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Modesto Rastrelli

 

F A T T I    A T T E N E N T I

ALL’INQUISIZIONE

E   SUA ISTORIA GENERALE

E   PARTICOLARE DI TOSCANA

 

 

FIRENZE MDCCLXXXII.

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PER ANTON – GIUSEPPE PAGANI, E COMPi

 


INDICE

INTRODUZIONE 2

Il Libro 4

L’autore a chi legge. 5

LE OPERE 8

I Libri. 8

Le Tragedie. 9

RINGRAZIAMENTI 9

FATTI ATTENENTI ALL’INQUISIZIONE. 9


 


INTRODUZIONE

(A cura del Redattore dell’edizione elettronica Manuzio)

L’Autore ([1])

Francesco Becattini nasce a Firenze il 26 gennaio 1743, figlio di Michele e di Lucrezia da Galasso. A vent’anni soffre la morte del padre ed eredita il negozio di famiglia, una grosseria (attività mista di setaiolo e di merciaio) di cui tuttavia per volontà testamentaria non potrà disporre prima di aver compiuto i trentasei anni. La motivazione addotta dal padre nel testamento è che l’«unico figliolo amatissimo» non è «bastantemente istruito per la retta amministrazione del suo negozio di setaiolo, e grossieria». La vera passione di Francesco è infatti per i libri e la stampa, per la storia, per il teatro e la poesia, insomma, egli ha una gran voglia di scrivere e di creare e ciò lo porta a frequentare l’Accademia degli Apatisti([2]). Nello stesso anno della morte del padre, nel 1763, Francesco sposa una brava giovane di onorata famiglia, Anna Maria Ostili che gli darà un erede maschio, lo sfortunato e malaticcio Stefano.

 

Purtroppo i timori del padre vengono confermati quando, verso la metà del 1771, lo scapestrato Francesco deve fuggire da Firenze, riparando a Napoli, per non poter far fronte ai debiti contratti. Durante il soggiorno napoletano Becattini riesce a pubblicare presso il Gravier gli Annali d’Italia dall’anno di Cristo 1750 fino all’anno 1770, che considera, poco modestamente, la continuazione degli Annali del Muratori. Autorizzato, all’inizio del 1772, a rientrare a Firenze, egli si dedica in particolare al teatro, componendo e facendo rappresentare alcune sue tragedie, senza tuttavia trascurare la pubblicazione di nuovi lavori e l’attività di “gazzettiere” per la Gazzetta Toscana e la Gazzetta universale. La vita dispersiva tra donne, caffè e teatri, il millantarsi di amicizie alto locate e il palesarsi un delatore inattendibile, lo conducono inevitabilmente ad essere pubblicamente ammonito il 3 maggio 1783, per ordine del sovrano, dal Supremo Tribunale di Giustizia.

 

Screditato da questo pubblico provvedimento, il poligrafo perde l’impiego di estensore delle Gazzette ed ignorando quanto la moglie e il figlio Stefano malato abbiano bisogno del suo sostegno morale e materiale, non trova di meglio che sottrarsi alle proprie responsabilità fuggendo da Firenze per riparare di nuovo a Napoli. Durante questo soggiorno, tra il 1783 e il 1784, il Becattini si dedica alla pubblicazione di nuovi lavori e alla seconda edizione della sua Istoria dell’Inquisizione.

 

Da Napoli si trasferisce a Roma assumendo dapprima l’incarico di estensore del Giornale delle Belle Arti e della Incisione Antiquaria, Musica, e Poesia, e quindi, cessate le pubblicazioni di questo periodico nel 1788, si dedica alla redazione del bisettimanale Notizie politiche. Sarà proprio questa collaborazione che porterà il poligrafo, nel 1790, ad una nuova espulsione, questa volta dallo Stato Pontificio. Anche se i motivi ufficiali della carcerazione di Francesco, e della sua conseguente espulsione, sono le accuse di aver diffamato la Chiesa in alcuni suoi libri, la verità si deve ricercare negli articoli pubblicati dalle Notizie politiche. Per alcuni mesi il bisettimanale pubblica metodicamente resoconti e articoli sulle sommosse che si verificano in varie località della Toscana. Indicate come conseguenza delle riforme Leopoldine in materia religiosa, in realtà sono dovute alla difficile situazione economica che soffre la popolazione del Granducato.

Questo atteggiamento viene considerato, dalla Reggenza Toscana, come sostegno politico e incitazione ai rivoltosi. Pietro Leopoldo, avute le informazioni che quanto pubblicato era da imputarsi ad un preordinato ed interessato disegno della Segreteria di Stato Pontificia, impone un deciso passo ufficiale al fine di troncare questi pericolosi ed inaccettabili interventi, minacciando la rottura dei rapporti diplomatici con la Santa Sede. Il Becattini, dopo una detenzione di qualche mese come capo espiatorio, deve lasciare Roma accompagnato, secondo le sue parole, «dalla comprensione papale che lo fornisce di raccomandazioni ed attestati, perché potesse procacciarsi altrove miglior fortuna»([3]).

Partito da Roma, dopo un breve ed illogico tentativo di rientrare nel Granducato, trova rifugio nella Repubblica di Venezia. Qui si dedica, oltre alla pubblicazione di nuovi libri e alla riedizione di alcuni suoi precedenti lavori, anche alla gestione di una stamperia.

 

L’occupazione francese e la nascita della Repubblica Cisalpina lo portano nel 1796 a Milano, nella speranza di nuove possibilità per giungere a una posizione economica e sociale migliore. A Milano viene pubblicata, nel 1797, la terza edizione dell’Istoria dell’Inquisizione. Contemporaneamente, Becattini si dedica alla pubblicazione di due edizioni della Vita di Pietro Leopoldo e sarà proprio l’uscita della seconda edizione di questo lavoro che indurrà le autorità della Cisalpina a espellerlo.

Ritornato a Venezia, rientrerà a Milano alla caduta della Cisalpina, per mettersi al servizio degli austriaci con la delazione([4]) e la penna. Ma, come scaltro opportunista, non appena l’Austria soccombe nella terza coalizione, ecco che Becattini abbraccia la Francia Napoleonica e pubblica il Commentario sulle imprese di guerra di Napoleone il Grande. Quest’opera, uscita a Firenze, ottiene un notevole successo tanto da indurre il suo autore a rientrare nel 1808 in Toscana, dove il clima politico è ormai del tutto diverso da quello lasciato a suo tempo. Dopo un breve soggiorno a Firenze per sistemare alcuni aspetti economici che riguardano la moglie e il figlio sempre più malato, l’autore del primo libro italiano sull’Inquisizione decide di sistemarsi a Livorno e qui conclude la propria esistenza avventurosa, «infelice e tanto travagliata», l’8 marzo 1813, ormai settantenne.

 

Il Libro

Il testo che qui viene presentato è tratto dalla prima edizione dell’opera, pubblicata a Firenze nel settembre del 1782. Uscito anonimo, il libro è stato talvolta([5]) erroneamente attribuito all’abate Modesto Rastrelli([6]), una figura minore d’instancabile, quanto sfortunato, pubblicista fiorentino.

Come ben sapevano i contemporanei dell’epoca, l’anonimo autore era invece Francesco Becattini. La Gazzetta Universale che veniva pubblicata a Firenze, nel numero del 10 settembre 1782 riportava infatti: «è stata pubblicata dall’autore medesimo della Vita di Maria Teresa, e dell’Istoria Austriaca un’esatta Istoria dell’Inquisizione (....). In essa si sviluppa, e si narra l’origine di quel Tribunale, la sua introduzione in Francia, Spagna, Portogallo, Italia, Sicilia, Malta ecc., con la descrizione degli Atti di Fede; molti avvenimenti, e aneddoti di somma importanza. Si passa poi specialmente in Firenze e, dopo la narrativa di varj accidenti, si termina col famoso fatto del celebre Crudeli, che dette motivo a una riforma totale del S. Ufizio in Toscana. Vi sono pure due rami, il primo de’ quali rappresenta i martirj che si davano, e l’altro le vestiture di quelli che andavano a morte. Si vende da Anton Giuseppe, e Giovacchino Pagani al tenue prezzo di 3 paoli».([7])

 I motivi della pubblicazione senza nome dell’autore, saranno spiegati dal Becattini, con una certa vivacità, nella prefazione alla terza edizione dell’opera([8]), edita a Milano nel 1797, con il titolo Istoria dell’Inquisizione ossia S. Uffizio, corredata di opportuni e rari documenti, data per la terza volta alla luce con aggiunte da Francesco Becattini, accademico apatista, che qui riportiamo:

 

L’autore a chi legge.

“Abolita per sempre dall’Imperatore Giuseppe II nel 1775 l’Inquisizione o s. Uffizio in Milano, e successivamente da Ferdinando IV di Borbone nell’Isola di Sicilia e dall’Arciduca poi Imperatore Leopoldo II Granduca di Toscana nel 1782 in Firenze, mi venne in mente di tessere il primo fra tutti gli Italiani una breve Istoria di quel terribile tribunale; non per denigrare la religione de’ nostri padri, ma a solo oggetto di far vedere quanto di essa si era abusato. Passato il manoscritto in mano dell’avidissimo prete Vincenzo Piombi([9]) stupratore e mercante di giornali e di gazzette, fu dato alla luce in Firenze suddetta in detto anno con le stampe di Anton Giuseppe Pagani, e sì bene accolto dal pubblico che tosto ne comparvero varie ristampe, e tra le altre una in Venezia del 1786 per mezzo del famoso ed erudito editore Vincenzo Formaleoni, ultimamente morto di fame nelle carceri di Mantova tre giorni prima della sua resa alle armi trionfanti della Repubblica Francese. Avendo io in seguito creduto a proposito di abbandonare per sempre le patrie amenissime sponde dell’Arno, per non più respirare in una atmosfera ottenebrata da un’Inquisizione civile, allora più arbitraria e assai peggiore dell’ecclesiastica, fui invitato a darne in Napoli una più completa edizione, ed arricchita di nuove notizie, come feci mediante i torchi di Donato Campo. Il popolo Napolitano tra cui risiede per anche una magistratura composta di vari cittadini incaricati d’invigilare acciò non s’introduca mai in quella capitale né nel regno di qua dal Faro il sì temuto predetto tribunale, applaudì alla mia fatica e dimostrommi la sua gratitudine. In poco tempo però sparirono per segreto maneggio dell’ipocrisia e della prepotenza quasi tutti gli esemplari; l’istorico fu soggetto ad una quasi sempre rinascente persecuzione, talché dovetti pure pel quieto vivere scordarmi di un’opera per me funesta, sebbene ovunque ansiosamente letta e gradita. Ora poi che sotto il Cisalpino cielo splende una beata stella di libertà di stampa ardisco di riprodurla alla luce quasi duplicata nelle sue notizie ed esposizione di nuovi fatti, sulla certa fiducia che le anime libere ed i buoni cittadini vi getteranno un occhio benigno, e compatiranno le vicende di uno scrittore perseguitato perché fu sempre seguace della nuda e semplice verità, da esso cercata a traverso d’infiniti stenti, pericoli, detrazioni e sudori.”([10])

 

Nei Fatti attenenti... il Becattini non si presenta tanto come ricercatore o storico, quanto come un autore che riporta e riassume, con una certa efficacia, notizie e fatti tratti da vari autori. Se il fine è quello divulgativo, il libro può dirsi riuscito. Infatti, fu accolto con un buon successo([11]), come provano le varie edizioni. In poco più di duecento pagine viene dipinto un quadro dell’Inquisizione che ha oltre settecento anni di vita. È stringatissimo ma, per quanto riguarda le procedure inquisitoriali, esse emergono, nella loro essenza, in modo particolarmente completo e attendibile.

Per l’aspetto storico, il Becattini si appoggia e si attiene alle notizie attinte da seri e importanti autori come Limborch, Marsollier, Sarpi, Dellon, Lami([12]), ma è soprattutto dall’Histoire des inquisitions di Claude Pierre Goujet che egli trae spunto per l’impianto generale della sua opera. In un caso, tuttavia, il nostro autore decide di fare un’eccezione: riprende una vicenda che poco ha di storico ed è piuttosto una leggenda. Sono gli avvenimenti accaduti a Carlo II, erede al trono di Spagna. Utilizzati originariamente in chiave di propaganda antispagnola, servirono, poi, come trama per la pubblicazione nel 1672, di una novella, il Dom Carlos di Saint-Réal, che ebbe un tale successo in Europa da richiedere, nei soli primi venti anni dalla sua comparsa, non meno di dodici edizioni e costituendo, anche ai nostri giorni([13]), motivo d’interesse.

Ma bisogna comprendere il Becattini... Su questa “storia”([14]), aveva costruito una sua Tragedia, il Don Carlo Principe d’Asturie([15]), che non solo fu rappresentata a Firenze nel 1772 nel Teatro di via del Cocomero “per due sere consecutive con universale applauso”, ma fu anche accolta nel celebre annuale Concorso per autori di Tragedie e Commedie in verso sciolto, che si teneva nella città di Parma. Con ciò precorrendo altri autori che si mostreranno interessati alla “storia”, come Alfieri, Schiller e Verdi, tutti più o meno influenzati dagli scritti del Saint-Réal o del Leti.

Di matrice illuminista, il primo libro italiano sulla storia dell’Inquisizione non poteva che evidenziare la crudeltà e l’oscurantismo di questa Istituzione, descrivendo, nella sua parte finale, il martirio di alcuni dei dissidenti toscani dell’età moderna dal Paleario ai Sozzini, dal Carnesecchi a Galileo, dalle streghe senesi a Pandolfo Ricasoli.

 

Una annotazione particolare merita la «Relazione» posta al termine del libro e che può definirsi una vera e propria appendice. Si tratta «Della carcerazione del Dottor Tommaso Crudeli di Poppi, e della processura formata contro di lui nel Tribunale del S. Ufizio di Firenze l’anno 1739», che, presentata anonimamente, parrebbe opera del Becattini. In realtà la «Relazione» ha come autori Luca Antonio Corsi e lo stesso Crudeli. È merito del Becattini aver pubblicato il manoscritto per la prima volta anche se, purtroppo, con tagli e censure arbitrarie.([16])

 

Il libro del Becattini fu posto all’Indice nel 1817, entrando così a pieno titolo nella serie di quelle opere anti-inquisitoriali nate, con la pubblicazione rocambolesca nel 1553 del Tractatus de arte & modo inquirendi Haereticos([17]) da parte di Hieronjmus Marius o Massarius([18]), quasi contestualmente con l’istituzione stessa dell’Inquisizione romana.


 

LE OPERE

 

Della notevole produzione di Francesco Becattini si possono segnalare:

 

I Libri.

 

Annali d’Italia dall’anno di Cristo 1750 fino all’anno 1770. – Napoli, 1771.

Istoria generale dell’Augustissima Casa d’Austria contenente una descrizione esatta di tutti i suoi Imperatori Re, Arciduchi...tratta da molti Autori antichi, e moderni, e compilata per la prima volta secondo l’ordine dei tempi da un Accademico Apatista. – Firenze, 1773/1784.

Compendio storico della vita dell’augustissima imperatrice e regina apostolica ec.ec. Maria Teresa d’Austria e fasti del suo regno, corredato con gli opportuni documenti – Losanna [ma Firenze], 1781.

Fatti attenenti all’Inquisizione e sua istoria generale e particolare di Toscana – Firenze 1782.

Storia della Piccola Crimea. – Napoli, 1783.

Istoria e descrizione in compendio della Città e Regno di Algeri dalla sua fondazione fino a’ giorni nostri... – Napoli, 1783

Storia ragionata de’ Turchi, e degl’Imperatori di Costantinopoli, di Germania, e di Russia , e d’altre Potenze Cristiane. Venezia, 1788/1791 in otto volumi.

Vita e fasti di Giuseppe 2. imperatore de’ romani scritta da un accademico apatista, e corredata dei necessari documenti – Lugano [ma Venezia], 1790.

Storia del Regno di Carlo III di Borbone Re Cattolico delle Spagne e dell’Indie. – Venezia, 1790.

Vita e azioni militari di Ernesto Gedeone Barone di Laudon... – Venezia, 1791.

Compendio storico genealogico della nobilissima famiglia de’ Conti Grimaldi di Zara. – Venezia, 1792.

Il Compendio universale di tutte le scienze e belle arti e di quanto è necessario a sapersi nel mondo, per uso della gioventù....con più un ritratto a parte di ortografia italiana e un ristretto di giografia antica. – Firenze, 1795.

Vita pubblica e privata di Pietro Leopoldo d’Austria granduca di Toscana poi imperatore Leopoldo 2 - Filadelfia, 1796.

Per la resa del Castello di Milano all’armi gloriose di S. M .I. e R. Francesco II nostro augustissimo sovrano, Inno in replica con l’istesse rime di quello pubblicato dall’ab. Monti nella sera del 21 gennaio 1799 – Milano, 1799.

Storia del memorabile triennale governo francese e sedicente Cisalpino nella Lombardia, Lettere piacevoli ed istruttive – Milano e Venezia, 1799 e 1800.

Storia di Pio 6 – Venezia, 1801-1802.

Commentario o sia esatta esposizione delle campagne e luminose di S. M. Napoleone 1. il Grande imperatore de’ francesi e re d’Italia – Firenze, 1806.

 

Le Tragedie.

 

Don Carlo Principe dell’Asturie. - 1772

Giasone e Medea. – 1773

Maria d’Angiò Regina di Ungheria – 1776 (?)

L’Amore in Corsica. – 1780.

 

 

 

RINGRAZIAMENTI

 

Siamo riconoscenti al Prof. Andrea Del Col, dell’Università di Trieste, che non solo ci ha segnalato questo libro in occasione del Convegno sull’Inquisizione, tenuto a Torre Pellice nel settembre 2005, ma ha anche provveduto, con sensibile cortesia, a trasmettercene una copia per consentici la redazione del presente testo elettronico.

 

Roberto Derossi

 


 

FATTI ATTENENTI ALL’INQUISIZIONE

 

 

 

Tra le molte eresie che hanno lacerato il seno della Cattolica Chiesa, una ve ne è stata nel III. Secolo propagata dall’empio Manete chiamato Curbico di origine Persiano, e da esso detta de’ Manichei, che non ostante la severità delle leggi politiche ed ecclesiastiche non fu mai sì totalmente estirpata e distrutte, che di tempo in tempo sotto qualche aspetto, non tornasse a ripullulare([19]). La Setta degli Albigesi nel decimoterzo secolo fu come l’ammasso di tutti i differenti rami del Manicheismo, e sin dall’anno 1204. trovavasi molto diffusa nella Linguadoca, in Provenza, nel Delfinato, e in Aragona. Raimondo Conte Sovrano di Tolosa favoriva questi eretici, che divenivano ogni giorno più potenti per la negligenza dei Prelati, e per la vita poco edificante del Clero. Benchè molti degl’infetti fossero laici si attribuirono non pertanto il diritto di predicare, e specialmente nella Diocesi di Alby da cui presero il nome. Offesi e scandalizzati da i disordini dei Preti giunsero all’eccesso di sostenere, che le loro indegnità rendevanli incapaci del Ministero Apostolico, e che non si doveano perciò ascoltare. Molti si avanzarono anche di più, pretendendo che i Ministri dell’altare scostumati non potessero nè consacrare nè dare l’assoluzione. Passarono dipoi ad attaccare la Dottrina della Chiesa sul culto dei Santi, le Reliquie, le Indulgenze, le cerimonie della Religione, i Sacramenti, il Purgatorio. Finalmente sostennero, che la Chiesa Romana non era più la vera Chiesa di Gesù Cristo, e condannarono la maggior parte delle costumanze di quella. Insegnavano, che i Sacramenti non aveano più alcuna utilità per la salute, che il diavolo è l’autore del Mondo, che il Matrimonio è un peccato mortale, come pure il mangiar carne, e nel tempo istesso s’immergevano nelle più abominevoli e vergognose dissolutezze.

I Sommi Pontefici supplir volendo in qualche maniera alla mancanza e trascuratezza de’ Vescovi poco avanti simoniaci, e concubinarj, ed ora per lo più sonnacchiosi e negligenti, e dar loro come un stimolo ed ajuto, che già soccorresse sotto il grave incarico delle Pastorali cure, e gli eccitasse a scuotere la gola, il sonno, e le oziose piume, risvegliando la sbandita sacerdotale vigilanza in tempo di tanti sconvolgimenti della Chiesa, pensarono costituire certi Giudici delegati, e straordinarj, i quali accorressero come ausiliarj a’ Prelati, che pure bramavano esterminare l’eresìe([20]). E poichè in que’ tempi barbari e tenebrosi erano i Monaci, e gli altri Religiosi più zelanti de’ Sacerdoti che stavano al Secolo, più dotti e più disoccupati insieme degli altri, elessero questi in modo speciale per tale Ufizio. A tale oggetto Innocenzo III. (prima Lotario figlio di Trasmondo Conte di Segni) nel 1204. inviò nella Linguadoca e paesi adiacenti Arnaldo, Pietro da Castel Nuovo, e Ridolfo Monaci Cisterciensi con pienissima autorità di procedere contro i suddetti eretici Albigesi, come apparisce dalla sua Bolla o Lettera in data dei 19. Maggio di detto anno, e questo è il principio, e l’incominciamento della Inquisizione della Chiesa, essendo stata per lo spazio di dodici secoli incombenza de’ Vescovi, e de’ Prelati l’invigilare e adoprarsi alla repressione dell’eresìe, e all’estirpazione degli errori come a proposito osservano l’erudito Vanespen, il Padre Richini, e Fra Paolo Sarpi.

In seguito di ciò nel 1208. fu predicata per tutta la Francia la Crociata contro gli Eretici Albigesi, come predicata erasi per più di 150. anni di seguito contro i Maomettani, che ritenevano Gerusalemme e i Luoghi Santi, empiendo l’Europa di un fanatismo e di un entusiasmo, che ad altro non servirono che a spopolarla. Il predetto Raimondo Conte di Tolosa non potendo resistere alla piena degli armati, che marciavano contro di lui, dovette cedere sette migliori Castelli al Papa, e chiedere umilmente l’assoluzione. Ecco in che modo si fece questa cerimonia. Il dì 18. Giugno 1209. fu il Conte condotto con la sola camicia indosso avanti la porta della principal Chiesa della sua capitale in presenza del Legato Pontificio e di 20. fra Vescovi e Arcivescovi, e sul Corpo del Signore e della Santa Croce giurò di osservare gli articoli tutti, per i quali era stato scomunicato, ed eseguire in tutto e per tutto gli ordini del Papa, e de’ Legati: dopo ciò costretto venne a passeggiar più volte la Chiesa con una fune al collo in guisa di stola e farsi anch’egli Crociato. Giunto l’esercito di questi avanti la Città di Beziers, presero nel dì 22. Luglio la Piazza per sorpresa, passarono a fil di spada tutti gli abitanti, e dettero fuoco alle abitazioni. Nella sola Chiesa di S. Maria Maddalena vi furono abbruciate 7. mila persone fra donne e ragazzi ivi refugiati. Simone di Monfort Capo de’ Crociati contro gli eretici ne condannò molti, istigato da’ Legati Pontificj, a perder la vita fra le fiamme, e queste orribili esecuzioni furono il primo frutto del Tribunale dell’Inquisizione.

I Frati Predicatori, e i Francescani poco dopo il loro nascimento, cioè a dire verso la metà del Secolo XIII. eletti vennero da Onorio III. a fare la ricerca degli Eretici. San Domenico incaricato d’invigilare alla conservazione della Fede avea un animo dotato di somma scienza, fermezza, prudenza, saviezza, tenero e ardente amore per la Chiesa, e per la salute dell’anime. Sopratutto un perfetto disinteresse lo rendeva superiore a ogni sospetto di agire per altro fine, che per la gloria di Dio e della Cattolica Religione. Egli era di parere, che non si dovessero impiegare contro gli Eretici che infettavano la Francia che le sole armi, di cui S. Paolo si era servito contro i Gentili, e delle quali raccomandò caldamente l’uso a suoi Discepoli in omni patientia et doctrina. Quantunque avesse a fare con i cuori più induriti, e spiriti fanatici ripieni d’odio contro i Predicatori del Vangelo, non si stancava giammai. Spendeva la maggior parte delle notti a pregare o a gemere avanti a Dio per ottenere a calde lacrime la conversione degli eretici, e consumava le intere giornate a istruirli ed esortarli con dolcezza. Cercava quelli che fuggivano la luce, senza giammai lagnarsi di coloro che gli rendevano male per bene, e un sì puro zelo, unito a tante eroiche virtù, induceva qualche volta i più ostinati alla conversione. Chi avea resistito alla forza dei discorsi e all’evidenza de’ miracoli, si dava per vinto alla dolce persuasiva del suo esempio, o piuttosto all’interna virtù della grazia, che facendogli venerare la santità del predicatore lo conduceva gradatamente per la via della verità e della vita.

Tale era appresso a poco S. Francesco, che non meno dell’altro si sforzava d’inculcare a’ suoi compagni nel sacro ministero di convertire gli eretici, l’adoprare la moderazione, la dolcezza, la carità, e la mansuetudine secondo lo spirito del Vangelo([21]). Ma le passioni che agitano di continuo il cuore umano, è difficil cosa che non inducano chi è rivestito di qualche autorità e preminenza sopra gli altri uomini a non abusarne. Verso l’anno 1255. ad istanza di S. Luigi IX., Alessandro IV. dette al Provinciale de’ Padri Domenicani, e al Guardiano de’ Frati Minori di Parigi la soprintendenza sull’Inquisizione di tutto il Regno di Francia con la facoltà e potestà quasi assoluta di citare qualunque persona eretica o sospetta di eresìa, scomunicarla, accordar delle indulgenze a’ Principi dediti a sterminare i colpevoli, e fare tutti gli atti necessarj per l’esercizio del loro impiego privativamente a qualunque altro Tribunale. In poco tempo affermano Fleury, e Racine, gl’Inquisitori si resero tanto odiosi unitamente a loro seguaci, che una tal giurisdizione concessa a Sacerdoti, che renunziato aveano per voto a tutte le cose mondane, inasprì al maggior segno i popoli contro di essi. Un Minor Conventuale Inquisitore assistè personalmente alla sentenza emanata con tante formalità contro i Cavalieri Templari sotto Filippo il Bello per abolire quell’Istituto sul principio del Secolo XIV., ma ben presto una generale sollevazione di tutti gli spiriti contro le loro procedure non lasciò a predetti Religiosi che un titolo inutile. L’Inquisizione in Francia decadde poi con somma celerità più che altrove di credito, e di potere. I Vescovi Francesi che si vedeano togliere un diritto, che loro apparteneva sin dalla prima instituzione, lo reclamarono altamente, onde la Corte di Roma gli associò agl’Inquisitori, ma ciò non bastò a sostenere il credito di quest’ultimi.

 

Contemporaneamente la Corte Pontificia tentò ogni mezzo per stabilire l’Inquisizione in Germania, ma l’umore libero e generoso dei Tedeschi, non accomodandosi co’ rigori eccessivi di questo Tribunale vi si oppose con una fermezza tale, che obbligò i Pontefici ad abbandonare l’impresa. Essa andava lusingandosi che il tempo e i maneggiati avrebbero in fine fatto riuscire il progetto, ma il tempo non servì che a farle comprendere, che i Tedeschi non avrebbero mai subito questo giogo, specialmente allorchè vedde i ministri del Tribunale del Sant’Ufizio scacciati da diverse Città, non ostante la cura che si prendevano gl’Inquisitori di usare una dolcezza inusitata in altri Paesi di Europa. In Inghilterra, e ne’ Paesi Bassi ogni tentativo e de’ Papi e degl’Inquisitori fu vano. Per quel che riguarda l’Inghilterra, l’umore de’ popoli di quella grand’Isola, più nemici ancora dei rimedi violenti e più facile a sollevarsi che i Francesi, e i Tedeschi, parve sì opposto a principj del nuovo Tribunale, che tutti gli sforzi fatti per stabilirlo si conobbero inutili, e che quando anche il Papa, chi vi avea maggior credito, che negli altri Paesi della Cristianità, avesse avuto bastante credito per farlo ricevere, non vi avrebbe potuto avere lunga sussistenza. Fu abbandonata perciò una tale idea con altrettanto maggior dispiacere in quanto che l’Inglese, essendo di tutte le Nazioni quella che è più portata a parlare in pubblico e a dommatizzare, sembrava che più di ogni altra ne avesse bisogno. per quel che riguarda le XVII. Provincie dei Paesi Bassi divise allora sotto varj Sovrani che vi comandavano col titolo di Duca, Conte, e Signore, la conformità dell’umore dei popoli con i Tedeschi e Francesi, in mezzo a quali sono situati, fece similmente comprendere non esser possibile l’introduzione dell’Inquisizione, e in tal guisa i Vescovi rimasero in possesso dell’autorità di giudicar soli dei delitti di eresìa.

 

Restarono le cose in questi Paesi nel descritto stato sino al Secolo XVI., ma quel che l’Inquisizione o perdeva o non aumentava in detti luoghi, lo acquistava a gran passi ne’ diversi Regni, che allora esistevano in Spagna ed in specie in Aragona, poichè gl’Inquisitori Domenicani nel secolo XV. ebbero il coraggio di citare avanti al loro Tribunale Don Carlo Principe di Viana Figlio maggiore di Don Giovanni II. Re di Aragona, e molto vi volle per salvarlo dal loro rigore([22]). Nel Regno di Castiglia languiva egualmente che in Francia, e non fu che nel 1478. che venne formalmente ricevuta, e che spiegò quella forza e quel rigore, che nè per l’avanti nè dopo si è mai veduto in alcun Tribunale. Il genio degli Spagnuoli era in que’ tempi più austero e più crudele di qualunque altra Nazione, e ciò si conosce dall’eccesso di atrocità che messero nell’esercizio di una giurisdizione, che non avrebbe dovuto adoprare che la mansuetudine. I Papi eretto aveano questo Tribunale per politica, e i Frati Spagnuoli vi aggiunsero le barbarie. Era divenuta l’Inquisizione in Castiglia come in Francia l’oggetto del disprezzo del popolo e de’ grandi, e sarebbe forse stata obbligata a uscirne con poca sodisfazione, se Isabella e Ferdinando, che aveano riuniti i due Regni di Castiglia e di Aragona, e in conseguenza tutta la Spagna fuori del Portogallo sotto il loro dominio non l’avessero sostenuta. Giovanni di Torquemada Domenicano Confessore di detta Regina le avea fatto promettere avanti che giungesse a la Corona di non risparmiar cosa alcuna per esterminare gli eretici e gl’infedeli. Ascesa di poco tempo al trono le fece concepire il disegno di conquistare il Regno di Granata, che era l’unico che fosse restato in potere de’ Mori, che invasi aveano poco avanti i tempi di Carlo Magno, tutti i Regni delle Spagne.

Allorchè Maometto II. soggiogata ebbe la Grecia, e Costantinopoli, i suoi successori lasciarono i vinti Greci nella loro Religione, e i Mori dopo aver vinte le Spagne non aveano costretti i Cristiani a divenir Musulmani. Ma dopo la presa della Città e prefato Regno, che riuscì più felice di quel che non si sperava, il Cardinal Ximenes Zoccolante primo Ministro di detta Regina unitamente al Torquemada, volle che tutti i Mori divenissero Cristiani, o sia che vi fosse indotto da un feroce zelo, o che ascoltasse l’ambizione di avere un nuovo popolo sottomesso alla sua Primazia. Molti dei Mori passarono in Africa, ma la parte più grande restò in Spagna, o ritenuta dai contratti maritaggi, o dai differenti stabilimenti di commercio, o finalmente perchè i beni che possedeva non si poteano trasportare. Ferdinando il maggior politico de’ suoi tempi, che per tal conquista nel 1500. ottenne il titolo di Re Cattolico, conobbe che non si potea obbligar tutti a passare il mare senza spopolare affatto i nuovi Stati guadagnati per conquista, e l’Aragona e la Valenza ove i Mori sotto la sede degli antichi trattati vivevano nella maggior tranquillità. Ma per compiacere alla moglie, che si era riservato il diritto di sovranità nella Castiglia, consentì ad obbligare i Mori e gli Ebrei, che erano in grandissimo numero per tutte le Spagne a rinunziare alla loro Religione. Quegl’infelici che non poteano dispensarsi dal ricevere la legge del vincitore, acconsentirono a quanto da essi si richiese; cioè a dire si fecero Cristiani in apparenza, conservando nel cuore la loro antica Religione. Torquemada e Ximenes, che preveddero il pregiudizio che una tal dissimulazione recato avrebbe allo Stato, rappresentarono a Isabella, che la politica e la di lei coscienza richiedevano che mantenesse la data parola di perseguitare gl’infedeli, e che sino a tanto che i Mori e gli Ebrei sarebbero attaccati all’antico loro culto, questa segreta inclinazione non potea fare a meno di non produrre delle pericolose ribellioni, che sarebbero state infallibilmente sostenute da’ Mori dell’Affrica, quali aveano troppo interesse di ritornare in Spagna, per non approfittare di tutte le congiunture: che il mezzo di renderli irreconciliabili fra loro era di costringere quelli che restavano ad essere buoni seguaci di Cristo, e siccome non era possibile che lo fossero volontariamente, era d’uopo usar la forza: che per verità un tale espediente diminuito avrebbe il numero de’ sudditi, ma era meglio averne pochi e fedeli a Dio e allo Stato, che gran quantità di fede equivoca e da temersi([23]).

Queste ragioni fatta avendo impressione nello spirito della Regina, che era più fortunata che di gran mente, Ximenes che ambiva di convertire i Maomettani con l’istessa velocità con cui gli avea messi sotto il giogo, le fece vedere, che per ben riuscire nel proposto piano, era d’uopo stabilire l’Inquisizione in Spagna con tutto il massimo rigore, e che per verità era questo un mezzo più lento di una guerra dichiarata, ma anche più sicuro, e servito avrebbe di rimedio perpetuo a un male che non potea guarirsi co’ lenitivi, e avea bisogno di ferro e di fuoco. Allora fu di comune consenso de’ Regnanti due Coniugi Monarchi, fu chiesta al Pontefice Sisto IV. della Rovere una Bolla per un nuovo stabilimento dell’Inquisizione ne’ Regni di Aragona, Castiglia, Valenza, Leone, Murcia, Galizia, Andalusia, e in tutta l’estensione degli Stati di Ferdinando e d’Isabella anche di là dal mare, e questa concessa venne nel 1483. Torquemada che sì ben servita avea la Corte di Roma, dette all’Inquisizione Spagnuola una forma giuridica opposta a tutte le umane leggi, che si è per gran tempo conservata, e ne fu nominato il primo Inquisitore Generale con piena plenipotenza, e quasi indipendente dalla Santa Sede, i di cui Decreti in Spagna non hanno alcun vigore se non sono prima approvati e rivisti dal Supremo Consiglio di Castiglia. In quattordici anni dopo la Bolla, narrano gli Storici, che fosse fatto in tutta l’estensione delle Spagne il processo a più di 80. mila persone, e più di 6. mila infelici bruciati vennero a fuoco lento nella gran Piazza di Vagliadolid e di altre principali Città con tutto l’apparato delle più auguste cerimonie. Tuttociò che ci vien raccontato de’ popoli, che han sacrificate vittime umane alle false divinità, non può assomigliarsi a queste esecuzioni accompagnate da una religiosa pompa esteriore. Un modo così terribile di procedere, inaudito fino a questi tempi, tremar fece tutta la Monarchia Spagnuola. La diffidenza s’impadronì di tutti gli spiriti, e restò affatto sbandita la società e l’amicizia. Il fratello temeva il fratello, la moglie il marito, il padre i figliuoli. Da ciò si vuole che provenuta sia la taciturnità che forma il carattere di una Nazione nata con tutta la vivacità derivante da un clima caldo, e fertile. I più cauti procurarono farsi seguaci dell’Inquisizione sotto nome di famigliari, credendo cosa più sicura esserne satelliti che esposti al supplizio. E’ necessario ancora attribuire a questo Tribunale quella profonda ignoranza della sana Filosofia, in cui giace peranche la Spagna, mentre la Germania, l’Inghilterra, la Francia, e l’Italia hanno scoperte tante verità, e dilatata la sfera delle cognizioni. L’umana natura non è poi tanta avvilita se non quando l’ignoranza e il fanatismo sono armati del potere([24]).

Giovanna la Folle, e l’Arciduca Filippo d’Austria detto il Bello suo Marito, lasciarono alle insinuazioni del surriferito Cardinal Ximenes aumentare il potere dell’Inquisizione in Spagna. Carlo V. Imperatore e Re di Spagna loro Figlio, sempre agitato in continue guerre, ed inasprito contro gli eretici che suscitate gli aveano tante avversità in Germania, armò viepiù in Castiglia, e in Aragona di maggior forza l’autorità degl’Inquisitori, ma giunse questa al massimo segno, o si può dire quasi all’eccesso sotto Filippo II. suo Figliolo. Nutrito quel Monarca in Spagna, e imbevuto delle più rigorose massime da Ecclesiastici famosi nel bigottismo, e nell’intolleranza, di naturale diffidente([25]), timido, e crudele, appena giunto al governo degli Stati cedutigli dal Padre, rinnovò gli ordini più severi perchè data fosse esecuzione a Decreti dell’Inquisizione, facendosi un dovere di assistere in persona come a un vago spettacolo, alle condanne di morte di coloro, che pensavano differentemente dagli altri in materie di Religione. Tanto grande era il suo entusiasmo, che un giorno ebbe la debolezza di dire, che ad onta della sua inclinazione alla clemenza, il suo odio per l’eresìa era sì forte, che se non si fossero trovati carnefici, avrebbe egli stesso esercitate le loro funzioni per distruggere i Settatori delle nuove proposizioni.

