PRIVILEGIA
NE IRROGANTO di Mauro Novelli
BIBLIOTECA
Benedetto
nacque nella piccola città di Norcia verso il 480 d.C., in un periodo
storico difficile. Quattro anni prima (476) era formalmente finito l'Impero
Romano d'occidente con la deposizione dell'ultimo imperatore Romolo Augustolo.
Fu contemporaneo di Teodorico e ne vide fallire nel sangue l'ambizioso progetto
di una pacifica convivenza con i Goti ed i Romani; poté assistere agli orrori
della terribile guerra fra i Goti e i Bizantini per il predominio dell'Italia
(535-553), guerra che lasciò desolato e spopolato il nostro paese tra
stragi e pestilenze. Fu anche contemporaneo di Giustiniano e conobbe le pesanti
interferenze dell'imperatore bizantino in materia religiosa, con la conseguente
umiliazione dell'autorità papale. Studente a Roma, constatò di
persona lo stato di grave decadenza in cui versava l'antica capitale
dell'impero; da essa il giovane Benedetto fuggì via inorridito
ritirandosi nel silenzio e nella preghiera nei boschi dell'alta valle
dell'Aniene, ai confini tra il Lazio e l'Abruzzo. Una comunità di monaci
di Vicovaro lo volle come abate, ma l'esperimento fu un fallimento: ben presto
quei monaci, preoccupati per l'eccessiva austerità e disciplina di
Benedetto, tentarono di avvelenarlo. Dopo questa esperienza, egli intraprese
una nuova forma di vita monastica: nella zona di Subiaco, sull'esempio di
ciò che aveva fatto duecento anni prima in Egitto san Pacomio,
organizzò un gruppo di monaci, suddiviso in dodici comunità di
dodici monaci: ciascuna comunità aveva un proprio superiore, mentre
Benedetto conservava la direzione generale. L'invidia di un prete, che non
gradiva l'accorrere della gente con ricchi doni ai piedi del santo, costrinse
Benedetto ad abbandonare quei luoghi con il gruppo dei suoi discepoli
più fidati. Fra di essi vi erano giovani dell'aristocrazia romana, come
Mauro e Placido figli di senatori, ma anche goti e figli di schiavi, gente
umile e rozza: per tutti Benedetto era il maestro nella "scuola del divino
servizio" (questa è la definizione che egli dà del monastero
nella sua Regola). Così Benedetto gettava le basi di una unità
tra barbari e latini molto profonda, perché fondata sulla fratellanza
universale insegnata dal Vangelo. Allontanatosi da Subiaco, Benedetto si
diresse a Cassino, sulla cui altura fondò, nel 529, il monastero di
Montecassino destinato a diventare il più celebre in Europa. Là
avvenne la sua morte, tra il 543 ed il 555 d.C., in una data che l'antica
tradizione ha fissato al 21 Marzo. Due o tre decenni dopo la sua morte i
longobardi attaccarono Montecassino e vi compirono la prima delle memorabili
distruzioni che scandiscono, come tappe, la storia di quell'abbazia. I monaci
scampati al disastro si rifugiarono a Roma portando con sé il testo della
"Regola", quasi certamente autografo di san Benedetto. Da loro stessi
il papa san Gregorio Magno apprese la vita del grande santo e ce ne trasmise il
racconto nel secondo libro dei suoi "Dialoghi" unica fonte storica in
nostro possesso per conoscere la vita di san Benedetto... La Regola benedettina
con le sue esigenze di ordine, di stabilità, di sapiente equilibrio fra
preghiera e lavoro, si impose ben presto a tutto il monachesimo occidentale e
fu seguita in tutti i monasteri europei. San Benedetto divenne così uno
dei santi più popolari e venerati ed apparve a tutti come l'uomo
suscitato da Dio per portare la pace là dove erano state seminate le
distruzioni e la morte. Divenuto il simbolo dell'ideale monastico, fu spontaneo
attribuire a lui il merito di tutto ciò che il monachesimo, compreso quello
pre-benedettino e quello extra-benedettino aveva compiuto a servizio della
civiltà. Così nel 1947, Pio XII lo chiamò "Padre
dell'Europa" e il 24 ottobre
Alle
origini dell'Europa
Il
cammino dell'Europa ebbe inizio con l'evangelizzazione delle popolazioni
europee da parte della Chiesa. Crollato il mondo romano, nel dilagare della
violenza barbarica, la Chiesa fu la grande forza storica che fece incontrare,
chiamandole a nuova vita, realtà umane profondamente diverse. Dalle
città romane la fede lentamente si era diffusa nelle campagne: chiese,
cappelle, luoghi di culto erano disseminati un po' dovunque; da questi si
sviluppava intorno un'intensa attività di assistenza e di istruzione nei
confronti delle popolazioni. La maggiore difficoltà in questa opera di
evangelizzazione consisteva nell'attaccamento ai culti pagani preesistenti, che
talvolta si mescolavano con quelli cristiani. Tuttavia quei luoghi di culto e
di preghiera erano un segno concreto della presenza della Chiesa e richiamavano
alla verità della fede. La creazione di centri di vita cristiana fu
anche il metodo della evangelizzazione dei popoli barbarici. Fu il grande
pontefice san Gregorio Magno il primo ad operare per la loro conversione,
inviando dei monaci benedettini tra quelle popolazioni. Celebre è
l'invio in Inghilterra di un gruppo di monaci: il loro capo, Agostino, fu il
primo arcivescovo di Canterbury. Successivamente l'arrivo dei monaci irlandesi
ed inglesi sul continente segnò l'inizio della seconda fase:
innumerevole fu la schiera di monaci che si sparse tra le tribù
germaniche ancora pagane. Tra essi ricordiamo Colombano, Gallo, Willibord e,
soprattutto, Bonifacio. Una fitta rete di monasteri ed abbazie si estese
così in tutta l'Europa: Luxeuil, Bobbio, S. Gallo, Fulda, Reichenau,
Corbie e migliaia di altre costruzioni grandi e piccole. Questi monasteri
divennero un punto di riferimento essenziale per tutte le popolazioni vicine,
centri di civilizzazione e di evangelizzazione. Sotto la guida dei monaci,
queste popolazioni impararono a prosciugare le paludi, a disboscare le selve, a
coltivare la terra, a tracciare nuove strade, a leggere ed a scrivere. Nei
monasteri fiorirono le scuole della nuova Europa, nata dalla fusione tra
romanesimo e germanesimo, mediate dal cristianesimo. Dopo il fallimento del
tentativo di Carlo Magno di dare unità politica alla cristianità
medioevale, la Chiesa ritrovò una nuova energia missionaria e fu la
volta dei popoli scandinavi, slavi e degli ungari. Un'altra schiera di santi
(Cirillo, Metodio, Adalberto, re Stefano d'Ungheria ed altri) compì
questa impresa. Così, nel secolo XI, l'Europa consisteva in una
comunità di popoli uniti dalla stessa fede e dalla stessa cultura:
essenziale in quest'opera di edificazione era stato l'apporto dei monaci
benedettini.
I
monasteri
L'organizzazione benedettina fece sì che i monasteri
fossero non solo centri di vita religiosa, ma anche centri di vita economica e
culturale.
Centri
di vita economica.
La
valorizzazione del lavoro, considerato come mezzo di elevazione dello spirito e
perciò imposto a tutti come un dovere, portò ad una ripresa della
bonifica del suolo e del lavoro dei campi in tempi in cui gran parte
dell'Europa occidentale era incolta e spopolata. Seguendo le indicazioni della
Regola, per provvedere alle loro necessità, i monaci si diedero a
dissodare ed irrigare i campi presso i monasteri, a prosciugare le zone
paludose, bruciare le stoppie, arare, seminare. Il bisogno di cera per
l'illuminazione delle chiese portò allo sviluppo dell'apicoltura; le
necessità di procurarsi la lana per i vestiti, la pergamena per
scrivere, il grasso per illuminare, favorì l'allevamento del bestiame.
Ben presto intorno ai monasteri vennero a raggrupparsi contadini in cerca di
protezione e, dietro l'esempio dei monaci, presero a dissodare le terre
incolte. Rifiorirono così le culture della vite e dell'ulivo, da tempo
abbandonate. Ripresero anche gli scambi commerciali. Il monastero, che
normalmente sorgeva in un luogo isolato, divenne un centro presso cui si
radunavano, in determinati giorni dell'anno, le popolazioni vicine per
scambiarsi i loro prodotti; ben presto divenne il luogo in cui, sotto la
protezione dell'abate, poté sorgere un vero e proprio mercato. Con il passar
del tempo, per il rapido moltiplicarsi delle donazioni, le proprietà dei
monasteri benedettini assunsero vaste proporzioni. Questo fatto portò
allo sviluppo della innovazione tecnica: si moltiplicarono così nelle
abbazie i mulini ad acqua ed officine di ogni genere (oleifici, concerie,
tintorie, birrerie, formaggerie e, più tardi, stampe). Ancora oggi nei
monasteri benedettini assistiamo a diverse attività. Ne citiamo alcune:
il lavoro della ceramica e dell'oreficeria (a Maresdous in Belgio ed a Montserrat
in Spagna), la fabbricazione di succhi di frutta (a Dendermonde in Belgio), la
rilegatura di libri (a Farnborough in Gran Bretagna), un laboratorio di
restauro di manoscritti e di libri antichi (a Praglia in Italia), ecc…
Centri
di vita culturale.
Un
altro importante contributo alla civiltà europea fu offerto dai monaci
con la paziente trascrizione degli antichi scrittori. L'esempio classico
è il monastero di Vivarium (presso Squillace), fondato verso la
metà del secolo VI dall'ex-senatore Cassiodoro in un fondo di sua
proprietà; ma in ogni monastero un certo numero di monaci si dedicava a
questa attività. Si copiava soprattutto la Bibbia ed i testi dei grandi
autori cristiani, ma anche storici, poeti, naturalisti ed autori di ogni genere
del mondo antico trovarono ospitalità nelle biblioteche monastiche.
Quello che il mondo moderno conosce della letteratura antica è dovuto in
maniera quasi esclusiva all'opera di umili ed anonimi amanuensi: Montecassino,
Bobbio, s. Gallo, Tegernsee, Fulda e Reichenau sono stati i principali luoghi
di conservazione di testi classici. L'arte dello scrivere era piuttosto
faticosa. Nei testi dei secoli IX e X ritornano spesso affermazioni come
questa: "L'approdo non è più gradito al marinaio di quanto
non sia l'ultima riga del manoscritto allo stanco amanuense". La lunghezza
del lavoro era un altro aspetto scoraggiante: un commento di sant'Agostino di
218 pagine, con 20 righe per pagina, venne copiato nell'
Le
scuole
I
libri ricopiati con cura servivano ai monaci per la lettura e l'insegnamento.
Per lungo tempo i monasteri, insieme alle chiese cattedrali, furono l'unico
luogo in cui ci si preoccupava di istruire ed insegnare. Nel 789 Carlo Magno in
un suo capitolare ordina che "in ciascuna diocesi, in ciascun monastero
vengano insegnati i salmi (per apprendere le letture), le note, il canto (per
cantare l'ufficio), l'aritmetica, la grammatica (per saper scrivere) e vi siano
dei libri corretti con cura". Ma era questa un'usanza già diffusa.
Le scuole monastiche sono in primo luogo destinate alla formazione dei monaci;
vi sono però dei monasteri che mantengono delle scuole che possono
essere frequentate da studenti laici. È il caso ad esempio del monastero
di san Gallo in Svizzera. Le materie di studio erano in genere 7 ed erano
chiamate arti liberali. Si distinguevano in un primo corso chiamato trivio
perché comprendeva tre materie: la grammatica, la dialettica (l'arte
cioè di ragionare) e la retorica (l'arte del parlare). Successivamente
si passava al quadrivio che comprendeva quattro materie: aritmetica, geometria,
musica ed astronomia. Tra queste un notevole impulso subì col passar del
tempo l'aritmetica, grazie alle conoscenze che furono apprese dagli arabi.
Oltre a queste materie interessanti erano gli studi di teologia e di diritto.
L'ospitalità
L'alto
valore che i monaci attribuivano all'ospitalità (l'ospite è
"come Cristo" secondo le parole della Regola) fece sì che i
monasteri divennero un punto di riferimento sicuro per i pellegrini o per i
vari viaggiatori che vi trovavano aiuto e protezione. Nei loro viaggi verso la
Terrasanta, verso Roma o gli altri luoghi degni di venerazione (tra tutti
ricordiamo Santiago de Compostela) i numerosi pellegrini sapevano di trovare
nei numerosi monasteri che costellavano l'Europa un ristoro alle dure fatiche
del viaggio e la risposta a qualsiasi necessità. Con questo lavoro
immenso e minuzioso è stato offerto un prezioso contributo alla
civiltà europea.
La
regola benedettina
S.
Benedetto occupa un posto unico nella storia del monachesimo occidentale,
soprattutto per la composizione della Regola. Essa consta di un prologo e di 73
capitoli e rappresenta la sintesi più matura delle esperienze monastiche
precedenti. Dopo un primo momento di coesistenza con altre legislazioni
monastiche, la Regola di Benedetto finì per prevalere e per essere
adottata in tutti i monasteri in forza della sua intrinseca validità.
Dal prologo all'ultimo capitolo, san Benedetto istruisce ed esorta i monaci ma,
soprattutto, li ama. Lo stile è calmo e sereno, come un discorso
familiare fin dalle prime parole: "Ascolta, o figlio, gli insegnamenti del
maestro e tendi l'orecchio del tuo cuore; accogli volentieri l'ammonimento del
padre affettuoso ed eseguiscilo con impegno". Il monastero è scuola
del servizio del Signore, ma una scuola nella quale, dice il santo,
"speriamo di non stabilire nulla di aspro e gravoso".
Per
comprendere meglio la vita dei monaci, offriamo una raccolta di alcuni passi
tratti dalla Regola.
L'abate
"Quando,
dunque, qualcuno assume il titolo di Abate, deve esercitare il suo governo sui
propri discepoli con duplice insegnamento, mostrando cioè tutto
ciò che è buono e santo più con i fatti che con le parole;
di conseguenza, ai discepoli in grado di intenderli deve spiegare verbalmente i
comandamenti di Dio; mentre a quelli duri di cuore e piuttosto semplici,
è con l'esempio del suo agire che deve insegnare i precetti del Signore
... Non faccia l'Abate distinzioni di persone in monastero". (Cap . 2)
"Ogni
volta che in monastero si deve trattare qualche affare di particolare
importanza, l'Abate convochi tutta la comunità e sia lui stesso ad
esporre la questione in esame. Ascoltato il consiglio dei monaci, ci ripensi su
e decida nel senso da lui ritenuto migliore. La ragione per cui s'è
detto di convocare tutti a consiglio è che spesso il Signore rivela ad
uno più giovane la decisione migliore". (Cap. 3)
La
preghiera e il lavoro
"Seguendo
l'esempio del profeta che dice: "Ti ho lodato sette volte al giorno",
raggiungeremo questo sacro numero di sette se adempiremo quanto c'impone il
nostro servizio alle Lodi, a Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro e
Compieta". (Cap. 16)
"L'ozio
è nemico dell'anima; è per questo che i fratelli devono, in
determinate ore, dedicarsi al lavoro manuale, in altre invece, alla lettura dei
libri contenenti la parola di Dio. Di conseguenza, entrambe le occupazioni
vanno a nostro avviso così distribuite nel tempo loro proprio: la
mattina i monaci, uscendo dall'Ufficio di Prima, attendono ai lavori necessari
fin verso le dieci; da quest'ora fino a quando celebreranno Sesta si dedichino
alla lettura. Dopo la celebrazione di Sesta, il pranzo e poi il riposo a letto
in perfetto silenzio; nel caso che uno voglia continuare la lettura per suo
conto, lo faccia in modo da non dare fastidio a nessuno. Nona la si celebri con
un po' di anticipo verso le 14 e 30; poi si torni al proprio lavoro fino a
Vespro. Se poi le particolari esigenze del luogo o la povertà
costringeranno i fratelli a raccogliere personalmente i frutti della terra, non
se la prendano, perché allora sono davvero monaci se vivono del lavoro delle
proprio mani come gli apostoli". (Cap. 48)
Aspetti
di vita quotidiana
"A
nostro avviso, per il pasto quotidiano, da prendersi a mezzogiorno o alle
quindici, sono sufficienti in tutti i mesi dell'anno, in considerazione degli
acciacchi di questo o di quel monaco, due vivande cotte, perché chi per caso
non può mangiare una, si rifocilli con l'altra ... se sarà
possibile avere frutta o legumi freschi, se ne aggiunga anche un terzo ...
l'astinenza dalla carne di quadrupedi deve essere osservata assolutamente da
tutti, tranne che dai malati assolutamente privi di forze". (Cap. 39)
"…
nei luoghi a clima temperato possono ad ogni monaco bastare una cocolla (di
panno di lana pelosa d'inverno, liscio o consumato dal lungo uso d'estate) e
una tunica, uno scapolare per il lavoro e, ai piedi, calze e scarpe ... come arredamento
del letto bastino un pagliericcio, una coperta leggera, una pesante ed un
cuscino". (Cap. 55)
"Se
possibile, vi sia un unico dormitorio; se impossibile, per il gran numero,
dormano in gruppi di dieci o di venti, sotto la vigilanza dei decani, in un
locale dove resti sempre acceso un lume fino al mattino. Dormano vestiti, con
al fianco una cintura o una corda ma senza coltello, perché non abbiano a
ferirsi durante il sonno. Così i monaci siano sempre pronti, perché
appena dato il segnale si levino e si affrettino senza indugio all'Opera di
Dio…". (Cap. 22)
Ospitalità
"Non
appena dunque l'ospite si annunzia gli vadano incontro i superiori ed i
fratelli con tutte le premure che lo spirito di carità comporta ... con
particolare attenzione e riguardo siano accolti specialmente i poveri ed i
pellegrini, perché è proprio in loro che si accoglie ancor di più
il Cristo; ché la soggezione che i ricchi incutono, ce li fa da sola
onorare". (Cap. 53)
Attenzione
ai più deboli
"L'assistenza
che si deve prestare ai malati deve venire prima ed al di sopra di ogni altra
cosa, sicché in loro si serva davvero il Cristo (…) I fratelli malati abbiano
un locale a loro riservato ed un infermiere timorato di Dio, attento e
premuroso ... ai ma lati del tutto debilitati sia anche concesso di mangiare
carne perché riacquistino le forze". (Cap. 36)
"Per
quanto l'uomo sia portato naturalmente ad essere tenero di cuore verso queste
due età, cioè a dire, i vecchi ed i fanciulli, tuttavia provveda
loro anche l'autorità della regola. Nei loro riguardi si tenga sempre
conto della debolezza "delle forze e non si applichino mai le restrizioni
alimentari previste dalla regola ma, con amorevole comprensione, si consenta
loro di prendere i pasti prima dell'ora fissata per la refezione". (Cap.
