto, massime in Roma, di portare l'abito di prelato nella
ceremonia solamente e di rimanente vestire da secolare; riprese ugualmente le
vesti sontuose, come le abiette e sordide; dell'età ancora della servitú
fu detto molto, ma il tutto rimesso ad essere risoluto ad un'altra
congregazione, la qual si tenne a' 22 e si consumò tutta in
raggionamenti di simil ceremonie, con conclusione che era necessaria
principalmente una buona riformazione nell'animo; perché avendo per mira il
decoro al grado conveniente e l'edificazione del popolo, ciascuno vederà
che rimediare in sé e nella famiglia sua.
Ma il papa,
ricevuto l'aviso dell'apertura del concilio, deputò una congregazione
de' cardinali e curiali per sopraintendere e consegliare le cose di Trento; con
questi consultando, risolse le cose non esser ancora in stato che si potesse
veder chiaro che materie trattare e con che ordine: fece rispondere a' legati
che non conveniva alla sinodo invitare né prencipi, né prelati, meno invitare
alcuno ad aiutargli con le orazioni, perché questo era fatto da lui
sufficientemente con la bolla del giubileo, e quello con le lettere della
convocazione; che parimente non era da pensare che la sinodo scrivesse ad
alcuno, potendo supplire essi legati con lettere proprie loro, scritte per nome
commune. Per quello che tocca la estensione de' decreti, dovessero intitolare:
la sacrosanta ecomenica e general sinodo tridentina, presedendo i legati
apostolici. Ma quanto alla forma del dar i voti, essere ottime le raggioni loro
di non introdurre di farlo per nazioni, e tanto piú, quanto quel modo non fu
mai usato dall'antichità, ma introdotto dal constanziense e seguito dal
basileense, che non si devono imitare: ma essendo il modo usato nell'ultimo
lateranense ottimo e decentissimo, seguissero quello, potendo anco con
quell'essempio recente e ben riuscito serrare la bocca a chi ne proponesse
altro. E per quello che tocca la condanna degli eretici e le materie da
trattare e delle altre cose da loro ricchieste, che opportunamente gli sarebbe
dato ordine; tra tanto, secondo il costume degli altri concilii, si
trattenessero nelle cose preambule; che la presidenza loro fosse mantenuta con
quel decoro che conviene a' legati della Sede apostolica, procurando insieme
col decoro dar anco sodisfazzione a tutti; ma sopra ogni cosa usando diligenza
che i prelati non uscissero de termini della onesta libertà e riverenza
verso la Sede apostolica. Era cosa piú urgente l'aiutare i prelati che
potessero fare le spese: per questo mandò un breve nel quale essentava
dalle decime tutti i prelati del concilio e gli concedeva la participazione di
tutti i frutti et emolumenti in assenzia, tanto quanto se fossero stati
presenti; mandò ancora 2000 scudi per sovvenire i vescovi indigenti,
ordinando che si facesse senza avere rispetto che ciò fosse publicato,
poiché risaputosi ancora, non poteva esser interpretato se non ufficio
amorevole d'un capo del concilio.
[Discorso delle diverse maniere di concilii e
vario procedere in essi]
Questo luogo
ricerca, per le cose dette e che si diranno in varie occasioni circa il modo di
dire i pareri in concilio, chiamato «dire li voti», che si dica come
anticamente si faceva e come s'è pervenuto all'usato in questi tempi.
L'adunanza di tutta una Chiesa per trattare in nome di Dio le occorrenze per la
dottrina e disciplina è cosa utilissima, usata da' santi apostoli
nell'elezzione di Mattia e degli 7 diaconi, et a questo sono assai simili i
concilii diocesani; ma del convenire persone cristiane da piú luoghi e lontani
per trattare insieme, vi è il celebre essempio degli Atti apostolici,
quando Paolo e Barnaba con altri di Soria convennero in Gierusalem con gli
apostoli et altri discepoli, che quivi si ritrovarono, sopra la questione
dell'osservanzia della legge; e se ben si potrebbe dire che fosse stato un
ricorso delle chiese di gentili nove ad una vecchia matrice, di onde la fede
era a loro derivata, che per longo tempo fu usato in quei primi secoli, e da
Ireneo e da Tertulliano spesso si commemora, e la lettera sia scritta da' soli
apostoli, vecchi e fratelli gierosolimitani, nondimeno, avendo parlato non solo
essi, ma ancora Paolo e Barnaba, si può con raggione chiamare concilio;
con essempio del quale i vescovi che successero dopo, tenendo che tutte le
chiese cristiane fossero una e che i vescovati tutti fossero parimente un solo
cosí formato, del quale ciascun ne tenesse una parte, non come propria, ma sí
che tutti dovessero reggere tutto, occupandosi però ciascuno piú in
quella che gli era specialmente raccommandata, come san Cipriano nell'aureo
libretto dell'unità della Chiesa piamente dimostra, occorrendo bisogno
di qual si voglia particolar chiesa, con tutto che alcune volte le persecuzioni
ardessero, si congregavano insieme quelli che potevano per ordinare in commune
la provisione; nelle qual adunanze, presedendo Cristo e lo Spirito Santo, né
avendo luogo gli affetti umani, ma la carità, senza ceremonie, né
formule prescritte, consegliavano e risolvevano quanto occorreva. Ma dopo
qualche progresso di tempo, con la carità meschiatisi gli affetti umani,
essendo necessario regolargli con qualche ordine, il principale tra congregati
in concilio, o per dottrina, o per grandezza della città o della chiesa,
o per qualche altro rispetto d'eminenza, pigliava carico di proponere e guidare
l'azzione e raccogliere i pareri. Ma dopo che piacque a Dio dare pace a' fedeli
e che i prencipi romani ricevettero la santa fede, occorrendo piú spesso
difficoltà nella dottrina e disciplina, le quali anco per l'ambizione o
altri affetti cattivi di quei che avevano seguito e credito, turbavano la
quiete publica, ebbe origine un'altra sorte di adunanze episcopali congregate
da prencipi o prefetti loro per trovare rimedio alle turbe. In questi,
l'azzione era guidata da quei prencipi o magistrati che gli congregavano,
intervenendo essi nelle azzioni, proponendo, guidando la trattazione e
decretando per interlocutorie le differenze occorrenti, restando al commun
parere del consesso la definizione del capo principale, perché era congregata
l'adunanza. Questa forma apparisce nelli concilii de' quali gli atti restano.
Si può portar per essempio il colloquio de' catolici e donatisti inanzi
Marcellino, et altri molti; ma per parlar solo de' concilii generali, questo si
vede nel concilio efesino primo inanzi Candidiano conte, mandato per presedere
dall'imperatore, e piú chiaramente nel calcedonense generale, inanzi Marziano e
giudici da lui deputati, nel constantinopolitano di Trullo inanzi Constantino
Pogonato, dove il prencipe e magistrato presedendo commanda che cosa si debbia
trattare, che ordine tenere, chi debbia parlare, chi tacere, e nascendo
differenza in queste cose, le decide et accommoda; e negli altri generali, de'
quali gli atti non restano, come del primo niceno e del secondo
constantinopolitano, attestano gli istorici di quei tempi che l'istesso fecero
Constantino e Teodosio. In questi stessi tempi non s'intermisero però
quelli altri, quando li stessi vescovi da loro medesimi s'adunavano e l'azzione
era guidata, come s'è detto, da uno di loro, e la risoluzione presa
secondo il commun parere. La materia trattata alle volte era di breve
risoluzione, sí che in un consesso si espediva; alle volte, per la
difficoltà o moltiplicità, aveva bisogno di reiterarsi, onde
vengono le molte sessioni nel medesimo concilio. Nissuna era di ceremonia, né
per solo publicare cose digeste già altrove, ma per intendere il parere
di ciascuno; erano chiamati atti del concilio i colloquii, le discussioni, le
dispute e tutto quello che si faceva o diceva. È nuova openione e pratticata
poche volte, se ben in Trento è stabilita, che i soli decreti siano atti
del concilio e soli debbiano esser dati in luce, ché negli antichi tutto si
dava a tutti. Intervenivano notarii per raccogliere i voti, i quali, quando un
vescovo parlava non contradicendo alcuno, non scrivevano il nome proprio di
quello, ma usavano scrivere cosí: «la santa sinodo disse». E quando molti
dicevano l'istesso, si scriveva: «i vescovi esclamarono» overo «affermarono», e
le cose cosí dette erano prese per definizioni; se parlavano in contrario
senso, erano notate le contrarie openioni et i nomi degli autori, et i giudici
o presidenti decidevano. Avveniva senza dubio qualche impertinenza alle volte,
per l'imperfezzione d'alcuno, ma la carità, che iscusa i difetti del
fratello, la ricopriva. Interveniva numero maggiore della provincia dove il
concilio si teneva e delle vicine, ma senza emulazione, desiderando ogni uno
piú d'ubedire, che di prescrivere legge ad altri.
Separato
l'occidentale dall'orientale Imperio, restò nondimeno qualche vestigio
anco in occidente di quei concilii che da principio erano congregati; e si
vedono molti sotto la posterità di Carlo Magno in Francia e Germania, e
sotto i re gotti in Spagna non poco numero. In fine, esclusi affatto i prencipi
d'intromettersi nelle cose ecclesiastiche, di questa sorte di concilio si perse
l'uso, e restò quella sola che da' medesimi ecclesiastici è
convocata: la quale anco fu quasi che tirata tutta nel solo pontefice romano
col mandar suoi legati a presedere dovunque intendeva che si trattasse di far
concilio; e dopo qualche tempo attribuí anco a sé quella facoltà che da'
prencipi romani fu usata di convocar concilio di tutto l'Imperio e presedervi,
essendo presente, e non essendo, mandarvi chi per nome suo presedesse e
guidasse l'azzione. Ma ne' prelati ridotti nella sinodo, levato il timore del
prencipe mondano che gli conteneva in ufficio, sí come i rispetti mondani,
cause di tutti gli inconvenienti, crescevano in immenso, il che moltiplicava le
indecenze, si diede principio a digerire et ordinare le materie in secreto e
privato, per potere servare nel publico consesso il decoro; poi questo fu preso
per forma e nacquero nelli concilii, oltre le sessioni, le congregazioni
d'alcuni deputati ad ordinare le materie; le quali da principio, quando erano
moltiplici, si ripartivano, assignando a ciascuna la propria congregazione; né
bastando ancora questo a rimovere tutte le indecenze, perché gli altri non
intervenuti, avendo gli interessi differenti, movevano difficoltà in publico,
oltre la congregazione particolare, s'introdusse la generale, inanzi la
sessione, dove tutti intervenissero; la qual chi risguarda il rito antico, essa
veramente è l'azzione conciliare, perché la sessione, andando a cosa
fatta, resta pura ceremonia. Poco piú d'un secolo è passato, poi che gli
interessi fecero nascere tra i vescovi di diverse nazioni qualche competenza;
onde le lontane, che de poco numero erano, non volendo sopportare d'essere
superate dalle vicine numerose, per pareggiarle tra loro fu necessario che
ciascuna si congregasse da sé e per numero de' voti facesse la sua
deliberazione, e l'universale definizione fosse stabilita non per voti de'
singolari, ma per pluralità de' voti delle nazioni. Cosí fu servato ne
concilii di Costanza e Basilea; il che, come è uso molto proprio dove si
governa in libertà, quale era allora quando il mondo era senza papa,
cosí poco sarebbe stato appropriato in Trento, dove si ricercava concilio
soggetto al pontefice. E questa fu la ragione perché i legati in Trento e la
corte a Roma facevano cosí gran capitale della forma di procedere e della
qualità et autorità della presidenza.
[Prelati del concilio esenti delle decime]
Imperò
gionta la risposta da Roma, chiamarono la congregazione il dí 5 genaro 1546,
nella quale, dopo aver il Monte salutati e benedetti tutti da parte del
pontefice, fece leggere il breve sudetto dell'essenzione delle decime. I legati
tutti tre fecero come tre encomii, l'uno dopo l'altro, mostrando la buona
volontà del pontefice verso le persone de' padri; ma alcuni spagnuoli
dissero che questa era una grazia fatta dal papa di maggior danno che
beneficio, essendo l'accettarla una confessione che il papa può imponere
gravezze alle altre chiese, e che il concilio non ha autorità né di
proibirlo, né di essentare quelli che giustamente non doverebbono essere
compresi; il che non solo dispiacque a' legati, ma fu anco ributtato da loro
con qualche parole mordaci. Altri de' prelati dimandarono che la grazia fosse
estesa anco a loro famigliari et a tutte le persone che si ritrovarebbono in
concilio. I generali degli ordini parimente dimandavano l'istessa essenzione,
allegando le spese che convenivano fare i loro monasterii per i frati condotti
da essi al concilio. Catalano Triulzio, vescovo di Piacenza, arrivato 2 giorni
prima, narrò publicamente che passando poco lontano dalla Mirandola era
stato svaliggiato e dimandò che in concilio si facesse un'ordinazione
contra quelli che impedivano o molestavano i prelati et altre persone che andassero
al concilio. I legati, mettendo insieme questa proposta con la pretensione
d'essenzione detta di sopra, considerarono quanto potesse importare che il
concilio mettesse mano in simile materia, facendo editti per propria
essaltazione, e che questo era un tentar gli arcani della ierarchia
ecclesiastica; divertirono con molta destrezza, allegando che sarebbe parso al
mondo una novità et un troppo rissentimento, et offerendosi di operare
col pontefice che provedesse alla sicurezza delle persone et avesse
considerazione alli famigliari de' prelati et a' frati; e cosí acquiettarono
tutti.
[Il concilio di Laterano proposto ad imitare a
Trento. Contesa sopra 'l titolo]
E passando
alle azzioni conciliari, il cardinale del Monte narrò il modo tenuto nel
concilio lateranense ultimo, nel quale egli intervenne arcivescovo sipontino.
Disse che trattandosi allora della pragmatica di Francia, del schisma
introdotto contra Giulio II e della guerra tra prencipi cristiani, furono fatte
tre deputazioni de' prelati sopra quelle materie, accioché ciascuna
congregazione, occupata in una sola, potesse meglio digerirla; che formati i
decreti si faceva congregazione generale, dove ciascuno diceva il voto suo, e
secondo quelli erano meglio riformate le risoluzioni, in modo che nella
sessione le cose passavano con somma concordia e decoro; che piú molteplice era
quello che da loro doveva essere trattato, avendo i luterani mosso ogni pietra
per sovvertire l'edificio della fede; però che sarà necessario
dividere le materie et in ciascuna ordinare congregazioni particolari per
disputarle; far deputati a formare i decreti da esser proposti in congregazione
generale, dove ogni uno dirà il parere suo; quale, acciò sia
intieramente libero, essi legati avevano deliberato di fare solamente ufficio
de proponenti e non dire il suo voto, ma questo fare nelle sessioni solamente.
Che tutti pensassero le cose necessarie da trattare per dover dare qualche
principio, fatta la sessione che instava.
Che allora
proponevano, se piaceva loro che si publicasse nella sessione un decreto
formato circa il modo di vivere cristianamente in Trento durante il concilio.
Il qual letto col titolo: «la Sacrosanta», sí come fu da Roma mandato, fecero
instanza i francesi che si dovesse aggiongere: «rappresentante la Chiesa
universale», la qual opinione fu seguita da gran parte de' vescovi con
universale assenso. Ma i legati, considerando che questo era titolo usato dal
constanziense e basileense solamente, e l'immitargli era un rinovare la loro
memoria e dargli qualche autorità et aprire porta all'ingresso delle
difficoltà che la Chiesa romana ebbe in quei tempi, e, quello che piú
importava, avvertendo che dopo avere detto: «rappresentante la Chiesa
universale», averebbe potuto venire pensiero ad alcuni d'aggiongere anco le
seguenti parole, cioè che tiene potestà immediate da Cristo, alla
quale ciascuno, eziandio di degnità papale, è tenuto di ubedire,
s'opposero gagliardamente e (come essi scrissero a Roma) con parole formali
s'appontarono contra, non esplicando però a' padri le vere cause, ma
solo con dire che erano parole ampullose et invidiose, e che gli eretici gli
averebbono dato sinistra interpretazione; e s'adoperarono ciascuno d'assistere
senza scoprir il secreto, prima con arte, e poi con lasciarsi intendere liberamente
di non volerlo permettere, sí che fecero acquiettare il moto universale, se ben
i francesi et alcuni altri pochi restarono fermi nella loro proposta.
Et a' legati
prestò grand'aiuto Giovanni di Salazar, vescovo di Lanciano, spagnolo di
nazione; il qual, avendo commendato in molte parole i primi concilii della
Chiesa per l'antichità e santità degli intervenienti, lodò
che fossero immitati nel titolo usato da loro molto semplice, senza espressione
di rappresentazione, o di quale o quanta autorità la sinodo abbia. Non
piacque però quello che continuò dicendo, che ad essempio di
quelli si doveva tralasciare anco la nominazione de' presidenti, che non si
vede mai usata in nissun concilio vecchio, solo incomminciata dal costanziense,
che per causa del scisma mutò piú volte presidenti; soggiongendo che, se
l'essempio di quello fosse da seguire, bisognarebbe anco nominare
l'ambasciatore dell'imperatore, perché allora fu nominato il re de' Romani et
anco i prencipi che erano con lui. Ma questa fastosità essere aliena
dall'umiltà cristiana, e fece ripetizione del discorso fatto dal
cardinal Santa Croce de' 12 decembre, inerendo al quale concludeva che si
dovesse tralasciare anco il far menzione di presidenza. Diede a' legati questa
proposta maggior pensiero che la precedente; nondimeno il cardinale del Monte
presentaneamente rispose: i concilii aver parlato diversamente secondo le
occorrenze che i tempi portano; per i tempi passati il papa essere stato sempre
riconosciuto come capo nella Chiesa, né mai da alcuno essere stato dimandato
concilio con questa condizione che fosse independente dal papa, come i tedeschi
adesso arditamente; alla qual eretical temerità conveniva sempre in ogni
azzione repugnare, mostrandosi d'essere congionti col capo, che è il
pontefice romano, facendo menzione dei suoi legati. Parlò longamente in
questa materia, la qual sapendo che con la diversione era piú facile sostentare
che persuadere, procurò che si passasse ad altro. La contenenza del
decreto fu approvata da tutti; ma essendovi in esso una particola, dove ognuno
era essortato a pregar Dio per il papa, per l'imperatore e per i re, fecero
instanza i prelati francesi, che si facesse nominatamente menzione di quel di
Francia; il che lodando il cardinale Sancta Croce, ma soggiongendo che averebbe
convenuto fare simile specificazione di tutti al luogo loro, che era cosa longa
e piena di pericolo per la precedenza replicarono i francesi che il papa nella
bolla della convocazione aveva fatta menzione del solo imperatore e re di
Francia, e però conveniva, seguendo l'essempio, o nominar ambedue o
nissuno d'essi. Si riferirono i legati a pensarci, dando intenzione che ogni
uno resterebbe sodisfatto.
[Seconda sessione e decreto d'essa]
Il dí 7 di
genaro, adonque, tutti i prelati, vestiti in abito commune, si congregarono in
casa del primo legato, da dove partendosi con la croce inanzi s'inviarono alla
chiesa catedrale. Dal contado di Trento furono congregati nella città,
300 fanti, armati parte di piche, parte di archibugi, con alquanti cavalli,
quali si misero in fila da ambedue le parti della strada, dalla casa sino alla
chiesa, et entrati in chiesa i legati et i prelati, ridotta tutta la soldatesca
in piazza, si sparò l'archibusaria e la soldatesca restò nella
piazza a fare la guardia a quella sessione. Oltre il legato et il cardinale di
Trento, si ritrovarono 4 arcivescovi, 28 vescovi, 3 abbati della congregazione
cassinense e 4 generali, i quali stavano sedendo nel luogo della sessione:
queste 43 persone costituivano il concilio generale. Degli arcivescovi, doi
erano portativi, mai veduti dalle chiese de quali avevano il titolo, solo per
causa d'onore datogli dal pontefice: uno, Olao Magno, con nome d'arcivescovo
upsalense in Gozia, e l'altro Roberto Venanzio, scocese, arcivescovo d'Armacano
in Ibernia, il quale, uomo di brevissima vista, era commendato di questa virtú,
di correr alla posta meglio d'uomo del mondo. Questi doi, sostentati in Roma
qualche anni per limosina del papa, furono mandati a Trento per crescer il
numero e dependere da' legati. In piedi erano circa 20 teologi; vi intervenne
l'ambasciatore del re de' Romani et il procuratore del cardinale d'Augusta, che
sedettero nella banca degli oratori, et appresso loro su la stessa banca
sedevano 10 gentiluomini de' circonvicini, eletti dal cardinale di Trento. Fu
cantata la messa da Giovanni Fonseca, vescovo di Castelamare; fece il sermone
nella messa Coriolano Martirano, vescovo di San Marco.
Finita la
messa, i prelati si vestirono pontificalmente e furono fatte le letanie et
orazioni, come nella sessione prima. Quali finite e seduti tutti, il vescovo
celebrante, montato nel pulpito, lesse la bolla, di sopra menzionata, che non
fossero ammessi i procuratori degli assenti a dare voto, e non si fece menzione
d'un altra, nella quale erano eccettuati quei di Germania. Dipoi lesse il
decreto nel quale la sinodo essortava tutti i fedeli congregati in Trento a
vivere nel timore di Dio e pregare ogni giorno per la pace de prencipi et
unità della Chiesa, e le persone del concilio a dire messa almeno la
dominica, e pregare per il papa, imperatore, re e prencipi, e tutti a digiunare
e fare limosine, essere sobrii, instruire i loro famigliari. Essortava anco
tutti, massime i letterati, a pensar accuratamente le vie e modi di propulsare
le eresie e ne' consessi usare modestia nel parlare. E di piú ordinò che
se alcuno non sedesse al luogo suo, o dasse voto, overo intervenisse nelle
congregazioni, a nissuno fosse fatto pregiudicio, né acquistata nuova raggione.
Il qual letto, interrogati i padri, risposero: «placet». Ma i francesi
aggionsero che non approvavano il titolo cosí imperfetto e vi ricercavano
l'aggionta: «universalem Ecclesiam repraesentans». In fine fu ordinata la
futura sessione per il dí 4 febraro e licenziati i padri; quali, deposto gli
abiti pontificali, ne' communi accompagnarono i legati in casa col medesimo
ordine che erano alla chiesa venuti; il quale fu in tutte le seguenti sessioni
osservato.
[Nella congregazione seguente si tratta di
nuovo del titolo del concilio]
Dopo la sessione
non fu tenuta congregazione sino a' 13 genaro, perché Pietro Pacceco, vescovo
di Iaen, creato cardinale nuovamente, che aspettava da Roma la berretta, senza
quale la ceremonia non gli concedeva trovarsi in luoghi publici, aveva
desiderio d'intervenire, dovendosi in quella metter ordine che nella sessione
non avvenissero piú inconvenienti. Ridotta la congregazione, i legati si
dolsero di quelli che avevano fatto opposizione al titolo nel giorno della
sessione; mostrarono che non era decoro in quel luogo publico fare apparire
diversità d'opinioni: le congregazioni farsi accioché ogni uno possi
dire il suo parere in luogo retirato, per dover essere tutti conformi in quello
che s'ha da publicare; nissuna cosa dovere piú sbigotire gli eretici e dare
costanza a' catolici, quanto la fama dell'unione. Discesero alla materia del
titolo, considerando che nissuno era piú conveniente di quello che gli dava il
pontefice nella convocazione et in tante altre bolle dove era nominato
ecumenico et universale: al che superfluamente s'aggiongerebbe
rappresentazione, essendo pieni i libri di quello che sia o rappresenti un tal
concilio legitimamente inditto e comminciato; che altrimente facendo, si
mostrava di dubitare della sua autorità et assomigliarlo a qualche altro
concilio che per ciò aveva dato quel titolo, perché conoscendo mancare
d'autorità legitima, voleva supplire con le parole, accennando il
basileense e constanziense; però a fine di fare stabile risoluzione,
ogni uno dovesse dire sopra ciò il voto suo.
Il cardinal
Pacceco entrò a dire il concilio esser ornato di molti e molti titoli,
quali tutti se fossero da usare in tutte le occasioni, l'espressione di quelli
sarebbe sempre maggiore che il corpo del decreto. Ma sí come un
grand'imperatore, possessore de molti regni e stati, per ordinario nelli editti
non usa se non il titolo dal quale l'editto riceva forza, e ben spesso, senza
alcun titolo, prepone il nome suo proprio, cosí questo concilio, secondo le
materie che si tratteranno, doverà valersi di diversi titoli per
esplicare l'autorità sua; adesso che si sta ne' preparatorii, non
è necessità d'usarne alcuno. Il vescovo di Feltre
considerò che i protestanti avevano richiesto un concilio, dove con voto
decisivo intervenissero essi ancora, e se si mettesse per titolo del concilio
che egli rappresenti la Chiesa universale, caveranno di qui argomento: adonque
debbono intervenirvi di tutti gli ordini della Chiesa universale, i quali
essendo doi, clericale e laicale, non può esser intieramente
rappresentata se l'ordine laicale è escluso. Ma del rimanente, anco quei
che nella sessione assentirono al titolo semplice, furono d'openione che fosse
supplito. Il vescovo di Santo Marco disse che impropriissimamente i laici si
possono dire Chiesa, perché, come i canoni determinano, non hanno alcuna
autorità di commandare, ma solo necessità d'ubedire, e questa
essere una delle cose le quali doveva questo concilio decretare, che i secolari
debbano umilmente ricevere quella dottrina della fede che gli è data dalla
Chiesa, e non ne disputare, né meno pensarci piú oltre. E però aponto
conviene usare il titolo che la sinodo rappresenta la Chiesa universale, per
fargli sapere che essi non sono la Chiesa, ma debbono ascoltare et ubedire alla
Chiesa. Molte cose furono dette e si passò inanzi senza piú ferma
conclusione, con stabilire solamente che per la seguente sessione si usasse il
titolo semplice come nella passata.
Questo
finito, perché avevano fatto instanza certi prelati che ormai si dovesse venire
alle cose sostanziali, per sodisfargli fu proposto da' legati che si pensasse
sopra i tre capi contenuti nelle bolle del pontefice, cioè
l'estirpazione delle eresie, riformazione della disciplina e stabilimento della
pace; in che modo s'aveva d'entrare in quelle trattazioni, che via s'avesse da
tenere e come s'avesse da procedere, e pregassero Dio che illuminasse tutti, e
ciascuno dicesse il suo parere nella prima congregazione. In fine furono
presentati alcuni mandati da vescovi assenti, e furono deputati l'arcivescovo
d'Ais il vescovo di Feltre e quello d'Astorga a vedere il punto
dell'escusazione e riferire in congregazione.
I legati il
giorno seguente scrissero a Roma che si vedeva quella amplificazione del
titolo, con aggionta del rappresentare la Chiesa universale, essere cosa tanto
populare e piacere cosí a tutti, che facilmente poteva ritornar in trattazione;
e però desideravano sapere la volontà di Sua Santità, se
dovevano persistere in negarlo, overo compiacergli, massime in occasione che si
avesse da fare qualche decreto importante, come in condannare l'eresie e simili
cose. Avisarono ancora d'avere fatta la proposta per la seguente congregazione
cosí in genere, per secondare il desiderio de' prelati che era d'entrare nelle
cose essenziali e mettere nondimeno tempo in mezo, sin che venisse da Sua
Santità l'instruzzione ricchiesta. Aggionsero appresso il cardinale
Pacceco esser avisato che l'imperatore aveva dato ordine a molti vescovi
spagnuoli, persone d'essemplarità e di dottrina, che andassero al
concilio: perilché giudicavano essere necessario che Sua Santità
mandasse 10 o 12 prelati, de' quali si potesse fidare e fossero ancora per le
altre qualità atti a comparire, acciò crescendo il numero de
oltramontani, massime uomini rari e d'essemplarità e dottrina,
trovassero riscontro in qualche parte: perché di quelli che sino allora si
trovavano in Trento, i ben intenzionati erano di poche lettere e minor
prudenza; quelli di qualche sapere si scoprivano uomini di dissegno e difficili
da maneggiare.
[I cesarei vogliono che si venga al trattato
della riforma, altri a' dogmi]
Nella
seguente congregazione, ridotta a' 18 per sentire li pareri di tutti sopra le
proposte della precedente, le sentenze furono 4. Gli imperiali dissero che il
capo de' dogmi non si poteva toccare con speranza di frutto, essendo di bisogno
prima, con una buona riforma, levare le transgressioni d'onde sono nate
l'eresie, allargandosi assai in questo campo e concludendo che, sin a tanto che
non cessa lo scandalo che piglia il mondo per la deformazione dell'ordine
ecclesiastico, non sarà mai creduta cosa che predicheranno o
affermeranno nella dottrina, essendo tutti persuasi che si debbia guardare li
fatti, non le parole; né doversi pigliar essempio dalli concilii vecchi, perché
in quei o non vi era corrottela de' costumi, o quella non era causa
dell'eresia; et in fine il mettere dilazione al trattare della riforma esser un
mostrarsi incorrigibili.
Alcuni altri
pochi giudicavano d'incomminciare da' dogmi e successivamente passar alla riforma;
allegando che la fede è il fondamento e la base del viver cristiano; che
non si commincia mai ad edificare dal tetto, ma da' fondamenti; che maggior
peccato era errare nella fede che nelle altre azzioni umane; e che il capo
dell'estirpare l'eresie era posto per primo nelle bolle ponteficie. Una terza
opinione fu che malamente si potevano disgiongere i doi capi della riformazione
e della fede, non essendovi dogma che non abbia aggionto il suo abuso, né abuso
che non tiri appresso la mala interpretazione et il mal senso di qualche dogma:
onde era necessario di trattargli in un medesimo tempo, aggiongendo che avendo
tutto 'l mondo gli occhi a questo concilio et aspettando il rimedio non meno
alle cose della fede che a quelle de' costumi, si satifaria meglio col
trattarli ambidoi insieme, che l'uno dopo l'altro; massime che, secondo la
proposta del cardinale del Monte, si farebbono diverse deputazioni, trattando
una parte questa materia e l'altra quell'altra: il che si doveva accelerare di
fare, considerando il presente tempo, quando la cristianità è in
pace, essere precioso e da non perdere, non sapendo che impedimenti potesse
apportar il futuro; dovendosi anco studiare ad abbreviare il concilio quanto si
poteva, accioché le chiese restassero manco tempo private de' loro pastori, e
per molti altri rispetti; accennando quello che poteva nascere a longo andare,
con poco gusto del pontefice e della corte romana.
Alcuni altri
ancora, tra quali furono i francesi, dimandavano che si mettesse per principale
il capo della pace; che si scrivesse all'imperatore, al re Cristianissimo et
agli altri precipi, rendendo grazie per la convocazione del concilio, per
continuare il quale volessero stabilire la pace e coadiuvare l'opera con
mandare loro oratori e prelati; e parimente si scrivesse amicabilmente alli
luterani, invitandogli con carità a venire al concilio e congiongersi
col rimanente della cristianità. I legati, uditi i pareri di tutti e
lodata la loro prudenzia, dissero che per essere l'ora tarda e la deliberazione
gravissima e le sentenzie varie, averebbono pensato sopra quanto era stato
raccordato da ciascuno, e nella prima congregazione averebbono proposto i ponti
per determinare.
Fu preso
ordine che le congregazioni si facessero due volte alla settimana, il lune et
il venere, senza intimarle; et in fine l'arcivescovo d'Ais, avendo ricevuto
lettere dal re Cristianissimo, salutò per suo nome la sinodo e promise
che Sua Maestà presto mandaria un ambasciatore e molti prelati del suo
regno; e qui la congregazione finí.
I legati
avisarono del tutto Roma, scrivendo che avevano portato inanzi la risoluzione
delle cose trattate sotto li pretesti narrati, ma in verità per mettere
tempo di piú in mezo, aspettando che potessero venir le instruzzioni et ordini
come reggersi; supplicando Sua Santità di novo di far intendere la sua
volontà, ponderando sopra tutte le altre considerazioni che l'allongare
il concilio e tenerlo aperto, potendo abbreviarlo, non fa per la Sede
apostolica; aggiongendo essere stati necessitati a stabilire due congregazioni
alla settimana per tener i prelati in essercizio e levargli l'occasione di
farne da loro stessi. Ma che questo farà comminciare le cose a
stringersi, e però sarà necessario che in Roma si pigli maniera
di risolvere le proposte presto e non tardare a rispondergli, come sin allora
si era fatto, ma tenergli avisati di quanto doveranno fare di mano in mano, con
preveder anco li casi quanto sarà possibile; e poiché per molte lettere
avevano scritto esservi molti poveri vescovi andati al concilio sotto la
speranza e le buone promesse di Sua Santità e del cardinale Farnese, lo
replicarono anco allora, aggiongendo che non si pensasse di trattargli cosí
alla domestica in Trento come in Roma, dove, non avendo alcuna autorità,
stanno umili e soggetti; perché, quando sono al concilio, pare loro dover
essere tutti stimati e mantenuti; il che quando non si pensi di fare,
sarà meglio pensare di non avergli in quel luogo, che avergli mal
sodisfatti e disgustati; concludendo che quella impresa non si poteva condurre
a buon fine senza diligenzia e senza spendere.
Parerebbe
maraviglia ad ognuno che il pontefice, persona prudentissima e versata ne'
maneggi, in tanto tempo, a tante instanze de' suoi ministri, non avesse dato
risposta a doi particolari cosí importanti e necessarii. Ma la Santità
Sua si fondava poco sopra il concilio: tutti i suoi pensieri erano volti alla
guerra che il cardinale Farnese aveva trattato coll'imperatore l'anno inanzi, e
non si poteva contenere che non ne facesse dimostrazione, né l'imperatore
richiedeva progresso di concilio, per li fini del quale allora bastava che
restasse aperto.
[È risoluto di trattar d'ambedue]
Ma i prelati
che volevano incomminciare dalla riforma e lasciar adietro i dogmi, aiutati da'
ministri imperiali, attesero a tirare nel voto suo gli altri, cosa che fu assai
facile, per essere la riforma universalmente desiderata e poco creduta, e
moltiplicarono tanto in numero che i legati si trovarono confusi. Onde per loro
stessi e per mezo degli aderenti fecero diversi ufficii privati, e finalmente
nella congregazione de' 22 tutti tre, l'uno dopo l'altro, si posero a sbattere
i fondamenti che si allegavano in favor della riforma. Fece grand'impressione
una raggione tratta dalla proposta di Cesare nella dieta di Vormes, il maggio
passato, quando disse che si stasse a vedere che progresso faceva il concilio
nelle definizioni de' dogmi e nella riforma; che non ne facendo alcuno,
intimeria un'altra dieta, dove le differenze nella religione si accommodassero
e gli abusi si correggessero; arguendo di qua che, se non si trattasse de'
dogmi, si canonizeria il colloquio e la dieta futura, e non si potrebbe con
buona raggione impedire che in Germania non si trattasse della religione,
quello che si ricusava di trattar in concilio.
Fu nella
congregazione un gran prelato e ricco, il qual con orazione meditata attese a
mostrare che non bisognava mirare se non alla riforma, essaggerando molto la
deformazione commune d'ogni parte del clero et inculcando che sin che i vasi
nostri non si mondassero, lo Spirito Santo non poteva abitarvi, e per
conseguente non si poteva sperare alcun retto giudicio nelle cose della fede.
Ma il
cardinale Santa Croce, preso di qua il parlare, disse che era molto ben
raggione non differire niente la riformazione di quei medesimi che avevano a
maneggiar il concilio; ma che quella era ben facile et ispedita, e si poteva
metter subito in essecuzione, senza ritardar il capo de' dogmi, per se stesso
intricato e di longa diggestione. Lodò molto quel prelato d'aver raccordato
cosa cosí santa e di buon essempio; perché, incomminciando da se stessi, si
poteva riformare tutto 'l resto del mondo con facilità, essortando tutti
con efficaci parole a venirne alla prattica. Questa sentenza fu ben da tutti
lodata, ma non fu seguita, dicendo molti che la riforma doveva esser universale
e non si doveva perdere tempo in quella particolare; perilché fu concluso da
tutti, eccettuati doi soli, che gli articoli della religione e della
riformazione fossero trattati di pari, sí come di pari sono desiderati da tutto
'l mondo e giudicati necessarii et insieme proposti nelle bolle di Sua
Santità. Restarono contenti i legati di questa risoluzione, se ben
averebbono desiderato piú tosto trattare della sola fede, tralasciata la
riforma; ma tanto era il timore che avevano d'essere costretti a trattare della
riformazione sola, che riputavano total vittoria il mandarle ambidue insieme;
pensando anco che finalmente la loro opinione di tralasciare la riforma era
pericolosa, volendo resistere a tutti i prelati et a tutti li Stati della
cristianità che la dimandavano, e non potendosi fare senza molto
scandalo et infamia. Il qual partito preso da loro, costretti da mera
necessità, quando a Roma non fosse piacciuto, non averebbono potuto lamentarsi
d'altri che di loro stessi, tante volte solecitati a rispondere alle lettere e
mandare le instruzzioni necessarie.
Fu poi
deliberato di scrivere al pontefice, ringraziandolo della convocazione et
apertura del concilio, supplicandolo a mantenerlo e favorirlo, et ad interporsi
appresso a prencipi cristiani per il mantenimento della pace tra loro et
eccitargli a mandar ambasciatori al concilio. Ordinarono anco di scrivere
all'imperatore, al re di Francia, de' Romani, di Portogallo et altri re
catolici per la conservazione della pace, per la missione degli ambasciatori,
per l'assicurazione delle strade e perché eccitassero i loro prelati a
comparire personalmente nel concilio; e la cura di scrivere queste lettere fu
data al vescovo di San Marco, per essere lette e fermate nella futura
congregazione.
Diedero fuori
li legati doi ponti sopra quali dovessero i padri avere considerazione e dir il
voto loro: il primo, se nella sessione prossima si doveva pronunciare il
decreto che sempre fossero trattati insieme i capi della fede e quelli della
riforma correspondenti; il secondo, in che modo si ha da proceder in eleggere i
doi capi et in trattargli et essaminargli. Pensarono i legati con queste
proposizioni aversi scaricato dell'importuna ricchiesta d'alcuni di stabilire
in ogni congregazione qualche cosa di sustanziale et insieme d'avere mostrato
di tener conto de' prelati.
[Si tratta del sigillo e dell'ordine de'
dogmi. Artificio de' legati per poter aspettar da Roma la risposta]
La
congregazione seguente si consumò nel leggere le molte lettere formate e
nel disputare del sigillo con che serrarle; proponendo alcuni che fossero
sigillate in piombo con bolla propria della sinodo, nella quale chi voleva che
da una parte fosse impressa l'imagine dello Spirito Santo in forma di colomba,
dall'altra il nome della sinodo, e chi raccordava altre forme, che tutte
tenevano del specioso. Ma i legati, che avevano altro ordine da Roma, lasciato
disputar i padri sopra questo, divertirono la proposta con dire che aveva del
fastoso e che protraeva il tempo, perché averebbe convenuto mandare a Venezia
per farne la forma, non essendo in Trento artefice sufficiente per un'opera
tale; soggiongendo che s'averebbe pensato meglio dopo, e che era necessario
spedire le lettere allora, che si poteva fare col nome e sigillo del primo
legato; il rimanente fu rimesso alla seguente congregazione.
Nella quale
parlandosi sopra i doi ponti già proposti, per il primo essendo due
openioni: una, che il decreto fosse formato e publicato, l'altra, che non era
ben l'obbligarsi con decreto, ma conservarsi in libertà per potere
deliberare secondo le opportunità, si prese la via di mezo di fare
menzione solamente, che la sinodo era congregata principalmente per quelle due
cause, senza passar piú inanzi; ma quanto al secondo ponto, sentiva la maggior
parte che, essendo congregati per dannare l'eresia luterana, conveniva seguire
l'ordine della loro confessione; al qual parere fu da altri contradetto, perché
sarebbe un seguire li colloqui tenuti in Germania, che era un abbassare la
dignità del concilio, e perché, essendo li primi di doi capi della
confessione augustana l'uno della Trinità, l'altro dell'Incarnazione,
ne' quali vi era concordia in sostanza, ma espressi con nuovo modo et inusitato
nelle scuole, quando fossero approvati quelli, se gli sarebbe dato riputazione
e fatto pregiudicio al condannar li seguenti; quando s'avesse voluto, non
approvandogli, né dannandogli, parlarne non con i termini di quella
confessione, ma con i scolastici o con altri, portava pericolo d'introdurre
nove dispute e novi scismi. A' legati, che non miravano se non di portar il
tempo inanzi, piaceva sentire le difficoltà e studiosamente le
nodrivano, dando destramente fomento ora all'uno, ora all'altro.
Avvicinandosi
il tempo prefisso per la sessione e non avendo ricevuto da Roma instruzzione,
si ritrovarono i legati in molta perplessità. Il passare quella sessione
in ceremonie come la precedente pareva un perder tutta la riputazione; il dar
mano ad alcuna materia era giudicato cosa pericolosa, non avendo ancora
prefisso il scopo dove mirare. Quello che pareva portare manco rischio era
formar un decreto sopra la risoluzione presa nella congregazione di trattar
insieme la materia della fede con quella della riforma: a che si opponeva che
era un obligarsi et anco un determinare cosa quasi indecisa dal pontefice nella
convocazione. In questa ambiguità era proposto che si passasse con un
decreto dilatorio sotto pretesto che molti prelati erano in viaggio e
s'aspettavano di corto. Il cardinale Polo messe in considerazione che,
essendosi in tutti gli antichi concilii publicato un simbolo di fede, si
dovesse in quella sessione fare l'istesso, publicando quello della Chiesa
romana. Fu in fine deliberato di formar il decreto con titolo semplice et in
quello fare menzione di dovere trattare della religione e della riforma, ma
tanto in generale che si potesse accommodare ad ogni opportunità, e
recitar il simbolo, e passarsela, facendo un altro decreto di rimettere le
materie all'altra sessione, allegando per causa l'essere molti prelati in
procinto et alcuni in viaggio; e per non essere ridotti piú in tal angustie
allongar il termine della seguente il piú inanzi che si poteva, non
differendola però dopo Pasca.
Quello
formato, fu communicato a' prelati piú confidenti; fra quali il vescovo di
Bitonto considerò che il fare una sessione per recitar il simbolo
già 1200 anni stabilito e continuamente creduto et al presente da tutti
accettato intieramente, potrà esser ricevuto dagli emuli con irrisione e
dagli altri con sinistra interpretazione; che non si può dire di seguire
in ciò l'essempio de' padri, perché essi overo hanno composto simboli
contra l'eresie che condannavano, overo replicati gli anteriori contra eresie
già condannate per dargli autorità maggiore, aggiontavi qualche
cosa per dicchiarazione, overo per ritornarlo in memoria, et assicurarlo contra
l'oblivione; ma allora non si componeva simbolo novo, non vi s'aggiongeva
dicchiarazione; il dargli maggior autorità non essere cosa da loro, né
da quel secolo; il rammemorarlo, recitandosi almeno ogni settimana in tutte le
chiese et essendo in memoria recente d'ogni uomo, essere cosa superflua et
affettata. Che col simbolo fossero convinti gli eretici esser vero di quelli
che erravano contra esso; però non potersi far cosí contra i luterani,
che lo credono come i catolici. Se dopo l'aver fatto questo apparato, mai
sarà usato il simbolo a questo effetto, s'interpreterà l'azzione
come fatta non per altro che per tratenere e dare pasto, non avendo ardire di
toccar i dogmi, né volendo dare mano alla riforma. Consegliò che fosse
meglio mettere dilazione, attesa l'aspettazione de' prelati, e con quella
passare la sessione.
Il vescovo di
Chioza vi aggionse che, anzi, le raggioni addotte nel decreto potrebbono essere
dagli eretici adoperate a proprio favore con dire che, se il simbolo può
servire a convertire gli infedeli, espugnare eretici, confermare fedeli, non si
debbe costringergli a credere altra cosa fuori di quelle. Queste raggioni non
furono giudicate da' legati cosí efficaci come la contraria, che il non far
decreto fosse con perdita della riputazione; perilché, risoluti a questa parte
et accommodate meglio alcune parole, secondo gli avvertimenti de' prelati,
proposero il decreto nella congregazione del I di febraro: sopra il quale
furono dette varie cose e, se ben fu approvato dalla maggior parte, nondimeno
con poco gusto, nel partire della congregazione, alcuni de' prelati,
raggionando l'un all'altro, ebbero a dire: «Si dirà che con negozio di
20 anni si ha concluso di ridursi per udire a recitar il Credo».
[Si fa sessione col recitar il simbolo]
Venuto
adonque il dí 4, giorno destinato della sessione, con la medesima ceremonia e
compagnia s'andò alla chiesa; nella quale cantò la messa Pietro
Tragliavia, arcivescovo di Palermo; fece il sermone frate Ambrosio Catarino,
senese dominicano, e l'arcivescovo di Torre lesse il decreto, la sostanza del
quale fu che la sinodo, considerando l'importanza de' doi capi che aveva da
trattare, dell'estirpazione delle eresie e riformazione de' costumi, essorta
tutti a confidar in Dio e vestirsi delle arme spirituali; et accioché la sua
diligenza abbia principio e progresso dalla divina grazia, determina di
comminciare dalla confessione della fede, seguitando gli essempii de' padri,
che ne' principali concilii nel principio delle azzioni hanno opposto quel
scudo contra le eresie e con quel solo alcune volte hanno convertito gli
infedeli e vinti gli eretici; nel quale concordano tutti i professori del nome
cristiano; e qui fu recitato tutto, di parola in parola, senza soggiongere
altra conclusione; et interrogò l'arcivescovo i padri se gli piaceva il
decreto. Fu risposto da tutti affirmativamente, ma d'alcuni con condizioni et
addizioni non di gran momento, con displicenzia del cardinale del Monte, al
quale non poteva piacere che in sessioni si descendesse a' particolari, temendo
che quando s'avesse trattato cosa di rilievo, potesse nascere qualche
inconveniente. Fu letto dopo l'altro decreto, intimando la sessione per li 8 d'aprile,
allegando per causa della dilazione che molti prelati erano in pronto per il
viaggio et alcuni in via, e che le deliberazioni della sinodo potranno apparere
di maggior stima, quando saranno corroborate con conseglio e presenzia di piú
padri, non differendo però l'essamine e discussione di quelle cose che
alla sinodo pareranno.
La corte di
Roma, che al nome di riforma era tutta in spavento, sentí con piacere che il
concilio si trattenesse in preambuli, sperando che il tempo averebbe portato
rimedio, et i cortegiani intemperanti di lingua essercitarono la
dicacità, dando fuori, sí come si costumava allora in tutti gli
avvenimenti, diverse pasquinate molto mordaci, chi con lodare i prelati
congregati in Trento d'aver fatto un nobilissimo decreto e degno d'un concilio
generale, e chi confortandoli a conoscere la propria bontà e scienzia.
I legati, nel
dare conto al papa della sessione tenuta, avisarono anco essere cosa difficile
per l'avvenire opponersi e vincere quelli che volevano finir il titolo con la rapresentazione
della Chiesa universale; nondimeno sarebbono sforzati di superare le
difficoltà. Ma che di trattenere piú i prelati senza operare cosa di
momento e venir all'essenziale non era possibile, e che però aspettavano
l'ordine e l'instruzzione tante volte ricchiesta; che a loro sarebbe ben parso
trattare della Sacra Scrittura quelle cose che sono controverse co' luterani e
gli abusi introdotti nella Chiesa in quella materia; cose con quali si poteva
dare molta sodisfazzione al mondo senza offendere nissuno, e di ciò
averebbono aspettata la risposta, essendovi tempo assai longo per poter
essaminare quelle materie e molte occasioni di portare tempo sino al principio
di quadragesima.
[In Germania s'allarga la riforma nuova. Muore
Lutero]
Ma in questo
tempo, ben che il concilio fosse aperto e tuttavia si celebrasse, non mutarono
stato in Germania le cose. Nel principio dell'anno l'elettor palatino
introdusse la communione del calice, la lingua populare nelle publiche
preghiere, il matrimonio de' preti et altre cose riformate già in altri
luoghi. E li destinati da Cesare ad intervenire nel congresso per trovar modo
di concordia nelle differenze della religione, si ridussero in Ratisbona al
colloquio; del quale Cesare deputò presidente il vescovo di Eicstat et
il conte di Furstemberg, dove non riuscí alcun buon frutto per le sospizzioni
che ciascuna delle parti concepí contra l'altra e perché i catolici
incontravano ogni occasione di dar all'altra parte maggiori sospetti e fingerli
dal canto proprio; i quali fecero finalmente dissolvere il convento.
Morí anco, a
18 di febraro, Martino Lutero; le quali cose avisate in Trento et a Roma, non
fu sentito tanto dispiacere della mutazione della religione nel Palatinato,
quanta allegrezza perché il colloquio non avesse successo e tendesse alla
dissoluzione, e fosse morto Lutero. Il colloquio pareva un altro concilio e
dava gran gelosia, perché, se qualche cosa fosse stata concordata, non si
vedeva come potesse poi dal concilio essere reggiettata, e se fosse accettata
averebbe parso che il concilio ricevesse le leggi d'altronde, et in ogni modo
quel colloquio in piedi con intervenienti ministri di Cesare era con poca
riputazione del concilio e del papa. Concepirono i padri in Trento e la corte
in Roma gran speranza, vedendo morto un instromento molto potente a contrastare
la dottrina e riti della Chiesa romana, causa principale e quasi totale delle
divisioni e novità introdotte, e l'ebbero per un presagio di prospero
successo del concilio, e maggiormente per essersi divulgata quella morte per
l'Italia come successa con molte circostanze portentose e favolose, le quali
s'ascrivevano a miracolo e vendetta divina, se ben non vi intervennero se non
di quei stessi evenimenti soliti accadere ordinariamente nelle morti degli uomini
di 63 anni, ché in tanta età Martino passò di questa vita. Ma le
cose succedute dopo sin all'età nostra hanno dichiarato che Martino fu
solo uno de' mezi e che le cause furono altre piú potenti e recondite.
Cesare,
gionto in Ratisbona, si lamentò gravemente che il colloquio fosse
dissoluto, e di ciò ne scrisse per tutta Germania lettere, le quali
furono con riso vedute; essendo pur troppo noto che la separazione era
proceduta dall'opera de' spagnuoli e frati e dal vescovo di Eicstat da lui mandato.
E non è difficile, quando sono saputi gli operatori, immediate conoscere
di onde venga il principio del moto. Ma il savio imperatore dell'istessa cosa
voleva valersi per sodisfare il papa et al concilio, e per cercar occasione
contra i protestanti; il che l'evento comprobò quando, replicate le
stesse querimonie nella dieta e ricercato dalli congregati nuovi modi di
concordia, i ministri di Magonza e Treveri, separati da quei degl'altri
elettori e congionti con gli altri vescovi, approvarono il concilio e fecero
instanza a Cesare che lo protegesse et operasse che i protestanti vi
intervenissero e se gli sottomettessero, repugnando essi e rimostrando in
contrario che quel concilio non era con le qualità e condizioni promesse
tante volte, et instando che la pace fosse servata e le cose della religione
fossero concordate in un concilio di Germania legitimo overo in un convento
imperiale. Ma le maschere furono in fine tutte levate, quando le provisioni
della guerra non potero piú essere occultate; di che a suo luogo si
dirà.
[Il papa scrive a' legati e consente che
s'entri in materia. È preso a soggetto la Sacra Scrittura]
Sopra la
lettera da Trento scritta ebbe il pontefice molta considerazione, dall'uno
canto ponderando gli inconvenienti che sarebbono seguiti tenendo, come diceva,
il concilio su le ancore, con mala sodisfazzione di quei vescovi che ivi erano,
et il male che poteva nascere quando s'incomminciasse riforma; in fine, vedendo
ben che era necessario rimettere qualche cosa alla ventura e che la prudenzia
non consegliava se non evitar il male maggiore, risolvé di riscrivere a Trento
che, secondo il raccordo loro, incaminassero l'azzione, avvertendo di non
metter in campo nuove difficoltà in materia di fede, né determinando
cosa alcuna delle controverse tra' catolici, e nella riforma procedendo pian
piano. I legati, che sin allora si erano trattenuti nelle congregazioni in cose
generali, avendo ricevuto facoltà d'incaminarsi, nella congregazione de
22 febraro proposero che, fermato il primo fondamento della fede, la
consequenza portava che si trattasse un altro piú ampio, che è la
Scrittura divina, materia nella quale vi sono ponti spettanti a' dogmi
controversi co' luterani et altri per riforma degli abusi, e li piú principali
e necessarii da emendare, et in tanto numero che forsi non basterà il
tempo sino alla sessione per trovare rimedio a tutti. Si discorse delle cose
controverse con luterani in questo soggetto e degli abusi, e fu da diversi
prelati parlato molto sopra di questo.
Sino allora i
teologi, che erano al numero di 30 e per il piú frati, non avevano servito in
concilio ad altro che a fare qualche predica i giorni festivi, in essaltazione
del concilio o del papa, e per pugna ombratile con luterani; ora che si doveva
decidere dogma controverso e rimediare agli abusi piú tosto de' letterati che
d'altri, comminciò ad apparire in che valersene. E fu preso ordine che,
nelle materie da trattarsi per decidere punti di dottrina, fossero estratti gli
articoli da' libri de' luterani, contrarii alla fede ortodossa, e dati da
studiare e censurare a' teologi, accioché, dicendo ciascuno d'essi l'opinione
sua, fosse preparata la materia per formare i decreti; quali proposti in
congregazione et essaminati da' padri, inteso il voto di ciascuno, fosse
stabilito quello che in sessione s'averebbe a publicare. Et in quello che
appartiene agli abusi, ogni uno raccordasse quello che gli pareva degno di
correzzione, col rimedio appropriato.
Gli articoli
formati per la parte spettante alla dottrina, tratti da' libri di Lutero,
furono:
1 Che la
dottrina necessaria della fede cristiana si contiene tutta intiera nelle divine
Scritture, e che è una finzione d'uomini aggiongervi tradizioni non
scritte, come lasciate da Cristo e dagli apostoli alla santa Chiesa, arrivate a
noi per il mezo della continua successione de' vescovi, et essere sacrilegio il
tenerle d'ugual autorità con le Scritture del Nuovo e Vecchio
Testamento.
2 Che tra
libri del Vecchio Testamento non si debbono numerare salvo che i ricevuti dagli
ebrei, e nel Testamento Nuovo le 6 Epistole, cioè sotto nome di san
Paolo agli ebrei, di san Giacomo, seconda di san Pietro, seconda e terza di san
Giovanni et una di san Iuda, e l'Apocalisse.
3 Che per
avere l'intelligenza vera della Scrittura divina o per allegare le proprie
parole è necessario aver ricorso a' testi della lingua originaria nella
quale è scritta, e reprovare la tradozzione che da' latini è
usata, come piena d'errori.
4 Che la
Scrittura divina è facilissima e chiarissima, e per intenderla non
è necessaria né glosa, né commenti, ma avere spirito di pecorella di
Cristo.
5 Se contra
tutti questi articoli si debbono formare canoni con anatemi.
Sopra i due
primi articoli fu discorso da' teologi in 4 congregazioni, e nel primo tutti
furono concordi che la fede cristiana si ha parte nella Scrittura divina e
parte nelle tradizioni, e si consumò molto tempo in allegare per questo
luoghi di Tertulliano, che spesso ne parla e molti ne numera, d'Ireneo,
Cipriano, Basilio, Agostino et altri; anzi, dicendo di piú alcuni che tutta la
dottrina catolica abbia per unico fondamento la tradizione, perché alla
medesima Scrittura non si crede, se non perché si ha per tradizione. Ma vi fu
qualche differenza come fosse ispediente trattare questa materia.
Fra Vicenzo
Lunello franciscano fu d'opinione che, dovendosi stabilire la Scrittura divina
e le tradizioni per fondamenti della fede, si dovesse inanzi trattare della
Chiesa, che è fondamento piú principale, perché la Scrittura riceve da
quella l'autorità, secondo il celebre detto di sant'Agostino: «Non
crederei all'Evangelio, se l'autorità della Chiesa non mi
constringesse», e perché delle tradizioni non si può aver uso alcuno, se
non fondandolo sopra la medesima autorità, poiché, venendo controversia,
se alcuna cosa sia per tradizione, sarà necessario deciderla o per
testimonio, o per determinazione della Chiesa. Ma stabilito questo fondamento,
che ogni cristiano è ubligato credere alla Chiesa, sopra quello si
fabricarà sicuramente. Aggiongeva doversi pigliar essempio da tutti
quelli che sino allora avevano scritto con sodezza contra luterani, come frate
Silvestro et Ecchio, che si sono valuti piú dell'autorità della Chiesa,
che di qualonque altro argomento; né con altro potersi mai convincer i luterani.
Esser cosa molto aliena dal fine proposto, cioè di ponere tutti i
fondamenti della dottrina cristiana, lasciare il principale e forse l'unico, ma
al certo quello senza il quale gli altri non sussistono. Non ebbe questa
opinione seguaci. Alcuni gli opponevano che era sogetta alle stesse
difficoltà che faceva agl'altri; perché anco le sinagoghe d'eretici
s'arrogarebbono d'essere la vera Chiesa, a chi tanta autorità era data.
Altri, avendo per cosa notissima et indubitabile che, per la Chiesa, si debbe
intendere l'ordine clericale, e piú propriamente il concilio et il papa come
capo, dicevano che l'autorità di quella s'ha da tenere per già
decisa, e che il trattarne al presente sarebbe un mostrare che fosse in
difficoltà, o almeno cosa chiarita di nuovo, e non antichissima, sempre
creduta dopo che ci è Chiesa cristiana.
Ma fra
Antonio Marinaro carmelitano era di parere che si astenesse di parlare delle
tradizioni, e diceva che in questa materia, per decisione del primo articolo,
conveniva prima determinare se la questione fosse facti vel iuris,
cioè se la dottrina cristiana ha due parti, una, che per divina
volontà fosse scritta, l'altra che per la stessa fosse proibito
scrivere, ma solo insegnare in voce; overo se di tutto il corpo della dottrina
per accidente è avvenuto che, essendo stata tutta insegnata, qualche
parte non sia stata posta in scritto. Soggionse essere cosa chiara che la
Maestà divina, ordinando la legge del Vecchio Testamento, statuí che
fosse necessario averla in scritto, però col proprio dito scrisse il
decalogo in pietra, commandando, che fosse riposto nello scrigno, perciò
chiamato del patto, che si dice «Arca foederis». Che commandò piú volte
a Moisè di scrivere li precetti in libro, e che un essemplare stasse
appresso lo scrigno, e che il re ne avesse uno per leggere continuamente. Non
fu l'istesso nella legge evangelica, la qual dal figlio di Dio fu scritta ne'
cuori, alla quale non è necessario avere tavole, né scrigno, né libro.
Anzi, fu la Chiesa perfettissima inanzi che alcuni de' santi apostoli
scrivessero; e se ben niente fosse stato scritto, non però alla Chiesa
di Cristo sarebbe mancata alcuna perfezzione. Ma sí come fondò Cristo la
dottrina del Nuovo Testamento ne' cuori, cosí non vietò che non dovesse
essere scritta, come in alcune false religioni, dove i misterii erano tenuti in
occolto, né era lecito mettergli in scritto, ma solamente insegnarli in voce; e
pertanto essere cosa indubitata che quello che hanno scritto gli apostoli e
quello che hanno insegnato a bocca è di pari autorità, avendo
essi scritto e parlato per l'instinto dello Spirito Santo; il quale
però, sí come assistendo loro gli ha drizzati a scrivere e predicare il
vero, cosí non si può dire che abbia loro proibito scrivere alcuna cosa
per tenerla in misterio, onde non si poteva distinguere doi generi d'articoli
della fede, alcuni publicati con scrittura, altri commandati di communicare
solo in voce. Disse anco che, se alcuno fosse di contraria opinione, averebbe
due gran difficoltà da superare: l'una in dire in che consiste la
differenza; l'altra, come i successori degli apostoli abbiano potuto metter in
scritto quello che da Dio fu proibito; soggiongendo essere altretanto dura e
difficile da sostenere l'altra, cioè per accidente esser occorso che
alcuni particolari non siano stati scritti, poiché derogherebbe molto alla
divina providenza nell'indrizzare i santi apostoli nella composizione delle
scritture del Nuovo Testamento. Pertanto concludeva che l'entrar in questa
trattazione fosse un navigare tra Scilla e Cariddi et essere meglio immitar li
padri, quali si sono sempre valuti di questo luogo solo ne' bisogni, non
venendo però mai in parere di formarne un articolo di competenza contra
la divina Scrittura. Aggionse che non era necessario passar allora a fare nuova
determinazione, poiché da' luterani, se ben hanno detto di non voler essere
convinti salvo che con la Scrittura, non è però stata formata
controversia in questo articolo, et essere ben attendere alle sole controversie
che essi hanno promosse, e non metterne in campo di nuove, esponendosi a
pericolo di fare maggior divisione nel cristianesmo.
A pochi
piacque l'openione del frate; anzi dal cardinale Polo fu ripreso, con dire che
quel parere era piú degno d'un colloquio di Germania, che condecente ad un
concilio universale della Chiesa; che in questo convien avere mira alla
verità sincera, non come là, dove non si tratta se non
d'accordarsi et eziandio con pregiudicio della verità; per conservare la
Chiesa essere necessario o che i luterani ricevino tutta la dottrina romana, o
che siano scoperti quanti piú errori di loro si può ritrovare, per
mostrare al mondo tanto piú che non si può convenire con loro;
però se essi non hanno formato la controversia sopra le tradizioni,
bisogna formarla e condannare le openioni loro e mostrare che quella dottrina
non solo è differente dalla vera in quello dove professatamente gli
contradice, ma in tutte le altre parti; doversi attendere a condannare piú
assordità che si potran cavare da' scritti loro, et essere vano il
timore di urtar in Scilla o Cariddi per quella cavillosa raggione, a quale chi
attendesse concluderebbe che non ci fosse tradizione alcuna.
[Diverse openioni sopra 'l canone de' libri
sacri]
Nel secondo
articolo le openioni furono conformi in questo, che secondo gli antichi
essempii si facesse catalogo de' libri canonici, nel quale fossero registrati
tutti quelli che si leggono nella Chiesa romana, eziandio quelli del Vecchio
Testamento che dagli ebrei non sono ricevuti; e per prova di ciò fu da
tutti allegato il concilio laodiceno, Innocenzio I pontefice, il III concilio
cartaginense e Gelasio papa. Ma furono 4 openioni. Alcuni volevano che doi
ordini fossero fatti: nel primo si ponessero quei soli che da tutti sono sempre
stati ricevuti senza contradizzione; nell'altro quelli, quali altra volta sono
stati reietti o di loro dubitato; e si diceva che, se ben ciò non si
vede fatto precedentemente da nissun concilio o pontefice, nondimeno era sempre
cosí stato inteso; perché sant'Agostino fa una tal distinzione e l'autorità
sua è stata canonizata nel canone In canonicis, e san Gregorio,
che fu posterior anco a Gelasio, sopra Iob dice de' libri de' Macabei che sono
scritti per edificazione, se ben non sono canonici.
Fra Aloisio
di Catanea dominicano diceva che questa distinzione era fatta da san Gierolamo,
ricevuto come regola e norma dalla Chiesa per constituir il canone delle
Scritture, et allegava il cardinal Gaetano, il quale esso ancora gli aveva
distinti, seguendo san Gierolamo come regola infallibile dataci dalla Chiesa, e
cosí scrisse a papa Clemente VII, mandandogli l'esposizione sua sopra i libri
istoriali del Vecchio Testamento. Altri erano di parere che tre ordini fossero
stabiliti: il primo di quelli che sempre furono tenuti per divini; il secondo
di quelli che altre volte hanno ricevuto dubio, ma, per uso, ottenuto
autorità canonica, nel qual numero sono le sei Epistole, e l'Apocalisse
del Nuovo Testamento et alcune particole degli evangelisti; il terzo di quelli
che mai sono certificati, quali sono i sette del Vecchio Testamento et alcuni
capi di Daniele e di Ester. Altri riputavano meglio non far alcuna distinzione,
ma immitare il concilio cartaginense e gli altri, ponendo il catalogo senza
dire piú parole. Un altro parere fu che si dicchiarassero tutti, in tutte le
parti, come si ritrovano nella Bibia latina, essere di divina et ugual
autorità. Maggior pensiero diede il libro di Baruc, il quale non
è posto in numero né da' laodiceni, né da' cartaginesi, né da' pontefici
romani, e si sarebbe tralasciato cosí per questa causa, come perché non si
sapeva trovar il principio di quel libro; ma ostava che nella Chiesa se ne
legge lezzione, raggione stimata cosí potente che fece risolvere la
congregazione, con dire che dagli antichi fu stimato parte di Ieremia e compreso
con lui.
Nella
congregazione del venere 5 marzo, essendo andato aviso che i pensionarii del
vescovo di Bitonto dimandavano in Roma d'essere pagati, e per questo l'avevano
fatto citar inanzi l'auditore, facendo instanza che fosse costretto con
scommuniche et altre censure, secondo lo stile della corte, a fare il
pagamento, egli si lamentava dicendo che i suoi pensionarii avevano raggione,
ma né egli aveva il torto, perché, stando in concilio, non poteva spendere
manco di 600 scudi all'anno e, detratte le pensioni, non ne restava a lui piú
che 400, onde era necessario che fosse sgravato o sovvenuto degli altri 200. I
prelati poveri, come in causa commune, s'adoperavano in suo servizio et alcuni
d'essi passarono in qualche parole alte, dicendo che questo fosse un'infamia
del concilio, quando ad un officiale della corte di Roma fosse permesso usare
censure contra un prelato essistente in concilio; esser una mostruosità,
che averebbe dato da dire al mondo che il concilio non fosse libero; che l'onor
di quel consesso ricercava che fosse citato a Trento l'auditore, overo usato
verso di lui qualche risentimento che conservasse la degnità della
sinodo illesa. Alcuni anco passavano a dannare l'imposizione delle pensioni,
dicendo essere ben causa giusta et usata dall'antichità che le chiese
ricche sovvenissero le povere, non però costrette, ma per carità,
né levando a se stesse le cose necessarie; cosí anco aver insegnato san Paolo;
ma che i poveri prelati, di quello che era necessario per la sostentazione
propria, fossero costretti con censure a rifondere a' ricchi, essere cosa
intolerabile; e questo esser un capo di riforma da trattar in concilio,
riducendo la cosa all'antico e veramente cristiano uso. Ma i legati,
considerando quanto fossero giuste le querele e dove potevano capitare,
quietarono ogni cosa con promettere che averebbono scritto a Roma e fatto
onninamente desistere dal processo giudiciale et operato che in qualche modo
fosse proveduto al vescovo, sí che potesse mantenersi in concilio.
Avendo tutti
i teologi finito di parlare, il dí 8 fu intimata congregazione per il seguente,
se ben non era giorno ordinario, non tanto per venir a fine di stabilire
decreto sopra gli articoli disputati, quanto per decoro del concilio, che in
quel giorno dedicato a festa profana del carnovale, i padri si occupassero
nelle cose conciliari; et allora fu da tutti approvato che le tradizioni
fossero ricevute come di ugual autorità alla Scrittura, ma non
concordarono nella forma di tessere il catalogo de' libri divini; et essendo 3
openioni, l'una di non descendere a particolar libri, l'altra di distinguer il
catalogo in tre parti, la terza di farne un solo, ponendo tutti i libri d'ugual
autorità, né essendo ben tutti risoluti, furono fatte tre minute, con
ordine che si pensasse accuratamente per dire ciascuno quale ricevesse nella
seguente congregazione, che il giorno 12 non si tenne per l'arrivo di don
Francesco di Toledo, mandato dall'imperatore ambasciatore per assistere al
concilio come collega di don Diego; il qual fu incontrato dalla maggior parte
de' vescovi e dalle famiglie de' cardinali.
Arrivò
in Trento in questo tempo il Vergerio, di sopra piú volte nominato, andato non
per volontà d'intervenir al concilio, ma fuggendo l'ira del suo popolo,
concitato contra lui come causa della sterilità della terra, e da frate
Annibal Grifone inquisitore; né sapeva dove poteva stare con degnità et
avere commodo maggiore di giustificarsi dalle imputazioni del frate, che lo
publicava per luterano non solo nell'Istria, ma appresso il noncio di Venezia
et il papa; delle qual cose essendo anco i legati del concilio avisati,
l'esclusero d'intervenire negli atti publici come prelato, se prima non si
fosse giustificato appresso il pontefice, dove lo essortarono efficacemente
andare, e se non avessero temuto di far parlare contra la libertà del
concilio, sarebbono usciti dalle essortazioni. Ma egli, vedendo di star in
Trento con maggiore indegnità, pochi dí dopo si partí con animo di
tornar al vescovato, reputando la sedizione populare esser acquietata; ma
gionto a Venezia, gli fu proibito d'andarci dal noncio, quale aveva ricevuto
ordine da Roma di formare processo contra di lui; di che sdegnato o intimorito
o per qualche altra causa che fosse, non molti mesi dopo uscí d'Italia.
[Il canone de' libri sacri stabilito, e si
tratta della traslazione latina]
Il dí 15,
proposte le tre formule, se ben ciascuna ebbe chi la sostentò, la terza
però fu approvata dalla maggior parte. Nelle seguenti congregazioni
parlarono i teologi sopra gli altri articoli, e molta differenza fu nel terzo
sopra la translazione latina della Scrittura tra alcuni pochi che avevano buona
cognizione di latino e gusto di greco, et altri nudi di cognizione di lingue.
Fra Aloisio da Catanea disse che per risoluzione di quell'articolo non si
poteva portare cosa piú a proposito et accommodata a' presenti tempi et
occasioni che il giudicio del cardinale Gaetano, versatissimo nella teologia,
avendo studiato sino dalla fanciullezza, e per la felicità dell'ingegno
e laboriosa diligenza riuscito il primo teologo di quello e molti altri secoli,
al quale non era prelato, né altro soggetto in concilio che non cedesse in
dottrina e non tenesse d'esser in stato d'imparare da lui. Questo cardinal,
andato in Germania legato del 1523, accuratamente investigando come si potesse
ridurre alla Chiesa li sviati e convincere gli eresiarchi, trovò il vero
rimedio: l'intelligenza leterale del testo della Sacra Scrittura nella sua
lingua originale nella quale è scritto; e tutto 'l rimanente di sua vita,
che 11 anni furono, si diede solo allo studio della Scrittura, esponendo non la
translazione latina, ma i fonti ebreo nel Vecchio, e greco nel Nuovo
Testamento: delle qual lingue non avendo egli alcuna cognizione, adoperò
persone intendenti che, di parola in parola, gli facessero costruzzione del
testo, come le opere sue scritte sopra i sacri libri mostrano. Era solito dire
quel buon cardinale che l'intendere il testo latino non era l'intendere la
parola di Dio infallibile, ma quella del traslatore, soggetto e succombente
agli errori; che ben disse Gieronimo, il profetare e scrivere sacri libri
provenire dallo Spirito Santo, ma il translatargli in altra lingua esser opera
della perizia umana; e dolendosi diceva: «Piacesse a Dio che i dottori de'
secoli inanzi avessero cosí fatto, che le eresie luterane non averebbono
trovato luogo». Soggionse non potersi approvare translazione alcuna, se non
reprovando il canone Ut Veterum d. 9, che commanda d'aver il testo ebreo
per essaminare la realtà de' libri del Vecchio Testamento, et il greco
per norma di quei del Nuovo. L'approvar un'interpretazione per autentica essere
condannare san Gieronimo e tutti quelli che hanno tradotto: se alcuna è
autentica, a che potrebbono servire le altre non autentiche? Una gran vanità
sarebbe produrre copie incerte avendone in forma probante; doversi tener con
san Gieronimo e col Gaetano che ogni interprete abbia potuto fallare, con tutto
che abbia usato ogni arte per non scostarsi dall'originale; cosí certa cosa
essere che, se il santo concilio essaminasse et emendasse al testo vero
un'interpretazione, lo Spirito Santo, che assiste alle sinodi nelle cose della
fede, gli soprastarebbe che non facesse errore, et una tal tradozzione cosí
essaminata et approvata si potrebbe dire autentica. Ma se senza tal essamine si
possi approvarne una e promettersi che lo Spirito Santo assista, non ardiva
dirlo, se dalla santa sinodo non fosse cosí determinato, vedendo che nel
concilio de' santi apostoli precesse una grand'inquisizione. Ma essendo una tal
opera di decene d'anni, né potendosi intraprendere, pareva meglio lasciare le
cose come erano state 1500 anni, che le tradozzioni latine fussero verificate
co' testi originali.
In contrario,
dalla maggior parte de' teologi era detto essere necessario avere per divina et
autentica in tutte le parti sue quella tradozzione che per li tempi passati
è stata letta nelle chiese et usata nelle scuole, altrimenti sarebbe
dare la causa vinta a' luterani et aprir una porta per introdur all'avvenire
innumerabili eresie e turbare continuamente la quiete della cristianità.
La dottrina della santa madre Chiesa romana, madre e maestra di tutte le altre,
essere fondata in gran parte da' pontefici romani e da' teologi scolastici
sopra qualche passo della Scrittura, che dando libertà a ciascuno
d'essaminare se sia ben tradotta, ricorrendo ad altre tradozzioni o cercando
come dica in greco o in ebreo, questi nuovi grammatici confonderanno ogni cosa
e sarà fargli giudici et arbitri della fede, et in luogo de' teologi e
canonisti converrà tener il primo conto, nell'assumer a' vescovati e
cardinalati, de' pedanti. Gli inquisitori non potranno piú procedere contra i
luterani se non sapranno ebreo e greco, che subito sarà risposto da' rei
che il testo non dice cosí e che la tradozzione non è fedele; et ogni
novità e capriccio che verrà in testa a qualonque grammatico, o
per malizia o per poca perizia delle cose teologiche, purché possi con qualche
apice grammaticale di quelle lingue confermarlo, troverà fondamento, che
mai si venirà al fine. Vedersi adesso, dopo che Lutero ha dato principio
a far una tradozzione della Scrittura, quante diverse e contrarie tra loro sono
uscite in luce, che meritavano essere in perpetue tenebre occultate, quante
volte esso Martino ha mutato quella che aveva prima in un modo tradotto, che
mai si è ristampata la tradozzione senza qualche notabile mutazione non
d'un passo o doi, ma di centenara in una fiata; dando questa libertà a
tutti, presto ridurrebbe la cristianità che non si saprà che
credere.
A queste
raggioni, sentite con applauso della maggior parte, altri aggiongevano anco
che, se la divina providenza ha dato una Scrittura autentica alla Sinagoga et
un autentico Testamento Nuovo a' greci, non si poteva, senza derogargli, dire
che la Chiesa romana, piú diletta, fosse stata lasciata senza tanto beneficio,
e però che questo stesso Spirito Santo, qual dettò i libri sacri,
abbia anco indettata questa traslazione, che dalla Chiesa romana doveva esser
accettata. Ad alcuni pareva ardua cosa fare profeta overo apostolo uno,
solamente per tradur un libro; però moderavano l'asserzione con dire che
non ebbe spirito profetico o apostolico, ma ben uno a questo molto vicino. E se
alcuno si rendesse difficile a dare l'assistenza dello spirito di Dio
all'interprete, non la potrà negare al concilio, e quando sarà
approvata la volgata edizione e fulminato l'anatema contra chi non la riceve,
quella sarà senza errori, non per spirito di chi la scrisse, ma della
sinodo che per tale l'ha ricevuta.
Don Isidoro
Claro bresciano, abbate benedittino, molto versato in questo studio, con la
narrazione istorica cercò di rimovere questa opinione, dicendo in
sostanza che del Vecchio Testamento molte translazioni greche furono nella
primitiva Chiesa, quali Origene raccolse in un volume, confrontandole in 6
colonne: di queste la principale si chiama de' 70, della quale ne furono anco
tratte diverse in latino, sí come varie anco ne furono cavate dalle scritture
del Novo Testamento greche, una de quali, la piú seguita e letta nella Chiesa,
si chiama Itala, da sant'Agostino tenuta per megliore delle altre, in
maniera però che si dovessero preferire senza nissun dubio i testi
grechi. Ma san Gieronimo, perito, come ogni uno sa, nella cognizione delle
lingue, vedendo quella del Vecchio Testamento deviare dalla verità
ebraica, parte per difetto dell'interprete greco, parte del latino, ne trasse
una dall'ebreo immediate et emendò quella del Nuovo Testamento alla
verità del greco testo. Per il credito nel quale Gieronimo era, la
tradozzione sua fu da molti ricevuta, e ripudiata da altri, piú tenaci degli
errori dell'antichità et aborrenti dalle novità o, come egli si
duole, per emulazione; ma dopo qualche anni, cessata l'invidia, fu ricevuta
quella di san Gieronimo da tutti i latini e furono ambedue in uso, chiamandosi
la vecchia e la nova. Testifica san Gregorio, scrivendo a Leandro sopra Iob,
che la Sede apostolica le usava ambedue e che egli, nell'esposizione di quel
libro, eleggeva di seguire la nuova, come conforme all'ebreo; però nelle
allegazioni si sarebbe valuto ora dell'una, ora dell'altra, secondo che fosse
tornato meglio a suo proposito. I tempi seguenti, con l'uso di queste due, ne
hanno composto una, pigliando parte dalla nova e parte dalla vecchia, secondo
che gli accidenti hanno portato, et a questa cosí composta fu dato nome
d'edizzione vulgata. I salmi essere tutti della vecchia, perché continuandosi
di cantargli quotidianamente nelle chiese, non si potero mutare. I profeti
minori tutti della nuova, i maggiori misti d'ambedue. Questo essere ben certo,
che tutto ciò è per divina disposizione avvenuto, senza la quale
non succede cosa alcuna. Ma non si può dire però che vi sia
intervenuto perizia maggiore che umana. San Gieronimo afferma apertamente che
nissun interprete ha parlato per Spirito Santo. L'edizzione che abbiamo
è per la maggior parte sua: sarebbe gran cosa attribuire divina
assistenza a chi ha conosciuto et affermato di non averla. Laonde mai si
potrà uguagliare tradozzione alcuna al sacro testo della lingua
originale. Pertanto essere di parere che l'edizzione vulgata fosse anteposta a
tutte et approvata, corretta però al testo originale, e fosse vietato ad
ogni uno di far altra traslazione, ma solo si emendasse quella e le altre si
estinguessero, e cosí cesserebbono tutti gli inconvenienti causati dalle nuove
interpretazioni che con molto giudicio sono stati notati e ripresi nelle
congregazioni.
Fra Andrea di
Vega franciscano, caminando quasi come mediatore tra queste opinioni,
approvò il parere di san Gierolamo, che le qualità dell'interprete
non sono spirito profetico o altro divino speciale che gli dia
infallibilità, e la sentenza del medesimo santo e di sant'Agostino
d'emendare le tradozzioni co' testi della lingua originale; soggiongendo
però che a questo non ripugnava il dire insieme che la Chiesa latina
abbia per autentica l'edizzione vulgata, perché questo si debbe intendere: che
non vi sia errore alcuno in quella che appartiene alla fede et a' costumi, ma
non in ogni apice et ogni espressione propria delle voci, essendo impossibile, che
tutte le voci d'una lingua siano trasportate in un'altra, senza che
v'intervenga ristrizzione et ampliazione de significati o metafora o altra
figura. Già la volgata edizione esser stata essaminata da tutta la
Chiesa per corso di piú di 1000 anni, e conosciuto che in quella non vi
è fallo alcuno nella fede o costumi; et in tal conto è stata
dagli antichi concilii usata e tenuta, e però come tale si debbe tenere
et approvare, e si potrà dicchiarare l'edizzione vulgata autentica,
cioè che si può leggere senza pericolo, non impedendo i piú
diligenti di ricorrere a' fonti ebrei e greci, ma ben proibendo tanto numero di
translazioni intiere che generano confusione.
[Senso et interpretazione della Scrittura]
Intorno
l'articolo del senso della Scrittura divina, diede occasione di parlare
diversamente la dottrina del già cardinale Gaetano, che insegnò e
pratticò egli ancora, cioè di non rifiutare i sensi nuovi, quando
quadrino al testo e non sono alieni dagli altri luoghi della Scrittura e dalla
dottrina della fede, se ben il torrente de' dottori corresse ad un altro, non
avendo la divina Maestà legato il senso della Scrittura a' dottori
vecchi; altrimente non resterebbe, né a presenti, né a' posteri, altra
facoltà che di scrivere di libro in quaderno, il che da alcuni de'
teologi e padri era approvato e da altri oppugnato.
A' primi
pareva che fosse come una tirannide spirituale il vietare che, secondo le
grazie da Dio donate, non potessero i fedeli essercitare il proprio ingegno e
che questo fosse apunto proibire la mercanzia spirituale de' talenti da Dio
donati; doversi con ogni allettamento invitare gli uomini alla lezzione delle
sacre Lettere, dalle quali sempre che si leva quel piacere che la novità
porta, tutti sempre le aborriranno, et una tal strettezza farà applicare
li studiosi alle altre sorti di lettere et abandonare le sacre e per
consequenza ogni studio e cura di pietà; questa varietà de' doni
spirituali appartenere alla perfezzione della Chiesa e vedersi nella lettura
de' antichi padri, ne' scritti de' quali è diversità grande e
spesso contrarietà, congionta però con strettissima
carità. Per qual causa non dover essere concesso a questo secolo quella
libertà che con frutto spirituale hanno goduto gli altri? Li scolastici
nella dottrina di teologia, se ben non hanno tra loro dispute sopra
l'intelligenza delle lettere sacre, avere però non minor differenze ne'
ponti della religione, e quelle non meno pericolose; meglio essere l'immitare
l'antichità, che non ha ristretta l'esposizione della Scrittura, ma
lasciata libera.
La contraria
opinione portava che, essendo la licenza popolare disordine maggiore della
tirannide, in questi tempi conveniva imbrigliare gli ingegni sfrenati,
altrimente non si poteva sperare di veder fine delle presenti contenzioni: agli
antichi tempi esser stato concesso di scrivere sopra i libri divini, perché,
essendovi poche esposizioni, ve ne era bisogno, e gli uomini di quei tempi
erano di vita santa et ingegno composto, che da loro non si poteva temere di
confusioni, come al presente. E per tanto i scolastici teologi, avendo veduto
che non vi era piú bisogno nella Chiesa d'altre esposizioni e che la Scrittura
era non solo a bastanza, ma anco abondantemente dichiarata, presero altro modo
di trattare le cose sacre; e vedendo gli uomini inclinati alle dispute,
giudicarono che fosse ben occupargli piú tosto in essamine di raggioni e detti
d'Aristotele, e conservare la Scrittura divina in riverenza, alla quale molto
si deroga, quando sia maneggiata communemente e sia materia de' studii et
essercizii de' curiosi. E tanto si passava inanzi con questa sentenzia che fra
Ricardo di Mans franciscano disse i dogmi della fede essere tanto dilucidati al
presente dagli scolastici, che non si doveva imparargli piú dalla Scrittura; la
qual è vero che altra volta si leggeva in chiesa per instruzzione de'
popoli e si studiava per l'istessa causa; dove al presente si legge in chiesa
solo per dir orazione, e per questo solo doverebbe anco servire a ciascuno e
non per studiare, e questa sarebbe la riverenza e venerazione debita da ogni
uno alla parola Dio. Ma almeno doverebbe esser proibito il leggerla per ragion
di studio a chi non è prima confermato nella teologia scolastica, né con
altri fanno progresso i luterani, se non con quelli che studiano la Scrittura;
il qual parere non fu senza aderenti.
Tra queste
opinioni ve ne caminarono due medie: una, che non fosse bene restringere
l'intelligenza della Scrittura a' soli padri, atteso che per il piú i loro
sensi sono allegorici e rare volte litterali, e quelli che seguono la lettera
s'accommodano al loro tempo, sí che l'esposizione non riesce a proposito per
l'età nostra. Essere stato dottamente detto dal cardinale Cusano, di
eccellente dottrina e bontà, che l'intelligenza delle Scritture si debbe
accommodar al tempo et esporla secondo il rito corrente, e non avere per
maraviglia se la prattica della Chiesa in un tempo interpreta in un modo, in un
altro, all'altro. E non altrimente l'intese il concilio lateranense ultimo,
quando statuí che la Scrittura fosse esposta secondo i dottori della Chiesa o
come il longo uso ha approvato. Concludeva questa opinione che le nuove
esposizioni non fossero vietate, se non quando discordano dal senso corrente.
Ma fra
Dominico Soto dominicano distinse la materia di fede e di costumi dalle altre,
dicendo in quella sola esser giusto tener ogni ingegno tra termini già
posti, ma nelle altre non esser inconveniente lasciare che ogni uno, salva la
pietà e carità, abondi nel proprio senso: non essere stata mente
de' padri che fossero seguiti di necessità, salvo che nelle cose
necessarie da credere et operare; né i pontefici romani, quando hanno esposto
nelle decretali loro alcun passo della Scrittura in un senso, aver inteso di
canonizare quello, sí che non fosse lecito altrimente intenderlo, pur che con
raggione. E cosí l'intese san Paolo, quando disse che si dovesse usare la
profezia, cioè l'interpretazion della Scrittura, secondo la raggion
della fede, cioè riferendola agli articoli di quella; e se questa
distinzione non si facesse, si darebbe in notabili inconvenienti per le
contrarietà che si ritrovano in diverse esposizioni date dagli antichi
padri, che repugnano l'una all'altra.
[L'edizione volgata approvata in congregazione]
Le
difficoltà promosse non furono di tanta efficacia che nella
congregazione de' padri non fosse con consenso quasi universale approvata
l'edizione volgata, avendo fatto potente impressione nell'animo de' prelati
quel discorso che i maestri di grammatica si arrogherebbono d'insegnar a' vescovi
e teologi. E quantonque alcuni pochi sostentassero che fosse ispediente, attese
le raggioni da' teologi considerate, tralasciar quel capo per allora, ma poiché
fu risoluto altrimente, posero in considerazione che, approvandola, conveniva
anco commandare che sia stampata et emendata, e dovendo questo fare, era
necessario formare l'essemplare al quale si dovesse formare l'impressione. Onde
di commun concordia furono deputati sei, che attendessero a quella correzzione
con accuratezza, acciò si potesse publicare inanzi il fine del concilio,
riservandosi d'accrescer il numero, quando, tra quei che di nuovo giongessero,
vi fosse persona di buona attitudine per quella opera.
Ma nel render
i voti sopra il quarto articolo, dopo aver detto il cardinale Pacceco che la
Scrittura era stata esposta da tanti e cosí eccellenti in bontà e
dottrina, che non si poteva sperare d'aggiongere cosa bona di piú, e che le
nuove eresie erano tutte nate per nuovi sensi dati alla Scrittura; però
che era necessario imbrigliare la petulanza degli ingegni moderni e farla star
contenta di lasciarsi reggere dagli antichi e dalla Chiesa, et a chi nascesse
qualche spirito singolare, sia costretto tenerlo in sé e non confonder il mondo
col publicarlo, concorsero quasi tutti nella medesima opinione.
La
congregazione de' 29 tutta fu consummata sopra il quinto articolo, perché
avendo parlato i teologi con poca risoluzione e col rimetter al voler della
sinodo, a quale appartiene far i statuti, i padri ancora erano ambigui. Il
tralasciare afatto l'anatema era un non fare decreto di fede e nel bel
principio rompere l'ordine preso di trattar i 2 capi insieme. Il condannar anco
per eretico ogni uno che non accettasse l'edizione volgata in qualche luogo
particolare e forse non importante, e parimente che publicasse qualche sua
invenzione sopra la Scrittura per leggierezza di mente, pareva cosa troppo
ardua. Dopo longa discussione si trovò temperamento di formar il primo
decreto e comprendere in esso quel solo che tocca il catalogo de' libri sacri e
le tradizioni, e quello concludere con anatema. Nel secondo poi, che appartiene
alla riforma e dove l'anatema non ha luogo, comprendere quello che aspetta alla
tradozzione e senso della Scrittura, come che il decreto sia un rimedio
all'abuso di tante interpretazioni et esposizioni impertinenti.
[Abusi a riformare intorno alla Scrittura]
Restava
parlare degli altri abusi, de quali ciascuno aveva raccolto numero grande et in
quello adunati innumerabili modi come la debolezza e superstizione umana si
vale delle cose sacre, non solo oltre, ma anco contra quello perché sono
instituite. Delle incantazioni per trovar de tesori et effettuare lascivi
dissegni o ottenere cose illecite fu assai parlato e proposti molti rimedii per
estirparle. Tra le incantazioni ancora fu posto da alcuni il portar adosso
Evangelii, nomi di Dio per prevenir infermità o guarire d'esse, overo
per essere guardato da mali et infortunii, o per aver prosperità, il
leggergli medesimamente per gl'istessi effetti e lo scrivergli con osservazioni
de tempi; furono nominate in questo catalogo le messe che in alcune reggioni si
dicono sopra il ferro infuocato, sopra le acque bollenti o fredde, o altre
materie per le purgazioni volgari, il recitare Evangelii sopra le arme,
acciò abbiano virtú contra gli inimici. In questa serie erano poste le
congiurazioni de' cani che non mordano, de' serpi che non offendano, delle
bestie nocive alle campagne, delle tempeste et altre cause di sterelità
della terra, ricercando che tutte queste osservazioni come abusi fossero
condannate, proibite e punite. Ma in diversi particolari passarono alle
contradizzioni e dispute, difendendo alcuni, come cose devote e religiose, o
almeno permesse e non dannabili, quelle che da altri erano condannate per empie
e superstiziose, il che avvenne parimente parlando della parola di Dio per
sortilegii o divinazioni, o estraendo polize con versi della Scrittura, overo
osservando gli occorrenti aprendo il libro. Il valersi delle parole sacre in
libelli famosi et altre detrazzioni fu universalmente dannato, e parlato assai
del modo come levare le pasquinate di Roma, nel che mostrò il cardinal
del Monte gran passione nel desiderare rimedio, per esser egli, attesa la
libertà e giocondità del suo naturale, preso molto spesso da'
cortegiani per materia della loro dicacità. Tutti concordavano che la
parola di Dio non può mai esser tenuta in tanta riverenzia che
sodisfaccia al debito, e che il valersi di quella anco per lodare gli uomini,
eziandio prencipi e prelati, non è condecente, e generalmente ogni uso
d'essa in cosa vana era peccato; ma però non doveva il concilio
occuparsi in ciò, non essendo congregati per fare provisione a tutti i
mancamenti; né doversi proibire assolutamente che non siano tirate le parole
della Scrittura alle cose umane, perché santo Antonino nell'istoria sua non
condannò gl'ambasciatori siciliani che domandando perdono a Martino IV
in publico consistorio, esposero l'ambasciata non con altre parole, se non
dicendo tre volte: «Agnus Dei qui tollis peccata mundi, miserere nobis»; né la
risposta del papa, che disse parimente tre volte: «Ave Rex Iudeorum, et dabant
illi alapas». Però esser stata una malignità de' luterani il
riprendere il vescovo di Bitonto, che nel sermone fatto nella sessione publica
dicesse, a chi non accetterà il concilio potersi dire: «Papæ lux
venit in mundum, et dilexerunt homines magis tenebras quam lucem». Tante
congregazioni furono consumate in questo, e tanto cresceva il numero et
appariva la debolezza de' rimedii proposti, che la commune openione inclinò
a non fare menzione particolare d'alcuno d'essi, né descender a' rimedii
appropriati, né a pene particolari, ma solo proibirgli sotto i capi generali e
rimetterle pene all'arbitrio de' vescovi. Degl'abusi delle stampe si
parlò, né vi fu molto che dire, sentendo tutti che fosse posto freno
alli stampatori e fosse loro vietato stampare cosa sacra che non fosse
approvata; ma che perciò bastasse quello che dall'ultimo concilio
lateranense fu statuito.
Ma intorno le
lezzioni e predicazioni s'eccitarono gravissime controversie. I frati regolari,
già in possesso di queste fonzioni, cosí per privilegii ponteficii, come
per averle essercitate soli per 300 anni, con tutte le forze operavano per
conservarle; et i prelati, allegando che erano proprie loro et usurpate,
pretendevano la restituzione; e perché non si contendeva qui d'openioni, ma
d'utilità, oltre le raggioni erano da ambedue le parti adoperati gli
effetti, e queste differenze erano per causare che al tempo della sessione
niente fosse deciso: perilché i legati risolsero di differire questi doi punti
ad un'altra sessione. Furono, secondo le risoluzioni prese, formati i doi
decreti, e nella ultima congregazione letti et approvati con qualche eccezzioni
nel capo dell'edizione volgata, in fine della quale il cardinal del Monte, dopo
avere lodato la dottrina e prudenza di tutti, gli ammoní del decoro che
conveniva usare nella publica sessione, mostrando un cuore et un'anima istessa,
poiché nelle congregazioni le materie erano essaminate sufficientemente; et il
cardinal Santa Croce, finita la congregazione, radunò quelli che avevano
opposto al capo della volgata, e mostrò loro che non potevano dolersi,
perché non era vietato, anzi restava libero il poter emendarla e l'avere
ricorso a' testi originali, ma solo vietato il dire che vi fossero errori in
fede, per quali dovesse essere reietta.
[Quarta sessione e suo decreto]
Ma venuto il
giorno degli 8 aprile destinato alla sessione, fu celebrata la messa dello
Spirito Santo da Salvator Alepo, arcivescovo di Torre in Sardegna, e fatto il
sermone da frate Agostino aretino, generale de servi, e presi i paramenti
ponteficali e fatte le solite letanie e preci, furono letti i decreti
dall'arcivescovo celebrante. Il primo de' quali in sostanza contiene che la
sinodo, mirando a conservare la purità dell'Evangelio promesso da'
profeti, publicato da Cristo e predicato dagli apostoli come fonte d'ogni
verità e disciplina de' costumi, le quali verità e disciplina
conoscendo contenersi ne' libri e tradizioni non scritte, ricevute dagli
apostoli dalla bocca di Cristo, e dettategli dallo Spirito Santo, e di mano in
mano venute, ad essempio de' padri riceve con ugual riverenza tutti i libri del
Vecchio e Nuovo Testamento, e le tradizioni spettanti alla fede et a' costumi,
come venute dalla bocca di Cristo overo dallo Spirito Santo dettate e
conservate nella Chiesa catolica. E posto il catalogo de' libri, conclude che,
se alcuno non gli riceverà per sacri e canonici tutti intieri con le sue
parti tutte, come sono letti nella Chiesa catolica e si contengono
nell'edizione volgata, overo scientemente e deliberatamente sprezzerà le
tradizioni, sia anatema, acciò ogni uno sappia che fondamenti la sinodo
è per usare in confermar i dogmi e restituir i costumi nella Chiesa. La
sostanza del secondo decreto è che la volgata edizione sia tenuta per
autentica nelle publiche lezzioni, dispute e prediche et esposizioni, e nissun
ardisca rifiutarla. Che la Scrittura Sacra non possi esser esposta contra il
senso tenuto dalla santa madre Chiesa, né contra il concorde consenso de'
padri, se ben con intenzione di tenere quelle esposizioni occulte; et i
contravenienti siano dagli ordinarii puniti; che l'edizione volgata sia
stampata emendatissima. Che non si possino stampare, né vendere, né tener libri
di cose sacre senza nome dell'autore, se non approvati, facendo apparire
l'approvazione nel frontispicio del libro, sotto pena di scommunica e
pecuniaria statuita dall'ultimo concilio lateranense. Che nissun ardisca usare
le parole della Scrittura divina in scurrilità, favole, vanità,
adulazioni, detrazzioni, superstizioni, incantazioni, divinazioni, sorti,
libelli famosi; et i trasgressori siano puniti ad arbitrio de' vescovi. E fu
determinato che la sessione seguente si tenesse a 17 giugno.
Dopo fu letto
dal secretario del concilio il mandato degli oratori di Cesare, Diego di
Mendozza e Francesco di Toledo, quello assente e questo presente, qual con
brevi parole salutati i padri per nome dell'imperatore, disse in sostanza:
essere manifesto a tutto 'l mondo che Cesare non reputa cosa piú imperatoria,
quanto non solo il defender il grege di Cristo dagli nimici, ma liberarlo da'
tumolti e sedizioni; perilché con giocondità dell'animo ha veduto quel
giorno, quando è stato aperto il concilio dal papa publicato; la qual occasione
volendo favorire con la potestà et autorità sua, subito vi
mandò il Mendozza, al quale, impedito ora per indisposizione, vi ha
aggionto lui; onde non restava se non pregare concordemente Dio che favorisca
l'impresa del concilio e, quello che è il principale, conservi in
concordia il pontefice e l'imperatore per fermare la verità evangelica,
restituire la sua purità alla Chiesa et estirpar il loglio dal campo del
Signore. Fu risposto per nome del concilio che la venuta di Sua Signoria era
gratissima alla sinodo per l'osservanza verso l'imperatore e per il favore che
dalla Maestà Sua si promette; sperando anco molto nella verità e
religione di Sua Signoria; perilché l'abbraccia con tutto l'animo et admette
quanto debbe di raggione i mandati di Cesare. Si duole dell'indisposizione del
collega, e della concordia tra 'l papa e l'imperatore rende grazie a Dio, qual
pregherà che favorisca i desiderii d'ambidoi per aummento della
cristiana religione e pace della Chiesa. Queste cose fatte, con le solite ceremonie
fu finita la sessione, i decreti della quale furono mandati a Roma da' legati e
poco dopo stampati.
[Giudicii intorno ai decreti della detta
sessione]
Ma veduti, e
massime in Germania, somministrarono gran materia a raggionamenti. Era riputata
da alcuni ardua cosa che 5 cardinali e 48 vescovi avessero cosí facilmente
definito principalissimi et importantissimi capi di religione sino allora
indecisi, dando autorità canonica a libri tenuti per incerti et
apocrifi, facendo autentica una traslazione discordante dal testo originale,
prescrivendo e restringendo il modo d'intendere la parola di Dio; né tra quei
prelati trovarsi alcuno riguardevole per dottrina: esserne alcuni legisti,
dotti forse in quella professione, ma non intendenti della religione; pochissimi
teologi, ma di sufficienza sotto l'ordinaria; il maggior numero gentiluomini o
cortegiani; e quanto alle dignità, esservene alquanti portativi, e la
maggior parte vescovi di città cosí picciole, che rappresentando
ciascuno il popolo suo, non si poteva dire che rappresentassero un millesimo
della cristianità. Ma specialmente di Germania non esservi pur un
vescovo, pur un teologo. Possibile che in tanto numero non s'avesse potuto
mandarne uno? Perché l'imperatore non far andarne alcuno di quelli che erano
intervenuti nel colloquio et informati nelle differenze? Tra i prelati di
Germania il solo cardinale d'Augusta avere mandato procuratore, e quello un
savoiardo; perché i procuratori del cardinale et elettor magontino, intesa la
morte del loro patrone, erano partiti doi mesi prima.
Altri
dicevano che le cose decise non erano di tanto momento quanto pareva, perché il
capo delle tradizioni, che piú importante pareva, non rilevava punto: prima,
perché niente era statuire che si ricevessero le tradizioni, senza dire quali
fossero e senza dare modo di conoscerle; poi che manco vi era precetto di
riceverle, ma solo si proibiva lo sprezzarle scientemente e deliberatamente;
onde non contraveniva chi con parole riverenti le reggietasse tutte, massime
essendovi l'essempio di tutti gli aderenti della corte romana, che non ricevono
l'ordinazione delle diaconesse, non concedono l'elezzione de' ministri al
popolo, che certo è esser l'instituzione apostolica continuata per piú
di 8 secoli; e quello che piú importa, la communione del calice, da Cristo
instituita, dagli apostoli predicata, osservata da tutta la Chiesa sino inanzi
200 anni, et anco al presente da tutte le nazioni cristiane, fuorché dalla
latina; che se questa non è tradizione, non vi è modo di mostrare
che altra sia. E quanto all'edizione volgata dicchiarata autentica niente
essere fatto, non sapendosi per la varietà degli essemplari quale ella
sia. Ma questa ultima opposizione nasceva da non sapere che già in
concilio era fatta la deputazione di chi dovesse stabilire un essemplare
emendato per la vera edizione volgata; il che per qual causa non fosse
effettuato, al suo luogo si dirà.
Ma veduti in
Roma i decreti della sessione e considerata l'importanza delle cose trattate,
pensò il pontefice che il negozio del concilio era da tener in maggior
considerazione di quello che sino allora si era fatto, et accrebbe il numero
nella congregazione de' cardinali e prelati a' quali aveva data la cura di considerare
le cose occorrenti spettanti al concilio e riferirle; e per conseglio di
questi, la prima volta congregati, ammoní i legati di tre cose. L'una di non
publicare in sessione all'avvenire decreto alcuno, senza averlo prima
communicato in Roma, e fuggir ben la sovverchia tardità nel caminar
inanzi, ma guardarsi ben ancora maggiormente della celerità, come quella
che poteva fargli risolvere qualche materia indigesta e levargli tempo di poter
ricevere gli ordini da Roma di quello che si dovesse proponere, deliberare e
concludere. La seconda di non consummare il tempo in materie che non sono in
controversia, come pareva che avessero consummato nelle trattate per la
prossima sessione, nelle quali tutti sono d'accordo e che sono principii
indubitati. La terza d'avvertire che non si venga mai, per qual causa si sia,
alla disputa dell'autorità del papa.
A che essi
risposero con prontezza d'ubedire a quanto Sua Santità commandava,
parendo però loro che nelle cose definite vi sia poca discrepanza tra
catolici et eretici, e che alcune delle Scritture del Testamento Vecchio e
Nuovo, ricevute dal terzo concilio cartaginese, da Innocenzio I e da Gelasio, e
nella sesta sinodo di Trullo, e dal concilio fiorentino, sono rivocate in dubio
dagli eretici e, quello che è peggio, da alcuni catolici e cardinali, et
ancora che le tradizioni non scritte erano impugnate da' luterani, quali a
nissuna cosa piú attendevano che ad annichilarle, con dar ad intendere che ogni
cosa necessaria alla salute sia scritta; e però, se ben questi doi capi
sono principii, sono ancora conclusioni delle piú controverse e delle piú
importanti che si avessero a decidere nel concilio. Aggionsero che sino allora
non era venuta nissuna occasione di parlare dell'autorità del papa, né
del concilio, se non nella trattazione del titolo, quando fu ricercato che si
vi aggiongesse la representazione della Chiesa universale. La qual cosa ancora
molti desiderano, e nondimeno essi la declineranno quanto sarà
possibile. Ma quando fossero costretti di venir a questo, faranno instanza
(stimando che non gli potrà esser negato) d'esprimere il modo come la
rapresenta, cioè mediante il suo capo e non senza: onde piú tosto vi
sarà guadagno che perdita. Del rimanente, parendogli di veder segno che
la maggior parte sia sempre per portar a Sua Santità ogni riverenza,
trovandosi lei come capo unita col corpo del concilio, il che sarà
sempre che si concordi nella riformazione, potrà stare con animo quieto
che l'autorità sua non sarà posta in difficoltà.
[Il papa invita gli svizzeri al concilio;
scomunica l'elettor di Colonia e lo depone]
Mandò
dopo queste cose il pontefice noncio ne' svizzeri Gieronimo Franco, dandogli
lettera a' vescovi di Sion e di Coira, all'abbate di San Gallo et altri abbati
di quelle nazioni, a' quali scrisse che avendo chiamato tutti i prelati di
cristianità al concilio generale a Trento, era cosa conveniente che essi
ancora, che rappresentano la Chiesa elvetica, v'intervenissero, essendo quella
nazione molto a lui diletta, come speciali figli della Sede apostolica e
defensori della libertà ecclesiastica. Che già erano arrivati a
Trento prelati d'Italia, Francia e Spagna, et il numero quotidianamente
aummentava; però non essere condecente che essi vicini siano prevenuti
da' piú lontani; il suo paese essere in gran parte contaminato dalle eresie e
però avere bisogno tanto piú del concilio. In fine gli commanda per
ubedienza e per il vincolo del giuramento e sotto le pene prescritte dalle
leggi che debbino andarci quanto prima, rimettendosi a quel di piú che il suo
noncio gli averebbe detto.
E per le
molte instanze fatte dal clero e dall'academia di Colonia, aiutati da' vescovi
di Liege et Utrecht et anco dall'academia di Lovanio contra l'arcivescovo et
elettore di Colonia, venne alla sentenza definitiva, dicchiarandolo
scommunicato, privandolo dell'arcivescovato e di tutti gli altri beneficii e
privilegii ecclesiastici, assolvendo i popoli dal giuramento della
fedeltà promessa e commandandogli di non ubedirlo; e questo per esser
incorso nelle censure della bolla di Leone X publicata contra Lutero e suoi
seguaci, avendo tenuta e difesa e publicata quella dottrina contra le regole
ecclesiastiche, le tradizioni degli apostoli et i consueti riti della cristiana
religione: e la sentenza fu dopo stampata in Roma. Fece anco un'altra bolla,
commettendo che fosse ubedito Adolfo conte di Scavemburg, già assonto
dall'arcivescovo per suo coadiutore.
E fece
efficace ufficio con l'imperatore che la sentenza fosse esseguita; il quale
però non giudicò a proposito per le cose sue quella novità,
perché era un far unire l'arcivescovo alli altri collegati, il quale sino
allora si teneva interamente sotto la sua ubedienza; e l'ebbe per arcivescovo e
trattò con lui ne' tempi seguenti e gli scrisse come a tale senza
rispetto della sentenzia pontificia. Il che penetrava nell'intimo al papa; ma
non vedendovi rimedio, e giudicando imprudenza il lamentarsi vanamente,
aggionse questa offesa alle altre che riputava ricevere dall'imperatore. Fece
quella sentenza un altro cattivo effetto, che i protestanti presero occasione
di confermare la loro opinione che il concilio non fosse per altro intimato che
per trappolargli. Imperoché, se la dottrina della fede controversa doveva esser
essaminata nel concilio, come poteva il pontefice, inanzi la definizione, venire
a sentenza e per quella condannare l'arcivescovo d'eresia? Apparir per tanto
che vanamente anderebbono a quel concilio dove domina il papa, il quale non
può dissimulare, se ben volendo, d'averli per condannati. Ma vedersi
ancora che quel concilio era in nissuna stima appresso il medesimo papa,
poiché, essendo quello già principiato, senza pur dargli parte alcuna,
il solo pontefice metteva mano definitivamente in quello che al concilio
apparteneva; le quali cose il duca di Sassonia fece per suoi ambasciatori
significare all'imperatore, con dirgli appresso che vedendo sí chiara la mente
del pontefice, sarebbe tempo di provedere alla Germania con un concilio
nazionale o con trattare seriamente le cose della religione in dieta.
[Nella congregazione si tratta della materia
della seguente sessione. Il papa ordina che si tratti del peccato originale]
Ma tornando
alle cose conciliari, erano restati, come s'è detto, per reliquie delle
cose trattate inanzi l'ultima sessione i doi capi di provedere alle lezzioni
della Sacra Scrittura e predicazione del verbo divino. Perché nella prima
congregazione si trattò di questo et anco, per dare principio alla
materia della fede, si propose di trattar insieme del peccato originale: al che
s'opposero i prelati spagnoli, con dire che vi restava ben materia assai da
trattare per una sessione, provedendo ben agli abusi che erano nella
predicazione e lezzione. La qual opinione fu anco seguita da' prelati italiani
imperiali; e parve a' legati di scoprire che questo era ufficio fatto da'
ministri cesarei, i quali strettamente a punto avevano trattato con quei
prelati. Perilché ne diedero aviso a Roma; da dove gli fu risposto che
vedessero d'andare ritenuti sin tanto che s'avesse potuto dare loro
risoluzione. Perilché essi usarono artificiosa diligenza, trattenendosi con la
parte degli abusi, senza venir a conclusione d'essi e senza far dimostrazione
che volessero o non volessero incaminarsi nella materia del peccato originale;
cosí si continuò sino a Pasca.
La qual
passata, il pontefice scrisse che si procedesse inanzi e fosse quella materia
proposta: la lettera, capitata a' 2 di maggio, pervenne a notizia di don
Francesco, il quale, andato alla visita de legati, usò molti artificii,
ora mostrando di consegliare, ora di proponere parere in materia del proseguire
la riforma, solamente a fine d'intendere la mente loro e persuadergli
obliquamente a quello che dissegnava; ma vedendo di non fare frutto,
passò inanzi dicendo tanto apertamente quanto bastava, avere lettere
dalla Maestà cesarea per quali gli commetteva di procurare che per
allora non si entri ne' dogmi, ma si tratti la riforma solamente. A che
risposero i legati con assai ragioni in contrario, e fra le altre con dire che
non potevano farlo senza contravenire alle bolle del papa, che proponevano
queste due materie insieme, et a quello che si era stabilito in concilio di
mandarle del pari, aggiongendo d'avere scritto a Sua Santità che 8
giorni dopo Pasca averebbono incominciato. Furono da ambedue le parti fatti
diversi discorsi e repliche, e dicendo finalmente i legati d'avere
commandamento dal papa e non poter mancare del loro ufficio, disse don
Francesco l'ufficio de buoni ministri esser il mantenere l'amicizia tra
prencipi et aspettare qualche volte la seconda commissione; il che, sí come da'
legati non fu negato, cosí risposero che non si doveva voler da' loro piú di
quello che potessero fare con loro onore. Di tutto ciò diedero al
pontefice conto, aggiongendo avergli detto il cardinale di Trento che, se si
proponesse l'articolo del peccato originale, non passarebbe senza mala
contentezza dell'imperatore, e che però, desiderando essere da una parte
ministri di pace e concordia e dall'altra ubedienti a' commandamenti di Sua
Santità, gli era parso spedire questo aviso in diligenza, pregandola a
non lasciargli errare: soggiongendo che, non venendo altro aviso,
seguiterebbono il suo ultimo commandamento, sforzandosi a persuadere a don
Francesco et al cardinale di Trento che l'articolo del peccato originale in
Germania non sia piú per controverso, ma per accordato, apparendo ciò
per l'ultimo colloquio di Ratisbona, dove Sua Maestà per il primo
articolo da concordare ha fatto pigliare quello della giustificazione; ma per
dar piú longo tempo che sarà possibile, si tratteneranno tutti i giorni
che potranno onestamente con l'espedizione del residuo della sessione passata.
Si fece una
congregazione per questo solo di dare meglior forma come si dovesse procedere
piú ordinatamente che per lo passato, cosí nel trattare la dottrina della fede,
come la materia della riforma: e furono distinte due sorti di congregazioni,
una di teologi, per discorrere sopra la materia di fede che si proponesse, e le
loro opinioni fossero scritte da uno de' notari del concilio e, parlandosi
della riforma, fossero oltra i teologi, introdotti anco i canonisti, e queste
congregazioni si tenessero in presenza de' legati, ma vi potessero però
intervenire quei padri a chi piacesse per udire. Una altra sorte di
congregazione constasse de' prelati a formar i capi o di dottrina, o di
riforma, i quali essaminati e, secondo il parere piú commune, ordinati, fossero
proposti nella congregazione generale per sentir il voto di ciascuno e, secondo
la deliberazione della maggior parte, stabilire i decreti da publicare in
sessione.
Seguendo
questo ordine fu trattato delle lezzioni e prediche, formando e riformando
varie minute di decreti, né mai si trovò modo che piacesse a tutti, per
esser interessati molto i prelati a volere che tutto dependesse dalla
autorità episcopale e che non vi fosse nissuna essenzione; e dall'altro
canto volendo i legati mantenere i privilegii dati dal pontefice, massime a'
mendicanti et alle università: e dopo molte dispute, essendo la materia
assai dibattuta, credettero che nella congregazione de' 10 maggio dovessero
essere tutti d'accordo. Ma riuscí in contrario, perché se ben durò sino
a notte, non si poté prendere conclusione, in alcuni capi per la
diversità de' pareri tra' prelati medesimi, in altri, perché i legati
non volevano condescender all'opinione universale di levare o almeno moderare i
privilegii. Opponevano a' vescovi che si movessero piú per interesse proprio
che per raggione; che non tenessero conto del pregiudicio de' regolari; che
troppo arditamente volessero correggere i concilii passati e mettere mano ne'
privilegii concessi dal papa; né potero convenire, non tanto per la
varietà delle opinioni e per l'interesse de vescovi, ma ancora perché
gli imperiali procuravano ciò per mettere tempo, a fine che non si
venisse alla proposizione de' dogmi. Né a legati era ingrato che
temporeggiasse, essendo risoluti, se non gli veniva vietato nella risposta che
aspettavano da Roma, passar alla proposizione de' dogmi, e come dicevano i suoi
confidenti, chiarirsi di quello che ne abbia a riuscire.
Ma per mettere
qualche fine alle cose trattate, fecero legger un sommario delle opinioni de'
teologi e canonisti, dette in diverse congregazioni precedenti, dicendo che per
esser i voti assai longhi, avevano scielto quello che gli pareva esser di buona
sustanza acciò si essaminasse e si dicesse sopra il parere. Ma Bracio
Martello, vescovo di Fiesole, udito a leggere l'estratto, s'oppose con perpetua
orazione dicendo esser necessario che la congregazione generale intendesse i
voti e le raggioni di tutti, e che non gli fossero lette raccolte e sommarii, e
si estese in maniera, amplificando l'autorità del concilio e la
necessità di ben informarlo e la poca convenienza che era che alcuni
soli fossero arbitri delle deliberazioni, overo le risoluzioni venissero
d'altrove, che i legati restarono assai offesi e ripresero il vescovo bene con
affettata modestia ma però assai pongentemente; e la congregazione fu
licenziata.
Il giorno
seguente mandarono i legati a dimandar al vescovo copia del raggionamento fatto
da lui e la mandarono a Roma, tassando il raggionamento come irreverente e
sedizioso, aggiongendo che gli avevano fatto una modesta e severa riprensione e
sarebbono anco passati piú inanzi, perché cosí il vescovo meritava, se non
fosse stato il dubio d'attaccar qualche disputa aromatica, la qual potesse
generare scissura; però che non è da lasciarlo impunito per non
accrescergli l'ardire di far in ogni congregazione il medesimo e peggio;
rapresentando a Sua Santità, che ad ogni modo sarà ben farlo
partire da Trento, o per una via, o per l'altra, et operare che non ritorni piú
il vescovo di Chioza, poco dissimile da lui, se ben per diverso andare. Era
partito questo vescovo immediate dopo la sessione sotto pretesto
d'indisposizione, ma in verità per parole passate tra lui et il cardinal
Polo in congregazione nella materia delle tradizioni, avendo il vescovo parlato
in difesa di fra Antonio Marinaro, e perciò conteso col cardinale; il
che avendo dato occasione a lui di fare querimonia che non vi fosse
libertà nel concilio, si vedeva non esser in buona grazia de' legati e
stare soggetto a qualche pericolo. Non contenti i legati dell'operato, per
mortificare il vescovo di Fiesole e mantenere la cosa integra in sino all'aviso
di Roma, per poterla o cacciare inanzi o dissimulare secondo che gli fosse
ordinato, nella seguente congregazione gli fece il Monte una ripassata adosso,
concludendo che si lasciava per allora d'attender a' casi suoi, essendo
necessario occuparsi in cose di maggior importanza.
Ebbero
risposta da Roma, quanto a' due vescovi, che opportunamente averebbe rimediato;
ma quanto alle cose da trattare che, quando [si] attendesse all'appetito de'
prencipi, sarebbe far il concilio piú tumultuoso e le risoluzioni piú longhe e
difficili, cercando ogni uno d'attraversare quella parte che non gli piacesse
o, con mettere difficoltà in una cosa, intrattener l'altra. Però
senza altro risguardo dassero mano al peccato originale, ma avvertendo di non
valersi in modo alcuno di quella scusa, che dissegnavano usare con don
Francesco, cioè che l'articolo del peccato originale non sia controverso
in Germania, et usassero piú tosto termini generali e con ogni sorte di
riverenza verso l'imperatore.
Gli
commandò oltra di ciò strettamente che intorno l'emendazione
dell'edizione volgata non si dovesse passare piú inanzi, sin che la
congregazione de' deputati sopra il concilio in Roma non avesse deliberato il
modo che si deve tenere. In essecuzione di quegli ordini, risoluti i legati di
passar inanzi alla proposizione del peccato originale, fecero congregazione doi
giorni continuatamente per risolvere i doi capi del legger e predicare, inanzi
che publicassero di volere trattare materia di fede, acciò, restando
quei capi indecisi, non porgessero occasione agli imperiali di divertire da questa;
e da' deputati sopra l'edizione vulgata si fecero portare tutto l'operato in
quella materia, commettendo loro che non vi mettessero piú mano sino ad altro
nuovo ordine. Tale era la libertà del concilio dependente dal pontefice
nel tralasciare le cose incominciate e mettere mano alle nuove.
[Contese tra i vescovi et i frati per le
lezzioni e le prediche]
Nel trattare
di lezzione e prediche era generale querela de' vescovi e massime spagnoli che,
essendo precetto di Cristo che sia insegnata la sua dottrina, il che
s'essequisce con la predica nella Chiesa e con la lezzione a' piú capaci,
acciò siano atti ad insegnare al popolo, di tutto ciò la cura di
sopraintendere a qualonque altro essercita quei ministerii debbe essere propria
del vescovo: cosí aver instituito gli apostoli, cosí essere stato esseguito da'
santi padri; al presente essere levato a vescovi assolutamente tutto questo
ufficio co' privilegii, sí che non glie ne resta reliquia; e questa essere la
causa che tutto è andato in desordine, per essere mutato l'ordine da
Cristo instituito. Le università con essenzioni si sono sottratte che il
vescovo non può sapere quello che insegnino; le prediche sono per
privilegio date a' frati, quali non riconoscono in conto alcuno il vescovo, né
gli concedono l'intromettersene, in modo che a' vescovi resta levato affatto
l'ufficio di pastore. E per il contrario, quelli che nell'antichità non
erano instituiti se non per piangere i peccati, a' quali l'insegnar e predicare
era proibito espressamente e severamente, se l'hanno assonto overo gli è
stato dato per ufficio proprio; et il grege se ne sta senza e pastore e
mercenario, perché questi predicatori ambulatorii, che oggi sono in una
città, dimani in un'altra, non sanno né il bisogno, né la capacità
del popolo, né meno le occasioni de' insegnarlo et edificarlo, come il pastore
proprio che sempre vive col grege e conosce i bisogni e le infermità di
quello. Oltra che il fine di quei predicatori non è l'edificazione, ma
il trar limosine o per se proprii, o per i conventi loro, il che, per meglio
ottenere, non mirano all'utilità dell'anima, ma procurano di dilettare
et adulare e secondare gli appetiti, per potere trarne maggior frutto; et il
popolo, in luogo d'imparare la dottrina di Cristo, apprende o novità o
almeno vanità. Lutero è stato uno di questi, qual se fosse stato
nella cella sua a piangere, la Chiesa di Cristo non sarebbe in questi termini.
Piú manifesto esser ancora l'abuso di questori che vanno predicando
indulgenzie, da' quali non potersi narrare senza lacrime i scandali dati negli
anni precedenti; questo essere cosa evidente che non essortano ad altro che al
contribuire danaro. A' quali disordini unico rimedio è levare tutti i
privilegii e restituire a' vescovi la cura loro d'insegnare e predicare, et elegersi
per cooperatori quelli che conosceranno essere degni di quel ministerio e
disposti ad essercitarlo per carità.
In contrario
di questo, i generali de' regolari e gli altri dicevano che, avendo i vescovi
et altri curati abbandonato a fatto l'ufficio di pastore, sí che per piú
centenara d'anni era stato il popolo senza prediche nella chiesa e senza
dottrina di teologia nelle scole, Dio aveva eccitato gli ordini mendicanti per
supplire a questi ministerii necessarii, ne' quali però non si erano
intrusi da sé, ma per concessione del supremo pastore, al qual toccando
principalmente il pascere tutto 'l grege di Cristo, non si poteva dire che i deputati
da lui per supplire a' mancamenti di chi era tenuto alla cura del grege e
l'aveva abbandonata, abbiano occupato l'ufficio d'altri; anzi convien dire che,
se non avessero usato quella carità, non vi sarebbe al presente vestigio
di cristianità: ora, avendo per 300 e piú anni vacato a questa santa
opera col frutto che ne appariva, con titolo legitimo dato dal pontefice
romano, sommo pastore, avere prescritto questi ministerii et essere fatti
proprii loro, né averci dentro i vescovi alcuna legitima raggione, né poter
allegare l'uso dell'antichità per ripetere quel ufficio dal quale per
tanti centenara d'anni si sono dipartiti. L'affetto d'acquistare per sé o per i
monasterii essere mera calonnia, poiché dalle limosine non cavano per sé se non
il necessario vitto e vestito; che il rimanente, speso nel culto di Dio in
messe, edificii et ornamenti di chiese, cede in beneficio et edificazione del
popolo e non in propria loro utilità; che i servizii prestati dagli
ordini loro alla santa Chiesa et alla dottrina della teologia, che non si
ritrova fuori de' claustri, meritano che gli sia continuato quel carico che
altri non sono cosí sufficienti ad essercitare.
I legati,
importunati da due parti, col conseglio de' piú restretti, con loro risolverono
dare conto a Roma et aspettar risposta. Il pontefice rimesse alla
congregazione, dove immediate fu veduto a che tendesse la pretensione de'
vescovi, cioè a farsi ciascuno d'essi tanti papi nelle diocesi loro:
perché, quando fosse levato il privilegio e l'essenzione pontificia et ogni uno
dependesse da loro e nissuno dal papa, immediate cesserebbe ogni raggione
d'andare a Roma. Consideravano da tempo antichissimo aver i pontefici romani
avuto per principale arcano di conservar il primato, datogli da Cristo,
d'essimere i vescovi dagli arcivescovi, gli abbati da' vescovi, e cosí avere
persone obligate a defenderlo. Essere cosa chiara che dopo l'anno 600 il
primato della Sede apostolica è stata sostenuto da' monachi benedittini
essenti, e poi dalle congregazioni di Clugní e Cistercio et altre monacali,
sino che Dio eccitò gli ordini mendicanti, da' quali è stato
sostenuto sino a quell'ora; onde, tor via i privilegii di quelli, essere
direttamente oppugnar il ponteficato e non quegl'ordini; il levare l'essenzioni
esser una manifesta depressione della corte romana, perché non averebbe mezi di
tenere tra' termini un vescovo che s'inalzasse troppo; però esser il
papa e la corte da mera necessità constretti a sostentare le cause de'
frati. Ma per fare le cose con suavità, considerarono anco esser
necessario tener questa raggione in secreto, e fu deliberato di rispondere a'
legati che onninamente conservassero lo stato de' regolari e procurassero di
fermare i vescovi col metter inanzi il numero eccessivo de' frati et il credito
che appresso la plebe hanno, e consegliargli a prendere temperamento e non
causare un scisma col troppo volere. Essere ben giusto che ricevino qualche
sodisfazzione, ma si contentassero anco di darla, e quando si verrà al
ristretto concedessero ogni cosa quanto a questori, ma quanto a' frati nissuna
cosa si facesse senza participarla a' generali; et a' vescovi fosse data
sodisfazzione che in essistenza non levi i privilegii. L'istesso facessero
delle università, essendo necessario avere queste e quelli per dependenti
dal papa, e non da vescovi.
Gionte le
lettere in Trento, con tre fini diversi si caminava nel concilio; perilché poco
venivano in considerazione gli altri particolari proposti in queste due materie
da quelli che non erano interessati né a favore, né contra le essenzioni. Fu
proposto intorno alle lezzioni da alcuni di questi di restituire l'uso antico,
quando i monasterii e le canoniche non erano altro che collegii e scole, di che
restano reliquie in molte catedrali, dove è la degnità dello scolastico,
capo de' lettori, con prebenda, quali adesso non essercitano il carico, e sono
conferite a persone inette per essercitarlo; et a tutti parve onesta et util
cosa reintrodurre la lezzione delle cose sacre e nelle catedrali e ne'
monasterii. Alle catedrali pareva facile il provedere, dando cura
dell'essecuzione a' vescovi, ma a' monasterii difficile. Al dare
sopraintendenza a' vescovi anco in questo, si opponevano i legati, se ben de'
soli monachi e non de mendicanti si trattava, per non lasciar aprire la porta
di mettere mano ne' privilegii concessi dal papa. Ma a questo Sebastiano
Pighino, auditor di rota, trovò temperamento con proporre, che la
sopraintendenza fosse data a' vescovi come delegati dalla Sede apostolica.
Piacque l'invenzione, perché si faceva a favor de' vescovi il medesimo effetto,
senza derogazione del privilegio, poiché il vescovo, non come vescovo, ma come
deputato dal papa doveva sopraintendere; il qual modo diede essempio
d'accommodar altre difficoltà: l'una nel dar autorità a' metropolitani
sopra le parochie unite a' monasterii non soggetti a diocese alcuna; l'altra
nel dar potestà a' vescovi sopra i predicatori essenti che fallano; et
anco serví molto ne' decreti delle sessioni seguenti.
Proponevano
anco i canonisti che ne' tempi presenti poco conveniva la sottilità
scolastica di metter ogni cosa in disputa, e versare piú tosto in cose naturali
e filosofiche; che queste nuove lezzioni dovessero essere introdotte per
trattare de' sacramenti e dell'autorità e potestà ecclesiastica,
come con molto frutto aveva fatto il Turrecremata et Agostino Trionfo e, dopo
loro, sant'Antonino et altri. Ma per la contradizzione de' frati, che
opponevano essere tanto necessaria questa, quanto quella dottrina, si
trovò temperamento d'ordinare che le lezzioni fossero per esposizione
della Scrittura, poiché secondo l'essigenze del testo che fosse letto e della
capacità degli audienti s'averebbe applicata la materia.
Delle
prediche, dopo molti discorsi fatti in piú congregazioni, si venne al stabilire
il decreto; e per superare le difficoltà, con ufficii fecero, per mezo
de' prelati loro confidenti, pratticare i vescovi italiani, mettendo in
considerazione quanto per onor della nazione fossero tenuti di sostentare la
degnità del pontificato, dell'autorità del quale si trattava
mettendo mano ne' privilegii, e quanto potessero sperare dal pontefice e dalli
legati accomodandosi anco a quello che è giusto e non volendo privare i
frati di quello che hanno per tanto tempo goduto. Essere cosa pericolosa
disprezzare tanti soggetti litterati in questi tempi che l'eresie travagliano
la Chiesa; che allora si sarebbe accresciuta l'autorità episcopale con
concedergli d'approvar o reprovar i predicatori, quando fuor della chiesa del
loro ordine predicano e quando in quelle, con fargli riconoscer il prelato,
dimandando prima la benedizzione. Che i vescovi potessero punire i predicatori
per causa d'eresia e proibirgli la predica per occasione di scandalo. Di questo
si contentassero, che alla giornata sarebbono aggionte altre cose. Con questi
ufficii acquistarono tanto numero che furono sicuri di stabilir il decreto con
quelle condizioni. Ma restava un'altra difficoltà, perché i generali et
i frati non si contentavano, et il disgustargli non pareva sicuro, et era dal
papa espressamente proibito. Si diedero a mostrar loro che quanto era a'
vescovi concesso era giusto e necessario, a che essi avevano dato occasione con
estendere troppo i privilegii e passar i termini dell'onesto; finalmente con
una particola monitoria a' vescovi di proceder in maniera che i frati non
avessero occasione di lamentarsi, anco i generali s'acquietarono.
[I legati, volendo proporre l'articolo del
peccato originale, sono contradetti da' cesarei; ma indarno, e tornano gli
articoli de' luterani da essaminarsi]
Quando scoprirono
la risoluzione di condannare nella medesima sessione le opinioni luterane del
peccato originale, allegarono che, per servare l'ordine di mandar insieme ambe
le materie, era necessario trattare qualche cosa di fede, né potersi altrove
incomminciare; e proposero gli articoli estratti dalla dottrina de' protestanti
in quella materia, per essere da' teologi nelle congregazioni essaminati e
discussi se per eretici dovevano essere condannati. Il cardinale Pacceco disse
che il concilio non per altro ha da trattare gli articoli di fede, se non per
ridurre la Germania, e chi vorrà fare questo fuori di tempo, non solo
non conseguirà il fine, ma farà peggiorare le cose. Quando
l'opportunità sia di farlo, non potersi saper in Trento, ma da chi sede
al timone di Germania e, vedendo tutti i particolari, conosce anco quando sia
tempo di dargli questa medicina. Per tanto consegliava che si ricercasse con
lettere il parere de' principali prelati di quella nazione, inanzi che passar
ad altro, overo che il noncio apostolico ne parlasse con l'imperatore. Al qual
parere aderirono i prelati imperiali pratticati dall'ambasciatore. Ma i legati,
lodato il giudicio di quelli e promesso di scriver al noncio, soggionsero che
con tutto ciò gli articoli potevano essere da' teologi disputati per
avanzare tempo; a che aderí anco il cardinale e gli altri, sperando che molte
difficoltà si potessero attraversare per far differir, e contentandosi
l'ambasciatore Toledo, purché passasse la estate senza che si venisse a
definizione.
Gli articoli
proposti furono:
1 Che Adamo,
per la transgressione del precetto, ha perduto la giustizia et incorso l'ira di
Dio e la mortalità e deteriorato nell'anima e nel corpo, da lui
però non è trasferito nella posterità peccato alcuno, ma
solo le pene corporali.
2 Che il
peccato d'Adamo si chiama originale, perché da lui deriva nella
posterità, non per trasmissione, ma per immitazione.
3 Che il
peccato originale sia ignoranza o sprezzo di Dio, overo l'essere senza timor,
senza confidenza in Sua Maestà e senza amor divino, e con la
concupiscenza e cattivi desiderii; et universalmente una corrozzione di tutto
l'uomo nella volontà, nell'anima e nel corpo.
4 Che ne'
putti sia un'inclinazione al male della natura corrotta, sí che venendo l'uso
della raggione produca un aborrimento delle cose divine et un'immersione nelle
mondane, e questo sia il peccato originale.
5 Che i
putti, almeno i nati da genitori fedeli, se ben sono battezati in remissione
de' peccati, non portano per la descendenza loro d'Adamo peccato alcuno.
6 Che il
peccato originale nel battesimo non è scancellato, ma non imputato,
overo raso sí che incominci in questa vita a sminuirsi e nella futura sia
sradicato totalmente.
7 Che quel
peccato rimanente nel battezato lo ritarda dall'ingresso del cielo.
8 Che la
concupiscenza, chiamata anco fomite, la qual dopo il battesmo rimane, è
veramente peccato.
9 Che la pena
principale debita al peccato originale è il fuoco dell'inferno, oltre la
morte corporale, e le altre imperfezzioni a' quali in questa vita l'uomo
è soggetto.
I teologi
nella congregazione tutti furono conformi in dire che era necessario, per
discussione degli articoli, non procedere con quell'ordine, ma essaminare
metodicamente tutta la materia e vedere qual fu il peccato d'Adamo, che cosa,
da lui derivata nella posterità, sia peccato in tutti gli uomini che si
chiama originale, il modo come quello si trasmette et in che maniera e rimesso.
Nel primo
punto convennero parimente che, privato Adamo della giustizia, gli affetti si
resero ribelli alla raggione; il che la Scrittura suole esprimere dicendo che
la carne ribella allo spirito, e con un solo nome chiama questo difetto
concupiscenza; incorse l'ira divina e la mortalità corporale
minacciatagli da Dio insieme con la spirituale dell'anima, e nondimeno nissuno
di questi defetti può chiamarsi peccato, essendo pene conseguite da
quello, ma formalmente il peccato essere la trasgressione del precetto divino;
e qui molti s'allargarono a ricercare il genere di quel fallo, difendendo
alcuni che fu peccato di superbia, altri di gola, parte sostennero, che fu
d'infideltà, piú sodamente fu detto che si poteva tirar in tutti quei
generi et in altri ancora; ma, fondandosi sopra la parola di san Paolo, non si
poteva mettere se non nel genere della pura inobedienza. Ma cercando, che cosa
derivata da Adamo in noi sia il peccato, furono piú diversi i pareri; perché
sant'Agostino, che primo di tutti si diede a cercar l'essenza di quello,
seguendo san Paolo, disse che è la concupiscenza; e sant'Anselmo, molti
centenara d'anni dopo lui, tenendo che ne' battezati il peccato è
scancellato e pur la concupiscenza rimane, tenne che è la privazione
della giustizia originale, la qual nel battesmo è renduta in un
equivalente che è la grazia. Ma san Tomaso e san Bonaventura, volendo
congionger ambedue le opinioni e concordarle, considerarono che nella nostra
natura corrotta sono due ribellioni, una della mente a Dio, l'altra del senso
alla mente, che questa è la concupiscenza, e quella l'ingiustizia, e
però ambedue insieme sono il peccato. E san Bonaventura diede il primo
luogo alla concupiscenza, dicendo che è il positivo, dove la privazione
della giustizia è il negativo. E san Tomaso per il contrario fece la
concupiscenza parte materiale, la privazione della giustizia il formale; onde
questo peccato in noi disse essere la concupiscenza destituita dalla giustizia
originale. Il parere di sant'Agostino fu seguito dal maestro delle sentenze e
dalli scolastici vecchi, et in concilio fu difeso da due frati eremitani. Ma
perché Giovanni Scoto sostenne la sentenza d'Anselmo, suo conterraneo, i frati
di san Francesco la difesero in concilio e la maggior parte de' dominicani
quella di san Tomaso; cosí fu dicchiarato qual fosse il peccato d'Adamo e qual
sia originale negli altri uomini.
Ma come sia
da lui ne' posteri e successivamente di padre in figlio trasmesso, con maggior
fatica fu discorso: imperoché sant'Agostino, che aprí la strada agli altri,
stretto dalla obiezzione di Giuliano pelagiano, che lo ricercava del modo come
si potesse trasmetter il peccato originale quando l'uomo è concetto,
poiché è santo il matrimonio e l'uso di quello, non peccando né Dio,
primo autore, né i genitori, né il generato, per qual fissura adonque entra il
peccato, altro non rispose sant'Agostino, se non che non era da cercare fissure
dove si vedeva una patentissima porta, dicendo l'apostolo che per Adamo il
peccato è entrato nel mondo; et in piú luoghi, dove di ciò
occorse parlare, sempre sant'Agostino si mostrò dubioso, essendo anco irrisoluto
se, sí come il corpo del figlio deriva dal corpo del padre, cosí dall'anima
anco l'anima derivasse, onde essendo infetto il fonte, per necessità
restasse anco il rivo contaminato. La modestia di quel santo non fu immitata
da' scolastici, i quali avendo acertato per indubitato che ciascun'anima sia
creata immediate da Dio, dissero che l'infezzione era principalmente nella
carne, la qual da' primi genitori nel paradiso terrestre fu contratta o dalla
qualità venenata del frutto o dal fiato venefico del serpe, la qual
contaminazione deriva nella carne della prole, che è parte di quella de'
genitori, e dall'anima è contratta nell'infusione, sí come un liquore
contrae la mala qualità del vaso infetto, e l'infezzione esser causata
nella carne per la libidine paterna e materna nella generazione. Ma la
varietà delle openioni non causava differenza nella censura degli
articoli, perché ciascuno inerendo nella propria, da quella mostrava restar
deciso esser eretico il primo articolo, il qual senza dubio fu anco per tale
dannato nel concilio di Palestina, et in molti africani contra Pelagio. E
reessaminato a Trento, non come ritrovato ne' scritti di Lutero o suoi seguaci,
ma come asserito da Zuinglio; il qual però ad alcuni de teologi che
discussero ben le sue parole, pareva piú tosto che sentisse non essere nella
posterità d'Adamo peccato del genere di azzione, ma corruzzione e
trasformazione della natura, che egli diceva peccato nel genere della sostanza.
L'articolo
secondo fu stimato da tutti eretico: fu già inventato dall'istesso Pelagio,
il quale, per non esser condannato nel concilio di Palestina per avere detto
che Adamo non aveva nociuto alla posterità, si retrattò
confessando il contrario, e dopo con i suoi si dicchiarò che Adamo aveva
dannificato i posteri non trasferendo in loro peccato, ma dando cattivo
essempio che nuoce a chi l'immita; et era notato Erasmo dell'aver rinovato
l'istessa asserzione, interpretando il luogo di san Paolo che il peccato fosse
entrato nel mondo per Adamo e passato in tutti in quanto gli altri hanno immitato
et immitano la trasgressione di quello. Il terzo articolo, quanto alla prima
parte, fu censurato in Trento, come anco in Germania in molti colloquii, con
dire che quelle azzioni non possono esser il peccato originale, poiché non sono
ne' putti, né meno negli adulti in ogni tempo; onde il dire che altro peccato
non vi fosse salvo quello, era un negarlo a fatto e non sodisfare l'iscusazione
allegata da loro in Germania che, sotto nome delle azzioni, intendono
un'inclinazione della natura alle cattive et una inabilità alle buone;
perché, se cosí intendevano, conveniva dirlo e non parlar male, volendo che
altri intendesse bene. E quantonque sant'Agostino abbia parlato in simil
maniera, quando disse che la giustizia originale era ubedire a Dio e non avere
concupiscenza, se egli fosse in questi tempi non parlerebbe cosí, perché
è ben lecito nominare la causa per l'effetto e questo per quella quando
sono proprii et adequati; ma non è cosí in questo caso, imperoché
l'original peccato non è causa di quelle azzioni cattive, se non
aggiongendosi la mala volontà come principale. Ma quanto alla seconda
parte, dell'articolo dicevano che, se i protestanti intendessero una
corrozzione privativa, l'openione si poteva tolerare, ma intendono una sostanza
corrotta, sí che la propria natura umana sia trasmutata in altra forma che
quella in che fu creata, e riprendono i catolici quando chiamano il peccato
privazione della giustizia, come un fonte senza aqua; ma dicono essi un fonte
dove scaturiscono acque corrotte, che sono gli atti dell'incredulità,
diffidenza, odio, contumacia et amor inordinato di sé e delle cose mondane, e
però conveniva dannare assolutamente l'articolo. E per l'istessa
raggione ancora il quarto era censurato, con dire quella inclinazione essere
pena del peccato e non formalmente peccato; onde, non ponendo altro che quella,
si negava il peccato assolutamente.
Non è
da tralasciar di raccontare che in questa considerazione i francescani non si
potevano contenere d'essentare da questa legge la vergine madre di Dio per
privilegio speciale, tentando d'allargarsi nella questione e provarlo; et i
dominicani in comprenderla sotto la legge commune nominatamente, quantonque il
cardinal dal Monte con ogni occasione facesse intendere che quella controversia
fosse tralasciata, che erano congregati per condannare l'eresie, non le
openioni de catolici.
[Il Catarino propugna una sua openione del
peccato originale, contradetta dal Soto]
Alla
dannazione degli articoli non era chi repugnasse; ma fra Ambrosio Catarino
notò tutte le raggioni per insufficienti, che non dicchiarassero la vera
natura di questo peccato; lo mostrò con longo discorso. La sostanza del
quale fu: esser necessario distinguere il peccato dalla pena d'esso; ma la
concupiscenza e la privazione della giustizia esser pena del peccato; esser
adonque necessario che il peccato sia altro. Aggionse: quello che non fu
peccato in Adamo, è impossibile che sia peccato in noi; ma in Adamo
nessuna delle 2 fu peccato, non essendo né la privazione della giustizia, né la
concupiscenza azzioni d'Adamo, adonque né meno in noi; e se in lui furono
effetti del peccato, bisogna ben che negli altri siano effetti. Per la qual
raggione non si può meno dire che il peccato sia inimicizia di Dio
contra il peccatore, né quella di lui verso Dio, poiché sono cose conseguenti
il peccato e venute dopo quello. Oppugnò ancora quella trasmissione del
peccato per mezo del seme e della generazione, dicendo che, sí come quando Adam
non avesse peccato, la giustizia sarebbe stata transfusa non per virtú della
generazione, ma per sola volontà di Dio, cosí conveniva trovare altro
modo di transfondere il peccato. Et esplicò la sua sentenza in questa
forma: che, sí come Dio statuí e fermò patto con Abrahamo e con tutta la
sua posterità quando lo constituí padre de' credenti, cosí, quando diede
la giustizia originale ad Adam et a tutta l'umanità, pattuí con lui in
nome di tutti un'obligazione di conservarla per sé e per loro, osservando il
precetto, il quale avendo transgredito, la perdette tanto per gli altri, quanto
per se stesso et incorse le pene anco per loro; le quali, sí come sono derivate
in ciascuno, cosí essa transgressione d'Adamo è anco di ciascuno; di lui
come di causa, degli altri per virtú del patto; sí che l'azzione d'Adamo, peccato
attuale in lui, imputata agli altri, è il peccato originale, perché
peccando lui, peccò tutto 'l genere umano. Si fondò
principalmente il Catarino, perché non può essere vero e proprio
peccato, se non atto volontario, né altro poter essere volontario che la transgressione
d'Adamo imputata a tutti; e dicendo san Paolo che tutti hanno peccato in Adamo,
non si può intendere se non che hanno commesso l'istesso peccato con
lui. Allegò per essempio che san Paolo agli ebrei afferma Levi aver
pagato la decima a Melchisedech, quando la pagò Abrahamo suo bisavo;
colla qual raggione si debbe dire che i posteri violarono il precetto divino
quando lo transgredí Adamo, e che fossero peccatori in lui, sí come in lui
ricevettero la giustizia; e cosí non fa bisogno ricorrere a libidine che
infetta la carne, da quale l'anima riceva infezzione: cosa inintelligibile come
uno spirito possa ricever passione corporale, che se il peccato è
macchia spirituale nell'anima, non poteva essere prima nella carne, e se nella
carne è corporale, non può nello spirito fare effetto alcuno. Che
poi un'anima, per congiongersi a corpo infetto, ricevi infezzione spirituale,
esser una transcendenza impercettibile. Il patto di Dio con Adamo lo provava
per un luogo del profeta Osea, per un altro dell'Ecclesiastico e per diversi
luoghi di sant'Agostino; il peccato di ciascuno esser il solo atto della
transgressione d'Adamo lo provava per san Paolo, quando dice che «per
l'inobedienza d'un uomo molti sono fatti peccatori», e perché non si è
mai inteso nella Chiesa peccato esser altro che l'azzione volontaria contra la
legge, ma altra azzione volontaria non fu se non quella d'Adamo, e perché san
Paolo dice per il peccato originale esser entrata la morte, la qual non
è entrata per altro che per l'attuale transgressione; e per prova
principalissima portò che quantonque Eva mangiasse il pomo prima
d'Adamo, però non si conobbe nuda, né incorsa nella pena, ma solo dopo
che Adamo ebbe peccato. Adonque il peccato d'Adamo, sí come fu non solo
proprio, ma anco d'Eva, cosí fu di tutta la posterità.
Ma fra
Dominico Soto, per difesa dell'opinione di san Tomaso e degli altri teologi
dalle obiezzioni del Catarino, portò una nuova dicchiarazione, dicendo
che Adam peccò attualmente mangiando il frutto vietato, ma dopo
restò peccatore per una qualità abituale che dall'azzione fu
causata, come per ogni azzione cattiva si produce nell'anima dell'operante una
tal disposizione per quale, anco passato l'atto, resta e vien chiamato
peccatore; che l'azzione d'Adamo fu transitoria, né ebbe essere se non mentre
egli operò; che la qualità abituale rimanente in lui passò
in la posterità et in ciascuno si transfonde propria; che l'azzione
d'Adamo non è il peccato originale, ma quell'abituale conseguente, e questa
chiamano i teologi privazione della giustizia; il che si può esplicar
considerando che l'uomo si chiama peccatore non solo mentre attualmente
transgredisce, ma ancora dopo, sin tanto che il peccato non è
scancellato, e questo non per rispetto delle pene o altre consequenze al
peccato, ma per rispetto della transgressione medesima precedente; sí come
quello che fa l'uomo curvo sin tanto che non si ridrizza e si dice tale non per
l'azzione attuale, ma per quello effetto restato dopo quella passata,
assomigliando il peccato originale alla curvità, come veramente è
un'obliquità spirituale; essendo tutta la natura umana in Adamo, quando
egli per la trasgressione del precetto si incurvò, tutta la natura
umana, e per consequente ogni singolar persona, restò incurvata, non per
la curvità di lui, ma per una propria a ciascuno, per la quale è
veramente curvo e peccatore, sin tanto che per la grazia divina non si
ridrizza. Queste due opinioni furono parimente disputate, pretendendo ciascuno
che la sua dovesse essere ricevuta dalla sinodo.
Ma nella considerazione
in che maniera il peccato originale sia rimesso, furono concordi in dire che
per il battesmo viene scancellato e resa l'anima cosí monda come nello stato
dell'innocenza, quantonque le pene conseguenti il peccato non siano levate,
acciò servino a' giusti per essercizio; e questo tutti lo dichiaravano
con dire che la perfezzione d'Adamo consisteva in una qualità infusa, la
quale rendeva l'anima ornata, perfetta e grata a Dio, et il corpo essente dalla
mortalità; e, per il merito di Cristo, Dio dona a quelli che per il
battesmo rinascono un'altra qualità chiamata grazia giustificante, che
scancellando ogni macchia nell'anima, la rende cosí pura come quella d'Adamo,
anzi in alcuni particolari fa effetti maggiori che la giustizia originale, solo
che non ridonda nel corpo, onde la mortalità e gli altri naturali
defetti non sono emendati. Erano allegati molti luoghi di san Paolo e degli
altri apostoli, dove dicono che il battesmo lava l'anima, che la monda, che
l'illumina, che la purifica, che non vi resta alcuna dannazione, macola, né
ruga. Fu con molta accuratezza trattato come, se i battezati sono senza
peccato, quello possi passare ne' figli. A che Agostino con soli essempii
rispose come dal circonciso padre nasce il figlio incirconciso, e dall'uomo cieco
ne nasce un oculato, e dal grano mondo nasce il vestito di paglia. Il Catarino
rispondeva che con solo Adamo fu statuito il patto e ciascuno uomo ha il
peccato per imputazione della transgressione d'Adamo, onde gli intermedii
genitori non hanno che fare, e se il frutto vietato, non da Adamo, ma da alcun
suo figlio fosse stato mangiato, la posterità di quello però non
averebbe contratto peccato; e se Adamo avesse peccato dopo generati figli, ad
essi, quantonque nati inanzi, sarebbe stato imputato il peccato d'Adamo. Contra
di che Soto disputò che, se Adamo avesse peccato dopo nati figli, quelli
non sarebbono stati soggetti; ma sí ben i nepoti nati di loro.
Fu commune
voce che il sesto articolo è eretico, perché ne' battezati asserisce
rimanere cosa degna di dannazione, et il settimo per lasciare nel battezato
reliquie di peccato; e piú chiaramente l'ottavo, mentre pone la concupiscenza
ne' battezati essere peccato. Solo fra Antonio Marinaro, carmelitano, non
discordando dagli altri in affermare che il peccato è scancellato per il
battesimo e che la concupiscenza è peccato inanzi, considerò
nondimeno, quanto al dannar il contrario d'eresia, che sant'Agostino,
già vecchio, scrivendo di questa materia a Bonifacio, disse chiaramente
che la concupiscenza non era peccato, ma causa et effetto d'esso; e contra
Giuliano, con parole non meno chiare, disse che era peccato, causa di peccato
et effetto ancora, e pure nelle retrattazioni non fece menzione né dell'una, né
dell'altra di queste proposizioni contrarie: argumento che riputasse ciò
non partenere alla fede e potersene parlare in ambidue li modi, essendo la
differenza piú tosto verbale che altro. Imperoché altra cosa è ricercare
se una cosa sia in sé peccato, overo se sia peccato ad una persona iscusata;
come se alcuno, andando alla caccia necessaria al suo vivere, pensando uccidere
una fiera, per ignoranza invincibile uccidesse un uomo, i giurisconsulti dicono
che l'azzione è omicidio e delitto, ma il cacciator è scusato, sí
che non è peccato a lui per la circonstanza dell'ignoranza; cosí la
concupiscenza, essendo la medesima inanzi e dopo il battesmo, in se stesso
è peccato e san Paolo dice che anco ne' renati repugna alla legge di
Dio, e tutto quello che s'oppone alla legge divina è peccato; ma il
battezato è iscusato per essere vestito di Cristo, sí che in un modo
è vero l'articolo, nell'altro falso, e non è giusto condannar una
proposizione che abbia un buon senso, senza prima distinguerla. Il qual parere
fu da tutti reprovato con dire che sant'Agostino pose due sorti di
concupiscenza: quella che è inanzi il battesmo, la qual è una
repugnanza della volontà alla legge di Dio, quale ebbe per il peccato e
nel battesmo scancellarsi, et un'altra, che è repugnanza del senso alla
raggione, che resta anco dopo il battesmo, la qual Agostino disse effetto e
causa, ma non mai peccato, e quando pare che il contrario dica, convien tenere
per fermo la mente d'Agostino essere che la concupiscenza sia peccato che nel
battesmo resti d'esser tale e divenga essercizio di virtú e buone opere. Il
frate, attesa questa sua opinione, essendogli aggionte le cose dette ne'
sermoni fatti da lui nella messa della quarta domenica dell'advento precedente
et in quella della quaresima, essortando a mettere la total fiducia in Dio e
dannando ogni confidenza nelle opere, et affermando che gli atti eroici degli
antichi, tanto lodati dagli uomini, erano veri peccati; della differenza ancora
della Legge e dell'Evangelio parlando non come de doi tempi, ma come che sempre
vi sia stato Evangelio e sempre vi debbia essere Legge; e della certezza della
grazia ancora, se ben con qualche clausule ambigue et artificiose, sí che non
s'averebbe potuto riprenderlo che non si fosse difeso, entrò in sospetto
d'alcuni che non fosse affatto alieno dalla dottrina de' protestanti.
Come si venne
all'articolo della pena, se ben sant'Agostino, fondatosi sopra san Paolo,
professatamente tenne convenirgli la pena del fuogo infernale eziandio ne'
fanciulli, e da nissuno de santi padri fu detto in contrario; con tutto
ciò il maestro co' scolastici, che seguono piú le raggioni filosofiche,
distinsero due sorti di pene eterne: una, la sola privazione della beatitudine
celeste, e l'altra il castigo; e la prima sola diedero al peccato originale.
Dall'universal parere de' scolastici si partí solo Gregorio d'Arimino, che per
ciò dalle scole s'acquistò titolo di «tormento de' putti»; ma né
esso, né sant'Agostino furono difesi da' teologi nelle congregazioni. Un'altra
divisione però fu tra loro, volendo i dominicani che i fanciulli morti
senza battesmo inanzi l'uso di raggione dovessero dopo la resurrezzione restare
nel limbo e tenebre, in sotterraneo luogo, ma senza fuogo; i francescani, che
sopra terra et alla luce; alcuni anco affermavano che fossero per filosofare et
occuparsi nella cognizione delle cose naturali, e non senza quel gran piacere
che segue quando con invenzione si empie la curiosità. Il Catarino
aggiongeva di piú, che saranno da' santi angeli e dagli beati visitati e
consolati; e tante vanità volontarie furono in questo dette, che
potevano dare gran materia di trattenimento. Ma per la riverenza di Agostino et
acciò non fosse dannato Gregorio d'Arimino, fecero gli agostiniani
grand'instanza che l'articolo, quantonque falso, come tenevano, non dovesse
essere condannato per eretico, se ben il Catarino s'adoperò con ogni
spirito acciò fosse fatta dicchiarazione, a fine (diceva egli) di
reprimere l'audacia e l'ignoranza di qualche predicatori che con gran scandolo
del popolo predicano quella dottrina, et affermando che sant'Agostino aveva
parlato cosí per calore della disputa contra i pelagiani, non che avesse
quell'opinione per certa; onde dopo che dal commun consenso delle scole era
certificata la verità in contrario, e che i luterani hanno eccitato
l'istesso errore, et i catolici medesimi vi incorrono, esser necessaria la
dicchiarazione della sinodo.
[I padri, dopo queste censure, travagliano a
formar il decreto]
Finita la
censura de' teologi, e trattandosi le materie tra i padri per risolvere la
forma del decreto, i vescovi, pochissimi de' quali avevano cognizione della
teologia, ma erano o iurisconsulti o letterati della corte, si trovarono
confusi per il modo scolastico di trattare le materie, pieno di spine, e nelle
diversità d'opinioni non potevano formare giudicio per conto
dell'essenza del peccato originale. Piú di tutte era intesa quella del
Catarino, per esser espressa col concetto politico di patto fatto da uno per la
sua posterità, che, transgresso, senza nissun dubio l'obliga tutta, e
molti de' padri la favorivano; ma vedendo la contradizione degli altri teologi
non ardirono riceverla. Quanto alla remissione del peccato, questo solo
tenevano per chiaro, che inanzi il battesmo ogni uno ha il peccato originale, e
da quello per il battesmo è mondato perfettamente; però
concludevano che questo tanto si dovesse stabilire per fede et il contrario
dannare per eresia, insieme con tutte quelle opinioni che negano in qual si
voglia modo il peccato originale; ma che cosa quello sia, essendo tante
differenzie tra i teologi, non essere possibile definirlo con tanta
circonspezzione che si dia sodisfazzione a tutti e non si condanni l'opinione
di qualch'uno, con pericolo di causare qualche scisma.
A questa
universal inclinazione erano contrarii Marco Viguerio, vescovo di Sinigaglia, e
fra Gieronimo, general di sant'Agostino, e fra Andrea Vega, francescano
teologo. Questo piú di tutti mostrava non essere conveniente, né mai usato da
alcun concilio, condannar una opinione per eretica, senza asserir prima qual
sia la catolica; nissuna negativa vera aver in sé la causa della sua
verità, ma esser tale per la verità d'un'affermativa, né mai
alcuna proposizione essere falsa, se non perché un'altra è vera, né
potersi saper la falsità di quella da chi non sa la verità di
questa; imperò non potersi condannare per eresia l'openione de'
luterani, chi non asserisce quella della Chiesa. Chi osserverà il modo
di procedere di tutti i concilii che hanno trattato materia di fede,
vedrà quelli aver fatto prima il fondamento ortodosso e con quello
dannate le eresie; cosí essere necessario far al presente: perché quando si
leggerà che la sinodo tridentina ha dannato l'asserzione luterana che
dice l'original peccato essere l'ignoranza e sprezzo, diffidenza et odio delle
cose divine et una corrozzione di tutto l'uomo nella volontà, nell'anima
e nel corpo, chi sarà quello che non ricercherà subito che cosa
adonque sia e che non dica in se stesso: qual è adonque la sentenzia
catolica, se questa è eretica? E vedendo dannata l'openione di Zuinglio,
che i putti figli de' fideli sono battezati in remissione de' peccati, non
però è trasmesso cosa alcuna da Adamo se non le pene e la
corrozzione della natura, non ricerchi subito: che altra cosa adonque è
trasmessa? In somma concludeva esser il concilio congregato principalmente per
insegnare la verità catolica e non solo per condannare l'eresie. Diceva
il vescovo che essendosi di questi articoli tante volte disputato nelle diete
di Germania, dal concilio ogni uno averebbe aspettato una dottrina lucida e
chiara e risoluta di tutte le difficoltà. Il general ancora, se ben era
in qualche sospetto che parlasse per subornazione dell'ambasciatore Toledo,
aggiongeva che la dottrina vera e catolica del peccato originale è ne'
scritti di sant'Agostino, che Egidio di Roma ne aveva scritto un libro proprio,
che, quando i padri avessero voluto prendere un poco di leggier fatica,
averebbono compresa la verità e potuto darne giudicio; non doversi
lasciare uscire fama che in Trento, in 4 giorni s'abbia risoluto quello che in
Germania è stato cosí longamente senza conclusione discusso.
Non erano
questi avvertimenti uditi, perché i prelati non avevano speranza di potere con
studio informarsi delle spinosità scolastiche, né gli dava l'animo di
mettersene alla prova, e perché i legati, avendo da Roma ricevuto assoluto
commandamento di diffinire questa materia nella sessione prossima, erano
costretti ad evitare le difficoltà, e massime che il cardinale del Monte
era risoluto di fare quel passo onninamente; e però, chiamati a sé i
generali degli ordini et i teologi Catarino e Vega, che piú degli altri
parlavano, impose loro che dovessero, scansate le difficoltà, aiutare
l'espedizione.
[Contese de' frati francescani e domenicani
per la concezzione della beata Vergine. Origine e progresso di questa dottrina]
I prelati
deputati a formare il decreto con l'aiuto de' teologi divisero la materia in 5
anatematismi. Il primo del personal peccato d'Adamo; il secondo della
transfusione nella posterità; il terzo del rimedio per il battesmo; il
quarto del battesmo de' putti; il quinto della concupiscenza rimanente. Dopo
quello erano dannate le openioni de' zuingliani ne' 4 primi, e nel quinto
quella di Lutero. Furono quasi con tutti conferiti, e levato et aggionto
secondo gli avvertimenti con molta concordia, se non che i vescovi e frati
dell'ordine di san Francesco non approvarono che universalmente si dicesse il
peccato d'Adamo essere passato in tutto 'l genere umano; perché veniva compresa
la beata Vergine madre di nostro Signore, se specialmente non era eccettuata,
et instavano per l'eccezzione. In contrario dicevano i dominicani che la
proposizione cosí universale e senza eccezzione era di san Paolo e di tutti i
santi dottori; però non conveniva con eccezzione alterarla; e
riscaldandosi la contradizzione, ricaderono nella questione che i legati piú
volte avevano divertita: questi dicevano che, quantonque la Chiesa abbia
tolerato l'openione della concezzione, nondimeno chi ben essaminasse la
materia, troverebbe che ne meno la beata Vergine fu essente dalla commune
infezzione; e gli altri opponevano che sarebbe stato un condannar la Chiesa,
che celebra la concezzione come immaculata et un'ingratitudine, derogando
all'onor dovuto a quella per il cui mezo passano tutte le grazie di Cristo a
noi. Passarono le dispute a specie di contenzione, e tanto oltre che
l'ambasciatore cesareo venne in speranza d'ottenere il suo dissegno che la
materia non si potesse proporre nella seguente sessione.
Ma perché
molte cose furono in quell'occasione proposte e fecero venir al decreto che si
dirà, il qual, perché diede da parlare, per intiera intelligenza del
tutto è necessario dal suo principio narrare l'origine di questa
controversia. Dopo che l'impietà di Nestorio divise Cristo, facendo doi
figli e negando che il generato dalla beata Vergine fosse Dio, la Chiesa, per
inculcare nella mente de' fedeli la verità catolica, introdusse di
replicarla frequentissimamente nelle chiese cosí d'Oriente, come d'Occidente,
con questa breve forma di parole, in greco «Maria Theotocos», in latino «Maria
mater Dei»: il che, instituito in onore di Cristo solamente, pian piano si
communicò anco alla madre, e finalmente fu ridotto a lei sola, e per la
stessa causa, quando furono frequentate l'imagini, si depinse Cristo fanciullo
in braccio della Vergine per ramemorare la venerazione a lui dovuta anco in
quell'età; passò nondimeno, in progresso, in venerazione della
madre senza il figlio, restando egli nella pittura come apendice. I scrittori e
predicatori, massime contemplativi, tratti dal torrente del volgo che molto
può in queste materie, tralasciato di parlare di Cristo, a concorrenza
inventarono nuove lodi et epiteti e servizii religiosi; tanto che circa il 1050
fu anco instituito un officio quotidiano distinto per 7 ore canoniche alla beata
Vergine, nella forma che da antichissimo tempo era sempre consueto celebrarsi
in onore della Maestà divina, e ne' 100 anni seguenti s'aumentò
tanto la venerazione, che si ridusse al colmo e sino all'attribuirgli quello
che le Scritture dicono della divina sapienza; e tra le novità inventate
fu una questa, la total essenzione dal peccato originale: quella però
restava solamente nelle opinioni d'alcuni pochi privati, senza avere luogo
nelle ceremonie ecclesiastiche, né appresso gli uomini dotti. Circa il 1136 i
canonici di Lione ardirono d'introdurla negli officii ecclesiastici. San
Bernardo, che in quei tempi viveva, stimato il piú dotto e pio di quel secolo e
nelle lodi della beata Vergine frequentissimo, sino a dargli titolo di collo
della Chiesa, per quale passa dal capo ogni grazia et ogn'influsso, inveí
severamente contra i canonici, scrisse loro riprendendogli d'aver introdotto
novità pericolosa senza raggione, senza essempio dell'antichità;
che non mancano luoghi da lodare la Vergine, a quale non può piacere una
novità presontosa, madre della temerità, sorella della
superstizione, figlia della leggierezza. Il secolo seguente ebbe i dottori
scolastici d'ambidue gli ordini franciscano e dominicano, che ne' loro scritti
rifiutarono questa opinione, sino intorno il 1300, quando Giovanni Scoto,
franciscano, posta la materia in disputa et essaminate le raggioni, ricorse
alla divina potestà, dicendo Dio aver potuto fare che mai fosse in
peccato o che vi fosse solo per un instante, et anco che gli sottogiacesse per
tempo; che Dio solo sa qual di questi tre sia avvenuto: esser cosa probabile,
nondimeno, attribuir a Maria il primo, se però non repugna alla
autorità della Chiesa e della Scrittura. La dottrina di questo teologo,
ne' suoi tempi celebre, fu communemente seguita dall'ordine francescano; ma nel
particolare della concezzione, vedendo la via aperta dal suo autore,
affermò assolutamente per vero quello che da lui fu proposto per
possibile e probabile, sotto condizione dubitativa, se non repugna alla fede ortodossa.
I dominicani constantemente repugnavano, per seguire san Tomaso del loro
ordine, celebre per dottrina e per l'approbazione di papa Giovanni XXII, il
qual papa, a fine di deprimere l'ordine francescano che in gran parte aderiva a
Ludovico Bavaro, imperatore scommunicato da lui, celebrava e canonizava quel
dottore e la dottrina sua. L'apparenza della pietà e devozione fece che
all'universale fu piú accetta l'opinione francescana, e ricevuta tenacemente
dall'università di Parigi, che era in credito di dottrina molto
eminente, e poi dal concilio di Basilea dopo longa ventilazione e discussione
approvata, e proibito il predicare et insegnare la contraria; il che ebbe luogo
in quelle regioni che ricevettero quel concilio. Finalmente papa Sisto IV,
francescano, in questa materia fece due bolle, una del 1476, approvando un
nuovo officio, composto da Leonardo Nogarola protonotario, con indulgenze a chi
lo celebrava et assisteva; l'altra del 1483, dannando per falsa et erronea
l'asserzione che sia eresia tener la concezzione o peccato il celebrarla, e
scommunicando i predicatori et altri che notassero d'eresia quella opinione o
la contraria, per non esser ancora deciso dalla Chiesa romana e Sede
apostolica. Questo però non sopí le contenzioni, le quali tra questi due
ordini de frati s'inasprivano sempre maggiormente, et ogn'anno al decembre si
rinovavano, tanto che papa Leone X pensò di rimediare con differire la
controversia, e fece scrivere a diversi. Ma ebbe poi pensieri piú importanti
per le novità di Germania, le quali anco operarono in queste contenzioni
quello che avviene nelli Stati, che, assediata la città, le fazzioni
cessano e tutti s'uniscono contra il commun nemico. Fondavansi i dominicani
sopra la Scrittura e la dottrina de' padri e de' scolastici piú vecchi, dove
per gli altri non si trovava pur un punto in favore, ma per sé allegavano
miracoli et il contento de' popoli. Diceva fra Giovanni da Udine, dominicano:
«O voi volete che san Paolo et i padri abbiano creduto questa vostra essenzione
della Vergine fuori della commune condizione, o no. Se l'hanno creduta, e pur
hanno parlato universalmente senza mai fare menzione di questa eccezzione,
immitategli anco adesso. Ma se essi hanno creduto il contrario, la vostra
è una novità». Fra Girolamo Lombardello, francescano, diceva non
minor essere l'autorità della Chiesa presente che della primitiva: se il
consenso di quella ne' tempi suoi indusse a parlare senza eccezzione, il
consenso di questa, che si vede nel celebrare la festa per tutto, debbe indur a
non tralasciarla.
I legati
scrissero a Roma la mirabil concordia di tutti contra la dottrina luterana e la
deliberazione presa di condannarla, e mandarono copia delli anatematismi
formati, avisando insieme la contenzione eccitata per la concezzione. A che da
Roma fu risposto che per nissuna causa si mettesse mano a quella materia che
poteva causare un scisma tra catolici, ma cercassero di mettere pace tra le
parti e dare sodisfazzione ad ambedue, e sopra tutto conservar in vigore il
breve di Sisto IV. I legati, ricevuto l'ordine, et essi medesimi e per mezo de'
prelati piú prudenti persuasero ambe le parti a deporre le contenzioni et
attender unitamente contra luterani; quali si contentarono di mettere tutto in
silenzio, mentre che non fosse fatto pregiudicio all'opinione sua; però
i francescani dicevano che il canone era contra di loro, se la Vergine non era
eccettuata; i dominicani che, se era eccettuata, essi erano condannati; si
vidde necessità di trovare modo come si dicchiarasse non compresa, né affermativamente
eccettuata; che fu dicendo non aver avuto intenzione di comprenderla, né meno
d'eccettuarla. Poi per la grand'instanza de' francescani si contentarono anco
gli altri che si dicesse solamente non aver avuto intenzione di comprenderla: e
per ubedire al papa s'aggionse che si servassero le constituzioni di Sisto IV.
[In dieta si tenta di comporre le diferenze,
ma indarno]
Mentre che
queste cose si trattano a Trento, essendo ridotta la dieta in Ratisbona, Cesare
mostrò gran dispiacere che il colloquio si fosse disciolto senza frutto,
e ricercò che ciascuno proponesse quello che si potesse fare per
quietare la Germania. I protestanti fecero instanza che fosse composta la
differenza della religione secondo il recesso di Spira, per un concilio
nazionale, dicendo che era piú a proposito che l'universale, poiché per la gran
differenza nelle opinioni tra la Germania e l'altre nazioni era impossibile che
in un concilio generale non nascesse contenzione maggiore, e chi volesse
costringere la Germania a mutare parere per forza, convenirebbe trucidar
infinite migliara d'uomini, che sarebbe con danno di Cesare et allegrezza de'
turchi. Rispondevano i ministri dell'imperatore non essere mancato dalla
Maestà Sua che non s'essequisse il decreto di Spira, et essere molto ben
noto a tutti che, per aver la pace tanto necessaria col re di Francia, era
stata necessitata a condescender al volere del papa nelle cose che toccano alla
religione; che il decreto era accommodato alle necessità di quel tempo,
le quali mutate, era anco necessario mutare parere; che ne' concilii nazionali
si è alcune volte fatta emendazione de' costumi, ma della fede e della
religione mai si è trattato; che venendo a' colloquii si ha da fare con
teologi, che per il piú sono difficili et ostinati, onde non si può con
loro venir a consegli moderati, come sarebbe di bisogno; che nissuno amava piú
la religione che Cesare, né era per partirsi dal giusto et onesto un punto per
fare piacere al pontefice, ma ben sapeva che in un concilio nazionale non s'averebbe
potuto né accordare le parti, né trovare chi fare giudice. Gli ambasciatori di
Magonza e di Treveri si divisero dagli altri quattro, et uniti con tutti i
catolici approvarono il concilio tridentino e supplicarono Cesare a proteggerlo
et a persuader a' protestanti d'andarvi e sottomettersi a quello. A che dicendo
essi in contrario in Trento non esser concilio libero, come fu domandato e
promesso nelle diete dell'Imperio, di nuovo fecero instanza che Cesare volesse
tener ferma la pace et ordinare che le cose della religione si stabilissero in
un concilio legitimo di Germania, o veramente in una dieta dell'Imperio, overo
in un colloquio di persone dotte dell'una e l'altra parte.
Aveva
l'imperatore in questo mentre fatto secretissime provisioni per la guerra, le
quali, non potendo piú star occulte, vennero a notizia de' protestanti in
dieta, e perché era fatta la pace col re di Francia e tregua per quell'anno col
Turco, ogn'uno facilmente vedeva la causa; massime che si era sparsa la fama
che anco il pontefice e Ferdinando s'armavano, onde ogni cosa si voltò
in confusione; e vedendo Cesare essere scoperto, a' 9 di giugno spedí per le
poste il cardinale di Trento a Roma, per dimandar al pontefice gli aiuti
promessi; e mandò anco in Italia et in Fiandra capitani con danari per
fare genti, e sollecitò i prencipi e capitani germani protestanti, non
collegati con li smalcaldici, a seguire le sue insegne, affermando e
promettendo di non volere fare guerra per causa della religione, ma per
reprimere la rebellione d'alcuni, i quali sotto quel pretesto non vogliono
conoscere le leggi, né la maestà del prencipe. Con la qual promessa fece
anco star quiete molte delle città che già avevano ricevuta la
rinovazione ne' riti della Chiesa, promettendo ogni benevolenza agli obedienti
et assicurandogli della religione.
[In Trento si fa la quinta sessione, del
peccato originale e per la riforma delle lezzioni e delle prediche]
Ma in
concilio, non restando piú differenza alcuna tra i padri sopra le cose discusse
et essendo formati i decreti della fede e della riforma, né potendo piú
l'ambasciatore cesareo resistere alla risoluzione de' legati, venuto il 17
giugno, giorno della sessione, cantò la messa Alessandro Piccolomini,
vescovo di Pienza, fece il sermone frate Marco Laureo, dominicano, e fatte le
solite ceremonie, fu letto il decreto di fede co' 5 anatematismi:
1 contra chi
non confessa Adamo per la transgressione aver perso la santità e
giustizia, incorso nell'ira di Dio, morte e preggionia del diavolo, e
peggiorato nell'anima e nel corpo;
2 e chi
asserisce Adam peccando avere nociuto a sé solo o aver derivato nella
posterità la sola morte del corpo e non il peccato, morte dell'anima;
3 e chi
afferma il peccato, che è uno in origine e proprio a ciascuno,
trapassato per generazione, non per immitazione, poter essere scancellato con
altro rimedio che per il merito di Cristo, overo nega che il merito di Cristo
sia applicato tanto a' fanciulli, quanto agli adulti per il sacramento del
battesmo, ministrato nella forma e rito della Chiesa;
4 e chi nega
che debbiano essere battezati i fanciulli nascenti, se ben figli de cristiani o
dice che sono battezati per la remissione de' peccati, ma non perché abbiano
contratto alcun peccato originale da Adamo;
5 e chi nega
che per la grazia del battesmo sia rimesso il reato del peccato originale e non
sia levato tutto quello che ha vera e propria raggione di peccato, ma che sia
raso e non imputato, restando però ne' battezati la concupiscenza per
essercizio che non può nuocer a chi non gli consente; la qual chiamata
dall'apostolo peccato, la sinodo dicchiara non essere vero e proprio peccato,
ma essere cosí detta perché è nata da peccato et inclina a quello. Che
la sinodo non ha intenzione di comprendere nel decreto la beata Vergine, ma
doversi osservare le constituzioni di Sisto IV, le quali rinnova.
Il decreto
della riformazione contiene due parti: una in materia delle lezzioni, l'altra
delle prediche. Quanto alle lezzioni fu statuito che nelle chiese dove è
assegnato stipendio per leggere teologia, il vescovo operi che dallo
stipendiato medesimo, essendo idoneo, sia letta la divina Scrittura, e non
essendo, questo carico sia essercitato da un sustituto deputato dal vescovo stesso;
ma per l'avvenire il beneficio non si dia, se non a persona sufficiente a quel
carico. Che nelle catedrali di città populata e nelle collegiate di
castello insigne, dove non è assignato alcun stipendio per tal effetto,
sia applicata la prima prebenda vacante o qualche semplice beneficio o una
contribuzione di tutti i beneficiati per instituire la lezzione. Nelle chiese
povere sia almeno un maestro che insegni la grammatica e goda i frutti di
qualche beneficio semplice, o gli sia assegnata qualche mercede della mensa
capitulare o episcopale, o dal vescovo sia trovato qualche altro modo, sí che
ciò sia effettuato. Ne' monasterii de' monachi, dove si potrà, vi
sia lezzione della Scrittura; nel che, se gli abbati saranno negligenti, siano
costretti dal vescovo come delegato pontificio. Ne' conventi degli altri
regolari siano deputati maestri degni a questo effetto. Ne' studii publici,
dove non è instituita lezzione della Scrittura, s'instituisca dalla
pietà e carità de' prencipi e republiche, e dove è instituita
e negletta, si restituisca. Nissun possi essercitar questo ufficio di lettore,
o in publico o in privato, se non è approvato dal vescovo come idoneo di
vita, costumi e scienza, eccetto quelli che leggono ne' chiostri de' monachi.
A' lettori publici della Scrittura et a' scolari siano conservati i privilegii
concessi dalla legge di godere i frutti de' beneficii loro in assenza.
Quanto alle
predicazioni contiene il decreto che i vescovi e prelati siano tenuti, non
essendo impediti, predicar l'Evangelio con la bocca propria, et impediti, siano
ubligati sustituire persone idonee. Che i curati inferiori debbino insegnare le
cose necessarie alla salute o di propria bocca o per opera d'altri, almeno le
dominiche e feste solenni; al che fare siano costretti da' vescovi, nonostante
qualonque essenzione. Et allo stesso siano costretti da' metropolitani, come
delegati dal papa, i curati delle parochiali soggette a' monasterii che non
sono in diocese alcuna, se il prelato regolare sarà negligente a farlo.
Che i regolari non predichino senza l'approbazione della vita, costumi e
scienza da' superiori loro, e nelle chiese del loro ordine, inanzi che
principiare la predicazione debbino dimandare personalmente la benedizzione al
vescovo, ma nelle altre non predichino senza la licenza episcopale, la qual sia
concessa senza pagamento. Se il predicator seminerà errori o scandali,
il vescovo gli proibisca il predicare, e se predicherà eresie, proceda
contra lui come la legge ordina e secondo la consuetudine, e se il predicator
fosse privilegiato, lo faccia come delegato, avendo però cura che i
predicatori non siano molestati per false imputazioni e calonnie, e non abbiano
giusta occasione di dolersi di loro. Non permettino che, sotto pretesto di
privilegii, né regolari che vivino fuor del chiostro, né preti secolari, se non
conosciuti et approvati da loro, predichino, sin che non sia di ciò dato
conto al pontefice. I questori non possino predicare essi, né far predicare, e
contra facendo, non ostanti i privilegii, siano costretti dal vescovo ad
ubedire.
In fine fu
assegnato il termine della seguente sessione al dí 29 luglio.
[Lettere del re di Francia et orazione del suo
ambasciatore]
Prononciati i
decreti dal vescovo celebrante, il secretario del concilio lesse le lettere del
re di Francia, in quali deputava ambasciatore al concilio Pietro Danesio, et
egli fece una longa e faconda orazione a' padri, nella quale disse in sostanza:
che il regno di Francia, da Clodoveo, primo re Cristianissimo, ha conservato la
religione cristiana sempre sincerissima. Che san Gregorio I diede titolo di
catolico a Childeberto in testimonio dell'incorrota religione. Che i re mai
hanno permesso in nissuna parte di Francia setta alcuna, né altri che catolici,
anzi hanno procurato la conversione degli esteri, et idolatri et eretici, e con
pie arme costrettigli a professare la vera e sana religione. Narrò come
Childeberto con guerra costrinse i visigotti ariani a congiongersi con la
Chiesa catolica, e Carlo Magno fece 30 anni di guerra co' sassoni per ridargli
alla religion cristiana. Passò poi a dire i favori fatti alla Chiesa
romana. Raccontò l'imprese di Pipino e Carlo Magno contra longobardi, e
come a questo da Adriano nella sinodo de' vescovi fu concesso di creare il papa
e di approvar i vescovi del suo dominio et investirgli dopo ricevuto da loro il
giuramento di fideltà. Soggiongendo che, se ben Ludovico Pio, suo
figliuolo, cesse a quell'autorità di crear il papa, riservò
nondimeno che gli fossero mandati legati per conservare l'amicizia, la qual sempre
continuò coltivata con scambievoli ufficii. Per la qual confidenza i
romani pontefici ne' tempi difficili, o scacciati dalla loro sede, o temendo
sedizione, si sono retirati in quel regno. Non potersi narrare quanti pericoli
i francesi hanno corso e le eccessive profusioni di danari e sangue per
dilatare i confini dell'imperio cristiano, o per recuperare le cose occupate da
barbari, o per restituir i pontefici, o liberargli da' pericoli. Soggionse che
da questi avendo origine Francesco re, con la medesima pietà, nel
principio del suo regno, dopo la vittoria di Lombardia, andò a trovare
Leon X a Bologna per formare con lui concordia, la qual ha continuato con
Adriano, Clemente e con Paolo, et in questi 26 anni, essendo le cose della fede
ridotte in grand'ambiguità in diverse regioni, con molta accuratezza ha
operato che non s'innovasse cosa alcuna nell'uso commune ecclesiastico, ma
tutto fosse riservato a' giudicii publici della Chiesa; e quantonque sia di
natura clemente, piacevole et aborrente da sangue, ha usata severità e
proposti gravi editti, ha operato con la sua diligenza e vigilanza de' suoi
giudici che in tanta tempesta, che ha sovvertito molte città e nazioni
intiere, fosse conservato alla Chiesa quel nobilissimo regno quieto, nel quale
restano la dottrina, riti, ceremonie e costumi vecchi; laonde poteva il
concilio ordinare quello che giudicava vero et utile alla republica cristiana.
Disse di piú aver il re conosciuto quanto sia proficuo alla cristianità
aver per capo il vescovo romano: onde ancorché tentato et invitato con
utilissimi partiti a seguitare l'essempio d'un altro, non ha voluto partirsi
dal suo parere, e perciò ha perduto l'amicizia de' suoi confinanti con
qualche danno. Che subito intesa la convocazione del concilio inviò
alcuni de' suoi vescovi, e dopo che vidde farsi da dovero et essere stabilita
l'autorità con piú sessioni, ha voluto mandar esso oratore per
assistergli, procurando da loro che statuiscano una volta e publicamente
propongano la dottrina che tutti i cristiani debbino professare in ogni luogo e
che indrizzino la disciplina ecclesiastica alla norma de' sacri canoni,
promettendo che il Cristianissimo re farà osservare il tutto nel suo
imperio, et averà patrocinio e difesa de' decreti del concilio. Aggionse
poi che, essendo cosí grandi i meriti de' re di Francia, gli siano conservati i
privilegii concessi dagli antichi padri e da' sommi pontefici, de' quali fu in
possessione Ludovico Pio e tutti gli altri re di Francia seguenti, e che siano
confermate alle chiese di Francia, de quali egli è tutore, le sue
raggioni, privilegii et immunità; il che se il concilio farà,
tutti i francesi lo ringraziaranno et i padri non si pentiranno d'averlo fatto.
Fu per nome
della sinodo risposto da Ercole Severolo, procuratore del concilio, con brevi
parole, ringraziando il re, mostrando che la presenza dell'ambasciatore gli
fosse gratissima, promettendo d'attendere con ogni studio allo stabilimento
della fede et alla riforma de' costumi, et offerendo ogni favore al regno et
alla Chiesa gallicana.
[Giudicii sopra la quinta sessione]
Ma li decreti
della sessione, usciti in stampa et andati in Germania, diedero materia di
parlare: dicevasi che superfluamente si era trattato dell'impietà
pelagiana, già piú di mille anni dannata da tanti concilii e dal commune
consenso della Chiesa, e pur quando l'antica dottrina fosse confermata, potersi
tolerare aversi ben, conforme a quella, proposta la vera universale, dicendo il
peccato d'Adamo essere passato in tutta la posterità, ma poi quella destrutta
con l'eccezzione; né giovare il dire che l'eccezzione non sia assertiva, ma
ambigua; perché, sí come una particolare rende falsa l'universale
contradittoria, cosí la particolare ambigua rende incerta l'universale; e chi
non vede che, stante quella eccezzione, eziandio con ambiguità, ogni uno
può concludere: adonque non è certo che il peccato sia passato in
tutta la posterità, perché non è certo che sia passato nella
vergine; e massime che la raggione, con quale si persuade quella eccezzione,
può persuaderne molte altre. Ben essere stato concluso da san Bernardo
che la stessa raggione, che induce a celebrare la concezzione della Vergine,
concluderà che sia celebrata quella del padre e madre di quella, e degli
avi e proavi e di tutta la geneaologia, e cosí andar in infinito, dice
Bernardo. Ma non vi si anderebbe, perché, gionti ad Abrahamo, vi sarebbe gran
raggione d'essentarlo solo dal peccato originale. Egli è quello a cui
è fatta la promessa del Redentor; Cristo è detto sempre seme d'Abrahamo;
egli chiamato padre di Cristo e de tutti i credenti, essemplare de' fedeli;
tutte degnità molto maggiori che il portare Cristo nel ventre, secondo
la divina risposta che la Vergine fu piú beata per aver udita la parola di Dio,
che per aver lattato e partorito. E chi per prerogazione non si lascierà
consegliare ad eccettuare Abrahamo et aver per soda l'antica raggione che
Cristo è senza peccato per essere nato de Spirito Santo senza seme
virile, dirà che era meglio seguire il conseglio del savio e contenersi
tra i termini posti da' padri. Aggiongevano che grand'obligo doveva il mondo
portare al concilio che si sia contentato dire che confessa e sente restare ne'
battezati la concupiscenza, che altrimente sarebbono costretti gli uomini a
negare di sentire in loro quello che sentono.
Nel decreto
della riforma s'aspettava che fosse proveduto alli scolastici et a' canonisti:
a questi, che danno le divine proprietà al papa sino a chiamarlo Dio,
dandogli infallibilità e facendo l'istesso tribunale d'ambidue, con dir
anco che sia piú clemente di Cristo; alli scolastici, che hanno fatto
fondamento della dottrina cristiana la filosofia d'Aristotele, tralasciata la
Scrittura e posto tutto in dubio, sino al metter questione se ci sia Dio e
disputarlo da ambe le parti. Pareva cosa strana che si fosse stato sino a quel
tempo a sapere che l'ufficio de' vescovi era predicare, che non s'avesse
trattato di levar l'abuso di predicare vanità et ogni altra cosa, salvo
che Cristo, che non fosse proveduto all'aperta mercanzia de' predicatori sotto nome
di lemosina.
Alla corte
dell'imperatore, andata notizia de' decreti fatti, fu ricevuto molto in male
che della riforma si fosse trattato cose leggiere, anzi non ricchieste dalla
Germania, et in materia di fede fossero le controversie per il decreto risvegliate.
Imperoché, essendo già ne' colloquii quasi concordata la controversia
del peccato originale, dal concilio, dove s'aspettava composizione, era
provenuto decreto contra le cose concordate, e per nome dell'imperatore fu
scritto a' suoi in Trento che facessero ogni opera acciò s'attendesse
alla riformazione e le cose di fede controverse si differissero all'andata de'
protestanti, che Cesare era sicuro d'indurvi, overo, almeno, sin che fossero
gionti i prelati di Germania, che, fatta la dieta, si sarebbono incaminati. Ma
di queste cose conciliari poco tempo si parlò, perché altri accidenti
avvennero che voltarono a sé gli occhi e la mente d'ogniuno.
[Conclusione della lega di Cesare e del papa
contra i protestanti]
Imperò
che in Roma il cardinale di Trento concluse a 26 giugno la lega tra il
pontefice e Cesare contra i protestanti di Germania; alla quale era stato dato
principio dal cardinale Farnese l'anno inanzi in Vormes, come è stato
detto, e dipoi s'era molte volte per mezo d'altri ministri trattata. Le cause
allegate e le condizioni furono: perché la Germania da molto tempo perseverava
nell'eresie, per proveder a che, s'era congregato il concilio di Trento e
già principiato, al quale ricusando i protestanti di sottomettersi, il
pontefice e Cesare, per gloria di Dio e salute della Germania, convengono che
Cesare si armi contra quelli che lo recusano e gli reduca all'obedienza della
Santa Sede; che per questo il pontefice mette in deposito in Venezia 100 mila
scudi, oltre li 100 mila già depositati, che non siano spesi in altro,
et oltre ciò mandi a proprie spese alla guerra 12 mila fanti italiani e
500 cavalli leggieri per 6 mesi; conceda a Cesare per l'anno presente la
metà delle rendite delle chiese di Spagna e che possi alienare delle
entrate de' monasterii di quei regni al valore di 500 mila scudi; che duranti
li 6 mesi l'imperatore non potesse accordare co' protestanti senza il
pontefice, e di qualonque guadagni et acquisti, il papa avesse certa porzione;
e finito quel tempo, se la guerra fosse per continuare, si trattassero di nuovo
le convenzioni che paressero ad ambe le parti piú opportune, e che fosse
servato luogo ad altri di poter entrar in quella lega, participando alle spese
et agl'acquisti. Fu anco un capitolo a parte, qual si tenne piú secreto,
toccando il re di Francia: che, se durante quella guerra alcun prencipe
cristiano avesse mosso arme contra l'imperatore, il papa fosse obligato
perseguitarlo con le arme spirituali e temporali.
Pochi dí dopo
scrisse il pontefice a' svizzeri invitandogli ad aiutarlo, avendo prima con
ampiezza di parole mostrata la benevolenza sua verso loro et il dolore che
sentiva perché alcuni d'essi s'erano alienati dalla sua obedienza; e
ringraziato Dio di quelli che perseveravano, e lodati tutti che in questa
differenza di religione stessero tra loro in pace, essendo per questa causa
altrove varii tumulti, soggionse che per rimediar a quelli aveva ordinato il
concilio in Trento, sperando che nissun dovesse ricusare di sottomettersegli;
laonde teneva per certo che quelli di loro che sino a quell'ora perseveravano
nell'ubedienza apostolica, obediranno al concilio, e gli altri non lo
sprezzeranno; gli invitava anco a venirci, dolendosi che in Germania molti che
si chiamano prencipi, superbamente sprezzassero e vituperassero il concilio, la
cui autorità è piú divina che umana: il che aveva posto lui in
necessità di pensare alla forza et arme; et essendo occorso che Cesare
ha fatto l'istessa risoluzione, è stato necessitato di congiongersi con
lui et aiutarlo col suo poter e della Chiesa romana a restituire la religione
con le arme. Il qual suo conseglio e mente aveva voluto loro significare,
acciò congiongessero seco i loro voti e rendessero alla Chiesa romana il
pristino onore e gli somministrassero aiuti in una causa tanto pia.
Ma Cesare
mostrava di pigliare la guerra non per causa di religione, anzi per rispetti di
Stato, e perché alcuni gli negavano l'obedienza, machinavano contra di lui con
forestieri e, ricusando ubedire alle leggi, usurpavano le possessioni d'altri,
massime ecclesiastiche, procurando di fare ereditarii i vescovati et abbazie;
che avendo provato egli diverse vie di piacevolezza per ridurgli, s'erano
sempre fatti piú insolenti.
I protestanti
dall'altro canto procuravano far manifesto al mondo che tutto nasceva
dall'instigazioni del pontefice e del concilio tridentino; raccordavano a
Cesare i capitoli giurati da lui in Francfort quando fu creato imperatore e
protestavano dell'ingiuria. Ma molti de' medesimi protestanti si tenevano dalla
parte di Cesare, non potendo credere che vi fossero altri rispetti che di
Stato, e l'arcivescovo di Colonia, del quale si è detto di sopra, che,
se ben sentenziato e privato dal papa, nondimeno continuava nel suo governo et
aveva l'ubedienza de' popoli, seguiva la parte di Cesare, il quale lo
riconosceva anco per elettore et arcivescovo, e gli scrisse ricercandolo che
nessuno de' suoi sudditi militasse contra lui; nel che anco l'arcivescovo
s'adoperò sinceramente. Il che vedendo l'elettor di Sassonia et il
lantgravio fecero un publico manifesto sotto i 15 di luglio, mostrando che
quella guerra era presa per causa della religione e che Cesare copriva la sua
mente con pretesto di vindicare la ribellione d'alcuni pochi, per separare i
confederati l'uno dall'altro et opprimergli tutti a poco a poco; allegavano che
Ferdinando et il Granvela et altri ministri di Cesare avevano attribuita questa
guerra all'esser sprezzato il concilio; rammemoravano la sentenzia del
pontefice contra l'elettor di Colonia; aggiongevano che i prelati di Spagna non
contribuirebbono tanti danari delle proprie entrate per altra causa; mostravano
che del rimanente non poteva Cesare pretendere alcuna cosa contra di loro.
[In congregazione è proposta la materia
della grazia divina]
Ma tra tanto
che il pontefice e l'imperatore preparavano contra luterani altro che anatemi,
il dí seguente la sessione, 18 giugno, si fece congregazione, dove dopo la
solita orazione et invocazione dello Spirito Santo, lesse il secretario una
scrittura per nome de' legati formata col parere de' principali teologi, nella
quale si proponeva che, avendo per inspirazione divina dannato l'eresie
concernenti il peccato originale, l'ordine delle materie ricercava che fosse
essaminata la dottrina de' moderni nel capo della grazia divina, la quale
è la medicina del peccato; e tanto piú conveniva seguire quell'ordine,
quanto l'istesso è seguito dalla confessione augustana, quale era scopo
del concilio condannare tutta. Et erano pregati i padri et i teologi di ricorrere
all'aiuto divino con le orazioni et esser nelli studii assidui et essatti,
risolvendosi in quel capo tutti gli errori di Martino; imperoché egli dal
principio, avendo preso ad oppugnare le indulgenze, vidde di non poter ottenere
l'intento suo senza distruggere le opere di penitenza, in difetto de' quali le
indulgenze succedono; e gli parve buon mezo per fare questo quella sua non mai
piú udita giustificazione per la sola fede; dalla quale poi ha cavato non solo
che le buone opere non sono necesarie, ma anco una dissoluta libertà
dell'osservazione della legge di Dio e della Chiesa: ha negato l'efficienza ne'
sacramenti e l'autorità de' sacerdoti, il purgatorio, il sacrificio
della messa e tutti gli altri rimedii per la rimissione de' peccati; onde per
la via conversa, volendo stabilire il corpo della dottrina catolica, conveniva
distruggere questa eresia della giustizia per la fede sola, condannate le
biasteme di quell'inimico delle buone opere.
Letta la
scrittura, li prelati imperiali dissero quanto piú era principale et importante
il capo proposto, tanto dover essere con maturità et opportunamente
trattato; che la missione del cardinale Madruccio al pontefice mostrava che
fosse gran negoziazione in piedi, qual conveniva avvertire di non sturbare, ma in
questo mentre trattare alcuna cosa della riforma. I ponteficii, dall'altra
parte, inculcavano che non era degnità interromper l'ordine
incomminciato di trattar insieme in ogni sessione i dogmi e la riforma, e non
potersi dopo il peccato originale trattar altra materia che la proposta. I
legati, uditi tutti i voti, conclusero che il discutere materie e prepararle
non era definirle, ma bene senza la previa preparazione non potersi venir a
determinazione, che non era se non ben avanzar il tempo e mettersi in ordine
per esseguire poi quello che fosse a Roma tra 'l pontefice et il cardinale, per
nome dell'imperatore, risoluto; che il digerire quella materia non impediva il
trattare la riforma, poiché in quella si occuperebbono i teologi, in questa i
padri e canonisti. Con questa risoluzione fu concluso che fossero scielti da
libri di Martino, da' colloquii, dalle apologie et altri scritti de' luterani
et altri gli articoli per proporre in discussione e censura; e furono deputati
tre padri et altretanti teologi per metter insieme quello che fosse raccordato
et ordinare gli articoli.
[Altra congregazione per materia di riforma:
propone la residenza]
La
congregazione seguente fu tenuta per dar ordine alle materie di riforma, dove
disse il cardinale del Monte esser molti anni che il mondo si duole
dell'assenza de' prelati e pastori, dimandando quotidianamente residenza; che
de tutti i mali della Chiesa causa era l'assenza de' prelati et altri curati
dalle chiese loro, e potersi comparare la Chiesa ad una nave, la sommersione
della quale s'attribuisce al nocchiero assente, il quale la governerebbe,
quando fosse presente. Considerò, che le eresie, l'ignoranza e la
dissoluzione nel popolo, i mali costumi e vizii nel clero, regnano perché,
essendo i pastori assenti dal grege, nissun ha curato d'instituire quelli e
corregger questo. Dall'assenza de' prelati esser nato che sono stati assonti
ministri ignoranti et indegni e finalmente da questo anco esser introdotto
l'abuso di promover al vescovato persone atte piú ad ogni altro carico; perché,
non dovendolo amministrare in persona, vanamente si ricerca che abbia
attitudine per quello. Onde concludeva che il stabilire la residenza era un
rimedio policresto per tutti i mali della Chiesa, altre volte adoperato anco
da' concilii e pontefici. Ma, o perché allora le transgressioni fossero poche o
per altra causa, non applicato con legature cosí ferme e strette, come è
necessario far ora che il male è gionto al colmo, con precetto piú
severo, con pene piú gravi e piú temute e con piú facil modi d'esseguire.
Questo fu
approvato da' primi voti de' prelati; ma quando toccò a parlare a
Giacomo Cortesi, fiorentino, vescovo di Veson, egli, lodato quello che dagli
altri era detto, aggionse che sí come credeva che la presenza de' prelati e
curati per i tempi vecchi esser stata causa di mantener la purità della
fede nel popolo e disciplina nel clero, cosí poteva mostrare chiaramente che la
loro assenza ne' prossimamente passati non era causa della sovversione
contraria et esser stato introdotto il costume di non residere perché il
resider era totalmente inutile. Che ne' prossimi tempi niente potevano far li
vescovi per conservare la dottrina sana nel popolo, quando i frati et i
questori hanno autorità di predicare contra il voler loro; sapersi che
le innovazioni di Germania erano nate per le prediche di fra Giovanni Techel e
di fra Martino Lutero; in svizzeri il male aver avuto origine per le prediche
di fra Sansone da Milano, e niente averebbe potuto far un vescovo residente
contra armati di privilegii, se non combatter e perdere; non poter un vescovo
procurare vita onesta nel clero, poiché oltre l'essenzione generale di tutti i
regolari, ogni capitolo ha l'essenzione sua e pochi preti privati sono senza
questa arma. Che siano assonti ministri atti al carico, non lo può il
vescovo per le licenze de promovendo e per le facoltà che hanno i
vescovi titolari, da' quali non gli è stato lasciato manco il ministerio
delle ponteficali, e si può in una parola dire che i vescovi non
residono perché non hanno che fare, anzi di piú, per non far nascere maggiori
inconvenienti, come nati sarebbono per la concorrenza e contenzione co'
privilegiati.
Concluse che,
sí come si giudicava necessaria la restituzione della residenza, cosí si
trattasse di restituir l'autorità episcopale. Da' vescovi che seguirono
questo prelato nel parlare, fu anco seguita l'istessa opinione che fosse
necessario commandare la residenza e levare le essenzioni che la impedivano, e
furono costretti i legati consentire, che d'ambedue fosse deliberato, che
ciascun considerasse e dicesse il parere suo, e deputati padri che formassero
il decreto per esser essaminato.
[Dispareri intorno all'essamine della grazia]
I deputati a
raccogliere gli articoli della giustificazione, avendo ricevuto gli estratti
delle proposizioni notate da ciascuno per censurare, non erano intieramente
concordi. Una parte di loro voleva che si sciegliessero 4 overo 6 articoli
fondamentali della nuova dottrina, e quelli si condannassero, come s'era fatto
nella materia del peccato originale, adducendo che conveniva seguire il
principiato stile e l'essempio degli antichi concilii, che, dicchiarato
l'articolo principale e condannata l'eresia, non discesero mai alle particolari
proposizioni, ma dannando i libri degli eretici, con quell'universale
comprendevano tutta la dottrina perniciosa; e cosí ricercar il decoro del
concilio. Ma l'altra parte aveva mira a metter sotto censura tutte le
proposizioni che potevano ricevere sinistro senso, con fine di condannare
quelle che per raggione meritavano; dicendo che questo è l'ufficio del
pastore: discernere intieramente le erbe salubri dalle nocive e proibire
totalmente queste al loro gregge, poiché una minima trascurata e ricevuta per
sana, essendo morbosa, può infettare tutto 'l gregge. E se si vuol
seguire l'essempio de vecchi concilii, doversi immitare l'efesino che sopra la
dottrina di Nestorio fece i tanti e cosí celebrati anatematismi, che
comprendono tutto quello che dall'eretico fu detto, et i concilii d'Africa
contra i pelagiani, che descendono alla condanna di tutte le proposizioni di
quella setta.
La prima
opinione senza dubio proponeva modo piú facile et averebbe piacciuto a chi
desiderava presto fine del concilio e lasciava aperta qualche fissura alla
concordia, che il tempo futuro potesse portare; la seconda nondimeno fu
abbracciata, con dire che era ben essaminare tutte le proposizioni della
dottrina luterana, per censurare e dannare quello che dopo matura discussione
fosse parso necessario e condecente; e furono formati 25 articoli:
1 La fede
sola, escluse tutte l'altre opere, basta alla salute e sola giustifica.
2 La fede che
giustifica è la fiducia per quale si crede i peccati esser rimessi per
Cristo et i giustificati sono tenuti a credere certamente che gli siano rimessi
i peccati.
3 Per la sola
fede possiamo comparir inanzi a Dio, il qual né cura, né ha bisogno d'opere: la
sola fede fa puri e degni di ricevere l'eucaristia, credendo di dover in quella
ricevere la grazia.
4 Gl'uomini
che fanno cose oneste senza lo Spirito Santo peccano, perché le fanno con cuore
empio et è peccato l'osservare i precetti di Dio senza fede.
6 Nissuna
disposizione è necessaria alla giustificazione, né la fede giustifica
perché disponga, ma perché è il mezo o l'istromento con che s'aprende e
si riceve la promessa e la grazia divina.
7 Il timor
dell'inferno non giova per acquistar la giustizia, anzi nuoce et è
peccato e fa i peccatori peggiori.
8 La
contrizione che nasce dalla discussione, rammemorazione e detestazione de'
peccati, ponderando la gravità, moltitudine e brutezza di quelli, overo
la perdita della beatitudine eterna e l'acquisto della perpetua dannazione, fa
l'uomo ipocrita e maggiormente peccatore.
9 I terrori
con quali sono spaventati i peccatori internamente da Dio, o esternamente da'
predicatori, sono peccati sin tanto che siano superati dalla fede.
10 La
dottrina delle disposizioni distrugge quella della fede e leva la consolazione
alle conscienze.
11 La sola
fede è necessaria, le altre cose non sono né commandate, né proibite, né
ve è altro peccato se non l'incredulità.
12 Chi ha la
fede è libero da' precetti della legge e non ha bisogno d'opere per
esser salvo; perché la fede dona tutto abondantemente e sola adempisce tutti i
precetti, e nissun'opera del fedele è tanto cattiva che possi accusarlo
o condannarlo.
13 Il
battezato non può perdere la sua salute per qual si voglia peccato.
Salvo che quando non voglia credere e nissun peccato separa dalla grazia di Dio
se non l'infedeltà.
14 La fede e
le opere sono tra loro contrarie e non si possono insegnare le opere senza
iattura della fede.
15 Le opere
esterne della seconda tavola sono ipocrisia.
16 I
giustificati sono liberi da ogni colpa e pena, e non è necessaria
satisfazzione in questa vita, né dopo la morte, e però non vi è
purgatorio, né satisfazzione che sia parte di penitenza.
17 I
giustificati, ancorché abiano la grazia di Dio, non possono adempir la legge,
né schivar i peccati, né manco i soli mortali.
20 Tutte le
opere degli uomini, eziandio santissimi, sono peccati. Le opere buone del
giusto per la misericordia di Dio sono veniali, ma secondo il rigore del divino
giudicio sono mortali.
21 Se ben il
giusto debbe dubitare che le opere sue siano peccati, debbe insieme esser certo
che non sono imputati.
22 La grazia
e la giustizia altro non sono che la divina volontà, né i giustificati
hanno alcuna giustizia inerente in loro et i peccati non gli sono scancellati,
ma solamente rimessi e non imputati.
23 La giustizia
nostra non è altro che la imputazione della giustizia di Cristo, et i
giusti hanno bisogno d'una continua giustificazione et imputazione della
giustizia di Cristo.
24 Tutti i
giustificati sono ricevuti ad ugual grazia e gloria, e tutti i cristiani nella
giustizia sono ugualmente grandi come la Madre di Dio, et ugualmente santi come
lei.
25 Le opere
del giustificato non sono meriti della beatitudine, né si può porre
alcuna fiducia in loro, ma solo nella misericordia di Dio.
[Articoli de' protestanti non bene intesi per
lor novità]
Dati fuori
gli articoli, non fu cosí facile ordinare il modo di trattare nelle
congregazioni, come mentre si disputò del peccato originale; perché in
quella materia trovarono gli articoli già trattati da' scrittori
scolastici, ma l'opinione di Lutero della fede giustificante, che sia fiducia e
certa persuasione della promessa divina, con le consequenze che da quella
seguono della distinzione tra la Legge e l'Evangelio, e della qualità
delle opere dependenti dall'un' e dall'altra, non fu da alcun scrittore
scolastico immaginata, perilché né meno confutata o disputata; onde i teologi
avevano da travagliare assai, prima per intender il senso delle proposizioni
luterane e la differenza loro dalle determinate nelle scole, e poi le raggioni
con che distinguerle. Certo è che nel principio alcuni di loro, et i
padri per la maggior parte, credevano che, negando i protestanti il libero
arbitrio, tenessero openione che l'uomo nelle azzioni esterne fosse come una
pietra, e quando attribuiscono la giustizia alla fede sola, negando concorrervi
le opere, tenessero per giusto l'uomo il qual crede solamente l'istoria
dell'Evangelio, del resto operando quanto si voglia perversamente, et altre tal
absurdità, quanto aliene dal senso commune, tanto piú difficili da
confutare, come avviene a tutte le openioni contrarie alla manifesta apparenza
et alla persuasione ricevuta dall'universale.
Fra i
teologi, che sin allora erano cresciuti al numero di 45, la maggior parte era
molto tenace nelle openioni ricevute generalmente dalle scole, e dove i
scolastici erano concordi, impazienti di sentir a parlar in contrario; dove le
sette scolastiche non convengono, si formalizavano assai in difesa della
propria, e piú degli altri i dominicani, soliti a gloriarsi che per 300 anni la
Chiesa per loro opera aveva superate le eresie. Non mancavano con tutto
ciò alcuni d'ingegno destro, atti a suspender il giudicio sin che le
raggioni fossero pesate. In questo numero era fra Ambrosio Catarino senese,
dominicano, che poi fu creato vescovo di Minori, un francescano spagnuolo,
Andrea de Vega, un carmelitano, Antonio Marinari. Gli eremitani, per esser di
quell'ordine d'onde Martino Lutero uscí, affettavano di mostrarsi piú contrarii
a lui di tutti gli altri, e principalmente il generale Gierolamo Seripando.
[Fede giustificante: openione del Soto,
contradetta dal Catarino]
Nell'essaminar
gli articoli, i primi de' teologi, per facilitare l'intelligenza de' tre primi,
si diedero a ricercare qual è quella fede che giustifica e quali opere
escluda, distinguendole in tre sorti: precedenti la divina grazia, de' quali
parlano i 7 seguenti sino al 10; concorrenti nel momento stesso con l'infusione
di quella, e susseguenti dopo la grazia ricevuta, de' quali sono le altre 11.
Che la fede giustifichi, convenne presupporlo per indubitato, come da san Paolo
detto e replicato. Per risolvere qual fosse quella fede et in che modo rendesse
l'uomo giusto, furono le openioni nel bel principio differenti; imperoché,
attribuendo la Scrittura molte virtú alla fede, che alcuni non sapevano
applicare ad una sola, ebbero la voce per equivoca, e la distinsero in molte
significazioni, dicendo che ora è presa per la ubligazione a mantenere
le promesse, nel qual senso san Paolo dice che l'incredulità degli ebrei
non rese vana la fede de Dio; alle volte per la virtú di fare miracoli, come
quando disse: se averò tanta fede che possi trasportar i monti; ancora
è presa per la conscienza, nel qual senso disse: l'opera che alla fede
non si conforma, è peccato; altre volte per una fiducia e confidenza in
Dio, che la Maestà sua mantenerà le promesse: cosí san Giacomo
volle che l'orazione sia fatta in fede senza dubitare; finalmente per una
persuasione et assenso fermo, non però evidente alle cose da Dio
rivelate. Alcuni aggiongevano altre significazioni, chi al numero di 9, chi
sino 15.
Ma fra
Domenico Soto, opponendosi a tutti, diceva che ciò è un lacerare
la fede e dare vittoria a' luterani, e che non vi erano se non due significazioni:
l'una la verità e realtà di chi asserisce o promette, l'altra
l'assenso di chi l'ascolta, e la prima esser in Dio, la seconda esser sola la
nostra; e di questa intendersi tutti i luoghi della Scrittura che della fede
nostra parlano, et il pigliar la voce fede per una fiducia e confidenza essere
modo non solo improprio, ma abusivo, né mai ricevuto da san Paolo: esser la
fiducia niente o poco differente dalla speranza, e però doversi aver per
indubitato errore, anzi eresia quella di Lutero: la fede giustificante esser
una fiducia e certezza nella mente del cristiano che gli siano rimessi i
peccati per Cristo. Aggiongeva il Soto, et era seguito dalla maggior parte, che
quella tal fiducia non poteva giustificare, per esser una temerità e
peccato, non potendo l'uomo senza presonzione tener per fermo d'esser in
grazia, ma dovendosi sempre dubitare. Per l'altra parte teneva il Catarino, con
assai buon seguito, che la giustificazione da quella fiducia non proveniva; che
il giusto nondimeno poteva, anzi doveva tener per fede d'esser in grazia.
Una terza
openione portò in campo Andrea Vega: che non fosse temerità, né
meno fede certa, ma si poteva aver una persuasione congietturale senza peccato.
E questa controversia non si poteva tralasciare, perché sopra ciò versava
il ponto di censurare l'articolo secondo; perilché, prima leggiermente
discussa, poi, riscaldatesi le parti, divise e tenne in disputa tutto 'l
concilio longamente per le raggioni e cause che si narreranno. Ma essendo tutti
concordi che la fede giustificante è l'assenso a tutte le cose da Dio
rivelate o dalla Chiesa determinate per essere credute, la qual'ora essendo
insieme con la carità, ora rimanendo senza lei, la distinsero in due
sorti: una, che si ritrova ne' peccatori, la qual chiamano le scole fede
informe, solitaria, ociosa, overo morta; l'altra, che è ne' soli buoni,
operante per carità e per ciò chiamata formata, efficace e viva.
E qui un'altra controversia fu, volendo alcuni che la fede a che ascrivono le
Scritture la salute, la giustizia e la santificazione fosse la sola viva, come
anco fu tenuto da' catolici di Germania ne' colloqui, et includesse in sé la
cognizione delle cose rivelate, le preparazioni della volontà, la
carità, nella qual s'include tutto l'adimpimento della legge; et in questo
senso non potersi dire che la sola fede giustifica, perché non è sola,
poiché è informata dalla carità. Tra questi il Marinaro non
lodava il dire: la fede è informata dalla carità, perché da san
Paolo non è usato tal modo di dire, ma solo: la fede opera per la
carità.
Altri
intendevano che la fede giustificante fosse la fede in genere, senza descender
a viva o morta, perché l'una e l'altra giustifica in diversi modi: o
compitamente, e questa è la viva, overo come principio e fondamento, e
questa è la fede istorica, e di questa parlare sempre san Paolo quando
gli attribuisce la giustizia, non altrimenti, che come si dice che
nell'alfabeto è tutta la filosofia, cioè come in una base, che
è quasi niente, restando il molto, cioè riporvi sopra la statua.
Era sostenuta questa seconda openione da' dominicani e francescani insieme;
l'altra era difesa dal Marinari con altri aderenti. Non però fu toccato
il punto dove versa il cardine della difficoltà: cioè se l'uomo
prima è giusto e poi opera le cose giuste, overo operandole divien
giusto. In un parere erano tutti concordi, cioè il dire: la fede sola
giustifica, essere proposizione di molti sensi, tutti assordi; imperoché Dio
anco giustifica et i sacramenti giustificano nel genere di causa a sé
conveniente; onde la proposizione patisce quella et altre eccezzioni; cosí la
preparazione dell'anima a ricevere la grazia è essa ancora causa nel suo
genere, onde la fede non può escludere quella sorte di opere.
Però quanto s'aspetta agli articoli che parlano delle opere precedenti
la grazia, che Lutero dannò tutte di peccato, i teologi, piú in forma
d'invettiva che in altra maniera, gli censurarono per eretici tutti, dannando
parimente d'eresia la sentenzia presa in generale, che tutte le opere umane
senza la fede sono peccati; avendo per cosa chiara esservi molte azzioni umane
indifferenti, né buone né cattive, et essendo anco altre, quali, quantonque non
siano grate a Dio, sono però moralmente buone, e queste sono le opere
oneste degli infedeli e cristiani peccatori, le quali è repugnanza
grandissima chiamar insieme oneste e peccati, massime che in questo numero sono
incluse le opere eroiche, tanto lodate dall'antichità.
Ma il
Catarino sostenne che, senza aiuto speciale di Dio, l'uomo non può far
alcuna opera, quale si possi chiamare veramente buona, eziandio moralmente, ma
solo peccato. Perilché tutte le opere degli infedeli, che da Dio non sono
eccitati a venir alla fede, e tutte quelle de fedeli peccatori, inanzi che Dio
ecciti alla conversione, se ben paressero agli uomini oneste, anzi eroiche,
sono veri peccati, e chi le loda, le considera in genere e nell'esterna
apparenza; ma chi essaminerà le circonstanzie di ciascuna, vi
troverà la perversità, e quanto a questo non era da condannare
Lutero; ma sí ben dovevano essere censurati gli articoli, in quanto parlano
delle opere seguenti la grazia preveniente, che sono preparazione alla
giustificazione, quale sono l'abominazione del peccato, il timor dell'inferno e
gli altri terrori della conscienza. Per confermare la sentenzia sua portava la
dottrina di san Tomaso, che per far un'opera buona è necessario il
concorso di tutte le circonstanze, e per farla cattiva basta il mancamento
d'una sola; onde se ben considerate le opere in genere, alcune sono
indifferenti, in individuo però non è mezo tra l'aver tutte le
circonstanze o mancare di alcuna: perilché ciascuna particolar azzione overo
è buona, overo è cattiva, né la indifferente si ritrova; e perché
tra le circostanze uno è il fine, tutte le opere riferite a fine cattivo
restano infette; ma gli infedeli riferiscono tutto quello che fanno nel fine
della loro setta, che è cattivo; perilché, se ben paiono eroiche a chi
non vede l'intenzione, sono nondimeno peccati; né esservi differenza che la
relazione al fine cattivo sia attuale o abituale, poiché anco il giusto merita,
se ben non riferisce l'opera sua attualmente a Dio, ma solo abitualmente.
Diceva di piú, portando l'autorità di sant'Agostino, che è
peccato non solamente riferir al mal fine, ma anco il solo non riferir al buono
dove si doverebbe, e perché difendeva che, senza special aiuto di Dio
preveniente, l'uomo non può riferir in Dio cosa alcuna, concludeva che
non vi potesse esser opera buona morale inanzi. Allegava per ciò molti
luoghi di sant'Agostino, mostrando, che fu di questa opinione. Allegava ancora
luoghi di sant'Ambrosio, di san Prospero, di sant'Anselmo e d'altri padri;
adduceva Gregorio d'Arimini et il cardinal Roffense, che nel libro suo contra
Lutero sentí apertamente l'istesso; diceva esser meglio seguir i padri che i
scolastici, contrarii l'un all'altro, e che conveniva caminare col fondamento
delle Scritture, dalle quali s'ha la vera teologia, e non per le arguzie della
filosofia, per quale le scole hanno caminato; che esso ancora era stato di
quella opinione, ma, studiate le Scritture et i padri, aveva trovato la
verità. Si valeva del passo dell'Evangelio: l'arbore cattivo non
può far frutti buoni, con l'amplificazione che soggionse nostro Signore
dicendo: overo fate l'arbore buono et i frutti buoni, o l'arbore cattivo et i
frutti cattivi. Si valeva sopra gli altri argumenti con grand'efficacia del
luogo di san Paolo che a gl'infedeli nissuna cosa può esser monda,
perché è macchiata la mente e la conscienza loro.
Questa
openione era impugnata dal Soto con molta acrimonia, passando anco al sgridarla
per eretica, perché inferiva che l'uomo non fosse in libertà di far ben
e che non potesse conseguir il suo fine naturale, che era negar il libero
arbitrio co' luterani. Sosteneva egli poter l'uomo con le forze della natura
osservare ogni precetto della legge quanto alla sustanza dell'opera, se ben non
quanto al fine, e questo tanto esser a bastanza per evitar il peccato; diceva
essere tre sorti d'opere umane, una la transgressione della legge, che è
peccato; l'altra l'osservazione d'essa per fine di carità, e questa
essere meritoria et a Dio grata; la terza intermedia, quando la legge è
ubedita quanto alla sostanza del precetto, e questa è opera buona morale
e nel suo genere perfetta e che accomplisce la legge e fa ogni opera moralmente
buona cosí schivando ogni peccato. Moderava però quella tanta
perfezzione della nostra natura con aggiongere che altro fosse guardarsi da
qualonque peccato, che da tutti i peccati insieme, dicendo che può
l'uomo da qualonque guardarsi, ma non da tutti, con l'essempio di chi avesse un
vaso con tre forami, che avendo due mani solo non può otturargli tutti,
ma ben qualonque d'essi vorrà, restandone per necessità uno
aperto. Questa dottrina ad alcuni de' padri non sodisfaceva; perché, quantonque
demostrasse chiaro che tutte le opere non sono peccati, non salvava però
intieramente il libero arbitrio, seguendo per consequenza necessaria che non
sarà libero al schivare tutti i peccati. Ma dando titolo di buone a
queste opere, il Soto si vedeva angustiato a determinare se erano preparatorie
alla giustificazione; gli pareva il sí, considerando la bontà d'esse;
gli pareva di no, attendendo la dottrina d'Agostino, approvata da san Tomaso e
da' buoni teologi, che il primo principio della salute è dalla vocazione
divina. Da queste angustie sfuggí con una distinzione: che erano preparatorie
di lontanissimo, non di vicino, quasi che, dando una preparazione di lontano
alle forze della natura, non si levi il primo principio alla grazia di Dio.
I francescani
non solo tal sorte d'opere volevano che fossero buone e che preparassero alla
giustificazione veramente e propriamente, ma ancora che fossero in modo proprio
meritorie appresso la Maestà divina, perché Scoto, autore della loro
dottrina, inventò una sorte di merito, che attribuí alle opere fatte per
forza della sola natura, dicendo che de congruo meritano la grazia per
certa legge et infallibilmente, e che per sola virtú naturale l'uomo può
aver un dolor del peccato, che sia disposizione e merito de congruo per scancellarlo;
approvando un volgato detto de' tempi suoi, che Dio non manca mai a chi fa
quello dove le sue forze s'estendono. Et alcuni di quell'ordine, passando
questi termini, aggiongevano che se Dio non dasse la grazia a chi fa quello che
può secondo le sue forze, sarebbe ingiusto, iniquo, parziale et
accettator di persone. Con molto stomaco et indignazione esclamavano che
sarebbe grand'assordità se Dio non facesse differenza da uno che vive
naturalmente con onestà ad uno immerso in ogni vizio, e non vi sarebbe
raggione perché dasse la grazia piú ad uno che all'altro. Adducevano che san
Tomaso anco fosse stato di questa opinione, e che altrimente dicendo, si
metteva l'uomo in disperazione e si faceva negligente a ben operare, e si dava
a' perversi modo di scusar le loro male opere et attribuirle al mancamento
dell'aiuto divino.
Ma i
dominicani confessavano che san Tomaso giovane ebbe quell'opinione, e vecchio
la retrattò; la riprendevano, perché nel concilio di Oranges, detto
arausicano, è determinato che nissuna sorte di merito preceda la grazia
e che a Dio si debbe dar il principio; che per quel merito congruo i luterani
hanno fatto tante esclamazioni contra la Chiesa; era necessario abolirlo
totalmente, sí come non era mai stato udito negli antichi tempi della Chiesa in
tante controversie co' pelagiani; che la Scrittura divina attribuisce la nostra
conversione a Dio, dalla forma del parlar della quale non conveniva dipartirsi.
[Diversità intorno alle preparazioni,
alla grazia, alla voce giustificare, all'imputazione della giustizia di Cristo]
Intorno le
preparazioni, nella sostanza della dottrina non vi fu differenza: tutti
tenevano che dopo l'eccittamento divino sorge il timore e le altre
considerazioni della malignità che è nel peccato; censurarono per
eretica l'opinione che fosse cosa cattiva, perché Dio essorta il peccatore,
anzi lo move a queste considerazioni, e non si debbe dire che Dio mova a
peccato, e di piú l'ufficio del predicatore non è altro se non con
questi mezi atterir l'animo del peccatore, e perché tutti passano per questi
mezi dallo stato del peccato a quello della grazia, pareva gran maraviglia che
non si poteva passar dal peccato alla giustizia se non per il mezo d'un altro
peccato; con tutto ciò non potevano liberarsi dalla difficoltà in
contrario, perché tutte le opere buone possono stare con la grazia, quel timore
e le altre preparazioni non possono restar con quella, adonque sono cattive.
Fra Antonio Marinaro era di parere che la differenza fosse verbale, e diceva
che sí come passando da un gran freddo al caldo, si passa per un grado di
freddo minore, il qual non è né caldo, né freddo nuovo, ma l'istesso
diminuito; cosí dal peccato alla giustizia si passa per i terrori et
attrizioni, che non sono né opere buone, né nuovi peccati, ma i peccati vecchi
estenuati: ma in questo avendo tutti gli altri contrarii, fu costretto
ritrattarsi. Delle opere fatte in grazia non fu tra loro difficoltà,
tutti affermando che sono perfette e meritorie della vita eterna, e che
l'opinione di Lutero, che siano tutte peccato, è empia e sacrilega;
avendo per biastemma che la beata Vergine abbia commesso un minimo peccato
veniale, come poi potrebbono l'orrecchie sostenere d'udire che in ogni azzione
peccasse? che doverebbe la terra e l'inferno aprirsi a tante biastemme.
Nel capo
dell'essenzia della divina grazia, per censura degli articoli 22 e 23, fu
commune considerazione che la voce grazia in prima significazione s'intenda una
benevolenza o bona volontà, la quale quando è in chi abbia poter,
partorisce di necessità anco un buon effetto, che è il dono o
beneficio, quale esso ancora è chiamato grazia: i protestanti avere
pensato che la maestà divina, come che non potendo di piú, ci faccia
solo parte della sua benevolenza; ma la omnipotenza divina ricercava che ci
aggiongesse il beneficio in effetto; e perché alcuno averebbe potuto dire che
la sola volontà divina, che è Dio medesimo, non può avere
cosa maggiore, e che anco l'averci donato il suo figliuolo era un sommo
beneficio, e che san Giovanni, volendo mostrar il grand'amore di Dio verso il
mondo, non allegò altro che aver dato il figlio unigenito, soggiongevano
che questi sono beneficii communi a tutti; conveniva che ci facesse un presente
proprio a ciascuno. E però i teologi hanno aggionta una grazia abituale,
donata a ciascun giusto la sua, la quale è una qualità spirituale
creata da Dio et infusa nell'anima, per la quale vien fatta grata et accetta
alla divina maestà, della quale se ben non si trova espressa parola ne'
padri e meno nella Scrittura, nondimeno si deduce chiaramente dal verbo
«giustificare»; il qual essendo effettivo, per necessità significa fare
giusto con impressione di reale giustizia; la qual realtà non potendo
esser sostanza, non può esser altro che qualità et abito.
Et in questa
occasione fu trattato longamente contra li luterani che non vogliono il verbo
giustificare esser effettivo, ma giudiciale e declarativo, fondandosi sopra la
voce ebrea «tzadac» e sopra la greca dicaioun, che significano
«pronunciare giusto», e per molti luoghi della Scrittura del Nuovo e Vecchio
Testamento, che anco nella tradizzione latina è usata in tal
significazione, e se ne allegava sino 15. Ma il Soto escludeva tutti quelli di
san Paolo che parlano della nostra giustificazione, et in quelli diceva non
potersi intendere, se non in significazione effettiva; di che nacque gran
disputa tra lui et il Marinaro, al quale non piaceva che si fondasse in cosa
cosí leggiera; ma diceva l'articolo della grazia abituale, non poter ricevere
dubio, come deciso nel concilio di Vienna e sentenzia commune di tutti i
teologi; e questo esser un far sodi fondamenti che non possono esser destrutti,
e non voler dir che san Paolo, A' Romani, quando dice che Dio
giustifica, non intenda in senso declarativo, contra il testo manifesto che
mette un processo giudiciale, dicendo che nissun potrà accusar né
condannar gli eletti da Dio, essendo Dio che gli giustifica; dove i verbi
giudiciali «accusare» e «condannar» mostrano che il giustificar sia voce di
foro parimente.
Ma i
francescani provavano la grazia abituale, perché la carità essa è
un abito; e qui fu disputato acremente tra loro et i dominicani, se l'abito
della grazia era l'istesso con quello della carità, come Scoto vuole, o
pur distinto, come piacque a san Tomaso; e non cedendo alcuna delle parti, si
passò a cercar se, oltre questa grazia o giustizia inerente, viene anco
al giustificato imputata la giustizia di Cristo come se fosse propria sua, e
questo per l'opinione d'Alberto Pighio, il qual, confessandola inerente, aggionse
che in quella non conviene confidarsi, ma nella giustizia di Cristo imputata
come se nostra fosse. Nissun metteva dubio se Cristo avesse meritato per noi,
ma alcuni biasmavano il vocabolo «imputare» e volevano che fosse abolito, non
trovandosi usato da' padri, quali si sono contentati de' nomi: communicazione,
participazione, diffusione, derivazione, applicazione, computazione,
congionzione. Altri dissero che, constando della cosa, non era da far forza
sopra una voce, che ogn'uno vede significare precisamente l'istesso che le
altre, la quale, se ben non da tutti e con frequenza, fu però alle volte
usata; si portava l'Epistola 109 di san Bernardo per questo, et il Vega
defendeva che veramente, quantonque il vocabolo non si trovi nelle Scritture,
nondimeno è propriissimo e latinissimo il dire che la giustizia di
Cristo è imputata al genere umano in sodisfazzione e merito, e che
continuatamente è anco imputata a tutti quelli che sono giustificati e
satisfanno per i proprii peccati; ma non voleva che si potesse dire che
è imputata come se fosse nostra. A che essendo opposto che san Tomaso
usa di dire che al battezato è communicata la passione di Cristo in
remissione, come se esso l'avesse sostenuta e fosse morto, sopra le parole di
san Tomaso vi fu longa e gran contenzione. Il general eremitano tenne opinione,
che nel sacramento del battesmo la giustizia di Cristo sia imputata per esser
in tutto e per tutto communicata, ma non nella penitenza, dove ci bisognano
anco le nostre sodisfazzioni. Ma il Soto disse, che la parola «imputazione» era
popularissima et aveva molto del plausibile; perché in primo aspetto altro non
significa se non che tutto si debbe riconoscer da Cristo, ma che egli l'aveva
sempre avuta per sospetta, attese le cattive consequenze che da quella i luterani
cavano; cioè che questa sola sia sufficiente e non faccia bisogno
d'inerente, che i sacramenti non donano grazia, che insieme con la colpa si
scancella ogni pena, che non resta luogo alla sodisfazzione, che tutti sono
uguali in grazia, giustizia e gloria: d'onde deducono anco quella abominevole
biastema che ogni giusto è ugual alla beata Vergine. Questo avvertimento
mise tanto sospetto negli audienti che si vidde manifesta una inclinazione a
dannar quella voce come eretica, quantonque fossero replicate efficacemente le
raggioni in contrario. Le contenzioni tra' teologi nascevano per certo
dall'affetto immoderato verso la propria setta, ma se vi aggiongeva anco
fomento da diversi per varii fini: dagli imperiali, per costringer ad abandonar
la giustificazione; da' cortegiani romani, per trovar modo di separar il
concilio e fuggir la riforma imminente, e da altri per liberarsi da' disaggi
che temevano maggiori per la carestia o per la guerra imminente, gionta la poca
speranza di far frutto.
[Giubileo in Roma per la guerra contra i
protestanti]
Ma mentre in
Trento si fanno queste dispute, il pontefice in Roma a 15 di luglio
publicò un giubileo col quale levò la fatica a' prencipi di
Germania d'investigar o persuader ad altri la vera causa della guerra; perché
in quella bolla, avendo diffusamente esplicato il suo affetto e sollecitudine
pastorale per la salute degli uomini, narrata la perdizione delle anime che
continuamente seguiva per l'accrescimento delle eresie, che per estirparle era
il concilio già comminciato, si doleva sopra modo della pertinacia degli
eretici che lo sprezzavano e ricusavano ubedirlo e sottoporsi alla definizione
di quello; al che per rimediare, egli aveva concluso lega con Cesare per ridur
con forza d'arme gli eretici all'ubedienza della Chiesa; e per tanto ogni uno
ricorresse a Dio con preghiere e digiuni, confessioni e communioni,
acciò la Maestà Sua divina concedesse buon essito a quella guerra
presa a gloria sua, essaltazione della Chiesa e per estirpar l'eresie.
Cesare,
seguendo la deliberazione d'ascondere la causa della religione, publicò
sotto i 20 dello stesso mese un bando contra il sassone et il lantgravio,
imputando loro d'aver impedito sempre i suoi dissegni, non averlo mai ubedito,
avere fatto congiure contra lui, mosso la guerra ad altri prencipi
dell'Imperio, aver occupato vescovati et altre prefetture, privato molti delle
loro facoltà, e tutte queste cose coperte con specioso e dolce nome
della religione, della pace e della libertà, avendo però ogni
altro fine. Per tanto come perfidi, ribelli, sediziosi, rei di lesa
maestà, perturbatori della tranquillità publica gli proscrive,
commanda che nissun gli dia aiuto e si congionga con loro, assolve la
nobiltà e popolo de' dominii loro dal giuramento della fedeltà,
includendo nel medesimo bando tutti quelli che persevereranno nella loro
ubedienza,
Al pontefice
fu molto molesta la causa della guerra che Cesare allegava, et a Cesare molto
molesta l'allegata dal pontefice, perché ciascuno di loro veniva ad impedir gli
fini dell'altro. Imperoché, quantonque il papa pretendesse d'aver fatto questo
manifesto acciò fosse dal popolo di tutto 'l cristianesmo implorato
l'aiuto divino per favorire le arme dell'imperatore, egli nondimeno et ogni
persona di giudicio molto bene conobbero questo essere fatto per notificar a
tutto 'l mondo et alla Germania che quella era guerra di religione; il che fu
anco dagli imprudenti conosciuto poco dopo, perché fu publicata la lettera da
lui scritta a' svizzeri, della quale si è di sopra parlato, mandando
copia de' capitoli medesimi del contrattato col Madruccio. Il fine del
pontefice, in publicar il contrario di quello che l'imperatore faceva, era perché
ben voleva la depressione de' protestanti, ma non con aummento delle cose di
Cesare; per implicargli con equilibrio pensava di necessitare tutti i
professori della nuova religione ad unirsi contra lui. Certo è che
l'azzione del papa fu di qualche impedimento a' dissegni di Cesare; imperoché,
avendo egli ricercato i medesimi svizzeri a continuare la lega che avevano con
la casa d'Austria e Borgogna e non aiutare i suoi ribelli, gli evangelici
risposero voler essere prima certi che la guerra non fosse per causa di
religione: cosí avvenne che non ancora era principiata la guerra e già
erano gettati in campo semi di discordia tra quei prencipi nuovamente
collegati.
I potentati
d'Italia restarono stupefatti e desideravano nel papa la solita sua prudenza di
tener la guerra lontana d'Italia et i prencipi oltramontani in equilibrio di
forze, il qual in un punto stesso aveva operato cosa contraria ad ambidoi
questi fini. Imperoché, se l'imperatore avesse soggiogata la Germania, restava
l'Italia a sua discrezione, senza che la Francia bastasse ad opporsi a tanta
potenza; se anco l'imperatore soccombeva, era manifesto l'ardore de' tedeschi
di passarsene in Italia. E forse queste raggioni, passando per mente al papa,
lo persuasero, conclusa la lega, ad assicurarsi, contrapesando la Germania con
l'imperatore.
[Cesare vuole che sossista il concilio]
Ma Cesare,
oltre il disgusto ricevuto per il giubileo, entrò anco in sospetto che
il papa, ottenuto il fine suo di muover guerra a' protestanti, non procurasse
la dissoluzione del concilio sotto pretesto di differirlo dopo la guerra
finita, e sotto colore di pericoli per le arme che i protestanti preparavano in
Svevia. Sapeva questa esser la mira di tutta la corte negoziata con lui per 25
e piú anni; sapeva la volontà de' vescovi congregati in Trento, eziandio
de' suoi, esser inclinata all'istesso per i patimenti e disaggi, temeva che, se
la separazione fosse seguita, i luterani se ne fossero valsi con dire che fosse
stato congregato a fine di trovare pretesto di far loro la guerra, et i
catolici di Germania pensassero che, deposti gli interessi della religione e
della riforma, egli mirasse solo a soggiogare la Germania. Dubitò anco
che, seguendosi a trattare le materie controverse, come già s'era fatto
del peccato originale et era avisato che si divisava fare della
giustificazione, gli potesse esser impedita qualche composizione che s'avesse
potuto fare, dando speranza alle città che sarebbono udite le loro
raggioni, per separargli da' prencipi della lega. Vedeva chiaro esser necessario
che il concilio restasse aperto, ma attendesse alla riforma solamente; ma
difficile ad ottenerlo, se non avendo il papa congionto in questo. Però
spedí in diligenza a certificarlo che averebbe posto tutto lo spirito e le
forze principalmente a far che Trento fosse sicuro, che non dubitasse,
quantonque andasse fama d'esserciti protestanti in Svevia; che era ben
necessario mantener il concilio per ovviare alle detrazzioni e calunnie che
contra ambidoi sarebbono disseminate se si dissolvesse; lo pregava efficacemente
ad operare sí che restasse aperto e le cose controverse non fossero trattate,
essendo sua ferma intenzione di costringer i suoi aderenti protestanti con
l'autorità, e gli inimici con le arme ad intervenirvi e sottoporsi; ma
tra tanto non bisognava metter impedimento a questo ottimo dissegno, serrando
loro la porta con decreti contrarii fatti in assenza; che questo non poteva
andar longo, sperava vederne il fine questa state; però si contentasse
operare che si trattasse della riforma per allora, o pur, se si trattasse della
religione, si toccassero solo cose leggieri e che, definite, non offendessero
li protestanti. Ordinò anco che l'istesso ufficio fosse fatto
dall'ambasciatore suo in Trento co' legati; e perché era informato che Santa
Croce era inclinato alla dissoluzione in qualonque modo, commise
all'ambasciatore che con lui facesse passata a dirgli che, se lui avesse
operato alcuna cosa contra la mente di Sua Maestà in questo, l'averebbe
fatto gettar nell'Adice; il che fu anco fatto publico a tutti e scritto dagli
istorici di questo tempo.
Il pontefice,
se ben averebbe voluto vedersi libero dal concilio, e da tutta la corte fosse
desiderato l'istesso, giudicò necessario compiacer Cesare in tenerlo
aperto e non trattare le controversie; ma l'attender alla sola riforma non gli
poté piacere né a lui, né a' cortegiani. Però scrisse a' legati che non
lasciassero dissolvere l'adunanza, che non facessero sessione sin che da lui
non fosse ordinato, ma trattenessero i prelati et i teologi con fare congregazioni,
e con quelle occupazioni et essercizii che meglio fosse loro parso. Ma in
Trento a' 25 fu solennemente publicato il giubileo in presenza de' legati e di
tutto 'l concilio; accioché si potesse attendere a' digiuni et altre opere di
penitenza, secondo il prescritto della bolla, fu differita la sessione sino al
tempo che fosse intimata, e le congregazioni intermesse per 15 giorni.
[La mossa d'armi turba il concilio]
In questo
tempo medesimo s'accostò l'essercito de' protestanti al Tirol per occupar
i passi alle genti che d'Italia dovevano passare all'aiuto dell'imperatore, e
da Sebastiano Schertellino fu presa la Chiusa; perilché quel contado si pose
tutto in arme per impedirgli il progresso, e Francesco Castelalto, che era a
guardia del concilio, andò esso ancora in Ispruc, e munita quella
città per prevenire l'occupazione de' passi, si pose con la sua gente
Ma se ben
riuscí vano il tentativo de' protestanti e le cose del Tirol restarono in
sicuro, che da quel canto non rimanesse dubio, Trento andò in confusione
per il numero grande de' soldati che continuamente d'Italia in Germania
passava, quale, secondo le convenzioni della lega, era in tutto al numero di
12000 fanti e 500 cavalli, oltra 200 del duca di Toscana e 100 del duca di
Ferrara. Erano condotti da tutti i famosi capitani d'Italia, sotto Ottavio
Farnese, general capitano, et Alessandro Farnese, cardinale legato, fratelli,
ambi al pontefice nepoti di figlio, e 6000 spagnuoli, soldati proprii di
Cesare, tratti di Napoli e Lombardia; e mentre durò il passaggio de'
soldati, che fu sino a mezo agosto, se ben non s'intermessero affatto le
publiche azzioni conciliari, si fecero però meno frequenti e meno
numerose. Ma accioché i vescovi e teologi avessero trattenimento, il cardinale
Santa Croce teneva in casa propria ridozzione de' letterati, dove si parlava delle
cose medesime, ma in modo famigliare e senza ceremonie.
Publicarono
in questo tempo i protestanti collegati contra Cesare una scrittura inviata a'
loro sudditi, piena di maledicenze contra il pontefice romano, chiamandolo
Anticristo, istromento di Satan, imputandolo che per i tempi passati avesse
mandato attaccar fuoco in diversi luoghi di Sassonia, che ora fosse autore et
instigatore della guerra, che avesse mandato in Germania per avvenenare i pozzi
et acque stagnanti, avvertendo tutti a star diligenti per prender e punire quei
venefici; la qual cosa però pochissimi riputavano verisimile et era
stimata una calonnia.
Arrivata la
gente del papa nel campo che si ritrovava in Landisuth il dí 15 agosto, Cesare
diede il collar del Tosone ad Ottavio, suo genero, che gli aveva donato nella
celebrazione dell'assemblea di quell'ordine che tenne il dí di sant'Andrea, e
vidde la mostra delle genti del pontefice con molta approbazione e contento suo
d'aver il fiore della milizia italiana; e nondimeno li fini del pontefice e imperatore,
diversi, producevano occasioni di disgusti. Voleva il cardinale Farnese portare
la croce inanzi come legato dell'essercito, e cosí aveva ordine dal pontefice
di fare, publicando anco indulgenze nel modo per i tempi passati solito farsi
nelle cruciate, dicchiarando che quella era guerra della Chiesa catolica;
nissuna delle qual cose poté ottenere dall'imperatore, il qual aveva per fine
mostrar tutto il contrario, per dar trattenimento a' prencipi luterani che seco
erano, et acciò le città non s'ostinassero contra lui per quella
causa. Il cardinale, vedendo non poter star nel campo in altra qualità
con degnità del papa e sua, fermatosi in Ratisbona fingendosi ammalato,
aspettava risposta dall'avo, quale aveva del tutto avisato.
Poste da
tutte due le parti le genti e le arme in ponto, quantonque ambidue avessero
grosso essercito e si constringessero l'un l'altro presentandosi anco la
battaglia, ciascuno quando vedeva il vantaggio proprio, et occorressero all'uno
o all'altro molte buone occasioni d'acquistar qualche notabil vittoria,
nondimeno dal canto de' protestanti non furono abbracciate per esserle genti
commandate dall'elettore dal lantgravio, con pari autorità, governo
negli esserciti sempre di pessima riuscita; e Cesare ciò conoscendo, per
restar superiore senza sangue e per non dar a' nemici occasione di regolar
meglio le cose loro, aspettava che il tempo gli mettesse in mano la certa
vittoria, in luogo di quella che poteva sperare con altretanto dubio,
esponendosi alla fortuna d'una giornata; onde non fu fatto fazzione di momento
e consequenza.
[In Trento si passa il tempo in dispute]
I legati in
Trento, liberati dalla soldatesca, regolarono secondo lo stile di prima le
congregazioni, ritornandole a' giorni ordinarii e pensando tra loro come andar
portando il tempo inanzi, secondo l'intenzione del papa: non trovarono altro
modo se non con mostrar che l'importanza della materia ricercava essatta
discussione, e con allongare le dispute de' teologi, dando adito, et aggregando
nuove materie, del che non era da temer mancamento d'occasione, atteso che, o
per la connessione, o per intemperanza d'ingegno, sempre i dottori passano
facilmente d'un ad altro soggetto. Consegliarono anco di fomentar le differenze
e varietà d'opinioni, cosa di facil riuscita, cosí per la naturale
inclinazione dell'uomo di vincere nelle dispute, come perché nelle scole,
massime de' frati, la sovverchia fermezza nell'opinione della propria setta
è molto accostumata. Il Monte, come di natura ingenua, teneva il negozio
per difficile, né si prometteva di poter servar constanza in cosí longa
dissimulazione, de quale si vedeva bisogno. Ma Santa Croce, di natura
melanconica et occolta, si offerí di pigliar in sé il carico di guidar il
negozio.
Adonque nella
congregazione de' 20 agosto, parendo che sopra i 25 articoli fosse tanto
parlato che bastasse per formare gli anatematismi, si propose di deputare padri
a comporgli; e furono nominati 3 vescovi e 3 generali, e primo di tutti il
Santa Croce, e fatta una modula de' canoni e proposta per discutere nelle
congregazioni seguenti, ritornarono le medesime dispute della certezza della
grazia, delle opere morali de' infedeli e peccatori, del merito de congruo,
dell'imputazione, della distinzion della grazia e carità, e si
parlò con maggior efficacia dalli interessati nelle opinioni, aiutando
il cardinale gli affetti con mostrare che le materie erano importanti, che era
necessario ben discuterle, e che senza la risoluzione di quelle era impossibile
far buona deliberazione. La sola controversia della certezza della grazia
essercitò molti giorni i disputanti, et ostinò e divise in due
parti non solo i teologi, ma anco i prelati. Non però fu resa la
questione chiara per le dispute, anzi piú oscurata.
Nel
principio, come al suo luogo detto abbiamo, una parte diceva che la certezza
d'aver la grazia è presonzione, l'altra che sí può averla
meritoriamente. I fondamenti de' primi erano che san Tomaso, san Bonaventura et
il commune de' scolastici cosí hanno sentito, causa perché la maggior parte de'
dominicani era nell'istessa openione. Oltre l'autorità de' dottori,
aggiongevano per raggioni non aver Dio voluto che fosse l'uomo certo,
acciò non si levasse in superbia et estimazione di sé medesimo,
acciò non si preferisse agli altri, come farebbe a' manifesti peccatori
chi si conoscesse giusto; ancora si renderebbe il cristiano sonnolente e
trascurato e negligente ad operare bene. Per questi rispetti dicevano
l'incertezza esser utile, oltre che meritoria, perché è una passione
d'animo che lo affligge, la qual sopportata cede a merito. Adducevano anco
luoghi della Scrittura: di Salomone, che l'uomo non sa se sia degno d'odio o
amore; della Sapienza, che commanda non esser senza timore del peccato
perdonato; di san Pietro, che s'attendi alla salute con timore e tremore; di
san Paolo, che disse di sé medesimo: «Quantonque la mia conscienza non
m'accusi, non però mi tengo giustificato». Queste raggioni e testimonii,
insieme con molti luoghi de' padri, erano portati et amplificati, massime dal
Seripando, dal Vega e dal Soto.
Ma il
Catarino col Marinaro avevano altri luoghi de' medesimi padri in contrario, il
che ben mostrava che in questo particolare avessero parlato per accidente, come
le occasioni facevano piú a proposito, ora per sollevar i scrupolosi, ora per reprimer
gl'audaci; però si restringevano all'autorità della Scrittura.
Dicevano che a quanti si legge nell'Evangelio Cristo aver rimesso i peccati, a
tutti disse: «Confidati che i peccati sono perdonati», e sarebbe
assordità che Cristo avesse voluto porger occasione di temerità e
superbia; e se fosse utile o merito, che egli avesse voluto privar tutti di
quello. Che la Scrittura ci obliga a render a Dio grazie della nostra
giustificazione, le quali non si possono rendere se non sapiamo d'averla ottenuta,
e sarebbe inettissimo et udito come impertinente chi ringraziasse di quello che
non sa se gli sia donato o no. Che san Paolo apertamente asserisce la certezza,
quando raccorda a' corinti di sentire che Cristo è in loro se non sono
reprobi; e quando dice che abbiamo ricevuto da Dio un spirito per saper quello
che da Sua Divina Maestà ci è stato donato; e piú chiaramente che
lo Spirito Santo rende testimonianza allo spirito nostro che siamo figli di
Dio; et è gran cosa d'accusar di temerità quelli che credono allo
Spirito Santo che parla con loro, dicendo sant'Ambrosio che lo Spirito Santo
mai parla a noi, che non ci faccia insieme saper che egli è desso che
parla. Appresso questo aggionse le parole di Cristo in san Giovanni: «Che il
mondo non può ricever lo Spirito Santo, perché non lo vede, né conosce,
ma che i discepoli lo conosceranno, perché abitarà in loro et in loro
sarà». Si fortificava il Catarino alla gagliarda con dire esser
un'azzione da sognatore il defendere che la grazia sia ricevuta volontariamente,
non sapendo d'averla, quasi che a ricever una cosa volontariamente non sia
necessario che il ricevitor spontaneo sappia che gli è data, che
realmente la riceve e, dopo ricevuta, che la possede. La forza di queste
raggioni fece prima retirar alquanto quelli che la censuravano di
temerità e condescender a conceder che si potesse aver qualche
congettura, se ben non certezza per ordinario; condescendendo anco a dar
certezza ne' martiri, ne' nuovamente battezati et a certi per special
rivelazione, e da congiettura si lasciarono anco condur a chiamarla fede
morale; et il Vega, che nel principio admetteva sola probabilità, vinto
dalle raggioni et entrato poi a favorire la certezza, per non parer che alla
sentenzia luterana si conformasse, diceva esservi tanta certezza che escludi
ogni dubio e non può ingannare; quella però non essere fede
cristiana, ma umana et esperimentale; e sí come chi ha caldo è certo
d'averlo e senza senso sarebbe quando ne dubitasse, cosí chi ha la grazia in
sé, la sente e non può dubitarne per il senso dell'anima, non per
rivelazione divina. Ma gli altri defensori della certezza, costretti dagli
avversarii a parlar chiaro se tenevano che l'uomo potesse averla o pur anco se
fosse a ciò tenuto e se era fede divina o pur umana, si ridussero a dire
che essendo una fede prestata al testimonio dello Spirito Santo, non si poteva
dire che fosse in libertà, essendo tenuto ciascuno a credere alle
rivelazioni divine, né si poteva chiamare fede se non divina.
Et angustiati
dall'obiezzione che, se quella è fede non ugual alla catolica, non
esclude ogni dubio; se uguale, adonque tanto debbe il giusto credere d'essere
giustificato, quanto gli articoli della fede, rispondeva il Catarino che quella
era fede divina di ugual certezza et escludente ogni dubio, cosí ben come la
catolica, ma non essere catolica essa; asseriva esser fede divina et escludere
ogni dubitazione quella che ciascuno presta alle divine rivelazioni fatte a sé
proprio; ma quando quelle sono dalla Chiesa ricevute, allora è fatta
fede universale, cioè catolica, e che sola questa risguarda gli articoli
della fede, la quale però nella certezza e nella esclusione del dubio
non è superiore alla privata, ma la eccede solo nell'universalità;
cosí tutti i profeti, delle cose da Dio rivelategli, aver prima avuta fede
privata, delle quali medesime, dopo ricevute dalla Chiesa, hanno avuto fede
catolica. Questa sentenzia alla prima udita parve ardua, et i medesimi aderenti
al Catarino, che erano tutti i carmelitani, perché Giovanni Bacon, loro
dottore, fu di quell'opinione, et i vescovi di Sinigaglia, Vorcestre e Salpi,
al principio mal volontieri passavano tanto inanzi; ma poi, pensata e discussa
la ragione, è maraviglia come da parte notabile de' prelati fu ricevuta,
sgridando il Soto che fosse troppo a favore de' luterani, e defendendo gli
altri che non sarebbe da censurare Lutero, se avesse detto che dopo la
giustificazione segue quella fede, ma ben perché dice che quella è la
fede che giustifica.
Alle raggioni
dell'altra parte rispondevano che non si debbi attendere li scolastici, quali
hanno parlato fondati sopra la ragione filosofica, che non può dar
giudicio de' moti divini; che l'autorità di Salomone non era in quel
proposito, poiché dicendo: «Nissun potere saper se è degno d'amore o
d'odio», applicandola qui, concluderebbe che il sceleratissimo peccatore con
perservanza non sa d'esser in disgrazia di Dio; che il detto della Sapienza
meno si può applicare e la tradozzione rende inganno, perché la voce
greca ilasmòs non significa peccato perdonato, come è
stata tradotta, ma espiazione o perdono, e le parole del Savio sono
un'admonizione al peccatore di non aggiongere peccato sopra peccato per troppo
confidenza del perdono futuro, non del passato; che non bisognava sopra un
errore dell'interprete fondar un articolo della fede (cosí in quel tempo li
medesimi che avevano fatto autentica l'edizione volgata parlavano di quella; il
che anco potrà ogni uno osservare da' libri stampati da quelli che
intervennero al decreto dell'approbazione); dicevano che l'operare con timore e
tremore è frase ebrea che non significa ambiguità, ma riverenza,
perché timor e tremor usano i servi verso i patroni, eziandio quando da essi
sono commendati e sanno esser in grazia loro; che il luogo di san Paolo faceva
a favore, quando avesse parlato della giustificazione, perché dicendo: non sono
conscio di mancamento, né per ciò son giustificato, inferirebbe: «ma son
giustificato per altro», e cosí proverebbe la certezza; nondimeno il vero senso
essere che san Paolo parla del mancamento nell'ufficio del predicare e dice:
«la mia conscienza non m'accusa d'aver in cosa alcuna mancato, non però
ardisco dire d'aver intieramente sodisfatto, ma tutto riservo al divino
giudicio».
Chi non
avesse veduto le memorie scritte da quei che ebbero parte in queste dispute e
quello che mandarono alla stampa, non crederebbe quanto fosse sopra questo
articolo disputato e con quanto ardore, non solo da' teologi, ma anco da'
vescovi, parendo a tutti intenderla et aver per sé la verità; in modo
che Santa Croce si vidde avere piú bisogno di freno che di sproni, e con
frequente procurare di passar ad altro e divertire quella controversia,
desiderava metterci fine. Due volte fu proposto in congregazione de' prelati di
tralasciare quella questione, come ambigua, longa e molesta; con tutto
ciò vi tornavano, attratti dall'affetto. Pur finalmente il cardinale,
col mostrar che si era parlato assai e che conveniva ripensare le cose dette
per risolversene piú maturamente, ottenne che si parlasse delle opere
preparatorie e della osservanza della legge; con qual occasione fu introdotta
da molti la materia del libero arbitrio, e dal cardinale non fu trascurata, ma
propose se pareva ben trattare insieme anco quel particolare, poiché tanto
connesso appariva, che non si sapeva come trattarlo separatamente. Adonque
furono deputati prelati e teologi a raccogliere gli articoli dalle opere de
luterani per sottoporli alla censura.
[Sono formati gli articoli de' luterani sopra
il libero arbitrio]
Gli articoli
furono:
1 Dio
è total causa delle opere nostre, cosí buone, come cattive, et è
cosí propria opera di Dio la vocazione di Paolo, come l'adulterio di David e la
crudeltà di Manlio et il tradimento di Giuda.
2 Nissun ha
potestà di pensare male o bene, ma tutto avviene di necessità
assoluta, et in noi non è libero arbitrio, ma l'asserirlo è una
mera finzione.
3 Il libero
arbitrio dopo il peccato d'Adamo è perduto, et è cosa di solo
titolo, e mentre fa quello che è in sua potestà, pecca mortalmente,
anzi è cosa finta e titolo senza cosa soggetta.
4 Il libero
arbitrio è solamente nel far il male, ma non ha potestà di far il
bene.
5 Il libero
arbitrio mosso da Dio non coopera in alcun conto e segue come un istromento
inanimato, overo un animale irrazionale.
6 Che Dio
converte quei soli che gli piace, ancorché essi non voglino e recalcitrino.
Sopra i doi
articoli primi si parlò piú in forma tragica che teologica: che la
dottrina luterana era una sapienza frenetica; che la volontà umana, come
è formata da loro, sarebbe una mostruosità; che quelle parole
«cosa di solo titolo e titolo senza soggetto» sono portentose; che l'openione
è empia e blasfema contra Dio; che la Chiesa l'ha condannata contra i
manichei, priscillianisti et ultimamente contra Abailardo e Vigleffo, e che era
una pazzia contra il senso commune, esperimentando ogni uomo la propria
libertà; che non merita confutazione, ma, come Aristotele dice, o
castigo o prova esperimentale. Che i medesimi discepoli di Lutero s'erano
accorti della pazzia e, moderando l'assordità, dissero poi esservi
libertà nell'uomo in quello che tocca le azzioni esterne politiche et
economiche e quanto ad ogni giustizia civile, le quali è sciocco chi non
conosce venire dal conseglio et elezzione, restringendosi a negar la
libertà quanto alla sola giustizia divina.
Il Marinaro
disse che, sí come il dire nissun'azzione umana esser in nostra potestà
è cosa sciocca, cosí non è minor pazzia il dire che ogni una vi
sia, esperimentando ogni uno di non aver tutti gli affetti in propria
potestà; e l'istesso esser il senso delle scole, che dissero: ne' primi
moti non siamo liberi, la qual libertà avendo i beati, perché essi hanno
dominio anco sopra i primi moti, esser cosa certa che qualche libertà è
in loro, che non in noi. Il Catarino, seguendo l'openione sua, che senza
special aiuto di Dio non poteva l'uomo operare bene morale, diceva che in
questo si poteva dire non essere libertà, e però il quarto
articolo non era da dannarsi cosí facilmente. Il Vega, dopo aver parlato con
tanta ambiguità che esso stesso non s'intendeva, concluse che tra la
sentenzia de' teologi e de' protestanti non vi era piú differenza veruna,
perché concludendo al presente questi una libertà alla giustizia
filosofica e non alla sopranaturale et alle opere esterne della legge, non alle
interne e spirituali, tanto precisamente è come dire con la Chiesa che
non si può esseguire le opere spirituali spettanti alla religione senza
l'aiuto di Dio. Se ben egli diceva che si debbe metter ogni studio per la
concordia, non però era gratamente sentito, parendo in certo modo
pregiudicio che alcuna delle differenze si potesse riconciliare, e costumavano
di dire che questa era cosa da colloquii, voce abominata, come che per quella
fosse usurpata da' laici l'autorità che è propria de' concilii.
Nacque tra
loro una gran disputa se il credere e non credere sia in potestà umana.
I francescani lo negavano, seguendo Scoto, qual vuol che, sí come dalle
dimostrazioni per necessità nasce la scienza, cosí dalle persuasioni
nasca per necessità la fede, e che essa è nell'intelletto, il
quale è agente naturale e mosso naturalmente dall'oggetto. Allegavano
l'isperienza che nissun può credere quello che vuol, ma quello che gli
par vero, soggiongendo che nissun mai sentirebbe il dispiacere, se potesse
credere di non averlo. I dominicani dicevano che niente è piú in
potestà della volontà che il credere, e per sola determinazione e
risoluzione della volontà l'uomo può credere che il numero delle
stelle sia pari, se cosí vorrà.
Sopra il terzo
articolo, se per il peccato il libero arbitrio si perdette, essendo addotte
molte e molte autorità di sant'Agostino che espressamente lo dicono, né
potendosi in altra maniera sfugire, il Soto inventò il modo con dire che
la vera libertà è equivoca, potendo derivare overo dal nome
libero, overo dal verbo liberare; che nel primo senso s'oppone alla
necessità e nel secondo s'oppone alla servitú, e che quando disse
sant'Agostino che il libero arbitrio è perduto, non altro volse inferire
se non che è fatto servo del peccato e del diavolo; differenza che non
fu penetrata, perché anzi per ciò il servo non è libero, perché
non può fare la volontà sua, ma è costretto di seguire
quella del padrone, e, secondo quel suo parere, non si poteva biasmare Lutero
d'aver intitolato un libro De servo arbitrio.
Il quarto
articolo a molti parve sciocco, quali dicevano che libertà s'intende una
potestà ad ambidoi i contrarii; però non si poteva dire che vi
sia la libertà al male, se non è anco al bene. Ma questi furono
fatti riconoscere con avvertirgli che i santi in cielo e gli angeli beati sono
liberi alla parte solo del ben, però non era inconveniente che altri
potessero essere liberi alla sola parte del fare male.
Nell'essaminar
il quinto e sesto articolo del consenso che il libero arbitrio presta
all'inspirazione divina, overo grazia preveniente, non solo i francescani e
dominicani furono d'openione diversa, contendendo quelli che, potendo la
volontà da sé medesima prepararsi, tanto piú è in sua
libertà d'accettar o rifiutare la divina prevenzione, quando Dio gli
porge aiuto, inanzi che usi le forze della natura, e negando i dominicani che
le opere precedenti la vocazione siano veramente preparatorie e dando
perciò sempre il primo luogo a Dio. Fu nondimeno tra essi dominicani contrasto,
deffendendo il Soto che, se ben l'uomo non può acquistar la grazia senza
l'aiuto di Dio speciale preveniente, nondimeno in certo modo la volontà
sempre può contrastarvi e ricusarlo, e, quando lo riceve, è
perché presta il suo assenso e cosí vuole; se non si volesse il nostro assenso,
non vi sarebbe causa perché tutti non fossero convertiti; perché, secondo
l'Apocalipsi, Dio sta sempre alla porta e batte, et è detto de' padri,
fatto anco volgare, che Dio dà la grazia ad ogn'uno che la vuole; e perché
la Scrittura divina sempre ricerca da noi questo consenso, che il dir
altrimente è levar la libertà della volontà e dire che Dio
usi violenza.
In contrario,
dicendo fra Aloisio Cataneo che due sorti di grazia preveniente, secondo la
dottrina di san Tomaso, Dio operava nell'animo: l'una sufficiente, l'altra
efficace; alla prima può la volontà e consentire e repugnare, ma
alla seconda non già, che la contradizzione non comporta che alla
efficacia sia repugnato. Allegava per pruova luoghi di san Giovanni e di san
Paolo et esposizioni di sant'Agostino molto chiare; rispondeva che aponto di
qua nasce che tutti non sono convertiti, perché tutti non sono efficacemente
prevenuti; che il timor di offendere il libero arbitrio è stato da san
Tomaso levato, il qual disse che sono le cose mosse violentemente, quando da
causa contraria, ma dalla causa sua nissuna è mossa per violenza, et
essendo Dio causa della volontà, tanto è che sia mossa da Dio,
quanto da se stessa; e condannava anzi rideva del modo di parlar de' luterani,
che la volontà segue, come un inanimato o irrazionale, perché, essendo
razionale di natura, mossa dalla sua causa che è Dio, è mossa
come razionale, e come razionale segue; e similmente che Dio converte, se ben
non vogliano o ricalcitrino; perché è contradizzione che un effetto
ricalcitri alla sua causa; poter avvenire ben che Dio efficacemente converta
uno che altre volte prima alla prevenzione sufficiente abbia ricalcitrato, ma
non che recalcitri allora, essendo consequente alla efficacia della mozione
divina una suavità nella volontà mossa.
Diceva Soto
ogni divina inspirazione per sé sola non essere piú che sufficiente, e quella a
cui il libero arbitrio ha consentito, da quel consenso acquistare l'efficacia;
non prestando consenso, restar inefficace, non per diffetto suo, ma per
diffetto dell'uomo; la qual opinione egli difese con gran timidità,
perché l'altro gli opponeva che la distinzione degli eletti alli reprobi
venirebbe dal canto dell'uomo, contra il perpetuo senso catolico che per la
grazia sono distinti i vasi della misericordia da quelli dell'ira; che
l'elezione divina sarebbe per le opere prevedute e non per il divino
beneplacito; che la dottrina de' padri e de' concilii africani e francesi
contra pelagiani sempre ha predicato che Dio gli fa volere, il che tanto vuol
dire quanto Dio ci fa consentire; perilché, mettendo in noi consenso, convien
attribuirlo all'efficacia divina; che non sarebbe piú obligato a Dio quello che
si salva, che quello che resta dannato, se da Dio fossero stati ugualmente
trattati. Ma con tutte queste raggioni la contraria opinione ebbe però
l'applauso universale, se ben molti confessavano che le raggioni del Cataneo
non gli parevano risolute, e dispiaceva loro che il Soto non parlasse
liberamente, né dicesse che la volontà consenta in certo modo che
può in certo modo repugnare, quasi che tra l'affermazione e la negazione
vi sia un certo modo intermedio. Gli turbava anco il parlar franco del Cataneo
e d'altri dominicani, che non sapevano distinguer quella opinione, che
attribuisce la giustificazione al consenso, dalla pelagiana, e che s'avvertisse
di non saltar oltra il segno per troppo volontà di condannare Lutero,
sopra tutto essendo stimato quell'argomento che la divina elezzione a
predestinazione sarebbe per opere prevedute, che nissun teologo admetteva; la
qual anco tirò a parlare della predestinazione.
[Sono estratti articoli da' libri de'
zuingliani sulla predestinazione]
Laonde fu
deliberato per la connessione cavar anco gli articoli della dottrina de' protestanti
in questa materia. Nelle opere di Lutero, nella confessione augustana e nelle
apologie e colloquii non fu trovata cosa da censurare, ma ben molte ne' scritti
de' zuingliani, da' quali furono tratti i seguenti articoli:
1 Della
predestinazione e reprobazione non vi è alcuna cosa dal canto dell'uomo,
ma la sola divina voluntà;
2 I
predestinati non possono dannarsi, né i reprobi salvarsi;
3 I soli
eletti e predestinati veramente si giustificano;
4 I
giustificati sono tenuti per fede a credere d'essere nel numero de'
predestinati;
5 I
giustificati non possono perdere la grazia;
6 Quelli che
sono chiamati e non sono del numero de' predestinati, mai ricevono la grazia;
7 Il
giustificato è tenuto a credere per fede di dover perseverare sino in
fine nella giustizia;
8 Il
giustificato è tenuto a credere per fermo che, cadendo dalla grazia,
ritornerà a riceverla.
Nell'essamine
degli articoli, nel primo aponto furono diverse le opinioni: i piú stimati tra
i teologi tennero l'articolo esser catolico, anzi il contrario eretico, perché
i buoni scrittori scolastici, san Tomaso, Scoto e la commune cosí sentono,
cioè che Dio, inanzi la fabrica del mondo, da tutta la massa del genere
umano, per sola e mera sua misericordia, ha eletto soli alcuni alla gloria, a'
quali ha preparato efficacemente i mezi per attenerla, che si chiama
predestinare; che il numero di questi è certo e determinato, né si
può aggiongervi alcuno: gl'altri, che non ha predestinato, non possono
dolersi, poiché a quelli ancora Dio ha preparato un aiuto sufficiente per
questo, se ben in fatti altri che gli eletti non veniranno all'effetto della
salute; per principalissima raggione allegavano che san Paolo a' Romani, avendo
fatta essemplare Iacob de' predestinati, Esaú de' reprobati, produce di
ciò il decreto divino pronunciato inanzi che nascessero, non per le
opere, ma per puro beneplacito. A questa soggiongevano l'essempio del medesimo
apostolo, che sí come il vaselaio di una stessa massa di loto fa un vaso ad uso
onorevole e l'altro ad infame, cosí Dio della medesima massa degl'uomini elegge
chi gli piace, tralasciati gli altri; e che san Paolo per prova di questo
portò il luogo dove Dio disse a Mosè: «Userò misericordia
a chi averò fatta misericordia et userò pietà a chi averò
avuto pietà»; e concluse esso apostolo che perciò non è di
chi vuole, né di chi corre, ma di chi Dio ha compassione, soggiongendo dopo che
Dio ha misericordia di chi vuole et indura chi vuole. Dicevano inoltre che per
questo rispetto il conseglio della divina predestinazione e reprobazione
è chiamato dal medesimo apostolo altezza e profondità di
sapienza, impenetrabile et incomprensibile. Aggiongevano luoghi delle altre
epistole, dove dice che niente abbiamo se non ricevuto da Dio, che non siamo da
noi sufficienti manco a pensar il bene, e dove rendendo la causa perché alcuni
si rivoltano dalla fede, restando altri fermi, quella disse essere, perché sta
fermo il fondamento di Dio, quale ha questo sigillo, cioè il Signore
conosce i suoi. Aggiongevano diversi passi dell'Evangelio di san Giovanni et
autorità di sant'Agostino innumerabili, perché quel santo in sua
vecchiezza non scrisse altro che a favore di questa dottrina.
Ma alcun
altri, se ben meno stimati, a questa opinione s'opponevano, intitolandola dura,
crudele, inumana, orribile et empia, come quella che mostrasse
parzialità in Dio, se senza alcuna causa motiva elegesse l'uno,
ripudiando l'altro, et ingiusta se destinasse alla dannazione gli uomini per
propria volontà, non per loro colpe et avesse creato una tanta
moltitudine per dannarla; dicevano che distrugge il libero arbitrio, poiché gli
eletti non potrebbono finalmente far male, né i reprobi bene; che mette gli
uomini nell'abisso della desperazione, col dubio che possano esser reprobati;
che dà ansa a' perversi di sperare sempre male, non curando di
penitenzia, col pensare che se sono degli eletti, non periranno, se de'
reprobi, è vano di fare bene, che non gli gioverà; confessavano
che non solo le opere non sono causa della divina elezzione, perché quella,
come eterna, è inanzi loro, ma che né anco le opere prevedute possono
mover Dio a predestinare, ma che per sua infinita misericordia vuole che tutti
si salvino et a tutti prepara sufficienti aiuti a questo fine, i quali ciascuno
uomo, essendo di libero arbitrio, o riceve o rifiuta, secondo che piú gli
piace; e Dio nella sua eternità prevede quei che riceveranno gli aiuti e
se ne valeranno in bene, e quei che gli ricuseranno, e questi reproba, quelli
elegge e predestina. Aggiongevano che altrimenti non si può veder la
causa perché Dio si doglia nella Scrittura de' peccatori, né perché essorta
tutti alla penitenza e conversione, se non gli dà efficaci mezi per
acquistarle; che quell'aiuto sufficiente, dagli altri inventato, è
insufficiente, poiché non ha mai avuto, seconda loro, né è per aver
effetto alcuno.
La prima
opinione, sí come ha del misterio et arcano, tenendo la mente umile e
rassignata in Dio, senza alcuna confidenza in se stessa, conoscente la
deformità del peccato e l'eccellenza della grazia divina, cosí questa
seconda era plausibile, popolare, a fomento della presonzione umana et
accommodata all'apparenza, aggradiva a' frati professori dell'arte di
predicare, piú tosto che di scienzia di teologia, et a' cortegiani pareva
probabile, come consenziente alle raggioni politiche: era sostentata dal
vescovo di Bitonto e quello di Salpi se ne fece molto parziale; i defensori di
questa, usando le raggioni umane, prevalevano gli altri, ma venendo a'
testimonii della Scrittura, soccombevano manifestamente.
Il Catarino,
tenendo il parer medesimo, per risolvere i luoghi della Scrittura che mettevano
tutti in travaglio, inventò una media opinione: che Dio, per sua
bontà, ha eletto alcuni pochissimi fuor degli altri, quali vuole
onninamente salvare et a' quali ha preparato mezi potentissimi, efficacissimi
et infallibili; gli altri tutti, quanto a sé, vuole che siano salvi, et a
questo effetto ha apparecchiato a tutti mezi sufficienti, restando in loro
libertà l'accettargli e salvarsi, overo, rifiutandogli, dannarsi; e di
questi esser alcuni che gli ricevano, e si salvano, se ben non sono degli
eletti, e di questi il numero è assai grande; gli altri, che ricusano
cooperare a Dio, quale gli vuole salvi, restano dannati. La causa della
predestinazione de' primi essere la sola divina volontà; degli altri,
l'accettazione e buon uso e cooperazione al divino aiuto preveduto da Dio; e
della reprobazione degli ultimi causa esser la previsione della loro perversa
volontà in rifiutarlo o abusarlo. Che san Giovanni e san Paolo e tutti i
luoghi della Scrittura allegati per l'altra parte, dove tutto è dato a
Dio e mostrano infallibilità, s'intendono solamente de' primi e
singolarmente privilegiati; e quanto agli altri, a chi è apparecchiata
la via commune, si verificano le ammonizioni et essortazioni e generali aiuti;
quali chiunque vuol udire e seguire si salva, e chi non vuol, per colpa propria
perisce. Di quei pochi, oltre il commune privilegiati, esser il numero
determinato e certo appresso Dio; di quell'altri, che per via commune si
salvano, come dependente dalla libertà umana, non esser da Dio
determinato, se non attesa la previsione delle opere di ciascuno. Diceva il
Catarino maravigliarsi molto della stupidità di quelli che dicono esser
certo e determinato il numero, e nondimeno aggiongano che gl'altri possono
salvarsi; che tanto è dire esser un numero determinato, il qual
però può crescere; e parimente di quelli che dicono i reprobati
aver un aiuto sufficiente per la salute, essendo però necessario a chi
si salva averne un maggiore, che è dire un sufficiente insufficiente.
Aggiongeva
che l'opinione di sant'Agostino sia inaudita inanzi a lui, che esso medesimo
confessa che non si troverà nelle opere d'alcuno che abbia scritto
inanzi i tempi suoi, che egli stesso non sempre l'ebbe per vera, anzi ascrisse
la causa della divina volontà a meriti, dicendo: Dio compassiona chi gli
piace et indura chi egli vuole; ma quella volontà di Dio non può
esser ingiusta, imperoché viene da occoltissimi meriti, e che ne' peccatori vi
è diversità e ve ne sono di quelli che, quantonque non
giustificati, sono degni della giustificazione; se ben dopo, il calore del
disputar contra pelagiani lo trasportò a parlare e sentire il contrario;
ma però in quei tempi stessi, quando fu udita la sua sentenzia, tutti i
catolici restarono scandalizati, come san Prospero gli scrisse. E Genadio
Massiliense, 50 anni dopo, nel giudicio che fa delli scrittori illustri, dice
essergli avvenuto, secondo il detto di Salomone, che nel troppo parlare non si
può fuggir il peccato, e che per il fallo suo, essaggerato dagli
inimici, non era ancora nata questione che partorisse eresia, quasi accenando
quel buon padre il suo timore di quello che ora si vede, cioè che per
quell'opinione sorga qualche setta e divisione.
La censura
del secondo articolo fu varia e consequente alle tre opinioni narrate. Il
Catarino aveva la prima parte per vera, attesa l'efficacia della divina
volontà verso i singularmente favoriti, ma la seconda falsa, attesa la
sufficienza dell'aiuto divino a tutti e la libertà umana in cooperarvi;
gli altri, che ascrivendo la causa della predestinazione in tutti al consenso
umano, condannavano l'articolo tutto intiero e quanto ad ambedue le parti; ma
gli aderenti alla sentenzia di sant'Agostino e commune de' teologi la
distinguevano che in senso composito fosse vera et in senso diviso dannabile;
sottilità che confondeva la mente a' prelati; e da chi la diceva, se ben
essemplificata con dire: chi si move non può star fermo, in senso
composito è vero, perché s'intende mentre che si move, ma in senso
diviso è falso, cioè in un altro tempo, non era ben inteso,
perché, applicando al proposito, non si può dire: il predestinato si
può dannare in un tempo che non sia predestinato, poiché è sempre
tale, e generalmente il senso diviso non ha luogo, dove l'accidente è
inseparabile dal soggetto. Per tanto credevano altri dicchiarare meglio dicendo
che Dio regge e move ciascuna cosa secondo la natura propria, la qual nelle
cose contingenti è libera e tale che, insieme con l'atto, sta la
potestà all'opposito, onde insieme con l'atto de predestinazione, sta la
potestà alla reprobazione e dannazione; ma questo era meno inteso che il
primo.
Gli altri
articoli furono censurati con mirabile concordia; per il terzo e sesto asserendo
esser stata perpetua opinione nella Chiesa che molti ricevono e conservano la
grazia divina per qualche tempo, i quali poi la perdono et in fine si dannano.
Era allegato l'essempio di Saul, di Salomone e de Giuda uno de' 12, cosa piú di
tutti evidente per le parole di Cristo al Padre: «Ho custodito in tuo nome
quelli che mi hai dato, de' quali non è perito se non il figlio del
perdimento». Aggiongevano a questi Nicolò, uno de' 7 diaconi, et altri
nella Scrittura prima commendati e poi biasimati, e per complemento d'ogni
raggione il caso di Lutero. Contra il sesto particolarmente consideravano che
quella vocazione sarebbe una derisione empia, quando chiamati, e niente
mancando dal canto loro, non fossero admessi; che i sacramenti per loro non
sarebbono efficaci, cose tutte piene d'assordità. Ma per censura del
quinto si portava l'autorità del profeta, apunto contraria in termini,
dicendo Dio: «Se il giusto abandonerà la giustizia e commetterà
iniquità, non mi raccorderò de' suoi benefatti». S'aggiongeva
l'essempio de David che commise l'omicidio et adulterio, di Maddalena, e di san
Pietro che negò Cristo; si ridevano delle inezzie de' zuingliani, che
dicessero insieme il giustificato non poter perder la grazia et in ogni opera
peccare. I doi ultimi furono dannati di temerità concordemente, con
eccezzione di quelli a chi Dio ha fatto special rivelazione, come a
Moisè et a' discepoli, a quali fu rivelato come erano scritti nel libro
del cielo.
[Si formano gli anatematismi, e sono fatti sí
larghi che servono solo a condannar i luterani, e non a decidere le dispute de'
catolici]
Finito
l'essamine de' teologi sopra il libero arbitrio e predestinazione e formati
anco gli anatematismi in quelle materie, furono aggregati a quei della
giustificazione a' luoghi opportuni; a' quali era opposto da chi in una parte,
da chi in una altra, dove pareva che vi fosse qualche parola che pregiudicasse
all'opinione propria. Ma Giacomo Cocco, arcivescovo di Corfú, considerò
che da' teologi erano censurati gli articoli con molte limitazioni et
ampliazioni, le quali conveniva inserire negli anatematismi, acciò non
si dannasse assolutamente proposizione, la quale potesse ricevere buon senso;
massime stante il debito dell'umanità di ricevere sempre
l'interpretazione piú benigna, e quello della carità di non pensare
male. Fu da diversi contradetto, prima per l'uso de' antichi concilii, quali
hanno dannato le proposizioni eretiche senza limitazione e nude, come sono
dagli eretici asserite, e massime che in materia di fede, per condannar un
articolo, basta abbia un senso falso che possi indur in errore gli incauti.
Parevano ambedue le opinioni raggionevoli. La prima, perché era giusto che si
sapesse che senso era dannato; la seconda perché non era degnità del
concilio limitare le proposizioni degli eretici. S'aggiongeva a questo che
tutti i canoni erano composti recitando l'opinione dannabile e soggiongendo per
causa della condanna i luoghi della Scrittura o la dottrina della Chiesa alla
quale s'oppone, pigliata la forma dal concilio d'Oranges et a similitudine di
quei del peccato originale nella sessione precedente. Ma riuscendo nella
maggior parte la lezzione longa e tediosa, e la mistura di verità con
falsità insieme e delle cose reprobate con le approbate, non facilmente
intelligibile, raccordò opportunamente il Sinigaglia rimedio ad ambidoi
gli inconvenienti, che era molto meglio separar la dottrina catolica dalla
contraria e far due decreti: in una tutto continuatamente dicchiarar e
confermar il senso della Chiesa, nell'altro condannar et anatematizare il
contrario. Piacque a tutti il raccordo e cosí fu deliberato, e prima formati
gli anatematismi separatamente, e poi data opera a formar l'altro decreto; e
chiamarono questo il decreto della dottrina, e quello i canoni, il qual stile
fu poi seguito anco nella seconda e terza ridozzione del concilio.
S'affaticò
sopra ogni credenza il Santa Croce per formar quei decreti, con evitare quanto
fu possibile d'inserirvi alcuna delle cose controverse tra scolastici, e quelle
che non poté tralasciare, toccandole in tal maniera che ogni una restasse
contenta; in ogni congregazione che si faceva avvertiva tutta quella che da
alcuna non era approvata e lo levava, overo racconciava secondo l'aviso, e non
solo nelle congregazioni, ma con ciascuno in particolare parlava, intendeva i
dubii di tutti et i pareri ricercava: variò con diversi ordini la
materia, mutò ora una parte, ora un'altra, in tanto che gli ridusse
nella forma nella quale sono, che a tutti piacque e da tutti fu approvata.
Certo è che sopra queste materie furono tenute congregazioni parte de'
teologi, parte de' prelati al numero di 100, e che dal principio del settembre
sino al fine di novembre non passò giorno che il cardinale non mettesse
mano in quello che prima era scritto e non facesse qualche mutazione; ebbe
avvertenza anco a cose minime. Resta la memoria delle mutazioni, de' quali ne
raccontarò qui 2 come per saggio delle molte che sarebbe noioso
rammemorare. Nel primo capo della dottrina, con assenso commune, fu prima
scritto che né i gentili per virtú della natura, né i giudei per la legge di
Moisè potevano liberarsi dal peccato; e perché tenevano molti che la
circoncisione rimettesse i peccati, presero sospetto che quelle parole
potessero pregiudicare all'opinione loro, quantonque in piú d'un luogo san
Paolo in termini formali abbia detto l'istesso. Per sodisfargli il cardinale in
luogo che diceva: «Per ipsam etiam legem Moysi», mutò e disse: «Per
ipsam etiam literam legis Moysi», et ogni mediocre intendente della teologia può
da sé giudicare quanto bene quella voce «literam» convenga in quel luogo. E nel
principio dell'ottavo capo non si contentarono quei della certezza della grazia
che si dicesse i peccati non esser rimessi all'uomo per la certezza della
remissione e perché si confidi in quella. Et il cardinale gli sadisfece
escludendo la certezza reale e costituendo in luogo di quella la iattanzia e la
confidenza in quella sola. Et in fine del capo può ogni uno chiaramente
vedere che la causa doveva esser resa con dire: «perché nissun può
sapere certamente d'aver acquistata la grazia di Dio»; ma per sodisfazzione
d'una parte convenne aggiongere «certezza di fede»; né bastando questa a'
dominicani, instarono che s'aggiongesse «catolica». Ma gli aderenti al Catarino
non contentandosi, in luogo di quelle parole «fede catolica», si disse: «fede,
la qual non può sottogiacere a falsità». Il qual modo
contentò ambe le parti, perché gli uni inferivano: adonque quella
certezza di fede che si può aver in ciò, può esser falsa e
per tanto incerta; gli altri inferivano che tal certezza non può avere
dubio di falsità per quel tempo che si tiene; ma per la mutazione che
può avvenire passando da stato di grazia a quello di peccato, può
diventar falsa, sí come tutte le verità di presente contingenti, ancorché
certissime et indubitatissime, con la mutazione delle cose sogette diventano
false; ma la fede catolica non solo è certa, ma anco immutabile, per
aver sogette cose necessarie o passate, che non ricevono mutazione.
E veramente,
considerando questi particolari, convien non defraudare il cardinale della lode
meritata, che sapesse dar sodisfazzione anco a' pertinaci in contrarie
opinioni, e quei che vorranno rendersi di ciò maggiormente certificati,
doveranno saper che, immediate dopo la sessione, fra Dominico Soto, principale
tra' dominicani, si pose a scrivere tre libri, che intitolò De natura
et gratia, per commentarii di questa dottrina, e con le sue esposizioni vi
trovò dentro tutte le opinioni sue. Et uscita quella opera, fra Andrea
Vega, piú stimato tra' francescani, diede in luce esso anco 15 gran libri per
commentarii sopra gli 16 capi di quel decreto, e lo interpretò secondo
l'opinione propria tutto; le qual 2 opinioni non solo hanno tra loro gran
diversità quasi in tutti gli articoli, ma, in molti, espressa et
evidente contrarietà. Et ambedue queste opere si viddero stampate l'anno
1548 e chi le leggerà, osservando che molto spesso dànno alle
parole del concilio sensi alternativi e dubiosi, si maraveglierà come
questi doi soggetti, i primi di dottrina e stima, che piú degli altri ebbero
parte in quello, non fossero conscii dell'unico senso e vero scopo della
sinodo: del quale avendo anco parlato diversamente quei pochi degli interessati
che dopo hanno scritto, non ho mai potuto penetrare se quell'adunanza
convenisse in un senso opur vi fosse solo unità di parole. Ma tornando
al cardinale, come il decreto fu approvato da tutti in Trento, la mandò
al pontefice, che lo diede a consultare a' frati et altri letterati di Roma, e
da tutti fu approvato per la medesima raggione, che ogni uno lo poté intendere
secondo il proprio senso.
[In materia di riforma vanamente si propone
l'articolo della qualità de' prelati; la residenza eccita contese:
discorso dell'origine di questa materia]
Ho narrato
tutto insieme quello che fu maneggiato in materia di fede per non dividere le
cose congionte: ma tra tanto qualche giorni anco fu trattato della riforma, et
in quelle congregazioni fu proposto di statuir le qualità requisite
nella promozione de' prelati maggiori et altri ministri della Chiesa. E furono
dette gravissime sentenzie con grand'apparato, ma il modo d'introdurne
l'osservanza non si trovò; perché dove i re hanno la presentazione, non
si vedeva con che legami astringergli; dove l'elezzione ha ancora luogo, i
capitoli sono di persone grandi e potenti; quanto al rimanente, tutte le
prelature sono di collazione del papa, e gli altri beneficii per piú di 2 terzi
reservati alla Sede apostolica, alla quale non è conveniente dare legge;
onde, dopo molti e lunghi discorsi, si concluse meglio esser il tralasciare
questa considerazione.
Non furono
manco in numero, né piú brevi i raggionamenti in materia della residenza, i
quali, se ben non terminarono in quella risoluzione che era necessaria e desiderata
da molti, nondimeno ebbero in questo tempo qualche confusione, e prepararono
materia ad altri. Per intelligenza delle qual cose è necessario
ripigliare questa materia dal suo principio.
I gradi
ecclesiastici non furono nell'origine loro instituiti come dignità,
preminenze, premii overo onori, sí come oggidí e da molti centinara d'anni gli
vediamo, ma con ministerii, carichi, detti con un altro nome da san Paolo
«opere», e da Cristo nostro Signore, nell'Evangelio, «operarii»; però non
poteva allora entrar in pensiero ad alcuno d'assentarsi dall'essequirgli in
persona propria; e se pur uno (il che rare volte occorreva) dall'opera si
retirava, non vi era raggione che titolo o emolumento alcuno gli restasse. E
quantonque fossero i ministerii di 2 sorti, alcuni che anticamente chiamavano
del Verbo, et al presente si dice di cura d'anime, et altri delle cose
temporali, per il vitto e servizio de' poveri et infermi, come erano le
diaconie et altre sobalterne opere, ugualmente tutti si tenevano ubligati a quel
servizio in propria persona, né mai alcuno averebbe pensato di servir per
sostituto, salvo che in brevissimo tempo per urgenti impedimenti, né meno
averebbe preso un altro carico che fosse d'impedimento a quello. Aumentata la
Chiesa, dove il popolo cristiano era numeroso e libero dalle persecuzioni,
altra sorte de ministri fu instituita per servire nelle adunanze
ecclesiastiche, cosí nel leggere le divine Scritture, come in altre fonzioni, a
fine d'eccitar la divozione. Furono anco instituiti collegii de ministri, che
in commune attendessero ad alcun carico, et altri, come seminarii, di onde
cavare ministri già instrutti. Questi de' collegii, non avendo carico
personale, poiché la congregazione tanto amministrava con un piú come con un
meno, alle volte o per causa di studio, o di maggior instruzzione, o per altra,
restavano assenti dalla Chiesa, chi per breve, chi per longo tempo, non
però tenendo titolo, né carica alcuna, né meno ricevendo alcun
emolumento; cosí san Gieronimo, prete antiocheno, ma senza cura particolare, e
Ruffino d'Aquileia, al modo stesso, e san Paolino, ordinato prete di
Barcellona, poco risedettero. Cresciuto poi il numero di questi,
degenerò in abuso, e gli fu dato nome de clerici vagabondi, perché erano
fatti con quel modo di vivere odiosi de' quali spesso si parla nelle leggi e Novelle
di Giustiniano; non però mai fu pensato di tener il titolo d'un ufficio
e goderne gli emolumenti, non servendo, se non dopo il 700 nella Chiesa
occidentale, quando i ministerii ecclesiastici hanno mutato stato, e sono fatti
gradi de dignità et onori, et anco premii per servizii prestati. E sí
come già nelle promozioni ecclesiastiche, considerato il bisogno della
Chiesa, si provedeva di persona atta a quel ministerio, cosí dopo, considerate
le qualità della persona, si provede di grado, degnità a
emolumento che gli convenga; dal che è nata l'essercitare l'opera et il
ministerio per sostituto. Questo abuso introdotto ha tirato per consequenza un
altro seco, cioè riputarsi disubligato non solo di ministrare, ma anco
di stare presente et assistere a quello che opera in suo luogo: e veramente,
dove non è eletta l'industria della persona per l'opera, ma è
provista di luogo e grado alla persona, non è raggione che sia astretta
ad operare per se stessa, né assistere all'operante. Il disordine era tanto
inanzi passato, che averebbe destrutto l'ordine clericale, se i pontefici
romani non avessero in parte ovviato, commandando che i prelati et altri
curati, quantonque per sostituti essercitassero il carico, fossero nondimeno
tenuti all'assistenza del luogo che chiamarono residenza; al che anco volsero
ubligare i canonici, non constringendo a questo gl'altri chierici beneficiati,
né di loro parlando, ma lasciandogli alla consuetudine, anzi abuso introdotto,
dal qual silenzio nacque che si riputarono disubligati; né a' pontefici
dispiacque quel volontario inganno, ben vedendo che terminerebbe in grandezza
della loro corte; e di qui venne la perniziosa e non mai a bastanza detestanda
distinzione de beneficii di residenza e non residenza, la quale è
seguita cosí nella dottrina, come nell'opera, senza nissun rossore
dell'assordità che seco apertamente porta, cioè che sia dato
titolo e salario senza obligazione; e per palliarla, anzi piú tosto farla apparire
piú vergognosa, avendo i canonisti una massima che convince l'assordità,
cioè ogni beneficio è dato per l'ufficio, [l']hanno esposto
intendendo per ufficio le preci orarie del breviario, sí che sia data
un'entrata di mille, di dieci mille e piú scudi per questo solo, acciò
si pigli in mano un breviario e legga con quanta velocità può la
lingua in sommessa voce, senza attender anco ad altro che alla prononcia delle
parole. Ma la distinzione de' dottori e la provisione de' pontefici romani
aummentarono in poco tempo l'abuso, imperoché, senza di quelle, alcuno pur de'
beneficiati semplici si sarebbe fatto conscienzia, che con quelle ogni uno ha
giustificato l'abuso per cosa lecita. E quanto a' curati, introdusse la
dispensa ponteficia, non mai negata a chi la ricerca in quel modo, che fa
impetrar ogni cosa a Roma, onde i soli poveri e quelli che ne ricevano commodo
risedevano, e l'abuso prima in minima parte per leggi ponteficie rimediato, per
le dispense non solo salí al colmo, ma si sparse anco fuori infettando la
terra. Dopo i moti della Germania nella religione, che diedero occasione di
parlare e desiderare riforma, ascrivendo ogni uno il male alla negligenza e
poca cura de' prelati, e desiderando vedergli al governo delle chiese,
detestando le dispense, cause dell'assenza, furono introdotti discorsi
dell'ubligazione loro, et alcuni uomini pii, fra quali frate Tomaso Gaetano
cardinale, affermarono l'obligo della residenza esser de legge divina: et
avvenne, come in tutte le cose occorre, che la passione precedente persuade l'opinione
piú rigida e l'ubligazione piú stretta e la disubligazione piú difficile,
quest'era dandogli vigor di legge divina. I prelati, vedendo il male, ma
desiderando che fosse iscusabile e di colpa leggiera, si diedero all'opinione
che non da Dio, ma dal pontefice erano ubligati, imperoché cosí la dispensa a
la taciturnità del papa gli salvava. Con queste previe disposizioni di
dottrina fu nel concilio proposta la materia, come si è detto; la quale
perché partorí controversia nel principio non molto grave, ma in progresso
maggiore, e nel fine, che fu negl'anni 1562 e 1563, grandissima, non è
stata fuori di proposito questa recapitolazione, né sarà il raccontare
qualche particolari occorsi.
Adonque, se
ben gl'articoli primieramente proposti non furono se non di stringer
maggiormente i precetti, aggiongerci pene e levare gli impedimenti e facilitare
l'essecuzione, e tutti concordavano, allegando persuasioni cavate dalla
Scrittura del Nuovo e Vecchio Testamento, e da' canoni de' concilii e dottrina
de' padri, et anco dagli inconvenienti che dal non resedere erano nati,
nondimeno la maggior parte de teologi e de' dominicani massime, passarono a
determinare che l'ubligazione fosse per legge divina. Frate Bartolomeo Caranza
e frate Dominico Soto, spagnuoli, erano autori piú principali; le raggioni piú
fondate che adducevano furono perché il vescovato era instituito da Cristo come
ministerio et opera, adonque ricerca azzione personale, che non può far
l'assente; che Cristo, descrivendo le qualità del buon pastore, dice che
metta la vita per il gregge, conosce le pecorelle per nome e camina inanzi
loro. Dall'altra parte i canonisti et i prelati italiani disputavano che
l'obligo fosse per legge ecclesiastica, allegando che mai si troverà
degli antichi alcuno non residente ripreso come transgressor della divina
legge, ma solo de' canoni. Che Timoteo, se ben vescovo efesino, piú tempo fu in
viaggio per ordine di san Paolo; che a san Pietro è detto che pasca le
agnelle, il che s'intende di tutte, e pur non può esser per tutto
presente: cosí può il vescovo adempire il precetto di pascere senza
resedere. Rispondevano anco alle raggioni contrarie, dicendo che le condizioni
del pastore da Cristo proposte non convengono ad altro che a lui proprio.
Fra Ambrosio
Catarino, se ben dominicano, era contrario agli altri; diceva che il vescovato,
quale è instituzione di Cristo, è uno solo, quello che ha il
papa: degli altri l'instituzione è del pontefice, il quale, sí come egli
parte la quantità et il numero delle pecorelle da pascere, cosí egli
prescrive anco il modo e la qualità. Perilché al papa sta ordinare a
ciascun vescovo che per se stesso o per sostituto attenda al gregge, sí come
glielo può assegnare e molto e poco, e privarlo anco della
potestà del pascere. Tomaso Campeggia, vescovo di Feltre, rispondeva in
un altro modo: che il vescovo, come san Gieronimo testifica, è
instituzione di Cristo, ma la divisione de' vescovati fu instituita dopo dalla
Chiesa; che Cristo a tutti gli apostoli diede cura di pascere, ma non gli legò
ad un luogo, come anco le azzioni apostoliche e de' discepoli loro mostrano
l'aver assegnato questa porzione del gregge ad uno e quella ad altro fu
instituzione ecclesiastica per meglio governare.
