HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
SENECA
DE PROVIDENTIA
Tu mi chiedi, Lucilio, perché, se Dio si prende cura del mondo,
accadono ai buoni tante disgrazie. L'argomento
esigerebbe una trattazione più ampia, inquantoché
si dovrebbe prima discutere e dimostrare se e vero che l'universo è
retto da una legge provvidenziale e che Dio si cura effettivamente di noi, ma poichè tu mi domandi di affrontare una sola parte
del problema, per risolvere il tuo quesito, senza approfondire l'intera
questione, farò una cosa semplicissima: assumerò,
cioè, la difesa di Dio. innanzitutto è
superfluo dimostrare, a lmeno per il momento, come
un'opera di così vasta portata qual è l'universo possa sussistere
senza che alcuno la sorvegli e come il regolare e costante corso delle stelle,
nel loro duplice moto di avvicinamento e di allontanamento, non sia dovuto ad
un impulso casuale - cosa impossibile inquanto tutto
ciò che si muove disordinatamente si scompiglia e dà di cosso, mentre queste rotazioni procedono senza intoppi,
sotto la spinta ordinata di una legge eterna, portando sulla terra e nel mare
un'enorme quantità di esseri animati e inanimati e sparpagliando nel
cielo un gran numero di chiarissime stelle rilucenti secondo un ordine che le colloca
ciascuna in un posto preciso e determinato. Né serve dimostrare come tutto
quest'ordine non possa attribuirsi ad una materia
cieca, che vaghi a caso, e come degli elementi aggregatisi fortuitamente
possano restare sospesi nel vuoto, con tale e tanta arte da far sì che
l'enorme mole della terra se ne rimangaimmobile a
contemplare il cielo che le gira intorno nel solerte e veloce moto degli astri,
e consentire che i mari s'insinuino nelle valli, rendendo le terre permeabili
affinché i fiumi poi nel riversarsi non abbiano a straripare, e come infine da
piccoli semi possano nascere organismi viventi tanto grandi. E anche quei
fenomeni che sembrano oscuri e irregolari - cioè le piogge, le nubi, lo
sprigionarsi e l'abbattersi dei fulmini, le lave incandescenti che traboccano
dai crateri dei vulcani, le scosse della terra che vacilla sotto i nostri piedi
e tutti quegli altri rivolgimenti che si verificano nell'atmosfera che circonda
la terra - per quanto imprevedibili, non accadono senza una ragione, ma hanno
anch'essi le loro cause, non meno di quei fenomeni che sembrano miracoli inquanto accadono in luoghi diversi da quelli in cui,
secondo noi, dovrebbero verificarsi, come le sorgenti d'acqua calda nel bel
mezzo del mare o l'emergere improvviso di nuove e vaste isole
nell'immensità dell'oceano. Se poi osserviamo le spiagge prosciugarsi e
ribagnarsi nel moto alterno delle onde che cadenzando si ritraggono e
rifluiscono in breve spazio di tempo, possiamo mai pensaree
che questo flusso e riflusso, che ora cede ed ora riconquista la propria sede, sia dovuto al caso? Al contrario, le onde
crescono e si riversano sulla spiaggia con un ritmo periodico, in giorni ed ore
stabiliti, alzandosi e abbassandosi secondo l'attrazione esercitata dalla luna,
che determina appunto il rigonfiarsi e lo straripamento della massa marina. Ma
rimandiamo ad altro tempo la discussione su tutti questi fenomeni, tanto
più per il fatto che tu non metti in dubbio la provvidenza, ma te ne
lamenti: io voglio riconciliarti con Dio e dimostrarti che non è
ingiusto coi buoni. Del resto è legge di natura che un bene non possa nuocere ad un altro bene. Tra gli uomini virtuosi e la
divinià c'è uno stretto legame di
amicizia, costituito dalla virtù, anzi un legame più che di
amicizia, costituito dalla virtù, anzi un legame più che di
amicizia di parentela e di somiglianza inquantoché
l'uomo buono differisce da Dio solo per via del tempo, voglio dire perché non
è eterno come lui, che, da quel padre meraviglioso che è, ma
anche esigente in fatto di virtù, lo educa quale suo figlio vero, e
discepolo ed emulo, più duramente di quanto non educhi gli altri, come
del resto fanno tutti i padri severi. Perciò quando vedi gli uomini
buoni - che come ho detto sono cari a Dio - affannarsi, sudare e arrampicarsi
lungo difficili pendii, mentre i malvagi se la spassano e nuotano nei piaceri
lascivi della carne, pensa quanto ci diletti vedere i nostri figli costumati di
fronte a quelli, sfacciati, della servitù, e come mentre i nostri li
teniamo a freno con una dura disciplina alimentiamo così la sfrontatezza
degli altri. La stessa idea devi farti di Dio: Egli non tiene l'uomo buono in
mezzo ai piaceri, ma lo mette alla prova, lo irrobustisce, e in questo modo lo
fa degno di sé. "Ma se vuole farli degni di sé, per quale ragione Dio
manda ai buoni tante discrazie?"