37)
L'obbedienza
reciproca
"Tutti
i fratelli non obbediscano solo all'abate, ma si obbediscano anche a vicenda,
tenendo per fermo che essi andranno a Dio per questa via". (Cap.71)
La
giornata del monaco
Prima
dell'alba il monaco si alza al suono della campana e si reca in chiesa per la
recita dell'ufficio notturno, che termina con le lodi mattutine. Al termine di
questo spazio di tempo riservato alla preghiera il monaco inizia il proprio
lavoro, che non interrompe più sino alla Messa conventuale, centro di
tutta l'ufficiatura e punto culminante della vita monastica. La campana
dell'Angelus ricorda l'ora del pranzo: nel refettorio l'abate benedice la mensa
ed il lettore che, come vuole la regola, leggerà un brano di S.
Scrittura durante il pasto. Dalla lettura ad alta voce deriva naturalmente la
legge del silenzio per evitare ogni diminuzione di raccoglimento. A tavola i
monaci si servono a vicenda, a turni settimanali. Dopo il pranzo c'è
un'ora di ricreazione comune. Pare che la ricreazione attuale dei monasteri
benedettini non risalga alle origini dell'istituzione monastica, sebbene la
Regola di S. Benedetto assegnasse già ai monaci qualche momento al
giorno per lo scambio delle parole necessarie: comunque, dal IX secolo, la
ricreazione è ammessa ovunque ed attualmente avviene due volte al
giorno, a mezzogiorno ed alla sera. Al termine della ricreazione i monaci
ritornano al loro lavoro. La campana della cena riunisce di nuovo la
comunità monastica per un pasto rapido e frugale, seguito da una breve
ricreazione. Quindi il monastero si immerge nel silenzio: è l'ora di
compieta, la preghiera della sera, l'ultimo atto della giornata del monaco.
L'abate benedice i monaci e, dopo qualche altra preghiera per i morti o alla
Vergine, tutto tace. La lunga ed operosa giornata del monaco è chiusa.
Da compieta all'indomani mattina, finito l'ufficio notturno, nessuno può
rompere il silenzio senza un grave motivo.
I
luoghi del monastero
La Chiesa: ciò che domina e colpisce prevalentemente nella
Chiesa monastica è la magnificenza e lo splendore; essa, con l'altezza
delle sue cupole e delle sue torri, per lo più domina materialmente il
resto dell'abbazia: questo sta ad indicare che l'Opus Dei, l'ufficio divino che
si svolge nella Chiesa, prevale per importanza su ogni altra forma
dell'attività monastica.
Il
Capitolo: è la sede delle assemblee ufficiali della vita monastica. Qui
il postulante si presenta a chiedere l'ammissione al monastero; qui, iniziando
il noviziato, l'abate gli impone il nome nuovo e, in segno di umiltà ed
affetto, ad imitazione di Cristo, si piega a lavargli i piedi, seguito in
ciò da tutti i fratelli; qui ancora prima di emettere i voti il novizio
viene accettato definitivamente alla vita monastica; divenuto membro della
comunità, avrà diritto a sedere in capitolo ogni volta che
l'abate crederà di consultare i fratelli su qualche affare importante,
perché qui si trattano gli interessi maggiori della casa. Le origini del
capitolo furono umili: distinto appena dal chiostro, cui era attiguo, ora
primitivamente destinato alla distribuzione del lavoro manuale. Alle preghiere
che accompagnavano l'attribuzione delle varie incombenze si aggiunse poi la
lettura di brani della Regola. Benché il passo letto quotidianamente non
corrispondesse sempre ad un capitolo, tuttavia questo nome restò
attribuito alla sala ove i monaci prendevano conoscenza del loro codice.
I
chiostri, circondati da portici sostenuti da colonne e pilastri, uniscono fra
loro le varie costruzioni del monastero di cui vengono così a formare
l'ossatura e servono ai religiosi da deambulatori e riparo. Alcuni hanno al centro
delle aiuole fiorite, altri il tradizionale pozzo sormontato per lo più
dalla croce o dal monogramma di Cristo. Nei chiostri vige la Regola del
silenzio.
La
biblioteca. Le biblioteche benedettine hanno avuto una funzione importantissima
nel corso della storia: dopo la caduta dell'impero romano, furono i monaci a
raccogliere dalle rovine quello che fu possibile salvare del sapere
dell'antichità e per molti secoli le biblioteche claustrali custodirono
con cura innumerevoli manoscritti. Anche ai giorni nostri la biblioteca ha
grande importanza in un monastero perché la lettura e lo studio fanno parte
integrante della vita monastica benedettina.
Il
dormitorio. Il dormitorio comune prescritto da S. Benedetto fu sostituito nel
corso dei secoli dalle singole celle. Dapprima si praticarono delle divisioni
di legno per proteggere il lavoro dei fratelli dalle distrazioni inevitabili in
una sala comune ed incompatibili con le esigenze dell'attività
intellettuale (studio). In seguito la stanza fu chiusa da una porta e, in tal
modo, si giunse al tipo di costruzione attuale divenuto di uso generale dal XV
secolo.
Il
refettorio, è il luogo del pasto comune. Non è una banale sala da
pranzo, ma anche qui, come in tutta l'abbazia, si rivela una caratteristica
della vita benedettina: la cura di elevare le minime azioni della giornata ad
atti profondamente religiosi. Prima del pranzo c'è la benedizione del
cibo; durante il pranzo viene fatta la lettura pubblica di alcuni brani della
S. Scrittura come prescrive la Regola: "mai la lettura deve mancare alla
mensa dei fratelli". (cap. 38)
Il
cimitero. Nessuno ha coltivato la pietà per i morti con tanto zelo
quanto i monaci. La ragione di ciò è semplice e profonda.
L'abbazia è formata da uomini che vivono insieme e non si dimenticano.
La vita comune è troppo intima, il cimitero, il luogo cioè dove
riposano i corpi che attendono l'eternità, non è così
lontano da permettere che i vivi non pensino ai defunti. Nei secoli passati
quando le difficoltà delle comunicazioni rendevano enormi le distanze, i
monaci avevano trovato il mezzo di annunziarsi scambievolmente la morte di un
confratello e assicurare così i reciproci suffragi: d'abbazia in
abbazia, di provincia in provincia, peregrinava un religioso che portava con sé
la lista dei morti dove erano notati i defunti dell'anno con un breve
"curriculum vitae". Questo uso ha perduto la sua ragion d'essere ma
ancora oggi, ogni giorno all'ora Prima, si ricordano i religiosi ed i
benefattori defunti e, una volta al mese, tutta la comunità va a
benedire le salme che riposano nei sepolcri.
L'azienda
agricola, pur mantenendosi ben curata ed ordinata, non può più
avere l'importanza dei secoli passati, quando la terra costituiva l'elemento
quasi esclusivo della ricchezza monastica. Oggi la funzione della tenuta
monastica, dove pure essa esiste, è quella di permettere al monastero di
trarne, almeno in parte, i prodotti necessari al proprio sostentamento.
[1] Ascolta, o figlio, gl'insegnamenti del maestro, e piega
l'orecchio del tuo cuore; accogli volentieri i consigli dell'affettuoso padre e
ponili vigorosamente in opera: [2] perché tu possa, per la fatica
dell'obbedienza, ritornare a Colui dal quale ti eri allontanato per l'inerzia
della disobbedienza. [3] A te dunque si volge ora la mia parola, chiunque tu
sia che rinunzi alle proprie voglie, e accingendoti a militare per il vero re
Cristo Signore, prendi le validissime e lucenti armi dell'obbedienza.
[4] Prima d'ogni cosa ricorda che tutto ciò che di buono
imprendi ad eseguire, devi con insistente preghiera chiedere che sia compiuto
da Lui, [5] perché Egli, che si è già degnato di annoverarci tra
i suoi figli, non debba una volta adirarsi della nostra indegna condotta. [6]
Dobbiamo infatti con i doni che ci ha concessi servirlo sempre così
fedelmente, che Egli non debba, da padre sdegnato, privare un giorno dell'eredità
i suoi figli, [7] né da tremendo signore, irritato per le nostre colpe,
consegnarci alla pena eterna, come malvagi servi che non l'abbiano voluto
seguire alla gloria.
[8] Sorgiamo dunque una buona volta, svegliati dalla Scrittura che
ci dice: "è tempo ormai di levarci dal sonno", [9] e
aprendo gli occhi alla luce divina, ascoltiamo con orecchie attentissime che
cosa ogni giorno ci ripete la voce ammonitrice di Dio: [10] "Se oggi
udirete la voce di Lui, non indurite il vostro cuore". [11]
Così pure: "Chi ha orecchie per ascoltare, ascolti che cosa lo
Spirito dice alle chiese". [12] E che dice? "Venite, figli,
prestatemi orecchio: vi insegnerò il timore del Signore. [13] Correte
finché avete il lume della vita, perché non vi colgano le tenebre della morte".
[14] E poiché, tra la folla degli uomini cui rivolge questo grido,
il Signore cerca il suo operaio, di nuovo dice: [15] "Chi è
l'uomo che vuole la vita e brama di vedere giorni buoni?" [16] Che se
tu, all'udirlo, rispondi: "Io", così Dio ti soggiunge: [17] "Se
vuoi possedere la vera ed eterna vita, frena la tua lingua dal male, e le
tue labbra non proferiscano inganno; allontanati dal male e fa' il bene; cerca
la pace e seguila". [18] E quando avrete ciò fatto, gli occhi
miei saranno su di voi, e le mie orecchie saranno pronte alle vostre suppliche,
e prima ancora che voi m'invochiate, vi dirò: "Ecco, sono qui".
[19] Che cosa più dolce per noi di questa voce del Signore
che c'invita, fratelli carissimi? [20] Ecco che nella sua paterna bontà
il Signore ci indica la via della vita.
[21] Cingiamo dunque i nostri fianchi con la fede con la pratica
delle buone opere, e guidati da l'Evangelo camminiamo per le sue vie, per
renderci degni di vedere Colui che ci chiamò al suo regno.
[22] Ma se vogliamo trovare dimora nella sede di quel regno,
pensiamo che non vi si può giungere se non corriamo con l'operare il
bene.
[23] Interroghiamo i fatti col Profeta il Signore e diciamogli:
"Signore, chi abiterà nella tua sede, o chi riposerà sul
tuo santo monte?" [24] Dopo tale domanda ascoltiamo, fratelli, il
Signore che risponde e ci mostra la via di quella dimora, [25] dicendo: "Chi
cammina senza macchia ed opera la giustizia; [26] chi pronunzia la
verità nel suo cuore; chi non ha ordito inganno con la sua lingua; [27]
chi non ha fatto il male al suo simile; chi contro il suo prossimo non ha
accolto ingiuria"; [28] chi sollecitato a qualche colpa dal maligno
diavolo, lo ha rigettato con tutta la sua tentazione dagli occhi del proprio
cuore e ha reso vana la sua azione, e i suggerimenti di lui, appena
nati, li ha presi con forza e li ha spezzati in Cristo; [29] quelli che per
il timore del Signore non s'insuperbiscono della loro buona condotta, ma
pensano che quanto in essi è di bene, non è opera loro, ma di
Dio, [30] e perciò esaltano il Signore che in loro agisce,
dicendo col Profeta: "Non a noi, Signore, non a noi, ma al nome tuo da'
gloria". [31] Così anche l'Apostolo Paolo non attribuì a sé
alcun merito della sua predicazione, affermando: "Per la grazia di Dio
sono quel che sono"; [32] e di nuovo dichiara: "Chi si gloria,
si glorii nel Signore".
[33] Perciò anche il Signore proclama nell'Evangelo: "Chi
ascolta queste mie parole e le mette in pratica, io lo rassomiglierò
all'uomo saggio che edificò la sua casa sulla roccia: [34] vennero
le fiumane, soffiarono i venti, e fecero impeto contro quella casa ma essa non
crollò, perché era fondata sulla roccia". [35] Conclusa
così la sua risposta, il Signore attende che noi ogni giorno alle sue
sante esortazioni rispondiamo con i fatti.
[36] Perciò i giorni di questa vita ci vengono concessi
come una proroga per emendarci dei nostri vizi, [37] secondo la sentenza
dell'Apostolo: "Non sai che la tolleranza di Dio ti spinge alla
penitenza?". [38] E infatti il misericordioso Signore dice: "Non
voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva".
[39] Quando dunque, o fratelli, abbiamo chiesto al Signore chi
abiterà nella sua sede, abbiamo udito come vi si possa dimorare; purché
però adempiamo i doveri di chi brama abitarvi.
[40] Perciò dobbiamo disporre il cuore e il corpo nostro a
militare nella obbedienza santa ai precetti. [41] E per quello che in noi la
natura nostra è incapace a prestare, preghiamo il Signore che si degni
offrirci l'aiuto della sua grazia.
[42] E se vogliamo evitare le pene dell'inferno e giungere
all'eterna vita, [43] finché ci è ancora consentito e siamo in questo
corpo e abbiamo la possibilità di compiere tutto ciò durante
questa vita dl luce, [44] bisogna oggi correre ed operare quel che ci giovi per
l'eternità.
[45] Dobbiamo dunque costituire una scuola di servizio del
Signore. [46] E nel costituirla noi speriamo di non stabilire nulla di penoso,
nulla di pesante. [47] Ma se qualche cosa un po' dura, suggerita da un
ragionevole equilibrio, dovrà pure introdursi per la correzione dei vizi
o per la conservazione della carità, [48] non ti lasciar subito
così cogliere dallo sgomento da abbandonare la via della salute, che non
può intraprendersi se non per uno stretto imbocco. [49] Ma con
l'avanzare nelle virtù monastiche e nella fede il cuore si dilata, e la
via dei divini precetti si corre nell'indicibile soavità dell'amore.
[50] Cosicché, non discostandoci mai dal magistero Dio, e aderendo
alla sua dottrina nel monastero con perseveranza sino alla morte, ci associamo
con la sofferenza ai patimenti di Cristo, per meritare di essere anche
partecipi del suo regno. Amen.
[1] È noto che sono
quattro le specie dei monaci.
[2] La prima è quella dei cenobiti: di quelli cioè
che vivono in monastero, militando sotto una regola e un abate.
[3] La seconda specie poi è quella degli anacoreti o
eremiti: cioè di coloro che non sono in quel fervore di vita monastica
ch'è proprio dei principianti, ma hanno percorso un lungo tirocinio nel
monastero, e [4] addestratisi con l'aiuto di molti, sono già divenuti
esperti a combattere contro il demonio; [5] sicché dalla lotta sostenuta
insieme con i fratelli sono bene esercitati per il combattimento singolare
della solitudine, e valgono ormai con l'aiuto di Dio a lottare sicuri, senza il
soccorso d'altri e soltanto col vigore delle mani e delle braccia proprie,
contro i vizi della carne e dei pensieri.
[6] La terza specie di monaci è quella tristissima dei
sarabaiti, i quali non sono provati da alcuna regola e resi da essa, col
magistero dell'esperienza, quasi oro di fornace, ma sono avviliti alla
condizione di piombo, [7] e mentre nella condotta serbano ancora fede al mondo,
con la tonsura mentiscono palesemente a Dio; [8] a due, a tre, e anche da soli,
senza pastore, chiusi non negli ovili del Signore ma in quelli propri, non
hanno altra legge che l'appagamento dei propri gusti, [9] poiché tutto
ciò che stimano o preferiscono lo chiamano santo, e ciò che non
vogliono lo ritengono illecito.
[10] La quarta specie di monaci è poi quella dei cosiddetti
girovaghi, i quali tutta la loro vita, di paese in paese, si fanno ospitare per
tre o quattro giorni ora in questo ora in quel monastero, [11] sempre vagabondi
e instabili, schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola: in tutto
più abominevoli dei sarabaiti. [12] Dello sciagurato tenor di vita di
tutta questa genìa è meglio tacere che parlare.
[13] Lasciandoli quindi da parte, veniamo con l'aiuto del Signore
ad ordinare la specie migliore, che è quella dei cenobiti.
[1] L'abate che è
giudicato degno di stare a capo del monastero, deve sempre ricordare come viene
chiamato, e al nome di superiore rendere conformi le sue azioni. [2] Si sa
infatti per fede che egli nel monastero fa le veci di Cristo, poiché viene
chiamato col suo stesso nome, [3] secondo ciò che dice l'Apostolo:
"Avete ricevuto lo spirito dell'adozione di figli, per il quale
gridiamo: Abba, Padre".
[4] Niente perciò l'abate deve insegnare o stabilire o
comandare che sia contro il precetto del Signore; [5] anzi il comando e
l'insegnamento suo penetrino dolcemente nell'animo dei discepoli come fermento
dì divina giustizia. [6] Ricordi sempre l'abate che della sua dottrina
come dell'obbedienza dei discepoli, dell'una e dell'altra certo, si farà
rigoroso esame nel tremendo giudizio di Dio.
[7] Sappia l'abate che sarà imputata a colpa del pastore
ogni deficienza di frutto che il padre di famiglia avrà potuto trovare
nel gregge. [8] D'altra parte però è altrettanto vero che se il
pastore avrà adoperato ogni diligenza per pecore indocili e
disobbedienti, e avrà prestato tutte le cure per la loro malsana condotta,
[9] egli nel giudizio del Signore riuscirà assolto e potrà dire
col Profeta al Signore: "La tua giustizia non l'ho nascosta nel mio
cuore, la tua verità e la tua salute l'ho mostrata, ma essi mi hanno
disprezzato e tenuto in nessun conto": [10] e allora le pecore che
hanno rifiutato le sue cure riesca finalmente a domarle, come pena, la stessa
morte.
