HOME
PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro
Novelli … ictus …
SENECA
CONSOLAZIONE ALLA MADRE ELVIA
(Traduzione di Nino Marziano).
(1) Molte volte, mia ottima madre,
ho sentito l'impulso di consolarti e molte volte me ne sono astenuto. Parecchie
ragioni mi spingevano a farlo; prima di tutto mi sembrava che io mi sarei
liberato di tutti i miei mali, se avessi potuto, non dico, porre fine alle tue
lacrime, ma per lo meno asciugarle per un momento; poi capivo che, con
più efficacia, ti avrei rincuorato se mi fossi risollevato io per primo;
infine temevo che la sorte, sconfitta da me, si rivalesse su qualcuno dei miei.
Perciò mi sforzavo in tutti i modi, tenendo una mano sulla mia piaga, di
trascinarmi fino a voi per curare le vostre ferite. (2) Ma ecco che sorgevano
ulteriori ragioni a ritardare il mio proposito. Sapevo che non potevo
contrastare il tuo dolore nella sua iniziale intensità senza il rischio
che le mie parole di conforto lo irritassero ulteriormente; infatti anche nelle
malattie non v'è nulla di più dannoso che una medicina data prima
del tempo. Cosi aspettavo che esso si calmasse da sé e, disposto a ricevere le
cure, si lasciasse toccare e trattare. D'altra parte, benché consultassi tutte
le opere degli scrittori più famosi composte per contenere e mitigare i
dolori, non trovavo l'esempio di nessuno che avesse consoIato i suoi di un
dolore per il quale egli stesso era compianto. Esitavo, quindi, di fronte alla
novità della situazione e temevo che, invece di consolarti, avrei
esacerbato il tuo dolore. (3) E poi, non occorrevano parole nuove, e non
già uno stile banale e quotidiano, a chi, per consolare i suoi, doveva
sollevare il capo dal suo stesso rogo? Ma l'intensità di un dolore che
eccede ogni misura è inevitabile che ci tolga il piacere della parola
dal momento che, talvolta, ci toglie anche la voce. (4) Io, comunque, mi
proverò, non perché abbia fiducia nel mio ingegno, ma perché la
più efficace delle consolazioni può essere il consolatore stesso.
E tu che non mi negheresti nulla, spero non mi negherai neanche questo e
accetterai che io metta un argine al tuo rimpianto benché ogni dolore sia
ostinato.
(1) Vedi quanto io mi riprometto
dalla tua indulgenza; non dubito di essere, nei tuoi confronti, più
forte del tuo dolore anche se per gli sventurati il dolore è tutto. Per
questo non mi scontrerò subito con lui. Prima lo asseconderò e
gli darò di che ravvivarsi: voglio mettere a nudo le ferite e riaprire
quelle che sono già cicatrizzate. (2) Qualcuno dirà: «Che modo di
consolare è questo, rievocando mali già dimenticati e mettendo
l'animo di fronte a tutti i suoi affanni quando a mala pena riesce a
sopportarne uno solo?». Ma sappia costui che i mali, quando sono così
perniciosi da aggravarsi nonostante i rimedi, spesso si curano alla maniera
contraria. Perciò io radunerò per costei tutti i suoi lutti,
tutte le sue disgrazie: questo sarà un metodo di cura non delicato ma
tutto un bruciare e un tagliare. Che cosa otterrò? Che l'animo, che
è già riuscito a superare tante sventure, si vergognerà di
non sopportare una ferita sola in un corpo tutto coperto di cicatrici. (3)
Piangano, dunque, lungamente e si lamentino gli animi deboli di coloro che una
lunga felicità ha reso fiacchi e che crollano all'urto della minima
offesa; ma quelli che hanno trascorso gli anni in mezzo alle disgrazie sapranno
sopportare con virile e tranquilla fermezza anche i colpi più gravi.
L'infelicità ostinata ha un solo vantajgio, che finisce per rendere
forti coloro che continuamente colpisce. (4) La sorte non ti ha concesso
nessuna pausa ai gravissimi lutti. Non ti ha nemmeno risparmiato nel giorno
della tua nascita: appena nata, anzi mentre nascevi, hai perso tua madre e, in
un certo qual senso, fosti lasciata in balia della vita. Sei cresciuta con una
matrigna che, però, spingesti ad esserti madre per tutto il rispetto e
l'affetto di cui può essere capace solo una figlia: d'altronde anche una
buona matrigna non può aversi che a caro prezzo. Avevi uno zio
affezionatissimo, un ottimo uomo e di gran coraggio, lo perdesti mentre
aspettavi il suo arrivo e, come se la cattiva sorte temesse di mostrarsi meno
crudele con te distanziando i suoi colpi, meno di trenta giorni dopo, tu
portasti alla tomba il tuo sposo adorato1 che ti aveva reso madre di tre figli. In
pieno lutto ti fu annunziata questa nuova disgrazia mentre tutti i figli erano
lontani, come se i mali si industriassero a caderti addosso tutti insieme e in
uno stesso tempo e tu non avessi dove trovare un sostegno al tuo dolore. (5)
Tralascio i tanti pericoli, i tanti timori di cui tu sopportasti gli assalti
senza una tregua. Or ora, in quello stesso seno dal quale tre nipoti si erano
allontanati, tu ne raccogliesti le ossa. Venti giorni dopo aver seppellito mio
figlio, morto fra le tue braccia e fra i tuoi baci, avesti la notizia che anche
io ti ero stato tolto. Ti mancava soltanto questo: piangere i vivi.
(1) Quest'ultima è la
più grave di tutte le ferite che hanno colpito il tuo corpo, lo
riconosco. Non ha strappato in superficie la pelle ma ti ha spaccato il cuore e
le viscere. Ma come le reclute urlano anche se sono appena ferite e temono le
mani dei medici più delle spade nemiche, mentre i veterani, anche se
trapassati da parte a parte, con calma e senza un gemito, si lasciano curare
come se non si trattasse del loro corpo, così anche tu ora devi
prestarti con coraggio alla mia cura. (2) Metti da parte i lamenti e le grida e
tutti gli altri atteggiamenti con cui nelle donne, abitualmente, si manifesta
il dolore. Tante disgrazie sono state inutili se non hai ancora imparato ad
essere infelice. E che, non ti pare che ti abbia trattato con poco riguardo? Non
ti ho nascosto nessuno dei tuoi mali, ma te li ho ammucchiati tutti davanti.
(1) Ho fatto questo con molto
coraggio: perché ho deciso di debellare il tuo dolore, non di circoscriverlo. E
lo vincerò, penso, se dimostrerò, innanzi tutto, che niente di
quel che mi capita è tale da farmi ritenere infelice e tanto meno fa
essere tali, per causa mia, i miei familiari; poi, venendo a te,
dimostrerò che anche la tua sorte, che dipende tutta dalla mia, non
è insopportabile. (2) E comincerò, prima di tutto, con ciò
che il tuo affetto desidera sentire, cioè che io non provo alcun male.
Se potrò ti dimostrerò che le cose da cui tu mi ritieni oppresso
non sono poi intollerabili. E, se non riuscirò a convincerti, almeno
avrò la soddisfazione di sentirmi contento in circostanze che, di
solito, rendono infelici. (3) Non credere agli altri su quel che mi riguarda: e
perché tu non debba turbarti per voci infondate, sono io stesso ad assicurarti
che non sono infelice. Ti aggiungerò, perché tu sia ancor più tranquilla,
che non è neppure possibile che io lo diventi.
(1) Noi siamo nati con la
disposizione alla felicità, sempre che non ce ne allontaniamo. La natura
ha fatto in modo che non ci fosse bisogno di gran che per vivere bene: ciascuno
è in grado di essere felice da sé. Le circostanze esterne hanno poca
importanza e non hanno molta influenza né in un senso né in un altro: le cose
favorevoli non esaltano il saggio, né quelle sfavorevoli lo abbattono. Egli,
infatti, si è sempre sforzato di fare affidamento solo su se stesso e di
cercare in se stesso ogni gioia. (2) E allora? Dirò di essere saggio?
