HOME PRIVILEGIA
NE IRROGANTO di
ARTURO
SCHOPENHAUER
AFORISMI
SULLA
SAGGEZZA
NELLA VITA
(dall’opera
PARERGA UND PARALIPOMENA)
TRADUZIONE
OSCAR D.
CHILESOTTI
MILANO
FRATELLI DUMOLARD
1885
AL
LETTORE
______
Odi
profanum vulgus, et arceo.
Q.
HORATII FLACCI. Odarum, Liber III, Ode I
Non per giovarti o per darti piacere,
lettore, non per averne lode o guadagno
(che di tutto ciò non mi cale) tradussi
questo libro,
ma così feci perchè così mi piacque fare.
Vale.
DOTT.
OSCAR CHILESOTTI.
INDICE
INTRODUZIONE
CAPITOLO I. — Divisione
fondamentale
CAPITOLO II. — Di ciò che si
è
1. La salute dello spirito e
del corpo
2. La bellezza
3. Il dolore e la noja.
L’intelligenza
CAPITOLO III. — Di ciò che si
ha
CAPITOLO IV. — Di ciò che si
rappresenta
1.
Dell’opinione altrui
2. Il grado
3. L’onore
4. La
gloria
CAPITOLO V. — Parenesi e
massime
1. Massime
generali
2. Circa la
nostra condotta verso noi stessi
3. Circa la
nostra condotta verso gli altri
4. Circa la
nostra condotta di faccia all’andamento del mondo ed alla sorte
CAPITOLO VI. — Sulla
differenza delle età della vita
INTRODUZIONE
la
felicità non è facile a conquistare; è molto difficile trovarla in noi —
impossibile altrove.
CHAMFORT.
Prendo qui
nel suo significato immanente la nozione di saggezza nella vita, cioè
intendo
con ciò l’arte di rendere la vita quanto meglio è possibile piacevole e felice.
Questo
studio
potrebbe egualmente chiamarsi l’Eudemonologia;
sarebbe
dunque un trattato sulla
vita
felice. Questa potrebbe a sua volta essere definita una esistenza che,
considerata dal
punto di vista puramente esteriore, o
piuttosto (trattandosi d’un apprezzamento soggettivo)
che dopo fredda e matura riflessione è
preferibile alla non-esistenza. La vita felice, così
definita, ci attrarrebbe per sè stessa, e
non solo per il timore della morte; ne risulterebbe
inoltre che noi desidereremmo vederla
durare senza fine. Se la vita umana corrisponda, o
possa solamente corrispondere alla nozione d’una
tale esistenza, è questione a cui si sa che
ho risposto con una negativa nella mia Filosofia; l’eudemonologia
invece presuppone una
risposta affermativa. Infatti questa si
fonderebbe sopra tale errore innato, errore che ho
combattuto in principio del capitolo XLIX,
vol. II, della mia opera principale1. In
conseguenza, per poter nondimeno trattare
la questione, dovetti allontanarmi interamente
dal punto di vista elevato, metafisico e
morale a cui conduce la mia vera filosofia. Lo
sviluppo che segue è stabilito adunque, in
una certa misura, sopra una convenzione, nel
senso che esso si mette sotto il punto di
vista usuale ed empirico, e ne conserva l’errore. Il
suo valore inoltre non può essere che
condizionato, dal momento che la parola
eudemonologia non è che un eufemismo. Di più esso non ha
la minima pretesa di esser
completo, sia perchè il tema è
inesauribile, sia perchè io avrei dovuto ripetere ciò che altri
ha già detto.
Io non ricordo che il libro di Cardano: De utilitate ex adversis capienda (dell’utilità
che si può cavare dalle disgrazie), lavoro
degno d’esser letto, che tratti lo stesso argomento
dei presenti aforismi; esso potrà servire a
completare quanto io qui presento. Aristotele, è
vero, ha intercalato una breve eudemonologia
nel capitolo V, libro I, della sua Rettorica, ma
non ha fatto che un’opera assai meschina.
Io non ricorsi a questi miei predecessori; che non
è affar mio il compilare; tanto meno lo
feci perchè in tal modo si perde quell’unità di vedute
che è l’anima delle opere di sì fatta
specie. Insomma, certamente i saggi di tutti i tempi
hanno sempre detto lo stesso, e gli
sciocchi, cioè l’incommensurabile maggioranza di tutti i
tempi, hanno sempre fatto lo stesso, ossia
l’opposto, e sarà sempre così. Anche Voltaire
dice; Noi lascieremo questo mondo tanto stupido e tanto cattivo
quanto lo abbiamo trovato
venendoci.
CAPITOLO PRIMO
Divisione
fondamentale.
Aristotele (Etica a Nicomaco, I, 8) ha
diviso i beni della vita umana in tre classi: beni
esteriori, dell’anima e del corpo. Non
conservando che la divisione in tre io dico che ciò
che distingue le sorti dei mortali può
essere ridotto a tre condizioni fondamentali. Esse
sono:
1.° Ciò che si è: dunque la personalità nel
suo senso più lato. Per conseguenza qui si
comprende la salute, la forza, la bellezza,
il temperamento, il carattere morale, l’intelligenza
ed il suo sviluppo.
2.° Ciò che si ha: dunque proprietà e ricchezza
d’ogni natura.
3.° Ciò che si rappresenta: è noto che
con questa espressione s’intende la maniera
colla quale altri si figura un individuo,
quindi ciò che questi è nell’altrui rappresentazione.
Tutto ciò consiste dunque nell’opinione
altrui a suo riguardo, e si divide in onore, grado e
gloria.
Le differenze della prima categoria, di cui
abbiamo da occuparci, sono quelle che la
natura stessa ha posto fra gli uomini;
d’onde si può già inferire che la loro influenza sulla
felicità o sull’infelicità sarà più
essenziale e più penetrante che quella delle differenze che
derivano dalle convenzioni umane e che noi
abbiamo ricordato nelle due rubriche seguenti.
I veri
vantaggi personali, quali una gran mente o un gran cuore, sono
in rapporto ad ogni
vantaggio di grado, di nascita, pur anche
regale, di ricchezza, ecc., ciò che i re veri sono
rispetto ai re sul teatro. Già Metrodoro,
il primo discepolo d’Epicuro, aveva intitolato un
capitolo; Le cause che vengono da noi contribuiscono alla felicità più
di quelle che
nascono dalle cose.
E, senza dubbio, per la felicità
dell’individuo, pur anche in tutto il suo modo di
essere, la cosa principale sarà
evidentemente quello che si trova o si produce in lui. Infatti è
là che risiede immediatamente il suo
benessere o la sua infelicità; insomma è sotto questa
forma che si manifesta da bel principio il
risultato della sua sensibilità, della sua volontà,
del suo pensiero; tutto ciò che si trova al
di fuori non ha che un’influenza indiretta. Perciò
le medesime circostanze, i medesimi
avvenimenti esterni impressionano ogni individuo in
modo affatto differente, e, quantunque
tutti siano posti nello stesso mezzo, ognuno vive in
un mondo differente. Perchè ciascuno non ha
direttamente a che fare se non colle sue
proprie sensazioni, e coi movimenti della
sua propria volontà: le cose esterne non hanno
influenza su lui che in quanto determinino
questi fenomeni interni. Il mondo in cui si vive
dipende dal modo d’intenderlo, che è
differente per ogni testa; secondo la natura delle
intelligenze esso sembrerà povero, scipito
e volgare, o ricco, interessante ed importante.
Mentre un tale, per esempio, invidia un tal
altro per le avventure interessanti toccategli
nella sua vita, dovrebbe piuttosto
invidiargli il dono di concezione che ha dato a questi
avvenimenti l’importanza che assumono nella
sua descrizione, perchè il medesimo fatto che
si presenta in un modo così interessante
nella testa d’un uomo di spirito, non offrirebbe più,
concepito da un cervello grossolano e
triviale, che una scena insipida della vita d’ogni
giorno. Ciò si manifesta al più alto grado
in molte poesie di Goethe e di Byron, il fondo
delle quali sta evidentemente sopra un dato
reale; uno sciocco, leggendole, è capace
d’invidiare al poeta la graziosa avventura
in luogo d’invidiargli la potente immaginazione
che d’un avvenimento abbastanza comune, ha
saputo fare qualche cosa di così grande e di
così bello. Egualmente il melanconico vedrà
una scena di tragedia là dove il sanguigno non
vede che un conflitto interessante, ed il
flemmatico un caso insignificante.
Tutto questo proviene dal fatto che ogni
realtà, cioè ogni attualità
compita, si
compone di due metà, il soggetto e
l’oggetto, ma così necessariamente e così strettamente
unite come l’ossigeno e l’idrogeno
nell’acqua. Identica la metà oggettiva, e differente la
soggettiva, o viceversa, la realtà attuale
sarà tutt’altra; la più bella e la migliore metà
oggettiva, quando la soggettiva è
grossolana, di trista qualità, non darà mai che una cattiva
realtà ed attualità, simile ad un bel sito
visto col brutto tempo o riflesso da una camera
oscura difettosa. Per parlare più
volgarmente ognuno è ficcato nella sua coscienza come
nella sua pelle, e non vive immediatamente
che in essa; così dal di fuori vi sarà da portargli
ben poco aiuto. Sulle scene Tizio
rappresenta i principi, Caio i magistrati, Sempronio i
lacchè, o i soldati, o i generali, e così
di seguito. Ma queste differenze non esistono che
all’esterno; all’interno, come nocciuolo
del personaggio, è sepolto in tutti lo stesso essere,
vale a dire un povero commediante colle sue
miserie e coi suoi affanni.
Nella vita succede lo stesso. Le differenze
di grado e di ricchezza danno a ciascuno la
parte da rappresentare, a cui non
corrisponde affatto una differenza interna di felicità e di
benessere; anche qui è posto in ciascheduno
lo stesso povero bietolone colle sue miserie e
coi suoi fastidî che possono differire
presso i singoli individui quanto al fondo, ma che
quanto alla forma, cioè in rapporto
all’essere proprio, sono presso a poco gli stessi per tutti;
havvi certo differenza nel grado, ma questa
non dipende minimamente dalla condizione o
dalla ricchezza, vale a dire dalla parte da
rappresentare.
Come tutto ciò che succede, tutto ciò che
esiste per l’uomo, non succede e non esiste
immediatamente che nella sua coscienza,
evidentemente la qualità della coscienza sarà
l’essenziale prossimo, e nella maggior
parte dei casi tutto dipenderà da questa meglio che
dalle imagini che vi si presentano. Tutti
gli splendori, tutte le gioie son povere, riflesse dalla
coscienza appannata d’un imbecille,
rispetto alla coscienza d’un Cervantes che in una
squallida prigione scrive il Don Chisciotte.
La metà oggettiva dell’attualità e della
realtà è fra le mani della sorte e quindi
mutabile; la metà soggettiva la siamo noi
stessi, in conseguenza essa è immutabile nella sua
parte essenziale. Così malgrado tutti i
cambiamenti esterni la vita d’ogni uomo porta da un
capo all’altro lo stesso carattere; la si
può paragonare ad un seguito di variazioni sul
medesimo tema. Nessuno può sortire dalla
propria individualità. Per l’uomo avviene come
per l’animale; questo, qualunque siano le
condizioni in cui lo si mette, resta confinato nel
piccolo cerchio che la natura ha
irrevocabilmente tracciato intorno al suo essere, ciò che
spiega perchè, per esempio, tutti i nostri
sforzi per la felicità dell’animale che amiamo,
devono mantenersi per forza fra confini
assai ristretti, precisamente in causa di questa
limitazione del suo essere e della sua
coscienza; del pari l’individualità dell’uomo si trova
fissata anticipatamente la misura della sua
possibile felicità. Sono in special modo i confini
delle facoltà intellettuali che determinano
una volta per sempre l’attitudine alle gioie
d’ordine superiore.
Se tali facoltà sono limitate, tutti gli
sforzi esterni, tutto quanto gli uomini o la fortuna
facessero in suo favore, tutto sarà
impotente a trasportare l’individualità oltre la misura
della felicità e del benessere ordinario,
mezzo animale; essa dovrà contentarsi dei piaceri
sensuali, d’una vita intima ed allegra in famiglia,
d’una società di bassa lega o di
passatempi volgari. L’istruzione stessa,
quantunque abbia una certa azione, non saprebbe
insomma allargare di molto questo cerchio,
perchè i piaceri più elevati, più varii e più
durabili sono quelli dello spirito, per
quanto falsa possa essere in gioventù la nostra
opinione su tale argomento; e questi
piaceri dipendono sopratutto dalla forza intellettuale. È
dunque facile veder chiaramente quanto la
nostra felicità dipenda da ciò che siamo,
dalla
nostra individualità, mentre non si tiene
conto il più delle volte che di ciò che abbiamo o di
ciò che rappresentiamo. La sorte però può migliorarsi, inoltre chi
possiede la ricchezza
interna non le domanderà gran cosa; ma lo
sciocco resterà sciocco, lo scimunito sarà
scimunito fino alla fine, foss’anche in
paradiso fra mezzo le Urì. Goethe dice: Popolo, e
lacchè, e conquistatori in ogni tempo riconoscono che il
bene supremo dei figli della terra
e solamente la personalità. (W. O.
Divan).
Che il soggettivo sia incomparabilmente più essenziale alla
nostra felicità ed alle
nostre gioie dell’oggettivo ci viene
provato in tutto, dalla fame che è la miglior cucina, dal
vegliardo che guarda con indifferenza la
deità che il giovine idolatra, fino all’estremo
vertice ove troviamo la vita dell’uomo di
genio e del santo. La salute sopratutto prevale
talmente sui beni esteriori che in verità
un mendicante sano è più felice di un re malato. Un
temperamento calmo e giocondo, proveniente
da una salute perfetta e da una eccellente
organizzazione, una mente lucida, viva,
acuta e giusta, una volontà moderata e dolce, e
come risultato una buona coscienza, ecco i
vantaggi che nessun grado, nessuna ricchezza
saprebbero surrogare. Ciò che un uomo è per
sè stesso, ciò che l’accompagna nella
solitudine, e ciò che nessuno saprebbe
dargli o togliergli, è evidentemente più essenziale
per lui che tutto quello ch’egli può
possedere o che può essere per gli occhi altrui. Un uomo
di spirito, nella solitudine la più
assoluta, trova nei suoi pensieri e nella sua fantasia di che
spassarsi dilettevolmente, mentre
l’individuo povero di spirito potrà variare all’infinito le
feste, gli spettacoli, i passeggi e i
divertimenti senza riuscire a scacciar la noia che lo
tortura. Un buon carattere, moderato e dolce,
potrà esser contento nell’indigenza mentre
tutte le ricchezze del mondo non saprebbero
soddisfare un carattere avido, invidioso e
malvagio. In quanto all’uomo dotato in
permanenza d’una individualità straordinaria,
intellettualmente superiore, può far senza
della maggior parte di quei piaceri a cui
generalmente aspira la gente; anzi questi
non sono per lui che un disturbo ed un peso.
Orazio dice parlando di sè; V’è chi possede gemme, marmi, avorj,
statuette etrusche,
quadri, argento, vesti tinte di porpora di Getulia; v’è chi
non si cura d’averne (Ep. II, L. II,
v. 180 e seg.).
E Socrate alla vista d’oggetti di lusso
esposti per la vendita diceva: Quante
cose vi
sono di cui non ho bisogno!
Così la condizione prima e più essenziale
per la felicità della vita è ciò che noi siamo,
la personalità; a spiegarlo basterebbe il
fatto che essa agisce costantemente ed in ogni
circostanza, che inoltre non è soggetta a
peripezie come i beni delle altre due categorie, e
che non può esserci tolta. In questo senso
il suo valore può esser considerato come assoluto,
in opposizione al valore solamente relativo
degli altri beni. Ne risulta che l’uomo è molto
meno suscettibile d’esser modificato dal
mondo esterno di quello che non si sarebbe
disposti a crederlo. Solo il tempo, nel suo
potere sovrano, esercita egualmente anche qui i
suoi diritti; le facoltà fisiche ed
intellettuali s’infiacchiscono sotto i suoi colpi: il carattere
morale solo rimane inattaccabile.
Sotto questo rapporto i beni delle due
ultime categorie avrebbero un vantaggio sui
beni della prima, siccome quelli che il
tempo non toglie direttamente. Un altro vantaggio
sarebbe che, essendo posti fuori di noi,
sono accessibili di loro natura, e che ciascuno ha per
lo meno la possibilità di acquistarseli,
mentre ciò che è in noi, il soggettivo, è sottratto al
nostro potere; stabilito per diritto divino, esso si
conserva invariabile per tutta la vita. Così
l’idea seguente contiene una inesorabile
verità:
«Come nel giorno che t’ha dato al mondo, il
sole era là per salutare i pianeti, tu
sei cresciuto senza interruzione secondo la
legge con cui cominciasti. Tale è il tuo
destino; tu non puoi sfuggire a te stesso;
così parlavano già le Sibille, così i Profeti;
nè tempo, nè potenza alcuna spezza l’impronta
che si sviluppa nel corso della vita.»
«GOETHE.»
Quanto possiamo fare in questo riguardo si
è d’impiegare la personalità,
quale ci fu data, al nostro maggior
profitto; in conseguenza non coltivare che le
aspirazioni che le si confanno, non cercare
che lo sviluppo che le è appropriato
evitandone qualunque altro, non sceglier
quindi che lo stato, l’occupazione, il genere di vita
che le convengono.
Un uomo erculeo, dotato d’una forza
muscolare straordinaria, costretto dalle
circostanze esterne a darsi ad
un’occupazione sedentaria, ad un lavoro manuale, paziente e
penoso, o peggio ancora allo studio ed a
lavori di mente, occupazioni che reclamano forze
differenti, non sviluppate in lui, e che
lasciano precisamente senza impiego le forze che gli
sono caratteristiche, un tal uomo sarà
infelice tutta la vita; sarà anche molto più infelice
colui nel quale le facoltà intellettuali
prevalgono di molto, e che è obbligato a lasciarle
senza sviluppo e senza impiego per
occuparsi di faccende volgari che non domanda,
oppure, e sopratutto, d’un lavoro corporale
per cui la sua forza fisica non è sufficiente.
Tuttavia, nel caso, bisogna anche evitare,
specialmente nell’età giovane, lo scoglio della
presunzione e non attribuirsi un eccesso di
forze che non si abbia.
Dalla preponderanza bene stabilita della
nostra prima categoria sulle altre due, risulta
ancora che è più saggio adoprarsi per
conservare la salute e per sviluppare le proprie facoltà
che non per acquistare ricchezze, ciò che
non bisogna però interpretare nel senso che
occorra trascurare l’acquisto delle cose
necessarie e convenienti. Ma la ricchezza
propriamente detta, vale a dire un grande
superfluo, contribuisce poco alla nostra felicità;
per questo molti ricchi si sentono infelici
perchè sono sprovveduti di una vera coltura dello
spirito, di cognizioni e quindi di ogni
interesse oggettivo che potrebbe renderli atti ad
un’occupazione intellettuale. Perocchè
quanto la ricchezza può fornire al di là della
soddisfazione dei bisogni reali e naturali
ha un’influenza piccolissima sul nostro vero
benessere; questo è piuttosto turbato dalle
numerose ed inevitabili cure che porta con sè la
conservazione d’una grande fortuna.
Tuttavia gli uomini sono mille volte più occupati ad
acquistar la ricchezza che la coltura intellettuale,
quantunque ciò che si è contribuisca
di
certo alla nostra felicità più di ciò che
si ha.
Quante persone non vediamo noi diligenti
come formiche ed occupate da mattina a
sera ad accrescere una ricchezza già
acquistata! Essi non conoscono nulla al di fuori del
ristretto orizzonte che racchiude i mezzi
di riuscire al loro scopo; il loro spirito è vuoto, e
quindi inaccessibile a tutt’altra
occupazione. I piaceri i più elevati, i diletti intellettuali sono
per costoro impossibili; invano essi cercano
di sostituirli con divertimenti fugaci, sensuali,
facili ma costosi, che si permettono di
tempo in tempo. Al termine della loro vita essi
trovansi davanti come risultato, quando la
sorte fu loro propizia, un gran monte d’oro, di
cui lasciano allora agli eredi la cura di
aumentare oppure di dissipare. Una tale esistenza,
benchè condotta con apparenza seriissima ed
importantissima, è dunque tanto insensata
come un’altra che inalberasse apertamente
per insegna la mazza della follia2.
Così l’essenziale per la felicità della
vita è ciò che si ha in
sè stessi. È unicamente
perchè la dose ne è d’ordinario così
piccola che la maggior parte di coloro che sono già
sortiti vittoriosi dalla lotta contro il
bisogno, si sentono in fondo tanto infelici come chi si
trova ancora nella mischia. La vacuità del
loro interno, la scipitezza della loro intelligenza,
la povertà del loro spirito, li spingono a
cercare la compagnia, ma una compagnia composta
di persone a loro simili, perchè similis simile gaudet. Allora
comincia in comune la caccia
ai passatempi ed ai divertimenti, ch’essi
cercano da principio nei godimenti sensuali, nei
piaceri d’ogni specie, ed alla fine nelle
orgie. La sorgente di questa funesta dissipazione, la
quale in un tempo incredibilmente breve fa
disperdere grosse eredità a tanti figli di famiglia
entrati ricchi nella vita, non è altra
davvero che la noia risultante da questa povertà e da
questo vuoto dello spirito che abbiamo or
ora descritto. Un giovane lanciato così nel
mondo, ricco al di fuori ma povero al di
dentro, si sforza inutilmente di supplire al difetto
della ricchezza interna coll’esterna; ei
vuole ricever tutto dal di
fuori, simile a quei vecchi
che cercano d’attinger nuove forze nel
fiato delle giovinette. In tal modo la povertà interna
ha finito col produrre anche la povertà
esterna.
Non credo occorra metter in rilievo
l’importanza delle due altre categorie dei beni
della vita umana, perchè le ricchezze sono
oggidì troppo universalmente in pregio per aver
bisogno d’esser raccomandate. La terza
categoria è di una natura molto eterea a confronto
della seconda, visto che essa non consiste
che nell’opinione altrui. Tuttavia è ammesso che
ciascuno possa aspirare all’onore, cioè ad un buon nome; ad un grado può aspirare
unicamente chi serve lo Stato, e in quanto
concerne la gloria non ve
n’ha che infinitamente
pochi che possano pretendervi. L’onore è
considerato come un bene inapprezzabile, e la
gloria come la cosa più eccellente che
l’uomo possa acquistare; essa è il toson d’oro degli
eletti; invece solo gli sciocchi
preferiranno il grado alle ricchezze. La seconda e la terza
categoria hanno inoltre una sull’altra ciò
che si dice un’azione reciproca; quindi l’adagio di
Petronio; «Habes, haberis»3 è vero, e, in senso inverso, la buona opinione
altrui, sotto tutte
le forme, ci aiuta soventi volte ad
acquistar la ricchezza.
_____
CAPITOLO II
___
Di ciò che si è.
Noi abbiamo già conosciuto in modo generale
che ciò che si è contribuisce
alla nostra
felicità più di ciò che si ha o di ciò che si rappresenta. La cosa
principale è sempre ciò che
un uomo è, in conseguenza ciò che possede
in lui stesso, perocchè la sua individualità
l’accompagna dappertutto e dovunque, e
colora di sua tinta tutti gli avvenimenti della vita.
In ogni cosa, ed in ogni occasione quello
che a bella prima gli fa impressione è lui stesso.
Questo è già vero per i piaceri materiali,
e, a più forte ragione, per quelli dell’anima. Così
l’espressione inglese: To enjoy one’s self è molto
ben trovata; non si dice mica in inglese:
Parigi gli piace, si dice invece: egli si
piace a Parigi (He enjoys himself at Paris).
1. La
salute dello spirito e del corpo.
Ma se l’individualità è di qualità cattiva,
tutte le gioie saranno come un vino squisito
in una bocca impregnata di fiele. Così
dunque, nella buona come nella cattiva fortuna, e
salvo il caso di qualche grande disgrazia,
ciò che tocca ad un uomo nella sua vita è
d’importanza più piccola che la maniera con
cui egli lo sente, vale a
dire la natura ed il
grado della sua sensibilità sotto tutti i
rapporti. Ciò che abbiamo in noi stessi e da noi stessi,
in una parola la personalità ed il suo
valore, ecco il solo fattore immediato della nostra
felicità e del nostro benessere. Tutti gli
altri agiscono indirettamente; la loro azione quindi
può essere annullata, ma quella della
personalità mai.
Di qui viene che l’invidia più
irreconciliabile e nello stesso tempo nascosta colla
massima cura è quella che ha per oggetto i
vantaggi personali. Inoltre la qualità della
coscienza è la sola cosa permanente e
persistente; l’individualità agisce costantemente,
continuamente, e più o meno, in ogni
momento; tutte le altre condizioni non hanno che
un’influenza temporanea, passaggera,
d’occasione, e possono anche cangiare o sparire.
Aristotele dice: La natura è eterna, non le cose (Mor. a
Eudemo, VII, 2). È per questo che
noi sopportiamo con più rassegnazione la
sventura la cui causa è tutta esterna, piuttosto che
quella che ci colpisce per nostra colpa;
perchè la sorte può cangiare, ma la nostra propria
qualità è immutabile. Quindi i beni
soggettivi, quali un carattere nobile, una testa possente,
un umore gaio, un corpo bene organizzato ed
in perfetta salute, o, in generale, mens
sana in
corpore sano (Giovenale sat. X, 355), sono beni supremi,
ed importantissimi alla nostra
felicità; perciò dovremmo attendere molto
più al loro sviluppo ed alla loro conservazione
che non al possesso dei beni esterni e
dell’onore esterno.
Ma ciò che sopra tutto contribuisce più
direttamente alla nostra felicità è un umore
allegro, perocchè questa buona qualità
trova subito la ricompensa in sè stessa. Infatti chi è
gaio ha sempre motivo d’esserlo per la
stessa ragione ch’egli lo è. Niente può sostituire così
completamente tutti gli altri beni come
questa qualità, mentre essa stessa non può esser
surrogata da cosa alcuna. Che un uomo sia
giovane, bello, ricco e stimato, per poter
giudicare sulla sua felicità sarà questione
di sapere se, oltre a ciò, egli sia gaio; in cambio
s’egli è gaio, poco importa che sia giovane
o vecchio, ben fatto o gobbo, povero o ricco;
egli è felice. Nella mia prima giovinezza
ho letto un giorno in un vecchio libro la frase; Chi
ride molto è felice, chi piange molto è infelice; l’osservazione
è molto sciocca, ma a causa
della sua verità così semplice non ho
potuto dimenticarla, quantunque essa sia il superlativo
d’un truism (in inglese verità triviale). Così
dobbiamo, ogni volta che si presenta, aprire
alla gaiezza porte e fenestre, giacchè essa
non giunge mai di contrattempo, e non esitare a
riceverla, come facciamo di sovente,
volendo prima renderci conto se abbiamo bene in ogni
riguardo motivo d’esser contenti, od anche
per paura che essa non ci distragga da serie
meditazioni o da gravi cure quando è molto
incerto che queste possano migliorare la nostra
condizione, mentre la gaiezza, è un
beneficio immediato. Essa sola è, per così dire, il
danaro contante della felicità; tutto il
resto non ne è che il biglietto di banca; perocchè essa
sola può darci la felicità in un presente
immediato; così è la gaiezza il supremo bene per
esseri la cui realtà ha la forma di
un’attualità indivisibile tra due tempi infiniti. Noi
dovremmo dunque aspirare anzitutto ad
acquistare ed a conservare questo bene. È certo
d’altronde che niente contribuisce alla
gaiezza meno della ricchezza, e che niente vi
contribuisce meglio della salute: si è
nelle classi inferiori, fra i lavoranti e particolarmente
fra i contadini che troviamo i visi allegri
e contenti; nei ricchi e nei grandi dominano le
sembianze melanconiche. Dovremmo perciò
applicarci sopratutto a conservare questo stato
perfetto di salute di cui la gaiezza appare
come fioritura. Per ottener questo si sa che
bisogna fuggire ogni eccesso ed ogni
disordine, evitare ogni emozione violenta e penosa,
come pure ogni applicazione dello spirito
soverchia o troppo prolungata; bisogna ancora
prendere ogni giorno due ore d’esercizio
rapido all’aria libera, bagni frequenti d’acqua
fredda, ed altre misure dietetiche dello
stesso genere. Non v’è salute se non ci si dà ogni
giorno abbastanza movimento; tutte le
funzioni della vita per compiersi regolarmente
esigono il movimento degli organi per cui
si compiono, e dell’insieme del corpo.
Aristotele ha detto con ragione: la vita è nel movimento. Infatti la
vita consiste
essenzialmente nel movimento. All’interno
d’ogni organismo regna un movimento
incessante e rapido: il cuore nel suo
doppio movimento di sistole e diastole, batte
impetuoso ed instancabile; 28 pulsazioni
gli bastano per mandare la massa intiera del
sangue nel torrente della grande e della
piccola circolazione; il polmone aspira senza mai
smettere come una macchina a vapore;
gl’intestini si contraggono senza posa d’un
movimento peristaltico; tutte le glandule assorbono
e danno secrezioni incessantemente; il
cervello stesso ha un doppio movimento per
ogni battito del cuore e per ogni aspirazione
del polmone. Se, come succede nel genere di
vita interamente sedentario di tante persone, il
movimento esterno manca quasi totalmente,
ne risulta una sproporzione innaturale e
dannosa tra il riposo esterno ed il tumulto
interno. Perchè questo perpetuo moto all’interno
richiede anche d’esser aiutato qualche poco
dal moto all’esterno; tale stato sproporzionato è
analogo a quello che nascerebbe quando
fossimo tenuti a non lasciar scorgere al di fuori
segno visibile di un’emozione che ci fa
bollire il sangue internamente. Gli alberi stessi, per
prosperare, hanno bisogno d’esser agitati
dal vento. È questa una regola assoluta che si può
esprimere nel modo più conciso in latino: Omnis motus, quo celerior, eo magis motus
(quanto più celere, tanto più ogni
movimento è movimento).
Per meglio renderci conto quanto la nostra
felicità dipenda da una disposizione
all’allegria, e questa dallo stato di
salute, non abbiamo che a confrontare l’impressione che
producono su noi le stesse circostanze
esterne o gli stessi avvenimenti, nei giorni di salute e
di forza con quella che è prodotta, quando
uno stato di malattia ci dispone ad esser di
cattivo umore ed inquieti. Non è già ciò
che sono oggettivamente ed in realtà le cose, ma
ciò che esse sono per noi, nella nostra
percezione, che ci rende felici o infelici. È quanto
esprime assai bene questa sentenza
d’Epitteto: Ciò che
commuove gli uomini non son le
cose, ma l’opinione sulle cose. In tesi
generale i nove decimi della nostra felicità riposano
esclusivamente sulla salute. Con essa tutto
doventa sorgente di piacere; senza di essa invece
noi non sapremmo gustare un bene esterno di
qual si sia natura; pur anche gli altri beni
soggettivi, come le qualità
dell’intelligenza, del cuore, del carattere, sono diminuite e
guastate dallo stato di malattia. Così non
è senza ragione che noi prendiamo notizia
scambievolmente sullo stato della nostra
salute e che ci desideriamo reciprocamente di star
bene, perchè proprio in ciò v’ha quanto è
più essenzialmente importante per là felicità
umana. Ne segue adunque che è insigne
pazzia sacrificare la propria salute a checchessia,
ricchezza, carriera, studii, gloria e sopra
tutto alla voluttà, ed ai piaceri fuggittivi. Al
contrario tutto deve cedere il passo alla
salute.
Per quanto grande sia l’influenza della
salute su questa gaiezza così essenziale alla
nostra felicità, non di meno questa non
dipende unicamente dalla prima, perchè con una
salute perfetta si può avere un
temperamento melanconico ed una disposizione
predominante alla tristezza. Ne risiede
certamente la causa nella costituzione originaria,
quindi immutabile, dell’organismo e più
specialmente nel rapporto più o meno normale
della sensibilità con l’irritabilità e con
la riproduttività. Una preponderanza anormale della
sensibilità produrrà l’ineguaglianza
d’umore, una gaiezza periodicamente esagerata ed un
predominio della melanconia. Siccome il
genio è determinato da un eccesso della forza
nervosa, vale a dire della sensibilità,
Aristotele ha osservato con ragione che tutti gli uomini
illustri ed eminenti sono melanconici: Tutti gli uomini che sono nati o alla
filosofia, o alla
politica, o alla poesia o alle arti si mostrano melanconici (Prob. 30,
1). Cicerone ebbe
senza dubbio in vista questo passaggio
nella relazione tanto citata: Aristotele
disse tutti gli
uomini d’ingegno esser melanconici (Tusc. I,
33). Shakespeare ha dipinto molto
piacevolmente questa grande diversità del
temperamento generale; La
natura si diverte
qualche volta a formare esseri curiosi. V’ha chi si dà a
fare continuamente gli occhietti
piccoli e che si mette a ridere come un pappagallo davanti
un semplice suonator di
cornamusa, e v’ha chi tiene una tale fisonomia d’aceto che
non scoprirebbe i suoi denti,
pur per sorridere, quand’anche il grave Nestore giurasse
ch’ei ha udito or ora uno scherzo
dei più ameni. (Il
Mercante di Venezia, scena I).
È questa stessa diversità che Platone
disegna colle parole δυσκολος (d’umore
difficile), ed
ευκολος (d’umore facile). Essa può esser
ridotta alla suscettibilità, molto
diversa nei diversi individui, per le
impressioni piacevoli o disaggradevoli, in conseguenza
della quale Tizio ride ancora di ciò che
mette Cajo in disperazione. E di più la suscettibilità
per le impressioni piacevoli è d’ordinario
tanto più piccola quanto quella per le impressioni
disaggradevoli è più forte, e viceversa. A
probabilità eguali di buono o cattivo esito in un
affare, il
δυσκολος si stizzerà o si affliggerà
dell’insuccesso, e non si rallegrerà per la
riuscita;
l’ευκολος invece non sarà nè stizzito nè
afflitto per il cattivo esito, e sarà contento
per il buon successo. Se, nove volte su dieci,
il δυσκολος riesce ne’ suoi progetti,
ei non si
rallegrerà per le nove volte riescite a
bene, ma sarà triste per il cattivo esito della decima;
nel caso inverso
l’ευκολος sarà consolato e contento per
l’unico successo felice. Però non è
facile trovare un male che non abbia alcun
compenso; così succede che i δυσκολος,
cioè i
caratteri cupi ed inquieti, avranno, è
vero, a sopportare alla fin fine più disgrazie e dolori
immaginari che non i caratteri allegri e
spensierati, ma in cambio incontreranno meno
sventure effettive, perchè chi vede tutto
nero, chi teme sempre il peggio e prende le sue
misure in conseguenza, non avrà delusioni
così frequenti come colui che dà colore e
prospettiva ridente ad ogni cosa. Nondimeno
quando un’affezione morbosa del sistema
nervoso o dell’apparecchio digestivo viene
a dar forza ad una δυσκολια innata,
allora
questa può giungere a quell’alto grado in
cui un malessere permanente produce il disgusto
della vita, d’onde proviene l’inclinazione
al suicidio. Il quale può allora esser provocato
dalle più piccole contrarietà; ad un grado
molto elevato del male non havvi nemmeno
bisogno di motivo, per risolvervisi basta
la sola permanenza del malessere. Il suicidio si
compie allora con sì fredda riflessione e
con sì inflessibile risoluzione che a questo stadio il
malato, posto d’ordinario sotto custodia,
profitta, lo spirito costantemente fisso su questa
idea, del primo momento in cui la
sorveglianza sia rilassata per ricorrere senza esitazione,
senza lotta e senza paura, a questo mezzo
di sollievo per lui così naturale in questo
momento, e così ben venuto. Esquirol ha
descritto molto a lungo tale stato nel suo Trattato
delle malattie mentali. È certo che l’uomo il più
sano, e fors’anco il più gaio, potrà,
capitando il caso, determinarsi al
suicidio; ciò succederà quando l’intensità dei dolori o
d’una sventura prossima ed inevitabile sarà
più forte dei terrori della morte. Non v’è
differenza che nella potenza più o meno
grande del motivo determinante, potenza che è in
rapporto inverso colla
δυσκολια. Quanto più questa è grande,
tanto più il motivo potrà esser
piccolo; al contrario più
l’ευκολια, come pure la salute che ne è la
base, è grande, più grave
dovrà essere motivo. Vi saranno dunque
gradi innumerevoli tra questi due casi estremi di
suicidio, tra quello cioè provocato
puramente da una recrudescenza morbosa della
δυσκολια
innata, e quello dell’uomo sano ed allegro,
proveniente da cause affatto oggettive.
2. La
bellezza.
La bellezza è analoga in parte alla salute.
Questa qualità soggettiva, benchè non
contribuisca che indirettamente alla
felicità coll’impressione che produce sugli altri, ha
nondimeno una grande importanza anche per
il sesso mascolino. La bellezza è una lettera
aperta di raccomandazione che ci guadagna i
cuori anticipatamente; specie ad essa
s’applicano i versi di Omero; Non bisogna sdegnare i doni gloriosi
degli immortali che soli
possono dare e che nessuno può accettare o rifiutare a suo
piacere.
3. Il
dolore, e la noia. L’intelligenza.
Un semplice colpo d’occhio ci fa scoprire
due nemici della felicità umana; il dolore e
la noia. Inoltre possiamo osservare che a
misura che riusciamo ad allontanarci dall’uno, ci
avviciniamo al secondo, e reciprocamente;
di maniera che la nostra vita rappresenta in
realtà una oscillazione più o meno forte
tra i due. Ciò deriva dal doppio antagonismo in cui
ciascuno di essi si trova verso l’altro,
antagonismo esterno od oggettivo, ed antagonismo
interno o soggettivo. Infatti esteriormente
il bisogno e la privazione generano il dolore; per
contraccambio, gli agi e l’abbondanza fanno
nascere la noia. Si è per questo che vediamo la
classe inferiore del popolo lottare
incessantemente contro il bisogno, dunque contro il
dolore, ed al contrario, la classe ricca ed
altolocata alle prese permanentemente, spesso
disperatamente, contro la noia.
Internamente, o soggettivamente,
l’antagonismo si fonda sul fatto che in ogni
individuo la facilità ad esser
impressionato da uno di questi mali è in rapporto inverso colla
facilità ad esser impressionato dall’altro;
perocchè tale suscettibilità è determinata dalla
misura delle forze intellettuali. Infatti
una mente ottusa è sempre accompagnata da
impressioni grossolane e da una certa
mancanza d’irritabilità, ciò che rende l’individuo
poco accessibile ai dolori ed ai dispiaceri
d’ogni specie e d’ogni grado; ma questa stessa
qualità ottusa dell’intelligenza produce
d’altronde quel vuoto
interno che è stampato su
tanti visi e che si lascia scorgere per
un’attenzione sempre svegliata su tutti gli avvenimenti,
anche più insignificanti, del mondo
esterno; questo vuoto è appunto la vera sorgente della
noia, e chi ne soffre aspira con avidità ad
eccitamenti esterni, allo scopo di mettere in
movimento lo spirito ed il cuore non importa
con qual mezzo. Così egli non è difficile nella
scelta dei mezzi; lo si vede abbastanza
alla miserabile meschinità di svaghi a cui si
abbandonano gli uomini, al genere di
società e di conversazioni che cercano, non meno che
al numero immenso di fannulloni e di
balordi che vanno pel mondo. È principalmente
questo vuoto interno che li spinge alla
ricerca d’ogni specie di riunioni, di divertimenti, di
piaceri e di lusso, ricerca che conduce
tanta gente alla dissipazione e finalmente alla
miseria.
Nessuna cosa mette in guardia contro tali
traviamenti più sicuramente della ricchezza
interna, la ricchezza dello spirito, perchè questo
lascia tanto meno posto alla noia quanto
più avvicina alla superiorità. L’attività
incessante dei pensieri, il loro continuo avvicendarsi
in presenza delle diverse manifestazioni
del mondo interno ed esterno, la potenza e la
capacità di combinazioni sempre variate
mettono una testa eminente, salvo nei momenti di
fatica, fuori affatto dall’attacco della
noia. Ma d’altronde un’intelligenza superiore ha per
condizione immediata una sensibilità più
viva, e per radice un più grande impeto della
volontà e per conseguenza della passione;
dall’unione di queste due condizioni deriva una
intensità più considerevole di ogni
emozione ed una sensibilità esagerata per i dolori morali
ed eziandio pei fisici, come pure una
grande intolleranza di faccia al minimo ostacolo, od
anche al minimo sconcerto.
Ciò che contribuisce altresì potentemente a
questi effetti si è la vivacità prodotta dalla
forza dell’immaginazione. Quanto dicemmo si
applica, mantenuta ogni proporzione, a tutti
i gradi intermediarî che dividono il vasto
intervallo compreso tra l’imbecillità la più ottusa
ed il più gran genio. In conseguenza,
oggettivamente come pure soggettivamente, ogni
individuo si trova tanto più vicino ad una
delle sorgenti delle umane sventure quanto più è
lontano dall’altra. La sua inclinazione
naturale lo porterà dunque, sotto questo rapporto, ad
accomodare quanto meglio possibile
l’oggettivo col soggettivo, vale a dire a premunirsi
come meglio potrà contro quella sorgente di
dolori che lo attacca più facilmente. L’uomo
intelligente aspirerà prima d’ogni altra
cosa a fuggire qualunque dolore, qualunque contesa,
ed a trovare riposo ed agi; cercherà dunque
una vita tranquilla, modesta, riparata per quanto
è possibile contro gl’importuni; dopo aver
mantenuto per qualche tempo relazioni con ciò
che si chiama gli uomini, ei
preferirà una esistenza ritirata, e, se sarà uno spirito
assolutamente superiore, sceglierà la
solitudine. Perocchè più un uomo possiede in sè
stesso, meno ha bisogno del mondo esterno,
e meno gli altri possono essergli utili. Così la
superiorità dell’intelligenza conduce all’insociabilità. Ah! se la
qualità della società potesse
esser surrogata dalla quantità, varrebbe la
pena di vivere pur anche nel gran mondo; ma, pur
troppo, cento pazzi messi in mucchio non
fanno un uomo ragionevole. L’individuo
collocato all’estremo opposto, non appena
il bisogno gli dà tempo di riprendere fiato,
cercherà ad ogni prezzo passatempi e
società; e s’accomoderà con tutto, non fuggendo che
sè stesso. Si è nella solitudine, là dove
ciascuno è ridotto alle sue sole risorse, che si scorge
quanto si ha per sè stessi; là l’imbecille, sotto la porpora, sospira
schiacciato dal peso della
sua miserabile individualità, mentre l’uomo
altamente dotato, popola ed anima co’ suoi
pensieri la contrada la più deserta. Seneca
(Ep. 9) disse con ragione: La
stupidità dà fastidio
a sè stessa, come pure Gesù figlio di Sirach; La vita dello stolto è peggior della
morte. Così
in conclusione si vede che ogni individuo è
tanto più socievole quanto è più povero di
spirito ed in generale più volgare.
Perocchè nel mondo non si ha guari la scelta che tra
l’isolamento e la società. Si pretende che
i negri sieno di tutti gli uomini i più socievoli,
come sono senza dubbio i più limitati nelle
facoltà intellettuali; rapporti mandati
dall’America del Nord, e pubblicati da
giornali francesi (Le
Commerce, 19 oct. 1837)
raccontano che i negri, senza distinzione
fra liberi e schiavi, si uniscono in gran numero nel
locale più ristretto, perchè non saprebbero
vedere mai abbastanza spesso ripetute le loro
faccie nere e camuse.
Nello stesso modo che il cervello ci sembra
esser in certo qual modo il parassita od il
dozzinante dell’intero organismo, così gli
agi4 acquistati
da chicchessia, dandogli il libero
godimento della sua coscienza e della sua
individualità, sono a questo titolo il frutto e la
rendita di tutta la sua esistenza, la
quale, per il resto, non è che pena e fatica. Ma vediamo
un po’ cosa producono gli agi della maggior
parte degli umani!: noia e sgarbatezza, ogni
qual volta l’uomo non trova da occuparsi in
piaceri sensuali od in balordaggini. Ciò che
dimostra abbastanza che tali agi non hanno alcun
valore si è il modo con cui sono
impiegati; essi non sono letteralmente che Ozio lungo d’uomini ignoranti di cui
parla l’Ariosto.
L’uomo volgare non si preoccupa che di passare il tempo, l’uomo di
talento che d’impiegarlo. La ragione
per cui le teste povere sono tanto esposte alla noia, si è
che il loro intelletto non è assolutamente
altra cosa che l’intermediario
dei motivi per la loro
volontà. Se, in un dato momento, non vi
sono motivi da
cogliere, allora la volontà si riposa
e l’intelletto resta inerte, perchè la
prima, non meglio del secondo, non può entrare in
attività di suo proprio impulso; il
risultato è uno spaventevole stagnamento di tutte le forze
nell’individuo intero — la noia. Per
combatterla si suggerisce piano piano alla volontà dei
motivi piccoli, provvisori, scelti
indistintamente, allo scopo di stimolarla, e di metter con
ciò in attività anche l’intelletto che deve
coglierli: questi motivi sono dunque in rapporto ai
motivi reali e naturali ciò che la
carta-moneta è in rapporto al danaro, perchè il loro valore
non è che convenzionale. Tali motivi sono i
giuochi di carte ed altri, inventati precisamente
allo scopo che abbiamo indicato. In loro
mancanza l’uomo povero di sè si metterà a
stamburare sui vetri, od a dar colpi con
tutto quanto gli cade sotto mano. Anche il sigaro
porge facilmente di che supplire ai
pensieri.
Si è per questo che in tutti i paesi i
giuochi di carte sono arrivati ad essere
l’occupazione principale d’ogni società;
cosa che fornisce la misura di ciò che valgono
queste riunioni e che costituisce la
bancarotta dichiarata d’ogni pensiero. Non avendo idee
da scambiare, si scambiano carte cercando
di sottrarsi vicendevolmente alquanti fiorini. O
razza miserabile! Tuttavia, per non esser
ingiusto nemmeno qui, non voglio ommettere
l’argomento che si può invocare in
giustificazione del giuoco delle carte: si può dire che
esso è una preparazione alla vita del mondo
e degli affari, nel senso che vi si impara a
profittare con saggezza da circostanze
immutabili, essendo stabilite le carte dalla sorte, per
trarne tutto il partito possibile; a tal
fine si apprende a serbare un contegno corretto facendo
buon viso a cattivo giuoco. Ma, d’altra
parte, per questo stesso fatto, i giuochi di carte
esercitano un’influenza demoralizzatrice.
In fatti lo spirito del giuoco consiste nel sottrarre
ad altri ciò che possiede, non importa con
quale gherminella o con quale astuzia. Ma
l’abitudine di procedere così, contratta al
giuoco, prende radici, fa invasione nella vita
privata, e il giocatore arriva quindi
insensibilmente a proceder nella stessa guisa quando si
tratta del tuo e del mio, ed a considerare
come lecito ogni vantaggio che si ha in mano al
momento, poichè lo si può fare legalmente.
La vita ordinaria ne fornisce prove ogni giorno.
Giacchè gli agi sono, come dicemmo, il
fiore o piuttosto il frutto dell’esistenza di
ciascuno, perciocchè solamente essi lo
mettono al possesso del suo proprio io,
noi
dobbiamo stimare felici coloro che,
guadagnando sè stessi, guadagnano cosa che ha prezzo,
mentre gli agi non apportano alla maggior
parte degli uomini che uno scioccone di cui non
sanno che fare, uno scioccone che s’annoia
a morte, e che è di peso a sè stesso.
Congratuliamoci dunque o fratelli d’esser figli non di schiave,
ma di madri libere (Paolo,
Ep. ai Galati, 4, 31).
Inoltre come è più felice quel paese che ha
meno bisogno o non ha affatto bisogno
d’importazione, così è felice l’uomo a cui
basta la ricchezza interna, e che pei suoi
divertimenti non domanda che poco, od anche
nulla, al mondo esterno, attesochè una tale
importazione è costosa, obbligante,
pericolosa; essa espone a disgusti, e, in conclusione, è
sempre un cattivo succedaneo alle
produzioni del proprio suolo. Perocchè non dobbiamo, a
nessun titolo, aspettarci gran cosa dagli
altri, e in generale dal di fuori. Ciò che un individuo
può essere per un altro è molto
strettamente limitato; ciascuno finisce col restar solo, e chi è
solo? diventa allora la grande questione. Goethe
ha detto in proposito, parlando in modo
generale, che in ogni cosa ciascuno, in
conclusione, è ridotto a sè stesso (Poesia
e verità,
vol. III). Oliviero Goldsmith dice
egualmente: Intanto da
per tutto, ridotti a noi stessi,
siamo noi che facciamo o troviamo la nostra propria felicità
(Il Viaggiatore, v. 431 e
seg.).
Ognuno deve adunque essere e fornire a sè
stesso ciò che v’ha di migliore e di più
importante. Quanto più succederà così,
tanto più per conseguenza l’individuo troverà in sè
stesso le sorgenti dei suoi piaceri, e
tanto più sarà felice. Si è quindi con ragione che
Aristotele ha detto: La felicità appartiene a chi basta a sè
stesso (Mor. ad Eudemo, VII, 2).
Infatti tutte le sorgenti esterne della
felicità e del piacere sono di lor natura eminentemente
incerte, equivoche, fuggevoli, aleatorie,
quindi soggette ad arrestarsi facilmente pur anche
nelle circostanze più favorevoli, e questo
è pure inevitabile, attesocchè noi non possiamo
averle sempre alla mano. Anzi, con l’età,
quasi tutte fatalmente si esauriscono; perchè
allora amore, voglia di divertirsi,
passione pei viaggi e per cavalcare, attitudine a far figura
nel mondo, tutto questo ci abbandona; la
morte ci toglie perfino amici e parenti. A questo
momento, più che mai, è importante sapere
ciò che si ha da sè stessi. Non v’ha che questo,
infatti, che resisterà più lungamente.
Intanto in ogni età, senza differenza, ciò è e resta la
sorgente vera, e sola permanente della
felicità. Perocchè non vi è molto da guadagnare a
questo mondo: la miseria ed il dolore lo
empiono, e per quelli che hanno sfuggiti questi
mali, la noia è là che li insidia da ogni
banda. Inoltre d’ordinario è la perversità che regna, e
la stoltezza che parla più forte. Il
destino è crudele, e gli uomini sono miserabili. In un
mondo siffatto colui che ha molto in sè
stesso è simile ad una camera dell’albero di Natale,
illuminata, calda, gaia, in mezzo alle nevi
ed ai ghiacci d’una notte di dicembre. Per
conseguenza, aver un’individualità ricca e
superiore, e sopratutto molta intelligenza
costituisce senza dubbio la sorte più
felice sulla terra, per quanto ciò possa esser differente
dalla sorte la più brillante. Sicchè quanta
saggezza nell’opinione emessa su Descartes dalla
regina Cristina di Svezia in età di appena
diciannov’anni: Il signor
Descartes è il più felice
di tutti i mortali, e la sua condizione mi sembra degna
d’invidia (Vie de
Descartes par
Baillet, l. VII, c. 10). Descartes a
quell’epoca viveva da vent’anni in Olanda nella più
profonda solitudine, e la regina lo
conosceva solamente per quanto le era stato raccontato e
per aver letto una delle sue opere. Bisogna
solo, e ne era precisamente il caso in Descartes,
che le circostanze esterne sieno abbastanza
favorevoli per permettere di possedersi,
e
d’esser contenti di sè stessi; per questo
l’Ecclesiaste diceva
già: La saggezza è buona
con
un patrimonio e ci aiuta a rallegrarci alla vista del sole (7, 12).
L’uomo cui, per un favore della natura o
della fortuna, questa sorte è stata accordata,
starà attento con cura gelosa perchè questa
sorgente interna di felicità gli resti sempre
accessibile; per ciò occorrono indipendenza
ed agi.
Li acquisterà dunque ben volentieri colla
moderazione e col risparmio, e tanto più
facilmente perchè egli non è ridotto, come gli
altri uomini, alle sole sorgenti esterne dei
piaceri. Ed è per questo che la prospettiva
delle cariche, dell’oro, dei favori regali, e
l’approvazione del mondo non lo indurranno
a rinunziare a sè stesso per adattarsi alle
vedute meschine od al cattivo gusto degli
uomini. Al caso, ei farà come Orazio nella
epistola a Mecenate (L. 1, ep. 7). È una
gran pazzia perdere all’interno
per
guadagnare
all’esterno, in altri termini abbandonare, in tutto o in
parte, il proprio riposo, gli agi e
l’indipendenza per il fasto, il grado, le
pompe, i titoli, gli onori. Goethe però l’ha fatto. In
quanto a me, il mio genio mi ha tratto
energicamente nella via opposta.
La verità, qui esaminata, che la sorgente
principale della felicità vien dall’interno, si
trova confermata da una giusta osservazione
di Aristotele nella Morale
a Nicomaco (I, 7; e
VII, 13, 14); egli dice che ogni piacere
suppone un’attività, quindi l’impiego di una forza, e
che non può esistere senza di questa. Tale
dottrina aristotelica di far consistere la felicità
dell’uomo nel libero esercizio delle sue
facoltà saglienti è riprodotta egualmente da Stobeo
nell’Esposizione della morale peripatetica (Eclogoe ethicoe, II, c.
7); eccone un passo: La
felicità consiste nell’esercitare le proprie facoltà (αρετην)
in lavori capaci di
risultato; egli
spiega pure che
αρετη indica ogni facoltà non comune. Ora la
destinazione primitiva delle
forze di cui la natura ha dotato l’uomo, è
la lotta contro la necessità che l’opprime da per
tutto. Quando la lotta lascia un momento di
tregua, le forze senza impiego divengono un
peso per lui; ei deve allora giuocare con
esse, cioè impiegarle senza uno scopo, altrimenti si
espone all’altra sorgente dell’umana
infelicità, alla noia. Sicchè è la noia che tortura i
grandi ed i ricchi più che gli altri, e
Lucrezio ha fatto della loro miseria un quadro, di cui si
ha ogni giorno nelle grandi città
l’occasione di riconoscere la meravigliosa verità: Questi
sorte spesso dal ricco palazzo, ove si annoia, ma vi fa
ritorno un momento dopo non
trovandosi più felice altrove; un altro corre a briglia
sciolta in villa, quasicchè dovesse
portare aiuto a spegnerne l’incendio; appena toccata la
soglia è colpito dalla noia, e si
abbandona gravemente al sonno e cerca di dimenticar sè
stesso, oppure d’improvviso
desidera di nuovo la città e vi ritorna (L. III,
v. 1073 e seg.).
Presso questi signori, finchè sono giovani,
devono far le spese le forze muscolari e
genitali. Ma più tardi non restano più che
le forze intellettuali; in loro mancanza, od in
difetto di sviluppo o di materiali per
servire alla loro attività, la miseria è grande. La
volontà essendo la sola forza inesauribile, si
cerca allora di stimolarla coll’eccitare le
passioni; si ricorre, per esempio, ai
giuochi d’azzardo in grande, a questo vizio in vero
degradante. Del resto ogni individuo
sfaccendato sceglierà, secondo la natura delle forze in
lui predominanti, un divertimento che le
impieghi, come il giuoco delle palle o degli
scacchi, la caccia o la pittura, le corse
di cavalli o la musica, i giuochi di carte o la poesia,
l’araldica o la filosofia, ecc.
Possiamo anche trattare questa materia con
metodo, riportandoci alla radice delle tre
forze fisiologiche fondamentali: abbiamo
dunque da studiarle qui nel loro esercitarsi
senza
scopo; esse ci si presentano allora come sorgenti
di tre specie di piaceri possibili, fra le
quali ciascuno sceglierà quelle che gli
sono proporzionate secondo che l’una o l’altra di
queste forze predominano in lui.
Così troviamo anzi tutto le gioie della forza riproduttiva: esse
consistono nel
mangiare, nel bere, nella digestione, nel
riposo e nel sonno. Vi sono intere popolazioni a cui
si attribuisce di fare gloriosamente di
tali gioie uno spasso nazionale. In secondo luogo i
piaceri dell’irritabilità; essi sono
i viaggi, la lotta, il salto, la danza, la scherma, il cavalcare
ed i giuochi atletici d’ogni specie, come
pure la caccia, e veramente anche i combattimenti
e la guerra. In terzo luogo i piaceri della
sensibilità, quali
contemplare, pensare, sentire,
creare nella poesia o nell’arte plastica,
far musica, studiare, leggere, meditare, inventare,
filosofare, ecc. Vi sarebbero da fare molte
osservazioni sul valore, sull’altezza e sulla
durata di queste differenti specie di
piaceri; noi ne lasciamo la cura al lettore. Ma ciascuno
comprenderà che il piacere nostro, motivato
costantemente dall’impiego delle nostre
proprie forze, come pure la nostra
felicità, risultato del frequente rinnovarsi di questo
piacere, saranno tanto più grandi quanto
più la forza produttrice sarà di nobile specie.
Nessuno potrà inoltre negare che il primo
posto, sotto questo rapporto, tocchi alla
sensibilità il cui predominio deciso
stabilisce la distinzione tra l’uomo e le altre specie
animali; le due altre forze fisiologiche fondamentali,
che esistono presso l’animale nello
stesso grado, od in un grado anche più alto
che presso l’uomo, non vengono che in seconda
linea. Alla sensibilità appartengono le
nostre forze intellettuali; ed è per ciò che il suo
predominio ci rende atti a gustare i
piaceri che hanno sede nell’intelletto,
i
piaceri dello
spirito; piaceri che sono tanto più grandi quanto il
predominio della sensibilità è più
accentuato5. L’uomo normale, l’uomo ordinario non può prendere vivo
interesse ad una
cosa se questa non eccita la sua volontà, se non gli
presenta un interesse personale. Ora
ogni eccitamento persistente della volontà
è, per lo meno, di natura mista, quindi combinato
col dolore. I giuochi di carte, occupazione
abituale della buona
società di ogni paese6, sono
un mezzo per eccitare intenzionalmente la
volontà, e ciò mediante interessi tanto minimi
che non possono che occasionare dolori
momentanei e leggeri, non già dolori permanenti e
serî: cosicchè si può considerarli come un
semplice solletico della volontà. L’uomo dotato
di forze intellettuali predominanti, invece
è capace d’interessarsi vivamente alle cose per
via dell’intelligenza pura, senza immistione alcuna del volere; ne prova
anzi il bisogno.
Tale interesse lo trasporta allora in una
regione in cui il dolore è essenzialmente straniero,
nell’atmosfera per così dire, degli dei
dalla vita facile, Θεῶν ρεία ζωόντων. Mentre
l’esistenza del resto degli uomini passa
così nel torpore, e che i sogni e le aspirazioni di essi
sono dirette verso i meschini interessi del
benessere personale colle loro miserie d’ogni
sorte; mentre una noia insopportabile li
coglie appena non sono più occupati a coltivare tali
progetti, e che restano ridotti a sè
stessi; mentre l’ardore selvaggio della passione può solo
scuotere questa massa inerte, l’uomo dotato
di facoltà intellettuali preponderanti possiede
un’esistenza ricca di pensieri, sempre
animata, e sempre importante; oggetti degni ed
21
interessanti lo occupano non appena ha
l’agio di darsi a loro, ed ei porta con sè una
sorgente di gioie le più nobili. L’impulso
esterno gli è fornito dalle opere della natura e
dall’aspetto dell’attività umana, ed
inoltre dalle produzioni così svariate delle menti più
elevate di tutti i tempi e paesi, produzioni
che egli solo può realmente gustare per intero,
perchè egli solo è capace di comprenderli e
di sentirli interamente. Si è dunque per lui, in
realtà, che costoro hanno vissuto; si è
dunque a lui, in fatto, che essi hanno indirizzato le
loro parole, mentre gli altri, come uditori
d’occasione, non comprendono che qualche poco
qua e là, e solamente a mezzo, È certo che
appunto per questo l’uomo superiore acquista un
bisogno di più che gli altri uomini, il
bisogno d’imparare, di vedere, di studiare, di
meditare, di applicarsi; il bisogno quindi
di aver tempo disponibile. Ora, come Voltaire ha
giustamente osservato, non essendovi veri piaceri se non in
seguito a veri bisogni, questo
bisogno dell’uomo intelligente è
precisamente la condizione che mette alla sua portata
piaceri il cui accesso resta interdetto per
sempre agli altri; per costoro le bellezze della
natura e dell’arte, le opere
dell’intelletto d’ogni specie, anche quando se ne circondano, non
sono in fondo se non ciò che le cortigiane
sono per un vecchio. Un ente così privilegiato, a
lato della sua vita personale, vive d’una
seconda esistenza, d’una esistenza intellettuale che
arriva grado a grado ad essere il suo vero
scopo, l’altra non essendo più considerata che
come mezzo; per il resto degli uomini si è la loro
stessa esistenza, insipida, vuota e desolata
che deve loro servire di scopo. La vita
intellettuale sarà l’occupazione principale dell’uomo
superiore; aumentando senza mai cessare il
suo tesoro di senno e di scienza, essa così
acquista costantemente una connessione ed
una gradazione, una unità ed una perfezione
sempre più spiccate, come un’opera d’arte
in via di formazione. In cambio che penoso
contrasto fa con questa la vita degli
altri, puramente pratica, diretta solo al benessere
personale, vita che non ha aumento
possibile se non in lunghezza senza poter guadagnare in
profondità, e destinata nondimeno a servir
loro di scopo per sè stessa, mentre per l’altro
essa è un semplice mezzo!