Innanzitutto ti ripeto che a un uomo buono non pu&ogravo;
capitare nulla che possa dirsi propriamente un male: i contrari, infatti, non
si mescolano fra loro. Come la quantità dei fiumi, delle piogge che
cadono dal cielo e delle sorgenti curative non altera la salsedine del mare, né
tanto meno l'elimina, così l'assalto delle avversità non intacca
l'animo dell'uomo forte: questi rimane saldo nel suo stato e nelle sue convinzioni, piegando gli eventi a sé, non sé agli
eventi, perché ha un potere superiore a tutto ciò che lo circonda. Non
dico che sia insensibile alle avversità, dico
che le vince, e anche se abitualmente è tranquillo e pacifico, quando
quelle gli si buttano addosso sa ergervisi contro e rintuzzarle. Per lui le
avversità non hanno altra funzione ed altro
scopo che di esercitare la sua virtù. E quale uomo, degno di questo
nome, che sia dedito all'onestà, non aspira ad essere all'onestà, non aspira ad essere messo giustamente alla
prova, o non è pronto a fare il suo dovere anche sapendo di rischiare?
Così l'ozio è una sofferenza per chi sia nato
all'azione. Guarda gli atleti, che, attenti come sono alle proprie forze, si
battono con avversari più gagliardi di loro, anzi, durante
l'esercitazione, chiedono e pretendono dagli allenatori che li preparano alla
gara di scaricargli contro tutte le loro energie, e incassano colpi su colpi, e se non trovano uno che sia almeno pari a loro, si
battono contemporaneamente con più di un avversario. La virtù si
rammollisce se non ha chi la contrasti, e solo quando dimostra quale peso
può reggere rivela la sua grandezza e la sua
forza. Convinciti dunque che l'uomo buono deve comportarsi nel medesimo modo:
non temere durezze e difficoltà, non lagnarsi se il destino gli &avverso,
accogliere come un bene, o trasformarlo in tale, qualunque male gli accada; e
non importa quale ma come egli riesce a sopportarlo.
Guarda la differenza fra l'amore di un padre e quello di una madre: il padre
esige che i figli s'alzino di buon'ora per dedicarsi
alle loro occupazioni, non vuole che riposino neppure nei giorni festivi, gli
fa versare lacrime e sudore; la madre, invece, vorrebbe coccolarseli in seno,
fargli scudo, a difesa d'ogni tristezza, d'ogni pianto
e fatica. Ebbene, Dio verso i buoni ha l'animo di un padre, li ama, ma senza
debolezze o cedimenti, e dice: "Le fatiche, i dolori e le sventure li
tengono sempre vigili, così acquisteranno una forza autentica,
vera". Le bestie che ingrassano nell'inoperosità s'indeboliscono e
non solo non sono capaci di compiere alcuno sforzo ma
non riescono nemmeno a muoversi e a sostenere il loro stesso peso. Una
felicità che non conosca assalti al minimo
colpo vacilla, chi invece è costretto a lottare incessantemente contro
le avversità della vita finisce col farci il callo e non cade davanti ad
alcun male, e anche se cade continua a combattere in ginocchio. Ora ti
meravigli che un Dio così amorevole verso i buoni, che desidera ottimi e
superiori agli altri, assegni loro un destino che li tenga
sempre addestrati? Io, per me, non mi meraviglio affatto se talvolta gli viene
il ghiribizzo di vedere degli uomini virtuosi alle prese con qualche disgrazia.
Anche a noi piace spesso guardare un giovane deciso e valoroso attendere a pie' fermo, col giavellotto in pugno, la belva che
s'avventa contro di lui, il balzodel leone,
senz'alcuna paura, e lo spettacolo ci è tanto più gradito quanto
più coraggioso è colui da cui ci viene
offerto. Ma non a simili imprese si volge l'occhio di Dio: questi sono
giochetti puerili, passatempi dell'umana leggerezza. Ecco invece uno spettacolo
degno di essere guardato da un Dio intento alla sua opera, ecco l'uguale, pari
alla divinità: un uomo forte in lotta contro la sorte avversa, e meglio
ancora se quella lotta l'ha provocata lui. Non so davvero quale spettacolo
più bello potrebbe vedere Dio sulla terra, quando volesse volgervi lo
sguardo, di quello di Catone, che a dispetto delle tante sconfitte subite dai
suoi se ne sta dritto in mezzo alla generale rovina. Sembra
che dica: "Pur se ogni cosa è caduta sotto il dominio di Cesare e
ormai le sue legioni presidiano la terra e le sue flotte il mare e i suoi
soldati battono alle porte, Catone ha come uscirne: con una sola mano
saprà aprirsi la strada verso la libertà! Codesta spada,
rimasta pura e innocente anche nella guerra civile, compirà finalmente
una buona e nobile impresa: darà a Catone quella libertà che egli
non potè dare alla patria. Esegui, animo mio,
quel gesto già meditato da tempo, ritirati dalle vicende umane! Giuba e Petreio si sono già
scontrati e son caduti l'uno per mano dell'altro: un
patto di morte nobile e coraggioso, ma che non si addice alla grandezza di
Catone: per lui sarebbe una vergogna chiedere ad altri la morte, come pure la
vita". Sono certo che Dio avrà guardato
con somma gioia la scena di quest'uomo così deciso in quel suo gesto
liberatore, dopo aver atteso alla salvezza degli altri organizzandone la fuga,
un uomo che dedicò allo studio anche l'ultima notte, e che alla fine
s'immerse la spada nel petto immacolato aprendosi le viscere con le sue stesse
mani, per liberare così la sua santissima anima che il contatto del
ferro avrebbe indegnamente contaminato. Dio non si accontentò di vederlo
morire d'una morte istantanea - e perciò la ferita prodotta dalla spada
fu imprecisa e poco efficace - ma volle prolungare il suo coraggio perché quel
gesto si ripetesse più volte, in una prova sempre più dura: il
vero eroismo, infatti, non sta tanto nell'affrontare la morte quanto nel
provocarla ripetutamente. E perché Dio non avrebbe dovuto compiacersi di
guardare un figlio suo che se ne usciva dalla scena del mondo con una fine
così esemplare e memorabile? Una simile morte consacra l'uomo
all'immortalità, ed è lodata anche da coloro che ne hanno paura.
