INDICE
CAPITOLO PRIMO......................................................... 2
CAPITOLO SECONDO.................................................... 29
CAPITOLO TERZO....................................................... 43
CAPITOLO QUARTO..................................................... 54
CAPITOLO QUINTO...................................................... 84
[Testamento politico]................................................. 103
I. Ragionamento sul progresso.
- II. Riscontro con la storia. - III. Tendenza della società moderna. -
IV. Religione.
I.
La parola progresso suona nella bocca degli uomini d'ogni condizione,
d'ogni partito, ma è da pochissimi, anzi quasi da nessuno compresa. I
sorprendenti trovati della scienza che, applicati all'industria, al commercio,
al vivere in generale, trasformano in mille guise i prodotti, sono fatti
innegabili: noi vediamo, ove erano gruppi di capanne, sorgere superbe
città; campi aspri e selvaggi squarciati dall'aratro, e resi fecondi;
selve, monti, mari, superati; rozzi velli trasformati in finissime stoffe; le
intemperie vinte con l'arte; le tenebre cacciate da fulgidissima luce; il
navigar contro i venti; il percorrere con portentosa celerità sterminate
distanze; finanche il fulmine reso rapido messaggiero dell'uomo;
l'immensità dei cieli, le viscere della terra esplorate; gli astri, gli
animali, i vegetabili, i minerali, tutti studiati, classificati, misurati… Se
questo è il progresso, niuno può negarlo o non comprenderlo.
Ma
cotesto accrescimento continuo del prodotto e dell'umano sapere, spande
egualmente la prosperità su tutti? Suscita nell'uomo il sentimento del
proprio diritto, della dignità? Garantisce la libertà, garentisce
il popolo dall'usurpazione di pochi, rende forse impossibile, sotto ogni forma,
la schiavitú, ed assicura l'indipendenza dell'uomo dall'uomo, o almeno ne libra
su giusta lance le correlazioni? Ognuno che vuol manifestare francamente la
propria opinione, ognuno che studia la storia, che osserva il presente,
risponderà: no, l'apogeo della civiltà romana, il secolo
d'Augusto fu il perigeo della libertà; i rozzi italiani dell'XI secolo
erano liberi, e vilissimi piaggiatori quelli del civilissimo secolo di Lorenzo
De' Medici; i Francesi dello splendido secolo di Luigi XIV non furono che
spregevoli cortigiani. Ove riscontrasi, adunque, il continuato
miglioramento dell'umane condizioni?
Quale
sarebbe il tipo ideale d'una società perfetta? Quella
in cui ognuno fosse nel pieno godimento de' proprî diritti, che potesse
raggiungere il massimo sviluppo di cui sono suscettibili le proprie
facoltà fisiche e morali, e giovarsi di esse senza la necessità,
o d'umiliarsi innanzi al suo simile o di sopraffarlo: quella società,
insomma, in cui la libertà non turbasse l'eguaglianza; quella in cui in
ogni uomo il sentimento fosse d'accordo con la ragione, e che niuno fosse mai
costretto di operare contro i dettati di questa, o soffocare gli impulsi di
quello. In tal caso l'uomo manifesterebbe la vita in tutta la sua pienezza, e
però potrebbe dirsi perfetto. Ma chi trovasi piú lontano da questo
ideale, il mercante e il dottrinario moderno, o il cittadino romano, il greco,
e lo stesso italiano del XI secolo? La risposta non è dubbia, e facendo
paragone del presente col passato, saremmo indotti a credere che i miracoli del
vantato progresso nascondano il continuo peggioramento del genere umano.
Libera
la mente da idee preconcette o da sistemi, faremo ricerca di questa legge del
progresso e del modo come essa opera.
Tutti
i filosofi del mondo, da Platone ad Hegel, si accordano nel riconoscere
l'esistenza di una legge che chiamano idea, sostanza, logica ecc., che
regoli le condizioni e le relazioni degli uomini. Stabilito un tal principio,
svolgono i loro ragionamenti, ma le conseguenze non sono d'accordo come il
principio d'onde prendono le mosse, imperò quel primo concetto, tutto
astratto, è creato dal pensiero indipendentemente da' fatti: ma una tale
astrazione non dura che un istante, la realtà riprende il suo imperio, e
la ragione non può che serpeggiare attraverso i fatti, e quindi le
conclusioni a cui ognuno di essi giunge, si adattano alle condizioni di quei popoli
fra i quali vissero. Platone ed Aristotile sacrificano l'uomo alla grandezza
dello Stato, perché tali erano le greche costituzioni. Locke riconosce la
sovranità della nazione sul monarca, perché scriveva all'epoca de'
rivolgimenti dell'Inghilterra, e per esso la nazione è quale era
l'inglese, col parlamento, coi grandi, coi pubblici funzionarî. I filosofi
francesi, per contro, che scrivevano sotto l'impulso del bisogno di abbattere
ogni privilegio, riconoscono il diritto, la sovranità del popolo nel puro
senso democratico. Kant, comecché razionalista, ma era un Inglese [sic]
che scriveva nel '97; quindi afferma che il popolo francese non aveva il
diritto di giudicare e condannare il suo re. Dopo la rivoluzione del '93 le
condizioni del popolo son cangiate, e con esse cangiano le idee surte dai nuovi
mali: è la miseria crescente che chiama a sé l'animo dei pensatori,
quindi essi non sacrificano piú l'individuo allo Stato, ma al diritto d'ognuno
vogliono che s'adatti la costituzione di questo, e mirano all'umana prosperità,
di quindi l'idea del convitto umano, del socialismo, travisato
nell'applicazione alla ricerca dei godimenti materiali.
Nella
guisa stessa, per la stessa ragione, nel XVI secolo la vita politica essendo
muta in Italia, la filosofia è costretta a rimanersi nell'astrazione, e
si manifesta nel razionalismo di Bruno, che Vico e Campanella avvicinano alla
realtà, perché cominciasi a sentire il bisogno d'un'esistenza politica,
e quando questo bisogno manifestasi nell'azione, la realtà è
raggiunta da Mario Pagano, svolta da Filangieri, da Romagnosi, in tutti i rami
della vita d'un popolo. Oggi finalmente nella dotta e pacifica Germania, in cui
l'azione ha pochissimo imperio sul pensiero, rivive con forme anche piú
astratte il razionalismo di Bruno; e mentre cercasi finanche negare la
realtà, procedesi cosí servilmente sotto l'imperio di essa, che deducesi
dai ragionamenti come il costituzionalismo sia l'ideale dello Stato perfetto.
Dunque, dal principio del mondo, il pensiero umano non ha potuto mai procedere
nelle sue ricerche indipendente dalla realtà, a pena discende
all'applicazione delle idee, esse si adattano ai fatti, e non mai i fatti
procedono da esse. Ciò basta per dimostrare ad evidenza, quanto sia
assurdo il concetto che le rivoluzioni, i mutamenti negli ordini sociali si
facciano prima nel pensiero e poi nella realtà; essi sono conseguenza
delle condizioni e relazioni degli uomini; e cominciano a manifestarsi con
l'idea quando già sono latenti nella società; dalla
manifestazione procedesi all'attuazione, e spesso questa avviene senza di
quella; nella guisa stessa che nell'uomo si manifesta un bisogno, poi un'idea,
poi l'azione, e spesso l'azione segue immediatamente il bisogno senza manifestarsi
o maturarsi nel pensiero. Quindi la filosofia è quella che esamina,
compara, ragiona sulle condizioni, sui rapporti sociali, onde discernere
ciò che si nasconde sotto l'apparente calma, trae in luce, presenta in
concetti chiari e distinti quello che vagamente, ed universalmente è
sentito. La società ammira le astrazioni del pensiero, come i giuochi
dei saltatori di corda, ma non apprende nulla da quelle che possa migliorare le
sue condizioni; come niuno impara meglio a camminare osservando le sorprendenti
prove d'equilibrio di questi, le une e gli altri non sono che passatempi. La
filosofia veramente razionale, ovvero la scienza che merita il nome di
filosofia, è quella cominciata in Italia con Bernardino Telesio, e
seguita da tutti i sommi Italiani sino al Romagnosi, che gli diede il piú vasto
sviluppo; secondo i dettati di questa scienza noi seguiremo le nostre ricerche.
Io
mi scorgo parte dell'universo, penso, ma penso ciò che è, il
reale; non si produce nella mia immaginazione nulla che non esista, o che non
risulti da ciò che esiste. Ho un'idea chiara e distinta, senza
conoscerne l'essenza, della materia, del moto, delle sue proprietà; lo spirito
è una negazione, ciò che non è materia,
un'incomprensibilità; una cosa che non potendo essere avvertita dai
sensi, non può essere neppure immaginata: spirito è una
parola che non ha significato.
Nel
mondo osservo un incessante avvicendarsi di produzione e distruzione, due cose
opposte; ma se meglio rifletto, ogni contraddizione sparisce, produzione e
distruzione non sono che l'effetto di una medesima causa, la causa, la legge
della vita; produzione come distruzione vuol dire moto, ovvero vita.
L'uomo
lo scorgo eziandio sotto mille aspetti contraddittorî; eroe e codardo,
benefattore e crudele, avaro e generoso… ma ogni contraddizione sparisce quando
riconosco queste diverse azioni effetto di una sola e medesima causa, di una
sola e medesima legge, la ricerca dell'utile che, secondo l'indole
degl'individui ed i rapporti che costituiscono la società in cui vive,
cangia i modi ed il nome; chi lo cerca nella gloria, chi nell'ignominia; alcuni
nel sacrifizio, altri nei beni materiali… È questo un fatto che niuno
piú revoca in forse; esso è riconosciuto da tutta la scuola del sensismo
francese ed inglese; da' nostri grandi Italiani, Pagano, Filangieri, Beccaria,
Romagnosi, e sottinteso da Vico, da Campanella, da Telesio; da tutti gli
economisti moderni, da tutti i socialisti; dai razionalisti della Germania: Di
buon grado, dice Schiller, io presto aiuto agli amici. Ma, ahi
lasso!, lo fo per inclinazione; onde spesso mi contrista il pensiero di non
esser virtuoso. Fichte dice: ama te stesso sopra ogni cosa, ed il tuo
prossimo per amor di te stesso. Negano questa verità i poveri devoti
di un Dio personale; e gli ecclettici, ovvero quelli che cercano conciliare i
principî della scienza e lo stato presente della società, e cosí si
fanno gli apologisti del sacrificio quelli che ne rifuggono con orrore!! A
Giordano Bruno sarebbe stato piú doloroso rinnegare la sua dottrina che
sentirsi ardere le carni; si gettò nel rogo per fuggire il dolore di
rinunziare alle proprie idee. I due ultimi versi del suo sonetto il dicono
chiaramente…
Fendi secur le nubi e muor contento,
Se il ciel sí illustre morte ti
destina!
Chi ha creato il mondo? Nol so. Di tutte le ipotesi la piú
assurda è quella di supporre l'esistenza d'un Dio, e l'uomo creato a sua
immagine; ovvero non essendoci dato immaginare questo Dio l'uomo l'ha creato ad
immagine propria, e ne ha fatto il creatore del mondo, e cosí una particella
diventata creatrice del tutto.
Ma
quale utile può ottenersi dalla ricerca del creatore del mondo? Nessuno.
Il mondo esiste e ciò è un fatto; in esso dapertutto io trovo
moto, dapertutto la medesima causa della vita che appare in mille guise:
è latente nei minerali, vegeta nelle piante, guizza nei pesci, rugge nel
leone, ragiona nell'uomo; la diversità de' modi co' quali manifesta la
sua potenza, dipende dalla piú o meno perfezione del corpo da essa
animato. Corpo ed anima sono entrambi immortali, non havvi
nell'universo mondo un granello di sabbia che si distrugga: il
corpo ridotto polvere rientra in seno alla gran madre; l'anima o
il fluido animatore sorte dalla sua prigione che davagli forma, abbandona il
corpo che si distrugge e piú non si presta al moto, e confondesi con la gran
massa di esso che vaga negli spazî; la morte non è che la distruzione
delle forme d'un'individualità. Da questo moto incessante
risultano i rapporti dell'uomo col mondo esteriore, degli uomini tra loro, la
società, e però non fa d'uopo ricercare la causa del moto,
perché a nulla gioverebbe tale ricerca, ma la legge del moto. Tutti i filosofi
del mondo convengono nell'immutabilità di questa legge, quelli soli che
riconoscono l'esistenza di un Dio la negano.
Il
concetto d'un Dio onnipotente è figlio dello scetticismo in cui cadde il
mondo romano nella sua decadenza. La virtú, il giusto, il diritto
sono incompatibili con l'esistenza di questo Dio che può tutto
cangiare secondo il suo capriccio, che piegasi alle discordi preghiere dei
mortali; nulla vi resta d'immutabile, tutto cangia secondo la sua
volontà. L'unità dell'universo sparisce, non è una sola la
causa del moto, e quindi una sola la legge di esso, ma tante cause diverse per
quanti sono gli enti; l'anima dell'uomo è diversa da quella del bruto,
questa da quella del vegetabile, anzi ogni uomo ha un'anima diversa.
Ammessa tale ipotesi, la virtú non ha significato, la ricerca di una legge
unica del moto è impossibile, impossibile il progresso; per un solo atto
della volontà di questo Dio noi potremmo indietreggiare di secoli.
L'unica regola, l'unica legge è la rivelazione che ci vien fatta da
alcuni uomini in nome di questo Dio, questi uomini sono gli arbitri
dell'umanità. La storia non ha piú nesso, ma sono tanti fatti,
manifestazione della libera, e però mutabile volontà di questo
Dio. Ma quest'ipotesi scoraggiante e incomprensibile, questo Dio assurdo,
imagine della dissoluzione sociale, sparisce, appena dalla corruzione comincia
a manifestarsi novella vita.
Stabilito
che una sola debba essere l'ignota causa del moto, ci faremo a rintracciarne la
legge; non già astraendo il nostro pensiero, e ricavando le conseguenze
secondo i dettati della dialettica, ma seguendo da vicino i fatti, studiandoli
accuratamente, e conoscere cosí la legge con cui essi gli uni dagli altri
procedono; non già cercando quale dovrebbe essere questa legge,
ma quale è; non l'ideale, ma il reale. Nell'universo
scorgiamo armonia ed unità, tutto è regolato, il moto degli
astri, il succedersi delle stagioni, il prodursi delle piante, tutto è
l'effetto di una medesima forza attiva, la quale sospinge gli uomini al moto, e
crea le loro diverse condizioni e relazioni, le diverse costituzioni della
società; e però essendo la storia un effetto di questa forza,
essa deve procedere secondo una regola, secondo una legge immutabile e necessaria.
La
noia che esagera il fastidio del presente, la speranza che abbellisce oltre
misura l'avvenire, ed in altri termini la necessità di soddisfare ai
proprî bisogni, sospingono l'uomo al moto; dolore e piacere suoi angeli
tutelari lo costringono a fermare la sua attenzione sugli oggetti circostanti.
Ed in tal guisa da ogni sensazione, da ogni esperienza vien creata un'idea; se
nulla v'è nell'esperienza, nulla v'è nella mente, ovvero come
dissero i peripatetici, nihil est in intellectu quod prius non fuerit in
sensu.
Le
continuate sensazioni dirozzano le fibre, che per soverchia rigidezza, come
quelle del selvaggio, mancano d'irritabilità, e danno tuono a quelle de'
fanciulli per flaccidezza tarde. Appena la fibra acquista un certo grado
d'irritabilità, l'uomo immagina, né ha piú bisogno della presenza
dell'oggetto per descriverlo e vederlo in sua mente. Segue in ultimo la
ragione, facoltà di discernere, la quale classifica, compara, cerca la
correlazione delle acquistate idee, e rischiara il tomulto degl'istinti. Quindi
tre età nell'uomo: de' sensi, dell'immaginazione, della ragione; nella
prima le fibre son molli, nella seconda cominciano a tendersi; nella terza
hanno il giusto grado d'irritabilità; con la vecchiezza diventano
flaccide, l'uomo peggiora, e diventa di nuovo fanciullo.
Le
facoltà dell'uomo sono inferiori ai bisogni, di quinci la perpetua
operosità della vita. Ad ogni sensazione, ad ogni idea l'uomo subisce
una modificazione, e con questa sorge un nuovo bisogno, e cosí la vita è
un avvicendarsi continuo di bisogni, di idee, di nuovi bisogni…
L'uomo,
se non è costretto da forze esteriori ad operare diversamente, segue per
sua natura questa serie di movimenti, e trasforma tutti gli oggetti
circostanti. L'indefinita modificabilità del mondo esteriore, che
reagendo sull'uomo lo modifica indefinitamente, costituisce un'indefinita
modificabilità di rapporti fra uomo ed uomo, fra esso e gli oggetti che
lo circondano. Questi rapporti, ovvero l'azione degli uomini gli uni
verso gli altri, e sul mondo esteriore, costituiscono le umane società,
che per tal ragione sono indefinitamente modificabili. Dunque il continuo
mutarsi di questi rapporti, ovvero delle costituzioni sociali è una
legge assolutamente necessaria, legge che risulta dalla natura umana, quindi fa
d'uopo o migliorare o peggiorare continuamente, o pure oscillare fra certi
limiti.
Inoltre, le fibre vengono modificate secondo il numero delle
sensazioni, queste crescono a misura della trasformazione degli oggetti
esterni, dunque, in una società in cui la natura è selvaggia, e
non ancora ha subito gli effetti dell'umana operosità, le sensazioni
debbono essere pochissime, le fibre degli uomini rozze. A misura che le
sensazioni crescono, per la trasformazione che il mondo esterno subisce per
mano dell'uomo, le fibre gradatamente si dirozzano; quindi le tre età
che si riscontrano nell'uomo, esistono egualmente nelle società: de'
sensi, il puro stato selvaggio; dell'immaginazione, l'epoca delle favole e
degli eroi; della ragione, l'epoca delle forti passioni, delle grandi virtú,
perché la fibra ha raggiunto tutto quel grado d'irritabilità di cui
è capace. Dunque per la natura umana, il moto, il cangiamento delle
condizioni e relazioni degli uomini è immancabile; e per la stessa
natura nelle società debbono, sempre migliorando, succedersi tre
età diverse, dunque progresso. Ma le modificazioni ed i rapporti,
effetti dell'umana operosità, essendo indefiniti, indefinite sono
eziandio il numero delle sensazioni che ne risultano; e siccome le soverchie e
continue sensazioni logorano ed ammolliscono le fibre, e gli uomini
s'avviliscono, ne risulta che le società debbono eziandio soggiacere
allo stato di vecchiezza, e morire di sfacelo: il progresso indefinito è
impossibile.
Ora
ci faremo a particolareggiare le nostre ricerche. Generalmente, ogni
modificazione che l'uomo opera sugli oggetti circostanti è un prodotto,
le modificazioni sono indefinite: dunque, i prodotti debbono indefinitamente
crescere.
Discorremmo
nel primo Saggio come si formarono le prime famiglie, e quindi i vichi, i
paghi, le città, quindi l'uomo tende all'associazione, o
perché il debole donasi al forte per esser protetto; o perché questi lo fa suo
schiavo; o perché varî deboli si collegano contro il forte, insomma questa
tendenza continua risulta dall'istinto della propria conservazione, dalla
ricerca della prosperità, dalla brama della vendetta, non già
dall'amore reciproco degli uomini. Come gli uomini, le famiglie, i vichi, i
paghi per vantaggiare se stessi si uniscono e formano le città, del pari
vediamo le varie città formare le nazioni, e queste sotto l'imperio dei
stessi moventi formare gl'imperi, quindi possiamo inferire che l'umanità
ha una tendenza verso l'unità mondiale.
Né
questa è la sola ragione, ma havvene un'altra non meno importante. La
Natura, quasi per confermare questa legge, ad ogni regione ha dato prodotti
diversi, mentre il desiderio ed il bisogno di giovarsene è lo stesso in
tutti gli uomini della terra, i quali ricorrono alla forza, alla frode, al
commercio, per fornirsi di ciò che difettano. Quindi è indubitato
che un giorno, se il globo non sarà un solo ed unico Stato, certamente
la prosperità, la civiltà sarà uniformemente sparsa sulla
sua superficie. E come ne' vichi, ne' paghi, nelle città, nelle nazioni,
dai varî costumi e gerghi nacque una pubblica opinione ed una lingua comune,
nella guisa stessa, un giorno vi sarà un'opinione ed una lingua
mondiale.
Proseguiamo
lo studio della natura umana. L'istinto avverte l'esistenza de' fatti senza
svolgerne le conseguenze; la ragione le svolge, le studia, e le compara. Gli
impulsi che riceviamo dall'istinto sono l'effetto dell'immediato piacere che
può procurarci un'azione, ma se a questa prima sensazione piacevole ne
succedono, come conseguenza, altre dolorosissime, noi nol sappiamo, solamente
la ragione può avvertircene, la quale opera quando una sensazione
dolorosa fissa su di un oggetto la nostra attenzione. Dunque l'uomo deve
necessariamente errare; la sua ragione non evita l'errore, ma lo corregge
quando i tristi effetti delle sue conseguenze lo costringono a ragionare.
L'errore non è conforme alle leggi di Natura, altrimenti non sarebbe
errore; i suoi tristi effetti sono la voce di queste leggi che ci
richiamò sotto il loro assoluto imperio; dunque l'istinto ci allontana dalle
leggi di Natura, la ragione ci rimena verso di esse. Il fine a cui tendono le
leggi di Natura è il bene, è l'azione che risulta dall'ultime
conseguenze de' loro effetti; l'istinto, invece, non mira che al bene
immediato, la ragione c'insegna di sacrificare questo all'avvenire. L'istinto
restringe il nostro sguardo in angusta valle, mentre per discernere le leggi di
Natura è d'uopo ascendere una sublime vetta, ed in un fissar d'occhio
tutto antivedere nell'avvenire. Fra i suggerimenti dell'istinto e le leggi di
Natura, havvi il medesimo rapporto che passa fra una lettera dell'alfabeto e la
scienza. Dopo l'esposto, la legge del moto, della vita, è evidente: il
moto è una serie non interrotta di azioni, queste sono effetti
erronei dell'istinto, che piú tardi la ragione corregge, quello deviando,
questa avvicinandosi alle leggi di Natura; inoltre le condizioni
e le relazioni degli uomini, la costituzione sociale insomma, è
l'effetto dell'azione degli uomini, gli uni verso gli altri; dunque
le costituzioni delle società sono effetto dell'errore dell'istinto, che
la ragione corregge avvicinandole sempre alle leggi magistrali della Natura.
Svolgeremo piú diffusamente cotesta idea.
Seguendo
l'istinto, l'uomo che trovasi sotto una sensazione dolorosa, cerca tutto
ciò che allevia il dolore, che distrugge la causa del male, né riflette
se il rimedio dall'istinto suggerito, svolgendo in seguito le sue occulte
proprietà, possa cagionare un male maggiore del presente; ricalcitra con
esso, e ciò basta. Con questa legge, che risulta dall'indole sua, l'uomo
costituisce la società e muta la costituzione di essa.
Intanto ad ogni nuova costituzione accettata dagl'istintivi
desiderî del popolo, esiste sempre un utile immediato, causa di coteste
aspirazioni, e quindi nei primi istanti, rinfrancata da un tale utile, la
società prospera. L'ulcera che dovrà roderla è nascosta,
è a pena un germe, i mali non sono sensibili. In tale stato la ragione,
non ancora costretta dal dolore a studiare i mali, segue ciecamente l'istinto,
ed essendo costretta a serpeggiare nei suoi angusti giri, e comparando e
studiando i rapporti delle cose, in quelle condizioni che l'errore dominante la
sociale costituzione le ha stabilite, risultanto i pregiudizî e le opinioni che
un giorno dovranno tiranneggiare questa società, e pur nondimeno in
quest'epoca, la ragione, siccome segue l'istinto, è d'accordo col
sentimento, gli uomini sentono e ragionano, non già giustamente, ma
liberamente, la società è giovane, i costumi son puri: il diritto,
il giusto, le azioni virtuose son quelle conforme al patto sociale.
Ma
le serie de' rapporti sociali che si svolgono partendo da una base erronea
diventano sempre piú contrarî alle leggi di Natura, quindi cominciano a
manifestarsi gl'inconvenienti, poi i mali, i quali rapidamente crescono ed
ingigantiscono; ecco il periodo delle rivoluzioni, o delle dissoluzioni delle
società.
In
tal periodo il dolore obbliga la ragione a fare studio su i mali che tormentano
il pubblico, ed è condotta a delle conseguenze opposte ai pregiudizî ed
alle opinioni dominanti, contraddittorie con le opere, coi costumi, quindi una
lotta de' motivi esterni con l'interno convincimento. La virtú, essendo la
vittoria di questo su di quelli, ovvero quel sentimento superiore alla stessa
fama che appellasi coscienza, per cui disse il Campanella Onor non ha chi
d'altri il va cercando, non è piú quella che opera secondo il
patto, ma in contraddizione col patto. Il diritto, il giusto, non piú quello
riconosciuto dal patto, ma quello che risulta dai nuovi rapporti delle cose
scoverti dalla ragione. Se il patto, per cagione dei dolori che tormentano le
moltitudini, non è riformato o cangiato, la società è
condannata a perire. Allora scorgesi la virtú difettiva, quindi i motivi
esterni prevalendo, la ragione è costretta a tacere. Ognuno, impotente a
combattere i proprî mali, s'isola, non è piú commosso dai mali altrui, e
la ragione stessa impone per propria conservazione silenzio al sentimento,
l'uomo è depravato, è perfido ed infelice.
In questi diversi stati e condizioni la società per mezzo
dei scrittori manifesta le sue idee. Nell'epoca di prosperità
l'erudizione ordinariamente sovrabbonda, gli scrittori sono puri, le loro
opere, le loro dottrine sono d'accordo col patto sociale.
Cominciano
i mali, i tormenti, e questo sentimento doloroso manifestasi con rimpiangere il
passato, con maledire i depravati costumi. La Divina Commedia fu il
canto solenne con cui l'Italia manifestò i proprî dolori, e rimpianse
l'antica purezza de' costumi.
I
mali crescono, la depravazione generale produce la sfiducia, lo scetticismo;
allora vediamo sorgere sovente gli apologisti del sentimento, i nemici del
calcolo e della ragione, scrittori generosi, ma non profondi, i quali credono
cagione dell'isolamento, dell'egoismo, non già i mali da cui l'uomo
è tormentato, ma la facoltà che li fa discernere; eglino
vorrebbero porvi rimedio suscitando in altri quei generosi sentimenti dai quali
si sentono animati. Melchiorre Delfico, Giacomo Leopardi sono di un tal genere,
la loro voce è lamento, protesta della società contro i mali che
tutti sentono.
Contemporanei
di questi scrittori, si mostrano i riformatori, nunzî di speranza e di vita,
uomini di squisita fibra, che sottopongono a severo esame i mali che opprimono
la società, mostrano a nudo le sue piaghe, ne ricercano la cagione,
propongono i rimedî, e compongono la filosofia dell'epoca. Se i dolori non sono
abbastanza sentiti, o l'indole nazionale è tarda ed incapace di forti
passioni, costoro rimangono nell'astratto, e se discendono ad applicare le loro
dottrine, si allontanano ben poco dallo stato esistente, adattano ad esso i
loro ragionamenti. Se i mali son gravi, le passioni violente, il ragionamento
dei riformatori distrugge quanto esiste; i scrittori alemanni ed i francesi del
presente secolo hanno questi due distinti caratteri. I riformatori debbono
vincere l'aspra lotta del proprio convincimento, contro tutti i motivi esterni,
i pregiudizî, la pubblica opinione, spesso la persecuzione, l'esilio, il
carnefice, il rogo. Sono gli eroi dell'epoca.
D'altra
parte, in molti, l'utile privato trovasi strettamente legato alle leggi, alle
opinioni, ai pregiudizî combattuti, e questi se ne fanno i difensori; ecco i
conservatori, gli apologisti del presente, in cui essi trovano il bene, o
almeno il germe d'ogni futuro bene. In questi cotali, scrittori depravati, i
motivi esterni hanno sempre il trionfo sull'interno convincimento, la virtú
è difettiva; son turba vile e spregevole in perpetuo, se lo sprezzo
potesse aspirare ad immortalità. L'opportunità è
la legge suprema, il principio che li regola. Lodatori infaticabili formano
il corteggio della tirannide, finché questa, divenuta forte da non aver piú
bisogno delle loro lodi, impone silenzio all'importuno garrito.
La
lotta fra i riformatori ed i conservatori rischiara le tenebre, perfeziona le
dottrine di quelli che, originate da' mali della società, acquistano
maggior lume secondo che maggiori sono gli ostacoli che trovano al loro
sviluppo; per tal ragione, i conservatori, parte cancrenosa della
società, loro malgrado contribuiscono al perfezionamento delle nuove
idee. Cosí il pensiero nasce dai fatti, fra il volgo, da' dolori; procede a
traverso di essi, ma segue poi fuor del volgo i suoi voli, le sue astrazioni,
mentre questo, senza ragionare, senza mai addottrinarsi, dai soli fatti vien
balzato da un'idea in un'altra.
Intanto,
le moltitudini, sotto la pressura de' crescenti mali, cominciano a manifestare
un'irrequietezza, un odio al presente, un desiderio di migliorare, vago,
confuso, non espresso in verun concetto. Ma questo desiderio, questo concetto
non tarda a formolarsi nella mente di pochi in un'idea che diventa legame di
sette, scopo di congiure, fede di martiri, e cosí essa manifestasi in una serie
di fatti, di sensazioni, che la rendono comune, spontanea, concreta, immediata,
sentimento insomma; allora la rivoluzione delle idee è compita, quel
concetto di pochi getta un seme nell'universale coscienza, che frutterà,
fecondato dai fatti. Questa idea popolare legasi con le astrazioni dei
filosofi, ma essa è quel primo suggerimento dell'istinto, movente, e
punto di partenza dei ragionamenti di quelli, e però nasconde nuovi
errori, nuovi mali, dai pensatori manifestati, comparati, contrappesati, ma
sempre inutilmente pel volgo, che non cercherà il rimedio di mali non
ancora esperimentati; e come quelli procedono seguendo i voli del loro pensiero
sino alle ultime conseguenze; le moltitudini, lentamente, operano, ed
attraverso fatti, delusioni, errori, procedono verso la meta da quelli
rapidamente raggiunta.
Sbattuto
dalla tempesta sento il bisogno di un ricovero. Penso di piantare degli alberi,
e già li veggo nella mia immaginazione in grandi rami diffusi. Li
esamino minutamente, e mi convinco che non sarò da essi abbastanza
garentito, anzi mi attirerò i fulmini addosso. Come fare adunque? Quando
saranno grandi, penserò meco stesso, li abbatterò; dei loro fusti
costrurrò un ricovero piú utile degli alberi. Esamino questo nuovo
trovato del pensiero, e, non scorgendolo abbastanza perfetto, procedo,
perfeziono il ricovero, e giungo, sempre migliorando, ad un edifizio, e
conchiudo che l'edilizio è il solo utile rimedio contro la bufera. Ma, a
quanti travagli, a quante fatiche, a quante delusioni non dovrò
sottostare se voglio trarre in atto il mio pensiero, e piantare gli alberi,
attendere che crescano, abbatterli ed adattarli all'ideato edificio? I
riformatori son quelli che ragionando stabiliscono la necessità
dell'edifizio; il popolo comincia per attuare il pensiero con piantare
l'albero, e non l'abbatte, se prima non ha esperimentato che esso non è
sicuro, all'ombra delle sue foglie, come aveva sperato; e cosí procede,
perfezionando il proprio ricovero, sempre dopo aver esperimentati que' mali che
la ragione avea già preveduti.
Nel
pensiero di Campanella, di Pagano, di Filangieri, di Romagnosi, noi scorgiamo,
o espressa, o sottintesa, o come conseguenza di que' principî, la rivoluzione
sociale, quindi il pensiero italiano raggiunse ben presto le sue ultime
conseguenze. Ma come procede il popolo verso questa meta? Ora, oppresso da
esorbitanti gravezze, sollevasi nella gigantesca Napoli, terribile come la
Natura in corruccio, e condotto da un pescatore sbaratta il mal governo che
l'opprime; ora si raccoglie in Lucca intorno ad un nero e stracciato vessillo,
e minaccia i ricchi; ora assale al segnale di Balilla, e caccia lo straniero
dalle mura di Genova; ora favorisce il Francese per odio contro il Tedesco; poi
favorisce questo per odio contro di quello; finalmente, dopo tanti esperimenti
e tante delusioni, comincia a riconoscere la necessità di conquistarsi
una patria, e l'idea d'indipendenza italiana la personifica in un papa, poi in
un re, ed ora attende i nuovi fatti che verranno a trarlo dall'incertezza in
cui gli ultimi disastri l'hanno gettato. In tal guisa, a traverso
d'esperimenti, raggiungerà la meta e, distruggendo l'edificio incantato
dei pregiudizî e delle opinioni, adatterà la sua costituzione alle leggi
magistrali della Natura che già da lungo tempo servon di norma ai nostri
pensatori. Quindi è assurdo che il progresso dell'idea faccia progredire
i fatti, è assurdo pretendere di giudicare dall'idee espresse dai
scrittori il progresso di cui un popolo in una rivoluzione è capace; per
giudicare bisogna studiare la sua storia, e dallo studio delle peripezie a cui
è soggiaciuto, potrà conoscersi ciò che esiste nella
coscienza nazionale, ovvero quell'universal sentimento che si manifesta nel
moto, lo regge, ne prescrive i limiti: se un tal sentimento non sarà
un'idea chiara e distinta, ma prenderà norma dai mali esistenti che a
pena cercherà di lenire senza distruggerli, il moto sarà sviato,
represso, infruttuoso, non sarà che una nuova esperienza, che un
ammaestramento universale, che allargherà, per l'avvenire, i limiti di
quel concetto esperimentato troppo angusto. In tal guisa si succedono le
rivoluzioni, errori fatali dell'istinto nazionale, che la ragione corregge ed
indirizza verso le leggi di Natura.
Fin
qui potrebbe conchiudersi che il progresso è continuato, che le Nazioni
percorrendo una sanguinosa via procedono sempre innanzi, ma bisogna considerare
altri elementi, altre cagioni che operano sull'indole umana e sulla coscienza
dei popoli.
Se
l'eccesso delle sensazioni, se le troppe delusioni logorano le fibre e gettano
la sfiducia nell'animo; se le soverchie ricchezze di alcuni, e la miseria
spaventevole dei molti, troncano ogni nerbo alle moltitudini, e succede una
solitudine di pensieri e d'interessi che distrugge affatto la coscienza
nazionale: allora le rivoluzioni sono impossibili. Allora manca quel sentimento
universale d'onde i pensatori traggono le prime idee; mancano ai popoli le
speranze; ai cospiratori i concetti; mancano le passioni che sospingono quelli
a scrivere, questi ad agitarsi ed operare. Cessa il moto, e con esso la vita,
il difetto di ardenti passioni non è che preludio di morte. Una Nazione
giunta in tale stato è condannata a perire per vecchiezza, essa
sarà preda dei piú forti vicini.
Dal
nostro ragionamento possiamo conchiudere che ogni Nazione tende con le sue
rivoluzioni verso le leggi di Natura, ma nel suo aspro cammino può
incontrare ostacoli tali che ne logorano le forze e la distruggono. Quindi il
corso e ricorso delle Nazioni non è legge fatale ed inevitabile, ma
nemmeno contraria all'indole dell'uomo e delle società. Né perché per lo
passato ebbe luogo, dovrà necessariamente ripetersi al presente,
può non avvenire, o almeno seguire un'orbita piú eccentrica di quelle
già percorse. Intanto le ricchezze sociali, dimostrammo che sono in
continuo aumento; le scienze che scrutano i secreti della Natura e si giovano
delle sue forze, volgendole all'accrescimento dell'industria, in continuo progresso;
ed i popoli del mondo tendono sempre verso l'unità; quindi le diverse
Nazioni corrono tutte verso questa meta comune, uniforme prosperità
mondiale, ma nel loro cammino ognuna sottogiace alle proprie peripezie, alcune
migliorano nelle loro istituzioni, altre decadono, certe si dissolvono, altre
ingrandiscono; sono come tante navi che navigano verso il medesimo porto, ma
non vi giungono senza che ognuna non corresse fortuna a sua volta.
II.
Fin qui non abbiamo fatto altro che seguire la dialettica e rimanere
nell'astrazione, ora l'accurato esame de' fatti, ovvero della storia d'Italia
che nel primo saggio abbiamo adombrata, servirà di riscontro al nostro
ragionamento.
Distrutto
l'impero etrusco dal diluvio d'Ogige e dalla crisi di fuoco di cui parlammo,
fra i monti dell'Italia e della Grecia, per quell'incontestabile legge di
Natura per cui l'uomo tende all'associazione come il grave al suo centro,
cominciarono a raccogliersi in varî gruppi i dispersi selvaggi. Le leggi da cui
vennero retti questi primi gruppi, il dispotismo di uno su molti, ci dimostra
chiaramente il primo suggerimento dell'istinto. I deboli, onde esser garentiti
dalla prepotenza de' forti, cercarono la protezione di altro forte al quale si
diedero volontariamente schiavi. Forse fuvvi chi suggerí la lega di tutti i
deboli contro i pochi forti, forse fuvvi chi fece riflettere che si sfuggiva un
male e se ne creavano degli altri con la volontaria schiavitú. Ma queste
ragioni, queste dottrine dell'epoca, questi voli del pensiero, riuscivano infruttuosi;
l'istinto diceva ad ognuno: donati ad un forte e questi ti proteggerà, e
cosí ognuno, a schivare la probabilità d'un servaggio, rendevasi
volontariamente servo.
Cosí
si formarono i vichi e i paghi: i deboli si sentivano lieti del
ritrovato di aver chiesto la protezione del forte, contenti lavoravano, ed il
forte, loro protettore, godeva del frutto dei loro lavori; la ragione era
d'accordo col sentimento, queste prime società prosperarono.
La
guerra fra i vichi e paghi fece che varî di questi borghi collegandosi
formarono la città. I varî capi, re scettrati e sommi sacerdoti [e il
séguito] dei loro dipendenti, si raccolsero in congresso nella città
onde accordarsi riguardo il modo come condurre la guerra, solo pubblico interesse
allora esistente.
Intanto
dal contatto dei vichi e paghi risultò un culto comune,
una pubblica opinione, ed un paragone fra il modo di esercitate l'imperio de'
diversi capi; quindi ne' piú oppressi surse desiderio di migliorare; ecco i
primi sintomi di una rivoluzione. Certamente soffrí pene acerbissime quel primo
schiavo che si lagnò della propria condizione facendone paragone coi piú
fortunati. Questi fu un riformatore, un virtuoso, le sue ragioni furono
soffocate con la violenza, e la virtú ignota a quella società si
mostrò per la prima volta. Virtuosi furono quei primi plebei che,
sfidando il corruccio dei loro padroni, proposero sottoporre alla concione dei
forti le private contese; virtuoso fu quel primo nobile che l'approvò,
facendo prevalere il suo convincimento, motivo interno, alla seduzione, ai
vantaggi che traeva dal domestico imperio, motivo esterno. Fu questa una prima
rivoluzione, un progresso, divennero piú equi i rapporti fra i padroni ed i
clienti, ma crebbe oltre ogni misura la potestà della concione, sovrano
e giudice nel tempo stesso. Il suggerimento dell'istinto, di surrogare
all'arbitrio de' varî capi il volere del congresso che essi medesimi
componevano, si avvicinò assai piú alle leggi di Natura che la
volontaria schiavitú, ma diede corso a nuova tirannide.
Al crescere delle città, le
popolazioni e le ricchezze, al moltiplicarsi dei rapporti fra gli individui, la
potestà dell'oligarchia dei forti cresceva, pesava sempre piú sulla
plebe, le cui fibre, d'altra parte, venivano dirozzate dal crescente numero
delle sensazioni. Cominciarono a sentirsi i dolori, che trassero a sé l'animo
dei piú astuti, e la ragione dichiarò ben presto un'ingiustizia che i
soli nobili fussero sovrani. Ecco la lotta della ragione coi pregiudizî e le
opinioni di quelle società. Da questa lotta cominciò a sorgere
naturalmente l'idea della colleganza della plebe contro i nobili, idea dalla
quale l'istinto aveva deviato, prima col volontario servaggio, poi col
concedere ogni potestà alla concione de' forti, ed a cui la ragione
rimenava la società. Questa prima colleganza ha in sé tutto l'avvenire
della democrazia, e comincia la lotta del popolo contro le caste ed i
privilegî, ed entra nella sfera delle rivoluzioni dei popoli civili.
Quale
sarebbe stato il suggerimento della ragione, per risolvere questa prima contesa
fra nobili e plebei? Manomettere i nobili, e farsi la plebe arbitra della cosa
pubblica. Ma, conseguita la vittoria, come reggersi da sé? faceva d'uopo
rifletterci, pensarci, ed il volgo non riflette né pensa. L'istinto suggerí di
non distruggere i nobili, ma limitare la loro potestà, sottoporla a
delle regole, e queste regole furono le consuetudini, rudimenti dei codici di
tutti i popoli; prima vittoria della plebe sui nobili; prima idea del giusto e
dell'ingiusto. Dunque sulle consuetudini primitive si basarono i codici, e
queste consuetudini erano risultate dal volontario servaggio, dagli erronei suggerimenti
dell'istinto, quindi il lungo lavoro, le tante esperienze ancora in corso, onde
giungere da principî cosí ingiusti al semplicissimo codice della Natura,
l'uguaglianza.
Nuovi
danni, e coi danni i dolori, sospinsero la plebe a nuova conquista. Si moltiplicarono
i rapporti, le faccende, gli utili; la macchina sociale si complicò, la
difficoltà di reggerla crebbe. Alle qualità naturali dell'uomo,
forza ed astuzia in guerra, s'intese bisogno d'una qualità nuova,
saggezza in pace; se questa qualità era difettiva nei nobili, la
società non tardava a sentirne i dolori; ed ecco che il sostituire ad
essi altri governanti piú degni, idea un tempo suggerita dalla ragione, ora per
lo svolgersi dei fatti era suggerimento dell'istinto, effetto dei mali da cui
la società era gravata, dei dolori, dai quali veniva stimolata. Quindi
la storia dei tanti tomulti, dei martirî, delle rivoluzioni con cui la plebe
cercava conquistarsi il diritto di conferire ai suoi eletti i maestrati della
repubblica. Dunque: volontario servaggio, quindi il volere della concione de'
forti sostituito all'arbitrio de' singoli capi; quindi la potestà di
questa concione sottoposta alle consuetudini, ad una regola; finalmente gli
eletti, o i migliori, sostituiti ai nobili; ecco il progresso delle interne
istituzioni seguito dai varî popoli italiani, progresso che lo troviamo
conforme a quelle leggi di Natura, di cui abbiamo nel precedente paragrafo
ragionato. Ora abbandoneremo per poco un tale argomento, ci faremo a ragionare
sulle scambievoli relazioni che si stabilirono, durante questo tempo, fra i
varî popoli d'Italia e l'effetto che esse produssero sulle interne condizioni
di ciascuno di essi.
Quando
i selvaggi cominciarono a raccogliersi in vichi e paghi, si
trovarono in contatto in Italia coi civilissimi Etruschi superstiti del
distrutto impero; quindi il desiderio, in quelli, di procacciarsi le ricchezze
che questi possedevano; l'avidità dell'indole umana faceva tendere quei
nascenti popoli a raggiungere la prosperità dei loro vicini. Di quinci
le guerre continue, le scorrerie che quei semiselvaggi fecero contro i civili
Etruschi, dai quali furono sempre respinti; inoltre le comunicazioni dirotte
fra' monti, epperò sommamente disagevoli, fecero sí che lo scambio dei
prodotti, dell'idee, dei trovati dell'industria, fu lentissimo fra gli Etruschi
ed i popoli montani, e quindi lentissimo fra questi lo svolgersi della loro
prosperità.
Non
cosí sulle coste: ivi il mare li abilitò a facilmente comunicare coi
civili orientali, lo scambio divenne facilissimo, ed arti ed industria
rapidamente fiorirono, le ricchezze crebbero in immenso, ed ove erano agresti
tribú si videro sorgere le magno-greche repubbliche.
Ma,
come testè dicemmo, il codice di questi popoli, comeché civilissimi, era
basato sulle consuetudini delle primitive società, in cui una parte
erano servi destinati al lavoro, un'altra padroni i quali lautamente vivevano
delle fatiche di quelli; inoltre l'indispensabile gerarchia militare, in cui i
privilegî di ogni grado venivano stabiliti dai medesimi capi, introdusse
l'ineguale riparto del bottino; quindi tali consuetudini, quantunque la
condizione dei servi migliorasse, fu la base, furono i principî su cui venne
stabilita la legge di proprietà; e quindi il diritto, non già
quello giustissimo di usare ed abusare del frutto del proprio
lavoro, ma l'altro, sommamente ingiusto, che alcuni potessero possedere piú del
bisognevole, mentre altri mancassero del necessario. Un tal diritto, fondato su
di un principio affatto oligarchico, venne scosso, temperato ad ogni
rivolgimento a cui quelle società sottostiedero, ma, rimasto fermo nella
sostanza, conservò la sua tendenza all'oligarchia, e le immense
ricchezze ammassate da quei popoli civilissimi furono proprietà di
pochi, e piú non si videro che opulenti e mendichi; mentre fra gli abitanti dei
monti, l'industria in difetto avendo impedito lo sterminato crescere delle
ricchezze, serbossi una quasi uguaglianza.
Esaminiamo
queste due società: i Magno-Greci e gli Etruschi, dalla soverchia
opulenza di pochi e dalla miseria di molti depravati, imperò i sensi di
quei popoli erano dall'abuso o dall'inerzia attutiti; e le fibre per
soprabbondanti sensazioni rese flaccide, e se tese, per debolezza
soverchiamente irritabili; e quindi gli umori, dall'incostante tensione, o
troppo impetuosamente sospinti, o troppo languidamente premuti, di quinci i
loro vizî corrispondenti a questo stato dei loro sensi: sempre balenanti ed
incapaci di durevoli proponimenti; gli affetti o troppo concitati ed al minimo
ostacolo repressi, o soverchiamente rimessi: la costanza, la calma impossibili;
spesso li vediamo arroganti col nemico lontano, e se vicino codardi; i
Tarantini derisero i legati romani, all'avvicinarsi poi dell'esercito,
tremarono e si diedero a Pirro. Inoltre la miseria degli uni e l'opulenza degli
altri faceva abilità a questi di comprare il voto di quelli, ed ai
ricchi non già ai migliori, veniva conferita la suprema podestà e
le cariche della repubblica, epperò piú innanzi ancora crescettero i
mali. L'oligarchia dei ricchi immersi nella mollezza cercarono sempre di
divezzare il popolo dalle armi, e per loro difesa assoldavano Campani, Bruzî,
Galli, ivi accorsi per amor di guadagno, terrore di quell'imbelle plebe, ed
eziandio de' tiranni che li pagavano.
Se
poi ci trasportiamo fra le robuste popolazioni che abitavano i monti. non
troveremo né soverchia opulenza che attutisce i sensi, né miseria che logora le
fibre, le quali dotate di giusta irritabilità, premono e sospingono a
regolare e costante corso gli umori: di quinci fermezza ne' propositi, calma
nel deliberare, costanza nelle opere; non insultavano, ma combattevano il
nemico; il valore in onore, e piú del valore la saggezza e la disciplina dei
guerrieri; eravi lusso, ma ne' militari ornamenti. Inoltre l'agricoltura essendo
la gradita occupazione di quei guerrieri, e le terre quasi ugualmente divise,
l'utile privato trovavasi d'accordo con l'utile pubblico; i voti non venduti, e
la suprema potestà, le cariche tutte della repubblica venivano conferite
ai migliori. Ecco dunque, nell'epoca medesima, nella stessa Italia, due
società, l'una, pel rapido svolgersi della civiltà e
l'accrescersi delle ricchezze, corrotta e decadente; l'altra, ove erasi
conservata una giusta uguaglianza, giovane e fiorente.
Proseguiamo
le nostre considerazioni: in una società depravata i scrittori non
possono essere che dotti e correttori di costumi, tali furono i Pitagorici, i
quali non furono, come alcuni opinano, riformatori, ma propugnatori delle
antiche virtú; erano gli apologisti del governo dei migliori, che aveva
già esistito, che esisteva presso i popoli montani, e che fra i
Magno-Greci era degenerato, perché non contrappesate le fortune nel governo de'
piú ricchi. «Il migliore de' governi, - diceva Clinia, - non deve essere
affidato ad un solo, perché un solo ha delle debolezze; non a tutti, perché fra
tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perché pochi sempre
sono gli ottimi». «Se una città libera, - diceva Aristotile, - non
avesse che un solo uomo virtuoso, chi potrebbe negare che in tale città
la dominazione d'un solo sarebbe necessaria?» E Clinia, Archita, Platone,
facendosi, come è naturale all'uomo, centro di ogni cosa, credettero
scoverte del loro ingegno quelle massime, quei principî che in quella società
decadente erano un pallido riflesso, un debole eco di antichi costumi; e dando
il nome di virtú, non già all'azione che oppone nuovi principî a
vecchi pregiudizî, ma ai principî stessi, si credettero i soli virtuosi, né
dubitarono per fare il bene, come essi dicevano, spacciarsi quali inspirati da
Dio; e cosí l'amor proprio trovò in essi ragioni come accordare
impostura e virtú. Quindi diventarono setta, società secreta; ma le loro
dottrine non erano conformi alle istituzioni sociali, né cercavano riformar queste,
ma rendere gli uomini con le istituzioni stesse migliori, opera vana e stolta;
epperò li vediamo ora onorati e vezzeggiati, ora aspreggiati dai
governi, ed in ultimo distrutti da Dionisio, quando da Sicilia passò a
devastare la Magna-Grecia. Intanto, quei principî, quelle massime dei
Pitagorici erano praticate dai popoli montani. Fra i Sanniti, forte federazione
di tre milioni d'uomini raccolti intorno ad eccelsi monti, fra i Lucani, fra i
Sabini… sembrava strano ed inutile ragionare lungamente per dimostrare la
giustizia di quelle massime: fra essi tali idee erano sentimento, e simiglianti
costumi erano quelli dei nascenti Romani.
Dunque i fatti sono in perfetto
accordo col nostro ragionamento; le istituzioni di ciascun popolo progrediscono
esattamente secondo quelle leggi fatali che sono effetto dell'indole umana: e
se nelle società havvi sovrabbondanza di sensazioni, peggiorano e
decadono. Nei primi secoli di Roma, si riscontrano in Italia tre diverse
gradazioni, tre diverse età della vita dei popoli: al settentrione i
Galli, sono in uno stato di completa barbarie, i piú forti fra di loro son duci
in guerra ed arbitri degli altrui destini in pace; fra gli Appennini, giovani e
fiorenti società, governate dagli eletti del popolo; sulle coste, popoli
peggiorati e decadenti. I primi, secondo queste leggi, avrebbero dovuto
raggiungere lo stato dei secondi; questi o passare ad una ignota ma migliore
condizione o decadere; gli ultimi erano condannati a perire. E cosí avvenne, i
loro destini si compirono, e si compirono nel tempo medesimo che, per le stesse
leggi regolatrici dell'universo, cotesti popoli soggiacevano a nuove
trasformazioni.
Da
isolati selvaggi per propria conservazione e per avidità etano giunti a
costituirsi in forti federazioni ed opulente repubbliche; la civiltà, la
prosperità, non era in Italia ugualmente sparsa, ne difettavano i Galli,
ne sovrabbondavano i Magno-Greci. Guerrieri i Galli e gli abitanti dei monti, e
le comunicazioni difficili, quindi impossibile che avessero atteso dal lavoro
pacifico e lento del commercio quest'opera unificatrice. L'autonomia di quei
Stati troppo recisamente costituita per sacrificarla all'unità, e
sorgente di odî vicendevoli; niun nemico comune ed universalmente temuto che
l'avesse indotti per propria conservazione a confederarsi, quindi essi erano
dal fato condannati a sottostare ad una forza prepotente che ne avesse formata
una sola Nazione. Intanto, ad ognuna di quelle Nazioni sarebbe stato difficile
compiere tale impresa, e perché avevano incontro avversarî di pari forza, e
perché eravi in Italia stabilito un diritto pubblico che garentiva la loro
indipendenza. I Romani, in forza di questo diritto pubblico, perché nascenti,
ne vennero esclusi e sprezzati; essi per propria conservazione dovettero vincer
tutti; prima dovettero esser guerrieri per procacciarsi il bisognevole, poi lo
furono per difendersi da tante aggressioni, finché vinti i piú forti avversarî,
i Sanniti, divennero quella forza prepotente che unificò l'Italia.
Unificata
l'Italia, essa trovossi in quello stato fiorente, in quella purezza di costumi
in cui erano i Romani, i Sanniti, i Sabini e… che formavano la parte
preponderante; il patriziato romano, i migliori d'Italia fu la sovrana concione
che governò tutta la penisola. In tal guisa, Galli, Sanniti, Magno-Greci
corsero verso la stessa meta che raggiunsero: ma, nel compiersi cotesta legge,
le istituzioni, i costumi delle società fiorenti prevalsero, i Galli
ancora barberi furono inciviliti per forza; i Magno-Greci e gli Etruschi
perirono per vecchiezza nella lotta. Roma fu il centro ove concorsero le varie
istituzioni e i costumi di tanti popoli italiani, Roma fu il centro d'onde
queste istituzioni si sparsero ugualmente su tutta l'Italia.
Gl'Italiani,
retti dal saggio e guerriero patriziato romano, si trovarono in contatto della
vecchia civiltà d'Oriente e della barbarie d'Occidente, conquistarono
gli uni e gli altri e sparsero la civiltà de' primi egualmente sul loro
vasto impero. Ma le tante ricchezze acquistate colla guerra cominciarono a far
sorgere l'opulenza e la miseria; il governo passò nelle mani dei piú
ricchi; gli ordini sociali avevano compito il loro corso, i mali crescevano,
quindi o dovevano con una rivoluzione rigenerarsi o peggiorare e dissolversi
come era avvenuto ai Magno-Greci.
Le
fibre non erano inflaccidite, le passioni ancora esistevano, quella
società presentò sintomi di rigenerazione, i Gracchi, i
Saturnini, i Drusi furono i riformatori dell'epoca, essi miravano a limitare i
diritti di proprietà: ma i loro ragionamenti, i loro sforzi non furono
compresi dal popolo italiano, questo seguiva i suggerimenti del proprio istinto
e credeva cagione dei mali il potere usurpato dai Romani, tutti vollero esser
Romani, lo furono. Ma i mali in luogo di diminuire crebbero, le loro forze, le
loro fibre si logorarono nella lotta e quella società, con rapido corso,
incominciò a decadere. Noi vediamo la stessa cagione, opulenza e
miseria, produrre i medesimi effetti, i medesimi vizî, dai versi di Lucano
espressi con impareggiabile maestà ed evidenza.
In poter vasto il campicel si estese
Ed estraneo arator fe' lunghi i
solchi
Dove brevi li
fea l'irto Camillo,
E affondavan le marre i Curi antichi.
Alla ragione
Fu misura la forza, e parto iniquo
Della forza, le leggi, i plebisciti:
Allor fur compri i fasci, e
mercatante
De' suoi favori il popolo divenne
Allor l'usura, lupa che fa d'oro
Ricolta ad ogni luna; allor la fede
Violata, e la guerra utile ai nudi.
Tutti
i maestrati della repubblica si ridussero nelle mani dei pochi ricchi, e con
essi il governo, il tesoro, la guerra. le provincie e i trofei, le glorie: le
guerriere prede, fra capitani si dividevano, erano i soldati plebe misera e
vendereccia, e se le possessioni de' padri o figli di qualche soldato
confinavano con qualche potente, ne rimanevano spogliati. Cosí spalancossi fra
i patrizî e la plebe, quelli diventati opulenta oligarchia, questa moltitudine
di codardi e mendichi, la stessa voragine da cui furono inghiottiti i
Magno-Greci; e ben presto in Roma, come era avvenuto fra quelli antichi popoli,
l'oligarchia de' ricchi fu a sua volta oppressa dal militare dispotismo.
La
storia d'Italia diventa ora la cronaca sanguinosa de' suoi tiranni, e Roma
nella decadenza non cessò di essere grande: gli eroici e puri costumi
che Tito Livio pennelleggia, e la corruzione ed i misfatti scolpiti da Tacito
rappresentano degnamente il sorgere ed il tramonto di un gran popolo. Lo stato
di Sibari, di Cuma, di Cotrone, di Siracusa… è riprodotto su vastissime
dimensioni. Sino a Nerone la cronaca è italiana, poi perde questo
carattere di nazionalità, diventa universale. Alle frontiere si creano
gl'imperatori che si disputano il trono, il Senato, estraneo alle lotte,
applaudisce al vincitore. Questo impero cadente e ricco, trovasi a contatto di
Goti, Longobardi, Franchi, barberi affatto. Essi agognano d'impossessarsi di
tante ricchezze, ma dubitano pel terrore che loro inspira il nome romano.