Fra le voci che si erano sparse nel Mondo sulla ritirata del citato Carlo V. Augusto nel Monastero di S. Giusto dell’Ordine di S. Girolamo nell’Estremadura, ove morì da privato nel dì 21. di Settembre 1558., una era quella, che il continuo commercio che avea avuto co’ protestanti di Germania, gli avesse infusa qualche inclinazione per le loro massime, e che non si era nascosto in una solitudine, se non per finire i suoi giorni in esercizj di pietà conforme alle sue segrete disposizioni. Nulla vi era di più falso. La stima che credeasi che facesse delle opinioni de’ novatori del suo secolo, apparve al mondo dalla scelta delle persone che fece per dirigerlo nella sua condotta spirituale, cioè del Dottor Caculla suo Predicatore, dell’Arcivescovo di Toledo, e del Padre Agostino Ponzio suo direttore di coscienza. Fina da quando il Re Filippo era ancora nelle Fiandre a combattere contro i Francesi, avea dichiarato Inquisitore Generale di tutte le Spagne D. Ferdinando di Baldez([26]) Arcivescovo di Siviglia, Prelato severo e rigido al maggior segno, con attribuirgli ogni più estesa facoltà di gastigare e chiamare al suo Tribunale qualunque persona, quando sospetta fosse di eresìa, senza distinzione di grado, sesso, ed età. Siccome fra esso, e l’Arcivescovo di Toledo non passava buona corrispondenza, l’odio privato sotto l’apparenza del ben pubblico spiegò tutto il suo livore. Non ostante seppe l’Inquisitore nascondere i suoi risentimenti fino alla venuta del Sovrano a Madrid, non essendo abbastanza informato in qual modo potea prender le cose. Ma questo Principe segnalato avendo il suo arrivo in Spagna col supplizio di tutti i partitanti delle opinione contrarie alla fede Cattolica, l’Inquisizione divenuta più ardita dal suo esempio attaccò direttamente l’Arcivescovo di Toledo Primate di Spagna, e tutti i suoi compagni nella direzione di coscienza del defunto Imperatore. Il Re avendogli lasciato arrestare tutti e tre, il popolo riguardò una tal cosa come il capo di opera del suo zelo per la Religione, ma il rimanente del mondo vedde con orrore il Confessore di Cesare fra le di cui braccia era spirato quel Monarca, e che avea ricevuto come nel suo seno quella grand’anima, dato in preda al più crudele, e al più vergognoso supplizio per le mani stesse del proprio figlio. Strepitò Roma per tale avvenimento, strepitarono quindi i Padri del Concilio di Trento allora adunati, correndo l’anno 1562, per la ritensione del prefato Arcivescovo sotto altro Tribunale che quello del Pontefice, a cui premendo il togliere ogni ostacolo al termine di detto Concilio, spedì apposta in Spagna Monsignore Odescalchi a sollecitare S. M. a voler cedere alle insinuazioni de’ Padri del Concilio, ma trovò il Re inesorabile, e il Papa che era Pio IV. fu obbligato a metter fuori il compenso di far sapere a’ detti Padri esser giunto a sua notizia, che Paolo IV. suo Antecessore avea concessa all’Arcivescovo Inquisitore la potestà di metter le mani addosso al suo confratello, e questi mostrarono di restare almeno in apparenza persuasi. Il fatto fu che il misero Prelato fu tenuto in una oscura carcere per lo spazio di di quindici anni, dopo i quali liberato venne, non costando che fosse reo di alcun delitto. Per quel che riguarda il restante di quell’affare, il Re geloso a prima vista della gloria di suo Padre, ebbe qualche interno piacere di vedere la di lui memoria esposta a un simile affronto. Ma avendo in seguito considerate le conseguenze di questo attentato, ne impedì l’esecuzione co’ mezzi i più segreti per non inasprire gl’Inquisitori, e far lesione alcuna all’autorità del loro Tribunale.

D. Carlo figlio unico del Re([27]), ed erede immediato della Corona non prese le cose con tanta moderazione, ma al contrario ne concepì un gran disgusto conforme all’affetto che sempre nutrito avea per l’Imperatore suo avolo, e alla somma venerazione che conservava per la di lui memoria. Essendo allora assai giovane, la sua vivacità e franchezza non erano corredate da tutta quella prudenza e cautela che era necessario adoprare in que’ tempi, con l’ambizione insaziabile di suo Padre, e gli arbitrari sistemi de’ suoi feroci Ministri. Biasimò altamente la debolezza del Re, e parlò in seguito pubblicamente del dispotismo dell’Inquisizione con un trasporto proporzionato alla sublimità de’ suoi pensieri, minacciando un giorno di rovesciare affatto il formidabil Consiglio del S. Ufizio. Non ostante i suoi trasporti, Caculla fu bruciato vivo in Burgos e sul rogo, vi fu posta la statua di paglia di Costantino Ponzio morto poco avanti nello squallore delle carceri. Se altri pensieri calmarono col seguito l’Infante D. Carlo, gl’Inquisitori non si riconciliarono giammai con lui, e fino d’allora giurarono la perdita di un Principe, che minacciava di porre un termine all’immensa loro autorità. Siccome allora una delle massime degli Spagnuoli, ed in specie degli Ecclesiastici, ad onta de’ precetti dell’Evangelo, era quella di non perdonar giammai, eccitarono per mezzo de’ loro segreti emissari mormorazioni sì grandi nel popolo, che Filippo si trovò quasi astretto ad allontanare D. Carlo dalla sua Corte, unitamente a D. Giovanni d’Austria figlio naturale di Carlo V., e il Principe di Parma Alessandro Farnese, che aveano dimostrato di entrar con trasporto nel giusto risentimento di suo figlio contro l’Inquisizione.

Qui però non si fermò la vendetta dell’Inquisitore D. Ferdinando di Baldez. In occasione delle turbolenze che si suscitarono intorno al 1568. ne’ Paesi Bassi, di cui parleremo in appresso, accordatosi co’ Duchi di Alba e di Feria, che preso aveano grande ascendente sullo spirito di Filippo, fecero un delitto al giovane Principe della compassione che dimostrava per que’ popoli infelici. Supponendo essi, che i Fiamminghi fossero tutti eretici, sostenevano, che D. Carlo non potea proteggerli senza rendersi reo degli stessi misfatti. Vi fu chi riportò a Filippo i suoi sentimenti sopra la Religione, e sopra il di lui Governo, porgendo le cose nel peggiore aspetto, e facendovi quelli aumenti che erano necessarj per far odiare a un Re sì sospettoso, e diffidente un figlio che non lo somigliava. Vi era anche una specie di rivalità fra Padre e figlio per cagione d’Isabella di Francia([28]), che Filippo avea presa per sua terza Sposa dopo averla promessa al figlio. Nulla vi era di più verisimile, che questi due giovani si amassero, poichè Isabella era stata allevata in una Corte voluttuosa e galante, e gl’intrighi femminili e la galanteria erano allora la maggiore occupazione della gioventù Spagnuola([29]). Vennero intercette delle lettere scritte dal Principe al Conte di Egmont stimato capo de’ sollevati Fiamminghi, e portate al Re: in esse biasimava egli la severità del Duca di Alba, e compativa le disgrazie di que’ sudditi sventurati. Alcuni Autori vogliono, che tentato avesse di fuggire dalle Spagne e rendersi in Fiandra per farsi dichiarare Sovrano di quelle Provincie. Tutti gli Scrittori differiscono nel narrare le cagioni della morte di questo Principe infelice, e una tale verità non si è mai saputa.

Fosse una cosa, fosse l’altra nella notte del dì 18. Gennaio 1568. il Re Filippo accompagnato dal Principe di Eboli, dal Duca di Feria, e da Antonio di Toledo Priore di Leone entrò nella Camera del figlio mentre dormiva profondamente poco dopo la mezza notte: s’impadronì tosto della sua spada che stava dietro al capezzale comandandogli di alzarsi, e mentre si vestiva gli fece i più vivi rimproveri del suo contegno, e quindi lo consegnò alla condotta di persone odiate dal Principe all’eccesso. Nel giorno appresso dette parte di questa sua disumana risoluzione a tutte le Corti d’Europa, ma ovunque scrisse la cosa in differente maniera. Dopo che D. Carlo era stato qualche giorno chiuso sotto severa custodia nella propria camera, fu dal Padre fatto condurre in una torre, dove era rigorosamente guardato a vista. Restò compilato cameralmente il suo processo, e poscia adunato il Consiglio di coscienza, fra i componenti del quale teneva il primo luogo l’Inquisitore, il Re vi propose, che desiderava sapere qual pena meritava il figlio di un Sovrano che avea macchinato contro lo Stato, e se si dovea in coscienza rimettere nelle mani della giustizia. Varj furono i sentimenti de’ Teologi, proponendo alcuni un esemplar gastigo, altri il mezzo della clemenza, e di esaminar meglio la materia di cui si trattava. La maggior parte de’ Teologi però essendo quasi dipendenti dal Grande Inquisitore, e nemici del misero Principe, approvarono la proposizione del loro capo, che disse in aria ferma e costante a Filippo, che la salute del suo popolo gli dovea esser più cara di quella di suo figlio, benchè la Corona non avesse altri eredi, e che vi era l’esempio di Moisè, che chiesto avea di essere anatema del Cielo pel bene del suo popolo, e che bisognava imitare Iddio che avea sacrificato il suo diletto Figlio per la salute dell’uman genere: che si doveano perdonare i peccati, ma tali delitti meritavano un severo gastigo.

Terminata quella consulta il Re dopo qualche giorno rimesse il figlio all’arbitrio dell’Inquisitore ordinandogli di non far più caso di sua persona, quanto del più semplice e vile de’ suoi sudditi. Sentì gran piacere il Baldez nel vedersi dichiarato giudice assoluto di un tanto Principe per poter dar pascolo al suo odio, e far conoscere al mondo che l’autorità dell’Inquisizione si stendeva ancora sopra le istesse teste Reali. In pochi giorni fabbricato, scritto e chiuso altro economico processo, fu portato al Monarca acciò soscrivesse il voto di morte che proponevasi a piè del medesimo. Filippo al solo vederlo turbossi senza leggerlo, e cominciò a sentirsi scorrere per le vene un ruscello di sangue bollente, che da tutte le parti parea che si portasse al cuore, ma abbassati poi gli occhi lo sottoscrisse, e lo consegnò in proprie mani del Grande Inquisitore dicendogli, prendete e conservate ben questo foglio poichè chiude un esempio, che non ha il simile al Mondo. Sottoscritta dunque e pronunziata la sentenza all’istesso Infante, gli vennero posti avanti agli occhi da’ Ministri dell’Inquisizione varj strumenti di morte in pittura, perchè sciegliesse a suo talento la meno orrida. Ad una nuova sì infausta, e terribile si pose il misero Principe a piangere amaramente, e postosi con le ginocchia a terra domandò, se vi era ancora qualche scintilla di pietà nel petto del Padre per fargli la grazia, e ascoltare le sue giustificazioni, e qualche atto di umanità ne’ Consiglieri, e ne’ Ministri dell’Altare per scusare i piccoli trascorsi della sua gioventù. Queste parole espresse vennero con tante lacrime e umiltà, che sarebbero state sufficienti a risvegliar la sensibilità di qualunque cuore più indurato, ma l’Inquisitore stando a sedere in maestosa scranna in una stanza apparata a lutto circondato dal suo corteggio, col Principe in piedi avanti a lui in sembianza di reo, senza punto scuotersi gli replicò, che il S. Ufizio non cambiava giammai i suoi decreti, onde la sua sentenza non si potea revocare, e che ricevesse per grazia grande quella che se gli facea di lasciargli l’arbitrio di eleggersi quel genere di morte che più gli gradiva. Allora il Principe con sdegnose parole soggiunse: ebbene giacchè non vi è pietà nel petto di mio Padre, e de’ suoi Consiglieri per l’unico erede delle Spagne, voglio che vegga ciascheduno che vi è fortezza nel mio petto per soffrir quella morte che più è gradita a chi mi ha dato la vita. Fatemi dunque morire di quella morte che comanda il Padre acciò restino soddisfatti quegli empj, che sì iniquamente bramano spargere il sangue di un Infante Primogenito delle Spagne. Protesto di morir seguace della Religione de’ miei antenati, ed in segno di ciò perdono di vero cuore a chi è cagione del mio morire. Solo manco di vita coll’abborrimento della tirannìa e della barbarie. Non si sà qual genere di supplizio destinato fosse all’infelice Principe, mentre alcuni autori vogliono che bevesse il veleno, altri che svenato fosse in un bagno caldo. Vi è chi vuole che il Re Filippo revocasse la sentenza, ma quando inviò l’ordine della sospensione fosse già eseguita, stante la celere premura, che ne avea l’Inquisitore che non si fidava della natural tenerezza di un Padre benchè disumano. L’orribil tragedia ebbe luogo nel dì 22. di Luglio dell’anno suddetto 1568.([30])

Filippo era così ansioso di dare al Mondo delle pubbliche prove dell’orrore che gl’ispirava l’eresìa, che appena giunto in Spagna nel 1559. volle assistere personalmente all’esecuzione di un così detto Atto di Fede nella gran Piazza di Vagliadolid allora città capitale della vecchia Castiglia. Un gran numero di protestanti fu dato alle fiamme, e più di 30. altre infelici vittime restarono nelle prigioni per servir di pascolo all’istesso supplizio, che sempre alla sua presenza ogni due o tre anni solennemente si rinnovava. Nel tempo che le altre Corti in occasione di qualche vittoria o qualche Imeneo rallegravano il popolo con feste le più giulive, in Spagna per l’esecuzione de’ suoi Decreti l’Inquisizione dava i più atroci spettacoli, famigliarizzando gli occhi del popolo col sangue, e nutrendo in lui quello spirito feroce, che fu cagione di tanti mali ne’ Paesi Bassi, e in America. Nella fausta circostanza dell’acquisto del Pennon de Velez Fortezza sulla Costa di Affrica, famoso asilo di Corsari Barbareschi che infestavano tutte le spiaggie della Spagna, condotta felicemente al suo termine da D. Garzia di Toledo nell’anno 1559., credè il Re di non poter dimostrare in miglior modo la sua riconoscenza a Dio se non con l’esterminio dei ribelli alla fede, con una solennità sanguinaria che ributta l’umanità, e repugna al vero spirito della Cristiana Religione, più che i più abominevoli sacrifizj di cui gli annali del Gentilesimo ci abbiano conservata la memoria.

Si celebrò questa nel mese di Giugno di detto anno con tutta la pompa e lo splendore della Corte più famosa e potente, che vi fosse in quel secolo in Europa. Filippo circondato da tutti i suoi cortigiani e dalle sue guardie si assise sotto maestoso trono, e dopo avere ascoltato un lungo discorso del Vescovo di Zamora presa in mano del Gran Inquisitore, più volte enunciato, il giuramento di sostenere l’Inquisizione e suoi Ministri contro gli eretici, o apostati, e contro chiunque altro intraprendesse opporsi all’esercizio della sua autorità, obbligando indistintamente tutti i sudditi a obbedire a di lei irrevocabili Decreti. Fatto ciò il Corpo de’ Giudici Ecclesiastici e de’ vendicatori della Fede, ritorna al suo posto dirimpetto al Monarca: la calma è dipinta sù loro volti e la gioja risplende ne’ loro occhi. Le vittime si avanzano, il rogo si accende. Una folla d’infelici pallidi e tremanti sotto il peso delle catene sono strascinati a ricevere la stabilita pena. Il Decreto, che gli condannava alle fiamme vi fu pronunziato col tuono affettuoso e tenero della pietosa carità e dell’indulgente bontà. Nel numero dei rei eravi un vecchio che era stato sorpreso osservando le superstiziose pratiche del giudaismo, che le minaccie gli avevano fatto abiurare in tempo di sua gioventù. Imbevuto della Religione proscritta de’ suoi antenati, il disgusto di averla abbandonata venne a turbarlo, la professò di nuovo nel silenzio, e nel timore, e sull’orlo della tomba avea avuto rossore di confessare il suo delitto, e andava al patibolo come una vittima all’altare. Ma allorchè intese che tutti i suoi beni, dati in preda all’avidità de’ Giudici venivano tolti a suoi figli, la di lui feroce costanza lo abbandonò. Crudeli, egli esclamò, in tal guisa voi divorate la vostra preda? Ho meritata la morte perchè ho tradito il mio dovere, e ho disapprovato con la bocca ciò che adorava nel cuore, ma cosa han commesso i miei figli per essere spogliati di quel poco di bene che ho loro lasciato? Fin dalla cuna hanno appresa la vostra legge, ed in quella gli ho educati. Ah lasciate alla sventurata loro madre per nutrimento di que’ miserabili un pane bagnato col mio sangue, e che essi irigheranno con le loro lacrime.

E che? gli risponde con volto sereno il Capo del terribil Tribunale del Sant’Ufizio, non sai che Dio punisce ne’ figli l’iniquità de’ loro genitori, che la spoglia de’ rei di Lesa Divina Maestà appartiene a Ministri delle Divine vendette, come le viscere delle vittime appartenevano al Sacrificatore? Che lo schiavo nulla ha che non sia del suo padrone, e che i tuoi simili sono nati schiavi presso i Cristiani? Se vengono confiscati que’ beni che tuoi non erano, cio è per farne un uso ben degno: e qual mai migliore può farsene di servirsi delle sostanze degl’infedeli per ricompensare i difensori della purità della fede? Non è egli giusto che una funesta stirpe paghi morendo la cura salutevole e penosa che noi ci prendiamo di ricondurla nella via della salute?... Uomini senza rossore, e senza fede, proruppe di nuovo ad alta voce il vecchio, la forza vi seconda, e la vostra ipocrisia abusa insolentemente dell’autorità di opprimerci... Non fu lasciato terminare quanto volea dire, e fu gettato nelle fiamme.

Dopo di esso si presentò al Tribunale un giovane semplice e timido nato fra i Cristiani, che amava una ragazza egualmente a lui semplice, e docile, e ne era corrisposto. Un rivale furioso e potente lo avea accusato di eresìa, e l’accusatore avea per complice un suo ben degno confidente. Tra il tetro orrore delle carceri e le torture il disgraziato giovane avea mille volte invocati la terra, e il Cielo come testimoni della sua fede, ma non era mai stato ascoltato. Comparendo davanti i Giudici alla vista del rogo raddoppiò i suoi pianti, e le sue grida: Ministri di quel Dio che adoro, e voi popoli; disse egli, protesto morendo, che sempre ho vissuto fedele alla Religione de’ nostri padri, e credo tuttociò che fin dall’infanzia mi è stato insegnato. Vorrei sapere in quale errore sono involontariamente caduto per detestarlo. Noi vogliamo, gli fu risposto, che tu faccia la sincera confessione della tua empietà. – A me non è nota, egli replicò, fatemi almeno venire a confronto i miei accusatori che mi smentiscano e mi confondano avanti gli occhi vostri. No, gli vien soggiunto, l’interesse della Religione non permette di palesar coloro che vigilano in sua difesa, e a noi ne scuoprono gli errori: non l’odio, ma lo zelo è che ti accusa, e lo zelo è degno di fede. Padre mio, gridò ad alta voce il giovane, a un Religioso che l’esortava a disporsi alla morte, io sono attaccato alla vita, e questo supplizio mi fa fremere. Ditemi qual confessione si vuole che io faccia, e benchè innocente non ho in questi estremi difficoltà a calunniarmi. Come? io insegnarvi la menzogna, disse il Religioso pietosamente crudele: ciò a Dio non piace. Nò figlio mio, morite martire piuttosto che ingannare i vostri giudici, e poi non vi lusingate, che la troppo tarda compassione possa salvarvi. Non è più tempo. Ne’ ferri è d’uopo confessarsi colpevole, ma alla vicinanza del supplizio non può dirsi pentimento, ma è lo spavento che parla, e questo non viene ascoltato. Abbandonandosi allora il giovane al suo dolore, e versando un torrente di lacrime, oh Dio, grida di nuovo, mi era stata annunziata la tua Religione pura e santa come l’appoggio dell’innocenza, e i Sacri Ministri... fu interrotto e strascinato sul rogo.

Mentre un vortice di fiamme lo inviluppava benchè vivo, e che i suoi gemiti straziavano tutti i cuori, un Moro appresso appoco dell’istessa età, ma più fermo e coraggioso, venne condannato come bestemmiatore per aver mormorato contro il S. Ufizio. Gli fu annunziato il suo destino ed esortato a dichiarare avanti a Dio e gli uomini chi lo avea indotto a sollevarsi contro i vendicatori della fede. Popoli (esclamò con sdegno) sapete voi chi si vuole che io accusi? Mio padre. Mi è stato nominato tra i ceppi questo complice, di cui si pretende che io sia il delatore, e che venga tratto per mezzo mio al patibolo? Mi è stato promesso, che verso di me sarebbesi usata indulgenza se stato fossi sì vile e disumano per aggravare e calunniare colui che mi ha data la vita. Ma invece di accusarlo protesto avanti tutta la celeste Gerarchia, che il misero vecchio è innocente. Io più di lui ho parlato, e ho altamente detestato una sì odiosa tirannìa, e tutte le insidie dell’artifizio per sorprendere e per atterrire un’infelice abbandonato alla calunnia, e alla frode la più fine e nera: ecco ciò, che mi ha eccitato all’ira. Strappandosi quindi dalle braccia di colui che lo accompagnava: lasciami, gli disse, io non voglio riconoscere quel Dio, che è adorato da miei Carnefici. Un Dio giusto, un Dio clemente riceverà la mia anima. Terminato appena di dire si gettò da se medesimo nelle fiamme. Dopo di esso comparve sulla luttuosa scena una folla di giovanetti dell’uno e dell’altro sesso educati segretamente nella Legge Maomettana, e dati in preda per tal delitto agl’Inquisitori della Fede. Essendo stato loro fatto sperare, che se si fossero fatti Cristiani sarebbero stati salvati dalla morte, reclamavano altamente un tal promessa, in vigore della quale aveano abiurato. Questa, fu loro risposto, vi sarà mantenuta nell’altra vita in cui sarete salvati da un supplizio assai maggiore di quello che vedete. Non pensate miei figli che a morir fedeli, e troppo felici di non avere a subire che un’espiazione passeggera, rassegnatevi senza mormorare al vostro felice destino. Le loro lacrime divennero inutili, e in mezzo agli ardenti vortici ove furono gettati, le loro braccia supplichevoli si stesero invano verso il cielo. Esse tosto ricaddero, e tutti restarono in breve consunti, mentre l’aria rimbombava de’ più sacri cantici di allegrezza, e che alcuni pietosi fanatici offrivano all’Altissimo invece dell’incenso il fumo de’ sacrifizj.([31])

In tutto il corso del Regno di Filippo II. queste orribili cerimonie vennero sovente rinnovate, onde in breve tempo restarono annichilate, e distrutte tutte le dolcezze della vita sociale; fu bandita la libertà delle parole e de’ pensieri, e introdotta finalmente la più intollerabile schiavitù. Per cagione dell’eresìa di Lutero l’Imperatore Carlo V. suo Padre nel 1550. deliberò d’introdurre ne’ Paesi Bassi l’Inquisizione sull’uso di Spagna, e ne pubblicò anche il Decreto, ma la Regina Maria Vedova di Luigi il giovane Re d’Ungheria sua Sorella Governatrice di quelli Stati, lo avvertì, che tutti i mercanti forestieri sarebbero partiti, e le Città che tanto fiorivano nel traffico restate deserte, onde rimase sospesa la volontà del Sovrano. Filippo però non volle ascoltar sù questo punto nè rappresentanze nè ragioni, e invano Margherita d’Austria Duchessa di Parma sua Sorella naturale, succeduta nel Governo, gli fece pervenire un prospetto veridico degli sconcerti che ne sarebbero nati nelle Fiandre. Una Deputazione di 400. de’ primarj Gentiluomini si presentò nel dì 5. Aprile 1566. in Bruselles a quella Principessa, e con una forte rappresentanza chiesero l’abolizione del Tribunale del S. Ufizio poch’anzi a viva forza istituito. Questa rappresentanza venne spedita in Spagna, ove fu fatta esaminare dal Tribunale dell’Inquisizione, che emanò una fiera sentenza, in cui dichiarò rei di lesa Maestà tutti que’ sudditi, che non si erano opposti de’ Paesi Bassi a’ progressi dell’eresia, egualmente che tutti que’ Signori che firmata aveano la rappresentanza. Questa sentenza inconsiderata, fu lo stendardo funesto di quasi cento anni di guerra civile. Il popolo furioso in diverse Città aprì le carceri, lacerò a brani a brani i Ministri Spagnuoli dell’Inquisizione, ruppe le sacre immagini, demolì gli altari e le Chiese, e commise mille altre empietà e sacrilegj. Per rimediare a tanti mali Filippo inviò in Fiandra il Duca di Alba detto il Falaride del suo secolo, il più crudele di tutti gli uomini. Giunto appena, senza aver riguardo a veruna antica e moderna prerogativa delle Respettive Provincie, che il suo Re giurato avea sull’Evangelo di mantere([32]), stabilì un Consiglio di dodici Giudici, di cui egli si dichiarò il Presidente, che fu dai Fiamminghi chiamato il Consiglio di sangue. Il primo atto del Duca fu quello di pubblicare un Editto, in virtù del quale, era lecito a tutti di uccidere gli eretici che non si poteano consegnar vivi nelle mani della giustizia, essendo essi incorsi nella pena di morte e confiscazioni de’ beni, e bastando per dichiarargli tali, che fossero convinti da due testimoni. I famosi Conti di Egmont e di Horn, che tanto aveano contribuito ad aumentar la grandezza di Filippo, ebbero la testa tagliata; i loro segretari furono sbranati([33]) da quattro cavalli, e in poco tempo più di 18. mila persone perdettero la vita per mano del carnefice. L’Imperatore Massimiliano d’Austria cugino del Re di Spagna nel sentire così infauste notizie, disse più volte nella sua anticamera: non può essere altro che l’aria di Spagna abbia interamente fatto degenerare il sangue di Casa d’Austria nelle vene di Filippo mio Cugino. Non ostante tutte l’esecuzioni, e le vittorie del prefato Duca d’Alba, di Don Giovanni d’Austria, e di Alessandro Farnese, un’ostinata ribellione sottrae al Dominio Spagnuolo le migliori Provincie dei Paesi Bassi, e dall’unione di sette delle più settentrionali, si formò la Repubblica d’Olanda, per ridurre la quale sotto l’antico giogo Filippo spese più di 100. milioni di pezze in effettivo contante, e sacrificò la vita di più soldati di quel che sarebbe stato necessario a conquistar l’Europa. Egli arricchì contro la sua intenzione que’ popoli, che volea soggiogare, e gli rese così potenti nel volerli opprimere, che dettero delle fiere ed irrimediabili scosse al suo Trono. Il rigore dell’Inquisizione si estese da un capo all’altro del mondo, cioè nell’Isole Filippine, nel Perù, e nel Messico, e servì non poco a spopolar viepiù quelle vastissime contrade già desolate, e poco meno che distrutte dai conquistatori Spagnuoli, che col ferro e col fuoco aveano preteso fare abbracciare a que’ tranquilli e timidi abitatori la Cristiana Religione([34]).

 Le disgrazie della Monarchia Spagnuola procedenti dal fanatismo e dal mal governo si aumentarono sempre più sotto Filippo III. suo figlio, più debole di spirito e meno politico del genitore, che si lasciava in tutto e per tutto dirigere da Francesco di Sandoval Duca di Lerme, che regnò in suo nome, e che poi fu fatto Cardinale da Paolo V. nel 1618, da Fra Girolamo da Firenze, e da Fra Luigi Alliaga Francescani, uno predicatore, l’altro suo confessore. Avea egli tutte le virtù che onorano i particolari, ma nessuna di quelle, che costituiscono un gran Monarca. La sua corte non fu, che un caos d’intrighi, poichè non sapea vivere senza favoriti, nè regnare senza primo ministro. Vien raccontato, che essendosi trovato sul paterno esempio a un Atto di fede a veder bruciare un gran numero di eretici e maomettani, mosso da un’interna tenerezza, e sensibilità dimostrasse pubblicamente, quanto gli dispiaceva di vedere quelli infelici morire per non aver potuto cangiar di opinione, e che il grande Inquisitore udite queste parole ne facesse un delitto al Re, ed avesse l’atroce imprudenza di chiederne formalmente sodisfazione, e avesse il Monarca la bassezza di annuire all’istanze del Prelato, col farsi cavare un bicchier di sangue in presenza del detto Inquisitore, che lo fece gettar sul fuoco nel proprio cortile per mano di un esecutor di giustizia affine di risarcir l’onore del Sant’Ufizio. E’ vero che Filippo III. fu un Principe di spirito limitato, ma non di un’imbecillità sì umiliante, e una tale avventura benchè riportata da molti autori sembra poco verisimile. Quel che vero si è, che l’Inquisizione tanto fece ed operò presso di lui, che lo indusse a scacciare più di due milioni di Mori da’ suoi Regni. Questi avanzi degli antichi vincitori delle Soagne, dopo la perdita di Granata se ne stavano solo occupati nel commercio, e nella cultura delle terre, ed erano i soli attivi, i laboriosi nel paese dell’ozio. Essi proposero in vano di comprar la permissione di respirar l’aria di Spagna con due milioni di doppie d’oro, ma il Re pieno di religione e di timore dell’ira di Dio, se non liberava i suoi Regni dagl’infedeli, fu inflessibile. I primi Signori di Castiglia, e i Grandi, de’ quali i Mori coltivavano le terre esposero a S.M. il danno, che a loro risultava da tal deliberazione, assicurandolo, che sarebbe stata l’intera rovina dello Stato in cui i Mori erano gli artigiani, e gli agricoltori. Per risposta ricevettero da Filippo un fulminante Decreto in data degli 11. Dicembre 1609., e nell’istesso giorno fu pubblicato a suon di tromba il Bando di tutti i Mori dai Dominj Spagnuoli in tutte le Città, ed in specie in Valenza, nel cui Regno erano più che altrove numerosi.

Le ragioni, che l’Inquisizione dimostrò al Re sulla necessità di scacciare questi sudditi furono sette([35]): I.) Perchè vivevano insieme molti di loro, nè solamente interi villaggi, ma anche intere Città erano da essi soli abitate, onde si animavano e fortificavano nelle loro opinioni l’uno con l’altro, nè il Santo Ufizio potea sì facilmente scuoprire i più ostinati seduttori, come in altri luoghi ove erano mischiati con i Cristiani. II.) Perchè non intendevano se non la lingua Araba, specialmente le donne, e i fanciulli, e che perciò era inutile affatto la predicazione de’ Missionari. III.) Perchè le loro abitazioni erano vicine a i Mori di Affrica, co’ quali aveano continua corrispondenza, e gli faceano sperare di potere un giorno riacquistare la Sovranità della Spagna. IV.) Finalmente perchè l’adorazione delle Immagini era ciò che aveano di maggiore avversione nel Cristianesimo. La Spagna dopo questo incauto passo non fu mai tanto potente come in addietro, e mancando le manifatture, e le arti venne a perdere que’ vantaggi, che ricavava dalle miniere del Messico e del Perù, essendo che le ricchezze di que’ doviziosi continenti passarono tosto in mano di altre nazioni. In breve tempo si avvedde il Governo con quanta poca politica era stato proceduto in questo bando; mentre l’istesso Re avendo adunato un Consiglio straordinario per trovare un rimedio allo stato degli affari, sentì rispondersi da qualche vecchio Ministro spregiudicato superiore al timore, che incuteva in tutti il S. Ufizio, e alla adulazione, che la spopolazione e la mancanza di uomini nelle Spagne era maggiore di quella, che fosse mai stata sotto i suoi antecessori, e tanto grande, che se Dio non vi rimediava la Monarchia Spagnuola era prossima alla sua rovina e total distruzione. Nulla di ciò era più visibile stantechè in breve tempo le campagne restarono desolate, i terreni inculti, le case non furono che un ammasso di sassi senza che nessuno le riedificasse, le strade solitarie e mal sicure, e le terre, e le ville restarono deserte. I contadini per non esser vessati da’ satelliti dell’Inquisizione, e caricati di esorbitate tasse, si fecero soldati o passarono in America, credendo trovarvi miglior sorte e tutto quello che rende la vita comoda restò a un tratto incognito e abbandonato. La Città di Siviglia, che sotto Carlo V. contava più di 20. mila telai ne’ quali si fabbricavano Drappi di lana e seta per trasportarsi nel nuovo mondo non ne avea sul principio del secolo XVII. appena 300. Le meccaniche vi restarono rozze e imperfette; gli uomini non si trattavano che fra loro, e ciò producea, che la tristezza e la malinconia era sparsa su tutta la superficie delle Spagne. Le apparenti pratiche di devozione servivano solo di trattenimento, e di occupazione agli oziosi, e ovunque vedevasi la languidezza e la miseria.

Sotto Filippo IV. e Carlo II. restò l’autorità dell’Inquisizione sull’istesso piede, ma la Monarchia Spagnuola sempre più decadde, l’armate restarono senza buoni generali ed ingegneri, l’ignoranza si aumentò, e la mancanza del denaro crebbe a segno, che bisognò trovare il rovinoso compenso di accrescere il costo della moneta, e far circolare cedole di carta. Il predetto Carlo II. ebbe anch’egli delle forti contese con l’Inquisizione per aver fatto arrestare nel 1675. nel convento annesso all’Escuriale il Marchese di Villa Sierra favorito della Regina Maria Anna d’Austria sua Madre, reo di malversazione e peculato. D. Giovanni d’Austria il giovane suo zio uomo coraggioso e pieno di fermezza, con esiliare l’Inquisitor Generale accomodò l’affare e represse la soverchia audacia de’ Frati.

Non fu questa la sola prova della fermezza di D. Giovanni durante il tempo, che resse la Monarchia Spagnola. Avendo come si è accennato Carlo II. gran bisogno di trovar denaro per potersi sostenere contro le forze preponderanti di Luigi XIV. Re di Francia suo nemico e cognato, trovandosi le migliori rendite alienate e passate in mano degli appaltatori, le piazze sguarnite e senza difesa, i porti senza vascelli, gli arsenali senza manifattori, inviò alla zecca per consiglio del prefato D. Giovanni gli argenti superflui de’ palazzi Reali, e pensò servirsi anche di quelli delle Chiese. I Domenicani, che ne aveano a Madrid una esuberante quantità, gridarono all’empietà, e si accinsero anche a far resistenza per non consegnare il prezioso deposito, minacciando i rigori dell’Inquisizione a que’ ministri, che fossero andati a prenderli. La Corte rinnovò gli ordini i più assoluti, e fece temere di ricorrere alla forza. I Frati allora con l’idea forse di muovere il popolo a sollevazione, dissero, che volevano portare a palazzo i sacri vasi e arredi processionalmente. Il Principe che ben vedeva ove tendevano le loro mire, rispose, che ciò molto incontrava il suo genio, e che egli per maggior pompa avrebbe loro concesso un corpo di truppe per tenere indietro la folla. In fatti nella mattina destinata alla funzione, fece schierare per tutte le strade dal Convento al Palazzo diversi reggimenti d’infanteria e cavalleria, che occupati tutti i capi delle strade chiusero il passo al popolo, e la processione passò in mezzo a’ soldati, senza, che si sentisse il minimo moto, e gli argenti vennero consegnati a chi gli richiedeva. Quest’esempio servì per tutte le altre Città della Spagna perchè il tutto passasse quietamente. D. Giovanni essendo morto poco dopo la pace di Nimega, incominciò a insorgere la voce, che egli era scomunicato, ma il Re Carlo prese tali misure, che l’Inquisizione non ebbe ardire di procedere contro la di lui memoria.([36])

Ascesa poi la Casa di Borbone sul trono di Spagna, la potestà del S. Ufizio restò alquanto mitigata e depressa. Quello, che più di tutti la rimesse negli antichi limiti fu il regnante Carlo III. nel 1761. in occasione di un Breve di Clemente XIII. inviato al grand’Inquisitore perchè proibisse un libro stato dato alla luce in detto anno, che avea per titolo “Esposizione della dottrina Cristiana, o istruzioni sulle principali verità della Religione”. Emanuelle Quintano Arcivescovo di Farsaglia, che occupava allora la carica suddetta d’Inquisitore, senza comunicar l’affare ad alcuno, stante che il Breve era pervenuto a lui direttamente senza passare pel canale del Nunzio, ne fece affigger tosto la copia alla porta del suo Tribunale. S.M. Cattolica maravigliata di tal novità, chiamato il Nunzio glie ne domandò la cagione. Questi, che ignorava il Breve, la spedizione, e la pubblicazione del medesimo, si spiegò col Re di non avere avuta parte in quanto era stato poch’anzi eseguito. Interrogato D. Emanuelle rispose, che la Santa Inquisizione il virtù delle sue Leggi non era tenuta a render conto ad alcuno delle sue operazioni. Una sì audace risposta irritò assai il Re ed il Ministero, col di cui consiglio il Monarca punì il fiero Prelato rilegandolo molte miglia lungi da Madrid; ed affinchè l’Inquisizione per l’avvenire non pregiudicasse con le pretese sue leggi, ed esenzioni alla Sovrana sua autorità, fece un Decreto, nel quale dopo aver lodato il zelo di otto Ministri deputati ad esaminar quest’affare, prescrisse, che in avvenire tutti i Brevi, Bolle, Rescritti, o Lettere Pontificie dirette a qualunque Tribunale, Congregazione, Magistrati, Arcivescovi ec., o ad alcuno in particolare, non si dovesse pubblicare ed obbedire senza che il Re lo avesse fatto vedere ed esaminare. Inoltre, che l’Inquisizione non potesse più pubblicare Editto alcuno proveniente da Bolla, o Breve Apostolico senza il Regio assenso, ne tampoco indice generale o espugatorio di libri proibiti ed eccettuati senza darne parte a S.M. per mezzo del Segretario di grazia e giustizia, e in mancanza di questo pel’ dipartimento della Segreteria di Stato([37]). Malgrado ciò, però l’Inquisizione ha per anche credito grande ed autorità in Spagna, e testimone ne può essere D. Paolo Olavides uno de’ più bei talenti e svegliati ingegni della Monarchia, il quale popolate avendo alcune valli assai fertili nelle così dette montagne della Sierra Morena, che separano la Castiglia dall’Andalusia, chiamandovi diversi esperti agricoltori Tedeschi di religione Protestante, che in poco tempo ridussero a cultura quelle desolate contrade fabbricandovi comode case, e aumentando i sudditi del Re, cadde per ciò in sospetto del Santo Ufizio, e venne arrestato, e non si sarebbe così prestamente tolto d’intrigo, se da benefica mano non gli fosse stato dato l’adito alla fuga, godendo ora il cospicuo posto di Segretario del Conte di Aranda Ambasciatore di S.M. Cattolica alla Corte di Francia.