[11] Quando uno dunque prende il nome di abate, deve governare i
suoi discepoli con duplice insegnamento, [12] deve cioè tutto quello
ch'è buono e santo, mostrarlo con i fatti più che con le parole;
sicché ai discepoli capaci d'intendere proporrà i comandamenti del
Signore con le parole, ma a quelli di tardo intelletto e di animo rude
dovrà insegnare i divini precetti con le proprie azioni. [13] Qualunque
cosa poi avrà presentata ai discepoli come contraria alla legge di Dio,
mostri anche con i suoi fatti in qual modo bisogna evitarla, perché non avvenga
che mentre insegna agli altri, egli sia trovato riprovevole, [14] e che Dio
debba una volta dirgli per i suoi peccati: "Perché tu insegni i miei
precetti ed hai sempre in bocca la mia alleanza, mentre hai disprezzato la
disciplina ed hai gettato le mie parole dietro le spalle?" [15] Ed
anche: "Tu che vedevi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, non
hai visto la trave nel tuo".
[16] Eviti verso i suoi monaci ogni parzialità. [17] Non
abbia preferenza d'amore se non per colui che egli avrà sperimentato
migliore nella buona condotta e nell'obbedienza. [18] A chi è venuto nel
monastero dalla condizione servile non sia anteposto chi è nato libero,
purché non vi sia un'altra causa ragionevole: [19] giacché se l'abate, per
esigenza di giustizia, riterrà di dover assegnare una simile precedenza,
potrà farlo anche riguardo al posto di qualunque monaco; altrimenti
ognuno occupi il suo posto, [20] perché, sia il servo che il libero, tutti
siamo una sola cosa in Cristo e prestiamo sotto un unico Signore una
medesima milizia di servitù; non vi è infatti presso Dio alcun
riguardo di persona: [21] l'unico rispetto per cui Egli ci preferisce
è se ci trova umili e migliori degli altri nelle opere buone. [22]
Eguale carità eserciti dunque l'abate per tutti, una medesima linea di
condotta segua per tutti, tenendo conto dei loro meriti.
[23] Nel suo magistero poi l'abate deve sempre osservare quella
norma dell'Apostolo che dice: "Ammonisci, esorta, rimprovera"
[24] avvicendando cioè i modi secondo le circostanze, alternando il
rigore e la dolcezza, sappia dimostrare la severità del maestro e
l'indulgente affetto del padre. [25] In altre parole, deve fortemente ammonire
gl'indocili e gl'irrequieti; gli obbedienti invece e i miti e i pazienti
scongiurarli a progredire sempre più; ma i negligenti e gli spregiatori
della disciplina vogliamo che li rimproveri e li punisca.
[26] Né chiuda gli occhi sui vizi dei trasgressori, ma appena
cominciano a sorgere, li strappi dalle radici con tutte le forze che
può, memore del pericolo di Eli, sacerdote di Silo. [27] Quelli che sono
più delicati d'animo ed assennati, li riprenda con le parole,
avvertendoli una prima e una seconda volta; [28] ma i riottosi, gli ostinati, i
superbi e i disobbedienti li reprima con le battiture e con altri castighi
corporali fin dal primo affiorare del vizio, sapendo che è scritto:
"Lo stolto non si corregge con te parole"; [29] e altrove:
"Percuoti il tuo figliolo con la verga, e libererai l'anima sua dalla
morte".
[30] L'abate deve sempre ricordare ciò che è,
ricordare quel che importa il suo nome, e sapere che a chi più viene
dato, più anche si richiede. [31] Sappia quanto difficile ed ardua sia
l'impresa che assume di governare anime e di prestarsi alla diversa indole di
molti, trattando uno con la dolcezza, un altro invece con i rimproveri, un
altro con la persuasione: [32] secondo il carattere e l'intelligenza di
ciascuno, egli a tutti si conformi e si adatti, in modo che non solo non debba
lamentare perdite nell'ovile affidatogli, ma anzi possa rallegrarsi
dell'incremento del gregge buono.
[33] Anzitutto non trascuri o tenga in poca stima la salvezza
delle anime a lui commesse per preoccuparsi di più delle cose
transitorie, terrene e caduche; [34] pensi invece sempre che ha ricevuto anime
da reggere, di cui dovrà pure rendere conto. [35] E perché non adduca a
pretesto l'eventuale scarsezza delle sostanze, ricordi che sta scritto: "Prima
cercate il regno di Dio e la sua giustizia, e queste cose vi saranno date in
sovrappiù"; [36] così pure: "Niente manca a
quelli che Lo temono".
[37] Sappia bene che chi prende anime a governare, deve prepararsi
a darne rendiconto; [38] e ritenga per certo che quanti fratelli egli sa
d'avere sotto la sua cura, di altrettante anime dovrà nel giorno del
giudizio rendere ragione al Signore, oltre al conto che naturalmente
darà dell'anima propria.
[39] Così, nel timore dell'esame che il pastore
subirà circa le pecore a lui affidate, mentre si mantiene cauto per il
rendiconto altrui, diviene sollecito di quello proprio, [40] e mentre con le
sue ammonizioni corregge gli altri, anche lui si va emendando dei difetti suoi.
[1] Ogni volta che deve
risolversi in monastero qualche affare di particolare gravità, l'abate
convochi tutta la comunità, ed esponga lui di che si tratti. [2] Dopo
aver ascoltato il consiglio dei fratelli, ci ripensi su da sé, e faccia quel
che avrà stimato più utile. [3] Ma abbiamo detto di chiamare a
consiglio tutti, perché spesso ad uno più giovane il Signore ispira un
parere migliore.
[4] Allora però i fratelli diano il consiglio con tutta
umiltà e sottomissione, e non osino sostenere con sfrontata ostinatezza
il loro pensiero; [5] la decisione dipenda dal volere dell'abate; e in
ciò che egli avrà stabilito come più opportuno, tutti gli
obbediscano. [6] Ma come ai discepoli è doveroso obbedire al maestro, così
è conveniente che anche lui tutto disponga con provvida ed equanime
assennatezza.
[7] In tutto dunque tutti seguano come maestra la Regola, e
nessuno ardisca deviare da essa.
[8] Nessuno in monastero vada dietro all'inclinazione della
propria volontà. [9] Né alcuno abbia l'ardire di contendere col suo
abate ostinatamente o fuori del monastero: [10] chi osasse far ciò, sia
sottoposto alla disciplina regolare. [11] L'abate però dal canto suo
operi tutto col timore di Dio e secondo le prescrizioni della Regola, sapendo
che dovrà certamente rendere conto di tutti i giudizi suoi al
giustissimo giudice Dio.
[12] Se poi si tratti di affari del monastero meno importanti, si
serva del consiglio dei soli anziani, [13] perché sta scritto: "Fa'
tutto col consiglio, e dopo non avrai a pentirtene".
[1] Anzitutto amare il
Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze;
[2]quindi il prossimo come se stesso.
[3] Poi non uccidere.
[4] Non commettere adulterio.
[5] Non rubare.
[6] Non avere desideri impuri.
[7] Non dire falsa testimonianza.
[8] Onorare tutti gli uomini.
[9] E ciò che non si vuole fatto a sé, non farla ad altri.
[10] Rinunziare interamente a se stesso per seguire Cristo.
[11] Mortificare il corpo.
[12] Non andare dietro ai piaceri.
[13] Amare il digiuno.
[14] Ristorare i poveri.
[15] Vestire l'ignudo.
[16] Visitare l'infermo.
[17] Seppellire il morto.
[18] Soccorrere il tribolato.
[19] Consolare l'afflitto.
[20] Farsi estraneo ai costumi del mondo.
[21] Niente anteporre all'amore di Cristo.
[22] Non compiere quanto è suggerito dall'ira.
[23] Non riserbare allo sdegno il tempo di sfogarsi.
[24] Non nutrire inganno nel cuore.
[25] Non dare pace falsa.
[26] Non abbandonare mai la carità.
[27] Non giurare, perché non avvenga di spergiurare.
[28] Dire col cuore e con la bocca la verità.
[29] Non rendere male per male.
[30] Non fare torti, e tollerare pazientemente quelli che ci vengono fatti.
[31] Amare i nemici.
[32] A quelli che dicono male di noi non ricambiare l'offesa, ma piuttosto
dirne bene.
[33] Sopportare la persecuzione per la giustizia.
[34] Non esser superbo.
[35] Non indulgere troppo al vino.
[36] Non al molto cibo.
[37] Non al soverchio sonno.
[38] Non essere pigro.
[39] Non mormoratore.
[40] Non maldicente.
[41] Riporre la propria speranza in Dio.
[42] Se uno scorge in sé qualcosa di buono, lo riferisca a Dio, non a se
stesso.
[43] Il male invece sia convinto d'averlo commesso lui e ne ritenga se stesso
responsabile.
[44] Temere il giorno del giudizio.
[45] Aver orrore dell'inferno.
[46] La vita eterna desiderarla con ardente brama spirituale.
[47] La morte averla ogni giorno in sospetto dinanzi agli occhi.
[48] Vigilare ogni momento gli atti della propria vita.
[49] Tenere per certo d'esser veduto da Dio in ogni luogo.
[50] I cattivi pensieri che si affacciano alla mente, subito spezzarli su
Cristo e manifestarli al padre spirituale.
[51] Custodire la propria lingua da cattive e scorrette parole.
[52] Non amare di parlare molto.
[53] Non pronunziare parole frivole o eccitanti al riso.
[54] Non amare di ridere molto e smodatamente.
[55] Ascoltare volentieri le sante letture.
[56] Attendere spesso all'orazione.
[57] Le colpe passate confessarle ogni giorno a Dio con lacrime e gemiti nella
preghiera.
[58] Delle medesime colpe poi emendarsi per l'avvenire.
[59] Non appagare le voglie della carne.
[60] Odiare la propria volontà.
[61] Obbedire in tutto ai voleri dell'abate, anche se egli da parte sua - non
sia mai - operi diversamente, memori di quel precetto del Signore: "Fate
quello che dicono, ma non fate quello che fanno".
[62] Non volere esser detto santo prima di esserlo, ma prima esserlo, perché lo
si possa dire con più verità.
[63] Osservare ogni giorno con i fatti i comandamenti di Dio.
[64] Amare la castità.
[65] Non odiare alcuno.
[66] Non nutrire gelosia.
[67] Non assecondare l'invidia.
[68] Non aver gusto di contendere.
[69] Fuggire l'alterigia.
[70] E rispettare i vecchi.
[71] Amare i giovani.
[72] Nell'amore di Cristo pregare per i nemici.
[73] Con chi si è avuta lite tornare in pace prima che tramonti il sole.
[74] E della misericordia di Dio non disperare giammai.
[75] Ecco, sono questi gli strumenti dell'arte spirituale. [76] E
se saranno stati da noi giorno e notte assiduamente adoperati e nel dì
del giudizio riconsegnati, ci verrà data in premio quella mercede che
Egli stesso promise: [77] "Né occhio ha mai visto, né orecchio ha mai
udito, né mente d'uomo ha potuto concepire ciò che Dio ha preparato per
quelli che lo amano". [78] L'officina poi, dove usare con diligenza
tutti questi strumenti, sono i recinti del cenobio e la stabilità nella
famiglia monastica.
[1] Il principale
contrassegno dell'umiltà è l'obbedienza senza indugio. [2] Essa
è propria di coloro che niente hanno di più caro che Cristo; [3]
e sia per il servizio santo a cui si sono votati, sia anche per il timore dell'inferno
e per la gloria dell'eterna vita, [4] appena dal superiore è stato dato
un comando, quasi fosse un comando divino, sono insofferenti d'ogni ritardo
nell'eseguirlo. [5] è di loro che il Signore dice: "Ha udito
appena e già mi ha obbedito". [6] Similmente dice ai maestri:
"Chi ascolta voi, ascolta me".
[7] Tali monaci dunque abbandonano subito le cose loro e
rinunziano alla propria volontà, [8] e liberandosi sull'istante di
quanto avevano tra mano e lasciando incompiuto ciò che stavano facendo,
con piede prontissimo all'obbedienza, seguono con i fatti la voce del superiore
che comanda. [9] Sicché, quasi nel medesimo momento, il comando comunicato dal
maestro e l'opera eseguita dal discepolo si compiono insieme ambedue
prestissimo, per quella celerità che è frutto del timore di Dio:
[10] è l'amore di avanzare alla vita eterna che li preme. [11]
Perciò intraprendono la via stretta, di cui dice il Signore: "Angusta
è la via che conduce alla vita"; [12] e non volendo vivere a
proprio arbitrio né obbedire ai desideri e gusti propri, ma dimorando nel
monastero per camminare sotto la guida e il comando altrui, desiderano di
essere governati dall'abate. [13] Senza dubbio tali monaci imitano il Signore,
mettendo in pratica ciò che Egli dice di sé: "Non sono venuto a
fare la volontà mia, ma di Colui che mi ha mandato".
[14] Ma questa stessa obbedienza allora sarà gradita a Dio
e soave agli uomini, quando il comando sarà eseguito senza esitazione,
senza indugio, senza tiepidezza, senza mormorazione, senza rispondere col
rifiuto; [15] perché l'obbedienza che si presta ai superiori, si presta a Dio;
Egli infatti ha detto: "Chi ascolta voi, ascolta me". [16] E
di buon animo i discepoli devono obbedire, perché Dio ama chi dà con
gioia. [17] Se infatti il discepolo obbedisce malvolentieri, e mormora, non
diciamo già con la bocca, ma anche solo col cuore, [18] pur eseguendo il
comando non compie ormai cosa accetta a Dio, il quale vede la mormorazione che
si cela nel suo interno: [19] per tale opera quindi non ottiene alcuna
ricompensa, e incorre anzi nella pena dei mormoratori, se non ripara e si
corregge.
[1] Facciamo ciò che
afferma il Profeta: "Ho detto: custodirò il mio cammino per non
peccare con la mia lingua; ho posto un freno alla mia bocca, mi sono fatto
muto, mi sono umiliato ed ho taciuto anche delle cose buone" [2] Ora, se
il Profeta mostra qui che dai buoni discorsi bisogna talvolta astenersi per
amore del silenzio, quanto più è necessario evitare le cattive
parole per la pena del peccato! [3] Perciò, anche se si tratti di
argomenti buoni e pii ed edificanti, tanta è la gravità del
silenzio, che ai discepoli perfetti raramente si deve concedere licenza di
parlare; [4] perché sta scritto: "Nel molto parlare non sfuggirai al
peccato"; [5] e altrove: "La morte e la vita sono in potere della
lingua". [6] Se infatti al maestro conviene parlare ed istruire, al
discepolo tocca tacere ed ascoltare.
[7] Se quindi è necessario chiedere qualche cosa al
superiore, si domandi con tutta umiltà e con rispettosa sottomissione.
[8] Le trivialità poi e le parole oziose ed eccitanti al
riso le condanniamo in tutti i luoghi con eterna esclusione; e che il discepolo
apra la bocca per proferire cose tali, non lo permettiamo.
[1] Grida a noi, fratelli,
la divina Scrittura e ci dice: "Chiunque si esalta sarà
umiliato, e chi si umilia sarà esaltato". [2] Col dirci dunque
così, ci mostra che ogni esaltazione è una forma di superbia, [3]
da cui il Profeta dichiara di volersi tenere lontano quando afferma: "Signore,
il mio cuore non si è innalzato, né si sono elevati i miei occhi; non ho
camminato tra cose grandi e troppo alte per me". [4] E che allora?
"Se non ho avuto sentimenti di umiltà, se il mio cuore si
è insuperbito, allora tu tratti l'anima mia come un bambino divezzato
dal seno di sua madre".
[5] Perciò, fratelli, se vogliamo toccare la cima d'una
somma umiltà e giungere celermente a quell'altezza celeste a cui si sale
per l'abbassamento della vita presente, [6] bisogna con l'ascensione delle
nostre opere innalzare quella scala che apparve in sogno a Giacobbe, e per la
quale egli vide gli angeli scendere e salire. [7] Discesa e salita che non
possono certamente essere intese da noi se non nel senso che con l'esaltazione
si discende e con l'umiltà si sale.
[8] La scala poi che si rizza, non è se non la nostra vita
terrena, che per l'umiltà del cuore venga dal Signore diretta su verso
il cielo. [9] Diciamo infatti che il corpo e l'anima nostra sono i lati di
questa scala, nei quali la divina chiamata inserì diversi gradini di
umiltà e di esercitazione spirituale da salire.
[10] Il primo gradino dunque dell'umiltà è quello in
cui l'uomo, con la visione continua della presenza di Dio dinanzi agli occhi,
ispirato dal suo timore, fugge del tutto la smemoratezza, [11] e ricorda sempre
i precetti di Dio, e ripensa dentro di sé perennemente come l'inferno bruci per
i loro peccati i dispregiatori di Dio, e come la vita eterna sia preparata per
quelli che lo temono; [12] e custodendosi sempre dai peccati e dai vizi,
cioè dei pensieri, della lingua, delle mani, dei piedi, della propria
volontà, nonché dalle inclinazioni della natura corrotta, [13] riflette
che Dio sempre e senza posa lo guarda dal cielo, e che le sue azioni in ogni
luogo sono vedute dall'occhio divino e riferite dagli Angeli ad ogni momento.
[14] è appunto ciò che ci manifesta il Profeta, quando ci addita
Dio così presente ai nostri pensieri, dicendo; "Dio scruta i
cuori e le reni". [15] E similmente: "Il Signore conosce i
pensieri degli uomini". [16] Così pure dice: "Hai visto
i miei pensieri da lontano". [17] E altrove: "Il pensiero
dell'uomo sarà svelato dinanzi a Te".
[18] Ora per esser cauto riguardo ai suoi cattivi pensieri, il
fratello sollecito della perfezione ripeta di continuo nel suo cuore: "Allora
sarò mondo dinanzi a Lui, quando mi sarò guardato da ogni mio
peccato". [19] Il divieto poi di fare la volontà propria lo
abbiamo dalla Scrittura che ci ordina: "E allontanati dalle tue voglie",
[20] e similmente nell'Orazione supplichiamo Dio che si compia in noi la sua
volontà.
[21] A buon diritto dunque ci s'insegna di non fare la nostra
volontà, se vogliamo evitare il male di cui parla la Scrittura: "Ci
sono delle vie che agli uomini sembrano dritte, e che al loro sbocco sommergono
fino alle profondità dell'inferno", [22] e se dobbiamo
similmente temere ciò che è scritto dei negligenti: "Si
sono corrotti e sono diventati abominevoli nel seguire le loro voglie".