Intanto, per effetto della corruzione, le feraci terre si spopolano e si
cangiano in deserti, gli uomini, avviliti dalla miseria ed oppressi dalla
tirannide, cercano rifugio fra le caverne e le selve. I superstiti a questo
cataclismo politico non differiscono gran fatto dai superstiti alle grandi
crisi della Natura, essi fuggono spaventati la violenza dei potenti, come
questi lo scroscio della folgore ed il muggito della tempesta. Finalmente, i
barberi scacciano la paura, e si rimescolano con le reliquie dell'Impero; i
destini si compiono, i Romani periscono per vecchiezza, e la civiltà che
arrestavasi al Reno ed al Danubio spandesi sino all'Oder.
Siamo
ora alla barbarie ricorsa, che vedremo progredire sotto l'impero di quelle
medesime leggi di cui discorremmo. All'imbelle patriziato romano si
surrogò la robusta e guerriera aristocrazia de' barberi,
quest'aristocrazia componeva la concione sovrana da cui veniva eletto il re
loro duce in guerra. I patrizî romani con l'usura e la frode vicendevolmente si
distruggevano; i nobili barberi, lo facevano con la forza, ed i piccioli
proprietarî erano da questi baroni talmente oppressi che rinunziando ad
un'effimera libertà si dichiaravano volontariamente vassalli del potente
vicino onde esserne protetti, nella guisa stessa che nella primitiva barbarie
quelli che manco potevano si donavano schiavi ai piú forti. La società
nuova che erasi sostituita all'antica, con nomi e costumi diversi
conservò la medesima tendenza ad un'oligarchia di proprietarî che
andavasi sempre restringendo ed allargava quella fatale voragine che separavala
dalla plebe. Intanto, in questa barbarie ricorsa era rimasto superstite il Comune
romano; esso fu punto di rannodamento alla maggior parte degli oppressi; questi
Comuni sottostiedero all'assoluto imperio dei baroni, ma essi furono tanti
centri di vita: il misero popolo dopo sei secoli cominciò a sentire i
proprî mali, venne scosso dalla lotta impegnata fra l'aristocrazia e teocrazia,
la rivoluzione cominciò. E questa rivoluzione, che logorò le
forze de' Romani e fece inabissare tutto l'Impero in quella voragine spalancata
fra ricchi e poveri, trionfò durante la barbarie ricorsa, imperocché le
sue mire furono piú recise; allora gl'Italiani volevano conservare l'Impero,
chiedevano solo di esser Romani, vano rimedio ai loro mali; ora che in diritto
ed in fatto altro non esisteva che l'arbitrio dei baroni, il suggerimento
dell'istinto fu di distrugger questi, non eravi nulla da conservare; i ricchi
baroni vennero assaliti, le loro terre conquise, diroccate le loro castella, ed
essi furono costretti a chiedere rifugio ai trionfanti Comuni: l'Italia
risorgeva.
I
Comuni italiani, per loro interne istituzioni, sono al medesimo punto in cui
erano giunti i Sanniti, i Magno-Greci, e quindi l'intera Italia sotto i Romani,
il governo de' migliori, gli eletti del popolo. Quelli pel crescere delle
ricchezze peggiorarono e perirono, questi corsero con piú rapidità le
vicende medesime. Nelle antiche città italiane formate dalla riunione di
rozzi selvaggi, ed in cui l'agricoltura era in onore, i migliori erano
considerati i piú laboriosi, i meno ignoranti; per contro nelle città
italiane surte dalla barbarie ricorsa, dal lezzo della romana depravazione, co'
sforzi dell'industria e del commercio, i simulatori ed i scaltri erano quelli
nelle cui mani veniva affidata la suprema potestà; nelle primitive
popolazioni, agricole tutte, l'utile privato accordavasi con l'utile pubblico,
in queste in cui tutto era industria e commercio quello era in opposizione con
questo, e vinto il nemico che li aveva costretti ad unirsi e concorrere al
medesimo scopo, l'amor di patria cessò di fatto, e fuvvi solitudine di
pensieri e d'interessi. Le ricchezze degli antichi popoli italiani, che
abitavano i monti, non poterono crescere che lentamente e per mezzo delle
conquiste; i Comuni risorti invece, non avendo rivali nel resto d'Europa,
allora barbera, le ricchezze, come presso i Magno-Greci, crebbero rapidamente;
al XIII secolo le grandi fortune erano ammassate, la plebe compra, le
città si dividono in opulenti e mendichi; al XV secolo è
riprodotto il medesimo fatto osservato presso i Magno-Greci ed i Romani, alla
cima della società un'opulenta e però molle e codarda oligarchia
che sempre restringevasi, alla base plebe vilissima; dall'oligarchia si viene
al dispotismo militare dei tirannelli, i sintomi delle rivoluzioni si
manifestano, i tomulti si succedono, ma tutti mancano di un concetto dirigente.
In quelle società parteggiate dall'oro, l'istinto altro non suggeriva
che surrogare una tirannide ad un'altra, le forze si logorarono, e la voragine
spalancata fra ricchi e poveri inghiottí libertà indipendenza arti
industria commercio, tutto insomma.
Mentre
l'Italia, per le mal distribuite ricchezze, perdeva ogni nerbo ed imputridiva
nei vizî, la sua opulenza, la sua civiltà, soverchiamente superiore a
quella delle Nazioni che l'accerchiavano, dando effetto a quella fatale legge
per cui la prosperità tende continuamente a spandersi su tutti i popoli,
produsse l'irruzione in Italia di quelle Nazioni. L'Italia de' Romani era stata
mirata dai barberi come lo schiavo il padrone; ora i semi-barbari d'oltremonti
la guatatono come il discepolo il maestro, come il mendico guarda l'opulento;
la preda era facile e ricca, all'ammirazione prevalse il desiderio di rapina, i
nostri tardi discepoli gettandosi sul nostro corpo infralito da vecchiezza lo
sbranarono. L'Italia venne disseccata dalla vitalità che assorbivano i
conquistatori, noi ricevemmo da essi una dose di barberismo, vanità ed
ozio. In tale epoca la degradazione compresse in noi ogni elatere dell'animo,
lo splendido medioevo moriva, e per indolenza si amò da noi la stessa
tirannide, si abborrí la libertà per amor dell'inerzia: ubbedienza a
chi comanda, disse con gran verità il Sismondi, fu la formola che
raccolse in sé ogni precetto politico, fondata sull'avversione della lotta e
nel costante desiderio del riposo.
Dall'Italia
gittiamo un rapido sguardo al resto d'Europa che sorge anch'essa dalla barbarie
ricorsa. Dapertutto vediamo la concione dei baroni sovrana, il popolo servo, il
re magistrato. Il risorgimento dei Comuni riformò in Italia questa
società, ma presso gli oltremontani l'elemento barbero prevaleva al
romano, le città mancavano di quella vita che si svolse in Italia, e
tale rivoluzione avrebbe dovuto compiersi su vastissimi imperi, e però
le cose procedettero diversamente. Nelle città, il re eletto dai forti,
poco differisce da essi, né può per l'immediato contatto esercitare un
grande ascendente e quando il popolo sente il bisogno di distruggere
l'oligarchia, la prima idea pratica che gli suggerisce l'istinto è
quella di surrogare ad essi gli eletti del popolo, quindi la democrazia
trionfa; per contro in un vasto impero in cui il re, solo in una capitale, si
estolle agli occhi del volgo al disopra dei feudatarî, i popoli per francarsi
dalla prepotenza di questi divennero collegati del re, e poi si trasformarono
da vassalli in sudditi della corona, e la regia potestà trionfò,
e con essa venne stabilito il diritto divino; e questo diritto prova che
l'opinione universale, che la rivoluzione tendeva, come era naturale, al
governo de' migliori, imperò i re per non concedere al popolo quel
diritto di elezione che avevano i baroni, si fecero dichiarare i migliori da
Dio, onde cosí la loro potestà piú non dipendesse dalla volontà
dei governati.
Possiamo
finalmente conchiudere che quelle leggi fatali che reggono i destini delle
Nazioni, si verificano ne' fatti con l'esattezza medesima che risultano dalla
logica, e l'esperienza e la ragione si trovano in perfetto accordo. Ragionando
della natura umana e del suo modo di agire sul mondo esteriore, dimostrammo,
nel paragrafo precedente, come essa con un'incessante trasformazione accresce
sempre le ricchezze sociali; le quali poi per leggi della stessa Natura,
tendono a spandersi egualmente su tutto il globo, e mentre la prima di queste
leggi è per se medesima evidente, l'altra la troviamo esattamente
confermata dalla storia. La civiltà tende all'equilibrio fra due nazioni
vicine, come il fluido elettrico fra due nubi; quella degli Etruschi e
Magno-Greci era molto superiore a quella dei popoli montani d'Italia, quindi
noi vediamo quelli conquistati da questi, e l'opulenza e l'industria spandersi
egualmente su tutta la penisola; nella guisa stessa le conquiste de' Romani in
Oriente stabilirono l'equilibrio fra le due civiltà, l'una scarsa,
l'altra sovrabbondante; ed i Romani conquistando i barberi d'occidente, la
sparsero uniformemente sul vasto impero da essi fondato; finalmente l'irruzione
dei barberi del settentrione fu conseguenza di questa mancanza d'equilibrio tra
la civiltà corruttrice de' Romani ed i selvaggi costumi dei loro vicini,
e con questa irruzione i limiti dell'Europa civile non furono il Reno ed il
Danubio, ma l'Oder, d'onde poi col mezzo stesso delle guerre e del commercio
penetrò in Russia; e mentre con moto incessante tali destini si
compivano in un periodo di forse quaranta secoli vedemmo in Italia tre società
progredire e poi, pei loro vizî, dissolversi i Magno-Greci, i Romani, i Comuni
italiani. Dunque il progresso continuo è un sogno, i fatti sono troppo
eloquenti per se medesimi, né possono distruggersi da studiati sofismi.
Nell'Europa
moderna la costituzione politica dei varî Stati, ha raggiunto quel punto
medesimo in cui si trovavano que' popoli decaduti, il governo de' migliori; cotesto
principio, sotto diverse forme e con diversi nomi, regge tutte le Nazioni: i
principî, o lo son dichiarati da Dio, o eletti, e tali li dichiara il popolo.
Questo
limite fatale, nessun popolo, antico come moderno, è stato capace di
oltrepassarlo, quantunque moltissimi tentativi si fussero fatti per conseguire
un tale scopo e migliorare istituzioni donde nascevano grandissimi mali. Le eloquenti
orazioni de' romani tribuni contro il potere dei consoli, i tanti rivolgimenti
delle repubbliche italiane del medioevo, e particolarmente di quella di
Firenze, i tanti ritrovati dei moderni ad altro non mirano che a garentirsi
contro quella potestà dal popolo stesso conceduta; ma è forza
confessare che lo scopo non si è raggiunto. Appena affidasi il maestrato
supremo ad un uomo o a varî uomini, le forze di tutta la nazione si volgono a
profitto di questi pochi e de' loro seguaci, e la schiavitú delle moltitudini,
in varie gradazioni, è permanente.
È
questo forse il limite fatale dalla Natura stabilito? Declinano i moderni come
i Magno-Greci, i Romani, i Comuni italiani? Abbiamo dimostrato che la
possibilità di andare oltre è attributo della natura umana:
come essa ha successivamente corretto le diverse costituzioni ed è
giunta allo stato presente, non havvi nessuna ragione per credere che sotto il
pungente stimolo del dolore non possa stabilire ordinamenti migliori. Ma se
è possibile migliorare, è possibile eziandio che i moderni si
dissolvano, come gli antichi, prima di raggiungere il loro scopo. Ci faremo a
svolgere tale argomento interrogando le tendenze della moderna società,
ma prima di tutto fa d'uopo porre in vista, e richiamare l'attenzione del
lettore su di una grande verità, che risulta da quanto testè
abbiam detto.
Quale
fu la cagione per cui, presso i Magno-Greci, all'antica purezza di costumi
successero i vizî che li corruppero? Quale fu la cagione per cui tutte le
cariche della repubblica, un tempo concesse dal popolo ai piú degni, caddero
nelle mani di pochi ricchi, i quali ad altro non pensarono che ad avvilire e
tiranneggiare il popolo, e godersi la potestà usurpata e le esorbitanti
ricchezze? Quale fu la cagione per cui presso i Romani avvenne precisamente lo
stesso? E quale fu la cagione che rinnovò il fatto medesimo nei Comuni
italiani? La cagione fu sempre la medesima: la cattiva distribuzione delle
immense ricchezze che divisero la Nazione in opulenti e mendichi, di quinci
tutti i mali accennati, e quella voragine spalancata in cui questi Imperi
sprofondarono. Quale fu la cagione per cui presso i Magno-Greci, i Romani, i
Comuni, le ricchezze nell'accrescersi si sono sempre piú ammassate fra un
ristretto numero di cittadini, e la miseria della plebe è cresciuta in
ragion diretta dell'aumento del prodotto sociale? La cagione è evidente,
il diritto di proprietà, il diritto che dà
facoltà a pochi di arricchirsi a discapito di molti; un tale
diritto è l'asse intorno a cui queste Nazioni, queste
società hanno compito il loro ciclo. Sofisti!… apologisti della
proprietà, osereste negare quaranta secoli d'istoria? Sareste voi capaci
di dimostrare che non fu la miseria della plebe e l'opulenza di pochi la
sorgente di tutti i vizî che le distrussero; che la tendenza del prodotto
sociale di accumolarsi in poche mani, e quindi cagionare la miseria delle
moltitudini, non sia una conseguenza inevitabile del diritto di
proprietà?
III.
Le rapide e numerose comunicazioni, che si aprono ogni giorno e traversano in
ogni senso l'Europa, hanno fatto abilità ai prodotti dell'industria di
spandersi, quasi uniformemente dapertutto; hanno reso le idee, le scoverte di
comune ragione; hanno talmente intrecciato gl'interessi de' varî popoli, che la
guerra fra due Stati europei vien considerata dalla numerosa turba di
commercianti ed industri quasi come guerra civile.
Intanto,
le due diverse civiltà di Asia e d'Europa debbono in un avvenire non
lontano compenetrarsi, unificarsi, questa è una legge che abbiamo
dimostrato inevitabile e l'abbiamo vista confermata dalla storia. Ma come
avverrà questo fatto? sarà l'Europa che si rovescerà
sull'Asia o questa su quella? né l'uno né l'altro: l'Europa non abbandona, né
le converrebbe farlo, il suo commercio e la sua industria per correre alla
conquista dell'Asia, ne' questa ha tali moventi che la facciano sortire dalla
sua indolenza per rovesciarsi sull'Europa; e se il facesse, il periglio comune
unificherebbe i dotti e numerosi eserciti europei, al cui urto gli Asiatici
verrebbero dispersi.
Se
rivolgiamo lo sguardo all'America, la vediamo messa fra i due continenti, fra
le due civiltà, e parrebbe predestinata a dar compimento a questa legge
fatale, nella guisa stessa che l'Italia il fece fra l'Oriente e l'occidente. Ma
gli Americani son dediti al commercio, all'industria, e non già alla
guerra, i loro prodotti trovano sempre mercati abbastanza vasti, e l'estensione
e feracità del suolo di cui dispone, fan sí che essa non ha bisogno di
cercare ventura per accrescere la sua prosperità.
La
Russia, per la sua apparenza guerriera e per le velleità dei suoi
autocrati, c'indurrebbe a credere che un giorno fosse destinata a compiere con
la spada i decreti del fato; ma non vi è popolo meno del russo adattato alla
guerra, esso non è abbastanza civile per sentire i stimoli della gloria
militare; né tanto barbaro d'abbandonare le proprie contrade e correre alla
conquista di nuove regioni; la volontà dell'autocrate basterà per
esaltarlo in difesa del proprio paese, ma non già per trasformare in
conquistatori un popolo di servi. La Russia contribuisce a compiere queste
leggi fatali non già con la guerra, ma col lento lavoro del commercio.
La civiltà europea già accavalca gli Ural e penetra in Asia.
Finalmente,
se ci faremo a considerare attentamente le condizioni dell'Inghilterra, ben
lungi dal vedere in essa la Roma o la Cartagine moderna, noi crediamo che essa
rappresenti ciò che era Venezia nel medioevo. L'Inghilterra vive
d'industria, i suoi prodotti sono immensi, e sempre crescenti, quindi essa ha
bisogno di mercati vastissimi, essa deve, se le circostanze lo richiedano,
aprire col cannone lo sbocco ai suoi prodotti, quindi a noi pare che
l'Inghilterra sia destinata a capitanare l'esercito di trafficanti che unificherà
la civiltà europea e l'asiatica, se impreveduti avvenimenti non cangiano
la condizione dei popoli.
Dunque,
esclameranno i parteggianti del continuo progresso, noi avanziamo verso
l'unità mondiale, che verrà quasi pacificamente attuata; noi ci
avviciniamo ad un libero e facile commercio fra tutti i popoli della terra: i
varî prodotti di tante nazioni, la loro industria, le attitudini speciali di
ciascun popolo, di ciascun individuo, saranno volti a benefizio di tutta
l'umanità, questo è quello che desideriamo. Ma se la storia e la
logica ci conducono a queste incoraggianti conclusioni, cerchiamo le sorti piú
vicine a cui accenna la vita politica ed economica dei popoli moderni.
Sino
allo scorcio del XV secolo l'Italia fu l'astro intorno a cui tutti i popoli
europei hanno compito il loro giro, il centro verso di cui tutti hanno
gravitato. La sua luce offuscata, questa signora delle genti spenta, questo
centro venuto meno, l'Europa abbandonata a se stessa, per quasi tre secoli ha
seguito un corso incerto e balenante; la Francia, finalmente, si è
surrogata all'Italia per regolare il corso dei destini europei, ma il suo
ascendente non è evidente, incontrastabile come fu quello dell'Italia,
spesso è contrappesato, quasi sempre resta in ombra, e si discerne a pena,
qualche volta sparisce affatto. Nondimeno in Francia possiamo fare studio sulle
tendenze delle moderne Nazioni.
Sappiamo
dalla storia, come in essa i Comuni non poterono mai completamente francarsi,
la regia potestà distrusse e si surrogò al feudalismo. Ma
il popolo non essendo libero come in Italia, l'industria ed il commercio
lentamente progredirono; il protezionismo, conseguenza della monarchia,
tutto interdisse. Finalmente sotto Sully ed Enrico IV fiorí l'agricoltura,
sotto Colbert e Luigi XIV l'industria, a cui Turgot con l'abolizione delle corvate
e de' mestieri diede grandissimo impulso. Oggi i Francesi, e quasi
tutti gli oltremontani, han raggiunto quel grado di prosperità a cui
erano giunti gli Italiani allo scorcio del XIV secolo, e se presso gl'Italiani,
in quell'epoca, ogni cosa accennava decadenza, quali sono le tendenze de'
moderni? «Come!…- esclama Mercier de la Rivière, - ed è un
parteggiano del despotismo, l'agiatezza è sconosciuta a color che la
producono? Ah!!… diffidate di questo contrasto». Ma spingiamoci innanzi alla
ricerca dell'ignoto avvenire.
È innegabile che la presente
società può considerarsi divisa in due classi: da una parte
capitalisti e proprietarî, dall'altra operai e fittaiuoli. Queste due classi
sono in una evidente e continua opposizione, quella prospera al deperire di
questa. «Invano, - dice Filangieri, - i moralisti han cercato di stabilire un
trattato di pace fra queste due condizioni: quelli cercheranno sempre di
comprar l'opera di questi al minor prezzo possibile; e questi cercheranno
sempre di vendergliela al maggior prezzo che possono. In questo negoziato quale
delle due parti soccumberà? Questo è evidente: la piú numerosa».
Questo vero non può negarsi che per ignoranza o per difetto di buona
fede: il capitalista mira sempre ad accrescere il prodotto netto, quindi al
ribasso della mercede, alla ruina dell'operaio, il proprietario a trarre quanto
piú sia possibile dal fittaiuolo onde alimentare i suoi ozî, poco curandosi de'
bisogni di quello.
La
proprietà fondiaria venne già scrollata dalle riforme del XVIII
secolo, che scemarono di molto il suo ascendente sui destini della
società, oggi è il capitale l'arbitro dell'umanità, per
esso corrono prosperi i tempi. L'umano ingegno datosi all'industria, non
tardarono ad inventarsi macchine, strumenti, trovati che ne facilitano il
progresso. Ma in questo progresso la vittima è stata l'operaio; le
macchine e la divisione del lavoro hanno accresciuto il prodotto netto, e nel
tempo medesimo ribassato grandemente il salario; e quelle e questa riducendo
l'opera dell'uomo ad un atto puramente materiale e costante, non è
rimasta al misero operaio nessuna attitudine di cui possa avvalersi. Un tal
fatto gli economisti nol negano, ma come rimediarci?, eglino dicono. Sostituiremo
i viaggi sul dorso d'uomini alle strade ferrate, la vanga all'aratro, il
copista alla stampa? Non si arriva, soggiungono, senza perdite sulla
breccia? Né possiamo tener conto di coloro che il carro del progresso schiaccia
nel suo cammino. E l'economista, atteggiandosi qual benefattore
dell'umanità, con una gravità sotto cui nasconde la sua
ipocrisia, vi dice: noi miriamo al bene pubblico non già al privato. Meno
quest'ultimo asserto, le loro risposte sono giuste, sarebbe stoltezza
pretendere di arrestare i voli dell'umano ingegno, a noi basta registrare un
vero, un fatto, un risultato ch'eglino medesimi non possono negare ed è
che: la miseria dell'operaio cresce al crescere della ricchezza sociale, del
prodotto netto dell'industria.
Inoltre,
maggiore è il capitale, ed in parità di lavoro, maggiore è
il prodotto, questo è un assioma in economia; però un vistoso
capitale producendo sempre piú a buon mercato che un picciolo capitale, ne
risulta che questi dovrà indubitamente soccumbere nella concorrenza;
d'onde risulta un altro fatto, che gli economisti non possono disconoscere, ma
non vogliono confessare, cioè: nella continua lotta che si fanno i
varî prodotti, e i varî capitali, la ricchezza sociale si accresce, ed il
numero di coloro che la posseggono diminuisce. L'Inghilterra produce per
quanto basta a duecentocinquanta milioni d'uomini, ma solamente nove milioni
sono i possessori di queste immense ricchezze. Perché avviene ciò? per
legge di Natura: ricerca continua di prosperità; bisogni crescenti al
crescer de' prodotti, facoltà inferiori ai bisogni, ecco l'umana natura,
d'onde l'operosità, il progresso dell'industria indefinito, la
felicità asintoto degli umani sforzi impossibile; ed in
questo continuo ed istintivo moto l'uomo cercando di volgere in suo profitto quanto
capita sotto i suoi sensi, in una società in cui i guadagni privati non
sono cospiranti, non procedono per linee parallele, ma contrarî ed in
concorrenza, e cercando vicendevolmente distruggersi, bisogna inevitabilmente,
fatalmente tendere ad un'oligarchia di ricchi e raggiungerla.
Dunque
i principî su cui sono stabilite le leggi economiche, le leggi immutabili di
Natura, i fatti infine, ci dimostrano ad evidenza che le moderne società
si avvicinano rapidamente a quelle condizioni medesime a cui giunsero i
Magno-Greci, i Romani, i Comuni, cioè esse tendono a ridursi in
un'opulentissima oligarchia, ed una moltitudine di mendichi.
Fin
qui per ciascuna Nazione in particolare. Ora ci faremo ad esaminare i destini
dell'intera Europa. La giustizia, l'utile del libero cambio, astrattamente,
è incontrastabile; esso è una conseguenza delle leggi naturali da
cui vien regolato il mondo. Ma queste leggi naturali vengono esse osservate nel
resto degli ordini sociali, nella distribuzione delle ricchezze? È
questo il punto della quistione, dagli economisti studiosamente evitato. La
varietà de' prodotti delle diverse regioni, la diversità delle
attitudini di ciascuna Nazione e di ciascun uomo, sono fatti da' quali risulta
l'utile, la necessità del libero cambio. Che ogni popolo fruisca de'
prodotti degli altri popoli e faccia loro fruire dei suoi; che ognuno possa
giovarsi delle diverse attitudini di tutti, e tutti di quella di ognuno,
è il problema umanitario, il problema che il libero commercio, e la
faciltà e rapidità delle comunicazioni risolvono. Il libero
cambio produrrà l'altro grandissimo vantaggio che una Nazione, destinata
dalla Natura ad essere agricola, non abbandonerà certamente
l'agricoltura per l'industria, e viceversa, ed ogni popolo troverà il
suo vantaggio rimanendo in quelle condizioni che Natura gli ha fatto. Ma per
ottenere cotesti risultamenti richiederebbesi che i prodotti sociali, le
ricchezze insomma, scorressero e si diffondessero egualmente in tutte le classi
della società, e non già, come avviene, che si andassero
restringendo in pochissime mani; questo fatto, che abbiamo dimostrato, fa
crollare l'edifizio incantato de' liberi cambisti: è questo lo scoglio
ch'eglino vorrebbero nascondere, curandosi poco, ottenuto l'intento, che la
società vi rompesse.
Discendiamo
ai fatti: un paese abbonda di cereali, ed ivi la plebe vive a buon mercato. Si
pone in atto il libero cambio, ed immediatamente gl'incettatoti faranno
acquisto di tutto il grano e l'invieranno in quei mercati ove maggiore è
il prezzo. Quale sarà la conseguenza? Il caro del pane. Ma, vi
rispondono i liberi cambisti, se il prezzo del pane sarà maggiore, vi
sarà in compenso una grandissima diminuzione nel prezzo de' panni, delle
stoffe, de' tappeti; ed inoltre non contate l'oro che entra nella scarsella
degli incettatori? Tutto questo è veto, ma il popolo minuto, misero come
è, non ha bisogno per covrirsi de' panni forastieri, né gode della
diminuzione di prezzo di questi generi; l'oro che entra nella scarsella
degl'incettatori non arreca nessun vantaggio alle moltitudini, ma è
volto ad affamarle l'anno seguente. Né qui finiscono i mali. La
proprietà fondiaria è un monopolio permanente, ed in una Nazione,
destinata dalla Natura ad essere esclusivamente agricola, non tutti possono
dedicarsi all'agricoltura, i posti sono occupati, quindi per necessità
alcuni capitali e moltissime persone si dedicano all'industria, che per
l'indole nazionale, per le condizioni del paese mai potrà ingrandirsi e
perfezionarsi in modo tale da sostenere la concorrenza di quelle fabbriche
immense, di que' prodotti de' popoli esclusivamente industri, e però il
libero commercio le distrugge immediatamente e priva di lavoro quelli operai
che già ha tormentati col caro del pane. I capitali poi sortono immediatamente
dallo Stato e passano allo straniero. Senza poter rispondere alle prime
obbiezioni, i liberi cambisti credono di rispondere vittoriosamente a
quest'ultima, e dicono: Allorché il denaro passerà da A in B è
segno che A ne abbonda, appena ne mancherà, il danaro vi tornerà,
per la ragione medesima che da A è passato in B. Sí, vi
tornerà, risponde Proudhon, ma vi ritornerà nelle mani dei
capitalisti stranieri, i quali acquisteranno terre, stabiliranno
fabbriche, ed A diverrà una nazione che vive dei salarî che
percepisce dai stranieri. L'ascendente dell'Inghilterra in Portogallo è
dovuta al libero commercio; il vasto impero delle Indie, per questa ragione
è divenuto proprietà di pochi mercanti. In una parola, se le
condizioni e le relazioni sociali non mutano, il libero commercio facilita la
concorrenza, e questa il monopolio di sua natura oligarchico; quindi facilita
la tendenza delle ricchezze sociali a ridursi in poche mani, ed il crescere
incessante del numero dei mendichi e delle loro miserie.
Coteste
verità, che studiosamente si disconoscono, fanno esclamare a Proudhon:
«Il libero commercio, ovvero il libero monopolio è la Santa Alleanza de'
grandi feudatarî del capitale e dell'industria; è la mostruosa potenza
che deve compiere su ciascun punto del globo l'opera cominciata dalla divisione
del lavoro, dalle macchine, dalla concorrenza, dal monopolio, dalla polizia:
schiacciare le industrie minori e sottomettere definitivamente il proletariato.
È la centralizzazione su tutta la faccia della terra, è il
reggimento della spoliazione e della miseria, è la proprietà in
tutta la sua forza e gloria. È per conseguire l'adempimento di questo
sistema, che tanti milioni di lavoratori sono affamati, tante innocenti
creature gettate dalla mammella nel niente, tante fanciulle e donne
prostituite, tante riputazioni macchiate. E sapessero almeno gli economisti
un'uscita da questo laberinto, una fine di queste torture. Ma no, sempre,
mai, come l'orologio dei dannati è il ritornello dell'apocalisse economica.
Oh, se i dannati potessero ardere l'inferno!!…»
Né
qui si arrestano i mali, né qui cessa il potere che hanno le leggi economiche
sui destini sociali, esse informano, danno norma, indirizzano verso la stessa
meta a cui esse tendono, qualunque politica istituzione, eziandio quelle che
sembrano volte a migliorare le condizioni delle moltitudini.
Il
governo vive delle gravezze pagate da' cittadini, e queste, meno pochissime su
taluni oggetti di lusso, tutte gravitano sui poverelli, sul minuto popolo, che
pagane la piú gran parte, che piú delle altre classi sociali ne risente il
peso; mentre i ricchi, e coloro che assorbono i maggiori stipendî, sono in
proporzione i meno gravati. Questi governi dovrebbero almeno proteggere i
miseri. Mai no: è il ricco che ne ottiene protezione, è il povero
che popola le prigioni, che vive sotto la sferza e la prepotenza de'
birri.
Nel governo assoluto il povero può alcune volte ottenere
da un monarca un provvedimento arbitrario ma repressivo contro il ricco; nel
governo rappresentativo, coverto con la maschera della legalità,
ciò è impossibile: elettori quelli che posseggono, eleggibili
quelli che posseggono, i nullatenenti son fuori la legge, sono in una
condizione peggiore de' schiavi; il governo è nelle mani de' capitalisti
o de' proprietarî, l'industria progredisce, la miseria cresce, e la
società corre verso l'oligarchia dell'oro.
Passiamo
al suffragio universale, amara derisione del popolo minuto. L'operaio, il
contadino, che non votano pel capitalista, pel proprietario, vengono da questi
minacciati della fame. I capitalisti fanno monopolio del voto come d'una
derrata; il povero nel governo rappresentativo è abbandonato affatto in
balia del ricco, i suoi mali giungono al colmo. Il capitale dispoticamente
governa, di quinci la codarda politica, co' deboli superbi e co' forti umili;
la noncuranza per l'avvenire, guadagni pronti e grossi è la massima de'
presenti uomini di Stato; nelle loro mani il telegrafo elettrico ed il vapore,
grandi trovati dell'umano ingegno, son volti a perpetuare l'usurpazione e la
miseria. Il Sismondi scriveva alla Giovane Italia: «Affiderete voi la causa del
proletariato agli uomini che ne dividono le privazioni? essi non hanno forza;
l'affiderete quindi a' ricchi? essi saranno i primi a tradire il povero». Ecco
il problema fatale che tutte reassume le future sorti dell'umanità. Né
questo è tutto: le ricchezze de' pochi e la crescente miseria delle
moltitudini producono l'ignoranza e fanno abilità agli usurpatori di
salariare parte del popolo per opprimere i rimanenti. Quindi le numerose
soldatesche ed il militare dispotismo. La quistione politica è nulla in
faccia all'importanza della quistione economica. Finché vi sono
uomini che per miseria si vendono, il governo sarà in balia di coloro
che piú posseggono, la libertà è un vano nome. Invenzioni,
scoverte, ordini nuovi, liberi reggimenti, altro non fanno che sospingere la
società in quell'abisso verso cui le leggi economiche inesorabilmente la
traggono. In quali Stati è maggiore la miseria e piú sensibile
l'oligarchia dei ricchi? In quelli ove le moderne libertà e l'industria
maggiormente fioriscono, piú che altrove in Inghilterra, poi nel Belgio, poi in
Francia… Gli Europei, dalla burrasca economica che li travaglia, sono cacciati
a torme verso il nuovo mondo; e dall'Inghilterra emigrano il maggior numero,
perché, secondo i moderni, la piú civile. Son fatti questi e non congetture che
vengono in appoggio alla ragione, quindi il vantato progresso altro non
è che decadenza. Ma ove giungeremo? sarà un giorno l'affamata
umanità governata da una gretta oligarchia di banchieri? È questa
la domanda a cui risponderemo col ragionamento che segue.
Svolgiamo
la storia, essa ci indicherà quali furono le sorti di que' popoli le cui
ricchezze s'accumularono nelle mani di pochi patrizî. I Magno-Greci son lontani
da noi, e comeché la loro storia ci venga tramandata attraverso la nebbia de'
secoli, pure vedemmo che appena pochi divennero i possessori delle ricchezze
sociali cominciò, in quelle repubbliche, il parteggiarsi del popolo, i
tumulti, d'onde risultò il militare dispotismo, quindi gli Aristodemi,
gli Anassili, i Dionisî, i Faleridi… Presso i Romani gli avvenimenti si
disegnano con recisi contorni: appena la società vien divisa in pochi
ricchi e numerosa ed ignorante plebe, cominciano, dai mali di questa suscitati,
i tomulti: Tiberio e Gaio Gracco, Saturnino Apulieno, Livio Druso, lo stesso Catilina,
sono generosi che tentano francare il popolo da schiavitú, alleviare le sue
miserie; la guerra sociale, la servile, la spartacida, la mariana, la
sertoriana, la catilinaria, furono i conati di un popolo infelice contro
l'usurpazione de' ricchi; ma la cagione de' mali non cadeva sotto i sensi, non
poteva perciò suggerirsi dall'istinto il rimedio, quindi il concetto che
avesse unificata e diretta l'universal volontà mancò; il popolo
fu sempre vinto, ma non perciò gli opulenti patrizî gioirono delle loro
usurpazioni; ad essi successe il dispotismo militare… quindi Mario, Silla,
Cesare, poi l'impero, i pretoriani, che spogliarono ed oppressero ricchi e
poveri. E gli stessi avvenimenti li vediamo esattamente riprodotti nelle
repubbliche del medioevo: l'oligarchia de' ricchi cade sotto il dispotismo dei
venturieri. E presso i moderni quali sono i fatti che osserviamo? chiunque
senza spirito di parte si farà ad esaminarli potrà riconoscere
che essi sono del medesimo carattere di quelli avvenuti presso i Magno-Greci, i
Romani, il medioevo: i tumulti, le congiure, le guerre civili si succedono, il
dispotismo militare, fra noi, a cagione degli eserciti permanenti, piú pronto,
già s'estolle su tutti gli ordini, viola giuramenti, calpesta leggi,
vuota borse… Banchieri! monopolisti! cercate gioire del presente, giacché
l'avvenire non vi appartiene; il popolo non può ottenere il
trionfo che sbarbicando ed abbattendo tutto l'edifizio sociale, ed in tal caso
voi perirete sotto le ruine; se poi il popolo è vinto, il dispotismo
militare v'aspetta, la vostra morte sarà piú lenta, vedrete poco a poco
vuotare le vostre borse, e morrete consunti: altra alternativa non v'è,
questo decreto del fato è incancellabile.
Ecco,
o dottrinarî!, il progresso sognato dalla vostra beata schiera. È
maravigliosa l'astrazione in cui questi cotali, lontani dalla miseria e
dall'opulenza vivono; eglino credono in buona fede che dalle loro elucubrazioni
fiorirà la libertà. Una catastrofe politica li sorprende, un
soldato prescrive i limiti alle loro dissertazioni, come un pedagogo limita,
minacciandoli colla sferza, le ricreazioni de' fanciulli; essi senza perder
coraggio velano le loro idee, le lasciano indovinare, e procedono, sognando di
far guerra al dispotismo. L'idea, il concetto dominano, è vero, il
destino de' popoli: ma esse son conseguenza de' fatti, e non si traducono in
fatti che dalle rivoluzioni compite per forza d'armi; ed il popolo non
trascorre mai alla violenza perché animato da un concetto, ma perché stimolato
da' dolori. Cosa sono le idee senza le rivoluzioni, senza la guerra che le
faccia trionfare? un nulla, sono le varie forme che i vapori prendono nell'aria
e che uno zeffiro disperde.
Ma
non bisogna arrestarsi alla superficie della società, su cui purtroppo
chiaramente è scolpito un tale destino, fa d'uopo esplorare il fondo per
pronunciare la sentenza.
Discorremmo come i pregiudizî e le
opinioni, in origine cari, manifestando col tempo i loro attributi, cagionano,
perché non concordi con le leggi di Natura, mali gravissimi, ed il rispetto,
anzi il culto che il popolo aveva per essi cangiasi in disprezzo e derisione.
Coloro che primi scrollano questi pregiudizî sono i riformatori, affrontano
questi l'ira sociale, sovente l'esecrazione di quelle moltitudini che eglino
vogliono difendere, e tanti dolori immediati tanti motivi esterni vengono in
essi contrappesati dal convincimento di essere i propugnatori del vero.
Incontro
a questi, dicemmo eziandio, sorgono gli apologisti del presente, dediti sempre
a sacrificare ogni loro convincimento ai vantaggi che gli vengono offerti dal
mondo esteriore; sono questi i propugnatori degl'interessi che prevalgono e,
difensori delle classi che predominano, nascondono sempre il male sotto le
apparenze del bene, sono gli ottimisti. Queste due schiere nemiche possono
dirsi i genî del bene e del male dell'umanità; quelli rappresentano il
moto, la vita; questi l'immobilità, la morte; sono due pleiadi che
precedono sempre le grandi crisi sociali; una tramonta a misura che l'altra
sorge sull'orizzonte. Queste due schiere nemiche vengono, fra i moderni,
chiaramente rappresentate dai socialisti e dagli economisti, e noi ci faremo ad
esporre per sommi capi la lotta che tuttora fra loro si combatte.
Tutti
i riformatori, osservando la cattiva e l'ingiusta distribuzione delle ricchezze
in una società che pretende di esser libera, cercano un mezzo acciocché
essa venga egualmente ripartita. Le idee di Campanella nella Città
del sole, di Cabet nell'Icaria, le teorie di Owen, di Louis Blanc,
tutte si propongono lo scopo di creare una forza estrinseca, artificiale, la
quale presieda alla divisione delle ricchezze. Carlo Fourier, superiore a
tutti, rinviene questa forza nella natura stessa dell'uomo: sciogliete il freno
alle passioni, concedete ad esse piena libertà: e l'equilibrio, egli
dice, si stabilirà da sé. Nondimeno nell'applicazione di questo trovato
egli prescrive alcune regole; grande nel rinvenire questa forza di cui si va in
cerca, erra nel modo come adoperarla.
Gli
economisti hanno francamente appiccata la battaglia ed abilmente ferito nel
debole della corazza. I vostri sistemi, dicono essi, non sono che il
ristabilimento del dispotismo con tanta pena abbattuto. Incontro ad essi, il
passato protezionismo può dirsi libertà: voi prescrivete il
vestito, il cibo, la dimora, alcuni tra voi finanche l'ora del coito. La
società sotto un tal reggimento perirebbe di languore, l'uomo non lavora
che per sé; se distruggete la personalità distruggete il
prodotto. Pretendete forse con le vostre utopie cangiare le immutabili leggi di
Natura? Libertà a tutti e per tutti è la formola degli
economisti, e quindi, osservate superficialmente le cose, eglino, in questa
lotta, sembrano i propugnatori della libertà e del progresso. La
libertà ridona la dignità all'operaio, vi dicono essi, noi non
possiamo né vogliamo lasciar da parte la sua volontà, altrimenti sarebbe
ridurlo alla condizione del bruto che opera sotto l'incubo della sferza.
Continuano, né tralasciano di servirsi giustamente ed abilmente del sarcasmo: I
vostri sistemi, dicono ai riformatori, sono cosí complicati che solo il vostro
grande ingegno che li ha concepiti può averne un'idea chiara e distinta;
e però per attuarli fa d'uopo che la società abbandoni nelle vostre
mani tutte le ricchezze, tutti i suoi diritti, che vi conceda illimitatissima
potestà, acciocché voi possiate rigenerare l'umanità. Le vostre
filantropiche pretese, è forza confessarlo, non sono picciole.
Fin
qui la vittoria degli economisti è completa. Ma quando si trasporta la
quistione sul suo vero terreno, cambiano le veci; quando i riformatori a lor
volta gli dicono: Voi parlate di libertà e dignità dell'operaio?
Quale libertà voi gli concedere se non quella sola di morir di fame?
Quale sferza è piú umiliante e piú potente della fame, solo ed unico
legame che aggioga il proletario al carro sociale? Quando i riformatori
numerano e mostrano la profondità delle piaghe sociali e, la statistica
alla mano, terribile scienza, contano in Parigi trecentosessantamila persone
immerse nella miseria; ed in tutta la Francia sette milioni e mezzo d'uomini
che vivono con soli cinque soldi al giorno; e nel Belgio un milione e mezzo che
vivono di pubblica beneficenza; quando spalancano innanzi ad essi quei tetri
volumi delle ricerche fatte in Londra, delle condizioni dei poveri; quindi
scorgesi che quasi tutti i malfattori son miseri ed ignoranti; quando si
osserva, finanche un morbo distruttore rispettare il ricco ed unirsi con gli
altri innumerevoli mali sotto il nero e stracciato vessillo della miseria;
quando infine, in forza delle stesse leggi economiche, gli dimostrano ad
evidenza che questi mali debbono immancabilmente crescere con spaventevole
celerità, allora gli economisti rimangono atterriti. I loro sofismi sono
impotenti, il sarcasmo cangiasi in ira e prorompono alle onte, li chiamano anarchisti,
parteggiatori; ma i fatti, sanguinosi e minaccianti, non cessano di
protestare.
Fra
gli economisti, il solo onesto, Malthus, coraggiosamente si è svincolato
dalle fatali strette. Non sono le leggi economiche, egli dice, non è
l'ingiusta distribuzione delle ricchezze, non le condizioni ed i rapporti
sociali, la cagione di questi mali, ma essi risultano da due leggi immutabili
di Natura, che regolano la propagazione della specie e l'accrescimento del
prodotto, e fanno sí che l'una procede in una progressione geometrica, mentre
quello cresce in una progressione aritmetica, e quindi conchiude: «Un uomo che
nasce in un mondo di già occupato, se la sua famiglia non ha come
nutrirlo, e la società non ha bisogno del suo lavoro, quest'uomo, dico,
non ha il minimo diritto a reclamare una porzione qualunque di nutrimento, egli
è realmente soverchio sulla terra. Al grande convito della Natura non
v'è posto per lui, la natura gli comanda d'andarsene, né tarderà
a porre essa medesima quest'ordine in esecuzione».
Non
è necessario dimostrare, per ribattere l'argomento di Malthus, che in
Natura non esiste cotesta legge fatale e terribile, ma basterà
rispondere che se essa esistesse, non dovrebbe avere effetto, se non quando
ognuno non occupasse nel convito della vita che un posto solo; ma se quella
ingiusta distribuzione di ricchezze di cui si ragiona fa sí che un solo occupa
molti posti, che nove milioni, per esempio, come avviene in Inghilterra,
divorano la mensa che Natura ha imbandito per duecentocinquanta milioni, allora
chi potrà impedire ai tanti esclusi di avvalersi di quella
superiorità di forze dalla Natura stessa concessegli e, calpestando quei
pochi, farsi da loro medesimi giustizia?
Giunta
la quistione a tal punto, entra in lizza Proudhon, la chiave della volta,
secondo Garnier, dell'edifizio sociale è polverizzata: la
proprietà è un furto, è la netta, evidente,
incontrastabile conseguenza a cui perviene con la sua inesorabile logica. Gli
economisti hanno consumate inutilmente tutte le loro forze per difendersi, ma
l'impresa era troppo ardua, massime per la proprietà fondiaria. Sarebbe
soverchio venir ripetendo in queste pagine gli argomenti di Proudhon, il certo
è che: un uomo ozioso, semplice consumatore, inutile alla
società, che impone patti a suo capriccio a coloro a' quali la
società deve tutto, è l'immediata, la legittima conseguenza del
diritto di proprietà. L'ultimo fra i volgari, se i pregiudizî non
l'accecano, se la sua ragione può per un solo istante francarsi
dall'imperio de' fatti, è nel caso di comprendere questa verità.
Come mai può dirsi giusta una legge dalla quale risulta il diritto di
non far nulla e scialacquare il frutto degli altrui sudori?
Gli
economisti hanno alzata l'ultima barricata dietro di cui si credevano
invulnerabili: la terra, soggiunge Bastiat, non ha valore, (quasi che la
mancanza di valore in un oggetto da tutti desiderato potesse adonestarne
l'usurpazione), la proprietà, egli dice, è un lavoro accumulato.
Ma ad onta di questa ardita asserzione sono stati disfatti, ed hanno visto
distrutte eziandio le ragioni con cui difendevano il capitale: l'uomo creato
con facoltà inferiori ai suoi bisogni non può bastare a se
medesimo, e solo associandosi coi suoi simili sorte dallo stato selvaggio;
isolato è inferiore a quasi tutti gli animali, associato diventa
sovrano. Solo non può neppure procacciarsi il necessario; in
società, ottiene subito dal lavoro collettivo un prodotto
sovrabbondante, quindi comincia il risparmio, il capitale; e siccome il lavoro,
come afferma lo stesso Pellegrino Rossi, non essendo trasmissibile, non
è neppure usufruttabile, ne risulta che il risparmio, ovvero il
capitale, conseguenza di un lavoro collettivo, non può essere che una
proprietà collettiva. Il capitalista che paga otto di salario ad ogni
operaio che produce dieci, non solo ruba due ad ognuno di essi, ma ruba
eziandio la loro potenza collettiva, quella potenza per cui l'azione simultanea
di cento persone è superiore all'azione successiva di tutti gli uomini
della terra; potenza per cui accrescesi oltre misura il prodotto; potenza
generatrice del capitale. Per qual ragione adunque, gli operai, padroni
legittimi del prodotto del loro lavoro, padroni legittimi del capitale che la
loro potenza collettiva ha accumolato, sottostanno alle esorbitanti e
tiranniche esigenze d'un capitalista? La fame ve li costringe; se nella
presente società cessasse la miseria, capitalisti e proprietarî piú non
troverebbero né operai, né fittaiuoli che volessero lavorare per loro conto,
cesserebbe ogni produzione; la miseria gli fa abilità ad usufruttare gli
altrui lavori, la miseria è il punto d'appoggio su cui librasi, è
la base su cui poggia, chiave della volta che sostiene l'edifizio sociale,
è il solo movente che produce quella vantata armonia sociale, per cui
pochi si giovano del frutto dei lavori di molti.
Gli
economisti, vedendosi debellati, hanno eseguita un'abile evoluzione, sono
ritornati sull'antico terreno, hanno trascinato nuovamente i loro avversarî ad
esaminare i sistemi che pretendono surrogare alle condizioni e relazioni
presenti; han detto a loro: «voi non fate che distruggere, edificate, ed
esperimentiamo se i vostri concetti sono attuabili». I riformatori in
quest'ultima contesa mancarono di carattere, si mostrarono deboli: eglino,
credendo sincere le proposte de' loro avversarî, si fecero a chiedere ai
proprietarî i mezzi come esperimentare una società senza
proprietà, la facoltà d'abolirla, ammirabile innocenza!!… eglino
avrebbero voluto riedificare senza distruggere, vestire il povero senza
spogliare il ricco, vana speranza! Lo stesso Proudhon pretende riformare la
società con alcune istituzioni che tutti potrebbero accettare. I loro
avversarî gli risposero con un sorriso di scherno, ed ascosero il loro veleno
per servirsene a miglior tempo. Noi troncheremo il nodo della quistione, non
essendovi alcuna necessità di scioglierlo.
Riscontrasi
forse registrato ne' fasti dell'umanità che le rivoluzioni si compiono
con una discussione o con un'esperienza? che gl'interessi opposti, da cui viene
l'urto, si salvano entrambi? D'onde, se non dal torrente degli affetti che
sgorgano dalle rivoluzioni e travolgono nel loro rapido corso ogni ostacolo,
sorte inaspettato il nuovo ordine sociale? A noi basta d'aver provato, né
ciò possono negarlo gli economisti, che i mali, le cagioni di pungenti
dolori, esistono non solo, ma crescono continuamente, e questo fatto, scritto a
caratteri indelebili negli eterni volumi del destino, racchiude in sé la
rivoluzione, come i corpi il calorico. «Quando il popolo non avrà piú
nulla da mangiare, mangerà il ricco». In questi termini, con queste
parole, Rousseau ha preveduto e definito la rivoluzione, e cosí avverrà.
Inoltre le nazionalità compresse, le ingorde tirannidi, l'agitarsi delle
sette, sono altre cagioni, effetti e causa della rivoluzione, le quali ne
avvicinano il momento, e vestono delle loro apparenze alcuni rivolgimenti, il
cui movente principale, la miseria, il bisogno di migliorare, rimane nascosto.
Dunque,
risponderanno esterrefatti gli economisti, la rivoluzione preveduta,
desiderata, è la strage, la spoliazione? Sí, tale sarà, ma le sue
vittime saranno in numero assai minore di quello che voi ne spegnete coi lunghi
tormenti della miseria. E fossero piú, noi ripeteremo le vostre frasi: «non
si giunge senza perdite sulla breccia - non possiamo tener conto di coloro che
il carro del progresso schiaccia nel suo cammino». Conchiudiamo: la
rivoluzione è inevitabile, essa si avvicina con caratteri chiari e
distinti e procede indipendente dalle discussioni dei dotti. Noi ci faremo ad
esaminarne piú minutamente le tendenze.
«La
Provvidenza, - esclama Alessio Battiloro in Palermo nel 1647, - fa le campagne
ubertose per tutti, né noi dobbiamo morire di fame perché alcuni ladri
s'impinguano».
È
questa la formola della rivoluzione, che esiste latente da due secoli, dal
momento che al popolo del medioevo successe il popolo moderno. Tutti i
rivolgimenti che hanno avuto luogo da quell'epoca, che avranno luogo in
avvenire, tutti, comeché in apparenza vestiti di altri caratteri, sono
l'effetto del medesimo movente, i bisogni materiali del popolo. Questi varî
rivolgimenti sono stati vinti e sviati, imperocché l'istinto appigliandosi alle
apparenze ha trascurata la realtà, sollecito della riforma politica non
ha curato la sociale, ma il movente principale sino ad ora occulto,
sconosciuto, non compreso dalla moltitudine, già comincia ad emergere
dal fondo della coscienza sociale. Chi, oggi, è cosí semplice da
supporre che un popolo corra alle armi per surrogare qualche scaltro ad un re,
per inalberare uno straccio dipinto in un modo piuttosto che in un altro, per
ottenere con le stesse miserie un pomposo nome? Chi negherà che il
popolo armasi perché spera in cuor suo, senza dirsi il come, migliorare le sue
materiali condizioni? Chi negherà che libertà, patria, diritti…
sono vani nomi, sono amare derisioni per coloro dannati in perpetuo, dalle
leggi sociali, alla miseria ed all'ignoranza, inerenti al diritto di
proprietà come l'ombra ai corpi? Perché amerà la libertà
della persona, del pensiero, della stampa, colui che non ha mezzi come
esistere, che per ignoranza non pensa e non legge? Sorrideva Metternich quando
i sovrani si spaventavano della quistione politica; il suo arguto ingegno
scorgeva che la vittoria era certa pel dispotismo finché la quistione non
diventasse sociale. Ed oggi chi non vede che la quistione sociale comincia a
prevalere alla politica? Gli stessi uomini tenacemente ristretti fra le antiche
idee sono loro malgrado obbligati a concederle qualche pensiero, qualche frase.
Non era la quistione sociale che scriveva nel '33 sulle bandiere dei ribelli a
Lione, Vivere travagliando, o morire combattendo? Non era la quistione
sociale quella a cui Cavaignac nel giugno del '48 rispondeva a colpi di
cannone? E le associazioni che si creano, appena ne hanno facoltà, quasi
istintivamente, non accennano forse a cotesto avvenire? E l'indifferenza
con cui il popolo francese mirò violata la costituzione dello Stato,
arrestati i suoi rappresentanti, diroccato il palazzo dell'assemblea, non dice
chiaramente che egli sperava con la repubblica migliorare le proprie
condizioni, e, rimasto deluso, non trovò una ragione sufficiente per difenderla
contro l'Impero? Sono scorsi quasi due anni che ho scritto queste pagine, ed al
cominciar del 1856 con mia soddisfazione, posso aggiungere nuovi fatti in
conferma del mio asserto. Ora che le dottrine socialiste piú non si
manifestano, ora che i dottrinanti d'ogni colore predicano l'assurda concordia
de' partiti contro il comune nemico, il socialismo si eleva alla pratica,
è l'aspirazione di una società secreta, la Marianna.
Le
concioni popolari in Londra già prendono questo carattere, aspreggiano i
ricchi, Nella Spagna, ove non erasi mai scritto di socialismo, esso mostrasi
nei tomulti popoleschi; e la sollevazione di Lione, quella di giugno, la
Marianna, le concioni d'Inghilterra, i tomulti di Barcellona… sono quella serie
di fatti che tendono a trasformare l'idea in sentimento, che renderanno
suggerimento dell'istinto ciò che a pena un tempo antivedeva la ragione.
Quando un tal fatto avverrà, in men che balena crollerà il
moderno edifizio sociale, e su le sue ruine si vedrà sorgere l'era della
libera associazione.
A
cotesti fatti, sappiamo quale sarà la risposta dei conservatori: noi
speriamo, dicono essi, che tutti i rivolgimenti vengano, come per lo passato,
soffocati nel sangue; noi non daremo campo alla rivoluzione di ergere il capo,
noi cercheremo di comprimere ogni elatere dell'animo e vinceremo. Ed io
rispondo, forse lo potrete, ma nell'aspra lotta le forze della società
si logorano, e voi di vittoria in vittoria vi troverete inevitabilmente sotto
il giogo del militare dispotismo, e quindi della decadenza e dissoluzione.
L'avvenire
è già inesorabilmente stabilito, o libera associazione, o militare
dispotismo. Quale di queste due condizioni sociali avrà il trionfo
è dubbio: noi faremo fine a questo paragrafo paragonando le forze
contrarie che debbono venire in lotta, e cosí [potremo] manifestare un'opinione
se non esatta, almeno probabile, rispetto al nostro avvenire.
Se
il popolo scuote la schiena rovescia facilmente nobili, ricchi, preti che
l'opprimono, questa imbelle schiera d'oppressori non possono paragonarsi alla
gagliarda aristocrazia feudale, essi verrebbero fugati dal solo fragore della
plebe in corruccio; la sola forza che li protegge, la sola forza che si oppone
alla rivoluzione, sono gli eserciti permanenti; ma quale è la loro
natura? Possiamo paragonarli ai satelliti armati di cui si circondavano i
tiranni della Magna Grecia, a' pretoriani de' romani imperatori, a' venturieri
del medioevo? No: pei moderni ufficiali la milizia è un mestiere, ma non
lo è pe' gregarî, per questi è un peso a cui con riluttanza si
sottomettono. La disciplina adopera ogni mezzo onde, quasi direi, affatturarli,
e farne un sostegno della tirannide, di cui i soldati sono le vittime piú che
le altre tormentate, ma non perciò cessano di esser popolo, dal cui seno
sono svelti a forza, e sempre agognano di farvi ritorno. Perché dunque credere
che il fascino, l'incanto che li aggioga al dispotismo, non possa cadere, né
possa sorgere in essi la speranza di un migliore avvenire, da conquistarsi non
già al prezzo di una battaglia, ma solamente rifiutandosi di combattere
contro i proprî concittadini ed amici? Chi piú del semplice soldato deve
desiderare un miglioramento delle condizioni della plebe? Egli non è che
plebe. Inoltre, quell'amor proprio di corpo in cui risiede tutta la forza de'
moderni eserciti è, eziandio, efficacissimo conduttore d'ogni nuova
idea; un solo, in que' difficili momenti, in cui gli spiriti esaltati
ondeggiano nell'incertezza, momenti nelle guerre civili comunissimi, basterebbe
per trascinare col suo esempio un reggimento intero, ed un reggimento un
esercito. Aggiungi che la polvere da sparo ha reso facilissimo l'armeggiare; ha
diroccato le torri dei feudatarî; ha sfondata la loro corazza; ha uguagliato il
povero al ricco, il forte al debole; ha reso impossibile alle soldatesche
sostenersi in una città, in cui i cittadini padroni degli edifizî son
decisi a combattere; e dando finalmente il vantaggio al numero sul valore, pare
che abbia favorevolmente decisa la causa dell'umanità.