Queste cose
furono trattate con assai passione tra i vescovi: i spagnuoli non solo
aderivano, ma anco fomentavano et incitavano i teologi de iure divino,
avendo un arcano, che tra loro solo communicavano, d'aggrandire
l'autorità episcopale; imperoché se una volta fosse deciso che da Cristo
avessero la cura di reggere la loro chiesa, resterebbe anco deciso che da lui
hanno l'autorità perciò necessaria, né il papa potrebbe
restringerla. Questi dissegni erano subodorati dagli aderenti alla corte,
però, attesa l'importanza della cosa, essi ancora facevano animo a'
defensori della contraria. I legati giudicavano meglio ovviare al pericolo,
mostrando di non accorgersi, et a questo fine mirando, per allora dissero che
la materia era difficile et aveva bisogno di maggior essame; perché dove le
cose sono controverse tra li stessi catolici non è da venire a decisione
che danni una parte, per non far scisma et a fine di non seminare contenzioni,
per poter unitamente attendere a condannare i luterani: però ad un'altra
sessione era meglio differire la dicchiarazione, quo iure sia debita. Ad
alcuni pareva che bastasse rinovare i canoni e decretali vecchi in questa
materia, dicendo che sono assai severi, avendo la pena di privazione, et anco
raggionevoli, admettendo le legitime scuse; restava trovare via che non fossero
concesse dispense, e tanto era bastante. Altri sentivano che era necessario
eccitarla con nuove pene et attendere a levare gli impedimenti, che piú
importava, poiché, quelli levati, sarebbe la residenza seguita, e poco rilevava
di onde l'obligo venisse, purché fosse esseguito; che fatto questo, s'averebbe
potuto discutere meglio la materia. Alla maggior parte piacque che si facesse
l'un e l'altro; a che consentirono i legati con questo, che delle dispense non
si parlasse; ma per far sí che non fossero ricchieste, si levassero gli
impedimenti che provengono per le essenzioni; nel che non vi fu meno che dire e
che contendere tra quelli che tenevano ogni essenzione per abuso e quelli che
l'avevano per necessaria nella Chiesa, reprobando solamente gli eccessi.
[Discorso dell'antico governo della Chiesa e
dell'introduzzion delle dispense]
Testifica san
Gieronimo che ne' primi principii del cristianesimo le chiese erano come in
aristocrazia, rette per il commune conseglio del presbiterio, et a fine
d'ovviare alle divisioni che s'introducevano, fu instituito il governo
monarchico, dando tutta la sopraintendenza al vescovo, al quale tutti gli
ordini della chiesa ubedivano, senza che venisse ad alcuno piú pensiero di
sottrarsi da quel governo. I vescovi vicini, le chiese de' quali, per esser
sotto l'istessa provincia, avevano insieme commercio, essi ancora per sinodi si
reggevano in commune, e per facilitare piú il governo, attribuendo molto a
quello della città principale, gli deferivano come capo di quel corpo; e
per la communione piú ampia che tutte le provincie d'una prefettura tenevano
insieme, il vescovo della città dove il prefetto risedeva
acquistò certa superiorità per consuetudine: queste prefetture
essendo la città imperiale di Roma con le città suburbicarie, e
la prefettura d'Alessandria, che reggeva l'Egitto, Libia e Pentapoli;
d'Antiochia per la Soria et altre provincie d'Oriente; et in altre minori
prefetture, in greco chiamate eparchie, l'istesso era servato. Questo governo
introdotto et approvato dalla sola consuetudine che lo trovò utile, fu
stabilito dal I concilio niceno sotto Constantino, e per canone ordinato che si
continuasse; e tanto era lontana ciascuna dall'essimersi fuori dell'ordine che,
avendo il vescovo di Gierusalem molte onorevoli preminenze, forse per essere
luogo dove Cristo nostro Signore conversò in carne mortale e fu origine
della religione, il concilio niceno ordinò che quelle onorevolezze
avessero luogo, ma in maniera che non fosse niente detratto della
superiorità del metropolitano, che era il vescovo di Cesarea. Questo
governo, che nelle chiese orientali sempre è stato servato, nella latina
prese alterazione con occasione che, essendo fabricati numerosi e gran
monasterii retti da abbati di gran fama e valore, che per le virtú loro
conspicue facevano ombra a' vescovi, nacque qualche gara tra questi e quelli, e
gli abbati, per liberarsi da quegli incommodi, o reali o finti, per coprire
l'ambizione da sottrarsi dalla soggezzione debita, impetrarono da' pontefici
romani d'essere ricevuti sotto la protezzione di san Pietro, et immediate sotto
la soggezzione ponteficia; il che tornando molto a conto alla corte romana,
poiché chi ottiene privilegii, per conservarsegli è ubligato di
sostentare l'autorità del concedente, presto presto tutti i monasterii
furono essentati. I capitoli ancora delle catedrali, essendo per la maggior
parte regolari, co' medesimi pretesti impetrarono essenzione. Finalmente le
congregazioni cluniacense e cisterciense tutte intiere si essentarano, con
grand'aumento dell'autorità ponteficia, la qual veniva ad aver sudditi
proprii in ciascun luogo, diffesi e protetti dal papato, e scambievolmente
defensori e protettori. Da san Bernardo, che fu in quel tempo et in
congregazione cisterciense, non fu lodata l'invenzione, anzi ammoní di ciò
Eugenio III pontefice a considerare che tutti erano abusi, né si doveva aver
per bene se un abbate ricusava soggiacer al vescovo, et il vescovo al
metropolitano; che la Chiesa militante debbe pigliar essempio dalla trionfante,
dove mai nissun angelo disse: «Non voglio esser sotto l'arcangelo»; ma piú
averebbe detto quando fosse vissuto in tempi posteriori. Imperoché dopo, gli
ordini de' mendicanti passarono piú oltre, avendo non solo ottenuto essenzione
onnimoda dall'autorità episcopale generalmente dovunque fossero, ma anco
facoltà di fabricare chiese in qualonque luogo, et in quelle anco
ministrar i sacramenti. Ma in questi ultimi secoli s'era tanto inanzi
proceduto, che ogni prete privato con poca spesa s'impetrava un'essenzione
dalla superiorità del suo vescovo, non solo nelle cause di correzzione,
ma anco per poter esser ordinato da chi gli piaceva, et in somma di non
riconoscer il vescovo in alcuno conto.
Questo
essendo lo stato delle cose e ricchiedendo i vescovi rimedio, alcuni di loro
piú veementi ritornavano alle cose dette nelle congregazioni precedenti l'altra
sessione contro l'essenzione de' frati; ma i piú prudenti, avendo per tentativo
impossibile d'ottenere, stante il numero e grandezza degli ordini regolari et
il favore della corte, si contentarono di levar quelle de' capitoli e persone
particulari, e dimandarono che fossero rivocate tutte. Ma i legati con ufficii
particolari, considerandogli che non tutta la riforma si poteva per quella
sessione ordinare, che conveniva dare principio e lasciar anco la parte sua a'
tempi seguenti, gli fecero star contenti di levar essenzione solo nelle cose
criminali a' preti particolari e frati abitanti fuori di chiostro, et a'
capitoli, come quelle d'onde vengono inconvenienti maggiori, e le
facoltà di dare gl'ordini clericali a chi non risiede nella propria
diocese, con promissione che si seguirebbe a provedere gl'altri abusi
nell'altra sessione.
[Il papa, sdegnato contra Cesare, richiama il
suo nepote legato. Cesare si rende padrone della Germania]
Mentre in
Trento queste cose si trattano, il papa, ricevuto aviso dal cardinale Farnese e
considerato con quanto poca sua riputazione un legato apostolico stava in
Ratisbona mentre le sue genti erano in campo, lo ricchiamò: con lui
partí un buon numero de gentiluomini italiani della gente ponteficia. Al mezo
d'ottobre i doi esserciti si ritrovarono a Santhen tanto vicini, che solo un
picciol fiume era in mezo tra loro, e cosí stando Ottavio Farnese, mandato da
Cesare con le genti italiane e con altri tedeschi aggiontigli, prese Donavert,
quasi sugl'occhi dell'essercito nimico, il quale, non avendo fatto alcuna
impresa mentre s'era trattenuto in Svevia, se non tenere l'imperatore impedito,
al novembre fu costretto d'abandonar quel paese per una gran diversione fatta da'
boemi et altri della fazzione imperiale contra la Sassonia et Assia, luoghi de'
due capi protestanti, che si retirarono alla difesa delle cose proprie,
lasciando la Germania superiore a discrezione di Cesare, e fu causa che alcuni
prencipi e molte delle città collegate inclinarono ad accommodarsi con
lui, avendo onesta cauzione di tener la loro religione: ma egli non volle che
in scritta se ne facesse menzione, a fine che non paresse la guerra fatta per
quella causa, che sarebbe stato un offender quelli de' suoi che lo seguivano,
difficoltare la dedizione degli altri, et insospettire anco gli ecclesiastici
di Germania che speravano veder restituito il rito romano in ogni luogo; i
ministri suoi nondimeno davano parola a tutti che non sarebbono molestati nell'uso
della religione, scusando il padrone se per molti rispetti non poteva
sodisfargli di farne capitulazione, et egli operava in maniera che appariva ben
chiara la deliberazione sua di contentargli con la connivenza. In queste
dedizioni acquistò Cesare numerosa quantità d'artegliaria e
cavò dalle città per raggione di condanna molti danari alla somma
d'assai centenara di migliara, e, quel che piú di tutto importa, restò
assoluto patrone della Germania superiore.
Questa
felicità diede molta gelosia al pontefice e gli fece metter pensiero
alle cose proprie prima che tutta Germania fosse posta in obedienza. Le genti
sue sotto il nipote Ottavio erano molto diminuite in numero per i già
partiti col cardinale Farnese e per altri sfugiti alla sfilata per i disaggi.
Quel rimanente, al mezo di decembre, ritrovandosi l'essercito imperiale
allogiato vicino alla villa di Sothen, partí tutta per ordine del pontefice,
dal quale ebbe il nipote Ottavio commandamento di ritornare in Italia e dire al
suocero che, essendo finiti i sei mesi, il papa non poteva piú sostener tanta
spesa; che era finito il tempo dell'obligazione e ridotto ad effetto quello per
che la lega fu contratta, cioè ridotta la Germania in obedienza; con
gran querela dell'imperatore che fosse abandonato aponto nella
opportunità di far bene e quando piú l'aiuto gli bisognava; perché
niente era fatto, quando non fossero oppressi i capi, quali non si potevano dir
vinti per esser retirati alla difesa delli Stati proprii; da che, quando
fossero liberati, era da temere che ritornassero con maggiori forze et ordine
che prima. Ma il papa giustificava la raggione sua di non continuare nella lega
e la partita de' suoi con dire che non era fatto partecipe degli accordi fatti
con le città e prencipi, che non si potevano stabilire senza lui; e
massime che anco erano conclusi in molto pregiudicio della fede catolica,
tolerando l'eresia che si poteva esterminare; che egli non aveva, secondo i
capitoli della confederazione, participato degli utili della guerra, né de' danari
tratti dalle terre accordate; che l'imperatore si doleva di lui quando egli era
l'offeso e vilipeso, con danno anco della religione. Né contento di questo,
negò anco all'imperatore che potesse continuar a valersi de' danari
delle chiese di Spagna oltra i sei mesi: e quantonque i ministri di Cesare
facessero con lui replicati e potenti ufficii, mostrando che la continuazione
della causa per che furono concessi ricercasse anco che si continuasse la
concessione e che l'opera resterebbe vana e senza frutto, quando non si
conducesse al fine la guerra, non potero moverlo dalla risoluzione presa.
Successe anco
che, essendo nata una congiura pericolosa in Genova, che quasi ebbe effetto,
dalla famiglia Fiesca contro la Doria che seguiva le parti imperiali, ebbe l'imperatore
per certo che il duca di Piacenza, figlio del papa, ne fosse stato l'autore e
credette che dal papa venisse, e non si astenesse di aggiongere questa querela
alle altre. Il papa teneva per fermo che l'imperatore sarebbe occupato in
Germania per longo tempo e senza poterlo offendere con forze temporali, ma
temeva che, col far andar i protestanti al concilio, potesse eccitargli qualche
travaglio. Il rimedio di separare il concilio gli pareva troppo violento e
scandaloso, massime essendo stato 7 mesi in trattazione non publicata; venne in
parere di fare publicare le cose già digerite, poiché per quella
dicchiarazione o i protestanti averebbono ricusato andarvi, o andando sarebbono
costretti accettarla: nella quale voltandosi il cardine di tutte le controversie,
la vittoria sarebbe stata la sua; e quando non vi fosse altra raggione di
farlo, questo solo lo consegliava: che, desiderando l'imperatore che
s'astenesse da decidere le controversie, questo bastava per concludere esser
utile a lui il farlo, dovendo esser contrarii i consegli di chi ha contrarii
fini. Vedeva ben che l'imperatore l'averebbe ricevuta per offesa grave, ma
già a' disgusti poco si poteva aggiongere, et era il papa salito, quando
nelle deliberazioni si trovava serrata tra le raggioni che la confortavano e
dissuadevano, ad usar il motto fiorentino: «cosa fatta capo ha», e dare mano
alla essecuzione della parte necessaria. Però alle feste di Natale
scrisse a' legati che facessero la sessione e publicassero i decreti già
formati.
[Sesta sessione: decreti intorno alla
giustificazione]
Il qual
commandamento ricevuto, fecero congregazione il dí 3 genaro, nella quale, dopo
aver deliberato che s'intimasse la sessione per il 13 con parere e piacere
concorde di tutti, essendo ad ogni uno venuto a noia lo star tanto tempo senza
risolver niente, proposero i legati di publicare i decreti formati. Quanto a
quelli della fede, i prelati imperiali s'opponevano con dire che non era ancora
opportunità e bastava publicare la riforma: ma i ponteficii instavano in
contrario, allegando esser già noto a tutto il mondo che per sette mesi
s'aveva assiduamente ventilata la materia della grazia e giustificazione, et
era anco il decreto stabilito; che sarebbe con detrimento della fede, quando il
mondo vedesse il concilio temere di publicare quella verità che era
decisa. E per esser questi in numero molto maggiore, l'openione loro, aiutata
dall'autorità de' legati, superò. Le due seguenti congregazioni
furono consummate in releggere i decreti cosí di fede, come de riforma: i
quali, accommodate qualche leggieri cosuccie, secondo l'avvertimento di quelli
che non erano intervenuti prima, piacquero a tutti. Con le solite ceremonie
andati alla chiesa i legati co' prelati il giovedí 13 genaro, giorno destinato
per il publico consesso, si tenne la sessione; dove cantò la messa
Andrea Carnaro, arcivescovo di Spalato, e fece il sermone Tomaso Stella,
vescovo di Salpi, e furono letti i decreti della fede e della riforma.
Il primo
conteneva 16 capi con loro proemii e 33 anatematismi. In sostanza, dopo d'avere
proibito credere o predicare o insegnare altramente di quanto era statuito et
esplicato in quel decreto, dicchiarava:
1 Che né
gentili per mezi naturali, né giudei per la lettera de Moisè hanno
potuto liberarsi dal peccato.
2 Onde Dio
mandò il figliuolo per riscuotere gl'uni e gl'altri.
3 Il qual se
ben è morto per tutti, nondimeno godono il beneficio quei soli a chi il
merito di lui è communicato.
4 Che la
giustificazione dell'empio non è altro se non una translazione dello
stato di figlio di Adamo nello stato di figlio adottivo di Dio per Giesú
Cristo, la quale, dopo la publicazione dell'Evangelio, non si fa senza il
battesmo o senza il voto di quella.
5 Che il
principio della giustificazione negli adulti viene dalla grazia preveniente,
che gli invita a disporsi con acconsentirgli liberamente a cooperargli, il che
fa di sua volontà spontanea, potendola anco rifiutare.
6 Il modo
della preparazione è credendo prima volontariamente le revelazioni e
premesse divine, e conoscendosi peccatore, dal timor della divina grazia
voltandosi alla misericordia con sperare il perdono da Dio, e perciò
comminciare ad amarlo et odiar il peccato; e finalmente proponendo di ricever
il battesmo, incomminciare vita nuova e servare i commandamenti divini.
7 Che a
questa preparazione seguita la giustificazione, quale non è sola
rimissione de' peccati, ma santificazione ancora, et ha cinque cause: la
finale, la gloria divina e vita eterna; l'efficiente, Dio; la meritoria,
Cristo; l'istromentale, il sacramento; e la formale, la giustizia donata da
Dio, ricevuta secondo il beneplacito dello Spirito Santo e seconda la
disposizione del recipiente, ricevendo insieme con la remissione de' peccati,
la fede, speranza e carità.
8 Che quando
san Paolo dice: l'uomo esser giustificato per la fede e gratuitamente,
ciò si debbe intendere perché la fede è principio e le cose
precedenti la giustificazione non sono meritorie della grazia.
9 Che i
peccati non sono perdonati a chi si vanta e si riposa nella sola fiducia e
certezza della remissione. Né si debbe dire che quella sola fede giustifichi,
anzi ogni uno, sí come non debbe dubitare della misericordia di Dio, meriti di
Cristo et efficacia de' sacramenti, cosí risguardando la propria
indisposizione, può dubitare, non potendo con certezza di fede
infallibile saper d'aver ottenuta la grazia.
10 Che i
giusti con l'osservanza de' commandamenti di Dio e della Chiesa sono
maggiormente giustificati.
11 Che non si
può dire i precetti divini esser impossibili al giusto, il qual, se ben
cade ne' peccati veniali, non resta però d'esser tale; che nissun debbe
fermarsi nella sola fede, né dire che il giusto in ogni buona opera faccia
peccato overo pecchi, se opera per fine di mercede.
12 Che nissun
deve presumere d'esser predestinato, con credere che il giustificato non possi
piú peccare o peccando debbia promettersi la resipiscenza.
13 Parimente,
che nissun può promettersi assoluta certezza di perseverare sino al
fine, ma metter la speranza nell'aiuto divino, il quale continuerà non
mancando l'uomo.
14 Che li
caduti in peccato potranno riaver la grazia, procurando coll'eccitamento divino
di ricuperarla per mezo della penitenzia, la quale è differente dalla
battesmale, contenendo non solo la contrizione, ma la sacramental confessione
et assoluzione sacerdotale, almeno in voto; et oltra ciò la
satisfazzione per la pena temporale, la qual non si rimette sempre tutta
insieme, come nel battesmo.
15 Che la
grazia divina si perde non solo per l'infedeltà, ma per qualonque altro
[peccato] mortale, quantonque la fede non sia per quello perduta.
16 Propone
anco a' giustificati l'essercizio delle buone opere, per quale s'acquista la
vita eterna, come grazia promessa dalla misericordia di Dio e mercede debita alle
buone opere per la divina promessa. E conclude che questa dottrina non
stabilisce una giustizia propria nostra, repudiata la giustizia di Dio, ma la
medesima si dice nostra per esser in noi e di Dio, essendo da lui infusa per il
merito di Cristo.
In fine, che
per far sapere ad ogni uno non solo la dottrina da seguire, ma anco quella che
debbe fugire, soggionge i canoni contra chi dice:
1 Che l'uomo
può esser giustificato senza la grazia, per le forze della natura umana
e per la dottrina della legge.
2 Che la
grazia sia data per vivere bene con maggior facilità e meritare la vita
eterna, potendo l'istesso il libero arbitrio, ma con difficoltà.
3 Che l'uomo
possi credere, amare, sperare o pentirsi come conviene, senza la prevenzione e
l'aiuto dello Spirito Santo.
4 Che il
libero arbitrio, eccitato da Dio, non cooperi per disporsi alla grazia, né
possi dissentire volendo.
5 Che dopo il
peccato d'Adamo il libero arbitrio sia perduto.
6 Che non sia
in potestà dell'uomo il far male, ma cosí le cattive, come le buone
opere avvengano non solo per divina permissione, ma per sua operazione propria.
7 Che tutte
le opere fatte inanzi la giustificazione siano peccati, e tanto piú l'uomo
pecchi, quanto piú si sforza per disponersi alla grazia.
8 Che il
timore dell'inferno, che ci fa astenere dal peccare o ricorrere alla
misericordia di Dio, sia peccato.
9 Che l'empio
sia giustificato per fede sola, senza preparazione che venga dal moto della sua
volontà.
10 Che l'uomo
sia giustificato senza la giustizia meritata da Cristo overo sia giusto per
quella formalmente.
11 Che sia
giustificato per sola imputazione della giustizia di Cristo, o per sola
remissione de' peccati senza la grazia e carità inerente, overo che la
grazia della giustificazione sia solo il favor divino.
12 Che la
fede che giustifica non sia altro che la confidenza della divina misericordia,
che rimette i peccati per Cristo.
13 Che per la
remissione de' peccati sia necessario il credere che siano rimessi, senza
dubitare della propria indisposizione.
14 Che l'uomo
è assoluto e giustificato, perché lo crede fermamente.
15 Che sia
tenuto per fede a credere d'essere certamente nel numero de' predestinati.
16 Chi
dirà essere certo d'aver il dono della perseveranza senza special
rivelazione.
17 Che li
soli predestinati ottengano la grazia.
18 Che i
precetti di Dio siano impossibili al giustificato.
19 Che non
sia altro precetto evangelico che della fede.
20 Che il
giusto e perfetto non sia obligato ad osservare i commandamenti di Dio e della
Chiesa, overo che l'Evangelio sia una promessa senza condizione
dell'osservanzia de' commandamenti.
21 Che Cristo
è dato per redentore, non per legislatore.
22 Che il
giustificato possi perseverare senza il special aiuto di Dio, o non possi con
quello.
23 Che il
giusto non possi peccare, overo possi evitare tutti i peccati veniali, se non
per privilegio speciale, come la Chiesa tiene della Vergine.
24 Che la
giustizia non si conservi et accresca per le buone opere, ma siano frutti o
segni.
25 Che il
giusto in ogni opera pecca mortalmente o venialmente.
26 Che il
giusto non debbe sperare mercede per le buone opere.
27 Non
esservi altro peccato mortale che l'infedeltà.
28 Che
perduta la grazia, se perda la fede, overo la fede rimanente non esser vera, né
di cristiano.
29 Che
peccando dopo il battesmo, non possi l'uomo rilevarsi con la grazia di Dio,
overo possi ricuperarla con la sola fede, senza il sacramento della penitenzia.
30 Che ad
ogni penitente vien rimessa la colpa e la pena intieramente, non restando pena
temporale da pagare in questa vita o in purgatorio.
31 Che il
giusto pecca se opera bene risguardando la mercede eterna.
32 Che le
opere buone del giusto sono doni di Dio solamente e non insieme meriti del
giustificato.
33 Che per
questa dottrina sia derogato alla gloria di Dio e meriti di Cristo, e non piú
tosto illustrata la gloria loro.
Dopoi ch'ebbi
tessuta questa abbreviata narrazione del decreto, mi cadé in pensiero che fosse
cosa superflua, poiché tutti li decreti di questo concilio sono in un volume
stampati e nelle mani di tutti, e che potessi anco nella composizione delle
azzioni seguenti rimettermi a quel libro, e fui per cancellare questo foglio.
Poi considerai che ad alcuno fosse piú piacere in un solo libro leggere tutto
continuato e chi averà piú caro vedere l'originale, potrà
tralasciare questa mia abbreviazione; ho deliberato non mutare et anco nelle
materie seguenti seguire lo stesso stile. E tanto piú, considerando il
dispiacere che sento quando veggo in Senofonte o Tacito tralasciata la
narrazione d'alcuna cosa a' loro tempi notissima, che non avendo modo di
risaper al presente, mi resta incognita; e mi persuade a tener una massima: che
mai un libro doverebbe riferirsi ad un altro. Però vengo alla somma del
decreto della riforma.
[Decreto della residenza]
Il qual in
sostanza conteneva:
1 Che volendo
la sinodo emendare li depravati costumi del clero e popolo, stimava dover
incomminciare da' prefetti delle chiese maggiori; però confidando in Dio
e nel suo vicario in terra che quel carico sarà dato a persone degne et
essercitate dalla puerizia nella disciplina ecclesiastica, gli ammoní a far il
loro officio, qual non si può esseguire se non soprastando alla custodia
d'esso; nondimeno molti, lasciata la mandra e la cura delle agnelle, vagano per
le corti et attendono a' negozii secolari. Per tanto la sinodo rinuova tutti i
canoni antichi contra i non residenti, et oltra ciò statuisce che
qualonque prefetto a chiesa catedrale, con qualonque titolo si voglia e di
qualonque preminenza egli sia, che senza giusta e raggionevole causa
starà fuori della sua diocese 6 mesi continui, perda la quarta parte
delle entrate, e se perseverarà stando assente per altri 6 mesi, ne
perdi un'altra quarta, e crescendo la contumacia, il metropolitano, sotto pena di
non poter entrar in chiesa, fra' 3 mesi debbe denonciarlo al pontefice, il qual
per la sua soprema autorità potrà dare maggior castigo a proveder
alla chiesa di pastor piú utile. E se il metropolitano incorrerà in
simil fallo, il suffraganeo piú vecchio sia tenuto denonciarlo.
2 Ma gli
altri inferiori ai vescovi, tenuti a resedere o per legge o per consuetudine,
siano a ciò costretti da' vescovi, annullando ogni privilegio che
essenti in perpetuo dalla residenzia. Restando in vigore le dispense concesse per
tempo, con causa raggionevole e vera, provata inanzi l'ordinario, dovendo
però il vescovo, come delegato della Sede apostolica, avere carica che
sia attesa alla cura delle anime da vicario idoneo, con porzione conveniente
delle entrate, non ostante qualonque privilegio o essenzione.
4 Similmente,
che i capitoli delle catedrali et altre collegiate, in virtú d'essenzione o
consuetudini o giuramenti e patti, non possino liberarsi dalla visita de' suoi
vescovi et altri prelati maggiori, sempre che farà bisogno.
[Giudicii sopra questi decreti]
In Roma il
decreto della fede non diede materia alcuna di parlare, non riuscendo nuovo,
cosí perché era stata veduto et essaminato publicamente, come si è
detto, e poiché già a tutti era noto che s'avevano a dannare tutte le
openioni tedesche, era stato prima veduto et approvato. Ma i vescovi dimoranti
in corte, che erano stati molto tempo sospesi per l'articolo della residenza
che si trattava, restarono contenti, tenendo fermo che il decreto del concilio
non potesse far maggior effetto di quello che le decretali de' pontefici
facevano prima. Ben i cortegiani minuti furono ripieni di malcontentezza,
vedendo rimessa al vescovo di potergli costringere; si dolevano della miseria
propria, che per acquistare da vivere gli convenisse servire tutta sua vita e,
dopo tanta fatica, ricevere per premio d'esser confinati in una villa overo con
un vil canonicato, sottoposti ad un'altra servitú de' vescovi, maggiore e piú
abietta; quali non solo gli teneranno ligati come ad un palo, ma con le visite
e col pretesto de correzzioni, gli condurranno overo ad una soggezzione misera,
a gli teneranno in perpetue vessazioni e spese.
Ma altrove, e
per la Germania massime, quando i decreti furono visti, piú diede da dire
quello della fede, qual conveniva leggere e releggere molto attentamente, e
specolarci anco sopra, non potendosi intender senza una perfetta cognizione de'
moti interiori dell'anima e senza saper in quali egli sia attivo et in quali
passivo, cose sottilissime e, per la diversa apparenza che fanno, stimati sempre
disputabili, versando tutta la dottrina del concilio sopra questo cardine: se
il primo oggetto della volontà operi in lei, o ella in lui, o pur
ambidoi siano attivi e passivi. Fu da alcuni faceti detto che se gli astrologi,
non sapendo le vere cause de' moti celesti, per salvare le apparenze, hanno
dato in eccentrici et epicicli, non era maraviglia se, volendo salvare le
apparenze de' moti sopracelesti, si dava in eccentricità d'openioni. I
grammatici non cessavano d'ammirare e ridere l'artificio di quella proposizione
che è nel quinto capo: «Neque homo ipse nihil omnino agat», quale
dicevano non esser intelligibile e non aver essempio. Che se valeva la sinodo
significare: «Etiam homo ipse aliquid agat», lo poteva pur dire chiaramente,
come conviene in materia di fede, dove la miglior espressione è la piú
semplice, e se pure volevano usare un eleganzia, potevano dire: «Etiam homo
ipse nihil agat». Ma interponendosi la voce «omnino», quella orazione esser
incongrua e senza senso, come sono tutte le orazioni de due negazioni, che non
si passono risolvere in un'affermativa; perché volendo risolvere quella,
converrebbe dire: «Etiam homo ipse aliquid omnino agat», che è
incongrua, essendo inintelligibile quello che possi significare «Aliquid
omnino» in questo proposito; poiché direbbe che l'uomo abbia azzione in un
certo modo, la qual negli altri modi non sia azzione.
Erano difesi
i padri con dire che non conveniva essaminare la forma del parlare al rigido,
che non è altro che cavillare. A che replicavano che la benigna
interpretazione è debita alle forme di parlar usate, ma di chi,
tralasciate le chiare et usate, ne inventa d'incongrue e che coprono in sé la
contradizzione per cavillare e sdrucciolare da ambe le parti, è publica
utilità che l'arteficio sia scoperto.
Gli
intendenti di teologia dicevano che la dottrina di poter l'uomo sempre
rifiutare le divine inspirazioni era molto contraria alla publica et antica
orazione della Chiesa: «Et ad te nostras etiam rebelles compelle propitius
voluntates», la qual non convien dire che sia un desiderio vano e frustratorio,
ma sia fatto «ex fide», come san Giacomo dice, e sia da Dio verso i suoi eletti
essaudito. Aggiongevano che non si poteva piú dire con santo Paolo che non
venga dall'uomo quello che separa i vasi dell'ira da quei della misericordia
divina, essendo il separante quell'umano: «non nihil omnino». Molte sorti di
persone considerarono quel luogo del settimo capo, dove si dice la giustizia
essere donata a misura, secondo il beneplacito divino e la disposizione del
recipiente, non potendo ambedue queste cose verificarsi: perché se piacesse a
Dio darne piú al manco disposto, non sarebbe a misura della disposizione, e se
si dà alla misura di quella, vi è sempre il motivo per quale Dio
opera e non usa mai il beneplacito. Si maravigliavano come avessero dannato chi
dicesse non essere possibile servare i precetti divini, poiché il medesimo
concilio, nel decreto della seconda sessione, essortò i fedeli
congregati in Trento che pentiti, confessati e communicati osservassero i
precetti divini, «quantum quisque poterit». La qual modificazione sarebbe
empia, se il giustificato potesse servargli assolutamente, e notavano esservi
la medesima voce «precepta» per levare ogni forza a' cavilli.
Gli
intendenti dell'ecclesiastica istoria dicevano che in tutti i concilii tenuti
nella Chiesa, dal tempo degli apostoli sino a quell'ora, posti tutti insieme,
mai erano stati decisi tanti articoli quanti in quella sola sessione; in che
aveva una gran parte Aristotele coll'aver distinto essattamente tutti i generi
de cause, a che se egli non si fosse adoperato, noi mancavamo di molti articoli
di fede.
I politici
ancora, se ben non debbono essaminar le cose della religione, ma seguirle
semplicemente, trovarono che dire in questo decreto: vedendo nel capo 10 posta
l'obligazione d'obedir a' precetti di Dio e della Chiesa, e l'istesso replicato
nel canone 20, restavano con scandalo, perché non fossero anco poste
l'obligazioni a' precetti de prencipi e magistrati; esser piú chiara assai
nella Scrittura divina l'obedienza debita a questi: la legge vecchia esserne
piena; nel Testamento Nuovo esser dottrina chiara, da Cristo proprio e da san
Pietro e da san Paolo espressa e trattata al longo. Che quanto alla Chiesa, si
trova obligo espresso di udirla, ma di ubedirla non è cosí chiaro: si
obedisce chi commanda di suo, si ode chi promolga l'alieno. Né si sodisfacevano
queste sorti d'uomini d'una scusa che era allegata, cioè i precetti de'
prencipi esser inclusi in quelli di Dio, che per ciò si debbe a loro obedienza,
per aver Dio commandato che siano obediti; perché replicavano per tal raggione
maggiormente doversi tralasciare la Chiesa, ma che questa era espressa, e
quelli trappassati con silenzio per l'antico scopo degli ecclesiastici
d'introdur nel popolo quella perniziosa opinione che a loro si sia tenuto
obedire per conscienza, ma a' prencipi e magistrati solo per evitare le pene
temporali, e del rimanente potersi senza altro rispetto trasgredire li loro
commandamenti, e per questa via metter in odio, representare per tirannico e
sovvertir ogni governo, e depingendo la soggezzione a' preti per via unica e
principale d'acquistar il cielo, tirar in sé prima tutta la giurisdizzione, e
finalmente in consequenza tutto l'imperio.
Del decreto
della riforma si diceva esser una pura e mera illusione, perché il confidar in
Dio e nel papa che sarebbe provisto di persone degne al governo delle chiese
è opera piú tosto di chi facesse orazione che di riformazione.
L'innovare gli antichi canoni con una parola sola e cosí generale era
confermargli nella introdotta dissuetudine maggiormente; ché volendo
restituirgli da dovero, bisognava levare le cause che gl'hanno posti in
oblivione e dargli vigore con pene e deputazione d'essecutori et altre maniere
che introducono e conservano le leggi. In fine non aversi altro operato, se non
stabilito che, col perder la metà delle entrate, si possi star assente
tutto l'anno, anzi insegnato a starvi per undici mesi e piú senza pena alcuna,
interponendo quei 30 o meno giorni nel mezo dell'altro tempo dell'anno, e
destrutto anco a fatto il decreto con l'eccezzione delle giuste e raggionevoli
cause; quali chi sarà cosí semplice che non sappia fare nascere, dovendo
aver per giudici persone a chi mette conto che la residenza non si ponga in uso?
[Discorso del poco consenso e risoluzione che
era in concilio in materia di dogmi]
Questo luogo
ricerca che si faccia menzione d'un particolare successo, il quale,
incomminciato in questo tempo, se ben non ebbe fine se non dopo 4 mesi,
appartiene tutto alla presente sessione, et a penetrare che cosa fosse allora
il concilio di Trento e che opinione avessero di lui quelle medesime persone
che vi intervenivano. Per intelligenza del quale non restarò di
replicare che fra Dominico Soto, tante volte di sopra nominato, quale ebbe gran
parte, come s'è detto, nella formazione de' decreti del peccato
originale e della giustificazione, e che avendo notato tutti i pareri e le
raggioni che furono usate in quelle discussioni, pensò di communicarle al
mondo e tirare le parole del decreto al suo proprio senso: mandò in
stampa un'opera continente tutto intieramente, intitolandola De natura et
gratia, e quella dedicò con una epistola alla sinodo, per esser
(cosí egli nella dedicatoria scrisse) un commentario de' doi decreti sudetti.
In questo, venendo all'articolo della certezza della grazia, disse in longo
discorso la sinodo aver dicchiarato che l'uomo non può sapere d'avere la
grazia con tanta certezza, quanta è quella della fede, siché ogni
dubitazione sia esclusa. Il Catarino, fatto nuovamente vescovo de Minori, che
aveva difeso il contrario e tuttavia perseverava nell'opinione sua,
stampò un libretto con dedicatoria alla medesima sinodo, lo scopo del
quale era dire e defendere che il concilio non intese di condannare l'opinione
di chi asseriva il giusto poter credere d'aver la grazia tanto certamente,
quanto ha per certi gli articoli della fede; anzi il concilio aver deciso che
è tenuto a crederlo, quando nel canone
Non è
da tralasciare in questo proposito un'avvertenza dell'istesso Catarino, scritta
alla sinodo nel medesimo libro, meritando l'autore di non esser defraudato
dall'invenzione sua. Egli considerò esser repugnante il dire che l'uomo
riceve volontariamente la grazia e che non è certo d'averla; perché
nissun può volontariamente ricevere cosa che non sa essergli data, e
senza esser certo di riceverla.
[Congregazione per istabilir la materia della
seguente sessione. Si risolve di trattar de' sacramenti, e, per riforma, degli
abusi intorno al ministerio d'essi e di alcuni capi della residenza]
Ma tornando
alle cose conciliari, il dí seguente la sessione si ridusse la congregazione
generale per deliberare et ordinare la materia da digerire per la sessione
futura, e quanto alla parte spettante alla fede, essendo già deliberato
di seguire l'ordine della confessione augustana, si faceva inanzi il capo del
ministerio ecclesiastico, il quale i luterani dicono esser autorità
d'annonciare l'Evangelio e ministrare i sacramenti, et attendendo alcuni la
prima parte, proponevano che si trattasse della potestà ecclesiastica,
dicchiarando tutte quelle fonzioni spirituali e temporali che Dio gli ha
concesso sopra i fedeli, le quali da' luterani erano negate; e questo piaceva
all'universale de' prelati, perché era materia di facil intelligenza, senza
spinosità scolastica, e dove averebbono potuto avere la parte loro. A'
teologi non era grato, non essendo quelle materie trattate da' scolastici; onde
non averebbono avuto che disputare e sarebbe convenuto rimettersene per il piú
a' canonisti. Dicevano che gli augustani non trattano di tutta
l'autorità ecclesiastica, ma di sola quella di predicare, della quale
nella precedente sessione si era decretato quanto bastava: ma nella seconda
parte era ben materia connessa e conseguente la giustificazione, cioè i
sacramenti, che sono i mezi per essere giustificati, e che questi era piú
conveniente far soggetto della seguente sessione. A questa aderivano i legati
et i dependenti loro, in apparenza per le medesime raggioni, ma in loro segreto
per una altra piú potente: perché in quell'altra considerazione s'averebbe
trattato dell'autorità de' concilii e del pontefice, e proposte molte
materie scabrose e da non movere.
Risoluto di
trattare la materia de' sacramenti, si considerò che era molta et ampia,
e non potersi comprendere in una sessione, né manco potersi facilmente
determinare in quante parti dividerla. Dagli augustani esser fatta breve
coll'aver levato 4 sacramenti, de' quali tanto piú essattamente si doveva
trattare per restabilirgli; per tanto esser ben che si desse principio a
discutere prima de' sacramenti in universale, e fu dato carico di ordinare gli
articoli tratti dalla dottrina luterana, descendendo anco a' sacramenti in
particolare, di quanti fosse parso potersi fare discussione, et acciò la
riforma seguisse la definizione della fede e dogmi, consequentemente si
mettessero insieme gli abusi occorenti nel ministerio de' sacramenti, ordinando
una congregazione de' prelati et altri canonisti che discorressero i rimedii e
sopra formassero decreti, con ordine che, occorrendo nel medesimo giorno
ambedue, a' teologi presidesse il cardinale Santa Croce, a' canonisti quello
del Monte, et ambidue insieme nelle congregazioni generali. Ma oltre di questo,
attesa la promessa di continuare anco la materia della residenza, non si tralasciasse
di trattarne qualche articolo de' piú principali. In questo non fu cosí facile
convenire, avendo i legati co' loro aderenti fini contrarii agli altri vescovi.
Questi erano
entrati in speranza e miravano quasi tutti, ma i spagnuoli sopra gli altri, a
racquistare l'autorità episcopale che anticamente s'essercitava da
ciascuno nella diocese propria, quando erano incognite le reservazioni de'
beneficii, de' casi o d'assoluzioni, le dispense et altre tal cose, le quali
solevano dire in raggionamenti privati e fra poche persone che l'appetito di
dominare e l'avarizia l'avevano fatte proprie alla corte romana sotto finto
colore di maneggiarle meglio e piú con publico servizio di Dio e della Chiesa
per tutta la cristianità, che i vescovi nelle città proprie, attesa
qualche imperfezzione et ignoranza loro. Cosa però non vera, poiché non
entrò nell'ordine episcopale dissoluzione, né ignoranzia, se non dopo
che furono costretti andare per servitori a Roma. Ma quando bene s'avesse visto
un mal governo allora ne' vescovi, che avesse costretto levargli
l'autorità propria, ora che si vede pessimo nella corte romana,
l'istessa raggione maggiormente costringere di levargli quel maneggio che non
è proprio suo e da lei è sommamente abusato.
Ottima
medicina era stimata da questi prelati, per rimedio al mal passato e
preservativo all'avvenire, il decreto che la residenza sia de iure divino.
Perché se Dio ha commandato a' vescovi di risedere perpetuamente alla cura del
gregge, per necessaria consequenzia gli ha prescritto anco il carico e dato
loro la potestà per ben essercitarlo; adonque il papa non potrà
né chiamargli, né occupargli in altro, né dispensargli, né restringere
l'autorità data da Dio. Però facevano instanza che si venisse
alla determinazione, dicendo esser necessario risolvere quell'articolo, dopo
che era discusso a bastanza. Il cardinale del Monte, premeditato già,
lasciò prima parlare a piú ferventi, acciò essalassero parte del
calore, poi con destro modo si oppose dicendo che era ben necessario farlo,
poiché il mondo tutto era in quell'espettativa, ma anco conveniva farlo in
tempo opportuno; che la difficoltà era stata trattata con troppo calore
et in molti aveva piú eccitato gli affetti che la raggione; onde era necessario
lasciare sbollire quel fervore et interponer un poco di tempo, tanto che
scordati delle contenzioni, vivificata la carità, si dia luogo allo
Spirito Santo, senza il qual non si può decidere la verità. Che
la Santità del sommo pontefice, la qual con dispiacere ha inteso le
contenzioni passate, ricerca l'istesso per poter egli ancora far discutere la
materia in Roma et aiutare la sinodo di conseglio. Concluse in fine con parole
piú risolute di quello che si doveva inferire da cosí modesto principio, che
non se [ne] parlasse piú inanzi la sessione, che cosí era risoluta
volontà del papa, ma ben si attendesse alla riforma degli inconvenienti
che sono stati causa d'introdur l'abuso di non risedere. Questa mistura di
remonstranze et imperio fu causa che da alcuni de' padri, che dopo mandarono
trattati in stampa in questa materia, fosse detto e posto in stampa che da
legati era stato proibito il parlar di tal questione, e da altri fosse negato
con invettiva contra i primi, dicendo che derogassero alla libertà del
concilio. Fu per fine della congregazione risoluto di pigliare le cose
tralasciate nella precedente sessione e trattare di levare gli impedimenti che
costringono a non risedere. Fra' quali occorrendo come principalissimo la
pluralità de' beneficii, essendo impossibile risedere in piú luoghi, si
deliberò trattare di quella.
Ma per non
confondere le materie, narrerò insieme quello che a' sacramenti aspetta,
dove non occorse se non considerazione per il piú speculativa e dottrinale, per
non interromper il filo della materia beneficiale, nella quale occorsero cose
che aprirono la via ad importanti e pericolosi accidenti. In materia de'
sacramenti furono formati articoli da' deputati e prescritto a' teologi il modo
di parlare sopra di quelli in un foglio communicato a tutti, con ordine che
dicessero se tutti erano eretici overo erronei e se dalla sinodo dovevano
essere condannati; e quando forse alcuno non meritasse dannazione, adducessero
le raggioni e l'autorità; appresso esplicassero qual sia stato in tutti
quei il parere de' concilii e de santi padri e quali degli articoli si
ritrovino già reprobati e quali restino da condannare; e se nella
proposta materia ad alcuno occorresse qualche altro articolo degno di censura,
l'avvertissero, et in tutto ciò fuggissero le questioni impertinenti,
de' quali si può disputare l'una e l'altra parte senza pregiudicio della
fede, et ogni altra superfluità o longhezza di parole.
[Articoli estratti da' protestanti nel capo
de' sacramenti]
De'
sacramenti in universale erano 14 articoli:
1 Che i
sacramenti della Chiesa non sono sette, ma sono manco quelli che veramente
possono esser chiamati sacramenti.
2 Che i
sacramenti non sono necessarii e senza loro gl'uomini possono acquistare da Dio
la grazia per mezo della fede sola.
3 Nissun sacramento
esser piú dell'altro degno.
4 Che i
sacramenti della legge nuova non danno la grazia a quelli che non vi pongono
impedimento.
5 Che i
sacramenti mai hanno dato la grazia o la remissione de' peccati, ma la sola
fede del sacramento.
6 Che
immediate dopo il peccato d'Adamo da Dio sono stati instituiti i sacramenti,
per mezo de' quali fu donata la grazia.
7 Per i
sacramenti esser data la grazia solamente a chi crede che i peccati gli sono
rimessi.
8 Che la
grazia non è data ne' sacramenti sempre, né a tutti quanto s'aspetta ad
esso sacramento, ma solo quando e dove è parso a Dio.
9 Che in
nissun sacramento è impresso carattere.
10 Che il
cattivo ministro non conferisce il sacramento.
11 Che tutti
i cristiani, di qual si voglia sesso, hanno ugual potestà nel ministerio
della parola di Dio e del sacramento.
12 Che ogni
pastore ha potestà d'allongar, abbreviare, mutar a beneplacito suo le
forme de' sacramenti.
13 Che
l'intenzione de' ministri non è necessaria e non opera cosa alcuna ne'
sacramenti.
14 Che i sacramenti
sono stati instituiti solo per nutrir la fede.
Del battesmo
erano articoli 17:
1 Che nella
Chiesa romana e catolica non vi è vero battesmo.
2 Che il
battesmo è libero e non necessario alla salute.
3 Che non
è vero battesmo quello che è dato dagli eretici.
4 Che il
battesmo è penitenzia.
5 Che il
battesmo è segno esteriore, come la terra rossa nelle agnelle, e non ha
parte nella giustificazione.
6 Che il
battesmo si debbi rinovare.
7 Il vero
battesmo esser la fede, qual crede che i peccati sono rimessi a' penitenti.
8 Che nel
battesmo non è estirpato il peccato, ma solamente non imputato.
9 Esser la
medesma virtú del battesmo di Cristo e di Giovanni.
10 Che il
battesmo di Cristo non ha evacuato quello di Giovanni, ma gli ha aggionto la
promessa.
11 Che nel
battesmo la sola immersione è necessaria e gli altri riti usati in esso
esser liberi e potersi tralasciare senza peccato.
12 Che sia
meglio tralasciare il battesmo de' putti che battezargli mentre non credono.
13 Che i
putti non debbino essere rebattezati, perché non hanno fede proprii.
14 Che i
battezati in puerizia, arrivati all'età di discrezione, debbono essere
rebattezati per non aver creduto.
15 Che quando
i battezati nella infanzia sono venuti in età, si debbono interrogare se
vogliono ratificare quel battesmo, e negandolo, debbono esser lasciati in
libertà.
16 Che i
peccati commessi dopo il battesmo sono rimessi per la sola memoria e fede
d'essere battezato.
17 Che il
voto del battesmo non ha altra condizione che della fede, anzi annulla tutti
gli altri voti.
Della
confermazione erano 4 articoli:
1 Che la
confermazione non è sacramento.
2 Che
è instituito da' padri e non ha promessa della grazia di Dio.
3 Che ora
è una cerimonia ociosa, e già era una catechesi quando i putti
gionti all'età rendevano conto della sua fede inanzi la Chiesa.
4 Che il
ministro della confermazione non è il solo vescovo, ma qualonque altro
sacerdote.
Nelle
congregazioni tutti i teologi convennero in asserire il settenario numero e
dannare per eresia la contraria sentenzia, atteso il consenso universale delle
scole, incomminciando dal Maestro delle sentenze che prima ne parlò
determinatamente, sino a questo tempo. A questo aggiongevano il decreto del concilio
fiorentino per gli armeni che determina quel numero, e per maggior
confermazione era aggionto l'uso della Chiesa romana, dal quale concludevano
che conveniva tenerlo per tradizione apostolica et articolo di fede. Ma per la
seconda parte dell'articolo non concordavano tutti, dicendo alcuni che era
assai seguire il concilio fiorentino, qual non passò piú inanzi; poiché
il decidere i sacramenti proprii non essere né piú né meno, presuppone una
decisione qual sia la vera e propria essenza e definizione del sacramento, cosa
piena di difficoltà per le molte e varie definizioni portate non solo
da' scolastici, ma anco da' padri; delle quali attendendo una, converrà
dire che sia proprio sacramento quello che, considerando l'altra, doverà
esser escluso dal numero. Essere anco questione tra i scolastici se il
sacramento si possi definire, se abbia unità, se sia cosa reale overo
intenzionale, e non esser cosa raggionevole in tanta ambiguità de'
principii, fermare con tanto legame le conclusioni. Fu raccordato che san
Bernardo e san Cipriano ebbero per sacramento il lavare de' piedi, e che
sant'Agostino fa ogni cosa sacramento, cosí chiamando tutti i riti con che si
onora Dio, et altrove, intendendo la voce piú ristrettamente che la
proprietà non comporta, fece sacramenti soli quelli di che espressamente
vien parlato nella Scrittura del Nuovo Testamento, et in questo significato
pose solamente il battesmo e l'eucaristia, se ben in un luogo dubitò se
alcun altro ve n'era.
Per l'altra
parte si diceva essere necessario stabilire per articolo che i sacramenti
proprii non sono né piú né meno, per reprimere l'audacia, cosí de' luterani,
che gli fanno ora 2, ora 3, ora 4, come anco di quelli che eccedono i 7, e se
ne' padri si trova alcune volte numero maggiore et alcune volte minore, questo
esser nato perché allora, inanzi la determinazione della Chiesa, era lecito
ricevere la voce ora in piú ampio, ora in piú stretto significato. E qui per
stabilire il proprio e, come i scolastici dicono, la sufficienza di questo
settenario, cioè che né piú, né meno sono, fu usata longhezza noiosa nel
racconto delle raggioni dedotte da 7 cose naturali, per quali s'acquista e
conserva la vita, dalle 7 virtú, da' 7 vizii capitali, da' sette difetti venuti
per il peccato originale, da' sei giorni della creazione del mondo e settimo
della requie, dalle sette piaghe d'Egitto, et anco da' sette pianeti, dalla
celebrità del numero settenario e da altre congruità usate da'
principali scolastici per prova della conclusione; e molte raggioni, perché le
consecrazioni delle chiese, de' vasi de' vescovi, abbati et abbadesse e monache
non siano sacramenti, né l'acqua benedetta, né il lavar de' piedi di san
Bernardo, né il martirio, né la creazione de' cardinali o la coronazione del
papa.
Fu raccordato
che per raffrenare gli eretici non bastava condannare l'articolo, chi non
nominava anco singolarmente ogni uno de' sacramenti, acciò qualche mal
spirito non escludesse alcuno de' veri e sostituisse de' falsi. Fu appresso
raccordato un altro ponto essenziale all'articolo, cioè il determinar
l'institutore di tutti i sacramenti, che è Cristo, per condannare
l'eresie de' luterani, che ascrivono a Cristo l'ordinazione del solo battesmo
et eucaristia; e che per fede debbia essere Cristo tenuto per l'institutore,
era allegato sant'Ambrosio e sant'Agostino, e sopra ogni altro la tradizione
apostolica; dal che nissun discordava. Ma bene altri dicevano che non conveniva
passare tanto inanzi et era assai star tra i termini del concilio fiorentino,
massime atteso che il Maestro delle sentenzie tenne che l'estrema onzione fosse
da san Giacomo; e san Bonaventura, con Alessandro, che la confermazione avesse
principio dopo gli apostoli; e l'istesso Bonaventura, con altri teologi, fanno
gli apostoli autori del sacramento della penitenzia. E del matrimonio si
troverà che da molti vien detto che da Dio nel paradiso fu instituito, e
Cristo stesso quando di quello parla, che era il luogo proprio per dirne
l'autore, allora non a sé, ma al Padre nel principio attribuisce l'instituzione.
Per tanti rispetti consegliavano che quel ponto non fosse aggionto,
acciò non si condannasse openione da' catolici tenuta. I dominicani, in
contrario, con qualche acerbità di parole affermavano che si possono
esponere quei dottori e salvargli con varie distinzioni, perché essi si
sarebbono sempre rimessi alla Chiesa: ma non era da trappassare senza condanna
l'audacia luterana, che con sprezzo della Chiesa ha introdotto quelle
falsità, e non essere da tolerar a' luterani temerarii quello che si
comporta a' santi padri.
Il secondo
articolo della necessità de' sacramenti volevano altri che non fosse
dannato cosí assolutamente, ma fusse distinto, essendo certo che non tutti sono
assolutamente necessarii; un'altra opinione era che si dovesse dannare chi
diceva non essere li sacramenti necessari nella Chiesa, poiché certo è
non tutti essere necessarii ad ogni persona, anzi alcuni esser incompossibili
insieme, come l'ordine et il matrimonio. La piú commune nondimeno fu che
l'articolo fosse dannato cosí assolutamente per due raggioni: l'una, perché
basta la necessità di uno a far che l'articolo, come giace, sia falso;
l'altra, perché tutti sono in qualche modo necessarii, chi assolutamente, chi
per supposizione, chi per convenienza, chi per utilità maggiore; con
maraviglia di chi giudicava non convenire con equivocazione tanto moltiplice
fermare articoli di fede; per sodisfare i quali, quando furono i canoni
composti, si aggionse, condannando chi teneva li sacramenti non necessarii, ma
superflui; con questo ultimo termine ampliando la significazione del primo.
Dell'altra
parte dell'articolo molti erano di parere che si omettesse, poiché, per quel
che tocca alla fede, già nella sessione precedente era definito che sola
non bastasse, e la distinzione del sacramento in voto, diceva il Marinaro,
è ben cosa vera, ma da' soli scolastici usata, all'antichità
incognita e piena di difficoltà; perché negli Atti degl'apostoli,
nell'instruzzione del centurione Cornelio, l'angelo disse che le orazioni sue
erano grate a Dio, prima che sapesse il sacramento del battesmo e gli altri
particolari della fede; e tutta la casa sua, intendendo la concione di san
Pietro, ricevette lo Spirito Santo, prima che fosse instrutta della dottrina
de' sacramenti, e dopo ricevuto lo Spirito Santo, fu da san Pietro insegnata
del battesmo, onde, non avendone notizia alcuna, non poté riceverlo in voto; et
il ladro in croce moribondo, illuminato allora solamente della virtú di Cristo,
non sapeva de' sacramenti per potersi in quelli votare; e molti santi martiri
nel fervore della persecuzione, convertiti nel veder la costanza d'altri et
immediate rapiti et uccisi, non si può, se non divinando, dire che
avessero cognizione de' sacramenti per votarsi. Però essere meglio
lasciare la distinzione alle scole e tralasciare di metterla negl'articoli di
fede. A questo repugnava la commune openione, con dire che, quantonque le
parole della distinzione fussero nuove e scolastiche, però si doveva
credere il significato esser insegnato da Cristo et aversi per tradizione apostolica;
e quanto agl'essempii di Cornelio, del ladro e martiri, doversi sapere che sono
due sorti di voto del sacramento: uno esplicato, l'altro implicato, e questo
secondo almeno esser necessario; cioè che attualmente non avevano il
voto, ma l'averebbono avuto, s'avessero saputo; le quali cose erano concesse
dagl'altri per vere, ma non obligatorie come articoli di fede. Ma queste
difficoltà, dove non potevano convenire, si rimettevano alla sinodo,
cioè alla congregazione generale.
Sí come
avvenne anco del terzo articolo; il quale quantonque ognuno avesse per falso,
imperoché tutti accordavano che, risguardando la necessità et
utilità, il battesmo precede, ma attendendo la significazione, il
matrimonio; chi guarda la degnità del ministro, la confermazione; chi la
venerazione, l'eucaristia: ma non potendosi dire qual sia piú degno senza
distinzione, essere meglio tralasciare afatto l'articolo che non può
esser inteso senza sottilità. Un'altra openione era che si dovessero
esplicare tutti i rispetti della degnità; una media fu che all'articolo
s'aggiongesse la clausula, cioè: secondo diversi rispetti; la qual era
piú seguitata, ma con dispiacere di quelli, a chi non poteva piacere che la
sinodo s'abbassasse a queste scolasticarie inette, che cosí le chiamavano, e
volesse credere che Cristo introducesse queste tenuità d'openioni nella
sua fede.
Nel quarto
tutti furono di parere che l'articolo fosse condannato; anzi aggionsero ch'era
necessario amplificarlo, condannando specificatamente la dottrina zuingliana,
quale vuole che i sacramenti non siano altro che segni, per quali i fedeli
dagli infedeli si discernono; overo atti et essercizii di professione della
fede cristiana, ma alla grazia non abbiano altra relazione, se non per essere
segni d'averla ricevuta. Appresso ancora raccordarono che si dannassero cosí
quelli che negano i sacramenti conferire la grazia a chi non pone impedimento,
come ancora chi non confessa la grazia essere contenuta ne' sacramenti e
conferita, non per virtú della fede, ma «ex opere operato». Ma venendo ad
esplicare il modo di quella continenza e causalità, ogni uno concordava
che per tutte quelle azzioni che eccitano la devozione s'acquista grazia, e
ciò non nasce dalla forza dell'opera medesima, ma dalla virtú della
devozione, che è nell'operante, e queste tali nelle scuole si dice che
causano la grazia «ex opere operantis». Altre azzioni sono che causano la
grazia non per la devozione di chi opera o di chi riceve l'opera, ma per virtú
dell'opera medesima. Cosí sono i sacramenti cristiani, per quali la grazia
è ricevuta, purché nel soggetto non vi sia impedimento di peccato
mortale che l'escluda, quantonque non vi sia divozione alcuna: e cosí per
l'opera medesima del battesmo, essere data la grazia ad un fanciullo che non ha
moto alcuno d'animo verso quello, e parimente ad un nato pazzo, perché non vi
è impedimento di peccato. L'istesso fa il sacramento della cresma e
quello dell'estrem'onzione, quando ben l'infermo abbia perduta la cognizione.
Ma s'un averà peccato mortale, nel quale perseveri attualmente overo
abitualmente, per la contrarietà non riceverà grazia: non perché
il sacramento non abbia virtú di produrla «ex opere operato», ma perché il
recipiente non è capace, per esser occupato d'una qualità
contraria.
[Contrasto tra' domenicani e' francescani]
Ma convenendo
tutti in questo, erano differenti, perché i dominicani asserivano che,
quantonque la grazia sia una qualità spirituale creata immediate da Dio,
nondimeno ne' sacramenti è una virtú istromentale et effettiva, la quale
causa nell'anima una disposizione per riceverla; e per tanto si dice che
contengono la grazia; non che sia in loro come in un vaso, ma come l'effetto
è nella sua causa, adducendo un sottil essempio: sí come il scalpello
è attivo non solo nello scagliare la pietra, ma anco nel dar forma alla
statua. I francescani dicevano non potersi capire come Dio, causa spirituale,
per un effetto spirituale, che è la grazia, adoperi istromento corporeo:
assolutamente negavano ogni virtú effettiva o dispositiva ne' sacramenti,
dicendo che l'efficacia loro d'altro non viene, se non perché Dio ha promesso
che qualonque volta sarà ministrato il sacramento, egli donerà la
grazia; perilché si dice contenerla, come in segno efficace, non per virtú che
sia in lui, ma per la divina promissione d'un'infallibil assistenza a quel
ministerio; il quale per ciò è causa, perché quello posto, segue
l'effetto, non per virtú che in lui sia, ma per promessa divina di donar la
grazia allora, sí come il merito si dice causa del premio, non per
attività alcuna. Il che non solo provavano per l'autorità di
Scoto e di san Bonaventura, loro teologi, ma per quella anco di san Bernardo,
qual dice che si riceve la grazia per i sacramenti, sí come il canonico
s'investe per il libro et il vescovo per l'anello. La prolissità con che
erano esposte le raggioni da ambe le parti era grande, e non minore
l'acrimonia. Censuravansi fra loro. I dominicani dicevano che l'altro parer era
prossimo al luterano; e gli altri che il loro, essendo impossibile, dava
materia agli eretici di calumniare la Chiesa. Non fu possibile ad alcuni buoni
prelati mettere concordia, con dire che, essendo concordi nella conclusione che
i sacramenti contengono e sono causa della grazia, poco importasse dirlo piú in
un modo che nell'altro; anzi, che meglio fosse, non descendendo ad alcuno
d'essi, stare nell'altro universale: replicando i frati che non si trattava di
parole, ma dello stabilire o dell'annichilare i sacramenti. Non si sarebbe
fatto fine, se il legato Santa Croce non avesse ordinato che si passasse al
rimanente, e che in fine si sarebbe tornato a questo passo, et essaminato s'era
necessario decider il ponto o tralasciarlo.
Da' legati
furono chiamati i generali degli ordini e pregati a far ufficio co' suoi di
trattare con modestia e carità, e non con tanto affetto alla setta
propria, mostrando che non erano chiamati se non per trattare contra l'eresie,
al che era molto contrario il farne nascere di nuove con le dispute. E fu anco
da loro dato conto a Roma, e mostrato quanto fosse pericolosa la libertà
che i frati s'assumevano, e dove potesse terminare; e posto in considerazione
al pontefice che una moderazione fosse necessaria: perché andando fama di
quelle dissensioni e delle censure che una parte prononciava contra l'altra,
non poteva se non nascere scandalo e poca riputazione del concilio.
Il quinto
articolo fu stimato da tralasciare, come deciso nella precedente sessione. Ma
frate Bartolomeo Miranda raccordò che Lutero, per quel suo paradosso che
i sacramenti non danno la grazia se non eccitando la fede, cavò anco
conclusione che siano d'ugual virtú quei della Legge vecchia e dell'evangelica,
la qual opinione era da condannare come contraria alla dottrina de' padri e
della Chiesa, avendo tutti detto che i sacramenti vecchi erano segni solamente
della grazia, ma i nuovi la contengono e la causano. Alla conclusione nissun
contradisse; ma i francescani proponevano che non si dovesse dire della Legge
vecchia, ma della mosaica, atteso che la circoncisione essa ancora causava la
grazia, ma non era sacramento mosaico, la qual da Cristo fu anco detto essere
non da Moisè, ma da' padri; et anco perché altri sacramenti inanzi
Abrahamo conferivano e causavano la grazia. Replicando i dominicani che san
Paolo disse chiaro Abrahamo aver ricevuto la circoncisione solo in segno, che
essendo egli il primo a chi fu data, tanto vuol dire quanto che in segno
solamente è instituita, e sopra il modo di causar e contenere la grazia,
tornavano le questioni in campo. Fra Gregorio di Padoa in questo proposito
disse essere cosa chiara appresso i dialettici che le cose del medesimo genere
hanno identità tra loro e differenza. Se i sacramenti vecchi e nostri
avessero sola differenza, non sarebbono tutti sacramenti, se non con
equivocazione; se solo convenienza, sarebbono in tutto l'istessa cosa.
Però esser d'avvertire di non metter difficoltà in cose chiare
per qualche diversità di parole; che sant'Agostino aveva detto questi e
quelli essere diversi nel segno, ma pari nella cosa significata. Et in un altro
luogo esser diversi nella specie visibile, ma gli istessi nella intelligibile
significazione; e che altrove pose la differenza, perché quelli furono
promissivi e questi indicativi: il che un altro esprime con altro termine,
dicendo quelli prenonciativi e questi contestativi. Da che appar chiaro che
molte sono le convenienze, e molte le differenze, le quali nissun uomo sensato
poteva negare; e però con prudenza quell'articolo non esser stato posto
da principio, né esser a proposito toccarlo al decreto presente. Uscí fuori
un'altra opinione, qual sentí che senza descender a' particolari si dovesse
dannare l'opinione de luterani e zuingliani. Imperoché essi dicono nissun'altra
differenza trovarsi tra i sacramenti vecchi e nuovi se non ne' riti. Ma si è
mostrato che altre ve ne sono: adonque condannargli di questo solo, non metter
altra differenza, senza descendere a dire quale ella sia.
Ma il sesto
era censurato da' dominicani, con dire essere proprio de' sacramenti evangelici
il dar la grazia, e dagli antichi non esser stata ricevuta, se non per virtú
della devozione, essendo tale l'openione di san Tomaso. Per principal
fondamento adducevano la determinazione del concilio fiorentino, che i
sacramenti della legge vecchia non causavano la grazia, ma figuravano che
doveva esser data per la passione di Cristo. Ma perché san Bonaventura e Scoto
sostennero che la circoncisione conferiva grazia «ex opere operato», anzi,
aggionse Scoto, che immediate dopo il peccato d'Adamo fu instituito un
sacramento, nel quale a' fanciulli era data una grazia per virtú di quello,
cioè «ex opere operato», i francescani dicevano l'articolo contener il
vero e non poter essere censurato; e facevano gran fondamento che, col dire di
san Tomaso i fanciulli inanzi Cristo esser salvati per la fede paterna, non per
virtú di sacramenti, si faceva lo stato de cristiani di peggior condizione,
perché non giovando adesso a' fanciulli la fede paterna senza battesmo, e
dicendo sant'Agostino che si dannò un fanciullo, essendo morto mentre
dal padre era portato per essere battezato, se in quel tempo la sola fede
bastava, la condizione de' figli de cristiani era deteriore. In queste
difficoltà da molti tu proposto che l'articolo, come probabile, fosse
ommesso.
Del
tralasciar il settimo e l'ottavo fu somma concordia. Ma nel nono, del
carattere, proponeva fra Dominico Soto da dicchiarare che ha fondamento nella
Scrittura divina et è stato tenuto sempre nella Chiesa per tradizione
apostolica; ancorché da tutti i padri non sia stato usato il nome, la cosa significata
nondimeno esser antichissima. Da altri non gli fu concessa una tanta ampiezza,
perché non si vedeva che né Graziano, né il Maestro delle sentenzie ne avessero
fatto menzione; anzi, Giovanni Scoto disse che per parole della Scrittura o de'
padri non era necessario porlo, ma solo per l'autorità della Chiesa,
modo consueto a quel dottore di negare le cose con maniera di cortesia. Degno
era sentire che cosa intendevano fosse, e dove situato, per le molte e varie
openioni de' scolastici, ponendolo alcuni qualità, fra quali erano 4
openioni, secondo le quattro specie della qualità. Chi lo disse una
potestà spirituale, altri un abito o disposizione, altri una spiritual
figura, e non era senza approbatori l'openione che fosse una qualità
sensibile metaforica. Chi la volse una real relazione, altri una fabrica della
mente, restando a questi il dicchiarare quanto fosse lontano dal niente. Del
soggetto dove stia, la stessa varietà era molesta, essendo posto da chi
nell'essenza dell'anima, da chi nell'intelletto, da altri nella volontà
e non mancò chi gli diede luogo nelle mani e nella lingua. Era parer di
fra Gieronimo portughese dominicano che si statuisse tutti i sacramenti
imprimere una qualità spirituale inanzi che sopravenga la grazia, quale
essere de doi generi: una che mai si può scancellare, l'altra che
può perdersi e racquistarsi; quella chiamarsi carattere, questa esser un
certo ornamento. I sacramenti che donano la prima, non replicarsi, poiché il
suo effetto sempre dura; quelli che danno l'ornato, replicarsi quando il loro
effetto è perduto; cosa di bell'apparenza, ma da pochi approvata, per
non trovarsi altro autore di quell'ornato che san Tomaso, qual anco, se ben lo
partorí, non lo giudicò degno d'educazione. Ma quantonque tutti concordassero
in questo generale, che tre sacramenti hanno il carattere, alcuni usarono
modestia, dicendo doversi approbare come cosa piú probabile, non però
necessaria; in contrario altri, che era articolo di fede, per averne fatto
menzione Innocenzio III e per esser poi cosí definito dal concilio fiorentino.
Che la
bontà del ministro non sia necessaria, fu l'articolo tanto ventilato da
sant'Agostino in tanti libri contra i donatisti, che ebbero i teologi materia
di parlare concordemente; et oltre quello, fu per fondamento principale
allegato che l'articolo fu condannato dal concilio di Costanza fra gli errori
di Giovanni Wiglef.
L'undecimo,
tutti i voti furono per condannarlo, come contrario alla Scrittura, alla
tradizione et all'uso della Chiesa universale.
Il duodecimo,
delle forme de' sacramenti, fu distinto, come quello che doi sensi può
ricevere: overo per forma intendendo le parole essenziali, secondo che si dice
ogni sacramento aver la sua materia, l'elemento sensibile, e la forma, la
parola; overo per forma intendendo tutta la formula o rito del ministerio, che
include molte cose non necessarie, ma condecenti; e però consegliarono
che se ne facessero due canoni: per il primo, fosse dannato per eresia chi dice
che la forma possi esser mutata, essendo da Cristo instituita; ma per il
secondo senso, se ben le cose accidentali possono ricevere mutazione,
però quando alcun rito è introdotto con publica autorità,
o ricevuto e confermato dall'uso commune, non debbe esser in potestà
d'ogn'uno, ma solamente del pontefice romano, come capo universale di tutta la
Chiesa, mutarlo, quando per qualche nuovo rispetto convenga.
Per il
tredecimo, dell'intenzione del ministro, non potevano dissentire dal concilio
fiorentino che l'ha per necessaria; ma che intenzione si ricerca era difficile
da esplicare, per la varietà de' sensi umani circa il valore et
efficacia de' sacramenti; perilché non può essere l'istessa intenzione
di doi che abbiano diversa opinione. La risposta commune era che basta aver
l'intenzione di fare quello che fa la Chiesa; la qual esposizione riponendo le
difficoltà medesime, perché per la varia opinione degl'uomini, qual sia
la Chiesa, anco l'intenzione loro nel ministrar il sacramento riuscirebbe
varia, pareva che si potesse dire non esser differente, quando tutti hanno l'istessa
mira di fare quello che da Cristo è stato instituito e la Chiesa
osserva, se ben si avesse per vera Chiesa una falsa, purché il rito di questa e
di quella sia l'istesso.
[Dottrina del vescovo di Minori intorno a'
sacramenti]
In questo
particolare dal vescovo di Minori fu proposto cosa degna d'esser commemorata
qui, e da tutti riputata e stimata di gran considerazione. Egli disse che a'
luterani, quali non danno altra virtú a' sacramenti che d'eccitare la fede, la
qual però può essere destata in altra maniera, importa poco
ricever il vero sacramento; onde anco dicono che non sia necessario, e pur
tuttavia hanno per inconveniente che la malizia dell'empio ministro, che non
avesse intenzione di conferire il vero sacramento, possi nuocere, convenendo
attendere quello che il fedele riceve, non quello che gli è dato. Ma a'
catolici, che, secondo la verità, danno al sacramento efficacia per
donar la grazia a chi non pone impedimento, poiché rarissime volte occorre che
per altro mezo s'ottenga la grazia, i fanciulli certo, e molti di poco senno
non hanno la salute per altro mezo. E gl'uomini ordinarii hanno cosí tenue
disposizione, che senza il sacramento non mai sarebbe bastante. E quei pochi,
che, come fenici, hanno disposizione perfetta, ricevono però grazia
maggiore per il sacramento; onde molto importa al cristiano esser certo se lo
riceve vero et efficace. Se un sacerdote che tenga cura di 4000 overo 5000
anime, fosse un incredulo, ma solenne ipocrita, e nel assolvere i penitenti e
nel battezar i putti, nel consecrare l'eucaristia avesse secreta intenzione di
non far quello che la Chiesa fa, converrebbe dire che i putti fossero dannati,
i penitenti non assoluti, e tutti senza il frutto della communione. Né giova
dire che la fede supplisce, perché a' putti certo no: agl'altri, secondo la
dottrina catolica, non può far l'effetto del sacramento, e solo
può fare nel caso della malizia del ministro, che può esser anco
ordinaria, perché non può farlo sempre; e l'attribuire tanta virtú alla
fede sarebbe un levare la virtú a' sacramenti, e dare nell'opinione luterana.
Considerava
che afflizzione averà un padre di tenero amore verso il suo figliuolino
moribondo, se dubitarà dell'intenzione del prete battezante; similmente
uno che si senti con imperfetta disposizione e sia per battezarsi, che
ansietà doverà avere, che forse il prete non sia un finto
cristiano e se ne burli, e non abbia intenzione di battezarlo, ma lavarlo o
bagnarlo per irrisione; et il medesimo si consideri nella confessione e nel
ricevere l'eucaristia. Soggiongeva: se alcuno dicesse che questi casi sono
rari, Dio volesse che cosí fosse, et in questo corrotto secolo non vi fosse da
dubitare che siano frequenti; ma siano rarissimi, e sia anco uno solo. Sia un
tristo prete che finga, e non abbia intenzione di ministrare il vero battesmo
ad un fanciullo, questo poi, fatto uomo, sia creato vescovo d'una gran
città e vivi in quel carico molti anni, sí che abbia ordinato gran parte
de' preti; bisogna dire che quello, come non battezato, non è ordinato,
né meno sono ordinati i promossi da lui, onde in quella gran città non
vi sarà il sacramento dell'eucaristia, né della confessione, che non
può esser senza il vero sacramento dell'ordine, né questo senza il vero
vescovo, né può ricevere l'ordine chi non è battezato; ecco per
malizia d'un ministro in un solo atto milioni di nullità de' sacramenti;
e chi vorrà che Dio supplisca con la sua onnipotenza in tanta frequenza
e vorrà che con rimedii estraordinarii provegga alle cose quotidiane,
piú tosto farà credere che Dio, per sua providenza, abbia provisto che
simil accidenti non possino occorrere. Però, diceva il vescovo, ad ogni
inconveniente Dio ha proveduto con aver ordinato che sia vero sacramento quello
che è amministrato col rito instituito da lui, se ben interiormente il
ministro portasse altra intenzione: aggionse però che ciò non
repugna alla dottrina commune de' teologi et alla determinazione del concilio
fiorentino, che l'intenzione si ricerca, perché ciò s'intende non
dell'interna, ma di quella, che per l'opera esteriore si manifesta, se ben
interiormente vi fosse una contraria; e cosí sono levati tutti gli
inconvenienti che altrimenti sarebbono innumerabili. Molte altre raggioni
addusse per prova, et in fine portò un essempio scritto da Sozomeno: che
essendo ridotti i putti d'Alessandria al mare per giocar tra loro, si diedero
ad immitare scherzando le azzioni solite farsi in chiesa, et Atanasio, creato
da loro vescovo del gioco, battezò altri fanciulli non prima battezati;
la qual cosa intesa da Alessandro, vescovo alessandrino di celebre memoria, si
conturbò e, chiamati i putti, et interrogato quello che il finto vescovo
aveva loro fatto e detto, et essi risposto, et inteso che tutto 'l rito
ecclesiastico fu osservato, con conseglio d'altri sacerdoti, approvò il
battesmo, la qual approbazione non si potrebbe sostenere, quando si ricercasse
una intenzione tale, come gli altri dicevano, ma sí ben nel modo ch'egli
esprimeva.
Questa
dottrina non fu approvata dagli altri teologi, ma ben restarono storditi tutti
dalla raggione, non sapendo risolverla, restando nondimeno nella dottrina
appresa, che l'intenzione vera del ministro sia necessaria, o attuale o
virtuale, e che con una intenzione interna contraria, non ostante qualonque
esterna demostrazione, il sacramento non sia valido. Non debbo restar di
narrare anco, se ben questo sarà un anticipar il tempo proprio, che,
quantonque la sinodo dopo determinasse assolutamente che l'intenzione del
ministro è necessaria, come ogni uno può vedere, questo prelato
nondimeno restò nel suo parere, anzi un anno dopo scrisse un libretto di
questa materia, dove afferma che la sinodo tridentina fu del suo parere e che
secondo il senso suo si debbe intender la determinazione del concilio.
Dell'ultimo
articolo, per le cose dette degl'altri, non vi fu difficoltà che da
tutti non fosse condannato.
[Intorno alla materia del battesmo]
La materia
del battesmo fu di maggior espedizione; nel terzo articolo, di quello che
è dato dagli eretici, tutti fondarono sopra la dottrina delle cose,
ricevuta dal concilio fiorentino, che il sacramento ricerca materia, forma et
intenzione, e che l'acqua è materia; forma, l'espressione dell'atto nel
nome del Padre, Figlio e Spirito Santo; l'intenzione, di fare quello che la
Chiesa fa, onde fermarono la conclusione per indubitata, che hanno vero
battesmo quegli eretici che convengono con noi in queste tre cose, e tanto
asserivano aversi per tradizione apostolica et esser stato già stabilito
sino da Stefano I, pontefice romano, principiando il terzo secolo, et approvata
da tutta la Chiesa seguente; se ben gl'intendenti d'antichità ben sanno
che questo non fu il parere di Stefano, né in quei tempi si sapeva forma,
materia o intenzione; e quel pontefice assolutamente sentí che non si dovevano
battezare i conversi da qual si voglia eresia, non facendo eccezzione d'alcuna;
anzi che in quei tempi gli eretici, fuori che pochi montanisti, erano gnostici,
che usavano stravaganti battesmi per le essorbitantissime opinioni che avevano
della divinità e della persona di Cristo; e quei battesmi è certo
che non avevano la forma usata ora, e nondimeno riceveva la Chiesa romana
allora a penitenzia ogni sorte d'eretico indifferentemente senza battezarlo. Sí
come i vescovi d'Africa con quei di Cappadocia erano per diametro opposti,
dicendo che conveniva rebattezare tutti gli eretici. Il concilio niceno tenne
via di mezo, statuendo che i cattari non si rebattezassero, ma sí ben i
paulianisti e montanisti. La sinodo constantinopolitana numerò molti
eretici che dovessero esser rebattezati et altri che fossero ricevuti con loro
al battesmo, in quali sarebbe cosa molto difficile mostrare che usassero la
nostra forma: ma quel che piú di tutto importa è che san Basilio attesta
che in Roma non si rebattezavano li novaziani, encratici e saccofori, quali
egli rebattezava, non avendo quel santo per assorda questa diversità,
solo dicendo che sarebbe stato ben congregare molti vescovi per risolver di
operare concordamente. Ma a queste cose non attendendo piú che alle favole, si
attennero alla corrente dottrina che l'eretico veramente batteza, se usa le
parole e ha l'intenzione della Chiesa.
Il quarto
articolo, che il battesmo sia penitenza, attesa la forza del parlare suo, da
molti non fu tenuto per falso, allegando che l'Evangelista dicesse san Giovanni
aver predicato il battesmo della penitenza, e che Agli ebrei, al sesto,
san Paolo chiamasse il battesmo con nome di penitenza. E cosí abbiano parlato
anco molti padri, onde l'articolo non poteva esser condannato, se non quando
dicesse il battesmo esser il sacramento della penitenza: ma perché in questo
senso pareva il medesimo col decimosesto articolo, i piú furono di parere di
tralasciarlo.
Il nono e
decimo, pertinenti al battesmo di Giovanni, molti erano di parere che fossero
tralasciati, poiché non parlandosi di quelli della legge vecchia, meno
conveniva parlar di quello che fu intermedio, essendo lo scopo di trattare de'
sacramenti della nuova legge. Ma dall'altra parte fu detto che la mente degli
eretici non è di alzare il battesmo di Giovanni al pari di quello di
Cristo, ma di abbassare quello di Cristo a quel di Giovanni, inferendo che sí
come questo non dava la grazia, ma era pura significazione, cosí anco il
nostro; il che è formalissima eresia.
Nell'undecimo,
de' riti, volevano alcuni che si distinguessero i sostanziali dagl'altri,
dicendo che quei soli non si possono tralasciare senza peccato. Altri volevano
escludere il caso della necessità solamente, fuor della quale non fosse
lecito tralasciare manco i non sostanziali, poiché avendogli la Chiesa, che
è retta dallo Spirito Santo, instituiti, hanno necessità per il
precetto, se ben non per la sostanza del sacramento. Allegarono molti capitoli
de' pontefici e concilii che di alcuni di quei riti parlano; i quali tutti resterebbono
vani, quando fosse concessa libertà ad ogni uno di far mutazione. Quella
parte che dell'immersione parla, se ben è piú espressa figura della
morte, sepoltura e risurrezzione di Cristo era nondimeno da tutti dannata, con
allegare molti luoghi de' profeti, dove si parla d'aspersione o effusione
d'acqua, quali tutti literalmente dicevano doversi intendere del battesmo.
Contra quei
tre, che del battesmo de' putti parlano, fu il parere di tutti con allegare la
dottrina degl'antichi padri e delli scolastici, e molte invettive furono fatte
contra Erasmo, attribuendogli l'invenzione del decimoquinto, qualificandola per
empia e perniciosa, e che aprirebbe una via d'abolir afatto la religione
cristiana: aggiongendo che, se i fanciulli degli ebrei circoncisi, venendo all'età,
erano debitori di servare tutta la legge et erano puniti per le trasgressioni,
molto piú era cosa giusta costringer i figli de' fedeli ad osservare la
cristiana; che meritamente l'università di Parigi aveva condannato
quell'articolo e la sinodo lo doveva condannare. Il decimosesto concludevano
essere compreso negli articoli superiori, perché leverebbe la penitenzia, un
altro de' 7 sacramenti. Ma l'ultimo tutti dissero esser contrario al proprio
ministerio del battesmo, nel bel principio del quale vien avvertito il
catecumeno che volendo andare alla vita eterna, è necessaria
l'osservanza di tutti i commandamenti.
Per gli
articoli circa la confermazione non vi fu alcuna differenza, per aver
fondamento nel concilio fiorentino, il qual da tutti era allegato, e quello che
nel terzo articolo si dice, che già i giovani rendessero conto della sua
fede in presenza della Chiesa, generalmente fu deciso, con dire che, non
usandosi in questi tempi, si doveva credere che mai per il passato fosse stato
usato, perché la Chiesa non averebbe intermessa quella ceremonia. Furono
portati molti luoghi de' concilii e scrittori antichi con menzione del crisma e
di onzione, che non possono convenir ad instruzzione, né essame. Perilché
conclusero dovere essere riputata vanissima l'ignoranza di chi vuol al
presente, contra al commun senso di tutta la Chiesa, mutar un sacramento tanto
principale in un rito che forse in qualche particolar luogo fu una volta usato,
ma non mai fu universale, come l'onzione del crisma.
Sopra
l'ultimo articolo fu molta difficoltà, per il fatto di san Gregorio papa
che concesse quel ministerio a' semplici preti; nel che li francescani per la
dottrina di san Bonaventura, che, seguito da Giovanni Scoto e dall'ordine loro,
attribuiva al solo vescovo questo ministerio, avendo per nullo l'attentato da
un prete (il che fu anco tenuto da papa Adriano VI) rispondevano che quella fu
permissione e per quella volta sola, e contra il volere del papa per fuggire lo
scandalo de quei popoli; overo che quell'onzione da Gregorio permessa non era
sacramento della confermazione. La qual risposta non essendo piacciuta a san
Tomaso, perché non libera totalmente il papa dall'aver errato, egli
trovò temperamento con dire che, quantonque il vescovo sia ministro
della confermazione, possi nondimeno essere ministrato dal prete con
permissione del papa; al che opponendo gli altri la dottrina della romana
Chiesa essere assoluta, che da Cristo sono instituiti i ministri de'
sacramenti, a' quali se ben il papa può commandare quanto all'essercizio
del ministerio, non può però in modo alcuno fare che il
sacramento ministrato da altri sia valido, né che il conferito dal ministro
instituito da Cristo, eziandio contra il precetto di esso papa, sia nullo; e
però se Cristo ha instituito il vescovo per ministro, il papa non lo
può concedere al prete, se Cristo ha concesso che il prete possi, non lo
può impedire il papa; parendo gran cosa che negli altri sacramenti,
tutti di maggior necessità, Cristo avesse prescritto il ministro senza
lasciare nissuna libertà agli uomini, et in questo, che si può ad
ogni meglior opportunità differire, avesse usata una singolarità,
della quale per 600 anni, che furono sino a Gregorio, nissuno avesse fatto
minima menzione e far un articolo di fede sopra 4 parole dette per occasione;
che se quella epistola si fosse perduta, mai nissuno averebbe inventato quella
distinzione insolita in tal materia, né applicabile ad altro che a questo luogo
di Gregorio.
Non
sodisfacendosi altri della resoluzione né dell'una, né dell'altra parte,
proposero alcuni che si pigliassero le parole del concilio fiorentino e non si
cercasse piú oltre; altri pigliarono termine che si condannasse solo chi
dirà il prete, e non il solo vescovo, essere l'ordinario ministro,
lasciando che di quella parola ambe le opinioni potessero valersi, essendo
libero l'inferire: adonque ci è un altro ministro straordinario, overo
dire: adonque non ve ne può esser altro, perché i sacramenti non hanno
ministro se non ordinario.
[È formato il decreto della riforma
degli abusi nel ministerio de' sacramenti]
Mentre gli
articoli sopradetti furono discussi da teologi, nella congregazione de'
canonisti, formata per raccogliere e rimediare agli abusi concernenti le
materie stesse de' sacramenti in generale, e del battesmo e confermazione, fu
formato un decreto continente 6 capi [che] in sostanza diceva:
Che la
sinodo, volendo levare gli abusi introdotti dagli uomini o da' tempi, et
insegnare i ministri delle chiese et altri fedeli come si debbono governare nel
custodirgli, ministrargli e ricevergli, ordina:
1 Che i
sacramenti ecclesiastici siano liberalmente conferiti, e per il ministrargli
nissuna cosa sia riscossa overo addimandata sotto qual si voglia pretesto, né
sia posto in mostra cassetta, vaso, drappo o altra tal cosa, per quale
tacitamente appaia che si dimandi; né meno sia negato o differito il sacramento
sotto pretesto di qual si voglia longa et antica consuetudine di non
conferirgli, se non ricevuta prima determinata mercede, overo anco
sodisfazzione di qualche cosa del testo debita; atteso che né il pretesto di
consuetudine, né la longhezza del tempo sminuisce, anzi accresce il peccato, et
i contrafacienti sottogiacciono alle pene statuite dalle leggi contra i
simoniaci.
2 Il
sacramento del battesmo non sia conferito in luoghi profani, ma solo nelle
chiese, salvo che per urgente necessità, et eccettuati i figliuoli de'
re e prencipi, secondo la constituzione di Clemente V, la qual però non
abbia luogo in tutti quelli che hanno dominio, ma solo ne' prencipi grandi; né
i vescovi diano la cresma, se non vestiti con paramenti condecenti, e nelle
chiese, luoghi sacri o case episcopali.
3 Il
sacramento del battesmo sia amministrato da sacerdoti periti et idonei nelle
chiese matrici solamente, nelle quali sia il fonte battesmale, eccetto se per
le gran difficoltà d'andare a quelle, paresse a' vescovi concederlo anco
in altre chiese, o da immemorabil tempo sia stato concesso; nelle qual chiese
sia custodita l'acqua benedetta presa dalla chiesa matrice in un vaso mondo e
condecente.
4 Nel
battesmo e cresma non sia ammesso piú che uno per padrino, il quale non sia
infame, né scommunicato, né interdetto, né sotto la pubertà, né monaco o
altro che non possi esseguire quello che promette; e nella cresma non sia
ricevuto per padrino chi non è cresimato esso.
5 Per levare
l'abuso in molti luoghi introdotto di portare l'acqua del battesmo in volta,
overo condur i putti cresimati con la fronte ligata, a fine di fare molti
compadri col lavar delle mani e col scioglier la fronte, atteso che nissuna
compaternità con questi modi si contrae: non permettino i sacerdoti che
l'acqua del battesmo sia portata fuori di chiesa, ma subito sia gettata nel
sacrario et il fonte battesmale sia serrato, et i vescovi, quando danno la
cresma, facciano star due chierici alla porta della chiesa, quali sleghino e
lavino le fronti de' cresimati, e non lascino uscir della chiesa alcuno ligato.
Abbiano ancora i vescovi diligente cura di non confermare alcuno scommunicato,
né interdetto, né che sia in peccato mortale.
[Difficoltà della gratuità del
sacramento]
E quantonque
con maggior facilità i canonisti fossero convenuti in questi decreti che
i teologi nelle loro discussioni, con tutto ciò furono tra loro qualche
differenze, nella risoluzione de' quali non potendo convenire, dopo averle
longamente disputate, formarono i dubii, rimettendo la decisione di quelli alla
congregazione generale. Era il primo dubio se alle parole del decreto,
cioè: nissuna cosa sia riscossa overo addimandata, si doveva aggiongere
ancora: né ricevuta. Il secondo, se si doveva anco aggiongere: eziandio sotto
pretesto di qual si voglia consuetudine. Il terzo se era ben aggiongersi
qualche parole per significare che la sinodo non proibisce le oblazioni
volontarie, overo che le proibisce solo quando sono date per risguardo del
sacramento, e non per altri rispetti di pietà, o pur se il decreto si
debbe lasciare nella sua universalità.
Ma nella
congregazione generale fu la medesima difficoltà, la quale non fu
possibile concordare. Quelli che volevano le aggionte per proibire anco il
ricevere et il pretesto della consuetudine, allegavano l'Evangelio: «Date liberalmente
quello che liberalmente avete ricevuto», e molti canoni con anatemi a chi
dà et a chi riceve cosa temporale per la spirituale. Che la consuetudine
contra la legge divina e naturale è una corrottela e non può aver
luogo; che nel titolo di simonia è ripresa e dannata la consuetudine di
dare o di ricever per il possesso de' beneficii, per le benedizzioni delle
nozze, per le sepolture, benedizzione del crisma, overo oglio, et ancora per la
terra della sepoltura: il che tanto maggiormente si debbe applicare a'
sacramenti; che, non proibendo la consuetudine, non sarà fatto niente,
perché la corrottela è introdotta per tutto et ogni uno si
scuserà con quella; che sí come nel decreto si ha dannato la
consuetudine di ricever alcuna cosa inanzi, per la medesima raggione si debbe
dannare la consuetudine di ricever dopo; perché altrimente, con aver condannato
quella sola, si vien ad approvar questa. E quanto alle oblazioni volontarie,
volevano che generalmente fosse proibito il dar e ricever alcuna cosa poco
inanzi o poco dopo per qualcunque rispetto si voglia; imperoché per raggione
del tempo si ha da presumere che sia dato per il sacramento, e per questo era
allegata la glossa, la qual dice che, quantonque il metter danari nella
cassetta sia opera di pietà, nondimeno il farlo al tempo del sacramento
ricevuto induce sospizione di simonia: doversi aver rispetto al tempo nel quale
la cosa, che del rimanente sarebbe stimata buona, ha specie di malizia; esser
precetto divino levar ogni occasione di scandalo et astenersi da ogn'apparenza
di male, e per fare che i sacramenti siano amministrati con purità,
proibir assolutamente le offerte spontanee ne' tempi che i sacramenti sono
amministrati, essortando i fedeli a quelle negli altri tempi et occasioni.
Per l'altra parte
era detto, che un canone del concilio cartaginese IV concede che sia ricevuto
quello che è offerto da chi fa battezare i suoi figli; che i teologi,
dopo avere determinato che per i sacramenti niente di temporale può
esser ricevuto, insieme consentono che si possi ricever per la fatica
nell'amministrargli. E molto piú quando non è dato o ricevuto per
rispetto del sacramento, ma per raggione di limosina; che questo sarebbe un
levar a' laici le occasioni d'essercitare le opere di pietà; che levando
le offerte volontarie, i poveri curati non averanno di che sostentarsi.
Allegavano l'autorità di san Paolo, che non sia lecito metter la
musarola al animal che batte il grano nell'ara, e che serve all'altare,
dell'altare debbe vivere. Non doversi confessare mai che vi sia alcuna
consuetudine introdotta di dar o ricevere alcuna cosa per il ministerio de'
sacramenti; perché essendo quella generale per tutto, sarebbe un dire che nella
Chiesa universale sia stato tolerato, anzi approbato un abuso pernizioso; e però
non fa bisogno parlare di levar una consuetudine, la qual non è
introdotta: e pensando di voler porger rimedio a quello che non è male,
ma è stimato tale per la fiacchezza della conscienza d'alcuni, far una
piaga mortale nella Chiesa. Per raggione principalissima dicevano che
Innocenzio III nel concilio generale, capitolo Ad apostolicam, De
simonia, non solamente dicchiara per lodevole la consuetudine in questa
materia d'oblazione nel ministerio de' sacramenti et ordina che sia osservata,
ma ancora che il vescovo debbe punir chi tenta di mutarla. Perilché il
determinar adesso il contrario sarebbe con immenso scandalo condannar un
pontefice et un concilio generale, come approbatori e defensori d'un error
pernizioso.
Era replicato
dall'altra parte che lo statuto del concilio cartaginese condanna severamente
l'essazione, tolerando l'offerta spontanea; ma è però emendato
dal concilio eliberitano, il quale proibisce l'uso introdotto che il battezato
metteva qualche danaro nel vaso. Che l'invenzione de' teologi, distinguendo il
ministerio del sacramento dalla fatica nel ministrarlo e la distinzione di
ricever per rispetto del sacramento o d'altro, insieme con quell'altra di
primaria e secondaria intenzione, erano metafisiche e chimeriche, poiché le
parole dell'Evangelio sono dette in termini assoluti, non soggetti a cavilli,
né a glosse che destruggono il testo. Che Dio, per Moisè e san Paolo,
nel proibir la musarola, intendono che non sia negato l'alimento all'animal
affamato, ma non che sia concesso al satollo di riempirsi superfluamente. Che
non si può pretendere povertà dell'ordine clericale, avendo non
solo competenti, anzi anco abondanti entrate; ma l'abuso esser che i rettori
delle chiese non fanno residenza ne' beneficii e pur vogliono per sé tutti i
frutti et affittano anco gli incerti a poveri pretucci, i quali sono sforzati a
vender tutto per vivere. Doversi piú tosto provedere che tutti risedano nel suo
beneficio, che averanno di che vivere et abondare, e non useranno vendere i
sacramenti ecclesiastici. E con questa occasione tornavano a dilatarsi sopra la
residenza e sopra i beni che sarebbono seguiti dicchiarandola de iure divino.
Soggiongendo poi che se pur qualche beneficio curato è tenue, se gli
provegga con l'unione d'altri beneficii simplici; e quando non vi sia altro
modo, si procuri che il popolo gli dia da viver. Esser meglio e grato a Dio il
confessar l'error passato e rimediarlo, piú tosto che difenderlo e perseverare
in quello. Et il cardinal del Monte, che del rimanente pareva a tutti poco inclinato
a riformazione, in questo nondimeno sentiva vivamente per questa parte, et a
quelli che allegavano l'autorità d'Innocenzio III [e] del concilio
generale, respondeva che facevano gran torto a quel pontefice et a quei padri
ad attribuirgli che difendessero un tanto abuso, e mostravano la loro
ignoranza; imperoché leggendo i 3 capi del medesimo concilio, precedenti
inanzi, averebbono veduto chiaro l'intenzione, e come quei padri proibirono
ogni essazzione, condannando anco la consuetudine in contrario; et in quel
capitolo non si approvano le consuetudini di dar alcuna cosa per il ministerio
de' sacramenti, ma le altre lecite et oneste introdotte a favor delle chiese,
come le decime, primizie, oblazioni solite a farsi all'altare, porzioni
canoniche et altre tali lodevoli usanze; allegando che cosí era inteso il
capitolo da Bartolo e da Romano.
[Si formano i canoni de' sacramenti]
Ancora i
padri deputati a formar i decreti in materia della fede, considerate le
sentenzie de' teologi e le conclusioni in quali erano convenuti, tralasciati e
distinti gli articoli secondo il ricordo loro, et ordinatigli anco in serie piú
consequente, formarono 14 anatematismi sopra i sacramenti in universale, 10 del
battesmo, e 3 della cresima, esplicati con tal forma, che non restava censurata
alcuna delle opinioni cattoliche, e stando sul commune, sodisfaceva a tutte le
parti. Ma nel componer i capi per esplicare la dottrina, come s'era fatto della
giustificazione, non fu possibile farlo che, usando i termini d'una delle opinioni,
non paresse reprobata l'altra, cosa che né a' dottori piaceva per affetto alla
propria setta, né a' legati e neutrali, per non seminare cause di nuovi
schismi. Ma non essendo possibile esplicare la dottrina cosí delicatamente che
non si pendesse piú d'una delle parti, remisero alla congregazione generale il
definire il modo come i sacramenti contengono e causano la grazia.
Nella
congregazione non fu minor perplessità di quella che i deputati avevano:
con tutto ciò una parte de' padri inclinava piú tosto a tralasciar
afatto il capo della dottrina e passare con i soli anatematismi, come s'era
fatto del peccato originale. L'altra parte voleva onninamente i capi della
dottrina, allegando le raggioni usate, quando si deliberò di trattare
cosí la giustificazione, e che l'essempio introdotto allora era necessario
seguire; doversi usar ogni accuratezza per farlo con sodisfazzione di tutte le
parti; ma finalmente esser necessario farlo, e non esservi pericolo d'alcuna
divisione; perché sí come i teologi presenti in concilio, se ben acremente
difendono la propria opinione, si rimettono nondimeno alla sinodo, il che
essendo certa cosa che faranno anco gli assenti, non si debbe restar di fare
cosa perfetta per convincere gli eretici. Averebbe prevalso questa sentenzia,
se non se gli fosse opposto vivamente Giovanni Battista Cigala, vescovo di
Albenga et auditore della camera, il qual disse che per la lezzione delle
istorie non averebbe mai trovato che alcuno, se non costretto, deponesse
l'opinione propria per essere condannata: e se ben tutti i catolici dicono di
rimettersi al giudicio della Chiesa romana, con tutto ciò, se l'opinione
sua fosse reprobata, non la rimetterebbono, ma piú pertinacemente la
difenderebbono, maggiormente fortificandosi per l'opposizione; onde di
sètte nascono eresie. Le quali per impedire, il vero modo esser tolerare
tutte le opinioni et operare che nissuna danni l'altra, ma si viva in pace; né
mai esser una tanto repugnante all'altra, che usando questa moderazione possi
nascer alcun inconveniente, dove che senza questa, una differenza verbale, un
apice minimo è sufficiente a dividere tutto 'l mondo. Che molte delle
opinioni de' moderni innovatori s'averebbono potuto tolerare, se le avessero
asserite con modestia e senza dannare la Chiesa romana e la dottrina delle
scole. Questo avere costretto Leone a ritorcer contra Lutero quelle saette che
egli prima tirò contra la Sede apostolica. In somma diceva e replicava
il savio prelato che le solite protestazioni de' dottori di rimettersi alla Chiesa
erano termini di creanza e riverenza, a' quali necessario era corrispondere con
altretanto di rispetto, conservandosi neutrale tra le contrarietà;
comportar cosí i termini del vivere che rispetti quello che vuol esser
rispettato, e non creder mai che chi dice di rimettersi e sottoporsi abbia
animo di farlo, se l'occasione venisse: di che aver dato manifesto indicio
Lutero, il quale mentre ebbe da far con soli frati questori in Germania in
materia delle indulgenze et anco co' dottori di Roma, sempre disse che si
rimetteva al papa, e subito che Leone ricevette la promessa per reale, la qual
era detta per pura apparenza, non solo Martino non attese la promessa, ma inveí
maggiormente contra il pontefice che non aveva fatto contra li questori in
Germania.
Di tutte le
cose deliberate e delle difficoltà rimanenti, cosí nella materia di
fede, come di riforma degli abusi, i legati mandarono copia a Roma,
ricchie[de]ndo ordine di quello che dovevano risolversi, fra tanto non
tralasciando di reessaminare le medesime materie, ma trattando però piú
seriamente la materia della pluralità de' beneficii, già, come
s'è detto, proposta, e parte in questo tempo medesimo ventilata; della
quale, per narrarla continuamente, ho portato il tutto in questo luogo.
[Nella congregazione della riforma si
rimettono su le qualità de' vescovi rispetto alla residenza]
Nella
congregazione de' 15 genaro, quando furono dati fuori gli articoli de'
sacramenti, continuandosi la materia incomminciata il giorno inanzi, alla
pluralità s'aggionse di trattare le qualità e condizioni de'
vescovi, poiché assai non risiedono per non esser atti ad essercitar il carico;
e molte cose furono dette, preso principio da quello che san Paolo ricerca ne'
vescovi e diaconi, facendo gran riflesso sopra le parole «irreprensibile»,
«dedito all'ospitalità», «non avaro», «non nuovo nella religione» e
«stimato anco dagli esteri»; appresso furono portate altre condizioni requisite
da molti canoni, né in questo occorse alcuna contenzione, declamando tutti
concordamente contro i vizii e defetti de' prelati e dell'ordine ecclesiastico:
il che non dispiaceva a' legati, vedendo volontieri i prelati a trattenersi con
questa imagine di libertà. Ma nel fervore del parlar Giovanni Salazar,
vescovo di Lanciano, attribuí l'origine del male alla corte romana, la quale
nella distribuzione de' vescovati avesse mira non alla sufficienza delle
persone, ma a' servizii ricevuti. A che replicò con molto senso il
vescovo di Bitonto, che poco dopo lui parlò, dicendo che immeritamente a
quella corte era attribuito quello che veniva per colpa altrui, poiché in
Germania anco i vescovati si danno per elezzione, in Francia, Spagna et
Ongaria, per nominazione regia, in Italia molti sono de iure patronatus,
et anco ne' liberi i prencipi vogliano sodisfazzione e con le raccommandazioni,
che sono preghiere a quali non si può dare la negativa, levano la
libertà al pontefice e chi vorrà non correr dietro all'opinione,
né lasciarsi trasportare da affetti, ma con sincero giudicio risguardare,
vederà che i vescovi fatti liberamente a Roma sono forse i migliori di
tutta Europa. Che la pluralità de' beneficii, male incognito
all'antichità prima, non è stato introdotto dalla corte di Roma,
ma da' vescovi e prencipi, inanzi che i pontefici assonsero il carico di
regolare la materia beneficiale in tutta la cristianità, senza le
provisioni de' quali, che si vedono nel corpo canonico, il disordine sarebbe
gionto al colmo. Fu udita questa contenzione con piacere e dispiacere, secondo
gli affetti, ma ben ogni uno scopriva che tal materia non si poteva maneggiare
senza pericolo; come mostrarono le trattazioni delle seguenti congregazioni.
[Discorso dell'origine, progresso e pretesti
degli abusi riguardo a' benefici]
Ma perché
questo particolare merita esser ben inteso, sarà cosa giovevole narrar
l'origine dell'abuso e come sia pervenuto a questo colmo. Tralasciato di
parlare di quei felici tempi, quando il nome di Chiesa era commune a tutta
l'adunanza de' fedeli, alla quale ancora apparteneva l'uso et il dominio de' beni
che si chiamano ecclesiastichi, quando di una massa commune, era preso il vitto
e vestito de' poveri e de' ministri, anzi si provedeva piú principalmente a'
bisogni di quelli che di questi; né facendo menzione di quando per la
imperfezzione si smontò un grado, e si fece di una massa 4 parti,
ponendo nell'infimo luogo quella de' poveri, che secondo l'uso d'inanzi doveva
esser nel primo; ma pigliando principio dopo che, escluso dal nome di Chiesa il
popolo di Cristo et appropriatolo a' soli chierici, per appropriargli insieme
l'uso et il dominio de' beni, fu a pochi applicato quello che di tutti era, et
agli opulenti quello che prima serviva agli indigenti; nel principio, dico, di
quei tempi, avendo i chierici partito tra loro tutte le entrate della Chiesa, i
carichi, che prima erano chiamati ministerii et officii della cura spirituale,
ebbero per principale il temporale e furono nominati beneficii. E per allora,
vivendo tuttavia i canoni antichi che uno non fosse a doi titoli ordinato,
nissun poteva aver se non un beneficio. Ma succedendo per le guerre o
inondazioni la diminuzione delle entrate, sí che non restassero sufficienti per
il vitto, era quel beneficio conferito a chi un altro [ne] teneva; ad un tale,
però, che potesse attendere ad ambidoi. Il che s'introdusse fare non a
favor del beneficiato, ma della chiesa, la qual non potendo aver un proprio
ministro, avesse almeno qualche altro servizio che gli potesse esser prestato.
Sotto pretesto che un beneficio non fosse sufficiente al vitto e non si trovasse
chi gli servisse, s'allargò a concederne piú ad uno, quantonque non
apparisse necessario per servizio delle chiese, e pian piano, levata la
maschera, non s'ebbe per vergogna far l'istesso a favor del beneficiato; di che
ricevendo il mondo scandalo, convenne moderare et onestare l'introduzzione;
laonde, poiché si vedeva accettata la distinzione di obligati alla residenza e
non obligati, fu aggionta un'altra de' compatibili et incompatibili; chiamando
incompatibili tra loro quelli di residenza, e compatibili gli altri con questi
e tra loro: sempre però al color dell'onestà, era riservato il
primo luogo con la glossa de' canonisti che piú beneficii non siano dati, se
non quando uno non basta per vivere. Ma questa sufficienza la tagliavano molto
larga, proporzionandola non alla persona, ma anco alla qualità: non
avendo per sufficiente ad un prete dozenale se non fosse bastante per sé, per
la famiglia de' parenti, per tre servitori et un cavallo; ma se fosse nobile
overo letterato tanto piú. Per un vescovo è maraviglia quanto
l'allargano per il decoro che gli convien tenere. De' cardinali basta
considerare il volgar detto della corte che s'uguagliano a' re, dal che
concludono che nissuna entrata sia eccessiva in loro, se non è
soprabondante alla condizione regale. Introdotta la consuetudine, e non potendo
il mondo, né l'equità resistere, i pontefici romani riservarono a sé
soli il poter dispensare degli incompatibili e dell'averne piú di doi
degl'altri. Ma per trovar modo di metter in pratica che avesse del colorato, si
diede mano alle commende, cosa anticamente ben instituita e poi adoperata solo
a questo fine. Già quando per qualche rispetto di guerre, pesti et altre
cause tali non si poteva cosí presto far l'elezzione o provisione, il superiore
raccommandava la chiesa vacante a qualche persona di bontà e valore, che
oltre la cura della propria, governasse anco la vacante finché fosse provisto
di rettore proprio e titulario: questo allora non aveva facoltà sopra le
entrate, se non di governarle e consegnarle. In progresso i commendatarii,
sotto varii pretesti di necessità et onestà, si valsero de'
frutti e, per goderli piú longamente, attraversavano varii impedimenti alla
provisione; onde per rimedio fu preso ordine che la commenda non potesse durare
piú di 6 mesi. Ma i papi, con l'autorità loro di plena potenza,
passarono a commendare per piú longo tempo, e finalmente anco a vita del
commendatario, e con facoltà di usar per sé i frutti oltre le spese
necessarie. Questa buona invenzione cosí degenerata si usò ne' tempi
corrotti per paliare la pluralità al possessore d'un beneficio,
commendandone un altro o piú, cosí servando le parole della legge di non dar ad
una persona salvo che uno, ma defraudando il senso, poiché il commendatario a
vita in essistenza e realtà non è differente dal titolario. Erano
commesse gravi essorbitanze nel numero de' beneficii commendati, tanto che in
questo secolo, dopo nati i moti luterani e mentre tutto 'l mondo dimandava
riforma, non ebbe rispetto, né vergogna papa Clemente VII del 1534, di
commendare ad Ippolito cardinale de' Medici, suo nipote, tutti i beneficii di
tutto 'l mondo, secolari e regolari, degnità e personati, semplici e
curati vacanti, per 6 mesi dal dí che ne avesse presa la possessione, con
facoltà di disponer e convertir in suo uso tutti i frutti. La qual
essorbitanza, sí come fu il colmo, cosí ne' tempi inanzi non ardiva la corte
valersi di questo, dando in commenda ad uno numero molto grande.
Però
fu inventato di valersi, per paliar la pluralità, d'un altro uso antico
trovato per buon fine, che è l'unione. Questa era usata prima, quando
una chiesa era destrutta overo le entrate occupate, che si trasferiva quel poco
rimanente al vicino insieme con il carico, facendo tutto un solo beneficio.
L'industria del cortegiano trovò che anco fuor di questi rispetti
s'unissero piú beneficii ad uno, sí che con collazione di quello la
pluralità si copriva afatto, quantonque a favore di qualche cardinale o
gran personaggio fossero uniti insieme 30 e 40 beneficii posti in diversi luoghi
di cristianità. Nasceva però un inconveniente, che si diminuiva
il numero de' beneficii, e la grazia fatta ad uno era poi fatta a molti che
succedevano, senza che la meritassero et impetrassero, con gran danno della
corte e della cancelleria; et in questo fu rimediato con sottile et argutissima
invenzione di unire quanti beneficii al papa piaceva in una massa, durante
solamente la vita di quello a cui era conferito, per la morte del quale [l']
unione s'intendesse ipso facto dissoluta et i beneficii ritornati nel
suo stato primiero. Con questa maniera si venne all'apice delle belle trovate,
potendosi cosí conferir un solo beneficio in apparenza, che in essistenza ne
tirava molti, e confessarsi come quello che disse avere rubato una briglia da
cavallo, tacendo che fosse con quella imbrigliato l'animale.
[Consulta de' rimedii a' detti abusi]
Per rimediare
alla pluralità era necessario levare l'uso di questi tre pretesti, il
che era molto ben conosciuto da' prelati prudenti, onde alla prima proposta fu
uniforme il parer di tutti, che fosse vietata e nissun, di qualonque condizione
si voglia, potesse ottenere numero maggiore che di tre beneficii. Alcuni anco
aggionsero, quando doi di quelli non ascendono alla somma di 400 ducati d'oro
d'entrata, volendo che qualonque persona, quantonque sublime e graduata, fosse
soggetta alla regola di non poter aver piú che uno, quando ascende a quella
somma, o di doi, se quelli vi giongono, in fine non piú di tre o arrivino, o
non arrivino: sopra che vi fu assai a disputare. Ma molto piú quando Alvise
Lipomano, vescovo di Verona, aggionse che questo decreto fosse [esteso] a
quelli che di presente allora possedevano numero maggiore, i quali, non
eccettuato alcuno di qual si voglia grado et eminenzia, fossero costretti,
ritenendone tre, renonciare gli altri, essendo in Italia fra 6 mesi, e fuori
d'Italia fra 9 mesi; il che non facendo fossero senza altra dicchiarazione
privati, e questo non ostante che i beneficii fossero uniti, overo commendati,
o con qualonque altro titolo possessi. Il vescovo di Feltre aderí all'istessa
opinione, moderandola però con distinguere le dispense, commende et
unioni, altre fatte per utilità delle chiese, et altre per favore del
beneficiato; volendo che le prime, di quanti si voglia beneficii, dovessero
restar valide, ma le fatte per privata utilità de' beneficiati fossero
regolate. Non admesse questa distinzione il vescovo di Lanciano, con dire che
volendo fare legge durabile convien non dargli eccezzioni in corpo, atteso che
la malizia umana sempre è pronta a trovare finti pretesti di mettersi
nel caso dell'eccezzione e liberarsi dalla regola. Il vescovo d'Albenga con
longa orazione mostrò che le buone leggi danno forma a futuri negozii
solamente, e non risguardano i passati, e quelli che uscendo de' raggionevoli
termini vogliono emendare anco il preterito, eccitano sempre tumulti, et in
luogo di riformare, disformano maggiormente: esser una gran cosa volere privare
del suo quelli che l'hanno posseduto per molti anni e credete di persuadergli a
contentarsene. Soggionse che facendosi tal decreto, prevedeva che non sarebbe
ricevuto, e se pur lo fosse, da quello ne nascerebbono resignazioni palliate e
simoniache et altri mali peggiori che il ritener piú beneficii. Quanto anco
all'avvenire, parergli la provisione superflua, perché non ricevendo alcuno piú
beneficii se non con dispensa del papa, basta assai che egli si risolva di non
concederla.
In quella
congregazione, tra le molte esclamazioni tragiche che da diversi furono fatte,
Bernardo Diaz, vescovo di Calahora, disse che la chiesa di Vicenza, essendo
trascorsa in molti disordini, come era notissimo a tutti, ricercherebbe un
apostolo per vescovo; tassando il cardinal Ridolfi, che, oltra tanti altri
beneficii, godeva quel vescovato, senza averne alcun governo, senza l'ordine
episcopale, senza vederlo mai, non curando, né sapendo se non le rendite
dell'affitto, e motteggiando ciascuno la grand'inconvenienza che era, che
nobilissime chiese non vedessero mai il suo vescovo per esser occupato o in
altri vescovati, o in degnità piú fruttuose. Molti dicevano, che il solo
pontefice potrebbe a questo provedere, et alcuni comminciavano ad entrare
nell'opinione di Albenga, che il pontefice facesse quella riforma da sé; cosa
che a' legati piaceva, cosí per degnità del papa, come per liberarsi da
gran travaglio di questa materia, che, dalle varie opinioni et interessi,
giudicavano di difficile digestione: sperando anco che quando s'avesse fatto il
passo di lasciare questa riforma al papa, facilmente si ottenesse di lasciargli
anco il capo della residenza, piú duro ancora a smaltire per esser populare, e
tirarsi appresso la ricuperazione dell'autorità e giurisdizzione
episcopale. Entrati adonque i legati in speranza che questo si potesse
ottenere, massime se si fosse proposto come cosa fatta e non come da fare,
diedero immediate conto al pontefice, a cui la nuova riuscí molto grata; perché
ormai tutta la corte et egli medesimo stava in pensiero dove avessero a
terminare i tentativi e dissegni de' prelati. E parendogli di non differir a
batter il ferro mentre era caldo, fece il passo piú longo della estesa
significatagli da' legati, e spedí una bolla per la quale avvocava a sé tutta
la materia della riforma. Ma, mentre in Trento s'aspettava la risposta da Roma,
non fu però intermessa l'incomminciata trattazione; si fece una minuta
di decreto che nissun potesse aver piú che un vescovato, e chi piú ne aveva, ne
ritenesse un solo; che all'avvenire chi ottenerà piú beneficii inferiori
incompatibili, sia privato senza altra dicchiarazione, e chi già ne
possede piú che uno, mostri le sue dispense all'ordinario, che proceda secondo
la decretale d'Innocenzio IV, Ordinarii. Nel dir i voti sopra questi
capi, molti fecero instanza che si aggiongesse che all'avvenire dispense non
fossero concesse. Et a pochi piacque il mostrare le già concedute e
proceder secondo il decreto d'Innocenzio, dicendo che era un farle approvare
tutte e far il mal maggiore, attese le condizioni poste da Innocenzio, dove
dice che, trovate le dispense buone, siano admesse e, se vi sarà dubio,
s'abbia ricorso a Roma; non potendosi dubitare che ogni negozio almeno non si
risolvesse in dubio, il quale avesse a Roma dicchiarazione conforme alla
concessione. Che mentre passavano cosí, le persone stavano con timor della provisione,
quando fossero essaminate; et approbate, che tutte sarebbono senza dubio,
l'abuso sarebbe confermato. Molti erano di parere che si vietassero afatto le
dispense, repugnando altri con la raggione che la dispensa è stata
sempre nella Chiesa et è necessaria: il tutto sta in ben usarla.
Marco
Vigerio, vescovo di Sinigaglia, uscí con una opinione che, se fosse stata
ricevuta e creduta, averebbe facilmente riformato tutto l'ordine clericale.
Diceva egli potersi ad ogni inconveniente rimediare dalla sinodo con far una
dicchiarazione che per la dispensa sia necessaria una legitima causa, e chi
senza quella la concede, pecca e non può esser assoluto se non
revocandola, e chi l'ottiene non è sicuro in conscienza, se ben ha la
dispensa, e sempre sta in peccato, sin che non depone i beneficii cosí
ottenuti. Ebbe l'opinione contradittori; perché si levarono alcuni con dire che
chi concede licenza di pluralità senza causa legitima, pecca, ma
però la dispensa vale, e chi l'ottiene è sicuro in conscienza, se
ben conscio dell'illegitimità della causa. E piú giorni si contese,
dicendo questi che era un levare tutta l'autorità al papa, e quelli che
l'autorità ponteficia non s'estendeva a fare che il male non fosse male.
Da questo s'entrò in un altro dubio: se la pluralità de beneficii
fosse vietata per legge divina overo umana; e da quei della residenza de
iure divino era detto che per divina, e però il papa non poteva
dispensare; gli altri dicevano che per legge canonica solamente: e con
difficoltà fu la contradizzione sopita da' legati, essendo da loro
tenuta per pericolosa, cosí per metter in campo la residenza, come perché
toccava l'autorità del papa, se ben non era nominato, e maggiormente
perché quella sottile discussione del valor delle dispense le metteva tutte in
compromesso. Essendo molta confusione, Diego di Alano, vescovo di Astorga,
disse che, non potendo convenire sopra le dispense, proibissero le commende e
le unioni, quali sono i pretesti per palliare l'abuso; e contra l'un e l'altro
parlò assai. Disse le unioni e le commende ad vitam esser piene
d'assordità, perché apertamente si confessava con quelle di non aver
risguardo al beneficio della chiesa, ma alla persona; che erano di gravissimo
scandalo al mondo, inventate già poco tempo per saziare l'avarizia e
l'ambizione; che era una grand'indegnità il mantenere un abuso cosí
pernizioso e tanto notorio. Però i vescovi italiani, che in gran parte
erano interessati in uno di questi, non sentivano volontieri proposizioni cosí
assolute, lodando che si facesse qualche provisione, ma non tale che le
togliesse via a fatto.
In principio
di febraro arrivò da Roma la risposta e la bolla ponteficia, che fu da'
legati stimata troppo ampla; pur tuttavia, per tentare di valersene, proposero
di nuovo la materia, facendo replicare da' suoi la medesima sentenzia che,
attese le difficoltà e diverse opinioni, era bene liberarsi e rimetter
il tutto al pontefice. Gli imperiali, anco quelli medesimi che per il passato
non si erano mostrati alieni, replicarono gagliardamente, dicendo che non
sarebbe stato onor del concilio; et a questo parere s'accostò la maggior
parte, ritornando su le medesime cose dette, anzi confondendo le cose sempre
piú; sí che viddero i legati non esser occasione di valersi della bolla mandata
e scrissero non potersi sperare che fosse rimessa tutta la riforma a Sua
Santità, ma ben avevano per fattibile dividerla, sí che il pontefice
facesse quella parte, che è piú propria a lui, come sarebbe la
moderazione delle dispense e de' privilegi, aggiongendovi la riformazione de'
cardinali; il che quando Sua Santità si risolvesse di fare, sarebbe ben
valersi della prevenzione, publicando in Roma una bolla sotto nome di
riformazione della corte. Perché nissun potrebbe dire che il papa non potesse
riformare da sé la corte sua e quello che tocca a lui: la qual bolla non
sarebbe necessaria publicare in concilio, et alla sinodo si potrebbe, avendo da
trattar il rimanente che alla corte non tocca, dare ogni sodisfazione;
avertendo però la Santità Sua che il concilio non si quietarà
mai per sola provisione all'avvenire, ma ricercherà sempre che si
proveda alle concessioni scandalose anco presenti.
[I prelati spagnuoli formano una censura sopra
gli articoli della riforma, di che i legati offesi scrivono a Roma]
Finita quella
congregazione, i prelati spagnuoli con altri che gli seguivano, capo di tutti
fattosi il cardinal Pacceco, ridotti al numero di 20 e raggionato insieme,
conclusero che nella maniera introdotta nelle congregazioni non si poteva venir
mai a risoluzione che valesse, perché quel di buono che era detto, era
dissimulato da chi reggeva le azzioni, overo con le contenzioni oscurato;
però esser necessario mutar modo e dar in scritto le dimande, che cosí
si venirà a conclusione. E fecero una censura sopra i capi proposti e la
posero in scritto, presentandola a legati nella congregazione che si tenne il 3
febraro.
La censura
conteneva 11 articoli.
1 Che tra la
qualità de' vescovi e parochi siano poste tutte le condizioni statuite
nel concilio lateranense ultimo, patendo che nel modo tenuto si apra troppo la
strada alle dispensazioni, le quali al tempo d'oggi, per le eresie che causano
e per li scandali che danno al mondo, è necessario levar a fatto,
facendo una piú stretta riformazione.
2 Che si
specifichi apertamente che i cardinali siano tenuti risedere ne' loro vescovati
almeno sei mesi dell'anno, come agli altri vescovi è commandato nella
passata.
3 Che inanzi
ogni altra cosa si dicchiari la residenza de' prelati esser de iure divino.
4 Che si
dicchiarasse la pluralità delle chiese catedrali esser abuso
grandissimo, e s'ammonisce ciascuno, specificando etiam i cardinali, a restare
con una sola e lasciare le altre infra certo termine breve, e prima che finisca
il concilio.
5 Che si
togliesse la pluralità delle chiese minori, con proibirla non solo per
l'avvenire, ma ancora per il passato, revocando tutte le dispense concesse,
senza eccezzione de' cardinali o altri, se non per giuste e raggionevoli cause,
d'esser prodotte e provate inanzi l'ordinario.
6 Che le
unioni ad vitam, eziandio le già fatte, si revocassero tutte come
indottive della pluralità.
7 Che ogn'uno
che ha beneficio curato et altri beneficii che ricercano residenza, non
residendo, incorra nella privazione, e nissuna dispensazione abbia da
suffragare, se non in casi dalla legge permessi.
8 Che
qualonque ha beneficio curato, potesse esser essaminato dal vescovo e, trovato
illiterato, vizioso, o per altra causa inabile, fosse privato, et il beneficio
dato ad un degno per rigoroso essame e non a volontà degli ordinarii.
9 Che
nell'avvenire i beneficii curati non si dassero, se non con essamine et
inquisizione precedente.
10 Che nissun
si promovesse a chiesa catedrale senza processo, il qual si facesse in
partibus, almeno sopra i natali, vita e costumi.
11 Che nissun
vescovo potesse ordinare nella diocese dell'altro senza licenza dell'ordinario,
e persone di quella diocese solamente.
I legati si
turbarono, non tanto vedendo posti a campo molti articoli, e tutti con mira di
ristringere l'autorità ponteficia et aggrandire l'episcopale, quanto per
l'importanza del principio di dar in scritto le petizioni et unirsi molti
insieme in una dimanda; e senza mostrare qual fosse il pensiero loro, solo
allegando l'importanza della proposta, presero tempo a pensarvi sopra, dicendo
che tra tanto non si starebbe in ozio, essendo da stabilire altri capi di
riforma; e diedero minuto conto al pontefice di tutte le cose passate, aggiongendo
che i prelati ogni giorno pigliavano libertà maggiore, che non si
astenevano di parlare de' cardinali senza rispetto e dir palesamente che
è necessario regolargli, e della Santità Sua ancora con poca
riverenza parlavano, che non dà se non parole e che usa il concilio per
trattener il mondo in speranze e non per fare vera riforma: aggionsero che per
l'avvenire sarebbe difficile tenergli in regola, che facevano spesse adunanze e
congregazioni tra loro. Misero in considerazione che sarebbe bene far qualche
riforma in Roma con effetto, e publicarla inanzi la sessione. Mandarono anco le
censure de' spagnuoli, ponderando quanto importasse il tentativo loro e dove
all'avvenire potesse arrivare, non essendo verisimile che tanto ardissero senza
l'appoggio e fomento e forse anco incitamento di qualche gran prencipe, facendo
instanza di ricever commandamento di quello che dovevano fare e dicendo che
sarebbe parer loro di persistere e non cedere in parte alcuna, cosí per
l'importanza delle cose, come per non lasciare aprire questo passo, che possino
i prelati, per sedizione e forza, ottener quello che non gli è concesso
spontaneamente; che sarebbe un dependere dalla mercé loro et incorrer pericolo
di qualche sinistro accidente; che per quanto doverà passar nelle disputazioni
non erano per lasciarsi superare. Ma in fine dopo le disputazioni, se i
contrarii non vorranno cedere sarà forza venire al piú e manco voti, i
quali nel concluder non si ponderano, ma si numerano; però, non
convenendo mettersi ad alcun rischio, ma ben certificarsi di restare superiori
nel giorno della sessione, sarebbe necessario commandare strettamente a quelli
che sono andati a Venezia, sotto pretesto di fare il principio di quaresima
nelle loro chiese, ma con intenzione forse di non tornar piú, che tornassero
subito e senza replica; perché nella sessione seguente starà quasi tutta
l'importanza della riforma, massime in quella parte, che è tra 'l
pontefice et i vescovi, e secondo che succederà questa volta agli
ammutinati, cosí o pigliaranno animo d'opporsi nelle altre occasioni, o si
renderanno quieti et obedienti.
Ispedito
l'aviso a Roma, nelle seguenti congregazioni proposero i legati di riformare
diversi abusi. Il primo fu di quelli che, ricevuto un beneficio e titolo, non
pigliano l'ordine sacro o la consecrazione rispondente a quello. Tutti
detestarono l'abuso, laudarono che si rimediasse. Ma il cardinal Pacceco disse
che ogni rimedio sarebbe deluso, se non si levavano le commende et unioni,
essendo chiaro che una catedrale può essere commendata anco ad un
diacono, e chi vorrà una parochiale senza ordinarsi in sacris, la
farà unire ad un beneficio semplice che non ricerca ordine, e cosí la
tenerà in consequenza di quello senza essere consecrato. Le altre
riforme furono sopra diverse essenzioni dalle visite episcopali, dagli essamini
loro, dalla cognizione delle cause civili e dalla revisione del governo de'
ospitali, nel che credevano i legati acquistar la grazia de' vescovi,
allargando la loro autorità: ma, come avviene a chi pretende raggione
nel tutto, che resta offeso per la restituzione della metà, pareva (a
spagnuoli massime) che gli fosse fatto torto maggiore con rimediare ad alcune.
Ma crescendo il numero de' italiani che a' legati aderivano, i spagnuoli si
restrinsero a parlare piú riservatamente, tanto piú aspettando risposta da Roma
sopra le proposizioni loro, essendosi scoperto che là erano state
rimesse.
[Il papa fortifica la parte sua in concilio
con mandarvi vescovi italiani, e fa consultar le censure degli spagnuoli]
Il pontefice,
ricevuto l'aviso, immediate scrisse a Venezia lettere efficacissime, ma insieme
amorevolissime al noncio suo per far ritornar i prelati, quali erano ancora
quasi tutti in quella città; e dal noncio l'officio fu fatto in tal
modo, che tutti ebbero per favore il far il viaggio, poiché si trattava tanto
servizio del pontefice. Pose in consultazione co' deputati la censura de'
spagnuoli, et il rimanente, che piú importava, ponendolo insieme con le altre
cose prima avisategli, riservò alla deliberazione propria.
La
congregazione de' deputati, ripensato lo stato delle cose considerò che
il partito proposto da' legati era piú onorevole e, riuscendo, il piú utile; ma
se non fosse riuscito, era il piú pernizioso: et in cose di tanto momento non
esser prudenza correre sí gran rischi; esser ugualmente pericoloso negare
tutto, come tutto credere. Concludendo che, se i legati non erano piú che certi
di superare, potevano concedere o parte, o tutte le infrascritte modificazioni,
secondo che il negozio stesso sul fatto consultasse; le quali erano digeste in
forma di risposta ad articolo per articolo della censura spagnuola.
Al 1°, d'innovare il concilio
lateranense ne' doi capi, par che si possi sodisfare a prelati, purché nel
testo i canoni che si faranno siano raggionevoli.
Al 2°,
d'obligare i cardinali alla residenza, per quelli che stanno in Roma e che
servono actu la Chiesa universale, la dimanda non è conveniente,
et agli altri Sua Santità provederà, come è detto nella
lettera.
Al 3°, di
statuire che la residenza sia de iure divino, prima, il decreto forse
non sarebbe vero, applicato alle chiese particolari; dopoi, quanto all'effetto,
non può servire, se non a maggiore confusione, repugnando massime che il
decreto si faccia et insieme si permetta, almeno tacitamente, il contrario per
la metà dell'anno.
Al 4°, di
dicchiarare abuso la pluralità delle chiese, si può dire il
medesimo che al 3, e quanto a' cardinali, che Sua Santità
provederà per se stessa, come è detto di sopra.
Al 5°, della
pluralità delle chiese minori, la provisione proposta da' legati pare
che doverebbe essere bastante; e nondimeno quando circa il passato sia
giudicato bene farla piú severamente, Sua Santità se ne rimette,
avvertendo che il troppo rigore in questa parte può causare effetto
contrario, per la resistenza che si ha da presumere che sarà fatta da
quelli che possedono; e considerando insieme che il lasciare semplicemente il
giudicio nelle dispensazioni agli ordinarii può esser mal usato e senza
partorire altro effetto che accrescer loro autorità.
Al 6°, di
rivocare le unioni a vita, non ostante che la Santità Sua abbia pensiero
di farci conveniente provisione, nondimeno, quando si desideri levarle, etiam
in tutto, si può concederlo, purché si dia spacio onesto a chi possede i
beneficii di poter dispor di quelli.
Al 7°, che la
non residenza de' beneficii curati porti seco precisamente la privazione e che
nissun si dispensi, se non in casi dalla legge permessi, è troppo rigore
e tale che, quando bene si determinasse, mal si potrebbe osservare.
All'8°, che
chi ha beneficio curato e si trova illiterato o vizioso possa esser privato
dall'ordinario, intendendosi di tal inabilitade che de iure lo meriti, questa
pena si può concedere, altrimente non è dimanda onesta, perché
non sarebbe altro che lasciar il tutto all'arbitrio degl'ordinarii.
Al 9°, che i
beneficii curati non si diano se non per diligente essamine precedente, essendo
necessario lasciar il modo e qualità dell'essame alla conscienza di chi
ha da conferire i beneficii, pare che l'aggiongere sopra questo altro decreto
sia o superfluo, o inutile.
Al 10°, di
far il processo in partibus di quelli che si promovono alle chiese
catedrali, non si vede né il modo, né il frutto di questa diligenza, essendo
cosí facile trovar chi deponga il falso in partibus, come in Roma. Dove
quando si possa aver, come quasi si può sempre, tanta notizia che basti,
è superfluo cercar altro.
All'11°, che
nissun si ordini, se non dal suo vescovo, pare che il rimedio della bolla possi
bastare, e tanto piú quanto che per essa si provede per piú d'un modo
agl'inconvenienti che si pretendono circa questo capo.
Spedí
immediate il pontefice la risposta a Trento, con rimetter alla prudenza de' legati,
che, ben consegliati con gli amorevoli risolvessero come meglio avessero
giudicato sul fatto di conceder o parte, o tutte le cose richieste, dentro
però de' termini consultati da' deputati in Roma: rimettendo parimente a
loro il negar ogni cosa, se si fossero veduti in stato di poterlo fare. Gli
avisò dell'ufficio fatto con quelli che erano in Venezia, soggiongendo
che tenessero la sessione al debito tempo, tralasciando a fatto i capi di
dottrina de' sacramenti, e publicando i soli anatematismi ne' quali tutti sono
convenuti, poiché quella dottrina non si può esplicare senza qualche
pericolo; che tralasciassero a fatto il decreto degli abusi de'sacramenti del
battesmo e confermazione, non essendo possibile toccar quella materia senza
offender tutto l'ordine de' poveri preti e frati e dar troppo gran presa agli
eretici, confessando d'aver approvato per i passati tempi notabili
assordità; aggionse in fine che del rimanente operassero sí che la
sessione riuscisse piú quieta che si potesse, ma con degnità della Sede
apostolica.
[Il papa, temendo del concilio, si risolve a
trasferirlo in Bologna]
Poi ruminando
il papa gli avisi da Trento e dal noncio suo di Germania fra se stesso con i
suoi intimi, restò pieno di sospetto che il concilio non dovesse partorir
qualche gran mostruosità a pregiudicio di lui e dell'autorità
ponteficia. Considerava le fazzioni tra' teologi, massime dominicani e
francescani, antichi emuli e contrarii di dottrina, che in concilio avevano
preso animo di trapassar il segno delle contenzioni, da' prudenti con
difficoltà composte; fra quali essendo delle differenze non minori di
quelle che si hanno con luterani, et essi assai arditi nel tassarsi l'un
l'altro, le quali, se non si starà sempre nell'accordargli, esservi pericolo
che non soccedesse qualche grave inconveniente. Faceva gran riflesso sopra la
disputa della residenza, se è de iure divino, e sopra l'audacia
di fra Bartolomeo Carranza, il qual, fomentato da molti, era passato a chiamare
l'opinione contraria dottrina diabolica. Vedeva quanto facilmente potesse
nascer un altro male simile a quello di Lutero, e che si fosse fatto della
residenza un articolo di fede, il papato era ridotto a niente. Considerava che
tutte le riforme miravano a ristringer l'autorità del papa et ampliare
quella de' vescovi; avvertí quanto poco fosse stata l'autorità sua
stimata, che avendo il concilio dato speranza di rimetter a lui la riforma, di
che anco aveva formato la bolla, avvocandola tutta a sé, poi, senza rispetto di
lui, s'aveva trattato piú acremente. Ebbe gran sospetto dello spirito et
animosità de' spagnoli; considerava le qualità della nazione
avveduta e che non opera a caso, mostra maggior riverenza che non porta, sta
unita in se stessa, e non fa un passo senza aver la mira a cento piú inanzi;
gli parve gran cosa l'aver preso a ridursi insieme e l'aver formato una censura
per commune: gli pareva verisimile che ciò fosse ardito per fomento
dell'imperatore, essendoci un suo ambasciatore che trattava quotidianamente con
loro. Aveva anco per altro sospetto Cesare, considerando la prosperità
della fortuna che in quel tempo correva, la qual suol indur gli uomini a non
saper metter fine a' dissegni: faceva riflesso sopra il permetter la religione
per connivenza, attribuendo che fosse a fine d'acquistar la grazia de'
luterani. Considerava le querimonie usate non solo dall'imperatore, ma anco da'
ministri al partir delle genti italiane, l'aversi doluto d'esser abandonato nel
bisogno; dubitava di lui, sapendo che attribuiva al duca di Piacenza, suo figlio,
la sedizione di Genova. Sopra tutto ponderava le parole dette al noncio, di non
aver maggior nimico del papa: temeva, che se gli fosse venuto fatto di stabilir
in Germania un'autorità assoluta, fosse poi entrato in pensiero di far
l'istesso in Italia, adoperando il concilio per opprimer il ponteficato. Vedeva
che restava come arbitro, attesa l'incurabil indisposizione del re di Francia e
la prossima morte che si prevedeva. Del delfino non sapeva quanto potersi
promettere, come di giovane non ancora esperto; teneva per fermo che i prelati,
quali sino allora aderivano alla corte romana, quando l'imperatore avesse fatto
alla scoperta, s'averebbono dicchiarato per lui, o per timore della maggior
potenza, overo per emulazione che tutti hanno alla grandezza ponteficia, la
qual scoprirebbono, quando vedessero aperta strada sicura di moderarla.
Questi
rispetti lo fecero risolvere a sicurarsi del concilio in qualche maniera: il
finirlo non pareva cosa fattibile, attesa le moltiplicità delle cose che
restavano da trattare; la sospensione ricercare qualche gran causa e nondimeno
esser una provisione leggiera, perché sarebbe immediate ricercato di levarla;
la translazione in luogo dove egli avesse autorità assoluta pareva il
meglior conseglio; e poiché questo s'aveva a fare, farlo in maniera che
rimediasse a tutti i pericoli; che non poteva avvenire se non celebrandosi
nelle terre sue. A queste pensando, non giudicò ben trattar di Roma, per
non far tanto parlar alla Germania. Bologna gli parve ottima, come la piú
vicina a chi viene di là da' monti, fertile e capace. Al modo pensando,
risolse l'asconder in questo la persona sua et operare che fosse fatto da'
legati, come da loro, per l'autorità che gli aveva data per la bolla
data il 22 febraro e mandatagli nell'agosto 1545. Che cosí facendo, se sopra la
translazione fosse nata qualche opposizione, sarebbe addossata a' legati, et
egli, come non interessato, averebbe piú facilità a mantenerli; e quando
per qualche accidente occorresse mutar pensiero, lo potrebbe far con intiera
sua degnità. Adonque risoluto di tanto, spedí un privato gentiluomo,
famigliare del cardinale del Monte, con lettere di credenza a far ad ambi li
legati questa ambasciata, ordinandogli che non giongesse in quella città
inanzi il tempo della sessione, e gli commettesse di trasferire il concilio a
Bologna, facendo nascer qualche apparente causa, overo valendosi d'alcuna che
fosse in essere; ma venendo all'essecuzione tanto presto che, dopo data la
prima mossa all'impresa, si venisse al fine, prima che d'altrove potesse esser
trasposto alcun impedimento.
[L'arcivescovo di Colonia deposto da Cesare.
Il re d'Inghilterra muore]
Ma in
Germania, essendo accommodate con Cesare gran parte delle città attorno
il Reno et avendo anco l'elettor palatino fatto desister i ministri da lui
introdotti dal passar piú oltre, vedendo l'imperatore occasione di poter
escludere l'arcivescovo di Colonia, mandò due commissarii, facendo ridur
tutti gli ordini accioché l'abbandonassero e ricevessero per vescovo e prencipe
Adolfo, coadiutore, e gli rendessero obedienza e giurassero fedeltà. Gli
ecclesiastici furono pronti a farlo per le cause altre volte dette. La
nobilità e gli ambasciatori delle città ricusarono, con dire di
non poter abbandonare il prencipe a cui avevano giurato. Il duca di Cleves,
avendo i suoi Stati vicini, si interpose; mandò all'arcivescovo e fece
che vi andassero anco i primi della nobiltà, per pregarlo di trovar modo
come tutto lo Stato non fusse dissoluto, con danno estremo de' popoli vicini.
L'arcivescovo, mosso a compassione, per non metter guerra in quel dominio et
acciò il popolo innocente non patisse, generosamente renonciò lo
Stato et assolvé i sudditi dal giuramento, e cosí fu ricevuto Adolfo per suo
successore, il quale egli aveva sempre amato da fratello e participatogli tutte
le cose che faceva per riforma della Chiesa, et ora si vedeva d'altro parer, o
perché fosse mutato, o per altra causa.
In Trento nel
mezo di febraro andò aviso della morte del re d'Inghilterra, successa
nel mese inanzi, di che i padri resero grazie a Dio et andarono quasi tutti a
visitare il vescovo di Vorcestre, congratulandosi con esso lui che il regno et
egli medesimo fossero (dicevano) liberati dalla tirannide d'un acerbo
persecutore, attribuendo anco a miracolo che fosse passato di questa vita
lasciando un figlio in età di 9 anni, acciò non potesse immitare
le vestigie paterne; e veramente non le immitò in tutto. Perché Enrico,
se ben aveva levato afatto l'autorità del pontefice sopra quel regno et
imposto pena capitale a chi gli aderisse, nondimeno ritenne sempre
constantemente nel resto la dottrina della Chiesa romana; ma Edoardo (che cosí
era il nome del figlio), governato dal duca di Somerset, suo zio materno,
inclinato alla dottrina de' protestanti, mutò la religione, come a suo
luogo si dirà.
[Diversità di parere fra' legati, e
difficoltà in concilio sopra le dispense, la residenza e la reforma de'
cardinali]
Gionte le
lettere del pontefice, il cardinale Santa Croce era di parer che si ammolisse
l'animo de' prelati congionti, concedendo alcuna delle petizioni che da Roma
erano permesse, che facilmente con quella determinazione si sarebbono
acquietati. In contrario il cardinale del Monte diceva che il condescendere
all'inferiore (et alla moltitudine massime) non era altro che dare pretensione
d'aver sodisfazzione maggiore; che voleva prima tentar l'animo degli amorevoli,
e quando s'avesse trovato fortificato di numero maggiore, esser disposto a non
retirarsi pur un passo; quando avesse trovato altremente, averebbe usato la
prudenza. Dopo molti discorsi, come avviene tra colleghi, Santa Croce cedette a
Monte, che caminava con affetto maggiore. Ebbero aviso che i prelati assenti si
sarebbono ritrovati in Trento inanzi il fine di febraro e, tentati gli animi di
diversi, si ritrovarono aderenti alle cose del pontefice, quali, confermati con
le speranze, e tiratone anco altri con la medesima esca che il pontefice
averebbe riconosciuto il merito di ciascuno, fecero formare il decreto con 15
capi e quello proposero in congregazione.
Sopra che
furono maggiori difficoltà di prima: nel proemio, per una eccezione qual
diceva: «salva sempre in tutte le cose l'autorità apostolica». Da ogni
stolido sarebbe stato conosciuto dove mirava, ché non inseriva se non una
pertinace ostinazione negli abusi, mentre si trattava rimediargli, conservando
le cause. Però nissun ardí opporsegli, se non il vescovo Badacoz, il
qual disse che aveva bisogno di dicchiarazione, perché il concilio non doveva,
né poteva intaccar l'autorità d'alcuno, non che della Sede apostolica,
riconosciuta per capo da tutti li catolici, ma che le parole poste in quel
luogo pareva significassero che in Roma si dovesse procedere in quelle materie
al modo di prima e che la regolazione non avesse vigore sopra le dispense et
altri modi, con quali è stata sempre enervata l'autorità de'
canoni vecchi. In difesa dell'eccettiva era detto che le leggi de' concilii non
sono come le naturali, dove il rigore e l'equità sono una medesima cosa;
che elle sono soggette al difetto commune di tutte le leggi, che per
l'universalità conviene siano dall'equità regolate ne' casi non
preveduti e dove l'esseguirle sarebbe ingiusto. Ma non essendovi sempre
concilio, al quale si possi per questo ricorrere, né meno quando ben vi
è, avendo modo d'attender a questo, esser necessaria l'autorità
ponteficia. Ma si replicava che avendo tutte le leggi il difetto
dell'universalità, nondimeno tutte si promolgano senza metterci dentro
eccezzioni; che cosí si debbe anco al presente fare, perché il porvela non
è altro, se non un dire che per l'ordinario, e non ne' casi rarissimi et
improveduti, il papa possi dispensare in contrario.
Questo parer
non fu approvato in parole da tutti quei da chi fu tenuto in conscienza; onde
il legato Monte, fortificatosi, diceva che questa era sottilità per non
deferir alla Sede apostolica quanto erano tenuti, e fece tacer tutti.
Dimandò il vescovo di Badacoz che in quel proemio si dovesse far
menzione che l'articolo della residenzia non era tralasciato, ma differito. A
che risposero i legati che ciò era un diffidare delle promesse loro,
anzi del pontefice, et un obligarsi vanamente a cosa che sempre è in
potestà: con tutto ciò, per dare sodisfazzione in cosí intenso
desiderio, si sarebbe aggionto nel proemio che tutto si decretava proseguendo
l'incomminciato negozio della residenza, con che si mostrarebbe che non fu
finito nell'altra sessione e ne rimane anco parte da trattare.
Sopra i capi
delle qualità de' vescovi et altri curati, disse l'arcivescovo Torre che
quelli non solo non davano rimedio alle corrottele introdotte, anzi snervavano
i rimedii vecchi, perché con termini cosí universali d'età, costumi,
scienzia, abilità e valore, si poteva canonizar ogni uno per abile: e
l'allegar decreti di Alessandro lo esser un annullar tutti gli altri canoni che
prescrivono altre condizioni; poiché sempre, nominato uno e studiosamente
tacciuti gli altri, pare che se gli abbia derogato; che sarebbe necessario dir
una volta chiaro qual è questa gravità di costumi, questa
scienzia di lettere; il che se fosse fatto per l'una e l'altra qualità,
sarebbe escluso per sempre ogni cortigiano. I costumi ricercati esser molto ben
raccontati da san Paolo, e tuttavia a quelli non s'attende. La perizia e
dottorato che san Paolo ricerca, esser cognizione della dottrina cristiana e
delle lettere sacre, e non esser da immitare Onorio III, quale privò un
vescovo della Sassonia inferiore per non aver imparato grammatica, né letto mai
il Donato, perché, dice la glossa, egli non poteva insegnare grammatica al
popolo, quasi che la materia della predica debbia esser le regole grammaticali
e non l'Evangelio. Aggionse a questo il vescovo di Huesca che non gli piaceva
il rimettersi overo allegare decretali o constituzioni: perché o si fa per dar
autorità maggiore a quelle, o per riceverla da loro, overo per far un
aggregato di forza maggiore di quelle con questa sinodo; et a tutti i modi
esser cosa poco convenevole e diminuire l'autorità d'ambedue; essere ben
cosa raggionevole farlo dove la longhezza d'una constituzione non comportasse
che fosse riferita, ma quando non contiene se non l'istesso, non esserci causa
di farlo e dar occasioni di liti inestricabili, disputando se quelle
constituzioni siano approvate come la lettera semplicemente suona, o pur con le
limitazioni et ampliazioni dette da' dottori, e con le varie intelligenzie, che
è un confonder il mondo. Esservi bisogni di decreti che mettino pace,
carità e seria riformazione nella Chiesa, non che diano occasioni di
litigi e nuovi inconvenienti. A che poteva servire ne' tempi presenti dar agli
ordinarii le pene del c[anone] Grave nimis, l'essecuzione de' quali
è commessa a' concilii provinciali, che sono desusati, se prima non
è preso modo come ritornargli in uso? Poi, essendo il numero de
beneficii conferiti dagli ordinarii, per diverse riserve, minori d'una decima
parte, a che è buono proveder a questa minima e lasciare correre l'abuso
ne' nove decimi che la corte conferisce? Similmente, volendo rimediare la
pluralità, l'approvar la constituzione De multa non esser altro
che un stabilirla maggiormente, poiché in quella le dispense sono permesse.
Longhissima
disputa fu sopra gli articoli, dove i spagnuoli instavano che i cardinali
fossero specificati, dicendosi per l'altra parte che non conveniva per la
grandezza di quell'ordine, primo nella Chiesa, pieno d'uomini di singolar
merito, mostrare cosí apertamente che in quello vi fossero corrottele degne
d'emendazione, et essi stessi non emendassero se medesimi. Ma bastava ben far
l'istesso effetto con parole generali che includessero anco loro, come il
commandare ad ogni persona di qual si voglia degnità, grado e
preminenza. Dicevano in contrario gl'altri che i canonisti hanno già dicchiarato
sotto nissun termine generale comprendersi i cardinali, se non sono
nominatamente espressi; però non restar altra via di proveder al cattivo
essempio che il mondo riceve, se non con riformare loro particolarmente;
esserci poco bisogno di riforma nel clero minuto, le corrottele del quale sono
leggieri et egli necessitato a seguire i maggiori; doversi nel curar un corpo
infermo attendere a' mali gravi et alle parti principali; le altre (sanate
quelle) o da sé guariscono, o con leggier rimedii. All'abuso delle unioni
perpetue dicevano che ben pareva provisto assai a bastanza col rimetter a'
vescovi d'essaminarle già fatte, e presumer surrettizie quelle che non
si trovassero fondate sopra cause raggionevoli: ma tutto era destrutto con la
modificazione seguente, cioè se altrimente non sarà giudicato
dalla Sede apostolica, il che era un stabilirle, anzi metter il vescovo in liti
e spese. Fu anco di nuovo ricchiesto che fossero vietate le unioni a vita et
annullate le già fatte.
Ma il numero
maggiore approvò i decreti come furono proposti, parte per propria
inclinazione alle cose romane, e parte per esser stati pratticati, et alcuni
buoni anco, a' quali era fatta promessa che il papa con una sua bolla averebbe
levato e quelli e molti altri disordini, ma essere dovere, per riputazione di
quella Santa Sede, lo facesse egli medesimo, e non paresse che la sinodo
l'avesse costretto contra il suo voler a ricever leggi. E questi, posti
insieme, ascendevano a' tre quarti di tutto 'l numero della sinodo. Instando il
tempo della sessione e reletti gli anatematismi, da qualch'uno fu ricercato che
si aggiongesse la dottrina, da altri fu ricchiesto perché non si risolveva il
decreto degli abusi: quanto a questo furono fermati con dire che non era ben
discusso e che era luogo piú opportuno portargli dopo tutti i sacramenti,
rimediando insieme agli abusi occorrenti nel ministerio di ciascuno et agli
universali in tutti. Per render raggione dell'ommissione della dottrina, il piú
concludente argumento fu che cosí s'era fatto nella sessione del peccato
originale e che la dicchiarazione per modo di dottrina è necessaria,
quando, senza quella, gli anatematismi non possono esser intesi; però
nel decreto della giustificazione esser stata di necessità, ma in questo
de' sacramenti gli anatematismi da sé esser tanto chiari che servono anco per
dottrina. Il tempo instante et il consenso del numero maggiore fece che se
risolvesse per questa opinione e fossero costretti a tacer quelli che
dimandavano la dottrina e riforma degl'abusi sopra detti.
[Si celebra la settima sessione: canoni de'
sacramenti in generale e del battesmo in particolare e della confermazione]
Accommodati i
decreti, se ben con le difficoltà narrate, e venuto il 3 marzo, e con
solito ordine ridotti i prelati in chiesa per celebrar il consesso, fu cantata
la messa da Giacomo Cocco, arcivescovo di Corfú. Doveva far il sermone
Coriolano Martirano, vescovo di San Marco, il qual per i disgusti ricevuti
nella congregazione, non parendo che fosse decoro d'intervenirvi e non
persistere nella medesma opinione, né essendo sicuro il contradire nel publico
consesso, elesse di finger indisposizione e rimanersene, onde si restò
per quella mattina senza sermone, come se nel numero de' sessanta vescovi e
trenta frati teologi, essercitati nel predicare, non vi fosse uno atto a dire
quattro parole con premeditazione di quattro ore. E negli atti fu notato che
non fu fatto sermone per esser rauco il vescovo di San Marco a ciò
deputato; e cosí si mandò anco in stampa: il che, sí come non si debbe
attribuire se non ad una maniera dolce del secretario che scrisse, cosí
è fermo documento che allora non si pensava dovere venire tempo quando
si stimasse che tutte le azzioni di quell'adunanza fossero pari a quelle degli
apostoli, quando erano congregati aspettando la venuta dello Spirito Santo.
Ma finita la
messa e le altre ceremonie, li due decreti furono letti. Il primo, appartenente
alla fede, conteneva in sustanza: che per complemento della dottrina definita
nella precedente sessione conveniva trattar de' sacramenti, et a fine di
estirpar l'eresie eccitate, la sinodo per ora vuol statuire li seguenti canoni
per aggiongere poi gli altri al suo tempo.
Erano li
canoni, overo anatematismi de' sacramenti in commune tredici:
1 Contra chi
dice che li sacramenti della legge nuova non siano stati tutti instituiti da
Cristo, overo esser piú o meno di sette, o alcun di loro non esser vera e
propriamente sacramento.
2 E che non
sono differenti da quelli della vecchia Legge, se non nelle ceremonie e riti.
3 E che alcun
di loro in nissun rispetto sia piú degno dell'altro.
4 Che non
sono necessarii alla salute e che la grazia di Dio si può acquistare per
la sola fede senza quelli o senza il proposito di riceverli.
5 Che siano
ordinati solo per nudrir la fede.
6 Che non
contengono in loro la grazia significata o non la danno a chi non vi fa
repugnanza, ma siano segni esterni della giustizia e caratteri della
professione cristiana per discernere i fedeli dagl'infedeli.
7 Che non
sempre e non a tutti sia data la grazia per i sacramenti, quanto s'aspetta
dalla parte di Dio, purché siano legitimamente ricevuti.
8 Che per li
sacramenti non è data la grazia in virtú dell'amministrazione di quelli,
chiamata opus operatum, ma che basti la sola fede alla divina promessa.
9 Che nel
battesmo, confermazione et ordine non sia impresso nell'anima un carattere
spirituale che non si può scancellare; per il che non si possono ricever
salvo che una volta.
10 Che tutti
li cristiani hanno potestà d'amministrare la parola e tutti i
sacramenti.
11 Che nel
ministrar li sacramenti non sia necessaria nel ministro l'intenzione, almeno di
far quello che fa la Chiesa.
12 Che il
ministro in peccato mortale non dia il vero sacramento, se ben osserva tutte le
cose necessarie.
13 Che i riti
approvati dalla Chiesa e soliti possino esser sprezzati o tralasciati da ogni
pastor, overo mutati in altri.
Del battesmo
erano anatematismi quattordici:
1 Contra chi
dice che il battesmo di Giovanni avesse la stessa virtú con quello di Cristo.
2 Che l'acqua
vera e naturale non sia necessaria al battesmo.
3 Che nella
Chiesa romana, madre e maestra di tutte le Chiese, non è la vera
dottrina del battesmo.
4 Che il
battesmo dato dagli eretici nel nome del Padre, Figlio e Spirito Santo, con
intenzione di far quello che la Chiesa fa, non sia vero.
5 Che il
battesmo sia libero e non necessario alla salute.
6 Che il
battezato non può perder la grazia, se ben pecchi, purché non resti di
credere.
7 Che li
battezati sono debitori di credere solamente e non di servare la legge di
Cristo.
8 Che non
sono tenuti a servare li precetti della Chiesa.
9 Che per la
memoria del battesmo tutti li voti dopo fatti si conoscono per nulli, come
deroganti alla fede e professione battesmale.
10 Che i
peccati dopo il battesmo commessi, per la fede e memoria di esso, sono rimessi
o fatti veniali.
11 Che si
debbe rinovare il battesmo in quello che averà negata la fede.
12 Che nissun
debbe esser battezato, se non nell'età di Cristo o nel tempo della
morte.
13 Chi non
mette in numero de' fedeli i putti battezati, o dice che convien ribattezarli
negl'anni della discrezione, o che sia meglio tralasciare il battesmo loro.
14 Che i
battezati in puerizia venuti in età debbino esser ricercati di
ratificare la promessa per nome loro fatta, e, non volendo, lasciargli nel loro
arbitrio, non costringendogli alla vita cristiana, se non con la proibizione
degli altri sacramenti.
Della
confermazione i canoni furono tre:
1 Contra chi
dice che è ceremonia oziosa, non sacramento propriamente, overo che
già era, affinché i putti dessero conto in publico della loro fede.
2 Che il dar
virtú al cresma sia far ingiuria allo Spirito Santo.
3 Che ogni
semplice sacerdote sia ministro ordinario della confermazione, e non il solo
vescovo.
[Decreto della riforma]
Fu letto dopo
il decreto della riforma, dandogli negl'atti il titolo Canone della
residenza, e conteneva in sustanza:
1 Che nissun
sia creato vescovo, se non di legitimo matrimonio, di età matura,
scienza di lettere e gravità di costumi.
2 Che nissun
possi ricever o ritener piú vescovati in titolo o commenda, o con qualonque
altro nome, e chi al presente ne ha piú, ritenutone uno ad elezione, lascia gli
altri fra sei mesi, se sono di libera collazione del papa; altrimenti fra un
anno: il che non facendo, s'abbiano per vacanti tutti, eccetto l'ultimo.
3 Che gli
altri beneficii, e massime curati, siano dati a persone degne, che possino
essercitar la cura delle anime; altrimente il collatore ordinario sia punito.
4 Che
qualonque per l'avvenire riceverà piú beneficii incompatibili, per via
di unione a vita, commenda perpetua o altrimente, o ritenerà i ricevuti
contra li canoni resti privato di tutto.
5 Che agli
ordinarii siano mostrate le dispense di quelli che hanno piú beneficii curati o
incompatibili, provedendo appresso alla cura d'anime et altri oblighi.
6 Che le
unioni perpetue fatte da 40 anni in qua possino esser revisti dagl'ordinarii
come delegati et annullate le indebite e quelle che non sono effettuate o che
per l'avvenire s'averanno da fare si presumino surrettizie, se non saranno
fatte per cause raggionevoli e con la citazione degli interessati, e dalla Sede
apostolica altro non sarà dichiarato.
7 Che i
beneficii curati uniti siano visitati ogni anno dagl'ordinarii e gli siano
assegnati vicarii perpetui o temporali con quella porzione de' frutti che
parerà loro senza risguardo d'appellazioni o essenzioni.
8 Che gli
ordinarii visitino ogni anno con autorità apostolica le chiese essenti, provedendo
alla cura d'anime et agl'altri debiti servizii, senza rispetto d'appellazione,
privilegii e consuetudini prescritte.
9 Che i
vescovi creati siano consecrati nel tempo ordinato dalla legge e le
allongazioni del termine piú di sei mesi non vagliano.
10 Che i
capitoli delle chiese, vacante il vescovato, non possino concedere dimissorie
agl'ordini, se non a chi sarà ubligato per causa di beneficio.
11 Che le
licenze di poter esser promosso da qual si voglia vescovo non vagliano, se non
sarà espressa la causa legitima per quale non possino esser promossi dal
suo, et in quel caso siano ordinati dal vescovo residente nella sua diocese.
12 Che le
facoltà di non ricever li debiti ordini non servino se non per un anno,
salvo ne' casi dalla legge espressi.
13 Che i
presentati a' beneficii da qual si voglia persone ecclesiastiche non siano
instituiti, se non essaminati dagli ordinarii, eccetto li nominati dalle
università o collegii de studii generali.
14 Che nelle
cause degl'essenti si osservi certa forma, e dove si tratta di mercede e di
miserabili persone, anco gli essenti che hanno giudice deputato possino esser
convenuti inanzi l'ordinario; ma quelli che non l'hanno, in tutte le sorti di
cause.
15 Che i
vescovi abbiano cura sopra gli ospitali per vedere che siano ben governati
dagl'amministratori, eziandio essenti, servata certa forma.
I prelati che
nelle congregazioni s'erano opposti, fecero l'istesso nella sessione, ma con
parole piú modeste, ricercando che fossero espressi i gradi delle persone
comprese e che oltre le provisioni a' mali futuri s'aggiongessero i rimedii a'
presenti che sono di maggior danno e pericolo. Ma i legati, ascoltate le parole
come voce di chi non poteva far piú che essalar l'animo, diedero fine alla
sessione con ordinare la seguente per il 21 aprile.
[Commandamento del papa di trasferire il
concilio; i legati ne trovano una speziosa ragione per tema di contagio]
L'istesso
giorno il messo del pontefice, che si era tenuto secreto ancora da' legati,
comparve et espose loro la sua credenza: e non si fermò in Trento, ma
passò immediate in Ispruc. Il cardinale Santa Croce restò
confuso, ma Monte intrepido disse aver conosciuto il pontefice per prencipe
sempre savio, et allora aver veduto in lui il colmo del giudicio; che era necessario
cosí fare, volendo salva l'autorità della Sede apostolica, e però
conveniva servire la Santità Sua con fedeltà, secretezza et
accuratezza. Erano opportunamente molti delle famiglie de' prelati ammalati, o
per i disordini del carnevale, o per l'aria molto umida che per molti giorni
prossimi era stata; sottomise il Monte alcuni de' suoi, che domandassero a'
medici se vi era pericolo che quelle infermità fossero contagiose. I
medici, che sempre nel prognostico dicono piú mal che possono, perché, succedendo,
paiono dotti per avergli previsti, e non riuscendo, molto piú, perché abbiano
saputo rimediargli o prevenirgli, dissero qualche parola ambigua, la qual
studiosamente disseminata e da leggieri creduta, passò anco alla
credulità de' mediocri e di quelli che, desiderando partire, averebbono
voluto che fosse stato vero. Ed opportunamente in quei dí dopo la sessione era
morto un vescovo che, funerato con essequie di tutto 'l concilio, fece la cosa
molto conspicua; onde s'empí Trento che vi era male contagioso, e la fama
andò anco a' luoghi circonvicini. Tra tanto i legati, mostrando di non
aver parte nella fama sparsa, il dí dopo la sessione tennero congregazione
generale per disponere quello che si dovesse discutere intorno il sacramento
dell'eucaristia, e la settimana seguente incomminciarono le congregazioni de'
teologi. E poiché la fama fu aummentata, quando parve, il cardinale Monte
ordinò ad Ercole Severolo, procurator del concilio, che facesse processo
sopra la pestifera infermità. Furono essaminati i medici, e fra gl'altri
Gieronimo Fracastoro, che aveva titolo di medico del concilio, et altre
persone. Fu presa relazione che i luoghi circonvicini si preparavano per levar
il commercio alla città. Questo moto fu causa che molti de' prelati dimandarono
licenza di partire, o per timore, o per desiderio di uscire di là in
ogni modo. Il Monte la diede ad alcuni, acciò potesse metter tra le
cause la partita de' padri, altri, piú seco congionti, confortò ad
aspettare: in suo secreto, per non privarsi afatto di aderenti nel farla
proposizione di transferir il concilio, ma in apparenza per non mostrar che lo
lasciasse dissolvere; e però disse che nelle congregazioni protestassero
acciò si pigliasse ispediente. Si seguí il processo sino al dí 8, quando
venne nuova, o vera, o finta, che Verona era per levar il commercio; cosa che
turbò ogn'uno perché sarebbe stato un tenergli tutti pregioni.
Perilché il
dí 9 si tenne congregazione generale sopra questo. In quella fu letto il
processo e proposto che rimedio si potesse trovar per non restar là
dentro restretti col male in casa e privati di socorsi di vettovaglie e d'altre
cose necessarie. Da molti fu protestato di voler partire e non poter esser
tenuti, e molte cose essendo dette, il Monte propose di transferir il concilio,
dicendo aver di ciò già sin dal principio autorità
apostolica, e fece leggere la bolla del papa diretta a' 3 legati, Monte, Santa
Croce e Polo: dove, narrato d'aver stabilito il concilio in Trento e d'avergli
mandato per legati et angeli di pace in quello, acciò cosí santa opera
per l'incommodità del luogo non fosse impedita, dà
autorità a doi di loro, in assenza dell'altro, di transferirlo in altra
città piú commoda, piú opportuna e piú sicura, e commandar sotto censure
e pene a' prelati di non proceder piú oltre in Trento, ma continuare il
concilio nella città a quale lo muteranno, e chiamar in quella i prelati
et altre persone del concilio di Trento, sotto pena di pergiurio et altre
censure nelle lettere della convocazione, dovendo egli aver rato tutto quello
che faranno, nonostante cosa alcuna in contrario. Fu da prelati imperiali
immediate risposto che il male et i pericoli non erano cosí grandi, che si
poteva licenziare i timidi sin che passasse quell'opinione, e con l'aiuto di
Dio presto sarebbe svanita; e quando bene si differisse la sessione, non era
cosa importante, poiché l'anno inanzi per i sospetti di guerra similmente molti
partirono, e la sessione si differí sei mesi e piú; cosí si facesse anco adesso
se fosse bisogno. Et altre tal raggioni furono addotte. Si disputò assai
sopra questo. Gli imperiali, partiti di congregazione e conferito tra loro, si
diedero ad investigare sottilmente quello che non avevano curato di saper piú
che tanto, et odorarono che non fosse male, ma pretesto.
Il giorno
seguente si fece congregazione sopra l'istessa materia: si trovò, che 11
prelati erano partiti, e si passò a parlare del luogo dove andare;
dentro in Germania tutti aborrivano; nello Stato d'alcun prencipe non si
poteva, non avendo prima trattato. Restava il solo Stato della Chiesa.
Proposero i legati Bologna, e piacque a tutti quelli che sentivano la
translazione. Fu in quella congregazione anco contradetto dagl'imperiali, e da
alcuni passato a quasi proteste, ma la maggior parte acconsentí. Dubitarono ben
alcuni che il papa dovesse sentir la translazione in male, facendosi senza sua
saputa. Ma, diceva il Monte, i casi repentini et i pericoli della vita esser
essenti da questi rispetti, e che pigliava la carica sopra di sé, che il
pontefice sentirebbe tutto in bene. Si ebbe anco considerazione all'imperatore
et altri prencipi, e concluso che, facendo menzione di loro nel decreto, si
sarebbe sodisfatto alla debita riverenza; e per dar anco qualche sodisfazzione
a chi non sentiva la translazione, far qualche menzione di tornare. Fu formato
il decreto concepito in forma di partito deliberativo: vi piace di dicchiarare
che consti di questo morbo, per le predette et altre allegate cose, cosí
notoriamente che i prelati senza pericolo della vita non possino fermarsi in
questa città, né possino esser tenuti contra il loro voler, et attesa la
partita di molti e protestazioni d'altri, per la partita de' quali si
dissolverebbe il concilio, et altre cause allegate da' padri notoriamente vere
e legitime? Vi piace a dicchiarare che per la sicurezza della vita de' prelati
e per proseguir il concilio, quello si debba transferir in Bologna e si
transferisca di presente, e doversi celebrar là la sessione intimata a
21 aprile, e proceder inanzi sin che parerà al papa et ad esso concilio
di ridurlo in questo o in altro luogo, con conseglio di Cesare, del
Cristianissimo e degl'altri re e prencipi cristiani?
[La translazione è prontamente
eseguita, ma non da' cesarei]
Il dí
seguente fu fatta sessione e letto il decreto: 35 vescovi, e 3 generali
assentirono, et il cardinale Pacceco con altri 17 vescovi diedero il voto in
contrario. Nel numero de' consenzienti non fu alcuno de' sudditi imperiali, se
non Michel Saraceno, napolitano, arcivescovo di Matera. Ma nel numero degli 18 dissenzienti
vi fu Claudio della Guische, vescovo di Mirpois, et il Martelli, vescovo di
Fiesole, e Marco Viguerio, vescovo di Sinigaglia, del quale vi è memoria
che, rinfaciandogli il cardinale del Monte d'ingratitudine, ché, tirato il zio
da infimo stato all'altezza del cardinalato, da che era venuta la grandezza di
casa sua et il vescovato in lui, rendesse tal merito alla Sede apostolica,
rispose in latino con le parole di san Paolo: «Non si debbe burlar con Dio».
Partirono i legati con la croce levata et accompagnati da' vescovi del loro
partito con cerimonie e preghiere.
Gli imperiali
ebbero commandamento dall'ambasciatore dell'imperator di non partire, sin che
Sua Maestà, ragguagliata, non dasse ordine. In Roma la corte sentí in
bene d'esser liberata dalla sospizione, perché ormai vi era gran confusione o
nondinazione de' possessori di pluralità de' beneficii, che trattavano
scaricarsi in modo, però, che non scemasse ponto l'utile. Il pontefice
diceva che, avendo dato a' legati suoi autorità di transferir il
concilio e promesso d'aver rato quello che da loro fosse deliberato e di farlo
esseguire, et avendo essi giudicata la causa dell'infezzione dell'aria
legitima, e tanto piú essendoci concorso l'assenso della maggior parte de'
prelati, non poteva se non approbarla.
Non era
però alcun tanto semplice che non credesse il tutto esser fatto per il
suo commandamento, essendo certo che nissuna cosa, per minima, si trattava in
concilio senza aver ordine prima da Roma, al qual effetto ogni settimana
correndo lettere, et alcune volte due spazzi spedendosi, non si poteva credere
che una cosa di tanto somma importanza fosse stata deliberata di capo de'
legati; oltre che il solo introdur tanto numero di persone in una città
gelosa come Bologna, senza saputa del prencipe dominante, pareva cosa che mai i
legati averebbono tentato. Credevano anco molti che la bolla non fosse col vero
dato, ma fatta di nuovo sotto dato vecchio e col nome del cardinale Polo per
dar maggior credito; altramente pareva quella clausula, nella quale è
data autorità della translazione a 2 di loro, assente l'altro, una
specie di profezia, che Polo dovesse un anno dopo partire, e quella
libertà di transferire a qual città gli fosse piacciuto era
tenuta per troppo ampia et inverisimile, atteso il sospetto sempre fisso
nell'animo de' pontefici che concilio non si celebri in città
diffidente, mostrato piú che mai da papa Paolo nel convocarlo. Onde non si
poteva credere che s'avesse esposto alla discrezione altrui senza bisogno in
cosa di tanto momento. Con tutto ciò, io, seguendo le note che ho
vedute, che al suo luogo ho detto, tengo per fermo che fu fabricata doi anni e
mandata 18 mesi inanzi questo tempo. Ma quello che non si poteva in modo alcuno
ascondere, e che scandalizava ogniuno, era che per quella bolla si vedeva
chiara la servitú del concilio. Perché se 2 legati potevano commandare a tutti
i prelati insieme di partirsi da Trento e constringergli con pene e censure,
dica chi lo sa e lo può che libertà era quella che avevano!
L'imperatore,
udita la nuova, sentí dispiacer grande, prima perché gli pareva esser
sprezzato, e poi perché si vedeva levato di mano un modo, quale maneggiando
secondo l'opportunità, pensava pacificare la religione in Germania e per
quel mezo metterla sotto la sua obedienza. Al re di Francia la nuova non
pervenne, ché egli il 21 dell'istesso mese passò a meglior vita.
[Proposito dell'autore]
Io non sono
ignaro delle leggi dell'istoria, in che quella sia differente dagli annali e
da' diarii. So ancora che genera sacietà nello scrittore, e nel lettore
tedio la narrazione di accidenti uniformi, e che raccontare minuzie troppo
particolari merita nome d'imprudente sacentaria; nondimeno osservo di frequenti
repliche e minute narrazioni in Omero, e che nell'espedizione di Ciro minore
Senofonte piú rapisce l'animo e piú insegna raccontando i raggionamenti serii e
giocosi de' soldati, che le azzioni e consegli de' prencipi. E vengo in
opinione che a ciascuna materia convenga la propria e singolar forma, e che
questa mia non possi esser formata con le ordinarie regole. Tengo per fermo che
quest'opera sarà da pochi letta et in breve tempo mancherà di
vita, non tanto per difetto di forma, quanto per la natura della materia: di
che ne ricevo documento per quello che veggo avvenuto alle altre simili. Ma a
me, senza riguardo a perpetuità né diuturnità, basta che sia per
giovare a qualch'uno, a quale, conoscendo io che sia per farne suo profitto, la
mostrarò, con certezza che ne' tempi seguenti gli avvenirà quello
che le congionture porteranno.
[Trattenimento delle due raunanze di Trento e
Bologna. Prima sessione di Bologna]
I prelati
restati in Trento erano molto sospesi, sinché dall'imperatore non vennero
lettere in commendazione delle azzioni fatte da loro, contradicendo alla
traslazione e rimanendo in Trento, con ordine espresso di fermarvisi e non
partire da quella città. Consultarono tra loro se si doveva far alcun
atto conciliare, e concordamente fu risoluto che sarebbe stato causa di scisma
e da non tentare; solo studiare le materie, aspettando quello che
l'opportunità avesse portato. Passavano qualche scritture tra i teologi
di Trento e di Bologna. Questi affettatamente chiamavano la sinodo di Bologna,
e quei la santa sinodo sia dove si voglia, e ne restano ancora diverse in
stampa di Bologna. Fecero i legati et altri cardinali di Roma diversi ufficii a
parte con alcuni de' rimasti in Trento per fargli andar in Bologna o almeno
partire di là, e non gli riuscí di guadagnar altri che Galeazio
Florimante, vescovo dell'Aquila. S'adoperarono anco acciò tutti i suoi
partiti da Trento si trovassero alla sessione e venissero anco degli altri di
piú; il che era facile per il gran commodo di far viaggio da Roma a quella
città. Si fecero diverse congregazioni, nelle quali altro non fu
trattato, se non come difendere la translazione per legitima, e le raggioni per
mostrare che quei di Trento fossero tenuti ad unirsi con loro.
Venuto il 21
aprile, giorno già destinato per la sessione, con celebre concorso di
tutto 'l popolo di Bologna e con molta solennità, i legati accompagnati
da 34 vescovi, si ridussero al consesso, nel quale altro non fu fatto se non
letto un decreto, dove si diceva che essendosi deliberato in Trento di
trasferir la sinodo a Bologna e celebrar la sessione in quel giorno, publicando
canoni in materia de' sacramenti e della riforma, nondimeno, considerando che
molti prelati soliti a ritrovarsi nel concilio erano stati occupati nelle loro
chiese per le feste di Pasca, sperando che presto saranno per venire, per far
le cose con degnità e gravità, si differisce a celebrare quella
sessione sino al 2 giugno, riservandosi nondimeno di poter anco ristringere il
termine. Fu anco decretato di scriver lettere per nome della santa sinodo
generale a' padri rimasti in Trento, ortatorie ad andar a Bologna et unirsi col
suo corpo, dal quale separati non possono chiamarsi congregazione
ecclesiastica, anzi danno molto scandalo al popolo cristiano. Le quali lettere
ricevute in Trento furono giudicate poco prudenti, come quelle che erano per
esasperare, non per ammolire gli animi. E perciò fu consegliato di non
dare risposta, per non introdurre contenzione, ma lasciare cader il tentativo,
quale era ascritto alla troppo libertà di procedere del cardinale del
Monte, non alla moderazione dell'universale.
[Cesare rompe il Sassone, e 'l lantgravio
s'arrende]
Cesare, che
con tutto l'essercito era nella Sassonia con potente armata a fronte di
quell'elettore, occupato tutto nelle cose della guerra, aveva deposto i
pensieri delle cose del concilio. Et il 24 dell'istesso mese, ordinato
l'essercito sopra il fiume Elb, detto da' latini Albi, venne a giornata; dove
il duca elettore restò ferito e preso e l'essercito suo disfatto; onde
indebolite le forze de' protestanti, il lantgravio fu costretto ad
accommodarsi; e pochi dí dopo, essendosi interposti il genero Maurizio e
l'elettore di Brandeburg, spontaneamente comparve. Il duca prima fu condannato
a morte come rebelle, poi concessagli la vita con varie condizioni durissime,
le quali tutte accettò, fuorché di sottomettersi al concilio nella causa
di religione: e Cesare si contentò che, fermate le altre, questa fosse
tralasciata. Al lantgravio anco furono proposte altre condizioni; tra quali
questa una, di ubedire a' decreti del concilio di Trento; al che non
consentendo, sottoscrisse di rimettersi ad un concilio pio e libero, dove
fossero riformati il capo e le membra, come farebbe il duca Mauricio e
l'elettor di Brandeburg; e rimasero ambidoi pregioni, il sassone perpetuo et il
lantgravio a beneplacito di Cesare. Per questa vittoria l'imperatore, fatto
patrone della Germania, s'impadroní di numero grande d'artegliaria e
cavò dalle città e prencipi gran quantità di danari: e per
dar forma pacifica alle cose acquistate con le arme ordinò una dieta in
Augusta.
Le quali cose
afflissero grandemente il pontefice, che considerava l'Italia esser senza aiuto
e restar a discrezione dell'imperatore. Si confortava però che sarebbe
costretto, avendo vinto per forza, mantenersi anco con la medesima, e
però non avrebbe potuto levare l'essercito di là cosí presto: tra
tanto a lui restava tempo di poter trattare e convenire col nuovo re di
Francia, con gli italiani, e mettersi in sicuro. Sentiva in tante molestie
allegrezza d'esser liberato dal timore del concilio. Lodava sopra modo la
risoluzione del cardinale del Monte, dal quale riconosceva questo bene.
Deliberò di mandar in Francia Gieronimo Boccaferro, romano, cardinale di
San Georgio, in apparenza per dolersi col re della morte del padre e
rallegrarsi del principio del suo regno, ma con commissione di trattar
intelligenza e confederazione. Diede il pontefice al legato amplissima
potestà di conceder al re ogni dimanda nella materia beneficiale, senza
aver risguardo alcuno a' decreti del concilio tridentino; e per esser pronto a
ricever ogni occasione che nascesse in Germania di implicare l'imperatore in
difficoltà, et accioché in dieta non fosse presa qualche deliberazione a
suo pregiudicio, mandò Francesco, cardinale Sfondrato per legato, con
instruzzione di trattare con gl'ecclesiastici e tenergli in devozione, e propor
anco diversi partiti a Cesare per fermar il concilio in Bologna, dal quale,
quando fosse stato in luogo non a sé soggetto, temeva piú che delle arme, quali
Cesare avesse potuto mover in Italia.
[Sedizione a Napoli per l'Inquisizione
introdotta]
Fu in questo
tempo in Napoli una sedizione gravissima, avendo voluto don Pietro di Toledo, vicerè,
introdur in quel regno l'Inquisizione secondo il costume di Spagna; repugnando
i napolitani, che prima con voci sediziose gridarono per Napoli: «Viva
l'imperatore e muora l'inquisizione»; poi, adunati insieme, avevano eletto un
magistrato che gli difendesse, e dicevano essersi resi al re Catolico con
espressa convenzione che le cause d'eresia fossero giudicate da' giudici
ordinarii ecclesiastici, e non fosse introdotto special ufficio d'Inquisizione.
E per questa causa tra spagnuoli e napolitani sediziosamente si venne alle arme
e vi furono molte uccisioni, con pericolo anco di ribellione. Dopo ordinate le
cose e poste 50000 persone in arme, che con segni delle campane si radunavano,
e ridottisi i spagnuoli ne' castelli et il popolo a' luoghi opportuni
fortificatosi d'artegliaria, si fece quasi una guerra formale tra la
città et i castelli; essendo durato il tumulto dal fine di maggio sino
mezo luglio, con uccisione tra l'un e l'altra parte di 300 e piú persone; nel
quale mentre mandò anco la città ambasciatori all'imperatore et
al pontefice, al quale si offerirono di rendersi, quando avesse voluto
ricevergli. Ma a lui bastava nodrire la sedizione, come faceva con molta
destrezza, non parendogli aver forze per sostenere l'impresa, se ben il
cardinale teatino, arcivescovo di quella città, promettendogli aderenza
di tutti i parenti suoi, che erano molti e potenti, insieme con l'opera sua,
che a quell'effetto sarebbe andato in persona, efficacemente l'essortava a non
lasciar passar un'occasione tanto fruttuosa per servizio della Chiesa,
acquistandogli un tanto legno. Li spagnuoli, chiamati aiuti da diverse parti,
si resero piú potenti e vennero anco lettere dall'imperatore che si contentava
che non fosse posta Inquisizione, perdonava alla città, eccettuati 19
che nominava, et uno che averebbe scoperto a tempo, pagando quella nondimeno
100000 scudi per emenda: condizioni che per necessità furono ricevute e
fatti morire per giustizia quei pochi che de' 19 si potero aver, restò
il tumulto quietato.
[Seconda sessione di Bologna con nuova
dilazione]
In Bologna i
legati non sapevano ancora bene che dover fare, et il pontefice gli aveva
commandato di non proceder ad azzione alcuna che potesse esser impugnata e
partorisse qualche divisione, ma andassero trattenuti con differire le
sessioni, e fra tanto far qualche congregazioni per non mostrar di star in
ozio. Però non era facile pigliare buona forma di farle per discutere la
materia dell'eucaristia, mancando i teologi principali, soliti trattare le cose
di fede in Trento. Se ne fecero nondimeno alquante e parlarono diversi teologi,
non però si formò decreti. Della riforma non occore dir altro,
perché fu posta per allora in silenzio profondo.
Venuto il 2
giugno, con le medesime cerimonie si celebrò la sessione, dove altro non
si fece che prorogarla con decreto simile a quello della precedente; narrando
che la sinodo l'aveva differita a quel giorno per l'assenzia de' padri che
aspettava: onde volendo anco trattare con benignità verso di loro,
aggiongeva una proroga sino a 15 di settembre, non dovendo tra tanto
tralasciare l'essamine de' dogmi e della riforma, riservandosi di poter
abbreviare et allongare il termine, eziandio nella congregazione privata.
[Il papa in Francia è soddisfatto. In
dieta Cesare dispuone la Germania a sottoporsi al concilio]
In Francia
non fu difficile al legato ottenere dal re quanto il pontefice poteva
desiderare; poiché esso ancora non aveva minore gelosia della fortuna
dell'imperatore, si trattò buona intelligenza con proposizioni molto
secrette. Tra le publiche vi fu che il re mandasse al concilio di Bologna
quanto prima il maggior numero de' prelati che si potesse. Fu contratto
matrimonio tra Orazio Farnese, nepote del papa, e Diana, figlia naturale del
re, d'età d'anni 9. Mandò il re 7 cardinali francesi a fermarsi
in corte per dar riputazione al pontefice e nodrire l'amicizia tra ambidoi.
Creò il pontefice ad instanza del re, il 26 luglio, cardinali Carlo di
Ghisa, arcivescovo di Rems, e Carlo di Vandomo del sangue regio.
In fine
d'agosto si trasferí Cesare in Augusta per celebrarvi la dieta, avendo attorno
la città tutto l'essercito de spagnuoli et italiani, et in essa
città alquante insegne di fantaria. Si fece il principio al primo di
settembre, dove Cesare principalmente intento a pacificare la Germania, diede
parte di tutto quello che aveva per il passato fatto in diverse diete per
conciliarla e come per questa causa aveva operato che fosse convocato e
principiato il concilio in Trento: ma non avendo tanta sua fatica giovato, era
stato costretto passar ad altro rimedio. E perché era piacciuto a Dio dar
felice riuscita al suo conseglio, riducendo lo stato di Germania in termini che
si poteva aver certezza di riformarla, aveva congregato per l'istesso fine i
prencipi. Ma perché la differenza della religione era causa di tutte le
turbulenze, era necessario comminciare di là. Diversa era l'opinione de'
prencipi in quella dieta, perché, tra gl'elettori, gl'ecclesiastici
desideravano et instavano che il concilio di Trento si facesse, e non
ricercavano in ciò condizione alcuna; i secolari aderenti a luterani si
contentavano con queste condizioni, che fosse libero e pio, che in quello il
pontefice né in propria persona, né per l'intervento d'altri fosse presidente e
relassasse il giuramento col quale i vescovi gli sono obligati, et appresso che
i teologi protestanti avessero voto decisivo e che i decreti già fatti
si reesaminassero; gli altri catolici dimandavano che il concilio si
continuasse e che i protestanti avessero publica sicurezza d'andarvi e di
parlar liberamente, ma fossero poi sforzati ad ubedire i decreti.
[Pietro Aloisio, figlio del papa, è
ucciso, onde s'interrompono tutte le azzioni conciliari in Bologna]
Stava il
pontefice con l'animo sollevato, attendendo il successo della dieta in
Germania, mentre il 10 settembre Pietro Aloisio, duca di Piacenza, suo figlio,
fu da congiurati nel proprio palazzo trucidato, il cadavero ignominiosamente
esposto e trattato: e poche ore dopo arrivarono genti da Milano, mandate da
Ferrando Gonzaga, vice-duca, che s'impadronirono della città. Questa
novità afflisse il pontefice sopra modo, non per la morte violenta del
figlio, né tanto per l'ignominia, quanto per la perdita della città e
perché vedeva chiaramente il tutto esser successo con participazione di Cesare.
Ma in Bologna
i legati pensarono che a tanta afflizzione et occupazione del papa non era
tempo d'aggiongere due lettere alla settimana, che si scrivevano di quello che
passava in concilio, e però conveniva prolongar la sessione per longo
tempo et intermettere tutti gl'atti conciliari, se ben ciò s'averebbe
con dignità fatto, celebrando la sessione intimata per i 15 e differendo
la futura; nondimeno, ricercando cosí la mestizia che si doveva tener per la
morte del duca che non si facesse alcuna solennità, esser meglio
anticipar quella et in una congregazione differirla. Perilché il 14, chiamati i
prelati tutti nella casa dell'abitazione del cardinale del Monte, egli
parlò loro in questa sostanza: che il dí de domani era determinato per
la sessione, ma ogni uno vedeva le angustie di che la sinodo era circondata;
non esser ancora gionti molti prelati che sono in viaggio, specialmente
francesi, et i venuti già poco tempo non esser informati, anzi quei medesimi
che tutta l'està sono stati presenti alle dispute di questi minuti
teologi, non esser ben in ordine: aggiongersi l'atrocità della morte del
duca, che teneva ogni un sospeso e loro occupati in attender alla sicurezza
delle città della Chiesa; rallegrarsi d'aversi riservato di poter
prorogar la sessione, per liberarsi dal travaglio di dover andar in chiesa a
celebrarla; esser suo conseglio, anzi necessità di valersi di quella
riserva, allongando la sessione al presente senza celebrarla domani. A padri tutti
piacque che s'allongasse. Soggionse il cardinale che, dopo molto pensare, non
avevano potuto trovar giorno certo dove fermar il piede; che quando erano in
Trento, pensando di spedir il decreto della giustificazione in 15 giorni,
furono forzati sudarvi 7 mesi continui, facendo anco spesse volte due
congregazioni al giorno; che dove si tratta della fede e confonder gli eretici
bisogna caminar col piè di piombo e spesso trattenersi longo tempo nella
discussione d'una paroletta: non poter esser certo se vi sarà
necessità di celebrar la sessione fra pochi giorni, o differirla anco
molti mesi, però esser di parer d'allongar la sessione a beneplacito del
concilio; questo senza dubio esser il miglior partito. E se alcun dicesse che
sapendo il tempo prefisso, ordinerebbe meglio i fatti proprii, questi possono
ben esser certi che fra pochi giorni si potrà veder che corso e
progresso sia per aver la sinodo. Piacque a tutti che fosse prorogato a
beneplacito del concilio, e furono licenziati.
[I prelati alemanni richiedono al papa di
rimettere il concilio a Trento]
Questo giorno
istesso i prelati di Germania, congregati nella dieta, cosí volendo Cesare,
scrissero al papa dimandando che fosse ritornato in Trento il concilio. Era la
lettera mista di preghiere e di minaccie: esponeva il cattivo stato e pericolo
di Germania, al quale s'averebbe potuto proveder, se il rimedio del concilio
fosse stato dato a tempo et in Germania, come era stato ricchiesto; perché
avendo essi ample giurisdizzioni, non potevano longo tempo star lontani; e per
quella stessa causa niuno era andato né a Mantova, né a Vicenza, e pochi a
Trento, città, che essa ancora appartiene piú tosto all'Italia,
specialmente al tempo della guerra. Ora, ridotte le cose in
tranquillità, erano entrati in gran speranza che la nave fosse ridotta
al porto, quando, fuori d'ogni espettazione, hanno inteso il concilio, nel
quale era posta ogni speranza, esser trasferito altrove o piú tosto diviso;
perilché, privati di questo rimedio, non gli restava altro se non il ricorso
alla Chiesa apostolica, con pregar Sua Santità per la salute della
Germania a restituir il concilio in Trento, il che facendo non esserci ossequio
che da loro non si debbia promettere; altrimente non restar loro dove ricorrere
per aiuto contra gli imminenti mali e pericoli; però si degni aver in
considerazione la loro dimanda, pensando che, se gli non vi provederà,
sarà possibil assai che sia pensato ad altri consegli e maniere per
metter fine alle difficoltà. Pregando finalmente la Santità Sua a
ricever in bene la loro lettera, essendo essi costretti a scriver cosí
dall'ufficio proprio e dalla condizione de' tempi.
Fece di piú
Cesare opera diligentissima accioché tutti si sottomettessero al concilio,
instando, pregando e ricchiedendo che si rimettessero alla sua fede. Con
l'elettor palatino le preghiere avevano specie di minaccie, rispetto alle
precedenti offese, perdonate di recente. Verso Maurizio, duca di Sassonia,
erano necessità, per tanti beneficii novamente avuti da Cesare e perché
desiderava liberare il lantgravio, suo suocero. Perilché, promettendo loro
Cesare d'adoperarsi che in concilio avessero la dovuta sodisfazzione e
ricercandogli che si fidassero in lui, finalmente consentirono e furono seguiti
dagl'ambasciatori dell'elettore di Brandeburg e da tutti i prencipi. Le
città ricusarono, come cosa di gran pericolo il sottomettersi
indifferentemente a tutti i decreti del concilio. Il Granvela negoziò
con gl'ambasciatori loro assai e longamente, trattandogli anco da ostinati a ricusar
quello che i prencipi avevano comprobato, aggiongendo qualche sorte di minaccie
di condannargli in somma maggiore che la già pagata: perilché finalmente
furono costrette di condescendere al voler di Cesare, riservata però
cauzione per l'osservanza delle promesse. Onde chiamate alla presenza
dell'imperatore et interrogate se si conformavano alla deliberazione de'
prencipi, risposero che sarebbe stato troppo ardire il loro a voler correggere
la risposta de' prencipi, e tutto insieme diedero una scrittura contenente le
condizioni con che averebbono ricevuto il concilio. La scrittura fu ricevuta,
ma non letta, e per nome di Cesare dal suo cancellario furono lodati che ad
essempio degl'altri avessero rimesso il tutto all'imperatore e fidatisi di lui:
e l'istesso imperatore fece dimostrazione d'averlo molto grato; cosí l'una e
l'altra parte voleva esser ingannata.
[Il papa preme Cesare di approvar la
traslazione; Cesare insta al ritorno in Trento]
Il cardinale
Sfondrato non aveva mancato del debito in proporre molti vantaggi per Cesare,
quando fosse condesceso a consentir il concilio in Bologna: gli mostrò
confusioni in che era l'Inghilterra sotto un re fanciullo con governatori
discordi e con i popoli tra loro diffidenti per causa della religione; gli
scoprí l'intelligenze che il papa teneva in quel regno, che tutte sarebbono
state a suo favore; propose che il papa l'averebbe aiutato a quell'impresa con
numero di genti e di vaselli, che gli averebbe concesso di valersi delle
rendite ecclesiastiche di tutti i Stati suoi. Era nota all'imperatore la mira
del papa di volerlo implicare in nuova impresa, per intorbidargli quella che
già aveva a fine condotta. Però rispose che col pontefice voleva
esser unito nelle cose della religione; ma, dove si trattava di guerra, era
risoluto far i fatti suoi da se stesso e non esser capitano di chi in
l'opportunità l'abbandonasse, come nella guerra di Germania. E
dall'altro canto esso ancora propose diversi vantaggi al papa, quando
consentisse il ritorno del concilio a Trento. Sopra che avendo il legato
certificato di non aver commissione alcuna, ispedí Cesare in diligenza il
cardinale di Trento al pontefice per negoziare la restituzione del concilio et
altri particolari che si diranno. Il pontefice, dopo averlo piú volte ascoltato
senza scoprir qual fosse l'animo suo, finalmente rispose che dovesse parlarne
in concistorio.
Il cardinale
a 9 di decembre, in presenza di tutto 'l collegio, dopo aver narrato quante
fatiche e pericoli aveva passato Cesare, non per altro che per sostenere la
degnità del concilio, e come finalmente per la sua diligenza et
autorità aveva indotto tutti i prencipi e stati di Germania ad aderirvi
e sottomettervisi, pregò Sua Santità, a nome di Cesare, di
Ferdinando e di tutto l'Imperio, che per l'amor di Dio volesse far ritornar a
Trento i vescovi che erano a Bologna, per finir l'opera necessaria
incomminciata, et ancora si contentasse mandar un legato o doi in Germania con
pienissima autorità pontificale, senza ritenergli facoltà alcuna,
accioché con loro conseglio si ordinasse un modo di vivere sino al concilio e
si riformasse l'ordine ecclesiastico: et appresso di ciò avesse
considerazione e determinasse se, accorrendo vacanza della Sede durante il
concilio, l'elegger il pontefice toccasse a' padri d'esso o a' cardinali:
acciò, occorrendo, non nascesse qualche nuovo moto. Questo terzo ponto
fu aggionto per avvertire il pontefice della sua vecchiezza e prossima
mortalità, et indurlo piú facilmente a condescendere, per non lasciare
la sua posterità erede del dispiacer che sentiva l'imperatore per la sua
renitenza. A queste proposte rispose il pontefice, commentando la buona
volontà dell'imperatore e le opere fatte in publico servizio della
Chiesa, e concludendo d'aver udite le proposizioni, alle quali averebbe avuto
la considerazione che meritavano, e risoluto quello che avesse piacciuto a Dio
inspirargli. Il cardinale, dopo aver provato in diverse audienze private d'aver
qualche buona risoluzione dal pontefice, vedendo che altro non si poteva da lui
avere, lasciata la instruzzione a don Diego di Mendozza, quale l'imperatore a
questo effetto aveva fatto andar a Roma da Siena, dove si ritrovava per
accommodare le differenze di quella republica, si partí e tornò in
Augusta. Don Diego, nel concistoro publico congregato per dar il capello al
cardinale di Ghisa, dove ogni qualità di persone può esser
presente, si presentò inanzi al papa e gli espose l'istesse cose dette
dal cardinale, aggiongendo aver commissione, se la Santità Sua
interponeva dilazione o scusa, di protestare che la sinodo di Bologna non era
legitima. Rispose il pontefice volere prima intendere la mente e le raggioni
de' padri del concilio di Bologna, e communicare la proposta co' re e prencipi
cristiani, per far risoluzione matura in servizio di Dio e sodisfazzione commune.
Il cardinale
di Ghisa in quello stesso concistoro fece un publico raggionamento per nome del
re di Francia, e disse in sostanza: che il re Francesco non aveva mai perdonato
a spesa e pericoli per mantenere la libertà anco degli altri prencipi:
in conformità di che Enrico, non degenerando dalla bontà paterna,
subito cessato il dolore per la morte del padre, aver voluto dichiarare la sua
osservazione verso la Sede romana; esser illustri i meriti de' re di Francia
verso i pontefici e superare tutti quelli delle altre nazioni. Ma sopra tutto
esser molto opportuno questo che fa il re, promettendo tutte le sue forze per
conservare la degnità ponteficia, in questo tempo che e cosí vilipesa.
Aggionse che pregava il pontefice a ricever il re per figliuolo e promettersi
da lui ogni aiuto, e del resto avere mira che la Chiesa non ricevi alcun danno
o vergogna, essendo ben noto da che deboli principii sono nate de' gran
fazzioni, le quali hanno condotto i pontefici in gran calamità.
Passò agli essempi di molti papi tribulati e da' re di Francia difesi e,
sollevati: concludendo che il presente re non vorrà esser inferiore a
suoi progenitori nel conservare la degnità della Sede apostolica.
[Il papa scrive a' prelati di Bologna, i quali
mantengono la traslazione]
Fu opinione
di molti che il pontefice fosse autore al Ghisa di parlare in quel tenore per
dar animo a cardinali suoi dependenti e per mortificare li spiriti elevati
degli imperiali, e far vedere che non potevano pensar a sforzarlo; e per
esseguire quanto a don Diego aveva detto, scrisse a Bologna al cardinale del
Monte la proposizione fattagli e la deliberazione sua, ordinandogli che quanto
prima, invocato lo Spirito Santo, esponesse il tutto a' padri, et inteso il
loro parer, rescrivesse qual fosse la mente del concilio. Il legato, congregati
i padri, espose le commissioni e fu il primo a dire il voto suo; il quale fu
dagl'altri seguito; perché lo spirito solito a mover li legati conforme alla
mente del papa e li vescovi a quella de' legati operò come altre volte
fatto aveva. Perilché raccolti i voti, il cardinale col parer e per nome
commune rispose che avendo la sinodo, quando si fece il legitimo decreto di
transferirla da Trento a Bologna, ammonito tutti di mettersi in viaggio e, dopo
gionti in Bologna, intendendo che alquanti erano restati in Trento, di nuovo
amorevolmente essortati a partirsi di là et unirsi al corpo del
concilio, del che non essendo da alcuni d'essi tenuto conto, rimanendo ancora
in quella città con sprezzo della sinodo e scandalo di molti, quasi come
pretendessero essi di esser il concilio legitimo o di non esser tenuti d'ubedir
a questo, i padri non sapevano veder come, salva la degnità e
reputazione della sinodo, si potesse trattare del ritorno a Trento, se i
rimasti in quella città non andavano prima a Bologna a congiongersi con
gl'altri e riconoscere la potestà del concilio; il che quando fosse
fatto, a contemplazione della Germania, s'averebbe potuto trattare di ritornar
in Trento, se però quella nazione avesse data una idonea sicurtà
di sottomettersi a' decreti cosí da farsi, come anco già fatti;
aggiongendo esser uscita certa fama che, quando il concilio fosse ritornato in
Trento, doverà introdursi in quello un proceder popolare e licenzioso:
per la qual causa giudicavano i padri necessaria un'altra buona sicurtà,
che dovesse esser servato l'ordine continuato nella celebrazione de' concilii,
dagl'apostoli sino quella età, desiderando anco cauzione di star securi
e di poter partire e transferire ancora il concilio, quando fosse parso alla
maggior parte, e di poterlo finire quando giudicassero aver sodisfatto alle
cause per che era stato convocato; supplicando in fine Sua Santità a non
constringergli a quello che sarebbe contra l'onor di Dio e la libertà
della Chiesa.
Il pontefice,
ricevute queste lettere, finita la messa del giorno di san Giovanni
Evangelista, ritornato alla camera de' paramenti co' cardinali,
communicò loro la risposta del concilio, la qual essendo dalla maggior
parte approvata, fatto chiamar il Mendozza, gli rifferí il parer della sinodo,
approvato anco da' cardinali, et aggionse non esserci cosa la qual non facesse
per causa della Germania, di che poteva Cesare esser buon testimonio; che
teneva anco certo la dimanda fattagli da esso ambasciatore per nome di Cesare, di
Ferdinando e dell'Imperio aver una condizione aggionta, cioè quando sia
con pace e commodo dell'altre nazioni e con libertà della Chiesa; la
quale, poiché congregata in un concilio generale, aveva giudicato altrimente, e
dell'istesso parer era anco il collegio de' cardinali, egli non doveva, né
poteva riputarla se non giuridica e raggionevole et approvarla, come anco
faceva. Che averebbe desiderato, per l'amor paterno verso Cesare et il re,
poter dargli risposta piú grata; ma da un pontefice, capo della Chiesa, non si
doveva aspettare se non quello che il buon governo delle cose publiche lo
constringeva deliberare; che conosceva la prudenza dell'imperatore et il filial
amor suo, onde confidava che averebbe ricevuto quello che da tanti padri era
giudicato necessario, averebbe commandato a' prelati spagnuoli che erano in
Trento di ridursi immediate a Bologna, e sarebbesi adoperato acciò la
Germania ricevesse le condizioni dal concilio proposte, e quanto prima inviasse
i prelati tedeschi, e rendesse cauta la sinodo che sarebbono osservate le
proposte condizioni. Il Mendozza, intesa la risposta, vedendo la risoluzione
del pontefice, voleva allora allora protestare che l'adunanza di Bologna non
era legitimo concilio e che, non rimettendolo la Santità Sua in Trento,
sarebbe stata essa causa de tutti i mali evenimenti che fossero occorsi alla
cristianità, e che in difetto suo Cesare, come protettore della Chiesa,
averebbe proveduto; ma interponendosi il cardinale de Trani, decano del
collegio, et alcuni altri cardinali, si contentò di referir questa
risposta a Cesare et aspettare nuovo ordine da lui.
Il pontefice,
considerata l'azzione del Mendozza, giudicò che questo negozio potesse
caminar in qualche disparer tra lui e l'imperatore, nel qual caso non gli
pareva utile per sé aver i prelati di Germania mal disposti. Alla ricevuta
della loro lettera, di cui s'è parlato, restò offeso per l'ultima
particola, del pensar ad altri consegli e rimedii, avendola per una minaccia
aperta, e deliberò di non dargli risposta alcuna, e restò in quel
parere tre mesi; ora, meglio consegliato, dubitò che tenendosi sprezzati
non venissero a qualche risoluzione precipitosa, la quale Cesare lasciasse
correre per implicarlo in maggiore difficoltà: onde, risoluto di prevenir
il male con onorargli di risposta, la ordinò molto modesta et
arteficiosa, ancorché non senza risentimento conveniente alla dignità
sua. Incomminciò la lettera dalla lode della loro pietà, quale
appariva nella sollecitudine usata per rimediare alle eresie e sedizioni, affermando
che d'altretanta egli ancora, per l'ufficio suo pastorale, resta assai occupato
in maniera che mai ha lasciato, né lascia passar tempo senza pensar a qualche
rimedio, e dal principio del ponteficato ricorse a quello che da loro è
menzionato, cioè al concilio. E qui, narrate le cose successe nella
convocazione, e gli impedimenti, perché non si venne alle essecuzione
immediate, soggionse che, congregato il concilio, molti decreti sono stati
deliberati, cosí condannando gran parte delle eresie, come per riformazione
della Chiesa; che la partita del concilio da quella città fu senza sua
saputa; ma avendo la sinodo potestà di farlo, presuppone che sia stato
con causa legitima, sin che gli consti in contrario. E se ben alcuni pochi non
hanno consentito, non però si può dire che il concilio sia
diviso. Soggionse che non è trasferito in città molto lontana, né
poco sicura, e l'esser suddita della Chiesa la rende piú sicura alla Germania,
la qual ha ricevuta da lei la religione cristiana e molti altri beneficii; poco
importar a lui che il concilio sia celebrato là o altrove, e non
impedire che i padri non possino elegger altro luogo, purché non siano
sforzati; ma che cosa gli ritenga dal ritornar a Trento, potranno vedere dalle
lettere di Bologna, de' quali manda copia. Che ha differito a risponder alle
lettere loro, perché, essendo andato a lui per nome di Cesare il cardinale di
Trento, e dopo don Diego Mendozza, ha voluto prima risponder all'imperatore.
Che dalla copia delle lettere de' padri di Bologna vedranno quello che convenga
fare prima che deliberar il ritorno: però gli pregava a venire, o mandar
procuratori a Bologna e proseguire il concilio. In fine aggionse non esser
restato turbato per il capo delle loro lettere dove accennano che saranno presi
nuovi modi e consegli, essendo conscio di se medesimo di non aver tralasciato
alcuna parte del suo debito e d'aver abbracciata la Germania con ogni
carità; ben promettersi di loro e di Cesare che non faranno cosa alcuna
senza maturità; ma se saranno tentati consegli contra l'autorità
della Sede romana, non lo potrà proibire, avendolo Cristo predetto
quando la fondò; non però temer che i tentativi possino succedere
felicemente, essendo fondata in una fermissima rocca. Piú volte altri aver
machinato il medesimo, ma destrutti i loro tentativi, Dio aver dato essempio in
quelli di quanto possi sperare chi vorrà entrarvi: e se le miserie
passate non moveranno li presenti a desistere esser nondimeno certo che essi
resteranno costanti nella pietà e fede sempre prestata, e nelle loro
congregazioni non daranno luogo a consegli contrarii alla degnità della
Chiesa.
[Cesare ordina che si faccia la protesta prima
a Bologna, poi a Roma]
Cesare,
avisato dall'ambasciatore suo delle condizioni proposte da' bolognesi e della
risoluta risposta del papa, quantonque chiaramente conoscesse che la
Santità Sua s'era coperta col nome del concilio e padri di Bologna,
quali era notissimo dipendere in tutto e per tutto e ricever ogni moto da lui,
per render certo il mondo che non aveva tralasciato mezo alcuno di ritornar il
concilio in piedi, mandò a Bologna Francesco Vargas e Martino Velasco; i
quali a 16 di genaro, avuta l'audienza dal consesso, dove, insieme co'
cardinali del Monte e Santa Croce, legati, erano li padri non in maggior numero
che nell'ultima sessione, presentarono lettere dell'imperatore, quali erano
inviate «Conventui Patrum Bononiae». Le quali lette, incomminciando il Vargas a
parlare, il Monte l'interruppe dicendo che, se ben quella Santa Sinodo non era
tenuta ascoltarlo, non essendo le lettere indrizzate a lei, come quella, che
non era convento, ma concilio, tuttavia non ricusavano udirlo con protesto che
fosse senza pregiudicio suo e senza avantaggio d'altri, e che restasse libero
a' padri di continuare il concilio e passar inanzi e proceder contra i
contumaci e ribelli con le pene delle leggi. Vargas ricercò che della
protestazione fatta, inanzi che intendere la proposta, fosse fatto istromento;
poi pregò i padri, per nome di tutta la republica cristiana, a proceder
con equità, perché perseverando ostinati nel parer da loro non con
intiera prudenza e maturità abbracciato, il fine non poteva riuscir se
non con gran calamità publica; ma condescendendo a Cesare, tutto
avverrebbe felicemente. Egli era per mostrargli quanto pernicioso error sarebbe
il non mutar deliberazione e quanto la volontà di Cesare verso il
servizio di Dio e publico della Chiesa era ottima. In queste parole di nuovo fu
interrotto dal Monte, qual disse: «Son qua io, presidente di questo sacrosanto
concilio e legato di Paolo III, successor di Pietro e vicario di Cristo in
terra, insieme con questi santissimi padri, per proseguire a gloria di Dio il
concilio trasferito legitimamente da Trento; e preghiamo Cesare di mutar parere
e di porgerci aiuto a questo effetto, e raffrenar i perturbatori del concilio,
sapendo Sua Maestà che chi mette impedimento a' sacri concilii, sia di
che grado si voglia, incorre gravissime pene delle leggi, e siamo cosí disposti
che, succedendo qualonque cosa, non averemo rispetto a qual si voglia minaccie,
né saremo per mancar alla libertà et onore della Chiesa, del concilio e
del nostro».
Allora il
Velasco legette la protesta che aveva scritta in mano, la somma della quale
era: che essendo la religione sbattuta, i costumi corrotti e la Germania
separata dalla Chiesa, l'imperatore aveva dimandato il concilio a Leone,
Adriano, Clemente et in fine a Paolo III, e narrati gl'impedimenti e
difficoltà nell'adunarlo, toccò le cose trattate nel concilio,
soggiongendo che in quel mentre l'imperatore fece la guerra principalmente per
causa della religione e quietò la Germania con la virtú sua, con
grandissima speranza che al concilio andassero quelli che sino allora l'avevano
ricusato; ma che allora essi reverendissimi legati, contra l'espettazione di
tutti, senza la saputa del papa, fatta nascere e finta una causa leggierissima,
proposero a' padri la traslazione del concilio senza dargli tempo di pensare;
al che essendosi opposti alcuni santi vescovi, protestando di volere restar in
Trento, essi col solo consenso de' pochi italiani decretarono la traslazione,
et il dí seguente partirono e se n'andarono in Bologna. Che l'imperatore, avuta
la vittoria, sollecitò in molti modi il pontefice, pregandolo a fargli
ritornar in Trento, mostrando li scandali e pericoli imminenti se il concilio
non si finisca in quella città, e fra tanto operò nella dieta
d'Augusta che tutti i tedeschi si sottomettessero al concilio. Mandò
finalmente il cardinale di Trento a Sua Beatitudine a significargli questo e
pregarla a far tornar il concilio in Trento. Fece anco andar il Mendozza a Roma
per far l'istesso ufficio. Che il pontefice ha interposto tempo per trattare
con essi congregati, quali hanno dato una risposta vana, capziosa, piena
d'inganni, degna che il pontefice la dannasse, il qual però l'ha
approvata e seguita, chiamando la congregazione bolognese, che è
illegitima, con nome di generale concilio, dandogli tanta autorità che
essa medesima non ha saputo tanta arrogarsene. Certa cosa esser che il concilio
congregato in Trento non si poteva trasferire, se non per urgente
necessità, diligente discussione e consenso di tutti; che con tutto
ciò, essi asseriti legati e gl'altri precipitosamente erano usciti di
Trento, finte certe febri et infezzioni d'aria, e testimonii affettati de'
medici, quali l'evento ha mostrato che non erano cause manco di vano timore.
Che quando anco vi fosse stata necessità di farlo, conveniva trattare
prima col papa e con l'imperatore, che ha la tutela de concilii. Ma tanta fu la
loro fretta, che non consultarono manco con loro medesimi. Che era debito
ascoltar et essaminar le contradizzioni e pareri di quei padri che parlavano
per conscienza, i quali, se ben erano manco di numero, dovevano esser preferiti
come piú savii. Che quando s'avesse dovuto partire, non conveniva uscire di
quella regione, ma, seguendo i decreti de' santi concilii, elegger un altro
luogo in Germania; non potersi in alcun modo difendere d'aver eletto Bologna
suddita della Chiesa, dove certo era che germani non sarebbono andati e quale
ogni uno poteva per molte cause ricusare; il che non era se non dissolvere il
concilio alla sprovista. Perilché l'imperatore, al qual appartiene difender la
Chiesa e proteger i concilii generali, per componer i dissidii di Germania, et
anco per ridur la Spagna, gl'altri regni e Stati suoi alla vera vita cristiana,
vedendo che la partita da Trento, fatta senza raggione, pertorba tutto 'l suo
proposito, ricerca essi asseriti legati con gl'altri vescovi che partirono di
ritornar in Trento. Che ciò non possono ricusare, avendo promesso di
farlo, cessate le sospizzioni di peste: il che se faranno, sarà cosa
gratissima a tutto 'l popolo cristiano. Ma quando non, essi procuratori, per
special mandato di Cesare, protestano la traslazione overo recesso esser
illegitimo e nullo, con tutte le cose seguite e che seguiranno, e
l'autorità d'essi asseriti legati e de' vescovi là presenti, come
pendenti dal nuto del pontefice, non esser tanta che possi dar legge a tutta la
republica cristiana nella causa di religione e di riforma de' costumi, e
massime a quelle provincie, i costumi et instituti de' quali non gli sono noti;
similmente protestano che la risposta di Sua Santità e la loro non
è conveniente, ma illegitima, piena d'inganni et illusoria, e che tutti
i danni, tumulti, rovine et esterminii di popoli che di là sono nati,
nascono e possono nascere, non debbono esser imputati a Cesare, ma a quella
congregazione che chiamano concilio, potendo ella facilissimamente e
canonicamente rimediarvi. Protestando similmente che l'imperatore, per difetto,
colpa e negligenzia loro e del papa, provederà con tutte le sue forze,
non tralasciando la protezzione e tutela della Chiesa che se gli conviene per
essere imperatore e re, conforme alle leggi et al consenso de' santi padri e
del mondo. Dimandarono in fine istromento publico delle cose da loro trattate e
che il mandato di Cesare e la protestazione loro fosse inserita negl'atti di
quella asserta congregazione.
Dopo la
protesta il Velasco presentò la scrittura medesima che teneva in mano, e
replicò l'instanza che fosse registrata. Il cardinale del Monte, con
consenso della sinodo, con gravissime parole protestò esser parecchiati
piú tosto a morire, che sopportare l'introduzzione d'un tal essempio nella
Chiesa, che la potestà secolare congreghi concilio: che Cesare è
figlio della Chiesa, non signore o maestro. Che esso et il suo collega sono
legati della Santa Sede apostolica e che non ricusavano di render conto a Dio
et al pontefice della loro legazione, e che fra pochi giorni averebbono
risposto alla protestazione lettagli.
Il Mendozza in Roma, ricevuta la
risposta da Cesare che dovesse proseguir inanzi e protestare al papa in
presenza de' cardinali et ambasciatori de' prencipi, e ricevuto aviso
dell'azzione fatta in Bologna dal Vargas e Velasco, comparve in consistoro, et
inginocchiato inanzi il papa, lesse la protestazione, tenendola in mano
scritta. Incomminciò dalla vigilanza e diligenza dell'imperatore per
riunire la republica cristiana divisa in varie opinioni della religione.
Narrò gl'officii fatti con Adriano, Clemente e con l'istesso Paolo per
indurgli a convocar il concilio: al quale poiché gli ribelli di Germania
ricusavano sottomettersi, indotto dall'istessa pietà, gli ha costretti
con le arme all'obedienza; nel che, quantonque il pontefice, per non mostrare
di mancar alla publica causa, abbia contribuito certo leggier aiuto di gente,
si può dir però che con le sole forze di Cesare una tanta guerra
sia ridotta a fine, nella quale, mentre egli era occupato, ecco che la buona
opera principiata in Trento fu interrotta con un pernizioso tentativo di
trasferir il concilio sotto pretesti non veri, né verisimili, ma solo ad
effetto che non sortisse il fine della quiete commune, non ostante che la piú
pia e sana parte de' padri s'opponesse e rimanesse nell'istesso luogo; che a
questi doverebbe esser dato il nome di concilio, e non a quelli che sono
ritirati a Bologna, quali la Santità Sua onora di quel nome per esser
aderenti a lei, la volontà de' quali antepone alle preghiere dell'imperatore,
di Ferdinando e de' prencipi dell'Imperio, non curando la salute di Germania e
la conversione delli sviati, per ridur i quali, poiché si sono contentati di
sottomettersi al concilio di Trento, non resterebbe altro che ritornarlo in
quella città. Del che essendo da esso ambasciatore per i nomi sopradetti
supplicato, ha dato una risposta piena d'arteficii e senza alcun fondamento di
raggione: laonde vedendo che le requisizioni evangeliche fatte a 14 e 27
decembre alla Santità Sua da lui, come ambasciatore cesareo, et a 16
genaro in Bologna da altri procuratori della medesima Maestà, delle
quali né in l'uno, né in l'altro luogo era stato tenuto conto, allora
protestava la partita da Trento e la traslazione del concilio a Bologna esser
nulle et illegitime, che introdurranno contenzione nella Chiesa, metteranno la
fede catolica e la religione in pericolo, oltre che di presente danno scandalo
alla Chiesa e desformano il suo stato; che tutte le rovine, dissidii e scandali
che nasceranno, si doveranno imputare a Sua Beatitudine, la qual, ancorché
obligata sino al sangue a provedervi, favorisce e fomenta gl'autori. Che
l'imperatore, per difetto e colpa di Sua Santità, vi provederà
con tutte le sue forze per officio suo come imperatore e re, secondo la forma
statuita da' santi padri et osservata col consenso del mondo. Voltato poi a'
cardinali, disse che, recusando il papa d'attendere alla pace della religione,
unione della Germania e riformazione de' costumi, se essi medesimamente saranno
negligenti, protestava quel medesimo a loro che alla Santità Sua; e
lasciata la scrittura che teneva in mano, non essendogli da alcuno fatta
risposta, si partí.
[Il pontefice tenta sfuggire la protesta]
Il pontefice,
considerata la protestazione del Mendozza e maturato il negozio co' cardinali,
s'avvidde esser ridotto ad un stretto passo, e che era molto contra la
degnità sua l'esser preso per parte e che contra lui si voltasse la
contenzione, né esser rimedio, se non con trovar strada di farsi neutrale e
giudice tra quelli che approvavano la translazione e che l'impugnavano. Per far
questo era necessario declinare la protestazione, sí che paresse non contra lui
fatta, ma inanzi lui contra i bolognesi; il che non potendosi fare con
dissimulazione, risolvé d'imputare all'ambasciatore la transgressione del
mandato cesareo, giudicando che l'imperatore, vedendo la destrezza sua nel
caricare l'ambasciatore per fuggir di rompere con la Maestà Sua, dovesse
imitarlo, e come se fosse stato protestato contra i bolognesi, proseguire,
riconoscendo il papa per giudice. Perilché il mercore 1 febraro nel consistoro
fatto chiamar il Mendozza, diede la risposta molto prolissa, dicendo in
sostanza che il protestar era cosa di cattivo essempio, usata da quelli che
hanno scossa l'obedienza o vacillano da quella; che duole a lui et al collegio
de cardinali di quell'azzione inaspettata per l'amor paterno sempre portato a
Cesare e per esser fatto in tempo, quando meno era aspettato, avendo fatta la
guerra et avendo la vittoria contra i suoi nimici e della Chiesa aiutato dalle
genti pontificie, mantenute con immensa spesa, aiuti grandi et opportunissimi,
che non meritavano dopo la vittoria un tal frutto, cioè che il fine
della guerra fosse principio di protestar contra lui. Mitigava bene il suo dolore,
perché l'ambasciatore aveva eccesso i termini del mandato cesareo, nel quale ha
commandato a' suoi procuratori a Bologna che protestino a' legati, et a lui
che, in presenza del pontefice e de' cardinali, protestasse contra il concilio
di Bologna, ma non contra il pontefice. Che Cesare aveva fatto l'officio di
modesto prencipe, conoscendo che il pontefice è unico e legitimo giudice
nella causa della traslazione, la qual causa quando ricusasse di conoscere,
allora averebbe luogo la protesta contra di lui; e però era piú
conveniente che i padri remasti in Trento, e avevano causa di querela contra
quei di Bologna, ne instituissero giudicio inanzi a lui; ma l'ambasciatore
aveva pervertito l'ordine, tralasciando la petizione che doveva fare, e ricercando
un indebito pregiudicio contra il concilio; onde cadendo da sé l'atto della
protestazione, non sarebbe bisogno dar risposta. Nondimeno, per sincerar la
mente di tutti, voleva anco aggiongere: e prima, per quello che tassa lui da
negligente e loda Cesare per sollecito, disse non voler detraere alla buona
mente et azzioni dell'imperatore, ben precederlo, sí come in età, cosí
in diligenza; mostrò che aveva sempre desiderato il concilio e con
effetti mostrato il desiderio: e qui discorse tutte le azzioni fatte a questo
fine e gli impedimenti attraversati da altri e qualche volta anco da Cesare con
diverse guerre. Soggionse che, se le cause della traslazione siano legitime o
no, si riservava giudicarlo: ma ben diceva che il lodar i rimasti in Trento era
lodar gl'alienati dal corpo della Chiesa; non ricusare, né mai aver ricusato
che si ritorni a Trento, purché si faccia legitimamente e senza offesa delle
altre nazioni; che il voler reputar Trento solo atto a celebrar il concilio era
far ingiuria allo Spirito Santo, che in ogni luogo è adorato et è
presente; né si deve aver risguardo che la Germania ha bisogno della medicina;
poiché per quella raggione bisognerebbe far anco un concilio generale in
Inghilterra et altrove: non si piglia il commodo di quelli per chi si fanno le
leggi, ma di quelli che le hanno a fare, che sono i vescovi. Spesse volte si
sono fatti concilii fuori delle provincie dove erano le eresie; scoprir ben che
cosa gli dispiace nella risposta datagli: cioè che siano ricevuti i
decreti fatti e da farsi, e sia tenuto il modo servato sino dal tempo
degl'apostoli. Che egli è per fuggir ogni negligenza nella cura della
Chiesa e se Cesare vorrà usar diligenza, pur che stia tra i termini
prescritti dalle leggi e da' padri che si convengono a lui, la fonzione dell'un
e l'altro, distinte, saranno salutifere alla Chiesa; e per quanto s'aspettava a
conoscere se la traslazione era legitima o no, avvocava a sé la causa e
deputava quattro cardinali: Parisi, Burgos, Polo e Crescenzio per conoscerla,
commandando a ciascuno che, pendente la cognizione, non attenti alcuna
novità e dando termine un mese a' padri di Bologna e di Trento da produr
le loro raggioni. E questo decreto lo fece ridur in scritto dal secretario
consistoriale nella forma giudiciale solita della corte, con inibizione a'
prelati di Bologna e di Trento di non innovar alcuna cosa, pendente la lite.
Della
risposta del pontefice non bastò agl'imperiali di ridersi per la
distinzione ivi apportata di protestare non contra il papa, se ben inanzi il
papa, ma ancora Diego replicò una nuova protesta, dicendo aver da Cesare
speciale mandato di protestare nella forma che usata aveva. Et in Bologna,
ricevuta la inibizione del pontefice, non facendosi piú ridizzione de' vescovi,
né congregazione de' teologi, a poco a poco partirono tutti, fuorché i
stipendiati dal papa, che non potevano farlo con loro onore. Quei di Trento non
si mossero, cosí volendo Cesare per mantenervi il segno di concilio e tener in
speranza i catolici di Germania et in officio i protestanti, et acciò
non restasse caduca la promessa fatta da loro di sottomettersi al concilio di
Trento, per non esser quello in essistenza.
Il pontefice
fece passar a notizia de' prelati rimasti in Trento la risposta data al
Mendozza, et aspettò 15 giorni se da lui o da loro fosse fatta qualche
apertura che lo facesse giudice, come aveva dissegnato. Ma vedendo che niente
succedeva, scrisse un breve al cardinal Pacceco et agl'arcivescovi e vescovi
restati in Trento a similitudine d'una citazione; nel quale, dopo aver detto le
cause che lo mossero a intimar il concilio, e gl'impedimenti e dilazioni
occorsi nel congregarlo, e l'allegrezza che ebbe vedendolo principiato, la qual
s'aumentò per il felice progresso, mettendolo in speranza che in breve
dovesse esser proveduto a tutti i mali della Chiesa, soggionse che altretanta
molestia riceveva da' contrarii incontri: onde quando intese la partita de'
suoi legati e della maggior parte de' vescovi da Trento, essendo rimasti essi
nel medesimo luogo, sentí dispiacere come di causa che poteva tirar indietro il
progresso del concilio e dar scandalo alla Chiesa; le qual cose essendo cosí
ben note a loro come a lui, si maravigliava perché se la traslazione del
concilio era parsa loro giusta, non fossero andati in compagnia de gl'altri, se
ingiusta, perché non avevano fatto querela a lui: esser cosa chiara, e loro non
poterla ignorare, ch'erano in obligo dell'uno o dell'altro di questi doi: de'
quali qual si voglia che fosse abbracciato, averebbe levato le occasioni di
scandalo. Non poter restar di scrivergli con dolore che in l'uno o in l'altro
abbiano mancato e che egli sia stato avisato prima delle loro querele
dall'imperatore, che da alcuno di loro, almeno per lettere o per noncii; e di
questo officio tralasciato aver maggior causa di dolersi del cardinale,
maggiormente obligato per la degnità del cardinalato. Ma poiché quello
che egli aspettava che fosse fatto da loro è stato prevenuto da Cesare,
il qual si è querelato per mezzo dell'ambasciatore suo che la traslazione
del concilio sia nulla et illegitima, offerisce a loro prontamente quello che
non gli averebbe negato se essi si fossero lamentati: cioè di udire le
loro querele e conoscer la causa. E quantonque dovesse presuppor che la
traslazione fosse legitima, nondimeno, per far l'officio di giusto giudice, si
offeriva pronto ad udir loro e le raggioni che adduranno in contrario; che in
ciò ha voluto anco tener conto della nazione spagnuola e delle loro
persone, non volendo che prevalessero le grandi presonzioni che si dovevano
aver contra di loro. Perilché, avendo col conseglio de' cardinali avvocato a sé
la causa della traslazione del concilio, e commessa ad alcuni di essi per
riferirla in consistorio, e chiamati tutti i pretendenti interessi, et inibito
a' prelati di Bologna e di Trento di attentar alcuna cosa pendendo la lite, sí
come nella scrittura, della quale manda copia, si conteneva, desiderando finir
la causa quanto prima, gli commanda che, pretendendo la traslazione esser
invalida, tre di loro almeno, ben informati, debbino assister nel giudicio et
allegare le pretensioni loro e presentarsi perciò quanto prima, volendo
che la presentazione fatta al cardinale et a doi o tre di loro, con
l'affissione alle porte della chiesa di Trento, oblighi tutti, come se fosse
personalmente intimata. Mandò anco il pontefice a congregati in Bologna
ad intimare l'istesso decreto: i quali mandarono a Roma immediate.
Ma il
cardinal Pacceco e gl'altri spagnuoli rimasti in Trento, che si ritrovarono
insieme al numero di 13, avendo prima mandato ad intender la mente
dell'imperatore, risposero alla lettera del pontefice sotto il 23 marzo in
questa sostanza: che confidavano nella benignità e prudenza sua, qual
facilmente conoscerà essi, nell'aver contradetto alla traslazione,
nell'aver taciuto, nell'esser restati in quella città, niente aver manco
pensato che d'offender la Santità Sua; anzi la principal causa del
dissentir dagli altri esser stata il veder che si trattava di cosa gravissima,
senza saputa della Santità Sua: nel che anco desideravano che non fosse
tenuto sí poco conto dell'imperatore. Che pareva loro chiaro che la traslazione
non dovesse esser ben interpretata, né facilmente approvata dalla
Santità Sua, la qual pregavano di non credere che l'imperatore abbia
prevenuto la querela loro, aspettata dalla Beatitudine Sua, sopra la illigitima
traslazione del concilio, perché essi glie n'abbiano fatto querela, ma per
proprio moto di Cesare, il quale riputava appartenere a lui la protezzione
della Chiesa; che non sarebbe mai venuto in mente loro la Santità Sua
aver potuto desiderar questo officio d'esser aiutata da essi, la qual
riputavano aver avuto intiero conto da' suoi legati, avendo essi parlato in
publico e con scrittura de notarii; che pareva loro bastar aver detto il parer
loro e del resto tacere. Perilché non credevano che la loro presenza fosse
necessaria in altro. Che se vi è mancamento, il candor d'animo nondimeno
è chiaro; che pensavano a loro bastar dissentire dalla traslazione
proposta, e per modestia et umiltà non interpellar la Santità
Sua, qual speravano non dover mancar a quello che avesse giudicato utile alla
Chiesa. Non vedere perché dovessero partir co' legati, i quali promisero, e
nella congregazione generale e nella publica sessione, di dovere tornare a
Trento subito che fosse cessato il sospetto del morbo, massime se la Germania
s'avesse sottomessa al concilio. Che essi si fermarono nella città,
credendo che dovessero tornare, massime quando intesero per grazia di Dio e per
virtú dell'imperatore, la Germania essersi al concilio sottomessa. Che alcuni
abbiano ricevuto scandalo, come dice Sua Santità, dal loro esser
rimasti, bastare a loro che non l'hanno dato, e che dall'altra parte la partita
degli altri ha turbato molti; che la loro nazione ha sempre venerato il
successor di san Pietro, nel che da loro non è stato commesso
mancamento; pregare Sua Santità che non sia ascritto loro a fraude
quello che a buon fine hanno fatto; quale pregano umilmente che non consenti
siano messi in lite: la causa di che si tratta non esser di loro, ma di Dio;
quando di loro fosse, esser parecchiati a sostener ogni torto; ma essendo di
Dio e di Cristo, come è, a nissun piú appartenere che al vicario suo. In
fine pregarono Sua Santità che rimettesse in piedi l'interrotto
concilio, rendesse a quel luogo i legati et i padri, et il tutto si facesse per
la breve, senza trattare di translazione; pregarlo ricever in bene le loro
parole, non dette per significar qual sia il debito della Santità Sua,
ma quello che essi da lei sperano.
La risposta
de' spagnuoli, dal pontefice ricevuta, fu mandata a' cardinali commissarii
della causa, da' quali fu communicata a' procuratori de' bolognesi,
acciò proseguissero inanzi. Questi risposero essergli grato che i
spagnuoli riconoscono il giudicio et il giudice, e che non vogliono esser
parte: con tutto ciò esser necessario ributtare alcune cose dette nella
risposta loro, per metter in chiaro la verità. Per quel che dicono che
doveva esser avisata prima la Santità Sua, questo era superfluo,
essendovi una special bolla che allora fu letta. Che l'imperatore sia stato
negletto non si può dire, poiché tanto conto è stato tenuto di
Sua Maestà, quanto del pontefice, non comportando il fatto dimora,
poiché era necessario o dissolver, o trasferir il concilio per il progresso che
faceva il morbo pestilente nella città e luoghi circonvicini, per la
partita di molti padri successa et imminente, e per la contestazione giurata
de' medici, specialmente di Fracastoro, stipendiato publico; per il timore che
si aveva, che non fosse levato il commercio delle città vicine; le quali
cose constano tutte negli atti, per commandamento di Sua Santità a Roma
trasportati. Che li legati, dopo il decreto, gli essortarono andar a Bologna, e
gionti a Bologna gli ammonirono per lettere, onde non possono dire di non aver
dovuto seguire i legati, perché non fossero di parere che il concilio si
trasferisse, imperoché essendo liberi i voti di tutti nel concilio, potero con
conscienzia dissentire dagli altri, ma avendo la maggior parte fatto un
decreto, a quello convien che la minor accommodi la conscienza sua, altrimente
mai cosa alcuna si terminerebbe. Che sia stato promesso il ritorno, si
può veder nel decreto con che forma; ma se sono restati credendo che
gl'altri dovessero ritornare, perché non responder alle lettere de' legati, che
gl'ammonivano di andar a Bologna? Ma quando chiamano asserta la sospezzione
della pestilenzia, è verisimile che gli sia caduta quella voce per caso,
altramente, non avendo causa d'allegare contra la traslazione e non mandando,
secondo il decreto di Sua Santità, incorrerebbono nelle censure. Né
quella divisione vale, se la causa è di loro o di Dio; perché, in quanto
a loro appartenga, niuno vuole fargli ingiuria, in quanto sia di Cristo, poiché
è question di fatto, è ben necessario dilucidare quello che in
fatto non è chiaro: onde avendo l'imperatore chiamato i legati asserti
et i padri che sono in Bologna, non concilio, ma privata adunanza, et aggregato
molti opprobrii contra la traslazione, fu raggionevole che la causa fosse assonta
da Sua Santità, non per fomentar le liti, anzi per sopirle. Se li
scandali siano nati per la traslazione o perché essi siano rimasti, da questo
solo si può vedere, perché il loro rimanere è causa che non si
possi tornarvi; e quando pregano la Santità Sua di ritornar l'interrotto
concilio, se ciò intendono delle solite congregazioni, quelle mai si
sono intermesse; se della publicazione de' decreti, quella è stata
differita in grazia loro, e già tante cose sono discusse in Bologna,
cosí della fede, come della riforma, che se ne può far una longa
sessione. Perilché pregano la Sua Santità di dar la sentenza,
considerando che nissun concilio, fuor di tempo di schisma, è durato
tanto quanto questo; onde i vescovi sono desiderati dalle sue chiese, alle
quali è giusto che siano renduti. Questa scrittura fu in fine d'aprile
presentata.
Dopo la quale
non fu proceduto piú inanzi nella causa, perché i cardinali deputati non
sapevano trovar modo come venir a fine: il pronunciar la traslazione legitima
in assenza di chi la contradiceva, non avendo modo di costringergli a ricever
la sentenza, era fare un scisma; meno si vedeva modo come sforzargli ad
assister al giudicio. Il pontefice era di ciò molto angustiato, non
vedendo manco partito alcuno come, senza forma di giudicio, si potesse comporre
questa difficoltà.
[Il papa preme la restituzione di Piacenza
occupata da' cesarei]
Mentre queste
cose si trattano, dopo la morte del duca suo figlio il papa con continue
instanze fece dimanda della restituzione di Piacenza e d'altri luoghi occupati
nel Parmeggiano, valendosi degl'interessi della figlia dell'imperatore, moglie
del duca Ottavio, figlio del defonto. Ma Cesare, che dissegnato aveva di tenere
quella città per il ducato di Milano e dar ricompensa al genero in
altro, portava il tempo inanzi in varie risposte e partiti, sperando che il
papa, già ottuagenario et adolorato per la morte del figlio e tanti
altri disgusti, dovesse, lasciando la vita, dare luogo e fine a tutte le
controversie. Ma il papa, vedendosi deluso con le dilazioni e molestato con le
instanze di far ritornar il concilio in Trento et offeso con la dimora
continuata de' prelati spagnuoli in quella città, per far almeno una
diversione, fece intendere a Cesare che gl'occupatori di Piacenza, terra della
soggezzione della Sede apostolica, erano incorsi nelle censure, alla
dicchiarazione de' quali egli voleva passare, folminandone anco di nuove, se
fra un dato termine non gli era restituita. Rescrisse l'imperatore una lettera
acerba, avvertendo il papa a non dar fomento a' fuorusciti di Napoli, narrando
che tutti i machinamenti gli erano passati a notizia, che aveva inteso le
calonnie eccitate contra da lui, che procurasse scisma, mentre per unire la
cristianità dimanda il concilio in Trento; e quanto a Piacenza, che
quella è membro del ducato di Milano, occupata indebitamente da'
pontefici già pochi anni, e se la Chiesa vi ha ragioni sopra, si
mostrino, che non mancherà di far quello che sarà giusto. Il
papa, vedendo che le arme spirituali senza le temporali non averebbono fatto
effetto, si voltò a restringere una lega contra l'imperatore; nel che
scontrò molte difficoltà per non poter indurre li veneziani ad
entrarvi e chiedendo i francesi, attesa la decrepità del papa, assenso
del consistoro e deposito de danari, de' quali il papa non voleva privarsi per
le molte spese che faceva e per il timore di doverle far maggiori; per la qual
causa anco aveva gravato i subditi quanto potevano portare, e venduto et
impegnato quanto poteva, et ordinato che si spedisse ogni sorte di dispense e
grazie a chi componeva in danari per i bisogni della Sede apostolica. Per conto
del concilio, di non farlo fuori delle terre sue era risolutissimo, et oltre le
urgenti raggioni che aveva, s'aggiongeva anco quella della riputazione sua e
della Sede apostolica, se l'imperatore l'avesse potuto costringere. Ma come
potesse indurre l'imperatore e la Germania a consentirvi, non sapeva vederlo:
il lasciarlo andar in niente, ora gli pareva bene, ora male: piú volte ne tenne
proposito co' cardinali, et in consistorio et in privati discorsi. Ma
finalmente risolvé di rimetter alla buona ventura quella deliberazione, alla
quale si conosceva insufficiente, non tanto per le sudette cause, come per
altri gravi rispetti che passavano in Germania.
[Cesare fa, a dispetto del papa, formare lo
scritto dell'«Interim»]
Imperoché
Cesare, col ritorno in Augusta del cardinal di Trento, intesa la mente del
pontefice e la risposta che in fine di decembre diede al Mendozza, sopra la
quale diede ordine della protestazione, come s'è detto, e stimando che,
con ricercare la restituzione di Piacenza fosse posto il pontefice a divertire
di parlare di concilio, restò certificato in se stesso che, vivendo
quello, o non si farebbe, overo in ogni modo anderebbe la resoluzione in longo,
e giudicò necessario, inanzi che disarmarsi, trovar via per metter pace
della religione in Germania. Di ciò fu fatta proposizione in dieta, et
ordinato che fossero elette persone atte a fare questa buona opera. Fu fatta
scielta de' riputati migliori, quali non convenendo tra loro, finalmente fu
rimesso tutto a Cesare. Egli elesse tre: Giulio Flugio, Michiel Sidonio e Giovanni
Islebio. Questi, dopo longa consultazione, composero una formula di religione,
la qual anco fu molte volte essaminata, riveduta e mutata, prima da loro
stessi, poi da diverse persone dotte a' quali Cesare la diede a vedere, e
furono chiamati alcuni ministri de' protestanti principali per fargliela
approbare. Ma tante volte fu alterata e mutata, aggionta e sminuita, che ben
dimostra esser opera di molte persone che tra loro miravano a fini contrarii.
Finalmente si ridusse nella forma che si vede, e ne mandò il legato a
Roma una copia, cosí volendo l'imperatore per intendere anco la mente del
pontefice, consegliando cosí la maggior parte de' prelati; i quali vedendo le
controversie tra l'imperatore et il papa, temevano di qualche divisione e che l'imperatore
non levasse l'obedienza, cosa da loro sommamente aborrita per l'innata et
inveterata opinione de' tedeschi di sostentare la degnità del
ponteficato, che sola può contrapesare l'autorità
degl'imperatori, a' quali essi, senza l'appoggio del papa, non possono
resistere, se, conforme all'uso de' prencipi cristiani antichi, vogliono
tenergli in officio e levare gl'abusi della decantata libertà
ecclesiastica.
Il libro
conteneva 26 capi: dello stato dell'uomo nella natura integra; dello stato
dell'uomo dopo il peccato; della redenzione per Cristo; della giustificazione;
de' frutti d'essa; del modo come è ricevuta; della carità e buone
opere; della fiducia della remissione de' peccati; della Chiesa; de' segni
della vera Chiesa; dell'autorità di essa; delli ministri della Chiesa;
del sommo pontefice e de' vescovi; de' sacramenti; del battesmo; della
confermazione; della penitenzia; dell'eucaristia; dell'estrema onzione;
dell'ordine; del matrimonio; del sacrificio della messa; della memoria,
intercessione et invocazione de' santi; della memoria de morti; della
communione; delle ceremonie et uso de' sacramenti. Il recitar qui la sostanza
sarebbe cosa prolissa e tediosa, inutile ancora, poiché per poco tempo durarono
le consequenze che di questo libro ebbero origine. Egli acquistò il nome
Interim, prescrivendo il modo di tener le cose della religione tra tanto
che dal concilio generale fossero stabilite.
Andata la
copia a Roma, ogni uno restò stordito, prima per questo generale, che un
prencipe temporale in un convento secolare metta mano nella religione, e non in
un solo articolo, ma in tutte le materie. I letterati si ricordavano dell'Enotico
di Zenone, della Ecthesi di Eraclio e del Tipo di Costante, e di
quante divisioni furono nella Chiesa per causa di constituzioni imperiali in
materia di religione, e dicevano che tre nomi erano sino a quel tempo, sotto
pretesto d'unità, infausti nella Chiesa per le divisioni introdotte. A
questi si potrà agionger per quarto l'Interim di Carlo V.
Dubitarono che questa azzione dell'imperatore fosse un principio per capitare
dove era arrivato Enrico VIII d'Inghilterra, di dicchiararsi capo della Chiesa,
con tanta maggior ampiezza, quanto non averebbe compreso un'isola, ma Spagna,
Italia, Germania et altre regioni adgiacenti; che in apparenza mostrava
contenere una dottrina catolica, ma era dalla catolica lontanissima.
Descendendo a particolari, riprendevano che nelle materie del peccato
originale, della giustificazione, de' sacramenti, del battesmo e della
confermazione non fosse portata la stessa dottrina determinata dal concilio,
essendo quella raccolta fatta per tenersi sino al concilio: poiché quanto a
quei capi il concilio era già fatto, che occorreva altro dire, se non
che precisamente fosse tenuto? Ma l'aver publicata altra dottrina esser un
annichilar il concilio, e l'arte dell'imperatore molto sottile dover esser piú
che mai sospetta, poiché insieme faceva cosí gagliarda instanza che il concilio
fosse tornato a Trento, e levava tutta l'autorità alle cose già
statuite da quello. Dannavano tutto 'l corpo di quella dottrina che contenesse
modi di parlare ambigui, che superficialmente considerati ricevevano buon
senso, ma internamente erano venenati; che affettatamente in alcune parti
stesse sul solo universale, acciò i luterani avessero modo
d'interpretarlo per loro; ma della concupiscenzia parlava afatto alla luterana,
sí come anco nell'articolo della giustificazione, riponendola nella fiducia
sopra le promissioni, et attribuendo troppo, anzi il tutto alla fede. Nel capo
delle opere niente parlarsi del merito de condigno, che è il
cardine in quella materia. Nel capo della Chiesa non aver presa l'unità
dal capo visibile, che è essenziale, e, quello che è peggio, aver
statuito una Chiesa invisibile per la carità, e poi fatta la stessa visibile;
esser un'arteficiosa et occolta maniera di destruggere la ierarchia e stabilire
l'openione luterana; l'aver posto per note della Chiesa la sana dottrina et il
legitimo uso de sacramenti aver dato modo a tutte le sette di ostinarsi a
tenersi per Chiesa, taciuta la vera marca, che è l'obedienza al
pontefice romano. Non essere comportabile d'aver posto il sommo pontefice in
remedium schismatis et i vescovi de iure divino. Che il sacramento
della penitenzia era fatto luteranissimo, quando si diceva che, credendo di
ricevere con questo sacramento quello che Cristo ha promesso, gli avviene come
crede. Del sacrificio ancora essere taciuto il principale, che egli è
espiativo e propiziatorio per i vivi e per i morti. Quel che dicevano poi
dell'aver concesso le mogli a' sacerdoti et il calice nella communione de'
laici, ogni uno lo può da sé comprendere, che con questi doi abusi era
destrutta tutta la fede catolica. Era una la voce di tutta la corte, che si
trattava de summa rerum: che erano crollati i fondamenti della Chiesa,
che bisognava metterci tutte le forze, eccitare tutti i prencipi, mandar a'
vescovi di tutte le nazioni et urtar in ogni maniera questo principio, dal qual
indubitatamente era necessario che ne seguisse, non la destruzzione della
Chiesa romana, essendo ciò impossibile, ma bene una deformazione e
deturpazione la maggiore che mai.
[L'«Interim» giudicato dal papa atto a' suoi
dissegni]
Ma il
pontefice, vecchio sensatissimo, che piú di tutti vedeva con la finezza del suo
giudicio, penetrò immediate sino al fondo e giudicò l'impresa
salutifera per sé e per l'imperatore perniziosa. Si maravigliò molto
della prudenza d'un tanto prencipe e del conseglio suo, che, per una vittoria
avuta, si pensasse esser diventato arbitro del genere umano e presuppostosi di
potere solo contrastare con ambe le parti. Poter un prencipe, aderendo ad una,
opprimere l'altra, ma combattere con tutte due essere cosa ardita e vana.
Previdde che quella dottrina piú dispiacerebbe generalmente a catolici che alla
corte, e piú a protestanti ancora, e che da ogni uno sarebbe impugnata, da
nissuno difesa, e non esservi bisogno che egli travagliasse: averebbono operato
per lui gl'inimici suoi, piú che egli medesimo, che meglio per lui era
lasciarla publicare, che impedirla, e meglio ancora nello stato che si trovava,
che reformata in meglio, acciò piú facilmente precipitasse. Solo vi era
bisogno di tre cose: che all'imperatore non fosse aperto questo senso, che si
aiutasse a dar il moto al negozio quanto prima, e che il primo colpo toccasse i
protestanti. Per effettuare il primo, conveniva leggiermente e senza molta
insistenza opponere ad alcune cose; per il secondo, eccitare gli interessi de'
prelati tedeschi; e per il terzo, con destrezza operare che quella dottrina
paresse raccolta non per unire ambe le parti, ma solo per metter freno a'
protestanti, che cosí era guadagnato un gran punto, cioè che il prencipe
non faceva statuti di fede a' fedeli, ma alli sviati.
Perilché il
pontefice mandò instruzzione al cardinale Sfondrato che facesse alcune
opposizioni, e per non trovarsi quando fosse la dottrina publicata, pigliasse
licenzia e si partisse. Il cardinale, esseguendo la commissione, espose per
nome del pontefice che la permissione di continuare in ricever il calice nella
santa communione, eziandio con condizione di non riprendere chi non lo riceve,
essendo già abrogata la consuetudine di ricever il sacramento sotto
ambedue le specie, era cosa riservata al pontefice, sí come anco il conceder
matrimonio a' preti, tanto piú quanto questo non è mai stato in uso
nella Chiesa, et i greci et altri popoli orientali, che non obligano al
celibato, concedono che i mariti ricevino gl'ordini e, ritenendo le mogli,
essercitino il ministerio, ma che gli già ordinati si possino maritare
non lo permettono, né mai l'hanno permesso. Soggionse non esser dubio alcuno
che quando la Maestà Sua concedesse tal cose come lecite, offenderebbe
gravissimamente la Maestà divina; ma avendole per illecite et
illegitime, le debbe permettere per minor male alli sviati. È cosa
tolerabile, anzi appartiene alla prudenza del prencipe, quando non può
impedire tutti i mali, permetter il minore a fine d'estirpar il maggiore: che
Sua Santità, veduto il libro, ha inteso che non sia se non permissione a
quei della setta luterana, acciò non passino d'un error in l'altro in
infinito; ma per quello che appartiene a' catolici, non gli sia concesso né
credere, né operare se non il prescritto della Santa Sede apostolica, che sola
maestra de' fedeli può far decreti delle cose della religione; et
essendo certo che cosí era la mente di Sua Maestà, gli considerava che
sarebbe necessario farne una dicchiarazione espressa e restringer ancora la
briglia a' luterani alquanto piú, massime nella potestà di mutar le
ceremonie, poiché l'ultimo capo pare che dia loro troppo ampla libertà,
dove concede che siano levate le ceremonie, le quali possono dar causa alla
superstizione. Aggionse poi il legato che i luterani si sarebbono fatto lecito
ritener i beni ecclesiastici usurpati e la giurisdizzione occupata, se non gli
era commandata la restituzione: né di questo si doveva aspettar concilio, ma
venir all'essecuzione immediate, e constando notoriamente dello spoglio, non si
dovevano servare pontigli di legge, ma procedere de plano e con la mano
regia.
Questa
censura fu communicata da Cesare agl'elettori ecclesiastici, i quali
l'approvarono, ma particolarmente quanto al capo della restituzione de' beni
ecclesiastici, anzi l'affermarono necessaria, et altrimente non potersi
ricuperare il colto divino, né conservare la religione, né sicurar bene la
pace. E perché consta dello spoglio, il giusto vuole che si tratti con pochi
termini. Al parer de' quali s'accostorono tutti i vescovi. I prencipi secolari,
per non offendere Cesare, tacquero, et a loro essempio gli ambasciatori delle
città parlarono poco, né di quel poco fu tenuto conto. Per la
remonstranza del legato, ordinò Cesare un proemio al libro di questa
sostanza: che mirando esso alla tranquillità di Germania aveva
conosciuto non esser possibile introdurla, se non composti i dissidii della
religione, onde sono nate le guerre e gli odii; e vedendo per ciò unico
remedio un concilio generale in Germania, aveva operato che s'incomminciasse in
Trento, et indotti tutti li stati dell'Imperio ad aderirvi e sottoporvisi: ma
mentre pensa di non lasciare le cose sospese e confuse sino al celebrar del
concilio, da alcuni grandi e zelanti gli fu presentata una formula, la quale
avendo fatto essaminare a persone catoliche e dotte, l'hanno trovata non
aborrente dalla religione catolica intendendola in buon senso, eccetto ne' due
articoli della communione del calice e del matrimonio de' preti; perilché
ricchiede dalli stati che sino al presente hanno osservato li statuti della
Chiesa universale che perseverino in quelli, che sí come hanno promesso non
mutino alcuna cosa, e quelli che hanno innovato, overo ritornino all'antico, o
si conformino a quella confessione, ritirandosi a quella dove avessero
trapassato, e si contentino di quella, non impugnandola, non insegnando, né
scrivendo, né predicando in contrario, ma aspettando la dicchiarazione del
concilio. E perché nell'ultimo capo si concede di levar le ceremonie
superstiziose, riserva a sé la dicchiarazione di quel capo e di tutte le altre
difficoltà che nascessero. Il decimoquinto giorno di maggio fu recitato
il libro nel publico consesso: non si pigliarono i voti di tutti secondo il
consueto, ma l'elettor solo si levò e, come in nome commune,
ringraziò Cesare; il quale pigliò quel ringraziamento per
un'approbazione et assenso di tutti. Da nissun fu parlato, ma a parte poi molti
de' prencipi che già seguivano la confessione augustana dissero di non
poterla accettare, et alcune delle città ancora dissero parole che
significavano l'istesso, se ben per timor di Cesare non parlavano apertamente.
Fu il libro per ordine dell'imperatore stampato in latino e tedesco, poi anco
tradotto e stampato in italiano e francese.
[Cesare fa publicar una riforma]
Oltra di
questo, a 14 di giugno publicò Cesare una riforma dell'ordine ecclesiastico,
la qual da' prelati et altre persone dotte e religiose era stata con
maturità digesta e raccolta. Quella conteneva 22 capi: dell'ordinazione
et elezzione de' ministri; dell'officio degl'ordini ecclesiastici; dell'officio
di decani e canonici; delle ore canoniche; de' monasterii; delle scuole et
università; degl'ospitali; dell'officio del predicatore;
dell'amministrazione de' sacramenti; dell'amministrazione del battesmo; della
amministrazione della confermazione; delle ceremonie; della messa; dell'amministrazione
della penitenzia; dell'amministrazione dell'estrema unzione;
dell'amministrazione del matrimonio; delle ceremonie ecclesiastiche; della
disciplina del clero e del popolo; della pluralità de beneficii; della
disciplina del popolo; della visita; de' concilii; della scomunica. In questi
capi sono da' 130 precetti cosí giusti e pieni d'equità, che se alcuno
dicesse non essere mai uscita inanzi quel tempo una formula di riformazione piú
essatta e meno interessata, senza cavilli e trappole per pigliar gl'incauti,
non potrebbe facilmente esser redarguito; se quella fosse stata da' soli
prelati constituita, non sarebbe dispiacciuta a Roma, eccetto in doi luoghi,
dove autoriza il concilio basileense, in alcuni altri dove mette mano nelle
dispense et essenzioni pontificie et in altre cose riservate al papa. Ma perché
per l'autorità imperiale fu stabilita, parve piú insopportabile che il
fatto dell'Interim, essendo una massima fondamentale della corte romana
che i secolari, di qual si voglia degnità e bontà di vita, non
possino dar legge alcuna al clero, eziandio per buon fine. Non potendo
però altro fare, sopportarono quella tirannide (cosí dicevano) alla
quale per allora non si potevano opponere.
Pochi giorni
dopo ordinò anco Cesare che le sinodi diocesane fossero tenute a san
Martino e le provinciali inanzi quaresima. E perché i prelati desideravano che
il pontefice s'accommodasse a consentire almeno a quei capi che parevano non
esser in diminuzione dell'autorità pontificia, s'offerí loro l'imperatore
per scrittura data sotto 18 di luglio di usar ogni diligenza con Sua
Santità acciò si contentasse di non mancar del suo officio. Fu
stampata questa riformazione in molti luoghi catolici di Germania, et anco
l'istesso anno in Milano da Innocenzio Ciconiaria. Fu l'ultimo di giugno il
fine della dieta d'Augusta e si publicò il recesso, nel quale promise
Cesare che il concilio si sarebbe continuato in Trento e che egli averebbe
operato che presto fosse reassonto; il che quando fusse fatto, commandava che
tutti gli ecclesiastici vi intervenissero, e quelli della confessione augustana
vi andassero con suo salvocondotto, dove tutto sarebbe trattato secondo le
Sacre Lettere e la dottrina de' padri, et essi sarebbono uditi.
[I prelati germani richieggono l'assistenza
de' ministri pontificii. Il papa invia noncii con una bolla]
Il cardinale
d'Augusta et altri prelati, gelosi che con questi principii de confessione e
riforme fatte e publicate in diete non fusse esclusa di Germania
l'autorità del papa, pregarono Cesare che l'invitasse a mandare legato
espresso, quale aiutasse l'essecuzione delle cose decretate, allegando che
ciò sarebbe un mezo di facilitare grandemente, perché molti, in quali
ancora vive il rispetto al pontefice, s'adopereranno piú prontamente vedendo
intervenire anco l'autorità sua. L'imperatore, avendo concepito
nell'animo che quietandosi i moti della religione, Germania dovesse restar
oppressa sotto il suo servizio, abbracciava ogni proposta di facilità,
sicuro che averebbe poi ridotto il tutto come gli fosse piacciuto. Fece dar
conto al pontefice di tutte le cose fatte per riformazione e l'invitò a
mandar uno o piú legati. Il papa mandò immediate il vescovo di Fano,
prelato grato all'imperatore, per noncio, con pretesto d'intender meglio la
volontà di Sua Maestà intorno la richiesta sua e per proponere la
restituzione di Piacenza et il far partire i spagnuoli da Trento: poi, ricevuta
la prima risposta dal Fano e posto il negozio in consultazione co' cardinali,
presto risolvé non esser sua degnità mandare ministro che fosse
essecutore de' decreti imperiali; ma per la raggione che mosse il cardinale
d'Augusta, prese un termine medio di mandar noncii, non per quello che
l'imperatore dissegnava, ma per conceder grazie et assoluzioni, considerando
che questo dovesse far effetti mirabili per sostener l'autorità sua,
senza incorrer il pregiudicio d'assentire che altri s'avesse assonto
l'autorità che pretendeva non poter convenire salvo che a lui.
Adonque
destinò appresso il Fano li vescovi di Verona e Ferentino suoi noncii in
Germania, a quali spedí con participazione de' cardinali una bolla sotto
l'ultimo agosto, dando loro commissione di dichiarare a quelli che voranno
tornar alla verità catolica che egli è pronto ad abbraciargli
senza rendersi difficile a perdonargli, purché non voglino dar le leggi, ma
riceverle; rimettendo alla conscienza de' noncii di rilasciare qualche cosa
della vecchia disciplina, se giudicheranno potersi fare senza publico scandalo;
e per questo dà loro facoltà d'assolvere in utroque foro
pienamente qualonque persone secolari, eziandio re e prencipi, ecclesiastiche e
regolari, collegii e communità, da tutte le scommuniche et altre censure
e dalle pene eziandio temporali incorse per causa d'eresia, ancorché fossero
relassi e dispensar dalle irregularità contratte per ogni rispetto,
eziandio per bigamia, e restituirgli alla fama, onore e degnità, con
autorità anco di moderar o rimetter in tutto ogni abgiurazione e penitenzia
debita, e di liberar le communità e singulari persone da tutti i patti e
convenzioni illeciti contratti con li sviati, assolvendogli da' giuramenti et
omagii prestati, e da' pergiurii che fossero sin allora incorsi per qualche
passate inosservanze, et ancora assolver i regolari dall'apostasia, dandogli
facoltà di portar l'abito regolare coperto sotto quello di prete
secolare, e di conceder licenzia ad ogni persona, eziandio ecclesiastica, di
poter mangiar carne e cibi proibiti nei giorni di quaresima e di digiuno, col
conseglio del medico corporale e spirituale, overo spirituale solo, o anco
senza, se a loro fosse paruto, e di moderar il numero delle feste, et a quelli
che hanno ricevuto la communione del calice, se la dimanderanno umilmente e
confesseranno che la Chiesa non falla negandola a' laici, concedergliela in
vita o per il tempo che a loro parerà, purché sia fatta separatamente
quanto al luogo e quanto al tempo da quella che si fa per decreto della Chiesa.
Concesse anco a loro facoltà di unir i beneficii ecclesiastici alli
studii e scuole overo ospitali, et assolvere gli occupatori de' beni
ecclesiastici dopo la restituzione delli stabili, concordando anco per i frutti
usurpati e per i mobili consumati, con autorità di poter communicare
queste facoltà ad altre persone insigni.
Andò
questa bolla per tutto, essendo stampata per l'occasione che si dirà, e
diede da parlare: prima per il proemio, nel qual diceva il papa che nelle
turbolenze della Chiesa si era consolato sopra il rimedio lasciato da Cristo,
che il grano della Chiesa, crivellato da Satana, sarebbe stato conservato per
la fede di Pietro, e maggiormente dopo che egli vi ebbe applicato il rimedio
del concilio generale, quasi che non avesse la Chiesa dove fondarsi che sopra
lui e 60 persone di Trento. Poi attribuivano a gran presonzione il restituir
agli onori, fama e degnità i re e prencipi. Era anco avvertita la
contradizzione d'assolvere da' giuramenti illiciti, perché l'illiciti non hanno
bisogno d'assoluzione, et i veri giuramenti nissun può assolvergli. Era riputata
similmente contradizzione il conceder il calice solo a chi crede la Chiesa non
errare proibendo il calice a laici. Imperoché come sarebbe possibile aver tal
credulità e ricercar di non esser compreso nella proibizione? Ma non
contenevano le risa, leggendo la condizione nell'assolver i frati usciti, di
portar l'abito coperto, quasi che il regno di Dio fosse in un colore o forma di
veste, che non portandola in mostra fosse necessario averla almeno in secreto.
Ma con tutto che in diligenza fosse fatta la depurazione de' noncii, nondimeno
l'espedizione si differí sino l'anno futuro, perché Cesare non si
contentò del modo nel quale non si faceva menzione d'assistere, né
autorizare le provisioni da lui fatte, né il pontefice volle mai lasciarsi indurre
che ministro alcuno v'intervenisse per suo nome.
[Cesare procaccia l'introduzzione del suo
«Interim», e vi trova grandi intoppi]
Partito
Cesare d'Augusta, fece ogni diligenza acciò l'Interim fosse
ricevuto dalle città protestanti, e trovò per tutto resistenza e
difficultà, e nissun luogo vi fu dove non succedesse travaglio, perché
li protestanti detestavano l'Interim piú che i catolici. Dicevano che
fosse un stabilimento totale del papismo; biasimavano sopra tutto la dottrina
della giustificazione e che fosse posta in dubio la communione del calice et il
matrimonio de' preti. Il duca Giovanni Frederico di Sassonia, se ben priggione,
liberamente disse che Dio e la propria conscienza, a' quali era sopra tutto
tenuto, non glielo permettevano. Dove fu ricevuto, successero infiniti casi,
varietà e confusioni, sí che fu introdotto in qualonque luogo
diversamente, e con tante limitazioni e condizioni, che piú tosto si può
dire che da tutte fosse reietto, che da alcune accettato. Né li catolici si curavano
d'aiutare l'introduzzione, come quelli che non l'approvavano essi ancora.
Quello che fermò Cesare assai fu la modesta libertà d'una
picciola e debole città, la quale lo supplicò che, essendo
patrone della roba e della vita di tutti, concedesse che la conscienza fosse di
Dio; che se la dottrina proposta a loro fosse ricevuta da esso e tenuta per
vera, averebbono un grand'essempio da seguire; ma che Sua Maestà vogli
constringere loro ad accettare e credere cosa che la medesima Maestà Sua
non l'ha per vera e non la seguita, pareva a loro di non potersi accommodare.
Al settembre andò l'imperatore nell'inferiore Germania, dove ebbe
maggiore difficoltà. Perché le città di Sassonia si valsero di
molte scusazioni per non riceverlo, e la città di Maddeburg si oppose
con maniere anco di sprezzo: perilché fu posta in bando imperiale e sostenne la
guerra, che fu longhissima, la qual mantenne il fuogo vivo in Germania, che tre
anni dopo abbruggiò i trofei dell'imperatore, come a suo luogo si
dirà.
Per questa
confusione e per dar ordine di far giurare il figlio a' fiamenghi, Cesare
finalmente, lasciata la Germania, passò ne' Stati suoi de Fiandra; e
quantonque avesse severamente proibito che la dottrina dell'Interim non
fosse impugnata da alcuno, né fosse scritto, insegnato o predicato in
contrario, nondimeno fu scritto contra da molti protestanti. Et il pontefice,
che giudicò cosí esser ispediente per le cose sue, ordinò a
Francesco Romeo, generale di san Dominico, che, congregati i piú dotti del suo
ordine, facesse, con loro parere e fatica, una gagliarda e soda confutazione.
Fu anco in Francia da diversi scritto in contrario, et in breve vi fu un stuolo
di scritture de catolici e protestanti, massime delle città ansiatiche,
in contrario; e seguí quello che ordinariamente avviene a chi vuole conciliare
opinioni contrarie, che le rende ambedue concordi all'oppugnazione della media
e piú ostinati ciascuno nella propria. Fu anco causa di qualche divisione tra i
medesimi protestanti; perché quelli che, costretti, avevano ceduto in parte a
Cesare e restituite le vecchie ceremonie, si scusavano dicendo che le cose da
loro fatte erano indifferenti, e per conseguente alla salute non importava piú
il reprobarle che il riceverle, e che era lecito, anzi necessario, tolerar
qualche servitú, quando l'impietà non è congionta: e per tanto in
queste doversi obedire a Cesare. E gl'altri, che la necessità non aveva
costretti, dicevano esser vero, che le cose indifferenti non importavano alla
salute, ma che per mezzo delle indifferenti s'introducevano delle perniciose, e
passando inanzi formarono una general conclusione, che le ceremonie e riti,
quantonque di natura indifferenti, diventano cattivi allora quando chi le usa
ha opinione che siano buone o necessarie; e di qua nacquero due sette, che
passarono poi altre differenze tra loro e non furono mai ben riconciliate.
[Turbolenze e mutazione di religione in
Inghilterra]
Non passavano
le cose della religione con minor tumulti in Inghilterra: perché Edoardo, conte
d'Exford, zio materno del giovane re Edoardo, acquistata autorità
appresso al nipote, e li grandi del regno, insieme con Tomaso Cranmero,
arcivescovo di Cantorberi, favorendo i protestanti et introdotti alcuni dottori
di loro e gettato qualche fondamento della dottrina, tra la nobiltà
massime, congregati li stati del regno, che chiamano il parlamento, per publico
decreto dal re e da quello fu proibita per tutto 'l regno la messa, e poco
dopo, levatasi sedizione populare che ricchiedeva la restituzione degl'editti
di Enrico VIII a favore della vecchia religione, nacque grandissima confusione
e dissensione nel regno.
[Gli ordini ecclesiastici di Cesare eseguiti
variamente]
Venuto il san
Martino, con tutto che grandi fossero le confusioni di Germania, i concilii
diocesani furono in molte città celebrati, ricevuta la riforma nuova
dell'imperatore, mutata sola la forma, secondo che piú pareva convenire al modo
di decretare di ciascuna diocese, senza però provisione per
l'essecuzione, e parevano bene statuite per pura apparenza. Inanzi quaresima
non fu tenuta alcuna sinodo provinciale, secondo il decreto imperiale. Nel
principio di quaresima l'elettor di Colonia incomminciò la sua, e
narrato il bisogno d'emendazione del clero, soggionse tutta la speranza esser
stata posta nel concilio di Trento, che era principiato con qualche successo
felice; qual speranza tutta perduta per l'inaspettata dilazione suscitata per
le discordie de' padri nel trasferirlo, Cesare, per non mancar del suo debito,
poiché ebbe con la guerra soggiogati i ribelli, restituí la dottrina e
ceremonie catoliche, rimesse al concilio solamente la determinazione di doi
articoli et ordinò la riformazione del clero, in essecuzione di che la
sinodo, dopo molte trattazioni, per la dominica di Passione aveva stabilito una
forma conveniente alla sua metropoli. Soggionse poi li decreti, in quali non
è trattata alcuna materia di fede, ma solo i mezi di riformare, al
numero di sei, la disciplina, la restaurazione delli studii, l'essame
degl'ordinandi, l'ufficio di ciascun ordine, la visita, le sinodi, la
restituzione della giurisdizzion ecclesiastica, con molti decreti in ciascun
capo; sopra ciascun de' quali, fatto un longo discorso con molti precetti, cosa
bella per speculativa trattazione, finalmente sono aggionti 38 capi per
restituzione delle antiche ceremonie et usi ecclesiastici. I Paesi Bassi
ereditarii dell'imperatore sono soggetti alla metropoli colognese; onde
l'imperatore, ricevuto quello concilio e fattolo essaminare da' conseglieri e
teologi suoi, lo approvò con sue lettere de' 4 luglio, commandò
che per tutte le terre sue fosse ricevuto et osservato, imponendo a' magistrati
che, ricercati, assistano all'essecuzione.
Non
servò l'istesso stile Sebastiano elettore di Magonza, che ridotto nel
concilio della provincia sua la terza settimana dopo Pasca, fece 48 decreti di
dottrina di fede e
I noncii, che
sino l'anno inanzi furono dal papa destinati e differiti per le cause dette, si
posero in viaggio per Germania, dove, per qual si voglia luogo che passavano,
furono sprezzati da' catolici medesimi: cosí per i dispareri con Cesare e li
modi usati, era venuto esoso il nome del pontefice e l'abito et insegne d'ogni
ministro suo; e finalmente, nel fine di maggio, andarono a Cesare ne' Paesi
Bassi, dove dopo molta discussione del modo d'esseguir le commissioni del
pontefice, trovando difficoltà in qualonque de' proposti, o per l'una o
per l'altra parte, in fine risolvé l'imperatore che, essendo loro data la
facoltà dal pontefice di sostituire, sostituissero li vescovi, ciascuno nella
diocese loro, et altri principali prelati in altre giurisdizzioni, rimettendo
il tutto alla conscienza di quelli. Non molto prontamente fu ricevuto il
partito da' noncii; con tutto ciò, condescendendo essi, si fece stampar
un indulto sotto i nomi de' tre noncii, lasciato in bianco il nome del prelato
a chi si dovesse indrizzare, et inserto prima tutto 'l tenore della bolla
papale et allegato per causa del sostituire il non poter esser in ogni luogo,
communicarono la loro autorità, con avvertenza di non conceder la communione
del calice e l'uso della carne, se non con gran maturità et
utilità evidente, proibendo che per quelle grazie non si facesse pagar
cosa alcuna. Cesare pigliò l'assonto di mandarle a chi e dove occorreva,
e dovunque le inviava, faceva intendere che si trattasse con piacevolezza e
destrezza. Leggierissimo fu l'uso di queste facoltà, perché chi
perseverava nell'obedienza ponteficia, non ne aveva bisogno, e chi s'era
alienato, non solo non curava la grazia, ma la rifiutava ancora. Pochi giorni
dopo partí Ferentino; Fano e Verona restarono appresso Cesare, sinché da Giulio
III fu mandato l'arcivescovo sipontino, come a suo luogo si dirà.
[Il re di Francia persegue i riformati]
Il re di
Francia in questi medesimi tempi, essendo entrato in Parigi la prima volta il 4
di luglio, fece far una solenne processione e publicò un editto,
rendendone raggione al popolo: ciò esser fatto per significare a tutti
che egli riceveva la protezzione della religione catolica e della Sede
apostolica e la tutela dell'ordine ecclesiastico, e che aborriva le
novità della religione e testificava a tutti la sua volontà esser
di perseverare nella dottrina della Chiesa romana e d'esterminar da tutto 'l
suo regno i nuovi eretici; e questo editto lo fece stampar in lingua francese e
mandar per tutto 'l regno. Diede anco licenza a' suoi prelati di far
un'adunanza provinciale per riformar le chiese; il che saputo a Roma fu tenuto
un cattivo essempio, come quello che fosse principio di far la Chiesa gallicana
independente dalla romana. Fece anco il re giustiziar in Parigi molti luterani,
al qual spettacolo volle esser presente, e nel principio dell'anno seguente
replicò anco l'editto contra di loro, imponendo gravissime pene a'
giudici che non fossero diligenti in scoprirgli e punirgli.
[Morte di papa Paolo III. Il conclave, diviso
in fazzioni, dopo tre mesi elegge Giulio III]
Ma avendo
dormito due anni il concilio in Bologna, il dí 7 novembre il pontefice, veduta
una lettera del duca Ottavio, suo nipote, che scriveva volersi accordare con
Ferando Gonzaga per entrar in Parma, qual città il papa faceva tener per
nome della Sede apostolica, fu assalito da tanta perturbazione d'animo et ira
che tramortí, e dopo qualche ore, ritornato in sentimento, se gli scoprí la
febre, della quale dopo tre giorni morí. Il che fece partire di Bologna il
Monte per ritrovarsi alla elezzione del nuovo pontefice, e ritirare tutto 'l
rimanente de' prelati alle case loro. Il costume porta che 9 giorni i cardinali
fanno l'essequie al morto pontefice et il decimo entrano in conclave. Allora
per l'assenza di molti si differí l'entrarvi sino al 28 del mese. Il cardinale
Pacceco non partí di Trento sin che Cesare, avuto aviso della morte del papa,
non gli ordinò che andasse a Roma, dove egli gionse assai giorni dopo
che il conclave fu serrato: dove ridottisi i cardinali per la creazione del
papa e facendosi secondo il solito i capitoli che ciascun giura osservare se
sarà eletto papa, fu tra i primi quello di far proseguir il concilio.
Ogni uno credeva che dovesse esser eletto il nuovo papa inanzi il Natale,
perché dovendosi nella vigilia di quella festività aprir la porta santa
al giubileo dell'anno seguente
Finalmente la
parte del Farnese, aiutata da' francesi, prevalse e fu creato papa Giovanni
Maria di Monte, che era stato legato al concilio in Trento et in Bologna, nel
quale Farnese concorse come in fedele servitore suo e dell'avo, et i francesi
come in riputato inclinato alle cose del suo re et alieno dall'imperatore per
causa della translazione del concilio. Né gli imperiali furono contrarii, per
aver Cosmo, duca di Fiorenza, fatto fede che egli non era francese, se non per
quanto la gratitudine debita al papa l'aveva costretto, agl'interessi del quale
gli pareva esser suo debito aderire; onde, levata quella causa, s'averebbe
portato verso il giusto. Molti ancora amavano in lui la libertà della
natura, aliena dall'ipocrisia e dissimulazione et aperta a tutti. Egli
immediate dopo l'elezzione, conforme a quello che era capitolato, giurò
di proseguire il concilio. Fu eletto di febraro e coronato a' 23, et a' 25 aprí
la porta santa.
[Il papa rinuova il trattato di rimetter il
concilio in Trento. Umori naturali e politici del papa]
L'imperatore,
vedendo le cose della religione in Germania non caminar a modo suo, sperando
pure con la presenza sua superare le difficoltà, intimò la dieta
per quell'anno in Augusta e mandò Luis d'Avila al pontefice per
congratularsi con lui dell'assonzione sua et a ricercarlo di rimetter in piedi
il concilio. A che correspondendo il pontefice con altretanta cortesia, fece
grand'offerte della sua benevolenza; ma al fatto del concilio rispose parole
generali, non essendo ancora in se stesso risoluto, e di questo medesimo
parlò col cardinale di Ghisa, che doveva tornar in Francia, con la
medesima irresoluzione, ma ben affermando che non sarebbe passato a farlo se
non communicato prima ogni cosa col re di Francia. Et al cardinale Pacceco, che
spesso ne tenne con lui proposito, et agli altri imperiali diceva che sarebbe
stato facilmente d'accordo con l'imperatore in questo particolare tutte le
volte che si caminasse con sincerità, e che il concilio si dovesse fare
per confondere gl'eretici, per favorire le cose dell'imperatore e non per
disfavorire la Sede apostolica, sopra che aveva molte considerazioni, che a suo
tempo averebbe fatto intender a Sua Maestà. Diede presto saggio qual
dovesse esser il suo governo, consummando i giorni intieri ne' giardini e
dessignando fabriche deliziose e mostrandosi piú inclinato a' diletti che a' negozii,
massime ch'avessero congiunta qualche difficoltà. Le quali cose avendo
accuratamente osservato don Diego, ambasciatore cesareo, scrisse all'imperatore
che sperava dover riuscire facilmente ogni negoziazione che Sua Maestà
avesse introdotta col papa, imperoché, come vago de' diletti, s'averebbe fatto
far tutto quello che l'uomo avesse voluto, mettendogli paura. Si
confermò maggiormente l'opinione che il papa dovesse riuscir piú attento
agl'affetti privati che alle publiche essiggenze, per la promozione che fece il
dí 31 maggio d'un cardinale, a cui diede, secondo il costume usato, il suo
capello.
Essendo
Giovanni Maria di Monte ancora vescovo sipontino al governo della città
di Bologna, ricevette nella sua famiglia un putto piacentino di nazione, de' natali
del quale non è passato notizia al mondo. A questo prese tanto affetto,
quanto se gli fosse stato figlio. Vi è memoria che, essendo quello
infermato in Trento di morbo grave e longo, con opinione de' medici che doveva
condurlo a morte, per conseglio loro lo mandò in Verona per mutar aria,
dove avendo ricuperato la sanità e ritornando in Trento, l'istesso
giorno del suo arrivo uscí il legato dalla città per diporto,
accompagnato da gran numero de prelati, e l'incontrò appresso la
città con molti segni d'allegrezza; che diede da parlar assai, o fosse
stato questo incontro per caso, o fosse il cardinale andato a studio sotto
altro colore a questo effetto d'incontrarlo. Egli era solito dire che l'amava e
favoriva come artefice della sua fortuna, atteso che dagli astrologi era
predetta gran dignità e ricchezze a quel giovine, quali non poteva aver
se egli non ascendeva al papato. Subito creato pontefice volle che Innocenzio
(cosí era il nome del giovine) fosse adottato per figlio di Baldoino del Monte,
suo fratello, per qual adozzione si chiamò Innocenzio di Monte e
conferitogli molti beneficii, il giorno sopra detto lo creò cardinale,
dando materia di discorsi e pasquinate a' corteggiani romani, che a gara
professavano dire la vera causa d'un azzione tanto insolita per congetture di
varii accidenti passati.
[Cesare stabilisce l'Inquisizione ne' Paesi
Bassi]
Carlo, inanzi
che de' Paesi Bassi partisse, fece publicare lo stabilimento dell'Inquisizione
in quei Stati, per il quale si commossero di tal maniera i mercanti tedeschi et
inglesi, che in grandissimo numero si trovavano in quelle regioni, et ebbero
ricorso alla regina Maria et a' magistrati, dimandando mitigazione dell'editto,
altramente protestando di voler partire. Perilché quelli che dovevano esseguire
l'editto et instituire l'Inquisizione, trovarono impedimento quasi per tutto,
onde fu sforzata la regina Maria per questa causa andar a trovar Cesare, che
era in Augusta per celebrare la dieta, accioché quella regione frequentissima
non si disertasse e nascesse qualche notabilissima sedizione. Cesare con gran
difficoltà si lasciò persuader; pur in fine si contentò di
levar il nome d'Inquisizione, che era odioso, e di revocare tutto quello che
toccava i forestieri nell'editto, restando però fermo quello che
apparteneva a' naturali del luogo. Fece l'imperatore opera col pontefice, con
sue lettere et ufficii dell'ambasciatore, che si riassumesse il concilio di
Trento, pregandolo d'una precisa risposta, non come quella che diede al
d'Avila, né meno con l'ambiguità usata nel trattar col cardinale
Pacceco; ma si lasciasse intendere le capitulazioni che ricercava, acciò
esso potesse risolvere se doveva trattar di rimediare a' mali di Germania con
quella medicina, overo pensar ad altri rimedii, essendo impossibile continuare
piú in quello stato.
[Il papa consulta il ritorno del concilio in
Trento]
Il pontefice,
ritiratosi con i piú confidenti suoi, considerando che quella era la piú
importante deliberazione che potesse occorrere nel suo ponteficato,
bilanciò le raggioni che lo potevano persuadere o dissuadere.
Considerava prima che, rimettendo il concilio in Trento, condannava la
translazione fatta a Bologna, principalmente per opera sua, e che era un'aperta
confessione d'aver operato male, o per propria volontà, o per motivo
d'altri; e se pur altro non fosse passato che la translazione, non esser cosa
di tanto momento; ma l'aversi fatto parte a defenderla et anco con acrimonia,
non si poteva scusare che non fosse malizia, quando si retrattasse con tanta
facilità. Ma quello che piú importava, metteva sé e la Sede apostolica
in tutti i pericoli, per liberarsi da' quali Paolo, prencipe prudentissimo,
giudicò sicurarsi, e sino alla morte perseverò in quel parere,
che fosse errore manifesto il rientrarvi. E se ben forse l'animo de molti non
fosse mal disposto contra lui, come nuovo pontefice, nondimeno esser cosa certa
che la maggior parte non pretendono essere gravati dal papa, ma dal
ponteficato; et anco, quanto s'aspetta al particolare, nissun esser certo che
in progresso non possi occorrer cosa che gli concitasse odio maggiore, eziandio
senza sua colpa. Oltra che non tutti gli uomini si movono per l'odio, ma quelli
che sono i piú nociuti lo fanno per avanzare se stessi con la depressione
d'altri. Però potersi concludere che restino le stesse raggioni che
costrinsero Paolo per necessitar anco Giulio all'istessa risoluzione.
Considerava il travaglio grande sostenuto da Paolo per 26 mesi per questa
causa, e le indegnità che gli convenne sopportare, e la deteriorazione della
autorità ponteficia, non tanto in Germania, ma in Italia ancora; e che
se a Paolo, fermato nel ponteficato tanti anni e stimato da tutti, fu causa di
diminuzione, tanto piú sarebbe a lui nuovo pontefice, non avendo ancora fatte
le intelligenze et aderenze necessarie per pigliar impresa di contrastare; se a
lui avvenisse una protestazione adosso overo un decreto come l'Interim,
sarebbe la sua autorità vilipesa da tutti. Che non occorreva metter in
conto l'opera da sé fatta nel trasferir il concilio e la costanza nel difender
la traslazione, perché con la mutazione della fortuna ha mutato anco tutto 'l
conseguente a quella, e le azzioni di Giovanni Maria di Monte cardinale non
pertenere a Giulio papa, e quelle cose che davano riputazione a quello, non
esser per darla a questo: allora conveniva operar come operò, per
mostrarsi fedele servitore del patrone, ora essendo senza patrone, cessar
afatto il rispetto di mostrar costanza in ben servire et esserne successo un
altro che ricerca prudenza in accommodarsi. Considerava quanto avesse dello
specioso la richiesta di Cesare, poiché si trattava di ridur la Germania:
quanto scandalo averebbe dato il non udirla? Le cause che incitavano a far il
concilio esser in aperto e note a tutti; quelle che dissuadevano esser in
occolto e note a pochissimi. Finalmente il giuramento dato e repetito dover
esser stimato: e se ben obligava a proseguir il concilio senza prescrizzione di
luogo, era però certo che contra il voler di Cesare, imperatore, re di
Spagna e di Napoli, prencipe de' Paesi Bassi e con altre aderenze in Italia,
era impossibile far concilio generale, tanto che l'istesso era negar di
rimetterlo in Trento, come non voler proseguirlo. In questa parte inclinava
piú, come piú conforme alla natura sua, avida piú di fuggire le
incommodità presenti che evitare i pericoli futuri: elegendo questa, si
liberava dalla molestia che l'imperatore gli averebbe dato; quanto a' pericoli
che il concilio apportava, incomminciò a stimarli meno; pensava non
esser l'istessa fortuna di Cesare allora che già doi anni: allora era
stimato, aspettando la vittoria, e poi ottenuta; ora si vede che quella gli
è piú di peso e difficoltà. Tiene doi prencipi preggioni, come il
lupo per le orechie; le città di Germania hanno aperti spiriti di
ribellione; gli ecclesiastici sono socii di quella dominazione; esservi anco li
domestici mali per il figlio et il fratello et il nepote che aspirano
all'Imperio, negozio che gli darà forse travaglio sopra le sue forze. In
fine fece conclusione secondo il suo naturale: usciamo della difficoltà
presente con speranza che la nostra buona fortuna non ci abandonerà.
E ritenendo
in sé la risoluzione, deputò una congregazione de cardinali et altri
prelati, per la maggior parte imperiali, acciò capitassero alla
risoluzione da lui presa, frapostovi pochi suoi confidenti per tener regolato
il negozio secondo l'intenzione sua; alla quale propose la ricchiesta
dell'imperatore: ordinando che, senza alcun rispetto, ciascun dicesse quello
che gli pareva esser servizio di Dio e della Sede apostolica, e quando si
riputasse ben condescendervi, pensasse anco la maniera di farlo con
degnità, sicurezza e frutto. La congregazione, dopo che ebbe piú volte
consultato, riferí al pontefice che giudicava necessario proseguire il
concilio, perché cosí era giurato nel conclave e da Sua Santità dopo
l'assonzione, e per levar lo scandalo dal mondo, che senza dubio sarebbe
grandissimo non lo facendo. Il proseguirlo aver doi modi: uno continuandolo in
Bologna, l'altro rimettendolo in Trento; il continuarlo in Bologna non si
poteva fare, avendo Paolo avvocato a sé la cognizione della traslazione et
inibito il proceder piú oltre; se Sua Santità non sentenziava prima che
la traslazione fosse stata valida, non si poteva caminar inanzi in quella
città: il che, quando avesse voluto fare, averebbe dato legitimo
pretesto d'esser allegato per sospetto, essendo noto che fu opera sua, come di
primo legato e presidente. Perilché restava solo l'altra via di rimetterlo in
Trento, e che si levava anco l'occasione alla Germania di recalcitrare e si
sodisfaceva l'imperatore, che era punto assai essenziale. Questo conseglio,
portato al papa, fu da lui approvato, onde si passò al rimanente.
E prima fu
concluso che era necessario aver il consenso et assistenza del re di Francia e
l'intervento de' prelati del suo regno, senza le quali cose sarebbe molto
debole la reputazione del concilio e s'incorrerebbe il pericolo di perder la
Francia, che si ha, per acquistare la Germania perduta, e, secondo l'apologo,
lasciar cader il corpo per acquistar l'ombra. Pareva difficile poter indurvi
quel re e levargli i sospetti, celebrandosi in luogo soggetto a Cesare e vicino
alle sue armi. Ma essaminando che sospetti potessero esser questi, altro non si
trovò se non che il concilio non deliberasse qualche cosa pregiudiciale
al governo di quel regno, o contra i privilegii di quella corona, o contra
l'immunità della Chiesa gallicana; di che, quando fosse assicurato, non
si poteva dubitare che per l'obligo ereditario di protegere e favorire la Sede
apostolica, non fosse per assistere e mandare i prelati suoi. La seconda
difficoltà nasceva perché i prelati italiani, che sono per il piú
poveri, aborriscono quel luogo, non potendo sostener le spese, e la camera apostolica,
essausta, malamente può sovvenirgli quanto fa bisogno, oltra le spese
nel mantener li legati et officiali del concilio et altri straordinarii. Al che
pensato e ripensato, non seppero trovar rimedio di far concilio senza spendere,
et esser necessario bever questo calice: ben si poteva troncar le
superfluità, ispedendo il concilio presto e non dimorandovi se non
quanto fosse necessario. La terza difficoltà nacque se li protestanti
avessero voluto rivocate in dubio le cose determinate: nel che tutta la
congregazione prontamente risolse che conveniva farsi chiaramente intendere che
si dovessero aver per indubitate e non permettere che fossero poste in disputa,
e di ciò dicchiararsi inanzi il concilio e non aspettare a farsi
intendere allora. La quarta e piú importante di tutte era l'autorità
della Sede apostolica, cosí nel concilio come fuori e sopra d'esso, la qual
certa cosa è che non solo i protestanti impugnavano, ma molti prencipi
averebbono voluto restringere, e tra i vescovi non mancava buon numero che
pensavano a moderarla: che era stata potissima causa per che i pontefici
passati non s'avevano lasciato indurre a concilio, e Paolo, che si vi era
trasportato, se n'era avveduto in fine e con la traslazione aveva rimediato.
Questo pericolo era da tutti veduto, né alcun sapeva trovar scapatorio, se non
dicendo che Dio, qual aveva fondato la Chiesa romana e postala sopra tutte le
altre, averebbe dissipato ogni conseglio: il che da alcuni creduto per
semplicità, da altri per interesse e da alcuni detto solo per non saper
che altro dire, non pareva che bastasse.
Ma il
cardinale Crescenzio, fatto prima gran fondamento sopra questa confidanza,
aggionse non esservi alcun negozio umano dove non convenga correr qualche
pericolo; la guerra dimostrarlo, che è l'apice delle umane azzioni,
quale mai s'intraprende, sia pur con quanta sicurezza della vittoria si vuol,
che non resti pericolo d'una perdita e destruzzione totale; né alcun negozio
s'intraprende con tanta certezza di buon essito, che non possi per cause
incognite o stimate leggieri precipitare in grand'inconvenienti. Ma chi
è necessitato per evitar altri mali a condescender a qualche
deliberazione, non debbe averci risguardo: le cose esser in un stato che, se il
concilio non si fa, vi è maggior pericolo che il mondo et i prencipi
scandalizati s'alienino dal pontefice e facciano piú de fatto che nel concilio
con dispute e con decreti. Il pericolo si ha da correr in ogni modo; meglio
è pigliar il partito piú onorevole e meno pericoloso. Ma esservi ben
anco molte provisioni per divertirlo: come contener i padri in concilio
occupati, quanto piú sarà possibile in altre materie et essercitargli sí
che non abbiano tempo di pensare a questa; tenersi amorevoli molti, e
gl'italiani massime, con gl'ufficii, con le speranze e co' modi altre volte
usati; tener anco contrapesati i prencipi, nodrendo qualche differenze
d'interessi tra loro, acciò non possino facilmente trattar un'impresa
tal in commune, e trattandola uno, l'altro abbia interesse d'opporsegli; et altri
rimedii occorrono sul fatto all'uomo prudente, con quali porta inanzi i negozii
e gli fa svanire. Fu approvato da tutti questo parer e risoluto che non si
dovesse mostrar d'aver questo timore; solo accennar all'imperatore che si
prevede, ma insieme mostrargli che non si dubita, ma si ha preparato il
rimedio.
[Il papa dà parte a Francia e a Cesare
della sua risoluzione]
Maturata
questa consultazione e risoluto di rimetter il concilio in Trento, il papa ne
diede conto al cardinale di Ferrara et all'ambasciatore francese, e spedí anco
corriero espresso al re di Francia a significargli il suo pensiero,
soggiongendo che gl'averebbe per questo mandato un noncio per dargli conto piú
particolare delle raggioni che l'avevano mosso. Et in fine di giugno spedí
tutt'in un tempo due noncii, Sebastiano Pighino, arcivescovo sipontino,
all'imperatore, et il Triulcio, vescovo di Tolone, al re di Francia. A quello
diede instruzzioni di parlare conforme alle deliberazioni prese nella
congregazione; al Triulcio ordinò che andasse per le poste, acciò
potesse dar presto aviso della mente del re, la qual voleva aspettar di saper,
prima che passar piú inanzi. Gli diede instruzzione di dar conto particolare
delle cause perché deliberava di ritornar il concilio in Trento: l'essersi la
Germania sottomessa, il farne instanza l'imperatore, il non potersi continuare
in Bologna per la causa sopra narrata, et acciò le cose de' protestanti
non si fossero accommodate in qualche maniera pregiudiciale, versando la colpa
sopra il papa. Ma che il primo, e precipuo fondamento lo faceva sopra
l'assistenza di Sua Maestà Cristianissima e l'intervento de' prelati del
suo regno: le quali cose sperava ottener per esser Sua Maestà protettore
della fede et immitator di suoi maggiori, mai discostatisi dal parere e
consegli de' pontefici. Che nel concilio s'attenderebbe alla dicchiarazione e
purificazione de' dogmi e riformazione de' costumi, né si tratterebbe di cosa
pertinente alli Stati e dominii, né a privilegii particolari della corona di
Francia. Che alla ricchiesta dell'imperatore di voler intender se il pontefice
era per voler proseguir il concilio in Trento o no, il pontefice aveva risposto
di sí, con le condizioni discusse nella congregazione, le quali ordinava al
noncio che communicasse tutte alla Maestà Sua: dalla quale desiderava
intender quanto prima qual fosse la mente, sperando di doverla trovar conforme
alla pietà di Sua Maestà et all'amore che porta ad esso pontefice
et alla confidenza che ha in lui. Diede anco carico al noncio di communicar
tutta la sua instruzzione col cardinale di Guisa e, congionto con lui, o come
meglio ad esso paresse, esporla al re et a chi facesse bisogno.
All'altro
noncio diede simile instruzzione, in particolar di dir all'imperatore che il
pontefice mostrava con effetti l'osservanza di quanto promesse a don Pietro di
Toledo, cioè di proceder con Sua Maestà puramente, apertamente e
senza arteficio, e di rapresentargli la prontezza dell'animo in proseguir il
concilio a gloria di Dio, per scarico della conscienza propria e per il commodo
che ne può risultare a Sua Maestà et all'Imperio. E per risponder
al moto dato dall'imperatore, cioè che si lasciasse intender delle
capitulazioni che ricerca, gli dicesse che mai sognò di far patti, né
capitolazioni per proseguir il concilio, ma ben di far alcune considerazioni
necessarie, le quali anco dava carico al noncio d'esponer alla Maestà
Sua. Et erano 4. La prima, che era necessaria l'assistenza del re
Cristianissimo e l'intervenzione de' prelati del suo regno, senza le quali cose
il concilio averebbe poca riputazione e si potrebbe temer di far nascer un
concilio nazionale, o perder la Francia; non doversi ingannar se stessi che, sí
come il luogo di Trento è molto confidente a Sua Maestà Cesarea,
cosí è troppo diffidente alla Cristianissima, e però doversi
trovar modo d'assicurarla. Che communicasse all'imperatore il modo trovato, il
quale, quando non bastasse, sarebbe necessario che Sua Maestà ci
aggiongesse qualch'altra cosa. La seconda considerazione, per le spese che
converrà far alla camera apostolica, essausta e carica de debiti, per i
legati e per altri straordinarii che porta seco il concilio, e parimente per le
spese che i prelati italiani poveri non possono sostener in quel luogo: per il
che converrà calcular ben il tempo, cosí dell'incomminciare, come del
proceder inanzi, sí che non si spendi un'ora invano; altrimente la Sede
apostolica non potrà supplire al dispendio, né si potrà ovviare
che i prelati italiani non diano nell'impazienza, come l'esperienza per il
passato ha insegnato. Oltra che non ci è la degnità della Sede
apostolica tener i suoi legati oziosi e su le ancore e senza frutto. Perilché
esser necessario che, inanzi si venga all'atto, Sua Maestà si assicuri
ben dell'intenzione et obedienza cosí de' catolici di Germania, come de'
protestanti, stabilendo le cose di nuovo nella dieta e facendo espedir li
mandati autentici delle terre e de' prencipi, obligandosi Sua Maestà e
tutta la dieta insieme all'essecuzione de' decreti del concilio, acciò
la fatica, spesa et opera non riesca vana e derisa, et anco per levar con
questo ogni speranza a chi pensasse dar disturbo. Che in terzo luogo consideri
Sua Maestà esser necessaria una dechiarazione che li decreti già
fatti in Trento in materia di fede e quelli degl'altri concilii passati non
possino esser in alcun modo revocati in dubio, né i protestanti sopra quelli
possino dimandar d'esser uditi. Considerasse in fine all'imperatore che il
pontefice confidava e teneva per certa la buona volontà di Sua
Maestà verso lui esser reciproca, e sí come egli prontamente
condescendeva a favorir le cose di Sua Maestà e del suo Imperio con
metter il concilio in luogo tanto a suo proposito, cosí ella desidera che la
sincerità e realtà di lui non abbiano a riportargli carico. Ma se
alcun tentasse altrimente, o con cavillazioni o con calonnie, Sua Maestà
non averà da maravigliarsi se egli userà i rimedii che
occorreranno per difensione dell'autorità data da Dio immediatamente a
lui et alla Sede apostolica, cosí in concilio, come fuori.
Stimò
il pontefice utile per le cose sue che la risoluzione presa fosse intieramente
saputa in Italia et in Germania, e fece che Giulio Canano, suo secretario,
mostrando di favorir alcuni corteggiani suoi amici, communicasse loro, con
obligo di secreto, le instruzzioni sopradette; con qual modo furono sparse per
tutto. Di Francia ebbe il papa dal nuovo noncio presta risposta, perché quel re,
sapendo le cause che il pontefice aveva di fidarsi poco dell'imperatore per le
cose passate e stimando che grande fosse l'inclinazione sua nella parte
francese, fece gran dimostrazione d'aggradire il noncio e l'ufficio, offerí al
pontefice tutti i suoi favori e promise l'assistenza al concilio e la missione
de' prelati del suo regno, con promessa d'ogni favor e protezzione per
mantenimento dell'autorità ponteficia.