Neanche per sogno. Perché se potessi dichiarare una cosa del genere, non solo
negherei di essere infelice, ma sosterrei di essere il più fortunato
degli uomini, giunto vicino a dio.Tuttavia, e questo basta a lenire tutti i
mali, mi sono affidato agli uomini saggi e, non ancora capace di aiutarmi da
solo, mi sono rifugiato nel campo altrui, di quelli, cioè, che sanno con
facilità difendere se stessi e i loro cari. (3) Ed essi mi hanno
ordinato di essere sempre vigile, come a un posto di guardia, e di prevedere
tutte le mosse e tutti gli assalti della sorte prima che caschino addosso. Essa
è dura soltanto per quelli cui giunge improvvisa, mentre la sopporta
facilmente chi l'ha sempre aspettata. Cosi l'assalto dei nemici travolge quelli
che si lasciano sorprendere, ma quelli che con anticipo si sono preparati alla
guerra, ben equipaggiati e ordinati, facilmente ne sostengono il primo urto che
è sempre il più impetuoso. (4) Io non mi sono mai fidato della
fortuna anche quando sembrava promettere pace. Tutti quei beni che
generosamente mi concedeva: ricchezze, onori, favori, io li ho tenuti in tale
considerazione che essa avrebbe potuto riprenderseli senza che io me ne
scomponessi. Ho sempre mantenuto una grande distanza fra loro e me; così
essa se li è ripresi, non è che me li ha strappati. La cattiva
sorte spezza soltanto colui che si lascia ingannare da quella buona. (5) Quelli
che hanno amato i doni della fortuna come beni personali ed eterni, quelli che
per quei doni vogliono farsi ammirare, si abbattono e si disperano quando il
loro animo vuoto e puerile, ignaro di ogni gioia duratura, si sente privato di
quei falsi ed effimeri diletti. Invece chi non insuperbisce nelle liete circostanze,
non si deprime nelle avverse. Mantiene l'animo saldo nell'uno e nell'altro caso
con la sua già provata fermezza, in quanto nella sua stessa
felicità ha già sperimentato ciò che occorre per opporsi
alla cattiva sorte. (6) Perciò io ho sempre ritenuto che non vi fosse
nulla di buono in quelle cose che tutti desiderano e che io ho sempre trovato
vuote e rivestite di colori appariscenti e ingannevoli senza nulla al di dentro
che corrispondesse all'apparenza; ora in quelle cose che sono chiamate mali,
non trovo nulla di così terribile e insopportabile come fa temere la
credenza popolare. La stessa parola, per un certo convincimento e consenso
generale, giunge troppo aspra alle orecchie e colpisce chi la ode come qualcosa
di sinistro e di odioso; così afferma la gente, ma i saggi, in genere,
non badano a ciò che la gente dice.
(1) Tralasciando, dunque, il
giudizio dei più, che, privo com'è di analisi critica, si lascia
ingannare dalla prima apparenza delle cose, vediamo cos'è l'esilio.
Chiaramente è un cambiamento di luogo. E perché non sembri che io voglia
diminuirne l'importanza e sottrargli ciò che ha in sé di svantaggioso,
dirò che questo cambiamento di luogo comporta dei disagi:
povertà, infamia, disprezzo. Ma con questo mi confronterò dopo;
per ora voglio, in primo luogo, esaminare che cosa vi è di sgradevole in
questo cambiamento di luogo. (2) "È una cosa insopportabile vivere
lontani dalla patria." Suvvia, guarda un po' tutta questa gran folla cui
appena bastano le case di questa città immensa: la maggior parte di
questa gente è lontana dalla sua patria. Sono confluiti qui dai loro
municipi, dalle loro colonie, da ogni parte del mondo. Alcuni li ha spinti qui
l'ambizione, altri la necessità di un incarico pubblico, altri
l'incombenza di un'ambasceria, altri la ricerca di un luogo adatto alla loro
lussuria e ricco di vizi, altri il desiderio degli studi liberali, altri quello
di assistere agli spettacoli, alcuni ancora sono stati attirati dall'amicizia,
altri dalla ricerca di maggiori possibilità per esprimere il proprio
talento; qualcuno è venuto per mettere in vendita la propria bellezza,
qualcun altro la propria eloquenza. (3) Non c'è razza umana che non sia
venuta in questa città che paga a caro prezzo le virtù come i vizi.
Chiamali per nome tutti costoro e chiedigli di che paese siano: vedrai che la
maggior parte è tutta gente che ha lasciato la terra natale ed è
venuta in questa città grandissima e bellissima e, comunque, non sua.
(4) E ora lascia questa città che può dirsi di tutti e fa' il
giro delle altre: non ce n'è una i cui abitanti, per la maggior parte,
non siano stranieri. Lascia perdere quelle che richiamano molte persone per la
loro posizione amena e la dolcezza del clima, ma considera i luoghi desertici e
le isole più selvagge, Sciato, Serifo, Giaro, Cossira, non troverai
nessuna terra d'esilio in cui qualcuno risieda per suo desiderio. (5) Che cosa
si può trovare di più squallido e, ovunque ti volgi, di
più dirupato di questo scoglio2? Che cosa al semplice sguardo più
sterile di risorse? Quale luogo più inospitale per gli uomini? Quale in
posizione peggiore? Quale più inclemente per clima? Eppure qui vivono
più stranieri che indigeni. Quindi il cambiamento di luogo in sé non
è una cosa gravosa se perfino questa terra ha strappato alcuni alla loro
patria. (6) Io so che alcuni sostengono che il cambiar residenza e trasferire
il proprio domicilio è un naturale bisogno dell'animo; l'uomo, infatti,
ha un'indole mutevole e inquieta, non sta mai fermo, va di qua e di là,
rivolge i suoi pensieri a tutto ciò che è ignoto e noto, è
incostante, insofferente della quiete e sempre lieto di ogni novità. (7)
Non ti meraviglierai di questo se prenderai in considerazione la sua origine
prima. Essa non è composta di materia terrena e pesante, ma discende
dallo stesso spirito celeste e la natura dei corpi celesti sta nel continuo
movimento: essi sono sempre in fuga, sempre in corsa vertiginosa. Guarda le
stelle che illuminano il mondo: nessuna di esse è ferma. Il sole si
sposta continuamente e passa da un luogo a un altro e, benché ruoti con
l'universo, pure, gira in senso contrario al moto generale dei cieli;
attraversa tutte le costellazioni e non si ferma mai, il suo moto, come la sua
migrazione da un luogo all'altro, è perpetuo. (8) Tutti gli astri girano
sempre e sono sempre in movimento; si spostano da un luogo all'altro come la
legge ineluttabile della natura ha stabilito: quando dopo un certo numero di
anni avranno compiuto la loro orbita, di nuovo ripercorreranno il cammino
già percorso. Va' ora a sostenere che l'animo umano, composto della
stessa sostanza di quei corpi celesti, possa mal sopportare i cambiamenti e gli
spostamenti, quando anche la natura divina si rallegra di questo eterno e
rapidissimo movimento e, grazie ad esso, si conserva intatta!
(1) Ma dalle cose celesti ora
torniamo a quelle umane: vedrai che han cambiato sede genti e popolazioni
intere. Che significano le città greche sorte in mezzo a paesi barbari?
