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NE IRROGANTO di Mauro Novelli
… ictus …
Un doveroso ringraziamento va
a quanti, con serio e minuzioso lavoro, permettono la fruizione di testi
informatizzati attraverso l’opera di siti come www.liberliber.it.
Molti degli scritti che seguono sono il prodotto della loro encomiabile azione.
Da "STORIA DELLA LETTERATURA" Vol 1°
- Einaudi editore ©
[…..omissis…..]
1. Per una definizione della forma Accademia.
«Setta di filosofi cosí chiamata. Amm. Ant.: A me è sempre piaciuto l'uso de' filosofi
peripatetici e di quelli d'accademia.
Oggi adunanza d'huomini studiosi»: questa la
concisa definizione del Vocabolario della
Crusca, quando ormai la tipologia istituzionale, la sua forma, sono stabilmente
consolidate. Una definizione allo
specchio: questa accademia enuncia il proprio di sé. Ancora in riferimento al dominio di un
«oggi», di un presente popolato, ovunque e da tempo, d'accademie.
Un nome che è di per sé un
vessillo: intende compiutamente restaurare una classicità remota, il suo
primato modellizzante, la sua proposta - ancora valida in questo oggi - di un
rapporto tra filosofi in forma di dialogo.
La matrice umanistica è interamente riconoscibile in questi pochi
tratti: gli huomini
studiosi che si riuniscono in adunanza sono i tanti che hanno dato
vita alle protoaccademie ficiniana o platonica,
appunto, bessarionea, pomponiana
o romana, pontaniana, aldina, ecc. Ben più che una necessità lessicografica,
questa immediata, prima (obbligatoriamente, nell'economia del
dizionario/enciclopedia) connessione con l'originaria accademia greca, con la
«setta di filosofi » platonici: enunciazione, invece, e subito, del nome
dell'archetipo, della sua piena e assoluta pertinenza connotativa nei confronti
della serie - presto in espansione - dei derivati (le tante accademie, il loro
plurale, ora, nella Crusca), del loro differenziale riscontrarsi con l'oggi,
con la sua stessa mobilità temporale.
Una piena e assoluta pertinenza connotativa che di volta in volta è
confermata, ribadita, dalla Crusca all'Encyclopédie, e oltre, sempre: il proprio non può che
essere questa archetipica Accademia, anche se l'oggi può, a sua volta,
articolare in modo sempre più vario (discreto) l'ambito di efficacia del suo
modello originario, sperimentare adattamenti e trasformazioni della sua stessa
forma. Adunanza o société/compagnie che sia, raccolga filosof /philosophes o huomini
studiosi / gens de lettres, l'accademia si
definisce interamente e compiutamente nel proprio del suo nome primo e
fondante, nella forma di produzione e scambio di rapporti intellettuali e
sociali che a partire dall'esperienza umanistica viene riconosciuta a quella
remota ma culturalmente contigua, prossima - « classica » - « setta di
filosofi ». Un'agnizione, emotivamente anche forte, del modello: da riprodurre,
da imitare, ovunque siano huomini studiosi/ gens
de lettres, comunque si diano le loro adunanze/sociétés/compagnies.
Non è tanto questione - ripeto - di definizione
lessicografica in senso stretto, ma di avviare la descrizione analitica della
forma profonda di questo modello, della sua straordinaria ricchezza e varietà,
della sua durata costante, della sua capillare diffusione geografica su scala
interamente europea. Dall'agnizione
umanistica, dal rilancio quattrocentesco dell'accademia archetipica, sino
all'Ottocento inoltrato, alle stesse odierne persistenze, si registra un susseguirsi
formidabile d'iniziative, di storia: accademie in grandissima quantità, che
nascono, si affermano, durano / non durano, si rinnovano, decadono, muoiono,
secondo ritmi differenziali ma anche omogenei nell'inesauribile inesorabile
continuità, almeno, e secondo tipologie - soprattutto - profondamente diverse,
ma che conservano aperto già nel nome (comune non più proprio) il rapporto con
la forma originaria. Una storia, dunque,
di questa forma, del suo insieme sterminato, almeno in Italia: come riconosce
la stessa Encyclopédie. Un insieme che ha il suo
adeguato repertorio, il suo archivio altrettanto sterminato: i cinque volumi
di materiali, notizie, dati, inventariati da Michele Maylender,
impropriamente intitolati Storia delle
Accademie d'Italia. Certamente
discontinui, fitti anche di imprecisioni (come documenterò), ridondanti per
eccesso e nello stesso tempo per difetto, secondo i casi, ma pur sempre un
punto di riferimento obbligato, non aggirabile, per ogni attraversamento,
anche settoriale, della fenomenologia accademica. Oltre 22oo voci rubricate alfabeticamente,
con fortissimi dislivello quantitativi (dalla voce di poche righe a quella che
si snoda per decine di pagine), e soprattutto con una impressionante serie di
allegati e di rinvii bibliografici ad altri documenti, sia a stampa sia
manoscritti. In cosa consiste il minimo
comune che rende percorribile questo insieme cosí
vasto, qual è la forma continua che omologa, pur nelle macroscopiche variabili,
ogni accademia alla serie completa, cos'è, in conclusione, che rende possibile,
che direttamente produce l'inventario alfabetico?
Ancora una testimonianza, dal punto terminale, quasi, di
questa storia plurisecolare, quella del Tiraboschi: « Sotto questo nome io
intendo quelle società di uomini eruditi, stretti fra loro con
certe leggi, a cui essi medesimi si
soggettano, che radunandosi insieme si
fanno a disputare su qualche erudita questione, o producono e sottomettono alla censura dei loro colleghi qualche saggio del loro ingegno e dei
loro studi». L'accademia è, dunque,
secondo il Tiraboschi, una società: esattamente come è definita dall'Encyclopédie prima e dal Tommaseo-Bellini
poi. Una società che si costituisce a
partire da una domanda di lavoro collettivo: è un soggetto collettivo. Gli «uomini eruditi» («studiosi» direbbe
L'immagine proposta dal Tiraboschi è quella di una
società della scrittura, fondata su leggi dette/scritte, che pratica la
produzione di testi scritti, in un'economia di scambio (la «censura») pur
sempre finalizzata e sollecitata alla/dalla presenza del testo. Un'immagine non neutrale, questa, fortemente
orientata, anzi. Il Tiraboschi si
riferisce prepotentemente all'esperienza settecentesca dell'istituzione
accademia, ne assume i connotati prevalenti a forma complessiva della sua lunga
durata plurisecolare: ma in principio l'accademia fu sotto il segno della conversazione. La sua stessa matrice originaria - cosí intensamente platonica nel proprio del nome che
restaura - tra morti e sodalitates umanistici
mostra pienamente il primato di un conversare come forma profonda dei rapporti
culturali, come sistema di pratiche che trova nel dialogo (un restauro
anch'esso dell'archetipo rinominato) il suo genere privilegiato e di massima
funzionalità comunicativa, il suo equivalente generale.
L'analisi della forma accademia
deve, insomma, tener conto di questa matrice originaria, della stessa -
fondante - connotazione platonica, e sovrapporla, riscontrarla, all'identikit
tracciato dal Tiraboschi, alle stesse definizioni dell'Encyclopédie, della Crusca, del Tommaseo-Bellini: per dare senso storico pieno all'insieme
notevolissimo degli eventi più o meno effimeri, più o meno strutturati (con
tutte le rispettive, differenziali, tipologie), raccolti nell'inventario
alfabetico del Maylender. « Società di uomini eruditi
», « adunanza d'huomini studiosi», « société ou compagnie de gens de lettres », «società d'uomini di scienze, di lettere,
d'arti», certamente, ma anche e prima luogo e occasione di conversazione, di
discorsi tra «genti che parlano e
rispondono a proposito ».
Esiste, comunque, accademia, in
quanto società della conversazione e/o della scrittura, solo
quando si costituisce un gruppo,
un'adunanza, di letterati/eruditi/studiosi: la sua forma istituzionale
elementare è quella di un soggetto collettivo. Per questo non sono molto
persuaso dell'opportunità di affrontare la descrizione analitica di questa o
quell'altra accademia, come dello stesso insieme, scomponendo, all'interno
della loro storia e della loro attività, il corpus delle presenze per esaltare particolarmente quella di uno o
più soci autorevoli o di prestigio, il loro trasformarsi in membra disiecta. Occorre pur sempre riferire il lavoro
accademico di ogni membro, la sua stessa economia di produzione/scambio
culturale, al lavoro complessivo dell'accademia, cercando di determinare la sua
direzione generale, la sua strategia culturale sia rispetto ai lavori «privati»
(esterni all'istituzione) dei membri, sia rispetto a quelli delle altre
istituzioni accademiche.
Il soggetto che parla/scrive è
il soggetto collettivo accademia. E
infatti il suo primo gesto, quando intende darsi un'organizzazione strutturata
(detta o scritta che sia) o comunque notificare - ad altri e a sé - la propria
esistenza, consiste nell'elaborare un contrassegno l'identità, una marca
d'immediato riconoscimento della sua individualità d'accademia. Non può che nominarsi, subito e soprattutto:
per dire e dirsi che esiste. L'accademia
«inventa» il proprio del suo nome, rispetto ai tanti altri possibili o esistenti,
per differenza e per connessione, allo stesso tempo; e poi «inventa» il nome
per ogni suo membro (nomi tutti semanticamente dipendenti dal nome primo del
soggetto collettivo). Ma lo sforzo
maggiore di «invenzione» è la ricerca dell'impresa adeguata: perché sia il
correlato diretto della prima nominazione, la sua trascrizione in vessillo, da
esibire, esportare, diffondere. Il
proprio del nome e il proprio dell'impresa rappresentano modalità comunicative
(del nome e del segno) organicamente funzionali, ma anche raffinate, spesso
allusive, ermetiche, talvolta. Nel loro
intrecciare codici differenti si dirigono a un destinatario compiutamente (se
non esclusivamente) interno al gruppo che si nomina, si segna. Una comunicazione istituzionalmente autoreferenziale.
Queste modalità comunicative
primarie pongono il problema di analizzare l'accademia in quanto campo
semiotico di fortissimo rilievo tipologico-culturale, di ampia capacità modellizante.
L'economia del nome/nomi, dell'impresa, delle leggi non solo rende
possibile l'identità dell'accademia, ma soprattutto consente di individuarne
gli elementi costitutivi di luogo speciale, ad alto potenziale
connotativo. Accademia vs non-accademia, intanto: il tempo e
lo spazio dell'accademia, il suo rituale comunicativo, enunciano la loro piena
autonomia, speciale in quanto differenziale, rispetto al tempo, allo spazio,
al rituale della società reale. Il tempo
dell'accademia si iscrive in una dimensione essenzialmente festiva, pertiene alla tipologia culturale della festa, a una sua storica, determinata,
forma: è il momento di sospensione - programmata - dei ritmi feriali del tempo esterno, della loro
stessa connotazione lavorativa-produttiva (relativa, ovviamente, alle società
colte, dominanti, nell'ancien regime, e
comunque almeno sino alla nascita dell'accademia «professionalizzata»: quella
«scientifica», soprattutto, al cui interno, invece, sarà riprodotta tutt'intera
- anche se comunicata, socializzata, nell'ambito di un «far accademia » - l'economia
di un sapere-lavoro). Lo spazio
dell'accademia privato o pubblico che sia, assume uno statuto deterritoriale, autonomamente riconnotato
dalla pratica di «adunanza» che lo fonda, per separarlo radicalmente dai
percorsi quotidiani attraverso lo spazio della casa, della chiesa, degli
ambienti pubblici, dei luoghi, ancora, di lavoro (di produzione e di scambio),
per differenziarlo dagli stessi possibili incroci in questi spazi esterni. Il rituale accademico, nel suo trascrivere la
forma profonda del vivere « civile» di una società sempre più omologata (nei
suoi livelli, ovviamente, più alti) nei comportamenti, ne ríconnota,
da parte sua, gesti e pratiche, ordínando il loro
nuovo e autonomo senso in un sistema codificato, detto o scritto che sia.
Questo spazio, questo tempo,
questo rituale dell'accademia circoscrivono un
interno, significano tutt'intera la sua forma chiusa, autosuffìciente:
ma effìmera.