L’Inquisizione fu dopo il 1523. introdotta in Portogallo sotto il Re Giovanni III. figlio di Emanuelle il Grande, che le avea sempre negato l’ingresso. Ma siccome le massime degli Inquisitori riempirono d’orrore la Città di Lisbona, che a que’ tempi, più che al presente, era l’emporio di tutte le nazioni, avendo quel Principe fatta reflessione alle rimostranze fattegli da suoi Ministri, pubblicò un’Indulto generale in favore di coloro, che accusati erano di Giudaismo, e fatte aprire le carceri gli rimesse tutti in libertà. Per più di un mezzo secolo il S. Ufizio restò in Portogallo ne’ suoi giusti confini, ma dopo che Filippo II. Re di Spagna ebbe conquistato quel Regno nel 1580. vi estese e propagò la sua autorità anche con maggior dispotismo e indipendenza che in Spagna sotto un Inquisitor Generale a parte. Allora quando i Portoghesi nel 1640. scossero sotto Filippo IV. il giogo Spagnuolo, e posero su quel trono Giovanni IV. di Braganza, quel Principe conoscendo i danni, che alla Corona Portoghese cagionato avea l’eccessivo rigore del Santo Ufizio, e gli abusi, che ne provengono dal segreto inviolabile, che si osserva nel medesimo, intenzione avea di sopprimerlo. Ma non essendo ben stabilito sul trono, e trovandosi in aperta guerra con la Spagna, che lo giudicava un usurpatore e un ribelle, non credè proprio inimicarsi i Domenicani, che erano potentissimi nel Regno. Avvedendosi però, che di tutte le confiscazioni, che si faceano dall’Inquisizione non ne proveniva al suo Regio erario, che una piccola porzione, ordinò, che in avvenire non fossero confiscati in veruna maniera i beni di coloro, che venivano carcerati e condannati.

A sì improvvisa dichiarazione si messero all’arme terribilmente gl’Inquisitori, che si trovavano privi a un tratto de' migliori emolumenti de’ loro impieghi. Posero dunque in opra ogni più ardito mezzo per far ristabilir le cose nel primiero stato, e tanto si adoprarono, che finalmente messero fuori un Breve di Innocenzo X., ottenuto dicesi per mezzo di D. Olimpia Maidalchina, che maneggiava a suo modo lo spirito di quel debol Pontefice dilei Cognato. In vigore di questo S.S. ordinava che si facessero le confiscazioni, come in addietro con la comminazione della scomunica contro tutti quelli, che si opponessero all’esecuzione del Breve suddetto vero o falso che fosse. Muniti gl’Inquisitori con questo scudo andorono in corpo a presentarsi al Re nel giorno di Pasqua dell’anno 1642. nell’atto appunto, che ricevuta avea la Comunione Pasquale, e lo pregarono a volere avere la bontà, che in sua presenza e di tutta la Corte si facesse la lettura degli Ordini Pontificj. Avendo egli pazientemente e con umiltà ascoltato il tutto, domandò in profitto di che esser doveano le comandate confiscazioni, ed essendogli stato risposto, che appartenevano a lui, replicò ad alta voce “poichè a ognuno è lecito far de suoi beni quel che gli piace, per non contravvenire agli ordini di Roma, e per dimostrare il profondo rispetto che ho per la Santa Sede, acconsento che voi confiscate i beni dei delinquenti, che cadono in vostro potere, de’ quali ne farete esatto inventario: quindi dichiaro e mi protesto, che io fin da questo giorno faccio un dono alle loro famiglie e discendenti di tutti i detti beni tanto stabili, che mobili, che voglio che siano loro fedelmente restituiti, qualunque sia la pena a cui restar possano condannati. Tale è la mia volontà.” Detto ciò nacque un gran susurro nell’Assemblea; gl’Inquisitori voleano replicare, ma il Re voltò loro le spalle e partì. Pregarono, parlarono, si maneggiarono ma sempre inutilmente, e fin a tanto, che Giovanni IV. fu in vita, tutte le sostanze de’ rei restituite vennero esattamente a loro legittimi eredi.

Morto nel 1656. questo Principe uno de’ più coraggiosi e magnanimi del suo tempo, i Ministri del Santo Ufizio, si portarono di nuovo in corpo a rappresentare alla di lui vedova Luisa di Gusman de’ Duchi di Medina Sidonia, che non poco contribuito avea a farlo ascendere al Soglio, che il suo defunto Consorte avendo contravvenuto agli ordini del Papa era incorso nella scomunica, e che perciò non se gli potea concedere l’Ecclesiastica sepoltura. Restò la Regina atterrita a tal dichiarazione, e prevedendo quale scandalo ne sarebbe provenuto nel popolo, prese qualche tempo a risolvere, per consigliarsi col suo Confessore ed altri Teologi. Questi che erano d’accordo con gl’Inquisitori, per far sempre più risaltare la loro autorità le confermarono, che aveano ragione, onde quella Principessa meno ferma del marito ebbe la debolezza di acconsentire, che benchè morto venisse formalmente assoluto. Vestiti gl’Inquisitori degl’abiti Sacerdotali accompagnati da tutto il Clero Regolare con le Croci inalberate si portarono nella mattina del dì 9. agosto di detto anno nella gran Piazza di Lisbona, ed ivi assiso il grande Inquisitore sopra maestoso palco, citò per tre volte in presenza di tutto il popolo il Re Giovanni IV. a comparire avanti al suo Tribunale benchè morto da varj mesi addietro. Ciò detto il cadavere dell’estinto Principe venne portato in una lugubre cassa di cipresso, col seguito di tutta la Corte, de suoi due figli Alfonso, e Don Pietro, e della vedova Regina Regnante. Giunto il convoglio e posata la cassa in terra innanzi al palco Inquisitoriale con i Principi suddetti, i Cortigiani, e la Regina in piedi all’intorno, fu letto ad alta voce il processo, e la condanna di scomunica in cui era caduto. Aperta quindi la cassa, e scoperto il cadavere, che ivi giaceva imbalsamato, l’Inquisitore sceso dal palco; prese in mano una lunga bacchetta, e gli dette tre colpi in penitenza del preteso commesso delitto, indi gli concesse dopo diverse orazioni l’assoluzione di esser collocato in luogo sacro; poi con l’istesso treno se ne tornarono la Corte e i Frati al palazzo di loro residenza.([38])

Incoraggita l’Inquisizione da questo attentato continuò viepiù i suoi rigori sotto il Regno di D. Alfonso VI. successore di D. Giovanni IV. e nel principio del Regno di quest’ultimo, gl’intrighi dei Domenicani e altri Ministri del S. Ufizio tali furono, che la predetta Regina terminato il tempo di sua reggenza fu costretta ritirarsi in un chiostro, ove non molto dopo morì. In sequela di ciò l’istesso Alfonso venne accusato di sregolata vita e di poca credenza in materia di fede, e la cosa andò tanto innanzi, che quel Monarca venne con inaudita catastrofe balzato dal Trono, dichiarato incapace di governare, e chiuso nel Castello di Cintra nell’Isole Terzere, ove morì nel dì 12. Dicembre 1683. La di lui Sposa Isabella di Savoia Nemours lo accusò d’impotenza, fece divorzio con lui, e dipoi fatto dichiarar nullo il suo matrimonio con l’infelice Principe, si sposò a D. Pietro suo minor fratello, che prese prima il titolo di Reggente, poi quello di Re. Siccome era pervenuto a questo grado con l’ajuto de’ Frati, così la loro potenza nel tempo del suo governo divenne eccessiva, e quasi affatto indipendente dalla Sovranità. In fatti in occasione di un furto sacrilego accaduto nel 1672. in una delle principali Chiese di Lisbona, a cui fu portata via la Pisside con le Particole consacrate, e altri vasi sacri, il Tribunal Criminale avendo fatte fare più e diverse perquisizioni per scuoprire i rei, l’Inquisizione credè cosa mal fatta, che giudici secolari prendessero cognizione di questo affare, che pretese meramente di sua pertinenza. Immediatamente si affissero i cedoloni delle censure contro i suddetti Giudici, e si comminarono contro di essi altre pene afflittive se non desistevano tosto dall’incominciate procedure. Si lagnarono essi altamente col Re di un tale attentato, come troppo lesivo alla suprema autorità, ma egli mischiarsi non volle in questa contesa, e ordinò loro il cedere a comandi del Santo Ufizio. Tutta Lisbona fu ripiena di terrore a tale avvenimento, ed allora sì che gl’Inquisitori infierirono contro chi cadeva in sospetto di reità, di eresìa, e Giudaismo, ed in specie contro i così detti Cristiani nuovi, come i più esposti a vacillare in cose di religione.

Tali rigori furono cagione, che i primari Signori del Regno alla testa de’ quali vi erano il Marchese di Marialva, D. Antonio di Mendozza Arcivescovo di Lisbona, D. Cristofano d’Almeida, il Marchese di Tavora, il Conte di Villaflor, D. Emanuelle Sanchez, e diversi altri celebri Teologi e Religiosi di differenti Ordini, fecero una solenne rappresentanza al Trono delle vessazioni orribili, che ricevevano i sudditi dalle maniere di procedere, che si osservavano nell’Inquisizione, e che da ciò ne sarebbe assolutamente seguita la total rovina e spopolazione della Capitale e del Regno. Le ragioni, che allegarono fecero una sì viva impressione sullo spirito di D. Pietro, che malgrado il suo timoroso rispetto per l’Inquisizione, ordinò al suo Ambasciatore a Roma di sollecitare presso Innocenzo XI. una Bolla, che permettesse a suddetti Cristiani nuovi, il potere esporre avanti al Pontefice i motivi, che aveano di lagnarsi del Sant’Ufizio. Ottenuta la Bolla e significata a tutti i Tribunali dell’Inquisizione del Portogallo, vennero sospese tutte le esecuzioni, e i novelli Cristiani, ebbero il permesso di nominare dei Procuratori per agire a loro nome tanto a Roma, che in Lisbona, e sollecitare appresso S.M. un regolamento, che riducesse le formalità del S. Ufizio alle regole prescritte dal Diritto Civile e Canonico. In sequela di ciò vennero presentate al Papa delle forti memorie, e suppliche, perchè si degnasse ordinare, che fossero portati avanti al suo Trono gli atti originali de’ processi compilati contro coloro, che erano stati condannati al fuoco dell’Inquisizione, e specialmente quelli, che erano morti qualificati convinti negativi, acciò S.S. persuasa fosse della giustizia de’ ricorsi ad essa indirizzati, e prendesse quelle misure, che credute avesse necessarie per ovviare a un tanto male. Ascoltò Innocenzio con carità ed attenzione le lagnanze di quelle afflitte genti, e talmente restò commosso delle loro miserie ed oppressioni, che fece immediatamente spedire un Breve diretto agli Inquisitori, col quale loro ordinava inviar subito alla Santa Sede quattro de’ primi processi originali fabbricati sul principio, che il S. Ufizio fu stabilito in Lisbona. Conobbero i Ministri dell’Inquisizione il pericolo a cui erano esposti di vedersi limitata l’autorità, onde presero d’accordo il partito di non obbedire nè punto nè poco agli ordini di Roma. Questa retinenza obbligò il Papa a sospendere con un altro Breve l’Inquisitor Generale, e scommunicar tutti gli altri, e loro impose rimettere a Vescovi le chiavi de’ rispettivi Tribunali. Ne nacque perciò in detta Città di Lisbona e altre del Portogallo un fiero scisma, sostenendo acerrimamente i Domenicani non esser obbligati, stante i privilegi loro concessi dagli altri Pontefici, a render conto ad alcuno delle procedure del Santo Ufizio, e tanto si maneggiarono presso l’Infanta figlia del Re D. Pietro, a cui il padre moltissimo deferiva, e presso alcuni favoriti, che col mandare a Roma due soli processi scelti a lor talento quietarono l’affare. Il Papa per non far peggio mostrò di contentarsi e li dichiarò assoluti, onde a poco a poco le cose ritornarono nel primiero stato. Tuttociò vien bastantemente giustificato dall’istesso Breve del prefato Pontefice Innocenzo XI. in data 22. Agosto 1682. I mezzi de’ quali gl’Inquisitori si servirono per deviare la tempesta, che li minacciava furono quelli di far comprendere al Re, che la Corte di Roma non avea richiesto i detti processi se non per approfittare dell’occasione di intrudersi negli affari Ecclesiastici del Portogallo, il che era diametralmente contrario a diritti e privilegi della Corona, e che non era in conseguenza buona politica dare al Papa dei pretesti di estendere la sua autorità su quella del Principe, che non dovea avere altro superiore che Dio.

Ritornò in tal guisa il Tribunale del S. Ufizio ad esercitare in Portogallo la primiera autorità, servendo anche qualche volta alle private vendette di chi avea in mano il governo assoluto dello Stato, come appunto si vuole che avvenisse nel 1761. Proscritti (dopo l’orribil congiura, vera o pretesa che fosse, ordita contro la vita del Re Giuseppe I. di Braganza figlio di Giovanni V., ed eseguita nella notte de’ 3. settembre 1758.) i Gesuiti da tutti i Domini di quella Corona, venne dal Marchese di Pombal fatto arrestare il Padre Gabbriello Malagrida, come uno dei principali fautori della cospirazione unitamente a Giovanni Alessandri entrambi Italiani, e Giovanni de Mathos Portoghese. Fissata contro questi la regola giuridica, che semel malus semper presumitur malus in eadem genere mali, bisognò venire alle prove, che autorizzassero una tal presunzione, e si pretesero ricavare dagli esercizi spirituali dati dal Malagrida alla Marchesa Eleonora di Tavora, che insieme col Duca di Aveiro e altri Principali Signori dichiarati rei, era stata pubblicamente giustiziata. Il pubblico che ha per costume di mettere in dubbio tutto ciò, che è singolare, non sapeva persuadersi, che un religioso forestiero in età decrepita si fosse servito di un mezzo sì pio per promovere un delitto gravissimo, di cui non avrebbe mai potuto godere. Ad oggetto perciò di dar fine alle ciarle, venne il predetto Gesuita consegnato all’Inquisizione, come dipartimento, di cui pel’ tanto terrore che avea saputo incutere nel popolo, non vi era persona così audace, che avesse il coraggio di parlarne in bene o male. Dopo aver languito per due anni e mezzo nelle carceri fu proceduto nel dì 20. Settembre 1761. all’esecuzione di sua condanna in un pubblico Atto di Fede. Cinquantaquattro altre persone seco di lui destinate a diversi altri supplizi furono condotte nella gran Piazza della Capitale suddetta. Fu letta in pubblico la di lui sentenza mediante la quale comparve reo d’impostura, false profezie, orribili empietà, abuso della divina parola, ammaestramento di morale infame e scandalosa, seduzione di popoli ed eresìa. Ciò fatto vennero assolute dalla scomunica tre statue rappresentanti i due altri nominati correi, e un altro Gesuita, morti o pure fatti morire nelle carceri, quindi l’Arcivescovo di Sparta Vicario generale del Cardinal Patriarca procedette alla degradazione formale dello sventurato Gesuita ottuagenario, che fu immediatamente condotto avanti al Tribunale detto della Supplicazione, dal quale ad istanza di due Benedettini, che lo assistevano gli venne accordato per grazia di esser prima strangolato avanti di esser gettato nel fuoco. Spirato appena fu subito acceso il rogo che ne ridusse il cadavere in cenere. La scena seguì di notte; l’idea de’ delitti e delle pene date a numero sì grande d’infelici, la presenza de’ severi Inquisitori, il silenzio, e la tristezza della più tragica processione, l’apparato di morte, le milizie che circondavano la piazza, la liturgia della degradazione, le tenebre, le fiamme, il rogo, la memoria del sangue illustre sparso due anni avanti, componevano uno de’ più funesti e orrendi spettacoli più facile a immaginarsi, che a descriversi. Vi fu però chi giudicò il Malagrida piuttosto fuori di senno, che delinquente. Scritto avea egli in lingua latina un libro intitolato Tractatus de vita et Imperio Anticristi, e in lingua Portoghese composta avea la vita di S. Anna. Esaminato dal S. Ufizio questo ultimo libro con tutta la maggiore attenzione vi furono trovate infinite proposizioni esecrabili ed abominevoli, che forse da qualunque Tribunale di Europa sarebbero state disprezzate come parti d’imbecillità e demenza, poichè fra le altre belle cose vi si dicea “che la SS. Trinità era gelosa di questa Santa; che il Corpo di Cristo era formato da una goccia di sangue uscita dal cuor di Maria; che la SS. Trinità era venuta in contese circa il trattamento da farsele in Cielo” e simili inezie. Molti pertanto credettero, che le riferite proposizioni fossero più tosto deliri di un pazzo, che bestemmie di un eretico, e che sarebbe stato più conveniente consegnare l’autore alla cura de’ medici in uno Spedale, che darsi a esaminare seriamente le di lui massime.([39])

Tanto in Spagna, che in Portogallo l’Inquisitor Generale suol essere nominato dal Re, e confermato dal Papa col titolo di suo delegato, e questo è il solo diritto, che ha la Corte di Roma sull’Inquisizione Portoghese e Spagnola, poichè allor quando vien confermato, ella non si suol mischiare nè punto nè poco ne di lui affari. La di lei giurisdizione è così assoluta e così vasta, che niun suddito ne va esente, ed avendo la facoltà di nominare tutti i ministri e gl’impiegati nel Sant’Ufizio, egli è una delle più considerabili persone dello Stato dopo il Sovrano. Il suo Consiglio è composto di cinque Consiglieri, uno de’ quali dee esser sempre un Domenicano, stante un privilegio emanato da Filippo III. Re di Spagna e Portogallo, di un Avvocato Fiscale, di due Segretari, di un Sergente maggiore, di un ricevitore, due relatori, e due qualificatori, occupati sempre a correggere e rivedere le stampe, e sogliono esser pure dell’Ordine di S. Domenico. Il Segretario è il gran Notaro, e l’Avvocato Fiscale è il querelante. Il Tesoriere prende in custodia tutti i beni e benefizi personali del reo, allorquando è posto in carcere. I familiari che sono in grandissimo numero sono gli esecutori di giustizia di questo tribunale, e nel loro ruolo non hanno dicesi ribrezzo di essere ascritte civili persone, e uomini qualificati per godere protezione contro gli altri Tribunali, ed esser fatti partecipi dell’Indulgenze, che sono addette alla Crociata, e per quelli che vanno contro i nemici del nome Cristiano. L’Inquisizione è fin dalla sua istituzione in possesso di giudicare indipendentemente di sei sorte di persone. I. Degli Eretici. II. Di quelli che cadono in sospetto di eresìa. III. De loro fautori, o di quelli, che gli proteggono e favoriscono in qualche maniera. IV. De Maghi, Incantatori, Stregoni, e gente che usano malefizi. V. De Bestemmiatori. VI. Di quelli che resistono agli esecutori e persone addette al Tribunale dell’Inquisizione, o che turbano in qualche modo la sua giurisdizione. Per sospetto di eresìa s’intende chi con poca prudenza si fa sentire mettere in ridicolo gli articoli della fede, o le determinazioni della Santa Sede, che abusano de Sacramenti o delle cose sante, che disprezzano le sacre immagini, o che leggono, ritengono, e approvano libri, e massime condannate dall’Inquisizione. La continua pratica con gli eretici, o l’assistere a loro esercizi passa sotto questa categoria, come anche chi loro presta asilo, e sapendo di certo che siano tali non è pronto a denunziarli al Santo Ufizio. Ognuno è obbligato ad accusare tali persone sopra indicate benchè padre, figlio, fratello, moglie, marito, nipote, ec. sotto pena di scomunica, e di rendere lo stesso colpevole di eresìa, e restare esposto a rigori dell’Inquisizione come fautore di Eretici.

Gl’Inquisitori, i loro subalterni, e tutti gli altri impiegati fanno i più terribili scongiuri e imprecazioni, di tener segreto ne rivelare a chicchessia tutto ciò che si fa nel Santo Ufizio, e a questi tremendi giuramenti sono sottoposti anche gli stessi rei ivi detenuti. Il Tribunale procede sempre sommariamente sopra la deposizione di qualunque persona. Se l’accusatore oltre la sua persona nomina qualche altro testimone, si manda a chiamare segretamente, e gli si fa presentare il prefato giuramento di non manifestare ad alcuno di essere stato dall’Inquisitore, nè parlerà di alcuna cosa, che egli dica, vegga, o senta in detto Tribunale. Tutti coloro che non sono notati d’infamia, o spergiuri, sono ammessi in favore della fede e contro l’eresìa per testimoni, eccettuati i nemici mortali. Prese in tal guisa le segrete informazioni, e deposizioni del denunziante e dai testimoni quando vi sieno si chiama un famigliare, ed entrato se gli da in scritto il seguente ordine.

“Per comando del Reverendissimo Padre N.N. Inquisitore dell’Eretica pravità, prenderete e consegnerete nelle carceri del S. Ufizio N.N., ne da quelle sarà liberato o rilasciato senza preventivo mandato del predetto Reverendissimo Inquisitore.”

Se si debbono prendere più persone in una volta, si dà istruzione a’ familiari di dispor le cose in modo, che uno nulla sappia dell’altro, nel che sono costoro così eccellenti, che si racconta che in Lisbona un padre con tre figli e tre figlie che viveano insieme in una casa, furono condotti anni addietro prigionieri nell’Inquisizione, senza che uno sapesse dell’altro fuori che sette anni dopo quando si riveddero in un Atto di Fede. Preso e condotto il prigioniero nelle carceri predette con la maggior cautela, e segretezza vien tosto consegnato al soprastante, che più volte il giorno va a rivederlo, senza però mai parlargli, e se ciò facesse e fosse scoperto sarebbe reo di gravissimo delitto. Le carceri sono anguste camere alquanto oscure, che non hanno che un piccolo letto, e un luogo mal tenuto per i corporali bisogni, onde sono molto fetide e poco sane, e sovente ripiene di schifosi animali. Da molti e molti è stato detto, che queste carceri specialmente in Portogallo, sono scavate in luoghi sotterranei, ove si discende per molti scalini per timore che le strida e i lamenti di quelli che abitano non siano intesi al di fuori, che la luce del giorno non entra giammai in quelle orride sepolture de’ viventi, affinchè gli sventurati che vi sono chiusi non possano nè leggere nè occuparsi in altra cosa che delle lor pene, e delle lugubri e tristi idee de mali che loro sono preparati. Tali racconti potendo essere esagerati non meritano tutta la fede, vero si è che i prigionieri non possono vedere alcuna persona fuori che il custode che porta il vitto la mattina e la sera con una lucerna che fa poco lume e che non serve che per un’ora, ne questo come si è accennato, senza espressa licenza dell’Inquisitore può entrare in discorso alcuno. Dopo che il reo è stato qualche giorno nella carcere, condotto viene avanti all’Inquisitore, il quale prima di fargli alcuna domanda gli deferisce il giuramento di dire la verità a tutte le interrogazioni, che gli verranno fatte. La prima richiesta è quella se sa perchè si trovi nelle forze del S. Ufizio. Se risponde che non lo sà, allora se gli ricerca per qual motivo l’Inquisizione procede alla cattura? se ei risponde per l’eresìa; gli si ricorda il prestato giuramento di confessare le sue eresìe e scuoprire i suoi maestri, e i suoi complici. Se il prigioniero nega di esser giammai stato eretico o avere avuta comunicazione con eretici, se gli dimostra che il Santo Ufizio non usa carcerar le persone a capriccio, o senza aver prima buoni fondamenti di quello che opera; che per tanto egli si risolva di confessare il suo delitto, e ciò al più presto, perchè l’Inquisizione è severa con quelli che negano, e pietosa con chi confessa il suo fallo.

Se il prigioniero persiste in negare di esser caduto in veruna eresìa, si chiama il soprastante, e se gli comanda di ricondurlo alla sua carcere, ed a lui si fa una severa ammonizione perchè faccia un rigoroso esame di coscienza, acciò che la prima volta che sarà mandato a chiamare sia pronto a fare una vera e piena confessione delle sue eresìe, de’ suoi maestri, e complici. Conceduti al reo due o tre altri giorni per far questo, si conduce per la seconda volta davanti agl’Inquisitori, e se gli domanda se è risoluto a confessare quanto da lui si richiede. Se risponde che non può, senza accusare falsamente se stesso e gli altri, allora si passa a chiedergli ove sia nato, quali furono i suoi congiunti, ove andò alle scuole, se ebbe uno o più precettori, dove, e in quali paesi visse, con chi conversò il più frequentemente, chi fu il suo confessore quando fece la sua ultima confessione e comunione avanti di essere arrestato, chi il Paroco, e cose simili. Quando poi gl’Inquisitori credano esservi prove bastanti di eresìa, comandano al reo, che non volendo pentirsi del suo fallo ritorni in carcere, e quivi preghi Dio, che gli voglia concedere una([40]) buona disposizione per fare una vera e piena confessione per salute dell’anima sua, che è la sola cosa da essi ricercata, e per eseguir ciò se gli da tempo due o tre giorni. In caso che persista a dirsi innocente, gli vengono fatte varie ricerche sopra l’eresìa di cui è accusato; per esempio se crede che il Corpo di Gesù Cristo sia presente nell’Eucaristia, se si debbano adorare l’immagini ec. Se egli afferma di aver sempre stabilmente credute queste cose ed altre verità professate dalla Cattolica Religione, se gli ricerca se abbia dubitato di tali articoli, e se abbia mai parlato contro i medesimi. Se risponde di non aver mai parlato, e ciò sostiene per più volte, benchè non vi siano prove evidenti per cavar dalla bocca del reo la confessione, se gli dichiara che quanto ha in mano l’Inquisizione basta per porlo alla tortura, e farlo a forza confessare. Stabilito il giorno, se il reo non previene i giudici con la confessione, è condotto nel luogo della tortura, che è in una stanza sotterranea ove si scende per diverse scale, affinchè i gemiti e le strida de’ tormentati non siano da veruno ascoltate. I tormenti si assicura essere di tre sorte: il primo la Corda, il secondo l’acqua, il terzo il fuoco. La corda è nota a tutti, e dura un’ora e qualche volta di più secondo che gl’Inquisitori che vi sono presenti giudicano a proposito, e che ne sono capaci le forze del paziente. Quello dell’acqua consiste in farne bevere gran quantità al colpevole, e poi distenderlo sopra una specie di tavola, che sotto ha un bastone che continuamente gli preme la spina del dorso con dolori indicibili. La tortura del fuoco è la più rigorosa d’ogni altra, poichè si ungono i piedi del reo col lardo e altre materie penetranti e combustibili, quindi si accostano alle fiamme tenendovegli fino a che non abbia confessato. La stanza non è illuminata che da tre fiaccole, che fanno un piccolo e torbido lume, solo per far vedere a’ delinquenti gli istrumenti della tortura, con uno o più carnefici secondo il bisogno vestiti in cappe da compagnia nere col viso coperto.([41])

Prima che cominci l’esecuzione, l’Inquisitore esorta il reo ad aver pietà del suo corpo, e della sua anima, e a schivare con la confessione tanti patimenti, ma se persiste a sostenere che si contenta patire ogni tormento piuttosto che accusar se stesso e gli altri, il Religioso tranquillamente comanda all’esecutore che faccia il suo debito, ed incominci la tortura, sempre alla sua presenza e di altri ministri del Sant’Ufizio. Durante il tormento viene continuamente interrogato, quindi se è sempre negativo è rimesso in carcere e fatto medicare. Se confessa si scrive dal notaro parola per parola tutto quello che dice; e dopo avergli conceduto due giorni di sollievo, si conduce di nuovo avanti al Tribunale per confermare la confessione, il che si fa ponendovi sopra la mano, e ciò eseguito si dà fine al processo, essendoche ove manca l’evidenza sufficiente a condannarlo, supplisce la confessione del reo fatta e segnata nella descritta maniera. In caso però, che venga ricusata tal conferma, col dire e sostenere, che fu estorta dal dolore de’ tormenti, si conduce di nuovo alla tortura per vedere se persiste nell’ostinazione, o se conferma il deposto. Qualche volta se il reo confessa il proprio delitto, è nonostante soggetto ai tormenti per fargli confessare i complici, oppure se espone di aversi lasciata scappar di bocca qualche massima ereticale per sola bizzarria, si pone alla tortura perchè confessi se la cosa veramente era tale, e se i suoi pensieri non si accordavano con le parole. Se il delinquente nega sempre non esser vere le parole, e l’eresie di cui viene accusato, e domanda che se gli facciano venire a petto gli accusatori, e i testimoni che deposero contro di lui per difendersi, se gli risponde, che non si tiene dal Sant’Ufizio un tal costume, perchè i detti testimoni, e accusatori per le leggi fondamentali dell’Inquisizione non debbono essere nè direttamente, nè indirettamente scoperti. Una sì rigida segretezza si vuole che venisse stabilita per la sicurezza della vita de’ querelanti, e de testimoni, i quali se fossero noti sarebbero sovente esposti a gran pericoli, e non si troverebbe più chi denunziasse o rendesse testimonianza contro gli Eretici. Infatti la prima volta che il S. Ufizio fu costituito su questo piede in Spagna e in Roma, benchè quivi diversifichi alquanto dall’altro, incontrò gran difficoltà, e il popolo ne parea assai malcontento, e fede fanno le sollevazioni accadute appunto in detta Città di Roma, ove dopo la morte di Paolo IV. infuriata la plebe ruppe le carceri dell’Inquisizione e tutti gli atti e scritture furono abbruciate.

Non si nega però a rei un avvocato o un Procuratore che loro assista, ma a questi avanti di vedere il cliente si fa fare l’appresso giuramento.

“Io N.N. Dottore ec. alla presenza del Padre Inquisitore di questo luogo, tenendo le mani sopra li Evangeli prometto e giuro di sostenere e difendere fedelmente la causa di N.N. detenuto nelle carceri del S. Ufizio, senza servirmi di alcuna cavillazione o raggiro. Inoltre prometto e giuro che se scuoprirò che il cliente sia reo della colpa a lui imputata tralascierò la sua difesa immediatamente, e esaminato il caso se scuoprirò complici nella sua eresia gli accuserò a questo Sant’Ufizio. Tuttociò prometto sotto pena di spergiuro e di scomunica ec.” Nemmeno al Procuratore però son noti gli accusatori, e testimonj, e quando è licenziato giura di nuovo di non aver copia della difesa fatta al reo, e che di ciò non parlerà con chichessia. Si fa anche il processo a quelli che si uccidono da se, o muoiono di morte naturale nelle carceri. Quello contro i primi è breve, bastando l’atto dell’uccisione per convincerli rei d’eresìa e di empietà. Contro i secondi si procede dall’Avvocato Fiscale, come se fossero in vita. I congiunti o gli amici del reo, o qualunque altro che abbia da presentare qualche cosa in difesa del defunto sono per pubblico editto citati a comparire avanti l’Inquisitore in termine di 40. giorni per produrre le difese, e se a questa intimazione nessuno comparisce per la difesa, il morto si condanna come se per anche vivesse, si confiscano i suoi beni, e il corpo in effigie bruciato viene nel primo atto di fede. L’autorità dell’Inquisizione si stende non solo sopra quelli che muoiono nelle carceri, ma ancora sopra i beni, corpi, e fama di coloro che dopo morte fossero convinti di esser morti eretici, o nel Giudaismo. Riguardo a beni evvi una prescrizione di 40. anni di tempo, il che è una cosa che apporta infinite vessazioni alle famiglie, e riguardo all’ossa può il Sant’Ufizio quando vuole dissotterrarle, e bruciarle a talento de suoi sacri ministri.

Quando poi vi è un numero competente di rei convinti di eresìa si stabilisce un giorno dall’Inquisitore Generale per votar le carceri e dare al pubblico uno spettacolo che si chiama Atto di Fede([42]), quasi sempre in giorno di sabato. Nella mattina di detto giorno, i rei, che sembrano spettri ambulanti, tanto sono stati privi dell’aria viva, e della luce del giorno, sono condotti in una gran sala, in cui si pongono loro addosso quelli abiti che portar debbono in processione, quale comincia a partire dal Palazzo del Sant’Ufizio, dopo un lugubre suono di campane che dura tutta la notte, verso il levare del sole. I Padri Domenicani portano lo stendardo dall’Inquisizione, che da una parte ha l’immagine di S. Domenico loro fondatore, dall’altra una Croce in mezzo a un ramo di olivo, e una spada col motto Iustitia et Misericordia. Dopo loro vengono i penitenti vestiti con un farsetto nero sino a mezza gamba senza maniche, con una candela di cera in mano a piedi scalzi. Dietro vengono i rei che sono stati vicini a esser condannati al fuoco, e questi hanno addosso sopra il farsetto nero una specie di camicia sino a ginocchi detta Sambenito con una mitra in testa fatta a pane di zucchero tutta dipinta da piccole fiamme di sù in giù. Vengono poi gli ostinati, e i recidivi condannati a esser bruciati con le fiamme infernali sul Sambenito e sulla mitra rivolte all’insù, e inoltre hanno dipinti sul petto cani, serpenti, e diavoli, tutti con la bocca aperta in atto di divorarli. Ogni reo condannato al fuoco è in mezzo di due religiosi, uno per parte, che li vanno persuadendo ad abiurare la loro eresìa, e questo Ufizio faceasi da Gesuiti prima delle loro espulsione da i dominj del Portogallo, e se qualcheduno di quelli infelici ardisce di esclamare, onde non segua più come avvenne a tempi di Filippo II. a norma di quanto si è narrato, gli viene posta una sbarra alla bocca, perchè non possa fare echeggiare i suoi lamenti. Dopo i prigionieri ne viene una folta truppa di familiari, e dietro gli Inquisitori, e altri Ufiziali di Corte sopra le mule. Ultimo di tutti comparisce l’inquisitor Generale sopra un cavallo bianco condotto da due uomini con abito violetto, e il suo cappello Vescovile in testa seguito da tutti i nobili che non servono come famigliari l’Inquisizione. In una delle gran piazze è eretto un anfiteatro capace di 8. o 10. mila persone, e la Corte e tutte le dame stanno alle finestre come ad assistere a uno spettacolo di piacere. Fatto il giro della piazza come in pomposa mostra, da una parte si pongono gl’Inquisitori, dall’altra i rei; e dietro ad essi le figure infilate in un alto bastone di coloro che sono morti nelle carceri, o sono stati condannati in contumacia. Terminata la marcia si da principio alla Messa, in mezzo alla quale il celebrante lascia l’altare, e si asside su una sedia a tale effetto preparata, ed allora il grande Inquisitore scende dal suo posto e co’ paramenti Vescovili si avanza verso il balcone del Re o del Governatore, accompagnato da suoi subalterni che portano la Croce, gli Evangeli, e il libro contenente i giuramenti che i Monarchi Portoghesi e Spagnuoli fanno al loro avvenimento alla corona di estirpare l’eresia, e proteggere, dilatare e difendere l’autorità dell’Inquisizione, stando sempre in tutto questo tempo i Sovrani, o chi gli presenta con la testa scoperta e avendo a canto un Ufiziale qualificato che tiene in alto la spada Reale sfoderata. Quindi dopo un lungo discorso di un Domenicano in lode dell’Inquisizione e in biasimo degli eretici, si termina il sacrifizio dell’Altare. Finito questo si leggono tutte le abiure de’ penitenti che si inginocchiano avanti al celebrante ad uno ad uno con l’ordine istesso che andarono in processione, ed in fine la sentenza emanata dal predetto grande Inquisitore contro coloro che sono condannati a morte con le parole seguenti.

“Noi N.N. Inquisitore dell’eretica pravità avendo con l’assenso dell’Illustriss. Sig N.N. Arcivescovo, Patriarca ec. implorato devotamente il nome di Gesù Cristo Signor Nostro, e della Santissima Vergine sua gloriosa madre, sedendo nel nostro Tribunale e avendo i Santi Evangelj davanti agli occhi, acciocchè il nostro giudizio siegua alla presenza di Dio, e i nostri occhi possano vedere quel che è giusto in tutte le materie vertenti tra il magnifico Dottore N.N. Avvocato Fiscale da una parte, e voi rei ora davanti a noi costituiti dall’altra, abbiamo ordinato, che in questa piazza e in questo giorno voi dobbiate intendere la vostra final sentenza.”

Noi, pertanto con questa nostra sentenza; in vigore della nostra potestà ed autorità dichiariamo, sentenziamo, e pronunziamo, Tè nativo ec. come eretico convinto e confesso a dovere essere consegnato, e abbandonato come tale al braccio secolare; e ti scacciamo fuori della Chiesa come eretico confesso, e convinto, e ti abbandoniamo e consegnamo al braccio secolare e all’autorità del suo tribunale che nello stesso tempo preghiamo a usar verso di te misericordia, a non sparger sangue, toglier la vita o mutilare le membra.”

Appena i prigionieri sono consegnati in mano della giustizia criminale, che cinti di catene vengono condotti avanti al Giudice o Capo di detta giustizia, che loro domanda in qual Religione vogliono morire. Se rispondono voler terminar la loro vita come Cattolici Romani, gli vien fatta la grazia di essere strangolati prima di esser bruciati, se dicono voler morir protestanti il loro destino è di esser legati ad un palo e bruciati vivi. Il reo sempre accompagnato da due Religiosi và al patibolo, e quivi s’impiega circa un quarto d’ora ad esortarlo a riconciliarsi con Dio e con la Chiesa, e se ciò rifiuta di fare il carnefice incatena il paziente al palo e lo lascia. Tornano i Religiosi per la seconda volta a rinnovare le loro esortazioni, e se persiste ad essere ostinato ne suoi errori o nella sua setta, partendo gli dicono, che lo lasciano in balìa del demonio che gli stà a’ fianchi per prender l’anima sua e portarla per tutta l’eternità nell’inferno. Subito che i confortatori sono discesi per l’ultima volta dalla scala, si sente un grande schiamazzo, e una voce universale che dice fate la barba a que’ cani con porre della paglia accesa sopra lunghi legni, co’ quali viene abbronzata a quelli infelici la faccia, sicchè sono ridotti quasi carboni, indi si dà fuoco al rogo, e tutto in brevi istanti resta consunto, riguardando il popolo tranquillamente questa orrida, e tremenda scena, tanto è l’odio che l’Inquisizione ha saputo ispirare nelle Spagne, e nel Portogallo contro quelli che sono da lei condannati.([43])

 

Nel Messico, nel Perù, e nel Brasile, e in tutti gli stabilimenti delle due Corone è il S. Ufizio posto appresso a poco sul medesimo piede che in Portogallo, e in Spagna, ma a Goa nell’Indie Orientali esercita questo una giurisdizione totalmente assoluta e indipendente dall’istesso Arcivescovo, e dal Vicerè colà inviato dalla Corte di Lisbona, che impunemente non si azzarderebbe a limitarne in qualche parte l’eccessiva autorità. Ivi il grande Inquisitore è un Prete secolare costituito in dignità, e i subalterni sono Domenicani, che estendono il loro potere su tutti i paesi posseduti dal Re Fedelissimo di là dal Capo di Buona Speranza, ed entro Goa non vi è che il detto grande Inquisitore, che abbia il privilegio di farsi portare in sedia, e si hà per lui maggior rispetto e timore, che per qualunque altra persona, essendo ogni ceto, e ogni rango di laici, e di Ecclesiastici a lui soggetto, come anche, Mori, Gentili Maomettani, Ebrei, e Indiani creduti autori di malefizi, maghi([44]), o stregoni e incantatori versati nella stegonomanzia o Coschinomanzia, che sovente sono sacrificati a’ sospetti del S. Ufizio, e una semplice parola poco cauta in materia di fede può esser cagione della perdita della vita, o di una lunga prigionia nelle carceri le più schifose ed orribili, che mente umana possa immaginarsi. Sono in quella Città assai frequenti gli Atti di fede, cosa che ha prodotta la decadenza del suo commercio, ed ha non poco contribuito all’odio degli Indiani contro i Portoghesi, che per tal causa hanno nel passato secolo perduti i migliori stabilimenti che avessero in quel vasto e ricchissimo continente, loro strappati di mano e conquistati dagli Olandesi, che si sono mostrati co’ popoli più umani, e meno avidi del guadagno, non vessando alcuno per cose di Religione.