E la lingua macedone tra i Persi e gli Indi? La Scizia e tutta quella regione
abitata da popolazioni selvagge e indomite mostra città greche fondate
sui lidi del Ponto; né il rigore del lungo inverno, né l'indole degli abitanti,
aspra come il loro clima, hanno scoraggiato quanti trasferivano li le loro
dimore. (2) L'Asia è piena di Ateniesi; Mileto ha popolato
settantacinque città sparse un po' dappertutto; tutta questa costa
dell'Italia bagnata dal Mare Inferiore divenne Magna Grecia. L'Asia si attribuisce
gli Etruschi, i Tiri abitano l'Africa, i Cartaginesi la Spagna, i Greci si sono
introdotti in Gallia e i Galli in Grecia, i Pirenei non hanno ostacolato il
passaggio dei Germani. (3) La volubilità umana si è riversata su
vie impraticabili e ignote. Si portano dietro i figli, le mogli, i genitori
appesantiti dalla vecchiaia. Alcuni, dopo un lungo errare, non si scelsero
deliberatamente una sede, ma per la stanchezza occuparono quella più
prossima; altri, con le armi, si conquistarono il diritto di una terra
straniera. Alcune popolazioni, avventurandosi verso terre sconosciute, furono
inghiottite dal mare, altre si stabilirono là dove la mancanza di tutto
le aveva fatte fermare. (4) Non tutti hanno avuto gli stessi motivi per
abbandonare la loro patria e cercarne un'altra: alcuni, sfuggiti alla
distruzione della loro città e alle armi nemiche e spogliati dei loro
beni, si volsero ai territori altrui; altri furono cacciati da lotte intestine;
altri furono costretti a emigrare per alleggerire il peso di un'eccessiva
densità di popolazione; altri ancora sono stati cacciati dalla
pestilenza o dai frequenti terremoti o da altri intollerabili flagelli di una
terra infelice, altri, infine, si sono lasciati attirare dalla notizia di una
terra fertile e fin troppo decantata. (5) Ognuno ha lasciato la sua casa per
una ragione o per l'altra. Questo, però, è certo: che nessuno
è rimasto nel luogo dove è nato. Incessante è il
peregrinare dell'uomo. In un mondo così grande ogni giorno qualcosa
cambia: si gettano le fondamenta di nuove città, nascono popolazioni con
nuovi nomi,via via che si estinguono quelle che c'erano prima o si incorporano
con altre più forti. Ma tutti questi spostamenti di popoli che cosa sono
se non esili in massa? (6) Ma perché ti faccio un così lungo giro di
parole? Che giova citarti Antenore, fondatore di Padova, o Evandro che
portò sui lidi del Tevere il regno degli Arcadi? O Diomede e gli altri,
vincitori e vinti, che la guerra di Troia disperse per terre straniere? (7)
Appunto in un esule3 ha il suo fondatore l'impero romano, in un
profugo che, dopo la conquista della sua patria, portandosi dietro poche
reliquie e spinto dalla necessità e dalla paura del vincitore a cercare
terre lontane, giunse in Italia. E, in seguito, questo popolo quante colonie
non ha fondato in ogni provincia! Dovunque ha vinto il Romano si stabilisce. E
per questi cambiamenti di sede si arruolavano volontari e anche il vecchio,
lasciati i suoi altari, seguiva i coloni di là dai mari. (8) L'argomento
non richiede altri esempi. Tuttavia ne aggiungerò un altro soltanto che
mi balza davanti. Quest'isola dove mi trovo ha spesso cambiato i suoi abitanti.
Tralasciando le età più antiche, ormai oscurate dal tempo, i
Greci che ora abitano Marsiglia, abbandonata la Focide, si fermarono prima in
quest'isola dalla quale non si conosce il motivo che li abbia spinti ad
andarsene, se il clima insalubre o la vicinanza minacciosa dell'Italia o la
natura delle coste prive di porti; che non fosse certo un motivo lo stato
selvaggio degli abitanti lo si ricava dal fatto che essi andarono a stabilirsi
tra le fiere e rozze popolazioni della Gallia. (9) Successivamente passarono
nell'isola i Liguri e poi gli Ispani, come appare dalla somiglianza di certi
usi: portano, infatti, lo stesso copricapo e lo stesso tipo di calzature dei
Cantabrici e anche alcune parole si somigliano (ma sotto l'influenza dei Greci
e dei Liguri la loro lingua è molto mutata da quella originaria). In
seguito vi furono fondate due colonie romane, una da Mario e l'altra da Silla.
Tante volte è cambiata la popolazione di questo scoglio arido e tutto
sterpi. (10) Insomma tu non troverai una terra che sia ancora oggi abitata
dalla popolazione indigena. Tutte si sono mescolate e incrociate; gli uni si
sono succeduti agli altri; questi desiderano ciò che gli altri
disprezzano; l'uno è cacciato via da dove aveva cacciato, a sua volta,
un altro. Così vuole il destino: che nessuna cosa resti sempre in uno
stesso luogo.
(1) Contro il cambiamento di
luogo, a prescindere dagli altri svantaggi che vi sono connessi, Varrone, il
più dotto dei Romani, ritiene che rimedio sufficiente sia il fatto che dovunque
noi andiamo abbiamo a che fare con la medesima natura; M. Bruto4, invece, pensa che basti, per chi va in
esilio, portare con sé le proprie virtù. (2) Anche se qualcuno giudica
di scarsa efficacia per un esule questi rimedi se presi singolarmente, bisogna
dire che, messi insieme, essi sono efficacissimi. Quanto poco è,
infatti, quello che perdiamo! Due cose ci seguono dovunque noi andiamo e sono
le più belle che esistono: la natura, che è comune a tutti, e la
nostra virtù personale. (3) Questo è voluto, credimi, dal
creatore dell'universo, chiunque egli sia, un Dio signore di tutte le cose o
una mente incorporea artefice di opere meravigliose, o uno spirito divino uniformemente
diffuso in tutte le cose, le più grandi come le più piccole, o il
destino e la successione immutabile di cause connesse fra loro; questo, ripeto,
è voluto perché soltanto le cose infime fossero soggette all'arbitrio
altrui. (4) Ciò che vi è di meglio nell'uomo è sottratto
al potere umano e non può essere né dato né tolto. Questo universo che
di tutte le creazioni della natura è la più grande e la
più bella, il nostro animo che questo universo contempla e ammira e del
quale è parte splendidissima, appartengono a noi per sempre e resteranno
con noi tanto più a lungo quanto noi stessi più a lungo
esisteremo. (5) Perciò, di buon animo e fieri, affrettiamoci con passo
fermo dovunque la sorte ci spinga. Percorriamo tutta la terra, non vi
sarà nessun esilio; infatti al mondo non c'è luogo che sia
straniero all'uomo. Da ogni parte, egualmente, si può volgere lo sguardo
al cielo; la distanza che separa l'uomo da Dio è sempre la stessa. (6)
Per questo, purché i miei occhi non siano privati di quello spettacolo di cui
sono insaziabili, purché mi sia consentito di guardare il sole e la luna,
purché io possa fissare gli altri astri e studiarne il sorgere e il tramontare,
le loro distanze e le cause del loro moto, ora più veloce ora più
lento, e ammirare le tante stelle che brillano nella notte, alcune immobili
altre che si spostano, non però nello spazio infinito ma in un'orbita
che si sono tracciata, altre ancora che spuntano all'improvviso, altre che
quasi abbagliano in un guizzo di fiamma e sembra che cadano o che, per un lungo
tratto di cielo, passano oltre con una gran luce, purché io possa contemplare
tutto questo e, per quanto sia lecito a un uomo, partecipare alla vita del
cielo, purché l'animo mio che tende alle cose a lui affini sia sempre rivolto
al cielo, che cosa mi importa quale terra io calpesti?
(1) "Ma questa terra non
è fertile d'alberi da frutto o da fiore; non è bagnata da fiumi
né grandi né navigabili; non produce nulla che sia richiesto da altre
popolazioni e appena appena provvede alla sopravvivenza dei suoi abitanti; non
vi si cava marmo pregiato, non ha miniere d'oro o d'argento." (2) Meschino è l'animo che si compiace dei beni
terreni; bisogna volgerlo verso quelle cose che appaiono dappertutto uguali e
uguali dappertutto risplendono. E bisogna anche pensare che i beni terreni, per
gli errori e per i pregiudizi che comportano, sono di ostacolo ai veri beni.
