PRIVILEGIA NE IRROGANTO           di Mauro Novelli               BIBLIOTECA

 


 



SAN BENEDETTO.  Vita e opere

SAN BENEDETTO. La Regola

 


La vita e le opere di San Benedetto

Benedetto nacque nella piccola città di Norcia verso il 480 d.C., in un periodo storico difficile. Quattro anni prima (476) era formalmente finito l'Impero Romano d'occidente con la deposizione dell'ultimo imperatore Romolo Augustolo. Fu contemporaneo di Teodorico e ne vide fallire nel sangue l'ambizioso progetto di una pacifica convivenza con i Goti ed i Romani; poté assistere agli orrori della terribile guerra fra i Goti e i Bizantini per il predominio dell'Italia (535-553), guerra che lasciò desolato e spopolato il nostro paese tra stragi e pestilenze. Fu anche contemporaneo di Giustiniano e conobbe le pesanti interferenze dell'imperatore bizantino in materia religiosa, con la conseguente umiliazione dell'autorità papale. Studente a Roma, constatò di persona lo stato di grave decadenza in cui versava l'antica capitale dell'impero; da essa il giovane Benedetto fuggì via inorridito ritirandosi nel silenzio e nella preghiera nei boschi dell'alta valle dell'Aniene, ai confini tra il Lazio e l'Abruzzo. Una comunità di monaci di Vicovaro lo volle come abate, ma l'esperimento fu un fallimento: ben presto quei monaci, preoccupati per l'eccessiva austerità e disciplina di Benedetto, tentarono di avvelenarlo. Dopo questa esperienza, egli intraprese una nuova forma di vita monastica: nella zona di Subiaco, sull'esempio di ciò che aveva fatto duecento anni prima in Egitto san Pacomio, organizzò un gruppo di monaci, suddiviso in dodici comunità di dodici monaci: ciascuna comunità aveva un proprio superiore, mentre Benedetto conservava la direzione generale. L'invidia di un prete, che non gradiva l'accorrere della gente con ricchi doni ai piedi del santo, costrinse Benedetto ad abbandonare quei luoghi con il gruppo dei suoi discepoli più fidati. Fra di essi vi erano giovani dell'aristocrazia romana, come Mauro e Placido figli di senatori, ma anche goti e figli di schiavi, gente umile e rozza: per tutti Benedetto era il maestro nella "scuola del divino servizio" (questa è la definizione che egli dà del monastero nella sua Regola). Così Benedetto gettava le basi di una unità tra barbari e latini molto profonda, perché fondata sulla fratellanza universale insegnata dal Vangelo. Allontanatosi da Subiaco, Benedetto si diresse a Cassino, sulla cui altura fondò, nel 529, il monastero di Montecassino destinato a diventare il più celebre in Europa. Là avvenne la sua morte, tra il 543 ed il 555 d.C., in una data che l'antica tradizione ha fissato al 21 Marzo. Due o tre decenni dopo la sua morte i longobardi attaccarono Montecassino e vi compirono la prima delle memorabili distruzioni che scandiscono, come tappe, la storia di quell'abbazia. I monaci scampati al disastro si rifugiarono a Roma portando con sé il testo della "Regola", quasi certamente autografo di san Benedetto. Da loro stessi il papa san Gregorio Magno apprese la vita del grande santo e ce ne trasmise il racconto nel secondo libro dei suoi "Dialoghi" unica fonte storica in nostro possesso per conoscere la vita di san Benedetto... La Regola benedettina con le sue esigenze di ordine, di stabilità, di sapiente equilibrio fra preghiera e lavoro, si impose ben presto a tutto il monachesimo occidentale e fu seguita in tutti i monasteri europei. San Benedetto divenne così uno dei santi più popolari e venerati ed apparve a tutti come l'uomo suscitato da Dio per portare la pace là dove erano state seminate le distruzioni e la morte. Divenuto il simbolo dell'ideale monastico, fu spontaneo attribuire a lui il merito di tutto ciò che il monachesimo, compreso quello pre-benedettino e quello extra-benedettino aveva compiuto a servizio della civiltà. Così nel 1947, Pio XII lo chiamò "Padre dell'Europa" e il 24 ottobre 1964, in coincidenza con la consacrazione della basilica di Montecassino, ricostruita dopo la distruzione della seconda guerra mondiale, Paolo VI lo proclamò "patrono d'Europa".

Alle origini dell'Europa

Il cammino dell'Europa ebbe inizio con l'evangelizzazione delle popolazioni europee da parte della Chiesa. Crollato il mondo romano, nel dilagare della violenza barbarica, la Chiesa fu la grande forza storica che fece incontrare, chiamandole a nuova vita, realtà umane profondamente diverse. Dalle città romane la fede lentamente si era diffusa nelle campagne: chiese, cappelle, luoghi di culto erano disseminati un po' dovunque; da questi si sviluppava intorno un'intensa attività di assistenza e di istruzione nei confronti delle popolazioni. La maggiore difficoltà in questa opera di evangelizzazione consisteva nell'attaccamento ai culti pagani preesistenti, che talvolta si mescolavano con quelli cristiani. Tuttavia quei luoghi di culto e di preghiera erano un segno concreto della presenza della Chiesa e richiamavano alla verità della fede. La creazione di centri di vita cristiana fu anche il metodo della evangelizzazione dei popoli barbarici. Fu il grande pontefice san Gregorio Magno il primo ad operare per la loro conversione, inviando dei monaci benedettini tra quelle popolazioni. Celebre è l'invio in Inghilterra di un gruppo di monaci: il loro capo, Agostino, fu il primo arcivescovo di Canterbury. Successivamente l'arrivo dei monaci irlandesi ed inglesi sul continente segnò l'inizio della seconda fase: innumerevole fu la schiera di monaci che si sparse tra le tribù germaniche ancora pagane. Tra essi ricordiamo Colombano, Gallo, Willibord e, soprattutto, Bonifacio. Una fitta rete di monasteri ed abbazie si estese così in tutta l'Europa: Luxeuil, Bobbio, S. Gallo, Fulda, Reichenau, Corbie e migliaia di altre costruzioni grandi e piccole. Questi monasteri divennero un punto di riferimento essenziale per tutte le popolazioni vicine, centri di civilizzazione e di evangelizzazione. Sotto la guida dei monaci, queste popolazioni impararono a prosciugare le paludi, a disboscare le selve, a coltivare la terra, a tracciare nuove strade, a leggere ed a scrivere. Nei monasteri fiorirono le scuole della nuova Europa, nata dalla fusione tra romanesimo e germanesimo, mediate dal cristianesimo. Dopo il fallimento del tentativo di Carlo Magno di dare unità politica alla cristianità medioevale, la Chiesa ritrovò una nuova energia missionaria e fu la volta dei popoli scandinavi, slavi e degli ungari. Un'altra schiera di santi (Cirillo, Metodio, Adalberto, re Stefano d'Ungheria ed altri) compì questa impresa. Così, nel secolo XI, l'Europa consisteva in una comunità di popoli uniti dalla stessa fede e dalla stessa cultura: essenziale in quest'opera di edificazione era stato l'apporto dei monaci benedettini.

I monasteri

L'organizzazione benedettina fece sì che i monasteri fossero non solo centri di vita religiosa, ma anche centri di vita economica e culturale.

Centri di vita economica.

La valorizzazione del lavoro, considerato come mezzo di elevazione dello spirito e perciò imposto a tutti come un dovere, portò ad una ripresa della bonifica del suolo e del lavoro dei campi in tempi in cui gran parte dell'Europa occidentale era incolta e spopolata. Seguendo le indicazioni della Regola, per provvedere alle loro necessità, i monaci si diedero a dissodare ed irrigare i campi presso i monasteri, a prosciugare le zone paludose, bruciare le stoppie, arare, seminare. Il bisogno di cera per l'illuminazione delle chiese portò allo sviluppo dell'apicoltura; le necessità di procurarsi la lana per i vestiti, la pergamena per scrivere, il grasso per illuminare, favorì l'allevamento del bestiame. Ben presto intorno ai monasteri vennero a raggrupparsi contadini in cerca di protezione e, dietro l'esempio dei monaci, presero a dissodare le terre incolte. Rifiorirono così le culture della vite e dell'ulivo, da tempo abbandonate. Ripresero anche gli scambi commerciali. Il monastero, che normalmente sorgeva in un luogo isolato, divenne un centro presso cui si radunavano, in determinati giorni dell'anno, le popolazioni vicine per scambiarsi i loro prodotti; ben presto divenne il luogo in cui, sotto la protezione dell'abate, poté sorgere un vero e proprio mercato. Con il passar del tempo, per il rapido moltiplicarsi delle donazioni, le proprietà dei monasteri benedettini assunsero vaste proporzioni. Questo fatto portò allo sviluppo della innovazione tecnica: si moltiplicarono così nelle abbazie i mulini ad acqua ed officine di ogni genere (oleifici, concerie, tintorie, birrerie, formaggerie e, più tardi, stampe). Ancora oggi nei monasteri benedettini assistiamo a diverse attività. Ne citiamo alcune: il lavoro della ceramica e dell'oreficeria (a Maresdous in Belgio ed a Montserrat in Spagna), la fabbricazione di succhi di frutta (a Dendermonde in Belgio), la rilegatura di libri (a Farnborough in Gran Bretagna), un laboratorio di restauro di manoscritti e di libri antichi (a Praglia in Italia), ecc…

 

Centri di vita culturale.

Un altro importante contributo alla civiltà europea fu offerto dai monaci con la paziente trascrizione degli antichi scrittori. L'esempio classico è il monastero di Vivarium (presso Squillace), fondato verso la metà del secolo VI dall'ex-senatore Cassiodoro in un fondo di sua proprietà; ma in ogni monastero un certo numero di monaci si dedicava a questa attività. Si copiava soprattutto la Bibbia ed i testi dei grandi autori cristiani, ma anche storici, poeti, naturalisti ed autori di ogni genere del mondo antico trovarono ospitalità nelle biblioteche monastiche. Quello che il mondo moderno conosce della letteratura antica è dovuto in maniera quasi esclusiva all'opera di umili ed anonimi amanuensi: Montecassino, Bobbio, s. Gallo, Tegernsee, Fulda e Reichenau sono stati i principali luoghi di conservazione di testi classici. L'arte dello scrivere era piuttosto faticosa. Nei testi dei secoli IX e X ritornano spesso affermazioni come questa: "L'approdo non è più gradito al marinaio di quanto non sia l'ultima riga del manoscritto allo stanco amanuense". La lunghezza del lavoro era un altro aspetto scoraggiante: un commento di sant'Agostino di 218 pagine, con 20 righe per pagina, venne copiato nell'823 in sette giorni da un unico amanuense, il che rappresenta un ritmo di lavoro eccezionale. La media invece doveva essere di 10-12 pagine al giorno: per ricopiare la Bibbia era necessario un anno intero. Alcuni dei manoscritti, soprattutto la Bibbia e gli evangeliari, erano eseguiti in modo lussuoso: a volte la pergamena era tinta di porpora ed il testo era scritto con un inchiostro che dava l'impressione dell'oro e dell'argento. Frequenti erano le decorazioni con miniature che si facevano sempre più ricche e ricercate. La celebre Bibbia offerta a Carlo il Calvo resta uno dei più begli esempi dell'arte del libro come si seppe praticarla nel monastero di Tours; ma si ha notizia di altre trenta Bibbie circa uscite da questo scriptorium. Il lusso e la cura nelle decorazioni rivelano un amore per i libri che venivano accuratamente conservati: "Monastero senza libri, piazzaforte senza viveri" dirà il proverbio.

 

Le scuole

I libri ricopiati con cura servivano ai monaci per la lettura e l'insegnamento. Per lungo tempo i monasteri, insieme alle chiese cattedrali, furono l'unico luogo in cui ci si preoccupava di istruire ed insegnare. Nel 789 Carlo Magno in un suo capitolare ordina che "in ciascuna diocesi, in ciascun monastero vengano insegnati i salmi (per apprendere le letture), le note, il canto (per cantare l'ufficio), l'aritmetica, la grammatica (per saper scrivere) e vi siano dei libri corretti con cura". Ma era questa un'usanza già diffusa. Le scuole monastiche sono in primo luogo destinate alla formazione dei monaci; vi sono però dei monasteri che mantengono delle scuole che possono essere frequentate da studenti laici. È il caso ad esempio del monastero di san Gallo in Svizzera. Le materie di studio erano in genere 7 ed erano chiamate arti liberali. Si distinguevano in un primo corso chiamato trivio perché comprendeva tre materie: la grammatica, la dialettica (l'arte cioè di ragionare) e la retorica (l'arte del parlare). Successivamente si passava al quadrivio che comprendeva quattro materie: aritmetica, geometria, musica ed astronomia. Tra queste un notevole impulso subì col passar del tempo l'aritmetica, grazie alle conoscenze che furono apprese dagli arabi. Oltre a queste materie interessanti erano gli studi di teologia e di diritto.

 

L'ospitalità

L'alto valore che i monaci attribuivano all'ospitalità (l'ospite è "come Cristo" secondo le parole della Regola) fece sì che i monasteri divennero un punto di riferimento sicuro per i pellegrini o per i vari viaggiatori che vi trovavano aiuto e protezione. Nei loro viaggi verso la Terrasanta, verso Roma o gli altri luoghi degni di venerazione (tra tutti ricordiamo Santiago de Compostela) i numerosi pellegrini sapevano di trovare nei numerosi monasteri che costellavano l'Europa un ristoro alle dure fatiche del viaggio e la risposta a qualsiasi necessità. Con questo lavoro immenso e minuzioso è stato offerto un prezioso contributo alla civiltà europea.

 

La regola benedettina

S. Benedetto occupa un posto unico nella storia del monachesimo occidentale, soprattutto per la composizione della Regola. Essa consta di un prologo e di 73 capitoli e rappresenta la sintesi più matura delle esperienze monastiche precedenti. Dopo un primo momento di coesistenza con altre legislazioni monastiche, la Regola di Benedetto finì per prevalere e per essere adottata in tutti i monasteri in forza della sua intrinseca validità. Dal prologo all'ultimo capitolo, san Benedetto istruisce ed esorta i monaci ma, soprattutto, li ama. Lo stile è calmo e sereno, come un discorso familiare fin dalle prime parole: "Ascolta, o figlio, gli insegnamenti del maestro e tendi l'orecchio del tuo cuore; accogli volentieri l'ammonimento del padre affettuoso ed eseguiscilo con impegno". Il monastero è scuola del servizio del Signore, ma una scuola nella quale, dice il santo, "speriamo di non stabilire nulla di aspro e gravoso".

Per comprendere meglio la vita dei monaci, offriamo una raccolta di alcuni passi tratti dalla Regola.

 

L'abate

"Quando, dunque, qualcuno assume il titolo di Abate, deve esercitare il suo governo sui propri discepoli con duplice insegnamento, mostrando cioè tutto ciò che è buono e santo più con i fatti che con le parole; di conseguenza, ai discepoli in grado di intenderli deve spiegare verbalmente i comandamenti di Dio; mentre a quelli duri di cuore e piuttosto semplici, è con l'esempio del suo agire che deve insegnare i precetti del Signore ... Non faccia l'Abate distinzioni di persone in monastero". (Cap . 2)

"Ogni volta che in monastero si deve trattare qualche affare di particolare importanza, l'Abate convochi tutta la comunità e sia lui stesso ad esporre la questione in esame. Ascoltato il consiglio dei monaci, ci ripensi su e decida nel senso da lui ritenuto migliore. La ragione per cui s'è detto di convocare tutti a consiglio è che spesso il Signore rivela ad uno più giovane la decisione migliore". (Cap. 3)

 

La preghiera e il lavoro

"Seguendo l'esempio del profeta che dice: "Ti ho lodato sette volte al giorno", raggiungeremo questo sacro numero di sette se adempiremo quanto c'impone il nostro servizio alle Lodi, a Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro e Compieta". (Cap. 16)

"L'ozio è nemico dell'anima; è per questo che i fratelli devono, in determinate ore, dedicarsi al lavoro manuale, in altre invece, alla lettura dei libri contenenti la parola di Dio. Di conseguenza, entrambe le occupazioni vanno a nostro avviso così distribuite nel tempo loro proprio: la mattina i monaci, uscendo dall'Ufficio di Prima, attendono ai lavori necessari fin verso le dieci; da quest'ora fino a quando celebreranno Sesta si dedichino alla lettura. Dopo la celebrazione di Sesta, il pranzo e poi il riposo a letto in perfetto silenzio; nel caso che uno voglia continuare la lettura per suo conto, lo faccia in modo da non dare fastidio a nessuno. Nona la si celebri con un po' di anticipo verso le 14 e 30; poi si torni al proprio lavoro fino a Vespro. Se poi le particolari esigenze del luogo o la povertà costringeranno i fratelli a raccogliere personalmente i frutti della terra, non se la prendano, perché allora sono davvero monaci se vivono del lavoro delle proprio mani come gli apostoli". (Cap. 48)

 

Aspetti di vita quotidiana

"A nostro avviso, per il pasto quotidiano, da prendersi a mezzogiorno o alle quindici, sono sufficienti in tutti i mesi dell'anno, in considerazione degli acciacchi di questo o di quel monaco, due vivande cotte, perché chi per caso non può mangiare una, si rifocilli con l'altra ... se sarà possibile avere frutta o legumi freschi, se ne aggiunga anche un terzo ... l'astinenza dalla carne di quadrupedi deve essere osservata assolutamente da tutti, tranne che dai malati assolutamente privi di forze". (Cap. 39)

"… nei luoghi a clima temperato possono ad ogni monaco bastare una cocolla (di panno di lana pelosa d'inverno, liscio o consumato dal lungo uso d'estate) e una tunica, uno scapolare per il lavoro e, ai piedi, calze e scarpe ... come arredamento del letto bastino un pagliericcio, una coperta leggera, una pesante ed un cuscino". (Cap. 55)

"Se possibile, vi sia un unico dormitorio; se impossibile, per il gran numero, dormano in gruppi di dieci o di venti, sotto la vigilanza dei decani, in un locale dove resti sempre acceso un lume fino al mattino. Dormano vestiti, con al fianco una cintura o una corda ma senza coltello, perché non abbiano a ferirsi durante il sonno. Così i monaci siano sempre pronti, perché appena dato il segnale si levino e si affrettino senza indugio all'Opera di Dio…". (Cap. 22)

 

Ospitalità

"Non appena dunque l'ospite si annunzia gli vadano incontro i superiori ed i fratelli con tutte le premure che lo spirito di carità comporta ... con particolare attenzione e riguardo siano accolti specialmente i poveri ed i pellegrini, perché è proprio in loro che si accoglie ancor di più il Cristo; ché la soggezione che i ricchi incutono, ce li fa da sola onorare". (Cap. 53)