Spazio/tempo/rituale hanno, infatti, una durata limitata, una validità
programmata: la funzionalità del loro autonomo - integrato - codice è pienamente
differenziale, la sua potenzialità connotativa si dispiega esclusivamente in
questo interno. Un'autonomia
differenziale, dunque: "accademia vs
non-accademia", ma anche "interno vs
esterno". Spazio interno vs spazio esterno, tempo interno vs tempo esterno, rituale interno vs rituale esterno: una serie infinita,
diffusa - di pratiche che attraversano, mettono in scena, la cultura come « intertenimento » in primo luogo, e quindi come «
conversazione ». Come festa, soprattutto: e se l'accademia non fosse altro che
la forma di un « carnevale dei colti», dei tanti - infiniti, diffusi - suoi microeventi performativi, tutti a tempo/spazio/rituale
programmato.
Se l'accademia è un gruppo,
anzi, un soggetto collettivo, costituisce, pertanto, luogo ed evento per
eccellenza di produzione di rapporti sociali, non soltanto di pratiche
intellettuale sodalizzate. Pertiene,
insomma, all'ambito più generale della dinamica del sociale: di un sociale
colto, ovviamente. Nell'istituzione
accademia, infatti, si compie la socializzazione, lo scambio, di atti
comunicativi culturalmente sempre, anche se diversamente, connotati: sia nel
caso del «convegno erudito» (per usare la formula del Tiraboschi e di altri
testi prima citati), con la stessa, eventuale, messa in circuito di saperi specializzati, sia nel caso della più ampia
«conversazione letteraria» (per stare, invece, alla testimonianza di Pietro
Della Valle, o per anticipare le argomentazioni di Stefano Guazzo). Con un solo avvertimento, una sola
fondamentale, però, modalità di esercizio: sia che si «disputi su qualche
erudita questione», sia che si produca una performance di «intertenimento»
e di gioco, dovrà essere rispettato l'ambito «universale» (come dirà il Guazzo)
della comunicazione accademica; il suo destinatario diretto non potrà che
essere, sempre e comunque, tutto intero il gruppo che si è riunito. Questa legge elementare, «naturale», della
forma accademia è detta con forza nel Cortegiano: quando
la discussione sulla donna, nel terzo libro, corre il rischio - assumendo un
linguaggio tecnico, specializzato - di discriminare il «cerchio» dei presenti,
di trasformare l'intertenimento originario, cioè il
«gioco del cortegiano», in un «convegno erudito», modificando
unilateralmente l'ordine del giorno collettivamente approvato, e quindi le
stesse finalità di quella adunanza»; mettendo in questione, soprattutto, il
valore simbolico - per quanto attiene proprio la forma della comunicazione - di
quel suo riunirsi in «cerchio». E questa
legge «naturale», primaria, della comunicazione accademica resterà valida anche
quando emergeranno tipologie settoriali, ad alto indice di professionalità e
di competenze in saperi specifici (quelli della
«nuova scienza», soprattutto), non più «universalmente» praticabili, non più
compatibili con l'ordine di un sapere organico, intero, continuo. Anche quando questa «frattura epistemologica»
sarà interamente consumata, quando, cioè, il medico parlerà soltanto a medici,
quando lo scienziato si rivolgerà esclusivamente a scienziati, quando,
insomma, la comunicazione accademica da «universale» diventerà settoriale
(producendo il proprio dei rispettivi linguaggi), resterà inalterata la
necessità di riferire il discorso di ciascuno all'insieme dei presenti. Ordinati, divisi per «classi».
Nella forma «classica» di accademia, quella della
conversazione e del dialogo (la forma, insomma, che riconosce la propria
matrice umanistico-platonica) le competenze
si sovrappongono agli stati sociali: vi
si trovano raccolti, fianco a fianco, nobili e borghesi, teologi e medici,
avvocati e musicisti, letterati e matematici, ecc.: almeno sino all'avvento
della «nuova scienza» e alla conseguente nascita di una tipologia «scientifica»
in senso stretto dell'accademia. Sono
ben pochi, infatti, gli esempi di accademie «riservate»: oltre a quelle
direttamente «corporative» da sempre - dei medici, soprattutto -, si segnalano
in particolare quelle «ecclesiastiche» (di carattere sia storico sia teologico-dottrinario),
piuttosto numerose, mentre invece estremamente rara è la tipologia
«aristocratica», contrapposta - nel caso almeno delle due accademie di
Recanati, dei Disuguali e degli Animosi - a quella «borghese». La forma «classica» di accademia si presenta,
insomma, stabilmente finalizzata all'integrazione sociale: la discriminante
decisiva agisce, infatti, sul piano del modello di cultura e delle sue
pratiche. Un modello di fortissima
efficacia modellizzante, rispetto almeno alla serie degli eventi chiamati
accademia: e profondamente connotato in senso aristocratico-nobiliare. Questo conversare, queste pratiche di
produzione e scambio culturale, rinviano al loro luogo originario di codifìcazione: alla forma del sistema culturale cortigiano.
Questa società delle accademie, il suo stesso mito della
«repubblica letteraria», si attesta su un territorio culturale omogeneo, se
non direttamente unitario e soprattutto propone l'immagine di un sapere
continuo, senza fratture che ne impediscano la percorribilità, la stessa
riproducibilità sulla base della parola d'ordine dell'imitazione. L'accademia rinvia al dominio (anche
ideologico) di una cultura universale, alle sue referenze umanistiche e classícistiche: luogo di «dialogo» della parte
«ragionevole» dell'uomo, di commercio e «conversazione» di valori positivi (in
quanto eruditi e insieme «piacevoli »), di sublimazione-rimozione delle parti
« basse » dell'uomo, dei « disvalori» del corpo. In questo senso l'accademia assume una
funzione strategicamente decisiva nel processo di affermazione di questo
modello culturale (in senso anche antropologico), contribuisce in modo
determinante alla sua diffusione capillare, al suo radicarsi profondo, oltre e
contro le stesse differenze di collocazione sociale, nelle società di ancien régime: le
sue parole d'ordine diventano ugualmente valide, attivamente omologanti (pur
negli ovvi dislivelli istituzionali e operativi che lo sterminato archivio del
Maylender esibisce), su tutto il territorio
nazionale, in tutti i gruppi sociali che possano raccogliere «letterati» più o
meno «eruditi», comunque adunabili in «conversazione», in «società»,
nobili/ecclesiastici/borghesi che siano.
Attraverso l'accademia questa tipologia culturale consolida il suo
primato, si costituisce in luogo privilegiato di pratiche culturali tradotte in
termini di maschera socializzata: di gioco, di occasione festiva. Non soltanto perché l'economia accademica
prescrive l'assunzione di un nome fittizio e l'impiego di dispositivo « teatrali
» (in un teatro chiamato « repubblica letteraria »), ma soprattutto perché -
in quanto istituzione - si pone come scena del soggetto collettivo, l'orma di
un circuito comunicativo (a indice variabile, pur sempre, di informazione
«culturale» prodotta/consumata) fortemente connotato a partire da quel proprio
strutturale che è il rituale accademico, dalla sua istanza simulatoria inscritta
in un tempo e in uno spazio definiti, programmati.
2. Conversazione e società: il
discorso dell'accademia.
L'accademia parla, ha parlato. Mi riferisco non soltanto alla serie - notevolissima
- di testi direttamente «accademici», collettivi o di singoli che siano,
destinati a replicare all'esterno, diffondere, conversazioni o atti già detti o
compiuti nell'interno istituzionale dell'accademia, ma soprattutto a quegli
interventi che intendono illustrare (e sempre diffondere all'esterno, tramite il medium della stampa) l'immagine
culturale di un'accademia determinata, e quindi esaltare in termini generali il
modello culturale dell'accademia, in quanto modello di «società», modello di «
repubblica letteraria ».
Da subito questo discorso si
afferma, enuncia le sue componenti fondamentali:
Fu questo secolo ripieno
d'uomini che la natura di rado produce, i quali insieme conversavano ed
erano da tutti grandemente reputati, per che allora risplendevano le virtù
sopra le ricchezze, come oggi le ricchezze sopra le virtù, e tanta differenzia
si faceva tra uno che sapesse lettere e
uno che non le sapesse, quanto è da uno uomo dipinto e uno vero.
Cosí Lorenzo di Filippo Strozzi:
l'assoluto primato culturale del conversare tra chi sa lettere, il dominio di
questa autentica ricchezza non effimera se impiegata in modo proprio e
«naturale», il modello - soprattutto - di cultura = virtù destinato a tanto
lunga presenza ed efficacia omologante nella storia delle società d'ancien régime, a
conservare il suo prestigio (anche ideologico) pur quando si profila
l'avanzare prepotente dell'economia della «ricchezza» su quella della « virtù
», come troppo precipitosamente rileva Lorenzo di Filippo Strozzi, ad
accrescere, anzi, proprio in questa fase, il suo prestigio e la sua funzione
modellizzante. E soprattutto il
carattere autoreferenziale di questo conversare: se rende possibile il riconoscimento
della virtù di chi sa lettere e ne pratica l'esercizio all'interno di un
insieme, lo propone in termini assoluti, come riconoscimento di tutti, senza distinzione alcuna tra
«interno» ed « esterno ».
L'architesto di tutti questi
discorsi a venire sull'accademia e sul conversare insieme è Il Libro del Cortegiano
di Baldassar Castiglione. E non per indebita estensione della sua
efficacia: già nel 1569 il gruppo che parla nelle sue pagine è individuato come
accademia. Nell'orazione Delle lodi dell'Accademie Scipione
Bargagli, quando cita l'autorevole presenza delle prime accademie umanistiche,
di quelle «state alla memoria de' nostri tempi più vicine e d'altre che negli
stessi tempi nostri ancora si vivono avventurosamente», ricorda quella - subito,
insomma, mitica - di Urbino: «Delle cosí fatte venne
a rendersi quella cosí mentovata della città di
Urbino, donde uscirono, sí come dal caval troiano si
favella, principi di lettere e di virtú riguardevolissime ». Ancora e sempre lettere e virtù strettamente intrecciate: dal « caval troiano » di
questa « città in forma di palazzo » escono i « principi » che si chiamano
Pietro Bembo, Bibbiena, Lodovico di Canossa, Federico
e Ottaviano Fregoso, e su tutti lo stesso
Castiglione, esemplari di quell'intreccio/reversibilità nell'economia del
primato delle lettere e della virtú che costituisce
l'elemento decisivo dell'orazione del Bargagli.
Nel Cortegiano s'individuano con precisione, e facilità,
gli elementi strutturali della forma accademia: un gruppo si riunisce in uno
spazio e in un tempo determinato, la sua conversazione si organizza in gioco,
l'articolazione è regolata (alcuni locutori designati, un «locotenente»
che presiede, l'insieme degli allocutori e dei destinatari che fa cerchio,
chiude emblematicamente il circuito della comunicazione). Un codice che funziona perfettamente, che non
ha bisogno di trasformarsi in legge scritta: lo stesso, identico, codice di
tante accademie non-istituzionali a venire, circoscritte ed effìmere
come questa che si tiene per quattro sere nelle sale del palazzo di
Urbino. Un riunirsi occasionale, ma per
una festa: per celebrare il passaggio
del papa, in questo caso. Non
un'accademia qualsiasi, però, non un comunque conversare: il gioco e la festa
sono regolate, ordinate, ma soprattutto sono interamente - profondamente connotate
dal loro essere gioco e festa di una corte, in corte. La pertinenza del modello di questa
conversazione in forma di «gioco» - relativo, appunto, al «formar con parole un
perfetto cortegiano » - risulta strutturalmente organica
al suo referente assoluto: una conversazione in corte, dunque, sul conversare
in corte. Lo spazio di questa accademia
si sovrappone integralmente allo spazio della corte, il suo tempo s'inserisce
armonicamente nei ritmi del tempo della corte.
