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PRIVILEGIA
NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
Modesto Rastrelli
F A T T
I A T T E N E N T I
ALL’INQUISIZIONE
E SUA
ISTORIA GENERALE
E PARTICOLARE
DI TOSCANA
FIRENZE MDCCLXXXII.
-----------------------------------------------------
PER ANTON –
GIUSEPPE PAGANI, E COMPi
INDICE
FATTI ATTENENTI
ALL’INQUISIZIONE
(A cura del
Redattore dell’edizione elettronica Manuzio)
L’Autore ([1])
Francesco Becattini nasce a Firenze il
26 gennaio 1743, figlio di Michele e di Lucrezia da Galasso. A vent’anni soffre
la morte del padre ed eredita il negozio di famiglia, una grosseria
(attività mista di setaiolo e di merciaio) di cui tuttavia per
volontà testamentaria non potrà disporre prima di aver compiuto i
trentasei anni. La motivazione addotta dal padre nel testamento è che
l’«unico figliolo amatissimo» non è «bastantemente istruito per la retta
amministrazione del suo negozio di setaiolo, e grossieria». La vera passione di
Francesco è infatti per i libri e la stampa, per la storia, per il
teatro e la poesia, insomma, egli ha una gran voglia di scrivere e di creare e
ciò lo porta a frequentare l’Accademia degli Apatisti([2]). Nello stesso anno della
morte del padre, nel 1763, Francesco sposa una brava giovane di onorata
famiglia, Anna Maria Ostili che gli darà un erede maschio, lo sfortunato
e malaticcio Stefano.
Purtroppo i timori del padre vengono
confermati quando, verso la metà del 1771, lo scapestrato Francesco deve
fuggire da Firenze, riparando a Napoli, per non poter far fronte ai debiti
contratti. Durante il soggiorno napoletano Becattini riesce a pubblicare presso
il Gravier gli Annali d’Italia dall’anno di Cristo 1750 fino all’anno 1770, che
considera, poco modestamente, la continuazione degli Annali del
Muratori. Autorizzato, all’inizio del
Screditato da questo pubblico
provvedimento, il poligrafo perde l’impiego di estensore delle Gazzette ed
ignorando quanto la moglie e il figlio Stefano malato abbiano bisogno del suo
sostegno morale e materiale, non trova di meglio che sottrarsi alle proprie
responsabilità fuggendo da Firenze per riparare di nuovo a Napoli.
Durante questo soggiorno, tra il 1783 e il 1784, il Becattini si dedica alla
pubblicazione di nuovi lavori e alla seconda edizione della sua Istoria
dell’Inquisizione.
Da Napoli si trasferisce a Roma
assumendo dapprima l’incarico di estensore del Giornale delle Belle Arti e
della Incisione Antiquaria, Musica, e Poesia, e quindi, cessate le
pubblicazioni di questo periodico nel 1788, si dedica alla redazione del
bisettimanale Notizie politiche. Sarà proprio questa
collaborazione che porterà il poligrafo, nel 1790, ad una nuova
espulsione, questa volta dallo Stato Pontificio. Anche se i motivi ufficiali
della carcerazione di Francesco, e della sua conseguente espulsione, sono le
accuse di aver diffamato la Chiesa in alcuni suoi libri, la verità si
deve ricercare negli articoli pubblicati dalle Notizie politiche. Per
alcuni mesi il bisettimanale pubblica metodicamente resoconti e articoli sulle
sommosse che si verificano in varie località della Toscana. Indicate
come conseguenza delle riforme Leopoldine in materia religiosa, in
realtà sono dovute alla difficile situazione economica che soffre la
popolazione del Granducato.
Questo atteggiamento viene
considerato, dalla Reggenza Toscana, come sostegno politico e incitazione ai
rivoltosi. Pietro Leopoldo, avute le informazioni che quanto pubblicato era da
imputarsi ad un preordinato ed interessato disegno della Segreteria di Stato
Pontificia, impone un deciso passo ufficiale al fine di troncare questi
pericolosi ed inaccettabili interventi, minacciando la rottura dei rapporti
diplomatici con la Santa Sede. Il Becattini, dopo una detenzione di qualche
mese come capo espiatorio, deve lasciare Roma accompagnato, secondo le sue
parole, «dalla comprensione papale che lo fornisce di raccomandazioni ed
attestati, perché potesse procacciarsi altrove miglior fortuna»([3]).
Partito da Roma, dopo un breve ed
illogico tentativo di rientrare nel Granducato, trova rifugio nella Repubblica
di Venezia. Qui si dedica, oltre alla pubblicazione di nuovi libri e alla
riedizione di alcuni suoi precedenti lavori, anche alla gestione di una
stamperia.
L’occupazione francese e la nascita
della Repubblica Cisalpina lo portano nel
Ritornato a Venezia, rientrerà
a Milano alla caduta della Cisalpina, per mettersi al servizio degli austriaci
con la delazione([4])
e la penna. Ma, come scaltro opportunista, non appena l’Austria soccombe nella
terza coalizione, ecco che Becattini abbraccia la Francia Napoleonica e pubblica
il Commentario sulle imprese di guerra di Napoleone il Grande.
Quest’opera, uscita a Firenze, ottiene un notevole successo tanto da indurre il
suo autore a rientrare nel
Il testo che qui viene presentato
è tratto dalla prima edizione dell’opera, pubblicata a Firenze nel
settembre del 1782. Uscito anonimo, il libro è stato talvolta([5]) erroneamente attribuito
all’abate Modesto Rastrelli([6]), una figura minore
d’instancabile, quanto sfortunato, pubblicista fiorentino.
Come ben sapevano i contemporanei
dell’epoca, l’anonimo autore era invece Francesco Becattini. La Gazzetta
Universale che veniva pubblicata a Firenze, nel numero del 10 settembre
1782 riportava infatti: «è stata pubblicata dall’autore medesimo della
Vita di Maria Teresa, e dell’Istoria Austriaca un’esatta Istoria
dell’Inquisizione (....). In essa si sviluppa, e si narra l’origine di quel
Tribunale, la sua introduzione in Francia, Spagna, Portogallo, Italia, Sicilia,
Malta ecc., con la descrizione degli Atti di Fede; molti avvenimenti, e
aneddoti di somma importanza. Si passa poi specialmente in Firenze e, dopo la
narrativa di varj accidenti, si termina col famoso fatto del celebre Crudeli,
che dette motivo a una riforma totale del S. Ufizio in Toscana. Vi sono pure
due rami, il primo de’ quali rappresenta i martirj che si davano, e l’altro le
vestiture di quelli che andavano a morte. Si vende da Anton Giuseppe, e
Giovacchino Pagani al tenue prezzo di 3 paoli».([7])
I motivi della pubblicazione senza nome
dell’autore, saranno spiegati dal Becattini, con una certa vivacità,
nella prefazione alla terza edizione dell’opera([8]), edita a Milano nel 1797,
con il titolo Istoria dell’Inquisizione ossia S. Uffizio, corredata di
opportuni e rari documenti, data per la terza volta alla luce con aggiunte da
Francesco Becattini, accademico apatista, che qui riportiamo:
“Abolita per sempre dall’Imperatore
Giuseppe II nel 1775 l’Inquisizione o s. Uffizio in Milano, e successivamente
da Ferdinando IV di Borbone nell’Isola di Sicilia e dall’Arciduca poi
Imperatore Leopoldo II Granduca di Toscana nel
Nei Fatti attenenti... il
Becattini non si presenta tanto come ricercatore o storico, quanto come un
autore che riporta e riassume, con una certa efficacia, notizie e fatti tratti
da vari autori. Se il fine è quello divulgativo, il libro può
dirsi riuscito. Infatti, fu accolto con un buon successo([11]), come provano le varie
edizioni. In poco più di duecento pagine viene dipinto un quadro dell’Inquisizione
che ha oltre settecento anni di vita. È stringatissimo ma, per quanto
riguarda le procedure inquisitoriali, esse emergono, nella loro essenza, in
modo particolarmente completo e attendibile.
Per l’aspetto storico, il Becattini
si appoggia e si attiene alle notizie attinte da seri e importanti autori come
Limborch, Marsollier, Sarpi, Dellon, Lami([12]), ma è soprattutto
dall’Histoire des inquisitions di Claude Pierre Goujet che egli trae
spunto per l’impianto generale della sua opera. In un caso, tuttavia, il nostro
autore decide di fare un’eccezione: riprende una vicenda che poco ha di storico
ed è piuttosto una leggenda. Sono gli avvenimenti accaduti a Carlo II,
erede al trono di Spagna. Utilizzati originariamente in chiave di propaganda
antispagnola, servirono, poi, come trama per la pubblicazione nel 1672, di una
novella, il Dom Carlos di Saint-Réal, che ebbe un tale successo in
Europa da richiedere, nei soli primi venti anni dalla sua comparsa, non meno di
dodici edizioni e costituendo, anche ai nostri giorni([13]), motivo d’interesse.
Ma bisogna comprendere il
Becattini... Su questa “storia”([14]), aveva costruito una sua
Tragedia, il Don Carlo Principe d’Asturie([15]), che non solo fu
rappresentata a Firenze nel 1772 nel Teatro di via del Cocomero “per due sere
consecutive con universale applauso”, ma fu anche accolta nel celebre annuale
Concorso per autori di Tragedie e Commedie in verso sciolto, che si
teneva nella città di Parma. Con ciò precorrendo altri autori che
si mostreranno interessati alla “storia”, come Alfieri, Schiller e
Verdi, tutti più o meno influenzati dagli scritti del Saint-Réal o del
Leti.
Di matrice illuminista, il primo
libro italiano sulla storia dell’Inquisizione non poteva che evidenziare la
crudeltà e l’oscurantismo di questa Istituzione, descrivendo, nella sua
parte finale, il martirio di alcuni dei dissidenti toscani dell’età
moderna dal Paleario ai Sozzini, dal Carnesecchi a Galileo, dalle streghe
senesi a Pandolfo Ricasoli.
Una annotazione particolare merita la
«Relazione» posta al termine del libro e che può definirsi una vera e
propria appendice. Si tratta «Della carcerazione del Dottor Tommaso Crudeli di
Poppi, e della processura formata contro di lui nel Tribunale del S. Ufizio di
Firenze l’anno 1739», che, presentata anonimamente, parrebbe opera del
Becattini. In realtà la «Relazione» ha come autori Luca Antonio Corsi e
lo stesso Crudeli. È merito del Becattini aver pubblicato il manoscritto
per la prima volta anche se, purtroppo, con tagli e censure arbitrarie.([16])
Il libro del Becattini fu posto
all’Indice nel 1817, entrando così a pieno titolo nella serie di quelle
opere anti-inquisitoriali nate, con la pubblicazione rocambolesca nel 1553 del Tractatus
de arte & modo inquirendi Haereticos([17]) da parte di Hieronjmus
Marius o Massarius([18]),
quasi contestualmente con l’istituzione stessa dell’Inquisizione romana.
Della notevole produzione di
Francesco Becattini si possono segnalare:
Annali d’Italia dall’anno di Cristo
1750 fino all’anno 1770. – Napoli, 1771.
Istoria generale dell’Augustissima
Casa d’Austria contenente una descrizione esatta di tutti i suoi Imperatori Re,
Arciduchi...tratta da molti Autori antichi, e moderni, e compilata per la prima
volta secondo l’ordine dei tempi da un Accademico Apatista. – Firenze,
1773/1784.
Compendio storico della vita
dell’augustissima imperatrice e regina apostolica ec.ec. Maria Teresa d’Austria
e fasti del suo regno, corredato con gli opportuni documenti – Losanna [ma
Firenze], 1781.
Fatti attenenti all’Inquisizione e
sua istoria generale e particolare di Toscana – Firenze
1782.
Storia della Piccola Crimea. – Napoli,
1783.
Istoria e descrizione in compendio
della Città e Regno di Algeri dalla sua fondazione fino a’ giorni
nostri... – Napoli, 1783
Storia ragionata de’ Turchi, e
degl’Imperatori di Costantinopoli, di Germania, e di Russia , e d’altre Potenze
Cristiane. Venezia, 1788/1791 in otto volumi.
Vita e fasti di Giuseppe 2.
imperatore de’ romani scritta da un accademico apatista, e corredata dei
necessari documenti – Lugano [ma Venezia], 1790.
Storia del Regno di Carlo III di
Borbone Re Cattolico delle Spagne e dell’Indie. – Venezia,
1790.
Vita e azioni militari di Ernesto
Gedeone Barone di Laudon... – Venezia, 1791.
Compendio storico genealogico della
nobilissima famiglia de’ Conti Grimaldi di Zara. – Venezia,
1792.
Il Compendio universale di tutte le
scienze e belle arti e di quanto è necessario a sapersi nel mondo, per
uso della gioventù....con più un ritratto a parte di ortografia
italiana e un ristretto di giografia antica. – Firenze, 1795.
Vita pubblica e privata di Pietro
Leopoldo d’Austria granduca di Toscana poi imperatore Leopoldo 2 - Filadelfia,
1796.
Per la resa del Castello di Milano
all’armi gloriose di S. M .I. e R. Francesco II nostro augustissimo sovrano,
Inno in replica con l’istesse rime di quello pubblicato dall’ab. Monti nella
sera del 21 gennaio 1799 – Milano, 1799.
Storia del memorabile triennale
governo francese e sedicente Cisalpino nella Lombardia, Lettere piacevoli ed
istruttive – Milano e Venezia, 1799 e 1800.
Storia di Pio 6 – Venezia,
1801-1802.
Commentario o sia esatta esposizione
delle campagne e luminose di S. M. Napoleone 1. il Grande imperatore de’
francesi e re d’Italia – Firenze, 1806.
Don Carlo Principe dell’Asturie. -
1772
Giasone e Medea. – 1773
Maria d’Angiò Regina di
Ungheria – 1776 (?)
L’Amore in Corsica. – 1780.
Siamo riconoscenti al Prof. Andrea
Del Col, dell’Università di Trieste, che non solo ci ha segnalato questo
libro in occasione del Convegno sull’Inquisizione, tenuto a Torre Pellice nel
settembre 2005, ma ha anche provveduto, con sensibile cortesia, a
trasmettercene una copia per consentici la redazione del presente testo
elettronico.
Roberto Derossi
Tra le molte eresie che hanno
lacerato il seno della Cattolica Chiesa, una ve ne è stata nel III.
Secolo propagata dall’empio Manete chiamato Curbico di origine Persiano,
e da esso detta de’ Manichei, che non ostante la severità delle
leggi politiche ed ecclesiastiche non fu mai sì totalmente estirpata e
distrutte, che di tempo in tempo sotto qualche aspetto, non tornasse a
ripullulare([19]).
La Setta degli Albigesi nel decimoterzo secolo fu come l’ammasso di tutti i
differenti rami del Manicheismo, e sin dall’anno 1204. trovavasi molto diffusa
nella Linguadoca, in Provenza, nel Delfinato, e in Aragona. Raimondo Conte
Sovrano di Tolosa favoriva questi eretici, che divenivano ogni giorno
più potenti per la negligenza dei Prelati, e per la vita poco edificante
del Clero. Benchè molti degl’infetti fossero laici si attribuirono non
pertanto il diritto di predicare, e specialmente nella Diocesi di Alby da cui
presero il nome. Offesi e scandalizzati da i disordini dei Preti giunsero
all’eccesso di sostenere, che le loro indegnità rendevanli incapaci del
Ministero Apostolico, e che non si doveano perciò ascoltare. Molti si
avanzarono anche di più, pretendendo che i Ministri dell’altare
scostumati non potessero nè consacrare nè dare l’assoluzione.
Passarono dipoi ad attaccare la Dottrina della Chiesa sul culto dei Santi, le
Reliquie, le Indulgenze, le cerimonie della Religione, i Sacramenti, il
Purgatorio. Finalmente sostennero, che la Chiesa Romana non era più la
vera Chiesa di Gesù Cristo, e condannarono la maggior parte delle
costumanze di quella. Insegnavano, che i Sacramenti non aveano più
alcuna utilità per la salute, che il diavolo è l’autore del
Mondo, che il Matrimonio è un peccato mortale, come pure il mangiar
carne, e nel tempo istesso s’immergevano nelle più abominevoli e
vergognose dissolutezze.
I Sommi Pontefici supplir volendo in
qualche maniera alla mancanza e trascuratezza de’ Vescovi poco avanti
simoniaci, e concubinarj, ed ora per lo più sonnacchiosi e negligenti, e
dar loro come un stimolo ed ajuto, che già soccorresse sotto il grave
incarico delle Pastorali cure, e gli eccitasse a scuotere la gola, il sonno, e
le oziose piume, risvegliando la sbandita sacerdotale vigilanza in tempo di
tanti sconvolgimenti della Chiesa, pensarono costituire certi Giudici delegati,
e straordinarj, i quali accorressero come ausiliarj a’ Prelati, che pure
bramavano esterminare l’eresìe([20]). E poichè in que’
tempi barbari e tenebrosi erano i Monaci, e gli altri Religiosi più
zelanti de’ Sacerdoti che stavano al Secolo, più dotti e più
disoccupati insieme degli altri, elessero questi in modo speciale per tale
Ufizio. A tale oggetto Innocenzo III. (prima Lotario figlio di Trasmondo Conte
di Segni) nel 1204. inviò nella Linguadoca e paesi adiacenti Arnaldo,
Pietro da Castel Nuovo, e Ridolfo Monaci Cisterciensi con pienissima
autorità di procedere contro i suddetti eretici Albigesi, come apparisce
dalla sua Bolla o Lettera in data dei 19. Maggio di detto anno, e questo
è il principio, e l’incominciamento della Inquisizione della Chiesa,
essendo stata per lo spazio di dodici secoli incombenza de’ Vescovi, e de’
Prelati l’invigilare e adoprarsi alla repressione dell’eresìe, e all’estirpazione
degli errori come a proposito osservano l’erudito Vanespen, il Padre
Richini, e Fra Paolo Sarpi.
In seguito di ciò nel 1208. fu
predicata per tutta la Francia la Crociata contro gli Eretici Albigesi, come
predicata erasi per più di 150. anni di seguito contro i Maomettani, che
ritenevano Gerusalemme e i Luoghi Santi, empiendo l’Europa di un fanatismo e di
un entusiasmo, che ad altro non servirono che a spopolarla. Il predetto
Raimondo Conte di Tolosa non potendo resistere alla piena degli armati, che
marciavano contro di lui, dovette cedere sette migliori Castelli al Papa, e
chiedere umilmente l’assoluzione. Ecco in che modo si fece questa cerimonia. Il
dì 18. Giugno 1209. fu il Conte condotto con la sola camicia indosso
avanti la porta della principal Chiesa della sua capitale in presenza del
Legato Pontificio e di 20. fra Vescovi e Arcivescovi, e sul Corpo del Signore e
della Santa Croce giurò di osservare gli articoli tutti, per i quali era
stato scomunicato, ed eseguire in tutto e per tutto gli ordini del Papa, e de’
Legati: dopo ciò costretto venne a passeggiar più volte la Chiesa
con una fune al collo in guisa di stola e farsi anch’egli Crociato. Giunto
l’esercito di questi avanti la Città di Beziers, presero nel dì
22. Luglio la Piazza per sorpresa, passarono a fil di spada tutti gli abitanti,
e dettero fuoco alle abitazioni. Nella sola Chiesa di S. Maria Maddalena vi
furono abbruciate 7. mila persone fra donne e ragazzi ivi refugiati. Simone di
Monfort Capo de’ Crociati contro gli eretici ne condannò molti, istigato
da’ Legati Pontificj, a perder la vita fra le fiamme, e queste orribili
esecuzioni furono il primo frutto del Tribunale dell’Inquisizione.
I Frati Predicatori, e i Francescani
poco dopo il loro nascimento, cioè a dire verso la metà del
Secolo XIII. eletti vennero da Onorio III. a fare la ricerca degli Eretici. San
Domenico incaricato d’invigilare alla conservazione della Fede avea un animo
dotato di somma scienza, fermezza, prudenza, saviezza, tenero e ardente amore
per la Chiesa, e per la salute dell’anime. Sopratutto un perfetto disinteresse
lo rendeva superiore a ogni sospetto di agire per altro fine, che per la gloria
di Dio e della Cattolica Religione. Egli era di parere, che non si dovessero
impiegare contro gli Eretici che infettavano la Francia che le sole armi, di
cui S. Paolo si era servito contro i Gentili, e delle quali raccomandò
caldamente l’uso a suoi Discepoli in omni patientia et doctrina.
Quantunque avesse a fare con i cuori più induriti, e spiriti fanatici
ripieni d’odio contro i Predicatori del Vangelo, non si stancava giammai.
Spendeva la maggior parte delle notti a pregare o a gemere avanti a Dio per
ottenere a calde lacrime la conversione degli eretici, e consumava le intere
giornate a istruirli ed esortarli con dolcezza. Cercava quelli che fuggivano la
luce, senza giammai lagnarsi di coloro che gli rendevano male per bene, e un
sì puro zelo, unito a tante eroiche virtù, induceva qualche volta
i più ostinati alla conversione. Chi avea resistito alla forza dei
discorsi e all’evidenza de’ miracoli, si dava per vinto alla dolce persuasiva
del suo esempio, o piuttosto all’interna virtù della grazia, che
facendogli venerare la santità del predicatore lo conduceva gradatamente
per la via della verità e della vita.
Tale era appresso a poco S.
Francesco, che non meno dell’altro si sforzava d’inculcare a’ suoi compagni nel
sacro ministero di convertire gli eretici, l’adoprare la moderazione, la
dolcezza, la carità, e la mansuetudine secondo lo spirito del Vangelo([21]). Ma le passioni che
agitano di continuo il cuore umano, è difficil cosa che non inducano chi
è rivestito di qualche autorità e preminenza sopra gli altri
uomini a non abusarne. Verso l’anno 1255. ad istanza di S. Luigi IX.,
Alessandro IV. dette al Provinciale de’ Padri Domenicani, e al Guardiano de’
Frati Minori di Parigi la soprintendenza sull’Inquisizione di tutto il Regno di
Francia con la facoltà e potestà quasi assoluta di citare
qualunque persona eretica o sospetta di eresìa, scomunicarla, accordar
delle indulgenze a’ Principi dediti a sterminare i colpevoli, e fare tutti gli
atti necessarj per l’esercizio del loro impiego privativamente a qualunque
altro Tribunale. In poco tempo affermano Fleury, e Racine, gl’Inquisitori si
resero tanto odiosi unitamente a loro seguaci, che una tal giurisdizione
concessa a Sacerdoti, che renunziato aveano per voto a tutte le cose mondane,
inasprì al maggior segno i popoli contro di essi. Un Minor Conventuale
Inquisitore assistè personalmente alla sentenza emanata con tante
formalità contro i Cavalieri Templari sotto Filippo il Bello per abolire
quell’Istituto sul principio del Secolo XIV., ma ben presto una generale
sollevazione di tutti gli spiriti contro le loro procedure non lasciò a
predetti Religiosi che un titolo inutile. L’Inquisizione in Francia decadde poi
con somma celerità più che altrove di credito, e di potere. I
Vescovi Francesi che si vedeano togliere un diritto, che loro apparteneva sin
dalla prima instituzione, lo reclamarono altamente, onde la Corte di Roma gli
associò agl’Inquisitori, ma ciò non bastò a sostenere il
credito di quest’ultimi.
Contemporaneamente la Corte
Pontificia tentò ogni mezzo per stabilire l’Inquisizione in Germania, ma
l’umore libero e generoso dei Tedeschi, non accomodandosi co’ rigori eccessivi
di questo Tribunale vi si oppose con una fermezza tale, che obbligò i
Pontefici ad abbandonare l’impresa. Essa andava lusingandosi che il tempo e i
maneggiati avrebbero in fine fatto riuscire il progetto, ma il tempo non
servì che a farle comprendere, che i Tedeschi non avrebbero mai subito
questo giogo, specialmente allorchè vedde i ministri del Tribunale del
Sant’Ufizio scacciati da diverse Città, non ostante la cura che si
prendevano gl’Inquisitori di usare una dolcezza inusitata in altri Paesi di
Europa. In Inghilterra, e ne’ Paesi Bassi ogni tentativo e de’ Papi e
degl’Inquisitori fu vano. Per quel che riguarda l’Inghilterra, l’umore de’
popoli di quella grand’Isola, più nemici ancora dei rimedi violenti e
più facile a sollevarsi che i Francesi, e i Tedeschi, parve sì
opposto a principj del nuovo Tribunale, che tutti gli sforzi fatti per
stabilirlo si conobbero inutili, e che quando anche il Papa, chi vi avea
maggior credito, che negli altri Paesi della Cristianità, avesse avuto
bastante credito per farlo ricevere, non vi avrebbe potuto avere lunga
sussistenza. Fu abbandonata perciò una tale idea con altrettanto maggior
dispiacere in quanto che l’Inglese, essendo di tutte le Nazioni quella che
è più portata a parlare in pubblico e a dommatizzare, sembrava che
più di ogni altra ne avesse bisogno. per quel che riguarda le XVII.
Provincie dei Paesi Bassi divise allora sotto varj Sovrani che vi comandavano
col titolo di Duca, Conte, e Signore, la conformità dell’umore dei
popoli con i Tedeschi e Francesi, in mezzo a quali sono situati, fece
similmente comprendere non esser possibile l’introduzione dell’Inquisizione, e
in tal guisa i Vescovi rimasero in possesso dell’autorità di giudicar
soli dei delitti di eresìa.
Restarono le cose in questi Paesi nel
descritto stato sino al Secolo XVI., ma quel che l’Inquisizione o perdeva o non
aumentava in detti luoghi, lo acquistava a gran passi ne’ diversi Regni, che
allora esistevano in Spagna ed in specie in Aragona, poichè
gl’Inquisitori Domenicani nel secolo XV. ebbero il coraggio di citare avanti al
loro Tribunale Don Carlo Principe di Viana Figlio maggiore di Don Giovanni II.
Re di Aragona, e molto vi volle per salvarlo dal loro rigore([22]). Nel Regno di Castiglia
languiva egualmente che in Francia, e non fu che nel 1478. che venne
formalmente ricevuta, e che spiegò quella forza e quel rigore, che
nè per l’avanti nè dopo si è mai veduto in alcun
Tribunale. Il genio degli Spagnuoli era in que’ tempi più austero e
più crudele di qualunque altra Nazione, e ciò si conosce dall’eccesso
di atrocità che messero nell’esercizio di una giurisdizione, che non
avrebbe dovuto adoprare che la mansuetudine. I Papi eretto aveano questo
Tribunale per politica, e i Frati Spagnuoli vi aggiunsero le barbarie. Era
divenuta l’Inquisizione in Castiglia come in Francia l’oggetto del disprezzo
del popolo e de’ grandi, e sarebbe forse stata obbligata a uscirne con poca
sodisfazione, se Isabella e Ferdinando, che aveano riuniti i due Regni di
Castiglia e di Aragona, e in conseguenza tutta la Spagna fuori del Portogallo
sotto il loro dominio non l’avessero sostenuta. Giovanni di Torquemada
Domenicano Confessore di detta Regina le avea fatto promettere avanti che
giungesse a la Corona di non risparmiar cosa alcuna per esterminare gli eretici
e gl’infedeli. Ascesa di poco tempo al trono le fece concepire il disegno di
conquistare il Regno di Granata, che era l’unico che fosse restato in potere
de’ Mori, che invasi aveano poco avanti i tempi di Carlo Magno, tutti i Regni
delle Spagne.
Allorchè Maometto II. soggiogata
ebbe la Grecia, e Costantinopoli, i suoi successori lasciarono i vinti Greci
nella loro Religione, e i Mori dopo aver vinte le Spagne non aveano costretti i
Cristiani a divenir Musulmani. Ma dopo la presa della Città e prefato
Regno, che riuscì più felice di quel che non si sperava, il
Cardinal Ximenes Zoccolante primo Ministro di detta Regina unitamente al
Torquemada, volle che tutti i Mori divenissero Cristiani, o sia che vi fosse
indotto da un feroce zelo, o che ascoltasse l’ambizione di avere un nuovo
popolo sottomesso alla sua Primazia. Molti dei Mori passarono in Africa, ma la
parte più grande restò in Spagna, o ritenuta dai contratti
maritaggi, o dai differenti stabilimenti di commercio, o finalmente
perchè i beni che possedeva non si poteano trasportare. Ferdinando il
maggior politico de’ suoi tempi, che per tal conquista nel 1500. ottenne il
titolo di Re Cattolico, conobbe che non si potea obbligar tutti a passare il
mare senza spopolare affatto i nuovi Stati guadagnati per conquista, e l’Aragona
e la Valenza ove i Mori sotto la sede degli antichi trattati vivevano nella
maggior tranquillità. Ma per compiacere alla moglie, che si era
riservato il diritto di sovranità nella Castiglia, consentì ad
obbligare i Mori e gli Ebrei, che erano in grandissimo numero per tutte le
Spagne a rinunziare alla loro Religione. Quegl’infelici che non poteano
dispensarsi dal ricevere la legge del vincitore, acconsentirono a quanto da
essi si richiese; cioè a dire si fecero Cristiani in apparenza, conservando
nel cuore la loro antica Religione. Torquemada e Ximenes, che preveddero il
pregiudizio che una tal dissimulazione recato avrebbe allo Stato,
rappresentarono a Isabella, che la politica e la di lei coscienza richiedevano
che mantenesse la data parola di perseguitare gl’infedeli, e che sino a tanto
che i Mori e gli Ebrei sarebbero attaccati all’antico loro culto, questa
segreta inclinazione non potea fare a meno di non produrre delle pericolose
ribellioni, che sarebbero state infallibilmente sostenute da’ Mori dell’Affrica,
quali aveano troppo interesse di ritornare in Spagna, per non approfittare di
tutte le congiunture: che il mezzo di renderli irreconciliabili fra loro era di
costringere quelli che restavano ad essere buoni seguaci di Cristo, e siccome
non era possibile che lo fossero volontariamente, era d’uopo usar la forza: che
per verità un tale espediente diminuito avrebbe il numero de’ sudditi,
ma era meglio averne pochi e fedeli a Dio e allo Stato, che gran
quantità di fede equivoca e da temersi([23]).
Queste ragioni fatta avendo
impressione nello spirito della Regina, che era più fortunata che di
gran mente, Ximenes che ambiva di convertire i Maomettani con l’istessa
velocità con cui gli avea messi sotto il giogo, le fece vedere, che per
ben riuscire nel proposto piano, era d’uopo stabilire l’Inquisizione in Spagna
con tutto il massimo rigore, e che per verità era questo un mezzo
più lento di una guerra dichiarata, ma anche più sicuro, e
servito avrebbe di rimedio perpetuo a un male che non potea guarirsi co’
lenitivi, e avea bisogno di ferro e di fuoco. Allora fu di comune consenso de’
Regnanti due Coniugi Monarchi, fu chiesta al Pontefice Sisto IV. della Rovere
una Bolla per un nuovo stabilimento dell’Inquisizione ne’ Regni di Aragona,
Castiglia, Valenza, Leone, Murcia, Galizia, Andalusia, e in tutta l’estensione
degli Stati di Ferdinando e d’Isabella anche di là dal mare, e questa
concessa venne nel 1483. Torquemada che sì ben servita avea la Corte di
Roma, dette all’Inquisizione Spagnuola una forma giuridica opposta a tutte le
umane leggi, che si è per gran tempo conservata, e ne fu nominato il
primo Inquisitore Generale con piena plenipotenza, e quasi indipendente dalla
Santa Sede, i di cui Decreti in Spagna non hanno alcun vigore se non sono prima
approvati e rivisti dal Supremo Consiglio di Castiglia. In quattordici anni
dopo la Bolla, narrano gli Storici, che fosse fatto in tutta l’estensione delle
Spagne il processo a più di 80. mila persone, e più di 6. mila
infelici bruciati vennero a fuoco lento nella gran Piazza di Vagliadolid e di
altre principali Città con tutto l’apparato delle più auguste
cerimonie. Tuttociò che ci vien raccontato de’ popoli, che han
sacrificate vittime umane alle false divinità, non può assomigliarsi
a queste esecuzioni accompagnate da una religiosa pompa esteriore. Un modo
così terribile di procedere, inaudito fino a questi tempi, tremar fece
tutta la Monarchia Spagnuola. La diffidenza s’impadronì di tutti gli
spiriti, e restò affatto sbandita la società e l’amicizia. Il
fratello temeva il fratello, la moglie il marito, il padre i figliuoli. Da
ciò si vuole che provenuta sia la taciturnità che forma il
carattere di una Nazione nata con tutta la vivacità derivante da un
clima caldo, e fertile. I più cauti procurarono farsi seguaci
dell’Inquisizione sotto nome di famigliari, credendo cosa più sicura
esserne satelliti che esposti al supplizio. E’ necessario ancora attribuire a
questo Tribunale quella profonda ignoranza della sana Filosofia, in cui giace
peranche la Spagna, mentre la Germania, l’Inghilterra, la Francia, e l’Italia
hanno scoperte tante verità, e dilatata la sfera delle cognizioni.
L’umana natura non è poi tanta avvilita se non quando l’ignoranza e il
fanatismo sono armati del potere([24]).
Giovanna la Folle, e l’Arciduca Filippo
d’Austria detto il Bello suo Marito, lasciarono alle insinuazioni del
surriferito Cardinal Ximenes aumentare il potere dell’Inquisizione in Spagna.
Carlo V. Imperatore e Re di Spagna loro Figlio, sempre agitato in continue
guerre, ed inasprito contro gli eretici che suscitate gli aveano tante
avversità in Germania, armò viepiù in Castiglia, e in
Aragona di maggior forza l’autorità degl’Inquisitori, ma giunse questa
al massimo segno, o si può dire quasi all’eccesso sotto Filippo II. suo
Figliolo. Nutrito quel Monarca in Spagna, e imbevuto delle più rigorose
massime da Ecclesiastici famosi nel bigottismo, e nell’intolleranza, di
naturale diffidente([25]),
timido, e crudele, appena giunto al governo degli Stati cedutigli dal Padre,
rinnovò gli ordini più severi perchè data fosse esecuzione
a Decreti dell’Inquisizione, facendosi un dovere di assistere in persona come a
un vago spettacolo, alle condanne di morte di coloro, che pensavano
differentemente dagli altri in materie di Religione. Tanto grande era il suo
entusiasmo, che un giorno ebbe la debolezza di dire, che ad onta della sua
inclinazione alla clemenza, il suo odio per l’eresìa era sì
forte, che se non si fossero trovati carnefici, avrebbe egli stesso esercitate
le loro funzioni per distruggere i Settatori delle nuove proposizioni.
Fra le voci che si erano sparse nel
Mondo sulla ritirata del citato Carlo V. Augusto nel Monastero di S. Giusto
dell’Ordine di S. Girolamo nell’Estremadura, ove morì da privato nel
dì 21. di Settembre 1558., una era quella, che il continuo commercio che
avea avuto co’ protestanti di Germania, gli avesse infusa qualche inclinazione
per le loro massime, e che non si era nascosto in una solitudine, se non per
finire i suoi giorni in esercizj di pietà conforme alle sue segrete disposizioni.
Nulla vi era di più falso. La stima che credeasi che facesse delle
opinioni de’ novatori del suo secolo, apparve al mondo dalla scelta delle
persone che fece per dirigerlo nella sua condotta spirituale, cioè del
Dottor Caculla suo Predicatore, dell’Arcivescovo di Toledo, e del Padre
Agostino Ponzio suo direttore di coscienza. Fina da quando il Re Filippo era
ancora nelle Fiandre a combattere contro i Francesi, avea dichiarato
Inquisitore Generale di tutte le Spagne D. Ferdinando di Baldez([26]) Arcivescovo di Siviglia,
Prelato severo e rigido al maggior segno, con attribuirgli ogni più
estesa facoltà di gastigare e chiamare al suo Tribunale qualunque
persona, quando sospetta fosse di eresìa, senza distinzione di grado,
sesso, ed età. Siccome fra esso, e l’Arcivescovo di Toledo non passava
buona corrispondenza, l’odio privato sotto l’apparenza del ben pubblico
spiegò tutto il suo livore. Non ostante seppe l’Inquisitore nascondere i
suoi risentimenti fino alla venuta del Sovrano a Madrid, non essendo abbastanza
informato in qual modo potea prender le cose. Ma questo Principe segnalato
avendo il suo arrivo in Spagna col supplizio di tutti i partitanti delle
opinione contrarie alla fede Cattolica, l’Inquisizione divenuta più
ardita dal suo esempio attaccò direttamente l’Arcivescovo di Toledo
Primate di Spagna, e tutti i suoi compagni nella direzione di coscienza del
defunto Imperatore. Il Re avendogli lasciato arrestare tutti e tre, il popolo
riguardò una tal cosa come il capo di opera del suo zelo per la
Religione, ma il rimanente del mondo vedde con orrore il Confessore di Cesare
fra le di cui braccia era spirato quel Monarca, e che avea ricevuto come nel
suo seno quella grand’anima, dato in preda al più crudele, e al
più vergognoso supplizio per le mani stesse del proprio figlio.