 

Attenzione ai più deboli

"L'assistenza che si deve prestare ai malati deve venire prima ed al di sopra di ogni altra cosa, sicché in loro si serva davvero il Cristo (…) I fratelli malati abbiano un locale a loro riservato ed un infermiere timorato di Dio, attento e premuroso ... ai ma lati del tutto debilitati sia anche concesso di mangiare carne perché riacquistino le forze". (Cap. 36)

"Per quanto l'uomo sia portato naturalmente ad essere tenero di cuore verso queste due età, cioè a dire, i vecchi ed i fanciulli, tuttavia provveda loro anche l'autorità della regola. Nei loro riguardi si tenga sempre conto della debolezza "delle forze e non si applichino mai le restrizioni alimentari previste dalla regola ma, con amorevole comprensione, si consenta loro di prendere i pasti prima dell'ora fissata per la refezione". (Cap. 37)

 

L'obbedienza reciproca

"Tutti i fratelli non obbediscano solo all'abate, ma si obbediscano anche a vicenda, tenendo per fermo che essi andranno a Dio per questa via". (Cap.71)

 

La giornata del monaco

Prima dell'alba il monaco si alza al suono della campana e si reca in chiesa per la recita dell'ufficio notturno, che termina con le lodi mattutine. Al termine di questo spazio di tempo riservato alla preghiera il monaco inizia il proprio lavoro, che non interrompe più sino alla Messa conventuale, centro di tutta l'ufficiatura e punto culminante della vita monastica. La campana dell'Angelus ricorda l'ora del pranzo: nel refettorio l'abate benedice la mensa ed il lettore che, come vuole la regola, leggerà un brano di S. Scrittura durante il pasto. Dalla lettura ad alta voce deriva naturalmente la legge del silenzio per evitare ogni diminuzione di raccoglimento. A tavola i monaci si servono a vicenda, a turni settimanali. Dopo il pranzo c'è un'ora di ricreazione comune. Pare che la ricreazione attuale dei monasteri benedettini non risalga alle origini dell'istituzione monastica, sebbene la Regola di S. Benedetto assegnasse già ai monaci qualche momento al giorno per lo scambio delle parole necessarie: comunque, dal IX secolo, la ricreazione è ammessa ovunque ed attualmente avviene due volte al giorno, a mezzogiorno ed alla sera. Al termine della ricreazione i monaci ritornano al loro lavoro. La campana della cena riunisce di nuovo la comunità monastica per un pasto rapido e frugale, seguito da una breve ricreazione. Quindi il monastero si immerge nel silenzio: è l'ora di compieta, la preghiera della sera, l'ultimo atto della giornata del monaco. L'abate benedice i monaci e, dopo qualche altra preghiera per i morti o alla Vergine, tutto tace. La lunga ed operosa giornata del monaco è chiusa. Da compieta all'indomani mattina, finito l'ufficio notturno, nessuno può rompere il silenzio senza un grave motivo.

 

I luoghi del monastero

 

La Chiesa: ciò che domina e colpisce prevalentemente nella Chiesa monastica è la magnificenza e lo splendore; essa, con l'altezza delle sue cupole e delle sue torri, per lo più domina materialmente il resto dell'abbazia: questo sta ad indicare che l'Opus Dei, l'ufficio divino che si svolge nella Chiesa, prevale per importanza su ogni altra forma dell'attività monastica.

Il Capitolo: è la sede delle assemblee ufficiali della vita monastica. Qui il postulante si presenta a chiedere l'ammissione al monastero; qui, iniziando il noviziato, l'abate gli impone il nome nuovo e, in segno di umiltà ed affetto, ad imitazione di Cristo, si piega a lavargli i piedi, seguito in ciò da tutti i fratelli; qui ancora prima di emettere i voti il novizio viene accettato definitivamente alla vita monastica; divenuto membro della comunità, avrà diritto a sedere in capitolo ogni volta che l'abate crederà di consultare i fratelli su qualche affare importante, perché qui si trattano gli interessi maggiori della casa. Le origini del capitolo furono umili: distinto appena dal chiostro, cui era attiguo, ora primitivamente destinato alla distribuzione del lavoro manuale. Alle preghiere che accompagnavano l'attribuzione delle varie incombenze si aggiunse poi la lettura di brani della Regola. Benché il passo letto quotidianamente non corrispondesse sempre ad un capitolo, tuttavia questo nome restò attribuito alla sala ove i monaci prendevano conoscenza del loro codice.

 

I chiostri, circondati da portici sostenuti da colonne e pilastri, uniscono fra loro le varie costruzioni del monastero di cui vengono così a formare l'ossatura e servono ai religiosi da deambulatori e riparo. Alcuni hanno al centro delle aiuole fiorite, altri il tradizionale pozzo sormontato per lo più dalla croce o dal monogramma di Cristo. Nei chiostri vige la Regola del silenzio.

La biblioteca. Le biblioteche benedettine hanno avuto una funzione importantissima nel corso della storia: dopo la caduta dell'impero romano, furono i monaci a raccogliere dalle rovine quello che fu possibile salvare del sapere dell'antichità e per molti secoli le biblioteche claustrali custodirono con cura innumerevoli manoscritti. Anche ai giorni nostri la biblioteca ha grande importanza in un monastero perché la lettura e lo studio fanno parte integrante della vita monastica benedettina.

 

Il dormitorio. Il dormitorio comune prescritto da S. Benedetto fu sostituito nel corso dei secoli dalle singole celle. Dapprima si praticarono delle divisioni di legno per proteggere il lavoro dei fratelli dalle distrazioni inevitabili in una sala comune ed incompatibili con le esigenze dell'attività intellettuale (studio). In seguito la stanza fu chiusa da una porta e, in tal modo, si giunse al tipo di costruzione attuale divenuto di uso generale dal XV secolo.

 

Il refettorio, è il luogo del pasto comune. Non è una banale sala da pranzo, ma anche qui, come in tutta l'abbazia, si rivela una caratteristica della vita benedettina: la cura di elevare le minime azioni della giornata ad atti profondamente religiosi. Prima del pranzo c'è la benedizione del cibo; durante il pranzo viene fatta la lettura pubblica di alcuni brani della S. Scrittura come prescrive la Regola: "mai la lettura deve mancare alla mensa dei fratelli". (cap. 38)

 

Il cimitero. Nessuno ha coltivato la pietà per i morti con tanto zelo quanto i monaci. La ragione di ciò è semplice e profonda. L'abbazia è formata da uomini che vivono insieme e non si dimenticano. La vita comune è troppo intima, il cimitero, il luogo cioè dove riposano i corpi che attendono l'eternità, non è così lontano da permettere che i vivi non pensino ai defunti. Nei secoli passati quando le difficoltà delle comunicazioni rendevano enormi le distanze, i monaci avevano trovato il mezzo di annunziarsi scambievolmente la morte di un confratello e assicurare così i reciproci suffragi: d'abbazia in abbazia, di provincia in provincia, peregrinava un religioso che portava con sé la lista dei morti dove erano notati i defunti dell'anno con un breve "curriculum vitae". Questo uso ha perduto la sua ragion d'essere ma ancora oggi, ogni giorno all'ora Prima, si ricordano i religiosi ed i benefattori defunti e, una volta al mese, tutta la comunità va a benedire le salme che riposano nei sepolcri.

 

L'azienda agricola, pur mantenendosi ben curata ed ordinata, non può più avere l'importanza dei secoli passati, quando la terra costituiva l'elemento quasi esclusivo della ricchezza monastica. Oggi la funzione della tenuta monastica, dove pure essa esiste, è quella di permettere al monastero di trarne, almeno in parte, i prodotti necessari al proprio sostentamento.

 

 


 

 

 

LA REGOLA


Prologo

[1] Ascolta, o figlio, gl'insegnamenti del maestro, e piega l'orecchio del tuo cuore; accogli volentieri i consigli dell'affettuoso padre e ponili vigorosamente in opera: [2] perché tu possa, per la fatica dell'obbedienza, ritornare a Colui dal quale ti eri allontanato per l'inerzia della disobbedienza. [3] A te dunque si volge ora la mia parola, chiunque tu sia che rinunzi alle proprie voglie, e accingendoti a militare per il vero re Cristo Signore, prendi le validissime e lucenti armi dell'obbedienza.

[4] Prima d'ogni cosa ricorda che tutto ciò che di buono imprendi ad eseguire, devi con insistente preghiera chiedere che sia compiuto da Lui, [5] perché Egli, che si è già degnato di annoverarci tra i suoi figli, non debba una volta adirarsi della nostra indegna condotta. [6] Dobbiamo infatti con i doni che ci ha concessi servirlo sempre così fedelmente, che Egli non debba, da padre sdegnato, privare un giorno dell'eredità i suoi figli, [7] né da tremendo signore, irritato per le nostre colpe, consegnarci alla pena eterna, come malvagi servi che non l'abbiano voluto seguire alla gloria.

[8] Sorgiamo dunque una buona volta, svegliati dalla Scrittura che ci dice: "è tempo ormai di levarci dal sonno", [9] e aprendo gli occhi alla luce divina, ascoltiamo con orecchie attentissime che cosa ogni giorno ci ripete la voce ammonitrice di Dio: [10] "Se oggi udirete la voce di Lui, non indurite il vostro cuore". [11] Così pure: "Chi ha orecchie per ascoltare, ascolti che cosa lo Spirito dice alle chiese". [12] E che dice? "Venite, figli, prestatemi orecchio: vi insegnerò il timore del Signore. [13] Correte finché avete il lume della vita, perché non vi colgano le tenebre della morte".

[14] E poiché, tra la folla degli uomini cui rivolge questo grido, il Signore cerca il suo operaio, di nuovo dice: [15] "Chi è l'uomo che vuole la vita e brama di vedere giorni buoni?" [16] Che se tu, all'udirlo, rispondi: "Io", così Dio ti soggiunge: [17] "Se vuoi possedere la vera ed eterna vita, frena la tua lingua dal male, e le tue labbra non proferiscano inganno; allontanati dal male e fa' il bene; cerca la pace e seguila". [18] E quando avrete ciò fatto, gli occhi miei saranno su di voi, e le mie orecchie saranno pronte alle vostre suppliche, e prima ancora che voi m'invochiate, vi dirò: "Ecco, sono qui".

[19] Che cosa più dolce per noi di questa voce del Signore che c'invita, fratelli carissimi? [20] Ecco che nella sua paterna bontà il Signore ci indica la via della vita.

[21] Cingiamo dunque i nostri fianchi con la fede con la pratica delle buone opere, e guidati da l'Evangelo camminiamo per le sue vie, per renderci degni di vedere Colui che ci chiamò al suo regno.

[22] Ma se vogliamo trovare dimora nella sede di quel regno, pensiamo che non vi si può giungere se non corriamo con l'operare il bene.

[23] Interroghiamo i fatti col Profeta il Signore e diciamogli: "Signore, chi abiterà nella tua sede, o chi riposerà sul tuo santo monte?" [24] Dopo tale domanda ascoltiamo, fratelli, il Signore che risponde e ci mostra la via di quella dimora, [25] dicendo: "Chi cammina senza macchia ed opera la giustizia; [26] chi pronunzia la verità nel suo cuore; chi non ha ordito inganno con la sua lingua; [27] chi non ha fatto il male al suo simile; chi contro il suo prossimo non ha accolto ingiuria"; [28] chi sollecitato a qualche colpa dal maligno diavolo, lo ha rigettato con tutta la sua tentazione dagli occhi del proprio cuore e ha reso vana la sua azione, e i suggerimenti di lui, appena nati, li ha presi con forza e li ha spezzati in Cristo; [29] quelli che per il timore del Signore non s'insuperbiscono della loro buona condotta, ma pensano che quanto in essi è di bene, non è opera loro, ma di Dio, [30] e perciò esaltano il Signore che in loro agisce, dicendo col Profeta: "Non a noi, Signore, non a noi, ma al nome tuo da' gloria". [31] Così anche l'Apostolo Paolo non attribuì a sé alcun merito della sua predicazione, affermando: "Per la grazia di Dio sono quel che sono"; [32] e di nuovo dichiara: "Chi si gloria, si glorii nel Signore".

[33] Perciò anche il Signore proclama nell'Evangelo: "Chi ascolta queste mie parole e le mette in pratica, io lo rassomiglierò all'uomo saggio che edificò la sua casa sulla roccia: [34] vennero le fiumane, soffiarono i venti, e fecero impeto contro quella casa ma essa non crollò, perché era fondata sulla roccia". [35] Conclusa così la sua risposta, il Signore attende che noi ogni giorno alle sue sante esortazioni rispondiamo con i fatti.

[36] Perciò i giorni di questa vita ci vengono concessi come una proroga per emendarci dei nostri vizi, [37] secondo la sentenza dell'Apostolo: "Non sai che la tolleranza di Dio ti spinge alla penitenza?". [38] E infatti il misericordioso Signore dice: "Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva".

[39] Quando dunque, o fratelli, abbiamo chiesto al Signore chi abiterà nella sua sede, abbiamo udito come vi si possa dimorare; purché però adempiamo i doveri di chi brama abitarvi.

[40] Perciò dobbiamo disporre il cuore e il corpo nostro a militare nella obbedienza santa ai precetti. [41] E per quello che in noi la natura nostra è incapace a prestare, preghiamo il Signore che si degni offrirci l'aiuto della sua grazia.

[42] E se vogliamo evitare le pene dell'inferno e giungere all'eterna vita, [43] finché ci è ancora consentito e siamo in questo corpo e abbiamo la possibilità di compiere tutto ciò durante questa vita dl luce, [44] bisogna oggi correre ed operare quel che ci giovi per l'eternità.

[45] Dobbiamo dunque costituire una scuola di servizio del Signore. [46] E nel costituirla noi speriamo di non stabilire nulla di penoso, nulla di pesante. [47] Ma se qualche cosa un po' dura, suggerita da un ragionevole equilibrio, dovrà pure introdursi per la correzione dei vizi o per la conservazione della carità, [48] non ti lasciar subito così cogliere dallo sgomento da abbandonare la via della salute, che non può intraprendersi se non per uno stretto imbocco. [49] Ma con l'avanzare nelle virtù monastiche e nella fede il cuore si dilata, e la via dei divini precetti si corre nell'indicibile soavità dell'amore.

[50] Cosicché, non discostandoci mai dal magistero Dio, e aderendo alla sua dottrina nel monastero con perseveranza sino alla morte, ci associamo con la sofferenza ai patimenti di Cristo, per meritare di essere anche partecipi del suo regno. Amen.


 

Capitolo primo

Delle varie specie di monaci

 [1] È noto che sono quattro le specie dei monaci.

[2] La prima è quella dei cenobiti: di quelli cioè che vivono in monastero, militando sotto una regola e un abate.

[3] La seconda specie poi è quella degli anacoreti o eremiti: cioè di coloro che non sono in quel fervore di vita monastica ch'è proprio dei principianti, ma hanno percorso un lungo tirocinio nel monastero, e [4] addestratisi con l'aiuto di molti, sono già divenuti esperti a combattere contro il demonio; [5] sicché dalla lotta sostenuta insieme con i fratelli sono bene esercitati per il combattimento singolare della solitudine, e valgono ormai con l'aiuto di Dio a lottare sicuri, senza il soccorso d'altri e soltanto col vigore delle mani e delle braccia proprie, contro i vizi della carne e dei pensieri.

[6] La terza specie di monaci è quella tristissima dei sarabaiti, i quali non sono provati da alcuna regola e resi da essa, col magistero dell'esperienza, quasi oro di fornace, ma sono avviliti alla condizione di piombo, [7] e mentre nella condotta serbano ancora fede al mondo, con la tonsura mentiscono palesemente a Dio; [8] a due, a tre, e anche da soli, senza pastore, chiusi non negli ovili del Signore ma in quelli propri, non hanno altra legge che l'appagamento dei propri gusti, [9] poiché tutto ciò che stimano o preferiscono lo chiamano santo, e ciò che non vogliono lo ritengono illecito.

[10] La quarta specie di monaci è poi quella dei cosiddetti girovaghi, i quali tutta la loro vita, di paese in paese, si fanno ospitare per tre o quattro giorni ora in questo ora in quel monastero, [11] sempre vagabondi e instabili, schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola: in tutto più abominevoli dei sarabaiti. [12] Dello sciagurato tenor di vita di tutta questa genìa è meglio tacere che parlare.

[13] Lasciandoli quindi da parte, veniamo con l'aiuto del Signore ad ordinare la specie migliore, che è quella dei cenobiti.

Capitolo secondo

Quale debba essere l'abate

 [1] L'abate che è giudicato degno di stare a capo del monastero, deve sempre ricordare come viene chiamato, e al nome di superiore rendere conformi le sue azioni. [2] Si sa infatti per fede che egli nel monastero fa le veci di Cristo, poiché viene chiamato col suo stesso nome, [3] secondo ciò che dice l'Apostolo: "Avete ricevuto lo spirito dell'adozione di figli, per il quale gridiamo: Abba, Padre".

[4] Niente perciò l'abate deve insegnare o stabilire o comandare che sia contro il precetto del Signore; [5] anzi il comando e l'insegnamento suo penetrino dolcemente nell'animo dei discepoli come fermento dì divina giustizia. [6] Ricordi sempre l'abate che della sua dottrina come dell'obbedienza dei discepoli, dell'una e dell'altra certo, si farà rigoroso esame nel tremendo giudizio di Dio.

[7] Sappia l'abate che sarà imputata a colpa del pastore ogni deficienza di frutto che il padre di famiglia avrà potuto trovare nel gregge. [8] D'altra parte però è altrettanto vero che se il pastore avrà adoperato ogni diligenza per pecore indocili e disobbedienti, e avrà prestato tutte le cure per la loro malsana condotta, [9] egli nel giudizio del Signore riuscirà assolto e potrà dire col Profeta al Signore: "La tua giustizia non l'ho nascosta nel mio cuore, la tua verità e la tua salute l'ho mostrata, ma essi mi hanno disprezzato e tenuto in nessun conto": [10] e allora le pecore che hanno rifiutato le sue cure riesca finalmente a domarle, come pena, la stessa morte.