Concludiamo:
la moderna società trovasi in quel punto fatale d'onde le antiche hanno
rapidamente declinato. Ma, facendo considerazioni sulle condizioni de' moderni,
osserviamo una grande differenza con gli antichi. Il popolo è misero
come l'antico, ma non come quello parteggiato da' ricchi, e legato alle loro
persone; il prestigio di cui godevano gli oppressori piú non esiste; le
quistioni sulle riforme vaste, nette, non vaghe ed oscure come le antiche, esse
dall'astrazione di pochi cominciano già a diventare idee pratiche,
sentimento di molti: facili gli armeggiamenti, la trasformazione del cittadino
in guerriero facilissima, prontissima; per nemici i soli eserciti permanenti,
popolo anch'essi, e però può sperarsi che la società non
declini, ma ascenda all'era della libera associazione, scorrendo cosí
un'orbita piú vasta di quella percorsa dai popoli che ci hanno preceduto.
IV.
Discorremmo come i varî rivolgimenti trasformano la società, ed
illuminati da' fatti, dalle moderne condizioni e relazioni degli uomini,
abbiamo sospinto lo sguardo nell'avvenire. La religione fra coteste vicende
molto opera, ma pochissimo le modifica, quindi preferimmo per semplicità
separatamente discorrerne.
La
religione è un effetto dell'ignoranza e del terrore; l'uomo deifica ogni
forza ignota che lo spaventa, e personifica coteste forze dandogli le proprie
forme, le proprie passioni: quindi mutano i costumi e gli attributi de' dei al
cangiare de' costumi de' popoli.
I
primi numi furono i reggitori di quelle forze, che la Natura manifesta nel suo
tremendo corruccio, e cotesti numi cosí possenti la sconvolgevano, al credere
de' stupidi ed attoniti mortali, per muover guerra all'uomo. Di quinci la
credenza di averli offesi, il desio di placarli, e siccome la sola vendetta accheta
l'uomo sdegnato, per placare gli dei gli offrirono la vita dell'offensore, ed
il culto manifestossi con gli umani sacrifizî. Isolati gli uomini, ognuno ebbe
i propri dei, quindi gli dei penati, i lari. Riuniti in città, surse il
pubblico culto, come surse la pubblica opinione, il pubblico costume.
I
popoli si mansuefecero, si assottigliarono le menti, e la religione
cangiò; l'agricolo e placido Etiopo adorò le costellazioni che
annunziavano le stagioni, avverse o propizîe ai suoi campi, ed il dilagare dei
fiumi fecondatori; le nomò con simboli conformi alle sue idee, ed
adorò questi simboli, queste sue creature. Il guerriero e politico
Italiano, adorò la fede, la pace, la guerra… Infine, con l'ingentilirsi
de' costumi, i sacrifizî umani cessarono.
Nell'assottigliarsi
della ragione surse la greca e l'italica filosofia, la quale era in
opposizione, come ogni filosofia, coi principî religiosi. Gli dei de' Greci e
de' Romani non erano gli arbitri del destino degli uomini, ma di aiuto
efficacissimo se propizî alle loro imprese, nemici terribili se irati; al
disopra di essi eravi l'immutabile destino, alle cui leggi sottostavano dei e
mortali. La filosofia, naturalmente, concentrò tutti i suoi studî su
questa forza, questa legge suprema, e riconoscendo la frivolità degli
altri simboli, l'assurdità della numerosa turba di dei, li
dichiarò tutti falsi, ed altro non riconobbe che questa potenza
superiore, che fu l'unico Dio, le cui leggi essendo eminentemente giuste, e
però immutabili, distruggevano qualunque culto, qualunque relazione tra
Dio e gli uomini, e cosí, come era naturale, la filosofia stabiliva l'ateismo.
Il
riconoscere una legge suprema, giusta e fatale, regolatrice de' destini degli
uomini, era idea che poteva allignare solamente fra un popolo puro e conscio
della propria dignità, ma la buona semenza fu sparsa su cattivo terreno,
il degradato popolo del cadente Impero. Popolo avvilito, popolo schiavo, che le
miserie avevano ridotto quasi nello stato medesimo del selvaggio atterrito
dalla sconvolta Natura, venne, naturalmente, dal proprio scetticismo condotto a
rimettere le proprie sorti nelle mani di questo unico Dio, e ne fece il
vendicatore degli oppressi, l'arbitro degli umani destini; e siccome i popoli
si creano i dii ad immagine loro, cosí gli attributi di esso furono la sua
propria abbiettezza, l'umiltà, la pazienza, l'indifferenza per le cose
terrene. Il culto come adorarlo, i misteri, i riti li trasse dagli Orientali,
quanto i Romani di quell'epoca schiavi ed indolenti. Intanto la solitudine degli
animi e degli interessi, l'egoismo umano, volto solo all'utile privato, questo
in diretta contraddizione con l'utile pubblico, produsse, naturalmente, la
reazione negli animi dei scrittori, i quali come sogliono i correttori di
costumi, senza comprendere che que' vizî erano l'effetto dello sfacelo in cui
andava la società, dell'istituzioni che la reggevano, credettero porvi
rimedio predicando contro di essi, e contrappesandoli con massime di
fratellanza ed abnegazione, e cosí da questa morale predicata ma impraticabile,
e dalla teologia orientale nacque il cristianesmo, le di cui regole, le di cui
massime mostrano benissimo che sursero fra un popolo eccessivamente degradato
ed in balia di uno sfrenato egoismo. Quindi, giustamente, Hegel dichiara la modestia
cristiana nel sapere il grado supremo dell'immoralità. Immorali e
contraddittorie alla Natura umana dovevano essere tali massime, perché surte
fra un popolo in cui ogni elatere dell'animo era spento, e predicate in
contraddizione della realtà, dei fatti ch'erano effetti delle immutabili
leggi di Natura. Gli uomini deificati formarono ad imitazione del paganesimo la
turba de' dii minori che, come gli antichi, presiedettero a tutte le operazioni
della vita, a tutti i fenomeni della Natura. Alcune madonne, alcuni santi con
speciali attributi, gli amuleti, le reliquie, specie di feticcio, si
surrogarono ai dei penati, ai lari, e cosí con diversi principî e nomi, ma
quasi con le stesse forme, alla religione di un popolo giovane e fiorente si
sostituí quella che convenivasi ad un popolo degradato e corrotto.
Gli
dei antichi erano degli eroi, perché eroico il popolo che li adorava quelli de'
cristiani dei martiri, perché schiavi ed oppressi gli adoratori. Avvezzi gli
antichi a vedere il trionfo ed a rispettare il giusto, lo riguardavano come
legge immutabile a cui sottostavano dei e uomini; i cristiani per contro, che
la miseria aveva sospinti allo scetticismo, ne perdettero ogni idea, e
deificarono l'arbitrio, abbandonando i destini dell'umanità in
balia d'un Dio, secondo la preghiera degli uomini mutabile, e cosí al padrone
che si creavano nel cielo, davano gli attributi medesimi che avevano i loro
padroni sulla terra. La morale degli antichi, risultata dall'azione, era
pratica e però d'accordo con l'umana natura; quella dei cristiani
impraticabile, perché volta a frenare le sue leggi.
La
nuova religione, umile in prima, si propagò strisciando fra i potenti,
ma divenuta padrona della forza, mostrossi oltre ogni credere feroce e codarda.
Inorridiscono i moderni, in pensando a' terribili riti druidici ed agli umani
sacrifizî degli antichi, non conoscono, tanto da' pregiudizî è oscurato
il loro intelletto, quanto piú atroci e codardi sono gli assassinî del
cristianesimo, commessi nei tetri recessi dell'inquisizione.
Coronata
di fiori, resa ebbra dallo stesso sentimento religioso, alla splendida luce del
sole, fra devota e festosa moltitudine, involavasi la vittima degli antichi, la
cui vita, in men che balena, veniva spenta dal colpo che vibrava il destro
sacerdote.
Carica
di catene, estenuata dalla fame, sotto le oscure e solitarie volte de'
sotterranei, circondata da carnefici, non già addestrati al rapido
uccidere, ma raffinati nel lento incrudelire, frusto a frusto, fra tormenti
atrocissimi, consumavasi la vittima dei cristiani.
Ne'
sacrifizî degli antichi l'aria risuonava dei canti dell'inneggiante e devoto
popolo, ed era profumata dalle nuvole di fumo che s'innalzavano dai bruciati
incensi; fra' cristiani, invece, veniva percossa da' stridi acutissimi della
vittima ed appestata dal lezzo insopportabile di carni lacerate ed arse. E
quindi i principî, i misteri, gli attributi degli dei, i riti, i sacrifizî,
tutto insomma, rivela nel paganesmo un popolo generoso, e nel cristianesmo un
popolo codardo e feroce.
Fin
qui della religione. Ora diremo de' sacerdoti ogni eroe fu sommo sacerdote
nella propria famiglia e fra i suoi clienti. Formati i vichi, i
paghi, le città, la concione de' forti, spesso, non potendo
occuparsi delle cose divine concernenti il pubblico culto, delegò altri
a compiere tali ufficî, ma costoro, con tali facoltà,
acquistarono ben presto un grande ascendente sulla credula moltitudine, e
l'aristocrazia si vide osteggiata, contrappesata dalla teocrazia, di quinci la
lotta fra queste due caste, che si disputavano la sovranità. Uno dei
fatti piú antichi che ci rammenta questa lotta accanita, è l'esterminio
che Nob fece d'Achimelech con altri ottantacinque sacerdoti. E le mille volte,
presso i Celti, incalzati dal fulmineo brando de' prodi aristocratici, i
tremanti sacerdoti dovettero riparare nelle caverne. In Italia
l'aristocrazia prevalse, presso i Magno-Greci, come presso
i Romani, i numi ubbidivano alla suprema potestà dello
Stato.
Le
medesime vicende si riscontrano nel cristianesmo: surto in uno Stato già
costituito, fu al principio indipendente dal governo. Come fra i vichi ed
i paghi della primitiva barbarie il capo era sommo sacerdote, cosí ogni
villaggio, ogni città de' primi cristiani elesse un cittadino a tale ufficio,
il vescovo. In tal guisa cominciò la teocrazia, la quale, crescendo il
suo potete, si rinserrò in una casta e si attribuí que' diritti che ad
essi venivano dal popolo, ed erano inerenti al popolo.
La
lotta con l'aristocrazia non tardò a dichiararsi, quindi i guelfi e i
ghibellini. La spada vinse, il prete fra' moderni, ove il reggimento è
nelle mani di uomini né codardi né devoti, se non di diritto, di fatto è
soggetto a chi impera: il pergamo, i miracoli, le preghiere sono ai comandi del
trono.
Cerchiamo
ora di scorgere quale sia l'avvenire a cui accenna la religione. Discorremmo
come essa ha seguito i destini de' popoli ed è conforme ai loro costumi.
In quella de' selvaggi vi è impresso il terrore di cui è figlia;
il loro ingentilirsi ne rammorbidisce gradatamente i troppo duri contorni, e la
religione di una società fiorente è quale si conviene ad un
popolo di eroi, ed è sempre in perfetto accordo con l'utile pubblico,
come quella nata fra uomini dediti al bene ed alla grandezza della patria.
Nella
decadenza delle società, poi, si riscontrano in essa le contraddizioni e
la viltà d'un popolo degradato, e, cercando rapire l'uomo alle cure di
un mondo in cui soffre con la promessa di un futuro ed immaginario godimento,
deve sempre trovarsi in opposizione con l'utile pubblico.
Dunque,
affinché una nuova religione potesse sorgere, sarebbe indispensabile che un
cataclismo confondesse la nostra mente, ne cancellasse ogni tradizione e
riproducesse in noi la meraviglia stessa, lo stesso terrore che i selvaggi
sentirono al brontolate del tuono. O pure è indispensabile che la
corruzione e la miseria, comprimendo affatto l'elatere di nostra vita, ci
prostri talmente che, disperando delle proprie forze, ci costringa ad invocare
potenze immaginarie; non v'è che l'uomo atterrito o degradato che ripone
le proprie sorti nelle mani di Dio. Nel primo caso si riprodurrebbero le
primitive religioni, con nomi diversi, perché spente sono quelle
tradizioni. Nel secondo, esistendo ancora una religione surta in simili
condizioni, non potrebbe che riprodursi, rifiorire la medesima. Quindi se la
società moderna declina, risorgerà il cristianesmo e
raggiungerà nuovo splendore con rifiorire il cattolicismo, stato di sua
perfezione; e viceversa, se questa religione perde il suo
prestigio è indizio che la società s'avvicina al suo
risorgimento. Apriamo l'animo alla speranza, esso non dovrebbe esser lontano.
Ma
quale sarà la religione della società rigenerata? È questa
l'ultima domanda a cui ci faremo a rispondere. La religione è fondata su
di un'idea di potestà suprema, di dipendenza, senza della quale non
potrebbe esistere. Senza preghiere, senza credenze, senza culto, senza autorità
non v'è religione. Dunque sono indispensabili i sacerdoti, che parlano
in nome degli dei, che predicano la virtú che gli dei richieggono. È
egli mai possibile che ciò avvenga? In una società la quale tende
verso la libera associazione e l'uguaglianza, ove ogni gerarchia sarà
abolita, potrà mai allignare fra essa l'idea di dipendenza da una somma
sapienza? chi oserà dirsi delegato da Dio a predicare la virtú? chi,
eziandio, nelle presenti condizioni, può farlo senza esser deriso? Il
popolo, dice Mazzini, sarà il solo interprete di Dio; ma in simile caso
Dio che cosa diverrà? I suoi voleri saranno quelli del popolo né
potranno esser differenti, imperocché per esprimerli sarebbe d'uopo
d'interpreti che non fossero popolo, quindi Dio diventa un vano nome, e non
altro. Se poi, come soggiunge lo stesso Mazzini, Dio è la legge, allora
fa d'uopo dichiarare di quale legge parlasi; se di una legge naturale, allora
essa deve assolutamente esistere nel popolo, quindi Dio sparisce, Dio è
il popolo. Se poi questa legge è differente da quella di Natura,
sarà indispensabile un rivelatore, ma chi l'oserà? Ognuno, al
giorno d'oggi, potrebbe dire: Italiani! ascoltatemi! io vi darò le
migliori leggi possibili, ma niuno avrà tanto ardire, o sarà cosí
stolto d'aggiungervi: esse mi sono state rivelate da Dio!
La
religione non è, come asseriscono alcuni, il desiderio, il bisogno di
venire alla conoscenza dell'assoluto; la religione è un sentimento di
debolezza che rendeci creatori ed adoratori di potenze sovrumane, e quando la
ragione dimostra che queste forze non esistono, o almeno non impongono doveri,
né accordano premî, né infliggono castighi, né havvi mezzo come placarle e
renderle a noi propizie, la religione piú non esiste. Dicono alcuni: il simbolo
della nuova religione sarà l'Umanità, la Ragione, la
Libertà. Ma coteste idee non essendo né mistiche, né sovrumane,
non hanno in sé alcun sentimento religioso. Ma, senza andarci ravvolgendo in
inutile giro di parole, domandiamo a costoro, se nella nuova società a
cui eglino medesimi accennano, vi potrà essere un'idea mistica che
ne modifichi la costituzione ed i costumi degli uomini. La risposta non
può essere che negativa, quindi la società rigenerata
dovrà essere indubitatamente irreligiosa.
Chiamare
religione e deismo l'aspirazione alla conoscenza dell'infinito, è
un'improprietà di linguaggio, è oscurare le nuove idee con voci
antiche destinate ad esprimere tutt'altro sentimento. Non ammettere che queste
aspirazioni, dichiarare ogni simbolo di Dio assurdo, negargli ogni ingerenza
nella vita dell'uomo, altro non è che irreligione ed ateismo.
In
tutte le religioni sino ad ora esistite la fede ha creduto alla certezza
e verità obbiettiva della parte sovrumana. La ragione altro non
aveva fatto che distruggere un simbolo e sostituirne un altro accettato come verissimo.
Ma oggi siamo trascorsi piú innanzi: studiando sul passato e scorgendo una
successione di simboli religiosi, ognuno a sua volta dichiarato falso,
si è dedotto che tutti erano egualmente bugiardi, che tale è il
presente, che tale sarebbe un nuovo simbolo che ad esso si sostituisse. Dunque
la nuova fede quale è? Il non aver fede in nessun simbolo perché
chimere della nostra immaginazione: ovvero la nuova fede è l'irreligione.
Tutti i riformatori, tutti gli apostoli del progresso sono irreligiosi ed atei,
ma tutti non vogliono accettare questa conseguenza della loro dialettica e si
dichiarano, con enfasi, religiosi e deisti. Per contro, non tutti sono
socialisti, ma tutti, comeché professando dottrine opposte al socialismo, si
compiacciono dirsi tali, e perché. La ragione è evidente: l'irreligione
è già sentimento, quindi tutti la professano, ma sono
riluttanti a confessarlo; il socialismo riguardasi ancora dottrina, e tutti
cercano farne pompa, senza comprenderlo o approvarlo.
Un'altra
ragione per cui la religione si dichiara indispensabile è che la storia
la registra come un fatto universale e costante. Ma questa ragione non dovrebbe
avere alcun peso per coloro che credono al progresso indefinito, imperocché
tale credenza non può ammettere che una qualsiasi istituzione debba
esistere per la sola ragione che ha sempre esistito, anzi la dottrina del
progresso indefinito stabilisce il contrario. La religione ha sempre esistito
imperocché tutti i popoli della terra hanno percorso sino ad ora la medesima
orbita, son soggiaciuti alle medesime vicende. Gli Orientali, gli Etruschi, i
Magno-Greci, i Romani, i moderni, tutti partendo o dallo stato selvaggio, o
dalla barbarie ricorsa, hanno raggiunto il medesimo grado di civiltà, e
sonosi trovati nelle medesime condizioni. Al termine poi di questo ciclo
sociale percorso da tutti i popoli del mondo, si è accennato ad una
legge di fraternità ed eguaglianza quasi sintesi dell'idea sociale: vi
accennarono le dottrine di Zoroastro e di Confucio, vi accennò Platone,
vi accennò il cristianesmo, vi aspirano piú recisamente i moderni. Quei
popoli decaddero né poterono raggiungere questo nuovo stato; noi,
raggiungendolo, varcheremo un punto che nessun popolo ha varcato, quindi niuna
delle istituzioni passate o presenti ci può esser norma da indovinare le
future. L'irreligione sarà nuova, come è nuovo il
socialismo.
Faremo
fine a questo capitolo richiamando l'attenzione del lettore su di un fatto, da
cui moltissimi son stati tratti in un grossolano errore. Quell'aspirazione alla
fratellanza, che abbiamo scorto in tutte le società che cominciavano a
dissolversi, la comunità de' beni predicata nel vangelo, ha lasciato
credere quasi a tutti che quelle antiche idee fussero i rudimenti del moderno
socialismo, ma quest'aspirazione ad un migliore avvenire, che sentiva un popolo
avvilito, un popolo in cui era spenta ogni energia, era conseguenza delle
condizioni di quella società che doveva o progredire o decadere. Ma essa
non fu che una semplice aspirazione, le massime che prevalsero furono quelle
dell'umiltà, dell'indifferenza alle cose terrene de' cristiani, effetto
di loro degradazione e causa che ne accelerò la caduta; una tale
aspirazione fu il crepuscolo d'un tramonto tolto quale l'alba di nuovo giorno.
L'avvenire
immaginato da' cristiani in tale aspirazione sarebbe stato la trasformazione
del mondo in un convento. Il fanatismo condusse que' popoli al martirio, ma non
potette elevarli alla battaglia. Per contro, fra le dottrine de moderni
socialisti, fra le massime ricevute, non havvene alcuna che dissolve od
avvilisce: gli uomini oggi si associano non già per pregare e soffrire,
ma per prestarsi vicendevole aiuto, lavorando, per acquistare maggior
prosperità, e per combattere; l'aspirazione del socialismo non è
quella di ascendere in cielo, ma godere sulla terra. La differenza che passa
fra esso ed il vangelo è la stessa che si riscontra fra la rigogliosa
vita d'un giovine corpo ed il rantolo d'un moribondo.
V. Nazionalità. - VI.
Libertà. - VII. Unità. - VIII. Federazione.
V.
Senza obliare le verità economiche rammentate nelle precedenti pagine, e
le conseguenze da esse dedotte, restringeremo le nostre considerazioni fra i
confini che le Alpi ed il mare segnano alla nostra patria; e prima di farcene a
scrutare l'avvenire, verremmo svolgendo que' popolari concetti che sembrano
reassumerlo, mentre essi non potranno ch'esserne la conseguenza e l'effetto.
In
Italia, il concetto sociale appena albeggia, traspare appena fra i voti e le
speranze universali; il politico predomina, e la ragione è, per se
medesima, evidente: un popolo a cui negasi una patria, crede un tal fatto
cagione assoluta de' mali suoi, e conquistandola spera alleviarli: nondimeno i
fugaci esperimenti del '48 e '49 han fatto scemare fra gl'Italiani, e per essi
non intendo sette, ma l'intera nazione, il prestigio che aveva il politico
concetto. Se malamente sopportansi le presenti miserie, sentesi eziandio che un
cangiamento di forme, di nomi, d'uomini, non è rimedio efficace; ed un
tal sentimento, comeché sconfortante al presente, è pegno indubitato di
migliore avvenire, avvegnaché sarebbe impossibile abbracciare nuove idee, nuovi
ordini, prima che il fatto non avesse distrutto le passate illusioni e gli antichi
pregiudizî. Inoltre, sono le relazioni di Stato a Stato cosí
intime, e cosí intrecciate in Europa, che gli esperimenti in politica fatti da
una nazione, del pari che le invenzioni e le scoverte, sono di un utile
universale, non potendo rimanere inosservati ed infruttuosi per gli altri
popoli; epperò l'Italia va ammaestrandosi, non solo con le proprie
esperienze, ma ancora con quelle de' suoi vicini. I Stati europei navigano di
conserva verso la stessa meta; il primo a giungervi determinerà la linea
sulla quale verranno ad arringarsi. La Francia, piú che ogni altra moderna
nazione, ha fatto numerose esperienze sulle varie forme del suo reggimento. Gli
Italiani han visto, tremendo esempio, crescere i suoi mali senza verun
vantaggio: un tal fatto, e le nostre passate esperienze, sono cagioni
abbastanza gravi a determinarci allo studio accurato delle conseguenze ove
potrebbero condurci le nostre istintive aspirazioni. A chi credono che la buona
scelta degli individui o qualche picciolo cangiamento facesse fruttare in
Italia felicità quelle stesse istituzioni cadute in Francia nel
dispotismo, è inutile rispondere; io non scrivo per costoro, i quali, se
non sono ignorantissimi, la malafede è indubitata.
Nazionalità
è una parola, che, all'iniziarsi i rivolgimenti del '48, corse di bocca
in bocca, ed è tuttora per gl'Italiani di grandissima efficacia, ma
sempre è stata malamente definita, mai profondamente riflettuta.
La
nazionalità è l'essere di una nazione. Un uomo che liberamente
opera, liberamente vive ed esprime i propri pensieri, possiede completamente il
suo essere, ma se un ostacolo qualunque impedisce lo sviluppo delle sue
facoltà, ne interdice la volontà, ne arresta i moti, l'essere piú
non esiste. Nella stessa guisa, per esservi nazionalità bisogna che non
frappongasi ostacolo di sorta alla libera manifestazione della volontà
collettiva, e che veruno interesse prevalga all'interesse universale, quindi
non può scompagnarsi dalla piena ed assoluta libertà, né
ammettere classi privilegiate, o dinastie, o individui la cui volontà,
attesi gli ordini sociali, debba assolutamente prevalere: è
nazionalità quella che godesi sotto il giogo d'un assoluto sovrano?
Quale utile ebbero i popoli dalle guerre che da tre secoli e mezzo si
combattono in Europa, guerre di rivalità dinastiche e non d'altro? Gli
Austriaci, i Prussiani, i Piemontesi, i Spagnuoli quali ragioni avevano di
correte alle armi e d'assalire i Francesi per vendicare la morte di Luigi XVI?
Il popolo sotto tali governi è un gregge vilissimo, tosato in pace
co' balzelli, strumento in guerra di vendetta e d'odio personale
fra i principi. La ricca vita nazionale si reassume e si angustia in quella
ignobilissima d'un despota, o d'un suo favorito, e diventa però
mutabilissima, quindi la stessa Nazione la vediamo ora superba, ora umile, ora
bigotta, ora religiosa, ora debole, ora forte; il continuato progresso
impossibile, ogni ministro distrugge o sceglie altra via del predecessore,
sempre suo rivale, e la nazione è condannata ad un perpetuo ondeggiare.
Tutto ciò ch'è collettivo, epperò nazionale, abborrito,
interdetto. La storia della nazione riducesi ad una cronaca menzognera o
scandalosa delle virtú o de' vizî dei principi. Ove adunque trovasi la
nazionalità? Quali vantaggi otterrebbe l'Italia con l'unità
monarchica assoluta? Nuovi mali, e non altro.
Tutte
le miserie ed umiliazioni che ora si riscontrano in ogni principato in cui
è divisa l'Italia, non cesserebbero, ma, a queste, altre ne verrebbero
aggiunte che dall'accentramento del potere e dell'amministrazione naturalmente
risultano.
Come
ora languono le provincie d'ogni Stato, languirebbero allora egualmente le
città che oggi son capitali, eccetto una. Il male e l'ingiustizia che le
provincie sieno governate da uomini spediti da lontane corti, crescerebbero in
immenso con l'unità. Gli abitanti delle varie capitali, oggi usufruttano
quasi tutte le cariche di ogni Stato, in allora ad una sola città
restringerebbesi un tal vantaggio. La probabilità di rinvenire fra tanti
principi uno che sia meno cattivo, la loro debolezza che rende meno ardua
l'impresa di rovesciarli, cesserebbe. Scapiterebbe l'industria, che ora in ogni
Stato ha un centro di moto; scapiterebbe per la ragione medesima il commercio,
non contrappesandosi i danni dell'accentramento dalla piú libera circolazione
interna. Ogni governo, eziandio dispotico, è costretto alcune volte, o
perché l'epoca il comporta, o per indole del principe, a proteggere le scienze,
ed avvalersi de' distinti ingegni; quindi, in ragion del numero de' governi
cresce la probabilità che splendesse qualche face fra le fitte tenebre
della tirannide; né Beccaria, né Filangieri, né Pagano, né Romagnosi, conterebbe
l'Italia se fosse stata una sola monarchia. Avvegnaché in un sol centro troppo
lontano dagli estremi sarebbesi favorito lo sviluppo dell'ingegno, e
difficilmente un sol governo sarebbesi mostrato in breve tempo piú di una volta
propenso alle riforme, né avrebbero avuto luogo le varie vicende che le
promossero.
La
forza è il solo apparente vantaggio dell'unità; dico apparente,
perocché l'esercito ed il tesoro sono mezzi di cui dispone il re, non
già la nazione, volti ad opprimerla e non già a difenderla: non
pegno di prosperità ma incentivo a' capricci di qualche despota
avventuroso.
Quale
monarchia può reggere al paragone del nostro splendido medioevo, co'
suoi torreggianti edifizî, col suo Dante, col suo Machiavelli, coi suoi
guerrieri di ventura, e raggiungere in sí breve tempo quel grande sviluppo
dell'industria e del commercio? L'Italia surse dalla barbarie, raggiunse
l'apogeo della civiltà, decadde, ed allora le altre nazioni vennero ad
attingere dalle sue ruine una scintilla di vita. Non prima dell'epoca di Luigi
XIV la Francia s'avvicinò a ciò ch'era stata l'Italia nel XIV
secolo. La storia di Francia sarà sempre la cronaca d'una corte
dissoluta; e quella [d']Italia la storia di libere genti; l'una è
l'immagine de' dispotici imperi asiatici, l'altra della libera Grecia. Perché
tanta differenza? Perché l'indole svegliata degl'Italiani ed il loro spirito
d'indipendenza non si prestò mai, né mai si presterà a seguire
come stupido gregge le sorti di una dinastia. La libertà, e non già
la forza, potrà unificare l'Italia.
Nelle
grandi monarchie, salvo la capitale, le altre provincie languono quasi membra
inaridite e dogliose: esempio la Francia, ove la fazione che trionfa in Parigi
dispone a suo talento di trentaquattro milioni di Francesi. Minori assai sono i
nostri mali, divisi come siamo in tanti principati, che l'esser tutti
sottoposti al medesimo tiranno.
Passiamo
ora a far paragonare fra la monarchia assoluta e lo stato di conquista. Un
paese governato dispoticamente subisce una perenne conquista. I principi non
hanno patria, loro patria è il mondo che si parteggiano. Ove cercano le
spose, ove gli amici? fra i connazionali forse? mai no: fra questi cercano
sgherri e cortegiani; loro amici sono gli altri principi, pronti a muovere le
armi in loro difesa. Quale interesse possono avere gli Italiani di favorire una
dinastia piuttosto che un'altra? il medesimo di un condannato a cui fosse
concesso di scegliere il carnefice. Se mai siamo destinati ad essere
tiranneggiati ed oppressi, è meglio che i satelliti del despota, i
sostegni del dispotismo, siano stranieri. Ne verrà risparmiato il dolore
di veder rivolti [contro] noi stessi i nostri concittadini: ed essendo maggiore
il distacco fra il governo ed il popolo, piú sentito sarà l'odio, piú
pronta e terribile la vendetta. Non è forse piú onorevole pe' Romani che
il papa debba sostenersi per forza d'armi straniere che se lo fosse da armi
nazionali? Non sarebbe stato, per la Francia, meno vergognoso il sottostare ad
una conquista, che vedersi oppressa, umiliata, venduta, da Francesi stessi? Si
direbbe disgraziata la Francia, ma non corrotta. La conquista può essere
l'effetto di una momentanea prepotenza di forza, né dura se lo spirito
nazionale esiste. La tirannide domestica, per contro, sorge dalle viscere
stesse della Nazione, e vi tiene profondate e sparse le barbe. In una parola,
quando i tempi son maturi per libertà, che un despota scacci un altro
despota o si sostituisca alla conquista straniera, il popolo, senza nulla
guadagnare, sopporta infruttuosamente tutti i mali della guerra. Col dispotismo
non v'è nazionalità, qualunque lingua parli il tiranno, qualunque
sia il luogo ove ebbe i natali.
Della monarchia costituzionale,
dirò brevemente, non perché dopo il detto sia necessario, ma ad evitare
l'accusa d'averne taciuto ad arte. Tal forma di governo è assurda altro
non è che un'ipocrita tirannide. Il principe, capo delle armate, padrone
del tesoro, distributore di tutte le cariche ed onori dello Stato, negoziatore
con le Potenze straniere, sorgente di tutte le grazie, solo inviolabile ed
irresponsabile di qualunque atto, mentre non havvene alcuno che non sia sua
emanazione e sua volontà. Adunque, gli attributi, la forza, i privilegî
del principe sono i medesimi che nella monarchia assoluta; quali sono incontro
ad essi le guarentigie del popolo? Un patto, ovvero il giuramento del principe
stesso, ed un congresso, che il governo, fonte di tutti i favori, facilmente
rendesi ligio. Credesi guarentigia la guardia nazionale? Questa istituzione
è un accrescimento di forza al governo, e non già una difesa del
popolo. I suoi capi sono a scelta del re, e sarà perciò
facilissimo, se non d'avvalersi dell'opera di questi armati, paralizzare almeno
la loro azione, perocché, essi, loro malgrado, subiranno, quantunque
leggermente, l'influenza dell'autorità de' loro capi, e moltissimi
cittadini, che in qualche avvenimento prenderebbero parte attivissima, se ne
astengono, se guardie nazionali. Inoltre, l'inutile servizio ad essa imposto
è, ai piú, di gravissimo peso, sovente non proporzionato, attesa
l'indole e condizione dell'individuo, ai vantaggi che esso ottiene dalle
franchigie accordate dal governo. Dalla sola volontà del re dipende
l'esistenza di un tal governo, quindi è stabile per quanto può
esserlo la volontà d'un individuo, che un matrimonio, il credito di un
favorito, la paura, o altro impreveduto avvenimento, cangia. Si attengono i
ministri alle forme, perché da esse dipende il loro utile personale, la loro
carica; ma se credono necessaria una misura arbitraria, come ne' governi
assoluti, e non altrimenti, l'eseguono; ne sparla il pubblico, ne scrivono i
giornali, qualche deputato ne chiede conto a' ministri, e qui finiscono le
opposizioni, a questo si riducono i diritti, le guarentigie del popolo.
Credo
inutile distendere piú oltre un tal ragionamento, non parendomi necessario
addurre ragioni, quando sonovi i fatti che parlano chiaramente. La storia delle
monarchie costituzionali è contemporanea, ricca, notissima: la Francia,
dopo essersi dibattuta per ventuno anni sotto un tal governo (tale eziandio
dovendo considerarsi l'ultima sedicente repubblica), è ritornata al puro
dispotismo; nella Spagna son corsi, infruttuosi, fiumi di sangue; e moltissime
costituzioni, nell'anno '48, le abbiam vedute soffocate in fasce da' principi
medesimi che le avevano concesse e giurate. Non è l'Inghilterra
eccezione a questa regola generale; le sue grandiose apparenze non fanno che
nascondere le cancrenose piaghe di quella società. Ora che scrivo, il
governo inglese è una piramide, alla cui cima pochi sessagenarî si
ripartiscono le cariche dello Stato; piú sotto un congresso parteggiato, non da
principî politici, ma dal credito personale di quelle reliquie; quindi gli
elettori, commercianti ed industriali, che mercanteggiano, eziandio, il loro
voto; alla base infine una plebe ignorante e misera oltre misura. Se meno che
altrove hanno luogo nell'Inghilterra gli arbitrî del governo, ciò
dipende dall'indole pacifica di quel popolo, dalle tradizioni, da alcune leggi
che l'avvicinano ad una repubblica aristocratica piú che ad una monarchia.
Inoltre
la monarchia costituzionale è corruttrice per eccellenza; è un
armistizio segnato fra i principi ed i monopolisti in danno dell'onestà.
Il dispotismo non cerca l'appoggio della pubblica opinione; la nazione soffre e
tace, ma non mentisce; il governo costituzionale ha bisogno del plauso e
dell'approvazione di pochi per opprimere i molti, li compra; e l'approvazione e
le lodi si trasformano, sotto tal governo, in merci. Di quinci, l'ignobile e
puerile schiera de' soddisfatti ad ogni costo, che si atteggiano, parlano,
scrivono (lodando sempre) come se fossero davvero liberi cittadini e la loro
opinione avesse peso nelle determinazioni governative. Vantano i loro dritti e
la loro libertà, che riducesi al dritto ed alla libertà di
applaudire al governo. Tra costoro, quelli che non son venduti materialmente
rassomigliano a quei fanciulli i quali, con elmo di carta, spada di legno,
credono rappresentare Scipione o Marcello.
Il
despota regna con la sciabola, il re costituzionale con l'oro, quindi appena il
reggimento d'uno Stato d'assoluto cangiasi in costituzionale, le gravezze
crescono in modo esorbitante. Il dispotismo incatena i corpi, il
costituzionalismo perverte il morale; quello comprime l'elatere dell'animo,
questi lo logora, lo distrugge, ed abitua il cittadino ad una continua
transazione, a quel cinismo di cui la Francia è scuola e sentina e da
essa si è sparso sull'Europa intera. Sotto nome di libertà,
favorito e protetto il monopolio, e quindi il proletario abbandonato affatto
all'avidità de' monopolisti ed incettatori. La politica esteriore,
codarda ed ipocrita, dovendosi tutelare gl'interessi di una dinastia, facendo
le viste di propugnare i dritti della Nazione. Conchiudo, monopolisti,
dottrinarî, giornalisti, editori… vantaggiano col reggimento costituzionale,
mentre le sorti de' proprietari e quelle del minuto popolo
peggiorano. Sovente una tal forma di governo è d'impaccio ad un
principe, od un ministro riformatore; se gli stati napoletani avessero avuto
uno statuto al tempo in cui Tanucci ne resse le sorti, probabilmente a questo
ministro sarebbe riuscito impossibile attuare le tante riforme. Questo governo
ermafrodito impaccia un principe che voglia far del bene, ma non frena le
niquizie di un despota.
Parmi
di aver dimostrato che, sia l'Italia divisa in varî principati, sia riunita
sotto una sola monarchia dispotica o costituzionale, la nazionalità
italiana non esisterà per questo; l'Italia sarà feudo di varî
principotti, o di un solo, e gl'Italiani non altro che vassalli. Ma voglio
supporre erronee le ragioni esposte, e concedere che la nazionalità
esiste ogni qualvolta le dinastie, o la dinastia regnante, siano indigene, e farmi
a studiare sui mezzi e le probabilità di scacciare i stranieri dal suolo
italiano, e francare il paese da ogni loro ascendente.
Autorità,
tradizioni e forza sono i principî su cui son costituiti tutti i governi d'Europa,
la sola differenza che passa fra loro dipende dalle diverse gradazioni con cui
la libertà individuale accordasi con essi, perciò nella sustanza
differenza non v'è. Cotesti principî son già in discredito; libertà,
nazionalità, diritto sorgono ad osteggiarli; di quinci la lega
dell'Europa intera contro le nuove idee. I governi occidentali, piú del nord
temono queste idee, e quindi piú immediatamente interessati ad osteggiare ogni
rivolgimento; né questa triade rivoluzionaria può essere mutilata in
modo alcuno; sconvolte le passioni popolari, è impossibile arrestare il
torrente ed egli è assurdo per parte nostra il pretendere che si
facessero a combattere, per giovare altrui, i principî su cui si basano.
Può mai suscitare la rivoluzione chi la teme piú di qualunque altro
nemico? Potranno esservi momenti, come è accaduto, in cui le potenze
occidentali, per loro mire particolari, facessero le viste di proteggere i
rivolgimenti popolari contro la prepotenza del nord, ma appena ottenuto il loro
intento, s'unirebbero co' nostri nemici per opprimerci, spezzare, dopo
essersene servito, un pernicioso strumento e punire come delitto di
maestà i fatti da loro promossi e le speranze che han fatto sorgere. Se
l'Austria che francamente ci osteggia merita l'odio nostro, Francia ed
Inghilterra (e parlasi qui del governo, non già del popolo) meritano
odio e disprezzo perché nemiche occulte. Alí Tébélen, diceva ai Greci: «Non
contate che su voi soli: Russi, Inglesi, Francesi, tutti vi saranno nemici dal
momento che sapranno che volete essere un popolo, non perdete mai di veduta
questa importante verità». Ed egli è cosa naturale che la sola
ragione d'impedire che un altro Stato, dalla condizione di vassallo, venisse a
sedere accanto a loro ne' congressi europei, sarebbe bastante per far volgere in
noi tutte le loro armi. Dunque il risorgimento italiano altro non potrà
essere che la vittoria delle nostre armi sull'Europa de' re. In qual modo
compiere una tanta impresa? Quali mezzi posseggono i principi italiani per
combattere l'Europa intera è quello che verremo ora studiando.
Il
primitivo e naturale concetto è una lega dei principi italiani contro
l'Austria, ma essi le debbono due volte il trono; sin dal 1815 è
l'Austria che timoneggia la loro politica, che protegge i deboli dall'ambizione
de' forti, e tutti dalla rivoluzione. Quale utile avrebbero essi di cacciarla
dall'Italia, privandosi cosí del piú saldo sostegno de' loro troni? Del
Lombardo-Veneto dovrebbero creare uno Stato indipendente o spartirselo, cose
entrambe di somma difficoltà ed imbarazzo. Il supporre che tutti
cooperassero all'ingrandimento d'un solo, è un assurdo inutile a
discuterlo, che il senso comune ed i fatti han dichiarato impossibile. Ma
poniamo che i popoli con mezzi violenti e piú stabili che nel '48
costringessero i principi a scendere nell'agone, quale speranza potrebbe porsi
in una lega che porta con sé il germe della dissoluzione, il mal volere?
Concedasi vinto anche questo ostacolo, restano sempre le discordie, il
dubbiare, la poco energia con cui operano le armi collegate: la storia registra
fatti innumerevoli che ne dimostrano l'impotenza. L'Europa s'è collegata
contro Federico II, contro l'Inghilterra durante la guerra americana, contro la
Francia durante la rivoluzione; Federico uscí vittorioso dalla lotta,
l'Inghilterra conservò sempre una grande superiorità sui nemici,
fu la costanza degli americani e l'abilità di Washington che la vinsero;
i Francesi vinsero sempre, caddero per propria stanchezza e non già per
virtú del nemico. Chi è solo ha il vantaggio incommensurabile dell'unità
di volontà e di comando. E furono leghe coteste in cui ogni collegato da
sé solo pareggiava, se non superava di forze, il comune avversario. Cosa
sperare adunque da quella di principi italiani di cui tutte le forze messe
insieme sono inferiori alle austriache, e fra cui contasi il papa, cosmopolita,
e centro di dissoluzione e di discordie?
Se
l'Austria abbandonasse la sua abile politica e minacciasse di voler conquistare
d'un sol tratto l'Italia, sarebbe il solo caso di una lega sincera, ma durevole
quanto il periglio. Le leghe fra i despoti non son mai cementate da mire comuni
e durature, l'indole d'un principe, il suo capriccio, un matrimonio cangia la
politica e si violano i patti. Basta promettere ad uno de' collegati vantaggi
in preferenza degli altri per staccarlo dalla lega, e forse da amico farlo
nemico. La colleganza de' re contro i popoli è la sola possibile e
permanente; essa esiste di fatto, essendo il periglio comune e durevole.
Facciamoci
ora a discorrere del caso in cui un solo de' principi italiani voglia assumere
l'impresa d'unificare l'Italia, numeriano i nemici; prima l'Austria, che tre o
quattro disfatte non debellano, mentre le perdita d'una battaglia prostra le
forze d'un picciolo Stato; con l'Austria s'uniranno gli altri principi italiani
facenti ogni sforzo per salvare i loro troni, ed il papa con essi, che oltre di
chiamare l'Europa intera in sua difesa, lancerebbe in campo la livida schiera
de' clericali, con le armi che le son proprie, tradimento e raggiro. Armi
efficacissime in quello sciame di cortigiani di cui circondasi il trono, e che
temono scapitare se il padrone vien costretto a spandere in circolo piú ampio i
suoi favori. Non trattasi di un re che caccia i stranieri dai proprî Stati; ma
di un picciolo Stato che conquisti e debelli Stati ad esso molto superiori di
forze. A contrappesare tanti nemici, il principe conquistatore si
rivolgerà alle simpatie de' popoli italiani, che, in un baleno,
potrebbero rovesciare i troni, soffocare le mene de' clericali, e schierarsi
sotto il suo vessillo. Ma il trionfo del popolo in ogni Stato non basta ad
ottenere l'unità di voleri e di sforzi che richiede l'impresa. Il
volontario cangiamento di dinastia è per se medesimo illogico, chi
può rispondere della virtú di una schiatta? In parità di potere
la migliore dinastia è sempre la regnante, e perché la piú affine, e
perché il paese non sottogiace all'invasione d'uomini nuovi ed ignoti. Allorché
tali cangiamenti non avvengono per forza d'armi, sono tranelli di pochi
imbrogliatori, che il futuro ed il presente bene della patria sacrificano a'
vantaggi personali che sperano dalla nuova corte. Arrogi, che nel caso di cui
parliamo, trattandosi di cessare d'esser monarchia per diventar provincia di
monarchia, maggiori sarebbero le difficoltà. A tali unificazioni
ripugnano i popoli, e piú che gli altri, e con ragione, gl'Italiani. Adunque
ogni città, ogni Stato imporrebbe a questo principe patti, chiederebbe
tali guarentigie da suscitare in esso gravi preoccupazioni; egli vedrebbe il
trono de' suoi avi abbandonato in balia de' mugghianti flutti de' popolari
rivolgimenti, né potrebbero menare a fine guerra lunga e terribile.
Suppongasi ora cotesti ostacoli
rimossi, ed il popolo italiano, con illimitata fiducia, abbandonarsi
all'arbitrio di questo principe, e che niun partito, niun uomo sorga a
propugnare idee contrarie o a spargere diffidenza. In tale ipotesi, impossibile
a verificarsi, esaminiamo se questo principe potrà osteggiare e vincere
l'intera Europa. Quanti ostacoli e di sommo rilievo non si opporrebbero al
rapido andamento dell'impresa? delle tasse e della coscrizione, due muscoli
della guerra, per mancanza d'ordinamento e d'unità, per diversità
di leggi, d'usi, di tradizioni, sarebbe quasi impossibile ad avvalersi.
L'Italia deve costituirsi e guerreggiare nel tempo stesso; e son miracoli
questi che fanno le monarchie? Sperasi forse nell'esaltazione universale? essa,
senza dubbio alcuno, è arma terribile contro il nemico, spiana
nell'interno ogni ostacolo, tien luogo di leggi e di magistrati, ma potrà
un principe avvalersene senza tema di rivolgerne in se medesimo la punta?
I
liberi e popolari oratori che suscitano le passioni; le promesse e le speranze
d'un migliore avvenire; schiusa la via a brillanti e rapide carriere; il magico
nome di libertà che agita gli animi e li sospinge in cerca di moto e
d'azione; l'amore che tutti sentono per la cosa pubblica, perché a tutti
è dato liberamente parlarne, farà correre a torme gli uomini alle
bandiere, ed entreranno nel pubblico tesoro le sustanze de' privati. Ma
potrà un principe avvalersi di questi mezzi? ordinerà invano ai
suoi agenti di far suonare le parole di patria e libertà: il suono
sarà fioco, il senso oscuro nella bocca di un cortegiano; unite con le
lodi della magnanimità del principe formeranno una strana e
discorde mistura. Gli uomini che fra l'universale esaltazione corrono alla
pugna non possono che esser prodi: come sfuggire, se codardi, alla pubblica
esecrazione? La libertà, facendo d'ogni cittadino un censore del
governo, ne forma eziandio un sostegno. È cosa notissima come erano
onorati presso le antiche repubbliche que' cittadini che si facevano a scoprire
e rivelare le trame dannose allo Stato; e fra i moderni stessi, non appena vien
adottato il reggimento a popolo, ogni cittadino non dubita farsi il persecutore
de' contumaci, opera vilissima in una monarchia. La repubblica, non escludendo
nessuno dal sindacato, ed ogni cittadino avendo il diritto di censurare la
condotta del generale, non esiterà a denunziare il soldato o qualunque
ufficiale; e la stampa, la libera parola ne' circoli e nelle piazze, gli
offrirà il mezzo come farlo dignitosamente ed eziandio acquistarne fama.
Per contro un severo e pubblico censore trasformasi sotto il principato in un
vile delatore: il silenzio è imposto, o almeno la parola limitata;
è inviolabile il principe, e non è ragionevole, dicono i
monarchici, trovare difetto d'ingegno, di carattere, di patriottismo negli
uomini che il principe chiama a reggere lo Stato. Adunque la censura non
colpirebbe efficacemente che il povero gregario e dovrebbe esporsi a voce bassa
nelle anticamere delle EE. LL.; quindi, comunque rivolta al bene del paese,
diverrebbe atto obbliquo e degradante. Inoltre è natura dei cuori
generosi, il non sentir simpatia pei re o altro potere che s'impone al paese, e
sotto tali reggimenti i refrattarî trovano protezione e compatimento, e non
già riprovazione: questa è una delle tante cause per cui gli
eserciti regî, ad onta di pene rigorissime, non son mai saldi come le schiere
repubblicane.
Né
qui finiscono le cagioni che danno il primato agli eserciti di un popolo
libero. È istituzione fra questi il fare abilità al valore ed
all'ingegno di palesarsi ed aspirare a balzi ai primi onori, di quinci,
l'universale operosità, l'ambizione, madre d'eroi. Un generale
d'esercito, avido di conservare l'aura popolare, stimato dalla sferza d'una
stampa libera e severa, sollecito di soddisfare alla pubblica aspettazione ed
impedire che un rivale, con arditi disegni, lo soppianti, precipitasi in quelle
audacissime imprese che sono l'impeto di un popolo corrente verso la
libertà. Nei regî eserciti è ben diverso il modo di governarsi:
il campo della scelta angustiato fra un cerchiolino di favoriti; il duce
supremo contento del favore del re, scudo e difesa sicurissima a qualunque
errore; un ciondolo inviato dai penetrali della reggia, segno di schiavitú piú
che d'onore, tenuto in maggior conto che la pubblica opinione. Da queste varie
cagioni risulta la paralisi, il dubbiare continuo, il temporeggiare, la
prudenza spinta alla pusillanimità, e per conseguenza meschine imprese,
disastri, o patti vergognosi.
Ne'
rivolgimenti popolari, egli è vero, che accanto agli eroi si veggono
codardi ed impostori, ed il disordine spesso accompagna le grandi imprese, ma
non perciò vien turbato il rapido corso degli avvenimenti.
Le
rivoluzioni son come le onde d'un rapido torrente che, quantunque torbide della
mota sollevata dal fondo, non s'arrestano perciò, né cessano di
sgombrare con fremito gli ostacoli che contrastano al loro corso. Appena un
principe, o un potere qualunque sorge a reggere il movimento, e dice: farò
io,. immediatamente ogni cittadino diviene d'attore spettatore, l'impeto
della rivoluzione s'ammorza.
Suppongasi
che dall'ignobile schiera de' moderni cortegiani, da quella torba di generali
cresciuti fra le pedantesche discipline de' quartieri, sorga, come dalla
brillante nobiltà del medioevo, non serva, ma partecipe de' splendori
del trono, un Condé, un Turenna, un Montecuccoli… esso non potrebbe menare a
buon fine la guerra italiana, avvegnaché, dovendo, durante la guerra, creare la
nazione, gli farebbe d'uopo d'un potere piú che sovrano. La sola libertà
può risolvere il complicato problema: abrogando ogni legge, dichiarando
libero ed indipendente ogni Comune, ogni cittadino, si spezzano le pastoie
domestiche, le differenze, i limiti de' vari Stati spariscono, e
dall'uguaglianza l'unità risulta di fatto; e cosí non sarà
l'effetto d'un nuovo patto imposto agl'Italiani, ma la naturale conseguenza
dell'abolizione di ogni patto. Reso libero ed indipendente, ogni Comune
avrà il solo obbligo, che gli viene imposto dalla necessità di
conservare l'acquistata libertà ed indipendenza, di concorrere con tutti
i suoi mezzi a francare l'Italia dai nemici esterni. Una Convenzione italiana
ripartirà sui diversi Comuni, ma senza ingerirsi della loro interna
amministrazione, proporzionalmente, le gravezze volte ad alimentar la guerra, e
l'esercito, eleggendosi, come è suo diritto, i capi, sarà
l'esecutore de' voleri della nazione: sgomberare l'Italia dalle Alpi al mare da
ogni elemento straniero e tirannico. Potrà mai un principe operare
in tal modo? Egli, non potendo accordare illimitata libertà, o
dovrà bandire in Italia nuove leggi, o pretendere che tutti si
uniformassero durante la guerra a quelle di uno Stato, cose entrambe
impossibili ad effettuarsi. In ogni provincia, in ogni Stato giungeranno i regî
commissarî, ed il malcontento o l'indifferenza li accompagneranno come l'ombra
i corpi. L'Italia non subirà mai il giogo d'un potere che abbia il
benché minimo carattere d'uno de' presenti Stati in cui essa dividesi: tutto
ciò ch'è esclusivamente piemontese, napoletano, romano… non
è italiano. Un principe, durante qualche disastro, essendo
puerilità supporre una sequela non interrotta di vittorie, può
scendere a patti per salvare il trono degli avi; e però all'Italia fa
d'uopo una rappresentanza nazionale, per cui non siavi altro utile se non
quello dell'intera Italia, e che dirà: tutto o nulla. Se vi fosse una
città che venga dall'esercito considerata come capitale, sarà lo
scoglio contro cui romperebbero i nostri sforzi. Carlo Alberto pensò a
difendere Torino, i veneziani Venezia, i romani Roma… tutti furono vinti,
perché angustiarono l'idea italiana fra le mura d'una capitale; durante la
guerra l'Italia non dovrà averne altra che il punto strategico
determinato dal corso delle operazioni militari. Un principe non può, con
animo sgombero da sospetti, armare l'intero popolo italiano e trasformarlo in
un esercito, e per tema di non poterlo padroneggiare e perché la natura del suo
governo nol comporta; il principe dovrà guerreggiare con l'esercito, e
la nostra è guerra da combattersi dall'intera nazione. Solo un
Alessandro, un Cesare, un Napoleone… potrebbe menare a compimento una simile
impresa, ma questi grandi, sempre o quasi sempre, sorgono dalle rivoluzioni; ed
inoltre la monarchia italiana, fondata da un Alessandro, facendo cedere il fato
alla prepotenza del suo genio, sfascerebbesi alla sua morte, come si
sfasciarono tutti gl'imperi fondati per conquista. I vantaggi che può
offrire la monarchia non son tali da far dimenticare agli Italiani le loro
splendide tradizioni municipali; le rivalità e l'odio fra i diversi
popoli con tal reggimento non si spengono, ma crescono, e le detronizzate
famiglie non mancherebbero usufruttarle in loro favore; la libertà
assoluta e l'uguaglianza può solo cancellare le rimembranze del passato.
I re, che da disgregate baronie formarono regni, sonovi riusciti distruggendo
od assorbendo nella corte le famiglie baronali, ed unificando i popoli con
abolire il vassallaggio; ma i tempi son mutati, ed assai diverso è il
caso in Italia: la piú larga promessa che farà un principe è uno
statuto, cosa sia il sappiamo; promessa che non tarderebbero, e piú largamente,
a fare i suoi rivali, ed in parità di circostanze ognuno
preferirà di esser monarchia piuttosto che provincia di monarchia. In
una parola, la storia e la ragione han dimostrato abbastanza che la forza non
fonda Nazioni, ma conquista schiavi.
Finalmente,
se la sola guerra di popolo, e guerra affatto rivoluzionaria, può solo
riscattare l'Italia dal suo servaggio, non v'è luogo piú a dubbi, se
debbasi o pur no lasciar campo alla monarchia di mischiarvisi. Una
rappresentanza popolare, che sorgesse in uno degli Stati in cui è divisa
l'Italia, non potrebbe né dovrebbe porsi d'accordo, per cacciar lo straniero,
con niuna delle monarchie italiane; troppo diverse sarebbero i mandati dei due
poteri, troppo diverse le mire, per sortirne un buon effetto. Il principe, piú
che all'indipendenza italiana, dovrebbe mirare alla salvezza del proprio trono,
che il reggimento repubblicano, ricco in Italia di splendide tradizioni, minaccerebbe
di ruina. Un potere nazionale, per contro, col mandato di sgomberare l'Italia
di quanto osta alla sua nazionalità e libertà, dovrebbe in ogni
modo impedire che il principato acquistasse credito e potere. L'uno direbbe:
meglio io re e l'Italia schiava, che questa libera ed io esule. L'altro non
dovrebbe riconoscere altri limiti che le Alpi e il mare; altro patto che
l'assoluta libertà. Ma concediamo che, o sconoscendo ognuno la propria
politica, o per volere della nazione, s'accordassero, quale potrebbe essere il
patto? interrogare il paese a guerra vinta, lo stesso del '48; né pare che lo
spirito di conciliazione potrebbesi spingere piú oltre di quello che lo fu in
quell'epoca fatale. Si mantenne il patto fra tanta concordia? No; l'atto della
fusione il ruppe; e cosí avverrebbe sempre, da' regî o da' repubblicani (a chi
prima capitasse il destro) sarebbe infranto. Ed è poi da supporsi che un
re, eziandio nella certezza di essere eletto, rinuncierebbe al diritto divino,
per surrogargli quello del popolo? Dio non può interrogarsi, il popolo
sempre; concedere al popolo il diritto di fare un re, è, vogliasi o no,
concedergli il dritto di disfarlo.
Ma
concediamo tutto possibile, la colleganza, il patto, la fede al patto; a chi
verrebbe affidata la suprema direzione della guerra? Ai generali regî, o ai
republicani? Permetterebbero questi che le loro forze venissero logorate e
distrutte dall'indubitata incapacità e dalla dubbia fede di quelli, o
affiderebbe il re il proprio esercito a generali d'un partito avverso? Egli
è facile in simili momenti gridare concordia, arrestandosi alle fallaci
apparenze delle cose, senza discernerne i veri rapporti, ma nella pratica poi
si veggono sorgere gli ostacoli che generano disordine, codardia, illusioni,
disfatta.
Finalmente,
le speranze di vedere ingranditi i possedimenti di casa Savoia con l'aiuto
delle Potenze occidentali; non essendo se non calcoli ed utili parziali, o
tutto al piú di una provincia d'Italia, non entrano nel quadro di questo libro;
nondimeno ne parleremo di volo. Un forte regno boreale, se non è
vassallo della Francia, è dannoso per essa.