Strepitò Roma per tale avvenimento, strepitarono quindi i Padri del
Concilio di Trento allora adunati, correndo l’anno 1562, per la ritensione del
prefato Arcivescovo sotto altro Tribunale che quello del Pontefice, a cui
premendo il togliere ogni ostacolo al termine di detto Concilio, spedì
apposta in Spagna Monsignore Odescalchi a sollecitare S. M. a voler cedere alle
insinuazioni de’ Padri del Concilio, ma trovò il Re inesorabile, e il
Papa che era Pio IV. fu obbligato a metter fuori il compenso di far sapere a’
detti Padri esser giunto a sua notizia, che Paolo IV. suo Antecessore avea
concessa all’Arcivescovo Inquisitore la potestà di metter le mani
addosso al suo confratello, e questi mostrarono di restare almeno in apparenza persuasi.
Il fatto fu che il misero Prelato fu tenuto in una oscura carcere per lo spazio
di di quindici anni, dopo i quali liberato venne, non costando che fosse reo di
alcun delitto. Per quel che riguarda il restante di quell’affare, il Re geloso
a prima vista della gloria di suo Padre, ebbe qualche interno piacere di vedere
la di lui memoria esposta a un simile affronto. Ma avendo in seguito
considerate le conseguenze di questo attentato, ne impedì l’esecuzione
co’ mezzi i più segreti per non inasprire gl’Inquisitori, e far lesione
alcuna all’autorità del loro Tribunale.
D. Carlo figlio unico del Re([27]), ed erede immediato
della Corona non prese le cose con tanta moderazione, ma al contrario ne
concepì un gran disgusto conforme all’affetto che sempre nutrito avea
per l’Imperatore suo avolo, e alla somma venerazione che conservava per la di
lui memoria. Essendo allora assai giovane, la sua vivacità e franchezza
non erano corredate da tutta quella prudenza e cautela che era necessario
adoprare in que’ tempi, con l’ambizione insaziabile di suo Padre, e gli
arbitrari sistemi de’ suoi feroci Ministri. Biasimò altamente la
debolezza del Re, e parlò in seguito pubblicamente del dispotismo
dell’Inquisizione con un trasporto proporzionato alla sublimità de’ suoi
pensieri, minacciando un giorno di rovesciare affatto il formidabil Consiglio
del S. Ufizio. Non ostante i suoi trasporti, Caculla fu bruciato vivo in Burgos
e sul rogo, vi fu posta la statua di paglia di Costantino Ponzio morto poco
avanti nello squallore delle carceri. Se altri pensieri calmarono col seguito
l’Infante D. Carlo, gl’Inquisitori non si riconciliarono giammai con lui, e
fino d’allora giurarono la perdita di un Principe, che minacciava di porre un
termine all’immensa loro autorità. Siccome allora una delle massime
degli Spagnuoli, ed in specie degli Ecclesiastici, ad onta de’ precetti
dell’Evangelo, era quella di non perdonar giammai, eccitarono per mezzo de’
loro segreti emissari mormorazioni sì grandi nel popolo, che Filippo si
trovò quasi astretto ad allontanare D. Carlo dalla sua Corte, unitamente
a D. Giovanni d’Austria figlio naturale di Carlo V., e il Principe di Parma
Alessandro Farnese, che aveano dimostrato di entrar con trasporto nel giusto
risentimento di suo figlio contro l’Inquisizione.
Qui però non si fermò
la vendetta dell’Inquisitore D. Ferdinando di Baldez. In occasione delle
turbolenze che si suscitarono intorno al 1568. ne’ Paesi Bassi, di cui
parleremo in appresso, accordatosi co’ Duchi di Alba e di Feria, che preso
aveano grande ascendente sullo spirito di Filippo, fecero un delitto al giovane
Principe della compassione che dimostrava per que’ popoli infelici. Supponendo
essi, che i Fiamminghi fossero tutti eretici, sostenevano, che D. Carlo non
potea proteggerli senza rendersi reo degli stessi misfatti. Vi fu chi
riportò a Filippo i suoi sentimenti sopra la Religione, e sopra il di
lui Governo, porgendo le cose nel peggiore aspetto, e facendovi quelli aumenti
che erano necessarj per far odiare a un Re sì sospettoso, e diffidente un
figlio che non lo somigliava. Vi era anche una specie di rivalità fra
Padre e figlio per cagione d’Isabella di Francia([28]), che Filippo avea presa
per sua terza Sposa dopo averla promessa al figlio. Nulla vi era di più
verisimile, che questi due giovani si amassero, poichè Isabella era
stata allevata in una Corte voluttuosa e galante, e gl’intrighi femminili e la
galanteria erano allora la maggiore occupazione della gioventù Spagnuola([29]). Vennero intercette
delle lettere scritte dal Principe al Conte di Egmont stimato capo de’
sollevati Fiamminghi, e portate al Re: in esse biasimava egli la
severità del Duca di Alba, e compativa le disgrazie di que’ sudditi
sventurati. Alcuni Autori vogliono, che tentato avesse di fuggire dalle Spagne
e rendersi in Fiandra per farsi dichiarare Sovrano di quelle Provincie. Tutti
gli Scrittori differiscono nel narrare le cagioni della morte di questo
Principe infelice, e una tale verità non si è mai saputa.
Fosse una cosa, fosse l’altra nella
notte del dì 18. Gennaio 1568. il Re Filippo accompagnato dal Principe
di Eboli, dal Duca di Feria, e da Antonio di Toledo Priore di Leone
entrò nella Camera del figlio mentre dormiva profondamente poco dopo la
mezza notte: s’impadronì tosto della sua spada che stava dietro al
capezzale comandandogli di alzarsi, e mentre si vestiva gli fece i più
vivi rimproveri del suo contegno, e quindi lo consegnò alla condotta di
persone odiate dal Principe all’eccesso. Nel giorno appresso dette parte di
questa sua disumana risoluzione a tutte le Corti d’Europa, ma ovunque scrisse
la cosa in differente maniera. Dopo che D. Carlo era stato qualche giorno
chiuso sotto severa custodia nella propria camera, fu dal Padre fatto condurre
in una torre, dove era rigorosamente guardato a vista. Restò compilato
cameralmente il suo processo, e poscia adunato il Consiglio di coscienza, fra i
componenti del quale teneva il primo luogo l’Inquisitore, il Re vi propose, che
desiderava sapere qual pena meritava il figlio di un Sovrano che avea macchinato
contro lo Stato, e se si dovea in coscienza rimettere nelle mani della
giustizia. Varj furono i sentimenti de’ Teologi, proponendo alcuni un
esemplar gastigo, altri il mezzo della clemenza, e di esaminar meglio la
materia di cui si trattava. La maggior parte de’ Teologi però essendo
quasi dipendenti dal Grande Inquisitore, e nemici del misero Principe,
approvarono la proposizione del loro capo, che disse in aria ferma e costante a
Filippo, che la salute del suo popolo gli dovea esser più cara di quella
di suo figlio, benchè la Corona non avesse altri eredi, e che vi era
l’esempio di Moisè, che chiesto avea di essere anatema del Cielo pel
bene del suo popolo, e che bisognava imitare Iddio che avea sacrificato il suo
diletto Figlio per la salute dell’uman genere: che si doveano perdonare i
peccati, ma tali delitti meritavano un severo gastigo.
Terminata quella consulta il Re dopo
qualche giorno rimesse il figlio all’arbitrio dell’Inquisitore ordinandogli di
non far più caso di sua persona, quanto del più semplice e vile
de’ suoi sudditi. Sentì gran piacere il Baldez nel vedersi dichiarato
giudice assoluto di un tanto Principe per poter dar pascolo al suo odio, e far
conoscere al mondo che l’autorità dell’Inquisizione si stendeva ancora
sopra le istesse teste Reali. In pochi giorni fabbricato, scritto e chiuso
altro economico processo, fu portato al Monarca acciò soscrivesse il
voto di morte che proponevasi a piè del medesimo. Filippo al solo
vederlo turbossi senza leggerlo, e cominciò a sentirsi scorrere per le
vene un ruscello di sangue bollente, che da tutte le parti parea che si
portasse al cuore, ma abbassati poi gli occhi lo sottoscrisse, e lo
consegnò in proprie mani del Grande Inquisitore dicendogli, prendete
e conservate ben questo foglio poichè chiude un esempio, che non ha il
simile al Mondo. Sottoscritta dunque e pronunziata la sentenza all’istesso
Infante, gli vennero posti avanti agli occhi da’ Ministri dell’Inquisizione
varj strumenti di morte in pittura, perchè sciegliesse a suo talento la
meno orrida. Ad una nuova sì infausta, e terribile si pose il misero
Principe a piangere amaramente, e postosi con le ginocchia a terra
domandò, se vi era ancora qualche scintilla di pietà nel petto
del Padre per fargli la grazia, e ascoltare le sue giustificazioni, e qualche
atto di umanità ne’ Consiglieri, e ne’ Ministri dell’Altare per scusare
i piccoli trascorsi della sua gioventù. Queste parole espresse
vennero con tante lacrime e umiltà, che sarebbero state sufficienti a
risvegliar la sensibilità di qualunque cuore più indurato, ma
l’Inquisitore stando a sedere in maestosa scranna in una stanza apparata a
lutto circondato dal suo corteggio, col Principe in piedi avanti a lui in
sembianza di reo, senza punto scuotersi gli replicò, che il S. Ufizio
non cambiava giammai i suoi decreti, onde la sua sentenza non si potea
revocare, e che ricevesse per grazia grande quella che se gli facea di
lasciargli l’arbitrio di eleggersi quel genere di morte che più gli
gradiva. Allora il Principe con sdegnose parole soggiunse: ebbene
giacchè non vi è pietà nel petto di mio Padre, e de’ suoi
Consiglieri per l’unico erede delle Spagne, voglio che vegga ciascheduno che vi
è fortezza nel mio petto per soffrir quella morte che più
è gradita a chi mi ha dato la vita. Fatemi dunque morire di quella morte
che comanda il Padre acciò restino soddisfatti quegli empj, che
sì iniquamente bramano spargere il sangue di un Infante Primogenito
delle Spagne. Protesto di morir seguace della Religione de’ miei antenati, ed
in segno di ciò perdono di vero cuore a chi è cagione del mio
morire. Solo manco di vita coll’abborrimento della tirannìa e della
barbarie. Non si sà qual genere di supplizio destinato fosse
all’infelice Principe, mentre alcuni autori vogliono che bevesse il veleno,
altri che svenato fosse in un bagno caldo. Vi è chi vuole che il Re
Filippo revocasse la sentenza, ma quando inviò l’ordine della
sospensione fosse già eseguita, stante la celere premura, che ne avea
l’Inquisitore che non si fidava della natural tenerezza di un Padre
benchè disumano. L’orribil tragedia ebbe luogo nel dì 22. di
Luglio dell’anno suddetto 1568.([30])
Filippo era così ansioso di
dare al Mondo delle pubbliche prove dell’orrore che gl’ispirava
l’eresìa, che appena giunto in Spagna nel 1559. volle assistere
personalmente all’esecuzione di un così detto Atto di Fede nella
gran Piazza di Vagliadolid allora città capitale della vecchia
Castiglia. Un gran numero di protestanti fu dato alle fiamme, e più di
30. altre infelici vittime restarono nelle prigioni per servir di pascolo
all’istesso supplizio, che sempre alla sua presenza ogni due o tre anni
solennemente si rinnovava. Nel tempo che le altre Corti in occasione di qualche
vittoria o qualche Imeneo rallegravano il popolo con feste le più
giulive, in Spagna per l’esecuzione de’ suoi Decreti l’Inquisizione dava i
più atroci spettacoli, famigliarizzando gli occhi del popolo col sangue,
e nutrendo in lui quello spirito feroce, che fu cagione di tanti mali ne’ Paesi
Bassi, e in America. Nella fausta circostanza dell’acquisto del Pennon de
Velez Fortezza sulla Costa di Affrica, famoso asilo di
Corsari Barbareschi che infestavano tutte le spiaggie della Spagna, condotta
felicemente al suo termine da D. Garzia di Toledo nell’anno 1559., credè
il Re di non poter dimostrare in miglior modo la sua riconoscenza a Dio se non
con l’esterminio dei ribelli alla fede, con una solennità sanguinaria
che ributta l’umanità, e repugna al vero spirito della Cristiana
Religione, più che i più abominevoli sacrifizj di cui gli annali
del Gentilesimo ci abbiano conservata la memoria.
Si celebrò questa nel mese di
Giugno di detto anno con tutta la pompa e lo splendore della Corte più
famosa e potente, che vi fosse in quel secolo in Europa. Filippo circondato da
tutti i suoi cortigiani e dalle sue guardie si assise sotto maestoso trono, e
dopo avere ascoltato un lungo discorso del Vescovo di Zamora presa in mano del
Gran Inquisitore, più volte enunciato, il giuramento di sostenere
l’Inquisizione e suoi Ministri contro gli eretici, o apostati, e contro
chiunque altro intraprendesse opporsi all’esercizio della sua autorità,
obbligando indistintamente tutti i sudditi a obbedire a di lei irrevocabili
Decreti. Fatto ciò il Corpo de’ Giudici Ecclesiastici e de’ vendicatori
della Fede, ritorna al suo posto dirimpetto al Monarca: la calma è
dipinta sù loro volti e la gioja risplende ne’ loro occhi. Le vittime si
avanzano, il rogo si accende. Una folla d’infelici pallidi e tremanti sotto il
peso delle catene sono strascinati a ricevere la stabilita pena. Il Decreto,
che gli condannava alle fiamme vi fu pronunziato col tuono affettuoso e tenero
della pietosa carità e dell’indulgente bontà. Nel numero dei rei
eravi un vecchio che era stato sorpreso osservando le superstiziose pratiche
del giudaismo, che le minaccie gli avevano fatto abiurare in tempo di sua
gioventù. Imbevuto della Religione proscritta de’ suoi antenati, il
disgusto di averla abbandonata venne a turbarlo, la professò di nuovo
nel silenzio, e nel timore, e sull’orlo della tomba avea avuto rossore di
confessare il suo delitto, e andava al patibolo come una vittima all’altare. Ma
allorchè intese che tutti i suoi beni, dati in preda all’avidità
de’ Giudici venivano tolti a suoi figli, la di lui feroce costanza lo
abbandonò. Crudeli, egli esclamò, in tal guisa
voi divorate la vostra preda? Ho meritata la morte perchè ho tradito il
mio dovere, e ho disapprovato con la bocca ciò che adorava nel cuore, ma
cosa han commesso i miei figli per essere spogliati di quel poco di bene che ho
loro lasciato? Fin dalla cuna hanno appresa la vostra legge, ed in quella gli
ho educati. Ah lasciate alla sventurata loro madre per nutrimento di que’
miserabili un pane bagnato col mio sangue, e che essi irigheranno con le loro
lacrime.
E che? gli risponde
con volto sereno il Capo del terribil Tribunale del Sant’Ufizio, non sai che
Dio punisce ne’ figli l’iniquità de’ loro genitori, che la spoglia de’
rei di Lesa Divina Maestà appartiene a Ministri delle Divine vendette,
come le viscere delle vittime appartenevano al Sacrificatore? Che lo schiavo
nulla ha che non sia del suo padrone, e che i tuoi simili sono nati schiavi
presso i Cristiani? Se vengono confiscati que’ beni che tuoi non erano, cio
è per farne un uso ben degno: e qual mai migliore può farsene di
servirsi delle sostanze degl’infedeli per ricompensare i difensori della
purità della fede? Non è egli giusto che una funesta stirpe paghi
morendo la cura salutevole e penosa che noi ci prendiamo di ricondurla nella
via della salute?... Uomini senza rossore, e senza fede, proruppe di nuovo
ad alta voce il vecchio, la forza vi seconda, e la vostra ipocrisia abusa
insolentemente dell’autorità di opprimerci... Non fu lasciato
terminare quanto volea dire, e fu gettato nelle fiamme.
Dopo di esso si presentò al
Tribunale un giovane semplice e timido nato fra i Cristiani, che amava una
ragazza egualmente a lui semplice, e docile, e ne era corrisposto. Un rivale
furioso e potente lo avea accusato di eresìa, e l’accusatore avea per
complice un suo ben degno confidente. Tra il tetro orrore delle carceri e le
torture il disgraziato giovane avea mille volte invocati la terra, e il Cielo
come testimoni della sua fede, ma non era mai stato ascoltato. Comparendo
davanti i Giudici alla vista del rogo raddoppiò i suoi pianti, e le sue
grida: Ministri di quel Dio che adoro, e voi popoli; disse egli, protesto
morendo, che sempre ho vissuto fedele alla Religione de’ nostri padri, e credo
tuttociò che fin dall’infanzia mi è stato insegnato. Vorrei
sapere in quale errore sono involontariamente caduto per detestarlo. Noi
vogliamo, gli fu risposto, che tu faccia la sincera confessione della
tua empietà. – A me non è nota, egli replicò, fatemi
almeno venire a confronto i miei accusatori che mi smentiscano e mi confondano
avanti gli occhi vostri. No, gli vien soggiunto, l’interesse della
Religione non permette di palesar coloro che vigilano in sua difesa, e a noi ne
scuoprono gli errori: non l’odio, ma lo zelo è che ti accusa, e lo zelo
è degno di fede. – Padre mio, gridò ad alta voce il
giovane, a un Religioso che l’esortava a disporsi alla morte, io sono
attaccato alla vita, e questo supplizio mi fa fremere. Ditemi qual confessione
si vuole che io faccia, e benchè innocente non ho in questi estremi
difficoltà a calunniarmi. Come? io insegnarvi la menzogna,
disse il Religioso pietosamente crudele: ciò a Dio non piace.
Nò figlio mio, morite martire piuttosto che ingannare i vostri giudici,
e poi non vi lusingate, che la troppo tarda compassione possa salvarvi. Non
è più tempo. Ne’ ferri è d’uopo confessarsi colpevole, ma
alla vicinanza del supplizio non può dirsi pentimento, ma è lo
spavento che parla, e questo non viene ascoltato. Abbandonandosi allora il
giovane al suo dolore, e versando un torrente di lacrime, oh Dio, grida
di nuovo, mi era stata annunziata la tua Religione pura e santa come
l’appoggio dell’innocenza, e i Sacri Ministri... fu interrotto e
strascinato sul rogo.
Mentre un vortice di fiamme lo
inviluppava benchè vivo, e che i suoi gemiti straziavano tutti i cuori,
un Moro appresso appoco dell’istessa età, ma più fermo e
coraggioso, venne condannato come bestemmiatore per aver mormorato contro il S.
Ufizio. Gli fu annunziato il suo destino ed esortato a dichiarare avanti a Dio
e gli uomini chi lo avea indotto a sollevarsi contro i vendicatori della fede. Popoli
(esclamò con sdegno) sapete voi chi si vuole che io accusi? Mio
padre. Mi è stato nominato tra i ceppi questo complice, di cui si
pretende che io sia il delatore, e che venga tratto per mezzo mio al patibolo?
Mi è stato promesso, che verso di me sarebbesi usata indulgenza se stato
fossi sì vile e disumano per aggravare e calunniare colui che mi ha data
la vita. Ma invece di accusarlo protesto avanti tutta la celeste Gerarchia, che
il misero vecchio è innocente. Io più di lui ho parlato, e ho
altamente detestato una sì odiosa tirannìa, e tutte le insidie
dell’artifizio per sorprendere e per atterrire un’infelice abbandonato alla
calunnia, e alla frode la più fine e nera: ecco ciò, che mi ha
eccitato all’ira. Strappandosi quindi dalle braccia di colui che lo
accompagnava: lasciami, gli disse, io non voglio riconoscere quel
Dio, che è adorato da miei Carnefici. Un Dio giusto, un Dio clemente
riceverà la mia anima. Terminato appena di dire si gettò da
se medesimo nelle fiamme. Dopo di esso comparve sulla luttuosa scena una folla
di giovanetti dell’uno e dell’altro sesso educati segretamente nella Legge
Maomettana, e dati in preda per tal delitto agl’Inquisitori della Fede. Essendo
stato loro fatto sperare, che se si fossero fatti Cristiani sarebbero stati
salvati dalla morte, reclamavano altamente un tal promessa, in vigore della
quale aveano abiurato. Questa, fu loro risposto, vi sarà
mantenuta nell’altra vita in cui sarete salvati da un supplizio assai maggiore
di quello che vedete. Non pensate miei figli che a morir fedeli, e troppo
felici di non avere a subire che un’espiazione passeggera, rassegnatevi senza
mormorare al vostro felice destino. Le loro lacrime divennero inutili, e in
mezzo agli ardenti vortici ove furono gettati, le loro braccia supplichevoli si
stesero invano verso il cielo. Esse tosto ricaddero, e tutti restarono in breve
consunti, mentre l’aria rimbombava de’ più sacri cantici di allegrezza,
e che alcuni pietosi fanatici offrivano all’Altissimo invece dell’incenso il
fumo de’ sacrifizj.([31])
In tutto il corso del Regno di
Filippo II. queste orribili cerimonie vennero sovente rinnovate, onde in breve
tempo restarono annichilate, e distrutte tutte le dolcezze della vita sociale;
fu bandita la libertà delle parole e de’ pensieri, e introdotta
finalmente la più intollerabile schiavitù. Per cagione
dell’eresìa di Lutero l’Imperatore Carlo V. suo Padre nel 1550.
deliberò d’introdurre ne’ Paesi Bassi l’Inquisizione sull’uso di Spagna,
e ne pubblicò anche il Decreto, ma la Regina Maria Vedova di Luigi il
giovane Re d’Ungheria sua Sorella Governatrice di quelli Stati, lo
avvertì, che tutti i mercanti forestieri sarebbero partiti, e le
Città che tanto fiorivano nel traffico restate deserte, onde rimase
sospesa la volontà del Sovrano. Filippo però non volle ascoltar
sù questo punto nè rappresentanze nè ragioni, e invano
Margherita d’Austria Duchessa di Parma sua Sorella naturale, succeduta nel
Governo, gli fece pervenire un prospetto veridico degli sconcerti che ne
sarebbero nati nelle Fiandre. Una Deputazione di 400. de’ primarj Gentiluomini
si presentò nel dì 5. Aprile
Le disgrazie della Monarchia Spagnuola
procedenti dal fanatismo e dal mal governo si aumentarono sempre più
sotto Filippo III. suo figlio, più debole di spirito e meno politico del
genitore, che si lasciava in tutto e per tutto dirigere da Francesco di
Sandoval Duca di Lerme, che regnò in suo nome, e che poi fu fatto
Cardinale da Paolo V. nel 1618, da Fra Girolamo da Firenze, e da Fra Luigi
Alliaga Francescani, uno predicatore, l’altro suo confessore. Avea egli tutte
le virtù che onorano i particolari, ma nessuna di quelle, che
costituiscono un gran Monarca. La sua corte non fu, che un caos d’intrighi,
poichè non sapea vivere senza favoriti, nè regnare senza primo
ministro. Vien raccontato, che essendosi trovato sul paterno esempio a un Atto
di fede a veder bruciare un gran numero di eretici e maomettani, mosso da un’interna
tenerezza, e sensibilità dimostrasse pubblicamente, quanto gli
dispiaceva di vedere quelli infelici morire per non aver potuto cangiar di
opinione, e che il grande Inquisitore udite queste parole ne facesse un
delitto al Re, ed avesse l’atroce imprudenza di chiederne formalmente
sodisfazione, e avesse il Monarca la bassezza di annuire all’istanze del
Prelato, col farsi cavare un bicchier di sangue in presenza del detto
Inquisitore, che lo fece gettar sul fuoco nel proprio cortile per mano di un esecutor
di giustizia affine di risarcir l’onore del Sant’Ufizio. E’ vero che Filippo
III. fu un Principe di spirito limitato, ma non di un’imbecillità
sì umiliante, e una tale avventura benchè riportata da molti
autori sembra poco verisimile. Quel che vero si è, che l’Inquisizione
tanto fece ed operò presso di lui, che lo indusse a scacciare più
di due milioni di Mori da’ suoi Regni. Questi avanzi degli antichi vincitori
delle Soagne, dopo la perdita di Granata se ne stavano solo occupati nel
commercio, e nella cultura delle terre, ed erano i soli attivi, i laboriosi nel
paese dell’ozio. Essi proposero in vano di comprar la permissione di respirar
l’aria di Spagna con due milioni di doppie d’oro, ma il Re pieno di religione e
di timore dell’ira di Dio, se non liberava i suoi Regni dagl’infedeli, fu
inflessibile. I primi Signori di Castiglia, e i Grandi, de’ quali i Mori
coltivavano le terre esposero a S.M. il danno, che a loro risultava da tal
deliberazione, assicurandolo, che sarebbe stata l’intera rovina dello Stato in
cui i Mori erano gli artigiani, e gli agricoltori. Per risposta ricevettero da
Filippo un fulminante Decreto in data degli 11. Dicembre 1609., e nell’istesso
giorno fu pubblicato a suon di tromba il Bando di tutti i Mori dai Dominj
Spagnuoli in tutte le Città, ed in specie in Valenza, nel cui Regno
erano più che altrove numerosi.
Le ragioni, che l’Inquisizione
dimostrò al Re sulla necessità di scacciare questi sudditi furono
sette([35]):
I.) Perchè vivevano insieme molti di loro, nè solamente interi
villaggi, ma anche intere Città erano da essi soli abitate, onde si
animavano e fortificavano nelle loro opinioni l’uno con l’altro, nè il
Santo Ufizio potea sì facilmente scuoprire i più ostinati
seduttori, come in altri luoghi ove erano mischiati con i Cristiani. II.)
Perchè non intendevano se non la lingua Araba, specialmente le donne, e
i fanciulli, e che perciò era inutile affatto la predicazione de’
Missionari. III.) Perchè le loro abitazioni erano vicine a i Mori di
Affrica, co’ quali aveano continua corrispondenza, e gli faceano sperare di
potere un giorno riacquistare la Sovranità della Spagna. IV.) Finalmente
perchè l’adorazione delle Immagini era ciò che aveano di maggiore
avversione nel Cristianesimo. La Spagna dopo questo incauto passo non fu mai
tanto potente come in addietro, e mancando le manifatture, e le arti venne a
perdere que’ vantaggi, che ricavava dalle miniere del Messico e del
Perù, essendo che le ricchezze di que’ doviziosi continenti passarono
tosto in mano di altre nazioni. In breve tempo si avvedde il Governo con quanta
poca politica era stato proceduto in questo bando; mentre l’istesso Re avendo
adunato un Consiglio straordinario per trovare un rimedio allo stato degli
affari, sentì rispondersi da qualche vecchio Ministro spregiudicato
superiore al timore, che incuteva in tutti il S. Ufizio, e alla adulazione, che
la spopolazione e la mancanza di uomini nelle Spagne era maggiore di quella,
che fosse mai stata sotto i suoi antecessori, e tanto grande, che se Dio non vi
rimediava la Monarchia Spagnuola era prossima alla sua rovina e total
distruzione. Nulla di ciò era più visibile stantechè in
breve tempo le campagne restarono desolate, i terreni inculti, le case non
furono che un ammasso di sassi senza che nessuno le riedificasse, le strade
solitarie e mal sicure, e le terre, e le ville restarono deserte. I contadini
per non esser vessati da’ satelliti dell’Inquisizione, e caricati di esorbitate
tasse, si fecero soldati o passarono in America, credendo trovarvi miglior
sorte e tutto quello che rende la vita comoda restò a un tratto
incognito e abbandonato. La Città di Siviglia, che sotto Carlo V.
contava più di 20. mila telai ne’ quali si fabbricavano Drappi di lana e
seta per trasportarsi nel nuovo mondo non ne avea sul principio del secolo
XVII. appena 300. Le meccaniche vi restarono rozze e imperfette; gli uomini non
si trattavano che fra loro, e ciò producea, che la tristezza e la
malinconia era sparsa su tutta la superficie delle Spagne. Le apparenti
pratiche di devozione servivano solo di trattenimento, e di occupazione agli
oziosi, e ovunque vedevasi la languidezza e la miseria.
Sotto Filippo IV. e Carlo II.
restò l’autorità dell’Inquisizione sull’istesso piede, ma la
Monarchia Spagnuola sempre più decadde, l’armate restarono senza buoni
generali ed ingegneri, l’ignoranza si aumentò, e la mancanza del denaro
crebbe a segno, che bisognò trovare il rovinoso compenso di accrescere
il costo della moneta, e far circolare cedole di carta. Il predetto Carlo II.
ebbe anch’egli delle forti contese con l’Inquisizione per aver fatto arrestare
nel 1675. nel convento annesso all’Escuriale il Marchese di Villa Sierra
favorito della Regina Maria Anna d’Austria sua Madre, reo di malversazione e
peculato. D. Giovanni d’Austria il giovane suo zio uomo coraggioso e pieno di
fermezza, con esiliare l’Inquisitor Generale accomodò l’affare e
represse la soverchia audacia de’ Frati.
Non fu questa la sola prova della
fermezza di D. Giovanni durante il tempo, che resse la Monarchia Spagnola.
Avendo come si è accennato Carlo II. gran bisogno di trovar denaro per
potersi sostenere contro le forze preponderanti di Luigi XIV. Re di Francia suo
nemico e cognato, trovandosi le migliori rendite alienate e passate in mano
degli appaltatori, le piazze sguarnite e senza difesa, i porti senza vascelli,
gli arsenali senza manifattori, inviò alla zecca per consiglio del
prefato D. Giovanni gli argenti superflui de’ palazzi Reali, e pensò
servirsi anche di quelli delle Chiese. I Domenicani, che ne aveano a Madrid una
esuberante quantità, gridarono all’empietà, e si accinsero anche
a far resistenza per non consegnare il prezioso deposito, minacciando i rigori
dell’Inquisizione a que’ ministri, che fossero andati a prenderli. La Corte
rinnovò gli ordini i più assoluti, e fece temere di ricorrere
alla forza. I Frati allora con l’idea forse di muovere il popolo a
sollevazione, dissero, che volevano portare a palazzo i sacri vasi e arredi
processionalmente. Il Principe che ben vedeva ove tendevano le loro mire,
rispose, che ciò molto incontrava il suo genio, e che egli per maggior
pompa avrebbe loro concesso un corpo di truppe per tenere indietro la folla. In
fatti nella mattina destinata alla funzione, fece schierare per tutte le strade
dal Convento al Palazzo diversi reggimenti d’infanteria e cavalleria, che
occupati tutti i capi delle strade chiusero il passo al popolo, e la
processione passò in mezzo a’ soldati, senza, che si sentisse il minimo
moto, e gli argenti vennero consegnati a chi gli richiedeva. Quest’esempio servì
per tutte le altre Città della Spagna perchè il tutto passasse
quietamente. D. Giovanni essendo morto poco dopo la pace di Nimega,
incominciò a insorgere la voce, che egli era scomunicato, ma il Re Carlo
prese tali misure, che l’Inquisizione non ebbe ardire di procedere contro la di
lui memoria.([36])
Ascesa poi la Casa di Borbone sul
trono di Spagna, la potestà del S. Ufizio restò alquanto mitigata
e depressa. Quello, che più di tutti la rimesse negli antichi limiti fu
il regnante Carlo III. nel
L’Inquisizione fu dopo il 1523.
introdotta in Portogallo sotto il Re Giovanni III. figlio di Emanuelle il
Grande, che le avea sempre negato l’ingresso. Ma siccome le massime degli
Inquisitori riempirono d’orrore la Città di Lisbona, che a que’ tempi,
più che al presente, era l’emporio di tutte le nazioni, avendo quel
Principe fatta reflessione alle rimostranze fattegli da suoi Ministri,
pubblicò un’Indulto generale in favore di coloro, che accusati erano di
Giudaismo, e fatte aprire le carceri gli rimesse tutti in libertà. Per
più di un mezzo secolo il S. Ufizio restò in Portogallo ne’ suoi
giusti confini, ma dopo che Filippo II. Re di Spagna ebbe conquistato quel
Regno nel 1580. vi estese e propagò la sua autorità anche con
maggior dispotismo e indipendenza che in Spagna sotto un Inquisitor Generale a
parte. Allora quando i Portoghesi nel 1640. scossero sotto Filippo IV. il giogo
Spagnuolo, e posero su quel trono Giovanni IV. di Braganza, quel Principe
conoscendo i danni, che alla Corona Portoghese cagionato avea l’eccessivo
rigore del Santo Ufizio, e gli abusi, che ne provengono dal segreto
inviolabile, che si osserva nel medesimo, intenzione avea di sopprimerlo. Ma
non essendo ben stabilito sul trono, e trovandosi in aperta guerra con la
Spagna, che lo giudicava un usurpatore e un ribelle, non credè proprio
inimicarsi i Domenicani, che erano potentissimi nel Regno. Avvedendosi
però, che di tutte le confiscazioni, che si faceano dall’Inquisizione
non ne proveniva al suo Regio erario, che una piccola porzione, ordinò,
che in avvenire non fossero confiscati in veruna maniera i beni di coloro, che
venivano carcerati e condannati.
A sì improvvisa dichiarazione
si messero all’arme terribilmente gl’Inquisitori, che si trovavano privi a un
tratto de' migliori emolumenti de’ loro impieghi. Posero dunque in opra ogni
più ardito mezzo per far ristabilir le cose nel primiero stato, e tanto
si adoprarono, che finalmente messero fuori un Breve di Innocenzo X., ottenuto
dicesi per mezzo di D. Olimpia Maidalchina, che maneggiava a suo modo lo
spirito di quel debol Pontefice dilei Cognato. In vigore di questo S.S.
ordinava che si facessero le confiscazioni, come in addietro con la
comminazione della scomunica contro tutti quelli, che si opponessero
all’esecuzione del Breve suddetto vero o falso che fosse. Muniti gl’Inquisitori
con questo scudo andorono in corpo a presentarsi al Re nel giorno di Pasqua
dell’anno 1642. nell’atto appunto, che ricevuta avea la Comunione Pasquale, e
lo pregarono a volere avere la bontà, che in sua presenza e di tutta la
Corte si facesse la lettura degli Ordini Pontificj. Avendo egli pazientemente e
con umiltà ascoltato il tutto, domandò in profitto di che esser
doveano le comandate confiscazioni, ed essendogli stato risposto, che
appartenevano a lui, replicò ad alta voce “poichè a ognuno
è lecito far de suoi beni quel che gli piace, per non contravvenire agli
ordini di Roma, e per dimostrare il profondo rispetto che ho per la Santa Sede,
acconsento che voi confiscate i beni dei delinquenti, che cadono in vostro
potere, de’ quali ne farete esatto inventario: quindi dichiaro e mi protesto,
che io fin da questo giorno faccio un dono alle loro famiglie e discendenti di
tutti i detti beni tanto stabili, che mobili, che voglio che siano loro
fedelmente restituiti, qualunque sia la pena a cui restar possano condannati.
Tale è la mia volontà.” Detto ciò nacque un gran susurro
nell’Assemblea; gl’Inquisitori voleano replicare, ma il Re voltò loro le
spalle e partì. Pregarono, parlarono, si maneggiarono ma sempre
inutilmente, e fin a tanto, che Giovanni IV. fu in vita, tutte le sostanze de’
rei restituite vennero esattamente a loro legittimi eredi.