La nostra vita pratica, reale, dal momento
che le passioni non la tengono in
agitazione, è noiosa e scipita; quando esse
la turbano diventa ben presto dolorosa; si è per
questo che sono felici solamente coloro cui
è toccato in sorte una somma d’intelletto
eccedente quella misura che il servizio della
loro volontà reclama. Così a lato della vita
effettiva essi possono vivere d’una vita
intellettuale che li occupa e li ricrea senza dolore, e
tuttavia con vivacità. Il semplice agio, vale a dire un intelletto non occupato al servizio
della volontà, non basta, abbisogna per ciò un eccedente positivo di forza che solo
ci rende
atti ad un’occupazione puramente spirituale
e non legata al servizio della volontà. Per lo
contrario l’ozio senza lo studio è morte e sepolcro dell’uomo vivo (Seneca,
Ep. 82). Nella
misura di questo eccedente, la vita
intellettuale esistente a lato della vita reale presenterà
gradazioni innumerevoli, dai lavori del
raccoglitore che descrive insetti, uccelli, minerali,
monete, ecc., fino alle più alte produzioni
della poesia e della filosofia.
Una tal vita intellettuale protegge non
soltanto contro la noia, ma anche contro le sue
perniciose conseguenze. Essa infatti ripara
dalla cattiva compagnia e dai molti pericoli,
disgrazie, perdite, e dissipazioni a cui si
espone chi cerca interamente la sua felicità nella
vita reale. Volendo parlare di me, per
esempio, dirò che la mia filosofia non m’ha fruttato,
ma mi ha risparmiato molto.
L’uomo normale invece o limitato, nei
piaceri della vita, alle cose esterne, quali le
ricchezze, il grado, la famiglia, gli
amici, la società, ecc.; su esse egli stabilisce la felicità
della sua vita, cosicchè tale felicità
crolla, quando le perde, o quando incontra qualche
disinganno. Per disegnare questo stato
dell’individuo possiamo dire che il suo
centro di
gravità cade fuori di lui. Si è per
ciò che le sue voglie ed i suoi capricci sono sempre
variabili: quando i suoi mezzi glielo
permettono ei comprerà talora una villa, talora dei
cavalli, oppure darà feste, poi
intraprenderà dei viaggi, ma sopra tutto condurrà una vita
fastosa, e tutto ciò precisamente perchè
cerca, non importa dove, una soddisfazione che
venga dal di fuori; così un uomo consumato spera trovare nel
brodetto e nelle droghe di
farmacia la salute ed il vigore la cui vera
fonte è la forza vitale propria. Per non passare
immediatamente all’estremo opposto,
prendiamo ora un uomo dotato di una potenza
intellettuale che senza esser eminente,
oltrepassi tuttavia la misura ordinaria e strettamente
sufficente. Vedremo quest’uomo, quando le
sorgenti esterne dei piaceri venissero a
mancare o più non lo soddisfacessero,
coltivare da dilettante qualche ramo delle belle arti,
oppure qualche scienza, come la botanica,
la mineralogia, la fisica, l’astronomia, la storia,
ecc., e trovarvi un gran fondo di piacere e
di ricreazione. A questo titolo possiamo dire che
il suo
centro di gravità cade già in parte dentro di lui. Ma il
semplice dilettantismo
nell’arte è ancora ben lontano dalla
facoltà creatrice; d’altra parte le scienze non
oltrepassano i rapporti dei fenomeni tra
loro, esse non possono assorbire l’uomo tutto
intero, colmare tutto il suo essere, nè per
conseguenza intrecciarsi così strettamente nel
tessuto della sua esistenza da renderlo
incapace di prender interesse a tutto il resto. Ciò
resta riservato esclusivamente alla suprema
altezza intellettuale, a quell’altezza che si
chiama comunemente genio; essa sola può
prender per tema, interamente ed assolutamente,
l’esistenza e l’essenza delle cose; dopo di
che tende, secondo la sua direzione individuale,
ad esprimere i suoi profondi concetti
coll’arte, colla poesia o colla filosofia.
Non è che per un uomo di tal tempra che
l’occupazione permanente con sè stesso, coi
suoi pensieri e colle sue opere riesce un
bisogno irresistibile; per lui la solitudine è la ben
venuta, gli agi sono il bene supremo; in
quanto al resto egli può farne senza, e quando lo
possede esso gli doventa ben di frequente
un peso. Di quest’uomo possiamo dire che il suo
centro di gravità cade tutto intero dentro di lui. Questo ci
spiega nello stesso tempo come
succede che tali uomini d’una specie così
rara non portano ai loro amici, alla loro famiglia,
al bene pubblico, l’interesse intimo ed
illimitato di cui molti fra gli altri sono capaci,
perocchè alla fin fine essi possono farne a
meno possedendo sè stessi. Esiste adunque di più
in essi un elemento isolante, la cui azione
è tanto più energica in quanto che gli altri uomini
non possono soddisfarli pienamente; così
essi non saprebbero vedere affatto negli altri degli
eguali, ed anzi, sentendo continuamente la
dissomiglianza della loro natura in tutto e da per
tutto, si abituano adagio adagio ad essere
fra gli umani come individui di una specie
differente, ed a servirsi, quando le loro
riflessioni si portano su di essi, della terza persona
plurale in luogo della prima.
Considerato sotto un tal punto di vista
l’uomo il più felice sarà dunque colui che la
natura ha riccamente dotato dal lato
intellettuale, tanto ciò che è in
noi ha più importanza di
ciò che è al di fuori; questo, vale a dire
l’oggettivo, in qualunque modo agisca, non agisce
mai se non per l’intermediario dell’altro,
vale a dire del soggettivo; l’azione dell’oggettivo
è quindi secondaria. È quanto espresse in
bei versi Luciano: La
ricchezza dell’anima è la
sola vera ricchezza; tutti gli altri beni sono fecondi di
dolori (Ant. I, 67).
Un uomo ricco siffattamente all’interno non
domanda al mondo esteriore che un dono
negativo, cioè gli agi per poter perfezionare
e sviluppare le facoltà del suo spirito, e per
poter godere delle sue ricchezze interne;
ei reclama dunque unicamente la libertà di potere,
per tutta la sua vita esser sè stesso ogni
giorno, ed ogni ora. Per l’uomo destinato ad
imprimere la traccia del suo spirito
sull’umanità intera, non esistono che una sola felicità ed
una sola infelicità, e sono di poter
perfezionare il suo ingegno e completar le sue opere,
oppure esserne impedito. Tutto il resto per
lui non ha importanza. Ed è per questo che
vediamo le grandi menti d’ogni epoca
attribuire il prezzo più alto agli agi, perocchè tanto
vale l’uomo, tanto valgono i suoi agi. Credo invero che la felicità stia negli
agi (ozii), dice
Aristotele (Mor. a Nic. X, 7). Anche
Diogene Laerzio riporta che Socrate
vantava gli agi
come la più bella ricchezza (II, 5,
31). Si è sempre ciò che intende Aristotele (Mor. a Nic.
X, 7, 8, 9), quando dichiara che la più
bella vita è quella del filosofo. Egli dice egualmente
nella Politica (IV, 11): Esercitare liberamente il proprio genio, ecco la vera
felicità. E
Goethe nel Wilhelm Meister; Chi è nato con un genio, per un genio,
trova in esso la sua
più bella esistenza.
Ma posseder agi non è solo fuori della
sorte ordinaria, ma anche fuori della natura
ordinaria dell’uomo, perocchè sua
destinazione naturale si è d’impiegare il suo tempo ad
acquistare il necessario per la esistenza
sua e per quella della famiglia. Egli è figlio della
miseria, non un’intelligenza libera. Così
gli ozi riescono ben presto ad essere di peso, poi si
fanno tortura per l’uomo ordinario dal
momento che egli non può occuparli con mezzi
artificiali e fittizi d’ogni specie, coi
giuochi, con passatempi, e con bagattelle d’ogni forma.
Anzi per questo gli ozi gli procurano anche
dei danni, perocchè si è detto con ragione:
«difficilis
in otio quies» è difficile esser tranquilli nell’ozio. D’altra parte però una
intelligenza che oltrepassi di molto la
misura normale è parimenti un fenomeno
straordinario, quindi contro natura.
Tuttavia, quando essa è data, l’uomo che ne è fornito,
per trovare la felicità, ha precisamente
bisogno di quegli agi che per gli altri sono qualche
volta importuni e qualche volta funesti; in
quanto a lui, senza agi sarà un Pegaso sotto il
giogo; in una parola sarà infelice.
Nondimeno se queste due anomalie, l’una esterna e l’altra
interna, si trovano riunite, la loro unione
produce un caso di suprema felicità, perocchè
l’uomo così favorito condurrà allora una
vita d’un ordine superiore, la vita d’un essere
sottratto alle due sorgenti opposte dei
dolori umani; il bisogno e la noia; che egli è del pari
sollevato e dalla cura penosa di
affaccendarsi per provvedere alla sua esistenza e
dall’incapacità di sopportare gli ozi (vale
a dire l’esistenza libera propriamente detta);
altrimenti un uomo non può scappare da
questi due mali se non se per il fatto che essi si
neutralizzino e si annullino
reciprocamente.
Di fronte a tutto ciò che precede, bisogna
considerare d’altra parte che, in seguito ad
un’attività preponderante dei nervi, le
grandi facoltà intellettuali producono un aumento
eccessivo dell’attitudine a sentire il
dolore sotto tutte le forme; che inoltre il temperamento
passionato che ne è la condizione, come
pure la vivacità e la perfezione più grande di ogni
percezione, che ne sono inseparabili, danno
alle emozioni così prodotte una violenza senza
confronto più forte; ora si sa che le
emozioni dolorose sono molto più frequenti che le
piacevoli; finalmente bisogna anche
ricordare che le alte facoltà intellettuali fanno di chi le
possiede un uomo straniero agli altri
uomini ed alle loro agitazioni, visto che più questi
possede in sè stesso, meno può trovare in
altrui. Mille oggetti per i quali costoro prendono
un piacere infinito, a lui sembrano
insipidi e ripugnanti. Forse in tal maniera la legge di
compensazione che regna dovunque, domina
egualmente qui pure. Non si è forse preteso
bene spesso e non senza qualche apparenza
di ragione, che in fondo l’uomo più povero di
spirito è il più felice? Comunque si sia,
nessuno gl’invidierà questa felicità. Io non voglio
antecipare sul lettore per la soluzione
definitiva di tale questione, tanto più perchè Sofocle
stesso ha espresso su ciò giudizi
diametralmente opposti: Il
sapere è di molto la porzione
più considerevole della felicità (Antigone).
Un’altra volta disse: La
vita del saggio non è la
più piacevole (Ajace). I filosofi dell’Antico Testamento non vanno
meglio d’accordo tra
loro; Gesù, figlio di Sirac, ha detto: La vita dello stolto è peggior della
morte (22, 12);
l’Ecclesiaste invece (1, 18): Dove molta sapienza, ivi molto dolore.
Frattanto ci tengo a ricordar qui che ciò
che si disegna più particolarmente con una
parola propria esclusivamente della lingua
tedesca, Philister (borghese,
droghiere, filisteo),
si è precisamente l’uomo che, in seguito
alla misura limitata e strettamente sufficente delle
sue forze intellettuali, non ha bisogni spirituali; tale
espressione appartiene alla vita da
studenti, ed è stata messa in uso più tardi
in un rispetto più elevato, ma analogo ancora al
suo senso primitivo, per qualificare colui
che è l’opposto d’un figlio delle Muse, vale a dire
un uomo affatto prosaico. Costui infatti è
e resta l’αμουσος ανηρ
(l’uomo non iniziato alle
Muse). Ponendomi ad un punto di vista più
alto ancora vorrei definire i filistei
dicendo
che
sono gente costantemente occupata, e ciò
colla più gran serietà del mondo, d’una realtà che
non è realtà. Ma questa definizione, già
d’una natura trascendentale, non sarebbe in
armonia col punto di vista popolare a cui
mi son messo in questa dissertazione; potrebbe
quindi non esser compresa da tutti i
lettori. La prima invece ammette più facilmente un
commento specifico, e disegna abbastanza
l’essenza e la radice delle proprietà
caratteristiche tutte del filisteo. Costui è
dunque, come dicemmo, un
uomo senza bisogni
spirituali.
Da ciò derivano molte conseguenze: la
prima, in rapporto a lui
stesso, si è che non
avrà mai gioje spirituali, secondo la massima già citata che non vi sono veri piaceri se non
con veri bisogni. Nessuna aspirazione ad acquistar conoscenze
e giudizi nuovi per le cose in
sè stesse anima la sua esistenza: e nessuna
aspirazione ai piaceri estetici, perocchè queste
due aspirazioni sono strettamente legate
assieme. Quando la moda o qualche altro stimolo
gl’impone tali piaceri ei se ne sbriga nel
modo più breve possibile, come un galeotto si
sbriga del suo lavoro forzato. Soli piaceri
per lui sono i sensuali, su di essi egli prende il suo
compenso. Mangiar ostriche, bever vino di
Champagne, ecco per lui l’apice dell’esistenza;
procurarsi tutto quanto contribuisce al
benessere materiale, ecco lo scopo della sua vita.
Troppo felice quando tale scopo lo occupa
abbastanza! Perocchè se questi beni gli sono
stati già concessi antecipatamente, ei
diventa preda della noia; per cacciarla prova tutto ciò
che si può immaginare; balli, teatri,
società, giuochi di carte, giuochi d’azzardo, cavalli,
donne, ebbrezza, viaggi, ecc. E nullameno
tutto questo non basta quando l’assenza di
bisogni intellettuali rende impossibili i
piaceri dello spirito. Così una serietà fosca e secca,
molto simile a quella dell’animale, è
propria del filisteo e lo
caratterizza. Niente lo diverte,
niente lo scuote, niente risveglia il suo interesse.
I piaceri materiali sono presto esauriti; la
società, composta di filistei suoi pari,
gli viene ben tosto a noia; il giuoco delle carte finisce
collo stancarlo. Gli restano rigorosamente
parlando le soddisfazioni della vanità alla sua
maniera: esse consisteranno a sorpassare
gli altri nelle ricchezze, nel grado, nell’influenza o
nel potere, ciò che allora gli vale la loro
stima; oppure anche ei cercherà di potersi almeno
fregare intorno a coloro che brillano per
tali vantaggi, e di riscaldarsi ai riflessi del loro
splendore (in inglese questo si chiama snob).
La seconda conseguenza che risulterebbe
dalla proprietà fondamentale che abbiamo
riscontrata nel filisteo, si è che
in rapporto agli altri, siccome è privo di bisogni intellettuali,
e limitato ai soli materiali, cercherà gli
uomini che potranno soddisfare questi ultimi, e non
coloro che potrebbero provvedere ai primi.
Sicchè non sono certamente le alte qualità
intellettuali che chiede loro; che anzi
quando le incontra eccitano la sua antipatia, e
fors’anche il suo odio, perocchè ei non
prova in loro presenza se non un sentimento
importuno d’inferiorità ed un’invidia
sorda, secreta, che nasconde colla più gran cura, che
cerca di dissimulare a sè stesso, ma che
giusto per questo cresce talora fino ad una rabbia
muta. Non è mica sulle facoltà dello
spirito che costui penserà mai a misurare la sua stima o
la sua considerazione; ei le riserverà
esclusivamente al grado ed alla ricchezza, al potere ed
all’influenza, cose che passano a’ suoi
occhi come le sole qualità vere, le sole in cui può
aspirare di eccellere. E tutto ciò perchè
il filisteo è un uomo privo di bisogni intellettuali. Il
suo estremo soffrire deriva dal fatto che
le idealità non gli
portano alcun divertimento, e
che, per sfuggire la noia, ei deve sempre
ricorrere alle realtà. Ora queste
da una parte sono
ben presto esaurite, ed allora in luogo di
far piacere, stancano; e dall’altra portano con sè
sciagure d’ogni fatta, mentre le idealità
sono inesauribili e per sè stesse innocue.
In tutta questa dissertazione sulle
condizioni personali che contribuiscono alla nostra
felicità, ebbi in vista le qualità fisiche,
e principalmente le qualità intellettuali. Si è nella
mia memoria sul Fondamento della morale (§ 22) che
ho esposto come la perfezione
morale, a sua volta, influisca direttamente
sulla felicità: a quest’opera invito il lettore.
_____
CAPITOLO III.
___
Di ciò che si ha.
Epicuro, il grande maestro di felicità, ha
mirabilmente e giudiziosamente diviso i
bisogni umani in tre classi. Primo, i bisogni naturali e necessari: quelli
che non soddisfatti
producono dolore; essi dunque non
comprendono che il victus
e
l’amictus (cibo e
vesti).
Sono facili da soddisfare. — Secondo, i bisogni naturali, ma non necessari: cioè il
bisogno
di soddisfazione sessuale, quantunque
Epicuro non lo dica nell’opera di Diogene Laerzio
(del resto riproduco qui, in generale,
tutta questa dottrina leggermente modificata e
corretta). Tale bisogno è già più difficile
da soddisfare. — Terzo, quelli
che non sono nè
naturali, nè necessarî: e sarebbero i bisogni del
lusso, dell’abbondanza, del fasto e della
splendidezza; il loro numero è infinito, e
la loro soddisfazione molto difficile (Vedi
Diogene Laerzio L. X, c. 27, § 149 e 127; —
Cicerone, De fin. I, 13).
Il limite dei nostri desiderî ragionevoli
riferendosi ai beni di fortuna, è difficile, se
non impossibile, determinarlo. Perocchè la
soddisfazione di ciascuno a tale riguardo si
fonda non sopra una quantità assoluta, ma
sopra una quantità relativa, vale a dire sul
rapporto tra le sue brame e le sue
ricchezze; così queste ultime, considerate in sè stesse,
sono tanto prive di significato quanto il
numeratore di una frazione senza denominatore. La
mancanza di beni a cui un uomo non ha mai sognato
d’aspirare, non può affatto privarlo di
qualche cosa; ei sarà perfettamente pago
senza di essi, mentre un altro che possede cento
volte di più si sentirà infelice perchè gli
manca il solo oggetto che brama. Ciascuno ha pure,
riguardo i beni a cui gli è permesso
aspirare, un orizzonte tutto proprio, e le sue pretese non
vanno oltre i limiti di quest’orizzonte.
Quando un oggetto, collocato entro questi limiti, gli
si presenta in modo ch’ei possa esser certo
di raggiungerlo, si troverà felice; al contrario si
sentirà infelice se, sopravvenendo
ostacoli, tale prospettiva gli è tolta. Ciò che è posto al di
là non ha alcuna azione su di lui. Si è per
questo che la immensa fortuna del ricco non dà
molestia al povero, e per questo pure,
d’altra parte, che tutte le ricchezze già possedute non
consolano il ricco quando è deluso in
un’aspirazione. (La ricchezza è come l’acqua salata:
più se ne beve, più cresce la sete; lo
stesso succede della gloria).
Il fatto che dopo la perdita della ricchezza
o dell’agiatezza, appena vinto il primo
dolore, il nostro umore abituale non sarà
molto diverso da quello che era per lo avanti, si
spiega riflettendo che, il fattore del
nostro avere essendo stato diminuito dalla sorte,
riduciamo subito, da noi stessi,
considerevolmente il fattore delle nostre pretese. Ecco dove
sta quanto havvi di veramente doloroso in
una disgrazia; una volta compiuta questa
operazione, il dolore si fa sempre meno
sensibile, e finisce collo sparire; la piaga si
cicatrizza. Nell’ordine inverso, in
presenza d’un avvenimento felice, il peso che comprime
le nostre pretese s’innalza e permette loro
di dilatarsi: in ciò consiste il piacere. Ma questo
pure non dura che il tempo necessario
perchè l’operazione si compia; noi ci avvezziamo poi
alla scala così aumentata delle pretese, e
diveniamo indifferenti al possesso corrispondente
della ricchezza. È quanto esprime un passo
di Omero (Odissea, XVIII,
130-137) di cui
presentiamo gli ultimi versi: Tale invero è lo spirito degli uomini
terrestri, simile ai giorni
mutevoli che adduce il padre degli uomini e degli dei.
La fonte dei nostri dispiaceri sta negli
sforzi da noi sempre rinnovati per elevare il
fattore delle aspirazioni, mentre l’altro
fattore colla sua immobilità vi si oppone.
Non bisogna stupirsi di vedere, nella
specie umana, povera e piena di bisogni, la
ricchezza più altamente e più sinceramente
apprezzata, fors’anco più venerata, di qualunque
altra cosa; il potere stesso non è tenuto
in conto se non perchè conduce alla fortuna; e
neppure bisogna maravigliarsi nel vedere
gli uomini metter da parte, o passar sopra a
qualunque considerazione quando si tratta
d’acquistar ricchezze, nel veder per esempio i
professori di filosofia far buon mercato
della loro scienza per guadagnar danaro. Si fa
spesso rimprovero agli uomini di volgere i
loro voti specialmente al danaro e di amarlo più
d’ogni altra cosa al mondo. Pure è ben
naturale, quasi inevitabile, di amare ciò che, simile
ad un Proteo instancabile, è pronto ad
assumere in ogni momento la forma dell’oggetto
attuale delle nostre voglie sì mobili, o
dei nostri bisogni sì diversi. Ogni altro bene, infatti,
non può soddisfare che un solo desiderio,
che un solo bisogno: le vivande hanno valore
solamente per chi ha fame, il vino per chi sta
bene, i medicamenti per chi è malato, una
pelliccia durante l’inverno, le donne per
la gioventù, ecc. Tutte queste cose non sono
dunque che αγαθα
προς τι, vale a dire relativamente buone. Il solo
danaro è il bene
assoluto, perchè esso non provvede unicamente
ad un solo bisogno «in concreto,» ma al
bisogno in generale «in abstracto.»
I beni di fortuna di cui si può disporre
devono dunque esser considerati come un
riparo contro il gran numero di mali e di
disgrazie possibili, e non come un permesso, e
meno ancora come un obbligo di aversi da
procurare i piaceri del mondo. Le persone che,
senza aver un patrimonio, giungono col loro
ingegno, qualunque esso sia, al punto di
guadagnare molto danaro, cadono quasi
sempre nell’illusione di credere che il loro ingegno
sia un capitale stabile, e che il danaro
che frutta loro l’ingegno sia per conseguenza
l’interesse del detto capitale. Così non
mettono da canto alcun poco di ciò che guadagnano
per farsene una rendita certa, ma spendono
nella stessa misura che prendono. Ne segue che
d’ordinario essi cadono in miseria quando i
loro guadagni ristanno o cessano
completamente; infatti il loro talento
stesso, passaggero di sua natura, come lo è per
esempio il genio per quasi tutte le belle
arti, si esaurisce, oppure le circostanze speciali o le
occasioni che lo rendevano produttivo
spariscono. Gli artigiani possono a tutto rigore
menar una tal vita, perchè la capacità
richiesta per il loro mestiere non si perde facilmente,
o può esser surrogata dal lavoro dei loro
operai; inoltre i loro prodotti sono oggetti di
necessità il cui smercio è sempre
assicurato; un proverbio tedesco dice con ragione: «Ein
Handwerk hat einen goldenen Boden7» vale a dire un buon mestiere vale molto
oro.
Così non avviene degli artisti e dei virtuosi d’ogni
specie. Ed è giusto per questo che
sieno pagati a prezzi così alti; ma anche
per la stessa ragione dovrebbero essi capitalizzare
il danaro che guadagnano; nella loro
presunzione lo considerano invece come se non fosse
che l’interesse e vanno incontro così alla
loro rovina.
In cambio la gente che possiede un
patrimonio sa molto bene fin da principio
distinguere tra capitale ed interessi.
Sicchè la maggior parte cercherà d’investire il suo
capitale nel modo più sicuro, nè lo
rosicchierà in alcun caso, anzi riserverà, possibilmente,
sugl’interessi l’ottava parte almeno per
prevenire ad una crisi eventuale. Costoro si
mantengono così soventi volte
nell’agiatezza. Niente di quanto diciamo si applica ai
commercianti; per essi il danaro è per sè stesso
l’istromento del guadagno, l’utensile di
professione per così dire: d’onde segue che
anche quando lo hanno acquistato col loro
lavoro, cercheranno nel suo impiego i mezzi
di conservarlo e di aumentarlo. Così la
ricchezza è abituale in questa classe più
che in qualunque altra.
In generale, si troverà che ordinariamente
quelli che hanno già lottato colla vera
miseria e col bisogno, li temono
incomparabilmente meno, e sono più portati alla
dissipazione di coloro che non conoscono
questi mali se non per averne sentito parlare. Alla
prima categoria appartengono tutti coloro
che; non importa per qual colpo della sorte, o per
qualunque talento speciale, sono passati
rapidamente dalla povertà all’agiatezza; alla
seconda quelli che, nati con beni di
fortuna, li hanno conservati. Costoro stanno in
apprensione per l’avvenire più dei primi e
sono più economi. Se ne potrebbe dedurre che il
bisogno non è cosa tanto brutta come
sembrerebbe visto da lontano. Però la ragione vera
dev’essere piuttosto la seguente: all’uomo
nato con un patrimonio, la ricchezza appare
come qualche cosa d’indispensabile, come
l’elemento della sola esistenza possibile, allo
stesso titolo dell’aria; così ei ne avrà
cura come della sua vita istessa, e sarà, in generale,
ordinato, previdente ed economo. Al
contrario a colui che fin dalla nascita visse in povertà,
si è questa che sembrerà la condizione
naturale; le ricchezze che gli potranno toccare più
tardi, non importa come, gli pareranno un
superfluo, buono solo per goderne e farne
baldoria; egli dirà a sè stesso che quando
saranno nuovamente sparite, saprà cavarsela senza
di esse come per lo avanti, e che, per per
di più, sarà sollevato da un fastidio. È proprio il
caso di dire con Shakespeare: Bisogna che il proverbio si verifichi: il
mendicante a cavallo
fa galoppare la bestia fino alla morte (Enrico
VI, P.
Aggiungiamo ancora che questa gente
possede, non tanto nella testa quanto nel cuore,
una ferma ed eccessiva confidenza da una
parte nella sua buona fortuna e dall’altra nelle
sue proprie risorse, che le hanno di già
dato aiuto per cavarsi dalle strettezze e
dall’indigenza; questa gente non considera
la miseria, come fanno i ricchi di nascita, quale
un abisso senza fine, ma la crede un basso-fondo
che basta battere col piede per rimontarne
alla superficie. Con questa stessa
particolarità umana si può spiegare perchè le donne,
povere prima del loro matrimonio, sieno
molto spesso più esigenti e più prodighe di quelle
che hanno portato con sè una grossa dote;
infatti, quasi sempre, le ragazze ricche non
possedono solamente beni di fortuna, ma
anche uno zelo, o, per così dire, un certo istinto
ereditario di conservarli che fa difetto
alle povere. Tuttavia coloro che volessero sostenere
la tesi opposta troveranno autorità nella
satira prima dell’Ariosto; in cambio il dottor
Johnson si mette dalla parte mia: «Una
donna ricca, essendo abituata a maneggiar monete,
le spende con giudizio; ma quella che per
il suo matrimonio si trova per la prima volta in
possesso della ricchezza, trova tanto gusto
nello spendere che getta il danaro con grande
profusione.» (Vedi Boswell, life
of Johnson, vol. III, pag.
199, ediz. del 1821). Io
consiglierei per ogni evento, a chi sposa
una ragazza povera, di affidarle non già un
capitale, ma una semplice rendita, e
sopratutto di vegliare perchè il patrimonio dei figli non
cada nelle sue mani.
Non credo proprio far cosa indegna della
mia penna raccomandando qui la cura di
conservar la propria fortuna, guadagnata od
avuta in eredità; perocchè è un vantaggio
inapprezzabile il possedere tutta fatta una
sostanza quand’anche essa non bastasse a
lasciarci vivere agiatamente solo e senza
famiglia, in una vera indipendenza, vale a dire
senza aver bisogno di lavorare; ecco ciò che
costituisce il privilegio che affranca dalle
miserie e dai tormenti propri della vita
umana; ecco l’emancipazione della servitù generale
che è il destino dei figli della terra. Non
è che con questo favore della sorte che siamo
veramente uomini nati liberi; a questa sola condizione si è realmente sui juris, padroni
del
proprio tempo e delle proprie forze, e si
potrà dire ogni mattina: La
giornata m’appartiene.
Sicchè tra chi ha una rendita di mille
scudi e chi ne ha una di centomila la differenza è
infinitamente più piccola che tra il primo
e chi non ha nulla. Ma la fortuna patrimoniale
arriva al suo più alto valore quando tocca
a colui che, dotato di forze intellettuali superiori,
intende ad uno scopo la cui realizzazione
non mira ad un lavoro per vivere; messo in tali
condizioni quest’uomo è doppiamente dotato
dalla sorte; ei può ora vivere a suo genio, e
pagherà al centuplo il suo debito
all’umanità producendo ciò che nessun altro potrebbe
produrre, e creando cose che formeranno il bene
e nello stesso tempo l’onore della
comunità umana. Un altro, posto in una
situazione altrettanto favorevole, sarà benemerito
dell’umanità per le sue opere
filantropiche. Quanto a chi possedendo un patrimonio, non
produce alcunchè di simile, in qualunque
misura si sia, fosse pure a titolo di saggio, o che
con studi seri non si crea almeno la
possibilità di far progredire una scienza, costui non è
che un fannullone spregievole. E nemmeno
questi sarà felice perchè il fatto d’esser liberato
dal bisogno lo trasporta all’altro polo
della miseria umana, alla noia, che lo tortura in tal
maniera ch’ei sarebbe assai più contento se
il bisogno gli avesse imposto un’occupazione.
La noia lo farà cadere più facilmente in quelle
stravaganze che gli toglieranno la fortuna di
cui non è degno. In realtà una folla di
persone non è nell’indigenza se non per aver speso il
suo danaro, finchè ne aveva, a fine di
procurarsi un sollievo momentaneo alla noia che la
opprimeva.
Le cose succedono in tutt’altro modo quando
lo scopo a cui si tende è quello di
elevarsi altamente nel servizio dello
Stato; quando si tratta, per conseguenza, d’acquistare
favore, amici, relazioni per mezzo dei
quali potersi alzare di grado in grado e giungere forse
un giorno ai posti più eminenti: in tal
caso val meglio, in sostanza, esser venuto al mondo
affatto senza beni di fortuna. Per un
individuo sopratutto che non è della nobiltà, e che ha
qualche talento, essere un povero cialtrone
costituisce un vantaggio reale ed una
raccomandazione. Perocchè ciò che ognuno
cerca ed ama anzitutto, non solo nella semplice
conversazione, ma anche a fortiori nel
servizio pubblico, si è l’inferiorità degli altri. Ora
non v’ha che un pitocco che sia convinto e
penetrato della sua profonda, intera,
indiscutibile, onnilaterale 8 inferiorità, della sua totale dappocaggine
e della sua nullità al
punto voluto dalla circostanza. Un pitocco
solamente si china abbastanza spesso ed
abbastanza a lungo, e sa piegare la schiena
a riverenze di 90 gradi ben contati; egli solo
soffre tutto col sorriso sulle labbra; egli
solo riconosce che i meriti non hanno alcun valore;
egli solo vanta pubblicamente, ad alta voce
od a grosso carattere, come capolavori le inezie
letterarie dei suoi superiori, od in
generale degli uomini influenti; egli solo sa l’arte di
mendicare; per conseguenza egli solo può
esser iniziato a tempo, vale a dire fin dalla prima
giovinezza, a quella verità nascosta che
Goethe ci ha svelato in questi termini: Che nessuno
si lagni della bassezza, perchè essa è la potenza, checchè
se ne dica (W. O. Divan).
Chi invece ebbe dai genitori una fortuna
sufficiente per vivere sarà d’ordinario
recalcitrante; egli è uso a camminare colla
testa alta; egli non ha imparato tutti questi
giuochi di flessibilità; fors’anche egli
pensa di giovarsi di quel certo talento che possede e
di cui dovrebbe piuttosto comprendere
l’insufficienza in faccia a ciò che succede con il
mediocre e lo strisciante 9; egli è pure capace di notare
l’inferiorità di coloro che sono posti
al di sopra di lui, e finalmente, quando le
cose toccano l’indegnità, egli doventa restìo ed
ombroso. Non si va avanti nel mondo così;
alla fine potrà accadergli di dire con Voltaire,
quell’impudente: Non abbiamo che due giorni da vivere, non
vale la pena di passarli
strisciando davanti spregevoli bricconi.
Disgraziatamente, sia detto strada facendo,
spregevole briccone è un attributo per il
quale esiste in questo mondo un numero
maledettamente grande di soggetti. Possiamo
dunque vedere che ciò che dice Giovenale
(Sat. II, v. 164): Non facilmente emergono coloro al cui
merito pone ostacolo la povertà, si
applica piuttosto alla carriera delle
persone eminenti che a quella degli uomini di mondo.
Tra le cose che si possede non ho
annoverato moglie e figli perchè si è piuttosto
posseduti da loro. Si potrebbe più
ragionevolmente comprendervi gli amici, ma qui pure il
proprietario deve nella stessa misura
essere anche proprietà dell’altro.
_____
CAPITOLO IV
___
Di ciò che si rappresenta.
1. Dell’opinione
altrui.
Ciò che rappresentiamo, o, in altri
termini, la nostra esistenza nell’opinione altrui è
generalmente, in conseguenza di una
debolezza particolare della nostra natura, troppo
apprezzata, benchè la più piccola riflessione
possa insegnarci che tutto questo per sè stesso
non ha importanza alcuna per la nostra
felicità. Sicchè si dura fatica a spiegarsi la grande
soddisfazione interna che prova un uomo
quando s’accorge d’una prova di stima datagli
dagli altri, e quando viene lusingata la
sua vanità, non ne importa il come. Tanto
infallibilmente il gatto si mette a ronfare
quando gli si carezza il dorso, altrettanto
sicuramente si vede una dolce estasi
dipingersi sulla figura dell’uomo che vien lodato,
sopratutto quando la lode tocca il dominio
delle sue pretese, e quand’anche essa fosse una
menzogna palpabile. I segni
dell’approvazione altrui lo consolano spesso d’una sventura
reale o della parsimonia colla quale
stillano per lui le due fonti principali di felicità, di cui
abbiamo trattato finora. Dall’altro lato fa
stupore il vedere quanto egli sia infallantemente
angosciato e molte volte dolorosamente
ferito da ogni lesione alla sua ambizione, in
qualunque senso, a qualunque grado, o sotto
qualunque rapporto si sia, da ogni sdegno, da
ogni trascuranza, dalla più piccola
mancanza di riguardi. Servendo di base al sentimento
dell’onore, questa proprietà può avere
un’influenza salutare sulla buona condotta di
moltissime persone, a guisa di succedaneo
della loro moralità; ma in quanto alla sua azione
sulla felicità reale dell’uomo, e
sopratutto sulla quiete dell’animo e sull’indipendenza, le
due condizioni sì necessarie alla felicità,
essa è piuttosto perturbatrice e dannosa che
favorevole. Si è per questo, che, dal
nostro punto di vista, è prudente metterle un limite e,
con saggie riflessioni e con un giusto
apprezzamento del valore dei beni, moderare questa
grande sensibilità riguardo l’opinione
altrui tanto nel caso che carezzi quanto nel caso che
ferisca, perocchè in tutti e due pende dal
medesimo filo. Altrimenti restiamo schiavi
dell’opinione e del sentimento degli altri:
Sic leve, sic
parvum est, animum quod laudis avarum
Subruit
ac reficit.
(Talmente tenue, talmente piccolo è ciò che
perturba e riconforta un’anima avida di
lode).
Per conseguenza un giusto apprezzamento del
valore di ciò che si e in
sè stesso e per
sè stesso confrontato con ciò che si è solamente agli occhi altrui contribuirà
molto alla
nostra felicità. Il primo termine del confronto
comprende quanto riempie il tempo della
nostra esistenza, il contenuto intimo di
questa, e quindi tutti i beni che abbiamo esaminati
nei capitoli intitolati Di ciò che si è e Di ciò che si ha. Perocchè
il luogo dove si
trova la
sfera d’azione di tutto questo è proprio la
coscienza dell’uomo. Invece il
luogo di tutto ciò
che siamo per gli altri è la coscienza altrui; è la figura sotto la
quale noi vi appariamo,
come pure le nozioni che vi si riferiscono 10. Ora queste sono cose che, direttamente, non
10
Le classi più eminenti nel
loro lustro, splendore e fasto, nella loro magnificenza ed ostentazione d’ogni
natura
possono dire a sè stesse: La nostra felicità è posta interamente fuori di noi;
il suo luogo è nella testa
esistono affatto per noi; tutto ciò non
esiste che indirettamente, vale a dire se non in quanto
stabilisce la condotta degli altri verso di
noi. Ed anche questo non entra realmente in
considerazione che in quanto influisce su
ciò che potrebbe modificare quello
che siamo in
noi e per noi stessi. Ciò posto, quanto succede
in una coscienza straniera ci è, a tal titolo,
perfettamente indifferente, e, a nostra
volta, noi vi diverremo indifferenti a misura che
conosceremo abbastanza la superficialità e
la futilità dei pensieri, i ristretti limiti delle
nozioni, la piccolezza dei sentimenti,
l’assurdità delle opinioni e il numero considerevole di
errori che s’incontra nella maggior parte
dei cervelli umani — a misura che impareremo per
esperienza con qual disprezzo si parla,
all’occasione, di ciascuno di noi quando non si teme
o non si crede che lo sapremo — ma
sopratutto allorquando avremo inteso una sol volta con
qual disdegno una dozzina d’imbecilli parla
dell’uomo il più degno di stima.
Comprenderemo allora che attribuire un alto
valore all’opinione degli uomini è far loro
troppo onore.
In ogni caso, è proprio esser ridotti ad
una meschina risorsa il non trovare la felicità
nelle due classi di beni di cui abbiamo già
parlato, ed il doverla cercare in questa terza, o,
con altre parole, in ciò che si è non
realmente, ma nell’immaginazione altrui. In tesi
generale è la nostra natura animale che
costituisce la base del nostro essere, e per
conseguenza anche della nostra felicità.
L’essenziale per il benessere è dunque la
salute, e poi i mezzi necessari al nostro
mantenimento, e per conseguenza una vita
libera da cure moleste. L’onore, il fasto, la
grandezza, la gloria, qualunque valore si
attribuisca loro, non possono entrar in concorrenza
con questi beni essenziali, nè surrogarli; ben
altrimenti, toccando il caso, non si esiterebbe
un momento solo a cangiarli con gli altri.
Sarà dunque molto utile per la nostra felicità il
conoscere per tempo questo fatto così
semplice che ognuno vive anzitutto ed effettivamente
nella sua propria pelle e non nell’opinione
degli altri, e che allora naturalmente la nostra
condizione reale e personale, quale la
determinano la salute, il temperamento, le facoltà
intellettuali, le rendite, la moglie, i
figli, l’abitazione, ecc., è cento volte più importante per
la nostra felicita di ciò che piace agli
altri fare di noi. L’illusione contraria rende infelice.
Esclamare con enfasi: «L’onore vale più
della vita» è dire realmente: «La vita e la salute
sono niente; ciò che gli altri pensano di
noi, ecco l’importante». Tutt’al più questa massima
può esser considerata come una iperbole in
fondo alla quale si trova la prosaica verità che
per mantenersi e per andar avanti fra gli
nomini, l’onore, vale a
dire la loro opinione a
nostro riguardo, è spesso d’un’utilità indispensabile:
ritornerò più avanti su tale questione.
Quando si vede invece come quasi tutto ciò
che gli uomini cercano durante l’intera loro
vita, a prezzo di sforzi incessanti, di
mille pericoli e di mille amarezze, ha per iscopo finale
di elevarli nell’opinione altrui, perocchè
non solo le cariche, i titoli e le onorificenze, ma la
ricchezza ancora, o pur anche la scienza11 e le arti sono, in sostanza, ricercate
principalmente a questo fine, quando si
vede che il risultato definitivo a cui si tende è di
ottenere più rispetto da parte degli altri,
tutto ciò non prova, ahimè! se non la grandezza
dell’umana follia.
Annettere troppo valore all’opinione altrui
è una superstizione universalmente
dominante; che essa abbia le sue radici
nella nostra stessa natura, o che abbia seguito la
nascita della società e della civiltà, egli
è certo che esercita in ogni caso sulla nostra
condotta un’influenza smisurata ed ostile
alla nostra felicità. Possiamo seguire tale
influenza dal punto in cui si mostra sotto
la forma d’una deferenza ansiosa e servile per il
che se ne dirà? fino al punto in cui pianta il pugnale di
Virginio in petto alla figlia, oppure
in cui trascina l’uomo a sacrificare alla
gloria postuma il suo riposo, la sua fortuna, la sua
salute e perfino la sua vita. Questo
pregiudizio offre, è vero, a chi è chiamato a regnare
degli
altri. 11 Scire
tuum nihil est, nisi te scire hoc sciat alter (Che tu sappi è niente, se non sai che gli
altri lo sanno).
(Nota
di Schopenhauer).
sugli uomini od, in generale, a dirigerli,
una risorsa comodissima; sicchè il precetto d’aver
da tenere svegliato o stimolato il
sentimento dell’onore occupa il posto principale in ogni
ramo dell’arte dell’educazione; ma riguardo
alla felicità dell’individuo, ed è questo che qui
ci occupa, succede tutt’altra cosa, e noi
dobbiamo dunque dissuaderci dall’attribuire un
valore troppo alto all’opinione altrui. Se
nondimeno, come ce lo insegna l’esperienza, il
fatto si presenta ogni giorno; se ciò che
la maggior parte degli uomini stima di più si è
precisamente l’opinione altrui a loro
riguardo, e se essi se ne preoccupano più che di
quanto, succedendo nella loro propria
coscienza, esiste immediatamente per loro; se
dunque, per un rovesciamento dell’ordine
naturale, si è l’opinione altrui che sembra loro
esser la parte reale dell’esistenza,
l’altra non apparendo esserne che la parte ideale; se fanno
di ciò che è derivato e secondario
l’oggetto principale, e se l’immagine del loro essere nella
testa degli altri sta loro più a cuore che
il loro essere stesso; tale apprezzamento diretto di
ciò che direttamente non esiste per alcuno
costituisce quella follia a cui si è dato il nome di
vanità, «vanitas» per
indicare con questa parola il vuoto ed il chimerico di tale tendenza. Si
può facilmente comprendere anche, per
quanto dicemmo più indietro, che essa appartiene
alla categoria di quegli errori che
consistono nell’obliare lo scopo per i mezzi, come
l’avarizia.
In fatti il prezzo che noi annettiamo
all’opinione altrui e la nostra costante
preoccupazione a questo riguardo passano
quasi ogni limite ragionevole, talmente che tale
preoccupazione può esser considerata come
una specie di mania generalmente
diffusa, o
piuttosto innata. In tutto ciò che
facciamo, come in tutto ciò che ci asteniamo di fare, noi
prendiamo in considerazione l’opinione
altrui quasi prima d’ogni altra cosa, e si è da una tal
cura che in seguito ad un esame profondo
vedremo nascere la metà circa dei tormenti e
delle angoscie che abbiamo provato.
Perocchè è davvero questa preoccupazione che
troviamo in fondo di ogni nostro amor
proprio, così spesso offeso perchè è così
morbosamente sensibile, al fondo di ogni
nostra vanità e di ogni nostra pretesa, come pure
al fondo del nostro fasto e della nostra ostentazione.
Senza una tale preoccupazione, senza
una tal rabbia, il lusso non sarebbe il
decimo di ciò che è. Su essa è stabilito tutto il nostro
orgoglio, punto d’onore e puntiglio12, di qualunque specie si sia ed a qualunque sfera
appartenga, — e quante vittime non fa di
frequente! Essa si mostra già nel fanciullo poi in
ogni stadio della vita, ma raggiunge tutta
la sua forza nell’età avanzata, perchè allora,
l’attitudine ai piaceri sensuali essendo
esaurita, vanità ed orgoglio non hanno più a divider
l’impero che con l’avarizia. Un tale furore
si osserva più chiaramente nei Francesi presso i
quali essa regna endemicamente e si
manifesta spesso per mezzo dell’ambizione la più
sciocca, della vanità nazionale la più
ridicola, e della millanteria la più spudorata; ma le
loro pretese per ciò stesso si annullano
perchè li espongono al riso delle altre nazioni, ed
hanno fatto un nomignolo grottesco del
titolo di grande nation.
Per spiegare più chiaramente tutto ciò che
abbiamo esposto fin qui sulla stoltezza di
preoccuparsi fuor di misura dell’opinione
altrui voglio ricordare un esempio davvero
maraviglioso di questa follia radicata
nella natura umana; questo esempio è favorito da un
effetto di luce che deriva da circostanze
speciali e d’un carattere appropriato; ciocchè ci
permetterà di ben valutare la forza di
questo bizzarro motore delle azioni umane. Ecco un
brano del rapporto dettagliato pubblicato
dal Times del 31
marzo 1846 sulla recente
esecuzione di un certo Thomas Wix, operaio
che aveva assassinato il suo padrone per
vendetta: «Nella mattina del giorno fissato
per l’esecuzione, il reverendo cappellano delle
carceri si portò presso di lui. Ma Wix,
quantunque assai calmo, non ascoltava le esortazioni
del ministro di Dio; sua sola
preoccupazione era quella di far mostra d’un coraggio estremo
in presenza della folla che stava per
assistere alla sua brutta fine. E vi è riuscito. Arrivato
nel cortile che doveva traversare per
giungere al patibolo, innalzato di contro alla prigione,
esclamò: «Ebbene, come diceva il dottor
Dodd, conoscerò fra poco il gran mistero!»
12
Point d’honneur und
puntiglio nel
testo. (Nota del Trad.).
Quantunque avesse le braccia legate, salì
senza aiuto la scala della forca; giunto alla cima,
fece a dritta e a manca saluti agli
spettatori, e la moltitudine assembrata vi corrispose, in
ricompensa, con formidabili acclamazioni,
ecc.»
Aver davanti gli occhi la morte, sotto la
forma più spaventosa, coll’eternità dopo di
essa, e non preoccuparsi se non dell’effetto
che si produrrà su quella massa di balordi
accorsi e dell’opinione che si lascierà
dopo morte nelle loro teste, non è forse un saggio
unico d’ambizione? Lecomte che, lo stesso
anno, fu ghigliottinato a Parigi per tentato
regicidio, si rammaricava principalmente,
durante il processo, di non potersi presentare
davanti la Camera dei pari, vestito
convenientemente, ed anche al momento dell’esecuzione
era suo gran dolore che non gli si avesse
permesso di radersi la barba prima di salire il
patibolo.
Lo stesso succedeva per lo passato, ciò che
potremo vedere nell’introduzione
(declaracion) da cui
Mateo Aleman fa precedere il suo celebre romanzo Guzman
d’Alfarache; in essa è detto che molti delinquenti dal
cervello sconcertato tolgono le loro
ultime ore alle cure della salute eterna, a
cui dovrebbero impiegarle esclusivamente, per
terminare ed imparare a mente un piccolo
discorso che vorrebbero recitare dall’alto della
forca.
Possiamo trovare la nostra propria immagine
in simili tratti; perocchè sono gli esempi
di taglia colossale che forniscono le
spiegazioni più evidenti in ogni materia. Per noi tutti,
ben di sovente, le nostre preoccupazioni, i
nostri affanni, le cure angosciose, le nostre
collere, le nostre inquietudini, i nostri
sforzi, ecc., hanno in vista quasi interamente
l’opinione altrui e sono tanto assurde
quanto quelle dei poveri diavolacci ricordati più
indietro. L’invidia e l’odio partono
egualmente, in gran parte, dalla stessa radice.
Nessuna cosa evidentemente contribuirebbe
meglio alla nostra felicità, composta
principalmente di calma dello spirito e di
soddisfazione, del limitare la potenza di un tale
motore, e dell’abbassarla a un grado che la
ragione potesse giustificare (a 1/50 per esempio)
estraendo così dalle nostre carni questa
spina che le strazia. Ma la cosa è molto difficile;
abbiamo a che fare con una bizzarria
naturale ed innata: Anche
i saggi si spogliano per
ultimo dalla passion della gloria, dice
Tacito (Hist. IV, 6). Il solo mezzo di liberarci da
questa follia universale sarebbe di
riconoscerla distintamente per una follia, e, a tale scopo,
renderci conto ben chiaramente fino a qual
punto le opinioni, nelle teste degli uomini, sieno
in massima parte e molto di frequente
false, storte, erronee ed assurde; quanto l’opinione
altrui abbia poca influenza reale su noi
nella maggior parte dei casi e delle cose; quanto in
generale essa sia cattiva, talmentechè non
vi sarebbe chi non si ammalerebbe dalla collera
se sentisse in che tono si parla e cosa si
dice di lui; quanto infine l’onore istesso non abbia,
propriamente parlando, che un valore
indiretto e non immediato, ecc. Se potremo riuscire
ad ottenere la guarigione di questa pazzia
generale, guadagneremo infinitamente in calma di
spirito ed in soddisfazione, ed
acquisteremo nel tempo stesso un contegno più fermo e più
sicuro, e un portamento molto più sciolto e
più naturale. L’influenza affatto benefica d’una
vita ritirata sulla nostra tranquillità
d’animo e sulla nostra soddisfazione proviene in gran
parte perchè essa ci sottrae all’obbligo di
vivere costantemente sotto lo sguardo altrui e, per
conseguenza, ci toglie la preoccupazione
incessante sulla loro possibile opinione: ciò che ha
per effetto di renderci a noi stessi. In
tal maniera sfuggiremo egualmente a molti mali
effettivi la cui causa unica è questa
aspirazione puramente ideale, o, per dire più
correttamente, questa deplorabile demenza;
ci resterà pure la facoltà di prestare maggior
cura ai beni reali, che potremo allora
gustare senza essere disturbati. Ma «Χαλεπα
τα καλα»
(moleste le cose buone) lo abbiamo già
detto.
Dalla follia della natura umana or ora
descritta, germogliano tre rampolli principali:
l’ambizione, la vanità e l’orgoglio. Tra i
due ultimi la differenza consiste in ciò che
l’orgoglio
è
la convinzione già fermamente acquistata del nostro alto valore sotto ogni
rapporto; la vanità invece è il desiderio di far
nascere questa convinzione negli altri e,
d’ordinario, colla secreta speranza di
poter in seguito appropriarsela. Così l’orgoglio è l’alta
stima di sè, procedente dall’interno, dunque
diretta; la vanità invece è la tendenza ad
acquistarla dal di fuori, dunque
indirettamente. Per ciò la vanità rende loquaci, l’orgoglio
taciturni. Ma il vanitoso dovrebbe sapere
che l’alta opinione degli altri, a cui aspira, si
ottiene molto più presto e più sicuramente
serbando un continuo silenzio che parlando,
quand’anche s’avesse da dire le più belle
cose del mondo. Non è orgoglioso chiunque lo
voglia; tutt’al più può affettare orgoglio
chiunque lo voglia; ma quest’ultimo si tradirà ben
presto nella parte che vuol rappresentare,
siccome in ogni parte presa a prestito. Perocchè
ciò che rende realmente orgoglioso si è la
ferma, l’intima, l’incrollabile convinzione di
meriti eminenti e d’un valore
straordinario. Tale convinzione può essere erronea, oppure
basarsi su meriti semplicemente esterni e
convenzionali — ciò poco importa all’orgoglio,
purchè essa sia reale e sincera. Poichè
l’orgoglio ha le sue radici nella convinzione, sarà,
come ogni idea, al di fuori della nostra libera volontà. Il suo
peggior nemico, voglio dire il
suo maggior ostacolo, è la vanità che briga l’approvazione
altrui per fondar poi su questa la
propria alta stima di sè stessa, mentre
l’orgoglio suppone un’opinione già fermamente
stabilita.
Quantunque l’orgoglio sia generalmente
biasimato ed infamato, nondimeno sono
tentato di credere che ciò venga
principalmente da coloro che non hanno di che
insuperbirsi. Vista l’impudenza, e la
stupida arroganza della maggior parte degli uomini,
ogni persona che possede meriti di
qualsivoglia specie farà molto bene a metterli in chiara
luce da sè stesso, allo scopo di non
lasciarli cadere in un completo oblio; perocchè colui che
benevolmente, non cerca di approfittarsene
e si conduce con la gente come se fosse affatto
suo simile, non tarderà ad esser
considerato da essa in tutta sincerità come un suo pari.
Vorrei raccomandare di condursi in siffatta
guisa a coloro sopratutto i cui meriti sono
dell’ordine il più elevato, meriti reali,
in conseguenza puramente personali, attesochè essi
non possono esser richiamati ad ogni
momento alla memoria, come le decorazioni e i titoli,
da una impressione dei sensi; altrimenti
facendo, vedranno realizzarsi troppo spesso il sus
Minervam (il maiale che ammonisce Minerva).
Un eccellente proverbio arabo dice: Scherza collo schiavo, ed ei ti mostrerà
ben tosto
il deretano. Anche la massima di Orazio: Sume superbiam quaesitam meritis (Assumi la
superbia richiesta dai meriti) non è da
disdegnare. La modestia è proprio una virtù inventata
principalmente per uso e consumo dei
mariuoli, perocchè esige che ciascuno parli di sè
come se fosse un mariuolo: ciocchè
stabilisce un’eguaglianza di livello ammirabile e
produce la stessa apparenza come se non vi
fosse in generale che della canaglia.
Intanto l’orgoglio a più buon mercato è
l’orgoglio nazionale. Esso tradisce presso chi
ne è tocco l’assenza di ogni qualità individuale di cui
potesse andar fiero, perocchè, se così
non fosse, questi non sarebbe ricorso ad una
qualità che divide con tanti milioni d’individui.
Chiunque possede meriti personali distinti
riconoscerà invece più chiaramente i difetti della
sua nazione, poichè l’ha sempre sotto gli
occhi. Ma ogni miserabile imbecille, che non ha al
mondo cosa di cui possa andar superbo, si
getta su quest’ultima risorsa, d’esser fiero cioè
della nazione alla quale si trova
appartenere per azzardo; si è con ciò che vuol rifarsi, e,
nella sua gratitudine, è pronto a difendere
πνιξ και λαξ (a pugni ed a
calci) tutti i difetti e
tutte le sciocchezze proprio alla sua
nazione.
Così, su cinquanta inglesi, per esempio, se
ne troverà appena uno solo che leverà la
voce per approvarvi quando parlerete con
giusto disprezzo del bigottismo stupido e
degradante della sua nazione; ma questo
solo individuo sarà certamente una buona testa. I
Tedeschi non hanno orgoglio nazionale e
provano così quell’onestà di cui hanno la fama;
invece provano tutto il contrario coloro
fra i Tedeschi che professano ed affettano in modo
ridicolo tale orgoglio, come fanno
principalmente i deutschen
Brüder (fratelli tedeschi) ed i
democratici che adulano il popolo allo
scopo di sedurlo. Si pretende bene che i Tedeschi
abbiano inventato la polvere, ma io non
sono di quest’opinione. Lichtenberg presenta la
seguente questione: «Perchè un uomo che non
è tedesco si fa molto di rado passare per
tale? e perchè quando vuol farsi passare
per qualche cosa, si dirà ordinariamente francese o
inglese?»13. Del resto l’individualità, in ogni persona, è cosa ben
altrimenti importante della
nazionalità, e merita mille volte più di
questa d’esser presa in considerazione. Onestamente
non si potrà mai dire gran bene d’un
carattere nazionale, poichè nazionale
significa
che
appartiene al volgo. Si è piuttosto la
meschinità dello spirito, la demenza e la perversità
della specie umana che sole spiccano in
ogni paese sotto forma differente, ed è questo che
si chiama carattere nazionale. Stomacati di
uno, ne lodiamo un altro, fino a che anche
questo c’ispira lo stesso sentimento. Una nazione
si ride dell’altra, e tutte hanno ragione.
La materia di questo capitolo può esser
classificata, come dicemmo, in onore, grado e
gloria.
2. Il
grado.
In quanto al grado, per importante che sembri
agli occhi del volgo e dei filistei, e per
grande che possa essere la sua utilità come
roteamento nella macchina dello Stato, avremo
finito con esso in poche parole per
raggiungere il nostro scopo. Si tratta d’un valore di
convenzione, o, più correttamente, d’un
valore di simulazione; la sua azione ha per risultato
una stima simulata, e il tutto è una
commedia per la folla. Le decorazioni sono cambiali
tirate sull’opinione pubblica; il loro
valore si basa sul credito del traente. Intanto, senza
parlare del danaro non indifferente che
risparmiano allo Stato sostituendo le ricompense
pecuniarie, esse sono nondimeno
un’istituzione delle più felici, dato che la loro
distribuzione sia fatta con discernimento
ed equità. Infatti la folla ha occhi ed orecchie, ma
nient’altro; sopratutto il senno le è
infinitamente scarso, e corta pure la memoria. Certi
meriti sono affatto fuori della portata del
suo comprendimento; e ve n’ha di quelli che essa
comprende ed acclama al loro apparire, ma
che ben presto dimentica. Ciò essendo, trovo
convenientissimo di gridare, ovunque e
sempre, alla folla coll’organo d’una croce o d’una
stella: «L’uomo che vedete non è vostro
pari, egli ha dei meriti!» Per altro con una
distribuzione ingiusta, non ragionevole od
eccessiva, le decorazioni perdono il loro prezzo;
sicchè un principe dovrebbe mettervi tanta
circospezione ad accordarle, quanta un
commerciante a segnar cambiali.
L’iscrizione «Al merito» sopra
una croce è un pleonasmo;
ogni decorazione dovrebbe essere «pour le merite, ça va sans dire»14.
3. L’onore.
La discussione sull’onore sarà molto più difficile e
molto più lunga di quella sul
grado. Prima di tutto dovremo definirlo. Se
a tal uopo dicessi: «L’onore è la coscienza
esterna, e la coscienza è l’onore interno»,
la definizione potrebbe forse piacere a qualcuno,
ma avremmo una spiegazione piuttosto
brillante che netta e ben fondata. Sicchè direi:
«L’onore è, oggettivamente, l’opinione che
hanno gli altri del nostro valore, e,
soggettivamente, il timore che c’ispira
tale opinione.» In quest’ultima qualità esso ha di
sovente un’azione molto benefica,
quantunque in morale pura niente affatto fondata,
sull’uomo d’onore.
La radice e l’origine del sentimento
dell’onore e della vergogna, inerente ad ogni
uomo che ancora non sia interamente corrotto,
ed il motivo dell’alto prezzo attribuito
all’onore, saranno messi in mostra colle
considerazioni seguenti. L’uomo non può, da sè
solo, che assai poca cosa: egli è un
Robinson abbandonato; unicamente in società cogli altri
è, e può molto. Ei si rende conto di questa
condizione fino dall’istante in cui la sua
coscienza comincia a svilupparsi un po’,
che subito si sveglia in lui il desiderio di esser
annoverato come un membro utile della
società, capace di concorrere «pro parte virili»
all’azione comune, con diritto così di
partecipare ai vantaggi della comunità umana. Vi
riesce soddisfacendo da prima a ciò che si
esige e si aspetta da qualunque uomo in
qualunque posizione, e poi a ciò che si
esige e si aspetta da lui nella posizione speciale che
occupa. Ma egli conosce ben presto che ciò
che importa non è d’esser un uomo di tal
tempra nella sua propria opinione, ma bensì
in quella degli altri. Ecco l’origine dell’ardore
con cui egli briga favorevole l’opinione
altrui, e dell’alto prezzo che vi annette.
Queste due tendenze si manifestano colla
spontaneità d’un sentimento innato che si
chiama sentimento dell’onore e, in certe
circostanze, sentimento del pudore (verecundia).
Ecco ciò che caccia il sangue sulle guancie
all’uomo non appena ei si crede minacciato di
perdere nell’opinione altrui, benchè si
sappia innocente, od ancorchè il fallo svelato non sia
che un’infrazione relativa, vale a dire non
concerni che un obbligo assunto gentilmente.
D’altra parte nessuna cosa fortifica in lui
il coraggio di vivere meglio della certezza
acquistata o rinnovellata della buona
opinione degli altri, perocchè essa gli assicura la
protezione ed il soccorso delle forze
riunite dell’insieme, ciocchè costituisce un riparo
contro i mali della vita infinitamente più
gagliardo delle sue sole forze.
Dalle diverse relazioni in cui un uomo può
trovarsi con altri individui e che mettono
costoro nel caso di accordargli fiducia, in
conseguenza di avere, come si dice, buona
opinione di lui, nascono diverse specie di
onore. Di esse le principali sono il mio ed il tuo, i
doveri a cui si ha preso impegno, e in fine
il rapporto sessuale; vi corrispondono l’onore
borghese, l’onore dell’officio e l’onore sessuale, ciascuno dei quali presenta ancora delle
suddivisioni.