[23] Quanto poi alle inclinazioni della guasta natura, dobbiamo
allo stesso modo credere che Dio è sempre presente, secondo ciò
che dichiara il Profeta al Signore: "Ogni mio desiderio sta dinanzi a
Te". [24] Bisogna dunque evitare il cattivo desiderio, perché la morte
sta appostata alla soglia del piacere. [25] Perciò la Scrittura ci
avverte: "Non andare dietro alle tue concupiscenze".
[26] Dunque se gli occhi del Signore vedono i buoni ed i cattivi,
[27] e il Signore dal cielo guarda sempre sui figli degli uomini per scorgere
se vi sia chi abbia intelletto e cerchi Dio; [28] e se dagli Angeli a noi
assegnati sono riferite quotidianamente al Signore, giorno e notte, le nostre
singole azioni, [29] bisogna dunque, fratelli, stare assiduamente in guardia
perché il Signore non ci veda mai, come dice nel salmo il Profeta, incamminati
al male e divenuti infruttuosi, [30] e se perdona adesso, perché è
misericordioso ed aspetta la nostra conversione, non ci debba dichiarare in
avvenire: "Hai fatto questo, ed io ho taciuto".
[31] Il secondo gradino dell'umiltà si ha quando
uno, non amando la volontà propria, non si compiace di soddisfare ai
suoi desideri, [32] ma imita il Signore mettendo in pratica quel suo detto:
"Non sono venuto a fare la volontà mia, ma di Colui che mi ha
mandato", [33] Similmente la Scrittura dice: "La propria volontà
merita la pena, l'imposizione procura la corona".
[34] Il terzo gradino dell'umiltà è
quello per cui uno con perfetta obbedienza si sottomette per amor di Dio al
superiore, imitando il Signore di cui dice l'Apostolo: "Fattosi
obbediente fino alla morte".
[35] Il quarto gradino dell'umiltà è
quello del monaco che nell'esercizio dell'obbedienza, pur se riceve ordini
difficili o ripugnanti, o anche qualunque specie di ingiurie, sa nel silenzio
abbracciare volentieri la sofferenza, [36] e sopportando pazientemente non si
perde d'animo né indietreggia, poiché la Scrittura avverte: "Chi
avrà perseverato sino alla fine, questi sarà salvo".
[37] Così pure: "Il tuo cuore sia forte e sappi sostenere la
prova del Signore", [38] E per dimostrare che il servo fedele deve per
il Signore tollerare anche qualunque contrarietà, dice ancora la
Scrittura nella persona di quelli che soffrono: "Per Te siamo ridotti
ogni giorno alla morte, siamo considerati come pecore da macello".
[39] E sicuri per la speranza della ricompensa di Dio, proseguono
con gioia e dicono: "Ma in tutto ciò noi vinciamo per Colui che
ci ha amati".[40] Similmente la Scrittura in altro luogo: "Ci
hai provati, Signore; ci hai sperimentati col fuoco, come col fuoco si sperimenta
l'argento; ci hai tratti nel laccio, hai aggravato di tribolazioni il dorso
nostro".[41] E per in dicare che dobbiamo sottostare a un superiore
aggiunge: "Hai posto degli uomini sul nostro capo".[42] E
osservando il precetto del Signore con la pazienza nelle avversità e
nelle ingiurie, percossi in una guancia porgono l'altra, a chi toglie loro la
tunica lasciano anche il mantello, costretti a fare un miglio di strada ne
fanno due, [43] e con l'Apostolo Paolo tollerano i falsi fratelli e benedicono chi
li maledice.
[44] Il quinto gradino dell'umiltà si ha quando
tutti i pensieri cattivi che si affacciano alla mente e i peccati commessi nel
segreto, il monaco li svela con umile confessione al suo abate, [45] secondo
l'esortazione della Scrittura: "Manifesta al Signore la tua via e spera
in Lui". [46] Similmente dice: "Aprite l'animo vostro al
Signore, perché Egli è buono, perché eterna è la sua misericordia".
[47] Così pure il Profeta: "Il mio peccato te l'ho
reso noto, e non ho nascosto le mie colpe; [48] ho detto:
paleserò contro di me le mie mancanze al Signore, e Tu hai perdonato
l'empietà del mio cuore".
[49] Il sesto gradino dell'umiltà consiste in ciò,
che il monaco si contenta delle cose più vili e spregevoli, e a tutto
quello che gli venga imposto si giudica inetto ed indegno operaio, [50]
appropriandosi il detto del Profeta: "Mi sono ridotto a nulla e sono
divenuto uno stolto; mi sono fatto dinanzi a Te come una bestia da soma, ma
sono sempre con Te".
[51] Il settimo gradino dell'umiltà è quello del
monaco che non solo con la lingua si professa più indegno e spregevole
di tutti, ma ne è convinto anche nell'intimo del cuore, [52] umiliandosi
e dicendo col Profeta: "Io poi sono un verme e non un uomo; obbrobrio
degli uomini e rifiuto della gente". [53] "Sono stato
esaltato, e poi umiliato e confuso". [54] E similmente: "Buon
per me che mi hai umiliato, perché io impari la tua legge".
[55] L'ottavo gradino dell'umiltà è di quel monaco
che non fa se non ciò che è suggerito dalla regola comune del
monastero o dall'esempio dei maggiori.
[56] Il nono gradino dell'umiltà è quello
per cui il monaco frena la lingua dal parlare, e mantenendosi fedele al
silenzio, non parla finché non sia interrogato, [57] poiché la Scrittura
insegna che nel molto parlare non si sfugge al peccato [58] e che l'uomo
dalle molte chiacchiere va senza direzione sulla terra.
[59] Il decimo gradino dell'umiltà si ha quando
uno non è facile e pronto al ridere, perché è scritto: "Lo
stolto nel ridere alza la sua voce".
[60] L'undecimo gradino dell'umiltà è
quello del monaco che, quando parla, lo fa delicatamente e senza ridere, con
umiltà e compostezza, e dice poche ed assennate parole, e non fa chiasso
con la voce [61] come sta scritto: "Alle poche parole si conosce il
saggio".
[62] Il duodecimo gradino dell'umiltà si ha se
il monaco non solo coltiva l'umiltà nel cuore, mostra anche con
l'atteggiamento esterno a quelli che lo vedono; [63] cioè nell'Ufficio
divino, in chiesa, nell'interno del monastero, nell'orto, per via, nei campi,
dappertutto insomma, quando siede, cammina o sta in piedi, ha sempre il capo
chino e gli occhi fissi a terra; [64] e pensando sempre ai peccati di cui
è reo, fa conto di essere già per presentarsi al tremendo
giudizio di Dio, [65] ripetendo sempre a se stesso internamente ciò che
disse, con gli occhi bassi verso terra, il pubblicano dell'Evangelo: "Signore,
non sono degno io peccatore di levare gli occhi miei al cielo"; [66]
come anche col Profeta: "Mi sono sempre curvato e umiliato".
[67] Ascesi dunque tutti questi scalini dell'umiltà, il
monaco giungerà subito a quella carità che divenuta perfetta
scaccia il timore: [58] e per essa tutto ciò che prima compiva non
senza trepidazione, ora comincerà ad eseguirlo senza alcuna fatica,
quasi spontaneamente, in forza della consuetudine, [69] e non già per
timore dell'inferno, ma per amore di Cristo, per la stessa buona abitudine e
per il gusto delle virtù. [70] Sono questi i frutti che il Signore, per
l'opera dello Spirito Santo, si degnerà di manifestare nel suo operaio,
quando già sia mondo dei suoi vizi e peccati.
[1] Durante l'inverno,
cioè dal principio di novembre fino a Pasqua, secondo una ragionevole
valutazione, la levata sia all'ottava ora della notte, [2] perché si dorma un
po' più che metà della notte e i monaci si alzino a digestione
compiuta.
[3] Il tempo poi che avanza dopo l'Ufficio notturno, dai fratelli
che hanno bisogno d'imparare qualcosa del salterio o delle lezioni, sia
impiegato in tale esercizio.
[4] Da Pasqua invece fino al suddetto principio di novembre l'ora
della levata si regoli in modo che all'Ufficio notturno, dopo un brevissimo
intervallo in cui i fratelli possano uscire per le necessità naturali,
seguano subito le Lodi che devono recitarsi al primo albeggiare.
[1] Nel tempo invernale
determinato sopra, si dica anzitutto per tre volte il verso: "Signore,
aprirai le mie labbra, e la mia bocca canterà le tue lodi", [2]
a cui si aggiunga il salmo terzo col Gloria; [3] poi il salmo
novantesimo quarto con l'antifona ovvero lentamente modulato; [4] quindi si
dica l'inno e poi sei salmi con le antifone. [5] Cantati i salmi, si dica il
verso e l'abate dia la benedizione; sedutisi poi tutti sugli scanni, dei
fratelli leggano a turno dal codice sul leggio tre lezioni, a cui s'intercalino
tre responsori. [6] Due responsori si cantino senza il Gloria, ma
dopo la terza lezione il cantore aggiunga il Gloria: [7] e appena egli
comincia a cantarlo, immediatamente tutti si alzino dai loro sedili per onore e
riverenza alla Santa Trinità.
[8] I libri poi da leggere nell'Ufficio notturno siano quelli di
divina autorità tanto del Vecchio quanto del Nuovo Testamento, come
anche i commenti che vi hanno fatto i Padri cattolici d'incontestato nome e di
retta fede.
[9] Dopo queste tre lezioni con i loro responsori, seguano gli
altri sei salmi da cantarsi con l'Alleluia; [10] dopo di essi la lezione
dell'Apostolo da dirsi a memoria, il verso, la supplica litanica, ossia il Kyrie
eleison; [11] e così si ponga termine all'Ufficio della notte.
[1] Da Pasqua poi fino al principio di novembre si mantenga
l'intero numero di salmi ch'è stato prescritto sopra; [2] le lezioni
però dal codice, data la brevità delle notti, non si leggano, ma
al posto delle tre lezioni se ne dica una sola, a memoria del Vecchio Testamento,
seguita da un responsorio breve; [3] il resto si osservi interamente come
è stato detto sopra; non si dicano cioè mai nell'Ufficio notturno
meno di dodici salmi, oltre al terzo e al novantesimo quarto.
[1] La domenica la levata per l'Ufficio notturno sia anticipata.
[2] Anche in tale Ufficio si osservi una regola determinata: cantati
cioè, come sopra abbiamo disposto, sei salmi e il verso, si siedano
tutti con ordine ai loro posti sugli scanni, e vengano lette dal codice, come
abbiamo detto sopra, quattro lezioni con i loro responsori; [3] solo al quarto
il cantore aggiunga il Gloria, e appena egli lo comincia, tutti si
levino subito con riverenza.
[4] Dopo tali lezioni seguano secondo l'ordine altri sei salmi,
anch'essi con l'antifona come i precedenti, e il verso. [5] Quindi si leggano
di nuovo a quattro lezioni con i loro responsori, con lo stesso ordine di
prima. [6] Dopo di esse si dicano dai libri dei Profeti tre cantici stabiliti
dall'abate: questi siano cantati con l'Alleluia. [7] Detto quindi il
verso, e data la benedizione dall'abate, si leggano altre quattro lezioni del
Nuovo Testamento col medesimo ordine di sopra.
[8] Dopo il quarto responsorio l'abate intoni l'inno Te Deum
laudàmus; [9] e terminato che sia, l'abate legga un brano
dell'Evangelo, mentre tutti stanno in piedi con ogni onore e riverenza. [10]
Alla fine tutti rispondano Amen, e l'abate soggiunga immediatamente
l'inno Te decet laus; e dopo che è stata data la benedizione,
cominciano le Lodi.
[11] Quest'ordine dell'Ufficio notturno domenicale sia osservato
egualmente in ogni tempo, sia d'estate che d'inverno, [12] salvo il caso - non
sia mai - in cui s'alzassero troppo tardi: allora si dovrà abbreviare
qualche cosa dalle lezioni o dai responsori. [13] Ma si badi con ogni cura che
un tale inconveniente non avvenga; se però accadrà, ne renda
degna soddisfazione a Dio nell'oratorio colui che l'ha causato con la sua
negligenza.
[1] Alle Lodi della domenica si dica prima il salmo sessantesimo
sesto senza antifona, tutto di seguito; [2] quindi il cinquantesimo con l'Alleluia;
[3] dopo di esso il centodiciassettesimo e il sessantaduesimo; [4] poi il Benedìcite
e le "lodi", quindi una lezione dell'Apocalisse a memoria e il
responsorio, l'inno, il verso, il cantico dell'Evangelo, la prece litanica; e
così si termina.
[1] Nei giorni feriali invece l'Ufficio delle Lodi si svolga
così: [2] si dica cioè il salmo sessantesimo sesto senza
antifona, rallentando un poco come la domenica, perché tutti si trovino pronti
al cinquantesimo, che deve dirsi con l'antifona. [3] Poi si dicano altri due
salmi secondo la consuetudine, cioè: [4] al lunedì il quinto e il
trentacinquesimo; [5] al martedì il quarantaduesimo e il cinquantesimo
sesto; [6] al mercoledì il sessantesimo terzo e il sessantesimo quarto;
[7] al giovedì l'ottantesimo settimo e l'ottantesimo nono; [8] al
venerdì il settantesimo quinto e novantunesimo; [9] al sabato poi il
centoquarantaduesimo e il cantico del Deuteronomio, che venga diviso in due Gloria.
[10] Negli altri giorni i cantici, presi dai Profeti, si dicano ciascuno al suo
giorno secondo l'uso della Chiesa Romana. [11] Quindi seguano le
"lodi", poi una lezione dell'Apostolo da recitare a memoria, il
responsorio, l'inno, il verso, il cantico dell'Evangelo, la litania e si pone
termine.
[12] Ma l'Ufficio delle Lodi e del Vespro non deve assolutamente
passare mai senza che alla fine, secondo l'ordine stabilito, sia recitata dal
superiore e ascoltata da tutti l'Orazione del Signore, per le spine degli
scandali che sogliono spuntare, [13] affinché i monaci, impegnati dalla promessa
che nella stessa orazione fanno: "Rimetti a noi, come anche noi
rimettiamo", si purifichino da tale vizio. [14] Nelle altre Ore invece
si dica solo l'ultima parte di quella Orazione, sicché da tutti si risponda:
"Ma liberaci dal male".
[1] Nelle feste poi dei Santi e in tutte le solennità si
celebri l'Ufficio allo stesso modo che abbiamo prescritto per la domenica, [2]
eccetto che si diranno i salmi, le antifone e le lezioni proprie di quel giorno
festivo; ma l'ordinamento sia quello stabilito sopra.
[1] Dalla santa Pasqua fino a Pentecoste si dica senza
interruzione l'Alleluia tanto nei salmi quanto nei responsori; [2] da
Pentecoste invece fino all'inizio della Quaresima si dica ogni notte con gli
ultimi sei salmi soltanto all'Ufficio notturno. [3] Ogni domenica poi fuori di
Quaresima i cantici, le Lodi, Prima, Terza, Sesta e Nona si cantino con l'Alleluia;
il Vespro invece con l'antifona. [4] Ma i responsori non si dicano mai con l'Alleluia,
se non da Pasqua a Pentecoste.
[1] Come dice il Profeta, "Ti ho lodato sette volte
durante il giorno". [2] Ora questo sacro numero di sette sarà
da noi rispettato allo stesso modo, se adempiremo i doveri del nostro servizio
alle Lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e a Compieta, [3] perché
appunto di queste Ore diurne il Profeta disse: "Sette volte durante il
giorno Ti ho cantato la lode". [4] Infatti quanto alle Vigilie
notturne il medesimo Profeta dice: "Nel mezzo della notte mi alzavo a
celebrarti". [5] In queste Ore dunque rendiamo lodi al nostro Creatore
per i giudizi della sua giustizia, cioè alle Lodi, a Prima, a
Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro, a Compieta; e la notte leviamoci a
celebrarlo.
[1] Abbiamo già stabilito l'ordine della salmodia per l'Ufficio
notturno e le Lodi; ora vediamo per le altre Ore.
[2] A Prima si dicano tre salmi distinti e non sotto un solo Gloria;
[3] l'inno della medesima Ora dopo il verso Deus, in adiutòrium,
prima di cominciare i salmi. [4] Finiti poi i tre salmi, si reciti una sola
lezione, il verso, il Kyrie eleison e le preci conclusive.
[5] A Terza poi, a Sesta e a Nona l'Ufficio si celebri similmente
con l'ordine suddetto: cioè il verso, gl'inni delle medesime Ore, tre
salmi per ciascuna, la lezione e il verso, il Kyrie eleison e le formule
di conclusione. [6] Se la comunità è abbastanza numerosa, i salmi
si dicano con le antifone se piccola, tutti di seguito.
[7] L'Ufficio del Vespro invece si compia cantando quattro salmi
con le antifone, [8] dopo i quali si reciti la lezione, quindi il responsorio,
l'inno il verso, il cantico dall'Evangelo, la prece litanica, e con l'Orazione
del Signore si conchiuda.
[9] Compieta infine si celebri dicendo tre salmi, ma di seguito
senza antifona; [10] quindi l'inno della medesima Ora, una sola lezione, il
verso, il Kyrie eleison, e con la benedizione si ponga termine.
[1] Al principio si dica il verso "O Dio, volgiti in mio
soccorso; Signore, affrettati ad aiutarmi", e il Gloria; quindi
l'inno di ciascuna Ora.
[2] A Prima della domenica si dicano quattro strofe del salmo
centodiciottesimo; [3] nelle altre Ore, cioè a Terza, a Sesta e a Nona,
tre strofe per volta del suddetto salmo.
[4] A Prima del lunedì si recitino tre salmi, cioè
il primo, il secondo e il sesto; [5] e così per i singoli giorni fino
alla domenica si dicano a Prima tre salmi al giorno, di seguito, fino al decimo
nono, badando però a dividere in due il salmo nono e il diciassettesimo.
[6] In tal modo alle Vigilie della domenica si comincerà sempre dal
ventesimo.
[7] A Terza poi, a Sesta e a Nona del lunedì si dicano le
nove strofe che restano del salmo centodiciottesimo, tre per ciascuna Ora.