Morto nel 1656. questo Principe uno
de’ più coraggiosi e magnanimi del suo tempo, i Ministri del Santo
Ufizio, si portarono di nuovo in corpo a rappresentare alla di lui vedova Luisa
di Gusman de’ Duchi di Medina Sidonia, che non poco contribuito avea a farlo
ascendere al Soglio, che il suo defunto Consorte avendo contravvenuto agli
ordini del Papa era incorso nella scomunica, e che perciò non se gli
potea concedere l’Ecclesiastica sepoltura. Restò la Regina atterrita a
tal dichiarazione, e prevedendo quale scandalo ne sarebbe provenuto nel popolo,
prese qualche tempo a risolvere, per consigliarsi col suo Confessore ed altri
Teologi. Questi che erano d’accordo con gl’Inquisitori, per far sempre
più risaltare la loro autorità le confermarono, che aveano
ragione, onde quella Principessa meno ferma del marito ebbe la debolezza di
acconsentire, che benchè morto venisse formalmente assoluto. Vestiti
gl’Inquisitori degl’abiti Sacerdotali accompagnati da tutto il Clero Regolare
con le Croci inalberate si portarono nella mattina del dì 9. agosto di
detto anno nella gran Piazza di Lisbona, ed ivi assiso il grande Inquisitore
sopra maestoso palco, citò per tre volte in presenza di tutto il popolo
il Re Giovanni IV. a comparire avanti al suo Tribunale benchè morto da
varj mesi addietro. Ciò detto il cadavere dell’estinto Principe venne
portato in una lugubre cassa di cipresso, col seguito di tutta la Corte, de
suoi due figli Alfonso, e Don Pietro, e della vedova Regina Regnante. Giunto il
convoglio e posata la cassa in terra innanzi al palco Inquisitoriale con i
Principi suddetti, i Cortigiani, e la Regina in piedi all’intorno, fu letto ad
alta voce il processo, e la condanna di scomunica in cui era caduto. Aperta
quindi la cassa, e scoperto il cadavere, che ivi giaceva imbalsamato,
l’Inquisitore sceso dal palco; prese in mano una lunga bacchetta, e gli dette
tre colpi in penitenza del preteso commesso delitto, indi gli concesse dopo
diverse orazioni l’assoluzione di esser collocato in luogo sacro; poi con
l’istesso treno se ne tornarono la Corte e i Frati al palazzo di loro
residenza.([38])
Incoraggita l’Inquisizione da questo
attentato continuò viepiù i suoi rigori sotto il Regno di D.
Alfonso VI. successore di D. Giovanni IV. e nel principio del Regno di
quest’ultimo, gl’intrighi dei Domenicani e altri Ministri del S. Ufizio tali
furono, che la predetta Regina terminato il tempo di sua reggenza fu costretta
ritirarsi in un chiostro, ove non molto dopo morì. In sequela di
ciò l’istesso Alfonso venne accusato di sregolata vita e di poca
credenza in materia di fede, e la cosa andò tanto innanzi, che quel
Monarca venne con inaudita catastrofe balzato dal Trono, dichiarato incapace di
governare, e chiuso nel Castello di Cintra nell’Isole Terzere, ove morì
nel dì 12. Dicembre 1683. La di lui Sposa Isabella di Savoia Nemours lo
accusò d’impotenza, fece divorzio con lui, e dipoi fatto dichiarar nullo
il suo matrimonio con l’infelice Principe, si sposò a D. Pietro suo
minor fratello, che prese prima il titolo di Reggente, poi quello di Re.
Siccome era pervenuto a questo grado con l’ajuto de’ Frati, così la loro
potenza nel tempo del suo governo divenne eccessiva, e quasi affatto
indipendente dalla Sovranità. In fatti in occasione di un furto
sacrilego accaduto nel
Tali rigori furono cagione, che i
primari Signori del Regno alla testa de’ quali vi erano il Marchese di
Marialva, D. Antonio di Mendozza Arcivescovo di Lisbona, D. Cristofano
d’Almeida, il Marchese di Tavora, il Conte di Villaflor, D. Emanuelle Sanchez,
e diversi altri celebri Teologi e Religiosi di differenti Ordini, fecero una
solenne rappresentanza al Trono delle vessazioni orribili, che ricevevano i
sudditi dalle maniere di procedere, che si osservavano nell’Inquisizione, e che
da ciò ne sarebbe assolutamente seguita la total rovina e spopolazione
della Capitale e del Regno. Le ragioni, che allegarono fecero una sì
viva impressione sullo spirito di D. Pietro, che malgrado il suo timoroso rispetto
per l’Inquisizione, ordinò al suo Ambasciatore a Roma di sollecitare
presso Innocenzo XI. una Bolla, che permettesse a suddetti Cristiani nuovi, il
potere esporre avanti al Pontefice i motivi, che aveano di lagnarsi del
Sant’Ufizio. Ottenuta la Bolla e significata a tutti i Tribunali
dell’Inquisizione del Portogallo, vennero sospese tutte le esecuzioni, e i novelli
Cristiani, ebbero il permesso di nominare dei Procuratori per agire a loro
nome tanto a Roma, che in Lisbona, e sollecitare appresso S.M. un regolamento,
che riducesse le formalità del S. Ufizio alle regole prescritte dal
Diritto Civile e Canonico. In sequela di ciò vennero presentate al
Papa delle forti memorie, e suppliche, perchè si degnasse ordinare, che
fossero portati avanti al suo Trono gli atti originali de’ processi compilati
contro coloro, che erano stati condannati al fuoco dell’Inquisizione, e
specialmente quelli, che erano morti qualificati convinti negativi,
acciò S.S. persuasa fosse della giustizia de’ ricorsi ad essa
indirizzati, e prendesse quelle misure, che credute avesse necessarie per
ovviare a un tanto male. Ascoltò Innocenzio con carità ed
attenzione le lagnanze di quelle afflitte genti, e talmente restò
commosso delle loro miserie ed oppressioni, che fece immediatamente spedire un
Breve diretto agli Inquisitori, col quale loro ordinava inviar subito alla
Santa Sede quattro de’ primi processi originali fabbricati sul principio, che
il S. Ufizio fu stabilito in Lisbona. Conobbero i Ministri dell’Inquisizione il
pericolo a cui erano esposti di vedersi limitata l’autorità, onde
presero d’accordo il partito di non obbedire nè punto nè poco
agli ordini di Roma. Questa retinenza obbligò il Papa a sospendere con
un altro Breve l’Inquisitor Generale, e scommunicar tutti gli altri, e loro
impose rimettere a Vescovi le chiavi de’ rispettivi Tribunali. Ne nacque
perciò in detta Città di Lisbona e altre del Portogallo un fiero
scisma, sostenendo acerrimamente i Domenicani non esser obbligati, stante i
privilegi loro concessi dagli altri Pontefici, a render conto ad alcuno delle
procedure del Santo Ufizio, e tanto si maneggiarono presso l’Infanta figlia del
Re D. Pietro, a cui il padre moltissimo deferiva, e presso alcuni favoriti, che
col mandare a Roma due soli processi scelti a lor talento quietarono l’affare.
Il Papa per non far peggio mostrò di contentarsi e li dichiarò
assoluti, onde a poco a poco le cose ritornarono nel primiero stato.
Tuttociò vien bastantemente giustificato dall’istesso Breve del prefato
Pontefice Innocenzo XI. in data 22. Agosto 1682. I mezzi de’ quali
gl’Inquisitori si servirono per deviare la tempesta, che li minacciava furono
quelli di far comprendere al Re, che la Corte di Roma non avea richiesto i
detti processi se non per approfittare dell’occasione di intrudersi negli affari
Ecclesiastici del Portogallo, il che era diametralmente contrario a diritti e
privilegi della Corona, e che non era in conseguenza buona politica dare al
Papa dei pretesti di estendere la sua autorità su quella del Principe,
che non dovea avere altro superiore che Dio.
Ritornò in tal guisa il
Tribunale del S. Ufizio ad esercitare in Portogallo la primiera
autorità, servendo anche qualche volta alle private vendette di chi avea
in mano il governo assoluto dello Stato, come appunto si vuole che avvenisse nel
1761. Proscritti (dopo l’orribil congiura, vera o pretesa che fosse, ordita
contro la vita del Re Giuseppe I. di Braganza figlio di Giovanni V., ed
eseguita nella notte de’ 3. settembre 1758.) i Gesuiti da tutti i Domini di
quella Corona, venne dal Marchese di Pombal fatto arrestare il Padre Gabbriello
Malagrida, come uno dei principali fautori della cospirazione unitamente a
Giovanni Alessandri entrambi Italiani, e Giovanni de Mathos Portoghese. Fissata
contro questi la regola giuridica, che semel malus semper presumitur malus
in eadem genere mali, bisognò venire alle prove, che autorizzassero
una tal presunzione, e si pretesero ricavare dagli esercizi spirituali dati dal
Malagrida alla Marchesa Eleonora di Tavora, che insieme col Duca di Aveiro e
altri Principali Signori dichiarati rei, era stata pubblicamente giustiziata.
Il pubblico che ha per costume di mettere in dubbio tutto ciò, che
è singolare, non sapeva persuadersi, che un religioso forestiero in
età decrepita si fosse servito di un mezzo sì pio per promovere
un delitto gravissimo, di cui non avrebbe mai potuto godere. Ad oggetto
perciò di dar fine alle ciarle, venne il predetto Gesuita consegnato
all’Inquisizione, come dipartimento, di cui pel’ tanto terrore che avea saputo
incutere nel popolo, non vi era persona così audace, che avesse il
coraggio di parlarne in bene o male. Dopo aver languito per due anni e mezzo
nelle carceri fu proceduto nel dì 20. Settembre 1761. all’esecuzione di
sua condanna in un pubblico Atto di Fede. Cinquantaquattro altre persone
seco di lui destinate a diversi altri supplizi furono condotte nella gran
Piazza della Capitale suddetta. Fu letta in pubblico la di lui sentenza
mediante la quale comparve reo d’impostura, false profezie, orribili
empietà, abuso della divina parola, ammaestramento di morale infame e
scandalosa, seduzione di popoli ed eresìa. Ciò fatto vennero
assolute dalla scomunica tre statue rappresentanti i due altri nominati correi,
e un altro Gesuita, morti o pure fatti morire nelle carceri, quindi l’Arcivescovo
di Sparta Vicario generale del Cardinal Patriarca procedette alla degradazione
formale dello sventurato Gesuita ottuagenario, che fu immediatamente condotto
avanti al Tribunale detto della Supplicazione, dal quale ad istanza di
due Benedettini, che lo assistevano gli venne accordato per grazia di esser
prima strangolato avanti di esser gettato nel fuoco. Spirato appena fu subito
acceso il rogo che ne ridusse il cadavere in cenere. La scena seguì di
notte; l’idea de’ delitti e delle pene date a numero sì grande
d’infelici, la presenza de’ severi Inquisitori, il silenzio, e la tristezza
della più tragica processione, l’apparato di morte, le milizie che
circondavano la piazza, la liturgia della degradazione, le tenebre, le fiamme,
il rogo, la memoria del sangue illustre sparso due anni avanti, componevano uno
de’ più funesti e orrendi spettacoli più facile a immaginarsi,
che a descriversi. Vi fu però chi giudicò il Malagrida piuttosto
fuori di senno, che delinquente. Scritto avea egli in lingua latina un libro
intitolato Tractatus de vita et Imperio Anticristi, e in lingua
Portoghese composta avea la vita di S. Anna. Esaminato dal S. Ufizio
questo ultimo libro con tutta la maggiore attenzione vi furono trovate infinite
proposizioni esecrabili ed abominevoli, che forse da qualunque Tribunale di
Europa sarebbero state disprezzate come parti d’imbecillità e demenza,
poichè fra le altre belle cose vi si dicea “che la SS. Trinità
era gelosa di questa Santa; che il Corpo di Cristo era formato da una goccia di
sangue uscita dal cuor di Maria; che la SS. Trinità era venuta in
contese circa il trattamento da farsele in Cielo” e simili inezie. Molti
pertanto credettero, che le riferite proposizioni fossero più tosto
deliri di un pazzo, che bestemmie di un eretico, e che sarebbe stato più
conveniente consegnare l’autore alla cura de’ medici in uno Spedale, che darsi
a esaminare seriamente le di lui massime.([39])
Tanto in Spagna, che in Portogallo
l’Inquisitor Generale suol essere nominato dal Re, e confermato dal Papa col
titolo di suo delegato, e questo è il solo diritto, che ha la Corte di
Roma sull’Inquisizione Portoghese e Spagnola, poichè allor quando vien
confermato, ella non si suol mischiare nè punto nè poco ne di lui
affari. La di lei giurisdizione è così assoluta e così
vasta, che niun suddito ne va esente, ed avendo la facoltà di nominare
tutti i ministri e gl’impiegati nel Sant’Ufizio, egli è una delle
più considerabili persone dello Stato dopo il Sovrano. Il suo Consiglio
è composto di cinque Consiglieri, uno de’ quali dee esser sempre un
Domenicano, stante un privilegio emanato da Filippo III. Re di Spagna e
Portogallo, di un Avvocato Fiscale, di due Segretari, di un Sergente maggiore,
di un ricevitore, due relatori, e due qualificatori, occupati sempre a correggere
e rivedere le stampe, e sogliono esser pure dell’Ordine di S. Domenico. Il
Segretario è il gran Notaro, e l’Avvocato Fiscale è il
querelante. Il Tesoriere prende in custodia tutti i beni e benefizi personali
del reo, allorquando è posto in carcere. I familiari che sono in
grandissimo numero sono gli esecutori di giustizia di questo tribunale, e nel
loro ruolo non hanno dicesi ribrezzo di essere ascritte civili persone, e
uomini qualificati per godere protezione contro gli altri Tribunali, ed esser fatti
partecipi dell’Indulgenze, che sono addette alla Crociata, e per quelli che
vanno contro i nemici del nome Cristiano. L’Inquisizione è fin dalla sua
istituzione in possesso di giudicare indipendentemente di sei sorte di persone.
I. Degli Eretici. II. Di quelli che cadono in sospetto di eresìa. III.
De loro fautori, o di quelli, che gli proteggono e favoriscono in qualche
maniera. IV. De Maghi, Incantatori, Stregoni, e gente che usano malefizi. V. De
Bestemmiatori. VI. Di quelli che resistono agli esecutori e persone addette al
Tribunale dell’Inquisizione, o che turbano in qualche modo la sua
giurisdizione. Per sospetto di eresìa s’intende chi con poca prudenza si
fa sentire mettere in ridicolo gli articoli della fede, o le determinazioni
della Santa Sede, che abusano de Sacramenti o delle cose sante, che disprezzano
le sacre immagini, o che leggono, ritengono, e approvano libri, e massime
condannate dall’Inquisizione. La continua pratica con gli eretici, o
l’assistere a loro esercizi passa sotto questa categoria, come anche chi loro
presta asilo, e sapendo di certo che siano tali non è pronto a
denunziarli al Santo Ufizio. Ognuno è obbligato ad accusare tali persone
sopra indicate benchè padre, figlio, fratello, moglie, marito, nipote,
ec. sotto pena di scomunica, e di rendere lo stesso colpevole di eresìa,
e restare esposto a rigori dell’Inquisizione come fautore di Eretici.
Gl’Inquisitori, i loro subalterni, e
tutti gli altri impiegati fanno i più terribili scongiuri e
imprecazioni, di tener segreto ne rivelare a chicchessia tutto ciò che
si fa nel Santo Ufizio, e a questi tremendi giuramenti sono sottoposti anche
gli stessi rei ivi detenuti. Il Tribunale procede sempre sommariamente sopra la
deposizione di qualunque persona. Se l’accusatore oltre la sua persona nomina
qualche altro testimone, si manda a chiamare segretamente, e gli si fa
presentare il prefato giuramento di non manifestare ad alcuno di essere stato
dall’Inquisitore, nè parlerà di alcuna cosa, che egli dica,
vegga, o senta in detto Tribunale. Tutti coloro che non sono notati d’infamia,
o spergiuri, sono ammessi in favore della fede e contro l’eresìa per
testimoni, eccettuati i nemici mortali. Prese in tal guisa le segrete
informazioni, e deposizioni del denunziante e dai testimoni quando vi sieno si
chiama un famigliare, ed entrato se gli da in scritto il seguente ordine.
“Per comando del Reverendissimo Padre
N.N. Inquisitore dell’Eretica pravità, prenderete e consegnerete nelle
carceri del S. Ufizio N.N., ne da quelle sarà liberato o rilasciato
senza preventivo mandato del predetto Reverendissimo Inquisitore.”
Se si debbono prendere più
persone in una volta, si dà istruzione a’ familiari di dispor le cose in
modo, che uno nulla sappia dell’altro, nel che sono costoro così
eccellenti, che si racconta che in Lisbona un padre con tre figli e tre figlie
che viveano insieme in una casa, furono condotti anni addietro prigionieri
nell’Inquisizione, senza che uno sapesse dell’altro fuori che sette anni dopo
quando si riveddero in un Atto di Fede. Preso e condotto il prigioniero
nelle carceri predette con la maggior cautela, e segretezza vien tosto
consegnato al soprastante, che più volte il giorno va a rivederlo, senza
però mai parlargli, e se ciò facesse e fosse scoperto sarebbe reo
di gravissimo delitto. Le carceri sono anguste camere alquanto oscure, che non
hanno che un piccolo letto, e un luogo mal tenuto per i corporali bisogni, onde
sono molto fetide e poco sane, e sovente ripiene di schifosi animali. Da molti
e molti è stato detto, che queste carceri specialmente in Portogallo,
sono scavate in luoghi sotterranei, ove si discende per molti scalini per
timore che le strida e i lamenti di quelli che abitano non siano intesi al di
fuori, che la luce del giorno non entra giammai in quelle orride sepolture de’
viventi, affinchè gli sventurati che vi sono chiusi non possano
nè leggere nè occuparsi in altra cosa che delle lor pene, e delle
lugubri e tristi idee de mali che loro sono preparati. Tali racconti potendo
essere esagerati non meritano tutta la fede, vero si è che i prigionieri
non possono vedere alcuna persona fuori che il custode che porta il vitto la
mattina e la sera con una lucerna che fa poco lume e che non serve che per
un’ora, ne questo come si è accennato, senza espressa licenza dell’Inquisitore
può entrare in discorso alcuno. Dopo che il reo è stato qualche
giorno nella carcere, condotto viene avanti all’Inquisitore, il quale prima di
fargli alcuna domanda gli deferisce il giuramento di dire la verità a
tutte le interrogazioni, che gli verranno fatte. La prima richiesta è
quella se sa perchè si trovi nelle forze del S. Ufizio. Se risponde che
non lo sà, allora se gli ricerca per qual motivo l’Inquisizione procede
alla cattura? se ei risponde per l’eresìa; gli si ricorda il prestato giuramento
di confessare le sue eresìe e scuoprire i suoi maestri, e i suoi
complici. Se il prigioniero nega di esser giammai stato eretico o avere avuta
comunicazione con eretici, se gli dimostra che il Santo Ufizio non usa carcerar
le persone a capriccio, o senza aver prima buoni fondamenti di quello che
opera; che per tanto egli si risolva di confessare il suo delitto, e ciò
al più presto, perchè l’Inquisizione è severa con quelli
che negano, e pietosa con chi confessa il suo fallo.
Se il prigioniero persiste in negare
di esser caduto in veruna eresìa, si chiama il soprastante, e se gli
comanda di ricondurlo alla sua carcere, ed a lui si fa una severa ammonizione
perchè faccia un rigoroso esame di coscienza, acciò che la prima
volta che sarà mandato a chiamare sia pronto a fare una vera e piena
confessione delle sue eresìe, de’ suoi maestri, e complici. Conceduti al
reo due o tre altri giorni per far questo, si conduce per la seconda volta
davanti agl’Inquisitori, e se gli domanda se è risoluto a confessare
quanto da lui si richiede. Se risponde che non può, senza accusare
falsamente se stesso e gli altri, allora si passa a chiedergli ove sia nato,
quali furono i suoi congiunti, ove andò alle scuole, se ebbe uno o
più precettori, dove, e in quali paesi visse, con chi conversò il
più frequentemente, chi fu il suo confessore quando fece la sua ultima
confessione e comunione avanti di essere arrestato, chi il Paroco, e cose
simili. Quando poi gl’Inquisitori credano esservi prove bastanti di eresìa,
comandano al reo, che non volendo pentirsi del suo fallo ritorni in carcere, e
quivi preghi Dio, che gli voglia concedere una([40]) buona disposizione per
fare una vera e piena confessione per salute dell’anima sua, che è la
sola cosa da essi ricercata, e per eseguir ciò se gli da tempo due o tre
giorni. In caso che persista a dirsi innocente, gli vengono fatte varie
ricerche sopra l’eresìa di cui è accusato; per esempio se crede
che il Corpo di Gesù Cristo sia presente nell’Eucaristia, se si
debbano adorare l’immagini ec. Se egli afferma di aver sempre stabilmente
credute queste cose ed altre verità professate dalla Cattolica
Religione, se gli ricerca se abbia dubitato di tali articoli, e se abbia mai
parlato contro i medesimi. Se risponde di non aver mai parlato, e ciò sostiene
per più volte, benchè non vi siano prove evidenti per cavar dalla
bocca del reo la confessione, se gli dichiara che quanto ha in mano
l’Inquisizione basta per porlo alla tortura, e farlo a forza confessare.
Stabilito il giorno, se il reo non previene i giudici con la confessione,
è condotto nel luogo della tortura, che è in una stanza
sotterranea ove si scende per diverse scale, affinchè i gemiti e le
strida de’ tormentati non siano da veruno ascoltate. I tormenti si assicura essere
di tre sorte: il primo la Corda, il secondo l’acqua, il terzo il fuoco. La
corda è nota a tutti, e dura un’ora e qualche volta di più
secondo che gl’Inquisitori che vi sono presenti giudicano a proposito, e che ne
sono capaci le forze del paziente. Quello dell’acqua consiste in farne bevere
gran quantità al colpevole, e poi distenderlo sopra una specie di
tavola, che sotto ha un bastone che continuamente gli preme la spina del dorso
con dolori indicibili. La tortura del fuoco è la più rigorosa
d’ogni altra, poichè si ungono i piedi del reo col lardo e altre materie
penetranti e combustibili, quindi si accostano alle fiamme tenendovegli fino a
che non abbia confessato. La stanza non è illuminata che da tre
fiaccole, che fanno un piccolo e torbido lume, solo per far vedere a’ delinquenti
gli istrumenti della tortura, con uno o più carnefici secondo il bisogno
vestiti in cappe da compagnia nere col viso coperto.([41])
Prima che cominci l’esecuzione,
l’Inquisitore esorta il reo ad aver pietà del suo corpo, e della sua
anima, e a schivare con la confessione tanti patimenti, ma se persiste a
sostenere che si contenta patire ogni tormento piuttosto che accusar se stesso
e gli altri, il Religioso tranquillamente comanda all’esecutore che faccia il
suo debito, ed incominci la tortura, sempre alla sua presenza e di altri
ministri del Sant’Ufizio. Durante il tormento viene continuamente interrogato,
quindi se è sempre negativo è rimesso in carcere e fatto
medicare. Se confessa si scrive dal notaro parola per parola tutto quello che
dice; e dopo avergli conceduto due giorni di sollievo, si conduce di nuovo
avanti al Tribunale per confermare la confessione, il che si fa ponendovi sopra
la mano, e ciò eseguito si dà fine al processo, essendoche ove
manca l’evidenza sufficiente a condannarlo, supplisce la confessione del reo
fatta e segnata nella descritta maniera. In caso però, che venga
ricusata tal conferma, col dire e sostenere, che fu estorta dal dolore de’
tormenti, si conduce di nuovo alla tortura per vedere se persiste nell’ostinazione,
o se conferma il deposto. Qualche volta se il reo confessa il proprio delitto,
è nonostante soggetto ai tormenti per fargli confessare i complici,
oppure se espone di aversi lasciata scappar di bocca qualche massima ereticale
per sola bizzarria, si pone alla tortura perchè confessi se la cosa
veramente era tale, e se i suoi pensieri non si accordavano con le parole. Se
il delinquente nega sempre non esser vere le parole, e l’eresie di cui viene
accusato, e domanda che se gli facciano venire a petto gli accusatori, e i
testimoni che deposero contro di lui per difendersi, se gli risponde, che non
si tiene dal Sant’Ufizio un tal costume, perchè i detti testimoni, e
accusatori per le leggi fondamentali dell’Inquisizione non debbono essere
nè direttamente, nè indirettamente scoperti. Una sì rigida
segretezza si vuole che venisse stabilita per la sicurezza della vita de’
querelanti, e de testimoni, i quali se fossero noti sarebbero sovente esposti a
gran pericoli, e non si troverebbe più chi denunziasse o rendesse testimonianza
contro gli Eretici. Infatti la prima volta che il S. Ufizio fu costituito su
questo piede in Spagna e in Roma, benchè quivi diversifichi alquanto
dall’altro, incontrò gran difficoltà, e il popolo ne parea assai
malcontento, e fede fanno le sollevazioni accadute appunto in detta
Città di Roma, ove dopo la morte di Paolo IV. infuriata la plebe ruppe
le carceri dell’Inquisizione e tutti gli atti e scritture furono abbruciate.
Non si nega però a rei un
avvocato o un Procuratore che loro assista, ma a questi avanti di vedere il
cliente si fa fare l’appresso giuramento.
“Io N.N. Dottore ec. alla presenza
del Padre Inquisitore di questo luogo, tenendo le mani sopra li Evangeli
prometto e giuro di sostenere e difendere fedelmente la causa di N.N. detenuto
nelle carceri del S. Ufizio, senza servirmi di alcuna cavillazione o raggiro.
Inoltre prometto e giuro che se scuoprirò che il cliente sia reo della
colpa a lui imputata tralascierò la sua difesa immediatamente, e
esaminato il caso se scuoprirò complici nella sua eresia gli
accuserò a questo Sant’Ufizio. Tuttociò prometto sotto pena di
spergiuro e di scomunica ec.” Nemmeno al Procuratore però
son noti gli accusatori, e testimonj, e quando è licenziato giura di
nuovo di non aver copia della difesa fatta al reo, e che di ciò non
parlerà con chichessia. Si fa anche il processo a quelli che si uccidono
da se, o muoiono di morte naturale nelle carceri. Quello contro i primi
è breve, bastando l’atto dell’uccisione per convincerli rei d’eresìa
e di empietà. Contro i secondi si procede dall’Avvocato Fiscale, come se
fossero in vita. I congiunti o gli amici del reo, o qualunque altro che abbia
da presentare qualche cosa in difesa del defunto sono per pubblico editto
citati a comparire avanti l’Inquisitore in termine di 40. giorni per produrre
le difese, e se a questa intimazione nessuno comparisce per la difesa, il morto
si condanna come se per anche vivesse, si confiscano i suoi beni, e il corpo in
effigie bruciato viene nel primo atto di fede. L’autorità dell’Inquisizione
si stende non solo sopra quelli che muoiono nelle carceri, ma ancora sopra i
beni, corpi, e fama di coloro che dopo morte fossero convinti di esser morti
eretici, o nel Giudaismo. Riguardo a beni evvi una prescrizione di 40. anni di
tempo, il che è una cosa che apporta infinite vessazioni alle famiglie,
e riguardo all’ossa può il Sant’Ufizio quando vuole dissotterrarle, e
bruciarle a talento de suoi sacri ministri.
Quando poi vi è un numero
competente di rei convinti di eresìa si stabilisce un giorno
dall’Inquisitore Generale per votar le carceri e dare al pubblico uno
spettacolo che si chiama Atto di Fede([42]),
quasi sempre in giorno di sabato. Nella mattina di detto giorno, i rei, che
sembrano spettri ambulanti, tanto sono stati privi dell’aria viva, e della luce
del giorno, sono condotti in una gran sala, in cui si pongono loro addosso
quelli abiti che portar debbono in processione, quale comincia a partire dal
Palazzo del Sant’Ufizio, dopo un lugubre suono di campane che dura tutta la
notte, verso il levare del sole. I Padri Domenicani portano lo stendardo
dall’Inquisizione, che da una parte ha l’immagine di S. Domenico loro
fondatore, dall’altra una Croce in mezzo a un ramo di olivo, e una spada col
motto Iustitia et Misericordia. Dopo loro vengono i penitenti vestiti
con un farsetto nero sino a mezza gamba senza maniche, con una candela di cera
in mano a piedi scalzi. Dietro vengono i rei che sono stati vicini a esser
condannati al fuoco, e questi hanno addosso sopra il farsetto nero una specie
di camicia sino a ginocchi detta Sambenito con una mitra in testa fatta
a pane di zucchero tutta dipinta da piccole fiamme di sù in giù.
Vengono poi gli ostinati, e i recidivi condannati a esser bruciati con le
fiamme infernali sul Sambenito e sulla mitra rivolte all’insù, e
inoltre hanno dipinti sul petto cani, serpenti, e diavoli, tutti con la bocca
aperta in atto di divorarli. Ogni reo condannato al fuoco è in mezzo di
due religiosi, uno per parte, che li vanno persuadendo ad abiurare la loro
eresìa, e questo Ufizio faceasi da Gesuiti prima delle loro espulsione
da i dominj del Portogallo, e se qualcheduno di quelli infelici ardisce di
esclamare, onde non segua più come avvenne a tempi di Filippo II. a
norma di quanto si è narrato, gli viene posta una sbarra alla bocca,
perchè non possa fare echeggiare i suoi lamenti. Dopo i prigionieri ne
viene una folta truppa di familiari, e dietro gli Inquisitori, e altri Ufiziali
di Corte sopra le mule. Ultimo di tutti comparisce l’inquisitor Generale sopra
un cavallo bianco condotto da due uomini con abito violetto, e il suo cappello
Vescovile in testa seguito da tutti i nobili che non servono come famigliari
l’Inquisizione. In una delle gran piazze è eretto un anfiteatro capace
di 8. o 10. mila persone, e la Corte e tutte le dame stanno alle finestre come
ad assistere a uno spettacolo di piacere. Fatto il giro della piazza come in
pomposa mostra, da una parte si pongono gl’Inquisitori, dall’altra i rei; e
dietro ad essi le figure infilate in un alto bastone di coloro che sono morti
nelle carceri, o sono stati condannati in contumacia. Terminata la marcia si da
principio alla Messa, in mezzo alla quale il celebrante lascia l’altare, e si
asside su una sedia a tale effetto preparata, ed allora il grande Inquisitore
scende dal suo posto e co’ paramenti Vescovili si avanza verso il balcone del
Re o del Governatore, accompagnato da suoi subalterni che portano la Croce, gli
Evangeli, e il libro contenente i giuramenti che i Monarchi Portoghesi e
Spagnuoli fanno al loro avvenimento alla corona di estirpare l’eresia, e
proteggere, dilatare e difendere l’autorità dell’Inquisizione, stando
sempre in tutto questo tempo i Sovrani, o chi gli presenta con la testa
scoperta e avendo a canto un Ufiziale qualificato che tiene in alto la spada
Reale sfoderata. Quindi dopo un lungo discorso di un Domenicano in lode
dell’Inquisizione e in biasimo degli eretici, si termina il sacrifizio
dell’Altare. Finito questo si leggono tutte le abiure de’ penitenti che si
inginocchiano avanti al celebrante ad uno ad uno con l’ordine istesso che
andarono in processione, ed in fine la sentenza emanata dal predetto grande
Inquisitore contro coloro che sono condannati a morte con le parole seguenti.
“Noi N.N. Inquisitore dell’eretica
pravità avendo con l’assenso dell’Illustriss. Sig N.N. Arcivescovo,
Patriarca ec. implorato devotamente il nome di Gesù Cristo Signor
Nostro, e della Santissima Vergine sua gloriosa madre, sedendo nel nostro
Tribunale e avendo i Santi Evangelj davanti agli occhi, acciocchè il
nostro giudizio siegua alla presenza di Dio, e i nostri occhi possano vedere
quel che è giusto in tutte le materie vertenti tra il magnifico Dottore
N.N. Avvocato Fiscale da una parte, e voi rei ora davanti a noi costituiti
dall’altra, abbiamo ordinato, che in questa piazza e in questo giorno voi
dobbiate intendere la vostra final sentenza.”
Noi, pertanto con questa nostra
sentenza; in vigore della nostra potestà ed autorità dichiariamo,
sentenziamo, e pronunziamo, Tè nativo ec. come eretico convinto e confesso
a dovere essere consegnato, e abbandonato come tale al braccio secolare; e ti
scacciamo fuori della Chiesa come eretico confesso, e convinto, e ti
abbandoniamo e consegnamo al braccio secolare e all’autorità del suo
tribunale che nello stesso tempo preghiamo a usar verso di te misericordia, a
non sparger sangue, toglier la vita o mutilare le membra.”
Appena i prigionieri sono consegnati
in mano della giustizia criminale, che cinti di catene vengono condotti avanti
al Giudice o Capo di detta giustizia, che loro domanda in qual Religione
vogliono morire. Se rispondono voler terminar la loro vita come Cattolici
Romani, gli vien fatta la grazia di essere strangolati prima di esser bruciati,
se dicono voler morir protestanti il loro destino è di esser legati ad
un palo e bruciati vivi. Il reo sempre accompagnato da due Religiosi và
al patibolo, e quivi s’impiega circa un quarto d’ora ad esortarlo a
riconciliarsi con Dio e con la Chiesa, e se ciò rifiuta di fare il
carnefice incatena il paziente al palo e lo lascia. Tornano i Religiosi per la
seconda volta a rinnovare le loro esortazioni, e se persiste ad essere ostinato
ne suoi errori o nella sua setta, partendo gli dicono, che lo lasciano in
balìa del demonio che gli stà a’ fianchi per prender l’anima sua
e portarla per tutta l’eternità nell’inferno. Subito che i confortatori
sono discesi per l’ultima volta dalla scala, si sente un grande schiamazzo, e
una voce universale che dice fate la barba a que’ cani con porre della
paglia accesa sopra lunghi legni, co’ quali viene abbronzata a quelli infelici
la faccia, sicchè sono ridotti quasi carboni, indi si dà fuoco al
rogo, e tutto in brevi istanti resta consunto, riguardando il popolo
tranquillamente questa orrida, e tremenda scena, tanto è l’odio che
l’Inquisizione ha saputo ispirare nelle Spagne, e nel Portogallo contro quelli
che sono da lei condannati.([43])
Nel Messico, nel Perù, e nel
Brasile, e in tutti gli stabilimenti delle due Corone è il S. Ufizio
posto appresso a poco sul medesimo piede che in Portogallo, e in Spagna, ma a
Goa nell’Indie Orientali esercita questo una giurisdizione totalmente assoluta
e indipendente dall’istesso Arcivescovo, e dal Vicerè colà
inviato dalla Corte di Lisbona, che impunemente non si azzarderebbe a limitarne
in qualche parte l’eccessiva autorità. Ivi il grande Inquisitore
è un Prete secolare costituito in dignità, e i subalterni sono
Domenicani, che estendono il loro potere su tutti i paesi posseduti dal Re
Fedelissimo di là dal Capo di Buona Speranza, ed entro Goa non vi
è che il detto grande Inquisitore, che abbia il privilegio di farsi
portare in sedia, e si hà per lui maggior rispetto e timore, che per
qualunque altra persona, essendo ogni ceto, e ogni rango di laici, e di
Ecclesiastici a lui soggetto, come anche, Mori, Gentili Maomettani, Ebrei, e
Indiani creduti autori di malefizi, maghi([44]), o stregoni e incantatori versati
nella stegonomanzia o Coschinomanzia, che sovente sono sacrificati a’ sospetti
del S. Ufizio, e una semplice parola poco cauta in materia di fede può
esser cagione della perdita della vita, o di una lunga prigionia nelle carceri
le più schifose ed orribili, che mente umana possa immaginarsi. Sono in
quella Città assai frequenti gli Atti di fede, cosa che ha
prodotta la decadenza del suo commercio, ed ha non poco contribuito all’odio
degli Indiani contro i Portoghesi, che per tal causa hanno nel passato secolo
perduti i migliori stabilimenti che avessero in quel vasto e ricchissimo
continente, loro strappati di mano e conquistati dagli Olandesi, che si sono
mostrati co’ popoli più umani, e meno avidi del guadagno, non vessando
alcuno per cose di Religione.
Veduto in tal guisa quale lo stato
sia dell’Inquisizione ne’ paesi esteri, passeremo in Italia, e quindi in ultimo
luogo particolarmente in Toscana. Stante i dispareri continui fra il Sacerdozio
e l’Impero, che con frequenti guerre durarono per quasi tutto il mille dugento
con scandoli innumerabili, anche l’Italia venne infestata da più e
diverse eresìe, le più comuni delle quali erano come si è
detto intente a sottrarsi dall’autorità Ecclesiastica. Federico II.