L'istanza modellizzante non è
soltanto nella forma di questa conversazione e nel suo essere regolata
(elementi, questi, comuni alla stessa tradizione umanistica del «dialogo»:
vera e propria matrice culturale della stessa accademia, del resto, come si è
già più volte rilevato), ma nella argomentazione che viene articolata nei
quattro libri. Il Cortegiano non si limita a mettere in
scena un'accademia-conversazione, ma enuncia la forma della conversazione in
un'accademia-corte. Ne dice soprattutto
la « regula universalissima »: la grazia. Per questo la sua proposizione è forte, e
assume ben presto, subito, una presenza di dimensioni complessivamente
modellizzanti, istituendo un campo semiotico polifunzionali, « discreto »,
scandito in tante diverse « circostanzie », in tante
« parti » che predicano sempre e comunque il « tutto » della sua « regula universalissima »: nobiltà e lettere, virtù e
lingua, musica e arti, vestirsi, ballare, amare, e conversare, soprattutto
conversare, anche in termini faceti, amorosi, filosofici, ecc. Una grammatica generale, insomma, finalizzata
e funzionale alla Produzione e allo scambio di rapporti interpersonali
frontali, diretti, veicolati attraverso la parola, in un'economia del guardare
e del parlare: la stessa questione della lingua, ne1 primo libro, non risulta
in alcun modo pertinente all'esclusivo ambito di una comunicazione scritta, ma
nel suo porsi subito, in apertura, quasi, del «gioco del cortegiano
», afferma l'esigenza primaria di trovare uno standard comunicativo
«convenevoli» - adeguato e funzionale al tempo stesso - intanto a questa
conversazione, a questa accademia. Una
conversazione che è insieme accademica e cortigiana, ed enuncia nel suo articolarsi
sera dopo sera l'annessione dei rapporti sociali sotto il segno dominante
della sprezzatura, della sua economia simulatoria, della sua coazione alla
scena. In questa conversazione
cortigiana (che costituisce l'equivalente generale delle pratiche sociali
della/nella corte, e proietta la sua efficacia modellizzante di «forma del
vivere» all'esterno, come valore culturale assoluto e universale, il solo,
anzi, in grado di garantire omologazione e socialità), in questa stessa
accademia che si snoda ben temperata nel corso di quattro serate di festa e di
gioco - ad alto indice, però, di « intertenimento »
colto - occorre soprattutto nascondere i arte di ogni discorso proposto,
nascondere la fatica per organizzarlo e dirlo: occorre, insomma, far sembrare
proprio della natura ciò che è proprio dell'arte. Per questo Il Cortegiano mette in scena non solo un
modello di dialogo, ma la sua stessa producibilità: nel suo tempo e nel suo
spazio definiti, nella sua occasione di festa e di gioco, nella sua regolata
scansa modalità metadiscorsiva, può assumere le
proporzioni di accademia, essere direttamente registrata come accademia, già
nel 1569.
[……omissis…..]
Ma è nella Civil conversazione di
Stefano Guazzo che l'«animal conversevole» trova la
più articolata e minuziosa descrizione: in riferimento diretto sia al Cortegiano sia alla forma accademia. Secondo il Guazzo la «conversarzione»
è per eccellenza la forma della pratica quotidiana dei apporti cortigiani:
forma della «sprezzatura», della dissimulazíone
dell'arte e della fatica di un lavoro.
La « conversazione » è il cuore della « forma del vivere »: ed è civile in quanto «'l viver civilmente
non dipende dalla Città, ma dalle qualità dell'animo. Cosí, - precisa il
Guazzo, - intendo la conversazione civile non per rispetto solo della Città, ma
in considerazione de' costumi e delle maniere che la rendono civile». Questo primato assoluto, segmentato poi in
una minuta casistica di posizioni tra locutore e allocutore, tra i soggetti
della conversazione stessa, ha un suo momento privilegiato, un suo cuore ancora
più interno: l'accademia. Se, infatti,
la «conversazione è principio et fine del sapere», se la «conversazione
insegna più che i libri», se la «disputa è il cribro della verità», il suo
luogo «naturale» non è allora proprio nell'accademia?
[….omissis….]
Ma sarà ben degno di riso et di
reprensione quel letterato, il qual essendo involto solamente negli studi, non
riduce la sua dottrina alla vita commune, et si scuopre in tutto ignorante delle cose del mondo. Et voglio dirvi di più, che sarebbe errore
il credere che la dottrina s'acquisti più nella solitudine fra i libri, che
nella conversazione fra gli huomini dotti; percioché è sentenza filosofica, et la pruova
lo dimostra, che meglio s'apprende la dottrina per l'orecchie
che per gli occhi, et che non accaderebbe consumarsi
la vista né assottigliarsi le dita nel rivolger le foglia degli scrittori, se
si potesse baver del continuo la presenza loro et
ricever per l'orecchie quella viva voce, la qual con mirabil forza s'ímprime nella mente;
oltre che abbattendovi nel leggere in qualche oscura difficultà,
non potete pregare il libro che ve la dichiari, et vi conviene talhora partirvi da lui mal contento, dicendogli se non
vuoi esser inteso né io t'intenderò; dal che potete riconoscere quanto più util cosa sia il parlar coi vivi che coi morti
Questo primato dell'oralità - parlare/ascoltare vs scrívere/leggere
- argomentato anche in termini di comune buon senso, porta sino in fondo la píú cauta enunciazione del Cortegiano secondo cui « più spesso» occorre «servirsi del parlare che dello
scrivere» ", e ne trasforma la circostanziata referenzialità cortigiana in
termini assoluti: non soltanto il letterato deve assumere nel suo orizzonte
comunicativo la «vita commune », ma più complessivamente
si deve prender atto del primato delle orecchie sugli occhi, in quanto
strumenti dei comunicare. L'indicazione
operativa del Cortegiano si è trasformata - autonomamente,
organicamente - in un'antropologia della conversazione, che enuncia la
centralità dell'« animal conversevole ». Nobile,
però, in primo luogo, e quindi accademico:
Ma sopra tutte l'altre cose hanno forza di risvegliar gl'intelletti quelle
virtuose el che in tal contese che nascono fra
letterati, i quali disputando imparano, et quel che in tal modo imparano lo
fermano nella memoria, et mentre cercano a pruova
l'un l'altro di prevaler con ragioni, si viene al perfetto conoscimento delle
cose; et perciò si suol dire che la disputa è il
cribro della verità, et perché la verità si cava dalle intelligenze communi,
non si possono apprendere queste intelligenze se non col pratticare.
L'accademia costituisce, insomma. il punto
d'intersezione tra la contesa/disputa e il «commune»/pratica:
ne socializza la virtù, la verità. Solo
che questa accentuazione dei connotati « comuni », di « pratica »
interpersonale e pubblica, assume caratteri scopertamente militari e
cavallereschi: questa disputa accademica non finisce per mettere in causa
l'occhio e l'orecchio di chi assiste, di chi ascolta, di chi osserva i
letterati che «cercano a pruova l'un l'altro di
prevalere », non evoca la presenza di un terzo, oltre i due contendenti, che
non è direttamente impegnato ma sa apprezzare tutta la vírtú
della contesa? E questo terzo non può
essere proprio il nobile che accoglie nella sua casa, patrocina, sollecita la
disputa accademica, la converte alla sua funzionale economía
di, gioco e d'intrattenimento?
L'accademia che si profila nelle pagine della Civil conversazione non è per un qualsiasi « animal
conversevole ». E infatti le citazioni di accademie illustri, che seguono
questa apologia del conversare, pongono al primo posto quella degli Invaghiti
di Mantova, «fondata in casa dell'illustrissimo signor Cesare Gonzaga, valoroso
prencipe et singolar protettore degli uomini
virtuosi» ": un principe che assiste alle loro contese/ dispute. Ma è la forma accademia a trovare adeguata e
appassionata esaltazione:
Inestimabile è il frutto che si
raccoglie da queste accademie, et sono bene avisati
quei che vi pongono dentro il piede, percioché
conoscendo che non può un solo da se stesso acquistar molte scienze, poi che
l'arte è lunga et la vita è brieve, come dice il
nostro Hippocrate, quivi ottengono tutto ciò che
vogliono, perché discorrendo altri delle divine, altri dell'humane
historie, chi di filosofia, chi di poesia et d'altre
diverse materie, si fanno acconciamente partecipi di quel che faticosamente et
con lungo studio ha ciascuno appreso, imitando coloro i quali non potendo soli
vivere largamente, convengono con altri in un luogo, et conferiscono insieme le
loro portioni, delle quali compongono uno magnifico
et solenne convito
Se questa forma accademia continua ad essere espressa
dall'immagine del « convito », implica necessariamente la partecipazione di tutti,
una mutua solidarietà di scambio e di offerta: la fatica di uno studio personale
(prodotto all'esterno) assume le proporzioni di un vero e proprio investimeto che consente di capitalizzare la parte di un
sapere determinato all'interno di un'economia generale della conoscenza, che
riesce ad integrare tutte le « scienze».
La conversazione - anche nella tipologia della disputa e della contesa -
rappresenta il tramite necessario e indispensabile per questo scambio di esperienze,
per questa socializzazione: consente che il « convito » sia di tutti. Infatti «la conversazione è il vero affìnamento et l'intera perfettione
della dottrina», e «giova più al letterato un'hora ch'egli dispensi nel
discorrere con suoi eguali, ch'un giorno di studio in solitudine»: la sua
convenienza è dunque di natura strettamente economica.
Il modello accademico, cosí
enunciato in esordio del testo, affiora più volte nel corso del dialogo, prima
ancora della messa in scena conclusiva di quel « convito » di nobili casalesi. Torna ad assumere una funzione centrale quando
il discorso si ferma sulla figura del «letterato», per descrivere la sua
naturale propensione alla «compagnia», alla
sodalitas, più che alla vita solitaria:
Et per certo fra tutte le
compagnie non vi è alcuna più stabile né più strettamente congiunta che quella
de' letterati, i quali si amano più fra loro di quel che facciano i parenti et
fratelli, Percioché concorrendo in essi i medesimi
studi, et le medesime volontà sono costretti a compiacersi Oltre modo l'uno
dell'altro et a ridursi dal numero di molti ad uno solo
L'accademia come soggetto collettivo, come economia del
tutto rispetto alle parziali e personali competenze di ciascuno. L'accademia come soggetto collettivo universale, soprattutto,
perché «più diletta nelle conversazioni l'huomo
universale che quello d'una sola professione»: l'accademia, perciò, non rinvia
al suo esterno, agli statuti professionali dei suoi membri, al loro sapere
specializzato e parziale; nel suo autonomo interno «acquistano meraviglioso
credito quei che oltre alla loro principal
professione sanno ragionar mezanamente et con
discretezza d'altre parti; anzi da questi accessorii
riportano tanto maggior bonore quanto più sono fuori
del loro studio ordinario». La conversazione
accademica non deve mirare al raggiungimento di una soluzione delle Possibili
questioni che possono essere assunte nel suo ordine dei lavori: può - e deve -
mettere in gioco le varie risposte (ugualmente valide), contrapporle perché
soddisfino le regole del suo «intertenimento»
organizzarle anche in paradossi (la sequenza delle tante « questioni » o dei
tanti « problemi » accademici che arrivano alle stampe tra fine
Cinque e Seicento). Senza mai perdere
di vista la necessità di non trasformare la conversazione/disputa in dibattito
ad alto contenuto professionale, di linguaggi anche settoriali: il rischio,
insomma, denunziato dalla controversia sulla donna nel terzo libro del Cortegiano. E
in particolare puntando alla varietà, alla molteplicità dei discorsi dei temi,
delle soluzioni: perché
accadendo communemente
nelle conversazioni ragionar di diverse cose et saltar d'una in altra, o
secondo il proverbio di palo in frasca, non vi è cosa, per mio credere, che
faccia più honore et che ci conservi più grati nelle
buone compagnie, che l'essere universali
et l'haver la manica piena di diverse mescolanze,
al che fare io considero che sia oltremodo giovevole la compagnia di molti
virtuosi, come è questa delle accademie.
Questa conversazione «universale» è la forma dell'intertenimento sociomondano,
delimita e struttura il rapporto fra cultura/sapere e società/potere: istituisce
l'accademia come luogo e spazio della festa - proprio perché questo «
strettamente » congiungersi riduce « il numero di molti a uno solo » -, come
forma di scambio e di rapporto che si oppone alla forma (esterna) di un lavoro
e della sua fatica: «Quando questo mio corpo è rinchiuso là dentro, sono
esclusi da lui tutti i noiosi pensieri, i quali aspettandomi alla porta mi
tornano nell'uscire a caricar la soma sopra le spalle». L'accadcmia
è al di qua della porta: uno spazio edenico, differenziale.