L'imperatore,
udita l'esposizione del sipontino e deliberato maturamente sopra di quella, rispose
lodando l'ingenuità e la prudenza del pontefice, che, conoscendo la
publica necessità di far il concilio in Trento, avesse trovato modo
ispediente di rimetterlo, senza far andar inanzi la causa della traslazione,
cosa aromatica, di molta difficoltà e di nissun utilità. Aggionse
che le quattro considerazioni erano tutte importanti e raggionevolmente
proposte da Sua Santità. Che quanto alle cose di Francia, non solo
lodava quanto ella aveva deliberato, ma s'offeriva ancora di coadiuvare e dar
ogni possibil sicurtà a quel re; che era molto raggionevole lo scampar
le spese superflue e non lasciar il concilio aperto et ozioso; che già
l'anno inanzi s'era fatto il decreto in Augusta, che la Germania tutta,
eziandio i protestanti, si sottomettessero; che di quello averebbe dato copia
al noncio e nella dieta d'allora l'averebbe fatto confermare; che non gli
pareva tempo di trattar al presente che le cose già decise in Trento non
siano rivocate in dubio, perché ciò s'averebbe fatto piú opportunamente
in quella città, quando il concilio fosse stato ridotto. E per quel che
tocca l'autorità di Sua Santità e della Sede apostolica, egli, sí
come ne' tempi passati n'era stato protettore, cosí voleva esser nell'avvenire,
deliberava di mantenerla con tutte le sue forze e con la propria vita, se fosse
stato bisogno. Che non poteva prometter a Sua Santità che in concilio
non fosse da qualche inquieto detto o trattato: ma gli dava ben parola, quando
ciò avvenisse, d'opporsi talmente che ella dovesse lodarsi dell'opera
sua.
[Cesare in dieta s'adopera ch'al concilio si
sottometta la Germania]
Era Cesare,
come di sopra s'è detto, in Augusta per far la dieta, la quale, se ben
non era circondata da tante arme, come fu la precedente, nondimeno tuttavia era
armata. Propose di proseguir il concilio di Trento e di servar l'Interim
constituito nella dieta precedente, e di trovar modo alla restituzione de' beni
ecclesiastici et alla redintegrazione della giurisdizzione. A' prencipi
catolici piacque che il concilio si seguitasse, ma gli ambasciatori d'alcuni
prencipi protestanti non consentirono, se non con queste condizioni: che le
cose già determinate per inanzi in Trento fossero reesaminate; che i
teologi della confessione augustana non solo fossero uditi, ma avessero anco voto
decisivo; che il pontefice non fosse presidente, ma si sottomettesse esso
ancora al concilio e rilasciasse il giuramento a' vescovi, acciò
potessero parlar liberamente. Si lamentò l'imperatore co' protestanti
che il suo decreto della interreligione non fosse da loro ubedito, e co'
catolici che la riforma dell'ordine ecclesiastico non fosse esseguita: si
scusarono questi, dicendo parte che bisognava caminar lentamente per fuggir le
dissensioni, e parte con dire che gl'essenti, pretendendo privilegii, non
volevano ubedire. I protestanti davano la causa al popolo, il quale,
trattandosi della conscienza, si ammutinava e non si poteva sforzare. Di tutti
questi particolari l'imperatore diede conto al noncio, narrato non solo il
consenso de' catolici e del numero maggior de' protestanti, ma anco la
limitazione proposta da quegli altri, acciò, se per altra via gli fosse
andato ad orecchie, non facesse cattivo effetto. Soggiongendo, però, non
aver voluto che fosse posta negl'atti, perché da quei prencipi aveva avuto
parola che non si sarebbono scostati dal suo volere: e però poteva
affermare al pontefice che tutta Germania si contentava del concilio.
Trattò poi piú strettamente Cesare co' principali ecclesiastici,
proponendo che si dasse principio inanzi Pasca e che vi andassero in persona, e
avutone promessa dagl'elettori, sollecitò il pontefice di venir all'atto
della convocazione per Pasca, o almeno immediate dopo, poiché aveva per
stabilito il consenso di tutta Germania; il qual per fermar meglio ancora,
pregava Sua Santità che, formata la bolla, prima che publicarla,
mandasse la minuta, acciò con quell'occasione egli potesse (fattala
veder a tutti nel recesso) ordinar il decreto et operare che fosse da tutti
ricevuto.
[Il papa manda la bolla della convocazione in
dieta]
Al pontefice
pareva che niente fosse concluso delle cose da lui proposte, mentre non era
deciso che i decreti fatti fossero ricevuti: non voleva che nel bel principio
del concilio si mettesse questo in disputa, perché era chiaro l'essito,
cioè che si consummerebbe molto tempo senza niente fare, in fine si
dissolverebbe senza conclusione. Era cosa chiara da veder che la disputa
generale se si dovevano ricevere, tirava una particolare di ciascuno, e che
egli non averebbe potuto interporsi, che sarebbe stato allegato per sospetto,
come quello che fu presidente et autore principale. L'insister maggiormente con
l'imperatore che questo ponto fosse deciso, era dargli disgusto grande e
metterlo in difficoltà insuperabili. Fu consegliato che, senza altro dire,
avesse il ponto deciso e nella bolla sua presupponesse che i decreti fatti
fossero da tutti accettati, perché, andando la bolla alla dieta con quel
tenore, o i tedeschi se ne contentaranno, e cosí egli averà l'intento, o
non l'accettaranno, et in quel caso la disputa comminciarà nella dieta
et egli sarà uscito di pensiero. Gli parve buono il conseglio, il qual
seguendo ordinò la bolla e, per compiacer l'imperatore in parte, la
mandò non in minuta, parendogli esser contra la degnità sua, ma
formata, datata e bollata, non però publicata; il giorno del dato fu
sotto il 15 novembre.
In quella
diceva che, per levare le discordie della religione di Germania, essendo
ispediente et opportuno, come anco l'imperatore gli aveva significato, rimetter
in Trento il concilio generale, già convocato da Paolo III, principiato,
ordinato e proseguito da esso, allora cardinale e presidente, et in quello
statuiti e publicati molti decreti della fede e de' costumi, perciò
egli, al qual s'aspetta congregare et indrizzare i concilii generali, a fine
dell'aummento della religione ortodossa e restituir la tranquillità alla
Germania, che per i tempi passati non ha ceduto ad altra provincia in ubedir e
riverir i pontefici vicarii di Cristo, sperando che anco i re e prencipi lo
favoriranno et assisteranno, essorta et ammonisce i patriarchi, arcivescovi,
vescovi, abbati et altri, che per legge, consuetudine o privilegio debbano
intervenir ne' concilii, che il primo di maggio debbano ritrovarsi in Trento:
per il qual giorno ha ordinato per autorità apostolica e con consenso
de' cardinali che il concilio sia reassonto nello stato in qual si ritrovava e
proseguito; dove egli invierà i suoi legati, per li quali
presederà al concilio, se non potrà trovarvisi personalmente, non
ostante qualonque traslazione o sospensione o altra cosa che vi fosse in
contrario, e specialmente quelle cose che Paolo III nella bolla della
convocazione et altre spettanti al concilio ordinò che non ostassero, le
quali bolle egli vuole che restino in vigore con tutte le sue clausule e
decreti, confermandole e rinovandole quanto faccia di bisogno.
I ministri
imperiali et altri catolici zelanti, a chi Cesare la communicò,
giudicavano che quel tenore dovesse essacerbar i protestanti e dargli occasione
di non accettar quel concilio, nel quale il papa dicchiarava non tanto di
volervi presedere, ma anco di volerlo indrizzare; oltra che il dire di
riassumerlo e proseguirlo era mettergli in troppo sospezzioni, et il parlar
cosí magnificamente dell'autorità sua era un irritargli. Consegliarono
l'imperatore di far opera che il pontefice moderasse la bolla e la riducesse in
forma che non dasse occasione a' protestanti d'alienarsi maggiormente. Ne
trattò l'imperatore col noncio e scrisse al suo ambasciatore che ne
parlasse al papa, pregando Sua Santità affettuosamente et efficacemente
e per la carità cristiana che indolcisse quelle parole che potevano
divertir la Germania da accettar il concilio. Trattò l'ambasciatore in
Roma con la destrezza spagnuola: proponeva che, sí come le fiere prese a laccio
conviene tirarle al passo, mostrando di cedergli, né fargli veder il fuogo o le
arme per non irritarle e ponerle in desperazione che gli fa accrescer le forze,
cosí bisogna co' protestanti, quali con dolci maniera e con instruirgli et
ascoltargli conveniva tirargli al concilio, dove quando saranno ridotti
sarà tempo di mostrargli la verità. Che il fargli la sentenza
contra inanzi che udirgli, era un essacerbargli et irritargli maggiormente. Il
papa, con la solita libertà, rispose non voler esser insegnato a
combattere col gatto serrato, ma volerlo in libertà che possi fuggire;
che a ponto il ridur i protestanti con belle parole al concilio e là non
corrisponder co' fatti, era far che, entrati in desperazione, pigliassero
qualche precipitosa risoluzione; che quello che s'ha da fare, se gli dica pur
alla chiara. L'ambasciator secondando diceva che lodava ciò quanto alle
cose che era necessario et opportuno dire; non vedersi opportunità di
dire che a lui tocca d'indrizzar i concilii: queste cose esser verissime, ma la
verità non aver questo privilegio d'esser detta in ogni tempo et in ogni
luogo; esser ben tacerne alcuna, quando il dirla sia per far cattivo effetto;
si ricordasse che per il duro parlar di Leone X e del cardinal Gaetano, suo
legato, è acceso il fuogo che vede ardere, il quale con una dolce parola
si poteva estinguere; che li seguenti pontefici, e massime Clemente e Paolo,
prencipi savii, molte volte se n'erano doluti; se adesso con destri modi si
può acquistar la Germania, perché con le amarezze separarla
maggiormente?
Il papa,
quasi sdegnato, diceva che s'ha da predicar sempre apertamente et inculcare
quello che Cristo ha insegnato, che Sua divina Maestà l'ha fatto suo
vicario, capo della Chiesa e principal lucerna del mondo; che questa verità
era di quelle che bisognava dire, che sempre bisognava aver in bocca, in ogni
tempo et in ogni luogo, e secondo san Paolo opportunamente et importunamente;
che il far altrimente sarebbe, contra il precetto di Cristo, porre sotto il
staio la lucerna che si debbe alzar nel candeliero. Che non era dignità
della Sede apostolica procedere con artificii e dissimulazioni, ma parlar
all'aperta. L'ambasciator, cosí in dolcezza di raggionamento, disse anzi
parergli che l'ascondere la sferza e mostrarsi benigno e condescendere a tutti
era il vero ufficio apostolico, aver sentito legger in san Paolo che, essendo
libero, si era fatto servo di tutti per guadagnar tutti: co' giudei, giudeo,
co' gentili, gentile, co' deboli, debole, per guadagnare anco quelli, e che quella
era la via di piantar l'Evangelio. In fine il pontefice, per non entrar in
disputa, si ritirò a dire che la bolla era formata secondo lo stile
della cancellaria, quale non si poteva alterare, che egli era alieno dalle
novità, che conveniva seguire le vestigia de' predecessori: usando la
solita forma, nissuna poteva attribuir a lui quello che fosse riuscito; se ne
avesse inventato una nuova, tutto 'l male sarebbe attribuito a lui.
L'ambasciator per dargli tempo di meglio pensare, concluse di non volere ricever
la risposta per una negativa, ma confidare che Sua Santità averebbe con
affetto paterno compatito alla Germania, dissegnando di lasciar passar le feste
di Natale, perché allora era mezo decembre, e poi di nuovo dargli un altro
assalto.
Ma il papa, risoluto
di non mutare un iota, dicendo spesso: voglio prevenire e non esser prevenuto,
e di levarsi ogni molestia di raggionamento, fece il dí di san Giovanni un
breve, nel quale narrato sommariamente il contenuto della bolla sua sopradetta
e preso pretesto che, per non esser publicata, alcun potrebbe pretendere
ignoranza, ordinava che cosí quel breve, come la bolla fossero lette, publicate
et affisse nelle basiliche di San Pietro e San Giovanni Laterano, con
intenzione di mandarne essemplar stampato agli arcivescovi, acciò da
loro fossero intimate a' vescovi et altri prelati. Fu levato il modo di
parlarne piú col papa all'ambasciator, il quale immediate spedí corrier
espresso a significar il tutto all'imperatore, et egli, vedendo la risoluzione
del papa e pensato come rimediare, fece legger la bolla nel publico consesso;
la qual veduta produsse a ponto l'effetto che egli aveva preveduto, cioè
che sarebbe revocata la parola data da' protestanti di rimettersi, e da'
catolici d'andar al concilio. A' catolici dispiacque per il duro modo et
intrattabile, a' protestanti per le cose dette. Queste erano: partener a lui
non solo congregar, ma indrizzar anco e governar i concilii; che avesse
risoluto di continuare e proseguire le cose incomminciate, il che levava il reessaminar
le già trattate; che fuor di luogo e senza occasione dicesse la Germania
aver riconosciuto i pontefici per vicarii di Cristo; che si avesse dichiarato
presidente del concilio e che non chiamasse se non ecclesiastici che gli
ubedivano, e confermasse con tanta ampiezza di parole affettatamente la bolla
della convocazione di Paolo. Dicevano i protestanti che vanamente si farebbe il
concilio con quei fondamenti; che il sottomettersi a quelli era far contra Dio
e contra la conscienza. I catolici dicevano che quando non vi era speranza di
ridur i protestanti, vanamente si pigliava la fatica e la spesa. Cesare
temperò l'ardire d'ambedue le parti con dire che il concilio era
generale di tutte le nazioni cristiane, che ubedendo tutte l'altre al pontefice,
egli aveva formato la convocazione, come conveniva a quelle; che per quanto
s'aspetta alla Germania, rimettessero il tutto alla cura sua, che sapeva come
trattare; lasciassero convenire le altre nazioni, che egli sarebbe andato
personalmente, se non là, almeno in luogo prossimo, et averebbe operato
non con parole, ma con fatti, che le cose passassero per i debiti termini; non
avessero risguardo a quello che il papa diceva, ma a quella che egli prometteva
sopra la parola imperiale e regia.
Con questa
maniera l'imperatore quietò gl'animi, et a 13 febraro si fece il
recesso, publicando il decreto, il tenor del quale fu: che essendo proposta
nella precedente dieta non esservi modo di componer le discordie di Germania
per causa della religione, se non per mezo d'un pio e libero concilio generale,
tutti gl'ordini dell'Imperio hanno confermato la proposizione e deliberato
d'accettarla, approvarla e sottomettersegli; la qual cosa, non avendosi
esseguita ancora, nella presente dieta è stata fatta la medesima proposizione
e deliberazione. Perilché Cesare aveva operato e finalmente impetrato dal papa
che rimettesse il concilio di Trento al primo di maggio dell'anno futuro; il
che avendo il pontefice fatto et essendo la convocazione stata letta e proposta
nella dieta, è cosa giusta che si resti nella medesima risoluzione
d'aspettare con la debita obedienzia il concilio, et intervenire in quello, al
quale tutti i prencipi cristiani assisteranno, et esso Cesare, come avvocato
della santa Chiesa e defensor de' concilii, operarà tutto quello che si
conviene al suo carico d'imperatore, sí come ha promesso; e per tanto notifica
a tutti esser sua volontà che per l'autorità e potestà
imperiale sia sicuro ciascuno che anderà al concilio di poter liberamente
andare, stare e ritornare e proponer tutto quello che in sua conscienza
giudicherà necessario; e per ciò starà ne' confini
dell'Imperio et in luogo piú prossimo che si potrà; et ammonisce
gl'elettori, prencipi e stati dell'Imperio, massime gl'ecclesiastici e quelli
che hanno innovato nella religione, che si preparino per ritrovarsi là
ben instrutti, acciò non possino aver alcuna scusa, dovendo egli aver
cura che tutto possi legitimamente e con ordine et operare che si tratti e
definisca ogni cosa pia e cristianamente, conforme alla Sacra Scrittura e
dottrina de' padri. E per quello che s'aspetta alla trasgressione de' decreti
dell'interreligione e riforma, fatto certo che era impossibile superare le
difficoltà, e che quanto piú si operava, tanto le cose piú peggioravano,
acciò maggior confusione non nascesse, avvocò a sé ogni
cognizione delle contravenzioni passate, incaricando però i prencipi et
ordini dell'Imperio all'osservanza in futuro.
Il decreto
veduto per il mondo, fu stimato, come era, un contraposto alla bolla del papa,
a ponto in tutte le parti. Questo vuol indrizzar i concilii, quello vuol aver
cura che tutto si faccia con ordine e giuridicamente; questo vuol presidere, e
quello vuol che si decidi secondo la Scrittura e padri; questo vuol continuare,
e quello vuol che ogni uno possi propor secondo la conscienza. In somma la
corte non poteva digerir questo affronto e si doleva che fosse un'altra
convocazione del concilio; ma il papa, con la solita piacevolezza, diceva:
«L'imperatore m'ha reso la publicazione della bolla fatta senza di lui».
[Elezzione de' presidenti del concilio]
Entrato
l'anno 1551, applicando il pontefice l'anima al concilio intimato, ebbe due
principal mire: di mandare persone confidenti a presedervi e di far minor spesa
che fosse possibile. Al fuggir la spesa consegliava che non si mandasse piú
d'un legato; ma era con troppo carico della persona di quello: prima, il non
aver appresso persona co' medesimi interessi, di che potersi confidare
pienamente, e di tutto quello che si facesse dover esser stimato unico autore;
per tutti i quali rispetti era necessario che il carico fosse compartito in piú
persone. Trovò il papa via di mezo, mandando un legato con doi noncii
con autorità pari, pensando anco di dover esser meglio servito, perché
le speranze fanno operar con diligenza maggiore. Voltato l'occhio sopra tutti i
cardinali, non trovò il piú confidente suo et insieme di valore che
Marcello Crescenzio, cardinale di San Marcello; a questo aggionse per noncii
Sebastiano Pighino, arcivescovo sipontino, et Alovisio Lipomano, vescovo di
Verona; in quello elesse una stretta confidenza tenuta con lui inanzi il
ponteficato, in questo una fama di pietà, bontà e lealtà
grande. Con tutti tre avendo tenuto molti secreti consegli et apertogli il sincero
del suo core et instruttigli intieramente, diede un amplo mandato d'intervenir
per nome suo al concilio: la continenza del quale fu: al padre di famiglia
appartiene sostituir altri a far quello che commodamente non può esso
medesimo. Perilché, avendo ridotto in Trento il concilio generale, intimato da
Paolo, sperando che i re e prencipi averebbono prestato il loro favore et
assistenza, citò i prelati, soliti ad intervenirvi, per il primo di
maggio, per reassumer il concilio nello stato che si ritrovava; ma per la sua
grave età et altri impedimenti non potendo secondo il suo desiderio
trovarvisi personalmente presente, non volendo che la sua assenza porti
impedimento, constituisce Marcello cardinale zelante, prudente e saputo, per
legato, et il sipontino e veronese, conspicui in scienza et esperienza, noncii,
con special mandato con le clausule opportune; mandandogli come angeli di pace,
dando loro autorità di reassumer, indrizzar e proseguir il concilio e
far tutte le altre cose necessarie et opportune, secondo il tenore delle
lettere di convocazione sue e del predecessore. L'imperatore ancora, a chi
maggiormente premeva il negozio del concilio e l'aveva per unico mezo di farsi
assoluto patrone di Germania, mandò a tutti gl'ordini dell'Imperio
protestanti il salvocondotto in amplissima forma per loro medesimi overo per
gli ambasciatori loro e per li teologi che inviassero.
[Nuovi intrighi fra 'l papa, Cesare e Francia
per Parma]
Ma mentre che
si gettano questi fondamenti in Roma et in Augusta per fabricarvi sopra il
concilio di Trento, altrove erano ordite tele che poi tessute fecero
grand'ombra alla degnità et autorità di quella sinodo, e
fabricate machine che la conquassarono e disciolsero. Il pontefice, immediate
dopo la sua assonzione, per osservanza di quello che aveva promesso in
conclavi, restituí Parma ad Ottavio Farnese, la quale Paolo aveva tirato in
mano sua per nome della Chiesa, e gli assegnò anco duemila scudi al mese
per defenderla. Ottavio per l'inimicizia di Ferrante Gonzaga, viceduca di
Milano, e per molti indicii che aveva che l'imperatore dissegnasse impadronirsi
anco di Parma, avendogli anco il pontefice levata la provisione assegnata di
duemila scudi, dubitando di non poter defender la città con le sue
forze, trattò col pontefice per mezo del cardinale suo fratello che gli
dasse aiuto overo gli concedesse di provedersi con la protezzione d'altro
prencipe sufficiente di sostentarlo contra Cesare. Il pontefice, senza piú
considerarvi, rispose che facesse il fatto suo al meglio che sapeva; perilché
Ottavio, adoperando per mezo Orazio, suo fratello, genero del re di Francia, si
mise sotto la protezzione di quello e ricevette guarniggione francese nella
città; la qual cosa dispiacendo a Cesare suo suocero, persuase il
pontefice che fosse contra la dignità di lui, che era di quella
città e di quel duca principe sopremo. Perilché il papa promulgò
contra il duca un grave editto, citandolo a Roma e dicchiarando rebelle quando
non comparisse, e dimandando aiuto all'imperatore contra di lui; il quale si
dicchiarò d'approvare la causa del pontefice e con le arme difenderla;
onde fu fatta apertura a manifesta guerra tra l'imperatore et il re di Francia,
et a' disgusti grandi dell'istesso re col pontefice. Et in Sassonia, sopra
l'Albi, fu tra sassoni e Brandeburg dato principio a ragionamenti d'una lega
contra Cesare, per impedirlo dal soggiogarsi totalmente la Germania, come a sua
luogo si dirà. Non ostanti queste et altre semenze di guerra, che in
Italia nel principio d'aprile si vedevano già pullulare, volle il
pontefice che il legato e noncii andassero a Trento e diede loro commissione
che il primo maggio, giorno statuito, aprissero il concilio con quel numero che
vi era, et eziandio senza numero alcuno, con l'essempio de' noncii di Martino
V, che apersero il concilio di Pavia soli, senza intervento d'alcun prelato.
[Prima sessione della seconda ridozzione del
concilio in Trento]
Gionti in
Trento i legati e noncii con compagnia d'alcuni prelati che da Roma gli
seguirono, et arrivati altri prelati che poco dopoi gionsero sollecitati dal
pontefice, nel giorno suddetto, ridottisi al solito tavolato nella chiesa
catedrale che restava ancora in piedi, con le solite ceremonie fu cantata la
messa dall'arcivescovo di Torre e, letta dal secretario la bolla del papa della
convocazione et il mandato nelle persone de' presidenti, il celebrante lesse il
decreto in forma interrogativa: «Padri vi piace che secondo la forma delle
lettere ponteficie, il concilio di Trento si debbia reassumere e proseguire?» E
dati i voti da tutti, interrogò di nuovo: «Piacevi che la sessione
seguente si tenga al primo settembre prossimo?» Al che da tutti fu consentito,
et il cardinale primo presidente concluse, coll'assenso e per nome di tutta la
sinodo, che adonque il concilio è incomminciato e si proseguirà.
Né altra cosa si fece in quel giorno, né meno ne' seguenti, [e,] se ben spesse
volte si ridussero i prelati in casa del legato, le congregazioni però
non avevano forma, non vi essendo teologi. Si leggevano solamente le cose
disputate in Bologna per maturare la deliberazione di quello che si doveva
trattare, e massime in materia di riforma, che era stimata la parte piú
importante.
In fine del
mese il pontefice mandò in svizzeri Gieronimo Franco, stato altre volte
noncio di papa Paolo a quella nazione, principalmente per impedir che il re di
Francia non avesse soldati da loro e per ottener levata per le cose di Parma;
et in quell'occasione scrisse loro, sotto i 27 maggio, che, sí come aveva preso
il nome di Giulio II, tanto affezzionato a loro, cosí voleva seguir l'essempio
suo in amargli e servirsi dell'opera loro: al che aveva dato principio,
pigliando una guardia della sua nazione per la custodia della persona propria
et un'altra per Bologna; ora, essendo stato intimato e comminciato il concilio
in Trento al primo di maggio, gli pregava operare che i suoi prelati dovessero
ritrovarvisi per il primo di settembre, quando sarà la seconda sessione.
[Il re di Francia tratta col papa pel fatto di
Parma, e 'l papa minaccia]
Il re di
Francia cercò di persuader al pontefice per mezo di Termes, suo oratore,
che con buone raggioni aveva pigliato la difesa di Parma, pregandolo di
contentarsene e mostrandogli che, altrimenti facendo et anteponendo la guerra
alla pace, non solo sarebbe con danno d'Italia, ma impedirà anco la
prosecuzione del concilio, overo lo farebbe dissolvere; e se pur ciò non
succedesse, non potendovi andar alcun vescovo francese, non sarà
raggionevole che si chiamasse concilio generale. Il papa s'offeriva far per il
re tutte le cose, eccetto quello che egli desiderava, et essendo tra lui e
l'ambasciatore passati molti raggionamenti e rapresentatogli che il re non
poteva per alcuna cosa ritirarsi e che, quando Sua Santità non avesse
voluto restar neutrale, ma esser ministro delle voglie dell'imperatore, dal
quale il re era certo che si lasciava guidare, la Maestà Sua sarebbe
stata sforzata ad usar quei rimedii di raggione e di fatto che i maggiori suoi
avevano usato contra i pontefici dimostratisi parziali, si mise il papa in
colera, o pur finse d'esservi entrato, e rispose che, se il re gli togliesse
Parma, egli leverebbe a lui la Francia, e se gli levasse l'obedienza di
Francia, egli leverebbe a lui il commercio di tutta cristianità; e se
trattasse d'usar forze, farebbe il peggio che potesse; se editti, proibizioni
et altre tal cose, gli faceva intendere che la sua penna, carta et inchiostro
non sarebbono inferiori. Ma se ben il pontefice parlava cosí alto, aveva
però qualche timore; onde, per eccitar l'imperatore, gli fece
significare per il vescovo d'Imola, suo noncio che aveva mandato in luogo del
sipontino, tutti li raggionamenti passati col francese, con dirgli appresso che
in Roma si stava in dubio d'un altro sacco per tanti romori de' turchi e
francesi, e si dubitava di concilii nazionali. Perilché era necessaria una
buona provisione d'arme per prevenir li tentativi e quando la necessità
portasse, per potersi difendere.
[Il re fa vista di voler tenere un concilio
nazionale, onde il papa si rammodera]
Il re, veduto
che non era possibile persuader il papa, scrisse una lettera publica e commune
a tutti i vescovi del suo regno, cosí a quelli che erano in Francia, come
altrove, che dovessero andar alle loro chiese fra sei mesi, e là
mettersi in ordine per un concilio nazionale, e la lettera fu anco presentata a
quelli che si ritrovavano in Roma; né il papa ebbe ardire d'impedirgli,
dubitando di far danno a loro et interressar maggiormente la propria
riputazione. Ma prese ispediente di mandar Ascanio della Corna, suo nipote, in
Francia, con instruzzione di far ogni opera per dissuader il re dalla
protezzione di Parma e farlo capace che, essendo Ottavio Farnese suo
feudatario, non poteva in alcun modo comportare d'esser sprezzato da lui, che
sarebbe stata un'infamia eterna et un essempio a tutti di non riconoscerlo per
papa. Esser grandissima l'inclinazione sua alla Francia et alla Sua
Maestà, e l'animo suo alienissimo dagl'emuli di quello, e questo esser
notissimo a tutto 'l mondo. Nondimeno esser cosí potente il rispetto sopra
detto che, quando Sua Maestà non vi porga rimedio, sarà
sufficiente di farlo gettar in braccio di chi non vorrebbe. Portava anco
l'instruzzione che, se il re non si lasciasse indur a questo, lo pregasse a ben
considerare quanti inconvenienti si tirarebbe appresso un concilio nazionale e
che sarebbe principio di metter i suoi soggetti in una licenzia della quale si
pentirebbe, et al presente causerebbe questo mal effetto, che impedirebbe il
concilio generale, il che sarebbe la maggior offesa che si potesse far a Dio e
maggior danno alla fede et alla Chiesa. Lo pregasse di mandar ambasciatore a
Trento, certificandolo che da' presidenti e da tutti i prelati amorevoli di Sua
Santità riceverebbe ogni onore e rispetto. Al che non condescendendo e
perseverando in voler che l'editto resti, gli proponesse, per levar ogni
scandalo, temperamento di far una decchiarazione che, con quell'editto, non
è stato sua intenzione d'impedire il concilio generale.
Il re, udita
l'ambasciata, esso ancora mostrò come l'onor suo lo costringeva a
perseverare nella protezzione del duca et a mantener l'editto, ma con tal forma
di parole che mostravano sentir dispiacere de' disgusti e desiderio di
rimediarvi. E per corrisponder al papa, mandò a lui monsignor di Monluc,
eletto di Bordeos, non senza qualche speranza di poter indolcire l'animo del
pontefice. Ma per ogni officio che si fece quanto alle cose di Parma, restò
nella medesima durezza e rimandò l'istesso Monluc con commissione di
dolersi col re che avesse mandato sino in Roma l'editto d'un concilio nazionale
e lettere a' prelati sudditi suoi ancora in temporale, intendendo del vescovo
d'Avignone, la qual cosa tutto 'l mondo interpretava che non si facesse se non
per impedir il concilio generale. E concluse pregando il re che, poiché l'uno e
l'altro è risoluto, egli in perseverar nella correzzione d'Ottavio e la
Maestà Sua nella protezzione, almeno le differenze non uscissero di
Parma, come dal canto di Sua Maestà si è uscito con levar i
cardinali e prelati da Roma; i quali egli non ha voluto impedire dal partire,
sperando che Sua Maestà, essalato il primo sdegno, sarebbe illuminata da
Dio a mutar modo. I scambievoli ufficii et il rispetto del concilio non potero
appresso alcun di questi prencipi operare che rimettessero niente del rigore.
Il consenso universale era favorevole al re, perché, avendo l'imperatore
occupato Piacenza, il lasciargli anco Parma era farlo arbitro d'Italia, e
pareva indegna cosa che la posterità di Paolo, che per la libertà
d'Italia tanto aveva travagliato, fosse da tutti abandonata: e se il papa non
si doleva che Piacenza fosse occupata e non faceva alcun'instanza per la
restituzione, perché dolersi che il duca s'assicurasse di Parma? E questa
raggione poteva tanto in alcuni, che tenevano per fermo esser ben intesa da
Giulio, ma per far nascere qualche impedimento al concilio, che da lui non
procedesse e potesse ad altri esser ascritto, desiderasse la guerra tra 'l re e
l'imperatore. È ben cosa certa che piú frequenti e piú efficaci erano le
instanze con Cesare acciò movesse le arme a Parma o alla Mirandola, che
gl'ufficii col re acciò s'accommodasse il negozio. Il re, tentati tutti
gl'ufficii per quietar l'animo del papa, passò all'estremo, che fu, per
mezo di Termes, suo ambasciatore, protestare, e particolarmente contra il
concilio che si adunava, sperando che quel rispetto dovesse rimover il papa:
della qual protesta, perché dopo fu reiterata in Trento, con quell'occasione si
dirà il contenuto.
[I protestanti germani si preparano per andar
al concilio, dal quale chieggono salvocondotto]
Ma in
Germania piú che mai si parlava del concilio. Perché Maurizio, duca di
Sassonia, veduta la risoluzione di Cesare e per dargli piú sicuro indicio di
voler seguir la sua volontà di mandar a Trento, commandò a
Filippo Melanton et alcuni altri teologi suoi di metter insieme li capi della
dottrina da proponer in concilio e congregare tutti i dottori e ministri del
suo Stato in Lipsia per essaminarla. E Cristoforo, duca di Vitemberg, poco fa
successo al padre, fece da suoi far un'altra composizione, le quali erano in
sostanza una cosa stessa, e l'una parte approvò quella dell'altra avendo
eletto di non proceder unitamente, acciò l'imperatore non pigliasse
sospizzione. Poi scrisse il duca Mauricio a Cesare, dando conto d'esser in
ordine co' teologi suoi e della scrittura preparata; ma aggiongendo che non gli
pareva il suo salvocondotto esser bastante; imperoché nel concilio di Costanza
era stato determinato che si procedesse contra li andati al concilio, ancorché
avessero salvocondotto dall'imperatore, et il decreto fu anco comprobato con
l'essecuzione della morte de Giovanni Hus, andato a quel concilio sotto la fede
publica di Sigismondo; perilché non poteva mandar alcun suo a Trento, se anco
quei del concilio non gli davano salvocondotto, sí come fu fatto nel concilio
di Basilea, dove li boemi, per l'essempio di Costanza, non volsero andar se non
sotto la fede publica di tutto 'l concilio. Perilché pregava Cesare ad operare
che fosse concesso loro dagl'ecclesiastici di Trento un salvocondotto
nell'istessa forma che a' boemi in Basilea, perché li suoi erano a ponto nella
istessa condizione al presente che i boemi allora. Cesare promise di farlo et
a' suoi ambasciatori, che pur in quel tempo spedí al concilio, diede ordine di
procurarlo.
[Tre ambasciatori di Cesare al concilio e 'l
lor mandato]
L'ambasciaria
era di tre personaggi, per onorar il concilio e per aver molti ministri che
operassero; et il numero si onestava, essendo uno per l'Imperio, l'altro per la
Spagna, et il terzo per gl'altri Stati, e nondimeno tutti in solidum per
tutti. Il mandato fu segnato sotto il 6 luglio e conteneva che, avendo il
pontefice Giulio, per sedare le controversie della religione in Germania,
ricchiamato in Trento per il primo di maggio passato il concilio convocato da
Paolo, principiato et intermesso, egli, per l'indisposizione sua non potendo
ritrovarvisi personalmente, per non mancar del debito, ha voluto mandarvi i
suoi procuratori. Però confidato della fede, bontà, esperienza e
zelo di Ugo, conte de Monfort, don Francesco di Toledo e Gulielmo, archidiacono
di Campagna, gli constituisce oratori e mandatarii suoi per conto della
degnità imperiale e de' regni e Stati suoi ereditarii; dando a loro et a
ciascuno d'essi facoltà di comparir nel concilio, tener il luogo suo,
consultar e trattar, consegliar e dar voto et interponer decreto per suo nome,
e far ogni altra cosa che egli potesse far essendo presente; ponendogli in
luogo della persona sua e promettendo d'aver rato quello che da essi tre overo
da uno sarà operato. Il pontefice, quantonque avesse molto a cuore che
il concilio fosse aperto, con tutto ciò, dopo fattogli principio, non si
diede molto pensiero che i prelati vi andassero, o perché fosse tutto intento
alla guerra che ardeva alla Mirandola, o perché poco ne curasse: tutta l'opera
fu posta dall'imperatore, che vi spinse prima gli elettori di Magonza e
Treveri, e poi anco di Colonia insieme con cinque altri vescovi principali e li
procuratori di molti impediti. Fece anco venir di Spagna alquanti prelati oltra
quelli che s'erano trattenuti in Trento e per Italia sino allora, e d'Italia di
quelli de suoi Stati, che pochi altri intervennero; in modo che in tutto il
tempo di otto mesi che il concilio durò, computati i presidenti e
prencipi, non eccessero mai il numero di sessantaquattro.
[Seconda sessione. Decreto di dilazione]
Venuto il
primo settembre, giorno deputato alla sessione, con la solita ceremonia
s'andò alla chiesa, l'ordine della precedenzia fu: prima il cardinale
legato, dopo il cardinale Madruccio, seguivano doi noncii e dopo essi gli due
elettori, non essendo Colonia arrivato; dopo questi, due ambasciatori
imperiali, non gionto l'archidiacono; seguiva l'ambasciatore del re de Romani e
poi gli arcivescovi. Cantata la messa e finite le ceremonie ecclesiastiche, il
secretario del concilio lesse un'essortazione per nome de' presidenti a' padri
del concilio in questa sentenza: che della presenza de' 2 prencipi elettori
essendo entrati in speranza che molti vescovi della medesima nazione e d'altre
ancora dovessero intervenire al concilio, fra tanto, per il luogo sostenuto da
loro, gli pareva necessario far un poco d'ammonizione a se medesimi et a loro
(se ben vedevano tutti pronti a far l'ufficio di buoni pastori) per esser di
gran momento quello che s'ha da trattare, che era estirpar l'eresie, riformar
la disciplina ecclesiastica, la corrozzione della quale era stata l'origine
delle eresie, e finalmente quietare le discordie de' prencipi. Che il principio
dell'essortazione doveva esser preso dalla cognizione della propria
insufficienza e dal refugio all'aiuto divino, il qual non è per mancar e
già se ne vedono molti indicii, ma specialmente la venuta de' 2
prencipi. Che l'autorità de' concilii generali fu sempre grandissima,
presedendo in loro lo Spirito Santo, et i loro decreti sono stimati non umani,
ma divini; che di ciò è stato lasciato essempio dagl'apostoli e
da' padri sussequenti, poiché per mezzo de' concilii sono stati dannati tutti
gl'eretici e riformata la vita e costumi de' sacerdoti e del popolo e
tranquillata la Chiesa discordante. Onde essendo congregati al presente per far
altretanto, convien svegliarsi per ricuperare le pecore uscite dall'ovile del
Signore e custodir quelle che per ancora non sono sviate; nel che non si tratta
della salute di quelle solamente, ma della propria, dovendone render conto alla
Maestà divina, dalla quale, facendo il debito, s'ha d'aspettar mercede,
oltre che sarà attribuito a gran lode a quel concilio da tutta la
posterità, se ben a questo non si debbe mirare, ma guardar solamente il
proprio debito e la carità verso la Chiesa, la qual afflitta e lacerata
e privata di tanti carissimi figliuoli alza le mani a Dio et a loro per
ricuperargli. Pertanto voglino trattar con ogni mansuetudine e come è
degno d'un tanto consesso le cose conciliari senza contenzione, ma con perfetta
carità, e consenso d'animi, raccordandosi d'aver spettatore e giudice
Dio.
Finita
l'essortazione, dal vescovo celebrante fu letto il decreto; la sostanza del
quale fu: che la santa sinodo, la quale nella passata sessione aveva
determinato caminar inanzi, in questa d'oggi, avendo differito farlo sin ora
per l'assenza della nazione germanica e per poca frequenza de' padri,
rallegrandosi per la venuta de' 2 prencipi elettori, sperando che molti altri
dell'istessa nazione e delle altre al loro essempio siano per affrettar la
venuta, differisce la sessione per 40 giorni, cioè sino a' 11 ottobre, e
proseguendo il concilio nello stato in che si ritrova, avendo trattato
già de 7 sacramenti, del battesmo e confermazione, ordina di trattar
dell'eucaristia, e, quanto alla riforma, delle cose che facilitano la
residenza. Poi dal secretario fu letto il procuratorio imperiale e dal conte di
Montfort parlato, con dire che Cesare, dopo impetrata la redozzione del
concilio in Trento, non aveva cessato di far opera che i prelati delli Stati
suoi vi si trasferissero: il che dimostra la presenza degl'elettori e la
frequenza de' padri; ma per maggior testimonio del suo animo aveva mandato don
Francesco del regno di Spagna et un altro delli Stati patrimoniali, e di
Germania sé, quantonque indegno, pregando d'esser per tale ricevuto. Rispose
Giovanni Battista Castello, promotore, per nome del concilio, aver sentito il
mandato di Cesare con piacere, avendo da quello e dalla qualità de'
procuratori constituiti concepito quanto si può promettere; onde spera
aiuto da loro et admette quanto può il mandato cesareo. Fu parimente
letto il procuratorio del re de' Romani in persona di Paolo Gregoriani, vescovo
di Zagabria, e Federico Nausea, vescovo di Vienna, e parlò questo
secondo, e gli fu risposto come a quelli dell'imperatore.
[Amiot si presenta pel re di Francia. Dopo
longa contesa con gli spagnuoli, le lettere del re sono lette]
Dopo di
questo comparve Giacomo Amioto, abbate di Belosana, per nome del re di Francia,
con lettere di quella Maestà; le quali presentò al legato,
ricercando che fossero lette et udita la sua credenza. Il legato, ricevutele,
le diede al secretario da leggere. La soprascrizzione era: «Sanctissimis in
Christo patribus conventus tridentini», la qual letta, il vescovo d'Orense e
dopo lui gli altri spagnuoli dissero ad alta voce quelle lettere non esser
inviate a loro, che erano concilio generale legitimo, e non convento, che
però non fossero lette né aperte nella publica sessione, ma se il messo
voleva dir alcuna cosa andasse a casa. Molto vi fu che dire sopra il
significato della parola: «conventus», persistendo i spagnuoli che fosse ad
ingiuria; tanto che il Magontino fu costretto dirgli, se non volevano ricever
una lettera del re di Francia che gli chiamava «sanctissimus conventus», come
averebbono ascoltati i protestanti che gli chiamavano «conventus malignantium»?
Ma seguendo tuttavia i prelati spagnuoli, piú di tutti gli altri tumultuando,
il legato si ritirò co' noncii e con gl'ambasciatori dell'imperatore in
sagrestia e sopra questo longamente disputarono. Finalmente, ritornati al luogo
loro, fecero dir al promotore che la santa sinodo risolve di legger le lettere
senza pregiudicio, stimando che la dizzione conventus non s'intenda in
mala parte, che altrimente protesta di nullità. Fu adonque aperta e
letta la lettera del re, la qual era de' 13 agosto, e diceva in sostanza:
essergli parso conveniente all'osservanza de' maggiori verso la Chiesa
significar loro le cause, perché è stato costretto a non mandar alcun
vescovo al convento da Giulio convocato con nome di publico concilio, essendo
certo che essi padri sono alieni dal condannar il fatto d'alcuno prima che
intenderlo e che, intese le cose da lui operate, le commendariano; che era
stato costretto per servar l'onor suo perseverare nella deliberazione presa di
proteger il duca di Parma, dalla qual deliberazione non ricuserebbe partirsi,
quando lo comportasse la giustizia et equità; che a loro scrive come
arbitri onorarii, pregandogli a ricever le lettere non come da adversario o
persona non conosciuta, ma come da primo e principal figlio della Chiesa, per
eredità de' maggiori, quali promette sempre imitare e, mentre propulsa
le ingiurie, non depor la carità della Chiesa e ricever sempre quello
che da lei sarà statuito, purché sia servato il debito modo nel far i
decreti. Recitate le lettere, l'abbate lesse una protestazione contenente
narrazione della protesta fatta da Termes in Roma, dicendo che il re, dopo
presa la difesa di Parma, vedendo che le cose lodevoli da lui fatte erano
riprese, usò gran cura acciò Paolo Termes, suo oratore, del tutto
dasse conto al pontefice et al collegio de' cardinali per levargli ogni
sinistra opinione, mostrando che l'aver preso la protezzione del duca fu
effetto d'animo pio, umano e regio, nel che niente d'artificio o di proprio
commodo, ma il solo rispetto della Chiesa interveniva; e si mostrava per le
proposte d'accordo, che ad altro non miravano se non che quella città
non fosse rubata alla Chiesa et Italia si conservasse in pace e libertà;
e se il papa riputava questo causa da metter tutta Europa in guerra, ne sentiva
dispiacere, ma non poteva esser ad esso imputato, avendo non solo accettato, ma
offerto anco tutte le condizioni oneste et opportune. Né meno gli poteva la
dissoluzione del concilio convocato esser ascritta, pregando il papa a
considerar i mali che dalla guerra seguirebbono e con la pace prevenirgli. Al
che non volendo la Santità Sua attendere, anzi amando piú tosto
l'incendio d'Europa e l'impedimento del concilio, con dar anco sospetto che
fosse convocato non per utilità della Chiesa, ma per interessi privati,
escludendo da quello un re Cristianissimo, Sua Maestà non aveva potuto
far di non protestar a lui, et insieme al collegio che non poteva mandar i suoi
vescovi a Trento, dove l'accesso non era libero e sicuro, e che non poteva
stimar concilio generale della Chiesa, ma privato, quello dal quale egli era
escluso, e che né egli, né il popolo o prelati di Francia potevano restar
obligati a' decreti di quello. Anzi protestava appresso di voler venir a'
rimedii usati da suoi antecessori in simil occorrenze, non per levar
l'osservanzia debita alla Sede apostolica, ma riservandola a tempi migliori,
quando fossero deposte le arme contra lui prese con poca onestà,
ricchiedendo dalla Santità Sua che quella protesta fosse registrata, e
datagliene copia da poter usare. Le qual cose tutte, già protestate in
Roma, voleva che parimente fossero protestate in Trento con la medesima
instanza e fossero registrate negl'atti di quell'adunanza e fattone publico
istromento per potersene valer a tempo e luogo.
Letta la
protestazione, il promotore, avendo parlato il presidente, rispose in sostanza:
alla santa sinodo esser grata la modestia usata dal re nella sua lettera; che
non accetta la persona dell'abbate, se non in quanto sia legitima, ma gli
intima d'esser nel medesimo luogo a 11 d'ottobre per ricever la risposta che
farà alle lettere regie, e proibisce a' notari di poter far istromento
della presente azzione, salvo che giontamente col secretario del concilio. Né
restando altro che fare, fu finita la sessione. Dimandò poi l'abbate
documento dell'azzione, ma non lo puoté ottenere.
Quando da
Termes fu protestato in Roma, quantonque quell'atto non passasse a notizia de
molti, fu creduto che il pontefice dovesse differir il concilio, il quale
celebrato, repugnando una nazione tanto principale, non poteva se non partorir
nuove divisioni. Il pontefice in questo ingannò il mondo, non per
desiderio di far concilio, ma non volendo nella dissoluzione metter del suo,
risoluto che se si fosse separato senza di lui, averebbe con bocca aperta
risposto a chi l'avesse di nuovo ricchiesto, d'aver fatto la parte sua e non
voler saperne altro. Ma la protestazione fatta in Trento, in luogo cosí
conspicuo, si publicò immediate per tutto con ogni particolare e porse
materia de raggionamenti. Gl'imperiali l'avevano per una vanità, dicendo
riputarsi sempre legitimo l'atto della maggior parte dell'università,
quando la minor chiamata non ha voluto o potuto intervenire; che al concilio
tutti sono chiamati et i francesi averebbono anco potuto andar senza passar per
le terre del papa; ma quando non, la sua assenza non derogar al concilio,
perché non sono sprezzati, anzi invitati. Si diceva in contrario che non era
invitare il chiamare in parole et escludere in fatti; e quanto alle terre del
papa, potersi andar a Trento di Francia senza di là passare, ma non
potersi senza transitare per quelle dell'imperatore; e la maggior parte allora
aver forse l'intiera autorità, non potendo la minor comparire, quando
taccia presupponendosi consenziente, e, se non vuol, avendosi per contumace. Ma
se protesta, vuol il luogo suo, e massime, quando l'impedimento viene da chi la
chiama, non poter esser valida l'azzione in assenza sua.
E li
conseglieri del parlamento di Parigi dicevano anco qualche cosa di piú:
cioè esser vero che si trasferisce l'autorità di tutta
l'università nella maggior parte, quando la causa è commune di
tutti e niente è de' particolari; ma quando il tutto è di tutti e
ciascuno ha la sua parte, allora è necessario l'assenso di ciascuno et
prohibentis conditio potior, e senza il voto degli assenti quelli non
possono esser obligati. Di questo genere esser le radunanze ecclesiastiche e
sia quanto si vuol numeroso un concilio, quelle chiese che non sono intervenute
non esser obligate, se non gli par di riceverlo. Cosí aver sempre servato
l'antichità, che finiti li concilii si mandassero per le chiese non
intervenute ad esser confermati, altrimente in quelle non avevano vigore. Il
che leggendo Ilario, Atanasio, Teodoreto e Vittorino, che di questo particolare
trattano, ogni uno vederà chiaro. Et occorreva alle volte che in qualche
chiesa era ricevuta parte de' canoni, tralasciati gl'altri, secondo che
giudicava ciascuna convenire alle necessità, costumi et usi proprii. E
san Gregorio medesimo cosí testifica che la Chiesa romana non ricevette i
canoni del constantinopolitano secondo e dell'efesino primo.
Gli uomini
prudenti, senza considerar le sottilità, dicevano che il re a quel
concilio aveva dato una piaga insanabile, poiché non avendo altro fondamento
che la carità cristiana e l'assistenza dello Spirito Santo, in nissun
tempo sarebbe stato creduto che questo fosse intervenuto in una redozzione,
contra la quale un re Cristianissimo e persecutor di tutte le sette, con
l'aderenza d'un regno niente macchiato nella religione, avesse protestato in
quella forma. Et aggiongevano la medesima esperienza per comprobazione: che i
presidenti si ritirassero a consultare con gli ambasciatori dell'imperatore
dicevano mostrare chi guidasse il concilio. E quello che piú importa, che,
fatta la consulta tra essi cinque, e non communicata con altri, il promotor
dicesse: «La santa sinodo riceve le lettere». E quale era quella santa sinodo?
E similmente che letta l'esposizione dell'abbate, fosse data risposta per il
nome medesimo solamente deliberata da' presidenti. Né potersi levar la
difficoltà dicendo che era cosa di non grand'importanza: prima, perché
sarà difficile sostentare che non sia importantissima materia dove si
tratta pericolo di divisione nella Chiesa; poi, che sia come si voglia, nissun
può arrogarsi di dicchiarare che importi e che non, salvo colui che
è superiore, e quella esser una demostrazione che le cose erano a punto
come il papa dice nella bolla et i presidenti nel sermone letto, cioè
che essi erano per indrizzar il concilio: e veramente l'indrizzavano.
[Il re publica un manifesto contra 'l papa e
fa un editto contra i luterani]
Diede iterata
occasione a' medesimi raggionamenti l'aviso che il re licenziò il noncio
del pontefice e publicò un manifesto, quale in quei giorni posto alla
stampa fu per tutto divulgato, dove longamente espone le cause perché prese la
protezzione di Parma, incolpa il papa della guerra intrapresa, l'attribuisce
all'arteficio, acciò il concilio non si tenesse; concludendo in fine non
esser cosa giusta che fossero somministrati danari, per far guerra contra di
lui, del suo regno, dal quale è cavata somma grande ordinariamente per
vacanza, bolle, grazie, dispense et ispedizzioni; e pertanto col conseglio de'
suoi prencipi proibiva d'ispedir corrieri a Roma e risponder per via di banco
danari o altri ori et argenti non coniati per materie beneficiali o altre grazie
e dispense, sotto pena di confiscazione cosí agl'ecclesiastici, come a'
secolari, et a questi, oltra ciò, d'esser puniti corporalmente;
applicando a' denunciatori la terza parte della confiscazione. Il qual
manifesto fu verificato in parlamento con proposta del procurator generale del
re, nella quale diceva che non era cosa nuova, ma usata da Carlo VI, Luis XI e
Luis XII e conforme alla legge commune, che danari non siano portati a' nimici,
e che sarebbe cosa troppo dura che con danari di Francia fosse fatta guerra al
re, et esser meglio per i sudditi del regno conservar i soldi proprii e non
curarsi di dispense, le quali non sono bastanti a sicurar la conscienza, né
altro sono che un colore agli occhi degl'uomini, quale appresso Dio non
può occultar la verità.
Non potevano
sopportar né a Roma, né a Trento che il re protestasse contra il papa e volesse
anco fargli guerra, e tuttavia dicesse che conservava la medesima riverenza
verso la Sede apostolica, non essendo la Sede apostolica altro che il papa. Al che
i francesi rispondevano che l'antichità non ebbe questa opinione: anzi
Vittor III, che fu pur, tra i papi, di quelli che molto si assonsero, disse che
la Sede apostolica era sua signora. L'istesso fu detto inanzi lui da Steffano
IV e da' piú vecchi Vitaliano e Costantino. Appar chiaro che per Sede
apostolica viene intesa la Chiesa romana; altrimente quando fosse una stessa
cosa col papa, anco gli errori e difetti del papa sarebbono della Sede
apostolica.
Il re di
Francia, temendo che per la sua dissensione col pontefice i desiderosi di
mutazione di religione non facessero qualche novità che partorisse
sedizione, overo egli non fosse posto in concetto cattivo del popolo, come che
avesse animo alieno dalla catolica, e forse anco per aprir una porta di potersi
conciliare con Roma, fece un severissimo editto contra i luterani, confermando
tutti gli altri da lui publicati per inanzi et aggiongendo maggior pene e piú
modi di scoprir i colpevoli e premii a' denonciatori.
L'imperatore,
considerando che il re di Francia, per il numero de' cardinali francesi et
altri dependenti da quella corona, non era di minor poter di lui nel collegio,
et essendovi gionta la parte de' Farnesi lo superava di gran longa, quantonque
avesse dalla sua il pontefice, mandò a Roma don Giovanni Manriquez a
persuader il pontefice di crear nuovi cardinali per avantaggiare overo
pareggiare il numero de' francesi. Al che il pontefice inclinava, ma vedeva
però la difficoltà che vi era in un pontificato nuovo et essausto
et in tempo de sollevamenti, quando è difficile aver il consenso di
tutti i cardinali, et il creargli senza il consenso esser pericoloso. Stava
ambiguo se era meglio farne molti in una volta, o pura poco a poco. A questo
secondo modo gli pareva che piú facilmente averebbe ottenuto il consenso et i
confidenti sarebbono restati in speranza, e che ad una numerosa promozione si
sarebbono maggiormente opposti i cardinali e gl'esclusi sarebbono disperati.
Restava anco in ambiguità se doveva creare alcuno de' prelati del
concilio. A questo lo persuadeva che molti ve n'erano benemeriti e che
bisognava tener conto de' tre elettori, e massime del Magontino che vi pensava.
Dall'altro canto il mandar al concilio capelli rossi gli pareva cosa invidiosa.
Risolse in se stesso non aspettare il Natale, quando tutti vengono fuori con la
sua pretensione et i banchi sono pieni di scommesse, ma un giorno
sprovistamente venir all'essecuzione, se ben poi non trovò tempo
opportuno di creargli se non al Natale.
[Congregazione a Trento, dove sono proposti gli
articoli dell'eucaristia]
Ma ritornando
a Trento, il 2 settembre, che seguí la sessione, fu fatta la congregazione
generale, et in quella deputati i padri a formar gli articoli dell'eucaristia
per dar a' teologi e per raccogliere gli abusi introdotti in quella materia.
Dopo si raggionò della riforma, la qual dovendo esser per levar le cause
di non riseder a' vescovi, molte ne furono commemorate, parte per inanzi
proposte in Trento et in Bologna, e parte allora di nuovo. Finalmente si
fermarono su la giurisdizzione, dicendo che si ritrovassero i vescovi afatto
privati di quella, parte con le avocazioni di cause, parte per appellazione, e
finalmente per le essenzioni; anzi che piú frequentemente da' sudditi era
essercitata la giurisdizzione sopra e contra di loro, o per speciale
commissione da Roma, o per virtú di conservatorie, che da loro sopra li
sudditi: e sopra questa materia furono eletti padri che dovessero formar gli
articoli. Il legato e presidenti, attendendo l'instruzzione avuta dal pontefice
d'evitar le pericolose contenzioni tra i teologi e le dispute loro
inintelligibili, con quali si essacerbavano, et anco le confusioni nel dire,
diedero fuori gl'articoli formati per dover principiar a trattare sopra di
quelli il martedí agli 8, dopo il desinare, e vi aggionsero il modo et ordine
da tenersi nelle congregazioni molto limitato, che gli necessitava a parlar
sobriamente. Gli articoli furono 10, tratti dalla dottrina de' zuingliani e de'
luterani.
1 Che
nell'eucaristia non è veramente il corpo e sangue, né la divinità
di Cristo, ma solo come in segno.
2 Che Cristo
non è dato a mangiare sacramentalmente, ma solo spiritualmente e per
fede.
3 Che
nell'eucaristia vi è il sangue e corpo di Cristo, ma insieme con la
sostanza del pane e del vino, sí che non è transubstanziazione, ma
unione ipostatica dell'umanità e delle sostanzie del pane e vino, in
maniera che è vero dire: questo pan è il corpo di Cristo e questo
vino è il sangue di Cristo.
4 Che
l'eucaristia è instituita per sola remissione de' peccati.
5 Che Cristo
non si debbe adorar nell'eucaristia, né onrar con feste, né portar in
processione, né ad infermi, e che gl'adoratori sono veri idolatri.
6 Che
l'eucaristia non debbe esser salvata, ma consummata e distribuita immediate, e
chi altrimente fa, abusa questo sacramento, e che non è lecito ad alcuno
communicar se stesso.
7 Che nelle
particole che avanzano dopo la communione non resta il corpo del Signore, ma
solo mentre si riceve, e non inanzi, né dopo.
8 Che
è de iure divino communicar il popolo et i fanciulli ancora con
l'una e l'altra specie, e che peccano quelli che constringono il popolo ad
usarne una sola.
9 Che tanto
non si contiene sotto una, quanto sotto tutte due, né tanto riceve chi
communica con una, quanto con tutte due.
10 Che la
sola fede è sufficiente preparazione per ricever l'eucaristia, né la
confessione è necessaria, ma libera, specialmente a' dotti, né gl'uomini
sono tenuti communicare nella Pasca.
Dopo questi
articoli era aggionto un precetto in questa forma: che i teologi debbino
confermar il parer loro con la Sacra Scrittura, tradizioni degli apostoli,
sacri et approbati concilii e con le constituzioni et autorità de' santi
padri; debbino usar brevità e fuggire le questioni superflue et inutili
e le contenzioni proterve; dovendo esser questo l'ordine di parlar tra loro:
che prima dicano li mandati dal sommo pontefice, dopoi quelli dell'imperatore,
in terzo luogo i teologi secolari, secondo l'ordine delle promozioni loro, et
in fine li regolari, secondo la precedenza de' loro ordini. Et il legato et i
presidenti per l'autorità apostolica concessa gli danno facoltà
et autorità di tener e legger tutti i libri proibiti a' teologi che
doveranno parlare, ad effetto di trovar la verità e confutar et impugnar
le opinioni false. Questa ordinazione non fu da' teologi italiani veduta con
buon occhio: dicevano che era una novità et un danare la teologia
scolastica, la quale in tutte le difficoltà si valeva della raggione; e
perché non era lecito che si trattasse come san Tomaso, san Bonaventura et
altri famosi? L'altra dottrina, che si dice positiva e sta in raccoglier i
detti della Scrittura e padri, esser una sola facoltà di memoria, overo
fatica di scrivere, et esser vecchia, ma conosciuta insufficiente e poco utile
da' dottori, che da 350 anni in qua hanno difesa la Chiesa; che questa era un
darla vinta a' luterani, perché quando si tratterà di varia lezzione e
di memoria, essi sempre supereranno per la cognizione delle lingue e varia
lezzione d'autori, alle qual cose non può attendere uno che vogli
diventar buono teologo, al qual è necessario essercitar l'ingegno e
farsi atto a ponderar le cose, e non a numerarle. Si dolevano che questo anco
fosse un avergognargli appresso i teologi tedeschi, perché essi, soliti
contender co' luterani, s'erano essercitati in quel genere di lettere che in
Italia non era introdotto. Che quando s'avesse a parlar per vera teologia,
s'averebbe veduto che niente sapevano; ma i presidenti aver voluto, per
compiacer a loro, far questa vergogna alla nazione italiana; e se ben alcuni di
loro ne fecero querimonia, poco giovò, perché all'universale de' padri
piaceva piú sentir parlar in quel modo che intendevano, che con termini
astrusi, come fecero nella materia della giustificazione e nelle altre
già trattate. Certo è che l'ordinazione serví a facilitar
l'espedizione.
[Censure de' detti articoli]
Furono in
diverse congregazioni detti i pareri, tutti conformi, quanto al primo articolo,
che dovesse esser condannato per eretico, come altre volte anco era stato
fatto. Nel secondo furono 3 opinioni: alcuni dissero che dovesse esser
tralasciato, perché nissun eretico nega la communione sacramentale; altri
l'avevano solo per sospetto, et alcuni averebbono voluto concepirlo con parole
piú chiare. Quanto al terzo, fu commune opinione che fosse eretico, ma non
esser opportuno condannarlo, né parlarne, perché fu opinione inventata da
Roberto Tuiciense già 400 e piú anni e non piú seguita da alcuno, onde
il parlarne averebbe piú tosto, contra il precetto del savio, commosso il male che
stava ben quieto. Aggiongevano esser congregato il concilio contra le eresie
moderne e però non doversi travagliare sopra le antiche. Sopra il quarto
articolo furono diversi pareri; dicevano alcuni che, levato quell'aggettivo
«sola», era catolica sentenzia il dire che l'eucaristia è in remissione
de' peccati, e che l'aggionta dell'aggettivo «sola» non era posta da alcuno
degli eretici; perilché riputavano che si dovesse tralasciarlo. Altri in
contrario dicevano che egli fosse eretico, ancoraché si levasse il termine
«sola», imperoché il sacramento dell'eucaristia non è instituito in
remissione de' peccati. Nel quinto convennero tutti, anzi molte amplificazioni
furono usate, persuadendo la venerazione e molti nuovi modi furono anco
proposti per ampliarla, secondo che la devozione di ciascuno aveva escogitato.
Nel sesto parimente convennero tutti, fuorché nell'ultima parte, cioè
non esser lecito ad alcuno communicar se stesso. Dicevano alcuni che,
intendendosi de' laici, era catolico, e però conveniva esprimer che si
condanna solo quanto a sacerdoti. Altri dicevano che manco quanto a questo
conveniva averla per eretica, poiché nel sesto concilio, nel capo 101, non era
stato condannato. Altri volevano che si escludesse anco quanto a' laici il caso
di necessità. Nel settimo tutti si consummavano in invettive contra li
moderni protestanti, come inventori d'un'opinione empia e non mai piú udita
nella Chiesa. Sopra l'ottavo furono li discorsi di tutti longhissimi, se ben
uniformi. Le principal raggioni loro di condannarlo erano perché al 24 di san
Luca il nostro Signore a' doi discepoli benedisse solo il pane, e perché
nell'orazione dominicale si domanda il pan quotidiano, e perché negl'Atti
degl'apostoli al secondo capo et al ventesimo del pane solo si parla. E parimente
al ventisettesimo san Paolo nella nave non benedisse se non il solo pane.
S'adducevano autorità de' dottori antichi e qualche essempii de padri:
ma il fondamento principale era sopra il concilio di Costanza e sopra la
consuetudine della Chiesa. Si fondarono anco sopra diverse figure del
Testamento Vecchio et a questo senso tiravano anco molte profezie. E quanto a'
fanciulli, tutti concordavano che da qualche particolare fosse stato ciò
in altri tempi fatto, ma da tutti gli altri conosciuto per errore. Nel articolo
nono, la parte prima, che tanto non sia contenuto sotto una specie, quanto
sotto tutte due, da' teologi tedeschi era stimata per eretica; gl'italiani
dicevano che conveniva distinguerla prima che condannarla. Perché se era intesa
quanto alla virtú della consecrazione, esser cosa chiara che sotto la specie
del pane vi è il solo corpo, e sotto la specie del vino vi è il
solo sangue; ma per consequenza, che i teologi dicono «concomitantia», sotto
quella del pane vi è anco il sangue, l'anima e la divinità, e
sotto quella del vino vi è il corpo e le altre cose: perilché non
è da condannare in termini cosí generali. Ma quanto alla seconda,
cioè che tanto si riceva con una quanto con due, vi fu disparere; perché
molti sentivano che, se ben non si riceveva piú del sacramento, si riceveva
però piú grazia; onde ci voleva la dicchiarazione. Sopra il decimo
ancora, quanto alla prima parte della fede, volevano certi che si esprimesse
della fede morta, perché della fede viva non è dubio esser sufficiente.
Quanto alla necessità della confessione, i dominicani misero in
considerazione che molti catolici dottissimi e santissimi avevano tenuto quella
opinione, il condannar la quale sarebbe condannargli loro. Altri, per
temperamento, proponevano che non si condannasse come eretica, ma come
perniciosa. Volevano anco alcuni che se vi aggiongesse la condizione: essendovi
commodità di confessore. L'ultima parte toccante alla communione della
Pasca, non essendo quella commandata per legge divina, ma di precetto solo della
Chiesa, la commune opinione era che non si condannasse per eretica, essendo
cosa inaudita che si condanni di eresia, per non approvare un precetto umano
particolare. Molti teologi anco proposero un altro articolo, tratto da' scritti
di Lutero, che era necessario dannare: e questo era che, quantonque fosse
necessario recitar le parole di Cristo, nondimeno quelle non sono causa della
presenzia di Cristo nel sacramento, ma la causa è la fede di chi lo
riceve.
[Si raccolgono gli anatematismi, ed è
risoluto di aggiungere i capi di dottrina]
Dopoi che
ebbero tutti i teologi parlato, da' loro pareri raccolsero i padri deputati
sette anatematismi, e proposti quelli nella congregazione generale, inanzi ad
ogni altra cosa fu messo a campo che non era ben passar quella materia con soli
anatematismi; che questo era non un insegnare, ma solo un confutare; che non
avevano cosí fatto i concilii antichi, quali sempre avevano decchiarato la
sentenzia catolica e poi dannata la contraria: l'istesso era ben riuscito a
questo concilio nella materia della giustificazione, e se ben fu costretto
nella sessione de' sacramenti mutar proposito per urgenti rispetti, esser piú
da imitare quello che allora fu fatto con raggione, che quello che dopo fu
mutato per necessità. Questa opinione era fomentata da' teologi
italiani, i quali vedevano esser una via di ricuperar la riputazione perduta:
imperoché sí come volevano i tedeschi e fiaminghi improvar le conclusioni con
autorità, cosí per decchiararle e trovar le sue cause esservi bisogno
della teologia scolastica, nella quale essi valevano. Prevalse questa opinione
e si diede ordine che fossero formati i capi di dottrina e deputati padri per
esseguirlo. Furono ridotti i capi a 8: della real presenzia, dell'instituzione,
della eccellenzia, della transubstanziazione, del culto, della preparazione per
ricever il sacramento, dell'uso del calice nella communione de' laici e della
communione de' putti. Fu ancora proposto di far raccolta degl'abusi occorrenti
e soggionger i rimedii. Poi passarono i padri in quella congregazione et in
alcune delle seguenti a dir il parer loro sopra li 7 anatematismi, nel che non
fu detta cosa rilevante, se non che nel condannare quei che non confessano la
real presenza del corpo del Signore, molti desideravano (cosí erano le loro
parole) che il canone fosse ingrassato e fatto piú pregnante con esplicar che
nell'eucaristia vi è il corpo di Giesú Cristo, quello stesso che
è nato della Vergine, che ha patito nella croce e fu sepolto, che risuscitò,
ascese in cielo, siede alla destra di Dio e verrà al giudicio. E la
maggior parte di loro raccordavano che vi mancava un capo molto importante,
cioè di esplicare che il ministro di questo sacramento è il
sacerdote legitimamente ordinato; e questo perché Lutero et i seguaci suoi
spesso dicono che lo possi far ogni cristiano, eziandio una donna.
[Gli ambasciatori cesarei s'interpongono appo
i presidenti per richieder salvocondotto del concilio e far soprassedere il
trattar le materie]
Ma il conte
di Montfort, vedendo trattarsi di materia tanto controversa, e massime della
communione del calice, che era la piú palpabile e popolare e da tutti intesa,
giudicò che se quella fosse determinata, non s'averebbe potuto indur i
protestanti a venir al concilio e tutta l'opera sarebbe riuscita vana; e
communicato il pensiero suo co' colleghi e con gl'ambasciatori di Ferdinando,
andarono tutti insieme a' presidenti, e fatta prima longa narrazione delle
fatiche fatte da Cesare et in guerra e col negozio per far sottometter i protestanti
al concilio, il che non s'averebbe potuto effettuare senza che vi fossero
intervenuti, mostrò che a questo bisognava principalmente attendere; e
perciò Cesare aveva dato loro salvocondotto. Ma di tanto non si
contentavano, allegando il concilio di Costanza aver decretato, et in fatto
anco esseguito, che il concilio non sia obligato per salvocondotto dato per
qual si voglia, onde ricercavano uno della medesima sinodo, quale da Cesare gli
era stato promesso e dato carico ad essi ambasciatori d'ottenerlo dalla sinodo.
Al che avendo il legato dato risposta con molte parole di complimento, ma
rimessosi alla sessione che si farebbe, e questo per aver tempo di darne conto
a Roma, soggionse il conte per la medesima causa non gli parer opportuno che
inanzi la loro venuta si trattassero le materie controverse dell'eucaristia;
che non mancavano le cose della riforma da trattare overo altre in quali non vi
fosse differenza. Rispose il legato che già era deliberato di trattare
dell'eucaristia, né s'averebbe potuto far altro, essendo per inanzi concluso
che del pari andassero in ogni sessione i decreti della fede e della riforma, e
la materia dell'eucaristia seguire necessariamente dopo quella della
confermazione, che ultima fu trattata, prima che andar a Bologna; ma però
quella era piú tosto controversa co' svizzeri zuingliani che co' protestanti,
che non erano sacramentarii come quelli. Saltò il conte alla communione
del calice e mostrò che, quando fosse deciso quel punto contra loro, da
tutto il popolo inteso e dove fa maggior insistenza, era impossibile trattar
piú di ridurgli. Che anco Cesare nel decreto dell'interreligione fu costretto
accommodarsi in questo; però essi ancora volessero differirlo alla
venuta de' protestanti. Il legato non repugnò, ma la passò con parole
generali et inconcludenti, per intender prima sopra di questo il voler del
pontefice, al quale diede conto di tutte le cose trattate da' teologi e delli
anatematismi formati, et anco di quello che si era divisato in materia di
riforma, di che di sotto si dirà: e poi avisò le due ricchieste
degl'ambasciatori imperiali, ricercando risposta.
Il pontefice
mise le cose in consulta: quanto al salvocondotto trovò varietà
d'opinioni. Non volevano alcuni che si dasse, allegando che mai era stato
fatto, se non dal basileense, che non era bene in cosa alcuna imitare, e che
era gran pregiudicio obligarsi a' ribelli; e poi, quando vi fosse stata
speranza di guadagnargli, tutto s'averebbe potuto comportare, ma niente
esservene; anzi piú tosto, in luogo di quella, potersi con raggione temer che
qualcuno fosse sovvertito, come è avvenuto a Vergerio e, se non in
tutto, almeno in qualche parte; dalla qual contagione prelati principalissimi
et obligatissimi alla Santa Sede non sono stati essenti. Dall'altra parte si
diceva che non per speranza di convertirgli, la qual era perduta a fatto, ma
per non lasciargli luogo di scusa, conveniva dargli ogni sodisfazzione; ma piú
perché l'imperatore averebbe per gl'interessi suoi fatto maggior instanza e
sarebbe stato necessario compiacerlo in quel tempo, quando, stante
l'alienazione del re di Francia, bisognava depender totalmente da lui: e quello
che si prevedeva dover fare per forza era meglio, prevenendo, farlo di
volontà; e quanto a' pregiudicii si poteva dar tal forma che fosse di
nissuna o di leggier obligazione: prima non descendendo a nominar protestanti,
ma in generale ecclesiastici e secolari della nazione germanica d'ogni
condizione, perché cosí, sotto le parole generali, si potrà dire che
sono compresi e si potrà anco difender che sia inteso de' soli catolici
e non di loro, allegando che per essi sarebbe stata necessaria una specifica et
espressa menzione; poi la sinodo concederà il salvocondotto quanto a
lei, e sarà riservata l'autorità del papa; e poi si potrà
deputar giudici sopra le colpe commesse e per non insospettirgli lasciar a loro
l'eletta: onde si ritenerebbe il vigor della disciplina e l'autorità di
punire, e non si mostrerà di cedere o rimettere cosa alcuna. Prevalse
questa opinione appresso al papa e fece secondo quella forma la minuta del
salvocondotto, e fece risponder al legato lodando la prudenza nelle risposte
date e risolvendo che il salvocondotto fosse concesso nella forma che gli
mandava e fosse differita la materia del calice ad effetto d'aspettargli, ma
non oltra 3 mesi o poco piú, non stando tra tanto oziosi, ma facendo una
sessione intermedia con trattar della penitenza, la qual non si differisce
oltra 40 giorni o poco piú. Gli avvertí anco che i canoni in materia
dell'eucaristia erano troppo pieni e che meglio sarebbe dividergli.
[In concilio nasce una contenzione sopra la
presenza di Cristo nell'eucaristia fra domenicani e francescani]
Fra tanto che
in Roma si consultava, in Trento si passò inanzi trattando i capi di
dottrina, nel che si caminò con la medesima facilità che per
inanzi nel discuter gli articoli; ma quando si venne ad esprimere il modo
dell'essistenza, cioè in che maniera Cristo sia nel sacramento, e la
transubstanziazione, cioè come di pane si faccia il corpo di Cristo e di
vino sangue, non si poté trattare senza contenzione tra le due scole,
dominicana e francescana; la quale fu di molta noia a' padri per la
sottilità e per il poco frutto, non sapendo essi medesimi esprimer il
proprio senso. Volevano insomma i dominicani che si dicesse non esser Cristo
nell'eucaristia perché da altro luogo, dove prima fosse, sia andato in quella,
ma perché la sostanza del pane sia convertita nel suo corpo, quello esser nel
luogo dove il pane era senza esservi andato; e perché tutta la sostanza del pane
si transmuta in tutta la sostanza del corpo, cioè la materia del pane
nella materia del corpo, e la forma nella forma, chiamarsi propriamente
transostanziazione, e però doversi tener doi modi di essere di Cristo
nostro Signore, ambidoi reali, veri e sostanziali: uno, il modo come è
in cielo, perché egli là su è salito partendo di terra, dove
prima conversava; l'altro, come è nel sacramento, nel quale si ritrova
per esser dove le sostanze del pane e del vino convertite in lui erano prima.
Il primo modo chiamarsi naturale, perché a tutti i corpi conviene; il secondo,
sí come è singolare, cosí non potersi esprimere con alcun nome
conveniente ad altri e non potersi chiamar sacramentale, che vorrebbe dire
esser non realmente, ma come in segno, non essendo altro sacramento che sacro
segno, eccetto se per sacramentale non si voglia intender un modo reale proprio
a questo sacramento solo e non agl'altri sacramenti. I francescani desideravano
che si dicesse un corpo, per la divina omnipotenza, poter esser veramente e
sostanzialmente in piú luoghi e, quando di nuovo acquista un luogo, esser in
quello perché ci va, non però con mutazione successiva, come quando
lascia il primo per acquistar il secondo, ma con una instantanea, per quale
acquista il secondo senza perder il primo; et aver Dio cosí ordinato che, dove
il corpo di Cristo sia, non vi resti la sostanza d'altra cosa, ma quella cessi
d'essere, non però annichilandosi, perché in vece sua succede quella di
Cristo, e per tanto veramente chiamarsi transostanziazione, non perché di
quella si faccia questa, come i dominicani dicono, ma perché a questa quella
succede. Il modo come Cristo è nel cielo e come è nel sacramento
non esser differenti quanto alla sostanza, ma solo per la quantità:
esser in cielo, occupando la magnitudine del corpo suo tanto spacio quanto ella
è; nel sacramento la magnitudine esservi sostanzialmente e senza
occupare. Imperò ambidue i modi esser veri, reali e sostanziali, e
quanto alla sostanza anco naturali; rispetto alla quantità l'esser in
cielo è naturale, l'esser nel sacramento miracoloso; differenti in
questo solo che in cielo la quantità si trova con effetto di
quantità, e nel sacramento ha condizione di sostanza.
Ambedue le
parti sposavano cosí la sentenza propria, che l'affermavano piana, chiara et
intelligibile a tutti, et all'altra parte opponevano infinità d'assordi
che seguirebbono dalla contraria. L'elettor di Colonia, che insieme con
Giovanni Gropero fu assiduo alle dispute per intender questa materia, in quello
che le parti l'una contra l'altra opponevano, dava raggione ad ambedue; in
quello che ciascuna affermava, averebbe desiderato (cosí diceva) qualche
probalità che cosí parlassero intendendo la materia, e non, come
mostravano di fare, per consuetudine et abito di scola. Furono formate diverse
minute, con esprimere questi misterii da ambedue le parti, et altre furono
composte, preso qualche cosa da ambedue. Nissuna fu di sodisfazzione, massime
al noncio Verona, il qual era principale in sopraintendere a questa materia.
Nella congregazione generale fu deliberato d'usar manco parole che possibile
fosse e far una espressione cosí universale, che potesse servir ad ambe le
parti et esser accommodata a' sensi di tutte due, e la cura fu data ad alcuni
padri e teologi con la sopraintendenza del noncio sudetto.
[Canoni contra gli abusi nella materia de'
sacramenti]
In fine della
congregazione si propose di raccogliere gli abusi in questa stessa materia co'
rimedii per estirpargli, e nelle seguenti congregazioni furono raccontati
molti: che il santissimo sacramento in alcune chiese particolari non è
conservato et in altre è tenuto con grand'indecenza; che quando è
portato per la strada, molti non s'ingenocchiano et altri non degnano manco
scoprirsi il capo; che in alcune chiese è tenuto per cosí longo spacio,
che vi nascono delle putredini; che nel ministrar la santa communione è
usata da alcuni parochi grand'indecenza, non avendo pur un panno che il
communicante tenga in mano: quello che piú importa, i communicanti non sanno
quello che ricevono, né hanno instruzzione alcuna della degnità, né del
frutto di questo sacramento; che alla communione sono admessi concubinarii,
concubine et altri enormi peccatori, e molti che non sanno il Pater noster,
né l'Ave Maria; che alla communione sono dimandati danari sotto nome
d'elemosina, e, peggio di tutto, in Roma vi è un'usanza che chi ha da
communicarsi tiene in mano una candela accesa con qualche danaro infisso
dentro, il qual con la candela, dopo la communione, resta al sacerdote, e chi
non porta la candela, non è admesso alla communione. Per rimedio di
parte di questi e, altri abusi furono formati cinque canoni con un bellissimo
proemio: ne' quali si statuiva che monstrandosi il sacramento nell'altare o
portandosi per la via, ogni uno debbi ingenocchiarsi e scoprirsi il capo; che
in ogni chiesa parochiale si debbe servar il sacramento e rinovarlo ogni 15
giorni, e far arder inanzi a lui giorno e notte una lampada; che sia portato
agl'infermi dal sacerdote in abito onorevole e sempre con lume; che i curati
insegnino a' suoi popoli la grazia che si riceve in questo sacramento et
esseguiscano contra loro le pene del capitolo Omnis utriusque sexus; che
gl'ordinarii debbino aver cura dell'essecuzione, castigando i trasgressori con
pene arbitrarie, oltra le statuite da Innocenzio III nel capitolo Statuimus,
e da Onorio III nel capitolo Sane.
[Trattasi di riforma della giurisdizzione
episcopale della quale la vera origine e gli abusi sopragiunti sono descritti]
Della riforma
fu trattato nel medesimo tempo che si disputava della fede, ma da altre
congregazioni nelle quali intervenivano canonisti; le qual trattazioni, per non
interromper la materia, ho portato qui tutt'insieme. E perché il proposito fu
di riformar la giurisdizzione episcopale, per intelligenza delle cose che si
narreranno in questa occasione et in molte altre seguenti, questo luogo ricerca
che si parli dell'origine sua e come venuta a tanta potenza sia resa a'
prencipi sospetta et a' popoli tremenda.
Avendo Cristo
ordinato agli apostoli la predicazione dell'Evangelo e ministerio de'
sacramenti, a loro, anco in persona di tutti i fedeli, lasciò questo
principal precetto d'amarsi l'un l'altro e rimettersi le ingiurie, incaricando
ciascuno d'intromettersi fra i dissidenti e componergli, e per supremo rimedio
dandone la cura al corpo della Chiesa, con promessa che sarebbe sciolto e
legato in cielo quello che sciogliesse e legasse in terra, e dal Padre sarebbe
conceduto quello che due dimanderanno di commun consenso. In questo
caritatevole officio di procurar sodisfazzione all'offeso e perdono
all'offensore si essercitò sempre la Chiesa primitiva. Et in consequenza
di questo san Paolo ordinò che i fratelli, avendo liti civili l'un
contra l'altro, non andassero a' tribunali degl'infedeli, ma fossero constituite
savie persone che giudicassero le differenze, e questo fu una specie di
giudicio civile, sí come quell'altro piú similitudine ha col criminale; ma
intanto differenti da' giudicii mondani che, sí come questi hanno l'essecuzione
per la potestà del giudice che costringe a sottoporsi, cosí quelli per
la sola volontà del reo a ricevergli, quale non volendo egli prestare,
il giudice ecclesiastico resta senza essecuzione, né altra forza ha se non che
è pregiudicio del divino, che seguirà, secondo l'omnipotente
beneplacito, o in questa vita o nella futura.
E veramente
il giudicio ecclesiastico meritava il nome di carità, poiché quella sola
induceva il reo a sottoporsi e la Chiesa a giudicarlo con tanta
sincerità del giudice et obedienza dell'errante, che né in quello poteva
aver luogo cattivo affetto, né querimonia in questo, e l'eccesso della
carità nel castigar faceva sentir maggior pena al correttore; sí che
nella Chiesa non si passava all'imposizione della pena senza gran pianto della
moltitudine e maggiore de piú principali; il che fu causa che il castigare
allora si chiamasse piangere. Cosí san Paolo reprendendo i corinzii di non aver
castigato l'incestuoso disse: «Voi non avete pianto per separar da voi un tal
trasgressore»; e nell'altra epistola: «Temo che, ritornato a voi, non sii per
trovarvi quali vi desidero, ma in contenzioni e tumulti, e che venuto io non
pianga molti di quelli che inanzi hanno peccato». Il giudicio della Chiesa
(come è necessario in ogni moltitudine) conveniva che fosse condotto da
uno che preseda e guidi l'azzione, proponga le materie e raccolga i partiti per
deliberare. Cura che, dovendosi alla persona piú principale e piú idonea, senza
difficoltà fu sempre del vescovo; e dove le chiese molto numerose erano,
le proposte e deliberazioni si facevano dal vescovo, prima nel collegio de'
preti e diaconi, che chiamavano presbiterio, e là si maturavano per
ricever poi l'ultima risoluzione nella general congregazione della chiesa.
Questa forma era ancora in piedi del 250, e dalle epistole di Cipriano si vede
chiaro, il quale nella materia de' sacrificati e libellatici scrive al
presbiterio che non pensava a far cosa senza il loro conseglio e consenso della
plebe; et al popolo scrive che, tornato, essaminerà le cause e meriti in
presenza loro e sotto il loro giudicio; et a quei preti che di proprio
capriccio ne avevano reconciliati alcuni, scrisse che renderanno conto alla
plebe.
La
bontà e carità de' vescovi faceva che il loro parer fu per il piú
seguito et a poco a poco fu causa che la Chiesa, raffreddata la carità e
poco curandosi del carico impostogli da Cristo, lasciò la cura al
vescovo, e l'ambizione, affetto assai sottile e che penetra in specie di virtú,
la fece prontamente abbracciare. Il colmo della mutazione fu cessate le
persecuzioni. Et allora i vescovi eressero come un tribunale, il quale divenne
frequentatissimo. Perché crebbero anco con le commodità temporali le
cause delle liti. Il giudicio, se ben non era come l'antico quanto alla forma
di deliberare il tutto col parer della Chiesa, restava però della stessa
sincerità. Onde Constantino, vedendo quanto era di frutto per terminar
le liti e che con l'autorità della religione erano scoperte le azzioni
capziose non penetrate da' giudici, fece legge che le sentenzie de' vescovi
fossero inappellabili e fossero esseguite da' giudici, e se in causa pendente
inanzi al giudicio secolare, in qualonque stato d'essa, qual si voglia delle
parti, eziandio repugnante l'altra, dimandasse il giudicio episcopale, gli
fosse immediate rimesso.
Qui
incomminciò il giudicio episcopale ad esser forense, avendo
l'essecuzione col ministerio del magistrato, et acquistar nome di
giurisdizzione episcopale, audienza episcopale et altri tali. Ampliò
ancora quella giurisdizzione Valente imperatore, che del 365 gli diede cura
sopra tutti i prezii delle cose vendibili. Questa negoziazione forense a' buoni
vescovi non piacque. Racconta Possidonio che, se ben Agostino vi intedeva alle
volte sino ad ora di desinare, alle volte sino a sera, era solito dire che era
un'angaria e che lo divertiva dalle cose proprie a lui; et esso stesso scrive
che era un lasciar le cose utili et attendere alle tumultuose e perplesse; che
san Paolo non lo prese per sé, come non conveniente a predicatore, ma volse che
fosse dato ad altri. Poi, incomminciando qualche vescovi ad abusar
l'autorità datagli dalla legge di Constantino, dopo 70 anni quella legge
fu da Arcadio et Onorio rivocata, e statuito che non potessero giudicare, se
non cause della religione e, nelle civili, se non intervenendo il consenso e
compromesso d'ambe le parti, e non altrimente, e dicchiarato che non
s'intendessero aver foro; la qual legge in Roma poco osservandosi per la gran
potestà del vescovo, Valentiniano, essendo in quella città del
452, la rinovò e fece metter in essecuzione. Ma poco dopo fu da seguenti
prencipi ritornata parte della potestà levata: tanto che Giustiniano gli
stabilí foro et audienza, e gli assegnò le cause della religione, i
delitti ecclesiastici de' chierici e diverse giurisdizzioni volontarie anco
sopra i laici. Per questi gradi la caritativa correzzione da Cristo instituita
degenerò in una dominazione e fu causa di far perder a' cristiani
l'antica riverenza et ubedienza. Si nega ben in parole che la giurisdizzione
ecclesiastica sia un dominio come quella del secolare, ma non si sa por tra
loro differenza reale. San Paolo ben vi statuí la differenza, mentre a Timoteo
scrisse et a Tito replicò che il vescovo non fosse cupido di guadagno,
né percotitore: al presente in contrario si fa pagar li processi, impreggionar
le persone, non altrimente di quello che al foro secolare si faccia.
Ma separate
le provincie occidentali e fatto d'Italia, Francia e Germania un imperio e di
Spagna un regno, in tutte quattro queste provincie i vescovi per il piú erano
assonti per conseglieri del prencipe, che fu, con la mistura de' carichi
spirituali e di cure temporali, cagione d'accrescer l'autorità del foro
episcopale in immenso. Non passarono 200 anni che pretesero assolutamente ogni
giudicio criminale e civile sopra i chierici et in diverse materie anco sopra i
laici, con pretesto che la causa sia ecclesiastica; et oltra questo genere ne
inventarono un altro, chiamato di foro misto, volendo che contra il secolare
possi procedere cosí il vescovo, come il magistrato, dando luogo alla
prevenzione con la quale per l'esquisita loro sollecitudine, non lasciando mai
luogo al secolare, s'appropriano tutti; e quelli che restano fuori di sí gran
numero, vengono in fine compresi da una regola universale stabilita da loro
come fondamento di fede, cioè, che ogni causa si devolva al foro
ecclesiastico, se il magistrato non vorrà o sarà negligente a far
giustizia. Ma se le pretensioni del clero fossero tra questi termini fermate,
lo stato delle republiche cristiane sarebbe tolerabile. I popoli e prencipi,
quando si vedessero arrivar a termini insopportabili, potrebbono con leggi et
ordinazioni ridur i giudicii a forma comportabile, come negl'antichi tempi al
bisogno si è fatto. Ma chi ha messo il cristianismo sotto il giogo, gli
ha in fine levato il modo di scuoterlo dal collo: imperoché dopo il 1050,
essendo già fatte proprie del foro episcopale tutte le cause de'
chierici e tante de' laici con titolo di spiritualità, e participate
quasi tutte le altre sotto nome di misto foro, e sopra postosi a' magistrati
secolari con pretesto di denegata giustizia, si passò a dire che quella
potestà di giudicare estesa a tante cause non l'aveva il vescovo, né per
concessione de' prencipi, né per connivenza loro, o per volontà de'
popoli, o per consuetudine introdotto, ma che era essenziale alla
degnità episcopale e datagli da Cristo.
E con tutto
che rimangano le leggi delli imperatori ne' codici di Teodosio e di
Giustiniano, ne' capitolari di Carlo Magno e Ludovico Pio, et altre de'
prencipi posteriori orientali et occidentali, che tutte apertamente mostrano
come, quando e da chi tal potestà è stata concessa, e tutte le
istorie, cosí ecclesiastiche, come mondane, concordino in narrare le medesime
concessioni e le consuetudini introdotte, aggiongendovi le raggioni e cause,
nondimeno una cosí notoria verità non è stata di tanto poter che
la sola affermazione contraria, senza prova alcuna, non abbia superato et i
dottori canonisti non l'abbino sostenuta sino al predicar per eretici quelli
che non sopportano esser trattati da ciechi; non fermandosi manco in questi
termini, ma aggiongendo che né il magistrato, né il prencipe medesimo
può in alcune di quelle cause, che il clero s'ha appropriato, intromettersi,
perché sono spirituali e delle cose spirituali i laici sono incapaci. Il lume
però della verità non fu cosí estinto, che in quei primi tempi
persone dotte e pie non s'opponessero a questa dottrina, mostrando esser false
ambedue le premesse di quel discorso, e la maggiore, cioè che i laici
sono incapaci di cose spirituali, esser assorda et empia, poiché essi sono
presi in adozzione dal Padre celeste, chiamati figli di Dio, fratelli di
Cristo, partecipi del regno celeste, fatti degni della grazia divina, del battesmo,
della communione della carne di Cristo. Che altre cose spirituali vi sono oltra
queste? E quando ben ve ne fossero, come chi partecipa di queste supreme si
doverà chiamar assolutamente con termini generali incapace delle cose
spirituali? Ma esser anco falsa la minore, che le cause appropriate a' giudicii
episcopali siano spirituali, poiché tutte sono de delitti o de contratti, che
considerate le qualità assegnate dalla Scrittura divina alle cose
spirituali, sono piú lontane da esser tali che la terra dal cielo. Ma
l'opposizione della parte migliore non ha potuto ottenere che la maggiore non
superasse, e cosí sopra la spiritual potestà data da Cristo alla Chiesa
di ligare e sciogliere, e sopra l'instituto di san Paolo di componer le liti
tra cristiani, senza andar al tribunal de infedeli, in molto tempo e per molti
gradi è stato fabricato un temporal tribunale piú risguardevole che mai
nel mondo fosse, e nel mezo di ciascun governo civile, instituitone un altro
independente dal publico, che mai chi scrisse de' governi averebbe saputo
imaginare che un tal stato di republica potesse sussistere. Tralascierò
di dire come le fatiche di tanti, oltra l'aver ottenuto il disegnato fine di
farsi un foro independente dal publico, ne abbino sortito un altro improveduto
di fabricar un imperio, essendo nata e con mirabil progresso radicata una nuova
opinione molto piú ardua, che tutto in un tratto dà al solo pontefice
romano quanto in 1300 anni è stato da tanti vescovi in tanti modi
admirabili acquistato, rimovendo dall'esser fondamento della giurisdizzione il
ligar e sciogliere e sostituendo il pascere, e con questo facendo che tutta la
giurisdizzione da Cristo sia data al solo papa nella persona di Pietro, quando
gli disse: «Pasci le mie pecorelle»; atteso che di ciò si parlerà
nella terza ridozzione del concilio, quando per questa opinione furono eccitati
i gran tumulti che allora si racconteranno. Ma da quel che al presente ho
narrato ogni un potrà da se stesso conoscere che rimedii erano
necessarii per dar forma tolerabile ad una materia passata in tante
corrozzioni, e comparargli con i proposti.
[In Trento vi sono riconosciuti alcuni
difetti, a' quali si applicano leggieri rimedii]
In Trento
furono conosciuti due difetti, cioè che dal canto de' superiori la
carità era convertita in dominazione, e dal canto degl'inferiori
l'obedienza voltata in querele e sutterfugii e querimonie, e si pensò
prima di proveder in qualche parte ad ambedue. Ma nel proseguir, quanto alla
prima, che è la fontana dove la seconda ha origine, non si venne se non
ad un rimedio essortatorio a' prelati di levar la dominazione e restituir la
carità; ma per quello che a' sudditi tocca, essendo fatta menzione di
molti sutterfugii usati per deludere la giustizia, furono pigliati tre capi solamente:
le appellazioni, le grazie assolutorie e le querele contra i giudici.
Delle
appellazioni parlò con molta dignità Giovanni Gropero, che in
quel concilio interveniva e per teologo e per iurisconsulto, dicendo che mentre
che il fervor della fede durò ne' petti de' cristiani, fu inaudita
l'appellazione; ma raffreddata la carità ne' giudici e dato luogo
agl'affetti, sottentrò nella Chiesa, per le stesse raggioni che
l'introdussero nel foro del secolo, cioè per sollevazione degl'oppressi;
e sí come i giudicii primi non erano del solo vescovo, ma di lui col concilio
de' suoi preti, cosí l'appellazione si devolveva non ad uno, ma ad un'altra
congregazione. Ma i vescovi, levate le sinodi, instituirono li fori et
ufficiali a guisa de' secolari. Né il male si fermò in questo grado,
anzi passò ad abusi maggiori che nel foro secolare, imperoché in quello
l'appellazione non si può interporre se non al superiore immediato: il
saltar alla prima al supremo non è lecito; né meno è permesso
negl'articoli della causa appellare da' decreti del giudice che chiamano
interlocutorii, ma è necessario aspettar il fine; dove
negl'ecclesiastici s'appella d'ogni atto, che fa le cause infinite, et
immediate al supremo, che porta le cause fuori delle regioni, con dispendii et
altri mali intolerabili. Questo egli diceva aver narrato per concluder che,
volendo riformar questa materia, la quale è tutta corrotta e non solo
impedisce la residenza, come nelle congregazioni da tanti valenti dottori e
padri era stato considerato, ma maggiormente perché corrompe tutta la
disciplina et è di gravame a' popoli, di spesa e di scandalo, conveniva
ridurla al suo principio, o quanto piú prossimo fosse possibile, mettendosi
inanzi gl'occhi un'idea perfetta et, a quella mirando, accostarsi quanto la corrozzione
della materia comporta. Che le religioni monacali ben instituite hanno proibito
ogn'appellazione, e questo è il rimedio vero. Chi non ha potuto gionger
tanto alto, le ha moderate, concedendole tra il loro ordine con proibizione di
quelle di fuori; cosa che riuscendo, come si vede, a tener in buona regola quei
governi, farebbe l'istesso effetto ne' publici della Chiesa, quando le
appellazioni restassero nella medesima provincia, e per effettuar questo e per
raffrenar la malizia de' litiganti basta ridurle alla forma delle leggi
communi, con proibir il salto di poter andar al supremo senza passar per
gl'intermedii superiori e con vietare le appellazioni dagli articoli o decreti
interlocutorii, con le qual provisioni le cause non anderanno lontane, non
saranno tirate in longo, non intervenirà l'eccessiva spesa e
gl'innumerabili gravami; et acciò i giudicii passino con
sincerità, restituire li sinodali, non soggetti a tanta corrozzione,
levando quei degl'ufficiali, de' quali il mondo è tanto scandalizato che
non è piú possibile che la Germania gli sopporti.
Non fu
gratamente udito questo parere, se non da' spagnuoli e tedeschi; ma il
cardinale et il noncio sipontino sentirono sommo dispiacere che cosí inanzi si
passasse. Questo era un levar afatto non solo l'utile della corte; ma la
degnità ancora; nessuna causa anderebbe a Roma et a poco a poco ogni uno
si scorderebbe della superiorità del pontefice, essendo ordinario degli
uomini non stimar quello superiore, l'autorità del quale non si tema o
non se ne possi valere. Operarono però che da Giovanni Battista
Castello, bolognese, fosse parlato nella congregazione seguente nell'istessa
materia, in modo che, senza contradir a Gropero, fosse mortificata l'apparenza
delle raggioni da lui allegate. Egli incomminciò dalle lodi
dell'antichità della Chiesa, toccando però con destrezza che in
quei medesimi tempi vi erano le sue imperfezzioni, in qualche parte maggiori
delle presenti: ringraziato Dio, diceva, che non è oppressa la Chiesa,
come quando gli arriani a pena la lasciavano apparire; non si debbe tanto
lodare la vecchiezza, che non si reputi anco che ne' secoli posteriori qualche
cosa non sia fatta migliore. Quelli che lodano i giudicii sinodali non hanno
veduto i defetti di quelli, l'infinità, longhezza nelle espedizioni,
gl'impedimenti nel diligente essamine, la difficoltà nell'informare
tanti, le sedizioni per le fazzioni; è ben da credere che siano stati
intermessi perché non bene succedevano; li fori et ufficiali furono introdotti
per rimediare a quei disordini; non si può negare che questi non ne
portino altri, degni di provisione; questo bisogna fare, ma non rimettere in
piedi quello che fu abolito per non potersi tolerare. Nell'appellazioni si
costumava passare per i mezi e non andar al supremo, e questo si è levato,
perché i capi delle provincie e regioni erano fatti tiranni delle chiese: s'ha
introdotto per rimedio il portare tutti i negozii a Roma. Questo ha il suo
male: la lontananza, la spesa, ma piú tolerabili che l'oppressione; chi
ritornasse il modo di prima, si troverebbe, per aver rimediato ad un male,
averne causato molti, e ciascuno maggiore. Ma sopra tutto doversi considerare
che non conviene l'istesso modo di governo ad una cosa publica in tutti i
tempi, anzi come quello fa delle mutazioni, cosí conviene mutare il governo; il
modo di regger antico non sarà fruttuoso, se insieme lo stato della
Chiesa non torna l'antico: chi, attendendo il modo come i putti si governano e
come quella libertà di mangiare e bere ogni cosa in ogni tempo è
causa di sanità e robustezza, pensasse a governare cosí un vecchio, si
troverebbe molto ingannato. Le chiese erano picciole, circondate da pagani,
unite tra loro come vicine al nimico; adesso son grandi e senza contrario che
le tenga in ufficio, onde le cose communi sono neglette et è necessario
che siano da uno curate. Se in ciascuna provincia le cause restassero, fra
pochi anni tanta diversità nascerebbe, che sariano contrarie l'una
all'altra, che non apparirebbono della medesima fede e religione. I pontefici
romani negl'antichi tempi non hanno assonto a loro molte parti del governo,
quando vedevano che caminava ben; l'hanno riservate a sé, quando dagl'altri
sono state abusate. Molti sono dopo succeduti pontefici di santa vita et ottima
intenzione, che le averebbono restituite, quando non avessero veduto che in
materia corrotta non potevano esser ben usate. Concluse che per servar
l'unità della Chiesa era necessario lasciar le cose nell'istesso
termine.
Ma né questo
piacque manco a' prelati italiani, quali, se ben volevano conservata
l'autorità del papa, desideravano esserci per qualche cosa; massime
dovendo star alla residenza: però si venne a temperamenti. Il restituir
li giudicii sinodali fu da quasi tutti escluso, ché diminuiva l'autorità
episcopale e teneva del popolare; l'andar per gradi nell'appellazione, se ben
sostentato da molti, fu escluso dalla pluralità de voci. L'appellar
dalle sole diffinitive s'accommodò con limitazione nelle sole cause
criminali, lasciati i giudicii civili nello stato stesso, se ben avevano quelli
forse bisogno maggiore d'esser riformati; per quel che tocca il giudicio contra
le persone de' vescovi, non desiderando alcuno di facilitare i giudicii contra
di sé, non si parlò di restituirgli alle sinodi parochiali, de' quali
già erano proprie, ma di provedere che, restando in mano del papa,
passassero con maggior dignità di quell'ordine, moderando le commissioni
che da Roma si davano, per quali erano costretti comparire e sottomettersi a
persone d'ordine inferiore; e questo fu cosí ardentemente da tutti desiderato,
che fu necessario al legato condescendervi, quantonque non gli piacesse
essaltazione alcuna de' vescovi, levandosi al papa tutto quello che a loro si
dava.
[I prelati germani richiedono riforma nelle
degradazioni]
I prelati
germani proposero che le leggi delle degradazioni fossero moderate, come quelle
che erano fatte intolerabili e porgevano molta occasione di querimonia in
Germania, poiché, essendo una pura ceremonia che impedisce la giustizia, et
avendo chiesta la moderazione sino dal 1522, nel trigesimoprimo delli 100
gravami, il veder che si perseveri nell'abuso ad altri genera scandolo, ad
altri è materia di detrazzione. Antico uso della Chiesa fu che dovendo
ritornare alcuna persona ecclesiastica allo stato secolare, accioché non apparisca
che i deputati al ministerio della Chiesa servissero a cose mondane,
costumavano i vescovi di levargli il grado ecclesiastico, ad essempio della
milizia che, per tenersi in onorevolezza, non concedeva che un soldato
ritornasse alle fazzioni civili o fosse al giudice civile sottoposto, se prima
non era spogliato del grado militare, che per ciò fu detto degradazione,
con levargli la cintura et arme, come con quelle era stato creato soldato.
Perilché, quando alcun chierico, o per propria volontà, o per leggi,
doveva ritornare alle fazzioni secolari, overo per delitti esser sottoposto a
quel foro, i vescovi gli levavano il grado con quelle stesse ceremonie con
quali era stato investito, spogliandolo degli abiti e levandogli di mano gli
istromenti con l'assignazione de' quali era deputato al ministerio; vestitolo
prima a ponto, come se fosse in atto di ministrare nel suo carico, e
spogliandolo con incomminciare da quello che fu ultimo nell'ordinazione e con
parole contrarie a quelle che nella promozione sono usate. E questo era cosa
assai quotidiana in quei primi tempi dopo Constantino per 300 anni. Ma intorno
il 600 fu introdotto di non permettere a' chierici di ordine sacro di poter
tornar al secolo, et agli altri concesso che lo potessero fare a suo piacere;
onde pian piano la degradazione de' minori andò in total desuetudine e
quella de' maggiori si restrinse solo quando dovevano esser sottoposti al foro.
E Giustiniano, regolando i giudicii de chierici, dopo aver ordinato che ne'
delitti ecclesiastici fossero dal vescovo castigati, e ne' delitti secolari,
che esso chiamò civili, fossero puniti dal giudice publico, aggionse che
però la pena non s'esseguisse prima che il reo fosse spogliato del
sacerdozio dal vescovo. E dopoi che a' vescovi furono concessi i giudicii
criminali sopra i chierici, la degradazione restò solo in caso dove la
pena dovesse esser di morte, la qual, per degnità dell'ordine suo,
gl'ecclesiastici non averebbono voluto che mai fosse inserita; ma ne' casi
d'essorbitante sceleratezza non pareva che senza scandalo si potesse negare;
però, quello che non si poteva al diretto, trovarono modo di
indirettamente effettuare, con dire esser ben giusto punir le sceleratezze de'
chierici con la meritata morte, ma che era necessaria prima la degradazione, e
con farla cosí difficile con circonstanze di solennità, che pochissime
volte si potesse metter in prattica, operavano che poche volte fosse
effettuata: dovendo anco questo servire a maggior riverenza dell'ordine
clericale, nel sangue del quale la giustizia non poteva metter mano senza tanta
solennità precedente. Per questa causa non fu concesso che da' vescovi
si facesse se non in publico con le vesti sacre e, quello che piú importava,
con assistenza di 12 vescovi nella degradazione d'un vescovo, di
[Si conchiude in congregazione il
salvocondotto e la dilazione di certi capi della dottrina dell'eucaristia]
Il legato, se
ben ogni settimana aveva dato conto a Roma di tutte le occorrenze, nondimeno
volse stabilire in congregazione le minute de' decreti, per poterne mandar
copia e ricever la risposta inanzi la sessione; onde ridotta la congregazione
generale, non facendo menzione di quello che da Roma gli fosse scritto, fece
relazione di quanto gli era stato dal conte di Montfort rappresentato,
soggiongendo parergli raggionevole la petizione del salvocondotto e la
dilazione di quello che con degnità si poteva differire; perché avendo
già statuito il primo settembre di parlar dell'eucaristia, non era
possibile restar di farlo, ma lasciar qualche capo piú importante e piú
controverso era cosa concessibile; e raccogliendosi i voti, tutti furono di
parere che il salvocondotto si concedesse, ma quanto al differir materia
consegliavano alcuni che non era degnità di farlo, se non assicuravano
di dover venir a trattarla e sottoporsi alla determinazione della sinodo. Altri
dissero che era assai salva la degnità, quando si facesse a loro
ricchiesta, e questa fu la piú commune opinione. Allora il legato soggionse che
s'averebbe potuto riservare la materia del ministrar a' laici il calice e per
mostrar che non dovessero venir per un solo articolo, aggiongerci la communione
de' putti: cosí si prese ordine di formar il decreto in questo particolare. Il
qual letto, parendo ad alcuni che fosse poco il riservar doi articoli,
però esser meglio divider il primo in tre, e cosí reservarne quattro et
aggiongervi il sacrificio della messa, del quale le controversie sono grandi,
che cosí apparirà esser riservate molte cose e le principali, in questo
parere convennero. E quando si fu a dire che i protestanti fanno instanza
d'esser ascoltati sopra di quelli, si levò un prelato di Germania e
dimandò da chi et a chi fosse questa instanza fatta; perché molto
importava che questo apparisca, altrimente quando essi dicessero non esser
vero, restava molto intaccato l'onor del concilio. Ma non essendovi altro che
quanto il conte di Montfort aveva detto come da sé, e ciò anco non
ristretto a quei quattro capi, né alla materia dell'eucaristia, ma in generale
di tutte le controversie, si trovarono molto ben impediti come risolversi. Il
mostrar di riservar per proprio moto, oltra l'esser indegnità, tirar
adosso un'obiezzione; che dovevano riservar tutto. Si trovò questo modo,
come manco male, di non dire che protestanti fanno instanza, né che
ricchiedono, ma che desiderano esser uditi; il che non si può dubitare
esser vero, poiché da loro in diverse occasioni è stato detto, e se ben
riferendolo a tutte le controversie, nondimeno non è falsità
affermare di una parte quello che è detto del numero intiero, senza
escluder le altre. A molti parve che fosse un ascondersi dietro ad un filo, ma
non sapendo trovar meglio, questo passò. Dovendosi per tal causa levar
dalli capi di dottrina e dagl'anatematismi le materie che si riservavano,
furono anco divisi gl'anatematismi che restavano per maggior chiarezza e
ridotti ad 11. Volendo stabilir i decreti contra gli abusi, fu
difficoltà dove porgli: tra quelli della fede non capivano, essendo di
ceremonie et usi; tra quei della riforma non parevano condecenti per la
diversità della materia; il porgli da sé, come un terzo genere, era
novità che alterava l'ordine instituito. Dopo molta disputa fu concluso
di tralasciargli per mettergli poi insieme co' decreti della messa. I capi
della riforma furono accettati senza difficoltà, essendo già
stabiliti da quei medesmi. Restava la forma del salvocondotto, che fu rimessa a
presidenti, quali, chiamati i prattici di tal formule, la componessero: che
aiutò il legato a far passar quella che da Roma gli era stata mandata.
[Terza sessione e 'l suo decreto]
Venuto il
giorno 11 ottobre, secondo il modo usato s'andò alla chiesa:
cantò la messa il vescovo di Maiorica, il sermone fu fatto
dall'arcivescovo di Torre, tutto in encomio del sacramento dell'eucaristia, e
fatte le altre solite ceremonie, dal vescovo celebrante fu letto il decreto
della dottrina, la sostanza del quale fu: che la sinodo, congregata per espor l'antica
fede e rimediar agli incommodi causati dalle sette, sin dal principio ebbe
desiderio d'estirpar il loglio seminato in materia dell'eucaristia; perilché,
insegnando la dottrina catolica sempre creduta dalla Chiesa, proibisce a tutti
i fedeli per l'avvenire di creder, insegnare o predicare altrimente di quanto
è esplicato. Prima insegna che nell'eucaristia, dopo la consecrazione,
si contiene Cristo vero, real e sustanzialmente sotto le apparenzie delle cose
sensibili, non repugnando che egli sia in cielo, nel modo d'esser naturale, e
nondimeno presente in sua sostanza in molti altri luoghi sacramentalmente, con
un modo d'esser che si crede per fede et a pena si può esprimer con
parole; imperoché tutti gl'antichi hanno professato Cristo aver instituito
questo sacramento nell'ultima cena, quando dopo la benedizzione del pane e del
vino disse di dar il suo corpo et il suo sangue con chiare e manifeste parole,
le quali avendo apertissima significazione, è gran sceleratezza torcerle
a figure imaginarie, negando la verità della carne e del sangue di
Cristo. Insegna appresso che Cristo ha instituito questo sacramento in memoria
di sé, ordinando che fosse ricevuto come spiritual cibo dell'anima e come
medicina per le colpe quotidiane e preservativo da' peccati mortali, pegno
della futura gloria e simbolo del corpo del quale egli è capo. E se ben
questo sacramento ha di commune con gl'altri che è segno di cosa sacra,
nondimeno questo ha di proprio, che avendo gl'altri la virtú di santificar
nell'uso, questo contiene l'autor della santità inanzi l'uso: imperoché
gl'apostoli non ancora avevano ricevuto l'eucaristia di mano del Signore,
quando egli diceva che era suo corpo, e sempre la Chiesa ha creduto che il
corpo di Cristo è sotto la specie di pane et il sangue sotto quella del
vino per virtú della consecrazione; ma per concomitanza ogn'uno sia sotto
ciascuna delle specie e sotto ciascuna delle parti loro, quanto sotto ambedue;
decchiarando che per la consecrazione del pane e del vino si fa una conversione
di tutta la sostanza d'essi nella sostanza del corpo e sangue di Cristo, la
qual conversione la Chiesa catolica ha chiamato transostanziazione, con termine
conveniente e proprio, perilché i fedeli danno l'onor di latria debito a Dio a
quel sacramento, e religiosamente è stato introdotto di lui far una
particolar festa ciascun'anno e portarlo in processione per i luoghi publici.
Similmente la consuetudine di conservarlo in luogo sacro è antica, sino
dal tempo del concilio niceno, et il portarlo agli infermi è cosa costumata
antichissimamente, oltra che è raggionevole et in molti concilii
commandata; e se non conviene che sia trattata alcuna cosa santa senza
santità, tanto piú non si potrà andar a questo sacramento senza
gran riverenza e fatta prova di se stesso; la qual prova ha da essere che
nissun, avendo peccato mortalmente, se ben contrito, lo ricevi senza la
confessione sacramentale; il che debbia osservar eziandio il sacerdote che ha
da celebrare, purché abbia commodità di confessore, e non l'avendo debbia
confessarsi immediate dopo. Insegna ancora esservi tre modi di ricever
l'eucaristia: uno solo sacramentalmente, come fanno i peccatori; l'altro
spiritualmente, come di quelli che lo ricevono con fede viva e desiderio; il
terzo in tutti doi i modi insieme, come da quelli che, provati nel modo di
sopra detto, vanno a quella mensa. E per tradizzione apostolica si ha, e cosí
si debbe servare, che i laici ricevino la communione da' sacerdoti, et i
sacerdoti communichino se medesimi. In fine prega la sinodo tutti i cristiani
che convengano in questa dottrina.
Dopo finito
il decreto furono letti gli 11 anatematismi.
1 Contra chi
negherà che nell'eucaristia si contenga vera, real e sostanzialmente il
corpo et il sangue, con l'anima e la divinità di Cristo, cioè
tutto Cristo intiero, ma dirà che sia solamente come in segno o figura o
virtú.
2 Che
nell'eucaristia resti la sostanza del pane e del vino col corpo e sangue di
Cristo, overo negherà quella mirabile conversione di tutta [la] sostanza
del pane in corpo, e del vino in sangue, restandovi solamente le specie, qual
conversione la Chiesa chiama transostanziazione appositissimamente.
3 Che nel
sacramento dell'eucaristia sotto ciascuna specie e sotto ciascuna parte, fatta
la separazione, non si contenga tutto Cristo.
4 Che fatta
la consecrazione, non vi sia se non in uso, e non inanzi o dopo, e che non vi
rimanga nelle particole che restano dopo la communione.
5 Che il
principal frutto dell'eucaristia sia la remission de' peccati, overo che altro
effetto in quella non nasca.
6 Che Cristo
nell'eucaristia non debbia esser adorato d'onor di latria e venerato con una
festa particolare e portato in processione et esposto in luogo publico per
esser adorato, overo che gli adoratori siano idolatri.
7 Che non sia
lecito servarlo in luogo sacro, ma convenga distribuirlo a gl'astanti, overo
che non sia lecito portarlo onorevolmente agl'infermi.
8 Che Cristo
nell'eucaristia sia mangiato solo spiritualmente e non sacramentalmente e
realmente.
9 Che i
fedeli adulti non siano tenuti ogni anno almeno alla Pasca communicarsi.
10 Che non
sia lecito al sacerdote che celebra communicar se stesso.
11 Che la
sola fede è sufficiente preparazione per riceverlo.
Dicchiarando
in fine che la preparazione debbia esser per mezo della confessione
sacramentale, avendo per scommunicato chi insegnerà, predicherà,
affermerà pertinacemente o difenderà in publica disputa il
contrario.
[Decreto di riforma intorno alla giurisdizzion
episcopale]
Il decreto
della riforma contiene prima una longa ammonizione a' vescovi di usar la
giurisdizzione con moderazione e carità; poi determina che nelle cause
di visita, correzzione et inabilità e nelle criminali non si possi
appellare dal vescovo o suo vicario generale inanzi la deffinitiva, overo da
gravame irreparabile, e quando vi sarà luogo d'appellazione e
s'averà da commettere per autorità apostolica in partibus,
non sia commessa ad altri che al metropolitano e suo vicario, overo, quando
egli fosse sospetto o troppo lontano, o da lui fosse appellato, non sia commessa
se non ad un vescovo vicino o ad un vicario. Che il reo appellante sia tenuto
nella seconda instanza produr gl'atti della prima, dovendogli essere dati in
termine di 30 giorni senza pagamento. Che il vescovo et il suo vicario generale
possi proceder contra ciascuno alla condannazione e deposizione verbale, e
possi anco degradar solennemente con l'assistenza di tanti abbati di mitra e
pastorali, se ne averà, overo di altre degnità ecclesiastiche, di
quanti vescovi la presenza da' canoni è ricercata. Che il vescovo, come
delegato, possi conoscere dell'assoluzione d'ogni inquisito e della remissione
della pena d'ogni condannato da lui sommariamente, e costandogli che sia
ottenuta con narrar il falso o tacer il vero, non fargliela buona. Che un
vescovo non possi esser citato a comparer personalmente, se non per causa per
quale meritasse esser deposto o privato, con qual si voglia forma di giudicio
si proceda. Che i testimonii in causa criminale contra il vescovo non possino
esser ricevuti per informazione, se non con testi e di buona fama,
castigandogli gravemente se averanno deposto per affetto, e le cause criminali
de' vescovi non possino esser terminate se non dal pontefice.
Fu dopo di
questo publicato un altro decreto, nel quale la sinodo diceva che, desiderando
estirpare tutti gl'errori, aveva trattato accuratamente 4 articoli:
1 Se era
necessario alla salute e commandato da Dio che tutti i fedeli ricevessero il
sacramento sotto ambedue le specie.
2 Se meno
riceva chi communica con una che con ambedue.
3 Se la santa
Chiesa ha errato communicando con la sola specie del pane i laici et i
sacerdoti che non celebrano.
4 Se anco i
fanciullini debbono esser communicati.
Ma perché i
protestanti di Germania desiderano d'esser uditi sopra questi articoli inanzi la
definizione e per ciò hanno dimandato salvocondotto di venir, star,
liberamente parlar e proponer e partire, la sinodo, sperando di ridurgli nella
concordia d'una fede, speranza e carità, condescendendo loro, gli ha
dato fede publica, cioè salvocondotto, quanto s'aspetta a lei,
dell'infrascritto tenore, e ha differito a definir questi articoli sino al 25
genaro del seguente anno, ordinando insieme che in quella sessione si tratti
del sacrificio della messa, come cosa connessa, e tra tanto nella sessione prossima,
che sarà a 25 novembre, si tratti de' sacramenti della penitenza e
dell'estrema onzione.
[Tenor del salvocondotto. Gli ambasciatori di
Brandeburg]
Il tenore del
salvocondotto era: che la santa sinodo concede publica fede, piena sicurezza,
cioè salvocondotto con tutte le clausule necessarie et opportune,
ancorché ricercassero special espressione, per quanto s'aspetta ad essa, a
tutte le persone ecclesiastiche e secolari di Germania, di qualonque grado,
stato e qualità siano, le quali vorranno venir a questo general
concilio, che possino con ogni libertà conferire, proponere e trattare,
venire, stare, presentar articoli, o in scrittura, o in parola, conferire co'
padri deputati dalla sinodo e disputare senza ingiuria e villanie, e partirsi
quando a loro piacerà. Compiacendosi inoltra essa sinodo che, se per
maggior loro libertà e sicurtà desidereranno che gli siano
deputati giudici per i delitti commessi o che commetteranno, ancorché fossero
enormi e sentissero d'eresia, possino nominare quelli che averanno per
benevoli.
Dopo di
questo fu letto il mandato di Gioachin, elettore di Brandeburg, nelle persone
di Cristoforo Strassen, iurisconsulto, e Giovanni Offmanno, mandati
ambasciatori al concilio. Dal primo fu fatta una longa orazione, mostrando la buona
volontà e la riverenza del suo prencipe verso i padri, senza
decchiararsi piú oltre quello che sentisse in materia della religione. Fu
risposto dalla sinodo, cioè dal promotore per suo nome, aver sentito con
gran piacer il raggionamento dell'ambasciatore, e massime in quella parte dove
quel prencipe si sottomette al concilio e promette d'osservare i decreti,
sperando che alla promessa sarà corrisposto anco con fatti. Ma la
proposta de' brandeburgici fu notata da molti, perché l'elettore era della confessione
augustana e si sapeva chiaro che gl'interessi lo movevano ad operare cosí per
bella apparenza, acciò da Roma e da' catolici di Germania fosse cessato
dagl'impedimenti che mettevano a Federico, suo figlio, eletto arcivescovo di
Macdeburg da' canonici, beneficio al quale è gionto un principato molto
grande e ricco. La risposta data dal concilio non fu meno ammirata per una
bellissima et avvantaggiosissima maniera di contrattare, stipulando 10 e, per
virtú della promessa, pretendendo 10000, e non minor proporzione è da
quel numero a questo, che dalla riverenza promessa dall'elettore alla
soggezzione ricevuta dalla sinodo. Si diceva ben in difesa che la sinodo non
aveva guardato alle cose dette, ma a quelle che si dovevano dire, e questo
esser un solito e pio allettamento della santa Chiesa romana, che
condescendendo alla debolezza de' figli, mostra aver inteso che abbiano
complito al loro debito: cosí avendo i padri del concilio cartaginese scritto a
papa Innocenzio I, dandogli conto d'aver condannato Celestino e Pelagio,
ricercandolo che si conformasse alla dicchiarazione loro; egli rispose
lodandogli che, come memori dell'antica tradizione e dell'ecclesiastica
disciplina, avessero riferito il tutto al giudicio suo, dal quale tutti debbono
imparare chi assolvere e chi condannare. E veramente questo è un modo
grazioso di far dir agl'uomini con silenzio quello che non vogliono con parole.
Poi, seguendo
l'intimazione fatta dall'abbate di Bellosana di essibirgli in questo tempo la
risposta alle lettere e protestazione regia, fu da' cursori proclamato alla
porta della Chiesa se alcuno era là per il re Cristianissimo; ma non
comparso alcuno, perché il conseglio regio aveva giudicato che alcuno non
comparisse, per non entrar in contestazione di causa, massime non potendo
aspettare risposta se non formata in Roma dal papa e da' spagnuoli, fece il
promotor instanza che la risposta decretata fosse publicamente letta, e cosí
acconsentendo i presidenti, si essequí. La sostanza di quella fu che i padri,
dopo aver concetto una gran speranza ne' favori del re, avevano sentito
grandissimo dispiacere per le parole del noncio suo, che gliel'aveva sminuita;
però non l'avevano perduta a fatto, sapendo di non avergli dato causa
alcuna di restar offeso, e quanto a quello che disse, esser il concilio
congregato per utilità d'alcuni pochi e per fini privati, non aver luogo
in loro, che non dal papa presente solo, ma anco da Paolo III furono congregati
per estirpar l'eresie e riformare la disciplina, che non può esser causa
piú commune e piú pia. Pregavanlo di lasciar andar i suoi vescovi ad aiutare
questa santa opera, dove averanno ogni libertà; e se con pazienza, et
attenzione fu udito il suo noncio, con tutto che persona privata e che portava
cose dispiacevoli, quanto maggiormente persone di tanta degnità saranno
ben vedute? Soggiongendo però che anco senza quelli il concilio
averà la sua degnità et autorità, essendo legitimamente
convocato e per giuste cause restituito. E quanto a quello che Sua
Maestà protestò, di usare i rimedii costumati da' suoi maggiori,
aver la sinodo buona speranza che non fosse per rimetter in piedi le cose
già abrogate con grande beneficio di quella corona, ma risguardando a'
suoi maggiori, al nome del re Cristianissimo et al padre Francesco, che onorò
quella sinodo, seguitando quell'essempio, non vorrà esser ingrato a Dio
et alla madre Chiesa, ma piú tosto per le cause publiche condonerà le
offese private.
[Giudicii sopra i decreti sudetti]
Furono
immediate stampati i decreti della sessione; quali visti in Germania et altrove
con curiosità, per quello che aspetta all'eucaristia diede da parlar
assai in piú cose. Prima perché, trattando del modo dell'essistenza, dice che a
pena si può esprimer con parole, e nondimeno dopo s'afferma che la conversione
è chiamata propriamente transostanziazione et in un altro luogo che
è termine convenientissimo, il che essendo, non bisogna far dubio di
poter esprimerlo propriamente. Si diceva di piú che, avendo dicchiarato che
Cristo, dopo la benedizzione del pane e vino, disse quello che dava esser il
suo corpo et il suo sangue, veniva a determinare contra tutti i teologi e
contra l'openione di tutta la Chiesa romana che le parole della consecrazione
non fossero quelle, cioè: «Questo è il mio corpo», poiché affermò
esser dopo la consecrazione dette. Ma il provare che il corpo del Signore sia
nell'eucaristia inanzi l'uso, perché Cristo la disse suo corpo nel porgerla e
prima che da' discepoli fosse ricevuta, mostrava di presupporre che il porger
non partenesse all'uso, cosa che appariva in contrario. Era anco notato come
parlare molto improprio l'usato nel quinto capo della dottrina, dicendo che a
quello sacramento era debito il culto divino, poiché è certo per
sacramento non intendersi la cosa significata o contenuta, ma la significante e
continente; e però meglio nel canone sesto esser stato corretto con dire
che si debba adorar il figliuol di Dio nel sacramento. Fu anco notata quella
parola nell'anatematismo terzo: che tutto Cristo sia in ciascuna delle parti
dopo fatta la separazione, poiché di là par necessario inferire che non
sia tutto in ciascuna delle parti, eziandio inanzi la divisione.
Della riforma
si dolevano i preti che l'autorità de' vescovi fosse aggrandita troppo
et il clero ridotto in servitú. Ma i protestanti, veduto quel capo dove si dice
che ricchiedevano d'esser uditi in quattro articoli soli, restarono tutti pieni
di maraviglia da chi poteva esser stata fatta una tal instanza per loro nome,
poiché essi avevano tante e tante volte, nelle publiche diete et in altre
scritture publiche, detto e replicato che volevano la discussione di tutte le
materie controverse, né volevano ricever alcuna cosa delle già
determinate in Trento, ma che il tutto fosse reessaminato. La forma del
salvocondotto fu anco da loro giudicata molto capziosa, mentre che, cosí nel
decreto del concederlo, come nel medesimo tenore d'esso, vi era la clausula
riservativa: «quanto s'aspetta ad essa sinodo»; perché non esservi alcuno che
dimandi all'altro se non quello che a lui s'aspetta concedere; ma questa
affettata diligenza d'esprimerlo e replicarlo esser indicio che già si
fosse escogitato un modo come contravenire e scusarsi sopra altri: e non
dubitavano che la mente della sinodo avesse mira a lasciar aperta una porta al
papa di poter coll'onor e suo e del concilio operar quello che fosse stato di
servizio di ambedue. Oltra che quel trattar di deputar giudici per cose
ereticali commesse overo che si commettessero pareva loro una sorte di rete per
prender dentro alcun incauto; sino i pedanti se ne ridevano che il verbo
principale fosse piú di centocinquanta parole lontano dal principio.
Passò tra' protestanti un consenso e voce commune di non contentarsene,
né fidarse in quello, ma chiedere un altro che fosse nel tenor apunto di quello
che diede il concilio basileense a' boemi; qual se fosse concesso, ottenevano
un gran ponto, cioè che le controversie fossero decise con la divina
Scrittura; ma se non fosse dato, avessero come iscusarsi appresso l'imperatore.
[Congregazione generale: ordina di formare
articoli della penitenza, dell'estrema onzione e della riforma]
Il giorno
seguente la sessione fu congregazione generale per disponere di trattar della
penitenza et estrema onzione e di continuar la riforma. Fu considerato che da'
teologi era stato ecceduto il modo prescritto di trattar, onde erano nate
contenzioni, le quali non potevano servire a rendergli tutti uniti contra
luterani; che però bisognava rinovar il decreto, non permettendo che si
usino raggioni di scole, ma si parli positivamente e servando anco l'ordine, il
qual era ben di nuovo fermare, cosí perché il non averlo osservato aveva
partorito confusione, come perché i fiaminghi si dolevano che non fosse tenuto
quel conto di loro che meritavano, e l'istesso facevano i teologi che erano co'
prelati di Germania. Il trattare della penitenza e dell'estrem'onzione era
già deciso: fu detto qualche parola in materia di riforma e deputati
quelli che, col noncio veronese, ordinassero gli articoli in materia della fede
e, col sipontino, in materia della riforma. In materia di fede furono formati
12 articoli sopra il sacramento della penitenza, tratti di parola in parola da'
libri di Martino et altri suoi discepoli, per esser disputati da' teologi se si
dovevano tener per eretici e come tali dannargli; li quali furono talmente
mutati et alterati nel formar gl'anatematismi, dopo uditi i voti de' teologi,
che non restandone vestigio è superfluo recitargli. A questi articoli
furono congionti altri 4 dell'estrem'onzione per tutto corrispondenti a' 4
anatematismi stabiliti. Nel medesimo foglio dove erano gl'articoli descritti,
erano soggionti tre decreti: che i teologi dovessero dir il parer loro,
traendolo dalla Sacra Scrittura, tradizioni apostoliche, sacri concilii,
constituzioni et autorità de' sommi pontefici e santi padri e dal
consenso della Chiesa catolica, con brevità, fugendo le questioni
inutili e le contenzioni pertinaci; che l'ordine nel parlar fosse prima de'
mandati dal sommo pontefice, in secondo luogo de' mandati dall'imperatore, in terzo
quei di Lovanio mandati dalla regina, in quarto i teologi venuti con gli
elettori, in quinto i chierici secolari, secondo le promozioni loro, in sesto i
regolari, secondo i loro ordini; che le congregazioni fossero fatte due volte
al dí, la matina da 14 ore sino a 17, il dopo pranso da 20 sino a 23.
Gl'articoli della riforma furono formati 15, i quali corrispondendo a' capi che
poi furono stabiliti, eccetto il decimoquinto, nel quale si proponeva di
statuire che non si potessero dar beneficii in commenda se non a persona che
avesse la medesima età ricercata dalla legge a chi debbe averlo in
titolo: il qual articolo, quando di lui si parlò, fu facilmente posto in
silenzio, come quello che impediva molti prelati dal rinonciar i beneficii a'
nepoti.
Il pontefice,
il qual (come s'è detto) scrisse lettere a' svizzeri catolici
invitandogli al concilio, continuò sempre per mezo degl'ufficii di
Gieronimo Franco, suo ambasciatore, a far la stessa instanza, nel che anco era
aiutato da Cesare. In contrario operava il re di Francia per mezo di Morleo
Musa, suo ambasciatore, aiutato dal Vergerio, il quale, come conscio de'
secreti e fini romani, gli somministrò il modo di persuader quella
nazione, e scrisse anco un libro in questa materia, sí che nella dieta di Bada,
che allora si tenne, non solo i svizzeri evangelici, ma i catolici ancora
restarono persuasi di non mandar alcuno, et i Grisoni, per gl'avvertimenti del
Vergerio entrati in sospetto che il pontefice machinasse cosa di loro
pregiudicio, richiamarono Tomaso Planta, vescovo di Coira, che già era
nel concilio.
[Gli articoli sono discussi d'una nuova
maniera]
In Trento
furono sollecitate le congregazioni de' teologi, da' quali, se ben si
parlò con l'ordine de' 12 articoli proposti, fu nondimeno trattata tutta
la materia della penitenza, non solo secondo che i scolastici, ma anco come i
canonisti la trattano, seguendo Graziano che ne fece una questione, per la
longhezza sua divisa poi in 6 distinzioni; e l'esser stato da' presidenti
prescritto il modo di dedur e provar le conclusioni per i 5 luoghi sopradetti
non fece evitar la prolissità e superfluità e le inutili e vane
questioni, anzi diede occasione a maggiori abusi, poiché, parlando
scolasticamente, si stava almeno nella materia et il discorso era tutto serio e
severo. Con questo nuovo modo, che chiamavano positivo (voce italiana tratta
dal vestir semplice e senza superflui ornamenti) si dava nell'inezzie.
Allegando la divina Scrittura, furono portati tutti i luoghi de' profeti e de'
salmi, massime dove si trova il verbo «confiteor» et il suo verbale
«confessio», che nell'ebreo significa lode o piú tosto religiosa professione, e
strassinati al sacramento della confessione, e quello che meno era in
proposito, tirate dal Vecchio Testamento figure per mostrare che era presignificata,
senza alcun risguardo se si applicavano con similitudine; e quello si teneva
piú dotto che piú portava in tavola! Tutti i riti significativi
d'umilità, dolore e pentimento usati da confitenti si chiamavano
arditamente tradizioni apostoliche; furono narrati inumerabili miracoli antichi
e moderni, avvenuti in bene a' devoti della confessione et in male a'
negligenti e sprezzatori. Furono piú volte recitate tutte le autorità
allegate da Graziano, con dargli però varii e diversi sensi, secondo il
proposito, et aggiontone anco delle altre; e chi sentiva a parlare quei dottori
non poteva concludere se non che gli apostoli e gl'antichi vescovi mai
facessero altro che o star in ginocchia a confessarsi, o sentati a confessar
altri: in somma quello in che tutti terminavano e che piú faceva in proposito
era il concilio fiorentino. Tra le memorie non si vede cosa degna d'esserne
fatta particolar menzione, la qual non s'abbia da dire recitando la sostanza
della dottrina; ma questo era necessario non tacere. Da questi fasci di varie
sorti di paglia portati nell'ara, non è maraviglia se fu battuto grano
di genere diverso, traendone i capi della dottrina, la quale, per la mistura, a
pochi piacque intieramente; né fu servato in questa materia, come nell'altre, di
non dannar alcuna opinione de' catolici, ma dove varii erano i pareri tra i
teologi, far l'espressiva con tal temperamento, che tutte le parti ricevessero
sodisfazzione: il che constringe a non tener l'ordine incomminciato, ma esponer
prima la sostanza del decreto come fu stabilito per leggere nella sessione, e
soggiongendo quello che le stesse persone del concilio non approvavano.
[Tenor del decreto formato sopra la penitenza]
Era adonque
il decreto che, quantonque trattando della giustificazione si fosse molto
parlato del sacramento della penitenza, nondimeno per estirpar diversi errori
di questa età conveniva illustrar la verità catolica, la qual la
santa sinodo propone da osservare perpetuamente a tutti i cristiani;
soggiongendo che la penitenza fu sempre necessaria in ogni secolo, e dopo
Cristo anco a quelli che hanno da ricever il battesmo, ma questa non è
sacramento. Ve n'è un'altra, instituita da Cristo, quando soffiando
verso i discepoli gli diede lo Spirito Santo per rimettere e ritener i peccati,
cioè riconciliare i fedeli caduti in peccato dopo il battesimo; che cosí
ha sempre inteso la Chiesa e la santa sinodo approva questo esser il senso
delle parole del Signore, condannando quelli che le intendono esser dette per
la potestà di predicar l'Evangelio. Questo sacramento esser differente
dal battesmo, oltra che la materia e la forma dell'uno e dell'altro sono
diverse, perché il ministro del battesmo non è giudice, ma il peccatore,
dopo il battesmo, si presenta inanzi al tribunal del sacerdote come reo, per
esser liberato con la sentenza di quello; e per il battesmo si receve
un'intiera remissione de' peccati, dove per la penitenza non si riceve senza
pianti e fatiche. E questo sacramento è cosí necessario a' peccatori
dopo il battesmo, come il battesmo medesimo a chi non l'ha ancora ricevuto. Ma
la forma di esso sta nelle parole del ministro: «Io ti assolvo», alle quali
sono aggionte altre preghiere lodevolmente, se ben non necessarie; e la quasi
materia di esso sacramento sono la contrizione, confessione e sodisfazzione,
che per ciò sono chiamate parti della penitenza. La cosa significata e
l'effetto del sacramento è la riconciliazione con Dio, dalla quale ne
nasce qualche volta la pace e serenità di conscienza, e perciò la
sinodo condanna quelli che pongono le parti della penitenza li spaventi della
conscienza e la fede. La contrizione è un dolor d'animo per il peccato
commesso, con proposito di non peccar piú, e fu sempre necessaria in ogni
tempo; ma nel peccatore dopo il battesmo è preparazione alla remissione
de' peccati, quando sia congionto col proposito di far tutto quello testo che
si ricchiede per ricevere legitimamente questo sacramento. La contrizione non
è il solo cessar dal peccato overo il proponimento o principio di nuova
vita, ma anco insieme odio della passata. E quantonque alle volte la
contrizione si congionga con la carità e reconcili l'uomo a Dio inanzi
che ricevuto il sacramento, nondimeno non se gli può ascriver questa
virtú senza il proposito di riceverlo. Ma l'attrizione, che nasce o per la
bruttezza del peccato o per il timor della pena con speranza di perdono non
è ipocrisia, ma dono di Dio, dal quale il penitente aiutato s'incamina a
ricever la giustizia, e se ben quella non può senza sacramento condur
alla giustificazione, dispone nondimeno ad impetrar la grazia da Dio nel
sacramento della penitenza. Dalle qual cose la Chiesa ha sempre inteso che
Cristo abbia instituito la confessione intiera de' peccati come necessaria per
legge divina a' caduti dopo il battesmo; perché, avendo instituito i sacerdoti
suoi vicarii giudici di tutti i peccati mortali, certa cosa è che non
possono essercitar il giudicio senza cognizione della causa, né servar
l'equità nell'imponere le pene, se i peccati non gli sono manifestati singolarmente
e non in genere; perilché il penitente nella confessione debbe narrar tutti i
peccati mortali, eziandio occultissimi, poiché i veniali, se ben si possono
confessare, si possono anco tacer senza colpa. Ma di qua anco nasce che
è necessario d'esplicar in confessione le circonstanze che mutano
specie, non potendosi altramente giudicar la gravezza degli eccessi et imponer
condegna pena; onde è cosa empia dire che questa sorte di confessione
sia impossibile o che sia una carnificina della conscienza perché non si ricerca
altro se non che il peccatore, dopo aversi diligentemente essaminato, confessi
quello che si raccorda, poiché i smenticati s'intendono inclusi nella medesima
confessione. E se ben Cristo non ha proibito la publica confessione, non l'ha
però commandata, né sarebbe utile il commandare che i peccati, massime
secreti, si confessassero in publico; onde avendo i padri sempre lodato la
confessione sacramentale secreta, viene ributtata la vana calonnia di quelli
che la chiamano invenzione umana, escogitata dal concilio lateranense, il quale
non ordinò la confessione, ma ben che quella fosse esseguita almeno una
volta all'anno. Ma quanto al ministro, dicchiara la sinodo esser false quelle
dottrine che estendono a tutti i fedeli il ministerio delle chiavi e l'autorità
data da Cristo di ligare e sciogliere, rimettere e ritenere i peccati publici
con la correzzione et i secreti per confessione spontanea, et insegna che i
sacerdoti, ancorché peccatori, hanno l'autorità di rimetter i peccati,
la qual non è un nudo ministerio di dicchiarar che i peccati sono
rimessi, ma un atto giudiciale; perilché nissun debbe fondarsi sopra la sua
fede, riputando che senza contrizione e senza il sacerdote, che abbia animo
d'assolverlo, possi aver la remissione. Ma perché la sentenza è nulla
pronunciata contra chi non è suddito, è nulla anco l'assoluzione
del sacerdote che non abbia autorità delegata o ordinaria sopra i
penitenti; et anco i maggiori sacerdoti raggionevolmente riservano a sé alcuni
delitti piú gravi e meritamente lo fa il papa, e non è da dubitare che i
vescovi non lo possino fare, ciascuno nella sua diocesi. E questa riserva non
è per sola polizia esterna, ma è di vigore anco inanzi a Dio.
Però fu sempre osservato nella Chiesa che in articolo di morte tutti i
sacerdoti possino assolver ogni penitente da qualonque caso. Della
satisfazzione la sinodo cosí dicchiara: che, rimessa la colpa, non è
condonata tutta la pena, non essendo conveniente che con tanta facilità
sia ricevuto in grazia chi ha peccato inanzi il battesmo, come dopo, e sia
lasciato il peccatore senza freno che lo ritiri da gl'altri peccati; anzi
convenendo che s'assimigli a Cristo, che patendo pene satisfece per noi, dal
quale ricevono anco forza le satisfazzioni nostre, come da lui offerte al Padre
e per sua intercessione ricevute; però debbono i sacerdoti imponer le
satisfazzioni convenienti, risguardando non solo a custodir il penitente da
nuovi peccati, ma anco a castigar i passati: dicchiarando nondimeno che si
satisfà non solo con le pene spontaneamente ricevute overo imposte dal
sacerdote, ma ancora con sopportar in pazienza i flagelli mandati dalla
Maestà divina.
[Anatematismi]
In
conformità di questa dottrina furono anco formati 15 anatematismi.
1 Contra chi
dirà che la penitenza non sia vero e propriamente sacramento instituito
da Cristo per reconciliare i peccatori dopo il battesmo.
2 Che il
battesmo sia il sacramento della penitenza, overo che esso non sia la seconda
tavola dopo il naufragio.
3 Che le
parole di Cristo: «Quorum remiseritis peccata» non s'intendono del sacramento
della penitenza, ma dell'autorità di predicar l'Evangelio.
4 Che non si
ricerchi la contrizione, confessione e satisfazzione per quasi materia e come
parti della penitenza, overo dirà che li spaventi della conscienza e la
fede siano parti.
5 Che la
contrizione non sia utile, ma faccia ipocrita, e sia dolor sforzato e non
libero.
6 Che la
confession sacramentale non sia instituita e necessaria per legge divina, o che
il modo di confessarsi al sacerdote in secreto sia invenzione umana.
7 Che non sia
necessario confessar tutti i peccati mortali, eziandio occolti, e le
circonstanze che mutano specie.
8 Che questa
sia impossibile, overo che tutti non siano obligati a quella una volta l'anno,
secondo il precetto del concilio lateranense.
9 Che
l'assoluzion sacramentale non sia atto giudiciale, ma ministerio di decchiarar
la remissione de' peccati a chi crede, overo che un'assoluzione data per gioco
giovi, overo che non si vi ricerchi la confessione del penitente.
10 Che i
sacerdoti in peccato mortale non hanno potestà di ligare e sciogliere,
overo che tutti i fedeli abbiano questa potestà.
11 Che i
vescovi non abbiano autorità di riservar casi se non per polizia
esterna.
12 Che tutta
la pena sia rimessa insieme con la colpa e che altra satisfazzione non si
cerchi, se non fede che Cristo abbia satisfatto.
13 Che non si
satisfaccia sopportando le afflizzioni mandate da Dio, le pene imposte dal
sacerdote e le spontaneamente pigliate, e che l'ottima penitenza sia solo la
vita nuova.
14 Che le
satisfazzioni non sono culto divino, ma tradizioni umane.
15 Che le
chiavi della Chiesa siano solamente per sciogliere e non per ligare.
[Gli anatematismi sono contesi da' teologi di
Lovanio e di Colonia e da' francescani]
I teologi di
Lovanio opposero al particolare della riservazione de' casi che non era cosa di
tanta chiarezza, perché non s'averebbe trovato che padre alcuno mai di
ciò avesse parlato; e che Durando, che fu penitenziero, e Gerson e
Gaetano tutti affermano che non peccati, ma censure sono riservate al papa, e
per tanto era troppo rigida cosa aver per eretico chi sentisse altrimente. Nel
che avevano congionti seco i teologi di Colonia, i quali chiaramente dicevano
che non s'averebbe trovato alcun antico che parlasse se non di riservazione de'
peccati publici, e che il condannar il cancellario parisiense, tanto pio e
catolico scrittore, che biasimava le riserve, non era condecente. Che gli
eretici solevano dire queste riserve esser per uccellar danari, come anco disse
il cardinal Campeggio nella sua riforma e che se gli dava occasione di scrivere
contra; al che i teologi non averebbono risposto, né potuto rispondere. E
pertanto doversi moderare cosí la dottrina, come il canone, in maniera che non
dia scandalo e non offendi alcun catolico.
I medesimi
coloniensi dicevano, per quello che tocca all'intelligenza delle parole:
«Quaecumque ligaveritis», la qual è condannata nel decimo canone, che
espressamente e formalmente Teofilatto cosí l'intende e che il condannarlo
sarà dar allegrezza agli avversarii. E per quel che nell'ultimo vien
detto, che la potestà di ligare s'intende quanto all'imporre le
penitenzie, avvertirono che li santi vecchi cosí non hanno inteso, ma ligare
intendevano far astener dal ricever i sacramenti sino alla compita
satisfazzione. Dimandavano ancora che si dovesse far menzione della penitenza
publica tanto commendata da' padri, da Cipriano massime e da san Gregorio papa,
che in molte epistole la decchiara necessaria de iure divino; la quale,
se non si rimette in uso quanto agl'eretici e publici peccatori, mai la
Germania si libererà; e con tutto ciò il decreto, cosí nella
dottrina, come ne' canoni, non solo non ne dice parola a favore, ma piú tosto
la snerva e gli detrae. Desideravano ancora che si decchiarasse qualche segno
esterno certo per materia del sacramento, perché altramente non si
risponderà mai alla obiezzione degl'avversarii.
A' teologi
francescani due cose sopra modo dispiacevano: l'una, l'aver dicchiarato per
materia del sacramento la contrizione, confessione e satisfazzione; non perché
non le avessero per necessarii requisiti alla penitenza, ma non per parti
essenziali d'essa; dicevano esser cosa chiara che la materia ha da esser cosa
che dal ministro è applicata al recipiente e non operazione del
recipiente medesimo; che in tutti i sacramenti questo appare, e però
esser grand'inconveniente metter gli atti del penitente per parte del
sacramento. Esser cosa indubitata che la contrizione non si ricerca meno al
sacramento del battesmo che a quello della penitenza; e pur tuttavia non si
mette per parte del battesmo. Che gl'antichi inanzi il battesmo ricercavano la
confessione de' peccati, come anco san Giovanni da quelli che battezava, e
facevano anco star i catecumeni in penitenze, e nondimeno nissun disse mai che
queste fossero parti, né materia del battesmo; e però condannar questa
opinione tenuta dagl'antichi teologi della religione francescana et anco al
presente da tutta la scola di Parigi, era un passar i termini. Ancora si lamentavano
che fosse dicchiarato per eresia il dire l'assoluzione sacramentale esser
declarativa, poiché questo fu il senso aperto di san Girolamo, et il Maestro
delle sentenze e san Bonaventura e quasi tutti i teologi scolastici hanno
chiaramente detto che l'assoluzione nel sacramento della penitenza è un
dichiarar assoluto. A questo ultimo gli era ben risposto che non era dannato
per eretico assolutamente chi diceva l'assoluzione esser una dichiarazione che
i peccati sono rimessi, ma che i peccati sono rimessi a chi crede certamente
che rimessi gli siano, perilché vien compreso il solo parer di Lutero. Ma essi
non restavano sodisfatti, affermando che dove si tratti d'eresia convien parlar
chiaro e che per tutto non vi sarà uno che darà questa
dicchiarazione, e dimandavano che cosí nel capo della dottrina, come
nell'anatematismo fosse bene dichiarato questo particolare. Ma frate Ambrosio
Pellargo, teologo dell'elettor de Treviri, considerò, che le parole del
Signore: «Quorum remiseritis», forse da nissun padre erano interpretate per
instituzione del sacramento della penitenza, e che da alcuni erano intese per
il battesmo, e da altri in qualonque modo il perdono de' peccati sia ricevuto;
e però che il voler restringerle alla sola instituzione del sacramento della
penitenza e dicchiarar eretici quelli che altramente esponessero sarebbe dar
una gran presa agl'avversarii e materia di dire che nel concilio si fosse
dannata l'antica dottrina della Chiesa, e però gl'essortava che, prima
che far cosí gran passo, si dovesse veder tutte le esposizioni de' padri et,
essaminata ciascuna, deliberar poi quello che si dovesse dire. Molti de' padri
giudicarono le remonstranze assai considerabili e desideravano che di nuovo
fosse consultato da' deputati e, sí come s'era fatto nelle occasioni passate,
rimover le cose che offendevano alcuno e formar il decreto in maniera che da
ogni uno fosse approbato.
Ma il
cardinale Crescenzio s'oppose a questo con perpetua orazione, mostrando che il
snervar i decreti e levargli l'anima per satisfar gl'umori de' particolari non
era degnità della sinodo; che erano maturamente stabiliti e cosí
conveniva osservargli; nondimeno, se pur il parer suo non aggradiva tutti, che
inanzi ogn'altra cosa si dovesse trattar questo generale in una congregazione,
se era ben far mutazione o no, e poi descender al particolare. Ma egli in
questo non scoprí intieramente qual fosse la sua mira, la qual poi
manifestò a' colleghi et a' confidenti: che non bisognava introdur l'uso
di contendere e parlar cosí liberamente, pericoloso se i protestanti fossero
venuti, perché averebbono essi voluto altretanto, quanto i nostri volevano, a
favor delle opinioni proprie; che alla libertà del concilio onesta e
raggionevole basta assai il poter dir la propria opinione mentre la materia si
disputa, ma dopo, quando, sentiti tutti, i decreti sono formati da' deputati et
approbati da' presidenti, veduti anco et essaminati et approvati a Roma, il
rivocargli in dubio e ricercarvi mutazione per interessi particolari era cosa
licenziosa. Vinse finalmente il cardinale, persuasa la maggior parte de' padri
che la dottrina stabilita era de' piú sensati teologi e piú opposta alle
nuovità luterane
[Trattazione dell'estrema onzione; suoi
capitoli et anatematismi]
Ma poiché
è detto quasi l'intiero di quello che tocca la materia di fede per
questa sessione, è ben continuare quel poco che resta dire del
sacramento dell'estrema onzione. Intorno il quale parlarono i teologi con la
medesima prolissità, ma senza differenza alcuna tra loro. E sopra i loro
pareri furono formati 3 capi di dottrina, e 4 anatematismi. La dottrina
conteneva in sostanza: che l'onzione degli infermi è vera e propriamente
sacramento, da Cristo nostro Signore appresso san Marco insinuato e da san Giacomo
apostolo publicato; dalle parole del quale la Chiesa per tradizion apostolica
imparò che la materia del sacramento è l'oglio benedetto dal
vescovo, e la forma le parole quali il ministro usa; ma la cosa contenuta e
l'effetto del sacramento è la grazia dello Spirito Santo che monda le
reliquie del peccato e solleva l'anima dell'infermo e dona qualche volte la
sanità del corpo, quando è utile per l'anima. I ministri del
sacramento sono i preti della Chiesa, non intendendosi per il nome de «presbiteroi»
i vecchi, ma i sacerdoti; e questa onzione si debbe dar principalmente a quelli
che sono in stato per uscire di vita, i quali però, risanandosi,
potranno di nuovo riceverlo, quando saranno nello stesso stato. E per tanto si
pronuncia l'anatema:
1 Contra chi
dirà, che l'estrema onzione non sia vera e propriamente sacramento da
Cristo instituito.
2 Che non
doni la grazia, non rimetti i peccati, non allevi gl'infermi, ma sia cessata
come quella che parteneva già alla grazia della sanità.
3 Che il rito
usato dalla Chiesa romana sia contrario al detto di san Giacomo e possi esser
sprezzato senza peccato.
4 Che il solo
sacerdote non sia ministro e che san Giacomo intendesse de' vecchi
d'età, e non de' sacerdoti ordinati dal vescovo.
Ma se alcuno
si maravigliasse perché nel primo capo della dottrina di questo sacramento sia
detto che egli è da Cristo nostro Signore in san Marco insinuato et in
san Giacomo publicato, dove l'antecedenza e la consequenza delle parole portava
che non si dicesse insinuato, ma instituito, saprà che cosí fu
primieramente scritto; ma avendo un teologo avvertito che gl'apostoli, de'
quali san Marco dice che ongevano gli infermi, in quel tempo non erano ordinati
sacerdoti, tenendo la Chiesa romana che il sacerdozio gli fosse conferito solo
nell'ultima cena, pareva cosa ripugnante affermare la onzione che essi davano
esser sacramento e che i soli sacerdoti siano ministri di quello. Al che se ben
alcuni, tenendo quella per sacramento e volendo che allora da Cristo fosse
instituita, rispondevano che, avendogli Cristo commandato di ministrar
quell'onzione, gl'aveva fatti sacerdoti quanto a quell'atto solamente, sí come
se il papa commandasse ad un semplice prete di dar il sacramento della cresma,
lo farebbe vescovo quanto a quell'atto, nondimeno parve troppo pericolosa cosa
l'affermar questo assolutamente. Perilché in luogo della parola «institutum»,
fu presa quell'altra «insinuatum». La qual, che cosa possi significare in tal
materia, lo giudicherà ogni uno che intenda quello che sia insinuare, e
l'applichi a quello che gli apostoli operarono allora con quello che da san
Giacomo, fu commandato, et alla determinazione fatta da questo concilio.
[Articoli e decreti di riforma sopra la
giurisdizzione episcopale]
Ma nella
materia della riforma, sí come s'è detto, 14 furono gl'articoli
proposti, appartenenti tutti alla giurisdizzione episcopale; nella trattazione
de' quali, dopo aver inteso il parer de' canonisti nelle congregazioni et il
tutto letto nella generale, si venne alla formazione del decreto: nel che la mira
de' vescovi non era altra che accrescer l'autorità propria, recuperando
quello che la corte romana s'aveva assonto spettante a loro; et il fine de'
presidenti non era altro che di concedergli quanto manco fosse possibile; ma
con destrezza procedevano l'una [e] l'altra parte, mostrando tutti d'aver una
stessa mira al servizio di Dio e la restituzione dell'antica disciplina
ecclesiastica. Riputavano i vescovi d'esser impediti da far il loro ufficio,
perché, quando sospendevano alcuno, per urgenti cause note a loro,
dall'essercizio degli ordini, gradi o degnità ecclesiastiche, overo, per
qualche simile rispetto, ricusavano concedergli passar a maggior gradi, con una
licenzia da Roma o con una dispensa il tutto era retrattato, il che cedeva in
diminuzione della riputazione episcopale, in dannazione delle anime et in total
detrimento della disciplina. Sopra che fu formato il primo capo che simil
licenzie o restituzioni non giovassero. Ma però non volsero i presidenti
che per riputazione della Sede apostolica fosse nominato né il pontefice, né il
sommo penitenziario, né altri ministri di corte, da chi simil licenzie solevano
impetrar. Erano ancora di grand'impedimento li vescovi titolari, i quali,
vedendosi per il decreto publicato nella sesta sessione privati di poter
essercitar gl'ufficii ponteficali nelle diocesi senza licenza del proprio
vescovo, si ritiravano in luogo essente, non suddito ad alcun vescovo,
admettendo agl'ordini sacri i reietti già da' vescovi proprii come
inabili, e questo per vigor di privilegio di poter ordinare ciascuno che se gli
presentasse. Questo fu proibito nel secondo capo, con moderazione, però,
che per riverenzia della Sede apostolica non si facesse menzione di chi ha
concesso il privilegio; et in consequenza di questo, nel terzo capo fu data
facoltà a' vescovi di poter suspender per il tempo che a loro paresse
ciascun ordinato senza loro essamine e licenza per facoltà data da qual
si voglia; le quali cose da' vescovi avveduti erano ben conosciute esser di
leggier sussistenza, poiché per la dicchiarazione de' canonisti sotto i nomi
generali non vengono mai comprese le licenze, privilegii e facoltà
concesse dal pontefice, se non è fatta special menzion di loro; con
tutto ciò, non potendo di piú aver, si contentavano di questo tanto, sperando
che il tempo potesse aprir strada di far qualche passo piú inanzi.
Era anco
nella medesima sesta sessione stato decretato che nissun chierico secolare, per
virtú di privilegio personale, né regolare abitante fuori del monasterio, per
vigor del privilegio dell'ordine suo, fosse essente dalla correzzione del
vescovo come delegato della Sede apostolica; il che riputando alcuni che non
comprendesse i canonici delle catedrali o altre degnità delle
collegiate, le quali non per privilegii, ma per antichissima consuetudine,
overo per sentenzie passate in giudicato, o per concordati stabiliti e giurati
co' vescovi si ritrovavano in possessione di non esser soggetti al giudicio
episcopale, et altri anco restringendo alle sole occasioni di visita, fu nel
quarto capo ordinato, quanto a' chierici secolari, che s'estendesse a tutti i
tempi et a tutte le sorti d'eccessi, e dicchiarato che nissuna delle sudette
cose ostassero.
Non nasceva
minor disordine perché dal pontefice, a qualonque cosí ricercava, con i mezzi usati
in corte, era concesso giudice ad elezzione del supplicante, con
autorità di protegerlo, difenderlo e mantenerlo in possessione delle
raggioni, levando le molestie che gli fossero date, estendendo anco la grazia
a' domestici e famigliari; e questa sorte de giudici chiamavano conservatori; i
quali estendevano l'autorità loro, in luogo di difender il supplicante
dalle molestie, a sottrarlo dalle giuste correzzioni et anco a dare molestie ad
altri ad instanzia loro e travagliare i vescovi et altri superiori
ecclesiastici ordinarii con censure. A questo disordine provede il quinto capo,
ordinando che non giovino le grazie conservatorie ad alcuno, ad effetto che non
possi esser inquisito, accusato e convenuto inanzi l'ordinario nelle cause
criminali e miste. Appresso, che le civili, dove egli sia attore, non possino
esser trattate inanzi al conservatore, e nelle altre, se l'attore averà
il conservatore per sospetto o nascerà differenza tra esso e l'ordinario
sopra la competenzia di foro, siano eletti arbitri secondo la forma della
legge, e che le lettere conservatorie che comprendono anco i famigliari, non
s'estendano se non al numero di due soli e che vivino a spese di lui, e simili
grazie non durino per piú che 5 anni, né i conservatori possino aver tribunali;
non intendendo però la sinodo di comprender in questo decreto le
università, collegii de dottori o scolari, i luoghi de' regolari e
gl'ospitali. Sopra la qual eccezzione, quando questo capo fu trattato, vi fu
grandissima contenzione, perché pareva a' vescovi che, contra ogni dover,
l'eccezzione fosse piú ampla che la regola, essendo maggior il numero de'
dottori, scolari, regolari et ospitalarii che delli altri che abbiano lettere
conservatorie, e che ad un particolare è facile provedere, ma i disordini
che nascono per collegii et università esser importantissimi. Di questo
il legato ne diede conto a Roma, dove essendo già deciso per quello che
sotto Paolo III fu consultato, cioè esser necessario per mantenimento
dell'autorità apostolica che i frati et università dependessero
totalmente da Roma, non fu bisogno di nuova deliberazione, ma fu immediate
risposto che le conservatorie di questi non fossero in alcun modo toccate. Onde
essendo entrati in quel parere i padri della sinodo aderenti a Roma, gl'altri,
che erano numero minore, aggionto qualche ufficio e qualche speranza per
quietargli, furono costretti contentarsi dell'eccezzione.
Il sesto capo
fu sopra il modo di vestir de' preti, nel che fu facilmente concluso di
ordinare che tutti gl'ecclesiastici di ordine sacro o beneficiali fossero
tenuti portare l'abito conveniente al grado loro, secondo l'ordinazione del
vescovo, dando a quello potestà di poter suspendere i trasgressori, se
ammoniti non ubediranno, e privargli de' beneficii, se dopo la correzzione non
si emenderanno, col rinovare la constituzione del concilio viennense in questo
proposito; la qual però era poco adattata a quei tempi, proibendo le
sopravesti vergate e di diversi colori, et i tabbarri piú corti della veste, e
le calze scacute, rosse o verdi, cose disusate che non hanno piú bisogno di
proibizione.
Fu
antichissimo uso di tutte le nazioni cristiane che, ad imitazione della
mansuetudine di Cristo nostro Signore, tutti i ministri della Chiesa fossero
netti e mondi dal sangue umano, non ricevendosi mai ad alcuno ordine
ecclesiastico persona macchiata d'omicidio, o fosse quello volontario o
casuale, e se qual si voglia ecclesiastico fosse incorso per volontà in
simil eccesso, o per caso ancora, gli era levata immediate ogni fonzione
ecclesiastica. Questo dalle altre nazioni cristiane, alle quali le dispense
contra i canoni sono incognite, è stato et è di presente
inviolabilmente osservato; ma dalla latina, dove le dispense sono in uso et in
facilità, avendo commodo i ricchi di valersene, è rimasto in
osservanzia solo per i poveri. Essendo proposto nel quarto e quinto articolo di
moderar l'abuso, fu nel settimo capo statuito che l'omicida volontario resti
sempre privo d'ogni ordine, beneficio et ufficio ecclesiastico, et il casuale,
quando vi sia raggione di dispensarlo, la commissione della dispensazione non
sia data ad altri che al vescovo, et essendoci causa di non commetterla a lui,
al metropolitano, o ad un altro vescovo piú vicino: il qual decreto ben si
vedeva che non serviva a moderar gl'abusi, ma piú tosto ad incarir le dispense,
perché quanto all'omicidio volontario non erano ligate le mani al pontefice, e
quanto al casuale era servato il decreto, non commettendo ad altri che al
vescovo, ma non impedito però il dispensare alla dritta senza commetter
la causa ad altri, facendo prima le prove in Roma, o veramente espedendo la
dispensa sotto nome di motu proprio, o con altre clausule delle quali la
cancellaria abonda, quando gli vien occasione di valersene.
Pareva che
impedisse assai l'autorità episcopale certa sorte de prelati, i quali,
per conservarsi in qualche riputazione nel luogo dove abitavano, impetravano
dal pontefice autorità di poter castigar i delitti degl'ecclesiastici in
quel luogo, et alcuni vescovi anco sotto pretesto che i preti loro ricevessero
scandali e mali essempii da quelli delle diocesi vicine, impetravano
autorità di potergli castigare. Questo disordine desiderando alcuni che
fosse rimediato con revocar totalmente simili autorità, ma parendo che,
se ciò si facesse, sarebbe dato disgusto a molti cardinali e prelati
potenti che abusavano tal autorità, fu trovato temperamento di
conservargliela senza pregiudicio del vescovo con ordinare nell'ottavo capo che
questi non potessero procedere se non con l'intervento del vescovo o di persona
deputata da lui. Era un altro modo di sottopor le chiese e persone d'una
diocese ad un altro vescovo, con unirle alle chiese o beneficii di quello; il
che, se ben veniva proibito con termini generali nella settima sessione,
però non essendo tanto chiaro, quanto alcuni averebbono desiderato, ne
dimandarono espressa dicchiarazione; sopra che si venne in risoluzione di
proibir ogni unione perpetua di chiese d'una diocesi a quelle dell'altra, sotto
qualonque pretesto.
I regolari
facevano grand'instanzia di conservar i loro beneficii e di racquistar anco i
già perduti con l'invenzione delle commende perpetue, e molti vescovi
per diversi rispetti desideravano suffragargli: per la qual causa averebbono
volontieri proposto che le commende perpetue fossero a fatto levate, ma
dubitando della contradizzione, si restringevano a moderarle. E dall'altro
canto i presidenti, vedendo il rischio che questa materia pericolosa per la
corte fosse posta a campo, proposero essi un leggier rimedio per impedire che si
trattasse del buono: e questo fu che i beneficii regolari, soliti esser dati in
titolo a religiosi, quando per l'avvenir vacheranno, non siano conferiti se non
a professi di quell'ordine, overo a persona che debbi ricever l'abito e far la
professione. Che fu il capo decimo: il che alla corte romana poteva importar
poco, essendo già commendati tutti quelli che si potevano commendare, e
ne' prelati non era grand'ardore d'ottener maggior cosa, se ben cedeva in onor
delle chiese loro aver abbati regolari residenti. Ma per il favore fatto al
monacato di non usurpargli piú di quello che sino allora era usurpato, gli fu
congionto un contrapeso nel seguente capo, con ordinare che non potessero aver
beneficii secolari, eziandio curati. Il quale capitolo, se ben parla di quei
solamente che sono trasferiti da un ordine ad un altro, ordinando che non sia
alcun ricevuto, se non con condizione di star nel chiostro, nondimeno per la
parità della raggione, anzi per un argomento di maggior raggione,
è stato inteso generalmente di tutti. E perché si concedevano in corte
per grazia le chiese in iuspatronato e per far anco maggior grazia a petizione
di chi l'impetrava, era conceduto che potessero deputar persona ecclesiastica
con facoltà d'instituir il presentato, nel duodecimo capo fu rimediato
al disordine, ordinando che il iuspatronato non possi competere se non a chi
averà de nuovo fondato chiesa, overo averà provisto de' beni suoi
patrimoniali per dote competente d'una fondata; e per rimedio del secondo
disordine, nel capo decimoterzo fu proibito al patrone, eziandio per virtú di
privilegio, di far la presentazione ad altri che al vescovo.
[Ambasciata di Vittemberga al concilio. Cesare
viene a Ispruc]
Mentre che si
trattavano queste materie, gionsero in Trento Giovanni Teodorico Pleniagoro e
Giovanni Eclino, mandati ambasciatori dal duca di Vittemberga al concilio con
ordine che dovessero presentare publicamente la confessione della loro
dottrina, della quale di sopra s'è parlato, et insieme dire che
sarebbono andati teologi per esplicarla piú copiosamente e difenderla, purché
gli fosse data sicurezza e salvocondotto, secondo la forma del concilio
basileense. Questi si presentarono al conte di Montfort, ambasciatore cesareo,
mostrarono il loro mandato e dissero aver commissione di proponer alcune cose
in concilio. Il che dal conte riferito al legato, egli rispose che, sí come
gl'altri ambasciatori inanzi ad ogni altra cosa si presentano a' presidenti per
nome del pontefice e gli significano la somma dell'ambasciaria, cosí dovevano
far i vittembergici; però andassero, che egli gl'averebbe ricevuto con
ogni umanità. Il conte fece la risposta, della quale non si
contentarono, dicendo questo essere a punto uno de' capi ricchiesti in Germania
che nel concilio il papa non presedesse, al che non volendo contravenire senza
ordine del suo prencipe, averebbono scritto et aspettato risposta. Provò
il conte con destro modo di sottrar quel tutto che il loro carico portava per
avisarne il legato. Ma i vittembergici, stando sopra i generali, non uscirono a
specificazione alcuna. Il legato diede immediate aviso a Roma, ricercando il
modo di governarsi, massime che s'intendeva doverne venir altri ancora.
Ma nel
principio di novembre Cesare, per esser piú vicino al concilio et alla guerra
di Parma, si trasferí in Ispruc, non piú distante da Trento di tre giornate e
di strada anco assai commoda, in modo che poteva dagli ambasciatori suoi,
occorrendo, esser in un giorno avisato. Ebbe il pontefice nuova tutt'insieme
dell'arrivo dell'imperatore e de' vittembergici; e se ben si fidava delle
promesse di Cesare fattegli inanzi la convocazione del concilio e replicate
tante volte, e ne vedeva effetti, perché gl'ambasciatori imperiali raffrenavano
i spagnuoli quando mostravano troppo ardire in sostentar l'autorità
episcopale, e gl'interessi communi contra il re di Francia persuadevano a
credere che dovesse perseverare; nondimeno essendogli alle orecchie penetrato
qualche cosa trattata in Germania, aveva anco qualche gelosia che, o per
necessità, o per qualche grand'opportunità che gl'affari
potessero portare, non mutasse opinione. Prese però in se medesimo
confidenza, considerando che, se la Germania passava a guerra, non si sarebbe
tenuto conto di concilio, durante la pace, che egli aveva gli ecclesiastici
tedeschi dalla parte sua et i prelati italiani, il numero de' quali gli era
facile aumentare, spingendo là tutti quelli che erano in corte, et il
legato ben risoluto e che, pieno di speranza di papato, opererebbe come per se
medesimo, et il noncio sipontino affezzionatissimo alla persona sua, e
finalmente esser sempre aperto l'adito di riconciliarsi con Francia, cosa da
quel re desiderata; col mezo del quale e de' prelati del suo regno poteva
ovviar ad ogni tentativo che contra l'autorità sua fosse fatto.
Rispose al
legato che poca instruzzione poteva dar di piú a lui che era stato non solo
consapevole, ma anco autor principale delle trattazioni passate nel formar la
bolla della convocazione; raccordassesi che studiosamente furono approvate in
quella le cose decretate sotto Paolo; che fu detto al pontefice appartenere non
solo il convocare, ma l'indrizzare i concilii e presedervi col mezo de' ministri
suoi; non lasciasse fare alcun foro pregiudiciale ad alcuna di queste; del
rimanente si governasse sul fatto; raccordogli di fuggir i consegli medii et i
temperamenti come la peste, quando d'alcuna d'esse si tratterà, ma
immediate che la difficoltà nasca, debbia romper afatto, senza aspettar
che gl'avversarii abbiano adito di penetrare. Che non voleva caricarlo di
adossarsi translazione o dissoluzione del concilio, ma quando avesse veduto il
bisogno, avisasse in diligenza. Del rimanente mettesse sempre a campo piú
materia che fosse possibile de' dogmi, per far piú buoni effetti: l'uno
disperar i luterani di poter trovar modo di concordia, se non sottomettendosi
afatto, et interressar anco i prelati maggiormente contra di loro; far che
questi occupati non avessero tempo di pensar alla materia di riforma e dar anco
presta espedizione al concilio, capo importantissimo, essendo sempre in
pericolo di qualche inconveniente mentre dura; e quando si vedesse costretto a
dar loro qualche sodisfazione per ampliar l'autorità episcopale
condescendesse, stando però indietro quanto fosse possibile; perché,
quando ben si concedesse qualche cosa pregiudiciale alla corte, come alquante
erano concesse sin allora, restando l'autorità pontificale intiera, restava
insieme modo di ritornar facilmente le cose allo stato di prima.
[Quarta sessione. Giudicii sopra i decreti
d'essa]
Essendo le
cose in questi termini, venne il 25 novembre, giorno destinato per la sessione.
In quello si congregarono i padri e col solito ordine s'incaminarono alla
chiesa, dove, compite le ceremonie, dal vescovo celebrante fu letta la dottrina
della fede, gli anatematismi et il decreto della riforma, de' quali, avendo
già recitato il tenore, altro non resta dire. E finalmente fu letto
l'ultimo decreto per dar ordine alla sessione futura; nel quale si diceva che
essendo quella già stabilita per il 25 genaro, in essa si doverà
insieme con la materia del sacrificio della messa, trattar ancora del
sacramento dell'ordine; cosí volle che fosse pronunciato il legato, seguendo il
parer del papa, che fosse ben metter in tavola assai materie de dogmi. Finita
la sessione, usò diligenza il legato che i decreti d'essa non fossero
stampati e fu osservato il suo ordine a Ripa, dove era la stampa e gl'altri si
solevano stampare; ma non si poté tenere che molte copie non uscissero di
Trento, onde furono stampati in Germania, e la difficoltà e la dilazione
di uscir in luce eccitò maggiormente la curiosità e la diligenza
de critici di far essamine piú essatto per indagar la causa della procurata
secretezza.
Gran materia
di discorso diede quello che nel primo capo della dottrina e nel sesto canone
era deciso, cioè che Cristo, quando soffiò verso i discepoli e
diede loro lo Spirito Santo, dicendo che saranno rimessi i peccati a quelli a
chi essi gli rimetteranno e ritenuti a quelli a chi gli riteneranno. Era
considerato che il battesmo prima era usato da' giudei per mondizia legale, poi
da san Giovanni applicato per preparazione d'andar al messia venturo, e
finalmente da Cristo con espresse parole e chiare instituito sacramento per
remissione de' peccati et ingresso nella Chiesa, ma ordinando che si
ministrasse in nome del Padre, Figlio e Spirito Santo. Parimente esser stato un
postcenio instituito dagl'ebrei nella cattività babilonica con pane e
vino per ringraziamento e memoria dell'uscita d'Egitto, mentre che per esser
fuori della terra di promissione non potevano mangiare l'agnello della Pasca:
il qual rito imitando Cristo, nostro Signore, instituí una eucaristia per
render a Dio grazie della universale liberazione del genere umano et in memoria
di lui che ne fu l'autore con lo spargimento del sangue. E con tutto che
fossero simili riti già in uso, se ben per altri fini, come è
detto, nondimeno la Scrittura esprime tutte le singularità di quelli;
ora che Cristo volesse introdur un rito di confessar ad un uomo i peccati suoi
in singolare con tanta essattezza, di che non era uso alcuno simile, e volesse
esser inteso con parole, da' quali per sola molto inconnessa consequenza si
potesse cavare, anzi non senza molte lontanissime consequenze, come si faceva
dal concilio, pareva cosa maravigliosa. Et era anco in maraviglia perché,
stante l'instituzione per il verbo di «rimetter», non fosse usata per forma:
«ti rimetto i peccati», piú tosto che «ti assolvo». Aggiongevano altri che, se
per quelle parole è instituito un sacramento dell'assoluzione, con la
forma «absolvo te» per chi viene assoluto, per necessità inevitabile
convien dire che sia instituito o un altro, o quello stesso per chi è
ligato, nel quale sia parimente questa forma: «ligo te», non potendosi capire
come la medesima autorità d'assolvere e ligare, fondata sopra le parole
di Cristo in tutto simili, ricerca nell'assolvere la prononcia delle parole:
«absolvo te», e quella di ligare non ricchieda la prononcia delle parole «ligo
te». E con che raggione per esseguir quello che Cristo ha detto: «Quorum
retinueritis», etc. e «quaecunque ligaveritis» etc. non è necessario dir
«ligo te», ma per esseguir «Quorum remiseritis» e «quaecumque solveritis»
è necessario dire: «absolvo te».
Similmente
era criticata la dottrina inferita nel quinto capo, dove si dice che Cristo con
le medesime parole constituí i sacerdoti giudici de' peccati, e però sia
necessario confessargli tutti intieramente in specie e singolarmente, insieme
con le circonstanze che mutano specie; imperoché chiaramente appar dalle parole
di nostro Signore che egli non ha distinto due sorti di peccati, una da
rimetter e l'altra da ritenere, che per ciò convenga saper de' quali il
delinquente sia reo, ma una sola che gli comprende tutti; e però non
è detto se non «peccata» in genere; ma ben ha distinto due sorti de
peccatori, dicendo: «quorum» e «quorum»: una de' penitenti, a quali si concede
la remissione, l'altra de' impenitenti, a quali si nega. Però piú tosto
hanno da conoscere lo stato del delinquente, che la natura et il numero de'
peccati. Ma poi quello che s'aggionge delle circonstanze che mutano specie, si
diceva che ogni uomo da ben poteva con buona conscienza giurare che i santi
apostoli e loro discepoli dottissimi delle cose celesti, non curando le
sottilità umane, mai seppero che vi fossero circonstanze mutanti specie,
e forse, se Aristotele non avesse introdotta questa speculazione, il mondo a
quest'ora ne sarebbe ignaro; e tuttavia se n'è fatto un articolo di
fede, necessario alla salute. Ma sí come veniva approbato che «absolvo»
è verbo giudiciale e riputata buona consequenza che, se i sacerdoti
assolvono, sono giudici, cosí pareva un'inconstanza il condannar quelli che
dicevano esser un ministerio nudo di prononciare, essendo cosa chiara che
l'officio del giudice non è se non pronunciar innocente quello che
è tale, e colpevole il trasgressore. Ma il far di delinquente giusto,
come s'ascrive al sacerdote, non sostiene la metafora del giudice. Fa il
prencipe grazia a' delinquenti della pena, restituisce alla fama: a questo
è piú simile chi fa de empio giusto, e non al giudice, che trasgredisce
il suo officio sempre che altro prononcia, salvo che quello che ritrova esser prima
vero. Ma piú stupivano che d'ogni altra cosa nel legger il capo dove si prova
la specifica e singolare confessione de' peccati con le circonstanze, perché il
giudicio non si può essercitar senza cognizione della causa, né servar
l'equità nell'imponer le pene, sapendogli solo in genere; e piú sotto,
che Cristo ha commandato questa confessione, acciò potessero imponer la
condegna pena. Dicevano che questo era ben un ridersi palesamente del mondo e
stimare tutti per sciocchi e persuadersi dover esser creduta loro ogni
assordità senza pensar piú oltra. Imperoché chi è quello che non
sa e non vede quotidianamente che i confessori danno le penitenze non solo
senza ponderare il merito delle colpe, ma anco senza averci sopra alcuna minima
considerazione. Parerebbe, ben considerato il parlare del concilio, che i
confessori avessero una bilancia che trasse sino agl'atomi; e pure con tutto
ciò ben spesso il recitar 5 Pater sarà dato in penitenza
per molti omicidii, adulterii e furti: et i piú letterati tra i confessori,
anzi l'universale d'essi, nel dar la penitenza, dicono a tutti che impongono
solo parte della penitenza. Adonque non è necessario impor quella
essatta penitenza che le colpe meritano: onde né meno la specifica numerazione
de' peccati e circonstanze. Ma a che andar tanto lontano, se l'istesso
concilio, nel nono capo della dottrina e nel decimoterzo anatematismo statuisce
che si sodisfa anco per le pene volontarie e per le toleranze delle
aversità? Adonque non fa bisogno, anzi non è cosa giusta impor in
confessione la corrispondente pena; perilché né meno farla specifica
numerazione che per questa causa si dice ordinata. Et aggiongevano che senza
considerar ad alcuna delle cose sudette il confessore, quantonque dottissimo,
attentissimo e prudentissimo, avendo ascoltata la confessione d'un anno di
persona mediocre, non che di piú anni d'un gran peccatore, è impossibile
che dia giudicio della pena, eziandio che avesse canoni di ciascuna debita a
qual si voglia peccato, senza pericolo di fallare della metà per dir
poco. Poiché né anco un tal confessore, vedendo in scritto e considerando piú
giorni, potrebbe far un bilancio che dasse nel segno, non che ascoltando e
risolvendosi immediate, come si fa. Sarebbe pur giusto, dicevano, che non
fossimo cosí disprezzati, con tenerci tanto insensati che dovessimo creder
tante assordità. Della riservazione de' casi fu troppo detto quello che
da' teologi di Lovanio e Colonia era stato predetto, et era attribuita a
dominazione et avarizia.
[In congregazione si ordina di trattar della
messa e del calice. Difficoltà sopra le proposte de' vittembergici]
Ma nel
concilio, il dí seguente si fece la generale congregazione, per metter ordine
alla discussione della materia del sacrificio della messa e della communione
del calice e de' fanciulli; e con tutto che già i decreti erano formati
per la sessione de 11 ottobre e differiti, nondimeno come se niente fosse
trattato, di nuovo fu discorso, et eletti i padri a raccogliere gl'articoli per
disputar, e poi eletti i padri a formar il decreto: e perché le cose
s'affrettavano, subito furono formati al numero di 7, sopra quali fu disputato
2 volte al giorno: nel qual numero fu posto l'ambasciatore di Ferdinando e
Giulio Plugio, vescovo di Namburgo e per maggior onore anco l'elettor di Colonia,
acciò tutta quella dottrina paresse venir di Germania e non da Roma.
Furono formati 13 anatematismi, condannando per eretici quelli che non la
tengono per vero e proprio sacrificio o che asseriscono non giovare a' vivi et
a' morti, overo non ricevono il canone della messa o dannano le messe private
overo le ceremonie che la Chiesa romana usa, e poi formati 4 capi di dottrina:
che nella messa si offerisce vero e proprio sacrificio instituito da Cristo;
della necessità del sacrificio della messa e della convenienza con
quello della croce; de' frutti di quel sacrificio e dell'applicazione d'esso;
de' riti e ceremonie della messa. Le qual cose tutte furono stabilite per le
feste di Natale e non son narrate qui piú particolarmente poiché nella sessione
seguente non furono publicate.
Ma mentre che
i padri si trattengono nelle azzioni conciliari, ricevettero gl'ambasciatori di
Vittemberg risposta dal suo prencipe che dovessero caminar inanzi e presentar
la loro dottrina nel miglior modo che potevano; perilché essi, essendo assente
il conte di Montfort, fecero officio col cardinale di Trento che operasse co'
presidenti di far ricever le lettere e poi congregar i padri et ascoltargli. Il
cardinale promesse ogni buon officio, ma disse esser necessario riferir prima
al legato quello che dovevano trattare, essendo cosí statuito da' padri, mossi
da' rumori che nacquero per l'abbate di Bellosana. Essi gli communicarono la
loro instruzzione, dicendo che erano mandati per ottener un salvocondotto come
fu dato in Basilea a' boemi per i teologi loro, e che avevano commissione di
presentar la loro dottrina, acciò tra tanto fosse da' padri essaminata,
per esser in ordine a conferire co' teologi, quando fossero arrivati: della
quale avendo il cardinale fatta relazione al legato, egli gli communicò
quanto dal papa gli era stato scritto e gli considerò che non era da
permettere che né essi né altri protestanti presentassero la loro dottrina, né
meno fossero admessi a difenderla, perché non si vederebbe il fine delle
contenzioni: esser officio de' padri, il quale anco era sino a quell'ora
esseguito e s'averebbe cosí continuato, d'essaminar la dottrina loro tratta da'
libri e condannar quella che meritava; se essi protestanti avessero qualche
difficoltà e la proponessero umilmente e mostrandosi pronti a ricever
instruzzione, gli sarebbe data secondo l'aviso del concilio; e però che
negava assolutamente di voler che si congregassero i padri per ricever la
dottrina loro, e da questo parer non poter dipartirsi, quando ben dovesse metterci
la vita. Per quello che toccava al dar salvocondotto in altra forma, che era
con essorbitante indegnità della sinodo che non si fidassero del
conceduto, e che il trattarne era ingiuria alla Chiesa di Dio insopportabile e
degna che ogni fedele vi mettesse la vita per propulsarla.
Il cardinale
di Trento non volse dar risposta cosí aspera agl'ambasciatori, ma disse che il
legato aveva sentito con sdegno la proposizione loro di voler principiar dal
presentar la dottrina, dovendo essi ricever da' suoi maggiori con riverenza et
obedienza la regola delle fede, e non voler prescriverla agl'altri con tanto
indecoro et assordità. Perilché gli consegliava trapassar qualche giorno
sin che lo sdegno del legato fosse rimesso e poi principiar la proposta da qualch'altro
capo, per capitar poi a quelli del presentar la dottrina e chieder il
salvocondotto. Ricevettero il conseglio e, dopo qualche giorni, essendo partito
il cardinale di Trento, fecero far officio per l'ambasciatore cesareo,
acciò dal legato fosse ricevuto il loro mandato et ascoltata la
proposizione, per dover essi, intesa la mente di lui, deliberare secondo che
dal loro prencipe avevano instruzzione. L'ambasciatore trattò col
legato, dal quale ebbe l'istessa risposta data al Trento, perché non sdegno, ma
deliberata volontà l'aveva somministrata allora. L'ambasciatore, intesa
la mente del cardinale, giudicò che per allora il negozio non potesse
aver luogo, e conoscendo che il riferir la risposta era contra la
degnità di Cesare, quale aveva cosí largamente promesso che ogn'un
sarebbe stato udito et averebbe potuto liberamente proporre e conferire, in
luogo di dar risposta precisa a' vittembergici, trovò diverse scuse a
fine di portar la cosa inanzi; né lo seppe far con tanta arte, quantonque fosse
spagnuolo, che non scoprissero esser pretesti per non dar una negativa aperta.
[Argentina et altre città mandano al
concilio. Massimiliano, passando per Trento, ode le querele de' protestanti]
Andarono in
questo tempo a Trento ambasciatori della città d'Argentina, e di 5 altre
insieme, con instruzzione di presentar la loro dottrina. Questi adoperarono
Vielmo Pittavio, terzo ambasciatore cesareo, il quale per non incontrar nelle
difficoltà occorse al collega, pigliò il loro mandato e gli
confortò ad aspettar pochi giorni, sin che lo mandasse a Cesare e
ricevesse da lui risposta, perché in questa guisa si caminerebbe con piede
fermo. Questo fu causa che anco i vittembergici si fermarono, e l'ambasciatore
scrisse a Cesare dando conto della risoluzione del legato e mostrando quanto
fosse contra la degnità della Maestà Sua che non si tenesse conto
d'una cosí onesta e giusta parola data da lei. Ma Cesare, volendo rimediare
all'indegnità che riceveva e cavar anco frutto dal concilio con destro
modo, aspettando gl'ambasciatori dell'elettor di Sassonia in breve, scrisse che
gl'altri fossero trattenuti sino al loro arrivo, certificandogli che allora
sarebbono stati uditi e conferito con essi loro con ogni carità.
Al 13 di
decembre passò per Trento Massimiliano, figliuolo di Ferdinando, con la
moglie e figliuoli, e fu incontrato dal legato e da' prelati italiani e
spagnuoli e da alcuni germani ancora. I prencipi elettori non l'incontrarono,
ma lo visitarono all'alloggiamento. Con lui ancora gl'ambasciatori protestanti
fecero condoglienza che con tante promesse fatte loro da Cesare, però
non potevano manco aver udienza, e lo pregarono ad aver pietà di
Germania, perché quei preti, come forestieri, per minimi rispetti loro non
curano, se ben la vedono ardere, anzi col loro precipitar le determinazioni e
gl'anatemi, fanno le controversie ogni giorno piú difficili. Massimiliano gli
confortò ad usar pazienza e gli promise di far officio col zio, che le
azzioni del concilio passassero secondo che nella dieta aveva promesso.
[Il papa crea molti cardinali. In
congregazione si ordina di trattar del sacramento dell'ordine]
Al Natale
creò il pontefice 14 cardinali italiani: 13 ne publicò allora et
uno si riservò in petto per publicarlo al suo tempo. E per onestar una
creazione cosí numerosa nel principio di ponteficato, massime essendoci 48
cardinali nel collegio, che era stimato in quei tempi numero molto grande,
prese occasione dalle azzioni del re di Francia. Del quale si querelò,
cosí per la guerra che faceva contra la Sede apostolica, come per gl'editti
publicati, aggiongendo una nuova, arrivata allora da Lione e da Genoa, che
minacciasse anco far un patriarca in Francia, la quale quando si fosse
verificata, diceva esser necessario proceder contra lui per via giudiciaria,
nel che averebbe riscontrato in molte difficoltà per il gran numero de'
cardinali francesi, a quali bisognava metter contrapeso creandone di nuovi, e
persone di valore, de' quali la Sede apostolica nelle occasioni importanti si
potesse valere. Fu dal collegio corrisposto, et i nuovi cardinali ricevuti.
Dopo questo spedí in diligenza il vescovo di Montefiascone a Trento con lettere
credenziali al cardinal Crescenzio et a' tre elettori. A questi mandò
per rallegrarsi della loro venuta e ringraziargli del zelo e riverenza verso la
Sede apostolica, essortandogli alla perseveranza. Ordinò che dasse loro
conto della creazione de' cardinali fatta per aver ministri dependenti da sé,
poiché i vecchi erano dependenti tutti da qualche prencipe; e gli diede anco
commissione di scusarlo della guerra di Parma, dicendo che egli non faceva
guerra, ma era fatta a lui, che contra il suo voler era necessitato difendersi.
Al cardinal Crescenzio mandò a dar conto de' cardinali fatti, con
prometter che averebbe fatto intender a tutti loro la mente sua come dovessero
in ogni tempo deportarsi verso un suo amico al quale teneva tanti oblighi; fece
anco dir al noncio sipontino molto in secreto che di lui aveva disposto come
l'amicizia comportava: non si curasse di saper in che, ma attendesse a servir come
per il passato era stato solito di fare.
Fatte le
feste di Natale si fece congregazione generale per dar forma alla trattazione
del sacramento dell'ordine. Fu raggionato degl'abusi che in quello sono nella
Chiesa entrati, dicendo il noncio veronese che in tutti certamente qualche
abuso era degno di correzzione, ma in questo era l'oceano degl'abusi. E dopo
che da molti furono fatte esclamazioni assai tragiche, si pensò che era
ben prima propor, secondo il costume, gli articoli tratti dalla dottrina luterana,
poi discuter quali si dovevano dannar per eretici e formar gli anatematismi et
i capi di dottrina, et in fine parlar degl'abusi. Furono dati a' teologi 12
articoli, sopra quali sollecitamente si parlava mattina e sera; da' voti de'
teologi, i padri deputati formarono prima 8 anatematismi, dannando per eresia
il dire che l'ordine non è vero e proprio sacramento, et un solo che
tende per molti mezi al sacerdozio; il negare la ierarchia; il dir che ci vogli
il consenso del popolo; il dir che non vi sia un sacerdozio visibile; che
l'onzione non sia necessaria; che non si dia lo Spirito Santo; che i vescovi
non siano de iure divino e superiori a' preti. Sopra questi anco furono
formati quattro capi di dottrina: della necessità et instituzione del
sacramento dell'ordine; del visibile et esterno sacerdozio della Chiesa; della
ierarchia ecclesiastica, e della differenza del prete dal vescovo. La qual
dottrina e canoni essendo approvati dalla congregazione generale, furono posti
tutti in un decreto sotto l'istesso contesto con quello del sacrificio, per
publicargli nella sessione; se ben ciò non fu fatto per le raggioni che
si diranno: perilché anco non si fa piú particolar menzione delle cose che in
quelle congregazioni di decembre e genaro passarono, essendo le stesse materie
ventilate di novo sotto Pio IV nella terza ridozzione; alla quale quando saremo
gionti, narrerò le differenze tra questi decreti formati ora e quelli
che furono stabiliti dopo, sotto Pio.
[Rumori di guerra a Trento. Ambasciatori del
Sassone, e difficoltà nella lor recezzione]
Ma andando a
Trento da molte parti nuova che si facevano soldati per tutta Germania e
temendosi di guerra, i tre elettori, che vedevano le cose loro in pericolo,
mandate lettere e messi all'imperatore, ricchiedevano di poter tornar alli
Stati loro per conservazione delle cose proprie. Cesare, che desiderava la
continuazione del concilio, gli rispose nel principio del 1552 che i romori non
erano tanto grandi quanto la fama portava; che egli aveva mandato a veder la
verità e s'erano trovati solamente alcuni pochi sollevati, ma che le
città erano in officio e che Maurizio, del quale era rumore che fosse in
moto, doveva andarlo a trovare et aveva anco già destinato ambasciatori,
i quali tuttavia si trovavano in Ispruc per inviarsi immediate a Trento; che
quei pochi soldati alloggiati nella Turingia, quali trascorsi avevano fatto
danno nelle terre del Magontino, erano mossi per solo mancamento de stipendi;
che egli aveva mandato persona espressa acciò fossero pagati e
licenziati; che egli era consapevole di tutto quello che si diceva e temeva, né
trascurava cosa alcuna; aveva in ogni luogo chi l'avisava, né perdonava a
spesa; perilché gli confortava a non abandonar il concilio, che portarebbe
pericolo a disciogliersi con la loro partenza, con danno notabile della
religione: e se i loro Stati hanno bisogno di qualche provisione, commandino a'
loro ministri et avisino lui, che gli darà ogni aiuto.
Al 7 di
gennaro gionsero a Trento Volfio Colero e Leonardo Badehorno, ambasciatori di
Maurizio, elettor di Sassonia, che diede grand'allegrezza agl'elettori e
prelati germani, assicurati di questo che Maurizio non tentasse novità.
Trattarono prima con gl'ambasciatori di Cesare, dicendo che il suo prencipe,
come desideroso della concordia, aveva deliberato mandar al concilio alcuni
teologi, uomini pii et amatori della pace, il che averebbono anco fatto gli
altri prencipi protestanti: ma era necessario prima un salvocondotto nella
forma del basileense, e che tra tanto in concilio si fermasse ogni trattazione,
e che gionti quelli si reessaminassero le cose già trattate, non essendo
concilio generale se non vi intervengono tutte le nazioni. Che il pontefice non
vi abbia autorità di presedere, ma si sottoponga al concilio e relassi
il giuramento a' vescovi, acciò i voti siano liberi. Aggionsero
gl'ambasciatori che nella congregazione de' padri averebbono esposto le cose
piú abondantemente, la qual desideravano che si adunasse presto, perché i teologi
erano
Gl'ambasciatori
cesarei et il Madruccio, preso conseglio, risolsero di non tentar co'
pontificii tutt'insieme, ma per principio solo trattar del ricever
gl'ambasciatori. Dopo longhe persuasioni, le quali miravano a mostrare che
quando fossero i sassoni introdotti nel consesso, dove essi erano presidenti,
si poteva dir che la presidenza era assai riconosciuta, quantonque non fosse
con loro complito inanzi a parte, alle persuasioni aggionsero le preghiere per
nome di Cesare, miste con qualche parola significante che conveniva non abusar
la sua clemenza, né costringerlo a pigliar altri rimedii: la necessità
esser un potente incitamento a chi ha la forza in mano. In fine il Crescenzio
si lasciò condurre che fossero ricevuti, non in sessione, ma in publica
congregazione generale in casa di lui, parendogli con questo esser riconosciuto
per capo. Spontato questo, vennero al soprasedere le materie. Diceva il Toledo
aver sentite tante volte predicare esser cosí cara a Cristo la salute
d'un'anima sola, che descenderebbe di nuovo ad esser crocifisso per
acquistarla, et ora con differire si recusava per salvar tutta Germania: dove
era l'imitazione di Cristo? Si scusava il legato co' commandamenti del papa
assoluti, a' quali non poteva contravenire; ma replicando l'ambasciatore che al
ministro si dà l'instruzzione in scritto e la discrezzione si rimette
alla prudenza, disse il legato che vedeva molto ben quello esser un grado per
incaminarsi a dimandar retrattazione delle cose decise. Gli diede parola
l'ambasciatore che di ciò non averebbe trattato mai, anzi averebbono fatto
efficaci officii co' sassoni per fargli desistere da questa instanza; in fine
il legato, persuaso dal noncio veronese, che prima s'era lasciato superare
(diceva egli) per non adossar al papa et al concilio un tanto carico, che fosse
precipitato un negozio tanto importante per la negazione d'una poca dilazione,
condescese a dire che si contentava, purché da' prelati nella congregazione
generale fosse prestato assenso; a quali anco si rimetteva intorno il
salvocondotto che ricchiedevano.
Fu fatta la
congregazione per consultar sopra questi particolari e fu facile risolvere la
dilazione per gl'officii fatti dagl'imperiali. Del salvocondotto non fu cosí
facile la consultazione, non solo per la raggion allegata dal legato, ma anco
perché era aborrito il nome del concilio basileense et il rimettersi a quello;
e quello che piú importava, stimando che alcune cose potevano convenir a quei
tempi e non a questi, perché i boemi avevano dottrina non tanto contraria alla
Chiesa romana. Con tutte queste opposizioni l'autorità de' tre elettori,
del cardinale Madruccio e l'officio degl'ambasciatori cesarei prevalse.
Ma da Pietro
Tagliavia, arcivescovo di Palermo, fu aggionto che si lasciava di consultare un
ponto molto principale: come s'averebbe trattato con gl'ambasciatori, nel dar
loro luogo da sedere o no, nell'usar verso loro et i prencipi loro termine
d'onore; perché non lo facendo, era romper il negozio, e facendolo era grar
pregiudicio onorar eretici manifesti o tenergli in altro conto che de rei. La
stessa e maggior considerazione si doveva aver del modo di governarsi co'
teologi venturi. Quali pretendono aver voto et al sicuro vorranno esser a parte
nelle dispute e consulte, né permetteranno esser tenuti nello stato che la
Chiesa debbe, e non può tenergli altrimenti, cioè di eretici,
scommunicati e dannati, con quali non è lecito trattare, se non per
instruirgli, se umilmente lo ricchiedono, e perdonargli per grazia. Sopra
questa proposizione fu assai detto della varietà de' tempi, a quali conviene
ch'ogni legge s'accommodi; che i medesimi pontefici che statuirono quelle
decretali non le farebbono in queste occasioni: nissuna cosa piú facilmente
rompersi che la piú dura. Le qual raggioni, se ben persuadevano la maggior
parte, con tutto ciò non sapevano che risolvere. Pareva che il
determinare qual rigor delle leggi si dovesse ritenere e qual rilasciare fosse
cosa di molta e longa consultazione e da non risolver senza il pontefice romano
et il collegio de' cardinali, ma l'angustia del tempo non comportarlo. Questo
rese tutti ambigui, quando opportunamente il vescovo di Namburg, preso per
fondamento che la necessità iscusava ogni trasgressione e che in
Germania, ne' colloquii e diete, queste considerazioni sono state maturate e
cosí deciso; ma per sicurar meglio il tutto, era ben far una protestazione
inanzi: che tutto fosse fatto per carità e pietà, quali sono
sopra ogni legge, e per ridur gli sviati, e s'intendesse fatto sempre senza
pregiudicio, con quelle clausule che i iurisperiti sapranno trovare. Questo
parer fu abbracciato prontamente da' primi, da' prelati tedeschi, da' spagnuoli
poi, e dagl'italiani in fine, con qualche tepidezza; stando sempre immobile il
legato e mostrando ben chiaramente che stava quieto, costretto dalla
necessità. Fermate queste risoluzioni fu deliberato che il giorno 24 del
mese si facesse congregazione generale, dove gl'ambasciatori sassoni fussero
ricevuti et uditi; che il 25, giorno perciò destinato, si tenesse la
sessione, nella quale si publicasse la dilazione sino alla venuta de teologi
protestanti; che fossero eletti padri, che insieme col noncio sipontino
formassero il decreto, la protestazione et il salvocondotto. Gl'ambasciatori
cesarei chiesero d'aver la minuta del salvocondotto prima che si publicasse,
per farlo veder a' protestanti, acciò che non satisfacendo loro, si
potesse compire in maniera che non avessero occasione di rifiutarlo, come
dell'altro avevano fatto.
S'attese ne'
giorni seguenti alle sudette cose, le quali compite, gl'ambasciatori cesarei
chiamarono a loro i protestanti; et avendo l'ambasciatore Pittavio fatto un
eloquente encomio della bontà e carità de' padri, et essortato
essi protestanti a dar qualche particella di sodisfazzione al concilio, sí come
essi ne davano molta a loro, gli disse che era concluso di ricever i mandati e
le persone et udir le proposte loro in publico, differire la conclusione delle
cose, ancorché discusse e maturate, per aspettar i teologi et ascoltargli
prima, che averebbono avuto il salvocondotto amplissimo, come ricercavano, del
quale era fatta la minuta; e si estese molto in mostrar che erano favori e
grazie memorabili, passando poi a dire esser necessario conceder alcuna cosa al
tempo e non voler tutto in un momento. Quando si sarà nella trattazion,
l'occasione gli farà ottener molte cose che inanzi parono difficili; che
i padri desiderano la venuta de' teologi, e che essi medesimi ambasciatori
cesarei hanno cose di gran momento da proponere e stanno solo aspettando che
sia dato principio da' protestanti, per comparer fuori poi essi. Per questo
rispetto, nella dimanda che il pontefice si sottometta al concilio gli
pregavano andar lentamente, perché anco i padri conoscevano che vi era qualche
cosa da corregere nella grandezza ponteficia, ma che bisognava caminar con
sottil desterità; che essi medesimi esperimentavano tutto 'l dí la
singolare destrezza et arte che bisognava usare trattando con ministri
pontificii. Parimente che il reessaminar le cose già concluse non era da
proponer cosí nel bel principio, che sarebbe con troppo infamia e desonore del
concilio: però i teologi andassero, che sarebbono uditi in tutte le cose
opportunamente, e non gli mancherà mai, se si vederanno gravati in
alcuna cosa, il partir liberamente.
I
protestanti, ritirati tra loro, veduta la minuta del salvocondotto, non si
contentarono, per non esser conforme alla basileense, nella quale a' boemi 4
cose furono concesse di piú:
1 che essi
ancora avessero voto decisivo;
2 che fosse
giudice nel concilio la Sacra Scrittura, la prattica della Chiesa vecchia, li
concilii et interpreti conformi alla Scrittura;
3 che
potessero far essercizio della sua religione in casa loro;
4 che non
fosse fatta alcuna cosa in vituperio o sprezzo della loro dottrina; delle quali
la seconda era molto diversa dalla formula data loro, le altre tre erano
tralasciate totalmente. Ebbero anco suspizione, perché quel concilio non
prometteva la sicurezza per nome del pontefice e del collegio de' cardinali,
come dal basileense era stato fatto: risolsero nondimeno di non far menzione di
questo, ma ben ricercare che le altre quattro particole ommesse fossero
inserte; e ritornati agli ambasciatori cesarei, apertamente si dicchiaravano
che in quella forma non potevano riceverlo, avendo nelle loro instruzzioni
questa espressa commissione. Il Toledo mostrò sdegnarsi che non si
contentassero di quello che egli et i suoi colleghi avevano ottenuto con gran
fatica, che l'importanza stava nella sicurezza dell'andare del partir, et il
resto apparteneva al modo di trattare; che meglio s'averebbe potuto concludere
con la presenza de' teologi; esser cosa troppo ardua il non voler rendersi in
parte alcuna e soli voler dar le leggi a tutta la Chiesa; né potendo con quelle
raggioni movergli dalla determinazione loro, dissero in fine che averebbono
riferito a' padri, et essi gli resero la minuta del salvocondotto con le
aggionte che ricercavano.
Il legato et
i presedenti intendendo la ricchiesta e la fermezza de' protestanti mostrarono
agl'ambasciatori cesarei quanto fossero le loro dimande aliene dal giusto e
conveniente; imperoché nella forma del basileense non trovarono mai a' boemi
esser stato concesso che nel concilio avessero voto decisivo, ma che la
Scrittura e prattica della Chiesa e concilii e dottori che si fondano in quella
siano giudici è detto, quantonque con parole alquanto differenti, perché
la prattica della Chiesa è chiamata sotto il nome di tradizione
apostolica, e quando si dice santi padri, s'intende ben che si fondano nella
Scrittura, perché essi non fanno altri fondamenti. Il terzo, di celebrar gl'officii
nelle case loro, s'intende, purché lo facciano che non sia saputo e senza
scandalo. La proibizion che non sia fatta cosa in loro vituperio esser
espressiva, quando si promette che non saranno in conto alcuno offesi.
Però vedersi chiaro che, per trovar querele e cavillare, si lamentano
senza causa, né essendovi speranza di contentargli, non restar altro se non
dargli il salvocondotto secondo la minuta formata e lasciar al loro arbitrio il
valersene o non usarlo. Il conte di Montfort replicò niente potersi far
piú in servizio della publica causa che levargli li pretesti e cavilli e
mostrargli al mondo inescusabili: onde, poiché in sostanza non era differenza
della minuta alla forma di Basilea, per serrargli la bocca, si poteva copiar
quella di parola in parola, mutati solo i nomi delle persone, luoghi e tempi. I
presidenti da una risposta sottile e tanto stretta commossi, si guardarono l'un
l'altro et il legato, preso immediate partito, rispose che tanto sarebbe stato
riferito a' padri nella congregazione e risoluto secondo la loro deliberazione.
Raccommandarono poi i presidenti, ciascuno a' piú famigliari suoi, la causa di
Dio e della Chiesa: agl'italiani e spagnuoli dicevano che era una
grand'ingiuria che dovessero seguir una mano de scismatici, che hanno incautamente
parlato e contra la dottrina cristiana obligato a seguir la Scrittura sola. Ma
a tutti in generale dicevano che sarebbe stata una grand'indegnità,
quando la sinodo parlasse in modo che immediate nascesse una disputa
inestricabile sopra; perché a veder quali siano i dottori che fondano nella
Scrittura, mai si sarebbe d'accordo; appartenere alla degnità della
sinodo parlar chiaro, e l'espressioni fatta esser la vera dicchiarazione del
basileense. Et altre tal persuasioni usarono che quasi tutti vennero in
risoluzione di non mutar la minuta, con speranza che, se ben i protestanti
cercavano avantaggiarsi, quando poi la cosa fosse fatta si contentarebbono.
Le cose tutte
poste in punto, il dí 24 fu la generale congregazione. In quella convennero in
casa del legato gli elettori, i padri tutti e gl'ambasciatori di Cesare e di
Ferdinando, che non erano soliti intervenire in tal sorti di congregazione. Il
legato fece l'ingresso con brevi parole, dicendo che erano adunati per dar
principio ad una azzione la piú ancipite che in piú secoli fosse occorsa alla
santa Chiesa; perilché conveniva con maggior affetto del solito pregar Dio per
il buon successo et invocato il nome dello Spirito Santo secondo il costume
delle congregazioni, fu dal secretario letta la protestazione, alla quale
avendo tutti i padri dato il placet, dal promotore fu fatta instanza che
negli atti fosse registrata e fattone anco publico instromento. Il tenor di
quella in sostanza fu: che la santa sinodo, per non ritardare il progresso del
concilio, che riceverebbe impedimento per le dispute che nascerebbono quando
s'avesse da essaminare co' debiti termini qual sorte di persone possono
comparere nella sinodo e qual sorte di mandati e scritture possono esser
presentati e per i luoghi del seder, dicchiara che se fosse admesso in persona
o per sostituto alcuno che non dovesse esser ricevuto per disposizione della
legge o uso de' concilii, o non sedesse in debito luogo che se gli conviene,
overo se fossero admessi mandati, instrumenti, proteste o altre scritture che
offendessero o potessero offender l'onore, l'autorità o potestà
del concilio, perciò non sia, né s'intendi esser pregiudicato al
presente concilio o agli altri futuri generali in perpetuo, essendo intenzione
di questa sinodo che si rimetti la pace e la concordia nella Chiesa in
qualonque modo, purché sia lecito e conveniente.
Dopo furono
introdotti gl'ambasciatori sassoni, dove entrati e fatta riverenza al consesso,
parlò il Badehorno, usando titoli «reverendissimi et amplissimi padri e
signori». La sostanza del suo parlar fu: che Mauricio, elettor di Sassonia,
dopo aver pregato a loro l'assistenza dello Spirito Santo e l'essito salutare
della azzione, gli faceva saper aver già molto tempo deliberato, se mai
si celebrava concilio generale libero e cristiano, dove le controversie della
religione fossero giudicate secondo la Scrittura e tutti potessero sicuramente
parlare e fosse instituita riforma nel capo e ne' membri, mandarvi i suoi
teologi. Ora pensando che essi siano congregati per questo fine, convocati i
suoi teologi, gli ha commandato di far scielta d'alcuni d'essi che debbino
portar la loro confessione a quel consesso, il che sino adesso non è
esseguito per rispetto di certa constituzione del concilio di Costanza, che
agl'eretici e sospetti non sia servata la fede o salvocondotto dall'imperatore,
da re o altri, e per essempio de' boemi, che non volsero andar a Basilea, se
non con una sicurezza datagli dal concilio. Per il che l'elettor ricercò
che un tal salvocondotto fosse dato a' suoi teologi e conseglieri e loro
famigliari, ma già pochi giorni, gli fu presentata una certa forma di
salvocondotto molto differente dal basileense, perilché fu giudicato pericoloso
di venir qui con quello, apparendo da alcuni decreti tridentini già
stampati, ne' quali sono trattati per eretici e scismatici, quantonque non
siano stati, né chiamati, né uditi. Perilché dimanda il prencipe che i suoi
siano tenuti per iscusati et il salvocondotto concesso nella forma basileense.
Oltra di ciò, che avendo il prencipe inteso che vogliono procedere alla
conclusione degli articoli controversi, gli è parsa cosa pregiudiciale e
contraria ad ogni legge divina et umana, essendo i suoi legitimamente impediti
per mancamento di salvocondotto. Perilché prega che il tutto si differisca sin
che siano uditi i teologi, che non sono lontani piú de
Dopo questi,
furono uditi i vittembergici, quali presentarono il mandato dell'ambasciata
loro; il qual letto, con poche parole dissero che erano per presentare la
confessione della loro dottrina, dovendo venir poi i teologi per difenderla e
trattar piú abondantemente le stesse cose, con condizione che di commun
concerto dell'una e dell'altra parte siano eletti giudici che conoscano sopra
le controversie. Perché essendo la loro dottrina repugnante a quella del
pontefice romano e de' vescovi suoi aderenti, era cosa ingiusta che l'attor,
overo il reo, fusse giudice; facendo per tanto instanza che le cose fatte
gl'anni inanzi nel concilio non avessero forza di legge, ma si dasse nuovo
principio alla discussione d'ogni cosa trattata; non essendo giusto, quando doi
litigano, che quello che è fatto da uno, assente legitimamente l'altro,
sia di valore; e tanto maggiormente, quanto si può chiaramente mostrare
che cosí nelle prossime azzioni, come in quelle degl'anni inanzi sono publicati
decreti alla divina Scrittura contrarii. E presentarono la dottrina et il
raggionamento loro in scritto, e dal secretario fu il tutto ricevuto, non
però la dottrina letta. Fu risposto dal promotore per nome de' padri che
al suo tempo averebbono dato risposta.
Queste cose
fatte, partirono gl'elettori et ambasciatori, e co' presidenti restarono i
prelati per dar ordine alla sessione. Fu prima stabilito il decreto, e poi
proposto il salvocondotto, aggiongendo le cause perché i protestanti non se ne
contentavano; e posto in deliberazione se a quella forma si doveva aggiongere
quanto ricercavano, né vi fu difficoltà che tutti non convenissero in
parere che altro non se vi aggiongesse, per evitar i pericoli d'entrar in
dispute inestricabili et in pregiudicii inevitabili.
[Quinta sessione. I presidenti dispongono le
cose a una breve conclusione del concilio]
Il giorno
seguente, 25 di genaro, deputato già alla sessione, col solito apparato
e comitiva s'andò alla chiesa, anzi con numero maggior de soldati fatti
venir da' presidenti per ostentazione della grandezza del concilio, e con gran
numero de forestieri concorsi per opinione che i protestanti dovessero esser
ricevuti publicamente e con singolar ceremonie. Cantò la messa il
vescovo di Catanea e fece il sermone Giovanni Battista Campeggio, vescovo di
Maiorica, e servati i consueti riti, dal vescovo celebrante fu letto il
decreto; la sostanza del quale era: che avendo la sinodo, in essecuzione delle
cose inanzi decretate, trattato con accuratezza quello che appartiene al
sacrificio della messa et al sacramento dell'ordine per publicar in quella
sessione i decreti sopra quelli, e li articoli differiti in materia del
sacramento dell'eucaristia, pensando che in questo tempo dovessero esser gionti
i protestanti, a quali aveva concesso il salvocondotto, nondimeno, non essendo
quelli venuti, anzi avendo fatto supplicare che il tutto fosse differito ad
un'altra sessione, dando speranza di dover giongere molto inanzi di quella,
ricevuto un salvocondotto in piú ampla forma, la medesima sinodo, desiderosa
della quiete e pace, confidando che verranno non per contradir alla fede
catolica, ma per conoscer la verità e che si quieteranno a' decreti
della santa madre Chiesa, ha differito sino al 19 marzo la seguente sessione
per metter in luce e publicar le cose sopradette, concedendogli, per levar ogni
causa di maggior dimora, il salvocondotto del tenor che si reciterà,
determinando che tra tanto si tratti del sacramento del matrimonio e si
proseguisca la riforma, per dover publicar le definizioni anco di questo
insieme con le altre di sopra nominate.
La sostanza
del salvocondotto era che la sinodo, inerendo al salvocondotto già dato
et ampliandolo, fa fede che concede a tutti i sacerdoti, prencipi, nobili e
persone di qualonque condizione della nazione germanica che veniranno o sono
già venuti al concilio, salvocondotto di venirci, starci, proponer e
parlar con la sinodo, trattar et essaminar quello che gli parerà, dar
articoli e confermargli, rispondere alle obiezzioni del concilio e disputar con
gl'eletti di quello, con decchiarazione che le controversie in questo concilio
siano trattate secondo la Scrittura Sacra, tradizioni degli apostoli, approvati
concilii, consenso della Chiesa catolica et autorità de' santi padri,
con aggionta anco che non siano puniti sotto pretesto di religione o de'
delitti commessi o che fossero per commetter circa quello, et in maniera che
per la loro presenza in viaggio o in qualonque luogo, né in la città di
Trento si cessi da' divini ufficii, e che possino tornare quando gli parerà
senza impedimento, salve le robbe, onor e persone loro, con saputa però
de' deputati dalla sinodo, acciò sia provisto alla loro sicurezza;
volendo che in questo salvocondotto s'abbiano per incluse tutte le clausule che
fossero necessarie per efficace e piena sicurezza. Aggiongendo che se alcun
d'essi, o nel viaggio, o in Trento, o nel ritorno commettesse
alcun'enormità che potesse annullar il beneficio di questa fede publica,
in tal caso siano puniti da' suoi medesimi di emenda che satisfaccia alla
sinodo; e dall'altra parte, se alcuno nel viaggio, nel star o nel ritorno
commettesse cosa che violasse questo salvocondotto, debbia esser punito da essa
sinodo di emenda, con approbazione di essi signori germani, che saranno in
Trento presenti, restando in vigor sempre la forma dell'assicurazione,
concedendo agli ambasciatori loro di poter uscir di Trento a pigliar aria e
ritornare, di poter mandare ricever avisi e messi, sempre che gli
parerà, accompagnati però da' deputati per loro sicurezza; il
qual salvocondotto duri per il tempo che staranno sotto la tutela della sinodo
in viaggio per Trento e che dimoreranno nella città, e 20 giorni dopo
che essi domanderanno o che gli sarà ordinato di partir, dovendogli
restituir in luogo sicuro a loro elezzione; le quali cose promette con buona
fede a nome di tutti i fedeli di Cristo e di tutti i prencipi ecclesiastici e
secolarie di tutte le altre persone ecclesiastiche e secolari parimente d'ogni
condizione. Promettendo insieme in buona fede che la sinodo non cercherà
occasione publica, né occolta che sia tentata cosa alcuna in pregiudicio di
questo salvocondotto, né si valerà o permetterà che alcun si
vaglia di qual si voglia autorità, potenzia, raggione, statuto,
privilegio di leggi, de canoni, de concilii e specialmente del costanziense e
senese. Alle qual tutte cose in questa parte e per questa volta deroga. E se la
santa sinodo o alcun di quella o de' suoi violasse la forma di questo
salvocondotto in qual si voglia punto e clausula e non ne seguisse l'emenda con
approbazione di loro, stimino la sinodo incorsa in tutte le pene che possino
incorrer i violatori di tal salvicondotti, per legge divina et umana o per
consuetudine, senza admetter scusa o contradizzione. Le qual cose lette fu la
sessione finita.
È cosa
certa che i presidenti, dubiosi dove le cose potessero capitare, volevano esser
preparati, se il vento se gli mostrava prospero, di decidere tutt'in una
sessione la materia de' sacramenti, e per tanto, avendo già in pronto le
cose spettanti alla communione, alla messa et al sacramento dell'ordine,
volevano aver digeste et ordinate quelle del matrimonio, per metterle in un
fascio, et in un'altra sessione trattar succintamente del purgatorio,
indulgenzie, imagini, reliquie et altre tal cose minute, che cosí le
chiamavano, metter fine al concilio, e se alcuna cosa se fosse opposta a questo
dissegno, poter mostrar che da loro non era mancato.
Io veggo
molti, leggendo questi successi, maravigliarsi non vedendo nominato il papa,
dal quale in cose di molto minor momento tutte le deliberazioni erano solite
spiccarsi. Ma cesserà la maraviglia sapendo che il pontefice fu, secondo
il solito, avisato di punto in punto di tutti i successi e dissegni, et al
primo arrivo de' vittembergici, et alla nuova che altri s'aspettavano avisato,
rispose a' suoi legati e noncii che i protestanti fossero trattati con maggior
umanità che fosse possibile, che sapeva bene esser necessario in simili
avvenimenti sopportar qualche indegnità per condescendere; però
in questo usassero prudenza, accommodandosi alla necessità, perché in
fine cede in onore l'aver sofferito alcuna cosa. S'astenessero bene d'ogni
publico colloquio, o in scrittura, o in voce, in materia di religione.
Procurassero con gli ufficii e con le speranze di guadagnar alcuno de' dottori
protestanti e non perdonassero a qualche spesa. Fu il papa avisato dal legato
di passo in passo che si andava facendo, non però gli parve occorrer
cosa che dovesse fargli mutar proposito. Et alle cose del concilio dopo questa
sessione non pensava molto, perché, avendo preso qualche ombra dell'imperatore,
ascoltava le proposte d'alcuni francesi. Ma quando intese che gl'ambasciatori
imperiali avevano dato a' protestanti speranza di moderar la potestà
ponteficia e detto che aspettavano di veder la porta aperta con la negoziazione
loro per dover poi secondare et introdur le cose che avevano dissegnato, e che
molti de' padri riputavano necessario restringer l'autorità papale,
avendo altri riscontri che di tal mente fossero tutti i spagnuoli e che Cesare
dissegnava alzarsi piú coll'abbassar il pontificato, e pensava di fomentare i
protestanti a questo, per mostrare che da sé non procedesse, alienato l'animo
da lui per voltarlo al re di Francia, porgeva orrecchie alla trattazione per
nome del re dal cardinale Tornone, dall'essecuzione della quale ne seguiva
senza sua opera la dissoluzione del concilio e senza che esso si mostrasse
desiderarla.
[Nuove querele de' protestanti pel
salvocondotto]
Fatta la
sessione, i protestanti, se ben penetrarono che il salvocondotto non era
ampliato come l'avevano chiesto, dissimulando di saperlo, l'adimandarono, e gli
fu dagl'ambasciatori imperiali, congregati per questo, consegnato un essemplare
autentico per ciascuna ambasciaria. Essi, ritiratisi e letto il tenore,
ritornati si lamentarono che fosse loro mancato, ricercarono anco la risposta
della sinodo alle esposizioni loro et alle instanze fatte sopra il modo di
procedere in concilio. Gl'imperiali gli confortarono a procedere con
desterità, usando i medesimi concetti in mostrare che col tempo
averebbono ottenuto tutto, ma ricercando le cose acerbe et inanzi
l'opportunità, averebbono difficoltato ogni cosa; che nel salvocondotto
non era necessario esprimere che potessero essercitar la loro religione nelle
case, poiché, non essendo proibito, s'intende concesso; che nissuna cosa sia
fatta in vituperio loro esser chiaramente espresso quando se gli promette buono
e real trattamento, et oltra questo si faranno anco publiche proibizioni a
tutti, che faranno maggior effetto; quanto alle raggioni d'allegar in concilio,
in sostanza esser detto l'istesso che la Scrittura sia il fondamento, ma esser
ben necessario, quando vi sarà controversia dell'intelligenza della
Scrittura, che sia giudice il concilio: la Scrittura esser muta e senza anima
e, sí come le leggi civili, aver bisogno di giudice che la inanimi, e nella
materia della religione questo esser il concilio, come dal tempo degli apostoli
sin ora è stato servato. I protestanti ricevettero il salvocondotto, ma
con decchiarazione che non lo pigliariano, se non a fine di mandarlo a' loro
prencipi.
[Congregazione per trattar del matrimonio.
Lamenti de' protestanti della precipitazione del concilio]
Ma i
presidenti, per esseguir quanto era decretato di essaminar la materia del
matrimonio, fatta congregazione generale et eletti deputati, diedero fuori 33
articoli in quella materia, per esser discussi da' teologi, et ordinarono anco
che i deputati formassero i canoni, secondo che i particolari s'andavano
ventilando; si fecero alquante congregazioni e furono anco formati sino 6
canoni. Ma avendo i protestanti fatto indoglienza con gl'ambasciatori
imperiali, dicendo che ben gli davano speranza che col tempo potessero ottener
revisione delle cose decise, ma tuttavia quella co' fatti gli era levata,
perché con tutto ciò si caminava inanzi a nuove decisioni, mentre che i
suoi erano aspettati, gl'ambasciatori imperiali non potero ottener da'
presidenti che si fermassero le azzioni, le quali essi affrettavano con ogni
sollecitudine a fine che overo i protestanti restassero d'andar a Trento,
overo, andando, ritrovassero tutto deciso; che quanto alla dimanda di
reessaminar le cose, erano già risoluti il papa, tutta la corte e tutti
i prelati di negarla constantemente. Pensavano anco che piú apparentemente si
negarebbe la revisione di molte cose che di poche. Ma l'imperatore, a fini del
quale molto importava ridur i protestanti in Trento e niente gli toccava il
reessaminar o no, avisato dagl'ambasciatori delle querele de' protestanti e
dell'impedimento che si opponeva alla loro andata al concilio, mandò
persona a Trento con commissione di passar anco a Roma, per far ufficio che si
differisca ogni azzione per pochi giorni, mostrando che quella fretta
precipitava le materie, rendeva sospetto a' protestanti e difficoltava la
ridozzione loro; et ordinò che a' suoi fosse commandato di fermar le
trattazioni et a' ponteficii, quando le persuasioni non giovassero, si passasse
alle protestazioni. Questa risoluzione dell'imperatore significata in Trento fu
causa che si fece una congregazione generale e, proposta questa considerazione,
fu deliberato sopraseder da ogni azzione conciliare, a beneplacito però
della sinodo.
[Assassinamento del cardinal Martinuccio, di
che il processo è sepolto e l'atto resta impunito]
Ma il
pontefice sentí dispiacere di quello che s'era fatto, e sdegnato con
l'imperatore anco per altri rispetti, scrisse a Trento che continuando a tener
sospese le azzioni quanto manco giorni potessero, per riputazione della sinodo
riassumessero le azzioni senza rispetto. La causa che oltra questo aveva
irritato il papa et i cardinali fu perché, desiderando Ferdinando occupare la
Transilvania, che dall'altra parte era da' turchi assalita, sotto pretesto di
mantenerla per il picciolo figlio di Giovanni vaivoda, Giorgio Martinuccio,
vescovo di Varadino, uomo di eccellente prudenza e di gran credito in quella
regione, desiderava conservarla in libertà, e per ovviare al maggior
pericolo, non potendo contrastare con turchi et austriaci insieme, elesse
congiongersi con questi, con che, fatto contrapeso a' turchi, teneva le cose in
gran bilancia. Gl'austriaci conoscendo che col guadagnar questo prelato,
totalmente ottenevano la loro intenzione, oltra le altre cose che fecero a fine
di restringerlo maggiormente ne' loro interessi, Ferdinando gli promesse una
pensione di 80000 scudi, et ottenne l'imperatore con grand'instanza dal papa
che lo creasse cardinale, e (cosa rare volte costumata) gli mandasse il capello
et anco gli concedesse di portar l'abito rosso, che non gli era lecito per
esser monaco di san Basilio; cose che furono esseguite in Roma nel mezo
d'ottobre. Ma non essendo stata dal vescovo stimata questa apparenza d'onore,
né volendo anteporre gli interessi austriaci a quei della sua patria, da'
ministri di Ferdinando fu a' 18 decembre proditoriamente e crudelmente
trucidato, sotto pretesto che avesse intelligenza con turchi. Questo successo
commosse maravigliosamente tutti i cardinali, che si reputano sacrosanti et
inviolabili: consideravano quanto importasse l'essempio che potesse esser
ucciso un cardinale con finte calonnie overo anco per sospetti, et al papa, a
cui da se medesimo dispiaceva l'istesso, aggionsero stimolo, mettendogli anco
inanzi che quel cardinale era possessor d'un gran tesoro che aggiongeva ad un
millione, e che quello doveva esser della camera, come di cardinale morto senza
testamento. Per tutti questi rispetti il papa deputò cardinali sopra la
cognizione dell'eccesso e furono stimati incorsi nelle censure Ferdinando e
tutti i suoi ministri di Transilvania: furono mandati commissarii per far
inquisizione a Vienna e, per non tornar piú a parlar di questo, dirò qui
anticipatamente che, raffreddandosi, come è di costume i fervori, poiché
non si poteva disfar quello che fatto era, per non metter a campo maggior moto,
si processe con molta connivenza e con tutto che fosse fatto il processo come a
Ferdinando metteva conto, non si provò cosa alcuna delle opposte al
defonto, et il pensiero di tirar la eredità alla camera si
mortificò, perché poco fu ritrovato a quello che si pensava, avendo il
Martinuccio, che era uomo liberale, sempre speso in publico servizio tutto
quanto aveva, e quello che s'era trovato essendo diviso tra i soldati; il papa
decchiarò Ferdinando e tutti gl'altri, che non erano stati presenti alla
morte, assoluti, con aggionta: se le cose dedotte in processo erano vere. Di
che dolendosi i ministri cesarei, come che fosse metter in dubio la
bontà di Ferdinando, il papa fece la sentenzia assoluta e quei soli che
furono autori della morte andarono a Roma per l'assoluzione, se ben con tal
modo, come se fossero stati autori di opera lodevole, con tutto che cosí in
Ongaria, come in Roma si tenesse per certo che fosse l'assassinamento produtto
da mandato di chi ne aveva interesse, secondo il celebre detto che d'ogni
conseglio occolto quell'è l'autore che ne riceve giovamento. Ma questo
eccesso non fu di beneficio alle cose di Ferdinando; anzi che per questa e per
altre cause poco dopo egli fu totalmente di Transilvania escluso. Ma poiché non
partiene al proposito mio parlar di questo, ritorno alle cose che passavano.
[Sermone in Trento d'ombra a' protestanti.
Rumori di guerra]
Il giorno 7
di febraro, in dominica precedente la settuagesima, leggendosi l'Evangelio
della zizania, fece il sermone Ambrosio Cigogna (e cosí è interpretato
il suo cognome tedesco, Pelargo) dominicano, teologo dell'arcivescovo di
Treveri; il quale, applicando il nome di zizania agli eretici, disse che
conveniva tolerargli quando non si poteva senza pericolo di maggior male
estirpargli. Questo fu riferito a' protestanti come se avesse detto che si
poteva mancargli della fede data, e però nacque gran tumulto. Egli si
difendeva dicendo ch'aveva parlato de eretici in genere, e non detto cosa di
piú di quello che l'Evangelio medesimo propone; ma quando avesse anco detto che
bisognasse estirpargli con fuoco, ferro, laccio et in qualonque altro modo,
averebbe fatto quello che commandò il concilio nella sessione seconda:
aver parlato modestissimamente, né potersi far sermone sopra quell'Evangelio
senza dire quel tanto che da lui fu detto. Il rumore, per opera del cardinal di
Trento e dell'ambasciatore cesareo fu quietato, se ben con difficoltà,
con tutto che constasse non aver il frate parlato di non servar la fede, né
aver detto cosa che toccasse protestanti in speciale, ma eretici in universale.
Questo però fu occasione che quell'elettore, già risoluto di
partire, per qualche secreta intelligenza che teneva col re di Francia, trovato
questo pretesto di partire et aggionto il bisogno di ricuperar la
sanità, partí a mezo febraro, lasciata fama che era con beneplacito di
Cesare, e promesso di presto ritornare; però non passò per
Ispruc, né s'abboccò con l'imperatore.
Il primo
giorno di quaresima furono per affissione publicate in Trento le stazioni al
medesimo modo che in Roma, per concessione del papa, a chi visitasse le chiese,
che fu trattenimento a' padri e teologi restati per l'intermissione delle
congregazioni senza negozio; e quasi oziosi, s'erano ben anco trattenuti per
l'inanzi riducendosi a congregazioni private, discorrendo variamente, ora della
dissoluzione, ora della continuazione del concilio, secondo le nuove che erano
portate.
Nel principio
di marzo arrivarono lettere dall'elettor di Sassonia agl'ambasciatori suoi,
dove gli commetteva proseguir le instanze in concilio et avisava che si metteva
in punto per andar in persona a Cesare; il che serenò l'animo di tutti.
Ma pochi giorni dopo si sparse romor per tutto che fosse fatta confederazione
del re di Francia co' prencipi protestanti per far la guerra a Cesare, e
gl'elettori di Magonza e di Cologna a' 11 di marzo partirono e, passati per
Ispruc, furono con Cesare a strettissima trattazione; e gl'ambasciatori di
Mauricio, dubitando di se stessi, occoltamente uscirono di Trento e per diverse
vie ritornarono a casa. Con tutto ciò, dopo queste cose, arrivarono 4
teologi di Vittemberg e doi d'Argentina, e gl'ambasciatori di quel duca insieme
con loro immediate fecero instanza con gli ambasciatori cesarei che dalla
sinodo fosse data risposta alla proposizione già fatta e si dasse
principio alla conferenza o trattazione; al che il legato rispose che, instando
il 19 marzo, giorno destinato per la sessione, era necessario metter ordine a
quella e trattar molte altre cose, de' quali una sarebbe stata trovar forma di
trattare; imperò quel giorno si fece congregazione in casa del legato e
fu deliberato di prolongar la sessione sino al primo di maggio. In questa
congregazione fu ricevuto l'ambasciatore di Portugallo, il quale
presentò il suo mandato e fece un raggionamento, e gli fu risposto in
forma solita con lodi e ringraziamenti al re e con parole di complemento
all'ambasciatore. Ma quelli di Vittemberg, vedendo che non si dava risposta
alle proposte loro et ancora che il legato teneva segreta la confessione da
essi presentata, la qual da molti era ricercata, né si poteva aver, avendone
essi portate alcune copie stampate già, le distribuirono a diversi, di
che vi fu gran strepito e da alcuni si diceva che meritavano castigo: perché
quelli a chi vien concesso salvocondotto sono in obligo di fuggir ogni offesa
di chi glielo concede, e questa era stimata un'offesa publica; pur finalmente
il tutto si quietò.
[Il concilio si rompe per la mossa d'armi di
Maurizio di Sassonia, e 'l papa lo sospende]
Fecero piú
volte i protestanti instanza con gl'ambasciatori cesarei che si dasse principio
all'azzione, la qual tuttavia si differiva, ora sotto pretesto che il legato
era indisposto, ora sotto diversi altri. Gl'ambasciatori cesarei facevano ogni
uffico per dar principio: operarono che i protestanti si contentassero di
tralasciare la ricchiesta della risposta alle dimande loro presentate, poi anco
di non ricercar che fosse essaminata la dottrina da loro essibita; ma essendo
sempre, sedata una difficoltà da' protestanti, eccitate delle altre
dalla parte de' presidenti, ora sopra il modo di trattare, ora sopra la materia
dove incomminciare, in fine si contentavano i protestanti, cosí persuasi dal
Pittavio, d'incomminciare dove gl'altri volevano. Non per questo fu fatto
ingresso. Il legato, se ben gravissimamente infermo per le gran passioni
d'animo, era stimato cosí fingere per trovar pretesto di non dar principio. I
noncii erano irresoluti et i vescovi non erano tra loro d'accordo. Perché
quelli che dependevano da Cesare, spagnuoli et altri, mossi dagl'ambasciatori
imperiali, volevano che si caminasse inanzi; ma quelli che dipendevano dal
pontefice, insospettiti che il fine de' cesarei fusse di far capitar presto la
trattazione alla riforma della corte romana, abbracciavano ogni occasione
d'impedimento. E perché già li vescovi tedeschi erano partiti per i moti
di guerra, aspettavano l'istessa occasione anco loro, e massime che
continuavano gli avisi delle arme del re di Francia e de' confederati di
Germania contra Cesare, delle quali erano già usciti protesti e
manifesti, i quali portavano per causa la difesa della religione e la libertà
di Germania. Il primo giorno d'aprile l'elettor di Sassonia messe l'assedio ad
Augusta, la quale il terzo giorno si rese, et il sesto la nuova gionse a
Trento, e che tutto 'l Tirolo si metteva in arme per andar in Ispruc, essendo
opinione che l'essercito de' collegati dissegnasse occupar i passi delle Alpi
per impedir la gente fuorastiera d'entrar in Germania. Perilché gran parte de'
vescovi italiani si messero in barca a seconda del fiume Adice per ridursi a
Verona, et i protestanti determinarono di partire.
Essendo
restati pochi vescovi et il legato, per la gravezza dell'infermità
spesso vaneggiando, non potendo aver risoluzione consistente, i noncii,
temendo, se si aspettava il primo di maggio secondo l'ordine dato, che
dovessero trovarsi in Trento senza prelati, scrissero a Roma, ricercando quello
che in tanta angostia si dovesse fare. Il pontefice, che già aveva col
re di Francia concluso, né stimava piú quello che l'imperatore potesse fare
quando ben avesse superato le difficoltà che lo circondavano, fatta
congregazione de' cardinali, propose l'aviso de noncii in consulta; né vi fu
difficoltà al concorrere la maggior parte che si sospendesse il
concilio. Fu formata la bolla e mandata a Trento, scrivendo appresso a' noncii
che se gli mandava l'autorità per la sospensione. Però, quando
vedessero urgente necessità, cedessero a quella e non mettessero in
pericolo la dignità del concilio, il quale ad altro tempo quieto si
sarebbe redintegrato: però non lo disciogliessero intieramente, a fine
di tener in mano quel capo per valersene alle occasioni, ma lo sospendessero
per qualche tempo. La qual risposta avuta, tenendola secreta, consultarono con
gl'ambasciatori e con i principali prelati, quali proponevano d'aspettar ordine
da Cesare et estenuavano il timore quanto potevano: però i prelati, se
ben la maggior parte spagnuoli, temendo delle persone loro per l'odio de'
protestanti e non sperando che Cesare avesse tempo in tanta strettezza di
pensar al concilio, consentirono ad una sospensione. Perilché i noncii intimarono
la publica sessione per il 28 d'aprile, tanto era urgente il timore che non gli
concesse aspettare 2 giorni il destinato al concilio.
[Decreto dell'ultima sessione, censurato a
Roma]
Alla qual
convennero quei pochi rimasti, e dopo le ceremonie ecclesiastiche, perché
quanto alle pompe quella volta furono tralasciate, fu dal noncio sipontino
fatto legger un decreto per il secretario, la sostanza del quale era: che la
sinodo, presidenti i doi noncii, per nome proprio e del cardinale Crescenzio
legato, gravemente infermo, è certa esser noto a tutti i cristiani che
il concilio di Trento, prima congregato da Paolo e dopoi restituito da Giulio,
a petizione di Carlo imperatore, per restituir la religione, massime in
Germania, e per emendazione de' costumi; e che in quella essendo convenuti
molti padri di diverse regioni, non perdonando a fatiche e pericoli, il negozio
era incaminato felicemente, con speranza che i germani novatori dovessero andar
al concilio disposti d'acquietarsi alle raggioni della Chiesa, ma per astuzia
del nemico repentinamente sono eccitati tumulti che hanno costretto ad
interromper il corso, levata ogni speranza di progresso, anzi con timore che la
sinodo fosse piú tosto per irritare le menti di molti che placarle; perilché
essi vedendo ogni luogo, e specialmente Germania, ardere di discordie e che i
vescovi tedeschi, specialmente gl'elettori, erano partiti per proveder alle
loro chiese, ha deliberato non opporsi alle necessità, ma tacer sino a
tempi migliori; e per tanto sospendere il progresso del concilio per 2 anni,
con condizione che, se le cose saranno prima pacificate inanzi il fine di quel
tempo, s'intenda che il concilio ripigli il suo vigore e fermezza, e se
gl'impedimenti non saranno cessati in capo di 2 anni, s'intenda che la sospensione
sia levata, subito levati gli impedimenti, senza nuova convocazione del
concilio, intervenendo a questo decreto il consenso e l'autorità di Sua
Santità e della Santa Sede apostolica. E tra tanto la sinodo essorta
tutti i prencipi cristiani e tutti i prelati, per quanto a ciascuno s'aspetta,
che facciano osservare ne' loro dominii e chiese tutte le cose del concilio
sino a quell'ora decretate. Il qual decreto letto fu dagl'italiani approbato. I
spagnuoli, che erano al numero di 12, dissero che i pericoli non erano sí
grandi come si facevano, che già 5 anni fu da' protestanti presa la
Chiusa, e pur il concilio non si disciolse, con tutto che a difesa del Tirolo
altri non vi fosse che il Castellalto; ora esser la persona di Cesare in Ispruc,
per la virtú del quale quel motivo presto cessarebbe; che si licenziasse i
timidi come allora si fece, restando quelli che volevano sin tanto che fusse
avisato l'imperatore, che, essendo tre giornate vicino, poteva dar presta
risposta. Ma opponendosi gl'altri popolarmente, i spagnuoli protestarono contra
la sospensione cosí assoluta; non ostante la qual protesta, il noncio
sipontino, benedetti i padri, gli licenziò d'andar al viaggio loro.
Partiti i noncii et i prelati italiani, finalmente partirono i spagnuoli et
anco gl'ambasciatori dell'imperatore, et il cardinal Crescenzio fu portato a
Verona, dove morí.
In Roma per
l'ultima parte del decreto fu imputato a' 2 noncii a gran carico che la sinodo
avesse decretata l'essecuzione delle cose constituite, senza averne prima
chiesto conferma dalla Sede apostolica, allegando che essendo ciò stato
da tutti i concilii passati esquisitamente servato, questa era una grande
usurpazione e lesione dell'autorità pontificia. Alcuni anco facevano
scrupolo che tutti gl'intervenuti in quella sessione fossero incorsi nella
censura del canone Omnes, Dist. XXII, avendo pregiudicato ad un
privilegio della Sede apostolica con pretendere che i decreti conciliari
fossero d'alcun valore inanzi la conferma. Dicevano in sua difesa non avere commandato,
ma essortato all'osservanza; ma la risposta non sodisfaceva, perché osservare
come legge presuppone obligazione, e nel decreto l'essortazione non si
riferisce salvo che a' prencipi e prelati essortati far osservare; che quanto
agl'osservatori si presuppone obligo precedente, e poi quanto alla materia
della fede, la risposta (dicevano) non poter aver luogo alcuno. Si potevano
scusare con dire che ogni cosa era fatta dal papa et approvata prima che nelle
sessioni fosse publicata; né questo averebbe sodisfatto, poiché, quantonque
fosse il vero, non però appariva. Questo diede occasione di
maravigliarsi come tanta contenzione fusse passata tra la sinodo e protestanti
per le cose già statuite, che questi volevano reessaminare e quelli avere
per concluse; poiché se non ebbero la perfezzione e stabilimento inanzi la
conferma, adonque potevano esser reessaminate; et a discorrer sodamente, overo
il pontefice che doveva confermarle aveva da farlo con cognizione delle cause o
senza: se senza, la conferma è una vanità e sarebbe secondo il
proverbio che uno pigliasse la medicina e l'altro si purgasse; se precedendo la
cognizione, adonque, et esso pontefice dopo doveva essaminarle, e lo poteva
anco far ogni uno per riferirsi a lui. In somma, se la forza de' decreti
conciliari pende dalla conferma del papa, inanzi quella sono pendenti e possono
essere rivocati in dubio e posti in maggior discussione, contra quello che
sempre s'era negato a' protestanti. La conclusione d'alcuni era che il decreto
fosse una dicchiarazione di non aver bisogno di conferma. I protestanti non
pensarono a queste raggioni, quali quanto sono piú valide nella dottrina della
Sede romana, tanto piú il valersene sarebbe di detrimento alle pretensioni
loro. Ma perché della validità di questo decreto fu maggiormente parlato
l'anno 1564 quando il concilio si finí, sarà differito parlar del
rimanente sino a quel tempo.
[Maurizio tratta con Cesare e lo sforza con
l'arme all'accordo di religione e della libertà di Germania]
Ma con tutto
che i protestanti fossero superiori nel maneggio della guerra, non restava
Maurizio di trattare amichevolmente con Ferdinando, anzi, per questo ancora
andare ne' Stati suoi a ritrovarlo, non ricchiedendo altro che la liberazione
del lantgravio suocero, la libertà di Germania e la pace della
religione; e nondimeno, facendo continuo progresso le armi de' protestanti,
l'imperatore, quantonque non fosse in ordine di resistere, parendogli nondimeno
d'aver ancora la Germania sotto il giogo, non si poteva accommodare a cedere in
parte la dominazione assonta; se ben Ferdinando, dopo aver molto con Maurizio
trattato, s'era trasferito in Ispruc a persuader il fratello. Ma accostandosi a
quella città le armi nimiche, l'imperatore fu costretto fuggire di notte
con tutta la sua corte, e caminato alquanto per i monti di Trento, voltatosi,
si ridusse a Villaco, città di Carinzia a' confini de' veneziani, con
tanto spavento che prese anco timore, perché quel senato, per sicurezza de'
confini suoi, spinse numero de soldati verso quel luogo, quantonque
dall'ambasciatore veneto fosse assicurato che quelle arme erano per suo
servizio, se fosse stato bisogno. Inanzi la partita, liberò Giovanni
Federico, duca di Sassonia, della preggione, per levar la gloria a Maurizio che
da lui fosse stato liberato; il che fu anco di molto piacere a quel prencipe,
al quale metteva piú conto aver la grazia dal nemico superiore che dal nemico
pari et emulo. Poche ore dopo la partita d'Ispruc, Maurizio arrivò la
medesima notte, dove, non toccate le cose di Ferdinando, né di quei cittadini,
solo s'impadroní di quelle dell'imperatore e della corte sua. Da quella fuga
vedendo i protestanti il vantaggio loro, mandarono fuori un altro manifesto,
con significare in sostanza che, avendo preso le arme per la religione e libertà
di Germania, sí come gl'inimici della verità nissun'altra mira ebbero se
non che, oppressi i dottori pii, si restituissero gl'errori ponteficii e la
gioventú in quelli s'educasse, avendone parte posti preggione et agli altri
fatto giurare di partirsi e non tornare piú, il qual giuramento, se ben essendo
empio non è obligatorio, con tutto ciò gli richiamavano tutti,
gli commandavano di reassumer l'ufficio d'insegnare secondo la confessione
augustana e, per levar ogni luogo alle calonnie, gli assolvevano anco dal
giuramento prestato.
Continuando
tuttavia il trattato della pace, finalmente si fece l'accordo in Passau nel
principio d'agosto sopra tutte le differenze, et in quello che s'aspetta alla
religione fu cosí ordinato: che fra sei mesi si congregasse una dieta, nella
quale si dovesse trattar qual fosse il piú facile e commodo modo di compor le
differenze della religione: per un concilio generale, o per un nazionale, o per
un colloquio, o per un'universale dieta dell'Imperio; che in questa dieta si dovesse
pigliar un ugual numero di persone pie, placide e prudenti dell'una e
dell'altra religione, dando loro cura di pensare e proponer i modi convenienti,
e che tra tanto né Cesare, né alcun altro potesse sforzar alcuno contra la sua
conscienza o volontà, né de fatto, né con forma di raggione per causa di
religione, né far cosa alcuna in vituperio e gravame d'alcuno per tal causa, ma
lasciar viver ciascuno in quiete e pace, e che similmente i prencipi della
confessione augustana non potessero molestar gl'ecclesiastici o secolari della
vecchia religione, ma lasciargli goder le loro facoltà, signorie,
superiorità, giurisdizzioni e ceremonie; che nella camera fosse a
ciascuno amministrata giustizia, senza aver risguardo di che religione fosse e
senza escluder quelli della confessione augustana dall'aver la porzione
spettante loro nel numero degli assessori, e fosse lasciata libera la formula
di giurare agli assessori et alle parti, per Dio e per i santi, overo per Dio e
per gl'Evangelii. E quando bene non si trovasse modo di composizione nella
religione, questa pace, nondimeno, e concordia ritenga il suo vigore in
perpetuo. E cosí restò annullato l'Interim, il quale però
in fatti ebbe in pochi luoghi essecuzione. Ma accordate tutte le differenze,
seguí la liberazione di Filippo lantgravio d'Assia per virtú della concordia,
onde tutte le difficoltà con Cesare furono composte, non però si
cessò dalla guerra tra diversi prencipi e città dell'Imperio in
molte parti per un anno intiero. Con tutto ciò le città ricchiamarono
i predicatori e dottori della confessione augustana, e restituirono le chiese,
le scole e l'essercizio della religione: e se ben si credeva che, attesi i
bandi e persecuzione passata contra i dottori e predicatori, fossero
esterminati, né vi rimanessero se non alcuni pochi, occoltati sotto la
protezzione de' prencipi, nondimeno, quasi come per una rinascenza, non
mancò da proveder a tutti i luoghi. La guerra impedí l'adunanza della
dieta dissegnata e la fece differire d'un anno in altro sino al febraro del
1555, della quale al suo tempo si dirà.
[Il pontefice, per prevenire ogni nuovo
proposito di concilio, imprende una vana riforma a Roma, e 'l concilio resta
sospeso per dieci anni]
Il pontefice,
per la dissoluzione del concilio liberato da molti pensieri, riputò bene
prevenire le occasioni che potessero farlo ricader di nuovo, e propose in
concistorio la necessità di riformare la Chiesa: che per questo effetto
aveva ridotto il concilio a Trento il quale non avendo portato il fine da lui
desiderato per gl'accidenti della guerra, prima d'Italia, e poi anco di
Germania, giusta cosa era far in Roma quello che in Trento non s'era potuto.
Ordinò per tanto una congregazione numerosa de cardinali e prelati che attendessero
all'opera. Dell'averne eletto molti, egli allegava la causa, acciò le
risoluzioni passassero con maturità et avessero riputazione maggiore;
con tutto ciò era stimato communemente il fine esser acciò per la
moltitudine piú impedimenti fossero interposti et il tutto a niente si
risolvesse. L'evento fu giudice delle opinioni, perché la riforma nel principio
fu trattata con ardore, poi per gl'impedimenti caminò per molti mesi
frigidamente, et in fine andò in silenzio, e gl'anni interconciliari in
luogo di due furono dieci, verificandosi in questo la massima de' filosofi, che
cessando le cause, cessano gl'effetti. Il concilio la prima volta ebbe per
cause le grand'instanze della Germania e la speranza concepita dal mondo che
quello dovesse medicar tutti i morbi della cristianità; gli effetti
vedutisi sotto Paolo III estinsero le speranze degl'uomini e mostrarono alla
Germania che concilio tale, quale desideravano, era impossibile avere. La
seconda ridozzione ebbe un'altra causa: quella fu estremo desiderio di Carlo
imperatore di mettere, col mezo della religione, Germania sotto il giogo e far
l'Imperio ereditario, facendosi succeder il figlio, et in tal guisa constituir
una monarchia, in cristianità, maggiore di qualonque altra dopo la
romana, eziandio di quella di Carlo Magno. A che la sola vittoria avuta non era
bastante, né meno si poteva confidar di supplire con mezo di nuove arme
solamente, ma ben sottomettendo i popoli con la religione e li prencipi con le
prattiche, aveva concepita vasta speranza d'immortalar il suo nome. Questa fu
la causa della grand'instanza che fece con Giulio per la seconda ridozzione e
delle persuasioni efficaci, per non dir sforzate, a' tre elettori d'andarvi in
persona et a' protestanti con quali piú poteva di mandar i loro teologi.
[Rifiuto di Ferdinando e di Massimiliano a
consentire alla successione di Filippo all'Imperio]
Ma mentre
quello si celebra, Carlo, avendo con quel dissegno posto in gelosia tutti i
prencipi cristiani, trovò i primi incontri in casa propria; poiché
Ferdinando, se ben altre volte pareva che avesse consentito di far l'Imperio
commune ad ambidue, come già fu tra Marco e Lucio con ugual
autorità, essempio che fu seguito da Diocleziano e piú volte dopo, e poi
far opera che Filippo fosse eletto re de' Romani per succeder ad ambidue,
avendosi per questo affaticato efficacemente la regina d'Ongaria, sorella loro,
a persuaderlo al fratello Ferdinando per grandezza della casa, nondimeno,
consegliato meglio da Massimiliano suo figlio, incomminciò a sentir
altrimenti, e dandosi principio alla negoziazione, per effettuare la quale
Filippo fu chiamato dal padre, acciò fosse conosciuto dagl'elettori
nella dieta d'Augusta del 1551, ritiratosi Ferdinando, la regina sudetta per risarcir
la concordia tra i fratelli era andata alla dieta; e Massimiliano, temendo che
la bontà del padre potesse soccombere, lasciato il governo de' regni di
Spagna, a' quali l'imperatore l'aveva preposto, in mano della moglie, figlia di
Cesare, repentinamente se ne tornò in Germania; per gl'ufficii del quale
restò Ferdinando costante in dissentire, e dagl'elettori Carlo non ebbe
se non buone parole. Rimesse per questa opposizione l'animo l'imperatore e
rimandò il figlio in Spagna, non sperando di poter ottener mai consenso
da Massimiliano. Ma poi successa la guerra (della quale s'è detto),
costretto ad accettar l'accordo, deposta la speranza della successione del
figlio, depose insieme il pensiero di restituir la religione antica in
Germania: et in consequenza non ebbe piú alcun pensiero al concilio, quantonque
restasse molti anni in governo. Né la corte pensò a restituirlo, poiché
nissuno gliene faceva instanza. Ma ben in quel tempo occorsero diversi
accidenti, quali, se ben pareva che preparassero perpetuità alla
sospensione, nondimeno nell'accolto della providenza superiore somministravano
altre cause per la terza ridozzione, quali il filo dell'istoria ricerca che non
si passino sotto silenzio, servendo molto la cognizione delle cause a ben penetrare
gl'effetti che successero dopo che il concilio fu reassonto.
[Vana pompa di ubedienza renduta al papa da un
patriarca d'Oriente]
Vedendo il
pontefice che per l'alienazione della Germania la riputazione della sua Sede si
diminuiva appresso a' popoli della sua obedienza, immitando Eugenio IV, che
sostentò la riputazione che gli levava il concilio di Basilea con
un'apparenza de' greci et un'ombra d'armeni, et il fresco essempio di Paolo III
suo precessore, il quale nel tempo che bollivano le contenzioni tra lui e
l'imperatore per la traslazione del concilio a Bologna, che gli davano molto
carico appresso a' popoli, con molte ceremonie ricevette un certo Stefano con
nome di patriarca dell'Armenia Maggiore, con un arcivescovo e 2 vescovi venuti
a riconoscerlo per vicario di Cristo, universale maestro della Chiesa, e
rendergli obedienza, con questi essempii Giulio, con molta solennità
publica, ricevette un certo Simon Sultakam, eletto patriarca de tutti i popoli
che sono tra l'Eufrate e l'India, e mandato da quelle chiese per esser
confermato dal papa, successore di Pietro e vicario di Cristo. Lo fece ordinar
vescovo, e con le sue mani in consistorio gli diede il pallio patriarcale, e lo
rimandò a casa, acciò la chiesa non patisse nella sua assenza, accompagnato
da alcuni religiosi intendenti della lingua siriaca. Da che nacque che non solo
per Roma, ma per tutta Italia non si parlava se non dell'immenso numero de
cristiani che in quelle parti sono, e dell'aummento grande che la Sede
apostolica fatto aveva. Particolarmente si discorreva di gran numero di chiese
nella città di Muzal, che dicevano esser l'antica Assur sopra il fiume
Tigri, oltra il quale poco distante ponevano de là dal fiume l'antica
Ninive, celebre per la predica di Iona. Sotto la giurisdizione ponevano
Babilonia, Tauris et Arbela, famosa per il conflitto tra Dario et Alessandro,
con molte regioni della Assiria e Persia. Trovavano anco le antiche
città nominate nella Scrittura, et Ecbatana, dagl'altri autori Seleucia,
e Nisibi. Narravasi come questo, eletto da tutti i vescovi, fu mandato al
pontefice per la conferma, accompagnato da 70 sino in Gierusalem, e de
là in oltra da tre di loro, uno de quali era morto e l'altro restato in
viaggio infermo, et il terzo, per nome Calesi, con lui gionto a Roma. Le qual
cose tutte poste in stampa erano lette con gran curiosità. Ricevette
anco il papa un altro Marderio, assirio iacobita, mandato dal patriarca
antiocheno a riconoscer la Sede apostolica e dargli obedienza e far la
professione della fede romana; ma il mondo, saziato di quel primo, poco si
curò saper le cose di questo secondo.
[Il re Edoardo muore in Inghilterra; a cui
succede Maria; le leggi di Edoardo in fatto di religione annullate; Maria
sceglie Filippo di Spagna]
Ma dopo
queste ombratili ubedienze che la Sede romana acquistò, ne successe una
reale e molto importante, che ricompensò abondantemente quanto in
Germania s'era perduto. L'anno
Ma in
Inghilterra, dopo la coronazione, si tenne parlamento, nel quale fu dechiarato
illicito il repudio di Catarina d'Arragona, madre della regina, e dicchiarato
il matrimonio e la prole nata di quello legitima; il che fu obliquamente un
restituir il primato pontificio, non potendo quel matrimonio esser valido senza
la validità della dispensa di Giulio II, e per consequente senza la
sopranità della Sede romana. Fu anco statuito che tutte le ordinazioni
in materia di religione fatte da Edoardo fossero annullare e si seguitasse la
religione che era al tempo della morte d'Enrico. In questo parlamento fu
trattato anco di maritare la regina, se ben già eccedeva l'anno
quadragesimo, al qual matrimonio erano nominati 3: il Polo, che se ben
cardinale, non aveva però alcun ordine sacro, et il Cortineo, ambedue
del sangue regio et in pari grado primi cugini d'Enrico VIII, questo della Rosa
bianca, nipote per figlia d'Edoardo IV, quello della Rosa rossa, nipote per
sorella d'Enrico VII, ambidoi grati alla nobiltà anglica, il Polo per la
prudenza e santità di vita, il Cortineo per l'amabilità de'
costumi. Ma a questi la regina anteponeva Filippo, prencipe di Spagna, cosí per
le prattiche tenute da Carlo imperatore, suo cugino, inclinando assai piú
l'affetto al materno, che al paterno sangue; come anco perché credeva dover
assicurar piú con quel matrimonio la sua quiete e del regno. E l'imperatore,
che sommamente desiderava effettuar questo matrimonio, dubitando che dal Polo
potesse esser disturbato con la presenza sua in Inghilterra, inteso che era
deputato legato, per mezo del cardinale Dandino, ministro ponteficio appresso
di sé, operò che non partisse cosí tosto d'Italia, dicendo non esser
tempo ancora ch'un legato apostolico potesse andar con degnità in
Inghilterra. Né avendo fatto effetto la lettera del Dandino, ma essendosi il
Polo messo in viaggio et arrivato sino in Palatinato, gli mandò Diego
Mendoza incontra per fermarlo con l'autorità. Al cardinale parve cosa
grave e si lamentò che la legazione ponteficia fosse trattenuta con
danno della cristianità, del regno d'Inghilterra e con allegrezza della
Germania. Per il che l'imperatore, per non dar tanta materia di parlar, lo fece
andar a Brusselles e lo trattenne in Brabanzia sin che si finisse il matrimonio
e tutte le cose fossero accomodate a gusto suo, e per colore l'implicò a
trattar la pace tra sé et il re di Francia
[Maria ristabilisce la dottrina, il rito e 'l dominio
romano]
Nel principio
dell'anno 1554 mandò l'imperatore ambasciatori in Inghilterra per far la
conclusione, e la regina, caminando inanzi a favore della religione antica,
sotto li 4 marzo publicò altre leggi, restituendo la lingua latina nelle
chiese e proibendo che maritati potessero essercitare le fonzioni sacre et
ordinando a' vescovi di non far piú giurare a quelli che si ricevevano nel
clero, secondo che Enrico determinato l'aveva, che il re fosse supremo capo
della Chiesa anglicana e che il pontefice romano non avesse superiorità
alcuna in quella, ma fosse solo vescovo della città di Roma.
Ordinò anco che fosse scancellata da tutti i rituali e proibita ogni
stampa della formula d'orazione instituita da Enrico, dove tra le altre cose
era pregato Dio di liberar quel regno dalla sedizione, conspirazione e
tirannide del vescovo romano. All'aprile un altro parlamento fu tenuto, dove fu
dato l'assenso al contratto matrimoniale; et in quel medesimo parlamento,
avendo la regina proposto di restituir il primato al pontefice romano, ebbe
tanta resistenza dalla nobiltà, che non poté ottenerlo, e quella
nobiltà non s'avvidde, come vanamente negava questa dimanda, che
virtualmente era contenuta nell'assenso al matrimonio. Arrivò Filippo,
prencipe di Spagna, in Inghilterra a' 18 di luglio, et il dí di san Giacomo si
fecero le nozze e ricevette il titolo di re di Napoli e consummò il
matrimonio. Et al novembre si ridusse di nuovo il parlamento, nel quale fu
restituita la nobiltà e la patria al cardinale Polo, e mandati due che
l'invitassero et accompagnassero; con quali egli passò nell'isola e
gionse a Londra a' 23 novembre, portando inanzi la croce d'argento. Introdotto
la prima volta in parlamento inanzi il re e la regina et ordini del regno, fece
un raggionamento in lingua inglese; ringraziò con molte et affettuose
parole d'esser stato restituito alla patria, soggiongendo che in cambio era
andato per restituir loro alla patria e corte celeste, della quale s'erano
privati, partendosi dalla Chiesa; gl'essortò a riconoscer l'errore e
ricever il beneficio che gli mandava Dio per mezo del suo vicario. Fu
longhissimo il raggionamento e pieno d'arte, in fine del quale concluse che
egli aveva le chiavi per introdurgli nella Chiesa, la quale essi s'avevano
chiusa con le leggi fatte contra la Sede apostolica, le quali, quando fossero
rivocate, egli averebbe aperto loro le porte. Fu aggradita la persona del
cardinale et alla proposizione fu prestato apparente assenso, se ben nel
secreto la maggior parte aborriva la qualità di ministro ponteficio e
sentiva dispiacere di ritornar sotto il giogo. Ma s'avevano lasciato condur
troppo oltre, che potessero pensar a ritornar indietro.
Il giorno
seguente fu deliberata in parlamento la reunione con la Chiesa romana: il modo
fu cosí ordinato con decreto publico, che si formasse una supplica per nome del
parlamento, nella quale si decchiarasse d'esser grandemente pentiti d'aver
negato l'ubedienza alla Sede apostolica e d'aver consentito a' decreti fatti
contra di quella, promettendo per l'avvenire di operare che tutte quelle leggi
e decreti fossero aboliti, e supplicando il re e la regina che intercedessero
per loro, acciò fossero assoluti da' delitti e censure, e restituiti al
grembo della Chiesa come figli penitenti, a servir Dio nell'ubedienza del
pontefice e Sede romana. L'ultimo novembre, giorno di sant'Andrea, ridotte
ambedue le Maestà, il cardinale e tutto 'l parlamento, il cancellario
interrogò l'università del detto parlamento se gli piaceva che si
domandasse perdono al legato e si ritornasse all'unità della Chiesa et
all'ubedienza del pontefice, supremo capo di quella, gridando alcuni «sí», et
altri tacendo, per nome del parlamento fu presentata ai re la supplica, la qual
publicamente letta, i re si levarono per pregarne il legato, et egli, andato
loro incontra, si mostrò pronto a compiacergli, e fatta legger
l'autorità datagli dal papa, discorse quanto a Dio fosse grata la
penitenza e l'allegrezza che gli angeli allora avevano della conversione del
regno; et essendo tutti inginocchiati, implorata la misericordia divina, gli
assolvé, e, questo fatto, con tutta la moltitudine andò in chiesa a
render grazie a Dio. Il dí seguente fu destinata legazione al pontefice per
rendergli e prestargli ubedienza; alla quale furono nominati Antonio Brovano,
visconte di Montacuto, e Thoma Turlbeio, vescovo d'Eli, et Edoardo Cerno, che
era altre volte stato in Roma ambasciatore per Enrico VIII, dando anco ordine a
quest'ultimo che si fermasse in Roma come in legazione ordinaria. Andò
l'aviso di ciò a Roma in diligenza, per il qual si fecero molte
processioni, non solamente in quella città, ma per tutta Italia, in
rendimento di grazie a Dio; et il pontefice approvò le cose dal suo
legato fatte, et a 24 decembre mandò un giubileo, allegando nella bolla
per causa che, come padre di famiglia per aver ricuperato il figlio prodigo,
conveniva che non solo facesse domestica allegrezza, ma ancora convitasse tutti
universalmente all'istesso giubilo. Lodò e magnificò le azzioni
del re e della regina e di tutto 'l popolo anglico. Continuò il
parlamento in Inghilterra sino a mezo gennaro 1555 e furono rinovati tutti
gl'antichi editti de' re di punir gl'eretici e della giurisdizzione de'
vescovi, fu restituito il primato e tutte le preminenze al pontefice romano, furono
aboliti tutti i decreti contrarii fatti ne' 20 anni passati, cosí da Enrico,
come da Edoardo, e rinovati i decreti penali contra gl'eretici, e con
l'essecuzione anco proceduto alla pena di fuogo contra molti, massime de'
vescovi che si mostrarono perseveranti nelle renovazioni abolite. Certo
è che furono abbrugiati in quell'anno per causa di religione 176 persone
di qualità, oltra gran numero di plebe; il che riuscí con poco gusto di
quei popoli, a' quali anco diede materia d'indegnazione che Martino Bucero e
Paolo Fagio, morti già 4 anni, furono, come vivi, citati, condannati,
dissoterrati i cadaveri et abbruggiati; azzione da alcuni commendata come
vendicativa di quanto Enrico VIII aveva contra san Tomaso operato; da altri
comparata a quello che fu da Steffano VI e Sergio III pontefici contra il
cadavero di Formoso esseguito.
[I riformati perseguiti anche in Francia;
Serveto arso in Geneva; re Ferdinando fa un editto contro a' protestanti]
Ne' medesimi
tempi in Francia ancora furono abbruggiati molti per causa di religione, non
senza indignazione delle persone sincere, quali sapevano che la diligenza era
usata contra quei miseri non per pietà o religione de' giudici, ma per
saziare la cupidità di Diana Valentina, donna del re, alla quale egli
aveva donato tutte le confiscazioni de' beni che si facevano nel regno per
causa d'eresia. Fu anco udito con gran maraviglia che quei della nuova riforma
mettessero mano nel sangue per causa di religione, imperoché Michel Serveto di
Tarragona, di medico fatto teologo e rinovatore dell'antica openione di Paolo
Samosateno e Marcello Ancirano, che il Verbo divino non fosse cosa sussistente
e però che Cristo fusse puro uomo, per conseglio de' ministri di Zuric,
Berna e Schiaffusa, fu in Geneva fatto per ciò morire e Giovanni
Calvino, che di ciò era da molti incaricato, scrisse un libro defendendo
che il magistrato può punir gl'eretici in la vita; la qual dottrina,
tirata a varii sensi, secondo che è piú ristretto o piú allargato o
variamente preso il nome eretico, può una volta nuocer a chi una altra
abbia giovato.
In quei tempi
anco Ferdinando, re de' Romani, publicò un editto a tutti i popoli
soggetti a lui, che nelle cose della religione e ne' riti non potessero far
novità alcuna, ma seguissero le antiche consuetudini, et in particolare
nella santa communione si contentassero di ricever il solo sacramento del pane;
al che, se ben i principali e la nobilità e molte delle città piú
volte lo supplicassero almeno per l'uso del calice, con dire che cosí era
instituito da Cristo, la qual instituzione non era lecito agli uomini mutare e
che tal fu l'uso della Chiesa vecchia, cosa anco dal concilio di Costanza
confessata, pregandolo non gravar la loro conscienza, ma accommodar il suo
commandamento agl'ordini degl'apostoli e della Chiesa vecchia, e promettendogli
nel rimanente ogni sommissione et ubedienza, perseverò con tutto
ciò Ferdinando nella sua deliberazione, e rispose loro che il suo
commandamento non era nuovo, ma instituzione antica usata da' maggiori suoi,
imperatori, re e duchi d'Austria, ma ben che era cosa nuova l'uso del calice,
introdotto per curiosità o per superbia, contra la legge della Chiesa e
la volontà del suo prencipe. Moderò nondimeno il rigore della
risposta, concedendo che, trattandosi della salute, averebbe piú diligentemente
pensato per rispondergli al suo tempo; ma tra tanto aspettava da loro obedienza
et osservazione dell'editto. Publicò anco sotto il 14 d'agosto un
catechismo, fatto componer con l'autorità sua da alquanti teologi dotti
e pii, commandando a tutti i magistrati di quelle regioni che non permettessero
a maestri di scola, né in publico, né in privato, legger altro catechismo che
quello; poiché per diverse tal operette che andavano attorno, era stata
depravata assai la religione in quei paesi: riuscí questa ordinazione con molto
disgusto della corte romana, che non fosse stato mandato al pontefice per esser
approvato con l'autorità sua, overo almeno non fosse uscito sotto nome
de' vescovi della regione, ma che il prencipe secolare si assumesse ufficio di
far componer e di autorizar libri in materia di religione, e massime con nome
di catechismo, che altro non mostrava se non che all'autorità secolare
appartenesse il deliberare qual religione il popolo dovesse tener e qual
ripudiare.
Finiti i 2
anni della sospensione del concilio si trattò in concistoro quello che
si doveva fare; perché quantonque nel decreto vi fosse la condizione che
ritornasse il concilio in vigore, se gl'impedimenti fossero levati, i quali
durando per le guerre di Siena, Piemonte et altre tra Cesare et il re di
Francia, nondimeno pareva che restasse una porta aperta ad ogni inquieto di
poter dire che quelli non fossero bastanti impedimenti, ch'il concilio
s'intendesse rimesso in piedi, onde fosse ben far una nuova dicchiarazione e
levarsi di quei pericoli. Ma altri piú prudenti consegliarono che non si
movesse il male quando è in quiete: mentre che il mondo taceva, mentre
che nissun prencipe, né popolo dimandava concilio, non era ben col farne
motivo, o col mostrar di temerne, eccitar alcuno a ricchiederlo; e questo
conseglio prevalse e fece risolver il pontefice a non parlarne mai piú.
[Dieta in Augusta per comporre la religione]
Ma del 1555
si fece dieta in Augusta, intimata da Cesare, principalmente per sedar le
controversie della religione, per esser questo il fonte di tutte le
perturbazioni e calamità di Germania, con perdita non solo della vita di
molte migliara d'uomini, ma dell'anime ancora. Fece principio della dieta
Ferdinando per nome dell'imperatore al 5 di febraro, dove con una longa
proposizione mostrò il lamentevole spettacolo della Germania, dove
gl'uomini d'un istesso battesmo, d'una stessa lingua, d'uno stesso imperio si
vedevano distrutti in tanta varietà di professione di fede, nascendo
ogni giorno nuove sette; il che non solo era con grand'irreverenza divina e
perturbazioni delle menti umane, ma causava ancora che la moltitudine non
sapesse che credere, e molti della principal nobiltà e degl'altri stati
formavano l'animo loro senza fede alcuna, non tenendo conto d'onestà, né
di conscienza nelle azzioni, il che levava ogni commercio, in maniera che al
presente la Germania non si poteva dire migliore de' turchi et altri popoli
barbari; per le qual cause Dio l'aveva afflitta di tante calamità.
Perilché esser necessario di pigliar in mano il negozio della religione. Per il
passato era parso unico rimedio il concilio generale, libero e pio, perché
essendo la causa della fede commune a tutti i popoli cristiani, da tutti doveva
esser trattata; e Cesare con tutte le sue forze s'era dato a questo, et aveva
operato piú d'una volta che fosse convocato, ma non era tempo né luogo di dire
per che causa da questo rimedio non s'era cavato frutto, essendo molto ben noto
che si sapeva da quelli che vi erano intervenuti; ma ora, se gli piaceva di
provar di nuovo il medesimo rimedio, bisognava trattar con levar gl'impedimenti
che per il passato avevano deviato dal desiderato fine. Ma se anco per
gl'accidenti occorrenti gli pareva di differir questo ad altro tempo, si poteva
trattar d'usar gl'altri mezi. Quanto al concilio nazionale, per non esser a
questi tempi il modo e la forma et il nome in uso, non si poteva veder come
valersi. La via de' colloquii molte volte tentata non aver fatto frutto, perché
ambe le parti hanno mirato piú al commodo privato ch'alla pietà et
utilità publica. Con tutto ciò non è da sprezzar adesso,
se si vorrà deponer l'ostinazione degl'affetti privati, la qual via egli
consegliava di tentar un'altra volta, quando la dieta non avesse proposto
qualche altra migliore.
Questa
proposizione, insieme con le altre pertinenti alla pace e guerra de' turchi,
fatta da Ferdinando fu stampata, acciò andasse per Germania e servisse
per invito alla dieta, dove pochissimi erano andati: ma fu interpretata
sinistramente per l'editto da lui medesimo publicato nelli Stati suoi, molto
contrario a questa proposta, e piú per l'essecuzione, per quale erano stati
scacciati piú di 200 predicatori di Boemia; et andò a Roma ancora, dove
il pontefice maledicendo, secondo il solito suo, i colloquii e gl'inventori, si
doleva di non poter trovar essito a queste difficoltà e dovere stare
sempre o con un concilio, o con un colloquio, o con una dieta adosso;
malediceva i suoi tempi pieni di tante angustie, lodando quelli de' secoli
passati, quando i pontefici potevano vivere con l'animo quieto, senza star
sempre in dubio dell'autorità sua. Riceveva nondimeno consolazione per
gli avisi d'Inghilterra della perfetta soggezzione di quel regno alla sua
obedienza e de decreti fatti a suo favore, e per le lettere di ringraziamento
ricevute, con promessa che presto anderebbe solenne ambasciaria per
ringraziarlo personalmente della paterna clemenzia e benignità e
prometter l'ubedienza; di che allegro non si conteneva di motteggiare che
godeva pur parte della felicità, sentendosi ringraziare da chi meritava
esser ringraziato.
[Giulio III muore, et è eletto Marcello
II, il quale vuole concilio e riforma]
Ma delle cose
di Germania, quantonque avesse il papa poca speranza, per non trascurarle
nondimeno et esser attento a tutte le aperture che potessero farsi di proponer
modi per ridur gli sviati alla Chiesa, mandò alla dieta imperiale il
cardinale Morone per legato, con instruzzione di metter sempre inanzi
l'essempio d'Inghilterra, e con quello essortar la Germania a conoscer il suo
fallo et a ricever la medesima medicina; e sopra il tutto divertire ogni
colloquio e trattazione di religione. Non fu cosí presto gionto il cardinale in
Augusta, che Giulio pontefice morí; di che l'aviso gli sopragionse 8 giorni
dopo arrivato: si partí egli perciò l'ultimo di marzo insieme col
cardinale d'Augusta per ritrovarsi all'elezzione del nuovo papa.
Fu creato
inanzi l'arrivo loro in Roma pontefice, a 9 d'aprile, Marcello Cervino,
cardinale di Santa Croce, uomo di natura grave e severa, d'animo costante, qual
volle dimostrare nella prima azzione del pontificato, con ritener il nome
medesimo e significar al mondo di non esser fatto un altro per la
degnità ricevuta, cosa a ponto opposita a quello che da tanti suoi
precessori fu fatto; imperoché dopo quel tempo, quando si diede principio alla
mutazione di nome per esser assonti al pontificato tedeschi, nominati con
vocaboli all'orecchie romane insoliti, i seguenti servarono l'uso di mutar il
nome, per significar con quello d'aver mutato gl'affetti privati in pensieri
publici e divini: dove questo pontefice, per dimostrar di aver anco in stato
privato avuto pensieri degni del pontificato, con ritener l'istesso nome volle
mostrar immutabilità. Un'altra simile azzione fu che, essendogli
presentati i capitoli fatti in conclavi per giurare, rispose esser quel
medesimo che pochi dí prima aveva giurato, e voler servargli con fatti, non con
promissioni. La settimana santa, che allora si celebrava, e le instanti feste
di Pasca furono causa che il pontefice, per l'assiduità alle ceremonie
ecclesiastiche, contraesse grave indisposizione; con tutto ciò ebbe i
pensieri fissi alle cose che inanzi il pontificato (al quale sempre s'era
augurato dover ascendere) dissegnato aveva. Con molti cardinali, con quello di
Mantova particolarmente, conferí il suo dissegno di componer le differenze
della religione con un concilio, cosa che diceva non esser riuscita già,
per la via impropria tenuta. Che era necessario prima far una intiera riforma,
per quale resterebbono accordate le differenze reali: il che fatto, le verbali,
parte da se stesse cesserebbono, parte con leggier opera del concilio si
concorderebbono. Che i precessori suoi, per 5 successioni, avevano aborrito
eziandio il nome di riforma, non per fine cattivo, ma persuasi che fosse posta
inanzi con mira d'abbassar l'autorità ponteficia; ma esso aver contraria
opinione: che nissuna cosa possi conservarla, se non quella; anzi esser anco
mezo di aummentarla; et osservando le cose passate, ogni uno poter vedere che
quei soli de' pontefici romani che si sono dati alla riforma, hanno inalzata et
accresciuta l'autorità; che la riforma non levava se non cose apparenti
e vane, non solo di nissun momento, ma ancora di spesa e gravezza: i lussi, le
pompe, le numerose comitive de prelati, le spese eccessive e superflue et
inutili, che non fanno il pontificato venerando, ma contennendo; che troncate
queste vanità crescerà la vera potenza, la riputazione e credito
appresso il mondo, il danaro e gl'altri nervi del governo, e sopra ogni altra
cosa la protezzione divina, che debbe tenere per sicuro ogni uno che opera
conforme al proprio debito.
Si
publicarono per la corte questi dissegni, i quali da' benevoli erano ornati con
titoli di pietà et amore della pace e della religione, non mancando
però gl'emuli d'interpretar in sinistro, con dire che il fine non era
buono; che il papa fondava sopra predizzioni astrologiche, a' quali era tutto
dato, seguendo le vestigie del padre, che per quella professione fu aggrandito;
che sí come alle volte, o per caso, o per altra causa riescono, cosí per il piú
sono occasioni di precipitar molti. Tra le cose che dissegnava il pontefice in
particolare era d'instituire una religione di
[Nuovo conclave, il qual crea papa Paolo IV]
Onde
congregati di nuovo i cardinali in conclavi, facendo molta instanza il
cardinale d'Augusta, aiutato anco dal Morone, che tra i capitoli soliti
formarsi e giurarsi da' cardinali vi fosse posto che il futuro pontefice, con
conseglio del collegio, per dar fine alla riforma incomminciata, per determinar
le rimanenti controversie della religione e per trovar modo come far ricever il
concilio celebrato in Trento alla Germania, fra termine di 2 anni ne
convocherebbe un altro, et essendo il collegio de' cardinali numeroso molto fu
anco capitolato che per 2 anni non potesse il nuovo pontefice creare piú di 4
cardinali. Et a 23 del seguente fu creato Giovanni Pietro Caraffa, che si
chiamò Paolo IV, ripugnando quanto potero i cardinali imperiali, perché
era stimato poco amico di quella Maestà per antichi disgusti ricevuti
essendo in Spagna alla corte regia, dove serví 8 anni, vivendo ancora il re
Ferdinando Catolico, e per il possesso negatogli pochi anni inanzi
dell'arcivescovato di Napoli per la commune inclinazione de' baroni napolitani.
A questo s'aggiongeva la severità de' costumi suoi, che rese ancora
tutta la corte molto mesta, e la pose in maggior timore di riforma che tutto il
passato sostenuto nelle trattazioni del concilio. La severità del viver,
quanto alla persona e casa sua, la depose immediate creato; ché interrogato dal
maestro di casa come voleva che gli fosse apparecchiato, disse: «Come ad un
gran prencipe conviene». E volle esser coronato con maggior pompa del solito,
che tale non era in memoria: et in tutte l'azzioni affettava di tener
magnificamente il grado et apparir pomposo e sontuoso; e co' nipoti e parenti
si mostrò cosí indulgente, come qual pontefice fosse preceduto; la
severità verso gl'altri affettò d'asconderla, mostrando
grandissima umanità; però in poco tempo ritornò a mostrar
il suo naturale.
Ricevette a
grande sua gloria che il primo giorno del suo pontificato entrarono in Roma li
3 ambasciatori inglesi spediti sotto Giulio, come s'è detto, et il primo
concistoro dopo la coronazione fu publico: in quello furono introdotti, dove
prostrati a' suoi piedi, a nome del regno accusarono i falli passati,
narratigli tutti ad uno ad uno, che cosí il papa volle, confessandosi ingrati
de infiniti beneficii dalla Chiesa ricevuti e chiedendone umil perdono. Il
pontefice gli perdonò, gli levò di terra et abbracciò, et
in onor di quei re diede titolo di corona regale all'Ibernia, concedendogli
tali degnità per l'autorità che il pontefice ha da Dio, posto
sopra tutti i regni, per spiantar li contumaci et edificarne de nuovi.
Dagl'uomini di giudicio, che allora non seppero la vera causa di tal azzione,
fu riputata una vanità, non vedendosi che profitto, né di
potestà, né di onorevolezza sia ad un re l'aver piú titoli nel paese che
possede, e vedendosi piú onorato il re Cristianissimo per il solo titolo di re
di Francia, che se fosse il suo Stato diviso in tanti titoli regii, quante
provincie possede. Né pareva molto opportuno in quei tempi il dire d'aver da
Dio autorità d'edificar e spiantar regni. I consapevoli della vera causa
non l'ebbero per vanità, anzi per arcano solito da molto tempo usarsi.
Enrico VIII, dopo separato dal pontefice, eresse l'Ibernia in regno e si
chiamò re d'Anglia, Francia et Ibernia. Questo titolo, continuato da
Edoardo, fu assonto anco da Maria e dal marito. Il papa, subito creato,
entrò in risoluzione ch'il titolo d'Ibernia fosse da quei re deposto,
affermando constantemente non appartener ad altri che a lui dare titolo regio.
Ma difficil cosa pareva poter indur l'Inghilterra a deponer un titolo che
già da 2 re era usato e dalla regina, senza altro pensare, continuato;
trovò temperamento, dissimulando di saper il fatto da Enrico, d'eriger
esso quell'isola in regno, che in quella maniera poteva il mondo creder il
titolo esser usato dalla regina come donato dal papa, non come decretato dal
padre. Cosí spesso i papi hanno donato quello che non hanno potuto levare a'
possessori, e questi, per fuggire le contenzioni, parte hanno ricevuto le cose
proprie in dono, e parte hanno dissimulato di saper il dono e la pretensione
del donatore. Ma ne' raggionamenti che passarono tra il papa e gl'ambasciatori
in privato, riprese che non fossero stati intieramente restituiti tutti i beni
della Chiesa, dicendo che ciò non era da tolerarsi in modo alcuno, e che
in ogni maniera era necessario ricuperargli tutti sino al valore d'un minimo
quadrante; perché le cose di Dio non possono mai ritornar ad uso umano, e chi
teneva qualsivoglia minima parte di quei beni era in continuo stato di
dannazione: e se egli avesse facoltà di concedergli, lo farebbe
prontissimamente per pietà paterna e per aver esperimentato la loro
filial ubedienza; ma la sua autorità non estendersi a poter profanare le
cose dedicate a Dio, e dover Inghilterra esser certa che quello sarebbe un
anatema et una contagione, che averebbe per divina vendetta tenuto sempre quel
regno in perpetua infelicità. Incaricò gl'ambasciatori di
scriverne immediate; né contento d'averne una volta parlato, con ogni occasione
replicava l'istesso. Gli disse anco chiaramente che quanto prima si mettesse
ordine di ritornar in uso l'essazzione del danaro di san Pietro, per qual causa
egli, secondo il costume, averebbe mandato un essattore; che quel carico
d'essattore era stato essercitato 3 anni da lui, mandato a questo effetto in
Inghilterra con molta sua edificazione, vedendo la prontezza nel popolo e ne'
plebei maggiormente; gli inculcava che non potevano sperare che da san Pietro
fosse loro aperto il cielo, mentre che usurpassero le cose proprie di quel
santo in terra. Questa relazione, fatta alla regina con molti altri ufficii che
successivamente erano da Roma continuati, fecero che ella s'adoperò con
tutti gli spiriti a questo. Ma perché molti della nobiltà, e massime de'
piú grandi, avevano incorporato diverse entrate nella case loro, non si poté
esseguire. Essa ben restituí tutte le decime e qualonque cosa ecclesiastica
applicata al fisco regio dal fratello e dal padre. Gl'ambasciatori partirono da
Roma molto lodati e favoriti dal papa per la sommissione da loro usata, modo
col quale facilmente s'acquistava la sua grazia.
Immediate
dopo la creazione del nuovo pontefice, gl'imperiali et i francesi a gara
usarono ogni arte per acquistarselo. Ma il cardinale di Lorena, che molto ben
penetrava l'umore, lo confermò nell'affezzione francese, dicendogli in
consistoro, oltre diversi ufficii fatti in privato, che il re conosceva la
Chiesa gallicana aver bisogno di riforma et esser parato d'aiutar Sua
Santità, o mandando i prelati al concilio, se ella giudicava ben, o in
qualonque altro modo gli fosse parso piú opportuno.
[La dieta d'Augusta, dopo molte contese, fa il
decreto della pace di religione]
Fra tanto si
proseguí la dieta in Germania, non senza contenzioni, le quali maggiori
sarebbono state, se il cardinale Morone fosse restato presente, cosí per
gl'ufficii che averebbe fatto, come per le sospizzioni già concette
nell'animo de' protestanti, che fosse mandato solo per fine d'opporsi a'
commodi loro; e già era per tutto publicato che Roma si trovava piena di
speranza di ricever presto sotto il giogo la Germania come l'Inghilterra. Partito
il cardinal, fu prima difficoltà se si doveva trattar inanzi ad ogni
altra delle cose della religione; e se ben nel principio gl'ecclesiastici
contradicevano, fu risoluto finalmente di commun consenso che da quella si
dasse principio; e due furono le proposizioni contrarie: l'una che si dovesse
trattare de' mezi di riformarla, l'altra che si dovesse lasciarla in
libertà di ciascuno; sopra che fu grandissima controversia. Ma
finalmente parve che tutti inclinassero alla seconda, non sapendo trovar
medicina bastante a sradicare il male che ancora era in moto, ma ben sperando
che, quietati gl'umori e levate le differenze e sospetti, si potessero aprir
molte facili e commode vie: al che fare era necessario stabilire una buona pace
e che per causa di religione non si facesse piú guerra, e fosse lecito ad ogni
uno de' prencipi et altri ordini dell'Imperio seguir e far osservar ne' Stati
suoi quello che piú gli piacesse. La qual risoluzione quando si fu per
stabilire, le controversie si eccitarono maggiori; perché quelli della
confessione augustana pretendevano che a tutti fosse lecito accettar la loro
dottrina, ritenendo gl'onori, stati e gradi che possedevano. Per il contrario i
catolici non volevano che fosse permesso agl'ecclesiastici mutar religione,
ritenendo il grado; ma se un vescovo o abbate abbracciasse l'altra, dovesse
perder la degnità. Né meno alle città, che avevano già 7
anni ricevuto il decreto d'Augusta dell'Interim, fosse permesso di
tornar alla confessione augustana.
Passarono da
una parte e dall'altra scritture sopra ciò e finalmente l'una parte e
l'altra rallentò il rigore. Gl'ecclesiastici si contentarono che le
città facessero a modo loro, et i protestanti cessero la pretensione
quanto agl'ecclesiastici, et a 25 di settembre fu fatto il recesso: che essendo
necessario per ultimar legitimamente le cose della religione un concilio
generale o nazionale, né potendosi congregar per molte difficoltà, tra
tanto che si apriva strada ad un'amicabile concordia di religione, per tutta
Germania Cesare, Ferdinando et i prencipi e Stati catolici non potessero
sforzar i prencipi, ordini e Stati della confessione augustana a lasciar la
loro religione e ceremonie già instituite o da instituirsi ne' loro
dominii; che non potessero operar alcuna cosa in sprezzo o vilipendio, né
impedirgli il libero uso di quella religione; e similmente quelli della
confessione augustana dovessero portarsi verso Cesare e Ferdinando e gl'altri
prencipi e Stati della religione antica, cosí ecclesiastici come secolari,
potendo ciascuno nello Stato suo stabilir qual religione gli piacerà e
proibir l'altra. E se alcun ecclesiastico abandonerà la vecchia, non gli
sia d'alcuna infamia, ma perda subito i beneficii, e da chi tocca sia proveduto
d'un altro, e quanto a' beneficii già applicati da' protestanti alle
scole o a' ministerii della Chiesa, restino nel medesimo stato. Che non si
esserciti piú giurisdizzione ecclesiastica contra quei della confessione
augustana; del rimanente quella sia essercitata secondo l'antico costume.
Formato il recesso, un'altra difficoltà nacque, per rimover la quale
Ferdinando, usando l'assoluta potestà imperiale del fratello,
decchiarò, consentendo l'ordine ecclesiastico, che i titolati e le
città e communità sottoposte a prencipi ecclesiastici, i quali da
molti anni avevano aderito alla confessione augustana e già ricevuto i
riti e ceremonie di quella, osservandole anco tuttavia, non potessero da'
prencipi loro ecclesiastici esser costretti a mutargli, ma possino continuare
sino alla generale concordia di religione che sarà conclusa.
Il pontefice
Paolo, udito il recesso d'Augusta, si alterò gravissimamente; ne fece
gran querela coll'ambasciatore imperiale e col cardinale d'Augusta, reprendendo
che, senza saputa della Sede apostolica si fosse da Ferdinando introdotto
trattazione in materia della religione, e minacciando che a suo tempo averebbe
fatto conoscere et all'imperatore et a quel re, con molto loro pentimento,
l'offesa fatta alla Sede apostolica; essortava a prevenir con revocar et
annullar le cose concesse, per levar a lui l'occasione di proceder, come era
per fare, non solo contra i luterani, ma anco contra loro, come fautori;
offerendosi anco di aiutare, quando a ciò si disponessero, con
l'autorità e con le armi, e commandare a tutti i prencipi cristiani,
sotto pene e censure, che gli assistessero con tutte le loro forze. Non si
quietò per la risposta dell'ambasciatore, che allegava la forza de'
protestanti, la guerra contra Cesare, dove ebbe a restar preggione in Ispruc,
et i giuramenti prestati: perché a' giuramenti rispondeva che egli gli liberava
et assolveva, anzi gli commandava che non gli risguardassero; al rimanente
diceva che nelle cause di Dio non si procede co' rispetti umani; che
l'imperatore è stato in pericolo per divina permissione, non avendo egli
fatto tutto quello che poteva e doveva a fin di ridur la Germania all'ubedienza
della Sede apostolica; che per questo gli ha dato segno dell'ira sua, il che
all'avvenire, se non gli sarà documento, doverà aspettar da Dio
maggior punizione; sí come, diportandosi da vero soldato di Cristo,
intrepidamente e senza rispetti mondani, ottenerà ogni vittoria, come
gl'essempii de' tempi passati dimostrano.
[Altiera natura di Paolo IV. Crea nuovi
cardinali]
Era fama che
il papa cosí trattasse non solo per propria mente, ma eccitato dal cardinale
d'Augusta, al quale non poteva piacer la libertà concessa a'
confessionisti. È ben cosa certa che Paolo, come quello che era d'animo
grande e vasti pensieri, teneva per sicuro di poter rimediare a tutti i
disordini con la sola sua autorità pontificale, né riputava aver bisogno
in ciò di prencipe alcuno, solito di non parlar mai con ambasciatori, se
non intonandogli nelle orecchie che egli era sopra tutti gli prencipi, che non
voleva che alcuno d'essi si domesticasse seco, che poteva mutar i regni, che
era successor di chi ha deposto re et imperatori, e spesso rammemorava per
principio dell'autorità essercitata la lui che aveva eretto un regno
agl'iberni, e passava tanto inanzi, che in consistoro et anco alla mensa, in
publico, in presenza di molte persone, diceva di non voler alcun prencipe per
compagno, ma tutti per sudditi sotto questo piede (cosí diceva percotendo la
terra), come è conveniente e come ha voluto chi ha edificato questa
Chiesa e ci ha posto in questo grado. Et usava qualche volta d'aggiongere: piú
tosto che far una viltà, vorressimo morire, rovinar ogni cosa et
appizzar fuogo in tutte le 4 parti del mondo.
Il naturale
di Paolo IV era di grand'animo et ardire, confidava molto nel suo saper e nella
buona fortuna che gli era stata compagna in tutte le imprese, alla quale,
aggionto il potere e la fortuna del pontificato, riputava ogni cosa facile. Ma
in lui fluttuavano a vicenda 2 umori: uno che per la consuetudine sempre usata
di valersi in ogni azzione della religione, l'induceva adoperare la sola
autorità spirituale; l'altro gli era eccitato da Carlo Caraffa, suo
nipote, che, soldato di valore et essercitato nella guerra, fatto di soldato
cardinale, riteneva li spiriti marziali, lo persuadeva a valersi della
temporale, dicendo che quella senza questa è disprezzata, ma congionte
possono esser istromenti di gran cose. Ma all'avveduto vecchio era molto ben
noto che anco s'indebolisce la spirituale, quando si mostra aver bisogno del
temporale. Ma stando sempre fisso a voler farsi gran nome, ora dava orrecchie
al nipote, ora credendo piú a se medesimo. In fine pensò di trattar il
temporale in secreto et il spirituale in palese, per poter poi, continuando
questo, o aggiongervi le imprese temporali già ordite, o tralasciarle,
come dagl'evenimenti fosse stato consegliato: perilché, insieme col nipote,
trattò secretissimamente col cardinale di Lorena una lega col re di
Francia. La quale, come fu quasi digesta, per levar tutti i sospetti Lorena partí
da Roma e vi andò il cardinale di Tornon, col quale fu con la stessa
secretezza conclusa. Il capo principale della quale era l'acquisto del regno di
Napoli per un figlio cadetto del re, ma con grand'amplificazione dello Stato
ecclesiastico, al quale si davano per confini San Germano et il Garigliano, e,
de là dall'Apennino, il fiume Pescara oltra Benevento: e quello che di
piú s'era convenuto per i rispetti del papa.
Giudicò
anco il pontefice necessario, per farsi appoggio cosí per l'una, come per l'altra
impresa, far una promozione de cardinali dependenti da sé e persone di ardire,
che non si retirassero dal seguir i suoi dissegni et implicarsi in ogni ardua
impresa. Di questa promozione si comminciò a parlar qualche giorni
inanzi che si mettesse in effetto; onde i cardinali si gravavano che si
dissegnasse contravenir al capitolo giurato; e, sopra tutti, gl'imperiali,
attesa la qualità delle persone che erano proposte, pensavano di volersi
opporre. Il dí 20 decembre, essendo entrato il pontefice in concistoro, subito
sentato disse non voler quella matina dar audienza ad alcuno, avendo a propor
cose maggiori; dal che intendendo ogn'uno che la materia doveva esser di crear
nuovi cardinali, il cardinale di San Giacomo se gli fece alla sedia per
parlare, e ricusando il pontefice, né desistendo il cardinale, gli diede una
mano nel petto e se lo scacciò d'appresso. Sentati tutti,
incomminciò il papa a lamentarsi di quelli che disseminavano lui non
poter fare piú di 4 cardinali per le cose giurate in conclavi, e diceva che era
un voler legare l'autorità ponteficia, quale è assoluta; esser un
articolo di fede che il papa non può esser obligato, né meno può
obligar se stesso: il dir altramente esser eresia manifesta, dal delitto della
quale assolveva quelli che erano incorsi, giudicando che non avessero parlato
con pertinacia; ma se alcuno all'avvenire dirà quelle o simil cose
contra l'autorità datagli da Dio, ordinerà che l'Inquisizione
proceda. Aggionse che voleva far cardinali e non voleva replica, perché aveva bisogno
di persone da servirsi, cosa che non poteva far di loro, avendo tutti essi la
propria fazzione; che conveniva promover persone di dottrina e vita essemplare,
a fine d'adoperargli per riforma della Chiesa, e massime nel concilio, del
quale era tempo che ormai si trattasse seriamente; del quale averebbe con la
prima occasione fatta la proposta; ma per allora, come cosa da non differire
piú longamente, proporrebbe loro i soggetti da promover al cardinalato,
acciò, avendo voto consultivo, potessero considerargli quello che fosse
in beneficio della Chiesa, nel che gli averebbe uditi: ma non si credessero
d'aver il decisivo, perché questo a lui solo aspetta. Propose 7 soggetti, nel
qual numero uno solo era parente suo et un altro della congregazione sua teatina;
gli altri, uomini di molta fama, o per lettere, o in maneggio della corte. Tra
questi fu Giovanni Gropero di Colonia, di cui di sopra si è parlato piú
volte, il qual conoscendosi di poca vita e riputando dover onorar molto piú la
sua memoria con ricusar una degnità, universalmente anco da prencipi
grandi ambita, e, con tenerla pochi giorni, dar molta materia agl'emuli suoi di
parlare, rimandò molte grazie al pontefice insieme con l'essecuzione, e
ricusate l'insegne, non volse né il nome, né il titolo. Furono i cardinali
creati, essendo la dominica precedente, che fu a' 15, stipulata la lega con
Francia.