[11] Quando uno dunque prende il nome di abate, deve governare i suoi discepoli con duplice insegnamento, [12] deve cioè tutto quello ch'è buono e santo, mostrarlo con i fatti più che con le parole; sicché ai discepoli capaci d'intendere proporrà i comandamenti del Signore con le parole, ma a quelli di tardo intelletto e di animo rude dovrà insegnare i divini precetti con le proprie azioni. [13] Qualunque cosa poi avrà presentata ai discepoli come contraria alla legge di Dio, mostri anche con i suoi fatti in qual modo bisogna evitarla, perché non avvenga che mentre insegna agli altri, egli sia trovato riprovevole, [14] e che Dio debba una volta dirgli per i suoi peccati: "Perché tu insegni i miei precetti ed hai sempre in bocca la mia alleanza, mentre hai disprezzato la disciplina ed hai gettato le mie parole dietro le spalle?" [15] Ed anche: "Tu che vedevi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, non hai visto la trave nel tuo".

[16] Eviti verso i suoi monaci ogni parzialità. [17] Non abbia preferenza d'amore se non per colui che egli avrà sperimentato migliore nella buona condotta e nell'obbedienza. [18] A chi è venuto nel monastero dalla condizione servile non sia anteposto chi è nato libero, purché non vi sia un'altra causa ragionevole: [19] giacché se l'abate, per esigenza di giustizia, riterrà di dover assegnare una simile precedenza, potrà farlo anche riguardo al posto di qualunque monaco; altrimenti ognuno occupi il suo posto, [20] perché, sia il servo che il libero, tutti siamo una sola cosa in Cristo e prestiamo sotto un unico Signore una medesima milizia di servitù; non vi è infatti presso Dio alcun riguardo di persona: [21] l'unico rispetto per cui Egli ci preferisce è se ci trova umili e migliori degli altri nelle opere buone. [22] Eguale carità eserciti dunque l'abate per tutti, una medesima linea di condotta segua per tutti, tenendo conto dei loro meriti.

[23] Nel suo magistero poi l'abate deve sempre osservare quella norma dell'Apostolo che dice: "Ammonisci, esorta, rimprovera" [24] avvicendando cioè i modi secondo le circostanze, alternando il rigore e la dolcezza, sappia dimostrare la severità del maestro e l'indulgente affetto del padre. [25] In altre parole, deve fortemente ammonire gl'indocili e gl'irrequieti; gli obbedienti invece e i miti e i pazienti scongiurarli a progredire sempre più; ma i negligenti e gli spregiatori della disciplina vogliamo che li rimproveri e li punisca.

[26] Né chiuda gli occhi sui vizi dei trasgressori, ma appena cominciano a sorgere, li strappi dalle radici con tutte le forze che può, memore del pericolo di Eli, sacerdote di Silo. [27] Quelli che sono più delicati d'animo ed assennati, li riprenda con le parole, avvertendoli una prima e una seconda volta; [28] ma i riottosi, gli ostinati, i superbi e i disobbedienti li reprima con le battiture e con altri castighi corporali fin dal primo affiorare del vizio, sapendo che è scritto: "Lo stolto non si corregge con te parole"; [29] e altrove: "Percuoti il tuo figliolo con la verga, e libererai l'anima sua dalla morte".

[30] L'abate deve sempre ricordare ciò che è, ricordare quel che importa il suo nome, e sapere che a chi più viene dato, più anche si richiede. [31] Sappia quanto difficile ed ardua sia l'impresa che assume di governare anime e di prestarsi alla diversa indole di molti, trattando uno con la dolcezza, un altro invece con i rimproveri, un altro con la persuasione: [32] secondo il carattere e l'intelligenza di ciascuno, egli a tutti si conformi e si adatti, in modo che non solo non debba lamentare perdite nell'ovile affidatogli, ma anzi possa rallegrarsi dell'incremento del gregge buono.

[33] Anzitutto non trascuri o tenga in poca stima la salvezza delle anime a lui commesse per preoccuparsi di più delle cose transitorie, terrene e caduche; [34] pensi invece sempre che ha ricevuto anime da reggere, di cui dovrà pure rendere conto. [35] E perché non adduca a pretesto l'eventuale scarsezza delle sostanze, ricordi che sta scritto: "Prima cercate il regno di Dio e la sua giustizia, e queste cose vi saranno date in sovrappiù"; [36] così pure: "Niente manca a quelli che Lo temono".

[37] Sappia bene che chi prende anime a governare, deve prepararsi a darne rendiconto; [38] e ritenga per certo che quanti fratelli egli sa d'avere sotto la sua cura, di altrettante anime dovrà nel giorno del giudizio rendere ragione al Signore, oltre al conto che naturalmente darà dell'anima propria.

[39] Così, nel timore dell'esame che il pastore subirà circa le pecore a lui affidate, mentre si mantiene cauto per il rendiconto altrui, diviene sollecito di quello proprio, [40] e mentre con le sue ammonizioni corregge gli altri, anche lui si va emendando dei difetti suoi.

 

Capitolo terzo

Della convocazione dei fratelli a consiglio

 [1] Ogni volta che deve risolversi in monastero qualche affare di particolare gravità, l'abate convochi tutta la comunità, ed esponga lui di che si tratti. [2] Dopo aver ascoltato il consiglio dei fratelli, ci ripensi su da sé, e faccia quel che avrà stimato più utile. [3] Ma abbiamo detto di chiamare a consiglio tutti, perché spesso ad uno più giovane il Signore ispira un parere migliore.

[4] Allora però i fratelli diano il consiglio con tutta umiltà e sottomissione, e non osino sostenere con sfrontata ostinatezza il loro pensiero; [5] la decisione dipenda dal volere dell'abate; e in ciò che egli avrà stabilito come più opportuno, tutti gli obbediscano. [6] Ma come ai discepoli è doveroso obbedire al maestro, così è conveniente che anche lui tutto disponga con provvida ed equanime assennatezza.

[7] In tutto dunque tutti seguano come maestra la Regola, e nessuno ardisca deviare da essa.

[8] Nessuno in monastero vada dietro all'inclinazione della propria volontà. [9] Né alcuno abbia l'ardire di contendere col suo abate ostinatamente o fuori del monastero: [10] chi osasse far ciò, sia sottoposto alla disciplina regolare. [11] L'abate però dal canto suo operi tutto col timore di Dio e secondo le prescrizioni della Regola, sapendo che dovrà certamente rendere conto di tutti i giudizi suoi al giustissimo giudice Dio.

[12] Se poi si tratti di affari del monastero meno importanti, si serva del consiglio dei soli anziani, [13] perché sta scritto: "Fa' tutto col consiglio, e dopo non avrai a pentirtene".

 

Capitolo quarto

Gli Strumenti delle buone opere

 [1] Anzitutto amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze;
[2]quindi il prossimo come se stesso.
[3] Poi non uccidere.
[4] Non commettere adulterio.
[5] Non rubare.
[6] Non avere desideri impuri.
[7] Non dire falsa testimonianza.
[8] Onorare tutti gli uomini.
[9] E ciò che non si vuole fatto a sé, non farla ad altri.
[10] Rinunziare interamente a se stesso per seguire Cristo.
[11] Mortificare il corpo.
[12] Non andare dietro ai piaceri.
[13] Amare il digiuno.
[14] Ristorare i poveri.
[15] Vestire l'ignudo.
[16] Visitare l'infermo.
[17] Seppellire il morto.
[18] Soccorrere il tribolato.
[19] Consolare l'afflitto.
[20] Farsi estraneo ai costumi del mondo.
[21] Niente anteporre all'amore di Cristo.
[22] Non compiere quanto è suggerito dall'ira.
[23] Non riserbare allo sdegno il tempo di sfogarsi.
[24] Non nutrire inganno nel cuore.
[25] Non dare pace falsa.
[26] Non abbandonare mai la carità.
[27] Non giurare, perché non avvenga di spergiurare.
[28] Dire col cuore e con la bocca la verità.
[29] Non rendere male per male.
[30] Non fare torti, e tollerare pazientemente quelli che ci vengono fatti.
[31] Amare i nemici.
[32] A quelli che dicono male di noi non ricambiare l'offesa, ma piuttosto dirne bene.
[33] Sopportare la persecuzione per la giustizia.
[34] Non esser superbo.
[35] Non indulgere troppo al vino.
[36] Non al molto cibo.
[37] Non al soverchio sonno.
[38] Non essere pigro.
[39] Non mormoratore.
[40] Non maldicente.
[41] Riporre la propria speranza in Dio.
[42] Se uno scorge in sé qualcosa di buono, lo riferisca a Dio, non a se stesso.
[43] Il male invece sia convinto d'averlo commesso lui e ne ritenga se stesso responsabile.
[44] Temere il giorno del giudizio.
[45] Aver orrore dell'inferno.
[46] La vita eterna desiderarla con ardente brama spirituale.
[47] La morte averla ogni giorno in sospetto dinanzi agli occhi.
[48] Vigilare ogni momento gli atti della propria vita.
[49] Tenere per certo d'esser veduto da Dio in ogni luogo.
[50] I cattivi pensieri che si affacciano alla mente, subito spezzarli su Cristo e manifestarli al padre spirituale.
[51] Custodire la propria lingua da cattive e scorrette parole.
[52] Non amare di parlare molto.
[53] Non pronunziare parole frivole o eccitanti al riso.
[54] Non amare di ridere molto e smodatamente.
[55] Ascoltare volentieri le sante letture.
[56] Attendere spesso all'orazione.
[57] Le colpe passate confessarle ogni giorno a Dio con lacrime e gemiti nella preghiera.
[58] Delle medesime colpe poi emendarsi per l'avvenire.
[59] Non appagare le voglie della carne.
[60] Odiare la propria volontà.
[61] Obbedire in tutto ai voleri dell'abate, anche se egli da parte sua - non sia mai - operi diversamente, memori di quel precetto del Signore: "Fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno".
[62] Non volere esser detto santo prima di esserlo, ma prima esserlo, perché lo si possa dire con più verità.
[63] Osservare ogni giorno con i fatti i comandamenti di Dio.
[64] Amare la castità.
[65] Non odiare alcuno.
[66] Non nutrire gelosia.
[67] Non assecondare l'invidia.
[68] Non aver gusto di contendere.
[69] Fuggire l'alterigia.
[70] E rispettare i vecchi.
[71] Amare i giovani.
[72] Nell'amore di Cristo pregare per i nemici.
[73] Con chi si è avuta lite tornare in pace prima che tramonti il sole.
[74] E della misericordia di Dio non disperare giammai.

[75] Ecco, sono questi gli strumenti dell'arte spirituale. [76] E se saranno stati da noi giorno e notte assiduamente adoperati e nel dì del giudizio riconsegnati, ci verrà data in premio quella mercede che Egli stesso promise: [77] "Né occhio ha mai visto, né orecchio ha mai udito, né mente d'uomo ha potuto concepire ciò che Dio ha preparato per quelli che lo amano". [78] L'officina poi, dove usare con diligenza tutti questi strumenti, sono i recinti del cenobio e la stabilità nella famiglia monastica.

 

 


Capitolo quinto

Dell'obbedienza

 [1] Il principale contrassegno dell'umiltà è l'obbedienza senza indugio. [2] Essa è propria di coloro che niente hanno di più caro che Cristo; [3] e sia per il servizio santo a cui si sono votati, sia anche per il timore dell'inferno e per la gloria dell'eterna vita, [4] appena dal superiore è stato dato un comando, quasi fosse un comando divino, sono insofferenti d'ogni ritardo nell'eseguirlo. [5] è di loro che il Signore dice: "Ha udito appena e già mi ha obbedito". [6] Similmente dice ai maestri: "Chi ascolta voi, ascolta me".

[7] Tali monaci dunque abbandonano subito le cose loro e rinunziano alla propria volontà, [8] e liberandosi sull'istante di quanto avevano tra mano e lasciando incompiuto ciò che stavano facendo, con piede prontissimo all'obbedienza, seguono con i fatti la voce del superiore che comanda. [9] Sicché, quasi nel medesimo momento, il comando comunicato dal maestro e l'opera eseguita dal discepolo si compiono insieme ambedue prestissimo, per quella celerità che è frutto del timore di Dio: [10] è l'amore di avanzare alla vita eterna che li preme. [11] Perciò intraprendono la via stretta, di cui dice il Signore: "Angusta è la via che conduce alla vita"; [12] e non volendo vivere a proprio arbitrio né obbedire ai desideri e gusti propri, ma dimorando nel monastero per camminare sotto la guida e il comando altrui, desiderano di essere governati dall'abate. [13] Senza dubbio tali monaci imitano il Signore, mettendo in pratica ciò che Egli dice di sé: "Non sono venuto a fare la volontà mia, ma di Colui che mi ha mandato".

[14] Ma questa stessa obbedienza allora sarà gradita a Dio e soave agli uomini, quando il comando sarà eseguito senza esitazione, senza indugio, senza tiepidezza, senza mormorazione, senza rispondere col rifiuto; [15] perché l'obbedienza che si presta ai superiori, si presta a Dio; Egli infatti ha detto: "Chi ascolta voi, ascolta me". [16] E di buon animo i discepoli devono obbedire, perché Dio ama chi dà con gioia. [17] Se infatti il discepolo obbedisce malvolentieri, e mormora, non diciamo già con la bocca, ma anche solo col cuore, [18] pur eseguendo il comando non compie ormai cosa accetta a Dio, il quale vede la mormorazione che si cela nel suo interno: [19] per tale opera quindi non ottiene alcuna ricompensa, e incorre anzi nella pena dei mormoratori, se non ripara e si corregge.

 

Capitolo sesto

Dell'amore al silenzio

 [1] Facciamo ciò che afferma il Profeta: "Ho detto: custodirò il mio cammino per non peccare con la mia lingua; ho posto un freno alla mia bocca, mi sono fatto muto, mi sono umiliato ed ho taciuto anche delle cose buone" [2] Ora, se il Profeta mostra qui che dai buoni discorsi bisogna talvolta astenersi per amore del silenzio, quanto più è necessario evitare le cattive parole per la pena del peccato! [3] Perciò, anche se si tratti di argomenti buoni e pii ed edificanti, tanta è la gravità del silenzio, che ai discepoli perfetti raramente si deve concedere licenza di parlare; [4] perché sta scritto: "Nel molto parlare non sfuggirai al peccato"; [5] e altrove: "La morte e la vita sono in potere della lingua". [6] Se infatti al maestro conviene parlare ed istruire, al discepolo tocca tacere ed ascoltare.

[7] Se quindi è necessario chiedere qualche cosa al superiore, si domandi con tutta umiltà e con rispettosa sottomissione.

[8] Le trivialità poi e le parole oziose ed eccitanti al riso le condanniamo in tutti i luoghi con eterna esclusione; e che il discepolo apra la bocca per proferire cose tali, non lo permettiamo.

 

Capitolo settimo

Dell'umiltà

 [1] Grida a noi, fratelli, la divina Scrittura e ci dice: "Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato". [2] Col dirci dunque così, ci mostra che ogni esaltazione è una forma di superbia, [3] da cui il Profeta dichiara di volersi tenere lontano quando afferma: "Signore, il mio cuore non si è innalzato, né si sono elevati i miei occhi; non ho camminato tra cose grandi e troppo alte per me". [4] E che allora? "Se non ho avuto sentimenti di umiltà, se il mio cuore si è insuperbito, allora tu tratti l'anima mia come un bambino divezzato dal seno di sua madre".

[5] Perciò, fratelli, se vogliamo toccare la cima d'una somma umiltà e giungere celermente a quell'altezza celeste a cui si sale per l'abbassamento della vita presente, [6] bisogna con l'ascensione delle nostre opere innalzare quella scala che apparve in sogno a Giacobbe, e per la quale egli vide gli angeli scendere e salire. [7] Discesa e salita che non possono certamente essere intese da noi se non nel senso che con l'esaltazione si discende e con l'umiltà si sale.

[8] La scala poi che si rizza, non è se non la nostra vita terrena, che per l'umiltà del cuore venga dal Signore diretta su verso il cielo. [9] Diciamo infatti che il corpo e l'anima nostra sono i lati di questa scala, nei quali la divina chiamata inserì diversi gradini di umiltà e di esercitazione spirituale da salire.

[10] Il primo gradino dunque dell'umiltà è quello in cui l'uomo, con la visione continua della presenza di Dio dinanzi agli occhi, ispirato dal suo timore, fugge del tutto la smemoratezza, [11] e ricorda sempre i precetti di Dio, e ripensa dentro di sé perennemente come l'inferno bruci per i loro peccati i dispregiatori di Dio, e come la vita eterna sia preparata per quelli che lo temono; [12] e custodendosi sempre dai peccati e dai vizi, cioè dei pensieri, della lingua, delle mani, dei piedi, della propria volontà, nonché dalle inclinazioni della natura corrotta, [13] riflette che Dio sempre e senza posa lo guarda dal cielo, e che le sue azioni in ogni luogo sono vedute dall'occhio divino e riferite dagli Angeli ad ogni momento. [14] è appunto ciò che ci manifesta il Profeta, quando ci addita Dio così presente ai nostri pensieri, dicendo; "Dio scruta i cuori e le reni". [15] E similmente: "Il Signore conosce i pensieri degli uomini". [16] Così pure dice: "Hai visto i miei pensieri da lontano". [17] E altrove: "Il pensiero dell'uomo sarà svelato dinanzi a Te".

[18] Ora per esser cauto riguardo ai suoi cattivi pensieri, il fratello sollecito della perfezione ripeta di continuo nel suo cuore: "Allora sarò mondo dinanzi a Lui, quando mi sarò guardato da ogni mio peccato". [19] Il divieto poi di fare la volontà propria lo abbiamo dalla Scrittura che ci ordina: "E allontanati dalle tue voglie", [20] e similmente nell'Orazione supplichiamo Dio che si compia in noi la sua volontà.

[21] A buon diritto dunque ci s'insegna di non fare la nostra volontà, se vogliamo evitare il male di cui parla la Scrittura: "Ci sono delle vie che agli uomini sembrano dritte, e che al loro sbocco sommergono fino alle profondità dell'inferno", [22] e se dobbiamo similmente temere ciò che è scritto dei negligenti: "Si sono corrotti e sono diventati abominevoli nel seguire le loro voglie".

[23] Quanto poi alle inclinazioni della guasta natura, dobbiamo allo stesso modo credere che Dio è sempre presente, secondo ciò che dichiara il Profeta al Signore: "Ogni mio desiderio sta dinanzi a Te". [24] Bisogna dunque evitare il cattivo desiderio, perché la morte sta appostata alla soglia del piacere. [25] Perciò la Scrittura ci avverte: "Non andare dietro alle tue concupiscenze".

[26] Dunque se gli occhi del Signore vedono i buoni ed i cattivi, [27] e il Signore dal cielo guarda sempre sui figli degli uomini per scorgere se vi sia chi abbia intelletto e cerchi Dio; [28] e se dagli Angeli a noi assegnati sono riferite quotidianamente al Signore, giorno e notte, le nostre singole azioni, [29] bisogna dunque, fratelli, stare assiduamente in guardia perché il Signore non ci veda mai, come dice nel salmo il Profeta, incamminati al male e divenuti infruttuosi, [30] e se perdona adesso, perché è misericordioso ed aspetta la nostra conversione, non ci debba dichiarare in avvenire: "Hai fatto questo, ed io ho taciuto".