 

Veduto in tal guisa quale lo stato sia dell’Inquisizione ne’ paesi esteri, passeremo in Italia, e quindi in ultimo luogo particolarmente in Toscana. Stante i dispareri continui fra il Sacerdozio e l’Impero, che con frequenti guerre durarono per quasi tutto il mille dugento con scandoli innumerabili, anche l’Italia venne infestata da più e diverse eresìe, le più comuni delle quali erano come si è detto intente a sottrarsi dall’autorità Ecclesiastica. Federico II. Imperatore, della Casa di Svevia nel 1224. essendo in Padova promulgò quattro Editti per sostenere e proteggere gl’Inquisitori Domenicani e Francescani, Religioni allora nascenti, condannando gli eretici ostinati al fuoco, e i penitenti a perpetua prigione, commettendo a’ suddetti la cognizione delle cause, ed a’ giudici secolari la condanna, e questa fu la prima legge che costituisse la pena di morte contro gli Eretici. Tuttociò, stante le discordie che nacquero tra il predetto Imperatore e la Corte di Roma, non fu bastante ad estirpar l’eresìe introdotte, onde dopo la sua morte Innocenzo IV. dette a’ Religiosi surriferiti ogni ampla autorità di erigere un fermo Tribunale che altra cura non avesse, che l’estirpazione degli errori e delle massime ereticali. Si opponevano a ciò due ostacoli: l’uno come si potesse senza confusione smembrar le cause di eresìa dall’autorità Episcopale che le avea sempre giudicate; l’altro come si potesse escludere il Magistrato secolare a cui commessa era l’esecuzione del gastigo degli eretici, e per l’antiche e moderne leggi Imperiali, e per i particolari statuti. Al primo inconveniente fu trovato il temperamento di creare un Tribunale composto dell’Inquisitore e del Vescovo, il quale vi avesse poco più che il nome, e il primo tutta la più estesa facoltà: all’altro con applicare un terzo al pubblico delle confiscazioni che si sarebbero fatte. Ad onta di tali precauzioni e dell’autorità, che il Sant’Ufizio istituito in Roma verso que’ tempi col nome d’Inquisizione Generale avea ottenuta sopra tutte le altre Inquisizioni d’Italia, autorità infinitamente ampliata ed estesa nel 1540. sotto Paolo III. frequenti furono i disordini e tumulti, che ne nacquero in diverse Città, perchè i Frati Inquisitori nelle prediche sovente eccitavano il popolo, allora assai rozzo e materiale, alla sedizione col fargli prender la croce. Sotto questo pretesto i crocesignati facevano le loro vendette particolari contro i loro nemici additati come eretici, ed altri anche innocenti sotto quel nome restavano oppressi da chi voleva le loro sostanze. A Venezia dopo l’ammissione dell’Inquisizione di soli 12. anni, cioè nel 1301. Fra Antonio Inquisitore inviò un Monitorio a Pietro Gradenigo Doge, che dovesse giurare di osservare le costituzioni Papali ed Imperiali contro gli Eretici. D’allora in poi l’autorità del Sant’Ufizio nello Stato Veneto venne per mezzo di varj concordati con la Santa Sede, limitata in molte parti e ristretta, e il detto Tribunale rimase come un misto di secolare, e di ecclesiastico con tre assistenti secolari, che sempre dovessero assistere a tutti i suoi atti e risoluzioni, senza di che qualunque ordine, sentenza, o decreto, fosse nullo, e di niuno affetto e valore.([45])

Nonostante un così saggio regolamento in materia d’Inquisizione fra Roma e Venezia, varie contese insorsero con l’andare de’ tempi, ma la più strepitosa fu quella sotto Paolo V. nel 1607.([46]) Il d. Paolo V. Borghese nativo di Siena era animato sopra ogni altra cosa a sostenere l’immunità e privilegi del Clero, che poteano far rinascere le antiche vertenze tra la secolare e l’ecclesiastica potenza, che ne’ secoli anteriori aveano fatto versare tanto sangue. Avendo poco dopo la sua assunzione al trono Pontificio il Governo Veneto fatto arrestare e tradurre nelle sue forze un Canonico di Vicenza e un altro Sacerdote Canonico di Nervesa, che venivano reclamati dall’Inquisizione, come ancora rinnovato un antico decreto, che gli Ecclesiastici compresi sotto il nome di Mani morte non potessero acquistare in avvenire beni stabili, con altre modificazioni, scrisse il Papa al Senato, che la suddetta legge, e la carcerazione de due Preti offendevano direttamente l’onore di Dio e della sua Chiesa, onde era d’uopo che annullate fossero immediatamente, e i due detenuti venissero consegnati a Monsignor Mattei suo Nunzio Pontificio, mentre non doveano giudicarsi che dalla Romana Congregazione del Sant’Ufizio. La Repubblica inviò in risposta un Ambasciatore straordinario alla Santa Sede per sostenere i suoi diritti, ma il Ministro solo sentì dirsi dallo zelante Pontefice, che gli statuti del Governo Veneto non aveano alcun vigore, e che bisognava obbedire. Il Senato non obbedì, e fu costante in sostenere le sue prerogative, onde non molto dopo il Doge e i Senatori vennero con pubblico Munitorio([47]) dichiarati incorsi nella scomunica, e tutto lo Stato di Venezia sottoposto all’interdetto, cioè a dire fu proibito al Clero sotto pena di eterna dannazione di dir Messa, amministrare i Sacramenti, e seppellire i morti. Gli stessi mezzi che Gregorio VII. e i suoi successori usati aveano con diversi Imperatori, prima che la Casa d’Austria ascesa fosse sul Trono de’ Cesari, furono messi in opra, ma i tempi in questo secolo erano molto cangiati, e Paolo V. azzardava di essere ad onta sua obbedito, e che Venezia facesse chiuder davvero tutte le Chiese, e renunziasse alla Cattolica Religione. Si vuole da vari scrittori, che in Senato si parlasse effettivamente di sottrarsi affatto, sull’esempio dell’Inghilterra, all’obbedienza spirituale di Roma, e abbracciare la Greca Religione, o le pretese riforme di Lutero e Calvino. Sentiti più e diversi pareri, si contentarono i Senatori di proibire la pubblicazione del Munitorio in tutta l’estensione de’ loro territori. Il Vicario Generale del Vescovo di Padova a cui fu significato questa proibizione, rispose, che avrebbe eseguito ciò che Dio ispirato gli avesse, ma il Potestà replicato avendo, che Dio ispirato avea al Consiglio de’ Dieci di fare impiccare che avea l’ardire di disobbedire, l’interdetto non fu pubblicato in verun luogo, e la Corte di Roma potè chiamarsi fortunata, che i Veneziani continuassero a vivere da buoni Cattolici ad onta sua. Tutti i potentati d’Italia s’interposero per l’accomodamento, ma il Papa avendo in idea d’incutere spavento ne’ Principi, arruolò 4. mila Corsi e diversi Svizzeri, fece gran leva di soldati de’ quali dette il comando a Francesco Borghese suo fratello, accrebbe i presidi, e le fortificazioni di Ferrara: insomma parea che Roma dopo tanti secoli pensasse a far davvero delle prodezze. I Veneziani armarono anch’essi dal canto loro, assoldarono 6. mila Francesi, e richiesero l’aiuto di Arrigo IV. di Borbone([48]) detto il Grande. Questi che era molto propenso per i Veneziani si dichiarò mediatore per un accomodamento, e spedì in Italia a tale effetto per le poste il Cardinale di Gioiosa, il quale dopo aver capita la mente del Senato portossi a’ piedi del Pontefice per far gustare i beni della concordia, e dimostrare l’atroce guerra che nascer potea da quest’impegno. Paolo V. abbandonato dalla Casa d’Austria, che non volea difendere risoluzioni contrarie agli stessi suoi principj, trovossi astretto a moderare il suo fuoco, e soffrire fino la mortificazione, che l’accomodamento si non facesse nella sua Capitale. Il Cardinale entrato in pieno Collegio ove erano il Doge e i Savi, rivocò l’Interdetto con le censure, e similmente venne revocato dal Senato ogni atto fatto in contrario. I due prigioni passarono in mano del Re di Francia come in dono, senza pregiudizio della autorità del Principe, e dal Re Cristianissimo restarono consegnati al Commissario del Papa. A Roma fu detto che il senato ricevuta avea l’assoluzione delle Censure, ma i Veneziani hanno ciò sempre negato, e continuato a sostenere i loro diritti in tali materie. Non avrebbero i Papi mai immaginato a tempo della Lega, che Arrigo IV. chiamato a Roma il Bearnese sarebbe stato il mediatore fra essi, e il Veneto Senato. Quegli che Roma sotto Sisto V. avea scomunicato come Eretico recidivo fece levare la scomunica alla Repubblica di Venezia.([49])

 

Altri sconcerti e forti impegni nati erano pure per cagione dell’ Sant’Ufizio nella Lombardia ed in specie a Milano. Nel 1322. Giovanni XXII. che risedeva in Avignione pubblicò un severo Munitorio contro Matteo Visconte Signore di Milano, che era Capo del Parito Ghibellino, che sostenea le ragioni degli Imperatori contro i Pontefici. Il Visconte non avendo risposto al Munitorio, venne tosto inviata una Bolla al Cardinale Bertrando Legato Pontificio, nella quale gli fu ordinato di citare Matteo a comparire davanti al Papa nel termine di un mese come incorso nella scomunica. Disprezzata anche questa intimazione, pensò il Papa di farlo processare come eretico, ma una tal procedura divenendo inutile contro un uomo armato, nè potendo ritardare le di lui operazioni militari, si venne al compenso di oppor la forza alla forza, e far predicare la Crociata contro di lui perchè non lasciava a’ Vescovi esercitare le funzioni del loro Ministero, negava la resurrezione della carne, non obbediva all’Interdetto lanciato contro la Città di Milano, avea invocati, e consultati i Demoni, e tolta una ragazza a uno che l’avea sposata in faccia alla Chiesa per darla in moglie a un altro. Tre Inquisitori, e Gherardo Arcivescovo compilarono il processo, ed emanarono la Sentenza con la confiscazione de’ beni, che non ebbe effetto veruno. Quel Principe uomo di gran coraggio, essendosi ammalato nella grave età sua di anni 73. sentendosi mancar le forze, pochi giorni avanti la sua morte fece adunare tutto il Clero della Metropolitana, e là sopra una sedia da riposo posta avanti l’altare pronunziò ad alta voce il Simbolo degli Apostoli, e disse, che quella era la fede che sempre avea professato. Morto che fu, i suoi figli seppellirono il cadavere segretamente senza cerimonie, per timore che il Papa non gl’impedisse l’esser collocato in Chiesa. Gl’inquisitori si adoprarono quanto poterono per scuoprire il luogo ove detto cadavere era stato sepolto, ma non ne vennero mai a capo. La loro intenzione era di farne bruciare pubblicamente le ossa([50]).

Ma il predetto Matteo non fu il solo Principe d’Italia scomunicato e processato come eretico. Rinaldo e Obizzo d’Este, e loro aderenti e sudditi subirono l’istessa sorte, perchè recuperata aveano Ferrara occupata dalle truppe del Papa nel 1355. Francesco Ordelaffi Signor di Forlì, Galeotto Malatesta Signor di Rimini, Guglielmo e Giovanni Manfredi padroni di Faenza soffrirono l’istesso trattamento da Innocenzo VI., e le loro condanne non furono tolte se non quando gl’imputati si contentarono riconoscere le loro Terre come Feudi della Romana Chiesa. In Milano ove l’Inquisitore ha esercitata fin che quel Ducato è stato sottoposto alla Spagna grande autorità, avvenne circa il 1550. un caso molto pericoloso. Il Cardinale Carlo Borromeo, che poscia fu Santo, visitando alcune Terre della sua Diocesi Milanese, suddite agli Svizzeri, ordinò diverse cose, che insospettirono que’ governi Repubblicani, i quali inviarono un Ambasciatore a Milano per chiedere al Governatore, che richiamasse di colà il Porporato Arcivescovo perchè non avvenissero delle poco piacevoli novità. L’Ambasciatore giunto in quella Città andò ad abitare alla casa di un mercante per condursi poi con comodo a disporre la sua Ambasceria. Venuto ciò a notizia dell’Inquisitore, immediatamente inviò a prenderlo, e lo fece trasferire nelle carceri del suo Convento. Ricorse il Mercante al Governatore Duca di Sessa, che tosto fece liberare l’Ambasciatore, gli fece chiedere scusa, l’onorò, e l’ascoltò. Gli Svizzeri avvisati nel tempo istesso della carcerazione, e restituita libertà al loro Ministro, inviarono non ostante ordini veloci sulle loro frontiere, che arrestato fosse il Cardinale, il che sarebbe seguito, se non fosse poche ore avanti partito, e frattanto le rinnovazioni tutte restarono sospese e non ebbero effetto alcuno. Eppure l’Inquisizione del Milanese, era assai più mite della Spagnuola e dipendente da quella di Roma, che si governa con massime assai meno austere, e allora quando pochi anni avanti a questo fatto Filippo II. inviò ordine al prefato Governatore di mettere il S. Ufizio sul piede istesso di quello di Spagna, e con l’istessa indipendenza, i popoli tutti concordemente sussurrarono e ne fecero tal rumore, che per timore di una general sollevazione fu d’uopo desistere dall’impresa.

 

Nel Regno di Napoli a tempi dell’Imperator Federigo II., e sotto i Principi della Casa di Angiò, l’Inquisizione vi fu introdotta come poc’anzi lo era stata in Provenza Contea sottoposta agli stessi Sovrani, e i Domenicani sostenuti dal braccio secolare scorrevano le Provincie, e vi facevano frequenti esecuzioni, sovente a spese del Regio Erario. Carlo III. d’Angiò donò nel 1381. a Tommaso Marincola uno de’ suoi favoriti i beni confiscati del Vescovo di Trivento condannato come eretico, e dichiarato ribelle di S. Chiesa, perchè aderiva al partito dell’Antipapa sul principio del grande scisma che afflisse la S.S. per più di 40. anni. I Napoletani nelle susseguenti rivoluzioni di quello Stato, ebbero sopra tutti gli altri popoli la gloriosa distinzione di sopprimere radicalmente il S. Ufizio, e non lasciar veruna traccia di quel formidabile Tribunale. Vani furono i tentativi di Ferdinando il Cattolico per rimetterlo in vigore come fatto avea in altri suoi Stati. Ciò si può vedere ampiamente nel libro XV. e XIX. dell’Istoria Civile di detto Regno del celebre Pietro Giannone. Nell’anno 1547. Don Pietro di Toledo Vicerè di Napoli Padre di Eleonora moglie di Cosimo I. Granduca di Toscana, inerendo alle precise istruzioni dell’Imperatore Carlo V. suo padrone, a cui era stato affermato, che più de due terzi dei Napoletani aderivano alle massime di Lutero e altri Eresiarchi di quel secolo infelice e ciò per opera del Cardinale Teatino, che regnò sul Soglio Pontificio col nome di Paolo IV. tentò d’istituire in quella Capitale l’Inquisizione sull’uso di Spagna. Il nome solo eccitò a un tratto tanta commozione e sedizione popolare, che una gran porzione della plebe prese le armi, ne nacque una guerra civile, più volte si venne alle mani, e specialmente il dì 21. Luglio di detto anno con grand’effusione di sangue. Don Fernando S. Severino Principe di Salerno, e Don Placido di Sangro, inviati furono dalla Città ad esporre le sue ragioni al Monarca ma invano, ed in vece di tornar lieti alla patria furono proscritti, e costretti andare esuli per il mondo. Il popolo però stette costante in non obbedire, e quantunque le truppe Spagnuole restassero superiori per avere in mano le Fortezze, bisognò desistere dall’impresa d’introdurre l’Inquisizione per timore di sempre nuove sollevazioni, e l’istesso esito infelice ebbero i tentativi di Filippo II. nel 1561. e 1563. anzi allora fu che prese vigore una Giunta o Magistrato composto tutto di soggetti Napoletani, che altra cura non hanno, che invigilare, che non vengano infranti i privilegi della Città con l’introduzione del S. Ufizio. In fatti ne’ tempi a noi recenti, regnando sulle due Sicilie D. Carlo di Borbone, il Cardinale Arcivescovo Spinelli essendo caduto in sospetto di aver tentato di far qualche procedura simile a quelle del S. Ufizio contro un Prete, creduto imbevuto di errori contrari al domma Cattolico, suscitar fece forti lagnanze contro di esso e chiamato a Roma dal saggio e prudente Benedetto XIV. fu persuaso a renunziare a quell’Arcivescovado, e di lui successore fu il Cardinale Sersale. I Canonici Gualtieri, e Giordani, che aveano tenuto mano a formare il processo al Prete, vennero esiliati dal Regno. Se Napoli però avea saputo resistere a qualunque sforzo fatto, anche ad armata mano, per tener lontano il Tribunale predetto del suo Regno, ciò non era riuscito a Siciliani, anzi in quella bell’Isola avea avuto tutto il campo d’infierire per quasi tre secoli contro que’ sudditi con le sue irregolarità di procedere nelle cause di fede, come dice l’istesso Editto del Regnante Sovrano di quello Stato Ferdinando IV. che ha avuta la gloria di liberar la predetta felice contrada da vessazione sì grande. Mosso a pietà dalle continue querele portate al suo Trono, fece avvisare l’Inquisitore supremo a cangiar stile, ma quegli invece di obbedire rispose con una sua rappresentanza, che l’inviolabilità del segreto era l’anima del S. Ufizio, onde con Sovrano Editto dato nel 30. Marzo dell’anno corrente 1782. risolse di abolire affatto anche nell’Isola di Sicilia il surriferito Tribunale, rimettendo in avvenire le cognizioni delle cose di Religione a’ rispettivi Vescovi e altre persone secolari con le opportune regole e prescrizioni indicanti; che prima di procedere contro gli accusati si debba esibire il processo informatorio al Vicerè, e da esso ottenere l’ordine di citazione o carcerazione. Nel dì 27. di detto mese il Vicerè Caracciolo si portò in forma pubblica unitamente all’Arcivescovo, e Monsignore Airoldi Giudice della così detta Monarchia, al Palazzo dell’Inquisizione, ove letto il Real Dispaccio dell’abolizione sigillò gli archivi, e chiuse per sempre quel Dipartimento fra gl’incessanti applausi del popolo, che ne dimostrò un sincero giubbilo. Quantunque l’affare fosse stato trattato con gran segretezza, tutti gli inquisiti però erano stati posti preventivamente in libertà, talchè non vi furono trovate nelle carceri che tre sole miserabili donne ivi da 20. e più anni detenute come streghe, cosa che nel nostro secolo fa gran torto a lumi di que’ Religiosi, che a detto Tribunale presedevano.

 

E altato al Sommo Pontificato Clemente XIII. furono dal gran Maestro di Malta D. Emanuelle de Pinto avanzate nel 1760. diverse istanze alla Santa Sede, affinchè il Santo Padre si degnasse provvedere agli sconcerti nati nell’Isola per rapporto al Tribunale dell’Inquisizione, e gli fece presentare una Memoria, che contenea la descrizione degli abusi bisognevoli di riforma. Tutti questi sconcerti nascevano dal numero eccedente degli Ufiziali, familiari, e patentati del S. Ufizio, che godevano una soverchia estensione d’immunità, e che contro la Bolla istessa di Gragorio XIII. eransi abusivamente in soverchio numero moltiplicati. Clemente VIII. riconoscendo questo disordine avea nel 1590. comandato all’Inquisizione il non ammettere, che 12. Ufiziali, e 20. familiari, ma molti di essi affine di sprezzare ogni legge impunemente, e sottrarsi alla subordinazione dovuta al legittimo Principe, si procuravano l’esenzioni per mezzo delle patenti del S. Ufizio, e l’artifizio giungeva a segno, che concorreva la gente in folla per avere in affitto i beni dell’Inquisizione, ed alcuni per essere del numero de patentati, non potendo avere a nolo qualche podere appartenente al detto Tribunale, ne donavano un pezzo del proprio, indi si facevano nominare affittuari dello stesso terreno donato, e la patente valeva non solo per tutta la famiglia, ma anche per i domestici e gli schiavi. Il male con tutto ciò sarebbe stato comportabile se il gran Maestro avesse potuto sapere il numero e i nomi de patentati, ma con tutte le istanze più volte replicate ciò non gli era mai potuto riuscire. Siccome per evitare qualunque atto del braccio Secolare bastava asserire di aver la patente dell’Inquisizione, così non è credibile quante irregolarità, frodi e violenze accadessero giornalmente nell’Isola. Nello Stato Ecclesiastico per godere del privilegio del Foro, è stabilito che il familiare del S. Ufizio debba esibire le sue patenti, ma a Malta si lasciava in arbitrio del patentato allegare il suo privilegio in qualunque stato si trovasse la lite, ed allora quando era allegato produceva l’effetto di render nulli tutti gl’atti, volendo inoltre gli attori che loro competesse la strana prerogativa di chiamare al loro Foro i rei convenuti. La Santa Sede non avea da gran tempo ascoltate querele più giuste, onde il Papa le intese, e nel dì 31. Luglio di detto anno emanò più e diversi Decreti di riforma, in vigore de quali tutti i familiari e patenti ridotti furono a soli 68. il di cui nome esser dovesse noto ed approvato dal Governo. Ciò produsse qualche contestazione con la Real Corte di Napoli, che sostenne doversi togliere affatto al prelato, che da Roma si spedisce inquisitore a Malta, il diritto di poter dar patenti a suoi familiari essendo in obbligo S. M. Siciliana come supremo Signore dell’Isola di difendere e mantenere tutta la suprema potestà Feudale, conceduta dall’Imperatore Carlo V. come Re di Sicilia nel 1530., al Gran Maestro dell’Ordine Gerosolimitano, che era nel 1522. stato espulso dal possesso dell’Isola di Rodi dal Sultano de’ Turchi Solimano II. In occasione però dell’Investitura del Regno Napolitano, data da Clemente XIII., nel prefato anno 1760. al Regnante Ferdinando IV. l’affare a poco a poco andò accomodandosi a tenore della riforma ordinata dal Santo Padre.

 

Nonostante che l’empia Setta de’ Manichei fosse fino dal quinto secolo come si è detto condannata, pure giammai fu in modo estinta, che tratto tratto non germogliasse sotto vario nome ed aspetto. Sul principio del Secolo XIII. pertanto scesero dalla Francia nella Lombardia i predetti eretici, ora Catari appellandosi, ed ora Bulgari, diffondendosi specialmente nell’Umbria, nella Marca, nella Romagna, e nella Toscana, scegliendo la Città di Firenze come loro principal Sede perchè più comoda al loro intento. De’ loro errori ne abbiamo già parlato, ne fa all’assunto nostro il ripeterli. Un ramo dei suddetti erano i Paterini, Capo de’ quali era un tal Filippo Paternon, che verso il 1212. avea ripiena la Città tutta de’ suoi seguaci, fra quali vie erano molti de’ più potenti Cittadini della Repubblica, che per vero dire erano animati ancora a collegarsi insieme sotto l’istesso vessillo per le fazioni de’ Guelfi e Ghibellini. Questi eretici contrari alla Chiesa erano dell’ultima delle due fazioni. L’occasione in que’ tempi infelici di fomentar le discordie interne si prendea da tutto. La predicazione era fra essi nel massimo concetto sopra ogni altra cosa, e si trova che predicavano anche le donne come presso i Quaccheri in Inghilterra solea praticarsi. Finita la predica adoravano il loro Vescovo o Capo, il quale imponeva a tutti le mani, e con tale imposizione si stimavano le persone più contente del Mondo, quindi ne derivò l’altro loro nome di Consolati, e quella cerimonia che era il primo, e più nobile loro sacramento, Consolamento fu detta. Quattro erano gli Ordini della loro Gerarchia, il Vescovo, il Figlio maggiore, il Figlio minore, e il Diacono; l’uno all’altro si succedevano, e si sostituivano nell’imposizione delle mani. In tanta cecità si trovavano allora molti de’ Fiorentini, tra quali i Pulci, che possedeano gran tenute e fortilizj nel piano di Settimo erano de’ principali. Si teneano anche frequenti adunanze a S. Gaggio e nel piano del torrente Mugnone. Il celebre Dottor Lami ha trattato estesamente di questa eresìa nelle sue Lezioni XV. e XVI. di antichità Toscane, onde chi più ampiamente vuole essere a portata di tal materia può ad esse ricorrere.

Il timore di subire le pene comminate da Sacri Canoni, e l’incorrere nell’istessa sorte de’ Manichei di Linguadoca, rendea alquanto guardinghi i Paterini di Firenze, ma non lo furono tanto che non dessero negli occhi del pubblico. Giovanni da Velletri Vescovo allora della Città predetta, si credè in dovere di raffrenare il male dell’eresìa, e però fece fare come Inquisitore Ordinario autorizzato, non solo dalle leggi della Chiesa, ma anche dalle Imperiali, e Municipali più e diverse catture, e singolarmente quella del già rammentato Eresiarca e falso Vescovo de’ Paterini Filippo Paternon, che con l’assistenza ed ajuto del Governo fu posto nelle pubbliche carceri. Trovandosi in tale stato quell’empio uomo prese il compenso per sfuggire il pericolo che gli sovrastava di abiurar l’eresìa, ma dimostrò in breve essere stata finta la sua conversione, poichè rilasciato libero dal Vescovo tornò agli usati nascondigli de’ perfidi, e a fabbricare i soliti inganni di falsità: onde Gregorio IX. salito appena sul Soglio Pontificio, spedì una Bolla in data de’ 20. Giugno 1227. e dette incombenza al Beato Fra Giovanni da Salerno discepolo di S. Domenico, perchè unitamente a un Bernardo Canonico Fiorentino uomo di santa vita, con ogni sollecitudine procurasse di ritrovar Filippo e i suoi compagni, e fargli mettere in angusta carcere, onde si ritenessero fintantochè in presenza di tutto il popolo abiurassero sinceramente il loro errore. Se poi alcuni vi fossero stati ostinati in modo da non si voler convertire si procedesse contro di essi a norma delle Costituzioni del Concilio Lateranense IV. adunato in Roma da Innocenzo III. nell’anno 1215. ne si usasse la minima riserva nel punirli. Saputasi una tal cosa da Filippo si fuggì via, ne si sà ciò che di lui poscia avvenisse. Questa è la prima forma d’Inquisizione, che avesse luogo in Firenze, ed il suddetto Beato Fra Giovanni da Salerno fu il primo che esercitasse l’impiego d’Inquisitore egualmente che in Siena il Vescovo Buonfili, zelante persecutore degli Eretici, ad insinuazione di Onorio III. avea qualche anno avanti prescelti altri Domenicani per esercitare un somigliante ministero. Il prelodato sant’uomo non lasciò di opporsi a progressi dell’eresìa con le prediche, con l’ammonizioni, e co’ buoni esempi. Suoi successori furono Fra Aldobrandino Cavalcanti, e Fra Ruggeri Calcagni a cui venne aggiunto verso il 1244. Fra Pietro da Verona Domenicano, che è meglio conosciuto in oggi sotto il nome di S. Pietro martire. Egli fu il più forte contradittore e l’estirpatore massimo de’ Paterini, come scrive il Villani, risiedè nel Convento di S.M. Novella, ove dette una maggior forma e consistenza al Tribunale dell’Inquisizione, non senza però gravi opposizioni, e specialmente per parte di Pace da Pesannola Potestà in que’ tempi o sia Giudice ordinario di Firenze, che andava persuadendo i Cittadini più animati dallo spirito Repubblicano a non volere ad ogni costo lasciarsi imporre quel giogo, a cui volea sottometterli la Corte di Roma, facendogli comprendere che presto se ne sarebbero pentiti. I Domenicani, e i Francescani, Istituti pieni di uomini animati dal vero zelo di religione aveano gran partigiani, onde la Città si divise in due fazioni, e quella del Potestà divenne in poco tempo sì forte, che truppe armate di uomini facinorosi insultavano per le strade quanti fedeli incontravano, e più che con altri commettevano eccessive violenze contro i Domenicani, che senza pericolo non potevano uscir fuori. Fra Ruggeri e S. Pietro avendo formato il processo contro di loro, unitamente al Vescovo gli citarono al S. Ufizio perchè rendessero ragione della lor fede e del loro operato. Sulle prime dispregiarono costoro l’intimazione, ma costretti dover comparire avanti al Vescovo e agl’Inquisitori, mostrarono fintamente di arrendersi alle verità dimostrateli, e fecero giuramento di sottoporsi a ogni determinazione de’ Giudici Ecclesiastici. Si fece però ben presto palese quanto fosse finta la loro conversione, perchè di lì a non molti giorni avendo eglino saputo che l’Inquisitore era per terminare il processo ed emanar la sentenza, ricorsero alla giurisdizione della Città, che si determinò a volerli a tutta forza sostenere. Fu d’uopo pertanto, che i Religiosi di S. Domenico fossero difesi, onde molti e molti Cittadini loro amici accorsero al detto Convento, e si dichiararono pronti ad esporre la loro vita per reggere l’autorità del Vescovo, e del nuovo eretto Tribunale. Fu allora creduto opportuno istituire una specie di Ordine militare o sia Crociata come fu fatto, e chiamossi Società di S. Maria, capi della quale furono alcuni Gentiluomini della nobilissima Famiglia de’ Rossi. Le medesime cagioni producono i medesimi effetti, essendo stato come si è veduto operato l’istesso in Francia contro gli Albigesi, che aveano appresso a poco gl’istessi errori.

Il Potestà inviò due de’ suoi Ufiziali a Fra Ruggieri intimandogli da sua parte che revocasse ed annullasse la sentenza, che avea emanata contro alcuni del Casato Baroni, capi de’ Paterini come lesiva all’autorità Secolare, e che si presentasse avanti a lui in palazzo. Allora l’Inquisitore assistito da un numero tale di fautori da potere opporre la forza alla forza, pubblicò le censure contro gli eretici, e chi gli proteggea, e il dì seguente fece affiggere un Munitorio contro il Potestà perchè dovesse il giorno istesso comparire al Sant’Ufizio. S. Pier Martire, che intanto andava predicando per le Chiese e per le piazze contro l’eresìa procurò di eccitare l’animo de’ fedeli, che lo seguitavano da per tutto, a farsi forti contro i nemici, quando anche avessero dovuto esporsi a qualunque gran rischio della vita medesima per mantenere la Cattolica fede, e risvegliò tali fiamme ne’ loro petti, che si disposero tutti di voler piuttosto morire, che vedere l’impunità e l’empietà degli eretici. Questi sotto la scorta del Pesannola con le numerose Squadre del loro partito guidate dai Baroni, e rese più forti dai fuorusciti, e gente di campagna, mettean terrore alla moltitudine de’ fedeli, che non aveano tanto del fiero, e del crudele, quanto la truppa contraria, e comecchè si pensarono di poter restar vincitori, si risolsero di usare ogni più strana barbarie, e farne un improvviso macello. Mentre adunque in un giorno di festa dell’anno 1245. erano tutti ad ascoltar la predica nella Cattedrale, gli eretici improvvisamente cominciarono a combattere contro di loro, e molti feritine; o cacciati in faccia de’ sacri altari, commessero enormi scelleratezze.

Un così empio attentato riaccese più che mai lo zelo del Vescovo, dell’Inquisitore, e di S. Pietro Inquisitore aggiunto, che posto in piedi un grosso corpo di Cavalieri fedeli marciarono con l’armi in mano per combattere con la fazione eretica, che si era già fortificata ne’ primi posti della Città. S. Pietro detto allora Fra Pietro da Verona di età piuttosto giovane e di corporatura alta e robusta, pieno di quell’ardore, (che poi gli costò la vita 7. anni dopo, cioè nel 1252. andando a Milano) portando in una mano una bandiera bianca con Croce rossa, precedeva le truppe de’ Crocesignati, ed assisteva a’ loro attacchi contro gl’inimici della fede Ortodossa, animandogli nel tempo del combattimento con la sua potente eloquenza. Fu creduta espediente una sì fatta risoluzione, nonostante che giammai praticata fosse ne’ primi secoli della Chiesa, quando la sofferenza, l’orazione, e le continue preghiere per i persecutori erano le armi difensive dei Cattolici. Incontratisi i due opposti partiti animosamente, e con il furore delle guerre civili, che in que’ barbari tempi animava i popoli d’Italia. Si venne alle mani in diversi luoghi. Due complete vittorie riportarono i fedeli sotto la scorta del Santo, una in luogo detto la Croce al Trebbio, l’altra sulla Piazza di S. Felicita in cui gli eretici furono sconfitti e dispersi, quindi costretti a darsi precipitosa fuga uscirono tutti dalla Città. S. Antonino Arcivescovo ne ha lasciata nelle sue Croniche distinta memoria. Due Colonne esistono al Pubblico per comprovare tali fatti, e avanti l’Oratorio della Misericordia vecchia si vedono in pittura le descritte battaglie, e la fuga degli eretici, e lo stesso stendardo del Santo si conserva tuttavia tra le Reliquie insigni, esistenti nella Sagrestia di S. Maria Novella, quale si mostra pubblicamente ogni anno nel dì 29. di Aprile giorno della sua festa. In tale occasione, essendovi fra gli errori de’ Paterini quello di dileggiare le Sacre Immagini, e la Santa Croce, incominciò l’usanza di collocare l’effigie di Cristo o della Vergine Maria per quasi tutti i capi di strade ed accendervi i lumi sì di giorno, come di notte e chi lo facea era tenuto per ottimo e fedel Cittadino([51]).

Restò in tal guisa il Tribunale dell’Inquisizione sotto la condotta de’ Religiosi Domenicani, allorchè dopo il 1263. avendo Urbano IV. Sommo Pontefice fatta la divisione delle Provincie Italiane fra i Claustrali suddetti di S. Domenico, e quelli di S. Francesco, la Toscana assegnata venne a questi ultimi, e il S. Ufizio passò nel 1270. da S. Maria Novella al Convento di S. Croce abitato da Minori Conventuali. Questi in breve tempo dilatarono la loro autorità superiormente a’ primi, e ottennero da Magistrati un determinato numero di satelliti e le proprie carceri senza servirsi di quelle del Pubblico, e ciò per incutere sempre maggior timore negli eretici. Stante le guerre insorte nel 1324. contro Castruccio Castracani Signor di Lucca, che in que’ tempi a nulla meno aspirava che a rendersi Signore assoluto di tutta la Toscana assistito dall’Imperatore Lodovico detto il Bavaro, venne da Fiorentini chiamato in loro soccorso Carlo Duca di Calabria primogenito di Roberto D’Angiò Re di Napoli e Conte di Provenza, a cui un poco per amore, un poco per forza concessero l’autorità quasi Sovrana per anni dieci. Fatto questo Principe Signore di una delle più ricche e potenti Città d’Italia nel dì 30. Luglio 1326. portossi con la sua consorte a risedere in Firenze con gran numero di Cortigiani, fra quali un tal Francesco nativo di Ascoli, che serviva il Duca in qualità di suo Astrologo, essendo la Giudiciaria fallace Astrologia in gran voga in que’ secoli, con aver trovata piena e intera fede da Principi fin quasi all’incominciare del corrente secolo XVIII. Avea costui fatti non ordinari progressi nella Filosofia Peripatetica, e in altre difficili scienze, che non erano molto comuni, onde si concitò contro de’ gran nemici ed invidiosi. Questi che voleano rovinarlo lo messero in disgrazia della Duchessa Anna di Valois e rilevando in lui il difetto di esser piccante e mordace, le dissero che egli avea più volte sostenuto essere ella donna incontinente per forza e influsso de’ Pianeti, che dominavano sul di lei temperamento. In occasione di aver data alla luce una figlia lo fece la prefata Principessa chiamare alla sua presenza per rilevarle l’oroscopo della neonata bambina, interrogandolo frattanto se era vero quanto avea pronunziato. Egli con poca prudenza asserì esser verissimo, ed inoltre disse, che la di lei prole avrebbe superata qualunque donna celebre ne’ cattivi costumi, ed in fatti, fosse caso o sorte, non s’ingannò, poichè ad ognuno è noto qual riescisse la prefata bambina, allorchè ascese sul trono di Napoli col nome di Giovanna I. Una tale imprudenza non gli fu più perdonata dalla Duchessa a segno, che indusse il Marito a licenziarlo dal suo servizio con poca sua lode perseguitandolo sempre fino alla morte. Cecco di Ascoli, da Firenze passò in Lombardia, quindi fermossi in Bologna ove compose un trattato sopra la Sfera Armillare, volendosi che poi trascendesse a sostenere diversi errori, che forse erano errori de’ suoi tempi, cioè che nella Media Regione vi erano alcune generazioni di spiriti maligni, i quali a forza d’incantesimi sotto certe costellazioni poteansi costringere ad operare cose maravigliose e soprannaturali; che Cristo venne in Terra accordandosi il voler di Dio col corso dell’Astronomia, e altre simili cose([52]). Fra Lamberto da Cingoli Domenicano Inquisitore nella Lombardia lo citò a comparire al suo Tribunale, e fattolo mettere in carcere fece contro di esso compilare rigoroso processo, dal quale riuscì sottrarsi con abiurar pubblicamente le spacciate proposizioni. Riavuta la libertà ritornò da Bologna in Firenze, ove eresse una Scuola di Astronomia e Filosofia, alla quale accorsero molti de’ più colti e stimati giovani della Città. Ciò non piacendo al primo Ministro o Cancelliere del Duca di Calabria, che era il Vescovo di Aversa Minor Conventuale, fu fatto arrestare e condurre nelle forze del S. Ufizio di cui era Inquisitor Generale un tal Padre Accursio Fiorentino, che si fece un pregio di aderire a’ desideri vendicativi della moglie di chi tutto potea in Firenze. Esaminate attentamente le proposizione di Cecco, da chi forse non le intendeva, o non dovea intenderle, vennero dichiarate infette della più perniciosa eresìa, ed egli condannato come negromante e stregone fu sottoposto più volte alla più rigorosa tortura perchè abiurasse i suoi errori finalmente nel dì 15. di Settembre 1328. fu condotto ad abiurare pubblicamente nella Chiesa di S. Croce apparata a lutto sopra un eminente palco a bella posta eretto alla presenza di un popolo innumerabile. Ivi con l’assistenza di Messer Conte da Gubbio Rettore della Chiesa di S. Stefano, e Vicario Generale di Monsignor Francesco Silvestri Vescovo di Firenze, di molti altri Dottori e Consultori del S. Ufizio, fu letto ad alta voce il ristretto del processo, e ad ogni articolo domandato essendo al reo se fosse vero quanto contro di lui veniva esposto, egli rispondea che lo avea detto, insegnato, e lo credea. Terminata la funzione fu sentenziato Cecco ad esser bruciato vivo con tutti i libri da esso composti, venendo assegnato il termine di quindici giorni a tutti quelli che ne avessero appresso di loro a manifestarsi. Sceso dal palco fu consegnato a Jacopo da Brescia esecutore di giustizia, onde immediatamente desse mano alla sentenza, il che tosto restò eseguito fuori la Porta alla Croce, ove era stato eretto una lunga antenna, intorno alla quale vi era una gran quantità di legne. Con somma intrepidezza compiangendo l’ignoranza e l’ingiustizia de’ suoi giudici si lasciò legare all’antenna suddetta con la quale in breve tempo restò arso ed incenerito. La sentenza era dell’appresso tenore.