Le argomentazioni del Guazzo,
questa stessa appassionata apología del conversare
come forma propria dell'aggregarsi in accademia, contribuiscono a individuare
le ragioni storiche dello strepitoso diffondersi di tante adunanze più o meno
regolate, più o meno effimere. Ne
enunciano, soprattutto, l'istanza culturale di fondo, il modello antropologico:
questo «animal conversevole» non può fare a meno di
sfruttare tutte le possibili occasioni per soddisfare la sua esigenza primaria,
«naturale», nel pieno rispetto di quel codice che dice e regola il primato
delle lettere, imitando e
riproducendo pur sempre, l'originario, mitico, convíto. E se si considera che
Il discorso della/sulla accademia continua:
inarrestabile, come inarrestabile è la sequenza di atti fondativi. Si articola, si fa più vario, sia con stampe
di opere direttamente accademiche (in cui la funzione autore è del soggetto
collettivo), sia con monografia che esaltano questa o quella istituzione,
oppure con microdiscorsi sull'impresa, sulla legge,
ecc.: in grado, talvolta, di interrogarsi sulla sua forma istituzionale, sulle
sue tipologie, sulla serie, in crescita costante, dei tanti eventi, sulla
storia stessa dell'accademia.
[……omissis…..]
4- Il proprio dell'impresa.
L'economia della doppia nominazione (dell'accademia e
dei singoli membri) risulta organicamente correlata - come più volte si è
detto - a quella dell'altro contrassegno fondamentale dell'accademia:
l'impresa. Un intreccio comunicativo
profondo, una solidarietà «espressiva» - direbbe il Klein completa: e
integrata, verbale e figurata insieme.
Per moltissime accademie, poi, l'impresa, oltre il nome, è tutto:
nient'altro resta di repertoriabile, anche per lo
stesso ostinato Maylender.
Qualche dato che mostri subito l'ampiezza del fenomeno:
sul solito totale di 2050 accademie, circa il 36 per cento può esibire il
proprio contrassegno, la sua speciale, personale impresa, il suo messaggio
visivo con tutto il carico di informazioni che è in grado di veicolare, per
quanto riguarda propositi, obiettivi modalità.
Un significante straordinario, l'impresa. Quel dato percentuale può essere poi
scomposto per secoli: presentano, cosí, la loro
impresa il 43 per cento delle accademie del XVI secolo, il 50 per cento di
quelle del XVII, e soltanto il 24 per
cento di quelle del XVIII. Non è,
insomma, soltanto la tradizione del nome strettamente accademico a decadere,
soppiantata da sistemi intenzionalmente più denotativi, ma pure quella
dell'impresa. E l'uso dell'impresa
interessa tutti i tipi di accademia precedentemente descritti, almeno sulla
base delle procedure di nominazione, anche se prevale nettamente in quello del
nome accademico in senso stretto: pari al 53 per cento per il secolo XVI, al 56 per cento per il XVII e al 35 per cento
per il XVIII, con un decremento meno accentuato, segno che la tipologia
accademica più tradizionale è anche più conservatrice.
Una tradizione di complessa e sterminata ampiezza: a
partire dal «geroglifico», attraverso l'«emblema», sino all'«impresa», si
costituisce una cultura figurativa e filosofica (almeno nella sua fase
d'avvio) che struttura e connota profondamente l'immaginario cinquecentesco:
un universo iconologico che assume le proporzioni di macrocodice
delle arti figurative, della comunicazione letteraria, di quella visiva in
senso lato, sino a invadere aspetti non marginali della vita quotidiana (negli
apparati, nelle «macchine» celebrative e festive), sino a diventare occasione
di gioco mondano.
La definizione classica dell'impresa resta quella di
Paolo Giovio, per quanto in seguito sottoposta a
revisioni, critiche, integrazioni; l'impresa, per essere «buona», ha bisogno
di cinque «condizioni»: che abbia « giusta proporzione d'anima e di corpo »,
cioè di sentenza e di immagine; che «non sia oscura di sorte ch'abbia mestiero della sibilla per interprete a volerla intendere,
né tanto chiara ch'ogni plebeo l'intenda»; che «sopra tutto abbia bella vista,
la qual si fa riuscire molto allegra entrandovi stelle, soli, lune, fuoco,
acqua, arbori verdeggianti, instrumenti meccanici,
animali bizzarri e uccelli fantastici »; che « non ricerchi alcuna forma umana
»; e infìne « richiede il motto, che è l'anima del
corpo», in lingua diversa dall'« idioma di colui che fa l'impresa». L'impresa nasce come contrassegno «militare»
e «amoroso», come indica con precisione lo stesso titolo del Dialogo del Giovio:
ma ben presto assume una pertinenza più estesa, entra in accademia. Anzi diventa un elemento specificamente
accademico: come dimostra la serie cospicua di testi, discorsi, trattati, o
direttamente o parzialmente dedicati a imprese accademiche. La stessa orazione, in precedenza citata, del
Bargagli è pubblicata in appendice al suo trattato Delle imprese; e il Domenichi, nel Ragionamento che accompagna una ristampa
del Dialogo del Giovio,
riconosce una sorta di necessità produttiva di imprese da parte delle
accademie: « Sono state a' dí
nostri e oggi ancora sono in piedi in Italia tante onorate academie
e raunanze d'uomini virtuosi e litterati,
che, avendo tutti bellissimi concetti, verisimilmente debbono aver fatto
argutissime imprese». E provvede,
quindi, a esibirne un articolato campionario.
Questa pertinenza comunicativa
subito riconosciuta, con il concetto (e più generalmente con gli strumenti
della retorica) spiega molto dello straordinario successo dell'impresa in area
prima manierística, come argomenta il Klein, e poi
barocca. Per il Garuffi,
che osserva la fenomenologia accademica da un punto di vista quasi terminale,
l'impresa può essere definita come «analogica consimboleità». Un gioco verbale di prestigio, questo, che
interviene alla fine di tanti scritti, trattati, repertori, ecc., e che,
citandoli, anche indirettamente, attraversandone lo spessore, è in grado di
riferirne l'esperienza complessiva alla forma accademia, la cui impresa «consiste
in un simbolo col quale esprimesi in pittura dentro
ad un quadro il sentimento comune di tutta la raunanza,
da cui fu scielto quel corpo d'impresa, e consiste in
un desiderio non mai interrotto di giungere alla perfezione del sapere mediante
gli esercizi dell'ingegno». Il primo
gesto da compiere, nel riunirsi, non può che essere quello di darsi il proprio
del nome e dell'impresa: è il primo atto del soggetto collettivo chiamato
accademia: una « scielta » che deve esprimere il «
sentimento comune». Finalizzata, poi:
deve significare, ingegnosamente, argutamente (con giusto equilibrio, come
ammonisce il Giovio: senza eccedere né in oscurità né
in banalità), il programma assunto dal gruppo che si nomina e si dà questa
impresa. E se al nome primo possono
corrispondere tanti nomi secondi, anche all'impresa prima possono correlarsi
altrettante imprese seconde. Con un
avvertimento, sempre del Ferro: che «le imprese particolari, oltre alla conditione che i nomi loro particolari siano tolti dalla
particolare loro impresa e che a lei o al di lei corpo sieno
proportionati, deeno - dico
- confarsi ancora al nome generale».
La tradizione dell'impresa
definisce, con rilievo assoluto, un codice visivo ad alto indice
socioculturale: aperto, mobile rispetto a chi lo osserva, richiede spesso un
apparato notevole di competenze. La sua
remota nascita all'interno dell'esperienza «ermetica», nella sequenza
differenziale geroglifìco-emblema-impresa, ne
connota pur sempre una pertinenza comunicativa riservata, speciale. Se l'impresa individua, in origine, il
proprio di un linguaggio cavalleresco, militare e amoroso insieme, resta poi
sempre una «filosofia del cavaliere», come dice Scipione Ammirato, e come
risolutamente afferma Luca Contile: «Il publicar
l'imprese tocca a coloro nati nobili di sangue e ricchi di robba
e di titoli signorili», con la sola precisa eccezione, tra i «professori delle
arti meccaniche», di architetti/scultori/pittori, purché famosi e al servizio
di principi, non foss'altro per la loro specifica
competenza figurativa.
Questa netta discriminante
(culturale e sociale allo stesso tempo) che percorre tutto il discorso
sull'impresa riproducendone la funzionalità originaria, come si riferisce alla
loro diffusa presenza in accademia? È forse un ulteriore segno di come la forma
accademia veicoli e protragga il primato del modello della «conversazione» tra
gentiluomini? Se l'impresa è il
contrassegno della «filosofia del cavaliere» (armato o innamorato che sia), le
tante, tantissime accademie che l'esibiscono, sono tutte accademie di
«cavalieri», di « honorati huomini»,
di «nobili»? Certamente no: anche se
occorre riconoscere tutta la complessità della questione, nel suo porre la
necessità di affrontare l'analisi del rapporto fra il modello accademia e le
sue tante e diverse pratiche afi'interno d'una storia
che è lunga e movimentata. Soltanto una
descrizione ravvicinata del materiale conservato nell'archivio del Maylender e altrove potrebbe, forse, fornire una risposta
soddisfacente e documentata: intanto si può osservare come le stesse
proporzioni - più volte enunciate - del processo di espansione del modello
«cortigiano», il suo progressivo costituirsi in istanza omologante assoluta, in
generale «forma del vivere», in grammatica della società di ancien régime, descrivano un evidente percorso di annessione (e validazione) di
tipologie culturali anche diverse. Il
modello «cortigiano» esce all'esterno del suo spazio originario e proprio, ma
non smarrisce le sue connotazioni profonde: diventa paradigma, stereotipo,
istanza ripetitiva anche banalizzata, ma sempre in connessione con la sua forma
prima.
Come documenta proprio la
sterminata diffusione di imprese accademiche: da quelle estremamente raffinate,
sofisticate, ermetiche della tradizione cinquecentesca (che necessitano di
adeguate illustrazioni e chiarimenti), a quelle molto píú
semplici, approssimative, prossime anche a un grado zero denotativo. Basta sfogliare uno dei repertori a stampa o
dei manoscritti che le raccolgono: come il Casanatense
1028, che ne presenta ben
5- Una microsocietà regolata: le
leggi accademiche.
La « raunanza
» di « nobili » e di « letterati » ben presto si organizza, assume una forma
stabile e regolata, soprattutto. La
«conversazione» si dà leggi, dice le regole di questo gioco. Le fissa direttamente, articolo dopo
articolo, trascrivendo il codice non scritto ancora ma già operativo,
sperimentato, convalidato dallo stesso replicato riunirsi. Per quanto interessi una quota esigua di accademie,
questa regolamentazione legislativa assume un rilievo notevolissimo: sia perché
consente di individuare una più marcata articolazione tipologica, sia perché
documenta analiticamente quella tendenza della forma accademia a costituirsi
in microsocietà, in «repubblica letteraria».
Una repubblica, una società, non progettabili senza il proprio delle
sue leggi.
Soltanto il 10 per cento circa delle solite 2050
accademie archiviate dal Maylender ha lasciato tracce
evidenti di un apparato legislativo, il testo, più o meno ampio e più o meno
completo, delle sue leggi: e precisamente il 13 per cento delle accademie del
secolo XVI, circa l'8 per cento di quelle del XVII, il 13 per cento ancora di
quelle del secolo XVIII, e il 15 di
quelle di primo Ottocento. Si può, però,
rilevare subito come l'incremento fra Sette e Ottocento sia direttamente
collegato all'intervento del potere pubblico, alla politica culturale
dell'istruzione che gli stati avviano nell'età delle riforme e della
rivoluzione.
Certo occorre osservare che
questa documentazione risente immediatamente dello stato generale del
repertorio del Maylender, dei fortissimi squilibri
nell'informazione prodotta: troppo esigua è, infatti, la quota di accadente
adeguatamente descritte (anzi, descrivibili utilizzando materiali di varia
provenienza, a stampa, manoscritti, figurativi, anche), mentre la stragrande
maggioranza non può che limitarsi a esibire i soli contrassegni d'identità,
l'elementare, fisiologico, dato del nome, della città, dell'impresa. Per surrogare questa scarsità d'informazioni
relativa all'assetto istituzionale, si potrebbe ricorrere ad alcuni elementi
indiziari: la citazione, ad esempio, di cariche accademiche ricoperte da un
socio, la presenza di un principe/protettore, il riferimento alla periodicità e
regolarità delle riunioni e al loro essere tematicamente programmate, come
pure ad altre modalità organizzative. Ma
si tratta di indizi frammentari, ascrivibili a un'economia legislativa non
scritta: in ogni caso difficilmente computabili senza rischi di valutazioni
disomogenee.