[8] Esaurito così questo salmo in due giorni (cioè
la domenica e il lunedì), [9] il martedì a Terza, a Sesta e a
Nona si recitino tre salmi per volta, dal centodiciannovesimo al
centoventisettesimo, cioè nove salmi; [10] e questi si ripetano sempre
allo stesso modo nelle medesime Ore fino alla domenica, conservando però
immutati per tutti i giorni gl'inni, le lezioni e i versi stabiliti, [11] e
così si ottiene che la domenica si cominci sempre dal salmo
centodiciottesimo.
[12] Il Vespro poi si celebri ogni giorno col canto di quattro
salmi. [13] A tal fine si prendano i salmi dal centesimo nono al
centoquarantasettesimo, [14] eccettuando quelli tra essi che si mettono da
parte per le altre Ore (cioè dal centodiciassettesimo al
centoventisettesimo, il centotrentatreesimo e il centoquarantaduesimo); [15] i
rimanenti si dicano tutti a Vespro. [16] E poiché vengono a mancare tre salmi,
si devono dividere quelli della suddetta serie che sono più lunghi,
cioè il centotrentottesimo, il centoquarantatreesimo e il
centoquarantaquattresimo; [17] invece il centosedicesimo, perché breve, si
congiunga col centoquindicesimo.
[18] Abbiamo così disposto per il Vespro l'ordine dei
salmi; il resto, cioè la lezione, il responsorio, l'inno, il verso e il
cantico, si svolga come abbiamo stabilito sopra.
[19] A Compieta invece si ripetano ogni giorno i medesimi salmi,
cioè il quarto, il novantesimo e il centotrentatreesimo.
[20] Determinato l'ordine dei salmi per l'Ufficio diurno, tutti
gli altri che rimangono si distribuiscano in parti eguali per le sette Vigilie
notturne, [21] dividendo cioè quelli tra essi che sono più lunghi
e assegnandone dodici per ciascuna notte. [22] Ma ci preme d'avvertire che se a
qualcuno non piacerà tale ripartizione dei salmi, li disponga pure
diversamente nel modo che giudicherà migliore, [23] purché si stia
sempre attenti che ogni settimana sia recitato il salterio nell'intero numero di
centocinquanta salmi, e che la domenica all'Ufficio notturno sempre si riprenda
da capo; [24] perché nel servizio a cui si sono dedicati, si mostrano troppo
pigri quei monaci che nel giro di una settimana recitano meno dell'intero
salterio con i cantici consueti, [25] mentre leggiamo che i nostri santi padri
in un solo giorno eseguivano alacremente ciò che noi tiepidi è da
sperare che compiamo in un'intera settimana.
[1] Sappiamo per fede che Dio è presente dappertutto e che gli
occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi; [2] ma
dobbiamo credere senza alcun dubbio che ciò avviene specialmente quando
partecipiamo all'Opera di Dio. [3] Perciò ricordiamo sempre ciò
che dice il Profeta: "Servite il Signore nel timore"; [4]
così anche: "Salmeggiate con sapienza"; [5] e altrove:
"Ti celebrerò alla presenza degli Angeli" [6] Pensiamo
dunque con quali disposizioni convenga stare dinanzi a Dio ed agli Angeli suoi,
[7] e celebriamo il divino Ufficio in modo che il nostro spirito concordi con
la nostra voce.
[1] Se, quando vogliamo chiedere qualche cosa ai potenti, non
osiamo farlo se non con sottomissione e rispetto, [2] quanto più a Dio,
Signore dell'universo, conviene volgere le suppliche con tutta umiltà e
purezza di devozione [3] E siamo convinti che saremo esauditi non per le molte
parole, ma per la purezza del cuore e la compunzione delle lacrime. [4] Breve
perciò e pura dev'essere la preghiera, salvo che non la protraggano
l'ardore e l'ispirazione della grazia divina. [5] Ma l'orazione che si fa in
comune sia assolutamente breve, e quando il superiore dà il segno, si
levino tutti insieme.
[1] Se la comunità è abbastanza numerosa, si
scelgano dal suo seno dei fratelli di buona riputazione e di santa vita e si
costituiscano decani, [2] che abbiano sollecita cura delle loro decanie per
tutte le cose secondo i precetti di Dio e le disposizioni del loro abate. [3]
Per decani si eleggano monaci con i quali l'abate possa tranquillamente
condividere i suoi pesi, [4] e non si scelgano secondo l'ordine
d'anzianità monastica, ma secondo la dignità della vita e la
scienza delle cose di Dio.
[5] Se però qualcuno di questi decani, gonfio forse di
qualche sentimento di superbia, fosse trovato degno di biasimo, venga ripreso
una prima, una seconda e anche una terza volta; e se non si corregge, sia
rimosso dall'ufficio, [6] e lo sostituisca un altro che ne sia degno. [7] Lo
stesso stabiliamo per il priore.
[1] I monaci dormano in un letto per ciascuno.
[2] L'arredamento del letto lo ricevano secondo il proprio tenore
di vita monastica, in conformità al giudizio del loro abate. [3] Se
è possibile, dormano tutti in un solo ambiente; ma se il numero
rilevante non lo permette, riposino a dieci o a venti insieme, con i seniori
che li sorveglino. [4] Una lucerna rimanga continuamente accesa nel dormitorio
sino al mattino.
[5] Dormano vestiti e con i fianchi stretti di semplici cinture o
funicelle, perché mentre dormono non abbiano a lato i loro pugnali e non siano
da essi feriti durante il sonno; [6] in tal modo i monaci sono sempre pronti, e
quando si dà il segnale, si levino senza indugio e s'affrettino a
prevenirsi l'un l'altro all'Opera di Dio, serbando però sempre molta
gravità e modestia. [7] I fratelli più piccoli d'età non
abbiano i letti gli uni accanto agli altri, ma stiano frammisti agli anziani.
[8] Quando poi si alzano per l'Opera di Dio, si esortino delicatamente a
vicenda per impedire le scuse dei sonnolenti.
[1] Se qualche fratello fosse trovato ribelle o disobbediente o
superbo o mormoratore, ovvero si mostrasse in qualche punto non solo riottoso
alla santa Regola e agli ordini dei suoi superiori, ma anche sprezzante, [2]
costui sia ammonito, secondo il precetto di nostro Signore, una prima e una
seconda volta dai suoi superiori segretamente.
[3] Se non si correggerà, venga rimproverato pubblicamente
dinanzi a tutti. [4] Se poi neppure così si emenderà, allora, se
è capace di comprendere quale pena sia la scomunica, sia sottoposto ad
essa; [5] se invece è insensibile, soggiaccia al castigo corporale.
[1] In proporzione alla gravità della colpa deve anche
misurarsi la scomunica e il castigo corporale; [2] il valutare poi il grado
della colpa è interamente rimesso al giudizio dell'abate.
[3] Se tuttavia qualche fratello viene trovato reo di colpe
più lievi, sia privato della partecipazione alla mensa. [4] Il
trattamento di chi viene così escluso dalla mensa sarà questo:
nell'oratorio non canti a solo salmo o antifona né reciti lezione finché non
abbia soddisfatto; [5] il cibo lo prenda da solo dopo la refezione dei
fratelli, [6] sicché, se i fratelli, per esempio, mangiano all'ora sesta, egli
mangi a nona; se i fratelli a nona, egli a vespro, [7] finché con una adeguata
soddisfazione non abbia ottenuto il perdono.
[1] Il fratello invece che sia reo di colpa più grave,
venga escluso sia dalla mensa che dall'oratorio. [2] Nessuno dei fratelli si
unisca a lui per trattare o parlare insieme di qualche cosa; [3] stia da solo
al lavoro che gli è stato imposto e si mantenga nell'afflizione della
penitenza, ricordando la terribile sentenza dell'Apostolo il quale afferma: [4]
"Un tal uomo è consegnato alla morte della carne, perché lo
spirito sia salvo nel giorno del Signore". [5] Il cibo pure lo prenda
da solo, nella misura e nell'ora che l'abate giudicherà più
opportuna per lui. [6] Non venga benedetto da alcuno che lo incontri, e non si
benedica neppure il cibo che gli è dato.
[1] Se qualche fratello senza permesso dell'abate oserà in
qualunque modo congiungersi o parlare col fratello scomunicato o mandargli dei
messaggi, [2] sia colpito d'una eguale scomunica.
[1] Con ogni premurosa diligenza l'abate deve curarsi dei fratelli
colpevoli, perché non hanno bisogno del medico i sani, ma gl'infermi.
[2] Deve perciò comportarsi del tutto come un sapiente medico, e mandare
dei fratelli di fiducia, cioè dei saggi monaci anziani, [3] i quali,
come di nascosto, consolino il fratello agitato, lo spingano all'umile soddisfazione
e lo confortino perché non sia sommerso da eccessiva tristezza; [4]
anzi, come similmente dice l'Apostolo, si dia prova a suo riguardo di
maggior carità, e da tutti si preghi per lui.
[5] Molta sollecitudine infatti deve usare l'abate e correre con
ogni sagace industria per non perdere alcuna delle pecorelle a lui affidate.
[6] Sappia d'aver preso a curare anime inferme, non ad esercitare potere
dispotico sulle sane, [7] e tema la minaccia del Profeta, per bocca del quale
Dio dice: "Ciò che vedevate pingue, lo prendevate; ciò
che invece era debole, lo gettavate via" [8] Ed imiti il tenero
esempio del buon Pastore, che abbandonò le novantanove pecore sui monti
per andare in cerca di quell'una che si era smarrita: [9] della cui debolezza
ebbe tanta compassione, che si degnò di metterla sulle divine sue spalle
e così riportarla all'ovile.
[1] Se un fratello punito spesso per qualsivoglia colpa, e infine
anche scomunicato, non si sarà neppure allora corretto, riceva ancora
una più aspra punizione, sia cioè sottoposto al castigo delle
battiture. [2] Se poi non si emenderà nemmeno così, ovvero - che
non sia mai - levatosi in superbia vorrà pure difendere la sua condotta,
allora l'abate faccia come un esperto medico: [3] se ha usato i lenitivi, se
gli unguenti delle esortazioni, se i medicamenti delle divine Scritture, se
infine la bruciatura della scomunica o quella delle piaghe della verga, [4] e
vede che a nulla approdano le sue industrie, adoperi anche, ciò che vale
ancor più, la preghiera propria e di tutti i monaci per lui, [5] perché
il Signore, che tutto può, operi la salute del fratello infermo.
[6] Ma se neppure in tal modo quello guarirà, allora
l'abate si serva ormai del ferro dell'amputazione, come dice l'Apostolo: "Stroncate
da voi il cattivo" [7] e così anche, "Se l'infedele va
via, vada pure", [8] perché una pecora infetta non ammorbi tutto il
gregge.
[1] Il fratello che per propria colpa sia uscito dal monastero, se
vorrà ritornare, prima prometta di correggersi pienamente del vizio per
il quale è uscito, [2] e allora sia accettato, ma all'ultimo posto,
perché da ciò si provi la sua umiltà. [3] Se poi uscirà di
nuovo, potrà essere ricevuto a queste condizioni fino alla terza volta;
ma sappia che dopo gli sarà preclusa ormai ogni possibilità di
ritorno.
[1] Ad ogni età e ad ogni intelligenza deve corrispondere
un trattamento proporzionato. [2] Perciò i fanciulli e i giovinetti, o
quelli che non sono capaci d'intendere la portata della scomunica, [3] tutti
questi, se commettono delle colpe, siano puniti con gravi digiuni o repressi
con severe battiture, perché guariscano.
[1] A cellerario del monastero sia scelto dal seno della
comunità uno che sia saggio, di seri costumi, sobrio, non mangione, non
gonfio di sé, non turbolento, non proclive all'ingiuria, non avaro, non
prodigo, [2] ma timorato di Dio. Per tutta la comunità egli dev'essere
come un padre. [3] Abbia cura di tutti. [4] Senza consenso dell'abate non
faccia nulla; [5] stia agli ordini ricevuti.
[6] Non dia motivi di dispiaceri ai fratelli; [7] se qualcuno di
loro gli chiede qualcosa non ragionevolmente, non lo rattristi col disprezzo,
ma sappia dir di no all'indebita richiesta col garbo della persuasione e con
spirito di umiltà.
[8] Custodisca l'anima propria, memore sempre di quel detto
dell'Apostolo, che chi esercita bene il suo ministero, si guadagna un buon
posto.
[9] Degl'infermi, dei fanciulli, degli ospiti e dei poveri si
prenda cura con somma diligenza, sapendo con ogni certezza che per tutti questi
dovrà rendere conto nel giorno del giudizio.
[10] Tutta la suppellettile e i beni del monastero li consideri
come gli oggetti sacri dell'altare. [11] Nulla stimi trascurabile. [12] Non
vada dietro all'avarizia né sia prodigo e dissipatore dei beni del monastero,
ma tutto operi con discrezione e secondo il comando dell'abate.
[13] Anzitutto sia umile, e quando ad uno non può concedere
la cosa richiesta, gli dia una buona parola di risposta, [14] come dice la
Scrittura: "Una parola buona vale più d'ogni dono prezioso".
[15] Si occupi solo di tutto ciò che l'abate gli
avrà imposto: nelle cose invece da cui l'abate l'avrà escluso,
non ardisca d'ingerirsi.
[16] La porzione assegnata per il vitto la dia ai fratelli senza
arroganza né indugio, perché non si scandalizzino: ricordi che cosa meriti,
secondo la divina parola, chi avrà scandalizzato uno dei piccoli.
[17] Se la comunità è numerosa, gli si concedano
degli aiuti; coadiuvato da loro, potrà anche lui tranquillamente
compiere ciò che gli è stato assegnato.
[18] Le cose che devono darsi e chiedersi, si diano e si chiedano
al tempo conveniente, [19] perché nella Casa di Dio nessuno si turbi o si
rattristi.
[1] Quanto al patrimonio del monastero in arnesi o vesti o
qualunque altro oggetto, l'abate si procuri dei fratelli che gli diano
affidamento per la loro vita e i loro costumi, [2] e consegni a ciascuno le
cose che egli crederà meglio, perché le custodiscano e le raccolgano.
[3] Di esse l'abate conservi un inventario, affinché, quando i fratelli si
avvicendano l'un l'altro negli uffici, egli sappia che cosa dà e che
cosa riceve.
[4] Se qualcuno poi tratterà con poca pulizia o con
negligenza le cose del monastero, venga ripreso. [5] Se non si emenderà,
sia sottoposto alla punizione regolare.
[1] Nel monastero bisogna soprattutto strappare fin dalle radici
questo vizio: [2] nessuno ardisca dare o ricevere qualcosa senza licenza
dell'abate, [3] né avere alcunché di proprio, assolutamente nulla: né libro, né
tavolette, né stilo, proprio niente insomma; [4] perché i monaci non sono ormai
più padroni del loro corpo né della loro volontà.
[5] Invece tutte le cose necessarie devono sperarle dal padre del
monastero. Né sia lecito avere alcuna cosa che l'abate non abbia data o
permessa. [6] Tutto sia comune a tutti, com'è scritto; e nessuno
dica o consideri qualche cosa come sua.
[7] E se si scoprirà che qualcuno è incline a questo
tristissimo vizio, sia ripreso una prima ed una seconda volta; [8] se non si
emenderà, soggiaccia al castigo.
[1] Come è scritto: "Si distribuiva a ciascuno
secondo il proprio bisogno". [2] Con ciò non vogliamo dire che
si facciano - non sia mai - preferenze personali, ma che si tenga conto delle
infermità; [3] sicché chi ha meno necessità, renda grazie a Dio e
non stia di malumore; [4] chi invece è più bisognoso, si umilii
per la sua infermità, e non s'insuperbisca per le attenzioni che riceve:
[5] e così tutte le membra saranno in pace. [6] Soprattutto vogliamo che
non si manifesti per qualunque ragione né in qualunque parola o altra
espressione il vizio della mormorazione. [7] E se qualcuno sarà colto in
esso, soggiaccia a
[1] I fratelli si servano l'un l'altro, sicché nessuno sia dispensato
dall'ufficio della cucina, se non perché infermo ovvero occupato in affare di
grande utilità, [2] giacché con ciò si guadagna una maggiore
ricompensa e un maggior merito di carità.
[3] Ai deboli poi si procurino degli aiuti, perché non compiano il
lavoro di malanimo, [4] ma abbiano tutti degli aiuti secondo le esigenze della
comunità e le condizioni del luogo. [5] Se la comunità è
numerosa, sia dispensato dal servizio della cucina il cellerario e quelli che
siano occupati, come abbiamo detto, in uffici di maggiore utilità; [6]
gli altri si prestino a vicenda il servizio in spirito di carità.
[7] Chi sta per uscire dalla sua settimana, il sabato faccia le
pulizie. [8] Lavino i panni con cui i fratelli si asciugano le mani e i piedi;
[9] i piedi poi li lavino a tutti tanto chi esce quanto chi entra. [10] Chi
esce restituisca puliti e in buono stato gli utensili del proprio ufficio al
cellerario, [11] il quale a sua volta li consegnerà al fratello che
entra, per sapere ciò che dà e ciò che riceve.
[12] I settimanari poi un'ora prima della refezione prendano in
più, sulla porzione stabilita, un bicchiere di vino per ciascuno e un
po' di pane, [13] perché all'ora del pasto servano ai loro fratelli senza
lagnanze né grave fatica; [14] nei giorni solenni però aspettino sino
alla comunione della Messa.
[15] Sia i settimanari che entrano, sia quelli che escono, la
domenica nell'oratorio, subito dopo la fine delle Lodi, si prostrino ai
ginocchi di tutti, chiedendo che si preghi per loro. [16] Chi esce di settimana
dica questo verso: "Sii benedetto, Signore Iddio, che mi hai aiutato e
consolato", [7] e quando esso è stato detto tre volte e chi
esce ha ricevuto la benedizione, gli succeda chi entra e dica: "O Dio,
volgiti in mio soccorso; Signore, affrettati ad aiutarmi", [18] e ripetuto
anche questo verso da tutti tre volte, egli riceva la benedizione ed entri nel
suo ufficio.
[1] Degl'infermi si deve aver cura prima di tutto e a preferenza
d'ogni altra cosa, sicché davvero si serva a loro come a Cristo in persona: [2]
infatti Egli disse: "Fui infermo e mi visitaste"; [3] ed
anche: "Quel che avete fatto ad uno di questi piccoli, l'avete fatto a
me".