In questo
tempo il cardinale Polo, che per molti rispetti di successione e per non
mostrarsi tanto ristretto col pontificato non aveva voluto ricever gli ordini
ecclesiastici, cessate queste cause, uscí dal numero de' diaconi cardinali e si
ordinò prete, e 4 mesi dopo, essendo stato abbrugiato con molte
ceremonie di degradazione l'arcivescovo di Cantorberi, fu instituito in quel
grado, in luogo di quello.
[I popoli d'Austria chieggono libertà
di religione. Ferdinando consente loro l'uso del calice, come fa anco il Bavaro
a' suoi]
I popoli
d'Austria, per il recesso fatto in dieta e piú per la dicchiarazione aggionta
da Ferdinando a favore delle città e nobili sudditi de' prencipi
ecclesiastici, entrarono in speranza di poter ritener essi ancora
libertà di religione; et avendo Ferdinando chiamato dieta de' sudditi
suoi in Vienna per aver contribuzione contra i turchi che gli movevano guerra,
gli dimandarono che gli fosse permesso sino ad un concilio generale e libero di
viver in purità di religione e goder il beneficio concesso a quelli
della confessione augustana; esponendo al re che i flagelli de' turchi sono
visite di Dio per invitar all'emenda di vita; che invano si pigliano le arme
contra il nemico, non pacificata prima l'ira di Dio, quale vuol esser onorato
secondo il suo prescritto, non a capricci umani. Supplicavano di non esser di
peggior condizione degl'altri germani e che i ministri della Chiesa potessero
insegnar e distribuir i sacramenti secondo la dottrina evangelica et
apostolica, e che i maestri di scola non fossero sbanditi, se non conosciuta la
causa per giustizia; con questo offerendosi di far tutto quello che gli fosse
stato in piacere con la vita e robba.
Al che
Ferdinando rispose che a lui non era lecito concedergli quanto dimandavano, non
per mancamento di volontà di gratificargli, ma perché era obligato
obedir alla Chiesa; che egli e Cesare sempre avevano detestato le discordie
della religione, per rimediar a che avevano anco instituito molti colloquii e
finalmente procurato il concilio di Trento; il quale, se non ha sortito essito
felice, non dover esser a loro imputato, sapendosi con che consegli et
arteficii sia stato da altri impedito; essersi dopoi fatto l'editto a favore
della confessione augustana, del quale essi erano molto ben partecipi, perché
in quello si diceva che ogni prencipe non ecclesiastico potesse elegger qual
delle due religioni gli piacesse, et il popolo dovesse seguitar quella del suo
prencipe, della quale, se alcuno non si contenta, ha libertà di vender i
suoi beni et andar dove gli piace; perilché il loro debito esser di rimaner
nella vecchia religione catolica che egli professa, ma per condescender a' loro
desiderii per quanto poteva, si contentava di sospender quella parte del suo
editto toccante la communione del calice, con tal condizione però, che
non mutassero alcun'altra cosa nelle leggi e ceremonie della Chiesa, sino al
decreto della futura dieta; e non desiderando niente di piú, contentarsi di
concorrer prontamente alle contribuzioni contra il nemico.
I bavari
ancora ricercarono il suo duca di libertà di religione, dimandando la
libera predicazione dell'Evangelio, il matrimonio de' preti, la communione sub
utraque et il mangiar carne ogni giorno, protestando che altramente non
pagarebbono gravezze, né contribuzioni contra turchi. Il qual, vedendo che
Ferdinando, suo suocero, aveva concesso a suoi la communione del calice, per
aver esso ancora aiuto de danari da loro, gli concesse che potessero usar la
communione del calice e mangiar carne per necessità ne' giorni proibiti,
finché le cose della religione fossero accordate con publica autorità,
restando nondimeno in vigore gl'editti fatti da lui in materia della religione;
protestando con molte et ampie parole di non voler partirsi dalla Chiesa e
dalla religione de' suoi maggiori, né mutar nelle ceremonie cosa alcuna senza
la volontà del pontefice e dell'imperatore promettendo di far opera che
il metropolitano e vescovi suoi approvino questa concessione e non diano
molestia ad alcuno per queste cose. Il Palatinato tutto abbracciò la
confessione augustana per esser morto l'elettore e successo il nipote, il quale
era dicchiarato di quella confessione già molti anni, per quale anco
aveva molte persecuzioni patito. Egli, gionto al principato, immediate proibí
le messe e ceremonie romane per tutto 'l suo prencipato.
[Il papa imprende una riforma, ma non vuol
concilio se non a Roma]
Ma il
pontefice fatti i fondamenti di sopra narrati, voltato alle cose spirituali,
giudicò che era necessario acquistar credito appresso il mondo, il che
non si poteva, se prima non si fosse veduta in fatti e non in parole riformata
la corte di Roma. Perilché tutto intento a questo, nel fine di genaro del 1556
eresse una congregazione, dove erano 24 cardinali, 45 prelati et altre persone,
le piú letterate della corte, al numero di 150; e gli divise in 3 classi, in
ciascuna de' quali erano 8 cardinali, 15 prelati et altri al numero di
Nella prima
congregazione della prima classe, la qual fu tenuta a' 26 marzo inanzi il
cardinale Bellai, decano del collegio, parlarono 12 e furono 3 opinioni: una
del vescovo di Feltre, il qual difese che per l'uso della potestà
spirituale non era inconveniente il pigliar danari, quando non sia per preggio,
ma per altro rispetto; l'altra del vescovo di Sessa, che ciò non fosse
lecito in nissun modo e con nissuna condizione, e che assolutamente fosse
simonia detestabile cosí il dar, come il ricever, non potendo scusar pretesto
di qualsivoglia sorte; la terza del vescovo di Sinigaglia, media tra queste
due, che fosse lecito, ma in certo tempo solamente e con certe condizioni.
Finiti i voti di quella classe ne' giorni seguenti e portati al pontefice fatte
le feste di Pasca, egli, vedendo la diversità delle opinioni, fu quasi
in resoluzione di publicar una bolla secondo il suo senso: che non fosse lecito
ricever premio o presente o elemosina, non solo dimandata, ma né meno
spontaneamente offerta per qual si voglia grazia spirituale; e quanto alle
dispensazioni matrimoniali, che non voleva piú concederne, et ancora era
d'animo di rimediare, quanto si poteva senza scandalo, alle concesse per il
passato. Ma tante furono le dilazioni e gl'impedimenti interposti da diversi,
che non seppe venir a risoluzione.
Gli
proponevano alcuni che era necessario trattar una tal cosa in concilio
generale; il che sentendo egli con eccessiva escandescenza, diceva non avere
bisogno di concilio, essendo sopra tutti. Ma al cardinale Bellai, qual
soggionse non esser necessario concilio per aggionger autorità al pontefice,
ma ricercarsi per trovar modo d'essecuzione, la qual non può esser
uniforme in tutti i luoghi, concluse che, se bisognerà, farà
concilio in Roma e che non è necessario andar altrove, e che per tanto
egli mai aveva voluto dar il suo voto che il concilio si facesse in Trento,
come era notorio che era un farlo in mezo i luterani: perché il concilio si ha
da far da' vescovi solamente; che si possono ben admetter per conseglio altre
persone, ma catoliche solamente, altrimenti bisognerebbe admetter anco il
Turco; e che era stata una gran vanità mandar nelle montagne 60 vescovi
de' manco abili e 40 dottori de' meno sufficienti, come già due volte
s'era fatto, e creder che da quelli potesse esser regolato il mondo meglio che
dal vicario di Cristo col collegio di tutti i cardinali, che sono le colonne di
tutta la cristianità, scielti per i piú eccellenti di tutte le nazioni
cristiane, e con conseglio de' prelati e dottori che sono in Roma, i piú
letterati del mondo, e numero molto maggiore di quello che con ogni diligenza
si può ridurre a Trento.
Ma quando
andò nuova a Roma della concessione del calice dal duca di Baviera fatta
a' suoi sudditi, entrò in grandissima escandescenza contra di lui: pur
mise questa appresso le altre cose, a' quali dissegnava proveder tutt'insieme,
pieno di speranza che ogni cosa gli dovesse esser facile, riformata la corte, e
non turbandosi, quantonque vedesse il numero crescere. Imperoché pochi giorni
dopo l'ambasciatore di Polonia, andato espresso per congratularsi con Sua Santità
per la sua assonzione al pontificato, gli fece per nome del re e del regno 5
dimande: di celebrar la messa nella lingua pollaca; di usar la communione sub
utraque specie; il matrimonio de' preti; che il pagamento delle annate
fosse levato, e che potessero far un concilio nazionale per riformar i proprii
abusi del regno e concordar la varietà delle opinioni. Le qual dimande
ascoltò con indicibile impazienza e si pose a detestarle acerrimamente
ad una per una con eccessiva veemenzia. E per conclusione disse che un concilio
generale in Roma farebbe conoscer le eresie e le male opinioni di molti,
alludendo alle cose fatte in Germania, in Austria et in Baviera. Et essendo il
pontefice per queste raggioni quasi risoluto in se stesso, o volendo mostrar di
esserne, che fosse necessario far il concilio, disse a tutti gl'ambasciatori
che scrivessero a suoi prencipi la deliberazione di far un concilio lateranense
simile a quell'altro cosí celebre. E destinò noncii all'imperatore et al
re di Francia per essortargli alla pace tra loro, se ben in Francia aveva
negoziazione piú secreta. Diede commissione di raggionargli del concilio; e nel
concistoro con longo raggionamento, come egli era molto abondante, disse esser
necessario celebrarlo presto, poiché oltra la Boemia, Prussia e Germania, quali
erano grandemente infette (tal furono le formali parole), la Polonia ancora
stava in pericolo; né la Francia e la Spagna stavano ben, dove il clero era mal
trattato. Quanto alla Francia, quello che egli principalmente riprendeva era
l'essazzione delle decime, che il re riscuoteva dal clero ordinariamente. Ma
contra Spagna era maggiormente irritato, perché, essendo stato concesso da
Paolo III e Giulio all'imperatore Carlo, per sussidio delle guerre di Germania,
i mezi frutti e quarte, egli, non sodisfatto del recesso d'Augusta,
revocò la concessione. Ma in Spagna si perseverava, riscuotendo anco per
forza di sequestri e carceri.
Non
s'asteneva di dir che l'imperatore era un eretico, che ne' principii favorí
gl'innovatori di Germania per abbassar quella Santa Sede, a fine di farsi
patrone di Roma e di tutta Italia; che tenne Paolo III in perpetui travagli, ma
non gli riuscirebbe l'istesso verso lui. Aggiongeva che, se bene a questi
inconvenienti tutti egli aveva autorità di rimediare, non voleva
però farlo senza un concilio, per non pigliar tanto carico sopra sé
solo; che l'averebbe convocato in Roma e chiamato lateranense; et aveva dato
commissione di significarlo all'imperatore et al re di Francia per
urbanità, ma non per aver da loro consenso o conseglio, perché vuole che
obediscano. Che era ben certo non dover piacer a nissun de' 2 prencipi, per non
esser a loro proposito, vivendo come fanno, e che diranno molte cose in
contrario per disturbarlo; ma lo convocherà contra il loro volere e
farà conoscer quanto può quella Sede, quando ha un pontefice
animoso. Il 26 del mese di maggio, anniversario della sua coronazione,
desinando con lui, secondo il solito, tutti i cardinali et ambasciatori, dopo
il desinar entrò in raggionamento del concilio e disse la sua
deliberazione esser di celebrarlo onninamente in Roma e che per urbanità
lo faceva intender a' prencipi, et accioché i prelati avessero le strade
sicure. Però, quantonque non vi fossero andati altri prelati, l'averebbe
fatto con quelli soli che si ritrovavano in corte, perché sapeva ben lui quanta
autorità aveva.
Mentre il
papa è attento alla riforma, andò aviso a Roma esser stata
conclusa per mezo del cardinale Polo, che per nome della regina d'Inghilterra
s'interpose, la tregua tra l'imperatore et il re di Francia a' 5 febraro; le
qual cose resero attonito il pontefice e maggiormente il cardinale Caraffa,
essendo trattata e conclusa senza loro. Al papa principalmente dispiaceva per
la diminuzione della riputazione e per il pericolo che portava, se quei
prencipi si fossero congionti, a discrezione de' quali gli sarebbe convenuto
stare. Al cardinale, impaziente della quiete, pareva che 5 anni nella decrepita
età del zio gli levavano totalmente le occasioni di adoperarsi a
scacciar dal regno i spagnuoli, tanto da lui odiati; con tutto ciò, non
perduto d'animo, mostrò il papa sentir allegrezza della tregua, non
però contentarsene intieramente. Poiché per il concilio che dissegnava
fare diceva esser necessaria una pace, la qual egli era risoluto trattare, et a
questo fine mandar legati all'un e l'altro prencipe, essendo certo di doverla
concludere, perché voleva adoperar l'autorità. Non voleva esser per le
loro guerre impedito dal governo della Chiesa, commessogli da Cristo. Destinò
legati, all'imperatore Scipion Rebiba, cardinale di Pisa, et al re di Francia
il cardinale Caraffa, nipote. Questo andò in diligenza, all'altro fu
dato ordine di caminar lentamente. Al Rebiba diede instruzzione d'essortar
l'imperatore all'emendazione di Germania, la quale non s'aveva sin ora
effettuato, perché nissun aveva in quell'impresa caminato di buon piede.
Conosceva i mancamenti de' suoi precessori, i quali per impedir la riforma
della corte, impedirono ogni buon progresso del concilio. Tutt'incontrario egli
deliberava esser il promotor della riforma e deliberava di celebrar un concilio
inanzi sé e da questo capo incomminciare, con certezza che, quando i
protestanti avessero veduto tolti quegli abusi per quali si sono separati dalla
Chiesa e restano tuttavia contumaci, desidereranno e concorreranno a ricever i
decreti et ordinazioni e si farà un concilio, dove si riformerà
non in parole, ma in fatti, il capo, i membri, l'ordine ecclesiastico e
laicale, i prencipi et i privati. Ma per far cosí buon'opera non esser bastante
una tregua di 5 anni, imperoché nelle tregue i sospetti non sono minori che
nella guerra, e sempre si sta sul prepararsi per quando finiranno: esser
necessaria una pace perpetua, che levi tutti i rancori e sospizzioni,
acciò unitamente tutti possino senza fini mondani tender a quello che
concerne l'unione e riforma della Chiesa. Dell'istesso tenore fu l'instruzzione
che diede al Caraffa et ebbe gusto che queste si publicassero e ne oscisse
qualche copia.
Credeva la
corte universalmente che il papa facesse cosí frequente et efficace menzione di
concilio, acciò altri non lo proponesse a lui e con quello minacciasse
prencipi e tutto 'l mondo, a fine di far che l'aborrissero; ma si conobbe dopo
che per altra via egli dissegnava liberarsi dalla molestia data a' suoi
precessori. Imperoché quando si proponeva la sola riforma del pontefice e della
corte, e degl'essenti e privilegiati dependenti dal pontificato, si giocava
solo sopra il suo, et ogni un, cosí prencipe, come popolo e privato, non
trattandosi di poter perder per loro, insisteva in sollecitar concilio; ma
proponendo egli riforma dell'ordine ecclesiastico tutto e laicale ancora, e de'
prencipi massime, con una inquisizione severissima che dissegnava instituire,
metteva le cose al pari, sí che non s'averebbe trattato di lui solo, ma degli
altri piú principalmente; e questo era l'arcano col quale dissegnava tener
tutti in timore e sé in riputazione di bontà e valore: e quanto al
concilio governarsi secondo le congionture; tenendo però fermo il ponto
di farlo in Roma.
Ma tornando
a' legati: al nipote diede instruzzione libera di tentar l'animo del re, e
quando lo vedesse risoluto a servar la tregua, intonargli l'istesso canto del
concilio, et al Rebiba ordinò di governarsi nel piú e nel meno della via
conforme a quello che il nipote gli avesse avisato. Il Caraffa portò al
re la spada et il capello benedetto dal papa la notte del Natale, secondo
l'uso. Della pace non fece alcuna menzione, ma rappresentò al re che per
la tregua de 5 anni, se ben non era violata la lega, era nondimeno resa vana,
con gran pericolo del zio e di tutta la casa sua, poiché già per le
operazioni de' spagnuoli ne avevano sentito qualche odore. Gli
raccommandò con grand'efficacia di parole la religione et il pontificato,
de' quali i suoi maggiori avevano tenuto unica e singular protezzione, et il
pontefice stesso e la casa tanto devota a Sua Maestà; il che non era
alieno dalla mente del re, solo restava ambiguo per la decrepità del
papa, temendo che potesse mancar a ponto quando fosse maggior bisogno. Caraffa,
penetrato questo, trovò rimedio, promettendo che il papa farebbe tal
numero de cardinali parziali di Francia e nimici de' spagnuoli, che averebbe
sempre un pontefice dalla sua. Le persuasioni del cardinale con la promessa
della promozione e l'assoluzione che gli diede per nome del papa dal giuramento
delle tregue, congionte con gl'officii del cardinale di Lorena e fratello,
fecero risolver il re a muover la guerra, con tutto che i prencipi del suo
sangue e tutti i grandi della corte aborrissero l'infamia di romper la tregua e
ricever assoluzione dal giuramento. Fatta la conclusione, il Caraffa
ricchiamò il legato destinato all'imperatore, che era gionto a Mastric,
e lo fece divertir dall'andar a Cesare, dal quale era lontano due sole
giornate, e voltar in Francia. Il che diede indicio manifesto all'imperatore et
al re suo figlio che in Francia fosse stata conclusa cosa contra di loro.
[Nuovi disgusti del papa e di Cesare per li
Colonnesi. Il papa si prepara alla guerra]
Crescevano
ogni giorno maggiormente li disgusti del pontefice contra l'imperatore et il re
suo figlio. Aveva il pontefice formato un severissimo processo contra Ascanio
Colonna e Marco Antonio, suo figlio, per molte offese che pretendeva fatte alla
Sede apostolica da Ascanio, sino quando Clemente fu assediato, e poi contra
Paolo III e Giulio, e da Marco Antonio contra sé e lo Stato della Chiesa; e
narrate in concistoro tutte le ingiurie fatte ne' tempi vecchi da' colonnesi
contra la Sede apostolica, aveva scommunicato Ascanio e Marco Antonio, privato
d'ogni degnità e feudo, con censure contra chi gli prestasse aiuto o
favore; e confiscato tutte le loro terre nello Stato della Chiesa, datele al
conte di Montorio, suo nipote, con titolo di duca di Pagliano. Marco Antonio,
ritirato nel regno, fu ricevuto, et alle volte con qualche numero di gente
scorreva ne' luoghi già suoi; il che irritava l'animo del papa
sommamente: il quale stimando che i suoi cenni dovessero esser a tutti
commandamenti e di poter metter terrore ad ogn'un, non poteva comportar che a
Napoli, sua patria, dove averebbe voluto esser tenuto per onnipotente, fosse
cosí poco stimato. Riputava nel principio, col straparlare del re e
dell'imperatore, intimorirgli e fargli desister dal prestar favori a'
colonnesi, e perciò frequentissimamente parlava a parole piene di
vituperio in presenza d'ogni sorte di persone, e ritrovandosi alcun cardinale
spagnuolo presente, le diceva piú volontieri, e poi in fine commandava che gli
fossero scritte.
Non facendo alcuna
di queste prove effetto, passò piú inanzi, et il 23 luglio fece comparir
in concistoro il fiscale con Silvestro Aldobrandino, avvocato concistoriale,
quali esposero che, avendo la Santità Sua per delitti scommunicato e
privato Marco Antonio Colonna e proibito sotto le medesime censure ad ogni
sorte di persone l'aiutarlo o favorirlo, et essendo notorio che l'imperatore et
il re Filippo, suo figlio, l'avevano sovvenuto di cavalli, fanti e danari,
erano incorsi nella pena della sentenzia, e caduti da' feudi. Perilché facevano
instanza che Sua Santità venisse alla declaratoria e mettesse ordine
all'essecuzione. Il pontefice rispose che col conseglio de' cardinali
aviserebbe, e licenziatigli, propose in concistorio quello che in caso di tanta
importanza fosse da fare. I cardinali francesi parlarono con molto onore
dell'imperatore e del re Filippo, ma in modo che il pontefice veniva
grandemente eccitato; gl'imperiali con parole d'ambiguo senso et indirizzate a
portar tempo inanzi. I teatini, proprii cardinali del papa, dissero cose molto
magnifiche dell'autorità ponteficia e del valor e prudenza di Sua
Santità, sola atta a trovar rimedio a quel male, lodando tutte le cose
fatte e rimettendosi quanto al rimanente. Licenziato il concistoro senza che
risoluzione fosse presa, il papa conobbe che bisognava o ceder, o venir alla
guerra: dalla quale non aborrendo per il natural suo pieno d'ardire e di
speranze, opportunamente gli vennero avisi dal nipote delle cose concluse in
Francia: onde cessarono pertanto i raggionamenti di riforma e di concilii, e si
mutarono in discorsi di danari, soldati et intelligenze, delle qual cose, come
non partinenti al proposito mio, dirò solo quel che può mostrare
qual fosse l'animo del papa e quanto dedito alla riforma vera della Chiesa, o
almeno alla colorata. Il papa in Roma armò i cittadini et abitatori,
distribuendogli sotto i capi de' rioni, che cosí chiamano, e gli
rassegnò in numero di 5000, per la maggior parte artigiani e forestieri;
fece fortificar molte delle sue terre e vi pose soldati dentro,
sollecitò che gli andassero 3000 guasconi, che il re di Francia inviava
per mare, mentre si preparava l'essercito reale per passare in Italia,
acciò il pontefice potesse sostenersi.
[Il duca d'Alva apre la guerra]
In questi
maneggi e preparazioni di guerra il pontefice ebbe di molti sospetti, per quali
serrò in Castello assai cardinali e baroni et altri personaggi.
Impreggionò anco Garcillasso di Vega, ambasciatore del re d'Inghilterra,
cioè del re Filippo, e Giovanni Antonio Tassis, maestro de le poste
imperiali. Et al duca d'Alva, che mandò a protestargli del tener in Roma
i fuorusciti del regno, dell'aver posto mano e ritener in carcere senza
raggione le persone publiche, e d'aver aperto lettere del re e fattogli altri
oltraggi (ché questi accidenti erano avvenuti), soggiongendo che il re, per
conservazione della propria riputazione e della raggione delle genti, non
poteva restar, quando Sua Santità avesse perseverato in azioni cosí
offensive, di propulsar l'ingiuria; il papa rimandò risposta che era
prencipe libero et a tutti gl'altri superiore, non obligato a render conto ad
alcuno, ma con potestà di dimandar conto ad ogni prencipe; che aveva
potuto trattener e veder le lettere di qual si voglia, avendo indicii che
fossero a danno della Chiesa; che se Garcillasso avesse fatto l'officio
dell'ambasciatore, non gli sarebbe avvenuto cosa sinistra; ma avendo tenuto
mano a trattati, mosse sedizioni, machinato contra il principe a cui era
mandato, aveva mal operato come privato, e come tale voleva punirlo; che egli,
per qual si voglia pericolo, non mancherebbe mai alla degnità della
Chiesa et alla difesa di quella Sede, rimettendo tutto a Dio, dal quale era
posto guardiano del gregge di Cristo. E continuando tuttavia il papa di provedersi,
il duca d'Alva risoluto che meglio fosse assaltare che d'esser assaltato,
mandò di nuovo a protestargli che, avendo il re sostenuto tante ingiurie
e conoscendo la mente di Sua Santità di volergli levar il regno di
Napoli, e tenendo certo che ha perciò fatto lega con suoi nemici, non
poteva il re continuar con esso lui in quella maniera; però, se Sua
Santità voleva la guerra, gliel'annonciava e presto l'averebbe mossa,
protestando de danni e voltando sopra il pontefice la colpa. Ma se anco voleva
una buona pace, gliel'offeriva con ogni prontezza. Ma mostrando il papa di
voler pace, non rispondendo però, se non parole generali et interponendo
tempo, il 4 settembre diede il duca alla guerra principio, nella quale in
quell'anno 1556 prese quasi tutta la Campagna, tenendola per nome del futuro
pontefice, e si accostò a Roma cosí vicino, che pose in terrore tutta
quella città, e si diedero tutti a munirla e fortificarla. Et il
pontefice, per insegnar a' governatori de' luoghi quello che debbono fare in
tal casi, constrinse tutti i religiosi, di qual stato e qualità si
fosse, a portar terreno con la zerla in spalla per edificar i balloardi. Tra
gl'altri luoghi che avevano bisogno di terrapieno uno era appresso la Porta del
Popolo, che termina la via di Flaminia, dove è una chiesa della Madonna
di molta divozione; la qual volendo spianare, il duca d'Alva mandò a
pregar il papa che si lasciasse in piedi, dando parola e giuramento che per
nissun rispetto si sarebbe mai valuto dell'opportunità di quel luogo. Ma
la grandezza della città et altri rispetti e pericoli consegliarono il
duca, non tentata Roma, d'attendere ad altre imprese minori.
[Carlo V si riduce in monasterio]
Diede molta
materia a' raggionamenti che in questo anno Carlo imperatore si partí di
Fiandra e passò in Spagna per ridursi a vita privata in luogo solitario;
onde si faceva parallelo d'un prencipe versato dalla fanciullezza ne' maggior
negozii et imprese del mondo, che, quinquagenario, avesse risoluto d'abbandonar
il secolo et attender solo a servir Dio, mutato di potentissimo prencipe in
umilissimo religioso, con uno che altre volte aveva abbandonato la cura
episcopale per ritirarsi in monastero, et ora, ottuagenario, fatto papa, si
fosse tutto abbandonato alle pompe, alla superbia et avesse concetto di far
ardere tutta Europa di guerra.
[Il duca di Ghisa passa in Italia a favor del
papa, il quale incarcera il Morone, dipuone il Polo e lo cita]
Nel principio
del 1557 il duca di Ghisa passò con le armi in Italia a favore del
pontefice, il qual, per servar la promessa del nipote al re di Francia, fece
una promozione di 10 cardinali, la quale non corrispondendo né quanto al
numero, né per la qualità de' soggetti alla intenzione data et al fine
concertato, fece sua scusa con dire d'esser cosí strettamente congionto con Sua
Maestà, che i suoi dependenti non cedevano a' proprii francesi nella
servitú del re e doveva tener per certo che erano tutti per lui; quanto al
numero, che per allora non poteva promoverne di piú, poiché il numero era
eccessivo, arrivando a 70, ma presto quel numero sarebbe diminuito col
mancamento d'alquanti ribelli, e supplito con persone da bene: il che diceva
per quelli che già erano in Castello e per altri contra quali aveva
dissegno, cosí per cause di Stato, come per cause di religione. Imperoché egli
non era cosí attento alla guerra, che abbandonasse il negozio
dell'Inquisizione, quale diceva esser il principal nervo et arcano del
ponteficato. Ebbe alcuni indicii contra il cardinale Morone, che in Germania
avesse qualche intelligenza, e lo fece preggione in Castello, e deputò 4
cardinali ad essaminarlo rigidamente, e per la complicità
impreggionò Egidio Foscararo, vescovo di Modena.
Privò
anco della legazione d'Inghilterra il cardinale Polo e lo citò a
presentarsi a Roma nell'Inquisizione, avendo già impreggionato Tomaso
San Felice, vescovo della Cava, suo amico intrinseco, come complice; et
acciò dal cardinale non fosse preso pretesto di dimorar in Inghilterra
sotto colore della legazione e de' bisogni di quelle chiese, creò
cardinale a' tempori della Pentecoste Gulielmo Poito, vescovo di Salsberi, e lo
constituí legato in luogo del Polo. E se ben la regina et il re, testificando
il servizio che quel cardinale prestava alla fede catolica, fecero efficaci
officii per lui, il papa non volse mai rimetter un ponto della rigidezza. Ubedí
il cardinale Polo, deponendo l'amministrazione e le insegne di legato e
mandando a Roma Ormaneto per dar conto della legazione, ma egli non partí
d'Inghilterra, allegando commandamento della regina, perché cosí essa come il
re, tenendo per fermo che il pontefice vi avesse qualche passione, non volsero
consentire alla partita. In Inghilterra fu preso gran scandalo e molti catolici
s'alienarono per questo, et in Roma non pochi avevano per calonnia inventata a fine
di vendicarsi per la tregua trattata da lui tra i due re, essendo cardinale e
legato, senza participazione d'esso pontefice, sí come anco già era
stimata calonnia l'opposizione che nel conclavi gli fece per impedirlo dal
papato. Il nuovo legato, persona di gran bontà, ebbe i concetti
medesimi, e se ben assonse il nome di legato, per non irritar il papa, non
essercitò però mai il carico in nove mesi che visse dopo avuta la
croce della legazione, anzi si portò con la stessa riverenza verso il
Polo come per inanzi.
Ma il duca di
Ghisa, passato in Italia, mosse le armi in Piemonte et era d'animo di fermar la
guerra in Lombardia e divertir in quel modo le armi prese contra il papa. Ma
non glielo permise l'ardor grande del pontefice ch'il regno di Napoli fosse
assalito. Da' francesi erano le difficoltà conosciute, et il duca di
Ghisa co' principali capitani andò in poste a Roma per far intender al
papa quello che le buone raggioni di guerra portavano; in presenza del quale
posto il tutto in consultazione, non lasciando la risoluzione del papa luogo a
prender altra deliberazione, fu necessario sodisfarlo, né altro si fece che
assaltar Civitella, luogo posto al primo ingresso della provincia d'Abruzzo,
dove l'essercito ebbe la repulsa, con grave querela di Ghisa che i Caraffi
avessero mancato delle provisioni promesse e necessarie. In somma le armi
ecclesiastiche, cosí proprie, come ausiliari, furono poco da Dio favorite. Ma
nel mezo d'agosto, accostando l'essercito del duca d'Alva sempre piú a Roma,
non temendo del francese che in Abbruzzo era trattenuto, et intesa dal papa la
presa di Signia con sacco e morte di molti, et il pericolo in che era il
Pagliano, riferí il tutto in concistoro con molte lacrime, soggiongendo che
aspettava intrepidamente il martirio, maravigliandosi i cardinali con quanta
libertà depingesse a loro, conscii della verità, quella causa
come di Cristo, e non profana et ambiziosa, quale egli diceva esser il
principal nervo et arcano del pontificato.
[Accordo tra il papa e spagnuoli]
Quando aponto
le cose del papa erano nelle maggior angustie ebbe l'essercito del re di
Francia appresso San Quintino cosí gran rotta, che per salute del regno fu il
re costretto ricchiamar il duca di Ghisa d'Italia con le genti che aveva,
facendo intender al pontefice la sua inevitabile necessità,
concedendogli libertà di pigliar qual conseglio gli paresse piú utile
per sé, e rimandandogli gl'ostaggi. Il pontefice negò la licenza di
ritornar al Ghisa, sopra che essendosi tra loro gravemente conteso, il papa,
non potendo ritenerlo, gli disse che andasse, poiché aveva fatto poco servizio
al re, meno alla Chiesa e niente all'onor proprio. Nel fine dell'istesso mese,
essendosi accostato il duca d'Alva a Roma, quella sarebbe stata presa, se il
duca avesse avuto animo maggiore. Fu ascritta la sua ritirata a bassezza
d'animo; egli diceva in publico aver temuto che, saccheggiata Roma, l'essercito
fosse dissipato e restato il regno esposto senza forze, né difesa; ma in
secreto, che ritrovandosi in servizio d'un re, che egli non sapeva se per
soverchia riverenza avesse approvato l'azzione, se n'astenne. Successe
finalmente l'accordo tra l'Alva e li Caraffi a 14 settembre, essendo la guerra
durata un anno. Nelle convenzioni il papa non volle che fosse compreso né 'l
Colonna, né alcuno de' sudditi suoi, né meno che vi fosse parola per quale si
mostrasse che egli avesse eccesso nella preggionia de' ministri imperiali, anzi
constantissimamente stette fermo che il duca d'Alva dovesse andar personalmente
a Roma a dimandargli perdono e ricever l'assoluzione, dicendo chiaramente piú
tosto che partirsi un filo da questo debito, che cosí lo chiamava, voleva
vedere tutto 'l mondo in rovina; che si trattava dell'onor non suo, ma di
Cristo, al quale egli non poteva né far pregiudicio, né renonciarlo: con questa
condizione e con la restituzione delle terre prese si finí la controversia. Fu
stimato prodigio che il medesimo giorno della pace il Tevere inondò sí
fattamente, che allagò tutto 'l piano di Roma e destrusse gran parte delle
fortificazioni fatte al Castel Sant'Angelo. Il duca d'Alva andò
personalmente a Roma a sottomettersi al pontefice e ricever l'assoluzione per
nome del re e proprio; e successe che il vittorioso ebbe a portar
l'indegnità et il vinto a trionfare maggiormente che se vittorioso fosse
stato; e non fu poca grazia che dal papa umanamente fosse raccolto, se ben con
la solita grandezza fastosa.
[Movimenti per la religione in Francia]
Non ben tosto
la guerra fu finita, che nuovi travagli vennero al pontefice, perché di Francia
fu avisato che la notte de' 5 settembre in Parigi s'erano ridotti a celebrar la
cena in una casa da 200 persone; il che scopertosi dalla plebe, la casa fu
assalita, et essendone alquanti fuggiti, le donne et i piú deboli furono presi,
de' quali essendone stati 7 abbruggiati, et il maggior numero riservato per
l'istesso supplicio, dopo che fossero ben indagati tutti i complici, i svizzeri
mandarono ad interceder per gli altri, et il re, che per la guerra col re di
Spagna (cosí si chiamò Filippo dopo la renoncia fatta dal padre) aveva
di loro bisogno, ordinò che si procedesse con moderazione. Il papa di
questo s'alterò fuor di modo, ne fece querimonia in concistoro, disse
non esser maraviglia se le cose di quel re succedevano male, perché stimava piú
gl'aiuti degl'eretici, che il favor divino. Si era già scordato il
pontefice che durante la guerra sua, dolendosi i cardinali dell'Inquisizione
che li grisoni protestanti, condotti al suo soldo per la difesa di Roma,
usassero molti vilipendii contra le chiese e le imagini, la Santità Sua
gli riprese dicendo che quelli erano angeli mandati da Dio per custodia di
quella città e sua, e teneva ferma speranza che Dio gl'averebbe
convertiti: cosí gl'uomini giudicano diversamente negl'interessi proprii e ne'
fatti altrui. Prese anco di qui occasione il papa di rammemorare due
ordinazioni quell'istesso anno fatte da quel re, dicendo esser contra la
libertà ecclesiastica, quali egli era risoluto che fossero annullate.
L'una fu publicata il primo marzo, che i matrimonii fatti da figli inanzi il
trigesimo anno finito, e dalle figlie inanzi il vigesimoquinto, senza consenso
del padre o di chi gli ha in potestà, siano per se medesimi nulli.
L'altro, del primo maggio, che tutti i vescovi e curati risedessero, in pena di
perdita delle entrate, con imposizione d'un sussidio estraordinario, oltre le
decime ordinarie, per pagare 5000 fanti. Il pontefice a queste cose non
pensò quando ne ebbe nuova, essendo la guerra in atto et avendo bisogno
del re: cessato questo, si doleva che fosse posta mano sino ne' sacramenti e
gravato il clero insopportabilmente. Perciò diceva esser necessario con
un concilio proveder a tanti disordini, che erano molto maggiori abusi, che
quanti si sapevano oppor all'ordine ecclesiastico; che bisognava di qua
incomminciare la riforma; che i prelati francesi non ardivano parlare stando in
Francia, ma quando fossero in concilio in Italia, liberi dal timore del re, si
sarebbero ben uditi i lamenti e le querele. In questi disgusti, parte
d'allegrezza fu al pontefice che un colloquio incomminciato in Germania per
componer le differenze della religione, il qual dava molta molestia al papa et
alla corte, come sempre quei colloquii dato avevano, era risoluto in niente.
L'origine, progresso e fine del quale, per intelligenza delle cose seguenti, mi
par necessario raccontare.
[Colloquio in Germania]
Ferdinando
nella dieta di Ratisbona avendo confermato la pace della religione sino alla
concordia, e per trovar modo d'introdurla, fu nel recesso de' 13 marzo deliberato
che si tenesse un colloquio in Vormes di 12 dottori dell'antica religione e 12
de' protestanti, nel quale le differenze fossero discusse per ridur le parti a
concordia. A questo colloquio deputò Ferdinando presidente il tanto
nominato vescovo di Namburg. Convenute ambe le parti a' 14 agosto al luogo, li
12 protestanti non furono in tutto concordi, perché alcuni di loro, desiderando
una perfetta unione della Chiesa, volevano far opera di conciliar insieme la
dottrina degl'elvezii, la quale era differente nella materia dell'eucaristia;
et a questo effetto i ministri di Geneva avevano formata una confessione in
questa materia, che a Filippo Melantone et a 6 altri degl'augustani non
dispiacque, né satisfece agl'altri 5. Questo penetrato dal vescovo, uomo accorto
e fazzioso, il cui fine era che il colloquio si dissolvesse senza frutto, fu
autore a catolici di proponer che, essendosi instituito il colloquio solamente
tra loro e gl'augustani, per tanto era necessario prima concordamente dannar
tutte le sette de' zuingliani et altri; perché dannati di commun concordia
gl'errori, facil cosa sarà che rimanga chiara la verità. I 5
sopranominati, non pensando piú oltre, consentirono che cosí si facesse.
Melantone, qual s'accorse dell'arteficio, che era per seminar divisione tra
loro e per mettergli al ponto co' svizzeri, con quei di Prussia et altri,
diceva che prima bisognava concordar della verità e poi con quella
regola dannar gl'errori. Il vescovo mostrando a 5 che dagl'altri 7 erano
sprezzati, gl'indusse a partirsi dal colloquio, e scrisse a Ferdinando il
successo, concludendo che non si poteva proceder piú inanzi per la partita di
quelli e per non voler li rimasti dannar prima le sette. Rispose Ferdinando
esser suo desiderio che si continui e che gl'augustani ricchiamino i 5 partiti,
e che i catolici si contentino tra tanto di comminciare e discutere gl'articoli
controversi. Il vescovo, vedutosi perso il suo ponto, fu autore a' collocutori
catolici di rescriver al re che non era giusto incomminciar trattazione se non
erano tutti i protestanti uniti, perché averebbe bisognato di nuovo trattar con
gl'assenti quello che fosse concluso co' presenti, e far una doppia fatica: e
senza aspettar altra risposta tutti si ritirarono; e della separazione del
colloquio l'una parte diede la colpa all'altra, ciascuna sopra le sudette
raggioni.
[Il papa dipuone i suoi scelerati nipoti]
Il papa,
vedutosi per la guerra passata privato del credito col quale riputava poter
spaventar tutto 'l mondo, con un atto eroico pensò racquistarlo, e
sprovistamente il 26 genaro in consistoro privò il cardinale Caraffa
della legazione di Bologna e del governo tutto, e lo relegò a Civita
Lavinia; e levò a Giovanni Caraffa, fratello di quello, il capitanato e
la cura dell'armata, relegatolo a Galessi. L'altro nipote privò di
governatore di Borgo e lo relegò in Montebello, commandando che le donne
e figli e le famiglie partissero da Roma, et essi non si discostassero dalla
relegazione, sotto pena di ribellione. Privò anco degli offici tutti
quelli a chi ne aveva dato a contemplazione loro: consumò piú di 6 ore
in querelarsi et inveir contra le opere loro mal fatte, con tanta
escandescenza, che si sdegnava contra i cardinali che, per mitigarlo, mettevano
qualche buona parola; et al cardinale Sant'Angelo, che, lodata la giustizia,
gli raccordò un detto usato da Paolo III frequentemente, che il
pontefice non debbe mai levar ad alcuno la speranza di grazia, rispose al
cardinale che meglio averebbe fatto Paolo III, suo avo, se cosí avesse
proceduto contra il padre di lui e castigato le sceleratezze di quello.
Instituí nuovo governo in Roma e nello Stato della Chiesa, dando cura d'espedir
tutti i negozii a Camillo Orsino, al quale aggionse i cardinali di Trani e di
Spoleto, affettando in queste azzioni fama di giustizia, e rivoltando le colpe
de' gravami patiti da' popoli sopra i nipoti. Cosí scaricato dal governo, si
diede tutto a pensar all'officio dell'Inquisizione, dicendo che quello era il
vero ariete contra l'eresia e per difesa della Sede apostolica; risguardando
poco quello che convenisse al tempo, publicò una nuova constituzione
sotto il 15 febraro, quale volse fosse sottoscritta da tutti i cardinali. In
questa rinovò qualonque censura e pene prononciate da' suoi precessori,
qualonque statuto de canoni, concilii e padri in qualsivoglia tempo publicati
contra eretici; ordinando che fossero rimessi in uso gl'andati in desuetudine;
dicchiarò che tutti i prelati e prencipi, eziandio re et imperatori,
caduti in eresia fossero e s'intendessero privati de' beneficii, Stati, regni
et imperii, senza altra decchiarazione, et inabili a poter esser restituiti a
quelli, eziandio dalla Sede apostolica; e beni, Stati, regni et Imperio
s'intendano publicati, e siano de' catolici che gl'occuperanno. Cosa che diede
molto che dire, e se non fosse stata dal mondo immediate tenuta in poca stima,
averebbe acceso il fuogo in tutta cristianità.
[Il papa non concede a Ferdinando la
successione all'Imperio]
Ma un'altra
occorrenza fece apparir al mondo che non aveva moderato l'alterezza dell'animo.
Carlo imperatore sino del 1556, per sue lettere scritte agl'elettori e
prencipi, diede a Ferdinando assolutamente tutta l'amministrazione
dell'Imperio, senza che communicasse altro seco, commandando che da tutti fosse
ubedito. Dopo destinò ambasciatori in Germania alla dieta Gulielmo,
prencipe d'Oranges, con due altri colleghi per transferir in Ferdinando il
nome, titolo, degnità e corona, come se egli fosse morto: il che non
parendo agl'elettori opportuno, fu differito sino questo 1558, nel quale a' 24
febraro, giorno della natività, della coronazione e d'altre
felicità di Carlo, dagl'ambasciatori suoi in Francfort, in presenza de'
prencipi elettori, fatte le ceremonie della ressignazione, Ferdinando fu
inaugurato co' soliti riti. Il pontefice, udito questo, diede in una eccessiva
escandescenza: pretese che sí come la conferma ponteficia è quella che
fa l'imperatore, cosí la renoncia non si potesse far se non in mano sua, et in
quel caso a lui appartenesse far imperatore chi gli fosse piacciuto, allegando
che gl'elettori hanno facoltà concessagli per grazia ponteficia d'eleger
imperatore in luogo del defonto, ma non essergli communicata potestà
d'elegerlo in caso di resignazione, ma restasse nell'arbitrio della Sede
apostolica, sí come alla disposizione di quella sono affette tutte le
degnità a quella resignate. Perilché esser nulla la resignazione di
Carlo, e la total autorità di proveder d'imperatore esser divoluta a
lui, e fu risoluto di non riconoscer il re de' Romani per imperatore.
Ma
Ferdinando, se ben conscio di ciò, destinò Martino Gusmanno suo
ambasciatore per dargli conto della renoncia del fratello e dell'assonzione
sua, per testificargli la riverenza, promettendogli obedienza e significandogli
che averebbe mandato ambasciaria solenne per trattar la coronazione. Il papa
ricusò ascoltarlo e rimesse a' cardinali di discuter la materia; i
quali, cosí volendo e disponendo lui, riferirono che l'ambasciatore non si
poteva admetter se prima non constava che la resignazione di Carlo fosse
legitima e che Ferdinando fosse giuridicamente successo. Perché, se ben egli fu
eletto re de' Romani, e l'elezzione confermata da Clemente per succeder morto
l'imperatore, esser necessario che l'Imperio restasse vacante per morte. Oltre
di ciò, tutti gli atti di Francforto esser nulli, come fatti da eretici
che hanno perduto ogni autorità e potestà; onde bisognava che
Ferdinando mandasse un procuratore e rinonciasse tutte le cose fatte in quella
dieta, e supplicasse il papa che per grazia convalidasse la renoncia di Carlo
et assumesse Ferdinando all'Imperio per virtú della sua piena potestà,
dal quale poteva sperar benigna grazia paternale. Secondo questo conseglio
deliberò il papa, e fece intender al Gusmanno, dandogli tempo tre mesi
per esseguir questo, oltra i quali era risoluto non voler sentirne piú parlare,
ma dover crear esso un imperatore, né fu possibile rimoverlo, se ben il re
Filippo, per favorir il zio, mandò Francesco Vargas espresso, e dopo lui
Giovanni Figaroa per pregarlo. Ferdinando, intese queste cose, ordinò al
Gusmanno, che, se in termine di 3 giorni dalla ricevuta, non era admesso dal
papa, dovesse partire, avendo protestato che Ferdinando con gl'elettori
averebbe determinato quello che fosse stato di degnità dell'Imperio.
Ricercò il Gusmanno di nuovo audienza, la qual il papa gli concesse in
privato e non come ad ambasciatore cesareo; et uditolo narrare quanto aveva in
instruzzione e quello che gl'era scritto dall'imperatore, rispose che le cose
considerate da' cardinali erano molto importanti e che non poteva risolversene
cosí presto: che averebbe mandato un noncio alla Maestà Cesarea di Carlo
V; tra tanto, se egli aveva commissione dal suo patrone di partire, partisse e
protestasse tutto quello che gli pareva. Per il che l'ambasciatore, fatta la
protesta, si partí, e se ben l'istesso anno morí Carlo, il 21 settembre, non fu
possibile che il papa si rimovesse dalla deliberazione fatta.
[Accidente de' riformati in Francia. Maria
muore in Inghilterra e li succede Elizabetta]
Essendo cresciuto
in questo tempo nella Francia il numero di quelli che riformati si chiamavano,
crebbe anco in loro l'animo, et accostumandosi nella città di Parigi che
la sera della state il popolo in gran moltitudine esce dal borgo San Germano in
una campagna a pigliar il fresco e diportarsi con diverse sorti di giochi, quei
della nuova religione si diedero, in vece di giochi, a cantar i salmi di David
in versi francesi; di che la moltitudine per la nuovità prima rise, poi,
anco lasciati i giochi, s'aggionse a quei che cantavano. E caminò cosí
inanzi [la novità che, levato afatto il giuoco, tutto il solazzo fu
convertito in quel canto; anzi] il numero di quelli che s'addunavano a quel
luogo incomminciò ad accrescer piú del solito. Il noncio del pontefice
portò all'orecchie del re la nuovità come cosa perniziosa e
pericolosa, poiché i ministerii della religione, soliti celebrarsi nella Chiesa
in lingua latina da soli religiosi, si mettevano in bocca della plebe in lingua
volgare, che era invenzione de' luterani; raccordando che quando non s'avesse
a' primi tentativi rimediato, s'averebbe trovato in breve tutto Parigi
luterano. Il re ordinò che fosse proceduto contra gl'autori principali;
nel che non si caminò molto inanzi, avendo ritrovato in quel numero Antonio,
re di Navarra e la moglie. Ma fu proibita l'azzione per l'avvenire in pena
capitale.
Gran
mutazione fece anco questo anno la religione in Inghilterra: morí a 17 novembre
seguente la regina, e l'istesso giorno anco il cardinal Polo, il che fu causa
d'eccitar pensieri in quelli che non si satisfacevano del governo passato, a
restituire la riforma d'Edoardo e separarsi totalmente da spagnuoli; e questo
perché il re Filippo, per tener un piede in quel regno, aveva trattato di dar
Isabella, sorella e successora di quello, a Carlo, suo figlio, e dopo che poca
speranza vi fu della vita di Maria, aveva anco gettato diverse parole di
pigliarla esso in matrimonio. Ma la nuova regina prudente, come in tutto 'l suo
governo mostrò, assicurò prima il regno con giuramento di non maritarsi
in forestiero e si coronò per mano del vescovo de Carleil, aderente alla
romana Chiesa, senza far aperta dicchiarazione quale religione fosse per
seguire, dissegnando, quanto prima fosse nel governo, fermarla, col conseglio
del parlamento e d'uomini dotti e pii riformare stabilmente lo stato della
religione. Perilché anco confortò i principali della nobiltà, che
desideravano mutazione, a proceder senza tumulto, assicurando che non averebbe
violentato alcuno. Fece dar conto immediate al pontefice della sua assonzione
con lettere di credenza scritte ad Edoardo Cerno, che anco si ritrovava in Roma
ambasciatore della sorella. Ma il papa, procedendo col suo rigore, rispose che
quel regno era feudo della Sede apostolica; che ella non poteva succeder come
illegitima; che egli non poteva contravenire alle decchiarazioni di Clemente
VII e Paolo III; che era stata una grand'audacia dell'aver assonto il nome et
il governo senza lui; che perciò ella meritava che non ascoltasse alcuna
cosa: ma pur volendo proceder paternamente, se rinonciarà le pretensioni
sue e si rimetterà liberamente nell'arbitrio di lui, farà tutto
quello che con degnità della Sede apostolica si potrà fare. Fu da
molti creduto che alla inclinazione del papa si fossero aggionti gl'ufficii del
re di Francia, il quale, temendo non seguisse matrimonio tra lei et il re di
Spagna con dispensazione ponteficia, stimò ben assicurarsene, se fossero
troncate le prattiche al bel principio. Ma la nuova regina, intesa la risposta
del papa e stupendosi della precipitata natura dell'uomo, giudicò che il
trattar con lui non fosse utile né per lei, né per il regno. Onde cessata la
causa per quale aveva deliberato far le cose con sodisfazzione anco di Roma per
quanto fosse possibile, lasciò libertà alla nobiltà di
metter in deliberazione quel che fosse da fare per servizio divino e quiete del
regno; da che ne seguí che, fattasi disputa in Westmonster in presenza di tutti
i stati, incomminciata l'ultimo marzo sino al 3 aprile, tra gl'eletti da ambe
le parti, a questo effetto congregato il parlamento, furono aboliti tutti
gl'editti della religione fatti da Maria, restituiti quelli del fratello
Edoardo, levata l'ubedienza al papa et alla regina dato il titolo del capo
della Chiesa anglicana, confiscate le entrate de' monasterii et assignate parte
alla nobiltà, parte alla corona, levate le imagini de' tempii dal popolo
e bandita la religione romana.
[Pace di religione confermata in Germania. Il
papa afflitto per la pace di Cambrai, per la quale il concilio era di nuovo
procurato]
Un altro
accidente occorse: che nella dieta in Augusta celebrata, veduti gl'atti del
colloquio l'anno inanzi disciolto senza frutto, e non lasciata speranza che per
quella via si potesse far cosa buona, Ferdinando propose di procurar che il
concilio generale fosse rimesso in piedi, essortando tutti a sottoporsi a'
decreti di quello, come rimedio unico di rimover le differenze; al che i
protestanti risposero che consentirebbono in un concilio convocato non dal
papa, ma dall'imperatore in Germania, dove il papa non preseda, ma stia
sottomesso al giudicio, e relasci il giuramento a' vescovi e teologi, et
abbiano in quello voto anco li protestanti e tutto sia regolato secondo la
Scrittura Santa e siano reessaminate le cose fatte in Trento: il che, se dal
papa non si possi ottener, si confermi la pace della religione secondo la
convenzione di Possau, avendo con esperienza troppo manifesta conosciuto che da
alcun concilio ponteficio non si può cavar alcun bene. Ma l'imperatore,
conoscendo la difficoltà d'ottener dal papa le proposte, et essergli
levato il modo di negoziar con lui per la controversia della renoncia di Carlo
e sua successione, confermò l'accordo di Possau e li recessi delle diete
fatte dopo.
Il pontefice,
avendo troncato il modo di trattar con Ferdinando e con la Germania, non seppe
che dir a questo; avendo però dispiacere maggiore del raggionamento
tenuto del concilio che della libertà concessa per il recesso, risoluto
di non voler concilio fuori di Roma per qualonque causa potesse avvenire. Per
il qual rispetto anco un terzo successo non fu men grave: cioè la pace
fatta in Cambrai a' 3 aprile tra i re di Francia e di Spagna, molto ben
stabilita co' matrimonii della figlia di Enrico nel re di Spagna e della
sorella nel duca di Savoia; nella qual pace tra gl'altri capitoli era convenuto
che ambidue i re si dassero la fede d'adoperarsi concordemente, acciò
fosse celebrato il concilio e riformata la Chiesa e composte le differenze
della religione. Considerava il pontefice quanto fosse speciosa quel titolo di
riforma et il nome di concilio; come era perduta l'Inghilterra e la Germania
tutta, parte per i protestanti, e parte per la discordia sua con Ferdinando;
questi 2 re uniti, e ciascuno d'essi offeso gravamente da lui: lo spagnuolo di
fatti e di parole, et il francese di parole almeno; non restargli alcuno a chi
potesse aver rifugio. Considerava i cardinali esser tutti sazii del governo
suo, i popoli suoi poco ben affetti per l'incommodità della guerra e
delle gravezze. Questi pensieri afflissero il vecchio pontefice in maniera che
era poco atto all'essercizio del suo carico: non poteva tenerli concistori con
la solita frequenza e, quando gli teneva, consumava il piú del tempo in parlar
dell'Inquisizione et in essortar a favorirla, per esser unica via d'estinguer
le eresie.
Ma i 2 re non
convennero insieme nell'accordo di procurar il concilio per alcuna mala
volontà, o per interessi d'alcuno d'essi contra il pontefice, né contra
il ponteficato, ma per trovar rimedio alle nuove dottrine, le quali nelli Stati
loro facevano grandissimi progressi et erano prontamente udite e ricevute
dagl'uomini conscienziati; e, quel che piú a' re importava, i malcontenti e
desiderosi di nuovità s'appigliavano a quella parte, e sotto pretesto di
religione intraprendevano quotidianamente qualche tentativi, cosí ne' Paesi
Bassi, come nella Francia, essendo i popoli molto amatori della libertà
et avendo per la prossimità di Germania gran commercio con quella. Per
le qual cause ne' principii de' moti passò anco qualche semenza, la qual
per proibir che non prendesse radice, e l'imperatore Carlo V ne' paesi suoi, et
il re di Francia nel suo regno fecero molti editti, e commandarono diverse
essecuzioni, come di sopra a' tempi suoi è stato detto. Ma poiché il
numero de' protestanti crebbe in Germania e gl'evangelici moltiplicarono ne'
svizzeri e la separazione prese piede in Inghilterra, per le guerre piú volte
eccitate tra l'imperatore et il re, l'una e l'altra parte fu constretta condur
soldati tedeschi, svizzeri et inglesi, i quali ne' loro quartieri predicando e
professando publicamente la rinovata religione, con l'essempio et altre maniere
furono causa che s'appigliasse anco in molti del popolo. È ben certa
cosa che constrinse l'imperatore Carlo a tentar d'introdur l'Inquisizione
spagnuola, vedendo che gl'altri rimedii non profitavano, se ben per le cause
già narrate fu anco costretto in parte desistere. Et il re Enrico di
Francia concesse anco a' vescovi l'autorità di punire gl'eretici, cosa
in quel regno non accostumata. E con tutto che il numero ne' Paesi Bassi, tra
impiccati, decapitati, sepolti vivi et abbruggiati dal primo editto di Carlo
sino a questo tempo della pace aggiongesse a 50000, et in Francia fosse fatto
morire qualche notabil summa, con tutto ciò in questo tempo le cose si
trovavano nell'un e l'altro luogo in peggior stato che mai; sí che constrinsero
i re a pensar concordamente a trovarci rimedio, facendone massime
grand'instanza dal canto de' francesi il cardinale di Lorena, e dal canto de'
spagnuoli il Granvela, vescovo d'Arras, i quali, essendo stati in Cambrai a
trattar la pace dall'ottobre sino all'aprile insieme con gl'altri deputati da'
re, negoziarono particolarmente tra loro i modi come quella dottrina si potesse
estirpare, e furono poi anco grandi istromenti di tutto quello che seguí
nell'uno e l'altro Stato. Allegavano essi l'aver contrattato e promessosi
insieme scambievole assistenza in quest'opera, il zelo della religione et il
servizio de' loro prencipi; ma l'universal voleva che la vera causa fosse
ambizione e dissegno d'arrichir delle spoglie de' condannati.
Il re di
Spagna, fatta la pace, per incomminciar a dar qualche ordine, non potendo
introdur apertamente l'Inquisizione, pensò di farlo obliquamente per
mezo de' vescovi. Ma ritrovandosi tutti i Paesi Bassi con doi soli vescovati,
Cambrai et Utrech, e del rimanente il clero soggetto a' vescovi di Germania e
Francia, e quei 2 vescovati ancora sudditi ad arcivescovi forestieri, a' quali
non si potevano negare le appellazioni, onde era impossibile che per mezzo di
questi potesse esseguir la sua intenzione, giudicò ben levar tutti i
suoi dalle soggezzioni de' vescovi non sudditi a sé et instituir in quelle
regioni tre arcivescovati, Malines, Cambrai et Utrech; et erigere in vescovato
Anversa, Bosseduc, Gand, Bruges, Ipre, Sant'Umar, Namur, Harlem, Middleburg,
Levarda, Groninga, Roremonda e Deventer, applicando a questi per entrate alcune
ricche abbazie; e tutto ciò fece approvar per una bolla del papa, data
il medesimo anno sotto il 19 maggio. Il che quando fu risaputo, se ben preso
pretesto che per il passato la infrequenza degl'abitatori in quei [luoghi] non
ricercava maggior numero de vescovi, ma ora la moltitudine degl'uomini e la
degnità delle città ricchiedere che siano onorati con titoli
ecclesiastici, nondimeno s'accorse la nobiltà et il popolo che questa
era un'arte d'introdur l'Inquisizione, e si confermarono veduta la bolla del
papa: il qual secondo l'uso romano di stipular sempre la sua potenza overo
utilità, portava per causa della nuova instituzione che quel paese era
tutto circondato et assediato da schismatici inubedienti a lui, capo della
Chiesa, onde eravi gran pericolo della fede per le fraudi et insidie
degl'eretici, quando non vi fossero posti nuovi e buoni guardiani. Questa
occorrenza fece restringer insieme quei nobili, e pensar ad ovviare prima che
la forza prendesse piede. Perilché deliberarono di non pagar il tributo, se non
erano levati dal paese i soldati spagnuoli, e comminciarono ad inclinar
maggiormente alla nuova opinione e favorirla: il che fu poi causa degl'altri
avvenimenti turbulenti che si diranno.
[Mercuriale in Francia contro a' riformati,
quali non lasciano di dar regula al lor governo ecclesiastico]
Ma il re di
Francia, desideroso di proveder che la setta luterana non facesse maggior
progressi nel regno, avendo inteso che tra i conseglieri del parlamento ve
n'erano alquanti di quella macchiati, per reprimergli, tenendosi a' 15 giugno
in Parigi una mercuriale (cosí chiamano il giudicio instituito per essaminar e
correggere le azzioni de' conseglieri del parlamento e giudici regii),
dovendosi parlar della religione, dopo principiata la congregazione,
entrò il re. Disse d'aver stabilito la pace del mondo con le nozze della
sorella e della figlia a fine di proveder agl'inconvenienti nati nel suo regno
intorno la religione, la qual debbe esser principal cura de' prencipi.
Però, avendo inteso che di questa materia si doveva trattare,
gl'essortava a maneggiar la causa di Dio con sincerità: et avendo
commandato che proseguissero le cose incomminciate, Claudio Viola, uno d'essi,
molte cose disse contra i costumi della corte romana e le cattive consuetudini
passate in errori perniziosi, i quali hanno dato causa alle sette nascenti.
Perilché era necessario mitigar le pene e raffrenar la severità, sinché
con l'autorità d'un concilio generale si levassero i dissidii della
religione e s'emendasse la disciplina ecclesiastica, unico rimedio a questi
mali, sí come i concilii di Costanza e Basilea avevano giudicato, commandando
perciò che ogni 10 anni si celebrasse il concilio generale. Il parer di
costui fu anco seguitato da Ludovico Fabro et alcun altri; al che Anna Borgo
aggionse esser molte sceleratezze dannate dalle leggi, per pena delle quali non
basterebbono la corda et il fuogo: frequentissime le biasteme contra Dio, i
pergiurii, gli adulterii, non solo dissimulati, ma ancora con vergognosa
licenzia fomentati; facendo conoscer assai chiaramente che parlava non solo de'
grandi della corte, ma del re ancora; con soggiongere che, mentre cosí
dissolutamente si vive, sono preparati varii supplicii contra quelli che
d'altro non sono colpevoli se non d'aver manifestato al mondo i vizii della
corte romana e dimandatone l'emenda. In contrario di che, Egidio Magistro,
primo presidente, parlò contra le nuove sette, concludendo non esservi
altro rimedio che il già usato contra gl'albigesi, che Filippo Augusto
ne fece morire
Ma non
occorrono mai essempii de timori che insieme non avvengano altri di pari
ardire; imperoché in quel medesimo tempo, come se non vi fosse pericolo alcuno,
i ministri de' riformati (che cosí si chiamavano i protestanti in Francia) si
radunarono in Parigi nel borgo San Germano, dove fecero una sinodo,
presedendovi Francesco Morello, principal tra loro, con diverse constituzioni
del modo di tener concilii, di levar la dominazione nella Chiesa,
dell'elezzione et ufficio de' ministri, delle censure, de' matrimonii, de'
divorzii e de' gradi di consanguinità et affinità, a fine che per
tutta Francia non solo avessero la fede, ma ancora la disciplina uniforme.
S'accrebbe anco l'animo, perché andato in Germania la fama della
severità che in Francia si usava, i tre elettori et altri prencipi
protestanti di Germania mandarono ambasciatori al re, a pregarlo di commandare
che fosse proceduto con pietà e carità cristiana verso i
professori della loro religione, non colpevoli d'altro che d'accusar i costumi
corrotti e la disciplina pervertita della corte romana; cosa fatta per inanzi
già piú di 100 anni da altri dottori francesi, uomini pii. Poiché
essendo la Francia quieta et in pace, facilmente si possono comporre le
dissensioni nate per quella causa, con disputazione d'uomini sufficienti e
desiderosi della pace, che essaminino la confessione loro alla norma della
Santa Scrittura e de' padri vecchi, tra tanto sospendendo la severità
de' giudicii, il che essi riceverebbono per cosa gratissima, restandogli
perciò molto obligati. Diede il re benigna risposta con parole generali
e promessa di dargli sodisfazzione, come gli averebbe significato per persona
espressa, che gli manderebbe. Nondimeno non ralentò niente della
severità, ma dopo la partita degl'ambasciatori fece deputar giudici
nelle cause de' preggioni, quattro del corpo del parlamento col vescovo di
Parigi e con l'inquisitore Antonio Democares, e procedessero all'espedizione
quanto prima.
[Il re de' francesi muore, con dispiacer del
papa, il quale tosto lo segue. Tumulto popolare in Roma contra i Caraffa]
Tutte queste
cose erano al papa note, e sí come sentiva dispiacer grande per il progresso
della dottrina novamente introdotta ne' Stati dell'un e l'altro re, cosí gli
piaceva che quei prencipi vi pensassero, e ne faceva con loro instanza per suoi
noncii e per ufficii con gl'ambasciatori appresso a sé residenti, ma non
averebbe voluto altro rimedio che quello dell'Inquisizione, la quale era stimata
da lui unico rimedio, sí come in ogni occasione diceva, riputando che quello
del concilio non fosse per far maggior frutto di quello che ne' prossimi anni
s'aveva veduto seguire, cioè ridur in peggior stato le cose. Mentre sta
in questi pensieri, ritrovandosi anco molto indisposto del corpo, ecco la morte
del re di Francia, successa a' 2 luglio per una ferita ricevuta nell'occhio
correndo alla giostra; della quale fece dimostrazione grandissima di duolo, et
in vero se ne doleva. Perché, se ben sospettò e con raggione, per
l'intelligenza tra i due re, nondimeno pur restava qualche speranza di
separargli; ma morto questo, si vedeva a discrezione di quel solo, e piú
temeva, cosí per esser piú offeso, come per esser di natura occolta e difficile
da penetrare. Temeva anco che nel regno di Francia non s'allargasse afatto la
porta per introdur le sette e che non si stabilissero inanzi che il nuovo re
acquistasse tanta prudenza e riputazione, quanta si vedeva necessaria per
opporsi a tante difficoltà. In queste angostie visse pochi giorni
afflitto e deposte tutte le speranze che l'avevano sino allora sostenuto, morí
il 18 agosto, non raccommandando altro a' cardinali salvo che l'ufficio
dell'Inquisizione, unico mezo, come diceva, di conservar la Chiesa; essortando
tutti a metter i loro spiriti per stabilirlo ben in Italia e dovunque si
potesse.
Morto il
pontefice, anzi spirante ancora, per l'odio concepito del popolo e plebe romana
contra lui e tutta la casa sua, nacquero cosí gran tumulti in Roma, che i
cardinali ebbero molto piú a pensare a quelli, come prossimi et urgenti, che a'
communi a tutta la cristianità. Andò la città in
sedizione; fu troncata la testa alla statua del papa e tirata per la
città; furono rotte le preggioni publiche e liberati piú di quattrocento
incarcerati ritenuti in quelle, e nel luogo dell'Inquisizione, che a Ripeta
era, andati, non solo estrassero li preggioni, ma posero fuogo in quello et
abbruggiarono tutti i processi e scritture che si vi guardavano, e poco
mancò che il convento della Minerva, dove i frati soprastanti a
quell'ufficio abitavano, non fosse dal popolo abbruggiato. Già ancora
vivendo il papa, il collegio de' cardinali aveva ricchiamato il Caraffa, e dopo
la morte, nella prima congregazione che i cardinali tennero, fu liberato dal
Castello il cardinale Morone, impreggionato, che era stato vicino ad esser
sentenziato per eretico. Vi fu gran difficoltà se poteva aver voto
nell'elezzione, opponendosi quelli che lo tenevano per contrario; ma in fine fu
decchiarato che intervenisse. Furono i cardinali costretti a consentire che le
insegne di casa Caraffa per tutta Roma fossero stracciate le mobili e demolite
le stabili.
Ridotti poi
nel conclavi il 5 settembre, ottavo giorno dopo il legitimo tempo, trattenuti
dagl'inconvenienti, composero i capitoli che secondo il costume da tutti sono
giurati a fine di dar qualche ordine al governo, tutto sconcertato per i modi
troppo severi tenuti da Paolo. Due ne furono spettanti alla materia di che
trattiamo: l'uno, che la differenza con l'imperatore, come pericolosa di far
perdere quel rimanente di Germania che restava, fosse sopita et egli
riconosciuto per imperatore; l'altro, che per la necessità della Francia
e della Fiandra il concilio, come unico rimedio contra le eresie, fosse restituito.
[Filippo in Spagna procede con ogni rigore
contra i luterani, et in Francia il Borgo è arso per la medesima causa]
La vacanza
del ponteficato fu piú longa di quello che le necessità del tempo
comportavano, e causata piú dall'interesse de' prencipi, che se vi interposero
oltra il consueto, che per proprie discordie de' cardinali; i quali mentre
erano nel conclavi serrati, il re Filippo da' Paesi Bassi partendo per mare,
passò in Spagna, avendo patito una gran fortuna et a pena riuscitone
salvo, perduta quasi tutta l'armata con una supellettile di grandissimo preggio
che seco portava, risoluto di fermarsi in Spagna senza piú vagare; diceva
d'esser liberato per singolar providenza divina, acciò si adoperasse ad
estirpar il luteranismo, al che diede presto principio. Imperoché immediate
gionto et arrivato in Siviglia a' 24 settembre, per dar un grand'essempio ne
gl'auspicii del suo governo e levare ad ogni uno la speranza, fece abbruggiar
per luterani Giovanni Ponzio, conte di Baileno, insieme con un predicatore e
molti altri del collegio di Sant'Isidoro, dove la nuova religione era entrata,
et alcune donne nobili al numero di 13, e finalmente la statua di Constantino
Ponzio, il quale, confessor di Carlo V nella solitudine sua, lo serví in quel
ministerio sino al fine e raccolse nelle sue braccia l'imperatore moriente.
Questo pochi giorni inanzi era morto [in] preggione, nella quale per
imputazione d'eresia fu posto immediate dopo la morte dell'imperatore; la qual
essecuzione, se ben contra una statua inanimata, pose terrore molto maggiore,
concludendo ogn'uno non potersi sperare né connivenza, né misericordia da chi
non riputava degno di rispetto quello che, infamato, disonorava la memoria
dell'imperatore maggiormente. Passò poi il re in Vagliadolid, dove
parimente in sua presenzia fece abbruggiar 28 della principal nobiltà
del paese, e ritener preggione fra Bartolomeo Caranza, del quale s'è
fatta frequente menzione nella prima ridozzione del concilio a Trento, fatto
poi arcivescovo di Toledo, principal prelato di Spagna, toltogli tutte le
entrate. E non si può negare che queste essecuzioni, con altre che poi
alla giornata successero, se ben non tanto essemplari, fossero causa di
mantener quelli regni in quiete, mentre altrove tutto era pieno di sedizioni;
perché quantonque in molti, nella nobiltà massime, fossero seminate
delle nuove opinioni, restarono però dentro degl'animi ascosti per la
cauta natura de' spagnuoli d'aborrir i pericoli e non esporsi ad imprese ardite,
ma solo mirar ad operar sicuramente.
Ma in
Francia, mancato il re Enrico, la cui morte li nuovi riformati ascrivevano a
miracolo, s'accrebbe loro l'animo, se ben in Parigi non ardivano mostrarsi
manifestamente; perché Francesco, suo figlio, nuovo re, dopo il sacro suo
celebrato a Reims, 20 settembre, ordinò che fosse proseguito il processo
contra i conseglieri preggioni, e deputò il presidente Sant'Andrea et
Antonio Democares inquisitore per scoprir i luterani. Questi giudici, avendo
guadagnato alcuni plebei già professori di quella religione, ebbero
notizia de' luoghi dove occoltamente si congregavano; perilché molti uomini e
donne furono impreggionati e molti fuggirono, i beni de' quali erano confiscati
dopo una citazione per tre editti. E con l'essempio di Parigi, il medesimo si
fece in Poitu, Tolosa et in Ahis di Provenza, faticandosi Giorgio, cardinale
armeniaco, il quale, per non abandonar quell'impresa, non si curò
d'andar in Roma per l'elezzione del pontefice, usando ogni diligenza
acciò i scoperti fossero presi. Dalle qual cose irritati i professori di
quella religione e, scoperto il gran numero, fatti piú audaci, mandavano
attorno molte scritture contra il re e la regina e quei di Lorena, ad arbitrio
de' quali il re si governava, autori della persecuzione; mischiandovi dentro
delle cose della religione; le quali scritture essendo da tutti volontieri
lette come cose composte per publica libertà, insinuavano nell'animo di
molti la nuova religione.
In fine del
giudicio constituito contra i conseglieri, dopo longa contestazione, fu una
assoluzione di tutti, eccetto d'Anna Borgo, il quale a' 18 decembre fu
abbruggiato, non tanto per inclinazione de' giudici, quanto per risoluta
volontà della regina, irritata perché i luterani disseminarono in molte
scritture e libelli mandati attorno che per divina providenza il re era stato
nell'occhio ferito, in pena delle parole dette al Borgo, che voleva vederlo
abbruggiare. Ma la morte e costanza d'un uomo cosí conspicuo eccitò
negl'animi de molti la curiosità di saper che dottrina era quella, per
quale cosí animosamente aveva sostenuto il supplicio, e fu causa di far crescer
molto il numero; il quale anco per altre cause andava aummentandosi ogni
giorno, onde gli interressati nella destruzzione loro, o per amor della vecchia
religione, o come ecclesiastici e per esser autori delle passate persecuzioni,
reputando necessario scoprirgli prima che il numero fosse cosí grande che non
si potesse poi opprimer, a questo fine in tutta Francia, et in Parigi massime,
fecero metter imagini della beata Vergine e de' santi in ogni cantone,
accendendogli inanzi candele e facendo cantare a' fachini et altre persone
plebee le solite preci della Chiesa, posti anco uomini con cassellette che
dimandavano limosine di comprar candele, e chi passando non onorava le imagini,
o non stava con riverenza a quei canti, e non dava le limosine richieste, gli
avevano per sospetti, et il manco male che gli potesse avvenire era d'esser
maltrattati dalla plebe con pugni e calci, perché anco gran parte erano impregionati
e processati. Questo irritò i reformati e fu gran causa della congiura
di Goffredo Renaudio, del quale si dirà.
[Pio IV, eletto papa, si pacifica con
Ferdinando, e pensa al concilio]
Ma in Roma,
dopo varie contenzioni e prattiche per crear papa Mantova, Ferrara, Carpi e
Puteo, finalmente la notte seguente il 24 decembre fu creato pontefice Giovanni
Angelo cardinale de' Medici, che si chiamò Pio IV, il quale, quietati i
tumulti della città et assicurati gl'animi di tutti con un general
perdono delle cose commesse in sedizione, voltò l'animo subito a' due
capi giurati, concernenti le cose piú communi, et il 30 del stesso mese,
congregati 13 cardinali e con loro consultato sopra la reiezzione
dell'ambasciaria di Ferdinando e la deliberazione di Paolo di non riconoscerlo
per imperatore, fu commun parere che gli fosse stato fatto torto. Ma trattando
longamente come rimediare all'inconveniente e, dopo molte cose proposte e
discusse, non trovando come introdur negozio senza pericolo di maggior
incontri, quando gl'elettori fossero intromessi in questa meschia, come sarebbe
stato impossibile tenergli fuori, fu commun parer che ogni negoziazione fusse
da fuggire, come quella che terminerebbe con qualche indegnità del
pontefice, e che meglio era non aspettar che l'imperatore facesse alcuna
ricchiesta. Fu approvato il parere dal pontefice, parendogli che era prudenza
donare quello che non si poteva né vender, né ritenere, e mandò immediate
a chiamar Francesco della Torre, ministro dell'imperatore che era in Roma, e
gli disse che egli approvava la rinoncia di Carlo e la successione di
Ferdinando all'Imperio, e che gl'averebbe scritto co' titoli consueti e che di
ciò dovesse avisare.
Applicò
l'animo dopo questo al concilio, certo in se stesso che gliene sarebbe fatto
instanza da diverse parti. Molte difficoltà gl'andavano per l'animo, sí
come esso diceva, conferendo col cardinale Morone, in che confidava per la
prudenza et amicizia, se era ben per la Sede apostolica far il concilio o no, e
se non, quello che fosse meglio: negarlo assolutamente et opporsi alla libera a
chi lo chiedeva, o mostrar di volerlo, mettendogli impedimenti oltra quelli che
il negozio da sé porterebbe; e se il celebrarlo era utile, quello che fosse
meglio: aspettar d'esser ricchiesto, o pur prevenire e ricchiedere. Se gli
rapresentavano alla mente le cause perché Paolo III sotto colore di traslazione
lo disciolse, et i pericoli scorsi da Giulio, se la buona ventura non l'avesse
aiutato; non esservi già un Carlo imperatore al presente, del quale si
possi tanto temere, ma quanto i prencipi sono piú deboli, tanto i vescovi esser
piú gagliardi e doversi aver maggior avvertenza a questi, che non possono
alzarsi se non sopra le rovine del ponteficato. L'opporsi a chi
domanderà concilio all'aperta esser cosa piena di scandalo, per il nome
specioso e per l'openione che il mondo ha, se ben vana, che ne debbia seguir
frutto, e perché ogni uno è persuaso che per l'aborrimento della riforma
venga ricusato il concilio, esser cosa di tanto maggior scandalo, e se poi per
necessità si venga a conceder quello che assolutamente sia negato, esser
una total perdita della riputazione, oltra che incita il mondo a procurar
l'abbassamento di chi s'è opposto. In queste perplessità teneva
il pontefice per cosa chiara non potersi far concilio con frutto alcuno della
Chiesa e de' regni divisi e senza mettere in pericolo l'autorità
ponteficia, e che di questa verità il mondo era incapace; perilché non
poteva opporsi all'aperta. Ma restava incerto se, ricercandolo i re o i regni,
le congionture delle cose future potessero divenir tali che gl'impedimenti
occolti avessero effetto. Tutto pensato, concluse in ogni evento, per restar
piú nascosto, esser ben mostrarsi pronto, anzi desideroso, e prevenir i
desiderii degl'altri [per restar piú nascosto] nell'attraversarli e per aver
maggior credito in rapresentare le difficoltà contrarie, rimettendo alle
cause superiori quella deliberazione alla quale il giudicio umano non
può giongere.
Cosí risoluto
di queste tanto, e non piú oltre, fatta la coronazione all'Epifania, il dí 11
del mese tenne una numerosa congregazione de cardinali, nella quale con longhe
parole manifestò l'animo suo esser di riformar la corte e di congregar
il concilio generale, imponendo a tutti che pensassero le cose degne di riforma
et il luogo, tempo et altri preparatorii per congregar una sinodo, che non
riuscisse con frutto di quella che già due volte fu congregata; e dopo
questo, ne' privati raggionamenti cosí con cardinali, come con ambasciatori, in
ogni occasione parlava di questa sua intenzione; non però operava cosa
che la dimostrasse piú chiaramente.
Andò
l'aviso all'imperatore a Vienna di quello che il papa aveva al suo ministro
intimato; il qual immediate deputò ambasciatore, et inanzi la partita di
quello scrisse al pontefice, rallegrandosi dell'assonzione sua e ringraziandolo
che paternamente e saviamente aveva posto fine alla difficoltà
promossagli da Paolo IV contra raggione et equità, dandogli conto
dell'ambasciatore destinato. Questo fu Scipione conte di Arco, che a' 10
febraro gionse in Roma, e nel principio riscontrò in gran
difficoltà, avendo commissione dall'imperatore di render al papa solo
riverenza, et essendo il papa risoluto che gli rendesse ubedienza, mostrando
che gl'altri ambasciatori cesarei cosí avevano usato verso i precessori suoi,
parlando risolutamente che in altra maniera non era per admeterlo.
L'ambasciatore di Spagna et il cardinal Pacceco lo consegliavano a non
trapassar le commissioni avute, in contrario lo inducevano il cardinale Morone
e Trento: il parer de' quali fu seguito dal conte, perché l'imperatore gli
aveva commesso che con quei cardinali consegliasse tutte le cose sue. Spedita
in consistoro la ceremonia con sodisfazzione del papa, nella prima audienza
privata, dovendo l'ambasciatore per nome di Cesare pregarlo a convocar il
concilio per componer i dissidii di Germania, fu dal papa prevenuto con molto
contento dell'ambasciatore, quale, credendo dover trattar col papa di cosa
dispiacevole, s'era preparato di rapresentarla con molta dolcezza per farla
ascoltare piú facilmente. Gli disse il papa che, essendo in conclavi, tra i
cardinali s'era trattato di rimetter il concilio, nel che egli era stato parte
molto principale e fatto pontefice era maggiormente confermato nella stessa
deliberazione; non volendo però caminar in questo alla cieca, ma in modo
che non s'incontri difficoltà, come le altre volte è avvenuto. Ma
prima siano premesse le disposizioni necessarie, acciò ne succeda il
frutto desiderato. Trattò l'istesso dopo con gl'ambasciatori di Francia
e di Spagna, e scrisse a' noncii suoi di rappresentar l'istesso a loro re. Ne
parlò anco con gl'ambasciatori di Portogallo e de' prencipi italiani che
erano in Roma.
[Il duca di Savoia chiede permissione d'una
conferenza di religione]
Dopoi questi
ufficii il duca di Savoia mandò persona espressa a ricercar il pontefice
di far con sua buona grazia un colloquio di religione per instruir i popoli
delle sue valli, che generalmente tutti erano alienati dalla religione antica.
L'occasione fu perché di quelli che già circa 400 anni si retirarono
dalla Chiesa romana, chiamati valdensi, e per le persecuzioni passarono in
Polonia, Germania, in Puglia et in Provenza, una parte anco si ricoverò
nelle valli del Moncenis, Luscerna, Angrogna, Perosa e San Martino. Questi,
avendosi sempre conservati separati con certi loro ministri, che adimandavano
pastori, quando la dottrina di Zuinglio si piantò in Geneva si unirono
immediate con quelli, come conformi ne' dogmi e riti principali, e mentre che
il Piemonte fu sotto francesi, quantonque dal senato di Turino fossero proibiti
d'essercitar la religione elvetica sotto pena capitale, nondimeno pian piano
[la] introdussero publica, in maniera che quando il paese fu restituito al duca
di Savoia, l'essercizio era come libero. Il duca si deliberò di fargli
ricever la religione catolica, onde molti ne furono abbruggiati et in altro
modo fatti morire, e maggior numero condannato alla gallera, adoperandosi
massime fra Tomaso Giacomello, dominicano inquisitore. Il che fu causa di
fargli metter in disputa se fosse lecito difendersi con le armi; nel che i loro
ministri non erano d'accordo. Dicevano alcuni che non era lecito opponersi con
le armi al suo prencipe, manco per difesa della vita propria, ma che portando
via il suo aver che potevano, retirarsi ne' monti vicini. Altri dicevano che
era lecito in tanta disperazione valersi della forza, massime che non si usava
contra il prencipe, ma contra il papa che abusava dell'autorità del
prencipe. Una gran parte d'essi seguí il primo parer, l'altra si mise su la
difesa; laonde il duca, conoscendo che veramente non erano mossi da pensieri di
ribellione e che instrutti sarebbe facil guadagnargli, ricevette il consilio
datogli d'instituire a questo effetto un colloquio. Ma non volendo alienarsi il
pontefice, giudicò necessario non far cosa senza di lui; mandò a
dargli conto del tutto e chiederne il suo consenso.
Il pontefice
sentí molestia grande della dimanda, la qual altro non inferiva se non che in
Italia e sotto gl'occhi suoi fosse posta in difficoltà e si dovesse
metter in disputa l'autorità sua. Rispose che non era per consentir in
modo alcuno, ma se quei popoli avevano bisogno d'instruzzione, egli manderebbe
un legato con autorità d'assolver quelli che volessero convertirsi,
accompagnato da teologi che gl'insegnassero la verità. Soggionse
però che poca speranza aveva di conversione, perché gl'eretici sono
pertinaci, e quello che si fa per essortargli a riconoscenza, interpretano che
sia mancamento di forza per constringergli. Che mai ci era memoria di profitto
fatto con questa moderazione, ma ben l'esperienza passata aver insegnato che,
quanto prima si viene contra loro al rimedio della giustizia e, quando quella
non basti, alla forza delle armi, tanto meglio riesce. Che quando si risolvesse
di far questo gli presterebbe aiuto. Ma se non gli paresse opportuno, si poteva
differir sino al concilio generale, che era per convocar presto. Al duca non
piacque il partito della legazione, come quello che averebbe inasprito
maggiormente et averebbe posto lui in necessità di proceder secondo
gl'interessi d'altri e non i proprii: meglio esser la via delle armi, la quale
anco il papa lodava piú e si offeriva dar aiuto. Seguí per questo una guerra in
quelle valli tutto questo anno e parte del seguente, della quale si
parlerà al tempo che quella ebbe fine.
[Congiura di religione e di Stato in Francia.
Il consiglio regio pensa a un concilio nazionale]
Ma in
Francia, in molte parti del regno fu eccitata una gran congiura, nella quale
entrarono molti, e la maggior parte per causa di religione, sdegnati che tutto
'l giorno si vedesse per ogni parte lacerare et abbruggiare i miseri, che di
nissuna altra cosa erano colpevoli, se non che da zelo dell'onor divino e
salute dell'anima propria. A questi s'aggionsero altri che, riputando i Ghisi
esser causa di tutti i desordini del regno, avevano per opera eroica liberarlo
dalla oppressione, con levar a quelli l'amministrazione delle cose publiche; vi
erano anco degl'ambiziosi e desiderosi di novità, i quali non potevano
far i fatti loro, se non in mezo delle turbe. Ma cosí questi mal intenzionati,
come quegl'altri desiderosi del bene del regno, per aver il seguito si
coprivano col manto della religione, e per fermar meglio gl'animi, fecero
metter in scritto il parer a' principali giurisconsulti di Germania e Francia,
et a' teologi protestanti piú nominati che, salva la conscienza e senza violar
la Maestà del re e la degnità del legitimo magistrato, era lecito
prender le armi per opporsi alla violenta dominazione di quelli di Ghisa,
offensori della vera religione e della legitima giustizia, che tenevano il re
come preggione. Prepararono i congiurati una gran moltitudine, che disarmati
comparissero inanzi al re a dimandar che la severità de' giudicii fosse
mitigata e concessa libertà per la conscienza, con dissegno che fossero
seguiti da gentiluomini che supplicassero contra l'amministrazione de' Ghisi.
La congiura fu scoperta e la corte regia per sicurezza si ritirò da
Bles, luogo aperto et opportuno ad una tal essecuzione, ad Ambuosa, fortezza
ristretta; e perciò i concerti furono turbati. E mentre che i congiurati
trattano nuovo modo, di essi molti furono trovati in armi, e combattuti e
morti; altri ancora presi e giustiziati; e per quietar il tumulto [a'] 18
marzo, per editto regio, fu concessa venia a quelli che per semplicità,
mossi da zelo di religione, s'erano conspirati, purché fra 24 ore deponessero
le armi. E poi fece anco il re un editto di perdono a tutti i riformati, mentre
che tornassero alla Chiesa; proibí tutte le radunanze di religione e diede la
cognizione delle cause di eresia a' vescovi, la qual cosa al cancellier non
piaceva, ma acconsentí, per timore che non s'introducesse l'Inquisizione alla
spagnuola, come i Ghisi procuravano.
Per il
supplicio preso di congiurati e per i perdoni publicati non si acquietarono
gl'umori mossi, né furono deposte le speranze concepite d'aver libertà
di religione. Anzi, furono eccitati maggiori tumulti populari in Provenza,
Linguadocca e Poitú: nelle qual provincie furono chiamati e concorsero anco da
sé predicatori da Geneva, per le concioni de' quali cresceva anco il numero de'
seguaci della nuova riforma. Il qual concerto tanto universale e repentino fece
venir in risoluzione quelli che avevano il governo del regno che vi fosse
bisogno di rimedio ecclesiastico, e ben presto; e da tutto 'l conseglio, era
proposto un concilio nazionale. Il cardinale d'Armignac diceva che niente era
da farsi senza il papa, che egli solo bastava per far ogni provisione, che si
scrivesse a Roma et aspettasse di là risposta. Al qual parere alcuni
pochi prelati aderivano. Ma il vescovo di Valenza in contrario diceva che non
si poteva aspettar dal papa rimedio presto per la lontananza; né appropriato,
per non esser informato delle particolar necessità del regno; né
caritativo, per esser lui occupato nell'aggrandire i nipoti suoi; che Dio aveva
a tutti i regni dato rimedii necessarii per governar lo stato proprio; che la
Francia aveva i proprii prelati per regolar le cose della religione; che essi
meglio sanno i bisogni del regno; che sarebbe una grand'assordità veder
abbruggiar Parigi, avendo la Sena e la Marna piene d'acqua, e creder che
bisognasse aspettar a condurne dal Tevere per estinguer l'incendio. La
risoluzione del conseglio fu che, vedendosi bisogno d'un presto e gagliardo
rimedio, si facesse un'adunanza de' prelati del regno per ritrovar modo di
fermar il corso a tanti mali, et il dí 11 aprile fu intimata per 10 settembre
prossimo.
Ma
acciò non fosse ricevuta in male dal pontefice, fu spedito un corriero a
Roma per dargli conto della deliberazione e significargli il bisogno di quel
rimedio e pregarlo di ricever la deliberazione in bene. E l'ambasciator
rappresentò al papa il male et i pericoli, con la speranza che il re
aveva di qualche buon rimedio con una general convocazione de' prelati, senza
la quale non si vedeva mezo di provisione efficace. Perilché era stato
constretto, non differendo piú longamente, né aspettando rimedii da luoghi
lontani e per tempi incerti e per necessità longhi, valersi di quello
che era in sua mano, prossimo di luogo e di tempo; soggiongendo che nissuna
risoluzione di quel convento sarebbe esseguita, né tenuta per valida, se non
fosse prima da Sua Santità approvata. Il papa per converso si dolse
gravemente che il re avesse publicato perdono degl'errori commessi contra la
religione, eziandio a quelli che non lo dimandavano: cosa in che nissun ha
potestà, salvo che il pontefice romano. «E chi è il re, diceva,
che pensa di poter perdonare i delitti contra Dio?» Che non è maraviglia
se per giusta ira divina tanti tumulti sono in quel regno, dove i sacri canoni
sono vilipesi et usurpata l'autorità ponteficia. Passò poi a dire
che l'adunanza de' prelati non averebbe fatto alcun buon effetto, anzi causato
maggior divisione; che aveva già proposto il concilio generale, unico
rimedio; il difetto che sin allora non fosse ridotto, da loro nasceva, che non
lo volevano; con tutto ciò egli era risoluto celebrarlo, se ben da niuno
era richiesto, ma all'adunanza de' prelati non voleva acconsentire in modo
alcuno, né in Francia, né in altra parte; che mai ciò era stato
sopportato dalla Sede apostolica; che se ogni prencipe celebrasse concilii da
sé, seguirebbe una confusione e separazione dalla Chiesa. Si querelò poi
gravissimamente che prima il convento fosse intimato e poi fosse ricercato il
suo consenso, cosa che non si poteva interpretar se non con poco rispetto al
capo della Chiesa, al quale conviene riferire tutte le cose ecclesiastiche, non
per dargli conto del fatto, ma per ricever da lui l'autorità di farle;
che gl'editti publicati introducevano una manifesta apostasia dalla Sede
apostolica in quel regno; alla quale volendo ovviare, averebbe per un noncio
espresso fatto intender la sua volontà al re.
[Il papa propuone il concilio generale e per
ciò manda noncio in Francia]
Destinò
per tanto in Francia il vescovo di Viterbo con instruzzione di mostrar al re
che il concilio nazionale di quel regno sarebbe una specie di scisma dalla
Chiesa universale, darebbe cattivo essempio all'altre nazioni, farebbe
insuperbir i prelati del regno et assumersi maggior autorità con
diminuzione della regia; esser noto a tutti con quanto ardore desiderino la restituzione
della Pragmatica, la quale al primo principio vorrebbono introdurre, onde il re
perderebbe tutta la collazione de' regali e la presentazione de' vescovati et
abbazie; da che poi ne seguirebbe che i prelati, non riconoscendo alcuna sua
grandezza dal re, gli sarebbono contumaci; e con tutti questi mali non si
provederebbe a quelli che sono urgenti. Perché già gl'eretici professano
d'aver i prelati in nissun conto; et ogni cosa che da loro fosse operata,
sarebbe, se non per altro, per questo solo, da' ministri protestanti oppugnata;
che il vero rimedio è fare che i prelati et altri curati vadino alle
residenze e custodiscano i greggi loro, opponendosi alla rabbia de' lupi, e che
la giustizia proceda contra quelli che da' giudici della fede sono giudicati
eretici; e dove la moltitudine non lo comporta, inanzi che il male si faccia
maggiore, usar la forza e le armi per rimetter tutti in ufficio; che facendo al
presente tutte queste cose si poteva sperar compimento nella celebrazione del
concilio generale, il qual era per intimar immediate; che se il re fosse venuto
in risoluzione di ridur all'ubedienza i contumaci, prima che crescessero
maggiormente in numero e forze, si offeriva assisterlo con tutto il suo poter,
et operar che dal re di Spagna e da' prencipi d'Italia gli fossero
somministrati potenti aiuti. E quando il re non condescendesse a constringer i
sudditi suoi con le armi, gli proponesse che di Geneva esce tutto 'l male qual
turba la Francia, e tutto 'l veleno che infetta e quel regno et i luoghi vicini;
che l'estirpar quella radice sarebbe levar un gran fomento al male, oltra che,
facendo una guerra fuori del regno, evacuerebbe quei mali umori che lo
perturbano; però essortasse il re concorrere con lui a questa santa
opera, che egli indurrebbe il re di Spagna et il duca di Savoia all'istesso.
Diede anco il
papa commissione al vescovo che nel passar trattasse l'istesso col duca di
Savoia. Et al re di Spagna scrisse, e per mezo del suo noncio residente fece
instanza, che operasse col cognato per divertirlo dal concilio nazionale, che,
dannoso alla Francia, sarebbe riuscito in cattivo essempio alla Spagna e
peggior a' Paesi Bassi. Il duca di Savoia udí la proposta della guerra di
Geneva e s'offerí ad impiegarsi tutto, mentre che l'uno e l'altro re si contentasse
d'aiutarlo e che la guerra fusse fatta da lui e per lui, poiché, appartenendo
quella città al dominio suo, non era giusto che, acquistandosi, fosse da
nissun di loro ritenuta. Però che volendo Sua Santità venir
all'effetto, bisognava far una lega e capitolar molto chiaro, acciò da
questo bene proposto non ne riuscisse qualche gran male, quando overo i re non
fossero concordi, od egli restasse abandonato, dopo aversi concitato contra i
svizzeri, quali senza dubio si dicchiarerebbono difensori di quella città.
Il re di
Spagna, quanto a Geneva, considerò che la Francia non permetterebbe che
Geneva andasse in altra mano che in poter de' francesi, e non compliva al suo
servizio che entrasse per la vicinità alla Francia Contea; però
rispose che non gli pareva tempo di far tal tentativo. Ma quanto al concilio
nazionale di Francia, pensò molto ben quanto fosse per le cose de' Stati
suoi di pericoloso essempio; perilché immediate spedí a quel re Antonio di
Toledo, prior di Lione, per significargli che trovava molto dannosa la
celebrazione di quel concilio, per la divisione che potrebbe nascere, essendo
il regno infetto, e però lo pregava di non lasciar venir
all'essecuzione, non movendolo a questo nissun'altra cosa, se non il vero amore
verso di lui et il buon zelo della gloria di Dio. Gli metteva in
considerazione, oltra le contenzioni che potevano nascer nel regno suo, il
pernizioso essempio che piglierebbono le altre provincie et il pregiudicio che
farebbe al concilio generale, qual si trattava di fare, il qual è unico
rimedio per i mali e divisioni della cristianità, e mostrerebbe che non
vi fosse quella buona intelligenza tra l'imperatore et essi doi re, la qual
è necessario dimostrare, e farebbe insuperbir i protestanti in
pregiudicio della causa publica. Aggionse che non gli mancano forze per
reprimer le insolenze de' suoi sudditi, e pure, quando vogli valersi delle
forze di esso re di Spagna, le spenderà di buona voglia in questo caso e
vi aggiongerà anco la propria persona, se farà bisogno, a fine
che li sudditi suoi non possino gloriarsi d'averlo fatto venire ad alcuna
indegnità; il che debbe molto pensare in questo principio di regno.
Commisse anco all'ambasciator che quando questo non potesse ottener, procurasse
per le stesse et altre raggioni di fare che si sospendesse per piú longo tempo,
commettendo appresso che trattasse col cardinale di Lorena, il qual s'intendeva
tener la mano a questo concilio, che egli, come prencipe della Chiesa e che ha
tanta parte nel governo di quel regno, ha obligo di considerare il danno che
potrebbe risultar al regno et a tutta la cristianità, usando le medesime
raggioni. Fece far anco l'istesso ufficio col duca di Ghisa e con la regina
madre e col contestabile e col marescial di Sant'Andrea. Gli diede appresso
commissione di tener del tutto avisato la duchessa di Parma ne' Paesi Bassi et
il Vargas, suo ambasciatore a Roma. Avisò anco il pontefice
dell'efficace ufficio, che mandava a fare per persona espressa et il bisogno
che giudicava dover aver quel re d'aiuto. A questo aggionse la necessità
in che si ritrovava egli medesimo, [avendo] l'anno inanzi perduto 20 galere e
25 navi, andate in mano de' turchi, e la fortezza delle Gerbe, da loro presa
per forza; accidenti che constringevano ad accrescer l'armata. E però
ricchiedeva Sua Santità che gli concedesse sussidio gagliardo sopra le
chiese e beneficii de' suoi regni.
Ma in Francia
la proposta d'assaltar Geneva non fu ben sentita, parendo che fosse un
insospettir gl'ugonotti (cosí chiamavano i riformati) e provocargli ad unirsi;
oltre che a quella guerra non sarebbono andati se non catolici e s'averebbe
lasciato piú aperto il regno a' contrarii. Il provocar anco i svizzeri,
protettori di quella città, non pareva sicuro per ogni occorrenza di bisogno
che potesse venir alla corona; però al noncio non risposero con altre
considerazioni, se non che, mentre tante confusioni affligevano il regno
internamente, non era possibile attendere alle cose di fuori. Ma quanto al
concilio nazionale, fu l'istessa risposta al Toledo et al noncio: che il re era
deliberato conservar sé et il suo regno nell'unione catolica; che non disponeva
di far concilio nazionale per separarsi, anzi per unir i sviati alla Chiesa;
che molto piú gli piacerebbe e sperarebbe maggior profitto dal concilio
generale, quando i bisogni suoi urgenti permettessero che s'aspettasse il tempo
per necessità molto longo; che il concilio nazionale, qual ricerca, lo
vuol dependente dalla Sede apostolica e dal pontefice, e se in quel mentre il
generale si congregherà, il suo cesserà e s'incorporerà
con quello. E per corrisponder alle parole con effetti, ricercò il
pontefice che mandasse in Francia un legato con facoltà di congregar i
vescovi del regno per trovar modo di assettar le cose della religione.
Aveva il
pontefice gettata la proposta di far guerra a Geneva, non tanto per l'odio di
quella città, come seminario di onde uscivano i predicatori zuingliani
per Francia, né per timore di qualche nuovità in Italia, quanto anco per
allongar la trattazione di concilio generale; perché, se la guerra fosse
accesa, sarebbe qualche anno durata e tra tanto s'averebbe posto in silenzio
overo trovato buona forma al concilio. Ora vedendo che la proposta non aveva
fatto presa e che tuttavia i francesi perseveravano nella deliberazione del
concilio nazionale, pensò che fosse necessario non differire la
risoluzione del generale, e fermar li francesi con questo e con qualche
concessione di quello che ricchiedevano: ne conferí co' cardinali piú intimi,
particolarmente intorno al luogo, cosa che sopra il tutto pareva importare,
producendo in fine il concilio effetti, secondo la mente di quello che è
il piú forte nel luogo dove si celebra. Volontieri averebbe proposta Bologna o
altra delle sue terre, con offerir d'andarvi in persona, ma in questo non si
fermò, ben vedendo che sarebbe dal mondo interpretato troppo in
sinistro. Città alcuna de là da' monti era risoluto non
accettare, né manco ascoltarne la proposta. Il cardinale Pacceco gli
nominò Milano, et egli condescese; con questo però, che avesse il
castello in mano mentre il concilio si celebrava, che era un rimettersi a
condizione impossibile. Applicò anco l'animo ad alcuna delle
città veneziane, ma quella republica si scusava per non dar ombra a'
turchi, delle forze de' quali allora si temeva. Tutto pensato, non trovò
piú opportuno luogo che Trento; poiché essendovi già due volte tenuto in
quel luogo, ogni uno aveva con esperienza veduto quello che vi era di buono e
di contrario, e perciò esser piú facile che tutti convenissero in questo
che in altro luogo. Vi era anco l'apparenza di raggione. Perché il celebrato
sotto Giulio non era finito, ma restava sospeso. A' francesi consultò di
sodisfare, mandando in Francia il cardinale Tornone, non in qualità di
legato, ma con facoltà che quando fosse quivi e vedesse il bisogno,
potesse congregar alcuni de' prelati del regno, quelli che fosse parso al re et
a lui, ma non tutti, acciò non vi fosse apparenza di concilio, e con
questi trattare, non venendo a risoluzione.
Si aggionsero
due altri accidenti di non minor considerazione, che spinsero il papa a parlar
piú chiaro di concilio: uno lontano sí, ma che importava la perdita d'un regno;
l'altro toccante una sola persona, ma di gran consequenza. In Scozia, i nobili,
che longamente avevano fatta la guerra per scacciar di quel regno i francesi e
levar il governo di mano della regina regente et avevano incontrato sempre
molte difficoltà per i potenti aiuti che il re di Francia, suo genero,
gli somministrava, per mantener il regno alla moglie, finalmente, per liberarsi
a fatto, si risolverono congiongersi con gli inglesi et eccitar il popolo
contra la regente. Per questo effetto aprirono la porta alla libertà
della religione, alla quale il popolo era inclinato; col qual mezo ridussero i
francesi a molto ristretto e la religione antica restò poco in prezzo:
di questo veniva attribuito la causa al papa, parendo al mondo che col concilio
incomminciato s'avessero fermati tutti i [tumulti] popolari. L'altro accidente
era che il re di Boemia da molto tempo teneva qualche intelligenza e prattica
con gl'elettori et altri protestanti di Germania, e già perciò fu
anco in sospetto di Paolo IV, che non si poté contenere di non oppor
all'imperatore, nel raggionamento privato che ebbe con Martino Gusmano, ambasciator
suo, che avesse il figlio fautor dell'eresia. Continuando il medesimo sospetto
nella corte anco dopo la morte di Paolo, il pontefice gli fece dire per il
conte d'Arco che, se non fosse vissuto catolico, non l'averebbe confermato re
de' Romani, anzi l'averebbe privato d'ogni dominio. Con tutto ciò, dopo
ancora era andato a Roma certo aviso che egli tratteneva un predicatore, spesso
ascoltato da lui, il qual aveva introdotto la communione del calice in diversi
luoghi, non però nella città, et il re medesimo si lasciava
intendere di non poterla ricever altrimente: nel che, se ben non era passato
all'essecuzione, nondimeno quelle parole davano al papa gran sospetto, massime
che in quasi tutti i luoghi di Germania usavano la communione del calice tutti quelli
che volevano, e non vi era chi impedisse i preti nel ministrarlo.
[Il papa dichiara la sua risoluzione agli
ambasciatori]
Risoluto
donque il pontefice per tutti i sudetti rispetti di far quel gran passo, a' 3
di giugno chiamò gl'ambasciatori dell'imperatore, di Spagna, Portogallo,
Polonia, Venezia e Fiorenza, quali ridotti tutti inanzi a Sua Santità,
eccetto quel di Polonia per esser infermo, si dolse prima il pontefice di non
aver potuto chiamar il francese per timore che in sua presenza non nascessero
contenzioni di precedenza, la qual era causa d'impedir il beneficio publico, di
consegliar le cose communi della cristianità; ma che essendo quei due re
parenti, bisognava bene che si risolvessero d'accommodarla e quietarsi per bene
della republica cristiana e de' regni loro specialmente. Passò poi a
dire la causa perché gli aveva congregati essere la congregazione del concilio,
la qual egli certo voleva metter ad effetto, levando tutte le difficoltà
che potriano metter a campo i prencipi per loro interessi; che lo voleva in
Trento, il qual luogo essendo piaciuto due volte, non potrà essere al
presente negato da alcuno, non essendo nuovo luogo, né finito il concilio
celebrato in quella città da Paolo e Giulio, ma sospeso; perilché, levando
via la sospensione, il concilio è aperto come era prima, massime che
essendo fatte in quel luogo molte buone determinazioni, saria mal metterle in
disputa con l'apparenza di far un nuovo concilio. Aggionse che bisognava far
presto, poiché ogni dí si andava peggiorando, come si vedeva in Francia, dove
trattano di far un concilio nazionale; il che egli non vuol, né può
comportare, perché l'istesso vorrebbe far Germania et ogni provincia; che di
ciò darebbe ordine a' noncii suoi all'imperatore, in Francia et al re
Catolico, che ne trattassero con quelle Maestà. Ma aveva giudicato far
l'istessa intimazione a tutti essi, acciò spedissero ciascuno a' loro
prencipi: perché, se ben poteva da sé venir a questa risoluzione et
essecuzione, nondimeno gli pareva conveniente farlo con saputa de' prencipi,
acciò potessero raccordare qualche cosa di commun beneficio e per
riforma della Chiesa, e mandar al concilio ambasciatori e favorirlo con ufficii
appresso i protestanti. Soggionse credere che ci anderebbono in persona de' prencipi
d'Alemagna, che il marchese di Brandeburg ci anderà certo.
L'ambasciator
Vargas fece una longhissima risposta, introducendo narrazione delle cose fatte
ne' concilii passati; discorse del modo di celebrar i concilii, poi discese al
luogo e parlò delle cose fatte in Trento, dove egli si trovò:
distinse i concilii generali da' nazionali, dannando assai l'intimato in
Francia. Quello di Portogallo lodò l'instituto del pontefice et offerí
l'ubedienza del suo re. Il veneto disse che per l'eresie ne' tempi passati non
s'era trovato meglior rimedio che de' concilii, che ringraziava Dio dell'aver
inspirato Sua Santità a cosí pia opera, che era per conservazione della
vera religione e per beneficio de' prencipi, quali non potevano goder
pacificamente li Stati in mutazione di religione. L'ambasciator di Fiorenza
parlò in conformità, offerendo lo Stato e le forze di quel duca.
Scrisse il pontefice a noncii in Germania, Francia e Spagna in
conformità di quanto aveva parlato con gl'ambasciatori. Non però
mai parlava di concilio senza gettar qualche seme di erba contraria, che
potesse overo impedir il nascimento, o, dopo nato, suffocarlo; essendo molto
ben certo che, quando le congionture avessero portato che la vita di quello gli
fosse tornata in servizio in potestà sua sarebbe stato estirpar il sopra
seminato. Si lasciò intender a parte co' stessi ambasciatori, con chi
piú chiaramente e con chi motteggiando, che volendo far il concilio con frutto,
era necessario pensar piú al fine che al principio, et all'essecuzione che alla
convocazione, né prosecuzione. Che la convocazione aspettava a lui solo, la
prosecuzione a lui et a' prelati, l'essecuzione a' prencipi; e però
inanzi ogni altra cosa era giusto che essi si obligassero a questo e si facesse
una lega con un capitanio generale che vadi contra gli inobedienti per
esseguire le deliberazioni del concilio, considerando che senza di questo
sarebbe di nissun frutto e con indegnità della Sede apostolica e di
tutti quei prencipi che vi avessero mandato ambasciatori e prestato favore et
assistenza.
Ebbe il
pontefice risposta da' noncii suoi non conforme. Il re di Spagna lodava il
concilio, approvando anco il luogo di Trento e promettendo di mandarvi i suoi
prelati e fare ogni altra opera per favorirlo; aggiongendo però che non
conveniva far cosa alcuna senza la volontà dell'imperatore e del re di
Francia; la risposta del qual re era che lodava la celebrazione del concilio,
ma non approvava il luogo di Trento, allegando per raggioni che i suoi non
averebbono potuto andarvi, e proponeva per luoghi opportuni Costanza, Treveri,
Spira, Vormazia o Aganoa. Accennava ancora che non si dovessero continuare le
cose già comminciate in Trento, ma abandonandole a fatto, far un
concilio tutto nuovo: la qual cosa dava molta molestia al pontefice, al qual
pareva che questa non fosse risposta di proprio moto del re, ma che venisse
dagl'ugonotti.
Ma
l'imperatore mandò una longa scrittura, nella quale diceva non potersi
prometter della volontà de' principi di Germania se prima non intendeva
l'openione loro, cosa che non si poteva far senza una dieta; la qual volendo
congregare, era necessario tralasciare di nominar concilio, perché i prencipi
non vi sarebbono andati, ma congregandola sotto altro pretesto, s'averebbe
potuto parlare poi del concilio con occasione. Aggionse che quanto a' Stati
suoi patrimoniali, non sperava potergli indurre al concilio, se non se gli
concedeva la communione del calice et il matrimonio de' preti e se non si
faceva una buona riforma, e sopra tutto che non si trattasse di continuare le
cose incomminciate in Trento, perché a ciò mai i luterani
consentirebbono; anzi, il solo nome di Trento gli averebbe fatto repugnare, e
propose egli Costanza o Ratisbona. Vedeva chiaramente il pontefice che la
proposta di dieta portava un anno e forse due di tempo, e di questo sentiva
piacere, ricevendo però molestia perché i successi di Francia
ricercavano accelerazione. Diceva a ciascuno, per mostrar la sua prontezza, non
importare a lui piú un luogo che un altro e che piglierebbe Spira, Colonia e
qual altra città volesse l'imperatore, purché i vescovi potessero
andarvi e tornar sicuri, non essendo conveniente assicurar quelli che non hanno
voto in concilio, lasciando senza sicurezza quelli de' quali consta; ma di
revocare quello che era fatto in Trento non occorreva parlarne, anzi voleva
metter il sangue et i spiriti per mantenerlo, essendo cosa di fede; che bene
quanto a quello che è di constituzione umana, sí come la communione del
calice e matrimonio de' preti, essendo quelli instituiti per buon fine et
approvati da' concilii, sí come egli non voleva rimovergli da se stesso, se ben
poteva farlo, cosí voleva il tutto rimetter al concilio, se ben vedeva che con
tutta la concessione delle cose che dimandano, non si rimoverebbono
dall'openione loro; si lamentava della debolezza dell'imperatore che temesse il
proprio figliuolo non manco che gl'altri, e poi ricercasse che i prelati si
mandassero in Germania, dove si dicchiarava non aver potestà
d'assicurargli; che egli sarebbe andato anco a Constantinopoli, purché vi fosse
sicurezza, la quale non si poteva aspettar dall'imperatore; che gl'alemanni
erano quasi tutti eretici et il re di Boemia piú potente che il padre; che a
lui non importava piú un luogo che un altro, purché fosse in Italia, che sola è
sicura per i catolici.
Rispose
però al re di Francia et all'imperatore in termini generali: contentarsi
d'ogni luogo pur che fosse sicuro, ponderando quanto la sicurezza de' concilii
fosse stata in ogni tempo riputata necessaria e fosse allora piú che mai di bisogno
di quella, senza descendere a far opposizione a' luoghi nominati da loro. Ma al
re Catolico rispose lodando la sua buona mente e confermandolo nel suo buon
proposito; e quanto al sussidio ricchiesto, interponendo varie
difficoltà, cosí per sostentar quanto piú poteva le commodità del
clero, come per non offenderlo et averlo contrario, quando si fosse venuto a
far il concilio.
[La religione riformata fa progressi]
Andavano
sempre le cose de' catolici facendosi piú difficili; perché in Francia la parte
ugonotta sempre acquistava, et in Scozia ancora fu concessa per publico decreto
a tutti la libertà di credere, et in Fiandra gl'umori erano preparati
per mettersi in moto alla prima occasione, la quale il re con molta flemma
andava ritardando e concedendo, piú tosto con danno et indegnità
propria, a quei popoli quello che volevano. Erano stati sempre ostinati in non
voler prestar alcuna contribuzione al re, se non levava i soldati spagnuoli dal
paese. In fine constretto gli levò; né per questo vollero contribuire,
ma solo pagare gente del paese per guardia de' luoghi, independente da'
ministri regii. Il re ogni cosa sopportava, essendo certo che ad ogni minimo
rissentimento averebbono preso il pretesto della religione, et egli dissegnava
di sopportar, aspettando che quell'ardor prima si estinguesse, e massime che si
scoprí in questi tempi che anco in Spagna non erano ben estinte le semenze
delle oppenioni nuove, che restavano coperte per timore, e che in Savoia
similmente erano suscitati degl'altri eretici oltre i vecchi valdesi.
Ma sopra
tutte le cose dava grandissima molestia alla corte romana che, avendo il
pontefice fatto parlare al re di Boemia per Marco d'Altems, suo nipote, che fu
poi cardinale, persuadendolo per nome di Sua Santità ad esser buon catolico,
con molte promissioni d'onori e commodi, accennandogli la successione
dell'Imperio, la qual se gli difficolterebbe, quando altrimente facesse, ebbe
risposta dal re che ringraziava Sua Santità, ma che egli aveva piú cara
la salute dell'anima sua, che tutte le cose del mondo: la qual risposta in Roma
dicevano esser formula di parlar da luterano e veniva intesa per un'alienazione
dall'ubedienza di quella Sede, e discorrevano sopra quello che sarebbe seguito,
morto l'imperatore.
Mentre questi
accidenti travagliano l'animo del pontefice, gli sopravenne nuova che
gl'ugonotti suoi sudditi nelle terre d'Avignone s'erano congregati e messo in
disputa se potevano pigliare le armi contra il pontefice, essendo loro patrone
in temporale; e risoluto che potessero farlo, per non esser egli legitimo
signore, sí perché quel contado non era stato giuridicamente levato a Rimondo,
conte di Tolosa, come anco perché gl'ecclesiastici, per precetto di Cristo, non
possono aver dominio temporale, e risoluta la ribellione per mezo d'Alessandro
Guilotimo, giurisconsulto, si posero sotto la protezzione di Carlo di Mombrun,
che aveva preso le armi per la religione et era di gran seguito in Delfinato;
il quale entrò nel contado con 3000 fanti e s'impatroní di tutto 'l
paese con grand'allegrezza degl'abitanti. A questi s'oppose Giacomo Maria,
vescovo di Viviers, vicelegato d'Avignone, e difficilmente conservò la
città; onde il papa restava molto afflitto, non piú per la perdita delle
terre che per la causa che, presa in essempio, toccava la radice del
ponteficato. Per provisione voleva che il cardinale Farnese, essendo legato,
andasse in persona alla difesa di quella città; ma il male si
moderò, perché il cardinal di Tornon, che aponto allora andando alla
corte non era molto lontano di là, del quale Mombrun aveva una nipote in
matrimonio, con promettergli la restituzione de' beni confiscati per la
ribellione e la grazia del re, se uscisse di Francia, con speranza che lo
farebbe anco in breve richiamare con libertà di conscienza, lo fece desistere
e passar a Geneva; onde le terre del pontefice, private di quella protezzione,
restaron soggette, ma piene di sospezzioni e pronte ad ogni altra
novità.
[Assemblea in Francia pel fatto della
religione]
In Francia
crescendo ogni giorno maggiormente il numero de' protestanti e, quel che piú
importava, le dissensioni e sospetti tra i grandi, 1560, 21 agosto, il re
convocò una numerosa assemblea a Fontanableò; la qual convocata,
essortati gl'intervenienti in poche parole a dir quello che giudicassero esser
di servizio, dal cancelliero furono esposti i bisogni del regno, comparato da
lui ad un infermo del quale il male sia incognito, e dopo qualche cose dette,
Gasparo Coligní, accostatosi al re, gli porse alcune suppliche, dicendo
essergli state date da moltitudine d'uomini quando era in Normandia, a' quali
non poteva negar questa grazia di presentarle alla Maestà Sua. Quelle
lette, la somma era: che i fedeli cristiani, dispersi per tutto 'l regno,
pregavano Sua Maestà di guardargli con occhio benigno; essi non
desiderar altro se non moderazione delle crudeli pene, sin che la causa loro
sia conosciuta; dimandar facoltà di professare la sua religione in
publico, per non dar alcuna sospizzione con le congregazioni private. Allora
Gioan Monluc, vescovo di Valenza, avendo narrato le infermità del regno
e lodato l'essempio d'aver castigato i sediziosi, soggionse che rimaneva la
causa del male, anzi si faceva sempre peggiore, mentre che la religione si
poteva prender per pretesto; che a questo bisognava provedere, il che per il
passato non era stato ben incaminato, perché i papi non avevano avuto altro
fine che tener i prencipi in guerra, et i prencipi, pensato di raffrenar il
male con le pene, non aver sortito il fine desiderato, né i magistrati in
proceder con equità, né i vescovi con far il suo debito hanno
corrisposto. Il rimedio principale esser il ricorrer a Dio, congregar di tutto
'l regno uomini pii per trovar via d'estirpar i vizii degl'ecclesiastici,
proibir le canzoni infami et impudiche, et in luogo di quelle instituir i salmi
et inni sacri in volgare, e se quell'interpretazione che va attorno non par
sincera, levar gl'errori e lasciar correr per mano di tutti le parti buone. Un
altro rimedio esser il concilio generale, sempre usato per compor simil differenze;
non saper veder come la conscienza del pontefice possa quietarsi pur per un
momento, vedendo ogni giorno perir tante anime; e se non si può ottener
il concilio generale, coll'essempio di Carlo Magno e Ludovico Pio, congregar il
nazionale. Esser grave error di quelli che turbano la quiete publica con le
armi sotto pretesto di religione, cosa sempre aborrita dall'antichità;
ma non esser minor error di quelli che condannano a morte gl'aderenti alla
nuova dottrina per sola opinione di pietà; perché andando constantemente
alla morte e sprezzando la iattura de' beni loro, irritano l'animo della
moltitudine e fanno venir volontà di saper che fede è quella per
quale sono volontariamente tolerati tanti mali.
In
conformità parlò anco, dopo lui, Carlo Marillaco, vescovo di
Vienna, lodando il rimedio del concilio generale, ma soggiongendo che si
può piú desiderare che sperare, avendosi veduto le difficoltà
solite nascere in tal negozio, e quante fatiche Carlo V per ciò ha preso
e come sia stato deluso da' pontefici; oltre che il male di Francia è
tanto acuto che non vi è tempo di chiamar medico da lontano. Però
doversi ricorrer al concilio nazionale, solito usarsi altre volte nel regno,
essendo chiaro che da Clodoveo sino a Carlo Magno, e poi anco sino a Carlo VII
sempre sono stati celebrati concilii in Francia, ora di tutto 'l regno, ora di
parte; però, essendo urgente il male, non doversi aspettare, né tener
alcun conto degl'impedimenti che il pontefice fraponesse; et in tanto far andar
i prelati alla residenza e non comportar che gli italiani, che hanno la terza
parte de' beneficii, godino i frutti in assenza; estirpar ogni simonia e
mercanzia spirituale et ordinar come nel concilio ancirano che al tempo del
ministerio de' sacramenti non si faccia elemosina. Che i cardinali e prelati
deputati da Paolo III diedero il medesimo conseglio. Che Paolo IV lo
giudicò necessario, se ben poi si voltò alle pompe et alla
guerra; e non facendosi, esser pericolo di veder vera la profezia di Bernardo,
che Cristo descenda dal cielo a scacciar dal tempio i sacerdoti, come
già i mercanti. Passò poi a dire de' rimedii agl'altri mali del
regno. Coligni, quando toccò a lui a parlare, disse che avendo egli
ricercato quelli che gli porsero le suppliche di sottoscriversi, gli fu risposto
che 5000 uomini si sottoscriverebbono, bisognando.
Francesco di
Ghisa alla sua volta, quanto al punto della religione, disse che si rimetteva
al giudicio de' dotti, protestava però che appresso lui nissun concilio
sarebbe mai di tanta autorità che lo facesse declinar un ponto
dall'antica religione. Il cardinale di Lorena, dopo aver parlato d'altri
particolari, descendendo a quello della religione, disse: le suppliche
presentate esser superbissime e se agl'oratori fosse concesso publico
essercizio, altro non sarebbe che approvar la loro dottrina; esser cosa chiara
che la maggior parte la piglia per pretesto, perilché esser di parer che contra
questi si proceda con maggior severità, mitigando le pene contra quelli
che si congregano senza arme, per sola causa di religione, et attendendo ad
insegnargli et ammonirgli; et a questo effetto mandar i prelati alla residenza,
sperando che senza concilio, né generale, né nazionale, con questi rimedii si
provederà al tutto. Non essendo i pareri ben concordi, a' 27 del mese fu
fatto il decreto che a' 10 di decembre si dovessero tener i stati in Meaus, e
quanto al concilio generale, avendo il pontefice dato speranza che presto si
congregherà, se ciò non sarà effettuato, i vescovi debbino
congregarsi a' 13 di genaro per trattar di celebrar un nazionale; tra tanto si
sospendessero i supplicii per causa di religione, fuorché contra quelli che
movessero turbe con le armi.
[Il papa, temendo il concilio nazionale,
propuone agli ambasciatori il generale, e si risolve a convocarlo]
Il papa,
avuto aviso della risoluzione del convento di Fontanableò, scrisse al
cardinale di Tornon che facesse ogni opera per impedir la ridozzione de'
vescovi; il che, quando non potesse effettuare, se ne tornasse a Roma. Et a' 23
di settembre chiamò a sé gl'ambasciatori, a' quali narrò prima il
bisogno che in vi era di presta celebrazione del concilio generale, attesa la
deliberazione de' francesi di far il nazionale: il qual se ben aveva dato
ordine al cardinale Tornone che procurasse d'impedire, però non sperava
che l'impedimento succedesse. Ma egli si vedeva ben in necessità di
celebrar l'universale, acciò non fosse detto che i nazionali si facevano
per non aver voluto egli far il generale; però era forza aprir questo
concilio di Trento e levar la sospensione; che il luogo era opportunissimo tra
la Germania e l'Italia, se bene altri gli prepongono Spira e Treveri et altri
luoghi, quali riceverebbe se fossero sicuri, pronto anco d'andar a
Constantinopoli, quando potesse con sicurezza. Che fede si può aver in
quelli che non hanno fede? Che nissun catolico sarebbe sicuro in quei luoghi,
manco l'imperatore stesso. Che se non vorranno Trento, non mancheranno luoghi
nello Stato di Milano, nel regno di Napoli, nello Stato di Venezia, del duca di
Savoia o di Fiorenza. Ma quanto al revocar le cose determinate, già non
era da parlarne; egli non voleva né revocarle, né confermarle, ma rimetter
tutto al concilio, il qual con l'assistenza dello Spirito Santo
determinerà quello che a Dio piacerà. Ponderò molto la
cosa del concilio nazionale di Francia, aggiongendo che sarà un cattivo
essempio e che Germania vorrà seguitarlo, et anco in Italia
succederà qualche moto, se non si farà provisione; che vorranno
sottometter il concilio et il ponteficato e, tutte le cose sue; ma che egli
«pro fide et religione volumus mori». Invitò gl'ambasciatori a dir il
loro parere; onde quello dell'imperatore disse che era meglio interponer tempo,
poiché lo stato delle cose di Germania non concedeva che l'imperatore potesse
consentirvi. A che il pontefice mostratosi alterato, soggionse l'ambasciator
che era utile guadagnar prima gl'animi de' prencipi di Germania; onde il papa
piú alteratamente disse che non vi era tempo; e dicendo l'ambasciator che con
questo moto dubitava non si incitassero gl'eretici contra l'Italia, il papa
alzò la voce, dicendo che Dio non abandoneria la causa sua et egli saria
aiutato co' prencipi catolici, che averebbe avuto gente e danari per difesa.
Quello di Spagna lodò la mente di Sua Santità e disse che il suo
re non averebbe mancato di favorirla, sí come per questo effetto aveva
già mandato Antonio di Toledo in Francia. Offerirono parimente
gl'ambasciatori di Portogallo, di Venezia e gl'altri il favore e l'assistenza
de' suoi prencipi, et in fine il papa ordinò loro che scrivessero
l'intenzione sua e gli licenziò.
Ebbe poi
risposta dal cardinale Tornon che, fatto ogni tentativo, non aveva potuto
rimover il re, né alcuno del suo conseglio, né meno sperava che l'avvenire
potesse portar congiontura megliore; anzi vedeva chiaro lo stato delle cose
impeggiorare. Il re di Spagna ancora, mandata al papa la risposta finale fatta
al Toledo, scrisse appresso che il re di Francia si scusava di non poter se non
col concilio nazionale rimediare a' desordini del suo regno, al che è
ubligato, e che non dovesse maravegliarsi se, per ovviare agl'inconvenienti,
convengono i re far soli quello che doverebbe esser fatto in compagnia col
papa: la qual lettera travagliò molto il pontefice, intendendo che
volesse inferire di far il medesimo esso ancora in Fiandra. Si scoprí dopo che
il pontefice aveva in animo, se non poteva fuggir a fatto il concilio,
differirlo almeno sino che avesse accommodato le cose di casa sua; perché,
facendo concilio, era necessario dar buon essempio di sé in quel mentre e far
spese eccessive in mantener i prelati poveri et ufficiali, et altre cose
necessarie per la sinodo, che assorbiriano tutte le entrate. Il negozio anco da
per sé solo dover occuparlo intieramente, onde non averebbe potuto attender
alla casa: però con molto malanimo si risolvé di non differir piú la
convocazione. Onde a' 20 d'ottobre tenne una congregazione de' cardinali, dove
diede conto della risposta data dal re di Francia a don Antonio di Toledo, di
quello che il re a lui scriveva e del negozio del cardinale di Tornon;
aggiongendo un altro nuovo aviso di Francia, che quantonque il concilio
generale si apri, non sono per andarvi, se i protestanti non consentiranno essi
ancora di riceverlo: le qual cose misero grandissima confusione, temendo tutti
che, se ben s'apriva il concilio generale, la Francia nondimeno fosse per far
il nazionale, dal che in consequenza ne nascesse alienazione dall'obedienza
della Sede apostolica et essempio al rimanente delle nazioni cristiane
d'alienarsi similmente, o con volontà, o senza volontà de' loro
prencipi.
Da alcuni
anco era molto stimato che era stato protestato al cardinal di Trento che non
dovesse allargarsi in offerir quella città, ma raccordarsi che
l'imperatore ne è patrone, senza la volontà del quale non
può, né deve disponer della città in tal affare: il qual
imperatore s'era decchiarato di voler onninamente far la dieta prima. Dava
ancora gran pensiero quello che scriveva don Antonio di Toledo che tutti i
grandi et i vescovi stessi fomentavano le opinioni nuove per assettare et
aummentare le cose loro. Con tutto questo, nondimeno, l'opinione de' cardinali
tutti, eccetto che quello di Ferrara, fu che il concilio s'aprisse, levando la
sospensione; et il pontefice disse di volerlo fare per san Martino: e
considerando bene i pericoli imminenti e le speranze di superarli, risolse in
se medesimo e consolò anco con questo i cardinali et altri dependenti
suoi, che il male sarebbe stato ben grande alla Francia, ma poco alla Sede
apostolica, la qual finalmente averebbe perso poco, non cavandosi
dall'espedizione di quel regno piú di 25000 scudi all'anno, essendo dall'altro
canto grandissima l'autorità del re nel distribuir i beneficii,
concessagli da' pontefici, la qual egli perderebbe, poiché, levata
l'autorità ponteficia, entrerebbe la Prammatica et i vescovi sariano
eletti da' canonici e gl'abbati da' monasterii, et il re spogliato d'una tanta
distribuzione. Perilché a lui non rincresceva se non la perdita di quelle
anime. Ma se Dio voleva castigargli de' loro delitti e della loro
infideltà, egli non poteva fargli altro.
Gionsero in
Roma al principio di novembre altre lettere dalla corte cesarea, dove
l'imperatore, se ben con parole generali, diceva che intorno al concilio,
quanto alla persona sua, voleva far quello che al papa piaceva; nondimeno ci
aggiongeva che il tener il concilio fuori di Germania, overo il continuare il
concilio di Trento, levando le sospensioni, non farebbe frutto, anzi
ecciterebbe ne' protestanti maggior odio, con pericolo anco che procurassero
d'impedirlo con le armi, di che gli erano pervenute alle orrecchie diverse
trattazioni, sí come facendo un nuovo concilio vi era speranza d'indur molti di
loro ad andarvi. Il che era causa di varie opinioni ne' cardinali, vedendosi
chiaramente che, non continuandosi il concilio di Trento, tutte le cose
già determinate si potrebbono chiamar vane e di nissun valore, non
essendo state approvate da nissun pontefice. Propose il papa la materia in
congregazione, dove si consultò e se ne parlò longamente, senza
che fossero dati i voti; e con un'altra congregazione, dimandati li voti, Carpi
con longo discorso mostrò che bisognava al tutto continuar il concilio,
levando sola la sospensione, il che fu confermato da Cesis e Pisano; ma Trento,
che seguiva, disse che in materia dove si tratta de summa rerum, piena
di tante difficoltà, era meglio pensarvi un poco piú. E questa opinione
fu seguita da tutti gl'altri cardinali. Et opportunamente la sera seguente
gionse un corrier di Francia in diligenza, con protesti che, non facendosi il
concilio generale, il re non poteva impedir piú il nazionale: però che
non bisognava pensar a Trento o ad altro luogo d'Italia, perché, essendo
già tanti anni ricercato il concilio per i bisogni di Germania, et ora
aggionto il pericolo di Francia, conveniva farlo in luogo commodo ad ambe le
nazioni; altrimente sarebbe vano, se tedeschi e francesi non vi andassero.
Proposero Costanza, o Besanzone, aggiongendo che se si eleggesse alcun luogo in
Francia, promette il re che sarà sicurissimo.
In fine non
parve al pontefice di differire piú oltre, ma a' 15 di novembre in concistoro
deliberò di far la domenica seguente una processione in cenere e cilicio,
dando un giubileo e cantando una messa dello Spirito Santo per deliberazione
fatta di celebrar il concilio in Trento; concludendo che se dopo congregato
parerà piú commodo trasferirlo altrove, lo trasferirà e vi
anderà anco in persona, purché sia luogo sicuro; aggiongendo che
troverà anco arme per impedire se alcun volesse infringere le cose
determinate; e si diede a pensare il tenore della bolla. Perilché ogni dí si
faceva congregazione per risolvere se si doveva apertamente dicchiarare la
continuazione, rimovendo la sospensione, come egli desiderava, acciò non
si mettessero in disputa o in essamine le cose determinate. S'affaticavano
molto gl'imperiali et i francesi appresso il papa et i deputati che fosse
chiamato un nuovo concilio, dicendo che cosí vi sarebbono andati tedeschi e
francesi, e là poi s'averebbe potuto risolvere che le cose determinate
non fossero retrattate; altrimente era vano il parlar di concilio per ridur i
protestanti, dando loro occasione sul primo passo di rifiutarlo, con dire di
non poter sottoporsi a chi gl'ha condannati senza udirgli; in contrario i
spagnuoli et insieme con loro il duca di Fiorenza, che si ritrovava in Roma,
facevano opera che solo si levasse la sospensione e si chiamasse continuazione
del già incomminciato. Fu eletto dal papa e da' deputati un conseglio
medio, sperando che dovesse sodisfar ad ambe le parti. Publicò il
pontefice un giubileo e lo mandò in tutti i luoghi, et a' 24 egli a
piedi, con solenne processione, andò col collegio de' cardinali e con
tutta la corte da San Pietro alla Minerva, la qual incaminata non processe
senza confusione, perché gl'ambasciatori, assueti a caminar inanzi la croce,
vedendo che dopo quella seguivano i vescovi e dopo essi il duca di Fiorenza in
mezo di doi cardinali minori, volsero quel luogo essi ancora. Onde nacque
disordine: per compor il quale, dopo qualche contrasto, il papa diede loro
luogo tra sé et i cardinali che lo precedevano.
[Il papa publica la bolla]
Il 29 fu
publicata in concistoro la convocazione del concilio, la bolla della quale era
intitolata Dell'intimazione del concilio tridentino; il vocabolo latino
fu «indictionis», et in questa forma fu stampata in molti luoghi, se ben dopo,
quando si stampò il corpo del concilio tutto intiero, si mutò la
voce, e fu detto «celebrationis». Il tenor della bolla era: che il pontefice,
dal principio della sua assonzione, applicò l'animo all'estirpazione
dell'eresie, all'estinzioni delle divisioni et emenda de' costumi, per rimedio
de' qual mali deliberò celebrar un concilio generale; che Paolo III e
Giulio per inanzi l'avevano congregato, ma non potuto finire, e narrata la
serie delle cose successe sotto quei pontefici, ne ascrive la riuscita a varii
impedimenti promossi dall'inimico del genere umano, almeno per differire un
tanto gran commodo della Chiesa, che non poteva a fatto impedire. Soggiongendo
che tra tanto erano moltiplicate e le eresie e le divisioni. Ma essendo
piacciuto a Dio di donar concordia a' re e prencipi cristiani, per occasione di
quella egli era entrato in gran speranza d'impor fine a tanti mali della Chiesa
con la via del concilio, la qual non ha voluto piú differire, per levar il
schisma e le eresie, riformar i costumi e servar la pace tra i cristiani.
Laonde, con conseglio de' cardinali et aviso di Ferdinando imperatore eletto et
altri re e prencipi, i quali ha trovato apparecchiati ad aiutarne la
celebrazione per l'autorità di Dio e de' santi apostoli Pietro e Paolo,
intima un general concilio nella città di Trento per il dí di Pasca,
levata qualonque sospensione; essortando e commandando sotto le pene canoniche
a tutti i patriarchi, arcivescovi, vescovi, abbati et altri che hanno voto
deliberativo per legge, privilegio o antica consuetudine che, non essendo
impediti legitimamente, si ritrovino inanzi quel giorno, ammonendo a
ritrovarvisi anco quelli che vi hanno o sono per aver interesse. Pregando
l'imperatore, re et altri prencipi che, non potendo intervenire personalmente,
mandino loro procuratori et operino che i prelati de' loro dominii senza scusa
e dimora esseguiscano il loro debito et abbiano libero e sicuro viaggio per
loro e per la compagnia, sí come farà egli in quello che potrà,
non avendo altro fine nel celebrar quel concilio che l'onor di Dio, la
ridozzione delle pecorelle disperse e la tranquillità perpetua della
republica cristiana; ordinando che la bolla sia publicata in Roma e con quella
publicazione, dopo il termine di 2 mesi, oblighi tutti i compresi, come se
fosse loro presenzialmente intimata.
Reputò
il pontefice d'aver satisfatto a se stesso, a quelli che volevano intimazione
di nuovo concilio et a quelli che ricercavano continuazione del vecchio; ma
come avviene ne' consegli medii, che sogliono dispiacere ad ambe le parti, il
pontefice a nissuno sodisfece, come si dirà. Immediate dopo la
publicazione della bolla il papa spedí il Nicheto in Francia con quella e con
commissione che, se non fosse piacciuta la forma, dicesse che non si guardasse
alla voce «continuare», perché quella non impediva che non si potesse di nuovo
parlare sopra le cose già proposte. La mandò anco all'imperatore
et in Spagna. Destinò oltre di ciò Zaccaria Delfino, vescovo di
Liesina, noncio a' prencipi della Germania superiore, e Giovanni Francesco
Comendone, vescovo del Zante, a quelli dell'inferiore, con lettere a tutti e
con ordine di ricever prima instruzzione da Cesare come trattar con loro, e poi
esseguir l'ambasciata. Destinò anco l'abbate Martinengo alla regina
d'Inghilterra, invitando lei et i vescovi del regno al concilio: cosí persuaso
da Edoardo Cerno, di sopra nominato, che gli promise il noncio dover esser,
anco col voler della regina, ricevuto dalla metà del regno. E quantonque
fosse posto al papa in considerazione che il mandar noncii in Inghilterra et
altrove a' prencipi che professavano aperta separazione dalla Sede romana, non
era con riputazione, rispondeva voler anco umiliarsi all'eresia, poiché tutto
era condecente a quella Sede, quel che si faceva per acquistar le anime a
Cristo. Per la qual raggione ancora mandò il Conobio in Polonia con dissegno
di farlo passar anco in Moscovia et invitar al concilio quel prencipe e quella
nazione, quantonque mai abbia riconosciuto il pontefice romano.
Tornò
poi a parlar del concilio in concistoro, ricercando d'esser informato
degl'uomini litterati di buona vita et opinione di diverse provincie, atti a
disputare e persuader la verità, affermando aver animo di mandarne a
chiamar molti; promettendo che, dopo aver usata tutta la diligenza possibile
per farvi venir tutti i cristiani et unirgli nella religione, quando bene
alcuni o molti non volessero venire, non era per restar di farlo. Gli dava
però gran pensiero che i protestanti di Germania, a' quali era unita
gran parte della Francia, averebbono negato di venire, overo dimandato cose
tanto essorbitanti, che non averebbe potuto conceder loro, e dubitava anco che
avessero potuto sturbar il concilio con le armi. Né confidava di poter aver
aiuto dall'imperatore per impedirgli, attese le sue poche forze. Confessava che
i pericoli erano grandi et i rimedii scarsi, onde stava perplesso nell'animo e
travagliato. Andando la bolla del concilio per Germania, capitò in mano
de' protestanti congregati alle nozze del duca di Lauemburg, quali intimarono
una dieta in Neumburgh per i 20 genaro.
Contra quella
bolla il Vergerio scrisse un libello, dove dopo grand'invettiva contra le
pompe, il lusso e l'ambizione della corte, soggiongeva che il concilio era dal
papa convocato non per stabilir la dottrina di Cristo, ma la servitú et
oppressione delle misere anime; che in quello non erano chiamati se non
gl'obligati al papa per giuramento, onde erano esclusi non solo li separati
dalla Chiesa romana, ma anco i piú intendenti che in quella erano, levata ogni
libertà, nella qual sola vi poteva esser speranza di concordia.
[Confusioni in Francia. Morte del re
Francesco. Stati tenuti in Orliens]
Arrivò
a Roma in questo tempo nuova che il re di Francia aveva impreggionato il
prencipe di Condé e posto guardie al re di Navarra; il che piacque molto al
pontefice come cosa che riputava poter disturbar afatto il concilio nazionale.
E tanto piú entrò in ferma speranza di non ricever quel disgusto, poiché
s'aggionse aviso di gravissima indisposizione del re con pericolo della vita;
le qual cose furono causa che non si tennero i stati in Meaus. Ma terminarono
le cose a fine che portò grand'alterazione. Imperoché, essendo passato
di questa vita Francesco, re di Francia, il 5 del mese di decembre, e successo
nel regno Carolo IX, suo fratello d'età d'anni 10, il governo, per la
minorità del re, secondo le leggi regie, cadé principalmente, nel re di
Navarra, come primo del sangue regio; a' quale aderí la regina madre per
sostentar e continuar l'autorità presa nel governo nella vita dell'altro
figlio, et il Navarra si contentò di participar con lei per mantener piú
facilmente l'autorità propria. Navarra favoriva quasi apertamente la
nuova religione e si governava in tutto col conseglio di Gasparo Coligni
ammiraglio, che la professava apertamente. Onde tanto piú i protestanti presero
animo di poter ottener la libertà di religione che ricchiedevano. Si
diedero a congregarsi quasi publicamente e senza alcun risguardo, con molto
dispiacere et indegnazione della plebe, e pericoli di novità sediziose.
Per questo la madre del re et i principali del suo conseglio vennero in
risoluzione di tener i stati in Orliens, e gli diedero principio il 13
decembre.
In quelli,
tra le altre cose proposte per il beneficio del regno, fu dal cancellier
considerato che la religione è potentissima arma, che supera tutti
gl'affetti e carità, e lega con piú stretto nodo che tutti gl'altri
legami della società umana; che i regni si contengono piú con la
religione che co' confini, anzi per la religione piú si dividono che per i
confini medesimi; e chi si move dalla religione sprezza moglie, figliuoli et
ogni parentato. Se in una medesima casa vi sia differenza della religione, non
s'accorda il padre co' figli, né un fratello con l'altro, né il marito con la
moglie. Per ovviare a questi disordini esservi bisogno del concilio, del quale
il papa dà speranza; ma tra tanto non doversi permetter che ciascuno
finga che religione gli piace, né introduca nuovi riti a beneplacito, con
turbazione della publica tranquillità. Se mancherà il rimedio del
concilio dal canto del papa, il re per altra via provederà; ma esser
necessario prima medicar se stesso, perché la buona vita è un'efficace
orazione da persuader; doversi levar i vocaboli di luterani, ugonotti e
papisti, che non sono meno faziosi che quelli de guelfi e ghibellini, et
adoperar le armi contra quelli che coprono l'avarizia, l'ambizione e lo studio
di cose nuove con nome di religione. Giovanni Angelo, avvocato nel parlamento
di Bordeos, parlò per il terzo stato: molte cose disse contra costumi
corrotti e la disciplina degl'ecclesiastici; notò in loro l'ignoranzia,
avarizia e lusso come cause di tutti i mali, e sopra questi discorse assai; et
in fine dimandò che al tutto si rimediasse con una presta celebrazione
di concilio. Per la nobiltà, Giacomo conte di Roccaforte tra le altre cose
disse tutto 'l male esser nato per le immense donazioni che i re et altri
grandi hanno fatto alle chiese, e massime con attribuirgli anco giurisdizzioni,
cosa molto inconveniente che chi debbe attender alle orazioni e predicazioni
esserciti ius nella vita e nelle fortune de' sudditi del re; che a
questi inconvenienti era necessario rimediare. Et in fine porse una supplica,
dimandando per nome della nobiltà che fosse lecito aver publiche chiese
per essercizio della religione. Per il clero parlò Giovanni Quintino
Borgognone. Disse che i stati si congregano per proveder alle necessità
del regno, non per emendar la Chiesa, che non può fallare, che è
senza macchia e ruga, et eternamente resterà incorrotta, se ben la
disciplina in qualche particella ha bisogno di riforma. Però non doversi
ascoltar quelli che, rinovando le sette sepolte, dimandano chiese separate da'
catolici, ma dovergli punir per eretici et esser cosa giusta che il re non
gl'ascolti, ma costringa tutti i suoi sudditi a credere viver secondo la forma
prescritta dalla Chiesa; che non sia concesso ritorno a quelli che sono usciti
del regno per causa di religione; che si procedi con pena capitale contra
gl'infetti d'eresia; che la disciplina ecclesiastica sarà facilmente
riformata, se siano levate le decime al clero e restituita l'elezzione a'
capitoli, essendo stato osservato che nel medesimo anno 1517, quando fu per il
concordato data nominazione delle prelature al re, incomminciarono anco le
eresie di Lutero, che fu poi seguito da Zuinglio et altri. In fine dimandò
che fossero confermate tutte le immunità e privilegii all'ordine
ecclesiastico e levatogli tutte le gravezze.
Il re
ordinò che i prelati si mettessero in ordine per andar al concilio che
era intimato a Trento; commandò che tutti i preggioni per causa di
religione fossero liberati, annullati i processi contra loro formati, e
perdonate le transgressioni sino allora commesse, e restituiti i beni. Statuí
pena capitale a quelli che si offendessero in fatti o in parole per causa di
religione. Ammoní tutti a dover seguitar li riti usitati nella Chiesa, senza
introdur alcuna novità. si differí il rimanente de' stati sino al maggio
prossimo, quando anco s'avesse a trattar della supplica presentata dal
Roccaforte.
Ma udita la
morte del re Francesco, insieme con l'aviso del cardinale di Tornon che la
regina s'era congionta con Navarra, fu travagliato il pontefice nell'animo,
temendo che non rilasciassero maggiormente la briglia a' protestanti. Perilché
mandò Lorenzo Lenzio, vescovo di Fermo, e fu autore che dal re di Spagna
fosse mandato Giovanni Manriques per consolar la regina della morte del figlio,
e far officii, pregandola d'aver per raccommandata la religione nella quale era
nata et educata. Si raccordasse de' grandi e supremi beneficii ricevuti dalla
Sede apostolica per mezo di Clemente, e non permettesse tanta licenza che
nascesse scisma, né cercasse rimedii a' mali presenti et imminenti altrove che
dalla Chiesa romana; che perciò era intimato il concilio; ma fra tanto
ella provedesse che il regno non s'allontanasse dalla pietà e non fosse
fatto pregiudicio alcuno al concilio legitimo intimato.
In questo
stato di cose finí l'anno 1560, lasciate le disposizioni, d'onde ne dovessero
seguir molto maggiori. L'anno seguente il Manriques gionto in Francia et
esposta la sua credenza, et avuta dalla regina in materia della religione e del
concilio pia e favorevole risposta, e del medesimo soggetto, secondo che
gl'accidenti porgevano occasione, di nuovo parlando, essortava continuamente la
regina di proceder con supplicii contra gl'ugonotti, aggiongendo anco alle
essortazioni, minaccie. A questo s'opponeva Navarra, contrario a tutti li
dissegni spagnuoli per le pretensioni di racquistar il suo regno di Navarra.
Convenne il Manriques con la casa di Ghisa et altri, che avevano i dissegni
medesimi di renderlo favorevole a' catolici, al pontefice et al concilio,
proponendogli che pigliasse il patrocinio della religion catolica in Francia,
ripudiasse la moglie Gioanna d'Alibret, regina ereditaria di Navarra, come
eretica, ritenute con l'autorità ponteficia le raggioni sopra quel
regno, da' quali ella sarebbe stata dal pontefice dicchiarata decaduta per
l'eresia, e pigliasse per moglie Maria, regina di Scozia, col qual mezo
averebbe avuto anco il regno d'Inghilterra, spogliata che fosse con
l'autorità ponteficia Elisabetta; alle qual cose quei di Ghisa gli
promettevano l'autorità del pontefice e le forze del re di Spagna,
aggionto che in luogo della Navarra quel re gli averebbe dato in ricompensa il
regno di Sardegna. Le qual cose andarono rappresentando con somma arte a quel
prencipe in diverse forme e con quel mezo lo tennero in essercizio sino alla
morte.
[I prencipi protestanti cercano di concordare
insieme, ma invano. Risolvono intorno al concilio]
Ma in
Germania i prencipi della confessione augustana ridotti in Neumburg
principalmente per la causa del concilio, sentendo vergogna che per la
varietà delle dottrine fosse riputata la loro religione una confusione,
proposero inanzi ogni altra cosa di convenire in una, e di deliberare se
dovevano ricusar o consentir al concilio. Sopra il primo ponto dicevano molti
che non vi era differenza essenziale e che le sette de' papisti erano molto piú
differenti et in punti assai piú sostanziali, spettanti a' fondamenti della
religione; e però che si dovesse aver per fondamento della dottrina
commune la confessione augustana, e se qualche differenza fosse fuori di
quella, poco sarebbe importato; ma essendone di quella confessione piú
essemplari, avendo i posteriori aggionta qualche cosa e diversa in diversi, et
approvando chi uno, chi l'altro, parve ad alcuni che si dovesse pigliar quella
propria che fu presentata a Carlo del 1530: a che non consentivano i palatini,
se non se gli faceva un proemio, nel quale si dicesse che anco l'altra
edizzione si concorda con quella. Ma il duca di Sassonia diceva non potersi
otturar gl'occhi e l'orecchie al mondo, che non vedesse et udisse le loro
differenze, e che volendo mostrare unione dove vi era dissidio, sarebbe un
farsi convincer di vanità e mendacio; e dopo molte contenzioni, si
restò senza convenir in quel capo. Quanto al concilio, altri proponevano
di ricusarlo assolutamente, altri erano d'opinione che si dovessero mandar
ambasciatori per offerirsi d'andar ad un concilio libero e cristiano, e
proponer le eccezzioni della sospizzione de' giudici, dell'incommodità
del luogo et altre, spesse volte proposte, acciò questo servisse per
mostrare che non fugivano l'autorità d'un concilio legitimo e che da
loro non era impedita l'unione della Chiesa, ma dall'ambizione della corte
romana, cosa che gli renderebbe piú favorevole l'animo de' catolici germani. Et
in questa forma fu concluso di supplicare l'imperatore.
I 2 noncii,
gionti in Austria insieme, trovarono l'imperatore a Vienna, dal qual furono
consegliati andar ambidue immediate a Neumburg in Sassonia, dove i protestanti
erano congregati alla dieta, e trattar con loro modestamente quanto fosse
possibile, guardandosi dall'esasperargli o offendergli; perché andando da
ciascuno nello Stato proprio sarebbono da uno rimessi all'altro, senza aver mai
certa risposta, e che, quando avessero fatto questo officio ambidue insieme,
averebbono potuto dividersi et andar ciascuno particolarmente a chi erano
mandati. Gli raccordò le condizioni con che già i protestanti
erano condescesi a consentire al concilio, acciò, se di nuovo ne
facessero menzione, essi fossero premeditati per replicar a nome del pontefice
quello che giudicassero bene. Vi aggionse Cesare in compagnia de' noncii tre
suoi ambasciatori al medesimo convento, et il re di Boemia gli
raccommandò al duca di Sassonia, acciò potessero andar sicuri.
Gl'ambasciatori imperiali gionti alla dieta, avuta l'udienza, essortarono i
prencipi ad intervenire nel concilio per metter fine alle calamità di
Germania. Da' prencipi, dopo la deliberazione, fu risposto ringraziando Cesare:
e quanto al concilio, dicendo che non lo ricusarebbono, dove vi sia giudice la
parola di Dio et a' vescovi sia relasciato il giuramento fatto al papa et alla
Sede romana, e con essi avessero voto anco i teologi protestanti: ma vedendo
che il pontefice non admette nel suo concilio se non i vescovi giurati, contra
che sempre hanno protestato, aver per cosa difficile che possino accordarsi;
aver voluto rapresentar riverentemente questo tanto a Cesare, differendo
l'intiera risposta quando ciò sarà notificato anco a' prencipi
assenti. Dopoi furono introdotti i noncii del papa; i quali, avendo lodato la
pietà e religione del pontefice, il qual avendo preso conseglio di
rinovar il concilio per estirpar le sette, poiché vi sono quasi tante religioni
et evangelii quanti dottori, aveva mandato per invitargli ad aiutar cosí
lodevole impresa, promettendo che tutto sarà trattato con carità
cristiana, e che i pareri saranno liberi, presentarono anco brevi del pontefice
scritti a ciascun d'essi. Il giorno seguente gli furono rimandati tutti i brevi
ponteficii cosí serrati come erano e chiamati per ricever la risposta, la qual
fu di questo tenore: che non riconoscevano alcuna giurisdizzione nel pontefice
romano; che non era bisogno d'aprir a lui qual fosse la loro mente o
volontà nel fatto del concilio, non avendo egli potestà alcuna né
di convocarlo, né tenerlo; che hanno ben dicchiarato la loro mente e conseglio
all'imperatore loro signore; che ad essi noncii, nobili d'una amicissima
republica et ornati di degne qualità, offerivano ogni officio, e maggior
cose farebbono, quando non venissero dal papa. Finirono con questo il convento,
intimatone uno all'aprile per dar compimento al trattato di adunarsi tra loro.
Il noncio
Delfino nel ritorno espose il suo carico in diverse città dal senato di
Norimberg ebbe risposta che non era per partirsi dalla confessione augustana, e
che non accetterà il concilio, come quello che non aveva le condizioni
ricercate da' protestanti. Simili risposte gli fecero li senati d'Argentina e
di Francfort. Il senato d'Augusta e quello d'Olma risposero che non potevano
separarsi dagli altri che tengono la loro confessione. Il Comendone, partito
dalla dieta, andò a Lubeca e da quella città mandò a
dimandar salvocondotto a Federico, re di Dania, per fargli l'ambasciata per
nome del pontefice et invitarlo a favorir il concilio. Il qual rispose che né
il padre suo, Cristiano, né egli aveva avuto a trattar cosa alcuna col pontefice
e però non si curava di ricever da lui ambasciata. Ambidue questi noncii
ebbero risposta favorevole da' prelati, prencipi e città catoliche, con
offerta di divozione al papa; e che quanto al concilio, si trattasse con
l'imperatore, essendovi bisogno di consultar insieme per timor de luterani.
Girolamo Martinengo, mandato alla regina d'Inghilterra per la medesima causa,
ricevette commandamento da lei, essendo in Fiandra, di non passar il mare. E
quantonque il re di Spagna et il duca d'Alva facessero efficaci officii che
fosse admesso et udito, commendando la causa di quella legazione, cioè
l'unione di tutta la Chiesa cristiana in un concilio generale, perseverò
la regina nella prima deliberazione, rispondendo non poter trattar nissuna cosa
col vescovo di Roma, la cui autorità, col consenso del parlamento, era
esclusa d'Inghilterra. Il Canobio, dopo fatta l'ambasciata al re di Polonia,
dove fu ben raccolto, non poté penetrar in Moscovia per la guerra che quel
prencipe faceva col re; ma andato in Prussia, da quel duca ebbe risposta che
era della confessione augustana e non era per acconsentire a concilio
ponteficio. I svizzeri, ridotti in dieta a Bada, ascoltarono il noncio del
pontefice, e ricevuto il breve uno de' burgomastri di Zurich lo basciò; di
che avuto il papa aviso, non si poté contenere di non darne conto con molta
allegrezza a tutti gl'ambasciatori residenti appresso di sé. Ma consultato il
negozio, quanto al concilio, risposero i catolici che mandariano, e gli
evangelici che non l'accettariano.
Publicatosi
per Roma il negoziato de' noncii in Naumburg, fu sussurrato contra il pontefice
perché fossero mandati da lui noncii alla dieta de' protestanti: di che egli si
scusò che non era di suo ordine, ma ben che gl'aveva ordinato che
facessero quanto l'imperatore voleva, et egli aveva cosí voluto; di che non lo
biasmava, non curando pontigli, ma avendo solo animo di far bene. L'imperatore,
fatta veder da suoi teologi e consegliata la bolla del concilio, scrisse al
pontefice che, come Ferdinando, egli voleva totalmente aderire alla
volontà di Sua Santità, contentandosi di qualonque forma di bolla
e facendo ogni sorte d'officii acciò tutta la Germania se gli
accommodasse; ma come imperatore non poteva parlare sin che non avesse risposta
di quanto fosse trattato da' noncii apostolici e da' suoi ambasciatori che
erano andati alla dieta che i protestanti riducevano in Naumburg. Era ben quasi
sicuro che, se il papa non avesse dicchiarato la convocazione del concilio non
esser continuazione, ma nuova indizzione, overo che le materie già
decise potessero esser rivedute e ritrattate, la bolla [non] sarebbe stata
accettata.
Il re di
Francia l'ultimo genaro scrisse al suo ambasciatore a Roma che nella bolla vi
erano alcune cose da riformare prima che egli la potesse ricevere; imperoché
quantonque portasse il titolo «Indictionis», nel corpo nondimeno erano poste
certe parole che mostravano esser fatta per levar le sospensioni del concilio
già incomminciato, le quali essendo sospette alla Germania, senza dubio
sarebbe da loro cercata la dicchiarazione, che era un mandar il concilio in
longo, e quando non si volesse sodisfar l'imperatore e loro, sarebbe un far
nascer tante divisioni nella cristianità e tante difficoltà, che
non sarebbe se non un concilio in apparenza, senza frutto, né utilità.
Che quanto a lui, si contenta del luogo di Trento, né mette difficoltà
se sia nuova indizzione o continuazione, atteso che Sua Santità è
di volontà, come gli ha fatto dire per il Nicheto, di consentire che le
determinazioni fatte possino esser di nuovo disputate et essaminate; il che,
come esseguendosi con fatti, ogni uno resterà sodisfatto, cosí il farne
dicchiarazione precedente esser necessario per levar le ombre et assicurar ogni
uno, procurando in ogni maniera che l'imperatore sia sodisfatto, né sperando
altrimente buon successo del concilio: il quale quando gli mancherà,
ricorrerà al rimedio proposto da suo fratello d'un concilio nazionale,
che solo può proveder alle necessità del suo regno.
Ordinò
anco all'ambasciatore che si dolesse con Sua Santità che avendo il re
suo fratello procurato con tanta instanza l'apertura del concilio, nondimeno
nella bolla non si facesse menzione alcuna particolare onorevole di lui; il che
ogni uno vedeva esser stato per non nominar il re di Francia immediate dopo
l'imperatore. Non restò per questi rispetti il re, a fine di promover il
negozio della religione, di scriver nel medesimo tempo una lettera a' prelati
del regno che si dovessero preparare per incaminarsi al concilio e trovarvisi
al tempo della convocazione, della qual lettera mandò anco copia a Roma.
[Il re di Francia vuole la bolla riformata]
Fu avisato il
pontefice dal suo noncio che da gl'officii del cardinale di Lorena veniva il
motivo del re contra la bolla, perché mostrava il concilio dover esser una
continuazione, et udita l'esposizione dell'ambasciatore, rispose maravigliarsi
che il re, il quale si tiene di non riconoscere superiore, s'assoggettisca alla
discrezione d'un altro prencipe, a cui non tocca impedirsi in tal affari, ma rapportarsi
al vicario di Cristo, al quale appartiene la moderazione di tutto quello che
concerne la religione; e che la bolla fatta da lui era approvata da tutti
gl'altri e non aveva alcun bisogno di riformazione, et egli era risoluto che
restasse cosí fatta come era. Che quanto al nominare nella bolla il re di
Francia, egli non ci aveva pensato, et i cardinali, a' quali egli aveva dato il
carico di farla, avevano creduto bastare che fosse nominato l'imperatore e
tutti i re in generale; altrimenti sarebbe stato bisogno, nominandone uno,
nominargli tutti; che egli non aveva avuto cura, salvo che del sostanziale
della bolla, lasciando il sopra piú a' cardinali. Questa risposta non
satisfacendo a' francesi, a' quali pareva che la loro preminenza non dovesse esser
passata con termini generali, cosí per la loro grandezza, come per i meriti
verso la Sede apostolica, in fine il papa gli contentò, dicendo che non
sempre si può aver l'occhio a tutte le cose, ma che per l'avvenire
sarebbe diligente in avvertire che non fosse fatto alcun errore, non facendo
però gran capital di quel regno, vedendo che, senza alcun rispetto della
autorità sua, metteva mano nelle cose proprie a lui, nel dar perdono
agl'eretici e metter regole nelle cose ecclesiastiche, eziandio a lui riservate:
imperoché ne' stati, che abbiamo detto esser adunati in Orliens il mese di
genaro, era statuito che i vescovi fossero eletti dal clero con intervento de'
iusdicenti regii, da 12 nobili e 12 del popolo, e che non fossero mandati piú
danari a Roma per conto delle annate; che tutti i vescovi e curati risedessero
personalmente sotto pena di perder i frutti de' beneficii; che in ogni
catedrale si riservasse una prebenda per un lettore di teologia et un'altra per
un precettore de' putti; che tutti gl'abbati, abbadesse, priori, prioresse
fossero soggetti a' vescovi, non ostante qualonque essenzione; che non si
potesse essiger cosa alcuna per ministerio de' sacramenti, sepulture, o altre
fonzioni spirituali; che i prelati non possino usar censure, se non per delitti
e scandali publici; che i religiosi non possino far professione, i maschi prima
di 25 anni, le femine prima de' 20, et inanzi quel tempo possino disponer de'
beni loro a favore di chi gli parerà, eccetto che del monasterio; che
gl'ecclesiastici non possino ricever testamenti o disposizioni di ultima
volontà, dove alcuna cosa gli sia lasciata o donata; et altre cose
ancora furono ordinate per maggior riforma delle chiese e persone
ecclesiastiche; le quali ordinazioni, se bene non furono publicate allora, il
noncio le mandò al pontefice; et a quei che regevano la Francia
bastò aver dato quella sodisfazzione apparente all'universale che
ricchiedeva riforma, non curando alcuno di vederla esseguita.
[La bolla non piace in Spagna]
Ma in Spagna
tutt'in contrario i teologi del re non lodavano la bolla, perché non diceva
apertamente che fosse una continuazione del concilio già incomminciato;
anzi come avviene a chi censura le cose altrui, quantonque fosse manifesta
l'affettata ambiguità, pareva loro che la nuova intimazione apparisse
piú chiara, et alcuni di essi tenevano dalle parole potersi cavar chiaramente
consequenza che le determinazioni fatte già in Trento potessero esser
reessaminate, il che dicevano esser cosa piena di pericolo e che al sicuro
renderebbe i protestanti arditi, anzi potrebbe anco causar qualche divisione
nuova tra catolici. Il re soprasedette dal ricever e publicar la bolla, sotto
colore che non gli piacesse l'ambiguità delle parole e d'aver per
necessario che fosse senza nissuna coperta espresso quella esser continuazione
del concilio e che le cose determinate non si dovevano rivocare in dubio; ma in
realtà per esser restato molto offeso che, avendo il re di Navarra
mandato il vescovo di Cominges ad offerirgli obedienza secondo il solito, il
papa l'avesse ricevuto nella sala regia e come ambasciatore di re di Navarra,
riputando cosa pregiudiciale alla possessione sua in quel regno, sopra quale
non ha altro titolo o fondamento di raggione che la scommunica di Giulio II, e
di piú perché ascoltasse monsignor di Cars, mandatogli dall'istesso,
acciò s'adoperasse che gli fosse restituita la Navarra o datagli giusta
ricompensa, e promettesse di farne officio efficace col re. Mandò il
papa in Spagna espresso il vescovo di Terracina per giustificare et escusare le
cose fatte in favore del re di Navarra e rendere quasi per occasione la
raggione della bolla. A quelli che, per la contrarietà d'opinione in
prencipi cosí grandi, temevano, rispondeva che per pietà paterna ha
invitato tutti, se ben ha li protestanti per perduti, et i catolici di Germania
non possono aderir al concilio senza separarsi dagl'altri e far nascer una
guerra; se anco qualch'altro prencipe catolico non vorrà aderire,
procederà di sua autorità, come fece Giulio III senza il re di Francia.
Nondimeno co' confidenti si scopriva il pontefice di prender tutte queste
fluttuazioni per indifferenti, poiché non sapendo l'essito, poteva cosí temer
che riuscissero in male, come sperar che in bene. Vedeva fra tanto di ricever
qualche beneficio da questo incerto concilio, il qual non solo serviva per
freno a' prencipi e prelati di non tentar cose nuove, ma a sé ancora serviva di
colore per negar con fondamento le ricchieste non di suo gusto, scusando che,
essendo aperto il concilio, con veniva che procedesse accuratamente e con
rispetto, e non fosse prodigo in grazie e concessioni; e nascendo qualche
difficoltà inestricabile o difficile, la rimetteva al concilio.
Restava
solamente in timore che la mala disposizione de' protestanti verso la Chiesa romana
potesse causar qualche incorsione in Italia, che tutta sarebbe derivata sopra
lui, e vedeva far bene apertura per una disputa di precedenza tra i duchi di
Fiorenza e Ferrara, la qual usciva fuori di termini civili. Cosmo, duca di
Fiorenza, pretendeva preeminenza, come tenendo il luogo della republica
fiorentina, che in tutti i tempi è stata preferita a duchi di Ferrara.
Alfonso, duca di Ferrara, la pretendeva per esser la degnità ducale in
casa de' progenitori suoi da molte successioni, dove Cosmo era allora primo
duca di Fiorenza; al quale non poteva suffragare la raggione della republica
che piú non era in piedi. Questo era favorito dalla Francia come cugino
d'Enrico II e cognato di quei di Ghisa, l'altro si fondava sopra una sentenzia
di Carlo V a suo favore. Alfonso faceva instanza in Germania che l'imperatore
in una dieta con gl'elettori fosse giudice; che pareva al papa cosa pericolosa,
quando la dieta di Germania facesse sentenzie sopra l'Italia, che tirava in
consequenza essecuzione e dubio d'armi. Per rimediar questo, scrisse un breve
ad ambidue i duchi: esser proprio della Sede apostolica e del vicario di Cristo
sentenziare in sí fatte cause, commandando ad ambidue di presentar a lui, come
solo legitimo giudice, le loro raggioni et aspettarne sentenzia. E per esser
preparato ad ogni evento, deliberò di fortificar il Castello di Roma, la
Città Leonina, detta volgarmente Borgo, et i luoghi opportuni dello
Stato suo, et impose gravezza per allora di 3 giulii per rubio di grano in tutto
lo Stato ecclesiastico. E per non dar gelosia a' prencipi, chiamò
gl'ambasciatori dell'imperatore, Spagna, Portogallo e Venezia, a' quali diede
parte della deliberazione e delle raggioni, commandando che avisassero i loro
prencipi; che il tutto sarebbe fatto con leggier gravame de' sudditi, essendo
la gravezza da lui ordinata minore dell'imposta da Paolo IV con far celebrar la
catedra di san Pietro: perché per la sua il povero non pagava piú che 3 giulii
in tutto l'anno, che per la festa di Paolo IV ne perdeva 5 col restar di
lavorar quel giorno.
[Il papa deputa legati al concilio]
Instando il
tempo prefisso al principio del concilio, il papa, per non mancar di quello che
dal canto suo si doveva fare, deputò legati per presedervi Ercole
Gonzaga, cardinale di Mantova molto conspicuo per la grandezza di casa sua, per
il nome del fratello Ferando e per la virtú propria, avendo adoperato il mezo
dell'imperatore a persuaderlo che accettasse il carico, confidando molto nel
valore e destrezza sua; e Giacomo Puteo da Nizza, eccellente giurisconsulto,
longamente versato prima nella rota e poi nella signatura; dicendo aver
intenzione di farne 3 altri, che se nel collegio non ne troverà a
proposito, crearà nuovi cardinali teologi e legisti da bene per questo
effetto. E fece una congregazione de cardinali e prelati per dar ordine a tutte
le cose necessarie per dar principio in Trento al tempo statuito. Et
opportunamente ebbe lettere dal re di Francia sotto i 3 marzo, et in
conformità gl'espose monsignor d'Angolem, suo ambasciatore, che si
contentava del concilio in qualonque modo, desideroso alla fine di vedere
succederne l'effetto e frutto desiderato da tutta la cristianità; e gli
mandò anco quel re espresso monsignor de Rambogliet a far l'istesso
officio, rapresentando i bisogni di Francia e l'instanza che di ciò gli
era stata fatta da' stati tenuti in Orliens, con significargli che, quando
questo rimedio fosse ritardato, sarebbe stato in necessità di ricevere
la medicina nel proprio regno con la congregazione de' suoi prelati, non
vedendosi che vi sia altro rimedio per regolare le cose della religione, se non
un concilio generale, libero, overo, in mancamento di quello, un nazionale.
Alla qual ambasciata rispose il papa che nissuno desiderava il concilio piú di
lui, dal quale non veniva la longhezza e dilazione, ma dalle diverse opinioni
de' prencipi; per satisfare tutti quali, aveva dato alla bolla della
convocazione quella forma che gli pareva piú propria per contentargli tutti. La
causa per la quale in Francia mutarono opinione fu perché, vedendo quel regno
in stato pessimo, riputarono che ogni mutazione fatta altrove non potesse se
non megliorare la condizione loro.
Di Spagna
ancora scrisse il Terracina che dal re furono udite con approbazione le sue
esposizioni, e quanto al negozio del concilio, dopo qualche consultazione col
conseglio de' prelati suoi, si era risoluto finalmente d'accettar la bolla,
senza moverci sopra alcuna difficoltà, e d'inviarvi i vescovi a' primi
tempi commodi per viaggiare, et insieme deputare onorevole ambasciaria per
assistervi. Avisò ancora che i prelati di Portogallo erano partiti dalle
case loro e quel re aveva destinato ambasciatore, ma aver penetrato alcuni di
quei prelati aver intenzione che nella sinodo fosse definita la superiorità
del concilio al papa, sopra il qual punto studiavano e facevano studiare molti
teologi. L'aviso fu stimato dal pontefice, il qual ponderava quello che potesse
aspettare quando fossero ridotti i vescovi in concilio e trattassero tutti
insieme, poiché prima che partire concepivano cosí alti pensieri, et aveva
qualche dubio che il re et il suo conseglio potessero averci dentro qualche
parte; nondimeno, come prudente, giudicò che, tenendosi il concilio, non
quella sola, ma molte altre novità potevano esser proposte e tentate,
non solo a sua diminuzione, ma ancora contra altri. Però esservi anco ad
ogni pesa il contrapeso suo, e delle cose tentate e temute non riuscire mai la
parte millesima.
Piú era
attento a' tentativi de' francesi per esser imminenti e di persone che facilmente
si risolvono, né usano la flemma spagnuola; e però ad ogni aviso
pigliava occasione di dar parte all'ambasciatore francese e considerargli in
varii propositi che non pensassero a' concilii nazionali, conventi o colloquii
in materia di religione, perché gl'averebbe avuti tutti per schismatici; che
pregava il re di non valersi di quei mezi, che al certo averebbono ridotto la
Francia non solo in peggiore, ma in pessimo stato; che essendo levate le
difficoltà di Spagna, s'averebbe certamente celebrato il concilio,
perché quanto a quelle che continuano in Germania, non sono d'aver in
considerazione; che i prencipi e vescovi catolici consentiranno e forse anco il
duca di Sassonia, come ha dimostrato nell'aversi separato dagl'altri congregati
in Neumburg; sperava che l'imperatore fosse per prestarci la sua personal
assistenza, quando vi fosse bisogno, sí come esso medesimo pontefice prometteva
l'istesso della persona sua propria, quando egli stesso l'avesse giudicato
necessario, non volendo in questo esser soggetto ad altri che al giudicio suo
proprio.
Avicinandosi
la Pasca, tempo destinato per il principio del concilio, e ritrovandosi il
cardinale Puteo gravamente infermo, in luogo di quello destinò al
concilio fra Girolamo cardinale Seripanda, teologo di molta fama, e lo fece
partir immediate con ordine di passar per Mantova e levar l'altro legato, et
andar ambidue al tempo destinato a Trento; il che però non fu esseguito
con tutta la sollecitudine commandata, né essi arrivarono a Trento che la terza
festa di Resurrezzione, dove ritrovarono 9 vescovi gionti prima di loro.
Usò il papa diligenza che i vescovi d'Italia si mettessero in ponto;
scrisse perciò efficaci lettere al vicerè di Napoli et al suo
noncio in quel regno, et a Milano fece far officii da' suoi co' vescovi di
quello Stato. Ricercò la republica di Venezia che facesse metter in
viaggio i suoi d'Italia e che commandasse a quei di Dalmazia, Candia e Cipro
d'inviarsi quanto prima, e creasse ambasciatori che per nome della republica
intervenissero. Non si movevano però i prelati italiani con molta
facilità, sapendo certo che non si poteva dar principio prima che
venisse l'assenso dell'imperatore, che tuttavia s'allongava; aspettandosi
spagnuoli e francesi, avevano per superfluo andar a Trento prima che quelli
fossero gionti in Italia, e gran parte d'essi, i cortegiani massime, non
potevano credere che le azzioni del papa non fossero simulazioni. Ma la
verità era che il papa, certo di non poter fuggir il concilio, desiderava
vederlo presto; diceva che era certo il male quale pativa per la prolongazione,
et incerto di quello che potesse incontrare nel celebrarlo; che gl'inimici suoi
e di quella Sede piú gli nocevano nell'aspettativa, che non avessero potuto
nuocergli nella celebrazione. E come era di natura risoluta, era solito usar il
proverbio latino: esser meglio una volta provar il male, che sempre temerlo.
[Trattato del duca di Savoia co' suoi sudditi
valdesi]
Ma mentre
queste dilazioni s'interpongono, si preparava una convenzione che il duca di
Savoia fece co' valdesi delle valli del Moncenis. Imperoché, avendo egli
già piú d'un anno tentato di ridurgli per mezo de castighi e dopo che si
misero in difesa, come s'è detto, mantenuto genti in armi contra di
loro, per il che fare il pontefice piú volte lo sovvenne de' denari, e se ben
per l'asprezza del paese piú tosto si procedeva con scaramuccie che con guerra
formata, successe finalmente quasi una formal giornata, dove le genti del duca
ebbero una gran rotta, nella quale essendo morti 14 soli de' valdesi, gli
altri, che erano da 7000 soldati, furono disfatti, e quantonque il duca
rinovasse l'essercito, restarono sempre i suoi inferiori. Perilché, vedendo che
non faceva altro se non aguerrire li suoi ribelli, consummar il suo paese e
spender il denaro, si risolse di ricevergli in grazia, e fu fatta la
convenzione a' 5 giugno, nella quale perdonò le cose commesse,
concedendo la libertà di conscienza, assegnati certi luoghi solamente,
dove potessero fare le congregazioni, negl'altri non potessero predicare, ma
solo consolare gli infermi e far altri ufficii di religione, gl'assentati
potessero ritornare et i banditi ricuperassero i loro beni; che il duca potesse
mandar via i pastori che gli piacesse, potendo essi provedersi d'altri; che in
ogni luogo si potesse essercitar la religione romana, non potendo però
alcuno esser sforzato a quella. Il pontefice sentí grandissimo disgusto che un
prencipe italiano, et aiutato da lui, e non cosí potente che di lui non avesse
sempre bisogno, permettesse viver eretici liberamente nello Stato suo; sopra
tutto gli premeva l'essempio che gli potrebbe esser sempre rinfaciato da'
prencipi maggiori che volessero permetter altra religione. Ne fece querela in
concistoro con acerbità, facendo comparazione de' ministri del re
Catolico in Regno con quel duca, i quali in quei giorni medesimi, avendo
scoperto una massa de luterani, che in numero di 3000 erano usciti di Cossenza
e ritiratisi al monte per viver secondo la loro dottrina, gl'avevano distrutti,
con averne parte impiccati, parte abbruggiati et altri posti in galera, et
essortando tutti i cardinali a consultarne il rimedio. Ma gran differenza era
opprimere un poco numero disarmato e lontano da ogni aiuto, e combatter con
gran numero d'armati in sito per loro avantaggioso e con aiuti potenti alle
spalle. Mandò il duca a giustificare la causa sua et il pontefice, udite
le ragioni e non potendo ben risponder, si quietò.
[Assemblea di prelati in Francia]
In Francia
ancora, se ben la regina et i prelati desideravano satisfar il pontefice
rimettendo al concilio le cause della religione, si metteva però in
ordine una congregazione de prelati; e quantonque l'ambasciatore assicurasse il
pontefice che non si sarebbe parlato di dottrina, né d'altra cosa pregiudiciale
all'autorità ponteficia, ma solo per trovar come pagare i debiti del re
e per proveder a qualche abuso e consultare le cose da trattar in concilio
generale, non sodisfaceva alla sicurezza, anzi teneva che quel proveder alli
abusi si riferiva ad impedir gl'emolumenti della corte; et il consultare per
concilio, interpretava quello di che aveva avuto sentore, cioè che
s'intendessero con spagnuoli in materia della suprema potestà del
concilio, eziandio sopra il pontefice. S'aggiongeva che per le dissensioni, che
erano tra i grandi nella corte diffuse, anco nelle provincie, mentre ciascuno
procura maggior numero de parziali, essendo una libertà grande di
parlare, i professori della nuova religione si scoprivano apertamente et erano
protetti da' piú principali appresso il re, con molta indignazione de'
catolici; onde per tutto 'l regno erano contenzioni e discordie, usandosi per
villania dall'una contra l'altra parte i nomi de papisti et ugonotti, eccitando
li predicatori la plebe a tumulti e caminando tutti con fini diversi. Vedeva
chiaro che se la parte catolica non era tutta indrizzata da alcuno all'istesso
fine, dovesse nascere qualche mostruosità, per evitar la quale e a fine
d'ovviare o attraversare quei dissegni, giudicò esservi bisogno di ministro
apostolico d'autorità, e non francese, interessato piú nel regno che nel
servizio della Sede apostolica, e deliberò mandarvi un legato; e voltato
l'occhio sopra tutti i cardinali, si fermò in Ferrara, concorrendo in
quel cardinale tutte le qualità requisite: una singolar prudenza e
destrezza nel negoziare, nobiltà congionta con la casa regia di Francia,
essendo cognato della gran zia del re, figlia di Luigi XII, et un stretto
parentato co' Ghisa, che averebbe costretto per raggioni di sangue di
favorirlo, avendo il duca di Ghisa una nipote di quel cardinale in matrimonio.
A questo diede quattro particolari commissioni: di favorir la parte catolica et
oppugnare i protestanti, di divertir ogni sinodo nazionale e congregazione de
prelati, di sollecitare l'andata de' prelati al concilio, e di far retratrare
le ordinazioni fatte in materie ecclesiastiche.
Ma mentre il
legato s'invia, successe accidente che fece temer i piú intimi del re non meno
da' catolici che dagl'altri, avendo scoperto pessimi pensieri, con occasione che
a' 14 luglio fu preso appresso Orliens Arturo Desiderio, il quale con una
supplica s'inviava in Spagna, scritta per nome del clero di Francia, nella
quale dimandava aiuto di quel re contra i protestanti, che non potevano esser
repressi con gagliardi rimedii da un putto et una donna e con altre
instruzzioni in cifra piú secrete da trattare con quella Maestà. Questo
impreggionato et interrogato de' complici e manifestato alquanti, quali era
cosa pericolosa scoprire, si deliberò che, quanto a' complici, non fosse
da passar piú inanzi, fu condannato a far in publico emenda onorevole e
stracciar la supplica, et a preggion perpetua nel monasterio de' certosini. E
riscontrato molti degl'indicii dal reo manifestati, il conseglio regio
giudicò necessario dar qualche sodisfazzione all'altra parte. Onde fece
il re un editto, proibendo li nomi d'ugonotti e papisti, ordinando che, sotto
pretesto di scoprir le congregazioni proibite per causa di religione, nissun
potesse entrar né con pochi, né con molti in casa d'altri; che i preggioni per
causa di religione fossero liberati, e fuorusciti sino al tempo di Francesco I
potessero ritornare e racquistar i suoi beni, vivendo catolicamente, e non
volendo cosí vivere, potessero vender i loro beni et andar altrove. A questo il
parlamento di Parigi s'oppose, con dire che pareva concessa una libertà
di religione, cosa in Francia insolita; che il tornar de' fuorusciti sarebbe
caggione di gran turbe e che la facoltà di vender i beni et andar
altrove era contra gl'instituti del regno, che non concede portar fuori danari
in quantità.
[I riformati in Francia s'accrescono; onde si
fa l'editto di luglio moderato, ed è assegnata assemblea a Poisí]
Ma con tutte
queste opposizioni l'editto fu messo in essecuzione, votate le preggioni e tornati
gl'essuli, onde cresciuto in numero e facendosi piú ridozzioni e piú numerose
del solito, per rimediarvi con maturo conseglio d'uomini periti di Stato e di
giustizia, il re con la regina et i prencipi andarono in parlamento. Propose il
cancellario che non s'aveva da parlar della religione, ma solo di rimedii per
ovviare a' quotidiani tumulti che nascevano per quella, accioché, coll'uso di
tumultuare fatti licenziosi, non deponessero anco l'ossequio al re. Furono 3
pareri: il primo, che si sospendessero tutte le pene contra i protestanti sino
alla decisione del concilio; il secondo, che si procedesse a pena capitale
contra di loro; il terzo, che si rimettesse il punirgli al foro ecclesiastico,
proibendo le congregazioni publiche o occulte e la libertà di predicare
o amministrare i sacramenti, salvo che alla romana. Per risoluzione fu preso
temperamento e formato l'editto, che si chiamò di luglio: che tutti
s'astenessero dalle ingiurie e vivessero in pace; che i predicatori non
eccitassero tumulti in pena capitale; che non si predicasse né amministrasse
sacramenti, salvo che al rito romano; che la cognizione dell'eresia
appartenesse all'ecclesiastico, ma se il reo fosse dato al braccio secolare,
non gli fosse imposta maggior pena che di bando, e questo sino ad altra
determinazione del concilio universale o nazionale; che fosse fatta grazia a
tutti quelli che per causa di religione avessero mosso tumulti, vivendo per
l'avvenire in pace e catolicamente. Poi, trattandosi d'accommodar le
controversie, fu ordinato che i vescovi dovessero convenire per i 10 agosto in
Poisí et a' ministri de' protestanti fosse dato salvocondotto per ritrovarvisi,
contradicendo a ciò molti de' catolici, a' quali pareva cosa strana,
indegna e pericolosa che si mettesse in compromesso la dottrina sino allora
ricevuta et in pericolo la religione de' maggiori. Ma cessero finalmente,
perché il cardinale di Lorena prometteva ampiamente di dover confutar gli
eretici e ricevere sopra di sé ogni carico; aiutandolo anco a questo la regina,
la qual, conosciuto il desiderio del cardinale d'ostentar il suo ingegno, aveva
caro sodisfarlo.
Al papa
andò nuova di questi doi editti insieme, dove trovò che lodare e
che biasmare: commendava il parlamento che avesse sostenuto la causa della
religione; biasmava che, contra le decretali ponteficie, non si dovesse
proceder a maggior pena che di bando. Per conclusione diceva che, quando i mali
superano le forze de' rimedii, altro non si può fare se non
alleggierirgli con la toleranza. Ma il pericolo imminente della ridozzione de'
prelati, e massime insieme co' protestanti, esser intolerabile; che egli
averebbe fatto il possibile per ovviare, e non giovando la opera sua, sarebbe
senza colpa. Adonque trattò con l'ambasciatore efficacemente et in
conformità fece per mezo del suo noncio instanza al re, acciò,
poiché non si poteva pretermetter la ridozzione, almeno fosse aspettato
l'arrivo del cardinale di Ferrara, che allora, in presenza d'un legato
apostolico con pienissima autorità, la ridozzione sarebbe stata legitima.
Scrisse ancora a' prelati che la loro potestà non s'estendeva a far
decreti in materia di religione, né meno nella disciplina spettante a tutta la
Chiesa, e che se essi avessero trasgressi i loro termini, egli, oltre
l'annullazione, procederebbe contra loro con ogni severità. L'officio
del noncio e dell'ambasciator non fecero frutto, opponendosi non solo i
contrarii al pontefice, ma il medesimo di Lorena con gl'aderenti suoi, e per
nome regio fu al noncio detto che il pontefice poteva star sicuro della
ridozzione, perché nissuna cosa sarebbe risoluta se non col parere de'
cardinali.
Andavano con
tutto ciò precipitando le cose ecclesiastiche et in Roma fu stimata una
gran caduta che ne' stati continuati in Ponteisa, essendo nata controversia di
precedenza tra i cardinali et i prencipi del sangue regio, il conseglio
terminò contra i cardinali, e Sciatiglion et Arminiago cedettero, se ben
Tornon, Lorena e Ghisa si partirono con sdegno e mormorazione contra i
colleghi. E fu udito con applauso il deputato del terzo stato, quale
parlò contra l'ordine ecclesiastico, opponendo l'ignoranza et il lusso e
dimandando che gli fosse levata ogni giurisdizzione e levate le entrate, e
fatto un concilio nazionale, al quale il re o i prencipi del sangue presedino,
e tra tanto sia concesso il poter radunarsi e predicare a quelli che non
ricevano le ceremonie romane, facendovi intervenir alcun publico ministro del
re, accioché chiaramente si vegga se alcuna cosa sia trattata contra il re. Fu
trattato d'applicar al publico parte delle entrate ecclesiastiche e molte altre
case contra quell'ordine, aggiongendosi sempre maggior numero de fautori a'
protestanti. Et il clero, per liberarsi, fu costretto promettere di pagar al re
per 6 anni 4 decime all'anno, e cosí quietò li rumori eccitati contra
loro; e per calma del precipizio sotto i 4 agosto scrisse la regina una longa
lettera al papa, narrando i pericoli imminenti per i dissidii della religione,
essortandolo al rimedio diceva esser tanta la moltitudine de' separati dalla Chiesa
romana, che la legge e la forza non gli poteva piú ridurre; che molti di essi
principali del regno, col suo essempio tiravano degli altri; che non essendovi
nissuno che neghi gl'articoli della fede et i 6 concilii, molti consegliavano
che si potessero ricever in communione. Ma se questo non piaceva e paresse
meglio aspettar l'aiuto del concilio generale, tra tanto per la
necessità urgente e per il pericolo nella tardanza esser necessario usar
qualche particolar rimedio, con introdur colloquii dall'una e l'altra parte;
ammonir di guardarsi dalle ingiurie e contenzioni e dalle offese di parole
d'una parte contra l'altra; levar li scrupoli a quelli che non sono ancora
alienati, levando dal luogo dell'adorazione le imagini proibite da Dio e
dannate da san Gregorio; dal battesmo lo sputo e gl'essorcismi e le altre cose
non instituite per la parola divina; restituir l'uso della communione del
calice e le preghiere nella lingua populare; che ogni prima dominica del mese,
o piú spesso, i curati convochino quelli che vogliono communicare e, cantati i
salmi in volgar lingua, nella medesima siano fatte publiche preghiere per il
prencipe, per i magistrati, per la salubrità dell'aria e frutti della
terra; poi, esplicati i luoghi degl'evangelisti e san Paolo dell'eucaristia, si
venga alla communione; che sia levata la festa del corpo del Signore, che non
è instituita se non per pompa; che se nelle preghiere si vuol usar la
lingua latina, se vi aggionga la volgare per utilità di tutti; che non
si levi niente della autorità ponteficia, né della dottrina, non essendo
giusto, se i ministri hanno fallato, levar il ministerio. Queste cose scrisse,
come fu opinione, a persuasione di Giovanni Monlú, vescovo di Valenza, con
soverchia libertà francese. Commossero molto il pontefice, atteso il
tempo pieno di sospizzioni, mentre che si parlava di concilio nazionale et era
intimato il colloquio a Poisí; e ben consultato, risolvé di proceder con
dissimulazione e non dar altra risposta se non che, essendo in concilio
imminente, in quello s'averebbe potuto proponer tutto quello che fosse
giudicato necessario, con certa speranza che là non si farebbe
risoluzione se non secondo l'essigenza del servizio di Dio e della
tranquillità della Chiesa.
[Il papa rimette le sue speranze nel concilio]
Per queste
occorrenze si confermò il papa nell'opinione concetta che fosse utile
per sé e per la corte il concilio, e necessario il celebrarlo per difesa sua
contra le preparazioni che vedeva farsi e suspicava maggiori: e di questo ne
diede segno l'allegrezza che mostrò il 24 agosto, avendo ricevuto
lettere dall'imperatore, dove diceva d'acconsentire in tutto e per tutto al
concilio e che la dilazione usata da lui a decchiararsi sino a quel tempo non
era stata se non per tirar i prencipi di Germania: ora che vedeva non poter far
frutto d'avantaggio, lo pregava a continuar gl'ufficii et opere per accelerare
la celebrazione. La qual lettera, congregati tutti gl'ambasciatori de' prencipi
e la maggior parte de' cardinali, sí che fu come un concistoro, mostrò a
tutti, dicendo che era degna d'esser scritta in lettere d'oro, aggiongendo che
quel concilio sarebbe fruttuosissimo e che non era da differire; che sarebbe
stato cosí universal concilio, che la città di Trento non ne sarebbe
stata capace e che averebbe bisognato pensar di trasferirlo altrove in luogo
piú commodo per ampiezza di città e fertilità di regione. Fu
confermato dall'assistenza il raggionamento tenuto dal papa, se ben ad alcuno
parve che fosse pericoloso il nominar traslazione nel principio, quando ogni
minima sospizzione poteva apportar molto impedimento, overo almeno dilazione;
pensando anco altri che ciò non sarebbe stato discaro al papa e che per
ciò gettato avesse il motto, per aprir porta dove potesse entrare la
difficoltà.
Essendo
già non solo risoluto, ma fatto noto a tutti che de' prelati tedeschi
nissun sarebbe intervenuto al concilio; dubitandosi anco, atteso il colloquio
instituito, che [i] francesi averebbono trattato tra loro soli, e che il
concilio sarebbe composto di soli italiani e spagnuoli, di questi non dovendo
esser molto il numero, gl'italiani ancora vennero in pensiero che pochi di loro
dovessero esser a sufficienza, onde molti s'adoperavano appresso il pontefice
con ufficii e favori per esser degl'eccettuati. Il papa, per il contrario,
parlava chiaro: che era certificato tutti gl'oltramontani venir con pensieri di
sottopor il pontificato al concilio; che questo era interesse commune d'Italia,
che alle altre regioni era preferita per la preminenza del pontificato, onde
tutti dovevano andar per la difesa; che egli non voleva essentarne alcuno, anzi
levar tutte le speranze, e dovessero certificarsene vedendo quanto egli era
diligente in mandarvi legati; imperoché, oltra Mantova e Seripando, vi aveva
anco fatto andar Stanislao Osio, cardinale varmiense. Il dí dopo publicata la
lettera dell'imperatore, se ben era dominica, chiamò congregazione
generale di tutti i cardinali; trattò di molti particolari concernenti
il principio e progresso del concilio; in speciale promise che averebbe sovvenuto
tutti i prelati poveri, ma voleva che vi andassero, e per ultimo termine non
gli concedeva piú che 8 giorni. Mostrò quanto il concilio fosse
necessario, poiché ogni giorno la religione era sbandita o posta in pericolo in
qualche luogo.
E diceva il
vero: imperoché già in Scozia, nel convento di tutta la nobiltà
del regno fu ordinato che non vi fosse alcun essercizio della religione
catolica romana. [E volendo la regina, che ritornò in Scozia all'agosto,
far celebrar in una privata capella del sua palazzo, fu a chi bastò
l'anima di romper le candelle et altri apparati; di che essendo ella mal
contenta e ricchiedendo in grazia questa satisfazione di poter aver una messa
per sé sola in luoco secreto, et inclinando una parte a darli contento, fu
proposto nel publico convento un editto di permetterglieli una messa per la sua
sola persona. Al quale Giacomo Amilton conte di Arranea ebbe ardire di
contradire, et Arcimbaldo Duglas propose et ottenne che tutti li catolici che
erano con la regina partissero del regno, e quietarono la regina applicando due
terzi delle rendite ecclesiastiche a lei et un terzo alli ministri della
religione introdotta].
[Colloquio in Poisí]
Nel mese
d'agosto furono i prelati congregati in Poisí, dove trattarono di riformar la
vita degl'ecclesiastici; ma il tutto senza conclusione alcuna. Poi ridotti i
ministri de' protestanti che erano stati chiamati et assicurati in numero 14,
tra' quali erano principali Pietro Martire fiorentino, andato da Zurich, e
Teodoro Beza da Geneva, questi porsero una supplica al re con 4 capi: che i
vescovi in quell'azzione non fossero giudici; che il re co' suoi conseglieri vi
presedesse; che le controversie si decidessero per la parola di Dio; che quello
che fosse convenuto e decretato si scrivesse da notari eletti da ambedue le
parti. La regina volle che uno de' 4 secretarii regii facessero l'ufficio di
scrivere, concesse che il re presedesse, ma non che ciò fosse posto in
scritto, allegando che non era ispediente per loro, né utile per le cose del
re, attesi i presenti tempi. Il cardinale di Lorena desiderava la presenza del
re al publico congresso, aciò fosse piú numeroso e decorato, per
ostentar il suo valore, promettendosi certo il trionfo. Molti teologi
persuadevano la regina che il re non intervenisse al colloquio, acciò
(dicevano) quelle tenere orecchie non fossero avenenate di pestifera dottrina.
Inanzi che le parti fossero chiamate al congresso, i prelati fecero una
processione e si communicarono tutti, eccetto il cardinale Sciatiglione e 5
vescovi; gl'altri si protestarono l'un all'altro che non intendevano trattar
de' dogmi, né disputar delle cose della fede.
A 9 settembre
si diede principio: era presente il re con la regina, i prencipi del sangue et
i conseglieri regii; intervennero 6 cardinali e 40 vescovi. Il re, cosí
instrutto, fece un'essortazione: che essendo congregati per trovar modo di
rimediare a' tumulti del regno e corregger le cose degne d'emendazione,
desiderava che non si partissero prima che fossero composte tutte le
differenze. Il cancelliero piú longamente parlò per nome regio nella
sentenza medesima; particolarmente disse ricercar il mal urgente rimedio presto
e vicino; quel che si potrebbe aspettar dal concilio generale, oltra la
tardità, venir anco da uomini, che, come forestieri, non sanno i bisogni
di Francia e sono tenuti seguir il voler del pontefice: li prelati presenti,
come periti de' bisogni del regno e congionti del sangue, esser piú atti ad
esseguir questa buona opera; e se ben il concilio intimato dal pontefice si facesse,
esser anco altre volte occorso, e non esser senza essempio, e sotto Carlo Magno
esser avvenuto che piú concilii in un tempo sono stati celebrati; che molte
volte l'error d'un concilio generale è stato corretto da un nazionale:
esserne essempio che l'arianismo, stabilito dal concilio generale d'Arimini, fu
dannato in Francia dal concilio congregato da sant'Ilario. Essortò tutti
ad aver il medesimo fine et i piú dotti a non sprezzar gl'inferiori, né questi
invidiar a quelli, tralasciar le dispute curiose, non aver l'animo tanto alieno
da' protestanti che sono fratelli regenerati nel medesimo battesmo, cultori del
medesimo Cristo. Essortò i vescovi a trattar con loro con piacevolezza,
cercando di ridurgli, ma senza severità, considerando che ad essi vescovi
s'attribuiva molto, lasciandogli esser giudici nella causa propria; il che gli
constringeva a trattar con sincerità, e cosí facendo, serrerebbono la
bocca agli avversarii; ma trasgredendo l'ufficio de giudici giusti, il tutto
sarebbe irrito e nullo. Si levò il cardinale di Tornone e, dopo aver
ringraziato il re, la regina et i prencipi dell'assistenza che prestavano a
quel consesso, disse le cose proposte dal cancelliero esser molto importanti e
da non trattar, né rispondergli alla sprovista, e però ricchieder che
fossero messe in scritto per deliberarvi sopra; ricusando il cancelliero et
instando anco il cardinale di Lorena che si mettessero in scritto.
Accortasi la
regina che ciò si faceva per metter il negozio in longo, ordinò a
Beza che parlasse; il qual ingenocchiato e fatta orazione e recitata la
professione della sua fede, e lamentatosi che fossero riputati turbulenti e
sediziosi e perturbatori della tranquillità publica, non avendo altro
fine che la gloria di Dio, né cercando libera facoltà di congregarsi, se
non per servir Dio con quiete di conscienza et ubedir a' magistrati da Dio
constituiti, passò ad esplicar le cose in che convengono con la Chiesa
romana et in che dissentono. Parlò della fede, delle buone opere,
dell'autorità de' concilii, de' peccati, della disciplina ecclesiastica,
dell'ubedienza debita a' magistrati, e de' sacramenti; et entrato nella materia
dell'eucaristia, parlò con tanto calore che era di mala sodisfazzione
anco a' suoi proprii, onde fu sforzato a fermarsi. E presentata la confessione
delle chiese sue, dimandò che i capi di quella fossero essaminati e fece
fine. Il cardinale di Turnone, levatosi pieno di sdegno, si voltò e
disse che i vescovi, avendo fatto forza alle sue conscienze, avevano consentito
d'udir quei nuovi evangelisti, prevedendo che dovevano dir molte cose
ingiuriose contra Dio; e se non avessero portato rispetto alla Maestà
regia, si sarebbono levati e disturbato il consesso. Però pregava la
Maestà Sua non dar fede alle cose dette da loro, perché da' prelati gli
sarebbe mostrato tutto 'l contrario, sí che vederebbe la differenza tra la
verità e la bugia; e dimandò un giorno di tempo a risponder,
replicando tuttavia che sarebbe stata giusta cosa che si fossero levati tutti
di là per non udir quelle biasteme. Di questo la regina, parendogli
esser toccata, rispose non essersi fatto cosa se non deliberata da' prencipi,
dal conseglio regio e dal parlamento di Parigi, non per mutar o innovar alcuna
cosa nella religione, ma per componer la differenza e ridur al dritto camino li
sviati; il che era anco ufficio della prudenza de' vescovi di procurare con
ogni buono modo.
Licenziato il
consesso, si trattò tra i vescovi e teologi quello che si dovesse fare.
Volevano alcuni di loro che si scrivesse una formula della fede, la quale se li
protestanti non volessero sottoscrivere, fossero senza altra disputa condannati
per eretici; il qual parere essendo giudicato troppo arduo, dopo molte dispute
si venne a conclusione di risponder a 2 capi soli de' proposti da Beza, cioè
della Chiesa e dell'eucaristia. Congregato donque di nuovo il consesso a' 16
del mese, in presenza del re, della regina e prencipi, il cardinale di Lorena
fece una longa orazione. Disse prima che il re era membro e non capo della
Chiesa; che la sua cura era ben difenderla, ma in quello che toccava la
dottrina esser soggetto a' ministri ecclesiastici; soggionse che la Chiesa non
conteneva i soli eletti, e con tutto ciò non poteva fallare; ma quando
alcuno particolare fosse in errore, conveniva aver ricorso alla romana, a'
decreti di concilii generali et al consenso degl'antichi padri, e sopra tutto
alla Scrittura esposta nel senso della Chiesa; per aver di ciò mancato
esser incorsi tutti gl'eretici in errori inestricabili, come i moderni nel capo
pertinente all'eucaristia, dove, per prurito insanabile di curiose questioni,
quello che da Cristo era instituito per vincolo d'unione, avevano adoperato per
squarciare la Chiesa irreconciliabilmente; e qui passò a trattar questa
materia, concludendo che, se i protestanti non vorranno mutar sentenza in
questo, non vi era via alcuna di composizione.
Finito il
parlar, tutti i vescovi si levarono e dissero di voler viver e morir in quella
fede; pregavano il re di perseverar in essa, soggiongendo che se i protestanti
vorranno sottoscrivere a questo articolo, non ricusavano di disputar gl'altri;
ma quando no, non se gli doveva dar altra audienza, ma scacciargli di tutto 'l
regno. Beza dimandò di risponder allora; ma non parendo giusto di
trattar del pari un ministro privato ad un cosí gran prencipe cardinale, fu
licenziato il congresso. Li prelati averebbono voluto che con questo il
colloquio fosse finito; ma il vescovo di Valenza mostrò che non sarebbe
stato con onore; perilché fu una altra volta congregato a'
Nel quale
Beza comminciando a parlare, irritò molto i vescovi, perché, come
giustificando la vocazione sua al ministerio, entrò a parlare della
vocazione et ordinazione de' vescovi, e narrò le mercanzie che vi
intervengono, ricercando come quelle si possino aver per legitime. Poi passato
all'articolo dell'eucaristia et al capo della confessione augustana
propostogli, disse che fosse prima sottoscritta da quelli che la proponevano;
né potendosi accordare, un giesuita spagnuolo, che era col cardinale di
Ferrara, arrivato in quei medesimi giorni che il colloquio era in piedi,
levatosi e dette molte villanie a' protestanti, riprese la regina che
s'intromettesse in cose che non s'aspettavano a lei, ma al papa, a' cardinali
et a' vescovi. La qual arroganza fu impazientemente sentita dalla regina, ma
per rispetto del pontefice e del legato la dissimulò. Finalmente, non
potendosi concluder cosa alcuna in quel modo di trattar, fu ordinato che due
vescovi, tre teologi i piú moderati, con cinque ministri si riducessero
insieme, per veder se si poteva trovar modo di concordia. Fu tentato da loro di
formar un articolo dell'eucaristia con parole generali cavate da' padri, che
potessero all'una parte et all'altra satisfare; né potendo convenire, fu messo
fine al colloquio: del quale vi fu molto che parlare, dicendo alcuni esser un
cattivo essempio metter in trattazione gl'errori una volta condannati; che non
si hanno da ascoltare le persone che negano i fondamenti della religione,
massime tanto tempo durata e tanto confermata, specialmente in presenza di
persone idiote; e benché nel colloquio contra la vera religione alcuna cosa non
sia risoluta, nondimeno ha dato baldanza agl'eretici et ha attristato i buoni;
dicendo altri che publico servizio sarebbe spesso trattare quelle controversie,
perché cosí le parti si familia[rizza]rebbono insieme, cesserebbono gl'odii e
gl'altri cattivi affetti e s'aprirebbono molte congionture per trovar modo di
concordia, non vi essendo altra via di rimediare al mal radicato; perché,
divisa la corte et adoperata la religione per pretesto, non era possibile per
altra via rimediare che, deposte le ostinazioni, tolerando gl'uni gl'altri,
levar di mano agl'inquieti e turbatori quel mantello con che coprono le male
operazioni.
Il pontefice,
ricevuto aviso che il colloquio era dissoluto senza effetto, sentí molto
piacere e commendò il cardinale di Lorena e maggiormente quello di
Tornon. Gli piacque molto il zelo del giesuita; diceva potersi comparare agli
antichi santi, avendo senza rispetto del re e prencipi sostenuto la causa di
Dio e rinfaciato la regina in propria presenza; per il contrario riprendeva
l'arrenga del cancellario come eretica in molte parti, minacciando anco di
farlo citar nell'Inquisizione. La corte ancora, appresso quale l'arrenga
sudetta s'era divolgata, parlava molto mal di quel soggetto e congetturava che
tutto 'l governo di quel regno avesse l'istessa disposizione versa Roma, e
l'ambasciatore francese aveva che fare a difendersi.
Non è
da tralasciare quello che al cardinale di Ferrara avvenne, come cosa molto
connessa alla materia di che scrivo. Quel prelato ne' primi congressi fu
raccolto dal re e dalla regina con molto onore, e presentate le lettere
ponteficie di credenza, fu riconosciuto per legato della Sede apostolica dalla
Maestà regia e da' prelati e clero. Ma il parlamento, avendo presentito
che tra le commissioni dategli dal pontefice una era di far instanza che
fossero rivocati a moderati almanco i capitoli accordati ne' stati d'Orliens il
genaro precedente, spettanti alla distribuzione de' beneficii, ma
particolarmente quello dove era proibito di pagar le annate a Roma, né mandar
danari fuori del regno per impetrare beneficii o altre grazie a Roma, il che penetrato
dal parlamento, che fino a quel tempo non aveva publicato i decreti sudetti,
acciò il cardinale non ottenesse quella che disegnava, gli
publicò sotto il 13 settembre, e fece anco risoluzione di non conceder
al legato che potesse usare le facoltà dategli dal pontefice: imperoché
è costume di quel regno che un legato non può essercitare
l'ufficio, se le facoltà sue non sono prima presentate et essaminate in
parlamento, e per arresto di quello regolate e moderate, et in quella forma
confermate per un breve del re; laonde, quando la bolla delle facoltà
della legazione fu presentata, a fine d'esser, come dicono, approbata, fu
negato apertamente dal cancellario e dal parlamento che la potesse usare,
allegando che già era deliberato di non usare piú dispense contra le
regole de' padri, né collazioni de' beneficii contra i canoni. Sostenne anco il
cardinale un maggior affronto, che furono composte et affisse in publico e
disseminate per tutta la corte e la città di Parigi pasquinate sopra
gl'amori di Lucrezia Borgia, sua madre, e d'Allessandro VI pontefice, suo avo
materno, con repetizioni delle obscenità divolgate per tutta Italia ne'
tempi di quel pontificato, che posero il cardinale in deriso della plebe.
La prima
impresa di negozio che il cardinale tentò fu d'impedire le prediche de'
riformati (datisi, dopo il colloquio, a predicare piú liberamente) con ufficii
e persuasioni e secrete promesse a' ministri; e perché non aveva credito con
loro per esser parente de' Ghisi, per la qual causa anco era in sospetto
appresso tutta la parte contraria a quella casa, per rendersi confidente,
pratticava anco co' nobili della fazzione ugonotta e si trovava a' loro
conviti, et alcuna volta in abito di gentiluomo intervenne alle prediche, il
che portò nocumento, stimando molti che come legato lo facesse di
volontà del pontefice; e la corte romana sentí molto male le azzioni del
cardinale.
La regina di
Francia, intendendo che il re di Spagna sentiva male del colloquio,
mandò espresso Giacomo Momberone a quel re, il qual con longo
raggionamento scusò che il tutto era stato fatto per necessità e
non per favorire i protestanti, e che il re e la regina, senza piú parlare del
concilio nazionale, erano risoluti di mandar quanto prima i vescovi a Trento.
Il re gli rispose parole generali e lo rimise al duca d'Alva; il qual, udita
l'ambasciata, rispose dolersi il re che in un regno cosí vicino e congionto
seco in tanta strettezza di parentado, la religione fosse cosí mal trattata;
esservi bisogno di quella severità che usò Enrico nella
congregazione mercuriale, e poco fa Francesco in Ambuasa; pregava la regina di
provederci, perché toccando il pericolo di Francia anco lui, aveva per
consultazione del suo conseglio deliberato di mettervi tutto 'l suo potere e la
vita medesima per estinguere la commune peste, al che era sollecitato da'
grandi e da' popoli di Francia. L'accortezza spagnuola dissegnava con medicina
della Francia guarrire le infermità di Fiandra, le quali non erano
minori, se non per esser meno apparenti e tumultuose. Non aveva ancora il re di
Spagna potuto mai far radunare li stati per ottenere una contribuzione o
donativo. In questi medesimi tempi in Cambrai e Valenzia si facevano
scopertamente adunanze, et in Tornai, avendogli il magistrato proibito et
esseguendo con l'incarcerazione d'alcuni, si scoperse contradizzione armata con
gravissimo pericolo di ribellione, e pareva che il prencipe d'Orange et [il]
conte di Egmont si mostrassero apertamente fautori loro, e massime dopo che il
prencipe pigliò in matrimonio Anna, figlia del già Mauricio, duca
di Sassonia, con molto dispiacere del re, che vedeva dove fosse per terminare
un matrimonio contratto da un suo suddito con protestante di tanta aderenza.
Parlavano nondimeno i spagnuoli in maniera come se la Fiandra fosse stata sana
e temessero infezzione dalla Francia, e volevano purgarla con la guerra. Et
oltre la risposta data alla regina, avendo anco l'ambasciatore avuto carico di
trattar il negozio del re di Navarra, gli fu risposto che non meritava, per la
poca cura che aveva della religione, e volendo esser favorita nella dimanda
sua, dovesse prima mover la guerra contra gl'ugonotti in Francia.
Fece anco la
regina scusare per mezo dell'ambasciatore regio al pontefice con la
Santità Sua il medesimo colloquio, facendogli considerare che, per far
tacere gl'ugonotti, quali dicevano esser perseguitati senza esser uditi, e per
ritardare i moti loro, il re era stato costretto a concedergli publica audienza
alla presenza de' prencipi et ufficiali del regno, con deliberazione che, se non
potevano esser convinti con raggione, si potesse, avendo avuto tempo di
mettersi in ordine, vincergli con le forze. Fece di piú trattar col cardinale
Farnese, legato d'Avignone, che cedesse quella legazione al cardinale di
Borbone, promettendogli ricompensa, et avendo Farnese consentito,
l'ambasciatore ne parlò al papa per nome di lui e del re di Navarra,
proponendo che questo averebbe liberata Sua Santità dalla spesa et
assicurata quella città dagl'ugonotti, quali l'averebbono rispettato,
quando fosse nella protezzione d'un prencipe del sangue regio. Ogni persona di
mediocre giudicio, non che uno versato ne' maneggi, si sarebbe avveduto che
quella era un'apertura per levare con facilità da Roma il dominio di
quella città et unirla alla Francia. Però il papa negò
assolutamente d'acconsentirvi e riferí questo tentativo in concistoro, come che
avesse sotto coperta qualche gran pregiudicio che non appariva alla prima
vista, e fece grand'indoglienza contra la regina e contra il re di Navarra, che
avendogli promesso piú fiate che in Francia non si sarebbe fatto cosa di
pregiudicio all'autorità ponteficia, nondimeno favorivano l'eresia,
erano autori di congregazioni de' prelati, di colloquii et altre cose
pregiudiciali; che egli, procedendo con mansuetudine, era mal corrisposto:
però subito dato principio al concilio, voleva con quel mezo far
conoscer la riverenza che i prencipi secolari debbono portare alla Chiesa. Fece
l'istessa indoglienza e minaccia all'ambasciatore, il quale dopoi d'aver
esplicato che la dimanda della legazione era a buon fine e che tutte le opere
della regina erano fatte con maturità e giustizia, soggionse che il
concilio era piú desiderato dal re che da Sua Santità, con speranza che
averebbe proceduto con la medesima equità e rispetto verso tutti i
prencipi senza differenziargli. Questo disse, motteggiando il papa, che aveva
poco inanzi concesso un gravissimo sussidio da esser pagato dal clero al re di
Spagna, dopo aver ottenuto le semplici annate al suo re. Ma il papa,
insospettito per la petizione d'Avignone e considerando che i vassalli di
quella città erano tutti protestanti, temendo che la terra non fosse
occupata dal re di Navarra, spedí immediate Fabricio Sorbellone con 2000 fanti
et alquanti cavalli per custodia della città, e diede il governo a
Lorenzo Lenci, vescovo di Fermo, come vicelegato.
Dopo il
colloquio, licenziati i protestanti, restavano i prelati per trattar de'
sussidii da dar al re; della qual dimora giudicando la regina che il papa
dovesse prender sospezzione per le frequenti indoglienze fatte, assicurò
a Roma che non rimanevano se non per trattar de' debiti del regno, con
aggiongere che, finita la congregazione, ordinerà a' vescovi che
immediate si mettino in punto per andar al concilio. Con tutto ciò fu
trattato ancora della communione del calice, proponendo il vescovo di Valenza,
con participazione del cardinale di Lorena, che quando quella si concedesse,
interromperebbe il corso cosí felice d'aummento a' protestanti, atteso che gran
parte di quelli che gl'aderiscono, incomminciano a credergli da questo capo;
perilché, quando avessero la communione intiera dalla Chiesa, non gli
porgerebbono orecchie. E gl'intendenti de' maneggi consideravano che per quella
via sarebbe posta dissensione tra i medesimi professori di riformata religione.
Alcuni pochi de' vescovi erano di parer che ciò fosse statuito per
editto regio et esseguito immediate, dicendo che l'intiera comunione non fu
levata per decreto alcuno della Chiesa, ma per sola consuetudine; né esservi
alcun decreto ecclesiastico che proibisca a' vescovi di ritornare l'antico uso.
Ma la maggior parte non consentí che si facesse se non per concessione, o
almeno con buona grazia del papa. Furono alcuni pochi a' quali non piaceva che
si facesse novità, ma furono costretti ceder alla maggior e piú potente
parte, facendo grand'ufficii Lorena, il qual per ottener il consenso del papa,
giudicando necessario aver il favore del cardinale Ferrara e per tirarlo
nell'opinione medesima, fu autore alla regina che desse orecchie alle proposizioni
sue, e concedendogli qualche cosa, l'acquistasse per questa et altre occasioni.
Aveva il cardinale proceduto con ciascuno anco della contraria religione con
tanta dolcezza e placidezza, che s'era acquistata la benevolenza de molti che
gli facevano da principio opposizione; onde essaminati i negozii e col parer
de' piú intimi del conseglio, fu concesso per un brevetto del re che i capitoli
d'Orliens, spettanti alle cose beneficiali, restassero sospesi et il legato
potesse essercitare la facoltà, avendo però egli a parte per
scrittura di sua mano promessa ch'egli non l'userebbe e che il papa averebbe
proveduto a tutti gli abusi e disordini che si commettono nella collazione de
beneficii e nell'espedizione delle bolle in Roma. Con tutto ciò
ricusò il cancelliero di sottoscriver e sigillar il breve secondo la
stile del regno; né essendo possibile di rimoverlo dalla sua risoluzione,
convenne che fosse sottoscritto della mano della regina, del Navarra e de'
principali ufficiali della corona in supplimento, e restò contentissimo
il legato, piú intento alla conservazione dell'onor suo che al vero servizio di
chi lo mandò; e per questo favore ottenuto si lasciò condur a
lodar il conseglio della communione, e scriverne a Roma. Il che però
fece con tal temperamento, che né il papa, né la corte potessero restar di lui
disgustati. Il fine della radunanza di Poisí fu che i prelati concessero al re
di valersi de' stabili delle chiese, vendendone per 100000 scudi, purché
v'intervenisse il consenso del papa.
[I prelati rimasi a Poisí trattano del calice,
e ne è fatta domanda al papa, il quale di suo moto l'approva, ma rimette
la deliberazione al concistoro]
Commise il re
all'ambasciatore suo in Roma di farne instanza, mostrando la necessità
et utilità; il che l'ambasciatore esseguí a ponto il giorno inanzi che
aveva il pontefice ricevuto lettere dal cardinale di Ferrara che davano conto
delle difficoltà superate, avendo ottenuta la sospensione de' capitoli
d'Orliens contra la libertà ecclesiastica e licenza d'usare le facoltà
di legato; cose tanto piú ardue da ottenere, quanto dal medesima cardinale di
Lorena, da chi aspettava favore, gli fosse da principio fatta opposizione. E
dava intiera relazione dello stato di religione in Francia e del pericolo che
si estinguesse a fatto, e de' rimedii per preservarla, che doi solo erano: uno
dar sodisfazzione al re di Navarra et interessarlo alla difesa, l'altro
conceder al popolo universalmente la communione sub utraque specie,
affermando certamente che con questa guadagnerebbe duecentomila anime. Alla
proposta donque dell'ambasciator, che lo supplicò per nome del re, della
Chiesa gallicana e de' prelati che fossero dispensati di poter amministrar al
popolo il sacramento dell'eucaristia sotto le due specie, come preparazione
utile e necessaria al popolo di quel regno, per disporlo a ricever prontamente
le determinazioni del concilio, senza la quale preparazione si poteva dubitar
assai che il rimedio dovesse trovargli umori troppo crudi e causare qualche mal
maggiore, il papa, sprovistamente e senza averne consegliato, né deliberato, ma
secondo l'inclinazione sua, rispose che egli aveva sempre stimato la communione
delle due specie et il matrimonio de' preti de iure positivo, delle
quali cose non è minor l'autorità del papa che quella della
Chiesa universale per disponerne, e che perciò nell'ultimo conclave fu
stimato luterano. Che l'imperatore aveva già fatto l'istessa ricchiesta
per il re di Boemia, suo figlio, quale la propria conscienza induceva a questa
opinione, e poi anco aveva fatta l'istessa dimanda per i popoli del suo
patrimonio, ma che i cardinali mai hanno voluto accommodarvisi: però non
voleva risolvere cosa veruna senza proporlo in concistoro e promise che nel
prossimo ne averebbe trattato; il qual essendo intimato a' 10 decembre,
l'ambasciatore, secondo il costume di quelli per cui instanza si trattano i
negozii, andò la mattina, mentre i cardinali sono congregati aspettando
il papa, per far con loro ufficii. I piú discreti di loro risposero che la
dimanda era degna di gran deliberazione, alla quale non ardivano rispondere
senza pensarci ben sopra; altri si turbarono come a nuova non piú udita. Il
cardinale della Cueva disse che non sarebbe mai stato per dar il voto suo a
favor d'una tal dimanda e che quando ben fosse stato cosí risoluto con
l'autorità di Sua Santità e col consenso degli altri, sarebbe
andato sopra i scalini di San Pietro ad esclamar ad alta voce e gridar
misericordia, non restando di dire che i prelati di Francia erano infetti
d'eresia. Il cardinale Sant'Angelo rispose che non darebbe mai un calice pien
di sí gran veneno al popolo di Francia in luogo di medicina, e che era meglio
lasciarlo morire che venir a rimedii tali. A' quali l'ambasciator
replicò che i prelati di Francia s'erano mossi con buoni fondamenti e
raggioni teologiche, non meritevoli di censura cosí contumeliosa; come
dall'altra parte non era degno il dar nome di veneno al sangue di Cristo e
trattar da venefici i santi apostoli e tutti i padri della Chiesa primitiva e
della sequente per molti centenara d'anni, che hanno con sommo profitto
spirituale ministrato il calice di quel sangue a tutti i popoli.
Il pontefice,
entrato in concistoro, per raggionamenti avuti con qualche cardinale e per aver
meglio pensato, averebbe voluto poter rivocar la parola data; nondimeno propose
la materia, riferí l'instanza dell'ambasciatar e fece legger la lettera del
legato, e ricercò il parer. Fra i cardinali dependenti di Francia, con
diverse forme di parole lodata la buona intenzione del re, quanto alla ricchiesta
si rimisero a Sua Santità. I spagnuoli furono tutti contrarii, usando
anco grand'ardire e trattando i prelati di Francia chi da eretici, chi da
scismatici e chi da ignoranti, non allegata altra raggione se non che tutto
Cristo è in ciascuna delle specie. Il cardinale Pacceco considerò
che ogni diversità de' riti nella religione, massime nelle ceremonie piú
principali, in fine capitano a scisma et anco ad inimicizia: al presente i
spagnuoli in Francia vanno alle chiese francesi, i francesi in Spagna alle spagnuole;
quando communicaranno cosí diversamente, non ricevendo gl'uni la communione
degl'altri, saranno costretti far chiese separate, et ecco nata la divisione.
Fra Michael,
cardinale alessandrino, disse non potersi in alcun modo conceder dal papa de
plenitudine potestatis, non per difetto d'autorità in lui sopra
tutto quella che è de iure positivo, nel qual numero è
anco questo, ma per incapacità di chi dimanda la grazia: perché non
può il papa dar facoltà di far male, ma è male ereticale
il ricever il calice pensando che sia necessario; però il papa non lo
può conceder a tal persone; e non potersi dubitare che sia giudicato
necessario da chi lo dimanda, perché di ceremonie indifferenti nissun fa
capitale. «O questi - diceva - hanno il calice per necessario, o no: se no, a
che volere dar scandalo agl'altri col farsi differenti? Se sí, adonque sono
eretici et incapaci di grazia». Il cardinale Rodolfo Pio di Carpi, che fu
degl'ultimi a parlare, essendosi dagl'inferiori comminciato, conformandosi con
gl'altri, nella conclusione disse che non solo la preservazione di 200000
uomini, ma d'un solo ancora è sufficiente causa di dispensare le leggi
positive con prudenza e maturità; ma in quella proposta conveniva ben
considerare che, credendo d'acquistar 200000, non si perdesse 200 millioni.
Esser cosa chiara che questa dimanda ottenuta non sarà fine delle
ricchieste de' francesi in materia di religione, ma grado per proponer
un'altra; chiederanno dopoi il matrimonio de' preti, la lingua volgare nel
ministerio de' sacramenti, averanno l'istesso fondamento che sono de iure
positivo e che convien concedergli per preservazione de' molti. Dal
matrimonio de' preti ne seguirà che, avendo casa, moglie e figli, non
dependeranno dal papa, ma dal suo prencipe, e la carità della prole gli
farà condescender ad ogni pregiudicio della Chiesa; cercheranno anco di
far i beneficii ereditarii et in brevissimo spacio la Sede apostolica si
ristringerà a Roma. Inanzi che fosse instituito il celibato non cavava
frutto alcuno la Sede romana dalle altre città e regioni; per quella
è fatta patrona de tanti beneficii, de' quali il matrimonio la
priverebbe in breve tempo. Dalla lingua volgare ne seguirebbe che tutti si
stimerebbono teologi, l'autorità de' prelati sarebbe vilipesa e l'eresia
intrerebbe in tutti. In fine, quando la communione del calice si concedesse in
modo che fosse salva la fede, in se stessa poco importerebbe, ma aprirebbe
porta a ricchieder che fossero levate tutte le introduzzioni che sono de
iure positivo, con le qual sole è conservata la prerogativa data da
Cristo alla Chiesa romana; che da quelle de iure divino non viene
utilità, se non spirituale; e per queste raggioni esser savio conseglio
opporsi alla prima dimanda, per non mettersi in obligo di conceder la seconda e
tutte le altre.
[Il papa conclude alla negativa, rimettendo il
tutto al concilio]
Il papa fu
mosso da queste raggioni principalmente a risolversi alla negativa; e per farla
sentir meno grave, fece prima far ufficio coll'ambasciator che da se stesso
desistesse dall'instanza; a che non consentendo egli, lo fece ricercar che
almeno la proseguisse lentamente, perché era impossibile concederla per non
alienarsi tutti i catolici; seguí nondimeno l'ambasciator, al qual il papa
rispose prima interponendo dilazione, finalmente risolvette che, quantonque
egli potesse, non però doveva farlo, poiché il concilio era prossimo, e
sí come a quello era stata rimessa la petizione dell'imperatore, cosí rimetteva
quella di Francia al medesimo; dove s'averebbe potuto, per sodisfar al re,
trattar quell'articolo il primo; il che poco piú tempo portava di quanto egli
averebbe di bisogno per conceder la grazia con maturità; né desistendo
l'ambasciatore di replicare in ogni audienza, il papa aggionse esser ben certo
che tutti i prelati non fanno tal petizione, avendo la maggior parte nella
congregazione risoluto di non parlarne; ma essergli portato sotto nome de'
prelati di Francia il motivo d'alcuni pochi, e quelli anco incitati da altri,
accennando la regina, con la quale in suo secreto conservava lo sdegno per la
lettera de' 4 agosto da lei scrittagli.
Publicata per
Roma questa petizione de' prelati francesi, nel tempo medesimo arrivò
nuova da Germania che i medesimi avevano mandato a' protestanti per eccitargli
di perseverare nella loro dottrina, promettendo di favorirla nel concilio e di
tirarvi dentro altri prelati; il qual aviso si divolgò anco in Trento e
messe i francesi in cattivo credito della corte romana et anco degl'italiani
che si ritrovavano in Trento; et in ambidoi i luoghi si parlava di loro come
d'inquieti et innovatori, dicendosi anco, come sempre le sospezzioni fanno
aggionger qualche cosa a quello che è udito, che, attese le dispute,
quali ne' tempi passati quella nazione aveva avute sempre con la corte di Roma
in articoli assai principali et importanti, e considerati gl'accidenti
presenti, non si poteva creder che andassero al concilio se non con animo di
turbar et innovare molte cose. L'ambasciator, per non lasciar che il rumor
populare facesse impressione nell'animo del papa contra la nazione sua, volle
sicurarlo; ma egli ironicamente lo confortò a non faticarsi, perché non
era verisimil cosa, né da lui creduta che un sí poco numero, come i francesi
sono, potesse pensar a cosí gran tentativi, a' quali quando avessero mira,
troverebbono un gran numero d'italiani che se gli opporrebbono; ma ben
dispiacergli che essendo il concilio convocato per il solo bisogno di Francia,
essi lo facciano ritardare; che mostrano la poca buona volontà di veder
rimediato quel male di che si lamentano; ma che egli era risoluto, o con la
loro presenza o senza d'essa, aprir il concilio e continuarlo et ispedirlo. Che
già tanti mesi erano in Trento i suoi legati et un numero grande di
vescovi stavano con incommodo e spesa, aspettando senza niente operare, mentre
che i prelati di Francia con tanta delicatezza provedono il loro bell'aggio.
[Il papa preme l'apertura del concilio]
In
conformità di questo, tenendo concistoro, recapitulò le instanze
e cause per quali già un anno a ponto con consegli loro aveva intimato
il concilio, le difficoltà scontrate e superate in ridur i prencipi
contrarii tra loro di opinioni ad accettar la bolla, la diligenza usata
mandandovi immediate i legati e quelli prelati che, con essortazioni e
precetti, aveva potuto costringer, che già 7 mesi tutto dal suo canto
è preparato e si continua con grandissima spesa, sí che tra mercede
degl'ufficiali e sovvenzione de' prelati poveri, la Sede apostolica spende piú
di tremila scudi al mese, e l'esperienza mostra che il differir maggiormente
non è se non dannoso. I tedeschi ogni giorno fanno qualche nuova
trattata tra loro per machinare opposizione a questa santa e necessaria opera,
le eresie in Francia fanno progresso e s'è veduto una quasi ribellione
d'alcuni vescovi francesi con le assurde petizioni del calice, con tanta
violenza che il maggior numero, che è de buoni catolici, ha convenuto
succombere. Già tutti i prencipi hanno destinato ambasciatori; il numero
de prelati che si trova in Trento non solo è sufficiente per comminciare
la sinodo, ma nelle due volte che già è stata tenuta, mai il
numero gionse a quello che è di presente; però niente resta che
non si debbia dar principio senza piú aspettare. E consentendo tutti i
cardinali, anzi lodando la deliberazione, deputò oltre i 3 legati, due
altri: Ludovico Simoneta, gran canonista e passato per i gradi degl'ufficii
della corte, e Marco di Altemps, nipote suo di sorella. Al primo
commandò che immediate partisse, né in viaggio si fermasse, e gionto, si
facessero le solite ceremonie e si cantasse la messa dello Spirito Santo per
principio del concilio. Soggionse poi il papa che non doveva perpetuamente star
la sinodo in piedi, né terminare in sospensioni a traslazioni, come già
s'era fatto con pregiudicii e pericoli notabili, ma metterci fine. Per il che
fare non saranno bisogno molti mesi, poiché già le piú importanti cose
sono state risolute, e quel che resta è anco tutto digesto e posto in
ordine per le dispute et essamini fatti nel fine sotto Giulio, quando le cose
erano appontate; sí che non restava altro che la publicazione; onde, poco
rimanendo, il tutto sarà ispedito anco in pochi mesi.
Simoneta si
mise in viaggio et a' 9 decembre gionse in Trento, e si vidde nel suo entrar
levarsi un gran fuogo dalla terra, che passò sopra la città, come
suol il vapore ignito che stella cadente chiamano, sola differente in
grandezza; il che fece far diversi pronostichi agl'oziosi, che molti erano, da
chi in presagio di bene, da chi di male, che vanità sarebbe raccontare.
Trovò il cardinale lettere del pontefice, dopo la sua partita scritte,
che s'aspettasse per aprir il concilio nuova commissione. Col cardinale fecero
il viaggio in compagnia alquanti vescovi che alla partita sua di Roma erano
alla corte, quali il papa costrinse a seguir il legato, e si ritrovarono in
quel tempo
Nel principio
di decembre fu di ritorno a Roma il noncio che risedeva in Francia; il quale
avendo riferito lo stato delle cose di quel regno, scrisse il pontefice al
legato che, representando al conseglio regio non esservi altra causa di
celebrar il concilio se non il bisogno di Francia, non avendone bisogno né
Italia, né Spagna, ricusandolo Germania, perilché a loro toccherebbe il
sollecitarlo, cosa che da loro negletta, facendola il pontefice per la
pietà paterna et essendo in Trento li legati e numero grande de prelati
italiani, et i spagnuoli la maggior parte gionti et il rimanente in viaggio,
anco da essi immediate fosse mandato ambasciatore et i prelati. Commandò
inoltre al legato che usasse ogni opera acciò le prediche e
congregazioni de' protestanti fossero impedite, e dasse cuore a' teologi, gli
communicasse indulgenze e grazie spirituali e gli promettesse anco aiuti
temporali; che egli per alcun modo non si ritrovasse a loro prediche e fugisse
anco i conviti dove alcun di loro intervenisse.
In questo
tempo stesso gionsero in Trento 2 prelati polacchi, i quali, visitati i legati
e mostrata la devozione di quella Chiesa alla Sede apostolica, narrarono i
molti tentativi de' luterani per introdur la dottrina loro in quel regno et i
fondamenti già in qualche parte gettati; contra le machinazioni de'
quali conveniva che i vescovi fossero sempre intenti per ovviare; che erano
molto desiderosi d'intervenire tutti nel concilio e coadiuvare nella causa
commune: il che non potendo fare per rispetto cosí importante e necessario,
desideravano intervenire con autorità per mezo de procuratori che
rendessero voto come li prelati presenti. E dimandarono che essi potessero aver
tanti voti, quante commissioni avessero da' vescovi, che per legitima causa non
possano venir dal regno. Da' legati fu risposto con parole generali,
rimettendosi a risolver dopo deliberazione matura, e della ricchiesta dato
aviso al pontefice, dal quale fu in concistoro riferita; né vi fu
difficoltà che tutti non concorressero in la negativa, essendo
già deliberato che le risoluzioni si facessero, come già anco
s'era fatto per l'inanzi, per pluralità de' voti e non per nazioni. Il
che tanto piú era giudicato necessario, quanto la fama portava che i francesi,
se ben catolici, venissero con quelli suoi pensieri sorbonici e parlamentarii,
tutti rivolti a voler riconoscer il papa solo tanto quanto loro piacesse; e
già s'era inteso qualche umor de' spagnuoli di voler sottopor il
pontefice al concilio, et i legati da Trento avevano piú volte avisato che si
scoprivano qualche mali umori ambiziosi di estendere l'autorità
episcopale; et in particolar [i] spagnuoli artificiosamente proponevano esser
necessario restringer l'autorità ponteficia, almeno tanto che non possi
derogar a' decreti di questo concilio; altrimente vana sarebbe la fatica e la
spesa per far un concilio che il papa potesse derogare con la facilità
che quotidianamente, per leggierissime cause e senza quelle anco, deroga a
tutti i canoni; a' quali tentativi consideravano i cardinali altro rimedio non
vi esser, se non opponer il numero grande de' prelati italiani, quali
superaranno, se ben s'unissero insieme tutti gl'oltramontani. E questo rimedio
resterebbe inefficace, quando s'admettesse il voto degl'assenti; che i
spagnuoli si farebbono mandar da tutti procure, il simile farebbono [i]
francesi, e sarebbe tanto quanto dar i voti non per capi, ma per nazioni.
Fu adonque
rescritto a Trento di fare a' polacchi ogni larghezza di parole, con
conclusione che quel concilio era una continuazione e tutt'uno incomminciato
sotto Paolo III, onde conveniva servare gl'ordini allora messi in prattica e
continuatamente servati con buon frutto, come s'era veduto, fra' quali una fu
che i voti degli assenti non fossero computati; il qual ordine non si poteva
dispensar in loro senza eccitar l'istessa pretensione in tutte le nazioni, con
molta confusione; che qualonque cose fosse dalla Polonia ricchiesta, cosí propria
a lei che non potesse metter le altre regioni in moto, per i meriti di quella
nobilissima nazione sarebbe conceduta. Della risposta mostrarono i polacchi
restar contenti, e nondimeno pochi giorni dopo, sotto pretesto d'aver negozii a
Venezia partirono, né piú ritornarono.
Diede a tutta
Roma grand'allegrezza una lettera di mano propria del re di Spagna scritta al
pontefice, con aviso del negoziato di Momberon, mandatogli dalla regina di
Francia, e risposta datagli, con oblazione alla Santità Sua d'assistenza
per purgar la cristianità dall'eresia con tutte le forze de' regni e
stati suoi, aiutando potentemente e prontamente qualonque prencipe vorrà
nettar lo stato proprio da quella contagione. Ma in questo stesso tempo, al
cattivo concetto formato contra francesi dalla corte s'aggionse nuovo fomento
per aviso venuto da Parigi che con gran solennità avesse il parlamento
condannato a retrattarsi e disdirsi un certo Gioan Tancherello, baccilier di
teologia, perché con intelligenza d'alquanti teologi propose conclusioni
publiche che il papa, vicario di Cristo e monarca della Chiesa, può
privar de' regni, stati e degnità i re e prencipi disobedienti a'
precetti suoi; e le difese. Et essendo egli per tal causa fatto reo e chiamato
in giudicio, confessato il fatto e temendo di qualche gran male, fuggí, et i
giudici, come in una comedia, fecero che dal bidello dell'università
fosse representata la sua persona e facesse l'emenda e retrattazione in
publico, e proibirono che i teologi non potessero piú disputare simili questioni,
e li fecero andar inanzi al re a dimandar perdono d'aver permesso che materia
cosí importante fosse posta in disputa, con promessa d'opporsi sempre a quella
dottrina. Si parlava de' francesi come d'eretici perduti e che negavano
l'autorità data da Cristo a san Pietro di pascere tutto 'l suo gregge,
di sciogliere ogni cosa e ligare, il che principalmente consiste in punire i
delitti di scandalo e danno alla Chiesa in commune, senza differenza di
prencipe, né privato; si portavano gl'essempii d'Enrico IV e V imperatori, di
Federico I e II, di Ludovico Bavaro, di Filippo Augusto e del Bello, re di
Francia; s'allegavano i celebri detti de' canonisti in questa materia; si
diceva che doveva il pontefice citar tutto quel parlamento a Roma; che la
conclusione di quel teologo doveva esser mandata a Trento, per metterla in
essamine la prima cosa che si facesse, et approvarla, dannando la contraria. Il
pontefice si dolse di questo successo moderatamente, e pensò che fosse
meglio dissimulare, poiché, come diceva, il mal maggiore di Francia rendeva
questo insensibile.
[Il papa prefigge giorno all'apertura del
concilio]
Teneva per
fermo la corte che al concilio non doveva trovarsi né ambasciator, né vescovi
francesi, e discorreva quello che averebbe convenuto alla degnità
ponteficia fare per sottomettergli per forza alle determinazioni del concilio,
quale il papa era deliberato che fosse aperto onninamente al principio
dell'anno nuovo; questa risoluzione communicò a' cardinali,
essortandogli a considerar non esser degnità della Sede apostolica, né
di quel collegio l'admetter di ricever regole e riforme da altri, e la
condizione de' tempi, quando tutti gridano riforma, senza intender che cosa
sia, ricercare che, attesa la speciosità del nome, non sia rifiutata; ottimo
temperamento tra queste contrarietà di raggioni esser, prevenendo, il
far la riforma di sé medesimo, il che anco servirà non solo a questa
tanto, ma ancora ad acquistar lode coll'esser essempio agl'altri. Che per
questa cosa egli voleva riformare la penitenziaria e dataria, principali membri
della corte, et attender poi alle parti piú minute ancora. Deputò per
questo cardinali all'uno et all'altro carico. Discorse le cause per che non si
poteva differir piú in longo l'apertura del concilio; perché, scoprendosi
sempre piú negl'oltramontani cattivi fini e dissegni d'abbassar l'assoluta
potestà che Dio ha dato al pontefice romano, quanto piú spacio si
dà loro di pensarci, tanto piú le macchinazioni crescono, et esser in
pericolo che degl'italiani, col tempo, alcuni siano guadagnati; per tanto
consister la salute nella celerità, senza che le spese che fa in
sostentargli sono immense, a' quali, se non si mette fine, non potrà la
Sede apostolica supplire. Diede poi la croce della legazione al cardinale
Altemps, con ordine che si mettesse in pronto e partisse per esser in Trento
all'apertura del concilio, se fosse possibile. La causa perché revocò
l'ordine dato alla partita del cardinal Simoneta d'aprir il concilio al suo
arrivo, fu l'instanza fatta dall'ambasciatore imperiale in Roma che a
quell'azzione fossero aspettati gl'ambasciatori del suo prencipe. Ma avendo poi
avvertito Sua Santità che si sarebbono ritrovati in Trento inanzi il
mezo di genaro, fece efficace instanza al marchese di Pescara, destinato dal re
di Spagna ambasciatore al concilio, che per quello istesso tempo si ritrovasse
in Trento all'apertura, per assistere egli ad essa; e sollecitò i
veneziani a mandar la loro ambasciaria, stimando molto che quella ceremonia
passasse con riputazione. Scrisse nondimeno a' legati che aprissero il concilio
immediate arrivati gl'ambasciatori dell'imperatore e de' prencipi sopra
nominati: ma quando a mezo il mese fossero gionti, non si differisse piú. Con
questo stato di cose finí l'anno 1561.
[Congregazione in Trento preparatoria al
concilio. Difficoltà per le precedenze]
I legati,
conforme a quello che il pontefice ultimamente commandato aveva, a' 15 di
genaro fecero una congregazione generale, nella quale il cardinale di Mantova,
come primo legato, ebbe un conveniente raggionamento della necessità et
opportunità d'aprire il concilio, essortò tutti i prelati ad
aiutare cosí santa e pia opera con digiuni, limosine e frequenti celebrazioni
di messe. Dopo fu letta la bolla della legazione, data sotto il dí 10 marzo
precedente, la qual era in termini generali con le solite clausule, che gli
mandava come angeli di pace per preseder al concilio convocato e che doveva
aver principio alle feste di risurrezione. A questa fu aggionta la lettura di
tre altri brevi: il primo, de' 5 marzo, et era facoltà a' legati di dar
licenza a' prelati e teologi che durante il concilio potessero legger libri
proibiti; il secondo, de' 23 maggio, che i legati avessero facoltà d'assolver
quelli che secretamente abiurassero per causa d'eresia; il terzo era
dell'ultimo decembre, dove il pontefice, per levar ogni materia di controversia
nata o che potesse nascere tra i prelati congregati in concilio sopra la
precedenza, commanda che i patriarchi prima, poi gl'arcivescovi, in terzo luogo
i vescovi precedino, non atteso alcun ordine della degnità della sede,
ma secondo la promozione, né tenendo conto delle degnità primaziali, o
vere o pretese che siano.
Questo letto,
reclamò acremente fra Bartolomeo de' Martiri, arcivescovo di Braga in
Portogallo, che si dovesse principiar il concilio da pregiudicii contra le
chiese principali di cristianità, che la sua sede, avendo il primato di
Spagna, ricevesse una sentenzia di dover esser sottoposta non solo alle altre
arcivescovali sue suddite, ma anco ad un arcivescovo di Rosano, che è
senza suffraganeo alcuno, et a quelli di Nissia et Antivari, che sono senza
residenza e quasi senza popolo cristiano; esser cosa di poca equità
voler una legge per sé et una per gl'altri, pretendere di conservare
l'autorità propria e privar gl'altri della loro legitima. Parlò
con tanta efficacia che i legati si viddero assai ben impediti, e con
difficoltà lo quietarono con far scrivere una decchiarazione, dicendo la
mente del papa e loro esser che per il decreto letto non s'acquisti ius,
né si faccia pregiudicio ad alcuno, né sia offesa la raggione di qual si
voglia, né in proprietà, né in possessione, ma ogni primate, o vero o
preteso, dopo il concilio debba restar nello stato che era per inanzi.
Con questo
modo quietato a pena l'arcivescovo, gl'altri spagnuoli fecero instanza che
l'apertura del concilio si facesse come continuazione del già
principiato sotto Paolo e proseguito sotto Giulio, e se ne facesse espressa
decchiarazione, sí che nissuno potesse cavillar che fosse un nuovo. A questo il
vescovo del Zante, che era stato noncio in Germania e sapeva quanto una tal
azzione sarebbe stata calunniata e quanta displicenzia n'averebbe ricevuto
l'imperatore, replicò che sí come non si doveva metter dubio alcuno
sopra le cose decise già, ma tenerle per determinate, cosí il farne
adesso decchiarazione era senza necessità et averebbe tagliata tutta la
speranza che l'imperatore et il re di Francia avevano di poter far nascer congiontura
che i protestanti si sottomettessero al concilio et alcun di loro vi
intervenisse. Li legati, massime Mantova e Varmiense, favorirono con molti
discorsi il parer del vescovo, e molte cose furono dette dall'una parte e
l'altra con parole assai acerbe, dicendo li spagnuoli di voler protestare e
tornar in Spagna. Ma finalmente, dopo molte consultazioni, questi convennero di
desistere dalla loro instanza per non opporsi all'imperatore, al re di Francia,
a' tedeschi e francesi, e per non dar fomento alle querele de' protestanti, pur
che non fossero dette parole che significassero nuovo concilio o portassero
pregiudizio alla continuazione; promettendo li cardinali a nome del papa che la
Santità Sua confermerebbe tutto quello che era stato fatto in Trento ne'
doi precedenti concilii, eziandio in caso che il presente si dissolvesse e non
si potesse finire: con che si contentarono e dopo longhi discorsi fu concluso
che si dovesse usar forma di parole significanti che si dava principio a
celebrar il concilio, levata qualonque sospensione; le quali se ben ambigue e
che potevano esser tirate a contrarii sensi, nondimeno bastando per concordar
la presente differenza, furono ricevute e concluso d'aprir il concilio la
dominica seguente de' 18. Propose in fine il cardinale che, principiato il
concilio, sarà condecente frequentare le publiche capelle ogni festa con
intervento de' prelati alla messa e col sermone latino, quale dovendo esser
recitato alle volte da persone che non sanno intieramente quello che convenga
al tempo et al luogo et al decoro degl'audienti, sarà ben deputar un
prelato che, sí come il maestro di sacro palazzo a Roma, riveda quello che
doverà esser detto, e secondo la sua censura s'abbia da recitare.
Piacque a tutti la proposta e fu deputato Egidio Foscararo, vescovo di Modena,
con carico di veder ogni sermone, predica et altra cosa che doverà esser
in publico pronunciata.
[Nel decreto per la sessione è inserto
cautamente che i soli presidenti propongano. Prima sessione]
Licenziata la
congregazione, i legati co' confidenti loro si diedero a formar il decreto, e
lo concepirono nella forma concordata; et attendendo molte trattazioni passate
tra i prelati in tanto tempo che erano stati oziosi in Trento, di proponer chi
questa e chi quell'altra provisione, tutte inviate ad ampliar l'autorità
episcopale e destruggere la romana, pensarono di rimediar al tutto nel
principio, inanzi che il male si mettesse in moto, con decretare che nissun
potesse propor materia in deliberazione, se non i legati. Vedevano l'arduità
della proposta e prevedevano la contradizzione, e però il bisogno d'usar
molta arte per farlo ricever dolcemente et inavedutamente. Quella negativa, che
nissun proponga, pareva dura et aspra; piacque piú l'affermativa: che i legati
proponessero, non dandosi esclusiva chiara agl'altri, ma solo virtuale, tutto
coprendo con pretesto di servar ordine e dare la deliberazione alla sinodo. Fu
formato il decreto con tanta arte, che sino al presente anco convien esser
molto attento per scoprir il senso, non che intenderlo alla prima udita; e lo
riferirò in italiano con chiare parole: legga in latino chi vorrà
veder l'arteficio.
Adonque
conforme alla presa deliberazione, venuto il giorno 18, si fece la processione
di tutto 'l clero della città, de' teologi e prelati, che, oltre i
cardinali, erano 112 mitrati, accompagnati dalle famiglie loro e guardati da
molti paesani armati, caminando dalla chiesa di San Pietro alla catedrale; dove
il cardinale di Mantova cantò la messa dello Spirito Santo e Gasparo dal
Fosso, arcivescovo di Reggio, fece l'orazione. Ebbe per soggetto trattar
dell'autorità della Chiesa, del primato del papa e della potestà
de' concilii; disse l'autorità della Chiesa non esser minore di quella
della parola di Dio; che la Chiesa ha mutato il sabbato, da Dio già
ordinato, nella domenica e levata la circoncisione, già strettamente
dalla Maestà divina commandata; che questi precetti, non per la
predicazione di Cristo, ma per autorità della Chiesa sono mutati.
Rivoltosi anco a' padri, gli confortò ad adoperarsi constantemente
contra i protestanti, con certezza che, sí come lo Spirito Santo non può
errare, cosí eglino non possono ingannarsi. Si cantò il Veni creator
Spiritus. Il secretario, che era il vescovo di Tilesi, lesse la bolla della
convocazione di sopra portata, e l'arcivescovo sopradetto interrogò il
decreto dell'aprir il concilio, dicendo: «Padri, vi piace che dal giorno d'oggi
si celebri il concilio generale di Trento, levata qual si voglia sospensione,
per trattar col debito ordine, proponendo i legati e presidenti quello che
parerà alla sinodo a proposito, per levare le controversie della
religione, corregger i costumi e conciliar la pace cristiana della Chiesa?» Fu
risposto: «Placet»; ma contradissero 4 prelati a quella parte «proponentibus legatis»,
le quali io scrivo cosí in latino, dovendone piú volte parlare per le gran
controversie e dispute che seguirono dopo. I contradittori furono Pietro
Guerero, arcivescovo di Granata, Francesco Bianco, vescovo di Orense, Andrea
della Questa, vescovo di Leon, Antonio Colormero, vescovo d'Almeria. Dissero
che non potevano acconsentire per esser parole nuove, non usate in altri
concilii e che ristringevano la libertà del proporre, e dimandarono che
i loro voti fossero registrati negl'atti del concilio. Furono lasciati senza
alcuna risposta e fu intimata la sessione per il 26 di febraro. Il promotore
del concilio ricchiese tutti li notari e protonotari a far delle cose
sopradette uno e piú instrumenti; e con questo finí la sessione.
I legati
avisarono il pontefice del successo nella congregazione e nella sessione, et
egli ne diede parte al concistoro. Molti ebbero openione, considerate le
difficoltà del principio, che il concilio dovesse far poco buon
progresso, attesa l'ostinata contradizzione che si vidde ne' vescovi spagnuoli,
poco propria per componer difficoltà di religione; se ben dall'altro
canto li legati et i vescovi italiani si mostrarono molto destri et uniti a
temporeggiarle e vincerle. Il papa lodò la prudenza de' legati, che
avessero prevenuto (cosí diceva) la temerità degl'innovatori; non sentí
dispiacere che 4 si fossero opposti, perché temeva d'aver maggior numero de
contrarii; essortò i cardinali a riformarsi, poiché si vedeva
necessità di trattar con persone irrespettive; diede ordine che fossero
sollecitati gl'altri vescovi italiani a partire, e scrisse a Trento che
tenessero il decreto fermo e lo esseguissero senza rallentar un ponto.
[Progressi de' riformati in Francia. Assemblea
in San Germano, onde esce l'editto di gennaro]
Ma in
Francia, avendo per piú mesi la regina di Navarra, il prencipe di Condé e
l'ammiraglio, e la duchessa di Ferrara fatto instanza che si concedessero a
quelli della nuova religione luoghi da congregarsi alle prediche e ceremonie
loro, e tutti questi et altri ancora de' grandi facendo professione, eziandio
nella corte stessa, di quella dottrina, gl'altri riformati di minor grado,
preso perciò ardire, separatamente si congregavano; il che non potendo
sopportar il popolo catolico, in molti luoghi del regno furono eccitati moti
popolari pericolosissimi, con uccisioni ancora dell'una e l'altra parte; quali
anco erano fomentati da' grandi catolici, che per interesse d'ambizione non
potevano sopportare che i prencipi e capi ugonotti, acquistando seguito
popolare, fossero per avanzargli, e davano fomento alle sedizioni. Furono due
tumulti causati dalle prediche, uno in Digiun e l'altro in Parigi,
notabilissimi non solo per l'uccisione de molti, ma anco per la ribellione a'
magistrati, che fece risolver il conseglio regio di pigliarci rimedio; il
quale, acciò fosse appropriato a tutto 'l regno, furono chiamati da
tutti li parlamenti i presidenti et un numero de conseglieri eletti per
deliberare con maturità quello che si potesse fare. Et [a'] 17 genaro fu
redotto in San Germano, dove congregati tutti, espose il cancellier per nome
regio che erano chiamati per consultar de' rimedii a' moti eccitati nel regno:
fece una recapitulazione di tutte le cose occorse, soggiongendo che, quanto
alle cose della religione, si doveva lasciar la cognizione a' prelati, ma dove
si tratta della tranquillità del regno e di contener li sudditi
nell'ossequio del re, ciò non poter pertenere agl'ecclesiastici, ma a'
regii consultori. Che aveva sempre lodato Cicerone, solito di biasmare Catone
che, vivendo in un secolo corrottissimo, nelle deliberazioni era cosí severo e
rigido, come un senatore della republica di Platone. Che le leggi si doveva
cercar d'accommodarle al tempo et alle persone, sí come la calza al piede. Che
si metteva in deliberazione allora questo particolare: se era servizio del re
permetter o proibire le congregazioni de' protestanti; nel che non s'aveva da
disputar qual religione fosse migliore, non trattandosi di formar una
religione, ma di ordinar una republica; non esser cosa assurda che molti siano
buoni cittadini e non buoni cristiani e che si possi viver in pace anco tra
quelli che non hanno le cose sacre communi.
Andando
attorno la consulta, furono varii i pareri; ma superò quello che
giudicava doversi relasciar in parte l'editto di luglio e conceder a'
protestanti libertà di predicare. Fu formato un editto, al che
intervennero anco il cardinale di Borbon, di Tornon e di Sciatiglion, et i
vescovi d'Orliens e di Valenza, con molti capi: che i protestanti restituissero
le chiese, possessioni et altri beni ecclesiastici occupati; che s'astenessero
dall'abbatter croci, imagini e chiese, sotto pena della vita; che non possino
congregarsi a prediche o preghiere, o amministrar i sacramenti in publico o in
secreto, di dí o di notte nella città; che si soprasedi e restino
sospese le proibizioni e pene dell'editto di luglio e qualonque altre
precedenti; che al far le prediche fuori della città non siano
molestati, né i magistrati possino inquietargli o impedirgli, ma debbiano in
questo difendergli da ogni ingiuria, castigando i sediziosi dell'una e l'altra
religione; che nissuno provochi l'altro per causa di religione o usi le
contumeliose parole di fazzione; che i magistrati et officiali possino esser
presenti alle prediche e congregazioni; che non possino far sinodi o colloquii
o concistori, se non con licenza e presente il magistrato; osservino le leggi
civili delle ferie e de' gradi proibiti ne' matrimonii; i ministri siano tenuti
giurar nelle mani degl'officiali publici di non contravenir a quell'editto, né
predicar dottrina contra il simbolo niceno et i libri del Nuovo e Vecchio
Testamento. Il parlamento di Parigi fece molte repugnanze nell'accettar
l'editto; perilché il re di nuovo commandò che fosse publicato,
aggiongendoci una condizione: che s'intendesse esser per maniera di provisione,
aspettando le determinazioni del concilio generale overo sinché dal re fosse
altrimente ordinato, non intendendo d'approvar due religioni nel suo regno, ma
quella sola della santa madre Chiesa, nella quale esso e li suoi precessori
sono vissuti. Sopra che non restando il parlamento ben d'accordo, il re
commandò che tralasciate tutte le longhezze e difficoltà,
l'ordinazione fosse publicata; onde a 6 di marzo cosí fu esseguito, con questa
clausula: che il parlamento verificava le lettere regie per obedir al re,
considerato lo stato de' tempi, senza però approvar la nuova religione,
e per modo di provisione, sin che dal re fosse altramente ordinato.
[Congregazione in Trento. Libri proibiti]
Ma ritornando
a Trento, il dí 27 genaro si fece congregazione, dove da' legati furono fatte 3
proposizioni: la prima, d'essaminar li libri scritti da diversi autori dopo
nate le eresie, insieme con le censure de' catolici contra di quelli, a fine di
determinare quello che la sinodo debbia decretare sopra di essi; la seconda,
che fossero citati per decreto della sinodo tutti gl'interessati in quella
materia, acciò non possino dolersi di non esser stati uditi; la terza,
se si dovevano invitar a penitenza con salvocondotto et ampla concessione e
promessa di grande e singolar clemenza i caduti in eresia, purché vogliano
pentirsi e riconoscer la potestà della Chiesa catolica, con ordine che i
padri, considerate le proposte, nella congregazione seguente dicessero il loro
parere, cosí sopra il modo d'espedirsi facilmente nell'essamine de' libri e
censure, come sopra il rimanente. E si deputorno prelati a ricever et essaminar
i mandati et essecuzioni di quelli che pretendevano impedimenti per non andar
al concilio.
Questo luogo
ricerca che dell'origine del proibir libri si raggioni, e con che progresso sia
gionto allo stato in che si trovava in questo tempo, e che nuovo ordine fosse
allora preso. Nella Chiesa de' martiri non fu proibizione ecclesiastica; benché
alcune persone pie si facevano conscienza del legger libri cattivi, per non
contravenire ad uno di 3 capi della legge divina: di fuggire la contagione del
male, di non esporsi a' tentativi senza necessità et utilità, e
di non occupar il tempo in cosa vana. Queste leggi, come naturali, restano
sempre et obligherebbono noi a guardarsi dal legger libri non buoni, quantonque
nissuna legge ecclesiastica vi fosse. Ma cessando questi rispetti, succedé
l'essempio di Dionisio, vescovo alessandrino, celebre dottore, quale, circa
l'anno del Signore 240, per queste cause essendo da' preti suoi ripreso, e per
gli stessi rispetti titubando, ebbe visione che leggesse ogni libro, perché era
capace di discernergli. Maggior pericolo nondimeno stimavano esser ne' libri
de' gentili che d'eretici, quali piú erano aborriti e tanto piú ripresa la
lezzione loro, quanto era frequentata da molti dottori cristiani per
vanità d'imparare l'eloquenza; per questa causa san Girolamo, o in
visione o in sogno, fu battuto dal diavolo, onde in quei medesimi tempi, circa
il 400, un concilio in Cartagine vietò a' vescovi di poter legger libri
de' gentili, ma concesse loro legger quelli degl'eretici; il decreto del quale
è posto tra i canoni raccolti da Graziano. E questa è la prima
proibizione per forma di canone. Ché per conseglio altre ve ne sono ne' padri,
da regolare secondo la legge divina di sopra citata. I libri degl'eretici, di
dottrina da' concilii dannata, erano spesso per causa di buon governo dagli
imperatori proibiti. Cosí Constantino proibí i libri d'Ario, Arcadio quelli di
eunomiani e di manichei; Teodosio quelli di Nestorio, e Marziano gli scritti
degl'eutichiani, et in Spagna il re Ricaredo quei degl'ariani. A' concilii e
vescovi bastava mostrare quali libri erano di dannata o di apocrifa dottrina:
cosí fece Gelasio del 494, e non piú oltre passavano, lasciando alla conscienza
di ciascuno il schifargli o leggergli per bene. Dopo l'anno 800 i romani
pontefici, sí come assonsero molta parte del governo politico, cosí anco fecero
abbruggiare e proibirono il legger libri, gl'autori de' quali dannavano; con
tutto ciò sino a questo secolo si troverà pochissimo numero de
libri cosí fattamente proibiti. Il divieto universale in pena di scommunica e
senza altra sentenza a chi leggesse libri continenti la dottrina degl'eretici o
per sospizzione d'eresia non si costumava. Martino V nella sua bolla scommunica
tutte le sette d'eretici, viglefisti, massime, et ussiti, né fa altra menzione
di quelli che leggessero i libri loro, se ben molti ne andavano attorno. Leone
X, condannando Lutero, insieme proibí, sotto pena di scommunica, tutti i libri
suoi. Gl'altri pontefici seguenti, nella bolla chiamata In coena [Domini]
dannati et escommunicati tutti gl'eretici, insieme escommunicarono anco quelli
che leggessero i libri loro, et in altre bolle contra eretici in generale
folminarono l'istesse censure contra li lettori de' libri. Questo partoriva piú
tosto confusione; perché non essendo gl'eretici dannati nominatamente,
conveniva conoscer i libri piú tosto dalla qualità della dottrina, che
dal nome degl'autori; e parendo a diversi diversamente, nascevano scrupuli di
conscienza innumerabili. Gl'inquisitori piú diligenti si facevano cataloghi di
quelli che a loro notizia pervenivano, i quali non confrontando, non bastavano
a levar la difficoltà. Il re Filippo di Spagna fu primo dar forma piú
conveniente, facendo del 1558 una legge che il catalogo de' libri proibiti
dall'Inquisizione di Spagna si stampasse.
Al qual
essempio anco Paolo IV in Roma ordinò che da quell'officio fosse
composto e stampato un Indice, come fu esseguito del 1559, nel quale furono
fatti molti passi piú inanzi che per lo passato, e gettati fondamenti per
mantener et aggrandir l'autorità della corte romana molto maggiormente,
col privar gl'uomini di quella cognizione che è necessaria per
difendergli dalle usurpazioni. Sino a quel tempo si stava tra i termini de'
libri de eretici, né era libro vietato, se non di autore dannato. Questo indice
fu diviso in tre parti: la prima contiene i nomi di quelli, l'opere de' quali tutte,
di qualonque argomento siano (eziandio profano), sono vietate; et in questo
numero sono riposti non solo quelli che hanno professato dottrina contraria
alla romana, ma molti ancora sempre vissuti e morti nella communione di quella.
Nella seconda parte si contengono nomi de' libri che particolarmente sono
dannati, non proibiti gl'altri degli stessi autori. Nella terza, alcuni scritti
senza nome, oltra che, con una regola generale, sono vietati tutti quelli che
non portano il nome degli autori scritti dopo il 1519 e sono dannati molti
autori e libri che per 300, 200 e 100 anni erano stati per mano di tutti i
letterati della romana Chiesa, sapendo e non contradicendo i pontefici romani
per tanto tempo, e de' moderni ancora furono proibiti di quelli che erano
stampati in Italia, eziandio in Roma con approbazione dell'Inquisizione, et
anco approbati dal papa medesimo per i suoi brevi, come le annotazioni d'Erasmo
sopra il Testamento Nuovo, che da Leon X, dopo averle lette, furono approbate
con uno suo breve, sotto il dato in Roma 1518, 10 settembre. Soprattutto cosa
considerabile è che, sotto colore di fede e religione, sono vietati con
la medesima severità e dannati gl'autori de' libri, da' quali
l'autorità del prencipe e magistrati temporali è difesa dalle usurpazioni
ecclesiastiche, dove l'autorità de' concilii e de' vescovi è
difesa dalle usurpazioni della corte romana, dove le ipocrisie o tirannidi, con
quali, sotto pretesto di religione, il popolo è ingannato o violentato,
sono manifestate. In somma non fu mai trovato il piú bell'arcano per adoperare
la religione a far gl'uomini insensati. Passò anco quell'Inquisizione
tanto oltra, che fece un catalogo di 62 stampatori, e proibí tutti i libri da
quelli stampati di qualonque autore, arte o idioma fossero, con un'aggionta piú
ponderosa, cioè e li stampati da altri simili stampatori che abbiano
stampato libri de eretici; in maniera che non restava piú libro da legger. E
per colmo di rigore, la proibizione di qualonque libro contenuto in quel
catalogo era in pena di scommunica latæ sententiæ, riservata
al papa, privazione et inabilità ad officii e beneficii, infamia
perpetua et altre pene arbitrarie. Di questa severità fu fatto ricchiamo
a questo papa Pio, che successe, il quale rimise l'Indice e tutta questa materia
al concilio, come s'è detto.
Furono sopra
i proposti articoli varii pareri. Ludovico Becatelli, arcivescovo di Ragusi, e
fra Agostino Selvago, arcivescovo di Genova, ebbero opinione che nissun buon
effetto può nascere dal trattar in concilio materia de libri, anzi che
potesse piú tosto nascer impedimento alla conclusione di quello per che il
concilio è congregato principalmente. Poiché, avendo Paolo IV, con
conseglio di tutti gl'inquisitori e de molti principali, da' quali ebbe avisi
da tutte le parti, fatto un catalogo compitissimo, non vi può esser
altro d'aggiongervi, se non qualche libro uscito ne' 2 anni seguenti, cosa che
non merita l'opera della sinodo: ma chi volesse conceder de' proibiti in quella
raccolta, sarebbe un dicchiarar che in Roma sia stato imprudentemente operato,
e cosí levare la riputazione et all'Indice già publicato et a quel
decreto che si facesse, essendo vulgata massima che le nuove leggi levano la
stima piú a se stesse che alle vecchie; senza che (diceva il Becatelli) nissun
bisogno vi è de libri: pur troppo il mondo ne ha, massime dopo trovate
le stampe, e meglio è che mille libri siano proibiti senza demerito, che
permesso uno, meritevole di proibizione. Neanco sarrebbe utile che la sinodo
s'affaticasse per render le cause delle proibizioni, facendo censure o
approbando le già fatte in diversi luoghi da catolici, perché questo
sarebbe un chiamarsi contradizzione. È cosa da dottore render raggione
del suo detto; il legislatore che lo fa, diminuisce l'autorità sua,
perché il suddito s'attacca alla raggione addotta e quando crede averla
risoluta, pensa d'aver anco levato la virtú al precetto. Né meno esser ben
corregger et espurgar alcun libro, per le stesse cause di non eccitar gl'umori
delle persone a dire che sia tralasciata cosa che meritasse, o mutata quella
che non meritasse correzzione. Poi la sinodo conciterebbe contra sé la mala
disposizione di tutti gl'affezzionati a' libri che si vietassero, che
gl'indurrebbe a non ricever gl'altri decreti necessarii che si faranno. Concluse
che, bastando l'Indice di Paolo, non lodava l'occuparsi vanamente per far di
nuovo cosa fatta, o per disfar cosa ben fatta. Molte altre raggioni furono
allegate in confermazione di questo parere da piú vescovi, creature di Paolo IV
et admiratori della sua prudenza nel maneggio della disciplina ecclesiastica,
li quali tenevano che fosse necessario conservare, anzi aummentare il rigore da
lui instituito, volendo conservar la purità della religione.
Giovanni
Tomaso San Felicio fu d'opinione al tutto contraria, che in concilio si dovesse
trattar de' libri tutto di nuovo, come se non vi fosse precedente proibizione;
perché quella, come fatta dall'Inquisizione di Roma, per il nome è
odiosa ad oltramontani, e del resto è anco tanto rigida, che è
inosservabile, e nissuna cosa manda piú facilmente una legge in desuetudine,
quanto l'impossibilità o gran difficoltà in osservarla et il gran
rigore nel punir le transgressioni; esser ben necessario conservar la
riputazione di quell'officio, ma questo potersi far assai appositamente con non
farne menzione; del rimanente facendo le sole provisioni necessarie e con pene
moderate. E per tanto parergli che il tutto stia nel consultar il modo: e disse
egli quello che giudicava ottimo, cioè che i libri sin allora non censurati
fossero compartiti a' padri e teologi presenti in concilio, et anco
agl'assenti; quali, essaminatigli, facessero la censura, e dalla sinodo fosse
deputata una congregazione non molto numerosa, che fosse come giudice tra la
censura et il libro; il che parimente fosse servato con i già censurati,
e questo fatto, si proponesse in congregazione generale per decretare in
universale quello che paresse beneficio publico. Quanto al citare o no
gl'interessati, disse che 2 sorti d'autori erano: altri separati dalla Chiesa
et altri incorporati in essa; de' primi non esser di tener conto, poiché con la
sola alienazione dalla Chiesa hanno essi medesimi, come san Paolo dice,
condannato se stessi e le opere proprie, sí che non è bisogno piú udir
altro; ma degl'incorporati con la Chiesa esserne de morti e de vivi; questi
esser necessario citare et ascoltare, né, trattandosi della loro fama et onore,
potersi contra le opere loro procedere, se non ascoltate le raggioni loro; de'
morti, poiché non vi è l'interesse privato, potersi far quello che
ricerca il publico ben, senza pericolo d'offender alcuno. A questa opinione fu
aggionto da un altro vescovo che l'istessa forma di giustizia si dovesse usare
verso gl'autori catolici defonti, perché restano li parenti e discepoli, che
come posteri participano la fama o infamia del morto, e però restano
interessati, e quando ben alcun tale non vi fosse, la sola memoria del defonto
non può esser giudicata se non è difesa.
Fu anco chi
ebbe opinione non esser giusta cosa condannar le opere de' protestanti senza
udirgli, perché, quantonque le persone siano da se stesse dannate, non si
può per le leggi far la declaratoria senza citazione, quantonque in
fatto notorio; adonque né meno si può far contra il libro, se ben
notoriamente contenga eresia. Fra Gregorio, general degl'eremitani, disse non
parergli necessario osservare tante sottilità; la proibizione de' libri
esser precisamente come la proibizione medicinale d'un cibo, che non è
una sentenzia contra di esso, né contra chi l'ha preparato, che però
convenga ascoltarlo, ma un precetto verso di chi l'ha da usare, fatto da chi ha
cura di regger la sanità di quello; però non trattarsi del
pregiudicio del vivandiero, ma del solo beneficio dell'indisposto; e con ottima
raggione un cibo, se ben in sé buono, si vieta per non esser utile
all'indiposto usarlo: cosí la sinodo, che è il medico, debbe guardar
quello solo che è utile a' fedeli legger o no, et il dannoso e
pericoloso vietarlo, che non farà torto ad alcuno, se ben il libro in se
stesso fosse buono, quando all'infermità delle menti di questo secolo
non convenga. Altre varie considerazioni passarono, che si risolvevano
finalmente in una di queste.
[Perdono generale e salvocondotto]
Ma intorno al
terzo articolo d'invitata penitenzia con promessa di clemenzia e con cessione
di salvocondotto, varie opinioni erano anco tra i legati medesimi. Il Mantova
sentiva un perdono generale, dicendo che con quello s'averebbe guadagnato gran
numero di persone, et esser rimedio usato da tutti i prencipi nelle sedizioni o
ribellioni che non hanno forza di opprimere, conceder perdono a chi depone le
armi, che cosí li meno colpevoli si ritirano e gl'altri restano piú deboli; e
quando ben vi fosse speranza d'acquistarne pochi, doversi far anco per un solo,
e se ben non s'acquistasse alcuno, però esser gran guadagno l'aver usato
e mostrato la clemenza. Per l'altra parte il legato Simoneta diceva che era un
metter in pericolo di rovinar degl'altri, perché molti s'inducono a trascorrere
dove veggono il perdono facile; che d'altro canto il rigore, se ben è
duro a chi lo sente, tiene innumerabili in officio. Per mostrar la clemenza,
esser assai usarla con chi la ricchiede; il trarla dietro a chi non la dimanda
et a chi la ricusa rallenta la custodia che ciascun tiene di se stesso:
sarà stimato un leggier delitto l'eresia, quando si vegga d'averne cosí
facilmente perdono. In queste 2 opinioni erano i prelati divisi, e da quelli
che non lodavano il salvocondotto era detto che nel primo concilio non fu dato
ad alcuno, e sarebbe stato fatto, quando fosse necessario o conveniente; che
pur quello concilio fu retto da un papa prudentissimo e da legati principali
del collegio; nel secondo per ciò fu dato, perché fu ricchiesto da
Maurizio, duca di Sassonia, e da altri protestanti, e l'imperatore
l'addimandò per loro; però con raggione fu concesso: adesso che
nissun l'addimanda, anzi che la Germania ad alta voce dice e protesta che non
conosce questo concilio per legitimo, a che dargli salvocondotto, se non per dar
loro materia di qualche sinistra interpretazione? I prelati spagnuoli non
consentivano in modo alcuno ad un salvocondotto generale, per il pregiudicio
che si sarebbe fatto all'Inquisizione di Spagna, poiché, stante quello,
averebbe ciascuno potuto dicchiararsi per protestante e mettersi in punto per
il viaggio, senza poter esser arrestato dall'Inquisizione. L'istesso
consideravano i legati che avvenir potrebbe all'Inquisizione di Roma e
d'Italia. Tutte le cose considerate, pareva, quanto all'Indice, che bastasse al
presente far deputati, e con una particola del decreto, far intender
agl'interessati che sarebbono ascoltati, et invitar al concilio tutti; e quanto
al salvocondotto, per le difficoltà che s'attraversano, rimetter a
pensarvi meglio.
[Arrivano a Trento il legato Altemps,
gl'ambasciatori di Cesare e quel di Portogallo]
Mentre queste
cose si trattano, a' 5 di febraro arrivò in Trento il cardinale Altemps,
nipote del papa, quinto legato, et insieme la nuova dell'editto di Francia di
sopra recitato, che confuse molto ogni uno: poiché, mentre il concilio è
in piede per condannare le novità, quelle da' prencipi siano permesse
con publico decreto. Il dí seguente fu ricevuto in congregazione generale
Antonio Miglicio, arcivescovo di Praga, ambasciator dell'imperatore; fu letto
il mandato di Sua Maestà Cesarea, l'arcivescovo fece una breve orazione
e riservò il rimanente al signor Sigismondo Tonn, secondo ambasciatore
di Sua Maestà, che non era ancora gionto. La sinodo rispose che con
molta allegrezza vedeva gl'ambasciatori dell'imperatore e che ammetteva il
mandato imperiale. Tentò l'ambasciator di preceder il cardinale
Madruccio, vescovo di Trento, allegando le raggioni e pretensioni di don Diego
nel primo concilio, e con la risposta di quello che successe, non di quello che
fu preteso, s'acquietò e sedette di sotto.
A 9 fu
accettato Ferdinando Martinez Mascarenio, ambasciator di Portogallo, letta la
lettera di credenza del re et il mandato: fu fatta una orazione assai longa da
un dottore che con lui era, dove narrò il frutto che la Chiesa cava da'
concilii, la necessità di questo presente, gl'attraversamenti che ha
sostenuto ne' passati tempi e come la prudenza di Pio pontefice gli ha superati
in questo tempo; disse l'autorità de' concilii esser cosí grande che i
decreti loro sono ricevuti per oracoli divini. Il re aver speranza che da quel
concilio sarebbono decise le differenze nella religione et indrizzati i costumi
de' sacerdoti all'evangelica sincerità; perilché gli prometteva ogni
ossequio, di che potevano render testimonio i vescovi già arrivati e
quelli che arriveranno; narrò la pietà, religione et impresa
degl'antichi e piissimi re, e di questi le fatiche per sottopor tante provincie
dell'Oriente all'imperio della Sede apostolica: delle qual eroiche pietà
debbono aspettar immitazione in Sebastiano re. Lodò in poche parole la
nobiltà e virtú dell'ambasciator, et in fine pregò i padri ad
ascoltarlo, quando sarà bisogno per le chiese del suo regno. Il
promotore in poche parole rispose: la sinodo aver sentito piacere leggendosi il
mandato del re et udendo l'orazione con narrativa della sua pietà e
religione, cosa non però nuova, ma a tutti nota, essendo conspicua la
gloria debita a lui et a suoi maggiori, per aver conservato in questi tempi
turbolenti la religione catolica nel suo regno et averla portata in luoghi
lontani; che di ciò la sinodo rende grazie a Dio e riceve il mandato del
re, come debbe.
Ma nella
congregazione delli 11 si presentò l'altro ambasciatore dell'imperatore,
il qual fu senza molta ceremonia ricevuto, essendo stato già letto il
mandato; onde vi fu tempo di trattare delle cose conciliari, e detto alquanto
nelle medesime materie, fu data libertà a' legati d'elegger padri per
formar una congregazione sopra l'Indice et altri a formar il decreto per la
futura sessione. Furono nominati da' legati per attender al negozio de' libri,
censure et Indice, l'ambasciator d'Ongaria, il patriarca di Venezia, 4
arcivescovi, 9 vescovi, un abbate e 2 generali.
Alli 13
gl'ambasciatori dell'imperatore comparvero a' legati e fecero una esposizione
con 5 ricchieste, che lasciarono anco in scritto, acciò potessero
deliberar sopra: che si fuggisse il nome di continuazione del concilio, perché
da ciò li protestanti pigliavano occasione di ricusarlo; che si differisse
la futura sessione, o almeno si trattassero cose leggieri; che non si
essasperassero quelli della confessione augustana in questo principio del
concilio col condannare i loro libri; che si desse a' protestanti amplissimo
salvocondotto; che quanto si trattasse nelle congregazioni fosse tenuto
secreto, perché il tutto si publicava sino a' plebei. Poi, avendo offerto tutti
i favori et assistenze per nome dell'imperatore, soggionsero aver ordine dalla
Maestà Sua, essendo chiamati da Sue Signorie reverendissime, di
consegliare le cose del concilio et adoperar l'autorità imperiale per
favorirle.
Alli 17
risposero i legati che, essendo necessario sodisfar tutti, sí come a loro
instanza non si nominaria continuazione, cosí, per non irritar li spagnuoli era
necessario astenersi anco dal contrario; che nella prossima sessione si
passerebbe con cose generali e leggieri, et all'altri si daria longo tempo; che
non si era pensato di dannar per allora la confessione augustana. Quanto a'
libri de' confessionisti non si parlerebbe allora, ma l'Indice de' libri si
farebbe nel fine del concilio; che si daria salvocondotto amplissimo alla
nazione germanica, quando fosse ben deciso se si dovesse darglielo
separatamente o metterlo con le altre; che si provederebbe alla secretezza con
buona maniera, e tutto quello che tratteranno lo communicheranno con loro,
essendo certi della buona volontà dell'imperatore e che gl'ambasciatori
suoi corrispondono alla pietà e religione del patrone.
Giorgio
Drascovizio, vescovo di Cinquechiese, terzo ambasciator dell'imperatore, che
era gionto in Trento sino il mese passato, il 24 febraro presentò in
congregazione generale il suo mandato et allora fece un'orazione nella quale si
estese nelle lodi dell'imperatore, dicendo che Dio l'ha donato in questi tempi
per sollevamento di tante miserie; lo comparò a Constantino nel favorir
le chiese; narrò li molti officii fatti per la convocazione del concilio
et avendolo ottenuto, primo di tutti i prencipi volle mandar ambasciatori, doi
per l'Imperio, regno di Boemia et Austria, e sé separatamente per il regno di
Ongaria; presentò il mandato e ringraziò la sinodo che anco
inanzi di veder il documento della legazione, gli dasse il luogo conveniente
alla qualità d'ambasciatore. Fu letto il decreto formato da' deputati in
termini generali, il che fu fatto cosí per sodisfar alla ricchiesta
degl'imperiali, come perché non era ben digesta la materia.
Il che fatto,
il legato Mantova fece una modesta e grave ammonizione a' padri di tener
secrete le cose che si trattavano nelle congregazioni; cosí, acciò
publicandosi non fosse opposto qualche attraversamento, come anco perché,
quando ben non vi fossero simil pericoli, le cose hanno riputazione maggiore e
sono in maggior riverenza tenute, quando non sono da tutti sapute; poi ancora
perché, non usando molte volte ogni uno tutta la circonspezzione conveniente, o
non servando il decoro, è con indegnità di tutto 'l consesso se
si publica. Aggionse anco non esservi collegio o conseglio, cosí secolare, come
ecclesiastico, né ristretto, né numeroso, che non abbia la sua secretezza; la
quale è imposta con legami o di giuramenti o di pene. Ma quella sinodo
esser di persone cosí prudenti, che non debbono esser ligati salvo che dal
proprio giudicio. Che esso cosí dicendo non parlava piú a' padri, che a'
colleghi et a se stesso principalmente, essendo ogni uno soggetto d'ammonir se
stesso ad ogni cosa condecente. Dopo passò a raccordar la
difficoltà che s'era scoperta nella materia del salvocondotto, e
però essortò ogni uno a pensarvi con accuratezza, soggiongendo in
caso che inanzi la sessione non si potesse risolver, si aggiongerà al
decreto che il salvocondotto si possi conceder in congregazione. Questo fu
risoluto tra li legati; perché avendo scoperto la difficoltà, massime
per l'Inquisizione di Roma e di Spagna, avevano scritto tutto quello che era
stato detto, cosí sopra quel ponto, come intorno l'Indice, et aspettavano
risposta da Roma.
[Il papa ha sdegno contra i francesi ed ombra
con gli spagnuoli]
Dove il
pontefice stava con sdegno per l'editto di Francia e con impazienza che in
concilio si passasse senza niente fare; diceva non esser ben che i vescovi
stiano molto tempo fuori della residenza, e massime per trattar superfluamente
de' dogmi decisi in altri concilii; aveva in sospetto i prelati spagnuoli, et
allora maggiormente, riputandogli fatti piú mal affetti, dopo che aveva
concesso al re delle entrate ecclesiastiche 400000 scudi l'anno per 10 anni
fermi, e facoltà di vender 30000 scudi d'entrata de vassallatici della Chiesa:
che pareva una diminuzione molto notabile della grandezza della Chiesa in
Spagna.
Gionse a Roma
Luigi San Gelasio, signor di Lansac, mandato di Francia espresso per dar conto
al pontefice dello stato del regno. Questo prima disse che, vedendo il re la
gran sollecitudine con che il papa procedeva nel fatto del concilio, aveva
dissegnato monsignore di Candalla ambasciatore a quella volta, e fatto partir
24 vescovi, de' quali gli diede la lista; gli narrò tutto il successo in
Francia dopo la morte di Francesco, e la necessità di proceder con
temperamento, cosí perché le forze non erano bastanti per caminar con rigore,
come anco perché, quando fossero state tali bisognava metter mano al sangue de'
piú nobili, che averebbe alienato tutto 'l regno e ridotto le cose a peggior
stato; che il re non aveva speranza se non nel concilio, quando tutte le
nazioni, eziandio gl'alemani vi intervenissero. Perché, fermata la religione in
Germania, non dubitava di far l'istesso in Francia; ma trattar dell'impossibile
che si possi far condescender ad accettar i decreti del concilio a quelli che
non saranno intervenuti; che i protestanti francesi non potranno separarsi da'
tedeschi; però supplicava Sua Santità che, quando per sodisfarli
non si trattasse altro che del luogo, della sicurezza e della forma di
proceder, gli piacesse condescender al voler loro per il gran ben che ne
seguirebbe. Rispose il papa: prima, quanto al concilio, che egli dal principio
del pontificato fu risoluto di congregarlo; che la difficoltà è
stata interposta dal canto dell'imperatore e re di Spagna; con tutto ciò
ambidue v'hanno al presente ambasciatori e prelati; che non restano se non i
francesi, che piú di tutti hanno bisogno del concilio; che non ha tralasciato
alcuna cosa per invitar i tedeschi protestanti, eziandio con qualche
indegnità di quella Sede; che continuerà, e sicurezza non
mancherà loro quanta e quale sapranno ricchiedere. Non gli pare
già onesto sottoporre il concilio alla discrezione de' protestanti, ma
ricusando essi di venirci, non doversi restar di caminar inanzi, massime
essendo già ben inviati. Ma quanto alle cose fatte in Francia, in poche
parole rispose non poterle lodare, e pregar Dio che perdoni a chi causa tanti
inconvenienti.
Et averebbe
il pontefice passato quei termini, quando avesse saputo quello che in Francia
si faceva, mentre Lansac gli rappresentava le cose fatte; imperoché a' 14 di
febraro in San Germano la regina diede ordine che i vescovi di Valenza e di
Seez, et i teologi Butiglier, Espenzeo e Picorello consultassero insieme che
cose si potessero far per principio di concordia. I quali proposero
gl'infrascritti capi: che fosse in tutto e per tutto proibito far effigie della
Santa Trinità e di persona non nominata ne' martirologii accettati dalla
Chiesa; che alle imagini non siano poste corone, vesti, né voti overo
oblazioni, né portate in processione, eccetto il segno della santa croce, di
che anco pareva che restassero sodisfatti i protestanti, se ben quanto al segno
della santa croce facevano qualche repugnanza con dire che Constantino fu il
primo che lo propose da adorare contra l'uso della antica Chiesa. Ma
Nicolò Magliardo, decano della Sorbona, insieme con altri teologi si
opposero, defendendo l'adorazione delle imagini, se ben confessava che dentro vi
fossero molti abusi. L'istesso mese Navarra scrisse all'elettor palatino, duca
di Vittembergo e Filippo di Assia, avisando che, quantonque non s'avesse potuto
convenire nel colloquio di Poisí, né in quest'ultimo in materia delle imagini,
egli però era per adoperarsi sempre per la riforma della religione, ma
introducendola a poco a poco, per non turbar la publica quiete del regno.
In quel tempo
istesso il duca di Ghisa et il cardinale di Lorena andarono alle Taverne,
castello del vescovo d'Argentina, e vi convennero Cristofero, duca di
Vittemberg, co' ministri confessionisti; per 3 giorni furono insieme, et
esplicarono al duca il favor fatto alla confessione augustana nel colloquio di
Poisí e la repugnanza de' riformati francesi in accettarla, ricercando che la
Germania s'unisse a loro per impedir la dottrina di Zuinglio, non per impedir
la emendazione della religione, la qual desiderano, ma solamente acciò
non pigli radice un veneno pestifero, non solo in Francia, ma anco in Germania;
il che fu fatto da loro, acciò, instando la guerra, potessero aver
facilmente aiuti, o almeno quelli fossero negati alla parte contraria. Questo
aboccamento generò gravissimi sospetti in Roma, in Trento et anco in
Francia. Il cardinale e gl'aderenti suoi si giustificavano che fosse per beneficio
della cristianità, per aver favore anco de' protestanti di Germania
contra gl'ugonotti di Francia. È anco fama che il cardinale desiderasse
veramente qualche unione nella religione con Germania e che, sí come aborriva
dalla confessione di Geneva, cosí inclinasse all'augustana e desiderasse
vederla piantata in Francia. È ben cosa certa che, dopo finito il
concilio tridentino, egli diceva aver altre volte sentito con quella
confessione, ma dopo la determinazione del concilio essersi acquietato a quella,
convenendo ad ogni cristiano cosí fare. Per le prediche che publicamente si
facevano in Francia, con tutto che nascessero sedizioni in diversi luoghi che
impedivano l'aummento de' riformati, nondimeno si trovò che in questo
tempo erano constituite 2150 radunanze, che dimandavano chiese.
[Seconda sessione: decreto sopra i libri
dannati]
In Trento,
venuto il 26 febraro, congregati nella chiesa li padri, si tenne la sessione.
Cantò la messa Antonio Elio, patriarca di Ierusalem, fece l'orazione
Antonio Cocco, arcivescovo di Corfú. Finita la messa, dovendosi legger i
mandati de' prencipi, che se ben letti in congregazione era stile leggerli anco
in sessione, nacque difficoltà tra gl'ambasciatori d'Ongaria e
Portogallo, pretendendo ciascuno d'essi che il suo fosse letto inanzi, come di
re piú eminente; la precedenza tra le persone non poteva far nascer
difficoltà, sedendo il portogallo, come secolare, alla destra del
tempio, e l'ongaro, come ecclesiastico, alla sinistra. I legati, dopo aver
consultato, publicarono che i mandati si leggerebbono per ordine che erano
stati presentati e non secondo la degnità de' prencipi. Fu anco letto un
breve del pontefice, che rimetteva al concilio la materia dell'Indice; il quale
fu in Roma fabricato, perché, essendo già da Paolo IV, come è
stato narrato, stabilito un Indice, quando in quello avesse il concilio posto
mano, s'averebbe potuto argomentare superiorità; però giudicarono
che dal papa gliene dovesse spontaneamente esser data facoltà per
prevenire quel pregiudicio. Il patriarca celebrante lesse il decreto, la
sostanza del qual era: che la sinodo, pensando di restituir la dottrina
catolica alla sua purità e ridur li costumi a miglior forma, essendo
accresciuto il numero de' libri perniziosi e sospetti, né avendo giovato il
rimedio di molte censure fatte in varie provincie et in Roma, ha deliberato che
alcuni padri deputati sopra ciò considerino et a suo tempo riferiscano
alla sinodo quello che sia bisogno far di piú, a fine di separare et estirpare
il loglio dalla buona dottrina, levar li scrupuli dalle menti e togliere le
cause di querimonie di molti; ordinando che ciò sia con quel decreto
publicato alla notizia di tutti, acciò se alcun pensarà aver
interesse cosí nel negozio de' libri e censure, come in ogni altro che si
averà da trattare in concilio, sia certo che sarà udito
benignamente. E perché la sinodo di cuore desidera la pace della Chiesa, che
tutti conoscano la commune madre, invita tutti quelli che non communicano con
lei alla reconciliazione e concordia et a venir alla sinodo, da quale saranno
abbracciati con ogni officii di carità, sí come co' medesimi sono
invitati; e di piú ha decretato che nella congregazione generale si possi
conceder salvocondotto del medesimo vigore e forza, come se fosse dato nella publica
sessione. Finito di legger il decreto, il quale portava per titolo della sinodo
«santa ecumenica e generale, nello Spirito Santo legitimamente congregata»,
l'arcivescovo di Granata ricercò che si vi aggiongesse «rappresentante
la Chiesa universale», secondo che da' concilii ultimamente celebrati fu
servato l'istesso. Dopo lui ricercò Antonio Paragues, arcivescovo di
Caglieri, e furono seguiti da quasi tutti i prelati spagnuoli, i quali fecero
instanza che la loro ricchiesta fosse notata negl'atti; né a questo gli fu
contradetto o pur risposto, ma per fine si ordinò la seguente sessione
per il 14 maggio.
Il decreto fu
posto in stampa, non solo per esser già costume, come perché era fatto
per andar a notizia di tutti, e fu generalmente da ogni sorte di persone
censurato. Si ricercava come la sinodo chiamava gl'interessati nelle cose che
in concilio si dovevano trattare, se quelle non erano sapute e per lo passato
tutto s'era trattato fuori dell'espettazione; chi voleva indovinare che cosa
fossero i legati per proporre, poiché essi medesimi non lo sapevano, aspettando
le commissioni da Roma. Similmente gl'interessati nella conservazione di
qualche libro come potevano saper che si trattasse cosa contra di quello? La
generalità della citazione e la incertezza della causa dovevano
constringer ogni persona ad andar a Trento, non essendovi alcuno senza
interesse in qualche particolare, del quale era possibile assai che se ne
trattasse. Generalmente era concluso che fosse un chiamar in apparenza et
escluder in essistenza. Tra queste cose non lodate, trovavano da commendare la
ingenua confessione della sinodo che le passate proibizioni avevano partorito
scrupoli negl'animi e dato cause di querele. Oltra questo in Germania fu presa
in sospetto quella parte dove la sinodo in sessione concede a se stessa in
congregazione generale autorità di dar salvocondotto: non era intesa la
differenza, convenendo le medesime persone in ambidoi li congressi, se non
fosse perché in sessioni fossero con le mitre, in congregazioni con le berette;
e per qual causa, se il salvocondotto non si poteva spedir allora, non far una
sessione espressamente per questo. Riputavano in somma che qui sotto fosse
coperto qualche gran misterio, se ben li piú sensati tenevano fermo la sinodo
esser certa che nissun protestante, con ogni sorte di salvocondotto, sarebbe
andato a Trento, salvo che con forza, come avvenne del 1552 per la risoluta
volontà di Carlo, cosa che non si poteva piú metter in prattica.
[Risposta del papa a' legati, per la quale si
tiene congregazione per le sicurità e salvicondotti]
Rescrisse il
pontefice all'aviso de' legati che non fossero invitati a penitenza con
provisione di perdono gl'eretici; imperoché, essendo stato ciò fatto una
volta da Giulio e l'altra da Paolo IV, non se n'era veduto buon essito.
Degl'eretici che sono in luogo di libertà nissun l'accetta; quelli che
sono in luoghi dove l'Inquisizione ha vigore, se temono poter esser scoperti,
ricevono il perdono fintamente per assicurarsi del passato, con animo di far
peggio piú cautamente. Quanto al salvocondotto, lodava che si dasse a tutti
quelli che non sono sotto Inquisizione, ma che questa eccezzione non si
esprimesse, atteso che, quando Giulio concesse il suo perdono, eccetto a'
soggetti all'Inquisizione di Spagna e di Portogallo, vi fu molto che dire, e
passò con poca riputazione, quasi che il papa non avesse ugual
potestà sopra quell'Inquisizione come sopra le altre; ma il modo
d'esprimerlo lo rimetteva a quello che fosse piú piacciuto alla sinodo. Quanto
alla forma, lodava quella che fece il concilio del 1552 alla Germania, poiché
era già veduta, e sotto quella fede tanti protestanti erano andati in
quell'anno a Trento. Intorno all'Indice, ordinò che si seguitasse da' deputati,
operando finché si offerisse occasione di decretare publicamente, senza
opposizione d'alcun prencipe.
Venuta la
risposta il 2 marzo, col seguente giorno fu tenuta congregazione per risolver
se il perdono generale si dovesse publicare e conceder il salvocondotto, e
sopra la forma dell'un e l'altro, et il dí 4, dopo longhe dispute, fu concluso,
avendo i legati, senza interessar l'autorità del papa, fatto cader la
deliberazione dove egli mirava. Fu tralasciato d'invitar a penitenza, per le raggioni
a Roma portate. Molto fu disputato se si doveva dar salvocondotto nominatamente
a' francesi, inglesi e scozzesi; fu anco chi mise a campo i greci et altre
nazioni orientali. Di questi presto si vidde che i poveri uomini, afflitti in
servitú, non potevano senza pericolo e senza esser sovvenuti di danari pensar a
concilii; e poi alcun anco diceva che, essendo nata la divisione de'
protestanti, era ben lasciar dormir quell'altra e non la nominare, allegando il
pericolo di muover in un corpo gl'umori cattivi che sono in quiete. Il dar
salvocondotto ad inglesi, non lo ricchiedendo né essi, né altri per loro, era
con grand'indegnità. Degli scocesi piaceva, perché la regina l'averebbe
dimandato, ma era ben far prima venir la dimanda. Di Francia si metteva dubio
se il conseglio regio dovesse averlo per bene o no, parendo che fosse una
dicchiarazione che il re avesse ribelli. Della Germania non si poteva dubitar,
essendogli altre volte concesso; ma quando a' quella sola si dasse, pareva che
s'avessero gl'altri per abandonati. Ad una gran parte piaceva che si concedesse
assolutamente a tutte le nazioni, ma gli spagnuoli s'opponevano et erano da'
legati favoriti e d'altri, conscii della volontà del papa, con
grand'indegnazione di quelli a quali pareva farsi illazione che il concilio non
fosse superiore all'Inquisizione di Spagna. Tutte le difficoltà in fine
furono superate, e formato il decreto con 3 parti. Nella prima, è dato
salvocondotto alla nazione germanica in quella forma a punto di parola in
parola che del 1552. Nella seconda si dice che la sinodo dà
salvocondotto nella medesima forma e parole, come è dato a' tedeschi, a
ciascun di quelli che non hanno communione di fede con lei, di qualonque
nazione, provincia, città e luoghi dove si predica, insegna e crede il
contrario di quello che sente la Chiesa romana. Nella terza, che quantonque non
paiano comprese tutte le nazioni in quella estensione, il che per certi
rispetti è stato fatto, però non s'ha da pensare esclusi quelli
che, da qualonque nazione, vorranno pentirsi e ritornar al grembo della Chiesa;
il che la sinodo desidera esser fatto a tutti noto; ma per esserci bisogno di
deliberare con maggior diligenza in che forma se gli debbe dar il
salvocondotto, gli è parso differir ciò ad altro tempo, per considerarci
piú accuramente, avendo per ora stimato bastare che fosse provisto alla
sicurezza di quelli che publicamente hanno abandonato la dottrina della Chiesa.