L’onore
borghese occupa la sfera la più estesa: consiste nella presupposizione
che noi
rispetteremo assolutamente i diritti di
ciascuno e che, per conseguenza, non impiegheremo
mai a nostro vantaggio mezzi ingiusti od
illeciti. Esso è la condizione richiesta per
partecipare al commercio pacifico cogli
uomini. Basta, per perderlo, una sola azione che gli
sia fortemente e manifestamente contraria;
come conseguenza ogni pena criminale ce lo
toglie egualmente, a condizione però che la
pena sia giusta. Tuttavia l’onore si basa sempre,
in ultima analisi, sulla convinzione
dell’immutabilità del carattere morale, in virtù della
quale una sola cattiva azione garantisce
una qualità identica di senso morale in tutte le
azioni ulteriori, non appena si
presenteranno ancora circostanze simili; ciò che indica pure
l’espressione inglese «character» che vuoi
dire stima, riputazione, onore. Ed ecco perchè la
perdita dell’onore è irreparabile, a meno
che non sia dovuta alla calunnia od a false
apparenze. Perciò v’hanno leggi contro la
calunnia, i libelli, e di più contro le ingiurie;
perocchè l’ingiuria, l’insulto semplice, è
una calunnia sommaria, senza indicazione di
motivi: in greco si potrebbe esprimere
questo pensiero così: «εστι ἡ
λοιδορια
διαβολη
συντομος»
(L’ingiuria è la calunnia abbreviata); tuttavia questa massima non si trova
espressa in alcun luogo.
È un fatto che chi ingiuria non ha niente
di reale nè di vero da produrre contro l’altro,
altrimenti lo esprimerebbe come premessa e
lascierebbe tranquillamente a chi ascolta la
cura di tirare la conclusione; ma invece dà
la conclusione e resta in debito della premessa
contando sulla presupposizione nello
spirito degli uditori ch’egli proceda in siffatta guisa
solamente per brevità.
L’onore borghese prende, è vero, il nome
dalla classe borghese; ma la sua autorità si
estende sopra tutte le classi
indistintamente, senza eccezione pure per le più alte; nessuno
può farne senza; si è proprio un affare dei
più serj, e bisogna guardarsi dal prenderlo alla
leggera. Chiunque viola la fede e la legge
rimane per sempre uomo senza fede e senza
legge, checchè faccia e checchè possa
essere; i frutti amari che porta con sè la perdita
dell’onore non tarderanno a mostrarsi.
L’onore
ha,
in un certo senso, carattere negativo, in
opposizione alla gloria il cui
carattere è positivo, perchè
l’onore non è quell’opinione che si riferisce a qualità speciali,
appartenenti ad un solo individuo, ma è
l’opinione che si riferisce a qualità d’ordinario
presupposte, e che l’individuo è tenuto di possedere
egualmente agli altri. L’onore dunque
si accontenta di far testimonianza che
questo soggetto non fa eccezione, mentre la gloria
afferma che esso è un’eccezione. La gloria
deve quindi esser acquistata; l’onore al contrario
non abbisogna che di non esser perduto. Per
conseguenza la mancanza di gloria è l’oscurità,
una negazione; la mancanza d’onore è l’onta, una positività. Non
bisogna però confondere
questa condizione negativa con la
passività; tutto all’opposto l’onore ha un carattere
interamente attivo. Infatti esso procede
unicamente dal suo
soggetto; esso è fondato sulla
condotta propria di questi e non sulle azioni d’altri, o su
fatti esterni; esso è dunque «των
έφ̉ ημι̃ν»
(una qualità interna). Vedremo bentosto che questo è il marchio distintivo fra
il
vero onore, e l’onore cavalleresco o falso
onore. Dal di fuori non v’ha attacco possibile
contro l’onore che colla calunnia; il solo
mezzo di difesa ne è il respingerla colla pubblicità
necessaria per smascherare il calunniatore.
Il rispetto che si accorda all’età sembra
fondarsi sul fatto che l’onore dei giovani,
quantunque accordato per supposizione, non
è ancora stato messo alla prova e per
conseguenza non esiste, propriamente
parlando, che a credito, mentre per gli uomini maturi
si è potuto constatare nel corso della vita
se colla loro condotta hanno saputo serbarlo.
Perocchè nè gli anni per sè stessi — gli
animali raggiungendo essi pure un’età avanzata e
forse più avanzata che l’uomo — nè
l’esperienza quale semplice conoscenza più intima
dell’andamento delle cose umane
giustificherebbero abbastanza il rispetto dei giovani per
chi conta maggior numero d’anni, rispetto
che tuttavia si esige universalmente; la pura
fiacchezza senile darebbe diritto ai
riguardi piuttosto che alla considerazione. Nondimeno è
da notare che vi è nell’uomo un certo
rispetto innato, realmente istintivo, per i capelli
bianchi. Le grinze, segno ben più certo di
vecchiezza, non lo ispirano minimamente. Non si
è mai fatto menzione di grinze
rispettabili, si è sempre detto: i venerabili capelli bianchi.
L’onore non ha che un valor indiretto.
Perocchè, come spiegai al principio del
capitolo, l’opinione degli altri a nostro
riguardo non può aver valore per noi che in quanto
determini o possa determinare eventualmente
la loro condotta verso di noi. È vero che ciò
succede sempre per quanto a lungo si viva
cogli uomini o fra essi. Infatti, siccome nello
stato di civiltà dobbiamo solo alla società
la nostra sicurezza e il nostro avere, siccome
inoltre in ogni impresa abbiamo bisogno degli
altri e ci occorre avere la loro confidenza
perchè essi entrino in relazione con noi,
l’opinione loro avrà un alto prezzo agli occhi
nostri; ma questo prezzo sarà sempre
indiretto, ed io non saprei ammettere che essa potesse
avere un valore diretto. Tale è pure il
parere di Cicerone (Fin., III,
17): Della buona fama
poi Crisippo e Diogene invero dicevano che, messa da parte
l’utilità, per essa certo non
sarebbe da muovere un dito; ciò che io pure affermo
altamente. Anche Elvezio nel suo
capolavoro Dello spirito (Disc. III, cap. 13), sviluppa a
lungo questa verità, e giunge alla
conclusione: Noi non amiamo la stima per sè stessa,
ma, unicamente per i vantaggi che
procura. Ora il mezzo non potendo valere più del
fine, la massima pomposa: Prima
della
vita l’onore, non sarà mai, come già dicemmo, che
un’iperbole.
Ecco quanto sull’onore borghese.
L’onore
dell’officio è l’opinione generale che un uomo investito d’un impiego
posseda effettivamente tutte le qualità
richieste, e adempia appuntino ed in ogni circostanza
agli obblighi della sua carica. Quanto più
nello Stato la sfera d’azione di un uomo è
importante ed estesa, quanto più il posto
ch’egli occupa è elevato e potente, tanto più
grande deve essere l’opinione che si ha
delle qualità intellettuali e morali che ne lo rendono
degno; per conseguenza dovrà alzarsi il
grado dell’onore che gli si accorda e che si
manifesta coi titoli, colle decorazioni,
ecc., e l’umiltà nella condotta degli altri a suo
riguardo s’accentuerà progressivamente. Si
è la posizione di un uomo che, misurata sulla
stessa scala, determina costantemente il
grado particolare dell’onore che gli è dovuto;
questo grado tuttavia può esser modificato
dalla facilità più o meno grande delle masse a
comprendere l’importanza della posizione.
Ma si concederà sempre maggior onore a chi
avrà obblighi affatto speciali da
disimpegnare, come quelli d’un officio, per esempio, che al
semplice borghese, il di cui onore è
stabilito principalmente su qualità negative.
L’onore dell’officio esige inoltre che colui
che tiene una carica, la faccia rispettare a
causa dei suoi colleghi e dei suoi
successori; per riuscirvi deve, come dicemmo, soddisfare
puntualmente a’ suoi doveri, ma di più non
deve lasciare impunito nessun attacco contro il
posto o contro lui stesso, come
funzionario: non permetterà dunque giammai che si dica
ch’egli non disimpegna scrupolosamente ai
doveri del suo officio, o che questo non è di
alcuna utilità per il paese, dovrà invece,
facendo punire il colpevole dai Tribunali, provare
che tali attacchi erano ingiusti.
Come sotto-ordini di questo onore troviamo
quelli dell’impiegato, del medico,
dell’avvocato, di ogni pubblico professore,
e pur anco di ogni graduato, in poche parole, di
chiunque in virtù d’una dichiarazione officiale
è stato proclamato capace di un qualche
lavoro intellettuale, e per ciò si è
impegnato ad eseguirlo; l’onore finalmente in quella
qualità che si può comprendere sotto la
designazione di obbligati
pubblici. In tale categoria
bisogna dunque mettere anche il vero onore militare, che
consiste nell’opinione che
chiunque si è impegnato a difender la
patria comune, possede realmente le qualità volute,
fra le quali e prima d’ogni altra il
coraggio, il valore e la forza, e che costui è pronto a
difenderla risolutamente fino alla morte,
ed a non abbandonare per nessun prezzo la
bandiera a cui ha prestato giuramento. Ho
dato all’onore
dell’officio un significato molto
largo, perocchè ordinariamente
quest’espressione significa il rispetto dovuto dai cittadini
all’officio stesso.
Mi pare che l’onore sessuale richiegga
d’esser esaminato più da vicino, e che i suoi
principi debbano esser rintracciati fino
nella radice; ciò che verrà a confermare nel tempo
stesso che ogni onore si fonda, alla fin
fine, sopra considerazioni di utilità. Considerato
nella sua natura l’onore sessuale si divide
in onore delle donne ed in onore degli uomini, e
costituisce d’ambe le parti uno spirito di corpo bene
inteso. Dei due il primo è molto più
importante perchè nella vita della donna il
rapporto sessuale è l’affare principale. Così
dunque l’onore femminile è, quando si parla di una ragazza,
l’opinione generale che ella
non si sia data all’uomo, e, per la donna
maritata, che ella si sia data a quello solo a cui è
unita in matrimonio. L’importanza di questa
opinione si fonda sulle considerazioni
seguenti. Il sesso femminile invoca e si
aspetta dal sesso mascolino assolutamente tutto;
tutto ciò che desidera e tutto ciò che gli
è necessario; il sesso mascolino non domanda
all’altro, prima di tutto e direttamente,
che un’unica cosa. Si dovette quindi acconciarsi in
maniera tale, che il sesso mascolino non
potesse ottenere questa unica cosa se non a
condizione di prendersi cura di tutto, e
per soprammercato dei nascituri; su tale
disposizione di cose è basato il benessere
di tutto il sesso femminile. Perchè la disposizione
possa eseguirsi conviene necessariamente
che tutte le donne tengano fermo insieme, e che
mostrino uno spirito di corpo. Esse si
presentano allora come un solo tutto, a schiere
serrate, dinanzi la massa intera del sesso
mascolino, come contro un nemico comune che,
avendo dalla natura ed in virtù della
preponderanza delle forze fisiche ed intellettuali, il
possesso di tutti i beni terrestri, deve
esser vinto e conquistato allo scopo di giungere,
essendone padrone, a godere nello stesso
tempo dei beni terrestri. A tal fine la massima
d’onore di tutto il sesso femminile, si è
che la vita in comune fuori del matrimonio sarà
assolutamente interdetta agli uomini, affinchè
ognuno di essi sia costretto al matrimonio
come ad una specie di capitolazione, e che
così siano provvedute tutte le donne. Tale
risultato non può essere ottenuto per
intero che coll’osservanza vigorosa della massima or
ora esposta; sicchè il sesso femminile
tutto intero veglia con vero spirito
di corpo a che tutti
i suoi membri l’eseguiscano fedelmente. Per
conseguenza ogni ragazza che col concubinato
si rende colpevole di tradimento verso il
suo sesso, è scacciata dal corpo intero e notata
d’infamia, perocchè il benessere della
comunità correrebbe pericolo se questo modo di
procedere si generalizzasse; allora si
dice: Ella ha perduto il suo onore. Nessuna donna deve
più frequentarla; la si sfugge come
un’appestata. La stessa sorte tocca alla donna adultera,
perchè essa ha violato la capitolazione
consentita dal marito, e tale esempio distoglie gli
uomini dal conchiudere sì fatte
convenzioni, mentre ne dipende la salute di tutte le donne.
Ed inoltre, siccome una tale azione
comprende una frode ed un volgare mancamento di
parola, la donna adultera perde non solo
l’onore sessuale, ma anche l’onore borghese. Per
ciò si può dire, come per scusarla: «una
ragazza è caduta»; non si dirà mai: «una donna è
caduta»; il seduttore può rendere l’onore
alla prima col matrimonio, ma giammai l’adultero
alla sua complice, in seguito a divorzio.
Dopo una esposizione così chiara si riconoscerà
che la base del principio dell’onor
femminile è uno spirito
di corpo salutare, necessario
anzi, ma tuttavia calcolato giustamente e
fondato sull’interesse; si potrà bene attribuirgli la
più alta importanza nella vita della donna,
si potrà accordargli un grande valore relativo, ma
non mai un valore assoluto che oltrepassi
quello della vita colle sue sorti; nè si ammetterà
in alcun caso che questo valore arrivi al
punto d’esser pagato a prezzo dell’esistenza stessa.
Non si potrà dunque approvare Lucrezia, nè
Virginio nel loro esaltamento degenerante in
una buffonata tragica. La peripezia nel
dramma Emilia Galotti (di W.
Lessing), per la stessa
ragione ha qualche cosa talmente
ributtante, che si sorte dallo spettacolo affatto mal
disposti. In cambio ed a dispetto dell’onor
sessuale non si può astenersi dal simpatizzare
colla Clärchen dell’Egmont. Tale maniera di spingere agli estremi il
principio dell’onore
femminile appartiene, come tante altre,
all’oblio del fine per i mezzi; si attribuisce, con tali
esagerazioni, all’onore sessuale un valore
assoluto, quando, non altrimenti d’ogni altro
onore, non ha che un valore relativo;
fors’anche si potrebbe esser condotti a dire che questo
valore è puramente convenzionale, quando si
legga «Thomasius, De
concubinato»; si
scorge in quest’opera che, fino alla
riforma di Lutero, in quasi tutti i paesi e in ogni tempo,
il concubinato fu uno stato di cose
permesso e riconosciuto dalla legge e che la concubina
non cessava d’esser onorevole: senza
parlare di Militta Babilonese (vedi Erodoto, I, 199),
ecc. Vi hanno pure convenienze sociali che
rendono impossibile la formalità esterna del
matrimonio, sopratutto nei paesi cattolici
ove non è ammesso il divorzio; ma in ogni paese
tale ostacolo esiste per i sovrani; a mio
avviso, intanto, aver un’amante è da parte loro
un’azione molto più morale di un matrimonio
morganatico; i figli nati da simili unioni
possono levar pretese nel caso in cui la
discendenza legittima venisse ad estinguersi, d’onde
risulterebbe la possibilità, benchè assai
lontana, d’una guerra civile. Di più il matrimonio
morganatico, concluso cioè a dispetto di
ogni convenienza esterna, è alla fin fine una
concessione fatta alle donne ed ai preti,
due classi di persone a cui si deve guardarsi, per
quanto si può, dal concedere qualche cosa.
Consideriamo ancora che ciascuno, nel suo
paese, può sposare la donna da lui
desiderata; ve n’ha uno solo a cui questo diritto naturale
è tolto: questo pover’uomo è il sovrano. La
sua mano appartiene al paese; non la si accorda
che in vista di una ragione di Stato, vale
a dire dell’interesse del paese. E tuttavia questo
principe è un uomo che, come gli altri, vorrebbe
una volta seguire l’inclinazione del suo
cuore. È ingiustizia ed ingratitudine,
quanto volgarità borghese, il proibire o il rimproverare
al sovrano di vivere colla sua amante, bene
inteso però quando ei non le accordi influenza
alcuna sugli affari del paese. Dal suo lato
pure quest’amante, in rapporto all’onore sessuale,
è per così dire una donna eccezionale,
fuori della regola comune, ella non si è data che ad
un sol uomo, lo ama e ne è amata, ed egli
non potrà mai prenderla per moglie. Ciò che
prova sopratutto che il principio
dell’onore femminile non ha un’origine puramente naturale
si è il gran numero di sacrifizi sanguinosi
che gli vengono fatti dall’infanticidio e dal
suicidio delle madri. Una ragazza che si dà
fuori della legge viola, è vero, la fede verso il
suo sesso; ma da lei questa fede è stata
solo tacitamente accettata, non giurata. E siccome
nella maggior parte dei casi è precisamente
il suo stesso interesse che ne soffre nel modo
più diretto, la sua follia è infinitamente
più grande della sua depravazione.
L’onore sessuale degli uomini è provocato
da quello delle donne a titolo di spirito
di
corpo opposto; ogni uomo che si adatta al
matrimonio, vale a dire ad una capitolazione così
vantaggiosa per la parte avversaria, contrae
l’obbligo di vegliare ormai a che si rispetti la
capitolazione, affinchè un tal patto non
venga a perdere della sua saldezza se si prendesse
l’abitudine di non osservarlo che assai
negligentemente; non bisogna che gli uomini, dopo
aver accordato tutto, giungano al punto di
non esser nemmeno sicuri della sola cosa che
hanno stipulato d’aver in cambio, cioè del
possesso esclusivo della sposa. L’onore del
marito esige che questi vendichi
l’adulterio della moglie, e lo punisca almeno colla
separazione. Se egli lo tollera quando ne
sia a conoscenza, la comunità mascolina lo copre
di vergogna; ma questa non è, presso a
poco, così profonda come quella della donna che ha
perduto l’onore sessuale. Essa è tutt’al
più una levioris notae
macula (una macchia di lieve
impronta), perocchè le relazioni sessuali
sono per l’uomo un affare secondario, vista la
moltiplicità e l’importanza delle altre sue
relazioni. I due grandi poeti drammatici dei tempi
moderni hanno preso, ciascuno due volte,
per soggetto l’onore maschile: Shakespeare
nell’Otello e nel Racconto d’una notte d’inverno, e
Calderon in El medico de
su honra (Il
medico del suo onore) e in A secreto agravio secreta venganza (Ad
oltraggio secreto,
secreta vendetta). Del resto questo onore non
chiede che il castigo della donna, e non quello
dell’amante; la punizione di quest’ultimo
non è che opus
superogationis (affare di
soprammercato), ciò che conferma molto bene
che la sua origine sta nello spirito di corpo
dei mariti.
L’onore, quale lo considerai fin qui nelle
varie specie e nei suoi principî, lo si trova
regnare in generale presso tutti i popoli
ed in tutte le epoche, quantunque si possa scoprire
qualche modificazione locale o temporanea
sui principî dell’onor femminile. Ma esiste pure
un genere di onore interamente diverso da
quello che ha corso generalmente e dovunque, un
genere di onore di cui nè i Greci nè i
Romani avevano la menoma idea, come non l’hanno
pure fino ad oggi nè i Chinesi, nè
gl’Indiani, nè i Maomettani. In fatti esso è nato nel medio
evo, e non si è climatizzato che
nell’Europa cristiana; qui pure non è penetrato che in una
frazione minima della popolazione, cioè fra
le classi superiori della società e fra gli emuli di
esse. Il suo nome è onore cavalleresco, o punto d’onore. La base
di esso è totalmente
diversa da quella dell’onore di cui abbiamo
trattato finora; su alcuni punti ne è anzi
l’opposto, poichè l’uno fa l’uomo onorevole, e
l’altro invece l’uomo
d’onore. Vengo
dunque ora ad esporne separatamente i
principi sotto forma di codice o specchio
cavalleresco.
1.° L’onore non consiste nell’opinione
altrui sul nostro merito, ma unicamente nelle
manifestazioni di quest’opinione; poco importa che
l’opinione manifestata esista realmente,
o non esista, e meno che sia o non sia
fondata. Per conseguenza il mondo può avere la più
cattiva opinione sul nostro conto a causa
della nostra condotta; esso può disprezzarci
quanto gli accomoda; tutto ciò non nuoce
per niente al nostro onore fino a che qualcuno
non si permette di dirlo ad alta voce. Ma
viceversa se pure le nostre qualità e le nostre
azioni forzassero l’universo mondo a
stimarci altamente (perocchè ciò non dipende dal
libero arbitro di esso), basterà che un
solo individuo, fosse pure il più cattivo od il più
stupido, dimostri disprezzo a nostro
riguardo, ed ecco d’un tratto leso, fors’anche perduto
per sempre il nostro onore se noi non lo
ripariamo. Un fatto che mostra esuberantemente
non trattarsi minimamente dell’opinione per
sè stessa, ma solo della sua manifestazione
esterna, si è che le parole offensive
possono esser ritirate, che al caso si può domandarne
perdono, e che allora avviene come se non
fossero state pronunziate; la questione di sapere
se l’opinione che le aveva provocate cangiò
nel tempo istesso e perchè si è cangiata, non ha
a che fare; non si annulla che la
manifestazione, ed allora tutto è in regola. Il risultato che si
ha in vista non è dunque di meritare il
rispetto, ma di estorcerlo.
2.° L’onore di un uomo non dipende da ciò che egli fa, ma da ciò che gli vien fatto, da
ciò che gli succede. Abbiamo studiato più
sopra l’onore che regna da per tutto; i suoi
principî ci hanno dimostrato che esso
dipende esclusivamente da ciò che un uomo fa o dice;
invece l’onore cavalleresco risulta da ciò
che un altro dice o fa. Esso è dunque posto nella
mano, o semplicemente attaccato
all’estremità della lingua del primo venuto: per poco che
questi vi accenni l’onore è ad ogni istante
in pericolo di perdersi per sempre, a meno che
l’offeso non se lo riprenda colla forza.
Parleremo fra poco delle formalità da compiere per
rimetterlo a posto. Per altro questa
procedura non può esser seguita che con pericolo della
vita, della libertà, della fortuna e della
quiete dello spirito. La condotta di un uomo, fosse
pure la più onorevole e la più nobile, la
sua anima la più pura e la sua testa la più eminente,
tutto ciò non impedirà che il suo onore non
possa esser perduto non appena piacerà ad un
individuo qualunque d’ingiuriarlo; e, sotto
la sola riserva di non aver ancora violato i
precetti dell’onore in questione, questo
individuo potrà essere il più vile briccone, il bruto
più stupido, uno scioperato, un giocatore,
un uomo ingolfato nei debiti, in poche parole un
cialtrone nemmeno degno che l’altro lo
guardi. E ordinariamente sarà ad una creatura di
siffatta specie che piacerà insultare,
perocchè come Seneca ha giustamente osservato (De
Constantia, 11), quanto più un uomo è dispregiato e schernito, tanto più ha
la lingua
sciolta, ed è contro l’uomo eminente di cui
parlammo or ora che un vile briccone, si
scaglierà di preferenza, perchè caratteri
opposti si odiano e perchè la vista di qualità
superiori risveglia di solito una rabbia
sorda nell’anima dei tristi; per questo dice Goethe:
(W.
O. Divan) Perchè
lagnarti de’ tuoi nemici? Potrebbero mai esser tuoi amici, uomini
pei quali una natura come la tua è secretamele un eterno
rimprovero?
Si vede bene quanta riconoscenza tale genia
deve al principio dell’onore, principio
che la solleva allo stesso livello di coloro
i quali le sono infinitamente superiori sotto ogni
aspetto. Che un individuo siffatto scagli
un’ingiuria, vale a dire attribuisca ad un altro
qualche brutta qualità; se questi non lava
tosto nel sangue l’insulto, questo passerà
provvisoriamente per un giudizio
oggettivamente vero e fondato, per un decreto avente
forza di legge; l’affermazione potrà anche
restare per sempre vera e valevole. In altri
termini l’insulto rimane (agli occhi di
tutti gli «uomini d’onore») come l’insultatore (fosse
pur l’ultimo degli uomini) lo ha detto,
perchè l’insultato ingoiò
l’affronto (è questo il
«terminus
technicus»). Da allora gli «uomini d’onore» lo sprezzeranno
profondamente, lo
fuggiranno come se avesse la peste;
rifiuteranno, per esempio, altamente e pubblicamente
di andare in una società ove lo si riceve,
ecc. Credo poter con certezza far risalire al medio
evo l’origine di questo lodevolissimo
sentimento. Infatti C. W. de Wachter (Contributo alla
storia tedesca particolarmente sul diritto
penale, 1845) c’insegna che fino al XV secolo nei
processi criminali non spettava al
denunciatore provare la reità, ma che toccava all’accusato
provare la sua innocenza. Questa prova
poteva darsi col giuramento di purgazione, per il
quale occorrevano all’accusato i consacramentales che
giurassero esser convinti ch’egli
fosse incapace d’uno spergiuro. Se
l’accusato non poteva trovare garanti, o se l’accusatore
li ricusava, interveniva il giudizio di Dio
che consisteva ordinariamente nel duello.
Perocchè «l’accusato» diveniva allora un
«insultato» e doveva purgarsi dall’insulto. Ecco
dunque l’origine della nozione
dell’«insulto» e di tutta quella procedura che viene praticata,
salvo il giuramento, anche oggigiorno fra
gli «uomini d’onore.»
Tutto questo ci spiega anche la profonda
indignazione d’obbligo che commuove gli
«uomini d’onore» quando si sentono accusar
di menzogna, e così pure la sanguinosa
vendetta che ne tirano; ciò che pare tanto
più strano in quanto che la menzogna è cosa
d’ogni giorno. In Inghilterra sopra tutto
la faccenda si leva all’altezza d’una superstizione
fortemente radicata (chiunque minaccia di
morte colui che lo accusa di menzogna
dovrebbe, in realtà, non aver mai mentito
in tutta la sua vita). Nei processi criminali del
medio evo v’era una procedura ancor più sommaria,
e consisteva nel replicare dell’accusato
all’accusatore: «Tu hai mentito», dopo di
che si faceva appello immediatamente al giudizio
di Dio; da ciò deriva nel codice dell’onor
cavalleresco l’obbligo di ricorrere senza ritardo
alle armi quando si abbia ricevuto l’accusa
d’aver mentito. Ecco quanto concerne l’ingiuria.
Ma esiste qualche cosa molto peggiore
dell’ingiuria, qualche cosa talmente orribile che
devo domandar perdono agli «uomini d’onore»
d’osare unicamente ricordarla in questo
codice dell’onor cavalleresco; non ignoro
che solo a pensarvi essi ne avranno i brividi e che
i capelli si drizzeranno loro sulla testa,
perocchè questa cosa è il summum
malum, di tutti i
mali della terra il più grande, più
spaventevole della morte e dell’eterna dannazione. Può
succedere infatti, horribile dictu, può
succedere che un individuo dia uno schiaffo od una
percossa ad un altro individuo: con ciò una
spaventevole catastrofe! La morte dell’onore è
allora così completa che, se si può guarire
con un semplice salasso ogni altra lesione
dell’onore, questa per la radicale
guarigione esige che si debba uccidere completamente.
3.° L’onore non si dà pensiero di ciò che
possa esser l’uomo in sè e per sè, e
nemmeno della questione di sapere se la condizione
morale d’un individuo possa
modificarsi coll’andar del tempo o d’altre
simili pedanterie da scolaretti. Quando l’onore è
stato per un momento intaccato o perduto,
esso può esser prontamente ed interamente
ristabilito, ma alla condizione che vi si provveda
al più presto: la panacea ne è il duello. Se
però l’autore dell’affronto non appartiene
alle classi che professano il codice dell’onor
cavalleresco, o s’egli lo ha violato in
qualche occasione, havvi, sopratutto quando l’affronto
è stato prodotto da vie di fatto, ma pur
anco quando lo fu solamente da parole, havvi,
diciamo, un’operazione infallibile da
intraprendere, ed è, se si ha un’arma addosso, di
passargliela immediatamente od anche, a
rigore, un’ora dopo, attraverso il corpo; in tal
maniera l’onore è riparato. Ma qualche
volta si vuole evitare quest’operazione perchè si
teme gl’impicci che ne potrebbero derivare;
allora se non si è ben sicuri che l’offensore si
sottometta alle leggi dell’onore
cavalleresco, si ricorre ad un rimedio palliativo che si
chiama pigliar l’avvantaggio. Consiste questo, quando
l’avversario è stato villano,
nell’esser notabilmente più villano di lui;
se per ciò le ingiurie non bastano si viene alle
percosse: e qui pure v’ha un climax, una gradazione nella cura
dell’onore: gli schiaffi sono
guariti colle bastonate, queste colle
scudisciate; per le scudisciate poi v’è qualcuno che
raccomanda, come rimedio d’efficacia
garantita, lo sputare nel viso. Ma nel caso in cui non
si arrivi a tempo con questi rimedi, bisogna
senza fallo ricorrere alle operazioni sanguinose.
Un tal metodo di cura palliativa è basato
in sostanza sulla massima seguente:
4.° Nella stessa maniera che esser
insultato è un’onta, insultare è un onore. Così, che
la verità, il diritto e la ragione sieno
pure dalla parte del mio avversario, e che io lo ingiuri,
sull’istante egli non ha che da andare al
diavolo con tutti i suoi meriti: il diritto e l’onore
sono dalla mia parte, ed egli al contrario
ha provvisoriamente perduto l’onore fino a che
non lo ristabilisca — col diritto e colla
ragione, direte voi? niente affatto!: colla pistola o
colla spada. Dunque dal punto di vista
dell’onore la rozzezza è una qualità che supplisce o
domina tutte le altre: il più villano ha
sempre ragione: quid
multa? Qualunque sciocchezza,
qualunque sconvenienza, qualunque infamia
si abbia potuto commettere, una villania
grossolana toglie loro questo carattere, e
le legittima seduta stante. Che in una discussione,
od in una semplice conversazione una
persona mostri una conoscenza più esatta della
questione, un amore più severo della
verità, una mente più vasta, un raziocinio più giusto,
in una parola ch’egli metta in luce tali
meriti intellettuali che facciano cader nell’ombra i
nostri, nondimeno noi potremo d’un sol colpo
annullare tutte queste superiorità, nascondere
la nostra pochezza di mente, ed esser
superiori a nostra volta divenendo villani ed offensivi.
Perocchè una villania volgare atterra
qualunque argomento ed eclissa qualunque grande
ingegno. Se dunque il nostro avversario non
vuol entrare in partita, e non replica con una
villania ancora più grande, nel qual caso
verremo a nobile tenzone per pigliar
l’avvantaggio, saremo noi i vincitori e l’onore resterà
dal nostro lato: verità, istruzione,
raziocinio, intelligenza, ingegno, tutto
ciò deve far fagotto, e fuggire davanti l’arte divina
dello svillaneggiare. Così gli «uomini
d’onore», non appena qualcuno manda fuori una
opinione differente dalla loro, o fa mostra
di ragioni migliori di quelle che essi possono
mettere in campo, faranno vista
immediatamente d’inforcar gli arcioni di un tal cavallo da
guerra; quando in una controversia mancano
di argomenti da opporre, essi cercheranno
qualche insulto grossolano, ciò che fa lo
stesso officio ed è più facile a trovare: dopo di che
se ne andranno tutti trionfanti. Dopo
quanto abbiamo esposto, non si ha forse ragione di
dire che il principio dell’onore nobilita
il tono della società?
La massima di cui ci siamo or ora occupati
è fondata a sua volta sulla seguente, che è,
a dir vero, il fondamento e l’anima del
presente codice.
5.° La corte suprema di giustizia, quella
davanti a cui, in ogni contesa concernente
l’onore, si può appellarsi di qualunque
altro giudizio, si è la forza fisica, vale a dire
l’animalità. Perocchè qualunque villania è,
propriamente parlando, un appello all’animalità
nel senso che essa dichiara l’incompetenza
della lotta delle forze intellettuali o del diritto
morale e la surroga con quella delle forze
fisiche; nella specie uomo, che
Franklin definisce
a toolmaking
animal (un animale che fabbrica degli arnesi), questa lotta si effettua
col
duello, per mezzo di arme costruite
espressamente allo scopo, e porta una decisione senza
appello. Questa massima fondamentale è
disegnata, come si sa, coll’espressione diritto
della forza, espressione che implica un’ironia come in
tedesco la parola Aberwitz
(delirio,
demenza), che indica una specie di «Witz»
(spirito) che è ben lungi dall’essere del «Witz»;
nello stesso ordine d’idee l’onore
cavalleresco dovrebbe chiamarsi l’onore
della forza.
6.° Trattando dell’onore borghese, lo
abbiamo trovato molto scrupoloso circa i
capitoli del tuo e del mio, degli obblighi
contratti e della parola data, invece il codice in
questione professa su tutti questi punti i
principî più nobilmente liberali. Infatti v’ha una
sola parola a cui non si deve mancare: «la parola
d’onore» vale a dire la parola dopo la
quale si ha detto: «sul mio onore», donde
risulta la presunzione che si può mancare ad ogni
altra parola. Ma anche nel caso in cui si
avesse violato la parola d’onore, l’onore, a un
bisogno, può esser salvato per mezzo della
nota panacea, il duello: siamo tenuti a batterci
con chi sostenesse che abbiamo data la
nostra parola d’onore. Inoltre non esiste che un solo
debito che occorra pagare immancabilmente: il
debito di giuoco, che, per questo motivo, si
chiama «debito di onore». In quanto agli
altri debiti si rubi pure ad Ebrei ed a Cristiani, che
ciò non nuoce minimamente all’onore
cavalleresco15.
Qualunque mente di buona fede riconoscerà a
prima vista che un tal codice strano,
barbaro e ridicolo dell’onore non può aver
la sua origine nell’essenza della natura umana o
in una maniera sensata di considerare i
rapporti degli uomini fra loro. E questo è quanto
conferma pure il dominio molto ristretto
della sua autorità: tale dominio, che ebbe principio
solamente nel medio evo, è limitato
all’Europa, ed anche qui non comprende che la nobiltà,
la classe militare ed i loro emuli16. Perocchè nè i Greci, nè i Romani, nè le
popolazioni
eminentemente civilizzate dell’Asia, non
meglio nell’antichità che nei tempi moderni,
hanno saputo e sanno una parola di un
siffatto onore e dei suoi principi. Tutti questi popoli
non conoscono che ciò che noi abbiamo
chiamato l’onore borghese. Presso di loro l’uomo
non ha altro valore che quello conferitogli
dalla sua intera condotta, e non quello fattogli
dalle parole che una mala lingua si diverte
a proferire sul suo conto. Presso tutti questi
popoli ciò che dice o fa un individuo può benissimo
annientare il suo proprio
onore,
ma
non mai quello di un altro. Una percossa,
presso tutti questi popoli, non è altra cosa che una
percossa, eguale e forse meno pericolosa
del calcio che può tirare un cavallo od un asino:
una percossa potrà, al caso, suscitar la
collera o spingere immediatamente alla vendetta, ma
non ha niente di comune coll’onore. Queste
nazioni non tengono registri ove notare a conto
le percosse o le ingiurie, oppure le soddisfazioni che si
ebbe cura, o si trascurò di ottenere.
Per bravura, e per disprezzo della vita
esse non la cedono affatto affatto17
all’Europa
cristiana. I Greci ed i Romani erano certo
eroi perfetti, ma ignoravano completamente il
«punto d’onore». Il duello, presso di loro,
non era privilegio delle classi nobili, ma affare di
vili gladiatori, di schiavi abbandonati, di
rei condannati che erano eccitati a battersi,
alternativamente colle bestie feroci, per
divertimento del pubblico. Col Cristianesimo i
giuochi dei gladiatori furono aboliti, ma
al loro posto, e regnando sovrana la religione di
Cristo, si istituì il duello,
coll’intermedio del giudizio di Dio. Se i primi erano un sacrifizio
crudele offerto alla pubblica curiosità, il
duello è un sacrifizio non meno crudele al
pregiudizio generale, sacrifizio in cui non
sono immolati colpevoli, schiavi o prigionieri,
ma uomini liberi e nobili.
Moltissimi tratti che la storia ci ha
conservato provano che gli antichi ignoravano
assolutamente questo pregiudizio. Quando,
per esempio, un capo teutono invitò Mario ad
un duello, l’eroe gli fece rispondere che
«se era stanco della vita non aveva che da
appiccarsi per la gola», proponendogli
tuttavia un gladiatore dei più valenti con cui
potrebbe combattere a suo piacere (Freinsheim,
Supplementi a Tito Livio, 1. LXVIII, c.
12). Leggiamo in Plutarco (Temistocle, 11)
che Euribiade, comandante della flotta, in una
discussione con Temistocle, avrebbe alzato
il bastone per batterlo; non si scorge mica che
questi abbia snudata la spada, ma che
disse: «Batti, ma ascolta». Quale indegnazione il
lettore «uomo di onore» deve provare non
trovando menzione in Plutarco che il corpo degli
ufficiali ateniesi non abbia immediatamente
dichiarato di non voler più servire sotto
Temistocle! Perciò uno scrittore francese
dei nostri giorni dice con ragione: «Se qualcuno
s’immaginasse di dire che Demostene fu un
uomo d’onore si riderebbe per compassione.....
Neppur Cicerone era uomo d’onore.» (Soirées littéraires, par C. Durand; Rouen, 1828, vol.
II, pag. 300). Inoltre il passo di Platone
(De leg., IX, le
sei ultime pagine e XI, pag. 131,
ediz. Bipont) sopra le
αικια, vale a dire sulle ingiurie con vie di fatto,
prova abbastanza che
in quest’argomento gli antichi non
supponevano nemmeno tale sentimento del punto
d’onore cavalleresco. Socrate, in seguito
alle sue numerose controversie, si espose molte
volte alle percosse, che sopportava con
tutta calma; un giorno, avendo ricevuto un calcio,
non ne fece caso e disse a qualcuno che si
maravigliava di ciò: «Se me lo avesse dato un
asino ne porterei querela?» (Diogene
Laerzio, II, 21). Un’altra volta, siccome qualcuno gli
diceva: «Quest’uomo vi biasima; non vi
ingiuria forse?» rispose: «No, perchè ciò che dice
non si riferisce a me» (Ibid. 36). — Stobeo (Florilegium, ediz.
Gaisford, vol. I, pag. 327-
330) ci ha conservato un lungo brano di
Musonio, brano che ci lascia scorgere la maniera
con cui gli antichi consideravano le
ingiurie: essi non conoscevano altra soddisfazione che
quella da ottenersi per mezzo dei
magistrati, e i saggi disdegnavano pur questa. Si può
vedere nel Gorgia di Platone (pag. 86, ediz.
Bipont) che in fatti così aveva luogo l’unica
riparazione che si potesse pretendere per
uno schiaffo; noi vi troviamo anche (pag. 133)
riportata l’opinione di Socrate in
proposito. E ciò spicca pure da quanto racconta Aulo
Gellio (XX, 1) di un certo Lucio Verazio il
quale si divertiva, per malizia e senza motivo
alcuno, a dare uno schiaffo ai cittadini
romani che incontrava per istrada; allo scopo di
evitare lunghe formalità egli si faceva
accompagnare da uno schiavo che portava un sacco
di moneta di bronzo e che era incaricato di
pagare immediatamente al passeggiero stupito
l’ammenda legale di 25 assi. Crate, il
celebre cinico, avendo ricevuto dal musicista
Nicodromo uno schiaffo così forte che il viso
gli si era gonfiato con larga echimosi, si
attaccò alla fronte una tavoletta
coll’iscrizione: Nicodromo
fece, ciò che coperse di
vergogna il suonatore di flauto che si era
lasciato trasportare ad una tale brutalità (Diogene
Laerzio, VI, 89) contro un uomo che tutta
Atene riveriva al pari d’un Dio Lare (Apulejo,
Flor. pag. 126, ediz. Bipont). Abbiamo in
argomento una epistola di Diogene di Sinope a
Melesippo nella quale, dopo avergli detto
d’esser stato battuto da alcuni Ateniesi ubbriachi,
aggiunge che di ciò non gli cale (Nota
Casaub. ad Diog. Laert., VI, 33). Seneca nel libro De
constantia sapientis, dal capitolo X fino alla
fine, tratta in dettaglio de
contumelia per
stabilire che il savio la sprezza. Al
capitolo XIV dice: «Ma il saggio percosso da uno
schiaffo che farà? Ciò che fece Catone, il
quale percosso nel viso non si adirò, non vendicò
l’ingiuria e neppure la perdonò, ma negò
che gli fosse stata fatta».
«Sta bene, esclamerete, ma erano savî!»
E voi altri, siete pazzi voi altri? — Ve lo
accordo.
Noi vediamo dunque che ogni principio
d’onore cavalleresco era ignoto agli antichi
precisamente perchè consideravano, sotto
ogni punto di vista, le cose nel loro aspetto
naturale senza prevenzioni e senza
lasciarsi raggirare da ciance empie o funeste. Sicchè in
uno schiaffo non vedevano altra cosa se non
ciò che è in realtà, un piccolo danno fisico,
mentre per i moderni esso è una catastrofe
ed un tema da tragedia, come per esempio nel
Cid di Corneille ed in un dramma tedesco più
recente intitolato La forza
delle circostanze,
ma che dovrebbe piuttosto chiamarsi La forza del pregiudizio. Se un dì
fosse dato uno
schiaffo nell’Assemblea nazionale a Parigi,
l’Europa intera ne rimbomberebbe. Le
reminiscenze classiche, e gli esempi
dell’antichità or ora ricordati devono aver mal disposto
gli «uomini d’onore»; noi raccomandiamo
loro come antidoto di leggere in Jacques
le
fataliste, capolavoro di Diderot, la storia di
Monsieur Desglands18; vi
troveranno un tipo
nobilmente straordinario dell’onore
cavalleresco moderno che potrà dilettarli e nel tempo
stesso edificarli a maraviglia.
Da quanto precede resta provato abbastanza
che il principio dell’onore cavalleresco
non è un principio primitivo, basato sulla
natura stessa dell’uomo; invece esso è artificiale,
e la sua origine è facile a scoprire.
L’onore cavalleresco è il figlio di quei secoli in cui i
pugni erano esercitati più che le teste, ed
in cui i preti tenevano incatenata la ragione, del
medio evo insomma, del medio evo tanto
vantato, e della sua cavalleria. Allora infatti il
buon Dio non aveva la sola missione di
vegliare su noi, ei doveva anche giudicare per noi.
Perciò le cause giudiziarie d’indole
delicata si decidevano per mezzo delle Ordalie
o
giudizi
di Dio, che consistevano, meno qualche piccola eccezione,
in combattimenti singolari, non
solamente tra cavalieri, ma anche tra
borghesi come viene provato da un bel passo
dell’Enrico VI di Shakespeare (2a parte, atto 2°, scena 3a). Il combattimento singolare o
giudizio di Dio era un’istanza suprema a cui
si poteva appellarsi contro ogni sentenza
giudiziaria. In tal modo, invece della
ragione, si era la forza e la destrezza fisica, altramente
detta la natura animale, che si erigeva a
tribunale, e non era mica ciò che un uomo aveva
fatto, ma ciò che gli era accaduto che
decideva se egli aveva torto o ragione, precisamente
come procede il principio dell’onore
cavalleresco oggigiorno in vigore. Se qualcuno
conservasse ancora dei dubbi su tale
origine del duello e delle sue formalità non avrebbe,
per levarseli intieramente, che a leggere
l’eccellente opera di J. G. Mellingen, The
history of
duelling, 1849. Ai nostri giorni ancora, fra le
persone che regolano la loro vita su questi
precetti, — già si sa che ordinariamente
non sono nè le più istruite, nè le più ragionevoli —
ve n’ha di quelle per le quali l’esito del
duello rappresenta effettivamente la sentenza divina
nelle conseguenze che ha portato il
combattimento; opinione nata evidentemente da una
lunga trasmissione ereditaria e
tradizionale.
Fatta astrazione dalla sua origine, il
principio dell’onore cavalleresco ha per iscopo
immediato di farsi accordare, colla
minaccia della forza fisica, le testimonianze esterne di
quella stima che si crede troppo difficile,
o superfluo d’acquistare realmente. Presso a poco
è la stessa cosa come se qualcuno scaldasse
colla mano il bulbo d’un termometro e volesse
provare, perchè la colonna di mercurio
sale, che la sua camera è bene riscaldata. Volendo
considerare la cosa più da vicino, eccone
il principio: nello stesso modo che l’onore
borghese, avendo in vista i rapporti
pacifici degli uomini tra loro, consiste nell’opinione che
noi meritiamo piena fiducia perchè
rispettiamo scrupolosamente i diritti altrui, del pari
l’onore cavalleresco consiste nell’opinione
che noi siamo da temere perchè
decisi a
difendere ad oltranza i nostri diritti. La
massima che val meglio ispirar timore che fiducia
non sarebbe così falsa, visto il pochissimo
conto che si può fare sulla giustizia degli uomini,
se vivessimo nello stato di natura in cui
ciascuno deve da sè stesso difendere la sua persona
e i suoi diritti. Ma essa non trova
applicazione nella nostra epoca di civiltà, in cui lo Stato si
è preso l’incarico di proteggere persone e
proprietà; essa non esiste più che come quei
castelli e quei torrioni dell’epoca del
diritto feudale, inutili ed abbandonati, frammezzo
campi ben coltivati, quartieri animati, e
fors’anche strade ferrate. L’onore cavalleresco, per
la ragione stessa che professa la massima
precedente, è andato a ficcarsi necessariamente in
tutte quelle offese alla persona che lo
Stato non punisce che leggermente, o non punisce
affatto in virtù del principio: De minimis lex non curat, tali
delitti non producendo che un
danno insignificante, e non essendo il più
delle volte che semplici puntigli. Per mantenere il
suo dominio in una sfera molto elevata,
esso ha attribuito alla persona un valore la cui
esagerazione è affatto sproporzionata con
la natura, la condizione ed il destino dell’uomo;
spinge questo valore fino al punto di fare
qualche cosa di sacro dell’individuo, e, trovando
del tutto insufficienti le pene pronunziate
dallo Stato contro le piccole offese alla persona, si
prende la briga di punirle esso stesso con
punizioni sempre corporali, ed anche colla morte
dell’offensore. Havvi evidentemente, in
sostanza, l’orgoglio più smisurato e l’oltracotanza
più ributtante nell’obbliare la natura
reale dell’uomo e nel pretendere di rivestirlo d’una
inviolabilità e d’una irreprensibilità
assolute. Ma ogni uomo che è deciso a mantenere simili
principî colla violenza, e che professa la
massima: chi m’insulta o
mi tocca deve morire,
merita per ciò solo d’essere espulso dal
paese19. È vero
che si mette avanti ogni sorta di
pretesti per inorpellare questo orgoglio
smisurato. Di due uomini intrepidi, si dice, nessuno
cederà; nella più leggera collisione essi
verranno subito alle ingiurie, poi alle percosse e
finalmente all’omicidio: è dunque
preferibile, in riguardo alle convenienze, di sorpassare i
gradi intermedi, e ricorrere immediatamente
alle armi. I dettagli della procedura sono stati
allora formulati in un sistema di rigido
pedantismo, sistema che ha le sue leggi e le sue
regole, e che è davvero la buffonata più
lugubre del mondo; vi si può scorgere, nessuno lo
neghi, il Panteon glorioso della follìa. Ma
il punto di partenza istesso è falso; nelle cose
d’importanza minima (gli affari gravi
restano sempre deferiti alla decisione dei tribunali) di
due uomini intrepidi ve n’ha sempre uno, il
più saggio, che cede: quando non si tratta che di
opinioni non si vorrà nemmeno occuparsene.
Ne troviamo la prova nel popolo, o, per
meglio dire, in tutte quelle numerose
classi sociali che non ammettono il principio
dell’onore cavalleresco; quivi le contese
seguono il loro corso naturale e tuttavia l’omicidio
vi è cento volte meno frequente che nella
frazione minima, l/1000 appena, che lo accetta;
anche le risse vi sono rare. Si pretende
inoltre che questo principio, coi suoi duelli, sia la
pietra angolare che mantiene il bon ton e le belle
maniere nella società, che sia un baluardo
che mette al riparo dall’urto della
brutalità e della rozzezza. Per altro in Atene, a Corinto, a
Roma c’era della buona ed anche della
buonissima società, delle maniere eleganti, del bon
ton, senza che vi fosse bisogno d’impiantarvi
l’onore cavalleresco a guisa di spauracchio. È
giusto però il dire che le donne non
regnavano nella società antica come presso di noi. Oltre
il carattere frivolo e puerile che assume
con esse la conversazione, poichè se ne bandisce
qualunque soggetto serio ed ampliamento
trattato, la presenza delle donne nella nostra
società contribuisce di certo per una gran
parte ad accordare al coraggio personale il
primato su ogni altra qualità, mentre in
realtà esso non è che un merito molto subordinato,
una semplice virtù da sotto-tenente nella
quale gli animali stessi ci sono superiori; infatti
non si dice forse: «coraggioso come un
leone?» Ma v’ha di più: all’opposto dell’asserzione
precedentemente riportata, il principio
dell’onore cavalleresco è di sovente il rifugio sicuro
della disonestà e della scelleratezza negli
affari gravi, e nello stesso tempo l’asilo
dell’insolenza, della sfacciataggine e
della rozzezza nelle cose di lieve momento, per la
semplicissima ragione che nessuno si vuol
prender la briga di castigare queste brutte qualità
a rischio della vita. In prova vediamo il
duello rigogliosamente in fiore, e praticato colla più
sanguinaria serietà, precisamente presso
quella nazione la quale, nelle sue relazioni
politiche e finanziarie, ha mostrato
mancanza di vera onestà: a chi ne ha fatto la prova
bisognerebbe domandare di che natura sieno
le relazioni private cogli individui di quella
nazione; in quanto poi alle loro maniere civili
ed alla loro coltura sociale, sono cose che da
lunga data hanno grande celebrità come
modelli negativi.
Tutti questi motivi che vengono allegati
sono adunque privi di fondamento. Si
potrebbe affermare con più ragione che,
come il cane brontola quando lo si irrita e fa vezzi
quando lo si carezza, nello stesso modo è
proprio della natura dell’uomo il rendere ostilità
per ostilità e l’essere esacerbato ed
irritato per le manifestazioni dello sprezzo o dell’odio.
Cicerone l’ha già detto: «L’ingiuria ha un certo aculeo che gli
stessi uomini saggi e
prudenti difficilmente possono tollerare», ed
infatti in nessuna parte del mondo (fatta
eccezione di alcune sette divote) si
sopportano con calma le ingiurie, o, a più forte ragione,
le percosse. Ma la natura c’insegna di non
andar al di là d’una rappresaglia equivalente
all’offesa, non ci dice mica di punir colla
morte colui che ci accusasse di menzogna, di
stupidità, o di codardia. L’antica massima
tedesca: «Ad uno schiaffo
con uno stile» è un
pregiudizio cavalleresco che muove a
sdegno. In qualunque caso si è alla collera che tocca
rendere o vendicare le offese, e non
all’onore od al dovere, ai quali il principio dell’onore
cavalleresco ne impone l’obbligo. È certo
d’altronde che un rimprovero non offende che
nella misura con cui ci colpisce; ciò che
lo prova si è che la più piccola allusione, che batta
giusto, ferisce molto più profondamente di
un’accusa assai più grave ma che non sia
fondata. Per conseguenza chiunque ha la
coscienza sicura di non aver meritato un
rimprovero, può disdegnarlo e non gliene
calerà. Il principio dell’onore invece gli impone
di mostrare una irritazione che non prova e
di vendicare col sangue offese che non lo hanno
colpito. Eppure è veramente aver pochissima
opinione del proprio valore il cercar di
soffocare ogni parola che mostrasse di
metterlo in dubbio! La vera stima di sè stesso darà la
calma ed il disprezzo reale delle ingiurie;
in mancanza di essa, la prudenza e la buona
educazione ci comandano di salvare
l’apparenza e di dissimulare la nostra collera. Se
inoltre noi giungessimo a spogliarci dal
pregiudizio del principio cavalleresco; se nessuno
più ammettesse che un insulto fosse capace
di togliere o di restituire checchessia all’onore;
se si fosse convinti che un torto, una brutalità,
una villania non possono essere giustificati
all’istante colla sollecitudine che si
vorrà mettere a darne soddisfazione, cioè a battersi,
allora ognuno arriverebbe a comprendere che
quando si tratta d’invettive e d’ingiurie, si è il
vinto che sorte vincitore dal
combattimento, e che, come dice Vincenzo Monti, delle
ingiurie avviene lo stesso come delle
processioni sacre, le quali ritornano sempre al loro
punto di partenza. Allora non basterebbe
più, come attualmente, spacciare una insolenza per
mettere il diritto dalla nostra parte;
allora il senno e la ragione avrebbero ben altra autorità,
mentre oggidì devono, prima di parlare,
vedere se non urtano in checchessia l’opinione
delle menti meschine e degli imbecilli che
irrita ed allarma già la loro sola apparizione, che
altrimenti l’intelligenza può trovarsi nel
caso di giuocare in un colpo di dadi, la testa ove
risiede contro il cervello grossolano ove è
alloggiata la stupidità. Allora la superiorità
intellettuale occuperebbe realmente nella
società il primo posto che gli è dovuto e che si dà
oggi, benchè in modo mascherato, alla
superiorità fisica ed al coraggio alla ussara; di più
allora vi sarebbe, per gli uomini eminenti,
un motivo di meno per fuggire la società, ciò che
fanno attualmente. Un mutamento tanto
radicale farebbe nascere il vero
bon ton e
fonderebbe la vera buona società nella
forma in cui, senza dubbio, ha esistito a Roma, a
Corinto ed in Atene. A chi volesse averne
saggio raccomando di leggere il Banchetto
di
Senofonte.
L’ultimo argomento in difesa del codice
cavalleresco sarà senza dubbio concepito
così: «Andiamo dunque! ma allora un uomo
potrebbe, Dio ce ne guardi, percuotere un
altro!» A ciò potrei rispondere, senza
frasi reboanti, che il caso si è presentato ben di
frequente in quei 999/1000
della
società presso i quali tale codice non è ammesso, senza che
un solo individuo ne sia morto, mentre che
presso coloro che ne seguono i precetti, ogni
percossa, per regola, diventa una faccenda
mortale.
Ma voglio esaminare la questione più in
dettaglio. Io mi sono molto di sovente affaticato
la mente per trovare nella natura animale
od intellettuale dell’uomo una qualche ragione
valida od anche solamente plausibile,
fondata non su semplici modi di dire, ma su nozioni
distinte, una qualche ragione, ripeto, che
possa giustificare la convinzione, profondamente
radicata in una parte della specie umana,
che una percossa è una orribile cosa: tutte le mie
ricerche riescirono vane. Una percossa non è
e non sarà mai che un piccolo male fisico che
ogni uomo può cagionare ad un altro, senza
provare con ciò altra cosa se non che egli è più
forte o più destro, oppure che l’altro non
stava in guardia. Dall’analisi di più non abbiamo.
Inoltre io vedo questo stesso cavaliere per
il quale, una percossa ricevuta dalla mano di un
uomo sembra il più grande di tutti i mali,
ricevere un colpo dieci volte più forte dal suo
cavallo ed assicurare, trascinando la gamba
e dissimulando il dolore, che non è niente.
Allora ho supposto che ciò dipendesse dalla
mano dell’uomo. Vedo però il nostro cavaliere
in un combattimento, ricever dalla mano di
un uomo colpi di punta e di taglio ed assicurare
ancora che sono bagattelle di cui non vale
la pena di parlare. Imparò inoltre che i colpi di
lama piatta non sono a un dipresso tanto
terribili come i colpi di bastone, sicchè molto di
recente gli allievi delle scuole militari
erano ancora passibili dei primi, e giammai degli
altri. Ma v’ha di più: nella iniziazione di
un cavaliere il colpo col piatto della lama è un
grandissimo onore. Ed ecco esauriti tutti i
miei motivi psicologici e morali; ora non mi resta
più che a considerare la cosa come
un’antica superstizione, profondamente radicata, come
un nuovo esempio, a lato di tanti altri, di
quanto si può dare ad intendere agli uomini. Ciò
che è provato anche dal fatto ben noto che
in China i colpi di bastone sono una punizione
civile impiegata assai frequentemente anche
riguardo a funzionarî d’ogni grado; la qual
cosa dimostra che colà la natura umana, pur
anco fra le persone più civili, non parla come
da noi20.
Inoltre un esame imparziale della natura
umana c’insegna che il battere
è
tanto
naturale all’uomo quanto il mordere agli
animali carnivori e il dar colpi di testa alle bestie
cornute; l’uomo è, propriamente parlando,
un animale percuotitore. Per
questo siamo mossi
a sdegno quando sentiamo che un uomo ha
morsicato un altro uomo: dare o ricever colpi
invece è per esso un effetto tanto naturale
quanto frequente. Si comprende facilmente come
le persone d’una educazione finita cerchino
di sottrarsi a tali effetti dominando
reciprocamente la loro naturale
inclinazione. Ma havvi invero della crudeltà nel voler far
credere ad una intera nazione, od anche
solo ad una classe d’individui, che ricevere una
percossa sia una disgrazia spaventevole,
che dev’essere seguita dall’omicidio. Ci sono
troppi veri mali a questo mondo perchè sia
permesso d’aumentarne il numero e crearne
d’immaginarî che ne portano pur troppo di reali
seco loro, ciò che fa tuttavia questo sciocco
e scellerato pregiudizio. Come conseguenza
io non potrei che disapprovare quei governi e
quei corpi legislativi che gli vengono in
aiuto affaticandosi con ardore per far abolire, tanto
nel codice civile che nel militare, le
punizioni corporali. Così facendo essi credono di agire
nell’interesse dell’umanità, quando, al
contrario, lavorano così a consolidare questo
traviamento snaturato e funesto a cui sono
già state sacrificate tante vittime. Per ogni colpa,
salvo le più gravi, infliggere alcune
bastonate è la punizione che nell’uomo si presenta per
prima alla mente; dunque è la più naturale;
chi non si sottomette alla ragione, si
sottometterà ai colpi. Punire con una
leggera bastonatura colui che non può esser colpito
nelle ricchezze quando non ne ha, e che non
può esser privato della libertà, quando si ha
bisogno de’ suoi servigi, è un atto tanto
giusto quanto naturale. Perciò non viene presentata
alcuna buona ragione contro questo
principio; gli oppositori si contentano d’invocare la
dignità dell’uomo, maniera di parlare che non si appoggia
sopra una nozione veramente
chiara, ma ancora e sempre sul fatale
pregiudizio di cui abbiamo parlato più in alto. Un
fatto recente dei più comici viene a
confermare tale stato di cose: molti Stati hanno or ora
sostituito nell’armata le stangate alle
bastonate; le stangate come ogni altro colpo,
producono senza dubbio un dolore fisico, e
nondimeno sono tenute per non infamanti, nè
disonoranti.
Stimolando così il pregiudizio che ci tien
servi, s’incoraggia nello stesso tempo il
principio dell’onore cavalleresco e quindi
del duello, mentre d’altra parte si fanno sforzi, o
piuttosto si pretende di sforzarsi per
abolire colle leggi il duello21. Così
vediamo questo
frammento del diritto del più forte,
trasportato attraverso il tempo dal medio-evo al XIX
secolo, fare oggi ancora scandalosa mostra
di sè in pieno giorno; è tempo alla fin fine di
cacciarlo vergognosamente. Oggidì, quando è
proibito di addestrare con metodo cani e galli
a battersi gli uni contro gli altri (in
Inghilterra almeno questi combattimenti sono puniti), ci
è dato veder creature umane eccitate loro
malgrado a lotte mortali: si è da questo ridicolo
pregiudizio, da questo principio assurdo
dell’onore cavalleresco, si è da questi stupidi
rappresentanti e da questi campioni che,
per la prima bagattella insorta, viene imposto agli
uomini l’obbligo di battersi fra loro come
gladiatori. Propongo ai nostri puristi tedeschi di
rimpiazzare la parola duell, derivata probabilmente non
dal latino duellum, ma dallo
spagnuolo duelo (danno, querela, pena), colla parola Ritterhetze (lotta di
cavalieri, come si
dice lotta di galli o di bull-dogs). Si ha
certamente amplio soggetto al riso nel vedere le
formalità pedanti con cui si compiono tutte
queste follie. Non si è per ciò meno mossi a
sdegno, riflettendo che questo principio,
col suo codice assurdo, costituisce nello Stato uno
Stato che, non riconoscendo altro diritto
se non quello del più forte, tiranneggia le classi
sociali che sono sotto il suo dominio collo
stabilire un tribunale permanente della Santa-
Vehme; ognuno può esser citato da
chichessia a comparirvi; i motivi della citazione, facili a
trovare, fanno l’officio di sbirri del
tribunale, e la sentenza pronunzia la pena di morte
contro le due parti. È questo naturalmente
il rifugio dal fondo del quale l’individuo più
spregevole, alla sola condizione di
appartenere alle classi soggette alle leggi dell’onore
cavalleresco, potrà minacciare, od anche
uccidere gli uomini più nobili e migliori, che sono
precisamente quelli che odia di necessità.
Poichè al giorno d’oggi la giustizia e la polizia
hanno guadagnato presso a poco abbastanza
autorità perchè un briccone non possa più
arrestarci per la strada gridandoci: la
borsa o la vita!, sarebbe tempo che il buon senso
assumesse altrettanta autorità affinchè la
prima canaglia venuta non possa più venirci a
turbare nel bel mezzo della nostra
esistenza più pacifica esclamando: l’onore o la vita!
Bisogna finalmente liberare le classi
superiori dal peso che le opprime, bisogna affrancarci
tutti dall’angoscia di sapere che possiamo
ad ogni momento essere chiamati a pagare colla
nostra vita la brutalità, la rozzezza, la
balordaggine o la cattiveria di tale individuo cui avrà
piaciuto scaricarla contro di noi. È
ingiusto, è vergognoso che due giovani inesperti e senza
cervello sieno tenuti ad espiare col loro
sangue la più piccola contesa. Ecco un fatto che
prova a quale altezza si sia levata la
tirannia di questo Stato nello Stato, ed a qual punto sia
arrivato il potere di questo pregiudizio:
si è visto spesso persone uccidersi per la
disperazione di non aver potuto ristabilire
il loro onore cavalleresco offeso, sia perchè
l’offensore era di troppo alta o di troppo
bassa condizione, sia per tutt’altra causa di
disproporzione che rendeva il duello
impossibile; una tal morte non è proprio tragicomica?