[4] Gl'infermi dal canto loro riflettano che si serve ad essi per
onorare Dio, e non molestino con troppe esigenze i fratelli che li assistono;
[5] d'altra parte però devono esser tollerati con pazienza, perché per
tali malati si guadagna una più larga mercede.
[6] Quindi l'abate curi con somma attenzione che non abbiano a
soffrire qualche negligenza.
[7] Per i fratelli infermi ci sia un locale distinto destinato a
questo scopo, e un infermiere timorato di Dio, diligente e premuroso.
[8] L'uso dei bagni si offra ai malati ogni volta che è
necessario; ai sani invece e specialmente ai giovani si permetta più di
rado. [9] Agl'infermi molto deboli si conceda di mangiar carne per ristorare le
forze; ma appena si siano ristabiliti, si astengano tutti al solito dalle
carni.
[10] Solertissima cura abbia l'abate che il cellerario o gli
assistenti non trascurino i malati: e cade a sua responsabilità ogni
mancanza che commettono i discepoli.
[1] Benché la stessa natura umana sia portata a compassione verso
queste due età, cioè dei vecchi e dei fanciulli, pure è
bene che intervenga per loro anche l'autorità della Regola. [2] Si tenga
sempre conto della loro debolezza, e non si applichi affatto per essi la
severità della Regola riguardo agli alimenti; [3] siano piuttosto
oggetto di un'amorevole indulgenza e anticipino sulle ore regolari della
refezione.
Del lettore di
settimana
[1] Alle mense dei fratelli non deve mancare la lettura. Né
avvenga che uno qualsiasi, a casaccio, afferri un libro e si metta a leggere a
refettorio, ma ci sia un lettore stabilito per tutta la settimana, il quale
entri al suo ufficio la domenica. [2] Egli, nell'entrare in ufficio, dopo la
Messa e la Comunione chieda a tutti che preghino per lui, perché Dio lo tenga
lontano dallo spirito di superbia; [3] e si dica nell'oratorio da tutti per tre
volte questo verso, cominciato dal lettore: "Signore aprirai le mie
labbra, e la mia bocca dirà la tua lode". [4] E così
ricevuta la benedizione, egli entri al suo servizio di lettore.
[5] Si osservi a tavola un perfetto silenzio, sicché non si oda
bisbiglio di alcuno, né altra voce se non quella del lettore. [6] Ciò
che poi è necessario per mangiare e bere, i fratelli se lo porgano a
vicenda, in modo che nessuno sia costretto a domandare alcunché. [7] Se
tuttavia di qualche cosa ci fosse bisogno, si chieda col leggero suono di un
oggetto qualunque piuttosto che con la parola. [8] Né ardisca alcuno fare
allora qualche interrogazione sul brano che si legge o su altri punti, per non
offrire occasione di parlare; [9] salvo che il superiore non voglia dire lui
brevemente qualche parola per edificazione.
[10] Il fratello lettore di settimana prenda un po' di vino prima
di cominciare a leggere, sia per la santa Comunione, sia perché non gli riesca
troppo gravoso sopportare il digiuno; [11] dopo mangi con i settimanari di
cucina e con i servitori di mensa.
[12] I fratelli poi non tutti leggano o cantino in ordine
d'anzianità, ma solo quelli che siano atti ad edificare gli uditori.
[1] Crediamo che per la refezione quotidiana sia di sesta che di
nona, avendo riguardo alle infermità dell'uno o dell'altro, bastino in
tutti i mesi due pietanze cotte: [2] sicché se qualcuno non ha potuto mangiare
della prima, si possa ristorare con l'altra. [3] Dunque due pietanze cotte
bastino a tutti i fratelli. E se sarà facile procurarsi frutta o teneri
legumi, se ne aggiunga una terza.
[4] Di pane sia sufficiente una libbra di buon peso al giorno, sia
quando vi è una sola refezione, sia quando vi è il pranzo e la
cena. [5] Quando si deve anche cenare, il cellerario ritenga un terzo di quella
libbra per distribuirlo a cena.
[6] Se per caso si fosse compiuto un lavoro più gravoso del
solito, l'abate avrà piena facoltà, se gli sembrerà
opportuno, di aggiungere ancora qualche cosa, [7] purché ad ogni modo si eviti
l'intemperanza, e il monaco non si lasci mai cogliere dall'ingordigia. [8]
Nulla infatti è così sconveniente ad ogni cristiano quanto
l'eccesso del cibo, [9] come dice il Signor nostro: "Siate attenti
perché i vostri cuori non siano aggravati dal soverchio cibo".
[10] Ai fanciulli poi più piccoli non si dia la medesima
quantità, ma inferiore a quella dei grandi, osservando in tutto la
sobrietà. [11] Quanto alle carni dei quadrupedi, tutti si astengano
assolutamente dal mangiarne, eccetto gl'infermi che siano molto deboli.
[1] "Ognuno ha il suo proprio dono da Dio; chi uno chi un
altro", [2] ed è per ciò che stabiliamo con una certa
perplessità la misura del vitto altrui.
[3] Nondimeno, avendo considerazione della debolezza dei
più bisognosi, crediamo che basti per ciascuno un'emina di vino al
giorno. [4] Quelli poi a cui Dio concede di sapersene astenere, siano convinti
che ne riceveranno una particolare ricompensa.
[5] Se poi la condizione del luogo o il lavoro speciale o il
calore dell'estate richiedesse un supplemento, il superiore abbia
facoltà di darlo, ma vigili attentamente perché nessuno giunga alla
sazietà o all'ubriachezza.
[6] Leggiamo, è vero, che il vino non è per i
monaci: ma poiché ai monaci dei tempi nostri ciò non si può fare
comprendere, conveniamo almeno in questo, di non bere fino alla sazietà,
ma moderatamente, [7] perché il vino fa traviare anche i saggi.
[8] Quando poi le condizioni del luogo sono tali che non si possa
trovare neppure la suddetta misura, ma se ne trovi molto di meno o addirittura
nulla, benedicano Dio i monaci che vi abitano, e non mormorino: [9] di questo
soprattutto li ammoniamo, che si tengano lontani da ogni mormorazione.
[1] Dalla santa Pasqua sino a Pentecoste i fratelli pranzino a
sesta e cenino la sera. [2] Da Pentecoste poi e per tutta l'estate, se i monaci
non hanno forti lavori campestri o l'eccessivo calore della stagione non
l'impedisce, il mercoledì e il venerdì digiunino sino a nona; [3]
negli altri giorni pranzino a sesta. [4] Ma se avranno lavori nei campi o se il
caldo dell'estate sarà soverchio, anche in quei due giorni il pranzo
sarà a sesta: e ciò sia rimesso al provvido giudizio dell'abate.
[5] Ed egli tutto moderi e disponga in modo che le anime si salvino, e quello
che i fratelli fanno, lo facciano senza fondato motivo di mormorazione.
[6] Dal 13 di settembre fino all'inizio della Quaresima prendano
il pasto sempre a nona.
[7] In Quaresima poi, fino a Pasqua, mangino all'ora di vespro. [8]
L'Ufficio di Vespro però si celebri a un'ora tale, per cui durante il
pasto non sia necessario il lume della lucerna, ma si compia tutto mentre
ancora è giorno. [9] Del resto anche in tutti gli altri tempi tanto
l'ora della cena quanto quella dell'unica refezione si regoli in modo, che
tutto si faccia con la luce del giorno.
[1] Sempre i monaci devono osservare con cura il silenzio, ma
soprattutto nelle ore notturne. [2] Perciò in ogni tempo, sia nei giorni
di digiuno che in quelli del doppio pasto, le cose si disporranno nel seguente
modo. [3] Se è un giorno di doppia refezione, appena si sono alzati da
cena, vadano tutti a sedersi insieme, ed uno legga le "Collazioni" o
le "Vite dei Padri" o altra opera che edifichi gli ascoltatori; [4]
ma non i primi sette libri della Bibbia o quelli dei Re, perché alle menti
deboli non sarebbe utile a quell'ora udire questi libri della Scrittura, che
però in altri tempi si devono leggere.
[5] Se poi è giorno di digiuno, celebrato il Vespro si
lasci un breve intervallo, e quindi vadano alla lettura in comune delle
"Collazioni", come si è detto; [6] si leggano quattro o cinque
fogli o quanto l'ora permette, [7] e durante quest'indugio della lettura tutti
si raccolgano insieme, anche quelli che si trovino occupati in qualche
incombenza del loro ufficio. [8] Radunati dunque così tutti insieme,
dicano Compieta; e quando ne escono, a nessuno sia più lecito di
proferire alcuna parola.
[9] Se si troverà qualcuno a trasgredire questa regola del
silenzio, sia sottoposto a grave castigo, [10] eccetto il caso che sia
sopraggiunta la necessità di trattare con ospiti o che l'abate abbia
comandato ad uno qualche cosa: [11] ma anche allora tutto si compia con somma
gravità e delicatissimo ritegno.
[1] Quando è l'ora del divino Ufficio, appena udito il
segno, si lasci subito qualunque cosa si abbia tra le mani e si corra con somma
sollecitudine, [2] ma sempre con gravità, perché non vi trovi incentivo
la leggerezza. [3] Dunque all'Opera di Dio non s'anteponga nulla.
[4] Se qualcuno all'Ufficio notturno giungerà dopo il
Gloria del salmo novantesimo quarto, che appunto per ciò vogliamo che si
canti molto posatamente e con lentezza, non stia in coro al posto suo, [5] ma
si fermi all'ultimo posto, o nel luogo appartato che l'abate avrà
stabilito per tali negligenti perché siano veduti da lui e da tutti, [6] ed ivi
rimanga fino al termine del divino Ufficio: allora darà soddisfazione
con una pubblica penitenza.
[7] Abbiamo ritenuto poi opportuno che essi restino in ultimo o in
disparte, perché vedendosi esposti allo sguardo di tutti, almeno per la stessa
vergogna si correggano. [8] A lasciarli infatti fuori dell'oratorio, ci
sarà forse qualcuno che ritorni a letto e si addormenti, oppure se ne
sieda fuori a suo bell'agio, o anche si dia a chiacchierare, prestando
così occasione al demonio. [9] Invece entrino dentro, perché non perdano
proprio tutto, e si emendino per l'avvenire.
[10] Nelle Ore del giorno, chi dopo il verso e il Gloria del
primo salmo che segue al verso non sia ancora giunto all'Opera di Dio, stia in
ultimo secondo la norma suddetta, [11] e non ardisca, fino a soddisfazione
compiuta, di associarsi al coro dei fratelli salmodianti, a meno che l'abate
per sua indulgenza non glielo permetta; [12] anche in tal caso però il
reo deve fare la soddisfazione della sua colpa.
[13] Alla mensa poi, chi non sia arrivato prima del verso, in modo
che tutti insieme dicano il verso e preghino, e tutti insieme pure si siedano a
mensa, [14] se la mancanza è dovuta a negligenza o cattiva
volontà, sia ripreso per questa colpa sino alla seconda volta. [15] Se
ancora non si corregge, sia escluso dalla partecipazione alla mensa comune,
[16] e appartato dal consorzio di tutti i fratelli mangi da solo, privato pure
della sua porzione di vino, finché non abbia soddisfatto e non si sia emendato.
[17] A simile pena soggiaccia chi non sia stato presente al verso
che si dice dopo il pasto.
[18] E nessuno ardisca prendere del cibo o della bevanda prima o
dopo dell'ora stabilita. [19] Chi poi rifiuta qualche cosa che il superiore gli
offre, quando desidererà ciò che prima ha ricusato od altro, non
riceva assolutamente nulla, finché non dia conveniente prova d'essersi
corretto.
[1] Colui che per gravi colpe è scomunicato dall'oratorio e
dalla mensa, quando il divino Ufficio nell'oratorio ha termine, se ne giaccia
prostrato avanti la porta dell'oratorio: non dica nulla, [2] ma solo stia
lì prosteso, col capo volto a terra, ai piedi di tutti i fratelli che
escono dall'oratorio. [3] E ciò continui a fare finché l'abate
giudicherà sufficiente la soddisfazione.
[4] Quando poi ne avrà avuto dall'abate l'invito, vada e si
getti ai suoi piedi, e quindi ai piedi di tutti, perché preghino per lui.
[5] E allora, se l'abate ne darà licenza, venga riammesso
in coro al suo posto o a quello che l'abate avrà stabilito, [6] sempre
però a condizione che non osi nell'oratorio a solo cantare né recitare
salmo o lezione o altro, se l'abate non gli dia un ulteriore permesso. [7] E in
tutte le Ore, quando l'Opera di Dio finisce, si prostri a terra nel posto
dov'è. [8] E così soddisfaccia finché l'abate ancora una volta
non gli ordini di cessare ormai da questa penitenza.
[9] Quelli poi che per colpe lievi sono scomunicati solo dalla
mensa, facciano la soddisfazione nell'oratorio fino al comando dell'abate, [10]
e la ripetano finché egli dia la benedizione e dica: Basta.
[1] Se qualcuno sbaglia nel recitare salmo, responsorio, antifona
o lezione, e non si umilia subito lì stesso col soddisfare dinanzi a
tutti, sia sottoposto a più grave punizione, [2] poiché non ha voluto
correggere con l'umiltà l'errore commesso per negligenza.
[3] I fanciulli poi per tale colpa siano battuti.
[1] Se qualcuno, mentre attende a un lavoro qualsiasi in cucina,
nella dispensa, nei servizi, nel molino, nell'orto, in qualche arte, o mentre
si trova in qualunque altro luogo commette un fallo, [2] o rompe o perde un oggetto,
o si rende in qualsiasi luogo reo di qualche mancanza, [3] e non viene subito
dinanzi all'abate o alla comunità a soddisfare da sé e a confessare la
sua colpa, [4] quando questa fosse conosciuta per mezzo di altri, venga
sottoposto a maggiore castigo.
[5] Se poi si tratterà di un morbo occulto nel segreto
della coscienza, si manifesti soltanto all'abate o ai seniori spirituali, [6]
che sappiano curare le piaghe proprie e le altrui, e non svelarle e renderle di
pubblico dominio.
[1] La cura d'annunziare l'ora per il divino Ufficio del giorno e
della notte l'abate deve o prenderla per sé o affidarla ad un fratello molto
attento, in modo che tutto si compia alle ore assegnate.
[2] I salmi poi e le antifone le cantino a solo dopo l'abate, per
ordine, quelli che ne hanno avuto l'incarico. [3] Cantare e leggere non ardisca
se non chi è atto a compiere tale ufficio in modo da edificare gli
uditori; [4] d'altra parte è questo un compito da eseguirsi con
umiltà e gravità e grande riverenza, e solo da chi ne abbia
ricevuto l'ordine dall'abate.
[1] L'ozio è nemico dell'anima; e quindi i fratelli devono
in alcune determinate ore occuparsi nel lavoro manuale, e in altre ore,
anch'esse ben fissate, nello studio delle cose divine.
[2] Perciò pensiamo di regolare i tempi dell'una e
dell'altra occupazione con l'ordinamento che segue.
[3] Da Pasqua fino al primo ottobre, la mattina da quando escono
da Prima sin quasi all'ora quarta si occupino nei vari lavori necessari; [4]
dalla quarta sino all'ora in cui celebreranno Sesta attendano allo studio.
[5] Dopo l'ora sesta poi, quando si sono alzati da tavola, si
riposino sui loro letti in perfetto silenzio; se qualcuno però
vorrà starsene a leggere da solo, legga pure per conto suo, ma in modo
da non disturbare gli altri. [6] E si celebri Nona un po' più presto,
verso la metà dell'ora ottava, e di nuovo vadano ai lavori assegnati,
fino a vespro. [7] Se poi le condizioni del luogo o la povertà
richiedono che gli stessi monaci si occupino nel raccogliere i frutti della
terra, non ne siano malcontenti, [8] perché allora sono veri monaci quando
vivono col lavoro delle loro mani, come i nostri padri e gli Apostoli. [9]
Tutto però si faccia con discrezione, tenendo conto dei più
deboli.
[10] Dal primo ottobre fino all'inizio della Quaresima, attendano
allo studio fino a tutta l'ora seconda; [11] finita questa, si celebri Terza, e
fino a Nona tutti si occupino nel lavoro ad essi prescritto.
[12] Appena poi si dà il primo segnale di Nona, ciascuno
smetta di lavorare; e si trovino tutti pronti quando suonerà il secondo
segno. [13] Dopo la refezione poi attendano alle loro letture o ai salmi.
[14] Nei giorni di Quaresima, dal mattino fino a tutta l'ora terza
si diano alle loro letture e poi fino a tutta l'ora decima si applichino al
lavoro ad essi imposto. [15] In questi giorni di Quaresima ciascuno riceva un
libro della biblioteca, e lo legga per ordine da capo a fondo. [16] Tali libri
devono essere consegnati al principio di Quaresima.
[17] Si pensi bene poi ad affidare ad uno o due seniori il compito
di girare per il monastero nelle ore in cui i fratelli attendono alla lettura,
[18] e di osservare se per caso non vi sia qualche fratello fannullone che si
dà all'ozio o alle chiacchiere e non si occupa nella lettura, sicché non
solo è inutile a sé stesso, ma disturba pure gli altri. [19] Se si
trovasse - non sia mai - un fratello simile, venga ripreso una prima e una
seconda volta; [20] se non si emenda, soggiaccia al castigo regolare in tal
misura che gli altri ne abbiano timore. [21] Né un fratello si accompagni a un
altro nelle ore non permesse.
[22] Anche la domenica si diano tutti alla lettura, eccetto quelli
che siano assegnati all'uno o all'altro ufficio. [23] Se poi qualcuno fosse
così negligente e svogliato da non volere o non potere studiare o
leggere, gli s'imponga qualche cosa da fare, perché non stia ozioso. [24] Ai
fratelli infermi o di delicata costituzione si assegni un lavoro o un'arte tale
che da una parte li mantenga occupati, e dall'altra non li opprima con la
soverchia fatica o non li induca ad andar via: [25] la loro debolezza
dev'essere dall'abate tenuta in considerazione.