[31] Il secondo gradino dell'umiltà si ha quando uno, non amando la volontà propria, non si compiace di soddisfare ai suoi desideri, [32] ma imita il Signore mettendo in pratica quel suo detto: "Non sono venuto a fare la volontà mia, ma di Colui che mi ha mandato", [33] Similmente la Scrittura dice: "La propria volontà merita la pena, l'imposizione procura la corona".

[34] Il terzo gradino dell'umiltà è quello per cui uno con perfetta obbedienza si sottomette per amor di Dio al superiore, imitando il Signore di cui dice l'Apostolo: "Fattosi obbediente fino alla morte".

[35] Il quarto gradino dell'umiltà è quello del monaco che nell'esercizio dell'obbedienza, pur se riceve ordini difficili o ripugnanti, o anche qualunque specie di ingiurie, sa nel silenzio abbracciare volentieri la sofferenza, [36] e sopportando pazientemente non si perde d'animo né indietreggia, poiché la Scrittura avverte: "Chi avrà perseverato sino alla fine, questi sarà salvo". [37] Così pure: "Il tuo cuore sia forte e sappi sostenere la prova del Signore", [38] E per dimostrare che il servo fedele deve per il Signore tollerare anche qualunque contrarietà, dice ancora la Scrittura nella persona di quelli che soffrono: "Per Te siamo ridotti ogni giorno alla morte, siamo considerati come pecore da macello".

[39] E sicuri per la speranza della ricompensa di Dio, proseguono con gioia e dicono: "Ma in tutto ciò noi vinciamo per Colui che ci ha amati".[40] Similmente la Scrittura in altro luogo: "Ci hai provati, Signore; ci hai sperimentati col fuoco, come col fuoco si sperimenta l'argento; ci hai tratti nel laccio, hai aggravato di tribolazioni il dorso nostro".[41] E per in dicare che dobbiamo sottostare a un superiore aggiunge: "Hai posto degli uomini sul nostro capo".[42] E osservando il precetto del Signore con la pazienza nelle avversità e nelle ingiurie, percossi in una guancia porgono l'altra, a chi toglie loro la tunica lasciano anche il mantello, costretti a fare un miglio di strada ne fanno due, [43] e con l'Apostolo Paolo tollerano i falsi fratelli e benedicono chi li maledice.

[44] Il quinto gradino dell'umiltà si ha quando tutti i pensieri cattivi che si affacciano alla mente e i peccati commessi nel segreto, il monaco li svela con umile confessione al suo abate, [45] secondo l'esortazione della Scrittura: "Manifesta al Signore la tua via e spera in Lui". [46] Similmente dice: "Aprite l'animo vostro al Signore, perché Egli è buono, perché eterna è la sua misericordia".

[47] Così pure il Profeta: "Il mio peccato te l'ho reso noto, e non ho nascosto le mie colpe; [48] ho detto: paleserò contro di me le mie mancanze al Signore, e Tu hai perdonato l'empietà del mio cuore".

[49] Il sesto gradino dell'umiltà consiste in ciò, che il monaco si contenta delle cose più vili e spregevoli, e a tutto quello che gli venga imposto si giudica inetto ed indegno operaio, [50] appropriandosi il detto del Profeta: "Mi sono ridotto a nulla e sono divenuto uno stolto; mi sono fatto dinanzi a Te come una bestia da soma, ma sono sempre con Te".

[51] Il settimo gradino dell'umiltà è quello del monaco che non solo con la lingua si professa più indegno e spregevole di tutti, ma ne è convinto anche nell'intimo del cuore, [52] umiliandosi e dicendo col Profeta: "Io poi sono un verme e non un uomo; obbrobrio degli uomini e rifiuto della gente". [53] "Sono stato esaltato, e poi umiliato e confuso". [54] E similmente: "Buon per me che mi hai umiliato, perché io impari la tua legge".

[55] L'ottavo gradino dell'umiltà è di quel monaco che non fa se non ciò che è suggerito dalla regola comune del monastero o dall'esempio dei maggiori.

[56] Il nono gradino dell'umiltà è quello per cui il monaco frena la lingua dal parlare, e mantenendosi fedele al silenzio, non parla finché non sia interrogato, [57] poiché la Scrittura insegna che nel molto parlare non si sfugge al peccato [58] e che l'uomo dalle molte chiacchiere va senza direzione sulla terra.

[59] Il decimo gradino dell'umiltà si ha quando uno non è facile e pronto al ridere, perché è scritto: "Lo stolto nel ridere alza la sua voce".

[60] L'undecimo gradino dell'umiltà è quello del monaco che, quando parla, lo fa delicatamente e senza ridere, con umiltà e compostezza, e dice poche ed assennate parole, e non fa chiasso con la voce [61] come sta scritto: "Alle poche parole si conosce il saggio".

[62] Il duodecimo gradino dell'umiltà si ha se il monaco non solo coltiva l'umiltà nel cuore, mostra anche con l'atteggiamento esterno a quelli che lo vedono; [63] cioè nell'Ufficio divino, in chiesa, nell'interno del monastero, nell'orto, per via, nei campi, dappertutto insomma, quando siede, cammina o sta in piedi, ha sempre il capo chino e gli occhi fissi a terra; [64] e pensando sempre ai peccati di cui è reo, fa conto di essere già per presentarsi al tremendo giudizio di Dio, [65] ripetendo sempre a se stesso internamente ciò che disse, con gli occhi bassi verso terra, il pubblicano dell'Evangelo: "Signore, non sono degno io peccatore di levare gli occhi miei al cielo"; [66] come anche col Profeta: "Mi sono sempre curvato e umiliato".

[67] Ascesi dunque tutti questi scalini dell'umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità che divenuta perfetta scaccia il timore: [58] e per essa tutto ciò che prima compiva non senza trepidazione, ora comincerà ad eseguirlo senza alcuna fatica, quasi spontaneamente, in forza della consuetudine, [69] e non già per timore dell'inferno, ma per amore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto delle virtù. [70] Sono questi i frutti che il Signore, per l'opera dello Spirito Santo, si degnerà di manifestare nel suo operaio, quando già sia mondo dei suoi vizi e peccati.

 

 

Capitolo ottavo

Degli Uffici divini notturni

 [1] Durante l'inverno, cioè dal principio di novembre fino a Pasqua, secondo una ragionevole valutazione, la levata sia all'ottava ora della notte, [2] perché si dorma un po' più che metà della notte e i monaci si alzino a digestione compiuta.

[3] Il tempo poi che avanza dopo l'Ufficio notturno, dai fratelli che hanno bisogno d'imparare qualcosa del salterio o delle lezioni, sia impiegato in tale esercizio.

[4] Da Pasqua invece fino al suddetto principio di novembre l'ora della levata si regoli in modo che all'Ufficio notturno, dopo un brevissimo intervallo in cui i fratelli possano uscire per le necessità naturali, seguano subito le Lodi che devono recitarsi al primo albeggiare.

 

Capitolo nono

Quanti salmi debbano dirsi nell'Ufficio notturno

 [1] Nel tempo invernale determinato sopra, si dica anzitutto per tre volte il verso: "Signore, aprirai le mie labbra, e la mia bocca canterà le tue lodi", [2] a cui si aggiunga il salmo terzo col Gloria; [3] poi il salmo novantesimo quarto con l'antifona ovvero lentamente modulato; [4] quindi si dica l'inno e poi sei salmi con le antifone. [5] Cantati i salmi, si dica il verso e l'abate dia la benedizione; sedutisi poi tutti sugli scanni, dei fratelli leggano a turno dal codice sul leggio tre lezioni, a cui s'intercalino tre responsori. [6] Due responsori si cantino senza il Gloria, ma dopo la terza lezione il cantore aggiunga il Gloria: [7] e appena egli comincia a cantarlo, immediatamente tutti si alzino dai loro sedili per onore e riverenza alla Santa Trinità.

[8] I libri poi da leggere nell'Ufficio notturno siano quelli di divina autorità tanto del Vecchio quanto del Nuovo Testamento, come anche i commenti che vi hanno fatto i Padri cattolici d'incontestato nome e di retta fede.

[9] Dopo queste tre lezioni con i loro responsori, seguano gli altri sei salmi da cantarsi con l'Alleluia; [10] dopo di essi la lezione dell'Apostolo da dirsi a memoria, il verso, la supplica litanica, ossia il Kyrie eleison; [11] e così si ponga termine all'Ufficio della notte.

 

Come debba celebrarsi l'Ufficio notturno nell'estate

Capitolo decimo

[1] Da Pasqua poi fino al principio di novembre si mantenga l'intero numero di salmi ch'è stato prescritto sopra; [2] le lezioni però dal codice, data la brevità delle notti, non si leggano, ma al posto delle tre lezioni se ne dica una sola, a memoria del Vecchio Testamento, seguita da un responsorio breve; [3] il resto si osservi interamente come è stato detto sopra; non si dicano cioè mai nell'Ufficio notturno meno di dodici salmi, oltre al terzo e al novantesimo quarto.

Come si debba svolge l'Ufficio notturno nelle domeniche

Capitolo undicesimo

[1] La domenica la levata per l'Ufficio notturno sia anticipata. [2] Anche in tale Ufficio si osservi una regola determinata: cantati cioè, come sopra abbiamo disposto, sei salmi e il verso, si siedano tutti con ordine ai loro posti sugli scanni, e vengano lette dal codice, come abbiamo detto sopra, quattro lezioni con i loro responsori; [3] solo al quarto il cantore aggiunga il Gloria, e appena egli lo comincia, tutti si levino subito con riverenza.

[4] Dopo tali lezioni seguano secondo l'ordine altri sei salmi, anch'essi con l'antifona come i precedenti, e il verso. [5] Quindi si leggano di nuovo a quattro lezioni con i loro responsori, con lo stesso ordine di prima. [6] Dopo di esse si dicano dai libri dei Profeti tre cantici stabiliti dall'abate: questi siano cantati con l'Alleluia. [7] Detto quindi il verso, e data la benedizione dall'abate, si leggano altre quattro lezioni del Nuovo Testamento col medesimo ordine di sopra.

[8] Dopo il quarto responsorio l'abate intoni l'inno Te Deum laudàmus; [9] e terminato che sia, l'abate legga un brano dell'Evangelo, mentre tutti stanno in piedi con ogni onore e riverenza. [10] Alla fine tutti rispondano Amen, e l'abate soggiunga immediatamente l'inno Te decet laus; e dopo che è stata data la benedizione, cominciano le Lodi.

[11] Quest'ordine dell'Ufficio notturno domenicale sia osservato egualmente in ogni tempo, sia d'estate che d'inverno, [12] salvo il caso - non sia mai - in cui s'alzassero troppo tardi: allora si dovrà abbreviare qualche cosa dalle lezioni o dai responsori. [13] Ma si badi con ogni cura che un tale inconveniente non avvenga; se però accadrà, ne renda degna soddisfazione a Dio nell'oratorio colui che l'ha causato con la sua negligenza.

 

Come si celebri l'Ufficio delle Lodi

Capitolo dodicesimo

[1] Alle Lodi della domenica si dica prima il salmo sessantesimo sesto senza antifona, tutto di seguito; [2] quindi il cinquantesimo con l'Alleluia; [3] dopo di esso il centodiciassettesimo e il sessantaduesimo; [4] poi il Benedìcite e le "lodi", quindi una lezione dell'Apocalisse a memoria e il responsorio, l'inno, il verso, il cantico dell'Evangelo, la prece litanica; e così si termina.

 

Come si celebrino le Lodi nei giorni feriali

Capitolo tredicesimo

[1] Nei giorni feriali invece l'Ufficio delle Lodi si svolga così: [2] si dica cioè il salmo sessantesimo sesto senza antifona, rallentando un poco come la domenica, perché tutti si trovino pronti al cinquantesimo, che deve dirsi con l'antifona. [3] Poi si dicano altri due salmi secondo la consuetudine, cioè: [4] al lunedì il quinto e il trentacinquesimo; [5] al martedì il quarantaduesimo e il cinquantesimo sesto; [6] al mercoledì il sessantesimo terzo e il sessantesimo quarto; [7] al giovedì l'ottantesimo settimo e l'ottantesimo nono; [8] al venerdì il settantesimo quinto e novantunesimo; [9] al sabato poi il centoquarantaduesimo e il cantico del Deuteronomio, che venga diviso in due Gloria. [10] Negli altri giorni i cantici, presi dai Profeti, si dicano ciascuno al suo giorno secondo l'uso della Chiesa Romana. [11] Quindi seguano le "lodi", poi una lezione dell'Apostolo da recitare a memoria, il responsorio, l'inno, il verso, il cantico dell'Evangelo, la litania e si pone termine.

[12] Ma l'Ufficio delle Lodi e del Vespro non deve assolutamente passare mai senza che alla fine, secondo l'ordine stabilito, sia recitata dal superiore e ascoltata da tutti l'Orazione del Signore, per le spine degli scandali che sogliono spuntare, [13] affinché i monaci, impegnati dalla promessa che nella stessa orazione fanno: "Rimetti a noi, come anche noi rimettiamo", si purifichino da tale vizio. [14] Nelle altre Ore invece si dica solo l'ultima parte di quella Orazione, sicché da tutti si risponda: "Ma liberaci dal male".

 

 

Come debba celebrarsi l'Ufficio notturno nelle feste dei Santi

Capitolo quattordicesimo

[1] Nelle feste poi dei Santi e in tutte le solennità si celebri l'Ufficio allo stesso modo che abbiamo prescritto per la domenica, [2] eccetto che si diranno i salmi, le antifone e le lezioni proprie di quel giorno festivo; ma l'ordinamento sia quello stabilito sopra.

In quali tempi debba dirsi l'Alleluia

Capitolo quindicesimo

[1] Dalla santa Pasqua fino a Pentecoste si dica senza interruzione l'Alleluia tanto nei salmi quanto nei responsori; [2] da Pentecoste invece fino all'inizio della Quaresima si dica ogni notte con gli ultimi sei salmi soltanto all'Ufficio notturno. [3] Ogni domenica poi fuori di Quaresima i cantici, le Lodi, Prima, Terza, Sesta e Nona si cantino con l'Alleluia; il Vespro invece con l'antifona. [4] Ma i responsori non si dicano mai con l'Alleluia, se non da Pasqua a Pentecoste.

 

Quali siano i divini Uffici durante il giorno

Capitolo sedicesimo

[1] Come dice il Profeta, "Ti ho lodato sette volte durante il giorno". [2] Ora questo sacro numero di sette sarà da noi rispettato allo stesso modo, se adempiremo i doveri del nostro servizio alle Lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e a Compieta, [3] perché appunto di queste Ore diurne il Profeta disse: "Sette volte durante il giorno Ti ho cantato la lode". [4] Infatti quanto alle Vigilie notturne il medesimo Profeta dice: "Nel mezzo della notte mi alzavo a celebrarti". [5] In queste Ore dunque rendiamo lodi al nostro Creatore per i giudizi della sua giustizia, cioè alle Lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro, a Compieta; e la notte leviamoci a celebrarlo.

 

Quanti salmi debbano dirsi in queste Ore

Capitolo diciassettesimo

[1] Abbiamo già stabilito l'ordine della salmodia per l'Ufficio notturno e le Lodi; ora vediamo per le altre Ore.

[2] A Prima si dicano tre salmi distinti e non sotto un solo Gloria; [3] l'inno della medesima Ora dopo il verso Deus, in adiutòrium, prima di cominciare i salmi. [4] Finiti poi i tre salmi, si reciti una sola lezione, il verso, il Kyrie eleison e le preci conclusive.

[5] A Terza poi, a Sesta e a Nona l'Ufficio si celebri similmente con l'ordine suddetto: cioè il verso, gl'inni delle medesime Ore, tre salmi per ciascuna, la lezione e il verso, il Kyrie eleison e le formule di conclusione. [6] Se la comunità è abbastanza numerosa, i salmi si dicano con le antifone se piccola, tutti di seguito.

[7] L'Ufficio del Vespro invece si compia cantando quattro salmi con le antifone, [8] dopo i quali si reciti la lezione, quindi il responsorio, l'inno il verso, il cantico dall'Evangelo, la prece litanica, e con l'Orazione del Signore si conchiuda.

[9] Compieta infine si celebri dicendo tre salmi, ma di seguito senza antifona; [10] quindi l'inno della medesima Ora, una sola lezione, il verso, il Kyrie eleison, e con la benedizione si ponga termine.

 

Con quale ordine debbano dirsi i salmi

Capitolo diciottesimo

[1] Al principio si dica il verso "O Dio, volgiti in mio soccorso; Signore, affrettati ad aiutarmi", e il Gloria; quindi l'inno di ciascuna Ora.

[2] A Prima della domenica si dicano quattro strofe del salmo centodiciottesimo; [3] nelle altre Ore, cioè a Terza, a Sesta e a Nona, tre strofe per volta del suddetto salmo.

[4] A Prima del lunedì si recitino tre salmi, cioè il primo, il secondo e il sesto; [5] e così per i singoli giorni fino alla domenica si dicano a Prima tre salmi al giorno, di seguito, fino al decimo nono, badando però a dividere in due il salmo nono e il diciassettesimo. [6] In tal modo alle Vigilie della domenica si comincerà sempre dal ventesimo.

[7] A Terza poi, a Sesta e a Nona del lunedì si dicano le nove strofe che restano del salmo centodiciottesimo, tre per ciascuna Ora.

[8] Esaurito così questo salmo in due giorni (cioè la domenica e il lunedì), [9] il martedì a Terza, a Sesta e a Nona si recitino tre salmi per volta, dal centodiciannovesimo al centoventisettesimo, cioè nove salmi; [10] e questi si ripetano sempre allo stesso modo nelle medesime Ore fino alla domenica, conservando però immutati per tutti i giorni gl'inni, le lezioni e i versi stabiliti, [11] e così si ottiene che la domenica si cominci sempre dal salmo centodiciottesimo.

[12] Il Vespro poi si celebri ogni giorno col canto di quattro salmi. [13] A tal fine si prendano i salmi dal centesimo nono al centoquarantasettesimo, [14] eccettuando quelli tra essi che si mettono da parte per le altre Ore (cioè dal centodiciassettesimo al centoventisettesimo, il centotrentatreesimo e il centoquarantaduesimo); [15] i rimanenti si dicano tutti a Vespro. [16] E poiché vengono a mancare tre salmi, si devono dividere quelli della suddetta serie che sono più lunghi, cioè il centotrentottesimo, il centoquarantatreesimo e il centoquarantaquattresimo; [17] invece il centosedicesimo, perché breve, si congiunga col centoquindicesimo.