 

Al nome di Dio Amen ec.

 

Noi Frate Accursio di Firenze dell’Ordine de’ Frati Predicatori per autorità Apostolica Inquisitore dell’eretica pravità nella Provincia di Toscana, facciamo noto a tutti, che mentre facevamo il nostro ufizio commessoci dall’Inquisizione, per fama pubblica, anzi piuttosto infamia, e per fede di molti uomini degni, che ad una voce hanno riferito con giuramento, come Maestro Cecco figliolo di Maestro Simone degli Stabili della Città di Ascoli, in ruina sua e degli altri, e pericolo non piccolo delle anime spargeva molte e diverse eresìe per la Città di Firenze, e quello che è più detestabile un certo suo eretico e profano libretto a suggestione del Diavolo, composto sopra la sfera, quale contro la promessa e giuramento suo proprio, come cane che ritorna al vomito, lo dettava per le scuole; onde non volendo noi mancare a norma dell’obbligo nostro di rintracciare la verità, lo abbiamo ritrovato per asserzione di testimonj, degni di fede, pieno di contumelie, scandolo e mormorazione, e non conforme al vero, perciò lo facemmo condurre alla nostra presenza e costituito avanti a noi pigliammo da esso il giuramento corporale di dire la verità, tanto riguardo a se che riguardo agli altri, e avendo confessate le seguenti empie ed inique proposizioni, assegnatoli e datoli le difese di tutte quelle cose che gli erano opposte, che in invido disprezzo della fede Ortodossa, ha spacciatamente sostenute ed insegnate, alla presenza del Sig. Conte di Santo Stefano, Vicario Generale del Venerabil Padre e Monsignore Francesco per la grazia di Dio Vescovo Fiorentino, e di molte altre persone provide e onorate, e Dottori di legge chiamati per consultare se si deva procedere a sentenza, con matura deliberazione e considerazione: invocata la grazia di Dio, e dello Spirito Santo sedendo pro Tribunali ec. Di consenso ec. Del Venerabil Padre e Signore Vescovo Fiorentino sopraddetto a questo delegato, per lui, ed in questa parte a noi plenariamente commettendo.

Pronunziamo e dichiariamo il predetto Maestro Cecco eretico costituito in nostra presenza, esser ricaduto nell’eresia abiurata, essere stato relasso e recidivo, e per questo doversi consegnare al giudizio Secolare, e perciò lo rilasciamo in potere del Sig. Jacopo da Brescia Vicario Fiorentino presente e recipiente, perchè lo faccia punire con debita considerazione, e di più che il libretto superstizioso, pazzo, e negromantico fatto dal detto Maestro Cecco di Ascoli sopra la sfera, pieno di eresìa, falsità, ed inganno, e altro libretto volgare, ne’ quali sono state ritrovate molte acerbità e massime ereticali, e principalmente quando v’include molte cose, che si appartengono alle virtù, e costumi, che riduce ogni cosa alle stelle come in causa con ogni altra sua opera, scritto e dottrina, siano dati alle fiamme, ne si possano leggere o ritenere da alcuno sotto pena di scomunica, e altre pene spirituali e corporali, secondo le Leggi Canoniche ec. L’anno dell’Incarnazione del Signore 1327. Indizione Decima, nel dì 20. Settembre nella Chiesa de’ Padri Minori Conventuali di Firenze presenti ec. ec.([53]).

Di una tale esecuzione assai parlossi in que’ tempi, e apparve a molti piuttosto dettata dallo spirito di vendetta, che dalla volontà di perseguitare ed estinguere il delitto di eresìa L’istesso Papa Giovanni XXII., chiamato avanti che fosse promosso al Pontificato Jacopo d’Ossat, essendo stato amico di Cecco d’Ascoli e ammiratore di sua scienza, appena che ricevè in Avignone l’avviso di sua sentenza, si vuole che dicesse pubblicamente alla presenza di tutta la Corte, che i Frati Minori aveano perseguitato ed ucciso il Principe de Filosofi Peripatetici. E’ ben vero che l’Inquisizione in Firenze prese dopo la medesima maggior piede, ne lasciò nulla d’intentato per ampliare la sua giurisdizione anche sopra ogni genere di persone. Fra Pietro dell’Aquila Inquisitore succeduto a Frate Accursio giunse a segno di far arrestare un certo Silvestro Baroncelli Ministro della Ragione Acciaioli poch’anzi fallita, mentre usciva dal Palazzo de’ Priori accompagnato da loro ministri, essendo andato avanti i medesimi e il Gonfaloniere di Giustizia Primerano Serragli, per trattare sotto la loro parola di affari concernenti la detta Ragione, e ciò nel mese di Febbraio dell’anno 1346. il motivo dell’arresto fu perchè il prefato Inquisitore era stato munito di procura dal Cardinale Don Pietro di Toledo Spagnuolo, che andava creditore dalla mancata Ragione di 12. mila fiorini d’oro. Un tale arbitrio, che nulla avea di comune con le cose della fede e della religione, sembrando eccedente alla Signoria, e in pregiudizio della dignità e Sovranità della Repubblica, fecero liberare immediatamente il carcerato Baroncelli, e a Famigli del Potestà che aveano fatta l’esecuzione fecero tagliar le mani, confinandoli per 10. anni fuori del dominio Fiorentino. Il Potestà scusando l’error successo, e impetrando il perdono della Signoria si trasse d’intrigo, ma l’Inquisitore piccato scomunicò immediatamente il Gonfaloniere e i Priori, e lasciata la Città interdetta se ne andò a Siena. Alla scomunica fu subito per mezzo di due Notari Sindaci del Comune appellato di nullità, e vennero mandati sei Ambasciatori in Avignone a Papa Clemente VI. fra quali il Canonico Buonaccorso de’ Frescobaldi, e Ugo della Stufa Cavaliere, per rappresentare la cattiva condotta dell’Inquisitore, e pregare il Santo Padre a rimuoverlo da quella carica, esponendo, che in sette anni che l’avea amministrata, avea ricavati più di 7. mila fiorini d’oro da diversi Cittadini condannati in pene pecuniarie come sospetti di Eresìa. Frattanto imitando uno Statuto, che era allora in vigore a Perugia, e nel Regno di Castiglia, venne in Firenze emanata una legge, che veruno Inquisitore si dovesse intromettere in altro che nel suo ufizio senza uscir punto da i termini dell’eresìa, e che gli eretici secondo la qualità de’ loro delitti condannati fossero nella persona, e non ne beni o in danaro. Che non potessero gl’Inquisitori tener carceri private, ma si dovessero servir delle pubbliche, e nessun Capitano, Potestà, o esecutore potesse fare arrestare cittadino o forestiero col mandato del S. Ufizio senza previa licenza de’ Priori, e così s’intendesse relativamente a’ Vescovi di Firenze e di Fiesole. Fu tolta anche la facoltà di dar le patenti di portar armi se non per soli sei familiari dell’Inquisizione, e perchè questi articoli fossero puntualmente osservati, eretto venne un Magistrato di 14. Cittadini chiamati i difensori della libertà, da quali con l’andar del tempo ne è derivato il Tribunale della Regia Giurisdizione. La scomunica fu tolta, e l’Inquisitore rimosso con l’essere stato fatto Vescovo di S. Angelo. Giunto l’anno 1375. Gregorio XI. sdegnato co’ Fiorentini perchè credea, che avessero dato mano alla ribellione di alcune Città dello Stato Ecclesiastico, pubblicò solennemente in Avignone la sentenza di scomunica ed interdetto contro la Città di Firenze, alla quale trovandosi presente Donato Barbadori Ambasciatore della Repubblica, si rivolse a un Crocifisso ed esclamò, Dio Signore nostro a te dalla sentenza del tuo Vicario iniquamente pronunziata contro di noi ci appelliamo e invochiamo la tua rettissima equità. L’Interdetto non ebbe effetto, e per ordine preciso della Signoria continuarono i Preti a celebrare i Divini Ufizi non ostante gli ordini dell’Inquisizione, ma morto il predetto Pontefice, che ricondotta avea la S. Sede a Roma, e assunto sulla Cattedra di S. Pietro Urbano VI., questi a cui da Francesi era stato eletto un Antipapa col nome di Clemente VII. ribenedisse i Fiorentini i quali però dovettero alquanto rilasciare il loro rigore in materie giurisdizionali, e l’Inquisizione acquistò nuova forza nella venuta in Firenze di Martino V. nel 1420 e di Eugenio IV. nel 1439. Fu di nuovo rimessa l’Inquisizione dalla Signoria ne’ limiti della legge, dopo che nel 1478. il Pontefice Sisto IV. intruso nella famosa congiura de’ Pazzi scomunicò e mosse guerra a’ Fiorentini servendosi del pretesto di avere essi fatto impiccare alle finestre del pubblico palazzo l’Arcivescovo di Pisa di casa Salviati. Quei fieri repubblicani consultati avendo Bartolommeo Socini, e Bulgarino Bulgarini, stati Avvocati Concistoriali, Lanciotto Decio, Andrea Panormita, Pier Filippo Cornio, Francesco Accolti, Girolamo Torri Lettore di Pavia, e altri Professori di Diritto Canonico, e Maestri in Teologia giustificarono con pubblico manifesto la causa loro avanti a tutti i Principi, e conclusero a forma de ricevuti pareri, che non sussistendo la realtà del delitto in riguardo di cui era stata fulminata la scomunica, la sentenza diveniva nulla, e perciò nuovamente obbligarono i Sacerdoti a celebrare i Divini Ufizi. In oltre adunarono un Concilio di tutti i Prelati del Dominio Fiorentino, e in questo solennemente si appellarono dal Papa al futuro Concilio, e a tutti i popoli e Sovrani Cattolici: Dipoi per consiglio di varie Corti, si mitigarono alquanto, e mandati Oratori a Roma furono dal prefato Papa ribenedetti, e annullato l’interdetto. Venuto in seguito il governo della Repubblica in mano di Leone X. e Clemente VII. questi rimisero la potestà del S. Ufizio nel primiero grado.([54])

Il timore, che non s’introducesse in Italia l’Eresia di Lutero, che velocemente si era estesa sul principio del secolo XVI. per la Germania e pe’ Regni del Settentrione, fece sì che il detto Clemente VII. desse una più estesa ed ampia forma alla suprema Inquisizione di Roma, e Paolo III, dilui successore nel 1542. con sua Bolla, che comincia Licet ab initio istituì una Congregazione di sei Cardinali col titolo d’Inquisitori Generali dell’eretica pravità in tutto il mondo Cristiano. Pio IV nel 1564. dilatò maggiormente la loro potestà contro qualunque persona, benchè costituita in dignità di Vescovo, Arcivescovo, Patriarca, Cardinale ec. Questa ebbe la facoltà di eleggere in Firenze tre Commissarj, che unitamente con l’Inquisitore conoscevano le cause di religione e partecipavano al Governo le condanne da eseguirsi. Nel 1551. alla metà di Dicembre regnando Cosimo I. ed essendo assistenti il Vicario dell’Arcivescovo Antonio Altuiti, il Proposto Alessandro Strozzi, e lo Spedalingo di S. Maria Nuova, fu dato alla Città un lugubre spettacolo sull’idea del descritto Atto di Fede di Spagna, consistente in una Processione proceduta da uno stendardo con una croce nodosa in campo nero in mezzo a una spada e un ramo di olivo, con le parole intorno exurge Domine et Judica Causam tuam. P.S. 73. Consisteva essa in 22. soggetti alla testa de quali vi era Bartolommeo Panciatichi ricco gentiluomo, che servito avea il Duca alla Corte di Francia in qualità di Ambasciatore. Erano essi vestiti con cappe e sambeniti dipinti di Croci e di Diavoli, e condotti alla Metropolitana furono quivi pubblicamente ribenedetti mentre si abbruciavano sulla piazza i loro libri. Alcune donne sospette di aver creduto alle nuove massime oltramontane sottoposte vennero all’istessa formalità privatamente nella Chiesa di S. Simone. Poco dopo Lodovico Domenichi venuto a Firenze nel marzo 1547. per dedicare al Duca le sue traduzioni di Zenofonte, e da esso era pensionato per accudire alla letteratura, fu condannato dall’Inquisizione, per aver tradotta e stampata in Firenze con la data di Basilea la Nicomediana del Calvino, benchè negasse di aver mai tenuta alcuna cattiva opinione contro la fede, ed abiurare pubblicamente con un libro appeso al collo, e a dieci anni di carcere per aver trasgredito alle leggi emanate in materia di stampe. Cosimo scosso dalle calunnie, che erano state pubblicate a Roma contro di lui in occasione di aver intimato lo sfratto da suoi Stati a Frati di S. Marco, assunse per smentirle con grande impegno l’invigilare alla conservazione della purità della fede, ben persuaso che la religione è il sostegno del trono.

Nel 1557. fu accresciuto dall’Inquisizione Fiorentina ad istanza di Paolo IV. un altro Deputato, ma il Duca nel tempo istesso che aderiva a quanto era necessario per tener lontana l’eresia, stette cauto in non lasciarla uscire da prescritti confini, poichè in quell’istesso anno tentato avea di acquistare giurisdizione sopra varj altri delitti giudicati sempre in addietro da’ Tribunali secolari. In varie occasioni mosso dall’amore della verità si degnò giustificare diverse persone, che giudicava accusate per oggetto di malignità o d’invidia, e divenuto Sovrano di Siena non volle ascoltare quanto reiteratamente gli veniva rappresentato dalle nuove opinioni che Lelio e fratelli Socini, e suoi aderenti sparso aveano in quella Città. Per mantenere intatta la purità del culto, volle che osservata fosse a rigore la legge sopra la proibizione de’ libri di autori eretici, e nel 1553 permesse che si pubblicasse nel suo Dominio un Editto della Romana Inquisizione contro i libri degli Ebrei, e particolarmente il Talmud, tollerando che si usasse contro di loro ogni perquisizione e vessazione, e questo fu il primo passo della Santa Sede per mettersi in possesso di proibire i libri in Toscana.

Aveano i Principi finora preso sopra di se indipendentemente questo assunto, e Carlo V. temendo i progressi delle massime di Lutero ne’ Paesi Bassi, pensò a vietare l’introduzione e lo spaccio in quelle contrade de’ loro libri, incaricando l’Università di Lovanio a fare nel 1546. un catalogo di quelle opere che giudicate fossero perniciose. Sul suo esempio Cosimo I. proibì lo stampare libri di eresìa, e Paolo IV. uno de’ più intenti Pontefici ad ampliare la sua autorità, pubblicò nel 1559. un Indice di libri proibiti accompagnato dalla comminazione delle più rigorose pene di arbitrio, privazione di benefizi, infamia, e censure per chi li ritenesse e non li presentasse detro un determinato tempo al S. Ufizio. Era il prefato Indice diviso in tre classi, e in fondo vi si aggiungeva un catalogo di più di 60. stampatori, le produzioni de’ quali in qualunque genere e materia restavano assolutamente proscritte. I Deputati dell’Inquisizione di Firenze vennero tosto incaricati da Roma a pubblicare il catalogo e il Decreto, che lo autorizzava, ma sapendo Cosimo, che Paolo IV. non conosceva limite alcuno in tutte le sue risoluzioni, volle esaminarne le conseguenze. Dette perciò incombenza a Lelio Torelli celebre Giureconsulto e suo ministro per gli affari Ecclesiastici, di prendere la cosa in considerazione, essendochè non si trattava di nulla meno che immergere di nuovo la Toscana in quell’antica barbarie, da cui l’avean tratta i Danti, i Petrarca, i Boccacci, i Leonardi Aretini, i Macchiavelli, i Marsuppini, e altri belli ingegni. Fece il Torelli in poco tempo vedere, che il danno de’ particolari nel privarli di questi libri oltrepassava i cento mila scudi, e che era un’indiscretezza e un’ingiustizia il proscrivere tutti i libri stampati di là da monti, fra quali si noveravano le opere degli autori più classici Greci, e Latini, e specialmente quelli sopra Medicina. Determinò pertanto il Duca, che i Deputati dell’Inquisizione eseguissero l’Editto del Papa soltanto per i libri contrari alla Religione, e che trattassero di magia, e astrologia giudiciaria, sospendendo l’esecuzione per quelli che non aveano relazione alle classi predette. I Padri di S. Marco avrebbero voluto tosto abbruciare quanti libri si trovavano in loro potere, ma Cosimo vi si oppose altamente come patrono della Biblioteca e del Convento, onde non si perdessero tante Opere utilissime, presso loro depositate a tempo di Lorenzo il magnifico e altri suoi Progenitori. Nel dì 8. di Marzo 1559. furono consegnati in preda alle fiamme avanti le Chiese di S. Giovanni, e di S. Croce, sul modello di quanto era stato fatto altre volte a tempi del Savonarola, moltissimi libri, che trattavano delle descritte materie, non senza però gran nocumento delle scienze, e de’ poveri librai.([55])

Se in queste cose si mostrò il Duca Cosimo facile a condescendere alla volontà della Corte di Roma: stette sempre forte e costante nell’opporsi all’idea venuta in capo a Pio V. di togliere l’Inquisizione di Toscana a Padri Minori Conventuali, e restituirla a Domenicani, per essere stati essi troppo aderenti a nemici di Casa Medici, alloraquando furono la prima volta scacciati da Firenze nel 1494. Il rigore di questo Papa fu anche superiore a quello di Paolo IV. Egli fu che abolì in Firenze la Deputazione del S. Ufizio lasciata sussistere da Pio IV. ed escluse fino il Nunzio dalla medesima; e col pretesto di non dilatare in tanti il segreto di quel Tribunale ne restrinse la giurisdizione nel solo Inquisitore. Covavano in Siena le massime sparse dai Socini, e a Cornelio Socino fu fatto il processo come aderente a Fausto Socini, indi inviato all’Inquisizione di Roma. Antonio Paleario, che prima era stato maestro di scuola in quella Città, e poi passato a far l’istesso esercizio a Colle, avea colà sparse delle erronee proposizioni, che poco incontravano il genio della Corte di Roma. Grandi furono i reclami dell’Inquisizione di quella Metropoli, perchè nella terra di S. Gimignano alcuni scolare de suddetto Paleario in un’Accademia eretta per l’interpretazione di Dante, sostenuto aveano, che la volontà potea esser costretta dall’amor femminile. Giunse perciò anche colà la persecuzione, e molti furono costretti a sottrarsi con la fuga, altri furono processati ed inquisiti: altri trasportati nelle carceri del Romano S. Ufizio. Vennero arrestati, e dati in potere del Papa alcuni giovani Tedeschi, che erano a fare il corso de’ loro studi nell’Università di Siena, e che tranquillamente riposavano sotto la fede della pubblica sicurezza. Molti sospetti di aderire alle massime di Calvino fuggirono di Firenze, ove l’Inquisizione per far pompa di zelo e di attività, non lasciava occasione alcuna di vessare qualunque ceto e rango di persone, e interrogando gl’idioti sopra i sacrosanti Misteri della Religione, imputava quel che era crassa e vera ignoranza, ad eresìa e delitto. Francesco de’ Medici figlio primogenito di Cosimo a cui dal Padre era stato ceduto il governo dello Stato col titolo di Reggente, non potendo soffrire ne’ suoi sudditi una si strana vessazione, fece istanza a Roma nel 1567., che nuovamente aggiunti fossero all’Inquisitore l’Arcivescovo e il Nunzio, ma la sola mutazione della persona dell’Inquisitore fu quanto si potè ottenere da Pio V. I Forestieri non erano esenti in Firenze da l’essere molestati stante il sospetto che aveasi, che dalla Germania e dalla Francia si spargessero in Italia degli emissari per diffondere le nuove dottrine colà in così prodigiosa maniera diffuse. Tutti questi rigori però non toglievano, che gli uomini non pensassero a lor modo, e che non prendessero maggior piede nel basso popolo le illusioni e la falsa credenza degli incantesimi e delle malie, con l’assistenza del Demonio, e che non vi fossero molti impostori, che si spacciassero per negromanti. A Siena nel 1569. furono nella pubblica piazza bruciate 5. donne dichiarate ree di aver renunziato al Battesimo, di aver fatta scritta col Diavolo, e avere ammaliati e stregati 18. bambini. L’arte tipografica, che avea fatti in Firenze tanti fausti progressi dopo il suo ritrovamento, stante la pubblicazione dell’Indice di Paolo IV. cadde in breve tempo nel massimo avvilimento, e passò negli Svizzeri e nelle Città libere delle Germania. Il Torrentino, che si era reso così famoso per sue nitide e corrette edizioni andò ad abitare negli Stati del Duca di Savoia, e i Giunti posero casa e negozio a Venezia, che seppe ben presto mettere a profitto la loro abilità, e attirare dentro di se gran somme da tutti gli altri paesi Italiani per la maggior libertà, che il Senato concedea in materia di stampe.([56])

Quel che più di tutto però sparse il terrore e la costernazione del Pubblico, fu la consegna fatta nel 1566. al Maestro del Sacro Palazzo di Pio V., spedito a bella posta in Toscana, di Pietro Carnesecchi Gentiluomo Fiorentino uno de’ più illustri letterati de’ suoi tempi, se non avesse deviato dalla retta via della salute. Nacque egli in Firenze di nobil famiglia ora estinta, che seguì la fortuna della Casa de’ Medici, e per le rare doti del suo ingegno e vasta erudizione fu da Clemente VII. fin dalla prima sua gioventù promosso al posto di suo Segretario, il che gli meritò i favori di Caterina Regina di Francia, la benevolenza di Cosimo, l’acquisto di competente Patrimonio Ecclesiastico, e il titolo di Protonotario Apostolico. Morto Clemente passò in Francia, dipoi a Napoli, dove nel 1540. contrasse amicizia con Pietro Valdes Spagnuolo, Marco Antonio Flaminio d’Imola, Bernardino Ochino Senese, e fu molto famigliare di Pietro Martire Vermigli, e di Galeazzo Caraccioli. In Viterbo nell’anno susseguente conobbe Vittore Soranzo Vescovo di Bergamo, Appollonio Merenda, Luigi Priuli, Pietro Paolo Vergario Vescovo di Giustinopoli, e Lattanzio Rognoni di Siena, i quali tutti erano Valdesiani, Zuingliani, o Calvinisti, e s’imbevve perciò delle loro erronee opinioni. Pieno per loro di affetto gli aiutava e sosteneva co’ mezzi e col danaro. Godendo la grazia di Giulia Gonzaga Principessa di Mantova, le raccomandò con molto ardore due eretici, tenendo aperta corrispondenza con molti Principi e cospicui Personaggi. Fu per molto tempo ammesso alla conversazione di Margherita Duchessa di Savoja, di Vettoria Colonna Marchesa di Pescara, di Renata di Francia Consorte di Ercole II. Duca di Ferrara, di Lavinia della Rovere Orsini, e altre illustri femmine credute propense a nuovi errori. Passato in Francia volle personalmente vedere e trattare con Melantone Capo degli eretici di quel Regno. Ritornato nel 1552. in Italia si trattenne alquanto in Padova, e in Venezia dove non tralasciò il carteggio con gli eretici. Giunto ciò a notizia di Paolo IV. lo fece citare nel dì 6. di Novembre a comparire avanti l’Inquisizione di Roma, ma non comparendo fu dichiarato incorso nelle censure espresse nel Munitorio, e scomunicato. Il Carnesecchi non essendosi di ciò curato, venne da’ Cardinali Inquisitori dichiarato nel dì 6. Aprile 1559. contumace ed eretico. Nonostante aiutava e commendava coloro che si rifugiavano in Ginevra, lodò pubblicamente la confessione di Fede, che fece Giovanni Waldes sulla fine dell’empia sua vita, e scrivendo a’ seguaci di Calvino o Lutero gli chiamava nostri innocenti Fratelli, pii Amici, ed eletti di Dio. Succeduto all’inesorabile Paolo IV., Pio IV. per mezzo del Duca Cosimo, chiese di esser sentito da questo Pontefice e l’ottenne, e appresso il medesimo seppe tanto parlare e difendersi con quel profluvio di eloquenza, che possedeva, che fu intieramente assoluto e ricevuto di nuovo nel grembo della Chiesa. Dopo tanti travagli e disastri nondimeno prevalse in lui l’imprudenza e il fanatismo, poichè non solo rimesse danaro a Pietro Gelido Sacramentario, e a Pier Leone Marioni, che erano fuggiti in Ginevra, ma tenne mano alla fuga del d. Pietro Gelido da S. Miniato Sacerdote di molta dottrina, e che era pure stato Segretario di Clemente VII. in Roma, e del Duca Cosimo I. presso la Corte di Francia, ove per opera della nominata Renata Duchessa di Ferrara ritornata al natìo suo Paese, avea apprese le nuove opinioni di Calvino. Stava nonostante i suoi deliri il Carnesecchi in Firenze sua Patria, godendo del favore del Duca, e conversando seco domesticamente, quando fu richiesto dal Papa Pio V. a Cosimo, il quale volendo conservarsi la benevolenza di S.S. da cui sperava l’aumento del titolo, che poi ottenne nel 1566., dette ordine che fosse arrestato e consegnato nelle forze Pontificie nel dì 4. Luglio di detto anno 1566. Condotto a Roma fu rinchiuso nelle carceri dell’Inquisizione, da cui gli fu formato rigoroso processo, e seriamente esaminato, dopo varie tergiversazioni, confessò di propria bocca la sua credenza, e si aggravò molto ne’ suoi costituti. Nel dì 21 Settembre 1567. fu letta pubblicamente in S. Maria della Minerva la sua sentenza che lo dichiarava reo convinto di 34. opinioni condannate, e privato di tutti gli onori, dignità, benefizj; di poi col Sambenito indosso dipinto con fiamme e diavoli fu degradato. Un Cappuccino Pistoiese fu incaricato d’esortarlo a pentirsi con speranza della vita, ma egli sprezzator della morte godeva di disputare e non di pentirsi, onde consegnato al braccio Secolare fu nel dì 3. Ottobre decapitato e bruciato, conservando fino agli estremi il suo fanatismo([57]).

La facilità di Cosimo verso la Corte di Roma aumentò l’ansietà negl’Inquisitori Toscani di far maggior intraprese sotto Francesco I. suo figlio e successore. I più rumorosi attentati non si eseguivano mai in Firenze, ove stante la residenza della Corte si procurava di collocare un Inquisitore fornito della necessaria prudenza e cautela. Ma a Siena, ed a Pisa si credeano essi permessa qualunque autorità, stando in perpetua contesa con i Ministri del Principe, la di cui giurisdizione direttamente attaccavano. Reclamava il Duca presso Gregorio XIII., che per contentarlo in qualche maniera, revocava l’Inquisitore inviandone un altro ugualmente indiscreto e altero, e forse munito dell’istesse istruzioni. In Spagna, come si è veduto, uno de’ mezzi per propagare la potestà del S. Ufizio era stato quello di ascrivere al medesimo una quantità considerabile per ogni dove di famigliari e satelliti dell’uno e dell’altro sesso, che faceano giuramento di assistere e favorire contro gli eretici e loro fautori l’Inquisizione e suoi Ministri, contentandosi per ricompensa di ottenere delle Indulgenze Plenarie, e delle facili esecuzioni. Essendo un tale espediente riuscito nella Lombardia, mettersi volea in pratica anche in Toscana, dando a’ descritti per distintivo una piccola croce rossa sull’uso de’ Crocesignati di Linguadoca, e di quelli istituiti da S. Pier Martire contro i Paterini. Nel 1579. si era incominciato a formare in Siena una Confraternita di queste pericolose persone, e il Governatore Conte di Montauto non si era opposto come dovea a una tale istituzione, onde i più saggi fra que’ Cittadini portarono direttamente al Trono i loro ricorsi, rappresentando quanto esser potea dannoso al Principe, che in uno Stato, nuovo nella soggezione, e che peranche nutriva i semi dell’antica sua tumultuasa libertà, si formasse una Società di persone, che coll’appoggio del S. Ufizio pretendesse esimersi dalla Potestà Secolare, e si rendesse prepotente sopra gli altri. Aggiunsero che una tale invenzione era un mero artifizio degl’Inquisitori per esimersi dall’atto di soggezione di dovere implorare il braccio del Governo in ogni occorrenza, e servirsi nel fare le catture degli esecutori de’ Tribunali Laici. Sentì malamente il Granduca che vi fosse chi ne’ suoi Stati volesse rendersi indipendente dalla sua Sovranità, ne rimproverò altamente il Governatore prefato, e mandò gli ordini i più pressanti sotte le più rigorose pene per lo scioglimento della Congregazione de’ famigliari Crocesignati, facendo intendere, che in casa sua non voleva altri padroni che lui. Inviate al Papa le sue doglianze fu cambiato al solito l’Inquisitore, ma non il tenore di procedere, poichè ne venne un altro più audace e temerario, che incominciò subito dal costituire de’ Vicari in tutti i Villaggi, spargendo ovunque la costernazione e il terrore, onde fu d’uopo astringerlo con la forza a revocare le Patenti, ed esiliare i patentati. Mostravasi questi così furibondo che ne’ giorni di cibo magro scorreva da un capo all’altro tutta la Città suddetta di Siena per scuoprire dall’odore delle cucine se vi era chi contravvenisse al precetto di non mangiar carne, e si lagnava di non poter far questa ronda seguito da una falange di armati ministri.

L’Inquisitore di Pisa non usava maggior moderazione e discretezza, poichè promoveva continue controversie ora con gli Scolari, ora co’ Professori di quell’Università, tacciando di ereticale ogni leggerezza o spiritoso motto giovenile, oppure ogni nuova scoperta nelle materie Filosofiche. Essendo state per suo ordine messe nelle pubbliche carceri due donne accusate di essersi serviti di mezzi diabolici e superstiziosi per esser sempre amate dagli uomini, pensò dare alla Città uno spettacolo con far leggere in pubblico la loro condanna, e il loro processo. Invitò dunque pel’ dì 22. di Dicembre 1582. tutto il popolo a concorrere nella Chiesa de’ Minori Conventuali, ordinando che in quel giorno sospesi fossero tutti i divini Ufizi, e che non si suonassero neppure le campane. Adunata una folla immensa di ogni ceto e di ogni rango in detta Chiesa apparata di nero, ed in mezzo a cui era eretto un magnifico Tribunale ornato a lutto, per imprimere lo spavento negli spettatori, inviò a chiedere le due donne carcerate al Commissario, che gli replicò per due volte, che non potea consegnarle senza l’ordine preciso del Principe. Assalito il Religioso non ostante la claustrale umiltà, da furiosa collera nel vedersi deluso in faccia alla Città tutta, ed esser fatto scopo delle derisioni, e de motteggi, ascese sul suo seggio, e di là fulminò la scomunica contro il Commissario e tutti i suoi sottoposti, accompagnando l’atto con le più atroci invettive, e contumelie. Inviato venne tosto un corriere al Ministro Granducale presso la S. Sede per avere soddisfazione all’insulto fatto a diritto del Trono, e per vero dire si ottenne col cambio del Religioso predetto, ma si proseguì sempre dal S. Ufizio il metodo istesso di procedere. Bisognò però poco dopo consegnare nelle forze del Pontefice tre pubblici Lettori nella Università surriferita di Pisa, fra quali Girolamo Borro eccellente Filosofo languì per molto tempo nelle angustie delle carceri per accuse di eresìa dategli dal figliolo del Cisalpino, che scoperta la sua malignità fu susseguentemente punito. In Siena vennero di nuovo arrestati e mandati a Roma alcuni scolari Austriaci sudditi dell’Imperator Massimiliano II. che ne fece di gran reclami e minacce, e tali violenze non si può dire quai danni recassero a’ progressi delle scienze, e alla tranquillità delle due Università, che il fanatismo e l’ignoranza avrebbe voluto totalmente distruggere.([58])

Arrigo IV. primo Re di Francia della Casa di Borbone grande amico del Granduca Ferdinando I. che lo aiutava con i consigli, e con i danari a conquistare il suo Regno, e scacciare gli Spagnuoli, che sotto pretesto di tener lontano da quel Trono un Re Protestante lo aveano invaso in gran parte per farne dichiarare Regina l’Infanta Isabella Chiara Eugenia figlia di Filippo II., risolse aderendo alle persuasioni de’ suoi benevoli per viepiù stabilirsi la corona in fronte di farsi Cattolico, e abiurare gli errori de’ quali era imbevuto. Nel dì 25. Luglio pertanto dell’anno 1593. fece la sua pubblica abiura nella Chiesa di S. Dionigi, e inviò in seguito una solenne ambasciata a Roma a Clemente VIII. Aldobrandini Fiorentino affine di prestare obbedienza alla Chiesa, ambasciata, che per qualche tempo non fu attesa dal Papa stante il timore, che avea della Corte di Madrid, e la di lui assoluzione sarebbe andata molto tempo in lungo se francamente l’Auditor Serafini pure Fiorentino non avesse detto a S. Santità; Santo Padre permettetemi di dirvi che Clemente VII. perdette l’Inghilterra per essere stato troppo compiacente con Carlo V., e Clemente VIII. perderà la Francia se vuol seguitare a farsi schiavo delle insinuazioni di Filippo II. Appena quel gran Monarca abbracciato ebbe il Cattolicismo, che i suoi nemici vedendo l’impossibilità di vincerlo a forza aperta, tramarono diverse congiure per torgli la vita come finalmente loro riuscì. La prima tra queste fu quella ordita da un tal Pietro la Barriere, di professione prima navicellaio, poi soldato, messo su forse da qualche segreto emissario di Madrid. Era quelli uno spirito malinconico e feroce, che credendo di potere andare più facilmente in Paradiso se uccideva il suo Monarca, che egli non giudicava sinceramente riconciliato con Dio fino a che non era assoluto dal Papa, si accinse a trovare i mezzi di mettere in esecuzione il suo perverso disegno. Essendosi però confidato con più e diverse persone, e fra queste con Fra Serafino Banchi Domenicano Fiorentino stazionato di Convento a Parigi, il suddetto andò a rivelare al Re la cospirazione, contro la quale furono prese tali misure, che non ebbe veruno effetto, e l’autore della medesima fu nel dì 26. impiccato a Melun per sentenza del Parlamento. Giunta la notizia del fatto alla Romana Inquisizione, citò quella il Frate a comparire avanti a lei, come reo di aver salvata la vita a un Re non per anche riconosciuto Cattolico dalla Santa Sede, pretendendo che rilevato avesse il sigillo della Confessione. Spediti furono al Priore dei Domenicani suddetti i mandati di cattura per farlo trasportare cinto di catene in Avignone, e di là in Italia, e certo sarebbe rimasto quel religioso vittima della vendetta de nemici di Enrico, se S.M. non l’avesse animosamente sottratto di mano a suoi persecutori, e fattolo pervenire sicuro a Firenze sotto la protezione del surriferito Granduca suo Principe naturale, che vi impiegò tutta la sua fermezza ed autorità perchè non gli fosse insidiata la libertà e la vita, essendochè il S. Ufizio lo volea a forza nelle mani o vivo o morto. Riconciliato solennemente il Re Cristianissimo col Papa, una delle segrete condizioni del trattato fu quella di lasciar vivere tranquillamente il Padre Bianchi.([59])

L’universale ammirazione che pel mondo tutto, riscuoteva il Principe della rinascente Filosofia, l’immortal Galileo Galilei scuopritore di nove stelle, e di tanti sistemi bellissimi, suscitata avea contro di lui l’invidia di varj religiosi, ed in specie de Gesuiti, che mal volentieri soffrivano di vedersi contrastato quell’universale primato che pretendeano sulla filosofia, e sulle lettere. Unitisi in ciò con i Conventuali incominciarono a fargli la guerra prima occultamente, poi palesemente, e tanto fecero, che facil cosa gli fu trovare un alleato nella persona di Urbano VIII. il quale benchè nato suddito studiava tutte le occasioni di far de dispetti alla Casa de’ Medici, e nutriva una personale inimicizia e rivalità con Galileo, quantunque suo compatriotto, perchè sapea più di lui, che si stimava eccellente nella poesia, filosofia, ed erudizione, scienze delle quali S.S. appena sapeva il nome. Fra le vanità di questo Fiorentino successore di S. Pietro non era la minore di far sentire a tutti certi suoi meschini poetici componimenti fatti sullo stile male imitato del Petrarca, con tutto però il cattivo gusto che regnava verso la metà del secolo XVII. Gli fu fatto credere, che ne Dialoghi del prelodato Galileo sotto il nome di Simplicio indicata fosse la persona del Papa onde questo libro fu preso per arme contro di esso, e per oggetto delle perquisizioni del S. Ufizio, che volea avvilirlo ed infamarlo. Venne perciò nel 1632. citato a portarsi a Roma per render conto al Supremo Tribunale dell’Inquisizione delle sue proposizioni, e specialmente del moto della Terra intorno al Sole, che si volea contraria alle sacre Carte. L’intimazione notificata venne alla Corte perchè le fosse dato adempimento, e Cristina di Lorena, che ancora poteva molto nell’animo del Granduca Ferdinando II. suo Nipote poch’anzi uscito dalla sua tutela, lo persuase ad aver la debolezza di annuire alla richiesta del Papa, e dare in balia de’ suoi persecutori il più dotto fra suoi sudditi, e il migliore ornamento della Corte da cui era stipendiato. Il Ministro Andrea Cioli Cortonese poco amico del Galileo coronò l’opera. Nulla valse l’implorar clemenza, e impetrar proroghe; bisognò che il dì 20. Gennaio 1633. non ostante la sua età settuagenaria, e il rigore della stagione, partisse il filosofo dalla Patria, e si mettesse in viaggio per Roma, ove dall’Inquisizione fu costretto a ritrattarsi pubblicamente di quanto avea scritto per contentare i maligni, e potè ascrivere a gran fortuna se gli fu restituita la libertà di ritornare a terminare i suoi giorni ove era nato benchè coperto di avvilimento.