Ma, proseguendo nel mio discorso, ti dimostrerò come e perchè
quelli che noi chiamiamo mali siano tali solo
all'aspetto. Per ora ti dico questo, che quegli eventi che tu definisci
difficili, avversi e detestabili, sono utili in primo luogo a quelle stesse
persone che li subiscono e poi anche all'umanità, alla quale Dio guarda
più nell'insieme che nei suoi singoli componenti; inoltre, che essi
capitano a coloro che sono disposti ad accettarli, ché se non fossero
accettati, allora sì sarebbero veramente dei mali e come tali sarebbero
meritati. A chiarimento di questa mia affermazione aggiungerò
che tali eventi, regolati dal destino, toccano ai buoni proprio perchè
sono buoni. Poi ti convincerò
a non compiangere mai un uomo buono, giacché egli è compassionevole solo
all'apparenza, a chi lo guardi superficialmente, ma in realtà non lo
è. Di tutti i punti della questione il più difficile a
comprendersi mi sembra il primo, il fatto, cioè, che degli avvenimenti
spaventosi e tremendi possano giovare a chi li riceve.
"È forse un bene", mi dirai, "essere cacciati in esilio,
ridursi in povertà, veder morti i propri figli, la moglie, essere
tacciati d'infamia, cadere ammalati?" Ascolta: se ti meravigli che simili
accidenti possano giovare a qualcuno, devi anche stupirti del fatto che in certi
casi i malati vengano curati col fuoco e col ferro,
oppure con la fame e con la sete. Se poi pensi che ad
alcuni , per guarirli, vengono raschiate od asportate ossa, sfilate vene e
tolte delle membra, che restano attaccate al corpo lo ucciderebbero, devi
convenire che anche certe disgrazie sono di vantaggio a chi le subisce,
così come certi piaceri, che pur sono lodati e desiderati, finiscono per
nuocere a chi li ha goduti, simili alle indigestioni, alle ubriacature e ad
altre cose del genere che uccidono proprio attraverso il piacere. Fra i detti
memorabili del mio amico Demetrio c'è anche questo, fresco
fresco, che ancor più infelice che una
felicità senza disgrazie". Chi infatti non
ha mai messo alla prova la sua felicità non è propriamente
felice. Dio non si fa buon concetto di un uomo a cui
tutto fili liscio, secondo i suoi desideri o addirittura anticipandoli; non
può ritenerlo degno se non ha affrontato e vinto almeno una volta le
avversità della sorte, la quale fugge i vigliacchi, quasi dicesse:
"Perchè dovrei scegliermi costui come rivale? Non c'è gusto : deporrebbe subito le armi. Non potrei sperimentare contro
di lui tutte le mie forze, quando una mia semplice
minaccia lo abbatterebbe. Non reggerebbe neppure il mio sguardo. È
meglio che mi cerchi qualcun altro con cui attaccar battaglia. Mi vergogno di
battermi con chi rinuncia alla lotta e si dichiara vinto in partenza". Il
gladiatore considera disonorevole l'essere messo di fronte ad un avversario
meno forte di lui, perché sa che non c'è glorai
in una vittoria senza rischi. Così fa pure la sorte: cerca rivali degni di lei. Certi uomini li guarda con disprezzo e
passa oltre, assale solo i più decisi ed ostinati contro cui poter dirigere tutta la sua forza: usa il fuoco con
Muzio, la povertà con Fabrizio, l'esilio con Rutilio, la torttura con Regolo, il veleno con Socrate, il suicidio con
Catone. i grandi esempi sono possibili solo nella
sventura. è forse infelice Muzio perchè
impone la destra sul fuoco nemico punendola egli stesso per lo sbaglio commesso?
Quella mano che armata non seppe uccidere il re e che ora, bruciata, riesce a
metterlo in fuga? Sarebbe stato più lieto se quella mano l'avesse
riscaldata nel seno dell'amante? È forse infelice Fabrizio
quando vanga il suo campicello?, in quel tanto
di libertà che gli rimane dagli affari di Stato? O perchè muove
guerra contro Pirro e al tempo stesso contro le ricchezze? O perchè,
seduto accanto al fuoco, si ciba di quelle stesse erbe e radici che di sua mano
ha raccolto nel pulire il suo orto, lui, vecchio e glorioso trionfatore?