Imperatore, della Casa di Svevia nel 1224. essendo in Padova promulgò
quattro Editti per sostenere e proteggere gl’Inquisitori Domenicani e
Francescani, Religioni allora nascenti, condannando gli eretici ostinati al
fuoco, e i penitenti a perpetua prigione, commettendo a’ suddetti la cognizione
delle cause, ed a’ giudici secolari la condanna, e questa fu la prima legge che
costituisse la pena di morte contro gli Eretici. Tuttociò, stante le
discordie che nacquero tra il predetto Imperatore e la Corte di Roma, non fu
bastante ad estirpar l’eresìe introdotte, onde dopo la sua morte
Innocenzo IV. dette a’ Religiosi surriferiti ogni ampla autorità di
erigere un fermo Tribunale che altra cura non avesse, che l’estirpazione degli
errori e delle massime ereticali. Si opponevano a ciò due ostacoli:
l’uno come si potesse senza confusione smembrar le cause di eresìa
dall’autorità Episcopale che le avea sempre giudicate; l’altro come si potesse
escludere il Magistrato secolare a cui commessa era l’esecuzione del gastigo
degli eretici, e per l’antiche e moderne leggi Imperiali, e per i particolari
statuti. Al primo inconveniente fu trovato il temperamento di creare un
Tribunale composto dell’Inquisitore e del Vescovo, il quale vi avesse poco
più che il nome, e il primo tutta la più estesa facoltà:
all’altro con applicare un terzo al pubblico delle confiscazioni che si
sarebbero fatte. Ad onta di tali precauzioni e dell’autorità, che il
Sant’Ufizio istituito in Roma verso que’ tempi col nome d’Inquisizione Generale
avea ottenuta sopra tutte le altre Inquisizioni d’Italia, autorità
infinitamente ampliata ed estesa nel 1540. sotto Paolo III. frequenti furono i
disordini e tumulti, che ne nacquero in diverse Città, perchè i
Frati Inquisitori nelle prediche sovente eccitavano il popolo, allora assai
rozzo e materiale, alla sedizione col fargli prender la croce. Sotto questo
pretesto i crocesignati facevano le loro vendette particolari contro i loro
nemici additati come eretici, ed altri anche innocenti sotto quel nome
restavano oppressi da chi voleva le loro sostanze. A Venezia dopo l’ammissione
dell’Inquisizione di soli 12. anni, cioè nel 1301. Fra Antonio
Inquisitore inviò un Monitorio a Pietro Gradenigo Doge, che dovesse
giurare di osservare le costituzioni Papali ed Imperiali contro gli Eretici.
D’allora in poi l’autorità del Sant’Ufizio nello Stato Veneto venne per
mezzo di varj concordati con la Santa Sede, limitata in molte parti e
ristretta, e il detto Tribunale rimase come un misto di secolare, e di
ecclesiastico con tre assistenti secolari, che sempre dovessero assistere a
tutti i suoi atti e risoluzioni, senza di che qualunque ordine, sentenza, o
decreto, fosse nullo, e di niuno affetto e valore.([45])
Nonostante un così saggio
regolamento in materia d’Inquisizione fra Roma e Venezia, varie contese
insorsero con l’andare de’ tempi, ma la più strepitosa fu quella sotto
Paolo V. nel 1607.([46])
Il d. Paolo V. Borghese nativo di Siena era animato sopra ogni altra cosa a sostenere
l’immunità e privilegi del Clero, che poteano far rinascere le antiche
vertenze tra la secolare e l’ecclesiastica potenza, che ne’ secoli anteriori
aveano fatto versare tanto sangue. Avendo poco dopo la sua assunzione al trono
Pontificio il Governo Veneto fatto arrestare e tradurre nelle sue forze un
Canonico di Vicenza e un altro Sacerdote Canonico di Nervesa, che venivano
reclamati dall’Inquisizione, come ancora rinnovato un antico decreto, che gli
Ecclesiastici compresi sotto il nome di Mani morte non potessero
acquistare in avvenire beni stabili, con altre modificazioni, scrisse il Papa
al Senato, che la suddetta legge, e la carcerazione de due Preti offendevano
direttamente l’onore di Dio e della sua Chiesa, onde era d’uopo che annullate
fossero immediatamente, e i due detenuti venissero consegnati a Monsignor
Mattei suo Nunzio Pontificio, mentre non doveano giudicarsi che dalla Romana
Congregazione del Sant’Ufizio. La Repubblica inviò in risposta un
Ambasciatore straordinario alla Santa Sede per sostenere i suoi diritti, ma il
Ministro solo sentì dirsi dallo zelante Pontefice, che gli statuti del
Governo Veneto non aveano alcun vigore, e che bisognava obbedire. Il Senato non
obbedì, e fu costante in sostenere le sue prerogative, onde non molto dopo
il Doge e i Senatori vennero con pubblico Munitorio([47]) dichiarati incorsi nella
scomunica, e tutto lo Stato di Venezia sottoposto all’interdetto, cioè a
dire fu proibito al Clero sotto pena di eterna dannazione di dir Messa,
amministrare i Sacramenti, e seppellire i morti. Gli stessi mezzi che Gregorio
VII. e i suoi successori usati aveano con diversi Imperatori, prima che la Casa
d’Austria ascesa fosse sul Trono de’ Cesari, furono messi in opra, ma i tempi
in questo secolo erano molto cangiati, e Paolo V. azzardava di essere ad onta
sua obbedito, e che Venezia facesse chiuder davvero tutte le Chiese, e
renunziasse alla Cattolica Religione. Si vuole da vari scrittori, che in Senato
si parlasse effettivamente di sottrarsi affatto, sull’esempio dell’Inghilterra,
all’obbedienza spirituale di Roma, e abbracciare la Greca Religione, o le
pretese riforme di Lutero e Calvino. Sentiti più e diversi pareri, si
contentarono i Senatori di proibire la pubblicazione del Munitorio in tutta
l’estensione de’ loro territori. Il Vicario Generale del Vescovo di Padova a
cui fu significato questa proibizione, rispose, che avrebbe eseguito ciò
che Dio ispirato gli avesse, ma il Potestà replicato avendo, che Dio
ispirato avea al Consiglio de’ Dieci di fare impiccare che avea l’ardire di
disobbedire, l’interdetto non fu pubblicato in verun luogo, e la Corte di Roma
potè chiamarsi fortunata, che i Veneziani continuassero a vivere da
buoni Cattolici ad onta sua. Tutti i potentati d’Italia s’interposero per
l’accomodamento, ma il Papa avendo in idea d’incutere spavento ne’ Principi,
arruolò 4. mila Corsi e diversi Svizzeri, fece gran leva di soldati de’
quali dette il comando a Francesco Borghese suo fratello, accrebbe i presidi, e
le fortificazioni di Ferrara: insomma parea che Roma dopo tanti secoli pensasse
a far davvero delle prodezze. I Veneziani armarono anch’essi dal canto loro,
assoldarono 6. mila Francesi, e richiesero l’aiuto di Arrigo IV. di Borbone([48]) detto il Grande. Questi che
era molto propenso per i Veneziani si dichiarò mediatore per un
accomodamento, e spedì in Italia a tale effetto per le poste il
Cardinale di Gioiosa, il quale dopo aver capita la mente del Senato portossi a’
piedi del Pontefice per far gustare i beni della concordia, e dimostrare
l’atroce guerra che nascer potea da quest’impegno. Paolo V. abbandonato dalla
Casa d’Austria, che non volea difendere risoluzioni contrarie agli stessi suoi
principj, trovossi astretto a moderare il suo fuoco, e soffrire fino la
mortificazione, che l’accomodamento si non facesse nella sua Capitale. Il
Cardinale entrato in pieno Collegio ove erano il Doge e i Savi, rivocò
l’Interdetto con le censure, e similmente venne revocato dal Senato ogni atto
fatto in contrario. I due prigioni passarono in mano del Re di Francia come in
dono, senza pregiudizio della autorità del Principe, e dal Re
Cristianissimo restarono consegnati al Commissario del Papa. A Roma fu detto
che il senato ricevuta avea l’assoluzione delle Censure, ma i Veneziani hanno
ciò sempre negato, e continuato a sostenere i loro diritti in tali
materie. Non avrebbero i Papi mai immaginato a tempo della Lega, che Arrigo IV.
chiamato a Roma il Bearnese sarebbe stato il mediatore fra essi, e il
Veneto Senato. Quegli che Roma sotto Sisto V. avea scomunicato come Eretico
recidivo fece levare la scomunica alla Repubblica di Venezia.([49])
Altri sconcerti e forti impegni nati
erano pure per cagione dell’ Sant’Ufizio nella Lombardia ed in specie a Milano.
Nel 1322. Giovanni XXII. che risedeva in Avignione pubblicò un severo
Munitorio contro Matteo Visconte Signore di Milano, che era Capo del Parito
Ghibellino, che sostenea le ragioni degli Imperatori contro i Pontefici. Il
Visconte non avendo risposto al Munitorio, venne tosto inviata una Bolla al
Cardinale Bertrando Legato Pontificio, nella quale gli fu ordinato di citare
Matteo a comparire davanti al Papa nel termine di un mese come incorso nella
scomunica. Disprezzata anche questa intimazione, pensò il Papa di farlo
processare come eretico, ma una tal procedura divenendo inutile contro un uomo
armato, nè potendo ritardare le di lui operazioni militari, si venne al
compenso di oppor la forza alla forza, e far predicare la Crociata contro di
lui perchè non lasciava a’ Vescovi esercitare le funzioni del loro
Ministero, negava la resurrezione della carne, non obbediva all’Interdetto
lanciato contro la Città di Milano, avea invocati, e consultati i
Demoni, e tolta una ragazza a uno che l’avea sposata in faccia alla Chiesa per
darla in moglie a un altro. Tre Inquisitori, e Gherardo Arcivescovo compilarono
il processo, ed emanarono la Sentenza con la confiscazione de’ beni, che non
ebbe effetto veruno. Quel Principe uomo di gran coraggio, essendosi ammalato
nella grave età sua di anni 73. sentendosi mancar le forze, pochi giorni
avanti la sua morte fece adunare tutto il Clero della Metropolitana, e
là sopra una sedia da riposo posta avanti l’altare pronunziò ad
alta voce il Simbolo degli Apostoli, e disse, che quella era la fede che sempre
avea professato. Morto che fu, i suoi figli seppellirono il cadavere
segretamente senza cerimonie, per timore che il Papa non gl’impedisse l’esser
collocato in Chiesa. Gl’inquisitori si adoprarono quanto poterono per scuoprire
il luogo ove detto cadavere era stato sepolto, ma non ne vennero mai a capo. La
loro intenzione era di farne bruciare pubblicamente le ossa([50]).
Ma il predetto Matteo non fu il solo
Principe d’Italia scomunicato e processato come eretico. Rinaldo e Obizzo
d’Este, e loro aderenti e sudditi subirono l’istessa sorte, perchè
recuperata aveano Ferrara occupata dalle truppe del Papa nel 1355. Francesco
Ordelaffi Signor di Forlì, Galeotto Malatesta Signor di Rimini,
Guglielmo e Giovanni Manfredi padroni di Faenza soffrirono l’istesso
trattamento da Innocenzo VI., e le loro condanne non furono tolte se non quando
gl’imputati si contentarono riconoscere le loro Terre come Feudi della Romana
Chiesa. In Milano ove l’Inquisitore ha esercitata fin che quel Ducato è
stato sottoposto alla Spagna grande autorità, avvenne circa il 1550. un
caso molto pericoloso. Il Cardinale Carlo Borromeo, che poscia fu Santo,
visitando alcune Terre della sua Diocesi Milanese, suddite agli Svizzeri,
ordinò diverse cose, che insospettirono que’ governi Repubblicani, i
quali inviarono un Ambasciatore a Milano per chiedere al Governatore, che
richiamasse di colà il Porporato Arcivescovo perchè non
avvenissero delle poco piacevoli novità. L’Ambasciatore giunto in quella
Città andò ad abitare alla casa di un mercante per condursi poi
con comodo a disporre la sua Ambasceria. Venuto ciò a notizia
dell’Inquisitore, immediatamente inviò a prenderlo, e lo fece trasferire
nelle carceri del suo Convento. Ricorse il Mercante al Governatore Duca di
Sessa, che tosto fece liberare l’Ambasciatore, gli fece chiedere scusa,
l’onorò, e l’ascoltò. Gli Svizzeri avvisati nel tempo istesso
della carcerazione, e restituita libertà al loro Ministro, inviarono non
ostante ordini veloci sulle loro frontiere, che arrestato fosse il Cardinale,
il che sarebbe seguito, se non fosse poche ore avanti partito, e frattanto le
rinnovazioni tutte restarono sospese e non ebbero effetto alcuno. Eppure
l’Inquisizione del Milanese, era assai più mite della Spagnuola e
dipendente da quella di Roma, che si governa con massime assai meno austere, e
allora quando pochi anni avanti a questo fatto Filippo II. inviò ordine
al prefato Governatore di mettere il S. Ufizio sul piede istesso di quello di
Spagna, e con l’istessa indipendenza, i popoli tutti concordemente sussurrarono
e ne fecero tal rumore, che per timore di una general sollevazione fu d’uopo
desistere dall’impresa.
Nel Regno di Napoli a tempi
dell’Imperator Federigo II., e sotto i Principi della Casa di Angiò,
l’Inquisizione vi fu introdotta come poc’anzi lo era stata in Provenza Contea
sottoposta agli stessi Sovrani, e i Domenicani sostenuti dal braccio secolare
scorrevano le Provincie, e vi facevano frequenti esecuzioni, sovente a spese
del Regio Erario. Carlo III. d’Angiò donò nel
E altato al Sommo Pontificato
Clemente XIII. furono dal gran Maestro di Malta D. Emanuelle de Pinto avanzate
nel 1760. diverse istanze alla Santa Sede, affinchè il Santo Padre si
degnasse provvedere agli sconcerti nati nell’Isola per rapporto al Tribunale
dell’Inquisizione, e gli fece presentare una Memoria, che contenea la
descrizione degli abusi bisognevoli di riforma. Tutti questi sconcerti nascevano
dal numero eccedente degli Ufiziali, familiari, e patentati del S. Ufizio, che
godevano una soverchia estensione d’immunità, e che contro la Bolla
istessa di Gragorio XIII. eransi abusivamente in soverchio numero moltiplicati.
Clemente VIII. riconoscendo questo disordine avea nel 1590. comandato
all’Inquisizione il non ammettere, che 12. Ufiziali, e 20. familiari, ma molti
di essi affine di sprezzare ogni legge impunemente, e sottrarsi alla
subordinazione dovuta al legittimo Principe, si procuravano l’esenzioni per
mezzo delle patenti del S. Ufizio, e l’artifizio giungeva a segno, che
concorreva la gente in folla per avere in affitto i beni dell’Inquisizione, ed
alcuni per essere del numero de patentati, non potendo avere a nolo qualche
podere appartenente al detto Tribunale, ne donavano un pezzo del proprio, indi
si facevano nominare affittuari dello stesso terreno donato, e la patente
valeva non solo per tutta la famiglia, ma anche per i domestici e gli schiavi.
Il male con tutto ciò sarebbe stato comportabile se il gran Maestro
avesse potuto sapere il numero e i nomi de patentati, ma con tutte le istanze
più volte replicate ciò non gli era mai potuto riuscire. Siccome
per evitare qualunque atto del braccio Secolare bastava asserire di aver la
patente dell’Inquisizione, così non è credibile quante
irregolarità, frodi e violenze accadessero giornalmente nell’Isola.
Nello Stato Ecclesiastico per godere del privilegio del Foro, è
stabilito che il familiare del S. Ufizio debba esibire le sue patenti, ma a
Malta si lasciava in arbitrio del patentato allegare il suo privilegio in
qualunque stato si trovasse la lite, ed allora quando era allegato produceva
l’effetto di render nulli tutti gl’atti, volendo inoltre gli attori che loro
competesse la strana prerogativa di chiamare al loro Foro i rei convenuti. La
Santa Sede non avea da gran tempo ascoltate querele più giuste, onde il
Papa le intese, e nel dì 31. Luglio di detto anno emanò
più e diversi Decreti di riforma, in vigore de quali tutti i familiari e
patenti ridotti furono a soli 68. il di cui nome esser dovesse noto ed
approvato dal Governo. Ciò produsse qualche contestazione con la Real
Corte di Napoli, che sostenne doversi togliere affatto al prelato, che da Roma
si spedisce inquisitore a Malta, il diritto di poter dar patenti a suoi
familiari essendo in obbligo S. M. Siciliana come supremo Signore dell’Isola di
difendere e mantenere tutta la suprema potestà Feudale, conceduta
dall’Imperatore Carlo V. come Re di Sicilia nel 1530., al Gran Maestro dell’Ordine
Gerosolimitano, che era nel 1522. stato espulso dal possesso dell’Isola di Rodi
dal Sultano de’ Turchi Solimano II. In occasione però dell’Investitura
del Regno Napolitano, data da Clemente XIII., nel prefato anno 1760. al
Regnante Ferdinando IV. l’affare a poco a poco andò accomodandosi a
tenore della riforma ordinata dal Santo Padre.
Nonostante che l’empia Setta de’
Manichei fosse fino dal quinto secolo come si è detto condannata, pure
giammai fu in modo estinta, che tratto tratto non germogliasse sotto vario nome
ed aspetto. Sul principio del Secolo XIII. pertanto scesero dalla Francia nella
Lombardia i predetti eretici, ora Catari appellandosi, ed ora Bulgari,
diffondendosi specialmente nell’Umbria, nella Marca, nella Romagna, e nella
Toscana, scegliendo la Città di Firenze come loro principal Sede
perchè più comoda al loro intento. De’ loro errori ne abbiamo
già parlato, ne fa all’assunto nostro il ripeterli. Un ramo dei suddetti
erano i Paterini, Capo de’ quali era un tal Filippo Paternon, che verso il
1212. avea ripiena la Città tutta de’ suoi seguaci, fra quali vie erano
molti de’ più potenti Cittadini della Repubblica, che per vero dire
erano animati ancora a collegarsi insieme sotto l’istesso vessillo per le
fazioni de’ Guelfi e Ghibellini. Questi eretici contrari alla Chiesa erano
dell’ultima delle due fazioni. L’occasione in que’ tempi infelici di fomentar
le discordie interne si prendea da tutto. La predicazione era fra essi nel
massimo concetto sopra ogni altra cosa, e si trova che predicavano anche le
donne come presso i Quaccheri in Inghilterra solea praticarsi. Finita la
predica adoravano il loro Vescovo o Capo, il quale imponeva a tutti le mani, e
con tale imposizione si stimavano le persone più contente del Mondo,
quindi ne derivò l’altro loro nome di Consolati, e quella cerimonia che
era il primo, e più nobile loro sacramento, Consolamento fu
detta. Quattro erano gli Ordini della loro Gerarchia, il Vescovo, il Figlio
maggiore, il Figlio minore, e il Diacono; l’uno all’altro si succedevano, e si
sostituivano nell’imposizione delle mani. In tanta cecità si trovavano
allora molti de’ Fiorentini, tra quali i Pulci, che possedeano gran tenute e
fortilizj nel piano di Settimo erano de’ principali. Si teneano anche frequenti
adunanze a S. Gaggio e nel piano del torrente Mugnone. Il celebre Dottor Lami
ha trattato estesamente di questa eresìa nelle sue Lezioni XV. e XVI. di
antichità Toscane, onde chi più ampiamente vuole essere a portata
di tal materia può ad esse ricorrere.
Il timore di subire le pene comminate
da Sacri Canoni, e l’incorrere nell’istessa sorte de’ Manichei di Linguadoca,
rendea alquanto guardinghi i Paterini di Firenze, ma non lo furono tanto che
non dessero negli occhi del pubblico. Giovanni da Velletri Vescovo allora della
Città predetta, si credè in dovere di raffrenare il male
dell’eresìa, e però fece fare come Inquisitore Ordinario
autorizzato, non solo dalle leggi della Chiesa, ma anche dalle Imperiali, e
Municipali più e diverse catture, e singolarmente quella del già
rammentato Eresiarca e falso Vescovo de’ Paterini Filippo Paternon, che con
l’assistenza ed ajuto del Governo fu posto nelle pubbliche carceri. Trovandosi
in tale stato quell’empio uomo prese il compenso per sfuggire il pericolo che
gli sovrastava di abiurar l’eresìa, ma dimostrò in breve essere
stata finta la sua conversione, poichè rilasciato libero dal Vescovo
tornò agli usati nascondigli de’ perfidi, e a fabbricare i soliti
inganni di falsità: onde Gregorio IX. salito appena sul Soglio
Pontificio, spedì una Bolla in data de’ 20. Giugno 1227. e dette
incombenza al Beato Fra Giovanni da Salerno discepolo di S. Domenico,
perchè unitamente a un Bernardo Canonico Fiorentino uomo di santa vita,
con ogni sollecitudine procurasse di ritrovar Filippo e i suoi compagni, e fargli
mettere in angusta carcere, onde si ritenessero fintantochè in presenza
di tutto il popolo abiurassero sinceramente il loro errore. Se poi alcuni vi
fossero stati ostinati in modo da non si voler convertire si procedesse contro
di essi a norma delle Costituzioni del Concilio Lateranense IV. adunato in Roma
da Innocenzo III. nell’anno 1215. ne si usasse la minima riserva nel punirli.
Saputasi una tal cosa da Filippo si fuggì via, ne si sà
ciò che di lui poscia avvenisse. Questa è la prima forma d’Inquisizione,
che avesse luogo in Firenze, ed il suddetto Beato Fra Giovanni da Salerno fu il
primo che esercitasse l’impiego d’Inquisitore egualmente che in Siena il
Vescovo Buonfili, zelante persecutore degli Eretici, ad insinuazione di Onorio
III. avea qualche anno avanti prescelti altri Domenicani per esercitare un
somigliante ministero. Il prelodato sant’uomo non lasciò di opporsi a
progressi dell’eresìa con le prediche, con l’ammonizioni, e co’ buoni
esempi. Suoi successori furono Fra Aldobrandino Cavalcanti, e Fra Ruggeri
Calcagni a cui venne aggiunto verso il 1244. Fra Pietro da Verona Domenicano,
che è meglio conosciuto in oggi sotto il nome di S. Pietro martire. Egli
fu il più forte contradittore e l’estirpatore massimo de’ Paterini, come
scrive il Villani, risiedè nel Convento di S.M. Novella, ove dette una
maggior forma e consistenza al Tribunale dell’Inquisizione, non senza
però gravi opposizioni, e specialmente per parte di Pace da Pesannola
Potestà in que’ tempi o sia Giudice ordinario di Firenze, che andava
persuadendo i Cittadini più animati dallo spirito Repubblicano a non
volere ad ogni costo lasciarsi imporre quel giogo, a cui volea sottometterli la
Corte di Roma, facendogli comprendere che presto se ne sarebbero pentiti. I
Domenicani, e i Francescani, Istituti pieni di uomini animati dal vero zelo di
religione aveano gran partigiani, onde la Città si divise in due
fazioni, e quella del Potestà divenne in poco tempo sì forte, che
truppe armate di uomini facinorosi insultavano per le strade quanti fedeli
incontravano, e più che con altri commettevano eccessive violenze contro
i Domenicani, che senza pericolo non potevano uscir fuori. Fra Ruggeri e S.
Pietro avendo formato il processo contro di loro, unitamente al Vescovo gli
citarono al S. Ufizio perchè rendessero ragione della lor fede e del
loro operato. Sulle prime dispregiarono costoro l’intimazione, ma costretti
dover comparire avanti al Vescovo e agl’Inquisitori, mostrarono fintamente di
arrendersi alle verità dimostrateli, e fecero giuramento di sottoporsi a
ogni determinazione de’ Giudici Ecclesiastici. Si fece però ben presto
palese quanto fosse finta la loro conversione, perchè di lì a non
molti giorni avendo eglino saputo che l’Inquisitore era per terminare il processo
ed emanar la sentenza, ricorsero alla giurisdizione della Città, che si
determinò a volerli a tutta forza sostenere. Fu d’uopo pertanto, che i
Religiosi di S. Domenico fossero difesi, onde molti e molti Cittadini loro
amici accorsero al detto Convento, e si dichiararono pronti ad esporre la loro
vita per reggere l’autorità del Vescovo, e del nuovo eretto Tribunale.
Fu allora creduto opportuno istituire una specie di Ordine militare o sia
Crociata come fu fatto, e chiamossi Società di S. Maria, capi
della quale furono alcuni Gentiluomini della nobilissima Famiglia de’ Rossi. Le
medesime cagioni producono i medesimi effetti, essendo stato come si è
veduto operato l’istesso in Francia contro gli Albigesi, che aveano appresso a
poco gl’istessi errori.
Il Potestà inviò due
de’ suoi Ufiziali a Fra Ruggieri intimandogli da sua parte che revocasse ed
annullasse la sentenza, che avea emanata contro alcuni del Casato Baroni, capi
de’ Paterini come lesiva all’autorità Secolare, e che si presentasse
avanti a lui in palazzo. Allora l’Inquisitore assistito da un numero tale di
fautori da potere opporre la forza alla forza, pubblicò le censure
contro gli eretici, e chi gli proteggea, e il dì seguente fece affiggere
un Munitorio contro il Potestà perchè dovesse il giorno istesso
comparire al Sant’Ufizio. S. Pier Martire, che intanto andava predicando per le
Chiese e per le piazze contro l’eresìa procurò di eccitare
l’animo de’ fedeli, che lo seguitavano da per tutto, a farsi forti contro i
nemici, quando anche avessero dovuto esporsi a qualunque gran rischio della
vita medesima per mantenere la Cattolica fede, e risvegliò tali fiamme
ne’ loro petti, che si disposero tutti di voler piuttosto morire, che vedere
l’impunità e l’empietà degli eretici. Questi sotto la scorta del
Pesannola con le numerose Squadre del loro partito guidate dai Baroni, e rese
più forti dai fuorusciti, e gente di campagna, mettean terrore alla
moltitudine de’ fedeli, che non aveano tanto del fiero, e del crudele, quanto
la truppa contraria, e comecchè si pensarono di poter restar vincitori,
si risolsero di usare ogni più strana barbarie, e farne un improvviso
macello. Mentre adunque in un giorno di festa dell’anno 1245. erano tutti ad
ascoltar la predica nella Cattedrale, gli eretici improvvisamente cominciarono
a combattere contro di loro, e molti feritine; o cacciati in faccia de’ sacri
altari, commessero enormi scelleratezze.
Un così empio attentato
riaccese più che mai lo zelo del Vescovo, dell’Inquisitore, e di S.
Pietro Inquisitore aggiunto, che posto in piedi un grosso corpo di Cavalieri
fedeli marciarono con l’armi in mano per combattere con la fazione eretica, che
si era già fortificata ne’ primi posti della Città. S. Pietro
detto allora Fra Pietro da Verona di età piuttosto giovane e di
corporatura alta e robusta, pieno di quell’ardore, (che poi gli costò la
vita 7. anni dopo, cioè nel 1252. andando a Milano) portando in una mano
una bandiera bianca con Croce rossa, precedeva le truppe de’ Crocesignati, ed
assisteva a’ loro attacchi contro gl’inimici della fede Ortodossa, animandogli
nel tempo del combattimento con la sua potente eloquenza. Fu creduta espediente
una sì fatta risoluzione, nonostante che giammai praticata fosse ne’
primi secoli della Chiesa, quando la sofferenza, l’orazione, e le continue
preghiere per i persecutori erano le armi difensive dei Cattolici. Incontratisi
i due opposti partiti animosamente, e con il furore delle guerre civili, che in
que’ barbari tempi animava i popoli d’Italia. Si venne alle mani in diversi
luoghi. Due complete vittorie riportarono i fedeli sotto la scorta del Santo,
una in luogo detto la Croce al Trebbio, l’altra sulla Piazza di S.
Felicita in cui gli eretici furono sconfitti e dispersi, quindi costretti a
darsi precipitosa fuga uscirono tutti dalla Città. S. Antonino Arcivescovo
ne ha lasciata nelle sue Croniche distinta memoria. Due Colonne esistono al
Pubblico per comprovare tali fatti, e avanti l’Oratorio della Misericordia
vecchia si vedono in pittura le descritte battaglie, e la fuga degli eretici, e
lo stesso stendardo del Santo si conserva tuttavia tra le Reliquie insigni,
esistenti nella Sagrestia di S. Maria Novella, quale si mostra pubblicamente
ogni anno nel dì 29. di Aprile giorno della sua festa. In tale
occasione, essendovi fra gli errori de’ Paterini quello di dileggiare le Sacre
Immagini, e la Santa Croce, incominciò l’usanza di collocare l’effigie
di Cristo o della Vergine Maria per quasi tutti i capi di strade ed accendervi
i lumi sì di giorno, come di notte e chi lo facea era tenuto per ottimo
e fedel Cittadino([51]).
Restò in tal guisa il
Tribunale dell’Inquisizione sotto la condotta de’ Religiosi Domenicani,
allorchè dopo il 1263. avendo Urbano IV. Sommo Pontefice fatta la
divisione delle Provincie Italiane fra i Claustrali suddetti di S. Domenico, e
quelli di S. Francesco, la Toscana assegnata venne a questi ultimi, e il S.
Ufizio passò nel 1270. da S. Maria Novella al Convento di S. Croce
abitato da Minori Conventuali. Questi in breve tempo dilatarono la loro
autorità superiormente a’ primi, e ottennero da Magistrati un
determinato numero di satelliti e le proprie carceri senza servirsi di quelle
del Pubblico, e ciò per incutere sempre maggior timore negli eretici.
Stante le guerre insorte nel 1324. contro Castruccio Castracani Signor di
Lucca, che in que’ tempi a nulla meno aspirava che a rendersi Signore assoluto
di tutta la Toscana assistito dall’Imperatore Lodovico detto il Bavaro, venne
da Fiorentini chiamato in loro soccorso Carlo Duca di Calabria primogenito di
Roberto D’Angiò Re di Napoli e Conte di Provenza, a cui un poco per
amore, un poco per forza concessero l’autorità quasi Sovrana per anni
dieci. Fatto questo Principe Signore di una delle più ricche e potenti
Città d’Italia nel dì 30. Luglio 1326. portossi con la sua consorte
a risedere in Firenze con gran numero di Cortigiani, fra quali un tal Francesco
nativo di Ascoli, che serviva il Duca in qualità di suo Astrologo,
essendo la Giudiciaria fallace Astrologia in gran voga in que’ secoli, con aver
trovata piena e intera fede da Principi fin quasi all’incominciare del corrente
secolo XVIII. Avea costui fatti non ordinari progressi nella Filosofia
Peripatetica, e in altre difficili scienze, che non erano molto comuni, onde si
concitò contro de’ gran nemici ed invidiosi. Questi che voleano rovinarlo
lo messero in disgrazia della Duchessa Anna di Valois e rilevando in lui il
difetto di esser piccante e mordace, le dissero che egli avea più volte
sostenuto essere ella donna incontinente per forza e influsso de’ Pianeti, che
dominavano sul di lei temperamento. In occasione di aver data alla luce una
figlia lo fece la prefata Principessa chiamare alla sua presenza per rilevarle
l’oroscopo della neonata bambina, interrogandolo frattanto se era vero quanto
avea pronunziato. Egli con poca prudenza asserì esser verissimo, ed
inoltre disse, che la di lei prole avrebbe superata qualunque donna celebre ne’
cattivi costumi, ed in fatti, fosse caso o sorte, non s’ingannò,
poichè ad ognuno è noto qual riescisse la prefata bambina,
allorchè ascese sul trono di Napoli col nome di Giovanna I. Una tale
imprudenza non gli fu più perdonata dalla Duchessa a segno, che indusse
il Marito a licenziarlo dal suo servizio con poca sua lode perseguitandolo
sempre fino alla morte. Cecco di Ascoli, da Firenze passò in Lombardia,
quindi fermossi in Bologna ove compose un trattato sopra la Sfera Armillare,
volendosi che poi trascendesse a sostenere diversi errori, che forse erano
errori de’ suoi tempi, cioè che nella Media Regione vi erano alcune
generazioni di spiriti maligni, i quali a forza d’incantesimi sotto certe
costellazioni poteansi costringere ad operare cose maravigliose e
soprannaturali; che Cristo venne in Terra accordandosi il voler di Dio col
corso dell’Astronomia, e altre simili cose([52]). Fra Lamberto da Cingoli
Domenicano Inquisitore nella Lombardia lo citò a comparire al suo
Tribunale, e fattolo mettere in carcere fece contro di esso compilare rigoroso
processo, dal quale riuscì sottrarsi con abiurar pubblicamente le
spacciate proposizioni. Riavuta la libertà ritornò da Bologna in
Firenze, ove eresse una Scuola di Astronomia e Filosofia, alla quale accorsero
molti de’ più colti e stimati giovani della Città. Ciò non
piacendo al primo Ministro o Cancelliere del Duca di Calabria, che era il
Vescovo di Aversa Minor Conventuale, fu fatto arrestare e condurre nelle forze
del S. Ufizio di cui era Inquisitor Generale un tal Padre Accursio Fiorentino,
che si fece un pregio di aderire a’ desideri vendicativi della moglie di chi
tutto potea in Firenze. Esaminate attentamente le proposizione di Cecco, da chi
forse non le intendeva, o non dovea intenderle, vennero dichiarate infette
della più perniciosa eresìa, ed egli condannato come negromante e
stregone fu sottoposto più volte alla più rigorosa tortura perchè
abiurasse i suoi errori finalmente nel dì 15. di Settembre 1328. fu
condotto ad abiurare pubblicamente nella Chiesa di S. Croce apparata a lutto
sopra un eminente palco a bella posta eretto alla presenza di un popolo
innumerabile. Ivi con l’assistenza di Messer Conte da Gubbio Rettore della
Chiesa di S. Stefano, e Vicario Generale di Monsignor Francesco Silvestri
Vescovo di Firenze, di molti altri Dottori e Consultori del S. Ufizio, fu letto
ad alta voce il ristretto del processo, e ad ogni articolo domandato essendo al
reo se fosse vero quanto contro di lui veniva esposto, egli rispondea che lo
avea detto, insegnato, e lo credea. Terminata la funzione fu sentenziato Cecco
ad esser bruciato vivo con tutti i libri da esso composti, venendo assegnato il
termine di quindici giorni a tutti quelli che ne avessero appresso di loro a
manifestarsi. Sceso dal palco fu consegnato a Jacopo da Brescia esecutore di
giustizia, onde immediatamente desse mano alla sentenza, il che tosto
restò eseguito fuori la Porta alla Croce, ove era stato eretto una lunga
antenna, intorno alla quale vi era una gran quantità di legne. Con somma
intrepidezza compiangendo l’ignoranza e l’ingiustizia de’ suoi giudici si
lasciò legare all’antenna suddetta con la quale in breve tempo
restò arso ed incenerito. La sentenza era dell’appresso tenore.
Al nome di Dio
Amen ec.
Noi Frate Accursio di Firenze
dell’Ordine de’ Frati Predicatori per autorità Apostolica Inquisitore
dell’eretica pravità nella Provincia di Toscana, facciamo noto a tutti,
che mentre facevamo il nostro ufizio commessoci dall’Inquisizione, per fama
pubblica, anzi piuttosto infamia, e per fede di molti uomini degni, che ad una
voce hanno riferito con giuramento, come Maestro Cecco figliolo di Maestro
Simone degli Stabili della Città di Ascoli, in ruina sua e degli altri,
e pericolo non piccolo delle anime spargeva molte e diverse eresìe per
la Città di Firenze, e quello che è più detestabile un
certo suo eretico e profano libretto a suggestione del Diavolo, composto sopra
la sfera, quale contro la promessa e giuramento suo proprio, come cane che
ritorna al vomito, lo dettava per le scuole; onde non volendo noi mancare a
norma dell’obbligo nostro di rintracciare la verità, lo abbiamo
ritrovato per asserzione di testimonj, degni di fede, pieno di contumelie,
scandolo e mormorazione, e non conforme al vero, perciò lo facemmo
condurre alla nostra presenza e costituito avanti a noi pigliammo da esso il
giuramento corporale di dire la verità, tanto riguardo a se che riguardo
agli altri, e avendo confessate le seguenti empie ed inique proposizioni,
assegnatoli e datoli le difese di tutte quelle cose che gli erano opposte, che
in invido disprezzo della fede Ortodossa, ha spacciatamente sostenute ed
insegnate, alla presenza del Sig. Conte di Santo Stefano, Vicario Generale del
Venerabil Padre e Monsignore Francesco per la grazia di Dio Vescovo Fiorentino,
e di molte altre persone provide e onorate, e Dottori di legge chiamati per
consultare se si deva procedere a sentenza, con matura deliberazione e
considerazione: invocata la grazia di Dio, e dello Spirito Santo sedendo pro
Tribunali ec. Di consenso ec. Del Venerabil Padre e Signore Vescovo Fiorentino
sopraddetto a questo delegato, per lui, ed in questa parte a noi plenariamente
commettendo.
Pronunziamo e dichiariamo il predetto
Maestro Cecco eretico costituito in nostra presenza, esser ricaduto nell’eresia
abiurata, essere stato relasso e recidivo, e per questo doversi consegnare al
giudizio Secolare, e perciò lo rilasciamo in potere del Sig. Jacopo da
Brescia Vicario Fiorentino presente e recipiente, perchè lo faccia
punire con debita considerazione, e di più che il libretto
superstizioso, pazzo, e negromantico fatto dal detto Maestro Cecco di Ascoli
sopra la sfera, pieno di eresìa, falsità, ed inganno, e altro
libretto volgare, ne’ quali sono state ritrovate molte acerbità e
massime ereticali, e principalmente quando v’include molte cose, che si
appartengono alle virtù, e costumi, che riduce ogni cosa alle stelle
come in causa con ogni altra sua opera, scritto e dottrina, siano dati alle
fiamme, ne si possano leggere o ritenere da alcuno sotto pena di scomunica, e
altre pene spirituali e corporali, secondo le Leggi Canoniche ec. L’anno
dell’Incarnazione del Signore 1327. Indizione Decima, nel dì 20.