Sotto il Pontificato di Urbano VIII. il S. Ufizio in Toscana animato dal maltalento dei Barberini suoi Nipoti scosse affatto ogni soggezione, nè conobbe più limite alcuno, ed ostentando l’indipendenza esercitò senza ritegno il suo furore. Fede ne fa la strepitosa condanna, che apportò tanto scandolo all’Italia del Canonico Pandolfo Ricasoli, del Prete Jacopo Fantoni, e della Faustina Mainardi. Nato era il primo in Firenze nel 1581. dalla nobil Famiglia di tal Casato dei Baroni della Trappola. Ebbe gran possesso delle lingue Latina, Greca, ed Ebraica, co’ quali mezzi riuscì eccellente Oratore, Filosofo, e Teologo. Nell’età di anni 20. si fece Gesuita, e ne vestì l’abito in Roma, ma dopo il corso di 10. anni tornò a secolarizzarsi, non avendo ancora fatta la professione, e quindi conseguì un Canonicato nella Metropolitana Fiorentina. Scrisse molte opere parte ascetiche, altre di erudizione, fra le quali resta inedita quella, che porta il titolo: De Unitate et Trinitate Dei, Tomi III. ec. Era assiduo al coro, indefesso alla predicazione, applicato alle confessioni, e frequentante tutte le sacre adunanze, e specialmente quelle dirette dal venerabile Ippolito Galantini. Nell’età di anni 51. cadde infelicemente in un abisso d’empietà e di errori. Una certa Faustina Mainardi donna di bassa lega, tessitora di professione, si era data a ciò che si chiama spiritualità, e avea preso a formare con questo spirito una scuola di zitelle, che tenea seco in convitto in una casa di sua pertinenza in via Ghibellina. Fu egli eletto per direttore spirituale di questo Conservatorio, e benchè in un’età oramai superiore all’impero delle passioni, ivi trovò appoco appoco l’occasione del suo precipizio. La direzione oltrepassò i limiti della spiritualità, e fu abusato della religione per sedurre quelle innocenti colombe, dandosi ad esse ad intendere, che ogni atto il più lubrico potea esser meritorio purchè rettificato dall’intenzione di perfezionarsi nella via della salute. Da ciò ne nacque, che col libertinaggio il più sfrenato s’introdusse un pernicioso quietismo. Per meglio sostenersi in questo, non si sà se impostura o intima persuasione di spirito prevaricato, tirò nel suo partito il Padre Serafino Lupi dell’Ordine de’ Servi di Maria noto già per alcune opere di mistica Teologia, e il detto Prete Jacopo([60]) Fantoni. Prima che si scuoprisse durò la seduzione circa 8. anni, essendochè in questo tempo non tralasciò mai il Ricasoli i suoi favoriti studi, gli esercizi Ecclesiastici e la di lui esteriore compostezza.

Parimente in questo tempo fece il suo testamento in cui lasciò a titolo di legato la di lui insigne libreria a’ Religiosi Carmelitani Scalzi di S. Paolino in Firenze da esso frequentati continuamente ed amati, per lo studio profondo della Teologia e per la perizia di alcuni nelle lingue Orientali. Sparsasi la voce de’ suoi indecenti congressi ne fu data parte al Tribunale dell’Inquisizione. Allora o né([61]) fosse avvertito, o se nè accorgesse da per se stesso, entrato nel giusto timore del meritato gastigo andò spontaneamente ad accusarsi, confessò i suoi traviamenti, onde fu subito arrestato e posto nelle carceri, che il S. Ufizio durante Urbano VIII. avea nuovamente costruite, dove pure furono separatamente fatti condurre Faustina Mainardi e Jacopo Fantoni suoi compagni. Fatto il processo facil cosa si fu il convincere i rei ed i complici di tali eccessi, e quel che fa credere che egli avesse sovvertito il cuore, e non la mente, si è, che al primo costituto confessò di nuovo senza principio di ostinazione i suoi delitti, e ne ebbe tal contrizione, e dimostrò tali segni di sincero ravvedimento, che si meritò che gli fossero alquanto mitigati i meritati gastighi. Non fu la pena ingiustamente pronunziata a’ delinquenti ma il modo con cui venne presa la risoluzione dall’Inquisitore Fra Angiolo Muzzarelli da Fanano di rivelare al pubblico col maggior fasto ed apparato cose, che doveano essere assolutamente tenute celate. Nel dì 28. novembre dunque dell’anno 1641. nel vasto refettorio del Convento di S. Croce apparato al solito di nero in forma lugubre e ad uso di funerale, alla presenza del Cardinal Carlo e di tutti gli altri Principi di Casa Medici, Teologi, Religiosi, Nobiltà, e persone qualificate, furono esposti all’altrui vista i rei sopra un palco vestiti di cappe e sambeniti con diavoli, e fiamme, inginocchiati a piedi dell’Inquisitore. Un Religioso lesse dal pulpito ad alta voce il processo, e pronunziando quanto aveano i delinquenti confessato, la maggior parte dell’udienza se ne partì al sommo scandalizzata. Il Ricasoli venne dichiarato incorso a perpetua carcere con l’abito di penitenza, privato di tutti i benefizi Ecclesiastici e beni di qualsivoglia sorte, riservato quanto era bastante per supplire agli alimenti tanto di lui che di Faustina Mainardi sua complice, con quanto si trova in detta sentenza emanata dal sopraespresso Fra Giovanni Muzzarelli da Fanano sotto di 20. Novembre di detto anno, e che noi tralasciamo di riportare per brevità, e per non offendere la modestia. Questa, chi avesse piacere di vederla potrà trovarla nella celebre libreria Riccardiana alla scansia R. Ord. I.N. 46. All’istessa pena soggetto venne parimente condannato il Prete Jacopo Fantoni. Il Muzzarelli però da Roma venne acerbamente ripreso per aver usata troppa dolcezza e moderazione nella determinazione delle pene, e gli fu sostituito un successore di carattere più severo([62]).

Dispiacevano queste pubblicità infinitamente a Ferdinando II. ma egli a cui non si potea apporre altro difetto, che una soverchia prudenza, non volendo entrare in brighe con la Corte di Roma se ne restava in silenzio. Cosimo III. suo figliolo privo di quel genio che anima i Principi a meritarsi la vera gloria, adottate ciecamente tutte le massime Spagnuole, e affettando in tutti i suoi passi la santità, e la venerazione al Vaticano, dette all’Inquisizione un braccio più esteso di tutti i suoi antecessori. I Frati sotto il suo governo esercitarono un’illimitata autorità penetrando fino negli affari domestici de’ particolari, oltraggiandosi in tal guisa la libertà civile de popoli. Oltre la severità del Sant’Ufizio in materia di Fede, vi fu aggiunta un’Inquisizione sopra i costumi. Un Religioso Domenicano nativo di Volterra scorreva ogni anno con magnifico equipaggio, e plenipotenza per varie provincie del Granducato ad oggetto d’informarsi dell’osservanza della Religione, dei costumi de sudditi, e della quiete e tranquillità di ciascheduna Città subalterna, Terra, o Castello, proponendo al suo ritorno al Sovrano quelle riforme, che giudicava opportuno eseguirsi, e perseguitando tutti quelli che mostravano retinenza di sottoporsi al suo arbitrio. L’immunità Ecclesiastica era tenuta in maggior vigore che nell’istesso Stato Pontificio. Ma tutti questi atti di ossequio o per meglio di feudal soggezione, non liberarono Cosimo III. dalle vessazioni, e dalle contese con l’Inquisizione. In Siena essendo stati arrestati nel 1689. con armi proibite alcuni familiari del S. Ufizio, l’Inquisitore sdegnato fece affiggere pubblicamente i munitori contro i Ministri del Principe, e dimandò altamente la loro scarcerazione. Essendosi chiesta a Innocenzo XI. soddisfazione alla insultata Regia autorità, fu corrisposto dopo la sua morte, che seguì in quel tempo con la pretensione, che il Granduca facesse egli al contrario una riparazione per l’ingiuria fatta al Sacro Tribunale, e pubblicamente si veddero attaccare alla Porta di S. Pietro le citazioni, e detti Ministri intimati a comparire dentro un determinato numero di giorni in quella Capitale per giustificare le loro risoluzioni. L’alterigia del Granduca si scosse a sì strepitosa offesa, e superando per allora la devozione, gli fece mettere in opra la penna de suoi numerosi Teologi per provare la nullità delle Censure, e che senza scrupolo di coscienza si potea costringere a andar fuori dallo Stato l’arrogante Inquisitore. Intanto vennero affissi alle predette porte del Vaticano i cedoloni di scomunica contro i surriferiti ministri, onde allora il Cardinal Francesco de Medici fratello del Granduca perdette la pazienza e minacciò partirsi dal Conclave ove si era chiuso per l’elezione del nuovo Pontefice, che fu poi Alessandro VIII. Avendo egli un gran partito fra Cardinali ascoltate vennero le sue ragioni, e l’Inquisitore di Siena fu richiamato e passato il tutto sotto silenzio([63]).

Pochi anni avanti cioè nel dì 14. Aprile 1686. giorno della Pasqua di Resurrezione una donna alterata dal vino, essendosi introdotta sull’imbrunir della sera in una casa posta nella strada detta via delle Ruote, non avendo trovato alcuno per essere aperta la porta si pose accanto al fuoco per ripararsi dal freddo essendo in età avanzata e alquanto debole di mente. Quivi stette fino all’ore 5. di notte allora quando ritornati i padroni, e veduta una tal donna vecchia e di brutto aspetto, che timida e quasi ascosa se ne stava in un canto del cammino, credettero che si fosse calata per la gola di quello, onde levarono gran rumore chiamandola strega, e facendole ruzzolare la scala. Accorsero i vicini allo strepito, e veduta tremante quella misera donna ne avvisarono la giustizia, che subito la pose in carcere previo il consenso dell’Inquisitore. Tanto però fu nell’atto della carcerazione strapazzata e percossa, che allora quando la mattina al tardi le fu dal carceriere portato il cibo, acciò si refocillasse prima di esser trasferita alle prigioni del Sant’Ufizio, fu ritrovata priva miseramente di vita. Il cadavere dopo essere stato esposto al pubblico disprezzo venne portato a seppellirsi lungo le mura della Città in luogo non sacro. Dopo alquanto tempo venuto l’affare alla cognizione di Monsignore Arcivescovo, poi Cardinal Morigia Milanese, fatti gli opportuni esami si trovò, che la detta donna non era strega altrimenti, ma piuttosto scema di cervello, onde fu ordinata una pubblica riparazione all’onore della defunta coll’esser pubblicamente dissotterata, e condotta ad essere umata in luogo sacro, tanto ancora potea nelle menti degli uomini la credulità e il fanatismo. Nel dì 27. Febbraio 1695. fu creduto che un tal Jacopo Balestri di nascita vilissima e abietta educazione, di professione tessitore di seta eccellente nella sua arte, fosse un Eresiarca peggiore di Lutero, e Calvino, benchè non sapesse nè leggere nè scrivere, onde per essere addetto a qualche autorevole Personaggio, ebbe a contare per somma grazia il poter far l’abiura privata di quelli errori di domma, che egli assolutamente non conosceva, avanti il Padre Inquisitor nella così detta Compagnia de’ Tessitori, e soffrir poi dieci anni di occulta prigionìa nelle carceri del S. Ufizio come ateista, essendogli stato fatto credere, che il costituirsi in esse non era che una semplice formalità. Nel dì 13. Maggio 1670. il nobile Alessandro Martini Fiorentino fu astretto parimente a far l’abiura de’ suoi errori avanti l’Inquisizione, a cui fu accusato di servirsi dei passi della Sacra Scrittura per sedurre gli animi incauti e deboli, e abitando sempre in villa avere sparse delle massime simili a quelle del Prete Michele Molinos Spagnuolo condannato poch’anzi dalla Romana Congregazione del S. Ufizio, per giungere a suoi illeciti fini per mezzo della perfida ipocrisia, vizio orribile che era in gran voga a que’ tempi. Egli fu sentenziato a perpetua carcere ove morì 10. anni dopo.

Nel dì 15. Agosto di detto anno fu fatto prigione da famigli dell’Arcivescovado Fiorentino, e condotto nelle carceri dell’Inquisizione un Sacerdote di Casa Salvini uomo di ottima reputazione, e Confessore([64]) attualmente delle Monache di S. Matteo in Arcetri. Venne egli dichiarato reo di confessione rivelata per avere eccitata la Badessa di quel Monastero a far mettere fuori da una Monaca servente, che era in concetto di santa vita, una corrispondenza di lettere mistiche tenuta per molto tempo col Padre Gabburri Cappuccino, della qual corrispondenza scrupoleggiando si era accusata in confessione. Dopo molto tempo, il detto Prete per ordine del Cardinale Arcivescovo Morigia fu trasportato a Roma, ove restò condannato a dieci anni di ergastolo ne mai più rivedde la Toscana. Nel dì 19. Ottobre fu pure arrestato e condotto nelle carceri del S. Ufizio il Canonico Vanni della Laurenziana Basilica sospetto disseminatore di massime ereticali date fuori in una sua piccola opera intitolata i Barlumi. Molti autorevoli personaggi a quali era cognita la di lui integrità di mente, s’interposero per salvarlo dai rigori dell’Inquisizione, ed in specie il Marchese Francesco Riccardi, che ebbe modo di far portar la sua Causa a Roma. Terminati 16. mesi di penosa prigionia fu lasciato in libertà, senza che però pubblicamente costasse di sua innocenza([65]). Morto poi nel 1723. Cosimo III., il Granduca Gio. Gastone suo figlio che non professava tanto ossequio e deferenza a Religiosi come il padre, procurò prudentemente, che meno pubbliche e clamorose fossero le sentenze dell’Inquisizione, senza però apparentemente attentare alla diminuzione dell’autorità che si era arrogata in Toscana, e lasciando in qualunque luogo nell’istessa situazione in cui gli avea trovati quando salì sul trono, gli Inquisitori e i loro Vicari. Uno dei più belli ingegni, che fiorissero sulla fine del suo regno, cioè il Dottor Tommaso Crudeli da Poppi, celebre poeta dotato di somma lepidezza e leggiadri talenti, ma non fornito di quella necessaria prudenza, che insegna a non esternare soverchiamente i propri sentimenti e pensieri, fu lo scopo della vendetta dell’Inquisizione armata dal potere. Avendo egli in un suo poetico componimento recitato la morte del celebre Senator Filippo Buonarroti Segretario della Regia Giurisdizione, usata l’espressione, Ei che frenar solea, il tempestoso procellar del Clero ec., una tal frase non gli fu mai perdonata, e in fatti non molto dopo fu posto nelle carceri del S. Ufizio, quale ateista e uomo di niuna Religione, come vedrassi dall’annesso fatto che corredato degli opportuni autentici documenti, si riporta come troppo importante al nostro soggetto, appiè dell’Opera. Quest’avvenimento, (e l’altro accaduto in Siena contemporaneamente di Fra Cimino Cancelliere dell’Inquisitore Padre Pesenti allora assente, che amato da bella matrona moglie di un mercante di cera, non potendo come era solito frequentarne la casa, stante le gelose insinuazioni che fatte aveano al di lei marito gli amanti di due sue figlie, lo fece arrestare da suoi famigliari, e ritenere con uno de giovani sposi nelle carceri del S. Ufizio, ove più volte percossi vennero da uomini vestiti da diavoli, inputandoseli il delitto di essere spiriti forti;) produsse l’effetto, che il Conte Emanuelle di Richecourt saggio e spregiudicato Ministro Capo della Reggenza di Toscana, istituita dal nuovo Granduca, poi Imperatore Augusto FRANCESCO STEFANO di Lorena, portossi nel 1744. in persona ad aprir le carceri dell’Inquisizione, e ne sospese l’esercizio dell’autorità per tutto lo Stato. Dipoi nel 1754. nella convenzione fissata con la Corte di Roma in occasione di riaprirsi la Nunziatura di Firenze, restata chiusa per dieci anni dopo la partenza di Monsignore Archinto, rimase accordato con Benedetto XIV. d’immortal memoria, che l’Inquisizione di Toscana fosse rimessa sull’esempio di quella di Venezia.

In aumento di quanto si è detto di sopra su tale articolo fa d’uopo osservare che a norma degli ultimi regolamenti emanati in Venezia nel 1767. non può colà il Santo Ufizio far cosa alcuna senza il consenso di tre Senatori, che assistono a nome del Principe a tutte le sue deliberazioni. Non vi succede cosa alcuna di cui il Senato non sia pienamente informato. Gl’Inquisitori non possono neppure citare, sentire un testimonio, o fare il minimo atto sotto pena di nullità, se non in presenza di questi tre Senatori, in vigore del concordato fatto nel 1551. fra Giulio III. del Monte, e la Repubblica; trattato più volte rinnovato, e a cui giammai non si è in veruna maniera derogato. L’autorità di detti assistenti è tanto più grande in quanto possono, quando lo giudicano a proposito, sospendere le deliberazioni dell’Inquisitore, arrestare l’esecuzione delle sue sentenze, non solamente allorchè son giudicate contrarie alle leggi e a costumi dello Stato, ma ancora quando essi hanno degli ordini o istruzioni particolari dal Senato. Ciò li rende assolutamente dispotici e Giudici del Tribunale in tutte le cause, che riguardano sì gli Ecclesiastici, che i Secolari, poichè a Venezia l’eresìa, o qualunque altro delitto contro la Religione è riguardato, come interessante la Chiesa e lo Stato. I Signori Assistenti invigilano inoltre attentamente, che gl’Inquisitori non pubblichino, e non mettano in esecuzione alcuna Bolla tanto nuova che vecchia, se prima non è stata approvata dal Senato, e che si limitino esattamente a sei articoli, che sono loro riserbati dalle leggi veglianti, cioè: I. Gli Eretici e quelli che gli conoscono e non li denunziano. II. Quelli che tengono assemblee o conferenze in pregiudizio alla Religione. III. Quelli che colle loro bestemmie danno luogo di credere di esser caduti in qualche errore contro la Fede. IV. Quelli che celebrano la Messa, o amministrano i Sacramenti senza essere Sacerdoti. V. Quelli che si oppongono all’autorità dell’Inquisizione, e ne impediscono per quanto possono l’esercizio. VI. Quelli che stampano, vendono, o spacciano i libri manifestamente eretici. Ha l’Inquisizione il diritto di esaminare gli affari solamente sù questi punti. Il Senato si è riserbato ciò che riguarda gli Ebrei, i Greci, li Scismatici che hanno stabilimenti ne’ suoi Stati, dove li vien permesso vivere secondo il loro Rito; l’esame di tutti i libri fuori di quelli specialmente riserbati al S. Ufizio; le usure, e quelli che in disprezzo delle leggi della Chiesa per avidità o per altro motivo vendessero carni pubblicamente in tempi e giorni vietati. Tutti questi delitti che sono ugualmente contro la polizia, e la Religione appartengono a Tribunali Secolari. Oltre di questo in virtù di un Editto del Consiglio de’ Dieci del 1568. fu stabilito, che i beni confiscati addetti alle persone condannate dall’Inquisizione passino a loro legittimi eredi, a condizione di non renderli al colpevole, onde l’Inquisizione ha pochissimo interesse di esercitare la sua giurisdizione sù questo punto([66]).

In Firenze nel detto anno 1754. si convenne che il S. Ufizio fosse composto dell’Inquisitore Minor Conventuale, e suo Vicario, e ne le Congregazioni intervenissero l’Arcivescovo, Locale e il Nunzio con tre Consultori, e tre Deputati assistenti Secolari rappresentanti la persona del Principe a cui si dovesse stare pel’ voto decisivo. Su questo piede appresso a poco si è mantenuta l’Inquisizione fino alla metà del corrente anno 1782., essendo Inquisitore il P. Maestro Antonio Nenci, quando è piaciuto al Regnante Granduca PIETRO LEOPOLDO I. Totalmente abolirla per le ragioni che espresse sono nel seguente graziosissimo Editto.

 

PIETRO LEOPOLDO ec. ec.

Sapendo Noi esser’ un preciso dovere inseparabile dalla Sovranità il far’ uso dei mezzi, che ci somministra la Potestà Suprema per mantenere e difendere la Nostra Santa Religione nella sua purità, ci siamo determinati a ponderare con la debita maturità i diritti del Tribunale del Sant’Ufizio, ed i provvedimenti ordinati in diversi tempi nei nostri felicissimi Stati per contenere i suoi Ministri dentro quei limiti, che sono prescritti dal vero zelo, e dall’esempio dei primi secoli della Chiesa, nei quali anzichè la punizione, si cercava con la mansuetudine, e la carità ricondurre nel seno della Santa Fede chiunque aveva la disgrazia di traviare.

Abbiamo dovuto rilevare, che se la Chiesa dopo dodici secoli credè espediente di sospendere in qualche parte questa santa dolcezza, e creare dei Tribunali con Leggi di non più usato rigore, quali non potevano convenire ai Vescovi, dalla cui giurisdizione furono per ciò separate le Cause di Fede, vi potè essere costretta da cagioni affatto straordinarie, e dalla infelicità dei tempi.

Cessate queste cagioni, le quali potevano persuadere a tollerare un male per riparo ad un male maggiore, la maggior parte dei Governi ha provveduto alla pubblica quiete con l’abolizione del Tribunale del S. Ufizio, o con la moderazione delle sue leggi, e della sua costituzione.

Relativamente ad ogni altro provvedimento ci troviamo nel dovere di riconoscere la massima prudenza, ed efficacia in quello che piacque al Nostro Augustissimo Genitore di gloriosa memoria di stabilire nel 1745., dal qual tempo più non si sono provate in Toscana le irregolarità, e le prepotenze degl’Inquisitori non rare in avanti.

Ma riflettendo che i Tribunali del S. Ufizio sono ormai inutili nel GranDucato, che i soli Vescovi hanno ricevuto da Dio il Sacro Deposito della Fede, che fa ad essi un torto il dividere con altri la porzione più gelosa della loro potestà, e che essi saranno tanto più impegnati ad usarne con la maggior vigilanza quando siano soli a risponderne a Dio, ed al Sovrano.

Perciò abbiamo determinato di abolire intieramente, come di fatto con la pienezza della Nostra Suprema, ed assoluta Potestà, abolischiamo, ed annulliamo nei Nostri felicissimi Stati il Tribunale dell’Inquisizione, Ordinando.

Che contemporaneamente alla pubblicazione del presente Regio Editto cessino negli Inquisitori, e loro Cancellieri, nei Vicarj Foranei, ed in qualunque altro Ministro del S. Ufizio tutte le facoltà, l’esercizio delle quali è a Noi piaciuto di tollerare fin’ ora.

Che tolta immediatamente, e demolita sopra le Porte esterne dei quartieri degli Inquisitori di Firenze, Siena, e Pisa; ogni e qualunque iscrizione, titolo, o altro contrassegno denotante esservi stata una volta la sede dell’Inquisizione, si incorporino i detti quartieri, e si includano nella clausura dei rispettivi Conventi, sicchè ai medesimi non possa aversi accesso d’altronde che dalla porta comune agli altri Religiosi.

Che dal Magistrato Supremo in Firenze, dall’Auditore del Governo in Siena, e dagli Auditori Vicarj in Pisa, e Livorno si prenda in nome Nostro il possesso di tutti i Beni mobili, ed immobili del S. Ufizio.

Che debbano immediatamente gli Inquisitori, e qualunque altro Ministro, o Vicario Foraneo, per quanto temono la Nostra Reale indignazione, consegnare ai rispettivi Vescovi gli Archivi, gli Atti, e Processi, e qualunque altro foglio, che in qualunque modo appartenga al loro abolito Ministero, ritirandone il debito riscontro, quale saranno solleciti di rimettere all’Auditore Segretario del Regio Diritto.

Che i Fondi, e le Rendite che ha possedute, o sono state assegnate in Toscana al S. Ufizio siano attribuite ed erogate in sussidio delle Parrocchie bisognose di resarcimenti, o di aumento di congrua.

Che sia intieramente reintegrato l’Episcopato dell’usurpata cognizione delle Cause di Fede, e le Processure delle medesime non debbano in quanto alla forma, ed alla sostanza in minima parte differire da quella, che di ragione si osserva in tutte le altre cause Ecclesiastiche criminali.

Vogliamo confidare, siccome confidiamo, che i Vescovi si faranno spontaneamente una legge di rendersi presente, che talvolta lo strepito di un Processo, e di una Condanna produce più scandalo di un’errore passeggiero; che molto più giovano all’emenda del reo, ed all’edificazione degli altri le ammonizioni, le esortazioni, e tutto ciò che saprà loro suggerire quella pastorale moderazione, e carità, che anche per esempio degli altri, sono in dovere di professare; ma qualora le circostanze dei casi esigessero, che si proceda al rigore, e che sia fatto uso del braccio secolare, sempre che a Noi faranno costare della sperimentata insufficienza dei mezzi indicati di sopra, Ci crederemo in obbligo di accordarlo.

Tale è la Nostra volontà, la quale comandiamo, che sia inviolabilmente osservata, derogando con la pienezza della Nostra Sovrana Potestà a qualunque Legge, Ordine, Consuetudine, e Privilegio in qualunque modo contrario alle presenti nostre disposizioni.

 

Dato li 5. Luglio 1782.


Lettera scritta dall’Auditor Segretario del regio Diritto

al Provinciale dei Minori conventuali il dì 9. Luglio 1782

 

Essendo stato abolito il Tribunale dell’Inquisizione, resta tolta la proibizione che vegliava per i Religiosi, che aveano servito come Inquisitori, Vicarj o Cancellieri di ottenere qualunque Carica dell’Ordine in Toscana.

Dovrà altresì esser tolta ogni qualificazione e distinzione che i Religiosi frati Ministri del S. Ufizio avessero goduto nell’Ordine per questo titolo dell’Inquisizione, con l’abolizione della quale restano aboliti anche tutti i diritti acquistati dipendentemente dalla medesima da detti Inquisitori, Vicarj, Cancellieri, e Vicarj Foranei nell’Ordine loro, onde tutti gli effetti siano sottoposti ai loro ordinarj Superiori, e siano obbligati all’osservanza della regola come ogni altro delle loro Religiose Famiglie.

Nel termine al più di 8. giorni dovranno i Frati impiegati attualmente nell’Inquisizione aver rimesso ai respettivi Ordinari tutte le Carte spettanti a quel Tribunale, e dentro 15. giorni dovranno esser mutati in altro dal Convento nel quale erano impiegati come Inquisitori, Vicarj, e Cancellieri, e non potranno essere rimandati nei Conventi stessi che dopo due anni.

 

 

 

 

 

 


RELAZIONE([67])

 

Della carcerazione del Dottor Tommaso Crudeli di Poppi, e della processura

formata contro di lui nel Tribunale del S. Ufizio di Firenze l’anno 1739.

 

La notte del dì 9. Maggio 1739. fu arrestato e condotto al Tribunale della Sacra Inquisizione di Firenze il Dottore Tommaso Crudeli di Poppi, dove ricevuto dal Padre Inquisitore, e Padre Vicario del S. Ufizio, espose tosto a medesimi le gravi sue indisposizioni, per le quali averebbe poco tempo potuto sopravivere, ma senza che si avesse uno special riguardo alla pessima costituzione del suo corpo, che attese le forti e frequenti strettezze di petto, a le quali da lungo tempo era sottoposto, più che tutt’altro aveva bisogno d’abitare una stanza non molto angusta, ed ariosa per agevolargli il respiro. Gli promisero i Padri tutta l’assistenza possibile, e trattarlo con quella carità, che è degna di tutti i Cattolici, e massime de’ Religiosi, dargli un’ottima carcere, nella quale averebbe potuto vivere con tutto il comodo immaginabile; in ordine a questa promessa fu posto il Crudeli in una carcere segreta, lunga sei passi in circa di figura triangolare come quella, che era stata cavata in un angolo di un’altra stanza, ove era un piccolo, e mal fornito lettuccio posto presso a un luogo, che per non avere alcuno sfogo esalava un gravissimo cattivo odore, che infettava l’aria di quella piccola segrete, punto atta respirarsi da qualunque robusto uomo, non che dal Crudeli, il quale come è noto a tutti, era di un gracile temperamento, emaciato per le continove malattie che soffriva, e particolarmente da un’asma convulsiva, la quale ancorchè vivesse per l’avanti agiatamente, e con ogni riguardo, l’aveva alcune volte con tal violenza attaccato, da far temere i Medici che lo curavano della sua vita; piombava la luce nella detta segrete da un angusta feritoia, che riesciva in un andito, che riceveva la medesima da una finestra di un cortile posta sotto un doppio ordine di tetti, muniti ambedue di una gronda non poco sporgente in fuora; l’angustia di detto ingresso, che impediva all’aria di poter passare con libertà, e che solamente permetteva che s’introducesse uno stracco, e debole filo di luce, e il non avere alcuna apertura la detta segrete, impediva all’aria di potersi rinnovare, e cagionava in essa quell’umidità, la quale siccome dopo breve tempo macera irreparabilmente i corpi umani, così mantiene vegeti quelli delle tarantole, ragni, e scorpioni, de’ quali le pareti della medesima erano copiosamente adornate.

 Il Fratello del carcerato morso da quella pietà, che sogliono risentire tutti gli uomini, e particolarmente i congiunti degli oppressi ed afflitti, fece qualche istanza al Governo Secolare perchè gli fosse mutata la prigione per riguardo almeno alle di lui frequenti malattie, e su tal reflesso fu impetrato dopo trentasei giorni dalla sua cattura, che fosse posto in altra stanza alquanto migliore.

Voleva il Santo Tribunale assicurarsi di quest’uomo spacciato ancor prima d’averne alcun ragionevole riscontro per un Eresiarca, che come disse l’istesso Padre Inquisitore, costava tanto alla Chiesa, perciò fu ordinato porsi alla ferrata della prigione, dove era stato stabilito doversi trasportare, un riparo di legno per la parte esteriore di essa, atto più a togliere l’aria, e la luce, che da quello impedita non poteva scendere nella carcere se non per una piccola fessura, che ad impedire la fuga di esso, quando l’avesse potuta, o voluta tentare, e terminata in breve tempo la detta macchina, cioè apposto alla finestra il detto riparo, i Padri del S. Tribunale dissero, che tre soli giorni dopo il suo arresto avevano mutata la carcere al Crudeli, quando la verità è, che per lo spazio di trentasei giorni fu tenuto a macerarsi nella detta pessima segrete dove l’avevano posto da principio.

Trasferito in tanto nella nuova prigione ed avvisato il di lui Fratello, che facesse portare il proprio letto del Carcerato, onde potesse più liberamente prender riposo, siccome nel riceverlo fu osservato esservi le panchette di ferro, così il P. Inquisitore, che non voleva la morte del peccatore, ma che si convertisse e vivesse, sul dubbio, che colle medesime potesse torgli la vita, glie le convertì in altra di legno, materia quanto meno atta ad uccidersi, tanto più propria a generare e nutrire una certa specie d’insetti, quali sì per il loro cattivo odore, sì per le nojose loro punture inquietarono molto quell’infelice.

Frattanto non aveva egli libertà di poter vedere alcuna persona, e neppure il proprio fratello, col quale aveva necessità di parlare per ragione di molti interessi, e particolarmente per alcune liti a loro comuni, delle quali, avendone egli avuta la direzione, non sapevano i di lui congiunti le più importanti notizie, cosa che in sì fatti casi colle dovute cautele non suol negarsi da alcun Tribunale.

Non solamente non era a lui permesso di scrivere a veruno, ma neppure alcuna cosa per semplice suo trattenimento, essendo inoltre stato tenuto e la sera, e la notte per lo spazio d’interi sei mesi senza alcuna luce artificiale, quantunque non cessasse di chiederla, non solo per alleggerirsi l’orrore del carcere, ma ancora perchè questa gli giovasse negli attacchi dell’asma, che frequentemente l’incomodavano, come aveva più volte sperimentato; ma lo zelo inflessibile de’ Religiosi non si lasciò mai piegare nè dalle umili preci di esso, nè dalle raccomandazioni procurateli da suo fratello, ne da di lui gravi incomodi, onde ne seguì, che non ostante la regola universale, che la carcere prima che alcuno sia convinto di delitto debbi essere per sicurezza, e non per tormento, sicchè non si dia la pena dove non è certa la colpa, gli convenne soffrire tutti i disagi che porta seco la lunghezza della più nojosa, e crudele prigionia, non per alcun suo privato delitto, ma solamente perchè i Padri del S. Tribunale per fini soltanto ad essi noti avevano stabilita la di lui rovina.

Non lasciava però il solo Padre Vicario di andare di tempo in tempo a visitare il Crudeli, e di fargli le più vive dichiarazioni di amicizia ostentando pietà della sua disgrazia, ed assicurandolo di ogni assistenza, sì perchè gli fosse amministrata pronta e retta giustizia, sì perchè gli fusse usata dall’innata clemenza del Padre Inquisitore ogni agevolezza atteso lo stato deplorabile della sua sanità, di che il povero carcerato se gli protestava al sommo obbligato, e lo pregava a procurargli la spedizione della sua causa, e quindi a essere esaminato, non potendo capire la cagione dell’indugio in un Tribunale, che avea in uso di non arrestare il preteso reo, se non dopo compilato il processo, e provati concludentemente i di lui delitti. L’amico Padre Vicario gli prometteva d’interporre la sua mediazione per la spedizione della di lui causa, e glie ne dava vicine le speranze, ma per lo spazio di tre mesi non se ne vidde effetto veruno, solo che entrato un giorno il detto Padre Vicario nella prigione del Crudeli, disse al medesimo, che gli era riuscito d’indurre l’Inquisitore a degnarsi di ricevere da lui un biglietto, onde gli averebbe portato tutto il bisognevole per poterlo scrivere, e che in esso averebbe potuto chiedere la tanto bramata grazia di essere esaminato; questa promessa gli fu più volte dal Padre Vicario replicata, ma non mai attesa, se non che dopo molto tempo gli disse, che gli aveva impetrato un abboccamento con Sua Paternità Reverendissima, onde in tal congiuntura potesse chiedergli da se stesso quel tanto, che avesse giudicato essergli vantaggioso; in fatti fu condotto il carcerato nella Cappella del S. Ufizio, luogo del quale si serve il Tribunale per esaminare, dove invece d’abboccarsi strajudicialmente col Padre Reverendissimo, come gli era stato falsamente promesso, fu formalmente esaminato sopra la Società de’ Liberi Muratori, e gli furono fatte quarantatrè interrogazioni, nessuna delle quali fu scritta, quantunque egli chiedesse colla maggiore efficacia, che tutto fosse registrato dal Cancelliere secondo i principj di ogni Canonica e Civil ragione, e secondo la consuetudine del S. Ufizio, e di tutti i Tribunali, ne’ quali non il capriccio, ma l’ordine della giustizia s’abbia in veduta, adducendo egli inutilmente i Canoni, le Bolle de’ Santi Pontefici, e le leggi, che ciò prescrivono, al che non altro gli fu risposto dal Padre Inquisitore, se non che tutto era fatto per suo vantaggio, poichè era molto più per giovargli una confessione spontanea che un’esposizione del fatto ricavata da lui per via di un esame formale, ed in fatti alla testa di tutto questo esame fu posto il titolo di spontanea confessione; con questo nuovo irregolar metodo di procedere venne trasformato il costituto fatto al Crudeli in un’Istoria supposta fatta da lui, la lettura della quale fa per altro in moltissimi luoghi vedere, che ella non è altro, che una catena di risposte date alle diverse domande del Processante.

Dopo questo costituto non mancò il Padre Vicario di fare più frequenti visite al carcerato sotto la solita ostentazione di amorevolezza, e di pietà, che diceva di sentire per la sua disgrazia, ma in verità per vedere d’indurre a confessare tuttociò, che si faceva, e si diceva nella Società de’ Liberi Muratori, supponendo che vi si trattassero cose di Religione, come hanno sempre erroneamente creduto, o almeno mostrato di credere i Padri del S. Ufizio, i quali è certo, che fino dal 1736. fecero infinite ricerche in questo proposito, e fino d’allora presero di mira il Crudeli come uno di detta Società, le quali ricerche poi dettero causa di falso insorto romore, che vi fussero in Toscana trentamila eretici sotto il nome di Liberi Muratori.

Il Carcerato, che sapeva benissimo non esservi in quella la minima cosa che potesse interessare il Tribunale del S. Ufizio, non altro poteva rispondere, che quando fosse stato Membro di quella non poteva essere gastigato, non essendo ciò nè contro l’onore d’Iddio, nè contro le leggi della Chiesa, e che ne sperava, che il Tribunale della S. Inquisizione sarebbe venuto in chiaro, mediante le giuste notizie che ne potevano avere, ma il Padre Vicario gli replicò, che non poteva sapere quali notizie avesse il S. Ufizio di sì fatta Società, e che riflettesse, che era stata emanata da Clemente XII. una bolla contro di essa, e però si risolvesse a palesare tuttociò, che era nell’Istituto de’ Liberi Muratori, i nomi de’ Soci, e quello del Protettore, assicurandolo che poteva mentovare senza alcun timore ogni genere di persone di qualunque rango, e condizione si fossero, ancorchè Principi, poichè quanto si diceva in quel Tribunale era occulto per sempre, aggiungendo, che lo scoprire la verità averebbe molto cooperato alla sua pronta liberazione, offerendogli per sì fatto modo una specie d’impunità; il Carcerato rispose a tutte le questioni di tal natura fattegli frequentemente in occasione delle visite del Padre Vicario, che aveva detta la mera verità, alla quale non aveva che aggiungere, pregandolo instantemente di stimolare l’Inquisitore a spedire la sua causa, che così sarebbe venuta in chiaro la sua innocenza, e la calunnia de’ suoi avversari.