Sarebbe forse stato più felice se si fosse rimpinzato di pesci
provenienti dai lidi più lontani o di uccelli forestieri, se avesse
stuzzicato il suo stomaco pigro e riluttante con le ostriche dell'Adriatico e del
Tirreno, o guarnito con montagne di frutta la pregevole selvaggina catturata
con tanta strage dai cacciatori? È infelice Rutilio, quando i giudici
che gli hanno inflitto quella condanna dovranno risponderne alla Storia per
tutti i secoli futuri? Lui, che ha sofferto di essere strappato alla patria con
più serenità che se fosse scampato all'esilio? Infelice per aver
lui solo risposto no al dittatore, quando, pur richiamato da Silla, non soltanto non ritornò ma
fuggì ancora più lontano? "Se la sbrighino", gli disse,
"quei disgraziati che in Roma sono rimasti abbindolatidalla
tua felicità, quella felicità di cui
usurpasti il nome, facendoti chiamare, per la tua era, Felice. Guardino i fiumi
di sangue nel foro, le teste mozze dei senatori sulla fontana di Servilio, covo
di assassini delle tue proscrizioni, le squadracce dei tuoi sicari sparpagliati
per la città e le tante migliaia di romani trucidati in massa, dopo il
pegno d'incolumità che gli era stato dato, anzi
proprio per questo. Se lo guardi un tale spettacolo chi non ha il privilegio
dell'esilio!" Ed è forse felice lo stesso Silla,
quando, recandosi al foro, deve aprirsi la strada a colpi di spada, o quando
gli si mostrano le teste dei consolari e fa segnare dal questore sui registri
dello Stato le taglie da pagare per quelle stragi? Ed è lui che fa tutto
questo, proprio lui che ha emanato la legge Cornelia contro i sicari e gli
avvelenatori! Veniamo a Regolo, ora: quale danno gli fece mai la sorte?, quando lo assunse a modello di lealtà e di
coraggio? I chiodi gli si conficcano nelle carni, dovunque si appoggi, il suo
corpo straziato riceve ferite su ferite, i suoi occhi sono sospesi in una
veglia senza fine; ma quanto più nero è lo
strazio tanto più luminosa risplende la sua gloria. Vuoi sapere
se si è pentito di aver pagato a questo prezzo la sua lealtà? Risucitalo e rimandalo in Senato: sarà sempre dello
stesso parere. E ancora: credi tu più felice Mecenate, quando, eccitato dalle sue voglie amorose e mortificato dai quotidiani
rifiuti di una moglie lunatica e capricciosa, cerca di conciliarsi il sonno al
dolce suono di melodie lontane? Si stordisca pure col vino, si distragga allo
scroscio fragoroso delle acque, inganni pure con mille piaceri il suo animo
esulcerato: resterà sveglio sul suo letto di
piume come Regolo sulla sua croce. Ma Regolo almeno ha il conforto di aver
patito tale strazio in nome della sua lealtà, quando da quella
sofferenza volge lo sguardo alla causa, nobilissima, che l'ha generata;
Mecenate, invece, snervato dai piaceri e schiavo della troppa felicità,
è tormentato più dalla causa della sua pena che dalla pena stessa. I vizi non sono ancora così padroni del
mondo da far dubitare che se potessimo scegliere il nostro destino vi sarebbero
più Regoli che Mecenati, o addirittura che se uno ardisse confessare di
preferire a Regolo Mecenate, in realtà vorrebbe essere Terenia. Pensi che Socrate sia stato trattato male da Dio,
quando bevve, come se fosse un filtro per l'immortalità, il veleno
fornitogli dallo Stato e disputò sulla morte sino a che questa non lo
ghermì? Che male gliene venne quando il sangue
gli si gelò e, diffondendosi il freddo a poco a poco, la vita gli si
spense nelle vene? Quanto più invidiabili è lui di fronte a chi
beve nettari prelibati sentro coppe ingemmate, mentre
magari un giovane lascivo, rotto ad ogni libidine, evirato o di sesso ambiguo,
gli versa neve disciolta da un calice dorato! Uomini siffatti vomiteranno tutto
ciò che han bevuto, sentendone il più
totale disgusto nel riguardo della loro bile, mentre Socrate bevve lieto e tranquillo
il suo veleno. Quanto a Catone se n'è già detto abbastanza, e
tutti saranno concordi nel riconoscere che gli è toccato il massimo
della felicità, visto che la natura lo ha scelto quale oggetto delle sue
più terribili prove: "È pericoloso avere nemici potenti?
Mettiamolo allora di fronte a Pompeo, a Cesare e a Crasso contemporaneamente.
È umiliante essere scavalcati dai peggiori nelle cariche pubbliche?
Posponiamolo a Vatinio. È duro trovarsi in
mezzo ad una guerra civile? Combatta allora in tutto il mondo per una buona
causa e con tanto insuccesso quanta è la sua ostinazione. È duro
darsi la morte? lo faccia. A che pro tutto questo?
Perchè gli uomini sappiano che non sono mali codesti, se ho giudicato
Catone degno di simili prove". Considera ora questo: la buona fortuna
può capitare anche ad un plebeo o ad una persona spregevole, ma è
solo dell'uomo grande vincere le disgrazie e le paure. Inoltre l'essere sempre
felici, il passare indenni la vita significa ignorarne l'altra metà.