Tutto quanto è falso ed assurdo si rivela
alla fine per ciò che, giunto al suo sviluppo
perfetto, porta come fiore una contraddizione;
egualmente nel caso nostro la contraddizione
sboccia sotto la forma della più ingiusta
antinomia; infatti il duello è proibito all’ufficiale, e
nondimeno questi è punito colla
destituzione se, dandosene il caso, si rifiutasse di battersi.
Poichè ci sono, voglio andare ancora più
avanti col mio parlar franco. Esaminata con
cura e senza prevenzioni, la grande
differenza, che si fa risuonare tanto forte, tra l’uccidere
il proprio avversario in una lotta alla
piena luce del sole e ad armi eguali oppure in un
agguato, è fondata semplicemente su quanto
abbiamo già detto che cioè questo Stato nello
Stato non riconosce altro diritto che
quello del più forte e ne fa la base del suo codice dopo
averlo elevato all’altezza di un giudizio
di Dio. Infatti, ciò che si chiama un combattimento
leale non prova altra cosa se non che si è
o il più forte o il più abile. La
giustificazione che
si cerca colla pubblicità del duello
presuppone dunque che il diritto
del più forte sia
realmente un diritto. Ma la circostanza che il
mio avversario sa difendersi male mi dà
effettivamente la possibilità, e non il
diritto di
ucciderlo; questo diritto, altrimenti detto la
mia giustificazione morale, non può derivare che dai
motivi che io ho di togliergli la vita.
Ammettiamo ora che questi motivi esistino e
che sieno soddisfacenti; allora non v’ha più
alcuna ragione di cercar prima chi di noi
due maneggia meglio la pistola o la spada, allora è
indifferente che io lo uccida in tale o
tal’altra maniera, per davanti o per di dietro. Perocchè,
moralmente parlando, il diritto del più
forte non ha più peso del diritto del più scaltro, ed è
di quest’ultimo che si fa uso quando si
ammazza a tradimento: qui il diritto del pugno vale
esattamente il diritto della testa.
Osserviamo inoltre che anche nel duello sono messi in
pratica i due diritti, perchè ogni finta
nella scherma è un inganno. Se io mi credo
moralmente autorizzato a toglier la vita ad
un uomo, farei una sciocchezza col rimettermi
alla sorte s’egli sapesse maneggiare le
armi meglio di me, perocchè in questo caso sarà lui
che dopo avermi offeso mi ucciderà per
soprammercato. Rousseau è d’avviso che bisogna
vendicar un’offesa non col duello, ma
coll’assassinio; egli presenta tale sua opinione con
molte precauzioni nella 21.a nota, concepita in termini così misteriosi,
del IV libro
dell’Emilio22. Ma egli è ancora così
fortemente imbevuto dal pregiudizio cavalleresco che
considera il rimprovero d’una menzogna come
giustificazione dell’assassinio, mentre
dovrebbe sapere che ogni uomo ha meritato
questo rimprovero innumerevoli volte, egli
stesso per primo ed al più alto grado. È
evidente che il pregiudizio che autorizza ad
uccidere l’offensore a condizione che il
combattimento succeda di pieno giorno e ad armi
eguali, considera il diritto della forza
come se fosse realmente un diritto, e il duello come
un giudizio di Dio. Almeno l’italiano che
bollente di collera assalta senza complimenti, a
colpi di coltello, l’uomo che lo ha offeso,
agisce in modo logico e naturale: egli è più
scaltro, ma non più cattivo del duellista.
Se si volesse oppormi che ciò che mi giustifica
dell’uccisione del mio avversano in duello
si è che da parte sua egli cerca di fare altrettanto,
risponderei che provocandolo l’ho messo nel
caso di legittima difesa. Mettersi così
mutuamente e con intenzione nel caso di
legittima difesa non significa altro, in conclusione,
se non cercare un pretesto plausibile per
l’omicidio. Si potrebbe meglio trovare una
giustificazione nella massima: «Volenti non fit injuria» (Non si
fa torto a chi v’acconsente),
poichè si è di comune accordo che si
rischia la vita; ma a ciò si potrebbe replicare che
volens non è parola esatta, perocchè la tirannia
del principio dell’onore cavalleresco e del
suo codice assurdo è l’alguazilo che ha
trascinato i due campioni, o per lo meno uno di essi,
davanti questo tribunale sanguinario della
Santa-Vehme.
Mi sono fermato a lungo sull’onore
cavalleresco, ma lo feci con una buona intenzione
e perchè la filosofia è l’Ercole che solo
può combattere sulla terra le mostruosità morali ed
intellettuali. Due cose principalmente
distinguono lo stato della società moderna da quello
della società antica, e ciò a detrimento
della prima a cui danno una tinta seria, tetra, sinistra
da cui non era velata l’antichità, ciò che
la fa apparir candida e serena come il mattino della
vita. Queste due cose sono: il principio
dell’onor cavalleresco e la sifilide, par
nobile
fratrum. A loro due hanno avvelenato νεἰκος
και φιλία
della
vita (i contrasti e le amicizie
della vita). Infatti l’influenza della
sifilide è molto più estesa che non sembri a prima vista
per ciò che tale influenza non è solamente
fisica ma anche morale. Dappoichè la faretra
d’amore porta anche freccie avvelenate s’è
introdotto nelle mutue relazioni dei sessi un
elemento eterogeneo, ostile, direi quasi
diabolico, il quale fa che esse sieno pregne d’una
tetra e paurosa diffidenza: gli effetti
indiretti d’una tale alterazione nel fondamento d’ogni
comunità umana si fanno sentire egualmente,
a gradi diversi, in tutte le altre relazioni
sociali; ma la loro analisi dettagliata mi
trarrebbe troppo lungi. Analoga, benchè di tutt’altra
natura, è l’influenza del principio d’onore
cavalleresco, questa forza di grave conseguenza
che rende la moderna società rigida, cupa
ed inquieta poichè ogni parola fuggitiva vi è
scrutata e discussa. Ma non è tutto. Questo
principio è un Minotauro universale a cui
bisogna sacrificare ogni anno un gran
numero di figli di famiglie nobili, presi non in un
solo Stato, come per il mostro antico, ma
in tutti i paesi d’Europa. Sicchè è tempo alla fine
d’attaccare coraggiosamente corpo a corpo
la chimera, come ho fatto or ora. Possa il XIX
secolo sterminare questi due mostri dei tempi
moderni! Noi non disperiamo di vedere i
medici riuscirvi circa uno di essi col
mezzo della profilassia. Ma appartiene alla filosofia
l’annientar la chimera raddrizzando le
idee; i governi non hanno potuto aver buon esito
colle leggi, che il solo ragionamento
filosofico può attaccare il male nella radice. Fino a che
questo avvenga, se i governi vogliono
seriamente abolire il duello, e se il piccolissimo
successo dei loro sforzi non dipende che
dalla loro impotenza, io vengo a proporre loro una
legge di cui garantisco l’efficacia e che
non reclama operazioni sanguinose, nè patiboli, nè
forche, nè prigioni perpetue. Si tratta
invece di un piccolo, di un piccolissimo rimedio
omeopatico dei più facili; eccolo:
«Chiunque manderà o accetterà una sfida riceverà alla
chinese, di pieno giorno, davanti il corpo di
guardia dodici colpi di bastone per mano del
caporale; chi portò la sfida, e così pure i
testimoni ne riceveranno sei cadauno23. Per le
conseguenze eventuali del duello succeduto
si seguirà la procedura criminale ordinaria».
Qualche cavaliere mi porrà forse l’obiezione che dopo aver
subito un tale castigo molti
«uomini d’onore» saranno capaci di
bruciarsi le cervella; a ciò rispondo: Val meglio che un
pazzo uccida sè stesso, piuttosto che un
altro uomo. Ma so molto bene che in sostanza i
governi non cercano seriamente l’abolizione
dei duelli. Gli stipendi degli impiegati civili,
ma sopra tutto quelli degli ufficiali
(salvo nei gradi elevati) sono molto inferiori al valore di
ciò che producono. Quindi si paga loro la
differenza in onore. Questo è rappresentato dai
titoli e dalle decorazioni, e, sotto un
punto di vista più largo e più generale, dall’onore della
funzione. Ora per tale onore il duello è un
eccellente cavallo da maneggio il cui
ammaestramento comincia già nelle
Università. Si è col loro sangue che le vittime pagano il
deficit dello stipendio.
Per non fare alcuna ommissione ricordiamo
qui ancora l’onore
nazionale. È desso
l’onore di tutto un popolo considerato come
membro della comunità dei popoli. Questa
comunità non riconoscendo altro foro che
quello della forza, e ciascun membro avendo per
conseguenza da difendere da sè stesso i
suoi diritti, l’onore di una nazione non consiste solo
nell’opinione fermamente stabilita che essa
merita fiducia (il credito), ma di più che essa è
abbastanza forte perchè la si tema; perciò
una nazione non dovrebbe lasciar impunita la più
piccola offesa ai suoi diritti. L’onore
nazionale combina dunque il punto d’onore borghese
col punto d’onore cavalleresco.
4. La
gloria.
In ciò che si rappresenta ci resta da esaminare per ultimo la gloria.
Onore e gloria
sono gemelli, ma alla maniera dei Dioscuri
di cui uno, Polluce, era immortale e l’altro,
Castore, mortale: l’onore è il fratello
mortale della gloria immortale. È evidente che ciò non
si deve intendere che della gloria la più
alta, della gloria vera e di buona lega, perocchè
v’hanno pure molte specie effimere di
gloria. Inoltre l’onore non si applica che a qualità
che il mondo esige da tutti coloro i quali
si trovano in condizioni simili, la gloria invece si
applica a qualità che non si possono
pretendere da alcuno; l’onore si riferisce a meriti che
ciascuno può attribuirsi pubblicamente, la
gloria a meriti che nessuno può attribuirsi da sè
stesso. Mentre l’onore non va oltre i
limiti in cui siamo personalmente conosciuti, la gloria,
tutto all’opposto, precede nel suo volo la
conoscenza dell’individuo e se la porta dietro
tanto lontano quanto arriverà ella stessa.
Ognuno può pretendere all’onore; alla gloria le
sole eccezioni, perocchè non la si acquista
che con produzioni eccezionali. Tali produzioni
possono essere atti od opere: da ciò due strade per
giungere alla gloria. Un animo grande
sovra ogn’altra cosa ci apre la via degli
atti; una mente grande ci rende capaci di seguir
quella delle opere. Ciascuna delle due ha
vantaggi ed inconvenienti suoi propri. La
differenza capitale si è che le azioni
passano, e le opere rimangono. L’azione la più nobile
ha sempre un’influenza solamente temporanea,
l’opera del genio invece sussiste ed agisce,
benefica e nobilitante, a traverso i tempi.
Delle azioni non resta che la memoria che diventa
sempre grado a grado più piccola, svisata e
indifferente; essa è pur anco destinata a sparire
affatto se la storia non la raccoglie per
trasmetterla, pietrificata, alla posterità. Le opere in
cambio sono immortali da per sè stesse, e
le opere scritte sopra tutto possono vivere in ogni
tempo. Il nome e la memoria di Alessandro
il Grande sono soli viventi oggidì; ma Platone,
Aristotele, Omero ed Orazio sono presenti
essi stessi, vivono ed agiscono direttamente. I
Veda, colle loro Upanishadi sono là,
davanti a noi; ma di tutte le azioni compite nel loro
tempo, non la più piccola nozione è giunta
fino a noi24 W. Un
altro svantaggio delle azioni
si è che esse dipendono dalla occasione
che, prima di ogn’altra cosa, deve dar loro la
possibilità di prodursi: d’onde risulta che
la grandezza della loro gloria non è regolata
unicamente dal loro valore intrinseco, ma
anche dalle circostanze che danno loro
importanza e splendore. La gloria delle
azioni deriva inoltre, quando queste sono puramente
personali, come in guerra, dalla relazione
d’un piccolo numero di testimoni oculari; ora può
succedere che non vi sieno stati testimoni,
o che questi sieno ingiusti o mal prevenuti.
D’altra parte le azioni, essendo qualche
cosa di pratico, hanno il vantaggio d’esser alla
portata delle facoltà che intendono e
giudicano presso tutti gli uomini; perciò si rende loro
immediatamente giustizia non appena i dati
sono esattamente prodotti, a meno che tuttavia i
motivi non ne possano esser nettamente
conosciuti o giustamente apprezzati che più tardi,
perocchè, per ben comprendere un’azione,
bisogna conoscerne il motivo.
Per le opere la cosa è affatto diversa; la
loro produzione non dipende dall’occasione,
ma unicamente dal loro autore, ed esse
restano quello che sono in sè stesse e da per sè
stesse per quanto a lungo durino. Qui, in
cambio, la difficoltà consiste nella facoltà di
giudicarle, e la difficoltà è tanto più
grande quanto più le opere sono di qualità eminente; di
sovente mancano giudici competenti; di
sovente pure mancano giudici imparziali ed onesti.
Di più non è un tribunale solo che decide
della loro gloria, havvi sempre luogo ad appello.
Infatti se, come abbiamo detto, la memoria
delle azioni giunge alla posterità sola, e quale i
contemporanei l’hanno trasmessa, le opere
al contrario vanno ai posteri da per sè stesse, e
quali sono, salvo i frammenti perduti: qui dunque
non v’ha la possibilità di snaturare i dati,
e se al loro apparire l’ambiente ha potuto
esercitare qualche influenza dannosa, questa più
tardi sparisce. Anzi, per meglio dire, si è
il tempo che produce, uno ad uno, il piccolo
numero di giudici veramente competenti,
chiamati, come esseri eccezionali quali sono, a
giudicarne di più eccezionali ancora:
eglino depongono successivamente nell’urna i loro
voti significativi, e con ciò si
stabilisce, qualche volta dopo secoli, un giudizio pienamente
fondato e che il progredire del tempo non
può invalidare. Si vede quindi che la gloria delle
opere è assicurata, infallibile. Occorre un
concorso di circostanze esterne ed un azzardo
perchè l’autore arrivi alla gloria durante
la vita; il caso sarà tanto più raro quanto più il
genere delle sue opere sarà difficile ed
elevato. Perciò Seneca ha detto (Ep. 79), in un
linguaggio incomparabile, che la gloria
segue tanto infallantemente il merito quanto
l’ombra il corpo, benchè essa cammini, come
l’ombra, ora davanti ed ora di dietro. Dopo
aver sviluppato questa idea egli aggiunge:
«Ancorchè l’invidia imponesse silenzio su di te
a tutti i viventi verrà chi giudicherà senza odio, senza
amore;» questo passo ci mostra nel
tempo stesso che l’arte di soffocare
malignamente i meriti col silenzio e con una finta
ignoranza, allo scopo di nascondere al
pubblico ciò che è buono a profitto di ciò che è
cattivo, è stata già messa in pratica dalla
canaglia fin dall’epoca di Seneca, come lo si fa
dalla canaglia ai nostri giorni, e che all’una
e all’altra è l’invidia
che chiude la bocca.
D’ordinario la gloria è tanto più tardiva
quanto più sarà durevole, perocchè tutto ciò
che è squisito matura adagio. La gloria
chiamata ad esser eterna è pari alla quercia che
cresce lentamente dal seme; la gloria
facile, effimera somiglia alle piante annuali, rapide a
crescere; in quanto poi alla gloria falsa
essa è come quelle cattive erbaccie che nascono a
vista d’occhio e che si cerca in tutta
fretta di estirpare. E questo perchè quanto più un uomo
appartiene alla posterità, o con altre
parole all’umanità intiera in generale, tanto più è
straniero alla sua epoca; perocchè ciò che
egli crea non è destinato specialmente a questa
come tale, ma come parte dell’umanità
collettiva; perciò queste opere non essendo tinte del
color locale del loro tempo, succede ben di
sovente che i contemporanei le lascino passare
inosservate. Ciò che costoro apprezzano
sono piuttosto le opere che trattano delle cose
fuggevoli del giorno, o che servono al capriccio
del momento; queste appartengono loro
completamente, vivono e muoiono con essi.
Così la storia dell’arte e della letteratura
c’insegna generalmente che le più alte
produzioni della mente umana sono state accolte, di
regola, con disfavore e sono rimaste in
abbandono disdegnate fino al giorno in cui spiriti
elevati, attratti da esse, hanno
riconosciuto il loro valore ed hanno assegnato loro una
considerazione che da quel momento
conservarono costantemente. In ultima analisi tutto
questo ha fondamento sul fatto che ciascuno
non può realmente comprendere ed apprezzare
se non quanto gli è omogeneo. Ora
l’omogeneo per l’uomo d’ingegno limitato si è ciò che è
limitato; per l’uomo triviale ciò che è
triviale; per una mente vasta ciò che è vasto, e per
l’insensato l’assurdo; quello che ciascuno
preferisce è l’opera sua propria, essendo cosa
della stessa natura.
Già il vecchio Epicarmo, il poeta favoloso,
cantava così: «Non è cosa ammirabile
ch’io parli così, e che un simile piaccia
al suo simile, e gli sembri esser nato bello;
imperocchè il cane par cosa bellissima al
cane, ed il bue al bue, l’asino all’asino sembra una
maraviglia, il porco al porco». Val bene la
pena di tradurre questi versi, affinchè quanto
esprimono non sia perduto per nessuno25.
Lo stesso braccio più vigoroso quando
lancia un corpo leggero, non può comunicargli
abbastanza moto perchè vadi lontano e
colpisca fortemente; il corpo cadrà inerte da vicino
perchè, mancando di massa materiale
propria, non può ricevere forza dall’esterno; tale sarà
la sorte dei pensieri grandi e belli, dei
capolavori del genio, quando, per esser compresi, non
incontrano che cervelli piccoli, teste
deboli o balzane. Ecco quanto i saggi di tutti i tempi
hanno ad una voce e senza posa deplorato.
Gesù, figlio di Sirach, per esempio dice: «Chi
parla ad uno stolto parla ad un addormentato; quando ha
finito di parlare l’altro
domanda: che hai?» — In Amleto: «Un discorso sagace dorme nell’orecchio di
uno
sciocco». — Goethe a sua volta: «La parola più
felice perde il suo valore quando chi
l’ascolta ha l’orecchio di traverso». Ed
anche: «Tu non puoi agire, tutto sta inerte (ottuso);
non te ne affliggere! Il sasso gettato
nella palude non fa cerchî».
Ecco Lichtenberg: «Quando una testa ed un libro urtandosi danno
un suono fesso,
dipende ciò sempre dal libro?» Lo
stesso autore disse altrove: «Tali
opere sono specchi;
quando vi si mira una scimmia non possono riflettere le
sembianze d’un apostolo».
Riportiamo pure il bello e toccante lamento
del vecchio papà Gellert, che ben lo
merita: «Quante volte le migliori qualità
trovano scarsi ammiratori, e quante volte la
maggior parte degli uomini prende il
cattivo per buono! È questo un male che si vede ogni
giorno. Ma come evitare tale pestilenza?
Dubito che questa calamità possa esser bandita dal
mondo. Non vi sarebbe a tal uopo che un
solo mezzo sulla terra, ma è infinitamente
difficile: che cioè i matti diventassero
savi. Ma che! Ciò non sarà mai. Essi non conoscono
il valore delle cose, giudicano cogli
occhi, non colla ragione. Lodano costantemente ciò che
è vile perchè non hanno mai conosciuto il
buono.»
A questa incapacità intellettuale degli
uomini la quale fa che, come disse Goethe, sia
meno raro veder nascere un’opera eminente
che non di vederla conosciuta ed apprezzata,
viene ad aggiungersi ancora la loro
perversità morale che si manifesta coll’invidia.
Perocchè colla gloria che si acquista,
havvi un uomo di più che si leva sopra gli altri della
sua specie; costoro sono dunque abbassati
altrettanto, di modo che ogni merito straordinario
ottiene la sua gloria a spese di coloro che
non hanno meriti: «Quando
noi rendiamo onore
agli altri dobbiamo abbassar noi stessi», scrive
Goethe (W. O. Divan).
Ecco ciò che spiega perchè, non appena
appare un’opera superiore, di qual genere
non importa, tutte le innumerevoli
mediocrità fanno alleanza, e congiurano per impedirle
che sia conosciuta e per soffocarla se è
possibile. Loro tacita parola d’ordine si è: «abbasso
il merito». Coloro stessi che hanno meriti e che sono
già al possesso della lor parte di
gloria, non vedono volentieri sorgere una
gloria novella di cui lo splendore diminuirà
d’altrettanto lo splendore della gloria
loro. Goethe stesso ha detto: «Se per nascere avessi
atteso che mi si dasse la vita, non sarei
ancora di questo mondo; potete ben comprenderlo
vedendo come si arrabattano coloro che, pur
di parer qualche cosa, mi rinnegherebbero
volentieri».
Sicchè, mentre l’onore trova molto di sovente
giudici retti, mentre l’invidia non lo
attacca e lo si accorda anzi ad ognuno per
antecipazione od a credenza, la gloria, tutto al
contrario, deve esser conquistata con seria
lotta, a dispetto dell’invidia, ed è un tribunale di
giudici decisamente sfavorevoli che decreta
la palma. Possiamo e vogliamo divider l’onore
con tutti, ma la gloria acquistata da un
altro diminuisce la nostra o ce ne rende la conquista
più penosa. Inoltre la difficoltà
d’arrivare alla gloria colle opere è in ragione inversa del
numero d’individui di cui si compone il
pubblico dedicatosi ad esse, e ciò per motivi facili
a comprendere. Sicchè la fatica è più
grande per le opere che hanno per iscopo l’istruire che
non per quelle che son fatte solo per
dilettare. Per i lavori di filosofia la difficoltà è ancora
più grande perchè l’insegnamento che
promettono, dubbio da una parte, senza profitto
materiale dall’altra, s’indirizza, fin da
bel principio, ad un pubblico di concorrenti.
Da quanto dicemmo sulle difficoltà di
giungere alla gloria deriva che il mondo
vedrebbe nascere molto poche opere
immortali, od anche nessuna, se coloro che possono
produrne non lo facessero per amore stesso
di queste opere, per loro propria soddisfazione,
e se avessero bisogno dello stimolante
della gloria. Anzi, chiunque può produrre il buono
ed il vero, e fuggire il male, sfiderà
l’opinione delle masse e dei loro organi, dunque li
disprezzerà. Perciò si è fatto giustamente
osservare, da Osorio fra gli altri (De
gloria), che
la gloria fugge davanti coloro che la
cercano e segue coloro che non se ne curano, perchè i
primi si piegano al gusto dei loro
contemporanei, mentre gli altri lo affrontano.
Tanto è difficile acquistar la gloria
quanto è poi facile conservarla. Anche su ciò essa
è in opposizione coll’onore. Questo è
accordato a tutti, anche a credito, e basta saperlo
conservare. Ma l’affare è arduo perchè una
sola azione vituperevole lo fa perdere
irrevocabilmente. Al contrario la gloria
non può realmente esser mai perduta, perocchè
l’azione o l’opera che l’ha data resta
sempre compita, e la gloria ne va sempre all’autore
quand’anche questi non aggiungesse nuovi
meriti a quelli già acquistati. Se nondimeno essa
si estingue, se l’autore le sopravvive,
vuol dire che si trattava di gloria falsa, vale a dire non
meritata; essa proveniva da una valutazione
esagerata e momentanea del merito; era una
gloria del genere di quella di Hegel, di
quella gloria che Lichtenberg descrive, dicendo che
era stata «proclamata a suono di tromba da una
brigata di amici e di discepoli e ripercossa
dall’eco dei cervelli vuoti; ma come devono ridere i posteri
quando un giorno, battendo
alla porta di questi castelli di parole smaglianti, di
questi avanzi incantevoli d’una moda
svanita, di queste stanze di convenzioni finite, troveranno
tutto, assolutamente tutto vuoto, e
non un pensiero che risponda con fiducia: ENTRATE».
In conclusione, la gloria è fondata su ciò
che un uomo è in confronto degli altri. È
dunque in essenza qualche cosa di relativo,
e non può quindi avere che un valore relativo.
Essa sparirebbe totalmente se gli altri
divenissero ciò che è già l’uomo celebre. Una cosa
non può avere un valore assoluto se non se
conservando il suo prezzo in ogni circostanza;
nel caso presente ciò che avrà un valore
assoluto sarà dunque ciò che un uomo è per sè
stesso direttamente: ecco per conseguenza
la cosa che costituirà necessariamente il valore e
la felicità d’un gran cuore e d’una gran
mente. Ciò che v’ha di prezioso invero non è la
gloria, ma il meritarsela. Le condizioni
che ne rendono degni sono, per così dire, la
sostanza; la gloria non è che l’accidente;
questa agisce sull’uomo celebre come sintomo
esterno che viene a confermare a’ suoi
occhi l’alta stima ch’egli ha di sè stesso; si potrebbe
dire che, simile alla luce che non diviene
visibile se non riflessa da un corpo, ogni mente
superiore non acquista la piena coscienza
di sè che colla gloria. Ma il sintomo istesso non è
infallibile, visto che esiste pure gloria
senza merito, e merito senza gloria. Su questo
argomento disse Lessing in modo graziosissimo:
«Vi sono uomini celebri,
ve ne sono che
meriterebbero di esserlo». Sarebbe invero
un’esistenza ben miserabile quella il cui valore o
svilimento dipendesse da ciò che essa
appare agli occhi altrui, e tale sarebbe la vita
dell’eroe e dell’uomo di genio se il prezzo
della loro esistenza consistesse nella gloria, vale
a dire nell’approvazione altrui. Ogni
individuo vive ed esiste prima di tutto per suo proprio
conto, di conseguenza principalmente in sè
e per sè stesso. Quello che un uomo è, non ne
importa il come, lo è a bella prima e sopra
tutto in sè stesso; se, così considerato, il valore
ne è minimo vuol dire che esso è pure
minimo considerato in generale. L’immagine invece
del nostro essere, quale si riflette nella
testa degli altri uomini, è qualche cosa di secondario,
di derivato, di eventuale, non riferendosi
che molto indirettamente all’originale. Inoltre le
teste delle masse sono un locale troppo
miserabile perchè la vera felicità vi possa trovare il
suo posto. Non vi si può trovare che una felicità
chimerica. Quale ibrida società non si vede
riunita in questo tempio della gloria
universale! Capitani, ministri, ciarlatani, espilatori,
ballerini, cantanti, milionarî ed ebrei:
precisamente così; i meriti di questa gente sono molto
più sinceramente apprezzati, trovano molto
maggior sentita stima che non i
meriti
intellettuali, sopra tutto quelli d’ordine
superiore, che non ottengono dalla grande
maggioranza che una stima sulla parola. Dal
punto di vista eudemonologico la gloria non è
che il boccone più raro e più squisito
presentato al nostro orgoglio ed alla nostra vanità. Ma
si trova una straordinaria soprabbondanza
d’orgoglio e di vanità presso la maggior parte
degli uomini benchè queste due condizioni
sieno dissimulate; e fors’anco le s’incontra in
più alto grado presso coloro che possedono,
non importa a qual titolo, diritti alla gloria, e
che più di sovente devono portare ben a
lungo nell’animo la coscienza incerta del loro alto
valore, prima d’aver occasione di metterlo
alla prova e di farlo poi conoscere; fino allora
essi hanno il sentimento di subire una
secreta ingiustizia26. In
generale, e come dicemmo in
principio del capitolo, il prezzo annesso
all’opinione è del tutto sproporzionato e fuor di
ragione, a tal punto che Hobbes ha potuto dire
in termini molto energici ma giustissimi:
«Ogni
piacere dell’animo, ogni soddisfazione viene dal poter avere, mettendosi a
confronto
cogli altri, un’alta opinione di sè stesso. (De
Cive, I, 5)». Così si spiega il prezzo
grandissimo che si annette alla gloria, e i
sacrifizî che si fa nella sola speranza di arrivarvi
un giorno: «La fama è lo sprone che spinge le menti
superiori (ultima debolezza delle
anime nobili) a sdegnare i piaceri ed a consacrare la loro
vita al lavoro».
Come anche:
«Quanto
è faticoso l’arrampicarsi su quelle cime ove brilla il tempio della fama».
Perciò la più vanitosa di tutte le nazioni
ha sempre in bocca la parola «gloria» e la
considera come il motore delle grandi
azioni e delle grandi opere. Solo, siccome la gloria
non è incontestabilmente che il semplice
eco, l’immagine, l’ombra, il sintomo del merito, e
siccome in ogni caso ciò che si ammira deve
valere più dell’ammirazione, ne segue che
quello che rende veramente felice non sta
nella gloria ma in ciò che ce la procura, nel
merito stesso, o, per parlare più
esattamente nel carattere e nelle facoltà che fondano il
merito sia nell’ordine morale, sia
nell’ordine intellettuale. Perocchè ciò che un uomo può
essere di più eccellente, è necessariamente
per lui stesso che deve esserlo; quanto del suo
avere si riflette nella testa degli altri,
quanto egli vale nella loro opinione non è per lui che
accessorio e d’un interesse subordinato.
Per conseguenza colui che non fa che meritare la
gloria, quand’anche non la ottenga, possede
ampiamente la cosa principale ed ha di che
consolarsi se gli manca l’accessorio, vale
a dire la gloria stessa. Ciò che rende l’uomo
degno d’invidia non è l’esser tenuto per
grande da quel pubblico così incapace di giudicare
e di sovente così cieco, ma è l’esser
grande; e neppur si è felicità suprema vedere il proprio
nome passar alla posterità, bensì produrre
pensieri che meritino di esser raccolti e meditati
in ogni epoca. Ecco quanto non può esser
tolto «των ἐφ́ ημῖν»; il
resto è «τον οὔκ ἐφ́
ημῖν».
Quando invece l’ammirazione stessa è
l’oggetto principale, si è il soggetto che non ne
è degno. Tale infatti è il caso della falsa
gloria, vale a dire della gloria non meritata. Chi la
possede deve contentarsene per ogni suo
pasto, poichè ei non ha quelle qualità di cui questa
gloria non dovrebbe esser che il sintomo,
il semplice riflesso. Ma tal gloria gli verrà molto
di sovente a noia: giunge finalmente il
momento in cui a dispetto dell’illusione sul proprio
conto che la vanità gli procura, ei sarà
preso dalle vertigini su quelle altezze per cui non è
fatto, od anche si risveglierà in lui un
vago sospetto di non essere che di bronzo dorato;
allora è preso dal timore di essere
conosciuto ed umiliato come lo merita, sopratutto quando
già può legger sulla fronte dei saggi il
giudizio dei posteri. Ei rassomiglia ad un uomo che
possede una eredità in virtù d’un
testamento falso.
Il rimbombo della gloria vera, di quella
gloria che vivrà a traverso i tempi che
verranno, non arriva mai alle orecchie di
chi ne è l’oggetto, e nondimeno lo si vede felice.
Egli è che sono le facoltà eminenti a cui
deve la gloria, l’agio di poterle svolgere, cioè di
agire in conformità della propria natura,
il poter occuparsi degli oggetti che ama o che lo
dilettano, egli è tutto ciò che lo rende
felice; e solo in tali condizioni sono create le opere
che condurranno alla gloria. Si è dunque la
sua anima grande, si è la ricchezza della sua
intelligenza, l’impronta della quale nelle
sue opere costringerà all’ammirazione le età
future, sono queste cose che formano la
base della sua felicità; vi si aggiungono ancora i
suoi pensieri la cui meditazione sarà
soggetto di studio e sorgente di delizia ai più nobili
spiriti attraverso secoli innumerevoli. Aver
meritato la gloria, ecco ciò che ne costituisce il
valore e nel tempo istesso la propria
ricompensa. Che lavori chiamati a gloria immortale
l’abbiano qualche volta già ottenuta dai
contemporanei, è tal fatto dovuto a circostanze
fortuite e che non ha grande importanza.
Perocchè gli uomini mancano ordinariamente di
giudizio proprio, e sopra tutto non hanno
le facoltà volute per apprezzare le produzioni di
un ordine superiore e difficile; perciò
essi seguono sempre su queste materie l’autorità
altrui, e la gloria suprema è accordata di
pura fiducia da novantanove ammiratori su cento.
Per questo l’approvazione dei
contemporanei, per quanto numerose sieno le voci loro, ha un
prezzo assai basso per il pensatore; questi
vi distingue solo l’eco di qualche voce che non è
ella stessa che un effetto del momento. Un
virtuoso si sentirebbe molto lusingato dal plauso
approvatore del pubblico se sapesse che,
salvo uno o due individui, l’uditorio è composto
affatto da sordi, i quali per dissimulare
scambievolmente la loro infermità, applaudiscono a
tutta forza non appena vedono muover le
mani la sola persona che ha le orecchie sane? Che
sarebbe dunque s’egli sapesse pure che i
capi della claque sono stati
spesso comprati per
procurare il più splendido successo al più
infelice raschiatore di violino! Questo ci spiega
perchè la gloria contemporanea subisca così
di rado la metamorfosi in gloria immortale:
d’Alembert espone la stessa idea nella sua
magnifica descrizione del tempio della gloria
letteraria: «L’interno del tempio non è abitato che
dai morti che non vi erano mentre
vivevano, e da pochi viventi che sono messi alla porta,
nella maggior parte, non appena
hanno cessato di vivere».
Strada facendo possiam dire che elevare un
monumento ad un uomo ancora in vita è
lo stesso che dichiarare che su quanto lo
concerne non si ha fidanza nella posterità. Quando
ad onta di tutto un uomo arriva durante la
vita ad una gloria che le generazioni future
confermeranno, ciò non succederà mai se non
in età avanzata; v’ha bene qualche eccezione
a questa regola in favore degli artisti e
dei poeti, ma molto di rado per i filosofi. I ritratti di
uomini celebri per le loro opere, fatti
generalmente in un’epoca in cui la loro celebrità era
già stabilita, confermano la regola
precedente; essi ce li presentano ordinariamente vecchi e
canuti, sopratutto i filosofi. Tuttavia dal
punto di vista eudemonologico la cosa è
perfettamente giustificata. Aver gloria e
gioventù in una volta sarebbe troppo per un
mortale; la nostra esistenza è così povera
che i suoi beni devono essere ripartiti con più
risparmio. La gioventù possede abbastanza
ricchezze sue proprie; essa può tenersene paga.
Si è nella vecchiezza, quando i piaceri e
le gioie sono morte, come gli alberi durante la
fredda stagione, che l’albero della gloria
viene a germogliare molto a proposito, come
verdura d’inverno; si può anche paragonare
la gloria a quelle pere tardive che si sviluppano
nell’estate, ma che non sono mangiate che
d’inverno. Non havvi più bella consolazione per
il vegliardo che di vedere tutta la forza
de’ suoi giovani anni incorporarsi in opere che non
invecchieranno come la sua gioventù.
Esaminiamo ora più davvicino la strada che
conduce alla gloria colle scienze, essendo
queste maggiormente a nostra portata; a
loro riguardo potremo stabilire la regola seguente.
La superiorità intellettuale di cui fa
testimonianza la gloria scientifica si manifesta sempre
per una combinazione nuova di certi dati.
Questi possono essere di specie assai differenti,
ma la gloria annessa alla loro combinazione
sarà tanto più grande e più estesa quanto più
essi stessi saranno più generalmente
conosciuti e più accessibili a tutti. Se questi dati sono,
per esempio, cifre, linee curve, questioni
speciali di fisica, di zoologia, di botanica o di
anatomia, passi corrotti di antichi autori,
iscrizioni quasi cancellate o di cui ci manca
l’alfabeto, o punti oscuri della storia, in
tutti questi casi la gloria che si acquisterà nel
combinarli giudiziosamente non si estenderà
più lontano della conoscenza stessa di tali dati
e per conseguenza non oltrepasserà il
cerchio d’un piccolo numero di uomini che
d’ordinario vivono ritirati, e che sono
gelosi della gloria nella loro speciale professione. Se
invece i dati sono di tale specie che tutto
il mondo conosce, per esempio sulle facoltà
essenziali ed universali della mente o del
cuore umano, oppure sulle forze naturali la cui
azione succede costantemente sotto i nostri
occhi, od anche sull’andamento, noto a tutti,
della natura in generale, allora la gloria
di averli messi maggiormente in luce con una
combinazione nuova, importante ed evidente,
si spargerà col tempo quasi da per tutto fra
l’umanità civilizzata. Perocchè se i dati
sono accessibili a tutti, lo sarà pure in generale la
loro combinazione. Nondimeno la gloria
starà sempre in rapporto colle difficoltà che
saranno da superare per conquistarla.
Infatti quanto più gli uomini, a cui i dati sono
famigliari, saranno numerosi, tanto più
sarà difficile combinare questi dati in modo nuovo e
giusto ad un tempo, poichè una infinità di
menti vi si saranno già provate ed avranno
esaurito ogni possibile risultato. In
cambio i dati inaccessibili al pubblico volgare, la
conoscenza dei quali non si acquista che
con lunghe e faticose ricerche, ammetteranno
ancora ben di sovente una nuova
combinazione; studiandoli con mente fredda e con sano
criterio, si può con facilità aver la sorte
di arrivare a cose inaspettate e tuttavia razionali. Ma
la gloria così ottenuta avrà, presso a
poco, per limite il cerchio stesso della conoscenza di
questi dati. Perocchè la soluzione dei
problemi di siffatta natura esige per verità molto
lavoro e molto studio; d’altra parte i dati
per i problemi della prima specie, con cui si può
acquistare precisamente la gloria più alta
e più vasta, sono da tutto il mondo conosciuti
senza sforzo; ma se basta poca fatica per
conoscerli, occorrerà tanto più talento e fors’anche
il genio per combinarli. Ora non v’ha
lavoro che, per valore proprio o per quello che gli si
attribuisce, possa sostenere il confronto
col talento o col genio.
Da tutto ciò risulta che coloro i quali si
sanno dotati di una ragione solida e di un
raziocinio giusto, senza aver pertanto il
sentimento di possedere un’intelligenza fuori
dell’ordinario, non devono indietreggiare
di fronte a lunghi studi ed a faticose ricerche; essi
potranno con ciò levarsi sopra quegli
uomini alla cui portata stanno i dati universalmente
noti, e raggiungere quelle regioni
discoste, che sono accessibili solamente all’attività del
dotto. Imperocchè quivi il numero dei
concorrenti è infinitamente più piccolo, ed una mente
un po’ superiore troverà ben presto
l’occasione di una combinazione nuova e razionale; il
merito della sua scoperta potrà pure aver
per base la difficoltà di giungere alla conoscenza
dei dati. Ma la moltitudine sentirà
solamente da lontano lo strepito degli applausi che questi
lavori procureranno all’autore da parte de’
suoi confratelli di scienza, soli conoscitori nella
materia. Seguitando fino alla fine la
strada qui indicata, si può anche determinare il punto in
cui i dati, per l’estrema difficoltà di
acquistarli, bastano a sè stessi, senza bisogno di
combinazione, per stabilire una gloria.
Tali sono i viaggi in paesi molto lontani e poco
visitati: così si diviene celebri per
quello che si è veduto, non per quello che si è pensato.
Questo sistema ha pure un grande vantaggio,
il poter cioè comunicare agli altri più
facilmente le cose vedute che non quelle
pensate, mentre il pubblico stesso comprende le
prime meglio delle seconde; si trova pure
in tal modo un numero più grande di lettori.
Perocchè, come disse già Asmus: «Dopo un lungo viaggio si hanno molte cose
da
raccontare».
Ma ne risulta pure che quando si fa
conoscenza personale cogli uomini celebri per
siffatte gesta, si ricorda spesso
l’osservazione di Orazio:
Coelum, non animum,
mutant qui trans mare corrunt
(Cangiano
cielo, ma non cangiano l’animo coloro che vanno al di là dei mari).
(Ep.
I, 11, v. 27).
Su quanto concerne l’uomo dotato di alte
facoltà, dirò che solamente chi può osare di
darsi alla soluzione di quei grandi e
difficili problemi che trattano di cose generali ed
universali, farà bene da una parte di
allargare quanto più sia possibile il proprio orizzonte,
ma d’altra parte dovrà estenderlo
egualmente in tutte le direzioni, senza abbandonarsi
troppo addentro in qualcuna di quelle
regioni speciali note solo a pochi; in altre parole, non
andar troppo avanti nei dettagli speciali
d’una sola scienza, e molto meno ancora far della
micrologia in qualsivoglia ramo della
scienza. Perchè non occorre che egli si dedichi a cose
difficilmente accessibili per innalzarsi
sopra la folla dei concorrenti; ciò che è alla portata di
tutti gli fornirà precisamente materia a
risultati nuovi, importanti e veri. Ma anzi per questo
il suo merito potrà esser apprezzato da
tutti coloro che conoscono i dati, vale a dire dalla
maggior parte del genere umano. Ecco la
ragione dell’immensa differenza tra la gloria
serbata ai poeti ed ai filosofi e quella
accessibile agli eruditi in fisica, chimica, anatomia,
geologia, zoologia, filologia, storia ed
altre scienze.
________________
CAPITOLO V.
Parenesi e massime.
Qui meno che altrove ho la pretesa d’esser
completo, che altrimenti dovrei ripetere le
numerose ed in parte eccellenti regole per
la vita date dai pensatori di tutte le epoche da
Teognide e dal pseudo-Salomone27 fino a La Rochefoucault, e non potrei
evitare di ripetere
molte cose volgari, notissime, già
ampiamente trattate. Ho pure rinunziato quasi
interamente a qualunque ordine sistematico.
Che il lettore se ne consoli, perocchè in
materie siffatte un trattato completo e
ordinato rigorosamente sarebbe riuscito senza dubbio
noiosissimo. Ho messo giù quello che mi è
venuto in mente alla bella prima, quello che mi
parve degno d’esser comunicato, e quello
che, per quanto me ne ricordava, non era ancora
stato detto, od almeno non era stato detto
così completamente, e sotto questa forma; non
faccio dunque che spigolare nel vasto campo
ove altri ha già mietuto.
Tuttavia per mettere un po’ d’ordine nella
grande varietà d’opinioni e di consigli
relativi al mio soggetto, li classificherò
in massime generali ed in massime concernenti la
nostra condotta verso noi stessi da prima,
poi verso gli altri e finalmente di faccia
all’andamento delle cose ed alla sorte in
questo mondo.
1. Massime
generali.
1.° Considero regola suprema d’ogni
saggezza nella vita la proposizione espressa da
Aristotele nella Morale a Nicomaco (VII, 12):
«ὁ
φρονιμος το
αλυπον διωκει, ου
το
ἡδυ,» ciò che
si può tradurre: Il
saggio cerca l’assenza del dolore, non il piacere. La verità
di tale sentenza è basata sul fatto che
ogni piacere ed ogni felicità sono negativi per natura,
mentre è positivo il dolore. Ho svolta e provata
questa tesi nella mia opera principale, vol I,
§ 58. Voglio nondimeno spiegarla ancora con
un fatto d’osservazione giornaliera. Quando
il nostro corpo tutto intero è sano ed
intatto, salvo una piccola parte ferita o dolorosa, la
coscienza cessa dal sentire la salute del
tutto; l’attenzione si dirige interamente sul dolore
della parte lesa, ed il piacere,
determinato dal sentimento totale dell’esistenza, sparisce.
Similmente quando tutti i nostri affari
vanno a gonfie vele, salvo uno solo che riesce a
male, si è proprio questo, fosse pure di
minima importanza, che ci gira continuamente per il
cervello, si è su questo che si portano
sempre i nostri pensieri, e di rado su altre cose di
maggior rilievo che vanno a seconda dei nostri
desideri. In ambo i casi è lesa la volontà,
la
prima volta come si oggettiva nell’organismo,
la seconda negli sforzi dell’uomo; noi
vediamo nei due casi che il suo
soddisfacimento è sempre negativo, e che per conseguenza
non è provato direttamente dall’individuo
intero; tutto al più arriverà alla coscienza per
riflessione. Ciò che v’ha di positivo
invece si è l’impedimento della volontà, il quale si
manifesta pure direttamente. Ogni piacere
consiste nel sopprimere tale impedimento, nel
liberarsene, e non può esser quindi che di
breve durata.
Ecco dunque ov’è basata l’eccellente regola
d’Aristotele or ora citata, d’aver cioè da
dirigere la nostra attenzione non sulle
gioie e sui divertimenti della vita, ma sui mezzi di
sfuggire per quanto è possibile ai mali
innumerevoli di cui è seminata. Se questa via non
fosse la vera, l’aforismo di Voltaire: «La felicità non è che un sogno e il
dolore è reale»
sarebbe così falso come è giusto in realtà.
Però quando si vuole far il bilancio della propria
esistenza dal punto di vista eudemonologico
bisogna stabilire le partite non sui piaceri
gustati, ma sui mali a cui si potè
sottrarsi. Inoltre l’eudemonologia, vale a dire un trattato
sulla vita felice, deve cominciare
dall’insegnarci che il suo nome stesso è un eufemismo, e
che per «vita felice» bisogna intender solo
una «vita meno infelice», in poche parole
un’esistenza sopportabile. E infatti havvi
la vita non perchè se ne goda, ma perchè la si
subisca, perchè si soddisfi ai doveri che
impone; ciò che indicano molto bene le
espressioni: «degere vitam, vitam defungi» in
latino; «si scampa così28» in
italiano; «man
muss suchen
durchzukommen», «er
wird schon durch die Welt kommen» in
tedesco, ed altre
simili. Sì! è una consolazione per la tarda
età l’aver dietro di sè una vita laboriosa. L’uomo
più felice è dunque colui che conduce
un’esistenza senza dolori troppo forti sia nel morale,
sia nel fisico, e non colui che ebbe per
sua parte le gioie più vive ed i piaceri più grandi.
Voler misurare su questi la felicità di un’esistenza
si è ricorrere ad una scala falsa. Perocchè
i piaceri sono e rimangono negativi:
credere che essi rendano felici è una illusione che
l’invidia tien viva e colla quale punisce
sè stessa. I dolori invece sono sentiti positivamente,
ed è la loro assenza che forma la scala
della felicità nella vita. Se ad uno stato libero dal
dolore viene ad aggiungersi ancora
l’assenza della noia, allora si raggiunge sulla terra la
felicità in ciò che v’ha di essenziale, perocchè
il resto non è più che una chimera. Ne segue
che non bisogna mai procurarsi piaceri a
prezzo di dolori, anzi nemmeno a prezzo della loro
sola minaccia, visto che sarebbe pagare
cose negative e chimeriche con cose positive e
reali. In cambio havvi vantaggio nel sacrificare i
piaceri allo scopo di evitare dolori.
Nell’uno e nell’altro caso è indifferente
che i dolori seguano o precedano i piaceri. Non
v’ha davvero maggior follia del voler
trasformare questo teatro di miserie in un luogo di
delizie, e dell’ andar cercando gioie e
piaceri in luogo di procurar di sfuggire alla maggior
somma possibile di dolori. Quanta gente per
altro non cade in tale follia! L’errore è
infinitamente più piccolo presso colui che,
con occhio troppo triste, considera questo
mondo come una specie d’inferno e non si
occupa se non di procurarsi una stanza a prova
di fuoco. Il pazzo corre dietro ai piaceri
della vita e non trova che disinganni; il saggio evita
i mali. Se ad onta de’ suoi sforzi non
raggiunge lo scopo, la colpa è del destino, non della
sua follia. Ma per poco che vi riesca non
avrà mai delusioni perchè i mali a cui sarà
sfuggito sono sempre reali. Nel caso stesso
in cui avesse fatto per evitarli un giro troppo
grande, od avesse sacrificato inutilmente
qualche piacere, egli in realtà nulla ha perduto
perocchè i piaceri sono chimerici, e
desolarsi per la perdita di essi sarebbe una meschinità o
piuttosto una ridicolaggine.
Disconoscendo tale verità in favore
dell’ottimismo, la sorgente di molte calamità è
aperta. Infatti, nei momenti in cui siamo
liberi da dolori, inquiete brame fanno brillare a’
nostri occhi le chimere d’una felicità che
non ha esistenza reale, e c’inducono ad andarne in
cerca; con ciò ci procuriamo il dolore che
è incontestabilmente reale. Allora rimpiangiamo
quello stato franco da dolori che abbiamo
perduto e che si trova ormai dietro di noi come un
paradiso che abbiamo lasciato scappare, e
vorremmo inutilmente che non fosse accaduto
quanto noi stessi abbiamo fatto succedere.
Pare così che un cattivo demonio sia
costantemente occupato a toglierci coi
miraggi ingannatori dei nostri desideri, da quello
stato senza dolore, che è vera e suprema
felicità. Il giovane s’immagina che quel mondo
ch’egli non ha ancora veduto esista perchè
lo si goda, che sia la sede d’una felicità positiva
la quale sfugge solo a coloro che non hanno
l’abilità di saperla afferrare. Lo fortificano
nella sua credenza i romanzi e le poesie, e
quell’ipocrisia che governa il mondo, sempre e
dovunque, colle apparenze esterne. Ritornerò
fra breve su tale argomento. D’ora innanzi la
sua vita sarà una caccia alla felicità
positiva, caccia condotta più o meno prudentemente; e
questa felicità positiva è calcolata, ad un
tal titolo, esser composta di piaceri positivi. In
quanto ai pericoli a cui si rischia di
esporsi, ebbene, che fare? bisogna bene adattarvisi!
Questa caccia trascina in cerca di
selvaggina che non esiste in alcun modo, e finisce
d’ordinario col condurre ad una infelicità
troppo reale e positiva. Dolori, sofferenze,
malattie, perdite, passioni, affanni,
povertà, disonore e mille altre pene, ecco sotto quali
forme si presenta il risultato di essa. Il
disinganno giunge sempre troppo tardi. Se invece si
obbedisce alla regola da noi qui riportata,
se si stabilisce il piano della propria vita in modo
da evitare i dolori, vale a dire di
allontanare il bisogno, le malattie ed ogni altro affanno,
allora lo scopo è reale; si potrà così
ottener qualche cosa, e tanto più facilmente perchè il
piano sarà stato meno disturbato dalla ricerca
di quella chimera che è la felicità positiva.
Ciò si accorda con quello che Goethe, nelle
affinità elettive, fa dire a Mittler il quale è
sempre occupato della felicità degli altri:
«Chi vuole liberarsi da
un male sa sempre cosa
vuole: invece chi cerca quello che non ha è cieco come colui
che è affetto da cateratta».
Queste parole ricordano il bell’adagio: «il meglio è nemico del bene» Da tutto
ciò si può
anche dedurre l’idea fondamentale del
cinismo, come l’ho esposta nella mia grande opera,
tomo II, capitolo 16°. Cosa è infatti che
portava i cinici a respingere tutti i piaceri, se non il
pensiero dei dolori che tosto o tardi li
accompagnano? Evitare questi sembrava loro molto
più importante che non procurarsi i primi.
Profondamente penetrati e convinti della
condizione negativa di ogni piacere e
positiva di ogni dolore, essi dirigevano ogni loro
sforzo allo scopo di sfuggire ai mali, e
per ciò giudicavano necessario di respingere
interamente ed intenzionalmente i piaceri
che consideravano insidie tese per mettere l’uomo
in balia del dolore.
Certamente noi nasciamo tutti in Arcadia,
come dice Schiller, vale a dire cominciamo
la nostra vita pieni di aspirazioni alla
felicità, al piacere, e coltiviamo la folle speranza di
giungervi. Ma, regola generale, arriva ben
presto il destino il quale ci afferra rozzamente e
c’insegna che niente è nostro, che tutto
è suo, nel senso
che egli ha diritto incontestabile
non solamente su quanto possediamo ed
acquistiamo, sopra moglie e figli, ma anche sopra
le nostre braccia e le nostre gambe, sopra
i nostri occhi e le nostre orecchie, e perfino sopra
quel naso che portiamo in mezzo alla
faccia. In qualunque caso non passa gran tempo che
l’esperienza verrà a farci comprendere che
felicità e piacere sono una «fata
morgana» la
quale, visibile solo da lontano, sparisce
quando la si avvicina, ma che in cambio pena e
dolore hanno una realtà, e che si
presentano immediatamente e per sè stessi senza prestarsi
ad illusioni o ad aspettazioni lusinghiere.
Se la lezione porta i suoi frutti, allora cessiamo
dal correr dietro alla felicità ed al
piacere, e ci mettiamo piuttosto a chiudere, per quanto è
possibile, ogni accesso al dolore ed agli
affanni. Conosciamo così che ciò che il mondo può
offrirci di migliore si è un’esistenza
senza pene, tranquilla, sopportabile e ad una tal vita
limiteremo le nostre esigenze allo scopo di
poterne godere più sicuramente. Perocchè per
non diventare infelicissimi, il mezzo più
certo si è di non domandare d’esser felicissimo. È
quanto riconobbe Merck, l’amico di
giovinezza di Goethe, quando scrisse: «Questa
brutta
pretesa alla felicità, sopra tutto nella misura in cui la
sogniamo, rovina tutto in questo
basso mondo. Chi può liberarsene non domandando che ciò che
ha davanti a sè, potrà farsi
strada nella mischia» (Corrispondenza di Merck). È
dunque cosa prudente abbassare ad
una misura assai modesta le proprie pretese
ai piaceri, alle ricchezze, al grado, agli onori,
ecc., perocchè le disgrazie più grandi sono
attirate su di noi precisamente da essi, da questa
lotta per la felicità, per lo splendore e
per il piacere. Ma una tale condotta è già saggia ed
accorta per ciò solo che è molto facile
essere estremamente infelice, e che è invece, non
difficile, ma affatto impossibile essere
molto felice. Il cantore della saggezza ha detto con
ragione: «Colui che ama un’aurea mediocrità, sta lontano, sagace, dal
tetto frusto per
sordidezza, sta lontano, prudente, dai palazzi che destano
invidia. Più forte è scosso dai
venti il pino gigante: e le alte torri cadono con più
fragore: le folgori poi colpiscono le
cime più elevate» (Orazio,
Libro
II, ode 10).
Colui il quale essendosi imbevuto degli
insegnamenti della mia filosofia, sa che la
nostra esistenza è una cosa che dovrebbe meglio
non essere e che la suprema saggezza
consiste nel negarla, e nel francarsene,
costui non fonderà mai grandi speranze sopra
soggetto, nè situazione alcuna, non
agognerà con passione ad una cosa qualunque in questo
mondo, e non alzerà grandi lamenti in
seguito a qualche delusione, ma conoscerà la verità
di ciò che disse Platone (Rep. X, 604): «Nessuna cosa umana è degna di considerazione», e
l’altra verità enunciata dal poeta
persiano: «Hai tu perduto
l’imperio del mondo? Non te ne
affliggere; chè non è niente. Hai tu acquistato l’imperio
del mondo? Non te ne rallegrare;
chè non e niente. Dolore e felicità, tutto passa, passa nel
mondo (nel tempo) e non è niente»
(Anwari Soheili). (Si veda il motto del Gulistan di Saadi,
trad. ted. di Graf.).
Ciò che aumenta particolarmente la
difficoltà di assimilare idee tanto saggie, si è
quell’ipocrisia di cui ho parlato più
sopra, e nessuna cosa sarebbe più utile che lo svelarla
per tempo alla gioventù. La magnificenza è
quasi sempre cosa di pura apparenza, come le
decorazioni dei teatri; le manca l’essenza.
Così e i vascelli ornati a festa, e i colpi di
cannone, e le illuminazioni, e le musiche,
e i gridi d’allegrezza, ecc., tutto ciò è l’insegna, la
mostra, il geroglifico della gioia; ma il più delle volte la
gioia non c’è: essa sola ha mancato
d’intervenire alla festa. Laddove è
presente in realtà, la gioia arriva e non si fa invitare, nè
annunciare, viene da sè senza cerimonie,
introducendosi in silenzio, spesso per motivi i più
insignificanti e i più futili, nelle
occasioni più comuni, qualche volta anche in circostanze
che sono tutt’altro che brillanti o
gloriose. Come l’oro in Australia, essa si trova
sparpagliata qua e là secondo il capriccio
del caso, senza regola e senza legge, più di
sovente in fina polvere, molto di raro in
grandi masse. Ma pure, di tutto le manifestazioni di
cui abbiamo or ora parlato, solo scopo si è
il far credere agli altri che nella festa c’è la gioia,
e solo intento il produrre l’illusione nel
cervello altrui.
Come della gioia, così della tristezza. Con
quale andamento melanconico s’avanza
questo lungo e lento convoglio! La fila
delle vetture è interminabile. Ma guardate un po’
nell’interno: esse sono tutte vuote, e il
defunto non è realmente condotto al cimitero che dai
cocchieri della città. O immagine parlante
dell’amicizia e della considerazione a questo
mondo! Ecco quello che io chiamo falsità,
vanità ed ipocrisia dell’umana condotta. Noi
abbiamo anche un esempio nei ricevimenti
solenni con numerosi invitati in abito da festa;
questi sono l’insegna della nobile e
dell’alta società: ma in luogo suo si avrà malessere,
affettazione, riservatezza, noia: perocchè
ove son molti convitati v’ha sempre della
canaglia, fossero pure tutti i petti
coperti da decorazioni. Infatti la vera buona società è, da
per tutto e necessariamente, assai
ristretta. In generale le feste, le solennità portano sempre
con sè qualche cosa che dà un suono vuoto,
o per dir meglio un suono falso, precisamente
perchè contrastano colla miseria e colla
povertà della nostra esistenza e perchè ogni
confronto fa meglio spiccare la verità. Ma
visto dal di fuori tutto ciò produce bell’effetto, e
così è raggiunto lo scopo. Chamfort dice in
modo graziosissimo: «La
società, i circoli, i
saloni, ciò che si chiama il mondo, sono una meschina
commedia, un povero melodramma
senza interesse che si sostiene un momento per i meccanismi,
i costumi, e le decorazioni.»
Le accademie e le cattedre di filosofia
sono egualmente l’insegna, il simulacro esterno della
saggezza; ma il più delle volte essa non è
della festa, e, a cercarla, la si troverebbe in ben
altri luoghi. Lo sbatacchiare delle
campane, i vestimenti sacerdotali, il contegno pietoso, le
smorfie da bacchettone, sono la mostra, la
falsa apparenza della devozione, e così di
seguito. Ed è per ciò che a questo mondo
tutte le cose possono esser dette nocciuole vuote;
la mandorla è rara per sè stessa, e più
raramente ancora è posta nel suo guscio. Occorre
cercarla in tutt’altra parte, e d’ordinario
non la si trova che per caso.
2.° Quando si volesse valutare la
condizione di un uomo dal punto di vista della sua
felicità, bisognerebbe prender notizie non
su ciò che lo diverte, ma su ciò che lo attrista,
perocchè quanto più saranno insignificanti
per sè stesse le cose che lo affliggono, tanto più
l’uomo sarà felice; occorre un certo stato
di benessere per divenir sensibile a bagattelle che
nella sventura non si sentirebbero affatto.
3.° Bisogna guardarsi dallo stabilire il
benessere della propria vita sopra una base
larga coll’elevare alte pretese alla felicità:
posto sopra un tale fondamento esso crolla più
facilmente, perocchè in allora fa nascere
senza fallo molte sventure. L’edificio della felicità
si comporta dunque sotto tale rapporto alla
rovescia degli altri che sono tanto più solidi
quanto più la loro base è grande. Tenere le
pretese il più basso possibile in proporzione
colle proprie risorse d’ogni specie, ecco
la via più sicura per evitare grandi guai.
In generale è una follia delle più grandi e
delle più diffuse il prendere, in qualunque
maniera si sia, vaste disposizioni per la
propria esistenza. Perocchè prima di tutto, per farlo,
si conta sopra una durata della vita piena
ed intera, a cui invece arrivano molto pochi.
Inoltre quand’anche si vivesse tanto a
lungo, l’esistenza sarebbe sempre troppo corta in
relazione ai piani prestabiliti; la loro
esecuzione reclama sempre più tempo che non si
avesse supposto; essi sono talmente
soggetti, come tutte le cose umane, alle vicende della
sorte e ad ostacoli d’ogni natura, che si
può ben di rado condurli a compimento. Finalmente
anche allora che si è riusciti a conseguire
tutto quello che si desiderava, si scorge che si è
trascurato di tener conto delle
modificazioni che il tempo produce in noi
stessi; non si è
riflettuto che, nè per creare nè per
godere, le nostre facoltà non restano invariabili
nell’intera vita. Ne risulta che lavoriamo
sovente per acquistare cose che, una volta
ottenute, non si trovano più adatte alla
nostra taglia; succede pure che nei lavori preparatori
di un’opera impieghiamo anni che nel
frattempo ci tolgono le forze necessarie per arrivare a
buon fine. Medesimamente le ricchezze
acquistate a prezzo di lunghe fatiche e di numerosi
pericoli non possono più esserci utili, e
troviamo di aver lavorato per gli altri; ed avviene
ancora che non siamo più in caso di
occupare un posto ottenuto finalmente dopo avervi
aspirato ed ambito per lunghi anni. Le cose
sono giunte troppo tardi per noi, o, viceversa,
siamo noi giunti troppo tardi per esse,
sopratutto allorchè si tratta di opere o di produzioni;
il gusto dell’epoca ha cangiato; si è
maturata una nuova generazione che non prende alcun
interesse a queste materie; oppure altri ci
ha preceduto per strade più corte, e così di
seguito. Quanto abbiamo esposto in questo
terzo paragrafo era già stato compendiato da
Orazio nei versi:
Quid aeternis minorem
Consiliis animum
fatigas?
(L.
II, O. 11, v. 11 e 12).
(Perchè stanchi una mente debole con eterni
progetti?)
Tale errore così comune è determinato
dall’inevitabile illusione ottica degli occhi
dello spirito, illusione che ci fa apparire
la vita come senza fine, o come troppo corta
secondo che la vediamo dall’ingresso o dal
termine della nostra carriera. Essa però ha il suo
buon lato: senza di lei produrremmo
difficilmente qualche cosa di grande.