Il Maylender
non si limita a ricordare la presenza di queste leggi scritte: spesso le
pubblica, anche integralmente, organizzando nel repertorio un altro repertorio
settoriale. Ne risulta che l'istanza legislativa segue, di solito, l'esperienza
più o meno lunga e regolare di un'adunanza: l'atto che ne formalizza lo statuto
non può che fondarsi sul riconoscimento della validità di quel primo
gesto. Nel discorso di apertura
ufficiale dell'Accademia della Crusca, il 25 marzo
Oh favorita Accademia, poiché in
tal giorno tanto sublime, tanto ragguardevole e sacrosanto, se' stata degnata
che ti si dea principio. E in verità
infino ad ora non possiamo dire noi con verità che questa sia stata Accademia,
poiché essendo stata priva d'ordine, di capo e d'esercizi accademici, più tosto
brigata s'è potuta chiamare. Ma oggi voi
vi siete eletto un capo che (benché considerando la persona, indegnissimo di
tanto grado) mediante voi, che di lui non avete di mestiere, se non per ombra
vi saprà reggere e governare.
Il passaggio dalla condizione di «brigata» a quella di
accademia prevede l'acquisizione di alcuni elementi obbligati: le leggi li
riassumono e li ordinano tutti.
Dalle dirette trascrizioni del Maylender
è possibile desumere una tipologia normativa stabile al di là delle stesse,
ovvie, procedure di personalizzazione e delle stesse trasformazioni
istituzionali: la legge intanto regola l'economia del nome e dell'impresa, i
sia generali sia particolari; dà poi indicazioni sulle modalità di riunione e
di lavoro; formalizza con minuzia il governo, le cariche, le gerarchie; formula
criteri per le nuove ammissioni; enuncia, infine, alcuni divieti e
raccomandazioni, prevedendo - per ogni eventuale controversia - un apposito
collegio di disciplina. Questo schema è
duraturo e stabile: almeno per quanto riíuarda
l'affermazione dell'autonomia piena del potere decisionale e operativo, di
scelta e di rifiuto, dell'accademia, l'enunciazione della sua sovranità. Attraverso la legge questo soggetto
collettivo assume le proporzioni di soggetto giuridico: si costituisce in
microsocietà autonoma nei fondamenti stessi del suo potere Un'istanza
normativa che emerge subito: già con le accademie senesi, con il primato - in
quanto società regolate - degli Intronati e dei Rozzi le cui leggi risalgono
direttamente all'atto fondativo, cioè al 1525 e al 1531 rispettivamente.
Un'analisi in dettaglio dei testi editi dal Maylender o segnalati consentirebbe d'individuare alcuni
elementi di grande rilievo: verificare, ad esempio, l'influenza del modello
giuridico delle XII tavole (molto imitate: dagli Intronati sino all'Arcadia), o
l'acquisizione di particolari procedure.
Nell'economia di questo lavoro, intanto, una sola esemplificazione
legislativa, particolarmente completa pur nella sua stringatezza non
formalizzata in articoli: le leggi dell'Accademia-degli oziosi di Napoli, che
risalgono al primo Seicento:
Gli essercitii da farsi nell'Academia, percioché
sono lo strumento principale a conseguire il fine da noi desiderato, dovranno
essere con molta sollecitudine posti in opera da li Academici.
Saranno principalmente tre, et
ciò sono le lettioni, le composizioni e le questioni
ad esseguíre.
I quali essercitii deve ragunarsi l'Academia almeno un giorno della settimana, a
ciò stabilito nell'hora che parrà píú opportuna, e
dovrà ciascuna ragunanza durare almeno per lo spatio d'un'hora e mezza, distribuendo la prima mezz'hora
alle lettioni, la seconda alle composizioni et alle
loro censure et risposte, l'ultima alle questioni.
Le lettioni
dovranno imporsi dal Principe agli Academici conforme la loro habilità, dottrina et ínclinatione,
e distribuite che saranno dovrà farsene nota dal Segretario, il quale havrà pensiero d'andare racordando
a tempo a coloro che dovranno leggere, affìnché in
niuna adunanza manchi la dovuta lettione; et in caso
di assentia o d'altro impedimento di colui a chi
toccasse di leggere, potrà con saputa del Principe avisare
per la lettione alcuno degli altri nella nota descritti.
La materia delle lettioni dovrà essere 'ntorno
alla Poetica, alla Ritorica, alle discipline
matematiche et a tutte le parti della filosofia, et intorno alla spianatíone degli autori c'hanno delle sopradette materie
scritto: vietan e le non si debba leggere alcuna
materia di T@ologia e della Sacra Scrittura, delle
quali per riverenza dobbiamo astenerci, e medesimamente niuna delle cose
appartenenti al publico governo, i quali si deve
lasciare alla cura de' Principi che ne reggono.
La legge disciplina il tempo dell'accademia, organizza
la sua scansione funzionale alla «conversazione» di un sapere senza rischio di
complicazioni politiche ed ecclesiastiche: dominio delle lettere (anche
«amene»), della retorica, delle scienze classicamente umanistiche, attraverso
le «lettioni», la proposta di « composizioni » (con
relativa pubblica « censura »), le dispute.
Un impiego del tempo socializzato che tenga conto delle competenze di
ciascuno. Il caso di questa legge degli
Oziosi è esemplare, anche se la sua articolazione non è completa: non dà
indicazioni sulle procedure associative e sul governo accademico. In altre
leggi questi dati sono molto precisi, addirittura esclusivi, come nel caso di
quella degli Animosi di Cremona, che sancisce «che quelli s'hanno ricevere
siano persone o nobili di sangue, ancorché non fossero atti alli
esercizio o nobili per virtù, cosí pratica come
speculativa, e che a tale ricevimento concorrano gli due terzi de' voti». La forma accademia come radunanza di « nobili»
e di «letterati» è esplicitamente sancita, trascritta in corpo legislativo: in
poche battute è riassunta una vastissima letteratura sulla nobiltà, sul suo
doppio compatibile di sangue e di virtú. L'accademia
l'assume interamente, compiutamente: la soglia selettiva si attesta sul
parametro della nobiltà, comunque sia.
Ma questa «repubblica
letteraria», allora, come si correla con la forma istituzionale della società
reale? Una testimonianza, ancora: quella
di Giovanni Battista Alberti, che scrive nel 1639 un ampio Discorso
dell'origine delle Accademie publiche et private, cioè le università e le accademie
vere e proprie, in quanto « honesto trattenimento » e
« raunanza di persone scelte e riguardevoli per
nobiltà, dottrina e costumi, ove si crea il Principe a tempo, si fanno gli
officiali annui, si formano regole da osservarsi da ciascuno accademico, governandosi
l'Accademia a guisa di republica con modo
aristocratico». La definizione è, pur nell'assoluta concisione, molto precisa
per quanto attiene la struttura organizzativa, ma colpisce quella definizione
della forma del suo governo come « republica con
modo aristocratico ». Probabilmente ha ragione il Pecorella', quando vi
riconosce un segno inconsapevole, forse, della diretta influenza dell'assetto
politico-istituzionale di Genova, città in cui l'Alberti viveva e in cui
pubblica il suo Discorso. Ma quell'«aristocratico» non può anche
intensamente connotare l'ambiguità strutturale di questa «repubblica», il suo
essere all'insegna esclusiva della nobiltà, di «letterati», certo, della loro «virtú », ma
anche e soprattutto di « nobili », del loro « sangue »
Una strana «repubblica». Inscrive compiutamente una scena e ne organizza
le procedure di simulazione: attraverso le leggi, anche, oltre che attraverso
il rapporto fondamentale con il modello culturale cortigiano della « conversazione
». Questa «repubblica» è determinata nel suo tempo autonomo (per durata oltre
che per periodicità), ed esibisce la maschera del proprio del nome e il metasemema metaforico-metonimico dell'impresa; è
perimetrata anche nello spazio: un interno che non può avere alcun rapporto di
continuità con l'esterno, come alcune leggi esplicitamente sanciscono: « Quello
che si averà trattato nell'Academia, uscito che sarà
l'Academico fuori, né 1'habbia a palesare ad huomo
vivente, neanco al proprio Academico che quel giorno
non vi fosse intervenuto, sotto la sudetta pena, e
basti che de ciò vi sia la relazione di due Academici non sospetti», affermano
le leggi degli Accesi di Palermo, e replicano quelle degli Ardenti di Viterbo:
«Niun Academico ardisca di palesare i segreti e i
negozi che si tratteranno nelle congregationi».
È questa probabilmente la motivazione
strutturale dei tanti sospetti di congiura che si addenseranno su molte
accademie: da quella pomponiana a quelle napoletane
sciolte per ordine del viceré Pedro de Toledo nel I547, ad altre ancora.
Questa strana «repubblica»
chiamata accademia non è, però, il sogno di una cosa: corrisponde a centinaia e
centinaia di atti fondativi, a una serie infinita e continua di pratiche, effìmere o istituzionalizzate che siano, alle tante « raunanze » che si susseguono compiutamente
autoreferenziali, nella loro economia autonoma di spazio e tempo, anche quando
escono all'esterno, con « memorie », « atti », « lezzioni
», discorsi di vario tipo. Una « repubblica » in maschera che codifica l'«intertenimento», il gioco, la festa: il carnevale segreto e
differenziale dei «nobile», per sangue e per virtú
che sia. Una microsocietà simulata - e
regolata - che si vuol separare dalla società reale, ma ne riproduce
organicamente il codice culturale profondo, il modello antropologico. Quando ad
esempio si sofferma a sancire per legge il divieto del gioco: «Che nel luogo
dell'Accademia sia proibita qualunque sorta di giuochi, essendo simil trattenimento contrario al fine che si pretende,
ch'è di pascere l'intelletto e di regolare la volontà», ammonisce la legge
degli Animosi di Cremona '; «che non ardisca alcuno di portare nei locali
dell'Accademia dadi, carte ed altre cose atte a giuocare», precisa meglio
quella degli Ardenti di Viterbo li; «si proibisce in detta Accademia ogni
illecito trattenimento, cioè in giuochi di carte, dadi, ed altri simili
disonesti trattenimenti», replica quella dei Timidi di Maritova.
Giochi che devono restare fuori dei «locali» dell'Accademia perché propri di
«trattenimenti disonesti», che contraddicono la funzionale disponibilità a una
forma di gioco, invece, compiutamente onesto perché virtuoso, riservato a
nobili per lettere e per sangue.
È il modello stesso della «conversazione»
accademica a garantire che il suo gioco produrrà un « intertenimento
» piacevole e virtuoso: non solo, ma è soprattutto in grado di assicurare a
tutti coloro che vi prendono parte - « grandi/ mediani/piccioli» che siano -
l'uguaglianza, esaltata come «il principal fra i
molti sostentamenti delle Academie et congregazioni
», proprio per il suo strutturale «stimar il picciolo suo eguale et se stesso
grande stimar picciolo ». Un'uguaglianza, però, a sovranità limitata: non solo
non può non tener conto di tutti quei casi in cui l'accademico sia un uomo che
abbia - fuori - «dignità et offitio », perché «in tal
caso è obbligato a servar il decoro del magistrato che egli tiene» (e in una
società cosí formalmente e rigidamente gerarchizzata,
cosí rispettosa e gelosa di etichetta e di
precedenze, questa casistica non individua certo solo poche eccezioni), ma è
valida esclusivamente nello spazio e nel tempo dell'Accademia, nel suo interno:
«Fuori di essa ciascuno secondo la sua qualità è trattato», come dice, appunto,
con estrema chiarezza il Canobbio.