Come fai a sapere che sei un grand'uomo, se la sorte
non t'offre l'occasione di dimostrare il tuo valore? Se scendi nell'arena dei
giochi olimpici e ci sei solo tu a misurati puoi prenderti la corona ma non la
vittoria, ed io non posso congratularmi con te come si fa con un uomo forte,
posso solo stringerti la mano, come ad uno che ha conseguito la pretura o il
consolato: un'onorificenza, niente di più. Lo stesso potrei dire ad un
uomo buono se nessuna difficoltà di un certo rilievo gli ha mai dato
modo di dimostrare la sua forza d'animo. "Ti giudico infelice
perchè non sei mai stato infelice",
così gli direi. "Hai passato la vita intera senza mai misurarti con
qualcuno o qualcosa che ti contrastasse. Nessuno
potrà mai sapere quanto vali in realtà, nemmeno tu stesso." Per conoscersi, infatti, bisogna dar prova di sé, le
proprie forze non si apprendono se non sperimentandole. Per questo alcuni,
invece di aspettarle, visto che quelle tardano a venire, vanno incontro alle
disgrazie volontariamente e cercano loro l'occasione per mettere in luce una
virtù che diversamente resterebbe nell'ombra. Gli uomini forti talvolta
si rallegrano delle avversità come della guerra i soldati valorosi. Al
tempo dell'imperatore Tiberio il gladiatore Trionfo - come io
stesso ho potuto sentire - si lamentava della scarsezza di quelle competizioni:
"un'età sprecata!", diceva. La virtù è avida di
pericoli e guarda dritto alla meta, non a quel che devepatire,
perché sa che anche le sofferenze fanno parte della gloria. I soldati valorosi
sono fieri delle loro ferite e mostrano con gioioso orgoglio il sangue che cola
dalla corrazza: anche se chi esce illeso da una
battaglia ha compiuto le stesse imprese, la nostra ammirazione è
maggiore per chi ne torna ferito. Dio, ripeto, si prende cura di quegli uomini
che vuole perfetti, offrendo loro l'occasione di agire con coraggio e con
fermezza, ma ciò comporta delle difficoltà: un
buon timoniere lo si vede nella tempesta, come un buon soldato nella
battaglia. Se nuoti nella ricchezza non posso sapere di quanta forza d'animo tu
disponga per affrontare la povertà. Allo stesso
modo come posso conoscere la tua fermezza di fronte all'infamia, al disonore e
all'odio popolare, se invecchi fra gli applausi, se ti accompagna sempre un
consenso generale che non conosce crolli e oscillazioni perchè dovuto a
un moto di simpatia spontanea verso di te? Come posso sapere con
quale animo sei in grado si sopportare la perdita di uno dei tuoi figli,
se quelli che hai generato li hai tutti vivi e presenti davanti a te? So, per
averti sentito, che sei bravo a consolare gli altri, ma sarestti
capace di fare altrettanto con te, anzi, di non soffrire per niente? In nome di
Dio, non abbiate timore di tutti questi mali, che sono solo degli stimoli per
provare l'animo umano! La sventura non è che un pretesto per mettere a
nudo la virtù. Si possono dire infelici, e giustamente, quelli che ipigriscono in un'eccessiva felicità, a cui un'inerzia stagnante impedisce persino di muoversi,
come non ci si muove su un mare liscio e tranquillo non intaccato dal vento.
Sono infelici perchè non solamente i mali ma
qualunque cosa gli accada li troverà impreparati: le disgrazie infatti
fanno più male a chi non le ha mai provate. Il giogo, insomma, pesa sui
colli delicati, la recluta si sbianca al solo pensiero di una ferita, il
veterano, invece, guarda impassibile il proprio sangue in quanto sa che a
questo deve le sue vittorie. Perciò Dio mette alla prova, irrobustisce e
tiene in esercizio quelli che ama ed apprezza, mentre lascia indifesi di fronte
alle disgrazie proprio quelli che sembra prediligere e risparmiare. Ma poi
nessuno è completamente immune dai mali: anche chi è stato a
lungo felice avrà la sua parte d'ìinfelicità,
sarà solo una proroga, non un'esclusione. "Perchè
allora", mi dirai, "tante malattie, tanti
lutti, tanti guai capitano proprio ai migliori?" Per la stessa ragione per
cui in guerra le imprese più rischiose sono assegnate ai più
forti. Come un generale sceglie i soldati più abili per
le sortite notturne contro il nemico, per esplorare la strada o togliere
di mezzo un avamposto - e nessuno di quelli pensa di essere malvisto dal
comandante ma al contrario ciascuno è convinto di essere nelle sue
grazie - così da Dio, e così devono dire coloro ch'Egli chiama
alla sventura, di fronte alla quale si arrendano soltanto i timidi e i
vigliacchi: "Dio ci ha prescelti per mostrare al mondo quanto sia forte la
natura umana". Così parlano costoro. Fuggite, o uomini, i piaceri, fuggite la molle prosperità che svigorisce l'animo,
stordito come in un'eterna ebbrezza, se non s'imbatte in qualcosa che lo
risvegli, che lo faccia riflettere sulla fragilità del nostro destino
mortale! Chi tiene sempre chiusi i vetri delle finestre perché non passi un
filo d'aria, chi si ripara i piedi dal freddo con pannicelli o scaldini
rinnovati continuamente e pranza in sale riscaldate da tubature che passano
sulle pareti e sotto il pavimento, è fatale che si ammali al minimo
soffio di vento. Come ogni eccesso nuoce, così anche una smodata
felicità è dannosissima: fa infatti girare
la testa, evoca nella mente fantasie strane, frammette una diffusa nebbia tra
il falso e il vero. Meglio sopportare un'infelicità senza fine sostenuti
dalla virtù, piuttosto che schiattare tra infiniti e sfrenati piaceri.