Ma in generale ci succede nella vita ciò
che succede al viaggiatore: a misura che egli
avanza, gli oggetti prendono forme
differenti da quelle che mostravano da lungi e si
modificano per così dire di mano in mano
che va loro vicino. Così avviene dei nostri
desideri. Troviamo spesso ben altra cosa,
qualche volta anche meglio che non cerchiamo; di
sovente pure incontriamo quanto desideriamo
per tutt’altra via di quella inutilmente
percorsa fino allora. Certe volte laddove
crediamo trovare un piacere, una gioia, una
soddisfazione, in loro luogo ci si presenta
un ammaestramento, una spiegazione, una
cognizione, vale a dire un bene duraturo e
reale che si offre a noi invece di un bene
passaggero e fallace. Si è un tale pensiero
che corre, come base fondamentale, a traverso
tutto il Wilhelm Meister, romanzo
intellettuale, superiore precisamente per ciò a tutti gli
altri, anche a quelli di Walter Scott, che
sono tutti solamente opere morali, ossia che non
osservano la natura umana che dal lato
della volontà! Nel Flauto
magico, geroglifico
grottesco, ma espressivo e molto
significante, ci si presenta egualmente questo stesso
pensiero fondamentale simbolizzato a grandi
e larghi tratti come quelli delle decorazioni
teatrali; il simbolo sarebbe anzi perfetto
se nello scioglimento Tamino, invece d’essere
spronato dal desío di posseder Tamina, non
domandasse e non ottenesse che l’iniziazione
nel tempio della Saggezza; in cambio
Papageno, l’opposto necessario di Tamino, otterrebbe
la sua Papagena. Gli uomini superiori e
veramente nobili assimilano subito questo
ammaestramento del destino e vi si adattano
con sommessione e con riconoscenza:
comprendono che a questo mondo si può bene
trovare istruzione, ma non felicità; si
abituano a cambiare le speranze colle
cognizioni; ne vanno contenti e dicono alla fin fine
col Petrarca
Altro
diletto che ’mparar non provo.
Possono anche arrivare al punto di non dar
seguito ai loro desideri ed alle loro aspirazioni
che in apparenza per così dire, e per
ischerzo, mentre in realtà e nella serietà del loro
interno non attendono che all’istruzione;
ciò che li adorna di una tinta pensosa, geniale e
nobile. In questo senso si può dire che succede
di noi come degli alchimisti, i quali mentre
non cercavano che oro, hanno trovato la
polvere da fuoco, la porcellana, le medicine e
perfino molte leggi naturali.
2.
Circa la nostra condotta verso noi stessi.
4.° Il manovale che aiuta a fabbricare un
edifizio, non ne conosce il progetto, o non
l’ha sempre sotto gli occhi; tale è pure la
posizione dell’uomo mentre è occupato a dividere
uno per uno i giorni e le ore della sua
esistenza in rapporto all’insieme della sua vita ed al
carattere fondamentale di essa. Quanto più
questo carattere sarà nobile, considerevole,
espressivo e individuale, tanto più sarà
necessario e benefico per l’individuo il gettare di
tempo in tempo uno sguardo sul piano
prestabilito della propria vita. È vero che per ciò ei
deve aver fatto già un primo passo col «conosci te stesso»: deve
dunque sapere ciò che
vuole realmente, principalmente e prima
d’ogni altra cosa; deve conoscere quello che è
essenziale alla sua felicità, e quello che
viene solo in seconda o terza linea; deve rendersi
conto sommariamente della sua vocazione,
della parte che ha da rappresentare nel mondo, e
de’ suoi rapporti colla gente. Se tutto ciò
sarà importante ed elevato, allora l’aspetto del
piano prestabilito della sua vita gli darà
forza, lo sosterrà, lo innalzerà più che qualunque
altra cosa; questo esame lo incoraggierà al
lavoro e lo terrà lontano da quei sentieri che
potrebbero fargli smarrire la dritta via.
Solamente quando arriva sopra un’altura il
viaggiatore abbraccia a colpo d’occhio e
riconosce l’insieme del cammino percorso,
colle sue svolte e co’ suoi giri; così pure non è
che al termine d’un periodo della nostra
esistenza, e qualche volta sul finir della vita, che
conosciamo il vero nesso delle nostre azioni,
dei nostri lavori, e delle nostre produzioni, il
loro preciso legame, il loro concatenamento
e il loro valore. Infatti fino a che siamo
immersi nella nostra attività noi operiamo
solo secondo le proprietà inconcusse del nostro
carattere, sotto l’influenza dei motivi e
nella misura delle nostre facoltà, vale a dire per
assoluta necessità; noi non facciamo in un
dato momento che quello che in quel momento
ci sembra giusto e conveniente. Solamente
in seguito ci sarà permesso d’apprezzare il
risultato, e lo sguardo gettato sulle cose
passate ci darà contezza del come
e
del perchè. Per
questo quando compiamo le più grandi
azioni, o quando diamo al mondo opere immortali,
non abbiamo coscienza della loro vera
natura: esse non ci sembrano che quello che v’ha di
più appropriato al nostro scopo d’allora, e
di meglio corrispondente alle nostre intenzioni;
non riceviamo altra impressione se non
quella d’aver fatto precisamente ciò che bisognava
fare in quel momento; non è che più tardi
che il nostro carattere e le nostre facoltà spiccano
in piena luce da quell’insieme e dal suo
concatenamento; per mezzo dei dettagli vediamo
allora come abbiamo preso la sola vera fra
tante strade false quasi per ispirazione e guidati
dal nostro genio. Tutto quanto abbiamo
detto or ora è vero e in teoria e in pratica, e si
applica egualmente ai fatti inversi, vale a
dire al male ed alla falsità.
5.° Un punto di molta importanza per la
saggezza nella vita si è la proporzione con
cui dobbiamo dividere la nostra attenzione
tra il presente e l’avvenire affinchè l’uno non
porti nocumento all’altro. V’hanno molte
persone che vivono troppo nel presente: le
frivole; altre troppo nell’avvenire: le
timorose e le inquiete. Di rado si conserva la giusta
misura. Quegli uomini che, mossi dai loro
desideri o dalle loro speranze, vivono
unicamente nell’avvenire, gli occhi sempre
diretti in avanti, che corrono con impazienza
incontro al futuro, perocchè, pensano,
questo è per portar loro fra breve la vera felicità,
mentre intanto lasciano passare il
presente, che non curano, senza goderlo: costoro
somigliano a quegli asini a cui in Italia
si fa sollecitare il passo per mezzo d’un fascetto di
fieno attaccato ad un bastone davanti la
testa: essi vedono il fieno davanti e sempre vicino
ed hanno ognora la speranza d’arrivarvi.
Tali persone infatti s’ingannano da sè stesse per
tutta la loro esistenza non vivendo
perpetuamente che ad
interim fino alla morte. Perciò
invece di occuparci incessantemente ed
esclusivamente di piani e di progetti per l’avvenire,
o, viceversa, abbandonarci a rimpiangere il
passato, dovremmo non dimenticar mai che il
presente solo è reale e certo, e che
l’avvenire, al contrario, si presenta quasi sempre ben
diverso da quello che pensavamo, come pure
fu del passato; ciò che in conclusione fa che
avvenire e passato hanno molto minor
importanza che non sembri. Perocchè la lontananza
che impiccolisce gli oggetti per l’occhio,
li ingrandisce per il pensiero. Il presente solo è
vero ed effettivo; esso è il tempo realmente
impiegato, e su di esso esclusivamente è
fondata la nostra esistenza. Perciò deve
meritar sempre agli occhi nostri benevole
accoglienza; noi dovremmo gustare, con la
piena coscienza del suo valore, ogni ora
sopportabile e libera da affanni e da dolori
attuali, vale a dire non turbarla col viso
rattristato dalle speranze cadute per lo
passato o dalle apprensioni per l’avvenire. Si può
dare stoltezza più grande del respingere
una buona ora presente o di guastarla malamente
coll’inquietudine dell’avvenire o coi
dispiaceri del passato? Diamo il tempo dovuto alle
cure, se non al pentimento; ma poi, in
quanto ai fatti compiuti, bisogna dirsi:
«Abbandoniamo,
benchè a malincuore, tutto ciò che è passato all’obblio; è necessario
soffocar l’ira nel nostro seno.» E in
quanto all’avvenire: «Tutto
ciò sta sulle ginocchia
degli dei»29. In cambio circa il presente è
bene pensare come Seneca: Singulas
dies,
singulas vitas puta (Considera ciascun giorno
come una vita separata), e rendersi questo
solo tempo reale tanto gradevole quanto
meglio è possibile.
I soli mali futuri che devono con ragione
preoccuparci sono quelli il cui arrivo ed il
cui momento di arrivo sono certi. Ma v’ha
ben poca gente che si trovi in questo caso,
perocchè i mali sono o semplicemente possibili
o tutt’al più verosimili, oppure sono certi,
ma è incerto il tempo del loro arrivo. Ad
allarmarsi per queste due specie di mali non si
avrebbe un solo istante di riposo. In
conseguenza, allo scopo di non perdere la tranquillità
della nostra vita per mali la cui esistenza
o la cui epoca sono ignote, conviene abituarci a
riguardare gli uni come se non dovessero
mai arrivare, e gli altri come se non dovessero di
certo arrivare in un tempo vicino.
Ma quanto più la paura ci lascia in riposo,
tanto più siamo agitati da desideri, da
voglie sfrenate e da strane pretese. La
canzone, così nota, di Goethe: «Io
ho collocato le mie
brame nel nulla» significa, in fondo, che solo quando si
sarà liberato da tutte le sue pretese
e si sarà ridotto all’esistenza tale quale
è realmente nuda e spoglia, l’uomo potrà acquistare
quella calma di spirito che è la base
dell’umana felicità, perocchè tale calma è
indispensabile per godere del presente
della vita, e dell’avvenire. A tal uopo dovremmo
pure ricordarci che il giorno d’oggi non viene che una sola volta,
e più mai. Ma invece noi
c’immaginiamo che ritornerà domani: però domani è un altro giorno che
anch’esso non
viene che una volta. Dimentichiamo che
ciascun giorno è una porzione integrante, dunque
irreparabile, della vita, e lo consideriamo
come contenuto nella vita, nello stesso modo che
gl’individui sono contenuti nella nozione
dell’insieme. Di più apprezzeremmo e
gusteremmo molto meglio il presente se nei
giorni di benessere e di salute conoscessimo a
qual punto, durante la malattia o
l’afflizione, il ricordo ci presenta come infinitamente
invidiabile ogni ora libera da dolori o da
privazioni; che questa ci appare quale un paradiso
perduto, od un amico disconosciuto. Ma al
contrario noi viviamo i nostri bei giorni senza
prestar loro alcuna attenzione, e solamente
quando arrivano i cattivi vorremmo richiamare
gli altri. Lasciamo passare da canto, senza
goderne e senza accordar loro un sorriso, mille
ore serene e piacevoli, e più tardi nel
tempo triste, portiamo verso di esse le nostre vane
aspirazioni. In luogo di condurci così,
dovremmo rendere omaggio a quelle attualità
sopportabili, fossero pure le più comuni,
che lasciamo fuggire con tanta indifferenza, che
fors’anche respingiamo con impazienza; dovremmo
ricordarci sempre che questo presente
precipita ad ogni momento in quell’apoteosi
del passato in cui ormai, risplendente della
luce delle cose non periture, è conservato
dalla memoria, per ripresentarsi agli occhi nostri
come l’oggetto della nostra più ardente
aspirazione allorquando, sopratutto nelle ore
d’affanno, il ricordo viene ad alzare il
velo dinanzi le cose che furono.
6.° Il limitarsi rende felici. Quanto più
il nostro cerchio di visione, di azione e di
contatto è ristretto, tanto più siamo
felici; e più esso è vasto, più ci troviamo tormentati ed
inquieti. Perocchè insieme ad esso
aumentano e si moltiplicano le pene, i desideri e le
apprensioni. Ed è per tale motivo che i
ciechi non sono tanto infelici come potremmo
crederlo a priori; è facile convincersene all’aspetto della
calma dolce, quasi allegra, delle
loro sembianze. Questa regola ci spiega
anche in parte perchè la seconda metà della nostra
vita sia più triste della prima. Infatti
nel corso dell’esistenza, l’orizzonte delle nostre vedute
e delle nostre relazioni va allargandosi.
Nell’infanzia esso è limitato ai dintorni più prossimi
ed alle relazioni più strette;
nell’adolescenza si estende in modo considerevole; nell’età
virile abbraccia tutto il corso della
nostra vita ed arriva anche a relazioni lontanissime,
perfino con Stati e con popoli diversi;
nella vecchiezza comprende le generazioni future.
Ogni limitazione invece, anche nelle cose
dello spirito, giova alla nostra felicità. Perocchè
quanto meno sarà eccitata la volontà, tanto
meno vi saranno dolori, e noi sappiamo che il
dolore è positivo e la felicità
semplicemente negativa. Il limitare il cerchio d’azione toglie
alla volontà le occasioni esterne
d’eccitamento; il limitare lo spirito, le occasioni interne.
Quest’ultimo ha solo l’inconveniente di
aprir l’accesso alla noia che diviene sorgente
indiretta d’innumerevoli patimenti perchè
si ricorre a qualunque mezzo per scacciarla; si
mette a prova infatti e riunioni, e
divertimenti, e il giuoco, e il lusso, e la crapula, e mille
altre cose; da ciò danni, rovine e
disgrazie d’ogni specie. Difficilis
in otio quies (è difficile
la pace nell’ozio). In cambio, per
dimostrare quanto il limitarsi esternamente giovi alla
felicità umana, per quello, bene inteso,
che può giovare una cosa qualunque, non abbiamo
che da ricordarci come il solo genere di
poesia che intende a dipingere le genti felici,
l’idillio, le rappresenti sempre poste
essenzialmente in una condizione ed in un ambiente
dei più ristretti. Questo stesso sentimento
produce pure il piacere che troviamo in ciò che si
chiama quadri di genere. Per conseguenza
avremo felicità nella maggior possibile
semplicità delle nostre relazioni ed anche nella uniformità del genere
di vita fino a che una
tale uniformità non ci dia in braccio alla
noia: a questa condizione sopporteremo più
facilmente la vita ed il suo peso
inseparabile; l’esistenza scorrerà, come un ruscello, senza
tempeste e senza vortici.
7.° Quello che importa, in ultima analisi,
per la nostra felicità o per la nostra infelicità
si è ciò che riempie ed occupa la
coscienza. Ogni lavoro puramente intellettuale apporterà
in totalità alla mente capace di
dedicarvisi risorse maggiori che non le apporterebbe la vita
reale colle sue alternative costanti di
buono e cattivo esito, colle sue scosse e co’ suoi
tormenti. È vero d’altronde che ciò esige
disposizioni di spirito non comuni. Conviene
inoltre osservare che da una parte
l’attività esterna della vita ci distrae e ci allontana dallo
studio, e toglie allo spirito la
tranquillità ed il raccoglimento all’uopo necessari, e che
d’altra parte l’occupazione continua dello
spirito ci rende più o meno incapaci di star in
mezzo all’andamento ed al tumulto della
vita reale; è dunque saggia cosa sospendere una
tale occupazione quando una circostanza
qualunque necessita un’attività pratica ed
energica.
8.° Per vivere con prudenza perfetta e
per trarre dalla propria esperienza tutti
gl’insegnamenti ch’essa contiene, è necessario
portarsi spesso indietro col pensiero e
ricapitolare ciò che nella vita si è
veduto, fatto, appreso e sentito nello stesso tempo;
bisogna pure confrontare il proprio
giudizio d’altre volte colle idee, progetti ed aspirazioni
attuali, col loro risultato, e colla
soddisfazione dataci da tale risultato. L’esperienza ci serve
così da maestro speciale che viene a darci
lezione privatamente. La si può anche
considerare come il testo, costituendone il
commento le cognizioni e il raziocinio. Molto
raziocinio e copiose cognizioni
somiglierebbero a quei libri le cui pagine presentano due
linee di testo e quaranta di chiose. Molta
esperienza accompagnata da poco raziocinio e da
scarso sapere ricorda quelle edizioni di
Deux-Ponts che non hanno annotazioni e che
lasciano così molti passi del testo
inintelligibili.
Si è a tali precetti che si riferisce la
massima di Pitagora, di passare in rivista cioè, la
sera, prima di addormentarsi, quanto si ha
fatto nella giornata. L’uomo che se ne va nel
tumulto degli affari e dei piaceri senza
mai rinvangare il suo passato, e che si contenta di
aggomitolare la matassa della vita, perde
ogni ragione chiara delle cose; il suo spirito
diventa un caos, e ne’ suoi pensieri
s’infiltra una certa confusione di cui fa testimonianza il
suo modo di conversare sconnesso, a scatti,
a frammenti, e, per così dire, sottilmente
sminuzzato. Tale stato sarà messo tanto più
in rilievo quanto più sarà grande l’agitazione
esterna, la somma delle impressioni, e
quanto più sarà piccola l’attività interna dello spirito.
Qui osserviamo pure come dopo un certo
periodo di tempo da che le relazioni e le
circostanze che agirono su noi sono
sparite, non possiamo più far ritornare e rivivere la
disposizione e la sensazione prodotte già
in noi; ma ciò che possiamo benissimo ricordarci
si è le nostre manifestazioni in
quell’occasione. Ora queste sono il risultato, l’espressione e
la misura delle sensazioni e dello stato
che esse produssero in noi. La memoria quindi, o la
carta dovrebbero conservare con ogni cura
le traccie delle epoche importanti della nostra
vita. Perciò tener un giornale sarà cosa
molto utile.
9.° Bastare a sè stesso, esser per sè
stesso tutto in tutto, e poter dire: «Omnia
mea
mecum porto» (porto con me tutte le cose mie), ecco
certamente la condizione più
favorevole per la nostra felicità; perciò
non si saprà mai ripeter abbastanza la massima di
Aristotele: «La felicità è per coloro che bastano a se
stessi» (Mor. ad Eud. 7, 2). (In fondo
è lo stesso pensiero, presentato in modo
graziosissimo, che esprime la sentenza di Chamfort
messa per epigrafe a questo trattato: «La felicità non è cosa facile a conquistare: è difficile
trovarla in noi, affatto impossibile poi trovarla altrove»).
Perocchè da una parte non si può
contare con sicurezza che sopra sè stessi;
e d’altra parte le fatiche e gl’inconvenienti, i
pericoli e gli affanni che la società porta
seco, sono innumerevoli ed inevitabili.
Non v’ha strada che più ci allontani dalla
felicità della vita alla
grande, della vita dei
conviti e dei festini, di quella vita che
gl’inglesi chiamano high
life, perocchè cercando di
trasformare la nostra miserabile esistenza
in una successione continua di gioie, di piaceri e
di divertimenti, non si può mancare
d’incontrar il disinganno, senza tener conto delle
menzogne reciproche di cui si fa scambio in
quel mondo e che ne sono l’accompagnamento
obbligato30.
Ed anzitutto qualunque società esige
necessariamente un adattamento reciproco, un
temperamento: quindi quanto più sarà
numerosa, tanto più diverrà scipita. Non si può esser
veramente sè stesso, se non quando si è solo;
dunque chi non ama la solitudine non ama la
libertà, perchè non si è liberi che essendo
soli. Ogni società ha per compagna inseparabile la
riservatezza e reclama sacrifizî che
costano tanto più cari quanto più la propria individualità
è spiccata. Per conseguenza ognuno fuggirà,
sopporterà o cercherà la solitudine in
proporzione esatta del valore del suo io.
Perocchè è proprio qui che il povero sente tutta la
sua povertà, ed una gran mente tutta la sua
grandezza; in breve, ciascuno vi si pesa al suo
giusto valore. Inoltre un uomo è tanto più
essenzialmente e necessariamente isolato quanto
più alto è il posto che occupa nel libro
genealogico della natura. Allora per un tal uomo si è
una vera gioia che l’isolamento fisico sia
in rapporto col suo isolamento intellettuale: se ciò
non può essere il frequente avvicinarglisi
di persone eterogenee turba, gli diviene
fors’anche funesto, perocchè gli toglie il
suo io, e non ha niente da offrirgli in compenso.
Di più mentre la natura ha messo la più
grande dissomiglianza, nel morale come
nell’intelletto, fra gli uomini, la società
non ne tiene alcun conto, li fa tutti eguali, o
piuttosto alla diversità naturale sostituisce
distinzioni e gradi artificiali di condizione e di
rango, che stanno sempre diametralmente in
opposizione con quell’ordine scalare stabilito
dalla natura. Coloro che la natura ha posto
in basso, si trovano molto bene vantaggiati da un
tale accomodamento sociale, ma il piccolo
numero degli individui che stanno in alto non ci
ha il suo tornaconto; perciò costoro si
tolgono ordinariamente dalla società: d’onde risulta
che non appena questa diventa numerosa vi
predomina la volgarità. Ciò che agli animi
grandi fa venir a noia la società si è
l’uguaglianza dei diritti e delle pretese che ne deriva, di
fronte alla disparità delle facoltà e delle
produzioni (sociali) degli altri. La così detta buona
società apprezza i meriti di qualsivoglia
specie, salvo i meriti intellettuali; questi anzi non
vi entrano che di contrabbando. Essa impone
l’obbligo di dimostrare una pazienza senza
limiti per ogni sciocchezza, per ogni
follia, per ogni assurdità, per ogni stupidezza; i meriti
personali invece devono mendicare il loro
perdono o nascondersi, perchè la superiorità
intellettuale, senza concorso della
volontà, offende colla sua sola esistenza. Inoltre, questa
pretesa buona società non ha solo
l’inconveniente di metterci in contatto con gente che non
possiamo approvare nè amare, ma di più non
ci permette d’esser noi stessi, d’esser quali
conviene alla nostra natura; essa ci
obbliga piuttosto, allo scopo di metterci allo stesso
diapason degli altri, a raggrinzarci per
così dire, se non a difformarci addirittura. Discorsi
sanamente spiritosi o motti arguti non
convengono che ad una società di persone d’ingegno;
nella società ordinaria essi sono
cordialmente detestati, perocchè per piacere alle persone
che la compongono bisogna essere
assolutamente triviali e dappoco. In tali riunioni si deve,
con penosa annegazione di sè stessi,
abbandonare tre quarti della propria personalità per
assomigliarsi agli altri. È vero che in
cambio si guadagna tutti costoro, ma quanto più si ha
di valore in sè tanto più si scorgerà che
il guadagno non copre la perdita e che il contratto
finisce a nostro danno, perocchè le persone
generalmente sono insolvibili, vale a dire non
hanno cosa alcuna nel loro magazzino che
possa indennizzarci delle noie, delle fatiche e dei
fastidi che esse procurano, e del
sacrificio di sè che impongono; d’onde risulta che quasi
tutta la società è di tale qualità che chi
la baratta colla solitudine fa un affare eccellente. A
ciò si aggiunge che la società, allo scopo
di supplire alla superiorità vera, vale a dire
all’intellettuale, che essa non vuol
sopportare e che è rara, ha adottato senza motivo una
superiorità falsa, convenzionale, fondata
su leggi arbitrarie, una superiorità che si propaga
per tradizione fra le classi alte, e che
nello stesso tempo si cambia come una parola
d’ordine: vogliam dire il bon ton «fashionableness».
Tuttavia quando succede che siffatta
specie di superiorità entra in collisione
colla superiorità genuina, la meschinità di essa non
tarda a mostrarsi. Inoltre «quand le bon
ton arrive, le bon sens se ritire»31.
In tesi generale non si può essere in
perfetto unisono che con sè stessi; non si può
esserlo coll’amico, non si può esserlo con
la donna amata, perchè le differenze
dell’individualità e dell’umore producono
sempre una dissonanza, sia pur piccolissima.
Così la pace del cuore vera e profonda, e
la perfetta tranquillità dello spirito, beni supremi
sulla terra dopo la salute, non si trovano
che nella solitudine, e non saranno permanenti se
non nell’isolamento assoluto. Allora,
quando l’io è grande e ricco, si gusta la condizione
più felice che sia possibile trovare in
questo povero mondo. Sì! diciamolo apertamente: per
quanto strettamente l’amicizia, l’amore e
il matrimonio uniscano gli umani, non si vuol
bene, interamente e di buona fede, che a sè
stessi, o tutt’al più al proprio figlio. Meno si
avrà bisogno, in seguito a condizioni
oggettive e soggettive, di mettersi a contatto cogli
uomini, meglio ci troveremo. La solitudine,
l’isolamento permettono d’abbracciare d’un
solo sguardo tutti i propri mali, od anche
di non provarli in un colpo solo; la società invece
è insidiosa;
essa
nasconde mali immensi, di sovente irreparabili, dietro un’apparenza di
passatempi, di conversazioni, di
divertimenti di società, e d’altre simili cose. Sarebbe per
gli uomini uno studio importante l’imparar
di buon’ora a sopportare la solitudine, questa
sorgente di felicità e di quiete
intellettuale.
Da quanto abbiamo esposto deriva che ha una
parte molto migliore colui che non
conta che su sè stesso e che può in tutto
esser tutto a sè stesso. Cicerone ha detto «Colui che
basta a se stesso e che mette in sè solo tutte le cose sue
non può non esser felicissimo»
(Paradox.
II). Inoltre più un uomo ha in sè,
meno gli altri possono essergli qualche cosa. Si
è un tal sentimento, di poter esser
sufficiente a sè stesso, che impedisce all’uomo di vaglia e
ricco all’interno, di fare alla vita comune
quei grandi sacrifizî che essa esige, e molto meno
ancora di ricercarla a prezzo d’una
notevole annegazione di sè stesso. Si è il sentimento
opposto che rende gli uomini ordinari così
socievoli e così trattabili: infatti è loro più facile
sopportar gli altri che sè stessi. Notiamo
pure che ciò che ha un valore reale non è
apprezzato nel mondo, e che ciò che è
apprezzato non ha valore. Ne troviamo la prova e la
conseguenza nella vita ritirata d’ogni
persona di merito e di distinzione. Ne segue che sarà
per l’uomo eminente far atto positivo di
saggezza il limitare, se occorre, i bisogni, non fosse
altro per poter conservare ed estendere la
propria libertà, e il contentarsi del meno possibile
per la propria persona quando il contatto
cogli altri individui fosse inevitabile.
Ciò che d’altra parte rende gli uomini
sociabili si è che essi sono incapaci di
sopportare la solitudine e di sopportare sè
stessi quando sono soli. Ed è dal loro vuoto
interno e dalla stanchezza di sè stessi che
sono spinti a cercare la società, a correre paesi
stranieri e ad intraprendere viaggi
continuamente. Il loro spirito, mancando della forza
necessaria per comunicarsi un movimento
proprio, cerca di accrescersela col vino, e molti
così finiscono col divenire ubbriaconi. A
questo scopo essi hanno pure bisogno
dell’eccitamento continuo che viene dal di
fuori e specialmente di quello prodotto da
individui della loro specie, che è il più
energico fra tutti. In mancanza di tale irritazione
esterna il loro spirito si accascia sotto
il proprio peso e cade in grave letargia32. Si
potrebbe
dire egualmente che ciascuno di essi non è
che una piccola frazione dell’idea dell’umanità,
e che ha quindi bisogno di essere
addizionato con molti de’ suoi simili per costituire in
certo modo una coscienza umana intera;
invece l’uomo completo, l’uomo per
eccellenza,
non è una frazione, ma rappresenta una
unità intera e di conseguenza basta a sè stesso. Si
può, in questo senso, paragonare la società
ordinaria a quell’orchestra russa composta
esclusivamente di corni, nella quale ogni
stromento non dà che una nota; non è che colla
loro coincidenza precisa che si produce
l’armonia musicale. Infatti lo spirito della maggior
parte delle persone è monotono come quel
corno che non produce che un suono solo:
costoro sembrano in realtà non aver mai che
un solo e medesimo soggetto nella mente, ed
essere incapaci di contenerne un altro. Ciò
spiega dunque in una volta come succeda che
essi siano tanto nojosi e tanto sociabili,
e perchè vadino ben volentieri in gregge: «The
gregariousness of mankind». La monotonia della loro
propria natura è insopportabile a
ciascuno di essi: «Omnis stultitia laborat fastidio sui».
(Qualunque stupidezza opprime
colla nausea di sè stessa). Non è che uniti
e colla loro riunione che essi sono qualche cosa
precisamente come i sonatori di corno
russo. L’uomo intelligente invece può esser
paragonato ad un virtuoso che eseguisce da sè solo il suo
concerto, oppure anche ad un
pianoforte. Simile a questo, che è da per
sè una piccola orchestra, egli è un piccolo mondo,
e ciò che gli altri non sono che
nell’azione dell’insieme, ei lo presenta nell’unità d’una sola
coscienza. Come il pianoforte, ei non è una
parte della sinfonia, ma è fatto per l’a
solo e per
la solitudine; quando deve prender parte al
concerto cogli altri ciò non può essere che come
voce principale con accompagnamento, ancora
come il pianoforte, o per dare il tono nella
musica vocale, sempre come il pianoforte.
Chi ama andar di tempo in tempo nel mondo
potrà cavare dalla comparazione precedente
la regola che ciò che manca in qualità alle
persone con cui si è in relazione deve
esser supplito fino ad un certo punto dalla quantità.
La società di un solo uomo intelligente
potrà bastargli, ma se non trova che mercanzia di
qualità ordinaria sarà buona cosa averne in
abbondanza, perchè la varietà e l’azione
combinate producano qualche effetto, in
analogia coll’orchestra dei corni russi, già
ricordata: e che il cielo gli accordi la
pazienza di cui avrà bisogno!
Egli è ancora a questo vuoto interno ed a
questa nullità della gente che si deve
attribuire il fatto che quando gli uomini
di miglior stoffa si uniscono in vista di qualche
scopo nobile ed ideale, il risultato sarà
quasi sempre il seguente: si troverà qualche membro
di quella plebe dell’umanità che, simile agl’insetti
schifosi, pullula ed invade ogni cosa in
ogni luogo, sempre pronta ad impadronirsi
di tutto indistintamente per alleviare la propria
noja, o qualche volta la propria miseria, —
si troverà, dico, qualcuno che s’insinuerà
nell’assemblea, o vi entrerà a forza di
molestie, ed allora o distruggerà ben presto tutta
l’opera, oppure la modificherà al punto che
l’esito ne verrà presso a poco all’estremo
opposto dello scopo prefisso.
Si può ancora considerare la sociabilità
presso gli uomini come un mezzo per
scaldarsi reciprocamente lo spirito, analogo
al modo con cui si riscaldano scambievolmente
il corpo quando, nei grandi freddi, si
ammucchiano e si serrano gli uni contro gli altri. Ma
chi possede in sè molto calorico
intellettuale non ha bisogno di tali accumulamenti. Si
troverà nel 2° vol. di questa raccolta33, nel capitolo finale, un apologo
immaginato da me su
questo soggetto. Conseguenza di tutto ciò
si è che la sociabilità di ciascuno è in ragione
inversa del valore intellettuale; dire di
qualcuno: «Egli è «molto insociabile» significa
press’a poco: «Costui è un uomo dotato di
facoltà eminenti».
La solitudine offre all’uomo altolocato
intellettualmente due vantaggi: il primo
d’esser con sè, il secondo di non esser con
gli altri. Si apprezzerà grandemente quest’ultimo
riflettendo a tutto ciò che il commercio
col mondo porta seco in fatto di riservatezza
forzata, di tormenti, ed anche di pericoli.
«Ogni nostro male deriva
dal non poter esser
soli» ha detto La Bruyère. La sociabilità
appartiene ai caratteri pericolosi e perniciosi,
perocchè ci mette in contatto con individui
i quali in grande maggioranza sono moralmente
cattivi ed intellettualmente limitati o
pervertiti. L’uomo insociabile è colui che non ha
bisogno di siffatta gente. Aver abbastanza
in sè per poter fare a meno della società è già una
grande felicità, per ciò stesso che quasi
tutti i nostri mali derivano dal mondo, e perchè la
tranquillità dello spirito, che dopo la
salute forma l’elemento più essenziale del nostro
benessere, vi è messa in pericolo e non può
esistere senza lunghi periodi di solitudine. I
filosofi cinici rinunziarono ai beni d’ogni
specie per godere la felicità che procura la quiete
intellettuale: rinunziare alla società allo
scopo, di arrivare allo stesso risultato, si è scegliere
il mezzo più saggio. Bernardin de
Saint-Pierre dice con ragione ed in modo graziosissimo:
«La
dieta degli alimenti ci dà la salute del corpo, e quella degli uomini la
tranquillità
dell’anima». Perciò colui che si è assuefatto di
buon’ora alla solitudine, e che vi ha preso
gusto, possiede una miniera d’oro. Ma
questo non è dato a tutti. Perocchè nella stessa guisa
che la miseria, da prima, avvicina gli
uomini, così, più tardi allontanato il bisogno, vi è la
noja che li raccoglie. Senza questi due
motivi, ciascheduno resterebbe probabilmente in
disparte, non foss’altro perchè solo
nell’isolamento l’ambiente che ci circonda corrisponde
a quell’importanza esclusiva che ognuno
possede a’ suoi occhi, ma che l’andazzo
tumultuoso del mondo riduce a niente, visto
che ad ogni passo riceve una dolorosa
smentita. In questo senso la solitudine è
anzi lo stato naturale a ciascuno; essa lo rimette,
novello Adamo, nella condizione primitiva
di felicità, nella condizione appropriata alla sua
natura.
Sì! ma Adamo non aveva padre nè madre! Ed è
per questo, d’altra parte, che la
solitudine non è naturale all’uomo, poichè
al suo arrivo nel mondo ei non si trova solo, ma
in mezzo a parenti, a fratelli, a sorelle,
con altre parole in seno d’una vita in comune.
Per conseguenza l’amore della solitudine
non può esistere come inclinazione
primitiva; esso deve nascere come risultato
dell’esperienza e della riflessione, e prodursi
sempre in rapporto collo sviluppo della
forza intellettuale ed in proporzione col progredire
degli anni: ne segue che alla fin fine
l’istinto sociale d’ogni individuo sarà in rapporto
inverso dell’età sua. Il bambino strilla
dalla paura e si lamenta non appena è lasciato solo,
fosse pure per qualche momento. Per i
fanciulli il dover starsene soli è un severo castigo. I
giovani si uniscono volentieri fra loro;
non v’hanno che quelli dotati d’una natura più
nobile e d’uno spirito più elevato che
cercano già qualche volta la solitudine; nondimeno
passar soli tutta la giornata è loro ancora
difficile. Per l’uomo fatto la cosa è facile; ei può
rimanere a lungo isolato, e tanto più a
lungo quanto più progredisce nella vita. Al vecchio
poi, unico sopravvivente delle generazioni
sparite, morto da una parte alle gioje della vita, e
dall’altra ormai al di sopra di esse, la
solitudine è il vero suo elemento. Ma, in ogni
individuo considerato separatamente, i
progressi dell’inclinazione al ritiro ed all’isolamento
saranno sempre in ragione diretta del
valore intellettuale. Perocchè, come già dicemmo, non
è questa un’inclinazione puramente
naturale, provocata in modo diretto dalla necessità, è
piuttosto solamente l’effetto
dell’esperienza acquistata e meditata; vi si arriva soprattutto
dopo essersi bene convinti della miserabile
condizione morale ed intellettuale della maggior
parte degli uomini, e ciò che v’ha di
peggio in tale condizione si è che le imperfezioni
morali dell’individuo cospirano colle
imperfezioni intellettuali e si ajutano a vicenda; si
producono allora i fenomeni più schifosi
che rendono ripugnante, e fors’anco
insopportabile, il commercio colla grande
maggioranza degli uomini. Ecco perchè, sebbene
vi siano tante brutte cose a questo mondo,
la società è ancora più brutta: lo stesso Voltaire,
francese sociabile, si spinse fino a dire:
«La terra è coperta da gente
tale che non
meriterebbe nemmeno che le si rivolgesse la parola». Il
tenero Petrarca, che ha così
vivamente e con tanta costanza amato la
solitudine, ce ne spiega egualmente il perchè:
Cercato
ho sempre solitaria vita
(Le
rive il sanno, e le campagne, e i boschi),
Per
fuggir quest’ingegni storti e loschi
Che
la strada del ciel hanno smarrita.
Ei ci presenta gli stessi motivi nel suo
bel libro De vita
solitaria, che sembra aver
servito di modello a Zimmermann per la
celebre opera Della
solitudine. Chamfort, co’ suoi
modi sarcastici, esprime precisamente
questa origine secondaria e indiretta
dell’insociabilità quando scrive: «Si dice qualche volta di un uomo che vive
solo: Ei non
ama la società. Spesso è la stessa cosa come se si dicesse
d’un uomo che egli non ama il
passeggiare perchè non va a spasso volentieri la sera nella
foresta di Bondy». Saadi nel
Gulistan parla nel medesimo senso: «Da questo momento, prendendo congedo dal
mondo,
noi abbiamo seguito la via dell’isolamento, perocchè la
sicurezza sta nella solitudine».
Angelo Silesius, anima dolce e cristiana,
dice la stessa cosa nel suo linguaggio speciale e
affatto mistico: «Erode è un nemico, Giuseppe è la ragione
a cui Dio rivela in sogno (in
ispirito) il pericolo. Il mondo è Betleme, l’Egitto la solitudine:
fuggi, anima mia! fuggi, o tu
muori di dolore».
Egualmente
Giordano Bruno: «Tanti
uomini che in terra hanno voluto
gustare vita celeste, dissero ad una voce: ecce elongevi
fugiens et mansi in solitudine»
(ecco, m’allontanai fuggendo, e rimasi
nella solitudine). Saadi, il persiano, parlando di sè
nel Gulistan dice anche: «Stanco degli amici a Damasco mi ritirai
nel deserto vicino a
Gerusalemme per cercare la società degli animali». In
poche parole tutti coloro che
Prometeo ha fabbricato colla migliore
argilla si sono espressi nello stesso senso. Quali
piaceri infatti possono provare questi
esseri privilegiati nel commercio con creature colle
quali non possono aver relazioni per
stabilire una vita in comune se non per mezzo della
parte più bassa e più vile della loro
natura, vale a dire di tutto ciò che v’ha in essa di
volgare, di triviale, d’ignobile? Tali
individui ordinarî non potendosi levare all’altezza dei
primi, non hanno altra risorsa, come non si
prenderanno altro cómpito, se non quello di
abbassarli al loro livello. Da questo punto
di vista si è davvero un sentimento aristocratico
quello che alimenta l’inclinazione
all’isolamento ed alla solitudine. Tutti i cialtroni sono
tanto sociali da far pietà: in cambio, a
ciò solo si vede che un uomo è di qualità più nobile,
quando non trova alcun piacere cogli altri,
quando alla loro società preferisce ognor più la
solitudine, acquistando insensibilmente
coll’età la convinzione che salvo rare eccezioni non
v’ha scelta nel mondo tra l’isolamento e la
volgarità. Per quanto dura sembri, questa
massima è stata espressa da Angelo Silesius
stesso, ad onta di tutta la sua carità e tenerezza
cristiana: «La solitudine è penosa: però non esser
volgare, e tu potrai isolarti in qualunque
luogo».
Specialmente in quanto concerne gli spiriti
eminenti, è ben naturale che questi veri
educatori del genere umano provino anche
tanta poca inclinazione a mettersi di frequente in
rapporto cogli altri, quanta ne può sentire
il pedagogo ad unirsi ai giochi rumorosi della
schiera di fanciulli che lo contorna.
Perocchè, nati per guidare gli altri uomini sull’Oceano
dei loro errori verso la verità, per trarli
dall’abisso della loro rozzezza e della loro volgarità,
per innalzarli verso la luce della
civilizzazione e del progresso, essi devono, è vero, vivere
in mezzo a gente siffatta, ma senza però
appartenerle realmente; si sentono quindi fino dalla
giovinezza creature sensibilmente
differenti; ma in questo riguardo la convinzione ben
chiara non giunge loro che insensibilmente
a misura che vanno avanti cogli anni; allora
hanno cura di aggiungere la distanza fisica
alla distanza intellettuale che li separa dal resto
degli uomini, e vegliano perchè nessuno, a
meno che non sia più o meno affrancato dalla
volgarità generale, li accosti troppo da
vicino.
Da tutto ciò si deduce che l’amore della
solitudine non apparisce direttamente ed allo
stato d’istinto primitivo, ma che si
sviluppa indirettamente e progressivamente specie negli
spiriti eminenti, non senza dover vincere
l’inclinazione naturale alla socialità, ed anche
combattere all’occasione qualche
suggerimento mefistofelico: «Cessa
dal giocare col tuo
cordoglio che, pari ad un avoltojo, ti rode la vita: la più vile
compagnia ti fa sentire che sei
uomo con gli uomini.»
La solitudine è il retaggio delle menti
superiori; qualche volta succederà loro che se
ne rammarichino, ma la sceglieranno sempre
come il minore dei mali. Col progresso
dell’età nondimeno il sapere aude doventa in
questo riguardo sempre più facile ed
omogeneo; verso la sessantena
l’inclinazione alla solitudine arriva ad essere affatto
naturale, e quasi istintiva. Infatti tutto
si unisce allora per favorirla. Le forze che spingono
più gagliardamente alla socialità, cioè
l’amor delle donne e l’istinto sessuale, non agiscono
più a quel momento; anzi lo sparire del
sesso fa nascere nel vecchio una certa capacità di
bastare a sè stesso, che a poco a poco
assorbe totalmente l’inclinazione alla società. Si è
ormai ritornati in sè da mille illusioni e
da mille stoltezze; d’ordinario la vita d’azione è
cessata; non si ha più cosa alcuna da
aspettare, nessun piano o progetto da concepire; la
generazione a cui si appartiene realmente
non esiste più; attorniati da una razza straniera si
è di già oggettivamente ed essenzialmente
isolati. Con tutto ciò il cammino del tempo si è
accelerato, e lo si vorrebbe inoltre
impiegare per l’intelletto. Perocchè a quell’ora, ammesso
che la testa abbia conservato tutte le sue
forze, gli studi d’ogni sorta sono resi più che mai
facili ed interessanti dalla grande somma
di esperienza e di conoscenze acquistate, dalla
meditazione progressivamente più
approfondita di qualunque pensiero, come pure dalla
maggior attitudine all’esercizio di tutte
le facoltà intellettuali. Si vede chiaro in molte cose
che altra volta erano in certo modo
avviluppate da densa nebbia, si ottiene eccellenti
risultati, e si sente interamente la
propria superiorità. In seguito alla lunga esperienza si ha
cessato dall’aspettarsi gran cosa dagli
uomini, poichè, tutto considerato, essi non
guadagnano ad esser conosciuti più da
vicino; si sa piuttosto che, eccettuata qualche rara
probabilità favorevole, non s’incontreranno
nella natura umana se non esemplari molto
difettosi che è meglio non toccare. Non si
è più esposti alle illusioni ordinarie, si vede a
colpo d’occhio ciò che un uomo vale, e non
si proverà che molto di rado la voglia di entrare
in più intimi rapporti con lui. Infine,
quando nella vita solitaria si riconosce un’amica
d’infanzia, l’abitudine dell’isolamento e
del commercio con sè stesso prende piede, e
diventa una seconda natura. Perciò l’amor
della solitudine, qualità che fino a quel punto
bisognava conquistare con la lotta contro l’istinto
della socialità; è ormai semplice e
naturale; si sta perfettamente bene da soli
come il pesce nell’acqua. Ogni uomo superiore,
quindi, che ha un’individualità non
somigliante all’altrui, e che per conseguenza occupa un
posto a parte, si sentirà beato da vecchio
in tale posizione interamente isolata, benchè abbia
potuto trovarsene infastidito durante la
sua gioventù.
Certamente ciascuno non possederà la sua
parte di questo privilegio reale dell’età se
non nella misura delle sue forze
intellettuali; si è dunque lo spirito eminente che lo
acquisterà prima d’ogni altro, ma ad un
grado minore tutti vi arriveranno. Non v’ha che le
nature le più povere e le più volgari che
saranno nella vecchia età così socievoli come per lo
innanzi: esse stanno allora a carico di
quella società a cui non sono più adatte; ma tutt’al più
arriveranno a farsi tollerare, e non
saranno mai cercate come altre volte.
Si può ancora trovare un lato teleologico
in questo rapporto inverso di cui or ora
tenemmo parola, tra il numero degli anni e
il grado di socialità. Quanto più l’uomo è
giovane tanto più ha da imparare ancora in
tutte le direzioni; ora la natura non gli ha
riservato che quel mutuo insegnamento che
ciascheduno riceve dalle relazioni co’ suoi
simili, quell’insegnamento reciproco per
cui la società umana potrebbe chiamarsi una
grande casa d’educazione
Bell-Lancasteriana, visto che i libri e le scuole sono istituzioni
artificiose, ben lontane dal piano della
natura. È molto utile all’uomo il frequentare l’istituto
naturale di educazione tanto più
assiduamente quanto più è giovane.
«Nihil
est ab omni parte beatum»
non v’ha in questa vita beatitudine
perfetta, dice Orazio, e «Nessun
loto senza stelo» ripete
un proverbio indiano; similmente la
solitudine a lato di tanti vantaggi ha pure i suoi leggeri
inconvenienti e i suoi piccoli fastidi, che
però sono minimi riguardo a quelli della società, a
tal punto che colui il quale ha un valore
proprio, troverà sempre cosa più facile far senza
degli uomini, piuttostochè mantenersi in relazione
con essi. Fra gl’inconvenienti ve n’ha
uno del quale non si può facilmente
rendersi conto come degli altri; ed è il seguente: nello
stesso modo che a forza di starsene
continuamente in una camera il nostro corpo diventa
così sensibile ad ogni impressione esterna
che la più piccola corrente d’aria lo colpisce
morbosamente, così il nostro umore si fa
talmente sensibile nella solitudine e
nell’isolamento prolungato che ci sentiamo
inquieti, afflitti od offesi dai fatti più
insignificanti, da una parola, fors’anco
dalla semplice apparenza, mentre chi è
costantemente in mezzo al tumulto del mondo
non presta affatto attenzione a tali bagattelle.
Potrebbe darsi che un uomo, specialmente in
gioventù, e ad onta che la giusta
avversione per i suoi simili l’abbia già
fatto fuggire di sovente nell’isolamento, non sappia
a lungo andare sopportarne il vuoto; io gli
consiglio di abituarsi a portar seco nella società
una parte della sua solitudine; apprenda
così ad esser solo, fino ad un certo punto, anche fra
la gente, per conseguenza non comunichi
subito agli altri ciò che pensa, d’altra parte non
annetta troppo valore a ciò che dice il
mondo, e meglio ancora non si aspetti da esso gran
cosa, sia dal lato morale sia
dall’intellettuale, e quindi attenda a fortificare in sè questa
indifferenza riguardo all’opinione altrui,
mezzo sicurissimo per praticare costantemente una
lodevole tolleranza. In siffatta guisa,
benchè in mezzo agli uomini, ei non sarà interamente
nella loro società, ed avrà riguardo ad
essi un’attitudine più puramente oggettiva, ciò che lo
proteggerà contro un contatto troppo intimo
colla gente, e quindi contro ogni
contaminazione, e meglio ancora contro ogni
offesa. Esiste una descrizione drammatica
degna di nota d’una tale società attorniata
da barriere e da trinceramenti, nella commedia
«El
café, o sea la comedia nueva» di Moratin; la si troverà nel personaggio
di Don Pedro,
sopratutto nelle scene 2a e 3a
del
primo atto.
In quest’ordine d’idee possiamo paragonare
la società ad un fuoco innanzi a cui il
saggio si riscalda senza però toccarlo come
fa il pazzo il quale, dopo essersi scottato, fugge
nella fredda solitudine e si lamenta perchè
il fuoco brucia.
10° L’invidia è naturale all’uomo, e tuttavia costituisce
in un tempo stesso un vizio ed
un’infelicità34. Dobbiamo dunque considerarla come un nemico della nostra
felicità, e
cercar di soffocarla come un cattivo
demone. Seneca ce lo comanda con queste belle parole:
«Le
cose nostre ci dilettano senza confronto: non sarà mai felice quegli a cui darà
angoscia il desio di maggior bene» (De ira, III, 30).
Ed altrove: «Quando poni
mente a
quanta gente ti precede, pensa pure a quanta gente sta
dietro di te» (Ep. 15); bisogna
dunque considerare piuttosto coloro la cui condizione
è peggiore della nostra che non quelli
che ci pare stieno meglio di noi. Quando ci
colpiscono disgrazie reali, la consolazione più
efficace, quantunque derivata dalla stessa
sorgente dell’invidia, sarà la vista di mali più
grandi dei nostri, ed a lato di ciò il
frequentare persone che si trovino nello stesso caso
nostro, i nostri compagni di sventura.
Ecco quanto sul lato attivo dell’invidia.
Circa il lato passivo havvi da osservare che
nessun odio è così implacabile come
l’invidia; perciò invece d’esser incessantemente
occupati ad eccitarla, faremmo assai meglio
di rifiutarci, come molti altri, anche questo
piacere, viste le sue funeste conseguenze.
Si danno tre aristocrazie: la quella della nascita e del rango; 2a quella del danaro; 3a
quella dello spirito. Quest’ultima è
realmente la più nobile, e si fa anche conoscere per tale
dato che gliene si lasci il tempo: lo
stesso Federico il Grande non ha detto: «Le anime
privilegiate stanno al medesimo livello dei sovrani»? Egli
indirizzava queste parole al suo
maresciallo di Corte, il quale si trovava
offeso perchè Voltaire era chiamato a prender posto
in una tavola riservata unicamente ai
sovrani ed ai principi della famiglia, mentre i ministri
ed i generali pranzavano a parte con lui.
Ognuna di queste aristocrazie è attorniata da
un’armata
speciale d’invidiosi, segretamente stizziti contro ciascuno de’
suoi membri, ed
occupati, quando credono non aver da
temere, a fargli capire in tutti i modi: «Tu non sei
niente più di noi». Ma tali sforzi
tradiscono precisamente la loro convinzione del contrario.
La linea di condotta che devono scegliere
gl’invidiati consiste nel tenere a distanza tutti
coloro che compongono tali bande, e
nell’evitare qualunque contatto con essi in modo da
restarne separati da un largo abisso;
quando la cosa non è fattibile devono tollerare colla
maggior calma possibile gli sforzi
dell’invidia, la cui sorgente si troverà così esaurita.
Questo è quanto vediamo succedere ogni
giorno. In cambio, i membri di una delle
aristocrazie nominate s’intenderanno
ordinariamente molto bene e senza provar invidia
colle persone che fanno parte d’ognuna
delle altre due, e questo perchè ciascheduno mette
nella bilancia il proprio merito come
equivalente a quello degli altri.
11° È necessario meditare maturatamente ed
a molte riprese un progetto avanti di
metterlo in esecuzione, e, dopo averlo
pesato scrupolosamente, bisogna pure calcolare la
parte debole per l’insufficienza di ogni
sapere umano; visti i limiti delle nostre cognizioni,
possono sempre esservi circostanze che è
stato impossibile scrutare o prevedere, e che
potrebbero venir ad alterare il risultato
di tutte le nostre speculazioni. Tale riflessione
metterà sempre un peso nel piatto negativo
della bilancia, e ci porterà negli affari importanti
a non muover cosa senza necessità: «Quieta non movere.» Ma, una
volta presa la decisione
e messo mano all’opera, quando ogni cosa
può seguire il suo corso, e quando noi non
abbiamo più che da aspettare il risultato,
non bisogna ormai tormentarsi con replicate
considerazioni su ciò che è fatto, e con
sempre nuove inquietudini sui possibili pericoli; è
necessario invece scaricarsi completamente
lo spirito da tale affare, chiudere affatto questo
scompartimento del pensiero, e rimaner
tranquilli nella convinzione d’aver tutto pesato
maturamente a suo tempo. Ciò è quanto
consiglia pure di fare il proverbio italiano: «Legala
bene e poi lasciala andare35». Se, ad onta di tutto, l’esito non corrisponde, si è perchè
tutte
le cose umane sono soggette alla sorte ed
all’errore. Socrate, il più saggio degli uomini,
aveva bisogno d’un demone tutelare per discernere il
vero, od almeno per evitare il falso
ne’ suoi affari personali; non è questa una
prova che la ragione umana non vi basta? Perciò
questa sentenza, attribuita ad un papa, che
siamo noi stessi, almeno in parte, colpevoli delle
disgrazie che ci colpiscono, non è vera, nè
sempre, nè senza riserve, quantunque lo sia nella
maggior parte dei casi. Si è un tal
sentimento che sembra condurre gli uomini a nascondere
per quanto è possibile i loro mali, ed a
cercare, come meglio possono riuscirvi, di
aggiustarsi un aspetto soddisfatto. Essi
temono che la sventura sia attribuita alla colpa.
12.° In faccia d’un avvenimento funesto,
già compito, che per conseguenza non si
può più modificare, bisogna non
abbandonarsi nemmeno all’idea che forse avrebbe potuto
succedere altrimenti, e meno ancora
riflettere a quanto avrebbe avuto la possibilità di
stornarlo; perocchè si è questo
precisamente che porta la gradazione del dolore fino al
punto in cui diviene insopportabile, e fa
dell’uomo un «ἑαυτοντιμο
ρουμενος».
Facciamo piuttosto come il re Davide, che
assediava incessantemente Jéhova con preghiere
e suppliche durante la malattia di suo figlio,
e che, non appena questi fu morto, fece
scoppiettare le dita e non vi pensò più
oltre. Colui che non ha un carattere abbastanza
leggero per condursi nello stesso modo,
deve rifugiarsi sul terreno del fatalismo, e
convincersi pienamente di quest’alta verità
che tutto quello che succede, succede
necessariamente, dunque è inevitabile.
Tuttavia questa regola non ha valore che in
un solo senso. Essa giova a consolarci ed
a calmarci immediatamente in caso di
sventura; ma quando, come avviene più di sovente,
devesi attribuire la colpa, almeno in
parte, alla nostra negligenza od alla nostra temerità,
allora la meditazione ripetuta e dolorosa
dei mezzi che avrebbero potuto prevenire il
funesto avvenimento è una mortificazione
salutare, propria a servirci di lezione e di
ammendamento per l’avvenire. Sopratutto non
bisogna cercar di scusare, colorire o
impiccolire ai propri occhi i falli di cui
si è colpevoli evidentemente; è necessario
confessarseli e presentarseli in tutta la
loro estensione, allo scopo di poter prendere la ferma
decisione di evitarli in seguito. È vero
però che così si viene a procurarsi il dolorosissimo
sentimento della scontentezza di sè, ma
«l’uomo impunito non s’instruisce.»
13.° In tutto ciò che concerne la nostra
felicità o la nostra miseria bisogna
imbrigliare
la fantasia: quindi, anzitutto non fabbricare castelli
in aria: essi ci costano troppo cari,
perocchè ci è forza, subito dopo, demolirli
con molti sospiri. Ma dobbiamo guardarci ben di
più dal darci angoscia rappresentandoci vivacemente
mali che sono solamente possibili.
Che se essi poi fossero completamente
immaginarî od anche possibili solo in una
eventualità molto lontana, sapremmo
immediatamente al nostro svegliarci da tal sogno, che
tutto questo non era che illusione; in conseguenza
ci sentiremmo assai più contenti della
realtà che si trova esser migliore, e ne
trarremmo forse avvertimento per accidenti lontani,
quantunque possibili. Ma la nostra fantasia
non gioca facilmente con simili immagini; essa
non fabbrica mai per puro divertimento se
non prospettive ridenti. La stoffa de’ suoi sogni
foschi è fornita dai mali che, quantunque
lontani, ci minacciano effettivamente in una certa
misura; ecco gli oggetti che essa
ingrandisce, ecco gli oggetti di cui avvicina la possibilità
alla verità e che dipinge coi colori più
terribili. Allo svegliarci, non possiamo scuotere un
tal sogno come facciamo delle visioni
ridenti, perchè queste sono smentite senza indugio
dalla realtà, e non lasciano dietro di sè che
una debole speme di realizzazione. In cambio,
quando ci abbandonìano ad idee nere (blue devils), avviciniamo immagini che non
si
staccano da noi tanto facilmente, perocchè
la possibilità dell’avvenimento, in generale, è
vera, e noi non siamo sempre in istato di
misurarne con esattezza il grado; essa allora si
trasforma ben presto in probabilità ed
eccoci così in preda all’inquietudine. Si è per questo
che dobbiamo considerare ciò che interessa
il nostro bene o la nostra infelicità coi soli occhi
della ragione e del raziocinio; bisogna
riflettere prima seccamente e freddamente, e poi non
operare che su nozioni ed in abstracto. L’immaginazione
non deve entrar in giuoco, perchè
non sa giudicare; essa non può che
presentare agli occhi immagini che commuovono
l’anima senza vero motivo, e spesso molto
dolorosamente. Si è alla sera che questa regola
dovrebbe essere più strettamente osservata.
Perocchè se l’oscurità ci rende paurosi e ci fa
veder da per tutto figure spaventevoli,
l’indecisione delle idee, che le è analoga, produce lo
stesso risultato; infatti l’incertezza
genera la mancanza di sicurezza: perciò gli oggetti della
nostra meditazione, quando riguardano i
nostri interessi, prendono facilmente di sera
un’apparenza minacciosa e diventano
spauracchi; a quell’ora la fatica ha rivestito lo spirito
ed il raziocinio d’oscurità soggettiva,
l’intelletto è accasciato e
«θορυβουμενος»
(turbato), e
non è capace d’un esame profondo. Questo
succede più di sovente la notte, a letto; lo spirito
essendo interamente allentato, il
raziocinio non ha più la sua piena potenza d’azione,
mentre la fantasia è ancora attiva. La
notte allora copre ogni essere ed ogni cosa della sua
tinta fosca. Quindi i nostri pensieri, nel
momento d’addormentarci o se ci svegliamo
durante la notte, ci fanno apparire gli
oggetti sfigurati ed inverosimili come in sogno; li
vedremo così tanto più neri e terribili
quanto più riguardano davvicino circostanze
personali. Al mattino tali spauracchi
svaniscono, proprio come i sogni: è quanto significa il
proverbio spagnuolo: Noche tinta, blanco ed dia (La notte
è colorata, bianco il giorno). Ma
di sera, non appena è acceso il lume, la
ragione, del pari dell’occhio, vede meno
chiaramente che nel giorno; perciò
quell’ora non è favorevole a meditazioni su soggetti
seri, e specialmente su soggetti
spiacevoli. Si è il mattino favorevole a ciò, come in
generale, senza eccezione, ad ogni lavoro:
lavoro dell’intelletto o lavoro manuale. Perchè il
mattino è la giovinezza del giorno: tutto è
gaio, fresco e facile al mattino e noi ci sentiamo
vigorosi in quell’ora, e possiamo disporre
di tutte le nostre facoltà. Non bisogna abbreviarlo
levandosi tardi, nè sprecarlo in
occupazioni od in discorsi volgari; ma invece è necessario
considerarlo come la quintessenza della
vita e, per così dire, come qualche cosa di sacro. In
cambio la sera è la vecchiezza del giorno:
noi siamo abbattuti, ciarlieri e storditi. Ciascun
giorno è una piccola vita, lo
svegliarsi e l’alzarsi una piccola nascita, ogni fresco mattino
una piccola giovinezza, e il coricarsi
colla sua notte di sonno una piccola morte.
Ma, generalmente parlando, lo stata di
salute, il sonno, il cibo, la temperatura, il
tempo, l’ambiente, e mille altre condizioni
esterne influiscono considerevolmente sulla
nostra disposizione, e questa, a sua volta,
sui nostri pensieri. Ne viene che il nostro modo di
considerar le cose, come pure l’attitudine
a produrre qualche opera, sono fino ad un certo
punto subordinate al tempo ed anche al
luogo. Goethe ha detto: «Afferrate
la buona
disposizione perocchè essa viene di rado». Non è
solo per le concezioni oggettive e per i
pensieri originali che ci è necessario
attendere se e quando piaccia loro di venir a noi,
ma
anche la meditazione profonda d’una
faccenda personale non riesce mai nell’ora fissata
precedentemente e nel momento in cui
vogliamo dedicarvici; essa pure sceglie da sè il suo
tempo, e lo fa quando una conveniente
figliazione delle idee si sviluppa spontanea, e
quando possiamo seguirla con intera
efficacia.
Per meglio tener in freno la fantasia, come
noi lo raccomandiamo, occorre non
permetterle di ricordare e di colorire
vivamente i torti, i danni, le perdite, le offese, le
umiliazioni, le vessazioni, ecc., subíte
per lo passato, perocchè con questo agitiamo
nuovamente l’indegnazione, la collera, e
tante altre odiose passioni assopite da lungo
tempo, passioni che tornano ad imbrattare
l’anima nostra. Secondo un bel confronto del
neoplatonico Proclo, come in ogni città a
lato dei nobili e della gente civile s’incontra la
plebaglia d’ogni specie
(οχλος), così in qualunque uomo, fosse pure il più
nobile ed il più
eminente, si trova l’elemento basso e
volgare della natura umana, anzi qualche volta si
potrebbe dire della natura bestiale. Questa
plebaglia non deve esser eccitata al tumulto; nè
bisogna permetterle di mostrarsi alla
finestra, perchè la vista ne è molto brutta. Ora quelle
produzioni della fantasia, di cui parlammo
adesso, sono i demagoghi del popolaccio.