[1] è vero che in ogni tempo la vita del monaco dovrebbe
avere il tenore di una vera Quaresima: [2] tuttavia, poiché tale virtù
è di pochi, raccomandiamo che in questi giorni di Quaresima si custodisca
la propria vita con somma purezza, [3] e insieme si cancellino, in questi
giorni santi, le negligenze degli altri tempi dell'anno. [4] Ora tutto
ciò si fa convenientemente, se ci asteniamo da ogni peccato e attendiamo
con impegno alla preghiera accompagnata dalle lacrime, alla lettura, alla
compunzione del cuore e all'astinenza.
[5] Perciò in questi giorni aggiungiamo qualche cosa
all'ordinario compito del nostro servizio, come speciali preghiere o astinenza
di cibo o di bevanda, [6] sicché ciascuno oltre alla misura impostagli offra
qualcosa a Dio spontaneamente col gaudio dello Spirito Santo: [7]
sottragga cioè al suo corpo un po' del cibo, della bevanda, del sonno,
della loquacità, della leggerezza, e con gioia di soprannaturale
desiderio aspetti la santa Pasqua. [8] Ciò però che ciascuno
vuole offrire, lo manifesti umilmente al suo abate, e lo faccia con la sua
preghiera ed approvazione, [9] perché quanto si fa senza permesso del padre
spirituale, sarà imputato a presunzione e a vanagloria, non a mercede.
[10] Tutto quindi deve compiersi con il consenso dell'abate.
[1] I fratelli che sono assai lontano al lavoro e non possono
all'ora assegnata accorrere all'oratorio, [2] se l'abate riconosce che la cosa
è veramente così, [3] recitino il divino Ufficio sul luogo stesso
dove lavorano, piegando le ginocchia con somma riverenza a Dio.
[4] Similmente quelli che sono mandati in viaggio non lascino
passare le ore stabilite per l'Ufficio, ma lo recitino per conto loro come
meglio possono e non trascurino di soddisfare il debito del loro servizio.
[1] Un fratello che sia inviato fuori per qualche affare con la
previsione che possa tornare al monastero in quel medesimo giorno, non ardisca
di mangiare fuori, anche se qualcuno, chiunque sia, lo invitasse con
insistenza; [2] salvo il caso che l'abate ne abbia dato il permesso. [3] Chi
agirà diversamente, sia scomunicato.
[1] L'oratorio sia ciò che dice il suo nome; e in esso non
si faccia né si riponga niente di estraneo.
[2] Cessato il divino Ufficio, tutti escano in sommo silenzio, e
si abbia gran rispetto a Dio, [3] sicché il fratello che voglia rimanersene a
pregare per conto suo non sia impedito dall'importunità altrui. [4] Ma
anche se in altri momenti uno desidera pregare in segreto per proprio conto,
semplicemente entri e preghi, e non a voce alta, ma con le lacrime ed il
fervore interno. [5] Perciò chi non attende all'orazione, quando
è finito il divino Ufficio non si creda lecito, come abbiamo detto, di
indugiarsi nell'oratorio, perché altri non ne soffrano molestia.
[1] Tutti gli ospiti che sopraggiungano, siano ricevuti come
Cristo, perché Egli dirà: "Fui ospite e mi accoglieste";
[2] e a tutti si renda il conveniente onore, specialmente poi a quanti ci sono familiari
secondo la fede, ed ai pellegrini.
[3] Appena dunque è stato annunziato un ospite, il
superiore o i fratelli gli vadano incontro con ogni dimostrazione di
carità; [4] ma prima preghino insieme, e solo allora si accomunino a lui
nella pace.
[5] Tale bacio di pace appunto non dev'essere offerto se non dopo
che si è pregato, ad evitare le illusioni diaboliche. [6] Perfino nel
modo di salutare si mostri somma umiltà a tutti gli ospiti che giungono
o partono: [7] inchinato il capo o prostrato tutto il corpo a terra, si adori
in essi Cristo che viene accolto.
[8] Ricevuti dunque gli ospiti, siano condotti all'orazione, e
dopo si sieda con loro il superiore o un fratello da lui incaricato. [9] Si
legga dinanzi all'ospite la Legge divina per edificarlo, e poi gli si offra
ogni segno di premurosa benevolenza.
[10] Il superiore per riguardo all'ospite rompa pure il digiuno,
purché non si tratti d'uno speciale giorno di digiuno che non possa esser
violato; [11] i fratelli invece seguano i consueti digiuni.
[12] L'acqua alle mani la versi agli ospiti l'abate; [13] i piedi
a tutti gli ospiti li lavino sia l'abate che tutta la comunità, [14] e
finita la lavanda dicano questo verso: "Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua
misericordia nel mezzo del tuo tempio".
[15] I poveri e i pellegrini siano accolti con particolari cure ed
attenzioni, perché specialmente in loro si riceve Cristo, mentre ai ricchi si
porta rispetto per la stessa soggezione che incutono.
[16] La cucina dell'abate e degli ospiti sia a parte, di modo che
in qualunque ora vengano all'improvviso gli ospiti, che nel monastero non
mancano mai, i fratelli non ne siano disturbati. [17] A prestare servizio in
questa cucina entrino per tutto un anno due fratelli ben adatti a tale compito.
[18] A loro, secondo che ne abbiano bisogno, si procurino degli aiuti, perché
servano senza mormorare; quando invece mancano di lavoro, vadano ad occuparsi
dove viene loro comandato. [19] E non solo per essi, ma anche per tutti gli
ufficiali del monastero sia questa la norma, [20] che quando hanno bisogno di
aiuti, ne vengano provvisti, e quando invece sono liberi, si occupino dove
vuole l'obbedienza.
[21] Similmente la foresteria sia affidata ad un fratello che
abbia l'anima posseduta dal timore di Dio; [22] in essa vi sia un numero
sufficiente di letti arredati, e la casa di Dio sia amministrata da saggi e
saggiamente.
[23] Nessuno poi, se non ne ha ricevuto l'incombenza, si
accompagni o parli con gli ospiti; [24] ma se li incontra o li vede, li saluti
umilmente, come abbiamo detto, e chiesta la benedizione passi oltre, dicendo
che non gli è permesso di parlare con l'ospite.
[1] Non sia affatto permesso al monaco, senza il consenso del suo
abate, di ricevere dai suoi parenti o da alcun'altra persona, né di dar loro,
né di scambiare con gli altri fratelli lettere, o pii regali, o qualsiasi
piccolo dono. [2] Se anche dai suoi parenti gli fosse mandata qualche cosa, non
ardisca di accettarla senza averne prima avvisato l'abate.
[3] E l'abate, anche se consentirà che si riceva,
avrà libera facoltà di consegnarla a chi vuole; [4] né
perciò si rattristi il fratello a cui la cosa era stata inviata, perché
non si presti occasione al demonio.
[5] Chi poi oserà fare altrimenti, sia sottoposto alla
disciplina regolare.
[1] Le vesti si diano ai fratelli secondo le condizioni e il clima
dei luoghi dove abitano, [2] perché nelle regioni fredde se ne ha più
bisogno, nelle calde meno. [3] Giudicare di questo spetta dunque all'abate. [4]
Noi tuttavia, per i luoghi temperati, riteniamo che bastino per ciascun monaco
la tunica, la cocolla [5] (una pelosa per l'inverno, ed una liscia o già
vecchia per l'estate), [6] lo scapolare per il lavoro, le calze e le scarpe per
ricoprire i piedi.
[7] Del colore o della qualità di tutti questi indumenti i monaci
non facciano questione, ma si contentino di quelli che possono trovarsi nella
regione dove abitano e di ciò che può comprarsi a minor prezzo.
[8] Quanto però alla misura, l'abate provveda che le vesti non siano
corte per quelli che devono usarle, ma di giusto taglio.
[9] Nel ricevere vesti nuove restituiscano lì per lì
le vecchie, da riporre nella guardaroba per i poveri. [10] Basta infatti al
monaco avere due tuniche e due cocolle, perché si possano cambiare la notte e
si abbia l'agio di lavarle; [11] quel che è in più, è
già superfluo: e deve eliminarsi. [12] Anche le calze ed ogni oggetto
usato lo restituiscano quando ricevono il nuovo. [13] Quelli che sono mandati
in viaggio abbiano i femorali dalla guardaroba, ed ivi pure, al ritorno, li
riportino lavati. [14] Anche le cocolle e le tuniche per il viaggio siano
alquanto migliori di quelle che hanno usualmente; nell'uscire per il viaggio le
prendano dal vestiario e al ritorno le restituiscano.
[15] Come arredamento del letto siano sufficienti il pagliericcio,
la coperta leggera, quella pesante, e il guanciale.
[16] I letti poi devono essere sovente ispezionati dall'abate,
chissà non vi si trovi qualcosa di proprietà privata. [17] E se a
qualcuno si scoprirà una cosa che non abbia ricevuta dall'abate, gli si
applichi una gravissima punizione. [18] E perché questo vizio della
proprietà sia strappato fin dalle radici, l'abate dia tutto ciò
che è necessario, [19] cioè la cocolla, la tunica, le calze, le
scarpe, la cintura, il pugnale, lo stilo, l'ago, il fazzoletto, le tavolette,
in modo da togliere ogni pretesto di bisogno. [20] L'abate però abbia
sempre presente quella sentenza degli Atti degli Apostoli, che si dava a
ciascuno secondo le sue necessita (At. [4], [35] ). [21] Allo stesso modo
dunque anche lui tenga conto delle necessità dei bisognosi, non della
cattiva volontà degl'invidiosi; [22] nondimeno in tutte le sue decisioni
si ricordi del giudizio di Dio.
[1] La mensa dell'abate sia sempre con gli ospiti e con i
pellegrini. [2] Quando poi ci sono pochi ospiti, egli può chiamarvi i
fratelli che vuole. [3] Ma uno o due seniori bisogna sempre lasciarli con i
fratelli per la disciplina.
[1] Se nel monastero vi sono fratelli esperti in qualche arte, la
esercitino pure, ma con tutta umiltà e solo con il consenso dell'abate.
[2] Se però qualcuno di loro s'insuperbisce per la perizia che ha nell'arte
sua, perché crede di portare un utile al monastero, [3] costui sia tolto
dall'esercizio di quell'arte e non vi sia più ammesso, salvo che non si
umilii e l'abate non glielo permetta di nuovo.
[4] Se poi qualche prodotto del lavoro di tali artigiani si debba
vendere, quelli che hanno l'incombenza di trattare la cosa siano cauti a non
commettere alcuna frode: [5] si ricordino sempre di Anania e Safira, perché la
morte che questi subirono nel corpo, [6] essi e tutti quelli che avranno
defraudato le sostanze del monastero non abbiano a soffrirla nell'anima.
[7] Negli stessi prezzi poi non s'insinui il vizio della
cupidigia, [8] ma si venda sempre a prezzi un po' inferiori a quelli correnti
fra i secolari, [9] perché in tutto sia glorificato Dio.
[1] Quando un nuovo aspirante viene alla vita monastica, non lo si
ammetta tanto facilmente; [2] ma, come dice l'Apostolo, "provate gli
spiriti, se siano secondo Dio". [3] Se dunque chi è venuto persevererà
a picchiare, e dopo quattro o cinque giorni si vedrà che ha saputo
tollerare con pazienza le ingiurie inflittegli e la difficoltà
dell'ingresso, e che persiste ancora nella sua domanda, [4] gli si conceda
d'entrare, e stia per pochi giorni nella foresteria.
[5] Dopo invece dimori nel locale dei novizi, dove essi si
esercitino, mangino e dormano. [6] E venga destinato a loro un anziano che sia
adatto a guadagnare anime; ed egli li scruti con somma attenzione. [7] Si
preoccupi di osservare se il novizio cerchi davvero Dio, se sia fervoroso per
l'Opera di Dio, per l'obbedienza, per la tolleranza delle umiliazioni.
[8] Gli si prospetti tutto ciò che di duro e di penoso ha
la strada che conduce a Dio. [9] Se prometterà d'essere perseverante
nella sua stabilità, dopo che sono passati due mesi gli si legga per
ordine questa Regola, [10] e gli si dica: Ecco la legge sotto la quale vuol
militare; se puoi osservarla, entra, se non puoi, va' pure via liberamente.
[11] Se ancora persisterà, venga condotto nel suddetto
locale del noviziato e di nuovo sia provato in ogni esercizio di pazienza. [12]
Dopo il corso di sei mesi gli si legga la Regola, perché sappia quale vita
intende abbracciare. [13] E se ancora sta fermo, dopo quattro mesi gli si rilegga
ancora una volta la medesima Regola.
[14] Se poi dopo matura riflessione prometterà di esser
fedele in tutto e di eseguire ogni prescrizione, allora sia accolto nella
comunità; [15] ma sappia bene che anche l'autorità della Regola
stabilisce che non gli è ormai più lecito da quel giorno uscire
dal monastero, [16] né scuotere il collo da quel giogo della Regola, che
sì lunga ponderazione ebbe libertà di declinare o di accettare.
[17] Il novizio che dev'essere ammesso prometta nell'oratorio alla
presenza di tutti la sua stabilità, la conversione dei suoi costumi e
l'obbedienza, [18] dinanzi a Dio e ai suoi Santi, perché, se dovesse un giorno
far diversamente, sappia che ne sarà condannato da Colui del quale si
burla.
[19] Di tale promessa rediga una carta di petizione nel nome dei
Santi di cui si conservano lì le reliquie, e dell'abate presente. [20]
Questa carta la scriva lui di sua mano, oppure, se egli è ignaro di
lettere, la scriva a sua richiesta un altro, e quel novizio vi apponga un
segno; di sua mano poi la collochi sull'altare. [21] Quando ve l'ha posta, il
novizio cominci subito a cantare questo verso: "Accoglimi, Signore,
secondo la tua parola, e vivrò: e non mi lasciar deluso nelle mie
speranze". [22] Tutta la comunità risponda al versetto per tre
volte e aggiunga infine il Gloria al Padre.
[23] Allora quel fratello novizio si prostri ai piedi di ciascuno,
perché preghino per lui, e da quel giorno sia ormai computato fra i membri
della comunità.
[24] Se ha delle sostanze, o le dispensi prima ai poveri, o le
passi al monastero con una donazione legale, non riservando per sé nulla di
tutti i suoi beni, [25] poiché sa che da quel giorno egli non sarà
più padrone neppure del proprio corpo.
[26] Subito dopo dunque sia spogliato nell'oratorio degli abiti
propri che indossa e sia vestito di quelli del monastero. [27] Quelle vesti
però che ha smesse, siano riposte nel guardaroba per esservi conservate,
[28] in modo che, se un giorno dovesse - non sia mai - acconsentire al diavolo
e uscire dal monastero, venga svestito della roba del monastero e mandato via.
[29] Quella sua carta però che l'abate prese dall'altare, non gli si
restituisca, ma rimanga custodita nel monastero.
[1] Se mai qualche ricco offre il figlio a Dio nel monastero, e il
fanciullo è ancora minorenne, i genitori stendano la petizione suddetta,
[2] e con l'oblazione della Messa avvolgano la carta della petizione e la mano
del fanciullo nella tovaglia dell'altare, e così lo offrano.
[3] Dei loro beni poi in quella carta promettano sotto giuramento,
che né da sé, né per interposta persona, né in qualunque altro modo gli daranno
mai alcuna cosa, né gli presteranno mai occasione di averla; [4] oppure, se non
vogliono far ciò e desiderano per compenso offrire qualcosa al monastero
in elemosina, [5] facciano regolare donazione al monastero dei beni che
intendono dare, riservandosene, se così preferiscono, l'usufrutto. [6] E
tutte le vie siano precluse in tal modo, che al fanciullo non rimanga nessun
appiglio di illusione per cui possa - non sia mai - ingannarsi e perire:
ciò che abbiamo appreso per esperienza.
[7] Allo stesso modo procedano quelli di condizione meno agiata.
[8] Coloro poi che non possiedano affatto nulla, stendano semplicemente la
petizione e con l'oblazione del Sacrificio offrano il loro figlio dinanzi a
testimoni.
[1] Se qualcuno dell'ordine sacerdotale domanda di esser ricevuto
nel monastero, non gli si acconsenta troppo presto. [2] Tuttavia se persevera
con insistenza in tale richiesta, sappia che egli dovrà osservare tutta
la disciplina della Regola; [3] né alcun punto di essa verrà mitigato a suo
favore, sicché gli si potrà dire come sta scritto: "Amico, a
qual fine sei venuto?".
[4] Gli si conceda nondimeno di prendere posto dopo l'abate, di
benedire e di celebrare la Messa, purché l'abate glielo comandi, [5] altrimenti
non pretenda in alcun modo nulla, convinto di essere soggetto alla disciplina
regolare; anzi a tutti offra esempi di umiltà.
[6] E se occorrerà nel monastero la nomina ad un ufficio o
qualche altro grave affare, [7] egli sia considerato secondo il posto che gli
spetta per anzianità d'ingresso nel monastero, non secondo quello che
gli è stato concesso per riverenza al sacerdozio.
[8] Se poi qualche chierico, spinto dallo stesse desiderio,
vorrà essere aggregato al monastero, sia collocato in un posto
intermedio, [9] ma anche lui a condizione che prometta l'osservanza della
Regola e la propria stabilità.
[1] Se un monaco pellegrino, sopraggiunto da lontane regioni,
vuole abitare come ospite nel monastero [2] ed è contento del tenore di
vita che trova nel luogo e non turba con le sue pretese la comunità, [3]
ma si contenta con semplicità di ciò che trova, sia pure ricevuto
per quanto tempo desidera. [4] Anzi, se egli ragionevolmente e con umile
carità biasima o suggerisce qualche cosa, l'abate esamini prudentemente
se il Signore non lo abbia inviato proprio a questo fine.
[5] Se poi dopo vorrà stabilirsi definitivamente nel
monastero, non si respinga questo suo desiderio, tanto più che nel tempo
in cui vi ha dimorato si è potuta ben conoscere la sua vita.
[6] Se però mentre è stato ospite si è
dimostrato troppo esigente o vizioso, non solo non deve venire aggregato al
corpo della comunità, [7] ma dev'essere anche con bel garbo invitato a
partirsene, perché dalla sua miseria non soffrano contagio pure gli altri.
[8] Se invece non è tale da meritare l'espulsione, non solo
lo si accolga in comunità se egli ne fa richiesta, [9] ma anche lo si
persuada a rimanere, affinché gli altri imparino dal suo esempio: [10] del
resto in ogni luogo si serve al medesimo Signore e si milita per il medesimo
Re.