Quanto più lunghi gli uomini costruiranno i loro portici, quanto
più alte innalzeranno le loro torri, quanto più vasti
edificheranno i loro caseggiati, quanto più profonde scaveranno le loro
grotte per l'estate, quanto più sovraccarichi saranno i soffitti delle
loro sale da pranzo, tanto più, tutto questo, nasconderà loro il
cielo. (3) Il destino ti ha gettato in una regione dove l'abitazione più
sontuosa è una capanna; ma tu hai un animo meschino che si appaga di
misere consolazioni se sopporti tutto questo con fermezza soltanto perché pensi
alla capanna di Romolo. Di', piuttosto, così: "Questo umile tugurio
non accoglie forse le virtù? Sarà più bello di ogni tempio
se vi si potrà scorgere la giustizia, la continenza, la prudenza, la
pietà, un giusto criterio nella distribuzione di tutti i doveri, la
conoscenza delle cose umane e divine. Non è angusto il luogo che
contiene una quantità di così grandi virtù, nessun esilio
è gravoso quando vi si può andare con una tale scorta". (4)
Bruto nel suo libro Sulla virtù dice di aver visto Marcello5, esule a Mitilene, che viveva felice, per
quanto è concesso alla natura umana, e che si dedicava con passione, mai
come allora, alle belle arti. E aggiunge che, accingendosi a ripartire senza
l'amico, gli parve di andare lui in esilio, piuttosto che di lasciare in esilio
Marcello. (5) O ben più fortunato Marcello quando per il suo esilio
s'ebbe le lodi di Bruto che non quando per il suo consolato s'ebbe quelle della
repubblica! Quanto grande quell'uomo per il quale qualcuno credette di essere
egli stesso un esule nel momento in cui si congedava dall'esule. E quanto
grande quell'uomo che suscitò l'ammirazione di chi, a sua volta, era
ammirato da Catone!4 (6) E Bruto
dice ancora che Cesare non si fermò a Mitilene perché non sopportava di
vedere un tal uomo così umiliato. E quando il senato, con pubbliche
suppliche, impetrò il suo ritorno, tutti erano così ansiosi e
tristi, quel giorno, che sembravano essere nello stato d'animo di Bruto e pregavano
non per Marcello ma per se stessi, per non continuare ad essere come esuli per
l'assenza di lui. Ma il giorno in cui egli ottenne di più fu di gran
lunga quello in cui Bruto non se la sentì di lasciarlo esule e Cesare
non osò vederlo. Egli, infatti, s'ebbe questa doppia attestazione: Bruto
si dolse di dover tornare senza Marcello, Cesare se ne vergognò. (7) Non
si può dubitare che un tal uomo si sia esortato così per
sopportare con animo sereno l'esilio: "Essere senza una patria non
è cosa miserevole. Gli studi di cui ti sei nutrito ti hanno insegnato
che l'uomo saggio ha una sua patria in ogni luogo. E allora? Quello che ti ha
esiliato non è stato anche lui lontano dalla patria per dieci anni di
seguito? Senza dubbio fu per estendere i confini dell'impero, ma egualmentene
è stato lontano. (8) E anche ora lo chiama a sé l'Africa, così
minacciata dalla ripresa della guerra, lo chiama la Spagna dove riprende forza
il partito vinto e umiliato, lo chiama l'infido Egitto e, infine, tutto il mondo
spia un momento di debolezza del nostro potere. Che cosa affronterà per
primo? Contro chi si opporrà? La sua vittoria lo porterà di terra
in terra. I popoli lo ammirino pure e lo onorino: tu vivi contento
dell'ammirazione di Bruto!".
(1) Marcello, dunque, sopportò
coraggiosamente l'esilio e il cambiamento di luogo non mutò minimamente
il suo animo, benché la povertà gli fosse compagna. E che questa non sia
per nulla un male lo comprende chiunque purché non sia giunto a una tale smania
di avarizia e di dissolutezza da stravolgere ogni cosa. Quanto poco, infatti,
occorre a un uomo per il suo sostentamento! E come può mancare questo
poco a chi solo abbia qualche virtù? (2) Per quel che mi riguarda, non
le ricchezze sento di aver perduto, ma le preoccupazioni. Le necessità
del corpo sono minime: esso chiede che sia allontanato il freddo, che sia
placata, con gli alimenti, la fame e la sete; tutto quello che desidera in
più è per vizio e non per necessità. Non è
necessario scandagliare tutte le profondità del mare, né appesantire lo
stomaco con una strage di selvaggina, né strappare a una spiaggia ignota le
conchiglie dell'oceano. Che gli dèi e le dèe confondano quelli la
cui dissolutezza valica i confini di un così invidiabile impero. (3)
Pretendono che sia preso di là dal Fasi ciò che serve alla loro
fastosa cucina e non si vergognano di chiedere uccelli ai Parti, con i quali
non abbiamo ancora saldato i conti. Da tutto il mondo fanno venire per il loro
palato schizzinoso i cibi più prelibati; dal lontanissimo oceano vengono
portate vivande che il loro stomaco, rovinato dalle raffinatezze, a mala pena
riesce a tollerare. Vomitano per mangiare, mangiano per vomitare e non si
degnano nemmeno di digerire quei cibi che fanno cercare per tutto il mondo. Ma
a chi disprezza tutto questo, che danno può portare la povertà? A
chi, invece, desidera queste cose la povertà giova ugualmente: infatti
lo guarisce suo malgrado perché anche se egli non accetta il rimedio, benché vi
sia costretto, non potendo, è simile a quello che non vuole. (4)
Caligola che la natura, mi pare, ha voluto far nascere proprio per mostrare a
che cosa possono giungere i grandi vizi accompagnati a una grande fortuna, per
una cena, in un sol giorno, spese dieci milioni di sesterzi e, aiutato in
questo dalla fantasia di tutti, trovò la maniera, anche se a fatica, di
spendere per una sola cenale entrate di tre province. (5) O miserabili quelli
il cui palato non è stuzzicato che dai cibi più costosi! Costosi
non già per il sapore straordinario o per una qualche particolare
dolcezza del gusto, ma per la loro rarità e per la difficoltà di
procurarseli. Ma se tutta questa gente volesse tornare alla ragione, che
bisogno c'è di tante arti al servizio del ventre? Perché tanti scambi
commerciali? Perché devastare tante foreste? Perché scandagliare il fondo del
mare? Dappertutto si trovano cibi che la natura ha distribuito in tutti i
luoghi; ma costoro passano oltre come ciechi e percorrono tutte le regioni e
attraversano i mari e mentre con poco potrebbero placare la fame, la stuzzicano
a caro prezzo. (6) Vien voglia di dire: "Perché mettete in mare le navi?
Perché vi armate contro le fiere e contro gli uomini? Perché correte
così inquieti di qua e di là? Perché accumulate ricchezze su
ricchezze? Non volete considerare quanto piccolo è il vostro corpo? Non
è una pazzia, non è delirio estremo desiderare tanto, quando
può contenere così poco? Voi potrete accrescere il vostro censo,
potrete allargare i vostri confini, ma giammai ingrandire i vostri corpi.
Quand'anche i vostri commerci siano andati bene e la guerra vi abbia reso
molto, quand'anche abbiate ammucchiati i cibi venuti da ogni parte, voi non
avrete dove mettere tutte queste provviste. (7) Perché, dunque, raccogliete
tante cose? Certamente, allora, i nostri antenati, la cui virtù è
ancor oggi il sostegno dei nostri vizi, erano ben infelici, dal momento che si
preparavano il cibo con le loro mani e avevano per letto la terra e le cui
dimore non splendevano di ori e non avevano templi sfolgoranti di gemme. Allora
si giurava su divinità di argilla e chi le invocava tornava dal nemico
disposto a morire pur di non tradirle. (8) Certo quel nostro dittatore6 che ascoltò gli ambasciatori sanniti
mentre cuoceva sul fuoco un poverissimo cibo con le sue mani, con quelle stesse
mani con cui spesso aveva colpito il nemico e aveva deposto una corona nel
grembo di Giove Capitolino, certo, doveva vivere meno beato di quanto, a quel
che noi ricordiamo, visse Apicio, che in quella città dalla quale, un
tempo, i filosofi furono costretti ad andarsene perché corruttori della
gioventù, fu maestro di scienza culinaria e col suo insegnamento
corruppe tutta un'epoca!". (9) Vale la pena di conoscere la sua fine: dopo
aver sperperato in cucina un milione di sesterzi e dopo aver divorato in una
gozzoviglia dopo l'altra tante elargizioni di principi e l'enorme tributo del
Campidoglio, oberato dai debiti, fu costretto per la prima volta a fare i suoi
conti e così calcolò che gli restavano soltanto dieci milioni di
sesterzi, e, come se vivere con dieci milioni di sesterzi volesse dire patir la
fame, si avvelenò. (10) Quanta dissolutezza in quell'uomo che
considerava miseria dieci milioni di sesterzi! Vieni, dunque, ora a dirmi che
la ricchezza sta nelle cose e non nell'animo. Un tizio ha avuto paura di dieci
milioni di sesterzi e fuggì col veleno ciò che gli altri
desiderano con tutti i loro voti. Per quell'uomo, dal cervello così
malato, l'ultima bevanda fu la più salutare; ma i veleni li mangiava e
li beveva, quando dei suoi smisurati banchetti non soltanto godeva ma si
gloriava, quando ostentava i suoi vizi, quando trascinava tutta la città
nella sua dissolutezza, quando spingeva i giovani, già così inclini
anche senza cattivi esempi, ad imitarlo. (11) Questo capita a chi delle sue
ricchezze non fa un uso ragionevole ponendosi dei limiti ben precisi e invece
si lascia andare ad abitudini viziose il cui potere è insaziabile e
illimitato. Alla cupidigia non basta mai nulla, alla natura, invece, anche il
poco è sufficiente. La povertà, dunque, non dà alcun
fastidio all'esule, e, infatti, non v'è luogo d'esilio tanto sterile che
non sia abbastanza fertile da non poter nutrire un uomo.