Fu il decreto immediate stampato, come conveniva a cosa fatta per esser dedutta
in notizia di tutti; però il concilio non servò la promessa di
trattare o pensare la forma di dar salvocondotto a quelli del terzo genere;
anzi, nello stampar tutto 'l corpo del concilio insieme, questa terza parte fu
tralasciata fuori, lasciando alla speculazione del mondo perché prometter di
proveder a quelli ancora e farglielo noto in stampa con desiderio che fosse da
tutti saputo, e poi non l'esseguire, anzi procurar d'ascondere quel dissegno
che allora affettavano manifestare.
[Gli ambasciatori cesarei sollecitano la
riforma, della quale i legati propongono dodici articoli]
Gl'ambasciatori
dell'imperatore sollecitarono i legati a far la riforma e scriver a'
protestanti, essortandogli a venir al concilio, come fu fatto al tempo del
basileense co' boemi. Risposero i legati che già 40 anni tutti i
prencipi e popoli sempre hanno chiesto riforma, né mai s'è trattato capo
alcuno di quella che essi medesimi non abbino attraversato et opposto
impedimenti, che hanno anco constretto abandonar l'opera; al presente s'attenderà
alla riforma per quello che tocca l'universale delle nazioni cristiane, ma per
quello che s'aspetta al clero di Germania, che ne ha piú di tutti bisogno, la
riforma del quale anco l'imperatore principalmente aspetta, non vedevano come
poterla fare, poiché i prelati tedeschi non erano venuti al concilio; e che
quanto allo scriver a' protestanti, avendo essi risposto a' noncii del papa con
indecenza tanto essorbitante, non si poteva aspettar se non che rispondessero
alle lettere della sinodo in modo peggiore.
A' 11 marzo
proposero i legati in congregazione generale 12 articoli per dover esser
studiati e discussi nelle seguenti congregazioni.
1 Che
provisione si potrebbe fare accioché i vescovi et altri curati risedino nelle
chiese loro, né si assentino da quelle, se non per cause giuste, oneste,
necessarie et utili alla Chiesa catolica.
2 Se sia
ispediente proveder che nissun sia ordinato se non a certo titolo d'alcun
beneficio, essendosi scoperti molti inganni che nascono dall'ordinare a titolo
del patrimonio.
3 Che per l'ordinazione
non sia ricevuta alcuna cosa, né dagl'ordinatori, né da loro ministri o
notarii.
4 Se si debbe
conceder a' prelati che nelle chiese dove non sono distribuzioni quotidiane,
overo per la loro tenuità non sono stimate, possino convertir in distribuzioni
alcuna delle prebende.
5 Se le
parochie grandi, ch'hanno bisogno di piú sacerdoti, debbino aver anco piú
titoli.
6 Se i
beneficii curati piccioli, che non hanno sufficiente entrata per il viver del
sacerdote, si debbiano riformare, facendo di piú uno.
7 Che
provisione s'ha a fare circa i curati ignoranti o viziosi: se sia ispediente
dargli coadiutori o vicarii idonei con assegnazione di parte delle entrate del
beneficio.
8 Se si deve
conceder all'ordinario di trasferir nelle chiese matrici le capelle rovinate,
che per povertà non possono reedificare.
9 Se si deve
conceder all'ordinario che visiti i beneficii andati in comenda, se ben sono
regolari.
10 Se si
devono irritare i matrimonii clandestini che all'avvenire saranno contratti.
11 Che
condizioni si debbino assignare, acciò il matrimonio non sia
clandestino, ma contratto in faccia della Chiesa.
12 Che
provisione si debbe far intorno i grandi abusi che causano gli questuanti.
Appresso di
questi fu dato a' teologi l'infrascritto punto da studiare per doverlo
discutere in una congregazione propria per questo: se, sí come Evaristo et il
concilio lateranense hanno decchiarato che li matrimonii fatti in occulto non
siano riputati validi nel foro e quanto alla Chiesa, cosí il concilio possi
dicchiarare che assolutamente siano nulli, in maniera che l'occoltazione e
secretezza sia posta tra gl'altri impedimenti che annullano il matrimonio.
In questo
mentre, essendosi scoperto in Germania, che i protestanti trattavano una lega,
e si facevano qualche provisioni di soldati, l'imperatore scrisse a Trento et
al papa ancora che in concilio si soprasedesse sin tanto che apparisse a che
termine fosse per arrivare quel moto: perilché il rimanente del mese per questa
causa e per esser i giorni santi si passò tutto in ceremonie.
[Ricezzione dell'ambasciator spagnuolo, del
fiorentino, degli svizzeri, e di quei del clero d'Ongheria]
Il dí 16 fu
ricevuto Francesco Ferdinando d'Avalos, marchese di Pescara, ambasciator del re
Catolico, in congregazione generale e letto il mandato fu fatta per suo nome
un'orazione, con dire in sostanza: che essendo il concilio unico rimedio per i
mali della Chiesa, con ottima raggione Pio IV l'ha giudicato necessario in
questi tempi; al quale Filippo, re di Spagna, sarebbe personalmente intervenuto
per dar essempio agl'altri prencipi, ma non potendo, ha mandato il marchese per
assistergli e favorirlo in tutto quello che il re può, sapendo che se
ben la Chiesa è difesa da Dio, ha però bisogno alle volte di
qualche aiuto umano. Che l'ambasciator non giudica esservi bisogno d'essortar
la sinodo, conoscendo l'incredibile e quasi divina sapienza di quella; vede
già li fondamenti ben gettati e le cose che al presente si trattano
maneggiate con arte che lenisce, non essaspera; onde sperando che le azzioni
avvenire corrisponderanno, solo promette ogni ufficio, opera e grazia del re.
Rispose il promotor per nome del concilio che la venuta dell'ambasciator d'un
tanto re aveva gionto animo e speranza alla sinodo che i rimedii per i mali
della cristianità saranno salutari; però abbraccia la
Maestà Sua con tutto l'animo, gli rende grazie, si offerisce
corrisponder a' meriti di lei e far tutto quello che sia in onore suo, e
riceve, come debbe, il mandato. Nella congregazione de' 18 fu ricevuto
l'ambasciator di Cosmo, duca di Fiorenza e Siena, il quale, letto il mandato,
fece l'orazione, nella quale si dilatò a mostrar la congionzione del suo
duca col pontefice, essortò i padri a purgar la Chiesa et esplicar la
luce della verità insegnata dagl'apostoli, offerendo loro tutti gli
aiuti del suo duca, sí come egli gli aveva offerto al pontefice per
conservazione della maestà della Sede romana. Rispose il promotor per
nome della sinodo con rendimento di grazie, fatta commemorazione riverente di
Leon X e Clemente VII, soggiongendo che per altro non era congregata, né ad
altro attendeva, se non a levar ogni dissensione, scacciate le tenebre
dell'ignoranza e manifestata la verità.
Nella congregazione
de' 20 furono ricevuti Melchior Lusi, ambasciator de' svizzeri catolici,
insieme con Gioachimo, proposto abbate, per nome degl'abbati et altri
ecclesiastici di quella nazione. Per nome de' quali fu fatta una orazione di
questa sostanza: che i consoli di 7 cantoni, per il debito filial verso la
Chiesa hanno voluto mandar oratori per assister al concilio e prometter
ubedienza e far a tutti noto che non cedono ad alcun in desiderio d'aiutare la
Sede romana, come per il passato hanno fatto ne' tempi di Giulio II e Leon X, e
quando combatterono con i cantoni vicini per difesa della religione, ucciso il
nefandissimo inimico della Chiesa Zuinglio e ricercato tra gl'uccisi il
cadavero di quello et abbruggiatolo, per testificare di dover aver guerra
irreconciliabile con gl'altri cantoni, mentre saranno fuori della Chiesa,
poiché sono posti a' confini d'Italia come una rocca per impedir che il male
settentrionale non penetri nelle viscere di quella regione. Fu dalla sinodo per
bocca del promotor risposto che le opere degne e la pietà verso la Sede
apostolica della gente elvetica sono molte e grandi; ma nissun ossequio et
ufficio piú opportuno, quanto la legazione mandata e l'offerta alla sinodo, la
quale si rallegra della venuta de ambasciatori, avendo molta speranza, oltre la
protezzione dell'imperatore, re e principi, in quella laudatissima nazione.
Nella
congregazione del dí 6 aprile furono ricevuti Andrea Dudicio, vescovo di Tinia,
e Giovanni Colosarino di Canadia, oratori del clero d'Ongaria. Fu dal primo fatta
un'orazione con dire che l'arcivescovo di Strigonia, li vescovi et il clero
avevano sentito tre grandi allegrezze: per l'assonzione di Pio IV al
pontificato, per la convocazione del concilio in Trento e per la deputazione
de' legati apostolici a quello. Narrò l'osservanza de' prelati verso la
Chiesa catolica, e di ciò chiamò per testimonio il cardinal
varmiense che gli conosceva et era con loro conversato; esplicò la
divozione della nazione ongara et il servizio che presta a tutta la
cristianità con sostener la guerra de' turchi, e la particolar diligenza
de' vescovi in opporsi alle machinazioni degl'eretici. Narrò il
desiderio commune di tutti essi di trovarsi personalmente in quel concilio,
quando non ostasse la necessità della loro presenza nel regno per
defender le loro fortezze da' turchi, le quali sono a' confini, e per
invigilare contra gl'eretici; onde costretti di far questo ufficio per mezo
d'essi loro oratori, si raccommandavano alla protezzione del concilio,
offerendo di ricever et osservar quello che fosse decretato. Rispose il
secretario per nome del concilio che la sinodo aveva per certa l'allegrezza
concepita dalla Chiesa d'Ongaria per la celebrazione del concilio generale, che
restava pregar Dio per il felice fine di quello; che averebbe desiderato veder
i prelati in persona, ma poiché sono impediti per queste cause provate col
testimonio del cardinale varmiense, riceve la scusa, sperando che la religion
cristiana riceverà utilità dalla loro presenza nelle proprie
chiese; e tanto piú, avendo raccommandato le loro azzioni ad essi oratori,
ottimi e religiosissimi padri; perilché abbraccia e loro et i loro mandati
presentati.
[Si tratta della residenza, con molta passione
e diversità]
Nelle
congregazioni, che da' 7 sino a' 18 furono assiduamente tenute, fu da' padri
detto sopra i primi 4 articoli, ma molto diffusamente sopra il primo della
residenza. Di quelli che nel primo concilio intervennero, quando un'altra volta
se ne trattò con qualche differenza, anzi controversia, non si ritrovarono
se non cinque vescovi in questo, e nondimeno alla prima proposta si divisero
immediate in parti, come se tra loro la contenzione fosse stata antica, cosa
che in nissun'altra questione accadette, né allora, né sotto Giulio, né al
presente. La causa di ciò alcuni ascrivono perché le altre trattazioni,
o come teologiche erano poco intese e speculativamente dagl'intendenti
trattate, senza che affetto intervenisse se non di odio contra protestanti,
quali, col metter a campo quelle materie, erano causa di travaglio; ma questo
alle proprie persone de' prelati toccava. Ne' cortegiani prevaleva o
l'ambizione, o l'obligo a seguir l'opinione a' padroni commoda; gl'altri erano
mossi assai d'invidia, che non avendo arte d'alzarsi dove quelli pervenivano o
aspiravano, non potendo ugualiarsi elevandosi essi, volevano tirargli abbasso
allo stato suo, acciò cosí fossero tutti uguali. In questo articolo
tutti s'affaticarono secondo la sua passione e tennero gran conto del voto
proprio reso nelle congregazioni, e di quel d'altri, che avesse qualche
condizione notabile. Di tanto numero,
Il patriarca
di Gierusalem considerò che quest'articolo era stato trattato e discusso
nel primo concilio, e concluso che le provisioni per introdur la residenza
erano due: l'una statuir pene a' non residenti, l'altra levar impedimenti alla
residenza. Il primo era compitamente ordinato nella sessione sesta, né si vi
poteva aggionger di piú, atteso che la privazione della metà delle
entrate per pena pecuniaria è gravissima, né si può imponer
maggiore, non volendo mandar li vescovi mendicando; altra pena maggiore non si può
inventare, quando la contumacia eccessiva cosí meritasse, salvo che la
privazione, la qual avendo bisogno d'un essecutore, né potendo esser altri che
il papa, poiché l'antica usanza della Chiesa ha riservato a quella Sede la
cognizione delle cause de' vescovi, già in quella sessione s'è
rimesso alla Santità Sua di trovar rimedio, o per mezo d'una provisione
nuova, o per altro, et ubligato il metropolitano ad avisarla dell'assenza. Alla
seconda provisione fu dato principio, e furono con piú decreti, in quella sessione
e nelle altre, levate molte essenzioni d'impedimento a' vescovi d'essercitar il
loro carico. Resta adonque al presente solo continuare e levare il rimanente,
elegendo come allora fu fatto un numero de padri che raccogliano
gl'impedimenti, acciò in congregazione possino esser proposti e
proveduti.
L'arcivescovo
di Granata soggionse che in quel concilio fu proposto un altro piú potente et
efficace rimedio, cioè che l'obligo di riseder fosse per legge divina,
il che fu trattato et essaminato per 10 mesi continui; e se quel concilio non
fosse stato interrotto, sarebbe stato deciso come articolo necessario, anzi
principale della dottrina della Chiesa, che non solo fu allora discusso, ma
furono anco poste in stampa da diversi le raggioni usate: sí che la materia è
preparata e digesta, né resta altro al presente che dargli perfezzione. Quando
sarà determinato che la residenza sia de iure divino, cesseranno
da loro medesimi tutti gl'impedimenti; i vescovi, conosciuto il loro debito,
penseranno alla conscienza propria; non si riputaranno mercenarii, ma pastori;
e conoscendo il gregge essergli da Dio consignato e doverne a lui render conto
e non potersi scusar sopra altri, e certificati che le dispense non gli
giovano, né gli salvano, attenderanno al loro debito. E passò a provar
con molte autorità del Nuovo e del Vecchio Testamento et esposizione de'
padri che fosse verità catolica. Questa opinione fu approvata dalla
maggior parte della congregazione, affatticandosi i difensori di quella a
portare autorità e raggioni.
Furono altri
che la reprobavano, dicendo che era nuova, non mai intesa, non tanto
nell'antichità, ma né meno in questo secolo inanzi il cardinale Gaetano,
che promosse la questione, e sostenne quella parte, la qual però egli
abandonò, perché in vecchiezza ricevette un vescovato e mai andò
alla residenza; che in ogni tempo la Chiesa ha tenuto che il papa possi
dispensare; che i non residenti in tutti i secoli sono stati o puniti o ripresi
come transgressori de' canoni solamente, e non di legge di Dio; che nel primo concilio
fu disputata, ma la disputa fu cosí pericolosa che i legati, uomini
prudentissimi, con destra maniera la fecero andar in silenzio; il che debbe
esser preso in essempio, e li libri che dopo sono stati scritti hanno dato al
mondo gran scandalo e fatta conoscer che la disputa era per sola
parzialità. Perché, quanto alle autorità della Scrittura e de'
padri, quelle sono essortazioni alla perfezzione, e non vi è di sodo se
non i canoni, che sono leggi ecclesiastiche.
Alcuni
tenevano opinione che non era né luogo, né tempo, né opportunità di
trattar quella questione, e che nissun bene nascerebbe dal determinarla, ma
s'incorrerebbe pericolo di molti mali; che quel concilio era congregato per
estirpar l'eresie e non per metter scisma tra' catolici, come avverrebbe
condannando un'opinione seguita, se non dalla maggior parte, almeno dalla
metà; che gl'autori di quel parere non l'hanno inventato per
verità, ma per trovar maggior stimolo alla residenza; con poco
fondamento di raggione però, atteso che non si vedono uomini piú
diligenti in guardarsi dalle transgressioni della divina legge, che di quella
della Chiesa; che il precetto della quaresima è meno trasgredito che
quei del decalogo; che se il confessarsi e communicarsi alla Pasca fosse
precetto di Dio, non si communicherebbono piú di quelli che adesso lo fanno;
che il dir messa con gl'abiti è legge ecclesiastica e nissun la
transgredisce; chi non obedisce a' commandamenti penali de' canoni, darà
piú facilmente nella transgressione quando non temerà pene temporali, ma
la sola giustizia divina, né vescovo alcuno per quella determinazione si
moverà, ma ben darà occasione di machinar ribellioni dalla Sede
apostolica e restrizzione dell'autorità ponteficia, come già si
sente susurrare tra alcuni, et alla depressione della corte romana; che quella
era il decoro dell'ordine clericale, qual negl'altri luoghi era rispettato per
risguardo di quella; che quando fosse stata depressa, la Chiesa sarebbe meno
stimata in ogni luogo, e però non era giusto trattar una materia tale
senza communicarla con Sua Santità e col collegio de' cardinali, a'
quali principalmente questa cosa toccava.
Non è
da tralasciare il parer di Paolo Giovio, vescovo di Nocera, che in sostanza
disse esser il concilio ridotto per medicar una piaga grande certamente, che
è la deformazione della Chiesa; della quale tutti sono persuasi esserne
causa l'assenza delli prelati dalle sue chiese; il che da tutti affermato, da
nissun è forse a bastanza considerato: ma non è da savio medico
trattar di levar la causa senza aversene prima ben certificato e senza ben
avvertite se, levandola, causerà altri mali maggiori. Se l'assenza de'
prelati fosse causa delle corrozzioni, meno deformazione si vederebbe in quella
chiesa, dove nel nostro secolo i proprii prelati hanno fatto residenza, i sommi
pontefici già cento anni sono assiduamente fermati in Roma, hanno usato
esquisita diligenza per tener il popolo instruito; non vediamo però
quella città meglio formata. Le gran città, capi de' regni, sono
le piú deformate, et a quelle non hanno i prelati loro mancato di risedere: per
contrario, alcune misere città, che già 100 anni non hanno visto
vescovo, sono le meno corotte; e de' vecchi prelati che sono qui presenti e
nelle loro chiese hanno fatto continua residenza, che pur ve ne sono, nissun
potrà mostrare la sua diocese migliore delle vicine che sono state senza
vescovo. Chi dice che siano gregge senza pastore, consideri che non i vescovi
soli, ma i parochi ancora hanno la cura delle anime; si parla de' vescovi
solamente, e pare che non possino esser fedeli cristiani dove vescovo non sia;
pur vi sono montagne che mai hanno veduto vescovi e possono esser essemplare
alle città episcopali. Doversi lodare et immitare il zelo e l'opera de'
padri del concilio primo, che con le pene abbiano incitato i prelati a star
alle chiese proprie e dato principio a levar quei impedimenti che
gl'allontanavano, ma non doversi ingannar con la speranza che questa residenza
sia la riforma della Chiesa, anzi dover star con timore che, sí come adesso si cercano
rimedii per la residenza, cosí la posterità, avendo visto altri
inconvenienti che da quella nasceranno, cercherà rimedii della assenza.
Non doversi cercar legami tanto forti che al bisogno non si possino sciogliere,
come sarebbe quel ius divinum che adesso, dopo 1400 anni, si vuol
introdurre; dove un vescovo sarà pernizioso, come s'è veduto il
coloniense, con questa dottrina vorrà difendersi di non ubedir al papa,
se lo citerà a dar conto delle sue azzioni o se lo vorrà tener
lontano, acciò non fomenti il male. Aggionse vedere che li prelati che
sentono l'articolo abbiano buon zelo, ma creder anco che alcuni potrebbono
servirsene a fine di sottrarsi dall'ubedienza del pontefice, la quale quanto
è piú stretta, tanto tiene piú unita la Chiesa; ma a questi voler
raccordare che quanto operano a quell'effetto, riuscirà anco a favore
de' parochi per sottrarsi dalla ubedienza de' vescovi. Perché, decchiarato
l'articolo, essi se ne valeranno a dire che il vescovo non gli può levar
dalla Chiesa, né restringergli l'autorità con le riservazioni, e come
immediati pastori da Dio dati pretenderanno che il gregge sia piú loro che del
vescovo, et a questo non ci sarà risposta. E sí come il governo della
Chiesa per la ierarchia s'è conservato, cosí darà in una popularità
et anarchia che la destruggerà.
Giovanni
Battista Bernardo, vescovo di Aiace, tra quelli che credendo la residenza de
iure divino riputavano che non fosse ben parlar di quella questione, uscí
con una sentenzia singolare, e disse che non avendo mira di stabilir piú una
che l'altra opinione, ma solo obligar alla residenza, sí che si metta in
effetto realmente, esser vano il decchiarare d'onde venga l'ubligazione e non
meno vana ogni altra cosa, salvo che il levar la causa dell'assenza; questa non
esser altra se non che i vescovi si occupano nelle corti de' prencipi, negli
affari de' governi mondani: sono giudici, cancellieri, secretarii, conseglieri,
financieri, e pochi carichi di Stato vi sono, dove qualche vescovo non sia
insinuato. Questi ufficii gli sono proibiti da san Paolo, che ebbe per
necessario al soldato di Chiesa astenersi da negozii secolari; esseguiscasi
questo, che è precetto divino, proibiscasi che non possino aver né
carico, né ufficio, né grado ordinario, né straordinario negl'affari del secolo;
che proibitogli questo et ordinato che non s'impediscano in negozii secolari,
non restando a' vescovi causa di star alla corte, anderanno alla residenza da
se stessi senza precetti, senza pene, né vi sarà occasione alcuna di
partirsi. In conclusione inferí che fosse nel concilio fatta una decchiarazione
che non fosse lecito a' vescovi, né ad altri che hanno cura d'anime di
essercitare alcun ufficio o carico secolare.
A questo
s'oppose il vescovo di Cinquechiese, ambasciatore dell'imperatore, dicendo che,
se le parole di san Paolo avessero il senso datogli, conveniva condannare tutta
la Chiesa e tutti i prencipi, dall'anno 800 sino al presente, di quello di che
sono sopra tutto commendati: questi dell'aver donato e quelli d'aver accettato
giurisdizzioni temporali, le quali anco sono state essercitate da' pontefici
romani e vescovi posti nel catalogo de' santi. Li megliori imperatori, re di
Francia, Spagna, Inghilterra et Ongaria hanno tenuto ripieno il loro conseglio
de prelati, quali converrebbe aver tutti per dannati, quando il divino precetto
gli proibisce servir in quei carichi. S'inganna chi crede il precetto di san
Paolo risguardar solo le persone ecclesiastiche: quello è diretto a
tutti i fedeli cristiani che sono soldati di Cristo, et inferisce san Paolo
che, sí come il soldato mondano non si occupa nelle arti con che la vita si
sostenta, come ripugnanti al carico militare, cosí il soldato di Cristo,
cioè ogni cristiano, debbe astenersi dagl'essercizii che repugnano alla
professione cristiana; questi sono i soli peccati: ma tutto quello che si
può essercitare senza peccato è lecito ad ogni uno. Non si
possono riprender li prelati di servir in quei maneggi senza dire che sono
peccati. La grandezza della Chiesa e la stima che il mondo ne fa, viene piú dal
vedersi le degnità ecclesiastiche collocate in persone di nobiltà
e di gran sangue, e li prelati implicati ne' carichi importanti, i quali,
quando s'avessero per incompatibili con gl'ecclesiastici, nissun nobile
interverrebbe in quell'ordine, nissun prelato sarebbe stimato, e la Chiesa
sarebbe abietta con soli plebei e plebeamente viventi. Ma in contrario li buoni
dottori hanno sempre sostenuto che siano contra la libertà ecclesiastica
quei statuti, quali escludono dalle publiche amministrazioni gl'ecclesiastici,
a' quali convengono per il loro nascimento, e le proibizioni che li carichi
publichi non possino esser dati a' preti. Fu questo udito con applauso da tutti
i prelati, eziandio di quelli che sentivano la residenza de iure divino,
tanto gl'affetti sono potenti negl'uomini, che non lasciano discernere le
contradizzioni.
[Esame del secondo articolo delle promozioni a
titolo di patrimonio]
Sopra
gl'altri articoli fu leggier discussione, però con qualche detto
notabile. Per quel che tocca al secondo, del proibir le ordinazioni a titolo
del patrimonio, certo è che, dopo constituita e fermata la Chiesa e
deputati i ministerii necessarii in ciascuna, ne' buoni tempi non era ordinata
persona, se non deputandola ad alcun proprio ministerio, in breve andò
questo santo uso in abuso, poiché diversi, per aver essenzioni e per altri
mondani rispetti e li vescovi per aver molto clero, ordinavano chiunque
ricchiedeva. Per tanto nel concilio calcedonense fu proibita questa sorte
d'ordinazione, quale allora si chiamava assoluta o sciolta, che cosí
propriamente significa la voce greca, commandando che nissun fosse ordinato, se
non a carico particolare, e che le sciolte ordinazioni fossero nulle et irrite;
il che fu poi confermato per molti canoni posteriori, onde restò questa
regola come massima fermata nella Chiesa, che nissun potesse esser ordinato
senza titolo; e negl'antichi e buoni tempi titolo s'intendeva carico o
ministerio da essercitare. Introdotte le corrozzioni, s'incomminciò a
intender titolo una entrata di dove si cava il vitto, e quello che era
constituito acciò nel clero non fosse persona oziosa, si
transformò acciò non fosse persona indigente, che perciò
fosse costretta acquistar il vitto con sua fatica; e coperto il vero senso de'
canoni con questa intelligenza, Alessandro III lo stabilí nel suo lateranense,
dicendo che nissun fosse ordinato senza titolo, di onde riceva provisione
necessaria alla vita, e diede la eccezzione alla regola: se non aveva di suo o
di paterna eredità. La qual eccezzione sarebbe molto raggionevole quando
non fosse ricercato il titolo, salvo che per dar da vivere. Per questa causa
molti con false prove, mostrando d'aver patrimonio, erano ordinati; altri, dopo
ordinati al vero patrimonio, lo alienavano, et altri, trovato chi gli cedesse
tanto d'aver che fusse a sostentarlo sufficiente, s'ordinava e lo rendeva dopo
a chi gliel'aveva commodato; onde era un numero grande de preti indigenti, per
quali nascevano molti inconvenienti meritevoli di provisione.
L'articolo di
che si parla fu alla sinodo proposto. Nel quale furono varie opinioni: dicevano
alcuni che, stabilita la residenza de iure divino et essercitando ogni
uno il suo carico, le chiese saranno perfettamente servite e non vi sarà
alcun bisogno de chierici non beneficiati, né di ordinazioni a titolo di
patrimonio, o ad altro; e tutti gl'inconvenienti saranno rimediati: non
sarà nel clero persona oziosa, da che vengono innumerabili mali e
cattivi essempii; non sarà alcun mendicante, né constretto ad essercizii
vili per bisogno; esser certo che nissuna è buona riforma, salvo quella
che riduce le cose al suo principio; esser vissuta in perfezzione la Chiesa
nell'antichità per tanti secoli, e con questo solo potersi ritornare
alla sua integrità. Un altro parer era che non dovesse esser proibito
l'ingresso agl'ordini sacri ad alcuna persona che per bontà o
sufficienza lo meritasse, perché si trovasse in povertà, allegando che
nella Chiesa primitiva non erano i poveri esclusi; né meno la Chiesa aborriva
che i chierici e sacerdoti s'acquistassero il vitto con la propria fatica,
essendovi l'essempio di san Paolo apostolo e di Apollo evangelista che con
l'arte di far padiglioni toleravano la vita; et anco dopo che i prencipi furono
cristiani, Costanzo, figlio di Constantino, nel suo nono consolato diede un
privilegio a quei del clero che non pagassero gabelle di quello che
trafficavano nelle botteghe e ne' laboratorii, poiché lo participavano co'
poveri: cosí veniva in quel tempo osservato il documento di san Paolo a'
fedeli, che s'affaticassero in onesta opera, per aver di che sovvenir i poveri;
doversi aver per indecente al grado clericale il viver vizioso e scelerato che
al popolo dia scandalo; ma il travagliar e viver di sua fatica esser cosa
onesta e di edificazione; e se mai alcun, per infermità che
sopravenisse, fosse costretto mendicare, non esser cosa vergognosa, poiché non
è vergogna a' frati, che hanno anco a gloria chiamarsi mendicanti. Non
esser proposizione da cristiano che il lavorare, il viver di sua mano, il mendicar
in caso d'impotenza sia indecente a' ministri di Cristo, o che altra cosa
disdica loro che il vizio. E se alcuno fosse d'opinione che l'indigenza fosse
causa di far commetter rapacità o altri delitti, pensandoci ben
ritroverà che simil mali sono commessi piú da' ricchi che da' poveri, e
che l'avarizia è piú impotente et indomita che la povertà, la
qual essendo negoziosa, leva le occasioni di far male. Stanno insieme buono e
povero, non si comportano buono et ozioso. Esser scritto e predicato il gran
beneficio che la Chiesa militante in questo secolo e quella che è nel
purgatorio riceve per le messe, quali non sono celebrate da' sacerdoti ricchi,
ma da' poveri; quando questi fossero levati, i fedeli viventi e le anime de'
morti private sarebbono da gran suffragii; che meglio era far strettissimo
ordine che le persone di bontà e sufficienza s'ordinassero senza alcun
titolo, poiché al presente cessa la causa perché l'antichità lo proibí,
la qual fu perché gl'intitolati, adoperandosi nelle fonzioni ecclesiastiche,
erano di edificazione, e quegli altri, come oziosi, di scandolo; dove adesso
gl'intitolati per lo piú non si degnano de' ministerii ecclesiastici e vivono
in delizie, et i poveri fanno le fonzioni e dànno edificazione.
Non fu da
molti seguito questo parer; ma ebbe grand'applauso un medio, che l'uso
introdotto fosse servato di non ordinare senza titolo o di beneficio
ecclesiastico, o di patrimonio sufficiente alla vita, acciò non si
vedessero sacerdoti mendicare con indegnità dell'ordine; e per ovviare
alle fraudi fosse statuito che dal vescovo s'usasse diligenza che il
patrimonio, al quale il chierico è ordinato, non si potesse alienare. A
questo contradisse Gabriel de Veneur, vescovo di Vivers, dicendo che il
patrimonio de' chierici è cosa secolare, sopra quale l'ecclesiastico non
può far legge di sorte alcuna. Molte occasioni anco poter nascer per
quali la legge overo il magistrato potesse legitimamente commandare che fosse
alienato; ma generalmente esser cosa chiara che i beni patrimoniali de'
chierici, quanto alle prescrizzioni et ad ogni forma di contratto, sono
soggetti alle leggi civili. Però esser molto da pensare prima che
assumersi autorità d'annullare un contratto civile.
[Pagamenti, prezzi e simonia nella collazion
de' beneficii]
L'occasione
di proponer il terzo articolo fu perché il precetto di Cristo, che tutte le
grazie spirituali fossero liberamente et assolutamente donate, sí come cosí da
lui sono ricevute, era in molte parti trasgresso nella collazione degl'ordini.
Né questo abuso era recente, anzi ne' tempi passati molto maggiore; imperoché,
essendo ne' principii del cristianesmo frequente la carità, il popolo,
che da' ministri di Cristo riceveva le cose spirituali, non solo secondo il
precetto divino esplicato da san Paolo, corrispondeva contribuendo il vitto
necessario, ma anco abondantemente, sí che avanzasse per spesar ancor li
poveri, senza mira né pensiero alcuno che il temporale fosse precio del
spirituale. Ma dopo che il temporale, che era in commune tenuto e goduto, era
diviso, et a' titoli applicata l'entrata sua, chiamato beneficio, non essendo
allora distinta l'ordinazione dalla collazione del titolo e per consequenza del
beneficio annesso a quello, ma dandosi e ricevendosi tutt'insieme per
gl'emolumenti che portava seco a gl'ordinatori, pareva di dar oltre lo
spirituale, cosa temporale ancora, per la quale si potesse ricever altra
mondana in ricompensa; e chi dissegnava ottenerla, era costretto accommodarsi
alla volontà di chi poteva darla, e si fece facilmente una negoziazione
aperta, che nella Chiesa orientale, benché con molti canoni e censure, mai ha
potuto esser corretta, se ben la virtú divina potente, avendogli levato con la
verga de' saraceni gran parte de' commodi, l'ha sminuito assai; e
nell'occidentale, con gran reprensione de' buoni, restò, dove piú, dove
meno, sin tanto che intorno l'anno di nostra salute 1000 si divise
l'ordinazione dalla collazione del beneficio; per qual causa allora quella
incomminciò a passar gratuitamente et in questa il precio piú all'aperta
era ricercato; e questo abuso s'è sempre aummentato, quantonque con
diverse mutazioni de nomi, d'annate, minuti servizii, scrittura, bollo et altre
tal coperte, sotto quali ancora camina nella Chiesa con poca speranza che si
possi mai levare, sin che Cristo medesmo in persona un'altra volta con la
sferza non rivolti le mense de' banchieri e scacci loro dal tempio. Ma
l'ordinazione che, separata dalla collazione del beneficio, ebbe ventura
d'esser amministrata gratuitamente, la godette poco tempo; Imperoché i vescovi,
avendola per cosa infruttuosa et abietta, et attendendo a quell'altra sola che
rende, tralasciarono pian piano d'amministrar le ordinazioni; onde
s'instituirono i vescovi portativi, che servivano a' ministerii ponteficali
ecclesiastici, restando i veri vescovi occupati nel solo temporale. Quelli,
senza entrate, erano costretti cavar il vitto dalle fonzioni amministrate; onde
chi da loro riceveva ordine, era costretto contribuire, prima con titolo di
limosina o di offerta, poi, per farlo piú onorevole, di donativo o presente; e
passando inanzi, acciò essendo debito non fosse tralasciato, fu coperto
con nome di mercede, non dell'ordinatore, ma de' servitori suoi o del notario,
o d'altri che lo serviria nell'ordinazione. Di questo donque si propose
l'articolo, che dell'occorrente nella collazione del beneficio non si poteva
parlare, come d'infermità non curabile con altro rimedio che con la
morte.
Sopra questo
articolo non fu parlato diversamente per openioni e per affetti, ma i prelati
si divisero per qualità delle persone: li vescovi ricchi dannavano il
ricever alcuna cosa, né per sé, né per ufficiali o notarii, come cosa simoniaca
e sacrilega, portando l'essempio di Giezi, servo del profeta Eliseo, e di Simon
Mago, et il severo precetto di Cristo: «Date gratuitamente, sí come avete
ricevuto»; e molte essaggerazioni de' padri contra questo peccato, dicendo che
i nomi di donativo spontaneo o di limosina sono colori vani, a' quali l'effetto
repugna, poiché si dà per aver l'ordine, che senza quello non si
darebbe; e se è limosina, perché non si fa se non per quell'occasione?
Facciasi in altro tempo, diansi gl'ordini senza intervento d'alcuna cosa, chi
vorrà far la limosina, la farà in altro tempo; ma il mal esser
che, se uno dicesse all'ordinatore di dargli per limosina, l'averebbe per
ingiuria, né in altro tempo la riceverebbe; perilché non doversi creder di
poter ingannar né Dio, né il mondo. Concludevano questi doversi far decreto
assoluto che non si potesse né dar, eziandio spontaneamente, ancorché sotto
nome di limosina, né ricever parimente, non solo all'ordinatore, ma né ad
alcuno de' suoi, né meno al notario sotto nome di scrittura o di sigillo, né di
fatica, né sotto qual si voglia altro pretesto.
Ma i vescovi
poveri et i titolari in contrario dicevano che, sí come il dar gl'ordini per
prezzo è scelerato sacrilegio, cosí il levar la limosina, tanto da
Cristo commendata, distrugge la carità e disforma a fatto la Chiesa: la
stessa raggione in tutto e per tutto militare nelle ordinazioni che nelle
confessioni, communioni, messe, sepolture et altre ecclesiastiche fonzioni;
nissuna causa esserci perché si debba proibir il dar spontaneamente et il
ricever in quelle, che in tutte queste, e quello che si allega che essendo
limosina si faccia in altri tempi, corre anco in tutte le altre fonzioni
sudette. La Chiesa da antichissimo tempo aver costumato di ricever oblazioni e
limosina con queste occasioni, le quali se si leveranno, in consequenza i
poveri religiosi, che di quelle vivono, saranno costretti ad altro attendere;
li ricchi non vorranno far gl'ufficii, come chiaro appare et è apparso
da 500 anni in qua; onde l'essercizio della religione si perderà e
restando il popolo senza quella, converrà che dia in una impietà
o in diverse perniciose superstizioni. E non uscendo del proprio spettante alle
ordinazioni, se, senza riprensione, per li pallii che la Sede apostolica
dà a' metropolitani, sono conferiti migliara di scudi, come si
potrà reprender una picciola recognizione che il vescovo riceva dagl'ordini
inferiori? Qual raggione vorrà che siano con diverse, anzi contrarie
leggi regolate le cose dell'istesso genere? Non si può chiamar abuso
quello che nell'origine è instituito. Resta ancora nel pontificale, che
all'offertorio nelle ordinazioni viene dagl'ordinati presentato al vescovo
ordinatore i cerei, che pur sono cose temporali, e con la grandezza et
ornamenti si possono far di gran prezio; non esser donque cosa cosí cattiva
come viene depinta, né meritare che con infamia de' miseri vescovi si vogli
acquistare laude de riformatori, immitando i farisei nell'osservare le fistuche
e collare i mosciolini.
Dissero anco
alcuni che l'articolo non si poteva statuire come contrario al decreto
d'Innocenzio III nel concilio generale, dove non solo fu approbato l'uso di dar
e ricever cosa temporale nel ministerio de' sacramenti, ma fu commandato a'
vescovi che constringessero il popolo con censure e pene ecclesiastiche ad
osservare la consuetudine, dando questo titolo di lodevoli a quelle che si
trattava ora di condannare come sacrileghe.
Ma Dionisio,
vescovo di Milopotamo, fece longa digressione in mostrare quanta sarebbe
l'edificazione che i fedeli riceverebbono, quando dagl'ecclesiastici fossero
amministrati i sacramenti per pura carità e non aspettando mercede da
altri che da Dio; affermò essergli debito il vitto e maggior sovvenzione
ancora, ma a questo esser già stato sodisfatto con l'assegnazione delle
decime pienamente e soprabondantemente, poiché non essendo il clero la decima
parte del popolo, riceve cosí gran porzione, senza gl'altri beni posseduti, che
sono il doppio tanti; però non esser cosa giusta adesso pretender quello
che già si è ricevuto centuplicatamente, e se sono vescovi
poveri, non è che povera sia la Chiesa, ma le ricchezze mal divise; con
una legitima distribuzione tutti sarebbono accommodati e si potrebbe dar senza
altro contracambio quello per che già si è ricevuto piú che la
mercede. Aggionse che non potendosi levar tutt'insieme li molti abusi,
commendava l'incomminciar da questo delle ordinazioni, non restringendolo
però alla sola azzione del conferir il sacramento, ma estendendolo alle
precedenti ancora. Perché gran assordità sarebbe che si pagassero alle
cancellarie de' vescovati assai care le lettere dimissoriali, per quali viene
il chierico licenziato per andar a procurarsi ordinatore, et in Roma la
facoltà di ordinarsi fuori de' tempi statuiti, e la riforma fosse posta
sopra i soli vescovi ordinatori. Questo parer, quanto alle dimissoriali de'
vescovi, fu approvato da molti; quanto alla facoltà da Roma disse il
cardinale Simoneta che il pontefice averebbe proveduto e non era cosa da
trattare in concilio.
Della mercede
de' notarii si disse qualche cosa; perché alcuni, avendolo per ufficio puro
secolare, sentivano che non si dovesse impedire il pagamento; altri l'avevano
per ufficio ecclesiastico. Antonio Agostini, vescovo di Lerida, osservatore
dell'antichità, disse che nell'antica Chiesa i ministri erano ordinati
in presenza di tutto 'l popolo, onde non era bisogno di patente o lettera
testimoniale, et applicati ad un titolo non mutavano diocesi, e se occorreva
viaggiare per qualche rispetto, avevano una lettera del vescovo, chiamata
allora: formata. L'uso delle lettere testimoniali è nato dopo che il
popolo non interviene alle ordinazioni e che i chierici sono fatti vagabondi, e
come introdotto in supplimento della presenza del popolo; piú tosto si debbe
aver per ufficio temporale, ma come applicato a materia spirituale, da
essercitarsi con moderazione; perilché il parere suo era che se gli concedesse
mercede, ma limitata e moderata.
[Prebende e distribuzioni nelle chiese
collegiate]
Quello di che
nel quarto capo si propose non appartiene salvo che alle chiese collegiate, le
quali avendo dalla sua instituzione, tra le altre fonzioni, anco questa di
congregarsi nella chiesa per lodar Dio alle ore da' canoni determinate, e
perciò canoniche dette, ebbero insieme applicate rendite da' quali fosse
tratto il vitto de' canonici, il qual era loro assegnato in un de' 4 modi: che
overo in commune vivevano con una sola mensa e spesa, come i regolari, o pur
erano compartite le entrate, et assegnata a ciascuno la sua porzione,
perciò prebenda dimandata, overo finito il servizio era distribuito loro
il tutto, o in vettovaglia, o in danari. Quelli che in commune vivevano, poco
tempo continuarono a quella disciplina, che essi ancora vennero alla divisione,
o in prebende, o in distribuzioni a' prebendati, essendo iscusati dagl'ufficii
divini quelli che per infermità o per alcuna spirituale occupazione non
potevano ritrovarsi. Fu facile usar il pretesto et introdur usanza
d'intervenire poche volte nella chiesa e pur goder la prebenda; ma a chi la
misura era distribuita dopo l'opera, non poteva iscusarsi, onde la disciplina e
la frequenza agl'ufficii durò piú in questo secondo genere che nel
primo; per la qual causa i fideli donando o legando di novo alle chiese,
ordinavano che fosse posto in distribuzioni. Onde avvenne che con esperienza
apparivano tanto meglio ufficiate le chiese, quanto maggiori erano le
distribuzioni; pareva per tanto s'avesse potuto rimediare alla negligenza di
quelli che non intervenivano agl'ufficii coll'incitargli per questo mezo,
pigliando parte delle prebende e facendone distribuzioni. Questo partito era
molto commendato da buon numero de prelati, come di onde doveva seguir
indubitatamente aummento notabile del colto di Dio, né potersi dubitare, poiché
già con esperienza si vedeva l'effetto: né altro era detto per
fondamento di questa openione.
Ma in
contrario era il parere di Luca Bisanzio, vescovo di Cataro, pio e povero, che
piú tosto fossero costretti li prebendati per censure e privazioni de parte de'
frutti et anco di tutti e delle prebende stesse, ma non fosse alterata la forma
prima; perché essendo quasi tutte le instituzioni per testamenti de fedeli,
quelli si debbono tener per inviolabili et inalterabili; né si debbono mutar,
non tanto per pretesto di meglio, quanto né anco per un vero meglio, non
essendo giusto metter mano in quello d'altrui, perché egli non lo amministri in
meglior modo. Ma quello che si doveva aver per piú importante, essendo cosa
certa che è simonia ogni fonzione spirituale essercitata per premio,
volendo rimediare ad un male, si apriva porta ad un peggiore, facendo de
negligenti, simoniaci. Alle qual raggioni per l'altra parte si rispondeva che
nel concilio era potestà di mutar le ultime volontà, e quanto al
ritrovarsi agl'ufficii divini per guadagno speciale, bisogna distinguere che il
guadagno non era causa principale, ma secondaria, e però non vi cadeva
peccato, poiché principalmente li canonici anderanno agl'ufficii per servir
Dio, e secondariamente per le distribuzioni. Ma si replicava dagl'altri non
saper veder che il concilio abbia maggior potestà sopra la robba de'
morti che de' vivi, quale nissun è cosí impertinente che la pretenda;
poi, che non era cosí sicura dottrina, come s'affermava, che il servir Dio
secondariamente per guadagno sia cosa lecita. E quando cosí fosse, non potersi
in modo alcuno chiamar secondaria, ma principale, quella causa che muove ad
operare e senza quale non si operarebbe. Questo parere non fu molto gratamente
udito, e nella congregazione eccitò molto mormorio, poiché ogni uno,
conscio a se stesso d'aver ricevuto il titolo e carico per l'entrate e che
senza quelle non l'averebbe accettato, pareva che si sentisse condannare.
Però ebbe grand'applauso l'articolo che si convertissero le prebende in
distribuzioni, per incitar al divin servizio nel miglior modo che si
può.
[Disparere tra il numero de' voti della
residenza]
Finito di
parlare sopra questi articoli, furono deputati padri per formar i decreti, e si
propose, che nelle seguenti congregazioni si dovesse parlar sopra sei altri,
lasciando quello del matrimonio clandestino per un'altra sessione. Ma nel dí
seguente i legati si ridussero insieme co' deputati per cavare sustanza delle
sentenzie de' padri; e sopra il primo articolo della residenza furono in
disparere tra loro. Favoriva Simoneta l'opinione che fosse de iure positivo,
e però diceva esser stata sentenza della maggior parte, anco di quelli
che la sentivano de iure divino, che quella questione si tralasciasse.
Mantova, senza esplicare quello ch'egli sentisse, diceva che la maggior parte
aveva dimandata la dicchiarazione; degl'altri legati, Altemps seguiva Simoneta,
gl'altri doi, se ben con qualche risguardo, aderivano a Mantova, et il
disparere tra loro non passò senza qualche senso acerbo, se ben con
modestia espresso. Fecero per questa causa a' 20 i legati congregazione
generale, nella quale fu letta de scripto l'infrascritta dimanda,
cioè: «Perché molti padri hanno detto che si debbia dicchiarare la
residenza esser de iure divino, et altri di ciò non hanno fatto
parola, et alcuni sono stati di parere che una tal dicchiarazione non si
facesse, acciò li deputati a formar i decreti possino formargli presto,
facilmente e sicuramente, dicano le Signorie Vostre col solo verbo placet,
se vogliono o no la dicchiarazione che la residenza sia de iure divino.
Perché, secondo il maggior numero de' voti e pareri, si scriverà il decreto,
come è stato sempre solito farsi in questa santa sinodo, atteso che non
si può da' voti detti cavar il vero numero per le varietà de'
pareri. E siano contente di parlar cosí chiaro e distinto, et ad uno ad uno, sí
che il voto di ciascuno possi esser notato».
Andati i voti
attorno, 68 furono che dissero assolutamente: «Placet»; 33 assolutamente
risposero: «Non placet»; 13 dissero: «Placet, consulto prius sanctissimo domino
nostro», e 17 risposero: «Non placet, nisi prius [consulto] sanctissimo domino
nostro». Erano differenti li 13 da' 17, perché volevano assolutamente la
dicchiarazione, pronti a non volere, quando il papa fosse di contraria
opinione; li 17 assolutamente non la volevano, contentandosi però se il
papa l'avesse voluta egli. Differenza ben sottile; ma dove ciascuno riputava
far meglio il servizio del patrone. Il cardinale Madruccio non volle risponder
precisamente all'interrogato, ma disse che si rimetteva al voto detto in
congregazione, il qual era stato a favore del ius divinum; et il vescovo
di Budua disse che aveva la dicchiarazione per fatta affermativa e che gli
piaceva che fosse publicata. Raccolti i voti e divisi, e veduto che piú della
metà volevano la dicchiarazione et una quarta parte solamente non la
voleva, e gl'altri, se ben con la condizione, erano co' primi, nacquero parole
di qualche acerbità, et il rimanente della congregazione passò in
discorsi sopra questa materia, non senza molta confusione; la quale vedendo, il
cardinale di Mantova, fatto silenzio et essortati i padri a modestia, gli
licenziò.
Si
consultò tra i legati quello che si doveva fare, e furono tutti concordi
di minutamente dar conto al pontefice di tutto 'l successo et aspettarne
risposta, e tra tanto proseguir le congregazioni sopra gl'articoli rimanenti.
Voleva Mantova mandar a questo effetto Camillo Oliva, secretario suo, in posta
con lettere di credenza, e Simoneta che si scrivesse il tutto in lettere. Fu
concluso di componer insieme i pareri, e scritta una longa relazione del
successo e rimesso il sopra piú al secretario, quello il giorno medesimo, la
sera, partí di Trento. Il che, se ben esseguito con somma secretezza,
penetrò nondimeno subito a notizia degli spagnuoli, quali fecero
grandissime indoglienze che si vedesse dato principio ad un insopportabile
aggravio, che ogni trattazione s'avesse non solo ad avisare, ma consultare e
risolvere anco a Roma; che il concilio, congregato in quella città
medesima due altre volte, per questa causa non ebbe successo e si disciolse
senza frutto e con scandalo ancora, perché niente era risoluto da' padri, ma
tutto in Roma; tanto che era passato in bocca di tutti un blasfemo proverbio:
che la sinodo di Trento era guidata dallo Spirito Santo, inviatogli da Roma di
volta in volta nella valise; che minor scandalo era stato dato da quei papi,
quali ricusarono il concilio a fatto, che da questi che, congregatolo, l'hanno
tenuto e tengono in servitú. Allora il mondo restava in speranza che, se pur
una volta si poteva impetrar il concilio, s'averebbe visto rimedio ad ogni male;
ora, osservate le cose già passate sotto 2 pontefici e che ora
s'inviano, ogni speranza di bene si vede estinta, né piú bisogna aspettar alcun
bene dal concilio, se debbe esser ministro degl'interessi della corte romana e
moversi o fermarsi ad arbitrio di quella.
Questo diede
occasione che nella congregazione seguente, dato principio a parlare sopra
gl'articoli proposti, in poche parole si reintrò nella residenza; a che
interponendosi il cardinale varmiense con dire che s'era parlato di quella
materia assai, che s'averebbe formato il decreto per risolverla, e proposto
quello, ogni uno averebbe potuto dir quello che gli restasse, né per questo si
potero quietare gl'umori mossi. Onde l'arcivescovo di Praga, ambasciatore
dell'imperatore, essortò i padri quasi con una orazione perpetua, a
parlar quietamente e con manco passione, ammonendogli a risguardare il decoro
delle loro persone e del luogo. Ma Giulio Superchio, vescovo di Caurle, rispose
con alterazione nissuna cosa esser piú indecente al concilio, quanto che venga
posta legge a' prelati, massime da chi rappresenta potestà secolare, e
passò a qualche mordacità; e pareva che la congregazione fosse
per dividersi in parti. Onde varmiense, che era il presidente in quella,
cercato di moderar gl'animi, divertí il parlare sopra quei articoli per quel
giorno e propose che si procurasse di far liberar i vescovi catolici preggioni
in Inghilterra, acciò, venendo al concilio, vi fosse anco quella nobil
nazione, e non paresse quel regno in tutto alienato dalla Chiesa: la proposta a
tutti piacque, e fu commune opinione che si potesse piú desiderare che sperare.
La conclusione fu che, avendo quella regina rifiutato di ricever un noncio
espresso del pontefice, non si poteva sperare che prestasse orecchie al
concilio; però quel piú che si poteva fare, era operar che i prencipi
catolici facessero quell'ufficio. A' 25, giorno di san Marco, in congregazione
generale furono ricevuti gl'ambasciatori di Venezia. Letto il mandato dell'11
dell'istesso mese e fatta un'orazione da Nicolò da Ponte, uno
degl'ambasciatori, fu risposto in forma.
[Divisione delle parocchie]
In quei pochi
giorni, i piú prudenti tra i prelati, considerato quanto si diminuirebbe la
riputazione del concilio e di ciascuno d'essi quando non si fermassero i moti
eccitati, cercavano d'acquietare gl'animi commossi con mostrar loro che, quando
non proseguissero le azzioni conciliari senza tumulto, oltra lo scandalo che si
darebbe, la vergogna che s'incorrerebbe, per necessità anco seguiria la
dissoluzione del concilio senza frutto; li qual ufficii ebbero luogo, sí che
nelle congregazioni si trattò quietamente gl'altri 6 articoli, sopra
quali non fu molto che dire. Per il quinto la provisione fu giudicata
necessaria: sopra il modo qualche difficoltà nacque, imperoché la
divisione delle parochie già da' principio da' popoli fu constituita,
quando un numero de abitanti, ricevuta la vera fede, per aver l'essercizio
della religione, fabricato un tempio e condotto un sacerdote, constituivano una
chiesa, che dall'adunazione de' circonabitanti chiamavasi parochia, e crescendo
il numero, per la lontananza delle abitazioni, se la chiesa et il paroco non
bastava, ritiratisi i lontani e fabricatone un'altra, s'accommodavano meglio.
Alle qual cose per buon ordine e concordia s'introdusse in progresso di
aggionger anco il consenso episcopale. Ma poiché la corte romana, con le
reservazioni s'assonse il conferir de' beneficii, quelli che da Roma erano
provisti delle parochiali, trattandosi sminuirgli il numero delle anime
soggette, et in consequenza il guadagno, s'opponevano col favore del pontefice,
onde s'introdusse che senza Roma non si poteva, con divisione d'una gran
parochia, erigerne una nuova, e quando occorreva farlo, massime de là da
monti, per gl'impedimenti d'appellazioni et altri litigii, era cosa di spesa
immensa. Per proveder a questi inconvenienti in concilio, fu opinione de'
prelati che, quando una chiesa basta ad un popolo, ma un solo rettor non
è sufficiente, non moltiplicassero i titoli, allegando che dove sono piú
curati in una chiesa, sono anco dispareri; ma potesse il vescovo costringere il
paroco a pigliar altri sacerdoti in aiuto, quanti facessero bisogno; ma dove
l'ampieza delle abitazioni ricercava, avesse potestà d'erigere una nuova
parochiale, partendo il popolo e partendo le entrate, overo costringendo il
popolo a contribuire per far una rendita sufficiente. Solo a quest'ultima parte
considerò Eustachio Bellai, vescovo di Parigi, pochi dí inanzi arrivato,
che quel decreto non sarebbe stato ricevuto in Francia, dove non consentono che
con autorità ecclesiastica possi esser commandato a' laici in materia
temporale, e che alla riputazione del concilio generale non conveniva far
decreti che fossero in qualche provincia reietti. A questo replicò fra Tomaso
Casello, vescovo della Cava, che i francesi non sanno questa potestà
esser data al concilio da Cristo e da san Paolo, quali hanno commandato che il
vitto sia dal popolo somministrato a chi lo serve nelle cose spirituali, e che
i francesi, volendo esser cristiani, conveniva ubedissero. Replicò il
Bellai che sin allora aveva inteso quello che Cristo e san Paolo concedono a'
ministri dell'Evangelio esser un ius di ricever il vitto da chi
spontaneamente lo dava e non di costringer a darlo, che Francia vorrà
sempre esser cristiana, però di questo non voleva passar piú inanzi.
[Unione delle chiese]
Il sesto et
ottavo articoli non averebbono avuto bisogno di decreto, quando a' vescovi
fosse rimasta la loro autorità, anzi quando fosse rimasta a' parochi et
al popolo, a' quali, come di sopra s'è detto, già apparteneva e
sarebbe giusto che sempre appartenessero simil provisioni: ma la
necessità di trattar queste materie nasceva dall'esser tutti riservati a
Roma. I prelati erano d'un istesso parere, che le provisioni fossero
necessarie; alcuni però non consentivano che si facessero, per non
metter mano nell'autorità ponteficia, trattando sopra le cose a quella
Sede riservate, massime in tanto numero. Leonardo, arcivescovo di Lanciano,
trattò come termine di giustizia che, essendo tutti gl'ufficii della
cancellaria apostolica venduti, non era cosa giusta sminuirgli le espedizioni
solite a' farsi in quella, che era un levar parte degli emolumenti senza
consenso de compratori; però si lasciasse queste provisioni da farsi a
Roma, dove sarebbe considerato l'interesse di tutti; et era questo vescovo per
passar piú inanzi per gl'interessi che egli et altri suoi amici avevano in quei
ufficii, se dall'arcivescovo di Messina, spagnuolo, che gli sedeva appresso,
non fosse stato ammonito che niente si sarebbe risoluto, se non consultato e
consentito a Roma. Fu raccordato quello che nel primo concilio s'introdusse nel
dar autorità a' vescovi sopra le cose riservate al pontefice, d'aggiongere
che facessero come delegati della Sede apostolica; qual conseglio fu
abbracciato in tutti li decreti che si formarono in tal materie.
[Curati ignoranti o viziosi]
Nel settimo,
quantonque da ogni uno fosse giudicato giusto che il popolo avesse il debito
servizio da persone sufficienti per il ministerio e costumate per
l'edificazione, nondimeno esser assai e molto proveder in futuro, perché sempre
sono odiose e transcendenti le leggi che, in dietro risguardandosi, dispongono
anco de' negozii passati; perciò bastare che all'avvenire sia proveduto
di persone idonee e quelli che si trovano in possesso siano tolerati.
L'arcivescovo di Granata disse la deputazione d'un inetto al ministerio di
Cristo non esser dalla Maestà Sua divina ratificata e per ciò restar
nulla; et il provisto non aver legitima raggione e doversi per debito, rimosso
quello che è inetto, proveder di sufficiente; ma non fu seguito questo
parer come troppo rigido e che nell'essecuzione si sarebbe conosciuto
impossibile, non essendovi una pontual misura dell'abilità necessaria;
però la via del mezo fu abbracciata, di non ecceder la proposta
dell'articolo, e facendo differenza dalli ignoranti agli scandalosi, con
quelli, come meno colpevoli, proceder con minor rigore. E poiché per ogni raggione
al vescovo appartenerebbe proveder, quando le collazioni non fossero dal
pontefice uscite, gli fosse concesso, anco contra i provisti ponteficii, come
delegato della Sede apostolica, porger il rimedio.
[Chiese date in commenda]
A trattar
della visita de' beneficii commendati nel nono articolo diede occasione un
ottimo uso, degenerato in pessimo abuso. Nelle incorsioni de' barbari che
avvennero nell'Imperio occidentale ben spesso occorreva che le chiese fossero
de' suoi pastori private in tempo quando insieme erano impediti per incorsioni,
assedii o preggionie dal proveder de' successori quelli a chi canonicamente
apparteneva; onde, acciò il popolo non restasse longamente senza
regimento spirituale, li prelati principali della provincia overo alcuno de'
vicini raccommandava la chiesa a qualche persona del clero di pietà e
bontà conspicua et atta a quel regimento, sinché, rimossi
gl'impedimenti, potesse esser eletto canonicamente il pastore; l'istesso
facevano i vescovi o parochi vicini, quando occorreva simil vacanza delle
parochiali ne' contadi, e cercando sempre il commendante d'adoperare persona
insigne et il commendatario di corresponder all'espettazione, riusciva con gran
frutto e sodisfazione; ma come sempre sottentra la corrozzione nelle cose buone,
qualche commendatario pensava non solo al bene della chiesa commendata, ma anco
a cavarne qualche frutto et emolumento per sé, e li prelati a commendare le
chiese anco senza necessità; e crescendo l'abuso sempre piú, convenne
far legge che non potesse una commenda durare piú che per 6 mesi et il
commendatario non potesse participar de' frutti della commenda. I pontefici
romani, però, con la pretensione di superiorità a questa legge,
non solo commendavano per piú longo tempo e concedevano onesta porzione al
commendatario, ma passarono tanto inanzi di commendar anco a vita e di conceder
i frutti tutti, non altrimenti che al titolario. Anzi, mutò la corte in
contrario anco la forma, e dove nelle bolle, rendendo la causa, prima diceva:
«Acciò che la chiesa sia tra tanto governata, te la raccommandiamo», si
passò a dire: «Acciò tu possi sostentar con maggior decenza lo
stato suo, ti raccommandiamo la tal chiesa». E di piú ordinarono anco i
pontefici romani che, morendo il commendatario, il beneficio restasse affatto
alla disposizione loro; sí che a chi la collazione s'aspettarebbe, non potesse
impedirsene. Et essendo i commendatarii dal papa constituiti, non potevano li
vescovi intromettersi in sopraintender al governo di quelle chiese che dal papa
erano raccommandate ad un altro, et in corte ciascuno piú volontieri impetrava
i beneficii in commenda che in titolo, essentandosi per quella via dalla
soggezzione de' prelati superiori; da che nasceva che il vescovo era privato
d'autorità sopra la maggior parte delle chiese della diocesi, et i
commendatarii non soggetti ad alcuna soprintendenza, lasciate cader le fabriche
e ristrette o levate a fatto le altre spese necessarie, non avendo altro fine
che, secondo il proemio della bolla sostentar lo stato proprio, mandavano il
tutto a desolazione. A questo disordine non ostando altro se non che pareva
indecenza se il vescovo mettesse mano in quello che dal papa era ad un altro
raccommandato, fu pensato con decoro proveder, concedendo a' vescovi
autorità di visitare e sopraintendere, ma come delegati del pontefice.
[Abusi de' questuanti]
La causa
della proposta duodecima di rimediare agl'abusi de' questuanti fu parimente
l'esser degenerata l'antica instituzione, imperoché, essendo instituita in
qualche luoghi per necessità alcun'opera pia d'ospitalità,
infermaria, educazione d'orfani et altre tali, senza altro fondo che delle
limosine de' fedeli, le persone pie pigliavano carico d'andar cercando la
limosina alle case, e per aver facile ingresso e fede si munivano con lettere
testimoniali del vescovo. Altri, acciò dal vescovo non potessero esser
impediti, ottenevano facoltà dal papa con lettere che gli
raccommandassero, le quali facilmente erano concesse per qualche parte
dell'emolumento che nell'espedizione della bolla alla corte toccava: questa
instituzione immediate si voltò in eccessi d'abuso, imperoché delle
raccolte limosine minima parte era quella che si spendesse in l'opera; quelli
ancora che impetrato avevano la facoltà di questuare, sustituivano persone
abiette et infami, e con loro dividevano il frutto delle limosine; anzi
affittandogli anco la questura; li questuanti poi, per cavar quanto piú si
poteva, mille arteficii sacrileghi et empii usavano, portando forma d'abiti,
fuoghi, acque, campane et altri instromenti da strepitare, che potessero indur
spavento e superstizione nel volgo; narrando falsi miracoli, predicando false
indulgenze, ricchiedendo le limosine con imprecazione e minaccie di male e
d'infortunii a chi non le dasse, et altre tal impietà usando, che il
mondo ne era pieno di scandali, né si poteva provedervi, attese le concessioni
apostoliche impetrate. Sopra questa materia si estesero li prelati, con narrare
gl'abusi e discendere alle sudette et ad innumerabili altre impietà; con
mostrare che altre volte sono stati tentati rimedii senza frutto e tali
riuscirebbono tutti quelli che si tentassero; uno solo esservi, l'abolir il
nome e l'uso de' questori: et in questo parer convennero quasi tutti.
Arrivarono in
questo tempo ambasciatori del duca di Baviera, quali ricusarono presentarsi
nella congregazione se non gli era data precedenza da quei di Venezia; il che
ricusando essi di fare, i legati interposero dilazione per aspettar sopra
questo risposta da Roma.
[Il papa in sospetto per le cose di Trento]
Il pontefice,
quando ebbe aviso de' voti nelle congregazioni dati sopra la residenza et
avvertí i spagnuoli esser tutti conformi, fece cattivo pronostico, penetrando
che tal unione non poteva esser senza participazione del re; diceva esser
già molto tempo per grandi isperienze certificato che i prelati
oltramontani sono inimici della grandezza d'Italia e della Sede apostolica, e
per la sospizzione che del re aveva, restava mal sodisfatto, come che gli
mancasse della promessa fattagli di conservar la sua autorità; in fine
di tutti i raggionamenti concludeva che, se i prencipi l'abbandoneranno,
ricorrerà al cielo; che aveva un million d'oro e sapeva dove metter la
mano sopra un altro, e poi Dio provederebbe alla sua Chiesa. Tutta la corte
ancora sentiva con gran passione il pericolo di tutto lo stato suo, vedendosi
ben che quelle novità miravano a far tanti papi, o nissun papa, et
interromper tutti gl'emolumenti agl'officii della cancellaria. Venne anco dal
noncio di Spagna aviso che il re sentiva male il «proponentibus legatis»,
statuito nella prima sessione: e tanto piú al pontefice piaceva che fosse stato
decretato, poi che dal dispiacimento che altri ne ricevevano, apparivano li
dissegni di propor cosa di suo pregiudicio. Fece con tutto ciò far scuse
col re, dicendo esser fatto senza sua saputa, ma vedersi necessario per
reprimere la petulanza degl'inquieti; che il concilio sarebbe una torre di
Babel, quando senza freno ogni persona ambiziosa avesse facoltà di mover
umori; che i legati erano discreti e riverenti a Sua Maestà et
averebbono sempre proposto tutto quello che gli fosse stato in piacere, e dato
sodisfazzione ad ogni persona pia e savia. Ma con l'ambasciator del re appresso
se residente che gliene trattò, procedette con alquanta durezza, prima
querelandosi che egli avesse fatto sopra ciò cattivi ufficii, e poi,
commemorando il modo di proceder de' prelati spagnuoli in concilio quasi come
sedizioso, mostrò che il decreto era santo e necessario, e che non si
faceva pregiudicio ad alcuno per dire che i legati proponeranno; a che
replicando Vargas che quando fosse solamente detto: i legati proponeranno,
nissun si dolerebbe, ma quell'ablativo «proponentibus legatis» privava i
vescovi di proporre, però conveniva mutarlo in altra locuzione. A che il
papa non senza sdegno rispose aver altro da fare che pensar «cuius generis et
cuius casus». Non mancava di fondamento il sospetto del pontefice, avendo
scoperto che quell'ambasciator aveva ispedito molte poste in Spagna et a
Trento, confortando i prelati spagnuoli a mantener la libertà e
mostrando al re che il concilio fosse tenuto in soggezzione.
[Costernazione in corte di Roma. Querela
contra i legati]
Ma nella
corte, avendo molti prelati da Trento scritto, ciascuno agl'amici suoi e
variamente secondo i varii affetti, eccitò gran tumulto e piú tosto
consternazione d'animo, parendo di veder già Roma vota de prelati e
privata d'ogni prerogativa et eminenza; si vedeva chiaro che i cardinali
abitanti in Roma sarebbono esclusi dall'aver vescovati, che senza dubio la
pluralità de beneficii veniva proibita, che nissun vescovo né curato
averebbe potuto aver ufficio in Roma, che il pontefice non averebbe potuto dispensare
in alcuna delle sudette cose, che sono le principali della sua potestà,
onde l'autorità ponteficale si diminuiva in gran parte; e raccordavano
quel detto di Livio che la maestà del prencipe difficilmente s'abbassa
dalla sommità al mezo, ma con facilità è precipitata dal
mezo all'infimo luogo: discorrevano l'efficacia che il decreto averebbe
prestato per aummentar la potestà de' vescovi, quali averebbono tirato a
loro la collazione de beneficii, negata la potestà pontificia per le
riservazioni; che i vescovi oltramontani et alcuni italiani ancora hanno sempre
mostrato il mal animo verso la corte per invidia e per non aver in quella cosí
facil ingresso, e che da questi, che fingendo star lontani da Roma per
conscienza, convien guardarsi, che farebbono peggio degl'altri, se loro venisse
fatto; che questi chiettini hanno un'ambizione maggiore degl'altri, se ben
coperta, e con l'altrui rovina voglino alzarsi, che ben lo mostrò
infatti Paulo IV. E perché li spagnuoli erano uniti in questo e s'era certificato
che Vargas gl'essortava a perseverare, sussurravano molti che dal re venisse il
motivo, il quale vedendo che, per aver sussidii dal clero, gli conviene
superare due difficoltà, una in aver il consenso del papa, l'altra in
rimover la resistenza che fanno i capitoli e collegii, che per esser primi di
nobiltà, essenti da' vescovi et aver ricevuto i beneficii la maggior
parte per collazione ponteficia, non hanno respetto d'opporsi, pensasse d'alzar
i vescovi, da lui totalmente dependenti, quali riconoscono li vescovati dalla
sua presentazione, sottomettendogli li capitoli e collegii e levandogli dalla
soggezzione del papa, e cosí col loro mezo acquistar un facile et absoluto
dominio sopra il clero.
Si doleva la
corte di tutti li legati generalmente, che avessero proposto o permesso che si
proponesse l'articolo; già esser stato con somma arte statuito che soli
potessero proporre, non ad altro fine se non per ovviare a' tentativi di mal
affetti a Roma, e non poter aver scusa, poiché vi era l'essempio del disordine
che causò questa disputa nel primo concilio; sopra tutti si dolevano di
Mantova e Seripando, di quello principalmente, che con la riputazione e credito
poteva ovviare ogni inconveniente; e del rimedio discorrevano: che bisognava
mandar altri legati, persone piú inclinate al ben commune, e non prencipi, né
frati, ma incaminati per i gradi della corte, e la voce universale destinava
Giovanni Battista Cigala, cardinale di San Clemente, in primo luogo per essersi
mostrato difensor acerrimo dell'autorità ponteficia ne' carichi di
referendario e di auditor di camera, con molta lode et aumento delle cose di
Roma: il quale, come superior di Mantova, averebbe tenuto il primo luogo, da
che anco Mantova si sarebbe mosso a ritirarsi.
[Consulta a Roma. Il papa risponde a' legati e
propuone qualche riforma]
Il pontefice
fece tenere molte congregazioni de' cardinali proposti alla consulta del
concilio, da' quali essendo raccordati diversi rimedii per ovviare al corso del
male, si diede a parlar del negozio assai piú quietamente e correttamente di
prima: non dannava l'openione di quelli del ius divino, anzi gli lodava
d'aver parlato secondo la loro conscienza; qualche volte aggiongeva anco che
forse quell'openione era la migliore; ma si doleva di quelli che a lui s'erano
rimessi, essendo il concilio congregato acciò ciascuno dica l'openione
propria e non per adossare le cose difficili ad altri, e sutterfugir l'odio e
l'invidia; che gli dispiacevano le differenze nate tra i legati suoi, quali non
dovevano con scandalo publicarle, ma tenendole secrete, o tra loro componerle,
o a lui rifferirle; che sí come lodava il dir la propria openione con
libertà, cosí biasmava le prattiche e quello che da alcuni era stato
usato per sovvertir altri con inganni e quasi violenze, e non poteva restar di
non gravarsi di quel che si parlava contra la libertà del concilio e che
il consultar le cose a Roma era un violarla; esser cosa molto strana che egli,
che è il capo del concilio, et i cardinali, che sono i principal membri,
et altri prelati che in Roma sono, che pur in concilio hanno voto, debbino
aversi per stranieri, che non possino esser conscii di quello che si tratta e
dire il parer loro, e quei che non hanno parte legitima si facciano lecito
intromettersi con mali modi; vedersi chiaro che tutti i prelati sono andati a
Trento con commissione de' suoi prencipi, che secondo quello caminano; che
gl'ambasciatori con lettere et ufficii gli constringono a seguir l'interessi
de' suoi prencipi, e pur per questo nissun dice (come dir si doverebbe) che il
concilio non sia libero: la qual cosa amplificava con molta veemenza in tutti i
raggionamenti, aggiongendo che il dire il concilio non è libero, era un
colore di chi non voleva vedere buon fine del concilio per dissolverlo o
levargli la riputazione, li quali egli teneva tutti per occolti fautori
dell'eresia.
Finalmente,
dopo aver di questo particolar conferito con tutti gl'ambasciatori appresso sé
residenti, e molte volte consultato, il 9 maggio, congregati tutti i cardinali,
fece legger gl'avisi avuti da Trento e discorse la somma delle consultazioni
avute, et il bisogno di caminar in questo negozio con desterità e
costanza, accennando che molti fossero congiurati contra la Sede apostolica;
poi fece legger la risposta che dissegnava mandar a Trento, la qual in sostanza
conteneva due punti: che il concilio dal canto suo era stato sempre lasciato
libero e sarebbe per l'avvenire; l'altro, esser giusta cosa che da quello sia
riconosciuto per capo e gl'abbia il rispetto che si debbe alla Sede apostolica.
Dimandò il parer a tutti li cardinali, quali concordemente lodarono la
risposta data. Raccordarono alcuni che, atteso i dispareri tra i legati, era
ben mandarne altri, et anco de straordinarii; alcuni aggionsero l'importanza
del negozio meritare che la Santità Sua e tutto 'l collegio si riducesse
a Bologna, per accostarsi a Trento, e poter meglio sovvenir alle occorrenze. A
che il papa rispose esser pronto non solo d'andar a Bologna, ma a Trento
ancora, bisognando, e tutti i cardinali s'offerirono a seguirlo. Si
consultò sopra il mandar altri legati, e fu risoluto di differir a
parlarne per opinione che Mantova non dimandasse licenza, che sarebbe stato di
gran pregiudicio alla riputazione del concilio per l'opinione che l'imperatore
et il re di Spagna e quasi tutti i prencipi avevano della sua bontà e
per il credito che tenevano di lui la maggior parte de' prelati di Trento.
Spedite le
lettere, fece ufficio con gli ambasciatori di Venezia e Fiorenza, acciò
da quei prencipi fossero raccommandate le cose del pontificato agl'ambasciatori
loro in Trento, e commesso che operassero co' prelati degli Stati loro di non
intervenir in trattazioni contra la Sede apostolica e non esser tanto ardenti
nella materia della residenza. Chiamò poi tutti i vescovi che ancora si
ritrovavano alla corte, e gli mostrò il bisogno et il servizio che la
loro presenza poteva in Trento prestare; gli caricò di promesse et a'
poveri diede sovvenzione e gli spedí al concilio: il che fece cosí per
accrescer il numero, quando si parlasse della residenza, come perché
s'aspettavano 40 francesi, de' quali egli non pronosticava alcun bene. E per
non aver il regno di Francia contrario, gl'ambasciatori del quale dovevano in
breve arrivar a Trento, si risolse di dar aiuto al re di 100000 scudi in dono
et altretanti in prestito, sotto nome che fossero de mercanti, dando il re
sufficiente cauzione del capitale e dell'interesse, con condizione che si
facesse da dovero e senza simulazione; che fossero rivocati gl'editti e la
guerra fatta per la religione; che con quei danari si levassero svizzeri e
germani, che stessero sotto il suo legato e con le insegne della Chiesa; che
non si perdoni ad alcun ugonotto senza suo consenso; che siano impreggionati il
cancelliero, Valenza et altri che egli dirà; che non sia trattata cosa
nel concilio contra la sua autorità, e che non facciano gl'ambasciatori
menzione delle annate; offerendosi però egli d'accordare col re in
quella materia e riformarla con sodisfazzione di Sua Maestà.
Consultò
poi il pontefice la materia della residenza, per poter parlar di quella (quando
occorresse) correttamente, in maniera che né si pregiudicasse, né dasse
scandalo; e ben discusse le raggioni, fermò openione di voler approbare
e far esseguire la residenza, sia fondata in qual legge si voglia, o canonica,
o evangelica. In questa forma rispose all'ambasciatore francese che gliene
parlò, soggiongendo che di tutti i precetti evangelici egli solo
è deputato essecutore; che avendo Cristo detto a san Pietro: «Pasci le
mie agnelle», ha voluto che tutti gl'ordini dati dalla Maestà Sua divina
siano esseguiti mediante Pietro solamente, e che egli ne voleva far una bolla,
con pena de privazione de' vescovati, che sarebbe stata piú temuta che una
decchiarazione quale il concilio facesse de iure divino. Et insistendo
l'ambasciatore sopra la libertà del concilio, disse che se gli fosse
concessa ogni libertà, l'estenderebbe a riformar non solo il pontefice,
ma i prencipi secolari ancora; e questa forma di parlare molto piaceva al papa,
solito dire nissuna cosa esser peggior che star su la pura difesa; che se altri
col concilio lo minacciavano, bisognava minacciar loro parimente con le arme
medesime.
In questo
tempo istesso, per dar principio ad esseguire quel che ricchiesto e promesso
aveva, di riformar esso la corte senza che il concilio se ne intromettesse,
incomminciando da un membro principalissimo, publicò la riforma della
penitenziaria, dando fama che in breve averebbe anco riformata la cancellaria e
la camera; ogni uno aspettava di veder regolar in quella le cose appartenenti
alla salute delle anime, che molto sono maneggiate in quell'ufficio, ma né di
penitenza, né di conscienza, né di altra cosa spirituale si fece pur minima
menzione in quella bolla; solo alla penitenziaria levò le facoltà
che essercitava in diverse cause beneficiali e nelle spettanti alla disciplina
esteriore de' frati regolari, senza però esprimer se quella provisione
fosse fatta per dar ad altri ufficiali quelle facoltà che dalla
penitenziaria levava, o pur che gl'avesse per abusi indecenti e volesse
esterminargli di Roma. Ma l'evento immediate levò l'ambiguità,
perché l'istesse cose s'ottenevano dalla dataria e per altre vie, solamente con
spesa maggiore, e questo fu il frutto della riforma.
[In congregazione si rinuova l'instanza della
residenza]
Ma ritornando
a Trento, detti li pareri de' padri, e da' deputati formati 9 decreti,
tralasciati gl'articoli del matrimonio, come era già deciso, e della
residenza, avendo cosí concordato i legati, e fatto ufficio con alquanti che
dovessero contentarsene, furono proposti nella congregazione per stabilirgli e
leggergli nella sessione al suo tempo statuito. Si eccitarono per quella
ommissione le dimande de' fautori della residenza; al che essendo da' legati
risposto che quell'articolo non era ben discusso, né in quella sessione era
opportuno proporlo, ma s'averebbe fatto a suo tempo, s'aummentarono le instanze
acciò che allora si proponesse, e le allegazioni de raggioni che mai
sarebbe opportunità maggiore, con qualche mormorazione ancora che fosse
un'arte per non concludere mai: furono nondimeno costretti a rallentar
l'instanza, vedendo i legati risoluti a non trattarne allora, e perché quei
della contraria openione, fomentati da Roma, facevano instanza in contrario piú
efficacemente; però, attendendo agli altri articoli, con poche
alterazioni i 9 capi furono formati.
[Difficoltà sopra la continuazione del
concilio]
Il marchese
di Pescara fece efficace instanza per nome del re, acciò in quella
sessione si decchiarasse che quel concilio era continuazione dell'incomminciato
sotto Paulo III e proseguito sotto Giulio, e la ricchiesta era aiutata da'
prelati spagnuoli et altri che gli seguivano, e sostentata allegando che era
necessario farlo per necessità di fede, altrimenti sarebbono rivocate in
dubio le determinazioni fatte, con notabile impietà. In contrario
facevano gagliardi ufficii gl'ambasciatori imperiali, dicendo che sarebbono
partiti immediate e protestato; perché avendo l'imperatore data la parola alla
Germania che quella ridozzione s'averebbe per nuova convocazione, non poteva
sostener un tanto affronto; che per questo non mettevano in difficoltà
le cose già decise, ma mentre vi era speranza di poter ridur la
Germania, non volessero troncarla con tanto aggravio della cesarea
Maestà allora. Il cardinale Seripando altro non aveva in mira se non che
si determinasse continuazione, e già nel far la bolla della convocazione
s'affaticò molto per questo, et ora aiutava efficacemente la ricchiesta
de' spagnuoli. Ma il cardinal di Mantova fece una constante resistenza per non
far una tanta ingiuria all'imperatore senza necessità, e trovò
temperamento di quietare gli spagnuoli con dire che, avendo già tenuto 2
sessioni senza far di questa proposta menzione, non sarà alcun
pregiudicio differir anco ad un'altra. La risoluzione degl'ambasciatori cesarei
di partirsi e l'ufficio del cardinale fecero che il Pescara remissamente
procedesse, et opportunamente vennero lettere da Luigi di Lansac, principale
della ambasciaria mandata al concilio dal re di Francia, che essendo in viaggio
non molto lontano, scrisse a' legati e padri, pregando che la sessione si
prolongasse sino all'arrivo suo e de' colleghi; onde il Mantova, valendosi anco
di quell'occasione di metter in consulta la prorogazione, nella quale, chi per
uno, chi per piú di questi rispetti, e chi considerando non esser ancora ben
quieti gl'umori della residenza, se ne contentarono e risolsero, per servar la
degnità della sinodo, non di prolongar la sessione, ma celebrarla senza
proponere materia alcuna.
[Terza sessione. Partita dell'ambasciator
spagnuolo, arrivo de' francesi]
Venuto il
giorno 14, con le solite ceremonie si ridussero nella publica sessione, dove,
cantata la messa e fatte le altre preghiere costumate, il secretario lesse i
mandati de' prencipi secondo l'ordine che gl'ambasciatori loro s'erano
presentati in congregazione: del re Catolico, di Fiorenza, di svizzeri, del
clero d'Ongaria e de' veneziani; et il promotor in poche parole
ringraziò tutti quei prencipi d'aver offerto le loro forze per
sicurtà e libertà del concilio. Dopoi il vescovo celebrante
prononciò il decreto, in questa sostanza: che la sinodo ha deliberato di
prolongare, per alcune giuste et oneste cause, la promolgazione di quei decreti
che era ordinata per quel giorno sino a 4 di giugno, nel qual giorno intima la
seguente sessione, né altro in quella adunanza fu fatto.
Celebrata la
sessione, il marchese di Pescara partí da Trento, dicendo esser necessitato di
ritornar al governo suo di Milano per nuovi moti eccitati da ugonotti in
Delfinato; ma sapendosi che quelle forze non erano sufficienti per uscire del
paese, tra 'l qual e Milano essendo anco in mezo il duca di Savoia, fu creduto
da molti che cosí avesse commissione dal suo re, il qual, desideroso che il
concilio caminasse inanzi, fu risoluto di levar l'occasione d'interromperlo con
la controversia di precedenza che necessariamente sarebbe seguita se all'arrivo
degl'ambasciatori francesi vi si fosse ritrovato ambasciator suo. E 2 giorni
dopo la partita di quello arrivò Luigi San Gelasio signor di Lansac,
capo dell'ambasciaria francese, incontrato da numero grande de prelati e
particolarmente da' spagnuoli. Arrivarono li dí seguenti Arnoldo Ferrier,
presidente di Parigi, e Vido Fabro signor di Pibrac, uomini di robba longa,
colleghi dell'ambasciaria.
[Intrighi tra Roma e Trento]
In questo
tempo erano venuti avisi al concilio di quello che il pontefice, i cardinali e
la corte romana parlavano contra i padri per le cose della residenza, e molti
di loro avevano ricevuto lettere da' cardinali loro patroni e da altri amici
con querele, reprensioni et essortazioni, le quali andavano anco mostrando.
Dall'altra parte era andata nuova a Roma delle cose successe dopo. Il pontefice
rinovò et aummentò lo sdegno contra il cardinale di Mantova
maggiormente, perché avesse tralasciata l'occasione di decchiarare la
continuazione, essendogliene fatta instanza dall'ambasciatore prelati
spagnuoli. Si doleva di veder quel cardinale congionto con spagnuoli nella
residenza e contrario a loro nella continuazione, che voleva dir contrario a
lui in tutte le cose; perché nissun, d'ingegno ben ottuso, sarebbe restato di
passar a quella decchiarazione, poiché, succedendo bene, era fatto un gran
passo a favore della Chiesa catolica; non succedendo, si dissolveva il
concilio, che non era di minor beneficio. Tornò in piede la
consultazione di mandar altri legati e particolarmente il cardinale San
Clemente, dissegnando che in lui fosse il principal carico e la instruzzione; e
per non levar il luogo primo a Mantova e dargli occasione di partire, ordinarlo
vescovo, essendo pochi giorni inanzi arrivata la nuova della morte di Francesco
da Turnon, decano, per la qual uno de' vescovati restava vacante.
Ma
l'imperatore, avisato della proposta di decchiarare la continuazione,
commossosi, fece dir al pontefice che, quando succedesse, leverebbe
gl'ambasciatori da Trento, et a quelli commandò che, se la deliberazione
di ciò fusse fatta, non aspettando la publicazione, si partissero.
Entrò per tanto il pontefice in speranza che per quel mezo si potesse
metter fine al concilio, e tanto piú aummentò il suo sdegno contra il
cardinale di Mantova, per causa di chi la miglior occasione era svanita, e si
diede a pensare in che maniera s'averebbe potuto rimetter in piede. La corte,
cosí per immitazione del suo prencipe, come per trattarsi degl'interessi suoi,
continuava le querele e mormorii contra i prelati del concilio e piú di tutti
contra il medesimo cardinale e contra Seripando e varmiense; scambievolmente i
prelati in Trento, gli spagnuoli massime, ne' congressi privati tra loro si
querelavano del pontefice e della corte: di quello, perché tenesse il concilio
in servitú, al quale doverebbe lasciare l'intiera disposizione di trattar e
determinar tutte le cose senza ingerirsene; e nondimeno, oltre che niente si
propone se non quanto piace a' legati, quali non fanno se non quello che
è commandato da Roma, ancora, quando alcuna cosa è proposta e vi
è un numero di settanta vescovi conformi, nondimeno sono impediti sino
dal poter parlare; che il concilio doverebbe esser libero et essente da ogni
prevenzione, concorrenza et intercessione di qualonque altra potestà, e
nondimeno gli vengono date le leggi di quello che debbe trattare, et alle cose
trattate e decretate vien fatta limitazione e correzzione; il che stando, non
si può veder come chiamarlo veramente concilio. Che in quello erano piú
di 40 stipendiati dal pontefice, chi di 30 e chi sino di 60 scudi al mese; che
altri erano intimiditi per lettere de cardinali et altri curiali. Della corte
si lamentavano che, non potendo ella comportare la riforma, si facesse lecito
di calumniare e riprendere e sindicare quello che era fatto per servizio di
Dio. Che avendo veduto come s'era proceduto contra una riforma necessaria e
leggiera, non si poteva aspettar se non grave moto e contradizzione quando si
trattasse cosa toccante piú al vivo; che doverebbe il pontefice almeno
rafrenare le parole de' passionati e mostrar in apparenza, poiché in fatto non
voleva esser ligato, che il concilio procedi con sincerità e
libertà.
Venne anco a
parole Paolo Emilio Verallo, vescovo di Capaccio, col vescovo di Parigi in un
congresso di molti vescovi; perché, avendo questo biasmato il deliberare per
pluralità de voti et avendo quello risposto che tutti i vescovi erano
uguali, l'interrogò Parigi quante anime erano sotto la cura sua, al che
avendo risposto che 500, soggionse quell'altro, che, comparandosi le loro
persone, egli gli cedeva, ma rispetto a' rapresentati dall'uno e l'altro non si
doveva pareggiare chi parlava per
[Gli ambasciatori francesi si presentano in
congregazione. Orazione di Pibrac]
Essendo le
cose in questi termini, non si fece altra congregazione sino a' 26, nella quale
gl'ambasciatori francesi, che prima avevano communicato la loro instruzzione
con gl'imperiali e s'erano ben intesi insieme secondo il commandamento de' loro
signori, si presentarono nella congregazione generale: dove, esibito il mandato
della loro ambasciaria e letto, Vido Fabro fece una longa orazione, nella
quale, avendo esposto il continuato desiderio del re che fosse convocato il
concilio in luogo opportuno e non sospetto, e gl'ufficii per ciò da lui
fatti col pontefice e con tutti i prencipi cristiani, soggionse il frutto che dalla
apertura di quello si doveva aspettare, e passò a dire che, sí come
fallano gravissimamente quelli che vogliano rinovare tutti i riti della Chiesa,
cosí il volergli sostentare pertinacemente tutti, senza tener conto di quello
che ricerca la condizione de' tempi presenti e la publica utilità,
è degno di non minor riprensione. Esplicò molto particolarmente
le tentazioni che il demonio sarebbe per usare a fine di divertir i padri dal
retto camino, minacciando che se essi gli presteranno orecchie faranno perder
ogni autorità a' concilii, soggiongendo che molti altri concilii sono
già stati fatti in Germania et in Italia con nissuno o pochissimo
frutto, de' quali si dice che non erano né liberi, né legitimi, perché
parlavano a volontà d'altri; dovessero essi guardare di metter in ben la
potestà e libertà da Dio concessagli, perché, essendo cosa degna
di severo castigo nelle cause de privati gratificar alcuno contra giustizia, di
maggior supplicio sono degni i giudici nelle cause divine seguendo l'aura popolare
o vendendosi come schiavi togati a' prencipi a' quali si sono obligati;
essaminasse ciascuno se stesso e che passione lo porti: e perché li defetti
d'alcune passate sinodi fanno pregiudicio a questa, esser conveniente mostrare
che è passato quel tempo e che ciascuno può disputare; che non si
disputa col fuogo, che non si rompe la fede, che lo Spirito Santo non s'ha da
chiamare d'altrove che dal cielo, e questo non è quel concilio
principiato da Paolo III e proseguito da Giulio III in turbatissimi tempi e nel
mezo delle armi, che si disciolse senza aver fatto cosa buona, ma un nuovo,
libero, pacifico e legitimo, convocato secondo l'antico costume, al quale
prestano consenso tutti i re, prencipi e republiche, al quale la Germania
concorrerà e condurrà seco gl'autori delle nuove dispute, li piú
gravi et eloquenti uomini che abbia. Concluse che essi ambasciatori
promettevano per questo fine l'aiuto del re. Parve che molti de' padri et
alcuni de' legati medesimi non ricevessero in bene quelle parole; alle quali,
perché passavano i termini generali e di complemento, il promotore non seppe
che rispondere, onde non fu servato il costume, ma con quell'orazione la
congregazione si finí.
Si
presentarono il giorno seguente gl'ambasciatori medesimi a' legati, per
ciò insieme congregati, dove scusarono i prelati francesi che non
fossero venuti al concilio per tumulti, promettendo che, quelli acquietati, il
che speravano dover presto succedere, sarebbono venuti in diligenza. Esposero
appresso che gli ugonotti hanno per sospetta la continuazione del concilio
principiato da Paolo e ne ricchiedono un nuovo; che il re ha trattato per causa
di questo con l'imperatore, che insieme con lui ricercava il medesimo ad
instanza di quelli della confessione augustana, e ne trattò già
col pontefice; quale avendo risposto che quella differenza era tra loro re e
quello di Spagna, che a lui non importava, ma la rimetteva al concilio, per
tanto dimandavano che si decchiarasse con aperte parole l'indizzione del
concilio esser nuova, e non con quelle parole: «indicendo continuamus et
continuando indicimus», ambiguità non conveniente ad uomini cristiani e
che contiene in sé contradizzione, e che li decreti fatti già dal
concilio non sono ricevuti dalla Chiesa gallicana, né dal papa medesimo, e dal
re Enrico II gli fu protestato contra; che sopra questo articolo s'inviavano a
loro legati, per aver la Santità Sua piú volte detto che questa
contenzione d'indizzione o continuazione non era sua e che la rimetteva al
concilio; et oltre l'aver espresso in voce la petizione, gliela lasciarono in
scritto. I legati, dopo consultato, risposero essi ancora in scritto che
admettevano la scusa de' vescovi assenti quanto s'aspettava loro, ma che non
potevano diferir sino alla venuta d'essi a trattar quello che si doveva nel
concilio, perché sarebbe stato un troppo grand'incommodo de' padri, che
già vi si trovavano; che non hanno potestà di decchiarare che la
indizzione del concilio sia nuova, ma solo di presedervi secondo il tenore
della bolla del pontefice e la volontà della sinodo. Si contentarono i
francesi della risposta per allora, avendo consultato co' cesarei non esser
bene passar piú inanzi, mentre negl'atti non fosse fatta menzione di
continuazione, atteso che, avendo li spagnuoli fatta instanza che alla prima
sessione la continuazione fosse decchiarata, quando si premesse molto nel
contrario, n'averebbe potuto seguir la dissoluzione del concilio. Ma la
risposta de' legati, che fu da' francesi publicata in quella parte dove diceva
l'autorità loro esser di presedere secondo la volontà della
sinodo, diede assai che dire agli spagnuoli, poiché in parole sottometteva i
legati al concilio che in fatti lo dominavano, e diceva Granata che era ben un
total dominio valersi del servo in ogni qualità, anco del patrone.
[Si rimette su la residenza e la riforma]
Non
proponendo i legati alcuna cosa per la sessione seguente, i prelati fautori
della residenza mossero raggionamento sopra quella materia et indussero
gl'ambasciatori imperiali, francesi, portoghesi e tutti gl'altri a far instanza
a' legati che si decidesse nella sessione seguente, allegando che dopo esser
proposta e disputata, sarebbe gran scandalo lasciarla indecisa e si mostrerebbe
che fosse per qualche interesse particolare, poiché i principali prelati del
concilio et il maggior numero desideravano la determinazione. I francesi, oltre
di ciò, fecero instanza, congionti con gl'imperiali, che non si
dovessero trattare le materie de' dogmi in assenza de' protestanti che le
impugnavano, prima che sia certa la loro contumacia, essendo superflua la
disputa delle cose dove non è chi le contradica; massime che vi è
ben che trattare cosa in che tutto 'l mondo conviene, cioè una buona
riforma de' costumi; che l'ambasciator d'Inghilterra in Francia aveva dato
intenzione che la sua regina mandarrebbe al concilio, dal che ne seguirebbe che
gl'altri protestanti farebbono il simile e ne succederebbe una reunione
generale della Chiesa; e questo si potrebbe tener per fermo di vederlo
effettuato, precedendo una buona riforma. A questa seconda proposta rispose il
cardinale Simoneta che il negozio pareva facile, ma era il piú arduo, poiché
tutto consisteva nella disposizione de' beneficii, nella quale gl'abusi
venivano da' re e da' prencipi; il che diede molto che pensare a tutti
gl'ambasciatori per le nominazioni et altre disposizioni che essercitano, e piú
di tutti il re di Francia; ma la ricchiesta della residenza era di maggior
molestia, non quietandosi i padri alla scusa, altre volte usata, che la materia
non era assai digesta, che il tempo alla sessione non bastava per metterla a
fatto in chiaro e per altre considerazioni; e l'ardore tanto crebbe, che fu
preparato da molti prelati oltramontani convenuti insieme di protestare e
partire, e questo fu causa di fermare il moto, perché gl'ambasciatori, temendo
che il concilio non s'interrompesse e sapendo che il papa averebbe dato ad ogni
occasione fomento, cessarono dalle instanze e fecero ufficio co' vescovi che si
contentassero d'aspettare, e parimente per l'istessa causa operarono co' ministri
di Spagna, che non facessero piú insistenza in decchiarare la continuazione; li
quali non solo s'acquettarono, ma protestarono anco a' legati che non la
dimandavano per allora, dicendo che se altri cercano di mandar il concilio a
monte, non è raggionevole che si copra col mantello del re di Spagna. Fu
grata a' legati la protestazione, che erano impegnati per parola data al
marchese, né sapevano come liberarsi: né meno fu grata la risoluzione di
differir la residenza et acciò nissun potesse pentirsi, formarono una
scrittura, qual lessero in congregazione acciò fosse approvata, che la
seguente sessione si sarebbe passata con differir le materie per degni rispetti
ad una altra, e parve loro d'esser scaricati di 2 gran pesi. Instando la
sessione, da molti che si sentivano ponti acerbamente per l'orazione
all'ambasciator francese, furono ricercati li legati di far una soda risposta
quando si leggesse il mandato nella sessione, et il cardinale Altemps fu autore
che in ogni modo si facesse, dicendo che si doveva reprimer l'insolenza di quel
palacista, solito trattar solo con plebei; fu data la cura a Giovanni Battista
Castello promotore, con ordine di difendere solo la dignità della
sinodo, ma non toccar alcuno.
Ma il
pontefice, dopo aver molto pensato, venne in risoluzione che la continuazione
fosse decchiarata, facesse l'imperatore quello che gli piaceva, che non poteva
succeder se non bene, e spedí corriero a Trento con questa commissione; la qual
essendo arrivata a' 2 giugno, turbò assai i legati per la confusione che
vedevano dover nascere e per il disordine nel quale si metteva il concilio: e
risoluti tutti concordemente d'informar meglio il pontefice con significargli
tutte le cose trattate et il decreto già promolgato, e mostrargli esser
impossibile l'essecuzione del suo ordine, et il cardinale Altemps, che
già aveva licenza d'andar a Roma per altre cause, si risolvé di montar
sulle poste il giorno seguente e far in persona quell'ufficio. Ma la notte
arrivò un altro corriero, portando lettere nelle quali il papa rimetteva
il tutto alla prudenza e giudicio de' legati.
[Quarta sessione, dove è risposto a
Pibrac. Decreti di prolongazione]
Venuto il dí
4 giugno, con le solite ceremonie si celebrò la sessione; furono letti i
mandati dell'arcivescovo di Salzburg e di Francia, e questo letto, il promotore
fece la risposta, dicendo esservi speranza di proveder a tutti i disordini di
cristianità col rimedio riputato necessario dal papa, che è
questo concilio, principiato per opera dello Spirito Santo, col consenso de
prencipi, tra' quali il re di Francia ha mandato uomini di conscienza e
religione per offerire non solo aiuto, ma ubedienza a quella sinodo, la quale
non la merita meno degl'altri concilii, alli quali s'è opposto
falsamente dalli mal affetti che non fossero legittimi, né veri, nondimeno
appresso gl'uomini pii sono stati sempre stimati li concilii, congregati da chi
v'aveva l'autorità, con tutto che gli fosse da altri levata calunnia che
non fossero liberi: contra quali, sí come anco contra la presente sinodo, le
insidie di Satanasso, numerate da essi ambasciatori copiosamente e sottilmente,
se ben grandi, non prevalevano; e che non vuol il concilio interpretar in
sinistra parte la loro diligente e libera ammonizione di non risguardar l'aria
popolare, né seguire la volontà de' prencipi, ma bene che, sí come l'ha
forse per non necessaria, anzi superflua, cosí vuol creder proceder da buona
mente, per non esser sforzata a rispondere cosa alcuna contra il suo mansueto e
pio proposito et usato costume; ma ben per liberar essi ambasciatori dal vano
timore che hanno dimostrato aver e certificargli del suo proposito e della
verità, gli predice che gl'effetti mostraranno che il concilio
postporrà la cupidità, volontà e potenza di qual si voglia
alla degnità et autorità propria; et al re Carlo promette tutto
quello che potrà, salva la fede e purità della religione, per
conservazione della sua degnità e del suo regno e Stato. Della qual
risposta restarono i francesi mal contenti, non senza conoscer che se l'erano
meritata. Fu, dopo, letto il decreto dal vescovo celebrante: che la sinodo, per
varie difficoltà nate e per diffinir insieme i dogmi con la riforma,
ordina la sessione al 16 luglio, per trattar quello che dell'una e l'altra
materia gli parerà; restando però in suo arbitrio di restringere
e prolongar il termine anco in congregazione generale. E furono 35 i voti che
volevano fosse dicchiarato che in essa si tratterebbe la residenza; furono anco
alquanti che proposero che si dicchiarasse la continuazione, il che fu interpretato
esser fatto per eccitare qualche tumulto che fosse causa di dissolvere il
concilio, perché quelli erano de' piú obligati alle cose romane e però
pentiti d'aver senza pensarci detto troppo liberamente la loro opinione in
materia della residenza aborrita dalla corte: ma tacendo tutti gl'altri, la
sessione si finí.
[In congregazione sono proposti articoli della
communione del calice]
Il dí 6 si
tenne la congregazione generale per dar ordine alla trattazione della seguente
sessione, e furono proposti gl'articoli spettanti alla communione: se tutti i
fedeli per necessità e divino precetto siano tenuti ricever ambedue le
specie del sacramento; se la Chiesa, per giusta raggione mossa, ha introdotto
di communicar i laici con la sola specie del pane, overo in ciò ha
errato; se tutto Cristo e tutte le grazie si ricevono sotto una specie, quanto
sotto ambedue; se le raggioni che hanno mosso la Chiesa a dar a' laici la sola
communione della specie del pane debbono indur adesso ancora a non conceder ad
alcuno il calice; se, parendo che per qualche raggioni oneste si possi ad
alcuni concederlo, sotto qual condizioni si possi farlo; se a' fanciulli inanzi
l'uso della raggione la communione sia necessaria. E ricchiesti li padri se gli
pareva che di quella materia si trattasse e se agli articoli restava altro
d'aggiongere; e quantonque gli ambasciatori francesi e gran numero de' prelati
fossero di parere che de' dogmi non si trattasse sinché non era chiaro se li
protestanti dovessero intervenir in concilio, essendo evidente cosa che, quando
restassero contumaci, la trattazione sarebbe stata vana, come non necessaria
per i catolici e da quegli altri non accettata, con tutto ciò nissun
s'oppose, essendo ritenuti tutti, per gl'efficaci ufficii fatti dagl'imperiali,
entrati in speranza di poter ottener la communione del calice e con quella dar
principio di sodisfazzione alla Germania. Fermato il ponto che de' 6 articoli
si trattasse, e soggionto che prima i teologi dicessero il loro parere e
sussequentemente i prelati, fu conosciuto che sarebbe occupato tutto 'l tempo
sino alla sessione in questo solo, dovendo udir 88 teologi e votare cosí gran
numero de prelati: perilché fu da alcuni detto che non faceva bisogno gran
considerazione, che fu parlato pienamente di tutta quella materia nella
precedente adunanza sotto Giulio, che quella è discussa e digesta, che
si piglino le cose trattate e le risolute allora e con un breve e sodo essamine
si venga in determinazione in pochi giorni, e negl'altri si attenda alla
riforma; che vi è l'articolo della residenza già proposto et in
parte essaminato: giusta cosa esser metterci una volta fine. Questa opinione fu
seguita da 30 padri con aperta dicchiarazione, et appariva che numero molto
maggiore tacitamente l'approbava e si sarebbe venuto a conclusione. Ma il
cardinale Simoneta, avendo tentato di metter dilazione con dire che non era
degnità trattar di quella materia sin che non fossero composti gl'animi
commossi per le differenze passate, le quali non lasciano di discerner il vero,
aprí strada a Giovanni Battista Castagna, arcivescovo di Rosano, et a Pompeio
Zambeccaro, vescovo di Sulmona, li quali parlando ambidue con ardore e
mordacità contra i primi, fu eccitato tanto rumore, che fece dubio di
qualche inconvenienti: al che per rimediare, il cardinale di Mantova
pregò quei della residenza ad acquietarsi, promettendo che in un'altra
sessione, o quando si fosse trattato del sacramento dell'ordine, insieme si sarebbe
trattato della residenza. Con questo acquetato il moto e mostrato che il
ripigliar le cose trattate sotto Giulio era cosa di maggior prolissità e
difficoltà che l'essaminarle di nuovo, et avvenirebbe quello che occorre
quando il giudice forma la sentenza sopra il processo fatto da un altro, fu
presa deliberazion che prima fosse da' teologi parlato, tenendosi la
congregazione due volte il giorno, nelle quali intervenissero doi de' legati,
divisi cosí li carichi per metter piú tosto fine, e de' prelati quelli a che
fosse piaciuto; che avessero 2 giorni di tempo da studiare et il terzo fosse
dato principio. Con questa conclusione la congregazione si terminò; ma
per la promessa fatta da Mantova, senza consultazione e participazione de'
colleghi, restò Simoneta offeso et in aperta discordia con lui, e fu
Mantova da' prelati favorevoli alla corte biasmato e calunniato di mala
disposizione d'animo; ma da' sinceri era commendato di prudenza, che in una
pericolosa necessità prendesse partito d'ovviare a protestazioni e
divisioni che si preparavano, e biasmavano Simoneta che restasse offeso, perché
Mantova, tanto piú eminente di lui e confidato sopra il consenso di Seripando e
varmiense, della mente de' quali era conscio, avesse stimato che la risoluzione
per necessità presa dovesse esser da lui ancora ratificata.
[Gli ambasciatori cesarei propongono capi di
riforma]
Il dí
seguente gl'ambasciatori imperiali, poiché viddero d'aver ottenuto, come
desideravano, la proposta del calice, per quale sin allora avevano proceduto
con risguardo, si presentarono a' legati e, seguendo l'instruzzione del suo
prencipe, gli presentarono 20 capi di riforma:
1 Che il
sommo pontefice si contentasse d'una giusta riforma di se stesso e della corte
romana.
2 Che il
numero de' cardinali, se non si può ridur a 12, almeno si reduca al
duplicato con doi sopranumerarii, sí che non eccedino 26.
3 Che
all'avvenire non si concedino piú dispense scandalose.
4 Che siano
rivocate le essecuzioni contra le leggi communi e sottoposti tutti i monasterii
a' vescovi.
5 Che sia
levata la pluralità de beneficii et erette le scole nelle chiese
catedrali e collegiate, e gli ufficii ecclesiastici non si possino affittare.
6 Che i
vescovi siano costretti alla residenza, non essercitino l'ufficio per vicarii
e, se non sono sufficienti, non si commetti il carico ad un vicario, ma a molte
persone, facendosi le visite e le sinodi diocesane ogni anno.
7 Che ogni
ministerio ecclesiastico sia gratuitamente essercitato, et alla cura di tenue
entrata siano incorporati beneficii non curati ricchi.
8 Che siano
ritornati in uso i canoni contra la simonia.
9 Che le
constituzioni ecclesiastiche siano ristrette, risecate le superfluità, e
non ugualiate alle obligazioni della legge divina.
10 Che non si
usi la scommunica se non per peccato mortale e notoria irregolarità.
11 Che i
divini ufficii siano in maniera celebrati che siano intesi da chi gli dice e da
chi l'ascolta.
12 Che i
breviarii e messali siano corretti, risecate le cose che nella Sacra Scrittura
non si trovano, e levata la prolissità.
13 Che tra i
divini ufficii celebrati in latino s'intromettessero preghiere in volgare.
14 Che il
clero e l'ordine monastico siano riformati secondo l'antica instituzione, e le
ricchezze cosí grandi non siano cosí mal amministrate.
15 Che sia
considerato se sia ispediente relassar tante obligazioni di legge positiva,
rimettendo alquanto di rigore nella differenza de' cibi e digiuni, e concedendo
il matrimonio de' preti ad alcune nazioni.
16 Che per
levar i dispareri siano levate le diverse postille sopra gl'Evangelii, et una
ne sia fatta con publica autorità, e similmente una nuova agenda o
rituale, che sia seguito da tutti.
17 Che sia
trovato un modo non di scacciar i cattivi parochi, che questo non sarebbe
difficile, ma di sustituirne de megliori.
18 Che nelle
gran provincie siano eretti piú vescovati, convertendo a questo uso i
monasterii ricchi.
19 Quanto a'
beni ecclesiastici già occupati, esser forse meglio passarlo con
dissimulazione in questo tempo.
In fine, per
dire anco cosa grata al papa, acciò, se vedendo le proposte et alterato
l'animo, lo pacificasse, aggionse:
20 Che i
legati dovessero operare che non fossero proposte questioni inutili, da
partorir scandalo, come quella se la residenza è de iure divino o
no, e simili, et almeno non permettino che i padri trattino con colera e si
facciano favola agl'avversarii.
Sopra il 17
diedero anco alcuni particolari raccordi di ridur i meno ostinati tra i
settarii con mandargli in alcuna academia per insegnargli brevemente, con
ordinar a' vescovi che non hanno academia di far un collegio nella piú vicina
per li giovani della sua diocesi, di ordinar un catalogo de' dottori che
s'abbiano da leggere nelle scole, senza poterne legger altri.
Lette le
proposizioni, restarono i legati, e ritirati per consultar insieme, ritornati
fecero risposta che per la seguente sessione non era possibile altro proporre,
avendo a loro instanza per mani la materia del calice, di tanta importanza e
difficoltà, che le cose proposte sono molte e di materie diverse, che
tutt'insieme non possono esser digerite; però che averebbono secondo le
occasioni communicato a' prelati quelle che fossero a proposito delle altre
riforme. Conobbero gl'ambasciatori che questo era detto per non publicar il
loro scritto in congregazione, e portando di tempo in tempo, deludere
l'aspettazione dell'imperatore; ma per allora altro non dissero. Ridotti poi
tra loro e consultato, giudicarono necessario informar ben l'imperatore, cosí
di questo particolare, come generalmente del modo come in concilio si
procedeva; e per far questo, il vescovo di Praga montò il giorno
seguente sulle poste, per dover esser di ritorno al tempo della sessione. I
legati, vedendo le cose del concilio in mali termini, per molti rispetti, ma
sopra tutto per il disgusto e sospezzione del pontefice, ebbero per necessario
informarlo a pieno delle cose passate e delle imminenti. Fu eletto per questo
fra Leonardo Marino, arcivescovo di Lanciano, per esser di spirito e grato al
pontefice, da lui promosso e favorito molto, amico anco di Seripando, al quale
diedero instruzzione d'informar pienamente il pontefice d'iscusar i legati, di
pacificar la Santità Sua. Portò lettere communi de' legati per
sua credenza: alle quali Simoneta fece molta e longa difficoltà a
sottoscrivere, né l'averrebbe fatto, se non essendo convenuto che ricevesse
anco lettere particolari di ciascuno. Simoneta scrisse che pensava di mandar
l'arcivescovo di Rossano in sua specialità per piú compita informazione;
ma poi, avendo pensato e consegliato meglio, deliberò di non farne
altro, sin che non avesse veduto che effetto facesse l'opera di Lanciano.
[La mala intelligenza con Trento e le
diffidenze del papa l'inducono ad armarsi]
Gli
scambievoli disgusti e detrazzioni de' romani contra i trentini, e di questi
contra di quelli, ad ogni arrivo di nuovo corriero, s'accrescevano. In Trento i
fautori della residenza deploravano le miserie della Chiesa, la servitú del
concilio e la desperazione manifesta di veder la Chiesa riformata in Roma. I
contrarii si lamentavano che al concilio fosse machinato un scisma, anzi
apostasia dalla Sede apostolica; dicevano che gl'oltramontani per odio et
invidia contra gl'italiani miravano non tanto alla depressione, quanto
all'abolizione del ponteficato, quale essendo il fondamento della Chiesa, che
per tale Cristo l'ha posto, bisognava che ne seguisse total destruzzione
dell'edificio. Il pontefice, giongendo nuovi avisi giornalmente e sempre
peggiori, sí come anco ogni giorno succedeva novità in Trento, oltre gli
accidenti che in Germania et in Francia occorrevano contrarii alle cose sue,
sentiva maggior disgusti: non tanto gli dava noia l'opinione della residenza
nella maggior parte, quanto le prattiche che erano fatte, massime
dagl'ambasciatori, penetrando egli che dentro vi fosse l'interesse de' prencipi
contra la sua autorità. Vedeva l'imperatore tutto volto al crear re de
Romani il figlio e parato a dar ogni sodisfazzione alla Germania, e per questo
aver fatto presentar gl'articoli di riforma a' legati e chiamato l'ambasciatore
Praga per trovar modo di proporgli in concilio e stabilirgli; il re di Francia
essausto, circondato da difficoltà infinite et in pericolo d'esser
costretto ad accordarsi con gli ugonotti; il che successo, corrino tutti i prelati
francesi al concilio e s'accostino agli spagnuoli, e si facciano anco autori di
altre proposte contra l'autorità ponteficia. Pensò di rimediare
alla tempesta che vedeva prepararsi con le opere e con le parole; di levar 4000
svizzeri e 3000 cavalli tedeschi; mandò in Avignone Nicolò
Gambara con 500 fanti e cento cavalli leggieri; diede danari al duca di Savoia
per star armato et opporsi, se ugonotti fossero per descender in Italia; e per
impegnare tutti i prencipi, deliberò di trattar una lega defensiva di
tutti i catolici contra le machinazioni de' protestanti in ciascun luogo,
tenendo per cosa facile che ciascuno condescendesse, se non per altra causa,
almeno per liberarsi dalle sospezzioni l'uno dell'altro. In Italia gli pareva
facil cosa d'indurvi tutti: il duca di Fiorenza tutto suo, Savoia interressato
per i suoi aiuti e per il pericolo; veneziani desiderosi di tener le genti
oltramontane fuori d'Italia; il re di Spagna nel bisogno stesso per Napoli e
Milano; Francia per la necessità in che attualmente si trovava. Pertanto
fece la proposta in Roma all'ambasciatore imperiale e veneto, e mandato
l'abbate di San Solutore per questo in Francia, et al re di Spagna monsignor
Odescalco, al quale anco diede instruzzione di dolersi col re che i vescovi
spagnuoli fossero uniti contra la sua autorità e di mostrargli che le
proposte dell'imperatore sarrebbono atte a causar un scisma. Era facile di
preveder l'essito di quella proposta a chi sapeva (ancoraché superficialmente)
li fini de' prencipi. L'imperatore per niente sarebbe condesceso a cose di
sospetto a' protestanti; il re di Francia tanto era lontano d'ovviare l'entrata
de' ugonotti in Italia, che averebbe desiderato veder una total evacuazione del
suo regno; Spagna, possedendo tanto Stato in Italia, piú temeva et aborriva
un'unione de' prencipi italiani, che non desiderava l'opposizione agl'eretici;
li veneziani et il duca di Fiorenza non potevano consentir a cosa che potesse
turbar la quiete d'Italia. E cosí successe che alla proposta di lega non fu
corrisposto da alcuno de' prencipi, da ciascuno fu allegata qualche causa
propria, ma anco una commune, che sarebbe un impedir il progresso del concilio;
se ben molti credevano che, quando fosse seguito, non gli sarebbe dispiaciuto,
et egli dava materia di cosí credere, perché di nuovo propose in consistoro di
far decchiarar la continuazione e di decchiarar esso la residenza; le qual cose
non esseguí, considerato il voto del cardinale da Carpi, seguito dalla maggior
parte degl'altri, che non fosse servizio suo e della Sede apostolica farsi
autore delle cose odiose che potessero alienargli l'animo d'una parte, ma
meglio fosse lasciar in libertà del concilio per allora.
[Il papa si querela degli ambasciatori de'
prencipi e de' suoi legati]
Non restava
però di querelarsi anco nel consistoro degl'ambasciatori tutti: de'
francesi diceva che Lansac gli pareva un ambasciatore de ugonotti nelle sue
proposte, ricercando che la regina d'Inghilterra, gli svizzeri protestanti,
Sassonia e Vittemberg siano aspettati al concilio, quali sono decchiarati
inimici e ribelli, e non hanno altro fine che di corromper il concilio e farlo
ugonotto; ma che egli lo conserverà catolico et averà forze di
farlo; che esso et i colleghi difendevano alcuni, quali disputavano l'autorità
del concilio sopra il papa, qual è eretica openione et i fautori di
quella eretici, minacciando di perseguitargli e castigargli. Passò anco
a dire che vivevano da ugonotti, non facevano riverenza al sacramento; che
Lansac a tavola, in presenza di molti prelati invitati, avesse detto che
sarebbono venuti tanti vescovi di Francia e Germania, che averebbono scacciato
l'idolo da Roma; si querelava d'uno degl'ambasciatori veneti e contra lui fece
indoglienza con quei signori. Diceva de' cardinali Mantova e Seripando e varmiense
che erano indegni del capello, e de' prelati secondo che occorreva, operando
con gl'amici di ciascuno che gli fosse scritto. Il tutto era da lui fatto e
detto (quantonque non fosse tutto creduto da lui) non per incontinenza di
lingua, ma con arte, per constringer ciascuno, chi per timore, chi per vergogna
e chi per civiltà, far la sua difesa con lui, la qual egli con
facilità grandissima riceveva e prontamente credeva: e per questa via
incredibil cosa è quanto avanzassero le cose sue; si guadagnò alcuni
et altri fece che procedessero piú cautamente e rimessamente, onde,
vivificandosi in lui il suo naturale, che era d'aver molta speranza, diceva che
tutti erano uniti contra lui, ma in fine gl'averebbe tutti riuniti a suo
favore, perché tutti di lui hanno bisogno e gli dimandano chi aiuti, chi
grazie.
Tra i molti
prelati che il papa mandò ultimamente, come s'è detto, da Roma al
concilio, uno fu Carlo Visconte, vescovo di Ventimiglia, che era stato senator
di Milano et in molte legazioni, persona di gran maneggio e di giudicio fino;
qual avendo caricato di promesse, che gli attese anco, avendolo nella prima
promozione dopo il concilio creato cardinale, volle averlo in Trento, oltre i
legati, ministro secreto; gli commise di parlare a bocca con diversi quello che
non conveniva metter in carta, e d'avvertir ben i dispareri che fossero tra i
legati et avisare particolarmente le cause; d'osservare accuratamente gl'umori
de' vescovi, le openioni e prattiche, e scrivere minutamente tutte le cose di
sustanza; gl'impose d'onorare il cardinale di Mantova sopra tutti gl'altri
legati, ma intendersi però col cardinale Simoneta, qual era conscio
della mente sua, e di far ogni opera perché la decchiarazione della residenza
si sopisse afatto, e quando questo non si potesse, si prolongasse sino al fine
del concilio; il che, se non si potesse ottenere, si portasse al piú longo che
possibil fosse, adoperando tutti li mezi che conoscesse esser ispedienti per
questo fine; gli diede anco una poliza co' nomi di quelli che avevano tenuto la
parte romana nella stessa materia, con commissione di ringraziargli e
confortargli a proseguire, e con promessa di gratitudine, rimettendo a lui, nel
trattar co' contrarii, l'usar qualche sorte di minaccie, senza acrimonia di
parole, ma gagliarde in sostanza, e prometter a chi si rimettesse l'oblivione
delle cose passate; e tener avisato minutamente il cardinale Borromeo di tutto
quello che occorreva, come fece; et il registro delle lettere scritte da lui,
con molto sale e giudicio, m'è venuto fatto veder, dal quale è
tratta gran parte delle cose che si diranno.
Ma avuto
ultimamente l'aviso della promessa fatta da Mantova, vidde la difficoltà
di divertir la trattazione dell'articolo, e dalla dissensione nata tra i legati
entrò in dubio di qualche catena de mali maggiori, et ebbe questo punto
per principalissimo cosí per la essistenza, come per la riputazione. Perché
come potrebbe sperare di reprimer i tentativi de' ministri d'altri prencipi,
quando non provedesse a' suoi proprii? Per tanto conobbe che alla malaria
gionta alle parte vitali convenivano rimedii potentissimi; risolvette di
dicchiarar apertamente la mala sodisfazzione che di Mantova aveva, per cavarne
frutto che egli mutasse modo d'operare, overo dimandasse licenza, o in altro
modo da Trento si ritirasse; e quando bene ne seguisse la dissoluzione del
concilio, tanto meglio: gli spazzi, che a Trento s'inviavano a lui come primo
tra i legati, ordinò che s'inviassero a Simoneta; levò dalla
congregazione de' cardinale preposti alle consultazioni di Trento il cardinale
Gonzaga, e per Federico Borromeo gli fece dire che il cardinale suo zio pensava
alla rovina della Sede apostolica, ma non gli sarebbe successo altro che
rovinar se stesso e casa sua. Al cardinale Sant'Angelo, amicissimo di Mantova,
narrò il pontefice tutte le cose successe contra di lui mostrandosi
alteratissimo, e non meno contra Camillo Olivo, secretario del cardinale, come
quello che non avesse operato secondo che gli promise quando fu mandato a Roma,
il che anco costò caro al povero uomo; imperoché, quantonque seguisse la
reconciliazione del papa col cardinale, nondimeno dopo la morte di quello,
tornato a Mantova col corpo del patrone, sotto diversi pretesti fu
impreggionato dall'Inquisizione e longamente travagliato, il quale, dopo
cessate le persecuzioni, ho conosciuto io, persona di molta virtú e non
meritevole di tal infortunii.
In questa
disposizione d'animo arrivò Lanciano a Roma: presentò tra le
altre cose al pontefice una lettera sottoscritta da piú di 30 vescovi, di quelli
che tenevano la residenza, nella quale si dolevano del disgusto di Sua
Santità e protestavano di non intender che la loro openione fosse contra
l'autorità ponteficia, la qual si dechiaravano voler difender contra
tutti e mantenerla inviolata in ogni parte; le qual lettere fecero una mirabil
disposizione nell'animo del pontefice a ricever gratamente quelle de' legati,
di Mantova, Seripando e varmiense, et ascoltar la relazione dell'arcivescovo,
il quale gli diede minuto conto di tutte le cose passate e gli levò gran
parte della sospezzione. Poi passò a scusar i cardinali e mostrar al
pontefice che, non potendo preveder dover nascer inconveniente alcuno, avevano
scoperto l'openione che in conscienza tenevano, e dopo nate le contenzioni, senza
loro colpa, né mancamento, la loro aderenza a quel parer era riuscita con onor
di Sua Santità e della corte, perché cosí non si poteva dire né che Sua
Santità, né che tutta la corte fosse contraria ad un'openione stimata
dal mondo pia e necessaria; il che era ben riuscito, perché cosí hanno
acquistato e credito et auttorità appresso i prelati e hanno potuto
moderar l'empito d'alcuni, che altrimenti sarebbe nata qualche gran divisione
con notabile danno della Chiesa. Gli narrò li frequenti et efficaci ufficii
fatti da loro per quietar i prelati, e gl'affronti anco ricevuti da chi gli
rispondeva di non poter tacere contra conscienza; narrò li pericoli e
necessità che constrinse Mantova alla promessa; gli soggionse che, per
levar ogni sospizzione dell'animo di Sua Santità, la maggior parte de'
prelati s'offeriva nella prossima sessione decchiararlo capo della Chiesa et
avevano dato a lui carico di fargliene ambasciata, che per molti rispetti non
giudicavano da esser messa in scritto; e gliene nominò tanti che fece maravegliare
il papa e dire che male lingue e peggior penne gl'avevano depinto quei padri
d'altre qualità. Gli mostrò poi la unione e fermezza de' ministri
de' prencipi a mantener il concilio e la disposizione de' prelati a sopportar
ogni cosa per continuarlo, che non poteva nascer occasione di dissolverlo; che
la trattazione della residenza era cosí inanzi et i padri interessati per la
conscienza e per l'onore e gl'ambasciatori per la riputazione, che non
bisognava trattar di negargli che si definisse. Gli diede conto e copia delle
ricchieste degl'ambasciatori imperiali, gli mostrò come tutte miravano a
sottopor il papa al concilio; gli raccontò con quanta prudenza e
destrezza il cardinale di Mantova aveva declinato il proporle in congregazione.
Concluse che non essendovi rimedio per fare che le cose passate non siano, la
sapienza di Sua Santità potendo attribuir molto al caso, se ancora
qualche accidente fosse occorso, non per malizia, ma per poca avvertenza
d'alcuno, con la benignità sua l'indurrebbe a perdonare il passato e dar
ordine per l'avvenire, essendo tutti pronti a non propor, né trattar cosa, se
non prima consegliata e deliberata da Sua Santità.
Il papa,
pensata e consegliata ben la rimostranza, reispedí l'arcivescovo in diligenza,
l'accompagnò con lettere a' legati et alcuni altri de' sottoscritti a
quelli che gli portò, e gli diede commissione di dire per suo nome a
tutti che egli vuol il concilio libero, che ogni uno parli secondo la propria
conscienza, che si decreti secondo la verità, che non s'è alterato,
né ha preso dispiacere perché i voti siano dati piú ad un modo che all'altro,
ma per le prattiche e tentativi a persuader e violentar altri, e per le
contenzioni et acerbità nate tra loro, le qual cose non sono degne d'un
concilio generale; però che non s'oppone alla determinazione della
residenza, ben conseglia che lascino il fervore che li porta, e quando gl'animi
saranno addolciti e mireranno al solo servizio divino e beneficio della Chiesa,
si potrà trattar la materia con frutto. Al cardinale di Mantova
condescese a dire d'aver conosciuto con sommo piacer la sua innocenza et
affezzione e che gliene mostrerà segno, pregandolo ad adoperarsi che il
concilio presto si termini, poiché da' raggionamenti con Lanciano avuti ha
compreso che al settembre si può metterci fine; et in conformità
scrisse in commune a tutti i legati, che seguendo i vestigii del concilio sotto
Giulio e pigliando le materie da quello già digeste, dovessero
determinarle immediate e metterci fine.
[In Trento si esamina la communione del calice]
In questo
tempo s'attese in Trento ad ascoltar l'opinione de teologi sopra i 6 articoli
nelle congregazioni, e comminciarono il 9 e finirono il 23 del mese: nelle
quali se bene 60 teologi parlarono, non fu detta cosa degna d'osservazione,
atteso che, essendo la disputa nuova, da' scolastici non premessa e nel
concilio constanziense di primo salto definita, e da' boemi piú tosto con le
arme e forza che con raggione e dispute sostentata, non avevano altro da
studiare che quanto dopo scrissero ne' prossimi 40 anni alcuni pochi, eccitati
per le proposte di Lutero; imperò furono tutti concordi che non vi fosse
necessità né precetto del calice. Per prova della conclusione allegavano
luoghi del Nuovo Testamento, dove il pane solo è nominato, come in san
Giovanni: «Chi mangia questo pane viverà perpetuamente». Dicevano che
sino nel tempo degl'apostoli era in frequente uso la sola specie del pane, come
in san Luca si legge che li discepoli in Emaus conobbero Cristo nel franger il
pane, e del vino non ci è menzione; e san Paolo, in mare naufragante,
benedice il pane, né di vino si parla; in molti de' canoni vecchi si fa
menzione della communione laica differente da quella del clero, che non poteva
esser in altro che nel calice. A queste aggiongevano le figure del Testamento
Vecchio: la manna, che significa l'eucaristia, non ha bevanda; Gionata, che
gustò il miele, non bevette, et altre tal congruità. E cosa di
molta pazienza era di sentir tutti replicar le medesime cose a sazietà.
Non debbo tralasciar di narrare questo particolare: che Giacomo Payva
portoghese seriamente pronunciò che Cristo, con suo precetto e col suo
essempio, aveva dicchiarato doversi la specie del pane a tutti et il calice a'
soli sacerdoti, imperoché egli, consecrato il pane, lo porse agl'apostoli che
ancora erano laici e rappresentavano tutto 'l popolo, commandando che tutti ne
mangiassero; dopo questo ordinò gl'apostoli sacerdoti con le parole:
«Fate questo in mia memoria», et in fine consecrò il calice, e lo porse
loro, già consecrati sacerdoti. Ma i piú sensati passavano leggiermente
questa sorte d'argumenti e si restringevano a doi: l'uno, che la Chiesa ha da
Cristo potestà di mutare le cose accidentali ne' sacramenti, e che
all'eucaristia, come sacrificio, è necessaria l'una e l'altra specie,
ma, come sacramento, una sola; onde ha potuto la Chiesa ordinare di una
solamente l'uso; cosa che confermavano, perché la Chiesa, quasi nel principio,
mutò una volta la forma del battesmo per invocazione della
Trinità in sola invocazione de Cristo, e poi ritornò
all'instituzione divina. L'altra raggione, che la Chiesa non può errare:
ma ella ha lasciato introdur l'uso della sola specie del pane, e finalmente
l'ha approvato nel concilio constanziense: adonque convien dire che non vi sia
precetto divino o altra necessità in contrario. Ma fra Antonio Mandolfo,
teologo del vescovo di Praga, avendo prima affermato di sentir con gl'altri in
questo, che non vi fosse precetto divino, avvertí che era cosí contrario alla
dottrina catolica il dar a laici il calice per precetto divino, come il
negarglielo parimente per precetto: però bisognava metter da canto tutte
quelle raggioni che cosí concludevano, et insieme quelle de' discepoli in Emaus
e di san Paolo in nave, poiché da quelle si concluderebbe che non fosse
sacrilegio il consecrar una specie senza l'altra, che è contra tutti i
dottori et il senso della Chiesa, e distrugge la distinzione portata
dell'eucaristia, come sacramento e come sacrificio. Quella distinzione ancora
della communione laica e clericale esser chiaro nell'ordinario romano che era
diversità de luoghi nella chiesa, non di sacramento ricevuto; oltre che
questa raggione concluderebbe che non i soli celebranti, ma tutto il clero
avesse il calice. Dell'autorità della Chiesa in mutar le cose accidentali
de' sacramenti non si poteva dubitare, ma non era tempo di metter adesso a
campo se il calice sia accidentale o sostanziale; concludeva che questo
articolo si poteva tralasciare, come già deciso dal concilio
constanziense, e trattar accuratamente il quarto e quinto, perché, concedendo
il calice a tante nazioni che lo ricercano, tutte le altre dispute sono
superflue, anzi dannose. In questa medesima sentenza parlò anco fra
Giovanni Paolo, teologo delle Cinquechiese, e furono mal uditi da tutti, tenendosi
che parlassero contra la propria conscienza, ma questo ad instanza del suo
patrone e quello per commissione auta dal suo, inanzi la partita.
Sopra il
secondo articolo li teologi furono parimente uniformi nell'affermativa e tutte
le raggioni si riducevano a tre capi: le congruità del Testamento
Vecchio, quando il popolo ne' sacrificii participava de' cibi offerti, ma
niente mai de' libami; il levar al volgo l'occasione di credere che altra cosa
si contenga sotto la specie del pane et altra sotto la specie del vino; il
terzo, il pericolo d'irreverenza. E qui furono nominati li recitati di Gerson:
che il sangue potrebbe versarsi o in chiesa o nel portarlo, massime per
montagne l'inverno; che s'averebbe attaccato alle barbe longhe de' laici; che,
conservandosi, potrebbe inacidire; che non ci sarebbono vasi di capacità
per 10 o 20000 persone; che in alcuni luoghi sarebbe troppo spesa per la
carestia del vino; che li vasi sarebbono tenuti sporchi; che sarebbe d'ugual
degnità un laico quanto un sacerdote. Le qual raggioni è
necessario dire che siano giuste e legitime, altrimenti per tanti secoli tutti
i prelati e dottori averebbono insegnato la falsità e la Chiesa romana
et il concilio di Costanza averebbe fallato. Di quei medesimi che queste cose
allegavano (eccetto l'ultima) insieme se ne ridevano; perché con quei modi che
s'era ovviato a' narrati pericoli per 12 secoli, quando la Chiesa era anco in
maggior povertà, si poteva rimediar a tutti piú facilmente ne' nostri
tempi, e l'ultima ben si vedeva non esser d'alcun valore a dimostrar la
raggionevolezza della mutazione, ma bene per mantenerla dopo fatta. I doi
teologi sopra nominati consegliarono anco che questo articolo fosse
tralasciato.
Nel terzo
articolo fu preso per argomento che tutto Cristo sia ricevuto sotto una sola
specie, per la dottrina de' teologi della concomitanza; imperoché, essendo
sotto il pane, per virtú della consecrazione, il corpo, dicendo le parole di
Cristo, omnipotenti et effettive: «Questo è il corpo mio», et essendo il
corpo di Cristo vivo, adonque con sangue et anima e con la divinità
congionta; onde restava senza dubio alcuno che, sotto la specie del pane, tutto
Cristo fosse ricevuto. Ma da questo inferivano alcuni: adunque insieme tutte le
grazie, poiché a chi ha tutto Cristo, niente può mancare et egli solo
abondantemente basta. Altri in contrario dicevano non esser illazione
necessaria, né meno probabile che, ricevendo tutto Cristo, si ricevi ogni
grazia, perché anco i battezati, secondo san Paolo, sono tutti repieni di Cristo,
e nondimeno a' battezati si danno gl'altri sacramenti. E perché alcuni
fuggivano la forza della raggione con dire che gl'altri sacramenti sono
necessarii per li peccati dopo il battesmo, era da altri replicato che l'antica
Chiesa communicava immediate li battezati, onde sí come dall'esser ripieno di
tutto Cristo per il battesmo non si poteva inferir che l'eucaristia non donasse
altre grazie, cosí per aver ricevuto tutto Cristo sotto la specie del pane, non
si poteva inferir che altra grazia non s'avesse da ricever mediante il calice,
e meno, senza estrema assordità, potersi dire che il sacerdote nella
messa, avendo ricevuto il corpo del Signore e per consequenza tutto esso, nel
bevere il calice non riceva grazia; perché il beverlo altrimenti sarrebbe un'opera
indifferente e vana. Poi esser deciso dalla commun dottrina della scola e della
Chiesa che per ogni azzione sacramentale si conferisce, per virtú dell'opera
medesima, che dicono «ex opere operato», un grado di grazia. Ma il bever il
sangue di Cristo non si può negare esser azzione sacramentale, adonque
né meno potrà negarsegli la sua grazia speciale. In questa controversia
il maggior numero de' teologi tenne che, non parlandosi della quantità
di grazia rispondente alla disposizione del recipiente, ma di quella che gli
scolastici sacramentale chiamano, quella fosse uguale in chi riceve una specie
sola et in chi ambedue. L'altra opinione, se ben da manco numero, era difesa
con maggior efficacia. Sopra questo articolo, non so con che pensiero o fine,
passò molto inanzi fra Amante, servita bresciano, teologo del vescovo di
Sebenicò, uno de' fautori di questa seconda opinione; il quale portando
la dottrina di Tomaso Gaetano, che il sangue non sia parte dell'umana natura,
ma primo alimento, e soggiongendo non potersi dire che di necessità un
corpo tiri in concomitanza l'alimento suo, inferí che non onninamente fosse
l'istesso il contenuto sotto ambe le specie, et aggionse che il sangue
dell'eucaristia, secondo le parole del Signore, era sangue sparso, e per consequenza
fuori delle vene, stando nelle quali non può esser bevanda, onde non
poteva esser dalla vena tirato in concomitanza, e che l'eucaristia era
instituita in memoria della morte di Cristo, che fu per separazione et
effusione di sangue; alla qual considerazione fu eccitato gran rumore da'
teologi presenti e fatto strepito de banche; perilché egli, fermato il moto, si
ritrattò, dicendo che il calore della disputa l'aveva portato ad
allegare le raggioni degl'avversarii come proprie, le quali però egli
aveva pensiero in fine di risolvere, sí come anco consumò tutto 'l resto
del suo raggionamento in risoluzione di quelle, dimandando in fine perdono
dello scandalo dato, non avendo parlato con tal avvertimento che avesse
apertamente mostrato quelle esser raggioni capziose e contrarie alla sua
sentenza; e finí senza parlar sopra gl'altri 3 articoli.
Ma sopra il
quarto articolo è maraviglia quanto fossero uniti i teologi spagnuoli e
gli altri da Spagna dependenti in consegliare che non si permettesse in modo
alcuno l'uso del calice alla Germania, né ad altri. La sostanza delle cose
dette da loro fu che, non essendo cessata alcuna delle cause che mossero la
Chiesa ne' tempi superiori a levar il calice al popolo, anzi essendo quelle
tutte fatte piú urgenti che già non erano, et essendone aggionte altre
piú forti et essenziali, conveniva perseverar nel deliberato dal concilio di
Costanza, e dalla Chiesa prima e dopo. E discorrendosi quanto a' pericoli
d'irreverenza che era il primo genere di cause, quelli al presente esser da
temere piú che già tempo; perché allora non vi era alcuno che non
credesse fermamente la real e natural presenza di Cristo sotto il sacramento
dopo la consecrazione, sino che le specie duravano, e con tutto ciò il
calice si levò per non aver gl'uomini quel risguardo al sangue di Cristo
che era necessario: che riverenza si può sperar adesso, quando altri
negano la real presenza et altri la vogliono solo nell'uso? La devozione ancora
ne' buoni catolici esser diminuita, et accresciuta molto la diligenza nelle
cose umane e la trascuratezza nelle divine; onde potersi temere che una maggior
negligenza possi produr maggior irreverenza. Il far differenti li sacerdoti
dagl'altri esser piú che mai necessario ora che i protestanti gli hanno messo
in essoso al popolo e seminata dottrina che gli leva le essenzioni, gli
sottopone a magistrati laici e detrae dalla potestà d'assolvere da'
peccati, e vuol anco che siano dal popolo chiamati al ministerio, e soggetti ad
esser deposti da quelli; il che debbe costringer la Chiesa a conservar
accuratamente tutti quei riti che possono dargli riputazione. Il pericolo che
il volgo non s'imprima di falsa credenza e sia persuaso esservi altra cosa nel
calice che sotto la specie del pane, al presente è piú urgente per le
nuove opinioni disseminate. Dissero molti che la Chiesa proibí il calice per
opporsi all'errore di Nestorio, quale non credeva tutto Cristo esser sotto una
specie; il che dicendo anco adesso alcuni de' medesimi eretici, conveniva tener
la proibizione ferma. Quello che volessero in ciò inferire non so
esprimere meglio, non avendo mai letto che Nestorio parlasse in questa materia,
né meno che i moderni trattino con questi termini. Ma il terzo pericolo, che
l'autorità della Chiesa sia vilipesa e s'argomenti che abbia commesso
errore in levar il calice, si può dire non pericolo, ma certo
evenimento; né per altro esser sollecitata la ricchiesta da' protestanti, se
non a fine di concluder che, avendo la sinodo conosciuto l'error passato, l'ha
emendato con la concessione; publicheranno immediate la vittoria e da questo
passeranno a dimandar mutazione negl'altri statuti della Chiesa; ingannarsi chi
crede i tedeschi doversi fermare in questo e disporsi a sottomettersi a'
decreti del concilio, anzi vorranno levar i digiuni e le differenze de' cibi,
dimanderanno il matrimonio de' preti e l'abolizione della giurisdizzione
ecclesiastica nell'esteriore; il che è il fine dove tutti mirano. Non
esser credibile che siano catolici quelli che fanno la ricchiesta del calice,
perché li catolici tutti credono che la Chiesa non può errare, che non
sia grata a Dio alcuna devozione, se da quella non è approvata, e che
l'obedienza della Chiesa è il sommo della perfezzione cristiana; aversi
da tener per certo che chi dimanda il calice, l'ha per necessario, e chi per
tale lo tiene non può esser catolico, e nissun l'adimanda, credendo non
poterlo legitimamente usare senza concessione del concilio, ma acciò i
loro prencipi non gli mettino impedimento; i quali se lasciassero far a'
popoli, essi l'usurperebbono senza altra concessione; di ciò poter
ciascuno certificarsi, osservando che non i popoli, ma i prencipi supplicano,
non volendo novità senza decreto legitimo, non perché i popoli non
l'introducessero da se medesimi piú volontieri che ricercarla al concilio. E
tanta premura fu usata in questo argomento, che fra Francesco Forier portughese
uscí ad un concetto dagl'audienti stimato non solo ardito, ma petulante ancora,
e disse: questi prencipi vogliono farsi luterani con permissione del concilio.
Li spagnuoli essortavano a considerare che, concesso questo alla Germania,
l'istesso dimanderebbe l'Italia e la Spagna, e converrebbe concederlo; di onde
anco queste nazioni imparerebbono a non obedire e ricchieder mutazione
dell'altre leggi ecclesiastiche, et a far luterana una regione catolichissima
nissun mezo è migliore che dargli il calice. Commemorò Francesco
della Torre gesuita un detto del cardinale Sant'Angelo, sommo penitenziario,
che Satanasso, solito trasformarsi in angelo celeste e ministri suoi in ministri
di luce per ingannar i fedeli, adesso, sotto coperta del calice con sangue di
Cristo, essorta a porger al popolo un calice di veneno.
Aggiungevano
alcuni che la providenza divina, soprastante al governo della Chiesa,
inspirò il concilio di Costanza nel passato secolo a stabilir per
decreto la remozione del calice, non solo per le raggioni che in quel tempo
militavano, ma anco perché se adesso fosse in uso non vi sarebbe segno alcuno
esteriore per distinguer li catolici dagl'eretici, e levata questa distinzione
si mischierebbono in una stessa Chiesa li protestanti co' fedeli e seguirebbe
quello che san Paolo dice, che un poco di lievito fermenta presto una gran
massa; sí che conceder il calice, altro non sarebbe che dar maggior commodo
agl'eretici di nuocer alla Chiesa. Alcuni ancora non sapendo che già la
petizione fosse stata al pontefice presentata e da lui, per iscaricarsi e
portar in lungo, rimessa al concilio, interpretavano in sinistro che in quel
tempo fosse fatta tal ricchiesta alla sinodo e non al papa, sospettando che
fosse a fine d'allargar ogni concessione che si facesse con interpretazioni
aliene, onde s'inducesse nuova necessità di concilio.
Ma quei che
sentivano potersi condescender alle ricchieste dell'imperatore e tanti altri
prencipi e popoli, consegliavano a proceder con minor rigore e non dare cosí
sinistre interpretazioni alle pie preghiere de' infermi fratelli, ma seguir il
precetto di san Paolo di trasformarsi ne' difetti degl'imperfetti per
guadagnargli, e non aver mire mondane di riputazione, ma governarsi con le
regole della carità: che calpestando tutte le altre, eziandio quelle
della prudenza e sapienza umana, compatisce e cede ad ogni uno. Dicevano non
vedersi raggione considerabile data dagl'altri, se non che i luterani direbbono
averla vinta, che la Chiesa ha fallato, e passerrebbono a piú alte dimande; ma
ingannarsi chi crede con la negativa fargli tacere; già hanno detto che
s'abbia commesso errore; diranno dopo che sopra il fallo s'aggionga l'ostinazione
e dove si tratta di ordinazioni umane, non esser cosa nuova, né meno indecente
alla Chiesa la mutazione. Chi non sa che la medesima cosa non può
convenire a tutti i tempi? Sono innumerabili li riti ecclesiastici introdotti
et aboliti, e non è contra il decoro d'un concilio l'aver creduto utile
un rito, che l'evento ha mostrato inutile; il persuadersi che da questa dimanda
si debbi passar ad altre, esser cosa da persone sospettose e troppo
vantaggiose: la semplicità e carità cristiana, dice san Paolo,
non pensa male, crede ogni cosa, sopporta tutto, spera bene.
A questi soli
toccò parlare sopra il quinto articolo, poiché quelli della negativa
assoluta non avevano altro che dirci sopra. Ma questi furono divisi in due
opinioni: l'una e piú commune, che si concedesse con le condizioni che fu da
Paolo III concesso, de' quali al suo luogo s'è detto; l'altra, d'alcuni
pochi, tutt'in contrario diceva che, volendo conceder il calice per fermare
nella Chiesa li titubanti, conviene temperarla in maniera che possi far
l'effetto desiderato: quelle condizioni non poterlo apportare, anzi dover senza
dubio fargli precipitare al luteranismo. Se ben è cosa certa che il
penitente debbe elegger ogni male temporale piú tosto che peccare, fu nondimeno
conseglio del Gaetano che non si venisse a specificate comparative, con dire
d'esser tenuto ad elegger piú tosto d'esser tanagliato e posto in ruota, ecc.,
perché sarebbe un tentar se stesso senza necessità e cader dalla buona
disposizione, presentandosi gli spaventi senza proposito: cosí nell'occasione
presente, questi ambigui, quando gli sarà portata la grazia del
concilio, resteranno contenti, ringrazieranno Dio e la Chiesa, non penseranno
piú oltre, e pian piano si fortificheranno. È commandamento preciso di san
Paolo di ricever l'infermo nella fede non con dispute, né con prescriver le
opinioni e regole, ma semplicemente et aspettando opportunità per dargli
piú piena instruzzione: adesso chi in Germania proponesse la condizione che
credino questo e quello, si metteranno in difficoltà, mentre che la
mente tituba, e pensando se debbiano o non debbiano crederlo, capiteranno in
qualche errore, al quale non averebbono pensato. A questa raggione di piú
aggiongevano che, mentre si sostiene la Chiesa aver con giuste cause levato il
calice, e poi si concede senza alcun rimedio a quelli, ma con altre condizioni,
si viene a confessare d'averlo levato senza causa; perilché concludevano che
fosse a proposito statuire per condizioni tutti i rimedii agl'inconvenienti per
quali il calice già fu levato: cioè che il calice mai si porti
fuori della Chiesa et agl'infermi basti la specie del pane; che non si
conservi, per levar il pericolo dell'acidume; che si usino le fistule, come
già nella Chiesa romana, per evitar l'effusione; che cosí ordinando si
dimostrerà che con raggione fu già la provisione fatta, si
ecciterà la riverenza, si sodisfarà al popolo e prencipi, non si
metteranno li deboli in tentazioni. Fu anco detto da un spagnuolo che non era
da creder cosí facilmente a quello che si diceva d'un cosí ardente desiderio e
devozione de' catolici al calice, ma esser bene che il concilio mandasse in
Germania ad informarsi chi sono questi che lo dimandano, e della fede loro nel
rimanente, e delle cause motive; che la sinodo, avuta quella relazione, potrà
deliberare con qualche fondamento e non alla cieca sopra parole d'altri.
[Esamine della communione de' fanciulli]
Nel sesto
articolo non ci fu cosa che dire: tutti in poche parole si espedirono,
considerando che l'eucaristia non è sacramento di necessità, e
che commandando san Paolo a chi l'ha da ricever d'essaminar se stesso se ne
è degno, chiaramente apparisce che non può esser amministrata a
chi non ha uso di raggione e se nell'antichità si trova usato in qualche
luogo il contrario, questo esser stato fatto dove e quando la verità non
era cosí ben dicchiarata come al tempo presente; perilché dal concilio doveva
esser terminato che si servasse l'uso presente. Fu ben avvertito da alcuni che
dell'antichità conveniva parlare con maggior riverenza, e non dire che
mancassero di cognizione della verità. Fra Desiderio di Palermo
carmelitano solo fu di parere che quell'articolo fosse tralasciato, dicendo
che, non essendo promossa difficoltà da' protestanti de' nostri tempi,
non era ben col trattarlo metter qualche novità a campo; la materia
poter ricever qualche probabilità da ambe le parti, e quando uscisse a
notizia che nel concilio se ne fosse trattato, sarebbe per mover la
curiosità di molti a pensarci sopra e darebbe occasione d'inciampare;
imperoché alcuno potrebbe indursi a creder che l'eucaristia sia sacramento di
necessità, cosí ben come il battesmo, perché il fondamento di questo
è sopra le parole di Cristo: «Chi non rinascerà d'acqua e spirito
non entrerà nel regno de' cieli», e di quello: «Se non mangerete la mia
carne e beverete il mio sangue, non averete vita»; e l'eccezzione de' fanciulli
non potersi con total apparenza fondare sopra il precetto di san Paolo
d'essaminarsi, che non può far un fanciullo, perché la Scrittura divina
medesimamente commanda che inanzi il battesmo preceda documento della dottrina
della fede, e se questo s'ha da restringere a' soli adulti, non escludendo i
fanciulli dal battesmo, se ben non possono imparare, cosí l'essamine precedente
l'eucaristia si potrà applicare agl'adulti senza escluder da quella li
fanciulli: concludeva ch'egli approvava l'uso di non communicargli, ma non
lodava che 'l concilio dovesse trattar di questo che nissun oppugnava.
[Dispute de' prelati su 'l formar il decreto]
Finite le
congregazioni de' teologi, inclinarono li legati a conceder il calice alla
Germania con le condizioni di Paolo III e con qualche altre di piú, e ridotti
co' loro confidenti formarono il decreto per ciò sopra il primo, quarto
e quinto, differiti gl'altri sin che pensassero come evitar le
difficoltà da' teologi messe inanzi sopra di quelli. E chiamata
congregazione de' prelati, proposero, se piaceva, che fossero dati i 3 decreti
formati, per dir i pareri nella prima congregazione. Granata, che penetrato
aveva la mente de' legati et era contrariissimo alla concessione del calice,
contradisse, dicendo che conveniva seguir l'ordine degl'articoli, quale era
essenziale, essendo impossibile venir alla decisione del quarto e quinto, senza
aver deciso il secondo e terzo. Tomaso Stella, vescovo di Capo di Istria,
gl'oppose che in concilio non conveniva andar con logiche e con arteficii
impedire le giuste deliberazioni; replicò il Granata che il medesimo era
da lui desiderato, cioè che le cose fossero proposte alla sinodo
ordinatamente, acciò caminando in confusione non inciampasse; [fu]
seguito da Mattio Callino, arcivescovo di Zara, et al Capo d'Istria s'aggiunse
in soccorso Giovanni Tomaso di San Felice, vescovo della Cava, passando ambidue
a moti di parole piú tosto derisorie, che cagionò un poco di disgusto
negli spagnuoli e ne seguí tra i prelati un susurro, che fu causa di licenziar
la congregazione, dicendo il cardinale di Mantova agl'arcivescovi che
leggessero e considerassero le minute formate, et in un'altra congregazione si
risolverrebbe dell'ordine di trattare.
Questo luogo
ricerca, perché spesse volte occorse il terminare le congregazioni per disgusto
da qualche principal prelato ricevuto, che l'ordinaria causa di tal evenimento
sia narrata. Di sopra è stato raccontato come nel concilio era buon
numero de vescovi pensionati dal pontefice; questi tutti riconoscevano e
dependevano da Simoneta, come quello che piú particolarmente degl'altri era
preposto agl'interessi del pontefice et aveva le instruzzioni piú arcane. Egli,
essendo uomo d'acuto giudicio, si valeva di loro secondo la capacità di
ciascuno, et in questo numero ne aveva alcuni misti di ardite e facezie, de'
quali si valeva per opporre nelle congregazioni a quelli che entravano in cose
contrarie a' suoi fini. Questi erano essercitati nell'arteficio del motteggiare
saviamente per irritar gl'altri e mettergli in derisione, senza sconciarsi
ponto essi, ma conservando il decoro. Merita il servizio che prestarono al
pontefice et al cardinale che ne sia fatta particolar menzione. Questi furono i
2 supranominati Cava e Capo d'Istria, Pompeio Giambecari bolognese, vescovo di
Sulmona, e Bartolomeo Sirigo di Candia, vescovo di Castellanetta; ciascuno de'
quali alle qualità cummuni della sua patria aveva aggiunto le perfezzioni
che nella corte romana s'acquistano: questi essacerbarono anco i disgusti nati
tra Mantova e Simoneta, de' quali s'è toccato di sopra, coll'andar
sparlando e detraendo a Mantova, cosí in parole per Trento, come con lettere a
Roma, il che era attribuito a Simoneta, dal quale gli vedevano accarezzati; dal
che purgandosi Simoneta col secretario di Mantova e col vescovo di Nola, disse
che per quel poco rispetto portato ad un tal cardinale gl'averebbe separati
dalla sua amicizia, quando non fosse stato il bisogno che di loro aveva per
opporgli nelle congregazioni alle impertinenze che erano dette da' prelati.
[Ricezzione et orazione dell'ambasciator
bavaro]
Agostino
Paungarner, ambasciator di Baviera, essendo stato mesi come privato in Trento
per la pretensione di preceder li veneziani, finalmente ebbe commissione dal
suo prencipe di comparir in publico, e fu ricevuto nella congregazione de' 27
giugno; sedette dopo gl'ambasciatori veneti e fece prima una protestazione,
dicendo che, sí come le raggioni del suo prencipe sono validissime, cosí egli
anco era pronto per defenderle in ogni altro luogo; ma nel concilio, dove si
tratta di religione, non vuol star in questi pontigli, e per tanto si contenta
cedere, e che ciò fosse senza pregiudicio suo e d'altri prencipi germani
del sangue elettorale dell'Imperio. Risposero al protesto gl'ambasciatori di
Venezia, con dire che il loro dominio aveva giustamente la precedenza, e che
come il duca di Baviera gli cedeva allora, cosí doveva cedergli in ogni luogo.
Proseguí l'ambasciator l'orazione sua molto lunga e libera, dove narrò
lo stato della religione in Baviera, dicendo quella esser circondata da
eretici, quali hanno anco dentro penetrato. Esservi parochi zuingliani,
luterani, flaciani, anabattisti e d'altre sette, qual zizania li prelati non
hanno potuto sradicare per esser la contaggione non solo nell'infima plebe, ma
anco ne' nobili; a che ha dato ansa la mala vita del clero, le gran
sceleratezze del quale non potrebbe narrare senza offender le caste orrecchie
di quell'auditorio; ma bastargli dire che il suo prencipe gli rapresenta che
vana sarebbe et infruttuosa l'emendazione della dottrina, se prima non erano
emendati li costumi; aggiunse che il clero era infame per la libidine, che il
magistrato politico non comporta alcun cittadino concubinario e pur nel clero
il concubinato è cosí frequente, che di 100 non si sono trovati 3 o 4
che non siano concubinarii o maritati secretamente o palesemente; che in
Germania anco i catolici prepongono un casto matrimonio ad un celibato contaminato;
che molti hanno abandonato la Chiesa per la proibizione del calice, dicendo che
sono costretti ad usarlo per la parola di Dio e costume della primitiva Chiesa;
il qual sino al presente è osservato nelle chiese orientali et usato già
nella Chiesa romana; che Paolo III lo concesse alla Germania, e li bavari si
lamentano del suo prencipe che lo invidii a' sudditi suoi, protestando che, se
il concilio non provede, l'Altezza Sua non potrà governar li popoli e
sarà costretto ceder quello che non potrà proibire. Propose per
rimedio a' scandali del clero una buona riforma, e che ne' vescovati
s'introducessero le scuole et academie per educar buoni ministri;
dimandò il matrimonio de' preti come cosa senza la quale fosse
impossibile in quell'età riformar il clero, allegando il celibato non
esser de iure divino. Ricchiese anco la communione sub utraque specie,
dicendo che, se fosse stata permessa, molte provincie di Germania sarebbono
restate nell'obedienza della Sede apostolica; dove che le rimaste sino ad ora,
insieme con le altre nazioni, come un torrente se ne dipartono; che non ricerca
il duca li 3 sudetti rimedii per speranza alcuna che vi sia di ridur gli sviati
et i settarii alla Chiesa, ma solo per ritener gli non ancora divisi.
Replicò esser necessario principiare dalla riforma, altrimenti tutta
l'opera del concilio riusciria vana; ma, riformato il clero, che il suo
prencipe, se sarà ricchiesto della sua opinione nella materia de' dogmi,
opportunamente potrà dire cosa degna di considerazione, la qual non
occorreva dire in quel tempo, non essendo pertinente trattar di far guerra al
nimico, non avendo stabilito prima le forze proprie in casa. Nel filo di
parlare spesso interpose che tutto ciò era dal suo prencipe detto non
per dar legge al concilio, ma per insinuarlo reverentemente, e con questo
concetto anco finí. Rispose la sinodo per bocca del promotore che già
molto tempo avendo aspettato qualche prencipe o legazione di Germania, ma sopra
tutti il duca di Baviera, antemurale della Sede apostolica in quella regione,
con grand'allegrezza vedeva il suo ambasciatore, quale riceve e
s'affaticherà, come anco ha fatto, per ordinare tutto quello che
giudicherà esser di servizio divino e salute de' fedeli. I francesi,
udendo questa orazione, sentivano grandissimo piacere di non esser soli
nell'ammonire liberamente i prelati di quello che era necessario raccordargli;
ma udendo la risposta, s'eccitò in loro un'estrema gelosia, che questa
fosse graziosa, dove quella fu piena di risentimento. Ma non ebbero raggione di
dolersi, perché, quantunque il bavaro mordesse piú acutamente il clero in
generale, nondimeno de' padri del concilio parlò con molta riverenza,
dove l'orazione francese parve tutta drizzata a riprensione di quelli che
l'udivano, senza che a loro fu fatta risposta consultata, che al bavaro
sprovista. Ma l'una e l'altra fu ugualmente trattata, essendo state ambedue
udite con le sole orecchie.
[Scritto degl'imperiali per la concessione del
calice]
Gl'ambasciatori
imperiali, considerato che nelle congregazioni de' teologi i giorni inanzi
dagli spagnuoli e maggior parte degl'italiani era stato parlato contra la
concessione del calice e da molti detto esser eretici quelli che la dimandano,
per risponder a questa et altre loro obiezzioni e per coadiuvare la
proposizione del bavaro et a fine di prevenire i prelati che non dassero nelle
impertinenzie da' teologi usate, formarono in quella materia una scrittura, che
nella medesima congregazione, finito il raggionamento di quell'ambasciatore,
presentarono; la sostanza della quale fu: che per il carico suo hanno giudicato
d'avvertir li padri d'alcune cose, inanzi che dicessero il loro parere; che i
teologi ne' prossimi giorni avevano ben parlato quanto alle reggioni e paesi
loro proprii, ma non molto a proposito per le altre provincie e regni.
Pregavano i padri d'accommodar le sentenze loro, sí che portino medicina non
alle parti sane, che non ne hanno bisogno, ma a membri mal affetti: il che
faranno appositamente, se conosceranno quali siano le parti inferme e che aiuto
ricchiedino. Et incomminciando dal regno di Boemia, non esser bisogno andar
tropp'alto, né far menzione delle cose trattate in Costanza, ma soggionger
solamente che in quel regno, dopo quel concilio, nissuna prattica, nissuna
forza o guerra ha potuto levar il calice. Che la Chiesa benignamente, sotto
certe condizioni, glielo concesse, dopo le quali, non essendo servate, Pio II
le revocò; ma Paolo e Giulio III, per racquistar quel regno, mandarono
noncii a permetterglielo, se ben il negozio per impedimenti non si condusse a
perfezzione. Ora in questi tempi, avendo l'imperatore a sue spese instituito
l'arcivescovato di Praga et ottenuto ne' commizii di Boemia che i preti
calistini non si ordinassero se non da quello, e lo riconoscessero per legitimo
prelato, ricercò la Maestà Sua dal sommo pontefice che non si
lasciasse perder quest'occasione di racquistargli; avendo la Santità Sua
rimesso il tutto al giudicio del concilio, in potestà di quello
resterà conservar il regno, concedendogli il calice. Quei popoli esser
differenti in poche cose dalla Chiesa romana: non aver voluto mai sacerdoti
maritati, né ordinati da vescovo fuori della communione della Sede apostolica;
nelle preghiere fanno menzione del pontefice, de' cardinali e vescovi; se hanno
qualche differenza picciola nella dottrina, facilmente potersi emmendare,
purché se gli conceda il calice; non esser maraviglia che una moltitudine roza
abbia concepito una tal opinione, poiché uomini dotti, pii e catolici defendono
che maggior grazia s'ottenga nella communione d'ambe le specie che d'una sola.
Ammonivano i padri d'avvertire che la loro troppo severità non gli
induca a desperazione e gli faccia gettar in braccia de' protestanti.
Aggiunsero esser catolici in Ongaria, Austria, Moravia, Silesia, Carinzia,
Carniola, Stiria, Baviera, Svevia et altre parti di Germania, che con gran zelo
desiderano il calice; il che conosciuto da Paolo III concesse a' vescovi di
communicargli con quello, ma per molti impedimenti non si mandò ad
effetto. Di questi vi è pericolo, se il calice gli è levato, che
non si voltino a' luterani. Li teologi nelle loro publiche dispute aver mosso
dubio che questi che ricchiedono il calice siano eretici; ma dalla
Maestà imperiale non è procurato se non per catolici: ben vi
è speranza con questa concessione di ridur anco molti protestanti, come
già alcuni d'essi protestano che si ridurrebbono; sono sazii delle
novità e si convertirebbono; altrimenti il contrario doversi temere; e
per risponder a chi ricchiese questi giorni passati chi è quello che
ciò dimanda, se gli dica che la Maestà cesarea ricchiede che
l'arcivescovo di Praga possi ordinar sacerdoti calistini, e gl'ambasciatori del
clero di Boemia ricchiedono l'istesso per quel regno; e se non fosse stata la
speranza d'ottenerlo, non vi sarebbe piú reliquie de catolici. In Ongaria
costringono li sacerdoti, con levar i beni e minacciargli su la vita, a dar
loro il calice, et avendo l'arcivescovo di Strigonia castigato perciò
alcuni sacerdoti, il popolo è restato senza preti catolici, onde si sta
senza battesmo et in una profonda ignoranza della dottrina cristiana, per dar
facilmente nel paganismo. In fine pregorno i padri ad aver compassione e trovar
modo di conservar quei popoli nella fede e racquistar gli sviati.
In fine della
congregazione li legati diedero le minute formate sopra i 3 primi articoli, per
non incontrar nell'opposizione della congregazione precedente. E ne' giorni
seguenti li padri trattarono sopra di quelli e sopra il terzo s'allargarono
molto, entrando a parlare della grazia sacramentale, se piú se ne riceva
communicando le due specie: e chi difendeva l'una e chi l'altra parte. Il
cardinale Seripando diceva che, essendo stata discussa la medesima
difficoltà nel concilio in tempo di Giulio, fu deliberato che non se ne
parlasse; con tutto ciò fecero alcuni prelati instanza che si
dicchiarasse, ma non fu ricevuto per le contrarietà delle opinioni e
perché la maggior parte teneva che l'una e l'altra opinione fosse probabile: ma
per evitar ogni difficoltà fu concluso di dire che si riceve tutto
Cristo, fonte di tutte le grazie. Si preparavano alquanti vescovi per partir da
Trento, di quelli che, per aver parlato, con molto affetto et ardore della
residenza, si vedevano essosi e dubitavano, perseverando, di qualche grave
incontro; tra questi era Modena, altre volte nominato, soggetto di buone
lettere e sincera conscienza, quello di Viviers, e Giulio Pavesi, arcivescovo
di Surrento, e Pietro Paolo Costazzaro, vescovo di Aqui, et altri che avevano
da' legati ottenuto licenza: da Mantova, per vedergli (come amici che gl'erano)
liberati, e dagl'altri per rimover le occasioni di disgusti. Ma l'ambasciator
di Portogallo dimostrò a' legati che questo sarebbe stato con detrimento
della fama del concilio, sapendosi da tutti la causa perché partivano e sarebbe
stato detto che non vi fosse libertà, che sarebbe riuscito anco con poco
onore del pontefice, onde risolvettero di fargli fermare, massime intendendo
che, quando quelli fossero partiti, altri si preparavano per chieder licenza.
[I francesi favoriscono la dimanda del calice]
Differendo i
legati di propor gl'altri articoli per le difficoltà che prevedevano, il
dí terzo luglio gl'ambasciatori imperiali e bavaro fecero instanza che sopra
quelli fossero detti i voti; a questo effetto, fatta il dí seguente
congregazione, gl'ambasciatori francesi presentarono una scrittura, essortando
li padri a conceder la communione del calice, fondando la sua ricchiesta con
dire che nelle cose de iure positivo, come questa, conveniva
condescendere e non ostinarsi tanto, ma considerar la necessità del
tempo e non dar al mondo scandalo con mostrarsi tanto tenaci in conservar li
precetti umani, e negligenti nell'osservanza de' divini non volendo riforme; et
in fine ricchiesero che qualonque determinazione facessero, fosse accommodata
che non pregiudicasse all'uso de' re di Francia, che nella sua consecrazione
ricevono il calice, né al costume d'alcuni monasterii del regno che in certi
tempi lo ministrano. Nella congregazione però altro di piú non si fece,
se non che furono dati fuori tutti i 6 capi della dottrina per trattarne nelle
seguenti.
Restarono li
legati attoniti, considerata l'esposizione de' francesi, comprendendo che
fossero uniti con gli imperiali e che tanto maggiormente convenisse loro
caminar con cauzione; e ben ponderando li motivi de' francesi d'allargar i
precetti positivi, avvertirono che la concessione del calice, oltra le
difficoltà proposte, tirava seco molte altre in diverse materie.
Raccordavansi la petizione del matrimonio de' preti fatta dal bavaro, e che 2
giorni inanzi in convito, alla presenza di molti prelati invitati, Lansac,
essortandogli a compiacer l'imperatore nella petizione del calice, si
lasciò intender che la Francia desiderava le orazioni, officii divini e
messe in lingua volgare, e che fossero levate le figure de santi e concesso a'
preti il potersi maritare, e conoscendo che piú facilmente si fa ostacolo a' principii
che a' progressi, e con minor fatica si proibisce l'ingresso che si scaccia uno
di casa, risolsero che non era tempo di trattar del calice. Operarono col
Pagnano, agente del marchese di Pescara, che facesse instanza acciò non
si venisse alla determinazione prima che il suo re ne fosse avisato;
intermisero le congregazioni del 6 e 7 per trattar quei giorni con gl'imperiali
che si contentassero di differir quella materia, allegando diverse raggioni, la
piú concludente de' quali era la brevità del tempo per far i padri
capaci che la concessione fosse necessaria. Finalmente, dopo lunga trattazione,
condescesero gl'ambasciatori a contentarsi che si differisse tutta la parte
spettante a' dogmi; né questo piacendo a' legati, in fine gl'ambasciatori
consentirono che si differisse quel solo punto, facendo però menzione
della dilazione nel decreto, con promissione di determinarne una altra volta.
Restava trattar co' francesi, dove trovarono piú facilità che non
credettero, dicendo essi che quella non era cosa da loro proposta, né
ricercata, ma solo in quella avevano fatto assistenza agl'imperiali. Superata
questa difficoltà, si diedero a formar i decreti, il che acciò si
potesse con maggior prestezza esseguire, fecero intender che, volendo alcuno
raccordare qualche cosa, la ponesse in scritto, acciò non si tardasse la
composizione.
[Rimostranze de' francesi neglette. Discorso
del vescovo di Filadelfia per aspettar i tedeschi]
Nella
congregazione de' 8 Daniel Barbaro, patriarca d'Aquileia, nel suo voto disse
che essendo venuta nuova dell'accordo di Francia e dovendosi per ciò
creder che molti prelati venirebbono saria bene aspettar di trattar de' dogmi
sino al loro arrivo; né essendo di ciò fatta instanza da altri, meno
dagli stessi ambasciatori francesi, la proposta cadette da sé. Nella seguente
congregazione Antonio Agostino, vescovo di Lerida, raccordò che fosse
ben far menzione delle consuetudini di Francia, secondo l'instanza
degl'ambasciatori, ponendovi parole che riservassero i privilegii di quel
regno; soggiongendo che ancora dopo la determinazione del concilio di Costanza
li greci non sono stati vietati dal communicar col calice, avendolo per
privilegio, quale egli ha veduto; né essendo seguito da altri che da Bernardo
dal Bene fiorentino, vescovo di Nimes, anco questo raccordo fu posto a canto.
Dopo la congregazione l'ambasciator Ferrier ricchiese l'Agostino con
curiosità del tenore, autore e tempo di quel privilegio; il quale avendo
egli riferito a papa Damaso, rise l'ambasciator, essendo cosa certa nella
Chiesa romana 100 anni dopo Damaso l'astenersi dal calice era stimato
sacrilegio e che l'ordine romano descrive la communione de' laici sempre col
calice, e che sino del 1200 Innocenzio III fa menzione che le donne ricevano il
sangue di Cristo nella communione.
Il dí 10
Leonardo Aller tedesco, vescovo titolar di Filadelfia, arrivato la settimana
inanzi, dicendo il suo voto sopra i decreti, fece una digressione in guisa
d'orazione formata, ricercando li legati e la sinodo che s'aspettassero i
prelati di Germania, usando diverse raggioni e, fra le altre, tre che furono
mal ricevute dalla congregazione, cioè che non s'averebbe potuto chiamar
quello concilio generale, dove fosse mancata una nazione intiera principale
della cristianità; che il caminar inanzi senza aspettarla sarebbe un
precipitar i negozii; che il pontefice doveva scrivergli e chiamargli
particolarmente. Non era consapevole il buon padre degl'officii che il
pontefice aveva fatto per mezo del Delfino e Commendone, suoi noncii, 2 anni
inanzi in Germania, e delle risposte fatte loro da' protestanti e da' catolici;
da quelli negando voler, e da questi scusandosi non poter trovarsi al concilio.
Fu pensier di molti che dagl'ambasciatori imperiali fosse stato mosso, quali,
poiché si differiva di risolver la proposta del calice, averebbono voluto
prolongar il rimanente ancora.
[Ordinazioni gratuite, ordinazioni a titolo,
divisione delle parocchie e riformazione del papa]
Nella
seguente congregazione furono letti 9 capi di riformazione già
stabiliti; et al primo, di far ordinazioni gratuite, Alberto Duimio, vescovo di
Veglia, che come giunto una settimana prima non s'era trovato a trattar di
questa materia, disse che teneva quel capo per molto imperfetto, se insieme non
si statuiva che parimente a Roma si restasse d'essiger pagamento per le
dispense di ricever gl'ordini fuori de' tempi, inanzi l'età, senza
licenza et essamine dell'ordinario, e sopra le irregolarità et altri
impedimenti canonici. Poiché in queste si fanno le gran spese; che a' poveri
vescovi, che per il piú non hanno di che vivere, si dà una picciola
limosina, la quale egli vivamente sente che si levi, non però dando al
mondo questo scandalo di decimar la ruta e rubar gl'ori e gl'argenti; con
questa occasione si estese a tassare i pagamenti che in Roma si sborsavano per
ogni sorte di dispensa, e soggiunse che quando dispense gli sono state
presentate, o per ordinazioni o per altro, ha costumato d'interrogare se per
quelle avevano pagato, et inteso di sí, non ha mai voluto esseguirne, né
admetterne; che lo diceva publicamente, perché cosí era debito d'ogni vescovo
di fare. Al che essendo risposto che di questo s'era già parlato in
congregazione e risoluto di rimetter questa risoluzione al papa, il qual con
maggior decoro può riformare gli ufficii di Roma, replicò il
vescovo che ne aveva parlato la quaresima passata in Roma piú volte a chi
poteva provederci, ma particolarmente una in casa del cardinale di Perugia in
presenza de molti cardinali e prelati di corte, e detto le stesse cose; da' quali
fu risposto che erano cose da propor in concilio; ora intendendo il contrario,
non ne parlerà piú, poiché si vede la provisione esser rilasciata a Dio.
Il
Cinquechiese, al secondo delle ordinazioni a titolo, disse essere piú
necessario proveder secondo gl'antichi instituti, che nissuno sia ordinato
senza titolo et ufficio, che senza entrata, essendo di scandalo eccessivo che
si vedano molti farsi preti per non servir a Dio et alle chiese, ma per goder
un ocio congiunto con molto lusso et una buona entrata; che a questo la sinodo
doveva metter spirito e trovar modo che nissuna persona ecclesiastica fosse non
dedicata a qualche ministerio, per aver egli osservato che in Roma, in questi
prossimi tempi, sono stati dati vescovati ad alcuni solamente per promovergli, li
quali in breve tempo gl'hanno resignati, restando vescovi titolari solamente
per l'ambizione della degnità; la qual invenzione l'antichità
averebbe detestata come pestifera. Al quarto capo, del divider le parochiali
grandi e numerose, dopo aver lodato il decreto, aggiunse che era piú necessario
divider li vescovati grandi per potergli governare; allegando che in Ongaria ve
ne sono di
Diede ancora
peggior sodisfazzione il vescovo di Canadia della medesima nazione, proponendo
sotto metafore la riforma dell'istesso pontefice, dicendo che non si potevano
levar le tenebre dalle stelle, se non levatele prima dal sole, né medicar il
corpo infermo, lasciando le indisposizioni nel capo, che le influisce a tutte
le membra. E sopra l'ultimo capo de' questuarii disse non esser degnità
del concilio, né utilità della Chiesa incomminciar la riforma dalle cose
minime; doversi trattar prima delle cose d'importanza e riformar prima
gl'ordini superiori e poi gl'inferiori; alle qual sentenze pareva che
corrispondessero molti prelati spagnuoli e qualche italiani ancora. Ma parte
con dire che quei decreti già erano formati e che il tempo sino alla
sessione, che era di 3 giorni, non comportava che si potessero digerire nuove
materie, parte con far quelle opposizioni che si poteva alle cose dette da
questi e con assicurare che il pontefice averebbe fatto una strettissima
riforma nella corte, li rimedii agl'abusi della quale meglio si potevano e
discernere et applicare a Roma, dove l'infermità è meglio
conosciuta che in concilio, e con altre tal raggioni furono deluse le
provisioni raccordate da questi e da altri prelati, e furono fatti contentar
de' 9 articoli per allora.
[Proposta di regolar i discorsi nel concilio]
Ma finita la
congregazione, i legati et altri ponteficii rimasti insieme, attese le cose
udite, discorsero che cresceva ogni dí l'ardire de' prelati a dire cose nuove e
sediziose, senza rispetto, che si doveva chiamar non libertà, ma troppa
licenza, e li teologi ancora con la lunghezza del dire occupavano troppo il
tempo, contrastando tra loro di niente e passando spesso alle impertinenze; che
seguendo cosí non si vederà mai il fine del concilio, et oltra
ciò esservi pericolo che il disordine s'aummenti e produca qualche
sinistro effetto. Giovanni Battista Castello promotore, che aveva essercitato
l'istesso ufficio nella precedente ridozzione sotto Giulio, raccordò che
il cardinale Crescenzio soleva, quando i prelati uscivano dalle materie
proposte, senza rispetto interrompergli e troncar anco il filo del
raggionamento, et a' troppo prolissi farglielo abbreviare, et alcune volte
imporgli anco silenzio; che una o due volte cosí facendo anco al presente
s'abbreviarebbono gl'affari del concilio e si leverebbono le occasioni di
raggionamenti impertinenti. Al cardinale varmiense non piacque questo raccordo:
disse che, se Crescenzio si governava in quella guisa, non è maraviglia
se la Maestà divina non abbia dato buon progresso a quel concilio. Che
nissuna cosa è piú necessaria ad una sinodo cristiana che la
libertà, e leggendo li concilii de' migliori tempi si vedono ne'
principii d'essi contenzioni e discordie, eziandio in presenza degl'imperatori
potentissimi in quei tempi, le quali per opera dello Spirito Santo in fine
tornavano in concordia mirabile, e quello era il miracolo che faceva acquettar
il mondo; eccessive esser state le contenzioni nel niceno concilio e
nell'efesino essorbitantissime; non esser maraviglia che al presente vi siano
qualche dispareri maneggiati con modi civili; chi vorrà per mezi umani e
violenti ovviargli, farà che il mondo, stimando il concilio non libero,
gli perderà il credito: esser bene rimetter a Dio, che vuol esso reggere
i concilii e moderar gl'animi de' congregati in nome suo. Il cardinale di
Mantova approvò il parer di varmiense e biasmò l'instituto di
Crescenzio, soggiongendo che però non era contrario alla libertà
del concilio con decreti moderar gl'abusi, con prescrivere l'ordine di parlare
et il tempo, distribuendo a ciascuno la parte sua. Questo fu anco dal varmiense
lodato, e restarono che, fatta la sessione, si darebbe ordine a questo.
[Difficoltà sopra la sessione e sopra
'l decreto]
Ma poiché
gl'imperiali furono fuori di speranza d'ottener il calice, cessati li loro
interessi, li francesi con alquanti prelati facevano ogni opera di metter
impedimenti acciò nella sessione de' 16 non si facesse altro che
differir alla seguente, come già due volte s'era fatto. E li legati, per
evitar la vergogna s'affaticavano con ogni spirito per stabilire le cose, sí
che publicassero li 4 capi della communione e li 9 di riforma. Questi cercavano
di rimover e quelli d'interpor ogni difficoltà; con questi fini,
restando solo 2 giorni alla sessione, si fece congregazione la mattina de' 14;
nell'ingresso della quale Granata fece instanza a' legati che, attesa
l'importanza della materia che s'aveva da trattare, prorogassero la sessione, e
fece come un'orazione in mostrare quante difficoltà restavano ancora in
piedi, necessarie da esser decise. I legati, risoluti in contrario, non
admisero raggione alcuna e diedero principio all'essame della dottrina,
leggendosi il primo capo, e giunto a quel luogo dove si dice non potersi
inferire la communione del sangue per quelle parole del Signore in san
Giovanni: «Se non mangiarete la carne del figlio dell'uomo e beverete il mio
sangue», ecc., entrò Granata, dicendo che quel passo non parlava del
sacramento, ma della fede sotto metafora di nutrimento, allegando il contesto e
portando l'esposizione di molti padri e di sant'Agostino in particolare. Il
cardinale Seripando si diede ad espor quel passo come se leggesse in catedra, e
pareva che ognuno restasse sodisfatto; ma ritornò Granata a replicare
con maggior veemenza, in fine ricchiedendo che se gli aggiongesse
un'ampliativa, dicendo che per quelle parole non si poteva inferir la
communione del calice, intese come si volesse, secondo varie esposizioni de'
padri. Questa aggiunta ad alcuni padri non piaceva, ad altri non importava, ma
pareva strano che dopo concluse le cose venisse uno con aggiunte non necessarie
a turbare le cose stabilite, e furono 57 che dissero «non placet». Ma
per venir al fine, li legati si contentarono che vi fosse aggiunta la clausula,
che ben pare inserta con forza e nel latino incommincia: «utcumque iuxta
varias».
Nel secondo
capo, che tratta dell'autorità della Chiesa sopra li sacramenti,
venendosi ad un passo che ella aveva potuto mutare l'uso del calice con
l'essempio della mutazione, della forma del battesmo, Giacomo Giberto, vescovo
d'Alife, si levò, disse che era una biastema, che la forma del battesmo
era immutabile, che mai fu mutata e che nell'essenzial de' sacramenti, che
è la forma e la materia, non vi è alcuna autorità; sopra
di che essendo fatte molte parole, pro e contra, in fine si risolvé di levar
quella particola. Cosa lunga sarebbe narrare quante cose furono dette, da chi
per metter impedimenti, da chi per non tacere, sentendo gl'altri a parlare.
È naturale, quando una moltitudine è in moto, il fare a gara a
chi piú si scossa, né mai si raccoglie un collegio di ottimati cosí scielto,
che non si divida in personaggi e plebe. La pazienza e risoluzione de' legati
superò le difficoltà, sí che nella congregazione della sera
furono stabiliti i capi di dottrina e gl'anatematismi; con tutto che il
cardinale varmiense, se ben con buon zelo, frapose esso ancora
difficoltà a petizione d'alcuni teologi, quali l'avvertirono che nel
terzo capo della dottrina, dicendosi li fedeli non esser defraudati d'alcuna
grazia necessaria alla salute, ricevendo una sola specie, si dava
grand'occasione di dispute, perché non essendo l'eucaristia sacramento
necessario, con quella raggione si potrebbe inferire che la Chiesa la poteva
levar tutta: e molti prelati aderirono a quel raccordo, dimandando che si
riformasse, perché la raggione allegata contra era evidentissima et irresolubile,
e con difficoltà si fermò il moto dal cardinale Simoneta, con
dire che per la seguente congregazione fosse portato in scritto in minuta come
s'averebbe dovuto riformarlo.
In quella
congregazione nuova occasione di disgusti portò il Cinquechiese, il qual
essendo stato ammonito fuori della congregazione per le parole dette, che in
Roma si davano vescovati solo per promover le persone, ritornò in quel
raggionamento, facendoci sopra lungo discorso, come per decchiarare la sua
intenzione con modo che pareva di scusa, ma era confermazione delle cose dette,
con fine del raggionamento, che fu un'essortazione a' padri a' dire i voti loro
liberamente, senza rispetto. Restò Simoneta assai alterato per li
successi di quella congregazione; la qual finita, al varmiense dimostrò
quanto fosse contrario al servizio della Sede apostolica ascoltare la
impertinenza de' teologi, uomini soliti solamente a libri di speculazione, e,
per il piú, vane sottilità, le quali essi stimano, e pur sono chimere; di
che ne può prender pruova, perché non concordano tra loro: già
tanti d'essi aver approvato quel capo senza contradizzione, et ora venir alcuni
con nuovi partiti, quali, quando si sarà al ristretto, saranno da altri
contradetti; esser cosa chiara che, dicasi qual parola si vuole, dagl'amorevoli
sarà difesa e dagl'avversarii oppugnata, poco piú o meno sicure, poco
importa; ma che dopo aver intimato 2 sessioni e niente operato, si faccia
l'istesso in quella terza, questo esser quello che farà perder irrecuperabilmente
il credito al concilio; che a questo bisogna attendere a far qualche cosa.
Restò convinto il varmiense e rispose che tutto era stato da lui fatto
per bene, essendogli inviati quei teologi dagl'ambasciatori dell'imperatore;
s'accorse Simoneta che la bontà di quel prelato era abusata
dall'accortezza altrui, e communicò anco con gli altri legati il dubio
che dagl'imperiali non gli fosse cavato qualche cosa arcana di bocca, et
appuntò con loro d'avvertirnelo con buona occasione.
L'ultimo
giorno ancora ebbe qualche incontri, perché il vescovo di Nimes, cosí indotto
dagl'ambasciatori francesi, fece instanza che nel primo capo della riforma,
dove si concede al notario per le patenti degl'ordini pagamento, non fosse
pregiudicato alla consuetudine di Francia, che niente gli vien dato; fu seguito
in ciò da alcuni spagnuoli, e furono sodisfatti, aggiungendo nel decreto
che la consuetudine fosse salvata. Altre mutazioni di poco momento furono
ricchieste e tutte concesse, e messo il tutto in punto per tener la sessione la
mattina; li legati si levarono per partirsi, ma Arias Gallego, vescovo di
Girone, fattosegli inanzi, gli fermò e disse che sedessero e l'udissero.
Si risguardarono l'un l'altro, ma il desiderio di far la sessione
gl'insegnò la pazienza. Sedettero con disgusto di molti prelati, massime
di corte, et il vescovo, fatto legger il capo delle distribuzioni, disse
parergli cosa ardua che si conceda al vescovo di pigliar la terza parte delle
prebende e convertirle in distribuzioni; che già tutto era distribuzioni,
e per abuso si sono fatte le prebende; e che il vescovo da Dio ha
l'autorità di tornar li mali usi a' buoni antichi; non esser giusto che,
col dar il concilio al vescovo la terza parte dell'autorità che ha,
levargliene 2 terzi. Però si dicchiarasse che hanno i vescovi ampla
facoltà di convertir in distribuzioni quanto a loro pare conveniente.
Approvò questa sentenza l'arcivescovo di Praga con altre raggioni, e
pareva che con la faccia gl'altri spagnuoli mostrassero d'assentire. Ma il
cardinale di Mantova, lodata molto la pietà di quei vescovi, affermato
che quel fosse punto degno d'esser consultato dalla sinodo, promise per nome
commune de' legati, avutone cosí consenso da loro, che se ne sarebbe parlato la
sessione seguente.
[Quinta sessione: decreto della communione del
calice, e de' fanciulli]
Venne il dí
16, e con le solite ceremonie andarono li legati, ambasciatori e prelati alla
chiesa: nella messa non è da tacere che fu fatto il sermone dal vescovo
di Tiniana, il quale non ebbe risguardo, con tutto che si fosse risoluto di non
parlare per allora di conceder il calice, a prender per soggetto quella materia
sola e discorrere che l'uso del calice fu commune mentre durò l'ardor di
carità, ma quello diminuito, succedendo inconvenienti per la negligenza
d'alcuni, non fu l'uso di quello interdetto, ma solo fu insegnato esser minor
male l'astenersene a quelli che difficilmente potevano schifare l'irreverenza,
con l'essempio de' quali altri in progresso, per non obligarsi alla diligenza,
se ne astennero; lodò ne' primi l'essempio memorabile di pietà,
biasmò l'impietà de' moderni novatori che, per averlo, hanno cosí
grand'incendio eccitato; essortò li padri alla pietà et ad
estinguer l'incendio e non comportar che per loro colpa tutto 'l mondo
abbruggi, condescendino alla imbecillità de' figli, che non dimandano
altro che il sangue di Cristo; gli ammoní a non aver la perdita di tante
provincie e regni per iattura leggiera, e poiché ora con tanto desiderio
è ricchiesto quel benedetto sangue, non temino che s'abbia da usare
l'antica negligenza per quale fu tralasciato, ma lo concedino, imperoché Cristo
non gli vuol cosí tenaci nella propria openione che mantengano tra li cristiani
una discordia tanto perniziosa per quel sangue che egli ha sparso per unire
tutti in strettissima carità. Passò destramente ad una
essortazione alla residenza e finí con poco gusto de' legati et altri, che
desideravano metter in silenzio quelle materie.
Dopo finite
le ceremonie, fu dal celebrante letta la dottrina in quattro capi, continenti
in sostanza: che la sinodo, andando attorno molti errori circa il sacramento
dell'eucaristia, ha deliberato espor quello che tocca alla communione sub
utraque e de' fanciulli, proibendo a tutti li fedeli di creder, o insegnar
o predicar altrimenti. Per tanto, seguendo il giudicio e consuetudine della
Chiesa, dicchiara che i laici e chierici non celebranti non sono ubligati per
alcun divino precetto a communicare sub utraque, e non potersi dubitar,
salva la fede, che la communione d'una sola specie non basti; che se ben Cristo
ha instituito e dato il sacramento sotto due specie, da questo non s'ha da
inferire che tutti siano ubligati a riceverlo, né meno questo si può
inferire dal sermone di nostro Signore narrato nel sesto capo di san Gioanni,
dove, se ben sono parole che nominano ambe le specie, ve ne sono anco che
nominano quella sola del pane. Decchiara, oltre ciò, esser stata sempre
nella Chiesa potestà di far mutazione nella dispensazione de'
sacramenti, salva la sostanza; il che può cavare in generale dalle
parole di san Paolo che i ministri di Cristo sono dispensatori de' misterii di
Dio, et in speciale nell'eucaristia, sopra la quale si riservò dar
ordini a bocca. Che la Chiesa conoscendo questa sua autorità, se ben dal
principio era frequente l'uso d'ambe le specie, nondimeno, mutata quella
consuetudine per giuste cause, ha approvato quest'altra di communicar con una,
la qual nissun può mutare senza l'autorità della medesima Chiesa.
Decchiara inoltre che sotto ciascuna delle specie si ricevi tutto Cristo et il
vero sacramento, e chi ne riceve una sola non è defraudato d'alcuna
grazia necessaria alla salute per quello che al frutto s'aspetta. Finalmente
insegna che i fanciulli, inanzi l'uso della raggione, non sono ubligati alla
communione sacramentale, non potendo in quella età perder la grazia, non
condannando però l'antichità del contrario costume in qualche
luoghi servato, dovendosi senza dubio credere che non abbiano fatto ciò
per necessità di salute, ma per altra causa probabile.
In
conformità di questa dottrina furono letti 4 anatematismi:
1 Contra chi
dirà che tutti i fedeli sono tenuti per precetto divino o per
necessità di salute a ricever tutte due le specie dell'eucaristia.
2 Che la
Chiesa catolica non abbia avuto giuste cause di communicar li laici e non
celebranti con la sola specie del pane, overo in ciò abbia errato.
3 Contra chi
negherà che sotto la sola specie del pane tutto Cristo, fonte et autore
di tutte le grazie, sia ricevuto.
4 Contra chi
dirà la communione della eucaristia esser necessaria a' fanciulli inanzi
l'uso della raggione.
Dopo questo
fu anco letto un altro decreto, dicendo che la sinodo si riserva con la prima
occasione d'essaminar e deffinir doi altri articoli non ancora discussi,
cioè: se le raggioni per quali la Chiesa ha communicato sotto una specie
debbono esser ancora ritenute e non concesso il calice ad alcuno; e se parendo
che si possi conceder per oneste raggioni, con qual condizione ciò si
debbia fare.
Mentre la
messa si cantò, Alfonso Salmerone e Francesco della Torre giesuiti
fecero discorso, uno col varmiense e l'altro col Madruccio, standogli dietro le
sedie, che nel primo capo della dottrina s'era parlato con oscurità in
materia dell'instituzione del sacramento nell'ultima cena sotto 2 specie e che
bisognava parlar all'aperta, dicendo che Cristo l'aveva instituito per
gl'apostoli e per i sacrificanti solamente, non per tutti i fedeli; che questa
clausula era necessaria rimetterla dentro per levar a' catolici ogni dubio et
agl'eretici ogni ansa d'opporsi e calunniare; che essi, come teologi mandati
dal pontefice, non potevano restare d'avisare in cosa di tanta importanza, e
fecero cosí grand'instanza, massime Salmeron che con varmiense trattava, che
finita la lezzione del decreto, questo prima e Madruccio seguendolo, fecero la
proposizione; la quale a molti piacque, ma dalla maggior parte fu ripudiata,
non per lei in sé, ma per il modo di proporla alla sprovista, senza dar tempo
di pensare. Per la stessa causa non piacque agl'altri legati, ma per decoro del
luogo, senza maggior moto dissero che s'averebbe riservato alla seguente
sessione, nella trattazione de' doi articoli imminenti.
[Decreto di riforma]
Furono dopo
letti li 9 capi di riforma:
[1] Che per
la collazione degl'ordini, dimissorie, testimoniali, sigillo o altro, il
vescovo o suoi ministri non possino ricever cosa alcuna, ancorché
spontaneamente offerta. I notarii, dove è consuetudine di non ricever e
dove non hanno salario, possino ricever un decimo di scudo.
[2] Che
nissun chierico secolare, se ben idoneo, sia promosso ad ordine sacro se non ha
beneficio, patrimonio o pensione sufficicnte per vivere, et il beneficio non
possi esser rinunciato, né la pensione estinta, né il patrimonio alienato senza
licenza del vescovo.
[3] Che nelle
catedrali e collegiate, dove distribuzioni non vi sono o sono tenui, possi il
vescovo convertir in quelle la terza parte de' frutti delle prebende.
[4] Che nelle
parochiali di numeroso popolo li vescovi costringano li rettori a pigliar aiuti
d'altri sacerdoti, e quelle che sono grandi di spacio siano divise e previste
a' rettori nuovi, se farà bisogno, anco costringendo il popolo a
contribuire.
[5] Che i
vescovi possino unire perpetuamente li beneficii curati e non curati, per
povertà et altre cause giuridiche.
[6] Che a'
parochi imperiti li vescovi diano coadiutori e castighino gli scandalosi.
[7] Che li
vescovi possino ridur i beneficii delle chiese vecchie e ruvinose ad altre, e
far restaurar le parochiali, costringendo anco il popolo alla fabrica.
[8] Che
possino visitar tutti i beneficii che sono in commenda.
[9] Che sia
levato in ogni luogo il nome, ufficio et uso di questore.
Et in fine fu
ordinata la sessione per 17 del mese di settembre, con dicchiarazione che la
sinodo, eziandio in congregazione generale, possi abbreviar et allongar ad
arbitrio cosí quel termine, come ogni altro che si assignerà alle
seguenti sessioni.
[Giudicii di questa sessione]
Non furono le
azzioni di questo concilio in tanta espettazione ne' passati tempi, quanta al
presente, essendo convenuti tutti i prencipi in ricchiederlo, mandate
ambasciarie d'ogni regione, congregato numero de prelati grande e quadruplo di
quello che fu per inanzi; e quello che piú era stimato, essendo stato dato
principio già 6 mesi, e quelli cunsummati in quotidiane e continue
trattazioni con ispedizione di molti corrieri e prelati da Roma a Trento e [da]
Trento a Roma. Ma quando uscí in stampa la sessione, con una lingua da tutti
era memorato il proverbio latino del parto delle montagne: particolarmente la
dilazione de' 2 articoli era notata, parendo maraviglia che, avendo con 4
anatematismi fatto quattro articoli di fede, non avesse potuto dicchiarare
quello di conceder l'uso del calice de iure ecclesiastico. A molti
pareva anco che quello dovesse esser trattato prima, poiché quando fosse stato
concesso, cessavano tutte le dispute. Il terzo capo della dottrina fu assai
considerato nella conclusione, che ricevendo il solo corpo di Cristo non
è fraudato il fedele di grazia necessaria, parendo una confessione che
si perdi grazia non necessaria; e qui si dubitava se vi sia autorità
umana che possi impedire la grazia di Dio soprabondante e non necessaria; e
quando ben potesse, se la carità concede questi impedimenti al bene. Due
cose sopra le altre diedero a parlar assai: l'una, l'obligazione imposta di
credere che l'antichità non tenesse per necessaria la communione de'
putti, perché dove si tratta di verità d'istoria è cosa di fatto
e de passato, dove non vale d'aver autorità, che non può alterare
le cose già fatte, ma è cosí noto a chi legge sant'Agostino, che
in 9 luoghi, non con una parola, ma con discorso asserisce la necessità
dell'eucaristia per li fanciulli, e doi d'essi la uguaglino alla
necessità del battesmo, anzi piú d'una volta dice che la medesima Chiesa
romana l'ha tenuta e definita per necessaria alla salute de' fanciulli, et
allega per questo Innocenzo pontefice, la cui epistola resta ancora, dove
chiaramente parla. E si maravigliavano come il concilio senza necessità
si fosse impedito in questo senza essito e con pericolo che altri dicesse o
Innocenzo o il concilio aver errato. L'altro era il secondo anatematismo con la
dicchiarazione che sia eretico chi dice la Chiesa non essersi mossa da giuste
cause a communicare senza il calice, che è fondar un articolo di fede
sopra un fatto umano; et avevano per cosa molto mirabile confessar che l'uomo
non è tenuto ad osservar il decreto, se non de iure humano, ma a
creder che sia giusto è ubligato de iure divino, e poner per
articoli di fede cose che si mutano alla giornata. Altri ancora aggiungevano
che se vi erano quelle tanto giuste cause conveniva dirle e non costringer
gl'uomini con terrore a credere, ma con persuasione; che veramente quello era
un signoreggiare la fede, che san Paolo tanto detesta. Sopra i capi della
riforma generalmente si diceva che non potevano esser toccati particolari piú
leggieri, né piú leggiermente, e che era immitato quel medico, il qual in corpo
tesico attende a curare il prurito; e quel metter mano per forza nella borsa
del popolo per spesare il curato o per restaurar chiese pareva cosa molto
strana, e quanto alla sostanza e quanto al modo: quanto alla sostanza, per
esser superfluamente ricco il clero e piú tosto debitore a' laici per diversi
et evidenti rispetti; quanto al modo, perché né Cristo, né gl'apostoli mai
pretesero costringere a contribuzioni, ma ben facoltà di ricever le
volontarie; e leggendo san Paolo A' Corinzii e Galati
vederà il trattamento del patrone al bue che trebbia e l'ufficio del
catecumeno verso il catechizante, senza però che quei operatori abbiano
alcuna azzione o dritto d'essazione, né vi sia nel mondo autorità
pretoria che possi servirgli.
[Riconciliazione de' legati. Lettera del re di
Spagna sopra la continuazione e la residenza]
Finita la
sessione, li legati si diedero a metter ordine alle cose da essaminare per
l'altra, con dissegno d'abbreviar il tempo, se possibil fosse stato. Arrivarono
in Trento lettere da Alessandro Simoneta al cardinale suo fratello, e dal
cardinale Gonzaga al zio con efficacissime essortazioni per nome del pontefice
ad accommodar le differenze et all'avvenire intendersi ben insieme; per questo
la dominica dopo la sessione Simoneta restò, partendo li legati dalla
Chiesa, a disnar con Mantova e ne seguí perfetta riconciliazione; entrò
questo in raggionamento di quei prelati che pratticavano in casa sua et erano
in sospetto a Mantoa per ufficii fatti contra lui, ma egli lo fermò
modestamente, dicendo che all'avvenire non parleranno cosí; trattarono strettamente
come dar compita sodisfazzione al papa et alla corte in materia della residenza
e quali prelati sarebbono atti a maneggiarsi a persuader gl'altri: quelli che
già erano scoperti per ristretti negl'interessi ponteficii o della
corte, se ben atti del rimanente, stimarono non buoni per mancamento di
credito. Messero 2 di stima per bontà e molto destri nel negoziare, li
vescovi di Modena e di Brescia. L'istesso giorno l'arcivescovo di Lanciano,
congregati li vescovi che per suo posto avevano scritto al papa, gli presentò
il breve di risposta pieno d'amorevolezza, umanità et offerte, che
gl'indolcí tutti e portò gran momento per rilasciare l'ardire della
residenza. S'aggionse pur il giorno medesimo un altro accidente molto
favorevole al pontefice: che il marchese di Pescara mandò al secretario
copia d'una lettera scrittagli dal re, dove gli diceva che, avendo inteso
dispiacer all'imperatore et a Francia la decchiarazione della continuazione e
conoscendo che, quando si facesse, potrebbe causar la dissoluzione del concilio,
gli commetteva che non ne facesse piú alcuna instanza, purché non si faccia
decchiarazione di nuova indizzione e che il concilio segua proseguendo come ha
incomminciato; gl'ordinò appresso di far saper a' prelati suoi che egli
aveva inteso la controversia e disputa sopra la residenza e l'instanza da loro
fatta acciò si decchiarasse de iure divino; che lodava il loro
zelo e buona intenzione, nondimeno gli pareva che per allora non fosse a
proposito tal decchiarazione; però non dovessero farne maggior instanza.
Mostrò il secretario la lettera a' prelati spagnuoli, e Granata,
consideratala accuratamente, disse che la facenda andava bene, poiché il papa
non la voleva; il re non sapeva quello che importasse, che era consegliato
dall'arcivescovo di Siviglia, che mai residette, e dal vescovo di Conca, che se
ne stava in corte; che egli sapeva molto ben a che fine commandava e
l'ubedirrebbe in non protestare, ma non resterebbe di dimandarla sempre che
fosse venuta occasione, sapendo che non offenderebbe il re. Fu anco mostrato il
capo della continuazione agl'ambasciatori cesarei e francesi, quali risposero
che veramente non vi è bisogno di quella dicchiarazione espressamente in
parole, poiché s'esseguiva per effetto.
[Congregazione per la materia et ordine della
seguente sessione]
La
congregazione dopo fu il dí 20, nella quale fu proposto che s'averebbe trattato
del sacrificio della messa e delli abusi che in ciò seguono. Il
cardinale di Mantova fece un'ammonizione a' prelati di dire li voti nelle
congregazioni quietamente e senza strepiti e con brevità, e diede conto
delle regole che avevano poste insieme per ordinare le congregazioni de'
teologi, a fine di levar le contenzioni, la confusione e la prolissità;
le qual lette, furono dalla congregazione approvate. Dopo il cardinale
Seripando discorse il modo d'essaminar li capi di dottrina e gl'anatematismi
nelle congregazioni e raccordò che già erano stati essaminati e
discussi nel medesimo concilio altre volte e stabiliti, se ben non publicati,
onde potevano li padri abbreviare molto le considerazioni loro, che de nissuna
cosa vi era bisogno maggiore che di ispedizione. Soggionse Granata che, essendo
altra volta trattato della messa e restando longo tempo sino alla sessione, si
poteva insieme trattar la materia dell'ordine, e l'istesso fu confermato da
Cinquechiese; il che da alcuni fu inteso come detto per ironia, da altri a fine
di trattar della residenza, conforme alla promessa fatta da Mantova. In fine
furono dati fuori gl'articoli per trattar nelle congregazioni de' teologi. Fu
la sostanza degl'ordini sopradetti compresa in 7 regole: che in ciascuna
materia proposta parlassero 4 solamente de' teologi mandati dal pontefice,
eletti da' legati, 2 secolari e 2 regolari; che dagl'ambasciatori de' prencipi
fossero eletti 3 de' teologi secolari mandati da quelli; che ciascuno de'
legati eleggesse uno de' teologi secolari loro famigliari; che de tutti
gl'altri teologi secolari, familiari de' prelati, 4 soli per materia siano
scielti a parlare, incomminciando da quelli di piú antica promozione al
dottorato; che del numero de' regolari ciascun generale ne elegga tre del
proprio ordine; che nissun de teologi nel dire ecceda lo spacio di mez'ora, e
chi sarà piú longo sarà interrotto dal maestro delle ceremonie, e
chi sarà piú breve maggiormente sarà lodato; che ciascuno de'
teologi a chi non toccherà luogo di parlar in una materia, potrà
portar in scritto a' deputati quello che parerà necessario circa le cose
proposte. Con queste regole si fece conto che per allora averebbono parlato 34
teologi e s'averebbono potuto udire in 10 congregazioni al piú. Nel stabilir
questo ordine, per farlo publico, nacque difficoltà che inscrizzione
dargli, parendo ad alcuni che col chiamarlo modo da servare per li teologi, si
dovesse incorrer nell'inconveniente opposto da quel spartano agl'ateniesi: che
li savii consultassero e gl'ignoranti deliberassero; per evitar il quale la
inscrizzione fu cosí concepita: «Modo che per l'avvenire si doverà
servar nelle materie che saranno essaminate da' teologi minori», inferendo che
i prelati fossero poi teologi maggiori.
Gl'articoli
furono 13:
[1] Se la
messa sia sola commemorazione del sacrificio della croce e non vero sacrificio.
2 Se il
sacrificio della messa deroghi al sacrificio della croce.
3 Se Cristo
ordinò che gl'apostoli offerissero il suo corpo e sangue nella messa con
quelle parole, cioè: «Fate questo in mia commemorazione».
4 Se il
sacrificio della messa giovi solamente a chi lo riceve e non possi esser
offerto per altri, cosí vivi, come morti, né per li peccati, satisfazzioni et
altre loro necessità.
5 Se le messe
private, in quali il solo sacerdote riceve la communione senza altri
communicanti, siano illecite e debbiano esser levate.
6 Se è
contrario all'instituzione del Signore il meschiar l'acqua col vino nella
messa.
7 Se il
canone della messa contiene errori e debbia esser abrogato.
8 Se è
dannabile il rito della Chiesa romana di prononciare in segreto e sotto voce le
parole della consecrazione.
9 Se la messa
debbia esser celebrata solo in lingua volgare, la qual da tutti sia intesa.
10 Se
l'attribuir determinate messe a determinati santi sia abuso.
11 Se si
debbia levar via le ceremonie, vesti et altri segni esterni che la Chiesa usa
nel celebrar la messa.
12 Se il dir
che il Signore sia misticamente sacrificato per noi sia l'istesso come dire che
egli ci sia dato da mangiare.
13 Se la
messa sia sacrificio di lode e di rendimento di grazie, overo ancora
propiziatorio per li vivi e per li morti.
A questi
articoli era soggionto che i teologi dicessero se erano erronei o falsi o
eretici, e se meritavano esser dalla sinodo condannati, e che se gli
dividessero tra loro, sí che gli 17 primi parlassero sopra gli 7 articoli
anteriori, e gl'altri sopra gli 6 seguenti.
[Disgusti de' francesi in concilio]
Agl'ambasciatori
francesi parve sempre dimorar nel concilio con poca riputazione rispetto
agl'altri; ma uscito il decreto sopradetto, maggiormente entrarono in gelosia,
poiché de' teologi s'aveva a far menzione quali di qual re erano, cosa che da'
prelati non si faceva, e per Francia alcuno non era per intervenire. Dubitavano
anco che con questo potesse nascer qualche pregiudicio alle prerogative del
regno: però allora immediate e dopo ancora con altre occasioni avisarono
in Francia che la disputa passerebbe tra soli italiani, spagnuoli e portughesi;
che Francia non averebbe parte, se Sua Maestà non avesse fatto accelerar
alcun prelato o dottore, e massime dovendosi trattar materie cosí importanti come
gl'articoli proposti contenevano. Il che anco servirebbe per poter procacciar
d'ottenere o impedire le cose secondo il desiderio di Sua Maestà et il
contenuto nella instruzzion loro. Che sino a quell'ora non avevano proposto
alcuno degl'articoli di riforma per rispetto che non avendo voti da
sostenergli, non sarebbe stato tenuto conto delle loro remostranze. Che il
concilio non vuol ascoltar cosa che pregiudichi all'utile overo autorità
della corte, trovandosi il papa patrone delle proposizioni, avendosi da principio
statuito e successivamente osservato che non possi esser alcuna cosa proposta
se non da' legati, e non meno delle deliberazioni, per li molti prelati
pensionarii et altri disposti a sua divozione, et essendo risoluto che il
concilio non si meschi in riformare la corte, ma riservare a lui tutto quel
negozio, et i spagnuoli, che mostravano gran zelo alla riforma, essendo
rafrediti e storditi per la correzzione ricevuta dal loro re, né essendovi
speranza, stando le cose in questo termine, d'ottener altro che quello che a
Sua Santità piacerà, poiché nissuna instanza fatta da tutti
gl'ambasciatori e prencipi che sono in Trento ha potuto impetrar che si tratti
una buona riforma della disciplina ecclesiastica, con tutto che a' legati sono
stati presentati gl'articoli conforme non solo all'uso della primitiva Chiesa,
ma anco a' decreti de' medesimi pontefici. Ma in luogo di quella, mettono
avanti punti della dottrina controversi al presente, con tutto che gli era
stato mostrato ciò esser superfluo, attesa l'assenza de' protestanti; e
se pur propongono qualche cosa che tocchi i costumi, è di pochissima
importanza e di nissun frutto.
[Allegrezza del papa per la sessione]
Il papa, che
per gl'avisi giornalmente inviatigli delle cose che occorrevano in Trento con tanta
varietà, restava molto perplesso se al giorno destinato s'averebbe
publicato alcun decreto nella sessione, avuto nuova come felicemente fosse
passata, ne sentí grand'allegrezza, la qual s'accrebbe udita la reconciliazione
de' legati e la lettera scritta dal re di Spagna; non poté contenersi che non
mostrasse il piacere, dandone parte in concistoro e parlandone con
gl'ambasciatori e passò sino a ringraziare il cardinale d'Aragon,
fratello di Pescara, dal quale riconosceva il servizio, e tutto volto al presto
fine del concilio, non scoprendo che altra cosa lo potesse portar in longo se
non la residenza o la communione del calice, scrisse a' legati che egli era
tutto intento alla riforma della corte e di ciò assicurassero cosí
gl'ambasciatori, come i padri che di ciò parlassero, et essi
attendessero ad espedir le materie; il che averebbono potuto fare in tre
sessioni al piú. Lodò che avessero riservato d'abbreviare il tempo
prefisso, essortandogli a valersi di quella facoltà. Aggionse che
conoscendo esser difficile far buona risoluzione nel concilio in materia della
residenza, per esser molti prelati interessati nell'onore, avendo per buon fine
detto la loro openione, procurassero che quella fosse rimessa a lui e parimente
si liberassero dalle instanze che da' prencipi gli sono fatte intorno la
communione del calice, col rimettergli quella ancora; e se in alcuna delle
materie che si tratteranno qualche difficoltà s'attraverserà, non
agevole da snodare, propongano che gli sia rimessa; perché egli con maggior facilità
potrà ogni cosa decidere nel consistoro, chiamati, se bisognerà,
qualche numero de' dottori, che in Trento, dove gli varii interessi rendono le
risoluzioni impossibili o longhissime.
[L'ordine del trattar è violato da due
gesuiti]
La prima congregazione
de' teologi fu il seguente giorno dopo mezodí, nella quale fu cosí ben servato
l'ordine di parlare una mez'ora, che il giesuita Salmerone consummò esso
solo tutto 'l tempo con molta petulanza, dicendo che egli era mandato dal papa
e, dovendo parlare di cose importanti e necessarie, non doveva aver termine
prefisso; e discorse sopra gli 7 articoli; non però s'udirono da lui se
non cose communi, le quali non meritano memoria particolare. La mattina
seguente fu immitato dal Torrense, suo socio, che volle esso ancora tutta
quella congregazione, e piú tosto replicò le cose dette il giorno prima,
che ci aggionse di nuovo. Ma peggio fece; ché in fine, entrato nel luogo di san
Giovanni: «Se non mangerete» ecc., disse non potersi intender se non della
communione sacramentale, e soggionse che nel primo capo della dottrina nella
precedente sessione publicato pare a esserne fatto dubio, però era
necessario nella seguente dechiarare che d'altro in quel passo non si tratta
che del sacramento; e se alcuno voleva altrimenti dire, egli se n'appellava
alla sinodo. Restarono offesi li legati gravemente per le cose dette, cosí per
esser contra la determinazione del concilio, come anco perché introducevano una
necessità della communione del calice; ma molto maggiormente perché quei
giesuiti, con tutto che fossero li primi, vollero esser eccettuati ambidue
dagl'ordini generali con tanta petulanza: raccordarono il moto che fu da loro
eccitato nella sessione, e questo Torres era anco in norma del Simoneta
particolarmente per aver scritto contra il Catarino a favor della residenza,
che sia de iure divino con termini, diceva quel cardinale, insolenti:
perilché, finita la congregazione, disse a' colleghi che conveniva reprimer
l'audacia per dar essempio agl'altri e fu preso partito di farlo con la prima
occasione.
[Nell'esamine degli articoli è provato
che la messa è sacrificio, ma con gran diversità di pareri]
Nelle
discussioni de' teologi furono uniformi tutti in condannar d'eresia le openioni
de' protestanti ne' proposti articoli, e brevemente s'ispedivano degl'altri:
longhissimi furono i discorsi di ciascuno in provare che la messa sia
sacrificio, nel quale s'offeriva Cristo sotto le specie sacramentali: le
raggioni principali da loro usate erano che Cristo è sacerdote secondo
il rito di Melchisedech, ma Melchisedech offerí pane e vino, adonque il
sacerdozio de Cristo conviene che sia con sacrificio di pane e vino. Di piú,
l'agnel pascale fu vero sacrificio e quello è figura dell'eucaristia,
onde quella ancora conviene che sia vero sacrificio. Appresso per la profezia
di Malachia, per bocca del quale Dio rifiuta il sacrificio degl'ebrei, dicendo
esser il nome suo divino, grande fra le genti et in ogni luogo offerirsi al suo
nome oblazione monda, che d'altro non si può intender che sia offerto a
Dio in ogni luogo e da tutte le genti; diverse altre congruenze e figure del
Vecchio Testamento furono allegate, facendo fondamento chi sopra una, chi sopra
un'altra. Del Testamento Nuovo era addotto il luogo di san Gioanni dove Cristo alla
samaritana insegnò esser venuta l'ora quando il Padre sarà
adorato in spirito e verità, essendo che adorar nella divina Scrittura
significa sacrificare, come per molti luoghi apparisce; e la samaritana del
sacrificio interrogò, che da' giudei non si poteva offerir se non in
Gierusalem e da samaritani era stato offerto in Garizim, dove allora Cristo
era. Onde per necessità, dicevano, conviene intendere il luogo d'una
adorazione esterna, publica e solenne, che altra non era se non l'eucaristia. Era
anco provato per le parole da Cristo dette: «Questo è il mio corpo che
per voi è dato, che per voi è fratto; questo è il mio
sangue che per voi è sparso»: adonque nell'eucaristia vi è
frattura di corpo et effusione di sangue, che sono azzioni di sacrificio. Sopratutto
era fatto gran fondamento sopra le parole di san Paolo, che mette nel genere
medesimo l'eucaristia co' sacrificii degl'ebrei e de' gentili, dicendo che per
quello si partecipa il corpo e sangue di Cristo, sí come nell'ebraismo chi
mangia l'ostie è partecipe dell'altare, e non si può bere il
calice del Signore, né esser partecipe della mensa sua, e bere il calice de'
demonii e partecipar della mensa di quelli. Ma che gl'apostoli fossero da
Cristo ordinati sacerdoti, lo provavano chiaro per le parole dette loro per
nostro Signore: «Fate questo in mia memoria». Per maggior prova erano addotte
molte autorità de' padri, che tutti nominano l'eucaristia sacrificio,
overo con termini piú generali attestano che nella Chiesa si offerisce
sacrificio. Una parte aggiongeva appresso esser la messa sacrificio anco perché
Cristo nella cena se stesso offerí, e quella raggione portava per principale e
provava il suo fondamento prima perché, dicendo chiaro la Scrittura che
Melchisedech offerí pane e vino, Cristo non sarebbe stato sacerdote secondo
quell'ordine, se non l'avesse offerto esso ancora; e perché Cristo disse il
sangue suo nell'eucaristia esser confermativo del Nuovo Testamento, ma il
sangue confermativo del Vecchio fu nella sua instituzione offerto: perilché segue
in consequenza necessaria che Cristo egli ancora l'offerisse. Argomentavano
ancora che avendo detto Cristo: fate questo in mia memoria, se egli non avesse
offerto, noi non potressimo offerire, e dicevano li luterani non aver altro
argomento per provar la messa non esser sacrificio, se non perché Cristo non ha
offerto, e perciò esser pericolosa quella opinione, come fautrice della
dottrina ereticale. Piú efficacemente era ancora provata per quello che la
Chiesa canta nell'ufficio del corpo del Signore, dicendo: «Cristo, sacerdote
eterno secondo l'ordine di Melchisedech», ha offerto pane e vino. E nel canone
del messale ambrosiano si dice che, instituendo una forma di perpetuo
sacrificio, egli prima ha offerto se stesso ostia e primo ha insegnato ad offerirla.
Si portavano poi diverse autorità de' padri per comprobazione
dell'istesso.
Dall'altra
parte, non con minor asseveranza, era detto che Cristo nella cena avesse
commandato l'oblazione da farsi perpetuamente nella Chiesa dopo la morte sua,
ma lui non aver offerto esso medesimo, perché la natura di quel sacrificio non
lo comportava; e per prova di questo dicevano che sarebbe stata superflua
l'oblazione della croce, poiché per quella della cena precedente sarebbe stato
riscosso il genere umano. Che il sacrificio dell'altare fu instituto da Cristo
per rammemorazione di quello che egli offerí in croce, ma non si può
ramemorar altro che cosa passata; perilché l'eucaristia non poté esser
sacrificio inanzi l'oblazione di Cristo in croce. Allegavano ancora che né la
Scrittura, né il canone della messa, né concilio alcuno ha mai detto che Cristo
offerisse se stesso nella cena; et i luoghi che gl'altri allegavano de' padri,
questi mostravano doversi intender dell'oblazione fatta in croce. Concludevano:
avendosi a deliberare la messa esser sacrificio, come veramente era, si poteva
abondantemente farlo per le efficacissime prove della Scrittura e padri, senza
voler anco aggiongervi prove non sussistenti. Questa differenza non fu tra
molti e pochi, ma divise cosí i teologi come i padri in parti quasi pari e fu
occasione di qualche contenzione. I primi passarono a dire che l'altra opinione
era errore e chiedevano un anatematismo che gl'imponesse silenzio, con dannar
d'eresia chi dicesse Cristo non aver se stesso offerto nella cena sotto le
specie sacramentali; gl'altri in contrario dicevano che non era tempo di
fondarsi sopra cose incerte e sopra nuove opinioni, non udite e non pensate
dall'antichità, ma doversi star sopra il chiaro e certo, e per la
Scrittura e per i padri, cioè che Cristo ha commandato l'oblazione.
Tutto il mese di luglio fu consumato da' 17 che parlarono sopra i primi
articoli; sopra gl'ultimi in pochi giorni si spedí piú tosto con ingiurie
contra protestanti che con raggioni. Non è ben narrare li particolari,
se non alcuni pochi notabili.
Nella
congregazione de' 24 luglio, la sera, Giorgio d'Ataide, teologo del re di
Portogallo, si diede a destrugger tutti li fondamenti degl'altri teologi fatti
per provare il sacrificio della messa con la Scrittura divina; e prima disse
non potersi metter in dubio se la messa sia sacrificio, perché tutti i padri
l'hanno con aperte parole detto e replicato in ogni occasione, et
incomminciò da' latini e greci della Chiesa antica de' martiri, e
passò di tempo in tempo sino a' nostri, affermando che nissun scrittor
cristiano vi sia che non abbia chiamato l'eucaristia sacrificio; però
doversi concluder per certo che per tradizione degl'apostoli cosí sia
insegnato; la forza della quale è abondantissima et efficacissima per
far articoli di fede, come questo concilio ha da principio insegnato. Ma questo
vero e sodo fondamento veniva debilitato da chi ne faceva de aerei, volendo
trovar nella Scrittura quello che non si trovava, dando occasione
agl'avversarii di calunniare la verità, mentre che la veggono fondare in
arena cosí instabile: e cosí dicendo, passò ad essaminare ad uno ad uno
li luoghi del Vecchio e Nuovo Testamento portati da' teologi, mostrando che da
nissun si poteva cavar senso espresso di sacrificio. Al fatto di Melchisedech
rispose Cristo esser sacerdote di quell'ordine quanto all'esser unico et eterno
senza precessore, senza padre, senza madre, senza genealogia: e di questo farne
troppo chiara fede l'Epistola agl'ebrei, dove parlando san Paolo al
longo di questo luogo, tratta l'eternità e singularità del
sacerdozio, e di pane e vino non fa menzione. Raccordò la dottrina
d'Agostino, che dove è luogo proprio di dire una cosa e non è
detta, si cava argomento dalla autorità negativo. Dell'agnel pascal
disse non doversi presuppor per cosa cosí evidente che fosse sacrificio, e se
alcun pigliasse impresa di provar il no, forse converrebbe cedergli la
vittoria; et ancora esser troppo dura metafora a farlo tipo dell'eucaristia e
non piú tosto della croce; lodò quei teologi che, avendo portato il
luogo di Malachia, gl'avevano aggionto quel di san Gioanni d'adorar in spirito
e verità, perché in vero formalissimamente l'uno e l'altro dell'istessa
cosa parlavano e scambievolmente si decchiaravano; non doversi far
difficoltà sopra la parola «adorare», essendo cosa certa che comprende
anco il sacrificio, e la samaritana la prese nel suo generico significato; ma
quando Cristo soggionse che Dio è spirito e conviene adorarlo in
spirito, chi non vuol impropriare tutte le cose non dirà mai che un
sacramento, che consta del visibile et invisibile, sia puro spirituale, ma ben
composto di questo e del segno elementare; però, che volendo alcuno
interpretare ambi quei luoghi della interna adorazione, non potrà esser
convinto et averà per sé la verisimilitudine, essendo piana
l'applicazione che questa è offerta in ogni luogo e da tutte le genti e
che è pura spirituale, sí come Dio è puro spirito. Parimente
seguí dicendo che le parole: «Questo è il mio corpo che per voi è
dato, et il sangue che per voi è sparso», hanno piú piana intelligenza se
si riferiscono al corpo e sangue nell'esser naturale che nell'esser
sacramentale; come dicendo: «Cristo è la vite vera che produce il vino»,
non s'intende la vite significativa, ma la reale produce il vino, cosí: «Questo
è il mio sangue che è sparso», non dice che il sangue
sacramentale e significante, ma il naturale e significato è sparso. E
quello che san Paolo dice del participar il sacrificio degl'ebrei e della mensa
de demonii, intese i riti da Dio per Moisè instituiti e quei che da'
gentili erano usati nel sacrificare: non da ciò si prova l'eucaristia
sacrificio; esser chiaro appresso Moisè che, nei sacrificii votivi, la
vittima era tutta presentata a Dio et una parte d'essa abbruggiata, e questo
era il sacrificio; del rimanente, parte era del sacerdote et il resto
dell'offerente, e cosí questo come quello lo mangiava con chi a lui pareva, né
quel si chiamava sacrificare, ma participar il sacrificato. I gentili
immitavano l'istesso; anzi, la parte che non era consummata nell'altare si
mandava da alcuni a vendere, e questa è la mensa che non è
altare. Il piano senso di san Paolo è: sí come gl'ebrei mangiando la
parte toccante all'offerente, che è reliquia del sacrificio, participano
dell'altare, e li gentili parimente, cosí noi, mangiando l'eucaristia,
participiamo il sacrificio della croce; e questo è a punto quello che
Cristo disse: «Fate questo in mia memoria», e quel di san Paolo: «Sempre che
mangierete questo pane e beverete questo calice, professarete il Signore esser
per voi morto». Ma per quello che si dice gl'apostoli esser ordinati sacerdoti
per offerir sacrificio con le parole del Signore, poiché egli dice: fate
questo, senza dubio s'intendeva quello che avevano veduto lui a fare; adonque
bisognerebbe che constasse prima che egli avesse offerto, ma non essendo questo
certo et essendo le openioni de' teologi varie e confessando ciascuno che l'una
e l'altra è catolica, quelli che negano Cristo aver offerto non poter
concludere per quelle parole aver commandato l'oblazione. Portò poi
gl'argomenti de' protestanti, con quali provavano che l'eucaristia non è
instituita per sacrificio, ma per sacramento, e concluse che non si poteva dir
che la messa fosse sacrificio, se non con fondamento di tradizione; essortando
a fermarsi in questa e non render la verità incerta per studio di voler
troppo provare. Discese poi alla risoluzione degl'argomenti de' protestanti, et
in quello rese tutti gl'audienti mal sodisfatti, avendo recitato gl'argomenti
con forza et apparenza e soggiongendo risposte con debolezza, sí che piú tosto
gli confermavano; il che fu ascritto da alcuni alla brevità del tempo
che gli restava, sopravenendo la notte, da altri al non sapersi lui esprimere,
e da' piú sensati, perché quelle risoluzioni non sodisfacevano lui medesimo:
del che essendo molta mormorazione fra i padri, Giacomo Paiva, un altro teologo
portughese, nella seguente congregazione replicò tutti gl'argomenti da
quell'altro fatti e gli risolse con sodisfazzione degl'audienti e con iscusare
il collega, affermando che l'istessa fu la mente sua. E gl'ufficii che dagl'ambasciatori
e da' prelati portoghesi furono fatti in testificar la bontà e sana
dottrina del teologo ne' giorni seguenti, resero le menti de' legati sincere
verso di lui; però egli pochi giorni dopo partí, né si vede scritto ne'
cataloghi de teologi, se non in quelli che furono stampati in Brescia e Riva
inanzi questo tempo.
Il dí 28
luglio Gioanni Cavillone giesuita, teologo del duca di Baviera, parlò
con molta chiarezza sopra gl'articoli, rapresentando il tutto come senza
difficoltà, non in maniera d'essamine o discussione, ma con forma di
mover gl'affetti di pietà. Narrò molti miracoli succeduti in
diversi tempi; affermò che dall'età degl'apostoli sino al tempo
di Lutero mai nissun dubitò; allegò le liturgie di san Giacomo,
di san Marco, di san Basilio e Crisostomo. Quanto alle opposizioni de'
protestanti, disse che erano state a bastanza risolute, ma anco senza quello
bastava per tenerle fallaci il venir da persone alienate dalla Chiesa, et in
fine essortò li legati a non permettere che in qual materia si voglia
fossero proposti argumenti d'eretici, senza soggiongergli evidentissima
risoluzione, e chi non la sa portare, se n'astenga dal riferirgli, ricercando
la vera pietà che le raggioni contrarie alla dottrina della Chiesa non
siano riferite se non preparando l'animo prima degl'auditori con narrare la
perversità et ignoranza degl'inventori, e che agl'argomenti loro non
vengono date orecchie, se non da genti di poco cervello; e poi narrandogli
quanto piú succintamente si può e senza le prove intermedie, soggiongendo
la risposta piana e ben amplificata, e quando pare che alcuna cosa gli manchi,
portando la disputa in altra materia, acciò non si generi qualche
scrupolo negl'animi degl'audienti, massime essendo prelati e pastori della
Chiesa. Piacque grandemente il discorso alla maggior parte de' prelati e fu
lodato per pio e catolico, e che meritasse un decreto della sinodo che
commandasse cosí a tutti i predicatori, lettori e scrittori. Non però
all'ambasciatore del suo prencipe diede molta sodisfazzione, il quale, dopo la
congregazione, in presenza degl'imperiali che facevano complemento col teologo
per la grata concione, disse che veramente meritava d'esser commendato d'aver
insegnato, anco nella semplecità della dottrina cristiana, sapersi valer
della sofistica.
Degl'ultimi
teologi a parlare fu fra Antonino da Valtelina dominicano, il quale sopra gli 6
ultimi articoli de' riti disse esser cosa chiara per l'istorie che ogni chiesa
anticamente aveva il suo rituale particolar della messa, introdotto piú per uso
et a giornata, che con deliberazione e decreto; che le picciol chiese si sono
accommodate alle metropolitane o vicine maggiori. Il rito romano, per
gratificar a' pontefici, è stato ricevuto in assai provincie; con tutto
ciò restano ancora molte chiese co' suoi differentissimi dal romano.
Discese a parlar del mozarabo, dove intervengono e cavalli e schermi alla
moresca, che tutti hanno misterio e significato grande; e questo è tanto
differente dal romano, che se in Italia si vedesse, non sarebbe stimato messa.
Che resta ancora in Italia il rito milanese, molto differente in parti
principalissime dal romano. Ma esso romano ancora ha fatto mutazioni
grandissime, le quali vederà chiaro chi leggerà l'antico libro
che ancora resta, inscritto Ordo romanus, e non solo ne' tempi antichi,
ma anco da pochi secoli in qua; affermò che il vero rito romano
già da 300 anni non è quello che adesso si serva da' preti in
quella città, ma quello che dall'ordine di san Dominico è
ritenuto. Quanto alle vesti, vasi et altri paramenti, cosí de' ministri come
d'altari, non solo dalla lettura de' libri, ma dalle sculture e pitture vedersi
li presenti esser cosí trasformati, che se ritornassero i vecchi al mondo, non
gli riconoscerebbono. Perilché concludeva che il restringersi ad approvar li
riti che la Chiesa romana usa, potrebbe esser ripreso come una condanna
dell'antichità e degl'usi delle altre Chiese, e potrebbe ricever anco
piú sinistre interpretazioni. Consegliò che s'attendesse all'essenziale
della messa, e che di queste altre cose non si facesse menzione. Tornò a
mostrar la differenza notabile del rito presente servato in Roma a quello che
è descritto nell'Ordo romanus, e fece, tra gl'altri particolari,
grand'insistenza che in quello la communione de' laici fosse con ambe le specie,
e passò ad essortare a concederla anco al tempo presente. Il discorso
agl'astanti dispiacque, ma il Cinquechiese pigliò la protezzione sua con
dire che il frate non aveva detto cosa falsa, né si poteva imputargli d'aver
dato scandalo, perché non aveva parlato né al popolo, né ad idioti, ma in una
corona de dotti, dove nissuna cosa vera può dar mala edificazione, e chi
voleva dannar il frate per scandaloso o temerario, dannava prima se stesso per
incapace della verità.
[Medesime difficoltà fra i prelati]
La differenza
che fu tra li teologi fu anco tra i prelati deputati a comporre la dottrina e
gl'anatematismi per propor in congregazione; imperoché nella dottrina,
dovendosi metter le prove et esplicazioni perché la messa sia sacrificio,
secondo la propria affezzione, chi una, chi l'altra voleva o reprobava. Martino
Peresio, vescovo di Sigovia, che era intervenuto alle trattazioni che in questa
materia si ebbero in concilio nel fine 1551, era di parere che si pigliasse
quella stessa dottrina e canoni che erano formati per publicarsi il genaro
1552, e quelli fossero riveduti. Ma il cardinale Seripando non approvava,
dicendo che in quello appariva una pietà e zelo cristiano incomparabile,
ma soggetto molto alle calumnie degl'avversarii; che non bisognava aver per
fine d'instruir li catolici, come pareva che quei padri avessero avuto, ma di
confonder gl'eretici. Perilché conveniva parlar in tutte le parti piú riservato
e non esser giusta cosa metter mano, come correttori, nelle allora ordinate:
meglio esser far di nuovo e non dar occasione di dire che s'abbia raccolto il
seminato d'altri. Granata era discorde da tutti, non voleva che si dicesse che
Cristo offerí nella cena, né meno che instituisse il sacrificio con quelle
parole: fate questo in mia memoria. Seripando, quanto al primo diceva non
averlo per necessario e potersi tralasciare, bastando che Cristo abbia
instituito l'oblazione, ma esser ben necessario dire con qual parole, né
esserne altre che le sudette. Ma Giovanni Antonio Pantusa, vescovo di Lettere,
con molta passione voleva nel decreto le raggioni e di Melchisedech e di
Malachia, e l'adorazione della samaritana, e le mense di san Paolo, e
l'oblazione di Cristo nella cena, e ogni altra raggione allegata. In fine, dopo
disputa di piú giorni, convennero di metter ogni cosa, perché li prelati nelle
congregazioni averebbono detto il parere e si sarebbe levato quello che alla
maggior parte non fosse piacciuto. Fecero anco una raccolta d'abusi
ch'occorrono giornalmente nella celebrazione delle messe, in poco numero
rispetto a quelli che del 1551 furono notati.
[Disputa sopra la minuta del decreto]
Il dí 3
agosto fu fatta congregazione generale per ricever li procuratori de' vescovi
di Ratisbona e Basilea, a fine d'onorar questo secondo, ad onta della città
di Basilea, che contendeva anco con lui per il titolo, volendo che non di
Basilea, ma di Bontruto si dimandasse. Data fuori la formula, l'arcivescovo di
Lanciano fu di parere che si publicassero gl'anatematismi soli e si
tralasciassero a fatto li capi di dottrina: allegava l'essempio degl'altri
concilii, ne' quali si vede da pochissimi usata, e che questo istesso concilio
tridentino, nelle materie del peccato originale la tralasciò, et in
quella de' sacramenti e del battesmo; diceva esser cosa da dottori il render
conto de' pareri suoi con raggioni: a' giudici esser conseglio ottimo il far le
sue sentenzie assolute, e li vescovi in concilio esser giudici; se la sentenzia
contiene la raggione, si può impugnare non solo per il decreto, ma per
la raggione ancora; che non allegandone alcuna ogni uno penserà che la
sinodo si sia mossa da potentissime et ogni uno crederà che sia indotta
da quelle raggioni; che egli maggiormente stimerà che, quando s'avessero
ragioni anco sopra le evidentissime, non è sicuro usarle; che gl'eretici
s'attaccheranno alle raggioni, che ne faranno poca stima e piú che si
dirà, si darà piú materia di contradire. Aggiongeva anco che le
congionture ricercavano presta espedizione del concilio et accennò, ma
con parole che furono intese da' legati e dagl'amorevoli del pontefice, che si
sarebbe per questa via sodisfatto al suo desiderio. Da Ottaviano Preconio,
arcivescovo di Palermo, che lo seguiva in ordine, fu in contrario parlato: che
l'uso de' concilii fu sempre di far il proprio simbolo, al qual corrisponde la
dottrina, e soggionger gl'anatematismi; che avendo servato cosí il concilio
sotto Giulio e questa sinodo nella sessione passata, si direbbe che non si
continuava per difetto di raggioni; soggionse che è una viltà il
voler fuggir la disputa degl'eretici, anzi, che la loro contradizzione
farà lucer la dottrina del concilio, che non si debbe curar di finirlo
presto, ma di finirlo bene. Furono cosí longhi questi 2 prelati, che la sera
sopragionta pose termine alla congregazione, dicendosi non esser maraviglia se
un genovese dominicano, che era Lanciano, fosse contrario ad un siciliano
franciscano.
[Si risveglia il punto della residenza]
Furono li
giorni seguenti fatte prattiche sopra questo, valendosi delle stesse et altre
raggioni gli interessati a finire et ad allungare il concilio. Ma proposta
un'altra volta in congregazione, fu la maggior parte in voto che si seguisse
l'ordine incomminciato. Queste prattiche fecero tornar in campo quelle della
residenza, essendo li medesimi li desiderosi che il concilio si finisse e della
residenza non si trattasse. Questa apertura diede occasione a Mantova e
Seripando d'adoperarsi e mostrar al papa con effetti che s'accommodavano al
voler suo secondo l'instruzzione che Lanciano gl'aveva a bocca portato:
adoperarono per far gl'ufficii con buon modo l'arcivescovo d'Otranto, li
vescovi di Modena, Nola e Brescia, che non erano ponteficii scoperti, ma
guadagnati: questi superarono molti italiani, inducendogli non a mutar opinione
e contradirsi, ma a non promover piú quella materia. Da molti ebbero promesso
che, cessando i spagnuoli, essi sariano stati quieti, e li quattro suddetti
prelati fecero insieme una nota de' persuasi, sí che si trovarono aver
guadagnato molto; ma co' spagnuoli non fu possibile avanzare, anzi questo fu
causa che si restrinsero insieme. Scrissero una lettera in commune al re per
risposta di quella di Sua Maestà al marchese di Pescara, dolendosi prima
del pontefice, che non vogli lasciar risolver il punto della residenza, nel
quale s'ha da fondar tutta la riforma della Chiesa, e con bellissima e
riverente circuizione di parole conclusero che in concilio non vi fosse
libertà, che gl'italiani con la pluralità vincevano, e quelli chi
per pensioni, chi per promesse e li meno corrotti per timore aderivano alla
volontà di Sua Santità; si dolsero de' legati, che se avessero
lasciato, come era giusto, concludere la materia quando era il tempo, prima che
da Roma potesse esser scritto, tutto sarebbe con somma concordia concluso in
servizio divino; che le due parti de' prelati desideravano la definizione; che
tutti gl'ambasciatori facevano instanza, che essi furono a favore della
verità, procedendo però con carità e modestia, né mai
ebbero animo di protestare; supplicavano Sua Maestà che facesse consegliare
da persone pie quell'articolo, essendo certi che dopo matura considerazione
ella favorirebbe la sentenza catolica e pia e tanto necessaria per la buona
riforma.
Questo
accidente certificò li legati et aderenti che non era possibile sopir la
prattica, poiché, non essendosi quietati i spagnuoli, né per la lettera del re,
né per gl'ufficii fatti, anzi avendo fatto nuova dicchiarazione col scrivere in
Spagna, bisognava tener per fermo che fossero insuperabili: si ridussero li
ponteficii a consulto sopra di questo e fu deliberato di mandar in Francia al
cardinale di Ferrara copia della lettera scritta dal re Catolico al Pescara,
per procurar d'averne una simile da quella Maestà agl'ambasciatori
francesi, cosí per fermar quelli dal far quotidiani ufficii in contrario co'
prelati, come facevano, come anco acciò, venendo li vescovi francesi,
non s'unissero co' spagnuoli, come questi avevano gran speranza e stavano in
espettazione. E per levar il credito a' spagnuoli appresso il suo re,
deliberarono far saper in Spagna che Granata e Sigovia, capi loro, che fanno li
scrupulosi, avevano promesso li voti loro al Cinquechiese nella materia della
communione del calice, senza aver rispetto a Sua Maestà, che tanto
l'aborrisce.
[Il papa avoca la residenza a sé]
Ma il
pontefice in questo tempo, considerati li pericoli imminenti alla
autorità sua per le difficoltà e confusioni di Trento, per li
moti di Francia e per la dieta che in Germania s'apparecchiava, nella quale
l'imperatore per suoi interessi sarebbe costretto condescender assai a' voleri
de' protestanti, pensò di sicurar le cose sue per ogni rispetto, e
già il mese inanzi aveva dato danari a 10 capitani per far gente; si
riducevano li soldati in Romagna e nella Marca, e si restringeva molto co'
ministri e cardinali confidenti de' prencipi italiani, onde generò
qualche sospetto a' spagnuoli e francesi: l'ambasciatore di Francia
l'essortò a desister dal raccoglier armi, acciò questo non
torbasse il concilio; a che rispose il papa che essendosi Inghilterra et i protestanti
di Germania dichiarati di aiutar gl'ugonotti di Francia, non era di star
sprovisto; che il mondo era pieno d'eretici, perilché era necessario che si
provedesse per protegger il concilio non solo con l'autorità, ma con la
forza. Lo spagnuolo non andò per l'istessa via, ma confirmando che si
doveva aver sospetti gl'andamenti de' protestanti, gli promesse ogni aiuto et
assistenza per nome del re, e questo per impedire che non procurasse una lega
in Italia, la quale in nissun tempo averebbe a Spagna piacciuto. Aggradí et
accettò il pontefice l'offerta del re, et intesa l'unione de' suoi
legati in concilio e l'ardente volontà che mostravano e l'opere che
facevano, restò consolato, e gli rispose che attendessero quanto si
poteva a sopir il raggionamento di residenza e, non potendo, si valessero del
partito; sopra tutte cose attendessero alla presta ispedizione, acciò si
finisse inanzi la venuta de' prelati francesi e la ridozzione della dieta in
Germania, acciò l'imperatore, per l'intento desiderio di far elegger il
figlio re de Romani, non si lasciasse persuader a' protestanti a proponer in
concilio qualche cosa maggiormente pregiudiciale che le proposte sino allora.
[I francesi chieggono dilazione]
Gl'ambasciatori
francesi, dopo aver molte volte fatto modesta ricchiesta che li prelati loro
fossero aspettati, finalmente il 10 agosto presentarono la dimanda in scritto;
il tenor della quale era: che il Cristianissimo, essendo deliberato d'osservare
e riverire i decreti de' concilii che rappresentano la Chiesa universale,
desidera che i statuti di quel concilio siano di buon animo ricevuti
dagl'avversarii della Chiesa romana, imperoché quelli che dalla Chiesa non sono
partiti, non hanno bisogno de definizioni conciliari; pensa dover riuscir piú
grati li decreti che si faranno, se il giorno della sessione si prolongasse sin
che alla moltitudine numerosa de' prelati italiani e spagnuoli s'aggiongessero
i voti de' vescovi francesi, de' quali negl'antichi concilii della Chiesa
è stato sempre tenuto gran conto. La causa dell'assenza de' quali,
già udita e giudicata necessaria da essi legati, è per cessare,
come si spera, in breve, e quando anco non cessasse, essi doveranno arrivare
inanzi il fine di settembre, avendo cosí commandamento dal re; e da questo
avvenirà anco che li protestanti, per causa de' quali il concilio
è intimato e che predicano ogni giorno di volerci intervenire, averanno
manco di che dolersi, con ricercare qualche maturità in cosa cosí grave,
accusando il troppo precipizio. Aggionsero che, acciò da nissun sia
pensato il re dissegnare per questi mezi l'ozio overo la dissoluzione del
concilio, dimandavano che, mentre i vescovi francesi s'aspettavano, si dovesse
trattar solamente quello che appartiene a' costumi et alla disciplina, et anco
li doi capi rimanenti in materia del calice; e questa ultima particola
aggionsero per non digustar gl'imperiali, che avevano speranza di ottener la
dichiarazione in quella sessione. Ma li legati, dopo consultato, fecero la
risposta in scritto: che li prelati francesi, inanzi l'apertura del concilio,
furono aspettati quasi 6 mesi, et essendo quello aperto principalmente per
causa de' francesi, s'era anco differito 6 mesi il trattar le cose piú gravi;
nelle quali, poiché s'ha dato principio a metter mano, non parer loro
conveniente il retirarsi dal caminar inanzi, poiché ciò non si potrebbe
far senza vergogna del concilio e molte e grandi incommodità de tanti
padri. Ma quanto all'allongar il giorno della sessione, questo non esser in
potestà d'essi legati concederlo senza li padri; perilché essi
ambasciatori non potevano aspettar da loro piú determinata risposta.
Questo
considerato, li francesi replicarono che adonque gli fosse concesso far la
proposizione sua nella congregazione; ma i legati risposero che già
altre volte era stato detto loro et agl'altri ambasciatori che non potevano
negoziare se non co' legati, e che già era stato deliberato e decretato
in quel medesimo concilio per l'inanzi che gl'ambasciatori non potessero parlar
in congregazione publicamente, se non il giorno che erano ricevuti e che il
loro mandato era letto. Questo diede causa a' francesi di far grave indoglienza
co' vescovi, e massime con spagnuoli, con dire esser grand'assordità che
le ambasciarie siano inviate alla sinodo, che a quella siano presentati li
mandati e che con quella non si possi trattare, ma co' soli legati, come che a
quelli fossero gl'ambasciatori inviati: e pur tuttavia li medesimi legati non
sono altro che ambasciatori essi ancora, in quanto che il papa che gli manda
è un prencipe, et in quanto è vescovo et il primo vescovo, non
sono altro che procuratori d'uno assente, e per tali sono stati tenuti e
ricevuti ne' concilii vecchi. Allegavano l'essempio del niceno, dell'efesino, calcedonense,
di quello di Trullo e del niceno secondo ancora, e che la rottura tra il
concilio di Basilea et il papa da questo solo venne, perché li legati romani
pretesero mutar questo antico e lodevole instituto. Che anco questa era una
specie di servitú gravissima nel concilio, che non potessero manco udire, et
ingiuria a' prencipi, che non potessero trattare con chi aveva da maneggiar i
negozii delli stati loro; che quel decreto, che asserivano fatto, non si
mostrava, e conveniva vederlo e saper da chi era provenuto: perché, se i legati
d'allora lo fecero, estesero l'autorità con grand'essorbitanza; se fu la
sinodo, era necessario essaminare come e quando, perché era un inconveniente
intolerabile anco quello che nel principio di quest'ultima adunazione è
fatto, che li legati con quei pochi prelati italiani venuti da Roma solamente,
abbiano fatto un decreto e pratticatolo dopo rigidamente, che niente possa
esser proposto, se non per bocca de' legati, di maniera che a' prencipi et a'
prelati tutti è serrata la via di poter proporre la buona riforma, che
sarebbe servizio divino trattare, et in luogo di quella, per trattener
infruttuosamente il mondo, sia trattata la dottrina controversa con protestanti
in loro assenza, senza alcun beneficio de catolici che non ne dubitano, e con
alienare tanto li protestanti, dannandogli in assenza. E le querele de'
francesi si rinovarono quando gli andò aviso dall'Isle, ambasciator del
loro re in Roma, che egli per ordine regio aveva fatto l'istessa ricchiesta al
papa, che fossero i vescovi francesi aspettati per tutto settembre, e la
Santità Sua aveva risposto che ciò rimetteva a' legati. Diceva
Lansach che era cosa degna di memoria eterna: il papa rimetteva a' legati, li
legati non potevano senza la sinodo, quella non poteva udire; et il re et il
mondo rimanevano delusi.
[Pareri de' prelati sul sacrificio. Richiesta
degli spagnuoli contra l'abuso de' conclavisti]
Il dí 11
agosto li vescovi comminciarono a dar il voto sopra i decreti in materia del
sacrificio, e quasi tutti passarono leggiermente il tutto e concordemente, se
non che alcuni non sentivano che si mettesse l'oblazione di nostro Signore
nella cena, et altri lodavano che si ponesse, e per piú giorni il numero d'ambe
le parti fu quasi pari. Non debbo tralasciare, come cosa degna di memoria, che
il 14 d'agosto arrivò Giacomo Lainez, general de' giesuiti; sopra il
luogo del quale, per esser quella società non mai piú intervenuta in
concilio, vi fu molto che trattare, non contentandosi del luogo ultimo de'
generali de' regolari et adoperandosi tre della medesima società per
metterlo inanzi; per la qual causa non si vede nominato ne' cataloghi
degl'intervenuti in concilio.
I prelati
spagnuoli presentarono a' legati una ricchiesta da tutti loro sottoscritta,
dove, avendo narrato molti inconvenienti nati per le essorbitanti grazie e
privilegii a' conclavisti concessi, dimandarono revocazione o almeno
moderazione. Usano li cardinali, entrando in conclavi, dove hanno a star
reserrati per l'elezzione del futuro pontefice, aver alla servitú loro doi per
ciascuno, uno come capellano et uno come cameriero, li quali da loro sono
scielti piú per servire nelle negoziazioni che alle persone de' padroni; e per
ordinario sono i miglior cortegiani di Roma; questi ben spesso hanno non minor
parte nelle pratiche che i padroni, onde è invecchiato uso che
nell'uscir del conclavi il nuovo papa gli riceve tutti nella sua famiglia,
dà loro privilegii convenienti al grado di ciascuno, altri a' preti et
altri a secolari: tra quelli che allora si constumava dar a' preti, questi
ancora erano, che potessero resignar in mano di qualonque persona ecclesiastica
piacesse loro i beneficii che tenevano e fargli conferir a chi nominavano; che
potessero permutar con qualonque altro beneficiato li beneficii loro, eleggendo
essi una persona che facesse la collazione all'uno e l'altro. Da cosí
essorbitante facoltà nasceva una aperta mercanzia e li vescovi dove
qualche conclavista era, si vedevano ad ogni beneplacito di quelli mutare li
canonicati, parochiali et altri beneficii con scandalo. Di questi li spagnuoli
fecero querimonia, perché erano novamente in Catalogna successi
grand'inconvenienti. Ma li legati mostrarono che la moderazione de simili abusi
non toccava se non al papa, poiché si tratta di persone della sua famiglia, e
se s'era molte volte concluso di lasciar al papa la riforma della corte,
maggiormente quella della famiglia sua; promisero di scriverne alla Sua
Santità et instar per la provisione, come anco fecero. Et il pontefice,
pensato che li conclavisti di conto stanno a Roma et appresso li cardinali,
onde la provisione toccava solo alcuni pochi e di poco conto, retirati alle
case loro, e che per le cose sue era utile dar qualche sodisfazzione a' prelati
del concilio, a' spagnuoli massime, deliberò compiacergli, e nel mese
seguente fece la rivocazione di molti privilegii a quelli concessi che
però dal successore non fu seguita.
Partí da
Trento per ritornar in Francia il Fabro, terzo ambasciatore di Francia, e
somministrò materia de sospetti, congetturando li ponteficii che fosse
andato per dar conto dello stato del concilio e sollecitar la venuta de'
vescovi francesi; tenendo fermo che averebbe fatto ufficii sinistri, essendosi
già, per alcune sue lettere scritte al cancelliero intercette, veduta la
sua inclinazione, per la mala sodisfazzione che esso et i colleghi ebbero, non
avendo impetrato la prorogazione. Le qual cose riferite a Lansach da alcune
creature di Simoneta per scoprir il vero, egli rispose che era andato per suoi
negozii particolari, e non era maraviglia se, vedendosi gl'aperti mancamenti,
alcun pensasse che dovessero esser riferiti.
[Diversità di pareri sopra 'l
sacrificio di Cristo nella cena]
Ma intorno il
sacrificio della messa, nelle congregazioni fatte sino a' 18, tutti i voti si
risolvevano in contender sopra l'oblazione di Cristo nella cena, et il padre
Salmerone s'era fatto autor principale a persuader l'affermazione; andava a
casa di quelli che sentivano altrimente e massime di quelli che non avevano
ancora detto il voto, persuadendogli almeno a tacere o parlar rimessamente, e
si valeva del nome del cardinale varmiense principalmente, ma aggionto alle
volte anco Seripando et accennando gl'altri legati senza nominargli, e fece
questa prattica con tanta importunità, che nella congregazione de' 18
agosto se ne dolsero li vescovi di Chioggia e di Veglia, e questo secondo
parlò per la negativa con molta forza di raggione. Considerassero bene,
perché, offerto un sacrificio propiziatorio, se quello è sufficiente per
espiare, non se ne offerisce altro, se non forse per rendimento di grazie; e
chi sostenta nella cena un sacrificio propiziatorio, conviene che confessi a
viva forza che per quello siamo redenti e non per la morte; cosa contraria alla
Scrittura e dottrina cristiana, che a quella ascrive la redenzione. E se alcun
vorrà dire che sia tutt'uno, principiato nella cena e finito nella
croce, dà in un altro inconveniente non minore, atteso che è
contradizzione dire che il principio del sacrificio sia sacrificio, poiché, se
dopo il principio cessasse, né andasse piú oltre, nissun direbbe che avesse
sacrificato; e non si dirà che, se Cristo non fosse stato ubediente al
Padre sino alla morte della croce, ma solo avesse fatto oblazione nella cena,
noi fossimo redenti. Onde non si può dire che una tal oblazione si possi
chiamar sacrificio, per esser principio di quello. Soggionse il vescovo che non
voleva sostentar pertinacemente che quelle raggioni fossero insolubili, ma ben
diceva non dover il concilio legar gl'intelletti di chi è persuaso d'una
openione con tanta raggione. Passò poi anco a dire che, sí come non gli
faceva difficoltà il nominar la messa sacrificio propiziatorio, cosí non
si sodisfaceva che in modo alcuno se nominasse che Cristo offerisse, poiché
bastava dire che commandò l'oblazione; perché, diceva egli, se la sinodo
asserisce che Cristo offerí o fu il sacrificio propiziatorio, e cosí
incorrerà nelle difficoltà suddette; overo non propiziatorio, e
cosí da quello non si potrà concludere che la messa sia propiziatorio;
anzi in contrario si dirà che, se l'oblazione di Cristo nella cena non
fu propiziatoria, meno debbe esser quella del sacerdote nella messa. Concluse
che era il piú sicuro modo dire solamente che Cristo commandò
agl'apostoli che offerissero sacrificio propiziatorio nella messa. Poi,
obliquamente, toccò il Salmerone, dicendo che, se nelle cose della
riforma si fa qualche prattiche, si può tolerare, versando circa cose
umane; ma dove si tratta di fede, il voler caminar per fazzione non è
introduzzione buona. Il parlar del vescovo mosse tanti, che fu openione quasi
commune che di sacrificio propiziatorio da Cristo offerto nella cena non si
parlasse; nel resto l'openione sua fu, come per inanzi, abbracciata da una sola
parte.
Quello
istesso giorno l'arcivescovo di Praga, tornato dall'imperatore pochi giorni
prima, presentò lettere di quella Maestà a' legati, et arrivarono
anco lettere del noncio Delfino, residente appresso la Maestà istessa,
ricercando Cesare, e per le lettere e piú esplicatamente per l'ufficio del noncio,
che non si trattasse del sacrificio della messa inanzi la dieta e ricchiedendo
che nella prima sessione s'ispedisse l'articolo della communione del calice;
presentò anco l'arcivescovo per nome dell'imperatore una formula di
riforma. Ma era troppo urgente il commandamento del pontefice che si venisse a
presta ispedizione, che non concedeva che si potesse sodisfar l'imperatore
nella prima dimanda; ben constringeva sodisfarlo in parte ad ispedir la materia
del calice; et il pontefice, al quale l'imperatore aveva fatto le stesse
instanze, scrisse il medesimo a Trento; però nella seguente
congregazione Mantova propose che, conclusa la dottrina del sacrificio, si
parlerebbe della communione del calice; e seguendo li prelati a dir li voti, fu
raccordato che la difficoltà se Cristo si offerí, non è stata
proposta a' teologi da disputare, se ben essi ne hanno parlato accidentalmente,
però sarebbe ben proporla e farla disputare professatamente, overo
tralasciarla.
Fu ultimo a
parlar in questa materia il general de giesuiti, et egli tutto si estese in
questa materia dell'oblazione di Cristo e consumò una congregazione
solo, dove nelle altre parlarono da 7 sino 10 prelati. Avendo ogni uno detto il
suo voto, con tutto che fosse poco differente il numero di quelli che all'una
openione aderivano e di quelli alla contraria, li legati però, per
instanza efficace di varmiense, si risolsero di metter l'oblazione, non
però usando la parola di propiziatorio.
[Arrenga del Cinquechiese per il calice]
In fine della
congregazione il Cinquechiese, seguendo la proposizione del cardinale di
Mantova, fece un'orazione, nella quale, commemorati prima gl'ufficii e fatiche
dell'imperatore fatte per servizio della republica cristiana e per restituire
la purità catolica, non solo dopo assonto all'Imperio, ma ancora vivendo
Carlo, soggionse che la Maestà Sua, con esperienza aveva conosciuto le
piú gravi contenzioni e querele de' popoli nascere per la proibizione dell'uso
del calice, perilché aveva desiderato che se ne trattasse in concilio: onde,
per commissione di Sua Maestà cesarea, esso e gl'altri oratori
primieramente raccordavano a' padri di considerare che la carità
cristiana ricercava che, per trattener con la troppo severità
l'osservanza d'un rito, non si lasci d'impedire molti sacrilegii et uccisioni
in nobilissime provincie e di redur al grembo della Chiesa catolica molte
anime; che è infinito il numero di quelli che, non abandonata la fede
ortodossa, sono infermi di conscienza, quali non si possono aiutare se non
soccorrendogli con questa permissione; che la Maestà cesarea è
costretta far continua guerra con turchi, la qual non può sostenere, se
non a communi spese della Germania; la qual, subito che si parla di
contribuire, entra a parlare della religione e dimanda principalmente l'uso del
calice; il qual se non si concede, levando con questo le controversie, bisogna
aspettare che non solo l'Ongaria, ma la Germania ancora siano occupate da'
barbari, con pericolo anco delle provincie confinanti; che la Chiesa ha sempre
costumato d'abbracciare quei riti che sono contrarii alle nuove eresie,
perilché è ben abbracciar questo partito che dimostra la fede della
verità della santissima eucaristia contra i sacramentarii. Non esser
bisogno, come alcuni ricchiedevano, d'un procuratore mandato espresso per nome
di quelli che fanno la dimanda, come fu nel concilio basileense, perch'allora
essendo solo tutt'un regno che ricchiedeva la grazia, poteva mandar
procuratore, ma adesso non è un popolo o una nazione sola, ma un
infinito numero disperso in diverse nazioni; né doversi maravigliare che la
petizione sia prima stata presentata e non impetrata dal pontefice: perché il
papa prudentemente aveva rimesso il tutto alla sinodo, per serrar la bocca
agl'eretici, che non vogliono ricever le grazie da quella Sede, e per non parer
di derogar all'autorità del concilio di Costanza, essendo conveniente
che l'uso del calice, levato da un concilio generale, fosse permesso per
definizione d'un altro, et ancora per dar riputazione alla sinodo, alla quale era
conveniente rimetter questa deliberazione atta a levar le discordie della
Chiesa; ma bene che egli aveva lettere da Roma che il papa riputava la dimanda
onesta e necessaria e pigliava in buona parte che se ne facesse instanza al
concilio. Poi presentò l'articolo sopra il calice, come desiderava fosse
trattato, e conteneva in sostanza che fosse conceduto a' Stati dell'imperatore,
in quanto comprendono la Germania tutta e l'Ongaria. Quale leggendosi in
congregazione, s'eccitò strepito de' prelati e si vidde, in molti, segni
manifesti di voler contradire: furono acquettati per allora con dirgli che
averebbono potuto dir il loro parer quando fossero corsi i voti.
[I francesi dimandano di nuovo dilazione]
Gl'ambasciatori
francesi il terzo settembre fecero nuova instanza a' legati che, per dar
maggior autorità al concilio et a fine di far ricever nel regno loro piú
facilmente le determinazioni di quello, volessero prolongare la sessione un
mese o cinque settimane, trattando in quel mentre altre materie, per publicare
poi nella sussequente sessione cosí quello che già è stato
discusso e determinato, come anco quello che si trattasse e determinasse tra
tanto; che cosí non si perderebbe tempo, non si prolongherebbe il concilio, et
il re e tutto 'l regno sentirebbe gran sodisfazzione; oltre che, aspettandosi
anco in breve prelati di Polonia, sarebbe di molta edificazione all'universale
del cristianesmo il mostrar di tener conto di 2 regni cosí considerabili: la qual
instanza essendo fatta il dí inanzi che i legati avevano ricevuto lettere dal
cardinale di Ferrara che Lorena et i prelati francesi dovevano in ogni modo
venire, che sarebbono con loro 20 dottori di Parigi, si mostravano anco lettere
scritte a diversi prelati da amici con l'istesso aviso, con aggionta anco che
fosse l'animo loro di trattar il ponto della superiorità del papa e
concilio, tanto piú giudicarono che se dovessero ispedire le cose discusse,
acciò non fossero attraversate nuove difficoltà, et a' mali umori
che erano in Trento aggregandosene de' nuovi peggiori e piú arditi, non fossero
promosse tante difficoltà che portassero il concilio in infinito o non
fosse risoluta qualche cosa pregiudiciale. Ma tenendo li legati queste raggioni
in petto, risposero a' francesi con onorate parole nella forma altra volta con
loro usata: che il concilio fu convocato principalmente per francesi, li
prelati loro esser stati appellati tanto tempo, che il trattener cosí gran
numero de padri piú longamente nell'istessa aspettativa sarebbe
un'indegnità del concilio, e quando non si publicassero le cose
discusse, il mondo crederebbe che fosse per qualche dissensione tra loro o
perché le raggioni de' protestanti avessero qualche validità. Ma
Lansach, non acquetandosi di risposta alcuna e premendo sempre maggiormente la
dilazione, si doleva che il concilio fosse aperto per li francesi e che non
s'aspettassero; che mai aveva potuto ottener da' legati cosa ricchiesta; che le
sue rimostranze erano sprezzate; che in luogo di gratificar il suo re, si usava
maggior precipitazione; che egli non attribuiva ciò a' legati, sapendo
che non fanno cosa se non da Roma commandata; che prendevano grand'errore
avendo in sospetto la venuta de' prelati francesi; che dopo fatte tante prove
per ottener quello che era giusto e dovevagli esser concesso, ancorché non
dimandato, conveniva pensare ad altri rimedii, e parlava in modo che faceva
dubitare di dover fare qualche cosa straordinaria. Il che fece passar voce nel
concilio che sarebbe disciolto, cosa che dalla maggior parte era sentita con
piacere: alcuni per liberarsi dagl'incommodi che pativano, altri vedendo di
starvi con nissun o leggierissimo servizio di Dio, li ponteficii per timore di
qualche tentativo. Publicamente si discorreva che Lorena in ogni occasione
aveva mostrato animo inclinato a diminuire l'autorità della Sede
apostolica; che averebbe voluto dar qualche passo alla Francia in materia del
pontificato, quale non gli piaceva in disposizione del collegio de' cardinali
che era d'italiani; che la Francia ha sempre preteso di limitare la
potestà pontificia, di sottoporla a' canoni e concilii; che questa
opinione sarebbe aiutata da' spagnuoli, quali già, con tutto che molto
riservati nel parlare, s'erano mostrati desiderosi del medesimo e sarrebbono
anco seguiti da una buona parte d'italiani, che per non poter o saper
prevalersi de' commodi della corte, hanno invidia a chi gli gode; oltre li
desiderosi di novità, senza anco saper perché, il numero de' quali per
molti indicii si vedeva esser considerabile.
[Discorso della durata del concilio]
Si
publicò per Trento un discorso che andò per le mani di tutti et
anco da' legati fu mandato a Roma, nel quale si mostrava esser impossibile
finir il concilio in breve tempo, vedendosi tutti li prencipi volti
all'allongarlo: de' francesi et imperiali non potersi dubitare, per l'instanza
di dilazione che facevano; il re di Spagna dimostrar l'istesso, avendo
destinato per ambasciator al concilio il conte di Luna, quando fosse finita la
dieta di Francfort, dove era mandato prima. I prelati anco con la longhezza del
dire dover portar sempre le cose in longo. Poi si discorreva
l'impossibilità di caminar cosí per molto tempo, non essendovi
provisione di grano, se non per settembre, né sapendosi dove averne, per la
carestia universale e la tardanza dell'imperatore e di Baviera di dar risposta
alla dimanda di vettovaglie fattagli, mostrar che non potranno sovvenire.
Aggionse che li protestanti sempre averebbono teso insidie per far capitar i
padri a qualche risoluzione disonorevole, che averebbono suscitato
novità per constringer li prencipi a promover cose pregiudiciali; che li
vescovi si vedevano aspirare a libertà et in progresso non si sarebbono
contenuti in termini cosí ristretti, e la sinodo si sarebbe fatta non solo
libera, ma anco licenziosa; e con un bel traslato, era rassomigliato il
progresso del concilio come d'un corpo umano, che con delettazione contrae una
picciola e dal principio non stimata infezzione francese, che poi s'aummenta et
occupa tutto 'l sangue e tutta la virtú. Essortava il pontefice a pensarvi, non
per venire a traslazione o suspensione, per non incontrar una contradizzione di
tutti i prencipi, ma per sapersi valere di quei rimedii che Dio gli manda.
[Dispareri sopra la concessione del calice]
In questi
moti li legati affrettavano a concluder i decreti per la sessione: quel del
sacrificio era a buon termine; però si parlò sopra la concessione
del calice. Nel che furono 3 opinioni: una estrema e negativa, che in modo
alcuno non si concedesse; l'altra affermativa, che si dovesse conceder in
concilio con le condizioni e cauzioni che alla sinodo fosse parso, e questa era
sostenuta da 50 de' piú savii, e tra questi alcuni volevano che si mandassero
legati nelle regioni che ne facevano instanza per prender informazione se era
conveniente far la concessione e con qual condizioni; la terza media, che si
rimettesse il negozio al papa; ma questa era divisa in molti rami. Alcuni
volevano una remissione assoluta, senza dicchiarare che egli la concedesse o
negasse, et altri che fosse con dicchiarazione che la concedesse secondo la
prudenza sua. Alcuni volevano restringerla a particolari paesi, et altri
lasciargli libera facoltà. I spagnuoli tutti assolutamente la negavano,
avendogli da Roma scritto l'ambasciator Vargas che cosí compliva al bene della
religione e servizio del re, per il danno imminente a' Paesi Bassi et anco allo
Stato di Milano, quali, quando avessero veduto li confinanti loro a goder
quella facoltà, l'averebbono ricchiesto essi ancora; e concedendola o
negandola, in ogni modo s'averebbe aperto una gran porta all'eresia. Li prelati
veneziani, indotti da' loro ambasciatori, tenevano essi ancora il medesimo
parer per la causa stessa.
Di queste
opinioni reciterò solo gl'autori principali e le cose singolari dette da
loro. Il cardinale Madruccio, che prima parlò, senza alcun'eccezzione
approvò che il calice si dovesse conceder; i patriarchi tutti tre, che
assolutamente si dovesse negare; 5 arcivescovi, che seguirono, si remisero al
pontefice; quello di Granata, perché aveva promesso agl'imperiali di
favorirgli, per avergli aderenti nella materia della residenza che sopra modo
gli premeva, disse che non affermava né negava, ma non si poteva concluder in
quella sessione et era necessario differire ad un'altra, né volse rimettersi,
dicendo esser materia di grave deliberazione, perché non era cosa che si
potesse regolare con le Scritture o tradizioni, ma appartenente alla prudenza,
dove è necessario proceder con circonspezzione per non ingannarsi nelle
circonstanze del fatto, che non si possono accertar per speculazione o
discorso; che egli non faceva difficoltà, come molti altri, per il
pericolo d'effusione, mostrando l'esperienza che non avviene ora, nel far
l'abluzione, che il vino si versi; che se questa concessione fosse per apportar
unione alla Chiesa, non si doverebbe aborrire, essendo rito che si può
mutar secondo l'utilità de' fedeli. Ma ben stava sopra di sé, per dubio
che, dopo questa concessione, non fossero dimandate altre cose stravaganti; che
per dubio di non errare sarebbe ben ricorrere prima a Dio con orazioni,
processioni, messe, elemosine e digiuni; poi, per non mancar delle diligenze
umane, non essendovi nel concilio li prelati di Germania, scriver loro che si
radunassero [i] loro metropolitani et essaminassero bene la materia, e secondo
la loro conscienza sopra di ciò scrivessero alla sinodo. Concluse che,
non potendosi far tante cose in breve spacio, giudicava che si dovesse
soprasedere e differire la deliberazione in altro tempo. Giovan Battista
Castagna, arcivescovo di Rosano, dissuadendo assolutamente la concessione,
passò a discorrer contra chi la ricchiedeva e chi favoriva la
ricchiesta, tassandogli per non buoni catolici, perché se tali fossero non
ricercherebbono cosa indebita con scandalo degl'altri; e disse apertamente che
la richiesta mirava ad introdur l'eresia, et usò tal parole che ogni un
intese che inferiva sopra Massimiliano, re di Boemia.
Disse
l'arcivescovo di Braga, overo Braganza, esser informato che in Germania erano 4
specie d'uomini: veri catolici, ostinati et aperti eretici, eretici
dissimulati, et infermi nella fede. Che li primi non dimandavano la
concessione, anzi erano contrarii; li secondi non se ne curavano; li terzi
n'erano desiderosi per poter star coperti nella loro eresia, perché in tutte le
altre cose potevano fingere, ma questa sola li scopriva: però non era da
conceder loro, per non dar fomento a' loro errori; ma li deboli in fede non
erano tali, se non per cattiva opinione della potestà ecclesiastica,
massime del sommo pontefice, e non dimandavano il calice per divozione, la qual
non si vede se non in persone di santa vita, dove essi sono immersi nelle
vanità e piaceri del mondo e mal volontieri anco si confessano e si
communicano una volta all'anno, il che non mostra tanto fervore di devozione
che per quella ricerchino communicarsi con ambe le specie. Concluse che si
dovesse immitar la diligenza de' padri di Basilea, che si eleggessero 4 o 6
prelati del corpo del concilio che, come legati della sinodo, accompagnati da
teologi atti a predicare, visitassero le provincie nominate dalla Maestà
cesarea e dove trovassero uomini penitenti che avessero voglia del calice per
divozione o per esser abituali in quel rito, e che del resto volessero ritornar
alla Chiesa, gli conciliassero e glielo concedessero.
Il titolar
filadelfiense, se ben tedesco, disse esser pericolo il negar la grazia,
dimandandola l'imperatore, et il concederlo pernizioso; ma che si risolveva piú
tosto di dispiacere agl'uomini che parlar contra la sua conscienza. Che era
impossibile metter in prattica l'uso del calice per pericolo dell'effusione,
portandolo attorno per luoghi lontani e difficili, molte volte di notte a tempi
di nevi, pioggie e giacci; che gl'eretici si sarebbono gloriati, inculcando a'
popoli che pur i papisti comminciano a conoscer la verità, e che senza
alcun dubio quelli che fanno l'instanza tengono non potersi sodisfar in altro
modo al precetto di Cristo che pigliando l'eucaristia sotto ambe le specie; e pigliò
in mano un catechismo scritto in lingua tedesca, il qual lesse interpretandolo
in latino e dicchiarando qual era la loro opinione. Aggionse che li catolici si
sarebbono contristati et in luogo di guadagnar alcuni pochi, s'averebbono persi
moltissimi; che averebbono dubitato a qual parte fosse la vera fede, vedendo li
catolici piegar nelle usanze de' protestanti; che la concessione fatta alla
Germania averebbe mosso le altre provincie, e massime la Francia; che
gl'eretici vogliono far prova di penetrare, con questa concessione, la costanza
che hanno trovato ne' dogmi della Chiesa catolica. Concluse che si doverebbe
differire almeno sino al fine della dieta, acciò li prelati germani
potessero mandar al concilio, approvando l'opinione di Granata di differire, e
quella di Braga, che quelli che mostravano desiderar il calice avevano tutti
radice d'eresia; e soggionse che gl'ambasciatori imperiali avevano fatto cosí
appassionate instanze e tanto strette prattiche che, essendo interessati tanto,
non conveniva stessero presenti in congregazione, acciò liberamente si
potesse parlare. Fra Tomaso Castello, vescovo della Cava, dopo aver raccontato
che il Cinquechiese aveva persuaso molti, dicendo che, non concedendosi,
seguirebbono tanti mali che meglio sarebbe non aver mai fatto concilio, si
estese a mostrare che non si concedesse, se ben dovesse seguir la perdita di
molte anime, perché concedendolo maggior numero perirebbe.
Il vescovo di
Captemberg, in Stiria, fece la stessa instanza che gl'ambasciatori imperiali si
retirassero et inveí gravemente contra le parole del Cinquechiese narrate dalla
Cava. Molti prelati spagnuoli in conformità fecero instanza a' legati
che i cesarei non intervenissero ne' trattati de' padri durante questa
consultazione, bastando che in fine intendessero la risoluzione della sinodo;
ma contradicendo alcuni altri e dicendo che piú essi, a chi toccava, che
gl'altri dovevano intervenire, e che l'escluder quelli di chi si tratta
è cosa aliena dall'uso delle sinodi, li legati, considerato che già
avevano comminciato ad esser presenti e che non si potevano escluder senza
pericolo di rumore, risolverono di non far altra novità.
Il vescovo di
Conimbria fu di parer che si rimettesse al pontefice il conceder la grazia, con
cinque condizioni: che quelli a chi s'aveva da far abgiurassero tutte le eresie
et in particolare giurassero di credere che tanto si contiene sotto una specie,
quanto sotto ambedue, e tanta grazia parimente si riceva; che scaccino li
predicatori eretici; che ne ricevino in loro cambio de' catolici; che non
possino riservar il calice, né portarlo agl'infermi; e che Sua Santità
non dovesse commetter ciò agl'ordinarii, ma mandar legati; e non si
facesse la risoluzione in concilio, perché, quando fosse stata publicata,
averebbe fatto insuperbir gl'eretici e dato scandalo a moltissimi catolici;
perché, se pur questa dispensazione si doveva fare, conveniva non metterla
negl'occhi di tutte le genti. Il vescovo di Modena sostenne che non si poteva
negare, perché sempre, dopo il concilio di Costanza, la Chiesa, avendosi
riservata la facoltà di dispensare, ha mostrato che fosse alle volte
conveniente farlo; che Paolo III già aveva mandato noncii a rilasciarla,
perché s'era avveduto che la proibizione non aveva fatto frutto in tanti anni; che
mai s'avevano potuto ridur li boemi; che l'uso del calice era conforme
all'instituzione di Cristo e servato dalla Chiesa per altri tempi.
Fra Gasparo
di Casal, vescovo di Liria, uomo d'essemplarità e dottrina, difese il
medesimo parere. Disse insomma non maravigliarsi della diversità delle
opinioni, perché quelli che negano la communione del calice, avevano tutti li
moderni da seguitare, sí come quelli che la concedevano, si movevano
dall'essempio dell'antichità e del concilio basileense e di Paolo III;
nella qual diversità de pareri egli aderiva all'affermativo, perché la
cosa era di sua natura buona e, con le condizioni proposte, utile et
ispediente, et essendo inviato per mezo necessario a ridur le anime, chi voleva
il fine, era necessitato a voler il mezo: la necessità del mezo non
doversi metter in dubio, poiché l'imperatore l'affermava, quale egli credeva
che Dio non lasciarebbe ingannare in cosa cosí importante, massime che Carlo
aveva avuto il medesimo giudicio, e l'istesso comprobava la dimanda del duca di
Baviera e l'instanza de' francesi. E se alcun dubitasse che li prencipi
secolari non fossero a pieno informati di questa causa come ecclesiastica, non
doveva restar di prestar fede intiera al vescovo di Cinquechiese et agl'altri
due vescovi ongari che erano in concilio. E perché alcun aveva detto doversi
ben immitare il padre che ricevette il figliuol prodigo, però con
aspettar prima che venisse a penitenza, disse che piú tosto conveniva immitar
il pastor evangelico, che andò cercando per luoghi deserti et aspri con
grandissima sollecitudine la pecora smarrita e presala in collo, la
riportò all'ovile. Il parlar di questo prelato, per la fama di gran
bontà et eccellente dottrina, e piú per esser portughese, che ogn'uno
averebbe pensato dover esser rigorosissimo in mantener li riti usati, non solo
confermò quelli che erano di suo parere, ma fece titubar assai molti de'
contrarii.
Il vescovo
d'Osimo, che parlò dopo di lui, disse: «Dubito che ci bisognerà
bever questo calice in ogni modo, ma faccia Dio che sia con buon successo».
Giovan Battista Osio, vescovo di Riete, sostenne che non si dovesse conceder
questo uso, perché la Chiesa non è stata mai solita in alcun tempo
conceder minima cosa secondo le posizioni degl'eretici, anzi sempre constituir
il contrario. Mostrò per quello che era seguito ne' boemi, quali sempre
erano stati piú ribelli, che non conveniva promettersi niente della conversione
degl'eretici, ma tener certo di dover esser ingannati da loro; che bisognava
far capace l'imperatore che la dimanda non era utile per li suoi stati. Fece
anco instanza a' legati che non dovessero far fondamento sopra quelli che da
principio avevano parlato di rimetter al papa, avendo parlato confusamente, e
che si dovesse far una scielta de' voti, come in altre occasioni s'era fatto,
con far risponder ciascuno per il sí o per il no, e tralasciar li modi
arteficiosi che alcuni erano stati constretti ad usare per dar sodisfazzione.
Fu seguito da fra Giovan de Munnatones, vescovo di Segorve, il qual disse che
prima era stato d'opinione che la grazia non fosse negata, ma udito il vescovo
di Riete era necessitato, per carico di conscienza, di mutarsi e mettersi per
la parte negativa, che il concilio era in questa causa giudice, al quale
conveniva aver gran risguardo che, condescendendo improvidamente alla
Maestà cesarea, non si facesse pregiudicio agl'altri prencipi. Fra Marco
Laureo, vescovo di Campagna, disse che l'imperatore non dimandava di cuore
questa concessione, ma che bastava a Sua Maestà far questa mostra per acquistar
li suoi popoli e però sarebbe stato ben dargli conto delle
difficoltà, acciò Sua Maestà potesse giustificarsi con
loro.
Pietro
Danesio, vescovo di Livaur, non definí se fosse o non fosse da conceder il
calice, ma tutto si consumò contra l'opinione di rimetter al papa. Disse
in sostanza che forse il pontefice ne resterebbe offeso, perché, essendo prima
stato ricercato lui e, per non poter saper o non voler risolversi, avendo
inviato le ricchieste al concilio, era manifesto indicio che non gli piacerebbe
vedersi riposto nelle medesime ambiguità, et il concilio, che è
un gran numero di persone, poter piú facilmente sostenere la carga delle
importunità di chi non sodisfatto si dolerà e ricercherà
rimedio, che non il pontefice, sola persona, al quale per conservazione della
degnità conviene tener conto di molti rispetti. Poi si darà ansa
a' calunniatori, che diranno esser un gioco per diluder il mondo che il papa
rimette al concilio et il concilio al papa. In fine venne allo stretto dicendo:
o si vuole rimetter al papa come superiore, o come ad inferiore; overo se gli
rimette perché, non bastando l'animo al concilio di risolversi per le
difficoltà, rimette a potestà maggiore, overo per liberarsi
rimette ad un inferiore; né all'un, né all'altro modo è giusto il farlo,
se prima non è deciso qual potestà sia superiore. Perché ciascun
di qua vorrà cavar argomento per l'opinione sua e si darà cause
alle dispute et alla divisione. Disse con asseveranza che nissun prelato savio
doveva assentir a far la remissione, se non certificato prima in qual de doi
modi si doveva fare, anzi non esser possibile farla in modo che le parole non
mostrino o l'una o l'altra. Fu udito questo prelato da ponteficii con
impazienza.
Ma
opportunamente il Cinquechiese in quelle congregazioni volse parlar al luogo
suo, come prelato; onde, seguendo immediate dopo questo, con altri nuovi
discorsi fece smenticar di questi, e con molta maniera fece longa digressione
in persuader che si concedesse; poi rispose appositamente a capo per capo a
tutte le cose che erano state dette in contrario. Disse non esser bisogno
risponder a quelli che volevano escluderlo dalle congregazioni, poiché le
raggioni loro tanto valevano contra la Maestà cesarea, se si fosse
trovata presente; che voleva tralasciar anco di risponder a' pericoli
dell'effusione, perché, se questi fossero stati irremediabili, non occorreva
che il concilio constanziense avesse riservata la facoltà di dispensare;
che li raggionamenti di quelli che persuadono la negativa gli sono parsi gravi
et efficaci, atti a tirar lui medesimo in quella parte, quando non avesse
prattica et isperienza di quel negozio, il qual ha maggior bisogno di simil
cognizione che di scienza e raggioni speculative. A quelli che dicevano che di
simil concessione non s'era veduto frutto per il passato, rispose che era tutto
il contrario, perché, dopo la trattazione di Basilea, si erano conservati molti
catolici in Boemia, che tuttavia vivevano in pace con li calistini, e che
novamente avevano ricevuto il nuovo arcivescovo di Praga, dal quale facevano
ordinar li loro preti; a quelli che temevano metter nuovi pensieri nelle altre
nazioni, rispose che quelle non si moverebbono per tal essempio, perché,
essendo senza mistura d'eretici e desiderosi di conservar la purità
della religione, rifiutarebbono il calice, chi volesse darlo loro. Che li
germani tanto piú lo desiderano, quanto è loro maggiormente negato; ma
se gli fosse concesso, col tempo si distorrebbono da quell'uso: il timore che,
ottenuta questa grazia, passassero ad altre dimande, esser troppo suspicace, e
quando pur vi passassero, sempre se gli potrebbono negare; che non si poteva
dimandar novità, poiché era stata concessa dal concilio di Basilea e da
Paolo III, li ministri del quale, se fossero stati piú animosi e per leggier
spavento non si fossero ritirati da quella dispensazione per parole d'alcuni
frati impertinenti che gli predicavano contra, sarebbe stato maggior
giovamento; che egli si era grandemente offeso per la raggione detta da alcuno,
che sí come non si potrebbe ricever uno con condizione che gli fosse permessa
la fornicazione, cosí non debbono esser ricevuti questi popoli che vogliono
riconciliarsi con patto dell'uso del calice, essendo la prima condizione di sua
natura cattiva, che questa è non mala, se non in quanto è proibita.
Al vescovo di Segorve rispose che l'imperatore non litigava con prencipe
alcuno, né procurava pregiudicii ad altri, e ricchiedeva il calice a' suoi
popoli per grazia e non per giustizia; ma verso quelli che dicevano non doversi
dar la cura agl'ordinarii di ciò, ma mandar delegati dalla Sede
apostolica, motteggiò con un poco d'asprezza, dicendo se pareva loro che
a chi s'era fidata la cura delle anime e tutto 'l governo spirituale non si
dovesse fidar una cosa indifferente, o pur se pensavano che questa fosse cosa
eccedente il governo episcopale; che il rimetterlo al papa non era se non
aggiongergli nuove e continue molestie. Al Filadelfia rispose che non solamente
li catolici non sarebbono turbati, ma consolati, potendo viver uniti con quelli
da chi sostengono molti travagli ora. A chi voleva procuratori espressi, disse
non esser maraviglia se nissuno viene a dimandar questa grazia, perché
l'imperator ha preso a dimandarla per loro, il qual potrebbe farne venir
innumerabili, se i padri cosí vorranno. Ma sí come il concilio aveva avuto
rispetto di non far il salvocondotto troppo largo, acciò non venisse
tanta moltitudine de protestanti che gli mettesse paura, cosí doveranno aver
maggior rispetto a ricercar che venissero a tal fine, atteso che piú venirebbono
per impetrar questa concessione. Concluse che si avesse compassione alle loro
chiese e si tenesse conto della dimanda di tanto prencipe, che per desiderio
dell'unione della Chiesa non parla mai di questo negozio senza lacrime. In fine
si gravò della passione de molti prelati che, per vano timore di veder
mutazione nelle regioni loro, vogliono veder la perdita dell'altre; in
particolare si querelò del vescovo di Rieti, che tenesse l'imperator per
prencipe ignaro di governo, che non sapesse quello che fosse utile per i Stati
suoi, se Sua Signoria Reverendissima, versata in servir alle mense de cardinali
in Roma, non gl'insegnava. Finalmente disse che molte altre cose gli restavano
da respondere, che erano state dette di provocarlo quasi a duello, ma gli pareva
meglio tolerarle e passarle pazientemente. Replicò quello che altre
volte avevano detto, cioè che, non concedendo l'uso del calice, saria
stato meglio che il concilio non si fosse mai fatto; le quali parole
decchiarò soggiongendo che molti popoli erano restati nell'ubedienza del
pontefice con speranza che nel concilio gli fosse concessa questa grazia, li
quali si sarebbono alienati afatto, vedendosi fraudati di quella speranza.
Andrea di
Cuesta, vescovo di Lione in Spagna, disse che non si poteva dubitare
dell'ottimamente di Cesare e del duca di Baviera, né disputar se la Chiesa
poteva far tal permissione, ma solo considerar quello che fosse ispediente. Il
parer suo esser che si immitassero li padri antichi e l'uso continuo della
Chiesa di non condescender alle petizioni d'eretici: si vede per la prattica
del concilio niceno che, se ben andava il mondo sottosopra, non volsero
conceder loro un solo iota, e li dottori si sono astenuti dalle parole usate da
eretici, se ben avessero buon senso; che non si sarebbono contentati di questa
concessione; che li catolici l'averebbono sentita male; che per incerta
speranza di ridur alcuni pochi eretici, s'averebbono perduti molti catolici;
esser grand'argomento che i vescovi di Germania non facevano la dimanda; che la
petizione non era per divozione, essendo da gente che non dà nissun
segno di spiritualità; che egli non sapeva intender come fossero
penitenti e volessero tornar alla Chiesa e creder che fosse retta dallo Spirito
Santo, con ostinazione però di non voler tornare senza questa grazia;
che questa ostinazione mostra che non hanno la raggione formale della fede; che
se il concilio basileense altre volte concesse ciò a' boemi, fu perché
si rimessero assolutamente alla Chiesa, qual poi per benignità lo
concesse; che non si debbe dir vero rimedio quello che non è necessario
per natura della cosa, ma per malizia degl'uomini; che la sinodo non debbe
nutrirla e fomentarla; che s'immita assai l'essempio di Cristo in cercar le
pecore smarrite, quando si chiamano, invitano e pregano; che se questa grazia
s'ha da conceder, è meglio che si conceda dal papa, qual potrà
revocarla, se le condizioni non saranno adempite; che concedendola il concilio,
se il papa vorrà annullarla, pretenderanno che non lo possi fare e che
l'autorità sua non sia sopra il concilio; che gl'eretici sempre
procedono con falsità e con inganni.
Antonio
Corrionero, vescovo d'Almeria, disse che si confermava nella negativa per le
raggioni usate da' defensori nell'affermativa; che se ben Dio dà molti
aiuti agl'impenitenti, come predicazioni, miracoli e buone inspirazioni, non
però mai dispensa loro li sacramenti, ma a' soli penitenti; che
volendosi mover dalla carità, prima si debba attender a conservar li
catolici che ridur gl'eretici; che si debbe immitar il concilio constanziense,
che, per mantener li buoni figliuoli della Chiesa, proibí la communione del
calice insegnata da Giovan Hus: cosí si debbe far ora co' luterani; che questa
concessione aprirebbe la porta ad infiniti mali: che averebbono dimandato il
matrimonio de' preti, l'abrogazione dell'imagini, de' digiuni et altri santi
instituti, sempre proponendo le loro dimande come mezi unichi e necessarii a
riunirsi con la Chiesa; che ogni minima mutazione di legge partorisce gran
danno, e massime essendo a favore degl'eretici; che non conseglierebbe manco
che lo facesse il pontefice, se ben facendolo lui sarebbe manco male, ché li
popoli s'offenderebbono manco che se la concessione fosse fatta dal concilio,
il qual par che abbia maggior autorità nelle sue definizioni appresso li
popoli, se ben si deve confessare che la suprema autorità sia nel
pontefice, che quando però la condecesse, non si doverebbe commetter a'
vescovi, quantonque conosciuti buoni per qualche tempo, perché possono diventar
cattivi e di perversa fede, mossi da privati interessi.
Francesco De
Gado, vescovo di Lugo in Spagna, fece un'essortazione longa a' padri, che non
volessero, per fuggir difficoltà o per sodisfazzione a prencipi o
popoli, derogare all'autorità e degnità de' concilii generali,
l'autorità de' quali essendo sempre stata stimata nella Chiesa quanto
ognun sa et avendo quella mantenuto la fede, non è da lasciarla adesso
vilipendere per rispetti et interessi; allegò piú luoghi di
sant'Agostino dell'autorità de' concilii generali e narrò le cose
fatte da' passati et inalzò sommamente l'autorità conciliare; e
quantonque non descendesse mai alla comparativa con la ponteficia, ognuno
però intendeva che la conciliare era da lui posta per superiore. E Girolamo
Guerini, vescovo d'Imola, usando concetti e parole poco dissimili,
inalzò anco l'autorità de' concilii provinciali per confermare
l'openione sua di non conceder il calice, con dire che conveniva aver
l'autorità di quelli per obligatoria, sin tanto che da un concilio
generale non fosse determinato in contrario, allegando in ciò
sant'Agostino; e nel fervor del dire uscí in queste parole: che il concilio
generale non aveva alcun superiore; ma avvedutosi poi che gl'altri ponteficii
(perché di quel numero esso ancora era) restarono offesi, cercò di
moderare con replicar le stesse cose et aggiongervi l'eccezzione
dell'autorità ponteficia; con qual modo di trattare non sodisfece né
all'una, né all'altra parte; fu però scusato dal maggior numero de' suoi
et attribuito il fatto ad inconsiderazione, poiché egli in diverse occasioni
nelle congregazioni inanzi aveva redarguito quelli che allegavano il concilio
basileense. Il cardinale Simoneta però, con tutto che di lui si valesse
a far simile opposizioni, non restò d'interpretar in sinistro et
attribuirgli che era trascorso portato dall'affetto, per non essergli state
spedite le bolle del suo vescovato gratuitamente, come pretendeva.
L'ultima
congregazione sopra questa materia fu il 5 settembre, e fra gl'altri che in
quella parlarono, disse Ricardo da Vercelli, abbate prevalense in Genova,
canonico regolare, sostentando la parte negativa; che nel concilio basileense
quella materia fu disputata per piú giorni, restando ancora la disputa raccolta
per fra Giovanni di Ragusi, procurator de' dominicani, e finalmente fu definita
e negato a' boemi assolutamente il calice: onde non si può oggi venir ad
altra deliberazione, senza far apparir al mondo che allora la Chiesa fallasse
in un concilio generale. Dal vescovo d'Imola, per medicar il proprio eccesso,
fu ripreso di dar autorità a quel concilio scismatico e notato di
grand'ardire che, essendo tante volte stati ripresi quelli che semplicemente
allegarono il basileense, egli allora non solo l'adducesse, ma gli dasse anco
l'autorità di concilio generale. Replicò il padre che sempre
s'era maravigliato, et allora maggiormente, di chi parlava cosí di quel
concilio, atteso che nella prossima passata sessione li 4 capi decretati nella
materia del calice erano di peso pigliati da quel concilio; non saper in che
modo si possi maggiormente approvare un decreto quanto rinovarlo, non tanto nel
senso, ma nelle parole ancora. E con questo riscaldatosi, passò a dire
che, atteso il decreto di quel concilio, la petizione del calice sapeva eresia
e peccato mortale; di che levatosi susurro e volendo egli seguir piú oltre, il
cardinale di Mantova lo fece tacer; et egli fermato chiese perdono e, dette
alcune altre poche parole, finí.
Per non
parlar piú di questo padre, aggiongerò qui che egli era in nota per
essersi scoperto che il dí 16 agosto fosse stato per tempo alla casa
degl'ambasciatori francesi a dimandar se i loro vescovi sarebbono venuti et ad
essortare che si sollecitassero a venir presto; e nelle congregazioni che si
fecero sopra il sacrificio pose in dubio se l'autorità del pontefice
fosse superior al concilio, soggiongendo che quando si fosse venuto a trattar
di questo, egli averebbe detto il voto suo liberamente. Le qual cose poste
tutt'insieme e da' legati opportunamente ponderate, fu giudicato non esser ben
che un tal umore si trovasse alla venuta de' francesi, e pensarono di far che
il general suo lo chiamasse per negozii della congregazione e con questa
onestà levarlo da Trento: ma non fu bisogno, perché il povero padre, per
afflizzione d'anima, pochi dí dopo s'infermò et a' 26 novembre
passò di questa vita. In quella congregazione fra Giovan Battista
d'Asti, generale de' servi, sostentando esso ancora la negativa, abbatuti li
fondamenti de' contrarii, si estese sopra il concilio di Costanza, che prima ha
fatto decreto in quella materia, e commendando l'autorità di quello,
l'essaltò sopra gl'altri concilii generali, con dire che aveva deposto 3
papi; cosa che piacque poco, ma fu passata per non urtar tante cose insieme.
[I legati si risolvono di rimettere il negozio
del calice al papa]
Finiti i voti
e volendo li legati dar sodisfazzione all'imperatore, né apparendo come si
potesse far nel concilio, prevalendo la parte della negativa, risolverono
d'operar che si rimettesse al papa, sperando che col mezo d'officii si
potessero condur parte de quei della negativa in questa sentenzia come media; e
diedero carico a Giacomo Lomelino, vescovo di Mazzara, et a quello di
Ventimiglia che si adoperassero con destrezza e circonspezzione, et essi
medesimi legati parlarono per la parte remissiva a' tre patriarchi, quali anco
persuasero, e per loro mezo restarono acquistati tutti quei del dominio veneto,
numero molto considerabile. Racquistato il numero che parve bastante,
credettero aver superato le difficoltà; ridussero il negozio a questo
punto di scriver una lettera al papa nella forma ordinaria, mandando nota de
tutti li voti, e mentre pensano alla forma, Cinquechiese, risaputolo, si
dicchiarò non contentarsi se non appariva qualche decreto nella
sessione, allegando che, essendosi nella precedente riservato di trattar li 2
articoli, ora essendosi trattati e risoluti, è necessaria far apparire
negl'atti della sessione la risoluzione. Il cardinale varmiense gli
mostrò quanto era difficile e pericoloso proponer decreto, e che per
venir al fine, lo consegliava contentarsi della lettera: al che non
acquetandosi, in fine risolsero far un decreto da legger nella sessione; in
quello egli voleva fosse detto che, avendo la sinodo conosciuto esser ispediente
conceder l'uso del calice, rimetteva al sommo pontefice a chi e con che
condizioni concederlo. Da' legati gli fu mostrato che molti della parte
remissiva erano di quell'opinione per non esser certi se fosse ispediente, li
quali tutti sarebbono stati contrarii al decreto; e che non si poteva spontare
questo passo di far dicchiarar la concessione per ispediente, anzi anco tenendo
questo, era ben lasciar, con l'interposizione d'una settimana, intepidir tanto
fervore. Il Cinquechiese s'acquetò e fu proposto, differito il capo del
calice, attendere a stabilire il decreto del sacrificio, per insinuarsi con
quello ad introdur proposta della communione. S'attraversò varmiense, il
qual persuaso da' giesuiti Lainez, Salmeron e Torres proponeva una altra forma
di decreto del sacrificio in materia dell'oblazione di Cristo nella cena, e fu
cosa difficile farlo desistere; finalmente, dopo esser stati quasi fuori di
speranza d'esser in ordine per far la sessione al tempo destinato, nella
congregazione de' 7 fu stabilito il decreto del sacrificio, essendo stato
ricevuto dalla maggior parte, se ben Granata fece ogni opera per interpor
impedimenti et allongamenti.