La
Francia, ogni qualvolta muove guerra all'Austria, deve, per ragione strategica,
dirigere i suoi sforzi nella vallata del Po, mentre all'Austria, per contro,
conviene tenersi in questa sulle difese e schierare sul Danubio l'esercito
maggiore; quindi alla prima rileva sommamente che in Italia, fra esse e
l'Austria, non s'intramettesse altra Potenza, capace, se non d'altro, di
mantenere la propria neutralità. Il supporre questo regno sempre ligio a
Francia è puerile concetto che non merita risposta. Una volta
costituito, esso avrebbe propria autonomia, proprî interessi, i quali attese le
frontiere e la natura de' prodotti, l'avvicinerebbero piú alla Germania che
alla Francia. E questo regno italiano non potrebbe giammai dar norma (come
asseriscono i suoi propugnatori) alla politica degli altri Stati: Napoli,
Toscana, il papa, per non subirne la preponderanza, si getterebbero nelle
braccia del Russo, dell'Austriaco, del Francese: negarlo è disconoscere
l'istoria de' Longobardi, degli Angioini, dei Visconti, di Venezia. Mai i Stati
italiani han voluto subire un protettorato italiano, perché natura de' principi
come de' popoli è, allorché son costretti di avere un protettore, di
scegliere sempre il piú potente ed il piú lontano. Quindi questa utopia, che
sperano o fingono di sperare i cortegiani, non vantaggerebbe, e forse ben poco,
che i solo Lombardo-Veneti. Fo fine a questo ragionamento, persuaso di aver
dimostrato abbastanza che la nazionalità cercata ad una lega di
principi, ad una monarchia, è un fantasma, una illusione, non è
nazionalità; né potrà mai attuarsi, perché leghe principesche, o
principi, non possono né conquistarla né conservarla. L'Italia, per vincere i
suoi numerosi e potenti nemici, bisogna che combatta svincolata dalle pastoie
domestiche: la guerra del risorgimento gli Italiani debbono guerreggiarla da
uomini perfettamente liberi: richiedere all'esaltazione le schiere, ed al
bollor delle passioni popolati quei genî che mai non mancano nelle rivoluzioni,
come le folgori non mancano alla tempesta; il credere che la libertà
debba seguire l'indipendenza è funestissimo errore, è quel desso
che nel '48 ci ricacciò nella schiavitú.
VI.
Affermano alcuni, ma non molti, che potrebbesi, benché privi di
nazionalità, godere di libertà. La piú parte di costoro son
dotti, pei quali, a loro credere, è patria il mondo; e cotesta vanità
può, in parte, adonestare il loro asserto che, assurdo quanto quello di
nazionalità senza libertà, male adeguerebbesi con la loro
dottrina.
L'esser
privi di nazionalità vuol dire che un elemento straniero debba, nella
nostra patria, preponderare, ed in tal caso è indubitato che la
libertà individuale verrà lesa. L'Italia, o parte di essa, dicono
costoro, potrà formar parte di un'altra nazione libera, e godere di una
tal libertà. In primo luogo, come l'utile, le attitudini, le
inclinazioni non si riscontrano mai identiche fra due individui, del pari
avviene delle nazioni. Un Italiano non sarà mai né Francese, né Tedesco
senza una forza estrinseca che violenti il suo naturale. È questa una
verità sentita, un assioma che non ha bisogno di dimostrazioni; una
provincia italiana, o l'intera Italia, che facesse parte di liberissimo Impero,
non potrebbe perciò dirsi libera; gli Italiani non sarebbero che schiavi
beati, (per quanto possa esservi beatitudine fra le catene), ma non altro che
schiavi. Se poi l'Italia, o parte di essa, fosse confederata con altra nazione,
in tal caso sarebbe libera se unita da volontario patto ed allora di fatto
esisterebbe la nazionalità; ma se una ragione qualunque imponesse questo
patto, nazionalità e libertà sparirebbero entrambe. Tali furono i
Cisalpini, vergogna maggiore del bastone tedesco. Tra i Cisalpini ed i moderni
Lombardo-Veneti havvi la differenza medesima che fra un vile cortigiano ed un
fiero e dignitoso cittadino condannato per delitto di maestà. Se la
semplice centralizzazione italiana può intaccare la libertà, come
essa può mai rimanere intera sotto l'attrito che eserciterebbe su noi un
popolo straniero? eziandio riducendo il tutto alla sola libertà di
stampa, pure i scrittori che si faranno a propugnare l'utile della propria
nazione, giungeranno ad un punto che intaccheranno il protettore, e la forza li
farà tacere, se l'oro non giungerà a comprarli.
Facciamoci
ora a considerare la libertà, nel suo vero aspetto, nel suo vero
significato: dritto di eleggersi i proprî maestrati, di esser giudicati da'
proprî conterranei; di esser legislatori di se medesimi; di non sottostare ad
alcuna determinazione, senza che venga ascoltato il proprio parere, o di chi
eleggesi quale rappresentante… Possono tali condizioni verificarsi senza una
recisa nazionalità? Oltrecché, come un individuo per esistere deve
sentire il proprio essere, la propria sensibilità, ed avere un pensiero
tutto suo, attributi che non solo non possono venirgli comunicati, ma vengono
distrutti o mutilati dalla benché minima influenza altrui, del pari ogni
influenza straniera non potrà mai favorire, ma ritardare il nostro
risorgimento.
Sperano
altri che un popolo straniero ci conquisti per poi donarci libertà, ed
è questa delle utopie la piú assurda e codarda ad un tempo stesso. Il
forte troverà maggior vantaggio nel comandare, che nel francare
completamente il debole; senza che, la libertà ottenuta in dono non
potrà essere che condizionata, quindi mutilata; non è libera una
nazione convinta, ch'altri, volendo, possa rapirgli la sua libertà; la
piena fiducia nelle proprie forze è una condizione indispensabile
(fiducia che solo dai fatti può emergere), quindi la libertà deve
non solo conquistarsi, ma conquistarsi senza aiuti. Se gl'invasori d'Italia,
ritirandosi, l'abbandonassero a se medesima, non per questo l'Italia sarebbe
libera: senz'alcuna fiducia, o almeno dubitando del suo valore, ad ogni
incontro, non potrebbe che trattare umilmente con l'antico padrone temendo che
questi gli rapisse il dono concesso, ed è spettacolo piú della schiavitú
umiliante lo scorgere una nazione che vantasi di essere libera subire le
violenze d'un prepotente vicino. L'Italia per essere libera deve essere
indipendente, e libertà ed indipendenza non altrimenti si ottengono che
conquistandole: l'Italia deve fare da sé; e tanto piú salda
sarà la sua futura libertà per quanto piú numerosi saranno i
debellati nemici, e piú superbi i monumenti di gloria meritati per
conquistarla.
Dicono
i dottrinarî, i quali temono che i marosi della rivoluzione non li sommerga
insieme alle lor dottrine: che bisogna educarsi al vivere libero: ottenerlo per
gradi e non per salti, ed accettare una mezzana libertà come sgabello
all'intera, come pegno di migliore avvenire. Strano ed assurdo argomento. La
brama di libertà è sentimento, è aspirazione naturale
dell'uomo, e non già dottrina, ed i ripetuti sforzi del
dispotismo non bastano a distruggerla. L'uomo sottoggiace all'altrui
dipendenza, non già perché mancasse in lui il desiderio di francarsene
ed il convincimento di usare utilmente di sua libertà, ma perché teme
maggiore tirannia, ed altri mali, che la propria immaginazione, guasta dal
desiderio della quiete, gli figura; ed è al bisogno, al desiderio di
conservare parte di sua libertà, ch'egli sacrifica la rimanente. Allo
schiavo è forza che sia educato secondo i voleri del padrone; ma per
vivere da uomo libero basta seguire gli impulsi della propria natura, né havvi
necessità d'educazione.
L'uomo
appena sentesi soverchiamente gravato dal peso della tirannide e scorge la
probabilità di rovesciarla, senza piú, insorge; ed i progressi della
scienza, lo sviluppo della ragione, cosa valgono all'insurrezione ed alla
battaglia? quali dottrine sospinsero gli Svizzeri alle armi, o inspirarono la
guerra degli Olandesi, degli Americani? quali dotti contava la barbera Grecia
allorché dava l'esempio del piú eroico coraggio e del piú sentito patriottismo?
Ghermita
la vittoria, il soccorso della scienza sembra indispensabile; essa può,
svolgendo i tesori dall'esperienza accumolati, additare i mezzi come confermare
le conquiste. Ma questi vantaggi, il fatto li dimostra piú effimeri che reali,
perciocché non accettano le nazioni i suggerimenti della scienza, ed il volgo
di niun progresso è capace se non v'è balzato dall'imperiosa
necessità, né havvi ragionamento oltre il fatto che valga a convincerlo;
i mali sofferti, il bene conquistato, sono i soli argomenti che fruttano. La discussione,
le opinioni, i sistemi emergono dai mali che soffre la società, e la
dottrina, in politica, segue e non precede i fatti. Essa dimostra di quanta
levatura sia il pensiero della nazione, ma non già la piú o meno
probabilità d'un rivolgimento. Una nazione senza dottrina sarà
come un uomo semplice e di soverchia buona fede, che facilmente cade
nell'inganno, ma non mancherà per questo di forza, di coraggio,
d'eroismo, e dell'ardente desiderio di migliorare la propria condizione. E può
eziandio avvenire che un popolo dottissimo, imputridito nei vizî, abbandoni,
non curante, il proprio destino al primo venuto. Né le nazioni si addottrinano
e sortono dalla loro semplicità a furia di libri e di giornali, ma
progrediscono attraverso una serie di fatti terribili e sanguinosi. L'opinione
la piú assurda è il supporre che una mezza libertà possa bel
bello, e senza veruna scossa, menarci all'intera, mentre cotesto vantato
progresso legale mena dritto alla corruzione. Facciamoci a sviluppare in tale
asserto.
Le
condizioni indispensabili ad un popolo per conquistate una libertà
duratura sono: lo sforzo per rovesciare la tirannide, determinato dai mali
presenti; e per evitarli in avvenire la piena conoscenza della causa di questi
mali, ricercati dalla scienza. Esaminiamo la mezza libertà, quanto
favorisca coteste cagioni determinanti e dirigenti.
I
reggimenti moderati, per loro natura, nascondono e leniscono i mali che, non
essendo abbastanza sentiti per obbligarci a ritorcere in noi medesimi lo
sguardo, ci sospingono alla ricerca dei mali di popoli piú infelici, che dalla
nostra imaginazione esagerati, ci sembrano molto piú di quello che realmente
sono, facendoci perciò benedire le dorate catene.
Il
morale non compresso, ma logorato, illanguidito, perde la sua elasticità,
ed a servi beati l'insorgere riesce impossibile. Accettasi senza dolore la
direzione, i nervi del pensiero e dell'imaginazione son tronchi affatto;
metodicamente vengono i sudditi condotti a non pensare diversamente da quello
che vogliono i governanti; si avvezzano per mancanza di dolore a non rimontare
all'origine delle cose, di quinci la mollezza. Per converso, afflizioni,
dolori, ostacoli, l'isolamento stesso a cui costringe la tirannide, ritorcono
il pensiero in se medesimo, che per propria conservazione tenta ogni oggetto,
rendono l'uomo alacre consideratore, e suscitando le passioni s'accelera la
reazione e sospingono alla realtà, all'azione. La congiura del Rutli,
che divampava con la battaglia di Morgarten ed inaugurava la libertà
svizzera, non avrebbe avuto luogo senza l'avversione che Alberto I d'Austria
ebbe per le franchigie, e l'efferrata tirannide di Gessler suo
proconsole. Né l'Olanda, senza il S. Uffizio ed il duca d'Alba,
sarebbesi francata dal terribile giogo sotto cui gemeva. E se
l'Inghilterra avesse rispettato l'indipendenza amministrativa delle sue
colonie, l'America farebbe parte del suo Impero. Avendo dimostrato come i
reggimenti moderati allontanano le cagioni dell'insorgere, ci faremo a studiare
sino a che punto essi favoriscono lo sviluppo delle idee.
Pochi,
oggigiorno, sono i cultori delle scienze economiche e politiche, la noncuranza
che, generalmente, si ha per la cosa pubblica, l'utile individuale affatto
staccato dall'universale, sono cause di cotesto male. Quei che se n'occupano
non già per farsi ripetitori, ma per trarre nuove conseguenze, scovrire
nuove verità ed elevarsi all'applicazione, riscontrano nella
società in cui vivono, non solo le cagioni determinanti a farlo, come
è naturale, ma eziandio le istituzioni, i costumi di essa
società, prescrivono i limiti alle loro ricerche, a guisa che la scienza
si distende secondo tali limiti e secondo l'intensità e la purezza delle
cagioni determinanti. Fra le nazioni ove havvi qualche franchigia, le cagioni
determinanti sono numerosissime, ma volgono tali studî, non già
all'esplorazione dei mali, ma alla ricerca del bene; oltreché, soddisfatti un
gran numero, pochissimi attaccano radicalmente il governo, e la libertà
del dire da esso concessa, facendo discreditare presso il pubblico gli attacchi
e gli attaccanti, limitano il campo della critica: infatti, presso queste
nazioni, il frutto che si ottiene dalle migliaia di volumi che si pubblicano,
da tante accademie, da tanti dotti e dottrinarî, riducesi a qualche
microscopica riforma politica, o ritrovato economico, in apparenza utile. Gli
onori, gli stipendî di cui largheggiano questi governi coi dotti, sono
incentivo a tali lavori che, mascherati da qualche umile osservazione, sono le
piú sfrontate apologie del presente. La tirannide, per converso, tutto
interdice; il mistero o la fuga possono solamente salvare da' suoi artigli
colui che ardisce alzar la voce; rarissime perciò le cause determinanti
a scovrire le piaghe della nazione, ma se sorgono, purissime e fortemente
sentite, altre non ponno essere che i mali da cui è oppressa la
società, e la nobile ambizione dell'aura popolare comprata a caro
prezzo. La moderazione di niuna difesa a chi osa; l'opinione pubblica pronta a
favorire colui il quale con piú ardire muove i suoi attacchi, quindi libero,
franco, appassionato il dire. Per lunghi anni si tace in uno stato dispotico,
ma se la pazienza del popolo comincia a scuotersi, appariscono quegli
opuscoletti che suscitano una rivoluzione. Vi sarà poca erudizione e
sfoggio di dottrina, ma questa a che giova se non scende ai fatti?
Conchiudiamo, che la mezza libertà, le concessioni, non sono stato di
transizione per giungere a francarsi da ogni giogo, ma efficace mezzo di cui
giovasi la forza per garentire le sue usurpazioni; è uno stato non di
scuola, ma di paralisi. Né qui finiscono i mali dei moderati reggimenti.
I
rivolgimenti di un popolo vissuto sotto un duro dispotismo sono piú terribili,
piú recisi e piú atti a gettar radici che quelli di uno Stato a metà
libero. Quale differenza fra la repubblica francese del '91 e quella del '
Invece
nei Stati a metà liberi, quasi tutto salvandosi, la rivoluzione da mille
impacci è arrestata o sviata dal suo corso. Dottrinarî, che a voi
convenga la mezza libertà, che l'industria ed il commercio fiorisca alla
sua ombra, concedo; ma non asserite che essa giovi al minuto popolo, e che ci
meni ad un migliore avvenire. L'uomo ha bisogno di lunga e laboriosa esperienza
per giungere alla conoscenza di quelli ordini (che sono le leggi naturali) i
quali garentiscono la conquistata libertà; ma per francarsi dalla
tirannide che l'opprime, procede a salti, lo schiavo non smaglia lentamente le
catene, ma le spezza.
Conchiudiamo:
la libertà non ammette restrizioni di sorta alcuna, né fa
d'uopo d'educazione e di tirocinio per gustarla, essa è
sentimento innato nell'umana natura; le franchigie concesse dai despoti nei
momenti che non si veggono sicuri della vittoria, non sono che un narcotico
somministrato al popolo per addormentarlo fra le lentate catene ed annebbiarne
l'intelletto, e quindi senza nazionalità, la libertà non
può esistere. Ma oltre la nazionalità, essa per non dirsi una
menzogna, una derisione, richiede un'altra condizione, per molto tempo
ignorata, ora ad arte disconosciuta, l'uguaglianza.
Egli
è falso che l'uomo associandosi co' suoi simili debba sacrificare parte
di sua libertà. Questa può definirsi il libero esercizio delle
proprie facoltà fisiche e morali, che vien limitato dal mondo esteriore,
da' bisogni, da' mezzi di soddisfarli. La società, mediante la sua forza
collettiva, trasforma in mille guise il mondo esteriore, giovandosi, con
infiniti modi, delle forze naturali e dei loro prodotti, quindi offre all'uomo
un campo sempre piú vasto per l'esercizio delle sue facoltà, accresce i
suoi bisogni, facilita i mezzi come soddisfarli, e la vita dell'uomo associato
deve necessariamente essere piú ricca di sensazioni di quella dell'uomo
isolato, ovvero quello goderà di una libertà maggiore che questo.
Proudhon scrive: «La libertà di ciascuno, riscontra nella libertà
altrui, non un limite, ma un aiuto; l'uomo il piú libero è quello che ha
maggior numero di rapporti coi suoi simili». Quindi, se per un individuo o per
una classe d'individui non si verifichi tale verità, è forza
conchiudere che i loro rapporti con l'intera società non sono equi, ma
v'è indubitatamente ingiustizia. Se da un uomo non richiedesi lavoro,
mentre si costringe un altro a lavorare eccessivamente, havvi privilegio per
quello, ingiustizia per questo, che sarà schiavo della società.
Il solo lavoro, che ogni uomo senza distinzione alcuna deve per proprio utile
compiere, è quello che le sue naturali attitudini indicano ed i suoi
bisogni richieggono; con questa legge, e non altra, tutti gl'individui
componenti una società dovrebbero contribuire all'accrescimento del
comune prodotto. Inoltre, cotesta società, dovrebbe porre a disposizione
di ognuno dei suoi membri, senza veruna eccezione, tutti quei mezzi che essa
possiede, onde facilitare lo sviluppo delle loro facoltà fisiche e
morali, e fargli abilità a riconoscere le proprie attitudini e scegliere
il modo come impiegare le proprie forze, solo in tal caso dall'assoluta
libertà d'ognuno risulterebbe massimo prodotto e massima
felicità. Ma quanto siamo lungi da un simile stato!…
Come
provvedesi all'educazione del proletariato? in un modo negativo, costringendolo
dall'infanzia a continuato lavoro, che aggiunge alla mancanza dei mezzi, quella
del tempo e delle forze. E sotto qual pena, cotesta numerosa classe vien
condannata all'ignoranza? la piú terribile, la morte per fame fra l'abbondanza.
E mentre la fame interdice lo sviluppo delle facoltà che la Natura ha
concesse al proletario, e lo sospinge suo malgrado sulla via faticosa ed aspra
percorsa dal padre; uno stolido, un idiota, dal quale mai potrà cavarsi
frutto, perché ricco, avrà tempo e mezzi esuberanti per la sua
educazione, che verranno inutilmente sprecati.
L'uguaglianza
politica è derisione, allorché i rapporti sociali dividono i cittadini
in due classi distintissime, l'una condannata a perpetuo lavoro per miseramente
vivere, l'altra destinata a godersi il frutto dei sudori di quelli.
L'uguaglianza politica non è che un ritrovato per sgravarsi dell'obbligo
di nutrire i schiavi, per privare il fanciullo, il vecchio, il malato
d'assistenza; è un ritrovato per concedere al ricco, oltre i suoi
diritti politici, la facoltà d'avvalersi di quelli dei suoi dipendenti.
Sonosi sciolte le catene de' schiavi recidendogli i garretti.
Una
tale ingiustizia, che sacrifica a pochi i moltissimi è, eziandio, danno
manifesto all'intera società, perché riesce impossibile a' null'abbienti
ingegnarsi, ed ai troppo facoltosi manca ogni stimolo per farlo; e crescendo
cosí la disuguaglianza, corresi, come altrove dicemmo, al deperimento, alla
dissoluzione sociale.
In
una società ove la sola fame costringe il maggior numero al lavoro, la
libertà non esiste, la virtú è impossibile, il misfatto è
inevitabile: la fame e l'ignoranza, sua conseguenza imediata, rendono la plebe
sostegno di quelle medesime instituzioni, di que' pregiudizî da cui emerge la
loro miseria; rivolgono la spada del cittadino contro i cittadini medesimi a
difesa d'una tirannide che opprime tutti. La fame imbriglia il pensiero, aguzza
il pugnale dell'assassino, prostituisce la donna. La società intera
viene abbandonata al governo di coloro che posseggono, ed il suo utile, la sua
volontà, sarà sempre quella di cotesti pochi, i quali ammolliti
dalle ricchezze, che temono di perdere, sacrificheranno sempre l'onore, la
dignità, l'utile universale ai loro ozî beati, e l'ignoranza e la
miseria interdicendo al maggior numero la libera espressione della loro
volontà, distrugge affatto la nazionalità, espressa dalla
volontà collettiva senza eccezione e senza prevalenza di classi.
Conchiudiamo:
la libertà senza l'uguaglianza non esiste, e questa e quella sono
condizioni indispensabili alla nazionalità, che a sua volta le contiene,
come il sole la luce ed il calorico.
VII.
Gl'Italiani siamo unitarî, tali furono gli antichi, ed una tale aspirazione,
fra moderni, comincia da Dante. L'idea che nel
Un
governo unico, pe' piú liberali emanazione diretta del popolo, responsabile, e
revocabile, e per tutti poi, energico, compatto, distributore di cariche,
premiatore del merito, è il concetto volgare. Ma se non vogliamo
disconoscere l'umana natura, sarà facile scovrire le conseguenze di una
tal forma di governo.
L'uomo
o gli uomini componenti il governo, non potranno spogliarsi delle loro
passioni, rinunziare a' loro concetti, abdicare infine alla loro
individualità: questa pretesa sarebbe assurda e ridicola, chi il crede
possibile non legga questo libro, io non scrivo per esso. Eglino, come tutti
gli uomini, vedranno le cose sotto quell'aspetto che le loro passioni le
presentano, ed adattando i provvedimenti alle loro convinzioni, opereranno
coscienziosamente e faranno quanto ad un uomo è dato di fare; quindi i
loro desiderî, i loro concetti prevarranno su quelli dell'intera nazione, ed
avverrà precisamente che, volendo il bene pubblico, conseguiranno uno
scopo affatto contrario, imperciocché i desiderî, i concetti, le passioni di
pochi non potranno essere quelli di tutti, la parte non può uguagliare
al tutto. Inoltre tal governo dovrà esser forte, quindi diverrà
immancabilmente tiranno, imponendo con la forza ciò che egli con fini
rettissimi vuole; e la tirannide sarà piú dura per quanto
maggiore sarà la forza dell'ingegno e della volontà degli uomini
prescelti al reggimento; in altri termini, per quanto migliore sarà
stata la scelta fatta. La nazione sarà libera nel momento delle
elezioni, poi abdicherà la propria sovranità nelle mani di coloro
che l'aura popolare menerà al potere; i candidati saranno vari, quindi
il popolo si scinderà in partiti ed avverrà quello ch'è
sempre avvenuto, il partito prevalente sarà tirannico con gli altri, e
questi schiavi ed in permanente cospirazione contro di esso, e le continue
lotte intestine roderanno le viscere della nazione, e sarà impossibile
la continuità di sforzi, la perseveranza, la costanza che forma la
felicità e la grandezza dei popoli; come nel medioevo, l'opera d'un
partito verrà distrutta da quello che lo soppianta. Questo scoglio
contro cui rompe, immancabilmente, la democrazia, lo scansarono gli antichi
popoli italiani, poi i Romani, piú tardi i Veneziani, con l'istituzione del
patriziato; questo potere dava a tutta la macchina sociale un continuato ed
uniforme impulso, che solo può condurre a grandi risultamenti.
Adunque,
democrazia ed unità cosí concepite conducono al governo dei partiti, e
nazionalità e libertà sono nomi che servono loro di maschera, di
pretesto onde lacerare la patria, né qui finiscono i mali. L'unità,
facendo influire tutto ad un centro gli umori vitali della nazione, ne
consegue, come dicemmo nelle pagine precedenti, che il resto dell'Italia
deperirà, quasi membra inaridite e dogliose.
VIII.
La federazione è concetto di pochi, ma di uomini di svegliato ingegno e
solleciti di libertà; credono costoro, dividendo l'Italia in varî Stati
che un patto comune unisca nella politica esteriore, garantirsi dal dispotismo;
ma una tale opinione non ha fondamento.
La
tirannide del governo in un picciolo Stato non è diversa da quella che
opprime una grande nazione, anzi spesso è peggiore, è piú
tremenda perché piú difficile sfuggire dai suoi artigli; e se eglino credono,
con una savia costituzione, evitarla in una picciola repubblica, perché in tal
caso non applicare tale costituzione all'intera Italia? Lo stesso potremmo dire
per la prosperità materiale del paese: se i privilegî di una capitale
son dannosi al resto della nazione, in ogni Stato avverrà lo stesso, il
male sarà minorato, è vero, ma non evitato; e nel caso che
potranno esservi provvedimenti da evitarlo in un picciol Stato, questi
provvedimenti stessi saranno applicabili ad uno Stato piú vasto.
Oltre
ciò, se i varî Stati in cui si dividerà l'Italia avranno simili
interessi, perché non potranno reggersi coi medesimi ordini? se interessi
diversi, allora i stranieri saranno arbitri fra noi. Vedremo riprodotto il
miserabile spettacolo delle repubblichette del medioevo, che, civilissime
com'erano, chiamavano i semi-barberi a decidere le loro contese. I Stati
soccomberanno in una lotta parlamentare, in un congresso federale, se non forti
abbastanza per farsi ragione con le armi, invocheranno l'aiuto straniero.
È questo un fatto storico innegabile, è un fatto che lo vediamo
riprodotto nell'Elvezia, e ciò vedrebbesi eziandio in America, se il
vasto oceano non la separasse dall'Europa. Non appena troncasi una parte di una
nazione, per costituirne uno Stato, questo immediatamente prende la propria
autonomia, sorgono i suoi interessi, che non sono quelli dell'intera nazione, e
ne sono tanto piú discordi quanto maggiore è la sua estensione, e piú
sentita la possibilità di esistere da sé. Non havvi una teoria piú
assurda e volgare nel tempo stesso, di quella che nell'ingrandimento successivo
dei Stati italiani, e nel minorarsi il numero di essi, scorge la tendenza
all'unità; avviene precisamente il contrario. Se l'Italia si dividesse
in due soli Stati, l'unità diverrebbe quasi impossibile, i loro
sacrifizî sarebbero troppo grandi per sottomettersi volontariamente ad un tal
patto; l'uno dovrebbe conquistare l'altro che, dopo esaurite le proprie forze,
chiederebbe l'aiuto straniero; un grande Stato vuol conservar sempre
l'esistenza propria; quantunque meno splendida. Per contro, se l'Italia venisse
suddivisa in tanti Stati per quanti sono i suoi Comuni, ne risulterebbe di
fatto l'unità, i sacrifizî che gli verrebbero imposti da un patto comune
non potrebbero essere che lievi, e non sperando di reggersi e grandeggiare
ognuno da sé in faccia ai stranieri, troverebbero un giusto compenso nel patto
comune, non che nell'unità.
Finalmente,
se il concetto di una federazione di Stati italiani è assurdo, è
ruinoso nei particolari, lo è eziandio se vien riguardato sotto un
aspetto piú generale. La federazione altro non è che uno stato di
transazione per giungere all'unità; e quando i costumi, il clima, le
razze, la lingua, la religione, la geografia non costituiscono che una sola
nazione, l'unità è un fatto superiore ad ogni calcolo, che non
può disconoscersi senza rinnegare le leggi della natura. La federazione,
come dice il Mazzini, sarebbe in tal caso: «simulacro di Patria e non patria,
un gretto calcolo d'aristocrazia o di partiti». E nobilitando questa idea, non
avremmo che gretto municipalismo. Fra il contrastare la sovranità d'una
capitale per non volerne alcuna, e contrastarla per diventar capitale, corre la
medesima differenza che fra due individui, di cui l'uno attacca il governo per
sostituirvi libertà, e l'altro l'attacchi per sostituirsi in sua vece;
il primo è un eroe, il secondo è bassamente ambizioso.
IX. Diritto di
proprietà. - X. Governo. - XI. Dichiarazione di principî. - XII.
Recapitolazione.
IX.
I legami indissolubili che esistono fra nazionalità e libertà, le
condizioni da cui quest'ultima non può scompagnarsi, gli inconvenienti
che si riscontrano nell'unità, come nella federazione, sono stati svolti
nel precedente capitolo. Opera, diranno molti, di sola distruzione, perocché
niuna sostituzione, s'è fatta in loro vece. La risposta è
semplicissima: voi, che dagli individui pretendete sapere con quali ordini
la società debba ricostituirsi, sconoscete affatto le leggi dell'eterna
repubblica naturale, sconoscete i diritti dell'intera nazione, e pretendete
sostituire il concetto d'un uomo alla ragione universale.
Ogni
nazione, lo abbiamo provato con la storia, deve sottostare al proprio fato,
che, i rapporti sociali, il suo passato con le sue tradizioni, il presente,
l'indole del popolo, le sue correlazioni co' vicini, costituiscono. Ogni
nazione prossima ad un rivolgimento, nasconde nel suo seno il suo futuro
reggimento, le sue future sorti, esse non attendono a svilupparsi, che una
causa, la quale turbando l'equilibrio le precipiti nel moto. L'avvenire d'un
popolo, facendo accurato studio sulla sua ragione storica, sui suoi rapporti
sociali… può comprendersi nel suo insieme, come uno scienziato la
scienza, ma non può manifestarsi che da una serie successiva di fatti,
come la scienza non può esporsi, da quello, che pigliando le mosse dalle
semplici e facendo seguire le une alle altre, le varie proposizioni.
Tale
manifestazione comincia dall'apparire de' riformatori, sagaci interpreti della
loro età, di cui esprimono il sentire. La missione di costoro non
è di formulare nuovi ordinamenti, ma distruggere gli esistenti,
esplorando sin nel profondo e ponendo a nudo le piaghe della società! I
riformatori sono la manifestazione della ragion collettiva, dal dolore
costretta all'esame de' mali sociali; sono piloti, che non determinano la meta
del viaggio già stabilita, ma indicano i scogli contro cui la nave
potrebbe rompere; sono quelli che fanno studio, che scrutano, registrano le
sanguinose esperienze fatte dal popolo, ne traggono le conseguenze, le
presentano ad esso dicendogli: rifletti, non fidarti, se non vuoi soffrire i
medesimi mali.
Intanto
i riformatori non solo distruggono, ma non tralasciano di proporre nuovi
ordini, di creare sistemi; ma la prima parte del loro lavoro è sempre
incontrastabile, è la ragione universale che predomina; nella seconda,
sempre o quasi sempre, errano, è l'individuo che parla; non raggiungono
mai il vero, ma tanto piú vi si accostano, quanto piú vicino è un
rivolgimento. Meno sentiti, meno gravi sono i mali, piú calmi sono gli animi,
piú profonda, piú vasta è la dottrina de' riformatori, ma
nell'applicarla, eglino poco o nulla si distaccano dagl'instituti vigenti. Se,
invece, gli animi sono concitati, se l'odio al presente è fortemente
sentito, i riformatori saranno meno dotti, ma di tempra piú gagliarda, d'indole
piú audace; le conchiusioni vogliono esser recise, non vaghe, tali le
richieggono i tempi; e l'applicazione de' principî, scostandosi dagl'instituti
in vigore perché universalmente odiati, piú si avvicina al futuro che [i
riformatori] prevedono.
La
schiera de' riformatori surse in Italia assai precocemente: l'accademia
telesiana, come accennammo nel primo saggio, quindi Bruno, Vanini, Campanella,
riconobbero i mali da cui veniva roso l'edifizio sociale, e dalla cima vollero
diroccarlo. Cominciarono dal riscattare il diritto della ragione e sostituirlo
all'autorità, era questa l'arma che dovevano guadagnarsi onde compiere
la loro missione; questa prima tenzone costò loro la vita. I
conservatori surti a combatterli, eziandio d'ingegno potente, furono i gesuiti
rincalzati dalla schiera fratesca. La discussione condusse Bruno e Vanini al
rogo, e Campanella soffrí la tortura e ventisette anni di carcere, e se oggi ne
ammiriamo il profondo e splendido ingegno, i contemporanei ne ammirarono
il sovrumano coraggio. Se i filosofi francesi del XVIII secolo potettero
lietamente abbandonarsi ai voli del loro ingegno ed oggi i socialisti
disputano, senza tema del carnefice e del rogo, devesi ciò ai
riformatori italiani che comprarono col sangue il diritto di ragionare.
Ai
sullodati riformatori tenne dietro il Vico, il Gravina… e tutta la nobile
schiera dei nostri filosofi che termina con Romagnosi. Le leggi, come
fugacemente dicemmo, che regolano le società, non furono piú ignote, e
la filosofia civile, come un maestoso fiume, che raccoglie nel suo placido
corso i spumeggianti torrenti, riuní le sparse membra dello scibile umano e
formonne un tutto.
Intanto,
oltr'Alpe s'inaugurò il governo costituzionale, eclettismo politico,
epperò sursero gli ecclettici in filosofia, e la paralisi, che da mezzo
secolo ci opprime, dalla Francia si sparse sull'Europa intera. L'incerta e
pallida luce dell'ecclettismo riverberò in Italia, quindi venne
interrotto il maestoso lavoro, che seguitava continuo da Telesio a Romagnosi. Le
dottrine del Gioberti, del Mamiani, di Rosmini, di Ventura… vennero in luce. In
esse non riscontrasi nulla del gran pensiero italiano, [ma, invece, uno] strano
connubio de' piú contraddittori principî: ragione e fede, autorità e
libertà, diritti dei popoli e diritti dei principi; né costoro, che
intrecciano la loro filosofia sull'orditura impostagli dai birri e dai preti,
meritano il nome di filosofi italiani. Durante i rivolgimenti del '48, ligia
l'Italia a tali dottrine, naufragò, prima di prendere il largo.
Se
ci faremo a svolgere le pagine dei nostri filosofi, vi troveremo consacrate le
leggi magistrali della Natura. Eglino tentarono applicarle, ma troppo lontani
dal risorgimento, subirono l'ascendente dei tempi, epperò vollero
raddolcire i mali, rammorbidire le parti soverchiamente rigide, e non
già sbarbicare quelli e rompere queste; ma oggi, le passate esperienze,
le tendenze della società, i suoi mali cresciuti, ci danno
facoltà a farlo. Quelle leggi debbono formare i cardini su cui
dovrà equilibrarsi l'edificio sociale. Ricercare le istituzioni
contraddittorie con esse, annientarle, e sostituite in loro vece i principî che
n'emergono, sarà lo scopo del ragionamento che segue.
La
prima verità che non può disconoscersi, senza negare l'evidenza,
senza negare quaranta secoli di storia, è, che la ragione economica,
nella società, domina la politica; quindi senza riformar quella, riesce
inutile riformar questa. «Conservazione e tranquillità, -
scrive Filangieri, - è il primo dato, e questo e non altro, è l'oggetto
unico ed universale della scienza della legislazione. Ma l'uomo non può
conservarsi senza i mezzi, la possibilità dunque di esistere, e di
esistere con agio». A che servono, infatti, i diritti dalle leggi
accordati se la miseria rende impossibile il profittarne? Inoltre, non solo il
difetto de' mezzi materiali necessarî ad esistere annulla la vita politica
della piú gran parte della Nazione, ma l'eccesso delle ricchezze che si
accumulano fra pochi, non produce danno minore: ingigantiscono le voglie,
succede all'operosità l'ignavia, ed in putredine di vizî si marcisce. La
società, dall'ingiusto riparto delle ricchezze, vien divisa in due
parti, i pochi e i molti, e questi da quelli dipendenti: proclamare i diritti
della democrazia è una impostura, un'ipocrisia. Chi in buona fede
può negare che i capitalisti ed i proprietarî sono i soli a cui è
dato godere de' diritti politici, che la società è governata
dalla gretta aristocrazia dell'oro, inspiratrice della codarda e ruinosa
politica moderna?
Si
rimedierà, dicono alcuni, a questi mali, con stabilire piú eque
relazioni fra il proprietario ed il fittaiuolo, fra il capitalista e l'operaio;
sparirà la miseria, dicono altri, con lo sviluppo dell'industria, con
l'aumento del prodotto sociale. Abbiamo discorso nei precedenti capitoli
dell'efficacia di tali mezzi; è cosa chiara come la sostituzione d'un
nuovo protezionismo all'antico riuscirebbe inutile tirannide, inutile
inceppamento all'industria; e dimostrammo come la miseria cresce al crescere
del prodotto sociale. Finché i pochi, sono proprietarî dei mezzi, onde
soddisfare agli incalzanti bisogni de' molti, questi saranno servi di quelli,
qualunque siano le leggi; basta [il fatto] che esse riconoscono e proteggono il
diritto di proprietà.
L'assicurare
a tutti un'agiata esistenza, sarebbe, al certo, un mezzo efficace, ma ove
cercare le ingenti somme? non potrebbesi che spogliare parte della
società, per togliere all'altra ogni stimolo al lavoro, la
società perirebbe; e riconoscendo il diritto di proprietà, come
potrà mutilarsi, come limitarlo? non potranno essere che leggi
complicate e contraddittorie, incentivo alla frode ed all'ingiustizia.
Non
resterebbe che l'uguale riparto delle ricchezze, ma spaventati rispondono gli
economisti in Francia, nazione ricca, avrebbesi appena 78 centesimi per caduno.
Un tale asserto è assurdo e ridicolo, lo spirito di partito, o meglio
l'amor dell'oro li costringe a mentire con inconcepibile impudenza. Se fosse
esatto, la Francia altro non sarebbe che una nazione di mendichi. Avvegnaché,
sarebbe tale il numero dl coloro che posseggono meno di sí tenue somma, che a
pena raggiungerebbesi una tal cifra facendo un eguale riparto di tutte le
ricchezze di coloro che posseggono piú di 78 centesimi. Questo calcolo deve
essere assolutamente falso, ma noi vogliamo ammettere che rappresenti il
riparto del prodotto netto. In tal caso un operaio, con moglie e cinque figli,
avrebbe il suo salario, piú sette volte 78 centesimi; né questo è tutto,
sarebbevi un aumento non picciolo, riducendo ad un medio salario, tutti i
pingui stipendî che i capitalisti insaccano come compenso alla fatica che
durano per arricchirsi, epperò saremmo al disotto del vero affermando
che un tale operaio percepirebbe un dieci lire al giorno, ovvero un vivere agiato.
E chi negherà essere piú giusto che tutti vivessero agiatamente, invece
di far perire nella miseria nove decimi della nazione, acciocché pochissimi
possedessero oltre il bisogno? Ma la ragione che rende impossibile la pratica
di tale idea è piú potente di questa ridicola menzogna. Una tale
ripartizione sarebbe operazione complicatissima, né mai potrebbesi evitare la
frode; la società dovrebbe sottostare ad una continua forza tirannica,
che spigolasse tutte le borse, altrimenti la materiale uguaglianza stabilita
non durerebbe che un giorno solo.
Sortono
alcuni da questo campo, che, per essi, lo trovano troppo gretto e materiale, e
dicono: noi allevieremo, anzi distruggeremo i mali pel proletario con
l'educazione. Strana utopia di questa buona gente, condannata dalla natura a
vivere d'astrazioni. Come vi procaccerete le grandi somme necessarie
all'educazione dei proletarî, alla loro esistenza durante tale educazione, ed
al compenso che bisogna pagare alla famiglia privata del guadagno che avrebbele
fruttato il lavoro del giovane che voi gli rapite per educare? Con le gravezze
forse? Ma non sapete che, rispettando il diritto di proprietà, esse
ricadono precisamente sul proletario, nel modo stesso che la base sopporta
tutte le spinte e le pressioni del soprastante edifizio? Voi l'affamerete per
educarlo. Ma vogliamo ammettere possibile la vostra utopia, cosa guadagneranno
con l'educazione? condannati, come Sisifo, ad un perpetuo lavoro, non avendo
che qualche ora necessaria a rinfrancare le forze, l'educazione ricevuta li
farebbe piú infelici. Se hanno da vivere da bruti, è meglio lasciarli
bruti quali or sono.
I
piú positivi propongono l'associazione ed esaltano la sua innegabile potenza,
ma piú che l'associazione è potente il capitale. Non vale proporre come
regole alcune eccezioni; egli è una delle cardinali verità di
economia pubblica, non solo che l'associazione del lavoro deve soccumbere in
contro alla potenza del capitale, ma eziandio che i piccioli capitali sono
inesorabilmente condannati ad essere inghiottiti dai grandi. L'associazione del
capitale e del lavoro non conviene al capitalista, specialmente se fa uso di
macchine. Alcuni il negano asserendo che l'associazione del capitale e del
lavoro, accrescendo il prodotto, debba riuscire eziandio vantaggiosa al capitalista,
senza riflettere che il guadagno individuale del capitalista, con tale
associazione, scema moltissimo. Infatti, eglino medesimi aggiungono: se questa
associazione non è libera, ma imposta da una legge, i capitali saranno
trafugati. Contraddizione manifesta, imperocché se reali fossero i vantaggi del
capitalista, sarebbero ben presto conosciuti, ed ognuno, senza contrasto,
contentissimo sottoporrebbesi a tal legge. Quindi, per fornire di capitali il
lavoro, altro mezzo non v'è che imporre gravezze a coloro che
posseggono; ma qual ne sarebbe il risultamento il dicemmo; gli operai
verrebbero affamati e non soccorsi.
Concludiamo
che l'offrire a tutti un vivere agiato, cardine su cui, giusta la sentenza del
Filangieri, debbono poggiare gli ordini sociali, non solo non riscontrasi nella
moderna società, ma non v'è alcun mezzo come soddisfare a tale
condizione. La società è divisa in due parti, possessori e
nullatenenti, che il diritto di proprietà determina. L'economia
pubblica, pigliando le mosse da questo diritto, sviluppa le sue leggi, che si
basano su di esso. Queste leggi regolano inesorabilmente il rapporto fra queste
due classi, e conducono a conseguenze inevitabili e funeste. Cotesti rapporti
ne risultano di fatto né possono modificarsi, sotto pena di un deperimento
universale; unica legge possibile è la libertà: conseguenza di
essa, miseria sempre crescente. Se togliete al ricco parte del suo avere onde
soccorrere il povero, egli, mentre con una mano sborsa il danaro che gli vien chiesto,
con l'altra lo rapisce di nuovo; ben presto incarisce il vivere, e la miseria
s'accresce. Dunque: la causa che volge tutte le riforme in danno del povero; la
causa che accrescendo continuamente la miseria, mena, come altrove vedemmo,
alla decadenza, alla dissoluzione sociale, e contrasta allo scopo principale
che si propone la società, il benessere di tutti, o almeno de' piú,
è il mostruoso diritto di proprietà. La logica dunque impone di
rimuovere l'ostacolo, poco curandosi delle conseguenze; la società
riprenderà da sé l'equilibrio, dal caos, naturalmente, verrà il
cosmos. Verremo ora a rincalzare il nostro ragionamento, per se medesimo
abbastanza chiaro, con l'opinione di due illustri nomi, Cesare Beccaria e Mario
Pagano:
«Il
furto, - dice Beccaria, - non è per l'ordinario che il delitto della
miseria e della disperazione, il delitto di quella infelice parte di uomini a
cui il diritto di proprietà (terribile e forse non necessario diritto)
non ha lasciato che una nuda esistenza».
Molto
piú a lungo ed esplicito ne ragiona Mario Pagano: «Quello che viene occupato,
posseduto ed ingombro dal nostro corpo è pur nostro, perché ivi si estende
la nostra fisica potenza, e morale benanche. Quell'aria che
respiriamo, e ch'ebbe eziandio, sotto la tirannide de' greci imperatori, a
riscattare con un dazio l'avvilito mortale; quella porzione di terra che
premiamo col piede, la quale è solo retaggio di gran moltitudine
d'uomini; quello spazio cui riempie il nostro corpo, il quale neppure ci si
toglie con la vita stessa, è cosí nostro come le proprie membra. Que'
prodotti della terra che, per sostenimento della nostra vita occupa la nostra
mano, per la medesima ragione sono nostri, che della pianta sono non solamente
il tronco, i rami, le radici, il suolo ove quelle vengono conficcate ma
ben'anche quel nutrimento, quell'umore, quei succhi, che bevono le sue radici,
e servono al conservamento suo.
«Ma come poi
si appropria un uomo solo quelle ampie foreste, quegl'immensi campi che non
misura il suo piede, la mano sua non occupa, e neppur signoreggia lo sguardo?
«La
natura un patrimonio comune ha conceduto agli uomini tutti, ha legato loro
un'ampia eredità, la quale è questa terra, dal cui seno prodotti
gli ha, e nel seno della quale gli ha piantati e radicati. Come alle piante per
nutrirsi ha dato le radici, cosí le mani all'uomo per estendere la sua forza
sul retaggio comune, e far proprio ciò che alla sua sussistenza faccia
d'uopo. Ma queste naturali potenze, dirette dalla sua sensibilità e
sviluppate dalla sua mano, hanno un termine ed un confine tra il quale, quando
esse sono racchiuse, divengono morali potenze e diritti originati dall'eterna
immutabile legge dell'ordine.
«E
quali sono mai questi confini e quali gli stabiliti scopi? I limiti delle
azioni sono, come si è detto, dalle reazioni degli altri essere
circoscritti. Quando l'essere, dalla sua sfera uscendo, invade ed occupa lo
spazio e la sfera d'un altro, quello reagisce e riurta, e nella propria
situazione lo ripone. Quando un corpo vuol penetrare nell'altro, cioè
passare in quella parte dello spazio occupato da quello, ritrova la resistenza
che impenetrabilità diciamo, prova la reazione, e se mai persiste nello
sforzo di compenetrarvi, vien finalmente distrutto. Cosí se tu, mortale,
distendi la mano e la tua forza di là del confine che ti
segnò natura, occupi dei prodotti della terra tanto che ne siano offesi
gli altri esseri tuoi simili, e manchi loro la sussistenza, tu proverai il
riurto loro; il tuo delitto è l'invasione, il violamento dell'ordine; la
tua pena è la tua distruzione».
Cosí
i fatti, la ragione, l'autorità d'accordo protestano e dichiarano il
diritto di proprietà la causa de' mali, alla cui piena indarno la
società oppone argini e serragli. Egli è cosa mostruosa scorgere
la proprietà del frutto dei proprî lavori, non solo non protetta dalle
leggi, ma annullata, manomessa, in vantaggio dell'usurpazione dichiarata
proprietà sacra ed inviolabile. Si garentisce la proprietà, e
piuttosto che violarla si lasciano migliaia d'infelici perire nella miseria; ma
non proteggono le leggi il frutto de' lavori d'un operaio, i sudori di un
contadino, contro l'usura e l'avidità dei capitalisti e dei proprietarî.
È dichiarato assassino colui che uccide per rapire un pane necessario
alla sua esistenza; uomo onesto chi, divorando il vitto sufficiente a dieci
famiglie, lascia che queste perissero d'inedia. E ciò avviene in nome
della giustizia, prova evidente che essa altro non è che una parola il
cui significato cangia al cangiar dei rapporti sociali: quello che oggi dicesi
giusto, i posteri lo vedranno con l'orrore medesimo che noi riguardiamo il
diritto di vita e di morte che accordavasi al padrone sugli schiavi. Il
frutto del proprio lavoro garentito; tutt'altra proprietà non
solo abolita, ma dalle leggi fulminata come il furto, dovrà essere la
chiave del nuovo edifizio sociale. È ormai tempo di porre ad esecuzione
la solenne sentenza che la Natura ha pronunciato per la bocca di Mario Pagano: la
distruzione di chi usurpa.
X.
«L'essere senziente, - scrive il Romagnosi, - nel sentire non può mai
uscire da se medesimo. Egli non può sentire che con la propria
sensibilità, non può sentire che il proprio piacere o dolore; non
può amare o odiare altrui che in sé, e per sé; agire cogli
altri, ed a pro degli altri, o contro gli altri, che per sé… Avviene che
l'amor proprio d'ognuno trasportato in società è un centro
d'attrazione che tende ad appropriarsi il maggior numero di beni e di
servizî; e per sé solo opera anche quando agisce a pro d'altrui, benché di
ciò egli per avventura non si avvegga».
Ecco
in poche parole messa a nudo l'umana natura, trovata la cagione di ogni
speranza, d'ogni pensiero, d'ogni atto: ricercare il piacere, fuggire il
dolore; piaceri e dolori, che secondo l'indole dell'uomo ed i rapporti sociali,
variano in mille guise, dall'epicureo che cerca il godimento nell'ozio e nella
crapola, a Bruno, che preferisce il rogo al dolore di rinnegare le proprie
dottrine. Ogni atto è preceduto dalla volontà, e la determinazione
di essa è un effetto relativo e proporzionale alla specie ed all'energia
de' moventi che si riscontrano nel mondo esteriore. Una grande efficacia in
questi motivi, esercitata su d'un individuo d'un'indole capace a sentirla,
genera le forti passioni, che richieggono fortissima dose d'amor proprio.
Queste forti passioni formano gli eroi ed i scellerati, i grandi genî nelle
scienze e nelle arti, ed i grandi corruttori di entrambe.
In
una società in cui la fama, il potere, le ricchezze… non possono sperarsi
che dalla guerra, o dal bene operato a pro del pubblico, nascono gli Scevola,
gli Attilî, i Curzî. «Chi piú di loro, - esclama Filangieri, - fu agitato da
una forte passione, chi piú di loro amò per conseguenza se stesso, chi
piú di loro serví la società e la patria?» Se poi un governo si
farà il distributore di onori, di ricchezze e di ogni altro bene
sociale, tutti gli sforzi degl'individui saranno rivolti, non già a
guadagnarsi il pubblico plauso, ma le grazie di questo governo, quindi
cortegiani, adulatori, sicarî; e quanto piú l'indole della nazione sarà
capace di forti passioni tanto piú impudenti e tiranni saranno i satelliti che
si stringono intorno a questo centro usurpatore degli universali diritti. Quel
popolo, che durante il suo splendore sarà stato ricco d'eroi, nella sua
decadenza i seidi saranno numerosissimi, e numerosissimi i martiri se comincia
ad accennare al suo risorgimento. Per contro, ove tardo è il corso degli
umori, e le passioni rimesse, non vi saranno né eroi né scellerati; all'apogeo
come al perigeo tutto sarà pedestre e volgare.
La
virtú ed il vizio adunque, nulla hanno d'assoluto; la loro sede non è
nell'uomo ma nella società; i significati di queste parole al cangiare
degli ordini sociali cangiano senza mai durar d'essi. Infatti, facendo
astrazione della società, le virtú ed i vizî spariscono, l'uomo isolato
non ha che due qualità, forza ed astuzia. Marco Bruto, vicino a morte,
esclamò. O virtú, tu non sei che un nome, io ti seguiva come fossi
cosa; ma tu sottostavi alla fortuna. Ingannavasi Bruto: essa non sottostava
alla fortuna, ma ai tempi. L'antica Roma riverberava nel suo cuore le virtú
già tramontate all'epoca di sua vita; esse si sentivano dall'universale
come l'ultima e debole vibrazione di un suono che muore; alle virtú de' Bruti
erano successe le virtú de' Cesari a cui la società destinava il
trionfo.
Queste
leggi magistrali della Natura, svolte da Vico, da Beccaria, da Pagano, da
Filangieri, da Romagnosi, e dagli altri filosofi italiani non imbastarditi
dall'ecclettismo d'oltremonte, sono l'ordito su cui debbono adattarsi gli
ordinamenti sociali, sono i veri che debbono dar norma a tutte le istituzioni;
e noi su tali principî baseremo il ragionamento che segue.
Il
fine che si propone la società nel costituirsi, altro non dovrebb'essere
che assicurare il pieno e libero sviluppo di queste leggi, facendole tutte
concorrere al pubblico bene. Se esse vengono violate o interdette nella benché
minima parte, l'opera non solo è tirannica, ma stolta, perché invano
combattesi contro le forze della Natura.
Da
questo vero, il principio d'autorità vien completamente distrutto:
chiunque vuole insegnarmi la virtú, o costringemi a seguirla, è un
impostore o un tiranno; un impostore se a convalidare le sue dottrine chiama in
aiuto il misticismo; un tiranno se ricorre alla forza; e se non giovasi o non
può giovarsi di alcuno di questi due mezzi, un povero stolto che predica
al deserto. Le dottrine de' pitagorici, quelle di Platone, il manuale d'Epitteto,
la morale del Vangelo, non hanno per tanti secoli, non dico
modificata ma neanche scossa l'umana natura; gli uomini, usando diverse
parole, hanno sempre operato nel modo medesimo. Il Vangelo non solo ha
predicato la fratellanza e la mansuetudine, minacciando le pene dell'inferno,
ma ha ricorso alla spada, ai tormenti, al rogo… e cosa ha ottenuto con tali
mezzi? Ha costretto la natura umana, che sempre ha ubbidito alle medesime
leggi, di covrirsi con la maschera dell'ipocrisia. Invano verrà
inculcato l'amor di patria ove la patria non dona che miserie e stenti; né vi
sarà bisogno inculcarlo quando la felicità del cittadino
dipenderà dalla grandezza e prosperità di essa. A che
predicherete l'amore della gloria, il disprezzo delle ricchezze, in una
società ove, non curata la fama, potentissimo è l'oro? E se i
beni maggiori saranno conseguenza della fama e delle virtú, tale dottrina non
avrà bisogno di apostoli. Concludiamo che il pubblico costume,
assolutamente indipendente dalle dottrine, dalla fede, dalle pene, scaturisce
immediatamente dai rapporti e dagli ordini sociali; voler cangiare i costumi,
senza cangiar questi, è impossibile, quindi: un governo regolatore
de' costumi è la piú stupida ed assurda tirannide che mai uomo
immaginasse.
L'origine
del governo è stato il dominio eroico de' forti sui deboli. Le prime
leggi, l'arbitrio di quelli, in seguito trasformato in consuetudini. I famoli,
resi potenti per numero, impedirono i nuovi arbitrî, obbligarono i forti a
sottomettersi alla ragione storica, a rispettare le consuetudini, le quali furono,
perciò, il rudimento del patto comune, del codice. Questo patto,
comunque modificato, non ha potuto, né potrà mai liberare su giusta
lance i diritti di tutti, imperciocché trae origine dalla violenza e
l'usurpazione, e dovrà esservi sempre qualche parte che preponderi,
qualche altra che minacci reazione. A mantenere nella società questo
labile equilibrio, ebbesi uopo del governo, che può definirsi l'ostacolo
allo sviluppo delle leggi naturali, il sostegno de' privilegî. Ma se ogni
privilegio cessasse, se i diritti risultassero dai rapporti reali e necessarî
delle cose, il dovere diverrebbe un bisogno; l'uomo non servirebbe piú
all'uomo, ma, come scrive il Romagnosi, «solamente alla necessità della
natura, ed al proprio meglio». In altri termini il Filangieri esprime
l'opinione medesima: «L'uomo non può esser felice, - dice egli, - senza
esser libero. L'uomo non può essere felice senza convivere coi
suoi simili. L'uomo non può convivere co' suoi simili senza governo e
senza leggi. Dunque per esser felice deve esser libero e dipendente. Ma
il dovere senza la volontà esclude la libertà; la
volontà senza il dovere esclude la dipendenza. Il nesso
che unisce queste due opposte condizioni non può essere che la
volontà di far ciò che si deve». Quindi la
società, costituita ne' suoi reali e necessarî rapporti, esclude ogni
idea di governo, e come ben equilibrato edifizio regge da sé, senza aver
bisogno di fasciature o di rinfianchi. Questi principî de' nostri padri ora
cominciano eziandio a discutersi in Francia; ivi esclama Proudhon: «chiunque
mette la mano su di me per governarmi, è un usurpatore, un tiranno, io
lo dichiaro mio nemico…»; ed altrove: «chi siete voi per sostituire la vostra
saggezza di un quarto d'ora alla ragione eterna ed universale?»
Ciascuno
nasce con speciali attitudini ed inclinazioni, ed una società ben
costituita dovrebbe offrire ad ogni individuo i mezzi come soddisfar queste ed
utilizzar quelle, e cosí, seguendo l'uomo la propria volontà ed il
proprio utile, seconderà la volontà collettiva e l'utile
pubblico. Derogare da questa legge è un costringere l'uomo ad un lavoro
forzato, è una tirannide. Quindi il governo, che lo abbiamo trovato
assurdo e tirannico, tanto come correttor di costumi quanto come sostegno del
patto sociale, come educatore è inutile: l'educazione altro non deve
essere che una legge generale, con la quale pongonsi a disposizione d'ogni
cittadino, onde facilitare lo sviluppo delle sue facoltà fisiche e
morali, tutti i mezzi di cui dispone la società.