(1) È di un abito e di una
casa che l'esule sente la mancanza? Se queste cose le desidera soltanto perché
gli servono, né un tetto né una coperta gli mancheranno, perché un corpo si
copre con poco e con poco si nutre. La natura non ha reso faticoso per l'uomo
ciò che gli è necessario. (2) Ma se uno desidera una veste
sovraccarica di porpora o tessuta d'oro o ricamata a vari colori e con arte,
non è colpa della sorte se egli è povero, ma sua. Anche se gli
restituirai tutto quello che ha perduto, non servirà a niente; infatti egli
avrà nuovi desideri che lo faranno ancora più povero rispetto a
ciò che aveva quando era un esule. (3) E se uno desidera una
suppellettile splendente di vasi d'oro, un'argenteria firmata dai più
famosi artisti dell'antichità, bronzi resi preziosi per la mania di
pochi e una folla di schiavi che renderebbe angusta la casa più grande,
bestie da soma piene zeppe di cibo e costrette a ingrassare, e marmi
provenienti da tutte le parti del mondo, anche se accumulerà tutto
questo, mai e poi mai riuscirà a saziare l'animo insaziabile, come non
ci sarà acqua a sufficienza per soddisfare colui la cui sete non deriva
dal bisogno di bere ma da un fuoco ardente che gli brucia le viscere: quella,
infatti, non è sete, è malattia. (4) E questo non succede
soltanto per le ricchezze e per gli alimenti. È la peculiarità di
ogni desiderio che nasce non dal bisogno ma dal vizio; in qualunque modo tu
cercherai di soddisfarlo, non riuscirai a por fine all'avidità, ma lo
farai progredire. Chi, invece, saprà contenersi nei limiti della natura
non sentirà la povertà; chi oltrepasserà questi limiti
avrà la povertà al suo fianco anche in mezzo alle più
grandi ricchezze. Alle cose necessarie è in grado di provvedere anche
l'esilio, ma a quelle superflue non basta un regno. (5) È l'animo che ci
fa ricchi. Esso ci segue nell'esilio e nella solitudine più desolata,
quando trova quanto basta a sostentare il corpo, si sente ricco dei suoi beni e
ne gode; la ricchezza non riguarda l'animo come non riguarda gli dei immortali.
(6) Tutte queste cose che gli spiriti ignoranti e troppo legati ai loro corpi
ammirano, e cioè i monumenti, l'oro, l'argento, le grandi tavole rotonde
e ben levigate, sono pesi terreni che un animo puro e memore della sua natura
non può amare, privo com'è di macchia e pronto a slanciarsi verso
l'alto appena sarà libero; nel frattempo, per quanto glielo consentono
l'ingombro delle membra e questa grave soma che lo circonda, esplora le cose
divine con pensiero agile e alato. (7) Pertanto non può mai sentirsi in
esilio l'animo libero e parente degli dei, partecipe dello spazio infinito e
dell'eterno. Infatti il suo pensiero penetra tutto il cielo e tutto il tempo
presente e futuro. Questo povero corpo, invece, carcere e catena dell'anima,
è sbattuto di qua e di là: su di lui si accaniscono le torture,
le violenze, le malattie; l'animo, invece, è sacro ed eterno e al riparo
da ogni violenza.
(1) E perché tu non creda che per
ridurre gli inconvenienti della povertà che, del resto, nessuno sente
gravosa se non chi la ritiene tale, io mi serva soltanto dei precetti dei
saggi, guarda in primo luogo la gran parte dei poveri che, se osservi bene, non
sono per nulla più infelici e preoccupati dei ricchi. Anzi, non so se
non siano forse più allegri dal momento che il loro animo è meno
turbato dalle preoccupazioni. (2) Lasciamo i poveri e veniamo ai ricchi: quante
sono le circostanze in cui essi sono simili ai poveri! Quando viaggiano sono
costretti a dimezzare i loro bagagli e, ogni qual volta per necessità di
viaggio sono costretti ad affrettarsi, licenziano la schiera dei portatori.
Sotto le armi quanta parte dei loro beni portano con sé dal momento che la
disciplina militare vieta ogni cosa superflua? (3) Non sono soltanto le
circostanze dei tempi e l'aridità dei territori a renderli uguali ai poveri;
in certi giorni, quando li prende la noia di tante ricchezze, decidono di
mangiare per terra e, sdegnando l'oro e l'argento, adoperano recipienti di
argilla. Pazzi! Hanno sempre il terrore di quello che, di quando in quando,
desiderano. O quanta nebbia nelle loro menti, quanta ignoranza li acceca della
verità, che essi imitano per divertirsi! (4) Io, ogni volta che ripenso
agli esempi antichi, provo vergogna di consolare chi è povero, perché il
lusso dei nostri tempi è giunto a tal punto che il viatico di un esule
è maggiore di quanto non fosse una volta il patrimonio di un principe.
È abbastanza risaputo che Omero aveva un solo schiavo, Platone tre e
neanche uno Zenone, il fondatore della rigorosa e virile filosofia stoica. Che,
forse, qualcuno potrebbe dire che essi siano vissuti miseramente, senza, per
questo, sembrare a tutti egli stesso l'ultimo dei miserabili? (5) Menenio
Agrippa, che fu l'intermediario di pace tra il senato e la plebe, fu sepolto
col denaro di una sottoscrizione. Attilio Regolo, mentre era in Africa e
sconfiggeva i Cartaginesi, scrisse al senato che il suo lavorante se n'era
andato e aveva lasciato il suo podere in abbandono; al che il senato dispose
che sarebbe stato coltivato a spese dello Stato finché Regolo fosse stato
assente. Era poi tanto grave non avere uno schiavo quando fu suo colono il
popolo romano? (6) Le figlie di Scipione s'ebbero la dote dal pubblico erario
perché il padre non aveva lasciato nulla: era giusto, per Ercole, che il popolo
romano pagasse, per una volta, un tributo a Scipione quando lo riscuoteva
costantemente dai Cartaginesi. Fortunati gli sposi di quelle ragazze che
s'ebbero per suocero il popolo romano! O credi che siano più felici
questi le cui danzatrici si sposano con un milione di sesterzi, anziché Scipione
le cui figlie ricevettero per dote, dal Senato, loro tutore, una moneta di
rame? (7) E qualcuno disdegna ancora la povertà che ha esempi
così fulgidi? Come può sdegnarsi un esule se gli manca qualcosa
quando a Scipione mancava la dote per le figlie, a Regolo il bracciante per il
suo podere, a Menenio i soldi per il funerale, quando a tutti costoro fu dato
onorevolmente ciò che a loro mancava, proprio perché ne erano privi? Con
questi esempi la povertà non solo è al sicuro, ma è anche
gradita.