Questa uguaglianza messa in
scena nel gran teatro (o gran mercato, secondo il Garuffi)
dell'accademia, da tanti esaltata e issata a contrassegno generale, naturale
(fisiologico), del suo costituirsi in «radunanza de' virtuosi», non riguarda
in alcun modo gli statuti sociali reali e le gerarchie politico-istituzionali,
non ne sospende la validità per riprodurre una società qualsiasi di uguali: l'extraterritoríalità accademica riguarda esclusivamente la
forma e le pratiche di una núcrosocietà (regolata)
della «conversazione». Fondata e
finalizzata, al tempo stesso, suRa/alla virtú, sulla/alla nobiltà (di sangue e di lettere),
assicura a tutti coloro i quali vi sono ammessi che potranno parlare senza
discriminazioni che riproducano all'interno accademico meccanicamente le
disuguaglianze dell'esterno: in questo circuito comunicativo tutti sono,
devono essere, uguali, lo scambio d'informazioni (il «mercato») può
realizzarsi senza salti né fratture, perché la competenza culturale di chi
assume di volta in volta il ruolo di locutore, rispetto ai pur sempre variabili
allocutori, in un'economia di mutua reversibilità (effetto primario
dell'uguaglianza), è assolutamente omogenea, organica, continua con quella di
tutti. Una microsocietà di uguali: per
conversare virtuosamente, nobilmente, con il conforto di un apparato scenico,
gradevole e piacevole, come le tante macchine che invadono lo spazio cittadino,
per celebrare nascite e morti, matrimoni e guerre, santi ed eroi. Un'omologia culturale profonda, che vuole
sdoppiarsi in un interno circoscritto ma al tempo stesso sovraconnotato:
spazio della virtù e della nobiltà, « repubblica letteraria».
Lo sterminato archivio del Maylender - tante volte citato e utilizzato raccoglie nei
suoi cinque volumi un insieme notevolissimo di informazioni, di dati: con forti
dislivello in quantità e qualità, ma tra loro compatibili. In ogni caso rappresenta un punto obbligato
di riferimento per ogni percorso attraverso la fenomenologia accademica, in
grado anche di segnalare ulteriori deviazioni e soste, rinviare ad altri
archivi, a tante biblioteche. Un insieme
costellato da non pochi errori, dominato da un'istanza di omologazione di forme
associative che accademie certamente non sono (confraternita, brigate,
compagnie, ecc.), ma sempre attentissimo a ogni minimo indizio, alla più opaca
traccia. Un monumento davvero
eccezionale e tutto sommato completo: ben poche sono le acquisizioni ulteriori
proposte, e di poco rilievo.
L'insieme scheda alfabeticamente
poco più di 2270 «accademie», di cui
una ventina sono subito da escludere perché il Maylender
stesso ne confuta persuasivamente l'esistenza (confusione nelle fonti, o
non-accademie). Dalla nostra rilevazione
è opportuno accantonare la tipologia della « colonia »: sia perché riproduce
direttamente la forma dell'accademia-madre, sia soprattutto perché subentra,
nella maggioranza dei casi, ad accademie preesistenti e già schedate (colonie
arcadiche, in particolare, ma anche di altre accademie: per un totale di circa
140). Dal computo sono poi escluse le
accademie umanistiche e quelle tante compagnie della Calza che minuziosamente
il Maylender registra, per un'evidente pertinenza di
campo: di questo lavoro rispetto all'altro che lo precede (e sono circa
6o). L'insieme su cui sono state e
saranno prodotte rilevazioni e tabelle è costituito, dunque, da 2050 accademie.
I dati dell'archivio del Maylender, come si è detto, risultano molto squilibrati:
in realtà non fanno altro che riprodurre, trascrivere, lo stato delle
fonti. Accademie di lunga durata e
complessa organizzazione, accanto ad accademie effimere, di cui si conserva
solo il nome e la città, talvolta l'impresa; accademie dalla storia illustre e
accademie senza storia, anzi fuori dalla storia, costrette a una marginale
presenza nella stessa sequenza cronologica: una quota notevole (.137, circa il
7 per cento dell'insieme) risulta non solo priva di data ma anche di qualsiasi
elemento temporale, sia pure indiretto; e moltissime altre accademie possono
essere riferite soltanto a generiche aree secolari, con un margine di
approssimazione sempre notevole: la quota di accademie senza data o con data
generica si avvicina complessivamente al 15 per cento.
Tenendo necessariamente conto di questi elementi, la
distribuzione cronologica dell'insieme consente d'individuare il picco
fortissimo del secolo XVII (42,5 per cento) rispetto al 18,4 del secolo XVI e
al 25 del XVIII, mentre nel primo Ottocento la misura è del 7,4 per cento. Ma di quali accademie si tratta, qual è la
tipologia di queste tante radunanze?
Descrivendo la situazione di quei veri e propri contrassegni accademici
che sono il nome e l'impresa, si è già proceduto a individuare un'articolazione
differenziale, che pur semplificando la classificazione del Ferro, consente di
individuare ritmi diversi nel caso delle accademie che assumono il nome proprio
del loro promotore, di quelle che invece si danno una compiuta organizzazione
accademica (con il relativo proprio del nome e dell'impresa), e di quelle,
infine, che si nominano a partire dal campo disciplinare, dall'ubicazione della
sede, ecc. E nello stesso tempo la
presenza di dispositivo giuridici ha già proposto la questione dello statuto
accademico anch'esso differenziato.
Una prima suddivisione potrebbe
essere quella tra accademie «pubbliche» e « private », ma non nel senso
proposto dall'Alberti, che nelle « pubbliche » situa le università'. Questa suddivisione è comunque complessa e
precaria, e non potrebbe in alcun modo organizzarsi in tabelle d'assieme,
quantitativamente omogenee, sia per la mobilità istituzionale dell'accademia,
sia per lo stesso confine incerto tra pubblico e privato, tra formalizzato e non-formalízzato.
In principio fu, comunque, la
«conversazione»: codificata, come si è detto, anche in assenza di leggi
scritte. Un gruppo di « nobili » e di «
letterati » si riunisce: in un interno circoscritto e determinato, il più delle
volte nella casa di chi promuove l'accademia (e spesso le dà il proprio nome),
o a turno nelle varie case degli accademici.
Ma le riunioni di - questa radunanza privata (formalizzata o non, poco
importa) possono anche tenersi in uno spazio neutrale, pure pubblico: in una
chiesa ad esempio. La serie degli
incroci, per quanto non infinita, è certo notevole e intricata, e si complica
introducendo la variabile della legge: come nel caso, in precedenza ricordato,
della Crusca, che trasforma la propria condizione di «gioviale brigata per
attendere a liete esercitazioni letterarie», come dice il Maylender,
in quella di accademia con il proprio della legge scritta. Un'ulteriore, definitiva, complicazione
conseguirebbe dalla valutazione della storia di molte accademie, che mutano non
solo ragione sociale ma anche campo di applicazione e finalità, soprattutto
nella stagione delle riforme e delle rivoluzioni, quando diventa molto stretto
il rapporto con il potere e con la sua politica generale nel campo della
pubblica istruzione e ,del sapere. Un
rapporto spesso non volontario, subito da parte dell'accademia, che deve
accettare decreti che sanciscono la fine della sua autonomia, del suo essere
conversazione privata: come quello della Repubblica cisalpina del 1797, e
quello napoleonico del 1810; e prima ancora, come quello di Maria Teresa e
Giuseppe II, che dà un nuovo assetto alla vecchia Accademia Virgiliana, ex
Timidi, nel 1767.
Sotto questo profilo la situazione
diventa ancor più complessa e rende praticamente impossibile una descrizione
d'insieme. Le modalità di rapporto dell'accademia
con i potere politico sono infatti estremamente differenziate sia nella
sincronia sia nella diacronia. Si
registrano, nella maggior parte dei casi, rapporti di reciproco gradimento,
talvolta - come si è detto - di riconoscimento ufficiale: e non potrebbe
essere altrimenti, considerando la forma stessa dell'accademia, in quanto
conversazione di nobili e di letterati. Ma si registrano pure non pochi casi di
conflittualità, scoperta o latente, di situazioni diffìcili:
come nel caso delle accademie romane sotto il pontificato di Paolo li, in
quello degli Ortolani di Piacenza, che scompaiono all'arrivo dei Farnese, in quello
delle accademie napoletane al tempo del viceré Pedro de Toledo. Talvolta il rapporto con il potere si fa
diretto e organico, anche ben prima dell'avvento della politica delle riforme. Due casi soltanto, fortemente emblematici:
il primo riguarda la ben nota vicenda dell'Accademia degli Umidi, che solo dopo
pochi mesi dalla sua costituzione (con relativa stesura di leggi) è
trasformata, per intervento diretto di Cosimo, in Accademia Fiorentina, con un
preciso ruolo di controllo e d'indirizzo - centralizzato: strutturalmente
«pubblico» - delle attività culturali del granducato, e quindi integrata in un
sistema multipolare, accanto all'università e all'Accademia dell'Arti del disegno. Il secondo caso riguarda l'Accademia Palatina
di Napoli, promossa per intervento personale del viceré Luis Francisco de
Una nettissima discriminante
sembra porsi tra accademie private e pubbliche, tra lo strutturarsi in società
regolata e il continuare a riprodurre la forma «conversazione»: un bipartitismo
imperfetto ma che, comunque, separa profondamente la fenomenologia
accademica. Da una parte le accademie
con ampia traccia di sé, del proprio lavoro, con quantità anche notevoli di
memoria conservata, iscritte nel discorso della storia; dall'altra una serie
fittissima, continua, di atti fondativi con pochi indizi, quasi senza memoria:
accademie senza storia. E se la
discriminante profonda fosse sul piano della capacità di elaborare un
progetto, di assumere consapevolmente il punto di vista del modello culturale,
piuttosto che quello delle sue pratiche?
In ogni caso queste tante accademie senza storia fanno parte integrante
della storia della forma accademia: dicono, pur nell'assenza di un'identità
piena, di una voce forte e interamente riconoscibile, tutt'intera la capacità
penetrativa e omologante del modello culturale della «conversazione».
Queste distinzioni tipologiche e
istituzionali pongono il problema di altre distinzioni, immediatamente
materiali, finanziarie, anche: quanto costa un'accademia, e chi ne finanzia
l'attività? Ancora un discorso che non
può non tener conto degli elementi differenziali della fenomenologia accademica:
un conto è porsi questa domanda per le accademie «pubbliche» e per quelle che
hanno una struttura stabile, una sede, cariche, ecc.; e tutt'altro diventa per
le private, informali o effimere che siano. Che comunque un'accademia costi
poco, meno certamente di altre istituzioni culturali (dell'università, ad
esempio) è un dato sicuro: non a caso si consigliavano i principi, nel
Cinquecento, a promuoverle e proteggerle, perché in cambio di un'esigua spesa
garantivano un grande prestigio, onore e fama, per il
mecenate-protettore. Ma non sempre l'attività
accademica è legata alla generosità di un finanziatone: talvolta raccolgono
quote associative (per l'Arcadia esiste un'ampia documentazione contabile),
oppure si dedicano ad attività editoriali (come la veneziana Accademia della
Fama, che elabora un grandioso progetto di stampe, presto fallito; o come
L'accademia costa poco, almeno fìno a quando la «nuova scienza» non pone una domanda di
strumenti e macchine complessi e costosi.
Ma ben poche sono le accademie scientifiche sede di esperienze: un caso
pressoché unico ècostituito dalla fiorentina
Accademia del Cimento, che può godere dell'appoggio granducale; e per le
private si può ricordare l'Accademia Corrara di
Venezia, che per le sue ricerche nel campo dell'astronomia può contare sull'appassionata
e munifica presenza di Girolamo Correr, da cui prende e nome e sede. Per quanto diventi luogo di conversazioni
settoriali, che elaborano e usano un nuovo specifico linguaggio non più
«universale» (come predicava il Guazzo), l'accademia scientifica continua a
essere prevalentemente una struttura di scambio culturale e sociale: anche
quando rende pubbliche « lezzioni », « memorie », «
atti », produce all'esterno il lavoro compiuto al suo interno.
Istituzione a basso costo,
dunque, l'accademia, ma fortemente remunerativa: come una festa, un apparato,
una macchina celebrativa, esattamente come uno dei tanti eventi che percorrono
la scena urbana iscrivendo lo spazio e il tempo della festa',
spesso direttamente a questi correlata e sovrapposta, l'accademia suscita
l'ammirazione, sollecita la « virtù » e l' « onore » di chi vi prende parte,
attiva una domanda emulativa. il moto perenne di tanti atti fondativi: pratiche
di un modello omologante, eventi di un uso del tempo e dello spazio in senso
aristocratico-cortigiano, come virtuosi intertenimenti,
onorate conversazioni. L'atto del
riunirsi - formalizzando o non formalizzando il suo statuto - risulta cosí fortemente connotato, ben più che una festa qualsiasi,
un qualsiasi intertenimento: il suo essere insieme
onorato e virtuoso ne dilata, ne amplifica la fama, la «notizia», ne enuncia
tutta la superiorità, la rende indiscutibile.