Meglio morire di fame che non d'indigestione. Dio si comporta con i buoni come
un maestro con i suoi scolari: pretende di più da coloro qui quali conta
di più. Non è certo per odio che gli Spartani fanno frustare
pubblicamente i loro figliuoli, ma per temprarne il carattere. E i padri stessi,
del resto, li esortano a sopportare le nerbate con forza e con coraggio, e
anche quando i loro corpi sono già pieni di piaghe e come privi di vita
li persuadono a nuovi colpi e a nuove ferite. Che
c'è di strano, dunque, se Dio tenta con dure prove gli animi generosi?
Non è facile dar segno della propria virtù. Sopportiamo le piaghe
della sorte, quando essa ci assale e ci flagella, non per masochismo, ma perché
si tratta di una battaglia, e saremo tanto più forti quanto più
spesso la sosterremo. La parte più robusta del nostro corpo è
quella sottoposta a stimoli maggiori e più frequenti. Dobbiamo esporci
agli assalti della cattiva sorte per uscire rafforzati dalle sue stesse
percosse: sarà lei a poco a poco a farci uguali a sè
e la continua familiarità col rischio ce ne darà anche il
disprezzo.È cosí che
il fisico dei marinai s'incallisce alla rigida vita del mare e le mani dei
contadini s'induriscono al lavoro. Non c'è disprezzo del male se prima
non lo si sopporta, e se si vuole avere un'idea di
quanta pazienza sia capace l'uomo si guardi quanto renda la fatica a quei
popoli che sono privi di ogni cosa e fatti duri dal bisogno. Osserva tutte
quelle genti a cui si è spinta la pace romana,
intendo dire i Germani e quanti altri s'incontrano errabondi nella regione
dell'Istro: un inverno continuo, interminabile, un
cielo grigio li opprime, una terra infeconda li nutre a malapena; si riparano
dalla pioggia in capanne di paglia e di rami, camminano su acque stagnanti
indurite dal gelo e vanno a caccia di belve, loro unico cibo. Ti sembrano
infelici? No, non c'è infelicità in ciò che l'abitudine ha
trasformato in una condizione di vita naturale, tanto che quel che s'è
cominciato a fare per necessità a poco a poco diventa persino piacevole.
Quei nomadi non hanno altra casa, altra dimora che
quella occasionale in cui li porta di giorno in giorno, per riposarsi, il loro
spostarsi continuo e senza meta. Perdipiù
vanno a corpo nudo, in un clima così rigidamente ostile, mangiano poco e
quel poco devono procurarselo con le proprie mani. Ebbene, questa che a te
sembra una disgrazia, per tanti popoli è la vita. Non ti stupire,
dunque, se gli uomini buoni sono così tartassati, in ciò sta
appunto la loro forza. Un albero non diventa solido e robusto se non è
continuamente investito dal vento e sono queste raffiche che ne fanno il fusto
compatto e ne rinsaldano le radici, che si abbarbicano con maggior forza al
terreno; fragili sono invece quegli alberi che crescono in una valle
tranquilla, esposta solo ai raggi del sole. Perciò nel loro stesso
interesse, affinchè nulla possa atterrirli,
è necessario che i buoni attraversino spesso esperienze dolorose,
sopportando con animo sereno ciò che non è di
per se stesso un male ma che diventa tale solo per chi non è
disposto a sopportarlo. Va poi considerato un altro fatto: è
nell'interesse di tutti che i migliori siano, per così dire, sempre
sotto le armi. Il fine di Dio, che poi è anche
quello dell'uomo saggio, è di dimostrare che tutto ciò che si
desidera o si teme non è né buono né cattivo, di per sé. Dovrebbe essere
un bene ciò che Dio concede solo ai buoni e un male ciò che
assegna solamente ai cattivi, ma noi detesteremo la cecità se perdessero
gli occhi soltanto quelli che lo meritano, quindi è necessario che
perdano la vista anche un Appio e un Metello. Le ricchezze non sono un bene e
perciò le possiede pure un magnaccia come Elio, così gli uomini
che hanno consacrato il denaro nei templi possono vederlo anche nel postribolo.
Dio non avrebbe potuto inventare un espediente migliore per togliere valore
alle cose desiderate dagli uomini che dandole ai peggiori e negandole ai
migliori. "Ma non è giusto", mi dirai, "che un uomo buono
perda una gamba, sia storpiato, trafitto o incatenato,
e i cattivi invece se ne vadano in giro col corpo integro e sano, tutti sciolti
e schizzinosi." Ah no? E allora è giusto che uomini forti prendano
le armi, passino le notti negli accampamenti e montino di vedetta con le ferite
ancora fasciate, mentre in città i pervertiti se ne stanno al sicuro
esercitando il loro sporco mestiere? È giusto che delle nobili vergini
si alzino di notte per compiere riti sacri mentre le provergini si alzino di notte per compiere riti sacri
mentre le prostitute se la dormono saporitamente? La fatica chiama i migliori.