(1) Si potrebbe rispondere:
"Perché separi artificiosamente delle cose che, singolarmente, sono
sopportabili, ma che, riunite, non lo sono più? Il cambiamento di luogo
è sopportabile se si tratta solo di cambiamento; la povertà è
tollerabile se è disgiunta dal disonore che, da solo, basta per
deprimere l'animo". (2) A chiunque vorrà atterrirmi con questa
quantità di mali ci sarà da dir questo: se hai abbastanza forza
da resistere a una qualunque forma di sventura, tu l'avrai anche contro tutte
le altre: una volta che la virtù ha reso forte l'animo esso sarà
invulnerabile sempre. (3) Se ti sei liberato dalla cupidigia, la piaga
più terribile del genere umano, l'ambizione non farà presa su di
te. Se guardi al tuo ultimo giorno non come a un castigo ma come a una legge di
natura, nel tuo cuore, dal quale avrai scacciato il timore della morte, non
entrerà nessun'altra paura. Se tu consideri che lo stimolo sessuale non
è stato dato all'uomo per il semplice piacere ma per la propagazione
della specie e se questo flagello insidioso che si annida fin nelle stesse
viscere non ti avrà corrotto, allora ogni altra passione ti
lascerà intatto. La ragione non doma i vizi uno alla volta, ma tutti
contemporaneamente, e la sua vittoria è completa una volta per tutte.
(4) Tu credi che il disonore possa turbare il saggio che ha riposto tutto in se
stesso e che si è allontanato dalle opinioni del volgo? Una morte
disonorevole è ben peggiore del disonore. Tuttavia Socrate con lo stesso
volto col quale, poco prima, aveva da solo riportato all'ordine i trenta
tiranni, entrò in carcere e tolse ogni disonore a quel luogo. Infatti
non poteva sembrare più un carcere quel luogo dove c'era Socrate. (5) E
chi mai è tanto cieco di fronte alla verità da considerare un
disonore la duplice sconfitta di Marco Catone nella candidatura per la pretura
e per il consolato? Il disonore fu per la pretura e per il consolato ai quali
Catone aveva fatto l'onore di candidarsi. (6) Nessuno è disprezzato
dagli altri se non è prima lui stesso che si disprezza. Soltanto un
animo mediocre e vile sia esposto a questa offesa: ma chi si erge contro i
più crudeli eventi e atterra quei mali sotto i quali gli altri restano
schiacciati, considera le sue stesse miserie come qualcosa di sacro, dal
momento che noi siamo così fatti che niente muove di più la
nostra ammirazione di un uomo forte nelle sventure. (7) Ad Atene Aristide
veniva condotto a morte e tutti quelli che lo incontravano abbassavano gli
occhi e piangevano come se si stesse condannando non già un uomo giusto,
ma la stessa giustizia. Eppure ci fu un tale che gli sputò in faccia.
Egli avrebbe potuto indignarsi poiché sapeva che nessuna bocca leale avrebbe
osato questo; invece si pulì il viso e sorridendo disse al magistrato
che lo accompagnava: "Avverti costui che, un'altra volta, non sbadigli
così sgarbatamente". E questa fu la sua offesa a chi gli faceva
offesa. (8) So che alcuni dicono che niente è più grave del
disprezzo e che trovano preferibile la morte. A costoro io risponderò
che, spesso, anche l'esilio non comporta alcun disprezzo: se un uomo grande
cade, è grande anche quando è caduto; non è disprezzato
più di quelle rovine di templi sulle quali si cammina, ma che i fedeli
venerano ugualmente come se ancora stessero in piedi.
(1) Poiché, madre carissima, non
v'è motivo alcuno che tu per me debba versare tante lacrime, allora vuol
dire che tu hai delle ragioni personali per farlo e che possono essere due: o
ti angoscia il pensiero di aver perduto un appoggio o non puoi sopportare la
mia lontananza. (2) Affronterò solo di sfuggita il primo caso: infatti
io conosco il tuo animo e so che ami i tuoi cari solo per quello che sono. Ci
penseranno quelle madri che con dispotismo tutto femminile sfruttano il potere
dei figli, che, non potendo, perché donne, ricoprire cariche pubbliche, sono
ambiziose per loro, che si impossessano e consumano il patrimonio dei figli e
che non danno riposo alla loro eloquenza offrendola a tutti. (3) Tu ti sei
sempre rallegrata della fortuna dei tuoi figli, ma non te ne sei affatto servita;
tu hai sempre imposto un limite alla nostra liberalità, ma non hai mai
limitato la tua; anche se figlia di famiglia, tu hai contribuito a far ricchi i
tuoi figli; tu hai amministrato i nostri patrimoni con lo stesso impegno con
cui avresti amministrato i tuoi e con lo stesso scrupolo come se fossero di
estranei; tu non hai mai approfittato del nostro successo come se si trattasse
di cosa d'altri e dai nostri onori non hai avuto che piacere e spese; il tuo
affetto non ha mai tenuto presente l'utilità. Non puoi, dunque,
rimpiangere, ora che ti è stato tolto un figlio, quei vantaggi che non
hai mai pensato che ti riguardassero quando egli ti era vicino.
(1) Tutti i miei sforzi per
consolarti devo indirizzarli là dove nasce con tanta violenza il tuo
dolore di madre: "Eccomi, dunque, priva dell'abbraccio del mio carissimo
figlio! Non posso godere più della sua vista, né della sua
conversazione! Dov'è colui alla cui presenza il mio volto si rasserenava
e nel quale io deponevo tutti i miei affanni? Dove le nostreconversazioni di
cui io ero insaziabile? Dove i suoi studi ai quali partecipavo più
volentieri di qualunque donna e più familiarmente di qualunque madre?
Dove i nostri incontri? Dove quella sua gaiezza infantile alla vista della
madre?". (2) A questi pensieri tu aggiungi i luoghi della nostra gioia e
dei nostri incontri e, come è inevitabile, i particolari della recente
intimità, efficacissimi a tormentare l'animo. La sorte, infatti, crudelmente
ha macchinato anche questo contro di te: ha voluto che tu partissi tranquilla e
senza sospetto alcuno due giorni prima che io fossi colpito dalla condanna. (3)
È stato un bene che noi siamo vissuti lontani, un bene che l'assenza di
qualche anno ti abbia preparato a questa disgrazia. Tu sei tornata non per
godere della presenza di tuo figlio ma per perdere l'abitudine alla sua
assenza. Se tu fossi partita molto prima avresti sopportato la sventura con
animo più forte, perché col tempo il rimpianto si sarebbe affievolito;
se tu, invece, non fossi partita avresti avuto certamente quest'ultimo conforto
di vedere per altri due giorni tuo figlio; ora il destino crudele ha, invece,
deciso che tu non fossi presente al momento della mia disgrazia e, per un altro
verso, che tu non fossi abituata alla mia lontananza. (4) Ma quanto più
dolorose sono queste vicende, tanto più coraggio tu devi avere e con
altrettanto vigore devi combattere, come contro un nemico già noto e
altre volte sconfitto. Il tuo sangue non sgorga da un corpo incolume: sei stata
colpita sulle stesse cicatrici.