Da imitare, da riprodurre: un investimento sicuro, in termini di
immagine e di prestigio, per chi se ne faccia promotore, animatore.
L'insieme dei 2050 atti
fondativi può anche essere scomposto per tipologie interne, per settori
d'interesse, per le materie di cui è oggetto la comune conversazione. Risulta ampiamente dominante, almeno sino
alla svolta settecentesca delle accademie organizzate per «classi», quella
forma «universale» di conversazione di cui il Guazzo enuncia la superiorità
«civile». I dati relativi a questa
nettissima preponderanza sono i seguenti: 72,6 per cento rispetto all'insieme
delle accademie del secolo XVI, 77,2 rispetto a quelle del secolo XVII, 63,6
rispetto a quelle del XVIII secolo.
Certo, occorre tener conto dei notevolissimi dislivello d'informazione,
e soprattutto del fatto che per la massima parte di queste accademie registrate
come «universali» si è dovuto procedere a una rubricazione in absentia di
notizie utili e particolareggiate: ma che non si sia conservata memoria di
interessi specifici non è, forse, indizio del loro del loro praticare una
«conversazione» non altrimenti circoscrivibile, del loro essere, appunto,
«adunanze» secondo l'immagine che ne produce il Guazzo? In tutti questi casi riunirsi implica, dunque,
una necessità complessiva di rapporto, socialmente e culturalmente connotato;
soddisfa una sempre forte e sostenuta domanda di scambio di notizie
(«letterarie»); attiva la producibilità stessa della comunicazione: in
termini, pur sempre, di intertenimento, di festa, di
gioco. Le differenze istituzionali e
d'apparato sembrano non contare: accademie con o senza legge, effimere o
stabili, private o pubbliche, si situano organicamente (funzionalmente) sotto
il segno dominante. della « civil conversazione», ne
dicono la piena pertinenza di territorio - continuo e omogeneo - di un sapere
non ancora separato in pratiche e linguaggi settoriali, non ancora
distinguibile in «classi» differenziali.
Un insieme di eventi accademici non solo
quantitativamente cospicuo, ma forte soprattutto nel modello che esibisce e
riproduce: la centralità delle humanae litterae.
Questo scoperto contrassegno della matrice originaria,
della nascita umanistica della forma accademia, trova riscontro, dunque, in una
serie formidabile di pratiche che in dettaglio ne articolano la competenza
generale (« universale ») in quanto « letteraria conversazione », già dalla
stessa fase cinquecentesca: accademie, insomma, che si rivolgono a settori
specialistici della comunicazione letteraria, come quella della Nuova poesia,
a Roma verso il 1535, che sperimenta
una metrica «barbara», o come l'Accademia della Chiave d'oro, a Pavia verso il
1546, che si dedica alle lettere classiche o greco-latine, o come ancora
l'accademia dei Marinai, a Rimini verso il 1590, che cura l'egloga piscatoria,
o quelle degli Addiacciati di Prato, verso il 1550: e dei Sollevati di Treia, verso il 1590, che privilegiano la
poesia georgica pastorale. La
specializzazione riguarda anche l'aspetto linguistico, sempre rispetto alla
comunicazione letteraria: è il caso, ovviamente, dell'Accademia della Crusca e
di quella della Valle di Blenio, verso il 1560, con
un'attenzione alla produzione dialettale.
Questa dominanza della «conversazione letteraria» è
stabile e continua, e s'intreccia con le funzioni sociomondane
proprie della forma accademia in quanto istituzione della festa e del gioco in
una società di «nobili» e di «letterati ». Conferma, insomma, a pieno le
dimensioni culturali di questa società, le riproduce, e interamente le connota:
questo intertenimento non può che essere in primo
luogo «letterario», perché ne cita in ogni suo atto la forma profonda e
originaria. Secondo modalità che si
trasformano, nella lunga durata: dal primato umanistico e primocinquecentesco
del dialogo (della sua pertinenza «filosofica», o comunque di un esercizio
molto articolato delle humanae litterae, con
una forte discriminante linguistica, anche, di tipo classicistico) alla diffusa
produzione accademica - in volgare - di testi collettivi strettamente
«letterari», correlati agli statuti dei generi definiti dalla «fondazione »/«
nascita » della letteratura, e finalizzati alla produzione di « raccolte» di
componimenti vari: poesie, prose, orazioni, testi teatrali, ecc.
L'archetipica «setta di filosofi» è ancora riconoscibile
nelle accademie umanistiche: non più poi nella selva che si affolla di
accademie cinquecentesche. Letterarie e
volgari: come rileva, anche precocemente, nel 1537, un attardato sostenitore
del primato classicistico del latino, il Florido, quando polemicamente critica
tutti coloro che solo per aver trascorso pochi giorni a studiare il volgare
ardiscono fondare un'accademia ". Sette di letterati, ora: professionisti e dilettanti si riuniscono insieme,
per occuparsi «principalmente di lettere », di «buone e degne lettere», come
scrivono il Bargagli e il Guazzo. La
loro «conversazione» è letteraria perché rivolta alla pubblica «lettione» di testi, alla loro censura, alla loro
pubblicazione, infine. A partire dalla
fase cinquecentesca, fino a tutto il Settecento, la storia della produzione
letteraria s'intreccia profondamente, in modo non sempre districabile, con la
storia delle accademie. La biografia - e
l'esperienza intellettuale - di grandi e piccoli protagonisti percorre lo
spazio accademico: basti pensare ai casi esemplari di Speroni, Tasso, Marino,
Loredano, fino alla grande stagione dell'egemonia arcadica, di un'accademia,
cioè, che dà il suo nome, periodizza, una fase della storia letteraria
nazionale (e come tale è riconosciuta già dagli «avversari» di secondo
Settecento). Un caso senza dubbio
eccezionale, questo dell'Arcadia, ma che attesta come tra accademia e
letteratura si definisca - per tutta la fase almeno dell'ancien régime - un reticolo, una
grata, di scambi, un'economia - reversibile - di rapporti e di sovrapposizioni,
un gioco delle parti che interferisce direttamente, e in modo non marginale,
sulla storia di alcuni generi: il fenomeno del petrarchismo, la sua diffusione
«di massa», la sua funzione di strumento elementare (sillabario) per l'accesso
all'alfabetizzazione tramite la lingua del padre Petrarca passa in gran parte
attraverso l'istituzione accademica, sede primaria di
scrittura/lettura/censura; e lo stesso si potrebbe argomentare per il dibattito
teorico sugli statuti della comunicazione letteraria sia in generale (la
«poetica» e la «retorica») sia di alcuni generi (il poema ad esmpio, la querelle
Ariosto/Tasso); la stessa produzione di testi teatrali (di spettacolo)
trova nelle accademie un punto centrale di elaborazione e di riferimento, come
mostrano - già nella fase di avvio della storia accademica - le vicende degli
Intronati e dei Rozzi. Insomma la storia della letteratura cinque-seicentesca,
dal Cortegiano all'Arcadia, potrebbe essere tutta
scritta assumendo il punto di vista dell'accademia, la sua centralità. Un indizio
minimo, infine: essere accademico, di una o più (o di «níuna»)
istituzioni, diventa un contrassegno d'identità, da issare subito nel
frontespizio delle proprie opere: non c'è testo a stampa, tra fine Cinque e
primo Seicento soprattutto, che non riporti con precisione, con pignoleria
quasi, le referenze accademiche del suo autore ".
Se l'accademia umanistica trascrive il suo farsi nel
dialogo, citando fedelmente la forma del modello originario, le sue
trasformazioni successive in «conversazione letteraria» producono tipologie
testuali diverse Ma omogenee, pur sempre di «buone e degne lettere»:
essenzialmente discorsive e poetiche.
[……..omissis……….]
Sull'originaria istanza socializzante dell'incontro
anche piacevole, giocoso, antropologicamente festivo, finisce per prevalere in
modo decisivo e irreversibile l'istanza conoscitiva delle competenze e
professionalità dei vari soggetti che si riuniscono: per fare accademia, pur
sempre. Ma a partire dalla piena
riconoscibilità dello statuto culturale di ciascuno: perché le informazioni che
si scambiano siano percorribili, reversibili.
Se accanto alla conversazione si compiono «esperienze», si trasforma la
qualità del lavoro accademico e il suo rapporto, in particolare, fra il tempo
dell'accademia e il tempo della professione/ruolo sociale, fra interno ed
esterno, insomma. Questi accademici «
scienziati » non sembrano cercare un'occasione « festiva », un « intertenimento »: al contrario, sembrano prolungare, nelle
riunioni accademiche, il tempo e lo spazio del loro lavoro , con l'identità
professionale di ciascuno, il proprio sapere, la propria competenza. Per questo, probabilmente, le accademie
scientifiche risultano popolate soltanto da «scienziati», e in termini microsettoriali molto forti: i matematici con i matematici,
i botanici con i botanici, i medici con i medici, gli astronomi con gli
astronomi, ecc.
Questa «nuova scienza» trasforma la conversazione: a
metà Seicento ha rapidamente intrapreso la sua traiettoria di fuga non solo
dall'unitarietà classico-umanistica del sapere, ma dagli stessi suoi codici
linguistici, dalle sue modalità comunicative.
La sua nuova accademia produce un nuovo sistema comunicativo, un nuovo
linguaggio - matematico, secondo il modello teorico-metodologico galileiano,
destinato a diventare in breve tempo il vettore di una comunicazione riservata,
specializzata: per quanto «accademica» questa nuova lingua non potrà che
essere interamente differenziale.
Un segnale del progressivo affermarsi della «nuova
scienza» sperimentale è dato dalla stessa nominazione accademica: Lincei,
Investiganti, Cimento, Traccia, Spioni.
Nomi tutti che intendono esplicitamente, consapevolmente, connotare il nuovo
metodo di ricerca, i suoi moduli operativi: issare nel proprio del nome
collettivo (e trascrivere nel correlato dell'impresa) la forma del lavoro di
ciascun membro, il suo strutturale procedere per indizi, investigando le
tracce, come una lince, «provando e riprovando ». In questa economia del nome
proprio si profila l'immagine di uno scienziato «spia», prende corpo
linguistico il suo metodo indiziario.
La trasformazione è irreversibile: nella fase
settecentesca i vecchi vessilli dell'accademia classica (nome e impresa) sono
abbandonati. Non più invenzioni
ingegnose, argute, paradossali: segnali, comunque, del piacere
istituzionalmente connesso a una forma accademica costituita in quanto
conversazione, segnali anche di un tempo e di uno spazio connotabili in termini
festivi. Nomi ora di uno spazio e di un
tempo dedicati, ancora istituzionalmente, al prolungamento di un lavoro, al
suo farsi pubblico ma non mondano, nel rispetto integrale delle competenze
professionali settorialmente riconosciute, e ordinate - divise - ora in
classi. Mai più insieme: le belle
lettere con le belle lettere, le scienze con le scienze, le arti con le
arti. Non più quindi il bisogno - giocoso
- di rinominarsi, di tradurre il proprio di una competenza all'interno di un insieme,
bensì la registrazione fedele, la duplicazione, di quella sola identità
nominabile con il proprio del nome, senza ellissi, metafore, obliquità. Accademia di scienze: l'identità piena e
stabile di una disciplina autonoma per statuto e pratiche, di un sapere che
riconosce il suo essere separato, anche per linguaggio, atti, gesti
comunicativi.
E questo nominarsi diretto mette in questione lo stesso
termine «accademia», troppo compromesso con l'ordine sociale ed epistemologico
dell'ancien regime, ora che si progettano riforme, rivoluzioni, si agisce e si
parla in nome del progresso e della felicità.