Settembre nella Chiesa de’ Padri Minori Conventuali di Firenze presenti ec. ec.([53]).
Di una tale esecuzione assai parlossi
in que’ tempi, e apparve a molti piuttosto dettata dallo spirito di vendetta,
che dalla volontà di perseguitare ed estinguere il delitto di
eresìa L’istesso Papa Giovanni XXII., chiamato avanti che fosse promosso
al Pontificato Jacopo d’Ossat, essendo stato amico di Cecco d’Ascoli e
ammiratore di sua scienza, appena che ricevè in Avignone l’avviso di sua
sentenza, si vuole che dicesse pubblicamente alla presenza di tutta la Corte, che
i Frati Minori aveano perseguitato ed ucciso il Principe de Filosofi
Peripatetici. E’ ben vero che l’Inquisizione in Firenze prese dopo la
medesima maggior piede, ne lasciò nulla d’intentato per ampliare la sua
giurisdizione anche sopra ogni genere di persone. Fra Pietro dell’Aquila
Inquisitore succeduto a Frate Accursio giunse a segno di far arrestare un certo
Silvestro Baroncelli Ministro della Ragione Acciaioli poch’anzi fallita, mentre
usciva dal Palazzo de’ Priori accompagnato da loro ministri, essendo andato
avanti i medesimi e il Gonfaloniere di Giustizia Primerano Serragli, per
trattare sotto la loro parola di affari concernenti la detta Ragione, e
ciò nel mese di Febbraio dell’anno 1346. il motivo dell’arresto fu perchè
il prefato Inquisitore era stato munito di procura dal Cardinale Don Pietro di
Toledo Spagnuolo, che andava creditore dalla mancata Ragione di 12. mila
fiorini d’oro. Un tale arbitrio, che nulla avea di comune con le cose della
fede e della religione, sembrando eccedente alla Signoria, e in pregiudizio
della dignità e Sovranità della Repubblica, fecero liberare
immediatamente il carcerato Baroncelli, e a Famigli del Potestà che
aveano fatta l’esecuzione fecero tagliar le mani, confinandoli per 10. anni
fuori del dominio Fiorentino. Il Potestà scusando l’error successo, e
impetrando il perdono della Signoria si trasse d’intrigo, ma l’Inquisitore
piccato scomunicò immediatamente il Gonfaloniere e i Priori, e lasciata
la Città interdetta se ne andò a Siena. Alla scomunica fu subito
per mezzo di due Notari Sindaci del Comune appellato di nullità, e
vennero mandati sei Ambasciatori in Avignone a Papa Clemente VI. fra quali il
Canonico Buonaccorso de’ Frescobaldi, e Ugo della Stufa Cavaliere, per
rappresentare la cattiva condotta dell’Inquisitore, e pregare il Santo Padre a
rimuoverlo da quella carica, esponendo, che in sette anni che l’avea
amministrata, avea ricavati più di 7. mila fiorini d’oro da diversi
Cittadini condannati in pene pecuniarie come sospetti di Eresìa.
Frattanto imitando uno Statuto, che era allora in vigore a Perugia, e nel Regno
di Castiglia, venne in Firenze emanata una legge, che veruno Inquisitore si
dovesse intromettere in altro che nel suo ufizio senza uscir punto da i termini
dell’eresìa, e che gli eretici secondo la qualità de’ loro
delitti condannati fossero nella persona, e non ne beni o in danaro. Che non
potessero gl’Inquisitori tener carceri private, ma si dovessero servir delle
pubbliche, e nessun Capitano, Potestà, o esecutore potesse fare
arrestare cittadino o forestiero col mandato del S. Ufizio senza previa licenza
de’ Priori, e così s’intendesse relativamente a’ Vescovi di Firenze e di
Fiesole. Fu tolta anche la facoltà di dar le patenti di portar armi se
non per soli sei familiari dell’Inquisizione, e perchè questi articoli
fossero puntualmente osservati, eretto venne un Magistrato di 14. Cittadini
chiamati i difensori della libertà, da quali con l’andar del tempo ne
è derivato il Tribunale della Regia Giurisdizione. La scomunica fu tolta,
e l’Inquisitore rimosso con l’essere stato fatto Vescovo di S. Angelo. Giunto
l’anno 1375. Gregorio XI. sdegnato co’ Fiorentini perchè credea, che
avessero dato mano alla ribellione di alcune Città dello Stato
Ecclesiastico, pubblicò solennemente in Avignone la sentenza di
scomunica ed interdetto contro la Città di Firenze, alla quale
trovandosi presente Donato Barbadori Ambasciatore della Repubblica, si rivolse
a un Crocifisso ed esclamò, Dio Signore nostro a te dalla sentenza
del tuo Vicario iniquamente pronunziata contro di noi ci appelliamo e
invochiamo la tua rettissima equità. L’Interdetto non ebbe effetto,
e per ordine preciso della Signoria continuarono i Preti a celebrare i Divini
Ufizi non ostante gli ordini dell’Inquisizione, ma morto il predetto Pontefice,
che ricondotta avea la S. Sede a Roma, e assunto sulla Cattedra di S. Pietro
Urbano VI., questi a cui da Francesi era stato eletto un Antipapa col nome di
Clemente VII. ribenedisse i Fiorentini i quali però dovettero alquanto
rilasciare il loro rigore in materie giurisdizionali, e l’Inquisizione
acquistò nuova forza nella venuta in Firenze di Martino V. nel 1420 e di
Eugenio IV. nel 1439. Fu di nuovo rimessa l’Inquisizione dalla Signoria ne’
limiti della legge, dopo che nel 1478. il Pontefice Sisto IV. intruso nella
famosa congiura de’ Pazzi scomunicò e mosse guerra a’ Fiorentini
servendosi del pretesto di avere essi fatto impiccare alle finestre del
pubblico palazzo l’Arcivescovo di Pisa di casa Salviati. Quei fieri
repubblicani consultati avendo Bartolommeo Socini, e Bulgarino Bulgarini, stati
Avvocati Concistoriali, Lanciotto Decio, Andrea Panormita, Pier Filippo Cornio,
Francesco Accolti, Girolamo Torri Lettore di Pavia, e altri Professori di
Diritto Canonico, e Maestri in Teologia giustificarono con pubblico manifesto
la causa loro avanti a tutti i Principi, e conclusero a forma de ricevuti
pareri, che non sussistendo la realtà del delitto in riguardo di cui era
stata fulminata la scomunica, la sentenza diveniva nulla, e perciò
nuovamente obbligarono i Sacerdoti a celebrare i Divini Ufizi. In oltre
adunarono un Concilio di tutti i Prelati del Dominio Fiorentino, e in questo
solennemente si appellarono dal Papa al futuro Concilio, e a tutti i popoli e
Sovrani Cattolici: Dipoi per consiglio di varie Corti, si mitigarono alquanto,
e mandati Oratori a Roma furono dal prefato Papa ribenedetti, e annullato
l’interdetto. Venuto in seguito il governo della Repubblica in mano di Leone X.
e Clemente VII. questi rimisero la potestà del S. Ufizio nel primiero
grado.([54])
Il timore, che non s’introducesse in
Italia l’Eresia di Lutero, che velocemente si era estesa sul principio del
secolo XVI. per la Germania e pe’ Regni del Settentrione, fece sì che il
detto Clemente VII. desse una più estesa ed ampia forma alla suprema
Inquisizione di Roma, e Paolo III, dilui successore nel 1542. con sua Bolla,
che comincia Licet ab initio istituì una Congregazione di sei
Cardinali col titolo d’Inquisitori Generali dell’eretica pravità in
tutto il mondo Cristiano. Pio IV nel 1564. dilatò maggiormente la loro
potestà contro qualunque persona, benchè costituita in
dignità di Vescovo, Arcivescovo, Patriarca, Cardinale ec. Questa ebbe la
facoltà di eleggere in Firenze tre Commissarj, che unitamente con l’Inquisitore
conoscevano le cause di religione e partecipavano al Governo le condanne da
eseguirsi. Nel 1551. alla metà di Dicembre regnando Cosimo I. ed essendo
assistenti il Vicario dell’Arcivescovo Antonio Altuiti, il Proposto Alessandro
Strozzi, e lo Spedalingo di S. Maria Nuova, fu dato alla Città un
lugubre spettacolo sull’idea del descritto Atto di Fede di Spagna,
consistente in una Processione proceduta da uno stendardo con una croce nodosa
in campo nero in mezzo a una spada e un ramo di olivo, con le parole intorno exurge Domine et Judica Causam tuam. P.S. 73. Consisteva essa in 22. soggetti alla testa de quali vi era
Bartolommeo Panciatichi ricco gentiluomo, che servito avea il Duca alla Corte
di Francia in qualità di Ambasciatore. Erano essi vestiti con cappe e
sambeniti dipinti di Croci e di Diavoli, e condotti alla Metropolitana furono
quivi pubblicamente ribenedetti mentre si abbruciavano sulla piazza i loro
libri. Alcune donne sospette di aver creduto alle nuove massime oltramontane
sottoposte vennero all’istessa formalità privatamente nella Chiesa di S.
Simone. Poco dopo Lodovico Domenichi venuto a Firenze nel marzo 1547. per
dedicare al Duca le sue traduzioni di Zenofonte, e da esso era pensionato per
accudire alla letteratura, fu condannato dall’Inquisizione, per aver tradotta e
stampata in Firenze con la data di Basilea la Nicomediana del Calvino,
benchè negasse di aver mai tenuta alcuna cattiva opinione contro la
fede, ed abiurare pubblicamente con un libro appeso al collo, e a dieci anni di
carcere per aver trasgredito alle leggi emanate in materia di stampe. Cosimo
scosso dalle calunnie, che erano state pubblicate a Roma contro di lui in
occasione di aver intimato lo sfratto da suoi Stati a Frati di S. Marco,
assunse per smentirle con grande impegno l’invigilare alla conservazione della
purità della fede, ben persuaso che la religione è il sostegno
del trono.
Nel 1557. fu accresciuto
dall’Inquisizione Fiorentina ad istanza di Paolo IV. un altro Deputato, ma il
Duca nel tempo istesso che aderiva a quanto era necessario per tener lontana
l’eresia, stette cauto in non lasciarla uscire da prescritti confini,
poichè in quell’istesso anno tentato avea di acquistare giurisdizione
sopra varj altri delitti giudicati sempre in addietro da’ Tribunali secolari.
In varie occasioni mosso dall’amore della verità si degnò
giustificare diverse persone, che giudicava accusate per oggetto di
malignità o d’invidia, e divenuto Sovrano di Siena non volle ascoltare
quanto reiteratamente gli veniva rappresentato dalle nuove opinioni che Lelio e
fratelli Socini, e suoi aderenti sparso aveano in quella Città. Per
mantenere intatta la purità del culto, volle che osservata fosse a
rigore la legge sopra la proibizione de’ libri di autori eretici, e nel 1553
permesse che si pubblicasse nel suo Dominio un Editto della Romana Inquisizione
contro i libri degli Ebrei, e particolarmente il Talmud, tollerando che si
usasse contro di loro ogni perquisizione e vessazione, e questo fu il primo
passo della Santa Sede per mettersi in possesso di proibire i libri in Toscana.
Aveano i Principi finora preso sopra
di se indipendentemente questo assunto, e Carlo V. temendo i progressi delle
massime di Lutero ne’ Paesi Bassi, pensò a vietare l’introduzione e lo spaccio
in quelle contrade de’ loro libri, incaricando l’Università di Lovanio a
fare nel 1546. un catalogo di quelle opere che giudicate fossero perniciose.
Sul suo esempio Cosimo I. proibì lo stampare libri di eresìa, e
Paolo IV. uno de’ più intenti Pontefici ad ampliare la sua
autorità, pubblicò nel 1559. un Indice di libri proibiti
accompagnato dalla comminazione delle più rigorose pene di arbitrio,
privazione di benefizi, infamia, e censure per chi li ritenesse e non li
presentasse detro un determinato tempo al S. Ufizio. Era il prefato Indice
diviso in tre classi, e in fondo vi si aggiungeva un catalogo di più di
60. stampatori, le produzioni de’ quali in qualunque genere e materia restavano
assolutamente proscritte. I Deputati dell’Inquisizione di Firenze vennero tosto
incaricati da Roma a pubblicare il catalogo e il Decreto, che lo autorizzava,
ma sapendo Cosimo, che Paolo IV. non conosceva limite alcuno in tutte le sue
risoluzioni, volle esaminarne le conseguenze. Dette perciò incombenza a
Lelio Torelli celebre Giureconsulto e suo ministro per gli affari
Ecclesiastici, di prendere la cosa in considerazione, essendochè non si
trattava di nulla meno che immergere di nuovo la Toscana in quell’antica
barbarie, da cui l’avean tratta i Danti, i Petrarca, i Boccacci, i Leonardi
Aretini, i Macchiavelli, i Marsuppini, e altri belli ingegni. Fece il Torelli
in poco tempo vedere, che il danno de’ particolari nel privarli di questi libri
oltrepassava i cento mila scudi, e che era un’indiscretezza e un’ingiustizia il
proscrivere tutti i libri stampati di là da monti, fra quali si
noveravano le opere degli autori più classici Greci, e Latini, e
specialmente quelli sopra Medicina. Determinò pertanto il Duca, che i
Deputati dell’Inquisizione eseguissero l’Editto del Papa soltanto per i libri
contrari alla Religione, e che trattassero di magia, e astrologia giudiciaria,
sospendendo l’esecuzione per quelli che non aveano relazione alle classi
predette. I Padri di S. Marco avrebbero voluto tosto abbruciare quanti libri si
trovavano in loro potere, ma Cosimo vi si oppose altamente come patrono della
Biblioteca e del Convento, onde non si perdessero tante Opere utilissime,
presso loro depositate a tempo di Lorenzo il magnifico e altri suoi
Progenitori. Nel dì 8. di Marzo 1559. furono consegnati in preda alle
fiamme avanti le Chiese di S. Giovanni, e di S. Croce, sul modello di quanto
era stato fatto altre volte a tempi del Savonarola, moltissimi libri, che
trattavano delle descritte materie, non senza però gran nocumento delle
scienze, e de’ poveri librai.([55])
Se in queste cose si mostrò il
Duca Cosimo facile a condescendere alla volontà della Corte di Roma:
stette sempre forte e costante nell’opporsi all’idea venuta in capo a Pio V. di
togliere l’Inquisizione di Toscana a Padri Minori Conventuali, e restituirla a
Domenicani, per essere stati essi troppo aderenti a nemici di Casa Medici,
alloraquando furono la prima volta scacciati da Firenze nel 1494. Il rigore di
questo Papa fu anche superiore a quello di Paolo IV. Egli fu che abolì
in Firenze la Deputazione del S. Ufizio lasciata sussistere da Pio IV. ed
escluse fino il Nunzio dalla medesima; e col pretesto di non dilatare in tanti
il segreto di quel Tribunale ne restrinse la giurisdizione nel solo
Inquisitore. Covavano in Siena le massime sparse dai Socini, e a Cornelio
Socino fu fatto il processo come aderente a Fausto Socini, indi inviato
all’Inquisizione di Roma. Antonio Paleario, che prima era stato maestro di
scuola in quella Città, e poi passato a far l’istesso esercizio a Colle,
avea colà sparse delle erronee proposizioni, che poco incontravano il
genio della Corte di Roma. Grandi furono i reclami dell’Inquisizione di quella
Metropoli, perchè nella terra di S. Gimignano alcuni scolare de suddetto
Paleario in un’Accademia eretta per l’interpretazione di Dante, sostenuto
aveano, che la volontà potea esser costretta dall’amor femminile. Giunse
perciò anche colà la persecuzione, e molti furono costretti a
sottrarsi con la fuga, altri furono processati ed inquisiti: altri trasportati
nelle carceri del Romano S. Ufizio. Vennero arrestati, e dati in potere del
Papa alcuni giovani Tedeschi, che erano a fare il corso de’ loro studi
nell’Università di Siena, e che tranquillamente riposavano sotto la fede
della pubblica sicurezza. Molti sospetti di aderire alle massime di Calvino
fuggirono di Firenze, ove l’Inquisizione per far pompa di zelo e di
attività, non lasciava occasione alcuna di vessare qualunque ceto e
rango di persone, e interrogando gl’idioti sopra i sacrosanti Misteri della
Religione, imputava quel che era crassa e vera ignoranza, ad eresìa e
delitto. Francesco de’ Medici figlio primogenito di Cosimo a cui dal Padre era
stato ceduto il governo dello Stato col titolo di Reggente, non potendo
soffrire ne’ suoi sudditi una si strana vessazione, fece istanza a Roma nel
1567., che nuovamente aggiunti fossero all’Inquisitore l’Arcivescovo e il
Nunzio, ma la sola mutazione della persona dell’Inquisitore fu quanto si
potè ottenere da Pio V. I Forestieri non erano esenti in Firenze da
l’essere molestati stante il sospetto che aveasi, che dalla Germania e dalla
Francia si spargessero in Italia degli emissari per diffondere le nuove
dottrine colà in così prodigiosa maniera diffuse. Tutti questi
rigori però non toglievano, che gli uomini non pensassero a lor modo, e
che non prendessero maggior piede nel basso popolo le illusioni e la falsa
credenza degli incantesimi e delle malie, con l’assistenza del Demonio, e che
non vi fossero molti impostori, che si spacciassero per negromanti. A Siena nel
1569. furono nella pubblica piazza bruciate 5. donne dichiarate ree di aver
renunziato al Battesimo, di aver fatta scritta col Diavolo, e avere ammaliati e
stregati 18. bambini. L’arte tipografica, che avea fatti in Firenze tanti
fausti progressi dopo il suo ritrovamento, stante la pubblicazione dell’Indice
di Paolo IV. cadde in breve tempo nel massimo avvilimento, e passò negli
Svizzeri e nelle Città libere delle Germania. Il Torrentino, che si era
reso così famoso per sue nitide e corrette edizioni andò ad
abitare negli Stati del Duca di Savoia, e i Giunti posero casa e negozio a
Venezia, che seppe ben presto mettere a profitto la loro abilità, e
attirare dentro di se gran somme da tutti gli altri paesi Italiani per la
maggior libertà, che il Senato concedea in materia di stampe.([56])
Quel che più di tutto
però sparse il terrore e la costernazione del Pubblico, fu la consegna
fatta nel 1566. al Maestro del Sacro Palazzo di Pio V., spedito a bella posta
in Toscana, di Pietro Carnesecchi Gentiluomo Fiorentino uno de’ più
illustri letterati de’ suoi tempi, se non avesse deviato dalla retta via della
salute. Nacque egli in Firenze di nobil famiglia ora estinta, che seguì
la fortuna della Casa de’ Medici, e per le rare doti del suo ingegno e vasta
erudizione fu da Clemente VII. fin dalla prima sua gioventù promosso al
posto di suo Segretario, il che gli meritò i favori di Caterina Regina
di Francia, la benevolenza di Cosimo, l’acquisto di competente Patrimonio
Ecclesiastico, e il titolo di Protonotario Apostolico. Morto Clemente
passò in Francia, dipoi a Napoli, dove nel 1540. contrasse amicizia con
Pietro Valdes Spagnuolo, Marco Antonio Flaminio d’Imola, Bernardino Ochino
Senese, e fu molto famigliare di Pietro Martire Vermigli, e di Galeazzo Caraccioli.
In Viterbo nell’anno susseguente conobbe Vittore Soranzo Vescovo di Bergamo,
Appollonio Merenda, Luigi Priuli, Pietro Paolo Vergario Vescovo di
Giustinopoli, e Lattanzio Rognoni di Siena, i quali tutti erano Valdesiani,
Zuingliani, o Calvinisti, e s’imbevve perciò delle loro erronee
opinioni. Pieno per loro di affetto gli aiutava e sosteneva co’ mezzi e col
danaro. Godendo la grazia di Giulia Gonzaga Principessa di Mantova, le
raccomandò con molto ardore due eretici, tenendo aperta corrispondenza
con molti Principi e cospicui Personaggi. Fu per molto tempo ammesso alla
conversazione di Margherita Duchessa di Savoja, di Vettoria Colonna Marchesa di
Pescara, di Renata di Francia Consorte di Ercole II. Duca di Ferrara, di
Lavinia della Rovere Orsini, e altre illustri femmine credute propense a nuovi
errori. Passato in Francia volle personalmente vedere e trattare con Melantone
Capo degli eretici di quel Regno. Ritornato nel
La facilità di Cosimo verso la
Corte di Roma aumentò l’ansietà negl’Inquisitori Toscani di far
maggior intraprese sotto Francesco I. suo figlio e successore. I più
rumorosi attentati non si eseguivano mai in Firenze, ove stante la residenza
della Corte si procurava di collocare un Inquisitore fornito della necessaria
prudenza e cautela. Ma a Siena, ed a Pisa si credeano essi permessa qualunque
autorità, stando in perpetua contesa con i Ministri del Principe, la di
cui giurisdizione direttamente attaccavano. Reclamava il Duca presso Gregorio
XIII., che per contentarlo in qualche maniera, revocava l’Inquisitore
inviandone un altro ugualmente indiscreto e altero, e forse munito dell’istesse
istruzioni. In Spagna, come si è veduto, uno de’ mezzi per propagare la
potestà del S. Ufizio era stato quello di ascrivere al medesimo una
quantità considerabile per ogni dove di famigliari e satelliti dell’uno
e dell’altro sesso, che faceano giuramento di assistere e favorire contro gli
eretici e loro fautori l’Inquisizione e suoi Ministri, contentandosi per
ricompensa di ottenere delle Indulgenze Plenarie, e delle facili esecuzioni.
Essendo un tale espediente riuscito nella Lombardia, mettersi volea in pratica
anche in Toscana, dando a’ descritti per distintivo una piccola croce rossa
sull’uso de’ Crocesignati di Linguadoca, e di quelli istituiti da S. Pier
Martire contro i Paterini. Nel 1579. si era incominciato a formare in Siena una
Confraternita di queste pericolose persone, e il Governatore Conte di Montauto
non si era opposto come dovea a una tale istituzione, onde i più saggi
fra que’ Cittadini portarono direttamente al Trono i loro ricorsi, rappresentando
quanto esser potea dannoso al Principe, che in uno Stato, nuovo nella
soggezione, e che peranche nutriva i semi dell’antica sua tumultuasa
libertà, si formasse una Società di persone, che coll’appoggio
del S. Ufizio pretendesse esimersi dalla Potestà Secolare, e si rendesse
prepotente sopra gli altri. Aggiunsero che una tale invenzione era un mero
artifizio degl’Inquisitori per esimersi dall’atto di soggezione di dovere
implorare il braccio del Governo in ogni occorrenza, e servirsi nel fare le
catture degli esecutori de’ Tribunali Laici. Sentì malamente il Granduca
che vi fosse chi ne’ suoi Stati volesse rendersi indipendente dalla sua
Sovranità, ne rimproverò altamente il Governatore prefato, e
mandò gli ordini i più pressanti sotte le più rigorose
pene per lo scioglimento della Congregazione de’ famigliari Crocesignati,
facendo intendere, che in casa sua non voleva altri padroni che lui. Inviate al
Papa le sue doglianze fu cambiato al solito l’Inquisitore, ma non il tenore di
procedere, poichè ne venne un altro più audace e temerario, che
incominciò subito dal costituire de’ Vicari in tutti i Villaggi,
spargendo ovunque la costernazione e il terrore, onde fu d’uopo astringerlo con
la forza a revocare le Patenti, ed esiliare i patentati. Mostravasi questi
così furibondo che ne’ giorni di cibo magro scorreva da un capo
all’altro tutta la Città suddetta di Siena per scuoprire dall’odore
delle cucine se vi era chi contravvenisse al precetto di non mangiar carne, e
si lagnava di non poter far questa ronda seguito da una falange di armati
ministri.
L’Inquisitore di Pisa non usava
maggior moderazione e discretezza, poichè promoveva continue
controversie ora con gli Scolari, ora co’ Professori di
quell’Università, tacciando di ereticale ogni leggerezza o spiritoso
motto giovenile, oppure ogni nuova scoperta nelle materie Filosofiche. Essendo
state per suo ordine messe nelle pubbliche carceri due donne accusate di
essersi serviti di mezzi diabolici e superstiziosi per esser sempre amate dagli
uomini, pensò dare alla Città uno spettacolo con far leggere in
pubblico la loro condanna, e il loro processo. Invitò dunque pel’
dì 22. di Dicembre 1582. tutto il popolo a concorrere nella Chiesa de’
Minori Conventuali, ordinando che in quel giorno sospesi fossero tutti i divini
Ufizi, e che non si suonassero neppure le campane. Adunata una folla immensa di
ogni ceto e di ogni rango in detta Chiesa apparata di nero, ed in mezzo a cui
era eretto un magnifico Tribunale ornato a lutto, per imprimere lo spavento
negli spettatori, inviò a chiedere le due donne carcerate al
Commissario, che gli replicò per due volte, che non potea consegnarle
senza l’ordine preciso del Principe. Assalito il Religioso non ostante la
claustrale umiltà, da furiosa collera nel vedersi deluso in faccia alla
Città tutta, ed esser fatto scopo delle derisioni, e de motteggi, ascese
sul suo seggio, e di là fulminò la scomunica contro il
Commissario e tutti i suoi sottoposti, accompagnando l’atto con le più
atroci invettive, e contumelie. Inviato venne tosto un corriere al Ministro
Granducale presso la S. Sede per avere soddisfazione all’insulto fatto a
diritto del Trono, e per vero dire si ottenne col cambio del Religioso
predetto, ma si proseguì sempre dal S. Ufizio il metodo istesso di
procedere. Bisognò però poco dopo consegnare nelle forze del
Pontefice tre pubblici Lettori nella Università surriferita di Pisa, fra
quali Girolamo Borro eccellente Filosofo languì per molto tempo nelle
angustie delle carceri per accuse di eresìa dategli dal figliolo del
Cisalpino, che scoperta la sua malignità fu susseguentemente punito. In
Siena vennero di nuovo arrestati e mandati a Roma alcuni scolari Austriaci
sudditi dell’Imperator Massimiliano II. che ne fece di gran reclami e minacce,
e tali violenze non si può dire quai danni recassero a’ progressi delle
scienze, e alla tranquillità delle due Università, che il
fanatismo e l’ignoranza avrebbe voluto totalmente distruggere.([58])
Arrigo IV. primo Re di Francia della
Casa di Borbone grande amico del Granduca Ferdinando I. che lo aiutava con i
consigli, e con i danari a conquistare il suo Regno, e scacciare gli Spagnuoli,
che sotto pretesto di tener lontano da quel Trono un Re Protestante lo aveano
invaso in gran parte per farne dichiarare Regina l’Infanta Isabella Chiara
Eugenia figlia di Filippo II., risolse aderendo alle persuasioni de’ suoi
benevoli per viepiù stabilirsi la corona in fronte di farsi Cattolico, e
abiurare gli errori de’ quali era imbevuto. Nel dì 25. Luglio pertanto
dell’anno 1593. fece la sua pubblica abiura nella Chiesa di S. Dionigi, e
inviò in seguito una solenne ambasciata a Roma a Clemente VIII.
Aldobrandini Fiorentino affine di prestare obbedienza alla Chiesa, ambasciata,
che per qualche tempo non fu attesa dal Papa stante il timore, che avea della
Corte di Madrid, e la di lui assoluzione sarebbe andata molto tempo in lungo se
francamente l’Auditor Serafini pure Fiorentino non avesse detto a S.
Santità; Santo Padre permettetemi di dirvi che Clemente VII. perdette
l’Inghilterra per essere stato troppo compiacente con Carlo V., e Clemente
VIII. perderà la Francia se vuol seguitare a farsi schiavo delle
insinuazioni di Filippo II. Appena quel gran Monarca abbracciato ebbe il
Cattolicismo, che i suoi nemici vedendo l’impossibilità di vincerlo a
forza aperta, tramarono diverse congiure per torgli la vita come finalmente
loro riuscì. La prima tra queste fu quella ordita da un tal Pietro la
Barriere, di professione prima navicellaio, poi soldato, messo su forse da
qualche segreto emissario di Madrid. Era quelli uno spirito malinconico e
feroce, che credendo di potere andare più facilmente in Paradiso se
uccideva il suo Monarca, che egli non giudicava sinceramente riconciliato con
Dio fino a che non era assoluto dal Papa, si accinse a trovare i mezzi di
mettere in esecuzione il suo perverso disegno. Essendosi però confidato
con più e diverse persone, e fra queste con Fra Serafino Banchi
Domenicano Fiorentino stazionato di Convento a Parigi, il suddetto andò
a rivelare al Re la cospirazione, contro la quale furono prese tali misure, che
non ebbe veruno effetto, e l’autore della medesima fu nel dì 26.
impiccato a Melun per sentenza del Parlamento. Giunta la notizia del fatto alla
Romana Inquisizione, citò quella il Frate a comparire avanti a lei, come
reo di aver salvata la vita a un Re non per anche riconosciuto Cattolico dalla
Santa Sede, pretendendo che rilevato avesse il sigillo della Confessione.
Spediti furono al Priore dei Domenicani suddetti i mandati di cattura per farlo
trasportare cinto di catene in Avignone, e di là in Italia, e certo
sarebbe rimasto quel religioso vittima della vendetta de nemici di Enrico, se
S.M. non l’avesse animosamente sottratto di mano a suoi persecutori, e fattolo
pervenire sicuro a Firenze sotto la protezione del surriferito Granduca suo Principe
naturale, che vi impiegò tutta la sua fermezza ed autorità
perchè non gli fosse insidiata la libertà e la vita,
essendochè il S. Ufizio lo volea a forza nelle mani o vivo o morto.
Riconciliato solennemente il Re Cristianissimo col Papa, una delle segrete
condizioni del trattato fu quella di lasciar vivere tranquillamente il Padre
Bianchi.([59])
L’universale ammirazione che pel
mondo tutto, riscuoteva il Principe della rinascente Filosofia, l’immortal
Galileo Galilei scuopritore di nove stelle, e di tanti sistemi bellissimi,
suscitata avea contro di lui l’invidia di varj religiosi, ed in specie de
Gesuiti, che mal volentieri soffrivano di vedersi contrastato quell’universale
primato che pretendeano sulla filosofia, e sulle lettere. Unitisi in ciò
con i Conventuali incominciarono a fargli la guerra prima occultamente, poi
palesemente, e tanto fecero, che facil cosa gli fu trovare un alleato nella
persona di Urbano VIII. il quale benchè nato suddito studiava tutte le
occasioni di far de dispetti alla Casa de’ Medici, e nutriva una personale
inimicizia e rivalità con Galileo, quantunque suo compatriotto,
perchè sapea più di lui, che si stimava eccellente nella poesia,
filosofia, ed erudizione, scienze delle quali S.S. appena sapeva il nome. Fra
le vanità di questo Fiorentino successore di S. Pietro non era la minore
di far sentire a tutti certi suoi meschini poetici componimenti fatti sullo
stile male imitato del Petrarca, con tutto però il cattivo gusto che
regnava verso la metà del secolo XVII. Gli fu fatto credere, che ne
Dialoghi del prelodato Galileo sotto il nome di Simplicio indicata fosse la
persona del Papa onde questo libro fu preso per arme contro di esso, e per
oggetto delle perquisizioni del S. Ufizio, che volea avvilirlo ed infamarlo.
Venne perciò nel 1632. citato a portarsi a Roma per render conto al
Supremo Tribunale dell’Inquisizione delle sue proposizioni, e specialmente del
moto della Terra intorno al Sole, che si volea contraria alle sacre Carte.
L’intimazione notificata venne alla Corte perchè le fosse dato
adempimento, e Cristina di Lorena, che ancora poteva molto nell’animo del
Granduca Ferdinando II. suo Nipote poch’anzi uscito dalla sua tutela, lo
persuase ad aver la debolezza di annuire alla richiesta del Papa, e dare in
balia de’ suoi persecutori il più dotto fra suoi sudditi, e il migliore
ornamento della Corte da cui era stipendiato. Il Ministro Andrea Cioli
Cortonese poco amico del Galileo coronò l’opera. Nulla valse l’implorar
clemenza, e impetrar proroghe; bisognò che il dì 20. Gennaio 1633.
non ostante la sua età settuagenaria, e il rigore della stagione,
partisse il filosofo dalla Patria, e si mettesse in viaggio per Roma, ove
dall’Inquisizione fu costretto a ritrattarsi pubblicamente di quanto avea
scritto per contentare i maligni, e potè ascrivere a gran fortuna se gli
fu restituita la libertà di ritornare a terminare i suoi giorni ove era
nato benchè coperto di avvilimento.
Sotto il Pontificato di Urbano VIII.
il S. Ufizio in Toscana animato dal maltalento dei Barberini suoi Nipoti scosse
affatto ogni soggezione, nè conobbe più limite alcuno, ed
ostentando l’indipendenza esercitò senza ritegno il suo furore. Fede ne
fa la strepitosa condanna, che apportò tanto scandolo all’Italia del
Canonico Pandolfo Ricasoli, del Prete Jacopo Fantoni, e della Faustina
Mainardi. Nato era il primo in Firenze nel 1581. dalla nobil Famiglia di tal
Casato dei Baroni della Trappola. Ebbe gran possesso delle lingue Latina,
Greca, ed Ebraica, co’ quali mezzi riuscì eccellente Oratore, Filosofo,
e Teologo. Nell’età di anni 20. si fece Gesuita, e ne vestì
l’abito in Roma, ma dopo il corso di 10. anni tornò a secolarizzarsi,
non avendo ancora fatta la professione, e quindi conseguì un Canonicato
nella Metropolitana Fiorentina. Scrisse molte opere parte ascetiche, altre di
erudizione, fra le quali resta inedita quella, che porta il titolo: De Unitate et Trinitate Dei, Tomi III. ec. Era assiduo
al coro, indefesso alla predicazione, applicato alle confessioni, e
frequentante tutte le sacre adunanze, e specialmente quelle dirette dal
venerabile Ippolito Galantini. Nell’età di anni 51. cadde infelicemente
in un abisso d’empietà e di errori. Una certa Faustina Mainardi donna di
bassa lega, tessitora di professione, si era data a ciò che si chiama spiritualità,
e avea preso a formare con questo spirito una scuola di zitelle, che tenea seco
in convitto in una casa di sua pertinenza in via Ghibellina. Fu egli eletto per
direttore spirituale di questo Conservatorio, e benchè in un’età
oramai superiore all’impero delle passioni, ivi trovò appoco appoco
l’occasione del suo precipizio. La direzione oltrepassò i limiti della
spiritualità, e fu abusato della religione per sedurre quelle innocenti
colombe, dandosi ad esse ad intendere, che ogni atto il più lubrico
potea esser meritorio purchè rettificato dall’intenzione di
perfezionarsi nella via della salute. Da ciò ne nacque, che col
libertinaggio il più sfrenato s’introdusse un pernicioso quietismo. Per
meglio sostenersi in questo, non si sà se impostura o intima persuasione
di spirito prevaricato, tirò nel suo partito il Padre Serafino Lupi
dell’Ordine de’ Servi di Maria noto già per alcune opere di mistica
Teologia, e il detto Prete Jacopo([60]) Fantoni. Prima che si
scuoprisse durò la seduzione circa 8. anni, essendochè in questo tempo
non tralasciò mai il Ricasoli i suoi favoriti studi, gli esercizi
Ecclesiastici e la di lui esteriore compostezza.