(1) Non ti valere della scusa di
essere donna a cui è concesso quasi il diritto di piangere senza
discrezione, ma non senza limiti; per questo i nostri padri dettero un tempo di
dieci mesi alle donne per piangere i loro uomini e questo per definire, con una
disposizione ufficiale, l'ostinazione del dolore femminile: non vietarono il
lutto ma gli diedero un termine. Infatti, lasciarsi andare a un dolore senza
fine, quando si perdono i propri cari, è una sciocca debolezza, il non
provarne alcuno è inumana durezza: la giusta via di mezzo tra la
pietà e la ragione è sentire rimpianto ma soffocarlo. (2) Non
devi guardare a quelle donne la cui disperazione, una volta che ne furono
prese, cessò con la morte; tu ne conosci alcune che, perduti i figli,
non si tolsero più l'abito da lutto; da te la vita, dal momento che ti
sei dimostrata più forte fin dall'inizio, pretende di più. Non
può invocare la scusa di essere donna chi è sempre stata immune
dalle debolezze femminili. (3) Il peggior male del secolo, l'impudicizia, non
ti ha indotto a seguire la maggioranza, né gemme, né perle ti hanno sedotto, né
le ricchezze ti hanno mai abbagliato come il più gran bene del genere
umano, né tu, che fosti educata in una casa all'antica e austera, sei mai stata
traviata dall'imitazione dei peggiori, pericolosa anche per le persone oneste,
né ti sei mai vergognata della tua fecondità come se ti rinfacciasse la
tua età, né mai, come fanno le altre, il cui solo vanto è la
bellezza, hai nascosto il ventre gonfio, come se fosse un peso vergognoso, né
ti sei liberata della speranza dei figli già in te concepiti; (4) né ti
sei mai imbrattata il viso con colori e belletti, né ti sono mai piaciute
quelle vesti che, quando si tolgono, non lasciano più nulla da scoprire;
unico tuo ornamento, bellezza somma non soggetta all'ingiuria del tempo, tuo
grande titolo d'onore, ti è sempre sembrata la pudicizia. (5) Non puoi,
dunque, per difendere il tuo dolore, allegare la tua condizione di donna, dalla
quale ti hanno allontanata le tue virtù; devi tenerti lontana dalle
lacrime femminili come ti sei tenuta lontana dai difetti. Nemmeno le donne ti
permetteranno di consumarti nel tuo dolore, ma dopo che ti sarai concesso un
breve e necessario cordoglio, ti inviteranno a risorgere, sempre che tu voglia
guardare a quelle che una riconosciuta virtù ha posto fra gli uomini
grandi. (6) Dei dodici figli che aveva Cornelia, la sorte gliene lasciò
due. Se vuoi contare i lutti di Cornelia, sono dieci; ma prova a valutarli:
erano i Gracchi. Tuttavia a quanti le piangevano intorno e maledicevano il suo
destino, ella proibì che imprecassero contro la sorte che per figli le
aveva dato i Gracchi. Da una tal donna doveva nascere chi gridò in
assemblea: "Tu insulti mia madre che ha partorito me!". Ma a me
sembra molto più coraggiosa la frase della madre: il figlio faceva gran
conto della nascita dei Gracchi, la madre anche della loro morte. (7) Rutilia
seguì il figlio Cotta in esilio, e tanto era legata a lui da tenerezza,
che preferì sopportare l'esilio anziché la sua lontananza e non
rientrò in patria che con lui. Ma, una volta rientrato e divenuto
personaggio importante nella vita pubblica, ella lo perse con lo stesso
coraggio col quale lo aveva seguito e nessuno la vide piangere dopo il funerale
del figlio. Quando fu bandito, ella mostrò coraggio; quando lo perse,
saggezza. Infatti nulla l'aveva distolta dal suo affetto e nulla la fece
indugiare in un'inutile e sciocca tristezza. Tra queste donne voglio annoverare
anche te. Avendone sempre imitata la vita, seguirai bene il loro esempio nel
contenere e reprimere il dolore.
(1) Io so che la cosa non è
in nostro potere come non lo è nessun sentimento e tanto meno quello che
nasce dal dolore: esso è, infatti, spietato e ostinato a qualsiasi
rimedio. Talvolta noi cerchiamo di soffocarlo e di inghiottire i nostri
singhiozzi; tuttavia, anche se il volto resta composto e impassibile, le
lacrime scorrono lo stesso. Talvolta ci distraiamo ai giuochi, ai combattimenti
dei gladiatori e, tuttavia, proprio durante gli spettacoli, che pure dovrebbero
divagarci, ecco che basta un minimo ricordo a sconvolgerci. (2) Quindi è
meglio vincere il dolore piuttosto che ingannarlo. Infatti, se è
distratto e sviato dai piaceri e dalle occupazioni, esso risorge e riprende
vigore dal suo assopimento e torna a infierire; se invece ha ceduto alla
ragione, si è calmato per sempre. Non ti indicherò, dunque, quei
rimedi ai quali, a quanto so, ricorrono in molti, come un viaggio che ti tenga
a lungo lontano e ti distragga piacevolmente, o come occupare il tempo a
rivedere attentamente i tuoi conti e ad amministrare il tuo patrimonio, o come
lasciarti prendere da sempre nuove attività; tutte queste cose giovano
per poco tempo, ma non sono un rimedio al dolore, sono solo un ostacolo. Io,
invece, desidero farlo cessare anziché ingannarlo. (3) Così io ti
conduco là dove si rifugiano tutti quelli che vogliono evitare la
cattiva sorte, negli studi liberali: essi guariranno le tue ferite e scacceranno
da te ogni tristezza. Anche se tu non vi fossi mai stata abituata, ora dovresti
ricorrervi; ma per quanto te lo abbia concesso la severità d'antico
stampo di mio padre, tu hai avuto dimestichezza con tutti gli studi, anche se
non li hai approfonditi. (4) Magari mio padre, il migliore degli uomini, fosse
stato meno legato alle consuetudini del passato e ti avesse permesso di
approfondire i precetti della filosofia, anziché averne solo una conoscenza
superficiale! Non dovresti ora preparartelo questo rimedio contro la sorte, ma
lo avresti già pronto. Fu proprio per colpa di queste donne che
ricorrono alle lettere non per acquistar saggezza ma per introdursi nella vita
mondana, che egli non permise che tu ti dedicassi allo studio. Tu hai tratto,
dunque, profitto più dalla vivacità del tuo ingegno che dal tempo
disponibile e, quindi, hai le basi di tutte le discipline. (5) Torna ora ad
esse. Ti renderanno sicura, ti daranno conforto e diletto; se, francamente,
darai un posto ad esse nell'animo tuo, non vi entrerà più il dolore,
né l'angoscia, né l'inutile tormento di una vana afflizione. L'animo tuo non
sarà più esposto a nessuno di questi mali. A ogni altra
debolezza, infatti, è già chiuso da tempo.
(1) Queste, certamente, sono le
difese più valide, le uniche che possono sottrarti alla cattiva sorte.
Ma poiché, fino a quando tu non giungi a quel porto che gli studi ti
promettono, hai bisogno di appoggiarti ad altri sostegni, voglio mostrarti di
quali consolazioni tu puoi, nel frattempo, disporre. Guarda ai miei fratelli:
finché essi stan bene, non è giusto che tu te la prenda con il destino.
(2) In entrambi, ciascuno per i suoi meriti, puoi trovare motivo per
rallegrarti; uno, con la sua attività, ha raggiunto cariche importanti,
l'altro, saggiamente, le ha disprezzate. Sii soddisfatta dell'autorità
del primo, della vita tranquilla del secondo e dell'affetto di entrambi. Io
conosco gli intimi sentimenti dei miei fratelli7: uno pratica la vita pubblica per darti
lustro, l'altro si raccoglie in una vita serena e calma per dedicarsi a te. (3)
Bene ha disposto il destino che i tuoi figli ti fossero d'aiuto e di sollievo:
tu puoi essere protetta dall'autorità del primo e rallegrarti della vita
tranquilla dell'altro. Essi gareggeranno in premure nei tuoi riguardi e il
rimpianto che hai per uno sarà ripagato dall'affetto degli altri due.
Posso senz'altro assicurarti che non ti mancherà nulla, tranne il
numero. (4) Guarda poi i nipoti: Marco8, un bambino graziosissimo, alla cui presenza
non c'è tristezza che possa durare. Non c'è dolore così
grande o così recente che ci tormenti l'animo che egli non sappia lenire
con le sue carezze. (5) Quali lacrime non asciuga la sua allegria? Quale animo
stretto dall'angoscia non rasserena la sua vivacità? Chi non è
spinto al buonumore dalla sua spensieratezza? Chi, per quanto preso dai suoi
pensieri, non si lascerebbe sedurre e distrarre dalla sua loquacità
instancabile? (6) Io supplico gli dèi che questo bambino ci sopravviva.