[Articoli di riforma proposti]
Dopo questo
furono dati 10 articoli per riformazione degl'abusi occorrenti nella messa, et
altri
L'agente spagnuolo,
per nome del re, si gravò di tanta autorità che a' vescovi si
concedeva nel capo ottavo sopra gl'ospitali, monti di pietà, luoghi pii
ecc., particolarmente per il regno di Sicilia, contra il privilegio che quel
regno ha della monarchia anticamente: al quale per sodisfare, da' legati fu
aggionta al capitolo la clausula che riserva li luoghi che sono immediate sotto
la protezzione del re.
[Difficoltà sopra la tenuta della
sessione]
Queste cose
finite, erano angustiati li legati, non restando piú che 3 giorni alla sessione
et avendo ancora tante cose irresolute, e massime quella che piú importava e
dove ogni uno trattava con veemente affetto, cioè la materia del calice,
quando un accidente fece quasi risolvere d'allongar il tempo della sessione. Questo
fu che, avendo l'ambasciator di Francia in Roma fatto instanza efficace a nome
del re col pontefice che facesse differir sino all'arrivo de' suoi prelati, il
pontefice, quantonque non udisse cosa piú dispiacevole che parlar di
prolongazione del concilio, cosí per propria inclinazione, come per commune de'
cardinali e di tutta la corte che era in speranza et intenso desiderio di
vederlo finito e dissoluto per tutto decembre, avendo nondimeno risposto, per
non manifestar i suoi timori, che a lui niente importava, ma tutto doveva
depender dalla libertà de' padri, li quali non era maraviglia se
aborrivano la dilazione, risguardando la longa et incommoda dimora, a' travagli
de' quali era giusto portar rispetto, e che egli non poteva, né doveva constringerli
overo imporgli legge contra l'uso accostumato; che averebbe scritto a' legati
l'instanza fattagli e dicchiaratosi quanto a sé di contentarsi della dilazione;
che questo tanto si doveva da lui ricchiedere e doveva sodisfar il re; in
questa sostanza scrisse, aggiongendo che usassero quella permissione come
paresse piú raggionevole a' padri. La qual lettera, aggionto l'esser li decreti
mal in ordine e quel che fu scritto dal Dolfino, noncio appresso l'imperator e
l'instanza degl'imperiali, che non si publicasse il decreto della messa, fece
inclinar parte de' legati a diferire. Ma Simoneta, che intese la mente del papa
piú come era nel capo di quello, che come nella lettera espresso, tenne tanto
fermo che si risolvé il contrario; et a Roma avisò quanto fosse pericoloso
metter in dubio gl'ordini assoluti già dati di venire all'espedizione,
con li condizionati per dar sodisfazzione di parole, prestando fomento a mal
intenzionati d'attraversare le buone risoluzioni e mettendo sopra di loro
carica che gli rendeva odiosi, gli faceva perder riputazione e rimaner inetti a
far il servizio di Sua Santità. Fu anco Simoneta favorito dal buon
evento, perché non essendovi opposizione di momento, fu stabilito il capitolo
degl'abusi della messa con gli 11 della riforma, et il decreto della communione
ebbe minor difficoltà che non si credette.
Alla prima
proposta non passò, perché diceva che il papa, eziandio per voto et
approbazione del concilio, facesse quello che giudicarà utile, e questo
fu impugnato insieme da quelli che tenevano la negativa e da quelli della
remissiva; cosa che indusse li legati a risoluzione di tralasciar afatto quella
materia, e cosí deliberati ne fecero scusa con gli imperiali, poiché né dal
pontefice, né da loro veniva il mancamento. Ricercarono gl'ambasciatori, che si
proponesse levata la clausula del voto et approbazione; ma li legati, tenendo
per fermo che questa proposta averebbe potuto causare dilazione nella sessione,
si rendevano difficili per ciò. Gl'ambasciatori protestarono che,
vedendo esser fatta cosí poca stima dell'imperatore, non erano per intervenire
piú, né in congregazione, né in sessione, sin che Sua Maestà avisata
avesse dato quegli ordini che convenivano alla degnità imperiale; onde
li legati non solo si contentarono di proporla di novo, levata la clausula, ma
promisero anco di far officio et adoperar altri ancora. Et il dí dopo, che fu
precedente immediate quello della sessione, la proposta corretta passò
per la maggior parte, se ben con contradizzione di tutti quelli della negativa,
con grand'allegrezza de' legati e ponteficii, cosí perché la sessione non si
prolongava, di che temevano grandemente, come anco perché pareva loro esser
maggior degnità del papa che la grazia a chi desiderava il calice
dependesse totalmente dalla autorità sua.
[Gli ambasciatori de' prencipi tengono
raunanza per formar querele e chieder seria riforma]
Ma
gl'imperiali, se ben in questo particolare assai ben satisfatti, vedendo che la
sessione sarebbe stata all'ordine e non si poteva piú impedir la publicazione
delle cose del sacrificio della messa, di che avevano già fatto instanza
per nome dell'imperatore, unitisi prima co' francesi, mal contenti perché
l'ufficio fatto in Roma per nome del re fosse rimasto inefficace, il medesimo
giorno, dopo il meridio, congregarono tutti gl'ambasciatori nella casa
degl'imperiali, dicendo voler consultare cosa a tutti i prencipi spettante. Li
veneziani et il fiorentino, chiamati, si scusarono non poter intervenirvi senza
commissione espressa de' loro signori. In quella congregazione il Cinquechiese
con longo discorso narrò che sino allora nel concilio non si era
trattata cosa fruttuosa, che s'era disputato vanamente de dogmi, non portando
alcuna utilità agl'eretici, che ostinati sono risoluti di non mutar opinione,
né a' catolici, che non ne hanno bisogno; e di riforma non sono proposte se non
cose leggierissime e di nissun momento, de' notarii, de' questori et altre
tali; vedersi chiaramente che li legati mirano di far anco la sessione seguente
col medesimo stile e dopo di quella proseguire, tirando inanzi il tempo con
dispute, con dottrine e canoni dell'ordine o del matrimonio o qualch'altra cosa
leggiera, per fuggir, secondo il solito, le cose sustanziali di riforma. E con
queste et altre raggioni ben amplificate persuase gl'ambasciatori ad unirsi
insieme et andar a' legati e far instanza che per quella sessione si
tralasciasse di parlare de' sacramenti e di far dottrine o canoni, perché ormai
era tempo d'attendere ad una buona riforma, levar tanti abusi e corregger li
mali costumi et operar sí che il concilio non sia infruttuoso. Il secretario di
Spagna non volle assentire, perché avendo intenzione il suo re che nel fine del
concilio almeno fosse decchiarata la continuazione, temeva pregiudicarsi,
quando fosse mutato il modo di proceder sino allora usato di trattar insieme la
dottrina e la riforma, poiché quella mutazione s'averebbe potuto adoperar per
argomento che il nuovo modo di proceder arguisce nuovo concilio. L'ambasciator
di Portogallo, con longa circuizione di parole inconcludenti, mostrando
desiderar riforma, ma volerla ottener con modi piú piacevoli, si ritirò
dalla compagnia. Il svizzero ancora, vedendo l'essempio di quei doi e
considerato che li veneziani non erano intervenuti, temendo di commetter errore,
disse che meglio sarebbe stato averci considerazione sopra di nuovo, prima che
far risoluzione: gl'altri tutti risolvettero di andare.
Parlò
per tutti, cosí d'accordo, Lansac, dicendo che da' loro prencipi erano mandati
per assistere e favorire il concilio e procurare che si procedesse
pertinentemente, non con dispute della dottrina, della quale, essendo tutti
catolici nissun dubita et è superflua in assenza di quelli che
l'impugnano, ma per procurare una buona, santa et intiera riformazione de'
costumi; ma poiché, non ostanti tante loro remostranze, vedevano che s'aveva
voluto determinar li principali ponti della dottrina controversi, senza toccar,
se non leggiermente, la riforma, pregavano che la seguente sessione fosse
implicata solamente in quella e fossero proposti articoli piú importanti, o
necessarii che quelli di che s'era parlato sin allora. I legati risposero nella
forma che altre volte: il desiderio del papa e loro esser di far il servizio di
Dio e bene della Chiesa, e satisfar e gratificar tutti i prencipi, ma non esser
conveniente romper l'ordine sempre tenuto nel concilio di trattar insieme la
dottrina e la riforma; che le cose sino allora fatte erano solo un principio;
che avevano buona intenzione di far meglio; che riceverebbono prontissimamente
gl'articoli che essi ambasciatori gli proponessero; maravegliarsi che di
Francia non fossero stati mandati gli articoli, deliberati a Poisí, al
pontefice, il quale gl'averebbe approvati. Al che replicò Lansac che,
avendo il pontefice rimesso tutte le cose concernenti la religione al concilio,
i prelati francesi, quando fossero gionti, averebbono proposto quelli e molte
altre cose. Risposero li legati che sarebbono lí molto ben venuti e piú
volentieri ascoltati, ma non per questo conveniva differir la sessione ordinata,
perché in quella non era per trattarsi cosa pregiudiciale alle proposte loro.
Che li padri in gran numero erano risolutissimi di voler la sessione; che il
disgustargli era pericolo, e se con tanto loro incommodo aspettavano in Trento
quelli che a loro aggio differivano l'andata promessa, non era giusto
aggiongergli anco questo disgusto maggiore di volergli far aspettare
oziosamente. A questo ufficio destro non opponendosi con maggior efficacia
gl'ambasciatori, si andò a tener l'ultima congregazione per formar li
decreti, quali stabiliti, quando si fu per statuire il tempo e la materia per
la seguente sessione, Granata consegliava che s'allongasse il tempo,
acciò i francesi e polacchi avessero commodo non solo di venir, ma anco,
arrivati, d'informarsi, e che non si venisse a precisa decchiarazione di quello
che si doveva trattar, ma sí come altre volte s'era fatto, star sull'universale
e pigliar partito secondo le occorrenze; perché dovendo venir tante persone di
nuovo, non si poteva restar di creder che non portassero con loro emergenti,
per quali fosse necessario venir a nuove deliberazioni; et a questo parer li
spagnuoli e molti altri aderivano, e sarebbe stato approvato dall'universale.
Ma una voce sparsa, che fosse arrivato commandamento dal pontefice assoluto che
non si differisse piú de 2 mesi, si trattasse de' sacramenti dell'ordine e
matrimonio insieme, indusse li ponteficii a far instanza che il tempo non fosse
longato e che di tutti 2 li sacramenti si trattasse. Et i legati mostrarono
esser costretti per questo a far il decreto in conformità. Ma questo
maneggio ebbe due altre vere cause: una, la presta espedizione del concilio,
che cosí facendo pensavano poter ispedire con quell'unica sessione; l'altra,
acciò a' spagnuoli et altri fautori della riforma, molto occupati in
quella materia di fede, non restasse tempo di trattar cose importanti, e
particolarmente restassero impediti di promover o almeno d'insister sopra la
residenza. Questo punto stabilito, leggendosi tutti li decreti insieme, di nuovo
si eccitarono le contradizzioni e le contenzioni solite, che con
difficoltà li legati potevano fermar con buone parole. Durò la
congregazione sino a 2 ore di notte, con poca sodisfazzione delle parti e con
scandalo de' buoni; tutto in fine si risolvé, ma per la maggior parte de' voti,
essendo poco minore quella che contradiceva.
[Sesta sessione: decreto della messa]
Venuto il 17
del mese settembre, giorno destinato alla sessione, andati con le solite
ceremonie alla chiesa li legati et ambasciatori, con 180 prelati, dopo le usate
preci nel celebrar la messa, il sermone fu dal vescovo di Ventimiglia recitato,
nel quale con gravità episcopale e senatoria, valendosi della usata
comparazione de' corpi civili a' naturali, dimostrò quanto una sinodo de
vescovi sarebbe mostruosa senza capo; narrò l'ufficio di quello
nell'influir virtú in tutte le membra e la recognizione e debito di queste in
aver piú cura della conservazione del capo che di se stessa, esponendosi anco
alla difesa di quello; disse il principal difetto dell'eretico, secondo san
Paolo, esser che non conosce un capo dal quale depende la connessione di tutto
'l corpo; con 4 parole soggionse che Cristo era il capo della Chiesa
invisibile, ma con molte che il papa era il visibile. Commendò l'accurata
diligenza di Sua Santità in proveder alla sinodo e raccordò a
ciascuno il debito di conservar la degnità del suo capo. Lodò in
fine la pietà e modestia de' padri; pregò la Maestà divina
di dar progresso e fine glorioso a quel concilio, sí come era stato il
principio.
Finita la
messa furono lette lettere del cardinale Amulio, quale, come protettore delle
nazioni orientali cristiane, diede conto alla sinodo esser andato a Roma
Abdissi, patriarca di Muzale nell'Assiria di là dall'Eufrate, il qual,
visitate le chiese di Roma, aveva reso ubedienza al pontefice e ricevuto la
conferma et il pallio da Sua Santità. Narrò li popoli soggetti a
quello aver ricevuto la fede da' santi apostoli Tomaso e Tadeo e da uno loro
discepolo, nominato Marco, in tutto simile alla romana con li stessi sacramenti
e riti, e che di questi avevano i libri scritti sino al tempo degli apostoli.
Soggionse al fine l'ampiezza del paese sottoposto alla cura di quel prelato,
che s'estende sino all'India interiore, con innomerabili popoli soggetti parte
al turco, parte al sofi di Persia, e parte al re di Portogallo. La qual letta,
l'ambasciatore di Portogallo fece un protesto che li vescovi orientali
sottoposta al suo re non conoscevano alcun patriarca in superiore e che per
l'admissione di questo patriarca non fosse fatto a loro o al suo re alcun
pregiudicio. Fu letta dopo la professione della fede da quel patriarca fatta in
Roma, sotto 7 marzo, nella quale giurava di tener la fede della santa Chiesa
romana e prometteva d'approvar e dannar quello che ella approva e danna, e di
dover insegnar il medesimo a' metropolitani e vescovi diocesani a lui soggetti.
Dopo furono lette sue lettere direttive alla sinodo, in quali si scusava di non
poter andar al concilio per la longhezza della strada e pregava che, finito,
gli fossero mandati i decreti di quello, che prometteva fargli osservare
intieramente. Queste stesse cose erano state lette nella congregazione prima,
ma non vi fu fatto sopra riflesso. La protestazione del portoghese
svegliò gli animi a considerare diverse assordità che erano in
quella narrazione e fu eccitato qualche susurro, e li prelati portoghesi si
movevano per parlare. Ma dal promotore, per ordine de' legati, fu detto che
sopra questo s'averebbe parlato in congregazione.
E
procedendosi inanzi agl'atti conciliari, il vescovo celebrante lesse la
dottrina del sacrificio della messa, in 9 capi divisa, quale in sostanza
conteneva:
1 Che per
l'imperfezzione del sacerdozio levitico fu necessario un altro sacerdote
secondo il rito di Melchisedech. Questo fu Cristo, nostro Signore, il qual se
ben offerí se stesso una sola volta nella croce, per lasciar nella Chiesa un
sacrificio visibile, rappresentativo di quello della croce et applicativo della
virtú del medesimo, dicchiarandosi sacerdote secondo il rito di Melchisedech,
offerí a Dio Padre il suo corpo e sangue sotto le specie del pane e del vino, e
gli diede agl'apostoli per riceverle; et a loro et a' successori
commandò che le offerissero: e questa è quella offerta monda, da
Malachia predetta, quale san Paolo chiama mensa del Signore e fu figurata da'
varii sacrificii dell'età della natura e della legge.
2 E perché il
medesimo Cristo nella messa è sacrificato senza sangue, il qual nella
croce fu con sangue offerto, questo sacrificio è propiziatorio e Dio,
placato per quella offerta, concede il dono della penitenza, rimette tutti li
peccati, essendo la medesima ostia e l'istesso offerente, per mezo de'
sacerdoti, che già offerí se stesso in croce con sola diversità
del modo; là onde per questa della messa non si deroga l'oblazione della
croce, anzi si ricevono per lei li frutti di quella che si offerisce per i
peccati, pene e bisogni de' fedeli et anco per i defonti non interamente
porgati.
3 E se ben si
celebrano alcune messe in memoria de' santi, il sacrificio non si offerisce a
loro, ma a solo Dio.
4 E per
offerirlo con riverenza, la Chiesa già molti secoli ha instituito il
canone netto d'ogni errore, composto dalle parole del Signore, tradizione
degl'apostoli et instituti ponteficii.
5 E per
edificazione de' fedeli, la Chiesa ha instituito certi riti di prononciare
nella messa alcune cose con bassa, altre con alta voce, aggiontovi benedizioni,
lumi, odori, vesti, per tradizione apostolica.
6 La sinodo
non condanna come private et illecite, anzi approva quelle messe dove il solo
sacerdote commonica, essendo quelle commoni, perché il popolo communica
spiritualmente [e] perché sono celebrate da publico ministro e per tutti li
fedeli.
7 Che la
Chiesa ha commandato d'adacquar il vino nel calice, perché cosí Cristo ha fatto
e dal suo lato uscí acqua insieme col sangue, e vien rappresentata l'unione del
popolo, significato per l'acqua, con Cristo suo capo.
8 E benché
nella messa si contenga una grand'erudizione per il popolo, nondimeno li padri
non hanno giudicato ispediente che sia celebrata in volgare; però
ritenendo l'uso della Chiesa romana, acciò il popolo non sia fraudato,
debbono li parochi nel celebrar la messa esponer qualche cosa di quello che si
legge in essa, massime le feste.
9 E per
condannar gl'errori disseminati contra questa dottrina soggionge i 9 canoni.
1
Anatematizando chi dirà che nella messa non si offerisca vero e proprio
sacrificio a Dio.
2 Chi
dirà, con le parole di Cristo: «Fate ciò in memoria mia», non
gl'abbia instituito sacerdoti et ordinato a loro d'offerire.
3 E chi
dirà che la messa sia sacrificio di sola lode o ringraziamento o nuda
commemorazione del sacrificio della croce, e non propiziatorio, overo giovi
solo a chi lo riceve e non si debbe offerire per li vivi, per i morti, per li
peccati, pene, satisfazzioni et altri bisogni.
4 E chi
dirà che per il sacrificio della messa si deroghi a quello della croce.
5 E chi
dirà che sia inganno celebrar messe in onor de' santi.
6 E chi
dirà contenersi errori nel canone della messa.
7 Chi
dirà che le ceremonie, vesti e segni esterni usati nella messa siano piú
tosto incitamenti ad impietà che officii di pietà.
8 Chi
dirà che le messe, in quali il solo sacerdote communica, siano illecite.
9 Chi
dannerà il rito della Chiesa romana di dir sotto voce parte del canone e
le parole della consecrazione, overo dirà che la messa si debbe celebrar
in volgare, o che non si debbia mischiar acqua nel vino.
Al decreto
recitato fu da' padri assentito, eccetto che al particolar che Cristo offerisce
se medesimo: 23 vescovi contradissero et alcuni altri dissero che, quantonque
l'avessero per vero, nondimeno riputavano che non fosse luogo né tempo di
decretarlo, e li voti furono detti con qualche confusione per i molti che ad un
tratto parlavano. Diede principio a dissentire l'arcivescovo di Granata, il
quale, non avendo prestato il suo assenso nelle congregazioni, per non aver
occasione di far il medesimo nella sessione, aveva deliberato non intervenirvi.
Ma li legati, non vedendolo alla messa, lo mandarono a chiamare piú d'una volta
e lo constrinsero ad andare e gl'eccitarono con ciò maggiormente la
volontà di contradire.
Immediate
dopo dal medesimo celebrante fu letto un altro decreto per instruzzione a'
vescovi degl'abusi da correggere nella celebrazione delle messe. Et in sostanza
conteneva: che li vescovi debbino proibire tutte le cose introdotte per
avarizia, per irreverenza o per superstizione; condescese a nominar
particolarmente per defetti d'avarizia li patti di mercede, quello che si dà
per messe nuove, l'essazzioni importune d'elemosine; per irreverenza,
l'ammetter a dir messe i sacerdoti vagabondi et incogniti e peccatori publici e
notorii, il celebrar in case private et in ogni altro luogo fuori di chiesa et
oratorii, e se gli intervenienti non sono in abito onesto, l'uso delle musiche
nelle chiese con mistura di canto o suono lascivo, tutte le azzioni secolari,
colloquii profani, strepiti, gridori; per quel che tocca la superstizione, il
celebrar fuori delle ore debite, con altre ceremonie e preci oltre le approvate
dalla Chiesa e ricevute dall'uso, un determinato numero di alcune messe o di
tante candele. Ordinò anco che fosse ammonito il popolo d'andar alle
parochie, almeno le dominiche e maggiori feste, decchiarando che le sudette
cose sono a' prelati proposte, accioché proibiscano e correggano, eziandio come
delegati della Sede apostolica, non solo quelle, ma anco tutte le simili.
[Decreto della riforma]
Il decreto
della riforma comprendeva 11 capi:
[1] Che tutti
li decreti de' pontefici e concilii spettanti alla vita et onestà de'
chierici per l'avvenire siano osservati sotto le medesime et ancora maggiori
pene, ad arbitrio dell'ordinario, e siano restituiti in uso quelli che in
disuetudine sono andati.
2 Che non sia
provisto a' vescovati se non persona che, oltre le qualità requisite da'
sacri canoni, sia sei mesi inanzi in ordine sacro, e se di tutte le
qualità debite non vi sarà notizia in corte, si pigli
informazione da' noncii, dall'ordinario overo da' ordinarii vicini. Che sia
maestro, dottore o licenziato in teologia o in legge canonica, overo
decchiarato idoneo ad insegnar, per publico testimonio d'una academia; e li
regolari abbiano simil fede da' superiori della religion sua, e li processi o
testificazioni siano gratuitamente prestate.
3 Che li
vescovi possino convertir la terza parte delle entrate nelle chiese catedrali e
collegiate in distribuzioni quotidiane, le quali però non siano perdute
da quella degnità; che non avendo giurisdizzione o altro ufficio,
faranno residenza in chiesa parochiale unita, essistente fuori della
città.
4 Che nissun
abbia voto in capitolo se non sia ordinato subdiacono, e per l'avvenire chi
otteneria beneficio al qual sia annesso qualche carico, fra un anno sia ubligato
ricever l'ordine per poterlo essercitare.
5 Che le
commissioni delle dispense fuori della corte romana siano indrizzate
agl'ordinarii e le graziose non abbiano effetto sinché da' vescovi, come
delegati, sia conosciuto che sono ben impetrate.
6 Che le commutazioni
de' testamenti non siano esseguite sin che i vescovi, come delegati, non
averanno conosciuto che siano impetrare con espressione della verità.
7 Che i
giudici superiori, nell'ammetter le appellazioni e conceder inibizioni,
osservino la constituzione d'Innocenzo IV nel capo Romana.
8 Che i
vescovi, come delegati, siano essecutori delle disposizioni pie, cosí
testamentarie, come de' viventi; possino visitar gl'ospitali e collegii e
confraternita de' laici, eziandio quelle che sono chiamate scole o con qual si
voglia altro nome, eccettuate quelle che sono sotto immediata protezzione de'
re; possino visitar l'elemosine de' monti di pietà e tutti li luoghi
pii, se ben sotto la cura de' laici, et abbiano la cognizione et essecuzione di
tutto quello che partiene al culto di Dio, alla salute delle anime et alla
sostentazion de' poveri.
9 Che
gl'amministratori della fabrica di qual si voglia chiesa, ospital,
confraternita, limosina di monte di pietà e d'ogni altro luogo pio siano
tenuti render conto al vescovo ogni anno, e se hanno obligo di dar conto ad
altri, vi sia aggionto anco a quelli il vescovo, altrimenti non satisfacciano.
10 Che li
vescovi possino essaminar i notarii e proibirgli l'uso dell'ufficio in negozii
e cause spirituali.
11 Che
qualonque usurperà beni, raggioni o emolumenti delle chiese, beneficii,
monti di pietà e luoghi pii, o chierico o laico che sia, quantonque re o
imperatore, sia scommunicato sino all'integra restituzione del tutto et
assoluzione dal papa, e se sarà patrono, sia anco privato del ius
patronatus, et il chierico consenziente sia soggetto alla medesima pena,
privato d'ogni beneficio et inabile ad ottenerne.
[Decreto del rimetter la concessione del
calice al papa]
Fu poi letto
il decreto sopra la concessione del calice di questo tenore: che avendosi la
sinodo riservato l'essamine e definizioni de' 2 articoli sopra la communione
del calice nella precedente sessione, ora ha determinato di riferir tutto 'l
negozio al sommo pontefice, il qual faccia per sua singolar prudenza quello che
giudicherà utile per la republica cristiana e salutifero a chi lo
dimanda. Il qual decreto, sí come nelle congregazioni fu approvato solamente
per la maggior parte, cosí avvenne nella sessione, dove, oltre quelli che
contradissero, essendo d'opinione che il calice non si dovesse per causa alcuna
concedere, vi fu anco un numero che dimandò che la materia fosse
differita e reessaminata un'altra volta; a che fu risposto dal promotore per
nome de' legati che s'averebbe avuto considerazione. E finalmente fu intimata
la seguente sessione per gli 12 novembre, per determinare circa li sacramenti
dell'ordine e del matrimonio. E fu la sinodo col modo solito licenziata,
continuando fra li padri gran discorsi sopra questa materia del calice, circa
la quale alcuno sarà forse curioso di saper per che causa il decreto
recitato non sia posto dopo quello della messa, come pare che la materia
ricercasse, ma in luogo dove non ha alcuna connessione, né similitudine con gli
articoli anteriori. Questo doverà saper: che una massima andava attorno
in quel concilio, che per stabilire un decreto di riforma bastasse la maggior
parte de' voti, ma un decreto di fede non potesse esser fermato contradicendo
una parte notabile; perilché li legati già certi che quello del calice
con difficoltà averebbe superato la metà, deliberorno ponerlo per
capo di riforma, e l'ultimo tra quelli, per ben decchiarare di tenerlo in quel
numero. Furono anco, et allora e per qualche giorni dopo, tenuti raggionamenti
per il punto deciso che Cristo offerisse se stesso nella cena, dicendo alcuni
che per il numero di 23 contradittori non era legitimamente deciso, e
rispondendo altri che un ottavo non si poteva dir parte notabile. Erano anco
alcuni che sostentarono la massima aver luogo solo negl'anatematismi e nella
sostanza della dottrina, non in ogni clausula che sia posta per maggior
espressione, come questa, della quale ne' canoni non si parla.
Gl'ambasciatori
imperiali furono molto allegri per il decreto del calice, tenendo per fermo che
l'imperator l'ottenerebbe dal pontefice con maggior facilità e con piú
favorevoli condizioni che non si sarebbe impetrato in concilio, dove, per la
varietà delle openioni et interessi, è difficile ridur tanti in un
parere, se ben buono e necessario: la maggior parte vince la megliore e chi
s'oppone ha sempre maggior avantaggio che chi promove. E tanto piú speravano,
quanto il papa aveva fatto ufficio favorevole alla loro petizione. Ma
l'imperatore non ebbe l'istesso senso, non mirando egli ad ottener la
communione del calice assolutamente, ma a quietare li popoli de' Stati proprii
e di Germania, che mal inclinati verso l'autorità ponteficia per le cose
passate, erano preoccupati a non ricever in ben cosa che di là venisse;
dove che, avendo la concessione dal concilio, con quella sodisfazzione e con la
speranza d'ottener altre ricchieste da loro stimate giuste, fermato il moto in
qual erano e licenziati i ministri infetti, sperava di tenergli nella
communione catolica. Aveva già per isperienza veduto che la concessione
di Paolo III non fu ricevuta in bene e fece piú danno che beneficio, e per
questa causa non proseguí l'instanza sua piú oltre col pontefice. E se ne
dicchiarò; perché quando ricevette la nuova del decreto conciliare,
voltatosi ad alquanti prelati che presenti si ritrovavano, disse: «Io ho fatto
tutto quello che poteva per salvar i miei popoli, ora abbiatene cura voi, a chi
piú tocca».
Ma quei
popoli, che desideravano et aspettavano la grazia o, come essi dicevano, la
restituzione di quello che gli era debito, restarono tutti con nausea che,
essendosi prima trattato per 6 mesi sopra una ricchiesta giusta, presentata con
intercessioni di tanti e cosí gran prencipi, e dopo, per farci maggior
essamine, differito doi altri mesi e disputato e discusso di nuovo con tanta
contenzione, in fine si rimettesse al papa; cosa che si poteva, senza perder
tanto tempo, tanti ufficii e fatiche, rimetter al bel principio. Esser la
condizione de' cristiani secondo la profezia d'Isaia: «Manda, remanda, aspetta,
reaspetta»; poiché il papa, ricchiesto prima, rimesse al concilio quello che
allora il concilio rimetteva a lui, beffandosi ambidoi e de' prencipi e de'
popoli. Alcuni piú sodamente discorrevano che la sinodo aveva riservato doi
articoli a definire: se le cause che già mossero a levar il calice siano
tali che convenga perseverare in quella proibizione, e se non, con che
condizioni si debbia conceder. Il primo de' quali essendo non di fatto, ma
indubitatamente di fede, per necessaria consequenza, rimettendo al papa la
concessione, era costretto il concilio confessare d'aver conosciuto le cause
per insufficienti, e per rispetti mondani non averne voluto far decchiarazione;
imperoché, se le avesse giudicate sufficienti, conveniva perseverare nella
proibizione; se rimaneva dubio, doveva proseguire l'essamine; solo poteva
rimettere conosciuta l'insufficienza. Che se pur avesse fatto la decchiarazione
negativa, cioè le cause non esser tali che convenga perseverare nella proibizione,
e rimesso al papa quello che restava farci de fatto, prendendo le informazioni
necessarie, si poteva iscusare. Né potersi dire che, col rimetter al papa, la
decchiarazione sia presupposta: poiché, avendo nel decreto di questa sessione
replicato li doi articoli, risolvé che il negozio tutto intiero sia al papa
rimesso; adonque senza presupposta alcuna.
[Giudicii sopra questa sessione]
Il decreto
del sacrificio non ritrovo nelle memorie che porgesse materia a' raggionamenti,
e forse causa ne fu perché la lezzione delle parole non rapresenta cosí
facilmente il senso, essendo la congettura piena di molti et inculcati
iperbati, quali, se attentamente non sono separati dalle parti proprie
dell'orazione, distraono l'un dopo l'altro la mente del lettore a diverse
considerazioni, che quando è ridotto al fine, non sa che cosa abbia
letto. Della sola proibizione della lingua volgare nella messa da' protestanti
era detto qualche cosa. E pareva loro contradizzione dall'un canto dire che la
messa contiene molta erudizione del popolo fedele, e lodare che una parte sia
detta sotto voce e proibir in tutto la lingua volgare, ma poi commandar a'
pastori di decchiarare qualche cosa al popolo. A che altri ben rispondevano
nella messa esser alcune cose recondite, che debbono sempre restar coperte al
popolo incapace, per causa del quale sono sommessamente dette e tenute in
lingua litterale, altre di buona edificazione et erudizione, che è
commandato di decchiarare al popolo. Ma a questo veniva replicato con due
opposizioni: l'una, che adonque questa seconda sorte conveniva metterla in
volgare; l'altra, che bisognava distinguere quali sono e queste e quelle,
perché coll'aver commesso a pastori che spesso decchiarino qualche cosa di
quello che si legge e non distinto che, soprastà pericolo che, per
defetto di saper, alcuno de' pastori decchiari quello che debbe esser
conservato in arcano e tralasci quello che merita decchiarazione. I studiosi
dell'antichità si ridevano di tali discorsi, essendo cosa notissima che
ogni lingua litterale et al presente ridotta in arte fu al suo tempo, nel
proprio paese, volgare, e che la latina, quando in Roma, in Italia tutta e
nelle colonie romane, in diverse provincie fu introdotta nella Chiesa, piú
centenara d'anni anco dopo fu in quei luoghi la lingua del volgo; e che resta
ancora nel pontificale romano la forma dell'ordinazione de' lettori nella
Chiesa, dove si dice che studiano a legger distinta e chiaramente, acciò
il popolo possa intender. Ma per saper in che lingua debbiano esser trattate le
cose sacre, non esser bisogno di gran discorsi: bastar solamente leggere il
capo XIV di san Paolo nella prima A Corinzii, che, non ostante ogni
preoccupazione contraria della mente, qual si voglia persona resterà ben
informata, e chi vorrà saper qual fosse già il senso della Chiesa
romana e quando e perché la corte mutasse pensiero, potrà osservare che
Gioanni papa VIII, dopo aver per l'inanzi fatto una severissima riprensione a
moravi del celebrar la messa in lingua slava, con precetto d'astenersene, nondimeno,
meglio informato, dell'880 scrisse a Sfentopulcro, loro prencipe, overo conte,
una longa lettera, dove non per concessione, ma per decchiarazione afferma che
non è contrario alla fede e sana dottrina il dire la messa e le altre
ore in lingua slava, perché chi ha fatto la lingua ebrea, greca e latina, ha
fatto anco le altre a sua gloria, allegando per questo diversi passi della
Scrittura et in particolar l'ammonizione di san Paolo a' corinzii; solo
commandò quel papa che, per maggior decoro, in tutta chiesa l'Evangelio
si leggesse in latino e poi in slavo, come in alcune già era introdotto;
concedendo però al conte et a' suoi giudici di sentire la messa latina,
se piacerà piú quella. Alle qual cose ben considerate, doverà esser
aggionto quello che 200 anni aponto dopo scrisse Gregorio VII a Vratislao di
Boemia: che non poteva permettergli la celebrazione de' divini ufficii in
lingua slava e che non era buona scusa allegare che per il passato [non] sia
stato proibito, perché la primitiva Chiesa ha dissimulato molte cose, che se
ben longamente tolerate, fermata poi la cristianità, sono state per
essamine sottile corrette; commandando a quel prencipe che con tutte le sue
forze s'opponga alla volontà del popolo: le qual cose chi ben osserverà,
vederà chiaro quali fossero le antiche instituzioni incorrotte e come,
duranti ancora quelle, è stato aperto l'adito, per rispetti mondani,
alle corrottele, e per quali interessi parimente, poiché indebolito il buon
uso, l'abuso ha preso piedi, voltato l'ordine e posto il cielo sotto terra: le
buone instituzioni sono publicate per corrottele e dall'antichità solo
tolerate, e gl'abusi introdotti dopo, sono canonizati per correzzioni perfette.
Ma tornando
a' decreti conciliari, quello della riforma mosse stomaco a molti, quali
consideravano che ne' passati tempi il dominio de' beni ecclesiastici era della
Chiesa tutta, cioè di tutti i cristiani che convenivano ad una
convocazione, l'amministrazione de' quali era commessa a' diaconi, suddiaconi
et altri economi, con la sopraintendenza de' vescovi e preti, per distribuirgli
nel vitto de' ministri, de' vedove, infermi et altri poveri, in educazione de'
fanciulli e giovani, in ospitalità, riscatto de' pregioni et altre opere
pie; e con tutto ciò il clero prima, se ben indebitamente, nondimeno
tolerabilmente, volse separare e conoscere la parte sua et usarla secondo la
propria volontà. Ma dopo, passatosi al colmo dell'abuso, è stato
escluso in tutto e per tutto non solo il popolo dal dominio de' beni e li
chierici di amministratori decchiaratisi padroni, ma convertito in uso proprio
tutto quello che era destinato per poveri, per ospitalità, per scole e
per altre pie opere; di che per molti secoli avendosi il mondo sempre doluto e
dimandato rimedio vanamente, li laici per pietà in alcuni luoghi hanno
eretto altri ospitali, altre scole, altri monti per somministrare alle pie
opere con laici amministratori. Ora che in questo secolo il mondo ha dimandato
con maggior instanza il rimedio, che gl'ospitali e le scole antiche et usurpate
da' preti in particolare siano restituiti, il concilio, in luogo d'essaudire
cosí giusta dimanda, come s'aspettava, e restituire i collegii, scole, ospitali
et altri luoghi pii, ha aperto la porta nel capo VIII e IX ad usurpar anco
quelli che dopo sono instituiti con introdurvi la sopraintendenza de' vescovi:
la qual chi vuol dubitare che, sí come è stata il mezo con che sono
stati occupati i beni di già dedicati alle stesse opere et appropriati
ad altri non pii usi, cosí non sia per partorire l'istesso effetto in
brevissimo tempo?
I parlamenti
di Francia tra gl'altri ebbero molto l'occhio a questo particolare et
apertamente dicevano che il concilio aveva eccesso l'autorità sua,
mettendo mano in beni de' secolari, essendo cosa chiara che il titolo d'opera
pia non dà raggione alcuna al prete; che ogni cristiano a suo arbitrio
può applicare la robba sua a quella pia opera che gli piace, senza che
l'ecclesiastico gli possi impor legge alcuna, altrimenti sarebbe ben una
estrema servitú del povero laico, se non potesse fare se non quel bene che al
prete pare. Dannavano anco alcuni, per questo medesimo rispetto, il capo dove
obliquamente è attribuita al clero la commutazione delle ultime
volontà con prescriver come e quando si possino commutare: dicevano
esser abuso intolerabile, essendo chiaro, che i testamenti hanno il loro vigore
dalla legge civile e da quella sola possono esser mutati, e se alcun dicesse
che il vigore venisse dalla legge naturale, tanto meno li preti possono averci
sopra autorità, perché di quella legge ancora, dove è
dispensabile, non può esser dispensatore se non chi tiene maestà
nella republica, overo li ministri di quella; ma li ministri di Cristo doversi
raccordare che san Paolo non gli ha dato amministrazione se non de' ministerii
di Dio. E se qualche republica ha dato la cura de' testamenti a' suoi prelati,
in questo sono giudici non spirituali, ma temporali, e debbono ricever le leggi
da governarsi in ciò non da' concilii, ma dalla maestà che regge
la republica, non operando qui come ministri di Cristo, ma come stati, membra o
bracia della republica mondana, secondo che con diversi nomi sono chiamati et
intervengono ne' publici governi. Ma non era meno notato il quinto capo in
materia delle dispense, imperoché essendo cosa certa che ne' vecchi tempi ogni
dispensa era amministrata da' pastori nelle proprie chiese e poi in successo li
pontefici romani hanno riservato a loro medesimi alcune cose piú principali
(potrebbe alcun dire con buon fondamento, acciò le cose importanti non
fossero maneggiate da qualche persona inetta, se ben veramente è molto
forte la raggione in contrario dal vescovo di Cinquechiese detta di sopra),
nondimeno, poiché il concilio decreta che le dispense siano commesse
agl'ordinarii, a' quali appartenerebbono, cessando le riserve, a che può
servire il restringere la facoltà ad uno per commetterla al medesimo?
Apparir ben chiaro che a Roma con le riserve delle dispense non si vuol altro
se non che le sue bolle siano levate, poiché, questo fatto, giudicano esser il
meglio che l'opera sia, piú tosto che da altri, esseguita da chi potrebbe
esseguirla, se non fosse vietato. Diverse altre opposizioni erano fatte da quei
che volontieri giudicano le azzioni altrui tanto piú prontamente, quanto
vengono da piú eminenti persone; le qual, per non esser di gran momento, non
sono degne d'istoria.
[Il papa, allegro della sessione, provede agli
incontri per l'avvenire]
Il pontefice,
ricevuto aviso della sessione tenuta e delle cose successe, sentí allegrezza,
come liberato da gran molestia che riceveva, temendo che nella contenzione del
calice non fosse tirata in disputa la sua autorità; e poiché era aperta
via di quietar le differenze con rimetter a lui le cose contenziose,
entrò in speranza che l'istesso potesse farsi nell'articolo della
residenza et in qualonque altro che venisse controverso, e metter presto fine
al concilio. Ma due cause prevedeva che potevano attraversar il suo dissegno.
L'una, la venuta del cardinale di Lorena co' prelati francesi, la qual molto
gli premeva, massime per li concetti vasti di quel cardinale, molto contrarii
alle cose del ponteficato, cosí incarnati che non aveva potuto nascondergli: al
che non vedeva rimedio alcuno, se non facendo che gl'italiani superassero di tanto
gran longa gl'oltramontani, che ne' voti gli facessero passar per numero non
considerabile. Per qual effetto sollecitava continuamente tutti i vescovi, se
ben titolari o che avevano rinonciato, che dovessero andar a Trento,
somministrando le spese e caricandogli di speranze; pensò anco di mandar
numero d'abbati, come in qualche concilio s'era fatto, ma ben consultato,
giudicò esser meglio non mostrar tanta affezzione e provocar gl'altri a
far l'istesso. L'altro attraversamento temeva per i pensieri che scorgeva in
tutti i prencipi di tener aperto il concilio senza far niente: l'imperator per
gratificar i tedeschi et avergli favorevoli ad elegger il figlio re de' Romani;
il re di Francia per far il fatto suo co' medesimi e co' suoi ugonotti.
Ponderava anco molto l'introdozzione di far congregazione de' ambasciatori: gli
pareva un concilio de secolari nel mezo di quello de' vescovi; considerava che
le congregazioni de' prelati sarebbono pericolose, se l'intervento e presidenza
de' legati non gli tenesse in ufficio; gl'ambasciatori, congregandosi tra loro,
poter trattar cose molto pregiudiciali; esser in pericolo che, passando inanzi,
introducessero dentro anco qualche prelato, essendone massime tra loro
d'ecclesiastici, e s'introducesse una licenza sotto nome di libertà. In
questa perplessità era sostentato da buona speranza dal veder che la
maggior parte degl'ambasciatori fosse stata contraria a' tentativi proposti,
non vedendogli uniti se non li cesarei et i francesi, i quali essendo senza prelati
proprii, poco potevano operare; esser nondimeno necessario sollecitar il fine
del concilio e conservar la poca intelligenza che s'era veduta tra
gl'ambasciatori. Perilché scrisse immediate che s'attendesse a sollecitar le
congregazioni et a digerire et ordinare le materie; e considerando che il
ringraziamento mette in obligo di perseveranza, diede ordine che per parte sua
fossero lodati e ringraziati affettuosamente il portughese, lo svizzero et il
secretario del marchese di Pescara d'aver ricusato di consentire con gl'altri
all'impertinente proposta. A' veneti et al fiorentino fece render grazie della
buona intenzione mostrata ricusando d'intervenire in congregazione, facendogli
anco pregare che, se all'avvenire fossero ricchiesti, non ricusassero, poiché
poteva tener certo che la loro presenza sarebbe sempre per giovar alle cose
della Sede apostolica, et impedir li mali dissegni d'altri. Né s'ingannò
il pontefice del suo pensiero: imperoché da tutti tirò parola che
avevano in quella maniera operato conoscendo che in quei tempi il servizio
divino vuol che sia distesa l'autorità ponteficia et in tal risoluzione
averebbono perseverato, e testificarono di sentirsi maggiormente ubligati per
li cortesi ringraziamenti di Sua Santità, di quello che per debito
avevano operato.
[Discorso
dell'autore sull'ordine del suo dissegno]
È
costume di chi scrive istoria nel principio proponer il modello della
trattazione; nondimeno io ho stimato ben differirlo a questo passo, facendolo
ritratto delle cose narrate [e] dissegno di quelle che sono per raccontare.
Avendo deliberato alle memorie da me raccolte dar qualche forma che non
superasse la facoltà mia e fosse piú accommodata alla materia, ebbi
considerazione che, fra tutti i maneggi in questo secolo tra cristiani occorsi,
e forse anco in quelli che negl'anni rimanenti occorreranno, questo tiene il
primo luogo, e che, delle cose riputate il piú degl'uomini sentono beneficio e
piacere d'intenderne le minuzie: perciò giudicai convenirgli la forma di
diario. A questo mio parer s'attraversarono due opposizioni: l'una, che con
quella forma non conveniva narrare li successi de 29 anni che scorsero per
preparar il nascimento a questo concilio, né meno quelli de' altri 14 che in 2
volte passò dormendo, con incertezza se fosse vivo o morto; l'altra, che
non aveva, né poteva aver tutta la materia che ricerca una effemeride
continuata. Accommodando, come la natura fa, la forma alla materia, non, come
le scole vorrebbono, la materia alla forma, non ebbi per assordo scriver a modo
d'annali li tempi preparatorii et interconciliari, et in quei della
celebrazione scriver per giorni quel solo di che ho avuto notizia, confidando
che de' trapassati per non aver potuto venirne a cognizione, se alcuno leggerà
questa fattura mi defenderà, poiché, se delle cose che gl'interessati
fanno ogni opera per conservarne la intiera memoria, presto se ne perde parte
notabile, quanto maggiormente di questa, dove con ogni diligenza da gran numero
di persone perspicacissime è stata usata ogni fatica per asconder il
tutto. Meritano certo le cose grandi esser tenute in misterio, mentre il cosí
fare è di commune giovamento; ma quando il non sapersi l'intiero ad una
parte sia di gran danno, ad altri d'utilità, non è maraviglia se
a fini repugnanti per contrarie vie si camina. Ha ben luogo la commune e famosa
sentenza che con maggior raggione si tratta d'evitar danno che d'acquistar
guadagno. È soggetta questa mia composizione, per le cause dette, a
qualche disugualità di narrazione, e se ne potrebbe trovar altretanta in
qualche famoso scrittore; non sarà per ciò questa la mia difesa,
ma che non è stata usata da chi non ha scritto istoria del concilio
tridentino o altra non differente da quella.
[Gli ambasciatori francesi e cesarei dimandan
riforma]
Gl'ambasciatori
di Francia, usciti della sessione, ebbero un dispacio dal loro re, che gli
commetteva di far instanza perché la sessione fosse differita; di che essendo
il tempo passato, nondimeno comparvero inanzi i legati, a' quali esposero la
nuova commissione avuta dal re di far instanza che s'attendesse alla riforma e
che i suoi prelati fossero aspettati: soggionsero che, quando si facessero
disputare da' teologi e trattare da' prelati le materie proposte dell'ordine e
del matrimonio immediate, niente resterebbe piú della dottrina, e li francesi
invano venirebbono; però si contentassero di differirle sino al fine
d'ottobre, attendendo tra tanto alla riforma, overo si parlasse
alternativamente uno di sopra la dottrina et uno sopra la riformazione, non
differendo, come per il passato, tutta la riforma sino a' giorni ultimi
prossimi alla sessione, sí che non resta tempo bastante pur per veder
gl'articoli, non che per deliberarvi sopra. Ebbero risposta che le proposte
meritavano d'esser ponderate, che vi averebbono considerazione per sodisfargli
in tutto 'l possibile; chiesero copia dell'instruzzione mandata dal re per
poter meglio deliberare.
Gl'ambasciatori
diedero una scrittura, il tenore della quale era: che avendo il re visto i decreti
de' 16 luglio della communione sub utraque e di differire 2 articoli di
quella medesima materia, et insieme quelli che erano proposti nelle
congregazioni sopra il sacrificio della messa, se ben loda tutto quello che
è fatto, reputa non poter tacer quello che viene universalmente detto,
cioè che si tralascia o legiermente si tratta quello che tocca i costumi
o la disciplina e si precipita la determinazione de' dogmi della religione
controversi, in quali tutti li padri sono d'accordo. Le qual cose se ben egli
reputa false, nondimeno ricerca che le proposte de' suoi ambasciatori, siano
interpretate come necessarie per proveder a tutto 'l cristianismo et alle
calamità del suo regno; et avendo esperimentato non aver giovato né la
severità, né la mediocrità delle pene per far ritornar li
departiti della Chiesa, ha stimato ben ricorrer al concilio generale,
impetrandolo dal sommo pontefice; dispiacergli di non aver potuto, per i
tumulti di Francia, mandar piú presto li suoi prelati, ma ben veder che, per
venir alla pace et unità della Chiesa, la constanza e rigidezza nel
continuare la formula già principiata da' legati e vescovi, non esser a
proposito; però desiderare che nel principio del concilio non si faccia
cosa che alieni gl'animi degl'avversarii, ma siano invitati e, venendo,
ricevuti come figliuoli con ogni umanità, con speranza che, cosí
facendo, si lascieranno insegnare e ridur al grembo della Chiesa. E perché
tutti quelli che sono ridotti in Trento professano l'istessa religione e non
possono, né vogliono dubitare d'alcuna parte di quella, parer a Sua
Maestà che quella disputa e censura delle cose della religione non solo
sia soverchia, ma impertinente a' catolici e causa che gl'avversarii si
separino maggiormente, e chi crede che debbino ricever li decreti del concilio
nel quale non sono intervenuti, non gli conosce ben, e s'inganna chi non pensa
che con tal maniera non si fa altro che parecchiar argomenti di scriver libri.
Perilché il re stima meglio il tralasciar questa disputa di religione, sin che
sia statuito tutto quello che s'aspetta all'emenda della disciplina. Esser
questo lo scopo dove convien che ognun risguardi, acciò il concilio, che
è numeroso, e maggiore sarà con l'arrivo de' francesi, possi far
frutto. Dimanda appresso il re che per l'assenza de' suoi vescovi la prossima
sessione sia prolongata sino in fine d'ottobre, o differita la publicazione de'
decreti, o aspettato nuovo ordine dal papa, al quale ha scritto, e tra tanto
s'attendi alla riforma. E perché s'intende che qualche cosa è mutata
dell'antica libertà de' concilii ne' quali fu sempre lecito a' re e
prencipi et a' loro ambasciatori esponere i bisogni de' loro regni, dimanda la
Maestà Sua che sia salva questa autorità de' re e prencipi, e sia
rivocato quello che in contrario è fatto.
L'istesso
giorno li cesarei comparvero a' legati, ricchiedendo che fossero proposti gli
articoli mandati dall'imperatore e da loro già presentati, e ricercarono
con instanza che si differisse di trattar de' dogmi sino alla venuta de'
francesi; et acciò che la trattazione della riforma fosse non solo per
servizio generale di tutta la Chiesa, ma particolare anco d'ogni regno, fossero
deputati doi per nazione, i quali avessero a raccordare quello che meritasse
esser proposto e discusso nel concilio. E li legati, cosí a questi, come a
quelli di Francia, fecero una commune risposta: che la sinodo non può
senza gravissimo pregiudizio alterare l'ordine instituito di trattare li dogmi
insieme con la riforma; e quando volesse ben farlo, altri prencipi s'opponerebbono;
ma in grazia loro s'ordinerebbe che i teologi e prelati essaminassero la
materia dell'ordine sola, et appresso si trattassero alcuni capi di riforma,
osservando tuttavia il modo consueto che ogni uno, di che condizione si voglia,
può raccordare ad essi legati quello che giudica necessario, utile o
conveniente, cosa di maggior libertà che il deputare doi per nazione;
dopoi s'attenderebbe al matrimonio. Di che non restando gl'ambasciatori ponto
contenti, li legati mandarono al pontefice tutte le sudette dimande.
Ma li
francesi mal sodisfatti si dolevano appresso tutti, cosí di tanta durezza, come
perché novamente il papa aveva commandato ad altri prelati d'andar al concilio;
il che chiaramente appariva farsi per esser superiore di numero, cosa che da' ponteficii
medesimi non era lodata che si facesse cosí all'aperta e nel tempo che
correvano le nuove della venuta de' francesi; piacendogli però che il
numero crescesse per assicurarsi, ma con tal destrezza che non si potesse dir
esser fatto per tal causa. Ma il pontefice non operava cosí alla scoperta per
imprudenza, anzi a bello studio, acciò il cardinale di Lorena conoscesse
che li tentativi non sarebbono riusciti e si risolvesse di non venire, overo li
francesi pigliassero qualche occasione di far dissolvere il concilio. Né il
papa solo era di questo pensiero, ma la corte tutta, temendo qualche
pregiudicio per li dissegni che portava quel cardinale, li quali quando anco
non fossero riusciti, cosa non cosí facile da sperare, la venuta sua nondimeno
sarebbe di grand'impedimento, allongazione e disturbo al concilio. Certo
è che il cardinale di Ferrara fece ufficio col cardinale di Lorena, come
parente, dicendo che la sua andata sarebbe di nissun momento e con poca sua
riputazione, poiché arriverebbe dopo spedite tutte le determinazioni; et il
Biancheto, familiarissimo del cardinale Armignaco et anco di credito con
Lorena, scrisse l'istesso ad ambidue, e dal secretario del Seripando, come
amico del presidente Ferriero, fu fatto l'istesso ufficio con esso lui; li
quali ufficii mostravano il fine cosí scopertamente che apparivano, se non
fatti per commissione del pontefice, almeno conformi alla sua volontà.
[Articoli dell'ordine proposti]
Non
s'intermise però la sollecitudine circa le azzioni conciliari: si diedero
immediate gli articoli sopra il sacramento dell'ordine per disputare da'
teologi, e furono scielti quelli che dovevano parlare nella materia e distinti
in 4 classi, dovendo ciascuna d'esse discutere 2 articoli solamente.
Gl'articoli erano 8:
1 Se l'ordine
è vero e propriamente sacramento, instituito da Cristo, o finzione
umana, o rito d'elegger li ministri della parola di Dio e de' sacramenti.
2 Se l'ordine
è un solo sacramento, tenendo tutti gl'altri come mezi e gradi al
sacerdozio.
3 Se nella
Chiesa catolica vi è la ierarchia, che consta de vescovi, preti et altri
ordini, e se tutti li cristiani sono sacerdoti, e se sia necessaria la
vocazione e consenso della plebe o del magistrato secolare, e se chi è
sacerdote può diventar laico.
4 Se nel
Testamento Nuovo vi è sacerdozio visibile et esterno e potestà di
consecrare et offerir il corpo e sangue di Cristo e di rimetter li peccati, o
il solo nudo ministerio di predicar l'Evangelio, sí che quelli che non
predicano non sono sacerdoti.
5 Se
nell'ordinazione si dà e riceve lo Spirito Santo e s'imprime carattere.
6 Se
l'onzione et altre ceremonie nel conferir l'ordine sono necessarie o pur
superflue overo anco perniziose.
7 Se i
vescovi sono superiori a' preti et hanno potestà propria di confermare
et ordinare, e se quelli che senza l'ordinazione canonica in qualonque modo
sono introdotti, siano veri ministri della parola e de' sacramenti.
8 Se li
vescovi chiamati et ordinati per autorità del pontefice romano sono
legitimi e se veri vescovi siano quelli che per altra via vengono senza
instituzione canonica.
Il 23 del
mese si diede principio alle congregazioni de' teologi due volte al giorno et
il 2 ottobre fu posto fine alla discussione. Seguendo il mio instituto, non
narrerò i pareri se non notabili per la singularità o
contrarietà tra loro.
Nella prima
congregazione parlarono 4 teologi ponteficii, quali, sopra il primo articolo,
furono conformi a provare l'ordine esser sacramento per luoghi della Scrittura,
specialmente quello di san Paolo: «Le cose che da Dio vengono sono ordinate»;
poi per la tradizzione degl'apostoli, per li detti de' padri, per uniforme
parere de' teologi e sopra tutto per il concilio fiorentino, aggiongendo anco
la raggione che la Chiesa sarebbe una confusione, quando non vi è chi
regge e chi ubedisce. Ma nel secondo articolo fra Pietro Soto s'estese con
molte parole a mostrar che erano 7 ordini, ciascuno d'essi propriamente
sacramento e tutti da Cristo instituiti, e trattò che fosse necessario
farne sopra decchiarazione, perché alcuni canonisti, passando i termini della
professione loro, hanno aggionto doi altri, la prima tonsura et il vescovato,
l'openione de' quali potrebbe indur molti altri errori piú importanti.
Similmente si estese a dimostrare che Cristo aveva essercitato nella vita
mortale questi ordini graduatamente et in fine il sacerdozio che è
l'ultimo, e sí come tutta la vita di Cristo fu inviata a quell'ultimo
sacrificio, cosí esser chiaro che tutti gl'ordini non sono per altro, se non
per far scala alla salita del sommo grado, che è il sacerdozio.
Ma fra
Girolamo Bravo, esso ancora dominicano, avendo protestato di tener fermamente
che gl'ordini fossero sette e ciascuno d'essi vero sacramento, e che si doveva
servar l'uso della Chiesa, che per mezo degl'ordini inferiori passa a'
superiori et al sacerdozio, soggionse non parergli che si dovesse descendere a
cosí minuta decchiarazione, attesa la varietà che è tra teologi,
de' quali con difficoltà si troverà che doi convengano; onde il Gaetano
in sua vecchiezza, atteso questo, lasciò scritto che chi raccoglie le
cose insegnate da' dottori e scritte ne' ponteficali antichi e moderni,
vederà la materia molto confusa in tutti gl'altri ordini, fuorché nel
presbiterato. Il Maestro tenne che li minori e sottodiaconato siano instituiti
dalla Chiesa; il diaconato, instituito nella Scrittura, pare un ministerio
delle mense, e non come il nostro dell'altare. La varietà circa
gl'ordini minori che si vede ne' vecchi ponteficali, dove quello che è
nell'uno è tutt'altra cosa che nell'altro, mostrano che siano
sacramentali, non sacramenti, e la raggione ancora a ciò ci guida:
perché l'azzioni che fa l'ordinato le può far anco un non ordinato e
sono ugualmente valide et hanno l'istesso effetto e perfezzione. Che san Bonaventura
ancora, quantonque senta che tutti 7 sono sacramenti, reputò ancora per
probabili due altre opinioni: l'una, che il solo sacerdozio sia sacramento, ma
li minori e gli altri doi ancora, versando circa cose corporali, come aprir
porte, legger lezzioni, accender lumi, non si vede come configurino a Dio, e
però siano sole disposizioni al sacerdozio; la seconda, che li tre sacri
siano sacramenti, e per quello che tocca il detto commune che gl'inferiori
siano gradi a' superiori, affermar san Tomaso che nella Chiesa primitiva molti
erano ordinati preti immediate senza passar per gl'ordini inferiori e che la
Chiesa dopo ordinò questo passaggio al sacerdozio per tutti li gradi a
fine d'umiliar le persone. Si vede ben chiaro negl'Atti degl'apostoli
che san Mattia fu ordinato immediate apostolo et i 7 diaconi non passarono per
ordini minori e subdiaconato. San Paolino egli di se stesso narra che,
dessegnando d'applicarsi al servizio divino nel clero, per umiliazione voleva
caminar per tutti li gradi ecclesiastici, incomminciando dall'ostiario, ma
mentre pensava quando far principio, essendo ancora laico, alla sprovista il dí
del Natale in Barcellona fu preso per forza dalla moltitudine e portato inanzi
il vescovo et ordinato prete di salto; il che non sarebbe stato fatto se in
quel tempo non fosse stato usitato. Per le qual cose concluse il Bravo non
esser bene che la sinodo passasse oltre le cose che tra tutti li catolici
convengono, et aggionse meglio esser incomminciare questa materia del
sacramento dell'ordine del sacerdozio, il che anco sarà un dar
connessione a questa sessione con la passata che fu del sacrificio; e dal
sacerdozio passar all'ordine universale senza descendere a maggior
particolarità.
[L'ambasciator cesareo insta per la riforma,
secondato dagli spagnuoli]
Finita la
congregazione e partendo li prelati che s'erano trovati presenti, restò
il Cinquechiese co' suoi ongari et alcuni polachi e alquanti spagnuoli, a'
quali tutti egli fece un raggionamento, con dire che, essendo l'imperatore
fuori d'ogni sospetto di guerra per la tregua seguita tra lui et il Turco, non
aveva cosa piú a cuore che la riforma della Chiesa, la quale si sarebbe posta
ad effetto quando nel concilio qualche parte de' prelati avesse coadiuvato;
però gl'essortava e pregava, per la riverenza divina e per la
carità che ciascuno cristiano debbe alla Chiesa portare, che non
abandonino una causa cosí onesta, giusta e proficua, che ciascuno dovesse
metter in scritto quello che giudicava potersi constituir per servizio divino,
senza metter pensiero a qual si voglia rispetto umano, non mirando a regolare
una parte, ma tutto 'l corpo della Chiesa, per riformarla nel capo e nelle
membra. Granata secondò il raggionamento, mostrò la
necessità et opportunità di riformare, ringraziò il
Cinquechiese dell'ammonizione e disse che tra loro si sarebbe raggionato. A
questo effetto si ridussero li spagnuoli insieme e, dopo aver discorso fra loro
la necessità del riformare e fermata la speranza di vederne frutto per
l'inclinazione dell'imperatore, dalla quale il re loro, per natura
inclinatissimo a pietà, non averebbe dissentito, e perché li prelati
francesi, che in breve s'aspettavano, averebbono promosso et aiutato l'opera
con affetto e diligenza, passarono a raccontare diversi abusi, mostrando
l'origine di tutti venire dalla corte romana, la quale non solo è
corrotta in sé medesima, ma è ancora causa della deformazione di tutte
le chiese. E narrata l'usurpazione dell'autorità episcopale con le
riserve, la qual se non fosse restituita e levato alla corte quello che s'ha
assonto, a' vescovi spettante, mai gl'abusi si leverebbono, considerò
Granata che, essendo necessario prima gettar li fondamenti per far una cosí
nobil fabrica, il campo allora esser aperto, che si parlava del sacramento
dell'ordine, se sarà determinato che la autorità episcopale sia
da Cristo instituita, ché da questo si tirerà in consequenza che non
può esser diminuita e si renderà a' vescovi quello che datogli da
Cristo, per ambizione et avarizia d'altri e negligenza loro gli è stato
usurpato. Aggionse Braganza che tanto piú era necessario, quanto
l'autorità episcopale è ridotta a niente e fatto un ordine
superiore a' vescovi, incognito nel passato alla Chiesa, quello cioè de'
cardinali, i quali ne' primi tempi erano stimati nel numero degl'altri preti e
diaconi, e solo dopo il decimo secolo s'inalzarono oltre il debito grado; ma
non tanto che ardissero uguagliarsi a' vescovi, de' quali furono riputati
inferiori anco sino al 1200; ma dopo s'hanno non solo pareggiato, ma essaltati
sopra, sí che al presente tengono i vescovi per servitori nelle loro case, né
mai la Chiesa sarà riformata, sin che i vescovi e cardinali non siano
ridotti al luogo debito a ciascuno.
Furono queste
proposte udite con applauso e giudicati ottimi li discorsi, onde vennero in risoluzione
d'elegger sei di loro, che adunassero in scritto le cose necessarie et
opportune, cosí in generale per la riforma, come in particolare per questo capo
dell'instituzione de' vescovi, di onde dissegnavano incomminciare. Furono
nominati esso Granata, Gaspar Cervante, arcivescovo di Messina, il vescovo di
Segovia, Martino di Cordova, vescovo di Tortosa, il qual fu causa che non si
passasse piú oltre. Perché intendendosi egli in secreto co' ponteficii, si
scusò d'accettar il carico, allegando prima la propria insufficienza et
il tempo che a lui non pareva intieramente opportuno, soggiongendo che il
Cinquechiese non era mosso da pietà e non aveva altro fine che di
valersi di loro per constringer il papa con questo mezo di riforma a conceder
l'uso del calice, al quale essi erano stati contrarii; e vedendosi fatta
qualche disposizione d'audienza, fece tanto e tanto persuase, che non si
passò piú oltre, ma s'interpose dilazione. Non però si differí
longamente; perché il seguente giorno Granata Braganza, Messina e Segovia,
chiesta audienza da' legati, fecero instanza che si trattassero gl'articoli
già proposti dal cardinale Crescenzio in questo medesimo concilio, et
anco concluso, se ben non publicato, cioè che li vescovi sono instituiti
da Cristo e de iure divino sono superiori a' preti. I legati, dopo aver
conferito insieme, risposero che, avendo li luterani asserito esser l'istesso
il vescovo et il prete, era giusta cosa dicchiarare che il vescovo è
superiore, ma non esser bisogno decchiarar quo iure, né da chi il
vescovo sia instituito, poiché non vi è sopra ciò controversia; e
replicando Granata che anzi in questo è la controversia e che facendo
disputare li teologi si sarebbe conosciuto la necessità di decider
questo punto; né volendo per modo alcuno li legati acconsentirvi, dopo qualche
moti di parole risentiti d'ambe le parti, li spagnuoli si partirono senza
alcuna cosa ottenere, restando però essi in risoluzione di far ufficio
con qualche teologi che nelle discussioni introducessero questo particolare e di
farne menzione il tempo del dire li voti in congregazione. Il che essendo
pervenuto alle orecchie de' ponteficii, fecero passar voce tra i teologi che
fosse stato da' legati vietato il parlar sopra quella questione.
[Esamine del terzo articolo della ierarchia
ecclesiastica]
Ma tornando
alla congregazione, quando parlò la classe seconda, mista de teologi e
canonisti, Tomas Dassio, canonico di Valenza, disse che il metter dubio sopra
la ierarchia ecclesiastica nasceva da crassa ignoranza dell'antichità,
essendo cosa notissima che nella Chiesa il popolo è sempre stato
governato dal clero, e nel clero gl'inferiori da' superiori, sino che tutti li
gradi sono ridotti ad un solo rettor universale, che è il romano
pontefice. Et avendo con longa narrazione mostrato la proposta, soggionse che
non vi era bisogno salvo che far apparir questa verità con levar
gl'errori contrarii; li quali a lui pareva esser stati introdotti da'
scolastici, mentre col sottilizar troppo, alle volte oscurano le cose chiare,
opponendosi a' canonisti, che mettono tra gl'ordini la prima tonsura e
l'episcopato. Di questo parergli cosa molto strana come confessino che sia
proprio di quello la confermazione, l'ordinazione e tante altre consecrazioni,
quali altri, che tentasse ministrarle, non farebbe niente, e neghino che non
sia ordine, facendo poi ordine l'ostiariato per serrar le porte, che ugualmente
saranno ben serrate da un laico. E quanto alla prima tonsura aver sempre
sentito dir a' teologi che sacramento è un segno esteriore, che significa
una grazia spirituale; nella prima tonsura esserci il segno e la cosa
significata, la deputazione alle cose divine, e però restar pieno
d'ammirazione perché voglino levargli l'esser sacramento, gionto che per quello
s'entra nel clero, si participa le essenzioni ecclesiastiche; che se quella non
fosse da Cristo instituita, non si potrebbe dire che né il chiericato, né la
essenzione di quello fosse de iure divino; esser chiara cosa che la
ierarchia consiste negl'ordini ecclesiastici, né altra cosa vuol dire
ierarchia, se non sacro ordine de superiori et inferiori, e questo non
potrà mai ben stabilirsi, chi non mette tra gl'ordini, come li canonisti
hanno con raggione posto, l'infimo, che è la tonsura, et il sommo che
è il vescovato; e questo fatto, la ierarchia è tutta stabilita,
seguendo necessariamente li mezi, dato il primo e l'ultimo, e restando quelli
senza sussistenza, quando non siano posti questi.
Ma sopra
l'altra parte dell'articolo, disse dalla lezzione de' sacri canoni esser cosa
molto chiara che nell'elezzione de' vescovi e nella deputazione de' preti e
diaconi il popolo e la plebe era presente e rendeva il suo voto, overo prestava
l'assenso, ma questo era per concessione del papa, tacita o espressa: perché
non può alcun laico nelle cose ecclesiastiche aver alcuna
autorità, se non per privilegio ponteficio, e questo fu concesso allora,
perché il popolo et i grandi ancora erano devoti, e con questo si trattenevano
nelle cose spirituali, e portavano perciò maggior ossequio e riverenza
al clero, e si rendevano pronti ad aummentarlo con oblazioni e donazioni, di
onde si vede la santa Chiesa venuta nello stato che si trova; ma dopo che la
devozione è cessata, li secolari non hanno altra mira che usurpar quello
della Chiesa et operar che siano posti nel clero persone aderenti alla loro
volontà, e però fu conveniente levargli il privilegio datogli et
escluderlo affatto dalle elezzioni et ordinazioni. E li moderni eretici aver
trovato una diabolica invenzione con dire che fosse debito quello che per grazia
fu conceduto; e questa è delle piú pestifere eresie che mai fossero
inventate, poiché distrugge la Chiesa e senza quella non può star la
fede. Allegò molte raggioni e congruenzie per quali l'ordinazione debbe
esser in sola potestà dell'ordinatore, e quelle confermò con
decretali de' pontefici, et in fine concluse che non solo sentiva che
l'articolo dovesse esser condannato per eretico, ma ancora che, essendosi
levato via con giuste e necessarie raggioni il voto e consenso della plebe
nelle ordinazioni, si correggesse anco il pontificale e si levassero quei
luoghi che ne fanno menzione, perché, restando, sempre gl'eretici se ne
valeranno per provare che l'intervento del popolo sia necessario. Li luoghi
esser molti, ma, per recitarne uno, nell'ordinazione de' preti il vescovo
ordinatore dice che non senza causa fu statuito da' padri che nell'ordinazione
de' rettori dell'altare intervenga il voto del popolo, acciò sia
ubediente all'ordinato, poiché averà prestato il consenso suo ad
ordinarlo: se questo et altri tal riti resteranno, sempre gl'eretici
detraeranno alla Chiesa catolica, diranno che le ordinazioni al presente sono
mostre et apparenze, come empiamente disse Lutero.
Fra Francesco
Forrier, dominicano portughese, disse non potersi metter in dubio la ierarchia
della Chiesa catolica, avendosi per tradizione apostolica e per testimonio di
tutta l'antichità e per costume della Chiesa in ogni tempo. E quantonque
il vocabolo non sia da tutti usato, nondimeno la cosa significata esser stata
sempre in uso. Dionisio Areopagita averne fatto un proprio trattato et il
concilio niceno averla approbata e nominatala costume antico; e quel che da'
padri nel principio del quarto secolo è chiamato antico, nissun
potrà negargli l'origine al tempo degl'apostoli. Solo a lui pareva che
non fosse luogo di trattarne insieme col sacramento dell'ordine, se ben molti
de' scolastici ne trattano in quel luogo, ponendo la ierarchia negli ordini
superiori et inferiori, cosa che non sussiste, essendo certo che il pontefice
è il sommo ierarca, seguono i cardinali, patriarchi, primati,
arcivescovi, vescovi, e dopo ancora arcipreti, arcidiaconi e gl'altri de'
prelati subalterni sotto un capo, il papa. E tralasciata la disputa se il
vescovato sia ordine, almeno è cosa certa che l'arcivescovato,
patriarcato e papato non sono ordini, e sopra il vescovato non dicono se non
superiorità e giurisdizzione. Adonque nella giurisdizzione consiste la
ierarchia, et il concilio niceno in quella la pone, quando parla del pontefice
romano e dell'alessandrino et antiocheno; e però, trattando dell'ordine,
non esser opportuno trattar della ierarchia, accioché non vi sia luogo alla
calunnia.
Molta
diversità fu nella discussione di questi articoli, ritornando questi
della seconda classe agl'anteriori, e disputando alcuni che il vescovato fosse
ordine, et altri che sopra il presbiterato non aggiongesse altro che
giurisdizzione, alcuni allegando san Tomaso e san Bonaventura, et altri
apportavano una media opinione, cioè che sia una degnità eminente
overo ufficio nell'ordine. Fu ben anco allegato il celebre luogo di san
Girolamo e l'autorità di sant'Agostino in confermazione di questo, li
quali vogliono il vescovato esser ben antichissimo, ma però
ecclesiastica instituzione. Ma a questi Michel di Medina opponeva che la Chiesa
catolica, come sant'Epifanio testifica, condannò per eretico Aerio, per
aver detto che il vescovato non è maggior del presbiterato: nella qual
eresia non è maraviglia se Girolamo, Agostino e qualche altro de' padri
è incorso, perché la cosa non era ben chiara per tutto. Fu con non poco
scandalo udita l'audacia del dire che Girolamo et Agostino sentissero eresia;
ma quel dottore tanto piú insisteva, sostentando la sua opinione, e si divisero
li dottori in pari numero in due pareri intorno la ierarchia: altri la ponevano
negl'ordini soli, allegando Dionisio, che nel nominar gli ierarchi non fa
menzione se non de' diaconi, preti e vescovi; altri seguirono il Forrier, che
fosse nella giurisdizzione; sin tanto che uscí fuori una terza opinione, che
consistesse nella mistione d'ambedue, la quale dopo piú universalmente fu
approvata; perché, ponendola nell'ordine, non appariva come vi entrassero
arcivescovi, patriarchi e quello che piú importa, il papa, essendo tutti
d'accordo che questi gradi non siano ordini sopra il vescovato; se ben alcuni
in contrario allegavano la commune sentenza: l'ordine episcopale è
quadripartito in vescovi, arcivescovi, patriarchi e papa; e ponendola nella
giurisdizzione, nissun de' sacri ordini vi entrava.
Una gran
disputa fu tra loro qual fosse la forma della ierarchia, alcuni dicendo la
carità, altri la fede informe, altri l'unità, secondo l'opinione
del cardinale Turrecremata; ma a questo era opposto che l'unità è
una passione generica in tutto quello che è uno, et è effetto della
forma che la produce: quelli che asserivano la carità portavano
innumerabili luoghi de' padri, che a quella attribuiscono l'unità della
Chiesa; ma gl'altri opponevano che fosse l'eresia de Viglef, perché se cosí
fosse, il prelato, perdendo la carità, sarebbe fuori della ierarchia e
perderebbe l'autorità; però, nel porre la fede informe, non
fuggivano la difficoltà, atteso che potrebbe esser un prelato, in suo
secreto infedele, che la fingesse in esterno, il qual, quando non appartenesse
alla ierarchia, il popolo cristiano non saprebbe chi ubedire, potendosi
dubitare di tutti et avendo causa di farlo alcune volte. Come sogliono li
teologi, massime frati, esser liberi nell'essemplificare, portavano anco in
tavola il pontefice romano, dicendo che, quando fusse incredulo, perirebbe
tutta la ierarchia per defetto d'esso, cosí ponendo per forma la fede, come la
carità. Et essi mettevano il battesmo: ma le medesime difficoltà
nascevano per l'incertezza di quello, ricercandosi essenzialmente, secondo la
determinazione del concilio, l'intenzione del ministro, tanto piú occolta,
quanto quell'altre due: per la qual causa non si può d'alcun affermare
che sia battezato.
[Alcuni articoli trattati sommariamente]
Gl'articoli
se vi è sacerdozio visibile, se tutti i cristiani sono sacerdoti e se il
sacerdote può diventar laico e se il suo officio è la
predicazione non furono trattati con discussione, ma con declamazione contra
luterani, che privano la Chiesa del commercio con Dio e del modo di placarlo,
che la fa una confusione senza governo e che la priva di tutta la sua bellezza
e decoro. Fra Adamanteo fiorentino, teologo del cardinale Madruccio in questa
classe, avvertí d'aver udito per il piú da quei che inanzi avevano parlato solo
raggioni probabili e convenienze, che in simil propositi, dove si trattano
articoli di fede, non solo non costringono gl'avversarii, ma gli fanno
confermare maggiormente nelle opinioni loro, e produsse in confermazione di
questo un luogo di sant'Agostino molto espresso. Aggionse anco che il parlar in
concilio vorrebbe esser differente da quello delle scole; imperoché in quelle,
quanto piú le cose sono sminucciate e con curiosità essaminate, tanto
meglio è; ma non è decoro in concilio essaminar se non quello che
si può dilucidare e metter in chiaro; che tante questioni erano
ventilate, delle quali non si può in questa vita, dove Dio non vuol che
tutto sia saputo, venir in cognizione. Bastar assai per questo articolo che la
Chiesa sia ierarchica e che la ierarchia consta de' prelati e ministri, che
questi sono ordinati da' vescovi, che l'ordine è sacramento, che li
secolari non hanno in questo parte alcuna. Fra Pietro Ramirii francescano,
seguendo la dottrina di Giovanni Scoto, avvertí che non si dovesse dire l'ordine
esser sacramento per esser cosa invisibile e permanente, dove che li sacramenti
tutti convien che visibili siano e, fuorché l'eucaristia, consistano in
azzione; e però a fine di fuggire tutte le difficoltà, si debbia
dire che non l'ordine, ma l'ordinazione è sacramento; questo ebbe gran
contradizzione, perché tutti li teologi dicono l'ordine sacramento, e quello
che non meno importa, anco il concilio fiorentino, e sarebbe grand'audacia
tassar d'improprietà tutti li dottori, un general concilio e tutta la
Chiesa che cosí parla.
[Quinto articolo, intorno allo spirito dato et
al carattere]
La terza
classe nel quinto articolo non ebbe minor varietà; e se ben tutti
convennero che lo Spirito Santo era dato e ricevuto nell'ordinazione,
però altri dicevano che era dato in propria persona, altri nel dono
della grazia; sopra che fu disputato assai, ma piú da quei che la grazia
asserivano; era conteso se era data la grazia della giustificazione o un dono
per poter essercitare l'ufficio: quelli si fondavano perché tutti li sacramenti
danno grazia della giustificazione, questi perché un impenitente non può
receverla e pur riceve l'ordine. Ma del carattere, sí come tutti furono
concordi che nel sacerdozio sia impresso, cosí nel rimanente furono di varie opinioni,
dicendo alcuni che in tutti li sacri solamente, altri in tutti sette: le qual
opinioni da san Bonaventura sono stimate tutte probabili. Ad alcuni piaceva la
distinzione di Durando, che intendendo per carattere una potestà di far
alcun effetto spirituale, il solo sacerdozio l'ha, che solo può far
opera spirituale di consecrare e rimetter i peccati; gl'altri non l'hanno,
poiché le operazioni loro sono corporali, e cosí ben sono fatte dagl'ordinati
come da laici, eziandio senza minimo peccato veniale. Ma se per carattere
s'intende una deputazione ad un speciale ufficio, cosí tutti gl'ordini hanno il
carattere proprio. A questi era opposto che fosse opinione luterana contenuta
nel primo articolo, e però era necessario affermar in tutti un carattere
proprio et indelebile. Non mancò chi voleva trovarlo anco nella prima
tonsura: l'argomento di questi fu perché non si reiterano manco nel degradato,
come bisognerebbe far in quelli che non lasciano carattere impresso, e perché
con questa l'uomo era ascritto al chiericato e partecipe delle essenzioni et
immunità ecclesiastiche, né sarebbe possibile sostentar che il
chiericato e l'immunità siano de iure divino, se non dicendo che
la prima tonsura sia divina instituzione. Del vescovato maggior fu la
controversia, e si rinovò la questione se è uno degl'ordini,
perché avendo due proprie operazioni cosí insigni, confermare et ordinare,
è necessaria la potestà spirituale, che è il carattere,
senza la quale l'ordinazione o confermazione non averebbono il suo effetto. I
prelati che stavano ad udire erano pieni di tedio, sentendo tante
difficoltà, e prestavano l'orecchia grata a quelli che dicevano doversi
tralasciare e parlar in termini universali, non senza mormorazione de' frati,
che si stomacarono udendo e vedendo in loro disposizione per definire articoli
e prononciar anatemi senza intender le materie et aborrendo chi gliele
esplicava.
[Sesto articolo, intorno all'onzione et altre
ceremonie]
Nel sesto
articolo tutti con una voce dannarono li luterani d'aver detratto alle onzioni
e ceremonie nel conferir gl'ordini: volevano alcuni che fossero distinte le
necessarie, che appartengono alla sostanza del sacramento, sí come nel concilio
fiorentino fu fatto, e si dicchiarasse eretico chi senza di quelle asseriva
potersi dare o ricever l'ordine; e quanto alle altre, con universali parole
fosse condannato chi le chiamasse perniciose. Per questo molta contenzione
nacque qual fossero le necessarie e quali le aggionte per maggior decoro o
divozione. Parve che molto al proposito parlasse Melchior Cornelio portughese,
il qual considerò esser cosa certa che gl'apostoli nell'ordinare usavano
le imposizioni delle mani, sí che mai nella divina Scrittura si legge alcuna
ordinazione senza questa ceremonia; quale ne' tempi seguenti anco tanto fu stimata
essenziale che l'ordinazione veniva con quel nome chiamata; con tutto
ciò Gregorio IX la dice rito introdotto dagl'apostolici, e molti teologi
non l'hanno per necessaria, se ben altri sono di contraria opinione. L'onzione
ancora si vede, dalla decretale d'Innocenzo III in questa materia, che in tutte
le chiese non era usata; e li celebri canonisti ostiense, Giovanni Andrea,
l'Abbate et altri affermano che il papa può ordinar un prete con la sola
parola, dicendo: «Sii sacerdote»; e quel che piú importa, Innocenzo, padre di
tutti li canonisti, dice universalmente che, se non fossero le forme ritrovate,
basterebbe che l'ordinatore dicesse: «Sii sacerdote», o altre parole
equivalenti, perché le forme che si osservano, la Chiesa le ha ordinato dopo; e
per queste raggioni il Cornelio consegliò che non si parlasse di
ceremonie necessarie, ma solamente fossero condannati quelli che le hanno per
superflue o perniciose.
[Pensieri de' prelati intorno alla riforma]
Quantonque le
congregazioni de' teologi occupassero quasi tutto 'l tempo, nondimeno li
prelati piú mettevano l'animo e tra loro parlavano della riforma, chi
promovendola e chi declinandola, che delle materie da' teologi trattate: onde i
frequenti e publici raggionamenti, che per tutto Trento s'udivano, fomentati
dagl'ambasciatori cesarei e francesi, indussero li legati a riputar necessario
il non mostrarsene alieni, massime atteso che avevano promesso agl'ambasciatori
di proporla dopo trattato dell'ordine et intendevano esser ricevuto con
grand'applauso un discorso dell'ambasciator Lansach, fatto in certa adunanza di
molti ambasciatori e prelati, dove concluse che, se la riforma proposta e
ricchiesta dall'imperatore era tanto temuta et aborrita, almeno si doveva
trovar modo, senza far nuove ordinazioni, di metter in osservanza le cose
dagl'antichi concilii stabilite, levando gl'impedimenti che fomentavano
gl'abusi. Fecero li legati metter insieme le proposte da' cesarei e tutte le
instanze che sino a quel giorno gl'erano state fatte in materia di riforma e le
risposte da loro date, insieme con un estratto delle cose statuite
nell'assemblea di Francia e delle ricchieste de' prelati spagnuoli, le quali
mandarono al pontefice, con dirgli che non pareva loro possibile il trattener
piú in parole, ma con qualche effetto mostrare al mondo d'aver animo di trattar
questa materia e, venendo a risoluzione, di satisfare in qualche parte
agl'ambasciatori de' prencipi, massime in quello che ricercano per interesse
del loro paese; avendo però considerazione alla qualità delle
cose, che non portassero pregiudicio alla potestà ponteficia et alle
prerogative della Chiesa romana.
[Il pontefice rifiuta a' francesi la dilazione
della sessione]
Il pontefice,
veduta l'instruzzione del re di Francia, non potendo sentir cosa piú ingrata
che di allongarsi il concilio, a che egli aveva concetto dover nella seguente
sessione de' 12 novembre definir tutto quello che rimaneva di trattare, se
qualche cosa fosse restata, al piú longo doversi finire, sospendere, o
dissolvere nel fine di quell'anno, all'ambasciator residente appresso di sé,
che gli faceva instanza di differir la trattazione de' dogmi alla venuta de
suoi prelati e tra tanto trattare di riforma, rispose, quanto all'aspettar li
prelati, esser avisato che il cardinale di Lorena aveva risoluto d'aspettar la
presa di Burges e poi accompagnar il re ad Orliens, cose che ben dimostravano
che la sua partita di Francia sarebbe stata molto tarda e forse anco mai
sarebbe effettuata; che non era giusto sopra dissegni cosí lontani trattener
tanti prelati in Trento; che le ricchieste de dilazione sono parole per tenerlo
esso et i prelati in spese, non per volontà che i francesi abbino
d'andar al concilio, e se con le dilazioni lo costringeranno continuare a
consummar il danaro, protestava che non averebbe potuto seguitare in dar aiuti
al re. Fece gran riflesso, narrando che per 18 mesi i francesi sono stati
aspettati in Trento, trattenendo lui con varie e frivole scuse. Si dolse ancora
della sua condizione: che, se il concilio usa qualche rispetto verso lui, che
lo fa ben in poche cose, gl'ambasciatori che sono là si lamentano che il
concilio non è libero, e con tutto ciò essi medesimi lo ricercano
di ordinare dilazione, che è la cosa piú ingiusta e piú aborrita da'
padri di ogni altra. Concluse che quando avesse certezza o verisimilitudine
della loro andata, farebbe opera che fossero aspettati. Aggionse d'aver dato
ordine d'esser avisato per corrier espresso quando partirà il cardinale,
et allora farà opera che sia aspettato; tra tanto non gli parer giusto
fare che i padri stiano oziosi; e quanto alla riforma, esser piú necessario
aspettarlo che per le materie de' dogmi, le quali non toccano a lui, che
è buon catolico et è certo, che non può dissentire
dagl'altri, ma ben nella riforma è giusto ascoltarlo, quale gli
appartiene, essendo un secondo papa con molti beneficii e 300000 scudi
d'entrata de' beni di Chiesa, dove esso pontefice non aveva piú d'un beneficio
solo, del qual si contentava; che aveva con tutto ciò riformato se
stesso e tutte le parti della sua corte, con danno e perdita di molti officiali
di quella, e farebbe ancora di piú, se non vedesse chiaro che, diminuendo le
sue entrate, egli faceva il fatto degl'avversarii suoi, indebolendo le forze
proprie e li nervi del suo Stato, et esponendolo, insieme con tutti i catolici
che sono nella sua protezzione, alle ingiurie de' suoi nemici. E per quello che
s'aspetta alle reggioni non soggette a lui in temporale, la destruzione della
disciplina nasceva da loro medesimi e da' re e prencipi che con instanze
indebite et importune lo costringono a provisioni e dispense estraordinarie;
esser misera la sua condizione, che se nega le ricchieste inconvenienti
fattegli, ogni uno di lui si duole e si tiene offeso et ingiuriato; se le
concede, a lui viene ascritto tutto 'l male che per causa loro segue e si parla
di riforma, come gli ambasciatori del re hanno fatto in Trento con termini
generali, senza che si possi intender quello che vorrebbono. Vengano, disse,
una volta all'individuo e dicano quello che vogliono nel regno riformare, che
in 4 giorni se gli sodisfarà; che li prelati in Poisí hanno regolato
molte cose; che egli confermerà quegli ordini se sarà ricchiesto,
ma il voler star sopra gl'universali e riprender tutto quello che si fa, non
proponendo alcuna cosa, dimostra poca buona volontà.
[Sul settimo articolo della superiorità
de' vescovi a' preti vi sono gran dispareri]
Restava la
quarta classe de' teologi, li quali dovevano trattare della superiorità
de' vescovi a' preti. Da' primi fu seguita la dottrina di san Tomaso e
Bonaventura, che dicono due potestà esser nel prete: l'una nel consecrar
il corpo e sangue di Cristo, l'altra nel rimetter li peccati. Nella prima il
sacerdote esser superiore, né il vescovo aver maggior autorità che il
semplice prete; ma nella seconda, ricercandosi non solo la potestà
dell'ordine, ma anco della giurisdizzione, rispetto a questo il vescovo esser
superiore. Altri dopo aggionsero che piú eccellente azzione è il dar
autorità di consecrare, che il consecrare, e però anco in questa
essere superiore il vescovo, che non solo esso può farlo, ma ordinare li
preti e dar loro autorità. Ma essendo disputato di questo assai e con
l'occasione tornato a trattar gl'articoli della ierarchia come un istesso con
questo della superiorità, e parimente disputato se consiste nell'ordine,
nella giurisdizzione o in ambedue, fra Antonio da Montalcino francescano disse
che l'articolo non si doveva intender d'una superiorità imaginaria e
consistente in preminenza o perfezzione d'azzione, ma d'una superiorità
di governo, sí che possi far leggi e precetti e giudicar cause, cosí nel foro
della conscienza, come nell'esteriore. Che questa superiorità è
negata da' luterani e di questa s'ha da trattare. Disse che nella Chiesa
universale conveniva che ci fosse una tal autorità per reggerla, et
altrimenti non averebbe potuto conservarsi in unità. Lo provò con
gl'essempi tratti dalle api e dalle grue; et in ciascuna chiesa particolar
esser parimente necessaria un'autorità speciale per reggerla, e questa
esserne vescovi, che hanno parte della cura, la totalità della quale
è nel papa, capo della Chiesa; che questa, essendo potestà di
giudicar, far processi e leggi, è potestà di giurisdizzione. Che
quanto all'ordine, il vescovo è di piú alto grado che il prete, avendo
tutta la potestà di quello e due altre di piú, ma non si dice
però superiore, sí come il subdiacono è quattro gradi piú alto
dell'ostiario, non però è superiore. Provò questo suo
parer per l'uso universale di tutta la Chiesa, e di tutte le nazioni cristiane;
portò diverse autorità de' padri per confermarlo, e finalmente si
ridusse alla Scrittura divina, mostrando che questa sorte d'autorità
è chiamata di pastore, adducendo molti luoghi de' profeti, e che quella universale
fu data a san Pietro, quando Cristo disse: «pasci le mie agnelle», e la
particolare fu data da Pietro a' vescovi, quando disse loro: «Pascete il gregge
che avete in custodia». Questa sentenza ebbe grand'applauso.
Ma prima che
finissero di parlar quei della quarta classe, li prelati spagnuoli, risoluti
d'introdur la trattazione che i vescovi siano da Cristo instituiti, avendo
insieme consultato, conclusero esser meglio che il primo moto fosse fatto nelle
congregazioni de' teologi, acciò in quelle de' padri la materia fosse
preparata e potessero essi con maggior apparenza di raggione, ripigliando le
cose dette, discorrervi sopra e costringer gl'altri a parlarne. Per tanto,
nella congregazione del primo ottobre, Michiele Oroncuspe, teologo del vescovo
di Pamplona, al settimo disse che, disputando di qualificare o condannare una
proposizione che riceve molti sensi, è necessario distinguerli e poi ad
uno ad uno considerargli, e tale gli pareva esser la proposta di
quell'articolo, se i vescovi sono superiori a' preti; imperoché s'ha da
distinguere se sono superiori de facto o de iure; che de facto
non si poteva dubitare, vedendosi di presente e leggendosi nelle istorie di
molti secoli che i vescovi hanno essercitato superiorità et i preti
obedienza; però che in questo senso l'articolo non poteva venir in
controversia; adonque restava discuterlo de iure. Ma anco qui cadeva
un'altra ambiguità, quo iure, potendosi intendere iure
pontificio o iure divino: quando s'intenda al primo modo, esser cosa
chiarissima che sono superiori, ritrovandosi tante decretali che espressamente
lo dicono; ma con tutto che ciò sia vero e certo, non sarebbono da
condannar li luterani per questo rispetto come eretici, non potendosi aver per
articolo di fede quello che non ha altro fondamento che in legge umana; meritano
ben esser condannati, negando la superiorità de' vescovi a' preti,
quando quella sia de iure divino. Soggionse che egli ciò aveva
per chiaro e poteva evidentemente provarlo e risolver ogni cosa in contrario;
ma non doveva passar piú oltre, essendo proibito il parlarne. E qui
passò a mostrare esser proprio de' vescovi il ministerio della
confermazione e dell'ordinazione, e parlato sopra l'ottavo capo in
conformità degli alti, finí il suo discorso.
Seguitò
dopo lui a parlare Giovanni Fonseca, teologo di Granata, il qual entrò
nella materia gagliardamente e disse che non era, né poteva esser proibito il
parlarne, poiché essendo proposto l'articolo per discutere se era eretico,
è ben necessario che si tratti se è contra la fede, né contra
quella può intendersi cosa che non repugni al ius divino; che
egli non sapeva onde fosse derivata la voce che non si potesse parlarne, poiché
anzi con la proposta dell'articolo era commandato che fosse discusso. E qui
passò a trattare non solo della superiorità, ma dell'instituzione
ancora, asserendo che li vescovi sono da Cristo instituiti e per ordinazione
sua divina superiori a' preti. Allegando che, se il pontefice è
instituito da Cristo, perché egli abbia detto a Pietro: «Ti darò le
chiavi del regno», e «Pasci le mie agnelle», parimente li vescovi sono da lui
instituiti, perché ha detto a tutti gl'apostoli: «Sarà legato in cielo
quello che legarete in terra», e «Saranno rimessi li peccati a chi gli rimetterete»,
et appresso di ciò gli disse: «Andate nel mondo universo, predicate
l'Evangelio», e quel che piú di tutto importa, disse loro: «Sí come il Padre ha
mandato me, cosí io mando voi»; e se il pontefice è successor di san
Pietro, li vescovi sono successori degl'apostoli, et allegò un gran
numero d'autorità de' padri che dicono li vescovi esser degli apostoli
successori. E recitò particolarmente un longo discorso di san Bernardo
in questa materia, nel secondo libro ad Eugenio papa; addusse ancora il luogo
degl'Atti apostolici, dove san Paolo disse agl'efesi che erano posti
dallo Spirito Santo vescovi a regger la Chiesa di Dio. Soggionse che l'esser
confermati o creati dal papa non valeva per concludere che da Cristo non
fossero instituiti e da lui non avessero autorità, sí come il papa
è creato da' cardinali et ha l'autorità da Cristo, e li preti
sono creati dal vescovo ordinatore, ma l'autorità la ricevono da Dio.
Cosí li vescovi dal papa ricevono la diocesi, ma da Cristo l'autorità.
La superiorità a' preti de iure divino la provò con
autorità di molti padri che dicono li vescovi succeder agl'apostoli, et
i preti a' settantadue discepoli. Disse poi sopra le altre particelle
dell'articolo le stesse cose dagl'altri dette. Il cardinale Simoneta
ascoltò con impazienza e con frequente rivoltarsi a' colleghi, e stava
per interromper il discorso; ma per esser introdotta con tanta raggionevolezza
et udita con tanta attenzione da' prelati presenti, non se ne seppe risolvere.
Dopo questo
seguí fra Antonio di Grosseto dominicano, il qual, dopo aver brevemente detto
sopra gl'altri articoli, si fermò in questo; fece grand'insistenza sopra
le parole di san Paolo dette agli efesi in Mileto, essortandogli alla cura del
gregge per esser dallo Spirito Santo preposti a reggerlo, e sopra questo fece
piú osservazioni. Disse primo esser molto necessario dicchiarare che li vescovi
non hanno commissione del loro officio dagl'uomini; che quando questo fosse,
sarebbono mercenarii, a' quali le agnelle non appartengono; e sodisfatto l'uomo
che gli ha dato la cura, non averebbono altro che pensare. Ma san Paolo
dimostrò l'obligo di regger il popolo cristiano esser divino e dato
dallo Spirito Santo, per concludere che non si potevano scusare sopra alcuna
dispensazione umana. Allegò il celebre passo di Cipriano, che ogni
vescovo è tenuto render conto a solo Cristo. Aggionse poi che i vescovi
di Efeso non erano degl'instituiti da Cristo, nostro Signore, mentre era in
carne mortale, ma dal medesimo san Paolo o altro apostolo o discepolo, e pur
tuttavia non si fa menzione alcuna dell'ordinatore, ma il tutto allo Spirito
Santo s'attribuisce, che non solo abbia dato l'autorità di regger, ma
anco divisa la parte del gregge consegnatagli da pascere. E con questo fece
invettiva contra quelli che li giorni inanzi detto avevano che il papa
distribuisce il gregge, inculcando che non era ben detto et era un ritornar in
uso quello che san Paolo detestò: «Io son di Paolo, et io di Apollo»;
che il papa è capo ministeriale della Chiesa, per il qual Cristo principal
capo opera, et a cui l'opera si deve ascrivere, dicendo, conforme a san Paolo,
che lo Spirito Santo dà il gregge da reggere; che mai l'opera s'ascrive
all'instromento o al ministro, ma sempre all'agente principale; che
dagl'antichi è stata usata sempre questa forma di parlare: che Dio e
Cristo proveggono alle chiese di governatori; la qual è presa da san
Paolo, che a' medesimi efesi scrisse che Cristo, asceso al cielo, ha provisto
alla Chiesa d'apostoli, evangelisti, pastori, e maestri, mostrando chiaro che,
dopo asceso in cielo, provede de pastori, e non altrimente a Cristo solo debbe
esser ascritta l'instituzione de' pastori e maestri, in quali sono i vescovi,
che degl'apostoli et evangelisti medesimi. Si avvidde il teologo che da' legati
e da altri ancora non era gratamente udito, e temendo qualche incontro, come in
altre occasioni era avvenuto, soggionse che era passato a quel discorso
impremeditato e portato dalla consequenza delle parole e dal fervor del
raggionamento, non raccordandosi che fosse proibito il parlar di quel punto, e
reintrato ad essaminar gl'officii proprii de' vescovi e contradetto a' luterani
che gli reputano superflui e mostrato che sono usitati da antichissimi tempi
nella Chiesa e vengono dalla tradizione apostolica, finí. S'avviddero li legati
che questa era stata arte di Granata et altri spagnuoli per dar campo a'
prelati di allargarsi in questa materia; però fu operato che la
contraria sentenza fosse difesa da alcuno di quelli che, 4 solamente, per finir
tutto 'l numero, rimanevano il giorno seguente, sí come furono anco preparati
per contradire a' vescovi spagnuoli li pontificii soliti farlo, se nelle
congregazioni avessero introdotto la materia.
Il seguente
giorno, 2 ottobre, 2 teologi furono a provare che, sí come la
superiorità de' vescovi era certa, cosí il cercar quo iure era
cosa difficile a decidere e, quando fosse stata decisa, di nissun frutto, e
però da tralasciare; due altri sostennero che de iure pontificio.
E fra Simon fiorentino, teologo di Seripando, portò il discorso conforme
all'opinione di Gaetano e del Catarino in questa forma: che il vescovato
è de iure divino instituito da Cristo per regger la Chiesa; che
la Maestà Sua ha instituito vescovi tutti gl'apostoli, quando gl'ha
detto: «Io vi mando, sí come son io stato dal Padre mandato»; ma quella
instituzione fu personale e con ciascuno di loro si doveva finire, et uno ne
constituí che perpetuamente dovesse durare nella Chiesa, che fu Pietro, quando
disse, non a lui solo, ma a tutta la sua successione: «Pasci le mie agnelle»; e
cosí intese sant'Agostino, quando disse che Pietro rapresentava tutta la
Chiesa, il che de nissun degl'apostoli fu mai detto. Anzi san Cipriano disse
che san Pietro non solo è tipo e figura dell'unità, ma che la
unità incommincia da lui. In questa potestà, a solo Pietro e
successori data, si contiene la cura di reggere tutta la Chiesa e di ordinar
altri rettori e pastori, non però come delegati ma come ordinarii,
dividendo particolari provincie, città, chiese. Perilché, quando si
dimanda se alcuno è vescovo de iure divino, s'ha da dire che sí,
uno solo, il successor di Pietro; del resto il vescovato è ben de
iure divino, sí che manco il papa può fare che non vi siano vescovi
nella Chiesa, ma ciascuno d'essi vescovi sono de iure ponteficio; di
onde viene che egli può creargli, trasferirgli, restringergli et
ampliargli la diocesi, dargli maggior o minor autorità, sospendergli
anco e privargli, che non può in quello che è de iure divino:
perché al sacerdote non può levar l'autorità di consecrare,
avendola da Cristo, et al vescovo può levar ogni giurisdizzione, non per
altro, se non perché l'ha da lui; et a questo modo doversi intender il celebre
detto di Cipriano: il vescovato è uno e ciascuno vescovo ne tiene una
parte in solido; altrimenti dicendo, non si può difender che il governo
della Chiesa sia il piú perfetto di tutti, cioè monarchico, e per
necessità si darebbe un governo oligarchico imperfettissimo e dannato da
tutti quelli che de governo scrivono.
Concluse che quo
iure li vescovi sono instituiti, per il medesimo sono a' preti superiori, e
quando s'abbia da descender alla dicchiarazione, che cosí bisognerà
dicchiarare. Allegò san Tomaso, qual dice in molti luoghi che ogni
potestà spirituale depende da quella del papa et ogni vescovo debbe
dire: «Io ho ricevuto parte di quella pienezza»; né doversi guardar gl'altri
scolastici vecchi, perché nissun ha trattato questa materia, ma li moderni, che
dopo nata l'eresia de' valdesi, avendo studiato la Scrittura e li padri, hanno
stabilito questa verità. L'ultimo teologo s'affaticò in
contradire a questo per quello che disse gl'apostoli esser da Cristo ordinati
vescovi, dicendo che, quando mandò gl'apostoli, sí come egli fu dal
Padre mandato, gli mandò a predicare e battezare, che non è cosa
da vescovo, ma da prete, e che solo Pietro fu da Cristo ordinato vescovo, et
egli dopo l'ascensione ordinò vescovi gl'altri apostoli; et
allegò il cardinale Turrecremata e diversi altri. Sopra le altre
particole dell'articolo e del seguente furono tutti concordi nel sentire che
fossero dannati; e cosí fu posto fine alle congregazioni de' teologi.
[I legati perplessi scrivono al papa]
Dopo le quali
li legati, ritrovandosi in obligo di proponer la riforma, finite le dispute,
considerato che particolari si potessero propor non pregiudiciali e di
sodisfazzione, si trovarono molto impediti, poiché tutto quello che fosse grato
agl'ambasciatori, sarebbe stato o dannoso alla corte, o di disgusto a' vescovi;
né si poteva metter mano a cosa grata a' vescovi, che non fosse o di
pregiudicio a Roma o a' prencipi. Fu la loro risoluzione d'ispedir un corriero
al papa et aspettar risposta, e fra tanto portar in longo col far parlar li
prelati nella materia dell'ordine. In particolare alla Santità Sua
diedero conto della contenzione che prevedevano sopra l'articolo della
superiorità de' vescovi, attesa la petizione de' prelati spagnuoli e
l'ingresso fatto da loro teologi; e se ben non sapevano preveder dove volessero
capitare, nondimeno osservando la veemenza dell'instanza e sapendo quanto i
spagnuoli tengano le mire da lontano, non potevano se non sospettare. Gli
raccordarono esser il tempo che s'era promesso di parlar della residenza e che
già se n'era sentito qualche motivo, e l'arcivescovo di Messina aveva
ricercato quelli di Cipro e Zara per intender qual sarebbe stata la loro
intenzione, quando fosse stata proposta; e molte prattiche si subodoravano, se
ben non si poteva penetrar il fondo; che essi avevano già ordinato ad
Otranto et a Ventimiglia di scoprir con destrezza come la sentivano li prelati,
quando si fosse proposto di rimetter a Sua Santità; che fatto accurato
scandaglio, trovarono che sarebbono stati 60 rigidamente contrarii, con poca
speranza che con officii se ne potesse rimover alcuno; e se ben a loro instanza
il secretario del marchese aveva fatto officii efficaci co' spagnuoli, non
aveva riportato se non che non erano per oporsi con acerbità, ma dir il
voto loro piacevolmente e senza strepito; che sapevano la maggior parte, per
depender da Roma, esser di contraria opinione, ma dovevano almeno sgravare la
conscienza loro; che ben sapevano non esser questo contrario a Sua
Santità, della cui ottima e santissima mente erano certi, ma ben a'
vescovi che gli stanno appresso. Aggionsero anco che li medesimi spagnuoli,
avendo presentito trattarsi di rimetter a Sua Santità, dicevano essersi
fatto il medesimo dell'uso del calice et esser vano far concilio per trattar
quello che niente importa, e quello che merita provisione rimetterlo. Avisarono
della promessa fatta agl'ambasciatori di proponer la riforma e
l'impossibilità che era di portar piú in longo; et avendosi qualche
aviso della venuta di Lorena e de' francesi et insieme intendendosi che
verranno pieni di concetti e dissegni di novità, concludevano potersi
tener per fermo che si uniranno co' mal sodisfatti che troveranno in Trento.
Perilché, in tante ambiguità de consegli, non sapendo pigliar partito,
avevano deliberato aspettar li commandamenti di Sua Santità.
[Il papa adombrato per li dissegni di Lorena]
In questo
medesimo tempo il pontefice, d'altrove avisato de' pensieri di Lorena, et in
particolar di voler riforma dell'elezzione del ponteficato, a fine che ne
toccasse la sua parte anco agl'oltramontani, et essendone certificato, gli
penetrò altamente nell'animo, e risoluto di non aspettar il colpo, ma
prevenire, diede conto di questo a tutti li prencipi italiani, mostrando quanta
diminuzione della nazione sarebbe, quando ciò succedesse; che per sé non
parlava, poiché a lui non poteva toccare, ma per li rispetti publici e per
amore della patria commune; e sapendo che al re di Spagna non averebbe mai
potuto esser grato un papa spagnuolo, per li pensieri naturali che il clero di
quella nazione ha di liberarsi dalle essazzioni regie, meno gli sarebbe
piacciuto un francese, per la inimicizia tra le nazioni; ma nell'Italia aveva
grandissima parte de confidenti. Scrisse al noncio suo che gli communicasse il
dissegno de' francesi, inviato a voler un papa, per poter con quel mezo occupar
Napoli e Milano da loro pretenduti. E per non mancar dal canto suo, accioché
fosse levata parte de' fondamenti sopra quali quel cardinale poteva edificare,
che erano gl'abusi per tempi passati di prossimo occorsi, fece una bolla in
questa materia, la qual, se bene non conteneva di piú che le provisioni altre volte
fatte da diversi pontefici, quali sono invecchiate senza effetto, s'averebbe
nondimeno potuto dire non esservi bisogno d'altra riforma in quella parte,
poiché la bolla rimediava a tutti gl'inconvenienti occorsi et almeno gli levava
la forza, sí che non si poteva pretender che fossero in vigore; et a chi
volesse pronosticargli che sarebbe poco osservata, come altre precedenti,
s'averebbe risposto che chi mal fa, mal pensa, et esser officio della
carità cristiana aspettar il bene da ciascuno. Fu data questa bolla il
nono dí d'ottobre 1562.
Dopo questo
gli gionse aviso che in Spagna s'erano tenute molte congregazioni sopra la
riforma universale, per dar commissione all'ambasciatore che si manderebbe a
Trento, a fine che li prelati spagnuoli fossero uniti et operassero tutti ad un
scopo. Non gli fu grata la nuova e meno piacque a' legati che il re mandasse
altro ambasciatore, perché il marchese di Pescara operava molto conforme alla
mente del papa, e li ministri che egli adoperava in Trento erano milanesi, affezzionati
alla persona di Sua Santità e de' suoi parenti et al cardinale Simoneta,
che di loro s'era valuto a servizio del pontefice in ogni occorrenza. Ma il
conte di Luna, che si dissegnava mandare, stato con l'imperatore e re de Romani
e molto grato a loro, era impresso de' concetti di quei prencipi, e tanto piú,
quanto era fama (et è vero che cosí fu deliberato, quantonque non
s'effettuasse) che doveva venir in nome ambasciatore dell'imperatore, per
evitar la differenza di precedenza con Francia, ma in fatti ambasciator del re;
et al pontefice era sospetta la congionzione di quei prencipi per molti
rispetti, e massime per il re di Boemia, che in molte cose s'era mostrato
alieno da lui; né meno sospetta gli era la destinazione del conte di Luna, il
qual non poteva ritrovarvisi, se non finita la dieta di Francfort; la qual
perché al meno sarebbe durata sino in fine dell'anno, porgeva congettura che il
re avesse animo di mandar il concilio molto in longo. Ma ricevuto l'ultimo
aviso da' legati, restò piú perplesso, vedendo anco li prelati, eziandio
li suoi medesimi, come congiurati a prolongarlo per gl'intempestivi officii,
quantonque i loro interessi ricercassero l'ispedizione. Propose le lettere in
congregazione de' cardinali, ordinando che si pensasse al modo piú d'ovviare ad
una infinità d'imminenti difficoltà, che come levarsi la noia
presente, poiché quanto il concilio piú procedeva inanzi, tanto era piú
difficile da maneggiare, né si poteva da Roma, per la lontananza, dar ordine
che, gionto là, non fosse intempestivo; cosa che andando alla longa,
averebbe causato qualche gran male. Si dolse che tra gl'oltramontani fossero
uniti a prolongarlo per proprii interessi: l'imperatore per gratificar li
tedeschi, a fine di far elegger il figlio re de' Romani; Francia per poter
valersene in caso d'accordo con ugonotti; Spagna per li suoi rispetti di tener
in speranza i Paesi Bassi. Raccontò tutte le difficoltà che
nascevano da li varii interessi de' prelati in concilio, li fini che si
scoprivano ne' spagnuoli, e quello che s'intendeva de' dissegni de francesi che
s'aspettavano.
[L'abbate di Manda è mandato dal re di
Francia al papa]
In questi
medesimi giorni mandò il re di Francia l'abbate di Manda espresso a
Roma, per dar conto al pontefice della risoluzione sua d'accettar li decreti
del concilio e dell'andata del cardinale di Lorena, accompagnato da numero de
vescovi, al concilio, per proponer li modi di riunire la religione nel suo
regno, avendo giudicato il re et il suo conseglio che nissun fosse piú sufficiente
a quel carico che lui, cosí per dottrina, come per isperienza. Il papa con
molta ampiezza di parole mostrò d'aggradir la risoluzione cosí del
mandar il cardinale, come di dar intiera essecuzione a' decreti del concilio;
promise che li legati e padri riceverebbono li prelati francesi con onori e
favori, aspettando da loro aiuto nelle cose della religione, nella quale sono
tanto interessati, massime il cardinale, che è la seconda persona
ecclesiastica, poco minor d'un sommo pontefice. Disse che li vescovi avevano
con prudenza trattato la riforma nella adunanza di Poisí, offerendosi esso di
far approvar la maggior parte dal concilio. Soggionse che era costretto
d'accelerarne il fine quanto prima, per la gran spesa che sosteneva, la qual se
fosse durata, non potrebbe continuar li soccorsi che al re dava per la guerra;
onde sperava che il re aiuterebbe a concluderlo. Per fine del suo raggionamento
disse che egli in concilio non aveva altra autorità se non di approvar o
reprovar le determinazioni di quello, senza il che non sarebbono d'alcun
valore, e che dissegnava, finito il concilio, trovarsi a Bologna e farvi
radunar tutti li padri per conoscergli, ringraziargli e far l'approbazione.
Diede anco al pontefice il messo venuto da Francia lettere del cardinale di Lorena
del tenor medesimo, con aggionta d'offerte d'ogni opera et officio per
conservar l'autorità della Santa Sede. Interrogò il pontefice in
particolare quello che il cardinale dissegnava proponer; né avendo risposta se
non generale, cioè li rimedii necessarii al regno di Francia, per dar al
cardinale un avvertimento, rispose che tutto sarebbe ben maturato, decidendosi
in concilio ogni cosa per pluralità delle voci.
[Risulto della congregazione di Roma sopra le
difficoltà di Trento]
Nella
congregazione de' cardinali fu deliberato di risponder a' legati che facessero
ogni opera di dar risoluzione all'articolo della residenza inanzi l'arrivo de'
francesi, operando che fosse rimesso al pontefice, senza alcun decreto, se
fosse possibile; quando no, almeno con decreto. Il che quando non si potesse
ottenere, fosse dicchiarata con premii e pene, senza toccar il ponto se fosse o
no de iure divino. Che l'articolo dell'instituzione de' vescovi pareva
arduo e di gran consequenza, però procurassero anco che quello fosse
rimesso similmente; ma quando non si potesse, questo osservassero
inviolabilmente di non lasciar determinar che fosse de iure divino.
Quanto alla riforma, che la Santità Sua era risoluta, per quello che
toccava al pontificato et alla corte, di non voler che altri se
n'intromettessero; che già aveva fatto tante riforme, come a tutto 'l
mondo era noto, che regolava ogni disordine, e se alcuna cosa rimanesse,
l'averebbe aggionta; del resto dicessero apertamente a tutti che Sua
Santità rimetteva la riforma liberamente al concilio, et essi
proponessero, delle cose raccordate dagl'imperiali e decretate da' francesi in
Poisí, quelle che piú giudicavano ispedienti, non venendo però a
risoluzione senz'avisar prima.
La proposta
di finir il concilio fu stimata dalla congregazione di maggior momento, non
perché non avessero per evidente la necessità di farlo, ma per non veder
il modo, atteso che restando tante materie da trattare, né potendosi indur li
prelati alla brevità del parlare et alla concordia del trattare (cose
necessarie per una presta espedizione) era impossibile pensar di chiuderlo, se
non in longo tempo. Il sospenderlo senza consenso de' prencipi pareva cosa
pericolosa e scandalosa, atteso massime l'aviso già alcuni giorni avuto
da' legati, che gl'ambasciatori Ferrier e Cinquechiese avevano detto che,
quando il concilio si suspendesse, non partirebbono da Trento, né lascierebbono
partir li prelati aderenti, senza aver prima commissione da' loro prencipi. Il
ricercarla portar molto tempo, perché indubitatamente averebbono voluto
ciascuno d'essi, prima che risponder, saper la mente dell'altro; per tanto in
questo punto non seppero altro risolvere, se non che si sollecitassero li
legati all'espedizione delle materie. La venuta di Lorena dava maggior pensiero,
essendoci avisi da diversi luoghi che, oltre il negozio dell'elezzione del
papa, veniva con pensiero di proponer molte novità sopra la collazione
de' vescovati, sopra la pluralità de' beneficii, e quello che non meno
importava, della communione del calice, del matrimonio de' preti e della messa
in lingua volgare; e presupponendo che egli non partisse di Francia prima che
aver risposta dall'abbate di Manda, ispedito dal re e da lui, consegliarono che
si ricchiamasse il cardinale di Ferrara e si offerisse a Lorena la legazione di
quel regno, cosa che si poteva sperare che dovesse fermarlo, come desideroso di
commandar a quel clero, tanto che per li tempi passati non s'era potuto
contenere di machinar per farsi patriarca in Francia; ma quando venisse, doversi
mandar ancora altri prelati a Trento e qualche cardinali per contraporsi a lui.
Furono anco nominati il cardinale della Bordisiera e Navaggero: ma questo fu
differito di risolver, dubitando che dovesse porger a Lorena occasione di
sdegno e fargli concepir animo di far peggio, e per non esser tanto noto che il
valor di questi bastasse per una tanta opposizione, et anco per aver prima il
parer di quelli che erano in Trento, acciò non restassero disgustati. Si
ebbe anco considerazione alla spesa che s'accrescerebbe, cosa da non fare senza
grand'utilità. Fu però risoluto di scriver a' legati che non
permettessero in modo alcuno che s'introducesse minimo raggionamento
dell'elezzione del pontificato, e quando non vi potessero ovviare, non vi
prestassero manco la permissione, ma piú tosto se ne tornassero a Roma, per non
pregiudicar al collegio de' cardinali et all'Italia.
[La proposta del vescovato di ragion divina,
contradetta da' legati, genera contesa]
Ma in Trento
li deputati a formar gl'anatematismi e la dottrina, considerate le sentenze de'
teologi, fecero una minuta, in quale fu posto che li vescovi sono superiori iure
divino, perché l'arcivescovo di Zara et il vescovo di Conimbria, principali
tra li deputati, furono di quel parere; ma i legati non permisero, dicendo che
non era giusto interporvi concetto non contenuto negl'articoli; che se poi li
padri nelle congregazioni avessero ricchiesto, si sarebbe pensato; il che li
spagnuoli immediate si risolverono di ricchiedere, e li legati, intesolo,
consultati, deliberarono di far intender a' prelati suoi soliti a contradire
che, se quella materia era proposta, tacessero e non la mettessero in disputa,
per non dar occasione a' spagnuoli di repliche, con le quali si tirassero in
longo le congregazioni e si eccitassero degl'inconvenienti nati nel proposito
della residenza; ma se da Granata o da altri fosse fatta l'instanza, il
cardinale varmiense interrompesse, rispondendo non esser capo da trattar in
concilio, per non esser controverso con protestanti.
Il dí 13
ottobre 1562, non avendosi fatto congregazioni dopo quelle de' teologi, nella
prima de' prelati, che fu questo giorno, avendo con poche parole li patriarchi
et alcuni arcivescovi inanzi approvato gl'anatematismi come erano formati,
l'arcivescovo di Granata, avendo esso ancora con poche parole detto il suo voto
circa i 6 primi canoni, nel settimo fece instanza che si dicesse i vescovi,
instituiti de iure divino, esser superiori a' preti; che questo egli lo
poteva e doveva di raggione chiedere, perché in questa forma fu proposto in
concilio dal cardinale Crescenzio in tempo di Giulio III et approbato dalla
sinodo. Addusse per testimonii il vescovo di Segovia, che intervenne come
prelato in quel concilio, e fra Ottaviano Preconio da Messina, arcivescovo di
Palermo, che, non ancora prelato, allora v'intervenne come teologo. Soggionse
che non si poteva mancar di dicchiarare l'uno e l'altro de' doi ponti,
cioè li vescovi esser instituiti iure divino et essere iure
divino superiori a' preti, per esser negato dagl'eretici; e si estese con
molti argomenti, raggioni et autorità a comprobare il suo parere.
Allegò Dionisio, che disse l'ordine de' diaconi riferirsi in quello de'
preti, quello de' preti in quello de' vescovi e quello de' vescovi in Cristo,
vescovo de' vescovi. Aggionse Eleuterio, pontefice romano, che in un'epistola
a' vescovi di Francia scrisse che Cristo aveva commesso a loro la Chiesa
universale. Aggionse Ambrosio, che nell'Epistola a' corinzii disse che
il vescovo tiene la persona di Cristo et è vicario del Signore. Aggionse
ancora l'epistola di Cipriano a Rogaziano, dove piú volte replica che, sí come
li diaconi sono creati da' vescovi, cosí i vescovi sono fatti da Dio, et
aggionse quel celebre luogo del medesimo santo, che il vescovato è uno e
ciascuno de' vescovi tiene una parte di quello. Disse che il papa era vescovo
come gl'altri, essendo egli e loro fratelli, figliuoli d'un padre, Dio, d'una
madre, la Chiesa: perilché anco il pontefice gli chiama fratelli; onde se il
papa era instituito da Cristo, dal medesimo erano parimente instituiti li
vescovi. Né si può dire che il papa gli chiama fratelli per termine di
civiltà o d'umiltà, perché li vescovi ancora ne' secoli incorrotti
hanno chiamato lui fratello. Esservi l'epistole di Cipriano a Fabiano,
Cornelio, Lucio e Stefano, dove egli gli dà titolo di fratelli; esservi
epistole in Agostino, e per nome suo e per nome d'altri vescovi d'Africa, dove
parimente Innocenzio e Bonifacio pontefici sono chiamati fratelli. Ma quello
che piú di tutto è chiaro, non solo nelle epistole di questi doi santi,
ma di molti altri ancora, il pontefice è chiamato collega. Esser contra
la natura del collegio che consti di persone di diverso genere. Quando tanta
differenza fosse, che il papa fosse instituito da Cristo e li vescovi dal papa,
non potrebbono esser in un collegio. Comporta ben la natura che nel collegio vi
sia un capo, e cosí avviene dell'episcopale, del quale è il papa capo,
però in sola edificazione e, come si dice in latino, in beneficientem
causam, nel modo che san Gregorio dice nell'epistola a Giovanni siracusano,
che quando alcun vescovo è in colpa, egli è soggetto alla Sede
apostolica, ma del rimanente, quando non vi è colpa, tutti per raggione
d'umiltà sono uguali: e questa è l'umiltà cristiana non
mai separata dalla verità. Allegò san Gieronimo ad Evagrio, che
dovunque sarà vescovo, o in Roma, o in Augubio, o in Constantinopoli, o
in Reggio, tutti sono dell'istesso merito e del medesimo sacerdozio e tutti successori
degli apostoli. Inveí contra quei teologi che dissero san Pietro aver ordinato
gl'altri apostoli vescovi; l'ammoní a studiare le Scritture e guardare che a
tutti fu data ugualmente la potestà d'insegnar per tutto 'l mondo, di
ministrar li sacramenti, di rimetter i peccati, di legare e sciogliere, di
governar la Chiesa, e finalmente mandati nel mondo, sí come il Padre ha mandato
il Figliuolo, e però, sí come gl'apostoli ebbero l'autorità non
da Pietro, ma da Cristo, cosí i successori degl'apostoli non hanno
potestà dal successor di Pietro, ma dal medesimo Cristo. Addusse a
questo proposito l'essempio dell'arbore, in quale sono molti rami, ma un solo
tronco; si rise poi di quegl'altri teologi che avevano detto tutti gl'apostoli
esser da Cristo instituiti e pari in autorità, ma che in loro era
personale e non doveva passar in successori, se non quella di Pietro,
interrogandogli, come in presenza, con che fondamento, con che autorità,
con che raggione si lasciassero indur ad una cosí audace affermazione,
inventata da 50 anni solamente, espressamente contraria alla Scrittura: nella
quale avendo detto Cristo a tutti gl'apostoli che sarà con loro sino
alla fine del mondo, il che non intendendosi delle loro proprie persone,
convien ben per necessità intender della successione di tutti, e cosí
esser stato inteso da tutti li padri e da tutti i scolastici a' quali quella
nuova opinione per diametro repugna. Argomentò ancora che se li
sacramenti sono instituiti da Cristo, per consequenza anco erano instituiti li ministri
de' sacramenti, e chi vuol dire che la ierarchia sia de iure divino et
il sommo ierarca instituito da Sua Maestà, gli convien dire che anco
gl'altri ierarchi abbiano l'istessa instituzione. Esser dottrina perpetua della
Chiesa catolica che gl'ordini si danno per mano de' ministri, ma la
potestà è conferita da Dio. Concluse che essendo tutte queste
cose vere e certe, e negate dagl'eretici in piú luoghi che il vescovo di
Segovia aveva raccolto insieme, era necessario che fossero decchiarate e
definite dalla sinodo, e dannati gl'errori contrarii.
Prese da
questo il cardinale varmiense occasione d'interromperlo, che pur ancora
seguiva, e disse, secondo il concerto, che di questo non era alcuna
controversia con gl'eretici, anzi che nella confessione augustana tenevano il
medesimo; però era soverchio et inutile metterlo in dubio, e che li
padri non dovevano entrar in disputa di cosa nella quale convenissero insieme
catolici et eretici. Perilché Granata, levatosi in piedi, replicò che la
confessione augustana non confermava questo, anzi contradiceva, e non poneva
distinzione alcuna tra il vescovo et il prete, se non per constituzione umana;
asseriva che la superiorità de' vescovi fu prima per costume, e poi per
constituzione ecclesiastica, e tornò a ricercar che nella sinodo fosse
fatta questa definizione, overo che si rispondesse alle raggioni et
autorità da lui allegate. Il cardinale tornò a replicare che
gl'eretici non negavano le cose dette, ma solamente moltiplicavano l'ingiurie e
maledizzioni et invettive contra li costumi presenti; e passate tra loro altre
repliche, Granata tutto sdegnato et infocato, disse che si rimetteva alle
nazioni.
Dopo di
questo, fatto e quietato qualche tumulto, degl'altri parlarono, ricevendo le
cose come erano proposte senza l'aggionta, chi fondati sopra il detto di
varmiense e chi tenendo che solo il papa sia instituito de iure divino,
sin che toccò all'arcivescovo di Zara; il qual disse esser necessario
aggionger le parole: de iure divino per dannar quello che gl'eretici
dicono in contrario nella confessione augustana; dove ritornando varmiense a
dire che in detta confessione non vi era cosa alcuna dove gl'eretici
dissentissero in questo, et allegando Zara il luogo e le parole, la contenzione
s'allongò tanto che per quel giorno finí la congregazione.
In quelle de'
seguenti furono parimente varie le opinioni; di singolar vi fu che
l'arcivescovo di Braga fece instanza per la medesima aggionta, dicendo che non
si poteva tralasciare, e si allargò a provar l'instituzione de' vescovi de
iure divino, portando raggioni et argomenti poco differenti da Granata, e
passò a dire che il papa non può levar a' vescovi
l'autorità datagli nella loro consecrazione; la qual contiene in sé non
solo la potestà dell'ordine, ma della giurisdizzione ancora, perché in
quella gl'è assegnata la plebe da pascere e reggere, e senza quella non
è valida l'ordinazione; di che n'è manifesto indicio che a'
vescovi titolari e portativi, si assegna tuttavia una città, che quando
potesse star l'ordine episcopale senza giurisdizzione, non sarebbe necessario.
Oltre di ciò, nel dargli il pastorale, si usa la forma di dire che
è un segno della potestà che se gli dà di corregger li
vizii. Quel che piú importa, se gli dà l'anello, dicendo che con quello
sposa la Chiesa, e nel dar il libro dell'Evangelio, con che s'imprime il
carattere episcopale, si dice che vadi a predicar al popolo commessogli, et in
fine della consecrazione si dice quell'orazione: Deus omnium fidelium pastor
et rector, che poi è stata ne' messali appropriata al pontefice
romano, con voltarsi a Dio e dire che egli ha voluto che quel vescovo
presedesse alla Chiesa. Gionto che Innocenzo III disse esser il matrimonio
spirituale del vescovo con la sua Chiesa un legame instituito da Dio et
insolubile per potestà umana, e che il pontefice romano non può
trasferir un vescovo, se non perché ha special autorità da Dio di farlo;
le quali cose tutte sarebbono molto assorde, se l'instituzione de' vescovi non
fosse de iure divino. L'arcivescovo di Cipro disse che si doveva
dicchiarare li vescovi esser superiori a' preti iure divino, riservando
però l'autorità nel papa. Ma il vescovo di Segovia, avendo
aderito in tutto e per tutto alle conclusioni e raggioni di Granata, fece una
longa recitazione de' luoghi degl'eretici dove negano la superiorità de'
vescovi e l'instituzione esser de iure divino. Disse che, sí come il
papa è successor di Pietro, cosí li vescovi sono successori
degl'apostoli; disse apparir chiaro dalla lezzione dell'Istoria
Ecclesiastica e dalle epistole de' padri che tutti li vescovi si davano
conto l'uno all'altro delle cose che succedevano nelle loro chiese e ne
ricevevano l'approbazione dagl'altri, et il medesimo faceva il pontefice di
quello che a Roma occorreva. Aggionse che li patriarchi principali, quando
erano creati, mandavano agl'altri un'epistola circulare, dando conto della loro
ordinazione e della loro fede, e questo si vede osservato ugualmente da'
pontefici con gl'altri, come dagl'altri con loro; che debilitandosi la
potestà de' vescovi, si vien anco a debilitar quella del papa; che la
potestà dell'ordine e della giurisdizzione è data a' vescovi da
Dio, e dal pontefice non viene se non la divisione delle diocesi e
l'applicazione della persona. Disse che il vescovato non è vescovato
senza giurisdizzione. Allegò un'autorità d'Anacleto, che
l'autorità episcopale si dà nell'ordinazione con l'onzione del
sacro crisma; che il vescovato è cosí ben ordine da Cristo instituito,
come il presbiterato; che tutti li pontefici sino Silvestro o professatamente o
incidentemente hanno detto che il vescovato è ordine che viene da Dio
immediate; che le parole dette agl'apostoli: «Quello che legarete sopra la
terra», danno potestà di giurisdizzione, la qual è
necessariamente conferita a' successori. Che Cristo instituí gl'apostoli con
giurisdizzione, e dagl'apostoli in qua la Chiesa perpetuamente gli ha con
giurisdizzione instituiti: adonque questo s'ha d'aver per tradizione
apostolica, et essendo definito che li dogmi della fede s'hanno per la
Scrittura e per le tradizioni, non si può negare che questo
dell'instituzione episcopale non sia dogma di fede e tanto piú, quanto
sant'Epifanio e sant'Agostino pongono Aerio tra gl'eretici per aver detto che
li preti fossero uguali a' vescovi, che non potrebbe esser se non fossero de
iure divino.
Cinquantanove
padri furono di questa opinione e sarebbe forse il numero stato maggiore,
quando molti non si fossero trovati indisposti in quel tempo per un'influenza
che generalmente regnava allora de' catarri, et alcuni altri non avessero finto
il medesimo impedimento per non ritrovarsi in quella meschia e non offender
alcuno in cosa trattata con tanto affetto, e massime quelli che per aver
parlato della residenza come sentivano, si trovavano incorsi in indegnazione
de' loro patroni; et ancora se il cardinale Simoneta, quando gli parve che le
cose passassero troppo inanzi, non avesse fatto diversi ufficii, adoperando a
questo Giovanni Antonio Fachinetto, vescovo di Nicastro, e Sebastiano Vanzio,
vescovo di Orvieto, li quali con molta destrezza persuadendo che il tentativo
de' spagnuoli era a fine di sottrarsi dalla ubedienza del papa e che sarebbe
stato un'apostasia dalla Sede apostolica con gran vergogna e danno dell'Italia,
la qual non ha altro onore tra le nazioni oltramontane, se non quello che
riceve dal ponteficato. Il Cinquechiese disse che era giusta cosa che de tutti
gl'ordini e gradi della Chiesa si dicchiarasse quo iure fossero
instituiti e da chi ricevessero l'autorità; al qual aderirono alquanti
altri et in particolare Pompeio Picolomeni, vescovo di Tropeia, il qual facendo
la medesima instanza, soggionse che, quando si trattasse di tutti li gradi
della Chiesa, dal maggior al minore, e si dicchiarasse quo iure fossero,
egli direbbe la sua sentenza anco nella materia del vescovato se fosse concessa
licenza da' legati. Di questo numero furono alquanti che con brevi parole
aderirono alla sentenza d'alcuni di quelli che prima avevano parlato et altri
si diffusero in amplificar e rivoltar in diverse forme le medesime raggioni,
che longo sarebbe far narrazione di tutti quelli voti che mi sono venuti in
mano.
Merita ben
d'esser commemorato quello di fra Giorgio Sincout, francescano, vescovo di
Segna, il qual dopo aver aderito al voto di Granata, soggionse che non averebbe
mai creduto dover sentir a metter in difficoltà se i vescovi sono
instituiti e se hanno l'autorità da Cristo; perché quando non l'abbiano
dalla Maestà Sua Divina, meno il concilio, che è un integrato de'
vescovi l'ha da quella; esser necessario che una congregazione, quantonque
numerosissima, abbia l'autorità da chi l'hanno le singular persone; che
se li vescovi non sono da' Cristo, ma dagli uomini, l'autorità di tutti
insieme è umana, e chi ode dire li vescovi non sono instituiti da
Cristo, non poter restar di pensar che questa sinodo sia una congregazione
d'uomini profani, nella quale non preseda Cristo, ma una potestà
precaria dagl'uomini ricevuta, e tanti padri vanamente sarebbono con tanta
spesa et incommodo in Trento, potendo con maggior autorità trattar le
stesse cose quello che ha dato la potestà a' vescovi et al concilio di
trattarle, e sarebbe stata una general illusione di tutta la cristianità
il proporlo come mezo non solo megliore, ma unico e necessario per decidere le
presenti controversie. Aggionse che egli era stato cinque mesi in Trento con
questa persuasione, che mai nissun dovesse metter in difficoltà se il
concilio ha l'autorità da Dio e se può dire quello che il primo
concilio gierosolimitano disse: «È parso allo Spirito Santo et a noi».
Che mai sarebbe venuto al concilio, quando non avesse creduto che Cristo
dovesse esser nel mezo d'esso; né poter alcun dire che dove Cristo assiste,
l'autorità da lui non sia; e quando alcun vescovo credesse in contrario
e riputasse l'autorità sua umana, nelle difficoltà passate
averebbe usato grand'ardire a dire anatema, e non piú tosto inviare il tutto a
quello che ha autorità maggiore; e quando l'autorità del concilio
non fosse certa, il giusto voleva che la prima cosa, quando del 1545 fu questo
concilio congregato, si fosse ventilata questa materia e deciso qual fosse
l'autorità del concilio, come ne' fori si costuma che nel primo ingresso
della causa si disputa e si decreta se il giudice è competente,
acciò non sia opposto in fine alla sua sentenzia nullità per
defetto della potestà. I protestanti, che ogni occasione pigliano per
detraere et ingiuriare questa santa sinodo, non potranno averla piú apposita,
quanto che ella non sia certa della propria autorità. Concluse che
guardassero ben li padri quello che risolvevano in un punto che, risoluto per
la verità, stabilisce tutte le azzioni del concilio e, per il contrario,
sovverte ogni cosa.
Finirono
tutti li padri di parlar in questa materia il giorno 19 ottobre, eccetto il
padre Lainez, generale de' giesuiti, il qual dovendo esser l'ultimo, fu
ordinato studiosamente che quel giorno non si ritrovasse in congregazione, per
dargli commodo di poterne occupar una egli solo: del che per far intender la
causa, convien ritornar alquanto indietro e raccontar che quando da principio
fu messo in campo la questione, pensarono li legati che solamente si mirasse ad
aggrandire l'autorità de' vescovi con dargli maggior riputazione: ma non
fu finita la seconda congregazione che da' voti detti e dalle raggioni usate,
s'avviddero ben tardi di quanta importanza e consequenza fosse, poiché
s'inferiva che le chiavi non fussero a solo Pietro date e che il concilio fosse
sopra il papa e si facevano li vescovi uguali al pontefice, al qual non
lasciavano se non preeminenza sopra gl'altri; che la degnità
cardinalizia, superiore a' vescovi, era afatto levata e restavano puri preti o
diaconi; che da quella determinazione si passava per necessaria consequenza
alla residenza e s'annichilava la corte; che si levavano le prevenzioni e
reservazioni, e la collazione de' beneficii si tirava a' vescovi. Era notato
che pochi giorni inanzi il vescovo di Segovia aveva ricusato di ricever ad un
beneficio della sua diocesi un provisto da Roma; le qual cose sempre piú
manifestamente si vedevano, quanto alla giornata s'aggiongevano nuovi voti, e
nuove raggioni. E per queste cause li legati adoperarono gl'ufficii di sopra
narrati, acciò maggior parte d'italiani non s'aggiongesse a' spagnuoli;
e con tutto ciò, se ben molto si fece, non però tanto si poté,
che quasi la metà non fosse entrata nell'opinione; et i legati ne
sostenevano reprensione appresso gl'altri ponteficii, che gli incolpavano di
non premeditare le cose che possono occorrere, se non quando sopravengono li
gran pregiudicii; che operavano a caso, non admettevano li consegli et
avvertimenti de' prudenti, che da principio, udito il voto di Granata,
raccordarono che si mettesse mano efficace agl'ufficii, il che poi è
convenuto fare, ma poco a tempo; che per loro inavvertenza (se in alcuni non
è stata malizia) sono poste in trattazione materie di consequenze le piú
importanti che potessero occorrere in concilio. E s'aggionse che l'ambasciator
Lansac, con molti negoziamenti fatti con diversi prelati, s'era scoperto
fautore e piú tosto promotore di quell'opinione, e si considerava quanto
aummento averebbe ricevuto alla venuta de' francesi che s'aspettavano, e se ne
parlava in modo che qualche parole giongevano anco alle orecchie de' legati
medesimi; li quali veduto il non preveduto pericolo, oltre gl'ufficii fatti, consegliarono
che, per esser la cosa tanto inanzi e scoperto cosí gran numero, non era piú da
pensar di divertir la questione, ma di trovar temperamento per dar qualche
sodisfazzione a' spagnuoli; e dopo molta consulta, pensarono di formar il
canone con queste parole: cioè che li vescovi hanno la potestà
dell'ordine da Dio et in quella sono superiori a' preti, non nominando la
giurisdizzione per non dar ombra, poiché con una tal forma di parole s'inferiva
poi che la giurisdizzione resti tutta al papa senza dirlo.
Con questa
forma mandarono il padre Soto a trattar co' prelati spagnuoli, non tanto con
speranza di rimover alcuno di loro, quanto per penetrare quello a che si
potessero ridurre. Da Granata non ebbe altro che audienza senza altra risposta;
si travagliò anco con gl'altri, né acquistò se non concetto di
buon corteggiano di Roma, in luogo di quello in che era prima di buono
religioso. Pensavano appresso li ponteficii, per acquistar alcuni de' titubanti
e di quelli che incautamente erano passati nell'opinione, ma nel rimanente
divoti al pontefice, di far con loro ufficii che, conosciuta la
difficoltà, dicessero di rimetter al pontefice overo almeno parlassero
piú ritenutamente: e per far questo, a' doi sopranominati aggionsero
l'arcivescovo di Rosano et il vescovo di Ventimiglia. Et acciò quelli
che riconoscessero, avessero colore di ritirarsi con onore, ordinarono che il
Lainez facesse una piena lezzione di questa materia; la quale acciò
fosse attentamente udita e potesse far impressione, volsero, come s'è
detto, che essendo egli l'ultimo, non parlasse dopo gl'altri in fine di
congregazione, ma ne avesse una tutta intiera per lui; e fu il voto suo
consultato tra tutti 4 essi giesuiti, adoperandosi sopra gl'altri il
Caveglione; e per non tralasciare un buon rimedio di diversione, occupando li
prelati in altra materia.
Ora,
ritornando alle cose occorse in quella congregazione, de' quali dopo che ebbe
votato per ultimo il general de' servi e confermatosi co' sensi de' spagnuoli,
il cardinale di Mantova fece un'ammonizione a' padri deputati sopra l'Indice,
mostrando quanto importante negozio avevano per mano, poiché tutte le
sovversioni nascono e le eresie si disseminano col mezo de' libri;
gl'essortò ad usar diligenza e far veder alla sinodo il fine dell'opera presto;
esser ben certo che è di molta fattura e longhezza, ma considerare anco
che tutti i padri contribuiranno fatica per aiuto de' deputati; che si
consumano le congregazioni in trattar questioni di nissuna utilità e si
va procrastinando in opera cosí necessaria; essortò in fine a far opera
che questo particolar dell'Indice si potesse definire nella sessione seguente.
[Orazione del Lainez, che tutta la
potestà è del papa et i vescovi l'hanno da lui]
Ma la mattina
venuta, il Lainez parlò piú di due ore molto accommodatamente con gran
veemenza e magistralmente; l'argomento del discorso ebbe due parti: la prima
consummò in provare la potestà della giurisdizzione esser data
tutta intieramente al pontefice romano e nissun altro nella Chiesa averne
scintilla, se non da lui; la seconda passò in risoluzione di tutti
gl'argomenti addotti nelle precedenti congregazioni in contrario. La sostanza
fu esser gran differenza, anzi contrarietà tra la Chiesa di Cristo e le
communità civili; imperoché queste prima hanno l'esser e poi si formano
il suo governo, e per ciò sono libere et in loro è originalmente
e fontalmente ogni giurisdizzione, la quale communicano a' magistrati senza
privarsene. Ma la Chiesa non si fece se stessa, né si formò il suo governo,
anzi Cristo, principe e monarca, prima statuí le leggi come dovesse esser
retta, poi la congregò e, come la divina Scrittura dice,
l'edificò; onde nacque serva senza alcuna sorte di libertà,
potestà o giurisdizzione, ma in tutto e per tutto soggetta. Per prova di
questo allegò luoghi della Scrittura, dove l'adunazione della Chiesa
è comparata ad un seminato, ad una tratta di rete, ad un edificio;
aggionto quello dove si dice che Cristo è venuto nel mondo per adunare i
fedeli suoi, per congregar le sue pecorelle, per instruirle e con dottrina e
con essempio; poi soggionse, il primo e principal fondamento sopra quale Cristo
edificò la Chiesa fu Pietro e la successione sua, secondo le parole che
a lui disse: «Tu sei Pietro, e sopra questa pietra fabricherò la mia
Chiesa». La qual pietra, se ben alcuni de' padri hanno inteso Cristo stesso et
altri la fede in lui overo la confessione della fede, è nondimeno
esposizione piú catolica che s'intenda l'istesso Pietro, che in ebreo o siriaco
è detto Cipa, cioè pietra. E seguendo il discorso disse che,
mentre Cristo visse in carne mortale, governò la Chiesa con assoluto e
monarchico governo, e dovendo di questo secolo partire, lasciò l'istessa
forma, constituendo suo vicario san Pietro e li successori per amministrarlo, come
era da lui stato essercitato, dandogli piena e total potestà e
giurisdizzione, et assogettandogli la Chiesa nel modo che è soggetta a
lui; il che provò di Pietro, perché a lui solo furono date le chiavi del
regno de' cieli, e per consequenza potestà d'introdurre et escludere,
che è la giurisdizzione, et a lui solo fu detto: »Pasci, cioè
reggi le mie pecorelle», animale che non ha parte né arbitrio alcuno nella
propria condotta: le qual cose, cioè d'esser clavigero e pastore,
essendo perpetui ufficii, conviene che siano conferiti in perpetua persona;
cioè non nel primo solamente, ma in tutta la successione. Onde il romano
pontefice, incomminciando da san Pietro sino alla fine del secolo, è
vero et assoluto monarca con piena e total potestà e giurisdizzione, e
la Chiesa è a lui soggetta come fu a Cristo. E sí come quando la
Maestà Sua la reggeva, non si poteva dire che alcuno de' fedeli avesse
pur minima potestà o giurisdizzione, ma mera, pura e total soggezzione,
il medesimo s'ha da dire in tutta la perpetuità del tempo, e cosí s'ha
da intender che la Chiesa è un ovile, che è un regno e quello che
san Cipriano dice che il vescovato è uno e da ciascun vescovo n'è
tenuta una parte, cioè che in un solo pastore è collocata tutta
la potestà indivisa, il quale la partecipa e communica a' comministri
secondo l'essigenza; et a questo risguardando, san Cipriano, fece la Sede
apostolica simile alla radice, al capo, al fonte, al sole, con queste
comparazioni mostrando che in quella sola è essenzialmente la
giurisdizzione e nelle altre per derivazione o participazione; e questo
è il senso delle parole, usitatissime dall'antichità, che Pietro
et il pontefice hanno la pienezza della potestà e gli altri sono a parte
della cura. E che questo sia solo et unico pastore si prova chiaramente per le
parole di Cristo, quando disse che egli ha altre pecorelle, quali
adunerà, e si farà un ovile et un pastore. Quel pastore, di che
in quel luogo parla, non può esser esso Cristo, perché non direbbe nel
tempo futuro che si farà un pastore, essendo egli già il pastore,
adonque convien intendersi d'un altro unico pastore, che dopo di lui doveva
esser constituito, che non può esser se non Pietro con la successione
sua. E qui notò che il precetto di pascere il gregge non si trova se non
due volte nella Scrittura: una in singolare, detto da Cristo a Pietro: «Pasci
le mie pecorelle», l'altra in plurale da Pietro agl'altri: «Pascete il gregge
assegnatovi»; e se li vescovi da Cristo ricevessero qualche giurisdizzione,
quella sarebbe in tutti uguale e si leverrebbe la differenza de' patriarchi,
arcivescovi, vescovi, et in quell'autorità il papa non potrebbe metter
mano, minuendola o levandola tutta, come non può metterla nella
potestà dell'ordine, che è da Dio; però guardinsi, che
mentre vogliono far l'instituzione de' vescovi de iure divino, che non
levino la ierarchia et introduchino un'oligarchia o piú tosto un'anarchia.
Aggionse anco che, acciò Pietro ben reggesse la Chiesa, sí che le porte
dell'inferno non prevalessero contra di quella, Cristo vicino alla morte
pregò efficacemente che la sua fede non mancasse e gl'ordinò che
confermasse i fratelli, cioè gli diede privilegio d'infallibilità
nel giudicio della fede, de' costumi e di tutta la religione, obligando la
Chiesa tutta ad ascoltarlo e star confermato in quello che fosse determinato da
lui. Concluse che questo era il fondamento della dottrina cristiana e la pietra
sopra qual la Chiesa era edificata; e passò a censurare quelli che
tenevano esser alcuna potestà ne' vescovi, ricevuta da Cristo, perché
sarebbe un levar il privilegio della Chiesa romana, che il pontefice sia capo
della Chiesa e vicario di Cristo. E si sa molto ben quello che dall'antico
canone Omnes sive patriarchæ è statuito, cioè chi
leva raggioni delle altre chiese commette ingiustizia, e chi leva li privilegii
della Chiesa romana è eretico. Aggionse esser una mera contradizzione
voler che il pontefice sia capo della Chiesa, voler che il governo sia
monarchico, e poi dire che vi sia potestà o giurisdizzione non derivata
da lui, ricevuta da altri.
Nel risolver
le raggioni in contrario dette, discorse che, secondo l'ordine da Cristo
instituito, gli apostoli dovevano esser ordinati vescovi non da Cristo ma da
Pietro, ricevendo da lui solo la giurisdizzione, e cosí molti dottori catolici
anco tengono che fosse fatto; la qual opinione è molto probabile.
Gl'altri però che dicono gl'apostoli esser stati ordinati vescovi da
Cristo, aggiongono che ciò facendo la Maestà Sua prevenne
l'ufficio di Pietro, facendo per quella volta quello che a lui toccava, dando
agl'apostoli esso quella potestà che dovevano aver da Pietro; a punto
come Dio pigliò dello spirito di Mosè e lo compartí a' 70
giudici; onde tanto fu come se da Pietro fossero stati ordinati e da lui
avessero ricevuto tutta l'autorità, e però restarono soggetti a
Pietro quanto a' luoghi e modi d'essercitarla; e se non si legge che Pietro gli
correggesse, ciò non esser stato per difetto di potestà, ma
perché essercitarono rettamente il loro carico. E chi leggerà il
celebrato e famoso canone Ita Dominus, si certificherà che cosí
debbe tener ogni uomo catolico, e cosí li vescovi, che sono successori
degl'apostoli, la ricevono tutta dal successor di Pietro. Et avvertí anco che
li vescovi non si dicono successori degl'apostoli, se non perché in luogo loro
sono, al modo che un vescovo succede a' suoi precessori, non che da loro siano
stati ordinati. Rispose poi a quelli che avevano inferito che adonque il papa
potrebbe lasciar di far vescovi e voler esso esser unico, esser ordinazione
divina che nella Chiesa vi sia moltitudine de vescovi coadiutori del pontefice
e però esser il pontefice ubligato a conservargli; ma esser gran
differenza a dire alcuna cosa de iure divino o veramente ordinata da
Dio. Le cose de iure divino instituite sono perpetue e da lui solo dependono,
et in universale et in particolare, in ogni tempo. Cosí de iure divino
è il battesmo e tutti gl'altri sacramenti, ne' quali Dio opera
singolarmente in ogni particolare: cosí è da Dio il romano pontefice.
Perché, quando uno muore, le chiavi non restano alla Chiesa, perché a lei non
sono date, e creato il nuovo, Dio immediatamente gliele dà; ma
altrimenti avviene nelle cose di ordinazione divina, dove da lui solamente vien
l'universale, e li particolari sono esseguiti dagl'uomini. Cosí dice san Paolo
che li prencipi e potestà temporali sono ordinati da Dio, cioè da
lui solamente viene l'universale precetto che vi siano i prencipi, ma
però i particolari sono fatti per leggi civili. A questo medesimo modo
li vescovi sono per ordinazione divina, e san Paolo disse che sono posti dallo
Spirito Santo al reggimento della Chiesa, ma non de iure divino; e
però il papa non può levar l'ordine universale del far vescovi
nella Chiesa, perché è da Dio, ma ciascun particolare essendo de iure
canonico, per autorità ponteficia può esser levato. Et
all'opposizione fatta, che li vescovi sarebbono delegati e non ordinarii,
rispose che conveniva distinguere la giurisdizzione in fondamentale e derivata;
e la derivata, in delegata et ordinaria: nelle republiche civili la fondamentale
è nel prencipe, in tutti li magistrati è la derivata; né
gl'ordinarii sono differenti da' delegati, perché ricevino l'autorità da
diversi; anzi, dalla medesima sopranità derivano ugualmente tutti; ma la
differenzia sta perché gli ordinarii sono per legge perpetua e con successione,
gl'altri hanno autorità singolare o in persona, o anco in caso.
Però sono li vescovi ordinarii per esser instituiti, per legge
ponteficia, degnità di perpetua successione nella Chiesa. Soggionse che
quei luoghi dove pare che da Cristo sia data autorità alla Chiesa, come
quello dove dice che è colonna e base della verità, e
quell'altro: «Chi non udirà la Chiesa sia tenuto per etnico e
publicano», tutti s'intendono per raggion del capo suo, che è il papa; e
per ciò non può fallar la Chiesa, perché non può fallar il
capo, e cosí è separato dalla Chiesa chi è separato dal papa,
capo di quella. E per quello che fu detto che né meno il concilio averebbe
autorità da Cristo se nissun de' vescovi l'avesse, rispose che
ciò non era inconveniente, ma consequenza molto chiara e necessaria;
anzi, se ciascuno de' vescovi in concilio può fallare, non si poteva
negar che non potessero fallar anco tutti insieme, e se l'autorità del
concilio venisse dall'autorità de vescovi, mai si potrebbe chiamar
generale un concilio dove il numero de' presenti è incomparabilmente
minore che degl'assenti. Raccordò che in quel concilio medesimo, sotto
Paolo III, furono definiti principalissimi articoli, de' libri canonici, delle
interpretazioni, della parità delle tradizioni alla Scrittura in un
numero di 50 e meno; che se la moltitudine dasse autorità, tutto
caderebbe. Ma sí come un numero de prelati dal pontefice congregati per far
concilio generale, sia quanto picciolo si vuole, non d'altronde ha il nome e
l'efficacia d'esser generale, se non perché il papa gliela dà, cosí anco
non ha d'altrove l'autorità; e però, se statuisce precetti o
anatemi, quelli non operano niente, se non in virtú della futura confermazione
del pontefice, né il concilio può astringere con gl'anatemi suoi, se non
quanto averanno forza dalla confermazione. E quando la sinodo dice d'esser
congregata in Spirito Santo, altro non vuol dire se non che li padri siano
congregati secondo l'intimazione del pontefice per trattar quello che, venendo
approbato dal pontefice, sarà decretato dallo Spirito Santo. Altrimenti
non si potrebbe dir che un decreto fosse fatto dallo Spirito Santo e potesse
per autorità ponteficia esser invalidato o avesse bisogno di maggior
confermazione. E però ne' concilii quanto si voglia numerosi, quando il
papa è presente, egli solo decreta, né il concilio vi mette del suo, se
non che approva, cioè riceve; et in tutti li tempi s'è detto
solamente: «sacro approbante concilio»; anzi, che nelle determinazioni di
supremo peso, come fu la deposizione dell'imperatore Federico II, nel concilio
generale di Lione, Innocenzo IV, sapientissimo pontefice, ricusò
l'approbazione della sinodo, acciò non paresse ad alcuno che fosse
necessaria, e gli bastò dire: «sacro praesente concilio», né per questo
si debbe dir superfluo il concilio, perché si congrega per maggior
inquisizione, per piú facile persuasione et anco per dar gusto alle persone; e
quando giudica, lo fa in virtú dell'autorità ponteficia, derivata dalla
divina datagli dal papa. E per queste raggioni i buoni dottori hanno sottoposto
l'autorità del concilio all'autorità del pontefice, come tutta
dependente da questa, senza la quale non ha né assistenza dello Spirito Santo,
né infallibilità, né potestà d'obligar la Chiesa, se non in
quanto gli è concessa da quel solo a chi Cristo ha detto: «Pasci le mie
pecorelle».
[Diversi giudicii sul detto discorso]
Non fu in
questo concilio discorso piú lodato e biasmato secondo il diverso affetto
degl'audienti: da' ponteficii era predicato per il piú dotto, risoluto e
fondato; dagl'altri notato per adulatorio, e da altri anco per eretico; e molti
si lasciavano intender d'esser offesi per l'aspra censura da lui usata, et aver
animo nelle seguenti congregazioni con ogni occasione d'arguirlo e notarlo
d'ignoranza e temerità. Et il vescovo di Parigi, che era indisposto in
casa nel tempo che sarebbe toccato a lui di votare, diceva ad ogni uno che,
quando si fosse fatta congregazione, voleva dir il parer suo contra quella
dottrina senza rispetto, la qual inaudita ne' passati secoli, era stata
inventata già 50 anni dal Gaetano per guadagnar un capello; che dalla
Sorbona fu in quei tempi censurata; che in luogo del regno celeste, che cosí
è chiamata la Chiesa, fa non un regno, ma una tirannide temporale; che
leva alla Chiesa il titolo di sposa di Cristo e la fa serva prostituta ad un
uomo. Vuole un solo vescovo instituito da Cristo e gl'altri vescovi non aver
potestà se non dependente da quello, che tanto è quanto a dire
che un solo sia vescovo e gl'altri suoi vicarii, amovibili a beneplacito. Che
egli voleva eccitare tutto 'l concilio a pensare come l'autorità
episcopale, tanto abbassata, si possi tener viva che non vadi afatto in niente,
perché ogni nuova congregazione de regolari che nasce gli dà qualche
notabil crollo. I vescovi aver tenuto l'autorità sua intiera sino al
1050: allora, per opera delle congregazioni cluniacense e cisterciense et altre
in quel secolo nate, esser dato un notabil colpo, essendo per opera di quelli
ridotte in Roma molte delle fonzioni proprie et essenziali a' vescovi. Ma dopo
il 1200, nati li mendicanti, esser stato levato quasi tutto l'essercizio della
autorità episcopale e dato a loro per privilegio; ora questa nuova
congregazione l'altro dí nata, che non è ben né secolare né regolare,
come 8 anni prima l'università di Parigi aveva molto ben avvertito, e
conosciutola pericolosa nelle cose della fede, pertorbatrice della pace della
Chiesa e destruttiva del monacato, per superar li suoi precessori, tenta di
levar a fatto la giurisdizzione episcopale col negarla data da Dio, ma voler
che sia riconosciuta precaria dagl'uomini. Queste cose a diversi dal vescovo
replicate mossero molti altri a pensarvi, che prima non vi attendevano. Ma fra
quelli che qualche gusto dell'istoria sentivano, non meno si parlava di
quell'osservazione «sacro praesente concilio», la qual appariva in tutti i
testi canonici, [ma] per non esser stata avvertita era a tutti nuova, e chi
approvava l'interpretazione del giesuita, chi interpretava in senso contrario a
lui, che il concilio avesse ricusato d'approvare quella sentenza; altri per
diversa via procedendo, discorrevano che, trattandosi in quell'occasione di
cosa temporale e contenzioni mondane, può esser che il negozio passasse
in uno o in un altro modo, ma non bisognava da questo tirare consequenza che
convenisse l'istesso fare trattando materia di fede o de riti ecclesiastici,
massime osservato che nel primo concilio degl'apostoli, che doverebbe esser
norma et essemplare, il decreto non fu fatto né da Pietro in presenza del
Concilio, né da lui con approbazione, ma fu intitolata l'epistola co' nomi di
tre gradi intervenienti in quella congregazione, apostoli, vecchi e fratelli, e
Pietro restò inclusò in quel primo senza prerogativa. Essempio
che per l'antichità et autorità divina debbe levar il credito a
tutti quelli che da tempi seguenti, eziandio da tutti insieme, possono esser
dedutti. E per qualche giorno in tutto Trento quel raggionamento del giesuita,
per i sopradetti et altri ponti, somministrò materia a molti discorsi, e
per ogni luogo d'altro non si parlava.
I legati
sentivano dispiacere che quel rimedio, applicato da loro per medicina,
partorisse effetto contrario, vedendo che doveva esser causa di far allongar i
voti nelle congregazioni, né sapevano come impedirgli; perché avendo quel padre
parlato 2 ore e piú, non si vedeva come interrompere chi gli volesse
contradire, e massime a propria difesa; et intendendo che egli distendeva il
suo discorso per darlo fuori, lo chiamarono e gli proibirono che non lo
communicasse con alcuno, per non dar occasione ad altri di scrivere in
contrario; avendo inanzi gl'occhi il male che seguí per aver il Catarino dato
fuori il voto suo della residenza, di dove riuscí tutto 'l male che ancora
continuava piú ingagliardito. Ma egli non si poté contenere di darne copia ad
alcuni, cosí stimando d'onorare et obligare li ponteficii alla società
sua nascente, come anco per moderare in scrittura alcuni particolari detti
troppo petulantemente in voce. Molti si accinsero per scriver in contrario e
durò questo moto sin tanto che la venuta de' francesi fece andar in
oblivione questa differenza, con introdurne di piú considerabili et importanti.
Si
frequentavano tuttavia li consegli de' ponteficii contra i spagnuoli, e le
prattiche appresso i prelati che stimavano poter guadagnare, et opportunamente
s'offerí a' legati un dottor spagnuolo, cognominato Zanel, che gli propose modi
di metter li prelati di quella nazione in difesa e dargli altro che pensare, e
gli presentò 13 capi di riforma che gli toccavano molto al vivo; non
però se ne poté cavar il frutto aspettato, perché quelle riforme
ricercavano altre parimente toccanti la corte, quali fecero desister dal
proseguir inanzi, per non far secondo il proverbio, di perder doi occhi per
privar d'uno l'avversario. Le prattiche furono tanto scoperte che in un convito
di molti prelati, in casa degl'ambasciatori francesi, essendo introdotto
raggionamento della consuetudine de' concilii vecchi, non servata in questo,
che li presidenti del concilio e gl'ambasciatori de' prencipi dicevano il voto
loro, rispose Lansac, tutt'ad alta voce, che li legati dicevano «vota
auricularia», e fu benissimo inteso da tutti che inferiva delle prattiche.
[Lettere di Cesare a' legati et arrenga del
suo ambasciatore richiedendo riforma]
In questi
giorni che le congregazioni si tenevano, presentò il Cinquechiese
lettere dell'imperatore a' legati, dove scriveva che avendo essi sodisfatto
l'animo loro in publicar i canoni del sacrificio della messa, si trattenessero
di caminar inanzi intorno i sacramenti dell'ordine e del matrimonio, et in
tanto trattassero della riforma, rimettendo alla prudenza loro intorno le cose
proposte per suo nome, di trattar quella parte che piú loro piacesse; et in
conformità della lettera parlò il Cinquechiese, facendo la
medesima ricchiesta, instando che essendo la materia dell'ordine tanto oltre,
si dovesse al meno trattener quella del matrimonio, acciò che tra tanto
nella dieta l'imperatore potesse disporre li germani ad andare e sottomettersi
al concilio; imperoché quando tedeschi e francesi restino nella risoluzione
loro di non voler andarvi, né riconoscerlo, vanamente li padri si trattengono
con tanta spesa e con tanti incommodi; e quando Sua Maestà vederà
di non potergli persuadere, procurerà che il concilio si sospendi,
giudicando dover esser piú servizio di Dio e beneficio della Chiesa il lasciar
le cose indecise e nello stato che sono, aspettando tempo piú opportuno per la
conversione di quelli che si sono separati, che col precipitare, come sino a
quell'ora s'era fatto, la decisione delle cose controverse in assenza di chi le
ha messe in disputa e, senza alcun beneficio de' catolici, renderli protestanti
irreconciliabili; ma in questo mezo si trattasse della riforma. Che li beni
ecclesiastici siano distribuiti a persone meritevoli e fatta la parte sua a
tutti, e le entrate siano ben dispensate, e la parte de' poveri non sia
usurpata da alcuno, et altre tal cose. In fine ricercò se andando il
conte di Luna con titolo d'ambasciator dell'imperatore, cesserà la
differenza di precedenza tra Spagna e Francia. I legati a quest'ultimo
risposero che non credevano che resterebbe alcun pretesto a' francesi di
contendere; e quanto alle altre parti, dissero che non si può lasciar di
trattar de' dogmi, ma che ben insieme si tratterà della riforma
gagliardamente, seguitando l'instituto del concilio. Lodarono l'intenzione
dell'imperatore di ricercar che li protestanti si sottomettino, non restando
però d'aggiongere che con questa speranza non si debbe mandar il
concilio in lungo, perché anco Carlo imperatore, nel ponteficato di Giulio III,
procurò il medesimo e l'ottenne anco, ma fu da' tedeschi caminato
fintamente, con danno e della Chiesa e dell'imperatore medesimo. Però
non era giusto che il concilio si movesse di passo, se prima l'imperatore non
fosse ben certificato dell'animo de' prencipi e popoli, cosí catolici, come
protestanti, e della qualità dell'obedienza che fossero per prestare a'
decreti stabiliti e da stabilirsi in questo concilio e ne' passati, ricercando
l'osservanza del concilio con mandati autentici delle terre e de' prencipi, e
ricevendo obligazione da loro dell'essecuzione de' decreti, acciò le
spese e le fatiche non fossero vane e derise: et in conformità di questo
risposero anco alla Maestà Cesarea.
[Recezzione dell'ambasciator polacco.
Perplessità de' ponteficii per la venuta in concilio del Lorena]
Il 25 ottobre
fu fatta congregazione per ricever Valentino Erbuto, vescovo premisiense,
ambasciator di Polonia, il quale fece un breve raggionamento della devozione
del re, de' tumulti del regno per causa della religione, del bisogno che vi era
d'una buona riforma e di usare qualche remissione, condescendendo alle
ricchieste de' popoli nelle cose che sono de iure positivo. Al che fu
risposto dal promotore, per nome della sinodo, ringraziando il re e
l'ambasciatore et offerendosi in tutti li servizii del regno; né permisero li
legati che in quella congregazione fosse di altro trattato, per la causa che di
sotto si dirà.
La corte in
Roma e li ponteficii in Trento non erano meno travagliati per la molestia che
ricevevano da' spagnuoli et aderenti in concilio, che per l'aspettazione della
venuta di Lorena e de' francesi, della quale non furono tanto commossi quando
vi era speranza di qualche intoppo che gli fermasse, come dopo che andò
certa nuova che egli doveva far il giorno di tutti i santi col duca di Savoia.
Alla corte di Francia, prima che partisse, e nel viaggio in diversi luoghi il
cardinale, o per vanità, o a dissegno, con molti s'era lasciato intender
di voler trattar assai e diverse cose in diminuzione dell'autorità
ponteficale e contrarie a' commodi della corte; le quali rapportate per diverse
vie a Roma et a Trento, fecero impressione nell'uno e l'altro luogo che in
generale l'intento de' francesi fosse di portar in longo il concilio e, secondo
le occasioni, andar scoprendo e tentando li particolari dissegni; et avevano
già congetture per credere che non fosse senza intelligenza
dell'imperatore et altri prencipi e signori di Germania. E se ben si teneva per
certo che il re Catolico non avesse intiera intelligenza con questi, nondimeno
potenti indicii inducevano a credere che esso ancora dissegnasse mandar in
longo il concilio, o almeno non lo lasciar chiudere. E per contraporsi, si
pensava di metter inanzi gl'abusi del regno di Francia e far passar alle
orecchie degl'ambasciatori che vi sia dissegno di provederci; imperoché tutti
li prencipi che fanno instanza di riformar la Chiesa non vorrebbono sentir
toccar li loro abusi; laonde, quando si mettesse mano in cosa importante che a
loro potesse portar pregiudicio, desisterebbono e farebbono desistere li loro
prelati dalle cose pregiudiciali alla Sede apostolica. Però passate qualche
mani di lettere tra Roma e Trento, essendo giudicato buon il rimedio, furono
posti insieme gli abusi che si pretendeva esser in Francia principalmente, et
in parte negl'altri dominii, e di qui ebbe principio la riforma de' prencipi,
che nella narrazione delle cose seguenti ci darà gran materia.
[Si fanno provisioni per raffrenar il concilio]
Ma oltre di
questo fu giudicato in Roma buon rimedio che li legati troncassero il tanto
ardire de' prelati usando l'autorità e superiorità, piú di quello
che per il passato avevano fatto. Et in Trento era stimato buon rimedio che
fossero tenuti uniti, ben edificati e sodisfatti li prelati amorevoli; perché,
se ben crescessero i voti della parte contraria, essi sempre avanzerebbono di
numero e sariano patroni delle risoluzioni, e senza rispetto si caminasse
inanzi all'espedizione per finir il concilio, o per sospenderlo, o per
trasferirlo. Scrissero anco e fecero scriver da molti de' prelati ponteficii
agl'amici e patroni loro in Roma che miglior risoluzione o provisione non si
potrebbe far, quanto porger qualche occasione, la qual agevolmente si potrebbe
trovare, che la suspensione fosse ricercata da qualche prencipe, non lasciando
passar la prima che si presentasse; e per questo effetto dimandavano da Roma
diversi brevi in materia di translazione, sospensione et altri modi per
valersene secondo l'occasione. Consegliarono anco il pontefice che si
transferisse personalmente a Bologna: imperoché, oltre il ricever piú frequenti
e freschi avisi e poter in un momento far le provisioni occorenti e necessarie,
averebbe colorata ragione, con ogni minima occasione, di trasferir il concilio
in quella città, overo di sospenderlo, avvertendo che, sí come essi di
questo non communicavano cosa alcuna col cardinale Madruccio, cosí in Roma non
si lasciasse penetrar all'orecchie del cardinale di Trento suo zio, li quali
per molti rispetti e particolari interessi si poteva esser certo dover far ogni
ufficio acciò che non si levasse di Trento.
E per fermar
il bollor concitato nella controversia dell'instituzione de' vescovi, anzi
acciò non crescesse per tanti preparati a contradir a Lainez, fermarono
per molti giorni di far congregazione: ma l'ozio fomentava le opinioni, né
d'altro si sentiva parlar in ogni canto, e li spagnuoli si trovavano spesso
insieme con loro aderenti sopra questa trattazione, e quasi ogni giorno 3 o 4
di loro andavano a ritrovar alcuno de' legati per rinovar l'instanza. Et un
giorno, avendo il vescovo di Gadici con altri quattro, dopo la proposta,
aggionto che, sí come confessavano che la giurisdizzione appartenesse al papa,
cosí si contentavano che si aggiongesse nel canone, credettero li legati che i
spagnuoli, riconosciuti, volessero confessare tutta la giurisdizzione esser nel
papa e da lui derivare; ma quando furono a voler maggior decchiarazione, disse
quel vescovo che, sí come un principe instituisce nella città il giudice
di prima instanza et il giudice d'appellazione, il qual, se ben è
superiore, non può però levar l'autorità dell'altro, né
occupargli li casi a lui spettanti, cosí Cristo nella Chiesa aveva instituito
tutti li vescovi et il pontefice superiore, nel qual era la suprema
giurisdizzione ecclesiastica, ma non sí che gl'altri non avessero la propria
dependente da solo Cristo. Il Cinquechiese si doleva con ciascuno che si
perdesse tanto tempo senza far congregazione, il quale s'averebbe potuto
spender utilmente, se li legati a studio, secondo il loro solito, non lo
lasciassero perdere, per dar li capi della riforma solo l'ultimo giorno, a fine
di non lasciar spacio che si possa far considerazione, né meno parlargli sopra.
Ma li legati non stavano in ozio essi, pensando tuttavia di trovar qualche
forma a quel canone che potesse esser ricevuta, e mutandole anco piú d'una
volta al giorno; le qual formule andando attorno e mostrando la titubazione de'
legati, non solo li spagnuoli prendevano animo di perseverar nella loro
opinione, ma di parlar anco con maggior libertà; tanto che in congresso
di gran numero di prelati, Segovia non ebbe rispetto di dire che una parola
voleva esser causa della ruina della Chiesa.
Erano passati
7 giorni senza alcuna congregazione, quando il dí 30 ottobre, essendo li legati
in consultazione, come negl'altri giorni inanzi, tutti li spagnuoli insieme con
alcuni altri ricercarono audienza e fecero di nuovo instanza che si definisse
l'instituzione e superiorità de vescovi de iure divino;
aggiongendo che, se non si facesse, si mancherebbe di quello che è
giusto e necessario in questi tempi per dilucidazione della verità
catolica, e protestando di non intervenire piú né in congregazione, né in
sessione. Il che udito, molti prelati italiani concertati insieme in casa del
cardinale Simoneta, nella camera di Giulio Simoneta, vescovo di Pescara, la
matina seguente si presentarono a' legati, 3 patriarchi, 6 arcivescovi et 11
vescovi, con ricchiesta che nel canone non fosse posto la superiorità
esser de iure divino, essendo cosa ambiziosa [et] indecente che essi
medesimi facessero sentenza in propria causa, e perché la maggior parte non la
volevano, e che l'instituzione non fosse decchiarata de iure divino per
non dar occasione di parlar della potestà del pontefice, la qual
volevano e dovevano confermare. Il che publicato per Trento, diede materia di
parlare che li medesimi legati avessero procurata questa instanza; onde, dopo
il vespero, se ne ridusse maggior numero in sacristia a favore dell'opinione
spagnuola, et altri in casa del vescovo di Modena per la medesima, e con
l'arcivescovo d'Otranto e con quelli di Taranto e di Rosano e col vescovo di
Parma si fecero 4 altre ridozzioni de' ponteficii; et il tumolto passò
tanto inanzi, che li legati ebbero dubio di qualche scandalo e giudicarono
necessario non pensare a poter far la sessione al tempo dissegnato, ma inanzi
che venir alla risoluzione di quell'articolo, che era causa di tanto moto, far
parlar sopra li capi della dottrina e proponer qualche cosa di riforma,
lamentandosi spesso Simoneta che era poco aiutato da Mantova e da Seripando,
che se ben facevano qualche opera, non potevano però a fatto occultar il
loro intrinseco, che inclinava agl'avversarii.
[Il Pescara indarno tenta di dissuadere gli
spagnuoli]
Vennero
lettere credenziali del marchese di Pescara a' principal prelati spagnuoli con
commissione al suo secretario di far gagliardi ufficii con loro, avvertendogli
di non toccar cosa di pregiudicio della Santa Sede, con accertargli che il re
ne sentirebbe gran dispiacere e ne seguirebbono eziandio pregiudicii grandi a'
suoi regni, e che non si poteva aspettar dalla prudenza loro che facessero
risoluzione in alcun particolare, non sapendo prima la volontà di Sua
Maestà; dandogli anco ordine d'avisarlo se alcuno de' prelati facesse
poca stima dell'avvertimento o fosse renitente nell'esseguirlo, essendo mente
del re che stiano uniti in devozione di Sua Santità, et occorrendo, gli
spedisca corrieri espressi. Granata, uno di quelli, rispose non aver avuto mai
intenzione di dir cosa contra il pontefice et aver giudicato che quanto diceva
per l'autorità de' vescovi fosse a beneficio di Sua Santità,
tenendo per certo che diminuendosi l'autorità loro, si dovesse diminuir
l'ubedienza alla Santa Sede, benché egli, per la sua vecchiezza, sappia non
doversi trovar a quel tempo; che l'opinione sua era catolica, per quale
averebbe sofferto di morire; che vedendo tanta contrarietà stava mal
volontieri in Trento, aspettando poco frutto, e che perciò aveva
dimandato licenza a Sua Santità et a Sua Maestà, desiderando
molto di ritornarsene; che nel suo partir di Spagna non aveva riceuto altro
commandamento dal re e da' suoi ministri se non d'aver mira al servizio divino
et alla quiete e riforma della Chiesa, al che anco sempre aveva mirato; che
credeva non aver contravenuto alla volontà del re, se ben non faceva
professione di penetrarla, ma ben sapeva che li prencipi, quando sono
ricercati, e massime da' ministri, facilmente compiacciono di parole generali.
Segovia anco rispose l'animo suo mai esser stato di dir cosa alcuna in
disservizio di Sua Santità, ma che non poteva piú ridirsi, tenendo
d'aver detto verità catolica, né poteva dir piú di quello che aveva
detto, non avendo dopo né piú visto, né studiato altra cosa intorno tal
materia. Si ritirarono poi tutti insieme e spedirono alla corte un dottore
famigliare di Segovia con instruzzione d'informar Sua Maestà che non
potevano esser ripresi né essi, né altri prelati, se non sapevano secondare i
pensieri di Roma; perché non potevano proponer cosa alcuna, ma solo dir il
parer proprio sopra le cose proposte da' legati, come ben era noto a Sua Maestà;
che sarebbe cosa troppo ardua volergli interrogare et ubligargli a risponder
contra quello che in conscienza sentono; esser sicuri che offenderebbono Dio e
Sua Maestà quando altrimenti facessero; non poter esser ripresi del
parlar intempestivo, non essendo proposta, ma risposta; quando in alcuna cosa
abbiano commesso errore, esser pronti a correggerlo secondo il commandamento di
Sua Maestà; ma aver parlato secondo la dottrina catolica in termini
tanto chiari, che sono certi tutto dover esser approbato da lei, supplicandola
degnarsi d'ascoltargli, prima che far di loro alcun sinistro concetto.
Non
s'ingannavano quei prelati credendo che procedesse piú da' ministri che dal re,
imperoché il cardinale Simoneta fece ufficio in questo tempo medesimo con un
altro spagnuolo, secretario del conte di Luna, persuadendolo che, dovendo esso
conte intervenir al concilio, era necessario che vi andasse preparato a tener
quei prelati in ufficio, altrimenti ne seguirebbe non solo pregiudicio alla
Chiesa di Dio, ma anco a' regni di Sua Maestà, essendo il principal loro
intento d'assumersi ogn'autorità et aver nelle loro chiese libera
amministrazione; e persuase anco il secretario del Pescara d'andar incontra al
Luna et informarlo de' dissegni et audacia de' prelati medesimi, e persuaderlo
che il reprimergli fosse servizio del re. Et il cardinale varmiense scrisse una
longa lettera al padre Canisio alla corte cesarea in conformità,
acciò facesse l'istesso ufficio col medesimo conte.
[Si rimette su la residenza e si travaglia a
farne decreto]
Data fuori la
dottrina tratta da' pareri detti nelle congregazioni inanzi, di nuovo si
comminciarono a dir i voti sopra di quella il terzo del mese di novembre; ma
inanzi il cardinale Simoneta ammoní li suoi a parlar riservatamente e non scorrere
in parole irritative, poiché quel tempo ricercava piú tosto che gl'animi si
addolcissero. Ma avendosi per 3 giorni parlato di quella, e per la connessione
delle materie ritornandosi spesso nella controversia, pensarono li legati esser
necessario proponer anco alcuna cosa di riforma, massime perché, avvicinandosi
li francesi, il vescovo di Parigi andava publicamente dicendo che sarebbe tempo
di dargli principio, con sodisfazzione della francese e delle altre nazioni,
deputando prelati di ciascuna, che avessero a considerar i bisogni di quei
paesi, non potendo gl'italiani, né in Trento, né in Roma, sapergli; che sino
allora non s'era fatta riformazione alcuna, tenendosi per nullo quello che
già era statuito. Ma i legati, dovendo proponer riforma, giudicarono
necessario, per non dar occasione molti inconvenienti, incomminciar dalla
residenza.
Già
è stato narrato quello che il pontefice scrisse in questa materia; dopo
il che i legati e gl'aderenti furono in continuato pensiero di formar un
decreto che potesse satisfar al pontefice, avendo anco risguardo alla promessa
fatta a' prelati dal cardinal di Mantova. Perché il proponer alla prima di
rimetter al papa, pareva contrario a quella promissione e vi era gran
difficoltà che decreto proporre; al qual se fosse stato posto
difficoltà, si potesse voltar al negozio di rimetterlo. Fecero
scandaglio di quelli che s'averebbono potuto tirar nella remissione e de'
totalmente contrarii, e trovarono il concilio in parti quasi pari diviso: in
queste due, et in una terza che averebbe voluto la difinizione in concilio
senza offesa di Sua Santità, de' quali vi era speranza far guadagno
della maggior parte e superar gl'avversarii. Fecero il ripartimento, e furono
gl'ufficii cosí efficaci che oltra gl'altri guadagnarono 7 spagnuoli, tra'
quali furono Astorga, Salamanca, Tortosa, Patti et Elna, adoperandosi
gagliardamente in questo il vescovo di Macera.
Quattro
partiti furono proposti per venir all'essecuzione: l'uno, un decreto con soli
premii e pene; l'altro, che molti prelati facessero instanza a' legati che il
negozio fosse rimesso al papa e questa ricchiesta fosse letta in congregazione,
sperando che, per le prattiche, tanti vi si dovessero accostare che il numero
passasse la metà; il terzo, che li legati proponessero la remissione in
congregazione; il quarto, che senza altro dire il pontefice facesse una
gagliarda provisione, la qual immediate si stampasse e publicasse per ogni
parte inanzi la sessione; che cosí i contrarii, prevenuti, sarebbono costretti
contentarsi. Al primo s'opponeva che sarebbono stati contrarii tutti quelli che
hanno dimandato la decchiarazione de iure divino e stimeranno li premii
e pene non poter far effetto tanto efficace quanto la decchiarazione, massime
essendovi già decreti de' concilii e de' pontefici non mai stati
stimati. Vi sarebbe anco differenza nel statuir le pene e nel statuir de'
premii: i prelati faranno dimande impertinenti; vorranno la collazione di
beneficii, almeno curati, dimanderanno l'abolizione de' privilegii de regolari
et altre cose essorbitanti, e si starà sempre in pericolo di mutazione
dopo la proposta, sin che sia passata in sessione, e massime venendo li
francesi, che potriano dimandar di ritrattarlo. Al secondo era opposto che non
s'averebbe potuto esseguir senza strepito nel ridur li prelati insieme a far
instanza; che quelli che non fossero chiamati si sdegnerebbono e piegherebbono
alla parte contraria; che li contrarii farebbono anco essi unioni e strepito e
si lamenterebbono delle prattiche. Al terzo s'opponeva che gl'avversarii
direbbono non esser stato assentito volontariamente, ma per non mostrarsi
diffidenti di Sua Beatitudine e per non esserci libertà di parlare, e se
non fosse consentito, sarebbe un aver posto in dubio l'autorità
ponteficia; senza che anco si direbbe che questa remissione fosse stata bramata
da Sua Santità. Al quarto s'opponeva che, non leggendo in concilio la
bolla del pontifice, si dava occasione a' padri di dimandar tuttavia la
definizione, e leggendola, anco si poteva temere che alcuni potessero dimandar
provisione maggiore et il tutto riuscirebbe con poca degnità. Ma vedendo
tante difficoltà, andavano portando il negozio inanzi, se ben con poca
sodisfazzione universale, essendosi già publicato che se ne doveva
parlare: finalmente, costretti di risolversi, il giorno de' 6 novembre,
abbraciato il partito di proponer un decreto con premio e pene, dopo aver
parlato alquanti padri sopra la materia corrente, il cardinale di Mantova con
destre et accommodate parole lo propose, dicendo in sostanza che era cosa
necessaria, ricercata da tutti li prencipi, e l'imperatore ne aveva molte volte
fatto instanza e dolutosi che non fosse espedito questo capo immediate, e che
coll'aversi occupato in vane questioni che non importano al caso, s'abbia
differita la conclusione principale; che questa non è materia che abbia
bisogno di disputa, ma solo di trovar modo come esseguir quello che ciascun
giudica necessario; che il re Catolico et il Cristianissimo avevano fatto
instanza del medesmo, e che tutto 'l popolo cristiano desiderava veder la
provisione; che in tempo di Paolo III si parlò in questa materia, e poco
pertinentemente da alcuni fu passato in superflue questioni, le quali
prudentemente furono messe in silenzio allora; per le medesime raggioni si vede
non esser bisogno di trattar adesso altro che quello che nel decreto è
proposto. E tra le altre cose disse che si erano confermati col parlar
dell'ambasciatore Lansac, il qual con buone raggioni molte volte aveva
dimostrato non doversi altro ricercare se non che la residenza si faccia, non
importando di saper di onde l'obligo venga.
Nel decreto,
tra le altre particole, vi era che li vescovi residenti non fossero tenuti a
pagar decime, sussidii o qualonque altro gravame imposto con qual si voglia
autorità, eziandio ad instanza de' re e prencipi. Questo particolare
mosse grandemente tutti gl'ambasciatori; ma Lansac, dissimulandolo, si dolse
col cardinale di Mantova che l'avesse nominato senza avergliene fatto motto
prima, concedendo d'aver parlato con esso lui in quel tenore, ma come amico
particolare e non come ambasciatore; e per far la sua querela piú grave, vi
aggionse dolersi anco che avesse nominato il Catolico inanzi il Cristianissimo;
delle decime non disse altro, sperando col moto da lui fatto e con qualche opposizione
che averebbono fatto li fautori del ius divino, poter impedir quella
forma di decreto. Il Cinquechiese ancora non passò piú inanzi, se non
che disse non creder che la mente dell'imperatore fosse come il cardinale
propose. Ma il secretario del marchese di Pescara ricercò apertamente
che le parole s'accommodassero in modo che non pregiudicassero alla grazia
fatta dal pontefice a Sua Maestà Catolica per il sussidio delle gallere.
Credettero li legati con questo aver guadagnato l'animo de' prelati, ma quelli,
dopo intesa l'eccezzione per Spagna, incomminciarono tra loro dire che se gli
voleva far grazia di quello che non se gli poteva concedere, perché in Spagna
et in Francia e sotto qualonque altro prencipe sarebbono stati costretti pagar,
et anco nello Stato della Chiesa, con un «non obstantibus», la grazia gli
sarebbe resa vana.
[Si viene all'instituzione de' vescovi e
v'è gran contesa]
Il giorno
seguente dalla residenza si passò nell'ordine episcopale. Et avendo
Segovia replicato che l'instituzione de' vescovi de iure divino fu
trattata e risoluta nel medesimo concilio nel tempo di Giulio III con
approbazione di tutti, e che egli ne aveva detto la sua sentenza, e
specificò il giorno e l'ora quando ciò fu, il cardinale di
Mantova fece pigliar gl'atti di quel tempo e legger dal secretario quello che
fu definito allora per publicare, dandogli esposizione per la qual concludeva
che non fu né deciso, né essaminato, né proposto nel modo che da Segovia era
stato detto. Al che replicando quel vescovo, se ben con parole in apparenza
riverenti, successero tante repliche, che convenne finir la congregazione. E
perché desiderarà forse alcuno d'intender qual di loro parlava con
fondamento, sarà a proposito portar qui quello che allora fu deciso nelle
congregazioni, se ben non publicato in sessione per la repentina dissoluzione
del concilio a suo luogo narrata. Furono allora composti tre capi della
dottrina, il terzo de' quali era inscritto: Della ierarchia e della
differenza de' vescovi e preti. Et avendo della ierarchia longamente
parlato, dice poi cosí, di parola in parola tradotto di latino: «Insegna oltra
ciò la santa sinodo non dover esser ascoltati quelli che dicono i
vescovi non esser instituiti iure divino, constando manifestamente dalle
lettere evangeliche che Cristo Signor nostro esso medesimo ha chiamato
gl'apostoli e promossogli al grado dell'apostolato, in luogo de' quali sono
subrogati li vescovi; né ci debbe venir in pensiero che questo cosí necessario
et eminente grado sia stato introdotto nella Chiesa per umana instituzione:
perché sarebbe un detraer e vilipender la providenza divina che mancasse nelle
cose piú nobili». Queste erano le parole del capo della dottrina. Furono anco
notati 8 canoni, l'ottavo de' quali diceva: «Chi dirà che i vescovi non siano
instituiti iure divino, o non siano superiori a' preti, o non abbiano
autorità di ordinare, o quella competisca anco a' preti, sia anatema
preoccupato d'una opinione, la ritrova in tutto quello che legge e non è
maraviglia se questi doi prelati ciascuno trovava la sua nelle medesime parole,
le quali li ponteficii intendevano esser dette della sola potestà
dell'ordine, e li spagnuoli di tutta, che comprende l'ordine e giurisdizzione;
quantonque alcuni de' ponteficii credessero che Mantova studiosamente fingendo
di sentir con gl'altri, facesse legger la deliberazione vecchia, non per
confermare la propria sentenza, ma la spagnuola, che sentiva in secreto.
[Lorena giunge in Trento]
Essendo il
cardinale di Lorena entrato in Italia, il pontefice non poté negar a' francesi
di fare che fosse aspettato, e scrisse a Trento che la sessione fosse
prolongata, non però tanto che uscisse fuori il mese novembre; et avendo
li legati aviso che il cardinale si trovava sul lago di Garda, nella
congregazione de' 9 novembre propose il cardinal di Mantova di differir la
sessione sino a' 26 del medesimo mese. Il che non sapendo Lorena, mandò
inanzi Carlo de' Grassi, vescovo di Montefiascone, e scrisse anco lettere a'
legati che, piacendo loro aspettarlo, sarebbe in pochi giorni in Trento; et
essi risolsero di non far piú congregazione sino alla venuta sua per dargli
maggior sodisfazzione. Riferí il vescovo suddetto che quello cardinale in tutti
li suoi raggionamenti mostrava andar con buona intenzione, volendo anco mandar a
Sua Santità li voti suoi, acciò gli potesse veder; che li prelati
di sua compagnia andavano per servizio di Dio e con buon animo verso la Sede
apostolica, e sperava la gionta de' francesi dover causare concordia nel
concilio e dover esser causa di far attender fruttuosamente alla riforma, senza
aver rispetto alcuno agl'interessi proprii; et altre tal cose, le quali se ben
testificate dal Grassi e confermate dall'ambasciator Ferrier, però da'
ponteficii erano credute per solo complemento, ma non ad effetto di tralasciar
d'usare tutti li rimedii dissegnati et in Trento et in Roma.
Entrò
il cardinale in Trento, incontrato un miglio discosto dal cardinale Madruccio
con molti prelati, et alla porta della città da tutti li legati, dalla
qual sino alla casa del suo allogiamento fu accompagnato. Cavalcò in
mezo de' cardinali di Mantova e Seripando: il qual onore credettero esser
necessario fargli, poiché il medesimo gli fu fatto da Monte e Santa Croce,
allora legati in Bologna, nel tempo che il concilio era in quella città
et egli andava a Roma a pigliar il capello. Egli la sera andò a visitar
il cardinale di Mantova, et il giorno seguente, alla audienza de' legati,
insieme con gl'ambasciatori Lansac e Ferrier, presentò le lettere del re
dirette al concilio e vi fece sopra un longo raggionamento, mostrandosi
inclinato al servizio della Sede apostolica, promettendo di participar tutti li
dissegni suoi col pontefice e con essi legati, né voler ricercare cosa alcuna,
se non con buona satisfazzione di Sua Santità; mostrò di non
voler esser curioso in questioni inutili, soggiongendo che le due controversie
dell'instituzione de' vescovi e residenza, de' quali si raggionava in ogni
parte, sí come avevano diminuito dell'autorità del concilio, cosí
avevano anco levato assai della buona opinione che ne aveva il mondo. E quanto
a sé, disse esser piú inclinato all'opinione che le afferma de iure divino;
nondimeno, quando anco fossero certissime, non vedeva necessità, né
opportunità di venirne alla decchiarazione; che il fine del concilio
doveva esser di riunir alla Chiesa quelli che si erano separati; che egli era
stato a parlamento co' protestanti e non gl'aveva trovati tanto differenti che
non si potessero accommodare, quando si levassero gl'abusi, e nissun tempo
esser piú opportuno d'acquistargli di quello, sapendosi certo che non furono
mai tanto uniti all'imperatore quanto allora. Che molti d'essi, e
specificamente il duca di Vittemberg, erano di volontà d'intervenir al
concilio; ma era necessario dargli sodisfazzione con un principio di riforma,
nel che il servizio di Dio ricercava che Sue Signorie Illustrissime
s'occupassero; narrò il desiderio del re che si provedesse al bisogno
de' suoi popoli con opportuni rimedii, poiché sí come al presente s'aveva
guerra con gl'ugonotti, quando non si rimediasse agl'abusi, s'averebbe avuto
che fare maggiormente co' catolici, l'ubedienza de' quali si sarebbe perduta.
Che queste erano le cause perché la Maestà Sua l'aveva mandato al
concilio. Si dolse che di tutta la somma del danaro promesso per imprestito dal
pontefice al re, non s'era potuto valer piú che di 25000 scudi, sborsati dal
cardinale di Ferrara, per le condizioni poste ne' mandati, che non si potessero
essiger se non sotto certe condizioni di levar le pragmatiche di tutti li parlamenti
del regno, cosa di tanta difficoltà che levava la speranza di potersi
prevalere pur d'un denaro. In fine disse che aveva portato nuove instruzzioni
agl'ambasciatori, e però, quando avesse parlato alla sinodo nella prima
congregazione per nome del re, all'inanzi non averebbe atteso ad altro che a
dire i suoi voti liberamente come arcivescovo, non volendosi intromettere nelle
cose del regno, ma lasciarne la cura a loro.
Fu risposto
da' legati senza altra consultazione tra loro, secondo che a ciascuno meglio
parve, lodando la sua pietà e devozione verso la Sede apostolica et
offerendosi essi ancora di communicar con lui tutti i negozii. Gli narrarono la
grandissima pazienza da loro usata in tolerar la libertà, anzi licenza
del dire de' prelati, [acciò non fosse pigliata occasione di dolersi che
il concilio non fosse libero; che li inconvenienti occorsi non erano nati dalle
proposte fatte, ma per la licenza presa dalli prelati], che erano andati
vagando con movere nuove questioni. Imperò, essendo ora Sua Signoria
Illustrissima unita con essi loro, non dubitavano col suo aviso poter levar
quella tanta licenza e componer anco col suo aiuto e mezo le differenze nate, e
nel proceder all'avvenire caminar con tanto decoro che il mondo ne fosse per
ricever altretanta edificazione, quanto di non buona opinione aveva concetto.
Che de' protestanti era troppo nota la mala volontà, e quando si
mostrano non alieni dalla concordia, allora a punto s'ha da dubitare che
machinino nuove occasioni di maggior discordia. Esser cosa certa che hanno
dimandato concilio, pensando che gli dovesse esser negato, e nel medesimo tempo
che lo ricchiedevano, con ogni sollecitudine vi mettevano impedimenti, et al
presente quelli che sono ridotti in Francfort fanno ogni opera che non procedi inanzi
e si faticano appresso l'imperatore per interporgli qualche impedimento. Che
odiano il nome del concilio, non meno che del pontefice, né per il passato se
ne sono valuti, se non a fine di coprire e scusare la loro apostasia dalla Sede
apostolica: però non conveniva aver alcuna buona speranza della loro
conversione, ma attender solo a conservar li buoni catolici nella fede.
Commendarono la pietà e la buona intenzione del re, e narrarono il
desiderio del pontefice per la riformazione della Chiesa e quanto egli aveva
operato per riformazione della corte, senza aver risguardo che si diminuissero
le proprie entrate e che al concilio ha sempre scritto instando per la riforma;
alla quale essi legati ancora erano grandemente inclinati e disposti, ma
venivano impediti per le contenzioni de' prelati, che consummavano quasi tutto
'l tempo. Che se in Francia vi era pericolo di perder l'ubedienza de' catolici,
quella era materia da trattare con Sua Santità. Quanto all'imprestito,
dissero esser cosí grande la paterna carità del pontefice verso il re et
il regno, che conveniva tener per certo le condizioni da lui poste
nell'imprestito esservi framesse per pura necessità. Et essendo passati
tra loro varii complementi, conclusero che il lunedí sarebbe andato nella
congregazione generale per espor a' padri la caggione della sua venuta e per
legger a loro anco le lettere del re.
[I legati prendono sospetto di Lorena]
I legati
restarono con gran pensiero per le parole dette dal cardinale di non voler
impedirsi nelle cose del regno, ma lasciar la cura agl'ambasciatori, non
ritrovandole conformi a quello che avevano mostrato pochi giorni inanzi Lansac
e Ferrier, rallegrandosi della venuta del cardinale, come se avessero ad esser
liberi d'ogni peso e carico, dovendo riposar il tutto (dicevano essi) sopra Sua
Signoria Illustrissima, dalle quali conclusero che conveniva aver molto
l'occhio a quelle dissimulazioni, massime aggiongendovisi certo aviso, che ebbe
il cardinale Simoneta da Milano, che gl'abbati francesi allogiati in Sant'Ambrosio
ebbero a dire che sarebbono stati uniti con spagnuoli, tedeschi et altri
oltramontani e che andavano per trattar cose che non sarebbono piacciute alla
corte; e gionto appresso che in tutti li raggionamenti de' francesi si sentiva
proporre che non era da perder in questioni il tempo che si doveva dispensar in
parlar della riforma; che si doveva incomminciar dal levar la pluralità
de beneficii e che il cardinale voleva esser il primo a lasciargli; che le
dispense s'abbiano a dar gratuitamente; che si levassero le annate, prevenzioni
e date picciole, e si facesse una sola provisione per beneficio; essaggerando
anco che il pontefice aveva una bellissima occasione d'acquistarsi immortal
gloria col fare le suddette provisioni e sodisfar a' popoli cristiani per
unirgli e pacificargli, provedendo agli abusi et inconvenienti, e che in
ricompensa pagherebbono a Sua Santità meza decima. Che essi erano venuti
là risoluti di non partirsi prima d'aver tentato tutte queste
provisioni, quantonque bisognasse starvi longamente, e che quando vedessero
segni che non si fosse per provedere, essi non sono per far strepito alcuno, ma
per ritornarsene in Francia e far le provisioni essi in casa loro. Avevano anco
li legati qualche certezza di stretta intelligenza del cardinale
coll'imperatore e, quello che piú stimavano, col re di Boemia, manifestamente
inclinati a dar qualche sodisfazzione a' prencipi di Germania, li quali era
chiara cosa che odiavano il concilio et avevano caro che non procedesse inanzi,
ma si dissolvesse, in qualche maniera però avantaggiosa per loro e
disonorevole alla Sede apostolica e per la sinodo. Ebbero anco sospezzione del
re Catolico, per un aviso andato al secretario del conte di Luna, che essendo
già fatta in Spagna l'instruzzione per quel conte, per diversi avisi
sopragionti s'era risoluto di mandar Martino Gazdellone, già secretario
dell'imperatore Carlo V, per portargli instruzzione a bocca, che non avevano
voluto commetter alla scrittura; il che confrontando con certo aviso avuto di
Francia, che il cardinale di Lorena, prima che partire, aveva partecipato con
Sua Maestà Catolica le petizioni che dissegnava trattar in concilio, e
sapendo certo che era stata ricercata anco di Germania a far instanza per la
riforma, dubitavano che la venuta di quel cardinale non fosse per partorir gran
nuovità, e non gli piaceva ponto il motto, che gl'aveva dato
nell'audienza, del venir tedeschi al concilio, massime considerando il
colloquio che aveva avuto già col duca di Vittemberg. Et insomma, non
potendo se non presupporre che una persona di tanta autorità e prudenza
non sarebbe andata senza fondamento sicuro per fabricare li suoi dissegni,
pensarono di spedire immediate al pontefice con tutte queste considerazioni, et
avendo osservato che sempre, quando giongevano in Trento o partivano
estraordinarii, li prelati ricevevano occasione di parlare, d'investigare la
causa e di bisbigliare e di far strepito e di machinare anco, il che, dopo la
venuta del cardinale, averebbe potuto produr effetti piú pericolosi, spedirono
con secretezza e scrissero che a Roma fosse dato ordine a' corrieri che
all'ultima posta appresso Trento lasciassero la guida et ogni altro
impedimento, et entrassero nella città pian piano col solo dispaccio.
Non
andò il cardinale in congregazione secondo l'ordine dato, perché il
giorno seguente sopragiontagli la febre, se ben leggiera, lo fece differire:
mostrò nondimeno desiderare che si andasse lentamente per poter
intervenir esso ancora inanzi la risoluzione. I legati risolsero di compiacerlo,
facendo ridur la congregazione molto piú tardi del solito: nella quale essendo
intervenuti li vescovi et abbati francesi, si fece prima una general resegna,
consegnando a ciascuno il suo luogo, et il numero de' prelati in quella si
trovò 218, et il seguente giorno, per esser nata qualche
difficoltà di precedenza, fu di nuovo la risegna fatta, facendo entrar
li prelati ad uno ad uno in congregazione e conducendo ciascuno al suo luogo;
in quelle congregazioni, però, nissun de' francesi parlò, o
perché volessero aspettar l'intervento del cardinale, o per veder prima bene il
modo che tenevano gl'altri. L'arcivescovo d'Ottranto ordinò per la sera
de' 19 novembre un banchetto a molti prelati, e quello che ebbe il carico
gl'invitò, dicendo che non dovessero per servizio della Sede apostolica
mancare; perilché immediate si publicò per Trento che i ponteficii si
radunavano per concertar unione contra li francesi. La qual cosa fu a loro di
molto disgusto, tanto piú quanto, dopo il convito, furono certificati che a
quella mensa s'erano tenuti tali raggionamenti, e vedendo anco che, dopo la
loro venuta, quasi ogni giorno arrivava qualche prelato di nuovo: pareva loro
d'esser stimati diffidenti e contrarii. I legati, però, a fine di
mostrar ogni confidenza e rispetto d'onore al cardinale, nelle visite che
ciascuno di loro fece durante il tempo dell'indisposizione, lo persuasero a
pigliar cosí bella occasione in sopire con l'autorità sua le
controversie per le questioni introdotte, cosa che a lui sarebbe agevole e di gran
riputazione, non avendo potuto gl'altri effettuarlo; a che il cardinale si
dispose assai ben e s'offerí di adoperarsi.
Il pontefice,
che in quei giorni era stato in qualche pericolo per un grave et improviso
accidente, ricuperata la sanità, ebbe gl'avisi da' legati e da molti
luoghi per dove li francesi erano passati, che tutti in conformità erano
pieni de' dissegni loro; et a questo s'aggionse che, mentre fu indisposto,
monsignor dell'Isle andò facendo prattiche che il papa si facesse a
Trento per nazioni se fosse morto, e si tenesse la Sede vacante sin che la
riforma fosse fatta; che cosí il concilio sarebbe stato libero et il papa
creato non averebbe sentito gravezza d'accettar la riforma stabilita prima; il
che piú d'ogni altra cosa lo commosse, cosí per l'affetto del dispiacere che
ogn'uomo et i prencipi massime sentono, quando si dissegna dopo la vita loro,
come anco perché nissuna cosa lo rendeva piú certo dell'animo de' francesi,
risoluto alla riforma della corte e del pontificato; et a queste cose aggiongendo
anco le differenze che erano in Trento per l'instituzione de' vescovi e per la
residenza, fece ridur quotidiane congregazioni, e non si teneva che non dicesse
ad ogni sorte di persona che non aveva negozio piú importante e piú pericoloso
a sé che il concilio. E nel dar conto in consistoro delle differenze per causa
dell'instituzione e della nuova proposta della residenza, uscí ad esclamare che
tutti li vescovi beneficiati da lui gli erano contrarii e che nodriva in Trento
un essercito de nemici. Era anco openione che in suo secreto avesse caro
qualche progresso degl'ugonotti in Francia o qualche avantaggio de' protestanti
nella dieta di Germania, a fine che il concilio si dissolvesse senza sua opera:
nondimeno, tutto intento a' rimedii, ordinò che i vescovi non ancora
partiti da Roma, si partissero immediate, e volle che anco Marco Antonio Boba,
vescovo di Austa, ambasciatore del duca di Savoia appresso di sé, vi andasse.
Dall'altra parte proibí l'andarvi all'arcivescovo turritano et al vescovo di
Cesena: a quello perché nel concilio sotto Paolo, nella materia della
residenza, con piú costanza che non comportava il tempo, diffese che fosse de
iure divino; il vescovo di Cesena perché era molto intrinseco del cardinale
di Napoli, del quale dubitava assai per la carnificina de' 2 zii di quello e
per le essecuzioni fatte contra la sua persona; e temeva, perché in mano del
conte di Montebello, padre del cardinale, si diceva esser una poliza di mano
d'esso papa, essendo cardinale in conclavi, per quale prometteva certa somma de
danari al Napoli per il suo favore. Ma con tutto che la maggior diffidenza
fosse sopra francesi, nondimeno giudicò meglio dissimularla.
Mandò in Francia 40000 scudi per resto de' 100000 promessi, et a Trento
mandò Sebastiano Gualtero, vescovo di Viterbo, insieme con Ludovico
Antinori, li quali, essendo stati in Francia, avevano qualche conversazione con
alcuni di quei prelati e servitú col cardinale, sotto colore d'onorarlo; e
scrisse a lui et a Lansac lettere piene di compimenti e confidenza. Da loro
però fu stimato che fossero mandati per scoprir l'intenzione del
cardinale et osservare li suoi andamenti, e massime essendo stati da Roma
avisati che quel vescovo aveva confortato il pontefice a non temer tanto,
perché il cardinale averebbe trovato delle difficoltà et impedimenti piú
che non credeva, e s'era anco offerto esso di farne nascer d'avvantaggio.
[Lorena in congregazione]
Il 22 del
mese di novembre fu risoluto il cardinale d'entrar il dí seguente in
congregazione; si concertò che si sarebbono lette le lettere del re e
che egli averebbe fatto un raggionamento; ma oltre questo propose il cardinale
che un altro sarebbe fatto anco dall'ambasciatore Ferriero. A questo non
acconsentivano li legati: la causa vera era perché quando una volta fosse
permesso, averebbono voluto et essi e tutti gl'ambasciatori parlare e
proponere, con pericolo di metter maggior confusione; ma tacendo questo,
dissero che in quel concilio, né in quel tempo, né sotto Paolo e Giulio, s'era
mai permesso che ambasciatori parlassero in congregazione, se non il giorno che
erano ricevuti. Però non senza il consenso del pontefice non erano per
acconsentire a tal novità. Ma Lorena rispose che essendo nuova lettera
del re e nuova instruzzione, si può dir nuova ambasciaria, e quella
sarà essa ancora come un primo ingresso; e dopo molte risposte e
repliche, avendo Lorena datogli parola che non ricercherebbono piú di parlare
oltra quella fiata, per dargli sodisfazzione et acciò non prendesse
occasione di mostrar aperto disgusto, si contentarono.
Adonque il dí
seguente, adunata la congregazione, fu letta la lettera del re con
soprascrizzione: «A' santissimi e reverendissimi padri congregati in Trento per
celebrar il santo concilio». In quella diceva che essendo piaciuto a Dio
chiamarlo al regno, gli è anco piaciuto affligere quello di molte
guerre: ma però ha aperto ad esso gl'occhi, sí che, quantonque giovane,
ha conosciuto la principal occasione de' mali esser la diversità delle
openioni nel fatto della religione; per la qual divina illuminazione dal
principio del suo regno fece instanza per la celebrazione del concilio, nel
quale essi allora erano congregati, sapendo che in quelli gl'antichi padri
hanno trovato li piú proprii rimedii a simili infermità, et essergli
dispiaciuto che, sí come è stato il primo a procurare cosí buon'opera,
non abbia potuto inviare li suoi prelati tra li primi; del che essendo le cause
notorie, stimava d'esserne a bastanza iscusato, e maggiormente vedendo arrivato
nella loro compagnia il cardinale di Lorena accompagnato da altri prelati. Che
due cause principali l'hanno persuaso a mandar il detto cardinale: la prima, la
grande e frequente instanza da lui fatta d'aver licenza per satisfar al suo
debito per il luogo che tiene nella Chiesa; la seconda, che essendo egli del
conseglio regio secreto e dalla gioventú nudrito negl'importanti affari di
Stato del regno, sa meglio d'ogni altro le necessità di quello e dove
siano nate le occasioni; onde potrà ancora farne a loro la rilazione
conforme al carico che gli è stato dato e ricchiederne per nome regio li
rimedii che s'aspettano dalla loro prudenza et amor paterno, cosí per
tranquillità del regno, come per salute universale di tutta
cristianità. Soggionse che gli supplicava voler metter mano a questo con
la solita sincerità, acciò si venga ad una santa riforma e che si
vegga rilucere l'antico splendore della Chiesa catolica con unione di tutto 'l
cristianesmo in una religione; che sarà opera degna di loro, desiderata
da tutto 'l mondo, che ne averanno ricompensa da Dio e lode da tutti i
prencipi. Concluse che rimettendosi egli, quanto a' particolari, al voler e
prudenza del cardinale, gli pregava dargli fede in quello che averebbe detto da
sua parte.
Dopo questo
parlò il cardinale. Nel principio narrò le miserie del regno:
deplorò le guerre, le demolizioni delle chiese, le uccisioni de'
religiosi, la conculcazione de' sacramenti, l'incendio delle librarie, delle
imagini, delle reliquie de' santi, la devastazione delle sepolture de' re,
prencipi e vescovi, l'espulsione de' veri pastori; e passando alle cose civili,
narrò lo sprezzo della Maestà regia, l'usurpazione delle entrate
regali, la violazione delle leggi, le sedizioni eccitate nel popolo; e di tutti
questi mali attribuí la causa alla corrozzione de' costumi, alla disciplina
ecclesiastica rovinata, alla negligenza usata nel reprimere l'eresia et usar li
remedii instituiti da Dio. Voltato agli ambasciatori de' prencipi, gli
raccordò che quello che oziosi, vedono ora in Francia, pentiti tardi lo
esperimenteranno a casa loro, se la Francia, cadendo con la sua mole,
darà ne' luoghi vicini; con tutto ciò disse restarci ancora
rimedii: la virtú et indole del re, li consegli della regina e del re di
Navarra e degl'altri prencipi, quali non perdonano alla vita et all'aver; ma il
principale esser aspettato da quella sinodo, d'onde debbe venir la pace di Dio
eccedente ogni senso. Del che essendo certo il re Cristianissimo, mosso dalla
osservanza verso quella sinodo, e per la molestia che sente per i dispareri
della religione, due cose da loro ricercava. La prima, che si fugissero le
nuove discordie, le nuove et infruttuose questioni, e si procurasse sospensione
d'arme tra tutti li prencipi e Stati, che non si dasse scandalo a' protestanti
con dargli occasione di credere che la sinodo attenda piú tosto ad incitar i
prencipi alle armi, a trattar confederazioni e leghe, che a servar
l'unità della pace. Che il re Enrico l'ha primieramente stabilita, e poi
il re Francesco II continuata, et il presente re pupillo con la madre l'hanno
sempre desiderata; il che se ben è infelicemente successo, convien
però temer, come piú infelici, gl'avvenimenti della guerra: perché essendo
posti tutti li stati del regno in pericolo di naufragio, uno non può
l'altro aiutare. Onde desidera che si tenga qualche conto degli sviati dalla
Chiesa, condannandogli quanto si può senza offesa di Dio, et avendogli
per amici per quanto si può, e sino agl'altari. La seconda ricchiesta,
commune al re coll'imperatore e gl'altri re e prencipi, era che si trattasse
della riforma de' costumi e della disciplina ecclesiastica, mettendoci
seriamente la mano, al che il re gl'ammoniva e scongiurava per il Signor nostro
Cristo, che verrà al giudicio, che volendo redintegrar l'autorità
della Chiesa e ritener quel regno di Francia, non voglino misurar gl'incommodi
de' francesi co' proprii loro; rallegrarsi che Italia sia tutta in pace e che
la Spagna ne tenga il timone. La Francia esser caduta et a pena tenerlo con un
dito. Soggionse che, se [di]manderanno a chi debbia ascriver la causa della
tempesta e fortuna eccitata, egli non poteva altro rispondere, salvo che
dicendo: «Per noi è stata questa fortuna, buttateci in mare». Perilché
esser bisogno d'ardire e di cuore, e d'attender a se medesimi et a tutto 'l
gregge. In fine disse aver finita la sua legazione e che gl'ambasciatori
direbbono il rimanente; ma egli e li prelati seco venuti protestavano di voler
esser soggetti, dopo Iddio, al beatissimo pontefice Pio, riconoscendo il suo
primato in terra sopra tutte le chiese, li commandamenti del quale mai
ricuseranno. Che hanno in venerazione li decreti della Chiesa catolica e della
sinodo generale; che onoravano e riverivano li legati, offerivano concordia et
unione a' vescovi, e si rallegravano che gl'ambasciatori dovessero esser
testimonii de' pareri loro, tutto ad onor della Maestà divina.
Finito di
parlare, il cardinale di Mantova con poche parole lo lodò della fatica presa
per servizio di Dio, attestò che della venuta sua tutta la sinodo s'era
rallegrata, fece anco onorata menzione de' fratelli suoi, commendandogli che
nella professione non mostrassero minor prontezza nel servizio di Dio e del
regno, e si rimise alla risposta che per nome della sinodo averebbe dato
l'arcivescovo di Zara a ciò deputato. Il qual disse che la sinodo con
sommo dispiacere aveva sempre udito le sedizioni e tumulti di religione in
Francia, della quale la quiete e tranquillità gl'era stata sempre a
cuore, e tanto piú ne sentiva dispiacer allora, quanto con la narrazione di Sua
Signoria Illustrissima gl'erano stati posti sotto gl'occhi; ma sperava che in
breve il re potrà, imitando la virtú de' suoi maggiori, reprimergli. Che
la sinodo s'adopererà con tutto l'animo per far conoscer il vero culto
di Dio, emendar li costumi e render la tranquillità alla Chiesa; al che
sperava poter piú facilmente pervenire, aiutata dall'opera di Sua Signoria
Illustrissima e da' prelati con lei venuti. Si estese longamente nelle laudi
del cardinale, e concluse che la sinodo ringraziava Dio per la venuta sua e si
congratulava con lui, e s'offeriva d'ascoltar quello che a suo luogo e tempo
dagl'ambasciatori fosse detto, non dubitando che debbia esser a gloria di Dio, utilità
della Chiesa e somma degnità della Sede apostolica.
Dopo questo
parlò l'ambasciator Ferrier, incomminciando a commendar l'animo del re
inclinato alla religione, il che si rendeva piú manifesto per la venuta et il
raggionamento del cardinale, dal quale appariva quanto la Francia procuri il
bene della Chiesa catolica, potendo ogni uno conoscer che potentissime cause
l'abbiano indotto a mandarlo, poiché s'era sempre valuto del conseglio suo ne'
gran negozii del regno; che potrebbe il re in tre giorni quietar tutte le
sedizioni e ritener nella natural obedienza gl'animi di tutti i suoi sudditi,
quando avesse solo mira alle cose sue e non alla Chiesa catolica et a ritener
la degnità et autorità del pontefice in Francia, per quali
solamente espone a pericolo il regno, la vita e l'aver di tutti i grandi e
nobili; e descendendo alle ricchieste, soggionse che in quelle non sarebbono
fastidiosi e difficili, che non domandavano se non quello che tutto 'l mondo
cristiano dimanda. Che il re Cristianissimo ricchiede quello che dimandò
il gran Constantino da' padri del concilio niceno; che tutte le ricchieste
regie si contengono nelle Sacre Lettere, ne' vecchi concilii della Chiesa
catolica, nelle antiche constituzioni, decreti e canoni de' pontefici e padri. Che
il Cristianissimo dimandava la restituzione della Chiesa catolica in integro da
essi padri, constituiti giudici pretorii da Cristo, ma non per un decreto di
clausula generale, anzi secondo la forma delle espresse parole di quell'editto
perpetuo e divino, contra il quale non può aver luogo usurpazione o
prescrizzione alcuna. Sí che ritornino finalmente come dalla captività
nella santa città di Dio et alla luce degl'uomini quei buoni ordini che
il demonio ha per forza rubbati e per longo tempo ascosti. Diede l'essempio di
Dario, che quietò li tumulti di Giudea non con arme, ma con esseguir
l'antico editto di Ciro; di Giosia, che riformò la religione con far
legger et osservare il libro della Legge, occultato per malizia degli uomini.
Passò poi ad un acuto motto, dicendo che se li padri dimanderanno perché
la Francia non sia in pace, non si potrà risponder altro se non quello
che Gieú disse a Gioran: «Come può esser pace restando ancora [..]?». E
tacque le seguenti parole, ma soggionse: «Voi sapete il resto». Aggiongendo poi
che, se non si attenderà a questa riformazione, saranno vani gl'aiuti
del re di Spagna, del pontefice e degl'altri prencipi, et il sangue di quelli
che periranno, se ben meritamente per li proprii peccati, sarà
ricchiesto dalle mani d'essi padri. Concluse che prima che descendere a'
particolari che debbono dimandare, ricchiedevano che finissero presto le cose
che avevano comminciato a trattare, acciò potessero attender quanto
prima alle altre molto piú gravi e necessarie in quel tempo. Non dispiacque
meno la pongente libertà di questo ambasciatore, che la usata di Pibrac,
suo collega, alla loro venuta in Trento; nondimeno il timore che s'aveva de'
francesi fece metter in silenzio le offese di parole.
[Lorena offende con le sue adunanze
domestiche, ma a spagnuoli e francesi è fatta spia]
Il seguente
giorno si continuarono le congregazioni, e la prima fu tutta occupata solo da
fra Gasparo di Casal, vescovo di Liria; il qual per informar il cardinale di
Lorena di tutte le raggioni de' spagnuoli, recapitulò con magniloquenzia
le cose da altri dette in quella materia; vi aggionse di piú che nissuna cosa
era piú a favor de luterani, quanto il far l'instituzione de' vescovi de legge
umana; che cosí s'approva la novità da loro fatta d'aver posto
predicatori o predicanti o ministri al governo della Chiesa, in luogo de'
vescovi, da Cristo instituiti. Aggionse a questo che leggendo le epistole di
san Gregorio a Gioanni Constantinopolitano et ad altri scritte contra il
medesimo, perché si chiamava vescovo universale, vedersi chiaramente che non si
può dir che l'instituzione del pontefice romano venga da Cristo, se non
si dice anco che dal medesimo venga quella de' vescovi.
Il cardinal
di Lorena fece in casa propria congregazione de' prelati e teologi francesi con
lui venuti, per intender la loro opinione sopra il particolare della
giurisdizzione de' vescovi, e fu tra loro concordamente risoluto che la
ricevevano da Dio e fosse de iure divino. E questa singolarità di
congregazione fu usata dal cardinale dopoi in tutte le altre materie
occorrenti, con molto dispiacere de' ponteficii, a' quali pareva che volesse
far un concilio a parte, e temevano che spagnuoli, con l'essempio, non ne
introducessero un'altra, le quali poi potessero portar un scisma manifesto,
come avvenne nel concilio efesino primo per le congregazioni che facevano
separatamente gl'egizzii e li suriani. Avevano però i ponteficii tra i
spagnuoli Bartolomeo Sebastiani, vescovo di Patti, che se ben spagnuolo di
nazione, per aver vescovato in Sicilia, aveva grand'intelligenza con Roma, da
quale gli veniva scoperto tutte le prattiche e consegli loro. Tra i francesi,
sino al tempo quando il cardinale di Lorena si metteva in ordine per il
viaggio, il noncio di Francia guadagnò fra Giacomo Ugonio francescano, teologo
sorbonista, eletto dal cardinale di Lorena per sua compagnia; col quale ebbe
qualche ingresso per esser egli constituito procurator al concilio da Gioanni
Ursino, vescovo di Triguier, e diede conto a Roma e l'inviò per
corrispondenza in Trento con sue lettere a Lattanzio Roverella, vescovo
d'Ascoli. Ma al cardinale Simoneta non piacque confidar tanto di quel vescovo,
né volse lasciargli saper l'intelligenza che si doveva tener col teologo.
Però, avvicinandosi Lorena a Trento, fece che il vescovo di Ventimiglia
mandò incontra un altro frate di san Francesco, chiamato il Pergola,
all'Ugonio, a dirgli per sua parte che era avisato dal noncio di Francia della
lettera che portava a monsignor d'Ascoli, dal qual noncio gl'era scritto che
dovesse parlar con lui prima che la consegnasse. Dal Pergola fu fatto
destramente l'officio, sí che il teologo diede intenzione di cosí fare e,
conforme all'ordine, pochi giorni dopo che fu in Trento, andò a trovar
il Ventimiglia e dopo fatta la ricognizione e dati li contrasegni di trattar
insieme, il frate gli fece relazione dello stato delle cose; e gli disse tra le
altre la maggior parte della rovina del regno derivare dalla regina, la qual
favoriva gl'eretici; et egli l'aveva chiaramente conosciuto nelle dispute che
in presenza di lei gli era occorso piú volte far con loro. Degl'ambasciatori
che erano in Trento, gli disse che essi ancora erano corrotti. Quanto al
cardinale, che lo teneva per buon catolico, ma inclinato alle riforme
impertinenti de' riti ecclesiastici, dell'uso del calice, de levar le imagini,
d'introdur la lingua volgare et altre tal cose, al che era persuaso dal duca di
Ghisa, suo fratello, e da altri suoi parenti; che la regina al suo partire
gliene fece efficace persuasione e gli diede 20000 scudi. Disse che nel numero
de' vescovi ve n'erano 3 della medesima fazzione; ma sopra tutti quello di
Valenza s'intendeva con la regina et era mandato da lei espresso, come
principale, al qual averebbe convenuto che il cardinale portasse rispetto.
Misero in fine ordine tra loro, come trovarsi e trattarsi insieme. Gli diede il
Ventimiglia 50 scudi d'oro, che cosí avevano commesso li legati, quali in
principio egli fece resistenza d'accettare; ma il Ventimiglia con buone et
accommodate parole lo fece contentare; non però esso gli pigliò,
ma chiamato un suo servitore che seco era, ordinò che gli pigliasse a
nome della sua religione.
Io ho narrato
ben spesso, e tuttavia continuo narrando alle volte qualche particolari che son
certo dover da molti esser stimati non degni di menzione, sí come io parimente
tali gli ho riputati; ma ritrovandogli conservati e notati nelle memorie di
quelli che si sono trovati nelle azzioni, mi son persuaso che qualche rispetto
a me incognito vi fosse, per quale gl'abbiano giudicati meritevoli di
commemorazione, et ho voluto, secondo il giudicio di quelli piú che secondo il
mio, riferirgli. Qualche ingegno acuto forse potrà scoprirvi dentro cosa
degna d'osservazione da me non penetrata, e quelli che non gli stimeranno, nel
legger però averanno fatto perdita di poco tempo.
[Sessione differita]
Il 26
novembre, giorno che era destinato per la sessione, il cardinale Seripando
propose in congregazione, che quella si differisse, poiché non erano stabiliti
li decreti da publicarsi, et ammoní li prelati di tanta loro longhezza nel
dire, da che nasceva che non si poteva deliberar alcun giorno certo per la
sessione, perilché era necessario rimetterla a beneplacito; aggiongendo che
molti di loro volevano parlar degl'abusi senza accorgersi che il continuar tanto
tempo in disputazioni vanamente senza alcun frutto, era un abuso grandissimo,
necessario da levare, volendo veder fine del concilio con edificazione. Lorena
confermò il medesimo et essortò li padri a lasciar le questioni
che in quel tempo non erano in proposito, et esser brevi e solleciti
nell'espedir le cose già proposte, per venire alle piú importanti e
necessarie. Un buon numero de prelati non consentí che si rimettesse la
sessione a beneplacito e ricercarono tempo determinato; al che replicandosi che
non era possibile prefiger certa giornata, per non sapersi quanto fosse
necessario per uscir dalla materia tanto controversa tra loro, fu concluso che
dopo 8 giorni si stabilisse il dí determinato.
Gionse il
medesimo giorno il senator Molines, mandato dal marchese di Pescara, per
rinovare e dar maggior efficacia agl'officii a favor del pontefice co' prelati
spagnuoli, che già fatti dal secretario residente, non avevano partorito
effetto; portò nuove lettere di credenza del marchese a tutti loro e
s'affaticò il senator con gran sollecitudine; il qual officio fece
contrario effetto: perché li prelati interpretarono tanta sollecitudine esser
prattica del cardinale d'Aragona, fratello del marchese, senza commissione
espressa della corte. Ma vedendosi tuttavia che quanto piú si caminava inanzi,
tanto piú nascevano difficoltà, per questo capo dell'instituzione,
gl'ambasciatori di Francia sollecitavano che si trovasse temperamento di
spedirsi da quelle superfluità e venir al negozio della riforma,
desiderosi di chiarirsi di quello che potevano aver dal concilio. Et il vescovo
di Nimes si lasciò intender, dicendo il suo voto, che se a' padri era
tanto a cuore il decider una curiosità, che finalmente non era se non
parole, non volessero trattener gli altri, ma differirla ad altro tempo e
metter mano adesso a quello che fa di bisogno. E Diego Covarruvias, vescovo di
Città di Rodrigo, dopo di quello, iscusando li padri che si
trattenessero in quella questione, disse che essendo ella stata proposta da'
signori legati, non potevano restar li prelati di dir il parer proprio. Da che
commosso il cardinal Simoneta negò che da loro fosse fatta la proposta e
seguí Seripando piú gagliardemente, dicendo che ad essi, per la troppo licenza
assontasi, non solo non bastava raggionar della superiorità de' vescovi,
che era stata proposta, ma avevano anco messo in campo l'altra
dell'instituzione, et aggionto ad ambedue il ius divino, e non contenti
della toleranza e pazienza usata in lasciargli dir ciò che volevano,
entravano ancora in dar la colpa a' legati. Riprese acremente la troppo
libertà d'entrar in quelle questioni e l'ardimento di trattar della
potestà del papa, tutto vanamente e sovverchiamente, con repetizioni
delle medesime cose, dieci e piú volte dette, e da alcuni anco con raggioni
frivole e con modi inetti, indegni di quel consesso; e nel progresso del suo
parlar, accortosi d'aver usato troppo acrimonia, passò a dar una formula
come un prelato dovesse dir il parer suo in concilio: e parlò esso sopra
le proposte questioni con mostrare che le opinioni opposite fossero ambedue
probabili, e quando anco quella che tiene de iure divino avesse
probabilità maggiore, non esser però cosa da decider in concilio.
Non per questo quietò gl'animi di molti commossi, né al cardinale di
Lorena piacque intieramente, il quale non mancava di far ogni demostrazione per
acquistar buona opinione: andava cercando di conoscer gl'uomini et assicurarsi
di quello che si potesse far per non mettersi ad impresa, se non conosciuta
riuscibile; et affettava ancora esser quello che concordasse le differenze e
fosse arbitro della questione. Fu proposto per espedizione di quella materia
deputar alcuni prelati per ciascuna nazione, quasi compromettendo in loro la
risoluzione. Ma non si poté effettuare, perché francesi e spagnuoli volevano un
numero pari di ciascuna, e gl'italiani, sí come erano maggior numero
degl'altri, cosí volevano maggior numero de deputati. Il cardinale Simoneta fu
il principale in opporsi a questa proposta, per non introdur la consuetudine del
concilio basileense.
[Contesa di precedenza tra Francia e Spagna.
Nuova rissa de' ponteficii con gli spagnuoli]
Si preparava
in questo tempo nuova materia di contenzione; perché il conte di Luna fece
intender a' legati che doveva andar a Trento come ambasciator del re di Spagna
e non dell'imperatore, ma inanzi andarvi, voleva sapere che luogo gli sarebbe
dato. I legati, chiamati gl'ambasciatori francesi, gliene diedero conto,
dicendo esservi gran travaglio per le dispute di precedenza, e gli pregavano di
trovar qualche modo per accordarle. E dicendo loro non esser mandati per
componer differenze, ma per tener il luogo debito e sempre conceduto al loro
re, che non intendevano pregiudicar in cosa alcuna apertamente al re di Spagna,
ma fargli ogni onore e servizio conveniente al parentado et amicizia che tiene
col loro re, e che avevano carico, quando il luogo gli fosse negato, protestare
della nullità degl'atti del concilio e partirsi con tutti li prelati
francesi, il cardinale di Mantova propose di far seder l'ambasciator spagnuolo
separato dagl'altri, dirimpetto a' legati, overo di sotto gl'ambasciatori
ecclesiastici, o pur di sotto di tutti gl'ambasciatori secolari: ma di nissun
partito si contentarono li francesi, volendo che in ogni modo avesse il luogo
dopo di loro e non altrove.
Nella
congregazione del primo decembre Melchior Avosmediario, vescovo di Guadice,
parlando sopra quella parte dell'ultimo canone dove si determinava che i
vescovi chiamati dal papa sono veri e legitimi, disse che non gli piaceva il
modo d'esprimer, perciò che vi erano anco de' vescovi non chiamati dal
pontefice, né meno confermati da lui, che erano però veri e legitimi.
Addusse per essempio 4 suffraganei eletti et ordinati dall'arcivescovo di
Salzburg, che non pigliano alcuna confermazione dal papa. Il cardinale Simoneta
non lo lasciò passar piú oltre, dicendo che quanto il vescovo di
Salzburg e gl'altri primati facevano, tutto era con autorità del
pontefice. Si levò fra Tomaso Castello, vescovo della Cava, et il
patriarca di Venezia tutti in un tratto, dicendo che si dovesse mandar fuori,
come scismatico. Et Egidio Falceta, vescovo di Caurle, gridò: «Fuori il
scismatico!» E seguí grandissimo romore tra li prelati, cosí di susurri, come
di piedi, parte in offesa del vescovo votante e parte in difesa, che diede mala
sodisfazzione a' prelati oltramontani. Il cardinale di Lorena, se ben ne sentí
dispiacere, non fece dimostrazione alcuna, e li legati con difficoltà
quietarono il romore, facendo proseguir agl'altri che dovevano parlar in quella
congregazione: la qual finita, il cardinale di Lorena in presenza di molti
prelati ponteficii ebbe a dire che l'insolenza era stata grande, che il vescovo
di Guadice non aveva parlato male e se fosse stato francese, egli averebbe
appellato ad un concilio piú libero, e quando non si proveda che tutti possino
parlar liberamente, non s'averebbono tenuti li francesi che non fossero partiti
per far un concilio nazionale in Francia. E veramente fu conosciuto che il
vescovo non aveva mal parlato, e fu corretto il canone che, sí come diceva: «i
vescovi chiamati dal pontefice romano», cosí dicesse: «i vescovi assonti per
autorità del pontefice romano».
Il dí
seguente, essendo venuto il tempo di dicchiarar il giorno della sessione, il
cardinale di Mantova propose che si prorogasse sino a' 17, e se in quel mentre
non s'avessero potuto aver in ordine li decreti della riforma spettante alla
materia che si trattava, questa si diferisse alla seguente sessione. Il
cardinale di Lorena concorse nel medesimo parer quanto al giorno, ma con
condizione che non si ommettesse di trattar tutto quello che parteneva alla
materia, né cosa alcuna si rimettesse alla seguente, nella qual era necessario
dar principio alla riforma universale. L'arcivescovo di Praga, il Cinquechiese e
l'orator di Polonia concordarono nel medesimo parer; e dopo molta contenzione
d'alcuni che volevano, secondo il voto del vescovo di Nimes, che si
rimettessero le questioni ad altro tempo, e de altri, che volevano deciderle,
si deliberò di stabilire la sessione per il sudetto giorno, con ordine
che, per spedire tutta la materia, si facessero due congregazioni al giorno, e
se allora non fosse decisa, si publicassero li decreti che si trovassero in
quel tempo stabiliti, rimettendo gli indecisi ad altro tempo, e nella seguente
sessione si trattasse della riforma inanzi che entrar ne' ponti della dottrina.
Riprese ancora il cardinale di Mantova lo strepito de' piedi e di parole del
giorno precedente, concludendo che se per l'inanzi non avessero parlato con rispetto
e riverenza conveniente alla degnità propria et alla presenza d'essi
legati, che rapresentano Sua Beatitudine, e de' cardinali et ambasciatori, che
rapresentano i prencipi, essi sarebbono usciti di congregazione per non
comportar tanti disordini. Et il cardinale di Lorena commendò
l'ammonizione fatta, soggiongendo che sí come non era conveniente che per
qualsivoglia occasione li legati dovessero partirsi di congregazione, cosí era
giustissima cosa che si punissero li perturbatori. Il vescovo della Cava, non
solo non volse scusarsi di quello che detto aveva, né meno con silenzio ricever
l'ammonizione, se ben generale, ma disse che si dovevano levar le cause, che
gl'effetti cesserrebbono; che se le parole del vescovo di Guadice avessero
offeso la persona sua, egli averebbe sopportata per carità cristiana, la
qual sí come ricerca sofferenza nelle ingiurie proprie, cosí vuol acre
risentimento delle ingiurie fatte a Cristo, la Maestà divina del quale
è offesa, quando è toccata l'autorità del suo vicario; che
egli aveva ben et ottimamente detto, e confermava il medesimo con altre parole
dell'istesso senso, che universalmente furono stimate petulanti.
[Si rimette in campo l'instituzione de'
vescovi]
Giacomo
Gilberto de Nogueras, vescovo d'Aliffe, nel suo voto disse dell'instituzione
de' vescovi non potersi parlar con meglior fondamento che considerando e ben
intendendo le parole di san Paolo agl'efesi. Imperoché, sí come era molto vero
che Cristo reggeva con assoluto governo la Chiesa vivendo in carne mortale,
come da altri in congregazione era stato giudiciosamente detto, cosí era una
gran falsità quello che fu aggionto, cioè che, asceso in cielo,
ha abbandonato il medesimo governo; anzi, piú che mai l'essercita, e questo
è quello che disse agl'apostoli nel partire: «Io sono con esso voi sino
alla fine del mondo», aggiontovi anco l'opera dello Spirito Santo; sí che da
Cristo, come da capo, al presente ancora non solo viene l'influsso interiore
delle grazie, ma anco un'esterior assistenza, ben invisibile a noi, ma
però che somministra le occasioni per la salute de' fedeli e propulsa le
tentazioni del mondo. Con tutto ciò, oltre tutte queste cose, ha
instituito anco alcuni membri della Chiesa per apostoli, pastori, ecc., a fine
di defendere li fedeli dagl'errori et indrizzargli all'unità della fede
e cognizione di Dio; et a questi ha dato il dono necessario per essercitar
questo santo officio, il qual è la potestà chiamata di giurisdizzione,
la qual in tutti non è uguale, ma tanta, quanta in ciascuno è, e
gli è data immediate da Cristo. Niente esser piú contrario a san Paolo
quanto il dir che ad uno solo sia data, che la communichi come gli piace. Vero
è che non in tutti è uguale, ma secondo la divina distribuzione,
la qual, acciò si conservasse l'unità della Chiesa, come san
Cipriano disse, ordinò che fosse in Pietro e ne' successori suoi la
suprema; non che sia assoluta e, secondo il proverbio, dove la volontà
sia per raggione, ma, come san Paolo dice, in edificazione solamente della
Chiesa, non in destruzzione; onde non si estende a levare leggi e canoni
statuiti dalla Chiesa per fondamento del suo governo. E qui diede principio ad
allegare li canoni citati da Graziano, dove li vecchi pontefici romani si confessano
soggetti a decreti de' padri et alle constituzioni de' predecessori.
Ma il
cardinale varmiense non lo lasciò caminar inanzi: l'interruppe dicendo
che s'aveva da parlar della superiorità de' vescovi, a che non era a
proposito il discorso suo. A che egli rispose che, trattandosi
dell'autorità de' vescovi, necessariamente bisognava raggionare di
quella del papa; e l'arcivescovo di Granata si levò e disse che gl'altri
n'avevano parlato, e superfluamente, per non dire perniciosamente, e
però che anco Aliffe ne poteva raggionare, accennando alle cose dette da
Lainez. Il vescovo della Cava sopranominato si alzò e disse che gl'altri
ne avevano parlato, ma non a quel modo; e comminciando a nascer tra li prelati
bisbigli, Simoneta fece segno alla Cava che tacesse e con ammonir Aliffe che
parlasse al caso, fece quietar il mormorio. E seguitando esso nell'allegazione
de' canoni incomminciata, varmiense di nuovo l'interruppe, non parlando a lui,
ma facendo un raggionamento formato a' padri sopra la materia, dicendo che
gl'eretici pretendono di provare che li vescovi eletti dal papa non sono veri e
legitimi vescovi, e che questa opinione è quella che si debbe
condannare: ma se li veri vescovi siano instituiti de iure divino o no,
nissuna differenza vi è tra gl'eretici e li catolici, e però la
questione non pertenere alla sinodo, che è congregata solo per dannar le
eresie. Raccordò a' padri che s'astenessero dal dire cose che potessero
dar occasione di scandalo e gl'essortò a lasciar queste questioni. Alle
parole del cardinale il vescovo d'Aliffe volse replicare, ma Simoneta, con
l'aiuto d'alcuni altri prelati, lo quietò, se ben con qualche
difficoltà. E parlò dopo di lui Antonio Maria Salviati, vescovo
di San Papulo, il quale con discorrere che tutti erano congregati per servizio
di Dio e caminavano con buona intenzione, se ben alcuni per un verso et altri
per l'altro, e con andar dicendo diverse cose che servivano in parte per
accordar le opinioni, ma piú principalmente per conciliar gl'animi, fu causa
che la congregazione si finí quietamente e che tra il cardinale et il vescovo
passassero parole d'umanità e riverenza.
Il quarto
giorno del mese di decembre disse il parer suo sopra la medesima materia il
cardinale di Lorena, e parlò a longo che la giurisdizzione fosse data da
Dio immediate alla Chiesa: allegò li luoghi [di] sant'Agostino, che le
chiavi sono date a Pietro, non ad una persona, ma all'unità, e che
Pietro, quando Cristo gli promise le chiavi, rapresentava tutta la Chiesa; che
se egli non fosse stato sacramento, cioè rapresentante la Chiesa, non
gl'averebbe dato Cristo le chiavi; mostrando molta memoria in recitarli
formalmente. Passò poi a dire che quella parte della giurisdizzione che
è connessa con l'ordine episcopale, li vescovi la ricevevano immediate da
Dio, e dicchiarando in che consistesse, specificò, tra l'altre cose, in
quella contenersi la facoltà di scommunicare, estendendosi molto
nell'esposizione di quel luogo di san Mateo, dove da Cristo è prescritto
il modo della correzzion fraterna e giudiciale della Chiesa, con
autorità del separare dal suo corpo gl'inobedienti. Poi si diede ad
argomentar anco contra questa opinione con diverse raggioni cavate dalle parole
di Cristo dette a san Pietro, e dall'intelligenza che gli dà in molti luoghi
san Leone papa. Addusse molti essempi de vescovi, che tutta la giurisdizzione
avevano riconosciuto dalla Sede apostolica, e parlò con tanta eloquenza
et in modo tale, che non si poteva far chiaro giudicio dell'animo suo. Disse
dopoi che i concilii avevano l'autorità immediate da Dio; allegò
per questo le parole di Cristo che disse: «Dove saranno doi o tre congregati
nel mio nome, io sarò nel mezo tra loro», et il concilio degl'apostoli
che ascrisse la risoluzione propria allo Spirito Santo; allegò lo stile
de' concilii di chiamarsi congregati nello Spirito Santo, e del constanziense
che apertamente disse aver l'autorità immediate da Cristo. Però
soggionse che, parlando de' concilii, intendeva che vi fosse congionto il capo,
e che nissuna cosa era di maggior servizio per l'unione della Chiesa che in
fermar bene l'autorità ponteficia; che egli non averebbe mai consentito
di terminar cosa che la potesse diminuire, e del medesimo parere erano tutti li
prelati e clero di Francia. E tornando all'instituzione de' vescovi e parlandone
tuttavia con la medesima ambiguità, finalmente concluse che era una
questione interminata. Essortò poi la congregazione a tralasciarla, e
diede esso una forma del canone, dove erano ommesse le parole iure divino,
et in luogo di quelle si diceva: instituiti da Cristo.
I prelati
francesi che parlarono dopo Lorena in quel medesimo [giorno] e ne' seguenti
ancora, non trattarono né con l'istessa ambiguità, né col medesimo
rispetto all'autorità ponteficia, ma dissero apertamente che
l'autorità de' vescovi fosse de iure divino, portando le raggioni
dette dal cardinale et esplicandole; e se ben egli, mentre che parlavano, stava
con la mano sotto la guancia, in modo che pareva che mostrasse sentir
dispiacere di quello che dicevano, tuttavia però era ascritta ad
ambizione, come se avesse studiosamente procurato che il voto suo fosse
commentato. E se ben da' francesi fosse apertamente difesa la sentenza de'
spagnuoli, questi però non restarono sodisfatti, cosí perché il
cardinale aveva parlato con ambiguità, come anco perché esso e li
prelati s'erano dicchiarati di non aver per necessario di terminar in concilio
l'instituzione e superiorità de' vescovi esser de iure divino,
anzi doversi tralasciare, e maggiormente per la formula dal cardinale proposta,
dove era tralasciato, se ben per loro sodisfazzione, piú che per altro
rispetto, erano poste le parole che sono instituiti da Cristo.
[Dissegno degli spagnuoli e de' francesi]
Era l'istesso
il fine de' francesi come de' spagnuoli di proveder all'ambizione et avarizia
della corte, che ad arbitrio dominava con precetti inutili e di nissun frutto e
cavava quantità grande de danari con le collazioni de beneficii e
dispense dalle regioni cristiane. Ma li spagnuoli giudicavano che, per la
devozione che il popolo de' regni loro portava all'autorità pontificia e
per l'animo del re e del suo conseglio, aborrenti dalle novità, se
questo si fosse fatto alla dritta et all'aperta ne sarebbe nato scandalo e non
s'averebbe potuto effettuare, e che il pontefice facilmente averebbe potuto
interponer tante difficoltà appresso li prencipi, che non s'averebbe
manco potuto venirne alla dicchiarazione; ma che convenisse, secondo l'uso di
quella nazione, pigliar la mira lontana e col dicchiarare che la giurisdizzione
de' vescovi e la residenza era da Cristo e de iure divino, metter in
riputazione quell'ordine appresso il popolo, impedir le violenze che la corte
romana potesse usar contra le persone loro, e cosí dargli commodo che in
progresso potessero riformar le chiese, con servizio di Dio e con
tranquillità de' popoli, restituendo la libertà recuperata da'
romani.
Ma li
francesi, il natural de' quali è proceder all'aperta e con impeto,
avevano queste arti per vane; dicevano che non averebbono mancato a Roma
rimedii per renderle inutili e che per venir al fine avevano bisogno di tanto
tempo, che non si poteva aver nissuna buona speranza; ma che il vero modo era,
senza nissun'arte, alla dritta et all'aperta urtar gl'abusi purtroppo chiari e
manifesti, e che non era maggior la difficoltà in ottener questo, che
era il fine principale, di quella che fosse l'ottener il pretesto, che
ottenuto, sarebbe stato un niente. Ma in un altro particolare ancora non erano
meno differenti li loro consegli. Convenivano tutti in giudicare necessario che
l'essecuzione de' decreti conciliari fosse sí ferma e stabile che non si
potesse alterare; vi era nondimeno qualche differenza tra essi francesi e
spagnuoli nel fermar il modo come li decreti di quel concilio potessero esser
né derogati, né alterati dal pontefice, con pretesti di dispense, non ostanzie
et altre tal clausule romane. E per ciò dissegnavano li francesi che si
difinisse la superiorità del concilio al papa, overo si statuisse che li
decreti del concilio non possino esser dal pontefice né derogati, né
dispensati, che sarebbe stato un intiero rimedio. Li spagnuoli l'avevano per
punto difficile da superare e da non tentarsi, perché il pontefice averebbe
sempre avuto favore da' prencipi, quando si fosse doluto che si tentasse
diminuzione della sua potestà, e sarebbe favorito dalla maggior parte
de' prelati italiani, per degnità della patria e per molti proprii
interessi: et a loro pareva bastasse che il concilio facesse li decreti,
dissegnando che poi se ne ottenesse in Spagna dal re la pragmatica sopra, e per
questa via fossero stabiliti, sí che non avessero ingresso in Spagna le
contrarie dispensazioni ponteficie.
[I legati offendono Lorena]
Li legati
espedirono un corrier espresso con la copia proposta dal cardinale di Lorena e
con le considerazioni d'alcuni canonisti fattevi sopra, con dimostrare che
l'autorità ponteficia fosse intaccata, ricercando che gli fosse dato
ordine di quello che avessero a fare; il che dal cardinale, quando lo seppe, fu
ricevuto con molto senso, e fece indoglienza, perché avendogli egli dato la
copia inanzi che la proponesse in congregazione et avendo essi mostrati di
compiacersene, avessero poi operato con tanta diffidenza. Disse parergli strano
che di tutte le cose sue e de' suoi prelati si pigliasse ombra; si dolse che dagl'italiani
fosse ingiuriata la nazione sua, affermando aver con le proprie orrecchie udito
alcuni prelati a dire derisoriamente il proverbio scurrile, che già era
fatto vulgato per tutto Trento, cioè: «Dalla scabie spagnuola siamo
caduti nel mal francese»; del che anco si lamentavano con ogni occasione e
gl'altri francesi et eziando li spagnuoli; le indoglienze de' quali, come
è costume, incitavano maggiormente li curiosi e s'accrescevano tra le
nazioni li sospetti e le diffidenze con gravissimo pericolo: né li legati et i
prelati piú prudenti, che con l'autorità e con gl'officii s'opponevano,
erano bastanti di fermar il moto.
E li francesi
irritati risolverono di far prova della loro libertà e convennero che
nella congregazione de' 7 il cardinale di Lorena non intervenisse, ma li loro
prelati, a' quali toccava parlare, dicessero con libertà e se erano
ripresi, gl'ambasciatori protestassero. E Lansac, per farlo sapere,
acciò li ponteficii se ne guardassero, in presenza di molti di loro
disse ad Antonio Lecine, vescovo d'Avranches, uno di quelli, che dovesse dir
liberamente e senza timore, che la protezzione del re era bastante a
sostentarlo: il che rapportato a' legati, fu causa che fossero uditi con molta
pazienza, se ben non solo dissero che l'instituzione de' vescovi e la
giurisdizzione fosse de iure divino, come quella del papa, e che non vi
è differenza, se non di grado de superiorità, [ma] che
l'autorità pontificia è ristretta tra li limiti de' canoni,
narrando e commendando lo stile de' parlamenti di Francia, che quando alcuna
bolla pontificia è presentata, che contenga cosa contraria a' canoni
ricevuti in Francia, dicchiarano che è abusiva e proibiscono
l'essecuzione. Questa libertà fu causa che li pontificii usarono maggior
rispetto nel parlare, se ben la bellezza del motto proverbiale incitava qualche
volta alcuni de' prelati allegri a non astenersene.
[L'avviso della morte del re di Navarra fa
mutar pensieri a Lorena]
Ma il
pretesto per quale il cardinale di Lorena si trattenne in casa fu l'aviso della
morte del re di Navarra, che quel giorno arrivò. Quel prencipe, ferito
con archibugiata sotto Rohan sino al settembre, non essendo ben curato, in fine
si ridusse in stato di morte; nel qual posto, per l'opera di Vicenzo Lauro
medico, si communicò alla catolica, poi vacillò verso la dottrina
de' protestanti, e finalmente a' 10 di novembre morí. E questo accidente
portò anco alle cose del concilio gran mutazione, perché, avuto aviso,
Lorena alterò tutti li suoi pensieri. Ebbe quel re principalissima parte
nelle commissioni che furono date al cardinale nel suo partire, onde gli era
incerto se, dopo la morte di quello, la regina e gl'altri sarebbono continuati
in quel fervore. Oltre di ciò, vedeva un'aperta mutazione in tutto 'l
governo, desiderava d'esser in Francia per potervi apportar esso ancora la
parte sua, perché, essendo il prencipe di Condé in aperta dissensione, poco
confidente della regina e di quelli che potevano appresso lei, il cardinale di
Borbon poco capace, quel de Montpensier in poco credito, il contestabile
vecchio e con molti emuli potenti, aveva gran concetto, esclusi questi, che suo
fratello dovesse esser arbitro delle armi et egli del conseglio; e queste cose
macinava nell'animo suo, poco pensando al concilio et a Trento, dove si ritrovava.
Gl'altri francesi apertamente dicevano doversi ringraziar Dio della morte di
quel re, perché incomminciava a titubare et a congiongere strettamente
gl'interessi suoi con quelli del fratello e degli altri ugonotti.
Il seguente
giorno, che fu degl'8 decembre, fu tutto consummato in ceremonie per
l'elezzione successa della persona di Massimiliano, re de' Romani: per questo
celebrò la messa dello Spirito Santo, con intervento di tutto 'l
concilio, l'arcivescovo di Praga; fece un sermone in lode di quel prencipe il
vescovo di Tininia, e li cardinali et ambasciatori furono da Praga convitati.
[Trattato del Condé co' tedeschi, i quali
rifiutano il concilio]
Come prima la
dieta si congregò in Francfort, il prencipe di Condé mandò non
solo a ricercar aiuto da' prencipi protestanti, ma anco per trattar unione
degl'ugonotti con quelli della confessione augustana et in particolare per
giongersi insieme a ricchieder un concilio libero e nuovo, dove fossero
retrattate tutte le cose risolute in Trento, dando speranza che anco i francesi
della vecchia religione catolica, sarebbono a questo convenuti, poiché era
stato promesso all'ambasciator di Francia, che fu poi creato cardinale e
chiamato della Bordissiera, che cosí si sarebbe fatto. Ma li tedeschi
protestanti erano alienissimi da concilio, mentre che potessero senza quello
aver pace in Germania; e però fu allora stampato in Francfort un libro
molto pieno delle iscusazioni e raggioni loro perché non erano intervenuti, né
volevano intervenire a Trento, con protestazione della nullità di tutto
'l fatto e che si farebbe in quel luogo.
Il re fu
prima onto e coronato re di Boemia in Praga, in presenza dell'imperatore, suo
padre, da quell'arcivescovo, che da Trento era andato in Boemia ad effetto di
quella ceremonia, acciò il re avesse voto in dieta imperiale. Et andati
a Francfort, fu necessario aspettar che li canonici di Cologna eleggessero
l'arcivescovo, ché quella sede era vacante; onde li prencipi adunati ebbero
gran tempo di trattar diverse materie, essendo restati sempre congregati in
Francfort per aspettar che s'empisse il numero settenario con la coronazione in
Boemia et elezzione in Cologna. Queste cose diedero gran pensiero in Roma, e si
temeva che da quella dieta non fosse mandato a Trento a protestare e che non
fosse usata qualche nuova forma nella coronazione, abolita la vecchia, che
mostrasse inclinazione di partirsi dall'antichi riti, o dal nuovo re fosse
fatta qualche promessa pregiudiciale alla potestà ponteficia. L'imperator,
nondimeno, et il re usarono somma destrezza a divertire che non si trattassero
cose della religione in piena dieta inanzi l'elezzione, la qual successe il 24
novembre, et il dí ultimo la coronazione, nella quale gl'elettori et altri
prencipi protestanti stettero alla messa sin che fu detto l'Evangelio, e poi
uscirono; questo tanto vi fu di nuovo, ché del rimanente fu dato il luogo al
noncio ponteficio sopra gl'elettori et agl'altri ambasciatori sotto di essi
imperò, fatta l'incoronazione, incomminciò Cesare a pratticare
con alcuni de' protestanti che aderissero al concilio di Trento; li quali, per
non esser prevenuti, congregati insieme presentarono all'imperatore la risposta
promessa già 20 mesi all'ambasciaria di Sua Maestà nel convento
di Namburg e differita sino allora; nella quale, esposte le cause perché in
molte diete imperiali passate avevano appellato et appellavano di nuovo ad un
concilio libero, soggionsero le condizioni che tenevano necessarie, con le
quali s'offerivano di consentire ad intervenir ad un futuro concilio generale.
Queste erano 10:
1 Che sia
celebrato in Germania.
2 Che non sia
intimato dal papa.
3 Che egli
non vi preseda, ma sia parte del concilio e soggetto alle determinazioni di
quello.
4 Che li
vescovi et altri prelati siano liberati dal giuramento prestato al pontefice,
acciò possino liberamente e senza impedimento dire il loro parere.
5 Che la
Scrittura divina sia giudice nel concilio, esclusa ogni autorità umana.
6 Che li
teologi de' Stati della confessione augustana al concilio destinati abbiano non
solo voce consultiva, ma deliberativa, e sia loro dato salvocondotto, non solo
quanto alle persone, ma ancora quanto all'essercizio della religione.
7 Che le
decisioni nel concilio non si facciano, come nelle cause secolari, per pluralità
delle voci, ma siano preferite le megliori sentenze, cioè le regolate
dalla parola di Dio.
8 Che gl'atti
del concilio tridentino s'abbiano per cassi et irriti, essendo quello stato
parziale, da una sola delle parti celebrato e non ordinato come fu promesso.
9 Che se nel
concilio non seguirà concordia della religione, le condizioni di Passau
restino inviolate, insieme con la pace di religione fatta in Augusta dell'anno
1555, qual resti valida et efficace e tutti siano tenuti osservarla.
10 Che sopra
tutti gl'articoli predetti sia loro data cauzione idonea e sufficiente.
L'imperator,
ricevuta la scrittura, promise d'adoprarsi per la concordia et operare in
maniera che sia celebrato concilio, dove essi con raggione non potessero
ricusare d'intervenire, purché dal canto loro deponessero gl'odii e gl'altri
affetti contrarii alla pace cristiana; e s'offerí anco per questo d'andar in
persona propria a Trento, risoluto di trasferirsi in Ispruc, finita la dieta:
dove essendo lontano 4 picciole giornate dal concilio, averebbe potuto con
brevità di tempo operare quanto fosse stato di bisogno.
[Capitolo della residenza pubblicato. Articoli
di riforma proposti]
Ma nel
concilio, finito di dirsi i voti sopra la materia dell'instituzione tanto
ventilata, non si fece alcuna risoluzione, aspettando li legati che da Roma
venisse. Ma diedero fuora il capo della residenza, participato prima col
cardinale di Lorena, il qual era, come s'è di sopra detto, senza la
dicchiarazione se fosse de iure divino o no, ma con premii e pene. E
Lorena, dicendo prima di tutti il voto, vi aggionse che era necessario conceder
a' vescovi il poter assolvere da' casi riservati In coena Domini: il che
protestava di non dire per diminuire l'autorità di Sua Santità,
ma perché, avendo visto in Francia che nissun trangressor di quella si curava
andar o mandar a Roma per l'assoluzione, gli pareva peggio, e per le anime de'
popoli e per la dignità della Sede apostolica, il lasciargli in quelle
censure. Aggionse anco che non gli pareva ben astringer li vescovi alla
residenza, in maniera che non potessero assentarsi per giuste caggioni, le
quali s'avevano da rimetter al giudicio di Sua Santità. Disse di piú che
erano da eccettuare gl'occupati ne' publici negozii de' regni e republiche,
perché quelli ancora s'hanno da riputare non alieni dal carico episcopale,
massime ne' regni dove l'ordine ecclesiastico è un membro dello Stato,
come è in Francia e ne' regni di Spagna ancora. Fu il cardinale molto
prolisso, e se ben replicava spesso che la residenza era necessaria e conveniva
proveder che si servasse, nondimeno andava interponendo tante eccezioni et
iscusazioni, che in fine nissun seppe giudicare s'egli approvasse o non
approvasse che decreto alcuno della residenza fosse statuito.
Communicarono
anco li legati agl'ambasciatori, secondo la promessa, i capitoli della riforma
per la futura sessione, prima che si proponessero in congregazione; li quali
tutti erano per rimedii degl'abusi spettanti al sacramento dell'ordine. E
perciò si radunarono gl'ambasciatori e vescovi francesi in casa di
Lorena per parlar sopra di quelli, e deputarono 4 vescovi tra loro che gli
considerassero, pensando se vi era cosa pregiudiciale a' privilegii della
Chiesa gallicana e se se gli poteva aggionger alcuna cosa per servizio del paese
loro; et insieme diedero carico all'ambasciator Ferrier che in congregazione
de' medesimi vescovi si raccogliessero tutte le riforme proposte già in
Trento sotto Paolo e Giulio e nel presente ancora, e nella congregazione di
Poissí, per farne un estratto; et aggiontovi il contenuto nelle instruzzioni
regie e quel di piú che loro paresse, ne formassero articoli per tutta la
cristianità e principalmente per la Francia.
Ma li
cesarei, veduto che non si proponeva alcuna delle riforme da loro raccordate,
congregarono tutti gl'ambasciatori. Praga parlò a loro, raccordando il
longo tempo consummato in concilio in far niente, le promesse, tante volte
fatte da' legati, che s'averebbe trattato della riforma, e con tutto ciò
erano trattenuti con speculazioni o con provisioni d'abusi leggieri. Che era
tempo di far instanza efficace che s'attendesse alle cose importanti et
urgenti; che se tutti fossero comparsi uniti a ricchieder l'essecuzione di
tante promesse fatte dal papa e da' legati, si poteva sperare d'ottenere. Tutti
consentirono, ma quando si venne a particolari, si trovarono tanto differenti
che non potero convenir, se non nel generale d'adimandar riforma: onde si
risolvé che Praga, nel dir il suo voto, la ricchiedesse per nome di tutti, e
cosí fece.
[Varii pareri sopra la residenza]
Et in materia
della residenza, con poche parole disse che bastava levar a' prelati li
trattenimenti che godono in corte di Roma et in quelle degl'altri prencipi, et
ogni decreto sarà bastante. Il parere dell'arcivescovo d'Ottranto fu che
bastasse il decreto dell'istesso concilio fatto sotto Paolo III, aggiongendovi
solo la bolla del pontefice, data del
Congregò
il cardinale di Lorena li teologi francesi per disputare sopra questo punto; li
quali tutti uniformi conclusero che fosse de iure divino. Et il vescovo
d'Angiò fu il primo tra li francesi a dir il parer suo in quella
sentenza, e cosí fu seguito dagl'altri. Ma nelle congregazioni generali della
sinodo usavano li prelati indicibile longhezza di che si doleva il cardinale di
Lorena co' legati, mostrando desiderar che quelle materie se spedissero per
venir alla riforma, replicando le tante volte usate parole, che se non averanno
sodisfazzione in Trento, la faranno in casa loro.
Fra Alberto
Duimio, vescovo di Veglia, allegando che la materia della residenza fu discussa
nel concilio sotto Paolo III e rimessa ad altro tempo la decisione, aggionse
che però sarebbe necessario veder le raggioni allora dette da' prelati.
Al presente avevano detto il suo parer senza allegar raggioni, ma egli non
giudicava dover far l'istesso, come pretendendo per autorità e numero
d'opinioni, e non per raggione. E poi si diede a recitar tutte le raggioni per
prova che sia de iure divino, et a risolver le contrarie. Fece gran
riflesso sopra il detto di Cristo, che il buon pastore va inanzi il gregge,
chiama ogni pecorella per nome, scorre per il deserto a cercarne una perduta e
mette la vita per loro. Mostrò che questo intendeva di tutti quelli che
Cristo ha instituito pastori, che sono tutti quelli che hanno cura d'anime, li
vescovi massime, come san Paolo disse e scrisse agl'efesi. Che chiunque non si
riputava per decreto di Cristo obligato a questi ufficii, o era piú utile per
li negozii de' regni e republiche, lasciasse il carico di pastore et attendesse
a quei negozii soli: che è ben molto far bene un carico, ma doi
contrarii è impossibile. Non piacque a' cardinali per la longhezza, per
esser stato il primo a disputare quella materia con raggione, e però
parlò con veemenza dalmatina, con assai de' modi di san Gieronimo e
parole tolte da quello di peso. Simoneta l'averebbe volontieri interrotto, ma
restò per l'occorrenza del vescovo di Guadice: nondimeno lo
chiamò in presenza di molti prelati e lo riprese acremente che aveva
parlato contra il papa. Il vescovo si difese umilmente e con raggioni, e pochi
dí dopo, allegando indisposizione, chiese licenzia e l'ebbe, e si partí il 21 del
mese.
La
controversia della residenza dopo questo tempo mutò stato, e quelli che
l'aborrivano non s'affaticavano piú a mostrar con raggioni overo con
autorità, come sin allora s'era fatto, che fosse di legge umana, ma si
diedero a spaventar quelli della contraria opinione con dire che l'attribuirla
alla divina era un diminuire l'autorità del papa: perché ne seguirebbe
che non potesse piú accrescere o diminuire, dividere overo unire, mutar o
trasferir le sedi episcopali, né lasciarle vacanti o darle in amministrazione o
commenda; che non potrebbe restringere, né meno levare l'autorità
d'assolvere; che con quella determinazione si veniva a dannar in un tratto
tutte le dispense concesse da' pontefici e levar la facoltà di concedere
all'avvenire. L'altra parte, che ben vedeva seguir per necessità quelle
consequenze, non però esser inconveniente quello che ne seguiva, anzi
esser l'istessa verità et uso legitimo della Chiesa vecchia, e che non
per altro si proponeva la decchiarazione, se non per levar quelli inconvenienti,
essi ancora, tralasciato d'usar raggioni et autorità per provarla de
iure divino, si diedero a mostrar che restituendo con quella decchiarazione
la residenza, tornerebbe in aummento della potestà ponteficia,
s'accrescerebbe la riverenza verso il clero e maggiormente verso il sommo
pontefice, il quale ha perso in tante provincie l'autorità, perché li
vescovi non residendo e governando per vicarii inetti, hanno lasciato aperta la
strada alla disseminazione delle nuove dottrine, che con tanto detrimento alla
autorità ponteficia hanno preso piedi: se li vescovi resederanno, per
tutto sarà predicata l'autorità del papa, e confermata dove
ancora è riconosciuta, e restituita dove ha ricevuto qualche crollo. Non
potevano però né l'una né l'altra parte parlar in questi termini, che la
contraria non si accorgesse della dissimulazione e che l'interno occoltato non
restasse purtroppo aperto: erano tutti in maschera e tutti però
conosciuti. Ma ridotti al giorno 16 di decembre, né essendo per ancora detti li
voti dalla metà de' prelati, propose il cardinale Setipando la
prorogazione della sessione; né potendo proveder quando fossero per espedirsi,
fu deliberato che fra quindici giorni s'averebbe prefisso il termine; et ammoní
il cardinale li prelati della soverchia longhezza nel dir li voti, la qual non
mirava se non ad ostentazione, levava la reputazione del concilio et era per
mandarla in longo con grand'incommodo di tutti loro.
[Il papa definisce due capi dell'instituzione
della residenza]
Il pontefice,
che era restato molto afflitto per la morte, successa in fine del mese inanzi,
di Federico Borromeo, suo nipote, al quale pensava di voltar tutta la grandezza
della casa, avendolo maritato in una figlia del duca d'Urbino, fattolo
governator generale della Chiesa, con trattato di dargli anco il ducato di
Camerino, et oppresso dalla gravezza del dolore era incorso in una
indisposizione pericolosa alla sua età; recreato alquanto,
applicò l'animo alle cose del concilio. Tenne diverse congregazioni per
trovar temperamento sopra li doi canoni dell'instituzione e della residenza,
giudicati da tutta la corte molto pericolosi all'autorità ponteficia; et
a ritrovar modo come proveder alla prolissità de' prelati nel dire le
opinioni, come quella che portava il concilio in longo, lasciando una porta
aperta a tutti quelli che volessero entrar ad attentare contra la sua
degnità. Sopra tutto gli dava molestia quello che da' francesi era
dissegnato, massime che non riceveva mai lettere da Trento nelle quali non si
dicesse che o il cardinale di Lorena, o alcuno degl'ambasciatori non facevano
instanza di riforma, con aggionta che se non avessero potuto riportar le
provisioni che ricercavano, le farebbono in casa loro, e che ben spesso
facevano menzione di voler provisioni sopra le annate e prevenzioni et altre
cose proprie spettanti al pontefice romano. Deliberò di venir all'aperta
co' francesi, e disse a quelli che erano in Roma che, avendosi egli tante volte
offerto di trattar col re di quello che toccava li suoi proprii dritti e venire
ad amicabile composizione, e vedendo che i ministri del re in concilio sempre
facevano menzione di volerne trattar nella sinodo, era risoluto di veder se
voleva romper con lui a sí aperta dissensione. Diede ordine per corrier
espresso in Francia al suo noncio di parlarne. A Lorena scrisse che non si
potevano proponer in concilio quelle materie, senza contravenir alle promesse
espresse fatte dal re per mezo di monsignor d'Auxerre. Si querelò in
consistoro della impertinenza de' vescovi in Trento nell'allongar le materie
per vanità. Essortò li cardinali a scriver agl'amici loro, et a'
legati scrisse che adoperassero le minaccie e l'autorità, poiché le
persuasioni non giovavano. Sopra gl'articoli dell'instituzione scrisse che il dire
assolutamente l'instituzione de' vescovi esser de iure divino, era
opinione falsa et erronea; perché la sola potestà dell'ordine era da
Cristo, ma la giurisdizzione era dal romano pontefice, et in tanto si
può dire da Cristo, perché la autorità ponteficia è dalla
Maestà Sua e tutto quello che il papa fa, lo fa Cristo mediante lui. E
scrisse per risoluzione che overo si tralasciassero assolutamente le parole de
iure divino, overo si proponesse nella forma che egli mandava, nella quale
si diceva Cristo aver instituito li vescovi da esser creati dal romano
pontefice, con distribuzione di quale e quanta autorità pareva a lui,
per beneficio della Chiesa, dargli, e con assoluta potestà di
restringere et amplificare la data, secondo che da lui è giudicato. Scrisse
appresso che nel particolare della residenza, essendo cosa chiara che il
pontefice ha autorità di dispensare, fosse per ogni buona cautela
riservata l'autorità sua nel decreto, nel quale non si poteva metter de
iure divino, come aveva ben provato il Catarino, dal parer del quale, come
catolico, non si dovessero partire. E quanto al tener la sessione, scrisse
confusamente che non fosse differita oltre li 15 giorni e che non si celebrasse
senza aver le materie in ordine, acciò non fosse presa occasione da'
maligni di cavillare.
Per Trento
passò una solenne ambasciaria del duca di Baviera, inviata a Roma per
ottener dal papa la communione del calice. Ebbe audienza da' legati e
trattò in secreto col cardinale di Lorena. Fu causa di rinovar la
controversia già sopita in quella materia, essendo li spagnuoli e molti
degl'italiani (se ben per voti della maggior parte s'era rimessa la causa al
papa) di parere che fosse pregiudicio al concilio, se, durante esso, quell'uso
s'introducesse. Si posero anco tutti li padri in moto per esser da Roma gionte
lettere a diversi prelati che s'averebbe sospeso il concilio; la qual fama fu
anco confermata da don Gioanni Manriques, che per Trento passò da
Germania a Roma. Ma li legati, ricevute le lettere del pontefice, giudicarono
impossibile esseguir gl'ordini da Roma venuti, e che fosse di bisogno dar al
pontefice informazione piú minuta delle cose occorrenti, di quella che si
poteva dar per lettere, e far capace il papa che non si può governar il
concilio come a Roma si pensa, et aver instruzzione da Sua Santità piú
chiara di quanto dovevano operare. Et essendo bisogno di persona di buono
giudicio, ben informata et a che doveva il papa aver credito, non trovarono
migliore del vescovo di Vintimiglia, il qual deliberarono d'ispedire in diligenza.
Le feste del Natale instante furono di opportuna commodità per far prima
caminar lentamente, poi per intermetter le congregazioni, e con aggio attender
a quell'espedizione, che fu il 26 del mese di decembre.
[Avviso della battaglia di Dreux]
Ma a' 28
arrivò nuova della battaglia in Francia successa il dí 17, con pregionia
del prencipe di Condé. Tutto l'anno fu molto turbulento in quello regno per le
differenze della religione, che diedero principio prima a lenta, e dopoi a
gagliarda guerra. Nel principio dell'anno, essendo cresciuto in Parigi il
numero de ugonotti, con mala sodisfazzione del popolo catolico, numerosissimo
in quella città, e facendo quelli gran seguito al prencipe, il
contestabile co' figlioli e la casa di Ghisa tutta, insieme con alcuni altri,
per impedir la grandezza alla quale quel prencipe caminava, fecero lega
insieme, con dissegno di farsi capi del popolo parisino e, con l'aderenza di
quello, scacciar il prencipe co' suoi seguaci da Parigi e dalla corte; e
partitisi ciascuno dalle terre loro per inviarsi verso quella principale
città, e nel viaggio uccisi e dispersi gl'ugonotti che trovarono in
diversi luoghi adunati, entrarono in Parigi, e tirato dal canto loro il re di
Navarra e fatta armar la città a loro favore, fu la regina costretta ad
accordarsi con essi; onde uscito Condé di Parigi e ritiratosi in Orliens con li
suoi aderenti, passarono manifesti e scritture dall'una parte e dall'altra,
protestando ciascuno d'operare in tutto quello che faceva per libertà e
servizio del re. Ma facendosi ogni giorno piú forte il partito del contestabile
e di Ghisa, nell'aprile il prencipe di Condé scrisse a tutte le chiese
riformate di Francia, dimandando soldati e danari e dicchiarando la guerra
contra li defensori della parte catolica, chiamandogli turbatori della quiete
publica e violatori dell'editto regio, publicato a favor de' reformati. Le
lettere del prencipe furono accompagnate con altre de' ministri d'Orliens e di
diverse altre città, che furono causa di metter le arme in mano a' seguaci
di quella religione; e successe accidente, che gl'incitò maggiormente.
Imperoché nel medesimo tempo fu publicato di nuovo in Parigi l'editto di
genaro, del quale s'è fatta menzione, con una aggionta, che ne' borghi
di quella città et una lega vicino non si potessero far congregazioni di
religione o amministrar sacramenti, se non nel modo antico. Et in fine di
maggio il re di Navarra fece uscir di Parigi tutti quanti di loro erano, se ben
in questo procedette con moderazione, che non lasciò che alcun di loro
fosse offeso.
Si ruppe la
guerra quasi per tutte le provincie di Francia tra l'una parte e l'altra, et in
quell'estate furono sino 14 esserciti formati tutti in un tempo in diverse
parti del regno. Combattevano anco figliuoli contra padri, fratelli contra fratelli,
e sino femine dall'una parte e l'altra presero le armi per mantener la loro
religione. Quasi nissuna parte delle provincie Delfinato, Lenguadoca e
Guascogna rimase che non fusse piú volte scossa, in alcuni luoghi restando
vincitori li catolici, in altri i riformati, con tanta varietà
d'avvenimenti che cosa longa sarebbe raccontargli, e fuori del nostro
proponimento, il quale non ricerca che siano narrate le cose fuori di Trento,
se non hanno connessione con le conciliari, come sono le seguenti. Che dove
gl'ugonotti restarono vincitori, erano abbattute le immagini, destrutti
gl'altari et espilate le chiese e gl'ornamenti d'oro et argento fusi per batter
moneta con che pagar soldati. Li catolici, dove vincevano, abbrugiavano le
Bibie volgari, rebattezavano li fanciulli, constringevano a rifar di nuovo li
matrimoni fatti secondo le ceremonie riformate, e piú di tutti era miserabile
la condizione de' chierici e de' ministri riformati, de' quali, quando
capitavano in mano degl'avversarii, era fatto straccio crudele et inumano; et
in termini di giustizia anco si facevano essecuzioni grandi, massime dalla
parte catolica. Nel luglio il parlamento di Parigi fece un arresto che fosse
lecito uccidere tutti gli ugonotti; il quale per publico ordine si leggeva ogni
dominica in ciascuna parochia. Aggionsero poi un altro, decchiarando ribelli,
nimici publici, notati d'infamia con tutta la loro posterità e
confiscati li beni di tutti quelli che avevano preso le armi in Orliens,
eccettuando Condé, sotto pretesto che fosse tenuto da loro per forza. E con
tutto che molte trattazioni passassero tra l'una parte e l'altra, essendosi
eziandio abboccati insieme la regina madre del re et il prencipe de Condé,
l'ambizione de' grandi impedí ogni componimento, sí che non fu possibile trovar
modo come acquetare il moto.
Ma essendo
morto il re di Navarra, che forse averebbe impedito il venire all'aperta
guerra, la regina, volendo far sforzo di ricuperar l'ubedienza con le armi,
dimandò a tutti li prencipi soccorso. E perché, per i movimenti di
Francia, li popoli de' Paesi Bassi imparavano ad esser sempre piú contumaci e
duri et ogni giorno si diminuiva l'autorità del re, non potendo li
governatori reparare, né volendo il re seguir il parer del cardinale Granvela,
principale in quel governo, il quale lo consegliava a trasferirsi, per opponer
la maestà regia alla mala disposizione de' popoli e sdegno de' grandi,
conoscendo quel savio re quanto fosse piú pericolosa cosa esser disprezzata in
presenza, e dubitando di non acquistar perciò la Fiandra, ma confermarla
nella contumacia maggiormente, e tra tanto perder anco la Spagna,
giudicò quel prencipe che con sottomettere li francesi sollevati al suo
re potesse proveder intieramente alla contumacia de' sudditi proprii, e
però offerí alla regina potentissimi aiuti di gente e sufficienti per
sottomettergli tutto 'l regno. Ma la regina ricusava aiuti di gente e dimandava
di danari, ben conoscendo che col ricever le genti s'averebbe messo in
necessità di regger la Francia non secondo li rispetti proprii, ma del
re di Spagna: onde convenendo in un partito medio, ricevette aiuto di 6000
persone, con le quali e con le forze proprie, maneggiate dal contestabile e dal
duca di Ghisa, il giorno sopradetto de' 17 fu fatta la giornata, dove morirono
degl'ugonotti 3000 e 5000 de' catolici; da ambe le parti restarono li capitani
generali preggioni, Condé et il contestabile, nissuno degl'esserciti
restò rotto per il valore de' luogotenenti dell'uno e dell'altro, che
erano Ghisa per li catolici, e Coligni per gl'ugonotti; e la regina immediate
confermò il capitanato a Ghisa. Né per questo Coligní restò di
mantener l'essercito in arme, di conservar le terre che aveva, e far anco
qualche progresso.
Di questa
vittoria, che per tale fu depinta, se ben non molto meritava il nome, si rese
grazie a Dio in Trento da tutti li padri congregati, facendo una processione e
cantando una messa, nella quale Francesco Belcarro, vescovo di Metz, fece
un'orazione, narrando tutta l'istoria delle confusioni di Francia, dalla morte
di Francesco II, e raccontando il successo dell'ultima guerra, conferí tutta la
lode del ben operato nel solo duca di Ghisa; passò a dire la causa di
quelle confusioni esser stato Martino Lutero, che se ben picciola scintilla,
accese gran fuogo occupando prima la Germania, e poi le altre provincie
cristiane, fuor che l'Italia e Spagna. Interpellò i padri a sovvenir
alla republica cristiana, poiché soli potevano estinguer quell'incendio. Disse
che era l'anno vigesimosesto dopo che Paolo III diede principio a medicar il
male, intimando quivi il concilio, il qual fu differito, poi dissimulato, e
finalmente in quello con varie fazzioni si contese, sinché fu trasferito a
Bologna; dove intervennero varie dilazioni, maggior contenzioni e fazzioni piú
acerbe. Fu poi ricchiamato in Trento e per le guerre dissoluto. Ora essersi
gionto all'ultimo: non esservi piú luogo di dissimulazione; quel concilio overo
esser per reconciliar tutto 'l mondo, o per precipitarlo in una certa ruina.
Però conveniva che i padri non risguardassero agl'interessi privati, non
portassero dissegni, né parlassero in grazia d'altri, trattandosi la causa
della religione. Se averanno l'occhio ad altra cosa, la religione sarà
spedita. E le sudette cose dette con libertà temperò con adulazione,
prima a' padri, poi verso il pontefice, l'imperatore, il re de' Romani e quello
di Polonia. Passò alle lodi della regina madre di Francia e del re di
Portogallo, et in fine essortò alla riforma della disciplina
ecclesiastica.
Il cardinale
di Lorena, ricevuta la nuova della preggionia del prencipe, restò molto
allegro, particolarmente per l'onore del fratello, e tanto piú entrò in
desiderio di ritornar presto in Francia per poter aiutar, stando in corte e nel
regio conseglio, le cose di quello et avanzarsi esso ancora qualche grado piú
alto, poiché era levato e Navarra et il contestabile, a' quali era necessario
che cedesse.
[Sospetti del papa contra Cesare, e suoi
provedimenti]
Il pontefice,
in quei giorni, pieno di sospetto per l'andata in Ispruc ch'aveva publicato
l'imperatore, giudicando che non si movesse senza gran dissegni e senza
certezza d'effettuargli, e però credendo che avesse secreta intelligenza
con Francia e Spagna, della quale niente penetrando, non poteva far giudicio se
non che fosse macchinazione contra lui, andava pensando di trasferirsi esso
ancora a Bologna, e di mandar 8 o 10 cardinali a Trento, di ristringersi
maggiormente co' prencipi italiani e di confermar bene li prelati suoi
amorevoli in concilio, mentre trovava qualche occasione che si dissolvesse o
sospendesse; e per impedir la trattazione in Trento di riformar la sua corte,
in quei giorni s'adoperò assai in questo. Riformò la rota,
publicando un breve dato sotto il dí 27 decembre, con ordinazione che nissun
auditore possi venir alla definitiva, se ben in causa chiara, non fatta la
proposizione a tutto 'l collegio, eccetto se intervenisse il consenso delle
parti; che le sentenzie pronunziate ut in schedula siano prodotte tra 15
giorni; che le cause degl'auditori o loro consanguinei e parenti sino al
secondo grado o famigliari non siano conosciute in ruota; che non constringano
le parti a ricever avvocato; che non si faccia decisione contra le stampate, se
non con 2 terzi de' voti; che siano tenuti a rimetter qualonque causa dove si
scuopra sospezzione di delitto. Fece nella medesima bolla una tassa della
moderazione delle sportule. Riformò ancora con altre bolle publicate il
primo di genaro seguente la segnatura di giustizia, li tribunali di Roma,
l'ufficio dell'avvocato fiscale, ordinando le sportule che dovessero avere. Ma
tanto fu lontano che per queste provisioni cessassero le consuete estorsioni,
che anzi dalle transgressioni di questi nuovi ordini s'imparò a violar
anco li vecchi che erano in qualche uso.
I corteggiani
romani, riputando che i catolici in Francia avessero avuto intiera vittoria e
che li protestanti fossero afatto annichilati, erano allegri, credendo che
essendosi ottenuto con le armi quello che s'aspettava dal concilio, quanto alla
Francia, non dovendo aver piú risguardo alla Germania che gl'aveva protestato
contra, cessassero totalmente le cause di far concilio e si potesse sospenderlo
o differirlo, e liberar loro dal travaglio che ogni settimana sentivano crescer
per le novità che da Trento avvenivano. Il pontefice non vi fece gran
capitale sopra, perché, ben avisato che le forze de' catolici non erano
accresciute, né quelle de' ugonotti diminuite e che quella giornata darebbe
occasione ad ambe le parti di trattar di pace, che non poteva esser senza
pregiudicio suo e senza dar materia in Trento a maggior novità, restava
con maggior timore e molestia che prima. Con questo stato di cose finí l'anno
1562, avendosi in Trento tenuta congregazione il dí 30 del mese, dove fu
deliberato di prolongar e statuir il giorno della sessione per altri 15 giorni.
[Articoli di riforma de' francesi]
L'anno 1563
ebbe principio in concilio con l'atto della presentazione che gl'ambasciatori
francesi fecero de' capitoli della riforma, che a' legati et a tutti li
ponteficii parvero molto ardui: ne' particolari, massime, dove si trattava
d'alterar li riti della Chiesa romana e dove erano toccati gl'emolumenti e
dritti che la Sede apostolica riceve dalle altre Chiese. E gl'ambasciatori alla
presentazione aggionsero la solita appendice, per non chiamarla protesta: che
se quelle proposte non fossero abbracciate, averebbono proveduto a' loro
bisogni in Francia. Furono certi li legati che dal pontefice sarebbono stati
visti con alterazione, attesa la promessa fattagli che non si sarebbe, intorno
le annate et altre raggioni pecuniarie, trattato in concilio, ma amicabilmente
con lui. Ebbero per necessario mandar un prelato a portargli et informar la
Santità Sua; inclinarono a mandar il vescovo di Viterbo, come ben
informato delle cose di Francia, per esservi dimorato molti anni noncio, e
consapevole de' pensieri del cardinale e prelati francesi del concilio, con
quali aveva conversato dopo il suo arrivo. Il che inteso dal cardinal di
Lorena, gli confortò a cosí fare, et esso ancora gli diede instruzzioni
per parlar al pontefice. Quel vescovo fu cosí destro che, quantonque fosse dal
cardinale tenuto essergli mandato per esploratore et osservatore, nondimeno
seppe cosí ben maneggiarsi, che acquistò la confidenza del cardinale e
degl'ambasciatori, senza diminuir quella che il pontefice et i legati avevano
in lui. Andò questo prelato con instruzzione di dover rapresentar al
papa tutte le difficoltà che li legati sentivano, e di riportarne
risoluzione et ordine come in ciascun particolare dovessero governarsi. Da
Lorena ebbe instruzzione di supplicare il pontefice a ricever in buona parte
che fosse dal re ricercato quello che era necessario per il suo regno, e da
loro, che esseguivano li commandamenti regii, e d'offerir a Sua Santità
l'opera sua per accommodare le differenze dell'instituzione de' vescovi e
residenza, che tenevano il concilio impedito in cose leggieri.
I cesarei,
veduta la riforma de' francesi e considerato il proemio, parve loro d'esser
notati come di poca autorità. Si dolsero co' legati che gl'articoli di
riforma raccordati dall'imperatore o da loro non fossero stati proposti,
quantonque ne avessero dato fuori copie, mandate a Roma e disseminate per Trento,
e ricercando che si ponessero insieme con quei de' francesi. Si scusarono i
legati per la facoltà, data loro dall'imperatore con lettere e da essi
ambasciatori a bocca, che proponessero e tralasciassero quello che a loro
pareva, soggiongendo che aspettavano tempo opportuno, e che veramente li
francesi non avevano trovato buona congiontura, mentre che vive la differenza
de' doi canoni, che dà molta necessità a Sua Santità. Non
restarono sodisfatti gl'ambasciatori, dicendo esser differenza dal tralasciar
il tutto ad una sola parte, e dal differire, tenendo tra tanto le cose col
debito rispetto, al propalarle e metterle in derisione. E replicando Simoneta
che era troppo difficile discernere quei da proporre, dove erano manifesti quei
da tralasciare; in fine si contentarono li cesarei che s'aspettasse quello che
il papa avesse detto alle proposte francesi, e poi si fossero date fuori le
loro. I prelati francesi avevano acconsentito con parole generali a' capitoli
spettanti a' riti et altri di gravame a vescovi, che in secreto loro non
approvavano, credendo che nella ventilazione d'essi dovessero aver li spagnuoli
e buona parte d'italiani contrarii; ma vedendo che si mandavano a Roma, ebbero
timore che, opponendosi il papa a quelli che toccavano le sue entrate, fosse condesceso
agli altri, e per composizione contentatosi de' pregiudiciali a loro, per
fuggir quei di suo interesse. Per questa causa si diedero a far qualche secrete
prattiche con altri prelati, persuadendo la moderazione; il che facendo alla
francese senza intiera cauzione, fu noto agl'ambasciatori. Perilché Lansac gli
congregò tutti e riprese acremente che ardissero opponersi alla
volontà regia, della regina, del conseglio tutto e del regno;
gl'essortò non solo a non contra operare, ma a promover la regia deliberazione,
e l'ammonizione fu in forma che si conosceva non senza rigore.
Ma prima che
narrare la negoziazione di Roma, è ben portar qui la sostanza della
proposta francese, la qual fu immediate stampata in Ripa et a Padoa; e
conteneva: che gl'ambasciatori già molto tempo avevano deliberato,
esseguendo il commandamento del re, di proponer al concilio le cose contenute
in quel scritto; ma avendo l'imperatore fatto propor quasi le stesse, per non
importunar li padri, avevano aspettato di veder la risoluzione sopra le
proposte di Sua Maestà cesarea. Ma ricevuto nuovo commandamento dal re e
vedendo l'istanza dell'imperatore portata piú in longo che non si pensava,
avevano deliberato non differir piú, non volendo essi cosa singolare, separata
dal rimanente della cristianità; e che il re, desiderando che si tenga
conto delle cose da lui proposte, rimette nondimeno il giudicio e la cognizione
di tutte a' padri. Erano li capi 34:
1 Che non
siano ordinati sacerdoti se non vecchi con buona testimonianza del popolo, esperimentati
per buona vita passata, e siano punite le carnalità e transgressioni
loro secondo li canoni.
2 Che
gl'ordini sacri non siano conferiti in un istesso giorno o tempo, ma chi ha
d'ascender a' maggiori, sia provato ne' minori.
3 Che non sia
ordinato prete, al qual insieme non sia dato beneficio o ministerio, secondo il
concilio calcedonense, quando non era conosciuto il titolo presbiterale senza
ufficio.
4 Che sia
restituita la debita fonzione a' diaconi et altri ordini sacri, acciò
non appaiano nudi nomi et in sola ceremonia.
5 Che li
preti et altri ministri ecclesiastici attendino alla loro vocazione, né
s'intromettino in altro ufficio che nel divino ministerio.
6 Che non si
faccia vescovo se non d'età legitima, di costumi e dottrina che possi insegnar
e dar essempio a' popoli.
7 Che non sia
fatto piovano se non di bontà provata, che possi insegnar al popolo, ben
celebrar il sacrificio et amministrar li sacramenti et insegnar l'uso et
effetto di quelli a' recipienti
8 Che non sia
creato abbate o prior conventuale se non ha insegnato lettere sacre in una
celebre università et ottenuto il magisterio o altro grado.
9 Che il
vescovo, per se stesso o per mezo d'altri predicatori, in tanto numero che
basti secondo la grandezza della diocesi, ogni domenica e festa, e nella
quadragesima i giorni di digiuno, e nell'avvento e sempre che sarà
opportuno debbia predicar.
10 Che
l'istesso faccia il piovano quando vi sono audienti.
11 Che
l'abbate e prior conventuale legga la Sacra Scrittura et instituisca ospitale,
sí che siano restituite a' monasterii le antiche scole et ospitalità.
12 Che i
vescovi, piovani, abbati et altri ecclesiastici inetti a far il loro ufficio
ricevino per quello coadiutori, o cedino a' beneficii.
13 Che per
conto del catechismo et instruzzione summaria della dottrina cristiana sia
ordinato quello che la cesarea Maestà ha proposto al concilio.
14 Che un
solo beneficio sia conferito ad uno, levata via la differenza della
qualità di persone e di beneficii compatibili et incompatibili, divisione
nuova, incognita agl'antichi decreti, causa di gran turbe nella Chiesa
catolica, e li beneficii regolari siano dati a' regolari, e li secolari a'
secolari.
15 Che chi al
presente ha doi o piú, retenga quel solo che eleggerà tra breve tempo,
altrimenti incorra la pena degl'antichi canoni.
16 Che per
levar ogni nota d'avarizia dall'ordine sacerdotale, sotto qual si voglia
pretesto, non sia ricchiesta alcuna cosa per l'amministrazione delle cose
sacre, ma sia provisto che li curati con doi o piú chierici abbiano di che
vivere et essercitar l'ospitalità; dando ordine il vescovo con unione de
beneficii o assignazione di decime, overo, dove ciò non si potrà,
provedendo il prencipe per subvenzioni e collette imposte sopra le parochie.
17 Che nelle
messe parochiali sia esposto l'Evangelio chiaramente secondo la capacità
del popolo, e le preghiere che il paroco fa insieme col popolo siano in lingua
volgare, e finito il sacrificio in latino, facciano publiche orazioni in lingua
volgare parimente, e si possi in quel tempo e nell'altre ore cantar nella
medesima lingua canti spirituali o salmi di David approvati dal vescovo.
18 Che
l'antico decreto della communione sotto ambedue le specie di Leone e Gelasio
sia rinovato.
19 Che inanzi
l'amministrazione di ciascun sacramento preceda in lingua volgare
un'esposizione, sí che gl'ignoranti intendino l'uso e l'efficacia.
20 Che
secondo gl'antichi canoni, li beneficii non siano conferiti da' vicarii, ma da'
medesimi vescovi fra termine di sei mesi, altrimenti la collazione si devolva
al prossimo superiore e gradatamente al papa.
21 Che li
mandati di proveder le espettative, li rigressi, le resignazioni in confidenza
e le commende siano rivocate e bandite dalla Chiesa come contrarie a' decreti.
22 Che le
resignazioni in favore siano in tutto esterminate dalla corte romana, essendo
un eleggersi o dimandar il successore, cosa proibita da' canoni.
23 Che li
priorati semplici, a' quali contra la fondazione è stata levata la cura
delle anime et assignata ad un vicario perpetuo con una picciola porzione di
decima o d'altra entrata, alla prima vacanza siano restituiti nello stato di
prima.
24 Che li
beneficii, a' quali non è congionto alcun ufficio di predicar,
amministrar sacramenti, o altro carico ecclesiastico, dal vescovo, col conseglio
del capitolo, sia imposta qualche cura spirituale, o siano unite alle
parochiali vicine, non dovendo, né potendo esser alcun beneficio senza ufficio.
25 Che non
siano imposte pensioni sopra beneficii e le imposte siano abolite, accioché le
entrate ecclesiastiche siano spese nel viver de' pastori, de' poveri et altre
opere pie.
26 Che a'
vescovi sia restituita intieramente la giurisdizzione ecclesiastica in tutta la
diocese, levate tutte le essenzioni, eccetto a' capi degl'ordini e monasterii che
sono soggetti a loro et a quelli che fanno capitoli generali, a' quali le
essenzioni sono con titolo legitimo concesse, provedendo però che non
siano essenti dalla correzzione.
27 Che il
vescovo non usi la giurisdizzione, né tratti negozii gravi della diocesi, se
non con conseglio del capitolo; e li canonici resedino continuamente nella
catedrale, siano di buoni costumi e scienza et almeno di 25 anni: perché inanzi
quella età, non avendo per le leggi libera potestà sopra li suoi
beni, non debbono esser dati per conseglieri a' vescovi.
28 Che li
gradi di consanguinità, affinità e parentela spirituale siano
osservati, overo di nuovo riformati, ma non sia lecito dispensar in quelli,
eccetto tra li re e prencipi per ben publico.
29 Che
essendo nate molte pertorbazioni per causa delle imagini, proveda la sinodo che
il popolo sia insegnato che cosa debbia creder di quelle, e che siano levati
gl'abusi e superstizioni, se alcune siano introdotte nel culto d'esse. Il
medesimo si faccia delle indulgenze, peregrinaggi, reliquie de' santi, e delle
compagnie o confraternità.
30 Che sia
restituita nella Chiesa catolica la publica et antica penitenza per i peccati
gravi e publici, e posta in uso; et ancora, per placar l'ira di Dio, sia
restituito l'uso de' digiuni et altri essercizii luttuosi e preghiere publiche.
31 Che la
scommunica non sia decretata per ogni sorte di delitto o contumacia, ma solo
per i gravissimi e ne' quali il reo perseveri dopo le ammonizioni.
32 Che per
abbreviar o levar in tutto le liti beneficiali, da' quali tutto l'ordine
ecclesiastico è contaminato, sia tolta via la distinzione di petitorio e
possessorio, novamente trovata in quelle cause; siano abolite le nominazioni
delle università, sia commandato a' vescovi di dar li beneficii non a
chi gli ricerca, ma a chi gli fugge et è meritevole, et il merito si
potrà conoscer se dopo il grado ricevuto nell'università,
s'averà adoperato qualche tempo, col voler del vescovo et approbazione
del popolo, nelle prediche.
33 Che
nascendo lite beneficiale, sia creato un economo e li litiganti eleggano
arbitri; il che se non faranno, il vescovo gli dia, e quei fra sei mesi
terminino la lite inappellabilmente.
34 Che le
sinodi vescovali si faccino almeno una volta all'anno, e le provinciali ogni
tre anni, e le generali, quando non vi sarà impedimento, ogni decimo.
[Il papa crea nuovi cardinali, e forma de'
canoni dell'instituzione de' vescovi e della podestà del papa]
Ma in Roma
arrivò il primo di genaro Vintimiglia, fatto il viaggio in 7 giorni.