Parimente in questo tempo fece il suo
testamento in cui lasciò a titolo di legato la di lui insigne libreria
a’ Religiosi Carmelitani Scalzi di S. Paolino in Firenze da esso frequentati
continuamente ed amati, per lo studio profondo della Teologia e per la perizia
di alcuni nelle lingue Orientali. Sparsasi la voce de’ suoi indecenti congressi
ne fu data parte al Tribunale dell’Inquisizione. Allora o né([61]) fosse avvertito, o se nè
accorgesse da per se stesso, entrato nel giusto timore del meritato gastigo
andò spontaneamente ad accusarsi, confessò i suoi traviamenti,
onde fu subito arrestato e posto nelle carceri, che il S. Ufizio durante Urbano
VIII. avea nuovamente costruite, dove pure furono separatamente fatti condurre
Faustina Mainardi e Jacopo Fantoni suoi compagni. Fatto il processo facil cosa
si fu il convincere i rei ed i complici di tali eccessi, e quel che fa credere
che egli avesse sovvertito il cuore, e non la mente, si è, che al primo
costituto confessò di nuovo senza principio di ostinazione i suoi
delitti, e ne ebbe tal contrizione, e dimostrò tali segni di sincero
ravvedimento, che si meritò che gli fossero alquanto mitigati i meritati
gastighi. Non fu la pena ingiustamente pronunziata a’ delinquenti ma il modo
con cui venne presa la risoluzione dall’Inquisitore Fra Angiolo Muzzarelli da
Fanano di rivelare al pubblico col maggior fasto ed apparato cose, che doveano
essere assolutamente tenute celate. Nel dì 28. novembre dunque dell’anno
1641. nel vasto refettorio del Convento di S. Croce apparato al solito di nero
in forma lugubre e ad uso di funerale, alla presenza del Cardinal Carlo e di
tutti gli altri Principi di Casa Medici, Teologi, Religiosi, Nobiltà, e
persone qualificate, furono esposti all’altrui vista i rei sopra un palco
vestiti di cappe e sambeniti con diavoli, e fiamme, inginocchiati a piedi
dell’Inquisitore. Un Religioso lesse dal pulpito ad alta voce il processo, e
pronunziando quanto aveano i delinquenti confessato, la maggior parte
dell’udienza se ne partì al sommo scandalizzata. Il Ricasoli venne
dichiarato incorso a perpetua carcere con l’abito di penitenza, privato di
tutti i benefizi Ecclesiastici e beni di qualsivoglia sorte, riservato quanto
era bastante per supplire agli alimenti tanto di lui che di Faustina Mainardi
sua complice, con quanto si trova in detta sentenza emanata dal sopraespresso
Fra Giovanni Muzzarelli da Fanano sotto di 20. Novembre di detto anno, e che
noi tralasciamo di riportare per brevità, e per non offendere la
modestia. Questa, chi avesse piacere di vederla potrà trovarla nella
celebre libreria Riccardiana alla scansia R. Ord. I.N. 46. All’istessa pena
soggetto venne parimente condannato il Prete Jacopo Fantoni. Il Muzzarelli
però da Roma venne acerbamente ripreso per aver usata troppa dolcezza e
moderazione nella determinazione delle pene, e gli fu sostituito un successore
di carattere più severo([62]).
Dispiacevano queste pubblicità
infinitamente a Ferdinando II. ma egli a cui non si potea apporre altro
difetto, che una soverchia prudenza, non volendo entrare in brighe con la Corte
di Roma se ne restava in silenzio. Cosimo III. suo figliolo privo di quel genio
che anima i Principi a meritarsi la vera gloria, adottate ciecamente tutte le
massime Spagnuole, e affettando in tutti i suoi passi la santità, e la
venerazione al Vaticano, dette all’Inquisizione un braccio più esteso di
tutti i suoi antecessori. I Frati sotto il suo governo esercitarono
un’illimitata autorità penetrando fino negli affari domestici de’
particolari, oltraggiandosi in tal guisa la libertà civile de popoli.
Oltre la severità del Sant’Ufizio in materia di Fede, vi fu aggiunta
un’Inquisizione sopra i costumi. Un Religioso Domenicano nativo di Volterra
scorreva ogni anno con magnifico equipaggio, e plenipotenza per varie provincie
del Granducato ad oggetto d’informarsi dell’osservanza della Religione, dei
costumi de sudditi, e della quiete e tranquillità di ciascheduna Città
subalterna, Terra, o Castello, proponendo al suo ritorno al Sovrano quelle
riforme, che giudicava opportuno eseguirsi, e perseguitando tutti quelli che
mostravano retinenza di sottoporsi al suo arbitrio. L’immunità
Ecclesiastica era tenuta in maggior vigore che nell’istesso Stato Pontificio.
Ma tutti questi atti di ossequio o per meglio di feudal soggezione, non
liberarono Cosimo III. dalle vessazioni, e dalle contese con l’Inquisizione. In
Siena essendo stati arrestati nel 1689. con armi proibite alcuni familiari del
S. Ufizio, l’Inquisitore sdegnato fece affiggere pubblicamente i munitori
contro i Ministri del Principe, e dimandò altamente la loro
scarcerazione. Essendosi chiesta a Innocenzo XI. soddisfazione alla insultata
Regia autorità, fu corrisposto dopo la sua morte, che seguì in
quel tempo con la pretensione, che il Granduca facesse egli al contrario una
riparazione per l’ingiuria fatta al Sacro Tribunale, e pubblicamente si veddero
attaccare alla Porta di S. Pietro le citazioni, e detti Ministri intimati a
comparire dentro un determinato numero di giorni in quella Capitale per
giustificare le loro risoluzioni. L’alterigia del Granduca si scosse a
sì strepitosa offesa, e superando per allora la devozione, gli fece
mettere in opra la penna de suoi numerosi Teologi per provare la nullità
delle Censure, e che senza scrupolo di coscienza si potea costringere a andar
fuori dallo Stato l’arrogante Inquisitore. Intanto vennero affissi alle
predette porte del Vaticano i cedoloni di scomunica contro i surriferiti
ministri, onde allora il Cardinal Francesco de Medici fratello del Granduca
perdette la pazienza e minacciò partirsi dal Conclave ove si era chiuso
per l’elezione del nuovo Pontefice, che fu poi Alessandro VIII. Avendo egli un
gran partito fra Cardinali ascoltate vennero le sue ragioni, e l’Inquisitore di
Siena fu richiamato e passato il tutto sotto silenzio([63]).
Pochi anni avanti cioè nel
dì 14. Aprile 1686. giorno della Pasqua di Resurrezione una donna
alterata dal vino, essendosi introdotta sull’imbrunir della sera in una casa
posta nella strada detta via delle Ruote, non avendo trovato alcuno per essere
aperta la porta si pose accanto al fuoco per ripararsi dal freddo essendo in
età avanzata e alquanto debole di mente. Quivi stette fino all’ore 5. di
notte allora quando ritornati i padroni, e veduta una tal donna vecchia e di
brutto aspetto, che timida e quasi ascosa se ne stava in un canto del cammino,
credettero che si fosse calata per la gola di quello, onde levarono gran rumore
chiamandola strega, e facendole ruzzolare la scala. Accorsero i vicini allo
strepito, e veduta tremante quella misera donna ne avvisarono la giustizia, che
subito la pose in carcere previo il consenso dell’Inquisitore. Tanto
però fu nell’atto della carcerazione strapazzata e percossa, che allora
quando la mattina al tardi le fu dal carceriere portato il cibo, acciò
si refocillasse prima di esser trasferita alle prigioni del Sant’Ufizio, fu
ritrovata priva miseramente di vita. Il cadavere dopo essere stato esposto al
pubblico disprezzo venne portato a seppellirsi lungo le mura della Città
in luogo non sacro. Dopo alquanto tempo venuto l’affare alla cognizione di
Monsignore Arcivescovo, poi Cardinal Morigia Milanese, fatti gli opportuni
esami si trovò, che la detta donna non era strega altrimenti, ma
piuttosto scema di cervello, onde fu ordinata una pubblica riparazione
all’onore della defunta coll’esser pubblicamente dissotterata, e condotta ad
essere umata in luogo sacro, tanto ancora potea nelle menti degli uomini la
credulità e il fanatismo. Nel dì 27. Febbraio 1695. fu creduto
che un tal Jacopo Balestri di nascita vilissima e abietta educazione, di
professione tessitore di seta eccellente nella sua arte, fosse un Eresiarca
peggiore di Lutero, e Calvino, benchè non sapesse nè leggere
nè scrivere, onde per essere addetto a qualche autorevole Personaggio,
ebbe a contare per somma grazia il poter far l’abiura privata di quelli errori
di domma, che egli assolutamente non conosceva, avanti il Padre Inquisitor
nella così detta Compagnia de’ Tessitori, e soffrir poi dieci anni di
occulta prigionìa nelle carceri del S. Ufizio come ateista, essendogli
stato fatto credere, che il costituirsi in esse non era che una semplice
formalità. Nel dì 13. Maggio 1670. il nobile Alessandro Martini Fiorentino
fu astretto parimente a far l’abiura de’ suoi errori avanti l’Inquisizione, a
cui fu accusato di servirsi dei passi della Sacra Scrittura per sedurre gli
animi incauti e deboli, e abitando sempre in villa avere sparse delle massime
simili a quelle del Prete Michele Molinos Spagnuolo condannato poch’anzi dalla
Romana Congregazione del S. Ufizio, per giungere a suoi illeciti fini per mezzo
della perfida ipocrisia, vizio orribile che era in gran voga a que’ tempi. Egli
fu sentenziato a perpetua carcere ove morì 10. anni dopo.
Nel dì 15. Agosto di detto
anno fu fatto prigione da famigli dell’Arcivescovado Fiorentino, e condotto
nelle carceri dell’Inquisizione un Sacerdote di Casa Salvini uomo di ottima
reputazione, e Confessore([64])
attualmente delle Monache di S. Matteo in Arcetri. Venne egli dichiarato reo di
confessione rivelata per avere eccitata la Badessa di quel Monastero a far
mettere fuori da una Monaca servente, che era in concetto di santa vita, una
corrispondenza di lettere mistiche tenuta per molto tempo col Padre Gabburri
Cappuccino, della qual corrispondenza scrupoleggiando si era accusata in
confessione. Dopo molto tempo, il detto Prete per ordine del Cardinale
Arcivescovo Morigia fu trasportato a Roma, ove restò condannato a dieci
anni di ergastolo ne mai più rivedde la Toscana. Nel dì 19.
Ottobre fu pure arrestato e condotto nelle carceri del S. Ufizio il Canonico
Vanni della Laurenziana Basilica sospetto disseminatore di massime ereticali
date fuori in una sua piccola opera intitolata i Barlumi. Molti
autorevoli personaggi a quali era cognita la di lui integrità di mente,
s’interposero per salvarlo dai rigori dell’Inquisizione, ed in specie il
Marchese Francesco Riccardi, che ebbe modo di far portar la sua Causa a Roma.
Terminati 16. mesi di penosa prigionia fu lasciato in libertà, senza che
però pubblicamente costasse di sua innocenza([65]). Morto poi nel 1723.
Cosimo III., il Granduca Gio. Gastone suo figlio che non professava tanto
ossequio e deferenza a Religiosi come il padre, procurò prudentemente,
che meno pubbliche e clamorose fossero le sentenze dell’Inquisizione, senza
però apparentemente attentare alla diminuzione dell’autorità che
si era arrogata in Toscana, e lasciando in qualunque luogo nell’istessa
situazione in cui gli avea trovati quando salì sul trono, gli
Inquisitori e i loro Vicari. Uno dei più belli ingegni, che fiorissero
sulla fine del suo regno, cioè il Dottor Tommaso Crudeli da Poppi,
celebre poeta dotato di somma lepidezza e leggiadri talenti, ma non fornito di
quella necessaria prudenza, che insegna a non esternare soverchiamente i propri
sentimenti e pensieri, fu lo scopo della vendetta dell’Inquisizione armata dal
potere. Avendo egli in un suo poetico componimento recitato la morte del
celebre Senator Filippo Buonarroti Segretario della Regia Giurisdizione, usata
l’espressione, Ei che frenar solea, il tempestoso procellar del Clero ec.,
una tal frase non gli fu mai perdonata, e in fatti non molto dopo fu posto
nelle carceri del S. Ufizio, quale ateista e uomo di niuna Religione, come
vedrassi dall’annesso fatto che corredato degli opportuni autentici documenti,
si riporta come troppo importante al nostro soggetto, appiè dell’Opera.
Quest’avvenimento, (e l’altro accaduto in Siena contemporaneamente di Fra
Cimino Cancelliere dell’Inquisitore Padre Pesenti allora assente, che amato da
bella matrona moglie di un mercante di cera, non potendo come era solito
frequentarne la casa, stante le gelose insinuazioni che fatte aveano al di lei
marito gli amanti di due sue figlie, lo fece arrestare da suoi famigliari, e
ritenere con uno de giovani sposi nelle carceri del S. Ufizio, ove più
volte percossi vennero da uomini vestiti da diavoli, inputandoseli il delitto
di essere spiriti forti;) produsse l’effetto, che il Conte Emanuelle di
Richecourt saggio e spregiudicato Ministro Capo della Reggenza di Toscana,
istituita dal nuovo Granduca, poi Imperatore Augusto FRANCESCO STEFANO di
Lorena, portossi nel
In aumento di quanto si è
detto di sopra su tale articolo fa d’uopo osservare che a norma degli ultimi
regolamenti emanati in Venezia nel 1767. non può colà il Santo
Ufizio far cosa alcuna senza il consenso di tre Senatori, che assistono a nome
del Principe a tutte le sue deliberazioni. Non vi succede cosa alcuna di cui il
Senato non sia pienamente informato. Gl’Inquisitori non possono neppure citare,
sentire un testimonio, o fare il minimo atto sotto pena di nullità, se
non in presenza di questi tre Senatori, in vigore del concordato fatto nel
1551. fra Giulio III. del Monte, e la Repubblica; trattato più volte
rinnovato, e a cui giammai non si è in veruna maniera derogato.
L’autorità di detti assistenti è tanto più grande in
quanto possono, quando lo giudicano a proposito, sospendere le deliberazioni
dell’Inquisitore, arrestare l’esecuzione delle sue sentenze, non solamente
allorchè son giudicate contrarie alle leggi e a costumi dello Stato, ma
ancora quando essi hanno degli ordini o istruzioni particolari dal Senato.
Ciò li rende assolutamente dispotici e Giudici del Tribunale in tutte le
cause, che riguardano sì gli Ecclesiastici, che i Secolari,
poichè a Venezia l’eresìa, o qualunque altro delitto contro la
Religione è riguardato, come interessante la Chiesa e lo Stato. I
Signori Assistenti invigilano inoltre attentamente, che gl’Inquisitori non
pubblichino, e non mettano in esecuzione alcuna Bolla tanto nuova che vecchia,
se prima non è stata approvata dal Senato, e che si limitino esattamente
a sei articoli, che sono loro riserbati dalle leggi veglianti, cioè: I.
Gli Eretici e quelli che gli conoscono e non li denunziano. II. Quelli che tengono
assemblee o conferenze in pregiudizio alla Religione. III. Quelli che colle
loro bestemmie danno luogo di credere di esser caduti in qualche errore contro
la Fede. IV. Quelli che celebrano la Messa, o amministrano i Sacramenti senza
essere Sacerdoti. V. Quelli che si oppongono all’autorità
dell’Inquisizione, e ne impediscono per quanto possono l’esercizio. VI. Quelli
che stampano, vendono, o spacciano i libri manifestamente eretici. Ha
l’Inquisizione il diritto di esaminare gli affari solamente sù questi
punti. Il Senato si è riserbato ciò che riguarda gli Ebrei, i
Greci, li Scismatici che hanno stabilimenti ne’ suoi Stati, dove li vien
permesso vivere secondo il loro Rito; l’esame di tutti i libri fuori di quelli
specialmente riserbati al S. Ufizio; le usure, e quelli che in disprezzo delle
leggi della Chiesa per avidità o per altro motivo vendessero carni
pubblicamente in tempi e giorni vietati. Tutti questi delitti che sono
ugualmente contro la polizia, e la Religione appartengono a Tribunali Secolari.
Oltre di questo in virtù di un Editto del Consiglio de’ Dieci del 1568.
fu stabilito, che i beni confiscati addetti alle persone condannate
dall’Inquisizione passino a loro legittimi eredi, a condizione di non renderli
al colpevole, onde l’Inquisizione ha pochissimo interesse di esercitare la sua
giurisdizione sù questo punto([66]).
In Firenze nel detto anno 1754. si
convenne che il S. Ufizio fosse composto dell’Inquisitore Minor Conventuale, e
suo Vicario, e ne le Congregazioni intervenissero l’Arcivescovo, Locale e il
Nunzio con tre Consultori, e tre Deputati assistenti Secolari rappresentanti la
persona del Principe a cui si dovesse stare pel’ voto decisivo. Su questo piede
appresso a poco si è mantenuta l’Inquisizione fino alla metà del
corrente anno 1782., essendo Inquisitore il P. Maestro Antonio Nenci, quando
è piaciuto al Regnante Granduca PIETRO LEOPOLDO I. Totalmente abolirla
per le ragioni che espresse sono nel seguente graziosissimo Editto.
PIETRO LEOPOLDO
ec. ec.
Sapendo Noi esser’ un preciso dovere
inseparabile dalla Sovranità il far’ uso dei mezzi, che ci somministra
la Potestà Suprema per mantenere e difendere la Nostra Santa Religione
nella sua purità, ci siamo determinati a ponderare con la debita
maturità i diritti del Tribunale del Sant’Ufizio, ed i provvedimenti
ordinati in diversi tempi nei nostri felicissimi Stati per contenere i suoi
Ministri dentro quei limiti, che sono prescritti dal vero zelo, e dall’esempio
dei primi secoli della Chiesa, nei quali anzichè la punizione, si cercava
con la mansuetudine, e la carità ricondurre nel seno della Santa Fede
chiunque aveva la disgrazia di traviare.
Abbiamo dovuto rilevare, che se la
Chiesa dopo dodici secoli credè espediente di sospendere in qualche
parte questa santa dolcezza, e creare dei Tribunali con Leggi di non più
usato rigore, quali non potevano convenire ai Vescovi, dalla cui giurisdizione
furono per ciò separate le Cause di Fede, vi potè essere
costretta da cagioni affatto straordinarie, e dalla infelicità dei
tempi.
Cessate queste cagioni, le quali
potevano persuadere a tollerare un male per riparo ad un male maggiore, la
maggior parte dei Governi ha provveduto alla pubblica quiete con l’abolizione
del Tribunale del S. Ufizio, o con la moderazione delle sue leggi, e della sua
costituzione.
Relativamente ad ogni altro
provvedimento ci troviamo nel dovere di riconoscere la massima prudenza, ed
efficacia in quello che piacque al Nostro Augustissimo Genitore di gloriosa
memoria di stabilire nel 1745., dal qual tempo più non si sono provate in
Toscana le irregolarità, e le prepotenze degl’Inquisitori non rare in
avanti.
Ma riflettendo che i Tribunali del S.
Ufizio sono ormai inutili nel GranDucato, che i soli Vescovi hanno ricevuto da
Dio il Sacro Deposito della Fede, che fa ad essi un torto il dividere con altri
la porzione più gelosa della loro potestà, e che essi saranno
tanto più impegnati ad usarne con la maggior vigilanza quando siano soli
a risponderne a Dio, ed al Sovrano.
Perciò abbiamo determinato di
abolire intieramente, come di fatto con la pienezza della Nostra Suprema, ed
assoluta Potestà, abolischiamo, ed annulliamo nei Nostri felicissimi
Stati il Tribunale dell’Inquisizione, Ordinando.
Che contemporaneamente alla
pubblicazione del presente Regio Editto cessino negli Inquisitori, e loro
Cancellieri, nei Vicarj Foranei, ed in qualunque altro Ministro del S. Ufizio
tutte le facoltà, l’esercizio delle quali è a Noi piaciuto di
tollerare fin’ ora.
Che tolta immediatamente, e demolita
sopra le Porte esterne dei quartieri degli Inquisitori di Firenze, Siena, e
Pisa; ogni e qualunque iscrizione, titolo, o altro contrassegno denotante
esservi stata una volta la sede dell’Inquisizione, si incorporino i detti
quartieri, e si includano nella clausura dei rispettivi Conventi, sicchè
ai medesimi non possa aversi accesso d’altronde che dalla porta comune agli
altri Religiosi.
Che dal Magistrato Supremo in
Firenze, dall’Auditore del Governo in Siena, e dagli Auditori Vicarj in Pisa, e
Livorno si prenda in nome Nostro il possesso di tutti i Beni mobili, ed
immobili del S. Ufizio.
Che debbano immediatamente gli
Inquisitori, e qualunque altro Ministro, o Vicario Foraneo, per quanto temono
la Nostra Reale indignazione, consegnare ai rispettivi Vescovi gli Archivi, gli
Atti, e Processi, e qualunque altro foglio, che in qualunque modo appartenga al
loro abolito Ministero, ritirandone il debito riscontro, quale saranno
solleciti di rimettere all’Auditore Segretario del Regio Diritto.
Che i Fondi, e le Rendite che ha
possedute, o sono state assegnate in Toscana al S. Ufizio siano attribuite ed
erogate in sussidio delle Parrocchie bisognose di resarcimenti, o di aumento di
congrua.
Che sia intieramente reintegrato
l’Episcopato dell’usurpata cognizione delle Cause di Fede, e le Processure
delle medesime non debbano in quanto alla forma, ed alla sostanza in minima
parte differire da quella, che di ragione si osserva in tutte le altre cause
Ecclesiastiche criminali.
Vogliamo confidare, siccome confidiamo,
che i Vescovi si faranno spontaneamente una legge di rendersi presente, che
talvolta lo strepito di un Processo, e di una Condanna produce più
scandalo di un’errore passeggiero; che molto più giovano all’emenda del
reo, ed all’edificazione degli altri le ammonizioni, le esortazioni, e tutto
ciò che saprà loro suggerire quella pastorale moderazione, e
carità, che anche per esempio degli altri, sono in dovere di professare;
ma qualora le circostanze dei casi esigessero, che si proceda al rigore, e che
sia fatto uso del braccio secolare, sempre che a Noi faranno costare della
sperimentata insufficienza dei mezzi indicati di sopra, Ci crederemo in obbligo
di accordarlo.
Tale è la Nostra
volontà, la quale comandiamo, che sia inviolabilmente osservata,
derogando con la pienezza della Nostra Sovrana Potestà a qualunque
Legge, Ordine, Consuetudine, e Privilegio in qualunque modo contrario alle
presenti nostre disposizioni.
Dato li 5. Luglio 1782.
Lettera scritta
dall’Auditor Segretario del regio Diritto
al Provinciale
dei Minori conventuali il dì 9. Luglio 1782
Essendo stato abolito il Tribunale
dell’Inquisizione, resta tolta la proibizione che vegliava per i Religiosi, che
aveano servito come Inquisitori, Vicarj o Cancellieri di ottenere qualunque
Carica dell’Ordine in Toscana.
Dovrà altresì esser
tolta ogni qualificazione e distinzione che i Religiosi frati Ministri del S.
Ufizio avessero goduto nell’Ordine per questo titolo dell’Inquisizione, con
l’abolizione della quale restano aboliti anche tutti i diritti acquistati
dipendentemente dalla medesima da detti Inquisitori, Vicarj, Cancellieri, e
Vicarj Foranei nell’Ordine loro, onde tutti gli effetti siano sottoposti ai
loro ordinarj Superiori, e siano obbligati all’osservanza della regola come
ogni altro delle loro Religiose Famiglie.
Nel termine al più di 8.
giorni dovranno i Frati impiegati attualmente nell’Inquisizione aver rimesso ai
respettivi Ordinari tutte le Carte spettanti a quel Tribunale, e dentro 15.
giorni dovranno esser mutati in altro dal Convento nel quale erano impiegati
come Inquisitori, Vicarj, e Cancellieri, e non potranno essere rimandati nei
Conventi stessi che dopo due anni.
RELAZIONE([67])
Della carcerazione del Dottor Tommaso
Crudeli di Poppi, e della processura
formata contro di lui nel Tribunale del S.
Ufizio di Firenze l’anno 1739.
La notte del dì 9. Maggio
1739. fu arrestato e condotto al Tribunale della Sacra Inquisizione di Firenze
il Dottore Tommaso Crudeli di Poppi, dove ricevuto dal Padre Inquisitore, e Padre
Vicario del S. Ufizio, espose tosto a medesimi le gravi sue indisposizioni, per
le quali averebbe poco tempo potuto sopravivere, ma senza che si avesse uno
special riguardo alla pessima costituzione del suo corpo, che attese le forti e
frequenti strettezze di petto, a le quali da lungo tempo era sottoposto,
più che tutt’altro aveva bisogno d’abitare una stanza non molto angusta,
ed ariosa per agevolargli il respiro. Gli promisero i Padri tutta l’assistenza
possibile, e trattarlo con quella carità, che è degna di tutti i
Cattolici, e massime de’ Religiosi, dargli un’ottima carcere, nella quale
averebbe potuto vivere con tutto il comodo immaginabile; in ordine a questa
promessa fu posto il Crudeli in una carcere segreta, lunga sei passi in circa
di figura triangolare come quella, che era stata cavata in un angolo di
un’altra stanza, ove era un piccolo, e mal fornito lettuccio posto presso a un
luogo, che per non avere alcuno sfogo esalava un gravissimo cattivo odore, che
infettava l’aria di quella piccola segrete, punto atta respirarsi da qualunque
robusto uomo, non che dal Crudeli, il quale come è noto a tutti, era di
un gracile temperamento, emaciato per le continove malattie che soffriva, e
particolarmente da un’asma convulsiva, la quale ancorchè vivesse per
l’avanti agiatamente, e con ogni riguardo, l’aveva alcune volte con tal
violenza attaccato, da far temere i Medici che lo curavano della sua vita;
piombava la luce nella detta segrete da un angusta feritoia, che riesciva in un
andito, che riceveva la medesima da una finestra di un cortile posta sotto un
doppio ordine di tetti, muniti ambedue di una gronda non poco sporgente in
fuora; l’angustia di detto ingresso, che impediva all’aria di poter passare con
libertà, e che solamente permetteva che s’introducesse uno stracco, e
debole filo di luce, e il non avere alcuna apertura la detta segrete, impediva
all’aria di potersi rinnovare, e cagionava in essa quell’umidità, la
quale siccome dopo breve tempo macera irreparabilmente i corpi umani, così
mantiene vegeti quelli delle tarantole, ragni, e scorpioni, de’ quali le pareti
della medesima erano copiosamente adornate.
Il Fratello del carcerato morso da quella
pietà, che sogliono risentire tutti gli uomini, e particolarmente i
congiunti degli oppressi ed afflitti, fece qualche istanza al Governo Secolare
perchè gli fosse mutata la prigione per riguardo almeno alle di lui
frequenti malattie, e su tal reflesso fu impetrato dopo trentasei giorni dalla
sua cattura, che fosse posto in altra stanza alquanto migliore.
Voleva il Santo Tribunale assicurarsi
di quest’uomo spacciato ancor prima d’averne alcun ragionevole riscontro per un
Eresiarca, che come disse l’istesso Padre Inquisitore, costava tanto alla
Chiesa, perciò fu ordinato porsi alla ferrata della prigione, dove
era stato stabilito doversi trasportare, un riparo di legno per la parte
esteriore di essa, atto più a togliere l’aria, e la luce, che da quello
impedita non poteva scendere nella carcere se non per una piccola fessura, che
ad impedire la fuga di esso, quando l’avesse potuta, o voluta tentare, e
terminata in breve tempo la detta macchina, cioè apposto alla finestra
il detto riparo, i Padri del S. Tribunale dissero, che tre soli giorni dopo il
suo arresto avevano mutata la carcere al Crudeli, quando la verità
è, che per lo spazio di trentasei giorni fu tenuto a macerarsi nella
detta pessima segrete dove l’avevano posto da principio.
Trasferito in tanto nella nuova
prigione ed avvisato il di lui Fratello, che facesse portare il proprio letto
del Carcerato, onde potesse più liberamente prender riposo, siccome nel
riceverlo fu osservato esservi le panchette di ferro, così il P.
Inquisitore, che non voleva la morte del peccatore, ma che si convertisse e
vivesse, sul dubbio, che colle medesime potesse torgli la vita, glie le
convertì in altra di legno, materia quanto meno atta ad uccidersi, tanto
più propria a generare e nutrire una certa specie d’insetti, quali
sì per il loro cattivo odore, sì per le nojose loro punture
inquietarono molto quell’infelice.
Frattanto non aveva egli
libertà di poter vedere alcuna persona, e neppure il proprio fratello,
col quale aveva necessità di parlare per ragione di molti interessi, e
particolarmente per alcune liti a loro comuni, delle quali, avendone egli avuta
la direzione, non sapevano i di lui congiunti le più importanti notizie,
cosa che in sì fatti casi colle dovute cautele non suol negarsi da alcun
Tribunale.
Non solamente non era a lui permesso
di scrivere a veruno, ma neppure alcuna cosa per semplice suo trattenimento,
essendo inoltre stato tenuto e la sera, e la notte per lo spazio d’interi sei
mesi senza alcuna luce artificiale, quantunque non cessasse di chiederla, non
solo per alleggerirsi l’orrore del carcere, ma ancora perchè questa gli
giovasse negli attacchi dell’asma, che frequentemente l’incomodavano,
come aveva più volte sperimentato; ma lo zelo inflessibile de’ Religiosi
non si lasciò mai piegare nè dalle umili preci di esso, nè
dalle raccomandazioni procurateli da suo fratello, ne da di lui gravi incomodi,
onde ne seguì, che non ostante la regola universale, che la carcere
prima che alcuno sia convinto di delitto debbi essere per sicurezza, e non per
tormento, sicchè non si dia la pena dove non è certa la colpa,
gli convenne soffrire tutti i disagi che porta seco la lunghezza della
più nojosa, e crudele prigionia, non per alcun suo privato delitto, ma
solamente perchè i Padri del S. Tribunale per fini soltanto ad essi noti
avevano stabilita la di lui rovina.
Non lasciava però il solo
Padre Vicario di andare di tempo in tempo a visitare il Crudeli, e di fargli le
più vive dichiarazioni di amicizia ostentando pietà della sua
disgrazia, ed assicurandolo di ogni assistenza, sì perchè gli
fosse amministrata pronta e retta giustizia, sì perchè gli fusse
usata dall’innata clemenza del Padre Inquisitore ogni agevolezza atteso lo
stato deplorabile della sua sanità, di che il povero carcerato se gli
protestava al sommo obbligato, e lo pregava a procurargli la spedizione della
sua causa, e quindi a essere esaminato, non potendo capire la cagione
dell’indugio in un Tribunale, che avea in uso di non arrestare il preteso reo,
se non dopo compilato il processo, e provati concludentemente i di lui delitti.
L’amico Padre Vicario gli prometteva d’interporre la sua mediazione per la
spedizione della di lui causa, e glie ne dava vicine le speranze, ma per lo
spazio di tre mesi non se ne vidde effetto veruno, solo che entrato un giorno
il detto Padre Vicario nella prigione del Crudeli, disse al medesimo, che gli
era riuscito d’indurre l’Inquisitore a degnarsi di ricevere da lui un
biglietto, onde gli averebbe portato tutto il bisognevole per poterlo scrivere,
e che in esso averebbe potuto chiedere la tanto bramata grazia di essere
esaminato; questa promessa gli fu più volte dal Padre Vicario replicata,
ma non mai attesa, se non che dopo molto tempo gli disse, che gli aveva
impetrato un abboccamento con Sua Paternità Reverendissima, onde in tal
congiuntura potesse chiedergli da se stesso quel tanto, che avesse giudicato
essergli vantaggioso; in fatti fu condotto il carcerato nella Cappella del S.
Ufizio, luogo del quale si serve il Tribunale per esaminare, dove invece
d’abboccarsi strajudicialmente col Padre Reverendissimo, come gli era stato
falsamente promesso, fu formalmente esaminato sopra la Società de’ Liberi
Muratori, e gli furono fatte quarantatrè interrogazioni, nessuna
delle quali fu scritta, quantunque egli chiedesse colla maggiore efficacia, che
tutto fosse registrato dal Cancelliere secondo i principj di ogni Canonica e
Civil ragione, e secondo la consuetudine del S. Ufizio, e di tutti i Tribunali,
ne’ quali non il capriccio, ma l’ordine della giustizia s’abbia in veduta,
adducendo egli inutilmente i Canoni, le Bolle de’ Santi Pontefici, e le leggi,
che ciò prescrivono, al che non altro gli fu risposto dal Padre
Inquisitore, se non che tutto era fatto per suo vantaggio, poichè era
molto più per giovargli una confessione spontanea che un’esposizione del
fatto ricavata da lui per via di un esame formale, ed in fatti alla testa di
tutto questo esame fu posto il titolo di spontanea confessione; con questo
nuovo irregolar metodo di procedere venne trasformato il costituto fatto al
Crudeli in un’Istoria supposta fatta da lui, la lettura della quale fa per
altro in moltissimi luoghi vedere, che ella non è altro, che una catena
di risposte date alle diverse domande del Processante.
Dopo questo costituto non
mancò il Padre Vicario di fare più frequenti visite al carcerato
sotto la solita ostentazione di amorevolezza, e di pietà, che diceva di
sentire per la sua disgrazia, ma in verità per vedere d’indurre a
confessare tuttociò, che si faceva, e si diceva nella Società de’
Liberi Muratori, supponendo che vi si trattassero cose di Religione,
come hanno sempre erroneamente creduto, o almeno mostrato di credere i Padri
del S. Ufizio, i quali è certo, che fino dal 1736. fecero infinite
ricerche in questo proposito, e fino d’allora presero di mira il Crudeli come
uno di detta Società, le quali ricerche poi dettero causa di falso
insorto romore, che vi fussero in Toscana trentamila eretici sotto il nome di Liberi
Muratori.
Il Carcerato, che sapeva benissimo
non esservi in quella la minima cosa che potesse interessare il Tribunale del
S. Ufizio, non altro poteva rispondere, che quando fosse stato Membro di quella
non poteva essere gastigato, non essendo ciò nè contro l’onore
d’Iddio, nè contro le leggi della Chiesa, e che ne sperava, che il
Tribunale della S. Inquisizione sarebbe venuto in chiaro, mediante le giuste notizie
che ne potevano avere, ma il Padre Vicario gli replicò, che non poteva
sapere quali notizie avesse il S. Ufizio di sì fatta Società, e
che riflettesse, che era stata emanata da Clemente XII. una bolla contro di
essa, e però si risolvesse a palesare tuttociò, che era nell’Istituto
de’ Liberi Muratori, i nomi de’ Soci, e quello del Protettore,
assicurandolo che poteva mentovare senza alcun timore ogni genere di persone di
qualunque rango, e condizione si fossero, ancorchè Principi,
poichè quanto si diceva in quel Tribunale era occulto per sempre,
aggiungendo, che lo scoprire la verità averebbe molto cooperato alla sua
pronta liberazione, offerendogli per sì fatto modo una specie
d’impunità; il Carcerato rispose a tutte le questioni di tal natura
fattegli frequentemente in occasione delle visite del Padre Vicario, che aveva
detta la mera verità, alla quale non aveva che aggiungere, pregandolo
instantemente di stimolare l’Inquisitore a spedire la sua causa, che
così sarebbe venuta in chiaro la sua innocenza, e la calunnia de’ suoi
avversari.
Un mese dopo il primo suo costituto,
e quattro dopo il suo arresto venne di nuovo esaminato il Crudeli, e gli furono
contestati varj mostruosi delitti da lui supposti commessi in casa del Barone
Stoch, de’ quali si pretendeva accusato da N.N. (a cui per via di un
indegno maneggio del suo Confessore, e di mille suggestioni, e minacce de’ PP.
Del S. Ufizio, i quali contarono sulla di lui notoria stolidità, s’era
maliziosamente fatto deporre, che egli era stato introdotto in casa di detto Stoch,
ove si pretendea che si adunasse la Società de’ Liberi Muratori,
a cui disse di essere stato ammesso, e in cui aggiunse essere, ed avervi veduto
il Crudeli, e che nelle sognate adunanze di essa Società si facevano e
dicevano cose enormi contro la Religione e contro il Governo, fingendo quelle a
capriccio, ed ascrivendo a detta Società un gran numero di scelte
persone, cioè tutte quelle nominate, ed a lui suggerite da chi
l’esaminava, contro le quali voleva intentarsi una ingiustissima persecuzione.)
Ciò era tutta impostura, poichè in casa di Stoch non s’era
mai tenuta tale adunanza, e il detto...., non era mai stato nella prefata casa,
nè egli, nè la massima parte delle persone fattegli nominare,
molte delle quali si sapea essere non amiche di Stoch, e fra queste il
Crudeli. Dopo di ciò gli fu detto dal Padre Inquisitore che non poteva
ammetterlo prontamente alle difese per dovere attendere l’ordine di Roma, ma
che frattanto averebbe insistito per la spedizione della sua causa.
Seguito questo nuovo esame rinforzò
il Padre Vicario le familiari sue visite al carcerato, sempre sotto l’istesso
colore di compassione, e di amicizia, ma in fatti non per altro, che per
persuaderlo a confessare secondo ciò che pretendeva il S. Ufizio, la
supposta Società de’ Liberi Muratori in casa Stoch, e
quello che sembra ancora più strano, arrivò fino a promettergli
la libertà, se vero o falso che fosse, avesse confermato col suo deposto
ciò che era stato detto, o piuttosto fatto dire al......., avendo avuta
l’imprudenza di dirgli chiaramente, che non sarebbe escito dalle carceri del S.