Un mese dopo il primo suo costituto, e quattro dopo il suo arresto venne di nuovo esaminato il Crudeli, e gli furono contestati varj mostruosi delitti da lui supposti commessi in casa del Barone Stoch, de’ quali si pretendeva accusato da N.N. (a cui per via di un indegno maneggio del suo Confessore, e di mille suggestioni, e minacce de’ PP. Del S. Ufizio, i quali contarono sulla di lui notoria stolidità, s’era maliziosamente fatto deporre, che egli era stato introdotto in casa di detto Stoch, ove si pretendea che si adunasse la Società de’ Liberi Muratori, a cui disse di essere stato ammesso, e in cui aggiunse essere, ed avervi veduto il Crudeli, e che nelle sognate adunanze di essa Società si facevano e dicevano cose enormi contro la Religione e contro il Governo, fingendo quelle a capriccio, ed ascrivendo a detta Società un gran numero di scelte persone, cioè tutte quelle nominate, ed a lui suggerite da chi l’esaminava, contro le quali voleva intentarsi una ingiustissima persecuzione.) Ciò era tutta impostura, poichè in casa di Stoch non s’era mai tenuta tale adunanza, e il detto...., non era mai stato nella prefata casa, nè egli, nè la massima parte delle persone fattegli nominare, molte delle quali si sapea essere non amiche di Stoch, e fra queste il Crudeli. Dopo di ciò gli fu detto dal Padre Inquisitore che non poteva ammetterlo prontamente alle difese per dovere attendere l’ordine di Roma, ma che frattanto averebbe insistito per la spedizione della sua causa.

Seguito questo nuovo esame rinforzò il Padre Vicario le familiari sue visite al carcerato, sempre sotto l’istesso colore di compassione, e di amicizia, ma in fatti non per altro, che per persuaderlo a confessare secondo ciò che pretendeva il S. Ufizio, la supposta Società de’ Liberi Muratori in casa Stoch, e quello che sembra ancora più strano, arrivò fino a promettergli la libertà, se vero o falso che fosse, avesse confermato col suo deposto ciò che era stato detto, o piuttosto fatto dire al......., avendo avuta l’imprudenza di dirgli chiaramente, che non sarebbe escito dalle carceri del S. Ufizio, fino a che non avesse confessata in tutte le sue parti per vera l’ideale adunanza supposta dal detto...... Non ostante tutti questi maneggiati persistè sempre l’inquisito nel suo proposito di non tradire la verità, e se medesimo, ne altro chiese al P. Vicario, che la sua interposizione per ottenere le difese, colle quali s’assicurava, che averebbe messo in chiaro la calunnia e la pazzia de’ querelanti, e la falsità dei supposti testimoni, che avevano deposto di questa immaginaria Assemblea. Ma consapevoli il Padre Vicario e il Padre Inquisitore di qual metodo s’erano serviti per opprimere questo infelice, e molte persone per rango e per merito assai rispettabili, procurarono sempre di operare in maniera colla Sacra Congregazione in Roma, che fosse ritardato l’ordine di ammettere alle difese l’inquisito, per cercare intanto nuovi illegittimi mezzi, onde tirare a fine la loro meditata impresa, vedendo di non avere ancora in mano con che venire a capo di quella, mentre sapevano che il deposto di uno de’ due singolari testimoni, sopra del quale fondavasi la loro calunnia, era stato suggestivamente estorto per via di minacce abusandosi della stolidità del Testimone, nota alla Città di Firenze, e che il deposto dell’altro Testimone, col quale pretesero di ammenicolare il primo, era stato scritto gratuitamente dal loro Cancelliere, ma non proferito dal Testimone, come fu chiaramente provato da un breve Processo difeso a Livorno dal celebre Auditore, allora Avvocato Querci, che ne aveva avuta la commissione dal Governo, dal qual Processo resulta, che egli non aveva mai deposto avanti al Padre Inquisitore di alcuna di quelle proposizioni contestate al Crudeli, ne averebbe potuto farlo, perchè non s’era mai trovato con lui in casa di Stoch, onde rovinando la base sopra la quale i Padri avevano appoggiata questa loro male architettata macchina, dubitarono che il carcerato colle sue difese, non solo averebbe fatto costare che esso non andava in casa Stoch di cui non era amico, ma che la detta mal supposta Assemblea non era altro, che un inventata favola de’ Padri del S. Ufizio colorita con gli estorti suggestivi, ed alterati deposti de’ mentovati due Testimoni([68]), e in tal guisa non averebbero potuto ottenere il loro intento di rovinare per sempre quest’infelice, e di passare sull’istesso piede alla rovina degli altri.

In fatti furono fatte minutissime ricerche in Firenze, ed in Poppi Patria del carcerato sopra i di lui costumi, sopra il concetto che si aveva di esso, se frequentava le Chiese, se s’inginocchiava al suono dell’Ave Maria della sera, o del mezzo giorno, ed in specie ricercarono a molte persone, se gli avevano sentito dire, che la Santissima Eucaristia non era, che una cialda, la quale proposizione non essendogli mai stata contestata, è un manifesto segno, che non era stato querelato, e che però non si poteva secondo le regole del Tribunale medesimo del S. Ufizio farsene a capriccio alcuna ricerca; ma chi avea fatto il primo passo falso si credette in impegno, per non soffrire il rossore di essersi ingannato, o di avere maliziosamente tentato con vergognosi mezzi l’oppressione di un innocente, di farne degli altri, onde venire a fine del mal concepito disegno.

Non cessava intanto l’infelice Dottore Crudeli di pregare il Padre Vicario in occasione delle solite cortesi visite, delle quali bene spesso veniva onorato, acciò gli fossero assegnate le difese, parendogli impossibile, che un Tribunale come quello della Sacra Inquisizione, che Santo si chiamava, volesse ritardargli le difese senza alcun giusto apparente motivo, quando effettivamente [il]([69]) Padre Inquisitore non avesse frapposto qualche difficoltà, al che non s’astenne di rispondere una volta al Padre Vicario, che a suo tempo gli sarebbero state assegnate, ma che il Tribunale non aveva fretta; dall’altra parte non cessava il suo fratello d’interporre tutti i mezzi più efficaci appresso l’Inquisitore, perchè mosso una volta dalle indisposizioni e da disastri, che soffriva il carcerato gli avesse finalmente conceduta la sospirata grazia di potersi difendere; avendolo più e più volte anche da per se stesso richiesto di quest’atto di giustizia, che da tutte le Divine Leggi, ed umane viene a rei ordinato accordarsi con tutta l’immaginabile prontezza, ma ne riportò sempre ottime parole, rispondendo, che la ragione dell’indugio derivava da Roma, con aggiungere che neppure detto Inquisitore poteva capire, come nella causa di questo carcerato non si fosse conservato l’ordine consueto, ma si fosse contro ogni regola in moltissime circostanze alterato, mentre per altra via si sapeva, come l’Inquisitore studiava nel tempo medesimo tutti i modi per mandare in lungo la causa, ed usava ogni arte per trovare nuova cagione di ritardare le difese dell’Inquisito, quali date una volta che fossero ben prevedeva, che si sarebbe fatta conoscere al Mondo l’innocenza del Crudeli, e la propria e l’altrui malvagità, dimodochè vedendo il detto suo fratello, che nulla poteva concludersi col ricorrere al Tribunale dell’Inquisizione di Firenze, si risolvè di scrivere come fece ad alcuni suoi amici a Roma, perchè eleggessero un Avvocato, che sollecitasse appresso la Sacra Congregazione la spedizione di questa causa, mandando a tal’ effetto lettere di cambio per sodisfare il medesimo, ma nulla pure giovando questa ulteriore diligenza, argomentando da ciò, che con aver chiusi tutti i passi, avessero i Padri del S. Ufizio irreparabilmente stabilita la rovina del suo fratello, studiando di recare a lui quell’aiuto maggiore che in tali angustie poteva, pensò e potè trovare la via di fargli avere una corda, la quale poteva il carcerato senza essere veduto, calare ogni sabato notte, in cui restava aperto l’ingresso del Chiostro, al quale corrispondeva la finestra della sua carcere, e così ebbe agio di dare, e ricevere de’ biglietti, e qualche altra piccola cosa per suo ristoro, avendo per tal modo acquistato tutto il necessario per scrivere. Con tale espediente indi suo fratello l’avvisò, che gli sarebbero fatti pervenire alcuni ordigni per tentare la fuga, e salvarsi, e quantunque gli rispondesse il carcerato, che voleva perdere la vita sotto i rigori della carcere piuttosto che la sua innocenza con intraprendere la fuga, attaccò una notte alla cordicella una grossa fune con molti nodi, e un piccolo pugnale, scrivendogli, che tentasse in qualche maniera di salvarsi, poichè si vedeva dall’irregolare dilazione delle sue difese, che si voleva ad ogni patto il suo sacrifizio. Si trovò sorpreso il Crudeli vedendo la fune, e il pugnale appeso al cordone che aveva calato per ricevere il biglietto del fratello, e la solita cioccolata, che per tal via gli mandava ogni sabato per cibarsi di essa, giacchè temeva nascosto il veleno nelle vivande, ne sapendo a qual partito appigliarsi, cacciò il pugnale sotto la panchetta del letto, e ridottolo in tre pezzi lo gettò sopra la finestra della sua prigione. La mattina seguente avendo il Padre Inquisitore, non si sa per qual via penetrato, che erano state somministrate all’Inquisito le cose suddette, gli fece la perquisizione nella carcere, nella quale gli furono trovati i detti ordigni, e furono successivamente scritti per tre sabati da alcuno de’ vigilanti Padri del S. Ufizio tre biglietti al fratello del carcerato calandogli nella forma suddetta con avere contraffatta la mano del Crudeli, i quali non tendevano ad altro che a scoprire il modo col quale supponevano i Padri, che fosse da esso meditata la fuga, il luogo dove esso avesse pensato di portarsi, e le persone che gl’averebbero prestato aiuto, ma siccome non era ciò, che un ridicolo pensiero venuto in capo a suo fratello, che a dir vero non era l’Uomo più avveduto del mondo e che gli aveva mandati i detti arnesi, perchè riuscendoli se ne servisse in fuggire, senza aver considerato più oltre, così credendo di continovare col carcerato il carteggio, rispose sempre in modo, che non poterono ricavarne i Padri se non una difesa per il preteso reo ma l’Inquisitore non si degnò di mai contestare, o di fare alcun conto de’ biglietti scritti dal fratello in risposta al carcerato, da quali si ricavava chiaramente la di lui costante intenzione di non uscire dalle prigioni del S. Ufizio, se non per la via ordinaria, e dichiarato innocente, come sapeva d’essere, qual sua intenzione aveva altre volte manifestata, ed in specie un giorno, in cui casualmente il Custode delle carceri aveva lasciato aperto l’uscio della sua prigione, che perciò fu da lui richiamato, ed avvisato a ferrarlo.

Accortosi finalmente il fratello del carcerato che i Padri, e non esso avevano scritti gli ultimi biglietti, vedendosi scoperto sul timore, che il Tribunale del S. Ufizio potesse procedere contro di esso per aver somministrati al carcerato ordigni per fuggire, e salvarsi, si determinò a denunziarsi, e narrata come era passata la cosa assicurò il Padre Inquisitore che il suo fratello non aveva mai pensato a fuggire.

Accettò la denunzia l’Inquisitore, ma seguitando il suo stile di nulla rilevare di ciò che ridondava in favore del Crudeli, non stimò opportuno di ridurla in scritto, giacchè dalla medesima non solamente costava, che esso non voleva salvarsi colla fuga, ma che anzi aveva fatta un’azione eroica col disapprovare il consiglio del fratello, e far comprendere che era costantemente risoluto o di finalmente soccombere sotto i rigori della sua prigione, o d’essere per sentenza dichiarato innocente, ciò che non poco giovava al medesimo, mentre siccome la fuga, o il manifesto desiderio di essa è un legale indizio di reità, così il non intraprendere quella potendo, e rigettarne costantemente i consigli, e l’esibita assistenza massimamente in chi già trovasi oppresso dal timore, e da fieri disastri d’una crudel prigionia, egli è certamente uno de’ più forti riscontri dell’innocenza di esso.

Dopo questo fatto i Ministri del S. Ufizio usarono sempre più stretti i rigori al carcerato, e benchè dicessero che ogni sera l’estraevano dalla prigione per fargli respirare un poca di aria più libera, la verità è che fu una sol’ volta cavato di segrete in tempo di notte nella quale fu così fieramente attaccato dall’asma, che dette da dubitare della sua vita.

Frattanto il di lui fratello, che non lasciava cosa alcuna intentata per fargli ottenere la difesa, tanto s’adoprò colla Sacra Congregazione, che fu dalla medesima finalmente ingiunto all’Inquisitore di ammettere il querelato alle difese; ciò non ostante non si desistè di procrastinare col frapporre immaginarie difficoltà per ottenere dilazione all’imminente scuoprimento di tante calunnie procurate a danno dell’inquisito; ma non si potè più impedire quest’atto di Giustizia stante i replicati pressanti ordini della Sacra Congregazione, dimodochè vedendo l’inquisitore di non potere altrimenti condurre a fine il suo intento, che fondato sull’indisposizioni del carcerato, che nell’angustie nelle quali era tenuto promettevano brevi i suoi giorni; pareva che fosse di prolungare gli atti fin’ tanto che fosse venuto a morire nelle carceri del S. Ufizio, come con più persone si era dichiarato l’Inquisitore che sarebbe seguito, onde pensò finire di rovinarlo con quella medesima via, per la quale sperava il povero querelato di potersi salvare, e per eseguire questo suo disegno si servì come vedremo di quell’istesso metodo nella repetizione de’ Testimoni, e negl’altri atti della difesa, del quale si era servito nel primo esame di essi.

Intanto altro non faceva l’Inquisitore, che lamentarsi co’ suoi confidenti dell’eccessiva parzialità della Sacra Congregazione, che dopo un anno di prigionia non voleva prolungare inutilmente per maggior tempo il corso della causa, onde fatto cuor generoso assegnò al Crudeli le tanto desiderate difese.

Queste difese che secondo il senso comune significano un comodo, che si somministra al querelato, con palesargli i delitti de’ quali resta incolpato, di addurre le prove, se quelle abbia di sua innocenza, e sentendosi a torto aggravato di rilevarsi come stima meglio dalle calunnie, che gli sono state tramate, nel linguaggio del Tribunale del S. Ufizio non altro producevano, che preparare all’inquisito un nuovo peggiore inganno, perchè restasse sotto la falsa speranza di difendersi affatto oppresso, ed esposto senza riparo a tutta la forza della calunnia e del falso.

Il Difensore, che per agevolare la strada alla difesa avrebbe dovuto essere una persona confidente di quello, che volea valersi della sua opera, e la di lui scelta lasciarsi in piena libertà dell’inquisito, non stava al reo ad eleggerlo, ma si forzava a prendere uno appunto di quei pochi Difensori, che il Tribunale tenea ben affetti, i quali non passavano il numero di tre, fra questi o buoni o cattivi, che fossero amici o nemici del querelato dovea cadere la scelta, e quest’ancora, onde non s’abusasse il reo d’una soverchia libertà, sempre moderata dall’arbitrio dell’Inquisitore, che approvava o rigettava quello de’ tre, che il reo s’era proposto d’eleggere, il che seguì appunto al Crudeli, che avendo eletto il Dottor Tassinari non fu dall’Inquisitore ammessa la nomina di esso con la scusa, che egli era divenuto incapace, per seguitare il metodo d’opporsi in tutto à giusti desideri del carcerato e per timore, che il Difensore nominato fosse troppo parziale al reo, o più probabilmente perchè avendo il Dottor Tassinari difeso poco tempo avanti col dovuto vigore alcuni rei del S. Ufizio fino ad ottenere a medesimi dalla Sacra Congregazione l’assolutoria, premea allo zelo dell’Inquisitore di non introdurre il cattivo esempio, che i rei del S. Ufizio di Firenze fossero difesi più di quello, che comportava il di lui piacere, o il da lui supposto decoro del Tribunale.

Negatogli adunque il Difensore prescelto, fu costretto il Crudeli a nominare un altro de’ due, che rimanevano e questo fu il Dottor Archi, che venne dal Padre Inquisitore accordato con molto piacere, sperando forse, che la di lui decrepita età d’anni 84., il non potere scrivere di proprio pugno, e il venirgli impedito dalle regole del Tribunale il potersi servire dell’opera altrui, averebbe contribuito a rendere più lenta, e più debole la difesa del querelato.

Si principiò adunque questa tanto contrastata difesa dal richiedere l’inquisito a dichiararsi, se voleva repetere i Testimoni, o aver quelli bene, e rettamente esaminati, al che per consiglio del suo Difensore, rispose di volere la repetizione d’alcuni di essi, onde ricevuta per tal’ effetto dal Tribunale la copia dell’Inquisizione, cioè l’indicazione de delitti contro di lui pretesi, e de Testimoni Fiscali, da quali si supponeva restare aggravato, produsse per la repetizione di soli quattro Testimoni, che potevano credersi del tutto falsi, gli opportuni interrogatori, ma siccome questi erano veramente tali, che quando si fossero esaminati averebbero infallibilmente scoperta la mostruosa falsità del processo, così l’Inquisitore come nemico giurato di quella regolar fedeltà, che si richiede in qualunque buon processante nella compilazione degli atti a lui commessi, non ebbe alcuna difficoltà di troncare, mutare, e aggiungere agl’interrogatorj ciocchè gli pareva proprio a chiudere ogni strada all’inquisito di giustificarsi, anzi vedendo che malgrado tutti gl’irregolari arbitrj presi nella detta repetizione de’ testimoni vi rimaneva sempre come chiaramente mostrate l’insussistenza dell’operato contro il Crudeli, aggiunse ed innestò al deposto de’ Testimoni repetiti nuovi delitti, o da lui sognati, o per dir meglio da esso inventati, consistenti in proposizioni ereticali pretese proferite dall’inquisito in più e diversi luoghi, ma colla solita disgrazia di vedere smentite, e quindi convinte per false da tutti i Testimoni supposti allegati per contesti, come quelle che erano soltanto state inventate, ma non mai deposte da’ Testimoni, a quali venivano attribuite, come se ne sono essi poi dichiarati nella più valida forma.

Terminata con tal condotta la repetizione de’ Testimoni con mille raggiri, tirata in lungo fino che dai reiterati ordini della Sacra Congregazione non si trovò costretto il P. Inquisitore ad adempire a questo atto di giustizia, fu consegnato al Difensore l’estratto del Processo, omesso in quello tutti i deposti de’ Testimoni Fiscali favorevoli all’inquisito, dal quale estratto oltre lo scoprirsi l’ordine affatto nuovo, e irregolare, col quale fu proceduto in causa, oltre la maniera impropria, e sempre suggestiva d’interrogare, furono con altissimo stupore ritrovate alterazioni essenzialissime ne deposti di quei Testimoni medesimi, che ne costituti fatti all’inquisito gli erano stati contestati, e quello che parrebbe affatto incredibile, se non se n’avesse un sicuro indubitato riscontro, fino negl’interrogatorj fatti all’inquisito, e nelle risposte del medesimo, le quali alterazioni rinfacciate dal Crudeli al Padre Vicario, e al Padre Inquisitore non ebbero il coraggio di negarle, mentre trovatisi vergognosamente scoperti, dettero un’altra copia di alcuni atti diversi affatto dall’estratto del Processo dato a principio.

Per dare un’idea dell’alterazioni suddette si noti come la verità è, che il querelante K. denunziò al S. Ufizio che gli pareva che 17. anni avanti, il Dottore Crudeli avesse proferito ingiuriose parole contro la Madonna dell’Improneta, e che avvertito in tal’ atto ad osservare quello che diceva, l’inquisito rispondesse, che l’avea contro il Paese dell’Improneta, e non contro la Madonna, e che ricercato in giudizio il denunziante, se fra esso e il Crudeli vi passasse buona corrispondenza, rispose esservi tra loro de’ dissapori a cagione d’interessi, per i quali erano molti mesi che non si parlavano.

Il Denunziante N.N. di Poppi accusò il Dottor Crudeli che 17. anni fà leggeva alcuni libri proibiti, e domandato dall’esaminatore, se fra di loro vi passasse inimicizia, rispose non avere che spartire con lui, e che anzi gli voleva bene.

In questi termini furono contestate le dette due distinte denunzie ne costituti fatti all’inquisito, ma nell’estratto del Processo comunicatogli a difesa delle dette due denunzie n’apparisce formata una sola, che le contiene tutte due, ponendosi in essa non in dubbio, ma per assolutamente proferite dal Crudeli le ingiuriose parole, e questa si mette in bocca a quel denunziante, che dice voler bene all’inquisito, onde riceva da tal circostanza tutta la forza, perchè avendo confessato il Crudeli, benchè con alcune limitazioni d’aver letti alcuni libri proibiti contestatigli nel suo costituto, si venga a dar maggior fede all’accusatore anche nell’altra parte della supposta denunzia falsamente attribuitagli, come quello che per la detta confessione del Crudeli intorno alla lettura de’ libri proibiti, veniva ad avere una verisimile riprova d’essersi mosso a denunziarlo in tutto per la verità; ma il sapersi, che il denunziante, il quale dice esservi de’ dissapori fra esso e il querelato, non era stato mai a Poppi, ne fu assolutamente denunziato d’altro il Crudeli che delle parole supposte proferite dal medesimo contro la Madonna dell’Improneta, fa chiaramente vedere la detta maliziosa congiunzione de’ due deposti ridotti a un solo, e quindi con quanto d’ingiustizia e di falsità si sia proceduto in questo Processo fabbricato a mano ed a capriccio, e qual fede dovesse prestarsi a un attuario, che resta convinto di sì fatte palpabili irregolarità.

Il Testimone R. Ricercato in che concetto avesse il Crudeli, rispose averlo stimato sempre un buon Cattolico, e che per molto tempo, che l’aveva praticato non aveva scoperti in lui sentimenti da fargli credere il contrario, così che si maravigliava assai della disgrazia, nella quale era caduto; questa testimonianza fatta da un Gentiluomo di onestà, e di credito, anzichè aggravare il querelato come si desiderava, lo difendeva, alterò talmente il Processante, che alzatosi in piedi proruppe a dirgli, VS. però non gli darebbe un suo Figlio a educare, al che rispose il Testimone,([70]) certo che io non darei il mio Figlio a educare al Crudeli, ma questo nulla detrae di stima al medesimo, perchè di 100. Preti che saranno in Firenze a quali regolarmente, e non a Secolari, quale è il Crudeli, si danno ad educare i ragazzi, non ne saprei sceglier sei, per l’educazione di uno dei miei Figlioli, dalla qual risposta tanto favorevole al Carcerato ne restò ingegnosamente cavata una prova totalmente opposta per dimostrare la di lui diffamazione, essendo stata posta nell’estratto del Processo questa proposizione, seccamente, ed in estratto come detta dal Testimone R. cioè, che non gli darebbe un suo Figlio ad educare, la quale congiunta con alcune altre scritte dal Cancelliere del S. Ufizio, ma non proferite dal testimone R., averebbe potuto nuocere al Carcerato, se il caso non avesse per impensate vie scoperto il grossolano artifizio de’ Padri del S. Ufizio.

Il Denunziante A. che era un Prete pedante, nemico capitale del Crudeli, e ladro, come costa per fedi soscritte da persone degne di tutta la credenza, accusa l’inquisito nel suo primo esame di alcune proposizioni supposte([71]) dette in una Villa all’Improneta, ma che negate dal Carcerato, e da tutti i Testimoni Fiscali dati per contesti, e che sebbene fossero state provate non meritavano più che una semplice riprensione, così l’Inquisitore nella repetizione di sì degno Testimone, e Denunziante, n’aggiunse di sua invenzione alcune altre affatto ereticali, e degne di ogni più severo gastigo ponendole in bocca al medesimo, ma perche false ne mai proferite dal querelato furono smentite da tutti i Testimoni dati per informati di esse dal supposto accusatore, avendo però il P. Reverendissimo negli esami fatti al Crudeli contestato fra gli altri nuovi reati, de’ quali si pretendeva addizzionalmente accusato, nella repetizione di questo ideale querelante, che esso inquisito in cambio di andare alla Messa ne’ giorni festivi andava alla caccia del paretaio, al che rispose l’inquisito che questa circostanza convinceva apertamente della falsità del denunziante, la quale si poteva provare col mezzo inconstratabile di una negativa coartata, mentre due sole volte era stato all’Improneta, una volta 15. anni addietro nel mese di Maggio, l’altra otto anni sul finire d’Agosto, tempi ne’ quali non v’è chi non sappia, che la caccia del paretaio è affatto fuori di stagione; questa inaspettata risposta, che faceva conoscere al Padre Inquisitor di aver mal’ corredata la sua calunnia, mosse il medesimo per salvare alla meglio in questa parte la sua impostura a mutare nel detto estratto del Processo le parole “andava al paretaio” in quelle “andava a spasso” onde restasse tolto al querelato il modo così ovvio di provare calunniosa l’accusa, col far costare di non essere mai stato nella Villa del Pasqui all’Improneta in tempo di paretaio, non sapendo nemmeno il Crudeli il luogo ove era situato il mentovato Paretaio, come provò con fedi autentiche di più persone maggiori d’ogni eccezione trasmesse alla Sacra Congregazione.

Vedendosi adunque mutare con tanta franchezza, e a suo irreparabil danno i deposti a esso medesimo contestati, strepitò il Crudeli fortemente, e seppe tanto efficacemente stringere l’Inquisitore, che vergognandosi di comparire svelatamente ingiusto, e falsario, si trovò in necessità di dare la copia del costituto fatto dopo la repetizione de Testimoni tale quale era in Processo, come puole chiaramente riscontrarsi da quello, ove si vedeva essergli contestato come sopra, che andava al paretaio in vece d’andare alla Messa nei giorni Festivi, e non altrimenti che andava a spasso, come con somma malizia, s’era posto nel detto estratto del Processo.

Il Testimonio G., interrogato in che concetto avesse il Dottore Crudeli, rispose io lo tengo per un Angiolo; Il Testimone H. dice, che l’ha sempre conosciuto per ottimo Cattolico, e il Testimonio I. dice, che ha sempre scoperti nel Carcerato sentimenti di ottimo Cristiano, e che suppone che l’invidia e la calunnia abbiano mosse alcune persone a tentare ingiustamente la di lui rovina, e moltissimi altri che troppo lungo sarebbe il mentovare, depongono in forma a favore del Crudeli, che se come doveasi fossero state date fedelmente le copie de’ loro deposti, non solamente non si sarebbe preteso d’aver conclusa la prova della sua cattiva fama nel Processo informativo, che anzi rimarrebbe dal medesimo pienamente giustificato per essere egli riputato quasi da tutti i Testimoni esaminati un buonissimo Cattolico; giacchè a termini di ragione non può dirsi provata la cattiva fama, ove senza contradizione d’alcun Testimone, non venga rilevata da concordi deposti d’un gran numero di persone degne di fede, che adducano giuste cause della loro scienza, e assicurino esser pubblica la voce di ciò che depongono.

Qual fosse il carattere e il contegno de’ Ministri del S. Ufizio sopra tutt’ altro si ricava dalla spontanea retrattazione fatta dal querelante G., onde viene evidentemente provato, che da medesimi vennero praticate irregolarità, suggestioni, e falsità tali da fare orrore a chiunque ha nell’animo idea alcuna d’onestà e di giustizia, essendosi fino abusati del mezzo della Sacramental Confessione per cavarsi il capriccio di tesser calunnie al Crudeli, e a molte altre persone, le quali non sanno d’aver dato mai causa alcuna di meritarsi una così fiera, ed ingiusta persecuzione.

Il Querelante G. adunque, che aveva fatto il mostruoso sogno de’ Liberi Muratori, e che in seguito s’era andato a denunziare al S. Ufizio, e insieme aveva accusate, anzi gli erano state fatte accusare, settanta Persone in circa come Soci della fantastica adunanza sopposta tenuta in casa del Barone Stoch fu citato dal S. Tribunale per essere reperito alla richiesta, che n’aveva fatta il Crudeli. Andò, e agli interrogatori dati dal Difensore, e fattigli dal Padre Inquisitore fu negativo, contradittorio a ciò chè aveva detto, e a tutto quello che aveva fatto scrivere l’Inquisitore, e che esso non aveva mai pronunziato, onde non sapendo il detto Padre come nascondere più lungamente la stolidità, ben nota del Querelante, e la propria cattiva fede, tentò d’intimorirlo con dirgli, che se non avesse ratificato tutto quello che aveva deposto nel suo primo esame, e che gli era allora stato detto non sarebbe più uscito dalle stanze del S. Ufizio e se mai avesse potuto ottenere la libertà non averebbe sfuggita la morte, la quale gli sarebbe stata procurata o dal Dottore Crudeli, che gli fu dipinto per uomo feroce, o che non sarebbe escito assoluto dalle carceri, quando non avesse ratificato il suo primo deposto, da suoi Fratelli, che pure furono caratterizzati per uomini micidiali, e ripieni di spirito di vendetta, onde il debolissimo animo del..... Si lasciò vincere da questo falso timore e ratificò in tutte quelle parti, che piacque all’Inquisitore il suo primo esame, e in questa forma ottenne l’intento desiderato; ma non s’accorse, che quell’istesso timore, che aveva sparso nel cuore del..... poteva produrre effetti totalmente contrari al suo desiderio. In fatti il giorno dopo si portò alla casa del suo Cugino Marchese...... e gettandosegli a piedi principiò a gridare “son morto son dannato” e per quanto tentasse detto suo parente di persuaderlo ad alzarsi, e narrargli la causa di questa sua disperazione ripetè sempre le medesime parole, ne potè ottenerlo se non dopo lungo intervallo di tempo, ed allora alzatosi in piedi piangendo, e singhiozzando gli disse, che egli aveva commesso il più enorme delitto che si potesse commettere da uomo alcuno, e gli raccontò come aveva denunziati, e se, e molti altri al Tribunale del S. Ufizio, e in modo particolare il Crudeli, come uno dei componenti la società de’ Liberi Muratori benchè egli non fosse ascritto nella medesima, ed in oltre avea supposto, che in essa si parlasse di Religione e si sostenessero proposizioni ereticali individuategli dall’Inquisitore, e si facessero alcuni atti disonesti ed altre cose, che per brevità si tralasciano, e che si potranno vedere contestate al Crudeli nella sentenza lettagli, e riportata nel fine di quest’Istoria.

Qual restasse a simil’ racconto il Marchese..... è più facile immaginarselo che descriverlo; procurò di consolare, e incoraggiare il........ per quanto gli fu permesso, e per quanto comportavano le circostanze d’un affare di questa importanza, e con buone e dolci parole l’accompagnò alla di lui casa, ove lo lasciò con dirgli, che stesse pure di buon animo, che si pigliava esso la cura di terminare la cosa senza che glie ne avvenisse il minimo sinistro accidente, quindi esposto il seguito ad alcuni savi, ed onorati amici, a quali domandò il loro consiglio fu dopo matura reflessione risoluto di dire al....... che colla Sacramental Confessione s’accusasse di ciò che aveva fatto, e sentisse quello, che gli ordinasse il suo confessore. In fatti egli seguì il datogli consiglio, e scelse per far questa sua Confessione il Padre Niccolò da Scansano Religioso di S. Paolino e Lettore nell’Università di Pisa, il quale ascoltata la sua confessione l’obbligò a ritrattarsi di tutto ciò, che falsamente aveva asserito al Tribunale della S. Inquisizione. Non sfuggì d’adempiere a quest’atto di giustizia il ..... ma siccome era stato altra volta minacciato dall’Inquisitore, che se non avesse ratificato tutto quello che aveva deposto nella sua denunzia, non sarebbe uscito dalle stanze del S. Ufizio, così intimorito per tal’ ragione non volle ritornare al Tribunale, onde fu risoluto di fargli fare una disdetta in scritto, come in fatti egli fece. Non fu creduto a proposito di far cadere nelle mani de Ministri dell’Inquisizione questa disdetta per timore, che ò non fosse alterata in cose essenziali come erano stati alterati i deposti de Testimoni, ò non fusse posta in atti, e così tenuta celata al carcerato, e al difensore, perciò fu creduto di doverla consegnare à Monsignore Archinto Nunzio Pontificio in Toscana, come fu fatto il quale immediatamente la trasmesse a Roma alla Sacra Congregazione; in tanto si seguitavano gl’atti della difesa per il Crudeli con quella lentezza, che era creduta necessaria da Padri del S. Ufizio per tentare se fosse stato possibile, che fosse escito di vita prima di venirne alla fine, giacchè non furono solamente contenti di procurare di levare per sempre la reputazione, e la libertà all’infelice carcerato con usare contro il medesimo tutte l’indicate irregolarità, e i più fieri rigori d’una barbara prigionia, col tenerlo sempre racchiuso in un’angusta carcere, sebbene falsamente spacciassero d’estrarlo ogni sera per riguardo alle di lui indisposizioni. Con impedire col riparo apposto alla finestra della sua prigionia, che l’aria e la luce non potesse che per angusta via piombare in quella; coll’affliggerlo di tempo in tempo con artificiosi discorsi atti a gettarlo nella più profonda disperazione, contando sulla di lui inferma salute, tentarono di cagionargli una lenta, e vergognosa morte, perchè restando in vita, e scappando una volta dalle loro mani non avesse potuto far noto al suo Principe naturale a’ quali inaudite ingiustizie e crudeltà era stato obbligato soggiacere un suo fedel suddito, e per verità poco mancò, che non ne seguisse l’effetto poichè per i tanti lunghi strapazzi e travagli sofferti, s’aperse all’infelice uno de vasi del petto di tal’ importanza, che tanto fu il sangue, che fu per ciò obbligato a versare per bocca, che giudicarono i medici a proposito di farlo munire col Sacramento della Confessione, al che si oppose lo zelo del solito affettuoso Padre Vicario negandogli quest’ajuto spirituale col dire, che non poteva godere de Sacramenti colui, che si reputava un Membro reciso dal Corpo di S. Chiesa, fino a che fu convinto dal Padre Griselli Domenicano, eccellente lettore di Teologia, del contrario, e che fu eletto ad ascoltare le sue colpe, non avendo mancato il Padre Vicario, che tanto s’era mostrato pietoso, e interessato per il Crudeli di tentare con quest’ottimo religioso se poteva nuocere al moribondo su gl’ultimi momenti della sua vita, con pregarlo instantemente, e con addurre ridicole ragioni, ma senza profitto per negargli l’assoluzione come ad eretico dichiarato, quale egli lo diffamava, fondatosi sugl’ inventati deposti fatti scrivere al suo Cancelliere, ma non mai proferiti per verità da supposti querelanti, per impedire all’anima dell’inquisito gli spirituali aiuti, come erano stati tolti gli umani al di lui corpo.

In questo tanto deplorabile stato pregò il moribondo, che gli fosse levato dalla ferrata della prigione il riparo di legno, che tutt’ora vi era, perchè potendo rinnovarsi l’aria, e introdursi in maggior copia la luce, sentisse egli nelle sue estreme miserie un qualche sollievo, ma gli fu negato anche questo piccolo conforto; non cessando per anche il largo getto del sangue, benchè procurato di fermare da’ medici con due emissioni, e perdendo ogni speranza di poter’ sopravivere, si determinò di fare il suo Testamento, per rogarsi il quale gli fu accordato il Dottore Archi suo Difensore.

Quantunque i Padri del S. Ufizio in così estremo pericolo del carcerato non si degnassero di darne il minimo avviso al di lui fratello, benchè comodamente lo potessero fare, portandosi esso regolarmente due volte il giorno al loro Tribunale per sentire se occorreva cosa veruna, ebbe per altra strada la notizia della gravissima malattia sopraggiunta all’inquisito, e fatta istanza all’Inquisitore di poterlo visitare, gli fu pure negata costantemente la richiesta grazia, con dirgli che suo fratello stava bene, ne per quante preghiere sapesse mettere in opera potè ottenere d’essere ammesso a vedere il suo disgraziato fratello prima che morisse. Irritato perciò da si aspre repulse prese il partito di ricorrere a Monsignore Nunzio Archinto, al quale esposta la pericolosa malattia di suo fratello ottenne tosto la permissione negata dal Padre Inquisitore e un domestico del Prelato ebbe la commissione di portare questo suo ordine al S. Ufizio, e nell’istesso tempo d’informarsi dello stato dell’Inquisito. Aspettò l’Inquisitore al giorno di mercoledì a portarsi a ragguagliare Monsignor Nunzio della malattia del Crudeli, che l’aveva assalito il martedì mattina, e ciò fece, perchè non potesse per essere passata la Posta se non nell’altro ordinario scrivere a Roma. Gli espose adunque l’accidente sopraggiunto al carcerato, e si studiò di fargli comprendere, che non era successo per sua colpa, cercando di sminuire la malattìa per quanto fosse possibile; ma il servo di Monsignore al S. Ufizio, che l’aveva veduto in stato molto pericoloso, gli fece un più fedele rapporto del rischio che correva di perdere la vita, molto più se si fosse continovato a tenerlo nella piccola prigione ove era, onde mosso a pietà il Prelato mandò ordine per mezzo del Padre Griselli all’Inquisitore, che gli fosse mutata la prigione in una stanza buona, e ariosa, e che gli si usassero tutti quei riguardi e quei rimedi che da medici, e da suo fratello fussero stimati opportuni. Eseguì il Padre Griselli la ricevuta commissione ma trovò la solita repugnanza nell’Inquisitore il quale negò assolutamente di voler mutare di carcere il moribondo, adducendo per ragione, che non aveva Monsignor Nunzio alcun diritto di mescolarsi negl’affari del suo Tribunale, che dependeva immediatamente dalla Sacra Congregazione, nè conosceva altri superiori che il Papa, e per che questa risposta giungesse sicuramente agl’orecchi del Nunzio, incaricò il Padre Vicario di portarsi subito dal medesimo, dandogli un’esatta istruzione di ciò che doveva dirgli, ingiungendogli di procurare per qualsisia modo di persuaderlo à revocare l’ordine dato di mutare la carcere all’Inquisito.