Aggiungiamo che la più piccola contrarietà,
provenga pure dagli uomini o dalle cose, se ci
occuperemo costantemente a ruminarla ed a
dipingerla sotto colori vistosi ed a grossa scala,
può ingrandirsi fino a diventare un mostro
che ci faccia perdere il senno. È necessario
invece accogliere molto prosaicamente e
molto freddamente tutto ciò che è dispiacevole
allo scopo di affliggersene il meno
possibile.
Nella stessa guisa che gli oggetti piccoli
tenuti troppo da presso all’occhio
diminuiscono il campo della visione e
nascondono il mondo, così gli uomini e le cose che
ci contornano più da vicino, quand’anche
fossero dappoco ed indifferenti al più alto grado,
occuperanno spesso la nostra attenzione ed
i nostri pensieri al di là d’ogni convenienza, e
svieranno idee ed affari d’alta importanza.
Conviene reagire contro una tale tendenza.
14.° Alla vista di beni che noi non
possediamo, ci diciamo molto volentieri: «Ah! se
questa cosa fosse mia!» ed un tal pensiero
ce ne rende sensibile la privazione. Invece
dovremmo spesso domandarci: «Che
succederebbe se questa cosa non mi appartenesse?»
Con ciò intendo che dovremmo qualche volta
sforzarci d’immaginare i beni che
possediamo come ci apparirebbero dopo
averli perduti; e parlo dei beni d’ogni specie:
ricchezze, salute, amico, amante, sposa,
figlio, cavallo e cane, perocchè il più di sovente si
è la perdita delle cose che ce ne insegna
il valore. Al contrario il metodo che
raccomandiamo avrà per primo risultato di
fare che il loro possesso ci renderà
immediatamente più felice che per lo
avanti, ed in secondo luogo c’indurrà a premunirci
con tutti i mezzi contro la loro perdita;
sicchè non rischieremo i nostri averi, non irriteremo
gli amici, non esporremo alla tentazione la
fedeltà della moglie, avremo la massima cura
della salute dei figli, e così di seguito.
Noi cerchiamo spesso di rallegrare la tinta smorta del
presente con speculazioni sulla possibilità
di buona fortuna, ed immaginiamo ogni sorta di
speranze chimeriche ciascuna delle quali è
piena di delusioni; perciò queste non mancano di
arrivare non appena le speranze vengono a
rompersi contro la dura realtà. Bisognerebbe
piuttosto sceglier per tema delle nostre
speculazioni la cattiva sorte; ciò che ci porterebbe a
prendere disposizioni allo scopo di
allontanarla, e ci procurerebbe talora gradite sorprese
quando essa non si realizza. Non si è forse
più allegri dopo sortiti da qualche angoscia? È
anche salutare rappresentarci in mente
certe grandi sventure che potrebbero eventualmente
venire a colpirci; questo gioverà a farci
sopportare più facilmente mali meno gravi quando
in fatto siano su di noi, perocchè allora
ci consoliamo ritornando col pensiero su quelle
disgrazie ben più terribili che non si sono
realizzate. Ma praticando questa regola bisogna
aver cura di non trascurare la precedente.
15.° Gli avvenimenti e gli affari che ci
risguardano si producono e si succedono
isolatamente, senza ordine, e senza mutuo
rapporto, in sorprendente contrasto gli uni cogli
altri, e senza altro legame che quello di
riferirsi a noi; ne risulta che i pensieri e le cure
necessarie dovrebbero essere altrettanto
nettamente distinte, al fine di corrispondere agli
interessi che le hanno provocate. In
conseguenza quando intraprendiamo una cosa, bisogna
condurla a termine facendo astrazione da
qualunque altro affare, allo scopo di compiere,
gustare o subire ogni cosa a suo tempo
senza cure moleste di tutto il resto; dobbiamo avere
nei nostri pensieri, per così dire, degli
scompartimenti per non aprirne che un solo mentre
gli altri resteranno chiusi. Vi troveremo
il vantaggio di non guastare ogni piccolo piacere
attuale e di non perdere il riposo per la
preoccupazione di qualche grande affanno;
guadagneremo ancora perchè un pensiero non
ne caccierà un altro, e perchè la cura d’un
affare importante non ce ne farà
dimenticare molti di piccoli, ecc. Ma sopratutto l’uomo
capace di pensieri nobili ed elevati non
deve lasciare che il suo spirito sia assorbito dagli
affari personali e preoccupato da basse
cure al punto che sia chiuso l’accesso alle più alte
meditazioni, perocchè sarebbe veramente «propter vitam, vivendi perdere causas» (per la
vita perdere le cause del vivere). È
indubitato che per far eseguire al nostro spirito tutte
queste manovre e contromanovre ci
abbisogna, come in molte altre circostanze, esercitare
una violenza su noi stessi; tuttavia
dovremmo attingerne la forza nella riflessione che
l’uomo subisce dal mondo esterno numerose e
potenti tirannie alle quali nessuna esistenza
può sottrarsi, ma che un piccolo sforzo
esercitato su sè stessi ed applicato a tempo e luogo
opportuno, può ovviare sovente ad una
grande pressione esterna; allo stesso modo nel
cerchio un piccolo taglio vicino al centro
corrisponde ad un’apertura talvolta centupla alla
periferia. Nessuna cosa ci sottrae alla tirannia
del di fuori meglio della nostra soggezione a
noi stessi: ecco il significato della
sentenza di Seneca: «Se
vuoi che le cose tutte sieno a te
sottomesse, sottometti te stesso alla ragione» (Ep.
37). Inoltre una tale soggezione a noi
stessi è sempre in nostro potere, e in un
caso estremo, o quando essa posasse sovra il punto
più sensibile, noi abbiamo la facoltà di
rallentarla un poco, mentre la pressione esterna non
ci risparmia mai, ed è per noi senza
riguardi e senza pietà. Per ciò è cosa saggia prevenir
questa con quella.
16.° Limitare i propri desideri, frenare le
brame, domare la collera, ricordandoci
incessantemente che ogni individuo non può
conseguir mai se non una parte infinitamente
piccola di ciò che è desiderabile, e che in
cambio mali senza fine devono colpire tutti gli
umani; in una parola
«απεχειν και
ανεχειν, abstinere et sustinere» (contenersi e sostenersi),
ecco la regola senza l’osservanza della
quale nè ricchezza nè potere potranno impedirci di
sentire la nostra miserabile condizione.
Orazio disse in proposito: «In
ogni cosa leggi ed
interroga i dotti; in tal modo cerca di condur vita felice,
affinchè non ti agiti e non ti strazi
la cupidigia sempre povera, oppure il timore e la speranza
di cose invero mediocremente
utili».
(Ep.
I, 18, 96-99).
17.° Ο βιος ἐν τη
κινησει ἐστι, la vita
sta nel movimento, ha detto con ragione
Aristotele: come la nostra vita fisica
consiste unicamente nel movimento, così la nostra vita
interna, intellettuale, richiede
un’occupazione costante, un’occupazione in qualunque cosa,
sia per mezzo dell’azione, sia per mezzo
del pensiero; ecco quanto prova quella manìa che
ha la gente oziosa di mettersi a stamburare
colle dita o col primo oggetto che cade loro sotto
mano. L’agitazione infatti è l’essenza
della nostra vita; una inazione completa diviene ben
presto insopportabile perocchè genera la
noia più orribile. E regolando tale istinto si può
soddisfarlo metodicamente e con più frutto.
L’attività è indispensabile per esser felici; è
necessario che l’uomo agisca, che compia,
se ciò gli è possibile, qualche lavoro, od almeno
che impari qualche cosa; le sue forze
domandano il loro impiego ed egli stesso non chiede
che di vederle produrre un risultato
qualsiasi. In questo rapporto la sua soddisfazione più
grande consiste nel lavorare a qualche
cosa, paniere o libro; ma ciò che gli apporta una
felicità immediata si è il vedere, giorno
per giorno, crescere l’opera propria sotto le mani
facendosi grado a grado più perfetta. Una
creazione artistica, uno scritto od anche un
semplice lavoro manuale producono
interamente questo effetto; bene inteso che quanto più
la natura dell’opera è nobile tanto più il
piacere è elevato. A questo riguardo i più felici
sono gli uomini altamente dotati che si
sentono capaci di produrre le opere più importanti,
più grandiose e più fortemente ragionate.
Ciò sparge su tutta la loro esistenza un interesse
d’ordine superiore e le comunica un sapere
che fa difetto negli altri uomini; ne viene che la
vita di questi ultimi è insipida in confronto
dell’altra. Infatti per le persone eminenti la vita
ed il mondo, a lato dell’interesse comune,
materiale, ne hanno un altro più elevato e
formale, che è quello di contenere la
stoffa delle loro opere; si è quindi a raccoglier questi
materiali che esse attivamente si occupano
durante il corso del viver loro, non appena la
loro parte di miserie terrestri le lascia
un momento in riposo. Il loro intelletto è anche, fino
ad un certo punto, doppio: una parte giova
per gli affari ordinarî (oggetti della volontà) e
somiglia a quella comune a tutti; l’altra
invece serve per la concezione puramente oggettiva
delle cose. Questi uomini vivono così d’una
vita doppia, spettatori ed attori in una volta,
mentre gli altri non sono che attori.
Bisogna tuttavia che ciascheduno si occupi in qualche
cosa, nella misura delle sue facoltà. Si
può constatare l’influenza perniciosa dell’assenza
d’attività regolare, d’un lavoro qualsiasi,
durante i lunghi viaggi di piacere, quando di
tempo in tempo ci sentiamo infelici per la
sola ragione che, privati di qualunque
occupazione reale, ci troviamo, per così
dire, strappati dal nostro elemento naturale.
Faticare e lottare contro le resistenze è
un bisogno per l’uomo, come per la talpa scavar
buchi. L’immobilità che sarebbe prodotta dalla
soddisfazione completa d’un godere
continuo gli riescirebbe insopportabile.
Vincere gli ostacoli costituisce il colmo del piacere
nell’esistenza umana, sieno gli ostacoli di
natura materiale come nell’azione e
nell’esercizio, oppure si riferiscano allo
spirito come nello studio e nelle ricerche: si è la
lotta e la vittoria che rendono l’uomo
felice. Se l’occasione gli manca, ei se la crea come
può: secondo lo comporta la sua
individualità andrà a caccia o giuocherà alla trottola,
oppure, spinto dall’inclinazione inconscia
della sua natura, susciterà contese, ordirà intrighi,
macchinerà inganni o non importa quale
altra disonestà, al solo scopo di mettere un termine
allo stato d’immobilità che non può
sopportare. «Difficilis
in otio quies» (È difficile la
calma nell’ozio).
18.° Non sono le immagini della fantasia, ma nozioni nettamente concette che
bisogna prendere per guida nei propri
lavori. Il contrario succede molto di frequente. Bene
esaminando, si scorge che ciò che nelle
nostre determinazioni viene in ultima istanza a
render decisiva la sentenza, non sono
ordinariamente le nozioni ed i giudici, ma lo è bensì
un’immagine della fantasia che le
rappresenta e le sostituisce. Non so più in quale romanzo
di Voltaire o di Diderot la virtù appare
sempre all’eroe, posto come Ercole adolescente al
bivio della vita, sotto l’aspetto del suo
vecchio ajo che moralizza tenendo la tabacchiera
nella mano sinistra ed una presa di tabacco
nella destra; il vizio invece colle sembianze
della cameriera di sua madre. Si è
particolarmente durante la giovinezza che lo scopo della
nostra felicità si fissa sotto la forma di
certe immagini che volteggiano davanti noi e che
persistono spesso durante la metà, e
qualche volta durante tutto il corso della vita. Sono
esse veri folletti che ci tormentano,
perchè appena raggiunte svaniscono e l’esperienza
viene ad insegnarci che non mantengono
affatto ciò che promettevano. Di questo genere
sono le scene speciali della vita
domestica, civile, sociale o rurale, le idee sull’abitazione e
sulla nostra società, le decorazioni
cavalleresche, le testimonianze di rispetto, ecc., ecc.;
«chaque
fou a sa marotte»36 (ogni
pazzo ha la sua impresa); anche l’immagine
dell’innamorata ne è una. È ben naturale
che sia così, perocchè ciò che si vede, essendo
l’immediato,
agisce
sulla nostra volontà più facilmente della nozione, il pensiero astratto,
che non dà che il generale senza il particolare; ora è
proprio quest’ultimo che contiene il
reale: la nozione non può dunque agire
sulla volontà se non mediatamente. E tuttavia non
v’ha che la nozione che mantenga quanto
promette: è quindi prova di coltura intellettuale
porre in essa sola tutta la propria fede.
Di tratto in tratto si farà certamente sentire il bisogno
di dare una spiegazione o di fare una
parafrasi col mezzo di qualche immagine, ma soltanto
«cum
grano salis.»
19.° La regola precedente fa parte di
quest’altra massima più generale che bisogna
sempre saper dominare l’impressione di
tutto ciò che è presente e visibile. Questo in
riguardo al semplice pensiero, alla
conoscenza pura, è incomparabilmente più forte, non in
virtù della materia e del valore, che sono
spesso insignificanti, ma in virtù della forma, vale
a dire della visibilità e dell’attualità
diretta le quali penetrando nello spirito ne turbano il
riposo o ne rendono incerte le risoluzioni.
Infatti ciocchè è presente, ciocchè è visibile,
potendo facilmente esser abbracciato d’uno
sguardo, agisce sempre d’un colpo solo, e con
tutta la sua potenza; invece i pensieri e
le ragioni, dovendo esser meditate pezzo per pezzo,
richiedono e tempo e tranquillità, e non
possono essere ad ogni momento ed interamente
presenti allo spirito. Si è per questo che
una cosa gradevole a cui la riflessione ci ha fatto
rinunziare ci alletta ancora colla sua
vista; così pure una opinione di cui conosciamo
l’assoluta incompetenza tuttavia ci
offende; un oltraggio ci irrita benchè sappiamo che esso
non merita se non disprezzo, nello stesso
modo dieci ragioni contro l’esistenza d’un
pericolo, sono vinte dalla falsa apparenza
della sua comparsa, ecc. In tutte queste
circostanze prevale la irragionevolezza
originale del nostro essere. Le donne sono ben di
frequente soggette a tali impressioni, e
pochi uomini hanno una ragione abbastanza
preponderante per non aver a soffrire dai
loro effetti. Quando non possiamo dominarle
interamente col solo pensiero, ciò che di
meglio possiamo fare si è di neutralizzare
un’impressione coll’impressione contraria:
per esempio l’impressione di un’offesa con
visite alle persone che ci stimano,
l’impressione di un pericolo che ci minaccia colla vista
reale dei mezzi proprî ad allontanarlo. Un
italiano, di cui Leibnitz ci racconta la storia,
(Saggi
critici, L. I, c. II, § 11), riescì perfino a resistere ai dolori della
tortura: a ciò, con
ferma risoluzione presa prima, impose alla
sua immaginazione di non perdere di vista un
solo istante la figura della forca a cui lo
avrebbe senza dubbio condannato qualunque sua
confessione; sicchè ei gridava di tratto in
tratto: «Ti vedo», parole
che, come spiegò più
tardi, si riferivano al patibolo. Per la
stessa ragione quando tutti intorno a noi sono
d’un’opinione differente della nostra e si
conducono conseguentemente ad essa, è difficile
non lasciarsi smuovere dalle nostre idee
quand’anche si fosse convinti che gli altri sono
nell’errore. Per un re fuggitivo, inseguito
e che viaggia seriamente incognito,
il
cerimoniale
di ossequio che il suo compagno e
confidente osserverà quando sono a quattr’occhi deve
essere un cordiale quasi indispensabile
perchè lo sventurato non giunga a dubitare della sua
stessa esistenza.
20.° Dopo aver fatto spiccare fino dal
secondo capitolo l’alto valore della salute come
condizione prima, ed importantissima fra
tutte, della nostra felicità, voglio indicare alcune
regole di condotta molto generali per
conservarla e fortificarla.
Per farsi robusti è necessario, finchè si è
in buona salute, sottoporre il corpo nel suo
insieme, come pure in ciascuna delle sue
parti, a sforzi ed a fatiche, e abituarsi a resistere a
tutto quello che può male impressionarlo,
per quanto bruscamente ciò possa succedere. Non
appena, invece, si manifesta uno stato
morboso sia del tutto, sia d’una parte, si dovrà
ricorrere immediatamente al procedimento
contrario, vale a dire risparmiare e curare in
ogni maniera il corpo o la parte malata:
perocchè chi è sofferente o snervato non è
suscettibile di esser aspramente
invigorito.
I muscoli si fortificano; al contrario i
nervi s’indeboliscono per un forte uso.
Conviene dunque esercitare i primi con
tutti gli sforzi convenienti e risparmiare invece
qualunque sforzo ai secondi; in conseguenza
difendiamo gli occhi dalla luce troppo viva
specialmente quando è riflessa, dalla
fatica della semioscurità e del guardare a lungo oggetti
troppo piccoli; preserviamo egualmente le
orecchie dagli strepiti troppo forti, ma sopratutto
evitiamo al cervello qualunque applicazione
forzata, sostenuta troppo a lungo od
intempestiva; lo si lasci quindi riposare
durante la digestione perocchè allora quella stessa
forza vitale che, nella testa, forma i
pensieri, lavora con tutti i suoi sforzi nello stomaco e
negli intestini a preparare il chimo ed il
chilo; esso deve egualmente riposare durante e
dopo un lavoro muscolare considerevole.
Perocchè per i nervi motori come per i nervi
sensitivi le cose procedono nello stesso
modo, e, come il dolore provato in un membro leso
ha la vera sua sede nel cervello, così non
sono le braccia e le gambe che faticano e
camminano, ma il cervello, cioè quella parte
di esso che, per mezzo della midolla allungata
e della midolla spinale, eccita i nervi di
questi membri e li fa muovere. Perciò la fatica che
proviamo alle gambe od alle braccia ha la
sua sede reale nel cervello; ed è per questo che le
membra il cui movimento è sottomesso alla
volontà, ossia ha impulso dal cervello, sono i
soli che si stancano, mentre quelli il cui
lavoro è involontario, come per esempio, il cuore,
sono instancabili. Evidentemente adunque
sarà nuocere al cervello l’esiger da esso
un’attività muscolare energica e una grande
tensione dello spirito, sia simultaneamente, sia
soltanto dopo un intervallo di tempo troppo
corto. Ciò non è per nulla in contraddizione col
fatto che al termine d’una passeggiata od
in generale dopo un breve cammino si prova un
aumento nell’attività dello spirito,
perocchè in questo caso non v’ha per anco fatica delle
parti respettive del cervello, e d’altra
parte una leggera attività muscolare, accelerando la
respirazione, favorisce il salire del sangue
arterioso, per di più meglio ossigenato, al
cervello. Ma bisogna sopratutto dare ad
esso la piena misura del sonno necessario al suo
ristoro, perchè il sonno è per la macchina
umana ciò che il caricamento della molla è per
l’oriuolo. (Si veda Il mondo come volontà e come fenomeno II, 217. —
3a ed. II,
240). Tale
misura dovrà esser tanto più grande quanto
più il cervello sarà sviluppato ed attivo; però
oltrepassarla sarebbe semplicemente uno
sprecare il tempo, perocchè allora il sonno perde
in intensità ciò che guadagna in
estensione. (Si veda Il
mondo come volontà e come
fenomeno II, 247. — 3a ed. II, 275)
pensare non è altro che la funzione
organica del cervello, e che quindi esso si conduce, in
quanto riguarda la fatica e il riposo, in
modo analogo a quello di qualunque altra attività
organica. Uno sforzo eccessivo stanca il
cervello come stanca gli occhi. Si è detto con
ragione: Il cervello pensa come lo stomaco
digerisce. L’idea di un’anima immateriale,
semplice, essenzialmente e costantemente
pensante, quindi instancabile, che sarebbe come
allogata a pigione nel cervello, e che non
avrebbe bisogno di cosa alcuna al mondo, una tale
idea ha certamente spinto più di
qualcheduno ad una condotta insensata, condotta che ha
rintuzzato le sue forze intellettuali;
Federico il Grande, per esempio, non ha tentato una
volta di disavvezzarsi totalmente dal
sonno? I professori di filosofia dovrebbero bene non
incoraggiare simili illusioni, dannose
anche in pratica, col loro sistema ortodosso di
filosofia da connocchia (Katechismusgerechtseynwollende
Rocken-Philosophie). Bisogna
apprendere a considerare le forze
intellettuali quali funzioni fisiologiche allo scopo di
saperle usare, risparmiare od affaticare a proposito;
si deve ricordarsi che ogni dolore, ogni
disagio, ogni disordine in una parte
qualunque del corpo, impressiona lo spirito. Per
convincersi pienamente di tale verità
bisogna leggere: Cabanis, I rapporti del fisico e del
morale nell’uomo.
Si è per aver trascurato di seguire questo
consiglio che molte menti sublimi e molti
grandi scienziati, sono caduti da vecchi
nell’imbecillità, nell’infanzia e insino nella follia.
Se, per esempio, celebri poeti inglesi del
nostro secolo, quali Walter Scott, Wordsworth,
Southey, e vari altri, giunti a tarda età,
e pur anche fino dalla sessantina, sono divenuti
(*) In italiano nel testo originale. (Nota
del Trad.).
intellettualmente ottusi ed inetti, e
talvolta imbecilli, senza dubbio bisogna attribuirlo al
fatto che sedotti da stipendi elevati,
hanno tutti esercitato la letteratura come un mestiere
scrivendo per del danaro. Un tal mestiere
conduce ad una fatica contro natura: chiunque
sottomette il proprio Pegaso al giogo e
spinge avanti la Musa colla frusta dovrà espiarne la
colpa nella stessa maniera di colui che ha
reso un culto forzato a Venere. Io credo che lo
stesso Kant, in età avanzata, già divenuto
celebre, si sia dato ad un lavoro eccessivo ed
abbia provocato così quella seconda
infanzia in cui passò i suoi ultimi quattro anni di vita.
Ogni mese dell’anno ha un’influenza
speciale e diretta, vale a dire indipendente dalle
condizioni meteorologiche, sulla nostra
salute, sullo stato generale del nostro corpo, ed
insino sullo stato del nostro spirito.
3. Circa
la nostra condotta verso gli altri.
21.° Per mettersi fra la gente è utile
portar seco una buona provvista di circospezione
e d’indulgenza; la prima ci garantirà dai danni e dalle
perdite, l’altra dalle contese e dagli
alterchi.
Chi è chiamato a vivere fra gli uomini non
deve respingere in modo assoluto alcuna
individualità dal momento che essa è già
determinata e data dalla natura, fosse pure
l’individualità la più malvagia, la più
miserabile o la più ridicola. Ei deve piuttosto
accettarla come una immutabilità che, in
virtù d’un principio eterno e metafisico, deve
essere quale è; e nel peggior dei casi dirà
a sè stesso: «Bisogna bene che vi sia pure
qualcuno di questa specie.» Che se
prendesse la cosa altrimenti, commetterebbe
un’ingiustizia e provocherebbe l’altro ad
una lotta di vita e morte. Perocchè non v’ha uomo
che possa modificare la propria
individualità, vale a dire il carattere morale, le facoltà
intellettuali, il temperamento, la
fisonomia, ecc. Se dunque condanniamo senza eccezione il
suo essere, non gli resterà che a
combattere in noi un nemico mortale dal momento che noi
non vogliamo riconoscergli il diritto di
esistere se non alla condizione di diventare altra
cosa da ciò che è immutabilmente. Ed è per
questo che, quando si vuol stare fra gli uomini,
bisogna lasciar vivere ciascheduno ed
accettarlo coll’individualità, qualunque essa sia, che
gli è toccata in sorte, occupandosi
unicamente di utilizzarla in quanto la sua qualità e la sua
organizzazione lo permettono, ma senza
sperare di modificarla e senza condannarla
puramente e semplicemente così come è. Ecco
il vero significato del detto: «Vivere
e
lasciar vivere,» Tuttavia il cómpito non è così facile
come è giusto; si chiami felice colui al
quale è dato di poter evitare per sempre
certe individualità. Intanto, per imparar a
sopportare gli uomini, è buona cosa
esercitare la pazienza sugli oggetti inanimati che, in
virtù d’una necessità meccanica o di
qualunque altra necessità fisica, contrariano
ostinatamente la nostra azione; a ciò fare
abbiamo occasione ogni giorno. Si apprende poi a
trasportare sugli uomini la pazienza così
acquistata, e si finisce coll’avvezzarsi all’idea che
anch’essi, tutte le volte che ci sono di
ostacolo, lo sono per forza maggiore, in virtù d’una
necessità naturale così rigorosa come
quella per cui agiscono le cose inanimate: che per
conseguenza è cosa tanto insensata
sdegnarsi della loro condotta quanto stizzirsi contro la
pietra che viene a rotolare sui nostri
passi. Riguardo molte persone sarà più saggio dirsi:
«Non
le cambierei, dunque voglio utilizzarle».
22.° È sorprendente il vedere a qual punto
si manifesti nella conversazione
l’omogeneità o l’eterogeneità di spirito e
di carattere fra gli uomini; esse divengono
sensibili alla più piccola occasione. Tra
due persone, di natura essenzialmente diversa, che
discorreranno sopra soggetti i più
indifferenti, i più strani, ogni frase dell’una dispiacerà più
o meno all’altra, e forse un solo detto la
farà montare in collera. Quando esse invece si
rassomiglino, sentono immediatamente ed in
ogni cosa un certo accordo che, quando
l’omogeneità è molto spiccata, si fonde in
un’armonia perfetta, e può giungere insino
all’unissono. Con ciò si spiega in primo luogo
perchè gl’individui molto triviali sono tanto
sociabili e trovano così facilmente
dappertutto quell’eccellente compagnia che chiamano
«buona e brava gente amabilissima». Succede
precisamente il contrario agli uomini che non
sono volgari, ed essi saranno tanto meno
sociabili quanto più sono eminenti, talmente che
qualche volta nel loro isolamento potranno
provare un vero piacere nello scoprire presso
un’altra persona una fibra qualunque, fosse
pur piccolissima, della loro stessa natura.
Perocchè ogni uomo non può essere per un
altro se non ciò che questi stesso è per lui.
Come l’aquila, gli spiriti realmente
superiori vagano per le altezze, solitarî. Ciò spiega, in
secondo luogo, come gli uomini che hanno le
stesse inclinazioni si trovino così presto
riuniti assieme, come si attirino
magneticamente: le anime sorelle si salutano da lontano. Si
potrà osservar questo più di frequente
presso gl’individui di sentimenti bassi o di scarsa
intelligenza; ma è unicamente perchè
costoro si chiamano legione, mentre gli animi buoni e
nobili sono e si chiamano esseri d’alta
rarità. Sicchè succederà, per esempio, che in qualche
vasta associazione fondata in vista di
risultati effettivi, due bricconi matricolati si
riconosceranno scambievolmente tanto presto
come se portassero una coccarda, e si
avvicineranno subito per immaginare qualche
abuso o qualche tradimento. Medesimamente
supponiamo, per impossibile38, una società numerosa composta affatto da
uomini
intelligenti e di spirito, ma della quale
facessero parte pure due imbecilli; questi ultimi si
sentirebbero attratti simpaticamente l’uno
verso l’altro, e ben presto ciascuno di loro
sarebbe contento nel suo cuore d’aver
finalmente trovato almeno una persona ragionevole.
È in verità degno di nota il vedere coi
propri occhi come due esseri, principalmente fra
coloro che stanno ad un basso livello dal
lato morale ed intellettuale, si conoscono a prima
vista, tendono ardentemente ad avvicinarsi,
si salutano con amore e con gioia, e corrono
uno incontro all’altro siccome vecchie
conoscenze; tutto questo è tanto maraviglioso che si
è tentati d’ammettere, secondo la dottrina
buddistica della metempsicosi, che costoro si
erano già legati d’amicizia in una vita
anteriore.
V’ha però un fatto che, anche nel caso della
massima armonia, mantiene gli uomini
lontani gli uni dagli altri e che giunge
fino a creare tra loro una dissonanza transitoria:
sarebbe esso la differenza della
disposizione del momento, disposizione che è quasi sempre
diversa per ogni persona secondo la sua
situazione momentanea, l’occupazione, l’ambiente,
lo stato del corpo, il corso attuale dei
pensieri, ecc. Ecco quanto produce dissonanze fra
individualità che pure vanno d’accordo
magnificamente bene. Sforzarsi continuamente a
correggere ciò che fa nascere questi
dissensi ed a stabilire l’eguaglianza della temperatura
ambiente, sarebbe l’effetto di una suprema
coltura intellettuale. Si avrà la misura di ciò che
può produrre per la società l’eguaglianza
dei sentimenti dal fatto che i membri d’una
riunione, anche molto numerosa, saranno
portati a comunicarsi reciprocamente lo loro idee,
a prender parte sinceramente all’interesse
ed al sentimento generale, non appena qualche
causa esterna, un pericolo, una speranza,
una notizia, la vista d’una cosa straordinaria, uno
spettacolo, un trattenimento musicale, o
non importa quale altra cosa, viene ad
impressionarli tutti nel medesimo istante e
nella stessa maniera. Perocchè questi motivi
soggiogano qualunque interesse particolare
e creano in cotal guisa l’unità perfetta di
disposizione. In mancanza d’una tale
influenza oggettiva si ricorre d’ordinario a qualche
espediente soggettivo, ed allora si è la
bottiglia che viene chiamata abitualmente a
procurare una disposizione comune alla
compagnia. Il tè ed il caffè sono del pari impiegati
a tale effetto. Ma quello stesso disaccordo
che la diversità d’umore introduce così
facilmente in ogni società, porge anche la
spiegazione parziale del fatto che ciascuno
apparisce come idealizzato, qualche volta
anzi trasfigurato nel ricordo, quando questo non è
più sotto l’impero dell’influenza
momentaneamente perturbatrice di cui tenemmo parola, o
di qualunque altra consimile. La memoria
agisce nello stesso modo della lente convergente
nella camera oscura: essa riduce tutte le
dimensioni, e produce così un’immagine molto più
bella dell’originale. Ogni assenza ci
procura parzialmente il vantaggio d’esser veduti sotto
un tale aspetto. Perocchè sebbene il
ricordo idealizzatore richieda un tempo considerevole,
nondimeno il suo lavoro comincia
immediatamente. Per questo sarà buona e saggia cosa
non mostrarsi ai propri conoscenti ed amici
che a lunghi intervalli; si osserverà, nel
rivedersi, che il ricordo ha già lavorato.
23.° Nessuno può vedere al di là di sè stesso. Voglio dire
con ciò che non si può
scorgere in altri più di quello che si è in
sè stessi, perocchè ciascuno capisce e comprende
un altro solamente nella misura della sua
propria intelligenza. Se questa è della specie più
bassa, tutti i doni intellettuali più eminenti
non lo impressioneranno affatto, ed egli non
vedrà nell’uomo così altamente dotato se
non ciò che v’ha di più basso nell’individualità,
cioè tutte le debolezze e tutti i difetti
di temperamento e di carattere. Ecco di che il
grand’uomo sarà composto agli occhi suoi.
Le alte facoltà intellettuali dell’uno esistono
così poco per l’altro come i colori per i
ciechi. E ciò viene perchè qualunque genio resta
invisibile per chi ne è privo; e perchè
qualunque valutazione rappresenta il prodotto del
valore dello stimato per la sfera
d’apprezzamento dello stimatore. Ne segue che quando si
discorre con qualcuno si va a mettersi
sempre al suo livello, poichè tutto ciò che si ha al di
sopra sparisce, e di più il sacrifizio di
sè stesso che esige un tale aggiustamento rimane
perfettamente disconosciuto. Se dunque si
rifletterà quanto la maggior parte degli uomini
abbia sentimenti e facoltà di bassa lega,
in una parola quanto essi sieno triviali,
si
vedrà che
è cosa impossibile parlare con loro senza
diventare a sua volta triviale
durante
questo
intervallo (in analogia colla distribuzione
dell’elettricità); si comprenderà allora il
significato effettivo e la verità
dell’espressione tedesca «sich
gemein machen» (rendersi
famigliare), e si cercherà di evitare
qualunque compagnia colla quale non si possa
comunicare se non mediante la partie honteuse (la parte
più brutta) della propria natura. Si
capirà egualmente che in presenza di
imbecilli o di pazzi non v’ha che una
sola maniera di
mostrare che si è forniti di ragione: cioè
non parlare con essi. Ma è pur vero che allora, in
società, più di qualcheduno potrebbe
trovarsi nella situazione di un ballerino che entrasse in
un ballo ove non ci fossero che degli
attrappiti: con chi danzerebbe egli?
24.° Io accordo tutta la mia stima, come ad
un eletto fra cento individui, a colui che
essendo disoccupato, perchè aspetta, non si
mette immediatamente a dar colpi od a battere
il tempo con tutto ciò che gli viene in
mano, bastone, coltello, forchetta od altro oggetto
qualunque. È probabile che quest’uomo pensi
a qualche cosa. Si conosce alla cèra della
maggior parte degli uomini che presso di
essi la vista surroga interamente il pensiero;
costoro cercano di accertarsi della loro
esistenza facendo strepito, a meno che non abbiano
in bocca un sigaro, ciò che rende loro lo
stesso servizio. Si è per la medesima ragione che
essi stanno costantemente cogli occhi e
colle orecchie tese per attendere a tutto quello che
succede loro d’intorno.
25.° La Rochefoucauld ha molto giustamente
osservato che è difficile nello stesso
tempo stimare ed amare assai un uomo.
Avremo dunque la scelta di brigare l’amore o la
stima della gente. L’amore è sempre
interessato, benchè a titoli diversi. Di più le condizioni
con cui lo si acquista non sono sempre tali
da rendercene fieri. E prima di tutto ci faremo
amare nella misura a cui abbasseremo le
nostre pretese di trovare spirito e cuore presso gli
altri, ma ciò seriamente, senza finzioni, e
non in virtù di quell’indulgenza che ha la sorgente
nel disprezzo. Per completare le premesse
che ajuteranno a tirar la conclusione, ricordiamo
anche la sentenza così vera di Helvetius: «Il grado di spirito necessario per
piacerci è una
misura assai precisa del grado di spirito che abbiamo noi
stessi». Succede tutto il contrario
quando si tratta della stima degli uomini:
non la si può ottenere che loro malgrado, quasi
strappandola; essi la tengono anche il più
delle volte nascosta. Ed è per tale ragione che
questa ci procura una soddisfazione interna
molto più grande; essa è in proporzione col
nostro valore, ciò che non è vero
direttamente dell’amore della gente, perocchè l’amore è
soggettivo, mentre è oggettiva la stima. Ma
il primo ci è di certo più utile.
26.° Gli uomini, nella maggior parte, sono
talmente personali che, in sostanza,
nessuna cosa ha interesse agli occhi loro
se non essi stessi, e ciò affatto esclusivamente. Ne
risulta che, qualunque sia l’argomento di
cui si parla, essi pensano tosto a sè stessi, e che
tutto quello che, per azzardo e pur
lontanamente, si riferisce a cosa che li riguardi, attira e si
cattiva tanto completamente la loro
attenzione che essi non hanno più la libertà di capire la
parte oggettiva del discorso; medesimamente
non v’hanno per loro ragioni valevoli dal
momento che queste contrariano il loro
interesse o la loro vanità. Perciò sono costoro così
facilmente distratti, così facilmente
feriti, offesi ed afflitti che, quando pure si parlasse con
essi dal punto di vista soggettivo, non
importa su cosa, non si saprà mai guardarsi
abbastanza da tutto ciò che potrebbe nel
discorso aver un rapporto possibile, forse ingrato,
col prezioso e delicato io che si ha davanti; niente
fuori di questo io, li
interessa, e mentre
non hanno sensi nè sentimento per quanto
v’ha di vero e di notevole, o di bello, di fine, di
spiritoso nelle parole altrui, possedono la
più squisita sensibilità per tutto ciò che, pur da
lontano ed in modo indiretto, può toccare
la loro meschina vanità o riferirsi
svantaggiosamente, in qualsivoglia modo, al
loro inapprezzabile io. Somigliano
davvero,
nella loro suscettibilità, a quei botoli
sulle cui zampe è così facile camminare per
inavvertenza e di cui bisogna poi
sopportare il guaire, od anche ad un malato coperto di
piaghe e di lividure che si deve con ogni
cura evitar di toccare. Ve n’ha di quelli presso i
quali la cosa arriva ad un tal punto che
sentono precisamente come un’offesa lo spirito ed il
senno che si mostra o che non si nasconde
abbastanza nel parlar con loro; non lo danno a
vedere, è vero, al momento, ma in seguito
colui che non ha abbastanza esperienza rifletterà
e si lambiccherà inutilmente il cervello
per sapere con che si abbia potuto attirare il rancore
e l’odio loro. Però è altrettanto facile
carezzarli e guadagnarseli. La loro sentenza quindi è
d’ordinario comperata: essa non è che un
decreto in favore del loro partito o della loro
classe, e non un giudizio oggettivo ed
imparziale. Ciò viene perchè presso di essi la volontà
sorpassa di molto l’intelligenza, e perchè
il loro debole intelletto è affatto sommesso al
servigio della volontà da cui non può
francarsi un solo istante.
Tale miserabile soggettività degli uomini
che li fa riferire tutto a sè stessi, e ritornare
immediatamente e in dritta linea da
qualunque punto di partenza alla loro persona, è provata
sovrabbondantemente dall’astrologia, che
rapporta il cammino dei grandi corpi
dell’universo al vilissimo io e che trova una certa
relazione tra le comete in cielo e le
contese e le miserie sulla terra. Ma così
fu sempre, anche nei tempi più antichi (si veda per
esempio Stobeo, Egloghe, L. I, c. 22, 9, pag. 478).
27.° Non bisogna disperare ad ogni
assurdità che si dice in pubblico o in società, che
si stampa nei libri e che è bene accolta od
almeno che non è confutata; e nemmeno bisogna
credere che essa rimarrà accettata per
sempre. Si sappia, a propria consolazione, che più
tardi e insensibilmente la cosa sarà
ruminata, lucidata, meditata, pesata, discussa, e il più
delle volte finalmente giudicata, di modo
che, dopo uno spazio di tempo variabile in
ragione della difficoltà della materia, la
gente quasi tutta finirà col capire ciò che una mente
chiara aveva scorto a prima vista. È certo
che nell’intervallo bisogna pazientare. Perocchè
l’uomo di senno fra persone che sono
nell’errore somiglia a colui che avesse l’orologio
perfettamente giusto in una città in cui
tutti gli orologi fossero mal regolati. Ei solo conosce
l’ora precisa, ma che giova? Tutti
prenderanno sempre norma dai pubblici quadranti che
indicano un’ora falsa: tutti, anche colui
che sapesse per caso come solamente l’orologio del
primo segni l’ora vera.
28.° Gli uomini somigliano ai fanciulli che
prendono brutte maniere quando sono
viziati; non si deve quindi esser troppo
indulgenti o troppo amabili verso alcuno. Come
ordinariamente non si perderà un amico per
avergli rifiutato un prestito, ma piuttosto per
averglielo accordato, così non lo si
perderà per un atteggiamento altero e per un po’ di
negligenza, ma piuttosto per un eccesso
d’amabilità e di cortesia: con ciò ei diviene
arrogante, insopportabile, e la rottura non
tarda a predarsi. È sopratutto l’idea che si ha
bisogno di loro che gli uomini non possono
assolutamente sopportare; essa è sempre
seguita inevitabilmente da arroganza e da
presunzione. Presso alcuni tale idea nasce già per
questo solo che una persona è in relazione
e discorre di sovente e famigliarmente con loro:
s’immaginano tosto che bisogna mostrarsi
condiscendenti, e cercheranno di estendere i
limiti della gentilezza. Per questo havvi
così scarsa gente da poter frequentare con un po’
d’intimità; sopratutto poi si deve
guardarsi da qualunque domestichezza con esseri di basso
grado. Che se per disgrazia un individuo di
questa specie s’immagina che io abbia bisogno
di lui assai più che egli non ne abbia di
me, proverà immediatamente un sentimento quale
se io gli avessi rubato qualche cosa:
allora cercherà di vendicarsi e di riacquistare la sua
proprietà. Non aver mai ed in alcun modo
bisogno degli altri e farlo veder loro, ecco
assolutamente la sola maniera di mantenere
la propria superiorità nelle relazioni. Per
conseguenza è cosa saggia far sentire a
tutti, uomini e donne, che si può benissimo star
senza di loro; ciò fortifica l’amicizia: è
anche utile di lasciar qualche volta introdursi un
granellino di disdegno nel nostro atteggiamento
verso la maggior parte degli amici; essi non
faranno che valutare a più alto prezzo la
nostra amicizia. «Chi non
istima vien stimato»39
dice finemente un proverbio italiano. Ma se
qualcuno avesse realmente un gran valore ai
nostri occhi bisognerebbe dissimularglielo
come un delitto. Ciò che davvero non è proprio
piacevole, ma in cambio è verissimo. A mala
pena i cani sopportano una grande
benevolenza; ben altrimenti gli uomini.
29.° Le persone della specie più nobile e
dotate delle più alte facoltà tradiscono,
specialmente in gioventù, una mancanza
sorprendente di conoscenza degli uomini e di
saper fare; si lasciano anche facilmente ingannare o
traviare, mentre esseri inferiori sanno
molto meglio e molto più prontamente vivere
nel mondo; ciò succede perchè, in mancanza
d’esperienza, si deve giudicare a priori e perchè
in generale nessuna esperienza vale l’a
priori. Alla gente di calibro ordinario questo a priori è fornito
dal loro stesso io, mentre non
lo è a coloro che hanno una nobile e degna
natura, perocchè è precisamente in questo che
costoro differiscono dagli altri. Valutando
quindi i pensieri e gli atti degli uomini ordinari
secondo i loro proprî, il conto non torna.
Ma anche quando un tal uomo avrà finalmente
imparato a posteriori, vale a
dire dalle
lezioni altrui e dalla propria esperienza,
ciò che deve aspettarsi dagli uomini; anche quando
avrà compreso che i cinque sesti di essi,
tanto dal lato morale quanto dal lato intellettuale,
sono fatti in modo che chi non è forzato
dalle circostanze ad entrar in relazione con loro,
farà cosa molto buona evitandoli fin da bel
principio e tenendosi per quanto è possibile
lontano dal loro contatto, anche allora
quest’uomo non potrà, ad onta di tutto, avere una
conoscenza sufficiente della loro
piccolezza e della loro meschinità; egli avrà per tutta la
vita da estendere e da completare questa
nozione, ma fino allora farà pur sempre calcoli
falsi a suo svantaggio. Inoltre, benchè
imbevuto degli insegnamenti ricevuti, gli succederà
qualche volta ancora, trovandosi in una
società di persone che non conosce, di sentirsi
meravigliato nello scorgere che tutti
paiono ragionevoli, leali, sinceri, onesti e virtuosi, e
fors’anco intelligenti e spiritosi. Ma che
ciò non lo tragga dalla buona strada, perchè deriva
semplicemente dal fatto che la natura non
procede come i cattivi poeti i quali, quando
devono presentare un briccone od un pazzo,
lo fanno così goffamente e con un’intenzione
così accentuata che si vede spuntare, per così
dire, dietro ognuno di questi personaggi
l’autore a sconfessarne costantemente il
carattere e i discorsi, ed a gridar forte in modo
d’avvertimento: «costui è una canaglia,
quest’altro è un matto; non prestate fede a quello
che dicono». La natura invece agisce alla
maniera di Shakespeare e di Goethe: nelle opere
di costoro, ogni personaggio, fosse pure il
diavolo stesso, per tutto il tempo in cui sta sulla
scena, parla come ragione vuole che parli;
esso è concepito in modo così oggettivamente
reale che ci attrae e ci costringe a
prender parte a’ suoi interessi; simile alle creazioni della
natura, è lo sviluppo di un principio
interno in virtù del quale i suoi discorsi e i suoi atti
appariscono come naturali e per conseguenza
necessari. Colui che crede che nel mondo i
diavoli non vadano mai senza corna e i
pazzi senza sonagli sarà sempre loro preda o loro
zimbello. Aggiungiamo ancora a tutto questo
che nelle loro relazioni, gli umani fanno come
la luna ed i gobbi, non ci mostrano, cioè,
che una sola faccia; essi hanno un talento innato
per trasformare con abile mimica il viso in
una maschera che rappresenta molto esattamente
ciò che dovrebbero essere in realtà; questa
maschera tagliata esclusivamente sulla misura
della loro individualità, si adatta e
conviene così perfettamente bene ad essi che l’illusione è
completa. Ciascuno se l’applica ogni qual
volta gli possa giovare per insinuarsi con arti
lusinghiere. Non bisogna fidarsi di essa
più che d’una maschera di tela cerata ricordando
quell’eccellente proverbio italiano: «Non è sì tristo cane che non meni la coda».40
Guardiamoci bene, in ogni caso, dal
formarci un’opinione molto favorevole di un
uomo appena fattane la conoscenza; saremmo
d’ordinario disingannati a nostra confusione
e forse pure a nostro danno. Ancora una
osservazione degna di nota: si è precisamente nelle
piccole cose, nelle quali non pensa a
badare al proprio contegno, che l’uomo svela il suo
carattere; si è nelle azioni
insignificanti, qualche volta nelle semplici maniere, che si può
facilmente osservare quell’egoismo
illimitato, senza riguardo per alcuno, che non si
smentirà mai in seguito nelle cose grandi,
ma che solamente sarà dissimulato. Che
occasioni simili non sieno perdute per noi!
Quando un individuo si conduce senza
discrezione alcuna nei piccoli incidenti
giornalieri, nei piccoli affari della vita, ai quali si
applica il motto: «De minimis lex non curat» (La
legge non si occupa di piccolezze),
quando ei non cerca nelle occasioni che il suo
interesse o i suoi comodi a danno degli altri,
o si appropria ciò che deve servire a
tutti, ecc., questo individuo, siatene pur certi, non ha in
cuore il sentimento del giusto; ei sarà un
furfante anche nelle grandi circostanze ogni qual
volta la legge o la forza non gli
legheranno le braccia; non permettete a quest’uomo di
passare la soglia di casa vostra. Sì, lo
affermo, colui che viola senza scrupolo le regole del
suo club, violerà egualmente le leggi dello
Stato non appena potrà farlo senza pericolo.41
Quando un uomo col quale siamo in rapporti
più o meno stretti ci fa qualche cosa che
ci dispiace o ci sdegna, noi non abbiamo
che da chiederci se egli ha o se non ha agli occhi
nostri abbastanza valore perchè accettiamo
da parte sua una seconda volta ed a riprese
sempre più frequenti un trattamento simile,
e fors’anco più accentuato (perdonare o
dimenticare significano gettare dalla
finestra l’esperienza acquistata a caro prezzo). Nel
caso affermativo, tutto è detto; perocchè
semplicemente parlare non servirebbe a nulla:
bisogna allora lasciar passare la cosa con
o senza ammonizione; ma dobbiamo ricordarci
che in tal modo ce ne attireremo
benevolmente la ripetizione. Nella seconda alternativa è
necessario, immediatamente e per sempre,
rompere ogni relazione col caro amico, o, se si
tratta d’un servo, congedarlo. Imperciocchè
ei farà, rinnovandosi il caso, inevitabilmente ed
esattamente la stessa cosa, o qualche cosa
affatto analoga, quand’anche al momento ci
giurasse ben altamente e sinceramente il
contrario. Si può tutto dimenticare, tutto, eccetto
sè stessi, eccetto il proprio essere.
Infatti il carattere è assolutamente incorreggibile, perchè
tutte le azioni umane partono da un
principio intimo, in virtù del quale un uomo deve
sempre agire nella stessa guisa trovandosi
nelle stesse circostanze, e non può condursi
altrimenti. Leggete la mia memoria,
premiata, sulla pretesa libertà della volontà e cacciate
ogni illusione. Riconciliarsi con un amico
col quale si aveva rotta l’amicizia è dunque una
debolezza che si dovrà espiare quando, alla
prima occasione, questi ricomincierà a fare
precisamente ciò che aveva determinato la
rottura, e lo farà per di più con maggior
sicurezza, perchè ha la coscienza secreta
di esserci indispensabile. Tutto questo si applica
egualmente ai domestici congedati che
riprendiamo al nostro servizio. Dobbiamo ancor
meno, e per gli stessi motivi, aspettarci
di veder che un uomo si comporti nello stesso modo
della volta precedente quando le circostanze
sono cangiate. Chè invece la disposizione e la
condotta degli uomini cangiano altrettanto
presto quanto il loro interesse: le intenzioni che
li muovono tirano le loro lettere di cambio
a vista così corta che bisognerebbe veder corto
ben di più per non lasciarle protestare.
Supponiamo ora che volessimo sapere come si
condurrà una persona in una
situazione in cui abbiamo intenzione di
metterla; per ciò non bisognerà contare sulle sue
promesse e sulle sue asserzioni. Perocchè
anche ammettendo che ne parli sinceramente,
essa parla pur sempre di una cosa che
ignora. Si è dunque dall’apprezzamento delle
circostanze in cui sarà per trovarsi, e del
conflitto di queste col suo carattere, che noi
potremo renderci conto del suo agire
futuro.
In tesi generale per acquistare la
comprensione netta, profonda e così necessaria della
vera e triste condizione degli uomini, è
eminentemente istruttivo l’impiegare, qual
commentario della condotta e dei raggiri
loro sul terreno della vita pratica, la condotta ed i
raggiri loro nel dominio della letteratura
e viceversa. Ciò è
molto utile per non cadere in
errore su sè stessi, nè su loro. Ma nel
corso di tale studio qualunque tratto di grande infamia
o stoltezza che potessimo incontrare sia
nella vita, sia in letteratura, non dovrà prestarci
soggetto per affliggerci o per metterci in
collera; esso dovrà servire unicamente alla nostra
istruzione offrendoci un lato complementare
del carattere della specie umana, che sarà
buona cosa non dimenticare. In tal maniera
osserveremo la faccenda come il mineralogista
esamina un saggio bene caratterizzato d’un
minerale cadutogli sotto la mano. V’ha delle
eccezioni, ve n’ha pure di
incomprensibilmente grandi, e le differenze tra le individualità
sono immense; ma, preso in massa, lo si è
detto da lungo tempo, il mondo è cattivo; i
selvaggi si mangiano tra loro, e i popoli
civili s’ingannano a vicenda, e questo si chiama
l’andamento delle umane cose. Gli Stati,
coi loro ingegnosi meccanismi diretti contro il di
fuori e il di dentro, e coi loro mezzi di
coazione, cosa sono dunque se non misure stabilite
per mettere un limite alla illimitata
perversità degli uomini? Non vediamo forse in ogni
storia, ciascun re, non appena è
solidamente assiso sul trono e non appena il suo paese gode
di qualche prosperità, profittarne per
piombare colla sua armata, come una banda di
briganti, sugli Stati vicini? Tutte le
guerre non sono forse in sostanza atti di brigantaggio?
Nella remota antichità e così pure durante una
parte del medio evo, i vinti diventavano
schiavi dei vincitori, ciò che, alla fin
fine, vuol dire che quelli dovevano lavorare per questi;
ma coloro che pagano contribuzioni di
guerra devono fare altrettanto, ossia dare il prodotto
del lavoro già fatto: In tutte le guerre non si tratta che di
rubare, scrisse Voltaire, e che i
Tedeschi se lo tengano per detto.
30.° Nessun carattere è tale che si possa
abbandonarlo a sè stesso e lasciarlo andare
liberamente; esso ha bisogno di esser
guidato con nozioni e massime. Che se, spingendo la
cosa all’estremo, si volesse fare del
carattere non il risultato della natura innata, ma
unicamente il prodotto d’una deliberazione
ragionata, per conseguenza un carattere del tutto
acquisito ed artificiale, si vedrebbe tosto
verificarsi la sentenza latina:
Naturam expelles furca, tamen usque recurret.
(Caccia
a forza la natura, nullameno essa ritornerà sempre di volo).
Infatti si potrà molto bene vedere od anche
scoprire e formulare perfettamente una regola di
condotta verso gli altri, e nondimeno nella
vita reale si peccherà fin dal bel principio contro
di essa. Tuttavia non si deve per ciò
perdere coraggio e credere che sia impossibile il
dirigere la propria condotta nella vita
sociale secondo regole e massime astratte, e che
quindi valga meglio lasciarsi andare alla
buona. Perocchè di queste succede come di tutte le
istruzioni e direzioni pratiche;
comprendere la regola è una cosa, e saperla applicare
un’altra. La prima si acquista ad un tratto
per mezzo dell’intelligenza, la seconda a poco a
poco per mezzo dell’esercizio. All’allievo
si son fatti vedere i tasti dell’istromento, le parate
e i colpi di fioretto; ma in pratica egli
s’inganna immediatamente malgrado la più buona
volontà e s’immagina allora che ricordarsi
queste lezioni nella rapidità della lettura
musicale o nell’ardore d’un assalto sia
cosa quasi impossibile. E tuttavia un po’ per volta, a
forza d’inciampare, di cadere e di
rialzarsi, l’esercizio finisce coll’insegnargliele; lo stesso
succede per le regole della grammatica
quando si apprende a leggere ed a scrivere in latino.
Non è altrimenti che un mascalzone diviene
cortigiano; una testa calda, un personaggio
eminente; l’uomo aperto, abbottonato; il
nobile, sarcastico. Tuttavia questa educazione di
sè, ottenuta siffattamente con lunga
abitudine, agirà sempre come uno sforzo venuto dal di
fuori, cui la natura non cesserà mai
dall’opporsi, e ad onta del quale finirà qualche volta
coll’irrompere da un varco inaspettato. Perocchè
qualunque condotta che abbia per motore
massime astratte si riferisce ad una
condotta decisa dalla inclinazione primitiva ed innata,
come un meccanismo alla mano dell’uomo: per
esempio un orologio, ove la forma e il
movimento sono imposti ad una materia che è
estranea ad essi, si riferisce ad un organismo
vivente in cui forma e materia si
compenetrano scambievolmente e non formano che una
cosa sola. Tale rapporto tra il carattere
acquisito e il carattere naturale conferma il pensiero
espresso dall’imperatore Napoleone: «Tutto ciò che non è naturale è
imperfetto.» Questo è
vero in tutto e per tutti, sia nel fisico
che nel morale; e la sola eccezione che io ricordi alla
regola si è la venturina naturale che non
vale l’artificiale.
Guardiamoci quindi da qualunque affettazione. Essa
provoca sempre il disprezzo:
prima di tutto è un inganno e come tale una
vigliaccheria, perchè si fonda sulla paura; e in
secondo luogo implica condanna di sè stesso
per mezzo di sè stesso, imperocchè si vuol
parere ciò che non si è, e si crede questo
esser migliore di ciò che si è. Il fatto d’affettare
una qualità, di vantarsene, è confessare di
non possederla. Quanta gente si gloria, di
coraggio o di dottrina, d’intelligenza o di
spirito, di successi colle donne o di ricchezze o di
nobiltà o d’altro, e si potrà invece
concludere che è precisamente su tale capitolo che manca
loro qualche cosa! Perocchè colui che
possede realmente e completamente una qualità non
si pensa di farne mostra e di affettarla;
egli è perfettamente tranquillo su tale rapporto. È
questo che vuol dire il proverbio
spagnuolo: «Herradura que
chacolotea clavo le falta» (A
ferratura crocchiante manca un chiodo). Non
si deve certo, l’abbiamo già detto,
abbandonare affatto le redini e mostrarsi
interamente quali si è; perchè la parte cattiva e
bestiale della nostra natura è
considerevole ed ha bisogno d’esser velata; ma ciò non
legittima che l’atto negativo, la
dissimulazione, e niente affattissimo il positivo, la
simulazione. Bisogna pure sapere che si
scopre l’affettazione in un individuo prima ancora
di capir chiaro ciò ch’egli voglia
precisamente affettare. Infine la cosa non può durare a
lungo, e la maschera un giorno finirà col
cadere: «Nessuno può
portare per lungo tempo la
maschera; le cose finte ben presto ritornano alla propria
natura» (Seneca, De
clementia,
L. I, c. 1).
31.° Nella stessa guisa che si porta il
peso del proprio corpo senza avvertirlo mentre
si sentirebbe il peso di qualunque oggetto
estraneo che si volesse muovere, così non si
scorgono che i difetti e i vizî degli altri
e non i proprî. In cambio però ciascuno possede in
altrui uno specchio nel quale può vedere
distintamente i suoi proprî vizî, i suoi difetti, e le
sue maniere grossolane e antipatiche. Ma
d’ordinario si fa come il cane che abbaja contro lo
specchio perchè non sa esser sè stesso
ch’ei vede e s’immagina invece d’aver davanti un
altro cane. Chi critica gli altri lavora
alla correzione di sè medesimo. Coloro dunque che
hanno una tendenza abituale a sottoporre
tacitamente nel loro fòro interno ad una critica
attenta e severa le maniere degli uomini,
ed in generale tutto ciò che questi fanno o non
fanno, costoro intendono a correggere ed a
perfezionare sè stessi: perocchè avranno
abbastanza equità od almeno abbastanza
orgoglio e vanità per evitare ciò che hanno tante
volte e così rigorosamente biasimato in
altrui. L’opposto succede per i tolleranti,
cioè:
«Hanc
veniam damus petimusque vicissim.» (Concediamo il perdono e lo chiediamo a
nostra volta). Il vangelo moralizza
mirabilmente bene su coloro che scorgono la pagliuzza
nell’occhio del vicino, e che non vedono la
trave nel proprio; ma la natura dell’occhio non
gli permette di guardare che al di fuori ed
esso non può quindi veder sè medesimo; per
questo, notare e biasimare i difetti degli
altri è un mezzo opportunissimo per farci sentire i
nostri. Ci occorre uno specchio per
correggerci. Questa regola è buona ugualmente quando
si tratta dello stile e del modo di
scrivere; chi in tali materie ammira qualunque nuova
pazzia, anzichè biasimarla, finirà col
farsene imitatore. Perciò in Germania siffatto genere
di follia si diffonde tanto presto. I
Tedeschi sono tolleranti: lo si scorge benissimo. Hanc
veniam damus petimusque vicissim, ecco la
loro impresa.
32.° L’uomo di specie nobile, in gioventù,
crede che le relazioni essenziali e decisive,
che creano veri legami tra gli uomini,
sieno quelle di natura ideale,
vale
a dire quelle
fondate sulla conformità del carattere,
della piega dello spirito, del gusto, dell’intelligenza,
ecc.; ma si avvede più tardi che sono
invece le reali, cioè
quelle che sono stabilite su
qualche interesse materiale. Sono esse che
formano la base di tutti i rapporti, e la
maggioranza degli uomini ignora che ve ne sieno
d’altra specie. Per conseguenza ciascuno
è scelto in ragione del suo ufficio, della
sua professione, del suo paese o della sua famiglia,
in generale dunque secondo la posizione e
la parte attribuitagli dalla convenzione; si è con
tale concetto che viene scompartita e
classificata, come articoli di fabbrica, la gente. Invece
ciò che un individuo è in sè e per sè, come
uomo, in virtù delle qualità sue, non è preso in
considerazione se non a piacimento, per
eccezione; ciascuno mette queste cose da un lato
non appena gli convien meglio, e le
dimentica. Quanto più un uomo avrà un valore
personale, tanto meno potrà convenirgli una
tale classificazione; cercherà quindi di
sottrarvisi. Osserviamo tuttavia che tale
maniera di trattare è fondata sul fatto che nel
mondo, in cui regnano la miseria e
l’indigenza, i mezzi che servono a tenerle lontane sono
la cosa essenziale e necessariamente
predominante.
33.° Come la carta monetata circola sul
mercato in luogo del danaro, così invece della
stima e dell’amicizia genuine sono la loro
dimostrazione esterna ed il loro atteggiamento
imitati quanto più naturalmente è
possibile, che hanno corso nel mondo. Si potrebbe, è
vero, domandarsi se havvi proprio gente che
meriti stima ed amicizia. Checchè ne sia ho
più fiducia in un bravo cane quando dimena
la coda che in tutte queste dimostrazioni e
cerimonie. La vera, la sincera amicizia
presuppone che, fra amici, l’uno prenda una parte
vivissima, puramente oggettiva ed affatto
disinteressata, alla felicità ed alle disgrazie
dell’altro, e tale associazione suppone a
sua volta un reale identificarsi con l’amico.
L’egoismo della natura umana è talmente
opposto a questo sentimento che l’amicizia vera
fa parte di quelle cose circa le quali
s’ignora, come per il gran serpente di mare, se
appartengano al regno delle favole o se
esistano in qualche luogo. Tuttavia si danno qualche
volta fra gli uomini certe relazioni le
quali, benchè fondate in essenza su motivi
segretamente egoistici di molteplice
natura, sono condite nullameno d’un grano di amicizia
genuina e sincera, ciò che basta a dar loro
una tale impronta di nobiltà che possono, in
questo mondo delle imperfezioni, portare
con qualche diritto il nome d’amicizia. Tali
relazioni si levano altamente sopra gli
avvicinamenti d’ogni giorno; questi sono di tale
natura che noi non rivolgeremmo più mai la
parola alla maggior parte delle nostre buone
conoscenze se intendessimo ciò che esse
dicono di noi in nostra assenza.