[18] Abbiamo così disposto per il Vespro l'ordine dei salmi; il resto, cioè la lezione, il responsorio, l'inno, il verso e il cantico, si svolga come abbiamo stabilito sopra.

[19] A Compieta invece si ripetano ogni giorno i medesimi salmi, cioè il quarto, il novantesimo e il centotrentatreesimo.

[20] Determinato l'ordine dei salmi per l'Ufficio diurno, tutti gli altri che rimangono si distribuiscano in parti eguali per le sette Vigilie notturne, [21] dividendo cioè quelli tra essi che sono più lunghi e assegnandone dodici per ciascuna notte. [22] Ma ci preme d'avvertire che se a qualcuno non piacerà tale ripartizione dei salmi, li disponga pure diversamente nel modo che giudicherà migliore, [23] purché si stia sempre attenti che ogni settimana sia recitato il salterio nell'intero numero di centocinquanta salmi, e che la domenica all'Ufficio notturno sempre si riprenda da capo; [24] perché nel servizio a cui si sono dedicati, si mostrano troppo pigri quei monaci che nel giro di una settimana recitano meno dell'intero salterio con i cantici consueti, [25] mentre leggiamo che i nostri santi padri in un solo giorno eseguivano alacremente ciò che noi tiepidi è da sperare che compiamo in un'intera settimana.

 

 

Come celebrare il divino Ufficio

Capitolo diciannovesimo

[1] Sappiamo per fede che Dio è presente dappertutto e che gli occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi; [2] ma dobbiamo credere senza alcun dubbio che ciò avviene specialmente quando partecipiamo all'Opera di Dio. [3] Perciò ricordiamo sempre ciò che dice il Profeta: "Servite il Signore nel timore"; [4] così anche: "Salmeggiate con sapienza"; [5] e altrove: "Ti celebrerò alla presenza degli Angeli" [6] Pensiamo dunque con quali disposizioni convenga stare dinanzi a Dio ed agli Angeli suoi, [7] e celebriamo il divino Ufficio in modo che il nostro spirito concordi con la nostra voce.

 

Della riverenza nella preghiera

Capitolo ventesimo

[1] Se, quando vogliamo chiedere qualche cosa ai potenti, non osiamo farlo se non con sottomissione e rispetto, [2] quanto più a Dio, Signore dell'universo, conviene volgere le suppliche con tutta umiltà e purezza di devozione [3] E siamo convinti che saremo esauditi non per le molte parole, ma per la purezza del cuore e la compunzione delle lacrime. [4] Breve perciò e pura dev'essere la preghiera, salvo che non la protraggano l'ardore e l'ispirazione della grazia divina. [5] Ma l'orazione che si fa in comune sia assolutamente breve, e quando il superiore dà il segno, si levino tutti insieme.

 

Dei decani del monastero

Capitolo ventunesimo

[1] Se la comunità è abbastanza numerosa, si scelgano dal suo seno dei fratelli di buona riputazione e di santa vita e si costituiscano decani, [2] che abbiano sollecita cura delle loro decanie per tutte le cose secondo i precetti di Dio e le disposizioni del loro abate. [3] Per decani si eleggano monaci con i quali l'abate possa tranquillamente condividere i suoi pesi, [4] e non si scelgano secondo l'ordine d'anzianità monastica, ma secondo la dignità della vita e la scienza delle cose di Dio.

[5] Se però qualcuno di questi decani, gonfio forse di qualche sentimento di superbia, fosse trovato degno di biasimo, venga ripreso una prima, una seconda e anche una terza volta; e se non si corregge, sia rimosso dall'ufficio, [6] e lo sostituisca un altro che ne sia degno. [7] Lo stesso stabiliamo per il priore.

 

Come debbano dormire i monaci

Capitolo Ventiduesimo

[1] I monaci dormano in un letto per ciascuno.

[2] L'arredamento del letto lo ricevano secondo il proprio tenore di vita monastica, in conformità al giudizio del loro abate. [3] Se è possibile, dormano tutti in un solo ambiente; ma se il numero rilevante non lo permette, riposino a dieci o a venti insieme, con i seniori che li sorveglino. [4] Una lucerna rimanga continuamente accesa nel dormitorio sino al mattino.

[5] Dormano vestiti e con i fianchi stretti di semplici cinture o funicelle, perché mentre dormono non abbiano a lato i loro pugnali e non siano da essi feriti durante il sonno; [6] in tal modo i monaci sono sempre pronti, e quando si dà il segnale, si levino senza indugio e s'affrettino a prevenirsi l'un l'altro all'Opera di Dio, serbando però sempre molta gravità e modestia. [7] I fratelli più piccoli d'età non abbiano i letti gli uni accanto agli altri, ma stiano frammisti agli anziani. [8] Quando poi si alzano per l'Opera di Dio, si esortino delicatamente a vicenda per impedire le scuse dei sonnolenti.

 

Della scomunica per le colpe

Capitolo Ventitreesimo

[1] Se qualche fratello fosse trovato ribelle o disobbediente o superbo o mormoratore, ovvero si mostrasse in qualche punto non solo riottoso alla santa Regola e agli ordini dei suoi superiori, ma anche sprezzante, [2] costui sia ammonito, secondo il precetto di nostro Signore, una prima e una seconda volta dai suoi superiori segretamente.

[3] Se non si correggerà, venga rimproverato pubblicamente dinanzi a tutti. [4] Se poi neppure così si emenderà, allora, se è capace di comprendere quale pena sia la scomunica, sia sottoposto ad essa; [5] se invece è insensibile, soggiaccia al castigo corporale.

 

Quale debba essere la misura della scomunica

Capitolo ventiquattresimo

[1] In proporzione alla gravità della colpa deve anche misurarsi la scomunica e il castigo corporale; [2] il valutare poi il grado della colpa è interamente rimesso al giudizio dell'abate.

[3] Se tuttavia qualche fratello viene trovato reo di colpe più lievi, sia privato della partecipazione alla mensa. [4] Il trattamento di chi viene così escluso dalla mensa sarà questo: nell'oratorio non canti a solo salmo o antifona né reciti lezione finché non abbia soddisfatto; [5] il cibo lo prenda da solo dopo la refezione dei fratelli, [6] sicché, se i fratelli, per esempio, mangiano all'ora sesta, egli mangi a nona; se i fratelli a nona, egli a vespro, [7] finché con una adeguata soddisfazione non abbia ottenuto il perdono.

 

Delle colpe più gravi

Capitolo venticinquesimo

[1] Il fratello invece che sia reo di colpa più grave, venga escluso sia dalla mensa che dall'oratorio. [2] Nessuno dei fratelli si unisca a lui per trattare o parlare insieme di qualche cosa; [3] stia da solo al lavoro che gli è stato imposto e si mantenga nell'afflizione della penitenza, ricordando la terribile sentenza dell'Apostolo il quale afferma: [4] "Un tal uomo è consegnato alla morte della carne, perché lo spirito sia salvo nel giorno del Signore". [5] Il cibo pure lo prenda da solo, nella misura e nell'ora che l'abate giudicherà più opportuna per lui. [6] Non venga benedetto da alcuno che lo incontri, e non si benedica neppure il cibo che gli è dato.

 

 

Di quelli che senza permesso si uniscono agli scomunicati

Capitolo ventiseiesimo

[1] Se qualche fratello senza permesso dell'abate oserà in qualunque modo congiungersi o parlare col fratello scomunicato o mandargli dei messaggi, [2] sia colpito d'una eguale scomunica.

 

Come l'abate debba essere premuroso per gli scomunicati

Capitolo ventisettesimo

[1] Con ogni premurosa diligenza l'abate deve curarsi dei fratelli colpevoli, perché non hanno bisogno del medico i sani, ma gl'infermi. [2] Deve perciò comportarsi del tutto come un sapiente medico, e mandare dei fratelli di fiducia, cioè dei saggi monaci anziani, [3] i quali, come di nascosto, consolino il fratello agitato, lo spingano all'umile soddisfazione e lo confortino perché non sia sommerso da eccessiva tristezza; [4] anzi, come similmente dice l'Apostolo, si dia prova a suo riguardo di maggior carità, e da tutti si preghi per lui.

[5] Molta sollecitudine infatti deve usare l'abate e correre con ogni sagace industria per non perdere alcuna delle pecorelle a lui affidate. [6] Sappia d'aver preso a curare anime inferme, non ad esercitare potere dispotico sulle sane, [7] e tema la minaccia del Profeta, per bocca del quale Dio dice: "Ciò che vedevate pingue, lo prendevate; ciò che invece era debole, lo gettavate via" [8] Ed imiti il tenero esempio del buon Pastore, che abbandonò le novantanove pecore sui monti per andare in cerca di quell'una che si era smarrita: [9] della cui debolezza ebbe tanta compassione, che si degnò di metterla sulle divine sue spalle e così riportarla all'ovile.

 

Di quelli che spesso puniti non vogliono correggersi

Capitolo ventottesimo

[1] Se un fratello punito spesso per qualsivoglia colpa, e infine anche scomunicato, non si sarà neppure allora corretto, riceva ancora una più aspra punizione, sia cioè sottoposto al castigo delle battiture. [2] Se poi non si emenderà nemmeno così, ovvero - che non sia mai - levatosi in superbia vorrà pure difendere la sua condotta, allora l'abate faccia come un esperto medico: [3] se ha usato i lenitivi, se gli unguenti delle esortazioni, se i medicamenti delle divine Scritture, se infine la bruciatura della scomunica o quella delle piaghe della verga, [4] e vede che a nulla approdano le sue industrie, adoperi anche, ciò che vale ancor più, la preghiera propria e di tutti i monaci per lui, [5] perché il Signore, che tutto può, operi la salute del fratello infermo.

[6] Ma se neppure in tal modo quello guarirà, allora l'abate si serva ormai del ferro dell'amputazione, come dice l'Apostolo: "Stroncate da voi il cattivo" [7] e così anche, "Se l'infedele va via, vada pure", [8] perché una pecora infetta non ammorbi tutto il gregge.

 

Se i fratelli usciti dal monastero debbano essere di nuovo accettati

Capitolo ventinovesimo

[1] Il fratello che per propria colpa sia uscito dal monastero, se vorrà ritornare, prima prometta di correggersi pienamente del vizio per il quale è uscito, [2] e allora sia accettato, ma all'ultimo posto, perché da ciò si provi la sua umiltà. [3] Se poi uscirà di nuovo, potrà essere ricevuto a queste condizioni fino alla terza volta; ma sappia che dopo gli sarà preclusa ormai ogni possibilità di ritorno.

 

Come debbano punirsi i fanciulli di minore età

Capitolo trentesimo

[1] Ad ogni età e ad ogni intelligenza deve corrispondere un trattamento proporzionato. [2] Perciò i fanciulli e i giovinetti, o quelli che non sono capaci d'intendere la portata della scomunica, [3] tutti questi, se commettono delle colpe, siano puniti con gravi digiuni o repressi con severe battiture, perché guariscano.

Quale debba essere il cellerario del monastero

Capitolo trentunesimo

[1] A cellerario del monastero sia scelto dal seno della comunità uno che sia saggio, di seri costumi, sobrio, non mangione, non gonfio di sé, non turbolento, non proclive all'ingiuria, non avaro, non prodigo, [2] ma timorato di Dio. Per tutta la comunità egli dev'essere come un padre. [3] Abbia cura di tutti. [4] Senza consenso dell'abate non faccia nulla; [5] stia agli ordini ricevuti.

[6] Non dia motivi di dispiaceri ai fratelli; [7] se qualcuno di loro gli chiede qualcosa non ragionevolmente, non lo rattristi col disprezzo, ma sappia dir di no all'indebita richiesta col garbo della persuasione e con spirito di umiltà.

[8] Custodisca l'anima propria, memore sempre di quel detto dell'Apostolo, che chi esercita bene il suo ministero, si guadagna un buon posto.

[9] Degl'infermi, dei fanciulli, degli ospiti e dei poveri si prenda cura con somma diligenza, sapendo con ogni certezza che per tutti questi dovrà rendere conto nel giorno del giudizio.

[10] Tutta la suppellettile e i beni del monastero li consideri come gli oggetti sacri dell'altare. [11] Nulla stimi trascurabile. [12] Non vada dietro all'avarizia né sia prodigo e dissipatore dei beni del monastero, ma tutto operi con discrezione e secondo il comando dell'abate.

[13] Anzitutto sia umile, e quando ad uno non può concedere la cosa richiesta, gli dia una buona parola di risposta, [14] come dice la Scrittura: "Una parola buona vale più d'ogni dono prezioso".

[15] Si occupi solo di tutto ciò che l'abate gli avrà imposto: nelle cose invece da cui l'abate l'avrà escluso, non ardisca d'ingerirsi.

[16] La porzione assegnata per il vitto la dia ai fratelli senza arroganza né indugio, perché non si scandalizzino: ricordi che cosa meriti, secondo la divina parola, chi avrà scandalizzato uno dei piccoli.

[17] Se la comunità è numerosa, gli si concedano degli aiuti; coadiuvato da loro, potrà anche lui tranquillamente compiere ciò che gli è stato assegnato.

[18] Le cose che devono darsi e chiedersi, si diano e si chiedano al tempo conveniente, [19] perché nella Casa di Dio nessuno si turbi o si rattristi.

 

Degli arnesi e degli oggetti del monastero

Capitolo trentaduesimo

[1] Quanto al patrimonio del monastero in arnesi o vesti o qualunque altro oggetto, l'abate si procuri dei fratelli che gli diano affidamento per la loro vita e i loro costumi, [2] e consegni a ciascuno le cose che egli crederà meglio, perché le custodiscano e le raccolgano. [3] Di esse l'abate conservi un inventario, affinché, quando i fratelli si avvicendano l'un l'altro negli uffici, egli sappia che cosa dà e che cosa riceve.

[4] Se qualcuno poi tratterà con poca pulizia o con negligenza le cose del monastero, venga ripreso. [5] Se non si emenderà, sia sottoposto alla punizione regolare.

Se i monaci debbano avere qualcosa di proprio

Capitolo trentatreesimo

[1] Nel monastero bisogna soprattutto strappare fin dalle radici questo vizio: [2] nessuno ardisca dare o ricevere qualcosa senza licenza dell'abate, [3] né avere alcunché di proprio, assolutamente nulla: né libro, né tavolette, né stilo, proprio niente insomma; [4] perché i monaci non sono ormai più padroni del loro corpo né della loro volontà.

[5] Invece tutte le cose necessarie devono sperarle dal padre del monastero. Né sia lecito avere alcuna cosa che l'abate non abbia data o permessa. [6] Tutto sia comune a tutti, com'è scritto; e nessuno dica o consideri qualche cosa come sua.

[7] E se si scoprirà che qualcuno è incline a questo tristissimo vizio, sia ripreso una prima ed una seconda volta; [8] se non si emenderà, soggiaccia al castigo.

 

Se tutti debbano ricevere il necessario in misura eguale

Capitolo trentaquattresimo

[1] Come è scritto: "Si distribuiva a ciascuno secondo il proprio bisogno". [2] Con ciò non vogliamo dire che si facciano - non sia mai - preferenze personali, ma che si tenga conto delle infermità; [3] sicché chi ha meno necessità, renda grazie a Dio e non stia di malumore; [4] chi invece è più bisognoso, si umilii per la sua infermità, e non s'insuperbisca per le attenzioni che riceve: [5] e così tutte le membra saranno in pace. [6] Soprattutto vogliamo che non si manifesti per qualunque ragione né in qualunque parola o altra espressione il vizio della mormorazione. [7] E se qualcuno sarà colto in esso, soggiaccia a

 

Dei settimanari di cucina

Capitolo trentacinquesimo

[1] I fratelli si servano l'un l'altro, sicché nessuno sia dispensato dall'ufficio della cucina, se non perché infermo ovvero occupato in affare di grande utilità, [2] giacché con ciò si guadagna una maggiore ricompensa e un maggior merito di carità.

[3] Ai deboli poi si procurino degli aiuti, perché non compiano il lavoro di malanimo, [4] ma abbiano tutti degli aiuti secondo le esigenze della comunità e le condizioni del luogo. [5] Se la comunità è numerosa, sia dispensato dal servizio della cucina il cellerario e quelli che siano occupati, come abbiamo detto, in uffici di maggiore utilità; [6] gli altri si prestino a vicenda il servizio in spirito di carità.

[7] Chi sta per uscire dalla sua settimana, il sabato faccia le pulizie. [8] Lavino i panni con cui i fratelli si asciugano le mani e i piedi; [9] i piedi poi li lavino a tutti tanto chi esce quanto chi entra. [10] Chi esce restituisca puliti e in buono stato gli utensili del proprio ufficio al cellerario, [11] il quale a sua volta li consegnerà al fratello che entra, per sapere ciò che dà e ciò che riceve.

[12] I settimanari poi un'ora prima della refezione prendano in più, sulla porzione stabilita, un bicchiere di vino per ciascuno e un po' di pane, [13] perché all'ora del pasto servano ai loro fratelli senza lagnanze né grave fatica; [14] nei giorni solenni però aspettino sino alla comunione della Messa.

[15] Sia i settimanari che entrano, sia quelli che escono, la domenica nell'oratorio, subito dopo la fine delle Lodi, si prostrino ai ginocchi di tutti, chiedendo che si preghi per loro. [16] Chi esce di settimana dica questo verso: "Sii benedetto, Signore Iddio, che mi hai aiutato e consolato", [7] e quando esso è stato detto tre volte e chi esce ha ricevuto la benedizione, gli succeda chi entra e dica: "O Dio, volgiti in mio soccorso; Signore, affrettati ad aiutarmi", [18] e ripetuto anche questo verso da tutti tre volte, egli riceva la benedizione ed entri nel suo ufficio.

 

Dei fratelli infermi

Capitolo trentaseiesimo

[1] Degl'infermi si deve aver cura prima di tutto e a preferenza d'ogni altra cosa, sicché davvero si serva a loro come a Cristo in persona: [2] infatti Egli disse: "Fui infermo e mi visitaste"; [3] ed anche: "Quel che avete fatto ad uno di questi piccoli, l'avete fatto a me".

[4] Gl'infermi dal canto loro riflettano che si serve ad essi per onorare Dio, e non molestino con troppe esigenze i fratelli che li assistono; [5] d'altra parte però devono esser tollerati con pazienza, perché per tali malati si guadagna una più larga mercede.

[6] Quindi l'abate curi con somma attenzione che non abbiano a soffrire qualche negligenza.

[7] Per i fratelli infermi ci sia un locale distinto destinato a questo scopo, e un infermiere timorato di Dio, diligente e premuroso.