Il Senato passa spesso in sedute l'intera giornata e intanto gli sfaccendati
nel Campo Marzio si trastullano col loro dolce gli sfaccendati nel Campo Marzio
si trastullano col loro dolce far niente, si chiudono in una bettola o
consumano il tempo in qualche circolo. Lo stesso accade in questo grande Stato
che è l'umana società, dove sono i buoni a faticare, ad
impegnarsi, a lasciarsi impegnare, e lo fanno anche
volentieri. Non subiscono la sorte passivamente ma le
vanno dietro e si mettono al passo con lei; la precederebbero pure, se
conoscessero la strada. Mi ricordo di avere udito da quel fortissimo uomo di
Demetrio anche queste ardite parole: "Dio immortale, di una sola cosa ti
rimprovero, di non avermi fatto conoscere in anticipo la tua volontà: mi
sarei infatti mosso io per primo a quella prova a cui
tu ora mi chiami. Vuoi qualche pezzo del mio corpo? Prendilo: non posso darti molto ma presto te lo restituirò tutto intero. Lo
vuoi subito? Sia: perché dovrei indugiare a rimettere nelle tue mani ciò
che tu m'hai prestato? Sono pronto a restituirti, e di buon grado, tutto
ciò che vorrai chiedermi. Questo solo mi dispiace, che avrei preferito
offrirti tutte queste cose come beni miei personali, che non si trattasse, cioè, di una restituzione. Con me non
avevi bisogno di riprendertele, quando io te le donavo spontaneamente. Ma anche
così, dopotutto, non me le porti via, perchè si porta via una cosa solo a chi vuole tenersela". Io non
mi sento né sono costretto ad alcunché da niente e da nessuno, nulla patisco o
faccio contro la mia volontà inquanto il mio volere è il volere di Dio, con cui concordo
pienamente e di cui quindi non sono schiavo, perché so che tutto si svolge
secondo una legge ben precisa e progettata per l'eternità. È il
destino che ci guida e tutta la nostra vita è stata già
stabilita, sin dal momento della nascita, tutte le cause, tutte
le situazioni, umane e non umane, sono interdipendenti, concatenate, l'una
legata all'altra, in una lunga serie che determina i fatti, sia pubblici che
privati. Bisogna dunque accettare tutto con coraggio, giacché, contrariamente a
quel che noi crediamo, le cose non capitano a caso ma
vengono tutte da una causa. Fin dal tempo dei tempi è stabilito di che
uno goda o pianga e benché le vite dei singoli
individui siano all'apparenza così diverse fra loro la conclusione,
nell'insieme, è una sola: tutto è mortale, noi come le cosse che
ci sono date. Perché dunque indignarsi? Perché lamentarsi? Siamo nati alla
morte: la natura disponga dunque a suo piacimento di queste vite materiali che
appartengono a lei, ma ciò ch'è nostro - l'anima, voglio dire -
non morirà, ed è questa convinzione che deve renderci forti e
sereni di fronte a tutto. L'uomo buono s'affida al destino: è un grande
conforto, e anche un risarcimento, sentirsi trascinati con l'intero universo,
suoi compartecipi in tutto. Consoliamoci, pensando come a quella legge di
necessità, quale che essa sia, che ha stabilito per noi questa vita e questa morte, sia soggetto Dio stesso: un corso irrevocabile
trascina con sé, parimenti, le cose umane e le cose divine. Dio, padre e
reggitore di tutto il creato e di tutti i destini, non
può non seguire le leggi ch'egli stesso ha fissato: una volta che le ha
ordinate deve rispettarle sino alla fine. "Ma Dio", tu mi chiedi,
"nel distribuire agli uomini le varie sorti, ha assegnato ai buoni povertà, ferite e morti premature: non
è ingiustizia questa?" Ti rispondo subito. Il punto fondamentale
è questo: l'artefice non può cambiare la materia, che per essere
tale è soggetta a delle leggi precise, in virtù delle quali certe
cose non si possono separare da altre, ma formano insieme ad
esse come un tutt'uno, organico e indivisibile. Così, ad esempio,
nell'uomo i caratteri deboli, portati al sonno, o ad una veglia molto simile ad
esso, sono costituiti, necessariamente, da elementi
inerti; per un uomo forte, invece, e degno di rispetto, ci vuole un tessuto
più solido, giacché per lui è previsto un cammino difficile,
dovrà salire, scendere, essere sballottato dalle onde, reggere la nave
nella burrasca, mantenere dritta la rotta contro la sorte avversa, dovrà
affrontare molti ostacoli, molti pericoli, ch'egli stesso però
riuscirà a rimuovere e ad appianare, proprio perché tale è la sua
costituzione. Come il fuoco prova l'oro, così la sventura gli uomini fortti. Ascolta sino a che punto il valore dell'uomo sia destinato a salire e vedrai perché il suo cammino non
può andare per vie sicure e tranquille. Ardua è la strada
all'inizio e tale che al primo mattino, anche se freschi, già stanchi
sono i cavalli. La cima splende nel cielo più alto tanto ch'io stesso,
se appena guardo la terra e il mare, son preso da un
vile terrore. L'ultimo tratto discende, ma vuole una guida sicura: Teti, anche lei, nel profondo del mare che sempre
m'accoglie palpita allora per me, temendo ch'io possa cadere. Quando quel
valoroso giovinetto udì queste parole:
"Salgo", esclamò: "mi piace
questo cammino; vale la pena di farlo anche a costo di cadere". Ma il
padre non cessò d'intimorire quell'animo ardimentoso: Quando tu voglia
tenere, senza sbagliare, la strada, tieni diritto il
corso conntro le corna del Toro, sino all'arco di Emonio, alle fauci del truce Leone. A queste parole:
"Aggioga il carro", fece il giovinetto. "Ciò che dici per
spaventarmi mi eccita ancora di più. Voglio salire là, dove lo
stesso Sole si sgomenta." Lasciamo ai pigri e ai
vili le vie piane e sicure: i valorosi salgono alle vette. Ora, quanto alla
domanda perché mai Dio permette che ai buoni accada qualcosa di male, concluderò dicendo che in realtà non lo permette,
che Egli, anzi, dal male li tiene lontani: essi infatti
non compaiono delitti, non commettono infamie, non hanno pensieri malvegi, ambizioni smodate, la lussuria che accieca, l'avidità sembre
bramosa dei beni altrui. Dio si prende cura dei buoni e li difende, ma si
può mai pretendere che ne sorvegli pure i bagagli? Essi stessi del
resto, lo dispensano dal far questo, quando non danno alcuna importanza a quei
bagagli, voglio dire, alle cose sensibili e materiali. Democrito
non si sbarazzò forse delle ricchezze, ritenendole un peso alla
virtù? Perché dunque ti meravigli se Dio lascia che accada ad un uomo bono ciò ch'egli stesso vuole che gli accada? Gli
uomini buoni perdono i propri figli. Ma se sono essi stessi che li uccidono, a
volte? Sono cacciati in esilio. Ma se spesso sono loro a lasciare la patria per
non farvi più ritorno? Vengono uccisi. E che?