Che tutta la crudeltà del destino si sfoghi su di me, che tutto il
dolore riservato alla madre si concentri in me, su di me quello riservato alla
nonna e che il resto della famiglia viva in prosperità. Non mi lamento
della perdita di mio figlio, né della mia condizione se con il sacrificio
potrò impedire altri dolori alla mia famiglia. (7) Stringiti tra le
braccia Novatilla, che presto ti darà dei pronipoti; l'avevo così
accolta in me, me la sentivo così mia, che ora che mi ha perduto
può sembrare orfana anche se il padre è vivo. Amala, dunque,
anche per me. Da poco la sorte le ha tolto la madre. Il tuo affetto può
fare in modo che ella senta certamente il dolore per la perdita della madre ma
non ne soffra. (8) Educala, formala alla svelta: gli insegnamenti impartiti in
tenera età si radicano più profondamente. Si abitui alle tue
osservazioni, impari ad obbedirti, le darai molto anche se non le darai altro che
il tuo esempio. Intanto questo compito così impegnativo sarà per
te anche un rimedio: perché un animo così teneramente afflitto non
può essere distolto dal suo dolore se non dalla ragione o da una nobile
occupazione. (9) Fra i validi motivi di conforto vorrei ricordare anche tuo
padre, se non fosse lontano. Dal tuo affetto per lui, pensa ora quale
può essere il suo per te; potrai capire quanto sia più giusto che
tu ti conservi per lui invece che sacrificarti per me. Tutte le volte che il dolore
ti prenderà con forza e oltre misura e vorrà trascinarti, pensa a
tuo padre. Certo dandogli tanti nipoti e tanti pronipoti, tu per lui non sei
più l'unica, tuttavia da te dipende che egli possa giungere felicemente
al compimento della sua vita. Finché egli vive non ti è lecito
lamentarti di essere viva.
(1) E finora non ti ho parlato del
tuo grande conforto, di tua sorella, cuore a te fedelissimo, che condivide in
egual misura tutte le tue pene, animo per tutti noi materno. Tu hai mescolate
alle sue le tue lacrime e, tra le sue braccia, sei di nuovo tornata a vivere.
(2) Ella partecipa sempre ai tuoi sentimenti; tuttavia quando si tratta di me
non si addolora soltanto per te. Fra le sue braccia io fui portato a Roma; per
le sue cure affettuose e materne io, dopo una lunga malattia, mi ristabilii;
ella adoperò tutta la sua influenza per farmi ottenere l'incarico di
questore, vincendo la sua timidezza per amor mio, lei che non ha nemmeno il
coraggio di parlare o di salutare a voce alta. Né il tipo di vita ritirata, né
la sua riservatezza, che fra tanta sfacciataggine femminile sembra sgarberia,
né il suo desiderio di pace, né le sue abitudini a una vita tranquilla le
impedirono che diventasse, per me, perfino intrigante. (3) Madre carissima,
è questa la consolazione che ti risolleverà; stalle vicino quanto
più puoi, tientela stretta fra le braccia. Di solito, chi soffre, suole
fuggire le persone che più ama, per dare così uno sfogo al
proprio dolore: tu, invece, va' da lei, quali che siano i tuoi propositi; sia
che tu voglia perseverare in questo tuo comportamento, sia che tu voglia
desistervi, sempre troverai in lei chi saprà liberarti dal tuo dolore o
condividerlo. (4) Ma se conosco bene il senno di questa donna straordinaria,
ella non ti lascerà consumare in un dolore inutile e ti porterà
il suo esempio di cui io fui testimone. Ella aveva perduto, durante un viaggio
per mare, il suo carissimo sposo, un mio zio, che aveva sposato quando era
ancora una ragazza. Vinse, in quel frangente, il dolore e la paura e, superata
la tempesta, strappò al naufragio il corpo del marito. (5) O quante
valorose azioni di donne restano sconosciute! Se costei fosse vissuta in quei
tempi antichi quando senza malizia si ammiravano le virtù, con quale
gara di ingegni si sarebbe celebrata questa moglie che, dimenticando la sua
debolezza, dimenticando il mare, tremendo anche per i più impavidi,
mette a repentaglio la propria vita per dare sepoltura al marito e mentre si
dà pensiero del suo funerale, non teme il proprio. È celebrata da
tutti i poeti colei che si offrì al posto del marito9, ma è ancora più mirabile
cercare una sepoltura per lo sposo a rischio della vita; più grande
è quell'amore che, a parità di rischio, trae un vantaggio minore.
(6) Dopo di ciò nessuno si meraviglierà che per tutti i sedici
anni durante i quali suo marito rimase in Egitto, ella non si fece mai vedere
in pubblico, non ricevette a casa mai nessun abitante della provincia, non
chiese mai nulla al marito e non consentì che si richiedesse a lei
qualcosa. E, quindi, la provincia pettegola e solo capace di denigrare i suoi
governatori, nella quale anche coloro che non si macchiarono di nessuna colpa
non sfuggirono alla calunnia, la considerò come un raro esempio di
virtù, e, cosa molto difficile per chi ama le facezie anche pericolose,
frenò ogni licenza verbale e, ancor oggi, per quanto più non lo
speri, desidererebbe una simile donna. Sarebbe già tanto essere stata
lodata da questa provincia per sedici anni, ma ancor più è
l'essere stata ignorata. (7) Ma io non racconto tutto questo per fare le sue
lodi, che, oltretutto, accennandovi così brevemente, sarebbe un
limitarle, ma perché tu comprenda che animo nobile ha questa donna, che non si
lasciò vincere né dall'ambizione, né dalla cupidigia, compagne e
flagelli di ogni potere, e neppure dal timore della morte, quando, con la nave
alla deriva, consapevole ormai di far naufragio, non si allontanò dal
cadavere di suo marito, cercando non tanto di mettere in salvo se stessa ma lui
nella tomba. Mostra un coraggio pari al suo, risolleva il tuo animo dal dolore
e comportati in modo che nessuno creda che tu ti sia pentita di essere madre.
(1) D'altro canto, perché è
inevitabile che, qualunque cosa tu faccia, i tuoi pensieri ricorrano sempre a
me e che nessun altro dei tuoi figli ti torni così spesso alla mente,
non perché ti siano meno cari ma perché è naturale che si porti spesso
la mano là dove si sente il male, ecco come devi immaginarmi: lieto e
sereno come se tutto andasse per il meglio. E, infatti, ogni cosa va per il suo
verso, dal momento che l'animo, libero da ogni impegno, attende alle sue
attività più congeniali e si diletta ora in studi poco
impegnativi, ora si innalza, avido di verità, a contemplare la natura
sua e quella dell'universo (2) Studia prima le terre e la loro posizione, poi
il regime dei mari che le circondano e il loro alterno flusso e riflusso; poi
osserva lo spazio esistente fra la terra e il cielo, pieno di fenomeni spaventosi,
lo spazio turbolento di tuoni, di fulmini, di raffiche di vento, di scrosci di
piogge, di neve e di grandine. Poi, dopo aver esplorato le zone inferiori, si
slancia verso le più eccelse e gode del meraviglioso spettacolo delle
cose divine; memore della sua eternità, percorre il passato e il futuro
attraverso tutti i secoli.
(Traduzione di Nino Marziano).
Nota
1: Seneca detto "il Vecchio".
Nota 2: per quanto possa sembrare strano, si tratta della
Corsica, in cui Seneca si trovava in esilio. È davvero incredibile
sentir parlare in questi termini di uno dei luoghi di vacanza attualmente
più rinomati!
Nota 3: Enea, naturalmente.
Nota 4: Marco Giunio Bruto, il cesaricida, nonché figlio adottivo
di Giulio Cesare. Era un filosofo stoico, assai stimato dagli esponenti latini
dello stoicismo tardo .
Nota 6: Manio Curio Dentato (che in verità non era
dittatore, ma console).
Nota 7: Novato (padre di Novatilla, nominata in seguito) e Mela .
Nota 8: Si tratta del piccolo Marco Anneo Lucano, figlio di Anneo
Mela e futuro grande poeta.
Nota 9: Alcesti, che diede la vita per il marito Admeto (cfr.
l'Alcesti di Euripide e il Simposio di Platone).