Ufizio, fino a che non avesse confessata in tutte le sue parti per vera
l’ideale adunanza supposta dal detto...... Non ostante tutti questi maneggiati
persistè sempre l’inquisito nel suo proposito di non tradire la
verità, e se medesimo, ne altro chiese al P. Vicario, che la sua
interposizione per ottenere le difese, colle quali s’assicurava, che averebbe
messo in chiaro la calunnia e la pazzia de’ querelanti, e la falsità dei
supposti testimoni, che avevano deposto di questa immaginaria Assemblea. Ma
consapevoli il Padre Vicario e il Padre Inquisitore di qual metodo s’erano
serviti per opprimere questo infelice, e molte persone per rango e per merito
assai rispettabili, procurarono sempre di operare in maniera colla Sacra
Congregazione in Roma, che fosse ritardato l’ordine di ammettere alle difese
l’inquisito, per cercare intanto nuovi illegittimi mezzi, onde tirare a fine la
loro meditata impresa, vedendo di non avere ancora in mano con che venire a capo
di quella, mentre sapevano che il deposto di uno de’ due singolari testimoni,
sopra del quale fondavasi la loro calunnia, era stato suggestivamente estorto
per via di minacce abusandosi della stolidità del Testimone, nota alla
Città di Firenze, e che il deposto dell’altro Testimone, col quale
pretesero di ammenicolare il primo, era stato scritto gratuitamente dal loro
Cancelliere, ma non proferito dal Testimone, come fu chiaramente provato da un
breve Processo difeso a Livorno dal celebre Auditore, allora Avvocato Querci,
che ne aveva avuta la commissione dal Governo, dal qual Processo resulta, che
egli non aveva mai deposto avanti al Padre Inquisitore di alcuna di quelle
proposizioni contestate al Crudeli, ne averebbe potuto farlo, perchè non
s’era mai trovato con lui in casa di Stoch, onde rovinando la base sopra
la quale i Padri avevano appoggiata questa loro male architettata macchina,
dubitarono che il carcerato colle sue difese, non solo averebbe fatto costare
che esso non andava in casa Stoch di cui non era amico, ma che la detta
mal supposta Assemblea non era altro, che un inventata favola de’ Padri del S.
Ufizio colorita con gli estorti suggestivi, ed alterati deposti de’ mentovati
due Testimoni([68]),
e in tal guisa non averebbero potuto ottenere il loro intento di rovinare per
sempre quest’infelice, e di passare sull’istesso piede alla rovina degli altri.
In fatti furono fatte minutissime
ricerche in Firenze, ed in Poppi Patria del carcerato sopra i di lui costumi,
sopra il concetto che si aveva di esso, se frequentava le Chiese, se
s’inginocchiava al suono dell’Ave Maria della sera, o del mezzo giorno, ed in
specie ricercarono a molte persone, se gli avevano sentito dire, che la
Santissima Eucaristia non era, che una cialda, la quale proposizione non
essendogli mai stata contestata, è un manifesto segno, che non era stato
querelato, e che però non si poteva secondo le regole del Tribunale
medesimo del S. Ufizio farsene a capriccio alcuna ricerca; ma chi avea fatto il
primo passo falso si credette in impegno, per non soffrire il rossore di
essersi ingannato, o di avere maliziosamente tentato con vergognosi mezzi
l’oppressione di un innocente, di farne degli altri, onde venire a fine del mal
concepito disegno.
Non cessava intanto l’infelice
Dottore Crudeli di pregare il Padre Vicario in occasione delle solite cortesi
visite, delle quali bene spesso veniva onorato, acciò gli fossero
assegnate le difese, parendogli impossibile, che un Tribunale come quello della
Sacra Inquisizione, che Santo si chiamava, volesse ritardargli le difese senza
alcun giusto apparente motivo, quando effettivamente [il]([69]) Padre Inquisitore non
avesse frapposto qualche difficoltà, al che non s’astenne di rispondere
una volta al Padre Vicario, che a suo tempo gli sarebbero state assegnate,
ma che il Tribunale non aveva fretta; dall’altra parte non cessava il suo
fratello d’interporre tutti i mezzi più efficaci appresso l’Inquisitore,
perchè mosso una volta dalle indisposizioni e da disastri, che soffriva
il carcerato gli avesse finalmente conceduta la sospirata grazia di potersi
difendere; avendolo più e più volte anche da per se stesso
richiesto di quest’atto di giustizia, che da tutte le Divine Leggi, ed umane
viene a rei ordinato accordarsi con tutta l’immaginabile prontezza, ma ne
riportò sempre ottime parole, rispondendo, che la ragione dell’indugio
derivava da Roma, con aggiungere che neppure detto Inquisitore poteva capire,
come nella causa di questo carcerato non si fosse conservato l’ordine consueto,
ma si fosse contro ogni regola in moltissime circostanze alterato, mentre per
altra via si sapeva, come l’Inquisitore studiava nel tempo medesimo tutti i
modi per mandare in lungo la causa, ed usava ogni arte per trovare nuova
cagione di ritardare le difese dell’Inquisito, quali date una volta che fossero
ben prevedeva, che si sarebbe fatta conoscere al Mondo l’innocenza del Crudeli,
e la propria e l’altrui malvagità, dimodochè vedendo il detto suo
fratello, che nulla poteva concludersi col ricorrere al Tribunale dell’Inquisizione
di Firenze, si risolvè di scrivere come fece ad alcuni suoi amici a
Roma, perchè eleggessero un Avvocato, che sollecitasse appresso la Sacra
Congregazione la spedizione di questa causa, mandando a tal’ effetto lettere di
cambio per sodisfare il medesimo, ma nulla pure giovando questa ulteriore
diligenza, argomentando da ciò, che con aver chiusi tutti i passi,
avessero i Padri del S. Ufizio irreparabilmente stabilita la rovina del suo
fratello, studiando di recare a lui quell’aiuto maggiore che in tali angustie
poteva, pensò e potè trovare la via di fargli avere una corda, la
quale poteva il carcerato senza essere veduto, calare ogni sabato notte, in cui
restava aperto l’ingresso del Chiostro, al quale corrispondeva la finestra
della sua carcere, e così ebbe agio di dare, e ricevere de’ biglietti, e
qualche altra piccola cosa per suo ristoro, avendo per tal modo acquistato
tutto il necessario per scrivere. Con tale espediente indi suo fratello
l’avvisò, che gli sarebbero fatti pervenire alcuni ordigni per tentare
la fuga, e salvarsi, e quantunque gli rispondesse il carcerato, che voleva
perdere la vita sotto i rigori della carcere piuttosto che la sua innocenza con
intraprendere la fuga, attaccò una notte alla cordicella una grossa fune
con molti nodi, e un piccolo pugnale, scrivendogli, che tentasse in qualche
maniera di salvarsi, poichè si vedeva dall’irregolare dilazione delle
sue difese, che si voleva ad ogni patto il suo sacrifizio. Si trovò
sorpreso il Crudeli vedendo la fune, e il pugnale appeso al cordone che aveva
calato per ricevere il biglietto del fratello, e la solita cioccolata, che per
tal via gli mandava ogni sabato per cibarsi di essa, giacchè temeva
nascosto il veleno nelle vivande, ne sapendo a qual partito appigliarsi,
cacciò il pugnale sotto la panchetta del letto, e ridottolo in tre pezzi
lo gettò sopra la finestra della sua prigione. La mattina seguente
avendo il Padre Inquisitore, non si sa per qual via penetrato, che erano state
somministrate all’Inquisito le cose suddette, gli fece la perquisizione nella
carcere, nella quale gli furono trovati i detti ordigni, e furono
successivamente scritti per tre sabati da alcuno de’ vigilanti Padri del S.
Ufizio tre biglietti al fratello del carcerato calandogli nella forma suddetta
con avere contraffatta la mano del Crudeli, i quali non tendevano ad altro che
a scoprire il modo col quale supponevano i Padri, che fosse da esso meditata la
fuga, il luogo dove esso avesse pensato di portarsi, e le persone che
gl’averebbero prestato aiuto, ma siccome non era ciò, che un ridicolo
pensiero venuto in capo a suo fratello, che a dir vero non era l’Uomo
più avveduto del mondo e che gli aveva mandati i detti arnesi,
perchè riuscendoli se ne servisse in fuggire, senza aver considerato più
oltre, così credendo di continovare col carcerato il carteggio, rispose
sempre in modo, che non poterono ricavarne i Padri se non una difesa per il
preteso reo ma l’Inquisitore non si degnò di mai contestare, o di fare
alcun conto de’ biglietti scritti dal fratello in risposta al carcerato, da
quali si ricavava chiaramente la di lui costante intenzione di non uscire dalle
prigioni del S. Ufizio, se non per la via ordinaria, e dichiarato innocente,
come sapeva d’essere, qual sua intenzione aveva altre volte manifestata, ed in
specie un giorno, in cui casualmente il Custode delle carceri aveva lasciato
aperto l’uscio della sua prigione, che perciò fu da lui richiamato, ed
avvisato a ferrarlo.
Accortosi finalmente il fratello del
carcerato che i Padri, e non esso avevano scritti gli ultimi biglietti,
vedendosi scoperto sul timore, che il Tribunale del S. Ufizio potesse procedere
contro di esso per aver somministrati al carcerato ordigni per fuggire, e
salvarsi, si determinò a denunziarsi, e narrata come era passata la cosa
assicurò il Padre Inquisitore che il suo fratello non aveva mai pensato
a fuggire.
Accettò la denunzia
l’Inquisitore, ma seguitando il suo stile di nulla rilevare di ciò che
ridondava in favore del Crudeli, non stimò opportuno di ridurla in
scritto, giacchè dalla medesima non solamente costava, che esso non
voleva salvarsi colla fuga, ma che anzi aveva fatta un’azione eroica col
disapprovare il consiglio del fratello, e far comprendere che era costantemente
risoluto o di finalmente soccombere sotto i rigori della sua prigione, o
d’essere per sentenza dichiarato innocente, ciò che non poco giovava al
medesimo, mentre siccome la fuga, o il manifesto desiderio di essa è un
legale indizio di reità, così il non intraprendere quella
potendo, e rigettarne costantemente i consigli, e l’esibita assistenza
massimamente in chi già trovasi oppresso dal timore, e da fieri disastri
d’una crudel prigionia, egli è certamente uno de’ più forti
riscontri dell’innocenza di esso.
Dopo questo fatto i Ministri del S.
Ufizio usarono sempre più stretti i rigori al carcerato, e benchè
dicessero che ogni sera l’estraevano dalla prigione per fargli respirare un
poca di aria più libera, la verità è che fu una sol’ volta
cavato di segrete in tempo di notte nella quale fu così fieramente
attaccato dall’asma, che dette da dubitare della sua vita.
Frattanto il di lui fratello, che non
lasciava cosa alcuna intentata per fargli ottenere la difesa, tanto
s’adoprò colla Sacra Congregazione, che fu dalla medesima finalmente
ingiunto all’Inquisitore di ammettere il querelato alle difese; ciò non
ostante non si desistè di procrastinare col frapporre immaginarie
difficoltà per ottenere dilazione all’imminente scuoprimento di tante
calunnie procurate a danno dell’inquisito; ma non si potè più
impedire quest’atto di Giustizia stante i replicati pressanti ordini della
Sacra Congregazione, dimodochè vedendo l’inquisitore di non potere
altrimenti condurre a fine il suo intento, che fondato sull’indisposizioni del
carcerato, che nell’angustie nelle quali era tenuto promettevano brevi i suoi
giorni; pareva che fosse di prolungare gli atti fin’ tanto che fosse venuto a
morire nelle carceri del S. Ufizio, come con più persone si era
dichiarato l’Inquisitore che sarebbe seguito, onde pensò finire di
rovinarlo con quella medesima via, per la quale sperava il povero querelato di
potersi salvare, e per eseguire questo suo disegno si servì come vedremo
di quell’istesso metodo nella repetizione de’ Testimoni, e negl’altri atti
della difesa, del quale si era servito nel primo esame di essi.
Intanto altro non faceva
l’Inquisitore, che lamentarsi co’ suoi confidenti dell’eccessiva
parzialità della Sacra Congregazione, che dopo un anno di prigionia non
voleva prolungare inutilmente per maggior tempo il corso della causa, onde
fatto cuor generoso assegnò al Crudeli le tanto desiderate difese.
Queste difese che secondo il senso
comune significano un comodo, che si somministra al querelato, con palesargli i
delitti de’ quali resta incolpato, di addurre le prove, se quelle abbia di sua
innocenza, e sentendosi a torto aggravato di rilevarsi come stima meglio dalle
calunnie, che gli sono state tramate, nel linguaggio del Tribunale del S.
Ufizio non altro producevano, che preparare all’inquisito un nuovo peggiore
inganno, perchè restasse sotto la falsa speranza di difendersi affatto
oppresso, ed esposto senza riparo a tutta la forza della calunnia e del falso.
Il Difensore, che per agevolare la
strada alla difesa avrebbe dovuto essere una persona confidente di quello, che
volea valersi della sua opera, e la di lui scelta lasciarsi in piena
libertà dell’inquisito, non stava al reo ad eleggerlo, ma si forzava a
prendere uno appunto di quei pochi Difensori, che il Tribunale tenea ben
affetti, i quali non passavano il numero di tre, fra questi o buoni o cattivi,
che fossero amici o nemici del querelato dovea cadere la scelta, e
quest’ancora, onde non s’abusasse il reo d’una soverchia libertà, sempre
moderata dall’arbitrio dell’Inquisitore, che approvava o rigettava quello de’
tre, che il reo s’era proposto d’eleggere, il che seguì appunto al
Crudeli, che avendo eletto il Dottor Tassinari non fu dall’Inquisitore
ammessa la nomina di esso con la scusa, che egli era divenuto incapace, per
seguitare il metodo d’opporsi in tutto à giusti desideri del carcerato e
per timore, che il Difensore nominato fosse troppo parziale al reo, o
più probabilmente perchè avendo il Dottor Tassinari difeso
poco tempo avanti col dovuto vigore alcuni rei del S. Ufizio fino ad ottenere a
medesimi dalla Sacra Congregazione l’assolutoria, premea allo zelo
dell’Inquisitore di non introdurre il cattivo esempio, che i rei del S. Ufizio
di Firenze fossero difesi più di quello, che comportava il di lui
piacere, o il da lui supposto decoro del Tribunale.
Negatogli adunque il Difensore prescelto,
fu costretto il Crudeli a nominare un altro de’ due, che rimanevano e questo fu
il Dottor Archi, che venne dal Padre Inquisitore accordato con molto
piacere, sperando forse, che la di lui decrepita età d’anni 84., il non
potere scrivere di proprio pugno, e il venirgli impedito dalle regole del
Tribunale il potersi servire dell’opera altrui, averebbe contribuito a rendere
più lenta, e più debole la difesa del querelato.
Si principiò adunque questa
tanto contrastata difesa dal richiedere l’inquisito a dichiararsi, se voleva
repetere i Testimoni, o aver quelli bene, e rettamente esaminati, al che per
consiglio del suo Difensore, rispose di volere la repetizione d’alcuni di essi,
onde ricevuta per tal’ effetto dal Tribunale la copia dell’Inquisizione, cioè
l’indicazione de delitti contro di lui pretesi, e de Testimoni Fiscali, da
quali si supponeva restare aggravato, produsse per la repetizione di soli
quattro Testimoni, che potevano credersi del tutto falsi, gli opportuni
interrogatori, ma siccome questi erano veramente tali, che quando si fossero
esaminati averebbero infallibilmente scoperta la mostruosa falsità del
processo, così l’Inquisitore come nemico giurato di quella regolar
fedeltà, che si richiede in qualunque buon processante nella
compilazione degli atti a lui commessi, non ebbe alcuna difficoltà di
troncare, mutare, e aggiungere agl’interrogatorj ciocchè gli pareva
proprio a chiudere ogni strada all’inquisito di giustificarsi, anzi vedendo che
malgrado tutti gl’irregolari arbitrj presi nella detta repetizione de’
testimoni vi rimaneva sempre come chiaramente mostrate l’insussistenza
dell’operato contro il Crudeli, aggiunse ed innestò al deposto de’
Testimoni repetiti nuovi delitti, o da lui sognati, o per dir meglio da esso
inventati, consistenti in proposizioni ereticali pretese proferite
dall’inquisito in più e diversi luoghi, ma colla solita disgrazia di
vedere smentite, e quindi convinte per false da tutti i Testimoni supposti
allegati per contesti, come quelle che erano soltanto state inventate, ma non
mai deposte da’ Testimoni, a quali venivano attribuite, come se ne sono essi
poi dichiarati nella più valida forma.
Terminata con tal condotta la
repetizione de’ Testimoni con mille raggiri, tirata in lungo fino che dai
reiterati ordini della Sacra Congregazione non si trovò costretto il P.
Inquisitore ad adempire a questo atto di giustizia, fu consegnato al Difensore
l’estratto del Processo, omesso in quello tutti i deposti de’ Testimoni Fiscali
favorevoli all’inquisito, dal quale estratto oltre lo scoprirsi l’ordine
affatto nuovo, e irregolare, col quale fu proceduto in causa, oltre la maniera
impropria, e sempre suggestiva d’interrogare, furono con altissimo stupore
ritrovate alterazioni essenzialissime ne deposti di quei Testimoni medesimi, che
ne costituti fatti all’inquisito gli erano stati contestati, e quello che
parrebbe affatto incredibile, se non se n’avesse un sicuro indubitato
riscontro, fino negl’interrogatorj fatti all’inquisito, e nelle risposte del
medesimo, le quali alterazioni rinfacciate dal Crudeli al Padre Vicario, e al
Padre Inquisitore non ebbero il coraggio di negarle, mentre trovatisi
vergognosamente scoperti, dettero un’altra copia di alcuni atti diversi affatto
dall’estratto del Processo dato a principio.
Per dare un’idea dell’alterazioni
suddette si noti come la verità è, che il querelante K.
denunziò al S. Ufizio che gli pareva che 17. anni avanti, il Dottore
Crudeli avesse proferito ingiuriose parole contro la Madonna dell’Improneta, e
che avvertito in tal’ atto ad osservare quello che diceva, l’inquisito
rispondesse, che l’avea contro il Paese dell’Improneta, e non contro la
Madonna, e che ricercato in giudizio il denunziante, se fra esso e il Crudeli
vi passasse buona corrispondenza, rispose esservi tra loro de’ dissapori a
cagione d’interessi, per i quali erano molti mesi che non si parlavano.
Il Denunziante N.N. di Poppi
accusò il Dottor Crudeli che 17. anni fà leggeva alcuni libri
proibiti, e domandato dall’esaminatore, se fra di loro vi passasse inimicizia,
rispose non avere che spartire con lui, e che anzi gli voleva bene.
In questi termini furono contestate
le dette due distinte denunzie ne costituti fatti all’inquisito, ma
nell’estratto del Processo comunicatogli a difesa delle dette due denunzie
n’apparisce formata una sola, che le contiene tutte due, ponendosi in essa non
in dubbio, ma per assolutamente proferite dal Crudeli le ingiuriose parole, e
questa si mette in bocca a quel denunziante, che dice voler bene all’inquisito,
onde riceva da tal circostanza tutta la forza, perchè avendo confessato
il Crudeli, benchè con alcune limitazioni d’aver letti alcuni libri
proibiti contestatigli nel suo costituto, si venga a dar maggior fede
all’accusatore anche nell’altra parte della supposta denunzia falsamente
attribuitagli, come quello che per la detta confessione del Crudeli intorno
alla lettura de’ libri proibiti, veniva ad avere una verisimile riprova
d’essersi mosso a denunziarlo in tutto per la verità; ma il sapersi, che
il denunziante, il quale dice esservi de’ dissapori fra esso e il querelato,
non era stato mai a Poppi, ne fu assolutamente denunziato d’altro il Crudeli
che delle parole supposte proferite dal medesimo contro la Madonna
dell’Improneta, fa chiaramente vedere la detta maliziosa congiunzione de’ due
deposti ridotti a un solo, e quindi con quanto d’ingiustizia e di
falsità si sia proceduto in questo Processo fabbricato a mano ed a
capriccio, e qual fede dovesse prestarsi a un attuario, che resta convinto di
sì fatte palpabili irregolarità.
Il Testimone R. Ricercato in
che concetto avesse il Crudeli, rispose averlo stimato sempre un buon
Cattolico, e che per molto tempo, che l’aveva praticato non aveva scoperti in
lui sentimenti da fargli credere il contrario, così che si maravigliava
assai della disgrazia, nella quale era caduto; questa testimonianza fatta da un
Gentiluomo di onestà, e di credito, anzichè aggravare il
querelato come si desiderava, lo difendeva, alterò talmente il
Processante, che alzatosi in piedi proruppe a dirgli, VS. però non
gli darebbe un suo Figlio a educare, al che rispose il Testimone,([70]) certo che io non
darei il mio Figlio a educare al Crudeli, ma questo nulla detrae di stima al
medesimo, perchè di 100. Preti che saranno in Firenze a quali
regolarmente, e non a Secolari, quale è il Crudeli, si danno ad educare
i ragazzi, non ne saprei sceglier sei, per l’educazione di uno dei miei
Figlioli, dalla qual risposta tanto favorevole al Carcerato ne restò
ingegnosamente cavata una prova totalmente opposta per dimostrare la di lui
diffamazione, essendo stata posta nell’estratto del Processo questa
proposizione, seccamente, ed in estratto come detta dal Testimone R.
cioè, che non gli darebbe un suo Figlio ad educare, la quale congiunta
con alcune altre scritte dal Cancelliere del S. Ufizio, ma non proferite dal
testimone R., averebbe potuto nuocere al Carcerato, se il caso non avesse per
impensate vie scoperto il grossolano artifizio de’ Padri del S. Ufizio.
Il Denunziante A. che era un
Prete pedante, nemico capitale del Crudeli, e ladro, come costa per fedi
soscritte da persone degne di tutta la credenza, accusa l’inquisito nel suo
primo esame di alcune proposizioni supposte([71]) dette in una Villa
all’Improneta, ma che negate dal Carcerato, e da tutti i Testimoni Fiscali dati
per contesti, e che sebbene fossero state provate non meritavano più che
una semplice riprensione, così l’Inquisitore nella repetizione di
sì degno Testimone, e Denunziante, n’aggiunse di sua invenzione alcune
altre affatto ereticali, e degne di ogni più severo gastigo ponendole in
bocca al medesimo, ma perche false ne mai proferite dal querelato furono
smentite da tutti i Testimoni dati per informati di esse dal supposto
accusatore, avendo però il P. Reverendissimo negli esami fatti al
Crudeli contestato fra gli altri nuovi reati, de’ quali si pretendeva
addizzionalmente accusato, nella repetizione di questo ideale querelante, che
esso inquisito in cambio di andare alla Messa ne’ giorni festivi andava alla caccia
del paretaio, al che rispose l’inquisito che questa circostanza convinceva
apertamente della falsità del denunziante, la quale si poteva provare
col mezzo inconstratabile di una negativa coartata, mentre due sole volte era
stato all’Improneta, una volta 15. anni addietro nel mese di Maggio, l’altra
otto anni sul finire d’Agosto, tempi ne’ quali non v’è chi non sappia,
che la caccia del paretaio è affatto fuori di stagione; questa
inaspettata risposta, che faceva conoscere al Padre Inquisitor di aver mal’
corredata la sua calunnia, mosse il medesimo per salvare alla meglio in questa
parte la sua impostura a mutare nel detto estratto del Processo le parole
“andava al paretaio” in quelle “andava a spasso” onde restasse tolto al
querelato il modo così ovvio di provare calunniosa l’accusa, col far
costare di non essere mai stato nella Villa del Pasqui all’Improneta in tempo
di paretaio, non sapendo nemmeno il Crudeli il luogo ove era situato il
mentovato Paretaio, come provò con fedi autentiche di più persone
maggiori d’ogni eccezione trasmesse alla Sacra Congregazione.
Vedendosi adunque mutare con tanta
franchezza, e a suo irreparabil danno i deposti a esso medesimo contestati,
strepitò il Crudeli fortemente, e seppe tanto efficacemente stringere
l’Inquisitore, che vergognandosi di comparire svelatamente ingiusto, e
falsario, si trovò in necessità di dare la copia del costituto
fatto dopo la repetizione de Testimoni tale quale era in Processo, come puole
chiaramente riscontrarsi da quello, ove si vedeva essergli contestato come
sopra, che andava al paretaio in vece d’andare alla Messa nei giorni Festivi, e
non altrimenti che andava a spasso, come con somma malizia, s’era posto nel
detto estratto del Processo.
Il Testimonio G., interrogato in che
concetto avesse il Dottore Crudeli, rispose io lo tengo per un Angiolo;
Il Testimone H. dice, che l’ha sempre conosciuto per ottimo Cattolico, e
il Testimonio I. dice, che ha sempre scoperti nel Carcerato sentimenti di
ottimo Cristiano, e che suppone che l’invidia e la calunnia abbiano mosse
alcune persone a tentare ingiustamente la di lui rovina, e moltissimi altri
che troppo lungo sarebbe il mentovare, depongono in forma a favore del Crudeli,
che se come doveasi fossero state date fedelmente le copie de’ loro deposti, non
solamente non si sarebbe preteso d’aver conclusa la prova della sua cattiva
fama nel Processo informativo, che anzi rimarrebbe dal medesimo pienamente
giustificato per essere egli riputato quasi da tutti i Testimoni esaminati un
buonissimo Cattolico; giacchè a termini di ragione non può dirsi
provata la cattiva fama, ove senza contradizione d’alcun Testimone, non venga
rilevata da concordi deposti d’un gran numero di persone degne di fede, che
adducano giuste cause della loro scienza, e assicurino esser pubblica la voce
di ciò che depongono.
Qual fosse il carattere e il contegno
de’ Ministri del S. Ufizio sopra tutt’ altro si ricava dalla spontanea
retrattazione fatta dal querelante G., onde viene evidentemente provato, che da
medesimi vennero praticate irregolarità, suggestioni, e falsità
tali da fare orrore a chiunque ha nell’animo idea alcuna d’onestà e di
giustizia, essendosi fino abusati del mezzo della Sacramental Confessione per
cavarsi il capriccio di tesser calunnie al Crudeli, e a molte altre persone, le
quali non sanno d’aver dato mai causa alcuna di meritarsi una così
fiera, ed ingiusta persecuzione.
Il Querelante G. adunque, che aveva
fatto il mostruoso sogno de’ Liberi Muratori, e che in seguito s’era
andato a denunziare al S. Ufizio, e insieme aveva accusate, anzi gli erano
state fatte accusare, settanta Persone in circa come Soci della fantastica
adunanza sopposta tenuta in casa del Barone Stoch fu citato dal S.
Tribunale per essere reperito alla richiesta, che n’aveva fatta il Crudeli.
Andò, e agli interrogatori dati dal Difensore, e fattigli dal Padre
Inquisitore fu negativo, contradittorio a ciò chè aveva detto, e
a tutto quello che aveva fatto scrivere l’Inquisitore, e che esso non aveva mai
pronunziato, onde non sapendo il detto Padre come nascondere più
lungamente la stolidità, ben nota del Querelante, e la propria cattiva
fede, tentò d’intimorirlo con dirgli, che se non avesse ratificato tutto
quello che aveva deposto nel suo primo esame, e che gli era allora stato detto
non sarebbe più uscito dalle stanze del S. Ufizio e se mai avesse potuto
ottenere la libertà non averebbe sfuggita la morte, la quale gli sarebbe
stata procurata o dal Dottore Crudeli, che gli fu dipinto per uomo feroce, o
che non sarebbe escito assoluto dalle carceri, quando non avesse ratificato il
suo primo deposto, da suoi Fratelli, che pure furono caratterizzati per uomini
micidiali, e ripieni di spirito di vendetta, onde il debolissimo animo del.....
Si lasciò vincere da questo falso timore e ratificò in tutte
quelle parti, che piacque all’Inquisitore il suo primo esame, e in questa forma
ottenne l’intento desiderato; ma non s’accorse, che quell’istesso timore, che
aveva sparso nel cuore del..... poteva produrre effetti totalmente contrari al
suo desiderio. In fatti il giorno dopo si portò alla casa del suo Cugino
Marchese...... e gettandosegli a piedi principiò a gridare “son morto
son dannato” e per quanto tentasse detto suo parente di persuaderlo ad
alzarsi, e narrargli la causa di questa sua disperazione ripetè sempre
le medesime parole, ne potè ottenerlo se non dopo lungo intervallo di
tempo, ed allora alzatosi in piedi piangendo, e singhiozzando gli disse, che
egli aveva commesso il più enorme delitto che si potesse commettere da
uomo alcuno, e gli raccontò come aveva denunziati, e se, e molti altri
al Tribunale del S. Ufizio, e in modo particolare il Crudeli, come uno dei
componenti la società de’ Liberi Muratori benchè egli non
fosse ascritto nella medesima, ed in oltre avea supposto, che in essa si
parlasse di Religione e si sostenessero proposizioni ereticali individuategli
dall’Inquisitore, e si facessero alcuni atti disonesti ed altre cose, che per
brevità si tralasciano, e che si potranno vedere contestate al Crudeli
nella sentenza lettagli, e riportata nel fine di quest’Istoria.
Qual restasse a simil’ racconto il
Marchese..... è più facile immaginarselo che descriverlo;
procurò di consolare, e incoraggiare il........ per quanto gli fu
permesso, e per quanto comportavano le circostanze d’un affare di questa importanza,
e con buone e dolci parole l’accompagnò alla di lui casa, ove lo
lasciò con dirgli, che stesse pure di buon animo, che si pigliava esso
la cura di terminare la cosa senza che glie ne avvenisse il minimo sinistro
accidente, quindi esposto il seguito ad alcuni savi, ed onorati amici, a quali
domandò il loro consiglio fu dopo matura reflessione risoluto di dire
al....... che colla Sacramental Confessione s’accusasse di ciò che aveva
fatto, e sentisse quello, che gli ordinasse il suo confessore. In fatti egli
seguì il datogli consiglio, e scelse per far questa sua Confessione il
Padre Niccolò da Scansano Religioso di S. Paolino e Lettore
nell’Università di Pisa, il quale ascoltata la sua confessione
l’obbligò a ritrattarsi di tutto ciò, che falsamente aveva
asserito al Tribunale della S. Inquisizione. Non sfuggì d’adempiere a
quest’atto di giustizia il ..... ma siccome era stato altra volta minacciato
dall’Inquisitore, che se non avesse ratificato tutto quello che aveva deposto
nella sua denunzia, non sarebbe uscito dalle stanze del S. Ufizio, così
intimorito per tal’ ragione non volle ritornare al Tribunale, onde fu risoluto
di fargli fare una disdetta in scritto, come in fatti egli fece. Non fu creduto
a proposito di far cadere nelle mani de Ministri dell’Inquisizione questa
disdetta per timore, che ò non fosse alterata in cose essenziali come
erano stati alterati i deposti de Testimoni, ò non fusse posta in atti,
e così tenuta celata al carcerato, e al difensore, perciò fu
creduto di doverla consegnare à Monsignore Archinto Nunzio Pontificio in
Toscana, come fu fatto il quale immediatamente la trasmesse a Roma alla Sacra
Congregazione; in tanto si seguitavano gl’atti della difesa per il Crudeli con
quella lentezza, che era creduta necessaria da Padri del S. Ufizio per tentare
se fosse stato possibile, che fosse escito di vita prima di venirne alla fine,
giacchè non furono solamente contenti di procurare di levare per sempre
la reputazione, e la libertà all’infelice carcerato con usare contro il
medesimo tutte l’indicate irregolarità, e i più fieri rigori
d’una barbara prigionia, col tenerlo sempre racchiuso in un’angusta carcere,
sebbene falsamente spacciassero d’estrarlo ogni sera per riguardo alle di lui
indisposizioni. Con impedire col riparo apposto alla finestra della sua
prigionia, che l’aria e la luce non potesse che per angusta via piombare in
quella; coll’affliggerlo di tempo in tempo con artificiosi discorsi atti a
gettarlo nella più profonda disperazione, contando sulla di lui inferma
salute, tentarono di cagionargli una lenta, e vergognosa morte, perchè
restando in vita, e scappando una volta dalle loro mani non avesse potuto far
noto al suo Principe naturale a’ quali inaudite ingiustizie e crudeltà
era stato obbligato soggiacere un suo fedel suddito, e per verità poco
mancò, che non ne seguisse l’effetto poichè per i tanti lunghi
strapazzi e travagli sofferti, s’aperse all’infelice uno de vasi del petto di
tal’ importanza, che tanto fu il sangue, che fu per ciò obbligato a
versare per bocca, che giudicarono i medici a proposito di farlo munire col
Sacramento della Confessione, al che si oppose lo zelo del solito affettuoso
Padre Vicario negandogli quest’ajuto spirituale col dire, che non poteva godere
de Sacramenti colui, che si reputava un Membro reciso dal Corpo di S. Chiesa,
fino a che fu convinto dal Padre Griselli Domenicano, eccellente lettore di
Teologia, del contrario, e che fu eletto ad ascoltare le sue colpe, non avendo
mancato il Padre Vicario, che tanto s’era mostrato pietoso, e interessato per
il Crudeli di tentare con quest’ottimo religioso se poteva nuocere al moribondo
su gl’ultimi momenti della sua vita, con pregarlo instantemente, e con addurre
ridicole ragioni, ma senza profitto per negargli l’assoluzione come ad eretico
dichiarato, quale egli lo diffamava, fondatosi sugl’ inventati deposti fatti
scrivere al suo Cancelliere, ma non mai proferiti per verità da supposti
querelanti, per impedire all’anima dell’inquisito gli spirituali aiuti, come
erano stati tolti gli umani al di lui corpo.
In questo tanto deplorabile stato
pregò il moribondo, che gli fosse levato dalla ferrata della prigione il
riparo di legno, che tutt’ora vi era, perchè potendo rinnovarsi l’aria,
e introdursi in maggior copia la luce, sentisse egli nelle sue estreme miserie
un qualche sollievo, ma gli fu negato anche questo piccolo conforto; non
cessando per anche il largo getto del sangue, benchè procurato di
fermare da’ medici con due emissioni, e perdendo ogni speranza di poter’
sopravivere, si determinò di fare il suo Testamento, per rogarsi il
quale gli fu accordato il Dottore Archi suo Difensore.
Quantunque i Padri del S. Ufizio in
così estremo pericolo del carcerato non si degnassero di darne il minimo
avviso al di lui fratello, benchè comodamente lo potessero fare,
portandosi esso regolarmente due volte il giorno al loro Tribunale per sentire
se occorreva cosa veruna, ebbe per altra strada la notizia della gravissima
malattia sopraggiunta all’inquisito, e fatta istanza all’Inquisitore di poterlo
visitare, gli fu pure negata costantemente la richiesta grazia, con dirgli che
suo fratello stava bene, ne per quante preghiere sapesse mettere in opera
potè ottenere d’essere ammesso a vedere il suo disgraziato fratello
prima che morisse. Irritato perciò da si aspre repulse prese il partito
di ricorrere a Monsignore Nunzio Archinto, al quale esposta la pericolosa
malattia di suo fratello ottenne tosto la permissione negata dal Padre
Inquisitore e un domestico del Prelato ebbe la commissione di portare questo
suo ordine al S. Ufizio, e nell’istesso tempo d’informarsi dello stato
dell’Inquisito. Aspettò l’Inquisitore al giorno di mercoledì a
portarsi a ragguagliare Monsignor Nunzio della malattia del Crudeli, che
l’aveva assalito il martedì mattina, e ciò fece, perchè
non potesse per essere passata la Posta se non nell’altro ordinario scrivere a
Roma. Gli espose adunque l’accidente sopraggiunto al carcerato, e si
studiò di fargli comprendere, che non era successo per sua colpa,
cercando di sminuire la malattìa per quanto fosse possibile; ma il servo
di Monsignore al S. Ufizio, che l’aveva veduto in stato molto pericoloso, gli
fece un più fedele rapporto del rischio che correva di perdere la vita,
molto più se si fosse continovato a tenerlo nella piccola prigione ove
era, onde mosso a pietà il Prelato mandò ordine per mezzo del
Padre Griselli all’Inquisitore, che gli fosse mutata la prigione in una stanza
buona, e ariosa, e che gli si usassero tutti quei riguardi e quei rimedi che da
medici, e da suo fratello fussero stimati opportuni. Eseguì il Padre
Griselli la ricevuta commissione ma trovò la solita repugnanza
nell’Inquisitore il quale negò assolutamente di voler mutare di carcere
il moribondo, adducendo per ragione, che non aveva Monsignor Nunzio alcun
diritto di mescolarsi negl’affari del suo Tribunale, che dependeva
immediatamente dalla Sacra Congregazione, nè conosceva altri superiori
che il Papa, e per che questa risposta giungesse sicuramente agl’orecchi del
Nunzio, incaricò il Padre Vicario di portarsi subito dal medesimo,
dandogli un’esatta istruzione di ciò che doveva dirgli, ingiungendogli
di procurare per qualsisia modo di persuaderlo à revocare l’ordine dato
di mutare la carcere all’Inquisito.