A lato dei casi nei quali si ha bisogno di serî
soccorsi e di sacrifizî considerevoli, la
migliore occasione per mettere alla prova
la sincerità d’un amico si è il momento in cui gli
annunciate una disgrazia che vi ha
improvvisamente colpito. Vedrete allora dipingersi sul
suo viso un’afflizione vera, profonda e
schietta, od al contrario colla sua calma
imperturbabile, con uno sberleffo d’un
istante confermerà la massima di La Rochefoucauld:
«Nelle
sventure dei nostri migliori amici troviamo sempre qualche cosa che non ci
dispiace.» Coloro che sono detti abitualmente amici
possono appena, in tali occasioni,
reprimere il piccolo fremito, il leggero
sorriso di soddisfazione. V’hanno poche cose che
mettano la gente così indubitatamente di
buon umore come il racconto di qualche calamità
che ci ha colpito recentemente od anche la
confessione sincera che si fa loro di qualche
debolezza personale. È cosa invero
caratteristica.
La lontananza e la lunga assenza portano
danno a qualunque amicizia, sebbene non lo
si confessi volentieri. Le persone che non
vediamo più, fossero pure nostri carissimi amici,
insensibilmente col passar del tempo
svaniscono fino allo stato di nozioni astratte, ciò che
fa che il nostro interesse per loro diventi
sempre più un semplice affare di ragionamento,
anzi di tradizione; il sentimento vivo e
profondo resta serbato per coloro che abbiamo
davanti gli occhi, quand’anche non fossero
che gli animali prediletti. Siffattamente la natura
umana è guidata dai sensi. Qui ancora
Goethe ha ragione di dire: Il
presente è una divinità
grandissima (Tasso,
atto
IV, scena IV).
Gli amici di casa sono d’ordinario ben chiamati con questo
nome, perchè sono più
attaccati alla casa che al padrone di essa;
costoro somigliano ai gatti piuttosto che ai cani.
Gli amici si dicono sinceri: solamente i
nemici sono sinceri; perciò si dovrebbe, per
imparare a conoscere sè stesso,
approffittarsi del loro biasimo come d’una medicina amara.
Sono rari gli amici nel bisogno? Al
contrario! Appena si è fatto amicizia con un
uomo, ecco che questi è tosto in bisogno e
che vi chiede a prestito denaro.
34.° Come bisogna esser novizî per credere
che il far mostra di spirito e di senno sia
un mezzo per riescire ben visti in società!
Chè, ben al contrario, ciò suscita presso la
maggior parte della gente un sentimento di odio
e di rancore tanto più amaro in quanto che
chi lo prova non è autorizzato a
dichiararne il motivo; anzi lo dissimula pure a sè stesso.
Ecco dettagliamente come succede la
faccenda: fra due interlocutori non appena uno
osserva e sente una grande superiorità
nell’altro, ne conchiude tacitamente e senza averne la
coscienza ben chiara che costui pure
osserva e sente nel medesimo grado l’inferiorità e lo
spirito limitato di chi gli sta davanti.
Tale contrasto eccita al più alto grado il suo odio, il
suo rancore, la sua rabbia.42 Perciò Graciano dice con ragione: «Il solo mezzo che valga per
rimaner tranquilli si è il vestire la pelle del più semplice
fra gli animali43». Mettere
in luce
spirito e senno è un modo indiretto di
rimproverare agli altri l’incapacità e la stupidezza.
Una natura volgare s’irrita all’aspetto
della natura opposta; motore secreto dello stizzirsi è
l’invidia. Perocchè soddisfare alla propria
vanità è, come lo si può scorgere ogni momento,
un piacere che presso gli uomini passa
avanti ogni altro, ma che però non è possibile se non
in virtù d’un confronto fra sè stessi e gli
altri. E non si danno meriti di cui gli uomini sieno
più fieri che di quelli dell’intelligenza,
visto che su di essi è fondata la loro superiorità
riguardo gli animali. È dunque una
grandissima temerità il mostrar loro una spiccata
superiorità intellettuale, sopratutto
davanti testimoni. Ciò provoca la loro vendetta, e
d’ordinario essi cercheranno d’esercitarla
colle ingiurie, perocchè passano così dal dominio
dell’intelligenza a quello della volontà
nel quale siamo tutti eguali. Se dunque la posizione
e le ricchezze possono sempre contare in
società sulla considerazione, le qualità intellettuali
non devono aspettarsela; ciò che può loro
toccare di meglio si è che non si faccia loro
attenzione; che altrimenti saranno
considerate come una specie d’impertinenza o come un
bene che è stato acquistato per vie
illecite e di cui il proprietario ha l’audacia di gloriarsi;
per questo ciascuno si propone tacitamente
di infliggergli in appresso qualche umiliazione
su tale proposito, e allo scopo non attende
che l’occasione favorevole. Appena con
umilissimo atteggiamento si riescirà a
strappare, come una elemosina, il perdono della
propria superiorità intellettuale. Dice
Saadi nel Gulistan: «Sappiate che si trova presso
l’uomo irragionevole cento volte più d’avversione per il
ragionevole di quello che questi
non ne provi per il primo.» L’inferiorità intellettuale
invece equivale ad un vero titolo di
raccomandazione. Perocchè il sentimento
benefico della superiorità è per lo spirito ciò che
il calore è per il corpo; ciascuno
s’avvicina all’individuo che gli procura tale sensazione per
lo stesso istinto che lo spinge ad
avvicinarsi alla stufa o ad andarsi a mettere sotto i raggi
del sole. Ora a ciò non v’ha che
l’individuo assolutamente inferiore, nelle facoltà
intellettuali per gli uomini, in bellezza
per le donne. Conviene confessare che per lasciar
scorgere, in presenza di certa gente, una
inferiorità non simulata bisogna possederne una
buona dose. In cambio vedete con quale
amabile cordialità una ragazza mediocremente
bella va incontro ad una essenzialmente
brutta. Il sesso maschile non annette grande valore
ai vantaggi fisici, benchè si preferisca meglio
trovarsi a lato d’una persona più piccola
piuttosto che di una più grande di sè
stessi. Per conseguenza fra gli uomini sono gli sciocchi
e gl’ignoranti che riescono graditi e
cercati dovunque, fra le donne le brutte; si fa loro
immediatamente la riputazione d’aver un
cuore eccellente, visto che ciascheduno ha
bisogno d’un pretesto per giustificare le
proprie simpatie agli occhi di sè stesso e degli altri.
Per la medesima ragione qualunque
superiorità di spirito ha la proprietà d’isolare: la si
fugge, la si odia e per aver un pretesto a
ciò si prestano a chi la possede difetti d’ogni
sorta44. La bellezza produce
esattamente lo stesso effetto tra le donne; le ragazze, quando
sono molto belle, non trovano amiche e
nemmeno compagne. Che esse non s’immaginino
di cercare in qualche parte un posto di
damigella di compagnia; non appena si
presenteranno, il viso della dama presso la
quale sperano entrare si farà scuro; perocchè, sia
per suo conto, sia per le sue figlie, essa
non ha affatto bisogno del risalto d’una bella figura.
Avviene invece ben altrimenti quando si
tratta dei vantaggi del grado, perchè questi non
agiscono, come i meriti personali, per
effetto del contrasto e del rilievo, ma per riverbero,
come i colori circonvicini quando si
riflettono sul viso.
35.° La pigrizia, l’egoismo e la vanità
hanno molto spesso la parte più grande nella
confidenza che noi concediamo ad altri: la
pigrizia, quando per non esaminare, curare,
operare da noi stessi, preferiamo
confidarci ad un’altra persona; l’egoismo, quando il
bisogno di parlare degli affari nostri ci
porta a fare qualche confidenza ad alcuno; la vanità
quando questi affari sono tali da
rendercene gloriosi. Ma ad onta di ciò non pretendiamo
meno che si apprezzi la nostra confidenza. Noi
al contrario non dovremmo mai essere
irritati per la diffidenza, perchè essa
racchiude un complimento all’indirizzo della probità
ed è la confessione sincera della sua
estrema scarsezza la quale fa sì che essa appartenga a
quelle cose di cui si mette in dubbio
l’esistenza.
36.° Ho presentato nella mia Morale, p. 201 (2a ed. 198). una delle basi della
compitezza, virtù cardinale presso i
Chinesi; l’altra è la seguente. La compitezza è stabilita
sopra una convenzione tacita di non
osservare gli uni presso gli altri la miseria morale ed
intellettuale della condizione umana e di
non rinfacciarsela reciprocamente; d’onde risulta
che essa appare meno facilmente con
vantaggio d’ambo le parti.
Compitezza è prudenza; scortesia dunque è
balordaggine; farsi dei nemici senza
necessità e senza motivo colla rozzezza è
follia: la stessa cosa come se si dasse fuoco alla
propria casa. Perocchè la cortesia è, come
i gettoni, moneta notoriamente falsa: risparmiarla
è prova di demenza, usarne con liberalità,
di senno. Tutte le nazioni terminano le lettere
colla formola: «Votre très-humble serviteur, Your most
obedient servant, Suo devotissimo
servo»; solo i Tedeschi sopprimono il «Diener» (servo), perchè non è vero,
dicono. Chi
invece spinge la compitezza fino al
sacrifizio d’interessi reali, somiglia all’uomo che desse
monete d’oro per gettoni. Nella stessa
guisa che la cera dura e fragile per sua natura,
diviene per mezzo d’un po’ di calore così
malleabile da prendere quella forma qualunque
che piacerà darle, così pure si può, con un
granellino di cortesia e di amabilità, render
pieghevoli e compiacenti perfino uomini
burberi ed ostili. La compitezza è dunque per
l’uomo ciò che il calore è per la cera.
Però davvero è questo un grave compito, nel senso
che c’impone testimonianze di stima per
tutti, quando la maggior parte della gente non ne
merita punto; esige inoltre che abbiamo da
fingere il più vivo interesse, quando dovremmo
invece starcene beati di non sentirne
affatto. Mettere insieme la politezza e la dignità è un
colpo da maestro.
Le offese, consistendo sempre alla fin fine
in manifestazioni di mancanza di
considerazione, non ci metterebbero così
facilmente fuori di noi se, da una parte, non
nutrissimo una opinione molto esagerata del
nostro alto valore e della nostra dignità, ciò
che è proprio d’un orgoglio smisurato, e
se, d’altra parte, ci rendessimo conto di quello che
ordinariamente ognuno, in fondo al cuore,
crede e pensa riguardo gli altri. Quale stonante
contrasto pertanto tra la suscettibilità
della maggior parte degli uomini per la più leggera
allusione critica diretta contro di loro, e
ciò che i medesimi dovrebbero udire se potessero
sorprendere quanto dicono di essi le loro
conoscenze! Faremmo ottima cosa ricordandoci
sempre che la compitezza non è che una
maschera beffarda; in tal modo non ci metteremmo
a strillare come pavoni ogni volta che la
maschera si sposta un po’, o che viene smessa per
un momento. Quando un individuo diventa
apertamente villano è la stessa cosa come se si
spogliasse delle sue vesti e si mostrasse in puris naturalibus. Certamente
apparirebbe molto
brutto, come la maggior parte della gente
in tale stato.
37.° Non bisogna modellarsi sopra un altro
per quello che si vuol fare o non fare,
perchè le situazioni, le circostanze, le
relazioni non sono mai le stesse e perchè anche la
differenza di carattere dà tutt’altra tinta
all’azione; per questo «duo
cum faciunt idem, non
est idem» (quando due persone fanno la stessa cosa,
questa tuttavia non risulta la stessa).
Occorre, dopo matura riflessione, dopo
seria meditazione, agire conformemente al proprio
carattere. L’originalità è dunque
indispensabile anche nella vita pratica; senza di essa ciò
che si fa non s’accorda con ciò che si è.
38.° Non combattete l’opinione altrui;
pensate che se si volesse correggere la gente di
tutte le assurdità a cui crede non si
avrebbe finito quand’anche si vivesse gli anni di
Matusalem.
Asteniamoci inoltre nel conversare da
qualunque osservazione critica, quando pure
questa fosse fatta nella migliore
intenzione, perciocchè offendere gli uomini è cosa facile,
difficile invece, se non impossibile,
correggerli.
Quando in una conversazione le assurdità
che sentiamo cominciano a metterci in
collera, dobbiamo immaginare d’assistere ad
una scena di commedia tra due pazzi:
«Probatum
est.» L’uomo nato per istruire il mondo sugli argomenti più
importanti e più
seri può chiamarsi fortunato quando se ne
tira sano e salvo.
39.° Chi vuole che la sua opinione trovi credito
deve enunciarla freddamente e
spassionatamente. Perocchè qualunque impeto
procede dalla volontà; è dunque a questa,
non alla ragione, che è fredda di sua
natura, che sarebbero attribuiti i giudizi espressi. Infatti
essendo la volontà nell’uomo il principio
radicale, ed essendo la ragione solo secondaria e
venuta accessoriamente, si considererà il
raziocinio come nato dalla volontà eccitata,
piuttosto che l’eccitazione della volontà
come prodotta dal raziocinio.
40.° Non si deve abbandonarsi a lodare sè
stessi, quand’anche se ne avesse tutto il
diritto. Imperocchè la vanità è cosa tanto
comune, e il merito tanto raro, che ogni qual volta
sembrerà che ci lodiamo, per quanto
indirettamente ciò avvenga, ciascuno scommetterà
cento contro uno che per mezzo della nostra
bocca ha parlato solo la vanità, perchè essa non
ha abbastanza buon senso per capire la
ridicolaggine della millanteria. Nondimeno Bacone
da Verulamio potrebbe non affatto aver
torto quando pretende che il «semper
aliquid
haeret» (ne resta sempre qualche cosa) non sia
vero solamente della calunnia, ma anche
della lode di sè, e quando raccomanda
quest’ultima a dosi moderate45.
41.° Quando sospettate qualcuno di
menzogna, fingete credulità; allora ei diverrà
sfrontato, mentirà più spudoratamente, e
sarà smascherato. Se invece scorgete che una
verità che vorrebbe dissimulare, gli sfugge
in parte, fate l’incredulo affinchè, provocato
dalla contraddizione, ei metta fuori tutta
la riserva.
42.° Consideriamo tutti i nostri affari
personali quali secreti; al di là di ciò che i nostri
buoni conoscenti veggono coi proprî occhi,
conviene restar loro del tutto ignoti.
Imperciocchè quello che essi saprebbero
circa le cose le più innocenti può, a tempo ed a
luogo, esserci funesto. In generale val
meglio manifestare il proprio senno con ciò che si
tace piuttosto che con ciò che si dice.
Effetto di prudenza nel primo caso, di vanità nel
secondo. Le occasioni di tacersi e quelle
di parlare si presentano in numero eguale, ma noi
preferiamo spesso la momentanea soddisfazione
che procurano le ultime al profitto durabile
che ricaviamo dalle prime. Si dovrebbe
rifiutarsi perfino quel sollievo che si prova parlando
qualche volta ad alta voce con sè stessi,
ciò che tocca facilmente alle persone di gajo
umore, per non prenderne l’abitudine;
perocchè con questo il pensiero diventa l’anima ed il
fratello della parola a tal punto che
insensibilmente arriviamo a parlare anche cogli altri
come se pensassimo ad alta voce, mentre la
prudenza raccomanda di mantenere un largo
fosso sempre aperto tra il pensiero e la
parola.
Ci sembra talora che gli altri non possano
assolutamente credere ad una cosa che ci
riguarda, mentre invece non pensano
minimamente a dubitarne; se però ci avviene di
risvegliare in essi un tal dubbio, allora
infatti non potranno più prestarvi fede. Ma noi ci
tradiamo unicamente coll’idea che è
impossibile che non lo si noti; ci precipitiamo così da
noi stessi da un’altezza per effetto del
capogiro vale a dire del pensiero che non sia
possibile di restare solidamente a quel
posto e che l’angoscia di esser là sia così straziante
che valga meglio abbreviarla: tale
illusione si chiama vertigine.
D’altra parte bisogna tener a mente che
tutti, anche coloro che altrove non fanno
mostra di perspicacia, sono eccellenti
algebristi quando si tratta degli affari personali altrui;
su quest’argomento, data una sola quantità,
essi sciolgono i più complicati problemi. Se,
per esempio, si racconta loro una storia
passata sopprimendo i nomi e tutte le altre
indicazioni sulle persone, bisogna
guardarsi bene dall’introdurre nella narrazione il più
piccolo dettaglio positivo e speciale, come
la località, o la data, o il nome d’un personaggio
secondario, o qualunque cosa che avesse
connessione anche lontanissima coll’affare,
perocchè essi troverebbero subito una
grandezza stabilita positivamente, per mezzo della
quale il loro talento algebrico dedurrebbe
tutto il resto. L’esaltamento della curiosità in
questo caso è tale che col suo ajuto la
volontà mette gli sproni sui fianchi dell’intelletto, il
quale, spinto in siffatta guisa, giunge ai
risultati più lontani. Perciocchè tanto gli uomini
hanno scarsa attitudine e curiosità per le
verità generali, quanto
sono avidi delle verità
individuali.
Ecco perchè il silenzio è stato così istantemente
raccomandato da tutti i maestri di
saggezza cogli argomenti più svariati in
appoggio. Non occorre quindi che io insista più a
lungo; mi limiterò a riportare alcune
massime arabe molto efficaci e poco note: «Non dire
all’amico ciò che non deve sapere il nemico». — «È necessario che io custodisca il mio
secreto, esso è mio prigioniero; non appena me lo lascio
sfuggire, divento io suo
prigioniero». — «Dall’albero del silenzio pende per frutto la tranquillità».
43.° Non v’ha danaro meglio impiegato di quello
che ci siamo lasciato rubare,
imperciocchè esso ci ha servito
immediatamente a comperare della prudenza.
44.° Non conserviamo, per quanto sia
possibile, animosità contro alcuno;
contentiamoci di notar con cura il «procedere» di chi
ci avvicina, e ricordiamocene per
stabilire con ciò il valore di ciascheduno
almeno su quanto ci riguarda, e per regolare in
conseguenza il nostro atteggiamento e la
nostra condotta verso la gente; si sia sempre ben
convinti che il carattere non cangia mai:
dimenticare un tratto villano è un gettare dalla
finestra danaro guadagnato penosamente. Ma
seguendo la mia raccomandazione si sarà
protetti contro la pazza confidenza, e
contro la pazza amicizia.
«Non
aver amore nè odio» compendia metà della più alta saviezza; «non dir verbo e
non credere in cosa alcuna», ecco
l’altra metà. Davvero che si volterà ben volentieri la
schiena ad un mondo che rende necessarie
regole come queste e come le seguenti.
45.° Mostrar odio o collera nelle parole o
nelle fattezze è inutile, è dannoso,
imprudente, ridicolo, volgare. Non si deve
palesare odio o collera che cogli atti. In questa
seconda maniera si otterrà un effetto tanto
più sicuro quanto meglio si seppe guardarsi dalla
prima. Gli animali a sangue freddo soli
sono velenosi.
46.° «Parler sans accent»: questa vecchia
regola della gente di mondo insegna che si
deve lasciare all’intelligenza altrui la
cura di decifrare ciò che si è detto; la facoltà di
comprendere è lenta, e, prima che si sia
svolta interamente, voi siete lontani. Invece «parler
avec accent» significa indirizzarsi al sentimento, e
allora tutto è rovesciato. Havvi tal gente
a cui, con gesto cortese ed in tuono
amichevole, si può dire in realtà delle sciocchezze senza
pericolo immediato.
4. Circa
la nostra condotta
di faccia all’andamento del mondo ed alla sorte.
47.° Qualunque aspetto presenti l’umana
esistenza, gli elementi ne sono sempre
eguali; perciò l’essenza rimane la stessa
si viva pure in una capanna od alla Corte, in
convento o nell’armata. Ad onta della loro
varietà gli avvenimenti, le avventure, i casi lieti
o tristi della vita somigliano agli
articoli del confettiere; le figure sono svariate e numerose,
ve n’ha di circolari o di screziate, ma
tutto esce dalla stessa pasta, e gli accidenti toccati ad
una persona sono molto più simili a quelli
avvenuti ad un’altra che questa sentendone il
racconto non pensi. I casi della nostra
vita hanno anche simiglianza colle figure del
caleidoscopio: ad ogni giro vediamo qualche
combinazione nuova mentre in realtà abbiamo
sotto gli occhi sempre la stessa cosa.
48.° Tre potenze dominano il mondo, dice
molto acutamente un antico: «συνεσις,
κρατος,
και τύχη,» prudenza, fortezza e fortuna. Io
credo che quest’ultima sia la maggiore.
Imperciocchè il cammino della vita possa
esser paragonato al corso di un bastimento. La
sorte, la τύχη, la secunda aut adversa fortuna, fa la
parte del vento che rapidamente spinge
da lontano, avanti o indietro, mentre
contro di essa poco valgono i nostri sforzi e le nostre
cure. Si è ufficio di queste il servire da
remi; quando, dopo molte ore di lungo lavoro ci
hanno portato in avanti d’un tratto di via,
ecco che un colpo improvviso di vento ci respinge
indietro d’altrettanto. Se all’incontro il
vento è favorevole, ci manda avanti così bene che
possiamo fare a meno di remo. Un proverbio
spagnuolo esprime con energia incomparabile
questa potenza della sorte: «Da ventura a tu hijo, y echa lo en el mar» (dà
fortuna al
figliuolo tuo e buttalo in mare).
Ma il caso è una malvagia potenza, cui
dobbiamo fidarci il meno possibile. Eppure
qual’è, fra tutti i dispensatori di beni,
il solo che quando ci dà, ci dimostra nel tempo stesso
chiaramente che non abbiamo diritto ai doni
suoi e che non ne dobbiamo render grazie al
nostro merito, ma alla sua bontà ed al suo
favore, e che in conseguenza ci è permesso di
nutrire la gioconda speranza di ottenere in
seguito, umilmente sottomessi, nuovi regali,
altrettanto poco meritati? E il caso: il
caso che sa l’arte sovrana di far comprendere
luminosamente che di faccia al suo favore
ed alla sua grazia qualunque merito è privo di
forza e di valore.
Quando si getta indietro uno sguardo sul
cammino della vita, e quando, abbracciando
nell’insieme il suo corso tortuoso e
perfido come un laberinto, si scorge la felicità tante
volte fallita, la sventura tante volte
tirataci addosso, allora si sarà facilmente condotti a
passar la misura dei rimproveri verso sè
stessi. Perocchè il corso della nostra esistenza non
è unicamente semplice opera nostra; bensì il
prodotto di due fattori, cioè la serie degli
avvenimenti e la serie delle nostre
decisioni, che si compenetrano e si modificano
scambievolmente. Di più avviene che in
ambedue questi fattori il nostro orizzonte è sempre
assai circoscritto, non potendo noi di
lontano predire le nostre decisioni, nè ancor meno
prevedere gli avvenimenti, ma solo di
questi e di quelle conoscere veramente ciò che è
presente al momento. Ne segue che non
possiamo, finchè la meta è lontana, nemmeno una
volta dirigere diritto su essa il nostro
timone; ma solo in via approssimativa e dietro
congetture volgere per quel verso la nostra
direzione; spesso dunque ci conviene
bordeggiare. Infatti tutto quello che ci è
dato di poter fare si è di deciderci ogni volta
secondo le circostanze presenti, nella
speranza di coglier abbastanza giusto per raggiungere
lo scopo principale. In questo senso gli
avvenimenti e le nostre risoluzioni più importanti
sono ordinariamente da paragonare a due
forze che agiscono in direzioni differenti e di cui
la diagonale rappresenta il corso della
vita nostra. Terenzio ha detto: «Succede
della vita
degli uomini come di una partita di dadi: se non si ottiene
il punto di cui si ha bisogno, è
necessario saper tirar partito da quello che la sorte ha
dato»; Terenzio in questo punto
deve aver avuto in vista una specie di tric-trac. Più
brevemente possiamo dire: la sorte
distribuisce le carte e noi giuochiamo. Ma
l’esempio che segue è il più adatto a spiegare la
presente mia osservazione. Nella vita le cose
passano come nel giuoco degli scacchi; noi ci
facciamo un piano: questo però rimane
subordinato a quanto piacerà fare nella partita
all’avversario, e nella vita al destino. Le
modificazioni che il nostro piano subisce sono,
molto spesso, così grandi che
nell’esecuzione esso è appena riconoscibile da qualche linea
fondamentale.
Del resto nel corso della nostra vita havvi
qualche cosa ancora che sta sopra a tutto
ciò. È infatti una verità volgare e troppo
sovente confermata che noi siamo spesso più pazzi
che non si creda; in cambio l’essere più
savi che non si supponga è tale scoperta che solo
possono fare, e per di più ben tardi,
coloro che si sono trovati in questo caso. Qualche cosa
c’è in noi di più accorto della testa. Vale
a dire che nei grandi momenti, nei passi più
importanti della nostra vita noi operiamo
non tanto secondo la nozione chiara del giusto
quanto in virtù di un impulso interno,
impulso che potremmo chiamare istinto proveniente
dalle profondità intime dell’esser nostro: dopo
di che il nostro operare viene alterato da un
concetto delle cose chiaro bensì, ma
meschino, anzi accattato da regole generali, da esempi
altrui, e così di seguito, senza che sia
ponderato il detto: «quello
che giova ad uno non
giova a tutti»; in siffatta guisa diveniamo facilmente
ingiusti verso noi medesimi. Alla fine
si conosce chi ha avuto ragione, e solo la
vecchiaia raggiunta felicemente è soggettivamente
ed oggettivamente in condizione di
giudicare la quistione.
Forse cotesto impulso interno è diretto,
senza che noi ce ne avvediamo, da sogni
profetici, dimenticati allo svegliarci,
sogni che appunto così danno alla nostra vita
quell’intonazione armonica e quell’unità
drammatica che non le potrebbe procurare la
coscienza cerebrale così spesso vacillante
e fallace, e così facilmente variabile; per ciò forse
avviene, per esempio, che l’uomo chiamato a
produrre grandi opere in un ramo speciale, ne
ha, fino dalla giovinezza, il sentimento
intimo e secreto, e lavora in vista di tale risultato
come l’ape alla costruzione del suo
alveare. Ma per ogni uomo, ciò che lo spinge si è quella
forza che Baldassare Graciano chiama «la grande sinderesi», vale a
dire la cura istintiva ed
energica di sè stesso, senza di cui
l’essere va a rovina. Agire secondo principî
astratti è
cosa malagevole, e non riesce che dopo
lunga pratica, e non sempre; spesso anche tali
principi sono insufficienti. All’incontro
ognuno possede certi principî
innati e concreti, che
sono per lui sangue e vita, perchè
risultato di tutto il suo pensare, del suo sentire e del suo
volere. Il più delle volte non li conosce in abstracto; solamente
portando lo sguardo sulla
sua vita passata, scorge che ha sempre
obbedito loro, e che fu da essi guidato come da un
filo invisibile. Secondo le loro qualità, essi
lo condurranno al bene suo, od al suo male.
49.° Bisognerebbe aver sempre davanti gli
occhi l’azione del tempo e la mutabilità
delle cose; per conseguenza in tutto quello
che accade attualmente, poter immaginare
l’opposto: rappresentare dunque a sè con
vivi colori nella sventura la felicità, nell’amicizia
la nimistà, nel tempo sereno la cattiva
stagione, nell’amore l’odio, nella fiducia e
nell’espansione il tradimento e il
pentimento, e viceversa. Troveremmo così una fonte
perenne di vera filosofia pratica su questa
terra, perocchè saremo sempre cautamente
avveduti, nè così facilmente soggetti ad
inganni. Del resto nei casi più frequenti non
avremo con ciò che anticipato sull’azione
del tempo. Ma forse per nessun’altra conoscenza
umana è tanto necessaria l’esperienza
quanto per il giusto apprezzamento dell’instabilità e
del mutare delle cose. Siccome ogni
situazione, nel tempo della sua durata, esiste
necessariamente e quindi di pieno diritto,
sembra che ogni anno, ogni mese ed ogni giornata
varranno finalmente a conservarci un tale
diritto per l’eternità. Ma nessuna cosa dura, la
mutabilità sola è veramente esistente e
positiva. Saggio è colui che non è ingannato
dall’apparente stabilità delle cose, e che
inoltre sa prevedere il nuovo indirizzo che sarà
preso nel prossimo cambiamento46. Che gli uomini in via ordinaria tengano
come
permanente lo stato momentaneo delle cose o
la direzione del loro corso, deriva da ciò, che
essi pure avendo sotto gli occhi l’effetto
non ne comprendono le cause; eppure sono queste
che racchiudono in sè il germe dei
mutamenti futuri, mentre gli effetti, che soli esistono per
costoro, non contengono nulla di simile. Si
tengono al risultato nella presupposizione che le
cause ignote che ebbero il potere di
produrlo, saranno pure in condizione di mantenerlo.
Hanno in questo il vantaggio, quando
sbagliano, di sbagliare all’unisono;
ne
segue dunque
che la sventura, da cui sono colpiti in
conseguenza dell’errore, è sempre generale, mentre il
pensatore, quando s’inganna, si trova per
di più isolato. Incidentalmente dirò come si abbia
in questo una conferma della mia massima
che l’errore procede sempre da una conclusione
di effetto a causa. (Si veda Il mondo come volontà e come
rappresentazione, v. I, p. 90).
Tuttavia solo in via teoretica, e
prevedendo la sua azione, dobbiamo anticipare
sul
tempo: non in via pratica; ciocchè vuol dire che
non si deve commettere usurpazioni
sull’avvenire domandando prima del tempo quello che
solamente col tempo ci può
esser
dato. Chiunque agisce così, esperimenterà
presto che non v’ha davvero peggior usuraio, nè
più irremissibile del tempo; e che esso, se
costretto ad imprestiti, esige interessi più gravi
che forse non farebbe un ebreo. Si può, ad
esempio, con calce viva e calore spingere la
vegetazione d’un albero per modo che nel
termine di pochi giorni metta foglie, fiori e
frutta; ma poi esso muore. Se il giovinetto
vuole esercitare, anche solo per pochi giorni, la
potenza virile dell’uomo, e fare a dicianov’anni
ciò che gli sarebbe facile a trenta, il tempo
gliene concederà bene il prestito, ma una
parte della forza degli anni avvenire, forse una
parte della sua stessa vita, servirà
d’interesse. Vi sono malattie dalle quali radicalmente non
si guarisce se non lasciando ad esse il
loro corso naturale; dopo di che spariscono da sè
medesime senza lasciar traccia. Ma se si
esige pronta guarigione, proprio sul momento
preciso, anche in questo caso il tempo
dovrà dare a prestito; la malattia sarà vinta, ma il
frutto da pagare sarà costituito da
debolezza e da mali cronici per tutta la vita. Allorchè in
tempo di guerra o di agitazioni popolari,
si vuole valersi di danaro, e subito, proprio nel
momento stesso, si è costretti a vendere
per il terzo del loro valore, e forse per meno
ancora, i beni immobili o le carte dello
Stato, di cui si avrebbe l’intero prezzo se si lasciasse
tempo al tempo, ossia se si volesse
aspettare qualche anno; ma invece si costringe il tempo
ad un imprestito. Ovvero si abbisogna di
una somma per un viaggio lontano: in capo ad uno
o due anni si potrebbe avere il danaro
necessario risparmiando sulle proprie rendite. Ma non
si vuole aspettare: si cercherà dunque
quanto occorre a credenza, o lo si toglierà dal
capitale; in altre parole ecco il tempo
costretto ad un nuovo prestito. Qui l’interesse sarà un
disordine di cassa sempre maggiore, un deficit permanente
e crescente da cui non ci
libereremo mai. Tale l’usura del tempo;
tutti coloro che non sanno aspettare saranno sue
vittime. Non havvi impresa più arrischiata
del voler affrettare il corso misurato del tempo.
Guardiamoci dunque dall’essergli debitori
d’interessi.
50.° Tra i cervelli ordinarî ed i sensati
havvi una differenza caratteristica che si
produce assai spesso nella vita privata, ed
è che i primi quando riflettono sopra un pericolo
possibile di cui vogliono apprezzare la
grandezza, non cercano e non considerano se non
ciò che può già esser avvenuto di simile; mentre gli altri
pensano da sè stessi ciò che può
accadere, ricordandosi del proverbio spagnuolo che
dice: «Quello che non
succede nel
termine di un anno, succede in capo a pochi momenti». Del
resto la differenza di cui parlo è
affatto naturale, perocchè per abbracciare
collo sguardo quanto può
accadere, si richiede
l’intelletto, e per vedere quello che è successo bastano i
sensi.
Sia nostra massima: Sacrifichiamo agli
spiriti maligni! Il che significa che non
dobbiamo indietreggiare di fronte ad un
certo consumo di cure, di tempo, d’incomodi, di
difficoltà, di danaro o di privazioni,
quando si può così chiudere l’accesso alla eventualità
d’una disgrazia e fare che quanto più il
pericolo è grave tanto più la possibilità ne divenga
piccola, lontana ed inverosimile. La
dimostrazione più evidente di questa regola è il premio
d’assicurazione. Esso è un sacrifizio
pubblico e generale sull’altare degli spiriti cattivi.
51.° Nessun avvenimento deve farci
prorompere in grida esagerate d’allegrezza o di
lamento, in parte a cagione della
mutabilità delle cose che può ad ogni momento cangiarne
l’aspetto, e in parte a cagione della
fallacia dei nostri giudizi su ciò che per noi può riescire
di vantaggio o di pregiudizio; così succede
a tutti, almeno una volta in vita, di gemere per
ciò che più tardi fu provato essere loro
vero e maggior bene, ovvero di rallegrarsi di ciò che
divenne poi per essi fonte di immensi guai.
Il sentimento raccomandato or ora o presentato
da Shakespeare nella bella espressione: «Ho
provato tante scosse di gioja e di dolore che
mai, al primo aspetto di essi, mi lascio
trasportare qual femminuccia verso l’uno o l’altro»
(Tutto
è bene.... atto 3°, scena 2a).
In generale colui che rimane serenamente
tranquillo dinanzi ad ogni sventura, mostra
di conoscere quanto colossali e moltiformi
sieno i mali possibili della vita, per cui
considera la disgrazia sopraggiuntagli come
una piccolissima parte di ciò che potrebbe
accadergli: è questo il sentimento stoico
conformemente al quale l’uomo non deve esser
mai conditionis humanae oblitus (dimentico
della condizione umana), ma invece aver
sempre in mente quanto sia triste e
deplorevole il destino dell’umana vita, quanto
innumerevoli i guai a cui è esposta. A
tener vivo tale sentimento basta gettare dovunque
uno sguardo solo intorno a sè; e da per
tutto si avrà tosto sotto gli occhi lotte, angoscie,
crucci per un’esistenza misera, nuda,
insignificante. Allora s’imparerà a moderare le
proprie esigenze, allora si saprà adattarsi
all’imperfezione di tutte le cose e di ogni stato, ed
aspettare le disgrazie per poterle scansare
o sopportarne il peso. Perocchè le sventure,
grandi e piccole, sono l’elemento della
nostra vita. Ecco ciò che dovremmo sempre aver
presente allo spirito senza per questo, da
veri δυσκολος (uomini difficili),
lamentarsi e
andar in convulsioni con Beresford in causa
delle miseries of human
life, e meno ancora in
pulicis morsu Deum invocare (invocar
Dio per la puntura d’una pulce); bensì, da
ευλαβης,
(uomini circospetti) spingere tanto oltre
la prudenza nel prevenire o nel metter argine alle
sventure, sia che vengano dalle persone sia
dalle cose, e perfezionarsi siffattamente in
quest’arte, che si possa, quali volpi
astute, scansare gentilmente qualunque piccolo o grande
accidente (che ordinariamente non è che
un’inettitudine mascherata).
La ragione principale per cui un
avvenimento doloroso ci riesce meno grave a
sopportare quando lo abbiamo già
considerato come possibile, e che, come si dice, vi ci
siamo preparati, deve esser la seguente:
quando pensiamo con calma ad una disgrazia prima
che ci colga, come ad una semplice
possibilità, ne abbracciamo l’estensione chiaramente e
da ogni lato, e così la riconosciamo
circoscritta e definibile; di maniera che, quando essa
succede, non potrà esercitare i suoi
effetti oltre la sua vera ed intrinseca gravità. Se
all’incontro non abbiamo preso queste
precauzioni, se saremo colti all’impensata, allora lo
spirito turbato non può, al primo momento,
misurare esattamente la grandezza della
disgrazia, e siccome non la vede a colpo
d’occhio, se la rappresenta immensurabile, od
almeno molto maggiore che in fatto non sia.
Nella stessa guisa l’oscurità e l’incertezza
ingrandiscono ogni pericolo. Naturalmente a
ciò si aggiunge che noi, prevedendo come
possibile una sventura, abbiamo nel tempo
stesso considerato i motivi di conforto ed i
rimedi, o per lo meno ci siamo abituati
all’immagine di essa.
Ma nulla vale a renderci meglio atti a
sopportare tranquilli e dignitosi i casi tristi che
ci colgono, quanto il convincimento di
quella verità che ho fermamente stabilito, e svolta
fino ne’ suoi primi principi, nella mia
opera premiata sopra Il
libero arbitrio, dove dissi a
pag. 62 (60 della 2a ed.): «Tutto quello che accade, dalle più grandi alle più piccole
cose,
accade necessariamente». Perocchè nell’inevitabile
necessità l’uomo sa raccapezzarsi
presto, e la conoscenza della nozione or
ora esposta fa sì che egli consideri tutti gli
avvenimenti, anche quelli prodotti dai casi
più strani, come altrettanto necessari quanto
quelli che derivano da leggi notissime e
che si conformano alle più esatte previsioni.
Rimando dunque il lettore a ciò che ho
detto (si veda Il mondo
come volontà e come
rappresentazione. V. I, pag. 345 e 346 [361 della 3a ed.]) sull’influenza calmante che
esercita la nozione dell’inevitabile e del necessario.
Chiunque se ne sarà ben penetrato farà
da prima tutto ciò che può fare, soffrirà
poi coraggiosamente ciò che deve soffrire.
Le piccole traversie che ad ogni ora ci
molestano, si possono considerare come
destinate a tenerci in esercizio perchè la
forza necessaria a sopportare le grandi sventure
non abbia da infiacchirsi nei giorni
felici. Contro gl’impicci quotidiani, i disgusti leggeri
del commercio cogli uomini, le difficoltà
insignificanti, le sconvenienze sgarbate, le
chiacchere e simili cose ancora, si deve
essere invulnerabili, vale a dire non solamente non
curarsene e non macchinarci sopra, ma
nemmeno avvertirli; non lasciamoci toccare da essi,
cacciamoli col piede come i sassi della
strada, e non ammettiamoli in nessun modo
nell’intimo secreto delle nostre
riflessioni e deliberazioni.
52.° D’ordinario sono semplicemente le loro
stesse stupidaggini che la gente chiama
destino. Dunque non si potrà mai prendere
abbastanza in seria considerazione il bel passo di
Omero (Iliade, XXIII, v. 313 e seg.), là dove ei
raccomanda la μητις, cioè la circospezione.
Perocchè se anche le malvagità nostre
venissero espiate soltanto nell’altro mondo, si è
proprio in questo che si paga il fio delle
balordaggini, benchè di tempo in tempo possa
accadere che ci venga fatta grazia in luogo
di giustizia.
Non è il carattere violento, ma la prudenza
che fa apparire terribili e minacciosi; tanto
il cervello dell’uomo è arma più
formidabile dell’artiglio del leone.
L’uomo di mondo più perfetto sarebbe colui
che non rimanesse mai paralizzato
nell’indecisione, nè mai si lasciasse
vincere dalla precipitazione.
53.° Il coraggio è, dopo la prudenza, una
condizione essenziale per la felicità nostra.
Certamente non si può dare a sè medesimi nè
l’una nè l’altra di queste qualità, che si eredita
la prima dal padre, e la seconda dalla
madre; tuttavia con proponimenti fermamente presi e
coll’esercizio si arriva ad aumentare
quella parte che già si possede. In questo mondo in cui
Cadon
qual ferro della sorte i dadi,
è necessario un carattere di ferro,
corazzato contro il destino ed armato contro gli uomini.
Perchè tutta la vita è lotta, ogni passo ci
viene disputato, e Voltaire dice con ragione: «A
questo mondo non si va avanti che colla punta della spada, e
si muore coll’arma in mano».
È quindi anima codarda quella che al primo
accavallarsi di nuvole, od anche solo al loro
presentarsi sull’orizzonte, si ripiega
sopra di sè, sbigottisce, e si querela. Sia piuttosto
nostra impresa:
Tu ne cede malis, sed
contra audentior ito.
(Non
ceder all’avversità, ma va arditamente contro di essa).
Finchè l’esito di una cosa pericolosa è
ancora dubbio, finchè rimane la possibilità
d’un risultato favorevole, non vi
disanimate, ma pensate alla resistenza, nello stesso modo
che non si deve disperare del bel tempo
fino a che resta ancora un lembo azzurro nel cielo.
Occorre saper dire:
Si fractus illabatur
orbis,
Impavidum ferient
ruinae.
(Se
il mondo crollasse infranto, le sue ruine (mi) colpirebbero impavido).
Nè l’intera vita istessa, nè con più ragione,
i suoi beni, meritano alla fin fine tanto
codardo timore e tante angoscie:
Quocirca vivite
fortes,
Fortiaque adversis
opponite pectora rebus,
(Per
la qual cosa vivete da forti, ed opponete gagliardo il petto all’avversità).
Eppure anche qui l’eccedere è possibile: il
coraggio può degenerare in temerità. Però
il timore, in una certa misura, è
necessario alla conservazione della nostra esistenza sulla
terra; la codardia non è che l’esagerazione
di esso. Ciò ha espresso acutamente Bacone da
Verulamio nella sua spiegazione etimologica
del terror panicus,
spiegazione che si lascia
molto addietro l’altra più antica dovuta a
Plutarco (De Iside et Osir., c. 14). Bacone fa
derivare il terror panicus da Pane, come dalla natura
personificata, ed aggiunge: «La
natura ha messo il sentimento della paura e del terrore in
tutto ciò che è vivo per
conservare la vita e la sua essenza, e per evitare ed
allontanare i pericoli. Però questa
stessa natura non sa conservare la misura: ma confonde
sempre le paure salutari colle
vane ed inutili, talmente che troveremmo (se ci fosse dato
di vederne l’interno) tutti gli
esseri, e specialmente le creature umane, invasi sempre da
timori panici» (De
sapientia
veterum, VI). Del resto ciò che caratterizza il timor
panico si è che esso non è chiaramente
consapevole della sua causa; la presuppone
più che non la conosca, e, occorrendo, fa valere
la paura stessa come fondamento alla paura.
_________
=============================================================
CAPITOLO VI.
___
Sulla differenza delle
età della vita.
Voltaire ha detto mirabilmente bene:
Qui n’a pas l’esprit de son âge
De son âge a tout le malheur.
Converrà dunque che, per chiudere queste
considerazioni eudemonologiche, gettiamo
uno sguardo sulle modificazioni che l’età
porta in noi.
In tutto il corso della nostra vita,
possediamo soltanto il presente, e niente di più, colla
sola differenza che, in primo luogo, da
principio vediamo un lungo avvenire dinanzi a noi e
verso la fine un lungo passato dietro di
noi; e che, in secondo luogo, il nostro
temperamento, mai il carattere, percorre
una serie di modificazioni conosciute, ciascuna
delle quali dà al presente una tinta
differente.
Ho esposto nella mia opera principale (V.
II, C. 31, p. 394 [451 della 3a ediz.])
come
e perchè nell’infanzia siamo
assai più portati verso la conoscenza
che
non verso la volontà.
Precisamente su ciò è stabilita quella
felicità del primo quarto della vita la quale lo fa
apparire più tardi dietro di noi come un
paradiso perduto. Noi non abbiamo, durante
l’infanzia, che relazioni poco numerose e
bisogni limitati, quindi scarsa eccitazione della
volontà: la parte maggiore del nostro
essere è impiegata a conoscere.
L’intelletto,
come il
cervello, che a sette anni raggiunge tutta
la sua grandezza, si sviluppa di buon’ora, benchè
non diventi maturo che più tardi, e studia
questa esistenza ancora nuova in cui tutto,
assolutamente tutto, è rivestito della
brillante vernice che gli è data dall’incanto della
novità. Per questo i nostri anni d’infanzia
sono poesia non interrotta. Perocchè l’essenza
della poesia, e così di tutte le arti,
consiste nello scorgere in ogni cosa isolata l’idea
platonica, vale a dire l’essenziale, ciò
che è comune a tutta la specie;
ciascun
oggetto ci
appare così come il rappresentante di tutto
il suo genere, e un caso ne vale
mille.
Quantunque sembri che nelle scene della
nostra giovane età noi non siamo occupati se non
dell’oggetto o dell’avvenimento attuale, e
ciò anche solamente perchè la nostra volontà del
momento vi si è interessata, in sostanza
non è così. Infatti la vita, con tutta la sua
importanza, si offre a noi ancora così
nuova, così fresca, con impressioni così poco
affievolite da un frequente rinnovarsi,
che, con tutto il nostro fare infantile, ci occupiamo,
in silenzio e senza marcata intenzione, a
scoprire nelle scene e negli avvenimenti isolati,
l’essenza stessa della vita, i tipi
fondamentali delle sue forme e delle sue immagini. Noi
vediamo, come lo esprime Spinoza, gli
oggetti e le persone sub
specie æternitatis. Quanto
più siamo giovani, tanto più ogni cosa
isolata rappresenta per noi il suo genere tutto intero.
Tale effetto va diminuendo gradatamente di
anno in anno; ed è per questo che si determina
quella differenza così considerevole fra
l’impressione che è prodotta su noi dagli oggetti
nell’infanzia e quella che ne riceviamo
nell’età avanzata. Le esperienze e le cognizioni
acquistate durante l’infanzia e la prima
gioventù divengono poi i tipi costanti e le rubriche
di tutte le esperienze e cognizioni
ulteriori, le categorie, per così dire, alle quali
aggiungiamo, senza averne sempre coscienza
precisa, tutto ciò che incontriamo più tardi.
Così si forma, fino dai primi anni di vita
la base solida del nostro modo, superficiale o
profondo, di concepire il mondo; in seguito
si sviluppa e si completa, ma non cangia più ne’
suoi punti principali. In virtù dunque di
questa maniera di veder le cose, puramente
oggettiva, per conseguenza poetica,
essenziale all’infanzia, in cui è mantenuta dal fatto che
la volontà è ancora ben lontana dal
manifestarsi con tutta la sua energia, il fanciullo si
occupa molto più a conoscere che a volere.
Da ciò quello sguardo serio, contemplativo, di
certi ragazzi, dal quale Raffaello ha
tratto partito così felicemente per i suoi angeli, sopra
tutto nella Madonna della Cappella Sistina.
Per ciò egualmente gli anni d’infanzia sono
tanto felici che il loro ricordo va sempre
unito ad un doloroso rimpianto. Mentre da una
parte noi ci consacriamo così, con tutta
serietà, alla conoscenza intuitiva
delle
cose,
dall’altra parte l’educazione si occupa a
procurarci nozioni. Ma le
nozioni non ci danno
l’essenza stessa delle cose; questa, che
costituisce il fondo e il vero contenuto di tutte le
nostre cognizioni, è stabilita sulla
comprensione intuitiva del mondo.
La quale però può
essere acquistata soltanto da noi stessi, e
non potrebbe in alcuna guisa esserci insegnata.
Ne
deriva che il nostro valore intellettuale,
proprio come il morale, non entra in noi dal di fuori,
ma sorte dal nostro proprio essere, e che
tutta la scienza pedagogica d’un Pestalozzi non
arriverà mai a fare un pensatore di un uomo
nato imbecille: no! mille volte no! chi è nato
imbecille, imbecille deve morire. Tale
comprensione contemplativa del mondo esterno
esposto di recente alla nostra vista,
spiega anche perchè tutto quello che si è veduto ed
appreso in giovinezza s’imprima così
fortemente nella memoria. In fatti vi ci siamo
occupati esclusivamente, niente ci ha
distratti, ed abbiamo considerate le cose che
vedevamo come uniche della loro specie,
anzi come le sole esistenti. Più tardi il numero
considerevole di cose conosciute ci toglie
il coraggio e la pazienza. Se si vorrà ricordar ciò
che ho esposto nel secondo volume della mia
opera principale (p. 372 [423 della 3a
ediz.]),
cioè che l’esistenza oggettiva di tutte
le cose, vale a dire nella rappresentazione
pura,
è
sempre gradevole, mentre la loro esistenza soggettiva, che sta
nel volere, è unita in
buona
dose a dispiaceri e dolori, allora si
ammetterà facilmente, come espressione riassuntiva del
fatto, la proposizione seguente: Tutte le
cose sono belle a vedersi
e
orribili nel loro essere
(alle Dinge sind herrlich zu sehn, also schrecklich zu seyn). Da quanto precede risulta che,
durante l’infanzia, gli oggetti ci sono ben
più noti dal lato della vista,
della
rappresentazione
cioè, dell’oggettività, che non dal lato
dell’essere, che è
nello stesso tempo quello della
volontà. Siccome il primo è il lato gradevole,
e che il soggettivo ed orribile ci resta ancora
ignoto, il giovane intelletto prende tutte
le immagini che la realtà e l’arte gli presentano per
altrettante cose eccellenti: egli
s’immagina che come sono belle a vedersi,
così
ed anche di
più, lo sieno nel loro essere. Perciò la
vita gli appare come un eden: è questa quell’arcadia
in cui noi tutti siamo nati. Ne deriva un
po’ più tardi la sete della vita reale, il bisogno
urgente di agire e di soffrire che ci
caccia irresistibilmente nel tumulto del mondo. Quivi
impariamo a conoscere l’altra faccia delle
cose, quella dell’essere, vale a dire della volontà,
che tutto viene ad attraversare ad ogni
passo. Allora a poco a poco s’avvicina il grande
disinganno; quando è giunto si dice: «L’età
delle illusioni è passata», e pure il disinganno si
fa sempre più grande e diventa sempre più
completo. Sicchè possiamo dire che
nell’infanzia la vita si presenta come una
decorazione da teatro veduta da lontano, nella
vecchiaia come la stessa decorazione veduta
da vicino.
Ecco pure un sentimento che contribuisce
alla felicità dell’infanzia: come nei primi
giorni di primavera qualunque fogliame ha
lo stesso colore e quasi la stessa forma, così
nella prima giovinezza ci rassomigliamo
tutti, e andiamo d’accordo perfettamente. Non è
che colla pubertà che comincia la
divergenza, la quale va sempre aumentando, pari a quella
dei raggi d’un cerchio.
Ciò che turba, ciò che rende infelici gli
anni di giovinezza, il rimanente di questa
prima metà della vita tanto preferibile
alla seconda, si è la caccia alla felicità intrapresa nel
fermo convincimento che la si possa trovare
nell’esistenza. Ecco la fonte della speranza
sempre delusa, che genera a sua volta lo
scontento. Le immagini ingannatrici d’un vago
sogno di felicità volano davanti gli occhi
nostri sotto forme capricciosamente scelte, e noi
cerchiamo invano il loro tipo originale.
Perciò siamo durante la giovinezza quasi sempre
mal soddisfatti del nostro stato e del
nostro ambiente qualunque si siano, perocchè ad essi
attribuiamo ciò che dovremmo sempre
riferire alla inanità od alla miseria della vita umana,
colle quali allora facciamo conoscenza per
la prima volta, dopo esserci aspettati ben altra
cosa. Si guadagnerebbe molto nel toglier di
buon’ora, con adatti insegnamenti, questa
illusione, propria alla gioventù, che vi
siano grandi cose da trovare nel mondo. Ma succede
invece che la vita si fa conoscere a noi
per mezzo della poesia prima di rivelarsi colla realtà.
All’aurora della nostra giovinezza le scene
che l’arte ci dipinge si spiegano brillanti sotto i
nostri occhi, ed eccoci tormentati dal
desiderio di vederle realizzate, di afferrare l’arco
baleno. Il giovane si aspetta la vita sotto
la forma d’un romanzo interessante. Così nasce
quell’illusione che ho descritta nel
secondo volume della mia opera già citata (p. 374 [428
della 3a
ediz.]).
Perocchè ciò che presta il loro incanto a tutte queste immagini si è il fatto
che esse sono precisamente immagini e non
realtà, e che contemplandole noi ci troviamo
nello stato di calma e di soddisfazione
perfetta della conoscenza pura. Realizzarle vuol dire
essere occupato dalla volontà, e questa
porta con sè infallibilmente il dolore. Qui pure devo
rimandar il lettore, cui l’argomento
interessa, al secondo volume del mio libro (p. 427 [488
della 3a
ediz.]).
Se dunque carattere della prima metà della
vita è un’aspirazione insaziata alla felicità,
carattere dell’altra metà è il timore della
sventura. Perocchè a quell’ora si ha conosciuto più
o meno nettamente che ogni bene è
chimerico, ogni dolore, invece, reale. Allora gli uomini,
quelli almeno il cui giudizio è sensato, in
luogo d’aspirare al piacere non cercano più che
uno stato franco da dolori e da
inquietudini47. Quando
nei miei anni di gioventù sentiva
battere alla mia porta, io era tutto
allegro perchè mi dicevo: «Ah! finalmente!» Più tardi,
nella medesima situazione, ne ricevevo
un’impressione piuttosto vicina al terrore, e
pensavo: «Ahimè ! di già!» Gli esseri
eminenti e largamente dotati, coloro che, per ciò
stesso, non appartengono del tutto al resto
degli uomini e si trovano più o meno isolati in
proporzione dei loro meriti, provano pure
riguardo la società umana questi due sentimenti
opposti: in giovinezza spesso quello di
esserne abbandonati, nell’età
matura quello
d’esserne liberati. Il primo, che è penoso, deriva dalla loro
ignoranza: il secondo,
gradevole, dalla conoscenza del mondo. Ne
segue che la seconda metà della vita, come la
seconda parte d’un periodo musicale, ha
meno foga e più quiete della prima: e succede così
perchè la gioventù s’immagina meraviglie
immense circa la felicità ed i piaceri che si
possono incontrare sulla terra e crede che
la difficoltà stia solo nel raggiungerli, mentre la
vecchiezza sa che non v’ha cosa alcuna da
cercare; tranquilla su tale proposito, essa gusta
qualunque attualità sopportabile, e prende
piacere perfino alle cose più piccole.
L’uomo maturo coll’esperienza della vita ha
guadagnato anzitutto l’assenza
di
prevenzioni, per cui vede il mondo in una maniera diversa
dall’adolescente e dal giovane.
Egli, per la prima volta, comincia a veder
le cose semplicemente ed a prenderle per quello
che sono, mentre agli occhi di lui giovane
e fanciullo un’illusione formata da
vaneggiamenti creati da sè stessi, da
pregiudizi ereditati, e da strane fantasticherie, velava o
deformava il mondo reale. Primo lavoro che
l’esperienza trova da compiere si è quello di
liberarci dalle chimere e dalle false
nozioni accumulate durante la giovinezza. Garantirne i
giovani sarebbe certamente la migliore
educazione che si potesse dar loro, benchè essa sia
semplicemente negativa; ma è questo un
affare assai difficile. Occorrerebbe a questo scopo
cominciare col mantener l’orizzonte del
fanciullo ristretto quanto più è possibile, non
procurargli in questo limite che nozioni
chiare e giuste, e non allargarglielo che
gradatamente quando egli avesse la
conoscenza esattissima di tutto quello che vi è
compreso, avendo cura che non vi resti
all’oscuro, o che non sia intesa incompletamente o
falsamente cosa alcuna. Ne risulterebbe che
le sue nozioni sulle faccende e sulle relazioni
umane, benchè ancora ristrette e
semplicissime, sarebbero tuttavia distinte e vere in modo
da richiedere ormai solamente estensione e
non indirizzo; si continuerebbe così fino a che il
fanciullo non si fosse fatto uomo. Questo
metodo esige sopra tutto che non si permetta la
lettura di romanzi; vi saranno sostituite
biografie scelte con giusti criterî, come per esempio
la vita di Franklin, o la storia di Antonio Reiser di Moritz,
ed altri simili libri.
Finchè siamo giovani c’immaginiamo che
avvenimenti e personaggi importanti
appariranno nella nostra esistenza coi
tamburi e colle trombe; nell’età matura uno sguardo
al passato ci fa scorgere che essi vi sono
entrati senza strepito, per la porta secreta, e quasi
inavvertiti.
Si può anche, sotto il punto di vista che
ci occupa, paragonare l’esistenza ad un
drappo ricamato di cui ciascuno vedrebbe,
nella prima metà della vita, il solo diritto, e,
nella seconda, il solo rovescio; questo
lato è meno bello, ma più istruttivo perchè permette
di conoscere l’intreccio dei fili.
La superiorità intellettuale, anche la più
grande, non farà valere pienamente la sua
autorità nel conversare che dopo il
quarantesimo anno. Perocchè la maturità propria dell’età
ed i frutti dell’esperienza possono essere
benissimo sorpassati di molto, ma giammai
surrogati dall’intelligenza; queste
condizioni forniscono, anco all’uomo più volgare, un
contrappeso da opporre alla forza della
mente più grande, fino a che questa è giovane. Parlo
qui solamente della personalità, non delle
opere.
Nessun uomo un po’ superiore, nessuno di
coloro che non appartengono alla
maggioranza dei 5/6
degli
umani così scarsamente dotati dalla natura, potrà andar franco da
una certa tinta di melanconia quando avrà
passato la quarantina. Perocchè, come era
naturale, egli aveva giudicato gli altri
secondo sè stesso, ed è ora uscito d’inganno; ha
compreso che essi sono ben indietro
rapporto a lui sia per il cervello, sia per il cuore, molto
spesso anzi per l’uno e l’altro, e che non
potranno mai equilibrare il conto; eviterà quindi
ogni commercio con essi, come del resto
qualunque uomo amerà oppure odierà la
solitudine, vale a dire la società, in
proporzione del suo valore intellettuale. Kant tratta pure
di questo genere di misantropia nella sua Critica della ragione verso la
fine della nota
generale al § 29 della prima parte.
È un brutto sintomo, così dal lato morale
come dall’intellettuale, per un giovane il
raccapezzarsi facilmente in mezzo alla
confusione delle vicende umane, il trovarvisi bene, e
il mettervisi dentro quasi vi fosse stato
preparato anticipatamente; ciò indica volgarità.
Invece un’attitudine confusa, esitante,
imbarazzata e a controsenso è in tale circostanza
indizio di nobile specie.
La serenità e il coraggio in cui si rimane
vivendo durante la gioventù dipendono
anche in parte dal fatto che salendo il
monte non possiamo scorgere la morte, la quale sta ai
piedi dell’altro versante. Una volta
passata la cima, la vediamo coi nostri occhi, mentre fino
allora non la conoscevamo che per bocca
altrui, e, siccome in quel momento le forze vitali
cominciano a declinare, il nostro coraggio
s’infiacchisce nel tempo stesso; una serietà
pensosa scaccia allora la petulanza
giovanile, e s’imprime sulle nostre sembianze. Finchè
siamo giovani crediamo senza fine la vita,
checchè ce ne venga detto, ed usiamo del tempo
in conseguenza. Quanto più invecchiamo,
tanto più facciamo economia di esso. Perocchè,
in età avanzata ogni giorno che vola via,
produce in noi quel sentimento che prova un
condannato ad ogni passo che lo avvicina al
patibolo.
Considerata dal punto di vista della
gioventù l’esistenza è un avvenire infinitamente
lungo: da quello della vecchiezza un
passato assai corto, cosicchè essa si offre ai nostri
sguardi, sul principio come le cose
guardate dalla parte dell’obbiettivo d’un cannocchiale
da teatro, e sul finire come quando sono viste
dall’oculare. Occorre esser vecchi, vale a dire
aver vissuto lungamente, per conoscere come
la vita sia corta. Quanto più si va avanti
coll’età, tanto più le cose umane,
qualunque si siano, ci appariscono piccole; la vita, che
durante la gioventù era là, davanti a noi,
ferma e quasi immobile, ci sembra ora una rapida
fuga d’apparizioni effimere, e ci diventa
manifesta la nullità d’ogni cosa su questa terra. Il
tempo stesso, nella giovinezza, cammina
d’un passo più lento; sicchè il primo quarto della
vita è non solamente il più felice, ma
anche il più lungo; esso lascia dunque molti più
ricordi, e ciascuno potrebbe all’occasione
raccontare di questo primo quarto maggiori
avvenimenti che non degli altri due. Nella
primavera della vita come nella primavera
dell’annata i giorni finiscono talvolta col
divenire d’una lunghezza molesta. Nell’autunno
della vita, come nell’autunno dell’annata,
i giorni sono corti, ma sereni e più costanti.
Perchè mai in vecchiaja la vita che si ha
dietro di sè, pare così breve? Si è perchè noi
la stimiamo così corta come il ricordo che
ne conserviamo. Infatti tutto ciò che in essa vi fu
d’insignificante ed una gran parte di ciò
che vi fu di penoso, sfuggirono dalla nostra
memoria; vi è dunque rimasto ben poca cosa.
Perocchè nella stessa guisa che la nostra
mente è in generale molto imperfetta, così
succede pure della nostra memoria: bisogna che
teniamo in esercizio le nostre cognizioni e
che rinvanghiamo il nostro passato, senza di che
tutto ciò sparirà nell’abisso dell’oblio.
Ma noi non ritorniamo volentieri col pensiero sulle
cose insignificanti, nè, ordinariamente,
sulle sgradevoli, ciò che tuttavia sarebbe
indispensabile per conservarle nella
memoria. Ora le cose insignificanti divengono sempre
più numerose, perchè molti fatti che a
prima vista ci sembrano importanti perdono
qualunque interesse ripetendosi; il
ripetersi, da principio, non è frequente, ma in seguito
succede spessissimo. Per questo ricordiamo
i nostri giovani anni meglio di quelli che
vennero poi. Quanto più lungamente viviamo,
tanto meno si danno avvenimenti che ci
sembrino abbastanza gravi od abbastanza
significanti per meritare d’essere ripassati col
pensiero, ciocchè è l’unico mezzo per
conservarne il ricordo; appena trascorsi, li
dimentichiamo. Ed ecco perchè il tempo
fugge lasciando di meno in meno traccia dietro di
sè.