Prevale un'istanza denotativa: società, istituto, ateneo. Anche perché l'accademia, proprio in quanto
scientifica, funzionale, cioè, al massimo grado, ad un progetto di progresso, a
una politica pubblica della conoscenza e dell'istruzione, stringe forti
rapporti con il potere pubblico: l'Istituto delle Scienze di Bologna, fondato
nel I712, rappresenta una vera e propria svolta istituzionale, che troverà ampia
conferma nell'azione di molti governi «illuminati», che provvederanno a
incentivare il lavoro delle accademie scientifiche o di quelle «miste» (in cui
però la componente scientifica è non solo attestata ma molto rilevante) dal
Regno di Napoli, al Lombardo-Veneto, al Piemonte, allo Stato Pontificio,
ecc.
La trasformazione coinvolge radicalmente la funzione
sociale dell'accademia: questo prevalere del lavoro e del suo specifico
sapere, questo mirare al progresso, all'utilità pubblica, alla felicità,
spiazza definitivamente la vecchia forma dell'accademia-conversazione, « intertenimento » di nobili e di studiosi. R il tempo, ora, degli scienziati, delle loro
competenze: non più per gioco, l'accademia.
Questo nuovo sapere «borghese», con le sue arti, le sue tecniche i suoi
mestieri, e le sue scienze, con la sua Encyclopédie,
non vuole aver nulla a che fare con l'ancien regime, con la sua stessa ancienne Académie: la nuova si chiamerà istituto, ateneo,
società.
7. La durata.
Piú volte si è fatto riferimento
alla condizione profondamente differenziale dei 205o eventi accademici rubrícati dal Maylender: anche
per quanto riguarda la durata, la continuità della loro presenza. Eventi effimeri s'intrecciano a istituzioni
che varcano i secoli, stabili e rinnovate: è possibile procedere a una
ricognizione di questo vasto insieme che sia in grado di organizzare tipologie
omogenee di durata accademica? La
risposta non può che essere negativa, almeno sulla base della documentazione
del Maylender: la schedatura del suo archivio riesce
- e solo parzialmente, come si è rilevato - a segnalare la data dell'atto fondativo, spesso congetturale, per approssimazione, mentre
la registrazione della data di cessazione dell'attività dell'accademia è molto
rara, di nuovo - spesso - per approssimazione, congetturale. Risultano disponibili le due date - di avvio
e di chiusura -e talvolta quelle di rilancio, restauro, riconversione, ecc.,
per circa il 30 per cento delle accademie cinquecentesche, per quasi il 25 per
cento di quelle seicentesche, per il 30 per cento circa, di nuovo, di quelle
settecentesche.
La gran parte degli eventi accademici presenta, dunque,
una collocazione cronologica valida per il solo atto fondativo:
segno, probabilmente, del loro carattere effimero, spesso risolto interamente
nella fase preparatoria, di scelta del nome e dell'impresa; ma segno, pure,
della frammentarietà e precarietà di queste tante accademie che nascono per poi
- piú o meno rapidamente - spegnersi senza lasciare
traccia, senza memoria ulteriore di sé, con discrezione, quasi. Senza atto di morte, insomma: perché non c'è piú nessuno a certificarlo?
[….omissis…….]
Nelle tipologia delle accademie che prendono il nome da
quello del loro fondatore-promotore, si registra una immediata dipendenza dalle
sue vicende personali: se il protagonista muore, muore anche
l'accademia…..
[……….omissis…………]
…………si possono citare ancora questi esempi di destino
fortemente intrecciato: gli Argonauti di Venezia non sopravvivono alla morte
del loro animatore (e finanziatone) Vincenzo Coronelli,
l'Accademia Cinica di Zara muore con la morte di Giulio Zaccaria, gli Elevati
di Belluno con quella del vescovo Giulio Berlendis, i
Filesotici di Brescia con quella del gesuita
Francesco Lana conte de' Terzi, i Selvaggi di Bologna con quella di Giovanni
Capponi, gli Snidati di Rieti con quella di Loreto Mattei, ecc.; e analoga
sequenza potrebbe essere proposta per le accademie settecentesche. Ma la cessazione dell'attività può conseguire
anche da eventi d'altro tipo: l'animatore-promotore si trasferisce altrove
(come nel caso dei Trasformati di Lecce, che chiude quando Sei. piene Ammirato
parte, o della Rinaldiana di Napoli, mentre per gli
Eterei è il duca Scipione Gonzaga a lasciare Padova e per gli Animosi è Ascanio
Martinengo; tra le accademie seicentesche: quella della Traccia di Bologna non sopravvive alla
partenza per Padova di Geminiano Montanari, e i Ravvivati di Siena subiscono
irreparabilmente il trasferimento a Roma di Ludovico Sergardi,
ecc., tralasciando i casi settecenteschi), si fa prete (come nel caso
dell'Accademia Salernitana promossa dal duca Annibale Marchese) o va in convento
(come nel caso dell'Accademia Modenese promossa dal principe Alfonso, e in
quello dell'Orsinia di Solofra istituita da Vincenzo
Orsini, che sarà poi papa Benedetto XIII), oppure si mette a lavorare (come nel
caso della Cassiana di Modena, promossa dal conte Carlo Cassio), oppure deve
subire interventi imprevisti (l'arresto, come nel caso del cardinale Giuseppe Capecelatro promotore dell'Accademia Arcivescovile,
liquidata dalla rivoluzione napoletana del 1799; o anche la morte violenta,
come nel caso di Marco Pio signore di Sassuolo, fondatore dell'Accademia Pia).
La casistica può essere dilatata all'infinito: conta
soprattutto rilevare una più generale dipendenza dell'accademia dalle vicende
esterne. L'autonomia del suo spazio e
del suo tempo deve continuamente riscontrarsi con il tempo e lo spazio della
storia e dei suoi eventi spesso imprevedibili, naturali: la peste, ad esempio,
e più in generale la grande crisi intorno agli anni '30 del Seicento (causa
profonda, probabilmente, della stessa depressione accademica in questo microperiodo), ma anche le vicende politiche (dalla
repressione dei moti del i 647 alla rivoluzione partenopea del I 799, alla
proclamazione della Cisalpina, che abolisce praticamente tutte le accademie del
suo territorio, alla svolta napoleonica, ecc.). Il sogno di una repubblica
letteraria deve necessariamente fare i conti con le mutazioni spesso violente
della realtà.
Ma se questi eventi possono incidere sulla durata
dell'accademia, dall'esterno, il suo tempo può essere direttamente iscritto
nella forma che assume: di accademia per occasione, ad esempio (come nel caso
dei Rinnovati di Tortona, che si riuniscono nel 1620 per i funerali del
vescovo, o come in quello dei Taciti di Catanzaro che nel 1658 festeggiano la
nascita dell'erede al trono di Spagna), di accademia stagionale (nel tempo
delle vacanze, ad esempio, come nel caso degli Sfaccendati di Ariccia, che si
raccolgono nel palazzo Chigi verso il 1672). Ma la durata può diventare
effimera anche per motivi imprevisti: i cinque giovani che il 19 settembre
Di fronte al dato di un 30 per cento circa di accademie
con contrassegni temporali più o meno precisi per quanto concerne almeno
l'inizio e la fine della loro esperienza, resta pur sempre da considerare la
quota di quel 70 per cento che riesce appena a essere identificato nella
pertinenza cronologica dell'atto fondativo (e si
consideri come il rapporto si sbilanci ancor più nella fase seicentesca: 25 di
contro al 75 per cento). Tutte accademie
effimere, di breve durata? Il farsi e il
disfarsi senza sosta di iniziative, di presenze, di gesti che vogliono
aggregare, riunire in conversazione nobili e studiosi, la forma stessa di
questa adunanza, costituiscono senza dubbio un indizio probante che si tratta,
nella maggior parte dei casi (forse in misura pari a questo 70 per cento), di
atti istitutivi che non si assegnano progettualmente
il compito di durare, bensí intendono -
consapevolmente, forse - soddisfare un'esigenza primaria e immediata di fare
qui e ora accademia: in quanto pratica sociale della civile conversazione, di
un « intertenimento » culturalmente connotato,
occasione di festa e di gioco.
Accademie senza storia perché radicate nel quotidiano,
nella forma di rapporti sociali che assume la virtú
a equivalente generale, a paradigma della sua civiltà. Accademie iscritte nel calendario, insomma:
effimere non per motivi contingenti, ma proprio m quanto occasioni
comunicative. E perciò senza tracce
scritte, senza memoria: il loro esistere non è, forse, per conversare, per
situarsi pienamente nel dominio dell'oralità?
Ma a questo sterminato insieme di pratiche che vogliono chiamarsi ed
essere chiamate accademia per quanto prive di coordinate temporali (e all'altro
insieme, anch'esso cospicuo, delle accademie prive di qualsiasi elemento
cronologico, se non genericamente secolare) occorre dare pieno senso storico,
per non trasformare in interdetto, in cancellazione dall'archivio,
l'impossibile loro registrazione nell'ordine temporale della Storia. È
proprio nella loro diffusa effimera presenza che la forma accademia
trova il massimo grado di funzionalità culturale: atti fondativi che enunciano
nel loro stesso silenzioso emergere la validità omologante della « civil conversazione», ne predicano le proporzioni di
equivalente generale della forma stessa del vivere. Microeventi, più
ancora che microstorie, che si strutturano in nebulosa: la loro luce per
accumulo non si correla, forse, naturalmente alle grandi costellazioni, alle
stelle fisse, non si inscrive nello stesso firmamento accademico?
[…..omissis……….]
8. La geografia
[……….omissis..…]
Da Torino a Palermo, insomma, dal Piemonte alla Sicilia
il fenomeno sembra percorrere tutta la penisola. Passando anche per Livorno: il suo caso, per
quanto particolare, risulta infatti omologo a questi altri prima citati. Il forte incremento di accademie livornesi
tra Sei e Settecento (rispetto a quota zero per il Cinquecento, si hanno 5 e
quindi io atti fondativi nei secoli successivi) rinvia direttamente al suo
costituirsi in grande emporio culturale, in centro d'interscambio di «notizie
letterarie», in vero e proprio porto della «repubblica letteraria» sino alla
stagione dell'Encyclopédie.
Sono rimaste sinora escluse dalla rilevazione tutte le
«colonie»: un grande fenomeno, pressoché interamente arcadico, che conferma a
pieno l'economia centrata della distribuzione accademica sul territorio
nazionale'. Nel corso della sua lunga
storia l'Arcadia istituisce ben io i colonie o sottocolonie:
una strategia di accentramento che persegue consapevolmente l'obiettivo di
ribaltare la tendenza alla disseminazione autonoma, all'isolamento spesso
verticale, alla non comunicabilità dei 227 centri che ospitano le 870 accademie
seicentesche. Il modello di
«repubblica» che l'Arcadia propone soddisfa le esigenze di decoro e di cultura
che la società di fine secolo e di primo Settecento avanza attraverso le parole
d'ordine del « buon gusto » e della « razionalità »: le rende pienamente
omologanti, depotenziandole di tutte le spinte radicali proprie dell'esperienza
dei « moderni », se non dei « libertini ». L'Arcadia rivitalizza accademie
spente, organizza gruppi professionali (in molti casi di sacerdoti: in seminari,
collegi, conventi), suscita nuove aggregazioni strettamente - sempre collegate
alla centrale romana. Una sola grande
accademia: dopo secoli di tradizione, dopo tanti atti fondativi, un unico
progetto unitario, una « repubblica letteraria » integrata che raccoglie i suoi
membri dalle Alpi alla Sicilia, in grandi città e in piccoli centri. Centouno sedi della stessa accademia: e la
consapevolezza - gratificante - per migliaia di arcadi
di esser parte non accessoria di un'unica, omogenea, forma istituzionale.
Poco prima del suo definitivo tramonto l'accademia
realizza cosí il suo sogno di sempre: potersi dire
al singolare, riprodurre l'archetipo originario, quel «luogo ombreggiato a un
miglio da Atene». Poi sarà - ben presto,
tumultuosamente, anche - il tempo di altre forme di organizzazione, di
rapporto, di scambio culturale, di altri soggetti collettivi nelle pratiche
intellettuali: non più accademia, se non come sopravvivenza marginale o
consapevole restauro archeologico.
Neppure l'ellittico riferimento arcadico a una classicità fuori del
tempo resiste: ridicolizzato, aggredito dall'emergere delle prime forme storiche
dell'avanguardia.
Non sarà mai più il tempo per recitare, tutti insieme, «
et in Arcadia ego ».