[8] L'uso dei bagni si offra ai malati ogni volta che è necessario; ai sani invece e specialmente ai giovani si permetta più di rado. [9] Agl'infermi molto deboli si conceda di mangiar carne per ristorare le forze; ma appena si siano ristabiliti, si astengano tutti al solito dalle carni.

[10] Solertissima cura abbia l'abate che il cellerario o gli assistenti non trascurino i malati: e cade a sua responsabilità ogni mancanza che commettono i discepoli.

 

Dei vecchi e dei fanciulli

Capitolo trentasettesimo

[1] Benché la stessa natura umana sia portata a compassione verso queste due età, cioè dei vecchi e dei fanciulli, pure è bene che intervenga per loro anche l'autorità della Regola. [2] Si tenga sempre conto della loro debolezza, e non si applichi affatto per essi la severità della Regola riguardo agli alimenti; [3] siano piuttosto oggetto di un'amorevole indulgenza e anticipino sulle ore regolari della refezione.

Del lettore di settimana

Capitolo trentottesimo

[1] Alle mense dei fratelli non deve mancare la lettura. Né avvenga che uno qualsiasi, a casaccio, afferri un libro e si metta a leggere a refettorio, ma ci sia un lettore stabilito per tutta la settimana, il quale entri al suo ufficio la domenica. [2] Egli, nell'entrare in ufficio, dopo la Messa e la Comunione chieda a tutti che preghino per lui, perché Dio lo tenga lontano dallo spirito di superbia; [3] e si dica nell'oratorio da tutti per tre volte questo verso, cominciato dal lettore: "Signore aprirai le mie labbra, e la mia bocca dirà la tua lode". [4] E così ricevuta la benedizione, egli entri al suo servizio di lettore.

[5] Si osservi a tavola un perfetto silenzio, sicché non si oda bisbiglio di alcuno, né altra voce se non quella del lettore. [6] Ciò che poi è necessario per mangiare e bere, i fratelli se lo porgano a vicenda, in modo che nessuno sia costretto a domandare alcunché. [7] Se tuttavia di qualche cosa ci fosse bisogno, si chieda col leggero suono di un oggetto qualunque piuttosto che con la parola. [8] Né ardisca alcuno fare allora qualche interrogazione sul brano che si legge o su altri punti, per non offrire occasione di parlare; [9] salvo che il superiore non voglia dire lui brevemente qualche parola per edificazione.

[10] Il fratello lettore di settimana prenda un po' di vino prima di cominciare a leggere, sia per la santa Comunione, sia perché non gli riesca troppo gravoso sopportare il digiuno; [11] dopo mangi con i settimanari di cucina e con i servitori di mensa.

[12] I fratelli poi non tutti leggano o cantino in ordine d'anzianità, ma solo quelli che siano atti ad edificare gli uditori.

 

Della misura del cibo

Capitolo trentanovesimo

[1] Crediamo che per la refezione quotidiana sia di sesta che di nona, avendo riguardo alle infermità dell'uno o dell'altro, bastino in tutti i mesi due pietanze cotte: [2] sicché se qualcuno non ha potuto mangiare della prima, si possa ristorare con l'altra. [3] Dunque due pietanze cotte bastino a tutti i fratelli. E se sarà facile procurarsi frutta o teneri legumi, se ne aggiunga una terza.

[4] Di pane sia sufficiente una libbra di buon peso al giorno, sia quando vi è una sola refezione, sia quando vi è il pranzo e la cena. [5] Quando si deve anche cenare, il cellerario ritenga un terzo di quella libbra per distribuirlo a cena.

[6] Se per caso si fosse compiuto un lavoro più gravoso del solito, l'abate avrà piena facoltà, se gli sembrerà opportuno, di aggiungere ancora qualche cosa, [7] purché ad ogni modo si eviti l'intemperanza, e il monaco non si lasci mai cogliere dall'ingordigia. [8] Nulla infatti è così sconveniente ad ogni cristiano quanto l'eccesso del cibo, [9] come dice il Signor nostro: "Siate attenti perché i vostri cuori non siano aggravati dal soverchio cibo".

[10] Ai fanciulli poi più piccoli non si dia la medesima quantità, ma inferiore a quella dei grandi, osservando in tutto la sobrietà. [11] Quanto alle carni dei quadrupedi, tutti si astengano assolutamente dal mangiarne, eccetto gl'infermi che siano molto deboli.

 

Della misura della bevanda

Capitolo quarantesimo

[1] "Ognuno ha il suo proprio dono da Dio; chi uno chi un altro", [2] ed è per ciò che stabiliamo con una certa perplessità la misura del vitto altrui.

[3] Nondimeno, avendo considerazione della debolezza dei più bisognosi, crediamo che basti per ciascuno un'emina di vino al giorno. [4] Quelli poi a cui Dio concede di sapersene astenere, siano convinti che ne riceveranno una particolare ricompensa.

[5] Se poi la condizione del luogo o il lavoro speciale o il calore dell'estate richiedesse un supplemento, il superiore abbia facoltà di darlo, ma vigili attentamente perché nessuno giunga alla sazietà o all'ubriachezza.

[6] Leggiamo, è vero, che il vino non è per i monaci: ma poiché ai monaci dei tempi nostri ciò non si può fare comprendere, conveniamo almeno in questo, di non bere fino alla sazietà, ma moderatamente, [7] perché il vino fa traviare anche i saggi.

[8] Quando poi le condizioni del luogo sono tali che non si possa trovare neppure la suddetta misura, ma se ne trovi molto di meno o addirittura nulla, benedicano Dio i monaci che vi abitano, e non mormorino: [9] di questo soprattutto li ammoniamo, che si tengano lontani da ogni mormorazione.

 

 

In quali ore i fratelli debbano prendere i pasti

Capitolo quarantunesimo

[1] Dalla santa Pasqua sino a Pentecoste i fratelli pranzino a sesta e cenino la sera. [2] Da Pentecoste poi e per tutta l'estate, se i monaci non hanno forti lavori campestri o l'eccessivo calore della stagione non l'impedisce, il mercoledì e il venerdì digiunino sino a nona; [3] negli altri giorni pranzino a sesta. [4] Ma se avranno lavori nei campi o se il caldo dell'estate sarà soverchio, anche in quei due giorni il pranzo sarà a sesta: e ciò sia rimesso al provvido giudizio dell'abate. [5] Ed egli tutto moderi e disponga in modo che le anime si salvino, e quello che i fratelli fanno, lo facciano senza fondato motivo di mormorazione.

[6] Dal 13 di settembre fino all'inizio della Quaresima prendano il pasto sempre a nona.

[7] In Quaresima poi, fino a Pasqua, mangino all'ora di vespro. [8] L'Ufficio di Vespro però si celebri a un'ora tale, per cui durante il pasto non sia necessario il lume della lucerna, ma si compia tutto mentre ancora è giorno. [9] Del resto anche in tutti gli altri tempi tanto l'ora della cena quanto quella dell'unica refezione si regoli in modo, che tutto si faccia con la luce del giorno.

 

Che dopo Compieta nessuno parli

Capitolo quarantaduesimo

[1] Sempre i monaci devono osservare con cura il silenzio, ma soprattutto nelle ore notturne. [2] Perciò in ogni tempo, sia nei giorni di digiuno che in quelli del doppio pasto, le cose si disporranno nel seguente modo. [3] Se è un giorno di doppia refezione, appena si sono alzati da cena, vadano tutti a sedersi insieme, ed uno legga le "Collazioni" o le "Vite dei Padri" o altra opera che edifichi gli ascoltatori; [4] ma non i primi sette libri della Bibbia o quelli dei Re, perché alle menti deboli non sarebbe utile a quell'ora udire questi libri della Scrittura, che però in altri tempi si devono leggere.

[5] Se poi è giorno di digiuno, celebrato il Vespro si lasci un breve intervallo, e quindi vadano alla lettura in comune delle "Collazioni", come si è detto; [6] si leggano quattro o cinque fogli o quanto l'ora permette, [7] e durante quest'indugio della lettura tutti si raccolgano insieme, anche quelli che si trovino occupati in qualche incombenza del loro ufficio. [8] Radunati dunque così tutti insieme, dicano Compieta; e quando ne escono, a nessuno sia più lecito di proferire alcuna parola.

[9] Se si troverà qualcuno a trasgredire questa regola del silenzio, sia sottoposto a grave castigo, [10] eccetto il caso che sia sopraggiunta la necessità di trattare con ospiti o che l'abate abbia comandato ad uno qualche cosa: [11] ma anche allora tutto si compia con somma gravità e delicatissimo ritegno.

 

Di quelli che giungono tardi all'Ufficio divino o alla mensa

Capitolo quarantatreesimo

[1] Quando è l'ora del divino Ufficio, appena udito il segno, si lasci subito qualunque cosa si abbia tra le mani e si corra con somma sollecitudine, [2] ma sempre con gravità, perché non vi trovi incentivo la leggerezza. [3] Dunque all'Opera di Dio non s'anteponga nulla.

[4] Se qualcuno all'Ufficio notturno giungerà dopo il Gloria del salmo novantesimo quarto, che appunto per ciò vogliamo che si canti molto posatamente e con lentezza, non stia in coro al posto suo, [5] ma si fermi all'ultimo posto, o nel luogo appartato che l'abate avrà stabilito per tali negligenti perché siano veduti da lui e da tutti, [6] ed ivi rimanga fino al termine del divino Ufficio: allora darà soddisfazione con una pubblica penitenza.

[7] Abbiamo ritenuto poi opportuno che essi restino in ultimo o in disparte, perché vedendosi esposti allo sguardo di tutti, almeno per la stessa vergogna si correggano. [8] A lasciarli infatti fuori dell'oratorio, ci sarà forse qualcuno che ritorni a letto e si addormenti, oppure se ne sieda fuori a suo bell'agio, o anche si dia a chiacchierare, prestando così occasione al demonio. [9] Invece entrino dentro, perché non perdano proprio tutto, e si emendino per l'avvenire.

[10] Nelle Ore del giorno, chi dopo il verso e il Gloria del primo salmo che segue al verso non sia ancora giunto all'Opera di Dio, stia in ultimo secondo la norma suddetta, [11] e non ardisca, fino a soddisfazione compiuta, di associarsi al coro dei fratelli salmodianti, a meno che l'abate per sua indulgenza non glielo permetta; [12] anche in tal caso però il reo deve fare la soddisfazione della sua colpa.

[13] Alla mensa poi, chi non sia arrivato prima del verso, in modo che tutti insieme dicano il verso e preghino, e tutti insieme pure si siedano a mensa, [14] se la mancanza è dovuta a negligenza o cattiva volontà, sia ripreso per questa colpa sino alla seconda volta. [15] Se ancora non si corregge, sia escluso dalla partecipazione alla mensa comune, [16] e appartato dal consorzio di tutti i fratelli mangi da solo, privato pure della sua porzione di vino, finché non abbia soddisfatto e non si sia emendato.

[17] A simile pena soggiaccia chi non sia stato presente al verso che si dice dopo il pasto.

[18] E nessuno ardisca prendere del cibo o della bevanda prima o dopo dell'ora stabilita. [19] Chi poi rifiuta qualche cosa che il superiore gli offre, quando desidererà ciò che prima ha ricusato od altro, non riceva assolutamente nulla, finché non dia conveniente prova d'essersi corretto.

 

Come debbano fare la soddisfazione gli scomunicati

Capitolo quarantaquattresimo

[1] Colui che per gravi colpe è scomunicato dall'oratorio e dalla mensa, quando il divino Ufficio nell'oratorio ha termine, se ne giaccia prostrato avanti la porta dell'oratorio: non dica nulla, [2] ma solo stia lì prosteso, col capo volto a terra, ai piedi di tutti i fratelli che escono dall'oratorio. [3] E ciò continui a fare finché l'abate giudicherà sufficiente la soddisfazione.

[4] Quando poi ne avrà avuto dall'abate l'invito, vada e si getti ai suoi piedi, e quindi ai piedi di tutti, perché preghino per lui.

[5] E allora, se l'abate ne darà licenza, venga riammesso in coro al suo posto o a quello che l'abate avrà stabilito, [6] sempre però a condizione che non osi nell'oratorio a solo cantare né recitare salmo o lezione o altro, se l'abate non gli dia un ulteriore permesso. [7] E in tutte le Ore, quando l'Opera di Dio finisce, si prostri a terra nel posto dov'è. [8] E così soddisfaccia finché l'abate ancora una volta non gli ordini di cessare ormai da questa penitenza.

[9] Quelli poi che per colpe lievi sono scomunicati solo dalla mensa, facciano la soddisfazione nell'oratorio fino al comando dell'abate, [10] e la ripetano finché egli dia la benedizione e dica: Basta.

 

Di quelli che sbagliano nell'oratorio

Capitolo quarantacinquesimo

[1] Se qualcuno sbaglia nel recitare salmo, responsorio, antifona o lezione, e non si umilia subito lì stesso col soddisfare dinanzi a tutti, sia sottoposto a più grave punizione, [2] poiché non ha voluto correggere con l'umiltà l'errore commesso per negligenza.

[3] I fanciulli poi per tale colpa siano battuti.

 

 

Di quelli che commettono qualunque altro fallo

Capitolo quarantaseiesimo

[1] Se qualcuno, mentre attende a un lavoro qualsiasi in cucina, nella dispensa, nei servizi, nel molino, nell'orto, in qualche arte, o mentre si trova in qualunque altro luogo commette un fallo, [2] o rompe o perde un oggetto, o si rende in qualsiasi luogo reo di qualche mancanza, [3] e non viene subito dinanzi all'abate o alla comunità a soddisfare da sé e a confessare la sua colpa, [4] quando questa fosse conosciuta per mezzo di altri, venga sottoposto a maggiore castigo.

[5] Se poi si tratterà di un morbo occulto nel segreto della coscienza, si manifesti soltanto all'abate o ai seniori spirituali, [6] che sappiano curare le piaghe proprie e le altrui, e non svelarle e renderle di pubblico dominio.

 

Come debba annunziarsi l'ora del divino Ufficio

Capitolo quarantasettesimo

[1] La cura d'annunziare l'ora per il divino Ufficio del giorno e della notte l'abate deve o prenderla per sé o affidarla ad un fratello molto attento, in modo che tutto si compia alle ore assegnate.

[2] I salmi poi e le antifone le cantino a solo dopo l'abate, per ordine, quelli che ne hanno avuto l'incarico. [3] Cantare e leggere non ardisca se non chi è atto a compiere tale ufficio in modo da edificare gli uditori; [4] d'altra parte è questo un compito da eseguirsi con umiltà e gravità e grande riverenza, e solo da chi ne abbia ricevuto l'ordine dall'abate.

 

Del lavoro manuale quotidiano

Capitolo quarantottesimo

[1] L'ozio è nemico dell'anima; e quindi i fratelli devono in alcune determinate ore occuparsi nel lavoro manuale, e in altre ore, anch'esse ben fissate, nello studio delle cose divine.

[2] Perciò pensiamo di regolare i tempi dell'una e dell'altra occupazione con l'ordinamento che segue.

[3] Da Pasqua fino al primo ottobre, la mattina da quando escono da Prima sin quasi all'ora quarta si occupino nei vari lavori necessari; [4] dalla quarta sino all'ora in cui celebreranno Sesta attendano allo studio.

[5] Dopo l'ora sesta poi, quando si sono alzati da tavola, si riposino sui loro letti in perfetto silenzio; se qualcuno però vorrà starsene a leggere da solo, legga pure per conto suo, ma in modo da non disturbare gli altri. [6] E si celebri Nona un po' più presto, verso la metà dell'ora ottava, e di nuovo vadano ai lavori assegnati, fino a vespro. [7] Se poi le condizioni del luogo o la povertà richiedono che gli stessi monaci si occupino nel raccogliere i frutti della terra, non ne siano malcontenti, [8] perché allora sono veri monaci quando vivono col lavoro delle loro mani, come i nostri padri e gli Apostoli. [9] Tutto però si faccia con discrezione, tenendo conto dei più deboli.

[10] Dal primo ottobre fino all'inizio della Quaresima, attendano allo studio fino a tutta l'ora seconda; [11] finita questa, si celebri Terza, e fino a Nona tutti si occupino nel lavoro ad essi prescritto.

[12] Appena poi si dà il primo segnale di Nona, ciascuno smetta di lavorare; e si trovino tutti pronti quando suonerà il secondo segno. [13] Dopo la refezione poi attendano alle loro letture o ai salmi.

[14] Nei giorni di Quaresima, dal mattino fino a tutta l'ora terza si diano alle loro letture e poi fino a tutta l'ora decima si applichino al lavoro ad essi imposto. [15] In questi giorni di Quaresima ciascuno riceva un libro della biblioteca, e lo legga per ordine da capo a fondo. [16] Tali libri devono essere consegnati al principio di Quaresima.

[17] Si pensi bene poi ad affidare ad uno o due seniori il compito di girare per il monastero nelle ore in cui i fratelli attendono alla lettura, [18] e di osservare se per caso non vi sia qualche fratello fannullone che si dà all'ozio o alle chiacchiere e non si occupa nella lettura, sicché non solo è inutile a sé stesso, ma disturba pure gli altri. [19] Se si trovasse - non sia mai - un fratello simile, venga ripreso una prima e una seconda volta; [20] se non si emenda, soggiaccia al castigo regolare in tal misura che gli altri ne abbiano timore. [21] Né un fratello si accompagni a un altro nelle ore non permesse.

[22] Anche la domenica si diano tutti alla lettura, eccetto quelli che siano assegnati all'uno o all'altro ufficio. [23] Se poi qualcuno fosse così negligente e svogliato da non volere o non potere studiare o leggere, gli s'imponga qualche cosa da fare, perché non stia ozioso. [24] Ai fratelli infermi o di delicata costituzione si assegni un lavoro o un'arte tale che da una parte li mantenga occupati, e dall'altra non li opprima con la soverchia fatica o non li induca ad andar via: [25] la loro debolezza dev'essere dall'abate tenuta in considerazione.

 

Dell'osservanza della Quaresima

Capitolo quarantanovesimo

[1] è vero che in ogni tempo la vita del monaco dovrebbe avere il tenore di una vera Quaresima: [2] tuttavia, poiché tale virtù è di pochi, raccomandiamo che in questi giorni di Quaresima si custodisca la propria vita con somma purezza, [3] e insieme si cancellino, in questi giorni santi, le negligenze degli altri tempi dell'anno. [4] Ora tutto ciò si fa convenientemente, se ci asteniamo da ogni peccato e attendiamo con impegno alla preghiera accompagnata dalle lacrime, alla lettura, alla compunzione del cuore e all'astinenza.