[11] Anzi, se l'abate s'accorgerà che ne sia meritevole,
potrà pure collocarlo ad un posto alquanto più elevato. [12] E
non solo ad un monaco, ma anche ad uno che venga dai suddetti gradi dei
sacerdoti o dei chierici, l'abate può assegnare un posto superiore a
quello dovuto per l'ingresso nel monastero, se ha notato che la loro condotta
lo merita.
[13] Badi bene però l'abate a non ammettere mai nella
propria comunità un monaco d'un altro noto monastero senza il consenso o
le lettere commendatizie del suo abate, [14] perché è scritto: "Ciò
che non vuoi fatto a te, non farlo ad altri".
[1] Se un abate vorrà che un monaco gli venga ordinato
sacerdote o diacono, scelga tra i suoi chi sia degno di esercitare l'ufficio
sacerdotale.
[2] L'ordinato poi si guardi dalla vanagloria e dalla superbia,
[3] e non ardisca far nulla fuori di ciò che l'abate gli comanda, ricordandosi
di dover essere più degli altri sottomesso alla disciplina regolare.
[4] Né col pretesto del suo sacerdozio dimentichi l'obbedienza
alla Regola e la disciplina, ma anzi progredisca sempre più nelle vie di
Dio.
[5] Conservi sempre il posto che gli spetta secondo il suo
ingresso in monastero [6] eccetto che per le funzioni dell'altare, e salvo il
caso che il voto della comunità e la volontà dell'abate non lo
abbiano promosso per il merito della sua vita. [7] Ma anche allora sappia che
gli tocca osservare la disciplina stabilita riguardo ai decani ed ai priori.
[8] Se oserà agire diversamente, sia considerato non
sacerdote ma ribelle. [9] E se, avvertito più volte, non si
correggerà, si chiami anche il vescovo a testimone. [10] Se poi non si
emenderà neppure così e le sue colpe diverranno sempre più
manifeste, venga espulso dal monastero, [11] purché però sia stato
così ostinato da non volere sottomettersi ed obbedire alla Regola.
[1] Tutti nel monastero conservino i loro posti secondo la
distinzione determinata dal tempo d'ingresso, o dal merito della condotta, o
dalla volontà dell'abate. [2] L'abate però non scompigli il
gregge che gli è stato affidato, né comandi alcuna cosa ingiustamente quasi
facendo uso d'un potere dispotico; [3] ma pensi sempre che di tutti i suoi
giudizi ed azioni dovrà rendere conto a Dio.
[4] Dunque secondo i posti che stabilirà lui o che i
fratelli avranno da sé, così si seguano nell'andare al bacio di pace e
alla Comunione, nel cantare i salmi, nello stare in coro; [5] e in tutti i
luoghi l'età non dev'essere criterio di distinzione né di preferenza per
i posti, [6] perché Samuele e Daniele ancora fanciulli furono giudici degli
anziani. [7] Perciò, eccetto quelli che, come abbiamo detto, per ragioni
superiori e per fondati motivi l'abate avrà preposti o degradati, tutti
gli altri abbiano il posto secondo il tempo in cui sono entrati: [8] sicché,
per esempio, chi è venuto in monastero alla seconda ora del giorno deve
ritenersi più giovane di chi è venuto alla prima ora, qualunque
sia la sua età o il suo grado sociale. [9] Per i fanciulli però
in tutto e da tutti si conservi la disciplina.
[10] I più giovani onorino dunque quelli che sono
più anziani di loro, gli anziani amino i più giovani. [11] Nello
stesso chiamarsi a nome, nessuno si permetta di chiamare un altro col semplice
nome, [12] ma gli anziani diano ai giovani l'appellativo di
"fratelli", e i più giovani usino per gli anziani il nome di
"nonni", che significa "Paterna Riverenza".
[13] L'abate poi, giacché si sa per fede che fa le veci di Cristo,
sia chiamato "signore" e "abate", non per presunzione sua,
ma per onore ed amore di Cristo. [14] Dal canto suo egli pensi alla sua
dignità, e si dimostri meritevole di tale onore.
[15] Dovunque i fratelli s'incontrano, il più giovane
chieda la benedizione al più anziano; [16] quando passa un anziano; il
più giovane si alzi e gli offra da sedere; né ardisca di sedersi con lui
se l'anziano non glielo permetta, [17] perché si avveri ciò che è
scritto: "Prevenitevi a vicenda nel rendervi onore".
[18] I fanciulli piccoli e gli adolescenti nell'oratorio e a mensa
conservino secondo la disciplina i loro posti; [19] fuori invece e in qualunque
altro luogo stiano sotto custodia e disciplina, finché non giungano
all'età della discrezione.
[1] Nell'elezione dell'abate si segua il criterio di costituire in
tale ufficio colui che sia stato scelto da tutta la comunità
concordemente secondo il timore di Dio, o anche solo da una parte di essa, sia
pure piccola, ma con più savio consiglio. [2] Chi poi dev'essere
costituito abate sia scelto in base alla dignità della vita e alla
scienza delle cose spirituali, anche se fosse l'ultimo nell'ordine della
comunità.
[3] Se invece i monaci anche tutti d'accordo eleggessero - non sia
mai - una persona che consentisse ai loro vizi, [4] e tali vizi venissero per
qualunque via a sicura conoscenza del vescovo alla cui diocesi quel luogo
appartiene, o degli abati o dei cristiani vicini, [5] essi impediscano che
prevalga il concorde volere dei cattivi e stabiliscano un degno amministratore
alla casa di Dio: [6] sapendo che ne riceveranno copiosa mercede, se lo faranno
con rettitudine d'intenzione e per zelo dell'onore di Dio, mentre al contrario
commetterebbero una colpa se non se ne curassero.
[7] Chi poi è stato costituito abate, pensi sempre qual
peso s'è addossato e a chi dovrà rendere conto della sua
gestione. [8] Sappia che è suo dovere più il giovare che il
comandare. [9] Bisogna dunque ch'egli sia versato nella conoscenza, della legge
divina, perché abbia la perizia e la materia per trarre insegnamenti nuovi e
antichi; sia casto, sobrio, indulgente [10] e sempre faccia prevalere la
misericordia sulla giustizia, per meritare anche lui lo stesso. [11] Odii i
vizi, ami i fratelli.
[12] Anche nel punire agisca con prudenza, e sia attento a non
eccedere, perché non avvenga che mentre vuol troppo raschiare la ruggine, si
rompa il vaso: [13] consideri sempre con diffidenza la sua fragilità e
ricordi che la canna percossa non bisogna spezzarla. [14] Con ciò non
intendiamo dire che permetta il fomentarsi dei vizi, ma che deve stroncarli con
prudenza e carità, secondo che gli parrà più conveniente
per ciascuno, come già dicemmo; [15] e si sforzi d'essere amato
piuttosto che temuto.
[16] Non sia turbolento ed agitato, non sia petulante ed ostinato,
non geloso e troppo sospettoso, perché non avrebbe mai pace; [17] negli stessi
suoi comandi sia previdente ed assennato, e tanto se la cosa ch'egli impone
è d'indole spirituale, quanto se riguarda gli affari temporali, egli
proceda con discernimento e moderazione, [18] tenendo presente la discrezione
del santo patriarca Giacobbe che diceva: "Se i miei greggi li
farò stancare troppo a camminare, mi morranno tutti in un solo giorno".
[19] Seguendo dunque questi ed altri ammaestramenti della
discrezione, la quale è madre delle virtù, regoli tutto in modo
che i forti abbiano di che esser bramosi e i deboli d'altra parte non si
sgomentino.
[20] E soprattutto serbi intatta in ogni punto la presente Regola,
[21] perché, dopo aver bene amministrato, possa udire dal Signore ciò
che udì il buon servo che aveva dispensato il frumento ai suoi compagni
nel tempo opportuno. [22] "In verità vi dico (egli afferma),
gli diede potere sopra tutti i suoi beni".
[1] Spesso purtroppo accade che per la nomina del priore sorgano
nei monasteri gravi scandali, [2] perché ci sono alcuni che, gonfi del maligno
spirito della superbia, pensano di essere altrettanti abati, e arrogandosi
un'autorità assoluta, nutrono scandali e provocano dissensi nelle
comunità, [3] specialmente in quei luoghi dove dal medesimo vescovo o da
quei medesimi abati che stabiliscono in carica l'abate, viene stabilito anche
il priore.
[4] Quanto ciò sia irragionevole è facile
comprenderlo, poiché fin dal principio stesso del suo ufficio gli viene offerta
materia per insuperbirsi; [5] i suoi pensieri infatti gli suggeriranno che egli
è indipendente dall'autorità abbaziale: [6] perché anche tu sei
stato stabilito in carica da quelli stessi che hanno stabilito l'abate.
[7] Da qui ecco nascere invidie, liti, detrazioni,
rivalità, dissensi, disordini; [8] sicché, mentre l'abate e il priore
discordano l'uno dall'altro, le loro stesse anime necessariamente vengono per
tale scissione a trovarsi in pericolo, [9] e i loro sudditi, parteggiando per
l'uno o per l'altro, vanno in perdizione. [10] Situazione disastrosa, la cui
responsabilità risale, come a fonte, a quelli che provocarono un tale
disordine.
[11] Perciò noi abbiamo giudicato necessario, per la
conservazione della pace e della carità, che dalla volontà
dell'abate dipenda tutta l'organizzazione del suo monastero. [12] E se è
possibile, tutte le esigenze del cenobio vengano regolate, come sopra
disponemmo, per mezzo di decani, secondo che avrà prescritto l'abate,
[13] perché, ripartendosi il compito tra più persone, uno da solo non
s'insuperbisca.
[14] Ma se o il luogo lo richiede, o la comunità
ragionevolmente ed umilmente lo domanda, e l'abate lo giudica conveniente, [15]
egli stesso scelga uno col consiglio di fratelli timorati di Dio, e se lo
costituisca lui nell'ufficio di priore.
[16] E il priore, dal canto suo, faccia con gran rispetto tutto
ciò che gli venga ingiunto dal suo abate, nulla operando contro la
volontà e le disposizioni di lui, [17] perché quanto più è
stato elevato sugli altri, tanto maggior sollecitudine deve mostrare
nell'osservare le prescrizioni della Regola.
[18] Se poi si vedrà che il priore è vizioso, o che
sedotto dalla vanagloria fa il superbo, o che si mostra apertamente spregiatore
della santa Regola, lo si avverta oralmente fino alla quarta volta. [9] Se non
si correggerà, gli si applichi la punizione della disciplina regolare.
[20] Ma se non si emenderà neppure così, allora sia deposto dal
suo grado di priore e gli venga sostituito un altro che ne sia degno. [21] E se
anche dopo non sarà quieto e obbediente nella comunità, sia pure
espulso dal monastero. [22] Pensi però l'abate che di tutti i suoi
giudizi dovrà rendere conto a Dio: non dovesse mai la fiamma
dell'invidia e della gelosia bruciargli l'anima!
[1] Alla porta del monastero si ponga un vecchio assennato, che
sappia ricevere e dare un'ambasciata, e trovi difficile, per la sua età
avanzata, l'andar vagando qua e là.
[2] Il portinaio dovrà avere la sua abitazione presso la
porta, perché quelli che arrivano trovino sempre presente chi possa dar loro
una risposta. [3] E appena qualcuno busserà o un povero chiamerà,
egli risponda: Deo gràtias, oppure: Bènedic; [4] e con tutta la
mansuetudine suggerita dal timore di Dio venga incontro alle sue richieste con
premura e fervore di carità.
[5] Se il portinaio ha bisogno d'aiuto, gli si dia un fratello
più giovane.
[6] Il monastero poi, se è possibile, dev'essere
organizzato in modo che tutte le cose necessarie, cioè l'acqua, il
molino, l'orto e le officine delle diverse arti si trovino dentro
l'àmbito del monastero [7] perché i monaci non abbiano alcuna
necessità di andar vagando fuori: ciò che non giova assolutamente
alle anime loro.
[8] Vogliamo poi che questa Regola si legga spesso in
comunità, perché nessun fratello possa addurre il pretesto di ignorarla.
[1] I monaci che devono esser mandati in viaggio, si raccomandino
alla preghiera di tutti i fratelli e dell'abate; [2] e sempre all'ultima
orazione dell'Ufficio divino si faccia memoria di tutti gli assenti.
[3] I fratelli poi che rientrano dal viaggio, il giorno stesso in
cui ritornano, a tutte le Ore canoniche quando finisce il divino Ufficio, si
prostrino a terra nell'oratorio [4] e chiedano a tutti che si preghi per loro,
a causa delle mancanze in cui siano potuti incorrere nel viaggio, vedendo o
ascoltando qualcosa di male o trattenendosi in discorsi oziosi.
[5] E nessuno ardisca riferire ad altri alcunché di ciò che
fuori del monastero abbia visto o udito, perché sarebbe un'ingente rovina. [6]
Se qualcuno l'osasse, sia sottoposto alla pena regolare.
[7] Così pure sia punito chi ardisse uscire dalla cinta del
monastero, o recarsi ad un luogo qualunque, o fare qualsiasi minima cosa senza
licenza dell'abate.
[1] Se ad un fratello viene ingiunto per caso qualcosa di
difficile o addirittura d'impossibile, accolga egualmente il comando del
superiore con tutta mansuetudine e spirito d'obbedienza. [2] Se però
vedesse che il peso del carico impostogli supera del tutto la misura delle sue
forze, con pazienza ed al momento opportuno faccia presenti al superiore le
ragioni della sua impossibilità, [3] senza atteggiamento di superbia o
di resistenza o di contraddizione.
[4] Ma se, dopo tale umile esposizione, il superiore
rimarrà fermo nel suo comando, sappia il suddito che gli conviene di fare
a quel modo, [5] e animato dalla carità, confidando nell'aiuto di Dio,
obbedisca.
[1] Bisogna del tutto evitare che nel monastero per qualunque
motivo l'uno ardisca difendere l'altro o quasi proteggerlo, [2] anche se
fossero congiunti da un qualsiasi legame di parentela. [3] Non osino i monaci
in alcun modo scendere a questo disordine, perché ne può nascere
gravissima occasione di scandali.
[4] Se qualcuno mancasse a questa prescrizione, sia punito molto
severamente.
[1] Si eviti nel monastero ogni occasione di azioni arbitrarie;
[2] perciò stabiliamo che a nessuno sia permesso di scomunicare o battere
qualche suo fratello, se non a chi ne abbia ricevuto l'autorità
dall'abate. [3] I trasgressori di questo precetto siano ripresi
dinanzi a tutti, perché anche gli altri ne concepiscano timore. [4] I
fanciulli però, fino all'età di quindici anni, siano tenuti in
disciplina e custoditi diligentemente da tutti; [5] ma si usi anche in
ciò somma moderazione e buon senso.
[6] Chi poi sui fratelli adulti si arrogasse in qualche modo un
simile potere senza facoltà dell'abate, oppure sugli stessi fanciulli
ardisse infierire senza discrezione, soggiaccia alla disciplina regolare, [7]
perché è scritto: "Ciò che non vuoi fatto a te, non farlo
ad altri".
[1] Non solo nei riguardi dell'abate devono tutti esercitare la
virtù dell'obbedienza, ma i fratelli devono anche obbedirsi l'un
l'altro, [2] convinti che per questa via dell'obbedienza andranno a Dio.
[3] Anteposto dunque il comando dell'abate o dei superiori da lui
costituiti, comando a cui non per mettiamo che si preferiscano quelli privati,
[4] nel resto tutti i fratelli più giovani obbediscano a quelli
più anziani di loro con somma carità e premurosa diligenza. [5]
Se qualcuno si mostra riluttante, sia punito.
[6] Se poi qualche fratello viene ripreso dall'abate o da
qualunque superiore per qualsiasi motivo anche minimo ed in qualsiasi modo, [7]
oppure s'accorge che l'animo di un superiore qualunque e adirato o anche
leggermente eccitato contro di lui, [8] subito si getti senza indugio a terra ai
piedi di lui, e rimanga così a dare soddisfazione, finché l'altro con la
sua benedizione non mostri di essersi calmato. [9] Chi per disprezzo
trascurasse di compiere un tale atto, sia sottoposto alla punizione corporale;
se poi fosse ostinato, venga espulso dal monastero.
[1] Come vi è un maligno zelo di amarezza che allontana da
Dio e conduce all'inferno, [2] così vi è uno zelo buono, che
allontana dai vizi e conduce a Dio ed alla vita eterna. [3] Ed è dunque
in questo zelo che i monaci devono esercitarsi con ardentissimo amore: [4] si
prevengano cioè l'un l'altro nel rendersi onore; [5] sopportino con
somma pazienza a vicenda le loro infermità fisiche e morali; [6] si
prestino a gara obbedienza reciproca; [7] nessuno cerchi l'utilità
propria, ma piuttosto l'altrui; [8] si voglia bene a tutti i fratelli con casta
dilezione; [9] temano Dio nell'amore; [10] amino il loro abate con sincera ed
umile carità; [11] nulla assolutamente antepongano a Cristo, [12] il
quale ci conduca tutti alla vita eterna.
[1] Questa Regola poi l'abbiamo abbozzata, affinché con l'osservarla
nei monasteri diamo prova in qualche modo di avere almeno dignità di
costumi e un certo avviamento di vita monastica.
[2] Ma per chi vuole procedere celermente verso la perfezione di
tale vita, vi sono i precetti dei santi Padri, che fedelmente praticati sono
ben atti a condurre l'uomo al culmine della virtù.
[3] Quale pagina infatti o quale parola d'autorità divina
del Vecchio e del Nuovo Testamento non è rettissima norma per la vita
umana? [4] O quale libro dei santi Padri cattolici non ci esorta consistenza a
correre per via diritta verso il nostro Creatore? [5] Così pure le
"Collazioni", le "Istituzioni" e le "Vite dei
Padri", e la Regola del nostro santo Padre Basilio, [6] che altro sono se
non strumenti di virtù per i monaci buoni ed obbedienti?
[7] Noi invece, svogliati, cattivi e negligenti, abbiamo di che
arrossire e confonderci.
[8] Chiunque pertanto tu sia che ti affretti alla patria celeste,
poni in pratica con l'aiuto di Cristo questa minima Regola per principianti
appena delineata; [9] e allora a quelle più alte vette di dottrina e di
virtù, che abbiamo sopra menzionate, potrai certo facilmente giungere
con la protezione di Dio.
Amen.