Ma neppure ritorniamo volentieri sulle cose
sgradite, sopra tutto quando esse
feriscono la nostra vanità; ed è questo il
caso più frequente, perocchè pochi disgusti ci
toccano senza nostra colpa. Noi
dimentichiamo dunque egualmente molte cose penose. Si è
coll’eliminazione di queste due categorie
d’avvenimenti che la nostra memoria diviene così
corta, e lo diviene, in proporzione, quanto
più la stoffa è lunga. Come gli oggetti situati
sulla riva si fanno sempre più piccoli,
indeterminati e indistinti a misura che la nostra barca
se ne allontana, così svaniscono gli anni
passati, colle nostre avventure e colle nostre azioni.
Succede inoltre che la memoria e
l’immaginazione ci presentino talora una scena della
nostra vita, obliata da lungo tempo, con
tanta vivacità che ci sembri avvenuta il giorno
prima, e ci apparisca affatto vicina. E ciò
perchè ci è impossibile rappresentarci in una volta
il lungo spazio di tempo che è scorso tra
il passato e il presente, ed abbracciarlo collo
sguardo in un solo quadro; di più gli
avvenimenti compiti in questo intervallo sono in gran
parte dimenticati, e non ce ne resta più
che un’idea generale, in
abstracto, una semplice
nozione e non un’immagine. Allora questo
passato lontano ed isolato si presenta tanto
vicino da parer successo jeri; il tempo
intermedio è sparito, e la nostra intera esistenza ci
sembra d’una brevità incomprensibile.
Qualche volta pure, nella vecchiaja, il lungo passato
che abbiamo dietro di noi può ad un certo
momento parerci favoloso; ciò che viene
principalmente perchè vediamo sempre
davanti a noi lo stesso presente immobile. In
sostanza tutti questi fenomeni interni sono
fondati non su ciò che è il nostro essere per sè
stesso, ma sulla sua immagine visibile, che
esiste sotto la forma del tempo, e sul fatto che il
presente è il punto di contatto tra il
mondo esterno e noi, tra l’oggetto e il soggetto.
Si può ancora domandarsi perchè, in
gioventù, la vita sembri estendersi davanti noi a
perdita d’occhio. Ciò dipende da prima
perchè ci occorre il posto da mettere le speranze
illimitate di cui la popoliamo, e per la
cui realizzazione Matusalem sarebbe morto troppo
giovane; poi perchè prendiamo per scala
della sua misura il piccolo numero d’anni che
abbiamo già dietro a noi; ma il ricordo di
essi è ricco in materiali, e per conseguenza lungo,
perchè la novità ha dato importanza a tutti
gli avvenimenti che vi si compierono; perciò vi
ritorniamo volentieri col pensiero, li
richiamiamo spesso in mente, e finiamo col fissarveli.
Ci sembra qualche volta di desiderare
ardentemente di trovarci in un luogo
lontano,
mentre in realtà non facciamo che
rimpiangere il tempo che vi
abbiamo passato quando
eravamo più giovani e più freschi. Ecco in
qual maniera il tempo ci trae in
inganno sotto la
maschera dello spazio. Portiamoci
sul luogo tanto bramato e ci renderemo conto
dell’illusione.
Vi sono due vie per arrivare ad un’età
avanzata, a condizione sine
qua non tuttavia di
possedere una costituzione senza difetto;
per spiegarci, prendiamo l’esempio di due
lampade che ardono: una brucierà a lungo
perchè, con poco olio, ha lo stoppino assai
sottile; l’altra perchè anche avendo un
lucignolo molto grosso ha pure molto olio: l’olio è la
forza vitale, lo stoppino ne è l’impiego
applicato a qualsivoglia uso.
Sotto il rapporto della forza vitale
possiamo paragonarci, fino al nostro
trentesimosesto anno, a coloro che vivono
coll’interesse d’un capitale; ciò che si spende
oggi, si trova rimesso l’indomani. A
partire di qui, somigliamo ad un capitalista che
comincia a toccare il suo capitale. In sul
principio la cosa non è sensibile; la più gran parte
della spesa viene ancora a supplire a sè
stessa, e il piccolissimo deficit
che
ne risulta passa
inosservato. Ma a poco a poco esso
ingrandisce, diviene apparente e il suo stesso
accrescimento cresce ogni giorno, e
c’invade di continuo in grado maggiore; l’oggi è
sempre più povero del giorno che lo
precedette, e non v’ha speranza che la faccenda si
arresti. Come la caduta dei corpi, la
perdita si accelererà velocemente fino alla scomparsa
totale. Il caso più triste è quello in cui
tutte e due, forza vitale e ricchezza, questa non come
termine di confronto, ma in realtà, sono in
via di sparire simultaneamente; per questo
l’amore al danaro aumenta coll’età. In
cambio nei nostri primi anni fino alla età maggiore,
ed anche un po’ al di là, noi siamo, sotto
il rapporto della forza vitale, simili a coloro che
sugl’interessi aggiungono ancora qualche
cosa al capitale: non solo ciò che si spende si
rimette da sè, ma il capitale stesso
aumenta. Questo succede qualche volta anche per il
danaro in grazia delle cure previdenti d’un
tutore galantuomo. O gioventù fortunata! O
triste vecchiaja! Bisogna, ad onta di tutto
ciò, risparmiare le forze della gioventù. Aristotele
osserva (Politica, Libro ultimo, Cap. 5) che fra i lottatori
ai giuochi Olimpici, non se ne
sono trovati che due o tre i quali, vincitori
una volta da giovani, abbiano trionfato anche
come uomini, perchè gli sforzi prematuri
che esigono gli esercizi preparatori, esauriscono
talmente le forze che più tardi, nell’età
virile, esse fanno difetto. Se ciò è vero per la forza
muscolare lo è assai maggiormente per la
forza nervosa, manifestazione della quale sono
tutte le produzioni intellettuali: ecco
perchè gli ingenia
praecocia, i fanciulli-prodigio,
questi frutti d’un allevamento di serra
calda, che fanno stupire nella loro prima età,
diventano — in seguito — teste
perfettamente volgari. È anche possibilissimo che un
eccesso d’applicazione precoce e forzata
nello studio delle lingue antiche sia la causa che
ha fatto cadere più tardi tanti eruditi in
uno stato di paralisia e d’infanzia intellettuale.
Ho notato che presso la maggior parte degli
uomini il carattere sembra essere più
particolarmente adattato ad una delle età
della vita, di modo che in tale età essi presentansi
sotto la luce più favorevole. Gli uni sono
giovanotti amabili, e poi è finito; altri nella loro
maturità si mostrano uomini energici ed
attivi, ma in tarda età perderanno ogni valore; e
altri infine appariscono più
vantaggiosamente in vecchiaja, durante la quale sono più cari
perchè hanno maggior esperienza e maggior
calma: è questo il caso più frequente presso i
Francesi. Così deve avvenire perchè il
carattere ha per sè stesso un certo che di giovanile, di
virile o di senile in armonia coll’età
corrispondente, o corretto da essa.
Nella stessa guisa che sopra una nave non
ci rendiamo conto del suo cammino se non
perchè vediamo gli oggetti situati sulla
riva allontanarsi e quindi farsi più piccoli, così non
ci avvediamo di divenir vecchi, sempre più
vecchi, se non per il fatto che persone d’una età
ognora più avanzata ci sembrano giovani.
Abbiamo già esaminato più indietro come e
perchè, a misura che si entra nella
vecchiaja, tutto ciò che si ha veduto, e
tutte le azioni e tutti gli avvenimenti della vita
lascino nello spirito traccie sempre meno
numerose. Così considerata la giovinezza è la sola
età in cui si viva con intera coscienza; la
vecchiezza non ha che una mezza coscienza della
vita. Col progredire dell’età tale
coscienza diminuisce gradatamente; gli oggetti passano
rapidamente davanti a noi senza farci
impressione, simili a quelle produzioni artistiche che
non ci colpiscono più quando le abbiamo
viste parecchie volte; si fa ciò che si aveva da
fare, e non si sa poi nemmeno d’averlo
fatto. Mentre la vita diviene sempre più automatica,
mentre cammina a gran passi verso
l’incoscienza completa, per questo stesso fatto la fuga
del tempo si accelera. Durante l’infanzia
la novità delle cose e degli avvenimenti fa sì che
tutto s’imprima nella nostra coscienza;
perciò i giorni sono d’una lunghezza immensa. Per
la medesima ragione lo stesso ci succede in
viaggio, che un mese ci pare più lungo di
quattro passati a casa nostra. Malgrado la
novità, il tempo, che ci sembra
più
lungo
nell’infanzia ed in viaggio, molto spesso
ci diviene anche in
fatto più lungo che non nella
tarda età o nel nostro paese. Ma a poco a
poco l’intelletto s’intorpidisce talmente colla
lunga abitudine delle stesse percezioni che
di grado in grado tutto finisce col passare sopra
di esso senza lasciarvi impressione; ne
viene che i giorni diventano sempre più
insignificanti e per conseguenza sempre più
corti; le ore del fanciullo sono più lunghe delle
giornate del vecchio. Vediamo adunque che
il tempo della vita possede un movimento
accelerato come quello d’una sfera che
rotola sopra un piano inclinato; e, nella stessa guisa
che sopra un cerchio girante un punto
qualunque corre tanto più veloce quanto più è lontano
dal centro, così per ogni uomo il tempo
passa più presto e sempre più presto nella
proporzione della sua distanza dal
principio dell’esistenza. Si può dunque ammettere che la
lunghezza di un anno, quale è valutata
dalla nostra disposizione del momento, sia in
rapporto inverso del quoziente di esso per
l’età; quando per esempio l’anno è la quinta parte
dell’età, ci sembrerà dieci volte più lungo
di quando non ne sia che la cinquantesima. Tale
differenza nella rapidità del tempo ha
un’influenza assai decisiva su tutto il nostro modo di
essere in ogni età della vita. Prima d’ogni
altra cosa per essa l’infanzia, quantunque non
comprenda che quindici anni appena, è il
periodo più lungo dell’esistenza, e
conseguentemente anche il più ricco di
memorie; per essa poi noi siamo soggetti in tutto il
corso della vita alla noja nel rapporto
inverso dell’età. I fanciulli hanno sempre bisogno di
passare il tempo sia nel gioco, sia nel
lavoro; se l’occupazione manca, essi sono tosto
assaliti da immensa noja. Gli adolescenti
vi sono pure fortemente esposti, e temono assai le
ore d’ozio. Nell’età virile la noja
sparisce ognora più: e per i vecchi il tempo è sempre
troppo breve e i giorni volano colla
rapidità d’una freccia. Bene inteso che io parlo di
uomini e non di bruti invecchiati.
L’accelerarsi del cammino del tempo sopprime dunque il
più delle volte la noja nell’età avanzata;
d’altra parte le passioni coi loro tormenti
cominciano a tacersi; ne viene che in
sostanza, dato che la salute sia in buono stato, il peso
della vita è realmente più leggero che
durante la gioventù: per questo l’intervallo che
precede l’apparizione della debolezza e
delle infermità proprie alla vecchiaja è chiamato gli
anni migliori. E forse lo è in fatto dal punto di vista
del nostro contento; ma in cambio gli
anni di giovinezza, quando tutto fa
impressione, quando ogni cosa entra nella coscienza,
hanno il vantaggio d’essere la stagione
fertilizzante dello spirito, la primavera che fa
spuntare i germogli. Infatti le verità
profonde si acquistano per intuizione e non colla
speculazione, vale a dire che la loro prima
percezione è immediata e provocata
dall’impressione momentanea: essa non può
dunque prodursi che fino a quando
l’impressione è forte, viva e profonda.
Tutto dunque dipende, sotto tale rapporto,
dall’impiego dei giovani anni. Più tardi
possiamo agire meglio sugli altri, fors’anco sul
mondo intero, perocchè noi stessi siamo
finiti e completi, e non apparteniamo più
all’impressione; ma il mondo agisce meno su
noi. Questi anni sono dunque l’epoca
dell’azione e della produzione: i primi
invece quelli della comprensione e della conoscenza
intuitiva.
In gioventù domina la contemplazione, e
nell’età matura la riflessione; l’una è il
tempo della poesia, l’altra piuttosto
quello della filosofia. In pratica egualmente si è per
mezzo della percezione e della sua
impressione che ci determiniamo a qualunque cosa
durante la giovinezza; più tardi invece per
mezzo della riflessione. Ciò succede in parte
perchè nell’età matura le immagini si sono
presentate e riunite intorno a nozioni abbastanza
numerose per dar loro importanza, peso e
valore e così pure per moderare nello stesso
tempo coll’abitudine l’impressione delle
percezioni. Al contrario l’impressione di tutto ciò
che è visibile, dunque del lato esterno
delle cose, è talmente preponderante in gioventù,
specialmente nelle menti vivaci e ricche
d’immaginazione, che i giovani considerano il
mondo come un quadro; e si preoccupano
della figura e dell’effetto che vi fanno piuttosto
che della disposizione interna che esso
risveglia in loro. Lo si scorge dalla vanità della loro
persona, e dal loro civettare.
La più grande energia e la più alta tensione
delle forze intellettuali si manifestano
senza dubbio durante la gioventù e fino al
trentacinquesimo anno alla più lunga: poi
decrescono, quantunque insensibilmente.
Nondimeno l’età virile ed anche la vecchiezza
non sono senza compensi intellettuali.
Allora l’esperienza e l’istruzione hanno acquistato
tutta la loro ricchezza: allora si è avuto
il tempo e l’occasione di considerare le cose sotto
tutti gli aspetti e di meditarvi sopra;
avendole avvicinate le une alle altre si è scoperto i
punti in cui si toccano, le parti in cui si
uniscono; allora, per conseguenza, si può
comprenderle bene e nel loro concatenamento
completo. Tutto si mette in piena luce. Per
questo si conoscono più a fondo quelle
stesse cose che erano mal note quando si era
giovani, perchè si ha per ogni nozione
maggior numero di dati. Ciocchè si credeva sapere
durante la giovinezza, si comprende
realmente nell’età matura; inoltre si sa effettivamente
di più, e si possedono conoscenze ragionate
in tutte le direzioni, e per ciò stesso
solidamente concatenate, mentre in gioventù
la nostra scienza è difettosa e frammentata.
L’uomo che è giunto ad una età molto
avanzata avrà solo un’idea completa e giusta della
vita, perchè l’abbraccia collo sguardo nel
suo insieme e nel suo corso naturale, e sopratutto
perchè non la vede più, come gli altri,
unicamente dalla parte dell’ingresso, ma anche dalla
parte dell’uscita; così collocato ei ne
comprende pienamente la nullità, mentre gli altri sono
ancora il trastullo dell’illusione costante
che «è proprio adesso che sta per succedere quanto
v’ha di veramente buono». In cambio
nell’età giovanile è maggiore la facoltà di concepire;
ne segue che si è in caso di produrre di
più col poco che si sa; più tardi v’ha maggior dose
di raziocinio, di penetrazione e di fondo.
Durante la giovinezza si raccolgono i materiali
delle proprie nozioni, delle proprie vedute
originali e fondamentali, vale a dire di tutto ciò
che uno spirito privilegiato deve per
destino dare in dono al mondo; ma non è che dopo
molti anni che esso diviene padrone del suo
soggetto. Si troverà che il più delle volte i più
grandi scrittori non hanno creato i loro
capolavori che verso il cinquantesimo anno. Ma non
per questo la gioventù non resta pur sempre
la radice dell’albero della conoscenza, benchè
sia la corona dell’albero che porta i
frutti. Ma nella stessa guisa che ogni epoca, anche la
più miserabile, si crede più saggia di
tutte quelle che la precedettero, così l’uomo in ogni
età si crede superiore a quello che era per
lo avanti; tutti e due sono spesso in errore.
Durante gli anni di crescimento fisico,
quando noi aumentiamo egualmente le forze
intellettuali e le cognizioni, l’oggi per costume guarda con
disprezzo l’ieri. Tale
abitudine
prende radice, e persiste anche quando è
cominciata la decadenza delle forze mentali,
allorchè l’oggi dovrebbe piuttosto guardare
l’ieri con rispetto: a quell’ora sono troppo
disprezzate le produzioni e i giudizî degli
anni giovanili.
Conviene osservare sopra tutto che
quantunque la testa e l’intelletto siano, circa le
loro proprietà fondamentali, altrettanto
innati quanto il cuore o il carattere, nondimeno
l’intelligenza, non resta così invariabile
come il carattere: essa, è soggetta a molte
modificazioni le quali, alla grossa, si
producono pur anche regolarmente, perocchè derivano
dal fatto che da una parte la base
dell’intelligenza è fisica, e che dall’altra la sua stoffa è
empirica. Ciò essendo, la sua forza propria
cresce continuamente fino al punto culminante,
e diminuisce poi di grado in grado fino
all’imbecillità. Ma d’altronde la stoffa su cui si
esercita tutta questa forza e che la
mantiene in attività, vale a dire il contenuto dei pensieri e
del sapere, l’esperienza, le cognizioni,
l’esercizio del raziocinio e la perfezione che ne
deriva, tutta questa materia è una quantità
che aumenta costantemente fino al momento in
cui, sopravvenendo la fiacchezza
definitiva, l’intelletto lascia scappare ogni cosa. Tale
condizione dell’uomo d’esser composto d’una
parte assolutamente immutabile (il carattere)
e d’un’altra che varia regolarmente e in
due direzioni opposte (l’intelletto), spiega la
diversità d’aspetto sotto cui egli si
manifesta, e la differenza del suo valore nelle varie età
della vita.
In un senso più largo si può anche dire che
i quaranta primi anni di vita danno il testo,
e i trenta seguenti il commento, che solo
ce ne fa ben comprendere il vero senso, e la
connessione, unitamente alla morale con
tutte le sue sottigliezze.
Ma particolarmente verso la sua fine la
vita somiglia ad un ballo mascherato, quando
sono tolte le maschere. A quell’ora si vede
cosa erano in realtà coloro con cui si ebbe
contatto durante la vita. In fatti i
caratteri si sono messi in piena luce, le azioni hanno
portato i loro frutti, le opere hanno trovato
il loro giusto apprezzamento, e tutte le
fantasmagorie sono svanite. Perocchè ci
abbia voluto il tempo a ciò. Ma quello che v’ha di
più strano si è che non si comprende bene e
sè stesso, e il proprio scopo, e le proprie
aspirazioni, sopra tutto in ciò che
riguarda i rapporti col mondo e cogli uomini, se non verso
il finire dell’esistenza. Spesso, non
sempre però, si dovrà classificarsi più basso che non si
credesse per lo avanti, ma qualche volta si
accorderà a sè stesso un posto superiore: il qual
ultimo caso succede perchè non si aveva una
conoscenza sufficente della bassezza del
mondo, e perchè lo scopo della vita si
trovava in tal modo collocato troppo in alto.
S’impara a conoscere, presso a poco, ciò
che valga ciascuno.
Si usa chiamar la giovinezza il tempo
beato, e la vecchiaja il tempo triste della vita.
Ciò sarebbe vero se le passioni rendessero
felici. Ma sono esse che tengono trabalzata la
gioventù con poca gioja e molto dolore. Non
agitano invece la fredda età, la quale assume
tosto una tinta contemplativa: perocchè la
conoscenza diviene libera ed ha il sopravvento.
Ora la conoscenza è da per sè stessa esente
da dolori; per conseguenza quanto più
predominerà nella coscienza, tanto più
questa sarà felice. Non si ha che da riflettere che
ogni gioja è negativa di sua natura, mentre
è positivo il dolore, per comprendere che le
passioni non saprebbero rendere felici e
che la tarda età non è da compiangere perchè alcuni
piaceri le sono vietati; qualunque piacere
non è che la soddisfazione d’un bisogno, e non si
è più disgraziati perdendo il piacere nello
stesso tempo del bisogno, di quello che non lo si
sia per non poter più mangiare dopo aver
pranzato, o dormire dopo una notte di sonno
profondo. Platone (nell’introduzione alla Repubblica) ha ben
ragione di stimar felice la
vecchiaja perchè è liberata dall’istinto
sessuale che per lo innanzi turbava l’uomo senza
tregua. Si potrebbe quasi sostenere che le
fantasie diverse ed incessanti generate dall’istinto
sessuale, e così pure le emozioni che ne
derivano, mantengono nell’uomo una pazzia
benigna e costante per tutto quel tempo in
cui egli è sotto l’influenza di questo incentivo, o
di questo diavolo da cui è continuamente
invasato, al punto da non essere affatto
ragionevole se non dopo essersene liberato.
Tuttavia è cosa positiva che, in generale e senza
tener conto delle circostanze tutte e delle
condizioni individuali, un’aria di melanconia e di
tristezza è propria della gioventù, ed una
certa serenità della vecchiaja; e ciò perchè il
giovane è ancora sotto la potestà, o
piuttosto sotto la tirannia di questo demonio che
difficilmente gli accorda un’ora di libertà
e che è anzi l’autore, diretto od indiretto, di quasi
tutti i mali che colpiscono o minacciano
l’uomo. L’età matura ha la serenità di colui che,
liberato da catene portate lungamente, gode
ormai della libertà de’ suoi movimenti. D’altra
parte però si potrebbe dire che una volta
estinte le voglie sessuali, il vero midollo
dell’esistenza è consumato, e che non ne
resta più che l’involucro, oppure che la vita
somiglia ad una commedia, la
rappresentazione della quale, cominciata da uomini vivi,
sarebbe finita da automi rivestiti dei
medesimi costumi.
Checchè ne sia, la giovinezza è il momento
dell’agitazione, l’età matura quello del
riposo: ciò basta per giudicare dei loro
rispettivi piaceri. Il bambino tende avidamente le
mani nello spazio dietro quegli oggetti,
così screziati e così vari, che si vede davanti gli
occhi; tutto questo lo eccita perocchè il
suo sensorio è ancora tanto fresco e tanto nuovo. Lo
stesso avviene, ma con maggior energia, per
il giovane. Il mondo dai colori smaglianti, e
dalle figure moltiformi lo eccita del pari,
ed anzi egli ben presto nella sua immaginazione vi
annette più valore che esso non abbia. Per
questo la gioventù è piena di esigenze e di
aspirazioni a cose vaghe, ciocchè le toglie
quel riposo senza di cui non v’ha felicità.
Coll’età tutto si calma, sia perchè il
sangue si è raffreddato e perchè l’eccitabilità del
sensorio è diminuita, sia perchè l’esperienza,
illuminandoci sul valore delle cose e
sull’essenza dei piaceri, ci ha francati a
poco a poco dalle illusioni, dalle chimere e dai
pregiudizi che velavano o deformavano fino
allora l’aspetto libero e netto delle cose, che
ormai sono conosciute tutte più giustamente
e più chiaramente; a quell’ora noi le prendiamo
per quello che sono, ed acquistiamo in
maggior o minor grado, la convinzione della nullità
d’ogni cosa sulla terra. Da ciò quasi tutti
i vecchi, anche coloro d’un’intelligenza assai
volgare, ricevono una certa tinta di
saggezza che li distingue dalle persone più giovani. Ma
tutto questo produce principalmente la
calma intellettuale che è l’elemento importante, direi
anzi la condizione e l’essenza della
felicità. Mentre l’uomo giovane crede di poter
conquistare in questo mondo immense
meraviglie se solamente sapesse ove trovarle, il
vecchio è penetrato dalla massima
dell’Ecclesiaste:«Tutto e
vanità», e sa bene che le noci
sono vuote quantunque dorate.
Solo in un’età avanzata l’uomo arriva interamente
al nil admirari di Orazio,
vale a
dire alla convinzione diretta, sincera e
ferma della vanità d’ogni cosa quaggiù, e della
inanità di qualunque pompa: le chimere sono
svanite. Ei non si pasce più dell’illusione che
in qualche parte, palazzo o capanna,
risieda una felicità speciale più grande di quella di cui
gode egli stesso dovunque, quando è per
l’appunto libero da ogni dolore fisico e morale. A’
suoi occhi non v’ha più distinzione tra le
cose grandi e le piccole, tra le nobili e le vili,
misurate sulla scala del nostro mondo. Ciò
dà al vecchio una calma di spirito affatto
particolare, la quale gli permette di
guardare sorridendo il vano prestigio di quaggiù. Egli è
completamente disingannato; sa che la vita
umana, checchè si faccia per adornarla e
metterla in arnese, non tarda a mostrarsi
in tutta la sua miseria a traverso i suoi orpelli da
fiera; sa che, qualunque sforzo si faccia
per dipingerla ed abbellirla, essa è in sostanza
sempre la stessa cosa, vale a dire
un’esistenza di cui bisogna stimare il valore effettivo
sull’assenza del dolore e non sulla
presenza del piacere, e meno ancora del fasto (Orazio,
Epist., L. I, 12, v. 1-4). Carattere
fondamentale della vecchiajà è il disinganno; in essa non
più di quelle illusioni che davano alla
vita una bellezza incantevole ed all’attività uno
stimolo; si ha conosciuto la nullità e la
vanità in questo basso mondo di qualunque
magnificenza, specialmente della pompa,
dello splendore e d’ogni apparenza di grandezza:
si ha avuto prova dell’infimità di ciò che
sta in fondo di quasi tutte queste cose che destano
così vivo il desiderio, e di questi piaceri
a cui si aspira con tanto ardore; e così a poco a
poco si è giunti a convincersi della
povertà e della vacuità dell’esistenza. Soltanto nel
settantesimo anno di vita sono ben compresi
i primi versi dell’Ecclesiaste. Ma è anche
questo che da alla vecchiaja una certa
tinta di tristezza.
Si crede comunemente che infermità e noja
sieno la condizione dell’età. La prima non
le è essenziale, particolarmente quando si
ha la prospettiva di arrivare ad una vecchiaja
molto avanzata, perocchè crescente vita, crescit sanitas et
morbus. E in quanto alla noja ho
dimostrato più indietro come la vecchiezza
abbia a temerla meno della gioventù: e neppure
la noja è la compagna necessaria della
solitudine, verso la quale infatti ci spinge l’età per
motivi facili a comprendere; essa non segue
che coloro i quali hanno conosciuto solamente
le gioje dei sensi ed i piaceri della
società e che non hanno avuto cura di arricchire il loro
spirito, e di sviluppare le loro facoltà. È
vero che in un’età avanzata anche le forze
intellettuali s’intorpidiscono; ma laddove
furono potentemente copiose, ne resterà sempre
abbastanza per combattere la noja. Inoltre,
come abbiamo dimostrato, la ragione guadagna
forza coll’esperienza, colle cognizioni,
coll’esercizio e colla riflessione; la mente diviene
più acuta, e il concatenamento delle idee
più chiaro; in ogni materia si acquista, in grado
sempre maggiore, vedute d’insieme sulle
cose: le combinazioni poi sempre variate delle
cognizioni che già si possedono, i nuovi
acquisti che vengono ad aggiungervisi, favoriscono
il progresso continuo in tutte le direzioni
del nostro sviluppo intellettuale, in cui lo spirito
trova in una volta la sua occupazione, il
suo soddisfacimento e la sua mercede. Tutto questo
compensa fino ad un certo punto
l’indebolimento delle facoltà mentali di cui abbiamo
parlato. Sappiamo inoltre che nella
vecchiezza il tempo corre più rapidamente; così è
neutralizzata la noja. In quanto poi allo
infiacchirsi delle forze fisiche, ciò non è un danno,
salvo il caso in cui si avesse bisogno di
esse per la professione che si esercita. La povertà in
vecchiaja è una immensa disgrazia. Se si ha
saputo tenerla lontana e se si ha conservato la
salute, la tarda età può essere una parte
sopportabilissima della vita. L’agiatezza e la
sicurezza sono i suoi principali bisogni:
per questo si ama allora più che mai il danaro
perocchè esso supplisce alle forze che
mancano. Abbandonati da Venere, si cercherà
volentieri di confortarsi con Bacco. Il
bisogno di vedere, di viaggiare, d’apprendere è
sostituito dal bisogno di insegnare e di
parlare. È una felicità per il vecchio l’aver
conservato l’amore dello studio, o della
musica, o del teatro, e in generale la facoltà di
essere impressionato fino ad un certo grado
dalle cose esterne: questo succede per qualcuno
fino all’età più avanzata. Ciò che l’uomo
ha da per sè stesso non gli
profitta mai meglio che
nella vecchiaja. Ma è vero d’altronde che
nella maggior parte le persone essendo state in
ogni tempo ottuse di mente, diventano
ognora più automi avanzando in età: pensano,
dicono e fanno sempre nella stessa guisa, e
nessuna impressione esterna può cangiare il
corso delle loro idee, o far loro produrre
qualche cosa di nuovo. Parlare a vecchi siffatti si è
scrivere sulla sabbia: l’impressione si
cancella quasi istantaneamente. Una vecchiaja di tale
natura non è più, senza dubbio, che il caput mortuum della
vita. Pare che la natura abbia
voluto simbolizzare la venuta di tale nuova
infanzia con quella terza dentizione, che si
dichiara in qualche raro caso nei vecchi.
L’indebolimento progressivo di tutte le forze a
misura che s’invecchia è certamente una
cosa tristissima, ma necessaria ed anche benefica:
altrimenti la morte, di cui è il preludio,
sarebbe troppo penosa. Perciò il principale
vantaggio che procura un’età avanzata è l’eutanasia, vale a
dire la morte eminentemente
facile, senza malattia che la preceda, senza
convulsioni che l’accompagnino, una morte per
la quale non si sente di morire. Ne ho dato
una descrizione nel secondo volume della mia
opera, al capitolo 41, pag. 470 (536 della
3a ed.)48. Perocchè per quanto a lungo si viva non
si possede niente al di là del presente
indivisibile; ma anzi la memoria perde ogni giorno
coll’obblio più che non si arrichisca per
l’aggiungervisi di cose nuove.
La differenza fondamentale tra la gioventù
e la vecchiaja rimane sempre questa: la
prima ha in prospettiva la vita, la seconda
la morte; per conseguenza una possede un
passato corto ed un lungo avvenire, e
l’altra l’opposto. Senza dubbio il vecchio non ha più
che la morte davanti a sè, quando il
giovane ha la vita; ora si tratta di sapere quale delle due
prospettive offra maggiori inconvenienti, e
se, tutto calcolato, sia preferibile aver la vita
dietro di sè o davanti; non ha già detto
l’Ecclesiaste: «Il giorno
della morte val meglio che
’l giorno della nascita» (7, 1)? In qualunque caso
domandare di vivere lungamente è un
desiderio temerario. Perocchè «quien larga vida vive mucho mal vide» (chi
vive a lungo
vive molto male) dice un proverbio
spagnuolo.
Non è, come pretendeva l’astrologia, la
esistenza individuale, ma bensì l’andamento
della vita umana in generale che si trova
scritto nei pianeti, nel senso che, nel loro ordine,
ognuno corrisponde ad un’età, e che quindi
la vita è governata successivamente da ciascuno
di essi. — MERCURIO regge il decimo anno. Come questo pianeta,
l’uomo si muove con
rapidità e facilità in un’orbita molto
limitata; la più piccola bagattella è per lui causa di
perturbazione; ma egli apprende molto e
facilmente, sotto la direzione del dio dell’astuzia e
dell’eloquenza. — Col ventesimo anno
comincia il regno di VENERE: l’amore
e le donne
possedono interamente l’uomo. — Nel
trentesimo anno domina MARTE: a
quell’età l’uomo
è violento, forte, audace, bellicoso e
fiero. — A quarantanni governano i quattro piccoli
pianeti: il campo della vita aumenta: è frugi, cioè consacrato all’utile per
virtù di CERERE;
ha il suo focolare domestico da VESTA; sa ciò che deve sapere per influenza di PALLADE, e,
simile a GIUNONE, presso di esso regna sovrana la sposa49. — Nel cinquantesimo anno
domina GIOVE: l’uomo è
già sopravvissuto alla maggior parte de’ suoi contemporanei, e si
sente superiore alla generazione attuale.
Mentre possede il pieno godimento delle sue forze,
è ricco di esperienza e di cognizioni: ha
pure (nella misura della sua individualità o della
sua posizione) un’autorità su coloro che lo
avvicinano. Non intende più di lasciarsi
ordinare: vuole comandare a sua volta. Si è
proprio adesso che nella sua sfera egli è
maggiormente atto ad esser guida e
dominatore. Così culmina GIOVE e, come
lui, l’uomo di
cinquant’anni. — Ma dopo, nel sessantesimo anno,
giunge SATURNO e con lui
la
pesantezza, la lentezza e la tenacità del PIOMBO: «Ma
molti vecchi hanno l’aria d’esser già
morti; essi sono pallidi, lenti, pesanti ed inerti come il
piombo» (Shakespeare, Romeo
e
Giulietta, Atto 2°, Scena 5a). — Finalmente viene URANO: è il momento di volare in cielo,
come si dice. — Non voglio tener conto di NETTUNO (così pur troppo lo si è
chiamato con
grave spensieratezza) dal momento che non
posso dargli il suo vero nome, che sarebbe
EROS. Se così
non fosse avrei voluto dimostrare come il principio si lega colla fine, e in
qual maniera Eros sia misteriosamente in
connessione colla Morte, connessione in virtù
della quale l’ORCO, o l’AMENTI
degli
Egiziani (secondo Plutarco, De
Iside et Osir., C. 29),
è il
«λαμβανων και διδους»,
per conseguenza non solo «Colui
che prende» ma anche
«Colui
che dà» e la MORTE il grande réservoire (serbatojo)
della vita. Da lì, dunque, da lì,
dall’ORCO
viene
ogni cosa, e lì è stato tutto ciò che adesso ha vita: — se solamente fossimo
capaci di comprendere il giuoco50 con cui succede la faccenda, allora tutto
sarebbe chiaro.
FINE.
NOTE
1
Schopenhauer intende con ciò
il suo trattato; Il mondo come volontà e come fenomeno
(rappresentazione).
(N. del Trad.).
2
Narrenkolbe (mazza
da pazzo) in tedesco, Marotte in francese, in italiano non v’ha parola
corrispondente.
(Nota del Trad.).
3
Altre traduzioni riportano “Habes,
habeberis”. [Nota per
l’edizione elettronica Manuzio]
4
Prendo qui ed in altri punti
la parola agi nel
senso di ozi, vale
a dire per l’opportunità di poter disporre
come meglio aggrada
del proprio tempo. In
francese avremmo loisirs, parola che esprime magnificamente il
concetto.
(Nota del Trad.).
5
La natura va elevandosi costantemente
dall’azione meccanica e chimica del regno inorganico fino al
regno
vegetale nella sua tacita soddisfazione di sè stessa; di qui al regno animale
con cui si mostra l’aurora
dell’intelligenza
e della coscienza; poi, partendo da questi deboli principi,
sale di grado in grado sempre più
alto
per arrivare finalmente con un ultimo e supremo sforzo all’uomo, nel cui intelletto raggiunge il punto
culminante
e lo scopo delle sue creazioni, dando così quanto essa può produrre di più
perfetto e di più
difficile.
Tuttavia pur nella specie umana, l’intelletto presenta ancora delle graduazioni
numerose e sensibili, e
molto
di raro arriva fino al grado più elevato, sino all’intelligenza effettivamente
superiore. Questa dunque,
nel
senso più ristretto e più rigoroso, è il prodotto più difficile, il prodotto
supremo della natura; e quindi essa
è
ciò che il mondo può offrire di più raro e di più prezioso, si è in una tale
intelligenza che appare la
conoscenza
più lucida e che il mondo si riflette quindi più chiaramente e più
completamente che altrove.
Sicchè
l’essere che ne è dotato possede ciò che v’ha di più nobile e di più squisito
sulla terra, una sorgente di
piacere
al cui confronto tutte le altre sono meschinissime, talmente che egli non avrà
a chiedere al mondo
esterno
se non agi per godere del suo bene senza molestie, e per finire la
sfaccettatura del suo diamante.
Perocchè
tutti gli altri piaceri, non intellettuali, sono di natura volgare; essi tutti
hanno in vista movimenti
della
volontà, quali desideri, speranze, timori, aspirazioni realizzate, qualunque ne
sia la natura; tutto questo
non
può compiersi senza dolori, ed inoltre, una volta raggiunto lo scopo,
s’incontrano d’ordinario disinganni
in
maggior o minor numero secondo il caso; mentre nelle gioje intellettuali la
verità si presenta sempre più
chiara.
Nel dominio dell’intelligenza non regna alcun dolore! tutto è cognizione. Ma i
piaceri intellettuali non
sono
accessibili all’uomo che per la via e nella misura dell’intelligenza. Perchè «tutto
lo spirito che v’ha al
mondo è inutile a chi
non ne possede.» Tuttavia
uno svantaggio non manca mai d’accompagnare questo
privilegio
ed è che in tutta la natura, la facilità ad esser impressionato dal dolore
aumenta nel tempo stesso che
si
alza il grado dell’intelligenza, e che in conseguenza essa arriverà al suo
massimo nell’intelligenza più
elevata.
(Nota di Schopenhauer).
6
La volgarità
consiste in sostanza nel
fatto che il volere la
vince totalmente, nella coscienza,
sull’intelletto, per cui le cose arrivano ad un tal punto
che l’intelletto non appare più che per il servizio della
volontà:
quando questo servizio non reclama intelligenza, quando non esistono motivi nè
piccoli, nè grandi,
l’intelletto
cessa completamente, e sopraggiunge una vacuità assoluta di pensieri. Ora il volere
sprovvisto
d’intelletto
è ciò che v’ha di più basso; ogni tronco lo possede e lo manifesta, non
foss’altro quando cade. Si è
dunque
un tale stato che costituisce la volgarità. In essa gli organi dei sensi ed una
minima attività
intellettuale,
necessari a fermare i loro dati, rimangono soli in azione; ne risulta che
l’uomo volgare resta
sempre
aperto a tutte le impressioni, e percepisce istantaneamente tutto quanto
succede intorno a lui, al punto
che
il suono più leggero per esempio, o qualunque circostanza per quanto
insignificante, sveglia tosto la sua
attenzione,
proprio come succede negli animali. Tutto ciò apparisce dal suo viso e dal suo
esteriore, ed è da
ciò
che proviene l’apparenza volgare, apparenza la cui impressione è tanto più
ributtante in quanto che, come
succede
molto spesso, la volontà, la quale allora occupa tutta la coscienza, è bassa,
egoista e cattiva. (Nota di
Schopenhauer)
7
Letterale: Un mestiere ha un
fondo d’oro.
9
Mediocre et rampant nell’originale.
(N. del Trad.).
11
Scire tuum nihil est, nisi te scire hoc sciat alter (Che tu sappi è niente, se non sai che gli
altri lo sanno).
(Nota
di Schopenhauer).
15
Nei manoscritti di
Schopenhauer Adversaria, cominciati nel marzo del
contiene
la prima idea di un trattato dal titolo: Schizzo d’una
dissertazione sull’onore, si
legge: Ecco dunque
questo
codice! Ed ecco l’effetto strano e grottesco che producono, quando sono
stabiliti su nozioni precise ed
enunciati
chiaramente, questi principî, a cui obbediscono ancora oggidì nell’Europa
cristiana tutti coloro che
appartengono
alla così detta buona società od al così detto bon
ton. Vi sono pure
molte persone, fra coloro a
cui
questi principi sono stati inoculati fin dalla prima gioventù colla parola e
coll’esempio, che credono in essi
più
fermamente che nel loro catechismo; che portano loro la venerazione più
profonda e più sincera; che sono
pronti
in ogni momento a sacrificar loro felicità, riposo, salute e vita; che sono
convinti che la loro radice stia
nella
natura umana, che sieno innati, che esistano a priori e che sieno posti al di sopra di qualunque
esame. Io
sono
ben lontano dal voler portar colpi al loro cuore, ma devo dichiarare che tutto
ciò non fa testimonianza in
favore
della loro intelligenza. Di più questi principî dovrebbero convenire meno che a
tutt’altra, a quella
classe
sociale destinata a rappresentare l’intelligenza, a diventare il sale
della terra, e che per
conseguenza si
13
Vedemmo cosa dice lo
Schopenhauer dei Francesi, degli Inglesi e dei Tedeschi; vediamo ora come parla
degli
Italiani: «Qualità dominante nel carattere nazionale degli Italiani si è
un’impudenza assoluta che
proviene
da ciò che eglino si considerano come se non fossero nè al di sopra nè al di
sotto di chicchessia, vale
a
dire che sono a vicenda arroganti e sfrontati, oppure vili ed abbietti.
Chiunque, invece, ha pudore è per certe
cose
troppo timido, per altre troppo fiero. L’italiano non è nè l’uno nè l’altro, ma
secondo le circostanze
poltrone
od insolente.» Dei Tedeschi scrisse pure: «In previsione della mia morte faccio
questa confessione:
che
disprezzo la nazione tedesca a causa della sua infinita stupidezza, e che
arrossisco di appartenerle.» Si
veda
in proposito: A. SCHOPENHAUER. Von ihm. Ueber ihn, von Lindner; Memorabilien, von Frauenstaedt
(Berlino,
1863). (Nota del Trad.).
16
Cioè chi vuole scimiottare i
nobili ed i militari. (Nota del Trad.).
17
“affatto” ripetuto nel testo.
(Nota dell’edizione elettronica Manuzio)
18
Nel già ricordato «Schizzo di
una dissertazione sull’onore» Schopenhauer così racconta questa storia:
Due
uomini d’onore, l’uno dei quali si chiamava Desglands, corteggiano la stessa donna:
essi sono seduti a
tavola
vicini, e dirimpetto alla dama, di cui Desglands cerca fissar l’attenzione con
discorsi vivaci; ma ciò
prepara
a quest’alta missione: intendo parlare della gioventù accademica, la quale in
Germania, ohimè!
obbedisce
a questi precetti più che qualunque altra classe di persone. Qui io non vengo a
richiamare
l’attenzione
dei giovani studenti sulle conseguenze funeste od immorali di tali massime; lo
si deve aver fatto
ben
di sovente. Mi limiterò dunque a dir loro ciò che segue: Voi, la cui gioventù è
stata nutrita colla lingua e
colla
saggezza dell’Ellade e del Lazio, voi, per cui si ebbe la cura inapprezzabile
d’illuminare di buon’ora la
giovane
intelligenza coi raggi splendidi emanati dalle menti nobili e saggie del bel tempo
antico, come mai
volete
voi esordire nella vita prendendo per regola di condotta questo codice della
demenza e della brutalità?
Vedetelo,
questo codice, quando, come ho fatto io, lo si stabilisce su nozioni chiare,
come è spiegato, là,
davanti
i vostri occhi, nella sua miserabile nullità; fatene la pietra di paragone non
del vostro cuore, ma della
vostra
ragione. Se questa non lo respinge, allora la vostra mente non è atta a
coltivare un campo per cui
qualità
indispensabili sono una forza energica di raziocinio che spezzi facilmente i
legami del pregiudizio, ed
una
ragione chiaroveggente che sappia distinguere nettamente il vero dal falso
anche là dove la differenza è
profondamente
nascosta, e non solamente dove, come qui, è palpabile; se così fosse, miei
buoni amici, cercate
qualche
altro mezzo onesto per tirar avanti nel mondo: fatevi soldati, o imparate
qualche mestiere, che una
buona
arte è sempre un podere d’oro. (Nota dell’editore
tedesco).
19
L’onore cavalleresco è figlio
dell’orgoglio e della follia (la verità opposta a questi precetti si trova
nettamente
espressa nella commedia El Principe constante colle parole: Esa
es la herencia de Adan, gli
affanni
sono il retaggio dei figli di Adamo). (*)
Reca
stupore che questo orgoglio estremo non s’incontri che in seno di quella
religione che impone ai suoi
aderenti
l’umiltà estrema; nè le epoche anteriori, nè le altre parti del mondo conoscono
tale principio
dell’onore
cavalleresco. Tuttavia non è alla religione che bisogna attribuirne la causa,
ma al regime feudale
durante
il quale ogni nobile si considerava come un piccolo sovrano; egli non
riconosceva fra gli uomini alcun
giudice
che fosse messo al di sopra di lui; imparava così ad attribuire alla sua
persona una inviolabilità ed una
santità
assolute; ed è per questo che qualunque attentato contro la sua persona, una
percossa, una ingiuria, gli
sembrava
un delitto meritevole di morte. Per ciò il principio dell’onore ed il duello
non erano in origine che
un
affare concernente i nobili; essi si estesero più tardi agli officiali, a cui
si unirono poi qualche volta, ma
giammai
d’un modo costante, le altre classi più eminenti, nello scopo di non perdere in
considerazione. Le
ordalie,
quantunque abbiano fatto nascere il duello, non sono l’origine del principio
dell’onore cavalleresco;
esse
non ne sono che la conseguenza e l’applicazione: chiunque non riconosce in
altro uomo il diritto di
giudicarlo
ricorre al giudice divino. — Le ordalie stesse non appartengono esclusivamente
al Cristianesimo; le
troviamo
spesso nel Brahmanismo, benchè più di sovente nelle epoche più antiche; ne
esistono però vestigi
anche
oggigiorno. (Nota dell’Autore).
(*)
Le parole sopra citate fra parentesi, si leggono così nel Principe
costante (Jorn. III, Esc.
8, ed.
Hartzenbüsch).
(Don
Giovanni entra con un pane)
Don Giovanni Per portarti questo pane io fui inseguito
dai Mori e le loro spade mi ferirono; arrivo or ora
fieramente
minacciato.
Fernando La miseria (gli affanni) è il retaggio
d’Adamo (dei figli d’Adamo).
(Nota
dell’editore tedesco).
durante,
gli occhi della persona amata carezzano costantemente il rivale di Desglands,
ed ella non presta a
quest’ultimo
che un orecchio distratto. La gelosia provoca in Desglands, che tiene in mano
un uovo a bere,
una
contrazione spasmodica; l’uovo scoppia, e il suo contenuto salta sul viso del
rivale. Questi fa un gesto
colla
mano, ma Desglands gliela afferra e gli dice nell’orecchio: «Lo tengo per
dato». Si fa un profondo
silenzio.
L’indomani comparisce Desglands colla guancia destra coperta da un gran tondo
di taffetà nero. Ha
luogo
il duello e il rivale di Desglands riceve una ferita grave, ma non mortale.
Desglands diminuisce allora di
alcune
linee il suo taffetà. Alla guarigione del rivale, secondo duello; Desglands gli
cava sangue nuovamente
e
impiccolisce ancora il noto circoletto. E così per cinque o sei volte di
seguito: dopo ogni duello Desglands
riduce
sempre più stretta la circonferenza dell’impiastro, che finalmente fa sparire
alla morte dell’avversario.
(Nota
dell’editore tedesco).
20
Venti o trenta colpi di canna
sulle natiche sono, per così dire, il pane quotidiano dei Chinesi. È questa
una
correzione paterna del mandarino, correzione che non ha niente d’infamante, e
che viene ricevuta con vivi
ringraziamenti
(Lettres édifiantes et curieuses, ediz. del 1819, voi XI, pag. 454). (Citazione
dell’Autore).
21
Ecco, secondo me, qual’è il
vero motivo per cui i governi non si sforzano che in apparenza a proscrivere
i
duelli, cosa ben facile, sopra tutto nelle Università, e d’onde viene che essi
pretendano non potervi riuscire;
lo
Stato non è in grado di pagare con danaro i servigi dei suoi officiali e dei
suoi impiegati civili al loro giusto
valore;
perciò fa consistere l’altra metà dei loro emolumenti in onore, rappresentato dai titoli, dalle uniformi
e
dalle
decorazioni. Per mantenere tale prezzo ideale dei loro servigi ad un corso
elevato, bisogna, con ogni
mezzo,
sostenere, avvivare ed anche esaltare un po’ il sentimento dell’onore; siccome
a tal uopo l’onore
borghese
non basta per la semplice ragione che è proprietà comune di tutti, si chiama in
aiuto l’onore
cavalleresco
che si stimola, come abbiamo già dimostrato. In Inghilterra, ove il soldo dei
militari e degli
impiegati
civili è molto maggiore che sul continente, non si ha bisogno d’un tale
espediente; sicchè, da una
ventina
d’anni specialmente, il duello vi è quasi affatto caduto in disuso; e nelle
rare occasioni in cui vi si
ricorre
ancora, il pubblico ne ride come d’una pazzia. È certo che la grande Anti-duelling
Society, che conta
fra
i suoi membri una folla di lord, d’ammiragli e di generali, ha contribuito
assai a questo risultato, e il
Moloch
deve così far a meno di vittime. (Nota dell’Autore).
23
E il medico che assiste al
duello, come andrebbe trattato? (domanda il traduttore).
24
Perciò si fa un brutto
complimento quando, come è di moda oggidì, credendo render onore ad opere, le
si
chiama atti.
E ciò perchè le opere sono, per la loro essenza, d’una specie superiore. Un
atto è sempre
un’azione
basata sopra un motivo, per conseguenza, qualche cosa d’isolato, di transitorio, ed
appartenente
all’elemento
generale e primitivo del mondo, alla volontà. Una grande e bella opera è cosa durevole,
perocchè
la
sua importanza è universale, ed ella stessa procede dall’intelligenza, da
quell’intelligenza innocente e pura
che
si leva come un profumo al di sopra del basso mondo della volontà.
Fra
i vantaggi della gloria delle azioni v’ha pur quello di prodursi ordinariamente
d’improvviso con grande
splendore,
così grande che talvolta l’Europa intera ne è abbarbagliata, mentre la gloria
delle opere non giunge
che
con lentezza od insensibilmente debole da bel principio, poi cresce più e più,
e di sovente non arriva a
tutta
la sua potenza che dopo un secolo; ma allora rimane così per migliaia d’anni,
perchè anche le opere
rimangono.
L’altra gloria, passata la prima esplosione, s’indebolisce gradatamente, è
sempre meno
conosciuta,
e finisce col non esister più che nella storia allo stato di fantasma. (Nota
dell’Autore).
25
Per ben comprendere il senso
delle parole di Schopenhauer bisogna sapere che il grande pessimista, non
traduce
mai le citazioni latine, e che delle greche dà solamente, e non sempre, la
traduzione in latino. Per
Epicarmo
fa un’eccezione in favore degl’ignoranti sempre da lui profondamente
dispregiati. (Nota del Trad.).
26
Siccome il nostro maggior
piacere consiste nell’ammirazione degli altri verso di noi, ma siccome d’altra
parte
gli altri non consentono che assai difficilmente ad ammirarci anche quando
l’ammirazione sarebbe
giustificata
appieno, ne risulta che più felice è colui che è giunto, non importa come, ad
ammirare
sinceramente
sè stesso. Solamente ei non deve lasciarsi sviare dagli altri. (Nota
dell’Autore).
27
L’Ecclesiaste.
28
Qual modo di dire ha voluto
citare Schopenhauer con queste parole? Forse il campar
la vita? (Nota
del
Trad.).
29
Da Omero.
30
Come il nostro corpo è
avvolto nei vestiti, così il nostro spirito è inviluppato di menzogne. Le
nostre
parole,
le nostre azioni, tutto il nostro essere sono bugiardi, e non è che a traverso
questo intonaco che si può
qualche
volta intravvedere il nostro vero pensiero, come a traverso i vestiti le forme
del corpo. (Nota
dell’Autore).
32
Tutti sanno che i mali si
sentono meno sopportandoli in comune: pare che fra questi mali gli uomini
contino
la noja, ed è per questo che si riuniscono allo scopo di annojarsi insieme.
Nello stesso modo che
l’amore
della vita non è alla fin fine che la paura della morte, così l’istinto
sociale degli uomini non
è un
sentimento
diretto, vale a dire non è fondato sull’amore della società, ma sulla paura della
solitudine,
perocchè
non è in verità la benefica presenza degli altri che si cerca, ma si fugge
piuttosto l’aridità e la
desolazione
dell’isolamento, e così pure la monotonia della propria coscienza; per
togliersi alla solitudine
ogni
compagnia è buona, anche la cattiva, e ciascuno si sottomette volontieri alla
fatica ed alla riservatezza
forzata
che qualunque società porta necessariamente con sè. — Ma quando il disgusto di
tuttociò ha preso il
sopravvento,
quando, come conseguenza, la solitudine si ha caparrata la nostra simpatia e
noi abbiamo vinto
quella
prima impressione che essa produce, in modo da non provar quegli effetti che
più in alto abbiamo
descritti,
allora si può a bell’agio restar sempre soli; non si rimpiangerà di certo il
mondo, perchè non si avrà
bisogno
diretto di esso, e perchè ormai si sarà avvezzi alle conseguenze benefiche
dell’isolamento. (Nota
dell’Autore).
33
Gli aforismi sulla saggezza nella vita fanno parte di una raccolta di scritti
pubblicata da Schopenhauer
sotto
il titolo di Parerga und Paralipomena. Ecco l’apologo di cui l’autore parla nel
testo: «In una rigida
giornata
d’inverno una truppa di porcospini si era messa in mucchio serrato per salvarsi
scambievolmente dal
freddo
col loro proprio calore. Ma subito sentirono le offese delle loro punte, ciò
che li fece allontanare gli uni
dagli
altri. Quando il bisogno di riscaldarsi li avvicinò di nuovo, si rinnovò lo
stesso inconveniente,
dimodochè
essi furono ballonzolati di qua e di là tra i due patimenti fino a che non
ebbero trovato una
distanza
media che rese loro sopportabile la situazione. Così il bisogno di società,
nato dalla vacuità o dalla
monotonia
del loro interno, spinge gli uomini gli uni verso gli altri; ma le numerose
loro qualità ributtanti e i
loro
insopportabili difetti li disperdono nuovamente. La distanza media che essi
finiscono collo scoprire, e
nella
quale la vita in comune diventa possibile, si è la pulitezza
e le belle
maniere. In Inghilterra si
grida a chi
non
mantiene la dovuta distanza: Keep your distance! — Con questo mezzo il bisogno di mutuo
riscaldamento
non
è invero soddisfatto che a metà, ma in cambio non si sente la puntura delle
spine. — Chi però possede
molto
calorico suo proprio preferisce rimanere fuori della società per non provare nè
cagionare sofferenze.»
(Nota
del Trad.).
34
L’invidia,
negli uomini, dimostra quanto
si sentono infelici, e la continua attenzione che portano a tutto
ciò
che fanno o non fanno gli altri, prova quanto si annojano. (Nota
dell’Autore).
2 nella presente
edizione elettronica Manuzio)
37
Il sonno è una piccola
porzione di morte che
noi prendiamo a prestito anticipando (*) e col cui mezzo
riguadagniamo
e rinnovelliamo la vita consumata nello spazio di un giorno. Le
sommeil est un emprunt fait à
la mort. Il sonno prende a prestito dalla morte per
mantenere la vita. Oppure esso è l’interesse pagato
provvisoriamente alla
morte, che rappresenta
il pagamento completo del capitale. Il rimborso totale è chiesto
con
un ritardo tanto più lungo quanto più l’interesse è alto e pagato regolarmente.
(Nota di Schopenhauer).
38
Così nell’originale. (Nota
del Trad.).
41
Se negli uomini, tali quali
sono nella maggior parte, il lato buono superasse il cattivo, sarebbe cosa
saggia
fidarsi alla loro giustizia, alla loro equità, alla loro fedeltà, alla loro
affezione od alla loro carità
piuttosto
che al loro timore; ma siccome succede affatto il contrario, fare il contrario
sarà più saggio. (Nota
dell’Autore).
42
Cfr. nell’op. Il
mondo come volontà e come rappresentazione, 3a ed., vol. II, p. 256 le toccanti parole del
D.
Johnson e di Merk, l’amico di gioventù di Goethe.
43
Vedi Oraculo
manual y arte de prudencia, 240
(Obras, Amberes 1702,
P. II, p. 287).
44
Per tirar
avanti nel mondo amicizie e
camerate sono, fra tutti, il mezzo più potente. Ma le grandi
capacità danno
fierezza; si è allora
disadatti per adulare coloro che ne sono privi e davanti ai quali,
precisamente
a causa di questo, si devono dissimulare le proprie qualità eminenti. La
coscienza di non avere
che
mezzi limitati agisce in senso opposto; essa si accorda perfettamente
coll’umiltà, l’affabilità, la
condiscendenza
ed il rispetto per ciò che è cattivo; giova quindi per farsi amici e
protettori.
Tutto
questo non si applica solamente alle funzioni dello Stato, ma pure alle cariche
onorifiche, alla
dignità,
ed anche alla gloria nel mondo della scienza; ciò che produce, per esempio, che
nelle accademie la
buona
e brava mediocrità occupa sempre il primo posto e che la gente di merito non vi
entra che tardi o forse
mai:
lo stesso succede da per tutto. (Nota dell’Autore).
45
Bacone da Verulamio dice
così: «Non è piccola prerogativa di prudenza se alcuno con una certa arte e
grazia
possa presso gli altri far mostra di sè, col millantare opportunamente le sue
virtù, i meriti ed anche la
fortuna
(quando ciò possa esser fatto senza arroganza o fastidio), e all’opposto
coll’occultare artificiosamente
i
vizi, i difetti, gl’infortuni e i disonori; in quelle trattenendosi e
volgendole come contro a luce, in questi
cercando
sotterfugi o purgandoli coll’interpretarli destramente, e altre cose di simil
fatta. Così Tacito intorno a
Muziano,
uomo della sua età prudentissimo e ad operare prontissimo, disse: Di
tutte le cose che aveva dette e
fatte, con una certa
arte vantatore. Questa
cosa abbisogna senza dubbio di un qualche artifizio, onde non
generi
noja o spregio: cosicchè, nondimeno, una certa millanteria, benchè fino al
primo grado della vanità, sia
piuttosto
vizio in Etica che in Politica. Imperciocchè siccome suol dirsi della calunnia,
arditamente
calunniando
sempre qualche cosa rimane affissa (semper aliquid haeret), così possa dirsi della jattanza (se pur
non
sia stata brutta e ridicola) con audacia va gloriando te stesso, chè sempre
qualche cosa resta attaccata
(semper
aliquid haeret).
Starà impressa di certo
presso il popolo, abbenchè i più savi sorridano. Dunque la
stima
ottenuta appresso i più compenserà in gran copia il fastidio dei pochi».
(De
augmentis scientiarum,
Lugd.
Batav.
46
Il caso ha in ogni cosa umana
un campo d’azione così vasto che se noi cerchiamo subito di prevenire per
mezzo
di sacrifici un pericolo che ci minaccia di lontano, spesso questo pericolo per
un nuovo indirizzo
impreveduto
degli avvenimenti scompare, ed ecco che non solo vanno perduti i sacrifici
fatti, ma ancora i
cambiamenti
che da questi risultarono, riescono, per la mutata condizione delle cose, a
dirittura di pregiudizio.
Non
dobbiamo quindi, prendendo le nostre misure, andar troppo avanti
nell’abbracciare l’avvenire, bensì
calcolare
anche sul caso ed audacemente affrontare qualche pericolo, sperando che esso, come
tante nere
nuvole
di temporale, passi oltre. (Nota di Schopenhauer).
47
Nell’età matura si sa meglio
guardarsi dall’infelicità, in giovinezza a sopportarla. (Nota
dell’Autore).
48
La vita umana, propriamente
parlando, non può esser detta lunga nè corta, perocchè, in sostanza, è la
scala
su cui misuriamo tutte le altre lunghezze di tempo. Le Upanishadi dei Veda (Oupnekhat,
Vol. II, p. 53)
danno
100 anni per durata naturale della vita, e con ragione, a mio credere;
perocchè ho notato che coloro
solamente
che passano i 90 anni finiscono coll’eutanasia, cioè muojono senza malattia, senza
apoplessia,
senza
convulsioni, senza rantolo, qualche volta anche senza pallore, il più di
sovente seduti, specialmente
dopo
aver preso cibo: sarebbe più esatto dire non che muojono, ma che cessano
soltanto di vivere. In
qualunque
altra età anteriore a questa non si muore che di malattia, dunque
prematuramente. — Nel Vecchio
Testamento
(Salmo 90, 10) la durata della vita umana è valutata di 70 anni, tutto al più
di 80; e, cosa più
importante,
Erodoto (I, 32 e III, 22) dice lo stesso. Ma ciò non è vero, e non è che il
risultato di una maniera
grossolana
e superficiale d’interpretare l’esperienza giornaliera. Perchè, se la durata
naturale della vita fosse
di
70-80 anni, gli uomini tra 70 e 80 anni dovrebbero morire
di vecchiaja; ciocchè non
succede: essi muojono
di malattia, come i loro cadetti; ora la malattia,
essendo essenzialmente una cosa anormale, non costituisce la
fine
naturale. Non è che tra 90 e 100 anni che diventa normale morir
di vecchiaja, senza malattia,
senza lotte,
senza
rantolo, senza convulsioni, qualche volta senza impallidire, in una parola di eutanasia.
— Anche sopra
questo
punto le Upanishadi hanno dunque ragione fissando a 100 anni la durata naturale
della vita. (Nota di
Schopenhauer).
49
Circa 62 nuovi pianeti sono
stati scoperti ancora, ma è questa una innovazione di cui non voglio sentir
parlare.
Così tratto con essi come i professori di filosofia hanno trattato a mio
riguardo; non ne voglio sapere,
perocchè
ciò discrediterebbe la mercanzia che ho in negozio. (Nota
dell’Autore).
50
Taschenspielerstreich, colpo
di giuocatore di bussolotti. (Nota dei Trad.).