[5] Perciò in questi giorni aggiungiamo qualche cosa all'ordinario compito del nostro servizio, come speciali preghiere o astinenza di cibo o di bevanda, [6] sicché ciascuno oltre alla misura impostagli offra qualcosa a Dio spontaneamente col gaudio dello Spirito Santo: [7] sottragga cioè al suo corpo un po' del cibo, della bevanda, del sonno, della loquacità, della leggerezza, e con gioia di soprannaturale desiderio aspetti la santa Pasqua. [8] Ciò però che ciascuno vuole offrire, lo manifesti umilmente al suo abate, e lo faccia con la sua preghiera ed approvazione, [9] perché quanto si fa senza permesso del padre spirituale, sarà imputato a presunzione e a vanagloria, non a mercede. [10] Tutto quindi deve compiersi con il consenso dell'abate.

 

Dei fratelli che lavorano lontano dall'oratorio o si trovano in viaggio

Capitolo cinquantesimo

[1] I fratelli che sono assai lontano al lavoro e non possono all'ora assegnata accorrere all'oratorio, [2] se l'abate riconosce che la cosa è veramente così, [3] recitino il divino Ufficio sul luogo stesso dove lavorano, piegando le ginocchia con somma riverenza a Dio.

[4] Similmente quelli che sono mandati in viaggio non lascino passare le ore stabilite per l'Ufficio, ma lo recitino per conto loro come meglio possono e non trascurino di soddisfare il debito del loro servizio.

 

Dei fratelli che vanno fuori non molto lontano

Capitolo cinquantunesimo

[1] Un fratello che sia inviato fuori per qualche affare con la previsione che possa tornare al monastero in quel medesimo giorno, non ardisca di mangiare fuori, anche se qualcuno, chiunque sia, lo invitasse con insistenza; [2] salvo il caso che l'abate ne abbia dato il permesso. [3] Chi agirà diversamente, sia scomunicato.

 

Dell'oratorio del monastero

Capitolo cinquantaduesimo

[1] L'oratorio sia ciò che dice il suo nome; e in esso non si faccia né si riponga niente di estraneo.

[2] Cessato il divino Ufficio, tutti escano in sommo silenzio, e si abbia gran rispetto a Dio, [3] sicché il fratello che voglia rimanersene a pregare per conto suo non sia impedito dall'importunità altrui. [4] Ma anche se in altri momenti uno desidera pregare in segreto per proprio conto, semplicemente entri e preghi, e non a voce alta, ma con le lacrime ed il fervore interno. [5] Perciò chi non attende all'orazione, quando è finito il divino Ufficio non si creda lecito, come abbiamo detto, di indugiarsi nell'oratorio, perché altri non ne soffrano molestia.

 

Come debbano essere accolti gli ospiti

Capitolo cinquantatreesimo

[1] Tutti gli ospiti che sopraggiungano, siano ricevuti come Cristo, perché Egli dirà: "Fui ospite e mi accoglieste"; [2] e a tutti si renda il conveniente onore, specialmente poi a quanti ci sono familiari secondo la fede, ed ai pellegrini.

[3] Appena dunque è stato annunziato un ospite, il superiore o i fratelli gli vadano incontro con ogni dimostrazione di carità; [4] ma prima preghino insieme, e solo allora si accomunino a lui nella pace.

[5] Tale bacio di pace appunto non dev'essere offerto se non dopo che si è pregato, ad evitare le illusioni diaboliche. [6] Perfino nel modo di salutare si mostri somma umiltà a tutti gli ospiti che giungono o partono: [7] inchinato il capo o prostrato tutto il corpo a terra, si adori in essi Cristo che viene accolto.

[8] Ricevuti dunque gli ospiti, siano condotti all'orazione, e dopo si sieda con loro il superiore o un fratello da lui incaricato. [9] Si legga dinanzi all'ospite la Legge divina per edificarlo, e poi gli si offra ogni segno di premurosa benevolenza.

[10] Il superiore per riguardo all'ospite rompa pure il digiuno, purché non si tratti d'uno speciale giorno di digiuno che non possa esser violato; [11] i fratelli invece seguano i consueti digiuni.

[12] L'acqua alle mani la versi agli ospiti l'abate; [13] i piedi a tutti gli ospiti li lavino sia l'abate che tutta la comunità, [14] e finita la lavanda dicano questo verso: "Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel mezzo del tuo tempio".

[15] I poveri e i pellegrini siano accolti con particolari cure ed attenzioni, perché specialmente in loro si riceve Cristo, mentre ai ricchi si porta rispetto per la stessa soggezione che incutono.

[16] La cucina dell'abate e degli ospiti sia a parte, di modo che in qualunque ora vengano all'improvviso gli ospiti, che nel monastero non mancano mai, i fratelli non ne siano disturbati. [17] A prestare servizio in questa cucina entrino per tutto un anno due fratelli ben adatti a tale compito. [18] A loro, secondo che ne abbiano bisogno, si procurino degli aiuti, perché servano senza mormorare; quando invece mancano di lavoro, vadano ad occuparsi dove viene loro comandato. [19] E non solo per essi, ma anche per tutti gli ufficiali del monastero sia questa la norma, [20] che quando hanno bisogno di aiuti, ne vengano provvisti, e quando invece sono liberi, si occupino dove vuole l'obbedienza.

[21] Similmente la foresteria sia affidata ad un fratello che abbia l'anima posseduta dal timore di Dio; [22] in essa vi sia un numero sufficiente di letti arredati, e la casa di Dio sia amministrata da saggi e saggiamente.

[23] Nessuno poi, se non ne ha ricevuto l'incombenza, si accompagni o parli con gli ospiti; [24] ma se li incontra o li vede, li saluti umilmente, come abbiamo detto, e chiesta la benedizione passi oltre, dicendo che non gli è permesso di parlare con l'ospite.

 

Se il monaco debba ricevere lettere o altra cosa

Capitolo cinquantaquattresimo

[1] Non sia affatto permesso al monaco, senza il consenso del suo abate, di ricevere dai suoi parenti o da alcun'altra persona, né di dar loro, né di scambiare con gli altri fratelli lettere, o pii regali, o qualsiasi piccolo dono. [2] Se anche dai suoi parenti gli fosse mandata qualche cosa, non ardisca di accettarla senza averne prima avvisato l'abate.

[3] E l'abate, anche se consentirà che si riceva, avrà libera facoltà di consegnarla a chi vuole; [4] né perciò si rattristi il fratello a cui la cosa era stata inviata, perché non si presti occasione al demonio.

[5] Chi poi oserà fare altrimenti, sia sottoposto alla disciplina regolare.

 

 

Delle vesti e delle calzature dei fratelli

Capitolo cinquantacinquesimo

[1] Le vesti si diano ai fratelli secondo le condizioni e il clima dei luoghi dove abitano, [2] perché nelle regioni fredde se ne ha più bisogno, nelle calde meno. [3] Giudicare di questo spetta dunque all'abate. [4] Noi tuttavia, per i luoghi temperati, riteniamo che bastino per ciascun monaco la tunica, la cocolla [5] (una pelosa per l'inverno, ed una liscia o già vecchia per l'estate), [6] lo scapolare per il lavoro, le calze e le scarpe per ricoprire i piedi.

[7] Del colore o della qualità di tutti questi indumenti i monaci non facciano questione, ma si contentino di quelli che possono trovarsi nella regione dove abitano e di ciò che può comprarsi a minor prezzo. [8] Quanto però alla misura, l'abate provveda che le vesti non siano corte per quelli che devono usarle, ma di giusto taglio.

[9] Nel ricevere vesti nuove restituiscano lì per lì le vecchie, da riporre nella guardaroba per i poveri. [10] Basta infatti al monaco avere due tuniche e due cocolle, perché si possano cambiare la notte e si abbia l'agio di lavarle; [11] quel che è in più, è già superfluo: e deve eliminarsi. [12] Anche le calze ed ogni oggetto usato lo restituiscano quando ricevono il nuovo. [13] Quelli che sono mandati in viaggio abbiano i femorali dalla guardaroba, ed ivi pure, al ritorno, li riportino lavati. [14] Anche le cocolle e le tuniche per il viaggio siano alquanto migliori di quelle che hanno usualmente; nell'uscire per il viaggio le prendano dal vestiario e al ritorno le restituiscano.

[15] Come arredamento del letto siano sufficienti il pagliericcio, la coperta leggera, quella pesante, e il guanciale.

[16] I letti poi devono essere sovente ispezionati dall'abate, chissà non vi si trovi qualcosa di proprietà privata. [17] E se a qualcuno si scoprirà una cosa che non abbia ricevuta dall'abate, gli si applichi una gravissima punizione. [18] E perché questo vizio della proprietà sia strappato fin dalle radici, l'abate dia tutto ciò che è necessario, [19] cioè la cocolla, la tunica, le calze, le scarpe, la cintura, il pugnale, lo stilo, l'ago, il fazzoletto, le tavolette, in modo da togliere ogni pretesto di bisogno. [20] L'abate però abbia sempre presente quella sentenza degli Atti degli Apostoli, che si dava a ciascuno secondo le sue necessita (At. [4], [35] ). [21] Allo stesso modo dunque anche lui tenga conto delle necessità dei bisognosi, non della cattiva volontà degl'invidiosi; [22] nondimeno in tutte le sue decisioni si ricordi del giudizio di Dio.

 

Della mensa dell'abate

Capitolo cinquantaseiesimo

[1] La mensa dell'abate sia sempre con gli ospiti e con i pellegrini. [2] Quando poi ci sono pochi ospiti, egli può chiamarvi i fratelli che vuole. [3] Ma uno o due seniori bisogna sempre lasciarli con i fratelli per la disciplina.

 


Di quelli che esercitano un'arte nel monastero

Capitolo cinquantasettesimo

[1] Se nel monastero vi sono fratelli esperti in qualche arte, la esercitino pure, ma con tutta umiltà e solo con il consenso dell'abate. [2] Se però qualcuno di loro s'insuperbisce per la perizia che ha nell'arte sua, perché crede di portare un utile al monastero, [3] costui sia tolto dall'esercizio di quell'arte e non vi sia più ammesso, salvo che non si umilii e l'abate non glielo permetta di nuovo.

[4] Se poi qualche prodotto del lavoro di tali artigiani si debba vendere, quelli che hanno l'incombenza di trattare la cosa siano cauti a non commettere alcuna frode: [5] si ricordino sempre di Anania e Safira, perché la morte che questi subirono nel corpo, [6] essi e tutti quelli che avranno defraudato le sostanze del monastero non abbiano a soffrirla nell'anima.

[7] Negli stessi prezzi poi non s'insinui il vizio della cupidigia, [8] ma si venda sempre a prezzi un po' inferiori a quelli correnti fra i secolari, [9] perché in tutto sia glorificato Dio.

 

Della procedura per l'accettazione dei fratelli

Capitolo cinquantottesimo

[1] Quando un nuovo aspirante viene alla vita monastica, non lo si ammetta tanto facilmente; [2] ma, come dice l'Apostolo, "provate gli spiriti, se siano secondo Dio". [3] Se dunque chi è venuto persevererà a picchiare, e dopo quattro o cinque giorni si vedrà che ha saputo tollerare con pazienza le ingiurie inflittegli e la difficoltà dell'ingresso, e che persiste ancora nella sua domanda, [4] gli si conceda d'entrare, e stia per pochi giorni nella foresteria.

[5] Dopo invece dimori nel locale dei novizi, dove essi si esercitino, mangino e dormano. [6] E venga destinato a loro un anziano che sia adatto a guadagnare anime; ed egli li scruti con somma attenzione. [7] Si preoccupi di osservare se il novizio cerchi davvero Dio, se sia fervoroso per l'Opera di Dio, per l'obbedienza, per la tolleranza delle umiliazioni.

[8] Gli si prospetti tutto ciò che di duro e di penoso ha la strada che conduce a Dio. [9] Se prometterà d'essere perseverante nella sua stabilità, dopo che sono passati due mesi gli si legga per ordine questa Regola, [10] e gli si dica: Ecco la legge sotto la quale vuol militare; se puoi osservarla, entra, se non puoi, va' pure via liberamente.

[11] Se ancora persisterà, venga condotto nel suddetto locale del noviziato e di nuovo sia provato in ogni esercizio di pazienza. [12] Dopo il corso di sei mesi gli si legga la Regola, perché sappia quale vita intende abbracciare. [13] E se ancora sta fermo, dopo quattro mesi gli si rilegga ancora una volta la medesima Regola.

[14] Se poi dopo matura riflessione prometterà di esser fedele in tutto e di eseguire ogni prescrizione, allora sia accolto nella comunità; [15] ma sappia bene che anche l'autorità della Regola stabilisce che non gli è ormai più lecito da quel giorno uscire dal monastero, [16] né scuotere il collo da quel giogo della Regola, che sì lunga ponderazione ebbe libertà di declinare o di accettare.

[17] Il novizio che dev'essere ammesso prometta nell'oratorio alla presenza di tutti la sua stabilità, la conversione dei suoi costumi e l'obbedienza, [18] dinanzi a Dio e ai suoi Santi, perché, se dovesse un giorno far diversamente, sappia che ne sarà condannato da Colui del quale si burla.

[19] Di tale promessa rediga una carta di petizione nel nome dei Santi di cui si conservano lì le reliquie, e dell'abate presente. [20] Questa carta la scriva lui di sua mano, oppure, se egli è ignaro di lettere, la scriva a sua richiesta un altro, e quel novizio vi apponga un segno; di sua mano poi la collochi sull'altare. [21] Quando ve l'ha posta, il novizio cominci subito a cantare questo verso: "Accoglimi, Signore, secondo la tua parola, e vivrò: e non mi lasciar deluso nelle mie speranze". [22] Tutta la comunità risponda al versetto per tre volte e aggiunga infine il Gloria al Padre.

[23] Allora quel fratello novizio si prostri ai piedi di ciascuno, perché preghino per lui, e da quel giorno sia ormai computato fra i membri della comunità.

[24] Se ha delle sostanze, o le dispensi prima ai poveri, o le passi al monastero con una donazione legale, non riservando per sé nulla di tutti i suoi beni, [25] poiché sa che da quel giorno egli non sarà più padrone neppure del proprio corpo.

[26] Subito dopo dunque sia spogliato nell'oratorio degli abiti propri che indossa e sia vestito di quelli del monastero. [27] Quelle vesti però che ha smesse, siano riposte nel guardaroba per esservi conservate, [28] in modo che, se un giorno dovesse - non sia mai - acconsentire al diavolo e uscire dal monastero, venga svestito della roba del monastero e mandato via. [29] Quella sua carta però che l'abate prese dall'altare, non gli si restituisca, ma rimanga custodita nel monastero.

 

Dei figli di ricchi o dei poveri che vengono offerti

Capitolo cinquantanovesimo

[1] Se mai qualche ricco offre il figlio a Dio nel monastero, e il fanciullo è ancora minorenne, i genitori stendano la petizione suddetta, [2] e con l'oblazione della Messa avvolgano la carta della petizione e la mano del fanciullo nella tovaglia dell'altare, e così lo offrano.

[3] Dei loro beni poi in quella carta promettano sotto giuramento, che né da sé, né per interposta persona, né in qualunque altro modo gli daranno mai alcuna cosa, né gli presteranno mai occasione di averla; [4] oppure, se non vogliono far ciò e desiderano per compenso offrire qualcosa al monastero in elemosina, [5] facciano regolare donazione al monastero dei beni che intendono dare, riservandosene, se così preferiscono, l'usufrutto. [6] E tutte le vie siano precluse in tal modo, che al fanciullo non rimanga nessun appiglio di illusione per cui possa - non sia mai - ingannarsi e perire: ciò che abbiamo appreso per esperienza.

[7] Allo stesso modo procedano quelli di condizione meno agiata. [8] Coloro poi che non possiedano affatto nulla, stendano semplicemente la petizione e con l'oblazione del Sacrificio offrano il loro figlio dinanzi a testimoni.

 

Dei sacerdoti che volessero stabilirsi nel monastero

Capitolo sessantesimo

[1] Se qualcuno dell'ordine sacerdotale domanda di esser ricevuto nel monastero, non gli si acconsenta troppo presto. [2] Tuttavia se persevera con insistenza in tale richiesta, sappia che egli dovrà osservare tutta la disciplina della Regola; [3] né alcun punto di essa verrà mitigato a suo favore, sicché gli si potrà dire come sta scritto: "Amico, a qual fine sei venuto?".

[4] Gli si conceda nondimeno di prendere posto dopo l'abate, di benedire e di celebrare la Messa, purché l'abate glielo comandi, [5] altrimenti non pretenda in alcun modo nulla, convinto di essere soggetto alla disciplina regolare; anzi a tutti offra esempi di umiltà.

[6] E se occorrerà nel monastero la nomina ad un ufficio o qualche altro grave affare, [7] egli sia considerato secondo il posto che gli spetta per anzianità d'ingresso nel monastero, non secondo quello che gli è stato concesso per riverenza al sacerdozio.

[8] Se poi qualche chierico, spinto dallo stesse desiderio, vorrà essere aggregato al monastero, sia collocato in un posto intermedio, [9] ma anche lui a condizione che prometta l'osservanza della Regola e la propria stabilità.

 

Come debbano accogliersi i monaci pellegrini

Capitolo sessantunesimo

[1] Se un monaco pellegrino, sopraggiunto da lontane regioni, vuole abitare come ospite nel monastero [2] ed è contento del tenore di vita che trova nel luogo e non turba con le sue pretese la comunità, [3] ma si contenta con semplicità di ciò che trova, sia pure ricevuto per quanto tempo desidera. [4] Anzi, se egli ragionevolmente e con umile carità biasima o suggerisce qualche cosa, l'abate esamini prudentemente se il Signore non lo abbia inviato proprio a questo fine.

[5] Se poi dopo vorrà stabilirsi definitivamente nel monastero, non si respinga questo suo desiderio, tanto più che nel tempo in cui vi ha dimorato si è potuta ben conoscere la sua vita.

[6] Se però mentre è stato ospite si è dimostrato troppo esigente o vizioso, non solo non deve venire aggregato al corpo della comunità, [7] ma dev'essere anche con bel garbo invitato a partirsene, perché dalla sua miseria non soffrano contagio pure gli altri.

[8] Se invece non è tale da meritare l'espulsione, non solo lo si accolga in comunità se egli ne fa richiesta, [9] ma anche lo si persuada a rimanere, affinché gli altri imparino dal suo esempio: [10] del resto in ogni luogo si serve al medesimo Signore e si milita per il medesimo Re.