Si portò in conseguenza di questo
comando il Padre Vicario dal detto Monsignore, cui fece molte rimostranze su
tal proposito, alle quali in brevi, ma significanti parole rispose il Prelato,
che senz’altra replica eseguisse i suoi ordini, e che egli s’incaricava di
tutto ciò che fosse potuto succedere per la parte di Roma, onde
l’Inquisitore dà replicati comandi si trovò forzato ad usar
quegl’ Uficij, che anche fra le nazioni più barbare non si negano agli
uomini, che si trovano in stato così deplorabile, quale era quello del
carcerato.
Avendo ricevuto in breve non piccolo
sollievo il Crudeli dalla mutazione della carcere, ed essendo cessato il
prossimo pericolo di morte, riprese a stimolare il suo Difensore acciò
prontamente conducesse a fine la sua difesa, colla quale era sicuro, che
sarebbe comparso agl’ occhi di tutto il mondo innocente, quale sapeva di
essere. Intanto il Dottor Archi faceva tutte quelle diligenze, di cui
è capace un vecchio d’ottantaquattro anni per adempiere al desiderio del
carcerato, ma siccome i Padri del S. Ufizio non desistevano per alcun modo di
frapporre difficoltà, intorbidando sempre le cose, differendo a
comunicare alcuni recapiti, e mutando sempre e alterando nelle copie, che
davano i deposti de Testimoni, e del querelato, col negare di poter collazionarli,
e di riscontrare in fonte il Processo in ben molti luoghi diverso dal dato
estratto di esso, così malamente poteva un vecchio dell’indicata
età, e che come Cancelliere del Magistrato de Conservatori di Legge, e
pubblico Avvocato Criminale avea molt’altre incombenze, contrastare con detti
Ministri congiurati tutti contro il Crudeli, dimodochè s’accorse
l’inquisito essere il suo meglio l’appligliarsi al partito di non ostinare a
pretendere ulteriori atti di giustizia accomodati alla sua difesa, che secondo
le buone regole, e secondo le regole del Santo Tribunale non potevano essergli
controversi, pregò il suo difensore a distendere prontamente un breve
abbozzo di difesa nel miglior modo che dalla strettezza del tempo,
dagl’incomodi della sua età, dalle sue occupazioni, e dall’altrui
ingegnosi raggiri gli venisse permesso, sicuro, che presentato per quanto mai
fosse imperfetto alla Suprema Congregazione, sarebbe sempre servito a
persuaderla dell’altrui calunnie e della propria innocenza, emanato tosto l’ordine
di porlo in libertà.
Fece il Dottore Archi la
richiesta limitata semplicissima difesa, e quella presentò al Tribunale
unita ad alcune fedi autentiche, le quali convincendo d’incontrastabile
falsità alcuni de’ denunzianti, risultava sempre più chiara l’innocenza
del querelato; ma per ovviare all’effetto suddetto, e contrario affatto al fine
dell’Inquisitore di volere a qualunque costo far passare per reo il Crudeli,
stimò a proposito di non trasmettere le dette carte alla Sacra
Congregazione, e non mandare la presentata difesa scritta di mano
dell’estensore, ma copiata da alcuno de Ministri del Tribunale per potere
intanto ripurgarla e ridurla in modo che non sconcertasse le già
concepite idee, e così poi emendata trasmetterla a Roma, conforme fece
senza altrimenti incomodare il carcerato in fargliela vedere, e approvare come
è di sole, e coerente alle regole di giustizia, essendosi in tal forma
per soverchio zelo acquistato il merito d’aver fatto in questa causa le parti
d’Inquisitore, di Querelante, di Attuario, e fino di Difensore.
Tutte insieme però le riferite
cautele non furono bastanti a persuadere i Ministri, che non ostante le
medesime non fosse per rilevarsi il Crudeli, e per iscoprirsi l’insussistenza
delle cose pretese contro di lui, e di ciò vivendo agitati, ed inquieti,
pensarono a un nuovo strattagemma, onde opporsi a ciò che temevano, e
quello concertato mandarono tosto in esecuzione nella maniera che segue.
Il Padre Vicario, che erasi sempre
impegnato d’assistere il reo per non mancare alle sue promesse
coll’abbandonarlo sull’ultimo, presentatosi a Monsignor Nunzio gli disse, che
non poteva in vero negarsi, non essersi potuti concludentemente provare in
processo i delitti de’ quali era stato accusato il Dottor Crudeli, ma per
altro, come era piaciuto a S. Divina Maestà, ve ne era presentemente una
sì forte riprova, da non averne più alcun dubbio, poichè
l’inquisito tocco dalla mano d’Iddio, che non permette che alcuna cosa rimanga
occulta, li aveva tutti confidati al suo Difensore, il quale poi per sgravio di
sua coscienza ne avea fatta a lui la confidenza, della quale glie ne avanzava
la notizia perchè gli servisse di regola, senza però propalarla o
darne il minimo avviso a veruno.
Rimase a tal racconto Monsignor
Nunzio dubbio e sorpreso, ma siccome era molto amante della giustizia, regolato
da una prudente avvedutezza, sospesa ogni credenza, vedde subito, che poteva
venire in chiaro di questo fatto coll’interrogare l’Archi citato dal
Padre Vicario per autore di esso; lo fece perciò chiamare, e ricercatolo
del sopraesposto fatto gli rispose il medesimo con quel trasporto di collera,
che ogni uomo d’onore averebbe risentito in tal caso, essere il tutto
inventato, calunnioso, falso, falsissimo, e che non solamente non gli aveva mai
confidato il Crudeli d’essere reo d’alcuno de’ delitti pretesi da lui commessi,
ma che anzi l’aveva sempre assicurato del contrario, e che egli conosceva
chiaramente dalla lettura dell’estratto del Processo la di lui innocenza, e le
calunnie orditegli contro, aggiungendo([72]) molte risentite
invettive contro il Padre Vicario, che s’era così malamente servito del
suo nome per spacciare per verità sì nera calunnia.
Ne di minor considerazione, è
degno ciò che immediatamente successe, ed è che dubitando i Padri
del Santo Ufizio, che il tenere più lungo tempo in mano del Difensore
dell’inquisito l’estratto del Processo potesse viepiù scoprire
l’alterazioni che erano state fatte in esso, ordinarono al Cancelliere di
portarsi a richiedergli tutte le carte ricevute dal Tribunale, ma avendo
risposto l’Archi, che non poteva consegnarle, perchè erano
passate nelle mani di Monsignor Nunzio, che l’aveva volute vedere, il detto
Cancelliere pieno di mal talento rispose ad alta voce al Dottore Archi,
che aveva franto il sigillo, e che s’era il Nunzio avanzato a mescolarsi in
ciò che non doveva; alterandosi a segno di pronunziare solenni
impertinenze contro il degno Prelato, e col minacciare altamente il Difensore
caricandolo di tali ingiurie, che ricordevole quell’onestissimo vecchio dell’altro
riferito affronto fattogli dal Padre Vicario, non potè astenersi dal
dare quelle più risentite risposte al detto Cancelliere, che meritava la
di lui imprudenza. Tornò questo al Tribunale dell’Inquisizione, ed
espose a’ sui Colleghi il seguito, a’ quali parve, che i temerari avanzamenti
del loro Cancelliere saputi che si fossero, potessero produrre delle
conseguenze poco favorevoli a’ loro interessi, perciò l’obbligarono a
ritornare dall’Archi, a domandargli perdono, ed a pregarlo di non
rilevare a Monsignor Nunzio ciò che era fra loro avvenuto.
Eseguì il Cancelliere quanto
gli era stato comandato, ma irritato giustamente il Dottore Archi da
sì fatto disonesto modo di procedere replicò costantemente, che
avrebbe fatto quello che avesse creduto più a proposito, e che
l’arbitrio delle cose sue, non dipendeva da altri, che da Dio, e da S.A.R., a
cui aveva l’onore di servire. Ciò sentito, soggiunse arrogantemente
l’intrepido Frate; VS. potrà dire tutto quello che gli piacerà a
Monsignor Nunzio, che io lo negherò sempre costantissimamente, pronto
a giurare sull’Ostia Consacrata essere falso tutto ciò che
rappresenterà aver io proferito, quando ella sia determinata di
rilevarlo.
Pervenuta in tanto la difesa del
Dottor Crudeli, e quello che più importava la disdetta del querelante in
mano de’ suoi Giudici in Roma, non mancò di fare il preveduto effetto,
mentre l’Inquisitore ricevè ordine positivo dalla Sacra Congregazione di
rendere al Governo laico senza alcuna minima dilazione il carcerato secondo la
di lui domanda, onde l’Inquisitore, considerando che l’innocente vittima, che
con tante ingegnose premure aveva tentato di sacrificare al suo interesse, ed
alla sua rabbia, era già vicina ad essergli strappata dalle mani, per
sfogarsi se non quanto voleva, almeno quanto poteva contro il misero carcerato,
usò verso il medesimo le maggiori stranezze che seppe immaginarsi.
Proibì in conseguenza di questa sua buona volontà al di lui
fratello, il quale a tenor dell’ordine di Monsignor Nunzio poteva vederlo ogni
volta che gli piaceva, l’accesso alla prigione del carcerato, impedì che
potesse come prima essere visitato dal Medico, gli fece chiudere tutti gli
usci, alcuni de’ quali per il pericolo di vita in cui era per ordine del Nunzio
erano aperti, gli accrebbe le guardie, e non solo non gli dette il minimo
avviso della prossima sua libertà, ma con parole equivoche, e colla
nuova esatta diligenza, colla quale lo faceva guardare, si sforzò di
fargli credere, che fosse molto lontana la speranza della sua liberazione,
forse per tentare col caricarlo di mille sospetti aggiunti all’angustia della
carcere, e quella della sua grave malattia, di condurlo ad abbandonarsi
all’ultima disperazione, o a restare sorpreso da qualche funesto accidente,
avendolo in questo stato tenuto fino alli estremi momenti della sua
scarcerazione, mentre un solo quarto d’ora prima del concertato col Regio
Ministro per la di lui consegna al suo Principe naturale, l’avvisò di
mettersi all’ordine per uscire dalle carceri.
Con indicibile dispiacere de’ Padri
del S. Ufizio fu consegnato il Dottore Crudeli ad un basso Ufiziale di S.A.R.,
e fu da esso e dal suo amico Padre Vicario accompagnato nella Fortezza di S.
Gio. Batista, dove credendo d’essere finalmente al coperto dalle persecuzioni,
e da’ maneggi, de’ quali s’erano tanto serviti contro di lui i Ministri
dell’Inquisizione, s’accorse in breve d’essersi ingannato, vedendosi comparire
dopo tre giorni in Fortezza a continovare ivi pure le sue visite il solito
Padre Vicario, il quale gl’impose che non ardisse di sentire la Messa, e di
esercitare alcun’ atto pubblico di pietà Cristiana, e con tal’
proibizione venne a indicargli non solo che era tuttavia nelle mani del S.
Ufizio, ma che era per anche da’ Padri del detto Tribunale tenuto, e trattato
per quell’eretico, che con tanto studio e ingegno s’erano sforzati di fare
comparire al Mondo tutto.
A tal comando rispose umilmente il
Crudeli, che averebbe obbedito a’ suoi ordini, ma siccome si trovava allora
nelle mani del Principe, dal quale non temeva alcuna oppressione, ma era sicuro
d’ottenere una pronta e piena giustizia, si fece lecito replicare, che
intendeva bene, che quanto si faceva allora per parte del S. Ufizio non era per
altro che per continuare a farlo credere reo, il che però mal si poteva
conciliare con quello, che tante e tante volte gli aveva detto nell’occasione
delle visite fattegli nella sua prigione, cioè, che compativa
all’estremo la sua disgrazia, alla quale poteva ogn’altro, ed egli stesso
essere sottoposto, benchè Vicario del S. Ufizio, e che era già
persuaso della sua innocenza, e pregato il detto Padre Vicario a dire se
ciò era vero, vergognandosi di negare una cosa da esso tante volte
detta, e pur troppo era vera, non ebbe il coraggio di farlo, ed alla presenza
di tre Ufiziali, ratificò tutto quello che dal Dottore Crudeli gli era
stato contestato, scusandosi con dire, che quel tanto, che gli ordinava non
doveva ascriversi ad alcuna sua colpa, ma allo stile che tiene il S. Ufizio
contro quei rei sopra la causa de’ quali non sia per anche stata deciso dalla
Sacra Congregazione.
Intanto pervenne a notizia del .....
la seguita scarcerazione del Crudeli, e la sua dimora nella Fortezza di S. Gio.
Batista, e ricordevole delle minacce fattegli dal Padre Inquisitore nella
repetizione del suo esame, allorchè gli disse, che se il Crudeli fosse
escito dalle carceri del S. Ufizio, gli averebbe tolto la vita per avergli
cagionata prigionia, spese e infamia, fece istanza al Consiglio di Reggenza,
che obbligasse il detto Crudeli, e i di lui fratelli a dargli mallevadore de
bene vivendo, a la qual domanda fu acconsentito, e in conseguenza data
commissione all’Assessore Santucci del Tribunale degli Otto, che condotti seco
gli opportuni Ministri si portasse alla Fortezza per consumare quest’atto, come
in fatti eseguì, e che registrato nelle filze di quella Cancelleria
può vedersi da chiunque abbia piacere di sodisfare a tal desiderio. Ma
non contento d’aver pensato d’assicurarsi la vita, che per altro non era nel
minimo pericolo, procurò altresì a cautelarsi per altra via
nell’interesse, e siccome poteva il Crudeli a norma delle leggi di Toscana
domandare indennizazione di tutti i danni, spese e infamia cagionate dalla
falsa accusa del..... così pensò d’esigere da detto Crudeli una
quietanza generale, che fu obbligato fare in amplissima forma, rogata per mano
di pubblico Notaro a favore del di lui accusatore, onde gli fu ancora preclusa
la strada d’usare un atto di generosità verso il..... al quale avrebbe
ultroneamente ben volentieri condonato tutto ciò che poteva riguardare
le cospicue spese cagionategli dalla di lui falsa denunzia; giacchè non
poteva esigere da esso indennizazione alla salute del corpo omai affatto
perduta per la lunga e cruda carcerazione sofferta; e che gli toglieva ogni
speranza di poter lungo tempo sopravvivere.
Passati alcuni giorni dalla
scarcerazione del Crudeli, e dal suo passaggio nel Castel di S. Gio. Batista,
fu avvisato che doveva portarsi alla Chiesa di S. Pietro Scheraggio, dove la
sera del dì 20. Agosto 1740, fu accompagnato in Carrozza dal Sig. di S.
Leger Capitano d’una delle Compagnie delle Guardie a piedi di S.A.R., e
smontato fu introdotto dentro detta Chiesa, di cui venne subito chiusa la porta
essendo restato eduso il nominato Capitano.
Fu condotto il Crudeli in Coro ove
trovò il Padre Inquisitore, che sedeva vicino a una tavola, sopra la
quale à mano sinistra stava Gesù Crocifisso in mezzo ad alcune
candele accese, dirimpetto all’Inquisitore, ma alquanto lontano, un Messale
aperto, e dalla mano diritta dell’Inquisitore, stavano prima il Canonico del
Riccio Vicario dell’Arcivescovado, ed in alcune sedie più basse il
Senatore Quaratesi, il Cavaliere Avvocato Neroni, e l’Auditore Urbani. Fu fatto
fermare il Crudeli in piedi dirimpetto al Padre Inquisitore che gli disse, che gli
si sarebbe letta la sentenza, che però vi prestasse la sua attenzione;
allora il Padre Cancelliere, che stava alla sinistra del Crudeli, che pure era
in piedi, cominciò ad alta voce a leggere un foglio concepito in questi
termini.
“Tu Tommaso Crudeli ti sei reso reo
al S. Tribunale dell’Inquisizione di molti gravissimi delitti resultanti da
gran numero di Testimoni respettivamente contesti”, quì
interruppe il Crudeli con aria serena, questi Testimoni che quì si
chiamano contesti, non sono altrimenti tali, ma ognuno di loro è unico,
e questo si è già provato calunnoso; Il Padre Inquisitore
rispose, e per questo vi si è posta quella parola respettivamente, indi
riprese il Cancelliere; “primo tu fosti denunziato d’aver detto 17. anni or
sono, che la Teologia scolastica è chimerica e vana”, e quì
lesse il Cancelliere tutte quelle lievi denunzie fatte dal Prete, dopo
seguitò la sua lettura, “tu fosti denunziato d’aver letto Lucrezio
tradotto dal Marchetti, la vita di Sisto quinto, e quella di Fra Paolo Servita;
tu fosti denunziato d’aver detto nell’occasione, che uno domandò a un
Libraio un esemplare del Cuor di Gesù, che aveva a chiedere piuttosto il
calcagno; tu fosti denunziato d’aver detto in occasione che una donna era
andata all’Improneta, un convicio contro la Madonna medesima; tu fosti
denunziato d’aver detto questa precisa parola “ostensio” in occasione
che sonò l’Ave Maria della sera, essendo tu in una Bottega di
Caffè; tu finalmente fosti denunziato d’aver frequentata un’adunanza
dove si parla di Filosofia e di Teologia, e dove s’osservano varj empi riti, e
s’insegnano molte eresie.([73])”
Esaminato tu fosti sulla prima
denunzia, e benchè più volte ammonito a dire, e confessare la
verità, tu persistesti negativo, e confessasti però d’essere
stato in villa del ....... all’Improneta.
“Esaminato sulla denunzia de libri
proibiti, rispondesti d’avergli letti e ritenuti, ma che non sapevi che fossero
proibiti”, quì il Crudeli interruppe e disse, si tratta di libri
tenuti 17 anni sono, ed allora non ero dell’età che sono adesso, dissi
ancora, che Lucrezio non era intero, anzi, che ce ne mancava moltissimo, e
detti alcune altre risposte come ella sà benissimo.
“Esaminato sulla denunzia del calcagno di
Gesù, rispondesti di non ti ricordare di tal cosa, per essere parole supposte
dette sette anni fà; chiedesti tempo a pensarvi, e rispondesti non aver
memoria d’aver mai detto tal cosa, benchè più volte monito
à confessar la verità.
Esaminato sopra il convicio detto
contro la Madonna dell’Improneta, negasti pertinacemente, benchè
più volte monito, e rispondesti di non aver mai detta tal cosa”; quì il
Crudeli disse, questo denunziante però confessa nel suo costituto
d’essere mio nemico: io senza saper nulla di ciò lo posi nel mio esame
fra i miei amici, e n’addussi la causa, ed è smentito da un altro
Testimone esaminato e monito, e citato per contesto dal denunziante, onde non
vedo che fede possa darsi a questo querelante.
“Esaminato sulla denunzia dell’ostensio,
detta nel Caffè nel sonare l’Ave Maria, rispondesti, che non ti ricordavi
d’aver ciò detto, ma se a caso tu l’avessi detto sarà stato per
alludere a quelli che fanno vista di dire l’Ave Maria, e bevono il
caffè.
Esaminato più volte sulla
denunzia dell’adunanza, de riti, e della scuola ove s’insegnano dette eresie,
rispondesti pertinacemente, che mai sei stato in tal’ assemblea, nè
frequentatala, e benchè monito benignamente a dire la verità, tu
fosti sempre ostinato a negarlo”; non potè far di meno il
Crudeli di rispondere ridendo: negando questo feci quello, che deve fare un
amico della verità e della Chiesa; ognun’ sà la mia innocenza su
questa strana denunzia, e Vostra Paternità Reverendissima lo sa
così bene come ogni altro, e resto attonito in sentirmi rinfacciare a
quest’ora i sogni d’un tal denunziante; si ricordi Padre Inquisitore, che io
risposi ancora, che assolutamente non credevo che tal’ adunanza ci fosse mai
stata; l’Inquisitore rispose si si([74]) questo poco importa e
ancora soggiunse il Crudeli, che il denunziante non poteva essere se non un
maligno ma insieme stolido al sommo, il quale poi nel tempo, che sono stato
nella Fortezza me lo sono veduto cadere a piedi, e ne suoi lucidi intervalli
implorare il mio perdono, e condonazione di spese di danni alla mia
reputazione, e alla salute del corpo, ed è uno, come pur troppo ella
sà, conosciuto per pazzo notorio, e come una tal denunzia lo dichiara.
Il Padre Inquisitore replicò doveva venire al Tribunale a fare questa
parte, ed allora ciò non averebbe nociuto a lei: sono dunque stato
tradito, disse il Crudeli, perchè mi giurò essersi ritrattato del
tutto al supremo Tribunale, e per tal’ cagione il tutto gli condonai.
La disdetta fatta da ..... fu mandata
a Roma alla Sacra Congregazione per mezzo di Monsignor Nunzio, e l’Inquisitore
dissimulò di saperlo per poter leggere la denunzia di detto.... alla
presenza de’ quattro illustri Personaggi, e così rendere orribile, e
eretico il Crudeli contro la volontà medesima della Sacra Congregazione.
Riprese il Cancelliere. “In una
visita che l’Inquisitore fece alla tua carcere ti fu trovata una fune a nodi,
un coltello spuntato, e senza manica, inchiostro rappreso, ed una cordicella di
seta con certa polvere da schioppo in una fiaschetta: tu riconoscesti tutte
queste cose, e confessasti d’avere per via di detta cordicella mandati e
ricevuti biglietti da un tuo corrispondente, e finalmente ricevuta detta fune,
ed il resto: ma esaminato rispondesti, che non volevi fuggire, e monito
persistesti nella negativa”; Il Crudeli rispose interrompendo, de biglietti
tirati su con detta cordicella da V.P. in vece mia, è pur convinto il
Tribunale, che io non volevo fuggire.
Seguitò il Cancelliere; ma da
te le difese: dopo un anno interruppe il Crudeli, domandato se volevi la
repetizione de Testimoni, tu col consiglio dell’Avvocato la volesti, ed in
detta repetizione fosti aggravato di questi delitti anzi aggravatissimo riprese
il Crudeli, ma non da’ Testimoni, bensì dal calamaio e dalla penna del
Padre Inquisitore “che l’anima ragionevole non è immortale; che siamo
come le bestie; che il Battesimo lava i pidocchi a Bambini”. Quì con
aria alquanto fiera interruppe il Crudeli: resto attonito che mi si nomini
sì esecranda repetizione; questa però è quella che m’ha
salvato, e che ha scoperta la falsità totale de miei sciocchi
calunniatori; Era chiara e nota prima della mia difesa, e dopo è
divenuta chiarissima e coartata. L’Inquisitore nulla soggiunse, ed il
Cancelliere tirò avanti così.
“Avendo la S. Congregazione
maturamente considerato la gravità de tuoi delitti, ed il peso delle
denunzie, e indizi che risultano contro di te, pronunzia e condanna te Tommaso
Crudeli a stare nella tua casa di Poppi, e quella vuole che ti sia in vece di
carcere, ad arbitrio della Sacra Congregazione, da accrescerti e scemarti la
pena, e questo in riguardo alle tue malattie, obbligandoti a dar mallevadore di
mille scudi per l’osservanza di detta pena da applicarsi in caso che fuggissi
a’ luoghi pij.”
Quì finì la lettura del
Cancelliere, ed il Padre Inquisitore domandò al Crudeli quando egli
avrebbe dato il mallevadore? Egli rispose, io non sono un miserabile, ho delle
terre, e delle case, sono libero, mio padre infelice morì di dolore per
l’ingiusta persecuzione, che mi veniva fatta, onde non vedo la necessità
di tal mallevadore. Il Canonico del Riccio Vicario dell’Arcivescovado
domandò allora, se questo era nella lettera della Sacra Congregazione;
L’Inquisitore dopo un poca di pausa rispose di sì.
Si è poi saputo, che la Sacra
Congregazione non scrisse che una pura lettera contenente la piccola pena da
darsi al Crudeli, e che tutto il restante di questa sentenza fu disteso
artificialmente dall’Inquisitore, sopprimendo, e la ritrattazione del ...... e
tutto il rimanente della difesa dell’imputato.
Dopo questo il Padre Inquisitore
principiò un discorso, o esortazione in tal maniera = Signor Crudeli
tali e tanti sono i fondamenti che la Sacra Congregazione ha di crederla un
empio, che senza le sue gravi malattie gli avrebbe fatto subire l’esame
rigoroso([75]),
e ....... il Crudeli interruppe: i miei Giudici hanno dunque un’ grand’obbligo
alle mie malattie, poichè sono state il motivo, che un innocente non
è stato tormentato di più, e gran rammarico avrebbe avuto la
Sacra Congregazione in avermi fatto subire l’esame rigoroso sul solo fondamento
d’un denunziante unico, e quello pazzo notorio, il quale m’ha domandato
misericordia, ed assoluzione per avermi cagionato, prigionia, infamia, spese, e
malattia incurabile; dico unico denunziante, perchè quella repetizione,
Padre Reverendissimo ella sa quanto sia falsa. Quì l’Inquisitore abbassò
gl’occhi, impallidì, ed il Crudeli, e gl’altri aspettarono in vano il
resto della riprensione, che aveva principiato con tanto fuoco, e dopo lungo
silenzio riprese = Veda dunque e consideri la clemenza della Sacra
Congregazione, e se ella avesse dette, o fatte alcune di quelle cose negate da
lei ne’ suoi esami, sappia che il confessarle adesso non gli accrescerebbe la
pena anzi glie la diminuirebbe, e VS. potrebbe salvare l’anima sua; Il Crudeli
replicò = la pena, che porta questa sentenza non è da spaventare,
e quando fosse più grande, punto mi spaventerebbe; quello che veramente
mi duole si è il pensare, che tanti Prelati, e Cardinali, che compongono
la Sacra Congregazione abbiano potuto dubitare un momento della mia Religione,
e della obbedienza alla Chiesa, benchè la pena economica, che mi danno
mi consola non poco, e mi fa vedere, che i miei calunniatori non sono stati
creduti; che la retrattazione del ..... e la mia difesa hanno fatto
quell’effetto, che si doveva sperare nell’animo di quei Dotti, e degni
Porporati miei giustissimi Giudici.
Il Padre Inquisitore nulla rispose a
questo, e soggiunse; VS. dirà ancora i Sette Salmi Penitenziali per un
anno una volta al mese: questa è una Penitenza che vi aggiungo io, ed
è tutta mia; il Crudeli nulla rispose, e l’Inquisitore gli
presentò l’Evangelo di S. Giovanni, e disse, VS. giuri d’osservare la
sentenza, il Crudeli pose la mano destra su l’Evangelo, e fu licenziato.
In esecuzione della sopraddetta
sentenza andò il Dottore Crudeli a Poppi sua patria, dove è
stabilito un Convento di Minori Conventuali, presso i quali era come si
è detto il S. Ufizio in Firenze, e dove risedea un Vicario foraneo di
detto Tribunale, quale non mancava di tempo in tempo di fargli come tale frequenti
visite, dicendogli che benchè fosse stato restituito al suo Principe
naturale, sempre però restava nelle mani della Potestà
Ecclesiastica, e vi sarebbe restato fin’ a che non avesse ottenuta da quella la
sua plenaria assoluzione.
Frattanto la rottura del vaso del
polmone, che aveva sofferta nella carcere dell’Inquisizione, e che mai s’era
totalmente risaldata gli dava gran molestia, e di quando in quando gli
produceva getti di sangue per bocca molto pericolosi, sicchè temendo,
che questi nel prossimo inverno potessero aumentarsi in un aria così
fredda, quale è quella del Casentino, chiese ed ottenne dalla Sacra
Congregazione la permissione di poter trasportarsi a Pontadera paese vicino a
Pisa, ed in aria dolce, e molto confacente alla sua malattia. Provò
qualche sorte di miglioramento, ma non ostante si riapriva di quando in quando
il vaso già rotto del polmone, d’onde versava molto sangue. Terminato
l’inverno tornò a Poppi, dove aggravandosi la sua malattia soffriva
sempre più frequenti, e abbondanti getti di sangue, e finalmente
sperimentati avendo tutti i più efficaci rimedi di cui è capace
l’Arte Medica, divenne tisico, per la qual malattia dopo non molto tempo
terminò di vivere.
FINE.
([1]) Le notizie biografiche qui riportate sono state, in buona parte, attinte dai risultati delle recenti ricerche di Maria Augusta Morelli Timpanaro, pubblicate nel suo pregevole volume: Autori, stampatori, librai per una storia dell’editoria in Firenze nel secolo XVIII, Firenze, Olschki, 1999.
([2]) L’Accademia degli Apatisti era stata fondata nel XVII secolo come palestra per quei giovani che intendevano percorrere «la carriera delle lettere e del buon gusto». L’Accademia fu soppressa nel 1783 unitamente a quella della Crusca e della Fiorentina.
([4]) Ne sperimentò gli effetti, come vittima dell’«infame ab. Becattini, domestica abitudine», anche lo scrittore Francesco Apostoli.
([5]) Specificatamente nei cataloghi di alcune biblioteche e, più recentemente, nell’edizione anastatica pubblicata da Forni Editore nel 1981.
([6]) Nato a Firenze nel 1752 si dibattè per tutta la vita in difficili condizioni economiche lasciando ben poco a sua moglie quando morì il 26 dicembre 1814. Il Rastrelli, appartenente anch’egli all’Accademia degli Apatisti, si sentiva spirito libero e cittadino del mondo. Avendo un’alta opinione di sè, non poteva che considerare sfortuna e incomprensione gli insuccessi nei quali periodicamente incorreva. Fu impresario teatrale, mediocre autore di tragedie, scrittore di opere storiche (Il Priorista fiorentino istorico, Storia d’Alessandro de’ Medici, Vita del Padre Girolamo Savonarola, Fasti e memorie di Giuseppe II Imperatore Augusto, Memorie per servire alla vita di Leopoldo II) e gazzettista.
([7]) Il testo è riportato da M.A. Morelli Timpanaro, Autori, stampatori, p. 395, nota 162, che in tal modo riesce a fugare ogni dubbio sull’autore del libro.
([8]) Dopo quella di Firenze, ve ne fu una seconda edita a Napoli (Campo, 1784) e a Venezia (Formaleoni, 1786).
([9]) Vincenzo Piombi, ecclesiastico e notevole figura di giornalista politico, fu anche socio dell’editore Anton Giuseppe Pagani.
([10]) Questo testo, come anche alcune valutazioni storiografiche, sono tratte dall’interessante e stimolante saggio: Andrea Del Col, Osservazioni preliminari sulla storiografia dell’Inquisizione romana, in Identità italiana e cattolicesimo. Una prospettiva storica, a cura di Cesare Mozzarelli, Roma, Carrocci, 2003 pp. 75-137
([11]) Nonostante l’ovvio tentativo di stroncatura da parte del Commissario Generale dell’Inquisizione P. Tommaso Vincenzo Pani O.P. che, citando il libro più volte nel suo Della punizione degli eretici, lo definirà, con il solito metodo e linguaggio tipico del polemico ottuso apologista, sic et simpliciter: «Serie di calunnie e persecuzioni inventate, e promosse contro l’Inquisizione di Toscana».
([12]) Per fare degli esempi: dal Discorso dell’Origine dell’Ufficio dell’Inquisitione del Sarpi, in particolare dall’excursus storico introduttivo al commento dei Capitoli, riprende le notizie sulle difficoltà incontrate nell’introdurre l’Inquisizione in Germania, mentre dalla Relation de l’Inquisition de Goa del Dellon, in particolare dal Cap. XXIII, attinge quelle sull’Inquisizione in quel paese.
([13]) Recentissima è l’edizione critica del Dom Carlos a cura di Giorgio Sale, Milano, Il Filarete, 2002.
([14]) Il Becattini è ben consapevole delle polemiche sorte tra gli storici su alcuni aspetti della “storia” tanto da affermare, in un suo precedente scritto, che la «verità (su Carlo II) è stata sempre sepolta nel più impenetrabile mistero».
([15]) Ispirandosi, per sua stessa ammissione, alla notizie riportate nella Vita del Catolico Re Filippo II Monarca delle Spagne di Gregorio Leti, pubblicato pochi anni dopo la novella del Saint-Réal..
([16]) Cfr. L.Corsi-T.Crudeli, Il calamaio del padre inquisitore. Istoria della Carcerazione del Dottor Tommaso Crudeli di Poppi e della Processura formata contro di lui nel Tribunale del S. Offizio di Firenze, a cura di R. Rabboni, Udine, Del Bianco, 2003.
([17]) Il Pani nella Prima lettera del suo Della punizione degli eretici così racconta l’avvenimento: «Venne alla luce al primo urto che soffrì la nuova setta dagl’Inquisitori Tetzelio e Prierate, e fù stampato colla falsa data di Roma nel 1553. e colla mentita approvazione dello stesso Prierate e de’ Cardinali della S. Inquisizione, i quali mossi da tanto ardire ne promulgarono la meritata condanna insieme coll’altr’ opera intitolata Eusebius captivus, che espone già messe in pratica le false e calunniose regole fissate in quello, ed i principali dommi della cattolica Religione urta e calpesta».
([18]) «...tra quelli che con impegno maggiore e colle perverse loro produzioni hanno procurato di accreditare quelle massime che combattono il sagro tribunale dell'Inquisizione, io non trovo chi a ragione si possa anteporre a Girolamo Mario autore del sedizioso ed empio libro intitolato Tractatus de arte & modo inquirendi Haereticos»: cfr. Pani, Della punizione degli eretici, Lettera prima.
([27]) Don Carlos di Spagna (1545-1568), nato dal primo matrimonio di Filippo II con la cugina Maria del Portogallo, fu sospettato dal padre di aver cospirato contro di lui. Arrestato e imprigionato, morì poco tempo dopo in circostanze ancora oggi rimaste controverse. (N.d.R.)
([28]) Isabel de Valois (1545-1568), figlia di Enrico II di
Francia. Fu presa in moglie da Filippo II nel
([29]) Più che un fatto storico è riportata una probabile leggenda che ha lasciato profonda traccia nella cultura europea grazie anche al libro Dom Carlos. Nouvelle historique, di César Vichard de Saint-Réal, pubblicato nel 1672. L’Opera ebbe decine di edizioni in tutte le lingue (recentissima è l’edizione critica di Giorgio Sale – Ed. Il Filarete, 2002) e influenzò sia opere musicali, quali il Don Carlos di Verdi, sia letterarie, quali quelle di Schiller e di Alfieri.(N.d.R.)
([42]) Una dettagliata cronaca e descrizione di un Atto pubblico di Fede, è presentata da Antonino Mongitore nel suo libro, L’Atto pubblico di Fede solennemente celebrato nella Città di Palermo à 6 Aprile 1724 dal Tribunale del S. Uffizio di Sicilia – Palermo 1724, reperibile in rete su Liber Liber. (N.d.R.)
([45]) Cfr. Fra Paolo Sarpi, Discorso dell’origine, forma, leggi, ed uso dell’Ufficio dell’Inquisitione nella Città, e Dominio di Venetia. [Disponibile in rete su Liber Liber.] (N.d.R)
([46]) Cfr. Fra Paolo Sarpi, Historia Particolare delle cose passate tra il Sommo Pontefice Paolo V. e la Serenissima republica di Venezia. [Disponibile in rete su Liber Liber.] (N.d.R.)
([67]) La Relazione è opera in realtà del Crudeli
stesso e di Luca Antonio Corsi, suo amico e confratello. Ė merito del Becattini averla voluta pubblicare per la
prima volta, seppur anonima, in questa sua opera; tuttavia bisogna ascrivere a
suo demerito, l’aver voluto effettuare, rispetto ai manoscritti originari,
tagli e censure.
Cfr. L.Corsi-T.Crudeli, Il calamaio del padre inquisitore. Istoria della Carcerazione del Dottor Tommaso Crudeli di Poppi e della Processura formata contro di lui nel Tribunale del S. Offizio di Firenze, a cura di R. Rabboni, Udine, Del Bianco, 2003. (N.d.R)
([68]) Si trattava di Bernardino Pupiliani e del nobile Andrea D’Orazio Minerbetti che ritrattarono le confessioni loro estorte rispettivamente il 4 e l’11 Luglio 1740. L’Inquisitore di Firenze dell’epoca era il Padre Paolo Antonio Ambrogi, che tenne tale carica dal 1727 al 1741 (N.d.R.)