Ma
ancora piú innanzi vanno i mali, che, senza utile veruno, sgorgano
inevitabilmente dal governo. Se ad esso non verrà concesso né altra
forza, né altri mezzi, onde esercitare il suo potere, se non quelli che
potrà trarre dall'universale appoggio, che i cittadini darebbero ai suoi
atti, credendoli giusti, ne risulterà un governo inutile e ridicolo: lo
si vedrà darsi cura di educazione, di costumi, di patto sociale, fatti i
quali risultano e si sostengono in forza de' rapporti medesimi delle cose, che
esso, privo di forza, non potrà menomamente modificare, epperò
quanto piú operoso, tanto piú sarà ridicolo. Se poi gli concederete
forza materiale, o lo farete distributore di cariche, di premî, di onori,
allora cominciano i perigli per la società. Colui o coloro nelle cui
mani verrà affidato il maestrato supremo, come nel precedente capitolo
dicemmo, dovranno, perché uomini, soggiacere all'impero delle loro passioni e
delle loro imperfezioni fisiche e morali, quindi il giudizio e le
determinazioni di questo governo dovranno, senza dubbio, trovarsi in disaccordo
coi giudizî e le determinazioni del pubblico, che, essendo la media di tutti i
giudizî e le determinazioni individuali, resta scevra da tali influenze.
Dichiarare un governo rappresentante la pubblica opinione e la pubblica
volontà è lo stesso che dichiarare una parte rappresentante del
tutto. Inoltre, l'uomo per sua natura sdegna i rivali e l'opposizione, e gli
amici del governo non saranno certamente coloro, che manifestano i suoi errori,
che contrastano la sua opinione, ma bensí que' che lo piaggiano; gli oppositori
saranno occultamente odiati, e, se lo si potrà impunemente, oppressi;
negarlo è un disconoscere l'umana natura, è negare la storia,
negare i fatti che tuttodí si riproducono; quindi questo governo sarà
sempre un'ulcera che tende di spandere la cancrena sull'intera società.
Se,
cessando dal ragionare, ci faremo a scendere nel fondo della nostra coscienza,
ad interrogare l'intimo nostro sentimento, vi troveremo la condanna d'ogni
governo. Quella complicazione di ruote, aggiunte alla macchina sociale, per
tutelarsi contro l'usurpazione e la tirannide de' governanti, ha già
fatto pessima pruova, senza impedire i mali, li accresce, e rende il
procedere lento ed incerto. La pubblica opinione è affatto cangiata su
tale riguardo: ognuno, nei tempi passati, sforzavasi ad aggiungere qualche
pezzo alla macchina, o come regolatore, o come moderatore, mentre ora, per
contro, tendesi alla semplificazione, il cui ultimo termine è
l'anarchia, ove l'umano intelletto s'accheterà. I propugnatori de'
governi forti fanno fine ad ogni loro diceria, ad ogni loro ragionamento, con
proporre le misure da cui eglino sperano la pubblica felicità; ed il
convincimento che riscontrasi in ogni individuo, che i soli provvedimenti per
reggere con successo la cosa pubblica son quelli che egli nasconde nel
proprio cuore, è la condanna la piú aperta d'ogni forma di governo.
Da
quanto esponemmo possiamo desumere che le numerose esperienze registrate dalla
storia, che nelle leggi regolatrici della Natura trovano piena conferma,
additano come terribili sorgenti di male, come ostacoli all'umana
felicità, come scogli di sicuro naufragio, il diritto di
proprietà ed il governo. Ma come la società, diranno molti,
priva di questi mali, potrà reggere? Cosa verrà ad essi
sostituito? Non sono quistioni che deve farsi il rivoluzionario, né che si
fanno le moltitudini. Quello addita la causa dei mali, gli ostacoli al bene
pubblico, queste irrompono come marosi mugnanti e li rovesciano. La
società, come le acque che tendono sempre a livellarsi,
riprenderà da sé l'equilibrio; egli è strano pretendere che un
uomo dia conto di quello che l'universale volontà potrà compiere.
Nondimeno, dalle leggi stesse naturali ed eterne, che ci hanno condotti a
queste conclusioni, emergono alcuni principî inconcussi, che violati in tutto o
in parte dalle varie società, antiche e moderne, sono stati e saranno la
cagione di loro ruina; questi principî, che ora verremo svolgendo, sono
superiori ai diritti de' popoli, e sono gl'incastri fra' quali
l'umanità, dopo tante penose oscillazioni, verrà ad assettarsi.
XI.
La Natura, avendo concesso a tutti gli uomini i medesimi organi, le medesime
sensazioni, i medesimi bisogni, li ha dichiarati eguali, ed ha, con tal
fatto, concesso loro uguale diritto al godimento dei beni che essa produce.
Come del pari, avendo creato ogni uomo capace di provvedere alla propria
esistenza, l'ha dichiarato indipendente e libero.
I
bisogni sono i soli limiti naturali della libertà ed indipendenza,
quindi se all'uomo si facilitano i mezzi come soddisfarli, la libertà ed
indipendenza è piú completa. L'uomo s'associa onde piú facilmente
soddisfare a' suoi bisogni, ovvero ampliare la sfera in cui si esercitano le sue
facoltà, e conseguire libertà ed indipendenza maggiore,
epperò ogni rapporto sociale che tende a mutilare questi due attributi
dell'uomo, non ha potuto, perché contro natura, contro il fine che si propone
la società, stabilirsi volontariamente, ma subirsi a forza; esso non
può esser l'effetto di libera associazione, ma di conquista o d'errore.
Dunque ogni contratto, in cui una delle parti, dalla fame o dalla forza, vien
costretta ad accettarlo e mantenerlo, è violazione manifesta delle leggi
di Natura; ogni contratto dovrà perciò dichiararsi annullato di
fatto, appena mancagli il liberissimo consenso delle due parti contrattanti. Da
queste leggi eterne ed incontrastabili, che debbono essere la
base del patto sociale, emergono i seguenti principî, i quali reassumono
l'intera rivoluzione economica:
1.
Ogni individuo ha il diritto di godere di tutti i mezzi materiali di cui
dispone la società, onde dar pieno sviluppo alle sue facoltà
fisiche e morali.
2.
Oggetto principale del patto sociale, il garentire ad ognuno la libertà
assoluta.
3. Indipendenza assoluta di vita, ovvero completa
proprietà del proprio essere, epperò:
a)
L'usufruttazione dell'uomo per l'uomo abolita.
b) Abolizione
d'ogni contratto ove non siavi pieno consenso delle patti contrattanti.
c) Godimento
de' mezzi materiali, indispensabili al lavoro, con cui deve provvedersi alla
propria
esistenza.
d) Il frutto
de' proprî lavori sacro ed inviolabile.
Determinata, con tre principî fondamentali, la rivoluzione
economica, passeremo alla politica.
I
bisogni sono i limiti della libertà ed indipendenza.
Questa legge è innegabile ed universalmente sentita. Ogni altra legge o
principio, non sentito ma predicato, non può essere altro che
impostura di qualche scaltro che tenda profittare dell'altrui semplicità,
ovvero effetto dell'ignoranza di chi predica e di chi ascolta, e la gerarchia,
che viola direttamente libertà ed indipendenza, è contro natura.
La
sovranità risiede nella Nazione intera. Gli atti di ogni uomo sono
proporzionati e conseguenza della facoltà di sentire, variabile in ogni
individuo; del pari, gli atti della sovranità sono proporzionati e
conseguenza della media fra tutte le facoltà di sentire de' varî
individui che la compongono, media in cui son distrutte tutte le particolari
influenze alle quali ogni essere piú o meno sottogiace: la sovranità
è il senso comune, ovvero, come dice Vico, quel giudizio, che
senz'alcuna riflessione vien comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto
un popolo, da tutto il genere umano; ed il delegarla è un assurdo, come
sarebbe quello di delegare la propria sensibilità, essa è
inalienabile, risiede nell'intera Nazione, né mai può essere
legittimamente rappresentata da una parte di essa. Le leggi di Natura, sotto
pena di gravissimi mali, proibiscono il comandare del pari che l'ubbidire. Un
popolo, che per esistere piú facilmente delega la propria sovranità,
opera come uno che, per meglio correre, legasi gambe e braccia. Da queste
verità emergono i seguenti principî, che fanno seguito a quelli già
stabiliti:
4. Le
gerarchie, l'autorità, violazione manifesta delle leggi di Natura, vanno
abolite. La piramide: Dio, il re, i migliori, la plebe, adeguata alla base.
5. Come ogni
Italiano non può essere che libero ed indipendente, del pari
dovrà esserlo ogni Comune. Come è assurda la gerarchia fra
gl'individui, lo è fra i Comuni. Ogni Comune non può essere che
una libera associazione d'individui e la Nazione una libera associazione dei
Comuni.
Intanto,
molti ostacoli materiali e morali vietano in molte occorrenze le funzioni della
sovranità. I principî stabiliti, conseguenza delle leggi di Natura, non
sono che il primo ordito degli ordini sociali, e non bastano: bisogna
discendere a determinare i varî rapporti che dovranno essere d'accordo con
essi. In questa laboriosa ricerca, la nostra natura, vinta dal costume e
smarrita nel suo corso, ad ogni passo cade nell'errore, quindi richiedesi una
continuità di attenzione, una serie di ragionamenti, cose per le
moltitudini impossibili, e sovente mancherebbe il luogo e 'l tempo onde fare
abilità a sí numerosa assemblea di riunirsi e deliberare.
Cotesti
lavori sono da individui, ed un solo dev'essere dichiarato legislatore.
Inoltre, è una verità dimostrata all'evidenza dal Romagnosi, che
il giudizio di tutti i savî del mondo può essere erroneo
nel sindacare il lavoro compito da un solo; quindi un congresso di
delegati del popolo avrebbe l'incumbenza, non già di svolgere, di
sopraccaricare di clausole ed emendamenti le leggi proposte, ma solo verificare
scrupolosamente se i principî immutabili, dichiarati base del patto sociale,
vengano in qualche parte lesi da queste leggi. Fatto ciò, pubblicarle;
né può andar piú innanzi il potere del legislatore e del congresso; la
Nazione le adotterà se vorrà e quando vorrà, non avendo il
diritto di concedere ad uno o a pochi il potere d'imporgli leggi, l'attuazione
di esse è atto della sovranità, e la sovranità non
può delegarsi. I concetti di un individuo possono definirsi i pensieri
della nazione, è il modo di cui essa si avvale onde manifestare il suo
concetto collettivo, ma come un individuo non impone a se medesimo l'obbligo di
trarre in atto i proprî pensieri, cosí i concetti di un solo non possono venire
imposti a tutti. Per la ragione medesima, che la sovranità non
può abdicarsi, o trasmettersi, non potrà determinarsi la durata
delle funzioni del legislatore e del congresso, esse cesseranno appena la
Nazione il vorrà; e la volontà del mandante, dovendo costituire
la legge del mandatario, ogni deputato non può essere che sempre
revocabile da' suoi elettori. L'imporsi per un dato tempo un governo o
un'assemblea è un assurdo, come lo è per un individuo il
costringersi da un voto. È lo stesso che dichiarare la volontà e
la determinazione di un momento arbitra e tiranna della volontà che
progressivamente può manifestarsi in avvenire. Di quinci i principî che
seguono:
6.
Le leggi non possono imporsi, ma proporsi alla Nazione.
7.
I mandatarî sono sempre revocabili dai mandanti.
Di
piú la Natura stessa, che ha creato l'uomo indipendente e libero, ha dotato
ogni individuo di attitudini speciali, d'onde la potenza del lavoro collettivo,
la sociabilità. Coteste attitudini son quelle appunto che, nelle varie
operazioni della vita, costituiscono la diversità delle incumbenze.
Dichiarare un'incumbenza piú nobile che un'altra è un assurdo degno di
una società che ha vanità e privilegio per base. «Ma qual si
è l'arte vile, - esclama Mario Pagano, - quando ella giova alla
società? vile è l'opinione degli uomini che avvilisce gli utili
mestieri». Ed è eziandio assurdo dichiarare una funzione piú che
un'altra faticosa; la meno faticosa è quella che meglio armonizzi con le
proprie attitudini ed inclinazioni, epperò esse solamente debbono dar
norma alla distribuzione delle varie cariche e mestieri che nella
società si riscontrano.
In
tutte le varie operazioni dell'intera società o di un nucleo qualunque
di cittadini, sono indispensabili gli ordini e la distribuzione delle funzioni;
egli è impossibile operare tumultuariamente. Ciò deve aver luogo
nelle grandi, come nelle picciole cose, tanto nella guerra e nella pubblica
amministrazione come in qualunque altra speculazione o industria. A conservare
illesa la sovranità nazionale, nel caso che una parte di cittadini debba
compiere un'impresa che riguarda l'intera società, due condizioni si
richieggono, cioè: che l'impresa da eseguirsi e gli ordini da adottarsi
siano il risultamento della volontà nazionale, il che emerge di fatto
da' principî 6. e 7.; e che la distribuzione delle varie funzioni, fra quel
nucleo di cittadini operanti, venga fatta da que' cittadini medesimi. Se la
nazione volesse indicargli i capi che debbono dirigerli, violerebbe
manifestamente la libera associazione. Quindi i principî seguenti:
8.
Ogni funzionario non potrà che essere eletto dal popolo, e sarà
sempre dal popolo revocabile.
9.
Qualunque nucleo di cittadini dalla società destinati a compiere una
speciale missione, hanno il diritto di distribuirsi eglino medesimi le varie
funzioni, ed eleggersi i proprî capi. Finalmente, l'uomo, facendo parte di una
società, è immedesimato con essa; e questa società
proponendosi come fine principale non solo di garentire, ma ampliare quanto piú
sia possibile la libertà ed indipendenza individuale, ed
ogni offesa d'individuo ad individuo riducendosi alla violazione di questi due
attributi, ne inferisce che le offese private debbono tutte considerarsi come
offese pubbliche: ogni misfatto, ogni delitto, ogni errore offende direttamente
l'intera società, la quale, giusto il tacito patto che ha con ognuno de'
suoi membri, ha il dovere di vendicare l'offeso, e con l'esempio contenere i
male intenzionati; e questo dovere della società, per la natura medesima
dell'uomo, portato a vendicare altrui a tutela di se medesimo, diventa, come
dice il Romagnosi, controspinta, ma non già criminosa, perocché l'urtato
ha il diritto di riurtare, ed il riurto risulta, evitando la riproduzione del
delitto, utile. Se poi ci faremo a considerare come ogni delitto trovi la
cagione promotrice negli ordini sociali, o nell'indole dell'individuo,
conchiuderemo come il patto sociale debba esser volto a rimuovere le cagioni
del delinquere ed all'educazione de' colpevoli, onde non venga distrutto dalla
società medesima uno de' suoi membri.
Egli
è indubitato che le leggi scritte, invariabili, fra il continuo mutar
dei tempi e de' costumi, riescono, in alcune epoche, soverchiamente rigide, e
troppo forte il loro contrasto con la pubblica opinione, quindi l'utile della
giurisprudenza, che cerca rammorbidirle ed adattarle ai tempi. Ma, se riesce
soverchiamente duro il non lasciare al giudice altra facoltà, se non
quella di pronunciare la sua sentenza dietro il sillogismo prescritto dal
Beccaria, c'è cosa egualmente perigliosa, il dar luogo alla
giurisprudenza che conduca all'arbitrio. Come evitare entrambi questi
inconvenienti che risultano dall'ordine stesso sociale, dallo svolgersi e
modificarsi dei rapporti? rimandate il reo ai suoi giudici naturali, al popolo.
Le leggi scritte siano di norma e non d'altro, le decisioni del popolo
superiori ad ogni legge. Potrà il popolo eleggere dal suo seno alcuni
cittadini e costituirli giudici, ma i giudizî di questi saranno sempre
annullati dalla volontà collettiva, a cui deve riconoscersi come diritto
inalienabile, inerente alla sua natura, alla sua sovranità, la decisione
suprema di ogni contesa. Cosí non potrà piú avvenire che vengano
inflitte punizioni contraddittorie con la pubblica opinione e coi tempi; cosí
avverrà che le leggi seguiranno lo svolgersi ed il mutar dei costumi, né
mai questi verranno in lotta accanita e sanguinosa con esse. Adunque:
10.
La sentenza del popolo è superiore ad ogni legge, od ogni maestrato.
Chiunque credesi mal giudicato può appellarsi al popolo.
E
cosí prendendo le mosse da due semplicissime ed incontrastabili verità: -
XII.
Pria di procedere piú innanzi, rileva rammentare, per sommi capi, quello di cui
sino ad ora discorremmo in questo saggio. Ragionando del progresso abbiamo
scorto come le società tendono, nelle varie loro evoluzioni, ad
assettarsi fra le leggi naturali, e quando, per errore dell'istinto, per
disaccordo del sentimento con la ragione, se ne allontanano, esse rapidamente
declinano.
Indi
osservammo come lo scambio facilissimo delle idee e dei prodotti abbia fatto,
di tutt'Europa, un popolo di costumi, di leggi, di propensioni quasi uniformi;
e noi, abbracciandolo nel suo insieme, ne siamo venuti scrutando le tendenze,
tanto economiche come politiche. Il continuo aumento del prodotto sociale, il
restringersi il numero de' possessori di esso, il crescere incessante de'
miseri e della miseria, sono cose evidenti, innegabili, e quindi i mali, la
necessità di migliorare, la reazione de' tanti miseri contro i
pochissimi ricchi, certa, immancabile. Di quinci, sotto varie cagioni
mascherato, il connubio de' pochi agiati co' despoti, e ad ogni minaccia, ad
ogni tomulto, ad ogni rivolgimento, crescere le milizie perpetue, solo argine
contro la numerosa plebe, e da questa lotta emergere, indubitatamente, il
dispotismo militare o il trionfo della democrazia, l'uno seguito dalla licenza
e dalla dissoluzione, l'altro dal rinnovamento sociale. Altra alternativa non
v'è.
Incerti, ci facemmo a cercare quale
delle due soluzioni fusse la piú probabile. L'atteggio, i tentativi, il cupo
gorgogliare del proletario, fanno fede che la sua fibra è rozza, non
flaccida, l'elatere n'è compresso ma non spento, quindi havvi speme di
vita. Il soldato che lo fronteggia non è pretoriano, non avventuriere,
ma proletario anch'esso, affatturato da magica forza che lo costringe a sacrificare
se medesimo in sostegno delle proprie catene e di quelle de' suoi uguali,
epperò la speme che la sua ottenebrata mente potesse balenare per un
istante, e ciò basterebbe alla società per risorgere. Questi
incerti e pallidi raggi di luce ci sembrarono fulgidi, scorgendo quasi nunzî
del nuovo giorno la splendida pleiade de' socialisti, la tendenza delle
moltitudini all'associazione, la preponderanza che giornalmente il concetto
sociale acquista sul politico. Ristorato l'animo, ci siamo ristretti all'Italia
solamente.
Abbiamo
fatto studio sulle varie quistioni politiche, che si agitano in seno della
nostra patria, e dimostrammo quanto vana ed inutile sarebbe la loro soluzione
se non si sbarbicassero le due cagioni da cui la miseria, la schiavitú, la
corruzione irraggiano, proprietà e governo. In
ultimo, abbiamo stabiliti dieci principî, conseguenza immediata delle leggi di
Natura, come base del futuro contratto sociale. Ora, non verremo esponendo un
sistema, proponendo ordini, promettendo felicità, né esorteremo con
gonfie declamazioni gl'Italiani alla concordia, alla battaglia. Noi studieremo
le forze che operano nel seno della Nazione, ne cercheremo l'intensità,
la direzione, la risultante, onde conoscere cosa l'Italia sarà, non
già cosa vogliono che sia i partiti. Epperò cominceremo
dall'esaminare quale sia lo stato dell'Italia relativamente alle altre nazioni
dell'Europa.
XIII. Italia
e Francia. - XIV. I partiti in Italia. - XV. Il Comitato nazionale e Giuseppe
Mazzini. - XVI. Insurrezione. - XVII. Dittatura.
XIII.
Il volgo, il quale senza esaminate minutamente le cose, giudica dalla fallace
apparenza di esse, considera la Francia e l'Inghilterra come le due nazioni
dalle quali debbono partire gli impulsi che sospingeranno i popoli ad un
migliore avvenire, quasi che la rigenerazione politica-sociale d'Europa
dipendesse dal progresso industriale di esse. Per non dilungarci soverchiamente
su tale argomento, e perché cotesta missione rigeneratrice si attribuisce alla
Francia piú che all'Inghilterra, noi faremo paragone fra la prima di queste due
nazioni e l'Italia. La rivoluzione francese del 1789 fu una grandiosa
esperienza che mise a nudo la poca importanza delle varie forme di governo
relativamente ai mali che la società ammiseriscono. Coloro che
governarono quella rivoluzione cercarono garentire la libertà,
proponendosi a modello Grecia e Roma, e mostrarono ignorare affatto quelle
storie. Se con maggiore oculatezza avessero cercato le cagioni di quello
splendore le avrebbero scorte ne' rapporti sociali, nello stato economico di
que' popoli, per cui legavasi strettamente l'utile pubblico al privato; ed in
quelle forme di governi, creduti origine d'ogni bene, avrebbero riscontrato la
causa della non tarda ruina di quelle nazioni. Se avessero fatto studio sui
tanti esperimenti che fecero que' popoli, e tutti invano, per impedire
l'usurpazione di chi reggevali; se avessero meditata la storia d'un'epoca meno
remota, quella degl'Italiani del medioevo, che pel loro stato economico,
religioso, morale, si rassomigliavano ai Francesi piú che i Greci ed i Romani,
si sarebbero convinti facilmente come sia impossibile limitare l'abuso ed
evitare il despotismo, allorché delegasi a pochi la sovranità ed il potere
che risiede in tutti, e solleciti delle forme lasciansi sfuggire la sostanza
delle cose.
La
Francia al '93 subí l'esperienza medesima che già avevano subito
gl'Italiani nel medioevo. I nobili, domati dal regio potere, avevano smesse le
armi, ed il re aveva vinto un rivale, ma perduto un sostegno. Intanto, come in
Italia il popolo, combattendo a difesa del papa, conobbe di aver diritti, cosí
in Francia, assumendo la difesa del re, imparò a difendere se stesso.
Parteggiando pel re, egli credette migliorare, ma svincolato dalle strette del
feudalismo, videsi abbandonato, privo di mezzi ed appoggi, in una lotta
ineguale co' ricchi; sospinto dai suoi dolori rovesciò il trono, in tal
modo la rivoluzione si compí, rivoluzione che, come quella del mille in Italia,
fu il trionfo del Comune sul medioevo. Agli Italiani bastarono sei secoli per
cangiare in popolare il barbaro reggimento, ai Francesi ne bisognarono
quattordici. L'unità, l'indipendenza assoluta, le superstizioni del
cristianesimo scrollate, il prestigio de' nomi caduto, resero, all'esterno, la
Francia piú maestosa dell'Italia, furono idee, non famiglie, che parteggiarono
il popolo. Ma la stessa unità, la minore energia della plebe, lo spirito
di libertà poco comune, insomma lo spirito repubblicano, universale in Italia
e difettivo in Francia, e per contro fortemente sentite le tradizioni della
monarchia, distrussero in dieci anni tutte quelle conquiste del popolo che gli
Italiani conservarono per quattro secoli.
La
rivoluzione francese scosse dal loro letargo i popoli d'Europa, ed il governo,
che i moderni chiamano rappresentativo, fu la barriera, l'ostacolo che
gl'impotenti troni opposero all'esigenze del popolo. Abbiamo parlato abbastanza
largo di una tal forma di governo, quindi non è mestieri ritornare
sull'argomento, diremo solo che da tale epoca cominciò a germogliare
l'epoca che minaccia di cancrena l'Europa. Intanto, l'industria, il commercio,
le scienze, progredirono, il secolo XIX venne chiamato il secolo del progresso,
ed i dottrinarî credettero, o gli convenne credere, che sotto tale reggimento
compivasi gradatamente l'educazione del popolo, navigandosi a golfo lanciato
verso la libertà, strana aberrazione, o strana menzogna. Il secolo XIX
sarà famoso nei fasti dell'umanità, non già per la servile
e codarda schiera dei dottrinanti scaturiti dal suo seno, ma perché in tal
torno il socialismo, d'aspirazione fattosi sentimento, ebbe partito ed
avrà attuazione.
La
grandezza, la degnità della Nazione non va misurata dal numero de' libri
che in essa si pubblicano, come non è la dottrina solamente la
qualità che determina il conto in cui debba tenersi un individuo. Un
dotto, che pone la sua penna a disposizione del maggiore offerente, lambisce la
mano che lo sferza, bacia le catene che l'avvincono, e con facile viltà
maledice chi cadde, né mai osa di biasimare il potente, non può
certamente preferirsi ad un ignorante che, domo dalla forza, guarda torvo
l'oppressore, minaccia ne' ferri, né lasciasi intimorire dalla spada, né
dall'oro corrompere: il primo sarà un uomo culto ma degradato, il
secondo rozzo ma pieno del sentimento della propria dignità; nell'uno
possiamo rappresentare il basso Impero e l'Italia al secolo de' Medici;
nell'altro la Roma de' Bruti, de' Scevola… e l'Italia del mille; nel primo
possiamo scorgere l'odierna Francia, nel secondo l'Italia moderna. Colui che si
crea un padrone è schiavo per natura, chi lo subisce non è che
disgraziato.
Se
i rivolgimenti avvenissero in ragione de' libri, non sarebbe stata la Sicilia
la prima ad iniziare i moti del '48, né la dotta Germania sarebbesi rimasta
quasi inerte tra l'universale sconvolgimento. Quali dotti contava la Grecia
all'epoca della sua memorabile rivoluzione? Gli Hoche, i Marceau, i Kléber… i
Marco Botzari, i Canaris… eroi da rivoluzione e non già da poltrona, non
sono parto di dottrine, primogeniti di queste sono i Guizot, i Thiers… La
probabilità di un rivolgimento è in ragion diretta de' mali che
opprimono il popolo e del grado d'energia che esso conserva. Faremo studio su
di ciò, onde discernere se in Italia l'abilità al moto sia minore
che in Francia.
In
Italia come in Francia, la vita pubblica è difettiva, non curato l'utile
nazionale, a cui viene sempre preposto l'utile privato. La vita pubblica de'
moderni consiste nelle gesta da romanzo che suppliscono alla sterilità
degli avvenimenti storici. L'eroe da romanzo è il modello che la
gioventú si propone nel suo esordire; una brillante comparsa, come dicono i
Francesi, dans le tourbillons du monde, è l'ambizione de' moderni
eroi, de' lyons, è la gloria che per essi adegua, anzi sorpassa
quella de' Scipioni e de' Marcelli. All'operosità succede il riposo, il lyon
si trasforma e comparisce nel mondo sotto il carattere d'homme blasé. Il
lyon ama i rischi del duello, di una corsa a cavallo e… ma guardasi bene
dal mischiarsi in politica, se le barricate covrono le strade, chiudesi in casa
curandosi poco dell'esito della lotta, ed aspetta tranquillo quando les
affairs ont repris, per essere richiamato all'azione. Allora si fa di nuovo
ad usare in quelle numerose brigate ove lo scambio degli affetti è
impossibile, ed in quei teatri ove con mostruosi drammi si tenta invano
scuotere la flaccida e logorata fibra dell'annoiato ascoltante. In Italia i lyons,
i grandi ridotti, quel genere di produzioni teatrali sono piante esotiche. Ci
sforziamo, egli è vero, di accettare i medesimi gusti e farci imitatori
degli oltremontani, ma fortunatamente con pochissimo successo. Quanto ristretto
è il numero de' romanzi e dei romanzieri in Italia!… E perché? mancano
forse gl'ingegni, o la favella, come alcuni asseriscono, non prestasi a tali
letterarie produzioni? mai no; se esse venissero chieste dalla pubblica
opinione, tutte le difficoltà sarebbero superate, né la tirannide le
interdice. Ma quello poi che maggiormente ridonda a gloria nostra è che
i pochi romanzi italiani sono quasi tutti di fama imperitura, quasi tutti hanno
uno scopo politico, ed i piú accreditati fra essi, come l'Assedio di
Firenze, Nicolò de' Lapi, Ettore Fieramosca,… suscitando un
torrente di affetti patrii, affogano, attutiscono ogni affetto privato.
Il
prestigio del fasto immenso in Francia, in Italia abborrita la pompa: gradirono
i Francesi il brillante corteggio di Bonaparte piú che la semplicità del
governo provvisorio del '48 e di Cavaignac; in Italia, per contro, il modesto
vivere di Mazzini e di Manin riscossero plauso ed universale simpatia.
La
superstizione religiosa, in Italia come in Francia, non esiste che fra
le donnicciuole; la religione è ridotta ad atti esterni, è
un'abitudine, non già un sentimento, e se sentimento religioso vi
fusse ancora al giorno d'oggi, la sua sede sarebbe in Francia e non già
in Italia. Proudhon rinnegava la storia scrivendo Le bigot italien, egli
non rammentavasi come i Francesi, da Carlo Magno, sono stati sempre i difensori
del papa, non per ragion di Stato, ma per fanatismo, ed i nemici de' pontefici
sono stati e sono gl'Italiani, ai quali è riserbato d'inaugurare il
trionfo su tutte le idee religiose.
Si
eccettui il Piemonte in cui, per soverchia docilità del popolo il
reggimento costituzionale dura, nelle altre parti d'Italia non ha potuto gettar
le sue barbe; la violenza, la corruzione non son bastate in Napoli, in Roma, in
Toscana, ad ottenere una camera suddita del ministero. Troverete in queste
provincie satelliti efferati ed impudenti della tirannide, ma quei trafficanti
in politica, pronti ad inchinarsi ai fatti compiuti, non esistono, feccia e non
cima di società, come essi si compiacciono credere; in Napoli sonovi i Windishgratz
e gli Haynau, ma invano si cercano i Magnan, i Saint-Arnaud, i Maupas… Gli
ex-triunviri, gli ex-ministri, gli ex-generali italiani vivono tutti
nell'indigenza, mentre non trovasi in Francia un ex-impiegato che non abbia sa
petite fortune.
Secondo
il proprio stato, i proprî bisogni, le proprie inclinazioni, producono le
nazioni gli uomini che le rappresentano, e viceversa dal carattere di questi
uomini potrà inferirsi lo stato in cui esse si rattrovano. E se non
volesse considerarsi come passeggiero il presente stato della Francia, in
vedendola padroneggiata da' Guizot, da' Magnan, da' Saint-Arnaud, da'
Bonaparte… bisognerebbe conchiudere che essa si dissolve, e che le ultime virtú
rivoluzionarie sonosi spente con Armand Carrel. In Italia, per contro si rattrovano
esseri spregevoli, ma non sono che i rappresentanti de' varî governi locali
vicini a ruinare, mentre la nazione intera non onora, non prezza né costoro né
i dottrinanti che predicano rassegnazione, ma i martiri suoi; quindi è
nazione che sente il peso de' proprî mali, che onora quelli che danno la vita
per combatterli, e dal martirio alla battaglia non havvi che un passo.
L'attacco
di centosettantamila stranieri contro Italia divisa, quasi non bastò a
ristabilire il dispotismo; essi per vincere han dovuto ricorrere eziandio al
raggiro ed alla menzogna. Tre battaglie, quattro assedî, sessanta
combattimenti, tre città messe a ferro e fuoco, sono i gloriosi
monumenti di nostra resistenza, mentre gli esuli, i prigioni, le vittime che
muoiono col nome d'Italia sulle labbra [sono] la nostra continua e gloriosa
protesta. Come ha difeso Francia la sua libertà? un pugno di compri
francesi in poche ore da libera la fanno schiava, e la nazione, ben lungi dal
resistere, col suffragio universale, sancisce l'usurpazione ed appoggia la
spregevole tirannide. Come negare che i rivolgimenti avvenuti in Francia il
1830, il '48, il due dicembre, sono l'effetto d'una vittoria ottenuta da un
ristretto partito in Parigi? E somigliano moltissimo alle congiure di palazzo del
basso Impero, a cui veruna parte prendevano le popolazioni delle provincie,
mentre in Italia non v'è movimento che non trovi un'eco in tutte le
valli dell'Appennino. Tre volte, nel breve spazio di cinquanta anni, la Francia
è stata arbitra de' suoi destini, tre volte da se medesima si è
foggiata le catene, mentre, se non vi fosse stato intervento straniero,
l'Italia, forse, sarebbe libera da molto tempo. I gusti adunque, i costumi, i
fatti, la dimostrano meno indifferente a' suoi mali, meno degradata che Francia,
quindi maggior probabilità di risorgere, accresciuta eziandio dal
desiderio ardente che sente ogni Italiano, di conquistare la propria
nazionalità, significante movente di cui difettano i Francesi perché
credono possederla.
Esaminate
le forze che sospingono al moto, ci faremo a studiate quelle che resistono. La
nobiltà, la borghesia, i preti, gli impiegati d'ogni genere, un forte e
numeroso esercito, sono una base di granito che in Francia sorregge ogni genere
di despotismo; ma ove sono queste forze in Italia? La piú famosa nobiltà
italiana, la vera nobiltà feudale venne distrutta al sorgere de' Comuni;
solo nell'Italia cistiberina durò ancora lungamente, ma fu in continua
lotta col trono. Doma da Federico, riprese vigore per l'avarizia degli Angioini;
di nuovo perseguitata dagli Aragonesi, durante il regno del perfido Ferdinando
d'Aragona, fece l'ultimo sforzo con la famosa congiura. Dieci Baroni de' piú
famosi lasciarono la vita sul palco, altri fuggirono, furono occupate le loro
castella, disarmato il vassallaggio. I discendenti non ebbero piú forza, e per
tradizione, e pel continuo cangiare della dinastia regnante, essi non furono
mai gli amici del re: undici nobili di primo rango perirono nel '99 come
repubblicani, fra questi il formidabile campione della libertà, Ettore
Carafa conte di Ruvo. In Piemonte la nobiltà non conta che i fasti di
sua docile servitú, nobiltà di secondo rango, perocché i grandi
feudatarî si estinsero successivamente, e sulle loro mine s'innalzò il
trono di casa Savoia. I numerosi titolari che brulicano ne' varî Stati
d'Italia, sono nobili nuovi, ovvero non nobili, né formano casta i cui
privilegî li lega per utile proprio al trono; sudditi, come il resto de'
cittadini, sono regî se percepiscono stipendio, liberali in caso contrario. I
veri nobili d'Italia sono i patrizî delle varie repubbliche, ed in primo luogo
i veneziani, e cotesta nobiltà potrà essere municipale e non
regia. La borghesia italiana, non solo non sostiene ma odia i presenti governi,
e se non è sollecita al muovere, non avversa i movimenti. I preti, non
essendo salariati come in Francia, contano moltissimi liberali, ed anche
soldati della libertà. Infine possiamo conchiudere che se togli
dall'Italia i stranieri, l'appoggio dei troni riducesi alla codarda schiera
degli impiegati e de' poliziotti. Solo in Napoli ed in Piemonte havvi un
esercito, ma esso non si è mostrato, in certe circostanze, inaccessibile
alla brama di libertà. Quindi la tirannide non si sostiene che in virtú
di forze straniere; aggiungi, le tradizioni dell'Italiani repubblicane tutte,
quelle de' Francesi regie, e potremo senza errore conchiudere che l'esercito
conservativo, potentissimo in Francia, in Italia quasi non esiste.
La
sola cosa che in apparenza favorisce la Francia, è lo scorgere che in
essa le idee di riforma sociale sono piú generalmente sentite, sono già
scritte sulla bandiera d'un partito. Ma questo partito non è reciso ne'
suoi concetti e nella sua propaganda; lo stesso Proudhon spera accordare
l'utile del proletario e quello della borghesia; tutti sono, nella pratica,
dubbiosi e timidi.
I
riformatori che svolgono le dottrine, foggiano sistemi, altro non fanno che
delineare la prima orditura, che stabilire de' principî; un numero
ristrettissimo di persone s'inspirano ne' loro volumi, e questi volumi possono
dirsi un retaggio europeo. Ma nulla apprende il numeroso volgo, ché, eziandio
le cose volte a migliorare la sua condizione e minorare la sua fatica, non le
accetta che stretto dall'estremo bisogno, e non si lascia convincere se non dal
fatto. I giornali, i ragionamenti e le corrispondenze pubbliche o private, gli
scopi che si propongono le congiure, le persecuzioni, le vittime, gli
avvenimenti, sono quella serie di argomenti per cui le astrazioni de'
riformatori divengono concetti popolari. I discorsi di Proudhon all'assemblea,
i suoi articoli sul giornale da esso redatto, le lezioni di Louis Blanc al
Lussemburgo, le manifatture nazionali, le barricate di luglio, ha formato la
propaganda la quale cominciò a trasfondere nelle masse il socialismo; il
popolo, forse, non ha compreso il significato dell'ordinamento del lavoro, ma
sa di essersi battuto per esso, e quindi può non sembrargli strano il
ritentare l'impresa.
Il
due decembre ha spaventato ogni partito, e tutti avrebbero desiderato far
tregua alle contese onde abbattere il nemico comune, i socialisti han taciuto
ed han quasi perduto il terreno che avevano guadagnato. Le dicerie pubblicate
dai rivoluzionarî francesi sono vuote declamazioni. Non si scrutano i varî
rapporti, non si dimostra al minuto popolo quale sarebbe l'avvenire che,
volendo, può conquistarsi: son formalisti e non altro. Tutti, si
eccettui Proudhon, persistono nel grave errore di pretendere iniziare le
riforme dall'alto [al] basso, imporle al popolo, e non farle sorgere spontanee
dal basso in alto; e siccome ogni caporale di partito credesi il solo atto a
praticare le proprie idee, che egli crede le sole vere e giuste, tutti si fanno
propugnatori della dittatura, perché ognuno la spera per sé, non per ambizione,
ma pour faire le bien, dicono i Francesi, per educare il popolo, dicono
gl'Italiani; epperò, comeché il moderno socialismo fosse nato in
Francia, non è la Francia piú innanzi dell'Italia nella pratica di tali
dottrine. Inoltre, il compimento della sociale riforma deve in Francia superare
ostacoli assai maggiori che in Italia, e perché il grande sviluppo
dell'industria accumulando grandi capitali ha creato potenti e numerose forze
che resistono; e perché bisogna ridonare la vita al Comune, spenta affatto dall'unità
francese, mentre in Italia essa è latente, ma vigorosa e pronta a
svilupparsi. Quindi non solo l'Italia ha in sé probabilità di moto
maggiori che la Francia, ma la soluzione del problema sociale è molto
piú facile ed omogenea all'Italia che alla Francia.
Seguiamo
il confronto fra le due Nazioni, e cerchiamo discernere per quale delle due,
ammesso il moto, è piú facile il successo. Parigi è la sola
città della Francia ove l'insorgere è possibile; ivi, egli
è vero, sono raccolti grandi mezzi di resistenza, ma il popolo parigino
è numeroso ed arrischiato, il vacillare delle soldatesche facilissimo in
una sí grande città, quindi facile la vittoria che menerà un
partito al potere. La Francia pensa ed opera come Parigi: a Carlo X succede
Luigi Filippo, a questi la repubblica, poi Cavaignac, Bonaparte, l'Impero… ed
in tutti questi cangiamenti, solo di nomi, la Francia intera si rimane
tranquilla. Cangiano i pubblici funzionarî, piú per premiare i partegiani del
nuovo potere che per punire quelli del caduto, pronti sempre ad inchinarsi al
vincitore, tanto è cieca la disciplina. Ubbidienza a chi comanda è
la formola che regge la Francia intera; il re, il governo provvisorio, il
presidente, l'imperatore… qualunque, infine, sia il nome del potere che siede
sovrano a Parigi, esso disporrà arbitrariamente delle forze di tutta la
nazione. Fra i moderni, i suoi ordini militari sono ottimi, le schiere istrutte
e costumate a fatica, il Francese per indole prode e facile all'esaltazione, le
tradizioni militari brillanti e recenti, la fiducia nelle proprie forze
grandissima, quindi formidabile, rispettata. Dopo l'esempio del '93 nessuna
Potenza d'Europa attaccherà la Francia per sostenere un partito, anzi
tutti gli Stati crederanno di avere ottenuta una grande vittoria se dopo un
rivolgimento la Francia si rimane nelle sue frontiere. Per essa, adunque, li
cangiar forma di governo è un fatto il quale, con pochissimo rischio,
compiesi in pochi giorni. Ma quale è il vantaggio di tali rivolgimenti?
sotto altre vesti, forse piú luride, il dispotismo è permanente.
La
forza cade nelle mani di uomini che, parlando [di] libertà, si
sostituiscono al despota, ne calcano le orme, ne seguono il sistema, e fannosi
scudo contro i cittadini di quell'esercito stesso che pochi istanti prima
riguardavano loro nemico. Inesperti nel trattare un tanto terribile strumento
di tirannide ne rivolgono contro loro medesimi le offese: un soldato o il
discendente d'un soldato, legittimo possessore e vero rappresentante del
diritto della forza, impone silenzio al loro importuno garrire, e col piatto
della sciabola li caccia ignominiosamente di seggio. Quando dittatura vi
è in un paese, questa non può essere che militare, e se tale non
la crea la nazione, essa per la natura stessa delle cose tale diventa, sono
vani gli ostacoli, i raggiri del curiali per garentirsi. Di un tal genere di
rivolgimenti, cioè ad una fazione sostituirgli un'altra al potere, la
Francia può compierne uno l'anno; all'Italia sono impossibili. Ci faremo
a dimostrarlo.
Non
già in una sola città italiana, ma in ognuna di esse, perché
piene di vita municipale, potrebbesi iniziare un movimento, ma con poca
speranza di successo. L'Italia intera seguirà l'esempio, ma senza
unità: gli uomini nel[le] cui mani, in ogni regione, verrà
affidato il potere, non vorranno sottomettersi gli uni agli altri, ed ogni
Stato, forse ogni Comune, spererà salvezza isolando la propria causa. Ma
poniamo il caso che gl'Italiani, resi dotti dalle passate vicende, affidassero
ad un centro comune la somma delle cose, questo governo unico, a quanti bisogni
deve provvedere, e prontamente provvedere? Insorgere e vincere le prime prove
non basta agli Italiani, essi debbono combattere una delle piú formidabili
Potenze militari, che possiede in Italia una munita e forte base d'operazione,
alla quale appoggia un numeroso esercito, quindi è forza che, ad onta
del difetto di milizie e di armi, un esercito italiano sorga in un baleno
numeroso e compatto. Come provvederà il governo? ricorrerà al
terrore? Coloro i quali credono che un illusorio potere concesso da pochi ad
alcuni uomini possa far loro abilità di comandare d'un capo all'altro
d'Italia s'ingannano, eglino conoscono l'Italia come può conoscerla un
Francese o un Inglese, che giudicano dal proprio l'altrui paese.
La
formola obbedienza a chi comanda, che ora regge la Francia, resse
eziandio l'Italia, nel secolo passato e ne' due precedenti, ma il concetto del
risorgimento italiano, fatto sentimento, dal '14, cangiolla. Il costume che,
ora, dalle Alpi al Lilibeo, hanno i popoli Italiani, è, sempre che lo
possono, resistenza a chi comanda, né esso può cangiarsi in un
istante. Il terrore produrrebbe l'immediata reazione, favorevole al nemico
già accampato fra noi; le passioni in Italia non son tiepide, la forza
medesima di esse rese gli Italiani padroni del mondo, e ne fa un popolo di
assai difficile reggimento. Ed ammessa l'ubbidienza, cosa valgono que'
battaglioni per forza raccolti? ne' tomulti ardenti, son codardi in ordinate
battaglie. La Francia stessa, su cui il terrore ebbe grandissimo successo, non
ebbe esercito prima del '94; per cinque anni rimase esposta ai colpi nemici, fu
salva non già per propria virtú, ma per gli errori di quelli. Ma l'Italia
non può sperare tale fortuna, appena qualche mese sarà concesso
all'insurrezione italiana per trasformarsi in esercito.
Inutile,
inefficace, ruinoso è il terrore in Italia, quali mezzi rimangono,
adunque, agli uomini eletti a governarla in sí difficile emergenza? un solo:
fare un fervido e continuato invito al paese, proporre i mezzi come provvedere
a tutto, dico proporre, perocché non potendo abusare della forza, i comandi non
si ridurrebbero che a semplici proposte, il cui risultamento dipenderà
dalla volontà del paese, epperò dalle cagioni che determineranno
questa volontà.
L'odio
ai presenti governi bastante ad insorgere, trionfata l'insurrezione s'ammorza,
quindi bisogna suscitare una passione da bilanciare i rischi ed i stenti della
guerra. Il desiderio di libertà, d'indipendenza, l'amor della patria,
han forza grandissima nei cuori di quella balda ed intelligente gioventú che
è sempre prima ad affrontare i perigli delle battaglie; ma essi soli non
bastano, l'Italia trionferà quando il contadino cangerà,
volontariamente, la marra col fucile; e, per questi, onore e patria sono parole
che non hanno alcun significato; qualunque sia il risultamento della guerra, la
servitú e la miseria lo aspettano. Chi può, senza mentire a se medesimo,
affermare che le sorti del contadino e del minuto popolo, verificandosi i
concetti de' presenti rivoluzionarî, subiranno tal cangiamento da meritare le
pene ed i sacrificî necessarî a vincere? Il socialismo, o se vogliasi usare
altra parola, una completa riforma degli ordini sociali, è l'unico mezzo
che, mostrando a coloro che soffrono un avvenire migliore da conquistarsi, li
sospingerà alla battaglia. Quindi, le difficoltà che presenta la
guerra del nostro risorgimento, i numerosi nemici, l'indole italiana di assai
difficile reggimento, la vita municipale prima a manifestarsi nelle
rivoluzioni, il costume, omai reso seconda natura, di resistere a chi comanda…
costituiscono il fato della nazione, che inesorabilmente ne ha segnato il
destino. Schiavitú o socialismo, altra alternativa non v'è.
Poniamo
ora il caso che in un rivolgimento il popolo italiano vegga la
possibilità di migliorare il suo avvenire, ed animato da una passione
forte e popolare, che unifichi e determini la sua volontà e la sua
azione, corra volenteroso incontro al nemico, e facciamoci a ricercare,
seguendo il paragone con la Francia, se i suoi mezzi materiali son tali da
vincere.
La
Francia avanti la rivoluzione contava duecentocinquantamila uomini, de' quali
diecimila erano milizie dorate della corte sparite con essa; settantasettemila
erano battaglioni provinciali; e venti o venticinquemila stranieri, quindi i
soldati regolari nazionali si riducevano a' centocinquantamila. In Italia,
ammessa una rivoluzione universalmente sentita che ne raccolga le forze sotto
la stessa bandiera, non manca certamente un tal numero di soldati. Aggiungi che
gli abusi, dopo quell'epoca riformati, han reso gli eserciti piú mobili e piú
compatti, e centocinquantamila uomini in oggi valgono assai piú che
centocinquantamila uomini in allora, e la superiorità di ordini ed
istruzione che avevano gli eserciti alemanni sul francese, nel caso nostro non
esiste, perocché gli eserciti stanziali, all'epoca presente, si pareggiano in
Europa. Le schiere francesi rimasero quasi dissolte pel numero significante
d'ufficiali che seguirono le sorti del re, in Italia, per contro, probabilmente
non se ne conterebbe alcuno. Quindi le nostre forze materiali, possiamo dirle
per numero ed ordinamento superiori a quelle che possedevano i Francesi al
cominciare della rivoluzione.
Negare
agli Italiani il primato in armi, è negare la storia, che perciò
siamo venuti rammemorando nel primo Saggio. La nostra temperie, fornita di una
quantità sufficiente, ma non eccedente, di sangue igneo, accoppia il coraggio
all'ingegno, qualità che spesse volte si escludono; l'Italiano discerne
il pericolo, studia il proprio vantaggio, ed opera. Se noi siamo degeneri dagli
antichi, lo sono del pari gli altri popoli d'Europa, quindi il vantaggio che
deriva dall'indole nostra, dono della Natura, rimane il medesimo. Ma il valore
individuale non ci vien negato, tutti son convinti che un Italiano valga assai
piú, o almeno quanto un Francese. Ci faremo a discorrere del valore delle
soldatesche.
Un
contadino che difende il suo tugurio con coraggio da leone, un brigante che
combatte valorosamente la sbirraglia, può, fatto soldato, mostrarsi
codardo perché non vede la ragione, non sente la necessità di rischiare
la propria vita, e qualunque sia la severità della disciplina, le pene
da cui vien minacciato non controbilanciano mai i perigli immediati della
battaglia. La disciplina, bastante a rendere il Russo e l'Inglese ottimo
soldato, non basta, con diverse gradazioni, all'Italiano, al Greco, allo
Spagnuolo, al Francese eziandio; questi popoli debbono combattere sotto il
pungolo d'una passione che li esalti; questi popoli hanno troppo discernimento
per sacrificarsi come ciechi strumenti dell'altrui volontà. I Suliotti,
di eroico valore fra le loro montagne, arrolati dalla corte di Napoli come
soldati, non corrisposero alla fama [che] era corsa di loro; al '
Un
esercito d'Italiani, guerreggiando per conto di una dinastia e per cagioni che
non comprende, sarà il peggiore degli eserciti europei, se poi
combatterà per una causa sentita e popolare, sarà invincibile.
Senza una passione universalmente sentita, gli Italiani non potranno combattere
con valore; se poi la passione e l'esaltazione esisterà, le nostre
schiere saranno tanto superiori a quelle degli altri popoli per quanto lo
furono i Romani, i quali non vissero sotto clima diverso dal presente, né
ebbero un maggiore numero d'organi sensorî, né diversa temperie che noi. Essi
nella guerra vedevano un utile che noi non veggiamo; questa differenza, e nulla
piú, passa tra noi e loro.
La
popolazione della Italia oggigiorno è quanto quella della Francia
nell'89, mentre l'estensione della nostra frontiera è poco piú del terzo
di quella. La Francia mise in armi ottocentomila uomini, ma questi, ripartiti
in quattordici eserciti, (cosí richiedeva la ragion di guerra), non potettero
in alcun punto ottenere sul nemico una significante preponderanza di forze; gli
eserciti a' confini di Spagna, d'Italia, del Belgio, della Germania, non
potevano certamente operare con un comune disegno, ed ognuno d'essi rimase
abbandonato alle proprie forze. La posizione degli Italiani è molto
migliore: difesi dalla cerchia delle Alpi, il nemico è costretto a
raccogliere le sue forze in paese sterile e dirupato, mentre gl'Italiani si
trovano nella valle del Po, regione ubertosa ove popolose e ricche
città, numerose strade, un maestoso fiume, forniscono, trasfondono
facilmente le vettovaglie. Gli attacchi che le diverse Potenze potrebbero
intraprendere sui varî punti della frontiera, non possono riuscire simultanei,
perché non sono prevedibili tutti gli ostacoli che attraverso i monti possono
indugiare la marcia d'un esercito. Impossibile riescirebbe loro il darsi un
vicendevole soccorso, perché l'asprezza del terreno nol comporta, ed
ogni attacco, non solo rimarrebbe isolato, ma, sboccando dalle valli, non
porrebbe che presentare delle teste di colonne agli Italiani, i quali possono,
facilmente, far massa contro il piú vicino de' nemici; di modo che i Francesi
con ottocentomila uomini si difesero contro tutta l'Europa, né potettero sempre
pareggiare in numero il nemico sui diversi campi di battaglia, mentre agli
Italiani basterebbero duecentocinquantamila uomini per conservare in ogni
scontro la loro superiorità. I nemici della Francia, finalmente, ebbero
uno scopo alle loro operazioni, Parigi, i nemici d'Italia non ne avrebbero
alcuno; l'importanza delle varie capitali sparirebbe con la rivoluzione; né
potrebbesi questa, ad onta dei sforzi che farebbero gli stolti, attribuire ad
una sola fra esse, sia anche Roma, perché l'indole nazionale nol tollera;
quindi il nemico sarebbe costretto vincere in ogni vallata, in ogni borgo,
troverebbe tante capitali innanzi a sé per quanti sono i punti strategici del
nostro suolo.
Facendoci
a reassumere il detto conchiuderemo che le tendenze e le probabilità di
moto sono in Italia maggiori che in Francia, e minori le forze resistenti; che,
quantunque i moderni socialisti siano francesi, la propaganda pratica di quelle
idee non è in Francia piú avanzata che in Italia. Nondimeno i vantaggi
che esse promettono sono tali, che se un rivolgimento ne permetterà la
benché minima applicazione, esse diverranno in un tratto popolarissime in
Italia come in Francia. Ammesso il moto prodotto da cagione universalmente
sentita, abbiamo discorso del numero e valore delle soldatesche, delle
frontiere, della guerra che dovremmo sostenere, e che la Francia sostenne, ed
il vantaggio, evidentemente, è dalla nostra parte. Possa questo
confronto rilevare gli animi, generare la fiducia in noi stessi, ch'è
forza confessarlo, manca, imperciocché gli Italiani hanno il torto di
confondere le imprese dei nostri tirannelli con quelle della nazione. Perché essi
non s'inspirano in quelle gesta che l'Italia tutta unita compí? in esse, la cui
memoria dura da tanti secoli e durerà lontana, avranno la giusta misura
delle nostre forze, né ci sarà luogo a scoraggiamento.
Le
nazioni, durante le medesime fasi di loro vita, sono sempre le stesse; credi
tu, o lettore, che siamo in decadenza? non leggere oltre, non perdere il tempo,
caccia le mani nella corruzione che ti circonda, usa ogni mezzo per arricchirti
e goder della vita, inchinati ai tiranni, basta che ti assicurino i materiali
godimenti; se poi credi che possiamo risorgere, devi assolutamente credere che
saremo grandi come furono i nostri progenitori; se nol credi ti compatisco, il
tuo animo poco gagliardo non regge alle impressioni delle conseguenze estreme,
tentenni nel mezzo, e sei fra la turba di coloro che vissero senza biasimo e
senza lode; sarai poco utile alla patria ed increscioso a te stesso.
Inoltre,
il nostro ragionamento farà risaltare sempre piú la stranezza di alcuni
Italiani di pregevole ingegno, di ottimo cuore, i quali credono fermamente
adoperarsi per lo bene della patria, col tessere una continuata apologia di
Francia, mostrandocela quale astro che dovrà dar norma e rischiarare il
nostro avvenire. E perché abbiamo qualche chilometro di meno di strade a rotaie
e di telegrafi elettrici, perché l'aristocrazia bancaria non è cosí
potente come in Francia, perché il monopolio, tra noi, non ha raggiunto
l'apogeo, perché in Francia si pubblica qualche migliaio di piú di bugiardi
volumi, n'inferiscono che l'Italia non regge al confronto di quella nazione. I
loro scritti, eziandio nel cuore dei piú imparziali non possono che suscitare
un certo disgusto, pure, considerando ogni libro che si pubblica l'espressione
di un sentimento nazionale, e lasciando all'intolleranza religiosa e regia la
ripartizione fra libri buoni e libri cattivi, noi ci siamo dati alla ricerca
delle cagioni che possono suscitare simili dottrine. L'apparenza degli eventi
hanno tratto fuori del loro proposito cotesti scrittori. Eglino, per scrivere
come rivoluzionarî italiani, sonosi dati a fare profondo studio sulle cose e
sulle idee di Francia, che, al momento, avevano vita piú rigogliosa, e tutti
invasi di quelle idee si son fatti a ricercarle in Italia; cercavano Francia,
ad essi notissima, han trovato Italia, che poco conoscevano, e, come se le
nazioni durante la loro vita dovessero calcare le medesime orme, han dichiarato
Italia in ritardo. Intanto la loro posizione, dovendo scrivere d'Italia con
idee francesi, era falsa, e la conchiusione non poteva essere ch'una, l'Italia
non è Francia. Allora han colorito diversamente il loro disegno, han
reso francese l'Europa, ed in questo quadro generale, in un posto affatto
secondario, quasi totalmente in ombra, si scorge l'Italia in lontananza. Ma chi
parte da falsi principî deve esser condotto, naturalmente, a false conseguenze.
Infrancescato il globo intero, ne inferiva la supremazia francese, e l'avvenire
da essi prognosticato sarebbe, come dice V. Hugo, il mondo francese e quindi la
rivoluzione, la rigenerazione umanitaria, risultando d'un carattere speciale e
non già umanitario, veniva da essi, che se ne dicono i propugnatori.
rinnegata affatto.
E
tratti ancora piú innanzi da' loro ragionamenti additano la Francia come nostra
protettrice, come fonte di ogni nostro futuro bene, e predicano la fratellanza
con essa; assurdo manifesto. Avvegnaché tra il protettore ed il protetto, il
maestro ed il discepolo, il difensore ed il difeso, fratellanza non può
esservi mai, ma dipendenza. Senza che essi se ne accorgano, i loro ragionamenti
prognosticano che un giorno Parigi sarà la nuova Roma, e come ora la
Francia china il capo ai Vitellî sublimati da compri pretoriani, nel
felicissimo avvenire al quale ci avviciniamo, tutta l'Europa farà lo
stesso. Se questo è il progresso, auguriamoci il regresso, e regresso
prontissimo.