[11] Anzi, se l'abate s'accorgerà che ne sia meritevole, potrà pure collocarlo ad un posto alquanto più elevato. [12] E non solo ad un monaco, ma anche ad uno che venga dai suddetti gradi dei sacerdoti o dei chierici, l'abate può assegnare un posto superiore a quello dovuto per l'ingresso nel monastero, se ha notato che la loro condotta lo merita.

[13] Badi bene però l'abate a non ammettere mai nella propria comunità un monaco d'un altro noto monastero senza il consenso o le lettere commendatizie del suo abate, [14] perché è scritto: "Ciò che non vuoi fatto a te, non farlo ad altri".

 

Dei sacerdoti del monastero

Capitolo sessantaduesimo

[1] Se un abate vorrà che un monaco gli venga ordinato sacerdote o diacono, scelga tra i suoi chi sia degno di esercitare l'ufficio sacerdotale.

[2] L'ordinato poi si guardi dalla vanagloria e dalla superbia, [3] e non ardisca far nulla fuori di ciò che l'abate gli comanda, ricordandosi di dover essere più degli altri sottomesso alla disciplina regolare.

[4] Né col pretesto del suo sacerdozio dimentichi l'obbedienza alla Regola e la disciplina, ma anzi progredisca sempre più nelle vie di Dio.

[5] Conservi sempre il posto che gli spetta secondo il suo ingresso in monastero [6] eccetto che per le funzioni dell'altare, e salvo il caso che il voto della comunità e la volontà dell'abate non lo abbiano promosso per il merito della sua vita. [7] Ma anche allora sappia che gli tocca osservare la disciplina stabilita riguardo ai decani ed ai priori.

[8] Se oserà agire diversamente, sia considerato non sacerdote ma ribelle. [9] E se, avvertito più volte, non si correggerà, si chiami anche il vescovo a testimone. [10] Se poi non si emenderà neppure così e le sue colpe diverranno sempre più manifeste, venga espulso dal monastero, [11] purché però sia stato così ostinato da non volere sottomettersi ed obbedire alla Regola.

 

Dell'ordine della comunità

Capitolo sessantatreesimo

[1] Tutti nel monastero conservino i loro posti secondo la distinzione determinata dal tempo d'ingresso, o dal merito della condotta, o dalla volontà dell'abate. [2] L'abate però non scompigli il gregge che gli è stato affidato, né comandi alcuna cosa ingiustamente quasi facendo uso d'un potere dispotico; [3] ma pensi sempre che di tutti i suoi giudizi ed azioni dovrà rendere conto a Dio.

[4] Dunque secondo i posti che stabilirà lui o che i fratelli avranno da sé, così si seguano nell'andare al bacio di pace e alla Comunione, nel cantare i salmi, nello stare in coro; [5] e in tutti i luoghi l'età non dev'essere criterio di distinzione né di preferenza per i posti, [6] perché Samuele e Daniele ancora fanciulli furono giudici degli anziani. [7] Perciò, eccetto quelli che, come abbiamo detto, per ragioni superiori e per fondati motivi l'abate avrà preposti o degradati, tutti gli altri abbiano il posto secondo il tempo in cui sono entrati: [8] sicché, per esempio, chi è venuto in monastero alla seconda ora del giorno deve ritenersi più giovane di chi è venuto alla prima ora, qualunque sia la sua età o il suo grado sociale. [9] Per i fanciulli però in tutto e da tutti si conservi la disciplina.

[10] I più giovani onorino dunque quelli che sono più anziani di loro, gli anziani amino i più giovani. [11] Nello stesso chiamarsi a nome, nessuno si permetta di chiamare un altro col semplice nome, [12] ma gli anziani diano ai giovani l'appellativo di "fratelli", e i più giovani usino per gli anziani il nome di "nonni", che significa "Paterna Riverenza".

[13] L'abate poi, giacché si sa per fede che fa le veci di Cristo, sia chiamato "signore" e "abate", non per presunzione sua, ma per onore ed amore di Cristo. [14] Dal canto suo egli pensi alla sua dignità, e si dimostri meritevole di tale onore.

[15] Dovunque i fratelli s'incontrano, il più giovane chieda la benedizione al più anziano; [16] quando passa un anziano; il più giovane si alzi e gli offra da sedere; né ardisca di sedersi con lui se l'anziano non glielo permetta, [17] perché si avveri ciò che è scritto: "Prevenitevi a vicenda nel rendervi onore".

[18] I fanciulli piccoli e gli adolescenti nell'oratorio e a mensa conservino secondo la disciplina i loro posti; [19] fuori invece e in qualunque altro luogo stiano sotto custodia e disciplina, finché non giungano all'età della discrezione.

 

Dell'elezione dell'abate

Capitolo sessantaquattresimo

[1] Nell'elezione dell'abate si segua il criterio di costituire in tale ufficio colui che sia stato scelto da tutta la comunità concordemente secondo il timore di Dio, o anche solo da una parte di essa, sia pure piccola, ma con più savio consiglio. [2] Chi poi dev'essere costituito abate sia scelto in base alla dignità della vita e alla scienza delle cose spirituali, anche se fosse l'ultimo nell'ordine della comunità.

[3] Se invece i monaci anche tutti d'accordo eleggessero - non sia mai - una persona che consentisse ai loro vizi, [4] e tali vizi venissero per qualunque via a sicura conoscenza del vescovo alla cui diocesi quel luogo appartiene, o degli abati o dei cristiani vicini, [5] essi impediscano che prevalga il concorde volere dei cattivi e stabiliscano un degno amministratore alla casa di Dio: [6] sapendo che ne riceveranno copiosa mercede, se lo faranno con rettitudine d'intenzione e per zelo dell'onore di Dio, mentre al contrario commetterebbero una colpa se non se ne curassero.

[7] Chi poi è stato costituito abate, pensi sempre qual peso s'è addossato e a chi dovrà rendere conto della sua gestione. [8] Sappia che è suo dovere più il giovare che il comandare. [9] Bisogna dunque ch'egli sia versato nella conoscenza, della legge divina, perché abbia la perizia e la materia per trarre insegnamenti nuovi e antichi; sia casto, sobrio, indulgente [10] e sempre faccia prevalere la misericordia sulla giustizia, per meritare anche lui lo stesso. [11] Odii i vizi, ami i fratelli.

[12] Anche nel punire agisca con prudenza, e sia attento a non eccedere, perché non avvenga che mentre vuol troppo raschiare la ruggine, si rompa il vaso: [13] consideri sempre con diffidenza la sua fragilità e ricordi che la canna percossa non bisogna spezzarla. [14] Con ciò non intendiamo dire che permetta il fomentarsi dei vizi, ma che deve stroncarli con prudenza e carità, secondo che gli parrà più conveniente per ciascuno, come già dicemmo; [15] e si sforzi d'essere amato piuttosto che temuto.

[16] Non sia turbolento ed agitato, non sia petulante ed ostinato, non geloso e troppo sospettoso, perché non avrebbe mai pace; [17] negli stessi suoi comandi sia previdente ed assennato, e tanto se la cosa ch'egli impone è d'indole spirituale, quanto se riguarda gli affari temporali, egli proceda con discernimento e moderazione, [18] tenendo presente la discrezione del santo patriarca Giacobbe che diceva: "Se i miei greggi li farò stancare troppo a camminare, mi morranno tutti in un solo giorno".

[19] Seguendo dunque questi ed altri ammaestramenti della discrezione, la quale è madre delle virtù, regoli tutto in modo che i forti abbiano di che esser bramosi e i deboli d'altra parte non si sgomentino.

[20] E soprattutto serbi intatta in ogni punto la presente Regola, [21] perché, dopo aver bene amministrato, possa udire dal Signore ciò che udì il buon servo che aveva dispensato il frumento ai suoi compagni nel tempo opportuno. [22] "In verità vi dico (egli afferma), gli diede potere sopra tutti i suoi beni".

 

Del priore del monastero

Capitolo sessantacinquesimo

[1] Spesso purtroppo accade che per la nomina del priore sorgano nei monasteri gravi scandali, [2] perché ci sono alcuni che, gonfi del maligno spirito della superbia, pensano di essere altrettanti abati, e arrogandosi un'autorità assoluta, nutrono scandali e provocano dissensi nelle comunità, [3] specialmente in quei luoghi dove dal medesimo vescovo o da quei medesimi abati che stabiliscono in carica l'abate, viene stabilito anche il priore.

[4] Quanto ciò sia irragionevole è facile comprenderlo, poiché fin dal principio stesso del suo ufficio gli viene offerta materia per insuperbirsi; [5] i suoi pensieri infatti gli suggeriranno che egli è indipendente dall'autorità abbaziale: [6] perché anche tu sei stato stabilito in carica da quelli stessi che hanno stabilito l'abate.

[7] Da qui ecco nascere invidie, liti, detrazioni, rivalità, dissensi, disordini; [8] sicché, mentre l'abate e il priore discordano l'uno dall'altro, le loro stesse anime necessariamente vengono per tale scissione a trovarsi in pericolo, [9] e i loro sudditi, parteggiando per l'uno o per l'altro, vanno in perdizione. [10] Situazione disastrosa, la cui responsabilità risale, come a fonte, a quelli che provocarono un tale disordine.

[11] Perciò noi abbiamo giudicato necessario, per la conservazione della pace e della carità, che dalla volontà dell'abate dipenda tutta l'organizzazione del suo monastero. [12] E se è possibile, tutte le esigenze del cenobio vengano regolate, come sopra disponemmo, per mezzo di decani, secondo che avrà prescritto l'abate, [13] perché, ripartendosi il compito tra più persone, uno da solo non s'insuperbisca.

[14] Ma se o il luogo lo richiede, o la comunità ragionevolmente ed umilmente lo domanda, e l'abate lo giudica conveniente, [15] egli stesso scelga uno col consiglio di fratelli timorati di Dio, e se lo costituisca lui nell'ufficio di priore.

[16] E il priore, dal canto suo, faccia con gran rispetto tutto ciò che gli venga ingiunto dal suo abate, nulla operando contro la volontà e le disposizioni di lui, [17] perché quanto più è stato elevato sugli altri, tanto maggior sollecitudine deve mostrare nell'osservare le prescrizioni della Regola.

[18] Se poi si vedrà che il priore è vizioso, o che sedotto dalla vanagloria fa il superbo, o che si mostra apertamente spregiatore della santa Regola, lo si avverta oralmente fino alla quarta volta. [9] Se non si correggerà, gli si applichi la punizione della disciplina regolare. [20] Ma se non si emenderà neppure così, allora sia deposto dal suo grado di priore e gli venga sostituito un altro che ne sia degno. [21] E se anche dopo non sarà quieto e obbediente nella comunità, sia pure espulso dal monastero. [22] Pensi però l'abate che di tutti i suoi giudizi dovrà rendere conto a Dio: non dovesse mai la fiamma dell'invidia e della gelosia bruciargli l'anima!

 

Dei portinai del monastero

Capitolo sessantaseiesimo

[1] Alla porta del monastero si ponga un vecchio assennato, che sappia ricevere e dare un'ambasciata, e trovi difficile, per la sua età avanzata, l'andar vagando qua e là.

[2] Il portinaio dovrà avere la sua abitazione presso la porta, perché quelli che arrivano trovino sempre presente chi possa dar loro una risposta. [3] E appena qualcuno busserà o un povero chiamerà, egli risponda: Deo gràtias, oppure: Bènedic; [4] e con tutta la mansuetudine suggerita dal timore di Dio venga incontro alle sue richieste con premura e fervore di carità.

[5] Se il portinaio ha bisogno d'aiuto, gli si dia un fratello più giovane.

[6] Il monastero poi, se è possibile, dev'essere organizzato in modo che tutte le cose necessarie, cioè l'acqua, il molino, l'orto e le officine delle diverse arti si trovino dentro l'àmbito del monastero [7] perché i monaci non abbiano alcuna necessità di andar vagando fuori: ciò che non giova assolutamente alle anime loro.

[8] Vogliamo poi che questa Regola si legga spesso in comunità, perché nessun fratello possa addurre il pretesto di ignorarla.

 

Dei fratelli mandati in viaggio

Capitolo sessantasettesimo

[1] I monaci che devono esser mandati in viaggio, si raccomandino alla preghiera di tutti i fratelli e dell'abate; [2] e sempre all'ultima orazione dell'Ufficio divino si faccia memoria di tutti gli assenti.

[3] I fratelli poi che rientrano dal viaggio, il giorno stesso in cui ritornano, a tutte le Ore canoniche quando finisce il divino Ufficio, si prostrino a terra nell'oratorio [4] e chiedano a tutti che si preghi per loro, a causa delle mancanze in cui siano potuti incorrere nel viaggio, vedendo o ascoltando qualcosa di male o trattenendosi in discorsi oziosi.

[5] E nessuno ardisca riferire ad altri alcunché di ciò che fuori del monastero abbia visto o udito, perché sarebbe un'ingente rovina. [6] Se qualcuno l'osasse, sia sottoposto alla pena regolare.

[7] Così pure sia punito chi ardisse uscire dalla cinta del monastero, o recarsi ad un luogo qualunque, o fare qualsiasi minima cosa senza licenza dell'abate.

 

Se ad un fratello vengano comandate cose impossibili

Capitolo sessantottesimo

[1] Se ad un fratello viene ingiunto per caso qualcosa di difficile o addirittura d'impossibile, accolga egualmente il comando del superiore con tutta mansuetudine e spirito d'obbedienza. [2] Se però vedesse che il peso del carico impostogli supera del tutto la misura delle sue forze, con pazienza ed al momento opportuno faccia presenti al superiore le ragioni della sua impossibilità, [3] senza atteggiamento di superbia o di resistenza o di contraddizione.

[4] Ma se, dopo tale umile esposizione, il superiore rimarrà fermo nel suo comando, sappia il suddito che gli conviene di fare a quel modo, [5] e animato dalla carità, confidando nell'aiuto di Dio, obbedisca.

 

Che nel monastero l'uno non ardisca difendere l'altro

Capitolo sessantanovesimo

[1] Bisogna del tutto evitare che nel monastero per qualunque motivo l'uno ardisca difendere l'altro o quasi proteggerlo, [2] anche se fossero congiunti da un qualsiasi legame di parentela. [3] Non osino i monaci in alcun modo scendere a questo disordine, perché ne può nascere gravissima occasione di scandali.

[4] Se qualcuno mancasse a questa prescrizione, sia punito molto severamente.

 

Che nessuno osi percuotere arbitrariamente gli altri

Capitolo settantesimo

[1] Si eviti nel monastero ogni occasione di azioni arbitrarie; [2] perciò stabiliamo che a nessuno sia permesso di scomunicare o battere qualche suo fratello, se non a chi ne abbia ricevuto l'autorità dall'abate. [3] I trasgressori di questo precetto siano ripresi dinanzi a tutti, perché anche gli altri ne concepiscano timore. [4] I fanciulli però, fino all'età di quindici anni, siano tenuti in disciplina e custoditi diligentemente da tutti; [5] ma si usi anche in ciò somma moderazione e buon senso.

[6] Chi poi sui fratelli adulti si arrogasse in qualche modo un simile potere senza facoltà dell'abate, oppure sugli stessi fanciulli ardisse infierire senza discrezione, soggiaccia alla disciplina regolare, [7] perché è scritto: "Ciò che non vuoi fatto a te, non farlo ad altri".

 

Che i fratelli si obbediscano a vicenda

Capitolo settantunesimo

[1] Non solo nei riguardi dell'abate devono tutti esercitare la virtù dell'obbedienza, ma i fratelli devono anche obbedirsi l'un l'altro, [2] convinti che per questa via dell'obbedienza andranno a Dio.

[3] Anteposto dunque il comando dell'abate o dei superiori da lui costituiti, comando a cui non per mettiamo che si preferiscano quelli privati, [4] nel resto tutti i fratelli più giovani obbediscano a quelli più anziani di loro con somma carità e premurosa diligenza. [5] Se qualcuno si mostra riluttante, sia punito.

[6] Se poi qualche fratello viene ripreso dall'abate o da qualunque superiore per qualsiasi motivo anche minimo ed in qualsiasi modo, [7] oppure s'accorge che l'animo di un superiore qualunque e adirato o anche leggermente eccitato contro di lui, [8] subito si getti senza indugio a terra ai piedi di lui, e rimanga così a dare soddisfazione, finché l'altro con la sua benedizione non mostri di essersi calmato. [9] Chi per disprezzo trascurasse di compiere un tale atto, sia sottoposto alla punizione corporale; se poi fosse ostinato, venga espulso dal monastero.

 

Dello zelo buono che devono avere i monaci

Capitolo settantaduesimo

[1] Come vi è un maligno zelo di amarezza che allontana da Dio e conduce all'inferno, [2] così vi è uno zelo buono, che allontana dai vizi e conduce a Dio ed alla vita eterna. [3] Ed è dunque in questo zelo che i monaci devono esercitarsi con ardentissimo amore: [4] si prevengano cioè l'un l'altro nel rendersi onore; [5] sopportino con somma pazienza a vicenda le loro infermità fisiche e morali; [6] si prestino a gara obbedienza reciproca; [7] nessuno cerchi l'utilità propria, ma piuttosto l'altrui; [8] si voglia bene a tutti i fratelli con casta dilezione; [9] temano Dio nell'amore; [10] amino il loro abate con sincera ed umile carità; [11] nulla assolutamente antepongano a Cristo, [12] il quale ci conduca tutti alla vita eterna.

 

 

Che non tutte le norme per la perfezione sono contenute in questa Regola

Capitolo settantatreesimo

[1] Questa Regola poi l'abbiamo abbozzata, affinché con l'osservarla nei monasteri diamo prova in qualche modo di avere almeno dignità di costumi e un certo avviamento di vita monastica.

[2] Ma per chi vuole procedere celermente verso la perfezione di tale vita, vi sono i precetti dei santi Padri, che fedelmente praticati sono ben atti a condurre l'uomo al culmine della virtù.

[3] Quale pagina infatti o quale parola d'autorità divina del Vecchio e del Nuovo Testamento non è rettissima norma per la vita umana? [4] O quale libro dei santi Padri cattolici non ci esorta consistenza a correre per via diritta verso il nostro Creatore? [5] Così pure le "Collazioni", le "Istituzioni" e le "Vite dei Padri", e la Regola del nostro santo Padre Basilio, [6] che altro sono se non strumenti di virtù per i monaci buoni ed obbedienti?

[7] Noi invece, svogliati, cattivi e negligenti, abbiamo di che arrossire e confonderci.

[8] Chiunque pertanto tu sia che ti affretti alla patria celeste, poni in pratica con l'aiuto di Cristo questa minima Regola per principianti appena delineata; [9] e allora a quelle più alte vette di dottrina e di virtù, che abbiamo sopra menzionate, potrai certo facilmente giungere con la protezione di Dio.

Amen.