Presentò al pontefice le lettere et espose la sua credenza, e diede
conto de' pensieri e varii fini che erano in concilio e degl'umori diversi, e
del modo come pareva a' legati et agl'altri buoni servitori di Sua
Santità che dovessero pigliare e maneggiare le difficoltà. Tenne
il pontefice congregazione il terzo giorno, diede conto della relazione di
Vintimiglia, mostrò sodisfazzione della diligenza e prudenti azzioni de'
legati, e lodò la buona volontà di Lorena, et ordinò che
si consultasse sopra il capo dell'instituzione de' vescovi, che stringeva
allora principalmente. Il giorno 6, anniversario della coronazione sua, tenne
un'altra congregazione, nella quale publicò cardinali Ferdinando de
Medici e Federico Gonzaga: quello per consolar il padre della miserabil morte
d'un altro figliuolo cardinale, e questo per gratificar il legato Mantova e
gl'altri della casa strettamente seco congionti, per il matrimonio d'un nipote
del legato e della sorella del cardinale Borromeo; non intermettendo
però il pontefice d'intervenir alle consulte delle cose conciliari,
nelle quali, dopo longa discussione, fu risoluto di scriver a' legati che il
canone dell'instituzione de' vescovi fosse formato con dire che li vescovi
tengono nella Chiesa luogo principale dependente dal romano pontefice, e che da
lui sono assonti in partem sollicitudinis. E nel canone che della
potestà del papa era introdotto, si dicesse che egli ha autorità
di pascer e regger la Chiesa universale, in luogo di Cristo, dal quale gli
è stata communicata tutta l'autorità come vicario generale; ma
nel decreto della dottrina estendessero le parole del concilio fiorentino, le
quali sono che la Santa Sede apostolica et il romano pontefice ha il primato in
tutto 'l mondo et è successore di san Pietro, prencipe degl'apostoli, e
vero vicario di Cristo, capo di tutte le chiese, padre e maestro di tutti li
cristiani, al qual in san Pietro da Cristo nostro Signore è stata data
piena potestà di pascere, reggere e governare la Chiesa universale;
soggiongendo che non si dipartissero da quella forma, quale teneva certo che
sarebbe ricevuta, perché, essendo tolta di peso d'un concilio generale, chi
vorrà opporsi si mostrerà scismatico et incorrerà nelle
censure; le quali per divina providenza essendo sempre state punite ne'
contumaci con maggior essaltazione della Sede apostolica, confidava che dalla
Maestà Sua divina e da' buoni catolici la causa della Chiesa non sarebbe
abbandonata, e fra tanto sarebbe ritornato il Vintimiglia, che in breve
averebbe spedito con piú ampie instruzzioni. Deliberò di trasferirsi a
Bologna per esser vicino e poter abbraciar le occasioni di finir o trasferir il
concilio, le quali, prima che gl'avisi giongessero a Roma, svanivano. Fece
formar una bolla che, occorrendo la morte sua mentre fosse assente, l'elezzione
si facesse in Roma dal collegio de' cardinali.
[Il papa si sdegna per gli articoli de'
francesi e manda le censure d'essi a Trento]
Non cosí
tosto fu il corrier spedito per Trento con queste lettere, che arrivò
Viterbo con la riforma de' francesi e fece rincrudir la piaga della molestia.
Sentí il papa a legger quella riforma la prima volta con estrema impazienza e
proruppe a dire che il fine di quella era per levar la dataria, la rota, le
segnature e finalmente tutta l'autorità apostolica; poi, raserenato alquanto
per l'esposizione del vescovo che gli dava speranza che Sua Santità
averebbe potuto qualche cosa divertire e qualche altre moderare, concedendone
alcune, gl'espose l'instruzzione di Lorena; la qual era che li prencipi
dimandano molte cose per ottener quelle che premono, le quali non sono le
importanti a' rispetti della Sede apostolica, come la communione del calice,
l'uso della lengua volgare, il matrimonio de' preti. Se di quelle Sua
Santità si contentasse sodisfargli, trovarebbe breve et ispedita via
d'aver onor del concilio e venir al fine desiderato. Gli narrò molti di
quei articoli non esser ben sentiti dagl'istessi vescovi francesi, che si
preparavano di mettervi impedimenti. Queste cose udite, ordinò il papa
che gl'articoli fossero discussi in congregazione, nella quale introdusse et il
Viterbo et il Vintimiglia, acciò instruissero a pieno delle occorrenze.
Nella congregazione fu deliberato che si facesse scriver da teologi e canonisti
sopra quelle proposte et ogn'uno mettesse in carta il suo parer, e per far
qualche diversione dalla parte di Francia ordinò il papa al cardinale di
Ferrara che rilasciasse al re li 40000 scudi senza altra condizione; che
gl'esponesse esser le proposte degl'ambasciatori suoi in Trento in molte parti
utili per riforma della Chiesa, le quali desiderava vedere non solo decretate,
ma mandate anco in essecuzione; però non le approvava tutte, essendone
alcune con diminuzione dell'autorità regia, che resterà privata
del conferir le abbazie, il che al re è un grand'aiuto per premiar li
buoni servitori; che li re antichi, avendo vescovi troppo potenti per la
grand'autorità, e contumaci alla potestà regia, ricercarono li
pontefici romani di moderarla, et ora per quelle proposizioni gl'ambasciatori
suoi restituivano a' vescovi la licenza che da' precessori di Sua Maestà
prudentissimamente fu procurato di metter sotto maggior regola. Quanto alla
autorità ponteficia, che non si poteva levargli quella che da Cristo
gl'era data, dal qual san Pietro et i successori furono fatti pastori della
Chiesa universale et amministratori di tutti li beni ecclesiastici; che levando
le pensioni, se gli leva la facoltà di far limosine, che è uno
de' carichi principali che il papa ha per tutto 'l mondo; che per grazia era
communicata a' vescovi, come ordinarii, facoltà di conferire alcuni
beneficii, la qual non era giusto estendersi tanto che si pregiudicasse
all'universale ordinaria che il papa ha per tutto; che sí come le decime sono
debite alla Chiesa de iure divino, cosí la decima delle decime si debbe
da tutte le chiese al sommo sacerdote; che per maggior commodità quella
è stata commutata in annate; che se quelle portano incommodo al regno di
Francia, non ricusava di trovarvi temperamento, purché alla Sede apostolica
fosse in modo conveniente servato il suo dritto: ma, come piú volte aveva fatto
intendere, questo non si poteva trattar con altro che con lui, né il concilio
poteva mettergli mano. Commise in fine al cardinale che poste tutte queste cose
in considerazione al re, l'essortasse a dar nuovi ordini agl'ambasciatori suoi.
Mandò
anco il papa a Trento le censure sopra quei capitoli, fatte da diversi
cardinali, prelati, teologi e canonisti di Roma, ordinando che si differisse a
parlar di quella materia quanto piú si poteva; che l'articolo della residenza e
gl'abusi spettanti al sacramento dell'ordine averiano dato trattenimento per
molti giorni, e quando vi fosse stata necessità di proponer quei
articoli, incomminciassero da' meno pregiudiciali, che appartengono a' costumi
e dottrina, differendo parlar de' riti e della materia beneficiale; e pur
costretti a parlar sopra di questi ancora, communicate le obiezzioni co'
prelati amorevoli, gli mettessero in discussione e controversia, e fra questo
tempo egli gl'averebbe ordinato quel di piú che avesse deliberato: tanto
scrisse a' legati.
Poi, in fine
del mese, in consistoro espose come li maggior prencipi del cristianesmo
dimandavano riforma, che non poteva esser negata né con vere raggioni, né con
pretesti; però era risoluto, per dar buon essempio e non mancar del suo
debito, incomminciar da se medesimo, provedendo agl'abusi della dataria,
levando le coadiutorie, li regressi e le renoncie a favore, e che dovessero li
cardinali non solo con loro voto acconsentirvi, ma anco farlo noto a tutti. Da
molti fu commendata assolutamente la buona intenzione di Sua Santità, da
altri fu considerato che quegl'usi erano introdotti per levar abusi maggiori di
manifeste simonie e patti illeciti, e che conveniva aver prima buon
avvertimento che, levando questi tolerabili, quali finalmente non sono se non
contra leggi umane, non si aprisse la porta al ritorno di quelli che sono
contra le leggi divine. Il cardinale di Trento particolarmente disse che
sarebbe stato di gran pregiudicio levar le coadiutorie in Germania, perché,
essendo congionti quei vescovati con li principati, quando non avessero potuto
ottener coadiutorie di tutti doi insieme, averebbono introdotto il farlo nel
principato solamente, e cosí s'averebbe diviso il temporale dallo spirituale,
con total esterminio della Chiesa. Il cardinale Navaggiero contradisse al far
differente la Germania, dicendo che i tedeschi, essendo stati li primi a
dimandar riforma, dovevano esservi compresi. Narrò poi il pontefice
quanti tentativi erano proposti in concilio contra li privilegii della Chiesa
romana, parlò delle annate, delle riservazioni e delle prevenzioni;
disse che erano sussidii necessarii per mantenimento del papa e del collegio
de' cardinali, de' quali sí come essi participavano, cosí era giusto che s'adoperassero
in mantenergli, e che voleva mandar un numero di loro a Trento per defendergli.
[I canoni del papa non sono ricevuti da'
spagnuoli, né da' francesi, et eccitano gravi turbamenti]
Ma in Trento,
il dí dopo l'arrivo del corriero che portò da Roma li canoni
dell'instituzione, che fu il 15 genaro, giorno determinato per risolver il
prefisso tempo della sessione, fu fatta congregazione e deliberato di differire
a statuirlo sino a' 4 febraro, e fu data copia de' decreti dell'instituzione
con ordine di reincomminciare le congregazioni per parlar sopra di quelli. E fu
data cura a' cardinali di Lorena e Madruccio di riformar il decreto della
residenza, insieme con quei padri che a loro fosse parso assumer in compagnia.
E ne' giorni seguenti, continuandosi le congregazioni, furono approvate le
formule venute da Roma con facilità da' patriarchi e da' piú antichi
arcivescovi. Ma venuto a' spagnuoli, furono poste difficoltà, e poi da'
francesi molto maggiori. Fu opposto al passo che diceva: «Li vescovi tener
luogo principale dependente dal pontefice romano», con dire che era forma di
parlar ambigua e che conveniva parlar chiaro; e dopo longa discussione, si
contentavano d'admettere che si dicesse principale sotto il romano pontefice,
ma non dependente; alcuni anco repugnarono a quelle parole che li vescovi siano
assonti dal papa in parte della cura, ma volevano dire che erano dati da Cristo
in parte di quella, allegando il luogo di san Cipriano: «Il vescovato è
uno, del quale ciascuno tiene una parte in solidum». E nel capo
dell'autorità di pascere e reggere la Chiesa universale, allegando in
contrario che quella era il primo tribunal sotto di Cristo, al quale ogni uno
doveva esser soggetto e che Pietro istesso fu inviato alla Chiesa come a
giudice, con le parole di Cristo: «Va dillo alla Chiesa; e chi non udirà
la Chiesa, abbilo per etnico e publicano»; e si contentavano che si dicesse il
pontefice aver autorità di pascer e regger tutte le chiese, ma non la
Chiesa universale; che in latino faceva poca differenza di parole dal dire
«universalem ecclesiam» al dire «universas ecclesias». E diceva Granata: «Io
son vescovo di Granata et il papa è arcivescovo della medesima
città», inferendo che il papa abbia la sopraintendenza delle chiese
particolari come l'arcivescovo di quelle de' suffraganei. Et allegandosi per
l'altra parte che nel concilio fiorentino era usata questa parola: «la Chiesa
universale», si diceva in contrario che il concilio di Costanza e Martino V,
nella condannazione degl'articoli di Gioanni Viglef, danna l'articolo contra il
primato della Sede apostolica solo in quanto vogli dire che non sia preposta a
tutte le chiese particolari. E qui fu introdotta anco disputa tra francesi et
italiani, dicendo questi che il concilio fiorentino fu generale et il concilio
di Costanza in parte approbato et in parte reprobato, e quello di Basilea
scismatico; per il contrario sostentando gl'altri che il costanziense e
basileense fossero concilii generali e che quel nome non poteva competere al
fiorentino, dove intervennero solo alcuni pochi italiani e quattro greci. Non
concedevano manco che il papa avesse tutta l'autorità di Cristo,
eziandio con le restrizzioni e limitazioni come uomo e nel tempo della
mortalità sua, ma si contentavano che si dicesse aver autorità
pari a quella di san Pietro, il qual modo era molto in sospetto a ponteficii,
che vedevano volersi far la vita et azzioni di san Pietro essemplare del
pontefice, che sarebbe, come dicevano, ridurre la Sede apostolica a niente, la
qual dicevano aver una potestà illimitata per poter dar regola a tutti
gl'emergenti, secondo che i tempi ricchiedono, eziandio in contrario
dell'operato da tutti li precessori e da san Pietro stesso; e le contenzioni
sarebbono passate molto piú inanzi. Ma li legati, per dar qualche intermissione,
a fine di mandar al pontefice, come fecero, la correzzione degl'oltramontani e
ricever commandamento come governarsi, e tra tanto per metter a campo materia
che facesse scordar questa, tornarono nella residenza, sopra la quale avendo
Lorena e Madruccio composto una formula e presentatala qualche giorni inanzi a'
legati, essi, senza pensar piú inanzi, l'approvarono; ma avendola poi
consultata co' canonisti, non fu da quelli lodata una particola dove si diceva
che i vescovi sono tenuti per divino precetto attendere e vegliare sopra il
gregge personalmente; perilché dubitando che a Roma non avessero il medesimo
senso, mutarono quelle parole, e cosí riformata la proposero in congregazione.
Di questa
mutazione restarono Lorena e Madruccio offesi gravemente, parendo loro d'esser
sprezzati, e Lorena diceva che per l'avvenire non voleva pigliare altro
pensiero, né piú voleva trattar con prelati, ma attender a dir il suo voto con
modestia, servendo però amorevolmente li legati, se avesse potuto, in
qualche opera onesta. E Madruccio non restava di dire che vi era un concilio
piú secreto dentro il concilio, che si attribuiva maggior autorità. Ma
li legati, vedendo che ogni rimedio tornava in male, lasciarono di far
congregazioni: né questo era a bastanza, perché i prelati facevano private
congregazioni tra loro e li legati continue consulte. E l'arcivescovo
d'Ottranto et altri aspiranti al cardinalato, dove tenevano certo arrivare se
il concilio si separava, erano accordati d'opporsi ad ogni cosa per far nascer
tumulto et appassionatamente andavano attorno, eziandio la notte, facendo
prattiche e facendo sottoscriver polize; la qual cosa se ben quanto all'effetto
piaceva a' legati, quanto al modo però alla maggior parte di loro
dispiaceva, come di cattivo essempio e che poteva partorir gravissimo scandalo.
Et anco nella parte contraria non mancava chi desiderava la dissoluzione; ma
ciascuna parte aspettava l'occasione che la colpa fosse attribuita all'altra:
onde li sospetti dell'una e l'altra parte crescevano.
Il cardinale
di Lorena si doleva con tutti che si cercasse di sciogliere la sinodo e ne fece
querele con tutti gl'ambasciatori de' prencipi, pregandogli di scriver a' loro
patroni et operare che facessero ufficio col pontefice che il concilio
proseguisse, che le prattiche fossero moderate e li padri lasciati in
libertà: altrimenti in Francia si sarebbe fatto accordo che ogni uno
vivi a modo suo sino ad un concilio libero, che questo non è tale, non
potendosi né trattare, né risolvere, se non quello che a' legati piace, e li
legati non fanno se non quello che il papa vuol; che egli averebbe con pazienza
sopportato sino alla futura sessione, e non vedendo le cose andar meglio,
farebbe li suoi protesti, e con gl'ambasciatori e prelati tornerebbe in Francia
per fare un concilio nazionale, dove forse la Germania concorrerebbe; cosa che
a lui sarebbe di gran dispiacere, per il pericolo che la Sede apostolica non
fosse poi riconosciuta.
Andarono in
quei giorni da Trento a Roma e da Roma a Trento frequenti corrieri, avisando li
legati le frequenti contradizzioni che piovevano e sollecitando il pontefice la
proposta de' canoni mandati. E li francesi in Roma fecero col papa la medesima
querela che faceva Lorena in Trento, con le stesse minaccie di concilio
nazionale e d'intervento d'alemanni. Ma il papa, solito sentirne spesso, disse
che non si sgomentava di parole, non temeva concilii nazionali, sapeva li
vescovi di Francia esser catolici e che la Germania non si sottometterebbe a'
loro concilii. Diceva che il concilio non solo era libero, ma si poteva dir
quasi licenzioso; che le prattiche fatte dagl'italiani in Trento non erano con
sua participazione, ma nascevano perché li oltramontani volevano conculcar
l'autorità ponteficia; che egli aveva avuto tre buone occasioni di
discioglier il concilio, ma voleva che si continuasse, e sperava che Dio non
abandonerebbe la sua Chiesa, et ogni tentativo contra quella promosso
tornerebbe in capo degl'innovatori. In queste confusioni essendo partito il
Cinquechiese per andar alla corte cesarea, per dar conto a quella Maestà
delle cose del concilio e fargli relazione dell'unione de' prelati italiani, et
essendosi scoperto che Granata e li suoi aderenti gl'avevano dato carico
d'operare coll'imperatore che scrivesse al re Catolico sopra la riforma e
residenza, acciò che essi potessero in quelle e nelle altre occasioni
dir liberamente quello che dettasse loro la conscienza, credettero li legati
che fosse conseglio di Lorena; e per dar qualche ripiego, pochi giorni dopo
essi ancora spedirono all'imperatore il vescovo Commendone, con pretesto
d'iscusare e render le cause perché non s'erano per ancora potute proporre le
dimande di Sua Maestà, e gli diedero commissione d'essortar Cesare a
contentarsi di ricercar dal pontefice, e non dal concilio, quei capi
concernenti l'autorità ponteficia posti nelle sue petizioni, e con altri
avvertimenti et instruzzioni che loro parvero opportune.
Ma essendo
gionto a Trento Martino Cramero, vescovo di Varmia, ambasciatore del re di
Polonia all'imperatore, in apparenza per visitare il cardinal varmiense, antico
et intrinseco suo amico, ebbero gran sospizzione che fosse mandato da Cesare
per informarsi e veder occultamente le cose del concilio e rifferirgliele.
Questi tanti moti posero dubio negl'animi de' legati che il concilio non si
dissolvesse in qualche modo che il papa et essi ne restassero con disonore,
osservando che ciò era da molti desiderato, eziandio da alcuni
ponteficii, e da altri a studio si procuravano disordini per giustificarsi, in
caso che cosí succedesse. Mandarono a tutti gl'ambasciatori una scrittura
contenente le difficoltà che vertivano e gli pregarono dar loro
conseglio. Ma gl'ambasciaori francesi con quella occasione diedero per risposta
quello che desideravano già piú giorni dire: che sí come il concilio era
congregato per rimediare agl'abusi, cosí alcuni volevano servirsi d'esso per
accrescergli; che inanzi ogni altra cosa conveniva ovviare alle prattiche cosí
manifeste, che era intolerabile vergogna; che quelle levate e posto ogni uomo
in libertà di dire il senso suo, s'averebbe facilmente in buona
concordia convenuto; che il papa era capo della Chiesa, ma non però
sopra di quella; che era per regger et indrizzar gl'altri membri, non per
dominare il corpo, e che il rimedio alle differenze era seguir li decreti del
concilio di Costanza, che avendo trovato la Chiesa disformatissima a punto per
causa di simil openioni, l'aveva ridotta a termini comportabili. Poi aggionsero
una delle cause di discordia esser che dal secretario non erano scritti
fedelmente li voti, onde la parte che era maggiore pareva negl'atti la minore,
e non si poteva aver per risoluto quello che era di parer commune, e
però era necessario aggionger un altro, sí che doi scrivessero.
Gl'imperiali li diedero il conseglio loro quasi l'istesso che i francesi,
facendo maggior instanza per un aggionto al secretario. Gl'altri ambasciatori
stettero sopra termini generali, consegliando la continuazione del concilio e
la unione degl'animi.
In questo
stato di cose arrivò in Trento il 29 di genaro il Vintimiglia,
reispedito dal pontefice, il quale fece relazione della sua credenza a' legati,
e poi col parer loro si diede a levar due openioni sparse per il concilio:
l'una, che il pontefice fosse in stato di poter poco viver; l'altra, che
desiderasse la dissoluzione del concilio. Testificò il desiderio di Sua
Santità d'intender che, deposte le contenzioni, s'attendesse al servizio
di Dio et a metter presto fine al concilio. Egli portò bolle d'ufficii e
beneficii conferiti dal pontefice a' propinqui d'alcuni prelati, et un
referendariato al secretario dell'ambasciatore portughese, et una pensione
assai grossa al figlio del secretario spagnuolo, et ad altri varie promesse,
secondo le pretensioni. Fece per nome del pontefice col cardinale di Lorena
gran complementi, mostrando che in lui solo aveva la confidenza d'un presto e
buon fine del concilio.
[L'ambasciator di Savoia fa rimetter su le
congregazioni]
Nacque
opportuna occasione di reassumer le congregazioni, la venuta del vescovo
d'Avosta ambasciatore del duca di Savoia, nella quale dissegnando, dopo averlo
ricevuto, rinovar la proposizione de' canoni, mandarono il vescovo di
Sinigaglia al cardinale di Lorena per pregarlo di trovar qualche maniera come i
francesi potessero ricever sodisfazzione. Gli dimostrò il vescovo che
quel termine di reggere la Chiesa universale era usato da molti concilii; che
quell'altro d'esser assonti in parte della sollecitudine era usato da san
Bernardo, scrittore tanto lodato da Sua Signoria Illustrissima. A che rispose
il cardinale che tutto 'l mondo era spettatore delle azzioni del concilio; che
si sapevano le openioni e voti di ciascuno; che bisognava ben avvertire quello
che si diceva; che di Francia erano state mandate scritture contra le openioni
che in Trento si tengono nelle questioni trattate; che molti s'erano doluti di
lui che procedi con troppo rispetto, e specialmente in quella materia e della
residenza che non abbia fatto la debita instanza acciò siano dechiarate de
iure divino; che per valersi d'un termine usato da qualche scrittore, non
si debbe concludere di parlar secondo il senso di quello, importando molto dove
il termine si ponga e che congionzione abbia con le parole antecedenti e
consequenti, da' quali possono anco nascere opinioni contrarie; che a lui non
danno fastidio li termini, ma i sensi che si dissegna canonizare; che il dire
il pontefice aver autorità di regger la Chiesa universale non poteva
esser ammesso da' francesi in modo alcuno; e se per l'avvenire fosse stato
proposto, gl'ambasciatori non averiano potuto mancar di protestare il nome del
re e di 120 prelati francesi, da' quali averebbono avuto sempre il mandato di
farlo; che quello sarebbe un pregiudicare all'opinione che si tiene da tutti in
Francia, che il concilio sia sopra il papa. Le qual cose riferite da Sinigaglia
a' legati, in presenza di molti prelati italiani congregati là per
consultare questa medesima materia, gli fece entrar in dubio che fosse
impossibile ridur li francesi.
Occorse anco
nel medesimo tempo, cosa che diede grand'animo a' spagnuoli, la venuta di
Martin Guzdellun, del quale di sopra s'è parlato; egli avendo veduto
gl'andamenti di qualche giorno, si lasciò intender d'aver chiaramente
compreso che il concilio non era libero; lodava molto il Uranata e diceva il re
averlo in buona opinione, e che, se vacasse il vescovado di Toledo, gliene
faria mercede. Negoziate queste cose, venne la dominica d'ultimo genaro, quando
era intimata la congregazione generale per ricever l'ambasciator di Savoia
sopranominato; egli fece un breve raggionamento, mostrando li pericoli in quali
era lo stato del suo prencipe per la vicinità degl'eretici e le spese
grandi che faceva; essortò a finir presto il concilio et a' pensar modi
come far ricever li decreti a' contumaci, et offerí tutte le forze del suo
patrone. Gli fu risposto lodando la pietà e prudenza di quel duca e
rallegrandosi della venuta dell'ambasciatore. Continuando le congregazioni, le
dissensioni crescevano, e molti dimandavano che fosse proposto il decreto della
residenza formato da' due cardinali. Li legati, vedendo tanti dispareri, dopo
longhe consulte tra loro e consegli presi co' prelati amorevoli, deliberarono
che non fosse tempo di far decisione alcuna, ma necessario d'interponervi tanta
dilazione, che gl'umori da se medesimi deponessero tanto fervore, overo si
trovasse qualche ispediente per accordare le differenze con prolongar il tempo
della sessione; e per farlo d'accordo, andarono tutti a casa di Lorena per
conferirgli il loro pensiero e dimandargli conseglio et aiuto. Egli si dolse
delle conventicole e che con modi cosí illeciti si pretendesse dar al papa
quello che non gli veniva e togliere a' vescovi quello che da Cristo era stato
dato loro; mostrò che gli dispiacesse il differire la sessione tanto tempo,
nondimeno, per compiacere, se ne contentava: ma ben gli pregò, poiché
questo era a fine di moderar gl'animi, di far ufficii efficaci che gl'inquieti
et ambiziosi fossero raffrenati.
Nella
congregazione de' 3 febraro propose il cardinale di Mantova che, essendo
prossimo il principio quadragesimale, dovendo poi succeder li giorni santi e le
feste di Pasca, si differisse la sessione sino dopo quella, et in quel mentre
si trattasse nelle congregazioni la riforma pertinente all'ordine sacro e la
materia del sacramento del matrimonio. La proposta ebbe gran contradizzione. I
francesi e spagnuoli quasi tutti fecero instanza che si deliberasse una breve
prorogazione e fosse definita la materia dell'ordine insieme con la sua
riforma, prima che trattare del matrimonio; alla qual opinione aderivano anco
alquanti italiani. Aggionsero anco alcuni che la sessione si facesse con le
cose decise, et in particolare si stabilisse il decreto della residenza formato
da' cardinali, e da alcuni fu accennato che era grand'indegnità del concilio
l'aver prolongato tante volte di termine in termine, e che si mostrava di voler
violentar i padri con la stanchezza ad acconsentire alle opinioni che non
sentivano in conscienza; però che si dovesse far la sessione e risolver
le materie secondo il numero maggiore. Non fu anco tacciuto che quella
distinzione di sessione e congregazione generale non era reale, et intervenendo
cosí in questa, come in quella le medesime persone e l'istesso numero intiero,
si dovesse aver per deciso quello che fosse deliberato nella congregazione
generale. Dopo gran contenzione fu risoluto per il numero del piú la dilazione
sino a' 22 aprile, non rimovendosi l'altra parte dalla contradizzione. Il
cardinale di Lorena, se ben mostrò consentire a complacenza, ebbe però
caro per proprio interresse la dilazione per quattro cause: perché fra tanto
averebbe veduto quello che succedesse della salute del papa; averebbe avuto
commodità di trattar coll'imperatore, et intender la mente del re
Catolico, et averebbe visto il successo delle cose in Francia, onde potesse poi
deliberar con fondamento maggiore.
Il dí
seguente gl'ambasciatori francesi fecero grand'e longa instanza a' legati che
si trattasse la riforma e fossero proposte le loro petizioni, prima che
s'incomminciasse a trattar la materia del matrimonio. I legati risposero che il
concilio non doveva ricever leggi da altri, e se da' prencipi sono proposte
cose convenienti, è il dovere avervi sopra considerazione in quelle
opportunità che giudicassero li presidenti; che se nelle petizioni loro
vi saranno cose pertinenti alla materia dell'ordine, proponeranno quelle
insieme, e successivamente le altre a suo tempo. Questa risposta non
contentando gl'ambasciatori, replicarono l'instanza, aggiongendo che, se non
volevano far la proposizione, si contentassero che da loro medesimi fosse
fatta, overo gli dassero aperta negativa; soggiongendo quasi in forma di
protesto che il continuare con risposte ambigue, sarebbe da loro tenuto per
equivalente ad una negativa derisoria. Presero li legati termine di 3 giorni a
dargli risposta piú precisa, et in questo mezo fecero opera con Lorena che
gl'acquietasse, facendogli contentar d'aspettare sin che venisse da Roma
risposta sopra gl'articoli loro mandati.
[Articoli del matrimonio proposti e contesa di
precedenza composta]
Il seguente
giorno furono dati fuori gl'articoli del matrimonio per esser disputati la
settimana seguente da teologi; nel che immediate nacque disputa di precedenza
tra francesi e spagnuoli, alla quale non si poté trovar altro modo che
sodisfacesse ad ambe le parti, se non con mutar l'ordine già dato et
esseguito sino allora, e dare li luoghi anteriori secondo l'ordine della
promozione del dottorato. Ma a questo si opponevano li teologi ponteficii,
dicendo che se per francesi e spagnuoli nasce la difficoltà, si facesse
la provisione per loro soli e non s'alterasse il luogo a' teologi del
pontefice, che era il primo indubitato. I legati, dando loro raggione,
concludevano che la prima classe, nella quale li ponteficii erano, parlasse secondo
il consueto, le altre tre secondo l'ordine della promozione. I francesi non si
contentavano se nella prima classe non era posto uno de' loro et il secretario
spagnuolo fece instanza che si facesse publico instrumento del decreto,
acciò sempre si potesse veder che, se qualche francese parlasse inanzi
li spagnuoli, non era per raggion di precedenza del regno. In conclusione, per
dar sodisfazzione a tutti, fu fatto l'istromento e compiaciuto a' francesi che
dopo il Salmerone, primo de' ponteficii, parlasse il decano di Parigi e
seguendo gl'altri della prima classe, il rimanente procedesse secondo la
promozione.
Erano
gl'articoli 8, sopra quali si doveva disputare se erano ereticali e si
dovessero dannare:
1 Che il
matrimonio non sia sacramento instituito da Dio, ma introdozzione umana nella
Chiesa e che non abbia promessa alcuna di grazia.
2 Che li
progenitori possono irritare li matrimoni secreti e non esser veri matrimoni i
contratti in quella maniera, anzi esser ispediente che nella Chiesa per l'avvenire
siano irritati.
3 Che sia
lecito, essendo repudiata la moglie per causa di fornicazione, contraer
matrimonio con un'altra, vivente la prima, et esser errore far divorzio per
altra causa che di fornicazione.
4 Che sia
lecito a' cristiani aver piú mogli, e le proibizioni delle nozze in certi tempi
dell'anno esser superstizion tirannica, nata dalla superstizione de' gentili.
5 Che il
matrimonio non si debbia posporre, ma anteporre alla castità, e che Dio
dà maggior grazia a' maritati ch'agli altri.
6 Che i
sacerdoti occidentali possono lecitamente contraer matrimonio, non ostante il
voto o la legge ecclesiastica, e che il dire il contrario altro non sia se non
condannar li matrimoni, ma tutti quelli che si sentono non aver il dono della
castità, possono contraer matrimonio.
7 Che debbino
esser guardati li gradi di consanguinità et affinità descritti a'
XVIII del Levitico, e non piú, né meno.
8 Che
l'inabilità alla congionzion carnale e l'ignoranza intervenuta nel
contrattar siano sole cause di discioglier il matrimonio contratto, e che le
cause del matrimonio s'aspettino a' prencipi secolari.
Sopra quali
articoli, acciò fosse con brevità parlato, furono in 4 classi
divisi, a 2 per ciascuna.
[Renes giunge a Trento per menar Lorena a
Cesare, onde nascono sospetti]
Arrivò
in Trento il vescovo di Renes, ambasciator di Francia all'imperatore, il quale
avendo trattato con Lorena, quel cardinale andò a' legati e diede loro
conto che sino al suo partir di Francia aveva ricevuto commissione dal re
d'andar alla Maestà cesarea, il che dissegnava far tra pochi dí, dovendo
esser Cesare in Ispruc et essendo venuto Renes a levarlo. Diede anco conto del
medesimo viaggio al papa con sue lettere, nelle quali toccò il modo di
proceder degl'italiani nel concilio, aggiongendo un motto, che, continuandosi
in tal guisa, pregherà Dio che l'inspiri a far cosa di suo santo
servizio. Di questa andata s'era raggionato qualche mese prima e però
quando si publicò non furono cosí grandi li sospetti come se sprovista
fosse stata. Si teneva per fermo da tutti che fosse per concertar nelle cose
del concilio, e particolarmente per trattar come introdur l'uso del calice; e
questo perché il cardinale in piú occasioni e con diversi prelati detto aveva
che l'imperatore, li re de' Romani e di Francia, sin tanto che non ottengano
l'uso del calice, daranno sempre nuove petizioni di riforma, quantonque si
dovesse star doi anni in concilio; ma concedendo loro questa grazia, si
quieterebbono facilmente, e che il sodisfar quei prencipi era un ottimo rimedio
per ritener quei regni in ubedienza; che non era possibile ottener quella
grazia dal pontefice per la contrarietà che averebbe da' cardinali,
aborrenti da questa concessione; che non s'era ottenuta già in concilio,
perché non fu ben maneggiato il negozio; vi era però speranza che,
portandosi co' debiti modi, s'ottenesse. Ma quelli che piú attentamente
osservavano li progressi del cardinale avvertivano una gran varietà di
parlar: perché ora diceva che, non si risolvendo le cose, sarà costretto
a partire la Pasca o alla Pentecoste; ora che si starà in Trento 2 anni;
et ora proponendo modi di finir presto il concilio, ora proponendo partiti da
eternarlo: indicii manifesti che egli non aveva ancora scoperto la sua
intenzione. E prendevano sospetto del cauto proceder, il qual argomenta animo
di voler con arte giustificar le sue raggioni et onestar la sua causa: onde
considerando che in Ispruc dovevano intervenire ancora il re de Romani, il duca
di Baviera, l'arcivescovo di Salzburg e l'arciduca Ferdinando, si teneva che
quell'abboccamento non potesse apportar se non novità, attesa la poca
sodisfazzione mostrata dall'imperatore sino allora del concilio e l'unione che
in tutte le cose s'era veduta tra lui e Francia, potendosi pensare che il re di
Spagna aderisca anco a quella parte, essendo tanto congionto con loro di
sangue, massime essendosi divulgato che quel re, per lettere sue de' 8 genaro
al conte di Luna, gl'aveva commesso d'intendersi coll'imperatore e con Francia
nelle cose della riforma e della libertà del concilio. In questi giorni
fra Feliciano Ninguarda, procurator dell'arcivescovo di Salzburg
presentò lettere di quel prencipe e fece instanza che li procuratori de'
vescovi di Germania potessero dar voto in congregazioni, affermando che, se
cosí si facesse, altri vescovi di Germania manderebbono procuratori; ma,
negandolo, et esso e gl'altri, per non star là occiosi, partirebbono. Fu
risposto che s'averebbe avuto considerazione e deliberato conforme al giusto; e
di tanto fu dato conto a Roma per non risolver manco questo particolare senza
aviso di là. Ma per l'occupazioni nell'uno e l'altro luogo in cose
maggiori, non se ne parlò piú.
[Esamine degli articoli del matrimonio]
Il 9 del mese
di febraro fu la prima congregazione de' teologi sopra il matrimonio.
Parlò il Salmerone con molta magniloquenza, e sopra il primo articolo
disse le cose solite de' scolastici; sopra il secondo portò la
determinazione del concilio fiorentino, che il matrimonio riceve la perfezzione
col solo consenso de' contraenti, né il padre o altri vi ha sopra
autorità; sostenne che si dovevano dannar per eretici quelli che
attribuiscono potestà a' padri d'anullargli; aggionse che
l'autorità della Chiesa era grandissima sopra la materia de' sacramenti;
che poteva alterare tutto quello che non appartiene all'essenzia; che essendo
la condizione del publico e secreto accidentale, la Chiesa vi aveva sopra
potestà; narrò li grand'inconvenienti che da' matrimoni secreti
nascono et inumerabili adulterii che seguono; e concluse esser ispediente che
vi sia posto rimedio coll'irritargli; fece insistenza grande sopra quel caso
inestricabile, se alcuno, dopo aver contratto e consummato il matrimonio in
secreto, contrae poi in publico con un'altra, dalla quale volendo partire e
ritornar alla prima e legitima, sia costretto con censure di rimanere nel
publico contratto, dove il misero da ambe le parti resta inviluppato, overo in
adulterio perpetuo, overo in censure con scandalo del prossimo.
L'altro
giorno seguí il decano di Parigi, che dell'instituzione del matrimonio e della
grazia che in quello si riceve e del dannare chi lo asserisce invenzione umana
parlò abondantemente con dottrina scolastica. Ma sopra l'articolo de'
clandestini, avendo disputato che erano veri matrimoni e sacramenti, pose
difficoltà se la Chiesa avesse potestà d'irritargli. Contradisse
a quell'openione che nella Chiesa vi sia autorità sopra la materia de'
sacramenti; discorse che nissun sacramento al presente legitimo può la
Chiesa far che all'avvenire non sia valido; essemplificò della
consecrazione dell'eucaristia e passò per tutti li sacramenti; disse non
esser tale la potestà ecclesiastica, che alcun debbi presupporsi di
poter impedir tutti li peccati; che la Chiesa cristiana era stata 1500 anni
soggetta a quello che adesso vien descritto per intolerabile, e quel che non
meno si debbe stimare, dal principio del mondo li matrimoni secreti sono stati
validi e nissun ha pensato di volergli annullare, con tutto che frequentemente
sia occorso il caso d'un publico, contratto dopo d'un matrimonio segreto, che
par sii un insolubile, il qual da ogni canto porti inconvenienti; che il primo
matrimonio tra Adam et Eva, essemplare di tutti gl'altri, non ebbe testimonii.
Non restò senza esser stimato il parer di questo dottore; ma fu molto
grato a' prelati italiani che, occorrendogli una volta nominar il papa,
aggionse formalmente questo epiteto con la seguente esposizione, dicendo:
«rettor e moderator della Chiesa romana, cioè dell'universale»; con che
diede anco materia a molti raggionamenti, perché valendosene li ponteficii per
concludere che parimente nel canone dell'instituzione si poteva dir che il papa
ha potestà di regger la Chiesa universale, rispondevano li francesi
esser gran differenza dir assolutamente la Chiesa universale, che s'intende
l'università de' fedeli, dal dire la Chiesa romana, cioè
universale dove quel «romana» decchiara l'«universale», inferendo che è
capo dell'universale, e che tutti li luoghi dove si dà autorità
al papa sopra tutta la Chiesa, s'intendono disgiontivamente, non
congiontivamente, cioè sopra ciascuna parte della Chiesa, non sopra
tutte insieme.
[Lettera del re di Francia, che chiede
riforma. Lorena va a Cesare]
Il dí 11
febraro in congregazione presentarono li francesi una lettera del re loro de 18
genaro, nella quale diceva che, se ben era certo essere stata data parte alla
sinodo dal cardinal di Lorena della felice vittoria contra gl'inimici della
religione, all'audacia de' quali egli era sempre fatto e fa alla giornata
opposizione, senza rispetto di difficoltà o pericoli, esponendo anco la
vita sua propria, come convien ad un figlio primogenito della Chiesa e
Cristianissimo, con tutto ciò voleva anco egli medesimo dar loro parte
della stessa allegrezza, e sapendo che li rimedii salutari per i mali che
affligono le provincie cristiane sono sempre stati ricchiesti da' concilii, gli
pregava per amor di Cristo d'una emmendazione e riformazione conveniente
all'espettazione che il mondo ha concetto di loro; e sí come egli e tanti
uomini singolari con lui hanno consecrato la vita e sangue a Dio in quelle
guerre, cosí essi per il carico loro vogliano con sincerità di
conscienza attender al negozio per il quale sono congregati. Le qual lettere
lette, l'ambasciatore Ferrier parlò a' padri in questa sostanza: che
avendo essi inteso dalle lettere del re e, per l'inanzi, dalle orazione del
cardinale di Lorena e vescovo di Metz la desolazione di Francia et alcune
vittorie del re, non voleva replicarle, ma gli bastava dir che l'ultima
vittoria, attese le forze dell'inimico, fu miracolosa, e di ciò esserne
indizio che l'inimico vinto vive e trascorre danneggiando per le viscere di
Francia. Ma voleva voltar il parlar a loro, unico rifugio delle miserie, senza
quali la Francia non poteva conservar le tavole del naufragio. Diede l'essempio
dell'essercito israelitico, che non bastò vincere Amalec, se le mani da
Moisè a Dio elevate e sostentate da Aron et Ur, non avessero aiutato li
combattenti. Che al re di Francia non mancano forze, un magnanimo capitano, il
duca di Ghisa, la regina madre per maneggiar il negozio della guerra e pace; ma
non vi è altro Aron et Ur che essi padri per sostentar le mani del re
Cristianissimo co' decreti sinodali, senza quali gl'inimici non si
reconcilieranno, né li catolici si conserveranno nella fede; non esser l'umore
de' cristiani quello che già inanzi 50 anni fu: ora tutti li catolici
esser come i samaritani, che non credettero alla donna le cose che di Cristo
narrò, se non avendone fatto inquisizione et inteso per propria
cognizione; che buona parte del cristianesmo studia le Scritture; che a questo
guardando il re Cristianissimo non aveva dato agl'ambasciatori suoi altre
instruzzioni se non conformi a quelle, et essi ambasciatori le hanno presentate
a' legati, li quali presto le proponeranno ad essi padri, come hanno promesso,
a' quali il Cristianissimo principalmente le manda, aspettandone il loro
giudicio. Che la Francia non dimanda cosa singolare, ma commune con la Chiesa
catolica; che se alcuno si maraviglierà nelle proposte loro esser state
tralasciate le cose piú necessarie, tenga per fermo che s'è
incomminciato dalle piú leggieri per proponer le piú gravi a suo tempo et alle
leggieri dar facile essecuzione; la quale se essi padri non incommincieranno
inanzi il partire di Trento, grideranno li catolici, rideranno gl'avversarii,
diranno non mancar scienza a' padri tridentini, ma volontà d'operare,
aver statuito buone leggi, senza toccarle pur con un dito, ma lasciandone
l'osservanza a' posteri. E se alcuno nelle dimande essibite reputa che vi sia
cosa conforme a' libri degl'avversarii, gli giudica indegni di risposta; et a
quelli che le tengono per immoderate, altro non vuol dire se non quello di
Cicerone: esser un'assordità desiderar temperanza di mediocrità
in cosa ottima, tanto migliore, quanto maggiore; e che lo Spirito Santo disse
a' tepidi moderatori di dovergli reiettar fuori del corpo; considerassero li
padri il giovamento ch'ebbe la Chiesa per l'emendazione moderata del concilio
di Costanza e nel seguente, che non voleva nominar per non offender le orecchie
d'alcuno, e parimente ne' concilii di Ferrara, Fiorenza, laterano e tridentino
primo, e quanti generi d'uomini, quante provincie, regni e nazioni dopo quelli
si sono partiti dalla Chiesa. Voltò il parlar a' padri italiani e
spagnuoli, dicendo che una seria emenda della disciplina ecclesiastica era di
loro maggior interresse che del vescovo di Roma, pontefice massimo, sommo
vicario di Cristo, successor di Pietro, che ha suprema potestà nella
Chiesa di Dio. Trattarsi ora della vita e dell'onor loro; perilché non voleva
estendersi piú longamente.
Al contenuto
delle lettere del re et all'orazione dell'ambasciator fu risposto con lode di
quella Maestà per le cose pienamente e generosamente operate, e con
un'essortazione come se fosse presente ad imitare i suoi maggiori, voltando
tutti li suoi pensieri alla difesa della Sede apostolica e conservazione della
fede antica, e prestar orecchie [a quelli] che predicano la fermezza del regno
di Dio, e non a chi mette inanzi l'utilità presente et un'imaginaria
tranquillità e pace, che non sarà vera pace; aggiongendo che il
re cosí farà con l'aiuto divino, e per la bontà della sua natura
e per i consegli della regina madre e della nobiltà francese. Ma la
sinodo metterà ogni studio per definir le cose necessarie alla
emendazione della Chiesa universale, et ancora quelle che toccano li commodi et
interessi della particolare del regno di Francia. In fine della congregazione
propose il cardinale di Mantova che per breve ispedizione le congregazioni de'
teologi si tenessero due volte al giorno, e fossero deputati prelati per propor
la correzione degl'abusi nella materia dell'ordine: e cosí fu decretato.
Penetrò
nell'animo de' ponteficii il parlar dell'ambasciator come pongente, ma in
particolare in quello che disse gl'articoli esser inviati principalmente alla
sinodo, come parole contrarie al decreto che li soli legati potessero propor:
il quale stimavano principal arcano per conservar l'autorità ponteficia.
Ma piú si mossero per quello che disse d'aver differito la proposizione delle
cose piú importanti in altro tempo: perché da questo si cavavano gran
consequenze, e massime quello di che avevano sempre temuto, cioè che ' francesi
non avessero ancora scoperto li loro dissegni e machinassero qualche
grand'impresa. L'aver anco interpellato li padri italiani e spagnuoli come
altrimente interessati che il papa era stimato modo di trattar sedizioso.
L'ambasciator Ferrier diede fuori copia dell'orazione da lui fatta e per quelle
parole dove, nominando il papa, di lui disse: «il quale ha suprema
potestà nella Chiesa di Dio», notarono alcuni prelati ponteficii che nel
recitarla avesse detto: «il qual ha piena potestà nella Chiesa universale»,
tirando a favor della loro opinione quelle parole e disputando tanto esser:
aver piena potestà nella Chiesa universale, quanto: regger la Chiesa
universale, che li francesi aborrivano tanto nel decreto dell'instituzione: ma
esso e li francesi affermavano lui aver prononciato come nella scritta si
conteneva.
Partí Lorena
il dí seguente per Ispruc per visitar l'imperatore et il re de' Romani, con 9
prelati e 4 teologi, tenuti li piú dotti. Ebbe prima promessa da' legati che,
mentre stava assente, non s'averebbe trattato l'articolo del matrimonio de'
preti, il che egli cercò instantemente, acciò non fosse
deliberata o preconcepita qualche cosa contraria alla commissione che egli
aveva dal re d'ottener dal concilio dispensa che il cardinale di Borbone potesse
maritarsi. Partí ancora per Roma il cardinale Altemps ricchiamato dal pontefice
per valersi di lui in maneggiar una condotta de soldati, che dissegnava fare
per sua sicurezza; perché avendo inteso farsi genti in Germania da' duchi di
Sassonia e Vittemberg e dal lantgravio d'Assia, quantonque fosse tenuto da
tutti che fosse per soccorrer gl'ugonotti di Francia, nondimeno, considerato
che il conte di Luna aveva scritto esser gran desiderio ne' tedeschi d'invader
Roma e che si raccordavano del sacco di già trentasei anni, giudicava
che non fosse prudenza il lasciarsi sopraprendere sprovistamente; anzi, per
questa medesima causa fece rinovar con tutti li prencipi italiani il negozio di
collegarsi insieme alla difesa della religione.
[Esamine e condanna del primo articolo del
matrimonio. Diversi pareri intorno al secondo]
Proseguendosi
le congregazioni, nella prima classe furono li teologi tutti concordi in
condannar il primo articolo e tutte le parti sue come eretiche; e nel secondo
parimente in dire li matrimonii secreti esser veri matrimoni; vi fu però
la differenza di sopra narrata tra il Salmerone et il decano parigino, se la
Chiesa avesse facoltà di fargli irriti. Quelli che tal potestà
negavano, si valevano di quel fondamento, che in ogni sacramento sono
essenziali la materia, la forma, il ministro et il recipiente, in che, come
cose instituite da Dio, non vi è alcuna potestà ecclesiastica.
Dicevano che avendo dicchiarato il concilio fiorentino il solo consenso de
contraenti esser necessario al matrimonio, chi vi aggiongesse l'esser publico
per condizione necessaria, inferrirebbe che il solo consenso non bastasse e che
il concilio fiorentino avesse mancato d'una dicchiarazione necessaria. Che
Cristo generalmente aveva detto del matrimonio non poter l'uomo separar quello
che da Dio è congionto, comprendendo e la publica e la secreta
congionzione. Che ne' sacramenti non si debbe asserir alcuna cosa senza
autorità della Scrittura o della tradizione; ma né per l'una, né per
l'altra s'ha che la Chiesa abbia quest'autorità; anzi, in contrario per
tradizione s'ha che ella non l'abbia, poiché le chiese, in ogni nazione e per
tutto 'l mondo, sono state uniformi in non pretendervi potestà. In
contrario si diceva esser cosa chiara che la Chiesa ha autorità d'inabilitar
le persone a contraer matrimonio, perché molti gradi di consanguinità et
affinità sono impedimenti posti per legge ecclesiastica, e parimente
l'impedimento di voto solenne è introdotto per legge pontificia; adonque
anco la secretezza si può aggionger appresso questi altri impedimenti
con la medesima autorità. Per l'altra parte era risposto che la
proibizion per raggion di parentela è de iure divino, sí come san
Gregorio e molti altri pontefici successori hanno terminato; che non può
esser contratto matrimonio tra doi, sin tanto che si conoscono congionti in
parentado in qualonque grado. E se altri pontefici dopo hanno ristretta questa
universalità al settimo grado, e dopo anco al quarto, questa è
stata una dispensa generale, sí come fu una dispensa generale il ripudio al
popolo ebreo, e che il voto solenne impedisce de iure divino, e non per
autorità ponteficia.
Ma fra
Camillo Campeggio dominicano, convenendo con gl'altri, che nissuna
potestà umana s'estende a' sacramenti, soggionse però che
chiunque può distruggere l'esser della materia, può far che
quella sia incapace del sacramento: nissun poter fare che qualonque acqua non
sia materia del battesmo e qualonque pane frumentaceo dell'eucaristia, ma chi
distruggerà l'acqua convertendola in aria, o chi abbruggierà il
pane convertendolo in cenere, farà che quelle materie non siano capaci
della forma de' sacramenti. Cosí nel matrimonio il contratto civile nuziale
è la materia del sacramento matrimoniale per instituzione divina. Chi destruggerà
un contratto nuziale e lo farà invalido, non potrà piú esser
materia del sacramento, perilché non s'ha da dire che la Chiesa possi annullare
il matrimonio secreto, che sarebbe un dargli autorità sopra li
sacramenti, ma è ben vero che la Chiesa può annullar un contratto
nuziale secreto, il qual, come nullo, non potrà ricever la forma del
sacramento. Questa dottrina piacque molto all'universale de' padri, parendo
piana, facile e che risolvesse tutte le difficoltà; con tutto che da
Antonio Solisio, che parlò dopo di lui, gli fosse contradetto, dicendo
esser molto vera quella speculazione, ma non potersi applicar al proposito;
imperoché la raggione detta del battesmo e dell'eucaristia, che chiunque
può destrugger l'acqua, può far che quella materia sia incapace
di forma di battesmo, non argomenta una potestà ecclesiastica, ma una
potestà naturale, sí che qualonque ha virtú di destrugger l'acqua,
può in questo modo impedire il sacramento, onde seguirebbe che chiunque
può annullar un contratto nuzzial civile, potesse per conseguenza
impedir il matrimonio; ma l'annullazione di simil contratti aspettare alle
leggi e magistrati secolari; onde era molto ben da guardare che, mentre si
voleva dar autorità alla Chiesa d'annullar li matrimoni secreti, quella
non si dasse piú tosto alla potestà secolare.
Ma tra quelli
che asserivano tal potestà alla Chiesa, trattando se fosse ispediente
usarla allora, erano 2 opinioni: una, d'annullar tutti li secreti, e questi non
adducevano altro che gl'inconvenienti che ne seguivano; l'altra opinione era
che si annullassero anco li publici fatti da' figliuoli di famiglia senza
consenso de' progenitori, e questi allegavano due forti raggioni: l'una era che
da questi non seguivano inconvenienti minori, per le rovine che avvenivano alle
famiglie da' matrimoni imprudentemente contratti da giovani; l'altra, che la
legge di Dio, commandando d'obedir a' progenitori, include anco questo caso,
come principale, d'obedirgli nel maritarsi. Che la legge divina dà
questa autorità particolare al padre di maritar la figlia, come in san
Paolo e nell'Essodo si vede chiaramente. Che vi sono gl'essempii de' santi
patriarchi del Testamento Vecchio, tutti maritati da' padri; che anco le leggi
civili umane hanno avuto per nulli li matrimoni senza il padre contratti. Che
sí come si giudicava allora ispediente d'irritar li matrimoni secreti, vedendo
che non basta la proibizione ponteficia che gl'ha vietato, chi non vi aggionge
la nullità, maggior raggion convince che, non volendo la malizia umana
obedir alla legge di Dio che proibisce il maritarsi senza i progenitori, debbia
la sinodo aggiongervi anco la nullità; non perché abbiano li padri
autorità d'annullar li matrimoni de' figliuoli, che l'asserir questo
sarebbe eresia, ma perché la Chiesa ha autorità d'annullare questi et
altri contratti proibiti dalle leggi divine o umane. Questo parer come onesto,
pio e tanto ben fondato quanto l'altro, piacque a gran parte de' padri; onde ne
fu anco formato il decreto, se ben poi si tralasciò di publicarlo per li
rispetti che a suo luogo si diranno.
Non si
restava però di trattar tra li prelati sopra le cose controverse
dell'autorità del papa et instituzione de' vescovi, e perseverando li
francesi nella risoluzione di non admetter la parola «Chiesa universale» per
non pregiudicar all'opinione tenuta in Francia della superiorità del
concilio, e, se fosse stata proposta, averebbono protestato de nullitate
e sarebbono partiti, scrisse il papa che la proponessero, segua quello che
vuole; ma i legati, temendo che fosse molto importuno qualsivoglia moto con la
nuova vicinanza dell'imperatore, rescrissero che era ben differir sino finita
la materia del matrimonio.
[Esamine del terzo articolo de' divorzii]
Nella seconda
classe il dí 17 febraro, il primo che parlò fu il padre Soto, il qual
sopra l'articolo del divorzio distinse prima la congionzion matrimoniale in tre
parti: quanto al legame, quanto all'abitar insieme e per quel che tocca la
copula carnale, inferendo esser parimente altretante separazioni. S'estese in
mostrar che nel prelato ecclesiastico era autorità di separar li
maritati o di conceder loro divorzio quanto all'abitar insieme e quanto alla
copula carnale, per tutte quelle cause che da loro fossero giudicate
convenienti e raggionevoli, restando però sempre fermo il legame matrimoniale,
sí che né all'un, né all'altro fosse facoltà di passar all'altre nozze,
allegando che questo era quello che da Dio era ligato, né poteva esser da alcun
altro disciolto. Si travagliò longamente per le parole di san Paolo, il
qual concede al marito fedele, se la moglie infedele non vuol abitar con lui,
di restar separato. Non si contentò dell'esposizione commune, che il
matrimonio tra gl'infedeli non sia insolubile, allegando che
l'insolubilità sia dalla legge naturale per le parole d'Adam esposte da
nostro Signore e per l'uso nella Chiesa, nella quale i maritati infedeli
battezati di nuovo non contraono matrimonio, e pur il loro non è
differente da quello degl'altri fedeli. E si risolse di dire esser migliore
l'intelligenza del Gaetano, che anco quella separazione di san Paolo del fedele
dall'infedele non s'intende quanto al legame matrimoniale, e che era cosa che
doveva esser dal santo concilio ben considerata. Quanto alla fornicazione,
disse che quella parimente non doveva esser causa della separazione del legame,
ma della copula e dell'abitare solamente. Si trovò però implicato
per aver detto prima che il divorzio poteva esser concesso per piú rispetti,
per molte cause, dove che l'Evangelio non admettendo se non la causa della fornicazione,
è necessario che parli in altro senso e di altro ripudio, e che questo
evangelico si debbia intender quanto al legame, poiché quanto agl'altri doi vi
erano molte cause di divorzio. Diede diverse esposizioni a quel luogo
dell'Evangelio, e senza approvarne né reprovarne alcuna, concluse che
l'articolo doveva esser dannato, atteso che per tradizione apostolica il
contrario s'ha di fede; che, risguardando alle parole dell'Evangelio, non sono
cosí chiare che bastino per convincere luterani.
[Esamine del quarto articolo della poligamia]
Sopra il
quarto articolo, quanto alla poligamia, disse esser contra la legge naturale,
né potersi permetter, eziandio agl'infedeli che siano sudditi de cristiani.
Disse che i padri antichi ebbero molte mogli per dispensa e gl'altri, che non
furono da Dio dispensati, vissero in perpetuo peccato. Della proibizione delle
nozze a certi tempi, brevemente allegò l'autorità della Chiesa e
la disconvenienza delle nozze con alcuni tempi; e con questa occasione
passò a dire che nissun con raggione si può gravare, poiché in
questo può dispensar il vescovo: e ritornò sulle cause de'
divorzii, e concluse che il mondo non si dolerebbe d'alcuna di queste cose,
quando i prelati usassero con prudenza e carità l'autorità loro;
ma l'occasione di tutti li mali esser perché essi non risedono e, dando il
governo ad un vicario, ben spesso senza conveniente provisione, viene mal
amministrata la giustizia e mal distribuite le grazie. E qui s'estese a parlar
della residenza, allegando che senza dicchiararla de iure divino era
impossibile levar e quelli e gl'altri abusi e chiuder la bocca agl'eretici, li
quali non guardando che il male viene dall'essecuzione abusiva, lo
attribuiscono alle constituzioni ponteficie; e però mai
l'autorità pontificia sarà ben difesa, se non con la residenza
ben formata; né questa mai sarà stabilita, senza la dicchiarazione de
iure divino: esser preso notabil error da quelli che dimandavano
pregiudiciale all'autorità del papa quello che era unico fondamento di
sostentarla e conservarla. Concluse che il concilio era tenuto a determinare
quella verità; e parlò con efficacia e fu udito con gusto
degl'oltramontani e con disgusto de' ponteficii, a' quali parve tempo molto
impertinente di toccar quella materia, e diede occasione che dall'una e l'altra
parte fossero rinovate le prattiche.
Fra Gioanni
Ramirez francescano, nella congregazione de' 20 febraro sopra li medesimi
articoli, dopo aver parlato secondo la commune opinione de' teologi della
indissolubilità del matrimonio, disse le medesime raggioni che sono tra
marito e moglie esser anco tra il vescovo e la chiesa sua; che né la chiesa
può ripudiar il vescovo, né il vescovo la chiesa; e sí come il marito
non debbe partire dalla moglie, cosí il vescovo non debbe partir dalla chiesa
sua, e che questo legame spirituale non era di minor forza, che quell'altro
corporale. Allegò Innocenzo III, il qual decretò che un vescovo
non potesse esser trasferito, se non per autorità divina, perché il
legame matrimoniale, che è minore (dice il pontefice), non può
esser sciolto per alcuna autorità umana; e longamente s'estese a mostrar
che non per questo si sminuiva, anzi s'accresceva l'autorità del papa,
il qual, come vicario universale, poteva servirsi de' vescovi in altro luogo,
dove fosse maggiore bisogno; sí come il prencipe della republica, per li
publici bisogni, può servirsi de' maritati, mandandogli in altri luoghi,
restando fermo il vincolo matrimoniale; e si diede a dissolver le raggioni in
contrario con molta prolissità.
Ma nella
congregazione della sera dello stesso giorno, il dottor Cornisio disse ambidoi
gl'articoli, terzo e quarto, esser eretici, perché erano dannati in piú
decretali pontificie, e con assai parole essaltò l'autorità
papale, dicendo che tutti gl'antichi concilii nelle determinazioni della fede
seguivano perpetualmente l'autorità e la volontà del pontefice.
Addusse per essempio il concilio constantinopolitano di Trullo, che seguí
l'instruzzione mandata da Agato pontefice, et il concilio calcedonense, il
quale non solo seguí, ma venerò et adorò la sentenza di san Leone
papa, chiamandolo anco ecumenico e pastor della Chiesa universale; e dopo aver
portato diverse autorità e raggioni per mostrare che le parole di Cristo
dette a Pietro: «Pasci le mie pecorelle», significhino altretanto, quanto se
avesse detto: «Reggi e governa la mia Chiesa universale», s'estese in
amplificar l'autorità ponteficia, e nel dispensar e nelle altre cose
ancora. Portò l'autorità de' canonisti, che il papa può
dispensare contra li canoni, contra gl'apostoli et in tutto 'l ius divino,
eccetto gl'articoli della fede. In fine allegò il capo Si Papa,
che ciascuno debbe riconoscer che la propria salute, dopo Dio, depende dalla
santità del papa, amplificandole assai, per esser parole d'un santo e
martire, il qual nissun può dire che abbia parlato se non per
verità.
[Comendone ritorna da Cesare senza effetto.
Disegni di Cesare intorno al concilio]
Ritornò
in questo tempo Comendon dall'imperatore, la negoziazione del quale non ebbe il
fine che li legati desideravano; imperoché Cesare, udite le proposizioni sue,
rispose che vi era bisogno di tempo per pensar sopra le cose proposte per la
loro importanza, e ci averrebbe avuto considerazione e dato la risposta al
concilio per un suo ambasciatore; di che egli ne diede conto per lettere
immediate, aggiongendo che aveva trovato l'imperatore addolorato e mal impresso
delle azzioni conciliari. Ma allora, ritornato, aggionse di piú che, dalle
parole di quella Maestà e da quello che aveva inteso de' suoi
conseglieri et osservato da' loro andamenti, gl'era parso conoscer che Sua
Maestà era cosí ferma in quella sinistra impressione, che dubitava non
segua qualche disordine. Che da quanto poteva comprendere, li pensieri di Sua
Maestà erano indrizzati a fine d'ottener che si facesse una gran
riforma, con tal provisione che si avesse da osservare, e che poteva affermare
certo non esser di piacer dell'imperatore che si finisca il concilio. Aver
inteso che, essendo trascorso il noncio Delfino residente a nominar sospensione
o traslazione, l'imperatore mostrò dispiacere. Riferí appresso esser
opinione della corte cesarea che il Catolico s'intendesse con l'imperatore in
quello che tocca al concilio. Il che da lui era creduto, per essersi
certificato che da' prelati spagnuoli erano state scritte lettere
all'imperatore con querele del proceder degl'italiani e con molti capi di
riforma: non essendo verisimile che essi avessero ardito di trattar
coll'imperatore, se non sapessero la mente del loro re. Disse ancora che il
conte di Luna, quando da' ministri del pontefice gl'è stato detto della
troppo licenza presa da' prelati spagnuoli in parlar liberamente, egli
rispondesse, interrogando che cosa s'averebbe potuto far se quei prelati
avessero detto che cosí sentivano in loro conscienza. Disse di piú il Comendone
che, nell'abboccamento che farà col cardinale di Lorena, era d'opinione
che fossero per concludere di far proponer dagl'ambasciatori le loro petizioni.
Raccontò ancora che quella Maestà faceva consultar da teologi le
sue petizioni et altre cose spettanti al concilio; che se ben egli et il noncio
Delfino avevano usata molta diligenza, non avevano però potuto penetrar
li particolari.
Non
passò però molto tempo che quelle ancora vennero a notizia.
Imperoché scrisse il giesuita Canisio al general Lainez che l'imperatore era
mal animato verso le cose del concilio e che faceva consultar molti ponti, per
esser risoluto come procedere, quando il papa perseveri in non voler che si
proponga riforma overo in dar parole sole, contrarie a' fatti. Fra' quali un
era: qual sia l'autorità imperiale nel concilio; che della consulta era
principale Federico Staffilo, confessor della regina di Boemia. Ricercò
Canisio che gli fosse mandato uno della società, che l'averebbe
introdotto in quella consulta e con quel mezo s'averebbe scoperto ogni
trattazione; onde, discorso col cardinale Simoneta, risolverono di mandar il
padre [Gieronimo] Natale, dal quale furono le cose intieramente scoperte.
Et erano
gl'articoli posti in consulta 17, e furono questi:
1 Se il
concilio generale, legitimamente congregato col favor de' prencipi, nel
progresso possi mutar l'ordine che il papa ha determinato che si osservi nel
trattar le materie, overo introdurne altro modo.
2 Se sia
utile alla Chiesa che il concilio debbia trattar e determinar le cose, sí come
è indrizzato dal papa o dalla corte di Roma, sí che non possi né debbia
far altrimenti.
3 Se morendo
il papa in tempo che il concilio sia aperto, l'elezzione s'aspetti a' padri del
concilio.
4 Qual sia la
potestà di Cesare, vacante la Sede romana et aperto il concilio.
5 Se
trattandosi delle cose spettanti alla pace e tranquillità della
republica cristiana, dovessero gli ambasciatori de' prencipi aver voto
decisivo, se ben non l'hanno trattandosi de' dogmi della fede.
6 Se li
prencipi possono rivocare li suoi oratori e prelati dal concilio senza
participazione de' legati.
7 Se il papa
possi disciogliere o sospendere il concilio senza la participazione de'
prencipi cristiani, e massime della Maestà cesarea.
8 Se sia
opportuno che li prencipi s'intromettessero per operare che nel concilio siano
trattate le cose piú necessarie et ispedienti.
9 Se
gl'oratori de' prencipi possino per loro medesimi esponer a' padri quelle cose
che li loro prencipi commettono che siano esposte.
10 Se si
può trovar modo che li padri, cosí mandati dal papa, come da' prencipi,
siano liberi nel dire li loro voti in concilio.
11 Che cosa
si possi far acciò il papa e la corte romana non s'intromettino,
ordinando quello che s'ha da trattare in concilio, acciò la libertà
de' padri non sia impedita.
12 Se si
può trovar modo che non sia fatta fraude o violenza o estorsione nel
prononciar le sentenze de' padri.
13 Se si
può trattar cosa alcuna, sia dogma o cosa spettante alla riforma della
Chiesa, che non sia prima discussa da' periti.
14 Che
rimedio si potrebbe trovar, quando li prelati italiani continuassero
nell'ostinazione di non lasciar risolvere le cose.
15 Che
rimedio si potrà trovar, acciò li prelati italiani non facciano
conspirazione insieme, occorrendo parlar dell'autorità del papa.
16 Come si
possino rimover le prattiche per venir ad una determinazione dell'articolo
della residenza.
17 Se
è cosa condecente che la Maestà cesarea intervenga personalmente
in concilio.
[Roma dà ordine che gli articoli de'
francesi non siano proposti in concilio]
Ma in Roma si
fece longa e seria consulta se dovevano ammetter che le petizioni de' francesi
fossero proposte; e non tanto era in considerazione quello che importassero in
loro medesime, quanto le consequenze; imperoché, considerando quello che dal
Ferrier era stato detto nell'orazione, cioè che le petizioni essibite
erano le piú leggieri e gli restavano a dimandar cose piú gravi, da questo
facevano giudicio che, non avendo li francesi fatto quelle dimande perché
desiderassero ottenerle, mirassero a questo fine d'entrar per quella strada in
possesso di proporre l'altre che avevano in animo e che aperta la porta per
quelle che chiamavano leggieri, non gli potesse esser negato ogni altro
tentativo. Per questi et altri rispetti fu risoluto di scriver a' legati che
assolutamente non si proponessero, né fosse data negativa libera, ma
interponessero dilazione a proporle, e furono anco scritti li modi che dovevano
usare. E nell'istesso tempo uscí da Roma una scrittura d'incerto autore in
risposta sopra di quelle proposte, la qual fu immediate disseminata in Trento
et alla corte dell'imperatore. Con queste provisioni fu creduto in Roma d'aver
dato buon ripiego alle instanze de' francesi. Ma era maggiormente stimata dal
pontefice la novità instituita alla corte dell'imperatore di consultar
cose a lui tanto pregiudiciali, sapendo molto ben che la degnità
pontificia si conserva con la riverenza e certa persuasione de' cristiani che
non possi esser posta in dubio; ma quando il mondo incomminciasse ad essaminar
le cose, non mancherebbono raggioni apparenti per turbare li buoni ordini.
Osservava che in simil occasioni da' suoi precessori erano stati adoperati
rimedii gagliardi, e che in occasioni tali, dove si tratta il fondamento della
fede, ha luogo quel precetto d'opporsi gagliardamente a' principii, e che come
nelle rotte de' fiumi, non ovviando alle minime rotture degl'argini, non si
può tener la piena, cosí quando si fa minima apertura contra la
potestà suprema, sono portate con facilità all'estremo
precipizio. Era consegliato di scriver all'imperatore un risentito breve, come
fece Paolo III all'imperatore Carlo per causa de' colloquii di Spira, et arguir
Cesare che in quei articoli volesse metter in dubio le cose chiarissime; e con
un altro breve riprender li conseglieri che l'avessero a ciò persuaso et
ammonir i teologi che vi sono intervenuti a farsi assolvere dalle censure. Ma,
ben pensato, considerò esser differente lo stato delle cose da quello
che fu sotto Paolo; prima, perché allora la disputa fu publica, che questa era
secreta e trattata quasi in occolto e con cura che non si sapesse, onde egli
poteva anco dissimular la notizia, e se l'avesse publicata e fosse continuata
dopo la sua riprensione, si metteva a maggior pericolo; che Carlo conveniva
star unito col papa per non sottomettersi a' prencipi tedeschi, ma questo
imperatore era già quasi soggetto; e finalmente che poteva differir il
rimedio arduo, essendo sempre a tempo di farlo, e fra tanto, dissimulando,
veder d'impedire obliquamente la risoluzione delle consulte che si facevano con
mandare a quella Maestà il cardinale di Mantova.
Della
scrittura che andò intorno contra le petizioni francesi non solo ne
sentirono disgusto essi e l'ebbero per affronto, ma all'imperatore medesimo
dispiacque assai. E li legati, ricevuta la commissione da Roma sopra di quelle,
restarono poco sodisfatti, parendo loro che quello non fosse modo di dar
commissione a' presidenti d'un concilio, ma piú tosto avvertenze a' ministri da
servirsene in trattar per via di negoziazione; rescrissero solamente
ricchiedendo quello che dovessero far, se li cesarei facessero instanza per la
proposta delle loro e fecero che Gabriel Paleotto, auditor di rota, scrivesse
una piena informazione delle difficoltà, qual mandarono. Il cardinale de
Mantova non giudicò che, avendo l'imperatore detto a Comendone che
averebbe mandato risposta al concilio per un suo ambasciator, fosse cosa
conveniente che egli vi andasse prima che intender quella risoluzione; oltre
che l'esser già Lorena alla corte imperiale e non sapersi ancora
l'effetto della sua negoziazione, rendeva incerto il modo che dovesse esser da
lui tenuto. Con queste raggioni si scusò col pontefice, al quale oltre
di ciò scrisse di propria mano che non aveva piú faccia di comparir in
congregazione per dar solamente parole, come aveva fatto 2 anni continui. Che
tutti li ministri de' prencipi dicevano che, se ben Sua Santità promette
cose assai della riforma, non vedendosene essecuzione alcuna, non credono che
ella vi abbia l'animo veramente inclinato; il quale se corrispondesse alle
promesse, non averiano potuto i legati mancare di corrisponder alle instanze de
tanti prencipi: né alcun debbe maravigliarsi che questo cardinale, prencipe
versato per cosí longhi anni in molti grandi affari e compitissimo nella
conversazione, facesse questo passaggio, essendo cosa naturale degl'uomini
vicini alla morte, per certa intrinseca causa et incognita anco a loro
medesimi, il disgustarsi delle cose umane e posporre le pure cerimonie; al qual
segno era molto prossimo, non gli rimanendo della vita dal dí della data di
questa se non sei giorni.
[Contrarietà nelle dispense papali]
Ma nelle
congregazioni, l'ultimo che parlò nella seconda classe fu fra Adriano
dominicano, il quale toccata leggierissimamente la materia, tutto s'estese in
parlar delle dispense e defender con forme e termini teologici le cose dal
dottor Cornisio toccate, delle quali si parlava con qualche scandalo. Disse che
l'autorità di dispensare nelle leggi umane era nel papa assoluta et
illimitata, essendo egli superior a tutte; e però quando ben senza causa
alcuna dispensasse, conveniva tener la dispensa per valida; ma che nelle leggi
divine aveva parimente l'autorità di dispensare, con causa legitima però.
Allegò san Paolo, che disse li ministri di Cristo esser dispensatori de'
misterii di Dio, e che ad esso apostolo era stata commessa la dispensa
dell'Evangelio. Soggionse che, se ben la dispensa del pontefice sopra la legge
divina senza causa è invalida, nondimeno quando il papa per qual si
voglia causa dispensa, ogni uno debbe cattivar la mente sua e creder che quella
causa sia legitima e che il metterlo in dubio è una temerità.
Discorse poi delle cause della dispensa, le quali ridusse alla publica utilità
et alla carità verso li privati. Fu questo raggionamento occasione a'
francesi di parlar della medesima materia con mala sodisfazzione de'
ponteficii.
Finita la
seconda classe, per servar la promessa fatta a Lorena di non trattar in sua
assenza del matrimonio de' preti, mutato l'ordine, si parlò sopra la
quarta. Gioanni Verdun, trattando l'articolo 7 de' gradi d'affinità e
consanguinità, passò esso ancora immediate alle dispense, e parve
che non avesse altra mira che de contradire a fra Adriano; attese a debilitar
la potestà del pontefice. Prima dicchiarò li luoghi di san Paolo,
che li ministri di Cristo sono dispensatori de' misterii di Dio e
dell'Evangelio, dicendo che era glosa contraria al testo l'introdurre in quel
luogo dispensa, cioè disobligazione dell'osservar la legge, ma che altro
non significava se non un'annonciar, publicar o dicchiarar i misterii divini, e
la parola di Dio, che è perpetua e resta inviolabile in eterno. Concesse
che nelle leggi umane cadeva la dispensa per l'imperfezzione del legislatore,
il qual non può preveder tutti li casi, e facendo la legge universale,
per le occorrenze che portano le eccezzioni, ha bisogno di riservare a chi
governa la republica una autorità di proveder a' casi particolari. Ma
dove Dio è legislatore, al quale nissuna cosa è occolta e nissun
accidente può avvenire non preveduto, la legge non può aver
eccezzione, però la legge divina naturale non si ha da distinguere in
legge scritta, la qual per il rigore in alcuni casi debbia esser interpretata
et indolcita, ma essa medesima è la equità. Nelle leggi umane,
dove alcuni casi, per li particolari accidenti, se fossero stati preveduti dal
legislatore, non sarebbono compresi nella legge, nasce la dispensa; non che il
dispensatore possi in caso alcuno liberar quello che è obligato, né meno
se alcun merita la dispensa, et egli la neghi, colui però resta sotto
l'obligo; esser un'opinione perversa persuasa al mondo che il dispensare sia
far una grazia; la dispensa è cosí ben giustizia come qualonque altra
distributiva; che pecca il prelato che non la dà a chi si debbe; et in
somma disse: quando una dispensa è ricchiesta, o siamo in caso che, se
fosse stato previsto quando la legge si fece, sarebbe stato eccettuato, e qui
vi è obligo di dispensare, eziandio non volendo, o siamo in caso che,
preveduto, sarebbe stato compreso, e qui non si estende potestà
dispensatoria. Soggionse l'adulazione, l'ambizione e l'avarizia aver persuaso
che il dispensare sia far grazia, come farebbe un patrone a' servi overo uno
che doni il suo. Il papa non è un patrone e la Chiesa serva, ma egli
è servo di quello che è sposo della Chiesa e preposto da lui
sopra la famiglia cristiana, per dar, come dice l'Evangelio, a ciascuno la
propria misura, cioè quello che gl'è debito. E replicò
finalmente non esser altro la dispensa ch'una dicchiarazione o interpretazione
della legge, et il pontefice col suo dispensare non poter disobligar alcun
obligato, ma dicchiarar solamente al non obligato che egli è essente
dalla legge.
[Ritorno di Lorena e sospetti del suo negoziato
con Cesare]
Ritornò
il cardinale di Lorena a Trento il penultimo di febraro, dopo essersi fermato 5
giorni in Ispruc, ne' quali fu in continua negoziazione con Cesare, col re de'
Romani e co' ministri imperiali, et arrivato trovò lettere del papa,
dove gli diceva voler la riforma e che non si differisse piú, e per attenderci,
si dovessero levar via le parole de' decreti dell'ordine, che erano in
difficoltà; le quali lettere il cardinale a studio publicò per
Trento, dove era noto appresso tutti che li legati avevano commissione
contraria. Immediate da' ponteficii in Trento fu usata ogni diligenza per
investigar da' prelati et altri, che furono in sua compagnia, il negozio del
cardinale et in particolare procuravano d'intender qualche risoluzione presa sopra
li 17 articoli, avendo il conte Federico Maffei, venuto da Ispruc il giorno
inanzi, riferito che quel cardinale era stato ogni giorno retirato a parlamento
coll'imperatore e re de' Romani soli almeno 2 ore intiere. Ma li francesi,
quanto agl'articoli, si mostrarono nuovi e di non saperne niente; dissero che
nissuno de' teologi germani aveva trattato col cardinale se non il Staffilo,
che gli presentò un libro fatto da lui in materia di residenza, et il
Canisio, quando andò a veder il collegio de giesuiti; che li teologi non
avevano parlato all'imperatore, se non che, andati a veder la biblioteca,
sopragionsero insieme Cesare col re suo figlio, e l'imperatore dimandò
loro quello che sentissero circa la concessione del calice; a cui rispose
l'abbate di Chiaraval, primo di loro, che non sentiva potersi concedere, e
l'imperatore, voltato al re de' Romani, disse in latino quel verso del salmo:
«40 anni ho trattato con questa generazione, e gli ho sempre trovati star in
errore per volontà».
Ma Lorena,
nel visitar li legati, non disse altro, salvo che mostrò l'imperatore
aver buona mente e caldo zelo verso le cose del concilio e desiderare che segua
qualche frutto, e che, bisognando, v'interveniria in persona et anderebbe anco
a Roma a pregar il papa che avesse compassione alla cristianità e si
contentasse della riforma senza diminuzione della sua autorità, alla
quale portava somma riverenzia, non volendo che si parlasse cosa alcuna
toccante la Santità Sua e la corte romana. Ma privatamente, ad altri
parlando, il Lorena aggiongeva che, quando il concilio fosse stato governato
con quella prudenza che conveniva, averebbe avuto presto e felice successo; che
l'imperatore era d'animo che onninamente si facesse una buona e galiarda
riforma, la quale se il papa seguirà d'attraversare, come sin allora era
avvenuto, riuscirà qualche gravissimo scandalo; che Sua Maestà
aveva pensiero, se il pontefice fosse andato a Bologna, d'andar a trovarlo, con
dissegno di ricever la corona dell'Imperio, et altre cose tali.
Non è
da metter in dubio che il cardinal parlasse delle cose del concilio et
informasse Cesare de' disordini che passavano, e dicesse il parer suo intorno
a' rimedii per opporre alla corte di Roma et a prelati italiani di Trento, per
ottener in concilio la communione del calice, il matrimonio de' preti, l'uso
della lingua volgare nelle cose sacre e relassazione d'altri precetti de
iure positivo, e la riforma nel capo e ne' membri, et il modo di fare che
li decreti del concilio fossero indispensabili; et in qual maniera, non
potendola ottenere, si potesse pigliar colorata occasione di giustificare le
azzioni loro e pretender causa di proveder da se medesimi a' bisogni de suoi
popoli con far qualche concilio nazionale, tentando anco d'unir li germani e
francesi nelle cose della religione. Ma non fu questa sola la negoziazione sua:
egli trattò anco il matrimonio tra la regina di Scozia e l'arciduca
Ferdinando, figlio dell'imperatore, e quello d'una figliuola di Sua
Maestà col duca di Ferrara, e di trovar modo di componer le differenze
di precedenza di Francia e di Spagna, che, come cose domestiche, toccano li
prencipi piú intrinsecamente che le publiche.
Ma dopo il
ritorno di Lorena, seguendosi le congregazioni, Giacomo Alano, teologo
francese, entrò parimente nella materia delle dispense. Disse che
l'autorità di dispensare era data alla Chiesa immediate da Cristo e che
dalla Chiesa era distribuita a' prelati, come faceva bisogno, secondo li tempi,
luoghi et occasioni. Inalzò in sommo l'autorità del concilio
generale, che rapresenta la Chiesa, e sminuí quella del pontefice, aggiongendo
che al concilio generale partiene allargarla o restringerla.
[Morte di Mantova, et intenzioni degli altri
legati]
Il secondo di
marzo il cardinale di Mantova, dopo esser stato pochi giorni ammalato,
passò ad altra vita, che fu causa di molte mutazioni nel concilio. I
legati espedirono immediate aviso al pontefice, al quale Seripando, che restava
primo legato, oltra la lettera commune, scrisse in particolare che averebbe
caro che Sua Santità mandasse un legato suo superiore, che avesse cura
del concilio o veramente lo levasse lui, e pure quando lo volesse lasciar primo
legato, giudicava necessario che si fidasse che egl'averebbe operato secondo
che il signor Iddio lo inspirasse; altrimenti meglio sarebbe assolutamente
levarlo. Varmiense ancora scrisse a parte che la chiesa sua aveva gran bisogno
della presenza del pastore, e vi si introduceva la communione del calice et
altri notabili abusi, ricchiedendo licenza d'andar per provedervi, e che vi era
bisogno generalmente in tutta Polonia di persona che contenesse il rimanente di
quei popoli in obedienza; che egli porterebbe maggior servizio alla Sede
apostolica in quelle bande, che stando in concilio. Ma Simoneta, desideroso che
la somma di giudicar il concilio restasse a lui et avendo speranza di condurlo
bene, con sodisfazzione del pontefice et onor proprio, considerando che
Seripando era saziato di quel negozio e poco inclinato a volerlo guidare, e che
varmiense era semplice persona, disposta a lasciarsi regger, mise in
considerazione al pontefice che, ritrovandosi le cose del concilio in poco buon
stato, ogni novità gl'averebbe dato maggior crollo, e però
giudicava che si dovesse seguir senza mandar altri legati, promettendo buona
riuscita.
In quei
giorni gionse aviso da Roma che, dovendosi proporre in rota una causa del
vescovo di Segovia, fu ricusato di riceverla, e da uno degl'auditori fu detto
al procurator del vescovo che il suo principale era sospetto d'eresia; il che
mise gran moto, non solo ne' spagnuoli, ma in tutti gl'oltramontani,
querelandosi essi che in Roma si levassero calunnie e note sinistre contra
quelli che non aderivano in tutto e per tutto alle loro voglie.
[Esamine e condanna del quinto e sesto
articolo del celibato, che rimette su le dispense]
Il giorno 4
di marzo si diede principio di parlar sopra la terza classe, e quanto al quinto
articolo tutti furono conformi che fosse eretico e dannabile; del sesto
parimente non vi fu differenza: tutti convennero che fosse eresia. Vi fu
disparere, perché una parte diceva che, quantonque tra la Chiesa orientale et
occidentale vi fosse differenza, perché questa non ammetteva al sacerdozio, né
agl'ordini sacri, se non persone continenti, e quella anco ammetteva li
maritati, nondimeno nissuna Chiesa mai concesse che i sacerdoti si potessero
maritare, e che questo s'ha per tradizione apostolica e non per raggion del
voto, né per alcuna constituzione ecclesiastica, e però che conveniva
dannar per eretici assolutamente tutti quelli che dicevano esser lecito a'
sacerdoti maritarsi, senza restringersi agl'occidentali e senza far menzione né
di voto, né di legge nella Chiesa, e questi non concedevano che si potesse per
causa alcuna dispensare li sacerdoti al matrimonio; altri dicendo che il matrimonio
era vietato a due sorti di persone e per due diverse cause: a' chierici
secolari per l'ordine sacro, per legge ecclesiastica; et a' regolari per il
voto solenne; che la proibizione del matrimonio per constituzion della Chiesa
può esser dal pontefice levata, e restando ancora quella in piedi, il
pontefice può dispensarlo. Allegavano gl'essempii de' dispensati e l'uso
dell'antichità che, se un sacerdote si maritava, non separavano il
matrimonio, ma solo lo rimovevano dal ministerio; il che fu continuamente
osservato sino al tempo d'Innocenzo II, quale, primo di tutti li pontefici,
ordinò che quel matrimonio s'avesse per nullo. Ma per quel che tocca
gl'obligati alla continenza per voto solenne, essendo questo de iure divino,
dicevano non poter il pontefice dispensarvi. Allegavano in ciò il luogo
d'Innocenzo III, il quale affermò che l'osservazione della
castità e l'abdicazione della proprietà sono cosí aderenti
agl'ossi de' monachi, che manco il sommo pontefice può dispensarci;
soggiongendo appresso l'opinione di san Tomaso e d'altri dottori, li quali
asseriscono che il voto solenne è una consecrazione dell'uomo a Dio, e
non potendo alcun fare che la cosa consecrata possi ritornar agl'usi umani, non
può parimente fare che il monaco possi ritornar all'uso del matrimonio,
e che tutti li scrittori catolici condannano d'eresia Lutero e li seguaci, per
aver detto che il monacato è invenzione umana, et asseriscono che sia di
tradizione apostolica, a che diametralmente ripugna il dire che il pontefice
possi dispensare.
Altri
defendevano che anco con questi poteva il pontefice dispensare, e si
maravegliavano di quelli che, concedendo la dispensa de' voti semplici,
negavano quella de' solenni, quasi che non fosse chiarissimo per la
determinazione di Bonifacio VIII che ogni solennità è de iure
positivo, valendosi a punto del medesimo essempio delle cose consecrate per
provar la loro sentenza; perché, sí come non si può far che una cosa
consecrata, rimanendo consecrata, sia adoperata ad usi umani, ma ben si
può levar la consecrazione e farla profana, onde lecitamente torni ad
ogni uso promiscuo, cosí l'uomo consecrato a Dio per il monacato, restando
consecrato, non può applicarsi al matrimonio, ma levatogli il monacato e
la consecrazione che nasce dalla solennità del voto, la qual è de
iure positivo, niente osta che non possi usar la vita commune degl'uomini.
Adducevano luoghi di sant'Agostino, da' quali manifestamente appare che nel suo
tempo qualche monaco si maritava. E se ben era stimato che facendolo peccasse,
nondimeno il matrimonio era legitimo, e sant'Agostino riprende quelli che lo
separavano.
Si trascorse
a parlar se fosse ben in questi tempi dispensare overo levar il precetto della
continenza a' sacerdoti; e questo perché il duca di Baviera, avendo mandato a
Roma per ricercar dal pontefice la communione del calice, aveva insieme
ricchiesto che fosse concesso a' maritati di poter predicare; sotto il qual
nome s'intendeva tutto il ministerio ecclesiastico, essercitato da' parochi
nella cura d'anime. Furono dette molte raggioni a persuader che fosse concesso,
li quali si risolvevano in due: nel scandalo che davano li sacerdoti
incontenenti e nella penuria di persone continenti, atte ad essercitar il
ministerio; et era in bocca di molti quel celebre detto di papa Pio II, che il
matrimonio per buona raggione fu levato dalla Chiesa occidentale a' preti, ma
per raggione piú potente conveniva renderglielo. Da quelli di contrario parere
si diceva che non è da savio medico guarir un male con causarne un
peggiore. Se li sacerdoti sono incontenenti et ignoranti, non per questo s'ha
da prostituir il sacerdozio ne' maritati: e qui erano allegati tanti luoghi de'
pontefici, li quali però non lo permisero, che dicevano esser
impossibile attender alla carne et allo spirito, essendo il matrimonio un stato
carnale. Che il vero rimedio era con l'educazione, con la diligenza, co' premii
e con le pene proveder continenti e litterati per questo ministerio; ma tra
tanto, per rimedio d'incontinenza, non ordinare se non persone provate di buona
vita e, per la dottrina, far stampar omiliarii e catechismi in lingua germanica
e francese, formati da uomini dotti e religiosi, li quali s'avessero da legger
al popolo cosí de scritto e col libro in mano da' sacerdoti imperiti; col qual
modo li parochi, se ben insufficienti, potrebbero satisfar al popolo.
Furono
biasmati li legati d'aver lasciato disputar questo articolo come pericoloso,
essendo cosa chiara che coll'introdozzione del matrimonio de' preti si farebbe
che tutti voltassero l'affetto et amor loro alle mogli, a' figli e, per
consequenza, alla casa et alla patria, onde cesserebbe la dependenza stretta
che l'ordine clericale ha con la Sede apostolica, e tanto sarebbe conceder il
matrimonio a' preti, quanto distrugger la ierarchia ecclesiastica e ridur il
pontefice che non fosse piú che vescovo di Roma. Ma li legati si scusavano che,
per compiacer il vescovo di Cinquechiese, il qual aveva ricchiesto questo non
solo per nome del duca, ma dell'imperatore ancora, e per render li cesarei piú
facili a non far grand'insistenza sopra la riforma che piú importava, erano
stati constretti compiacerlo.
I francesi,
veduto che l'opinione piú commune era che un prete potesse esser dispensato al
matrimonio, si congregarono insieme per consultare se era opportuno dimandar la
dispensa per il cardinale di Borbone, come Lorena e gl'ambasciatori avevano in
commissione; e Lorena fu di parer di no, con dire che senza dubio nel concilio
vi sarebbe difficoltà nel persuader che la causa fosse raggionevole et
urgente, poiché per aver posterità non era necessario, essendo il re
giovane, con doi fratelli et altri prencipi del sangue catolici, e per aver
governo mentre il re pervenisse alla maggiorità, lo poteva far restando
nel clero. Che per le differenze che sono tra francesi et italiani, cosí per
causa della riforma, come per l'autorità del papa e de' vescovi, quelli
che tenevano opinioni contrarie alle loro studiosamente si sarebbono opposti
anco a questa dimanda; che meglio era voltarsi al papa, overo aspettar meglior
occasione et esser assai per quel tempo l'operare che non sia stabilita
dottrina che possi pregiudicare. Fu stimato da alcuni che Lorena nel suo
interno non avesse caro che Borbon si maritasse, perché potesse ciò
succeder con emulazione e diminuzione di casa sua; ma ad altri non pareva
verisimile: prima, perché per questa via si levava ogni speranza a Condé, del
quale egli molto piú si diffidava; anzi, che il passar Borbon allo stato
secolare fosse sommamente desiderato da esso Lorena, il qual, levato il Borbone
dal clero, sarebbe restato il primo prelato di Francia, et in occasione di
patriarca, che egli molto ambiva, sarebbe a lui indubitatamente toccato, dove
che essendo Borbon prete, non era possibile pensar di farlo posporre.
[Il papa crea improviso due altri legati. Il
duca di Ghisa è ucciso in Francia]
Ma il
pontefice, ricevuto l'aviso della morte di Mantova, avendo fra se stesso e con
pochi de' piú intimi pensato che fosse necessario mandar altri legati, li quali
nuovi e non interessati in promesse et in trattazioni, potessero seguir piú
facilmente la sua instruzzione, la mattina de' 7 marzo, domenica seconda di
quadragesima, senza intimar congregazione, come è sempre solito di fare,
ma congregati li cardinali nella camera de' paramenti per andar alla capella
secondo il solito, si fermò, et esclusi li corteggiani e fatte serrar le
porte, creò legati li cardinali Giovanni Morone e Bernardo Navaggiero,
accioché per ufficii de' prencipi o cardinali non fosse costretto nominar
persone di non intiero suo gusto. Credeva il pontefice far quell'azzione
secretamente da tutti, ma nondimeno non poteva tanto far che non pervenisse
alle orecchie de' francesi, et il cardinale della Bordissiera tanto
s'affaticò che volle parlar al pontefice inanzi che descendesse dalla
camera, e gli considerò con molte raggioni che volendo crear nuovi
legati, non poteva dar quel carico a persona piú degna che al cardinale di
Lorena. Ma il papa, risoluto e che sentí con dispiacere non aver potuto ottener
la secretezza che desiderava, gli rispose liberamente che il cardinale di
Lorena era andato al concilio come capo d'una delle parti pretendenti e che
egli voleva diputar persone neutrali e senza interessi. A che opponendosi per
risponder il cardinale, il pontefice affrettò il passo e descese cosí
presto che non vi fu tempo da dar risposta. Finita la congregazione il papa
lasciò andar li cardinali alla capella et esso ritornò alla sua
camera, per non restar in ceremonia in tempo quando era alterato gravemente per
le parole di quel cardinale.
Ma in Trento
il 9 di marzo arrivò aviso che il duca di Ghisa, fratello del cardinale
di Lorena, nel ritornar dalla trincea sotto Orliens fu ferito
d'un'archibuggiata da Giovanni Politroto, gentiluomo privato della religione
riformata, della qual archibuggiata 6 giorni dopo era morto, con dispiacere di
tutta la corte, e che dopo la ferita aveva essortato la regina a far la pace e
detto apertamente esser inimico del regno quello che non la voleva. L'omicida,
interrogato de' complici, nominò l'armiraglio Coligní e Teodoro Beza, e
dopo scolpò Beza, perseverando nell'incolpar l'altro. Variò poi
ancora in maniera che lasciò incerto quello che si dovesse credere. Ma
il cardinale, ricevuta la nuova, si providde di maggiore guardia attorno di
quella che soleva tenere, e composto l'animo dal dolore della morte d'un
fratello cosí congionto con lui, prima d'ogni altra cosa scrisse una lettera
consolatoria alla madre commune, che era Antonietta di Borbon, piena
d'isquisiti concetti, da comparare e, come li suoi dicevano, da antepore a quei
di Seneca; in fine della quale aggionse esser deliberato andarsene alla sua
chiesa a Rems et il rimanente di vita che gli restava consummarlo in predicar
la parola di Dio, instruir il suo popolo et educar li figliuoli del fratello in
pietà cristiana, né da questi ufficii cessar mai, se non quando il regno
per le cose publiche avesse bisogno dell'opera sua. E la lettera non fu cosí
presto da Trento partita, che quella città non fu piena di copie di
quella, che erano piú tosto importunamente offerte da' famigliari del cardinale
a ciascuna persona che ricchieste: tanto è difficile che l'affetto della
filautia stia quieto, se ben in occasione di gran dolori. Dopo questo, il
cardinale, postosi a pensar allo stato delle cose per quella variazione
successa, mutò tutti i dissegni suoi. Che fu anco causa di far mutar il
filo, dove parevano inviate le cose del concilio: perché, essendo egli il mezo
per il quale l'imperatore e la regina di Francia avevano sin allora operato,
furono costretti questi ancora, mancando d'un ministro cosí atto, ad andar piú
rimessi ne' dissegni loro et a proceder piú ralentatamente. Ma ne' negozii
umani avviene quello che nelle fortune del mare, dove, cessati li venti, le
onde ancora tumultuano per qualche ore. Cosí la gran mole de' negozii del
concilio non poté facilmente ridursi a tranquillità per l'impeto preso.
Ma della quiete che successe qualche mese dopo certa cosa è che la morte
di quel duca ne fu un gran principio, massime dopo che s'aggionse la morte
dell'altro fratello, che era il gran priore di Francia, e pochi giorni dopo la
nuova della pace fatta con gl'ugonotti, e finalmente le instanze della regina
al cardinale che dovesse rendersi benevolo il papa e ritornar in Francia, delle
quali a suo luogo si dirà. Per le qual cose il cardinale vidde che li
negozii inviati non sarebbono stati utili né per sé, né per gli amici suoi.
Tanto in
Trento, quanto in Roma fu sentita con dispiacere la morte di Ghisa, riputando
ogni uno che egli fosse l'unico sostentamento della parte catolica nel regno di
Francia, né vedendosi qual altra persona potesse succedergli in sopportar quel
peso, massime essendo ognuno spaventato per l'essempio della sua morte. E li
prelati francesi in concilio si trovavano in ansietà, intendendo che si trattava
l'accordo con ugonotti, quali tra le altre cose pretendevano che la terza parte
delle rendite ecclesiastiche fosse per mantenimento de' ministri riformati.
[Lettere di Cesare per lo progresso et
emendazione del concilio]
In queste
varietà de negozii e perplessità d'animi ritornò il
vescovo di Cinquechiese a Trento; con gl'ambasciatori cesarei andò
all'audienza de' legati e presentò una lettera dell'imperatore da lui
portata, con la copia d'un'altra di quella Maestà, scritta al pontefice.
Fecero tutti ufficio che fosse proposta la riforma, ma con parole generali et
assai rimesse. La lettera dell'imperatore a' legati significava loro il
desiderio che aveva di veder qualche progresso fruttuoso del concilio, per
ottener il quale era necessario che fossero levati alcuni impedimenti, de'
quali avendo scritto al pontefice, aveva voluto pregargli essi ancora ad
adoperarsi, e con l'opera propria in concilio, et appresso il pontefice con le
preghiere, acciò si caminasse inanzi per servizio di Dio e beneficio del
cristianesmo. Conteneva la lettera dell'imperatore al papa che, come avvocato
della Chiesa, dopo ispediti gravissimi negozii con gl'elettori et altri
prencipi e stati di Germania, nissun altro pensiero gli fu piú a cuore che di
promover le cose del concilio; per la qual causa anco s'era ridotto in Ispruc,
dove con suo dolore aveva inteso le cose non caminare come sperava e la publica
tranquillità ricerca, e temeva che, se non se gli rimediava, il concilio
fosse per aver fine con scandalo del mondo e riso di quelli che hanno lasciato
l'obedienza della Chiesa romana, et incitamento a ritener le loro opinioni con
maggior ostinazione; che già molto tempo non s'era celebrata sessione;
che mentre li prencipi s'affaticano d'unir gl'avversarii differenti in
opinioni, li padri sono passati a contese indegne di loro; che andava anco
attorno fama che Sua Santità trattasse di discioglier o sospender il
concilio, mossa forse dall'intricato stato di quello che si vede; ma il
giudicio suo esser in contrario. Perché meglio sarebbe non fosse mai stato
comminciato, che esser lasciato imperfetto con scandalo del mondo, vilipendio
di Sua Santità e di tutto l'ordine ecclesiastico, e pregiudicio a questo
et a' futuri concilii generali, con giattura delle poche reliquie del popolo
catolico, e con lasciar opinione nel mondo che il fine della dissoluzione o
sospensione fosse impedir la riforma; che nell'intimarlo la Santità Sua
aveva ricchiesto il consenso di lui e degl'altri re e prencipi, il che da lei
era stato fatto ad imitazione de' pontefici precessori, li quali l'hanno
giudicato necessario per diversi rispetti: la medesima raggione concludere che
non possi esser disciolto, né sospeso senza il medesimo consenso, essortandola
a non dar orrecchie a quel conseglio, come vergonoso e dannoso, il qual senza
dubio tirerebbe in consequenza concilii nazionali, sempre aborriti dalla
Santità Sua come contrarii all'unità della Chiesa; li quali, sí
come sono stati impediti da' prencipi per conservar l'autorità
ponteficia, cosí non si potranno negare, né differir piú longamente. E
l'essortava ad esser contenta d'aiutar la libertà del concilio, la qual
veniva impedita principalmente per tre cause: l'una, perché ogni cosa si
consultava prima a Roma; l'altra, perché non era libero il proporre, avendo li
legati soli assontosi questa libertà, che doveva esser commune; la terza
causa, per le prattiche che facevano alcuni prelati interressati nella
grandezza della corte romana. Che essendo necessaria una riformazione della
Chiesa et essendo commune opinione che gl'abusi abbiano origine e fomento in
Roma, era necessario, per satisfazzion commune, che la riforma si facesse in
concilio e non in quella città. Che però Sua Santità si
contentasse che fossero proposte le dimande essibite da' suoi ambasciatori e
quelle degl'altri prencipi. In fine esponeva l'animo suo d'intervenir al
concilio et essortava la Santità Sua a volersi ritrovar ella ancora.
[Il papa, offeso, risponde risentitamente]
Fu questa
lettera spedita sotto li 3 marzo, della quale il pontefice restò molto
offeso, parendogli che l'imperatore volesse abbraciare molto piú che quanto
s'estendeva l'autorità sua, passando anco li termini degl'altri
imperatori antecessori suoi e piú potenti di lui. Piú restò ancora offeso
per esser avisato dal suo noncio che s'era mandato copia della medesima lettera
a' prencipi et al cardinale di Lorena ancora; la qual cosa ad altro fine non
poteva esser fatta, se non per commover loro e giustificar le azzioni proprie.
S'aggionse appresso che il dottore Scheld, gran cancelliere dell'imperatore,
aveva persuaso il Delfino, noncio pontificio a quella corte, ad operare che si
levassero quelle parole «Universalem Ecclesiam», per non fomentar l'opinione
della superiorità del papa al concilio, con dire che questi non erano
tempi di trattar tal cosa, e che la Maestà cesarea et esso ancora
sapevano che Carlo V di felice memoria in questo articolo teneva contraria
opinione, e che si doveva fuggir il dar occasione a Sua Maestà et
agl'altri prencipi di decchiarar l'opinione che tengono in questo punto. Le
qual cose, congiongendo con quello che Lorena medesimo gl'aveva scritto,
cioè che non era ora né tempo di trattar la difficoltà delle
parole «Universalem Ecclesiam» ecc., e con l'aviso venuto da Trento, che quel
cardinale diceva non poter, né esso, né i prelati francesi comportarle, per non
canonizare un'opinione contraria a tutta la Francia e che s'ingannavano quelli,
quali si credevano che, quando si fosse venuto al parlar chiaro e dimandar
decchiarazione che il papa non sia sopra il concilio, quell'opinione saria
stata favorita et aiutata piú di quello che altri si pensava, le qual cose
mostravano che di questo punto fu trattato strettamente alla corte imperiale,
queste cose attese, venne il pontefice in parere di far una buona risposta e di
mandar esso ancora attorno per propria giustificazione.
Rescrisse
adonque il pontefice all'imperatore che aveva convocato il concilio con
participazione sua e de' altri re e prencipi, non perché la Sede apostolica
avesse bisogno nel governo della Chiesa d'aspettar il consenso di qual si
voglia autorità, avendone piena potestà da Cristo; che tutti
gl'antichi concilii sono stati congregati per auttorità del pontefice
romano, né mai alcun prencipe si è interposto in questo, se non puro essecutore;
che egli non ha avuto mai pensiero né di sospendere, né di discioglier il
concilio, ma ha sempre giudicato che per servizio di Dio si debbia metterci
compito fine; che non era impedita, ma aiutata la libertà del concilio
con le consulte che in Roma si facevano nelle materie medesime; che mai si
è celebrato concilio, senza la presenzia del pontefice, dove dalla Sede
apostolica non sia mandata instruzzione e seguitata anco da' padri; che restano
ancora le instruzzioni, le quali papa Celestino mandò al concilio
efesino, papa Leone al calcedonense, papa Agato al trullano, papa Adriano I al
niceno secondo, et Adriano II all'ottavo generale constantinopolitano; che
quanto al proponer in concilio, quando il romano pontefice è stato presente
ne' concilii egli solo ha sempre proposto le materie, anzi egli solo le ha
risolute, non avendovi il concilio posto altro che l'approbazione; in assenza
del pontefice, aver proposto li legati, overo dal medesimo esser stati deputati
proponenti, e cosí il concilio in Trento aver deliberato che li legati
proponessero; il che è necessario per servar qualche ordine; ché sarebbe
una gran confusione, quando tumultuariamente e quando uno contra l'altro
potessero metter a campo cose sediziose et inconvenienti; non però esser
stato negato mai di proponer tutte le cose utili; che ha sentito con dispiacere
le prattiche fatte da diversi contra l'autorità data da Cristo alla Sede
apostolica; esser pieni tutti li libri de' padri e concilii che il pontefice,
successor di Pietro e vicario di Cristo, è pastor della Chiesa
universale; e con tutto ciò contra questa verità s'erano fatte in
Trento molte conventicole e prattiche, e tuttavia la Chiesa ha sempre usato
quella forma di parlare, come Sua Maestà potrebbe veder ne' luoghi che
gli mandava citati nell'incluso foglio; e soggionse tutti li mali presenti
esser nati, perché li suoi legati, a fine d'ovviare che le cattive lingue non
parlassero contra la libertà del concilio, con usar connivenza avevano
lasciato vilipender la loro autorità, onde il concilio si poteva dir piú
tosto licenzioso che libero. Che quanto alla riforma, egli la desidera rigida
et intiera, et ha continuamente sollecitato li legati a risolverla. Che per
quel che tocca alla sua corte, erano note al mondo le molte provisioni che
aveva fatto, con diminuzione anco delle entrate sue, e se alcuna cosa restava a
fare non era per tralasciarla; ma non si poteva far in Trento che stesse bene,
perché non essendo quei prelati informati, in luogo di riformarla, la
disformarrebbono maggiormente; che desiderava tra tanto veder qualche riforma
anco nelle altre corti, che non avevano minor bisogno, delle cose della Chiesa
tuttavia solamente parlando; e che forse dagl'abusi di quelle nasce il male
principalmente. Che quanto alle petizioni proposte dagl'ambasciatori di Sua
Maestà e dagl'altri, egli ha sempre scritto che fossero essaminate e
discusse, ciascuna al tempo conveniente; perché essendo già instituito
et incaminato l'ordine di terminar in concilio insieme le materie di fede e
riformar gl'abusi concernenti quelle, non si potrebbe senza confusione et
indegnità alterarlo; che avendo Sua Maestà toccato diversi
disordini del concilio, aveva tralasciato il principale e fonte degl'altri,
cioè che quelli che debbono pigliar legge da' concilii vogliono
dargliela; che se fosse immitata la pietà di Constantino e de' doi
Teodosii e seguiti li loro essempi, il concilio sarebbe senza divisione tra li
padri et in somma riputazione appresso il mondo. Che nissuna cosa desiderava
piú che intervenire personalmente in concilio per rimediare al poco ordine che
si serva, ma per sua età e per gl'altri negozii non meno importanti,
esservi impossibile l'andar a Trento, e di trasferirlo dove potesse andar non
parlerebbe, per non dar sospetto.
Dubitò
il pontefice che gl'interressi dell'imperatore e di Francia in modo alcuno non
potessero unirsi co' suoi, e però di loro poco si poteva prometter e
meno sperare, poiché essi non pensavano al concilio se non quanto gli preme per
proprii interessi de' loro Stati, e però dal concilio essi altro non
voler, se non quello che possi dar sodisfazzione e contentar i loro popoli, e,
non potendo ottenerlo, impedir il fine del concilio per mantenergli in
speranza. Questi interessi non poter muover il re di Spagna che ha li popoli
catolici, onde può conformarsi col voler di esso pontefice senza
pregiudicio de' suoi Stati, anzi gl'è utile d'esser tutto unito con lui
per ottener delle grazie; e però esser necessario sollecitarlo con
continui officii e dargli speranza d'ogni sodisfazzione. Et opportunamente
arrivò a Roma Luigi d'Avila, mandato espresso dalla Maestà
catolica, il qual il papa onorò sopra modo, lo alloggiò nel suo
palazzo nelle stanze dove soleva abitar il conte Federico Borromeo, suo nipote,
et usò seco ogni effetto di cortesia. Le cause perché fu mandato furono
per ottener dal pontefice prorogazione per altri 5 anni del sussidio del clero
concessogli e grazia di vender 25000 scudi de' vassallatichi delle chiese.
Aveva anco in commissione di procurare dispensa di matrimonio tra la
prencipessa sorella del re e Carlo, suo figliuolo, la qual in Spagna si teneva
per facile, poiché molti, eziandio tra privati, erano dispensati di contraer
matrimonio con la figlia del fratello o della sorella, che sono pari in grado a
quello di pigliar la sorella del padre; oltra che d'un matrimonio di questa
sorte nacquero Mosè et Aaron. Alle qual proposizioni, quanto al
matrimonio il papa s'offerí a tutto quello dove s'estendeva l'autorità
sua, dicendo che farebbe consultare; ma la trattazione non caminava inanzi per
l'infermità che successe alla prencipessa, che levò ogni speranza
di matrimonio. E quanto al sussidio et all'alienazione, mostrò il
pontefice animo pronto, ma difficoltà di metterlo in effetto, mentre li
prelati stavano in spese nel concilio; promettendo che se il re l'aiutasse a
finirlo e liberarsene, egli lo gratificherebbe. Quanto alle cose del concilio,
nelle prime audienze don Luigi non passò molto inanzi; solo offerí di
procurare la conservazione dell'autorità ponteficia et essortò il
pontefice a non trattar di far lega de' catolici, accioché gl'eretici non la
facessero tra loro e che Francia non si precipitasse ad ogni accordo con
gl'ugonotti.
[I cesarei vogliono richiedere il calice.
Residenza rimessa in campo]
In questo mentre
in Trento si facevano diverse adunanze: gl'ambasciatori cesarei adunarono i
prelati spagnuoli in casa dell'arcivescovo di Granata, per indurgli a consentir
che nel concilio si concedesse l'uso del calice, con dissegno di propor di
nuovo quella materia; ma gli trovarono tanto alieni, che furono costretti
metterla in silenzio. Il cardinale di Lorena fece molte congregazioni co' suoi
prelati e teologi per essaminare li luoghi mandati dal pontefice
all'imperatore, nel foglio di sopra riferito, e dall'imperatore a lui sopra le
parole «Universalem Ecclesiam», facendo veder se quei passi erano citati
direttamente e se gli era dato il vero sentimento, per formare, come poi
fecero, un'altra scrittura in confutazione di quella. Questi medesimi luoghi
ordinò l'imperatore che fossero communicati a' spagnuoli per sentir il
parer loro; il che avendo fatto il Cinquechiese, dove tutti li prelati
spagnuoli erano congregati a questo effetto, rispose Granata non esser bisogno
che Sua Maestà facesse quell'opera con loro, che ricevevano il concilio
fiorentino, ma co' francesi, che ricevevano il basileense. Mossi da questo
accidente, alcuni di loro, dopo la partita del Cinquechiese, trattarono che si
scrivesse una lettera al papa per levar quella sinistra openione che avesse concetto
di loro; a che ripugnò Granata, dicendo che bastava al papa conoscer da'
voti loro che in questo non erano contrarii, ma però non esser giusto
che secondassero le adulazioni degl'italiani, e soggionse le formali parole:
restituisca a noi il nostro, che noi lasciamo a lui piú che è il suo e
non è giusto che de vescovi diventiamo suoi vicarii. Et un altro giorno
li medesimi cesarei s'adunarono con gl'ambasciatori francesi per metter ordine
di far instanza tutti insieme che fosse proposto il decreto della residenza,
formato dal cardinale di Lorena; il che non potero né essi, né Lorena impetrare
da varmiense e Simoneta, ché Seripando per infermità non interveniva.
Occorse che
nella congregazione de' 17 marzo uno de' teologi francesi, trovata
opportunità di degredire dalla continenza de' sacerdoti alla residenza,
s'estese, consummando tutto 'l raggionamento sopra di quella. Addusse
autorità et essempii a persuader che fosse de iure divino e
rispondere a quella obiezzione che si trovano tanti canoni e decreti che la
commandano, il che non sarebbe, se fosse commandata da Dio. Usò questo
concetto: che il ius divino è fondamento overo colonna della residenza e
che il ius canonico è l'edificio, overo il volto; e sí come levato il
fondamento casca l'edificio, e levata la colonna cade il volto, cosí è
impossibile conservar la residenza col solo ius canonico, e quelli che la
vogliono a quel solo ascrivere, altra mira non hanno se non di destruggerla.
Addusse gl'essempii de' tempi passati, osservando che inanzi tutti li canoni e
decreti umani la residenza fu esquisitamente da tutti osservata, perché
ciascuno si teneva obligato da Dio. Ma dopo che alcuni si sono persuasi non
aver altro obligo che derivato da leggi umane, quantonque quelle siano state
spesso rinovate e fortificate con pene, nondimeno il tutto è sempre
riuscito in peggio.
[Morte del legato Seripando. Lettere del re di
Spagna]
In quel
medesimo giorno, con universal dispiacere di tutti li prelati, e di tutto
Trento, morí il cardinal Seripando, avendo la mattina pigliato il santissimo
sacramento dell'eucaristia, qual volse pigliar fuori del letto inginocchiato, e
dopo, tornato in letto, alla presenzia di 5 prelati, de' secretarii di Venezia
e Fiorenza e di tutta la sua famiglia, fece un'orazione latina tanto longa,
quanto gli durò lo spirito, confessò la sua fede conforme in
tutto alla catolica della Chiesa romana, parlò dell'opere del cristiano,
della risurrezzione de' morti, delle cose del concilio, raccommandò a'
legati e cardinale di Lorena il progresso d'esso e volendo anco raccordar il
modo, non avendo piú spirito, disse che il signor Iddio gl'aveva proibito
l'andar piú oltre, ma che la Sua divina Maestà parleria ella a tempo e
luogo, e cosí passò senza dir piú parola.
Il conte di
Luna dalla corte cesarea scrisse al secretario Martino Gasdellun, e
mandò copia d'una lettera scrittagli dal re, dove Sua Maestà
avisava ch'il pontefice s'era doluto seco de' prelati spagnuoli, e se ben ella
pensava ciò esser avvenuto per non esser Sua Santità ben
informata, tenendo esso che li suddetti prelati si mostrino devoti verso la
Sede apostolica, nondimeno ordinava al conte che, gionto a Trento, volesse
tenergli la mano sopra, acciò favorissero le cose del papa, salva
però la loro conscienza, e far in modo che Sua Santità non avesse
da dolersi di lui. Et in questa sostanza il medesimo conte scrisse a Granata,
Segovia e Leon.
[I francesi, cesarei e spagnuoli chiedono
riforma]
Il giorno 18
marzo, che per l'essequie di Seripando non si tenne congregazione,
gl'ambasciatori francesi fecero una solenne comparsa inanzi a' doi legati.
Fecero indoglienza che in 11 mesi dopo l'arrivo loro in Trento, dal primo
giorno sino allora, avessero fatto intender le desolazioni di Francia e li
pericoli della cristianità per le differenze della religione, et esposto
che il piú necessario e principal rimedio era una buona et intiera riforma de'
costumi e qualche moderazione delle leggi positive, e sempre gli sia stata data
buona speranza e graziose parole, senza che mai ne abbiano veduto alcun
effetto; che si fugge quanto si può la riforma; che la piú parte de'
padri e teologi sono piú che mai duri e severi a non condonar cosa alcuna alla
necessità del tempo; concludendo che gli pregavano a considerare quanti
uomini da bene muorono, prima di poter far qualche buona opera per il publico
servizio; di che ne danno essempio li cardinali di Mantova e Seripando;
però volessero essi far qualche cosa mentre hanno tempo per discarico
delle loro conscienze. Risposero li legati dispiacer loro l'andar delle cose in
longo, ma di questo esserne causa gl'accidenti sopravenuti della morte di
Mantova e Seripando. Che essi soli non possono portar tanto peso; che gli
pregavano d'aspettar Morone e Navaggero, che presto arriveranno. Alla qual
risposta s'acquietarono, perché anco gl'ambasciatori imperiali fecero instanza
che si andasse lentamente, aspettando la negoziazione degl'ambasciatori cesarei
in Roma, congionti con Luigi d'Avila, li quali tutt'insieme avevano fatto
instanza al pontefice che in concilio, e non a Roma, si facesse un'universal
riforma di tutta la Chiesa nel capo e nelle membra, e per la rivocazione del
decreto che li soli legati potessero proponer in concilio, come contrario alla
libertà degl'ambasciatori e de' prelati di poter ricercar quello che
giudicassero utile, questi per le sue chiese e quelli per li suoi stati. La
qual instanza l'imperatore giudicò meglio che fosse prima fatta al papa
e poi in concilio.
Non
però questi prencipi erano in tutto concordi; imperoché, se ben don
Luigi a parte fece le medesime dimande, nondimeno appresso di ciò
ricercò il pontefice che persuadesse l'imperatore a rimoversi dalla
dimanda del calice e matrimonio de' preti, dicendo ch'il re aveva dato
commissione al suo ambasciatore che anderrebbe a Trento di far ufficio che se
ne parlasse e che i prelati spagnuoli se vi opponessero. Essortò il
pontefice a procurar d'acquistar gl'eretici con dolcezza, non mandando noncii,
ma usando il mezo dell'imperatore e d'altri prencipi d'autorità, et ad
accettar le dimande de' francesi, e lasciar libero il concilio, sí che tutti
possino proporre, e che nel risolver non si faciano prattiche. La risposta del
pontefice agl'ambasciatori fu che il decreto del «Proponentibus legatis»
sarebbe interpretato in maniera che ogni uno potrà proponer quello che
vorrà, e che egli a' legati ultimamente partiti aveva lasciato
libertà di risolvere tutte le cose che occorressero in concilio, senza
scriver cosa alcuna. Che la riforma era desiderata da lui, e ne aveva spesso
fatto instanza, e se il mondo la volesse da Roma, già sarebbe fatta et
anco esseguita; ma poiché la volevano da Trento, se non si effettuava, la causa
non si doveva ascriver ad altri, se non alle difficoltà che si
ritrovavano tra i padri. Che egli desiderava il fine del concilio e lo
procurava e sollecitava, né di sospenderlo aveva pensiero alcuno. E che in
conformità di questo, averebbe scritto a' legati, e scrisse anco con
dire che il decreto «Proponentibus legatis» era fatto per levar la confusione,
ma però esser volontà sua che non impedissero alcuno de' prelati
a proponer quello che gli fosse parso, e che essi dovessero espedir le materie
secondo li voti de' padri, senza aspettar altro ordine da Roma. Ma questa
lettera fu per dar sodisfazzione e non produr effetti; perché il cardinal
Morone, che era capo de' legati, aveva le instruzzioni a parte per dar regola
anco agl'ordini che fossero andati da Roma.
A don Luigi
rispose in particolare il pontefice che aveva aperto il concilio sotto la
promessa fattagli da Sua Maestà che n'averebbe avuto la protezzione e
che sarebbe conservata l'autorità della Sede apostolica, e si trovava
ingannato, perché da' prelati suoi riceveva maggior incontri che da tutti
gl'altri; li quali per la concessione del sussidio s'erano inimicati insieme
con tutto 'l clero di Spagna. Che della buona volontà di Sua
Maestà non dubitava, ma tutto 'l male nasceva perché, né in Roma, né al
concilio, aveva mandato ambasciatori confidenti; che era giusto lasciar il
concilio in libertà et egli piú di tutti cosí desiderava, non
piacendogli però la licenzia, né meno che fosse in servitú di quei
prencipi che predicavano la libertà, volendo essi commandare. Che da
ogni uno gl'era fatta instanza di libertà nel concilio et egli non
sapeva se tutti questi avessero ben pensato che importanza sarebbe quando a'
prelati fosse lasciata la briglia sopra il collo. Che quantonque in quel numero
vi fossero alcune persone eccellenti in bontà et in prudenza, vi erano
nondimeno anco di quelli che mancavano o [dell'una o] dell'altra o d'ambedue
insieme; li quali tutti erano pericolosi, quando non fossero tenuti in regola.
Che a lui importava forse manco di tutti il pensarci: perché avendo il
fondamento dell'autorità sua sopra le promesse di Dio, in quelle
confidava; ma maggior bisogno avevano li prencipi d'avvertirci per li
pregiudicii che ne potrebbono seguire, e che quando li prelati fossero posti in
quella soverchia libertà, ne rincreserebbe forse molto a Sua
Maestà catolica. Che quanto alla riforma, gl'impedimenti non venivano da
lui, che egli sarebbe andato differendo le dimande de' prencipi sopra la
communione del calice et altre tal novità, come Sua Maestà
desiderava; ma che ella considerasse che, sí come la mente di Sua Maestà
non è conforme a quella degl'altri ne' particolari del calice e
matrimonio de' preti, cosí in ogni altra vi è chi fa instanza e chi
s'oppone a quelli di lei. Concluse in fine che stava a Sua Maestà veder
un fruttuoso e presto fine del concilio, dal quale, quando egli fosse stato
libero, ella si poteva prometter ogni favore.
[Perplessità de' legati in concilio]
In concilio
il 20 marzo finirono di parlar li teologi sopra tutti gl'articoli del
matrimonio. Si restrinsero li legati per deliberare se dovevano nelle
congregazioni de' padri proponere la dottrina e canoni del matrimonio. Ma
considerando che francesi e spagnuoli si sarebbono opposti, e che si potrebbono
eccitar maggior controversie in quelle che sino allora erano, e quando avessero
voluto proponer gl'abusi solamente, venivano a punto a dar occasione
agl'imperiali e francesi d'entrar nella materia di riforma, erano perplessi.
Sarebbe stato utile il tentare d'accommodar alcuna delle difficoltà, et
a questo inclinava varmiense. Ma in contrario Simoneta dubitava che, per la
poca fermezza del collega, non fosse successo qualche grave pregiudicio, et
attribuendo la colpa di tutti li disordini occorsi in concilio a' doi legati
morti, che con aver proceduto nella materia della residenza piú secondo il
proprio senso che secondo gli bisogni della Chiesa, per troppo bontà
avevano causato tanto male, e che non era da mettersi in pericolo di vederne di
maggiore; e però non consentiva che d'alcuna d'esse si parlasse. Onde
finalmente conclusero d'intermetter tutte le trattazioni sino alla venuta degl'altri
legati. Dopo la qual risoluzione Lorena deliberò d'andar in quel mentre
sino a Venezia, per ricever nel viaggio qualche relassazione d'animo per il
dolore conceputo per la morte del gran priore suo fratello, che gli aveva anco
rinovato la piaga del dispiacer per la morte dell'altro.
Le
difficoltà, de' quali si è parlato, erano 6: l'una, sopra il
decreto già fatto che i soli legati proponessero; la seconda, sopra la
residenza, se fosse de iure divino; la terza, sopra l'instituzione de'
vescovi, se hanno la loro auttorità immediate da Cristo; la quarta,
sopra l'auttorità del papa; la quinta, d'accrescer il numero de'
secretarii e tener conto minuto e fidato de' voti; la sesta e piú importante,
della riforma generale. Le quali io ho voluto recapitular in questo luogo come
per anacefaleosi di quello sopra che sin ora s'era travagliato, e proemio de'
travagli che seguitano da narrarsi.
[Le instanze degli ambasciatori francesi et i
propositi di Lorena fanno risolvere il papa a guadagnarsi, oltre Spagna, ancora
Cesare]
Non fu nuovo
in Trento l'aviso che andò dell'instanza fatta in Roma al papa, perché
già gl'ambasciatori cesarei e francesi avevano publicato che cosí si
doveva fare, per voltarsi poi al concilio unitamente a far le ricchieste
medesime. Et il cardinale di Lorena, solito a parlar variamente, diceva che, se
quei prencipi ricevessero satisfazzione che le loro petizioni di riforma
fossero proposte e la riforma stabilita senza diminuzione della
auttorità ponteficia, farebbono cessar immediate quelle instanze; et aggiongeva
appresso che al papa sarebbe facile riuscire della riforma e venire
all'espedizione del concilio, quando si lasciasse intender chiaramente quali
fossero li capi che non volesse che si trattassero, acciò che si potesse
attender all'espedizione degl'altri e che con questo si levariano le contese
che sono causa delle dilazioni; percioché, presupponendo alcuni che vogliano
mostrarsi affezzionati a Sua Santità, che una parte di quelle petizioni
sia pregiudiciale alla Sede apostolica, s'oppongono a tutte; et altri negando
che alcuna pregiudichi, sono causa di portar il negozio in longo; che quando
Sua Santità fosse decchiarata, le difficoltà cesserebbono.
Gl'ambasciatori cesarei diedero copia in Trento a molti della lettera
dell'imperatore scritta al papa; per la qual causa li legati vennero in
opinione di far andar attorno essi ancora la copia della scritta da loro in
risposta a quella Maestà, quando gli mandò quella che al papa
aveva scritto: la qual risposta essendo fatta secondo l'instruzzione scritta da
Roma, conteneva li medesimi concetti che la lettera del papa.
Il pontefice,
confrontate le proposte fattegli da tutti gl'ambasciatori con quello che era
avisato esser detto dal cardinale di Lorena, tanto piú fermò nell'animo
suo di non dover consentire alle proposizioni di riforma date da' francesi; e
veramente non solo una persona di gran spirito e molto versato ne' negozii,
come il pontefice era, ma ogni mediocre ingegno averebbe scoperto l'artificio
ordito per tirarlo, quando fosse stato incauto, nella rete. Considerava non
altro significar il dire che si dicchiari quali delle petizioni non gli
piacciono, lasciando deliberar le altre, se non lasciar aprir la strada con
quelle, per introdur dopoi le altre che fossero in suo pregiudicio. E chi
poteva dubitare che l'ottener le prime fosse non fine, ma grado per passar dove
si mirava? Et il rilasciar li precetti ecclesiastici spettanti a' riti, come la
communione del calice, il celibato de' preti, l'uso della lingua latina, parer
in primo aspetto che non possino derogar all'auttorità ponteficia,
nondimeno, qualonque di questi riti alterato, causerebbe immediate la total
destruzzione de' fondamenti della Chiesa romana. Esser alcune cose che nel
primo aspetto paiono potersi admetter senza diminuzione dell'auttorità,
ma l'uomo prudente dover avvertire non tanto li principii, quanto li termini
delle cose. Per queste caggioni risoluto di non caminar per la via di ceder a
questi primi passi e datosi a pensare, che altri rimedii vi fossero,
ritornò ne' primi pensieri che il re di Spagna non aveva né interesse,
né affetto proprio per proseguir le instanze fatte; che l'imperatore et i
francesi vi mettevano pensiero grande, sperando con quei mezi satisfar a' loro
popoli e quietar le discordie civili; e quando questi fossero capaci che
gl'eretici inculcano la riforma per pretesto di mantenersi separati dalla
Chiesa, ma non si ridurrebbono però, quando anco fosse perfetta,
considerò che, fatti i prencipi capaci di questo, averebbono cessato
dall'instanza e lasciato finir quietamente il concilio. Si voltò tutto a
tentar di superar per questa strada le difficoltà e, ben considerati
tutti li rispetti, gli parve piú facile persuader l'imperatore, come quello che
solo poteva deliberare et era di piú facile e buona natura, lontano
dagl'arteficii e non costretto da necessità di guerra; dove che in
Francia, essendo il re un putto, li partecipi del governo molti e di natura
arteficiosa e con varii interessi, era difficile poter far frutto. Onde tutto
rivoltato a questo, deliberò che il cardinale Morone, inanzi che dar
principio alle cose conciliari, andasse all'imperatore per questo effetto. E
raccordandosi quello che il cardinale di Lorena aveva detto a Trento dell'andar
l'imperatore a Bologna per ricever la corona, deliberò di tentar l'animo
di quel cardinale, se si potesse indur ad esser mediatore in questo, e cosí
trasferir anco il concilio in quella città. Ordinò al vescovo di
Vintimiglia che, insinuatosi con lui, vedesse d'indurlo a contentarsi
d'adoperarsi in questa impresa; e per dargli occasione d'introdursi, fece che
Borromeo gli diede il carico di condolersi con lui della morte del gran priore,
suo fratello.
Ma essendo
questo ordine andato che già il cardinale era partito per Padova, il
vescovo, communicato il negozio col cardinale Simoneta, concluse che
l'importanza della cosa non comportava indugio di tempo, né meno di negoziarla
altrimenti che a bocca; si risolvé di seguitar Lorena sotto pretesto di veder
in Padova un suo nipote gravamente infermo; dove gionto e visitato il cardinale
e presentategli le lettere di Borromeo e fatto l'ufficio di condoglienza, non
mostrando d'aver tanto negozio con lui, entrati in raggionamento,
dimandò il cardinale che cosa era di nuovo in Trento dopo la sua partita
e se era vero che il cardinale Morone fosse per andar all'imperatore, come si
diceva. Dopo molti discorsi dell'uno e dell'altro, il vescovo passò a
raccordargli che Sua Signoria Illustrissima in Trento gl'aveva altre volte
detto che, se il pontefice avesse voluto trasferirsi a Bologna, l'imperator vi
sarebbe andato e sarebbe stato occasione d'incoronarlo, il che averebbe messo
molto conto a Sua Santità, per mantenersi nel possesso della
coronazione, la quale la Germania oppugnava; il che essendo di nuovo dal
cardinale affermato, soggionse il vescovo che egli allora ne aveva dato aviso a
Roma et al presente ne aveva tal risposta, dalla quale concludeva che si
rapresentava una bellissima occasione a Sua Signoria Illustrissima di portar un
gran frutto alla Chiesa di Dio, adoperandosi per mandar ad effetto cosí util
dissegno; imperoché, quando ella disponesse Sua Maestà ad andar a
Bologna, chiamando anco là il concilio, si poteva tener per certo che
Sua Santità s'averebbe risoluta ad andarci, e con l'assistenza del papa
e dell'imperatore, le cose del concilio averebbono preso presto e felice
successo. E mostrando il cardinale desiderio di veder quello che gl'era
scritto, il vescovo, facendo dimostrazione di proceder con lui liberamente, gli
mostrò le lettere del cardinale Borromeo et una poliza di Tolomeo Gallo,
secretario del pontefice.
Il cardinale,
letto il tutto, rispose che, quando fosse tornato a Trento, averebbe avuto
maggior lume dell'animo dell'imperatore e di quello che il pontefice avesse
risposto a Sua Maestà, onde potrebbe poi pigliar partito e non
mancherebbe d'adoperarsi, se fosse bisogno. A che replicando il vescovo che la
mente del pontefice la poteva chiaramente intendere per le lettere mostrategli,
né occorreva aspettarne chiarezza maggiore, il cardinale entrò in altri
raggionamenti, né mai il vescovo, col ritornar nel medesimo, poté cavar altro
in sostanza che l'istessa risposta: ben gli disse che egli aveva parlato
dell'andata a Bologna, per l'intenzione che il papa dava all'imperatore della
riforma; ma dopoi che in tanto tempo s'era visto che, se ben Sua Santità
promette cose assai e piú di quello che si ricerca, in concilio però
niente s'esseguisce, l'imperatore e gl'altri prencipi credono che Sua
Santità veramente non abbia avuto animo di riforma; la qual se avesse
avuto, non averiano i legati mancato d'esseguir la volontà sua. Disse
che l'imperator non era sodisfatto, perché avendo Sua Santità mostrato
animo al genaro di voler andar a Bologna, s'era in un subito rafreddato, e che
quando Sua Maestà ha detto di voler intervenir in concilio, Sua
Santità ha fatto ogn'opera per retirarlo da tal pensiero; et usando
delle sue solite varietà di parlar, disse anco che l'imperatore non si
risolveria d'andar a Bologna per non dispiacere a' prencipi, quali potriano dubitare
che quando fosse là Sua Santità volesse governar le cose a modo
suo e terminar il concilio come gli piacesse, senza far la riforma.
Narrò d'aver avuto aviso dell'instanza fatta da don Luigi d'Avila a nome
del re Catolico, mostrando piacer di quell'aviso et estendendosi a'
particolari, aggionse esser necessario che si facesse dall'alfa sino all'omega
e che saria ben che si levassero di concilio sino a 50 vescovi che si oppongono
sempre a tutte le buone risoluzioni. Disse ancora che per il passato egli
pensava esser piú abusi in Francia che in altri luoghi, ma aver conosciuto
dopoi ch'anco in Italia v'era da far assai. Percioché si vedono le chiese in
mano de' cardinali, che non avendo altra mira se non di tirar entrate, le
lasciano abandonate, dando la cura ad un povero prete; donde nascono le rovine
delle chiese, simonie et altri infiniti disordini; al rimedio de' quali li
prencipi e loro ministri erano andati ritenuti, sperando che pur una volta si
facesse la desiderata riforma. Che esso ancora era proceduto con rispetto, ma
vedendo oramai esser tempo d'operar liberamente per servizio di Dio, non voleva
aggravar piú la sua conscienza, ma nel primo voto che dicesse era risoluto di
parlar di questo; che la casa sua per la conservazione della religione e
servizio di Dio aveva tanto patito quanto ognun sa, con la perdita di duoi
fratelli; che egli era per perdersi nella medesima opera, se ben non come loro
nelle armi; che Sua Santità non doveva dar orecchie a chi cercava di
rimoverla dalla sua santa intenzione, ma di risolversi d'acquistar questo
merito appresso Dio, con levar gl'abusi della Chiesa. Disse ancora che, venendo
li nuovi legati ben informati della mente del pontefice, di qui si
conoscerà l'animo suo intorno la riforma et essi non averanno piú scusa
di ritardarla. E con tutto che il vescovo piú volte lo volesse rimettere in
parlar dell'andata a Bologna, voltò sempre il raggionamento altrove. Del
tutto il Vintimiglia avisò a Roma, dandone anco il suo giudicio sopra:
che, quantonque il cardinale altre volte facesse menzione di questa andata a
Bologna, nondimeno ne avesse l'animo contrario e lo dicesse con arte per
scoprir l'intenzione di Sua Santità e della corte, e che allora era ben
averlo scoperto; perché, se avesse detto di volersi adoperare, averia potuto
portar il negozio in longo e far occorrere diversi inconvenienti pregiudiciali.
[Pace co' riformati in Francia]
A Roma
andò aviso che il re di Francia aveva fatto pace con gl'ugonotti, non
sapendosi però ancora le particolari condizioni; la qual cosa stimando
che fosse proceduta per opera d'alquanti prelati, che, quantonque non
decchiarati apertamente protestanti, seguivano però quella parte,
deliberò il pontefice scoprirgli, solito a dire che maggior danno
riceveva dagl'eretici mascherati che da' manifesti; onde in consistoro de' 31
marzo, avendo prima fatto legger la lettera scrittagli dall'imperatore e la
risposta da lui data, passò a narrarre le confusioni di Francia,
soggiongendo che il cardinale Sciatiglion, avendo deposto il nome di vescovo di
Beauvois e fattosi chiamar conte de Beauvois, s'aveva prononciato esso medesimo
privo del capello, attribuendo tutti li disordeni a lui, all'arcivescovo d'Ais,
al vescovo di Valenza et alcuni altri; le qual cose con tutto che fossero
notorie e non avessero bisogno di maggior chiarezza per venirne alla
decchiarazione, nondimeno ordinava che li cardinali preposti all'Inquisizione
procedessero contra di loro. Al che avendo risposto il cardinale di Pisa che vi
fosse bisogno di propria e special autorità, ordinò il pontefice
che si facesse una nuova bolla, la qual fu data a' 7 d'aprile e conteneva in
sostanza: che il pontefice romano, vicario di Cristo, al qual egli ha
racomandato le sue pecorelle da pascere, di invigilare per ridur li sviati e
rafrenar col timor di pene temporali quelli che non si possono acquistar con le
ammonizioni, che egli dal principio della sua assonzione non ha tralasciato
d'esseguir questo carico; con tutto ciò alcuni vescovi, non solo sono
caduti in errori ereticali, ma favoriscono ancora gl'altri eretici, oppugnando
la fede. Al che per provedere, commanda agl'inquisitori generali di Roma, a'
quali altre volte ha commesso l'istesso, che procedino contra questi tali,
eziandio vescovi e cardinali, abitanti ne' luoghi dove la setta luterana è
potente, con facoltà di potergli citar per editto in Roma, o veramente
a' confini delle terre della Chiesa, a comparer personalmente e, non
comparendo, proceder inanzi sino alla sentenza, la qual egli prononcierà
in consistoro secreto. Li cardinali, esseguendo il commandamento del pontefice,
citarono per editto a comparer personalmente in Roma per espurgarsi
dall'imputazione d'eresia e de fautori d'eretici Odeto Coligní, cardinale di
Sciatiglion, Sanroman, arcivescovo d'Ais, Gioanni Monluc, vescovo di Valenza, Giovanni
Antonio Caracciolo, vescovo di Troia, Giovanni Barbanson, vescovo d'Apame,
Carlo Gilar, vescovo di Sciartres.
[Gionta del Morone e del conte di Luna in
Trento]
Ma in Trento
l'assenza di Lorena e l'espettazione della venuta de' nuovi legati, con opinione
che si dovesse mutar forma di proceder in concilio, e li giorni della passione
e della Pasca instanti, diedero un poco di quiete dalle negoziazioni. Il
venerdí santo ritornò il cardinale Madruccio per onorar il legato Morone
che s'aspettava, il quale il sabato santo, sul tardi, fece l'entrata
ponteficalmente sotto il baldachino, incontrato da' legati, ambasciatori e
padri del concilio, e dal clero della città, e condotto alla chiesa
catedrale, dove si fecero le solite ceremonie nel ricever li legati. Et il
giorno seguente, che fu la Pasca, cantò messa solenne nella capella; nel
qual giorno arrivò il conte di Luna, incontrato da molti prelati e
dagl'ambasciatori. Entrò nella città in mezzo di quelli
dell'imperatore e del francese, con molte dimostrazioni di amicizia. Da'
francesi ancora fu visitato, e dettogli d'aver commissione dal re e regina di
communicar con lui tutti gli affari et offertisi ad adoperarsi con lui in tutti
i servizii del re Catolico suo patrone. A che egli rispose d'aver il medesimo ordine
di communicar con loro et userrebbe ogni buona corrispondenza. Egli
visitò li legati e con loro usò parole molto amorevoli et offerte
generali.
Il dí 13
aprile fu congregazione per ricever il cardinal Morone, dove egli, letto che fu
il breve della sua legazione, fece un orazione accommodata, nella quale disse
che le guerre, sedizioni et altre calamità presenti et imminenti per li
nostri peccati, cesserebbono, quando si trovasse rimedio di placar Dio e
restituir l'antica purità: perilché il papa con ottimo conseglio aveva
congregato il concilio, nel quale sono 2 cardinali prencipi insigni per
nobiltà e virtú, oratori di Cesare e di tanti gran re, città
libere, prencipi e nazioni e prelati d'eccellente dottrina e bontà, e
teologhi peritissimi: ma nel corso, essendo morto Mantova e Seripando, il papa
aveva sostituito lui, aggiontogli Navaggiero, il che egli aveva ricusato,
conoscendo la gravezza del peso e debolezza delle sue forze. Ma la
necessità dell'obedienza aveva vinto il timore; era gionto cosí commandato
per andar alla Maestà cesarea e tornar in breve per trattar in compagnia
degl'altri legati co' padri quello che tocca la salute de' popoli, lo splendore
della Chiesa e la gloria di Cristo; che portava seco due cose: un'ottima volontà
del pontefice per render sicura la dottrina della fede, emmendar li costumi,
proveder a bisogni delle provincie e stabilir la pace et unione, eziandio con
gl'avversarii, in quanto si può, salva la pietà e degnità
della Sede apostolica; l'altra, la prontezza sua propria a far quello che Sua
Santità gli ha commandato. Pregava li padri che, lasciate le contenzioni
e le discordie, che grandemente offendono il cristianesmo, e le questioni
inutili, trattassero seriamente delle cose necessarie.
Il conte di
Luna andò facendo ufficii con tutti li prelati vassalli del suo re,
spagnuoli et italiani, o beneficiati ne' stati suoi, con essortargli in nome di
Sua Maestà ad esser uniti nel servizio di Dio e riverenti verso la Sede
apostolica, et a non ingiuriarsi; dicendogli che tien commissione d'avisar
particolarmente il proceder di ciascuno e che Sua Maestà tenerà
particolar conto di quelli che si porteranno secondo il suo desiderio; il qual
non è però che dichino cosa alcuna contra la loro conscienza. E parlava
in tal maniera, che intendeva ogni uno queste ultime parole esser dette
seriamente, ma le prime per ceremonia.
[Morone va a Cesare per piegarlo alle voglie
del papa]
Averebbe
voluto il cardinal Morone inanzi la partita sua per andar all'imperatore veder
Lorena, e questo differiva il suo ritorno per non aver occasione d'abboccarsi;
imperoché, avendo egli parlato in Venezia col cardinal Navaggiero e penetrato
buona parte delle instruzzioni date dal pontefice, voleva fuggir l'occasione
che Morone, con communicargli o tutto o parte di quello che aveva a trattar
coll'imperatore, lo mettesse in qualche obligo. Onde il dí 16 del mese d'aprile
Morone si partí. Egli diceva d'esser mandato solo per giustificar la buona
intenzione del pontefice, perché il concilio facesse progresso e si venisse ad
una intiera riformazione della Chiesa, senza alcuna eccezzione. Ma si sapevano
però le altre commissioni, che tendevano a fine di levar il pensiero a
quella Maestà d'andar a Trento e renderla capace che la sua andata
porterebbe molti impedimenti alla riforma, e scusar il pontefice che non
potesse andar personalmente al concilio, e per pregarla ad accelerarne il fine,
proponendogli la traslazione a Bologna, dove potrebbe Sua Maestà col
pontefice intervenire, che sarebbe il modo unico, et in un congresso tanto
celebre ricever la corona dell'Imperio, favore che non è memoria esser
stato fatto ad altri imperatori. Aveva anco carico di pregarlo a conservar
l'autorità della Sede apostolica contra tante machinazioni che si
facevano per diminuirla, anzi per annichilarla, e che la riforma della corte
romana non si facesse in Trento, ma dal pontefice medesimo; che non si
trattasse di riveder piú le cose determinate sotto Paolo e Giulio nel medesimo
concilio; Sua Maestà si contentasse che li decreti del concilio si
facessero a sola proposizione de' legati, avendo però essi dato prima
parte et avuto consenso dagl'ambasciatori di Sua Maestà e degl'altri prencipi.
Aveva ancora il cardinal carico di dar speranza alla Maestà Sua che
gl'averebbe concesso a parte tutto quello che avesse dimandato per i suoi
popoli, e di levargli d'animo l'intelligenza col re di Francia in questa
materia del concilio, mostrandogli che, sí come non era il medesimo stato di
cose nel regno di Francia et in Germania, cosí li fini di Sua Maestà e
di quel re dovevano esser diversi e li consegli differenti. I legati che
rimasero, con facilità davano licenza di partire a' prelati, e particolarmente
a quelli che tenevano l'instituzione de' vescovi o la residenza de iure
divino.
[Pace d'Amboise]
Il dí 20
aprile ritornò il cardinale di Lorena, incontrato dagl'ambasciatori
dell'imperatore, di Polonia e di Savoia, e quel medesimo giorno arrivò
nuova della pace fatta dal re di Francia con gl'ugonotti, la qual fu piú tosto
avvantaggiosa per la parte catolica; imperoché, dopo la giornata di che si
è parlato di sopra, le cose tra le fazzioni restarono contrapesate sino
alla morte di Ghisa. Quella successa, Coligní assaltò e prese la rocca
di Cadomo con tanta riputazione sua e diminuzione delle genti catoliche, che fu
deliberato nel conseglio del re metter fine alla trattazione di pace, che dopo
la giornata fu continuamente maneggiata. Il dí 7 marzo si fece per questo un
convento dove furono anco condotti li preggioni Condé et il contestabile, e
dopo qualche trattazione, rilasciati sotto la fede per concludere le 72
condizioni. I ministri degl'ugonotti si ridussero insieme e deliberarono di non
consentir all'accordo, se non salvo l'editto di gennaro, senza alcun'eccezzione
o condizione, e con aggionta che la loro religione per l'avvenire non fosse
chiamata nuova; che li figli da loro battezati non fossero rebattezati, che si
avessero per legitimi li loro matrimoni e li figliuoli nati di quelli: dalle
qual condizioni non volendo dipartirsi li ministri in alcun conto, Condé e la
nobiltà, stanchi della guerra, senza chiamar piú ministri convennero. E
li capitoli per quel che s'aspetta alla religione, furono: che dove li nobili
ugonotti hanno alta giustizia, possino viver nelle loro case in libertà
di conscienza et essercizio della religione riformata colle loro famiglie e
sudditi; che gl'altri gentiluomini feudatarii, non abitanti sotto altri signori
d'altra giustizia catolici, ma sotto il re immediate, possino aver il medesimo
nelle loro case per loro e le famiglie solamente; che in ogni bailaggio sia
deputata una casa ne' borghi, nella quale possi esser l'essercizio della
religione riformata per tutti quelli della giurisdizzione; che in casa propria
ciascun possi viver liberamente senza esser ricercato o molestato per il fatto
della conscienza; che in tutte le città dove quella religione fu
essercitata sino a' 7 di marzo, sia continuata in uno o due luoghi nella
città, non potendo però pigliar chiese catoliche, anzi in tutte
le occupate, gl'ecclesiastici debbiano esser restituiti, senza poter pretender
alcuna cosa per le demolizioni fatte; che nella città e prepositura di
Parigi non vi possi esser essercizio di quella religione, ma ben gl'uomini che
hanno case o entrate possino ritornarvi e goder il suo, senza esser molestati,
né ricercati del passato, né per l'avvenir delle loro conscienze; che tutti
ritornino ne' loro beni, onori et ufficii, non ostanti le sentenze in contrario
et essecuzioni di quelle dopo la morte del re Enrico II sino allora; che il
prencipe di Condé e tutti quelli che l'hanno seguitato, s'intendino d'aver
operato a buon fine et intenzione e per servizio del re; che tutti li preggioni
di guerra o di giustizia per il fatto della religione siano messi in
libertà senza niente pagare; che sia publicata oblivione di tutte le
cose passate, proibito l'ingiuriarsi e provocarsi l'un l'altro, disputare, o
contrastare insieme per causa della religione, ma viver come fratelli, amici, e
concittadini. Questo accordo fu stabilito a' 12 marzo, non se ne contentando
Coligní, il qual diceva che le cose loro non erano in stato di convenir con
condizioni cosí disavantaggiose; che già nel principio della guerra gli
fu proposto di farla pace con l'editto di genaro, et allora, che bisognava
ottener maggior avantaggio, si diminuiva. Il dire che in ogni bailaggio sia un
solo luogo per essercizio della religione non esser altro che levar il tutto a
Dio e dargli una porzione. Ma la commune inclinazione di tutta la
nobiltà lo constrinse ad acquietarsi. E sopra le condizioni furono
spedite lettere regie il dí 19 dell'istesso mese, nelle quali diceva il re che,
avendo piaciuto a Dio da qualche anno in qua permetter che il regno fosse
afflitto per le sedizioni e tumolti eccitati per causa di religione e scrupoli
di conscienza, perilché s'era venuto alle arme con infinite uccisioni,
saccheggiamenti di città, rovine de chiese, e continuando il male,
avendo esperimentato che la guerra non è il rimedio proprio a questa
malattia, ha pensato di riunir li suoi sudditi in buona pace, sperando che il
tempo et il frutto d'un santo, libero, general o nazional concilio siano per
portar qualche stabilimento; e qui erano soggionti gl'articoli spettanti alle
cose della religione, oltra gl'altri in materia di stato; le qual lettere
furono publicate e registrate nella corte di parlamento e proclamate
publicamente in Parigi il 27 dell'istesso mese.
Questo
successo in concilio dalla maggior parte de' padri era biasmato; li quali
dicevano che era un anteponer le cose mondane a quelle di Dio, anzi un rovinare
e queste e quelle insieme: perché levato il fondamento della religione in un
stato, è necessario anco che il temporale vada in desolazione. Che se ne
era veduto l'essempio per l'editto fatto inanzi, il qual non si tirò
dietro quiete e tranquillità, come si sperava, ma una guerra peggiore
che per l'inanzi. Et erano anco tra li prelati di quelli che dicevano il re e
tutto 'l conseglio esser incorsi nelle scommuniche di tante decretali e bolle,
per aver dato pace agl'eretici, e che per questo non si doveva sperar che le
cose di quel regno potessero prosperare, dove era una manifesta disubedienza
alla Sede apostolica, sin tanto che il re et il conseglio non si facessero
assolvere dalle censure e perseguitassero gl'eretici con tutte le forze. E se
ben da alcuni de' francesi era difeso, con dire che le turbulazioni
continuamente sopportate da tutta la Francia et il pericolo notorio della
rovina del regno le giustificavano assai contra l'opposizione di quelli che non
risguardano se non a' loro interessi e non considerano la necessità
nella quale il re si trovava ridotto, la qual supera tutte le leggi, allegando
quella di Romulo, che la salute del popolo è la principale e suprema tra
tutte; queste raggioni erano poco stimate e l'editto del re biasmato sopra
tutto perché nel proemio diceva esservi speranza che il tempo et il frutto d'un
libero, santo, general o nazional concilio porterebbono lo stabilimento della
tranquillità; la qual cosa riputavano un'ingiuria al concilio generale,
per esser posto in alternativa con un nazionale, e che fossero nominati il
cardinale di Borbon et il cardinale di Ghisa tra gl'autori del conseglio di far
la pace, dicendo che questa era con grand'ingiuria della Sede apostolica.
[Intrighi a Trento per una lettera del Soto al
papa]
Ebbe anco
principio un moto intrinseco nel concilio, se ben per causa leggiera, che diede
assai che parlare. Fra Pietro Soto, che morí in quei giorni, tre dí inanzi la
morte dettò e sottoscrisse una lettera a fine che si mandasse al
pontefice, nella quale, in forma di confessione, decchiarava la mente sua sopra
li capi controversi nel concilio, e particolarmente essortava il pontefice a consentire
che la residenza e l'instituzione de' vescovi fossero decchiarate de iure
divino. La lettera fu mandata al pontefice, ma ritenutane copia da un
frate, Lodovico Loto, che stava in compagnia del Soto, il qual credendo
d'onorar la memoria dell'amico, incomminciò a disseminarla; onde erano
diversi li raggionamenti, movendosi alcuni per l'azzione d'un dottore d'ottima
vita in tempo che era prossimo alla morte, dicevano altri che non era fatto per
moto proprio del padre, ma ad instigazione dell'arcivescovo di Braganza. Fu
fatta opera dal cardinale Simoneta di raccogliere le copie che andavano
attorno; ma questo accrebbe la curiosità e le fece tanto piú publicare,
sí che andarono per mano di tutti. Certo è che per questo successo li
defensori di quelle opinioni pigliarono molto piú cuore. E li spagnuoli si
riducevano spesso in casa del conte di Luna, dove Granata, informandolo delle
cose occorrenti et occorse in concilio, essendo opportunamente partiti li
vescovi di Leria e di Patti, disse: «Questi sono de' perduti, li quali, a guisa
d'animal, si lasciano caricar la soma e guidar dall'altrui volontà e
parere, non per altro buoni che per numero»; soggiongendo che, se nelle
risoluzioni delle cose s'aveva d'attender il numero de' voti, come sin allora
s'era fatto, si poteva sperar poco di bene; e però era di mestiero che i
negozii si trattassero per via di nazioni. A che il conte disse che a quella et
a molte altre cose era necessario proveder, principiando dalla rivocazione del
decreto che li soli legati propongano e dal stabilir la libertà del
concilio, delle qual cose aveva commissione speciale dal re. Perché, fermate
quelle, al rimanente con facilità sarebbe proveduto. A' legati et
agl'altri ponteficii dispiaceva credere che li prelati spagnuoli, loro
contrarii, non abandonassero mai il conte, e come avviene di chiunque entra
nuovo dove sono fazzioni contrarie, che ogn'uno spera di guadagnarlo,
procurarono essi ancora di mettergli a canto de' prelati sudditi del re, ma
che, per ben intendersi con loro, chiamavano amorevoli, per far buon ufficio e,
come dicevano, disingannarlo e fargli conoscer la verità. Adoperarono
anco per questo l'ambasciatore di Portogallo, il qual avendo molta
opportunità di parlar spesso con lui, per esser gl'interessi di quel re nelle
cose ecclesiastiche quasi li medesimi per gl'oblighi che col pontefice aveva,
destrissimamente metteva inanzi le cose che gl'erano da' ministri ponteficii
soggerite a servizio della corte romana.
[Dilazione della sessione contradetta dal
Lorena]
Instando il
giorno 22 del mese d'aprile destinato per la sessione, nel precedente si fece
congregazione per deliberar di prolongarla, e li doi legati proposero la
prolongazione sino a' 3 di giugno. Lorena fu di contrario parer e disse che era
un gran scandalo a tutta la cristianità l'aver tante volte prorogato
quella sessione senza mai esser tenuta; il quale crescerebbe maggiormente,
quando di nuovo fosse assegnata in un giorno e poi differita ancora:
però, vedendo che alcuna cosa non è risoluta ancora di tante
già proposte e trattate, cosí sopra la residenza, come in materia del
sacramento dell'ordine e del matrimonio, non era ben stabilire giorno prefisso,
ma aspettar a deliberar il giorno della sessione sino a' 20 di maggio, che
allora si potrebbono veder meglio li progressi di tutte le cose et assegnar un
giorno certo, e tra tanto, per non perder tempo, dar li voti sopra gl'articoli
degl'abusi del sacramento dell'ordine, nel qual tempo potrebbe esser di ritorno
dall'imperatore il cardinale Morone con ampla risoluzione, con la qual si
potrebbono componer le cose controverse et usar diligenza di finir il concilio
tra doi o tre mesi. Seguí quell'opinione il cardinale Madruccio e cosí gran
numero de' padri che la sua sentenza prevalse, sí che fu decretato che a' 20
maggio sarebbe prefisso il giorno da celebrare poi la futura sessione.
Finita la
congregazione, Antonio Chierelia, vescovo di Budua, solito per l'adietro nel
dire il suo voto trattener li padri con qualche facezia e spesse volte
aggiongerci qualche profezia che tuttavia tenesse del ridiculo, le quali si
mandavano anco fuori in diverse parti, allora ne diede fuora una sopra la
città di Trento, immitando quelle molte d'Isaia dove sono predetti i
gravami e calamità di diverse città. Diceva in sostanza che
Trento era stata favorita et eletta per la città dove si dovesse
stabilir una general concordia del cristianesmo, ma per la sua
inospitalità resa indegna di quell'onore, doveva in breve incorrer
l'odio universale, come seminario di maggior discordie. Era ben palliato il senso
con coperta di diversi enigmi in forma profetica poetica, ma non talmente che
non fosse con facilità intesa.
L'aver Lorena
con tanta reputazione ottenuto l'universal consenso diede gran gelosia a'
ponteficii, li quali, atteso l'onore che gli fu fatto il giorno inanzi da
quelli che l'incontrarono e l'esser ricevuta la sua opinione da tanti,
riputavano la cosa non solo con indegnità de' legati, ma anco che fosse
fatta un'apertura contra il decreto che li soli legati propongano; et andavano
parlando quasi publicamente che ben il pontefice diceva quel cardinale esser
capo di parte; e che prolongava l'espedizione [del concilio, e che impediva la
translazione] in Bologna. Ma il cardinale, non si curando molto di quello che
si dicesse in Trento, era attento alla negoziazione coll'imperatore; gli spedí
un gentiluomo, mandandogli il parere de' dottori suoi sopra gl'articoli posti
da quella Maestà in consulta e facendogli esporre che per il buon
progresso del concilio era necessario che parlasse vivamente al cardinale
Morone e mostrasse il gran desiderio suo di veder buone risoluzioni a gloria di
Dio; facesse intender a Sua Maestà il desiderio di tutti li buoni padri,
pregandola anco che non si slontanasse dal concilio, per il buon frutto che
speravano li padri dover far la vicinanza sua, con retener ciascuno in ufficio
et impedir li tentativi di quelli che dissegnano di trasferirlo in un altro
luogo, sí come ci era aviso che ve ne fosse machinazione, e che, inanzi la sua
partita d'Ispruc, Sua Maestà si certificasse che la libertà del
concilio, del quale egli è protettore, fosse conservata. Gli
mandò copia dell'editto di pacificazione del re di Francia e d'una
lettera della regina di Scozia, dove dava conto d'esser liberata d'una gran
congiura e che continuava nella deliberazione di viver e morir nella religione
catolica. In fine pregava il cardinale Sua Maestà di trovar qualche
forma d'accommodamento che non fosse disputato nel concilio tra Francia e
Spagna della precedenza per non interromper il buon progresso.
I doi legati
tra tanto che aspettavano il ritorno di Morone, per far alcuna cosa il dí 24
aprile communicarono agl'ambasciatori i decreti formati sopra gl'abusi
dell'ordine, acciò potessero considerargli, et il dí 29 gli diedero a'
prelati; e per il primo di quelli, il qual trattava dell'elezzione de' vescovi,
ricercando in loro le qualità conformi a' canoni antichi,
gl'ambasciatori de' re non se ne contentarono, parendogli che ristringesse
troppo l'autorità de' loro prencipi nella presentazione o nominazione di
quelli, e fecero ogn'opera in tutti quei giorni, il conte di Luna massime,
acciò fosse accommodato overo piú tosto afatto tralasciato, dicendo che
non conosceva che quel capitolo facesse bisogno, cosa che sarebbe anco molto
piacciuta a' legati, e gl'imperiali anco vi mettevano difficoltà per il
dissegno che avevano di far nascer occasione di trattar dell'elezzione de'
cardinali e del papa in consequenza.
[Arriva il legato Navagiero, che promette
riforma; ma il papa l'avoca a sé e cerca di guadagnarsi Lorena]
Quel medesimo
giorno, di notte, il cardinale Navaggero, avendo dato voce d'entrar il giorno
seguente, per fuggir gl'incontri e ceremonie, arrivò a Trento; il qual
portò che al loro partir da Roma il pontefice aveva detto loro che
facessero una buona e rigorosa riforma, conservando l'autorità della
Sede apostolica, la qual è il capo piú necessario per tenerla Chiesa ben
formata e regolata.
Ma il
pontefice, con tutto questo, ne' raggionamenti che aveva con gl'ambasciatori
residenti appresso sé, gli ricercava di far intender a lui la riforma che
desideravano li loro prencipi: il vero fine del papa era che, date le dimande a
lui, s'astenessero di darle al concilio et egli avesse occasione, col mostrar
difficoltà insuperabile in ogni particolare, sedar l'umor fluttuante di
riforma. E mirando a questo scopo istesso, con gl'ambasciatori diceva anco
spesse volte che i prencipi s'ingannavano credendo che la riforma basti per far
tornar gl'eretici; che essi hanno prima apostatato e poi preso gl'abusi e
deformazioni per pretesto. Che le vere cause quali hanno mosso gl'eretici a
seguitar li falsi maestri, non sono gli disordini degl'ecclesiastici, ma quelli
de' governi civili; e però, quando li defetti degl'ecclesiastici fossero
ben intieramente corretti, essi non ritornerebbono, ma inventerebbono altri
colori per restar nella loro pertinacia. Che questi abusi non erano nella
primitiva Chiesa et al tempo degl'apostoli, e nondimeno in quei tempi ancora vi
erano eretici, e tanti quanti adesso, a proporzione del numero de' buoni
fedeli. Che egli in sincerità di conscienza desidererebbe la Chiesa
emmendata e gl'abusi levati, ma vede ben chiaro che quelli che la procurano non
hanno la mira volta a questo buon scopo, ma a suoi profitti particolari, li
quali quando ottennessero, sarebbono con introdozzione di abusi maggiori e
senza levar li presenti. Che da lui non viene l'impedimento della riforma, ma
da' prencipi e prelati del concilio. Che egli la farebbe, e ben rigorosa; ma
come si venisse all'effetto, le dissensioni tra i prencipi, ché uno la vorrebbe
in un modo e l'altro al contrario, e quelle de' prelati, non meno repugnanti
tra loro, impedirebbono ogni cosa. Che egli lo prevede e conosce molto ben esser
indecoro tentare quello che scoprirebbe piú li defetti e mancamenti communi, e
quelli che ricercano riforma mossi da zelo lo adoperano, come dice san Paolo,
senza prudenza cristiana, et altro non si farebbe, volendo riformare, se non
che, sí come si conoscevano li mancamenti nella Chiesa, si conoscerebbe di piú
che sono immedicabili e, quel che è peggio, ne seguirebbe un altro
maggior male, che s'incommincierebbe a defendergli e giustificargli come usi
legitimi.
Aspettava con
impazienza la conclusione del negoziato di Morone, dal quale aveva aviso che
dall'imperatore era stato preso tempo a rispondergli e che tuttavia si
continuava in consultar sopra gl'articoli; nel [che dubitava assai che Lorena
avesse gran parte e teneva anco per fermo] che tutti gl'ordini e risoluzioni,
che venivano di Francia a Roma et al concilio, dependevano dal parere e dal
conseglio di lui, e per tentar ogni mezo d'acquistar quel cardinale, dovendo
esser di corto il cardinale di Ferrara in Italia, col quale Lorena era per
abboccarsi per molte cose concernenti li nipoti communi, gli scrisse di far
ufficio che si contentasse della traslazione del concilio a Bologna et
acciò che egli fosse ben instrutto delle cose che in esso concilio
passavano, ordinò che il Vintimiglia l'andasse ad incontrare prima che
l'abboccamento succedesse, con instruzzione de' legati, oltra quello che egli
medesimo sapeva.
[Lettere del re di Francia per giustificar la
pace]
Principiò
il mese di maggio con nuovi raggionamenti della pace di Francia, essendo arrivato
a Lorena et agl'ambasciatori francesi lettere del re che gliene davano parte,
con commissione di far intender il tutto a' padri del concilio, o in generale,
o in particolare, come gli pareva piú a proposito. L'espedizione era de' 15 del
passato, e principalmente versava in dimostrar che nella pace non ebbe
intenzione di favorir l'introdozzione e lo stabilimento d'una nuova religione
in quel regno, anzi per poter con manco contradizzione e difficoltà
ridur tutti li popoli in una medesima religione santa e catolica, cessate le
armi e le calamità et estinte le dissensioni civili. Ma soggiongeva che
piú di tutto poteva aiutarlo a quest'opera una santa e seria riformazione,
sempre sperata da un concilio generale e libero; però aveva deliberato
mandar il presidente Birago a Trento per sollecitarla. Ma tra tanto non voleva
restar di commetter ad essi ambasciatori, che già erano in Trento, di
far con ogni buona occasione saper a' padri che, risentendo egli ancora le
rovine et afflizzioni che la diversità delle openioni della religione ha
suscitato nel suo regno, con apparente rovina e maggior pericolo dello Stato,
piú tosto che tornar piú a quella estremità, aveva deliberato, se il
concilio generale non fa il suo debito e quello che si spera da lui per una
santa e necessaria riforma, di farne un nazionale, dopo aver satisfatto a Dio
et agl'uomini con tanti continuati ufficii fatti co' padri e col papa, per
ottener dal concilio generale rimedio al commun male, e che, per ottener piú
facilmente il desiderato fine, aveva ispedito il signore d'Oisel al re Catolico
et il signore d'Allegri al pontefice e commandato al Birago che, dopo aver
satisfatto al suo carico co' padri del concilio, passasse all'imperatore, per
tentare se per mezo di questi prencipi si potrà pervenir a cosí gran
bene.
Certo
è che il papa sentí con molto disgusto la pace fatta, cosí per il
pregiudicio dell'autorità sua, come anco perché fosse conclusa senza
participazione di lui, che gl'aveva contribuito tanti denari, e che con
maggiore dispiacere fu sentita dal re di Spagna, al qual pareva d'aver perso
l'opera et il denaro, poiché, essendo stato con la sua gente a parte della
guerra e vittoria et avendo fatto tanta spesa, non gli pareva giusto che si
dovesse concluder accordo senza di lui, a pregiudicio della religione, quale
aveva presa a difendere e mantener, massime che vi aveva tanto interesse per il
danno che riceveva nel governo de' Paesi Bassi, essendo cosa chiara che ogni
prosperità degl'ugonotti di Francia averebbe accresciuto l'animo a' popoli
della Fiandra di perseverare, anzi fortificarsi maggiormente nella contumacia:
con le qual raggioni l'ambasciatore catolico in Francia faceva querela con
molto rumore, e per questo principalmente furono destinate l'ambasciarie
estraordinarie a Roma et in Spagna, per far noto che non propria volontà
aveva indotto il re e regio conseglio all'accordo, ma mera necessità e
timore che di Germania non fossero mandati grossi e nuovi aiuti in favore
degl'ugonotti, come si udiva che si mettevano in ordine intorno Argentina et in
altri luoghi; perché, essendo ritornati a casa quei tedeschi che in Francia
avevano militato carichi di preda, invitavano gl'altri ad andar et arricchirsi.
Né stavano senza timore che con quell'occasione i prencipi dell'Imperio non
tentassero di ricuperar Metz, Tul, Verdun et altre terre di raggion imperiale e
che la regina d'Inghilterra non aiutasse piú potentemente che per il passato
gl'ugonotti, per occupar qualch'altro luogo, come aveva già occupato Ave
di Grazia. Ma oltre questo fine principal di ambe le ambasciarie, quella di
Oisel portava appresso proposizione di levar di Trento il concilio e
congregarlo in Costanza, Vormazia, Augusta o altro luogo di Germania, con
carico di rapresentare al re che, dovendosi celebrare per li tedeschi, inglesi,
scozzesi e parte de' francesi et altre nazioni, quali erano risolute di non
aderir, né accettar mai quel di Trento, vanamente restava in quel luogo. Di
questa negoziazione era stato autore Condé, il qual sperava per questa via,
quando riuscisse, d'aggrandir molto il suo partito, unendolo con gl'interessi
di tanti regni e prencipi, et almeno indebolir la parte catolica con promover
difficoltà al tridentino. Ma non riuscí, perché il re di Spagna, udita
la proposta, (il che dico anticipatamente per non far piú ritorno a questo
negozio) s'avidde dove mirava e fece una piena risposta che il concilio era
radunato in Trento con tutte le solennità, col consenso di tutti li re e
prencipi et ad instanza di Francesco, re di Francia; che l'imperatore aveva la superiorità
di quella città, come nelle altre nominate, per dar piena sicurezza a
tutti, quando la già data non paresse bastante: però non si
poteva far altro che proseguirlo et aver per buono tutto quello che si
determinasse. Et avisò il papa di tutto, con certificarlo che egli non
era per dipartirsi mai da quella risoluzione.
[Cesare trattien Morone. I francesi si
straccano del concilio]
I francesi in
Trento ebbero per superfluo far instanza a' padri, conforme al commandamento
regio, inanzi il ritorno di Morone, essendo cosa appontata con tutti che le
azzioni conciliari si differissero sin allora. Ma l'imperatore non aveva ancora
spedito quel cardinale, anzi pur in quel medesimo tempo fece intender a Lorena
che, per diversi accidenti e per esser le materie proposte di tal peso et
importanza che meritavano matura deliberazione e consultazione, non aveva
ancora potuto dargli risposta risoluta, ma ben sperava di farla tale in tempo e
luogo, che ognuno potesse conoscer le sue azzioni corrispondere al desiderio
suo di veder ridrizzati gl'affari del concilio a commun beneficio; perilché
anco, non ostanti le occupazioni e vigenti bisogni delle altre provincie,
dissegnava di fermarsi in Ispruc, per favorir con la presenza sua la
libertà del concilio, sin tanto che averà speranza di veder
qualche buon profitto. A Morone non era grata cosí longa dimora e che
l'imperatore rimettesse, come faceva, tutte le negoziazioni sue a teologi e
conseglieri, e dubitava cosí egli, come il pontefice che si differisse il risolverlo
sin tanto che avesse udito Birago, del quale già avevano inteso che era
per proponer traslazione del concilio in Germania, per dar sodisfazzione
agl'ugonotti, cosa alla quale il pontefice era risoluto di non assentire, cosí
per propria inclinazione, come perché glie n'era fatta instanza da tutto 'l
collegio de cardinali e da tutta la corte. E si maravegliava dell'umor de'
francesi, che da una parte dimandavano riforma, e dall'altra parte traslazione
del concilio, e da una parte trattavano d'aver sovvenzione dalle chiese per
estinzione de' debiti regii, e dall'altro canto si mostravano tanto fautori di
quelle.
Ma la
verità era che li francesi, certificati in se medesimi di non poter
ottener dal concilio, mentre che gl'italiani facevano la parte maggiore, cosa
che fosse per loro servizio, incomminciavano a non sperar piú, né tener conto
alcuno del concilio, mentre stasse in Trento; levarono la provisione a' teologi
mandati dal re e concessero licenza di partire a chi voleva; lasciandogli
però in libertà di restare. Perilché l'uno dopo l'altro partirono
quasi tutti. Restarono sino in fine li doi benedittini, a' quali erano
somministrate le provisioni da' monasterii loro; e l'Ugonio, per il commodo che
gli era dato da' ponteficii di trattenersi, al quale fecero aver luogo e spese
nel monasterio, oltre la provisione di 50 scudi che gl'avevano assegnato ogni
tre mesi.
Il cardinale
di Lorena, avendo essaminato e fatto essaminar le allegazioni mandate dal papa
all'imperatore e fattaci sopra una censura, la mandò a quella
Maestà. Egli credette d'aver fatto il tutto secretamente, ma dal sudetto
teologo, non solo fu scoperto, ma ancora fattane copia a' legati, li quali,
aspettando di breve il Morone, scrissero a' vescovi partiti da Trento, di
ordine del papa, che dovessero ritornar per repigliar le azzioni conciliari.
Tra tanto il 10 di maggio fu fatta congregazione per leggere le lettere della
regina di Scozia, presentate dal cardinal di Lorena, nelle quali ella
dicchiarava che si sottometteva al concilio, e commemorata la successione sua,
ch'aspettava nel regno d'Inghilterra, prometteva che, come fusse seguita,
averebbe sottomesso l'un e l'altro di quei regni all'obedienza della Sede
apostolica. Dopo lette le lettere, il cardinal con una elegante orazione
iscusò quella regina se non poteva mandar né prelati, né ambasciatori al
concilio, per essere tutti eretici, e promesse ch'ella mai averebbe deviato
dalla vera religione. Gli fu risposto per nome del sinodo con ringraziamento,
ridendo però alcuni che l'officio di quella regina fusse di persona
privata e non di prencipe, poiché non si ritrovava pur un suddito catolico di
mandare. Ma li piú intelligenti giudicorono che quest'officio fusse stato
mendicato et estorto, perché bene lo poteva ella fare da prencipe, avendo sempre
avuto appresso di sé non pochi catolici.
[Nuova offesa al Lorena]
Era tornato
da Roma il secretario di Lorena, mandato da lui per scolparsi delle imputazioni
che gl'erano date di far il capo di parte; il qual era stato raccolto dal
pontefice con demonstrazione d'amorevolezza e mostrato di creder la sua
esposizione, e risposto al cardinale con una lettera, dove gli diceva
contentarsi che si tralasciassero le cose contenziose, non si parlasse de'
dogmi dell'ordine, né della residenza, ma s'attendesse alla riforma. La qual
lettera, avendo Lorena communicato con Simoneta per pigliar ordine di dar
qualche principio, questo si rimise al ritorno di Morone; di che sentendo
disgusto Lorena, come che dal pontefice fosse burlato, e congiongendo questo
con un aviso venutogli, che Morone, parlando coll'imperatore della
libertà del concilio, dicesse che egli e gl'ambasciatori francesi
fossero causa d'impedirla piú degl'altri, si querelava con ogni occasione
appresso tutti, con chi gli occorreva parlare, ch'il concilio non avesse
libertà alcuna e che non solo da Roma s'aspettasse risoluzione d'ogni
minimo particolare, ma ancora non si riputassero degni li padri, né meno il
cardinale Madruccio e lui, di saper che cosa da Roma fusse commandata,
acciò potessero almeno conformarsi con la volontà di Sua
Santità, e che gran cosa era il veder che si spedissero da' legati a
Trento cosí frequentemente corrieri a Roma, eziandio spesse volte sopra la
medesima materia e per ogni minima occorrenza, e nondimeno mai si sapesse che
risoluzione o che risposta fosse venuta di là; né meno fosse pur detto
quest'universale, che la risposta fosse venuta: le qual cose da' ponteficii
erano sentite con molto rossore, per esser cosí apparenti e publiche che non si
potevano né negare, né iscusare. Pieno Lorena di queste male sodisfazzioni, il
dí seguente, essendo chiamato a consulta per trattar d'incomminciar le
congregazioni, poiché Morone aveva scritto dover esser di ritorno fra 8 giorni,
stettero ambe le parti buona pezza di tempo senza dir parola, e poi, entrati
ne' complementi, in fine si partirono d'insieme senza aver parlato della
materia.
[Congregazione dove Lorena discorre degli
abusi dell'ordine]
Essendo
gionti in Trento li procuratori de' prelati francesi rimasti nel regno,
ricercarono gl'ambasciatori che fossero ammessi in congregazione, et avendo il
cardinale Simoneta ricusato, Lansac replicò che ciò aveva
dimandato per riverenza, non perché volesse riconoscer li legati per giudici,
ma esser risoluto che la difficoltà fosse proposta in concilio. Questa
occasione fece mutar la risoluzione de' 3 legati d'aspettar Morone et
ordinarono una congregazione a' 14 maggio per trattare sopra gl'abusi
dell'ordine; dove Lorena, nel voto suo sopra il primo capo dell'elezzione de'
vescovi, che fu poi levato via per le occasioni che si diranno, s'estese a
parlar degl'abusi che intervenivano in quella materia; e per poter liberamente
inveir contra li disordini di Roma, incomminciò dalla Francia e non la
perdonò al re; dannò liberamente il concordato; disse che tra
papa Leone et il re Francesco si divisero la distribuzione de' beneficii del
regno, la qual doveva esser de' capitoli, e poco mancò che non dicesse:
«Come li cacciatori dividono la preda». Dannò che li re e prencipi
avessero nominazione delle prelature, che li cardinali avessero vescovati.
Riprese ancora l'accordo fatto dal re ultimamente con gl'ugonotti, e poi,
uscito di parlar di Francia, disse che la corte romana era il fonte donde
derivava l'acqua d'ogni abuso; che nissun cardinale era senza vescovato, anzi
senza piú vescovati, e nondimeno quei carichi esser incompatibili. Che le
invenzioni delle commende, delle unioni a vita, delle amministrazioni, medianti
quali, contra ogni legge, erano dati piú beneficii ad una persona sola in
fatti, con apparenza che ne avesse uno, era un ridersi della Maestà
divina. Allegò spesse volte quel luogo di san Paolo dove dice:
«Guardatevi dagl'errori, perché Dio non si può burlare, né l'uomo
raccoglierà altro se non quello che averà seminato». S'estese
contra le dispense, come quelle che levavano il vigore a tutte le leggi. E
parlò con tanta eloquenza e sopra tanti abusi, che occupò tutta
la congregazione. Non fu ben interpretato il parlar del cardinale da'
ponteficii, anzi Simoneta pratticò apertamente diversi prelati, accioché
s'opponessero al voto suo, et andava dicendo che egli parlava come li luterani,
e piacesse a Dio che non sentisse ancora con loro; cosa che offese molto
Lorena, il quale se ne dolse anco col pontefice. Nelle congregazioni seguenti
non fu detta cosa se non ordinaria, né degna di memoria, chi non volesse
riferire le adulazioni che obliquamente erano inserite ne' voti da quelli che
avevano preso carico di giustificare le usanze da Lorena riprese.
[Morone è spedito da Cesare, indotto a
lasciar chiudere il concilio]
In questo
mentre, il cardinale Morone ebbe dall'imperatore la sua espedizione in scritto,
con parole assai generali, che egli defenderebbe l'autorità del papa
contra gl'eretici, in caso che vi fosse bisogno; che si sarebbe fermato in
Ispruc senza passar piú inanzi; che la traslazione del concilio a Bologna non
era da farsi senza consenso de' re di Francia e di Spagna; che quanto alla
coronazione sua, non era cosa da risolvere, se prima non si proponeva in dieta;
perché cosí alla sprovista averebbe dato molto che dire alla Germania; che
quanto al proceder in concilio, egli sarebbe restato sodisfatto con queste due
condizioni: che la riforma si faccia in Trento e che ogni uno possi proponer, e
che si comminci a trattare sopra gl'articoli essibiti da lui e da Francia. Di
questo negoziato del cardinale e della risposta ricevuta ho narrato quello che
ne' publici documenti ho veduto; non debbo però tralasciare una fama che
fu divulgata allora in Trento e tenuta per certa da' piú sensati: che il
cardinale avesse trattato coll'imperatore e col figlio, re de' Romani, cose piú
secrete e mostrato loro che, per li diversi fini de' prencipi e de' prelati e
per li varii et importanti loro interessi contrarii e repugnanti, fosse
impossibile far sortir al concilio quel fine che alcuno d'essi desiderava. Gli
fece conoscer che nella materia del calice, del matrimonio de' preti, della
lingua volgare, cose desiderate tanto da Sua Maestà e dal re di Francia,
mai il re di Spagna, né alcun prencipe d'Italia condescenderebbe a
contentarsene. Che in materia di riforma ogni ordine di persona vuole
conservarsi nello stato presente e riformar gl'altri; onde viene che ogni uno
dimanda riforma et a qualonque articolo proposto per quella causa, maggior
numero se gl'oppone, che lo favorisca, ché ciascun pensa a sé solamente e non
attende li rispetti altrui. Ma il papa, dove ogn'uno fa capo, ogni uno lo
vorrebbe ministro de' dissegni proprii, senza pensare se alcun altro sia per
restar offeso. Al quale però non è né onesto, né utile favorir
uno con diservizio dell'altro. Che ogn'uno vuol la gloria di procurar riforma,
e pur perseverar negl'abusi con carico del solo papa. Discorse anco il
cardinale che, dove si tratta di riformar il papa, non voleva dire qual fosse
l'animo di Sua Santità; ma in quello che a lui né tocca, né può
toccare, con che raggione si può alcuno persuadere che egli non
condescendesse, quando non conoscesse quello che ad altri non è noto,
perché solo a lui son riferiti li rispetti di tutti? Espose ancora di piú, per
isperienza esser stato veduto, nello spacio di 15 mesi dopo l'apertura del
concilio, che sono moltiplicate le pretensioni et aummentati li dispareri, e
caminato tuttavia al colmo; che quando continui longamente, per
necessità seguirà qualche notabile scandalo: gli considerò
la gelosia che occupava i prencipi di Germania e gl'ugonotti di Francia, e
concluse che vedendosi chiaro il concilio non poter far frutto, era ispediente
finirlo al meglior modo possibile.
Dicevasi che
quei prencipi restarono persuasi di non poter ottener per mezo del concilio
cosa buona e che conobbero esser meglio sepelirlo con onore, e che diedero
parola al cardinale di passar per l'avvenire con connivenza e non ricever in
male se il concilio sarà terminato. Chi attenderà il fine che
ebbe il concilio senza che quei prencipi avessero sodisfazzione alcuna delle
loro dimande, facilmente inclinerà l'animo a creder che la fama portasse
il vero: ma osservando che anco dopo questa legazione non sono cessate le
instanze de' ministri imperiali, stimerà il rumore vano. Ma caminando
per via che scansi ambedue le assordità, si può credere che in
questo tempo deponessero quei prencipi la speranza, e deliberassero di non
ripugnar al fine: non giudicando però onore il far una subita ritirata,
ma piú tosto per gradi andar rimettendo le instanze, per non publicar il
mancamento di giudicio nell'aver concepito per questo mezo speranza di bene e
non aver creduto all'osservazione di san Gregorio Nazianzeno, che dalle
ridozzioni episcopali testifica aver sempre veduto incrudire le contenzioni.
Quel che sia di verità in questo particolare lo ripongo nel numero di
quelle cose, dove la cognizione mia non è arrivata; ma ben certo
è che del maneggio del concilio, qual non mostrava poter sortir essito
quieto, la catastrofe in questo tempo ebbe principio.
[Il cardinal Morone arriva a Trento]
Arrivò
in Trento il cardinal Morone dalla legazione sua d'Ispruc il 17 maggio et
immediate s'incomminciò a trattare tra li legati del giorno della
sessione, essendo vicino il 20, quando si doveva determinare; e non avendo
ancora, né sapendo quando si potessero aver le materie in ordine, il giorno 19
nella congregazione fu prorogato il termine sino a 10 di giugno, per
determinare allora il giorno prefisso. In quella congregazione due cose
notabili successero. L'una fu la contenzione se apparteneva a' legati overo al
concilio il deliberare se li procuratori de' vescovi dovevano esser admessi in
congregazione, come detto abbiamo che da Lansac fu ricercato. Li prelati
francesi defendevano che li legati non avessero altra prerogativa se non
d'esser primi, e separatamente da' padri del concilio non s'intendessero aver
autorità alcuna: allegavano il concilio basileense et altri documenti
dell'antichità. Per l'altra parte si diceva che non può esser
legitimo concilio se non congregato dal papa e che a lui solo appartiene il
determinare chi debbia intervenire e chi debbia aver voto in quello; che il dar
questa facoltà al concilio, sarebbe un dargli autorità di generar
se stesso. Dopo qualche contenzione la materia restò indecisa. E
venendosi a dar li voti sopra la corrente degl'abusi dell'ordine, successe
l'altra, che il vescovo di Filadelfia fece una longa e grand'esclamazione che
li cardinali vogliono li vescovati e poi non vi mantengono manco un
suffraganeo; la qual cosa fu da buona parte derisa, come che quel vescovo,
essendo titolare, parlasse per interesse suo e de suoi simili.
[Il conte di Luna ricevuto dopo gran contrasto
per la precedenza con Francia]
Nella
congregazione del 21 maggio fu ricevuto il conte di Luna, il quale differí 40
giorni dopo l'arrivo suo per le difficoltà della precedenza con
gl'ambasciatori francesi; tra tanto vi furono diverse consulte come
accommodarla, né mai fu possibile che francesi volessero contentarsi che avesse
altro luogo se non di sotto et appresso di loro; onde pensò di fermarsi
in piedi nel mezo del luogo tra gl'ambasciatori imperiali, che avevano ordine
dal loro patrone d'accompagnarlo, e starsene appresso di loro sin tanto che si
facesse l'orazione, e subito finita, tornarsene a casa. Ma parve che fosse con
poca degnità del re; però si diede a far opera che li francesi si
contentassero di non andar in congregazione quel giorno che doveva esser
ricevuto, né acconsentendo essi, pensò di costringergli a questo con
fare che da qualche prelato spagnuolo fosse dimandato che gl'ambasciatori
secolari non intervenissero nelle congregazioni, poiché negl'antichi concilii
non erano admessi. Ma parendo che questo offendesse tutti i prencipi insieme,
restò in deliberazione di far opera che qualche prelati proponessero di
trattar cose a' quali non fosse raggionevole che gl'ambasciatori francesi
intervenissero, come sarebbe de' pregiudicii che possono avvenire alla
cristianità per la capitolazione fatta con gl'ugonotti, o altra tal
cosa; il che, fatto andare alle orrecchie del cardinale di Lorena, gli mise il
cervello a partito, e consultato co' suoi, risolverono di non contrastar piú,
se gli fosse dato un luogo a parte fuori dell'ordine degl'ambasciatori.
Perilché il sudetto giorno de' 21 il conte di Luna, entrato in congregazione et
andato al luogo assegnatogli, che era nel mezo del consesso, dirimpetto a'
legati, presentò il mandato del suo re; il qual letto dal secretario,
egli immediate protestò che, quantonque in quel consesso et in qualonque
altro dovesse seguir primo dopo gl'ambasciatori dell'imperatore, nondimeno
perché quel luogo, la causa di che si trattava et il tempo non comportavano che
per contenzioni umane fosse impedito il corso delle cose divine e della publica
salute, riceveva il luogo che gli era dato, protestando nondimeno che la sua
modestia et il rispetto che aveva di non impedir li progressi del concilio, non
possi far alcun pregiudicio alla degnità e raggione del suo prencipe
Filippo, re Catolico, e de' posteri, ma quelle restino illese, sí che sempre se
ne possino valere, come se in quel consesso gli fosse stato dato il debito
luogo, instando che la protestazione fosse scritta negl'atti, quali non si
potessero dar fuora separati da quella et a lui gliene fosse data copia. Dopo
il che, gl'ambasciatori francesi essi ancora protestarono che, se essi
sedessero in altro luogo che primi dopo l'imperatore et inanzi agl'oratori
degl'altri re, dove erano seduti li maggiori loro sempre, et ultimamente nel
concilio di Costanza e lateranense, e se il nuovo luogo nel qual sedeva
l'ambasciator della Maestà catolica, fuori dell'ordine
degl'ambasciatori, potesse portar qualche pregiudicio a loro o agl'altri
oratori, li padri del concilio, rapresentanti la Chiesa universale, per debito
dell'officio loro, gli ridurrebbono all'ordine antico, overo gli farebbono
l'ammonizione evangelica; ma tacendo essi padri, né dicendo altro gl'oratori
della Maestà cesarea, che hanno l'interesse commune con essi di Francia,
sedendo vicini a loro, e conservando l'antica possessione al loro re, e
confidati nella fede et affinità, che il re Catolico tiene col
Cristianissimo, non dimandavano altra cosa, se non che li padri del concilio
dovessero dicchiarare che il fatto del conte non potesse far alcun pregiudicio
all'antichissima prerogativa e perpetua possessione di Sua Maestà
cristianissima, e tutto questo registrarlo negl'atti.
Fu fatta l'orazione
per nome del conte dal teologo Pietro Fontidonio; il qual in sostanza disse
che, instando il fine del concilio, la Maestà catolica aveva mandato
quell'ambasciatore per offerirsi apparecchiato a far per il concilio quello che
fece Marziano imperatore nel calcedonense, cioè sostener e defender la
verità dicchiarata dalla sinodo e rafrenar li tumulti, e condur a felice
fine quel concilio, che Carlo V imperatore suo padre ha protetto nella sua
nascenza e nel suo progresso, per causa del quale ha fatto guerre
difficilissime e pericolosissime, et il quale anco Ferdinando imperatore, suo
zio, sostenta. Che il suo re non ha tralasciato alcun officio di prencipe
catolico, acciò si riducesse e celebrasse; ha mandato li prelati di
Spagna et oltre ciò dottori prestantissimi. Che egli ha conservato la
religione in Spagna; che ha impedito l'ingresso dell'eresia in quella da tutte
le foci de' Pirenei; ha impedito che non abbia navigato alle indie, dove con
ogni studio ha tentato di penetrare per infettar le radici della
cristianità nascenti in quel nuovo mondo. Che per opera di quel re
fiorisce la fede e la purità della dottrina in Spagna, sí che la santa
madre Chiesa, quando vede altre provincie piene d'errori, prende consolazione
vedendo la Spagna esser la sacra àncora per rifugio delle sue
calamità. Soggionse Dio volesse che gl'altri prencipi catolici e
republiche cristiane avessero imitato la severità di quel re in
raffrenar gl'eretici, che la Chiesa sarebbe liberata da tante calamità e
li padri di Trento dalla sollecitudine di far concilio. Che il suo re si
maritò con Maria, regina d'Inghilterra, non ad altro fine che per ridur
quell'isola alla religione. Commemorò gl'aiuti recenti mandati al re di
Francia, aggiongendo che per la virtú de' suoi soldati, se ben erano pochi,
mandati per difesa della religione, la vittoria inclinò alle parti
catoliche. Passò a dire che desiderava il re dal concilio lo
stabilimento della dottrina della religione e la riformazione de' costumi.
Lodò li padri di non aver mai voluto separar la trattazione d'una di
queste parti dall'altra, quantonque grand'instanza fosse stata fatta per fargli
tralasciar la dottrina et attender solamente a' costumi. Aggionse desiderar il
re che essaminassero ben la petizione, piú pia che circonspetta, di quelli che
dimandano che sia concessa alcuna cosa agl'inimici della religione per fargli
ritornar alla Chiesa. Fece un'invettiva contra quelli che dicevano doversi
conceder qualche cosa a' protestanti, acciò vinti dalla benignità
tornassero al grembo della Chiesa, dicendo che si ha da far con persone che non
possono esser piegate né da beneficio, né da misericordia. Essortò li
padri per parte del re ad operare in tal maniera che mostrino d'aver maggior
cura della maestà della Chiesa che degl'appetiti de' sviati, avendo la
Chiesa sempre usato questa gravità e costanza per reprimer l'audacia de'
nimici, di non concedergli manco quello che onestamente si potrebbe. Desiderare
ancora il re che tralascino le superflue questioni. Concluse che, essendo
congregati i padri per far cosí buon'opera, come è il rimediar a tanti
mali che travagliano la cristianità, quando questo effetto non succeda,
la posterità non ne darà la colpa ad altri che a loro e si
maraviglierà che, potendo, non abbiano voluto applicar il rimedio. Lodò
le virtú dell'ambasciatore e la gloria della casa sua e con questo finí. Gli fu
risposto per nome della sinodo che nel dolore, qual sentiva per le miserie
communi, aveva ricevuto consolazione sentendo commemorar la pietà del re
Catolico e sopra tutto essergli stata grata la promessa di defender li decreti
del concilio; il che essendo per far anco l'imperatore e gl'altri re e prencipi
cristiani, la sinodo veniva eccitata a fare che le azzioni sue corrispondessero
al desiderio di tanti prencipi; il che anco già e per la propria
volontà e per essortazione del pontefice faceva, occupandosi sempre
nell'emendazione de' costumi et esplicazione della dottrina catolica. Che
rendeva molte grazie al re, cosí del singolar affetto verso la religione e buona
volontà verso la sinodo, come dell'aver mandato un tal oratore, dal qual
sperava onore et aiuto.
L'orazione
sopradetta dispiacque a tutti gl'ambasciatori, essendo un'aperta riprensione di
tutti li prencipi, per non aver essi immitato la diligenza del re Catolico, e se
ne dolsero col conte; il qual rispose che quelle parole non avevano meno
dispiaciuto a lui, anzi che ordinò al dottore che le levasse e non le
dicesse per modo alcuno e che si risentirebbe di non esser stato obedito. I
francesi che erano in Roma biasmarono molto quei di Trento per aver assentito
al luogo dato all'ambasciator spagnuolo; dicevano che Lorena, per i suoi
interessi e per gratificar il re Catolico, aveva fatto un tanto pregiudicio
alla corona di Francia, e perché egli anco consegliava il papa a non conceder
al re l'alienazione de' beni ecclesiastici per 100000 scudi che dimandava,
aggiongevano che in tutte le cose non aveva altra mira che a sé proprio, e
pertanto, dopo che il maneggio de' danari era fuori delle mani sue e del
fratello, non averebbe voluto che il re ne potesse da luogo alcuno avere. Ma la
differenza della precedenza non era ancora ben finita; perché, se ben s'era
trovato luogo all'ambasciatore spagnuolo nelle congregazioni, quel medesimo non
se gli poteva dar nelle sessioni. Onde li legati scrissero al pontefice per
aver da lui ordine come governarsi.
[Lorena s'abbocca col cardinal di Ferrara
sopra 'l concilio; in che si mostra fermo, ma è raddolcito dal Morone]
Dopo ricevuto
l'ambasciator spagnuolo, il cardinale di Lorena partí per abboccarsi con quello
di Ferrara; il qual, gionto in Piemonte, non trovò le cose di quella
regione in meglior stato che in Francia, poiché trovò che in diversi
luoghi del marchesato di Saluzzo erano stati scacciati tutti li preti, e che in
Cheri et in Cuni, luoghi del duca di Savoia, et in molte altre terre vicine a
quelle vi erano molti delle medesime opinioni degl'ugonotti, e nella stessa
corte del duca molti le professavano et ogni giorno se ne scoprivano piú; e se
ben un mese inanzi quel duca mandò bando che in termine di otto giorni
tutti li seguaci di quelle opinioni dovessero partir del paese, et alcuni anco
si fossero levati, nondimeno dopo il duca commandò che non si procedesse
piú contra loro, anzi a molti condannati dalla inquisizione aveva fatto grazia
delle pene et annullati li processi contra loro e contra altri inquisiti non
ancora condannati, e concesso anco licenza di tornare ad alcuni de' partiti. Ma
il cardinale, avendo conosciute le raggioni da' quali quel duca fu mosso, fu
costretto giudicare quel medesimo che andava dicendo delle cose di Francia,
cioè che tornasse in servizio de' catolici far cosí.
Ebbe quel
cardinale nel medesimo luogo instruzzione dal vescovo di Vintimiglia, che era
andato espresso per informarlo, come di sopra si è detto, sopra lo stato
delle cose del concilio e come trattare con Lorena; si trovarono ambidoi li
cardinali in Ostia il 24 maggio. Il cardinale di Ferrara, narrato lo stato
delle cose di Francia e della casa, dopo la morte del duca di Ghisa e del
priore, l'essortò al presto ritorno in Francia, mostrandogli la
necessità che aveva la casa della sua presenza; gli discorse anco che,
dopo la pace fatta con gl'ugonotti, la riforma non era per partorir piú in
Francia quei buon'effetti che si credeva. Ma lo trovò, che non averebbe
creduto, molto impresso che l'onor suo ricercasse di non abandonar quella
negoziazione. Si dolse Lorena che Morone, ritornato dall'imperatore, non
gl'avesse partecipato cosa alcuna del suo negoziato, dicendo però che da
quella Maestà era stato avisato del tutto. Gli disse che il re Catolico
era ben unito con l'imperatore e che tra il conte di Luna e lui vi era buona
intelligenza. Nella materia della residenza disse che era necessario
dicchiararla, che cosí era mente dell'imperatore e che quasi tutti li prelati
erano di quel parere, eccetto alcuni italiani, e che questa dicchiarazione si
ricercava a fine che il papa non potesse dispensare; onde l'opera del cardinal
di Ferrara fece poco frutto. Et il cardinal di Lorena, tornato a Trento,
publicò per tutto che Ferrara aveva fatto seco officio per nome del papa
e de' legati che la residenza si terminasse con un decreto penale, senza
dicchiarar che sia de iure divino, ma che egli non era per assentire.
Ma il
cardinale Morone, per addolcir Lorena, prima che si venisse alle prattiche
strette delle cose conciliari, conoscendo come bisognava mostrar di differir
ogni cosa a lui, andò a visitarlo pontificalmente con la croce inanzi et
accompagnato da molti prelati e, dopo li complementi, gli disse che desiderava
che consegliasse, commandasse et operasse non altrimenti che se fosse uno de'
legati. Che il pontefice voleva la riforma et aveva mandato 42 capi di molto
severa, e scritto che si proponessero anco quelli che furono raccordati dagli
ambasciatori cesarei e francesi, levati gl'appartenenti alla corte romana, la
quale Sua Santità voleva riformar essa, per mantenimento
dell'autorità della Sede apostolica. Ma Lorena, sospicando che Morone
avesse pensiero di scaricar alcuna cosa sopra di lui o di metterlo in qualche
diffidenza co' spagnuoli, rispose che il peso di legato superava le sue forze,
le quali non potevano far maggior cosa che dir il voto suo come arcivescovo;
che lodava il zelo di Sua Santità nella riforma delle altre chiese, ma
che si poteva ben contentare che i vescovi ancora dassero altritanti capi per
li cardinali e per il rimanente della corte; che la Sede apostolica era degna
d'ogni riverenza e rispetto, ma con quel manto non potersi coprir abusi. La
risposta di questo cardinale fece risolver li legati d'andar ritenuti sino che
le cose fossero meglio domesticate, ma tra tanto si fece stretta prattica co'
prelati italiani, acciò non fosse ricevuto il decreto di dicchiarar la
residenza.
Successe un accidente,
che fu per confonder e divider tra loro li ponteficii. Andò a Trento
aviso che s'averebbono fatti cardinali a' seguenti tempori, e fu anco mandata
la poliza di quelli che erano in Roma; onde li pretendenti, che molti erano,
restarono pieni di malissima satisfazzione e, come avviene agl'appassionati,
non si contenevano tra li termini, sí che non uscisse qualche parola che
dimostrasse l'affetto e l'animo parato al risentimento. In particolare erano
notati Marc'Antonio Colonna, arcivescovo di Taranto, et Alessandro Sforza,
vescovo di Parma, (quali per la potenza grande delle famiglie loro nella corte
erano piú degl'altri inanzi), che avessero detto di voler intendersi con
Lorena, il che dal cardinale Simoneta creduto, fu anco avisato a Roma; dalla qual
cosa ambidoi si tennero offesi e parlavano con gran risentimento. I disgusti
continuarono qualche giorni; ma poiché non fu fatta promozione de cardinali e
che a questi vescovi fu data sodisfazzione, finalmente le cose s'accommodarono.
Ma dopo
questo tempo il cardinale di Lorena incomminciò a ralentar il rigore,
perché in Francia, essendo resi chiari, per l'osservazione delle cose sin
allora successe, che da Trento non era possibile ottener cosa che fosse di
servizio di quel regno, e veduto anco che le cose della pace si andavano
esseguendo con gran facilità, onde si poteva sperar di restituir
l'obedienza al re intieramente senza aver altri pensieri alle cose della
religione, e forse avuta communicazione dall'imperatore del trattato con
Morone, gionti anco gl'officii che il papa fece con la regina per mezo del suo
noncio, pensarono di non travagliar piú nelle cose del concilio con tanto
affetto, ma piú tosto acquistar l'animo del pontefice; e se da Trento fosse
venuta cosa utile, riceverla, solamente attendendo ad operare che non
succedesse cosa di pregiudicio. E scrisse perciò la regina a Roma,
offerendosi al pontefice di cooperare per finir presto il concilio, di metter
freno a Lorena et a prelati francesi, che non impugnino l'autorità del papa,
e di far partire d'Avignione e dal contado tutte le genti ugonotte. Scrisse
medesimamente al cardinale di Lorena, avisando che le cose della pace in
Francia s'incaminavano molto bene et a perfezzionarla altro mezo non mancava
che la presenza sua in Francia, dove potendo far maggior ben che in Trento, nel
qual luogo aveva esperimentato di non poter far buon profitto, dovesse procurar
di spedirsi per ritornarvi quanto prima, cercar di dar ogni sodisfazzione al
pontefice e renderselo benevolo, e non pensar alle cose del concilio piú di
quello che lo constringesse la propria conscienza et onore; gl'aggionse che
averebbe avuto nel regno la medesima autorità che prima: però
accelerasse il ritorno.
[Dispiacere del papa contra i francesi]
Gionsero le
sudette lettere della regina a Roma et a Trento nel fine di maggio, le quali sí
come furono al papa molto grate e gli diedero speranza di poter veder buon fine
del concilio, cosí gli dispiacque sommamente un altro accidente, cioè
che, pensandosi in Francia come levar di debito la corona, fu, per editto regio
e per arresto del parlamento, verificato il decreto dell'alienar li stabili
ecclesiastici per 100000 scudi, dal che si suscitò gran tumulto de'
preti, che dicevano esser violati li loro privilegii et immunità, che le
cose sacre non potevano alienare per qual si voglia causa, senza
autorità e decreto del papa. Per quietar li strepiti, fu fatto
dall'ambasciatore instanza al pontefice che volesse prestar il suo consenso,
allegando che il re, essausto dalle guerre passate, dissegnando di metter buon
ordine alle cose sue per poter dar mano a quello che sempre era stata sua
intenzione dopo fatta la pace, cioè di riunir tutto 'l regno nella
religion catolica per poter sforzare chi se gli fosse opposto, aveva pensato di
metter una sovvenzione et aver anco dal clero la parte sua; al che la Chiesa
era tanto piú degl'altri tenuta, quanto piú si trattava degl'interessi di
quella; che tutte le cose pensate, nissuna si trovava piú facile quanto, con
l'alienazione d'alquanto delle entrate ecclesiastiche, supplir a quella
necessità, del che desiderava il consenso della Santità Sua. Ma
il papa diceva che la dimanda era ben colorata di bel pretesto di defender la
Chiesa, ma in vero non era se non per ruinarla; a fine d'evitar il qual danno,
esser sicuro partito il non acconsentirvi; e se ben alcun potesse pensare che
francesi venissero all'essecuzione senza il consenso, nondimeno egli non
pensava che non si sarebbe dimandata la licenza quando si trovasse compratore
senza di quella, tenendo che nissun oserebbe aventurare li suoi danari, temendo
che, come le cose del mondo sono instabili, non succedesse tempo tale che
gl'ecclesiastici ripigliassero le loro entrate senza refonder il precio.
Però, avendo proposto il negozio in consistoro, con deliberazione de'
cardinali risolvé di non acconsentire, ma con varie escusazioni mostrare che
non averebbono potuto ottener da lui quella dimanda.
Il Lorena,
portando odio irreconciliabile agl'ugonotti, non tanto per rispetto della
religione, quanto della fazzione con quali egli e la sua casa era stato sempre
in controversia, essendo anco sicuro che non era possibile reconciliare con
loro amicizia, sentí molto dispiacere intendendo che le cose della pace
s'incaminassero, e quanto al ritorno suo in Francia, fu ben risoluto che
conveniva pensarci molto bene quando e come dovesse ritornare; ma ben per le
cose sue giudicò necessario intendersi ben col pontefice e con la corte
romana, e co' ministri di Spagna ancora piú di quello che per il tempo passato
aveva fatto; e però da quel giorno incomminciò a ralentar la
severità in procurar riforma, e diede principio a mostrar maggior
riverenza al papa e buona intelligenza co' suoi legati.
Ma oltra la
molestia per la ricchiesta dell'alienazione, ne ebbe il pontefice un'altra di
non minor momento; imperoché, trovandosi d'aver promesso piú volte
all'ambasciatore di Francia di dargli il suo luogo nella festività della
Pentecoste e volendolo esseguire, congregò alquanti cardinali per trovar
qualche maniera, per dar anco satisfazzione all'ambasciator spagnuolo. Furono
proposti doi partiti: l'uno di dargli luogo sotto il sinistro diacono, l'altro
sopra un scabello al capo della banca de' diaconi; li quali però non
levavano le difficoltà: perché restava ancora materia di concorrenza al portar
della coda a Sua Santità e dargli l'acqua alle mani quando celebrava e
nel ricever l'incenso e la pace. La difficoltà della coda e dell'acqua
non premeva allora, non dovendo il papa celebrare et essendovi l'ambasciator
dell'imperatore. Quanto all'incenso e la pace, si trovò temperamento che
fossero dati a tutti quelli della parte destra, eziandio a quello di Fiorenza
che era l'ultimo, e poi alla parte sinistra. Di ciò il francese non si
contentò, dicendo che il papa gl'aveva promesso il suo luogo, e che quel
di Spagna o non anderebbe o starebbe sotto di lui, e cosí voleva che si
esseguisse, altramente si sarebbe partito. Non piacque manco all'ambasciator
spagnuolo; onde il papa si risolvé di mandargli a dire che era risoluto di dar
il luogo all'ambasciator francese. Rispose il spagnuolo che se il papa era
risoluto fargli quell'aggravio, voleva leggergli una scrittura. I cardinali,
che trattavano con lui per parte del papa, gli mostrarono che non era ben
farlo, se la scrittura non era prima veduta da Sua Santità, accioché
alla sproveduta non nascesse qualche inconveniente. Si rese l'ambasciatore
difficile a darla, ma in fine se ne contentò. Il papa, leggendola, si
alterò per la forma delle parole, come egli diceva, impertinenti; finalmente
fu introdotto nella camera del papa con 4 testimonii, dove posto in ginocchia
lesse la sua protesta; la qual conteneva che il re di Spagna debbe preceder
quello di Francia per l'antichità, potenza e grandezza di Spagna, per la
moltitudine d'altri regni, per li quali è il maggior e piú potente re
del mondo; perché ne' suoi Stati è stata difesa e conservata la fede
catolica e la Chiesa romana; però, se Sua Santità vuol dicchiarar
o ha dicchiarato in parole o in scritto in favor di Francia, fu notorio
aggravio et ingiustizia. Perilché egli, in nome del suo re, contradice ad ogni
dicchiarazione di precedenza o ugualità in favor di Francia, dicendo
esser nulla et invalida contra il notorio dritto di Sua Maestà catolica,
e se è stata fatta, esser nulla, come senza cognizione di causa e senza
citazione di parte, e che Sua Santità, facendo ciò, sarà
causa di gravi inconvenienti in tutta cristianità. Rispose il pontefice
admettendo la protestazione si et in quantum e scusandosi della
citazione omessa, perché a' francesi niente dava, ma conservava il luogo dove
gl'aveva sempre veduti appresso gl'ambasciatori dell'imperatore, offerendosi
però di commetter la causa al collegio de cardinali o a tutta la rota,
soggiongendo che amava il re e che gli farebbe sempre tutti li piaceri. A che replicò
l'ambasciator che Sua Santità s'aveva privato della libertà di
far piacer al re, facendogli tanto aggravio. Replicò il papa: «Non per
causa nostra, ma vostra, e li beneficii fatti da noi al re non meritano queste
parole nella protesta fattaci».
[Birago giunge a Trento con lettere del re di
Francia]
In quel
medesimo tempo arrivò in Trento il presidente Birago, del quale di sopra
è stato detto esser stato inviato dal re di Francia al concilio et
all'imperatore, il quale il 2 di giugno fu ricevuto nella congregazione, dove
non intervennero gl'ambasciatori inferiori a' francesi per non dargli luogo,
poiché nelle lettere regie non se gli dava titolo d'ambasciatore.
Presentò le lettere del re de' 15 aprile, dove diceva in sustanza esser
benissimo note le turbazioni e guerre intestine suscitate nel suo regno per
causa della religione, e l'opera fatta da lui, eziandio con gl'aiuti e soccorsi
de' prencipi e potentati suoi amici, per rimediarvi con le armi; e tuttavia
esser anco piaciuto a Dio, per giudicii suoi incomprensibili, che da quei
rimedii d'armi non ne uscissero se non uccisioni, crudeltà, sacchi di
città, ruina di chiese, perdita de prencipi, signori e cavallieri, et
altre calamità e desolazioni, sí che è facile da conoscer che il
rimedio delle arme non è quello che si debbe ricercar per guarir
un'infermità de' spiriti, che non si lasciano superar se non per
raggione e persuasione; il che aveva costretto lui ad accordare una
pacificazione, come si conteneva nelle sue lettere sopra ciò espedite,
non a fine di permetter lo stabilimento d'una nuova religione in detto regno,
ma acciò, cessate le armi, egli potesse con manco contradizzione
pervenire ad un'unione di tutti li sudditi suoi nell'istessa santa e catolica
religione, beneficio che egli aspettava dalla misericordia di Dio e da una
buona e seria riformazione che si prometteva da quella santa sinodo. E perché
molte cose aveva a rapresentargli e ricercar da loro, s'era risoluto
d'inviargli maestro Renato Birago, che gli farebbe intender il tutto in viva
voce, pregando loro riceverlo et ascoltarlo benignamente.
Lette le
lettere, parlò il presidente, narrando molto particolarmente le
discordie, le guerre e le calamità di Francia, lo stato e la
necessità nella quale il re et il regno erano ridotti, la pregionia del
contestabile e la morte del duca di Ghisa, che lo rendevano senza braccia. Si
diffuse assai in giustificar che l'accordo fosse fatto per pura e mera
necessità, che in quello maggior era l'avvantaggio della parte catolica,
che della contraria. Che l'intenzione del re e del suo conseglio non era
lasciar introdur o stabilir una nuova religione, ma al contrario, cessate le
arme e le disobedienze, con manco contradizzioni e per le vie osservate da'
suoi maggiori, ridur all'obedienza della Chiesa li sviati e riunir tutti in una
santa catolica religione, sapendo molto ben che due essercizii diversi nella
religione non possono longamente sussistere e continuare in un regno. Da questo
passò a dire che il re sperava presto riunir tutti li popoli in una medesima
opinione per singolar grazia divina e per il mezo del concilio, rimedio sempre
usato dagl'antichi contra simili mali, come quelli che affligevano allora la
cristianità. Pregò li padri aiutar la buona intenzione del re con
una seria riforma e con ridur li costumi all'integrità e purità
della Chiesa vecchia et accordando le differenze della religione, e promise che
il re sarebbe stato sempre catolico e devoto della Chiesa romana, secondo
l'essempio de' suoi maggiori. Finí dicendo che il re confidava nella
bontà e prudenza de' padri, che averebbono compatito a' mali di Francia
e si sarebbono adoperati per li rimedii. Aveva il presidente in commissione
d'addimandar che il concilio fosse trasferito dove i protestanti avessero
libero accesso; imperoché con tutta la sicurezza data dal pontefice e dal
concilio, avevano il luogo per sospetto e lo volevano dove l'imperatore potesse
assicurargli; ma questo capo non lo toccò, cosí consegliato dal
cardinale di Lorena e dagl'ambasciatori del suo re, che non giudicarono
opportuno farne menzione e l'avevano per rivocato dopo, attese le lettere
scritte al papa et ad esso Lorena, de' quali è fatta menzione.
Era
già stato dato ordine, per consultazione de' legati, che fosse dal
promotore per nome della sinodo risposto al Birago con dolersi degl'infortunii
et avversità del regno di Francia et essortar il re che, essendo stato
necessitato a far la pace e conceder qualche cosa agl'ugonotti, a fine di
restituir intieramente la religione, dopoi, posto il regno in tranquillità,
volesse per servizio di Dio adoperarsi senza alcuna dilazione per ottenere
questo ottimo fine. E dopo la messa, prima che entrare in congregazione, la
mostrarono al cardinale di Lorena, qual rispose non parergli bene che la sinodo
approbasse il fatto del re, del quale piú tosto pareva che dovessero dolersene,
come fatto a pregiudicio della fede, che lodarlo; però meglio era
pigliar tempo a risponder, come si fa nelle cose d'importanza. Perilché, mutato
conseglio, ordinarono che fosse risposto al Birago in sostanza che, per esser
le cose narrate e proposte da lui gravissime e che avevano bisogno di molta
considerazione, la sinodo averebbe preso tempo opportuno per rispondergli.
Agl'ambasciatori francesi dispiacque grandemente il fatto del cardinale di
Lorena, parendo loro che, se li legati non fossero stati disposti a commendare
le azzioni del re, egli avesse dovuto incitargli, anzi costringergli per quanto
potesse, dove che in contrario, avendo essi giudicato convenire, come era anco
giusto e raggionevole, una commendazione del fatto, egli gl'aveva dissuasi. Ma
consultati tra loro risolverono che non fosse ben scriverne in Francia per
molti rispetti, poiché Lansac, che presto doveva esser di ritorno, poteva a
voce far quella relazione che fosse stata necessaria.
Il mese
inanzi era successo in Baviera un gran tumulto e sollevazione popolare, perché
non era stato concesso loro l'uso del calice e che li maritati potessero
predicare; il qual disordine procedette tanto inanzi che, per acquietargli, il
duca promise nella dieta che, quando per tutto giugno in Trento overo dal
pontefice non fosse stata presa risoluzione di dar loro sodisfazzione, egli
averebbe concesso e l'uno e l'altro. Il che udito nel concilio, li legati
spedirono in diligenza Nicolò Ormanetto a persuader quel prencipe di non
devenire a tal concessione, promettendogli che il concilio non mancherebbe a'
suoi bisogni. Al quale il duca rispose che, per mostrar l'obedienza e devozione
sua verso la Sede apostolica, averebbe fatto ogn'opera per trattener li popoli
suoi piú che fosse stato possibile, aspettando o sperando che il concilio fosse
per risolvere quello che si vedeva esser necessario, non ostante la
determinazione fatta prima.
[In congregazione si tratta delle annate,
delle ordinazioni fatte a Roma, de' vescovi titolari, delle dispense, e della
risposta al Birago]
Ma seguendosi
le congregazioni per trattar le materie conciliari, in una d'esse il vescovo di
Nimes, parlando sopra li capi degl'abusi dell'ordine, passò a trattar
delle annate. Disse che, se ben non negava che tutte le chiese dovessero
contribuir al pontefice per mantener le spese della corte, nondimeno non poteva
lodare quel pagamento, cosí per il modo, come per la quantità; per
questa, poiché sarebbe ben assai se fosse pagata la ventesima, che col
pagamento dell'annata si paga forse piú d'una decima; et al modo che almeno non
doverebbono esser astretti a pagarle se non dopo l'anno; e poiché la corte
romana s'ha da mantenere per le contribuzioni di tutte le chiese, sarebbe anco
giusto che da quella ne ricevessero qualche utilità, dove per causa
degl'ufficiali di quella, nascono molti e quasi tutti gl'abusi nel
cristianesmo. Che di questo doverebbe la sinodo avertirne Sua Santità
che li provedesse. Discese in particolar a raggionare delle ordinazioni de'
preti che si fanno in Roma; disse che in quelle non sono osservati né canoni,
né decreti, e che sarebbe necessario decretare che, quando li preti ordinati in
Roma non fossero idonei, potessero li vescovi, non ostante quell'ordinazione,
sospendergli, né potessero li sospesi per via d'appellazione o d'altro ricorso
impedir la deliberazione del prelato. L'ultimo che parlò nella medesima
congregazione fu il vescovo d'Osmo, il quale disse che, sí come s'erano
raccolti gl'abusi dell'ordine, cosí saria anco ben trattar delle penitenze che
s'ingiongono e delle indulgenze ancora insieme, per esser tutte tre quelle
materie congionte e che si danno mano l'una all'altra.
In un'altra
congregazione il vescovo di Guadice longhissimamente parlò, e tra le altre
cose fece quasi un'invettiva contra l'ordinazione de' vescovi titolari, con
occasione di parlar sopra un capo degl'abusi, che era dato il quarto in ordine:
nel quale si diceva che, per rimediar a' gran scandali che continuamente
nascono per causa di quella sorte de vescovi, non si creassero piú senza
urgente necessità, et in quel caso, prima che fossero ordinati, gli
fosse provisto dal pontefice di viver conforme alla degnità episcopale;
ma quel vescovo disse che alla degnità episcopale era annesso l'aver
luogo e diocesi come cosa essenziale, e che vescovo e chiesa sono relativi,
come marito e moglie, che uno non può esser senza l'altro: onde la
contradizzione non comportava che si dicesse esser alcuna causa legitima di far
vescovi titolari, et affermò l'ordinazione loro esser un'invenzione di
corte, anzi usò questa parola: «figmenta humana»; che
nell'antichità non se vede vestigio, e che se un vescovo già era
privato o rinonciava, s'intendeva non esser piú vescovo, sí come quello a chi
manca la moglie non è piú marito. Perciò leggersi appresso li piú
vecchi dottori canonisti che sono invalide le ordinazioni tenute da chi ha
rinonciato il vescovato. Che le simonie e le indecenze che nascono per causa di
questi vescovi e le altre corrottele della disciplina sono niente rispetto a
quest'abuso di dar nome de vescovi a quelli che non sono et alterar
l'instituzione di Cristo e degl'apostoli.
Simon de'
Negri, vescovo di Sarzana, nel suo voto, entrato nella medesima materia, disse
che nel vescovo s'ha da considerare l'ordine e la giurisdizzione; che quanto
all'ordine, non ha altro se non che è ministro de' sacramenti della
confermazione e dell'ordine, e per constituzione ecclesiastica ha
autorità di molte consecrazioni e benedizzioni che sono vietate a'
semplici preti. Ma quanto alla giurisdizzione ha l'autorità nel governo
della Chiesa; che li vescovi titolari non hanno se non la potestà
dell'ordine, senza la giurisdizzione, e però non è necessario che
abbiano chiesa. E se anticamente non si consecrava vescovo senza dargli chiesa,
questo era perché non si consecravano manco diaconi o preti senza titolo. Dopo,
avendosi veduto esser maggior servizio di Dio e grandezza della Chiesa
l'esservi preti senza titolo, l'istesso si doveva anco concludere de' vescovi;
però che, per proveder agl'abusi, era ben conveniente non ordinargli
senza dargli da vivere, acciò non siano costretti alle indegnità;
ma del resto è necessario che siano creati, per supplire a' vescovi
impotenti o che hanno legitima causa d'esser assenti dalle loro chiese, o anco
de' prelati grandi occupati in maggiori negozii; e però egli approvava
il capitolo cosí come era desteso.
Et il vescovo
di Lugo raggionò delle dispensazioni, dicendo che vi erano molte materie
sopra le quali sarebbe gran servizio di Dio e beneficio della Chiesa che la
sinodo formasse decreti, dicchiarandole indispensabili. Il che non diceva
perché la sinodo avesse a dar legge a Sua Santità, ma solo per esser
cose che non patiscono dispensazioni de' pontefici, e quando bene in qualche
caso di rarissima contingenza potesse in un secolo occorrere una volta causa
raggionevole per dispensargli, nondimeno manco in quel caso la dispensa sarebbe
giusta; imperoché è conveniente che una privata persona sopporti qualche
gravezza, quando vi sia un gran beneficio publico et anco dove possono occorrer
frequenti casi meritevoli di dispensazione, per levar le occasioni d'ottener
suppliche e grazie sorretizie che tornano in pregiudicio delle anime, è
meglio esser avaro che liberale.
Cessò
per se medesima una delle difficoltà che vertevano per causa del vescovo
tilesio secretario, per rispetto del quale era fatta frequent'instanza che
gl'atti fossero scritti da doi, perché egli, non potendo piú sopportar il
dolore che gli causava la pietra, fece risoluzione di farsi tagliare. Fu dopo
la sua retirata dato il carico al vescovo di Campagna, dal quale la prima
azzione fatta fu nella congregazione del 7 di giugno, con legger la risposta
che li legati avevano fabricata per dar al presidente Birago. Quella essendo
longa e proposta alla sprovista e non aiutata in voce da alcuno de' legati,
essendo anco assai ambigua, con tali parole che si potevano tirar in
commendazione et in biasmo dell'accordo fatto dal re, non fu da tutti intesa
nel medesimo senso, onde ne riuscirono diverse opinioni de' prelati. Il
cardinale di Lorena primo parlò sopra d'essa al longo, senza lasciarsi
intender se gli piacesse o no. Finito che ebbe di dire, il cardinale varmiense,
spinto a ciò da Morone, lo interpellò che dicchiarasse
apertamente quello che sentiva, et egli rispose che non gli piaceva, con gran
disgusto di Morone, il quale gliela aveva fatto vedere prima e Lorena aveva
mostrato di restarne contento. Madruccio, che seguí, si rimise a' padri:
degl'altri, chi l'approvò e chi disse non piacergli. I prelati francesi
si dolsero che contra gli ordini servati nella sinodo in simili occasioni, la
risposta fosse differita e disputata. Il vescovo ambasciator del duca di
Savoia, quando fu suo luogo di parlar, disse che il negozio era da rimettersi
assolutamente a' legati et a' doi cardinali. Finiti di dire tutti li voti, si
levò l'arcivescovo di Lanciano e disse che, se ben aveva nel voto suo
altramente concluso, nondimeno, dopo aver udito l'ambasciatore, era entrato nel
parere di quello; onde a voce quasi di tutti insieme fu approvato il medesimo.
[Rissa tra Lorena et Ottranto]
Il dí 11
giugno si tenne una consulta de' legati, cardinali e 20 prelati per trovar modo
di stabilir la dottrina dell'instituzione de' vescovi. Il cardinale di Lorena,
dicendo il suo parer, passò a toccar l'opinione de' francesi, che il
concilio sia sopra il papa, allegando anco che cosí fosse definito dal concilio
di Costanza e di Basilea. Concluse che non ricercava un'altra dicchiarazione da
quel concilio, ma ben diceva che, volendo esser d'accordo con francesi, esser
bisogno che ne' decreti che si fossero fatti non vi fossero parole che
potessero pregiudicar a quella loro opinione. Venendo il luogo di dire
all'arcivescovo d'Ottranto, s'estese con molte parole a redarguir quel
cardinale, ripigliando e rifutando tutto quello che aveva detto a favore della
superiorità del concilio; poi soggionse esser alcuni che tenevano
quell'opinione della superiorità del concilio per cosí vera come «Verbum
caro factum est»; soggiongendo che non sapeva come potessero assicurarsele in
loro conscienza; nel che accennò Lorena, del quale era sparso per tutto
che avesse usato tal comparazione; e descendendo poi a raggionare della
instituzione de vescovi, accennò che non sarebbe stata controversia
alcuna in quella materia, se la formula proposta dal cardinale di Lorena non
avesse dato occasione. Il cardinale rispose che, quando gionse a Trento,
trovò già mosse quelle dificoltà; che fabricò
quella formula essendo stato ricchiesto, con intenzione di metter pace e
concordia e rimediar alle differenze; il che non essendogli successo come
desiderava, si sarebbe rallegrato con l'arcivescovo, quando egli avesse
ottenuto in questo l'onore che esso non aveva potuto riportare; ringraziandolo
inoltre che come maestro gli raccordasse quando mancava in alcuna cosa. E
quanto alla questione dalla superiorità del concilio, disse che per
esser egli nato in Francia, dove era commune quell'opinione, non poteva, né
esso, né gl'altri francesi, lasciarla, e che, per tenerla, non credeva
dovessero esser costretti a far un'abiurazione canonica. Replicò
l'arcivescovo che reprendeva la formula per esser imperfetta, dal che le
difficoltà erano nate; ma del rimanente, che quello non era luogo da
rispondergli e che stimava poco l'ingiurie fatte a sé; ma ben si doleva
d'alcuni che professavano d'accusar le azzioni de' legati, nel che non
mostravano buona mente. Tacque il cardinale senza mostrar in apparenza di
restar offeso. Di questo fatto il conte di Luna, o per proprio moto o ad
instanza de' francesi, riprese l'arcivescovo, dicendogli che andando alle
orecchie di Sua Maestà catolica non saria se non per dispiacergli. Et un
prelato francese, o per ordine datogli da Lorena o pur spontaneamente, avvertí
il cardinale Morone che quell'arcivescovo passava molto li termini, che
usò anco cattive maniere contra il cardinale già trattandosi
della residenza; e che il cardinale era avisato come in casa di quello
continuamente era lacerato et il piú onorato titolo datogli era chiamandolo
uomo pieno di veneno; onde essendo anco successo quell'ultimo accidente,
sarebbe stato ben non chiamargli ambidoi insieme a consulta, perché il
cardinale non sarebbe restato sodisfatto. A che rispose precisamente il
cardinale Morone che teneva ordine da Roma di chiamar quell'arcivescovo in
tutte le consulte e che conveniva far stima di lui, perché aveva da 40 voti che
lo seguivano. Questo, referto a Lorena, lo alterò gravemente contra il
cardinale Morone, aggionto che pochi dí inanzi, consultandosi tra loro legati e
cardinali la risposta da dar a Birago, rimessagli dalla congregazione, Morone
lo rimproverò che si fosse contentato della risposta prima formata e poi
in congregazione generale avesse detto il contrario, e pensò assai
Lorena come risentirsi della poca stima che vedeva farsi di lui, massime
essendo anco avisato che da Roma il papa l'accusava per scandaloso e che
dimostrasse desiderare di unire li catolici con protestanti; nondimeno,
considerando gl'interessi proprii che lo movevano a non si separar
maggiormente, anzi cercar di riunirsi con Roma, la raggion di utile prevalse
allo sdegno e perseverò nella risoluzione di continuare in aiutar il
fine del concilio e dar sodisfazzione al pontefice.
[Birago va a Cesare. Dissegno del decreto del
potere i legati soli proporre]
Ma il
presidente Birago, avendo aspettato la risposta quanto gli parve
degnità, il dí 13 partí di Trento per andar in Ispruc a negoziar l'altro
capo dell'instruzzione sua con l'imperatore, il qual era per congratularsi per
l'elezzione del re de' Romani, dargli conto delle cause perché era fatta la
pace con gl'ugonotti, e rispondergli sopra la restituzione di Metz e delle
altre terre imperiali. Portava anco l'instruzzione sua ordine di trattar
coll'imperatore che, giontamente col re di Spagna, si facessero da tutti
ufficii per la translazione del concilio in Germania, communicato questo
particolare col cardinale di Lorena, per ricever da lui aviso de' modi piú
proprii per quella trattazione o per tralasciarla, come s'era fatto in Trento;
ma il cardinale, per le raggioni medesime, risolvé che ne facesse esposizione
all'imperatore, come di cosa piú tosto da desiderare che da sperare, né
tentare.
Il conte di
Luna ebbe nell'instruzzione sua un capitolo con espresso ordine di far instanza
che fosse retrattato il decreto «Proponentibus legatis»; e dopo gionto, in quei
giorni gli sopravenne una nuova lettera del re, dove avisava esser stato
ricercato dalla regina di Francia che il concilio si trasferisse in Germania,
acciò fosse in luogo libero, e che egli aveva risposto che non gli
pareva necessario, essendovi modo di operare sí che avesse ogni libertà
rimanendo in Trento; però gli commetteva d'adoperarsi a questo fine che
vi fosse piena libertà, incomminciando dalla revocazione del decreto;
perché, stando quello, non si poteva in modo alcuno chiamar libero. Perilché
non parendo all'ambasciatore di poter differir piú, diede conto a' legati della
commissione, conforme alla quale fece efficace instanza per nome del re che
fosse o levato o decchiarato, dicendo esser ciò conveniente per esser
restati li germani di venir al concilio tra le altre cause per quella, e perché
anco l'imperatore giudicava che ciò fosse necessario per potergli
indurre a ricever il concilio. A che risposero li legati che quel decreto era
passato di commun consenso di tutti li padri, con tutto ciò averebbono
avuto sopra considerazione per risolvere quello che sarebbe stato giusto,
quando esso gl'avesse presentata l'instanza in scritto. L'ambasciator la diede
e fu da' legati mandata al pontefice, se ben Morone diceva che era superfluo e
che si dovesse, senza dar altra molestia a Sua Santità, portar la
risposta in longo. Ne' negoziati de' prencipi, massime che non toccano il
sustanziale del loro Stato, avviene che, se ben essi per le mutazioni delle
cose mutano opinione, nondimeno per gl'ufficii da loro fatti inanzi la
mutazione, succedono cose contrarie alla nuova volontà. Cosí avvenne che
gl'ufficii fatti dalla regina col re di Spagna prima che risolvesse di sodisfar
al pontefice totalmente nel fatto del concilio produsse l'effetto della lettera
di quel re. Però Morone, che penetrava il fondo, non ne tenne quel conto
che altri stimava.
[Discorso del general Lainez a favor di Roma]
Nella
congregazione de' 15 giugno propose il cardinale Morone che fosse statuito il
giorno determinato per la sessione a' 15 di luglio. Segovia con alcuni altri
pochi disse che non vedeva come si potessero in cosí breve spacio di tempo
risolvere le difficoltà che si avevano per le mani della ierarchia,
dell'ordine, dell'instituzione de' vescovi, della preminenza del papa, della
residenza, e che meglio era prima decider le difficoltà, che poi sempre
si poteva statuire un breve termine al giorno della sessione, che prononciarlo,
per dover poi allongarlo con indegnità. Ma essendo pochi quelli che
contra dissero, la proposta fu stabilita quasi senza difficoltà. Ma il
dí seguente il Lainez, general de giesuiti, nel voto suo s'indrizzò a
risponder a tutte le cose che dagl'altri erano state dette, non ben conformi
alla dottrina della corte, con affetto cosí grande, come se si fosse trattato
della propria salute. Nella materia delle dispensazioni si allargò
assai: disse irraggionevolmente esser stato detto non esservi altra
potestà di dispensare salvo che interpretativa e decchiarativa, perché a
questo modo maggior era l'autorità d'un buon dottore che d'un gran
prelato, e che il dire che con la dispensa il papa non possi disobligar quello
che appresso Dio è obligato, non è altro che insegnar agl'uomini
il preferir la propria conscienza all'autorità ecclesiastica, la qual
conscienza, poiché può esser erronea, e per il piú anco è, il
rimettersi a quella non esser altro che profondar ogni cristiano in abisso de
pericoli. Che sí come non si può negare che in Cristo non sia
l'autorità di dispensare in ogni legge, né che il pontefice sia vicario
di Cristo, essendo il medesimo tribunale et il medesimo consistoro del
principale e del vicegerente, doversi confessare che il papa abbia la medesima
autorità. Che questo era privilegio della Chiesa romana e doversi ognun
guardare che è eresia il levar li privilegii di quella Chiesa, non
essendo altro se non negare l'autorità che Cristo gl'ha dato.
Passò anco a parlare della riforma della corte, e disse che, chi era superior
a tutte le chiese particolari, era anco superior a molte radunate insieme, e se
alla corte romana appartiene riformare ciascuna delle chiese che ha vescovo in
concilio e nissuna di quelle può riformar la romana, perché non vi
è discepolo sopra il maestro, né servo sopra il suo padrone, ne resta
per necessaria consequenza che il concilio non abbia auttorità di metter
mano in quell'opera. Che molti parlavano attribuendo ad abuso cose che, quando
si essaminassero ben e si penetrasse al fondo, si ritroverebbono esser o
necessarie overo almeno utili. Che alcuni pretendono di volerla ridur come nel
tempo degl'apostoli o come nella primitiva Chiesa; ma questi non sanno
distinguer li tempi, e che cosa convenga a questi e che convenisse a quelli.
Esser cosa chiara che per divina providenza e bontà la Chiesa è
fatta ricca: nissuna cosa esser piú impertinente da dire quanto che Dio abbia
donato le ricchezze e non l'uso. Delle annate disse esser de iure divino
che da' popoli siano pagate le decime e le primizie all'ordine ecclesiastico,
sí come dal popolo ebreo a' leviti, e parimente, sí come li leviti pagavano la
[decima delle] decime al sommo sacerdote, cosí aver l'istesso obligo tutto
l'ordine ecclesiastico verso il papa: l'entrate de' beneficii esser le decime,
l'annate esser le decime delle decime. Il discorso dispiacque a molti, e
particolarmente a' francesi, e ci furono prelati che da quello notarono diverse
cose con qualche pensiero di parlarne, se fosse nata occasione, quando fosse
toccato loro a dire.
I spagnuoli e
francesi tennero openione che quel padre avesse cosí trattato per ordine o
almeno consenso de' legati, allegando per argomento li molti favori che da loro
gli venivano in ogni occasione fatti, e specialmente perché, dove era solito
che gl'altri generali nel dir il loro parere stassero in piede et a loro luogo,
il Lainez era chiamato in mezo e fatto seder, e che piú volte s'era fatta
congregazione per lui solo, per dargli commodità di parlare quanto
voleva, e con tutto che nissun fosse mai gionto alla metà della
prolissità sua, egli era lodato, e quelli contra chi esso parlò,
non furono mai tanto brevi, che non fossero ripresi di longhezza. Ma il Lainez,
saputa l'offesa che pretendevano aver avuto li francesi, mandò il Torre
et il Cavillon, suoi socii, a farne scusa con Lorena, con dire che le
redarguzioni sue non furono inviate a Sua Signoria Illustrissima, né ad alcuno
de' prelati francesi, ma sí bene contra li teologi della Sorbona, le openioni
de' quali sono poco conformi alla dottrina della Chiesa. Il che essendo
riferito al cardinale in congregazione de' francesi tenuta in sua casa,
l'iscusa fu da' prelati sentita con disgusto, e da alcuni di loro riputata
petulante, da altri anco derisoria, e con maggior sentimento fu ricevuta da
quei pochi teologi rimasti, di modo che sino l'Ugonio, che era comprato, la
riputava incomportabile. Al Verdun pareva d'esser toccato singolarmente et
esser in obligo di replicare, e pregò il cardinale che gliene dasse
licenza et occasione: prometteva di parlare con modestia e mostrare che la
dottrina della Sorbona era ortodossa e quella del giesuita nuova et inaudita;
che mai per l'inanzi nella Chiesa era stato inteso da Cristo esser stata data
la chiave d'autorità senza chiave di scienza; che lo Spirito Santo,
donato per il reggimento della Chiesa, dalla divina Scrittura è chiamato
spirito di verità e la sua operazione ne' governatori d'essa e ministri
di Cristo esser condurgli in ogni verità. Che perciò Cristo ha
partecipato a' ministri l'autorità sua, perché insieme gl'ha communicato
il lume della dottrina. Che san Paolo a Timoteo, scrivendo d'esser constituito
apostolo, si decchiara cioè dottor delle genti; che in doi luoghi,
prescrivendo le condizioni del vescovo, dice che sia dottore. Che guardando
l'uso della Chiesa primitiva, si troverà che per tanto li fedeli
ricorrevano per le dispense e decchiarazioni a' vescovi, perché erano assonti a
quel carico li piú instrutti nella dottrina cristiana che si ritrovassero. Che
si poteva anco tralasciar l'antichità, imperoché li scolastici e la
maggior parte de' canonisti hanno constantemente detto esser valide le dispense
de' prelati, «clave non errante», e non altrimenti. L'Ugonio ancora si offerí
trattare sopra quella asserzione che l'istesso sia il tribunal di Cristo e del
papa, come proposizione empia e scandalosa, che uguagli l'immortale al mortale
et il giudicio corrottibile al divino, e che nasceva da ignoranza, essendo il
papa quel servo preposto sopra la fameglia di Cristo non per far l'ufficio di
padre di famiglia, ma solo per distribuire a ciascuno, non arbitrariamente, ma
quello che dal medesimo padre è ordinato. Che restava pieno di stupore
che orrecchie cristiane potessero udire che tutta la potestà di Cristo
sia communicata ad altra persona. Tutti parlarono, chi censurando una, chi
un'altra delle asserzioni del giesuita. Ma il cardinale gli considerò
che non si sarebbe fatto poco, ottenendo che ne' decreti publici del concilio
non fosse aperto adito a quella dottrina, et a questo tanto conveniva che tutti
mirassero; al qual fine piú facilmente sarebbono pervenuti passando le cose con
silenzio e cosí lasciandole andar in oblivione; che, contradicendole,
averebbono fatto qualche pregiudicio alla verità. Si quietarono, ma non
sí che ne' privati congressi non se ne parlasse assai.
[Due decreti, della residenza e
dell'instituzione di vescovi, formati e contradetti in Trento et a Roma]
Ma i legati
accommodarono li doi capi dell'instituzione de' vescovi e della residenza con
parole cosí generali, che davano sodisfazzione ad ambe le parti, et in maniera
che piacquero anco a Lorena. Ma avendogli dopo consultati co' teologi
ponteficii et alquanti prelati canonisti, questi fecero opposizione che
pativano interpretazione pregiudiciale all'autorità della Sede apostolica
et agl'usi della corte. Il vescovo di Nicastro, che molte volte aveva conteso
di quella materia a favore delle cose romane nelle congregazioni, diceva
apertamente che con quella forma di dire s'inferiva che tutta la giurisdizzione
de' vescovi non perveniva dal papa, ma una parte d'essa da Cristo immediate, la
qual cosa non era da tolerare in modo alcuno. Il medesimo sostenevano gl'altri
ponteficii, interpretando in sinistro ogni parola, se apertamente non si diceva
li vescovi aver tutta la giurisdizzione dal papa. Perilché li legati mandarono
li capitoli cosí riformati al pontefice, non tanto acciò che a Roma
fossero essaminati, quanto anco per non propor in materia di tanta importanza
cosa non saputa dal pontefice; li quali veduti et essaminati da' cardinali preposti
a questi negozii, giudicarono che quella forma bastasse per far tutti li
vescovi, nella propria diocesi, uguali al papa, et il pontefice riprendeva li
legati che gliel'avessero mandata, poiché sapeva molto ben la maggior parte nel
concilio esser buoni catolici e divoti della Chiesa romana, e di questi
confidando, si contentava che le proposizioni e risoluzioni fossero deliberate
in Trento, senza sua saputa; ma non doveva però esso consentire ad
alcuna cosa pregiudiciale, per non dar cattivo essempio a loro et esser causa
che essi ancora vi assentissero contra la loro conscienza.
[Difficoltà a Roma sopra l'ambasciata
di Massimiliano, re de' Romani]
Ebbe il
pontefice in questo tempo una altra negoziazione assai dura; perché, dovendo il
re de' Romani mandar ambasciatori per dar conto dell'elezzione sua, non volle
far come gl'altri imperatori e re, quali, non essendovi alcuna
difficoltà, promisero e giurarono tutto quello che a' pontefici piacque;
ma egli, avendo rispetto di non offender li prencipi et altri protestanti di
Germania, volse prima che si decchiarasse che parole avesse da usare. Posta la
cosa in consultazione de' cardinali, quelli deliberarono che dovesse dimandar
la conferma dell'elezzione e giurar ubedienza, secondo l'essempio di tutti gl'altri
imperatori. Al che egli rispose che quelli furono ingannati et egli non era per
acconsentir a cosa che dovesse esser poi presa a pregiudicio de' suoi
successori, come le azzioni de' suoi precessori si adoperavano a pregiudicio
suo, e che era un decchiararsi vassallo; e propose che l'ambasciatore suo
usasse queste parole: che la Maestà Sua presterà ogni riverenza,
divozione et ossequio alla Santità Sua et alla Sede apostolica, con
promessa non solo di conservare, ma di ampliar, quanto potrà, la santa fede
catolica. Non potendo concordar, durò il negoziato tutto quest'anno, e
credettero a Roma d'averli finalmente trovato buon temperamento, proponendo che
giurasse ubedienza non come imperatore, ma come re d'Ongaria e di Boemia,
poiché dicevano non potersi negare che il re Stefano, l'anno della nostra
salute 1000, non donasse il regno alla Sede apostolica, riconoscendolo poi da
lei col titolo regio e facendosi vassallo, e che Vladislao, duca di Boemia, non
ricevesse da Alessandro II la facoltà di portar la mitra, obligandosi di
pagar 100 marche d'argento ogni anno. Le qual cose consegliate in Germania e
veduto non essercene altri documenti che l'affermativa di papa Gregorio VII,
furono derise e rispostogli che si desideravano essempii piú recenti e piú certi
e titoli piú legitimi. Andarono inanzi et indietro messi con varie proposte,
risposte e repliche, delle quali, per non parlar piú, sarà ben rifferir
al presente l'essito, il qual fu che, 20 mesi dopo, arrivò in Roma il
conte d'Elfestain, ambasciatore di quel re, col quale si rinovarono le medesime
trattazioni di dimandar la conferma e giurar l'obedienza. Ma dicendo egli
d'aver in scritto l'orazione che aveva da recitar pontualmente, con commissione
di non alterarne un iota, il papa, fatta congregazione generale, propose il
negozio a' cardinali; li quali, dopo longa consultazione, vennero a conclusione
che, se ben la conferma non sarebbe addimandata, né l'obedienza promessa, che
nondimeno nella risposta all'ambasciatore si dovesse dire che la Santità
Sua confermava l'elezzione, supplendo tutti li deffetti de fatto e de
iure intervenuti in quella, e che riceveva l'obedienza del re, senza dire
che fosse dimandata o non dimandata, promessa o non promessa. E riuscí quella
ceremonia con poco gusto del pontefice e minor del collegio de' cardinali.
[Il papa vuol rallentare il decreto del
proporre i legati, ma il Morone resiste. Nuovo secretario del concilio]
Ma ritornando
a' tempi de' quali scrivo, restava al papa proveder alle frequenti instanze
fatte dagl'ambasciatori appresso di sé e dal conte di Luna in Trento, che si
levasse il decreto di «Proponentibus legatis», onde saziato di tanta molestia,
scrisse a' legati che si proponesse in congregazione di sospenderlo. Ma il
cardinal Morone agl'ambasciatori che dell'ordine venuto dal pontefice gliene
fecero instanza, rispose che non era per assentirvi mai, e piú tosto che
condescender a tal decchiarazione, desiderava che Sua Santità lo
levasse. Questa risposta, data senza partecipar con gl'altri legati, aggionta
ad altre cose che quel cardinale aveva risoluto solo, gli posero in gelosia,
come che s'inalzasse troppo sopra gl'altri, parendo loro che se ben aveva
instruzzione a parte, non dovesse però esseguirla senza avisargli prima
e communicargli intieramente tutte le cose, almeno nell'essecuzione.
Nella
congregazione de' 21 giugno fu letta la risposta da far al presidente Birago
formata da' legati e dal cardinal di Lorena, la qual passò senza nissuna
discrepanza; e poiché non era presente, che potesse essergli intimata in voce,
se gli mandò dietro in scrittura. E fu deputato Adamo Fumano per
secretario, aggionto al tilesio, il qual continuava nella sua indisposizione.
Ma durando tuttavia, anzi piú tosto accrescendosi le differenze sopra li
capitoli dell'instituzione de' vescovi e dell'autorità del papa, e
vedendosi che il parlarne in congregazione non era altro che un accrescer le
difficoltà, quasi d'una commune concordia si posero li prelati a
trattarne particolarmente et a propor partiti per trovar qualche temperamento
alle differenze. Alcuni, desiderosi di sopir le controversie e di far qualche
progresso, vedendo che non vi era modo alcuno di concordia, consegliavano che
l'una e l'altra materia si dovesse totalmente omettere, e se ben questo parere
in fine fu ricevuto, nondimeno nel principio ebbe diverse contradizzioni.
S'opponevano li spagnuoli, li quali onninamente volevano definire che la
giurisdizzione episcopale venisse da Cristo, et il cardinale di Lorena passava
ancora piú inanzi, volendo definir che la loro vocazione e l'attribuzione del
luogo fosse immediate da Dio, e li francesi, che volevano decchiarata
l'autorità del pontefice in maniera che non potesse né controvenire, né
dispensare li decreti del concilio generale. Altri dicevano che questo partito
non serviva se non a differire, senza certezza che la dilazione potesse esser
di giovamento, perché, volendosi poi venir al fine del concilio, saria
necessario trattar di definire tutte le materie essaminate, onde tornerebbono
le difficoltà; e caso, che li francesi partissero prima, come
s'intendeva che erano risoluti di fare, era cosa pericolosa di scisma, dopo la
loro partita, trattar alcuna cosa controversa; oltre che per l'intelligenza di
Lorena coll'imperatore, da chi non sapeva li novi pensieri dell'un e dell'altro,
si teneva che, partendo essi, quella Maestà dovesse ricchiamare
gl'ambasciatori suoi; nel qual caso il continuar il concilio sarebbe stato con
poca riputazione, et il determinar cosa alcuna sarebbe riputata da molti cosa
fatta senza autorità.
[Difficoltà sopra l'elezzione de'
vescovi e su la riforma de' cardinali]
Un'altra
difficoltà non minore era nel capo dell'elezzione de' vescovi, perché
gran parte de' padri volevano che si dicesse esservi obligo d'elegger li piú
degni, et in confermazione di questo portavano numero grande di canoni e
d'autorità de' santi dottori. Al qual parere s'opponevano li ponteficii,
allegando che era un restringere l'autorità del papa, in maniera che non
potesse mai gratificar alcuno; e che l'uso pratticato nella corte da tempo
immemorabile era che bastasse elegger persona degna. Gl'ambasciatori ancora
francesi e spagnuolo non acconsentivano: che era un restringer troppo la
potestà de' re nelle nominazioni, quando fossero stati in obligo d'andar
cercando il piú degno. Parecchi prelati andavano facendo prattiche acciò
quel capo non fosse ricevuto, eziandio senza l'aggionta dell'elegger li piú
degni, e specialmente 'l vescovo di Bertinoro et il general Lainez giesuita,
distribuendo alcune annotazioni et avvertimenti fatti da loro, andavano
mostrando che sarebbono seguiti grand'inconvenienti da quel decreto; imperoché
in quello si conteneva che, vacante una catedrale, il metropolitano scrivesse
al capitolo il nome del promovendo, il qual poi fosse publicato in pulpito in tutte
le parochiali della città in giorno di dominica et affisso anco alle
porte della chiesa, e poi il metropolitano, andato alla città vacante,
dovesse essaminar testimonii sopra le qualità della persona, e lette in
presenza del capitolo tutte le sue patenti e testificazioni, fosse anco
ascoltato ogni uno che volesse opponer cosa alcuna alla persona di quello, e di
tutto ciò fosse fatto istromento e mandato al papa per esser letto in
consistoro. Questa constituzione andavano discorrendo che sarebbe stata causa
di sedizioni e di calunnie, e che con questo si dava certa autorità al
popolo, con la quale averebbe usurpata l'elezzione de' vescovi, sí come altre
volte la soleva aver; dal che altri eccitati, facevano le medesime opposizioni
al capo dove si tratta di quelli che s'hanno a promover agl'ordini maggiori;
nel quale si diceva che li nomi loro dovessero esser publicati al popolo per 3
dominiche et affissi alle porte della chiesa, e le lettere testimoniali
dovessero esser sottoscritte da 4 preti e da 4 laici della parochia, allegando
che non era da dar alcuna autorità a' laici in questi affari, che sono
puri ecclesiastici. In queste perplessità li legati altro non sapevano
che fare se non goder il beneficio del tempo et aspettar che si facesse qualche
apertura per venir al fine, al quale non si vedeva come poter giongere.
Un'altra nova
trattazione fu incomminciata intorno la riforma de' cardinali, imperoché il
pontefice, intendendo che per tutte le corti di questo si parlava e che in
Trento gl'ambasciatori di Francia, Spagna e Portogallo erano concertati di
dimandarlo al concilio, scrisse a' legati dimandando conseglio se era ben
trattarla a Roma o in Trento; e questo medesimo lo propose in consistoro,
ordinando anco una congregazione sopra di questo, e particolarmente per trovar
modo come ovviare che i prencipi non s'intromettessero nel conclavi
nell'elezzione del papa. E per proceder con ogni avvertimento in negozio di
tanto momento, mandò a Trento molti capi di riforma cavati da' concilii,
con ordine a' legati di communicargli co' prelati principali e scriver il parer
loro. I cardinali di Lorena e Madruccio risposero di non voler dire il proprio
parer senza saper prima la mente del pontefice, dopo il che sarebbe anco stato
bisogno pensarvi molto bene; et in particolare quel di Lorena disse esservi
molte cose stimate degne di correzione, che egli però non riputava
potersi riprender, et altre che in parte si potevano biasmare, ma non
assolutamente. Discese al particolar d'aver vescovati, dicendo non esser alcun
inconveniente che un cardinale prete tenesse un vescovato, ma che non gli
pareva bene che fosse vescovo un cardinale diacono, e per questa causa egli
aveva consegliato il cardinale suo fratello a lasciar l'arcivescovato di Sans.
Ma questa materia di riforma de' cardinali presto si mise in silenzio, perché
inchinando tutti quelli che erano in Trento piú tosto che fosse trattata dal
papa e dal collegio, e quelli che pretendevano il capello dubitando che non
nascessero molti impedimenti a' loro desiderii, fu causa che con
facilità si cessasse di parlarne. Ebbe ancora il pontefice pensiero di
far una constituzione che vescovi non potessero aver in Roma e nello Stato
ecclesiastico ufficii di maneggio temporale. Ma dal legato Simoneta e da altri
suoi prelati fu avvertito che sarebbe con gran pregiudicio degl'ecclesiastici
in Francia, Polonia et altri regni, dove sono conseglieri de' re et hanno altri
ufficii principali, potendo avvenire facilmente che ne fossero privati,
valendosi li prencipi dell'essempio di Sua Santità et eccitandosi la
nobiltà secolare per li proprii interressi a procurarlo. Perilché, se
pur voleva dar essecuzione alla deliberazione sua, lo facesse con effetti e
senza scrittura, per non portar tanto danno all'ordine ecclesiastico negl'altri
regni.
[Cesare parte d'Ispruc, disperando del
concilio]
Il 25 del
mese di giugno l'imperatore, essendosi dall'esperienza delle cose certificato,
o in questo tempo overo 2 mesi prima, quando fu con lui il Morone, che la sua
vicinità al concilio non solo non faceva quel buon frutto che egli aveva
stimato, ma piú tosto contrarii effetti, perché li prelati ponteficii, entrati
in sospetto che Sua Maestà avesse dissegni contra l'autorità
della corte romana, prendevano ombra d'ogni cosa, onde le difficoltà e
sospizzioni erano per aummentarsi in acerbità e crescer anco in numero,
et avendo altri negozii dove piú utilmente implicarsi, se ne partí, avendo
scritto al cardinal di Lorena che, essendosi toccata con mano
l'impossibilità di far cosa buona nel concilio, teneva esser ufficio di
prencipe cristiano e prudente piú tosto contentarsi di sopportar il mal
presente che, per rimediarlo, causarne di maggiore. Et al conte di Luna, che 3
giorni prima era andato a trovarlo in posta, ordinò di scriver al re
Catolico sopra il decreto «Proponentibus legatis», essortando quella
Maestà in nome suo a contentarsi di non cercar rivocazione, né
decchiarazione; e quando pur restasse dubio a Sua Maestà che, non
decchiarandosi, potesse apportar pregiudicii a' futuri concilii, si poteva, quando
fosse bisogno, in fine di quello far la decchiarazione. Et essendogli andata
notizia che a Roma et in Trento si trattava di proceder contra la regina
d'Inghilterra, scrisse al pontefice et a' legati che, non potendosi aver quel
frutto che si desiderava dal concilio di veder una buona unione in tutti li
catolici a riformar la Chiesa, almeno non si dasse occasione agl'eretici
d'unirsi tra loro maggiormente, che se gli prestava col trattar di proceder
contra la regina d'Inghilterra; perché da quello senza dubio gliene sarebbe
nata una lega generale di tutti contra li catolici, la qual averebbe partorito
grand'inconvenienti; e fu cosí efficace l'ammonizione dell'imperatore, che il
papa fece desistere in Roma e revocò la commissione data a' legati in
Trento.
[Disputa di precedenza tra Francia e Spagna in
concilio]
Dopo che il
papa disgustò li spagnuoli, non avendo dato luogo all'ambasciator in
Roma, per aquietarli ascoltò la ricchiesta di Vargas, che per piú giorni
assiduamente l'aveva molestato con instanzia che, sí come s'era trovato modo
come il conte ambasciator del suo re in Trento potesse intervenire nelle
congregazioni, cosí, approssimandosi il tempo di celebrare la sessione, la
Santità Sua trovasse via come potesse intervenirvi. Sopra la qual cosa avendo
molto pensato e consultato co' cardinali, finalmente venne in risoluzione che
anco nella sessione fosse dato al conte di Luna luogo separato dagli altri
ambasciatori, e per rimediar alla competenza, che sarebbe stata nel dar
l'incenso e la pace, si usassero doi turibuli e fossero incensati li francesi e
lo spagnuolo tutti in una volta, e parimente fossero portate due paci a basciar
a questi et a quello tutt'in un instante; e cosí scrisse a' legati che
esseguissero, ordinando loro che il tutto tenessero secretissimo sino al tempo
dell'essecuzione, acciò, risaputo, non fossero preparate qualche
inconvenienze. Il cardinale Morone, seguendo il commandamento del papa, tenne
secreto l'ordine, che li francesi mai lo penetrarono.
Il dí 29
giugno, giorno di san Pietro, congregati nella capella del domo i cardinali,
ambasciatori e padri et incomminciata la messa, qual celebrò il vescovo
d'Avosta, ambasciator del duca di Savoia, alla sprovista uscí di segrestia una
sedia di veluto morello e fu posta tra l'ultimo cardinale et il primo de'
patriarchi, e quasi immediate comparve il conte di Luna, ambasciator spagnuolo,
e sedette in quella sedia. S'eccitò per questo gran mormorazione di
ciascuno de' padri co' vicini. Il cardinale di Lorena si lamentò co'
legati dell'atto improviso e celato a lui; gl'ambasciatori francesi mandarono
il maestro delle ceremonie a far l'istesse indoglienze, mettendo in
considerazione le ceremonie dell'incenso e della pace. A che rispondendo li
legati che si sarebbe rimediato con doi turibuli e due paci, li francesi non si
contentarono, ma apertamente dissero voler esser conservati non in
parità, ma in precedenza, e che d'ogni novità averiano protestato
e partitisi dal concilio. Si continuò in queste andate e ritorni sino al
fine dell'Evangelio, in maniera che per li grandi susurri l'Epistola e
l'Evangelio non furono uditi. Andato il teologo in pulpito per far il sermone,
si ritirarono li legati co' cardinali, ambasciatori dell'imperatore e col
Ferrier, uno de francesi, in segrestia, dove si trattò questa materia,
et il sermone finí prima che cosa alcuna fu conclusa. Nel cantar del Credo,
nel mezo di quello fu inditto silenzio et il cardinale Madruccio col
Cinquechiese e l'ambasciator di Polonia uscirono a parlar co' conte di Luna e
pregarlo per nome de' legati che si contentasse che per allora non fosse dato
né incenso né pace ad alcuno, a fine d'impedir il sprovisto tumulto che
potrebbe causar qualche gran male, promettendogli che ad ogni altra sua
ricchiesta esseguirebbono l'ordine di Sua Santità de' doi turibuli e due
paci in un tempo; il che facendosi alla pensata, et egli e loro e tutti
averebbono potuto risolver come governarsi con prudenza. Finalmente, dopo longo
raggionamento, tornarono dentro con la risoluzione, la qual fu che il conte se
ne contentava. Con questa deliberazione uscirono tutti di segrestia e tornarono
al proprio luogo, e la messa seguí, come si è detto, senza incenso e
senza pace, e subito detto: «Ite missa est», il conte di Luna, il qual nelle
congregazioni era solito uscire l'ultimo dietro a tutti, allora partí inanzi la
croce, seguitato da gran parte de' prelati spagnuoli et italiani sudditi del
suo re. Partirono dopo li legati, ambasciatori et i prelati rimanenti al modo
consueto.
I legati, per
liberarsi dall'imputazione che gl'era data d'aver proceduto in cosa di tanto
momento clandestinamente e quasi con fraude, furono necessitati publicar
gl'ordini espressi ricevuti da Roma di dover cosí operare in quel tempo, in
quel modo, in quel luogo e senza communicare. Il Ferrier publicamente diceva
che, se non fosse stato il rispetto al culto divino, averebbe fatto la
protestazione che teneva in commissione dal suo re, la qual per l'avvenire
farebbe, quando non si restituissero le solite ceremonie d'incenso e pace,
dando loro in quelle il debito luogo. Scrisse anco il cardinale di Lorena al
pontefice una lettera assai risentita, esponendo il torto che si trattava di
far al suo re e modestamente dolendosi che Sua Santità gl'avesse fatto
dire di confidar tanto in lui, che voleva gli fossero communicate tutte le cose
del concilio, del che, se ben non vedeva l'effetto, non se ne doleva, ma ben
gli premeva che avesse commandato a' legati di non communicargli le cose sue
proprie e quello che meglio d'ogni altro poteva adoperarsi in bene; aggiongendo
non esser seguito tutto 'l male che sarebbe seguito, se esso non si fosse messo
in mezo; soggiongendo che del tutto la colpa era attribuita alla Santità
Sua e pregandolo a non voler esser autore e causa di tanti mali. E gli mandò
anco in posta il Musotto per esplicargli piú particolarmente la risoluzione
degl'ambasciatori francesi et il pericolo imminente. Il conte di Luna si
lamentava della durezza de' francesi e magnificava la molta pazienza e modestia
usata da sé, e fece instanza co' legati che la dominica seguente fosse admesso
a luogo e ceremonie uguali, secondo l'ordine del papa. Non mancava anco chi
dicesse che il tutto era un stratagema del pontefice per dissolver il concilio,
e li ponteficii chiamati «amorevoli» dicevano che, se pur s'avesse avuto a
venir a dissoluzione, averebbono desiderato che piú tosto fosse occorsa per la
controversia che era sopra le parole del concilio fiorentino, che il papa
è rettor della Chiesa universale, stimando che sarebbe stato piú facile
giustificarne Sua Santità e darne tutta la colpa a' francesi.
La mattina
seguente, ultimo del mese di giugno, il conte, congregati i prelati spagnuoli e
molti italiani, disse loro che il giorno inanzi non era andato in capella per
dar occasione alcuna di disturbo, ma per conservar le raggioni del suo re e
valersi dell'ordine dato dal pontefice; aver inteso dopo che, quando egli fosse
tornato in capella, [i] francesi volevano protestare, al qual atto se fossero
venuti, egli non averia potuto mancar di risponder loro con modo e termini che
essi usassero, cosí per la parte di Sua Santità, quanto per quello che
tocca alla Maestà del suo re. Quei prelati risposero che, venendosi a
questo, ciascuno di loro sarebbe stato pronto nel servizio di Sua
Santità e non averebbono mancato ancora di tener conto di Sua
Maestà catolica in quello che a loro si convenisse. Gli pregò il
conte di nuovo a star avvertiti a tutto quello che potesse occorrer in tal
caso, dicendo che egli ancora ci verria preparato, sapendo che francesi non
potevano pigliar se non tre mezi: o contra li legati, o contro il re, o contro
esso medesimo ambasciatore, a' quali tutti preparerebbe conveniente risposta.
Gl'ambasciatori degl'altri principi tutti fecero ufficio co' legati che
dovessero trovar temperamento, acciò non seguisse piú tal disordine;
quali avendo risposto che non potevano restar d'esseguir il commandamento del
papa, essendo preciso e senza alcuna reservazione et avendo anco promesso al
conte di volerlo far ad ogni sua ricchiesta, il cardinale di Lorena protestò
a' legati che, quando volessero farlo, esso anderia in pergolo e mostreria di
quanta importanza fusse questa cosa e quanta rovina fosse per apportare alla
cristianità tutta, e che col crocifisso in mano grideria:
«Misericordia», persuadendo a' padri et al popolo di partir di chiesa per non
veder un scisma cosí tremendo; e che gridando: «Chi desidera la salute della
republica cristiana mi segua», partiria di chiesa con speranza d'esser seguito
da cadauno. Dal che mossi li legati, deliberarono di far ufficio col conte che
si contentasse che la seguente dominica non si tenesse capella, né si facesse
processione secondo il solito; e di tutto diedero aviso al papa.
Si facevano
continue congregazioni in casa degl'ambasciatori francesi e del spagnuolo; il
quale ora dava speranza di contentarsi, ora faceva instanza che si dovesse
andar in chiesa per esseguir l'ordine del pontefice dell'incenso e pace. E
gl'ambasciatori francesi erano risoluti di far la protesta e partire, e
dicevano apertamente che non protesterebbono contro li legati, per esser meri
essecutori, né contro il re di Spagna o il conte suo ambasciatore, perché
proseguivano la causa loro, né contro la Sede apostolica, la quale erano sempre
per onorare, seguendo li vestigii de' loro maggiori, ma contro la persona del
pontefice, dal qual veniva il pregiudicio e l'innovazione, come quello che
s'era fatto parte e dava causa di scisma, e per altra causa ancora, con
appellazione al futuro pontefice, legitimamente eletto, et ad un concilio vero
e legitimo, minacciando di partire e di celebrar un concilio nazionale. I
prelati et altri francesi a parte dicevano communemente ad ognun che
gl'ambasciatori avevano proteste contra la persona del pontefice, che si
portava per papa non essendo legitimo, per causa d'elezzione invalida e nulla
per vizio di simonia, accennando particolarmente la poliza, quale il cardinale
Caraffa ebbe dal duca di Fiorenza, con promissione di certa somma di danari, e
la quale quel cardinale mandò poi al re Catolico, pretendendo che non poteva
esser fatta se non de consenso del pontefice inanzi la sua assonzione, et a
quell'altra poliza fatta di mano del papa, allora cardinale, in conclave al
cardinale di Napoli, della quale di sopra s'è detto. Et il presidente
Ferrier preparò un'orazione assai pungente in lingua latina, con la
protestazione, la qual, se ben non fu fatta, è però andata in
stampa e da' francesi è mostrata e tuttavia si mostra in stampa come se
recitata fosse, della quale il portarla sostanza non è fuori del
proposito presente, acciò si vegga non quel che dissero, ma che senso
portarono li francesi al concilio.
Diceva in
sostanza: che essendo congregato quel concilio per opera di Francesco e Carlo
fratelli, re di Francia, sentivano con molestia essi oratori francesi regii
esser costretti a partirsi o acconsentir alla diminuzione della degnità
del re; che era noto a chi aveva letto il ius ponteficio e le istorie della
Chiesa romana la prerogativa del re di Francia, et a quelli che avevano letto
li volumi de' concilii, qual luogo avessero tenuto in quelli; che
gl'ambasciatori del Catolico ne' passati concilii generali avevano seguito
quelli del Cristianissimo. Che in quel tempo s'era fatta mutazione, non da essi
padri, che se fossero in libertà non moverebbono alcun prencipe dal suo
possesso, né la mutazione esser fatta dal re Catolico, congiontissimo in amicizia
e parentela con loro re; ma dal padre de tutti li cristiani, che per pane ha
dato al figlio primogenito una pietra e per pesce un serpente, per ferir con
una pontura insieme il re e la Chiesa gallicana. Che Pio IV sparge seme di
discordia per sturbar la pace tra li re concordi, mutando per forza et
ingiustizia l'ordine del seder gl'ambasciatori sempre usato, et ultimamente ne'
concilii di Costanza e lateranense, per mostrar d'esser superiore a' concilii.
Che né egli potrà sturbar l'amicizia de' re, né levar la dottrina delle
sinodi di Costanza e Basilea, che il concilio sia sopra il papa. Che san Pietro
aveva imparato d'astenersi da' giudicii delle cose mondane, dove quel suo
successore e non immitatore pretendeva dar e levar gl'onori de' re. Che per
legge divina, delle genti e civile fu tenuto conto del primogenito, e vivendo e
morto il padre: ma Pio ricusa preferire il re primogenito agl'altri nati molto
tempo dopo quello. Che Dio, per rispetto di David, non volse sminuire la
degnità di Salomone e Pio IV, senza rispetto de' meriti di Pipino,
Carlo, Ludovico et altri re di Francia, con suo decreto pretende levar le
prerogative del successor di quelli re. Che contra le leggi divine et umane,
senza alcuna cognizione ha condannato il re, l'ha levato dell'antichissima sua
possessione et ha prononciato contra la causa d'un pupillo e vedova. Che
gl'antichi pontefici, quando la sinodo general era in piedi, mai hanno fatto
cosa senza l'approbazione di quella, e Pio ha voluto senza quel concilio, che
rapresenta la Chiesa universale, levar di possesso gl'oratori d'un re pupillo
non citato, quali non a lui, ma alla sinodo sono mandati. Che acciò non
vi fosse provisione, ha usato diligenza acciò il suo decreto non fosse
saputo, commandando a' legati, in pena di scommunica, di tenerlo secreto. Che
considerassero li padri se questi sono fatti di Pietro e d'altri pontefici, se
essi ambasciatori siano costretti partire da dove Pio non ha lasciato luogo
alle leggi, né vestigio della libertà del concilio; poiché nissuna cosa
è proposta a' padri o publicata, se non prima mandata da Roma. Che
contro quel Pio IV solamente protestavano, venerando la Sede apostolica et il
sommo pontefice e la santa Chiesa romana, ricusando solo d'obedir a quello et
averlo per vicario di Cristo. Che quanto a' padri ivi congregati gl'averanno
sempre in gran venerazione, ma poiché tutto quello che si fa, è fatto
non in Trento, ma in Roma, e li decreti che publicano sono piú tosto di Pio IV
che del concilio tridentino, non gli riceveranno per decreti di sinodo
generale. In fine commandava per nome del re a' prelati e teologi che si
partissero per ritornare quando Dio avesse restituito la debita forma e
libertà a' concilii generali et il re avesse ricevuto il debito luogo.
Non vi fu
occasione di far la protesta, atteso che, considerando finalmente il conte che,
quantonque la parte di Spagna fosse maggiore di numero de prelati che la
francese, nondimeno li dependenti dal pontefice, li quali sarebbono stati a suo
favore nella prima occorrenza, conoscendo il voler di Sua Santità,
passata la prima occasione e sapendo che si era già spedito a Roma per
quella causa, sarebbe stata di parere che si soprasedesse sino alla risposta et
a nuovo ordine; onde, gionti co' francesi, la parte sua sarebbe restata piú
debole, piegando a contentarsi di qualche composizione, interponendosi tutti
gl'altri ambasciatori et il cardinale Madruccio, dopo molte difficoltà
convennero che nelle ceremonie publiche non fosse dato piú né incenso né pace,
sino alla risposta del re di Spagna. Il qual accordo dispiacque a molti, parte
dependenti dal pontefice e che avevano cara quell'occasione per interromper il
progresso del concilio, e parte anco che, sazii di star in Trento, né sapendo
veder in che maniera il concilio potesse aver né progresso né fine,
desideravano per manco male che fosse interrotto, acciò le discordie non
si facessero maggiori. Certo è che il medesimo pontefice, avuto l'aviso
dell'accordo tra gl'ambasciatori lo sentí male, per il medesimo timore che le
discordie non si facessero maggiori e non succedesse qualche male; e li
ministri spagnuoli che erano in Italia, tutti biasmavano il conte d'aver
lasciato fuggir un'occasione tanto favorevole in servizio del re.
[Per rimediare alle contese in concilio
è risoluto di tralasciare alcuni decreti controversi]
Sedata questa
controversia, i legati, intenti al celebrar la sessione, instando il tempo,
consultarono quello che si potesse far per rimover le differenze. Fu proposto
dal cardinale di Lorena un partito, d'ommetter il trattar dell'instituzione de'
vescovi e dell'autorità del pontefice, come cose nelle quali le parti
erano troppo appassionate; e per quel che tocca a' vescovi, non parlar altro se
non quanto s'aspetta alla potestà dell'ordine; il che ad alcuni de'
ponteficii pareva buon rimedio, altri di loro non l'approvavano, dicendo che
ciò sarebbe stato attribuito al pontefice, al qual non fosse piacciuta
la formula ultimamente drizzata, e i prencipi averebbono potuto pigliar
ammirazione perché la Santità Sua non sia restata contenta, essendogli
attribuita la medesima potestà che aveva san Pietro; il che averebbe
anco dato materia agl'eretici di dire; oltre che gli spagnuoli e francesi
prenderebbono occasione di sperar poco che all'avvenire si potesse concordar
insieme in cosa alcuna, dal che nasceriano infinite difficoltà ancora
nelle altre materie; oltre che restava dubio se il partito potesse sortir
effetto potendo da buon numero de' padri esser ricercato che quei capi non
fossero ommessi, ma fossero decchiarati. Il cardinale di Lorena offerí che da'
francesi non sarebbe altro ricercato e d'operar sí co' spagnuoli che essi
ancora cosí si contentassero, soggiongendo che, quando li legati avessero fatto
il medesimo con gli italiani, che troppo affettatamente s'opponevano agl'altri,
il tutto si sarebbe composto.
Et
opportunamente andò ordine dall'imperatore agl'ambasciatori suoi che
facessero ogni ufficio acciò nel concilio non si parlasse
dell'autorità del papa: il che da quella Maestà fu fatto vedendo
che la disposizione della maggior parte era per ampliarla e temendo che non
fosse determinata qualche cosa, la qual facesse piú difficile la concordia de'
protestanti. Il qual ufficio essendo fatto dagl'ambasciatori co' legati e col
cardinale di Lorena e con altri prelati principali, fu causa che si risolvesse
d'ommetter e quel capo e quello dell'instituzione de' vescovi. Dopo che per
questo furono fatte molte consultazioni, introducendo a quelle li prelati piú
principali e di maggior seguito, ora in maggior, ora in minor numero, per disponer
le cose in modo che tutti restassero sodisfatti, e furono dati a' padri li
decreti di provisione degl'abusi. Et intorno al primo capo, che era
dell'elezzione de' vescovi, quanto al particolare che li metropolitani avessero
da far essame delle persone da promover a' vescovati, di che s'è parlato
di sopra, s'opposero l'ambasciator di Spagna e quel di Portogallo acremente,
dicendo che era un sottoponer li re a' prelati loro sudditi, poiché
indirettamente se gli dava autorità di reprobare le nominazioni regie.
Gl'ambasciatori francesi, di questo ricercati, mostrarono non curarsi, né che
si decretasse, né che si ommettesse; onde i ponteficii, che giudicavano cosa in
diminuzione dell'autorità del papa, dicevano che tutto quel capo si
poteva ommetter, massime che nella sessione quinta pareva che fosse proveduto a
quella materia a bastanza. Ma a questo opponendosi altri con gran fervore, fu
concluso finalmente di commun consenso che quel capo si differisse alla
seguente sessione per aver tempo d'accommodarlo in maniera che a tutti
piacesse, acciò non fosse attraversata per questo la publicazione delle
cose convenute.
[È risoluto di rimettere al papa il
decreto della confessione de' vescovi e magistrati]
La medesima
difficoltà nacque sopra l'ultimo capo de' proposti, dove era prescritta
una formula di professione di fede, la qual dovesse esser giurata da'
dissegnati a' vescovati, abbazie et altri beneficii di cura d'anime, inanzi che
si venisse all'essame loro, essendo connessa con quella dell'elezzione, sí che non
si potessero separare. Fu deliberato di differir quel capo ancora. Ma perché fu
tanto differito che non si venne a risoluzione di decretarlo, e finalmente
tumoltuariamente fu rimesso al pontefice, come a suo luogo si dirà, non
è alieno dal presente proposito recitarne qui la sostanza; la qual era
che fosse non solo ricercata da' dissegnati a' vescovati et altre cure d'anime,
ma ancora con un'ammonizione e precetto in virtú d'obedienza [ordinato] a tutti
li prencipi, di qualonque maestà et eccellenzia, di non admetter ad
alcuna degnità, magistrato o officio persona, senza aver prima fatto
inquisizione della fede e religione di quella, e senza che abbia prima
volontieri e spontaneamente confessati e giurati li capi contenuti in quella
formula, la qual a questo effetto commandava anco che fosse tradotta in volgare
e letta publicamente ogni dominica in tutte le chiese, acciò potesse
esser intesa da tutti.
I capi erano:
di ricever le Scritture dell'uno e l'altro Testamento, le quali la Chiesa ha
per canoniche, come inspirate da Dio; di riconoscere una santa catolica et
apostolica Chiesa, sotto un pontefice romano, vicario di Cristo, tenendo
constantissimamente la fede e dottrina di quella, atteso che, come indrizzata
dallo Spirito Santo, non può fallare; d'aver in venerazione, come certa
et indubitata, l'autorità de' concilii generali e non rivocar in dubio
le cose da quelli una volta ordinate; di creder con fede constante le
tradizioni ecclesiastiche ricevute di mano in mano; di seguir il consenso e
senso de' padri ortodossi; d'ubedir intieramente alle constituzioni e precetti
della santa madre Chiesa; di creder e confessar li 7 sacramenti et il loro uso,
virtú e frutto, secondo che sin allora la Chiesa ha insegnato, ma sopra tutto
che nel sacramento dell'altare vi sia il vero corpo e sangue di Cristo,
realmente e sostanzialmente, sotto le specie di pane e vino, per la virtú e
potenza della parola divina proferita dal sacerdote, solo ministro ordinato a
questo effetto secondo l'instituzione di Cristo, confessando anco che sia
offerto nella messa a Dio per li vivi e per li morti in remission de' peccati;
e di ricever finalmente e ritener fermissimamente tutte le cose osservate pia,
santa e religiosamente da' maggiori sino a quel tempo, né lasciarsi muover in
alcun conto da quelle, ma fuggir ogni nuovità de dogmi come
perniciosissimo veneno, fuggendo ogni scisma, detestando ogni eresia e
promettendo d'assister pronta e fedelmente alla Chiesa contra tutti gl'eretici.
[Si attende a temperar il decreto della
residenza e della fonzione degli ordini ecclesiastici]
Risoluto di
lasciar da canto anco questo capo, come s'è detto, s'attese ad
accommodar il capo della residenza, levato via tutto quello che potesse
dispiacere a chi la teneva de iure divino et a chi de positivo. Il
cardinale di Lorena s'adoperò con grandissima diligenza et efficacia a
concordar le parti, risoluto che onninamente la sessione si facesse al tempo
determinato; perché avendo in quei giorni avuto dal pontefice amorevolissime
lettere che l'invitavano ad andar a Roma et abboccarsi con lui et avendo
già deliberato di dar ogni sodisfazzione alla Santità Sua, era
risoluto di dargli quella molto desiderata per caparra, cioè di metter
fine alle discordie e componer le differenze tra li prelati. Ma quanto all'andar
a Roma, rispose parole ambigue, volendo aspettar prima risposta di Francia.
Un altro
impedimento, se ben di causa non molto importante, allongava il progresso.
Questo era il trattar delle fonzioni degl'ordini, di che era proposto un
grand'e longo capitolo, dove s'esplicavano tutte, incomminciando dal diaconato,
sino all'ostiariato. Questo fu, al principio che si formarono li decreti, da'
deputati composto come necessario per opporsi a' protestanti, li quali dicono
quelli ordini non esser stati instituiti da Cristo, ma per introdozzione
ecclesiastica e, per esser officii di buon et ordinato governo, vi sia commodo
e bisogno di loro, ma non siano sacramenti. Era il capo del decreto tratto dal Pontificale,
prescrivendo le fonzioni di ciascuno, che longo sarebbe riferire e superfluo,
potendosi legger nel libro medesimo, e dicchiarava oltre ciò il decreto
che quelle non possono esser essercitate se non da chi, essendo promosso dal
vescovo, ha ricevuto da Dio la grazia et impresso il carattere per poterlo
essercitare. Ma quando si fu per stabilirlo, si incontrò gran
difficoltà per risolvere una vecchia e volgata opposizione: che bisogno
vi fosse di carattere e potestà spirituale per essercitare atti
corporali, come legger, accender candele, sonar campane, quali non solo possono
esser cosí ben fatte, ma anco meglio da' non ordinati che dagl'ordinati, e
massime dopo che era andato in disuso che ordinati essercitassero quelle
fonzioni. Si considerava che si veniva a condannar la Chiesa, quale dopo tanti
anni aveva intermesso l'uso. Era anco difficoltà, volendolo rimetter in
piedi, come venir alla prattica: perché conveniva ordinare a' minori non putti,
ma uomini, per serrar la chiesa, sonar le campane, scongiurar inspiritati; il
che facendo, s'opponeva a quell'altro decreto, che li minori ordini fossero
gradi necessarii a' maggiori. Del diaconato ancora non si vedeva modo come
restituirgli li tre officii: ministrar all'altare, battezare e predicare.
Similmente dell'ordine degl'essorcisti, come quell'officio potesse esser da
loro essercitato, essendosi per uso introdotto che da soli sacerdoti siano li
spiritati scongiurati. Antonio Agostino, vescovo di Lerida, era di parer che si
lasciasse in tutto e per tutto quella trattazione, dicendo che sí come certa
cosa era che questi fossero ordini e sacramenti, tuttavia difficilmente
s'averebbe persuaso che nelle chiese primitive, quando pochissimi erano
cristiani, fossero introdotti; che non era degnità della sinodo
descender a tanti particolari; che bastava dire gl'ordini minori esser quattro
e non descender a maggior specialità di dottrina, et in prattica non far
alcuna novità. A questo s'opponeva che la dottrina de' protestanti,
quali chiamano quelle ordinazioni ceremonie ociose, non sarebbe condannata. Ma
il cardinale di Lorena fu autore d'una via di mezo: che si ommettesse quel capo
e che bastavano quattro parole, rimettendo la essecuzione a' vescovi, che
procurassero di farle osservar quanto loro fosse possibile.
[Consulta de' principali e congregazione sopra
i decreti]
Stabilite
queste cose, fu risoluto di legger il tutto nella consulta di quei principali,
acciò che nella congregazione generale le cose passassero con intiera
quiete. Si contentarono ambe le parti, eccetto che per il sesto anatematismo,
dove si dice la ierarchia esser instituita per ordinazione divina;
l'arcivescovo d'Otranto et altri prelati pontificii s'insospettirono che le
parole espresse in termini cosí generali, significando che tutti gl'ordini
sacri, senza far differenza tra l'uno e l'altro, siano per ordinazione di
Cristo, potesse inferire che li vescovi siano uguali al sommo pontefice. Ma li
teologi e canonisti ponteficii gl'essortarono a non metter difficoltà,
essendo cosa chiara da' canoni antecedenti e seguenti che non si trattava se
non de cosa pertinente all'ordine, nel che il pontefice non eccede gl'altri
vescovi, e della giurisdizzione non si faceva menzione alcuna. I medesimi
ancora ebbero in sospetto le parole del proemio del capitolo della residenza,
dove si diceva che, per precetto divino, tutti quelli che hanno cura d'anime
sono obligati conoscer le pecorelle sue, ecc., inferendo che quello fosse un
modo di decchiarare che la residenza sia de precetto divino. Ma la maggior
parte de' medesimi ponteficii sentivano in contrario, dicendo che tutti quei
particolari, che si dicono esser commandati da Dio a chi ha cura d'anime, si
possono anco osservare in assenza, quantonque con la presenza s'adempino piú
intieramente, e massime che le parole che seguono proveggono in maniera che non
può esser alcun pregiudicio a Sua Beatitudine; aggiongendo anco che,
essendo stato accommodato in quella forma dal cardinal di Mantova, era stato
piú e piú volte posto in consultazione, né mai era stato fatto quel dubio
sopra, e che a Roma medesmamente non l'avevano giudicato pregiudiciale. Non per
questo fu possibile rimover dalla openione sua Otranto et altri che lo
seguivano.
Alcuni de'
spagnuoli fecero diligente instanza della decchiarazione per l'instituzione de'
vescovi e per la residenza de iure divino, ma furono costretti a
desistere, essendo persuasi la maggior parte de' loro colleghi dal cardinal di
Lorena, il qual usò con loro termini di conscienza, dicendo che non
fosse cosa sicura e grata a Dio, vedendo di non poter far il ben che si
desiderava, voler con una superflua e vana instanza causar qualche male; che
assai era l'aver impedito il pregiudicio che altri pensavano far alla
verità con stabilir contrarie openioni, e se non si poteva ottener tutto
quello che si desiderava, si poteva però sperar qualche cosa nel tempo
futuro con l'aiuto divino. Con tutto questo, Granata e Segovia con alcuni altri
di loro non potero esser rimossi, sí come nemanco fu possibile superar
dall'altro canto il patriarca di Gierusalem e l'arcivescovo d'Otranto con altri
aderenti, quali erano convenuti di contradire a tutto quello che si proponesse,
come a cose che non servivano a levar le differenze, ma solo ad assopirle, con
certezza che, caminando inanzi, sarebbono date fuori con maggiori forza et
impeto e che quando s'avesse avuto a rompere, meglio era farlo inanzi celebrar
la sessione che dopo; né fu possibile che li legati potessero persuaderli.
Con tutto
ciò, non ostanti tutte queste contradizzioni, stabilite cosí le cose con
gl'altri principali, il dí 9 del mese di luglio s'incomminciarono le
congregazioni generali: dove essendo prima letto quello che appartiene alla
dottrina e canoni dell'ordine, il cardinal di Lorena diede essempio parlando
brevemente e non mettendo alcuna difficoltà. Fu seguito dagl'altri sino
al luogo di Granata, il qual disse esser cosa indegna aver tanto tempo deriso
li padri trattando del fondamento dell'instituzione de' vescovi e poi, adesso,
tralasciandola; e ne ricercò la decchiarazione de iure divino,
dicendo maravegliarsi perché non si decchiarasse un tal punto verissimo et
infallibile. Aggionse che si dovevano proibire come eretici tutti quei libri
che dicevano il contrario. Al qual parer aderí Segovia, affermando che era
espressa verità, che nissuno poteva negarla e si doveva decchiarare per dannare
l'openione degl'eretici che tenevano il contrario. Seguivano anco Guadice,
Aliffe e Monte Marano con gl'altri prelati spagnuoli, de' quali alcuni dissero
la loro openione esser cosí vera come li precetti del decalogo. Il vescovo di
Coimbria si lamentò publicamente che con astuzia si pregiudicasse alla
verità, concedendo che potessero esser ordinati vescovi titolari, perché
questo era decchiarare che la giurisdizzione non fosse essenziale al vescovato,
né si ricevesse immediate da Cristo, e fece instanza che il contrario fosse
decchiarato, replicando il concetto piú volte detto, esser cosí essenziale al
vescovo aver chiesa e sudditi fedeli, come al marito aver moglie. Dopo proposto
il decreto della residenza, il cardinal di Lorena l'approvò con la stessa
brevità; solo raccordò che al passo dove si raccontano le cause
dell'assenza, ponendo tra le altre l'evidente utilità della Chiesa, si
aggiongesse quella parola: «e della republica», e questo per rimover
ogn'impedimento che quel decreto potesse apportare all'esser ammessi li prelati
agl'ufficii e consegli publici; di che ebbe l'applauso universale. Seguí il
cardinal Madruccio, parlando nel medesimo tenore. Il patriarca di Gierusalem,
l'arcivescovo Verallo et Otranto non volsero dir il parer loro sopra quel decreto,
di che l'arcivescovo di Braga, quando fu il luogo del voto suo, si voltò
a' legati, quasi in forma di riprensione, con dire che dovessero usar la loro
autorità et astringer li prelati a dir il loro parere e che era una
cattiva introdozzione in concilio, quasi che o fossero costretti a tacere o
avessero ambizione di non parlar, salvo che con seguito; onde altri che avevano
deliberato immitargli, mutato proposito, acconsentirono al decreto. Seguirono
approvando concordamente gl'altri decreti, secondo che letti erano; se non che
Granata fece instanza che fosse decchiarata la residenza de iure divino
con parole aperte, poiché - diceva egli - le parole ambigue del proemio erano
indegne d'un concilio, il qual sia congregato per levare, non per accrescer le
difficoltà, e che fossero proibiti li libri che ne parlavano in
contrario, e che nel decreto fossero espressamente e nominatamente compresi li
cardinali. Quest'ultima instanza toccante li cardinali si vedeva che a molti
aggradiva; onde dal cardinal Morone fu risposto che s'averebbe avuto
considerazione sopra, per parlar un'altra volta. Del rimanente si passò
inanzi, et in fine il patriarca e li doi arcivescovi assentirono essi ancora al
decreto, e questo fu il principio che fece aver speranza che si potesse celebrar
la sessione al suo tempo, cosa stimata per inanzi impossibile, ma per
desterità del cardinal di Lorena ridotta a buon porto.
Ne' giorni
seguenti si diedero li voti sopra gl'altri capi di riforma da' padri, da' quali
non fu proposta altra variazione di momento, se non che per grand'instanza di
Pompeio Zambeccari, vescovo di Sulmona, fu levata dal capo della prima tonsura
una particola, dove si diceva che, se li promossi commetteranno delitto fra sei
mesi dopo l'ordinazione, si presumino ordinati in fraude e non godino il
privilegio del foro; e dove si decreta che nissun sia ordinato senza esser
ascritto a chiesa particolare, era aggionta l'innovazione de' decreti del
concilio lateranense, che anco gl'ordinati a titolo di patrimonio dovessero
esser applicati al servizio di qualche chiesa, nel quale attualmente
s'essercitassero, altrimenti non potessero esser partecipi de' privilegii, la
qual parimente fu levata e nel rimanente, con leggier variazione di parole poco
spettanti alla sostanza, fu data sodisfazzione a tutti li padri.
I spagnuoli,
che non avevano potuto ottener in congregazione la decchiarazione desiderata
dell'instituzione de' vescovi, si congregarono la sera de'
[Ultima congregazione con disparere sopra i
cardinali]
Si fece il dí
seguente, che fu precedente alla sessione, congregazione generale, nella quale
propose il cardinale Morone se piaceva a padri che nel capo della residenza et
in quello che tratta dell'età degl'ordinandi si facesse menzione de'
cardinali et in particolare dell'età: furono pochi che consentissero,
discorrendo la maggior parte che non nasce occorrenza di far cardinali giovani,
se non prencipi, in quali non s'ha d'attender all'età, perché in
qualonque modo onorano l'ordine ecclesiastico, e però che era fuor di
proposito, dove non era abuso, far decreto. Ma nel particolare della residenza,
la maggior parte fu di parere che si nominassero, contradicendo però
alcuni, con dire che questo sarebbe un approvare che li cardinali avessero
vescovati e per consequenza approvare le commende, il che non era giusto di
fare, ma piú tosto lasciare che la loro conscienza riconoscesse di non esser
essente dal precetto generale, che, con nominargli, approvare doi abusi
insieme: la pluralità de' beneficii e le commende. Trattati poi alcuni
altri particolari di poco rilevo e conclusi, fu letto di nuovo tutto quello che
si dovesse nella sessione publicare, dicendo il parer loro li padri con la sola
parola: «Placet». Alcuni spagnuoli et alquanti italiani risposero che non gli
piaceva, et in tutto furono al numero di 28; gl'altri tutti, in numero 192,
consentirono, et in fine concluse Morone che si sarebbe fatta la sessione.
Ringraziò li padri che avevano accettato li decreti et essortò
gl'altri ad unirsi con loro, e pregò il conte di Luna a far buon ufficio
co' suoi prelati, acciò, vedendo l'universal concorso di tutto 'l
concilio in un parere, non volessero dissentire; di che parlando piú
specificamente con lui dopo la congregazione, gli promise che ogni volta che si
fosse dicchiarata la potestà del papa secondo la forma del concilio
fiorentino, si dicchiarerebbe anco l'instituzione de' vescovi esser de iure
divino. I prelati spagnuoli, essendosi il medesimo giorno, la sera,
congregati in casa del conte, dopo molti discorsi, fondandosi sopra la promessa
che dal cardinale era fatta al conte, conclusero d'accettar ogni cosa.
[Sessione settima. Decreto di fede del
sacramento dell'ordine]
Venuto
adonque il 15 luglio, la mattina per tempo col solito ordine andarono tutti
nella chiesa. Si fecero le consuete ceremonie. Celebrò la messa il
vescovo di Parigi, fece l'orazione il vescovo d'Aliffe, nella quale offese li
francesi con aver nominato il re di Spagna prima che il re loro, e li polacchi,
nominando quello di Portogallo inanzi Polonia, e li veneziani col far prima
menzione del duca di Savoia e poi della loro republica. Disse anco parole, per
le quali mostrava che quella celebrazione di concilio era una continuazione co'
precedenti di Paolo e Giulio, di che ebbero mala sodisfazzione gl'imperiali e
li francesi insieme. Entrò anco a parlare della fede e de' costumi
degl'eretici e catolici, e disse che, sí come la fede de' catolici era
migliore, cosí li costumi degl'eretici erano molto megliori che quelli de' catolici;
nel che diede molto disgusto, massime a quelli che si raccordavano del detto di
Cristo e di san Giacomo, che la fede non si dimostra se non per le opere. Non
fu però detta cosa alcuna in quell'instante, avendo ciascuno rispetto a
turbare le ceremonie publiche. Ma il dí seguente gl'ambasciatori francesi,
pollacco e veneti fecero instanza a' legati che non lasciassero stampar
l'orazione, né metterla negl'atti del concilio. Finita la messa e le altre
preci, furono letti li brevi della legazione de' cardinali Morone e Navaggero,
li mandati del re di Polonia e del duca di Savoia, la lettera della regina di
Scozia et il mandato del re Catolico. Poi furono letti li decreti spettanti
alla dottrina della fede, dove non vi fu contradizzione, se non che dalla
maggior parte de' spagnuoli fu detto che assentivano con questo, che
s'osservasse da' signori legati la promessa fatta all'ambasciator del loro re.
Conteneva il
decreto della fede in sostanza:
1 Il
sacrificio e sacerdozio esser in ogni legge congionti; imperò, essendo
nel Nuovo Testamento un sacrificio visibile, cioè l'eucaristia, esser
anco necessario confessar un visibile et esterno sacerdozio, nel quale per
divina instituzione sia data potestà di consecrar, offerir e ministrar
l'eucaristia e di rimetter e ritener i peccati.
2 Il qual
sacerdozio essendo cosa divina, convenire abbia molti ordini de ministri che
gli servino, li quali ascendino da' minori a' maggiori ministerii, poiché le
Sacre Lettere fanno menzione del nome de' diaconi, e dal principio della Chiesa
furono posti in uso li ministerii de' subdiaconi, accoliti, essorcisti, lettori
et ostiarii, ponendo però il subdiaconato tra gli maggiori.
3 E perché
nella sacra ordinazione è conferita la grazia, l'ordine esser vero e
propriamente uno de' sette sacramenti della Chiesa.
4 Nel quale
imprimendosi carattere che non si può scancellare, la sinodo condanna
quelli che affermano li sacerdoti aver la potestà sacerdotale a tempo,
sí che gl'ordinati possino ritornar laici, non essercitando il ministerio della
parola di Dio; e cosí parimente condanna quelli che dicono tutti li cristiani
esser sacerdoti overo aver ugual potestà spirituale; il che altro non
è, se non confonder la ierarchia ecclesiastica, che è ordinata
come un essercito de soldati.
Al qual ordine
ierarchico principalmente appartengono li vescovi, che sono superiori a' preti,
a' quali appartiene ministrar il sacramento della confermazione, ordinar li
ministri e far altre fonzioni. Insegna anco la sinodo che nell'ordinazione de'
vescovi, sacerdoti et altri gradi non è necessario il consenso,
vocazione o autorità del magistrato o d'altra potestà secolare,
anzi quelli che solamente chiamati o instituiti dal popolo o secolar
potestà overo magistrato o per propria temerità ascendono a'
ministerii ecclesiastici, esser non ministri, ma ladroni.
A questa
dottrina seguono 8 anatematismi:
1 Contra chi
dirà che nel Nuovo Testamento non vi sia sacerdozio visibile o non vi
sia potestà di consecrare et offerire e rimetter li peccati, ma
solamente un officio o nudo ministerio di predicar l'Evangelio, e quelli che
non predicano non esser sacerdoti.
2 Che oltre
il sacerdozio non vi siano altri ordini maggiori e minori, per quali, come per
gradi, si va al sacerdozio.
3 Che la
sacra ordinazione non sia propriamente sacramento, overo esser invenzione
umana, o solamente un certo rito d'elegger li ministri della parola di Dio e
de' sacramenti.
4 Che per la
sacra ordinazione non sia dato lo Spirito Santo, o non sia impresso carattere,
o che il sacerdote possi diventar laico.
5 Che la
sacra onzione e le altre ceremonie che la Chiesa usa, non siano requisite, ma
potersi tralasciare et esser perniciose.
6 Che nella
Chiesa catolica non vi sia la ierarchia instituita per ordinazione divina, la
qual consta de vescovi, preti e ministri.
7 I vescovi
non esser superiori a' preti, o non aver potestà di confermare et
ordinare, overo che quella potestà l'abbiano anco li preti, o che
gl'ordini conferiti senza il consenso o vocazione del popolo o della
potestà secolare siano nulli, o pure che siano legitimi ministri della
parola di Dio e de' sacramenti quelli che non sono legitimamente ordinati dalla
potestà ecclesiastica.
8 Che li
vescovi assonti per autorità del romano pontefice non sono legitimi e
veri, ma invenzione umana.
[Decreto di riforma intorno all'ordine e la
residenza]
Fu poi letto
il decreto della riforma, il qual conteneva 18 capi.