Si portò in conseguenza di questo comando il Padre Vicario dal detto Monsignore, cui fece molte rimostranze su tal proposito, alle quali in brevi, ma significanti parole rispose il Prelato, che senz’altra replica eseguisse i suoi ordini, e che egli s’incaricava di tutto ciò che fosse potuto succedere per la parte di Roma, onde l’Inquisitore dà replicati comandi si trovò forzato ad usar quegl’ Uficij, che anche fra le nazioni più barbare non si negano agli uomini, che si trovano in stato così deplorabile, quale era quello del carcerato.

Avendo ricevuto in breve non piccolo sollievo il Crudeli dalla mutazione della carcere, ed essendo cessato il prossimo pericolo di morte, riprese a stimolare il suo Difensore acciò prontamente conducesse a fine la sua difesa, colla quale era sicuro, che sarebbe comparso agl’ occhi di tutto il mondo innocente, quale sapeva di essere. Intanto il Dottor Archi faceva tutte quelle diligenze, di cui è capace un vecchio d’ottantaquattro anni per adempiere al desiderio del carcerato, ma siccome i Padri del S. Ufizio non desistevano per alcun modo di frapporre difficoltà, intorbidando sempre le cose, differendo a comunicare alcuni recapiti, e mutando sempre e alterando nelle copie, che davano i deposti de Testimoni, e del querelato, col negare di poter collazionarli, e di riscontrare in fonte il Processo in ben molti luoghi diverso dal dato estratto di esso, così malamente poteva un vecchio dell’indicata età, e che come Cancelliere del Magistrato de Conservatori di Legge, e pubblico Avvocato Criminale avea molt’altre incombenze, contrastare con detti Ministri congiurati tutti contro il Crudeli, dimodochè s’accorse l’inquisito essere il suo meglio l’appligliarsi al partito di non ostinare a pretendere ulteriori atti di giustizia accomodati alla sua difesa, che secondo le buone regole, e secondo le regole del Santo Tribunale non potevano essergli controversi, pregò il suo difensore a distendere prontamente un breve abbozzo di difesa nel miglior modo che dalla strettezza del tempo, dagl’incomodi della sua età, dalle sue occupazioni, e dall’altrui ingegnosi raggiri gli venisse permesso, sicuro, che presentato per quanto mai fosse imperfetto alla Suprema Congregazione, sarebbe sempre servito a persuaderla dell’altrui calunnie e della propria innocenza, emanato tosto l’ordine di porlo in libertà.

Fece il Dottore Archi la richiesta limitata semplicissima difesa, e quella presentò al Tribunale unita ad alcune fedi autentiche, le quali convincendo d’incontrastabile falsità alcuni de’ denunzianti, risultava sempre più chiara l’innocenza del querelato; ma per ovviare all’effetto suddetto, e contrario affatto al fine dell’Inquisitore di volere a qualunque costo far passare per reo il Crudeli, stimò a proposito di non trasmettere le dette carte alla Sacra Congregazione, e non mandare la presentata difesa scritta di mano dell’estensore, ma copiata da alcuno de Ministri del Tribunale per potere intanto ripurgarla e ridurla in modo che non sconcertasse le già concepite idee, e così poi emendata trasmetterla a Roma, conforme fece senza altrimenti incomodare il carcerato in fargliela vedere, e approvare come è di sole, e coerente alle regole di giustizia, essendosi in tal forma per soverchio zelo acquistato il merito d’aver fatto in questa causa le parti d’Inquisitore, di Querelante, di Attuario, e fino di Difensore.

Tutte insieme però le riferite cautele non furono bastanti a persuadere i Ministri, che non ostante le medesime non fosse per rilevarsi il Crudeli, e per iscoprirsi l’insussistenza delle cose pretese contro di lui, e di ciò vivendo agitati, ed inquieti, pensarono a un nuovo strattagemma, onde opporsi a ciò che temevano, e quello concertato mandarono tosto in esecuzione nella maniera che segue.

Il Padre Vicario, che erasi sempre impegnato d’assistere il reo per non mancare alle sue promesse coll’abbandonarlo sull’ultimo, presentatosi a Monsignor Nunzio gli disse, che non poteva in vero negarsi, non essersi potuti concludentemente provare in processo i delitti de’ quali era stato accusato il Dottor Crudeli, ma per altro, come era piaciuto a S. Divina Maestà, ve ne era presentemente una sì forte riprova, da non averne più alcun dubbio, poichè l’inquisito tocco dalla mano d’Iddio, che non permette che alcuna cosa rimanga occulta, li aveva tutti confidati al suo Difensore, il quale poi per sgravio di sua coscienza ne avea fatta a lui la confidenza, della quale glie ne avanzava la notizia perchè gli servisse di regola, senza però propalarla o darne il minimo avviso a veruno.

Rimase a tal racconto Monsignor Nunzio dubbio e sorpreso, ma siccome era molto amante della giustizia, regolato da una prudente avvedutezza, sospesa ogni credenza, vedde subito, che poteva venire in chiaro di questo fatto coll’interrogare l’Archi citato dal Padre Vicario per autore di esso; lo fece perciò chiamare, e ricercatolo del sopraesposto fatto gli rispose il medesimo con quel trasporto di collera, che ogni uomo d’onore averebbe risentito in tal caso, essere il tutto inventato, calunnioso, falso, falsissimo, e che non solamente non gli aveva mai confidato il Crudeli d’essere reo d’alcuno de’ delitti pretesi da lui commessi, ma che anzi l’aveva sempre assicurato del contrario, e che egli conosceva chiaramente dalla lettura dell’estratto del Processo la di lui innocenza, e le calunnie orditegli contro, aggiungendo([72]) molte risentite invettive contro il Padre Vicario, che s’era così malamente servito del suo nome per spacciare per verità sì nera calunnia.

Ne di minor considerazione, è degno ciò che immediatamente successe, ed è che dubitando i Padri del Santo Ufizio, che il tenere più lungo tempo in mano del Difensore dell’inquisito l’estratto del Processo potesse viepiù scoprire l’alterazioni che erano state fatte in esso, ordinarono al Cancelliere di portarsi a richiedergli tutte le carte ricevute dal Tribunale, ma avendo risposto l’Archi, che non poteva consegnarle, perchè erano passate nelle mani di Monsignor Nunzio, che l’aveva volute vedere, il detto Cancelliere pieno di mal talento rispose ad alta voce al Dottore Archi, che aveva franto il sigillo, e che s’era il Nunzio avanzato a mescolarsi in ciò che non doveva; alterandosi a segno di pronunziare solenni impertinenze contro il degno Prelato, e col minacciare altamente il Difensore caricandolo di tali ingiurie, che ricordevole quell’onestissimo vecchio dell’altro riferito affronto fattogli dal Padre Vicario, non potè astenersi dal dare quelle più risentite risposte al detto Cancelliere, che meritava la di lui imprudenza. Tornò questo al Tribunale dell’Inquisizione, ed espose a’ sui Colleghi il seguito, a’ quali parve, che i temerari avanzamenti del loro Cancelliere saputi che si fossero, potessero produrre delle conseguenze poco favorevoli a’ loro interessi, perciò l’obbligarono a ritornare dall’Archi, a domandargli perdono, ed a pregarlo di non rilevare a Monsignor Nunzio ciò che era fra loro avvenuto.

Eseguì il Cancelliere quanto gli era stato comandato, ma irritato giustamente il Dottore Archi da sì fatto disonesto modo di procedere replicò costantemente, che avrebbe fatto quello che avesse creduto più a proposito, e che l’arbitrio delle cose sue, non dipendeva da altri, che da Dio, e da S.A.R., a cui aveva l’onore di servire. Ciò sentito, soggiunse arrogantemente l’intrepido Frate; VS. potrà dire tutto quello che gli piacerà a Monsignor Nunzio, che io lo negherò sempre costantissimamente, pronto a giurare sull’Ostia Consacrata essere falso tutto ciò che rappresenterà aver io proferito, quando ella sia determinata di rilevarlo.

Pervenuta in tanto la difesa del Dottor Crudeli, e quello che più importava la disdetta del querelante in mano de’ suoi Giudici in Roma, non mancò di fare il preveduto effetto, mentre l’Inquisitore ricevè ordine positivo dalla Sacra Congregazione di rendere al Governo laico senza alcuna minima dilazione il carcerato secondo la di lui domanda, onde l’Inquisitore, considerando che l’innocente vittima, che con tante ingegnose premure aveva tentato di sacrificare al suo interesse, ed alla sua rabbia, era già vicina ad essergli strappata dalle mani, per sfogarsi se non quanto voleva, almeno quanto poteva contro il misero carcerato, usò verso il medesimo le maggiori stranezze che seppe immaginarsi. Proibì in conseguenza di questa sua buona volontà al di lui fratello, il quale a tenor dell’ordine di Monsignor Nunzio poteva vederlo ogni volta che gli piaceva, l’accesso alla prigione del carcerato, impedì che potesse come prima essere visitato dal Medico, gli fece chiudere tutti gli usci, alcuni de’ quali per il pericolo di vita in cui era per ordine del Nunzio erano aperti, gli accrebbe le guardie, e non solo non gli dette il minimo avviso della prossima sua libertà, ma con parole equivoche, e colla nuova esatta diligenza, colla quale lo faceva guardare, si sforzò di fargli credere, che fosse molto lontana la speranza della sua liberazione, forse per tentare col caricarlo di mille sospetti aggiunti all’angustia della carcere, e quella della sua grave malattia, di condurlo ad abbandonarsi all’ultima disperazione, o a restare sorpreso da qualche funesto accidente, avendolo in questo stato tenuto fino alli estremi momenti della sua scarcerazione, mentre un solo quarto d’ora prima del concertato col Regio Ministro per la di lui consegna al suo Principe naturale, l’avvisò di mettersi all’ordine per uscire dalle carceri.

Con indicibile dispiacere de’ Padri del S. Ufizio fu consegnato il Dottore Crudeli ad un basso Ufiziale di S.A.R., e fu da esso e dal suo amico Padre Vicario accompagnato nella Fortezza di S. Gio. Batista, dove credendo d’essere finalmente al coperto dalle persecuzioni, e da’ maneggi, de’ quali s’erano tanto serviti contro di lui i Ministri dell’Inquisizione, s’accorse in breve d’essersi ingannato, vedendosi comparire dopo tre giorni in Fortezza a continovare ivi pure le sue visite il solito Padre Vicario, il quale gl’impose che non ardisse di sentire la Messa, e di esercitare alcun’ atto pubblico di pietà Cristiana, e con tal’ proibizione venne a indicargli non solo che era tuttavia nelle mani del S. Ufizio, ma che era per anche da’ Padri del detto Tribunale tenuto, e trattato per quell’eretico, che con tanto studio e ingegno s’erano sforzati di fare comparire al Mondo tutto.

A tal comando rispose umilmente il Crudeli, che averebbe obbedito a’ suoi ordini, ma siccome si trovava allora nelle mani del Principe, dal quale non temeva alcuna oppressione, ma era sicuro d’ottenere una pronta e piena giustizia, si fece lecito replicare, che intendeva bene, che quanto si faceva allora per parte del S. Ufizio non era per altro che per continuare a farlo credere reo, il che però mal si poteva conciliare con quello, che tante e tante volte gli aveva detto nell’occasione delle visite fattegli nella sua prigione, cioè, che compativa all’estremo la sua disgrazia, alla quale poteva ogn’altro, ed egli stesso essere sottoposto, benchè Vicario del S. Ufizio, e che era già persuaso della sua innocenza, e pregato il detto Padre Vicario a dire se ciò era vero, vergognandosi di negare una cosa da esso tante volte detta, e pur troppo era vera, non ebbe il coraggio di farlo, ed alla presenza di tre Ufiziali, ratificò tutto quello che dal Dottore Crudeli gli era stato contestato, scusandosi con dire, che quel tanto, che gli ordinava non doveva ascriversi ad alcuna sua colpa, ma allo stile che tiene il S. Ufizio contro quei rei sopra la causa de’ quali non sia per anche stata deciso dalla Sacra Congregazione.

Intanto pervenne a notizia del ..... la seguita scarcerazione del Crudeli, e la sua dimora nella Fortezza di S. Gio. Batista, e ricordevole delle minacce fattegli dal Padre Inquisitore nella repetizione del suo esame, allorchè gli disse, che se il Crudeli fosse escito dalle carceri del S. Ufizio, gli averebbe tolto la vita per avergli cagionata prigionia, spese e infamia, fece istanza al Consiglio di Reggenza, che obbligasse il detto Crudeli, e i di lui fratelli a dargli mallevadore de bene vivendo, a la qual domanda fu acconsentito, e in conseguenza data commissione all’Assessore Santucci del Tribunale degli Otto, che condotti seco gli opportuni Ministri si portasse alla Fortezza per consumare quest’atto, come in fatti eseguì, e che registrato nelle filze di quella Cancelleria può vedersi da chiunque abbia piacere di sodisfare a tal desiderio. Ma non contento d’aver pensato d’assicurarsi la vita, che per altro non era nel minimo pericolo, procurò altresì a cautelarsi per altra via nell’interesse, e siccome poteva il Crudeli a norma delle leggi di Toscana domandare indennizazione di tutti i danni, spese e infamia cagionate dalla falsa accusa del..... così pensò d’esigere da detto Crudeli una quietanza generale, che fu obbligato fare in amplissima forma, rogata per mano di pubblico Notaro a favore del di lui accusatore, onde gli fu ancora preclusa la strada d’usare un atto di generosità verso il..... al quale avrebbe ultroneamente ben volentieri condonato tutto ciò che poteva riguardare le cospicue spese cagionategli dalla di lui falsa denunzia; giacchè non poteva esigere da esso indennizazione alla salute del corpo omai affatto perduta per la lunga e cruda carcerazione sofferta; e che gli toglieva ogni speranza di poter lungo tempo sopravvivere.

Passati alcuni giorni dalla scarcerazione del Crudeli, e dal suo passaggio nel Castel di S. Gio. Batista, fu avvisato che doveva portarsi alla Chiesa di S. Pietro Scheraggio, dove la sera del dì 20. Agosto 1740, fu accompagnato in Carrozza dal Sig. di S. Leger Capitano d’una delle Compagnie delle Guardie a piedi di S.A.R., e smontato fu introdotto dentro detta Chiesa, di cui venne subito chiusa la porta essendo restato eduso il nominato Capitano.

Fu condotto il Crudeli in Coro ove trovò il Padre Inquisitore, che sedeva vicino a una tavola, sopra la quale à mano sinistra stava Gesù Crocifisso in mezzo ad alcune candele accese, dirimpetto all’Inquisitore, ma alquanto lontano, un Messale aperto, e dalla mano diritta dell’Inquisitore, stavano prima il Canonico del Riccio Vicario dell’Arcivescovado, ed in alcune sedie più basse il Senatore Quaratesi, il Cavaliere Avvocato Neroni, e l’Auditore Urbani. Fu fatto fermare il Crudeli in piedi dirimpetto al Padre Inquisitore che gli disse, che gli si sarebbe letta la sentenza, che però vi prestasse la sua attenzione; allora il Padre Cancelliere, che stava alla sinistra del Crudeli, che pure era in piedi, cominciò ad alta voce a leggere un foglio concepito in questi termini.

“Tu Tommaso Crudeli ti sei reso reo al S. Tribunale dell’Inquisizione di molti gravissimi delitti resultanti da gran numero di Testimoni respettivamente contesti”, quì interruppe il Crudeli con aria serena, questi Testimoni che quì si chiamano contesti, non sono altrimenti tali, ma ognuno di loro è unico, e questo si è già provato calunnoso; Il Padre Inquisitore rispose, e per questo vi si è posta quella parola respettivamente, indi riprese il Cancelliere; “primo tu fosti denunziato d’aver detto 17. anni or sono, che la Teologia scolastica è chimerica e vana”, e quì lesse il Cancelliere tutte quelle lievi denunzie fatte dal Prete, dopo seguitò la sua lettura, “tu fosti denunziato d’aver letto Lucrezio tradotto dal Marchetti, la vita di Sisto quinto, e quella di Fra Paolo Servita; tu fosti denunziato d’aver detto nell’occasione, che uno domandò a un Libraio un esemplare del Cuor di Gesù, che aveva a chiedere piuttosto il calcagno; tu fosti denunziato d’aver detto in occasione che una donna era andata all’Improneta, un convicio contro la Madonna medesima; tu fosti denunziato d’aver detto questa precisa parola “ostensio” in occasione che sonò l’Ave Maria della sera, essendo tu in una Bottega di Caffè; tu finalmente fosti denunziato d’aver frequentata un’adunanza dove si parla di Filosofia e di Teologia, e dove s’osservano varj empi riti, e s’insegnano molte eresie.([73])

Esaminato tu fosti sulla prima denunzia, e benchè più volte ammonito a dire, e confessare la verità, tu persistesti negativo, e confessasti però d’essere stato in villa del ....... all’Improneta.

“Esaminato sulla denunzia de libri proibiti, rispondesti d’avergli letti e ritenuti, ma che non sapevi che fossero proibiti”, quì il Crudeli interruppe e disse, si tratta di libri tenuti 17 anni sono, ed allora non ero dell’età che sono adesso, dissi ancora, che Lucrezio non era intero, anzi, che ce ne mancava moltissimo, e detti alcune altre risposte come ella sà benissimo.

 “Esaminato sulla denunzia del calcagno di Gesù, rispondesti di non ti ricordare di tal cosa, per essere parole supposte dette sette anni fà; chiedesti tempo a pensarvi, e rispondesti non aver memoria d’aver mai detto tal cosa, benchè più volte monito à confessar la verità.

Esaminato sopra il convicio detto contro la Madonna dell’Improneta, negasti pertinacemente, benchè più volte monito, e rispondesti di non aver mai detta tal cosa”; quì il Crudeli disse, questo denunziante però confessa nel suo costituto d’essere mio nemico: io senza saper nulla di ciò lo posi nel mio esame fra i miei amici, e n’addussi la causa, ed è smentito da un altro Testimone esaminato e monito, e citato per contesto dal denunziante, onde non vedo che fede possa darsi a questo querelante.

“Esaminato sulla denunzia dell’ostensio, detta nel Caffè nel sonare l’Ave Maria, rispondesti, che non ti ricordavi d’aver ciò detto, ma se a caso tu l’avessi detto sarà stato per alludere a quelli che fanno vista di dire l’Ave Maria, e bevono il caffè.

Esaminato più volte sulla denunzia dell’adunanza, de riti, e della scuola ove s’insegnano dette eresie, rispondesti pertinacemente, che mai sei stato in tal’ assemblea, nè frequentatala, e benchè monito benignamente a dire la verità, tu fosti sempre ostinato a negarlo”; non potè far di meno il Crudeli di rispondere ridendo: negando questo feci quello, che deve fare un amico della verità e della Chiesa; ognun’ sà la mia innocenza su questa strana denunzia, e Vostra Paternità Reverendissima lo sa così bene come ogni altro, e resto attonito in sentirmi rinfacciare a quest’ora i sogni d’un tal denunziante; si ricordi Padre Inquisitore, che io risposi ancora, che assolutamente non credevo che tal’ adunanza ci fosse mai stata; l’Inquisitore rispose si si([74]) questo poco importa e ancora soggiunse il Crudeli, che il denunziante non poteva essere se non un maligno ma insieme stolido al sommo, il quale poi nel tempo, che sono stato nella Fortezza me lo sono veduto cadere a piedi, e ne suoi lucidi intervalli implorare il mio perdono, e condonazione di spese di danni alla mia reputazione, e alla salute del corpo, ed è uno, come pur troppo ella sà, conosciuto per pazzo notorio, e come una tal denunzia lo dichiara. Il Padre Inquisitore replicò doveva venire al Tribunale a fare questa parte, ed allora ciò non averebbe nociuto a lei: sono dunque stato tradito, disse il Crudeli, perchè mi giurò essersi ritrattato del tutto al supremo Tribunale, e per tal’ cagione il tutto gli condonai.

La disdetta fatta da ..... fu mandata a Roma alla Sacra Congregazione per mezzo di Monsignor Nunzio, e l’Inquisitore dissimulò di saperlo per poter leggere la denunzia di detto.... alla presenza de’ quattro illustri Personaggi, e così rendere orribile, e eretico il Crudeli contro la volontà medesima della Sacra Congregazione.

Riprese il Cancelliere. “In una visita che l’Inquisitore fece alla tua carcere ti fu trovata una fune a nodi, un coltello spuntato, e senza manica, inchiostro rappreso, ed una cordicella di seta con certa polvere da schioppo in una fiaschetta: tu riconoscesti tutte queste cose, e confessasti d’avere per via di detta cordicella mandati e ricevuti biglietti da un tuo corrispondente, e finalmente ricevuta detta fune, ed il resto: ma esaminato rispondesti, che non volevi fuggire, e monito persistesti nella negativa”; Il Crudeli rispose interrompendo, de biglietti tirati su con detta cordicella da V.P. in vece mia, è pur convinto il Tribunale, che io non volevo fuggire.

Seguitò il Cancelliere; ma da te le difese: dopo un anno interruppe il Crudeli, domandato se volevi la repetizione de Testimoni, tu col consiglio dell’Avvocato la volesti, ed in detta repetizione fosti aggravato di questi delitti anzi aggravatissimo riprese il Crudeli, ma non da’ Testimoni, bensì dal calamaio e dalla penna del Padre Inquisitore “che l’anima ragionevole non è immortale; che siamo come le bestie; che il Battesimo lava i pidocchi a Bambini”. Quì con aria alquanto fiera interruppe il Crudeli: resto attonito che mi si nomini sì esecranda repetizione; questa però è quella che m’ha salvato, e che ha scoperta la falsità totale de miei sciocchi calunniatori; Era chiara e nota prima della mia difesa, e dopo è divenuta chiarissima e coartata. L’Inquisitore nulla soggiunse, ed il Cancelliere tirò avanti così.

“Avendo la S. Congregazione maturamente considerato la gravità de tuoi delitti, ed il peso delle denunzie, e indizi che risultano contro di te, pronunzia e condanna te Tommaso Crudeli a stare nella tua casa di Poppi, e quella vuole che ti sia in vece di carcere, ad arbitrio della Sacra Congregazione, da accrescerti e scemarti la pena, e questo in riguardo alle tue malattie, obbligandoti a dar mallevadore di mille scudi per l’osservanza di detta pena da applicarsi in caso che fuggissi a’ luoghi pij.”

Quì finì la lettura del Cancelliere, ed il Padre Inquisitore domandò al Crudeli quando egli avrebbe dato il mallevadore? Egli rispose, io non sono un miserabile, ho delle terre, e delle case, sono libero, mio padre infelice morì di dolore per l’ingiusta persecuzione, che mi veniva fatta, onde non vedo la necessità di tal mallevadore. Il Canonico del Riccio Vicario dell’Arcivescovado domandò allora, se questo era nella lettera della Sacra Congregazione; L’Inquisitore dopo un poca di pausa rispose di sì.

Si è poi saputo, che la Sacra Congregazione non scrisse che una pura lettera contenente la piccola pena da darsi al Crudeli, e che tutto il restante di questa sentenza fu disteso artificialmente dall’Inquisitore, sopprimendo, e la ritrattazione del ...... e tutto il rimanente della difesa dell’imputato.

Dopo questo il Padre Inquisitore principiò un discorso, o esortazione in tal maniera = Signor Crudeli tali e tanti sono i fondamenti che la Sacra Congregazione ha di crederla un empio, che senza le sue gravi malattie gli avrebbe fatto subire l’esame rigoroso([75]), e ....... il Crudeli interruppe: i miei Giudici hanno dunque un’ grand’obbligo alle mie malattie, poichè sono state il motivo, che un innocente non è stato tormentato di più, e gran rammarico avrebbe avuto la Sacra Congregazione in avermi fatto subire l’esame rigoroso sul solo fondamento d’un denunziante unico, e quello pazzo notorio, il quale m’ha domandato misericordia, ed assoluzione per avermi cagionato, prigionia, infamia, spese, e malattia incurabile; dico unico denunziante, perchè quella repetizione, Padre Reverendissimo ella sa quanto sia falsa. Quì l’Inquisitore abbassò gl’occhi, impallidì, ed il Crudeli, e gl’altri aspettarono in vano il resto della riprensione, che aveva principiato con tanto fuoco, e dopo lungo silenzio riprese = Veda dunque e consideri la clemenza della Sacra Congregazione, e se ella avesse dette, o fatte alcune di quelle cose negate da lei ne’ suoi esami, sappia che il confessarle adesso non gli accrescerebbe la pena anzi glie la diminuirebbe, e VS. potrebbe salvare l’anima sua; Il Crudeli replicò = la pena, che porta questa sentenza non è da spaventare, e quando fosse più grande, punto mi spaventerebbe; quello che veramente mi duole si è il pensare, che tanti Prelati, e Cardinali, che compongono la Sacra Congregazione abbiano potuto dubitare un momento della mia Religione, e della obbedienza alla Chiesa, benchè la pena economica, che mi danno mi consola non poco, e mi fa vedere, che i miei calunniatori non sono stati creduti; che la retrattazione del ..... e la mia difesa hanno fatto quell’effetto, che si doveva sperare nell’animo di quei Dotti, e degni Porporati miei giustissimi Giudici.

Il Padre Inquisitore nulla rispose a questo, e soggiunse; VS. dirà ancora i Sette Salmi Penitenziali per un anno una volta al mese: questa è una Penitenza che vi aggiungo io, ed è tutta mia; il Crudeli nulla rispose, e l’Inquisitore gli presentò l’Evangelo di S. Giovanni, e disse, VS. giuri d’osservare la sentenza, il Crudeli pose la mano destra su l’Evangelo, e fu licenziato.

In esecuzione della sopraddetta sentenza andò il Dottore Crudeli a Poppi sua patria, dove è stabilito un Convento di Minori Conventuali, presso i quali era come si è detto il S. Ufizio in Firenze, e dove risedea un Vicario foraneo di detto Tribunale, quale non mancava di tempo in tempo di fargli come tale frequenti visite, dicendogli che benchè fosse stato restituito al suo Principe naturale, sempre però restava nelle mani della Potestà Ecclesiastica, e vi sarebbe restato fin’ a che non avesse ottenuta da quella la sua plenaria assoluzione.

Frattanto la rottura del vaso del polmone, che aveva sofferta nella carcere dell’Inquisizione, e che mai s’era totalmente risaldata gli dava gran molestia, e di quando in quando gli produceva getti di sangue per bocca molto pericolosi, sicchè temendo, che questi nel prossimo inverno potessero aumentarsi in un aria così fredda, quale è quella del Casentino, chiese ed ottenne dalla Sacra Congregazione la permissione di poter trasportarsi a Pontadera paese vicino a Pisa, ed in aria dolce, e molto confacente alla sua malattia. Provò qualche sorte di miglioramento, ma non ostante si riapriva di quando in quando il vaso già rotto del polmone, d’onde versava molto sangue. Terminato l’inverno tornò a Poppi, dove aggravandosi la sua malattia soffriva sempre più frequenti, e abbondanti getti di sangue, e finalmente sperimentati avendo tutti i più efficaci rimedi di cui è capace l’Arte Medica, divenne tisico, per la qual malattia dopo non molto tempo terminò di vivere.

 

 

FINE.



([1]) Le notizie biografiche qui riportate sono state, in buona parte, attinte dai risultati delle recenti ricerche di Maria Augusta Morelli Timpanaro, pubblicate nel suo pregevole volume: Autori, stampatori, librai per una storia dell’editoria in Firenze nel secolo XVIII, Firenze, Olschki, 1999.

([2]) L’Accademia degli Apatisti era stata fondata nel XVII secolo come palestra per quei giovani che intendevano percorrere «la carriera delle lettere e del buon gusto». L’Accademia fu soppressa nel 1783 unitamente a quella della Crusca e della Fiorentina.

([3]) Cfr. Storia di Pio VI

([4]) Ne sperimentò gli effetti, come vittima dell’«infame ab. Becattini, domestica abitudine», anche lo scrittore Francesco Apostoli.

([5]) Specificatamente nei cataloghi di alcune biblioteche e, più recentemente, nell’edizione anastatica pubblicata da Forni Editore nel 1981.

([6]) Nato a Firenze nel 1752 si dibattè per tutta la vita in difficili condizioni economiche lasciando ben poco a sua moglie quando morì il 26 dicembre 1814. Il Rastrelli, appartenente anch’egli all’Accademia degli Apatisti, si sentiva spirito libero e cittadino del mondo. Avendo un’alta opinione di sè, non poteva che considerare sfortuna e incomprensione gli insuccessi nei quali periodicamente incorreva. Fu impresario teatrale, mediocre autore di tragedie, scrittore di opere storiche (Il Priorista fiorentino istorico, Storia d’Alessandro de’ Medici, Vita del Padre Girolamo Savonarola, Fasti e memorie di Giuseppe II Imperatore Augusto, Memorie per servire alla vita di Leopoldo II) e gazzettista.

([7]) Il testo è riportato da M.A. Morelli Timpanaro, Autori, stampatori, p. 395, nota 162, che in tal modo riesce a fugare ogni dubbio sull’autore del libro.

([8]) Dopo quella di Firenze, ve ne fu una seconda edita a Napoli (Campo, 1784) e a Venezia (Formaleoni, 1786).

([9]) Vincenzo Piombi, ecclesiastico e notevole figura di giornalista politico, fu anche socio dell’editore Anton Giuseppe Pagani.

([10]) Questo testo, come anche alcune valutazioni storiografiche, sono tratte dall’interessante e stimolante saggio: Andrea Del Col, Osservazioni preliminari sulla storiografia dell’Inquisizione romana, in Identità italiana e cattolicesimo. Una prospettiva storica, a cura di Cesare Mozzarelli, Roma, Carrocci, 2003 pp. 75-137

([11]) Nonostante l’ovvio tentativo di stroncatura da parte del Commissario Generale dell’Inquisizione P. Tommaso Vincenzo Pani O.P. che, citando il libro più volte nel suo Della punizione degli eretici, lo definirà, con il solito metodo e linguaggio tipico del polemico ottuso apologista, sic et simpliciter: «Serie di calunnie e persecuzioni inventate, e promosse contro l’Inquisizione di Toscana».

([12]) Per fare degli esempi: dal Discorso dell’Origine dell’Ufficio dell’Inquisitione del Sarpi, in particolare dall’excursus storico introduttivo al commento dei Capitoli, riprende le notizie sulle difficoltà incontrate nell’introdurre l’Inquisizione in Germania, mentre dalla Relation de l’Inquisition de Goa del Dellon, in particolare dal Cap. XXIII, attinge quelle sull’Inquisizione in quel paese.

([13]) Recentissima è l’edizione critica del Dom Carlos a cura di Giorgio Sale, Milano, Il Filarete, 2002.

([14]) Il Becattini è ben consapevole delle polemiche sorte tra gli storici su alcuni aspetti della “storia” tanto da affermare, in un suo precedente scritto, che la «verità (su Carlo II) è stata sempre sepolta nel più impenetrabile mistero».

([15]) Ispirandosi, per sua stessa ammissione, alla notizie riportate nella Vita del Catolico Re Filippo II Monarca delle Spagne di Gregorio Leti, pubblicato pochi anni dopo la novella del Saint-Réal..

([16]) Cfr. L.Corsi-T.Crudeli, Il calamaio del padre inquisitore. Istoria della Carcerazione del Dottor Tommaso Crudeli di Poppi e della Processura formata contro di lui nel Tribunale del S. Offizio di Firenze, a cura di R. Rabboni, Udine, Del Bianco, 2003.

([17]) Il Pani nella Prima lettera del suo Della punizione degli eretici così racconta l’avvenimento: «Venne alla luce al primo urto che soffrì la nuova setta dagl’Inquisitori Tetzelio e Prierate, e fù stampato colla falsa data di Roma nel 1553. e colla mentita approvazione dello stesso Prierate e de’ Cardinali della S. Inquisizione, i quali mossi da tanto ardire ne promulgarono la meritata condanna insieme coll’altr’ opera intitolata Eusebius captivus, che espone già messe in pratica le false e calunniose regole fissate in quello, ed i principali dommi della cattolica Religione urta e calpesta».

([18]) «...tra quelli che con impegno maggiore e colle perverse loro produzioni hanno procurato di accreditare quelle massime che combattono il sagro tribunale dell'Inquisizione, io non trovo chi a ragione si possa anteporre a Girolamo Mario autore del sedizioso ed empio libro intitolato Tractatus de arte & modo inquirendi Haereticos»: cfr. Pani, Della punizione degli eretici, Lettera prima.

([19]) Lami lezione XV., Racine Tomo IX.

([20]) Lami lezione XVI

([21]) Histoire des Inquisitions Tomo II.

([22]) Calrera Istoria.

([23]) Histoire des Inquisitions Tom. I.

([24]) Istoria Austriaca Tom. III.

([25]) Così nel testo. (N.d.R.)

([26]) Più precisamente: D. Fernando de Valdés. (N.d.R.)

([27]) Don Carlos di Spagna (1545-1568), nato dal primo matrimonio di Filippo II con la cugina Maria del Portogallo, fu sospettato dal padre di aver cospirato contro di lui. Arrestato e imprigionato, morì poco tempo dopo in circostanze ancora oggi rimaste controverse. (N.d.R.)

([28]) Isabel de Valois (1545-1568), figlia di Enrico II di Francia. Fu presa in moglie da Filippo II nel 1560, in connessione alla Pace di Cateau-Cambrésis, nonostante fosse promessa sposa a Don Carlos. (N.d.R.)

([29]) Più che un fatto storico è riportata una probabile leggenda che ha lasciato profonda traccia nella cultura europea grazie anche al libro Dom Carlos. Nouvelle historique, di César Vichard de Saint-Réal, pubblicato nel 1672. L’Opera ebbe decine di edizioni in tutte le lingue (recentissima è l’edizione critica di Giorgio Sale – Ed. Il Filarete, 2002) e influenzò sia opere musicali, quali il Don Carlos di Verdi, sia letterarie, quali quelle di Schiller e di Alfieri.(N.d.R.)

([30]) Ferreras, Miniana, Gregorio Leti, Watson: Vita di Filippo II.

([31]) Cabrera, Herrera, Campana, Ferreras, Marmontel.

([32]) Mantere = mantenere (N.d.R.)

([33]) Sbranati = squartati. (N.d.R.)

([34]) Istoria di Casa d’Austria T. III.

([35]) Così nel testo, anche se ne vengono elencate quattro. (N.d.R.)

([36]) Istoria di Luigi XIV. Tomo III.

([37]) Continuazione degli Annali d’Italia anno 1761.

([38]) Histoire des Inquisitions T. II. Storia della Rivoluzione del Portogallo.

([39]) Continuazione degli Annali d’Italia.

([40]) Nel testo “un”(!). (N.d.R.)

([41]) Histoire des Inquisitions Tom. I

([42]) Una dettagliata cronaca e descrizione di un Atto pubblico di Fede, è presentata da Antonino Mongitore nel suo libro, L’Atto pubblico di Fede solennemente celebrato nella Città di Palermo à 6 Aprile 1724 dal Tribunale del S. Uffizio di Sicilia – Palermo 1724, reperibile in rete su Liber Liber. (N.d.R.)

([43]) Histoire des Inquisitions Tom. II.

([44]) "maglii" nel testo. (N.d.R.)

([45]) Cfr. Fra Paolo Sarpi, Discorso dell’origine, forma, leggi, ed uso dell’Ufficio dell’Inquisitione nella Città, e Dominio di Venetia.  [Disponibile in rete su Liber Liber.] (N.d.R)

([46]) Cfr. Fra Paolo Sarpi, Historia Particolare delle cose passate tra il Sommo Pontefice Paolo V. e la Serenissima republica di Venezia. [Disponibile in rete su Liber Liber.] (N.d.R.)

([47]) Così nel testo per “Monitorio”. (N.d.R.)

([48]) Ovvero: Enrico IV di Borbone, (Re di Francia, 1598-1610). (N.d.R.)

([49]) Storia della Casa d’Austria T. IV.

([50]) Filippo Limborch.

([51]) Lami lezioni. Fleury libro LXXXIII, Racine Tomo IX.

([52]) Villani libro X.

([53]) Libro MS. di casi diversi P. III.

([54]) Scipione Ammirato, Mecatti, Lastri Oss. Fior.

([55]) Istoria del Granducato di Toscana Tom. II.

([56]) Istoria del Granducato di Toscana Tom. III.

([57]) Lami lezione XVI. Galluzzi Istoria Tomo III.

([58]) Istoria del Granducato di Toscana T. IV.

([59]) Istoria segreta di Henrico IV. Tomo III.

([60]) Nel testo: “Iacopo”. (N.d.R.)

([61]) Così nel testo (N.d.R.)

([62]) Osservator Fiorentino. Istoria del Granducato di Toscana.

([63]) Istoria del Granducato di Toscana T. VIII.

([64]) Nel testo: “Confessoro”. (N.d.R.)

([65]) Diario N. 5. esistente nella Magliabecana.

([66]) Storia Critica d’Italia T. II.

([67]) La Relazione è opera in realtà del Crudeli stesso e di Luca Antonio Corsi, suo amico e confratello. Ė merito del Becattini averla voluta pubblicare per la prima volta, seppur anonima, in questa sua opera; tuttavia bisogna ascrivere a suo demerito, l’aver voluto effettuare, rispetto ai manoscritti originari, tagli e censure.

Cfr. L.Corsi-T.Crudeli, Il calamaio del padre inquisitore. Istoria della Carcerazione del Dottor Tommaso Crudeli di Poppi e della Processura formata contro di lui nel Tribunale del S. Offizio di Firenze, a cura di R. Rabboni, Udine, Del Bianco, 2003. (N.d.R)

([68]) Si trattava di Bernardino Pupiliani e del nobile Andrea D’Orazio Minerbetti che ritrattarono le confessioni loro estorte rispettivamente il 4 e l’11 Luglio 1740. L’Inquisitore di Firenze dell’epoca era il Padre Paolo Antonio Ambrogi, che tenne tale carica dal 1727 al 1741 (N.d.R.)

([69]) Mancante nel testo. (N.d.R.)

([70]) Nel testo al posto della “,“ è stato usato “?”.(N.d.R.)

([71]) Sottinteso o omesso “eretiche”. (N.d.R.)

([72]) Nel testo “aggungendo”. (N.d.R.)

([73]) Le formule, gli atti, i giuramenti, e l’eresie delle quali veniva accusato, e che si asseriva praticarsi nell’essere accettato in detta adunanza, non si riportano per essere molto indecenti, troppo lontane dal vero, e per fino repugnanti l’umanità.

([74]) Ripetuto nel testo. (N.d.R.)

([75]) Eufemismo per “ tortura”. (N.d.R.)