Non
si affretta né si propugna la rivoluzione con dottrine che la distruggono, o
almeno la travisano e sgagliardiscono l'animo; l'unità mondiale vi
sarà, ma non già come pretendono costoro, distruggendo le
nazionalità, incorporandosi insieme, o assorbite dalla preponderanza di
una fra esse; ma come un individuo, associandosi co' suoi simili, viene
abilitato ad uno sviluppo maggiore delle proprie facoltà, del pari,
nell'associazione universale, ogni nazione, lungi dal perdere la sua
individualità e l'indole propria, troverà campo piú vasto di
svilupparla; e nel modo stesso che una nazione non sarà libera in tutto
il significato della parola libertà, se ogni suo individuo non sente
fiducia nelle proprie forze, dignità, ed uguaglianza assoluta col resto
dei cittadini, cosí l'associazione universale non potrà aver luogo, se
prima ogni nazione non si costituisca strettamente ne' proprî caratteri e non
ci sia fra tutte che un'uguaglianza universalmente sentita. Quindi, per
attuarsi la nostra fratellanza con la Francia, bisogna combatterla e vincerla,
o almeno è indispensabile che, in parità di circostanze e di
forze, sul medesimo campo di battaglia, contro un nemico comune, meritassimo la
palma in una nobile gara di gloriose gesta.
XIV.
Se per numerare i partiti in Italia ci faremmo con microscopica diligenza a
discutere le minime gradazioni, e vorremmo tener conto di una turba di persone
che affannosi brulicano intorno ai troni, l'impresa riuscirebbe faticosa ed
ingrata. Cotestoro non sono che individui, le cui opinioni mutano al mutare
degli eventi: ora veggono il re di Sardegna cacciare d'Italia stranieri,
principi, papa, ed incoronarsi re d'Italia; ora promettono corone ed assicurano
successi in virtú d'un credito che mai ebbero o piú non hanno; oppure
distribuiscono l'Italia ai varî principi d'una dinastia, e cangiano il pensiero
italiano in servitú per una schiatta principesca, e vorrebbero richiamare a
vita antichi regni, coi suoi baroni, i suoi pari, i suoi prelati, e tutta la
pompa del feudalismo; altri, e sono i piú abbietti, cercano un re oltr'Alpi
invocando l'appoggio d'un avventuriero e degli assassini di Roma. Sono tra
questi dottrinarî, paghi di esprimere moderatamente i loro pensieri, badando,
come essi medesimi dicono, che la scienza non uscisse dalla sua innocenza, ovvero
si riducesse ad una pura perdita di tempo; vi sono banchieri e commercianti le
cui faccende prosperano, e quindi temono qualunque rivolgimento che ne
ristagnasse il corso. Ma questi non sono partiti, neppur sette, sono individui,
ripeto, esuli i piú, a' quali l'esilio, sorgente per la maggior parte di
miserie e dolori, fruttò loro onori, considerazioni, lucri, che mai
ottennero nel proprio paese. Rispettando in questa numerosa schiera i
pochissimi illusi perché non vogliono darsi la pena di pensare, e perché Natura
li creò d'animo poco gagliardo, spregiamo la generalità; né ci
faremo a rimescolare un tal fango, le nostre riflessioni si rivolgeranno su
coloro che meritano il nome di partito.
I
regî bramano la guerra europea; e leggendo come casa Savoia, barcheggiando fra
Austria e Francia, abbia ingrandito i suoi Stati, sperano che si possa porre ad
effetto la cacciata dello straniero, e costituire un forte regno boreale
arbitro de' destini italiani. Il principio loro è quello sviluppato dal
Balbo, tendere all'unità col successivo ingrandimento de' varî Stati
italiani. Noi teniamo bene, e l'abbiamo dimostrato, che questo successivo ingrandimento
è di ostacolo all'unità: che uno Stato italiano non darà
mai norma agli altri, ma accrescerà in quelli l'occulto potere ed il
credito de' stranieri; abbiamo emessa distesamente la nostra opinione riguardo
al significato che diamo alla parola nazionalità, epperò non
possiamo riscontrare la nazionalità italiana negli abitanti della
vallata del Po, retti secondo i capricci di un principe; ed in ultimo,
insegnandoci la storia con severissima lezione, che le guerre regie combattute
in Italia son sempre state scaturigine di miserie ed umiliazione, rispettiamo
una tale opinione, ma la logica ed il cuore si ricusano a dichiararla italiana.
L'altro
partito che raccoglie sotto la sua bandiera la piú ardita e generosa gioventú,
è il repubblicano. Assennati da' passati disastri non han fede alcuna
ne' principi, il risorgimento d'Italia, la cacciata dello straniero, la sperano
dalle proprie forze, da una rivoluzione.
Si
distaccano alquanto da questi un numero limitatissimo d'individui che si dicono
federalisti: per gli unitarî lo scopo principale è la
nazionalità, pei federalisti la libertà; quelli escludono
qualunque intrusione straniera, questi accetterebbero la libertà dalla
Francia, quasi che la libertà potesse riceversi in dono, e cosí
federalisti ed unitarî, per soverchia esclusività ne' loro sistemi,
errano, non potendo esistere, come nei precedenti capitoli abbiamo dimostrato,
nazionalità senza libertà, né questa senza quella. I federalisti
hanno piú chiari e recisi concetti politici, sono repubblicani di principî; gli
unitarî sentono piú fortemente la dignità nazionale, ma non sono
repubblicani che di forme. Quindi repubblicani unitarî, federalisti e regî sono
i tre partiti che si riscontrano in Italia, ma i due ultimi aspettano l'impulso
d'altronde, e son ben rari fra loro gli uomini d'azione, i piú son dottrinarî;
i primi invece vanno fastosi di una schiera nobilissima di martiri e contano
quaranta anni di vita operosissima. Inoltre, tanto i regî, come abbiamo detto,
quanto i federalisti, appartengono quasi tutti all'Italia boreale o alla
Sicilia, gli uni contenti di un regno, gli altri di una cisalpina, mentre gli
unitarî abbracciano nelle loro mire l'intera penisola, dalle Alpi al Lilibeo,
epperò, se non vogliasi disconoscere il vero, i soli che abbiano un
carattere reciso di partito italiano sono i repubblicani unitarî. Gli avversarî
accusano questo partito di debolezza e discordia, e correndo dietro una
chimera, ma è forza riconoscere che sono i soli i quali si adoperano a
dar corpo a cotesta chimera, senza attendere che la manna piombi dal cielo.
Dal
detto possiamo conchiudere che, quantunque l'energia arricchisce l'Italia di
tanti diversi concetti per quanti uomini pensanti essa conta, il che dal volgo
è tolto quale disgrazia, fatto studio sulle diverse opinioni, tre soli
partiti abbiamo visto nettamente coloreggiarsi, de' quali due limitarsi a
sperare, un solo operoso. Senza che, fra queste tre parti, che in apparenza
sembrano escludersi, havvi eziandio un punto di contatto: l'odio ai stranieri;
sentimento ad ogni altro prevalente in un cuore italiano. E fatta eccezione di
alcuni servili, o salariati, o baroni, che ambiscono d'essere senatori, o
strisciare nelle anticamere de' re, il partito regio in Italia ha un carattere
affatto diverso da quello che hanno i realisti d'oltralpe; non è
simpatia per la monarchia, o per una schiatta, ovvero, come dicono i Francesi, dévouement,
che legali al trono, ma è il bisogno che essi sentono d'un appoggio,
per la poca fiducia che hanno ne' rivolgimenti popoleschi. Del pari, le
opinioni de' repubblicani, meno pochi, avvicinansi assai piú al dubbio, ovvero
ad un'oscura ed incerta percezione di rapporti, che all'evidenza; son
repubblicani perché convinti che i principi non vogliono né possono volere
l'unità e l'indipendenza italiana ma regî e repubblicani saranno tutti
con quell'insegne che prime muoveranno arditamente e lealmente contro li
stranieri. Il modo adunque per discernere quale partito è il piú forte,
non è, in Italia, quello di numerarlo; l'azione, indubitatamente,
farà sparite i partiti, li raccoglierà sotto la medesima
bandiera; ma invece bisogna studiare quale abbia maggior probabilità
d'iniziativa, quale, pei principî che propugna, potrà solvere piú
facilmente i tanti ostacoli che si presentano.
Nel
ragionare della nazionalità abbiamo visto come lo stato presente
d'Europa, le questioni che vi si agitano, l'energia italiana, le tradizioni
municipali, la difficoltà dell'impresa, non rendono possibile il
risorgimento italiano, che da una rivoluzione radicale e sentita, epperò
l'utile delle masse sarà come un torrente che trarrà seco
alla battaglia gl'Italiani d'ogni opinione.
Seguiamo
ora il successivo sviluppo di queste opinioni in tutte le diverse loro fasi,
facciamo studio sugli insegnamenti del passato, onde scorgere ove la forza
delle cose, ovvero il fato della nazione, ci condurrà.
XV.
Allorché una forza prepotente opprime un rivolgimento qualunque, nel cuore de'
vinti, privati de' loro beni, sorge, a rattemprare i mali, una fervida speranza
della riscossa, che lo scorrer degli anni, in luogo di rafforzare, scema e
dilegua. Imperocché essendo allora il disquilibrio dell'utile e delle affezioni
private grandissimo, la natura umana creasi un puntello, la speranza, e volge
tutta la sua operosità alla cosa pubblica, che in que' fugacissimi
momenti reassume eziandio l'utile privato, mentre in seguito l'imperiosa
necessità li separa di nuovo, e l'abitudine, scemando i mali, ammorza il
desiderio della riscossa.
Queste
naturali ed universali disposizioni, cessata la repubblica romana, trovarono in
Mazzini chi diede loro forme ed azione. Cosí surse l'associazione nazionale,
poi il comitato nazionale, fatto la cui importanza lo rendono del dominio
storico e meritevole di riflessione. Epperò, innanzi tutto, ci renderemo
esatto conto, e sottoporremo a severa critica le dottrine che professa Mazzini,
inspiratore di un tal fatto e degli avvenimenti che n'emersero.
Giuseppe
Mazzini è una indole nobilissima. I suoi piaceri, i suoi godimenti si
reassumono nel farsi strumento del risorgimento italiano. Sospingere gli
Italiani alla conquista della loro patria fu il primo forte pensiero che
balenò nella sua mente giovanile, [fu] poi la stella polare della sua
vita, e sarà l'ultimo suo voto.
Se ragiona
assistito dalla verità, ha logica potentissima: il suo discorso è
colorito e convincente; ma se qualche pregiudizio lo trae di passo, allora
declama, e ripetesi sovente, quasiché delle idee fisse, de' punti di fede,
angustiassero il suo grande ingegno in picciolissimo giro.
Facile
all'amicizia, generoso, inaccessabile all'odio, e coi suoi nemici personali
magnanimo.
La
sua temperie non è robusta, ed a niuno meglio che a lui converrebbero
gli agi della vita: nondimeno, niuno piú di lui li sprezza; per esso la vita
materiale non esiste.
Durante
la sua laboriosa e tribolata carriera, esposto alle ingiurie ed alle
persecuzioni degli uomini e de' governi, essendo privo d'appoggio in sulla
terra, ha inteso il bisogno di rivolgersi al cielo, ha ricorso alla religione,
e perciò ne' suoi concetti politici havvi un poco del misticismo. La
religione l'ha fatto propendere un poco verso il principio d'autorità;
quindi le accuse mosse contro di lui, ora di assumere un tuono dittatoriale,
ora profetico, mentre la sua indole lo rende capace della [piú] pacata
discussione e della piú ampia tolleranza. Quindi i suoi difetti, i suoi errori
prendono tutti origine nei suoi sentimenti religiosi; se Mazzini fosse
irreligioso sarebbe l'ideale del cittadino. Su lui il mondo esteriore non ha
potenza di sorta alcuna, mutano i tempi, cadono e sorgono troni, ognuno in
questi mutamenti cerca fortuna, o salvarsi dalla caduta, egli invece, costante
ne' suoi principî, marcia attraverso le rovine, come attraverso le ricchezze,
verso il fine proposto. Il sentimento interno ha sempre la prevalenza sulle
impressioni esteriori. Parlerò delle sue dottrine, esporrò piú
diffusamente quello di cui tante volte parlammo insieme.
Il
fato di una nazione, Mazzini nol cerca ne' rapporti sociali ed internazionali
d'onde scaturiscono le guerre, le conquiste, le rivoluzioni, ma abbandona la
terra e lo cerca nel cielo. La legge, dice egli, è
un'emanazione di dio, che impone di vivere nel vero, nel reale, nel giusto. Cotesto
dovere non e, secondo lui, verso noi medesimi, ma verso l'umanità.
Quindi la vita una missione a compiere, un continuo sacrificio, che
necessariamente deve aspettarsi un premio o una pena, altrimenti non avrebbe
scopo. Ma ove conducono questi principî?
Questo
dovere, questa missione, questo sacrificio, secondo Mazzini, oggigiorno
è disconosciuto. Dal che risulta un fatto che gli è forza
riconoscere: il dispotismo, forza mondana e materiale, ha soffocato un'idea,
una tendenza celeste, che Dio avrebbe dovuto infondere in tutti i cuori.
Per
compiere la rivoluzione bisogna adoperare ogni sforzo onde far rivivere questo
sentimento, questo germe divino, che trovasi in ogni cuore. Ma se la
rivoluzione avvenisse quando esso sarà risorto, avverrebbe precisamente
quando piú non sarebbe necessaria, giacché se ognuno, trascurando se medesimo,
s'interessasse non d'altro che del bene pubblico, allora, ad onta de' despoti e
de' stranieri, la nazione, pare, dovrebbe essere felicissima; senza che,
despoti e stranieri, uomini anch'essi, e perciò soggetti alla potenza di
tale legge, diverrebbero nostri padri affettuosi, nostri fratelli, e gli
Austriaci, volontariamente, senza bruttarsi le mani di sangue, andrebbero a
compiere, ne' loro paesi, la missione della vita. Tutta questa dottrina, altro
non è che la sognata fratellanza del vangelo. Mazzini sfugge questa
conseguenza: il despotismo, egli dice, impedisce che questa legge si trasfonda
nell'umanità (tanto poco curasi Dio di propagare le sue leggi), solo
pochissimi eletti, i migliori per senno e per virtú, hanno il privilegio di
comprenderla, e nel tempo stesso il dovere di rovesciare gli ostacoli materiali
e fare abilità ai molti di riconoscere ove si trovi il vero.
Ponghiamo
caso che alla voce, all'impulso di pochi, tutti rispondessero, e la patria
fusse conquistata. Cosa ne seguirebbe? Il passato avendoci insegnato quanto sia
facile corrompere gli animi e cancellare da essi la percezione del vero e del
giusto, bisogna che, in avvenire, s'adoperi ogni mezzo onde evitare, impedire
ogni trista tendenza. D'onde emerge per necessità il governo de'
migliori, i padri della patria, che terranno le anime sotto la loro tutela, che
diranno al cittadino: tu hai un'anima immortale, una missione da compiere,
un vincolo con quanto [ha] vita, un dovere verso tutti, un
diritto all'amore ed all'aiuto di tutti. Chiunque affermasse che l'anima
non è immortale; che non abbiamo missione da compiere, ma un istinto,
che ci sospinge continuamente verso il nostro meglio; che, verso altrui, non
abbiamo né doveri né diritti, ma vincoli di libera associazione, che il nostro
personale vantaggio determina, sarebbe un eretico, meriterebbe l'ostracismo con
onta, ed infamati dovrebbero essere i nomi di Beccaria, di Filangieri, di
Romagnosi.
Conseguente
a tali principî, Mazzini attribuisce i mali sotto cui ora geme la Francia al
cattivo apostolato: e perciò l'apostolato non potrà esser libero,
ma bisogna adoperarsi in ogni modo onde l'anima non venga illaqueata da'
sofismi de' materialisti; indice adunque de' libri proibiti, censura, financo il
rogo, per gli ostinati, se fa bisogno; eterno, inesorabile assurdo in cui
cadono coloro i quali riconoscono come una necessità imporre de' limiti
alla libertà.
I
libri e le azioni, ripetiamolo, che risultano dalla lettura di essi,
altro non sono che la manifestazione della vita sociale, ne sono i pensieri e
le opere. La tirannide che cerca interdire cotesta manifestazione onde
sostituirsi in sua vece, è naturale che la tema. Ma riconoscere il
diritto e la sovranità della volontà nazionale, e declamare
contro i cattivi libri è un grossolano errore; un popolo libero che
volesse limitare la stampa, sarebbe come un individuo che per limitare i propri
pensieri, le proprie azioni, mutilasse il suo essere.
L'imperatore
delle Russie Alessandro I dichiarò esservi al disopra di lui il
principio della giustizia, ma chi proclamava questo principio? egli medesimo;
chi n'erano i custodi? i suoi satelliti. Ogni epoca annovera il suo giusto ed
il suo vero: di quali, fra' tanti, parla Mazzini? Riconoscere doveri è,
né può negarsi, ammettere il diritto di limitare la libertà, e
questo principio, piú o meno largamente applicato, è quello su cui si
fondano i moderni governi d'Europa. Voi siete liberi, vi dice la monarchia
costituzionale, fin tanto che la vostra libertà non eccede i limiti
dell'equo e del giusto; il fisco è incaricato di additarvi cotesti
limiti.
Chiunque
mi dirà: devi compiere il dovere di conquistarti la patria,
assume su di me un tuono di superiorità e di comando, io nol patisco, e
rispondo: chi sei tu che il dici - Dio lo vuole. - Ed io: dimostrami prima che
esiste Dio, e poi dammi le prove che tu sei l'interprete della sua
volontà, altrimenti, se puoi costringermi con la forza, non sei che un
tiranno, nel caso contrario non posso che compatirti. Per contro, ogni
individuo può farsi propugnatore de' diritti universali senza arrogarsi
autorità e senza intaccare la libertà di alcuno. L'uomo nasce
libero ed indipendente, dunque ha diritto all'esistenza, diritto di sviluppare
ed utilizzare le proprie facoltà, diritto al pieno godimento del frutto
de' suoi lavori… ecco delle verità che non hanno bisogno d'essere
interpretare e svolte da' migliori per senno e per virtú; chiunque
le propugna, sia egli l'ultimo o il primo per senno, sia egli cultore della
virtú o del vizio, esse non perderanno mai la loro evidenza, non cesseranno mai
di esser verità. Costui potrà aggiungere: - la tirannide che
sostiene i privilegî è quella che vi rapisce questi diritti;
abbattiamola! - ed ognuno, senza fare atto di ubbidienza, potrà
afferrare un fucile e seguirlo.
La
società non impone doveri, ma li crea, con promettere solamente
guarentigia de' diritti d'ognuno, il che limita di fatto i diritti altrui. La
dissoluzione della società conducendo per conseguenza immediata alla
perdita di questi diritti, n'emerge, senza aver bisogno d'apostolato o di
educazione, l'impegno, la volontà d'adoperarsi con ogni possa onde
difendere questa società. Ma se questi diritti si riducono a quelli del
proletario, morir di fame ed essere tratto in prigione, allora la sola forza,
favorita dall'ignoranza, potrà indurre cotesti iloti a difendere quel
sistema e quelle istituzioni che l'opprimono.
Questi
diritti sono quelli che mantengono l'equilibrio sociale, senza esservi bisogno
di governo; ma non appena questi diritti vengono lesi nella benché minima
parte, il governo diventa indispensabile perché sostegno d'usurpazioni e
privilegi, non di leggi eterne e naturali, che reggono da sé.
Tanti
fratelli messi sotto la tutela de' migliori, è la società, la
nazione sognata da Mazzini, ovvero l'attuazione del cristianesimo.
Quale
teoria ha avuto un cosí lungo apostolato come l'evangelica, ed in quale epoca
si è mai verificato il sogno della fratellanza? I selvaggi in mortali duelli
si disputano il vitto e la donna, si sbranano l'un l'altro; in essi è la
Natura che parla in tutta la sua purezza, e secondo i religiosi è Dio
che manifesta le sue leggi. Le famiglie combattono fra loro. Dall'unione delle
famiglie, prodotta dal bisogno di difesa, sorgono le città, le nazioni,
che si conquidono, si distruggono, si asserviscono, quasi senza veruna ragione
sufficiente, il piú sovente pel capriccio di un despota. Un soldato per un
magro guadagno, si dà al mestiere di uccisore d'uomini che non conosce e
con cui non ha astio veruno, anzi spesso vincoli di parentela e di amicizia. Il
forte cerca sempre di opprimere il debole; l'astuto profitta dell'altrui
semplicità; il dotto dell'altrui ignoranza. Non havvi fortuna che non si
elevi sulle altrui ruine. Fratelli contro fratelli, figli contro padre
s'accaneggiano, disputandosi il possesso di ricchezze che hanno usurpate al
povero. Un mercante vedrebbe ad occhio asciutto cadere a migliaia i suoi
simili, piuttosto che ribassare il prezzo di una sua merce. Insomma, il
mondo sempre in possesso de' piú forti e de' piú astuti è la storia
dell'umanità. Finalmente, i primi cristiani, i piú fanatici
adoratori di Cristo, discutevano, nella Tebaide, di fratellanza e mansuetudine
a colpi di pietre e di bastone. E piú tardi gli ortodossi cattolici ponevano ad
effetto il dogma della fratellanza con ardere vivo chi non voleva dirsi loro fratello.
L'uomo, ben lungi dal propendere a dividere il suo con altri, mai sempre
scontento di quel che ha, desidera ciò ch'altri possiede, di quinci
l'infaticabile operosità. Il coraggio, in qualunque epoca, in qualunque
nazione, dall'uomo timido come dal valoroso, nell'assassino o nell'eroe,
è sempre ammirato, di quinci le ardite imprese. Son queste le due espressioni
che dan norma alla vita dell'uomo, e sono in contraddizione manifesta col dogma
della fratellanza.
Un
uomo, in passando, scorge un moribondo per fame, oggetto che produce in lui, in
ragione della delicatezza di sua fibra, una sensazione dolorosa; a sfuggirla,
soccorre l'infelice. Il domani, esaurito il magro soccorso, quello muore per
fame, e questi che non è piú sotto l'impressione dolorosa del giorno
innanzi, neppur pensandovi, banchetta lietamente. Un tal fatto, argomento
validissimo contro l'istinto della beneficenza, è tolto dai propugnatoti
di essa, dallo stesso Rousseau, come una dimostrazione favorevole, tanto scarsi
sono gli argomenti che rincalzano la loro asserzione.
A'
Romani ed a' Greci non venne mai in mente dirsi fratelli, e ne ammiriamo,
stupefatti, l'amor di patria, gli atti generosi, il continuo prevalere
dell'utile pubblico sul privato: mentre il mondo cristiano, che si disse un
mondo di fratelli, presentaci il miserando spettacolo d'una solitudine di
voleri e di mire, scaturigine d'ignobili fazioni e guerre civili atrocissime.
Egli è adunque ben meraviglioso il pretendere rigenerare il mondo,
predicando la fraternità, che dopo diciotto secoli di apostolato
è rimasta infruttuosa.
L'indole
umana, le sue propensioni, i suoi istinti sono inesorabilmente invariabili, e
sono le forze di cui il sistema sociale deve avvalersi per produrre la pubblica
felicità, la quale sarà, necessariamente, nulla, se coteste forze
si combattono e si elidono perché applicate in opposta direzione, e massima se
tutte cospireranno al medesimo scopo. Quindi non è l'uomo che deve
educarsi, ma sono i rapporti sociali che deggiono cangiare affatto e ciò
basterà per trasformare un popolo di egoisti e dissoluti in un popolo
d'eroi; amor di patria e fratellanza vi sarà quando l'utile privato
verrà indissolubilmente legato coll'utile pubblico, quando ognuno
adoperandosi pel proprio bene, farà eziandio il bene dell'universale.
Consolantissima verità, che sostituisce al lento, impossibile, assurdo
sistema di educazione, quello prontissimo della rivoluzione, e che in luogo di
escludere, come irriducibili, un numero considerevole d'individui, e
restringere gli eletti a pochissimi, allarga in vasto campo la nostra
coscienza, ed abbraccia senza eccezione di sorta l'universalità de' cittadini;
il traditore, l'assassino, il ladro… tutti potranno diventare utili al paese
allorché saranno sparite le cagioni del delinquere e l'utile che dal delitto
traevano. Il fine è l'unità d'interesse, la fratellanza; il
mezzo, la riforma completa degli ordini sociali operata con la forza.
Inoltre,
sarà sempre un enigma inesplicabile, come alcuni trovino nelle pagine
del vangelo l'inno delle battaglie; come il vangelo, ove è scritto: obedite
principibus etiam dyscolis, racchiuda massime favorevoli alla
libertà. I stranieri, i satelliti del dispotismo, sono nostri fratelli,
bisogna convincerli, non già ammazzarli: quale orrore! versare il
sangue fraterno!… ma questa è l'eterna contraddizione del mondo
cristiano. I fiorentini dichiarando Cristo patrono della città ed
armandosi contro il principe d'Orange, mentivano a loro medesimi: lungi da voi
que' micidiali brandi, calpestate i fregi de' vostri cimieri, inginocchiatevi e
pregate, umiliatevi al vostro nemico, il vostro regno è nel cielo, tanto
piú splendido quanto piú umiliati in terra, ecco la dottrina di Cristo. Voi
combattete innalzando il vessillo della croce? voi non siete che degli ipocriti
e de' stolidi che non sanno quel che si fanno. Un valoroso polacco, durante la
rivoluzione di Polonia, fece scrivere sul vessillo della sua legione: tutti
gli uomini sono fratelli; e questa legione fu il terrore de' fratelli russi.
Ebbene metterò de' guanti, rispose un soldato francese il due
decembre ad un popolano che dicevagli di non bruttarsi le mani di sangue
fraterno, meritato sarcasmo alla stupida ed ipocrita proposta. Allorché il
popolo insorge, i soldati potrebbero fargli il medesimo rimprovero, nulla
giustifica il fratricidio, è a Dio, secondo la vostra dottrina, il
punire i colpevoli. Ma la digressione sulla fratellanza è già
lunga e noiosa, riprendiamo il filo delle idee e continuiamo il ragionamento
sul comitato nazionale.
Tutti
coloro che speravano il risorgimento per mezzo delle forze della nazione e non
d'altronde, applaudirono unanimemente all'installazione del comitato nazionale.
Tutti rivolsero lo sguardo a questo nuovo faro; tutti fidavano nella candida
fama degli uomini che lo componevano, guarentigia solenne della rettitudine di
loro intenzioni. Il comitato non ebbe in suo potere alcun mezzo materiale per farsi
riconoscere, anzi la minaccia di prigionia e d'esilio [vi era] contro chiunque
facessegli adesione, nondimeno le adesioni furono numerosissime; prova
incontrastabile di sua legittimità. Si confortarono i dubbiosi, si
ravvivarono le speranze, e generale era l'aspettativa. Il comitato esordí col
prestito nazionale, e comeché il risultamento non avesse corrisposto alle
speranze, fu un atto logico e necessario; sarebbe stato follia sperare di piú;
ottener danaro è cosa piú difficile che ottener combattenti; ed in
simile circostanza trattav[asi] di sborsarli correndo rischi gravissimi. La
fama de' membri del comitato prestavasi egregiamente ad ogni operazione
finanziaria, come quella superiore ad ogni villano attacco che si potesse
muovere in materia d'interesse.
Egli
è cosa indispensabile, per determinare quale avrebbe dovuto essere la
condotta del comitato nazionale, il renderci conto esatto dello stato in cui
trovavasi il popolo italiano alla caduta di Roma. E poiché gli individui
giudicar non si possono dalla vita monotona ed abituale a cui le circostanze li
costringono, ma bensí da certi rarissimi momenti ne' quali tutta e liberamente
manifestano la forza di loro temperie, cosí i popoli non dalle leggi, non da'
costumi, non dall'inerzia in cui oppressi trascorrono molti anni prima di
manifestare la nuova vita, ma da' tomulti, da' martirî, da' grandi misfatti,
da' tratti d'eroismo, si giudicano. Epperò senza troppo distenderci, e
sorvolando sugli avvenimenti, prenderemo le mosse alquanto da lungi.
Le
sollevazioni di Masaniello, di Balilla, de' straccioni… avevano, come dicemmo,
annunziato un nuovo popolo italiano sulla scena politica del mondo, il popolo
moderno. A Cosenza si concepirono i primi forti e liberi pensieri, che poi
Bruno, Campanella, Vico svolsero. Ma questi rapidi slanci furono ben tosto
repressi. Le armi straniere arrestarono l'azione nel popolo ed i gesuiti
spensero ogni scintilla di libertà che manifestavasi nel pensiero.
L'Italia palpitò, ma i suoi palpiti furono repressi dalla barbera Europa
e l'Italia, ritornata cadavere, tale si fu sino all'89.
Poco
prima della rivoluzione francese, i monarchi, non ancora atterriti dallo
spettro della rivoluzione, scossero tanto torpore. Tanucci, Leopoldo,
l'imperatore [Giuseppe II] si diedero a migliorare la condizione de' popoli, e
sursero scrittori che d'un balzo superarono gli oltremontani, ma il ruggito del
popolo fecesi sentire, e le riforme ristagnarono di botto. I principi ripresero
le antiche armi: la tirannide, avendo a maestra la paura, mostrossi piú atroce
che mai.
La
guerra tenne dietro alla rivoluzione; i principi italiani, essendosi adoperati
a tutto potere a spegnere ne' popoli ogni sentimento nazionale, non potettero
opporre al nemico che schiere di servi vestiti da soldati, che vennero sbaragliati
al primo urto de' liberi Francesi. Vinti, atterriti, si videro costretti ad
invocare quella passione medesima che prima avevano combattuto; i loro editti
poco differiscono da quelli de' rivoluzionarî moderni, ed il popolo rispose al
generoso invito; a Domodossola, a Pavia, a Lugo, a Verona, a Napoli, in
Calabria, i stranieri cadevano sotto il brando italiano; tutte le valli
dell'Alpi furono intronate dal fragore delle armi.
Profondiamo
un istante la nostra riflessione, e vedremo una riproduzione de' fatti del
mille. In quell'epoca il papa scosse il popolo dal letargo, gli disse di essere
italiano e l'oppose all'imperatore. Il popolo, che per legge di natura, fa
sempre precedere i fatti al pensiero, senza riflettere, combatté lo straniero;
nel modo stesso adoperò nel '96. Al mille sursero in Italia due partiti,
guelfi e ghibellini, questi, che avevano privilegî da conservare e difendere
dall'avidità della teocrazia, parteggiavano per l'imperatore; quelli,
che non avevano nulla da conservare, lo combattevano perché straniero;
similmente nel '96, i pensatori, gli amanti di libertà, erano coi
Francesi, togliendoli quai difensori di essa, il popolo, invece, che altro non
vedeva in essi che invasori, osteggiavali. Al mille appena i popoli cominciarono
ad avvertire ciò che avevano solamente inteso, combatterono
nobili e prelati, vollero governarsi da sé, e dopo mezzo secolo, al cominciare
dell'XI, il popolo era risorto. Dal '96 noi scorgeremo nel popolo italiano un
continuo progresso e lo stesso cangiamento, la stessa unificazione di partiti
avvenuta sul mille.
Nel
1805, ne' quattro anni seguenti, l'agitazione contro i stranieri manifestossi
in diversi luoghi d'Italia, nel Polesine, nel basso Po, nelle Calabrie, a
Parma, nel Tirolo, e questa volta il partito liberale, che sostiene i
stranieri, piú non esiste, ne sono parteggiani non altri che gli impiegati. In
tale epoca, gradatamente, la contro-rivoluzione comincia ad assumere i
caratteri di rivoluzione; il '14 la trasformazione è completa. Il popolo
cominciava a comprendere il bene della libertà, ed apprezzava le pretese
dei liberali, questi, d'altra parte, s'erano convinti che i Francesi con
pompose e mendaci parole non portavano che tirannide, e si erano ravvicinati al
popolo. Murat e Beauharnais venivano assaliti dagli Italiani al nome di
libertà. Gli Inglesi, i fautori del dispotismo e della schiavitú
d'Italia, per acquistare le simpatie de' popoli della penisola, sbarcando a
Livorno, scrivevano sulle loro bandiere libertà ed indipendenza
italiana. Al '14 gli sforzi degli Italiani cominciarono ad avere
unità, e la storia del nostro risorgimento comincia: lotta continua fra la
giovane Italia e l'Italia ufficiale; come quella che ebbe luogo dal 1056
all'XI, fra i Comuni ed i feudatarî ed ecclesiastici. I popoli ne' loro
risorgimenti seguono le stesse evoluzioni.
Ugo Foscolo, prima che Bonaparte distruggesse Venezia, giura
odio a' stranieri, poi, rivolgendo un mesto sguardo all'Italia, e scorgendola
priva di forze e di sentimento, dispera, ed accetta l'invasione come una
crudele necessità; quindi la combatte con la parola, cospira contro di
essa, e vorrebbe trarne profitto per la sua patria. La sua vita, le sue opere,
le sue speranze, reassumono la vita, le opere, le speranze del popolo italiano
dal '96 al '14, di cui Ugo Foscolo n'è la personificazione.
Qui
cade in acconcio una degressione onde coglier cagione a combattere
gl'infrancesati, e distruggere il turpe vezzo d'idoleggiare i stranieri, ed
esaltarli in nostro paragone non solo, ma dichiararli nostri benefattori. Dalle
continue irruzioni che han fatto i Francesi in Italia, sin dall'epoca di Carlo
VIII, traggono alcuni argomento a dimostrare la loro influenza, e, trascinati
dall'amor di un sistema, veggono sempre in Italia partiti che, secondo le varie
epoche, si agitano a favore o contro cotesti stranieri. Una tale asserzione
è assurda: la storia, durante tre secoli di guerra, ci mostra l'Italia
cadavere, essa non era rappresentata che da varie corti codarde e dissolute, in
Italia non v'erano che individui, popolo e partiti piú non esistevano.
All'epoca della rivoluzione francese s'iniziò il nostro risorgimento,
non già perché di Francia si trasfondessero in noi idee di
libertà, leggi, istituzioni, come alcuni asseriscono; coteste intrusioni
non furono che dannose, il regno di Napoli, ove fu maggiore, quali vantaggi ne
trasse? nessuno; perdette invece le franchigie municipali di cui sempre aveva
goduto. Il fragore di quella rivoluzione serví a risvegliarci dal nostro
letargo e non altro, fu lo scroscio di fulmine del Vico. I Francesi altro non
furono in Italia che predoni e tiranni, gli uomini che governarono l'Italia
durante l'occupazione francese furono quali il Foscolo li definisce: «antichi
schiavi, novelli tiranni… La regia autorità era in essi senza il
coraggio e senza il genio d'esercitarla, vili cogli audaci, audaci coi vili…» I
Francesi in quell'epoca ci disarmarono, perché temevano di noi; quindi ci
dissero codardi, perché cosí disarmati non combattemmo i loro nemici.
Ripetiamo,
senza mai credere d'averlo detto abbastanza, quale è la vantata
superiorità della Francia su noi? forse perché havvi fra essa piú vasta
erudizione? No, un uomo potrà essere eruditissimo, dottissimo, non
perciò essere grande, esser uomo modello. La vita della Francia, dal
risorgimento alla rivoluzione dell'89, altro non è che un continuo strisciare
dietro lo splendore e le dissolutezze di una corte. L'89, una fazione la
sospinse sul sentiero della gloria e della grandezza, ma il popolo stesso la
rovesciò, e volle farsi sgabello a nuovo trono. Al 1830, padrone
un'altra volta delle proprie sorti, fu suo primo pensiero crearsi un padrone.
Il '48, per la terza volta nel torno brevissimo di mezzo secolo, la Francia
è arbitra de' suoi destini, quali sono le sue gesta? conserva nella sua
costituzione tutto l'ordito d'un governo assoluto ed affida il supremo maestrato
ad un ambizioso e goffo pretendente, e suo primo pensiero è quello
d'assassinare l'Italia. Finalmente l'esercito, dopo poche ore di strage
proclama l'Impero, e la Francia applaude, la Francia affida i suoi figli ed i
suoi tesori con codarda rassegnazione al piú ridicolo ed incapace reggimento
che mai abbia usurpato trono. Non è nostro proposito ragionare
dell'erudizione francese, a noi basta d'aver dimostrato che non abbiamo bisogno
di cercare oltremonti le leggi magistrali della Natura, in Italia proclamate
prima che altrove. Ma concediamo sotto tale riguardo qualsiasi
superiorità alla Francia, essa rappresenterà un dotto la cui
dottrina è al servigio del successo, de' fatti compiuti e di chi meglio
paga. Il dottrinario che trovasi bene in tutte le epoche, e sotto qualunque
reggimento smaltisce con guadagno la propria dottrina, è precisamente la
personificazione della Francia. L'Italia invece è un colosso, cinto da
catene, circondato d'armati pronti a soffocare in lui ogni palpito di vita; se
il gigante svincola uno de' suoi membri sbaraglia gli oppressori, ma
immediatamente tutta l'Europa corregli addosso per opprimerlo. Facciamo fine
alla digressione, che i gallomani han provocata, e rispettiamo tutti i popoli,
ma senza ammettere, né popoli modelli, né popoli arbitri delle sorti d'Europa.
Il carattere con cui si annunzia la futura rivoluzione nol comporta. La prima
nazione che senza curarsi dell'avvenire abbatterà tutto l'ordine sociale
che l'opprime, estirpando fin l'ultime sue barbe, sarà la testa di
colonna dell'umanità, e questo popolo potrà essere
l'italiano, come il greco, come il francese, come il tedesco; e questo popolo
non sarà il piú dotto, ma il meno degradato, e quello che maggiormente
sente l'oppressione presente.
Le
sanguinose e tristi esperienze che gli Italiani fecero dal '96 al '14
racchiudono gravissimi ed importanti ammaestramenti: i liberali sperarono ne'
Francesi, e n'ebbero invece disarmo, taglie di guerra e schiavitú; sperarono
bene dalla restaurazione, ma l'Austria mancando alle promesse, le loro
condizioni peggiorarono. I stranieri ci chiamano codardi se fidando in loro ci
sottoponiamo al loro giogo, ribelli se insorgiamo, quindi da essi non bisogna
sperare che disprezzo o martirio: combatterli e vincerli è la sola
risorsa che ci resta.
Dopo
questi fatali disinganni l'Italia comincia a vivere nelle società
segrete, che tutte vanno ad incorporarsi in quella famosissima de' carbonari,
che, dal '19 al '21, fu oltre ogni credere potente. Il '20 il movimento si
manifestò nel regno di Napoli, in vaste proporzioni, poi in Piemonte;
venne oppresso dalle bajonette straniere. Le file de' settarî, quantunque
decimate dalla paurosa tirannide, conservarono ordini e forza. I Capozzoli,
generosi, che dal '20, piuttosto che inchinarsi alla ferocia del governo,
battevano la campagna, si fecero iniziatori di una sommossa che, non secondata,
e quasi preveduta e desiderata dal governo, fu soffocata nel sangue di numerosi
cittadini e [sotto] le ruine di Bosco. Al '31 Ciro Menotti muore da eroe a
Modena, Bologna sollevasi. Tutti gli occhi si rivolgono alla Francia, essa
proclama il non intervento, nuova menzogna per tradire i popoli. Gli Italiani
ebbero la stoltezza di credervi ed osservarono ridicolmente il patto. I
bolognesi non soccorsero perciò i modenesi, e non accolsero Zucchi,
incalzato da forze straniere, che disarmato.
Gli
Austriaci, ad onta de' Francesi, intervennero: piú tardi intervennero eziandio
i Francesi in aiuto de' primi, e, secondo loro costume, intervennero mascherandosi
con bugiarde proteste.
Questi fatti
furono nuovi ammaestramenti, le società segrete sono mezzi poco
efficaci, esse, avvolte nel mistero, tolgono a modello il dispotismo: come
questo ad un cenno muove i suoi battaglioni, aggregato di armati uniti per disciplina,
per utile, e materialmente concentrati; cosí quelle vorrebbero disporre de'
loro ascritti, separati non solo materialmente, ma eziandio dalle circostanze e
dall'utile di ognuno. Vane speranze, son sempre pochi che muovono, la nazione
rimane indifferente spettatrice. Se qualche volta trionfano, allora hanno nel
loro seno il germe della dissoluzione, la gerarchia della setta, e le sue
esigenze si sostituiscono al governo, in cui prevalgono le cupe e torte
abitudini de' cospiratori. Il cospiratore vien costretto a simulare, e la
simulazione al governo trasformasi in moderazione e diplomatici raggiri; il
cospiratore è avvezzo ad infiltrare gradatamente le sue idee quasi
mascherandole, mentre coloro che sono chiamati a reggere una rivoluzione
debbono, a scesa di testa, apertamente proclamare i principî e dai primi
istanti afferrare le ultime conseguenze, perocché ivi solo si riscontra l'utile
che può convincere le moltitudini.
La
Giovine Italia surse come conseguenza di tali ammaestramenti. Non fida piú ne'
governi stranieri ma ne' popoli, non piú nelle società segrete ma nelle
masse popolari, ad esse, e non a' capi, vuole affidare il risultamento della
rivoluzione, respinge perciò ogni idea di dittatura, e sminuzza il popolo
in bande. Mazzini non tace, non asconde i suoi principî, come i carbonari:
Mazzini, da rivoluzionario, tuona, e fa noto all'Europa de' popoli le miserie
degl'Italiani, i loro diritti, le loro speranze. Le cospirazioni cangiano
carattere, i vendicatori del popolo, gli amici del popolo non
hanno il mistero e le discipline de' carbonari, sono piú adattate all'epoca, ma
piú esposte agli attacchi de' governi. La cospirazione del '33 è
soffocata al nascere, la spedizione di Savoia, come doveva, abortí. Il '
I
rivolgimenti del '48 ebbero precisamente questo carattere; tutto il popolo che
si agita, i principi sono travolti nel turbine, ed al termine di questa nuova
fase succede una nuova disfatta ed un nuovo ammaestramento. Popolo e principi
hanno mire opposte: quindi diffidenza, dubbia fede, spergiuro,
incapacità ne' capi, e, dopo tanti sforzi, il popolo altro non
guadagnò che persecuzioni ed efferata tirannide.
A
Roma o Venezia il popolo combatte solo, quasi svincolato dalle pastoie
domestiche, ivi combattesi con tutta l'anima; gregarî e capi non vogliono che
la vittoria, hanno unità di mire, unità d'interessi; la disfatta
è egualmente ruinosa per tutti, non vi sono cagioni estranee alla causa
italiana che distornano ed ammorzano l'impeto de' combattenti, non v'è
nulla da conservare. Nondimeno Roma e Venezia cadono, e perché? perché
angustiarono i loro sguardi fra le mura di una città, si combatté per
Roma e per Venezia, non già per l'Italia. Come in Ugo Foscolo si
personifica la vita del popolo italiano dal '96 al '
In
questi quarant'anni di storia rinviensi l'avvenire d'Italia. E se ogni Italiano
appuntasse il suo intelletto sulle gloriose pagine di un tale libro, troverebbe
in esso la soluzione di ogni dubbio che adombra la sua mente. Dalla vita de'
nostri martiri, dalla narrazione di tutti gli sforzi fatti dagl'Italiani,
scaturisce un corpo di dottrine, d'onde dovrebbero prendere le mosse i
ragionamenti, e trarsi le conchiusioni che i dottrinanti, con poco senno e poco
decoro, cercano altronde. In questo periodo di nostra storia, Mazzini, che vi
occupa un posto glorioso, avrebbe dovuto trarre le norme per la condotta a
tenersi dal comitato nazionale, ivi avrebbe trovato scritto a caratteri
indelebili: i stranieri e principi [sono] nostri nemici; le sette impotenti; il
municipalismo ruinoso. Non eravi che un altro passo a fare, ed egli lo
avrebbe potuto studiando sui passati avvenimenti, senza farsi trarre di passo
da ciò che detestava presso gli oltremontani.
La prima esaltazione rivoluzionaria creò que' battaglioni
che valorosamente difesero la romana repubblica, quella ammorzata, quantunque
tutti applaudissero al governo repubblicano, esso non trovava soldati. Il volgo,
in un tal fatto, altro non scorge che un mal volere, una ripugnanza alla
milizia, mentre esso emerge da piú lontane fonti, da piú importanti cagioni,
è la quistione economica che sotto varî aspetti padroneggia l'Europa e
reclama la sua supremazia; il popolo non ottenne dalla repubblica vantaggi tali
da impugnare le armi a sua difesa, in esso prevaleva l'odio al passato piú che
l'amore al presente. Mazzini, oltre ciò, avrebbe dovuto ridursi alla
memoria la lettera che Sismondi scriveva alla Giovine Italia: «Finalmente la
stessa libertà, - scriveva l'insigne pubblicista, - offre il piú
tremendo di tutti i problemi, quello della protezione del povero e
dell'ignorante… affiderete voi la causa del proletario agli uomini che ne
dividono le privazioni? essi non hanno forza. L'affiderete quindi ai ricchi?
essi saranno i primi a tradire il popolo». Questo problema Mazzini avrebbe
dovuto farne il cardine principale de' suoi sforzi, della sua propaganda,
svolgerlo, ventilarlo, l'adesione di molti sarebbe mancata al Comitato, ma le
sue file in luogo di diradarsi, sarebbero andate sempre ingrossandosi
dell'immensa moltitudine che soffre e che sola combatte.
Mazzini
avrebbe dovuto essere quale fu allorché iniziata la Giovine Italia: combattere
i governi, le sette, ogni specie di dittatura; richiedere tutto alle masse
popolari ed aggiungervi una franca propaganda de' diritti del povero, una
guerra accanita alle usurpazioni del ricco. Ma egli non ha presentito allora la
morte della borghesia, la supremazia della plebe: si diresse alla prima, questa
gli è venuta meno di fatto, ed egli, che credevasi isolato, ha visto
sorgere spontanea la plebe e sostituirsi a quella.
Il
mandato del comitato nazionale era rivoluzionario; quindi era suo principale
carattere quello di escludere la guerra regia, guerra antirivoluzionaria, e
già dichiarata dagli avvenimenti del '48 e '49 impotente e volta solo a
spegnere l'esaltazione nazionale. Il comitato sorgeva per sostituirsi a quel
trono, verso cui fugacemente s'erano rivolte le speranze d Italia; accordarsi
con esso era rinnegare la propria legittimità; era assurdo, era
ridicolo. Il governo sardo, volendo operare, non facevagli mestieri
dell'adesione d'un comitato d'esuli residenti a Londra. Se gl'Italiani volevano
seguire le sorti del Piemonte, non avrebbero certamente domandato, per farlo,
l'adesione del comitato; e non volendolo, quell'adesione valeva poco. Il
comitato, in luogo di farsi un organo pel cui mezzo la pubblica opinione poteva
manifestarsi ed operare, pretese darle forma e carattere, se ne credette
l'arbitro, e parlava come un governo costituito che offriva patti al governo
sabaudo. Un tale errore fu di breve durata: il comitato, dopo poco tempo, si
disdisse.
Unificare
le volontà sgomberando i dubbî, avrebbe dovuto essere l'opera principale
del comitato; era seconda quella di aiutare con mezzi materiali l'azione
ovunque spontaneamente sorgesse. Il primo lavoro avrebbe dovuto esser quello di
distruggere l'antico errore; la rivoluzione non era, e forse non è,
compresa nel suo vero senso. Il prestigio di un nome superava quello delle
idee; ed il nome di Mazzini aveva tanta autorità, da aggiungere
grandissima forza alla verità per se medesima potente. «Italiani, -
avrebbe dovuto esclamare, - in Roma, io e tutti coloro che mi circondarono, non
fummo rivoluzionarî, non fummo all'altezza delle circostanze, e per legge
fatale nol potevamo essere; l'Italia doveva subire l'esperienza del '48. Noi
avremmo dovuto con un decreto rovesciare l'antico edifizio, proclamare i
diritti che ad ognuno le leggi di Natura accordano; lasciare ai cittadini
libera la scelta de' magistrati, all'esercito la scelta de' generali e degli
uffiziali di ogni grado: chiamare tutta la nazione alle armi, bandire la
guerra, intraprenderla con audacia; cosí operando, se il popolo secondavaci,
l'Italia era salva; nel caso contrario, saremmo eziandio caduti, ma con la
coscienza di aver fatto il proprio dovere. Noi invece, calcammo le orme de'
passati governi, attaccati, abbiamo resistito, ecco il nostro merito. Facciamo
studio su questi errori, per non incorrerci nell'avvenire».
Ben
lungi dall'esserne oscurata, sarebbesi accresciuta in immenso la fama di
Mazzini; invece la repubblica romana venne dichiarata repubblica modello.
Mazzini,
se erra, conserva sempre la coscienza la piú pura, e le intenzioni le piú
rette. Egli non tradisce mai i suoi principî, sono i suoi principî che qualche
volta tradiscono lui. Egli propende a credere che gl'individui non
rappresentano le nazioni, ma sono le nazioni che seguono l'impulso di pochi; e
cotesto è gravissimo errore. Mi spiego piú chiaramente.
L'individuo
non potendo avere idee, che non siano state generare in lui dalle impressioni
che riceve dal mondo esteriore, non può mai svelare verità, il
cui germe non si trovi già abbastanza sviluppato nella società.
La fama immediata è retaggio di colui che afferra il concetto collettivo
e lo svolge all'occhio dell'universale; o di quello che nel campo dell'azione
non trae la nazione dietro di sé (cosa impossibile), ma la regge in quel
cammino che la nazione medesima presceglie. La boria dell'uomo l'induce a
credersi creatore di que' concetti che egli ha semplicemente svolto,
inspiratore di quelle imprese che, dall'universale volontà sospinto,
produsse a fine; e mentre l'uomo cosí favorevolmente giudica se stesso, ogni
altro, non trovando in sé o in altri tali concetti, conferma un tale giudizio,
e di quinci la personificazione de' principî, la deificazione degli uomini,
mentre la società nell'onorare gli eroi, altro non fa che onorare le sue
piú eccelse opere; è un artista che ammira il proprio lavoro. Quando la
fama di uno scrittore è universale, e finanche il volgo comprende le sue
idee, esso sarà onoratissimo, produrrà alla patria beni
incommensurabili, se poi questa fama restringesi nel picciol mondo de' dotti,
allora verrà dimenticato, non frutterà alcun bene, e tutto al piú
lo rammenteranno ed onoreranno i posteri, e pure il secondo ha merito molto
maggiore che il primo. Questi ha schiuso la via ad un germe quasi
impercettibile ed ha dato un frutto tanto precoce che la società non
vuol riconoscere come suo, quello ha trovato la pianta già rigogliosa e
grande, ed il frutto già maturo, ha durata poca fatica a coglierlo.
Secondo la teoria dei deificatori d'uomini, se Romolo, Cesare, Carlo Magno,
Napoleone… non fossero nati, l'umanità non avrebbe storia. Cosí l'uomo
per non riconoscere la potenza collettiva, cade nel puerile.
Gli
eroi sono effetti, non causa degli avvenimenti sociali; i loro caratteri sono
il complesso de' vizî, delle virtú, delle tendenze dell'epoca; la
società può riconoscersi in essi, come un uomo nell'imagine che
ai restringe nel breve cerchio dello specchio di una picciol lente. Un popolo
che vi addita come suoi duci i Scipioni, gli Attilî, i Cincinnati… è un
popolo libero, la gloria e la grandezza della patria ne sono le passioni
predominanti… Se, per contro, sono i Cesari che primeggiano, potete inferirne
che la nazione inchinasi allo splendore guerresco ed alla forza; se
volontariamente lasciasi reggere da uomini inetti e corrotti, la nazione
declina. Facciamo fine alla digressione, per ritornare al comitato.
Il
concetto, non solo il finale, ma le prime linee dell'avvenire, mancavano in
Italia; le questioni di unità e federazioni pendevano incerte, né sono
ancora risolte: per unità s'intende la francese; per federazione quella
adottata nell'Elvezia o in America. L'opinione prevalente, senza dubbio,
è l'unitaria, ma i fatti danno ragione a' federalisti; nei passati
rivolgimenti, fu impossibile tradurre in atto il concetto: Roma, Firenze,
Genova, Venezia, Palermo furono libere, e ad onta de' sforzi fatti dal partito
unitario, non si unirono. Il modo come operare ne' primi istanti
d'un'insurrezione incertissimo, gli Italiani, vittoriosi in una città, non
sanno come governarsi, non sanno quale sia il prossimo avvenimento che li
attende, di quinci la deificazione de' nomi: insorgiamo, concediamo al tale
tutti i poteri, ed egli penserà al resto. Strana e ruinosa aberrazione
è questa, rinunziasi alla libertà con tanti sacrifizî acquistata,
s'ammorza l'esaltazione; e noi che manchiamo di un prossimo e splendido
passato, epperò manchiamo d'uomini, fondiamo sugli uomini il nostro
avvenire!!!… questi dubbî, questi errori, in luogo di venir rimossi con un
esteso lavoro di propaganda, il comitato nazionale li confermò.
La
propaganda rivoluzionaria in Italia, pel numero de' nemici, per le varie
divisioni politiche, per le sentite e numerose tradizioni municipali, è
lavoro difficoltosissimo, che solo la potente voce della nazione può
compiere. E questa voce solenne viene espressa da ogni italiano, che parla,
scrive, opera come meglio crede, in un campo libero e non già angustiato
o dalle tiranniche esigenze de' governi o delle sette. Dalle discordi voci,
dalle tante idee che si manifestano emerge il concetto collettivo, che unifica
le tante volontà, latente sino all'istante dell'azione, i fatti che si
svolgono lo manifestano. Tanto il federalista, quanto l'unitario che propugnano
le loro dottrine, hanno uguale diritto alla gratitudine della patria, perché
entrambi, in manifestando i pregî ed i difetti de' due sistemi, lumeggiano
l'argomento, ed entrambi sono sotto l'ampio vessillo della rivoluzione che il
comitato avrebbe dovuto inalberare.
Egli,
elevandosi al disopra di tutte le opinioni, avrebbe dovuto essere sua missione
il facilitare cotesta propaganda, che sorge spontanea fra i cittadini, facendo
abilità ad ogni scritto rivoluzionario, senza prediligere una dottrina
piuttosto che un'altra, di circolare nell'interno. Il comitato non avrebbe
dovuto credersi un governo, aggiunto a' tanti altri che opprimono l'Italia, ma
un mezzo come eludere la vigilanza di essi e scrollarne l'autorità; non
crear ceppi ma rompere gli esistenti; non chieder silenzio, ma libertà
di dire, non fare né dire, ma lasciar fare e lasciar dire;
non governare ma rivoluzionare. Il comitato volle imperare;
la sua formula fu tacete e fate; avrebbe dovuto essere: FATE e
dite come meglio credete.
Le città d'Italia, varie d'indole e di tradizione, e variamente
oppresse, non possono astringersi ad unico organamento, né da un sol centro
dipendere, ma solo riceverne aiuto. Il popolo che in varie foggie vede sorgere
i patiboli e cadere le vittime, è solo giudice del come i cittadini
debbano tra loro intendersi ed a quali uomini debbano fidarsi. Il comitato
volle tutto accentrare nelle sue mani, e che tutti muovessero ad un suo cenno.
L'intolleranza,
nelle opinioni, crebbe a tale che il comitato toscano escluse pubblicamente
dalle sue file coloro i quali non erano unitarî, dicendosi abbastanza forte, e
mostrandosi quale fazione dominante in Italia; ingenua confessione della piú
assoluta mancanza d'idee pratiche.
Fu
concetto de' carbonari, ed allora era idea comunemente accetta, liberata
l'Italia, conservare, per un certo tempo, una dittatura educatrice; ora le
opinioni son cangiate, non si fa guerra ai governanti ma al governo, al
principio d'autorità: ed intanto Mazzini, il fondatore della Giovine
Italia, che avea combattuta la dittatura in quell'epoca, se ne fece, al giorno
d'oggi, il propugnatore. Dittatura, dice il Mazzini, che preparerebbe: l'educazione
iniziatrice; con la stampa ordinata ad un fine; con l'associazione pubblica
concentrata ad una sola bandiera; con l'esercizio delle facoltà
elettorali fin dove è possibile ai militi. E non è forse
questo il principio su [cui] fondasi il dispotismo, che non dice: voi dovete
essere schiavi, ma ammette la necessità di ordinare e limitate la
libertà? Non anarchia, continua Mazzini, non tentativo di
sovvertimento delle condizioni sociali, predicazioni inconsiderate di sistemi
stranieri, esclusivi, imperfetti, tirannici. Quindi la censura, la
persecuzione, lo spionaggio per conoscere se alcuno secretamente si facesse
l'apostolo di tali sistemi, erano le conseguenze immediate di coteste massime.