Non si tolgono forse essi stessi la vita, certe volte? Ma perché devono
sopportare delle prove così dure? Per insegnare a sopportarle agli
altri: "Cos'avete da rimproverarmi, voi che avete scelto la retta via? Gli
altri li ho circondati di beni falsi, avvolgendo e illudendo le
loro povere menti come in un lungo e ingannevole sogno, li ho rivestiti
d'oro e d'argento, ma dentro non hanno niente che valga. Guardateli
nell'intimo, non nel loro aspetto esteriore, quelli che chiamate felici,e vedrete quanto siano meschini, squallidi e turpi. Come le
belle pareti delle loro case: così sono fuori, ma dentro!... La loro non è una vera felicità, è
soltanto una crosta, e perdipiù sottile. Per
questo, finché riescono a tenersi in piedi e a mostrarsi come gli piace,
abbagliano e infinocchiano gli altri, ma appena barcollano o si scoprono per
qualche improvviso accidente, allora si vede quanta reale ed estesa sporcizia
si nascondeva sotto quello splendore artificiale. A voi buoni ho dato dei beni
sicuri, durevoli, che quanto più si girano e si rigirano per guardarli
da tutte le parti tanto più risultano splendidi
e grandi; a voi ho concesso di non tenere in alcun conto le cose che agli altri
fanno paura, di disprezzare le passioni. La luce vostra è di dentro,
è lì che sono i vostri beni. Così l'universo non ha cura e
non gioisce del suo aspetto esteriore, ma della sua
intima essenza. Ogni mio bene io l'ho riposto in voi. La vostra felicità
sta nel non aver bisogno di felicità. "Ma sono tanti i mali che ci
colpiscono, dolorosi, terribili e duri a sopportarsi."
Ed io, dal momento che non potevo privarvi di essi, vi
ho dato le armi per combatterli. Sopportateli dunque con coraggio: in questo
potete superare lo stesso Dio, perché Lui è al di fuori di ogni
sopportazione, voi ne siete al di sopra. Disprezzate il dolore: o riuscirete a
liberarvene o sarà lui a liberare voi.
Disprezzate la morte: non è che una fine o un passaggio, per voi.
Disprezzate la sorte: non le ho dato alcuna arma che possa colpire voi. Ma
soprattutto ho disposto che nessuno al mondo possa
costringervi ad alcunché contro il vostro volere. Per voi sempre aperta
è l'uscita verso la libertà: se ritiene di non dover combattere,
servitevene. Per questo fra tutte le prove necessarie a cui
ho voluto sottoporvi non ne ho fatta nessuna più facile della morte. Ho
posto la vostra anima come in un pendìo,
sì che, volendo, invece di salire essa possa
discendere ed andarsene via. Vi basta poco per capire quanto sia
breve e spedita la strada che conduce alla libertà: non ho messo
all'uscita della vita tante remore quante ne ho poste invece all'ingresso,
giacché troppo grande sarebbe su di voi il potere della sorte se per morire
occorresse tanto tempo quanto quello che ci vuole per nascere. Ogni momento,
ogni luogo v'insegni quanto sia facile ricusare la
natura, sbattendole in faccia il suo dono. Proprio là dove s'implora la
vita, fra gli altari e i solenni riti sacrificali, imparate a conoscere la
morte. Vedete come basti una piccola ferita per far piombare a terra un grosso
toro e come un uomo con un solo colpo di mano riesca
ad abbattere animali di grande forza, come una lama sottilissima sia
sufficiente a spezzare la giuntura del collo e una volta recisa l'articolazione
che lo connette alla testa l'intera mole del corpo precipiti giù. non è nel profondo che si cela la vita, noon c'è bisogno di alcun pugnale per estirparla,
non serve esplorarne i precordi con una lunga ferita per ritrovarne il nodo: la
morte è a portata di mano, non ho designato un punto fisso e preciso ai
colpi che possono provocarla, qualunque strada le è aperta. Ed è
così rapido l'istante in cui la morte si realizza, quando l'anima si
stacca dal corpo, ch'è impossibile coglierne la velocità. Che un
cappio vi strozzi la gola, che vi soffochi l'acqua, vi si fracassi la testa
sopra la dura terra o il fumo di un incendio vi blocchi il ritmo del respiro,
in qualunque modo la morte si affretta verso di voi. Ed è vergogna
temere per tutto il corso della vita ciò che si compie in un fiat".