Il primo,
spettante alla tanto debattuta materia della residenza, dove si diceva che, per
precetto divino, ogni uno, a cui è data cura d'anime, debbe conoscer le
sue pecorelle, offerir per loro sacrificio, pascerle con la predicazione,
sacramenti e buon essempio, aver cura de' poveri et attender ad altri officii
pastorali; le qual cose non potendo esser adempite da chi non invigila et assiste
al suo gregge, la sinodo gl'ammonisce a pascere e reggere con giudicio e
verità. Ma acciò che male interpretando le cose statuite sotto
Paolo III in questa materia, nissun intenda essergli lecita un'assenza di 5
mesi, dicchiara che chiunque ha vescovati, sotto qual si voglia titolo,
eziandio li cardinali, sono obligati a reseder personalmente, non potendo
restar assenti se non quando lo ricerchi la carità cristiana, l'urgente
necessità, la debita obedienza e l'utilità della Chiesa o della
republica; vuole che tali cause dell'assenza siano approvate per legitime dal
pontefice o dal metropolitano, eccetto quando saranno notorie o repentine,
dovendo nondimeno il concilio provinciale conoscere e giudicare le licenze
concesse, acciò non vi intervenga abuso; provedendo tuttavia li prelati
assenti che il popolo per l'assenza non patisca danno alcuno. E perché una
breve assenza non è degna di questo nome, eziandio senza alcuna delle
sudette cause, dicchiara che questa tale non possi ecceder il spacio di 2 mesi
o di 3 al piú, o sia continuo, o in diversi tempi, purché vi sia qualche
raggione d'equità e senza danno del gregge; il che sia rimesso alle
conscienze de' prelati; ammonendo ciascuno a non restar assente le dominiche
dell'advento e quaresima, le feste della Natività, Risorrezzione,
Pentecoste o Corpo di Cristo. Al qual decreto chi contravenirà, oltra le
pene imposte contra li non residenti sotto Paolo III et il peccato mortale, non
possi con buona conscienza goder li frutti per la rata del tempo, decretando le
medesime cose di tutti gl'altri che hanno cura d'anime, li quali, quando con
licenza del vescovo s'assenterranno, debbino sostituir un vicario idoneo,
approvato dal vescovo, con la debita mercede e che quel decreto, insieme con
l'altro sotto Paolo III siano publicati ne' concilii provinciali e diocesani.
Degl'altri
capi spettanti agl'ordini che il decreto conteneva, il secondo era che,
qualonque tiene vescovato, sotto qual si voglia titolo, eziandio cardinali, non
ricevendo la consecrazione fra 3 mesi, perdino li frutti, e differendo oltre 3
altri, siano privati del beneficio, e che la consecrazione, quando si
farà fuori della corte romana, si celebri nella propria chiesa, o
veramente nella provincia, quando vi sia il commodo.
III Che li
vescovi celebrino le ordinazioni in propria persona, e quando siano impediti
d'infermità, non mandino li sudditi per esser ordinati da altri vescovi,
se non essaminati et approvati da loro.
IV Che la
prima tonsura non si dia se non a chi è confermato et abbia imparato i principii
della fede, sappia leggere e scrivere et elegga la vita clericale per servizio
di Dio, non per fuggir il giudicio secolare.
V Agl'ordini
minori chi doverà esser promosso, abbia testimonio dal paroco e dal
maestro di scola, e dal vescovo sia commesso che li loro nomi siano proposti
publicamente in chiesa, e sia fatta inquisizione del nascimento, età,
costumi e vita loro.
VI Che nissun
possi aver beneficio ecclesiastico inanzi il quattordicesimo anno, né goder
l'essenzione del foro, se non abbia beneficio ecclesiastico o, portando l'abito
e tonsura, non servi a qualche chiesa per commissione del vescovo, o abiti nel
seminario o in scola overo università con licenza del vescovo. Et
intorno a' chierici maritati s'osservi la constituzione di Bonifacio VIII, con
condizione che quelli parimente servino alla chiesa in abito e tonsura, per
deputazione del vescovo.
VII Che
quando si tenerà ordinazione, tutti siano chiamati il mercordí inanzi
alla città e sia fatta diligente inquisizione et essamine di loro dal
vescovo, con assistenza di chi gli parerà.
VIII Le
ordinazioni non siano tenute se non ne' tempi statuiti dalla legge, nella
chiesa catedrale, presenti li canonici, e quando si tenerà in altro
luogo della diocesi, si faccia nella chiesa piú degna e presente il clero;
ognuno sia ordinato dal proprio vescovo et a nissuno sia concesso ordinarsi da
altro, se non con lettere testimoniali del proprio.
IX Che il
vescovo non possa ordinar un suo famigliare non suddito, se non averà
abitato con lui 3 anni, e conferendogli immediate beneficio.
X Nissun
abbate o altro prelato possi conferir la prima tonsura o gl'ordini minori, se
non a sudditi loro regolari, né questi o altri prelati, collegii overo capitoli
possino conceder lettere dimissorie a chierici secolari per ricever gl'ordini.
XI Che
gl'ordini minori siano conferiti a chi intende la lingua latina, e con
interposizione di tempi tra l'uno e l'altro; et essendo questi gradi agl'altri,
nissun sia ordinato, se non vi sia speranza che possi diventar degno degl'ordini
sacri, e dall'ultimo d'essi minori s'interponga un anno al subdiaconato, se dal
vescovo, per utilità della chiesa, non sarà giudicato altrimenti.
XII Nissun
sia ordinato al subdiaconato inanzi il vigesimosecondo, al diaconato inanzi il
vigesimoterzo, al presbiterato inanzi il vigesimosesto, né da questi siano
essenti gli regolari.
XIII Che i
subdiaconi e diaconi siano prima esperimentati negl'ordini minori e sperino di
poter viver in continenza, servino alla chiesa alla quale sono applicati, e
riputino molto conveniente il ricever la communione la dominica e giorni
solenni, quando ministrano all'altare. I subdiaconi non passino a grado piú
alto, se non essercitati per un anno nel proprio, ma per virtú di qual si
voglia privilegio non siano dati doi ordini sacri in un giorno.
XIV Al
presbiterato non sia ordinato se non sarà diacono essercitato nel
ministerio almeno per un anno e trovato idoneo ad insegnar il popolo et
amministrar li sacramenti, et abbia cura il vescovo che questi tali celebrino
almeno la dominica e feste solenni, et avendo cura d'anime, che satisfacciano
al loro carico, e se alcuno sarà ordinato agl'ordini superiori inanzi
gl'inferiori, il vescovo possi dispensare se vi sarà causa legitima.
XV Che se ben
li preti nell'ordinazione ricevono potestà d'assolver da' peccati,
però nissuno può udir le confessioni se non ha beneficio
parochiale o sia dal vescovo approvato.
XVI Che
nissun sia ordinato senza esser ascritto a qualche chiesa o luogo pio per
essercitar il ministerio di quell'ordine; e se abandonerà il luogo senza
conseglio del vescovo, gli sia proibito il ministerio; e nissun chierico
forestiero, senza lettere del suo ordinario, sia ammesso all'essercizio del
ministerio.
XVII Per
ritornar in uso le fonzioni degl'ordini, dal diaconato sino all'ostiariato,
che, usate dal tempo degl'apostoli, in molti luoghi sono intermesse,
acciò non siano derise come oziose dagl'eretici, quei ministerii non
siano essercitati se non da chi averà ricevuto quegl'ordini e li prelati
restituiscano quelle fonzioni, e se per gl'essercizii degl'ordini minori non
averanno chierici continenti, ne ricevino de maritati, purché non siano bigami,
e nel rimanente siano atti a quell'essercizio.
L'ultimo capo
fu per l'instituzione de' seminarii: in quello è statuito che ogni chiesa
episcopale abbia un certo numero di putti, che siano educati in un collegio
appresso la chiesa o in un altro luogo conveniente, siano almeno d'anni 12 e di
legitimo matrimonio, siano dal vescovo distribuiti in classi, secondo il
numero, età e progresso nella disciplina ecclesiastica; portino l'abito
e la tonsura; attendino alla grammatica, canto, computo ecclesiastico, alla
Sacra Scrittura, a legger le omilie de' padri, imparar li riti e ceremonie de'
sacramenti, e sopra tutto quello che appartiene ad udir le confessioni. E per
far queste spese, dove vi è entrata deputata per educar putti, sia
applicata a questo seminario, e per quello di piú che faccia di bisogno, il
vescovo con 4 del clero debbino detraer una porzione da tutti li beneficii della
diocesi et applicarci beneficii semplici, e costringer quelli che hanno
scolasterie o altro carico, di legger od insegnar nelle scole del seminario, o
per se medesimi, o per sustituti idonei; e per l'avvenire le scolasterie non
siano date se non a dottori o maestri in teologia o in canonica. E se in
qualche provincia le chiese fossero tanto povere che non si potesse eriger in
quelle seminario, se ne statuisca uno o piú nella provincia, e nelle chiese di
gran diocesi possi il vescovo, giudicando opportuno, oltre il seminario della
città, erigerne uno o piú di essa, che dependa però da quello
della città.
In fine fu
letto il decreto, intimando la futura sessione per il 16 di settembre, con
espressione di dover allora trattar del sacramento del matrimonio e delle altre
cose pertinenti alla dottrina della fede, delle provisioni de' vescovati,
degnità et altri beneficii, e diversi altri articoli di riforma.
Durò la sessione dalle 9 sino alle 16 ore con gran piacere de' legati e
de' prelati ponteficii che le cose fossero passate quietamente e con universal
consenso, e lodavano sopra tutti il cardinale di Lorena, confessando che di
questo bene egli era stato principalissima causa.
[Giudicii sopra questa sessione]
Non fu veduto
dal mondo atto alcuno di questo concilio piú desiderato, quanto quello della
presente sessione quando uscí in luce, per la curiosità che ciascuno
aveva di veder una volta che cosa era quella che aveva tenuto in contenzione 10
mesi cosí gran numero de prelati in Trento et in negozio tutte le corti de'
prencipi cristiani: ma secondo il proverbio, riuscí stimato un parto di monti e
natività d'un topo. Non fu chi sapesse trovarci dentro cosa che
meritasse non solo opera di tanto tempo, ma né meno breve occupazione di tanti
personaggi. Et ebbero gl'uomini alquanto versati nelle cose teologiche a
desiderare che una volta fosse dicchiarato che cosa intendeva il concilio per
la potestà di ritener li peccati secondo il senso suo: la qual era fatta
una parte dell'autorità sacerdotale, avendo dicchiarato come intendesse
l'altra, cioè rimetter li peccati. Fu da altri ancora letta con
admirazione la dicchiarazione fatta che gl'ordini inferiori non fossero salvo
che gradi a' superiori e tutti al sacerdozio, apparendo chiaro, per la lezzione
dell'antica istoria ecclesiastica, che gl'ordinati ad un carico o ministerio
erano per ordinario perpetuamente trattenuti in quello, et era cosa accidentale
e di rara contingenza et usurpata per sola raggion di necessità o grand'utilità,
simil traslazione et ascesa a grado piú alto. De' sette diaconi instituiti
dagli apostoli nissun esser passato ad altro grado, e nella medesima Chiesa
romana, nell'antichità, li diaconi, attendendo alle confessioni de'
martiri, non si vede che passassero a' titoli presbiterali. Esser descritta
l'ordinazione di sant'Ambrosio in vescovo, di san Gieronimo e di sant'Agostino
e di san Paolino in preti, e di san Gregorio Magno in diacono, senza che
fossero passati per altri gradi; non esser da biasmar il modo ne' tempi
posteriori introdotto, ma parer maraviglia il portarlo come cosa sempre usata,
constando manifestamente il contrario.
Era giudicato
molto specioso il decreto che li ministerii degl'ordini, dal diaconato sino
all'ostiariato, non fossero essercitati se non da' promossi all'ordine proprio
di quelli, ma pareva cosa assai difficile da osservare che in nissuna chiesa
potessero esser sonate le campane o serrate et aperte le porte, se non da
ostiarii ordinarii, né meno accese le lampade e candele se non da acoliti, li
quali essercitassero quei carichi manuali a fine di pervenire al sacerdozio; e
pareva un poco di contradizzione l'aver assolutamente determinato che quei
ministerii non fossero essercitati se non da persone ordinate, e poi commandato
a' prelati che li restituissero in quanto si potesse farlo con
commodità; poiché, servando il decreto assoluto, è ben necessario
che, dove non si possino aver persone ordinate per essercizio delle fonzioni,
si resti senza essercitargli, e se possono esser essercitate senza ordini,
mancando il commodo, si poteva con piú decoro tralasciar la definizione
assoluta.
Nel decreto
dell'ordinazione de' preti fu giudicato molto conveniente l'averci prescritto
quella condizione che fossero atti ad insegnar il popolo: ma ciò non
parerà molto coerente con quell'altra dottrina et uso, che al sacerdozio
non sia essenziale l'aver cura d'anime; onde li preti che si ordinano con
pensiero di non riceverla mai, non è necessario che siano atti ad insegnar
il popolo. E l'assegnar per condizione necessaria negl'ordini minori il saper
la lingua latina, dicevano alcuni che era un dicchiararsi di non esser concilio
generale di tutte le nazioni cristiane, né questo decreto poter esser
universale et obligar le nazioni d'Africa e d'Asia e di gran parte d'Europa,
dove la lingua latina non ha mai avuto luogo.
In Germania
fu assai notato il sesto anatematismo, che fa un articolo di fede della
ierarchia, voce e significazione aliena, per non dir contraria, alle Scritture
divine et all'uso dell'antica Chiesa, e voce inventata da uno, se ben di
qualche antichità, che però non si sa bene chi e quando fosse,
che del rimanente è scrittor iperbolico, non imitato nell'uso di quel
vocabolo, né degli altri di sua invenzione da alcuno dell'antichità; e
che seguendo lo stile di parlare e di operare di Cristo nostro Signore e de'
santi apostoli e dell'antica Chiesa conveniva statuire non una ierarchia, ma
una ierodiaconia o ierodulia. E Pietro Paolo Vergerio nella Valtelina faceva
soggetto delle sue prediche queste et altre obiezzioni contra la dottrina del
concilio, narrando anco le contenzioni che erano tra li vescovi, e detraendo a
tutto quello che poteva, non solo con parole, ma anco con lettere agl'altri
ministri protestanti et evangelici, le quali erano anco lette a' popoli nelle
loro chiese. E quantonque il vescovo di Como, per ordine del pontefice e del
cardinale Morone, facesse ogni opera, eziandio con qualche modi assai
straordinarii per farlo partir da quella regione, non poté mai ottenerlo.
Ma intorno al
decreto della residenza, della qual materia ogni uno raggionava et aspettava
qualche bella risoluzione, poiché già tanto se n'era parlato e tanto
scritto, parendo in quei tempi che nissuna cosa fosse piú in voce di tutti, in
fine si fosse per decisione di controversia prononciato quello che a tutti era
chiaro, cioè esser peccato non reseder senza causa legitima, quasi che
non sia per legge naturale chiaro et evidente a tutti peccar ognuno che si
assenta dal suo carico, sia di che genere si voglia, senza legitima causa.
Il successo
di questa sessione levò la buona intelligenza che sin allora era stata
tra 'l cardinale di Lorena e li spagnuoli, li quali si dolevano d'esser stati
abandonati nella materia dell'instituzione de' vescovi e della residenza, nelle
quali egli aveva innumerabili volte attestato che sentiva con loro e promesso
d'operare efficacemente per far decretare quell'opinione, senza rimettersi per
causa alcuna. Aggiongevano d'esser senza speranza di vederlo constante in altre
cose promesse da lui e che era stato guadagnato dal pontefice con la promessa
della legazione di Francia et altre cose di poco suo onore; et egli dall'altro
canto si giustificava dicendo quell'oblazione essergli stata fatta per metterlo
in diffidenza con gl'amici suoi, alla qual egli aveva risposto di non voler dar
orecchie, se prima non era fatta la riforma in concilio. Ma con tutto questo
non era creduto che egli dovesse perseverar nel medesimo parere meno in questa
materia.
[I legati precipitano le materie in concilio]
Ma li legati,
desiderosi di venir presto al fine del concilio, non cosí tosto finita la
sessione, proposero di facilitar il rimanente, che, quanto alla materia delle
fede, era: le indulgenzie, l'invocazione de' santi et il purgatorio. Et a questo
effetto elessero 10 teologi, doi generali de frati, e doi per ciascun prencipe,
cioè del papa, di Francia, che poco piú rimanevano, Spagna e Portogallo;
dandogli carico di considerare in che modo si potesse brevemente confutare
l'opinione de' protestanti in tal materia; e che, risoluti essi, si
proponessero in congregazione generale li pareri loro, sopra quali si
formassero li canoni nel medesimo tempo che si tratterebbe del matrimonio, per
venir presto a capo delle materie, senza udir le dispute de' teologi, come
s'era fatto per il tempo inanzi.
In materia
della riforma trattarono col cardinale di Lorena, con gl'ambasciatori imperiali
e di Spagna, se si contentavano che si proponesse anco della riforma de'
prencipi; da' quali avuto parola che era cosa giusta levar gl'abusi dovunque
fossero, fecero metter insieme tutti li capi, con pensiero di decider tutto
quello che restava in una sola sessione. Ma all'ambasciatore spagnuolo, per li
rispetti del suo re, quell'accelerazione non piaceva e comminciò ad
attraversarvi molte difficoltà. Primieramente propose che era
necessario, inanzi il fine del concilio, far opera che li protestanti vi
intervenissero, allegando che vana sarebbe la fatica fatta, quando che li
decreti non fossero da loro accettati, né essendoci speranza che, senza
intervenir in concilio, gl'accettassero. A che avendo risposto li legati che il
pontefice aveva dal canto suo in ciò fatto tutto quello che se gli
conveniva, avendo scritto lettere e mandato anco noncii espressi a tutti, che
niente di piú si poteva fare per render chiara la loro contumacia,
replicò il conte di non ricchieder che ciò si facesse a nome di
Sua Santità, essendo chiara cosa che averebbe servito non a fargli
venir, anzi ad allontanargli maggiormente; ma che fossero ricercati a nome del
concilio, con quelle promesse che fossero state convenienti, adoperando
l'intercessione dell'imperatore. A che avendo per conclusione detto li legati
d'averci sopra considerazione, ne diedero conto al pontefice, acciò
potesse operare in Spagna, cosí per divertire simili raggionamenti, come per
persuader il fine del concilio. Ricercò anco il conte che li teologi
parlassero publicamente, secondo il solito, sopra li particolari delle
indulgenze et altre materie, e fece ufficio co' prelati che non si mutasse modo
di proceder e non si levasse la riputazione al concilio con tralasciar
d'essaminar quelle cose che piú delle altre ne avevano bisogno.
Delle qual
cose tutte il pontefice avisato, si perturbò assai, avendo avuto parola
da don Luigi d'Avila e dal Vargas, ambasciator del re appresso sé, che quella
Maestà si contentava che si venisse a fine del concilio. E fattigli
chiamar a sé, fece gravissima indoglienza per la proposizione del conte. E
prima, per conto d'invitar li protestanti, disse che nissun piú desiderava di
ridurgli alla Chiesa che lui; esserne indicio quello che da' precessori suoi
era stato per quaranta anni operato, e da lui, con mandar noncii espressamente
a tutti loro, non risguardando le indegnità a che sottoponeva sé e la
Sede apostolica; che aveva operato per l'interposizione dell'imperatore e
gl'officii di tutti li prencipi catolici; esser certificato che l'indurazione
loro è volontaria, deliberata et ostinata, e però doversi pensar
non piú come ridurgli, essendo impossibile, ma come conservar gl'obedienti.
Mentre che vi fu scintilla di speranza di racquistar li perduti, ricercava il
tempo che si facesse ogni opera per raddolcirgli; estinta tutta la speranza,
era necessario, per conservar li buoni, fermar bene la divisione e render le
parti irreconciliabili l'una a l'altra. Che cosí comportavano li rispetti del
loro re che si trattasse; il qual si sarebbe tardi accorto che cosí è
necessario fare, quando avesse temporeggiato nella Fiandra et avesse usato
termini di mediocrità. Risguardasse il re che buoni effetti erano nati
dalle severe essecuzioni fatte nel suo ingresso in Spagna, dove, se avesse
lentamente proceduto e pensato ad acquistar la grazia de' protestanti, per
acquistar la loro benevolenza col dolce proceder, sentirebbe di quei accidenti
che si vedono in Francia. Passò a dolersi che il conte anco volesse
prescrivere il modo d'essaminare le materie di teologia e determinar esso
quando fossero ben diggeste. In fine si querelò che da loro gli fosse
stato promesso che il re si contentava che il concilio si finisse, e pur
gl'ufficii del conte tendevano al contrario. Et avendo gl'ambasciatori scusato
il conte e soggiontogli esser verissimo quanto detto gli avevano della
volontà del re circa il fine del concilio, mostrò restar sodisfatto,
quando essi si contentassero che lo dicesse dove giudicasse di bisogno. Al che
consentendo essi, il papa ordinò al noncio suo in Spagna di far
indoglienza col re e dirgli che non sapeva penetrar la causa perché
gl'ambasciatori di Sua Maestà in Roma et a Trento parlassero
diversamente; e quello che piú importa, facendo egli tutto 'l possibile per
compiacergli, dall'altro canto fosse contra operato; perché, essendo il
concilio in piedi, egli veniva impedito di far molti favori e grazie alla Sua
Maestà; che se per le cose sue di Fiandra overo per gl'interressi
dell'imperatore in Germania, desiderava dal concilio alcuna cosa, poteva ben
dall'esperienza esser certo quanta difficoltà vi fosse di ridur alcuna
cosa a fine in Trento; che da lui si potevano prometter ogni cosa e che
già ha deliberato, finito che sia il concilio, di mandar in tutte le
provincie per proveder a' bisogni particolari di ciascuna, dove che in Trento
non si possono far se non provisioni generali, che hanno infinite difficoltà
per accommodarsi a ciascun luogo.
[Divisione in Trento sopra questo procedere
precipitoso]
Ma gl'ufficii
che il conte faceva co' prelati in Trento partorirono divisione, desiderando
alcuni che quelle materie fossero disputate essattamente, massime che da'
scrittori scolastici di quelle era stato parlato o poco o niente; e che delle
altre cose trattate nella sinodo vi erano decisioni o d'altri concilii, o de'
pontefici, o concorde parer de' dottori, ma in queste materie le cose erano
ancora tutte in oscuro e se non fossero state ben poste in chiaro, s'averebbe
detto il concilio aver mancato nelle cose piú necessarie. Altri dicevano che,
se nelle cose già decise s'erano attraversate tante difficoltà e
contenzioni, quanto maggiormente si poteva temere che in queste, piene
d'oscurità, dove non vi è lume a bastanza mostrato da dottori, si
potesse andar in infinito, avendo quelle materie larghissimo campo per molti
abusi entrati a fine di cavar danari per quei mezzi, e per le difficoltà
che nascerebbono nell'interpretazione delle bolle, e massime per le parole che
in alcune s'usano, di pena e di colpa, e del modo col quale possono le
indulgenze esser pigliate per li morti: però che di quelle e della
venerazione de' santi si poteva trattar solamente dell'uso, tralasciando il rimanente,
e del purgatorio condannare l'opinione degl'eretici; altrimenti era un non
voler mai veder il fine, né venir a risoluzione di questa difficoltà.
Mentre questi
varii pareri andavano attorno sopra quelle materie riservate per ultime,
deliberarono li legati d'espedir quella del matrimonio, con dissegno
d'abbreviar il tempo della sessione e tenerla al piú longo a' 19 d'agosto; il
che anco piaceva molto al cardinale di Lorena, il quale avendo avuto risposta
di Francia che dovesse satisfar al pontefice coll'andar a Roma, aveva risoluto
di farlo in fine del mese, quando però la sessione fosse celebrata. Egli
per il vero era costretto a restringersi col pontefice e co' suoi, non solo per
gl'ordini da Francia ricevuti, ma ancora perché gl'imperiali e spagnuoli erano
entrati in qualche diffidenza di lui per le cose successe nel trattar la
materia della precedente sessione.
[Esamine de' canoni del matrimonio]
Il dí 22
luglio furono dati fuori gl'anatematismi, poco differenti dal modo col quale in
fine restarono poi stabiliti; la maggior varietà fu che sino allora non
si era pensato a quello che è quinto in numero e danna li divorzii
concessi nel codice giustiniano; il qual anatematismo fu aggionto ad instanza
del cardinale di Lorena, per opponer a' calvinisti e dannar la loro opinione:
fu però facilmente ricevuto per esser conforme alla dottrina scolastica
e decreti ponteficii. Ma in quello dove si tratta del divorzio per causa
d'adulterio, s'avevano astenuti li formatori de' canoni d'usar la voce d'anatema,
avendo rispetto di dannar quell'opinione, la qual fu di sant'Ambrosio e di
molti padri della Chiesa greca; con tutto ciò, avendo altri opinione che
quello fosse articolo di fede, et a questo contendendo quasi tutti i voti de'
padri, fu riformato il canone coll'aggionta dell'anatema, dannando chi dicesse
che per l'adulterio si dissolva il vincolo e che l'un congiugato, vivendo
l'altro, possi contraer un altro matrimonio: il qual canone ricevette poi
un'altra mutazione come a suo luogo si dirà.
Nelle congregazioni
seguenti si spedirono facilmente quanto alle cose proposte, ma quasi tutti li
prelati trapassavano da quelle a parlar de' clandestini, se ben non era ancora
né il luogo, né il tempo, e già incomminciava a scoprirsi la differenza
d'opinioni in quella materia. Nella congregazione de' 24, la mattina fu
ricevuto il vescovo di Cortona, ambasciator del duca di Fiorenza. Egli fece un
breve raggionamento della devozione del suo prencipe verso la Sede apostolica
et offerí obedienza e favore alla sinodo, e gli fu risposto con rendimento di
grazie. Nella congregazione della sera gl'ambasciatori francesi fecero legger
una ricchiesta a nome del loro re che da' figli di famiglia senza consenso de'
genitori non possi esser contratto matrimonio o sponsali; la qual cosa se da'
figli fosse tentata, restasse in potestà de' maggiori irritar overo
convalidar il contratto, secondo che a loro fosse piacciuto; e quell'istesso
giorno furono avisati li padri di dar in nota a' deputati gl'abusi osservati da
loro in quella materia del matrimonio.
Finiti li
voti sopra gl'anatematismi, furono proposti doi articoli: uno, se era
ispediente promover persone maritate agl'ordini sacri; l'altro, la irritazione
de' matrimonii clandestini. Fu dato il voto brevemente da tutti li padri sopra il
primo articolo concordemente alla negativa, senza metterci alcuna
difficoltà, e l'arcivescovo di Praga et il vescovo di Cinquechiese, che
procuravano il parlarne piú pensatamente, a pena furono uditi. Non cosí
passò la materia de' clandestini, ma furono 136 che approvarono
l'annullazione, 57 che contradissero e 10 che non volsero dicchiararsi. Secondo
l'opinione della maggior parte fu formato il decreto che, se ben li matrimoni
clandestini sono stati veri matrimoni mentre la Chiesa non gl'ha irritati, e però
la sinodo condanna di anatema chi sente in contrario, nondimeno la Chiesa gl'ha
sempre detestati. Ora, vedendo gl'inconvenienti, determina che tutte le persone
che per l'avvenire contraerranno matrimonio o sponsali senza la presenza di tre
testimonii almeno, siano inabili a contraergli, e però l'azzione fatta
da loro sia irrita e nulla. E dopo quello seguiva un altro decreto, dove erano
commandate le denoncie, con conclusione che essendo necessità di
tralasciarle, il matrimonio si potesse fare, ma in presenza del paroco e di
cinque testimoni almeno, publicando le denoncie dopoi, con pena di scommunica a
chi contraesse altrimenti. Ma quel gran numero che voleva annullar li
clandestini era diviso in 2 parti, seguendo l'una l'opinione di quei teologi
che concedono alla Chiesa potestà d'inabilitar le persone, e l'altra
quelli dell'irritar il contratto. Ne' medesimi legati vi era differenza
d'opinione: Morone si contentava d'ogni deliberazione, purché si espedisse,
varmiense era d'opinione che la Chiesa non avesse potestà alcuna sopra
di questo e che si dovessero aver tutti li matrimoni, col consenso de'
contraenti in qualonque modo celebrati, per validi; Simoneta diceva che quel
distinguer il contratto del matrimonio e dar potestà alla Chiesa sopra
di quello, non sopra di questo, gli pareva distinzion sofistica e fabrica
chimerica, et inclinava assai al non far novità.
Sopra
gl'abusi del matrimonio da molti prelati fu messo in considerazione, che le
cause d'impedir li matrimoni et avergli per nulli, eziandio contratti, erano
tante e cosí spesso occorrenti, che rari matrimoni erano non soggetti ad alcuno
di questi difetti, e quello che piú importava, le persone ignorantemente, o non
sapendo la proibizione, o ignari del fatto, o per oblivione, contraevano, ne'
quali dopo, risaputa la verità, nascevano innumerabili perturbazioni e
scrupoli, et anco liti e contenzioni sopra la legitimità della prole e
le doti ancora. Era allegato particolarmente l'impedimento della cognazione che
nel battesmo si contrae per abuso grandissimo, poiché in alcuni luoghi erano
invitati 20 e 30 uomini per compadri, et altretante donne per commadri, tra
qual tutti, per la constituzione ecclesiastica, nasce spiritual cognazione, e
ben spesso, non conoscendosi tra loro, occorreva poi che si congiongessero in
matrimonio. Molti erano di parere che questo impedimento onninamente si
levasse, non perché da principio non fosse stato con buone raggioni instituito,
ma perché, essendo cessato in tutto e per tutto la causa dell'instituzione,
doveva per ottima raggione cessar l'effetto. Consideravano che allora, quando
quelli che presentavano i fanciulli al battesmo e gli levavano dal fonte, erano
fideiussori appresso alla Chiesa della loro fede futura e però obligati
ad instruirgli, conveniva che, per catechizargli, secondo devenivano capaci,
conversassero frequentemente e familiarmente con la creatura battezata, co'
genitori di lei e tra loro fideiussori ancora; laonde nasceva tra loro certa
relazione, la qual era giusta causa che fosse avuta in riverenza e proibisse la
congionzione coniugale, come tutte le altre, a' quali si debbe riverenza
portare. Ma ne' seguenti tempi, quando totalmente l'uso aveva abolito tutto
quello che era di reale, et il padrino non vedeva mai la creatura sua, né
teneva minima cura dell'instituzione di quella, cessata la causa della
riverenza, la relazione non doveva aver luogo.
Similmente l'impedimento
d'affinità per causa di fornicazione, annullando li matrimoni sino al
quarto grado, essendo che in secreto nasce, era causa d'illaquear molti, quali,
dopo il contratto avisati da chi era stato in causa, s'empivano di
perturbazioni. Alla parentela ancora, cosí di consanguinità, come
d'affinità, era opposto che, non tenendone le persone conto come altre
volte si soleva, al presente a pena nelle persone grandi si ha memoria del
quarto grado, quello si poteva tralasciar. Sopra di che furono assai dispute,
essendo opinione d'alcuni che, sí come per tanti centenara d'anni quelli
impedimenti erano stati osservati sino al settimo grado, et Innocenzo III ne
levò
Molti
sentivano che in queste proibizioni non si facesse novità alcuna, ma ben
che fosse concessa a' vescovi la facoltà di dispensar, e defendevano che
quella stava meglio commessa a loro che alla corte, poiché essi, sopra il fatto
avendo piú chiara cognizione de' meriti e delle cause, potevano essercitar piú
giusta distributiva; che la corte di Roma dà le dispense a persone non
conosciute e che spesso anco le impetrano con inganno, e non vi può
metter diligenza per la lontananza de' paesi; senza che, ricevendo il mondo
scandalo per l'opinione che non siano date se non a chi ha danari, sarebbe
levata quell'infamia. I spagnuoli e li francesi s'affaticavano con
grand'efficacia per questo, ma gl'italiani dicevano che da loro era ciò
procurato per volersi far tutti papi e per non voler riconoscer la Sede apostolica,
e che era utile la difficoltà di mandar a Roma e negoziar l'espedizione
con qualche fatica e spesa, perché a questo modo pochi matrimoni erano
contratti in gradi proibiti. Ma quando col conceder la potestà a'
vescovi si fosse facilitato, in brevissimo tempo le proibizioni sarebbono
andate in niente, e li luterani averebbono guadagnato la loro opinione; anzi
per questa causa fu inclinazione quasi commune di decretare che nissun fosse
dispensato dalle proibizioni, se non per urgentissima causa; nel quale parer entrarono
anco quelli che non avevano ottenuto facoltà per li vescovi, parendogli
esser piú decoro episcopale se quello che a loro era vietato, non fosse ad
altri concesso. In fine di molti discorsi nelle congregazioni fu risoluto di
restringer la parentela spirituale, l'affinità per li sponsali e per la
fornicazione, e regolare anco le dispense tra li termini che si dirà
recitando li decreti.
Ebbe un poco
di contrasto il nono capo, dove è proibito a' superiori di costringer li
sudditi con minaccie e pene a contraer matrimoni, il qual comprendeva
specificatamente l'imperatore e li re. Fu opposto da Gulielmo Cassador, vescovo
di Barcellona, che non era da presupporre ne' prencipi grandi che
s'intromettessero in matrimoni se non per gravissime cause e per ben publico.
Che le minaccie e pene allora sono cattive, quando s'adoperano contra l'ordine
della legge, ma li precetti penali alla legge conformi esser giusti e non
potersi riprender. Se caso alcuno vi è - diceva egli - nel quale il
superior possi commandar un matrimonio giustamente, può anco constringer
con mandato penale a celebrarlo: esser cosa decisa anco da' teologi che il
timor giusto non causa azzione involontaria. Voleva egli che le cause legitime
fossero eccettuate e che il decreto fosse formato sí che comprendesse solamente
quelli che constringono contra il giusto e contra l'ordine della legge: poter
occorrer molti casi in quali la necessità del ben publico ricerchi che
un matrimonio sia contratto, in quali sarebbe contra le leggi divine et umane
dire che il prencipe non potesse e commandarlo e constringer a contraerlo. A
questa raggion aggionse per essempio che del
Nel ponto del
non far menzione de' prencipi fu seguito da molti, e si levò il nome
d'imperatore, re e prencipe; ma del rimanente ebbe grandissima repugnanza, con
questa sola raggione, che il matrimonio è cosa sacra e che la potestà
secolare non può avervi sopra autorità, e che quando pur vi sia
causa legitima per quale alcuno possi esser constretto a matrimonio, questo non
può esser fatto se non con la potestà ecclesiastica. Ma la
narrazione del monitorio di Paolo eccitò gran susurro nella
congregazione e dopo diede materia a discorsi varii. Altri dicevano che
ciò fu fatto dal papa non come prencipe, ma come papa e che aveva
raggione di farlo, essendo Ascanio Colonna suo ribelle e non volendo che co'
matrimonii delle figlie acquistasse nuove aderenze, col favor de' quali si
confermasse nella contumacia. Altri dicevano che il papa, come vicario di
Cristo, non ha ribelli per cause temporali, e che non sarebbe ben fondata
opinione di chi pensasse che il papa, per autorità apostolica, possi
annullar matrimonii altrimenti che per via di leggi o canoni universali, ma non
sopra persone particolari, che di ciò non si addurrà mai
raggione, né se ne troverrebbe altro essempio. Erano anco di quelli che
negavano potersi far fondamento sopra simil azzioni de' papi, le qual piú tosto
mostrano sin dove si può giongere con l'abuso della potestà, che
dove s'estenda l'uso legitimo di quella.
Non minor
difficoltà fu perché quel decreto s'estendeva ancora a' padri, madri et
altri superiori domestici, che constringessero li figli et altri loro creati, e
femine massime, a contraer matrimonio; et era considerato che il venir a
scommunica in casi di questa sorte era cosa molto ardua; e tuttavia non
mancavano d'insister in contrario quelli che per l'inanzi avevano difesi li
figliuoli esser obligati a seguir il voler de' padri in questo particolare. Fu
proposto temperamento che, dopo l'aver commandato sotto scommunica a' superiori
politici, s'aggiongesse che i domestici fossero ammoniti a non constringer li figli
e figlie contra il loro volere; ma ripugnando tuttavia li medesimi che dicevano
non esser giusto levar a' padri la potestà che Dio gl'ha dato, in fine
si deliberò di levar questa parte afatto, non restando il vescovo di
Barcellona et alcuni pochi della medesima opinione di dire che, sí come s'aveva
per chiaro o almeno non si metteva in dubio l'autorità paterna e de
superiori domestici sopra li matrimoni, perilché erano venuti in parere di non
parlarne, si dovesse aver la medesima considerazione alla autorità de'
superiori politici.
Finite le
congregazioni sopra ciò, che l'ultima fu il 31 luglio,
incomminciò a parlar privatamente del clandestino; e perseverando nella
propria opinione l'una [e] l'altra parte, uscirono alcuni con un nuovo parer,
dicendo che quella difficoltà presuppone dogma di fede, e però
non si poteva determinare, essendo contradetto da numero notabile, la qual
opinione partoriva gran travaglio in quelli che desideravano l'irritazione,
parendo che fosse serrata totalmente la porta a poterla ottenere.
[Difficoltà sopra 'l libro
dell'arcivescovo di Toledo]
Nacque in
questi giorni una difficoltà, se ben privata, assai contenziosa; perché,
avendo li padri deputati sopra l'Indice dato di veder l'opera di Bartolomeo
Caranza, arcivescovo di Toledo, ad alcuni teologi e quelli avendo referto che
nel libro non si trovava cosa alcuna degna di censura, la congregazione
l'approvò et, a petizione dell'agente di quell'arcivescovo, ne fece una
publica fede. Ma perché quel libro e l'autore erano sotto la censura
dell'Inquisizione di Spagna, il secretario Castellunne diede aviso e fece
querela col conte di Luna, il qual si dolse co' padri di quella congregazione e
ne ricercò ritrattazione; né inclinando essi a rivocar il decreto fatto,
avendolo per giusto, il vescovo di Lerida, o mosso dal conte o per altra causa,
si diede a parlar contra quel decreto e biasmarlo, portando luoghi del libro,
che con sinistra interpretazione parevano degni di censura; e quello che piú
importava, toccando anco il giudicio e la conscienza di quei vescovi.
L'arcivescovo di Praga, come primo di quella congregazione, per difesa propria
e de' colleghi, fece querela co' legati, ricercando che facessero dimostrazione
e protestando di non intervenire in atto publico sin che la congregazione non
avesse la debita sodisfazzione. Il cardinale Morone s'interpose e
conciliò concordia con queste condizioni: che della fede fatta non se ne
dasse altra copia, che Lerida dasse sodisfazzione di parole alla congregazione
et in particolare a Praga, e che si mettesse da ambe le parti il fatto in
silenzio. Et il conte di Luna con preghiere, a' quali non si poteva repugnare,
ebbe in mano dall'agente di Toledo la fede et in questa maniera fu sedato il
romore.
[I legati propongono agli ambasciatori articoli
di riforma]
Diedero li
legati fuori agl'ambasciatori li capi di riforma, i quali erano in numero 38
(che furono poi divisi, una parte nella sessione immediate seguente et il
rimanente nell'altra, per le raggioni che si diranno), acciò mettessero
in considerazione quello che pareva loro, prima che fossero dati a' padri per
parlarne sopra. Il conte di Luna andò pratticando gli altri ambasciatori
a dimandar che fossero eletti deputati per ciascuna nazione, li quali
considerassero sopra che s'avesse a riformare: imperoché la modula data da'
legati, come fatta secondo gl'interessi romani, non si poteva accommodar
agl'altri paesi; in che il cardinale di Lorena, gl'ambasciatori francesi e quel
di Portogallo contradissero, allegando che poteva ciascuno dir il parer suo
sopra li capi proposti e proporne altri, occorrendo, onde non faceva bisogno
dar questo disgusto al pontefice et a' legati, che non potevano sentir a parlar
di nazioni in concilio; al qual parer accostandosi anco gl'imperiali, il conte
si ritirò, dicendo però che sopra le proposte aveva da far
diverse considerazioni.
Il cardinale
di Lorena consegliò li legati a facilitar quel negozio e levar via tutti
quei capi che si vedesse non poter passar senza molta contrarietà,
aggiongendo che quanto meno cose fossero trattate, tanto meglio era; del che
mostrando di restar con ammirazione il cardinale varmiense, il Lorena,
accortosi di quello che era, lo interpellò se si maravigliava perché non
vedeva in lui quel calore e desiderio di riforma che aveva mostrato altre
volte, e soggionse nondimeno il desiderio esser il medesimo e l'istessa
disposizione dell'animo ad adoperarsi con ogni vigore; ma l'esperienza avergli
insegnato che non solo non si può far in concilio cosa né perfetta, né
mediocre, ma che anco ogni tentativo in quella materia sia per tornar in male.
S'adoperò anco il cardinale col conte di Luna, acciò non cercasse
di differir la riforma totalmente, ma essendovi cosa di non intiera sua
sodisfazzione, si lasciasse intender del particolare, che egli s'averebbe
adoperato per far che fosse compiaciuto.
Gl'ambasciatori
imperiali primi di tutti, il 31 di luglio, diedero in scritto la risposta loro,
nella quale primieramente dissero che, desiderando universal riforma nel capo e
ne' membri et avendo letto gl'articoli essibiti, avevano alcune cose aggionte
et alcune notate, e facevano instanza che secondo quelle fossero corretti e
proposti alla discussione de' padri. E perché Cesare con gl'ambasciatori di
molti prencipi di Germania teneva dieta in Vienna per trattar anco molte cose
spettanti al concilio, fossero contenti di ricever in bene, se, avuto nuovo
mandato da Sua Maestà, all'avvenire gli presentassero ancora altre
considerazioni; che per allora agl'articoli da loro proposti ne aggiongevano 8:
che sia fatta riforma del conclavi in concilio, seria e durabile; sia proibita
l'alienazione de' beni ecclesiastici senza libero e fermo consenso del
capitolo, e questo principalmente nella Chiesa romana; che siano levate le
commende e coadiutorie con futura successione; che siano riformate le scole et
università; che sia ordinato a' concilii provinciali di emmendar li
statuti di tutti li capitoli, e parimente gli sia data autorità di
riformar li messali, breviarii, agende e graduali, desiderando riforma non
tanto de' romani, ma di quelli di tutte le chiese; che li laici non siano
citati a Roma in prima instanza; che le cause non siano avvocate dal foro
secolare all'ecclesiastico sotto pretesto di denegata giustizia, senza
informarsi prima della verità della supplica; che nelle cause profane
non siano dati conservatori.
E sopra li
capitoli da' legati essibiti, notarono molte cose, parte delle quali, essendo
di poco momento, è ben tralasciare. Le importanti furono: che li
cardinali fossero scielti di tutte le regioni, acciò il pontefice
universale venga creato da elettori di tutte le nazioni; che le provisioni
sopra le pensioni, riservazioni e rigressi, abbraccino non solo le future, ma
s'estendino anco alle passate; che il bascio dell'Evangelio nella messa non sia
levato all'imperatore e re, che debbono defenderlo; che sia dicchiarato quali
siano li negozii secolari proibiti agl'ecclesiastici, per non contradire a
quello che già è deliberato nel decreto della residenza; che al
capo di non aggravar gl'ecclesiastici, si eccettui la causa del sussidio contra
li turchi et altri infedeli. Non fu tanto molesta a' legati questa
proposizione, quantonque contenesse cose di dura diggestione, quanto il dubio
posto a capo che dalla dieta di Vienna gli dovesse esser fatta qualche straordinaria
dimanda intorno la mutazione de' riti ricevuti dalla Chiesa romana e
relassazione de' precetti de iure positivo.
Il 3 agosto
diedero li francesi le loro osservazioni, delle quali le essenziali furono: che
il numero de' cardinali non ecceda 24 e non siano creati nuovi sinché il
presente numero non è ridotto a quella paucità; siano assonti di
tutti li regni e provincie; non possino esser doi d'una medesima diocesi, né
piú d'otto d'una nazione; non siano minori di 30 anni; non possi esser assonto
fratello o nipote del pontefice o d'alcun cardinale vivente; non possino aver
vescovati, acciò assistino sempre al pontefice et essendo la
degnità di tutti uguale, abbiano anco un'ugual'entrata. Quanto alla
pluralità de' beneficii, nissun possi averne piú d'uno, levata la
differenza, incognita a' buoni secoli, de semplici e curati, compatibili et
incompatibili; e chi al presente ne tiene molti, ne elegga un solo fra breve
tempo. Che sia levata afatto la resignazione in favore. Che non si debbi
proibir il conferir beneficii a soli quelli che hanno la lingua, perché le
leggi di Francia, senza alcun'eccezzione, proibiscono ad ogni sorte d'esteri
aver ufficii, né beneficii nel regno. Le cause criminali de' vescovi non
possino esser in alcun modo giudicate fuori del regno, essendo antichissimo
privilegio della Francia che nissun, né volontario, né sforzato può
esser giudicato fuori del regno. Che a' vescovi sia restituita la
facoltà d'assolver da tutti i casi senza alcun eccezzione. Che per levar
le liti beneficiali siano levate le prevenzioni, resignazioni in favore,
mandati, espettative et altri modi illegitimi d'ottener beneficii. La
proibizione che li chierici non s'intromettino in negozii secolari sia
esplicata, sí che debbino astenersi sempre da tutte le fonzioni che non sono
sacre overo ecclesiastiche e proprie al loro ordine. Quanto alle pensioni,
siano levate et abrogate le già imposte. Che nelle cause de iuspatronati
in Francia non si parti dall'antico instituto di giudicar in possessorio per
quello che è in ultima possessione, e nel petitorio, per quello che ha
legitimo titolo o possessione longa. Intorno a tutte le cause ecclesiastiche
non sia pregiudicato alle leggi di Francia, che il possessorio sia giudicato
da' giudici regii et il petitorio dagl'ecclesiastici, ma non fuori del regno.
Quanto a' canonici delle catedrali, che niuno sia assonto inanzi 35 anni. Che
quanto al capo continente la riforma de' prencipi, prima sia riformato in
questa sessione intieramente l'ordine ecclesiastico, e quello che appartiene
alla degnità et autorità de' re e prencipi sia rimesso ad
un'altra sessione sussequente, e che allora, circa ciò, nissuna cosa sia
decretata senza aver prima udito essi ambasciatori, che già hanno dato
conto al re di quelle e di altre cose che avevano da proponer. Ma con tutto che
mettessero a campo cose cosí ardue, dicevano nondimeno indifferentemente a
tutti et affettatamente, acciò si publicasse, che essi non averebbono
fatto molta instanza, eccetto a quello che tocca le raggioni e materia secolare
del loro regno. Gl'ambasciatori veneti proposero che il capo de' iuspatronati
fosse accommodato in maniera che non dasse occasione di nuovità intorno
a quelli che sono di raggione della loro republica e prencipe. Gl'ambasciatori
ancora di Savoia e di Toscana fecero le medesime instanze.
In questi
giorni gl'ambasciatori imperiali ebbero commissione dal suo prencipe di far
ufficio, come fecero, co' legati che nella remissione dell'Indice de' libri non
si facesse menzione de' recessi delle diete di Germania, che furono già
proibiti da Paolo IV, e l'ordine dell'imperatore era con qualche acrimonia, ché
in luogo di trattar cose ecclesiastiche, si volesse dar forma alla polizia di
Germania e prestar occasione a quei popoli, che con tali leggi si governano, d'alienarsi
contra il loro voler dalla Chiesa romana. All'ufficio fatto dagl'ambasciatori
fu risposto che esso vescovo di Praga, uno di loro, che era capo della
congregazione, poteva saper se se n'era parlato, il che, se non era, la
Maestà dell'imperatore poteva riposare sopra l'ambasciatore suo, il qual
anco in tutte le cose concernenti li rispetti di Sua Maestà sarebbe
favorito e da loro e dal pontefice.
Il dí
Il dí seguente
fu consulta tra li legati et i 2 cardinali per considerar gl'avvertimenti
degl'ambasciatori e per acconciare li capi di riforma in quel modo che
s'avevano da dar a padri et il modo che si doveva tener nel parlarvi sopra. Nel
che il cardinal di Lorena, avendo avuto nuove lettere di Francia con ordine che
egli e li prelati francesi favorissero le cose del papa, tutto intento a
sodisfar li legati, fu autore che si risolvesse di non lasciar votar sopra
tanti capi in un tratto, ma riportargli in piú volte secondo le materie e
finita una parte, dir sopra l'altra, et accelerar la sessione, lasciando da
parte le cose che si trovassero aver qualche difficoltà, e concludendo
quelle sole in che tutti o gran parte convenissero, et in particolare lasciar
di proponer nel principio quelle dove gl'ambasciatori non convenivano.
[Congregazione publica su l'annullazione de'
matrimonii clandestini]
Il dí 11 si
comminciarono le congregazioni per stabilir gl'anatematismi e decreti del matrimonio;
fu trattato sopra la proposta de' francesi di decchiarar irriti li matrimoni
contratti da' figli di fameglia senza il consenso de' maggiori, e tra li primi
voti vi fu differenza d'openioni. Il cardinal di Lorena approvava, allegando li
luoghi della Scrittura, i quali attribuiscono a' padri il maritar li figli,
dando gli essempii de' matrimoni de' patriarchi Isac et Iacob, aggiongendovi le
leggi imperiali dell'Instituta e del Codice, fatte pur da
prencipi cristiani e di laudatissima memoria; adducendo anco un canone sotto
nome d'Evaristo et un altro del concilio cartaginense portati da Graziano. Fece
narrazione d'inconvenienti che per questa causa nascono; e l'arcivescovo
d'Otranto per l'altra parte tenne parer contrario, opponendo che era dar autorità
a' laici sopra li sacramenti e far creder loro che quell'autorità
d'irritar sia dependente dalla paterna e non dall'ecclesiastica; oltre che
sarebbe un decreto direttamente contrario alla Scrittura divina, la quale
espressamente dice che l'uomo lasciarà il padre e la madre per
congiongersi con la moglie sua, e quanto agl'inconvenienti, farne nascer de
molto maggiori, rimettendo gli figliuoli in quello che tocca alla conscienza a'
padri; e se un padre mai non acconsentisse al matrimonio del figliuolo e che
esso non avesse dono di continenza, si troverebbe in grandissima
perplessità. Parlarono ventinove in quella congregazione e venti furono
di parer che si tralasciasse di trattar quella materia; degli altri, alcuni
approvarono il decreto cosí universalmente, altri, restringendolo, quanto a'
figli, all'età di venti anni e, quanto alle figliuole, di diciotto.
In fine della
congregazione gl'ambasciatori veneziani fecero legger una loro dimanda sopra
l'anatematismo de' divorzii, la qual in sostanza conteneva: che avendo la loro
republica li regni di Cipro, Candia, Corfú, Zante, Cefalonia, abitati da greci,
li quali da antichissimo tempo costumano di ripudiar la moglie fornicaria e
pigliarne un'altra, del qual rito, a tutta la Chiesa notissimo, non furono mai dannati
né represi da alcun concilio, non era giusta cosa condannargli in assenza e non
essendo stati chiamati a questo concilio. Però volessero li padri
accommodar il canone che di quella materia parla, in modo che non facesse a
loro pregiudicio; la qual avendo li legati ricevuto, fecero proporre senza
essaminarla piú minutamente, per la qual causa si levò qualche susurro
tra li padri; e nella congregazione seguente alcuni d'essi toccarono il
medesimo ponto, replicando l'istesso, che non era giusto dannar li greci non
uditi e non citati. Contra che si levò l'arcivescovo di Praga, dicendo
che questo non si doveva dir e che con la citazione generale di tutti li
cristiani s'intendevano essi ancora chiamati dal pontefice. A questo aggionse
il cardinal varmiense che il pontefice aveva ancora mandato specialmente al
duca di Moscovia, invitandolo, e se ben non sapeva che avesse chiamato altri
greci in particolare, nondimeno si doveva presuppor che fosse invitata tutta la
nazione, eziandio con special invito; oltre che bastava, come l'arcivescovo
aveva detto, l'intimazione generale; onde li legati ordinarono al secretario
che dalla petizione de' suddetti ambasciatori si levasse quel particolare,
cioè che li greci non sono stati chiamati; ma cosí per l'esposizione
loro, come perché tornarono in campo quelli che, avendo risguardo all'opinione
di sant'Ambrosio, non volevano usar la parola d'anatema, fu trovato
temperamento di non dannar quelli che dicono potersi sciogliere il matrimonio
per l'adulterio e contraerne un altro, come sant'Ambrosio et altri padri greci
dissero e gl'orientali costumano, ma anatematizar quelli che dicono la Chiesa
fallare, insegnando che per l'adulterio il legame matrimoniale non è
sciolto, né è lecito contraerne un altro, come dicono li luterani. E fu
la formula approvata concordemente, lodandola molti con dire che il concilio
non era congregato se non per dannar le opinioni de' protestanti e non per
trattar quelle delle altre nazioni; restando però alcuni in dubio come
si potesse dannar chi dice la Chiesa fallare, insegnando un articolo, senza
dannar il contrario di quello. Però, vedendo che da tanti era inteso, se
n'acquetarono.
[Disputa del poter della Chiesa in annullare i
matrimonii]
E perché la
proposta de' figli di famiglia introduceva il quesito in generale se la Chiesa
poteva irritar li matrimoni, si voltarono tutti li voti a parlar di questo
novamente, quantonque se n'avesse parlato et i voti fossero stati raccolti, e
fu letto il decreto formato di quelli, come di sopra s'è detto. Il cardinale
Madruccio nel voto suo tenne che non si potessero irritar. Portò molte
raggioni et argomenti per difender il parer suo, lasciandosi intender che si
sarebbe opposto anco nella sessione, il che era anco detto dal varmiense e
Simoneta, e maggior confusione generò che il Lainez, general de'
giesuiti, mandò attorno una scrittura, reprobando l'irritazione, la qual
diede occasione a molti di fermarsi piú animosamente in quell'opinione, e nelle
congregazioni s'incomminciò a risponder alle raggioni l'uno dell'altro
con tanta longhezza, che li legati furono quasi de opinione di tralasciar quel
capo per non impedir la sessione, massime perché il vescovo di Sulmona, primo
di tutti, introdusse a trattar in publica congregazione se quella materia
dell'irritazione era spettante a dogma o a riforma. Et il vescovo di Segovia,
dopo lui, fece longhissimo discorso in mostrar che non si poteva ridur a dogma
e però, avendo la maggior parte approvato l'irritazione, si poteva aver
per stabilito il decreto. Il vescovo di Modena seguí il medesimo parer,
aggiongendo che il trattar quella materia per via di dogma non sarebbe altro se
non chiuder la via al far qualsivoglia riforma, percioché in tutti gli articoli
s'averia potuto suscitare la medesima difficoltà, se la Chiesa ha o non
ha auttorità sopra quel particolare di che si trattasse; il che sarebbe
un por le armi in mano agl'eretici e levar alla Chiesa l'autorità tutta,
non essendo giusto metter mano in quello che è dubio se la
potestà propria si vi estenda. Si dolse che fosse messa in campo quella
questione da chi doveva averla per chiara e decisa. Piacque questo parer a
molti, che dicevano non doversi mai metter in disputa se la Chiesa può o
non può alcuna cosa; ma aver per deciso che, sí come a Cristo è
data ogni potestà in cielo et in terra, cosí altratanta ne ha il
pontefice romano, suo vicario; la qual auttorità essendo communicata da
lui al concilio generale, convien tener per fermo che non manchi potestà
di far tutto quello che è utile, senza metter in disputa se presupponga
dogma o no. Piacque ancora a quelli che desideravano l'espedizione del
concilio, vedendo che la difficoltà promossa portava grand'impedimento
al fine di quello e causava scandalo: onde da' legati e da' principali italiani
fu fatto ufficio a parte che non se ne parlasse, non occorrendo trattarne, né
con francesi, né con spagnuoli, per esser tutti essi in opinione che li
matrimoni clandestini si dovessero irritare; e furono fatte molte adunanze de
prelati, e tra loro e co' legati a quest'effetto, e deliberato che non solo non
fosse posto il decreto insieme con la dottrina, accioché non paresse dogma, ma
ancora che non fosse separatamente posto in un capo proprio, sí che potesse
venir mai in difficoltà, se per tale fosse stato tenuto, ma si mettesse
inserto co' li capi di riforma; e per rimover maggiormente ogni
difficoltà, fu anco deliberato di formar il decreto in maniera che non
paresse trattarsi professatamente di quell'irritazione, ma meschiandolo insieme
col primo capo degl'abusi, il qual era una provisione di restituire le
denonciazioni ordinate da Innocenzo III, che erano intermesse; e nel decretare
cosí queste, come tutte le altre condizioni appropriate per dar al matrimonio
publica forma, s'aggiongesse con due sole parole, quasi incidentemente, che
s'annullavano li contratti fatti altramente, e passarla senza maggior
longhezza. Et a questo senso fu il capo formato e riformato piú volte, e sempre
molto intricatamente e con maggior difficoltà posteriormente che per
l'inanzi.
In queste
riforme, tra le altre alterazioni, fu mutato il punto particolare già
stabilito, come s'è detto, che la presenza di tre testimonii fosse
sufficiente per intiera validità, et invece d'un testimonio, fu
sustituito che, senza la presenza del prete, ogni matrimonio fosse nullo, cosa
di somma essaltazione dell'ordine ecclesiastico, poiché un'azzione tanto
principale nell'amministrazione politica et economica, che sino a quel tempo
era stata in sola mano di chi toccava, veniva tutta sottoposta al clero, non
rimanendo via né modo come far matrimonio, se doi preti, cioè il paroco
et il vescovo, per qualche rispetti interessati, ricuseranno di prestar la
presenza. Non ho trovato nelle memorie chi fosse autore di tanto avvantaggio,
come anco molti altri importanti particolari mi sono restati nascosti, che ne
farei menzione. Sí come non debbo fraudare del debito onore Francesco Beaupere,
vescovo di Metz, al qual parendo impossibile ridur in forma che sodisfacesse
pensieri tanto varii e rapresentargli con le riserve e risguardi cosí sottili,
diede la forma che si vede; la quale, sí come pare soggetta a diverse
interpretazioni, cosí s'accommoda a diverse opinioni. E proposta in
congregazione ebbe voti in favore 133 e 56 che la contradissero espressamente.
Di tutto questo li legati diedero conto al pontefice, dimandando ordine di
quello che si doveva fare e se con contradizzione cosí numerosa, quando non
s'avesse potuto con gl'ufficii vincerla, dovessero o non dovessero stabilir il
decreto.
[Romore di peste in Trento. Moto in Trento per
l'introduzzione dell'Inquisizione spagnuola in Milano]
Occorse un
poco di timore tra li padri per una voce levata che in Ispruc vi fosse la
peste, e già molti si preparavano per la partenza, se il cardinal
Morone, il qual tenendo d'aver le cose in buon termine per finir il concilio,
non avesse fatto venir certezza, la qual era che in Sborri, luogo vicino a
Ispruc
Occorse anco
un moto grande ne' prelati italiani e particolarmente del regno di Napoli e
Stato di Milano, imperoché, avendo sino il mese inanzi proposto il re Catolico
al pontefice di metter nello Stato di Milano l'Inquisizione ad usanza di Spagna
e per capo un prelato spagnuolo, allegando che era necessario per la vicinanza
de' luoghi infetti un'esquisita diligenza per servizio di Dio e mantenimento
della religione, et avuto notizia che il papa ne avesse fatto proposizione in
concistoro, alla quale, quantonque fosse stato contradetto da alcuni cardinali,
il papa ne mostrava inclinazione, persuaso dal cardinale di Carpi, il qual
rappresentava l'opera per utile a tener la città di Milano in devozione
verso la Sede apostolica (officio che egli fece per occolta speranza, fomentata
dall'ambasciator spagnuolo, che per quel servizio dovesse acquistar il favor
del re di Spagna al papato), le città di quello Stato mandarono al
pontefice Sforza Morone et al re Catolico Cesare Taverna e Princisvale Bisosto
et al concilio Sforza Brivio. Questo a pregar tutti li prelati e cardinali di
quello Stato a compatir la patria commune, la qual ridotta in miseria per le
eccessive gravezze, si dissolverebbe afatto con quella che superava tutte,
preparandosi già molti cittadini per abbandonar il paese, sapendo molto
bene che quell'ufficio in Spagna non sempre aveva proceduto per medicar la
conscienza, ma ben spesso anco per votar la borsa e per altri fini mondani; e
se là, sotto gl'occhi del re, quelli che sono preposti a tal officio,
cosí rigidamente dominano li proprii patriotti, quanto maggiormente lo
farebbono in Milano, lontani da rimedio e verso persone meno amate da loro.
Espose il Brivio in Trento il travaglio e pena che sentivano li cittadini
generalmente per sí mala nuova, ricchiedendo li prelati di favore; ma
quell'esposizione maggior dispiacere causava in essi prelati, che ne temevano
piú che li secolari, e quei del Regno dubitavano che, imponendosi il giogo allo
Stato di Milano, non potessero ricusarlo essi, come avevano fatto alcuni anni
inanzi. Si congregarono insieme li prelati lombardi e deliberarono scriver al pontefice
et al cardinale Borromeo lettere da tutti essi sottoscritte; a questo con dire
che era pregiudicio suo, al qual toccava, come arcivescovo, esser il principale
in quell'officio, et al papa con mostrargli che non vi erano né quelle cause,
né quei rispetti che sono nelle parti di Spagna, da porvi sí rigorosa
Inquisizione, la quale, oltre la evidente rovina che apporteria a quello Stato,
saria di gran pregiudicio alla Santa Sede, la qual non potria negare che non si
mettesse ancora a Napoli e si darebbe occasione agl'altri prencipi italiani a
ricercar di far il medesimo anco loro; et avendo quell'Inquisizione
autorità sopra i prelati, la Santa Sede averebbe da loro poca obedienza,
perché sarebbono costretti a cercar di star bene co' prencipi secolari, a'
quali per quella via si troverebbono soggetti; laonde il papa, in occasione di
nuovo concilio, averia pochi prelati da fidarsi et a chi potesse liberamente
commandare; né doversi creder a quello che spagnuoli potrebbono dire che
l'Inquisizione di Milano sarebbe soggetta a quella di Roma, vedendosi per
essempio come operano nella causa dell'arcivescovo di Toledo e che sempre hanno
ricusato di mandar li processi che da Roma gli sono stati ricchiesti; il che
fanno anco gl'inquisitori del regno di Sicilia, dependenti da Spagna. E non
contenti li prelati di questo ufficio e d'altri fatti da loro, ciascuno
appresso li cardinali et altri di Roma con quali potevano, proponevano che si
aggiongesse ne' decreti del concilio qualche parola in favor de' vescovi, che gl'essentasse
o assicurasse, [e] si decretasse il modo di fare li processi in quella materia;
il che, se ben non potesse riuscir nella prima sessione, si deliberasse per la
susseguente. Et il cardinal Morone diede speranza di dar loro sodisfazzione. E
questo accidente tenne cosí occupato il concilio per il numero
degl'interressati che, se non fosse pochi dí dopo arrivata nuova che il duca di
Sessa, avendo sentito il disgusto universale e dubitando per sentori andatigli
alle orecchie che il ducato di Milano non pigliasse essempio da' fiaminghi, che
a punto erano divenuti gueusii (cosí chiamano in quei paesi quelli della
religione riformata) per il tentativo fatto di mettergli l'Inquisizione, non
avesse conosciuto l'intempestività di trattar quel negozio e fatto fermar
gl'ambasciatori destinati al re, promettendo che egli averebbe fatto ufficio sí
che lo Stato averebbe avuto sodisfazzione, era per riuscir cosa di qualche gran
momento.
[Il papa sollecita il fine del concilio]
Il pontefice,
vedute le risposte dagl'ambasciatori date a' capitoli da' legati proposti,
tanto piú si confermò che bisognava metter fine al concilio, altrimente
qualche gran scandalo sarebbe seguito, et aveva per leggieri gl'inconvenienti
preveduti e dubitava di qualche maggior impreveduto; ma vedendo la
difficoltà di metter fine senza terminar le cose perché il concilio era
congregato, se i prencipi non se ne contentavano, deliberò di far
ufficio di questo con tutti. Scrisse di ciò a' noncii suoi in Germania,
Francia e Spagna, ne parlò con tutti gl'ambasciatori residenti appresso
di sé et anco con quei de' prencipi d'Italia; et usava questo concetto: che a
chi l'avesse aiutato a finir il concilio, sarebbe piú obligato che se avessero
fatto assistenza con le armi in qualche gran bisogno. Alli legati rispose che
voltassero la mira principale a finir il concilio et a questo fine concedessero
tutto quello che non si poteva negare per ottener questa intenzione;
s'admettessero manco cose pregiudiciali che possibile fosse; che alla prudenza
e forza loro, che erano nel fatto, rimetteva il tutto, purché al concilio fosse
posto quanto piú presto fine.
Ma li legati,
dopo aver considerato insieme con alquanti prelati, le proposte
degl'ambasciatori sopra la riforma et a loro instanza tralasciati 6 de' capi proposti
e ridottigli a 32, il dí 21 agosto gli diedero a' prelati per parlarne sopra.
Il cardinal di Lorena fece congregazioni particolari de' francesi per
essaminargli, il che era con sodisfazzione de' legati, non solo perché erano
certi che egli caminava con la medesima intenzione di loro, ma anco essendo
desiderosi d'accomodargli a commun satisfazzione prima che se ne parlasse in
congregazione generale, e diedero cura agl'arcivescovi d'Otranto e di Taranto e
vescovo di Parma che ciascuno di essi separatamente, nelle proprie case
congregati li loro aderenti, gl'essaminassero et intendessero quello che
sarebbe di sodisfazzione commune; e continuandosi in questo piú giorni, tra i
spagnuoli et altri italiani non chiamati fu mormorato assai e fatto ammutinamento
per opporsi.
Successe anco
che, andato l'arcivescovo d'Otranto in casa dell'ambasciatore catolico, fu da
lui di questo ammonito, con dirgli che non averebbe voluto aver occasione di
far ufficii appresso il re che non gli piacessero; che quelle particolar
congregazioni erano tanto mal intese da' buoni prelati, che non poteva restar
di darne conto a Sua Maestà. Egli si scusò che tutto era per buon
fine per facilitar la materia e per proveder alle difficoltà inanzi la
congregazione generale; et essendo sopragionto a ponto allora il vescovo
d'Ischia per parlar al conte a nome del cardinal Morone, egli nel medesimo
proposito gli mostrò che gli dispiacevano le private congregazioni e che
teneva openione che non si facessero ad altro fine, se non per metter difficoltà
e tralasciar parte de' capi, a fine di far piú presto la sessione. Con tutto
ciò li legati, piú mirando a sodisfar li prelati che l'ambasciatore,
vedute le cose avvertite in quelle congregazioni, le ricevettero per buoni
avvertimenti et accommodarono li decreti, mutando diversi luoghi et in altri
inferendo secondo quelli.
Ma mentre che
erano per dargli fuori cosí emmendati, arrivò un corriero
dall'imperatore, per instruzzione portata dal quale l'arcivescovo di Praga
ricercò instantemente li legati a non proporre la riforma de' prencipi
secolari, sin che essi avessero risposta da Sua Maestà cesarea; la qual
instanza fece anco dopo loro il conte di Luna. Per questo li legati erano molto
perplessi, poiché già Francia et ora l'imperatore e Spagna non si mostravano
sodisfatti, e dall'altra parte era commun desiderio di tutti li padri che la
riforma si facesse tutt'insieme; onde congregati in casa di Navaggiero
indisposto, vedendo esser necessario dar sodisfazzione agl'ambasciatori,
proposero se si doveva differir tutta la riforma o il capo solo de' prencipi.
Lorena era di parer che questo solo si differisse e si proponesse tutto 'l
rimanente; il che sarebbe piaciuto, quando non fosse restato dubio di dar ombra
a' prelati che la riforma secolare s'avesse da ommetter in tutto e da questo
pigliassero occasione di reclamare, e privatamente e nelle publiche
congregazioni: onde fu risoluto di dar sodisfazzione agl'ambasciatori,
differendo la riforma de' prencipi, ma acciò che li prelati non
interpretassero male, differire almeno la metà degl'altri capi e li piú
importanti, dando fuori il rimanente come gli avevano corretti, per far dir li
voti e celebrar la sessione, se ben la difficoltà che si vedeva nel
decreto de' clandestini, gli faceva dubitare. Et il dí 6 settembre furono dati
fuora 21 capi di riforma con ordine di comminciar il dí seguente le
congregazioni. Nella formazione di questi adoperò tutta l'arte et
ingegno il cardinal Simonetta con gl'altri suoi per caminar con temperamento,
sí che la corte romana ricevesse poco pregiudicio e fosse data sodisfazzione al
mondo, che dimandava riforma, et agl'ambasciatori che la sollecitavano, e
quello che piú di tutto importava, restassero li vescovi contenti, poiché,
volendo finir il concilio, era necessario che essi vi concorressero con buona
volontà.
[Gli articoli sono formati a sodisfazzione di
tutti, e de' vescovi, i quali richiedevano tre punti]
La mira de'
vescovi era una sola, d'aver il governo piú libero; questo credevano dover
ottenere, quando tre provisioni fossero fatte. L'una, che li parochi fossero da
loro dependenti, il che sarebbe successo, quando a loro fosse data la
collazione de' beneficii curati, e questo, oltre le altre difficoltà,
metteva mano nelle riservazioni e regole della cancellaria, che era far una
grand'apertura negl'arcani della corte romana; vedendosi chiaramente che
sarebbe aperta la porta a levargli intieramente tutte le collazioni, che era
torgli ogni potestà e l'istessa vita. Però si venne a temperamento
di tener ferme le riservazioni, ma far patroni li vescovi di dar le cure a chi
loro piacesse, col pretesto d'essamine: et a questo fine fu formato il
diciottesimo capo con l'isquisito artificio che ognun vede, il qual con
speciosa maniera fa il vescovo arbitro di dar il beneficio a chi gli piace e
non leva niente de' guadagni alla corte. L'altro capo era delle essenzioni,
nella qual materia molte sodisfazzioni avevano ricevuto li vescovi per il
passato, e nondimeno fu anco aggionto l'undecimo capo per total complemento.
Restavano le essenzioni degl'ordini regolari, et erano venuti li vescovi in
speranza di poterle afatto levare o almeno moderar in tal maniera che gli
restassero in gran parte soggetti.
Già
sino nel principio dell'anno fu eretta una congregazione sopra la riforma de'
regolari, la qual, con l'intervento de' generali e conseglio d'altre persone
religiose esistenti in concilio, avevano fatto gran progresso e stabilito buoni
decreti senza nissuna contradizzione, perché, quanto al di fuori et alle cose
apparenti, li medesimi regolari non l'aborrivano, ma la desideravano. Quanto al
di dentro e che occorre ne' monasterii, erano molto ben certi che l'averebbono
interpretato e pratticato come a loro fusse piaciuto, anzi avevano per cosa
utile d'aver in scritto riforma ristrettissima, come tutte le loro regole sono
altro in scritto di quello che in osservazione. Ma quando s'incomminciò
a parlar di moderare le essenzioni e sottoporgli almeno in parte a' vescovi,
s'ammutinarono tutt'insieme li generali co' teologi degl'ordini e fecero capo
con gl'ambasciatori de' prencipi, mostrando loro di quanto servizio fossero a'
popoli, alle città et al publico governo, offerendosi, se in loro vi era
abuso di qual si voglia sorte, che si rimediasse; che si contentavano d'ogni
riforma e che, ritornati a' loro governi, erano per esseguirla piú severa di
quello che fosse ordinato, ma che sottopor li monasterii agl'ordinarii era un
disformargli, perché quelli, non intelligenti della vita regolare e della
severità della disciplina con che si mantiene, averebbono disordinato
ogni cosa. Dicevano li vescovi che il privilegio è sempre con detrimento
e disordinazione della legge, che la rivocazione è una cosa favorabile,
ritornando li negozii nella loro natura; che il levargli non era far
novità, ma restituir lo stato antico delle cose. Si rispondeva
dall'altro canto che la essenzione de' regolari per la sua antichità era
cosí ben prescritta, che non poteva chiamarsi piú privilegio, ma legge commune.
Che quando li monasterii erano soggetti a' vescovi, la disciplina ecclesiastica
in essi e ne' loro canonici era cosí regolata e severa che meritava di
sopraintender a tutti. Che volendo restituir l'antichità, conveniva
farlo in tutte le parti. Che quando li vescovi fossero ritornati come in quei
tempi, si poteva sottoporgli li monasterii come allora, ma non era giusto che
dimandassero d'aver sopraintendenza a' monasterii prima che si formassero tali,
quali è necessario che sia il rettor d'una vita regolare. Erano favoriti
li regolari dagl'ambasciatori e da' legati per interesse della corte, la qual
averebbe perso un grand'instromento, quando non fossero stati dependenti da lei
sola; e non gli mancava favore da qualche prelati, che confessavano le loro
raggioni esser buone. Durò questo moto per qualche giorni, rimettendosi
però pian piano, perché ogni giorno li vescovi che l'avevano eccitato vi
scoprivano dentro maggior difficoltà.
Il terzo capo
era per gl'impedimenti che ricevevano li vescovi da' magistrati secolari,
quali, per conservazione dell'auttorità temporale, non lasciavano
trascorrere li vescovi ad essercitar quell'assoluto imperio che averebbono
voluto, non solo sopra il clero, ma ancora sopra il popolo: a questo effetto
era fatto il capo della riforma de' prencipi, del quale s'è fatta
menzione et al suo luogo si parlerà pienamente. Questa parte era stata,
insieme con altre annesse a lei, differita per un'altra sessione, avendola per
cosa difficile e che averebbe potuto molto prolongar; ma li vescovi interpretarono
questa dilazione che fosse a fine di mandarla in niente. Si lamentavano che,
trattandosi di riformar tutta la Chiesa, si riformasse solo il clero. I legati
facevano ogni diligenza per quietargli, mostrando che non era differita questa
sola, ma altri capi ancora che era pur necessario trattare, promettendo che la
dilazione non era se non per far le cose con maggior maturità, ma che si
sarebbono fatte certo; che era necessario facilitar l'espedizione di quella
sessione, la qual sarebbe stata preparatoria all'altra, dove si sarebbe
trattato senza meno il rimanente. Erano tutti intenti li legati per tener la
sessione al tempo determinato, giudicando ciò necessario per ispedir il
concilio presto, e perché il papa, per ogni corriero ordinario senza alcun
fallo e ben spesso con qualche straordinario, faceva loro instanza per
l'espedizione e che lo liberassero dal concilio.
Nella
congregazione de' 7 settembre fu ricevuto fra Martino Roias, ambasciatore
degl'ospitalarii di san Giovanni Gierosolimitano, detti cavaglieri di Malta, il
che fu differito di fare sino a quel tempo per grand'opposizioni che fecero li
vescovi principali, acciò non gli fosse dato luogo superiore, dicendo
non esser giusto che una religione de frati dovesse preceder tutto 'l corpo di
tanti prelati; ma finalmente s'accommodarono e fu nella congregazione publicato
che se gli dava luogo tra gl'altri ambasciatori, senza pregiudicio de' prelati,
che pretendono precedenza. Fece un'orazione l'ambasciatore, scusando il suo
gran maestro d'aver tanto differito di mandar a Trento per li romori
dell'armata de' turchi [e] per le incommodità che ricevevano per Dragut
corsaro, essortò li padri a porger rimedio a' mali presenti, li quali
non toccavano anco poco li frati della sua religione, che non erano membri
oziosi della republica cristiana. Essortò all'estirpazione delle eresie,
offerendo che il gran maestro e la società loro averebbono preso il
patrocinio e difesa, spendendo non solo le facoltà, ma la vita et il
sangue. Narrò l'origine della religione sua, principiata per 40 anni
inanzi che Goffredo passasse all'acquisto della Terra santa, le opere eroiche
fatte da' loro maggiori, alle quali non potevano corrisponder al presente per
esser stati spogliati di gran parte delle loro terre e possessioni; che essi
sono l'antemurale di Sicilia e dell'Italia contra li barbari; perilché pregava
li padri di raccordarsi dell'antichità, nobiltà, meriti e
pericoli di quella società et operare che gli fossero restituite le
possessioni e commende usurpategli, e che dal concilio si decretasse che
all'avvenire non fossero conferite ad altri che a quelli del loro ordine,
confermando l'immunità e privilegii di quello. Gli fu risposto dal
promotore per nome della sinodo, ricevendo l'escusazione e promettendo d'aver
quella considerazione che meritava la dimanda sua intorno al conservare le
commende e privilegii di quella religione. Ma quantonque, ne' giorni seguenti,
appresso li legati facesse la medesima instanza piú volte et essi ne facessero
relazione al pontefice, egli altro mai rispose se non ch'a lui toccava far la
provisione e l'averebbe fatta al suo tempo.
[Rimostranze o correzzioni degli articoli di
riforma]
In quella e
nelle seguenti congregazioni furono dati i voti sopra li 20 capi di riforma
proposti, ne' quali se ben non vi fu cosa di gran momento, nondimeno, per serie
dell'istoria e dicchiarazione di molte cose che occorsero dopo, è ben
far menzione delle principali.
Nel primo
capo, che era dell'elezzione de' vescovi, dicendosi che vi fosse obligo di
proveder del piú degno, tornò la difficoltà un'altra volta
trattata, che era un legar le mani molto strettamente cosí al pontefice nelle
collazioni, come a' re e prencipi nelle nominazioni, se dovessero esser
ristretti a nominar una sola persona; e la maggior parte voleva che, levato quel
comparativo, si dicesse solamente esser tenuti a proveder di persona degna. Ma
dall'altro canto consideravano altri che da' padri era stato sempre usato il
modo di dire che il piú degno fosse preferito, et adducevano la raggione,
perché non può esser senza colpa chi antepone il manco degno, se ben
idoneo, al piú meritevole. Vi fu assai che disputare, ma si trovò modo
d'accommodarla, lasciando in apparenza la voce «piú degno», e parlando prima
co' termini positivi, e poi passando a' comparativi, in maniera che
s'intendesse la provisione libera, e cosí fu usata la forma di dire che si vede
stampata, cioè che vi è obligo di proveder di buoni et idonei
pastori e che mortalmente pecca chi non antepone li piú degni e piú utili alla
Chiesa, restando a queste parole la natural esposizione, che molti sono li piú
degni e piú utili rispetto a molti altri, che sono meno; nella qual amplitudine
ha gran campo l'arbitrio di chi ha da proveder.
Nel capo
terzo fu qualche difficoltà intorno la visitazione degl'arcivescovi. Questi,
allegando li canoni e consuetudini antiche che li soffraganei giuravano
obedienza a' metropolitani et erano pienamente soggetti alla visitazione,
correzzione e governo di quelli, non acconsentivano che fosse fatto pregiudicio
a quell'autorità, e tra questi grandemente si riscaldava il patriarca di
Venezia. I vescovi, particolarmente quelli del regno di Napoli, per il
contrario s'affaticavano a conservar la consuetudine introdotta, per quale non
sono differenti d'autorità, ma di solo nome: ma l'esser il numero de'
vescovi grande e degl'arcivescovi picciolo, et il favore che li legati e
ponteficii facevano a quelli, acciò gl'arcivescovi con la soggezzione
de' soffraganei non acquistassero autorità e riputazione, de' quali
potessero valersi per non star tanto soggetti alla corte quanto sono, fu causa
che non potero ottener se non una sola parola di sodisfazzione, che gli fu
data, non proibendogli di visitare, quando fosse con causa approvata dal
concilio provinciale; di che si dolevano con dire che era afatto un niente,
perché essendo nel concilio provinciale un arcivescovo con molti vescovi, si
poteva aver per chiaro che l'occasione non sarebbe mai nata.
Il sesto capo
era sopra le essenzioni de' capitoli delle catedrali dall'autorità
episcopale, nel quale, avendo grand'interesse li vescovi spagnuoli et a loro
contemplazione il conte di Luna, furono fatte molte restrizzioni et
ampliazioni, ma non però tali che quei prelati restassero contenti, se
ben piú volte fu mutato et in fine anco tralasciato e portato all'altra
sessione, come si dirà.
Il
decimoterzo capo, in quello che tocca le pensioni, parlava generalmente che
nissun beneficio potesse esser gravato di maggior pensioni che della terza
parte de' frutti o loro valore, conforme a quello che fu di costume quando le
pensioni s'introdussero; il che al cardinale di Lorena non pareva conveniente,
poiché vi sono beneficii molto ricchi che, quando anco pagassero due terzi, non
si potrebbono intender gravati, et altri cosí poveri, che non possino sostentar
pensione; però che non era giusta distribuzione questa, ma meglio era
proibire che li vescovati di 1000 scudi e le parochiali di 100 non potessero
esser gravate, e quanto al rimanente, fermarsi: la qual opinione prevalse con
grandissimo piacere de' legati e de' ponteficii, per la libertà assoluta
che si lasciava al pontefice ne' buoni benefici. Furono molti e longhi li
discorsi di quelli che dimandavano moderazione sopra le pensioni, e
riservazioni de frutti già imposte, e sopra gl'accessi e regressi; ma la
difficoltà constrinse ogni uno a metter il tutto in silenzio per la
confusione e disordini che si prevedevano poter seguire, perché tutti
s'averebbono doluto, con iscusa che non averebbono risegnato li beneficii senza
quelle condizioni, e maggiormente quelli che, per ottener tal grazie, avevano
pagato composizione con la camera, averebbono occasione di dolersi che si
levassero le grazie senza restituir li danari, li quali restituire trattava
dell'impossibile. Finalmente ad ognuno parve molto che si provedesse all'avvenire
senza pensar al passato.
Il
decimoquarto capo, che detestava e proibiva ogni pagamento de parte de' frutti
per la collazione, provisione o possesso, piaceva molto a' francesi: dicevano
che per quelle parole era levato il pagamento delle annate; e veramente chi le
considera et essamina, non potrà dargli altra intelligenza; con tutto
ciò l'evento ha mostrato che in Roma non è stato inteso cosí.
Nel
decimosettimo, dove è proibita la pluralità de' beneficii e
concessa la dualità in caso che uno non basti, fu ricercato da alcuni
aggionta, che quei doi beneficii non fossero distanti piú che per il viaggio
d'un giorno, accioché potesse il provisto far parte di residenza in ciascuno di
loro. Ma non potero ottenerlo, né gl'autori s'affaticarono molto, prevedendo
che quel decreto, come anco tutto 'l capitolo, non averebbe avuto essecuzione
se non contra qualche poveri.
Il
decimottavo, se ben piacque, in quanto restituiva infatti la provisione de'
beneficii curati a' vescovi, li francesi però contradissero alla forma
dell'essamine, perché pareva loro che legasse troppo strette le mani al vescovo
in apparenza. Usavano per raggione il dire che quel concorso era un dar luogo
troppo aperto e publico all'ambizione; che l'antichità aveva professato
di dar le chiese a chi le ricusava, e che con quella nuova maniera
s'introduceva non solo il procurarle apertamente, ma il professarsene degno e
procacciarle.
Sopra il
decimonono capo il vescovo di Coimbria s'estese a parlar contra le espettative,
come quelle che facevano desiderar e forse procurar la morte altrui; e delle
riservazioni mentali passò a dire che erano fraudi e puri latrocinii, e
che in fine meglio era lasciar al pontefice l'intiera collazione di tutti li
beneficii, che usar arteficii cosí indegni, come era il voler dar virtú ad un
pensiero non conferito, non publicato e lasciando suspizzione che potesse esser
non capito nell'animo, ma inventato dopo il fatto. Ma il cardinale Simoneta
gl'attraversò il raggionamento con dire che il riprender gli abusi, quando
la provisione non è ancora deliberata, è cosa raggionevole, a
fine di procurarla, ma vedendosi commune disposizione al rimedio e già
formato il decreto, bastava stabilirlo con assentirvi e non moltiplicar per
ambizione in parole di riprensione dove non fa bisogno.
[Lettere del re di Francia a' suoi ministri in
Trento per opporsi alla riforma de' prencipi]
Il dí 11
settembre ricevettero gl'ambasciatori francesi lettere del re de' 28 agosto,
nelle quali significava aver ricevuto gl'articoli communicati a loro da' legati
e veder le cose molto lontane dalla speranza concepita, poiché lo stabilir
quelli era un tagliar le unge a' re e crescer le ecclesiastiche; il che non
volendo egli sopportare, gli commandava di rappresentar a' padri con prudenza,
desterità e vivacità che, sí come ogni prencipe, caminando il
concilio come doverebbe, è in obligo di favorirlo con ogni zelo e
fervore, cosí l'occoltar la piaga che causa li mali presenti e farne una piú
grande con pregiudicio de' re, è molto lontano da quello che
s'aspettava. Che egli veduto aveva come leggiermente passano nel riformar le
persone ecclesiastiche, che hanno causato li scandali a quelli che si sono
separati dalla Chiesa romana, e come s'assummano autorità di levar le
raggioni e prerogative a' re, cassar le ordinazioni reali, le consuetudini
prescritte et immemorabili, anatematizar et escommunicar il re e prencipi,
tutte cose che tendono a seminar disubedienza, sedizione o ribellione de'
sudditi verso li prencipi loro, essendo chiaro a tutto 'l mondo che la
potestà de' padri e del concilio non s'esende se non alla riformazione
dell'ordine clericale, senza toccar cose di Stato, potestà o
giurisdizzione secolare, che è in tutto distinta dall'ecclesiastica, e
che sempre, quando li padri e concilii s'hanno assonto di trattar tal cose, li
re e prencipi hanno fatto resistenza; da che sono procedute molte sedizioni e
guerre dannosissime alla cristianità; gli confortassero, attendendo a
quello che era di loro carico e necessario a' bisogni presenti, tralasciar quei
tentativi che, non avendo mai fatto buon effetto, erano per partorirlo molto
piú cattivo in quei tempi. Soggionse il re che, se li padri con queste
persuasioni non si retireranno, essi ambasciatori debbino opponersi virilmente
e, fatta l'opposizione, senza aspettar il loro giudicio o rimettersi alla loro
discrezione, dovessero partirsi e retirarsi a Venezia, facendo intender a'
prelati francesi che debbino continuare nel concilio, adoperandosi al servizio
di Dio, essendo certo che, dove vederanno esser posto in deliberazione alcuna
cosa contra le raggioni, prerogative e privilegii del re e della Chiesa
gallicana, non mancheranno d'assentarsi come Sua Maestà vuol et intende
che facciano. Scrisse anco al cardinale di Lorena nel medesimo tenore, come
ordinava si parlasse agl'altri prelati, cioè che con la sua presenza non
dovesse approvar alcuna cosa trattata in concilio contra le raggioni regie, ma
assentarsi, se vederà che li padri escano fuori delle cose appartenenti
al loro carico, rimettendosi nel soprapiú all'instruzzione che mandava agli
ambasciatori.
Li francesi,
ricevute queste lettere e communicato il tutto col cardinale di Lorena, col
conseglio suo, ne diedero anco parte a legati, e fecero passarne voce per il
concilio, acciò che, inteso questo, desistessero li vescovi dal dimandar
riforma de' prencipi et essi non avessero occasione di far l'opposizione e
venir a protesti. Ma la cosa partorí contrario effetto, perché li vescovi, i
quali stavano alquanto quieti con l'espettazione che, fatta sessione, si
sarebbe proposta la riforma de' prencipi, intendendo questo di nuovo e vedendo
che si mirava a metterla in silenzio, si diedero a trattar tra loro di non
voler passar piú inanzi negl'atti conciliari, se non era dato fuori e messo in
deliberazione insieme con gl'altri anco quel capo che de' prencipi trattava. E
le prattiche caminarono cosí inanzi che 100 di loro si diedero la parola
insieme di star costanti in queste deliberazioni e, formatane una scrittura
sottoscritta di mano di tutti, andarono a' legati, ricchiedendo che gl'articoli
della riforma de' prencipi fossero proposti e dati a' padri, decchiarando quasi
in forma di protesta che non continuarrebbono in parlare, né concluderebbono
niente sopra gli altri, se non insieme con quelli. Usarono li legati buone
parole con dissegno e speranza di divertir l'umore. In questo moto il conte
Luna comparve di nuovo con la solita instanza che il decreto «Proponentibus
legatis» fosse rivocato, acciò ogni prelato potesse propor le cose che
giudicasse meritevoli di riforma, e dimandò che fosse accommodato a
gusto de' prelati spagnuoli il sesto capo, levando a fatto le essenzioni a'
capitoli de' canonici delle chiese catedrali e sottoponendogli al vescovo; et
essendo comparso in Trento un procurator per nome di quei capitoli, che faceva
ufficio in contrario, gli commandò che non dovesse parlarne.
[La sessione è prolongata col voler del
papa, il quale attrae Lorena in Roma]
Essendo le
cose in questi termini, pensavano li legati a far la sessione con la sola
materia del matrimonio; ma a questo s'opponeva il non esser ancora ben maturate
tutte le difficoltà del clandestino, et anco il sospetto che
gl'ambasciatori avevano che, se si fosse fatta una sessione senza parlar di
riforma, era perduta la speranza che si dovesse trattarne mai piú. Et essendo
anco ben evidente e chiaro che nissuna speranza restava di poter per il tempo
determinato alla sessione aver in ordine cosa alcuna di riforma, li legati,
fatta congregazione generale il dí 15 del mese, proposero di prolongarla sino
a' 11 di novembre, e cosí fu deliberato. La causa di cosí longa dilazione fu
perché il pontefice, vedendo le difficoltà di finir il concilio parte nascenti
per le controversie tra li prelati e parte per le opposizioni dell'ambasciator
di Spagna, pose ogni speranza in superar le difficoltà nel cardinale di
Lorena; onde scrisse a' legati che, quando la sessione non s'avesse potuto far
al determinato tempo, si prolongasse per 2 mesi; e questo fece accioché,
potendo il cardinale trasferirsi a Roma, avesse commodo di divisar con lui
quello che non era possibile far per lettere, né per messi. Sino a quel tempo
non ebbe il papa altra risoluzione che di terminar il concilio, ma allora
deliberò fermamente che, se questo non si poteva, trovandosi per mera
necessità costretto a liberarsene in qualonque modo si fosse, voleva
onninamente dissolverlo. Et accioché fosse preparata ogni disposizione per
venir all'essecuzione, mandò facoltà a' legati di far sospensione
o traslazione, secondo che giudicassero meglio col conseglio de' padri,
scrivendogli che voleva liberarsene in ogni modo, o con metterci fine, se fosse
possibile, il che piú di tutto desiderava; quando no, usar un altro de' doi
rimedii; però facessero opera essi di far nascer occasione d'esserne
ricchiesti, per non mostrar che egli fosse autore, e sollecitassero il viaggio
di Lorena. Perilché egli, fatta la determinazione di prolongar la sessione, il
dí seguente si partí.
Erano nel
pontefice cessati tutti li disgusti di Francia per causa del concilio, né
però era senza ricever continue molestie da quel regno: gli dava molta
noia la quotidiana instanza che gl'era fatta di consentir all'alienazione di
100000 scudi di beni ecclesiastici e le continue detrazzioni che intendeva
usarsi dagl'ugonotti contra lui e la Sede apostolica. Gli fu specialmente
molesto che il cardinale Sciatiglion, il qual, come s'è detto, aveva
deposto ogni abito clericale e si fece chiamar il conte di Beauvois, dopo che
intese dal pontefice esser stato decchiarato privato, sotto il dí ultimo
maggio, del capello in consistorio, reassonse l'abito di cardinale e con
quell'abito si maritò; e nella gran solennità che si fece in
Roano il 13 agosto, quando il re si decchiarò maggiore in parlamento, in
presenza di tutta la nobiltà francese, egli comparve alla
solennità nel medesimo abito, che fu da tutti giudicato una gran
sprezzatura della degnità ponteficia; di che il papa commosso, in questo
tempo fece metter in stampa la sua privazione e ne fece seminar molte copie per
la Francia.
All'arrivo
del cardinale di Lorena in Roma era pochi giorni prima arrivato il noncio del
pontefice residente in Francia, spedito dalla regina per proponer il papa un
abboccamento tra Sua Santità, l'imperatore, re di Spagna et il re suo
figlio, nella comitiva del quale ella ancora si sarebbe ritrovata. Dal
pontefice fu giudicata l'essecuzione impossibile; la proposizione non gli
dispiacque, come quella che molto poteva servir a finir il concilio, e
però diede parola di mandar noncii all'imperatore et al re di Spagna per
questo, e destinò il vescovo di Vintimiglia per Spagna, il qual per
ciò chiamò da Trento, e quello d'Ischia all'imperatore.
Al cardinale
di Lorena fece eccessive dimostrazioni d'onore, l'alloggiò in palazzo e,
cosa insolita, andò publicamente a visitarlo alle stanze sue. I
raggionamenti tra loro furono in parte sopra l'abboccamento, se ben il
cardinale esso ancora non teneva per fattibile. Si trattò della vendita
per 100000 scudi, nel che non è chiaro se gl'ufficii fossero fatti dal
cardinale per promover o per tirar indietro l'essecuzione; anzi, che avendo in
quei giorni il pontefice ad una nuova instanza dell'ambasciatore in quella
materia risposto che la rimetteva al concilio, fu giudicato da molti esser
iscusazione ritrovata da Lorena. Ma il principal negozio fu sopra il finir del
concilio, cosa stimata dal papa per importantissima e conosciuta per
difficilissima, nel che fu somma confidenza tra loro, avendogli scoperto il
cardinale gl'interessi suoi voltati al medesimo e come dopo la morte de'
fratelli vedeva chiaro non esservi altro mezo di sostentar in Francia la
religione e la casa sua che la congionzione con la Sede apostolica. Il papa gli
promise di far cardinali a sua instanza e gli diede tal parole che mostravano
intenzione di farselo succeder nel pontificato; le quali acciò avessero
maggior credenza, mostrava che la grandezza di quel cardinale fosse utile per
li fini che aveva di [qualche novità in Italia. È ben certa cosa
che il pontefice aveva] qualche mira a cosa di gran momento, perché la
conclusione de' raggionamenti suoi con ogni persona era: «Bisogna serrar il
concilio e proveder danari, e poi sarà quello che a Dio piacerà».
Il pontefice
conferí al cardinale che, ad ogni nuova qual gli capitava a notizia delle
discordie e de' allongamenti che altri machinavano, veniva in consultazione di
sospender il concilio; ma era ritirato dalla considerazione del scandalo che
n'averebbe ricevuto il mondo, al quale la verità era incognita, e
dall'un canto quello gli pareva il maggior male che potesse occorrere, e
dall'altro canto lo giudicava inferiore al pericolo che portava
l'autorità sua, la qual era lo scopo dove e prencipi e vescovi et ogni
sorte di persona saettava: ma che finalmente era necessario deponer tutti li
rispetti e venir a questa risoluzione. Il cardinale lo levò di questa
deliberazione con mostrargli che quella non era una medicina da guarir il male,
ma da differirlo con maggior pericolo, perché fra poco tempo averebbe nuove
dimande di restituirlo e macchinazioni di qualonque non fosse ben sodisfatto di
lui; e che il sospenderlo anco era piú difficile che finirlo, perché di questo
non faceva bisogno addur cause: bastava metter ben le cose a segno et intendersi
et esseguire; che la sospensione ricercava allegazione di causa, sopra la quale
ognun averebbe detto la sua; che era anco piú onorevole finire che sospendere,
et altre raggioni usò, che fece conoscer al papa il conseglio esser
buono e fedele, et appresso lo consegliò a parlar apertamente col re di
Spagna.
Perilché,
chiamati a sé gl'ambasciatori di quel re, si querelò con parole
gravissime, dicendo aver congregato il concilio sotto speranza e promessa del
re che le cose del ponteficato sarebbono favorite da Sua Maestà, alla
quale anco aveva dato tutte le sodisfazzioni imaginabili et era per dargli
delle altre, secondo le sue ricchieste, quando fossero levati gl'impedimenti
che portava l'esser aperto il concilio; che egli non aveva dimandata altra grazia
a Sua Maestà et a' ministri se non il fine di quello, per servizio di
Dio e ben commune, et in ciò era trattato molto male, senza che vi fosse
alcun beneficio, anzi molto danno del re. Però era costretto tener conto
di chi faceva stima di lui e gettarsi nelle braccia di chi voleva aiutarlo.
Spedí anco al re un corriero con lettera di sua mano, facendo querela
degl'ufficii che facevano l'ambasciator et altri suoi a Trento, contrarii a
ministri regii di Roma, dicendo l'una e l'altra parte far la commissione di Sua
Maestà; gli mostrò che compliva per servizio di Dio, della Sede
apostolica e della Maestà Sua che quel concilio si finisse, et in fine
lo ricercò d'aperta decchiarazione se in questo era per coadiuvarlo o
no. Lo consegliò anco il cardinale a non si mostrar alieno di conceder
all'imperatore il calice e matrimonio de' preti, che cosí acquisterebbe
l'imperatore et il re de Romani, non tanto consenzienti a finir il concilio, ma
ancora favorevoli e promotori. Parimente gli considerò che era necessario
tralasciar riforma de' prencipi, come cosa che piú d'ogni altra poteva mandar
la negoziazione in longo.
Ma in Trento,
dopo la partita di Lorena, partirono ancora 9 vescovi francesi per tornarsene a
casa, onde non ve ne restarono al concilio piú che 8, oltre 6 che erano andati
a Roma col cardinale. La partita di quelli fece passar voce che fossero stati
ricchiamati di Francia e che ci fosse anco intenzione di ricchiamar gl'altri
per ufficio fatto dagl'ugonotti, acciò, instando il fine del concilio, quando
sarrebbono stati anatematizati, non vi fossero francesi presenti. I legati, per
agevolar le difficoltà del clandestino, fecero far da' teologi una
publica disputa in contradizzione con defensori et oppugnatori, cosa che in
nissun'occorrenza era piú stata fatta in concilio; ma né meno quella partorí
alcun buon effetto, anzi tutti si partivano piú confermati nella propria
opinione. E dopo questo, per reassumer le congregazioni e trattar della
riforma, diedero fuori il rimanente degl'articoli, de' quali l'ultimo era per
riforma de' prencipi, vedendosi costretti a ciò fare per l'ammutinamento
de' prelati.
[Capitolo della riforma de' prencipi sopra le
immunità ecclesiastiche]
Del qual capo
toccante li prencipi avendo fatto tante volte menzione, poiché siamo venuti ad
un luogo che per intelligenza delle cose seguenti è necessario
recitarlo, convien saper che quello conteneva un proemio con 13 decreti, et un
molto pregnante epilogo, la sostanza de' quali era:
Che la
sinodo, oltra le cose statuite sopra le persone ecclesiastiche, ha giudicato
dover emmendar altri abusi da' secolari introdotti contra l'immunità
della Chiesa, confidando che' prencipi se ne contentaranno e faranno render la
debita obedienza al clero. E però gli ammonisce, inanzi le altre cose,
che facciano render da' loro magistrati, officiali et altri signori temporali
quell'obedienza che essi medesimi prencipi sono tenuti prestare al sommo
pontefice et alle constituzioni conciliari: il che per facilitar, rinovando,
statuisce alcune delle cose decretate da' sacri canoni e dalle leggi imperiali
a favor dell'immunità ecclesiastica, le quali debbino esser osservate da
tutti sotto pena d'anatema.
1 Che le
persone ecclesiastiche non possino esser giudicate al foro secolare, ancora che
vi fosse dubio del titolo del chiericato e quantonque essi medesimi
consentissero overo avessero renonciato alle cose impetrate, o per qualsivoglia
altra causa, eziandio sotto pretesto di publica utilità o di servizio
del re, né possino proceder nelle cause d'assassinio, se non sarà vera e
propriamente assassinio e che notoriamente consti, e negl'altri casi dalla
legge permessi, non lo possino far, se non precedendo prima la decchiarazione
dell'ordinario.
2 Che nelle
cause spirituali, matrimoniali, d'eresia, decime, iuspatronatus,
beneficiali, civili, criminali e miste, pertinenti in qual si voglia modo al
foro ecclesiastico, cosí sopra le persone, come sopra li beni, decime, quarte o
altre porzioni spettanti alla Chiesa e sopra li beneficii patrimoniali, feudi
ecclesiastici, giurisdizzione temporale di chiese, non possino li giudici
temporali intromettersi né in petitorio, né in possessorio, levata qualonque
appellazione, o per pretesto di dinegata giustizia, o come d'abuso, o perché
sia renonciato alle cose impetrate; e quelli che nelle suddette cause
ricorreranno al secolare, siano escommunicati e privati delle raggioni che in
quelle gli competivano. E ciò sia osservato eziandio nelle cause
pendenti in qualonque instanza.
3 Non possino
li secolari, eziandio per autorità apostolica o consuetudine
immemorabile, constituire giudici in cause ecclesiastiche, e li chierici che
riceveranno tal officii da' laici, eziandio per vigor di qual si voglia
privilegio, siano sospesi dagl'ordini, privati de' beneficii et officii et
inabili a quelli.
4 Che il
secolare non possa commandar al giudice ecclesiastico di non scommunicar senza
licenza, o di revocar overo sospender la scommunica fulminata; né possi
proibirgli che non essamini, citi e condanni, e che non abbia birraria et
essecutori proprii.
5 Che
imperatore, re o qualsivoglia prencipi non possino far editti o ordinazioni in
qual si voglia modo, pertinenti a cause o persone ecclesiastiche, né
intromettersi nelle persone, cause, giurisdizzioni, né tribunali, eziandio
nell'Inquisizione, ma siano obligati prestar il braccio a' giudici
ecclesiastici.
6 Che la
temporal giurisdizzione de' ecclesiastici, eziandio con mero e misto imperio,
non sia turbata, né meno li sudditi loro nelle cause temporali siano tirati a'
tribunali secolari.
7 Nissun
prencipe o magistrato prometti per brevetto o altra scrittura, o dia speranza
d'aver beneficio alcuno posto nel dominio loro, né gli possi procurar da'
prelati o capitoli di regolari, e chi per quella via ne ottenerà, sia
privato et inabile.
8 Che non
possino metter mano ne' frutti de' beneficii vacanti sotto pretesto di custodia
o iuspatronato o di protezzione. né a fine d'ovviare a discordie, né mettervi
economi o vicarii; e li secolari che accetteranno tal officii e custodie siano
scommunicati, e li chierici sospesi dagl'ordini e privati de' beneficii.
9 Che
gl'ecclesiastici non siano astretti a pagar tasse, gabelle, decime, passi,
sussidii, eziandio con nome di dono o imprestito, cosí per li beni della
Chiesa, come per i patrimoniali, eccettuate quelle provincie dove per
antichissima consuetudine gl'ecclesiastici medesimi ne' publici commicii
intervengono ad imponer sussidii cosí a' laici, come ecclesiastici contra
gl'infedeli o per altre urgentissime necessità.
10 Non
possino metter mano ne' beni ecclesiastici, mobili et immobili, vassalli,
decime et altre raggioni, né meno ne' beni delle communità o de' privati
sopra quale la Chiesa ha qualche raggione; né afflittar pascoli o erbaggi che
nascono ne' terreni e possessioni della Chiesa.
11 Che le
lettere, sentenzie e citazioni de' giudici ecclesiastici, specialmente della
corte di Roma, subito essibite, senza eccezzione siano intimate, publicate et
esseguite, né cosí di questo, come del pigliar possesso de' beneficii s'abbia
da ricercar consenso o licenza, che si chiama Exequatur o veramente Placet,
o con qual si voglia altro nome, eziandio sotto pretesto d'ovviare alle
falsità e violenze, et eccetto nelle fortezze et in quei beneficii dove
li prencipi sono riconosciuti per raggion del temporale. E se vi sarà
dubio, o della falsità delle lettere, o di qualche gran scandalo e
tumulto, possi il vescovo, come delegato apostolico, statuir quello che
sarà di bisogno.
12 Non
possino li prencipi e magistrati alloggiar li suoi officiali, famigliari,
soldati, cavalli, cani, nelle case o monasterii d'ecclesiastici, né cavar da
loro alcuna cosa per il vitto o per il transito.
13 E se alcun
regno, provincia o luogo pretenderà non esser tenuto ad alcuna delle
suddette cose, in virtú di privilegii della Sede apostolica che siano in attual
osservanza, li privilegii debbino esser essibiti al pontefice fra un anno dopo
il fine del concilio, quali siano da lui confermati secondo il merito de' regni
o provincie; e finito l'anno, se non saranno essibiti, s'intendino di nissun
vigore.
E per epilogo
era un'ammonizione a tutti li prencipi d'aver in venerazione le cose che sono
di raggione ecclesiastica, come peculiari di Dio, e non le lasciar offender
dagl'altri, innovando tutte le constituzioni de' sommi pontefici e sacri canoni
in favor dell'immunità ecclesiastica, commandando sotto pena d'anatema
che né direttamente, né indirettamente, sotto qualonque pretesto, sia statuito
o esseguito alcuna cosa contra le persone e beni ecclesiastici, overo contra la
loro libertà, non ostanti qualsivoglia privilegii et essenzioni,
eziandio immemorabili.
E questo
è quello che prima agl'ambasciatori era stato communicato e da loro
mandato ciascuno al suo prencipe e per causa del quale il re di Francia diede
l'ordine agl'ambasciatori suoi, del quale di sopra s'è parlato. E
l'imperatore, vedutigli, scrisse al cardinal Morone che né come imperatore, né
come arciduca assentirebbe mai che si parli in concilio di riformar
giurisdizzione de' prencipi, né di levargli l'autorità d'aver aiuti e
contribuzioni dal clero, considerandogli che tutti li mali passati erano nati
per oppressioni tentate dagl'ecclesiastici contra li popoli e li prencipi. Che
avvertissero di non irritargli maggiormente e far nascer inconvenienti
maggiori.
Gli
ambasciatori francesi, dopo la partita di Lorena, posero in ordine la
protestazione loro, per valersene se fosse stato bisogno. Laonde nella
congregazione de' 22 settembre, dopo che uno de' padri con longa orazione
discorse che la causa d'ogni difformazione procedeva da' prencipi, che quelli
avevano maggior bisogno di riforma, che già erano ordinati li capitoli,
che era tempo di proporgli e non persuadersi di mandargli in niente con le
dilazioni, dopoi che quello ebbe parlato, l'ambasciatore Ferrier fece una molto
longa e querula orazione o, come i francesi dicono, complainte: il
contenuto della quale fu, ne' ponti principali, che essi potevano dir a' padri
quello che li legati de' giudei dissero a' sacerdoti: «Doveremo noi ancora
perseverar digiunando e piangendo?». Sono 150 e piú anni che li re
Cristianissimi hanno dimandato a' papi riforma della disciplina ecclesiastica;
per ciò e non per altro hanno mandato ambasciatori alle sinodi di
Costanza, di Basilea, di Laterano, alla prima di Trento, e finalmente
s'è gionto a questa seconda; quali fossero le dimande loro lo testifica
Giovanni Gerson, ambasciatore nel constanziense, le orazioni di Pietro Danesio,
ambasciatore nel primo concilio di Trento, di Guido Fabro e del cardinal di
Lorena in questo secondo, nelle quali non s'è dimandato altro che la
riformazione de' costumi de' ministri della Chiesa, e con tutto ciò
tuttavia conveniva digiunare e piangere, non 70 anni, ma 200 continui, e Dio
voglia che non siano 300 e molto piú. E se alcun dicesse esser stata data
sodisfazzione con decreti et anatemi, essi però non riputavano che fosse
sodisfar dar una cosa per un'altra in pagamento. Che se si dirà doversi
sodisfar con gran fascio di riforma proposto il mese inanzi, essi sopra quello
avevano detto il loro parer e mandatolo al re; il quale aveva risposto di
vedervi dentro poche cose convenienti alla disciplina antica, anzi molte
contrarie. Non esser quello l'empiastro d'Isaia per sanare, ma quella coperta
d'Ezechiele per far incrudir piú le ferite, quantonque sanate. Ma quelle
aggionte di scommunicar et anatematizar li prencipi esser senza essempio della
Chiesa vecchia et aprire una gran porta alla ribellione; e tutto quel capo che
parla della riforma de' re e prencipi non aver altra mira che a levar la
libertà della Chiesa gallicana et offender la maestà et
autorità de' re Cristianissimi, li quali, ad essempio di Constantino,
Giustiniano et altri imperatori, hanno fatto molte leggi ecclesiastiche che non
solo non hanno dispiaciuto a' papi, ma essi ancora ne hanno inserte alcune ne'
loro decreti e giudicato degni di nome di santi Carlo Magno e Ludovico IX, principali
autori di quelle. Soggionse che li vescovi hanno governato la Chiesa di Francia
con quelle, non solo dopo li tempi della pragmatica o del concordato, ma 400 e
piú anni inanzi il libro de' decretali, e che queste leggi sono state difese e
restituite da' re posteriori, dopo che ne' tempi seguenti gli fu derogato con
sostituirle decretali in luogo d'essi. Che il re, dopo fatto maggiore, voleva
ridur in osservanzia quelle leggi e la libertà della Chiesa gallicana,
imperoché in quelle non vi è cosa contraria a' dogmi della Chiesa
catolica, agl'antichi decreti de' pontefici et a' concilii della Chiesa
universale; passò poi a dire che quelle leggi non proibiscono a' vescovi
il reseder tutto l'anno e predicar ogni giorno, nonché 9 mesi e nelle feste, come
era stato decretato nell'ultima sessione, né meno vietano a' vescovi di viver
con sobrietà e pietà et avendo solo l'uso e non l'usofrutto delle
entrate, distribuirle, o piú tosto renderle a' poveri che ne sono patroni. E
cosí seguí, nominando le altre cose statuite nel concilio con simil forma
d'ironia, che pareva le beffasse. Poi soggionse che la potestà data da
Dio al re e le antichissime leggi di Francia e la libertà della Chiesa
gallicana avevano sempre proibito le pensioni, le renoncie in favore o con
regresso, la pluralità de' beneficii, le annate, le prevenzioni, il
litigar del possessorio inanzi altri che li giudici regii e della
proprietà, o altra causa civile o criminale fuor di Francia, e proibito
anco l'impedir le appellazioni come d'abuso, overo impedir che il re, fondatore
e patrone di quasi tutte le chiese di Francia, non possi liberamente valersi
de' beni et entrate, eziandio ecclesiastiche de' suoi sudditi per instante et
urgente necessità della republica. Disse appresso che di due cose si
maravigliava il re: che essi padri, ornati di gran potestà ecclesiastica
nel ministerio di Dio, congregati solo per restituir la disciplina
ecclesiastica, non attendendo a questo, si fossero rivoltati a riformar quelli
che convien obedire, se ben fossero discoli, e pregar per loro; e che si
possino e debbino senza ammonizione escommunicar et anatematizar li re [e]
prencipi, quali sono da Dio dati agl'uomini, il che non si doverrebbe far manco
in un uomo plebeo perseverante in un gravissimo delitto. Che l'arcangelo Micael
non ardí maledire il diavolo, né Michea o Daniel li re impiissimi, e pur essi
padri versavano tutte le maledizzioni contra li re e prencipi e contra il
Cristianissimo, contra il quale le maledizzioni sono machinate, se
defenderà le leggi de' suoi maggiori e la libertà della Chiesa
gallicana. Concluse che il re gli ricercava di non decretare alcuna cosa contra
di quelle, e se altrimenti facessero, commandava a' loro ambasciatori d'opporsi
a' decreti, sí come allora s'opponevano. Ma se volessero, tralasciati li
prencipi, attender seriamente a quello che tutto 'l mondo aspettava, sarebbe
gratissimo al re, il quale commandava ad essi ambasciatori d'aiutare
quell'impresa.
Sin qui
parlò per nome del re; poi invocò il cielo e la terra et essi
padri a considerare se la dimanda regia era giusta; se sarebbe onesto dar li
medesimi ordini in tutto 'l mondo; se in questo tempo conveniva compatire, non
alla Chiesa, né alla Francia, ma alla dignità d'essi padri e
riputazione, et alle loro entrate, che non possono esser conservate con altre
arti che come furono da principio acquistate; che in tante confusioni conveniva
ravedersi, e quando Cristo viene, non cridare: «Mandaci nel gregge de' porci».
Che se volevano rimetter la Chiesa nella riputazione antica, costringer gl'avversarii
a penitenza e riformar li prencipi, seguissero l'essempio d'Ezechia, che non
imitò il padre empio, né il primo, secondo, terzo e quarto avi
imperfetti, ma andò piú in su all'immitazione de' perfetti maggiori,
cosí allora non bisognava attender a' prossimi precessori, se ben dottissimi,
ma ascender sino ad Ambrosio, Agostino e Crisostomo, li quali vinsero
gl'eretici non armando li prencipi alla guerra e tra tanto attendendo a
mondarsi le unghie, ma con l'orazione, buona vita e predicazione pura; perché
essi, avendo prima formato se stessi in Ambrosio, Agostino e Crisostomo e
purgato la Chiesa, faranno diventar anco li prencipi Teodosii, Onorii, Arcadii,
Valentiniani e Graziani; il che sperando, pregavano Dio che da loro fosse
fatto, e qui finí.
Ma l'orazione
nel medesimo tempo che fu pronunciata irritò sommamente, non tanto li
ponteficii, quanto anco gl'altri prelati, e li francesi ancora; e finita, per
il gran susurro che era, fu necessario finir anco la congregazione. Alcuni la
tassavano d'eresia; altri dicevano che al meno era molto sospetta, et altri che
era d'offesa alle orecchie pie; che a studio aveva preso occasione di farla in
assenza del cardinal di Lorena, che non averebbe comportato quei termini, e che
il fine non era altro se non romper il concilio. Che attribuiva a' re quello
che non gli appartiene. Che inferiva l'autorità del papa non esser
necessaria per valersi de' beni ecclesiastici. Che faceva il re di Francia,
come il re d'Inghilterra. Sopratutto nissuna cosa offese maggiormente, quanto
l'aver inteso che dicesse l'autorità de' re di Francia sopra le persone
e beni ecclesiastici non esser fondata sopra la pragmatica, concordati e
privilegii del papa, ma sopra la medesima legge naturale, sopra la Scrittura
divina, gl'antichi concilii e leggi degl'imperatori cristiani.
Erano anco
gl'ambasciatori francesi ripresi con dire che dovevano prender essempio da'
cesarei e spagnuoli, li quali, quantonque avessero gl'istessi interressi, non
avevano fatto moto, conoscendo di non aver raggione. Si difendeva il Ferrier
con dire che al cardinal di Lorena era stato promesso da' legati di non parlar
piú di quel capo, se non con tal moderazione che non toccasse le cose di
Francia, ma poi era stato altramente operato. Che al cardinale era stata communicata
l'instruzzione regia, onde, se fosse stato presente, averebbe non solo
acconsentito, ma consegliato la protesta. Che erano grand'ignoranti quelli che,
non avendo veduto altro che le decretali, leggi di 400 anni, pensavano che
inanzi quelle non vi siano state altre leggi ecclesiastiche. E chi vorrà
riformar il re per le decretali, egli vorrà riformar loro per il Decreto
e condurli anco a tempi piú vecchi non solo di sant'Agostino, ma degl'apostoli
ancora. Che non faceva il re di Francia come il re d'Inghilterra, ma ben
s'opponeva a quelli che da longo tempo hanno comminciato a crescer la loro
degnità, con dimminuir quella de' re. Che se quegli articoli portassero
tanto danno all'imperatore o al re Catolico come alla Francia, non sarebbono
stati proposti, né si debbe pigliar essempio da chi non ha uguali interressi.
Sopra tutti l'arcivescovo di Sans e l'abbate di Chiaraval furono li piú
disgustati, et andavano dicendo che gl'ambasciatori avevano fatto male
protestando e che il loro fine era stato per metter confusione e dar occasione
che in Francia si facesse il concilio nazionale; che non erano uomini di buona
volontà e che erano creature del re di Navarra, mandati al concilio da
lui per suoi dissegni, et avevano protestato senza commissione del re, e che conveniva
constringergli a mostrar le loro instruzzioni e formar inquisizione contra di
loro, come che sentissero male della fede; di che tra gl'ambasciatori e loro
nacquero gran dispareri. Gl'ambasciatori, il dí seguente, diedero conto al re
delle cause perché avevano differito sino allora e perché in quel tempo erano
stati costretti a passar alla proposta, soggiongendo che averebbono differito a
farla registrare negl'atti del concilio sin tanto che da Sua Maestà
fosse veduta e commandato loro qual fosse la sua intenzione.
I legati, non
avendo copia dell'orazione, ne fecero far una raccolta dalla memoria di quelli
che erano stati piú attenti per mandarla al pontefice, del qual sommario
avendone avuto Ferrier copia, si lamentava che molte cose fossero state espresse
contra la sua intenzione, et in particolare che dove egli aveva nominato le
leggi ecclesiastiche, era stato riposto leggi spirituali, e che diceva che li
re possono prender li beni della Chiesa a beneplacito, dove egli aveva detto:
solo per causa necessaria. Per questo egli si vidde costretto di dar fuori
l'orazione e ne mandò una copia a Roma al cardinal di Lorena, scusandosi
se non aveva usato parole di tanta acrimonia come gli era commandato nelle
ultime instruzzioni e nelle prime che sono riconfermate in quelle; aggiongendo
anco che non poteva tralasciar d'ubedir al re, né meno sottogiacer alle
reprensioni che egli averebbe convenuto soffrire da' conseglieri di parlamento,
quando in un concilio generale, in sua presenza, si fossero determinate cose di
tanta importanzia contra quello che da' parlamenti è stato sostenuto con
tanta accuratezza; senza che, essendo l'autorità regia, che egli
defendeva, sostenuta continuamente per 400 anni dal regno di Francia contra la
guerra fattagli dalla corte di Roma, non era giusto che i padri del concilio,
la maggior parte corteggiani romani, dovessero esser giudici delle vecche
differenze che il regno ha con quella corte. Diede anco copia dell'orazione
agl'ambasciatori et a qualonque ne dimandava, della quale gl'altri dicevano che
altramente la prononciò di quello che poi ha messo in scritto. A che
egli replicava che non sarebbe detto cosí da chi avesse mediocre intelligenza
di latino, e con tutto che fosse medesima la prononciata e la scritta, se essi
l'avevano per diverse, dovevano raccordarsi lo stile della sinodo esser non dar
mai giudicio sopra le cose come erano dette in voce, ma come erano essibite in
scritto, e però a quello attendessero senza mover controversia di cosa
dove era piú giusto creder a lui che ad alcun altro.
Uscita
l'orazione in publico, gli fu fatta risposta da uno innominato sotto nome della
sinodo, dicendo che con buona raggione gl'ambasciatori francesi s'erano
comparati agl'ambasciatori ebrei, avendo, cosí essi come quelli, fatto
querimonia indebita contra Dio, e che ben gli veniva la risposta che il profeta
per nome divino diede a quel popolo: «che se per tanti anni avevano digiunato e
pianto e mangiato e bevuto, tutto era stato per loro proprii interessi». Che li
re di Francia erano stati causa di tutti gl'abusi di quel regno con nominar a'
vescovati persone illiterate, ignare della disciplina ecclesiastica e piú
inclinate a vita lasciva che religiosa. Che i francesi non volevano risoluzione
de' dogmi controversi, acciò che la dottrina cristiana restasse sempre
incerta e fosse dato luogo a' nuovi maestri, che potessero grattar il prurito
delle orrecchie di quella nazione, poco inclinata alla quiete. Che in tempi
tanto turbulenti non avevano risguardo a dire che toccasse al re, ancora giovanetto,
disponer di tutto 'l governo della Chiesa. Che avevano detto asseverantemente
li beneficiali esser solamente usuarii delle entrate, e pur in Francia, da
immemorabile tempo, si sono sempre portati per usufruttuarii, facendo anco
testamento et essendo ereditati da' propinqui, quando muorono intestati. Che il
dire delle entrate li poveri esser patroni, era molto contrario ad un altro
detto nella medesima orazione, che il re era patrone di tutti li beni
ecclesiastici e poteva disponer a beneplacito. Esser una grand'assordità
il non voler che il re possi esser da un concilio generale ripreso, poiché
David re fu ripreso da Natan profeta et admise la reprimanda. Che sentiva
alquanto il fetore d'eresia il tassar li vescovi de' prossimi tempi e de' precedenti,
quasi che non siano stati veri vescovi. In fine si diffondeva la scrittura
longamente contra il detto dell'ambasciatore, che li prencipi sono dati da Dio,
confutandola come eretica e dannata dall'estravagante di Bonifacio VIII, Unam
sanctam, se non si distingueva con dire che sono da Dio, ma mediante il suo
vicario.
Da questa
scrittura mosso, l'ambasciator messe fuori un'apologia in risposta, come se
fosse alla sinodo fatta, dicendo che li padri non potevano rispondergli come il
profeta a' giudei, imperoché essi dimandavano la riforma dell'ordine
ecclesiastico principalmente in Francia, conoscendo in quello il mancamento, e
non come li giudei, a' quali, perché ignoravano li proprii defetti, fu imputata
la causa del digiuno e pianto. Che li padri, ascrivendo a' loro re la causa
della disformazione ecclesiastica, si guardassero di non far come Adamo, quando
rivoltò la colpa sopra la donna datagli da Dio in compagnia, perché essi
confessavano esser grave peccato ai re presentar vescovi indegni, ma maggior
quello de' pontefici d'admettergli. Che avevano ricercata la riforma inanzi li
dogmi, non per lasciargli incerti, ma perché, convenendo in quelli tutti li
catolici, riputavano necessario incomminciar da' costumi corrotti, fonte et
origine di tutte le eresie. Che non si pentiva d'aver detto esser negl'articoli
proposti molte cose repugnanti agl'antichi decreti, anzi voleva aggiongerci che
derogavano anco alle constituzioni de' pontefici de' prossimi tempi. Che aveva
detto Carlo Magno e Ludovico IX aver ordinato le leggi ecclesiastiche con quali
era stata governata Francia, non che il re allora intendesse farne di nuove, e
quando anco avesse cosí detto, averebbe parlato conforme alle Sacre Lettere,
alle leggi civili romane et a quello che scrivono gl'autori ecclesiastici greci
e latini inanzi il libro de' decreti. Dell'aver detto li beneficiali aver il
solo uso delle entrate dimandava perdono, perché doveva dire che erano
solamente amministratori, e quelli che vogliono aver per male quello che ha
detto, si lamentino di Gieronimo, Agostino et altri padri, che non solo dissero
li beni ecclesiastici esser de' poveri, ma che li chierici, a guisa di servi,
acquistavano tutto alla Chiesa. Che mai aveva detto, il re aver libera
potestà sopra li beni ecclesiastici, ma ben che tutto era del prencipe
in tempo d'instante et urgente necessità publica, e chi sapeva la forza
di quelle parole, ben conosceva in quel tempo non aver luogo né ricchiesta, né
autorità del papa. Che aveva ripreso l'anatema contra il re nel modo che
negl'articoli era scritto, e che concedeva potersi riprender li prencipi e
magistrati al modo che Natan fece, ma non provocargli con ingiurie e
maledizzioni. Che avendo con l'essempio d'Ezechia provocato alla riformazione
degl'antichi tempi, non si poteva inferire che non avesse per veri li vescovi
degl'ultimi, sapendo molto ben che li farisei e pontefici sedevano sopra la
catedra di Moisè. Che nell'aver detto la potestà de' re venir da
Dio, ha parlato assolutamente e semplicemente, come Daniel profeta e Paolo apostolo
hanno scritto, non essendogli venuto in mente la distinzione di mediato et
immediato, né la constituzione di Bonifacio, al che, quando avesse pensato,
essendo francese, averebbe riferito anco quello che le istorie dicono della
causa et origine di quella stravagante.
Non fece
l'apologia dimminuir la mala opinione concepita contra gl'ambasciatori, anzi
l'accrebbe, per esser - cosí si diceva - non un'iscusazione d'error commesso,
ma piú tosto una pertinacia in mantenerlo. E varii erano li raggionamenti, non
tanto contra gl'ambasciatori, quanto contra il regno. Dicevano conoscersi
chiaramente qual fosse l'animo di quelli che maneggiavano le cose in Francia.
Notavano la regina madre, che avesse molto credito a' Sciatiglioni, massime al
già cardinale, che potevano appresso lei troppo il cancellier et il
vescovo di Valenza, all'instanza de' quali era stato fatto quel sinistro
rebuffo al parlamento di Parigi con detrimento della religione. Che teneva
intrinseca familiarità con Cursot e con la moglie, quali per causa della
religione non averebbe dovuto lasciar andar al suo conspetto. Che la corte
regia era piena d'ugonotti favoritissimi. Che tuttavia mandava a sollecitar di
poter vender li beni ecclesiastici con tanto pregiudicio della Chiesa et altre
cose di questa natura.
[L'ambasciator di Spagna rinnova l'instanza
del proporre i legati]
Ma mentre il
concilio era tutto in moto per questi dispareri, il conte di Luna, secondo il
suo solito d'aggionger sempre difficoltà a quelle che da altri erano
proposte, fece instanza che si levasse il «Proponentibus legatis». Cosa molto
molesta a loro, che non sapevano come contentarlo senza pregiudicio alle
sessioni passate. Perché non solo la revocazione, ma ogni modificazione o
suspensione pareva una dicchiarazione che le cose passate non fossero successe
legitimamente. Ma l'ambasciator, non vedendo espedizione sopra la dimanda tante
volte fatta, diceva che sino allora aveva negoziato modestamente, e sarebbe
costretto mutar modo e tanto piú parlava arditamente, quanto sapeva che il
pontefice, per le sue instanze passate, aveva scritto che si facesse quello che
era conveniente, nel che la Santità Sua si rimetteva in tutto e per
tutto. Ma li legati, per liberarsi dalle instanze dell'ambasciator, risposero
che lasciavano in libertà del concilio di far la dicchiarazione quando
gli fosse parso, e cosí serviva il nome di libertà nel concilio a coprir
quello che da altri procedeva; imperoché li legati, mentre cosí dicevano,
facevano insieme strette prattiche co' prelati piú congionti, acciò gli
fosse interposta dilazione, cosí per portar questo particolare in fine del
concilio, come per goder il beneficio del tempo, il qual facesse apertura a
qualche modo meno pregiudiciale. Ma il conte, scoperte le prattiche,
preparò una protestazione e ricercò gl'ambasciatori imperiali,
francesi e di Portogallo di sottoscriverla, li quali l'essortarono a non far
tanta instanza per allora; poiché avendo il cardinale Morone convenuto con
l'imperatore che si sarebbe proveduto inanzi il fine del concilio, sin che non
si trattava di questo, non sapevano come poter protestare di quell'altro. Et il
cardinale Morone, per quietar il conte, mandò piú volte il Paleoto a
negoziar con lui il modo come venir all'essecuzione della sua instanza; il
quale non era ben inteso manco da lui medesimo; imperoché né egli averebbe
voluto che fosse fatto pregiudicio a' decreti passati, e con questa condizione
era difficil cosa trovarci temperamento. Finalmente diedero parola li legati al
conte che nella prossima sessione si farebbe la dicchiarazione, purché si
trovasse modo che dasse sodisfazzione a' padri.
Andato a Roma
l'aviso della protesta dell'ambasciator francese, commosse maravigliosamente il
pontefice e tutta la corte, quali credettero che studiosamente fosse fatta per
trovar occasione di dissolver il concilio et imputarlo a loro. Ma sopra tutto
si doleva il pontefice che, mentre il re gli dimandava grazia e concessione de'
100000 scudi d'entrata del clero in Francia, li suoi ambasciatori in faccia di
tutto 'l concilio dicessero che poteva pigliargli senza di lui. E maggior
molestia diede al cardinale di Lorena, il quale l'ebbe per un
grand'attraversamento alla negoziazione che trattava col pontefice.
S'affaticò con grand'efficacia a mostrare che era accidente successo contra
suo voler, il qual indubitatamente sarebbe stato divertito da lui, se si fosse
trovato in Trento; che quella instruzzione mandata agl'ambasciatori era
reliquia de' consegli presi vivendo ancora il re di Navarra e l'essecuzione
procurata da' dependenti di quella fazzione, tra' quali il presidente Ferriero
era uno; che quella fazzione, quantonque professasse la religione catolica in
esterno, aveva però stretta intelligenzia con gl'ugonotti, li quali
vorrebbono qualche dissoluzione del concilio, senza fine quieto, acciò
che non si venisse ad anatematizargli; non però esser senza colpa ancora
quelli che guidano li negozii in Trento, atteso che, inanzi la partita sua da
quella città, le cose intorno quella materia erano accommodate in buon
termine, avendo li legati promesso due cose con che gl'ambasciatori erano
restati quieti: l'una, che non si sarebbe parlato de' re e prencipi supremi, ma
solamente de certi signorotti, li quali non concedono a' vescovi nissun
essercizio della giurisdizzione ecclesiastica; l'altra, che sarebbono
eccettuate tutte le cose dependenti da grazie fatte dal papa, come indulti,
privilegii e concessioni di quella Santa Sede; e con tutto ciò dopo la
sua partita avevano dato a' padri la prima formula con le medesime cose che avevano
promesso di levare. Certificava però che, tutto ciò non ostante,
non sarebbe impedito il quieto fine del concilio, e promise che averebbe
scritto al re e dolutosi delle cose fatte e procurato che gl'ambasciatori
tornassero a Trento, il che sperava d'ottenere.
Scrisse per
tanto secondo questo apontamento in Francia et agl'ambasciatori. A questi con
dire che l'azzione loro aveva questa scusa, che ella era fatta; per tanto che
continuassero per l'avvenire a far il debito loro et a non innovare cosa alcuna
di piú. Al re scrisse che l'opposizione fatta dagl'ambasciatori gl'era parsa
molto strana, e maggiormente che l'avessero fatta senza communicar con lui, e
non vi era né raggione, né occasione di farla; che la sua assenza da Trento era
stata la causa di quel male, perché gl'ambasciatori poco opportunamente avevano
applicato un aspro rimedio ad un leggier male; che al suo ritorno al concilio
egli averebbe proveduto con molta facilità; ma che non potendosi tornar
indietro le cose fatte, pregava Sua Maestà a scriver agl'ambasciatori di
continuar a far il debito loro et astenersi da' consegli violenti. Soggionse
d'aver trovato il pontefice inclinato e ben disposto ad una santa e seria
riforma della Chiesa; che la cristianità è ben felice d'aver un
sí degno pastore, il qual rimandava lui a Trento cosí ben instrutto di tutte le
sue sante intenzioni per metter fine e conclusione al concilio, in modo che si
poteva sperar un felice successo; e perché nel fine del concilio li decreti
doveranno esser sottoscritti da' padri e dagl'ambasciatori che hanno prestato
l'assistenza per nome de' suoi prencipi, pregava Sua Maestà a far
ritornar gl'ambasciatori, acciò fossero presenti e complissero a quello
che era il complimento di tutti li favori fatti, e protezzione tenuta di quel
concilio dalla Maestà Sua, dal fratello, dal padre, e dall'avo.
[Querimonie in Roma contra i prencipi. In
concilio non compariscono piú gli ambasciatori francesi]
Ebbe il
cardinale a defendersi non solo col pontefice, ma anco col collegio de'
cardinali in concistoro, li quali dicevano che li prencipi volevano la
libertà del concilio, non però in cosa alcuna, benché minima e
giustissima, qual a loro toccasse, ma solo a destruzzione degl'ecclesiastici.
Il pontefice ordinò che fosse pensato meglio quello che si dovesse
scriver a Trento in materia di quella riforma, dicendo che non lo faceva per
metter mano nelle cose del concilio, perché voleva lasciar far a' padri, ma
solo ad instruzzione de' legati per via di conseglio. Ma fra tanto rispose a'
legati che, se li francesi volevano partire, partissero, ma che essi non gliene
dassero occasione et attendessero sollecitamente a far la sessione al tempo
deliberato, nel quale Lorena sarebbe stato di ritorno, et a finir il concilio
con un'altra sessione, facendola in termine di 2 o 3 settimane, tenendo
però secreto quest'ordine e non communicandolo, se non a Lorena; e se
da' cesarei gli fosse parlato, rispondessero che, gionto quel cardinale,
averebbono risoluto che fare; e gli fece animo, avisandogli che aveva condotto
la Germania e la Francia al suo dissegno e non vi restava se non Spagna, il
qual aveva risposto non esser ben finirlo, poiché restavano molte cose e le piú
principali a trattare; con tutto ciò aveva anco speranza di ridurlo e
mettervi fine con sodisfazzione commune. E veramente di Francia e Germania era
sicuro, imperoché, oltra la trattazione avuta sopra questo con Lorena, che
l'assicurava abondantemente di Francia, in questi medesimi tempi anco aveva
avuto risoluzione dall'imperatore che si contentava et averebbe coadiuvato al
fine. E se ben il noncio avisava che quella Maestà era stata dubiosa a
risolversi e che vi era pericolo che non si mutasse, nondimeno, intendendo che
il re de' Romani era stato autore di farlo deliberare, dicendo che era ben finirlo,
perché non faceva, né vi restava ponto di speranza che facesse alcun buon
frutto, restava certo che quel re da se stesso e da buona raggione mosso,
averebbe perseverato in proposito, e per consequenza mantenuto il padre in
opinione.
Ma in Trento
gl'ambasciatori francesi, dopo l'orazione, non comparvero piú in publico;
fecero intender a quei pochi prelati che restavano l'intenzione del re esser
che s'opponessero al quinto capo et al secondo, in quanto le persone e cause di
Francia per virtú di quelli potessero esser tirate a litigar fuori del regno,
et al decimonono, in quanto le prevenzioni venivano canonizate e privati li
parlamenti delle loro prerogative nelle cose beneficiali.
I legati,
finito che fu di dire il parer di tutti sopra gli 21 capitoli, proposero di
parlar sopra gl'altri, a che tutti gl'ambasciatori s'opposero per il capo de'
prencipi. Si dolevano li padri che, trattandosi di riformar, come sempre fu
detto, tutta la Chiesa, nel capo e ne' membri, in fine li prencipi non
volessero alcuna riforma se non per l'ordine clericale; il qual anco non poteva
esser riformato se li prelati erano impediti nel far li carichi loro e se non
era conservata la libertà ecclesiastica; e pur tuttavia li prencipi, che
mostravano desiderar riforma, s'opponevano a quel decreto che restituiva loro
la libertà e la giurisdizzione necessaria per riformare. Li legati si
scusavano che non potevano mancar di dar qualche sodisfazzione a' prelati, che
gl'ambasciatori avevano avuto tempo d'allegar li loro gravami e di trattar la
causa con raggione, ma che era troppo violenza l'opponersi solamente de
facto e mostrar che il concilio sia solamente per l'ordine ecclesiastico, e
non per riforma di tutta la Chiesa.
In quei
medesimi giorni arrivò nuova che l'imperator era gravamente ammalato e
gl'ambasciatori cesarei avvertirono che, se fosse morto, il concilio non
sarebbe stato sicuro, perché il salvocondotto sarebbe finito: di che li legati
spedirono in diligenza al papa, dimandando ordine di quello che dovessero fare,
e per quello anco li prelati si disposero al pensar piú al partir di Trento che
al riformar li prencipi. Perilché il dí 7 ottobre fu tenuta una congregazione
per risolver quello che si dovesse far degl'altri capi di riforma oltre li 21,
e massime di quello toccante li prencipi; nella quale, dopo longa discussione,
fu concluso che si celebrasse la sessione con la materia del matrimonio, con
gli 21 capi di riforma e si differisse quella de' prencipi; et il dí seguente
gl'ambasciatori francesi partirono da Trento per Venezia, secondo l'ordine
ricevuto dal re.
[Il papa pronuncia sentenza contra cinque
vescovi francesi e cita la reina di Navarra]
Il pontefice,
se ben sodisfatto del cardinale di Lorena e de' francesi dependenti da lui,
nondimeno irritato contra quella fazzione di onde teneva che fosse venuto il
motivo della protesta fatta in concilio, repigliò la deliberazione fatta
sino al tempo dell'editto di pacificazione con gl'ugonotti, che a Trento si
procedesse contra la regina di Navarra, la qual aveva tralasciata, prevedendo
che dagl'ambasciatori cesarei sarebbe fatta opposizione, come fecero quando si
trattava di proceder contra la regina d'Inghilterra, e risolvé di dar
essecuzione al suo pensiero in Roma, et a' 13 del mese fece publicar la
sentenza contra li 5 vescovi francesi già citati, come s'è detto,
e fece affigger alle porte di San Pietro et in altri luoghi publici una
citazione contra Giovanna, regina di Navarra, relitta di Antonio, che in
termine di 6 mesi dovesse comparir a defendersi e render le raggioni, perché
non dovesse esser dicchiarata privata di tutte le degnità e stati e
dominii, e nullo il matrimonio contratto tra il già Antonio di Vandomo e
lei, e la prole illegitima, et incorsa in altre pene dicchiarate da' canoni
contra gl'eretici. Il cardinale di Lorena, inanzi che il papa venisse a quelle
sentenzie e processo, fece con lui ufficii, raccordando che le massime tenute in
Francia erano molto differenti da quelle di Roma; perilché in quel regno
sarebbe stato sentito male che fossero giudicate cause de vescovi in prima
instanza, e che la citazione contra la regina, cosí per la medesima causa, come
perché era con pene temporali, averebbe dato che dire e mala satisfazzione a
molti; ma quelli ufficii essendo intesi dal papa sí come erano fatti, non
partorirono altro frutto, se non quello che il medesimo cardinale in suo
secreto desiderava. Nel negozio dell'abboccamento, tanto desiderato dalla
regina che con ogni corriero ne faceva nuovo ufficio appresso il pontefice,
quantonque fosse venuto aviso dalla corte imperiale che Cesare non voleva darci
orrecchie, e di Spagna, se ben parole molto compite di desiderio che il re
aveva d'effettuarlo, nondimeno con risoluzione che li tempi e le congiunture
non lo comportavano, fu però di parere il cardinale che, quantonque non
vi fosse alcuna speranza, il papa nondimeno non dovesse restar di mandarci li
noncii espressi destinati per questo, come ufficio dal qual avessero a depender
molte altre negoziazioni in servizio della Sede apostolica, et in particolare
per levar gli impedimenti alla conclusione del concilio, se alcuni fossero
nati; onde furono espediti il Visconte in Spagna et il Santa Croce in Germania,
in apparenza con carico di trattar l'abboccamento, in essistenza con altre
instruzzioni particolari.
[In Trento sono proposte da trattare diverse
materie]
In Trento,
aspettando il tempo della sessione e tra tanto non volendo dar occasione ad
alcuna difficoltà, li legati proposero da trattar delle indulgenze,
purgatorio, venerazione de' santi et immagini, ma per publicare li decreti non
nella sessione immediata, ma nell'altra susseguente, aggiongendo il modo che si
doveva tener da' teologi nell'essaminar quelle materie, cioè che dassero
il loro parer in scritto sopra l'uso solamente di quelle, non s'estendendo a
parlar sopra gl'altri capi, e con ordine a' padri di dover dar il voto loro
brevemente sopra l'istesso, con protestazione che sarebbe stato interrotto
qualonque avesse voluto allongarsi fuori della proposta; con tutto ciò
da' teologi furono fatte scritture longhissime e tanto varie tra loro, che li
padri non sapevano risolversi che dire in quella dottrina.
Della materia
della riforma, se ben li 20 capi erano conclusi e del vigesimoprimo si trattava
col conte di Luna, li prelati spagnuoli fecero indoglienza che il capo
dell'essenzione de' capitoli e l'ultimo delle prime instanze et appellazioni
fossero stati alterati da quello che li prelati avevano notato; di che sdegnati
li legati e li deputati sopra decreti, risposero che o giustificassero quello
che dicevano, o tacessero, et essendo passate qualche parole di disgusto, il
conte di Luna comparve in loro favore, dimandando che fossero messe in
considerazione le opposizioni che a quei 2 capi facevano li suoi prelati.
Ricercò appresso che nel quinto capo, dove erano riservate al papa le
cause criminali de' vescovi, fosse fatta dicchiarazione che non si facesse
pregiudicio all'Inquisizione di Spagna; la qual ricchiesta aveva fatta prima
l'ambasciator di Portogallo per il suo regno. E rispondendo i legati quelle
materie esser già decise, replicò il conte che, se si
proponeranno in quel modo, egli non anderà in sessione, né
lascierà intervenirvi alcuno de' suoi prelati. A che disse il cardinale
Morone che, se non anderanno in sessione, si farà senza di loro. Il
conte ascrivendo quella durezza, che gli pareva aver trovato ne' legati, ad
ufficii fatti dal procurator de' capitol di Spagna, gli commandò che si
partisse immediate da Trento; il che a' legati dispiacque. E tuttavia,
acciò nissun impedimento fosse al far la sessione, il cui tempo era
prossimo, per compiacere l'ambasciator nel capo delle cause de' vescovi, fecero
eccettuar li regni dove era Inquisizione; quanto a quello delle prime instanze,
perché volevano levar totalmente l'autorità al pontefice di poterne
commetter a Roma, pareva cosa troppo ardua a' legati. Il sesto ancora
importava, perché li capitoli di Spagna sono un membro molto principale e piú
dependenti dalla Sede apostolica che li vescovi, perché questi sono tutti a
nominazione del re, ma de' canonicati piú della metà sono di pura
collazione del papa; però risolverono, piú tosto che far pregiudicio a'
canonici, differir quel capo alla seguente sessione, et adoperarono
gl'ambasciatori cesarei a fare che di tanto il conte si contentasse; e cosí
anco quella difficoltà fu sopita.
[Ritorno di Lorena a Trento]
Restava la
dicchiarazione del «Proponentibus legatis». Alla quale non trovando
temperamento, dissero al conte che esso dovesse proponer una formula come
desiderava che si facesse; da che scusandosi egli, deputarono tre canonisti a
trattar con lui e trovar modo che gli piacesse, purché non fosse con
alterazione del modo dato dal papa. Ma opportunamente in quella occasione era
arrivato il cardinale di Lorena, il qual, essendo partito da Roma con
instruzzione e conclusione di tutte le cose e passato da Venezia per trattar
con gl'ambasciatori che ritornassero inanzi il fine del concilio, gionto a
Trento, con la sua destrezza fece ricever al conte con sodisfazzione quel modo;
con che fu posto fine a questa tanto agitata difficoltà con
satisfazzione di tutti, e fu posto per vigesimoprimo capo della riforma, il
qual fu proposto in congregazione tenuta il dí 9 novembre a questo effetto et
approvato con poca repugnanza, dopo che fu levato il sesto; onde, stabilito
questo, furono reletti tutti li capi e detti brevemente i voti; ne' quali il
cardinale di Lorena, per salvar l'onor suo, disse che, quantonque desiderasse
maggior riforma, nondimeno, sapendo che non si può nel principio venir
agl'estremi rimedii, assentiva a' decreti, non giudicandogli bastanti, ma
sperando che il pontefice, o con rimetter in uso i canoni vecchi, o con
celebrar altri concilii generali, li darebbe compimento.
Et è
cosa degna di memoria che in quella congregazione fece una longa digressione in
forma d'encomio della buona volontà del papa del desiderio di veder la
Chiesa riformata et il grado episcopale restituito alla sua antica
degnità et il concilio finito con frutto di tutta la cristianità.
L'arcivescovo di Granata, quando toccò a lui a parlare, esso anco
passò nelle laudi del papa e gl'attribuí altratanta buona volontà
quanto il cardinale aveva fatto, ma soggionse che o veramente il papa giudica
di non poter ordinare come sente, overo non ha autorità di fare che li
suoi ministri e dependenti esseguiscano.
[Precipitazion del concilio al fine]
Qui mi
convien far una gran mutazione di stile e dove nelle narrazioni passate ho
sempre usato quello che è proprio per descriver varietà d'animi e
di pareri, attraversamenti a' dissegni l'uno all'altro e dilazioni interposte
alle risoluzioni, fermandomi per esplicare li consegli di diversi, spesso tra
loro repugnanti: da qui inanzi ho da narrare una mira unica e concordi
operazioni, le quali pareranno volare, piú tosto che correre, ad un solo fine;
delle quali una sol causa ho da render, per non replicarla in tutti li luoghi,
cioè la concorde risoluzione a precipitare il concilio.
Perilché,
semplicemente narrando, mi resta dire che vennero a' legati lettere del
pontefice con risoluzione che il concilio si finisse, quantonque il re di
Spagna ne ricevesse disgusto, perché egli aveva maniera d'accommodarsi con lui;
che stabilissero il decreto del clandestino con maggior unione che fosse
possibile, non restando però di farlo, quantonque continuasse la
medesima opposizione; che quanto alla riforma de' prencipi e restituzione della
giurisdizzione e libertà ecclesiastica, non si descendesse ad alcun
particolare, solo si renovassero li canoni antichi e senza anatemi. E se sopra
altri articoli nascesse difficoltà, si riservassero a lui, che averebbe
provisto, rimettendosi a quel di piú che gl'averebbe detto il cardinale di Lorena,
informatissimo d'ogni sua volontà, al quale dovessero credere. Gli
mandò appresso un formulario di finir il concilio, il qual conteneva che
dovessero esser confermate tutte le cose fatte sotto Paolo e Giulio,
dicchiarate che fossero tutte in un concilio con quello, e che in tutto sia
salva l'autorità della Sede apostolica; che di ogni cosa decretata fosse
dimandata la conferma al pontefice; che sottoscrivessero tutti li padri, e dopo
quelli, ad essempio degl'antichi imperatori, vi fosse la sottoscrizzione degl'ambasciatori,
acciò che li prencipi fossero obligati all'osservanza de' decreti et a
perseguitar con le armi quelli di contraria religione, lasciando però in
potestà d'essi legati che insieme con Lorena aggiongessero, sminuissero,
alterassero, secondo l'opportunità; le qual cose tutte furono tenute
secretissime sino dopo la sessione per maneggiarle, come si dirà.
[Ottava sessione. Lettura della dottrina e
della riforma]
Arrivò
l'11 di novembre, nel qual fu tenuta la sessione con le solite ceremonie. In quella,
dovendosi dir li voti nella materia del matrimonio clandestino, il cardinale
varmiense, che la teneva materia di fede e non sentiva che la Chiesa vi avesse
sopra autorità, non volse intervenir, iscusandosi che, quando si
trattasse di cosa de iure positivo, non averebbe giudicato inconveniente
dir il suo voto con libertà, quantonque dovesse esser decretato in
contrario, ma che in questo sarebbe stato costretto dire, per satisfar alla sua
conscienza, che la sinodo non poteva far quel decreto, il che averebbe potuto
causar qualche disgusti, da che egli era molto alieno. Fece il sermone
Francesco Ricardoto, vescovo d'Arras, dove ammoní il concilio che, essendo
oramai 2 anni, che quella santissima sinodo stava per partorire e stando ognuno
in espettazione qual debbia riuscire il suo parto, non conveniva che mandasse
in luce un parto troncato o mutilato, che il mondo aspetta una prole soda et un
parto integro; il che per mandar ad effetto, conveniva che risguardino
gl'apostoli e martiri e l'antica Chiesa, e farla essemplare di onde pigliar li
lineamenti della prole che è per partorire: che queste sono la dottrina,
la religione, la disciplina, quali tutte, essendo degenerate in questi tempi,
convien restituire all'antichità, e questo esser quello che tanto tempo
si è aspettato e tuttavia s'aspetta. Finite le ceremonie, furono lette
le lettere di madama reggente di Fiandra della missione di 3 prelati al
concilio, il mandato del duca di Fiorenza e quello del gran maestro di Malta;
dopoi dal vescovo celebrante fu letta la dottrina e gl'anatematismi del
matrimonio, a' quali tutti acconsentirono. Letti li capi della riforma del
matrimonio, al primo dell'annullazione del clandestino, il cardinale Morone
disse che gli piaceva, se fosse piacciuto al papa. Simoneta disse che non gli
piaceva, ma si rimetteva al papa; degl'altri, 56 voti fuorono che assolutamente
dissero non piacergli, gl'altri l'approvarono.
Furono dopo
letti li decreti di riforma, e gionto al quinto, delle cause criminali de
vescovi, sentendosi eccettuati li regni dove si trova Inquisizione,
s'eccitò moto grandissimo tra li padri, dicendo confusamente li lombardi
e napolitani che quell'eccezzione non fu mai proposta in congregazione e che si
levasse via, in modo che fu necessario levarla allora; e dopo il cardinale di
Lorena sopra il medesimo capo disse che approvava il decreto con la condizione
che non faccia pregiudicio alcuno a' privilegii, raggioni e constituzioni de'
re di Francia, sí come era stato concluso nella congregazione del giorno
inanzi, dicchiarando che non facevano pregiudicio all'autorità di
prencipe alcuno; et in fine de' decreti, per nome suo e degl'altri vescovi
francesi, fece una protesta in tutto conforme alla fatta doi giorni inanzi
nella congregazione, cioè che la loro nazione riceveva quei decreti non
come perfetta riforma, ma come preparazione ad una intiera, sotto speranza che
il papa supplirà col tempo et occasione li mancamenti, ritornando in uso
gl'antichi canoni, overo celebrando altri concilii generali, per dar complemento
alle cose incomminciate; e ricercò per nome di tutti li vescovi francesi
che questo fosse inserto negl'atti del concilio e ne fosse fatto publico
instrumento. Furono diverse altre cose da altri aggionte e fatte alcune
opposizioni non di gran momento ad alcuni altri de' capi, sopra le quali,
nascendo qualche differenze, per esser l'ora tarda, che già erano le 2
di notte, fu detto che s'accommoderebbe in congregazione generale, e per fine
della sessione fu letto il decreto d'intimazione della seguente per li 9 decembre,
con potestà d'abbreviarla, esplicando che s'averebbe trattato del sesto
capo, differito per allora, e degl'altri capi di riforma essibiti, e d'altre
cose pertinenti a quella; aggiongendo che, se parerà opportuno et il
tempo lo comporterà, si potrà trattar d'alcuni dogmi, come
saranno proposti al suo tempo nelle congregazioni.
[Dottrina del matrimonio]
La dottrina
del sacramento del matrimonio conteneva che Adamo prononciò il legame
del matrimonio esser perpetuo e che due sole persone possono esser congionte
con quello; cosa che fu dicchiarata piú apertamente da Cristo, il qual anco con
la sua passione ha meritata la grazia per confermarlo e santificar quelli che
si congiongono. Il che è accennato da san Paolo, quando disse
quell'esser gran sacramento in Cristo e nella Chiesa: laonde, eccedendo il
matrimonio nella legge evangelica li vecchi maritaggi in questo di piú, che
è la grazia, meritamente è numerato per uno de' sacramenti della
nuova legge. Onde la sinodo, condannando le eresie in questa materia, statuisce
gl'anatematismi:
1 Contra chi
dirà che il matrimonio non sia uno de' 7 sacramenti instituito da Cristo
e non conferisca la grazia.
2 Che sia
lecito a' cristiani d'aver piú mogli insieme, e questo non esser proibito da
alcuna legge divina.
3 Che li soli
gradi di consanguinità et affinità espressi nel Levitico possono
annullar il matrimonio, e che la Chiesa non possi aggiongerne altri, né
dispensar in alcuni di quelli.
4 Che la
Chiesa non possi statuir impedimenti o aver fallato nel statuirne.
5 Che uno de'
coniugati possi scioglier il matrimonio per l'eresia, per molesta
conversazione, o volontaria assenza dell'altro.
6 Che non si
sciolga il legitimo matrimonio non consummato per la solenne professione
religiosa.
7 Che la
Chiesa abbia fallato insegnando che per l'adulterio non può esser
disciolto il legame matrimoniale.
8 Che la
Chiesa commetti errore separando li maritati a tempo terminato o indeterminato
quanto alla congionzione carnale o quanto all'abitar insieme.
9 Che li
chierici di ordine sacro o li professi regolari possino contraer matrimonio, e
che tutti che non sentono il dono della castità, possino maritarsi,
essendo che Dio non nega il dono a chi glielo dimanda.
10 Chi
anteponerà lo stato congiugale a quello della virginità o
castità.
11 Che la
proibizione delle solennità nuzziali in certi tempi dell'anno sia
superstizione o dannerà le benedizzioni et altre ceremonie.
12 Che le
cause matrimoniali non pertenghino a' giudici ecclesiastici.
Li decreti
della riforma del matrimonio contenevano:
1 Che
quantonque sia cosa certa che li matrimoni secreti sono stati veri e legitimi
mentre la Chiesa non gl'ha annullati, e che la sinodo anatematiza chi non gl'ha
per tali, insieme con quelli che asseriscono li matrimoni contratti da'
figliuoli di famiglia senza il consenso de' padri esser nulli, e che li padri
possono approvargli e reprovargli, nondimeno la Chiesa santa gl'ha sempre
proibiti e detestati; e perché le proibizioni non giovano, la sinodo commanda
che il matrimonio, inanzi sia contratto, sia denonciato nella chiesa 3 giorni
di festa, e non scopertosi alcun impedimento, si celebri in faccia della
chiesa, dove il paroco, interrogati l'uomo e la donna, udito il loro consenso,
dica: «Io vi congiongo in matrimonio in nome del Padre, Figlio e dello Spirito
Santo», [o] usi altre parole consuete in quella provincia. Remise però
la sinodo all'arbitrio del vescovo il tralasciar le denunziazioni, ma
dicchiarò inabili a contraer matrimonio quelli che tentassero di
contraerlo senza la presenza del paroco, o altro prete di tal autorità,
e doi o tre testimonii, irritando et annullando tal contratti con pena a'
contrafacienti. Dopo essorta li congiugati a non abitar insieme inanzi la
benedizzione e commanda al paroco d'aver un libro, dove li matrimoni cosí
contratti siano scritti. Essorta i congiugati a confessarsi e communicarsi
inanzi il contratto o la consummazione del matrimonio, reserva le consuetudini
e ceremonie di ciascuna provincia, volendo che il decreto abbia vigore 30 dí
dopo che sarà publicato in ciascuna parochia.
2 Intorno
gl'impedimenti matrimoniali afferma la sinodo che la moltitudine de' decreti
causava gran peccati e scandali, però restrinse quello della cognazione
spirituale a quello che è tra il battezato e padre e madre di quello con
i padrini, et il numero di questi ad un uomo et una donna solamente. Il
medesimo ordinando quanto alla parentela che nasce per il sacramento della
confermazione.
4 Quello
dell'affinità fornicaria, al primo e secondo.
5 Sopra le
dispense del già contratto matrimonio, levò la speranza di quelle
a' contraenti scientemente in gradi proibiti et a quelli che, anco
ignorantemente, avessero contratto senza le solennità; in caso di
probabil ignoranza, si possi conceder dispensa gratuitamente. Ma per contraerlo
in gradi proibiti, overo non si dia mai dispensa, overo rare volte con causa, e
senza spesa; né meno nel secondo grado, se non tra gran prencipi per causa
publica.
6 Che non
possi esser contratto matrimonio con una donna rapita, mentre sarà in
potestà di chi la rapí; dicchiara gli raptori e chi gli assiste di
conseglio, aiuto o favore, scommunicati, infami, incapaci d'ogni
degnità, e chi averà rapito donna, o pigliandola o non
pigliandola in moglie, sia tenuto dotarla ad arbitrio del giudice.
7
Ordinò che li vagabondi non siano admessi a' matrimoni, se non fatta
diligente inquisizione e con licenza dell'ordinario, essortando li magistrati
secolari a punirgli severamente.
8 Contra li
concubinarii ordinò che, ammoniti 3 volte dall'ordinario, non si
separando, debbiano esser scommunicati; e perseverando anco un anno dopo la
censura, l'ordinario procedi contra loro severamente, e le concubine, dopo tre
ammonizioni, siano punite e, parendo cosí al vescovo, scacciate dalle terre
anco con l'aiuto del braccio secolare.
9
Commandò in pena di scommunica a qualonque signore temporale e
magistrato di non costringer li sudditi o qualsivoglia altri direttamente o
indirettamente a maritarsi.
10 Restrinse
le proibizioni antiche delle solennità delle nozze dall'Advento
all'Epifania e dalle Ceneri all'ottava di Pasca.
Li decreti di
riforma, non nel modo che furono letti in sessione, ma come corretti il giorno
seguente la sessione nella congregazione, come s'appontò di dover fare,
contenevano:
1 Che,
vacante la chiesa, siano fatte publiche preghiere; che chi ha alcuna raggione
di metter bocca nella promozione, siano ammoniti di peccato mortale, se non
useranno ogni diligenza acciò siano promossi quelli che giudicano piú
degni et utili alla Chiesa, nati di legitimo matrimonio et ornati di vita,
età, dottrina et altre qualità requisite da' sacri canoni e da'
decreti di quel concilio. Che in ciascuna sinodo provinciale, con approbazione
del pontefice, sia prescritta una propria forma dell'essamine, conveniente a
ciascun luogo, da usarsi, e secondo quell'essamine fatto, sia mandato al papa
per esser discusso da' cardinali e proposto in consistorio; e che tutti li
requisiti per decreto della sinodo di vita, età, dottrina et altre
qualità nella promozione de' vescovi siano ricchiesti nella creazione
de' cardinali, ancorché diaconi, li quali il pontefice, per quanto potrà
commodamente, gl'assumerà di tutte le nazioni et idonei. In fine
aggionse che, mossa la sinodo da' gravissimi incommodi della Chiesa, non
può trattenersi di ricordar quanto sia necessario che il pontefice per
suo debito s'adoperi ad assumer cardinali eccellentissimi e proveder alle
chiese d'idonei pastori, tanto piú perché, se le pecorelle per negligenza de'
pastori periranno, Cristo ne dimanderà conto alla Santità Sua.
2 Che il
concilio provinciale sia congregato dal metropolitano o dal suffraganeo piú
vecchio, al piú longo fra un anno dal fine di questo concilio, e dopo almeno
ogni biennio. Che li vescovi non siano costretti all'avvenire andar alla chiesa
metropolitana. Che li non sottoposti ad alcun arcivescovo, ne eleggano uno
nella sinodo provinciale, nella quale debbia intervenire e ricever le
ordinazioni di quella, del resto rimanendo salvi le essenzioni e privilegii
loro. E le sinodi diocesane siano celebrate ogn'anno, intervenendovi eziandio
gl'essenti, eccettuati quelli che sono soggetti a' capitoli generali, li quali
però avendo chiese secolari annesse, per raggion di quelle debbiano
intervenirvi.
3 I vescovi
siano tenuti visitar in propria persona o per mezo di visitatori la diocesi
ogni anno, tutta, potendo, e quando sia molto ampla, almeno in doi anni. I
metropolitani non possino visitar la diocesi de' suffraganei, se non per causa
approbata nel concilio provinciale. Gl'arcidiaconi et altri inferiori debbiano
visitar in persona e con notario assonto di consenso del vescovo, e li
visitatori capitolati siano dal vescovo approvati. E li visitatori vadino con
modesta cavalcata e servitú, ispedendo la visita quanto prima, né possino
ricever cosa alcuna, eccetto il viver frugale e moderato, il qual però
gli possi esser dato o in robba, o in danari, dovendosi osservare il costume,
dove non è consueto di non ricever manco questi. Che li patroni non
s'intromettino in quello che tocca l'amministrazione de' sacramenti o la visita
degl'ornamenti della chiesa, beni stabili overo entrate di fabriche, se per
fondazione non gli convenirà.
4 Che li
vescovi in propria persona siano tenuti predicare, et avendo legitimo
impedimento, per ministerio d'altri. Il paroco ancora, nella propria chiesa,
essendo impedito, per un deputato dal vescovo, a spese di chi è tenuto o
suole condurlo; e questo almeno ogni dominica e festa solenne, e l'Advento e
Quadragesima ogni giorno o tre alla settimana. Che il vescovo ammonisca ogni
uno d'andar alla propria parochia ad udir la predica. Che nissun predichi
contradicendo il vescovo, il qual abbia anco cura che sia insegnata la dottrina
cristiana in tutte le parochie.
5 Che le
cause criminali gravi contra li vescovi siano giudicate dal papa, e se
sarà bisogno commetterle fuori di corte, non siano commesse se non al
metropolitano o a' vescovi eletti dal papa, né meno con maggior autorità
che di pigliar informazione, riservata al papa la definitiva; ma le cause piú
leggieri siano giudicate in concilio provinciale o per deputati da quello.
6 Che il vescovo
possi dispensar nel foro della conscienza li suoi sudditi in tutte le
irregolarità e sospensioni per delitto occolto, eccetto che per omicidio
volontario, et assolver da tutti li casi riservati alla Sede apostolica o in
persona propria, o per un vicario, et ancora dall'eccesso d'eresia, ma questo
non possi esser commesso a' vicarii.
7 Che il
vescovo abbia cura che inanzi l'amministrazione de' sacramenti sia esplicato al
popolo la loro forza et uso in lingua volgare, secondo la riforma d'un
catechismo, che la sinodo componerà, il qual il vescovo farà
tradur fedelmente in volgare e che da' parochi sia decchiarato al popolo.
8 Che a'
publici peccatori sia data publica penitenza, potendo il vescovo commutarla in
altra secreta. In ogni chiesa catedrale sia constituito dal vescovo un
penitenziero, maestro, dottor o licenziato in teologia o canonico, d'età
di quarant'anni.
9 Che li
decreti del concilio sotto Paolo III e Pio IV circa il visitar li beneficii
essenti siano osservati nelle chiese che non sono d'alcuna diocese, quali siano
visitate dal vescovo piú vicino, come delegato dalla Sede apostolica.
10 Che dove
si tratta di visita o correzzione de' costumi, nissuna essenzione o
appellazione interposta, eziandio alla Sede apostolica, impedisca o sospenda
l'essecuzione del decretato o giudicato.
11 Che per li
titoli d'onor che si dànno a protonotarii, conti palatini, capellani
regii overo de serventi a milizie, monasterii, ospitali, non siano essenti
quelle persone dall'autorità de' vescovi, come delegati dalla Sede
apostolica, eccetto se questi resederanno nelle case o sotto l'obedienza, et i
capellani regii secondo la constituzione d'Innocenzio III. E le essenzioni
concesse a famigliari de' cardinali non s'estendino in quello che tocca alli
beneficii.
12 Che alle
degnità che hanno cura d'anime non sia promossa persona minor de 25 anni
e gl'arcidiaconi, dove si può, siano maestri in teologia overo dottori o
licenziati in iure canonico; alle altre degnità che non hanno
cura non siano promossi minori di 22 anni. I provisti de beneficii curati fra
doi mesi siano tenuti far la professione della fede, et il medesimo li
canonici, e nissun sia ricevuto a degnità, canonicato o porzione, se non
sarà ordinato dell'ordine sacro che quella ricerca, overo in tal
età che possi riceverlo. Che nelle chiese catedrali tutti li canonicati
e porzionarii siano presbiterati, diaconati o suddiaconati, et il vescovo col
capitolo distribuisca quanti debbino esser per ciascuno ordine, ma in maniera
che la metà almeno siano presbiterati. Essorta anco la sinodo che tutte
le degnità e la metà de' canonicati nelle chiese catedrali e
collegiate insigni debbino esser conferiti a' dottori in teologia o in
canonico, e nissun di essi possa star assente piú di 3 mesi all'anno. Che le
distribuzioni quotidiane sotto qualonque pretesto non siano date a chi non
intervenirà negl'officii, et ogni uno sia obligato far il suo officio in
persona propria, non per sustituti.
13 Essendo
molte chiese catedrali povere, nel concilio provinciale si deliberi il rimedio
e si mandi al papa, il quale provegga secondo la sua prudenza. Alle povere
chiese parochiali ancora il vescovo averà cura di proveder o con
l'unione di qualche beneficio non regolare, o con assignazione di primizie o di
decime, o per contribuzioni e collette de' parochiani. Non si possino unire
chiese parochiali a' monasterii, canonicati, beneficii semplici e milizie, e
gl'uniti siano revisti dagl'ordinarii, e per l'avvenire le catedrali che ducati
1000, e le parochiali che ducati 100 non eccedono, non siano gravate de
pensioni o riservazioni de frutti. Dove le parochiali non hanno certi confini,
ma li sacramenti sono amministrati indifferentemente a chi gli dimanda, il
vescovo faccia che siano confinate et abbiano il proprio paroco, e nelle città
dove non vi sono parochie, siano erette quanto prima.
14 Detesta la
sinodo e proibisce tutte le instituzioni o consuetudini di pagar alcuna cosa
per l'acquisto de titoli o possessioni, eccetto se s'ha da convertir in qualche
usi pii, decchiarando per simoniaci quelli che le usurperanno.
15 Nelle
catedrali e collegiate dove le prebende e distribuzioni sono troppo tenui,
possi il vescovo unirvi beneficii semplici o ridurgli a minor numero.
16 Vacante la
sede episcopale, il capitolo elegga uno o piú economi o un vicario fra termine
di otto giorni, altrimenti quest'autorità si devolvi al metropolitano,
et il vescovo, quando sarà creato, si faccia da loro render conto
dell'amministrazione e possi punirgli se averanno commesso fallo.
17 Che
nissuna persona ecclesiastica, ancorché cardinale, possi aver piú d'un
beneficio, il qual, se non basta per viver onestamente, se gli possi aggionger
un altro beneficio semplice; purché tutti doi non ricerchino residenza
personale, il che s'intenda di tutti li beneficii, cosí secolari, come regolari
di qual titolo o qualità si voglia, eziandio commendati; e chi di
presente ha piú beneficii curati sia obligato fra sei mesi, ritenutone un solo,
lasciar gl'altri, altrimenti tutti s'intendino vacanti. Desidera però la
sinodo che sia provisto a' bisogni de' resignanti in qualche modo commodo, come
meglio parerà al pontefice.
18 Succedendo
la vacanza di qual si voglia chiesa parochiale in qualonque modo, siano
descritti tutti quelli che saranno proposti o che proponeranno se stessi, e
tutti siano essaminati dal vescovo con tre essaminatori almanco, e di tutti
quelli che da loro saranno giudicati idonei il vescovo elegga il piú
sufficiente, al quale sia fatta la collazione della Chiesa; e ne' iuspatronati
ecclesiastici il patrone presenti al vescovo il piú degno; ma ne' iuspatronati
laici il presentato da' patroni sia essaminato da' medesimi essaminatori e non
admesso se non trovato idoneo. Gl'essaminatori siano proposti sei ogn'anno
nella sinodo diocesana, de' quali il vescovo ne elegga tre, e questi siano
maestri o dottori secolari o regolari: giurino di far ben il loro officio, non
possino ricever cosa alcuna, né inanzi né dopo l'essamine.
19 Che le
grazie espettative a' beneficii per l'avvenir non possino esser concesse, né
qualonque altre grazie che s'estendino a beneficii che vacheranno; et insieme
siano proibite le reservazioni mentali.
20 Che le
cause ecclesiastiche, eziandio beneficiali, in prima instanza siano giudicate
dall'ordinario, et al piú longo terminate fra 2 anni. Che non s'admetti
l'appellazione, se non dalla sentenza definitiva o che abbia forza di quella,
eccettuando quelle che il sommo pontefice giudicherà, per urgente e
raggionevole causa, avocar a sé. Che le cause matrimoniali e criminali siano
riservate al solo vescovo. Che nelle matrimoniali, quelli che proveranno
d'esser poveri, non siano costretti litigar fuori della provincia, né in
seconda, né in terza instanza, se la parte avversa non gli somministrerà
gli alimenti e le spese della lite. Che li legati, noncii e governatori
ecclesiastici non impediscano li vescovi nelle loro cause, né procedino contra
le persone ecclesiastiche, se non in caso di negligenza del vescovo. Che
l'appellante sia tenuto a sue spese portar al giudice dell'appellazione gl'atti
fatti inanzi al vescovo, quali il notario sia tenuto dar al piú longo fra un
mese per conveniente pagamento.
21 Che nelle
parole poste nel decreto della sessione prima sotto Pio IV, presente pontefice,
cioè «Proponentibus legatis», non fu mente della sinodo di mutare in
parte alcuna il solito modo di trattar li negozii ne' concilii generali, né
aggionger a qualsivoglia, o detraer cosa alcuna di nuovo, oltre quello che da'
sacri canoni e dalla forma delle sinodi generali sin allora era statuito.
In fine fu
intimata la sessione per il 9 decembre, con potestà d'abbreviar il
tempo, per trattar del sesto capo e degl'altri dati fuori e differiti e,
secondo l'opportunità, de qualche dogmi ancora, secondo che nelle
congregazioni sarà proposto.
[Giudicii sopra questa sessione]
Non fu
aspettato l'essito di questa sessione con l'avidità che quello della
precedente, sí perché allora fu empita la curiosità universale, come
perché la materia del matrimonio non pareva che potesse portar seco cose di
grand'osservazione; piú stava il mondo attento a veder che essito dovesse aver
la protesta degl'ambasciatori francesi, la qual fu letta con varii affetti: da'
poco benevoli alla corte romana fu commendata come vera e necessaria; ma
dagl'interressati in quella, stimata d'aborrire altretanto, quanto le
protestazioni per li tempi passati da Lutero fatte.
Nel sesto
anatematismo del matrimonio restarono admirativi molti che fosse posto per
articolo di fede la dissoluzione del matrimonio non consummato per la
professione solenne, poiché, essendo la congionzione matrimoniale, se ben non
consummata col congiongimento carnale, vincolo per legge divina instituito,
poiché la Scrittura divina afferma esser stato vero matrimonio tra Maria e
Giosefo, e la solennità della professione essendo de iure positivo,
come Bonifacio VIII ha decretato, pareva cosa maravigliosa non tanto che un
legame umano sciogliesse un divino, quanto che si debbia tener per eretico chi
non sentirà che un'invenzione umana, nata molti centinara d'anni dopo
gl'apostoli, prevaglia alla divina, instituita sino dalla creazione del mondo.
Ma nel
settimo fu giudicato un parlar capzioso il condannar per eretico chi
dirà la Chiesa aver fallato insegnando che per l'adulterio non si
sciolga il matrimonio: perché dall'un canto, se alcun dicesse assolutamente che
il matrimonio per quella causa si dissolvesse, senza dire né pensare che alcun
abbia o non abbia errato insegnando il contrario, parerebbe che questo non
fosse compreso, ma dall'altro canto non appare come alcun possa cosí sentire,
senza aver il contrario, per errore; era creduto che bisognasse parlar chiaro e
dir assolutamente che per l'adulterio non si dissolve, overo che ambedue le
opinioni sono probabili e non far un articolo con verbo de verbo; ma
questi forse non averebbono promosso la difficoltà, quando avessero
saputo le cause narrate di sopra, perché si parlò in quella maniera.
Il nono
canone diede da dire con quell'affermativa che Dio non nega il dono della
castità a chi drittamente lo dimanda, parendo contrario all'Evangelio,
che l'afferma non dato a tutti, et a san Paolo, che non essortò a
dimandarlo, il che era piú facile che maritarsi.
Li politici
restarono molto sospetti per il dodicesimo anatematismo, che sia eresia tenere
che le cause matrimoniali non appartengono a giudici ecclesiastici, essendo
certo che le leggi de' matrimonii tutte furono fatte dagl'imperatori e li
giudicii in quelle cause amministrati da' magistrati secolari, sin tanto che le
leggi romane ebbero vigore, il che la sola lettura de' codici teodosiano e giustiniano
e delle Novelle lo dimostra evidentemente, e nelle formule di Cassiodoro
restano memorie de' termini usati da' re goti nelle dispense de' gradi
proibiti, che allora erano riputate appartener al governo civile e non cosí de
religione, et a chi ha cognizione dell'istoria è cosa notissima che
gl'ecclesiastici sono entrati a giudicar cause di quella natura, parte per
commissione, e parte per negligenza de' prencipi e magistrati.
Ma nel primo
ingresso del decreto della riforma del matrimonio molti restarono sospesi,
intendendo a definire, come articolo di fede, che li matrimoni clandestini
erano veri sacramenti e che la Chiesa gl'ha sempre detestati, essendo cosa
molto contradittoria aver sacramenti detestabili. E l'aver commandato che il
paroco interroghi li congiugati et inteso il loro consenso, dica: «Io vi
congiongo in matrimonio in nome del Padre, Figlio, Spirito Santo», era deriso
da' critici, con dire: «O senza queste parole sono congionti, o no; se no,
adonque non è vero quello che il concilio fiorentino ha determinato: il
matrimonio ricever la perfezzione dal consenso; se sí, che congionzione
è quella che il paroco fa di persone già congionte? E se il
"congiongo" fosse interpretato: decchiaro congionti, sí venirebbe ad
aprir una porta per concluder che anco le parole dell'assoluzione siano
declaratorie». Comonque questo fosse - dicevano - il decreto non esser fatto
per altro se non per far fra poco tempo un articolo di fede che quelle parole
dal paroco prononciate siano la forma del sacramento.
Della
irritazione de' clandestini non fu meno che dire di quello che era stato nel
medesimo concilio, lodando altri il decreto sino in cielo, e dicendo altri che,
se quella sorte de matrimoni erano sacramenti, e per consequenza instituiti da
Cristo, e la Chiesa in ogni tempo gl'ha detestati e finalmente gl'ha annullati,
non si sapeva veder come questo fosse senza notar o d'inconvenienza, o almeno
di negligenza quelli che da principio non vi providdero. E quando uscí fama
della distinzione sopra quale fu il decreto fondato, che si annullava il
contratto, che è la materia del sacramento, fu cosa difficile per molto
tempo far capire che il contratto matrimoniale abbia nissuna distinzione dal
matrimonio et il matrimonio dal sacramento, e massime che il matrimonio prima
fu indissolubile che sacramento, poiché Cristo nostro Signore non lo
prononciò insolubile come instituito da lui, ma come instituito da Dio
nel terrestre paradiso, e pur admettendosi che il contratto matrimoniale sia
una cosa umana e civile separata dal sacramento, la qual sia annullata,
dicevano altri che l'annullazione non toccherebbe all'ecclesiastico, ma al
secolare, a cui tocca l'ordinazione e cognizione di tutti li civili contratti.
La raggione
allegata per moderar gl'impedimenti matrimoniali era molto lodata per
raggionevole, ma insieme osservato che concludeva necessariamente molto
maggiori restrizzioni delle decretate, non seguendo minor inconvenienti per
gl'impedimenti confermati che per gl'aboliti. Il fine del capo delle dispense
matrimoniali mosse ne' curiosi una vana questione: se il pontefice romano,
coll'aversi assonto di concederle egli solo, aveva ricevuto maggior frutto o
danno nell'autorità sua. A favor del frutto s'allegava la
quantità grande d'oro che per questo canale era collato in corte e le
obligazioni de tanti prencipi acquistate con quel mezo, cosí per restar essi
sodisfatti ne' loro appetiti o interressi, come anco per esser tenuti a
defender l'autorità ponteficia, sopra quale sola resta fondata la
legitimità de' figli. Ma dall'altro canto, per il danno, si metteva la
perdita delle entrate d'Inghilterra et obedienza di quella corona, che
contrapesava ogni guadagno et ogni amicizia per le dispense guadagnate.
Li francesi
riprendevano il decreto che chi robba donna sia tenuto dotarla ad arbitrio del
giudice, dicendo che la legge sopra le doti non può essere fatta per
autorità ecclesiastica e che era artificioso modo di levar la cognizione
di quel delitto al secolare; perché se tocca all'ecclesiastico far la legge,
tocca anco il giudicar la causa, e se ben si diceva assolutamente ad arbitrio
del giudice, non esser da dubitare che, decchiarando, averebbono inteso del
solo giudice ecclesiastico, e riputavano usurpazione dell'autorità
temporale il punir li secolari d'infamia e d'incapacità alle
degnità. Parimente non approvarono l'ordinazione contra li concubinarii
perseveranti in scommunica un anno, che siano puniti dall'ecclesiastico, perché
l'estrema, ultima e massima delle pene ecclesiastiche è la scommunica,
secondo la dottrina di tutti li padri; onde il voler passar oltre quella, esser
entrar nella potestà temporale, e tanto piú, quanto se gli dà
facoltà di scacciar le concubine dalle terre deridendo la potestà
secolare con implorar il braccio, se farà bisogno, che è un
affermar che per ordinario si possi venir ad essecuzione di questa essulazione
dal medesimo ecclesiastico.
Il decreto
della riforma nel primo capo era notato o di mancamento o di presonzione,
atteso che, se l'autorità della sinodo s'estende in dar legge al papa,
massime in cose tanto debite, non era giusto farlo in forma di narrativa e con
obliquità di parole. Se anco la sinodo ha da ricever le leggi dal
pontefice, non si poteva scusare di non aver passato li suoi termini, poiché,
se ben obliquamente, tuttavia però acremente riprende le passate azzioni
di quel e d'altri pontefici. Dicevano li periti dell'istoria ecclesiastica il
tirar a Roma tutte le cause de' vescovi esser una nuova polizia per aggrandir
sempre piú la corte, poiché tutti gl'essempii dell'antichità e li canoni
de' concilii di quei tempi mostrano che le cause de' vescovi, eziandio de
deposizioni, si trattavano nelle regioni di ciascuno. Quelli che aspettavano
qualche provisione sopra l'introdotto abuso delle pensioni, veduto quello che
ne fu decretato nel decimoterzo capo, giudicarono che la materia dovesse passar
a maggior correzzione, come l'evento anco ha dimostrato. Il decimoquarto capo
era da ogni uno lodato, parendo che avesse levato le annate et il pagamento
delle bolle che si spediscono a Roma per la collazione de' beneficii; ma in
progresso di tempo, essendosi veduto che quelli restarono in piedi, né mai si
pensò né a levargli, né moderargli, s'accorsero che si levavano solo li
piccioli abusi delle altre chiese, restando verificato che dagl'occhi si levano
le sole festuche, non mai li travi. Del statuto dell'unità o al piú
della dualità de' beneficii, da ogni persona savia fu giudicato che
questo secolo non era degno, e che non sarebbe servato se non in qualche
miseri. Similmente l'essame in concorso nella collazione delle parochiali, ogni
uno prognosticava che dovesse con qualche sinistra interpretazione esser
deluso, e la profezia si verificò ben molto presto, perché non si stette
troppo in Roma a decchiarare che non s'aveva da osservare concorso in caso di
resignazione, ma essaminar il solo resignatorio, che fu un abolir il decreto
per la maggior parte, poiché con la risegna i migliori sono esclusi e
prescritto quello che piú piace al resignante, e non vacano li beneficii per
altra causa se non casualmente. Il decreto della cognizione delle cause in
prima instanza, con l'eccezzione soggionta, cioè «eccetto quelle che il
papa vorrà commetter o avocare», esser afatto destrutto; perché non
furono mai levate le cause a' legitimi tribunali, se non per commissioni et
avocazioni ponteficie, et ora, conservando la causa del male, si medicava il
sintoma solamente; e se ben quell'aggionzione «per causa urgente e
raggionevole» pareva che regolasse, però gl'intendenti sapevano molto
ben che tanto quelle parole significano, quanto se dicessero «per qualonque
arbitraria causa».
Ma
dell'ultimo capo, che già tanti mesi era stato sotto l'espettazione,
toccando nell'essenziale la libertà del concilio, vedendosi decchiarato
non esser stata la mente della sinodo di mutar il modo di trattar, né aggionger
o sminuir cosa alcuna di nuovo alle vecchie ordinazioni, fu dalle persone savie
detto che, per quanto a questo concilio tocca, era una decchiarazione contraria
al fatto, e publicata quando piú non giovava, né piú si poteva servirsene, come
medicina applicata al corpo morto. Et altri ridendo aggiongevano che era un
consolare il buon uomo, la cui moglie avesse fatto figli con altri, dicendo non
fu per fargli torto. Ma per l'essempio dato a' posteri, insegnava come ne'
concilii si potesse da principio a fine usar ogni violenza et essorbitanza, e
con una tal decchiarazione iscusare, anzi giustificare ogni inconvenienza
fatta, e sostenerla per legitima.
[Il re di Francia procede all'alienazione de'
beni ecclesiastici, et approva la protesta de' suoi ministri a Trento]
In questi
tempi, oltre l'aviso della sessione tenuta, erano arrivate in Francia tre
nuove, ricevute con disgusto. Prima, la risposta del papa sopra gli 100.000
scudi d'entrata; poi, quella della protesta fatta in concilio e
dell'alterazione ricevuta per quella a Trento et a Roma, e finalmente la
sentenza contra li vescovi, con la citazione della regina di Navarra. Sopra le
qual cose fecero li francesi gran reflesso: risolverono di non parlar piú col
pontefice per aver grazia di quell'alienazione, ma mandar in essecuzione
l'editto regio verificato dal parlamento senza altro consenso del papa; il che
essendo esseguito con grandissima celerità, cosí perché gl'uomini non si
risolvono facilmente a spender il danaro con prestezza, come per ufficii che
gl'ecclesiastici facevano, mettendo in considerazione che li contratti ne'
tempi seguenti non sarebbono stimati validi, mancando la conferma del papa,
pochi compratori si trovarono; il che però non cesse né a beneficio del
re, né a favor del clero, ma solo seguí che la vendita fu fatta a precio basso,
né si cavò piú de doi millioni e mezo de franchi, somma molto picciola
all'importanza delle cose alienate, poiché la vendita fu a 12 per 100 che
sarebbe anco stato a precio vile, quando si fosse venduta a 24. Et è
cosa degna che ne sia fatta memoria qui, che fra li beni alienati uno fu la
giurisdizzione che l'arcivescovo di Lione aveva sin allora tenuto sopra quella
città, la qual fu venduta all'incanto et applicata al re per 30000 lire
de franchi, se ben per gl'indoglienze che il vescovo fece, gli fu poi aggionto
per supplemento del precio un'entrata di 400 scudi.
Intorno alla
protestazione fatta in concilio, scrisse il re agl'ambasciatori suoi con
lettere de' 9 novembre che, avendo veduto quello che il cardinal di Lorena
gl'aveva scritto contra la loro protesta e la relazione del vescovo d'Orliens
di tutte le cose fatte in Trento, aggradiva la protesta e la retirata loro a
Venezia, commandava che Ferrier non si partisse di là sino a nuovo
ordine suo, il qual sarebbe quando avesse aviso che gl'articoli fossero
riformati in maniera che non fossero poste in controversia le sue raggioni
regie e della Chiesa gallicana. Et al cardinal di Lorena scrisse che egli col
suo conseglio avevano conosciuto li suoi ambasciatori aver fatto la
protestazione con grande e giusta occasione: perché, sí come egli voleva
perseverare nell'unione et obedienza della Chiesa, cosí voleva insieme
inviolabilmente conservar le raggioni della sua corona, senza permetter che
fossero rivocate in dubio né in disputa, né sottometter sé a mostrarle. Che non
si pensasse di sodisfargli con dire in fine: salve e riservate le raggioni,
volendo sotto questo colore obligarlo a farne constare, perché a questo si
opponerà. Che quando esso cardinale averà veduto gl'articoli come
furono proposti, giudicherà che gl'ambasciatori non potevano altramente
fare che formar l'opposizione; che averebbe ben desiderato che gl'ambasciatori
gliel'avessero mostrata prima, ma esser scusabili per l'occasione
repentinamente nata e per le circonstanze che la produssero, e per i sospetti
che constringevano a dubitare di qualche arteficio per precipitar la decisione.
E se il papa non aveva intenzione che fossero toccate e messe in disputa le
raggioni dell'imperatore e re, come il cardinal gli fa intendere, convien che
la Sua Santità drizzi il suo dispiacere contra li legati, che hanno
proposto gli articoli con nominar re, imperatore e republiche, e non contra
gl'ambasciatori; che stima la protesta dover esser giustificata appresso tutta
la cristianità, quando gl'articoli saranno veduti. Che avendo li legati
proposti quegl'articoli contra l'intenzione di Sua Santità, non è
da rimettersi piú alla loro discrezzione, né far tornar gl'ambasciatori, sin
che non s'abbia intiera sicurezza che di quelli non s'abbia a parlar piú: che
allora egli commanderà agl'ambasciatori di ritornar al concilio.
Sopra la
citazione e sentenza diede ordine il re a Enrico Clutin monsier d'Oisel, di
parlar al pontefice e dirgli che la Maestà Sua aveva inteso con gran
dispiacere quello che non credette per la fama sparsa, ma solo dopo, per aver
visto copia de' monitorii affissi in Roma, che si avesse proceduto contra una
regina in quella maniera; che egli era obligato a difenderla, prima, perché la
causa et il pericolo di quella era commune a tutti li re, perciò tenuti
ad aiutarla come in causa appartenente a tutti, ma tanto piú per esser vedova,
e l'obligo d'esso re di Francia esser maggiore per il stretto parentado che ha
con lei, per ambedue le linee, e per la agnazione col marito, il quale poco
tempo inanzi era morto in guerra contra li protestanti, lasciati li figliuoli
pupilli; perilché non poteva abbandonar la causa di quella, seguendo
gl'essempii de' suoi maggiori, e massime che non debbia comportar che alcuno
faccia guerra sotto pretesto di religione a' suoi vicini, aggiongendo che non
era cosa pia metter in pericolo di crudelissima guerra per questa causa li
regni di Spagna e di Francia, congionti novamente in amicizia. Aggionse ancora
che, avendo quella regina molti feudi in Francia, per le raggioni e privilegii
di quel regno non poteva esser costretta a comparer né in persona, né per
procurator fuori. Soggionse molti essempi de prencipi e pontefici, che hanno
proceduto con la debita e legitima moderazione. Toccò la forma della
citazione per editto come cosa inaudita all'antichità et inventata da
Bonifacio VIII, e come troppo dura et ingiusta, moderata da Clemente V nel
concilio viennense; soggiongendo anco che in ogni evento non possono tal
citazioni aver luogo se non contra gl'abitanti dove non è sicuro
accesso, et abitando la regina in Francia, era grand'ingiuria fatta a lui et al
regno l'usar tal modo; sí come anco con gran sua ingiuria esser che siano
esposti in preda e concessi agl'occupatori li feudi che ella teneva in Francia,
il dritto de' quali appartiene a lui; con maraveglia d'ognuno che la
Santità Sua, la qual favorí cosí affettuosamente la causa d'Antonio re,
quando viveva appresso il re di Spagna, ora vogli opprimer la prole e la vedova
di quello. Ma sopra tutto si lamentò il re che, avendosi partito dalla
Chiesa romana da 40 anni sino allora tanti re, prencipi e città, non si
sia proceduto cosí con alcun altro; il che ben mostra che non sia stato fatto per
la salute dell'anima della regina, ma per altri fini. Si raccordasse il
pontefice che gli era concessa potestà per salute delle anime e non per
privar li prencipi de' Stati, né per ordinar altra cosa nelle possessioni
terrene; la qual cosa, tentata da loro altre volte in Germania, è
successa con gran danno della quiete publica. Pregò il pontefice che
rivocasse gl'atti intentati contra la regina, passando alle proteste che
altramente si valerà de' rimedii usati da' suoi maggiori; si dolse
ancora della causa de' vescovi, e commandò all'ambasciatore che,
esplicati gl'essempii vecchi e narrate le libertà et immunità
della Chiesa gallicana e l'autorità de' re nelle cause ecclesiastiche,
pregasse il pontefice di non voler al presente far tante novità.
Monsignor d'Oisel fece l'ufficio con veemenza e dopo molte trattazioni col
pontefice, ottenne che non si parlò piú né della regina di Navarra, né
de' vescovi.
[Deliberazioni di Trento di terminar il
concilio con una sola sessione]
Ma in Trento,
finita la sessione e ben concertate le cose fra li legati e Lorena, communicato
anco il negozio co' principali e capi de' ponteficii, che erano Otranto,
Taranto e Parma, e con gl'ambasciatori cesarei, Lorena incomminciò a
sparger semi del dissegno preso, che con una sessione ancora il concilio si
finisse: diceva che egli non poteva esser in Trento per Natale, che era
constretto, e lui e tutti li vescovi francesi, a partire inanzi quel tempo, che
desiderava ben veder il concilio finito e gli sarebbe dispiacciuto lasciar cosí
onorata adunanza, ma non poteva far altro, avendo avuto commandamento di cosí
fare. Gl'ambasciatori cesarei ancora publicarono per tutto 'l concilio che
l'imperatore sollecitava l'espedizione e che il re de Romani scriveva che si
finisse per sant'Andrea, overo, al piú longo, onninamente nel principio del
mese seguente; e veramente quel re, non per far piacere al pontefice, ma perché
cosí sentiva, sollecitava l'espedizione, perché dovendosi far una dieta, non
voleva che vi fossero ambasciatori del padre al concilio, e diceva che quando
quello fosse chiuso, le cose della religione in Germania sarebbono andate assai
meglio.
Le qual cose
essendo intese dalla maggiore parte de' padri con molto piacere, il 15 di
novembre il cardinal Morone fece una congregazione in casa sua, chiamati li
legati e li doi cardinali e 25 vescovi, scielti li piú principali delle
nazioni; propose che, essendo stato congregato il concilio per li bisogni di
Germania e Francia, e facendo allora instanza l'imperatore et il re de Romani
et il cardinal di Lorena e tutti li prencipi che si vi ponesse fine, dicessero
il parer loro circa il finirlo e circa il modo. Il cardinal di Lorena disse che
il finirlo era necessario, per non tener piú sospesa la cristianità e
chiarir li catolici di quello che dovevano credere, e per levar l'Interim
di Germania, il qual essendo stabilito a dover durare sino al fine del
concilio, non si può in altra maniera levare, et il continuarlo piú
longamente esser detrimento della Chiesa catolica. Che bisognava anco finire il
concilio per ovviare che in Francia non se ne faccia un nazionale. Quanto al
modo, disse che si potrebbe finir con una sessione, trattando in quella il
rimanente della riforma e dando espedizione al catechismo et all'Indice de'
libri proibiti, che già erano in ordine, e rimettendo al papa le altre
cose che rimanessero, senza disputar gl'articoli delle indulgenzie et imagini,
non si facessero anatemi contra particolari eretici, ma si passasse con termini
generali. Del finir il concilio in qualche modo tutti assentirono, salvo che
l'arcivescovo di Granata, il qual disse che si rimetteva all'ambasciatore del
suo re. Fu proposto da alcuno che non si poteva dargli fine assoluto, poiché
restavano tante materie da trattare; ma che si potesse farlo con intimar un
altro dopo 10 anni, il che averebbe servito per impedire che le provincie non
facessero concili nazionali e per rimetter a quel tempo la determinazione delle
cose che restassero, et anco l'anatematizare. Il vescovo di Brescia propose che
si trovasse un modo medio tra il mettergli compito fine e la sospensione,
perché il finirlo sarebbe stato desperare gl'eretici, et il sospenderlo non
satisfar li catolici. Ma questi pareri non ebbero seguito, aderendo gl'altri a
quello che il cardinale detto aveva.
Del modo,
l'arcivescovo d'Otranto disse che l'anatematizar gli eretici era cosa
necessaria et usata da tutti li concili, anzi che in quello sta l'opera che
dalle sinodi si ricerca, perché molti non sono capaci d'intender la
verità o falsità delle openioni con proprio giudicio, quali
solamente le seguono o le abortiscono per il credito o discredito degl'autori;
che il concilio calcedonense pieno d'uomini dotti, per chiarirsi se Teodoreto,
vescovo di Ciro, che era dottissimo, era catolico o no, volendo egli render
conto della fede, non volse ascoltar altro, ma solamente ricercò che
dicesse chiaramente anatema a Nestorio; che se in quel concilio non
anatematizassero Lutero e Zuinglio et altri capi già morti, e de'
viventi quelli che seguono la loro dottrina, si potrebbe dire il concilio aver
operato invano. Replicò il cardinale che altri tempi ricercano altri
consegli: allora le differenze della religione erano tra li vescovi e li preti;
li popoli venivano per accessorio, e li grandi o non se ne intromettevano, o
quando pur aderivano a qualche eresia, non se ne facevano capi. Adesso esser
tutto in contrario: li ministri e predicanti d'eretici non potersi dir capi di
setta, ma piú tosto i prencipi, agli interressi de' quali li predicatori e
maestri loro s'accommodano. Chi vorrà nominar li veri capi d'eretici
converrà nominar la regina d'Inghilterra, la regina di Navarra, il
prencipe di Condé, l'elettor palatino di Reno, l'elettor di Sassonia e molti
altri duchi e prencipi di Germania. Questo sarà causa di fargl'unir insieme
e risentirsi; il che non potrà esser senza qualche scandalo; e chi
proponesse anco la dannazione de' soli Lutero e Zuinglio, gl'irriterebbe
talmente che nascerebbe qualche gran confusione. Però, accommodandosi
non a quello che si vorrebbe, ma a quello che si può, esser meglior
risoluzione quella che uscirà manco fuori dell'universale.
Morone
mandò a chiamar gl'ambasciatori ecclesiastici, a' quali communicata la
proposta et il parer de' congregati, essi ancora acconsentirono al fine et al
modo, secondo il voto di Lorena. Fu col parere di tutti mandato a communicare
la risoluzione agl'ambasciatori secolari, da' quali tutti fu assentito, eccetto
che dallo spagnuolo, il qual rispose di non aver l'espressa volontà del
re, ma ben ricercare che s'interponi tempo tanto che possi averla. Questo non
ostante, li legati risoluti di metter in essecuzione la deliberazione fatta,
diedero fuora il capo de' prencipi, tralasciati gl'anatemi e tutti gl'articoli
particolari, rinovando solo li vecchi canoni della libertà e giurisdizzione
ecclesiastica e parlando de' prencipi con molta riverenza, con solo essortargli
a far opera che li loro ministri non le violassero. Quell'istesso giorno fu
fatta congregazione la sera per dar principio a parlar della riforma, e preso
ordine che si farebbono due congregazioni al giorno, sin tanto che i voti
fossero detti.
Nelle
congregazioni li voti si dicevano con grandissima brevità e risoluzione,
salvo che da una poca parte de' spagnuoli, li quali desideravano metter
impedimento, dove gl'altri tutti si sforzavano con la brevità di
promover l'espedizione. La maggiore difficoltà fu sopra il capo sesto
della soggezzione de' capitoli a' vescovi, per il grand'interresse non
solamente de' medesimi vescovi, ma anco del re in diminuir l'autorità
capitolare, acciò non potessero metter difficoltà a' sussidii che
in Spagna vengono spesso imposti; e dall'altro canto per li favori che da'
legati erano prestati a' capitoli, per li quali e per le raggioni che si
adducevano molti degl'italiani, che prima parevano a favore de' vescovi, si
erano mutati a favore de' capitoli. Mandò per questo il conte di Luna un
corriero in diligenza a Roma, per aviso del quale l'ambasciatore Vargas fece
ufficio col pontefice per la causa de' vescovi; e rimettendosi il papa, secondo
il suo costume, al concilio, si dolse l'ambasciatore che li prelati italiani
erano stati pratticati a mutar voto in quella materia; a che il papa
prontamente disse esser mutati perché sono liberi, ma che l'agente de' capitoli
non si era partito dal concilio con libertà, essendo stato scacciato: e
si dolse con quell'occasione che il conte di Luna facesse ufficii in Trento,
acciò non si mettesse fine al concilio. Scrisse con tutto ciò il
pontefice secondo la ricchiesta dell'ambasciatore, ma però con termini
che non disfavorivano le pretensioni de' capitoli; e fu finalmente formato il
decreto con qualche aummento d'autorità episcopale in Spagna, se ben non
quanto desideravano.
Gl'ambasciatori
veneti fecero instanza che nel capitolo de' iuspatronati, essendo eccettuati
quelli dell'imperatore e re, fossero anco eccettuati quelli della republica
loro: avevano desiderio li legati di compiacergli, ma fu difficile trovar modo,
perché l'eccettuare tutte le republiche era una troppo grand'ampiezza et il
nominarla specificatamente pareva materia di gelosia. Trovarono temperamento di
comprenderla nel numero de' re, col decchiarare che fra quelli sono compresi li
possessori de' regni, se ben non hanno il nome.
Nella
congregazione de' 20 fu proposto di dimandar la conferma al papa di tutti li
decreti del concilio, tanto fatti sotto Paolo e Giulio, quanto sotto la
Santità Sua. L'arcivescovo di Granata promosse difficoltà, con
dire che nella decimasesta sessione, la qual fu l'ultima sotto Giulio, quando
il concilio fu sospeso, fu insieme ordinato che fossero osservati tutti li
decreti sino allora statuiti dalla sinodo, senza aver detto che vi fosse
qualche bisogno di conferma; onde il dimandar di quelli conferma dal sommo
pontefice non esser altro che condannar quei padri, quali allora giudicarono
che senza conferma alcuna potessero esser messi in essecuzione; soggiongendo
che da lui non era detto perché non approvasse il ricchieder la conferma, ma
accioché, considerata l'opposizione, si trovasse modo d'usar parole non
pregiudicanti. L'arcivescovo d'Otranto rispose che il decreto nominato da
Granata non solo non favoriva l'opposizione che egli ne cavava, che anzi la
risolveva, mostrando chiaramente che non aveva le ordinazioni fatte per
obligatorie, poiché non commandava, ma semplicemente essortava che fossero
ricevute et osservate, di che non si poteva allegar altra causa che il
mancamento della conferma. Si quietò il Granata e fu deliberato di dimandar
la conferma come era proposto di consenso commune: ma nel modo fu qualche
differenza. Ad una gran parte non piaceva che il concilio dimandasse la
conferma e senza aspettar risposta si dissolvesse, allegando che non sarebbe
con dignità né dalla Sede apostolica, né del concilio e che parerebbe un
accordo fatto tra questo e quella; perché altrimenti, quando alcuna cosa non
fosse confermata, convenirebbe pur che la provisione fosse fatta dal medesimo
concilio. A' quali, che molti erano, per satisfare, il cardinale Morone
averebbe voluto che nella sessione de' 9, la quale per la moltiplicità
delle materie stimavano che dovesse durar tre giorni, nel primo giorno si
spedisse corrier per dimandar la conferma, al ritorno del quale si facesse
un'altra sessione senza altra azzione che di licenziar la sinodo. Ma questo
parere aveva anco assai contrarietà: perché, se si voleva che il papa
immediate, senza veder et essaminar li decreti, venisse alla conferma, tornava
la difficoltà medesima; se con essaminargli, si ricercava tempo di mesi.
Finalmente il cardinal di Lorena considerò a' padri che queste
difficoltà erano per allongar il concilio; che egli e li francesi erano
costretti ritornarsene, o finito o non finito il concilio, che cosí avevano
ordine dal re, e partiti tutti essi, il concilio non si potrebbe chiamar
generale, mancando una nazione, onde sarebbe diminuito di degnità e
d'onore e potrebbe eccitar concilii nazionali et altre difficoltà.
Questa meza protesta, aggionti gl'ufficii de' cesarei per l'espedizione, fu
causa che dopo aver posto questo in deliberazione piú volte, si risolvé di
dimandar la conferma e licenziar la sinodo nella medesima sessione.
Il cardinal
di Lorena scrisse in Venezia in diligenza all'ambasciatore Ferrier che, essendo
accommodato il capo de' prencipi, dovesse tornar a Trento: il qual rispose di
non poterlo fare, se non aveva particolar commissione di Francia, poiché per le
lettere de' 9 il re aveva scritto a lui et anco ad esso cardinale che, quando
il decreto fosse stato acconcio et egli avisato, averebbe rimandato
l'ambasciatore; perilché a lui era necessario aspettar ordine di Sua
Maestà. Ma tuttavia scrisse al re che non aveva stimato a bene per il
suo servizio tornarci, perché le raggioni regie e libertà della Chiesa
gallicana erano violate ancora in altri decreti publicati in quella sessione.
[Deputati a formare decreti del purgatorio et
altri conceputi sommariamente]
Ridotta la
riforma a buon termine, fu data cura al cardinale varmiense con 8 prelati di
formar il decreto di purgatorio, invocazione, venerazione, reliquie et imagini
de' santi, e quantonque avessero tutti questi fine di non metter in campo cose
di difficoltà, non erano concordi. Volevano alcuni d'essi far menzione
del luoco e del fuoco, come nel concilio fiorentino. Altri dicevano che non
essendo questa senza difficoltà, né essendo cosa riuscibile il trovar
parole d'esprimerlo che diano sodisfazzione a tutti, meglio era non dir altro
se non che le buone opere de' fedeli giovano a' morti per remissione delle
pene. L'arcivescovo di Lanciano raccordò che, trattandosi della messa,
s'era fatta menzione che quel sacrificio è offerito per li defonti in
Cristo non intieramente purgati; per le qual parole la dottrina del purgatorio
era assai definita, onde non occorreva altro fare se non ordinare a' vescovi
che la facessero predicare e levare gl'abusi, avendo anco cura che non si
manchi de' suffragii debiti per li defunti; et in questa sentenzia fu formato
il decreto.
Nella materia
de' santi furono facilmente concordi nel condannar particolarmente e
specificamente tutte le opinioni contrarie agl'usi della Chiesa romana. Delle
imagini vi fu un poco di differenza: perché l'arcivescovo non voleva che altro
onor gli fosse debito se non per rilazione alla cosa significata, ma il general
Lainez, che era un altro de' formatori, aggiongeva che oltra quell'onore,
quando sono dedicate e poste in luogo d'adorazione, gli conviene un'altra
venerazione propria a loro, oltre l'adorazione che si presta al santo venerato
in quelle, chiamando questa adorazione relativa e quella obiettiva. Provava il
suo parere perché li vasi e vesti sacrate sono degne d'una riverenza pur
propria a loro per raggione della consecrazione, se ben non representano santo
alcuno, e cosí all'imagine dedicata, oltra la raggion della rappresentazione,
è debita una adorazione per raggion della dedicazione. Il cardinale
varmiense, per sodisfazzione d'ambi li pareri, concluse che quel
dell'arcivescovo si dovesse esprimere come facile e chiaro, senza però
metter parole che potessero pregiudicar all'altro.
[La riforma de' frati]
Furono ancora
deputati, per riveder la riforma de' frati e monache, alquanti prelati oltra
quelli che l'avevano composta, et insieme a loro aggionti li generali; nella
qual congregazione altro non fu mutato se non che, essendo generalmente
concesso nel terzo a tutti li monasterii de' regolari mendicanti di posseder
beni immobili, se ben l'instituzione loro è contraria, fra Francesco
Zamorra, general de' minori osservanti, fece instanza che l'ordine suo fosse
eccettuato, allegando che intendeva di viver secondo la regola di san
Francesco, dalla quale non era giusto essentar quelli che non lo dimandavano; e
gli fu data sodisfazzione, eccettuando il suo ordine, e li capucini ancora,
facendone instanza fra Tomaso di Castello, loro generale. Anco il general
Lainez fece instanza che fusse eccettuata la compagnia de Giesú, dicendo che,
quantonque li collegii, essendo deputati per trattenimento de' scolari non
ancora fatti religiosi, possino goder beni stabili, però le case
professe, nelle quali essenzialmente la società consiste, non possono
viver se non di mendicità e senza possessione di qualsivoglia stabile.
Fu facilmente compiacciuto, ma il giorno seguente ritornò e ricercò
che fosse levata quell'eccezzione, dicendo che la società sua era per
conservarsi perpetuamente nella pura mendicità nelle case professe, ma
non si curava d'averne questo onor appresso il mondo, bastargli il merito
appresso Dio, il qual sarà tanto maggiore, quanto, potendosi valer
dell'abilità fatta dal concilio, non se ne valeranno mai. Questa
deliberazione fu presa per commun risoluzione di tutti 4 li giesuiti che erano
in concilio, proposta dal padre Torres, il qual disse che, cosí facendo,
sarebbono stati in libertà di valersi o non valersi della concessione
del concilio, secondo l'opportunità.
Nel
decimoquinto capo era statuito che la professione non si facesse inanzi 18 anni
finiti, et il noviziato durasse almeno 2 anni, in qualonque età il
novizio fosse entrato; a che tutti li generali s'opposero, dicendo che non era
giusto impedir l'ingresso della religione a nissun capace di conoscer quello
che li voti regolari importano; che questa capacità era stata dalla
Chiesa giudicata nel decimosesto anno in tempo che il mondo non era tanto svegliato,
che ora piú tosto conveniva abbassar, che inalzar l'età: la qual
raggione anco adoperavano contra il biennio del noviziato. In fine, poiché
s'attendeva a dar sodisfazzione a tutti, deliberarono di sodisfar anco li
generali e non innovar niente in questa parte.
Oltre li 22
capi, un altro vi era, nel quale si concedeva a' provinciali, generali e capi
degl'ordini di poter scacciar fuori dell'ordine e privar dell'abito
gl'incorrigibili; contra il quale Giovanni Antonio Facchinetto, vescovo di
Nicastro, s'oppose acremente, con dire che la professione e l'atto d'admetter a
quella sono un contratto scambievole e come un matrimonio, per quale il
monasterio è obligato al professo et il professo al monasterio; e sí
come questo non poteva partire, cosí quello non poteva scacciarlo, e che con
quel decreto s'averebbe fatto sí che tutte le città sarebbono piene di
frati espulsi con scandalo grave del secolo. In contrario l'arcivescovo di
Rosano diceva non essere la relazione che tra il marito e moglie, ma quella che
tra padre e figlio, et al figlio non esser mai lecito rifutar il padre, ma il
padre poter emancipar il figlio, massime disobediente, et esser minor male
veder nelle città frati espulsi che ne' monasteri incorrigibili. I
generali non erano tutti d'un parere: li perpetui sentivano l'espulsione, li
temporali volevano che fosse proibita. Ma secondo il costume della moltitudine
quando delibera, inclinò la maggior parte a lasciar le cose nello stato
che erano, e non decretare né per l'una né per l'altra parte. Ma in quella
consulta fu spesse volte e da molti replicato che il popolo riceveva gran
scandalo, vedendo uno portar l'abito da religioso piú anni e poi farsi
secolare. Questo mise in campo la professione tacita, e fece entrar in
trattazione se si dovesse decchiararla valida, sí come sin a quell'ora era
stata, o pur decchiarare che nissuna professione astringa, se non l'espressa.
Ebbe anco questo le sue difficoltà, per temperamento delle quali fu
trovata questa risoluzione, che il prelato religioso, finito l'anno della
probazione, fosse tenuto o licenziar il novizio, o admetter alla professione. E
questo fu aggionto nel capo decimosesto come in luogo conveniente.
Il general
Lainez commendò sommamente il decreto come necessario, ma ricercò
che la sua società ne fosse eccettuata, allegando esser diversa la
condizione di quella e d'altri ordini regolari: in quelli, per antichissima
consuetudine et approbazione della Sede apostolica, aver luogo la professione
tacita, che nella loro società è proibita; cessar la causa dello
scandalo che può aver il popolo degl'altri, vedendogli in abito secolare
dopo aver portato il religioso longamente, per non esser l'abito de' giesuiti
distinto dal secolare; aver ancor la società sua confermazione dalla
Sede apostolica che il superiore possi admetter alla professione dopo longo
tempo, cosa che nissun regolare ha mai avuto. Tutti inclinarono a favorirlo con
far l'eccezzione, nel distenderla quale il padre contese che le regole del
parlar latino volevano che s'esprimesse per plurale, dicendo che «per queste
cose la sinodo non intende alterar l'instituto de' giesuiti, ecc.», e non fu
considerato che quel modo di parlar poteva riferirsi cosí a questo admetter o
licenziar i novizzi in capo l'anno, come anco a tutto 'l contenuto nel capo
decimosesto, et anco si potesse riferire tutte le cose contenute ne' 16 capi.
Ma il padre si seppe valer della poca avvertenza degl'altri, giettando un
fondamento, sopra quale li giesuiti seguenti potessero fabricare la
singolarità che si vede nella società loro.
[Congregazione sopra le indulgenze]
La
congregazione de' 22 versò sopra le indulgenzie: la difficoltà e
longhezza della materia induceva la maggior parte in parere che non se ne
parlasse, che già era persuasa a tutti l'opinione che bisognasse evitar
le difficoltà. Erano nondimeno alcuni che volevano trattarne, dicendo
che il far altrimenti sarebbe dar occasione agli eretici di dire che s'era
fugito di trattarne per non aver raggione di sostentarla. Ad altri pareva che
bastasse trattar dell'uso solamente d'esse, levando gl'abusi che la corrozzione
de' tempi ha introdotto. Diceva l'ambasciator di Portogallo dispiacergli che
non si facesse provisione alle cruciate, ma voler tacer, accioché da alcuno non
fosse presa occasione con quello d'allongar il concilio. Li medesimi
ambasciatori dell'imperatore, se ben tutti uniti a sollecitar l'espedizione,
per la commissione avuta da loro signori non erano concordi in questo. Praga
voleva che si tralasciasse il parlar de' dogmi. Cinquechiese diceva che, non trattandosene
e non provedendo agl'abusi delle reliquie e delle imagini e del purgatorio,
restava la sinodo in vergogna.
Il vescovo di
Modena considerò a' padri che, quando s'avesse voluto trattar delle
indulgenze al modo che della giustificazione s'era fatto, considerando tutte le
cause e risolvendo tutte le questioni, era cosa molto longa e difficile e che
averebbe portato gran tempo, non essendo possibile metter quella materia in
chiaro, se non risolvendo prima se sono assoluzioni o pur compensazioni e suffragii,
e se rimettono le pene imposte dal confessor solamente o pur tutte le debite;
parimente se il tesoro che si mette per fondamento loro consta de' soli meriti
di Cristo, o pur vi è bisogno di quei de' santi ancora; se si possono
dar senza che chi le riceve presti opera alcuna; se s'estendono a' morti
ancora, et altre cose di non minor difficoltà. Ma per determinare che la
Chiesa ha potestà di concederle e che in tutti li tempi le ha concesse e
che sono molto utili al popolo fedele, se degnamente le riceve, non vi era
bisogno di tanta disputa: l'autorità di concederle aversi nella divina
Scrittura, il continuato uso per tradizione apostolica e per autorità
de' concilii, e la chiarezza di tutta la materia per la concorde dottrina de
teologi scolastici; che sopra questo si poteva formar un decreto, che sarebbe
senza difficoltà. Il parere ebbe assai seguito e fu deputato lui con
altri vescovi frati per formar il decreto secondo quel senso, aggiontovi la
provisione agl'abusi.
[Molti altri capi rimessi al papa per
brevità]
Nelle
seguenti congregazioni si trattò dell'Indice de' libri, del catechismo,
breviario, missale, agende; e furono lette le cose deliberate nelle
congregazioni particolari de' prelati deputati a quelle materie sino dal
principio della sinodo; e sarebbono eccitati dispareri, parendo ad alcuni che
contra raggione fossero censurati certi autori e libri; ad altri parendo che
fossero tralasciati di quelli che maggiormente meritavano censura. E del
catechismo non vi fu minor difficoltà, parendo ad alcuni che l'opera
preparata non fosse una catechesi da metter per commune a tutta la Chiesa,
nella quale la maggior parte è de semplici, et altri desiderandovi
dentro maggior cose. De' libri rituali ancora non vi fu minor
difficoltà, essendo molti che desideravano una uniformità in
tutta la Chiesa, et altri che difendevano li riti delle proprie loro; e veduto
che queste erano materie da non finir di decider in un anno, fu proposto da'
legati che il tutto fosse rimesso al pontefice. Alcuni pochi prelati non
consentirono, e nominatamente il vescovo di Lerida fece una long'orazione a
dimostrare che, se nissuna cosa era propria d'un concilio, era questa del catechismo,
essendo un libro che debbe tener il primo luogo dopo il simbolo nella Chiesa;
de' libri rituali, che debbono tener il secondo, nell'emendar li quali esservi
bisogno d'un'esquisita cognizione dell'antichità e de' costumi di tutte
le regioni, la qual non si troverà nella corte romana, dove, quantonque
siano uomini d'eccellente ingegno e varia erudizione, non però attendono
a quella sorte di lettere che è necessaria per far cosa che meriti esser
commendata, ma questo esser piú proprio d'un concilio. Ma la risoluzione di
finire et il desiderio di partire di Trento gli fece prestar poca audienza
dall'universale.
Il dí 25 del
mese il conte di Luna si presentò a' legati con l'instanza in scrittura;
si dolse che si tralasciassero le materie piú principali, per quali il concilio
era congregato; che quelle poche che si trattavano si precipitassero; che si
volesse finir il concilio senza scienzia del suo re; concludendo che si
ascoltassero li pareri de' teologi sopra le materie de dogmi, e che del fine
del concilio s'aspettasse risposta di Spagna. Risposero li legati le cose esser
tanto inanzi che non vi era tempo d'aspettare, né sarebbe stato possibile
ritener tanti vescovi che già erano in ordine per partire.
Replicò il conte che, se il concilio si finirà senza participazione
del suo re, farebbe oltra quella instanza quello di piú che fosse conveniente.
Sopra di questo li legati spedirono in diligenza al pontefice et il conte ne
scrisse all'ambasciator Vargas acciò s'adoperasse col papa: ma egli ebbe
per superfluo farne alcun'instanza, cosí perché all'arrivo del corrier il papa
era caduto in gravissima indisposizione, come perché, avendo fatta la medesima
instanza qualche giorno inanzi, il papa per conclusione gli rispose che si
rimetteva al concilio, al quale non voleva levar la libertà tanto
ricercata anco dal suo re. Certa cosa è che, dicendo quell'ambasciatore
che bisognava tener aperto il concilio, perché tutto 'l mondo lo ricercava,
rispose il pontefice chi era questo mondo che lo voleva; soggionse l'ambasciatore:
«Spagna lo vuole, tutto 'l mondo lo vuole», et il papa replicò:
«Scrivete in Spagna che comprino un Tolomeo e studino, che troveranno Spagna
non esser tutto 'l mondo». Fecero li legati molti ufficii col conte di Luna e
s'adoperarono anco efficacemente con lui il cardinal di Lorena e
gl'ambasciatori cesarei, né potendolo indurre, essi facevano instanza in
contrario di lui, li cesarei per nome dell'imperatore e del re de Romani e di
tutta la Germania, Lorena per nome del re e regno di Francia. I legati,
risoluti di venir al fine del concilio, seguendo l'ordine del pontefice di
farlo, eziandio repugnando l'ambasciatore spagnuolo, attendevano sollecitamente
all'espedizione delle materie.
[La nuova della pericolosa infermità
del papa fa viepiú accelerare il fine del concilio]
Mentre queste
cose si fanno, il dí I° decembre, al tardi, arrivò con gran diligenza in
Trento un corriero da Roma con aviso che il pontefice, sopragionto da
gravissimi accidenti, era caduto in pericolosa infermità. Portò
lettere del cardinal Borromeo a' legati et al cardinal di Lorena che
accelerassero l'espedizione del concilio quanto fosse possibile e vi mettessero
fine senza aver rispetto ad alcun, per ovviare agl'inconvenienti che potrebbono
occorrere sopra l'elezzione del papa, se il concilio fosse in esser in tempo di
vacanza della Sede. Nelle lettere vi erano poche parole di mano del pontefice,
che commetteva l'istesso assolutamente, et a Lorena diceva raccordarsi della
promessa. È cosa certa (per dir qui, se ben fuori di luogo, questo
particolare) che il papa era risoluto, se non si riaveva presto, di crear 8
cardinali e metter ordine che nell'elezzione del successore non nascesse
confusione. I legati e Lorena, risoluti d'antecipar il tempo della sessione e
finir il concilio, o con le proposte o senza, fra 2 giorni, acciò prima
non si potesse aver nuova della morte del papa, mandarono a communicar l'aviso
avuto e la loro risoluzione agl'ambasciatori, e negoziarono co' prelati
prencipali; tutti assentirono, eccetto l'ambasciatore spagnuolo, qual disse
aver ordine dal suo re che, vacando la Sede, non lasciasse far papa in
concilio, ma l'elezzione fosse de' cardinali e però non faceva bisogno
precipitare. Ma il cardinal Morone per il contrario disse che sapeva certo
l'ambasciatore di Francia, che era ancora in Venezia, aver commissione di
protestare che quel regno non obedirebbe ad altro papa che all'eletto per il
concilio, onde bisognava onninamente finirlo per fuggir ogni pericolo. Il conte
di Luna fece una congregazione de' prelati spagnuoli in casa sua e diede fama
d'aver risoluto di protestare et opponersi.
[La congregazione accetta i decreti formati et
acconcia i contesi per ispedire]
Con tutto
ciò la mattina seguente li legati fecero la congregazione, nella quale
furono letti li decreti del purgatorio e de' santi come erano stati formati dal
cardinal varmiense et altri deputati; dopo, letta la riforma de' frati, il
tutto approvato con grandissima brevità de voti e con pochissima
contradizzione. Poi, letti li capi di riforma, nel primo, che de' costumi de'
vescovi tratta, al passo dove si dice che «delle entrate della Chiesa non
arrichiscano li parenti o famigliari», si diceva che «delle entrate della
Chiesa, de' quali essi sono constituiti fedeli dispensatori per i poveri». Al qual
ponto il vescovo di Sulmona s'oppose, con dire che, essendo divise per antico
canone la porzioni de' poveri, della fabrica e della mensa episcopale, non era
da dire che li vescovi et altri beneficiati fossero dispensatori, ma che come
di parte loro propria erano patroni; non che spendendola male non incorressero
peccato et indegnazione divina, sí come anco ogni altra persona, che spende
male il suo proprio; ma se fossero dispensatori per li poveri, sarebbono
obligati alla restituzione, cosa che non s'ha da dire. Vi furono discorsi
assai, tenendo la maggiore parte che li beneficiati fossero li patroni de'
frutti overo usufruttuarii, altri dicevano, come già l'ambasciatore
francese nell'orazione, che sono usuarii. Alcuni defendevano le parole del
decreto, che erano dispensatori, allegando il luogo dell'Evangelio del servo
fedele e la dottrina di tutti li santi padri. Ma il dover venir al fine del
concilio fece che si tralasciassero quelle parole, cioè «de' quali essi
sono constituiti fedeli dispensatori verso li poveri», e col silenzio troncate
tutte le difficoltà.
Nel capo de'
iuspatronati, gl'ambasciatori di Savoia e di Fiorenza fecero instanza che
fossero eccettuati quelli de' loro prencipi, overo che non fossero eccettuati
altri che l'imperatore et i re: gli fu data sodisfazzione con eccettuare, oltra
l'imperatore, re overo possessori di regno, gl'altri grandi e supremi prencipi,
che ne' loro dominii hanno potestà d'imperio. Nel rimanente fu proposto
di legger in sessione tutti li decreti fatti sotto Paolo e Giulio per
approvargli; al che fu ripugnato dal vescovo di Modena, dicendo che questo
sarebbe stato un derogar l'autorità del concilio di quei tempi, quando
le cose allora fatte avessero bisogno di nuova conferma de' padri, et era
mostrar che questo con quello non fosse tutto uno, perché nissun mai conferma
le cose proprie; dicendo altri che fosse necessario farlo a punto per questo,
acciò non fosse levata a quelli l'autorità con dire che non sono
dell'istesso concilio; e li medesimi francesi, quali altre volte con tanta
instanza avevano ricchiesto che si decchiarasse il concilio esser nuovo e non
continuato col precedente di Paolo e Giulio, piú degl'altri s'affaticavano
acciò fosse levata ogni raggione di dubitare che tutti gli atti, dal
1545 sino al fine, non fossero d'una medesima sinodo: cosí avviene non solo
nelle cose umane, ma anco in quelle della religione che, mutati gl'interessi,
si muta la credulità. Mirando adonque tutti ad un istesso scopo, fu
determinato semplicemente di leggergli et altro non dire, perché con questo si
decchiarava apertissimamente l'unità del concilio e si levava la
difficoltà che averebbe potuto portar l'usar parola di conferma;
lasciando a ciascuno intendere come piú gli piacesse, se l'avergli letti portasse
in consequenza avergli confermati, o pur decchiarati validi, o pur inferire che
tutta è una sinodo quella che gli fece con quella che gl'ha letti.
Fu finalmente
proposto d'antecipar la sessione e celebrarla il dí seguente, e quando in
quella non si potessero espedir tutte le azzioni, continuarla il giorno dopo,
come tutt'una e licenziar li padri; et il giorno della dominica sottoscriver
tutti gl'atti del concilio. A questo s'opposero 14 vescovi spagnuoli, dicendo
che non era necessità d'abbreviar il tempo; con tutto ciò il
cardinal Morone disse che la sessione si sarebbe fatta. Et il cardinal di
Lorena con gl'ambasciatori cesarei rinovarono gl'ufficii con l'ambasciatore
spagnuolo, che si contentasse di quello che con tanta concordia era deliberato;
quale in fine, dopo molte cose dette e replicate, si contentò con due
condizioni: l'una, che si decretasse che il papa provederebbe alle cose che
restavano; l'altra, che nella trattazione delle indulgenze non si ponesse che
fossero date gratis, né alcun'altra cosa la qual potesse far pregiudicio
alle cruciate di Spagna.
[Nona sessione: decreti del purgatorio, de'
santi, delle imagini]
Venuto
adonque quel giorno venere de' 3 decembre, andati alla chiesa con le ceremonie
solite, si cantò la messa, nella quale fece il sermone Girolamo
Regazzone, vescovo di Nazianzo. Chiamò tutto 'l mondo ad ammirar quel
giorno felicissimo, nel quale il tempio di Dio si ristorava e la nave si
riduceva in porto dopo grandissimi turbini et onde; che piú sarebbe da
rallegrarsi se li protestanti avessero voluto esser a parte, ma questa non
esser la colpa de' padri. Disse che per il concilio avevano eletto quella
città nelle fauci di Germania, nel liminare della loro casa, senza
alcuna guardia, per non dar sospetto di poca libertà. Che i protestanti
erano stati invitati con fede publica, aspettati e pregati. Che per salute
delle loro anime s'era esplicata la fede catolica e restituita la disciplina
ecclesiastica. Recapitulò tutte le cose trattate dal concilio in materia
di fede. Narrò gl'abusi levati ne' riti sacri; disse che, quando non vi
fosse stata altra causa di convocar il concilio, era necessario farlo per la
sola proibizione de' matrimonii clandestini, e passato alle cose statuite per
riforma, mostrò di passo in passo il servizio publico che per quei
decreti la Chiesa riceverebbe. Aggionse che ne' passati concilii s'era trattata
l'esplicazione della fede con la riformazione de' costumi, ma in nissun piú
diligentemente. Disse che gl'argomenti e raggioni degl'eretici erano stati
trattati e piú volte discussi, e spesso con grandissima contenzione, non perché
tra essi padri vi fosse discordia, la qual non può esser in quelli che
sono del parer medesimo, ma per trattar con sincerità et illuminar la
verità in tal maniera che, se ben gl'eretici sono stati assenti, tanto
è fatto come se presenti fossero stati. Essortò tutti che,
tornati alle diocesi, mettessero li decreti in essecuzione. Essortò anco
tutti a ringraziar Dio e poi il pontefice, narrando le opere da lui fatte per
favorir il concilio, mandando noncii alle regioni protestanti, legati a Trento,
eccitando li prencipi a mandarvi ambasciatori, non perdonando a spese per
mantener il concilio in libertà. Lodò li legati per esser stati
guida e moderatori, et in particolare il cardinal Morone; e finalmente concluse
nella lode de' padri.
Finite le
ceremonie furono letti li decreti. Nella dottrina del purgatorio si diceva che
la Chiesa catolica dalle Sacre Lettere, dalla tradizione et in quella medesima
sinodo ha insegnato esservi il purgatorio, e le anime ritenute in quello esser
aiutate da' suffragii de' fedeli e dal sacrificio della messa. Però
commanda a' vescovi che insegnino e facciano predicar sana dottrina in quella
materia, senza trattar inanzi la plebe semplice questioni sottili, né lasciando
divulgar cose incerte et inverisimili, proibendo le curiosità,
superstizioni et inonesti guadagni, procurando che siano piamente esseguiti
quei suffragii che da' vivi sogliono esser fatti per li morti, e siano
esseguite accuratamente le cose ordinate ne' testamenti o in qualonque altro
modo.
In materia
de' santi, commanda a' vescovi et a tutti gl'altri che hanno carico d'insegnare
d'instruir il popolo dell'intercessione et invocazione de' santi, dell'onor
delle reliquie, del legitimo uso dell'imagini, secondo l'antica dottrina della
Chiesa, consenso de' padri e decreti de' concilii, insegnando che i santi
pregano per gli uomini, che è utile invocargli e ricorrere alle orazioni
et aiuto loro. Poi tutt'in un periodo condannò 8 asserzioni di questa materia:
che li santi del cielo non si debbono invocare; che non preghino per gl'uomini;
che sia idolatria l'invocargli acciò preghino per noi, eziandio
singolarmente; che repugni alla parola di Dio, sia contrario all'onor di
Cristo, sia pazzia supplicar loro con la voce o col cuore; che li corpi de'
santi, per quali Iddio presta molti beneficii, non debbiano esser venerati; che
le reliquie e le sepulture loro non debbono esser onorate, e che in vano si
frequentano le loro memorie per impetrar aiuto.
Quanto alle
imagini, che quelle di Cristo, della Vergine e de' santi si debbono tener ne'
tempii e rendergli il debito onore, non perché in loro sia divinità o
virtú alcuna, ma perché l'onor redonda nella cosa rapresentata, sí che per mezo
delle imagini sia adorato Cristo e li santi, la similitudine de' quali portano,
come fu definito da' concilii, specialmente dal niceno secondo. Che per
l'istorie li misterii della religione, espressi in pitture al popolo, sono
insegnati e raccordati gl'articoli della fede; e non solo gli sono soggeriti li
beneficii di Cristo, ma ancora posti inanzi agl'occhi li miracoli et essempii
de' santi, per ringraziarne Dio e per imitargli, anatematizando chi
insegnerà o crederà il contrario di quei decreti.
Soggionse poi
che desiderando levar gl'abusi e le occasioni de' perniciosi errori, ordina che
per le pitture istoriali della Scrittura Sacra, occorrendo figurar la
divinità, s'insegni al popolo che ciò non si fa perché quella
possi esser vista con gl'occhi del corpo. Soggionse che sia levata ogni superstizione
nell'invocazione de' santi, venerazione delle reliquie et uso delle imagini;
ogni guadagno inonesto sia abolito, evitato ogni lusso, non depinte, né ornate
le imagini lascivamente; nelle feste de' santi e visitazione delle reliquie non
si facciano banchetti, che in nissuna chiesa o in altro luogo sia posta imagine
insolita, se non approvata dal vescovo, né admessi nuovi miracoli o ricevute
nuove reliquie; et occorrendo qualche dubio o abuso difficile da estirpare o
difficoltà grave, il vescovo aspetti il parer del concilio provinciale,
né sia decretata cosa alcuna nuova o insolita nella Chiesa senza il parer del
papa.
[Decreto della riforma de' frati]
Vintidoi capi
conteneva il decreto della riforma de' regolari, con questi particolari
precetti in somma:
1 Che tutti
osservino la regola della professione, e specialmente quello che appartiene
alla perfezzione, che sono li voti e precetti essenziali, et alla
communità del viver e vestire.
2 Nissun
possi posseder beni stabili, né mobili, come proprii, né li superiori possino
conceder stabili, eziandio ad uso, governo o commenda, e nell'uso de' mobili
non vi sia né superfluità, né mancamento.
3 Concede la
sinodo a tutti li monasterii, eziandio mendicanti, eccettuati li capuccini e li
minori osservanti, di posseder beni stabili, con precetto che ne' monasterii
sia stabilito il numero de' religiosi, quanto possono esser sostentati o dalle
rendite o dalle lemosine consuete, né per l'avvenir siano fabricati tal luoghi
senza licenza de' vescovi.
4 Che nissun
religioso, senza licenza del superior suo, possi andar al servizio di
qualsivoglia luogo o persona, né partirsi dal suo convento, se non commandato
dal suo superiore.
5 Che li
vescovi abbiano cura di restituire e conservare la clausura delle monache,
essortando li prencipi e commandando a' magistrati in pena di scommunica a
prestargli aiuto. Che le monache non possino uscir di monasterio, et in pena di
scommunica nissun vi possa entrare, senza eccezzione di condizione, sesso o
età, se non con licenza. Che li monasterii delle monache fuori delle
mura delle città e castelli siano ridotti dentro.
6 Che le
elezzioni si facciano per voti secreti, né siano creati titolari a questo
effetto o supplita la voce degl'assenti, altramente l'elezzione sia nulla.
7 Che ne'
monasterii di monache la superiore sia almeno di 40 anni e di 8 di professione,
e dove questo non si possi, almeno sia sopra 30 d'età e 5 di
professione. Nissuna possi aver superiorità in due monasterii, e quello
che sarà soprastante all'elezzione stia fuori delle grade.
8 Li
monasterii che sono immediate sotto la Sede apostolica si riducano in
congregazione e diano ordine al loro governo, e li loro superiori abbiano
quell'autorità che gl'altri de' già ridotti in congregazione.
9 Li
monasterii de monache soggetti immediate alla Sede apostolica siano governati
da' vescovi come delegati.
10 Che le
monache si confessino e communichino almeno ogni mese et oltra il confessor
ordinario gli sia dato un estraordinario, due o tre volte all'anno, e non
possino tener il sacramento dentro in monasterio.
11 Che ne'
monasterii che hanno cura d'anime secolari, quelli che l'essercitano siano
soggetti al vescovo in quello che tocca il ministerio de' sacramenti, eccetto
il monasterio di Clugni, o dove risedono abbati generali o capi degl'ordini, o
dove gl'abbati hanno giurisdizzione episcopale o temporale.
12 Che li
regolari publichino e servino le censure et interdetti papali et episcopali, e
parimente le feste che il vescovo commanderà.
13 Che il
vescovo inappellabilmente sia giudice di tutte le controversie di precedenza
tra le persone ecclesiastiche, sí secolari come regolari, e tutti siano
obligati andar alle publiche processioni, eccetto quelli che vivono in stretta
clausura.
14 Il
regolare che resiede nel chiostro e commette eccesso fuori con scandalo del
popolo sia punito dal superiore nel tempo che il vescovo statuirà, e
della pena sia fatto il vescovo certo, altrimenti il delinquente possi esser da
lui punito.
15 Che la
professione fatta inanzi 16 anni finiti et un anno intiero di probazione sia
nulla.
16 Che
nissuna rinoncia o obligazione vaglia, se non fatta tra il termine di 2 mesi
inanzi la professione e con licenza dell'ordinario, e finito il tempo della
probazione li superiori admettino li novizi alla professione, o gli mandino
fuori del monasterio, non intendendo però di comprender li giesuiti. Che
il monasterio non possi ricever alcuna cosa dal novizio inanzi la professione,
eccetto il vitto e vestito, e partendo, gli sia restituito tutto 'l suo.
17 Che
nissuna vergine riceva l'abito, né faccia professione senza esser prima
essaminata dal vescovo e ben intesa la volontà di lei, e che abbia le
condizioni requisite secondo la regola di quel monasterio.
18 Che siano
anatematizati tutti, di qualsivoglia condizione, quelli che sforzeranno alcuna
donna, fuorché ne' casi legitimi, ad entrar in monasterio, ricever l'abito o
far professione, e similmente quelli che impediranno senza giusta causa quelle
che spontaneamente vorranno entrare, eccettuate le penitenti o convertite.
19 Chi
pretenderà nullità della professione non sia ascoltato se non tra
cinque anni dal giorno d'essa, producendo la causa inanzi al suo superiore et
ordinario prima che deponga l'abito, e nissun possa passar a religione piú
larga, né sia data licenza di portar l'abito occolto.
20 Gli abbati
capi degl'ordini visitino li monasterii soggetti, quantonque commendati, e li
commendatarii siano tenuti esseguir le ordinazioni, et in quelli siano creati
li priori o superiori che hanno il governo spirituale da' capitoli o visitatori
degl'ordini.
21 Che la
sinodo desidererebbe restituir la disciplina in tutti li monasterii, ma per la
durezza e difficoltà del secolo non essendo possibile, per non
tralasciar di operar sí che alcuna volta si possa provedervi, confida che il
papa, per quanto vedrà poter comportar il tempo, provederà che a'
commendati sia preposto in governatore persona regolare professa; e quelli che
vacheranno all'avvenire non siano conferiti se non a regolari; e quelli che
hanno in commenda monasterii che sono capi degl'ordini, se non gl'è
proveduto di successor regolare fra 6 mesi, debbino far la professione o
cedere, altrimenti le commende vachino. E nelle provisioni de' monasterii sia
nominatamente espressa la qualità di ciascuno, altrimenti la provisione
s'abbia per sorrettizia.
22 Che a quei
decreti s'intendano tutti li regolari soggetti, non ostante qualonque
privilegio, eziandio di fondazione, commandando a' vescovi et abbati di mandar
in essecuzione immediate, e pregando e commandando a prencipi e magistrati
d'assistergli sempre che saranno ricercati.
[Canone della riforma generale]
Continuò
immediate la lettura della riforma generale, della quale, dopo essortati li
vescovi alla vita essemplare et alla modestia negl'apparati, mensa e vitto
frugale,
1 Viene
proibito che delle rendite della chiesa non possino far parte a' parenti e
famigliari, eccetto se sono poveri, estendendo quello che de' vescovi è
detto a tutti li beneficiati secolari e regolari et ancora a' cardinali.
2 Che li
vescovi, nel primo concilio provinciale, ricevino li decreti d'essa sinodo
tridentina, promettino obedienza al papa, anatematizino le eresie condannate, e
l'istesso faccia ciascun vescovo che per l'avvenire sarà promosso, nella
prima sinodo; e tutti li beneficiati che debbono convenir in sinodo diocesana,
in quella faccino il medesimo. E quelli che hanno cura dell'università e
studii generali, operino che da quelli siano ricevuti li medesimi decreti e li
dottori insegnino conforme a quelli la fede catolica; e di ciò ne
facciano giuramento solenne in principio di ciascun anno, e quelle che sono
soggette immediate al pontefice, Sua Santità averà cura che siano
riformate da' suoi delegati in quella maniera o come meglio gli parerà.
3 Che se ben
la spada della scommunica è il nervo della disciplina ecclesiastica,
molto salutifero per contener gl'uomini in ufficio, s'ha da usar con
sobrietà e circonspezzione, avendo imparato per esperienza esser piú
sprezzato che temuto, quando si fulmina temerariamente per causa leggiera;
però da altri che dal vescovo non possi esser fulminata per cose perse e
rubate, il quale non si lasci indur a concederla dall'autorità di
qualsivoglia secolare, eziandio magistrato. E nelle cause giudiciali, dove si
può far l'essecuzione reale o personale, s'astenga da censure; e nelle
civili, spettanti in qualonque modo al foro ecclesiastico, possino usar pene
pecuniarie, eziandio contra li laici, o proceder per presa de pegni overo delle
persone medesime, con essecutori suoi o altri; e non potendosi esseguir
realmente o personalmente, ma essendoci contumacia, si possi proceder alla
scommunica; et il medesimo nelle cause criminali. Né il magistrato secolare
possi proibir all'ecclesiastico di scommunicare overo rivocar la scommunica
sotto pretesto che le cose del decreto non siano state osservate. Il
scommunicato, se non si ravederà, non solo non sia ricevuto a partecipar
co' fedeli, ma se persevererà nelle censure, si possi proceder contra
lui come sospetto d'eresia.
4 Dà
facoltà a' vescovi che nella sinodo diocesana, et a' capi degl'ordini
ne' suoi capitoli generali possino ordinar nelle loro chiese quello che sia ad
onor di Dio et utilità di quelle, quando vi sia obligo di celebrar cosí
gran numero di messe per legati testamentarii che non si possino satisfar overo
l'elemosina sia tanto tenue che non si trovi chi vogli ricever il carico; con
condizione però, che sempre si faccia memoria di quei deffonti che hanno
lasciati li legati.
5 Che nella
collazione o qualonque altra disposizione de' beneficii non sia derogato alle
qualità, condizioni e carichi ricercati, overo imposti nella erezzione o
fondazione, o per qualonque altra constituzione; altrimenti la provisione sia
stimata sorrettizia.
6 Che quando
il vescovo procede fuori di visita contra li canonici, il capitolo nel
principio di ciascun anno elegga doi, col conseglio e consenso de' quali abbia
da proceder in tutti gl'atti, e sia uno il voto d'ambidoi, e se saranno tutti
doi discordi dal vescovo, sia eletto da loro un terzo che determini la
controversia; e non accordandosi, sia eletto il terzo dal vescovo piú vicino;
ma nelle cause di concubinato o piú atroci possi il solo vescovo ricever
l'informazione e proceder alla retenzione, del resto servando quanto è
ordinato. Che il vescovo in coro et in capitolo e negl'altri atti publici abbia
la prima sede et il luogo che eleggerà. Che il vescovo preseda al capitolo,
se non quando si tratta del commodo suo e de' suoi, né questa autorità
possi esser communicata al vicario e quelli che non sono di capitolo. Nelle
cause ecclesiastiche siano in tutto soggetti al vescovo, e dove li vescovi
hanno maggior giurisdizzione della predetta, il decreto non abbia luogo.
7 Per
l'avvenire non sia piú concesso regresso o accesso ad alcun beneficio
ecclesiastico, né li già concessi siano estesi o trasferiti, et in
questo siano compresi anco li cardinali. Non siano fatti coadiutori con futura
successione in qualsivoglia beneficii ecclesiastici; e se nelle catedrali o
monasterii sarà necessario o utile il farlo, la causa sia prima
conosciuta dal pontefice e vi concorrano le debite qualità.
8 Che tutti
li beneficiati essercitino l'ospitalità quanto l'entrata gli concede, e
quelli che hanno ospitali in governo sotto qualonque titolo, commanda che
l'essercitino secondo che sono tenuti delle entrate a ciò deputate; e se
nel luogo non si trovino persone di quella sorte che l'instituzione ricerca, le
entrate siano convertite in uso pio piú prossimo a quello come parerà al
vescovo con doi del capitolo; e quelli che non satisfaranno al carico
dell'ospitalità, se ben fossero laici, possino esser costretti per
censure et altri rimedii al loro debito, e siano tenuti alla restituzione de'
frutti nel foro della conscienza, e per l'avvenire simil governi non siano dati
ad uno per piú che 3 anni. Che il titolo del iuspatronato si mostri autentico
per fondazione o donazione o per presentazioni moltiplicate da tempo
immemorabile, o in altra maniera legitima. Ma nelle persone e communità
che si sogliono presumer averlo usurpato, la prova sia piú essatta e
l'immemorabile non basti, se non si mostrino autenticamente presentazioni di 50
anni almeno, che tutte abbiano avuto effetto. Le altre sorti de' patronati
s'intendino abrogati, eccetto quelli dell'imperatore, re overo possessori de
regni, et altri prencipi soprani e de' studii generali. Possi il vescovo non
admetter li presentati da' patroni se non saranno idonei; li patroni non si
possino intrometter ne' frutti, né il iuspatronato possi esser trasferito in
altri contra le ordinazioni canoniche, e le unioni de' beneficii liberi a quei
de iuspatronati, se non hanno sortito effetto, cessino a fatto, e li beneficii
siano ridotti a libertà, e le fatte da 40 anni in giú, quantonque siano
perfezzionate, si rivedino da' vescovi e, trovatovi qualche defetto, siano
annullate; e parimente siano revisti tutti li patronati da 40 anni in giú, per
aummento di dote o per nuova construzzione, e se non si troveranno in evidente
utilità del beneficio, siano rivocati, restituito a' patroni quello che
da loro è dato.
10 Che ne'
concilii provinciali, o diocesani siano elette quattro persone almeno con le
debite qualità, a quali siano commesse le cause ecclesiastiche, che
s'averanno a delegare da' legati, noncii, o dalla Sede apostolica, e le
delegazioni ad altri fatte s'intendino sorrettizie.
11 Che li
beni ecclesiastici non possino esser affittati con antecipato pagamento in
pregiudicio de' successori, né si possino affittar le giurisdizzioni
ecclesiastiche, né gli affittuali possino essercitarle; e le locazioni di cose
ecclesiastiche, eziandio confermate dalla Sede apostolica, fatte da 30 anni in
giú per tempo longo, cioè a 29 o piú anni, si debbino giudicar dalla
sinodo provinciale fatte in danno della Chiesa.
12 Che li
tenuti a pagar decime, per l'avvenire le paghino a chi sono obligati
intieramente, e chi le tiene debbia esser escommunicato, né possi esser assolto
se non seguita la restituzione. Et essorta tutti a far parte de' beni donatigli
da Dio a' vescovi e parochi che hanno le chiese povere.
13 Dove la
quarta de' funerali era solita pagarsi alla chiesa episcopale o parochiale da
40 anni in su, e poi è stata concessa ad altri luoghi pii, sia a quelle
ritornata.
14 Proibisce
a tutti li chierici di tener in casa o fuori concubine o altre donne sospette,
dal che, se ammoniti non s'asteneranno, siano privati della terza parte
dell'entrate ecclesiastiche, e dopo la seconda ammonizione privati di tutti e
sospesi dall'amministrazione, e, perseverando, siano privati d'ogni beneficio
et inabili ad averne sino che non saranno dispensati; e se, dopo averle
lasciate, ritorneranno, siano anco scommunicati e la cognizione di queste cause
appartenga a' soli vescovi sommariamente. Ma li chierici non beneficiati siano
da loro puniti di carcere, sospensione o inabilità. E li vescovi
medesimi, se caderanno in simil errore, non emendandosi dopo esser amoniti
dalla sinodo provinciale, siano sospesi e, perseverando, siano denonciati al
papa.
15 Che li
figli di chierici non nati di legitimo matrimonio non possino aver beneficio,
né ministerio nelle chiese dove li loro padri hanno o hanno avuto beneficio
alcuno, né possino aver pensioni sopra li beneficii che il padre ha o ha avuto;
e se in qualche tempo padre e figliuolo hanno beneficio nella medesima chiesa,
il figliuolo sia tenuto resignarlo fra tre mesi, proibendo anco le resignazioni
che il padre farà ad un altro, acciò quello resigni il suo al figliuolo.
16 Che li
beneficii curati non possino esser convertiti in semplici e ne' già
convertiti, se il vicario perpetuo non ha entrata conveniente, gli sia
assignata ad arbitrio del vescovo.
17 Contra li
vescovi che si portano bassamente co' ministri de' re, co' titolati e baroni,
cosí nella chiesa come fuori, e con troppo indegnità non solo gli danno
luogo, ma ancora gli servono in persona, la sinodo, detestando questo e
rinovando li canoni spettanti al decoro della degnità episcopale, commanda
a' vescovi che se n'astengano et abbiano risguardo al proprio grado, cosí in
chiesa come fuori, raccordandosi d'esser pastori, e commanda anco a prencipi et
a tutti gl'altri che gli portino onor e riverenza debita a padri.
18 Che li
canoni siano osservati da tutti indistintamente e non siano dispensati se non
per causa conosciuta con maturità e senza spesa.
19 Che
l'imperatore, re et ogni altro prencipe, che concederanno luogo per duello tra
cristiani, siano escommunicati e privati del dominio del luogo dove il duello
sarà commesso, se lo riconoscono dalla Chiesa; e li combattenti e
padrini siano escommunicati, confiscati li beni e perpetuamente infami, e
morendo nel duello, non siano sepolti in sacro; e quelli che lo conseglieranno
o in iure o in fatto, o persuaderanno al duello, e li spettatori siano
scommunicati.
Dopo questo
fu letto un decreto, del quale in nissuna congregazione s'era prima parlato,
per il quale la sinodo decchiarava che in tutti i decreti di riforma fatti
sotto Paolo, Giulio e Pio in quel concilio, con qualsivoglia parole e clausule,
s'intendi sempre salva l'autorità della Sede apostolica.
[Seguito della medesima sessione: decreto
delle indulgenze, di digiuni, cibi e feste, indice de' libri proibiti]
Non potendosi
espedire, per esser l'ora tarda, il rimanente in quella sessione, secondo la
deliberazione presa nella congregazione generale, il rimanente fu differito al
giorno seguente, nel quale, quantonque fosse già venuta nuova che il
papa era megliorato et in tutto posto in sicuro della vita, si fece la congregazione
inanzi giorno; furono letti li decreti delle indulgenze, di finir il concilio e
di dimandar la conferma, et approvati da tutti.
Dopo il
disnar si fece la sessione, nella quale fu letto il decreto delle indulgenze,
che in sostanza contiene: Cristo aver dato autorità di concederle alla
Chiesa e lei aver usato da antichissimo tempo, e per tanto la sinodo insegna e
commanda che l'uso di quelle sia continuato come salutifero al popolo cristiano
et approvato da' concilii, et anatematiza chi dirà che siano inutili o
che la Chiesa non abbia potestà di concederle; e per servar l'antica
consuetudine e proveder gl'abusi, commanda che siano abolite tutte le
questuazioni cattive, e quanto agl'altri abusi, commanda a' vescovi che ciascun
raccolga tutti quelli della propria chiesa e gli proponga nella sinodo
provinciale per riferirgli al papa che vi provegga. Intorno li digiuni e
differenze de cibi et osservazione di feste, essorta li vescovi ad osservar li
commandamenti della Chiesa romana, et intorno l'Indice, se ben quello era
finito, non potendo la sinodo darne giudicio, ordina che tutto sia portato al
papa e rimesso al giudicio suo; l'istesso facendosi del catechismo, messal e
breviario. Publicò ancora un altro decreto che per li luoghi dissegnati
agli oratori non s'intendi pregiudicato ad alcuno. In fine pregò li
prencipi ad adoperarsi che li decreti del concilio non siano violati
dagl'eretici, ma ricevuti et osservati da essi e da tutti; nel che, se
nascerà difficoltà o bisogno di decchiarazione, il papa, chiamati
quelli che giudicherà a proposito dai luoghi dove la difficoltà
nascesse, overo congregando concilii generali o con altro modo
provederà. Furono dopo recitati tutti li decreti fatti sotto Paolo e
Giulio in quel concilio, cosí in materia di fede come di riforma. Per ultima
cosa, il secretario andato in mezo, interrogò se piaceva a' padri che
fosse posto fine a quella sinodo e, per nome di lei, da' legati e presidente
dimandata al sommo pontefice Pio IV conferma di tutte le cose decretate sotto
Paolo e Giulio e sotto la Santità Sua, e fu risposto, non ad uno ad uno
per voti, ma da tutti insieme in una voce: «Placet». Il cardinal Morone,
come primo presidente, concesse a ciascuno che s'era ritrovato in concilio et a
tutti li presenti alla sessione indulgenza plenaria, e benedisse il concilio e
licenziò tutti che, dopo aver reso grazie a Dio, andassero in pace.
[Acclamazioni in concilio. Sottoscrizzione de'
decreti]
Fu antico
costume delle chiese orientali di trattar le cose de' concilii nell'adunanza
publica di tutti, e, venendo occasione, ben spesso occorrevano delle
acclamazioni popolari, et alcune volte tumultuose, le quali però
finivano in concordia; e nel fine li vescovi, trasportati per l'allegrezza
causata dalle concordi deliberazioni, passavano ad acclamazioni in lode
degl'imperatori, che avevano congregato il concilio e favorito, in
commendazione della dottrina dal concilio decchiarata, in preghiere a Dio per
la continua divina assistenza alla santa Chiesa, per la salute degl'imperatori
e per la sanità e prosperità de' vescovi; le quali non erano
meditate, ma secondo che lo spirito eccitava alcun vescovo piú zelante a
prorumper in qualche d'uno di quei concetti opportunamente, cosí il commun
concorso gl'acclamava. Questo fu anco immitato in Trento, non però dando
luogo a spirito presentaneo d'alcuno, ma con aver prima meditato quello che
doveva esser proposto e risposto, e recitandolo de scritto. Il cardinal di
Lorena si prese cura non solo d'esser principale a componer le acclamazioni, ma
anco d'intonarle; il che universalmente fu inteso per una leggierezza e
vanità e poco condecente ad un tal prelato e prencipe far l'officio che
piú tosto conveniva a' diaconi del concilio, non che ad un arcivescovo e
cardinale tanto principale. In quelle intonando il cardinale e rispondendo li
padri, fu pregato longa vita al papa et eterna felicità a Paolo e
Giulio; e similmente eterna memoria a Carlo V et a' re protettori del concilio;
e longa vita all'imperatore Ferdinando et a' re, prencipi e republiche; longa
vita e molte grazie a' legati e cardinali; vita e felice ritorno a' vescovi,
commendata la fede della santa general tridentina sinodo come fede di san
Pietro, de' padri e degl'ortodossi: in una sola parola detto anatema a tutti
gl'eretici in general, senza specificare né antichi, né moderni.
Fu commandato
sotto pena di scommunica a tutti li padri che sottoscrivessero di mano propria
a' decreti. Il giorno seguente, che fu la dominica, fu consummato in questo, e
per farlo ordinatamente, si fece quasi una congregazione, e le sottoscrizzioni
furono di legati 4, cardinali 2, patriarchi 3, arcivescovi 25, vescovi 268,
abbati 7, procuratori d'assenti 39, generali d'ordini regolari 7. E se ben
già era stato deliberato che gl'ambasciatori sottoscrivessero dopo li
padri, fu presa contraria risoluzione allora per piú rispetti: l'uno fu perché
il non esservi ambasciatore francese, quando fossero vedute le sottoscrizzioni
degl'altri e non quella, sarebbe stato una decchiarazione che ' francesi non
ricevessero il concilio; l'altro perché il conte di Luna si lasciava intender
di non sottoscriver assolutamente, ma con riserva, per non aver il re
acconsentito al fine del concilio. E publicarono li legati che, non essendo
costume di sottoscriver li decreti se non da chi ha voce deliberativa, sarebbe
stata cosa insolita che ambasciatori sottoscrivessero.
In Roma,
quando successe l'infermità del pontefice, temendo tutti della vita sua,
fu molta confusione nella corte, perché, non avendosi ancora visto morte di
pontefice essendo il concilio aperto, si temeva grandemente quello che potesse
succeder: avevano l'essempio del concilio constanziense, il quale
nell'elezzione aggionse altri prelati a' cardinali, e temevano che qualche cosa
simile o peggiore non avvenisse; e se ben l'ambasciatore di Spagna affermava
l'ambasciatore in Trento e li prelati spagnuoli aver commissione che
l'elezzione fosse de' cardinali, con tutto ciò, atteso il poco numero di
questi, le parole non davano piena confidenza. Fu grand'allegrezza quando
s'intese il papa ristorato, parendo d'esser usciti di gran pericolo, la qual
s'aummentò sopra modo quando s'intese il fine del concilio. Il pontefice
ordinò per questo una solenne processione per ringraziar Dio di tanto
beneficio. In consistoro mostrò il gran contento che n'aveva; disse di
volerlo confermare et anco aggiongergli altre riforme, di voler mandar 3
legati, in Germania, Francia e Spagna per essortar ad esseguir li decreti, per
conceder le cose oneste e dar suffragio nelle cose de iure positivo.
[I legati arrivano a Roma et informano il
papa, che delibera di dare conferma a' decreti di Trento]
Inanzi il
Natale arrivarono in Roma li legati Morone e Simoneta, da' quali il papa volle
intender in molte audienze minutamente le cose successe, e pigliò in
nota li nomi de' prelati che s'erano affaticati per il concilio a fine di
fargli cardinali. La corte, intendendo la risoluzione del papa alla conferma,
mutò l'allegrezza in querimonia, facendo tutti gl'officiali indoglienza
per il danno che averebbono ricevuto negl'officii loro, se quella riforma
s'esseguiva; e consideravano di piú che, essendo quei decreti concepiti in
termini generali e senza clausule di sottil esplicazione, sempre che
difficoltà fosse nata, il mondo, già assuefatto a latrare contra
quella corte, averebbe fatto contraria interpretazione a' loro interessi e
sarebbe stata abbracciata come cosa speciosa e coperta con titolo di riforma.
Erano date suppliche e memoriali al pontefice di quelli che, avendo comprato
gl'officii e prevedendo questo danno, dimandavano ristoro, cosa che dalla
Santità Sua era molto stimata e riputata degna di buon rimedio,
acciò non fosse causa della desolazione di Roma. Al che avendo diligentemente
pensato, deputò cardinali a consultar sopra la confermazione et a pensar
il rimedio che si potesse porger alle querimonie della corte. Erano alcuni
cardinali che consegliavano a confermar immediate li decreti spettanti alla
fede, ma proceder con maturità intorno agl'altri, imperoché alcuni erano
degni di molta considerazione per la poca utilità e gran confusione che
porterebbono, altri, per l'impossibilità o gran difficoltà,
sarebbe stato necessario spesso dispensargli; il che non sarebbe successo senza
indecoro e senza dar materia a' raggionamenti; essendo anco necessario aver
molta considerazione sopra il modo d'esseguirgli in maniera che non portassero
danno né pregiudicio ad alcuno, non essendo degna di nome di riforma quella
provisione, quale è con detrimento d'altri; che differendo, s'averebbe
conosciuto, intendendo il parer d'altri molti, quello che si poteva far con
sodisfazzione commune, senza la quale tutte le reformazioni tornavano in
disformazioni. Il papa per questo elesse 8 cardinali che gli rivedessero, li
quali, dopo longa discussione, per la maggiore parte furono di parere che
conveniva moderargli tutti prima che confermargli, e ben considerare che,
dovendo patir alcuna opposizione, meglio era farla nel principio, che, dandogli
riputazione con la conferma, voler poi moderargli. Esser cosa certa che a chi
ha procurato il concilio altro scopo non è stato in mira se non
d'abbassar l'autorità della Sede apostolica, e mentre il concilio
è durato, da tutti esser stato parlato come se quello avesse avuto
potestà di dar legge al pontefice, e però doversi mostrar adesso
con l'annullare o moderare alcuno di quei decreti che il pontefice non ha da
ricever, ma da dar le leggi a' concilii.
Il pontefice,
da sé inclinato alla conferma et indottovi anco per le persuasioni di Morone e
Simoneta, perplesso nondimeno per le querimonie della corte e per l'universale
openione de' cardinali, volendo venir a risoluzione, chiamò, oltra li
sudetti, li cardinali della Burdisiera et Amulio et i principali officiali di
camera, cancellaria e rota; dove, proposta la deliberazione, li quattro
cardinali concordi consegliarono che il concilio si confermasse assolutamente.
Il cardinal d'Amulio, nelle memorie del quale ho veduto questo negoziato, disse
che Sua Santità, con la pazienza, prudenza e virtú, con immensa spesa
sua, fatica e dispendio di tanti prelati, aveva veduto il fine d'una grande e
difficile impresa del congregar, indrizzar e serrar il concilio; gli restava
una maggiore, ma senza difficoltà, cioè preservar sé e la Sede
apostolica e tutto l'ordine ecclesiastico da reintrare nella stessa
difficoltà, pericoli, dissaggi e spese; et esser 40 anni che il mondo
non parlava che di concilio, né aver potuto li pontefici con ogni opera
divertirlo per la persuasione imbevuta dal mondo del bisogno di quello e che
fosse per apportar frutto: se subito finito si tratta d'emendarlo o moderarlo
overo, non confermandolo, si lascia in sospeso, sarà fatta una
decchiarazione che non è stato proveduto in Trento a quello che era
necessario e s'aspettava, e subito si metterà a campo un'altra
provisione, o per mezo de concilii nazionali, o per un altro generale, et ecco
le medesme angustie, da' quali con tanta difficoltà s'è liberata
la Chiesa di Dio. Ma approvando li decreti del concilio come una perfetta
riforma e dandogli riputazione et essecuzione in quello che sarà
possibile, una gran parte resterà persuasa che niente vi manchi, e non
esser cosa piú utile per li tempi correnti che sparger fama e nutrirla che il
concilio abbia fatto una santa, necessaria e perfetta riforma, non lasciando
saper che da cardinale alcuno vi sia stato posto dubio che in quel concilio non
s'abbia essequito quello perché fu convocato; che cosí facendo, l'umore del
mondo a poco a poco s'acquieterà e con le dispense potrà la
Santità Sua proveder a' suoi ministri e servitori senza violazione de'
decreti del concilio, poiché in quei medesimi è riservata
l'autorità apostolica; li quali gli serviranno per scudo a negare le
dimande importune di quelli che non giudicherà meritevoli di grazie, e
col tempo, pian piano, le cose, insensibilmente e senza che il mondo se
n'accorga, torneranno nell'istesso stato; che altre volte anco per questa via
s'è caminato, quando la necessità ha costretto cedere a questi
umori, soliti nascer ne' sudditi contra quei che gli governano; che quando
altri facesse opposizione a quei decreti, per riputazione di tante sue
creature, de' suoi legati e di Sua Santità medesima, conveniva che egli
gli sostenesse, non che, tacendo tutti, essa medesima debbia giugulargli
totalmente, poiché ogni minima moderazione, emendazione overo anco dilazione a
confermargli è un colpo mortale a tutti; oltra che il volgo, qual sempre
intende le cose in sinistro, altro non saprà dire se non che la corte di
Roma et il pontefice non vuole riforma.
Gl'officiali
di corte quasi tutti parlarono in contrario, rapresentando li danni e
pregiudicii loro e mostrando come tutto ritornerebbe in lesione della
Santità Sua e della Sede apostolica et in diminuzione delle entrate di
quella. Solo Ugo Buoncompagno, vescovo di Bestice, che fu poi cardinale,
persona versata molto ne' negozii della corte, disse che non poteva restar di
maravegliarsi di tanto timore che vedeva nascere senza raggione; che per la
conferma del concilio non se gli dava maggior autorità di quella che
gl'altri concilii generali avevano, che si dava al decreto et a' decretali, dal
gran numero de' quali e dall'aperto parlare contra li costumi presenti,
innumerabilmente piú pregiudicii e lesioni si riceverebbe che da quei pochi
decreti tridentini, molto riservati nella forma del parlare; che nissuna legge
sta nelle parole, ma nell'intelligenza, e non in quella che il volgo e li
grammatici danno, ma in quella che l'uso e l'autorità conferma: le leggi
non hanno altro vigore che quanto gli presta chi governa e ha la cura
d'esseguirle; quello con la decchiarazione gli dà senso o piú amplo o
piú ristretto et anco contrario a quello che le parole sonerebbono, e tanto
sarebbe restringer o moderar al presente li decreti di Trento, quanto
confermarli adesso assolutamente e lasciargli restringer dall'uso, overo farlo
con decchiarazione a tempi opportuni. Concluse che non sapeva veder causa
perché si dovesse porre difficoltà alcuna alla conferma; ma ben
raccordava che s'ovviasse al presente agl'inconvenienti che potrebbono nascere
per la temerità de' dottori, che quanto piú ignari del governo e de'
bisogni publici, tanto piú s'arrogano il dar interpretazione alle leggi che
confonde il governo; vedersi per isperienza che le leggi non fanno alcun male,
non causano alcuna lite, se non per li varii sensi datigli; che per la
constituzione di Nicolò III sopra la regola di san Francesco, materia da
sé piena d'ambiguità, mai però nasce alcun disordine, per la
proibizione da lui fatta a glosatori e commentatori d'interpretarla; se
sarà cosí proveduto a' decreti di Trento, se sarà vietato lo
scrivere sopra quelli, sarà ovviato a gran parte di quello che si teme.
Ma se anco la Santità Sua proibirà ogni interpretazione, anco a'
giudici, et ordinerà che in qualonque dubitazione si ricorri alla Sede
apostolica per l'interpretazione, nissuno potrà valersi del concilio a
pregiudicio della corte e si potrà con l'uso e con le dechiarazioni
accommodarlo a quello che sarà beneficio della Chiesa; e potrà la
Santità Sua, sí come ha una congregazione che con gran frutto attende
alle cose dell'Inquisizione, cosí instituirne un'altra sopra di questo
particolare d'interpretar il concilio, alla quale siano riferiti li dubii da
tutte le parti del mondo. «E cosí facendo, diceva, io preveggo che non solo per
li decreti del concilio non sarà diminuita l'autorità della Sede
apostolica e le raggioni e prerogative della Chiesa romana, ma saranno
accresciute et ampliate molto, sapendosi valer di questi mezi». Furono mossi gl'astanti
da queste raggioni, et il papa sentí la necessità di venir alla conferma
assoluta, senza altra modificazione; e persuaso che fosse per succeder come il
vescovo rapresentava, fu risoluto di non attender altro in contrario, ma pieno
di speranza di raccoglier buoni frutti dalle fatiche fatte per finir il
concilio, risolvette di confermarlo e di riservar a sé l'interpretazione e
d'instituire la congregazione, conforme al raccordo del vescovo del Bestice, e
conferito questo co' cardinali a parte, risolvé di venirne all'effetto.
Perilché il
dí 26 genaro, Morone e Simoneta in consistoro, narrato il tenore del decreto
fatto nell'ultima sessione, che da loro fosse ricchiesta la conferma,
dimandarono che Sua Santità si degnasse confermar tutto quello che sotto
Paolo, Giulio e la Santità Sua era stato in quel concilio decretato e
definito. Il pontefice, fatto legger prima il sopradetto decreto, mandò
attorno li voti de' cardinali. Furono conformi che il concilio fosse
confermato, eccetto li cardinali San Clemente et alessandrino, li quali dissero
in quel concilio esser stata data troppo autorità a' vescovi et esser
necessario moderarla, et allora far eccezzione di quei capi che l'allargavano
troppo, li quali già erano notati. Il papa concluse in fine esser bene confermargli
tutti senza eccezzione e cosí fece in parole nel consistoro, confermandogli e
commandando che da tutti li fedeli fossero ricevuti et inviolabilmente
osservati, e publicò quel medesimo giorno una bolla sottoscritta da'
cardinali tutti, nella quale, narrate le cause della convocazione et il
progresso, con gl'impedimenti e difficoltà di tempo in tempo
attraversati e la diligenza sua in favorir la libertà di quello,
concedendogli anco arbitrio libero sopra le cose riservate alla Sede
apostolica, ringraziò Dio che con intiero consenso se gli fosse imposto
fine; perilché, ricercato della conferma per nome della sinodo, conoscendo li
decreti esser tutti catolici et utili al popolo cristiano, gl'ha confermati in
consistoro e gli conferma in quella scrittura, commandando a tutti li prelati
di fargli osservare et essortando l'imperatore, re, republiche e prencipi ad
assistere per osservanza di quei decreti di favore a' prelati, non permetter,
ma onninamente proibire a' popoli loro il ricever le opinioni contrarie alla
dottrina di quel concilio, e per fuggir la confusione, proibí ad ogni
condizione di persone, cosí chierici come laici, il fargli sopra commentarii,
glose, annotazioni o scolii, né interpretazione di qualsivoglia sorte, né meno
far statuto di sorte alcuna, ancora sotto pretesto di maggior corroborazione o
essecuzione de' decreti; ma essendovi bisogno d'interpretazione d'alcun luogo
oscuro o di qualche decisione, andassero alla Sede apostolica, perché egli si
riservava il decchiarare le difficoltà o controversie, come anco la
sinodo aveva già decretato.
[Giudicii sopra questo atto del papa]
Andò
in stampa insieme co' decreti del concilio l'atto consistoriale della conferma
e la bolla; le qual cose diedero da parlare, apparendo dal tenor di quelle che
li decreti non avessero vigore come statuiti dal concilio, ma solo per la
confermazione; onde si diceva che uno aveva veduto la causa e l'altro fatto la
sentenza; né potersi dire che il pontefice avesse prima veduto li decreti che
confermatigli, poiché dall'atto consistoriale appariva non aver veduto se non
il decreto di chieder la conferma; che almeno in Trento s'erano fatti legger li
decreti fatti sotto Paolo e Giulio, che piú conveniva che fossero confermati da
chi gl'aveva uditi che da chi non aveva inteso. Al che da altri veniva risposto
non esservi stato bisogno che il pontefice gli vedesse, non essendo stata fatta
in Trento cosa se non deliberata prima da lui. Per molti consistori seguenti
parlò il pontefice per osservazione de' decreti del concilio; disse che
egli stesso voleva osservargli, se ben non era obligato; diede parola di non
derogarne mai, se non per evidente et urgente causa e con consenso de'
cardinali. Diede la cura a Morone e Simoneta di star attenti se in consistoro
fosse proposto o trattato cosa alcuna contraria et avvertirnelo: rimedio molto
lieve per ovviare le transgressioni, perché, delle concessioni che si fanno in
Roma, una centesima parte non si spedisce in consistoro. Mandò li
vescovi alla residenza et ordinò di valersi nel governo della
città di Roma e dello Stato ecclesiastico dell'opera de' protonotarii e
referendarii. Ma se ben il pontefice per il fine del concilio fu liberato dalla
gran molestia che sentiva, restarono però reliquie in tutti li regni, che
portavano nuove difficoltà.
Di Spagna
s'ebbe aviso che il re aveva sentito con dispiacere e risentimento il fine del
concilio e che aveva deliberato di congregar inanzi a sé li vescovi et agenti
del clero di Spagna per trovar modo come si doveva esseguire. E non fu l'aviso
falso, perché non solamente tutto quello che si fece in Spagna nel ricever et
esseguir li decreti del concilio in quell'anno, parte la primavera e parte
l'autunno, fu per ordine e deliberazione presa nel regio conseglio, ma alle
sinodi che si fecero mandò anco il re suoi presidenti, facendo proponer
quello che a lui piacque e che compliva per le cose sue; con molto disgusto del
pontefice, al quale dispiaceva che il re s'assumesse tanto sopra le cose
ecclesiastiche, del che però non fece alcuna dimostrazione co' ministri
di quello, per il dissegno che aveva di valersi di ciò in altra
opportunità da lui dissegnata, della quale al suo luogo si dirà.
In Francia,
avendo il presidente Ferrier, mentre stette in Venezia, fatto osservazioni
sopra i decreti delle 2 ultime sessioni celebrate dopo il partir suo e
mandatole alla corte, il cardinal di Lorena al suo arrivo ebbe molti assalti e
riprensioni, come quello che aveva assentito a cose pregiudiciali al regno.
Dicevano che con le parole del primo capo di riforma della penultima sessione,
dicendosi che il papa ha la cura della Chiesa universale, in latino:
«sollicitudinem universæ Ecclesiæ», aveva ceduto il ponto che egli
e tutti li vescovi francesi avevano tanto tempo combattuto e superato, acciò
non fosse pregiudicato all'openione di Francia della superiorità del
concilio al papa. Che egli averebbe potuto con una minima parola rimediar a
questo, con far dire, come san Paolo disse, sollecitudine di tutte le chiese,
che nissun averebbe negato quel modo di parlar che san Paolo usò; oltra
che s'era fatto pregiudicio alla medesima openione della superiorità del
concilio col vigesimoprimo capo dell'ultima sessione, salvando in tutti li
decreti l'autorità della Sede apostolica, e con l'ultimo decreto di
dimandar la conferma al papa. Se gl'opponeva anco che, avendo contrastato il re
e tutta la Chiesa gallicana acciò quello fosse indizzione d'un nuovo
concilio e non continuazione, nondimeno s'era decchiarata continuazione e
tutt'un concilio con quello di Paolo e Giulio nel sudetto capo vigesimoprimo e
nel decreto di relegger le cose statuite sotto quei pontefici, con che s'era
ceduto vilmente a tutto quello che dal re era stato sostenuto 2 anni. Di piú
dicevano che l'aver approvato le cose fatte sotto Giulio era con disonore e
pregiudicio della protestazione fatta in quel tempo dal re Enrico II. Ma
sopratutto riprendevano che, essendosi fatta sotto Paolo e Giulio sempre
onorata menzione speciale del re Francesco I e del re Enrico II insieme con
Carlo V, il cardinale non avesse operato che de' medesimi si facesse memoria
nelle acclamazioni, quando si fece dell'istesso Carlo, e nominando l'imperatore
vivente, secondo quegl'essempii non avesse fatto nominar il re di Francia. Le
altre cose il cardinal scusava con dire di non aver potuto con 6 prelati che
erano in compagnia sua solamente impedir il consenso di piú di 200. Ma di
quest'ultima opposizione non si poteva scusare, se ben diceva che era per
conservar la pace tra li 2 regni, essendogli replicato che poteva ben lasciar
il carico di far l'intonazione ad altri e non esser egli l'autore di quel
pregiudicio: e cosí si vede che spesse volte gl'uomini vani, dove credono
acquistar riputazione a minuto, la perdono in grosso.
Ma li
conseglieri di parlamento ritrovarono ben molte altre cose che opponer a' capi
di riforma in quelle 2 sessioni publicati, dove l'autorità ecclesiastica
dicevano esser stata allargata fuori de' termini, con intacco e diminuzione
della temporale, con dar a' vescovi potestà di proceder a pene pecuniarie
et a prese di corpo contra li laici. Perché da Cristo a' ministri suoi nissuna
autorità era stata data, se non pura e mera spirituale; che dopo essendo
il clero fatto membro e parte della polizia, li prencipi concessero per grazia
a' vescovi di punir con pene temporali li chierici inferiori, acciò
fosse osservata tra loro la disciplina; ma di poter usar tal sorte di pene
contra laici non l'avevano né per legge divina, né umana, anzi per sola
usurpazione. E che nel capo del duello si pretende di proceder contra imperatore,
re et altri soprani che lo concedono nelle loro terre, e questo sotto pena di
scommunica, tenendo essi che in alcuni casi il permetter duello non sia male,
sí come anco il permetter il meretricio et altri delitti, che, se ben mali, per
publica utilità, a fine d'evitarne maggiori, non è male
permettergli; e questa potestà, che è naturale e data da Dio a'
prencipi, non può per alcuna potestà umana esser levata o
ristretta. Lo scommunicar anco re e prencipi supremi, lo stimavano
intolerabile, avendo essi per massima constante in Francia che il re non possi
esser scommunicato, né gl'ufficiali regii, per quel che tocca all'essecuzione
del loro carico. Aggiongevano appresso che il privar li prencipi de' Stati e
gl'altri signori de' feudi et a' privati confiscare beni erano tutte
usurpazioni dell'autorità temporale, non estendendosi l'autorità
data da Cristo alla Chiesa a cose di questa natura.
In quello che
a' iuspatronati appartiene, dicevano gran torto esser stato fatto a' secolari
in difficoltargli le prove, e tutto quel capo esser fondata sopra una falsa
massima: che tutti li beneficii siano liberi, se non si prova il patronato.
Perché è certo in contrario che le chiese non hanno beni temporali, se
non dati da secolari, li quali non si debbe presupponer che l'abbiano voluto
conceder sí che potesse esser maneggiato e dissipato ad arbitrio
degl'ecclesiastici, onde dal suo principio ogni beneficio era patronato e si
doverrebbe presupponer tale, eccetto dove si potesse mostrar donazione assoluta
con cessione totale della patronia; e sí come la communità overo il
prencipe succedono a chi non ha altro erede, cosí tutti li beneficii che non
sono de iure patronatus d'alcuno, doverebbono esser sotto la patronia
publica. Alcuni anco d'essi si ridevano di quella forma di parlar che li
beneficii patronati fossero in servitú e gl'altri liberi, quasi che non sia
chiara servitú l'esser sotto la disposizione della corte romana, la qual gli
maneggia contra l'instituzione e fondazione, e non sotto la patronia de'
secolari che gli conservano. Oltra la censura d'alcuni decreti per la sudetta
causa, aggiongevano che altri erano contra le consuetudini et immunità
della Chiesa gallicana: la riservazione delle cause criminali gravi contra li
vescovi alla cognizione del solo pontefice dicevano levar la facoltà a'
concilii provinciali e nazionali, che sempre in ogni caso le avevano giudicate;
e con gravar essi vescovi, tirandogli a litigar fuori del regno, contra non
solo il costume di Francia, ma anco gl'antichi canoni de' concilii, che hanno
voluto sempre esser giudicate e terminate le cause nelle proprie reggioni.
Aggiongevano esser contra la giustizia e l'uso di Francia che li beneficii
potessero esser gravati di pensioni o riservazioni de frutti, come obliquamente
era stato determinato. Parimente non esser tolerabile che le cause di prima
instanza dal papa potessero esser levate fuori del regno, perché leva un
antichissimo uso, confermato con molte constituzioni regie; né potersi
giustificare per l'eccezzione d'urgente e raggionevol causa, avendo mostrato
l'esperienza di tutti li tempi che, con quel pretesto, si levano le cause
tutte; e chi vuole disputare se la causa sia urgente o raggionevole, entra in
doppia spesa e difficoltà, convenendogli litigar in Roma, non solo la
causa principale, ma anco quell'articolo. Non approvavano in modo alcuno che
fosse concesso a' mendicanti il posseder beni stabili, e dicevano che, essendo
stati ricevuti in Francia con quell'instituzione, non era giusto che fossero
mantenuti se non in quel medesimo stato; che questo è un perpetuo
arteficio della corte romana di levar di mano li beni a' secolari e tirargli
nel clero e poi anco a Roma, facendo prima che, col pretesto di voto di
povertà, li monachi acquistino credito, come che non mirino a nissuna cosa
temporale, ma tutto facciano per carità a servizio del popolo; dopoi,
acquistato il credito, la corte gli dispensa dal voto, onde facilmente
arricchiscono e, fatti ben opulenti li monasterii, si mandano in commenda, e
finalmente tutto cola nella corte. A questo era aggionta l'essortazione che nel
duodecimo capo è fatta a tutti li fedeli di voler largamente sovvenire
a' vescovi e parochi de' proprii beni; buona essortazione, quando servissero al
popolo in quello che doverebbono e ne avessero bisogno: cosí esser
l'essortazione di san Paolo, che chi è instrutto nelle cose della fede,
faccia parte de' beni suoi a chi l'instruisce; ma quando chi porta il nome di
pastore attende ad ogni altra cosa che ad instruire il popolo, l'essortazione
non esser opportuna, e tanto piú quanto che per li tempi passati i beni
ecclesiastici erano per alimento de' poveri e per riscuoter schiavi; perilché
non solo si vendevano li beni stabili, ma gl'ornamenti anco della Chiesa e li
vasi sacri; ma in quei ultimi tempi aversi proibito il poterlo piú fare senza
il papa, il che ha arricchito il clero in immenso. Già nella legge
mosaica Iddio a' leviti, che erano la decimaterza parte del popolo, aver
concesso la decima, con proibizione però di poter acquistar altro di piú.
Ma il clero, che non è la cinquantesima parte, aver oramai acquistato
non una decima, ma una quarta parte e tuttavia andar acquistando con usare anco
per ciò molti arteficii. Già Moisè, avendo invitato il
popolo ad offerir per la fabrica del tabernacolo, quando fu offerto tanto che
bastava, aver da parte di Dio proibito che non si offerisse piú; ma qui non
trovarsi termine se non quando averanno acquistato tutto, se gl'uomini
continueranno nel letargo. Esser vero che vi sono de' preti e religiosi poveri;
ma questo avvenire perché ve ne sono di eccessivamente ricchi; un compartimento
uguale gli farebbe abondantemente ricchi tutti. E pur finalmente lasciate tutte
queste cosí evidenti considerazioni, quando il concilio essortasse il popolo a
sovvenir li vescovi e parochi poveri nelle loro necessità, averebbe del
tolerabile; ma il dire di sovvenirgli acciò possino sostener la
degnità, che non vuole dir altro che il fasto et il lusso, non esser
altro che un aver perso afatto la vergogna. Vero è che in cambio
s'è fatto un decreto nel decimottavo capo a favor del popolo, che le
dispense siano date gratuitamente, ma poiché, essendo commandato da Cristo, non
se n'era potuto veder l'osservazione, non vi era speranza che questo decreto
dovesse far maggior frutto.
Le qual cose
essendo opposte al cardinale di Lorena, imputandogli che le avesse autorizate
con la sua presenza contra l'espresso commandamento fattogli dal re per lettere
de' 28 agosto, delle quali di sopra si è parlato, il cardinale si
defendeva con una sola parola, dicendo che nella congregazione de' 10 novembre,
leggendosi li decreti per publicare nella sessione degl'11, erano state
riservate le raggioni et autorità del re di Francia e li privilegii
della Chiesa gallicana. Al che replicava monsignor le Favre che da lui e dal
collega era stata usata ogni diligenza per aver copia di quel decreto, né mai
l'avevano potuto aver, e che tanto era ne' negozii umani non apparire, quanto
non essere; oltra che quello non servirebbe niente alle cose publicate
nell'ultima sessione. Ma quello che si diceva ne' consegli del re e del
parlamento in materia del concilio si può dir che niente fosse rispetto
a quello che, con libertà francese, li vescovi e teologi et anco li
servidori loro narravano a ciascuno con ogni occasione, con farne derisorie,
raccontando le discordie e contenzioni fra li padri, le prattiche e
gl'interressi con che le cose della riformazione furono trattate, e piú
parlavano li piú famigliari del cardinale di Lorena; e passò per maniera
di proverbio in Francia che il concilio moderno era di maggior autorità
che il celebrato dagl'apostoli, essendo bastato a quello per fondamento de'
decreti che cosí fosse parso a loro, senza che vi avesse parte lo Spirito
Santo.
Ma in
Germania li decreti di riforma non venivano in considerazione alcuna, né
appresso protestanti, né appresso a' catolici. Da' protestanti la materia di
fede sola era essaminata. Dicevano che l'aver detto già una sola parola
incidentemente parlando della messa, che ella giovava a' morti, la qual
può anco ricever varii sensi, e nel decreto del purgatorio portar la
come una definizione d'articolo formato, non era cosa solita usarsi ne'
concilii, e massime in questo, dove le materie erano sminucciate e fatti
articoli di fede d'ogni questione che si può promover in qualsivoglia
materia. Ma il commandar a' vescovi di far insegnare la dottrina sana del
purgatorio, senza dicchiarare qual sia quella, mostrar bene che li padri
avevano gran fretta di partir da Trento; et aver mostrato maggior fretta nella
materia de' santi, avendo condannato undici articoli tutt'in un fiato et in un
periodo, senza dicchiarare che sorte di dannazione o come, di eresia o per qual
altra qualità; e dopo un longo discorso delle imagini, aver
anatematizato chi parla in contrario di quei decreti, senza lasciarsi intender
quali comprenda sotto quell'anatema, o gl'immediate precedenti che delle
imagini parlano, o pur gl'altri sopra scritti. Ma delle indulgenzie piú di
tutte le altre cose era raggionato che quelle diedero occasione alla presente
divisione tra cristiani, che per quelle principalmente era stato congregato il
concilio, che in quella materia non vi è parte alcuna che non sia
controversa et incerta anco appresso li scolastici; e tuttavia la sinodo abbia
passato senza dirne parola e senza dicchiarar alcuna delle cose dubie e
controverse. E per quello che tocca al rimedio degl'abusi, aver parlato in
termini ambigui che non lasciano intender quello che sia né approvato, né
reprovato, mentre dice desiderare una moderazione secondo la vecchia consuetudine
approvata nella Chiesa; imperoché è cosa certa e che non si può
nasconder che nella Chiesa orientale di qualonque nazione cristiana, né per li
tempi passati, né per li posteriori vi fu alcuno uso di indulgenzie di sorte
veruna; e nell'occidentale, se per vecchia consuetudine s'ha da intendere
quella che si osservò inanzi Urbano II sino al 1095, non si saprà
dire né portar fede alcuna d'indulgenze usate. E se da quel tempo sino all'anno
1300 se vedrà l'uso molto parco e solamente per la liberazione delle
pene imposte dal confessore. Dopo il qual tempo si vede dal concilio viennese
gl'abusi che s'introducevano, li quali sino a Leone X crescettero in immenso;
onde desiderando la sinodo veder restituita la vecchia consuetudine approvata
nella Chiesa, era necessario dicchiarare in qual Chiesa et in qual tempo. Ma
quelle parole «che con la troppo facilità nella concessione delle
indulgenze è snervata la disciplina ecclesiastica», dicevano esser una
espressa confessione che non partengano alla conscienza, né liberano da cosa
alcuna appresso Dio, ma toccano il solo esterno, che è la disciplina
ecclesiastica. Della differenza de' cibi e de' degiuni dicevano che il
commendargli era cosa buona, ma non era deciso quello di che il mondo s'era
tanto lamentato, cioè che si pretendesse obligo di conscienza. I
prencipi però di Germania protestanti di questo concilio non tennero
conto alcuno; solo alcuni ministri della confessione augustana, pochi anco in
numero, mandarono in publico una protestazione, della quale fu fatta poca
stima. I catolici a' dogmi del purgatorio e delle indulgenze non pensavano;
solo erano intenti ad impetrare la communione del calice, il matrimonio de'
preti e relassazione nella moltiplicità de' precetti de iure positivo
intorno a' digiuni, feste et altre tal cose.
[Cesare e Baviera dimandano il calice e 'l
matrimonio de' preti]
A' quali per
dar sodisfazzione, l'imperatore et il duca di Baviera fecero instanza appresso
il pontefice. Scrisse l'imperatore lettere alla Santità Sua sotto il 14
febraro con dire che durante il concilio s'era affaticato per ottenere la
concessione del calice, non per interressi privati, né per scropoli di
conscienza che egli avesse, ma perché credette e tuttavia credeva che fosse
necessaria per ridur alla Chiesa li sviati. Che tolerò allora
gl'impedimenti fraposti per trattarne co' principali prelati e prencipi
dell'Imperio, con quali avendo conferito se fosse ispediente far altra instanza
per la medesima ricchiesta, essi lodarono che ne trattasse di nuovo con Sua
Santità. Perilché raccordandosi quello che i cardinali Morone e Lorena
gl'avevano fatto dire e gl'era confermato dal vescovo di Liesina, noncio per
nome di Sua Santità, non voleva differir piú a dimandargli la grazia,
senza replicar piú le gravissime cause che lo constringevano, instando che
vogli aiutar la nazione germanica, alla quale tutti li catolici prudenti
giudicano che la concessione sarà di gran beneficio; aggiongendo che,
per conservar le reliquie della religione nell'Imperio e per estirpar le
eresie, apporterà gran momento il conceder che quei sacerdoti, che per
maritarsi sono separati, possino esser riconciliati, ritenute le mogli, e che
all'avvenire, dove non vi sono preti a sufficienza, siano ammessi al sacerdozio
maritati di buona vita e fama; di che lo pregava per nome proprio e del duca di
Baviera, suo genero, accertandolo che farebbe cosa degna della pietà sua
et a lui gratissima.
Le lettere
del duca di Baviera contenevano che, avendo piú volte mandato alla
Santità Sua, esponendo il miserabil stato della Germania nelle cose
della religione, sperava di non aver a desiderar longamente la medicina, la
qual non vedendo posta sino allora, egli, insieme con la Maestà cesarea
e gl'elettori ecclesiastici, la pregava di conceder all'arcivescovo di Salzburg
di poter dispensar li preti catolici a ministrar il calice a' confessi e
contriti e che credono gl'altri articoli della religione; la qual concessione
satisfarrebbe a' sudditi suoi abitanti nello Stato, et anco a quelli che escono
fuori del suo dominio per cercar chi glie lo ministri; che egli sempre si
contenterà d'una specie, né mai sforzerà all'uso del calice
quelli che si contenteranno come lui della sola specie del pane: per li quali
non dimanda niente, ma ben gli pare che non sia inconveniente al vicario di
Cristo aver misericordia anco degl'altri. Pregò ancora Sua
Santità che almeno per qualche tempo concedesse che si potessero
reconciliar alla Chiesa li sacerdoti maritati, ritenendo le loro mogli, et
ordinar anco de' maritati.
A queste
lettere era aggionta una remostranza o considerazione composta da' teologi
catolici di Germania, nella quale si diceva: esser cosa chiara che la Scrittura
del Nuovo e Vecchio Testamento permette le mogli a' sacerdoti, perché
gl'apostoli, eccettuati forse pochi, furono maritati, né si trova che Cristo,
dopo la vocazione gl'abbia fatto separar dalle mogli. Che nella Chiesa
primitiva, cosí orientale come occidentale, li matrimonii de' sacerdoti furono
liberi e leciti sino a papa Calisto; che le leggi civili non condannano il
matrimonio de' chierici; esser anco certo che il celibato nel clero è
migliore e piú desiderabile, ma per la fragilità della natura e per la
difficoltà del servar la continenza pochi si trovano che non sentino li
stimoli carnali. Però narra Eusebio che Dionisio di Corinto ammoní
Pinito vescovo che tenesse conto della debolezza della maggior parte e non
ponesse il peso del celibato sopra li fratelli. E Pafnuzio, nel concilio
niceno, dicendo che l'uso della propria moglie era castità, persuase il
concilio a non imporre legge di celibato. E la sesta sinodo constantinopolitana
non proibí l'uso delle mogli se non nel tempo che avevano ad offerir
sacrificio. Che se mai vi fu causa di permetter a' chierici il matrimonio era
in quel secolo, che di cinquanta sacerdoti catolici, a pena se ne trova uno che
non sia notorio fornicario. Che non tanto li sacerdoti desiderano il
matrimonio, ma li secolari ancora, per non veder quella bruttezza di vita, e li
patroni delle chiese non vogliono dar li beneficii se non a' maritati. Che vi
è gran mancamento de ministri per la sola proibizione del matrimonio.
Che la Chiesa altre volte, per questa stessa causa, ha relasciato la
severità de' canoni. Che il pontefice confermò un vescovo in
Saragosa con moglie e figliuoli, et un diacono bigamo, e commise il sacramento
della confermazione a semplici preti in mancamento di vescovo; perilché a molti
catolici, e già et allora, pareva meglio dispensar la legge della
continenza che, col ritenerla, aprir la fenestra ad un immondissimo celibato,
lasciando in libertà il matrimonio; massime che il cardinal panormitano
tiene che il celibato non sia di sustanza dell'ordine, né de iure divino,
e che sarebbe per la salute delle anime conceder il matrimonio, et esservene
essempii della Chiesa vecchia, nel concilio ancirano, e di Adam et Eupsichio
cesariense, preti; esser cosa certa che il papa può dispensar quanto a'
sacerdoti secolari; il che alcuni anco estendono a' regolari. Che par
grand'assordità non admetter chierici ammogliati e tolerar li
fornicarii; et il voler rimover ambidoi esser un voler restar senza ministri, e
volendo astringergli al voto di castità non bisognerebbe ordinar se non
vecchi. Non esser buona raggione ritener co' denti il celebato per conservar li
beni ecclesiastici, non essendo giusto per beni temporali far tanta iattura
delle anime. Oltre che se vi potrebbe proveder per altra maniera; che se questo
si facesse, sarebbe espulso dalla Chiesa il concubinato e levato lo scandalo
che offende molti.
[Il papa fa consultare a Roma sopra queste
rimostranze, e crea cardinali i suoi benemeriti]
Attese queste
rimostranze il pontefice era di parere di congregar in Roma uomini pii e
letterati di tutte le nazioni per trattar questo punto con maturità, e
già ne aveva parlato con gl'ambasciatori appresso sé residenti. Ma dal
cardinal Simoneta fu dissuaso, il qual raccordò che quella sarebbe una
specie di concilio, e se di Francia, Spagna e Germania e d'altrove fussero
venuti, averebbono portato intelligenze et instruzzioni de' prencipi, e per li
rispetti di quelli si sarebbono governati et averebbono parlato; e quando la
Santità Sua avesse voluto disfarsi di loro e licenziargli, non averebbe
potuto farlo a suo beneplacito; che se non avesse seguito il parer loro,
sarebbe stato con disgusto de' prencipi. Raccordassesi le molestie sostenute
per causa del concilio e non si mettesse in simil pericoli. Approvò il
papa questo conseglio per sincero et utile e, posto da canto il pensiero di
ridur per questo persone d'altrove, deputò sopra ciò 19
cardinali, a' quali ordinò che diligentemente essaminassero la scrittura
venuta di Germania.
Il 12 marzo
fece il pontefice promozione di 19 cardinali per fine principale di rimeritar
quelli che in concilio s'erano adoperati virtuosamente e massime in servizio
della Sede apostolica, nella quale fu risoluto di non comprender alcuno di
quelli che tennero la residenza, o l'instituzione de' vescovi esser de iure
divino, con tutto che del rimanente avessero le qualità che secondo
il costume lo meritavano; e non si guardò di scoprir questa sua mente
con ogni sorte di persona in qualonque occasione. Creò Marco Antonio
Colonna, arcivescovo di Taranto, Alvise Pisani, vescovo di Padoa, Marco Antonio
Boba, vescovo di Aosta, Ugo Buoncompagno, vescovo di Bestice, Alessandro
Sforza, vescovo di Parma, Simon Pasqua, vescovo di Serzana, Carlo Visconte,
vescovo di Vintimiglia, Francesco Abondio, vescovo di Bobio, Guido Ferrier,
vescovo di Vercelli, Giovanni Francesco Commendone, vescovo del Zante, Gabriel
Paleoto, auditor di rota: che tutti s'erano affaticati nel concilio in servizio
fedele di Sua Santità. A questi aggionse Zacaria Delfino, vescovo di
Liesena, che, noncio all'imperatore, non s'affaticò manco per metter
fine al concilio di quello che gl'altri avevano fatto in Trento.