Egli è certo che scrivendo queste parole soggiacque ad un momento
d'aberrazione. E chi sei tu, può rispondergli ogni Italiano, che
pretendi proibirmi di propugnare tali sistemi? D'onde trai il convincimento che
fosse questa la volontà della nazione? se questi sistemi son contrarî al
voto pubblico, essi saranno respinti, io, italiano quanto te, opino
diversamente, e quale altro giudice se non l'universale volontà ed il
fatto, può decidere la nostra contesa? Tu dici che la nazione in ceppi
non può esprimere la sua volontà, ed ammesso questo, come puoi
asserire che il tuo e non già il mio sia il concetto nazionale? E
poniamo caso che l'Italia risorga, che, trascurando la sustanza delle cose ed
attenendosi alle forme, ti conceda assoluti poteri, e col potere la forza, tu
mi costringerai a tacere, ma non perciò avrai ragione, ne avrai tanto
quanto ne ha Bonaparte contro i socialisti di Francia. È vano il dire,
la nazione mi ha concessa la forza: tutti i tiranni possono dirlo, allorché non
reggono in virtú di forze straniere. Furono francesi quelli che compirono il
colpo di Stato, francesi quelli che votarono, e se la Francia non volesse
davvero, potrebbe reggere Bonaparte sul trono? Nel potere a te, o a chiunque
altro concesso, io non vedrei, se questo potere restringe la mia libertà
individuale, che il momentaneo trionfo d'una tirannica fazione. Come adunque
decidere la quistione? Se dal primo istante che in un angolo qualunque della
terra italiana cesserà il presente stato di cose, avremo tutti piena
libertà di dire e nessuno la forza per porre altrui il bavaglio, e la
nazione accetterà le tue e non già le mie idee, allora io ti
darò ragione. Ma finché tal prova non sia fatta, chiunque vorrà
imporre una sua idea, dicendo: «cosí vuole il paese», se ha forza
materiale non è che un tiranno. La tirannide, la semi-tirannide, o
qualsiasi specie di governo, esprimendo sempre la prepotenza di una
parte piú o meno numerosa della Nazione, deve, per sua natura, temere la
manifestazione dell'universale volontà, essendo dessa che l'osteggia e
tenta indefessa di sostituire la sovranità del tutto all'usurpazione
della parte. Ma bandire la sovranità del popolo e limitare la
manifestazione del pensiero, è un chiedere la luce con favorire le
tenebre. Le opere ed i pensieri di una società non possono mai
minacciare l'esistenza di essa società, ma tendono sempre d'assettarla
ne' suoi incastri, e contrastano a tutto ciò che vuole spostarnela e
mantenerla in un equilibrio che non gli è naturale.
Conchiudiamo,
al comitato nazionale è avvenuto quello che ad ogni governo, a cui non
sia tronca affatto la possibilità di usurpare, avviene. Per istinto
invariabile dell'umana natura, gli uomini che lo compongono cercano farsi
centro d'attrazione di quanto succede, e sempre, comecché spesso con rettissimi
fini, pretendono che tutto pieghi alla loro volontà; eglino praticano e
non dicono ciò che il XIV Luigi diceva e praticava: «lo Stato
sono io». Il comitato fece solitudine intorno a sé, allontanandosene tutti
coloro che non volevano abdicare alla ragione e credevano assurdo e ruinoso
errore il rinunziare alla libertà per conquistarla. La stampa che
rappresentava il partito, in luogo di richiamarlo con severa critica sul
diritto sentiero, sacro debito d'Italiano, credette migliore tattica adularlo.
Disconobbe cosí la propria missione, e prese norma da' scrittori ministeriali,
i quali, in luogo di correggere, lodano a cielo gli atti del governo. I pochi
utili atti, che un governo o un centro qualunque può compiere, portano
scritta in fronte la loro apologia; sono innumerevoli i dannosi che la stampa
debba energicamente attaccare. Ogni governo, ogni centro, a cui per
necessità viene concesso un potere superiore a quello che per loro
medesimi avrebbero gli individui che lo compongono, è un'ulcera che
tende a spandersi sulla società se la pubblica opinione non ne arresta
il progresso.
Intanto
se, scorgendo gli Italiani uniti a rovesciare la monarchia, adottarne i
principî, le forme, i costumi, bisognava conchiudere che la rivoluzione non era
compresa; nella guisa stessa, scorgendo come il comitato cessò, perché
successivamente gli vennero meno tutti gli appoggi, se ne inferisce che vi
è stato progresso significante nelle idee. Come il cristianesmo è
sceso nel sepolcro co' panni da filosofo di cui l'han vestito Gioberti e
Rosmini… del pari il comitato nazionale, speriamolo almeno, è stata
l'ultima prova del principio monarchico, che, trasformandosi in mille forme,
mascherandosi con varî nomi, si è spento con quello di comitato
rivoluzionario.
Pongo
fine a questo capitolo consacrandone a Mazzini gli ultimi versi. Ho fatto
tacere ogni simpatia personale, e com'era mio debito, l'ho severamente
giudicato. Ora mi sarà caro il dire, che il suo nome, ad onta della mia
censura, avrà sempre meritate e splendide pagine nella nostra storia.
Niuno, durante l'intera vita, ha operato con fini piú retti, niuno ha rivolto,
con maggior costanza, tutti i pensieri e tutte le opere ad un solo fine, cosí
grandioso come è quello del risorgimento italiano, una tale idea ha
inspirato la sua giovinezza e ne ha assorbito ogni affetto. Nella storia antica
e moderna non si riscontra un uomo che abbia sacrificato tutto l'utile privato
ad un utile pubblico sperato. Cotesto tipo di un uomo, di cui tutti i pensieri
e gli affetti si reassumono indefessi e costanti nell'amore alla patria,
è frutto di terra italiana, è una gloria di piú da aggiungersi
alle tante che noi contiamo.
XVI.
Il comitato italiano cessato, gl'Italiani ondeggiarono nell'incertezza: era un
sistema crollato perché venuto meno il punto d'appoggio. Surse in alcuni l'idea
di ricostituire un nuovo centro, fortuna che non si rinvennero uomini che
avessero raccolti i suffragî universali, altrimenti sarebbesi ricaduti nel
fatale errore per cui tutte le rivoluzioni riescono infruttuose: cangiare gli
uomini ritenendo i principî.
Il
piú grande amatore di libertà, non appena assume il potere, se non
è uomo dappoco, vuole che tutto pieghi alla sua volontà;
epperciò il nuovo centro, come il caduto, avrebbe personificato in se
medesimo la patria, dichiarando ambiziosi e corrotti coloro che si fossero
opposti alle sue mire. Il comitato aveva fatto un gran bene, aveva incarnato il
convincimento negli Italiani, di sperare la loro salvezza dalla cospirazione e
dalle proprie forze; aveva poi prodotto un gran male, quello di dare alle
cospirazioni un carattere passivo, che, invece di operare da sé, aspettavano
sempre e l'imbeccata e gli ordini d'altronde. Per determinare il modo come
governarsi in tale bisogna, è d'uopo esaminare come operano queste forze
latenti che si nascondono nel seno di un popolo, e che in alcuni giorni fatali
si manifestano terribili.
Le
nazioni funzionano come l'individuo, che prima avverte appena, poi con
turbamento, quindi riflette, in ultimo opera. Ma sovente il dolore troppo vivo
precipita l'uomo dal turbamento all'azione senza dargli campo a riflettere,
mentre altre volte, i stimoli essendo leggieri, ne prolungano oltre il bisogno,
la riflessione. Nella guisa medesima, in una nazione ove godesi una certa
libertà di pensiero, ed ove i mali sono leggieri, si svolgono fra un
importuno cicalío molte dottrine; per contro, ove forti sono i dolori ed
interdetto il pensiero, i fatti abbondano e quasi sempre precedono le parole.
Da ciò s'inferisce quanto sia assurdo il voler decidere se una nazione
debba ragionare o combattere; è lo stesso che pretendere di voler
regolare secondo la propria volontà il moto degli elementi.
Le
idee, i ragionamenti, le dottrine politiche-sociali, non sono che lo studio dei
mali che opprimono la società e la ricerca dei modi come lenire questi
mali. Secondo le circostanze e l'ingegno dell'autore, piú o meno inclinato
all'astrazione, le dottrine si allontanano o si avvicinano alla pratica. Vico
dai mali che opprimevano la sua patria fu mosso a cercarvi un rimedio, e non
potendo appigliarsi agli immediati e pratici perché l'epoca glielo avrebbe
interdetto, e la natura del suo ingegno nol comportava, e' si elevò ad
altissime regioni e l'animo suo acchetossi, trovando che una legge e non il
caso reggeva i destini dell'umanità; legge ch'egli la nominò
provvidenza, e determinò [cosí] la periferia di quel circolo su cui le
nazioni dovevano compiere il loro giro. Mentre Vico rivela un fatto che
riconosceranno sempre con maggiore evidenza le future generazioni, vi
sarà altri d'animo rimesso e d'ingegno pedestre, che, stimolato dai
medesimi moventi, dopo lunghi ragionamenti, chiederà il cangiamento d'un
ministro o qualche insignificante concessione, fra questi due estremi trovasi
tutta la diversa gradazione dei scrittori. Or dunque, scrittori le cui idee
potranno giovare alla costituzione sociale non potranno esistere senza mali
sociali. Oltrecché fra placidi affetti e deboli passioni è assai raro
che si formino, in tale materia, grandiose idee ed ardite verità,
l'operosità umana manca di stimoli sufficienti; durante la tempesta, e
non già durante la calma, il pilota manifesta la sua abilità.
Quei scrittori medesimi che ora imprecano contro le insurrezioni, senza le
tempeste del '48 e '49 sarebbero un nulla, sarebbero rimasti ai Prolegomeni di
Gioberti. Epperò, ammettere il facile e lento progresso fra il continuo
prosperare della società, è un pretendere l'effetto senza la
causa.
Come
i mali sociali fanno sorgere i scrittori, i medesimi mali producono le sette,
le congiure, le insurrezioni; la gradazione che scorgesi fra i scrittori, si
osserva eziandio fra i congiuratori stimolati dai medesimi moventi: havvi
congiura per conquistare una patria libera, l'altra per l'abolizione di una
tassa. Cosí procedono le nazioni col pensiero e con le opere, e siccome l'uomo
compie i piú grandi fatti quando esegue energicamente ciò che
maturamente ha pensato, cosí le nazioni sono mature, toccano quasi la meta alla
quale aspirano, allorché i scrittori ed i congiuratori tendono al medesimo
fine. Quale è in questo svolgersi delle umane vicende l'opera ed il
dovere del rivoluzionario? Con la penna trattare tutte le quistioni che
conducono al fine bramato; con la congiura far cospirare l'azione al medesimo
fine; e cercare di legare strettamente il pensiero e l'azione. Dire fucili e
non libri è un errore, come il dire libri e non fucili.
Abbiamo già detto come una sequela non interrotta di
fatti, dal '14 al giorno d'oggi, sono le varie esperienze attraverso le quali
ha proceduto il popolo italiano. Da queste esperienze, e non già dai
libri, risulta la coscienza nazionale. Ma questa coscienza ove si manifesta,
nei scrittori o nei congiuratori? indubbiamente nei secondi. Cotesta coscienza,
cotesto sentimento è vago nella generalità, in pochissimi
è reciso, esso per conseguenza è soggetto a vacillare sotto
l'impressione dei fatti; gli avvenimenti che si succedono, mostrano l'avvenire
sotto tanti diversi aspetti sempre erronei; come i gruppi dei monti, i quali
sembrano cangiare la loro dispositura al cangiare del sito dell'osservatore;
quindi quel mutare continuo delle opinioni. Una nota diplomatica, le parole di
un ministro, la morte di un principe possono dar cagione ad una quantità
di opuscoli; sono essi l'espressione della coscienza nazionale? No. Ma mutano
la coscienza nazionale piú o meno modificata da tale avvenimento, secondo la
gagliardia d'animo di chi scrive. La cospirazione per contro non prende le
mosse da tali avvenimenti, ma molto piú da lungi, le sue aspirazioni e le sue
forze non le cerca in ciò che mostrasi sulla società, ma in quei
sentimenti, in quelle aspirazioni occulte non solo, ma osteggiate; inoltre la
congiura richiede fermezza di proposito e gagliardia d'animo piú dello
scrivere, quindi tutte le circostanze concorrono a mantenere salda cotesta
coscienza nazionale piú nel cospiratore che nell'autore, epperò le
aspirazioni di quello sono prove piú evidenti che le ragioni di questo.
Quanti
libri, discordi fra loro, sonosi stampati in Italia dal '49 al giorno d'oggi?
Chi vuole l'Italia una; chi il regno boreale; chi due Italie; chi spera tutto
dalla Francia; chi tutto dal Piemonte; quale sarebbe adunque la coscienza
nazionale? impossibile a dirlo. Ma osservate le cospirazioni, le congiure, i
martiri tutti indistintamente, ed in tutte le epoche hanno accennato al
medesimo scopo: Italia una e libera; e quindi è forza
inferirne che, ad onta dei colpi di Stato, dei protocolli, dei memorandum, la
coscienza nazionale è rimasta salda. Sarebbe stoltezza attribuire al
solo Mazzini, ispiratore della maggior parte di questi tentativi, tale fermezza
di proposito. Mazzini non avrebbe potuto trovare mai tante braccia pronte ai
suoi voleri; egli, cessato il comitato, ritornò ad esser semplice
cittadino, e, come tale, fece molto piú bene di quello che non aveva fatto come
membro del comitato; la sua operosità, la sua fortuna, il suo credito
personale fu messo al servizio di coloro che volevano tentare di salvare la
patria; forse avrebbe potuto accettare con piú riserva, o rifiutare certi
progetti che non promettevano riuscita, ma da questo picciolissimo torto
all'accusa stolta di mandare la gente al macello havvi un abisso. Egli avrebbe
dovuto, a parer mio, scegliere una sola regione d'Italia, ed evidentemente il
mezzogiorno, e su quella accentrare tutti i mezzi di cui disponeva. Invece
preferí farsi centro universale a cui ricorrevano tutti coloro che volevano
trarre in atto un pensiero generoso, cosí governandosi, forse, avrà
ritardato una rivoluzione; e se avesse negato agli operosi i suoi soccorsi,
cosa non facile per chi sente sviscerato amore di patria, avrebbe risparmiato
qualche vittima, ma non perciò il bene che egli ha fatto può
disconoscersi.
Poniamo
il caso che non fosse esistito il comitato nazionale, né le sue vicende, né
Mazzini, o altri come lui che avesse continuamente fomentato le cospirazioni e
le congiure; e che in Italia, secondo avrebbero voluto i dottrinanti, niuno
avesse pensato a muovere, chi parlerebbe d'Italia? Forse l'Austria, rassicurata
dello spirito pacifico delle sue popolazioni, avrebbe imposto al Piemonte delle
restrizioni alle sue libertà; ed il Piemonte stesso, in una
tranquillità generale, non avrebbe inteso il bisogno di mostrarsi ostile
all'Austria. Su che si fondavano le ragioni addotte al congresso di Parigi, per
chiedere riforme? sugli articoli di giornali e sui libri stampati in Italia, o
sulle vittime, sui condannati, sui processi continui, che sono poi l'effetto
delle congiure, di quella resistenza organizzata in Italia? Ed a quale partito
è dovuta la presente agitazione in Inghilterra in favore d'Italia? Ai
dottrinanti o ai congiuratori? Ripetiamolo, sono i fatti e non le dottrine che
manifestano la vita della nazione.
Una
nazione, ripeteranno i dottrinanti, che insorge senza un concetto politico
reciso, ricade nella schiavitú. D'accordo in questo. Ma questo concetto
politico non si forma né diventa popolare coi libri, ma coi fatti; i
rivolgimenti del '48 falliti sono quelli che hanno convinto gli Italiani di non
aver fede nei principi, perché casta la quale ha degl'interessi affatto
staccati dal popolo; e, come nel '48 coloro i quali dimostravano questa
verità non erano ascoltati, anzi maledetti, cosí in un nuovo
rivolgimento rimarranno delusi coloro che vorrebbero rifare il '48. Il popolo
progredisce nelle sue idee, ma i soli fatti lo balzano da un concetto in un
altro.
Se
dai libri dipendesse il progresso di una nazione, i scrittori sarebbero gli
arbitri delle sorti dell'umanità. Invece sono gli uomini d'azione che
imperano; e tutti gli usurpatori, da Cesare a Bonaparte, han sempre trovato un
grandissimo appoggio nella coscienza nazionale, di cui quasi potevano dirsi i
rappresentanti secondo i mezzi piú o meno violenti, piú o meno obliqui con cui
hanno raggiunto il fine.
Quale
scrittore in buona fede può affermare che la plebe, che non sa leggere,
educasi coi libri? Non parliamo di coloro che sotto il dispotismo pretendono
che il popolo si educhi a libertà per poi esserne degno, che vale il
dire ad un uomo legato: prima di scioglierti è d'uopo che impari a
correre; o altri che, vedendo un popolo corrotto, pretendono renderlo morale,
non già sbarbicando ogni germe di corruzione, ma proponendo un
reggimento fondato precisamente su di un sistema corruttore; ma di quelli i
quali credono possibile, a furia di scritti, spandere le idee rivoluzionarie.
La
plebe non è dorata di quelle eroiche qualità che alcuni gli
attribuiscono, la plebe sovente, traviata dai pregiudizî, ed angustiata la
mente dall'ignoranza, ondeggia fra la temerità e l'abbiettezza.
Stimolata dai materiali bisogni, la loro mente non può elevarsi a
pensieri sublimi, ma se tra loro uno giunge ad appuntare l'intelletto sulle
quistioni politiche che agitano il paese, quasi per istinto ragiona con
maggiore esattezza che il migliore fra i scrittori; imperocché tutte le
impressioni che il mondo ufficiale, che l'ordinamento sociale produce
sulle altre classi della società, non han presa, non hanno ascendente
sull'uomo del popolo; egli non è stimolato che da' mali, quindi,
svincolato da tutti quei legami che lo incatenano allo stato presente delle
cose; oggi non vede che male; ragionando, riconosce senza fatica dove è
il bene. Ma coloro i quali non sentono il bisogno di migliorare, ed anzi temono
che una scossa improvvisa li balzi fuori da quella nicchia ove godono, se non
altro, l'inerzia, amano ragionare dell'avvenire, ma vorrebbero placidamente
raggiungerlo, non rischiare per esso se non altro il placido presente; di
quinci l'innumerevole schiera dei conservatori, degli eroi da poltrona flagellati
dal Giusti.
Tutti
gli sforzi che vuol sospingere un popolo al risorgimento debbono consistere a
svolgere e rendere popolati le idee, adattandole alla loro intelligenza e
traendone quelle conseguenze che debbono condurre ad un utile materiale
immediato, onde siano sempre fomite maggiore alle passioni che debbono,
essenzialmente, esistere nel popolo. Il rivoluzionario dev'essere apostolo e
cospiratore.
«La
passione, - scrive Beccaria, - è un'impressione sempre costante della
sensibilità nostra, tutta rivolta ad un medesimo oggetto; essa è
un desiderio di ottenere o di fuggire qualche cosa che sempre si riproduce, ed
è sempre riprodotta nella nostra mente quasi ad ogni circostanza».
Quindi perché un desiderio si trasformi in passione, fa d'uopo che vi sia
mancanza e percezione della cosa desiderata, il che troveremo verificarsi nel
minuto popolo, se ci facciamo a riflettere sul suo stato. La mancanza è
la miseria in cui esso geme, una vita piú agiata è la cosa desiderata e
percepita; e siccome la mancanza del necessario è continua, continuo
eziandio è il dolore ed il desiderio del benessere venendo perciò
riprodotto ad ogni istante di sua vita; le passioni esistono e non resta che
giovarsene eccitandole e dirigendole ad un giusto fine. L'impossibilità
di conquistare il desiderato benessere le ammorza, la mancanza d'un obbietto
determinato le svia dal diritto sentiero, e perciò [quelli de] il
popolo, o adagiandosi ne' difetti si rassegnano, oppure con la forza e con la
frode tentano rapire ad altri quello che essi agognano e corrono cercando
l'agiatezza, dall'ignoranza sospinti, al patibolo. Scuotiamo adunque gli
addormentati ed ai sviati mostriamo il cammino. Se il despotismo promettegli
come premio di loro rassegnazione beni celesti, il rivoluzionario, con la spada
della vendetta e la bilancia della giustizia, dovrà promettergli beni
terreni ed immediati, additandogli il modo come conquistarli. Esploriamo ogni
sua piaga, richiamiamo su di essa la sua attenzione, ed additiamo un solo mezzo
come rimedio, la conquista della patria, ma non già di un pomposo nome e
di vani diritti, ma la conquista del suolo della nazione e di quanti prodotti
vi esistono. Ognuno diventi un Socrate, in piazza, ne' trivii, al deschetto del
ciabattino, al pancone del falegname, si faccia ad interrogare quelle rozze
menti, e le conduca passo per passo alla scoverta della verità. Io sono
simile a mia madre, diceva Socrate, figlio di una levatrice, non creo nulla, ma
aiuto gli altri a produrre. È questo il solo mezzo di rischiarare, in
parte, la mente del popolo, di educarlo, e non già tenendolo a forza
nelle scuole, o stampando libri che esso non legge. E questo mezzo medesimo di
propaganda volgare, ed adatto alla sua intelligenza, e che trae argomento dai
suoi piú pressanti bisogni, neppur è bastante a conseguire lo scopo
desiderato.
La
plebe non si lascia convincere che da' fatti, ma la propaganda di cui
discorremmo elabora, fra un numero significante di giovani, la conoscenza de'
diritti che ad ogni uomo accorda la Natura; e cotesti giovani, appena il
popolo, sotto la sferza del dolore, si precipita nel moto, e dubbioso non sa
ove dirigere gli attacchi e come colorire i desiderî, facendosi tutti oratori
di circostanza dureranno pochissima fatica a far loro comprendere quello che in
un secolo di calma ed in mille volumi non avrebbero mai appreso da' dottrinarî.
Non già la profonda dottrina richiedesi in cotesti oratori, ma forza di
carattere che non li faccia retrocedere in faccia alle conseguenze ignote de'
principî da essi propugnati; guai se essi si accostano alla spregevole schiera
de' cosiddetti moderati, che si atteggiano da rivoluzionarî, da riformatori, da
amici de' popoli, perché si fanno a sostenere alcune franchigie che servono a
riempire le loro casse e soddisfare la loro bassa e puerile vanità. Il
rivoluzionario di buona fede sospinge lo sguardo sulle moltitudini, e non mira
che al trionfo della vera democrazia, discendere alla benché minima transazione
è un rinnegare la rivoluzione; come la minuta polve che il turbo
solleva, o poggiasi sulla corona de' re e sulle eccelse torri, oppure ricade
sotto i piedi de' passanti, cosí il minuto popolo o acquista pieni ed interi i
suoi diritti, o ritorna turba di vilissimi servi derisi con pomposi nomi.
Quando non mirasi al trionfo d'una setta o di una classe di cittadini, il mezzo
termine, qualunque caso sia, tronca i nervi della rivoluzione e l'uccide.
Finalmente
a' spiriti rimessi e timidi, a cui è spavento l'assoluta libertà,
e chiedono programmi e norme, risponderemo che il programma già esiste.
Siete voi rivoluzionari? mirate al trionfo della vera democrazia? in tal caso
per voi non può esservene altro che gli aforismi di cui ragionammo nel
terzo capitolo. Se pretendete limitarne, nella benché minima parte, il
significato, cesserete d'essere rivoluzionarî, non sarete che opportunisti o
faziosi.
XVII.
Fatto studio sul modo come la nazione elabora le idee ed opera onde prorompere
all'azione, è mestieri segnarne, supposto iniziato il moto, le prime
orme. I principî da cui bisogna prender norma, son que' medesimi accettati da'
rivoluzionarî, quindi ognuno altro non dovrà fare che mostrarsi
consentaneo a se medesimo, e respingere qualunque misura, comunque temporanea,
che li leda nella benché minima parte. Da tale base prenderemo le mosse, e ci
faremo a distendere un tale argomento.
La
piú importante quistione a risolversi, è il determinare il potere che
dovrà reggere quella parte d'Italia che prima sarà sgombera da'
nemici, e quindi man mano l'Italia tutta sino al termine della guerra.
La
sovranità del popolo, che tutti bandiscono, a cui tutti aspirano,
è, nel governo, la sostituzione del concetto collettivo all'individuale.
Il concetto collettivo emerge dallo stato di progresso della nazione,
costituito da' svariatissimi rapporti sociali. Chi parlasse di libertà a
gente che avesse servo il cuore, non sarebbe compreso, i suoi sforzi
tornerebbero vani; come a gente di spiriti liberi farebbe schifo il linguaggio
di uno schiavo. Il concetto della nazione è fatale, esso è
il solo giusto ed il solo possibile, esso sarà
indubitamente, l'arbitro delle nostre sorti, lasciamo adunque che si manifesti
liberamente; il pretendere di mutarlo è vano. Diremo solo che un popolo,
il quale per esser libero vuol esser dominato, o erra o non è degno di
libertà, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso non sarà mai
libero, e piú che ogni altro popolo l'italiano, perché maggiori ostacoli si
frappongono al suo risorgimento, e per superarli gli fa d'uopo libertà
maggiore.
La
dittatura deve esser potente, se non è tale non è dittatura.
Essendo scopo di un tal maestrato il far prevalere la propria volontà a
quella dell'intera nazione, bisogna che i capi dell'esercito e tutti i pubblici
funzionarî siano di sua scelta; gli è mestieri d'una polizia onde spiare
i passi ed i pensieri de' cospiratori, de' ribelli, immancabili, perocché essi
sono alla dittatura come l'ombra ai corpi; e dovendo rivolgere in suo favore
l'opinione pubblica, deve, per conseguenza, spiare i pensieri di ognuno; ed
infine dovrà possedere a sua tutela una potente forza materiale. Un tale
governo sarà divenuto ancora piú solido per le ottenute vittorie; e
quando l'epoca della sua missione sarà compita, chi potrà
imporgli di cedere il posto alla costituente? e cosí la libertà
conquistata a prezzo di tante vittime, di tanti sacrifizî, sarà in balía
di uno o piú individui, dalla cui buona fede dipenderà la sorte della
nazione.
Ma
chi ignora quanto sia facile che nella mente de' dittatori sorga l'idea che
essi siano necessari all'Italia, che abbiano una missione da compiere? Se tale
idea diventa sentimento, eglino trucideranno e si lasceranno
trucidare prima di abbandonare il seggio dittatoriale. L'amore stesso del
paese, e la natura umana generano un tal sentimento, ognuno credendo le proprie
idee le migliori, crederà fare il bene della patria costringendola ad
accettarle. Chiunque è al potere (esclusi que' tiranni che per salvezza
personale cercano tutto colpire perché di tutto temono) crede, in ogni suo
atto, fare cosa utile o almeno necessaria al paese. Nel 1494 i fiorentini
cacciarono i principi, e per porre rimedio a' tanti mali da cui erano gravati,
confidarono pieni poteri a coloro che credevano atti a governarli, ma ad onta
del continuo cangiar di governanti e di scegliere coloro i quali con maggior
veemenza declamavano contro cotesti mali, andarono sempre da male in peggio, di
quinci l'adagio italiano: costoro hanno un'anima in piazza ed un'altra in
palazzo. E pure, il torto non era di coloro che erano assunti al potere, un
uomo non può cangiare mai totalmente i rapporti stabiliti dal lungo
lavoro de' secoli, solo una rivoluzione può farlo: i Fiorentini avevano
nelle loro mani il modo di sciogliere il problema, dichiarandosi e rendendosi
di fatto liberi ed uguali, la nazione poteva solo far ciò e non
mai un individuo; i mali scaturivano da un sol fatto, pochi straordinariamente
ricchi, moltissimi mendichi, né vi erano governanti che avrebbero potuto far
sparire tale mostruosità.
Ogni
cittadino ha il diritto di proporre leggi e riforme, ma chiunque - abbiate fede
in me, affidatemi il potere, ed io vi renderò liberi e felici -, costui
non merita neanche di essere ascoltato. Libertà ed uguaglianza sono
i cardini su cui deve poggiare l'umana felicità, tutte le leggi che
favoriscono questi principî ottime, quelle che tendono a limitarle pessime; la
fede negli individui spalanca alla nazione l'abisso, imperocché la fede senza
convincimento turba l'uguaglianza.
«L'autorità libera nel potere, limitata nel tempo, -
scrive il Machiavelli, - è pericolosissima, perocché nell'uomo nasce
brama di perpetuarla, né gli mancano i mezzi; ma questi non essendo dati dalla
legge a quel fine al quale egli l'indirizza, debbono per necessità diventar
tirannici». Ammettiamo che in Italia vi siano uomini di una tempera diversa che
tutti gli altri, e che, debellati i nemici, educati tutti noi a libertà,
eglino ritornino, all'epoca stabilita, a confondersi nelle file del popolo;
l'orditura del loro governo, l'incastellamento del governo dittatoriale, il
principio che l'informa, l'ubbidienza; gli interessi creati da questo governo,
non potranno certamente sparire; quindi vi sarà sempre la dittatura.
Cangeranno i nomi, le forme, ma non già la sustanza delle cose. Il
popolo continuerà ad ubbidire, i pubblici funzionarî a comandare, lo
spirito della nazione sarà monarchico, ed ogni governo che gli
succederà, eziandio non volendo comandare (e chi non vuole!),
comanderà come quelli comandavano. Delle due cose l'una, o la dittatura
non giungerà a comprimere ed aggiogare gli spiriti nazionali ed in tal
caso riesce inutile, o vi riescirà, ed allora, per rilevarli, fa d'uopo
d'una seconda rivoluzione. Dopo lunghissimi anni di sforzi, di sangue sparso,
di patimenti dorati onde esaltare lo spirito nazionale, noi medesimi, mentre ci
affatichiamo a ciò, andiamo in traccia del mezzo come comprimerlo. Oh
nullità dell'umana ragione!… Terminata la guerra sotto il reggimento
dittatoriale, ci troveremmo una monarchia senza re, ed i re facilmente si
trovano. Guai quando non si confermano da' primi momenti le conquiste del
popolo!
Fino
ad ora abbiamo ragionato, ed abbiamo ammessa possibile la dittatura civile ma
essa non può distinguersi dalla militare. Le forze armate della nazione
saranno, oppur no, sotto la sua immediata giurisdizione? Se vi saranno la
dittatura sarà militare di fatto; se non vi saranno non esisterà
dittatura. Ma ammettiamo eziandio cotesta anomalía, vi sarà dittatura di
uomini non militari. La loro sorte è irrevocabilmente decisa, eglino
verranno cacciati di seggio col piatto della sciabola dal vincitore delle prime
battaglie. Quei giovanotti medesimi, che ora parteggiano da fanatici per la
dittatura, allora saranno gl'istrumenti che la cangeranno. La gloria militare
ecclissa qualunque altra, rapisce l'animo de' guerrieri in favore di colui, dal
cui braccio, dalla cui mente riconoscono l'inebbriante piacere della vittoria,
quindi il generale disporrà de' soldati. Intanto, questo generale che
periglia in campo, e credesi giustamente lo strumento di salvezza di sua
patria, con riluttanza riceverà ordini da un governo civile; egli
crederà, e non a torto, che durante la guerra da cui la nazione spera
salute, sia piú giusto, piú logico, piú utile, che un guerriero abbia questo
assoluto potere, e non mancherà di ghermirlo, eziandio con la forza. Non
senza ragione i principi cercano fra i piú fidi servitori i capi dell'esercito,
si circondano di prestigio, si incalzano col diritto divino, si dichiarano
guerrieri essi medesimi, eziandio senza esserlo.
I
convenzionali francesi, uomini al certo di somma energia, caddero
inesorabilmente sotto la spada di Napoleone; vissero otto anni, e vissero a
prezzo di moltissimo sangue, imperocché, richiedendo la Francia quattordici
eserciti, potettero contrapporre gli uni agli altri i varî generali; ma non
appena la riputazione di uno elevossi su gli altri, quest'uno ghermí il potere.
In Italia richiedesi un solo esercito, epperò dopo la prima battaglia
vinta, il generale non avrà rivali. Nel '
Risuona
nella bocca di molti il nome di Washington quale argomento che dimostri
l'utilità della dittatura, la possibilità d'evitarne i perigli,
ma un tal fatto, che verrebbe a rincalzare le nostre asserzioni imperocché
sarebbe stata una dittatura militare, non ha mai esistito, e chi il crede
ignora affatto quell'interessante storia. Le leggi, le istituzioni da cui
venivano rette le colonie inglesi in America, erano liberissime, quasi come lo
sono al presente, eziandio prima della guerra. In ogni Stato i pubblici
funzionarî erano eletti dal popolo, le leggi, le tasse, decretate dalle
assemblee, liberissima la stampa, garentita la libertà individuale.
Scacciati i governatori che dall'Inghilterra venivano inviati in ogni Stato, le
colonie furono di fatto liberissime senza aver bisogno di mutare la
costituzione, o di far nuove leggi. Un congresso assunse il potere supremo, non
di far leggi, non di educare, non di limitare i diritti
de' cittadini, ma incaricato solo di riunire i sforzi dei vari Stati,
richiedendo ad ognuno uomini e danaro per osteggiare il nemico comune.
Ogni
Stato, con riprovevole costume ebbe le sue milizie; eravi poi un esercito
comune a tutti, e qualche volta due, dipendenti dal congresso: di questi due
eserciti, un solo, il maggiore, fu capitanato da Washington, ma egli non ebbe
mai ingerenza alcuna nelle faccende civili, ed il suo potere, come semplice
generale, fu inferiore a quello che concedesi comunemente ai condottieri di
eserciti, la sua opinione, eziandio ne' disegni di guerra, doveva sottostare a
quella della maggioranza de' generali.
In
un momento assai difficile il congresso gli conferí sei mesi di dittatura, ma
il suo potere in altro non consisteva che eseguire gli arrolamenti, provvedere
l'esercito nel modo il piú spedito possibile, e senza dirigersi al congresso,
scorsi i sei mesi, i suoi poteri furono di nuovo limitati. Solamente la sua
opinione ne' disegni di guerra fu dichiarata prevalente, e cosí corressero un
grave errore. Washington non fu mai dittatore nel vero senso in cui
s'interpreta questa parola. Egli, per carpire in America un potere
dittatoriale, non bastava che si fosse sostituito al congresso, ma sarebbe
stato costretto a debellare ad uno ad uno i diversi Stati e cangiarne le
istituzioni. Washington salvò l'America, non già per gli estesi
poteri a lui accordati, ma pel suo gran carattere mostrato come generale. Egli
(concedasi a un tale eroe una breve digressione) rimase saldo durante le
avversità e le difficili congiunture in cui mettevalo la dissoluzione
del suo esercito. Egli fu gran generale, e la sua condotta, forse, fu superiore
a quella di Fabio Massimo. Questi ebbe forze sempre superiori al nemico, e comandava
a' Romani, per indole e tradizioni guerrieri per eccellenza; quello
comandò esercito sempre minore del nemico, e composto di gente
raccogliticcia a cui mancavano tradizioni ed abitudini militari. Fabio non
impedí le scorrerie del nemico, Washington, senza combattere, interdisse tutte
le operazioni agli Inglesi, ed in ultimo, ghermita l'occasione, e col semplice
soccorso della flotta francese, distrusse un esercito nemico e pose fine alla
guerra.
La
Svizzera, le Fiandre, l'America, la Francia, la Grecia han compiuto memorabili
rivoluzioni; martiri, eroi, battaglie, combattimenti, ostinate difese di
città, nobili sacrifizî, nulla ad esse è mancato, e le gesta
delle due ultime nazioni sono, è cosa innegabile, piú brillanti, gli
eroi piú sublimi, e maggiore lo sviluppo delle passioni; nondimeno Grecia e
Francia sono schiave, le altre libere, d'onde questa differenza? Le prime non
dovettero fare altro che rovesciare il giogo che interdiceva lo sviluppo delle
loro libere istituzioni comunali, non concessero mai ad alcuno il potere di
comandare a bacchetta, e nol potevano concedere senza ledere le libere leggi
che si trovavano in vigore, e perciò il dispotismo non trovò
terreno da gittar le sue radici. Per contro, tutte le nuove costituzioni
francesi, non hanno distrutta ma riformata l'antica, la quale è pura
emanazione della tirannide, e corrivi i francesi, perché d'indole servili, a
concedere estesi poteri, a crearsi le pouvoir fort, com'essi dicono, ad
onta delle goffe e stolide complicazioni aggiunte alla macchina governativa per
garantirsi, essi sono stati sempre schiavi, sempre tiranneggiati, prima della
rivoluzione, durante la rivoluzione, e dopo la rivoluzione. La Grecia ebbe
tutto a creare, ed in luogo di abbandonarsi liberamente alle proprie
ispirazioni, prese norma da' Stati che si dicevano civilizzati, ritornò
serva. In Italia, le istituzioni in vigore sono tali, tali le abitudini de'
pubblici funzionarî, i quali si credono i padroni non già i servitori
del popolo, che se concederemo dieci gradi di potere ad un governo, esso,
indubitatamente, n'usurperà altri dieci. Guai a noi, se ci faremo a
ritoccare e correggere l'antica legislazione, a conservare le vecchie basi, la
vecchia orditura, noi non sortiremo dalla schiavitú, ma stringeremo,
complicheremo le nostre catene. Gl'Italiani debbono spianare affatto il vecchio
edifizio, e lasciare che i rapporti fra i cittadini ne' Comuni, e quelli de'
Comuni fra loro, vadano creandosi da sé, non assegnando loro altra norma che
leggi di natura ed il triste passato. La Nazione essa medesima prenderà
l'equilibrio sul suo vero centro di gravità. Per condurre la guerra
basta un centro, come diremo, ove, facendo capo i mezzi che la nazione
vorrà impiegarvi, verranno diretti contro il nemico.
Nell'antica
Roma il potere dittatoriale non poneva in nessun rischio la libertà: il
paese era già costituito, le leggi quali si convenivano ad un popolo
libero; e queste leggi tacevano pel breve tempo che durava la dittatura, quindi
riprendevano vigore. Eravi, inoltre, un potente patriziato, quasi tutti
già generali di eserciti, guarentigia bastante contro ogni usurpazione.
Né la dittatura doveva dar leggi o educare un popolo, essa era dittatura
militare e non civile, e fu creata dai patrizî onde contrapporla al potere
tribunizio. Propugnare in Italia una dittatura educatrice, ed educatrice
a libertà, è tale enigma, è tale frase che altro non
racchiude che una manifesta contraddizione.
Dimostrato
come la dittatura altro non sia che una contraddizione con se medesimo per un
popolo che aspiri a libertà, come sia impotente a produrre il bene, e
scaturigine d'ogni male; come nasconda in se medesima grandissimi perigli, ora
ci faremo a dimostrarla impotente affatto a dirigere la guerra.
L'Italia
potrà vincere solo a patto, il dice Mazzini, che la lotta sia lotta
di giganti; abbiamo adunque bisogno di capi, i quali suppliscano con
l'ingegno e con l'energia al difetto del materiale, alla propria inesperienza
ed a quella delle soldatesche: di capi, i quali non si credono impacciati, ma
sanno giovarsi delle passioni che bollono nel popolo. Tali capi, ora che
rivoluzione non v'è, non esistono, ma non mancheranno certamente fra i
venticinque milioni d'Italiani. Quale stoltezza cercarli prima? I generali son
figli, non padri della rivoluzione. Ma come sperare che sorgessero cotesti
eroi, coteste folgori, se la dittatura verrà ben tosto a calmare la
tempesta, ad ammorzare col suo soffio tiepido le passioni? Gli eroi non escono
né da' guardinfanti delle corti né dalla camera d'un dittatore, ma dal fermento
delle passioni popolari. Se tutto dovrà piegarsi al volere d'un uomo, le
forti passioni sono impossibili, ed impossibili, per conseguenza, gli eroi.
Oltrecché,
i dittatori che verranno sostituiti alla nazione, come conosceranno le numerose
capacità che l'Italia nasconde dalle Alpi al Lilibeo? La loro scelta
dovrà raggirarsi fra l'angusto campo de' loro aderenti, e tra questi,
non già ai piú capaci, verranno affidate le sorti della nazione, e
perché, non essendo militari, non potranno essere giudici competenti, e perché
la preferenza verrà naturalmente accordata a colui che sia piú amico,
piú simpatico, per docilità e per dottrina, coi dittatori.
Infine
cotesti dittatori civili preferiscono, quasi sempre, generali stranieri a' nazionali,
imperocché temono il credito di questi, e piú facilmente conservano il
predominio su quelli, e cosí decretano la ruina e la vergogna della nazione; ed
atterriti dalla popolarità che acquista un generale, son riluttanti a
menare di forza la guerra, e se scorgono una probabilità di terminarla,
senza piú, eziandio con danno della causa, transigono. Finalmente è
mestieri riflettere, comunque voglia supporsi perfetto un tale governo, che, in
caso de' rovesci, il governo non essendo fondato su de' principî, ma sul
carattere e l'opinione degli uomini presso cui trovasi il maestrato supremo, si
ricorrerà al volgare e puerile mezzo, quale è quello di
cangiarli, e quindi un sol disastro, probabilissimo in simile lotta,
basterà per sostituire al potere uomini d'altra gradazione di colore,
che daranno alla rivoluzione un nuovo indirizzo politico, e da tale continuo
ondeggiamento verrà strozzata. La dittatura in Italia, come in Europa,
ha fatto le sue prove, il governo provvisorio di Milano, quello di Venezia, di
Firenze, di Roma, di Sicilia… potevano decretare tasse, provvisioni militari,
far la pace o la guerra, creare cariche, e ne crearono infinite, furono insomma
poteri dittatoriali. Che cosa avvenne? Lo stato delle cose rimase
ove la nazione l'avea condotto nel primo periodo del suo rivolgimento,
la rivoluzione non avanzò d'un passo, anzi, come è natura d'ogni
potere, ne repressero gli slanci, senza accrescerne le forze. Se con la
dittatura siamo stati mai sempre vinti, perché non provare la libertà?
Faremo fine a questo ragionamento con
affermare, come cosa per se medesima evidente che, se la dittatura fosse
necessaria all'Italia, in tal caso bisognerebbe disperare affatto del nostro
risorgimento, la dittatura in Italia è impossibile: sarebbe il frangente
della rivoluzione, renderebbe inattuabile l'unità degli sforzi. Il fato
che ha decretato per l'Italia la schiavitú o l'assoluta libertà, con la
grandezza che l'accompagna, ha reso impossibile la dittatura. Come supporre che
tutta l'Italia s'inchinasse al potere assoluto surto dalle barricate di una
città? Palermo, Napoli, Milano riderebbero degli ordini che si
emanassero da Roma. Questa dittatura non solo dovrebbe combattere i stranieri,
ma per unificare l'Italia dovrebbe conquistare i varî Stati e tenerli soggetti,
fare in un mese assai piú di quello che non fece l'antica Roma in sei secoli.
Quale erroneo giudizio dell'indole del paese!
Dimostrata
l'assurdità di tale concetto, e come in esso, senza vantaggio veruno, si
riscontrano tutti gli inconvenienti e tutti i rischi della tirannide, e come le
tradizioni e l'indole del paese siano con esso riluttanti, ora verremo a
discorrere di quello che bisogna sostituirvi. Lo stato presente d'Italia, il
fine a cui tendiamo, i sacri principî che emergono dalle leggi di natura,
determinano recisamente la forma e le attribuzioni del potere che dovrà
amministrare gl'interessi della nazione durante la lotta.
Le
diverse condizioni in cui trovansi i diversi Stati non solo, ma le diverse
città d'Italia, rendono quasi impossibile un insorgere simultaneo; ed
eziandio che per una favorevole circostanza ciò avvenisse, non in un
tratto, ma successivamente ne verrebbe sgombero il suolo da' nemici. Quindi
è forza che non già l'Italia tutta, ma una parte di essa,
dovrà prima che le altre inalberare la bandiera comune, e nominare un
maestrato, non municipale, ma italiano. Questi Italiani, primi ad esser liberi,
che dovranno al caso o alle loro speciali circostanze l'iniziativa, non
potranno certamente pretendere che la nazione intera confermi o si sottometta
al potere da essi eletto, tale pretesa non solo sarebbe tirannica ma vana; si
vedrebbero sorgere tanti altri governi per quante sono le diverse provincie, o
almeno i diversi Stati in cui ora è divisa. Il maestrato che
dovrà amministrare l'Italia, deve assolutamente procedere per
addentellati, facendo cosí abilità ad ogni parte di essa, fatta libera,
d'unirsi alle provincie iniziatrici del moto, non già sottomettendosi,
ma trovando pronto il proprio incastro, onde comporre un sol tutto. Quindi
altro non potrà essere che una convenzione o congresso nazionale, eletto
con suffragio universale, il quale verrà completandosi a misura che la
rivoluzione proceda. Restaci ora a determinare le attribuzioni di questo
congresso.
Se
ci faremo a considerarlo con quelle idee, che oggi si hanno in Europa, del
governo parlamentare, ognuno ne troverà, nel fondo della propria
coscienza, la condanna. Garrule, lente, tumultuanti, snervate, riescono coteste
congreghe, ed esse o cagionano la ruina del paese o si restringono in una
dittatura, essendo cosa impossibile ottenere l'unità de' fatti in tanta
disparità di pareri. Ma ciò non è difetto di queste
adunanze, ma bensí errore de' popoli che le concedono poteri e ne richieggono
opere con la loro natura riluttanti. Un tal congresso deve essere non
imitazione della convenzione francese, ma tutt'altro; avvicinarsi piuttosto al
congresso americano, a quello delle Fiandre, al greco, cercando la maggiore
unità ed energia di sforzi non già in esso, ma nell'ordinamento
delle altre parti dello Stato. Prima d'ogni altro, non bisogna mai perdere di
vista il principio che un popolo, per esser libero, bisogna che fin dal primo
istante spezzi le sue catene ed assicuri la libertà.
La
sovranità per legge di natura è inalienabile, né havvi
circostanza che possa giustificare la violazione di questa legge; concederla ad
altri è un suicidarsi; il suicidio consumato, è vana speranza il
pretendere di ritornare in vita; quindi ogni membro di questo congresso
è sempre revocabile da' suoi elettori, e la istessa durata del congresso
non può prestabilirsi, dovendo dipendere dalla libera volontà
della nazione.
Il
suo mandato è quello di mandare ad effetto il concetto collettivo della
nazione, concetto chiaro ed innegabile, il quale comprende in se' la
rivoluzione, né ammette restrizione di sorta alcuna: guerra allo straniero,
qualunque lingua esso parli, finché non sia fuori d'Italia; guerra a tutto
ciò che inceppi l'assoluta libertà. Questo concetto è
il despota, il dittatore degli Italiani, se eglino trasgrediranno i suoi
assoluti ed imperiosi comandi, la pena sarà certa e terribile: schiavitú
e miseria. I limiti poi ne' quali dovrà operare cotesto congresso, o
convenzione nazionale, vengono tracciati dalle leggi di natura, che son le basi
del patto sociale, espresse nel terzo capitolo di questo saggio, ed esse non
danno luogo a dubbio di sorta alcuna. Essendo sacra la libertà
individuale e quella de' Comuni, il congresso non avrà la benché minima
autorità nella loro interna amministrazione e nella nomina de' pubblici
funzionarî; i Comuni, assolutamente indipendenti, provvederanno come meglio
credono alla loro amministrazione, uniformandosi ai dettati di quelle tali
leggi naturali, che formano il solo patto costituente l'unità italiana.
L'esercito, essendo un nucleo di cittadini destinati dalla nazione a compiere
una speciale missione, in virtú delle medesime leggi testè citate, hanno
il diritto di eleggersi i propri capi, ai quali, come nel terzo [recte: quarto]
Saggio ampiamente svilupperemo, per ragion di guerra s'addice il concetto de'
disegni militari e l'esecuzione di essi. Svincolati dalle mille spire in cui la
diplomazia si va ravvolgendo, questo congresso non ha alcun trattato da
lacerare in volto al nemico: finché esso sarà sul suolo
italiano altra ragione oltre il cannone non v'è; cacciato d'Italia,
compiuta la missione dell'esercito, allora solo, pacatamente il congresso
potrà discendere a ragionare, non avendo il diritto di nulla stabilire
senza il consenso della nazione.
Adunque
questo congresso non ha cariche od onori da conferire; non leggi da fare, non
trattati da conchiudere, non eserciti da dirigere. È sua missione
accusare al cospetto della nazione ed esortare a riprendere il dritto sentiero
quel Comune o quell'individuo il quale violasse i principî da noi stabiliti
come base del patto nazionale; è sua incumbenza determinare, secondo la
popolazione e la ricchezza d'ogni Comune, la porzione contingente in uomini e
danari con cui deve concorrere alla guerra, e cosí, equamente, ripartire i
sacrifizî; è sua speciale opera raccogliere tutte le risorse materiali e
dirigerle ove l'esercito il richiede, onde fornire incessantemente il campo. In
tal guisa, la nazione, assolutamente libera, appresta in ogni Comune tutte le
sue forze; il congresso le raccoglie e le invia all'esercito; questo, secondo
la ragion di guerra, le dirige contro il nemico. Il congresso non è
governo, ma centro su cui la nazione equilibrasi, verso cui tendono le sue
forze, e vigile guardiano del patto nazionale. Esso può, in virtú di
quelle medesime leggi che gli danno vita e ne tracciano le funzioni, conferire
a pochi individui, o ad un solo, scelti dal suo seno o fuori, i proprî
attributi, onde ottenere la massima energia nel disbrigo delle sue incumbenze,
basta che non abdichi mai il diritto inalienabile della loro revoca e del
sindacato su di essi. In questo solo modo può concepirsi in Italia
l'unità degli sforzi, senza ledere in menoma parte la libertà.
XVIII. Risorgimento d'Italia.
- XIX. Educazione pubblica. - XX. Bandiera e formola.
XVIII.
Nei primi capitoli di questo Saggio abbiamo cercato quelle leggi di Natura,
que' principî, non già deduzioni d'un ragionamento basato su di
arbitrarî accordi o strani supposti, ma attributi della Natura stessa, effetti
invariabili dell'indole umana. Principî che una società non può
riconoscere come veri, senza prima percorrere lunga, scabrosa ed intricata via,
per cui il fugace utile immediato ed i pregiudizî, facendo ombra al suo
intelletto, la costringono a serpeggiare. In seguito abbiamo discorso del
cospirare, dell'insorgere, mezzi di cui s'avvalgono le nazioni onde sgomberare
con fremito il cammino dalle incomode ruine del passato. Non ho creduto
proporre un modo nuovo di cospirare e dar norma ai primi passi della
rivoluzione, ma bensí fu mio proposito il dimostrare logori i mezzi sino ad ora
usati, e determinare non quale dovrebbe essere, ma quale inesorabilmente
sarà lo sviluppo ed il modo di operare delle varie forze che possiede la
società. E porto ferma opinione che la vera rivoluzione, il vero trionfo
della democrazia, che suona trionfo del proletariato, non si otterrà con
altri mezzi se non con questi, né si conquisterà la libertà che
liberamente operando.
Il
sottostare a forza maggiore è necessità, il rinunziare
volontariamente ad una parte o a tutta la libertà, non è prova di
spiriti liberi ma d'inclinazione al servaggio. Chi vende i proprî convincimenti
ha cuore depravato ma piú libero di colui che volontariamente li abdica. Quello
rinunzia alla libertà per un guadagno, patteggia col nemico, questi per
l'indole; l'uno, trovando il suo meglio, saprà riacquistarla e
avvalersene, l'altro, eziandio volendolo, nol potrà fare. È vano
il dire che sarà cosa pregevole rinunziarvi per amor di patria,
imperocché il sommo bene della nazione altro non è che assoluta
libertà, che essendo costituita non dai limiti imposti alla
libertà individuale, ma dal pieno sviluppo di essa, rinunziare alla
propria libertà per accrescere quella della patria, è lo stesso
che mutilarla per renderla intera, è un assurdo. Agli Italiani è
mestieri di educarsi a libertà, ma educatori e libertà sono
materie eterogenee che si escludono affatto. La libertà non può
apprendersi, essa è sentimento, e nessuno può darci sensazioni
non nostre. Per educarci a libertà bisogna vivere, per quanto possiamo,
liberamente, in tal guisa ognuno, educando se medesimo, educa tutti, e tutti
compiono l'educazione di ognuno. Da ciò risultano spontanee le
cospirazioni, le congiure, ma senza idoli, senza patroni, senza padri, niuno
pretenderà comandare, come niuno si piegherà ad ubbidire. Se la
nazione devierà ancora dalla linea retta, se ancora non è
abbastanza assennata dall'esperienza, potranno de' strani connubî, delle strane
combinazioni aver luogo, ma essa non raggiungerà con questi mezzi la sua
piena libertà e la grandezza a cui è destinata.
Additate
le piaghe della società, i diritti di chi soffre, le usurpazioni di chi
gode; dimostrata la necessità di estirpare fin l'ultima barba della
presente costituzione sociale, di sgomberare il suolo dalle sterminate macerie
di pregiudizî, di leggi, di opinioni ammucchiare sul diritto di
proprietà che gli serve di base, e che poggia a sua volta sugli omeri
dell'immensa moltitudine de' null'abbienti, come rivoluzionario potrei far
fine. La nazione penserà a ricostituirsi. Nondimeno sospingeremo lo
sguardo in questo ignoto avvenire e procederemo in esso attenendoci
strettamente a' stabiliti principî.
«I
tiranni, - scrive Mario Pagano, - col progresso del tempo, dalle continue
reazioni degli oppressi, debbono rimaner disfatti. La legge è
immutabile, l'ordine è costante, la pena è certa, benché col
piè di piombo giunge al fine». Ora che scrivo, la miseria cresce ogni
giorno, i governi moderati, corruttori e codardi, in putredine vanno
consumandosi, la tirannide mostrasi, perché minacciata, terribile ed ingorda e
cosí la sua azione affretta l'immancabile reazione. I popoli, intolleranti
dello stato presente, fremono, il movimento non tarderà, e non
già, come pretendono i dottrinarî, il popolo piú dotto e piú incivilito,
ma il piú oppresso darà il segnale della battaglia. La quistione economica,
quasi in tutt'Europa prevale, non solo fra i dotti, ma nella plebe, la
questione politica n'è stata quasi del tutto ecclissata.
Cominciato
lo sbaraglio, vedremo il popolo, da' suoi dolori sospinto, con abbandonate
redini precipitarsi ne' pericoli, ma le sue prime orme saranno incerte,
vacillanti, esso non saprà scorgere il vero nemico, né colorite i suoi
disegni. In questi momenti, la riuscita, l'indirizzo della rivoluzione,
dipenderà da quella gioventú intelligente, non dotti, ma illuminati
combattenti di cui il popolo naturalmente se ne fa testa. Se questi desiderano
il vero bene della patria, dovranno, senza far gruppi o sette, ma ognuno
secondo le ispirazioni del proprio genio, darsi a tutt'uomo, non già
calmare, ma a sfrenare per quanto può le passioni del popolo e, dando
forma a' suoi desiderî, additargli il nemico. Colui che dopo tanti tristi e
sanguinosi casi, che i popoli, nel fare transazioni e contentarsi di rimedî
mezzani, patirono, in luogo di mirare alla riforma completa degli ordini sociali,
broglia per afferrare una carica, o per donare i poteri a qualche suo idolo, e,
tutto fede, spera che un uomo compia la rivoluzione, ammorzando l'effervescenza
popolare, presenti il dorso al bastone della tirannide, egli altro non è
che vilissimo schiavo, mascherato col saio del repubblicano.
Ci
faremo ora a compendiare quanto dicemmo del passato e del presente, dei mali
sociali e de' rimedî, delle usurpazioni della tirannide e de' diritti della
democrazia, e cosí rileveremo le provvisioni da prendersi, le riforme da
adottarsi.
Son
quasi quattro secoli di schiavitú, e durante quest'epoca, quanti inutili
tentativi, quanto sangue inutilmente sparso!… I popoli a noi vicini,
dopo grandissimi sforzi non son riusciti a migliorare la loro condizione.
È dunque inutile l'insorgere? No. È questo un fatale cammino che
il popolo è costretto a percorrere, onde dalle sanguinose esperienze
venga condotto alla scoverta degli errori. Raccogliamo adunque i frutti del
passato travaglio; gioviamoci di que' fatti, e sia questa rivoluzione principio
d'êra novella, e non già nuova esperienza utile a' posteri, a noi
dannosa.
Che
cosa ha fruttato la moderazione? patibolo, carceri, esilio. I nostri nemici
sono inesorabili, ingordi; ad ottenere due gradi di libertà (se la
libertà si ottenesse per gradi), ed ottenerla intera, ci è forza
sostenere la lotta medesima. Perché dunque arrestarci ai primi passi? La
moderazione ci ha fruttato, forse, la protezione di qualche altra Potenza? Mai
no, tutti i governi stranieri, apertamente o con l'inganno, sonosi cooperati
alla nostra rovina. Confidiamo adunque nelle sole nostre forze, e miriamo alla
completa distruzione del nemico, senza arrestarci alla minaccia, essa altro non
è che un'arma nelle mani del minacciato.
Guai
se la plebe, contenta di vane promesse, farà dipendere dall'altrui
volere le proprie sorti! Essa vedrà molti di coloro che si dicono
liberali, umili negli atti, larghi in promesse, con dolci parole adularla, come
costumano adulare i tiranni, e carpirne il voto. Divenuti onnipotenti ed
inviolabili, pensano al loro meglio, e ribadiscono le sue catene; ed alla
richiesta di pane e lavoro rispondono, come l'assemblea francese
rispose nel '48, col cannone. Finché la società verrà composta da
molti che lavorano e da pochi che dissipano, e nelle mani di questi pochi
sarà il governo, il popolo deriso col nome di libero e di sovrano,
[i molti] non saranno che vilissimi schiavi.
Tutte
le leggi, tutte le riforme, eziandio quelle in apparenza popolari, favoriscono
solamente la classe ricca e culta; imperocché le istituzioni sociali, per loro
natura, volgono tutto in suo vantaggio. Voi plebe, allorché crederete
avvicinarvi alla meta, ne sarete, invece, piú discosti. Voi lavorate,
gli oziosi gioiscono; voi producete, gli oziosi dissipano; voi combattete ed
essi godono la libertà. Il suffragio universale è un inganno:
come il vostro voto può esser libero, se la vostra esistenza
dipende dal salario del padrone, dalle concessioni del proprietario? voi
indubitatamente votereste, costretti dal bisogno, come quelli vorranno.
Come il vostro voto può esser giusto, se la miseria vi condanna a
perpetua ignoranza e vi toglie ogni abilità per giudicare degli uomini e
de' loro concetti? Come può dirsi libero un uomo la cui esistenza dal
capriccio d'un altro uomo dipende?
La
miseria è la principale cagione, la sorgente inesauribile di
tutti i mali della società, voragine spalancata che ne inghiotte ogni
virtú. La miseria aguzza il pugnale dell'assassino; prostituisce la
donna; corrompe il cittadino; trova satelliti al dispotismo. Conseguenza
immediata della miseria è l'ignoranza, che vi rende incapaci di
governare i vostri particolari negozî, nonché quelli del pubblico, e corrivi
nel credere tutte quelle imposture che vi rendono fanatici, superstiziosi,
intolleranti. La miseria e l'ignoranza sono gli angeli tutelari
della moderna società, sono i sostegni sui quali la sua costituzione si
incastella, restringendo in picciol giro l'ampio cerchio dell'universale
cittadinanza. Il delitto e la prostituzione, conseguenze inevitabili, sgorgano
dal seno di questa società. Bagni e patiboli sono le sue opere, volte a
punire, con raffinata ipocrisia, i frutti medesimi delle sue viscere. La
statistica, scienza moderna, che mostra come indissolubilmente si legano le
varie istituzioni sociali, ha già registrato come la miseria e
l'ignoranza non scompagnano mai il misfatto. Finché i mezzi necessarî
all'educazione e l'indipendenza assoluta del vivere non saranno assicurati ad
ognuno, la libertà è promessa ingannevole.
I
nemici che dobbiamo debellare son molti, è vano l'illudersi, ma se tutti
vorremo combattere da liberi cittadini, vinceremo. Cerchiamo penetrare con lo
sguardo attraverso l'atmosfera che i pregiudizî ci hanno addensato intorno, né
vi sarà difficile discernere, in questo istante che trovasi distrutta la
gerarchia sociale, quanto siano mostruose le usurpazioni del ricco e quanto
grandi le miserie del popolo!… Con qual diritto un ozioso proprietario
scialacqua col prodotto de' sudori del fittaiuolo, mentre questi appena
potrà offrire un pane alla sua povera e laboriosa famiglia? Con quale
diritto, in un'officina in cui cento lavorano, un solo, oltre ogni stima
arricchisce, non avendo gli altri, non dico assicurato l'avvenire, ma
neanche la benché minima guarentigia del presente, bastando il capriccio di un
solo per affamare centinaia di dipendenti? Distruggiamo coteste
mostruosità col garantire al contadino ed all'operaio il frutto del loro
lavoro, e questi e quelli saranno contenti [di] lasciare per poco la vanga ed
il martello, ed impugnare il moschetto a difesa degli acquistati diritti. Se la
vittoria assicura a tutti l'agiatezza, e la disfatta li ricaccia nella miseria,
tutti saranno valorosi. Ecco il segreto di cui si avvalsero i nostri progenitori
per soggiogare il mondo.
Nei
passati rivolgimenti sonosi cangiati gli uomini e le forme del governo, ma il
principio su cui esso poggiava, l'autorità insomma, cangiando nome,
rimase; come adunque potevano sparire i mali? Volete cogliere il frutto di
tante pene? diroccate l'antico edifizio sino alle fondamenta, sgomberate il
suolo dalle ruine, e su nuove basi riedificate.
Le
leggi a cui ubbidiamo sono quelle stesse, che da tredici secoli, da
Giustiniano, i despoti ed un ordine privilegiato, quelli che posseggono,
hanno create, svolte, e curatane l'esecuzione sempre in danno della plebe; e
queste leggi che hanno sí bene servita la tirannide, non possono certamente
essere utili ad un popolo che vuole esser libero. E però la prima
determinazione da prendersi è quella di annullarle tutte; una sola che
ne rimanga basterà per dare alla rivoluzione un falso indirizzo, o
almeno per ritardarne il naturale progresso.
La
forza è l'altro cardine sul quale poggia la tirannide, qualunque siasi
il nome del governo, re, dittatore, triumvirato, congresso, se esso
dispone di forza materiale, saremo schiavi. Non bisogna mai conferire ad altri
la facoltà di nuocere; gli uomini, buono o tristo sia lo scopo a cui
tendono, sono o prepotenti o deboli; questi inetti al governo, quelli
oppressori; i primi, avendone la forza, opprimono, i secondi ci abbandoneranno
ai loro satelliti. Ognuno, in buona fede, crede che le proprie idee tornino a
gran d'uopo al paese; e però se avrà la forza d'imporle, le
imporrà. Lasciamo a tutti la libertà di proporre i proprî
pensieri, a nessuno facoltà d'imporli. L'uomo, creato indipendente e
libero, non dovrà mai servire un altro uomo, ma solo la propria natura
ed il proprio meglio; e se in virtú di questa legge, nelle specialità,
conviengli alla direzione de' migliori sottoporsi, non dovrà mai, in
forza della legge medesima, lasciare che altri stabilisca i rapporti della
società di cui fa parte e dia norma a tutto il suo vivere. I diritti di
ognuno limitano di fatto la sfera d'azione de' diritti altrui, le naturali
inclinazioni ne distribuiscono le incombenze, e da questa libertà
ch'altri limiti non conosce che l'altrui libertà, ne risulta l'armonia
sociale. Chiunque pretende governarmi, chiunque pretende che io mi uniformi
alle sue idee, alle sue abitudini, è uno stolto tiranno; ad ottenere
ciò dovrebbe trasferirmi la sua sensibilità.
Or
dunque, considerando questi veri come i punti di riscontro del nostro avvenire,
verremo traducendoli in pratica esponendo le provvisioni che sul retto sentiero
indirizzeranno la rivoluzione, assicurando sin da' primi istanti il suo
magnifico e semplicissimo procedere.
1. Tutte le leggi, i decreti, le
cariche, le incombenze, insomma tutte le esistenti istituzioni sociali,
rimangono da quest'istante annullate.
a) Ogni
contratto il quale non sussiste per la libera volontà delle due parti
contrattanti, è sciolto.
b) Le tasse ed ogni specie di gravezze imposta dal passato
governo, annullate. Non vi sarà che un'imposta unica sulla ricchezza, da
un congresso italiano ripartita sui Comuni, dai consigli comunali ripartita sui
cittadini.
Questa
prima provvisione spezzando le ritorte [catene] da cui eravamo avvinti,
ridonaci la piena libertà delle membra, indispensabile a sostenere la
gran lotta in cui dovremo impegnarci, né la vittoria sarà mai possibile,
se combatteremo impastoiati fra leggi ed istituzioni volte a sgagliardirci e
toglierci qualunque libertà d'operare. Né qui finiscono gli effetti di
tali provvedimenti: l'abolizione delle tasse ecc., produrrà, cosa
indubitata, un ribasso nel prezzo degli oggetti di prima necessità, ed
il minuto popolo sentirà, dal nuovo ordine di cose, immediatamente
sgravarsi delle tante imposizioni da cui era oppresso; e quindi troverà
cosa importantissima il difenderle ed assicurarle in avvenire. In tal guisa con
un semplice decreto avremo ridonato al popolo tutta la sua forza, e creato il
movente che, unificandone eziandio la volontà, lo sospinge alla difesa
della patria.
Inoltre,
se il concedere altrui il governo assoluto della cosa pubblica ci ricaccia
nella miseria e ci abbandona al dispotismo, il disordine conduce parimente alle
conseguenze stesse; e però alla rivoluzione bisogna assegnare un fine
cosí ampio ed incontrastabile da esser certi che nessuno possa durar fatica a
riconoscerlo, o nessuno rinnegarlo. Quindi stabilire come punti di riscontro,
come limiti e guarentigie della libertà, le leggi inviolabili della
Natura, le quali daranno norma e determineranno tutte le provvisioni volte ad
organare e dirigere le forze della nazione al conseguimento del fine prefisso.
I due seguenti decreti basteranno per tradurre in fatti le idee esposte.
2.
Il fine che si propone la rivoluzione è quello di sgomberare l'Italia
da' stranieri, qualunque lingua essi parlano, e da tutto ciò che viola
l'indipendenza e la libertà individuale. La guerra sarà menata di
forza finché questo fine non sia compiutamente conseguito.
I
principî da noi espressi nel terzo capitolo di questo Saggio, resi di pubblica
ragione sin dai primi istanti della Rivoluzione, verranno presentati in ogni
Comune all'accettazione del popolo, che riconoscendoli come base del nuovo
patto sociale, dichiarerà reo di lesa nazione chiunque attenterà
di violarli. Se un tal decreto verrà bandito dal popolo, la rivoluzione
da quell'istante sarà assicurata, la libertà e la grandezza
d'Italia indubitata; se poi un solo di questi principî è rigettato o
ristretto, la rivoluzione non si compirà, verrà conseguito
qualche cangiamento di forme, ed il popolo s'incamminerà, meritatamente,
in un nuovo corso di miserie, di dolori e di vizî.
Ridonata
al popolo la sua piena libertà; creato il movente delle sue imprese;
determinato il fine da conseguirsi; stabiliti i limiti all'autorità, le
guarentigie ed i diritti del popolo, la rivoluzione, senza tema d'esser tratta
di passo, potrà procedere nel suo corso, e poche e semplicissime
provvisioni basteranno ad assicurare il suo progresso energico ed ordinato.
1.
Tutti i cittadini, qualunque ne sia il sesso e l'età, pongono se
medesimi e le loro sostanze a disposizione della patria, finché non siasi
ottenuta la piena vittoria sui nemici di essa.
2.
Ogni Comune verrà amministrato da un consiglio comunale, formato da un
numero di consiglieri stabilito da' cittadini medesimi. I consiglieri verranno
eletti al suffragio universale, e saranno revocabili dagli elettori e soggetti
al loro sindacato. Il consiglio, affinché i comandamenti del popolo siano
mandati ad effetto con la massima energia possibile, trasmetterà il
proprio mandato ad un solo individuo che eleggerà nel suo seno,
riserbandosi, in ogni tempo, il diritto di revoca, e del sindacato.
a) La
potestà politica e la giudiziaria risiederanno nel popolo del Comune.
L'ultima potrà conferirsi ad un certo numero di cittadini eletti dal
popolo, che non cesserà di essere il supremo tribunale al quale i
giudicati potranno appellarsi.
b) La speciale incombenza del consiglio comunale è quella
di raccogliere ed apparecchiare nel Comune tutte le risorse materiali richieste
dal nazionale congresso.
3.
Il congresso nazionale verrà eletto co' principî medesimi, cioè:
suffragio universale e diritto di revoca e di sindacato agli elettori. Come i
consigli comunali, questo congresso potrà trasmettere il proprio mandato
ad un solo eletto dal proprio seno, riserbandosi sugli eletti i medesimi
diritti accennati pei consiglieri comunali.
a) Le
incombenze di questo congresso saranno di rappresentare l'Italia verso le
Potenze straniere; potrà conchiudere trattati, ma essi non avranno
effetto senza prima ottenere l'approvazione del popolo.
b) In forza de' principî stabiliti come base del patto sociale,
questo congresso non avrà sui Comuni altra autorità, che [quella
di] determinare ed esigere da essi la porzione contingente in uomini e danari,
con cui dovranno concorrere alla guerra, inviare queste risorse ove l'esercito
indicherà; accusare al cospetto della nazione quel Comune, o
quell'individuo, che violasse il patto espresso dalle leggi di Natura.
Sono
queste semplicissime provvisioni che potranno attuarsi da qualunque
città o borgo che sarà sgombero dal nemico. Il popolo di questo
borgo che darà cominciamento alla rivoluzione, annullerà tutte le
leggi esistenti, tutte le gravezze; bandirà i principî che dovranno
essere la base del nuovo patto sociale; eleggerà il consiglio comunale,
i deputati al congresso nazionale; e tutti i cittadini, con le norme che daremo
nel terzo [recte: quarto] saggio, si formeranno in battaglioni e si
eleggeranno i capi. In tal guisa si procederà conforme al corso naturale
degli eventi, e la nazione da sé, senza crearsi padroni, senza concedere ad una
città autorità o ascendente piú delle altre, raccoglierà
successivamente le proprie forze e le adopererà al conseguimento del
fine che si propone, conservando la sua piena libertà.
Il
popolo non avrà nulla a temere dagli errori in cui per ignoranza o per
intrigo d'altri potrà incorrere nell'eleggere questi diversi maestrati;
imperocché non sono inviolabili né irrevocabili, e non dispongono di alcuna
forza materiale. Essi non comandano, ma propongono. Il popolo, con pochissima
pena potrà francamente eleggere coloro che desiderano tali incombenze,
trattandosi di crearsi servi e non padroni, quelli che volontariamente si
offrono saranno i migliori. Negare questa verità, ricorrere a ripieghi,
è negare la rivoluzione; è lo stesso che restringere l'utile
universale a quello d'una fazione, è una questione di semplice forma che
non vale il pregio d'esser discussa.
Durante
la guerra, il congresso nazionale si occuperà a risolvere il problema
sociale e cercherà stabilire l'avvenire della nazione. Il congresso
terrà ai fittaiuoli il seguente discorso: - Il provvedimento preso di
sospendere il pagamento delle rendite vi ha sostituito ai proprietarî, bene
grandissimo per voi stessi e per la società: voi, produttori per
eccellenza, ritenete e godete giustamente del frutto delle vostre fatiche, e la
società si è sgravata da quella classe di oziosi digeritori, che
per sostenere il loro lusso producevano l'incarimento dei viveri; ogni
cittadino soffriva per cagion loro, ad ogni poverello veniva tolto un pezzo del
suo pane per impinguare i cani ed i cavalli di questi proprietarî; ed oltre di
questi vantaggi evidenti, quegli oziosi, costretti ora a lavorare per vivere,
accrescono eziandio il prodotto sociale. Ma fa d'uopo riflettere che, quali voi
oggi siete, tali essi furono, e l'esperienza, varie volte ripetuta, ha
dimostrato che, eziandio ripartendo ugualmente la terra, dopo qualche tempo vi
sarà tra voi chi per maggior forza, solerzia, o ingegno,
ingrandirà all'altrui spese, e cosí a poco a poco sorgerà di
nuovo la classe de' proprietarî che avete annientata. Inoltre, il medesimo
diritto che avete voi sulla terra, lo ha ognuno: la medesima ingiustizia che
voi pativate, la patiscono i vostri giornalieri, e voi usurpate ad essi quel
frutto dei loro lavori che i già proprietarî vi usurpavano, e
finalmente, rimanendo la vostra condizione tale quale ora è, i principî
da voi stessi banditi sarebbero violati; il patto sociale sarebbe ingiusto come
lo era prima, ed i vostri figli si troverebbero in una società non
diversa da quella che ora vogliamo riformare. - La cagione di questi mali
futuri è evidente; la proprietà ha cangiato possessore ma
è rimasta illesa, è dessa che bisogna abbattere, è il
principio che bisogna mutare, e perciò è necessario occuparsi
della soluzione del problema, di impedire che i proprietarî rinascono: questo
problema, unito agli altri che riguardano l'industria ed il commercio,
formeranno l'oggetto delle nostre cure.
Per
riuscire nel nostro proponimento non basta seguire i suggerimenti dell'istinto,
che ci trarrebbero di passo, ma bensí giovarci dell'esperienze che la
storia registra. Le attinenze degl'innumerevoli fatti consacrati nelle sue
pagine han porto materia a studio profondo, da cui è risultata una serie
di proposizioni che formano la filosofia civile, la quale, scienza universale,
con attenta osservazione, traendoci dalla fallace via che il volgo per
abitudine frequenta, in quella magistrale e permanente della Natura ci conduce;
questa scienza darà norma alle nostre ricerche.
Inoltre,
il nuovo patto sociale, che verrà stabilito dalla costituente, non
sarà, come le passate costituzioni, imposto agli Italiani, ma proposto,
e la costituente, non disponendo di veruna forza materiale, non potrebbe
operare diversamente; quindi il cuore, la fede, le intenzioni di coloro che dovranno
comporla, in questo caso, non hanno importanza di sorta alcuna; queste
qualità, impossibili a ritrovarsi, perché mutabili secondo l'utile
individuale, queste qualità, sempre cercate e mai trovate dal popolo,
oggi non debbono tenersi in verun conto; l'ingegno e la dottrina sono
necessarie, eziandio i piú perversi saranno utili; ma il popolo non potendo
discernere queste qualità, la costituente sarà nominata dal
congresso nazionale, che ammetterà in essa tutti coloro che
volontariamente si offrono di farne parte. Questo sarà il campo ove la
scienza, non avendo altri limiti che le medesime leggi di Natura da cui essa
risulta, potrà elevarsi dalle inutili astrazioni alla pratica, e
stabilire la felicità della nazione.
Questo
congresso di scienziati, dichiarato costituente, determinerà e
proporrà il nuovo patto sociale, le cui basi saranno que' principî dal
popolo dichiarati inviolabili, ed il fine quello di garentirne
l'inviolabilità per l'avvenire. Compito il lavoro, reso di pubblica
ragione, rimarrà esposto alla pubblica censura; e tutti i dubbî, tutte
le considerazioni espresse per mezzo della stampa, saranno accuratamente
raccolte da coloro che presiedono all'amministrazione di ogni Comune ed inviate
alla costituente, che, nel piú breve tempo possibile, dovrà modificare o
rispondere a tutte le osservazioni fatte dal pubblico. Dopo questa prova, il
patto, sottoposto in ogni Comune alla finale approvazione del popolo,
avrà effetto. Noi adombreremo questo nuovo patto sociale senza presumere
di aver risoluto un problema che dovrà risolvere l'intera nazione;
è stato nostro proposito sgomberare il suolo e scavar le
fondamenta, non già riedificare.
I.
Le
siepi e quanto serve di chiusura o limite ai poderi saranno abbattute. Il suolo
italiano verrà ripartito secondo le diverse specie di coltura a cui
mostrasi atto. Una porzione di terra proporzionata alla popolazione
verrà assegnata ad ogni Comune e coltivata da coloro che si dedicano
all'agricoltura, i quali formeranno una società che stabilirà essa
medesima la sua costituzione, in caso che non volesse accettare quella che la
costituente proporrà. Ma questa Costituzione, dovendo esser conforme a
que' principî che formano la legge universale ed immutabile della nazione, non
potrà essere molto diversa dalla seguente: un amministratore ed
un direttore eletti, e soggetti al sindacato di un consiglio amministrativo e
di un consiglio di tecnologia dirigente. Tutte le altre incumbenze distribuite
secondo le inclinazioni e le attitudini di ognuno. Il guadagno netto diviso
egualmente fra tutti. In tal guisa, con grandissimo ed universale vantaggio, la
proprietà fondiaria sarà distrutta.
Il
compartimento del suolo determinato dal genere di coltura e non dal caso; lo
stimolo al lavoro, non già la fame ma un maggior guadagno; una società
di uomini agiati, tutti dediti, ognuno secondo le proprie attitudini, ad un
medesimo lavoro, dovranno indubitatamente produrre un accrescimento grandissimo
delle ricchezze sociali. Sosterrebbero gli economisti, che
l'agiatezza degli agricoltori, la mancanza de' proprietarî che consumano senza
produrre, facessero languire o scemare la produzione? Sosterrebbero che le
facoltà d'una società numerosa ed agiata siano inferiori a quelle
d'una misera famiglia, capace a pena di quel lavoro che serve a pagare il vistoso
tributo al proprietario e comperare per sé un affumicato pane? Tutto può
sostenersi col sofisma, ma esso perde la sua forza quando il minuto popolo non
può piú sopportare i suoi mali e rovescia la soma che soverchiamente lo
grava. Queste proposte non vengono fatte a congreghe di digeritori, di
persone dedite all'usura ed al monopolio, ovvero di proprietarî, di banchieri,
di trafficanti, ma ad una società in cui la forza ha già
distrutta la preponderanza di queste classi. Con la spada bisogna adeguare alle
moltitudini i piú sublimi: quindi la legge stabilisce l'ordine e l'uguaglianza.
II.
Il
capitale, come già dicemmo, essendo proprietà collettiva, non
può appartenere ad un uomo; l'appropriarsi il capitale è
un'usurpazione, non cosí manifesta, ma simile a quella della proprietà
fondiaria; tutti i capitali verranno dichiarati proprietà della nazione,
il denaro potrà in parte involarsi, ma le fabbriche, le macchine
rimarranno. Tutti gli impiegati, in ogni stabilimento d'industria, comporranno
una società, ai quali la nazione affida il capitale tolto al
capitalista, e questa società potrà reggersi con una costituzione
identica a quella stabilita per gli agricoltori.
Cosí
trasformata e ricostituita l'agricoltura e l'industria, i mercanti che vendono
in grosso si rinverranno nei depositi delle stesse società e saranno
membri di esse; e socî a ciò espressamente delegati saranno i merciaioli
che vendono al minuto.
III.
I
trafficanti, intermedî fra i produttori ed i consumatori, a cui la miseria de'
primi fa abilità a speculare a discapito del popolo, verranno eziandio
trasformati in società composte ognuna dal già capitalista sino
all'ultimo facchino, marinaio, carrettiere, che trasporta le merci.
IV.
Tutti
gli edifizî saranno dichiarati proprietà nazionale, e gli edili eletti
dal popolo, e soggetti al suo sindacato, destineranno, ad ognuno secondo il
bisogno, l'abitazione. In tal guisa piú non si vedranno spaziosi appartamenti
deserti e destinati a semplice lusso, mentre a breve distanza dalle loro mura,
in oscuri e malsani tugurî, giacciono ammucchiate le famiglie dell'infelice
proletario, con danno manifesto della pubblica salute e del pudore.
V.
Il
testamento, mostruoso diritto, che oltre l'epoca dalla Natura stessa prescritta
prolunga la volontà dell'uomo, abolito. I risparmî accumulati da ognuno
appartengono di diritto, dopo la sua morte, alla società di cui esso
faceva parte ed al Comune ove erasi domiciliato, se il defunto esercitava una
professione singolare, come architetto, medico, od altro.
VI.
In
ogni Comune vi sarà un banco di scambio, che porranno in relazione i
varî Comuni dello Stato ed i varî stabilimenti d'industria, dirigeranno le
derrate ove maggiore è il bisogno. Questi banchi assorbiranno e faranno
sparire i trafficanti.
VII.
Ogni
cittadino il quale trovasi isolato e privo di lavoro, ha il diritto di essere
ammesso come socio in quella società di agricoltura o d'industria che da
lui medesimo verrà scelta. La forza dell'intera nazione garentisce ad
ogni Italiano un tale diritto, diritto che rende impossibile la miseria e forma
il cardine principale del nuovo patto sociale.
VIII.
Stabilita
la costituzione economica, la politica non offre alcuna difficoltà; un
consiglio in ogni Comune, un congresso per l'intera nazione, eletti col
suffragio universale, amministreranno il paese; questo e quelli saranno
sempre revocabili dagli elettori e soggetti al sindacato del popolo. Il
congresso stabilirà la relazione con le altre Potenze, avrà cura
degli affari stranieri, rappresenterà la nazione; dovrà
sopraindendere ai lavori, ai stabilimenti militari e di pubblica educazione,
alle milizie (e di queste discorreremo minutamente nel terzo [recte:
quarto] Saggio) in quella parte che non riguarda direttamente ai Comuni.
Determinerà le spese, e quindi le gravezze le quali dovranno pagarsi
dalla nazione, per questi varî rami della pubblica amministrazione. Non
avrà ingerenza alcuna nella politica interna e polizia, questa e quella
non avranno altra norma che i principî da noi stabiliti come base del patto
sociale; il congresso denunzierà alla nazione quel Comune, quel
magistrato, quel cittadino, che violerà o tenterà di violare
questi principî.
Questi
consigli ed il congresso potranno, pel pronto spaccio degli affari, delegare o
distribuire i loro poteri a persone elette dal proprio seno, che saranno sempre
da essi revocabili e soggette al loro sindacato.
IX.
Tutti
i pubblici magistrati saranno eletti dal popolo, saranno revocabili dal popolo
e soggetti al suo sindacato. Niuno percepirà stipendio, ma
l'associazione di cui esso faceva parte sarà obbligata a considerarlo e
retribuirlo come socio presente. Lo stesso dicasi dei consiglieri comunali e
de' deputati al congresso.
X.
L'unica
gravezza sarà un'imposta progressiva sulla rendita netta di ogni
associazione.
Adombrato
il nuovo patto sociale, ci faremo ad esaminarne gli effetti, onde conoscere se
i mali, i quali ora minacciano di annientare la presente società,
spariranno.
È
un fatto dimostrato ad evidenza che la concorrenza, le macchine, e la divisione
del lavoro, mentre accrescono immensamente il prodotto, accrescono eziandio il
numero de' miseri ed avviliscono l'operaio, peggiorandone la condizione.
Esaminiamo se col nuovo patto sociale [si] produrrebbero i medesimi effetti.
Concorrenza.
Supponiamo
due stabilimenti d'industria in concorrenza, uno composto da numerosa e
cospicua associazione, l'altro meschino, questo sarà costretto a
smettere, non potendo sostenere la concorrenza con quello, e gli operai, come
accade oggigiorno, rimarranno privi di lavoro; ma siccome la nazione
guarentisce loro il diritto di essere ammessi in una società a loro
scelta, questi operai, naturalmente, sceglieranno e dovranno essere ammessi
come socî in quella società da cui sono stati soperchiati, e però
questa, se distruggesse tutte le sue rivali, sarebbe sopraccaricata da un
numero esorbitante di operai. Per evitare il male, troverà il suo conto
associandosi, piuttosto che distruggendo le sue rivali. In tal guisa, la concorrenza,
che nella presente società arricchisce uno a discapito di molti, col
nuovo patto sociale promuoverebbe l'associazione e spanderebbe egualmente il
profitto sugli operai dell'arte medesima.
Con
le macchine e la divisione del lavoro ottenendosi il prodotto
medesimo con un numero assai minore di operai, nei quali non
richiedendosi alcuna speciale attitudine, si ribassano i salarî, e ne risulta la
miseria. Col nuovo patto sociale, il numero degli operai non è quello
che semplicemente è necessario all'arte, ma [di] quanti se ne rinvengono
nel Comune, nella città, nella nazione, che si dedicano a tale lavoro;
il salario non è proporzionato alla loro abilità, ma al prodotto,
quindi le macchine e la divisione del lavoro saranno la vittoria dell'ingegno
umano sulla materia, e gli operai, giovandosi di tali ritrovati, in poche ore
di facile lavoro, guadagneranno moltissimo. Inoltre, come conferma della
giustissima legge dell'uguaglianza di salario, le diverse incumbenze si andranno
pareggiando.
Inoltre,
siccome, crescendo il numero delle persone dedite alla medesima arte scema il
guadagno, ne risulta che il diritto riconosciuto e garentito ad ognuno, di
essere messo come socio in uno stabilimento di sua scelta, è la legge la
quale stabilisce l'equilibrio fra le diverse diramazioni dell'industria
nazionale.
Le
ardite intraprese, l'esattezza del lavoro, la varietà, il buon mercato
che si richieggono in un'arte, sono qualità che non possono sperarsi dai
piccioli capitali, i quali s'impiegano con la speranza di ottenere utili
immediati e grossi; solo dai vistosi capitoli, che anticipano le spese e con
picciolo profitto sull'unità della merce guadagnano sul grande numero di
esse unità, possono ottenersi tali risultamenti. D'altra parte, i grandi
capitali formandosi con accumulare in poche mani le ricchezze sociali, ne
risulta, come legge inesorabile, nella presente società, che il
perfezionamento dell'industria s'ottiene a prezzo della quasi universale
miseria, laddove, col nuovo patto sociale, la formazione dei grandi capitali
s'effettuerà non già con la distruzione de' piccioli ma con
l'associazione, che sarà la legge regolatrice della pubblica economia,
come ora è la concorrenza.
Il
bisogno che hanno i produttori di smaltire al piú presto possibile la loro
merce, la mancanza del danaro necessario alle spese di deposito e di trasporto,
han fatto sorgere l'avida classe de' trafficanti, i quali lucrano ed
arricchiscono a spese de' produttori e dei consumatori. Questo bisogno del
produttore di vender subito, fa abilità a costoro d'esercitare il
monopolio, di affamare una città e procacciarsi vistosi lucri sul pane
che i poverelli comprano col sudore della fronte. La concorrenza è
quella che piú d'ogni altra cosa favorisce l'incettatore, l'associazione
l'uccide. Col nuovo ordine di cose le diverse società produttrici
facoltosissime, non han bisogno di vendere prontamente le merci, e potranno
avere magazzini, vascelli, e giovarsi di ogni sorta di veicolo onde da se
medesime, o col solo mezzo del banco di scambio, provvedere allo spaccio dei
loro prodotti; e cosí, con vantaggio grandissimo della società,
spariranno i trafficanti, e con essi il monopolio.
Nella
presente società, gli incettatori comprano il grano ove abbonda e lo
spediscono ove scarseggia, quindi in quel mercato ove essi han comprato,
crescendo il prezzo del grano, il pane per conseguenza incarisce; questo fatto
protesta contro la libertà del commercio. Ma, vi rispondono i
propugnatori del libero scambio: s'introiterà maggior danaro,
l'agricoltore che ha guadagnato avrà molto danaro da spendere: il che
torna in vantaggio dell'industria, nonché di qualunque altro prodotto; né qui
finiscono i vantaggi: gli operai, se pagheranno piú caro il pane, prosperando
l'industria crescerà il loro guadagno, e spenderanno pochissimo per
l'acquisto di altri generi di cui fanno uso. Cosí gli economisti, con raffinata
ipocrisia, fanno generali alcuni vantaggi che si restringono a pochissimi: non
è l'agricoltore che ricava profitto dal caro del grano, ma
gl'incettatori, i quali accrescono i loro capitali volti ad affamare le
città; non è l'operaio che sente il vantaggio della
prosperità dell'industria, ma il capitalista; e quelle derrate, i cui
prezzi per la libertà del commercio scemeranno, sono oggetti di lusso
che non usano né il povero contadino né l'operaio, quindi il libero commercio,
come tutte le altre leggi e tutti gli altri ritrovati che aumentano il prodotto
sociale, altro non fa che vantaggiare i ricchissimi con danno manifesto de'
poverelli. Per contro, rimessa la società secondo le leggi di Natura, i
vantaggi del libero commercio saranno evidenti per tutti; il monopolio reso
impossibile, sarà l'agricoltore che goderà del guadagno, il
quale, come ora diremo, troverà maggior vantaggio nello spendere i suoi
danari che nel conservarli: quindi prosperità dell'industria, di cui
goderanno tutti gli operai sui quali egualmente è distribuito il lucro;
ed infine, contadini ed operai, vivendo agiatamente, faranno uso di molti
generi di cui ora neppur conoscono i nomi, e sentiranno il vantaggio di
acquistarli a pochissimo prezzo.
Non
è il solo aumento del prodotto che accresce la prosperità, ma
questo, per riuscire veramente utile, deve accompagnarsi con l'aumento de'
consumatori; nella società presente cresce continuamente il prodotto, ma
il numero de' consumatori, per la crescente miseria, scema; pochissimi
possessori di sterminate ricchezze fra le miriadi di affamati è il fine
verso il quale inesorabilmente ci avviciniamo. Abolite la proprietà,
supponete che la società abbia subito le proposte riforme, ed il
crescere delle ricchezze, ugualmente sparse su tutti, crescerà per
conseguenza il numero de' consumatori.
In
ultimo, poniamo il caso che un capitalista coi suoi milioni venga nel mezzo di
una nazione cosí costituita, ed esaminiamo in che modo possa impiegare il suo
danaro. Non potrà acquistar terre, perché la nazione è la sola
padrona, ed essa non vende e non riconosce il diritto di proprietà;
fabbricare palazzi nemmeno, perché la nazione, padrona di tutti gli edifizî se
ne impadronirebbe; affidare i suoi capitali ad una delle tante società
in cui è ripartita la nazione sarebbe perderli, perché i capitali di
esse sono proprietà nazionali ed egli non potrebbe sperare altro
guadagno che quello di essere ammesso come semplice socio ed aver la sua parte
al lavoro ed al lucro, come tutti gli altri operai; stabilire un lavoro, un
negozio per proprio conto nol può, perché non troverebbe operai in uno
Stato ove tutti fanno parte di società come sovrani; potrebbe forse
giovarsi di operai stranieri, e cosí col suo stabilimento far concorrenza alle
arti nazionali? ma, appena comincerebbe il suo lavoro, il governo interviene,
riunisce gli operai e dice loro: Voi, per le leggi dello Stato, avete
facoltà di amministrare e reggervi come meglio credete, tutti avete
uguale diritto al godimento del guadagno, il capitale non può
appartenere a nessuno, ma allo Stato, e voi ne sarete gli usufruttuarî, ed il
capitalista con voi, se gli conviene; una tale sentenza, senza esservi il
bisogno dell'intervento del fisco e dei birri, gli operai medesimi la
porrebbero in atto. Dunque in una società costituita nel modo indicato,
chi riuscisse ad accumulare vistose somme, non potendo impiegarle in modo
alcuno, non potendo disporne dopo la sua morte, troverà il suo miglior
partito spendendole e godendosele e, cosí il nuovo patto sociale, non solo
abolisce la miseria e la rende impossibile, ma sbandisce eziandio l'avarizia e
mantiene il danaro in una continua circolazione.
A
coloro i quali riconoscendo i vantaggi di un tal sistema, oppugnassero la
rivoluzione, asserendo che la società senza scossa veruna ma con un
successivo progresso potrà trasformarsi, noi risponderemo che eglino
disconoscono gli effetti inevitabili delle leggi di economia pubblica applicate
alle presenti condizioni dei popoli, che eglino disconoscono i fatti che ogni
giorno si compiono sotto i loro occhi. Le numerose associazioni di operai che
spontaneamente sorgono, mostrano la tendenza della società verso un avvenire
che comincia a presentirsi, ma non migliorano per ciò le loro
condizioni; a queste associazioni si opporranno quelle dei capitalisti e
quelle, con maggiori danni, dovranno soccumbere nella concorrenza: pretendere
che potessero sussistere e prosperare istituzioni di utile universale, in una
società costituita da forze tra loro riluttanti, che vicendevolmente si
distruggono, ed il cui sistema è volto a favorire l'utile individuale a
danno del pubblico, è pretendere una cosa impossibile, è
pretendere che un picciolo rigagnolo seguisse il corso medesimo di un torrente
senza venir travolto e confuso tra le sue onde. La condizione del proletario,
senza una completa e violenta rivoluzione, non solo non può cangiarsi ma
neppure migliorarsi, anzi è forza che essa continuamente peggiori.
Non
ci restano ora che due altri punti, i quali bisogna prendere in considerazione;
uno è di esaminare se manca lo stimolo al lavoro, l'altro di vedere se
mai siavi nel sistema il nocivo intervento del governo.
Il
lavoro non è attraente come asserisce Fourier, ma nemmeno riluttante;
senza necessità non lavorasi, ma esistendo la necessità ed
armonizzando il lavoro con le proprie inclinazioni, tutto ciò che in
esso è penoso sparisce. Quale lavoro sarà piú proficuo, quello
del proletario che ha il solo stimolo della fame, il cui salario
è invariabile, e le cui forze son logorate dalla miseria; o pure quello
di un agiato cittadino, che ha scelto il lavoro secondo la propria
inclinazione, ed il cui guadagno cresce al crescere del prodotto? Gli infingardi
esistono, ma essi riconosciuti come tali della società di cui fanno
parte, verrebbero assoggettati ad una multa all'epoca della divisione dei
lucri.
Il
governo interviene nel solo caso, che osserva la violazione di quei principî
stabiliti come base del nuovo patto sociale. Prima che la nazione sia
costituita egli dice agli oziosi proprietarî: voi non avete diritto alcuno
sulla terra, se volete vivere, lavorate; ai contadini: la Natura non ha
concesso a nessuno la proprietà della terra, tutti sono padroni di
coltivarla e la nazione garantisce loro il frutto de' lavori; per fare
ciò con ordine, associatevi. Si rivolge al capitalista e gli dice: tu
non sei che un usurpatore delle altrui fatiche, il capitale è
proprietà nazionale, a te altro non spetta che una porzione uguale a
quella degli operai, e devi, secondo le tue attitudini, lavorare come essi
lavorano. Il governo non farà che bandire leggi semplicissime e
chiarissime, che nessuno avrà bisogno di aiuto per comprendere; e lascerà
ai contadini ed agli operai la cura di porle in atto. Proporrà la
costituzione delle varie società, che la costituente, congresso di
scienziati, avrà compilato, rimanendo ai cittadini piena libertà
di respingerla o modificarla, basta che rimangano inviolati i principî. Queste
leggi, questi consigli verranno pubblicati dal governo, non già quando
la mente è ottenebrata ed il senso comune pervertito dai pregiudizî, ma
quando la spada della rivoluzione ha già rimosso gli ostacoli, quando i
contadini e gli operai avranno rotto l'incanto che [li] mantiene tra i fragili
ceppi del proprietario e del capitalista; il governo non dovrà
sospingere a fare, cosa impossibile ai governi, ma frenare alquanto,
indirizzare, dirigere le passioni, che la rivoluzione ha sfrenate.
Fin
qui della parte economica. Ora faremo un'osservazione che riguarda la politica.
Il governo rappresentativo è discreditato in Europa; l'assemblea eletta
a rappresentare i diritti del popolo ad altro non serve che a convalidare e
vestire con una maschera di legalità e di giustizia le usurpazioni della
tirannide. Non havvi principe, dittatore o ministro, il quale non faccia
decidere secondo le proprie intenzioni il congresso che la nazione ha eletto a
guarentigia de' proprî diritti; queste assemblee, sovente sono d'impaccio al
pronto operare, senza mai essere di ostacolo al male; nascono dalla corruttela,
e vivono finché la forza crede dover subire il loro importuno garrito; odiose
al tiranno, comecché accarezzate, sono sprezzate dalla nazione. Questo tristo
fatto, che sembra conseguenza di loro natura, è l'effetto del modo come
oggi sono regolati i rapporti sociali: l'utile privato essendo in opposizione
col pubblico, produce una diversità di mire, di desiderî, di speranze, e
quindi la irriconciliabile discordia delle idee e delle opinioni; e di piú, il
potere che ha il principe, il dittatore, il ministro, di concedere cariche,
distribuire oro ed onori, fan sí che le tante opinioni riluttanti, trovando
l'utile su di una via comune, si accordano nel vendersi ad un padrone e
cospirano verso il fine che da esso gli viene indicato. Invece, se il governo
non avrà doni da distribuire, né pene da infliggere, se l'utile d'un
cittadino dipende dal guadagno della società di cui fa parte, e la
prosperità di questa dalla prosperità dell'intera nazione, vi
sarà in tutti unità di mire, di desiderî, di speranze, e quindi
concordia nelle idee e nelle opinioni. Ma quantunque il nuovo patto sociale
ridona all'assemblea quella forza, di cui ora manca, pure egli è cosa
interessante di non perdere di mira una verità che dalla stessa natura
umana risulta. Le assemblee, capacissime nel sindacare, sono incapaci di
concepire e di eseguire, quindi, per conservare la necessaria energia nelle
intraprese del governo, bisognerà sempre (adattando alle circostanze il
principio) affidare ad un solo l'incarico di concepire il disegno e di
effettuarlo, quindi unità ed energia nell'azione, riserbandosi
l'assemblea un perpetuo ed illimitato sindacato. Non altrimenti governavasi il
Senato di Roma; e finché nella repubblica non vi furono poveri per vendersi e
ricchi per comprarli ed ogni cittadino era soldato, la libertà non corse
mai rischio veruno. Per contro, nei Stati moderni non v'è potere,
limitato che sia, il quale non tenti e non riesca ad usurpare; ciò
dipende dalla condizione economica della società, ed ogni rimedio,
finché non cangia il patto, è vano.
Molti
osserveranno che, per attuare una simile trasformazione, sarà necessario
far violenza ai proprietarî ed ai capitalisti; e noi risponderemo che sí; e in
forza di quel diritto medesimo che hanno gli oppressi di abbattere la
tirannide, che ha la società presente contro i ladri.
Finalmente,
se in cotesta trasformazione, certo meno violenta di quello che molti si vanno
immaginando, molti interessi privati soffriranno, e moltissimi cadranno nella
lotta, noi risponderemo che le rivoluzioni in cui tutti si salvano, esistono
solo nella mente dei dottrinanti e degli utopisti; la rivoluzione è
sempre una lotta di oppressi contro una classe di oppressori, quindi se vi
sarà vittoria, vi sarà eziandio disfatta; scacciare un re dal
trono non è rivoluzione: la rivoluzione si compie quando le istituzioni,
gli interessi, su cui quel trono poggiava, son cangiati.
Conchiudiamo,
ripetendo agli economisti le medesime loro parole: «Non si giunge senza
perdite sulla breccia. Né possiamo tener conto delle vittime che il carro del
progresso schiaccia nel suo corso». Ed usando il medesimo linguaggio di
Malthus diremo: «La Natura ha prescritto all'uomo di lavorare per vivere,
l'ozioso non ha piazza nel banchetto della vita; la Natura gli comanda
d'andarsene, né tarderà dare ella medesima esecuzione alla sua sentenza».
XIX.
La filosofia della storia prova ad evidenza che l'umano istinto, come è
sua natura, considerando la sola apparenza e l'effetto immediato delle cose,
senza riflettere sulle conseguenze che ne risultano, va soggetto ad un continuo
errare; quindi la pubblica educazione, che ferma l'attenzione e sviluppa il
pensiero, non solo è dovuta di diritto ad ognuno, ma è il cardine
principale della libertà.
Il
Filangieri, col suo naturale splendore, lungamente ha ragionato di ciò,
ma suo malgrado, soggiacque ai pregiudizî ed alle opinioni dell'epoca. Egli
richiede la prosperità universale come una condizione indispensabile
alla felicità di uno Stato «che può dirsi ricco e felice, egli
scrive, solo quando ogni cittadino, con un lavoro discreto di alcune ore,
può comodamente supplire ai suoi bisogni ed a quelli della sua famiglia».
Nell'epoca in cui visse l'Autore, l'accrescimento continuo del prodotto faceva
credere come cosa possibile che la prosperità potesse un giorno non
ugualmente ma equamente spandersi su tutti; non ancora l'esperienza avea
dimostrato il contrario e disingannato gli illusi; non ancora la ragione avea
sentenziato che l'universale miseria e l'opulenza di pochissimi è il
risultamento inevitabile del presente patto sociale.
Il
Filangieri adattò il suo sistema d'educazione ad una società
composta di due classi, ricchi e non ricchi; destinava i primi a servire la
società con la mente, i secondi con le braccia, e quindi due metodi
diversi di educazione. Per impedire che sorgessero un gran numero di
semi-dotti, che ora si vedono, i quali senza utile della scienza privano il
lavoro di braccia, fece in modo che la dottrina fosse accessibile, per le spese
che richiedeva, ai soli ricchi. Ma cotesta base, sulla quale poggiano le
diverse parti del suo sistema, egregie tutte, è erronea.
La
diversità delle incumbenze, cioè: servire la società con
la mente o con le braccia, dal sistema del Filangieri era resa ereditaria, ed
il popolo sarebbe stato diviso in due classi, non solo separate dal caso
distributore delle ricchezze, ma dalle leggi, che non per diritto, ma di fatto
accordavano ai soli ricchi il monopolio della scienza. Né il vendere a
caro prezzo la dottrina avrebbe minorato il numero de' semi-dotti, anzi
ciò l'avrebbe accresciuto oltre misura. La vera dottrina è
raggiunta solo da quelli che la Natura predispone a ciò, concedendo loro
le necessarie facoltà per conseguirla, ed a questa predisposizione, che
sola non basta, fa d'uopo che si aggiungano de' gagliardi moventi, che gli
avvenimenti, a cui la società va soggetta, creano; e tanto l'una, come
gli altri difficilmente si riscontrano, raramente operano fra il giro
ristrettissimo dei ricchi, a cui l'abbondanza, il lusso inflaccidiscono le
fibre, e piú all'ozio che alla solerzia li predispongono; i ricchi non
sarebbero che semi-dotti, e divenuta la dottrina un privilegio da ottenersi a
prezzo d'oro, i semi-ricchi, per far comprendere i loro figli fra coloro che
debbono servire lo Stato con la mente, ovvero comandare, farebbero qualunque
sacrifizio, ed il numero dei semi-dotti verrebbe accresciuto in immenso;
inoltre ne seguirebbe lo scadimento, l'avvilimento del lavoro, e di coloro che
i ristretti mezzi condannerebbero a servire la patria con le braccia. Cosí ogni
legge, che per impedire un male qualunque, pregiudica la libertà e
l'uguaglianza, produrrà sempre un effetto diverso da quello che si
propone il legislatore.
Gli
uomini sono naturalmente inclinati al lavoro delle braccia, si giovano delle
facoltà mentali per agevolare il lavoro di quelle; la dottrina,
l'astrazione non è naturale all'uomo. Ma i governi d'oggi, che per
intervenire in ogni cosa creano un numero strabocchevole di salariati; la
farragine di leggi oscure e contradditorie d'onde pullulano a sciami i curiali
come dalla putredine gli insetti, e salariati e curiali impinguandosi a spese
di coloro che lavorano, hanno diviso la società in scorticatori e
scorticati, ed avvilito il lavoro. Ognuno, se sa leggere, potendo farsi
comprendere fra i primi, crede avvilirsi se adopera la vanga o conduce
l'aratro. Ma, allorché sarà data al lavoro la considerazione che merita,
nessuno l'abbandonerà per una semi-dottrina che non potrà
fruttargli né considerazione né lucro. Lasciamo a tutti aperta la via che mena
alla scienza, ed essa sarà percorsa, volontariamente, solo da coloro che
Natura ha destinato a sublimarsi in essa. Questo è il principio generale
sul quale bisogna basare il sistema d'educazione, nei particolari egregiamente
svolto dal Filangieri; e però noi [non faremo che] accennare poche idee
senza dilungarci su di un argomento ampiamente trattato da grandissimi ingegni.
Sino
all'età dei sette anni, le cure materne sono indispensabili ai
fanciulli, sono prescritte dalla Natura: raggiunta questa età lo
sviluppo fisico è pienamente assicurato, l'educazione del fanciullo
verrà affidata allo Stato.
Ogni Comune avrebbe il suo ginnasio
ove si troverebbero tutti i mezzi necessarî allo sviluppo completo delle
facoltà fisiche e morali. Né dovrebbe trascurarsi la sublime idea del
Campanella di adornare le pareti con dipinti che tutte le scienze
rappresentassero.
Non
dovrebbero i convittori vivere in comune, imperocché per ottenere
l'unità nazionale bisogna riserbare integra ogni individualità,
ed il vivere sempre insieme forma sette, quindi i giovanetti sarebbero tutti
alunni esterni.
L'educazione
in questi ginnasi durerebbe sino all'età di quindici anni, nel qual
tempo ogni alunno apprenderebbe un'arte di suo gradimento. Dai quindici ai
sedici tutti sarebbero obbligati di assistere ad un corso di filosofia civile
ed origine di tutti i culti, onde ognuno imparasse i diritti di cittadino e
potesse garentirsi dalla superstizione. Ai sedici anni le naturali inclinazioni
son pienamente sviluppate, ogni giovane dichiara la sua volontà, e
sceglie l'arte o la professione alla quale vuol dedicarsi. Lo Stato gli accorda
altri due anni d'istruzione nella specialità da esso prescelta, e queste
scuole di tecnologia si troverebbero nelle principali città d'Italia. A
diciotto anni la tutela della nazione cessa, ed il giovane, avendo il diritto
di entrare in un'associazione di sua scelta, è dichiarato cittadino e
milite, e deve da sé procacciarsi da vivere.
Ragioneremo
ora dell'educazione delle donne e di ciò che ad esse riguarda, con la
brevità medesima che ci siamo imposti in questo ramo della costituzione
sociale. Sarebbe stata una lacuna troppo significante, tacendo della piú bella
parte del genere umano, depositaria dei piú vivi ed ardenti piaceri. La Natura
ha dato loro fibre piú delicate e piú sensibili delle nostre, e però le
loro sensazioni vivissime non possono essere che fugaci; elleno non possono
sopportare lungamente l'impero d'una passione, che deve in loro ammorzarsi con
la rapidità medesima che si desta. Capaci di quelle azioni ove il
decidersi e l'eseguire succedonsi rapidamente, son poi incapaci di sopportar a
lungo dolori, e mirare al conseguimento di un fine con attenzione profonda e
prolungata: brillano sí, ma non grandeggiano.
L'amore
nelle donne ha un carattere diverso che nell'uomo; l'uomo s'accende delle
bellezze della donna e desidera fortemente, la donna invece è presa
dall'amore che inspira, non desidera, ma brama di essere desiderata. Dante
parlando di Francesca, ha espresso questa idea:
Amor che a nullo amato amar perdona
Mi prese del costui piacer sí
forte
di quinci il
pudore, che accresce in altri il desiderio. Epperò [la] preponderanza
dell'amore sulle altre passioni, aggiunte alle cure ed agli incomodi di dovere
esser madre, la rendono inabile al governo ed alla milizia, quindi non
potrebbero aver voto nelle cose pubbliche. Ma, d'altra parte, la Natura,
avendole create abili a procacciarsi come vivere, le ha dichiarate,
perciò, indipendenti e libere, e tale dovrà essere la loro
condizione sociale. Esse saranno educate come gli uomini, con i riguardi e le
modifiche nel metodo, che si debbono alla gentilezza del sesso; al pari degli
uomini, con uguali diritti, dovranno essere ammesse in quelle società
che prescelgono. Probabilmente i lavori da sarto, da crestai, le belle arti, da
donne sarebbero tutte esercitate.
Tutte
le leggi sono scaturite dalle dipendenze che la violenza e l'ignoranza stabilí
fra gli uomini; ed in tal guisa il matrimonio risultò dai ratti che i
piú forti fecero delle piú belle, e se ne usurparono il godimento. La Natura,
per contro, sottopone l'unione dei due sessi alla sola legge dell'amore, e se
un'altra regola, qualunque siasi, interviene, l'unione cangiasi in contratto,
in prostituzione. La meretrice che senza amore vende il suo corpo, la donna che
senza amore sottoscrive ad un contratto matrimoniale si prostituiscono
egualmente. La prima vi è costretta dal bisogno e vendesi per breve
tempo, l'altra è piú spregevole, perché, senza bisogno, vendesi per
sempre; quella non promette amore né si obbliga a rinunziarvi, questa lo
promette per sempre quasi premeditando lo spergiuro. L'amore adunque nel nostro
patto sociale sarà la sola condizione richiesta che tende legittimo il
congiugnimento de' due sessi; se manca l'amore, la volontà, la
libertà diventa prostituzione.
La
comunanza delle donne non è naturale, l'amore è esclusivo, quasi
tutti gli animali non si accoppiano che con una sola femmina; le varie coppie
si formeranno da sé, l'unione durerà finché dura l'amore, cessato questo
l'unione è sciolta di fatto.
L'uomo
deve provvedere alla sussistenza della sua compagna finché i doveri di madre
gl'impediscono di lavorare.
I
figli rimarranno con la madre, alla quale per legge di Natura appartengono.
Sino ai sette anni essa provvederà, con l'aiuto del padre, che
dovrà concorrere alle spese necessarie per essi con una somma
proporzionata ai suoi lucri. Dai sette anni ai diciotto la Nazione ne assume la
tutela e l'educazione; ai diciotto sono liberi affatto e provvedono a loro
medesimi.
Non
essendovi testamenti, né le altre mostruose leggi che vorrebbero rendere
ereditario finanche il merito, il formarsi e lo sciogliersi delle coppie non ha
ostacoli né impaccio di sorte alcuna.
Qui
fo fine ed avendo misurate le vele col vento ed il timone con l'onde, non mi
sono imposto l'obbligo di risolvere il problema sociale; il mio proposito
è stato di mostrare la profondità delle piaghe, e l'inefficacia
d'ogni rimedio, finché non venga estirpato il diritto di proprietà e le
sue conseguenze, e questo proposito credo d'averlo compito; spetta all'intera
nazione di stabilire, dopo aver tolto gli ostacoli che ho additati, la sua nuova
costituzione, e se ho cercato d'indicarne i punti principali, l'ho fatto solo
per rintuzzare la stupida risposta: è impossibile vivere
altrimenti. Il rinvenire in questo cenno degl'incovenienti non sarà
difficile, ma saranno, certamente, molto minori de' mali sotto cui
l'umanità geme oppressa, mali che fatalmente, senza tregua,
ingrandiscono; mali, che la prepotente forza dell'abito fa credere inevitabili,
e perciò vengono, con pazienza, sofferti.
Nella
ricerca della nuova costituzione sociale ho seguito il metodo semplicissimo,
che il corso naturale degli avvenimenti additavami: distruggere il presente, e
creare il nuovo patto sociale, basandolo su' principî che le leggi magistrali
della Natura c'insegnano. Ho svolto poi i vantaggi del sistema dimostrando che
le tendenze funeste della presente società vengono completamente a
cangiarsi.
Conchiudo
con rammentare a' conservatori che la rivoluzione sociale non sarebbe
affrettata neppur di un'ora, eziandio se tutto il mondo riconoscesse attuabile
un nuovo ordinamento sociale; questa crisi della società dipende da
cagioni assai piú terribili e fatali; essa dipende dalle tendenze che
inesorabilmente, in progressione geometrica, si manifestano. Potete voi, non
già estirpare la miseria, ma evitare che cresca? potete voi negare che
la forza materiale è dalla parte di coloro che soffrono? e se le
tradizioni e l'inerzia formano il solo fascino per cui la società
presente non crolla, in un istante impreveduto può rompersi l'incanto.
XX.
Senza accordare importanza soverchia a' colori d'una bandiera ed alla formola
scritta su di essa, esporremo la nostra opinione su di ciò, poiché
trattasi di cosa che richiede pochissima fatica; opinione di cui ci faremmo i
propugnatori in un'assemblea, se mai potesse capitarne l'occasione.
Fintanto
che la nazione non sarà perfettamente libera, ed avrà
completamente debellati i suoi nemici, non bisogna né discutere, né porre in
dubbio, quale dovrà essere la bandiera che ci condurrà alla
battaglia. Il vessillo tricolore è da tutti riconosciuto, e ciò
basta: ove sventola e rannoda de' guerrieri intorno a sé, questi guerrieri
combattono pel trionfo della rivoluzione italiana, e nessun rivoluzionario
può astenersi dal seguirli; ma se su tale bandiera scorgesi un simbolo
od una formola, allora ognuno ha il diritto di dire: quella causa non è
causa che mi riguarda, e per la quale io combatto; proporre formole è un
dissolvere, e dissolvere per puerile soddisfazione personale.
Terminata
la guerra, ricostituita l'Italia, conserverà essa il tricolore vessillo,
o adotterà un'altra bandiera? pare che le opinioni potrebbero dividersi
su tale argomento; alcuni sosterrebbero con ragione che la nuova costituzione
sociale, non ammettendo divisione di potere, ma le leggi, la loro esecuzione,
il loro sindacato, tutto trovandosi nel popolo, la pluralità de' colori,
che precisamente accenna è assurda, quindi diranno: sia qual si voglia
il colore della bandiera, ma sia un solo. Altri invece potranno sostenere che
il vessillo tricolore, intorno a cui si saranno vinte tante battaglie, è
troppo caro, è troppo ricco di gloriose reminiscenze, per abbandonarlo,
perché non trovasi perfettamente d'accordo con la logica: noi saremmo tra
questi ultimi, proponendo solo che il berretto frigio ne sormonti l'asta,
escludendo ogn'altro simbolo d'autorità e di conquista, e che nel mezzo
di esso, l'archipendolo indichi come l'uguaglianza sia il patto
fondamentale di nostra costituzione.
Rimane
ora a discutere quale sarà la formola che adotterà la nazione,
noi trascriveremo il ragionamento sensatissimo, che troviamo nell'opera di
Ausonio Franchi, La Religione del secolo XIX, in cui si fa
paragone tra la formola francese, Libertà, Eguaglianza,
Fratellanza e la formola di Mazzini, Dio e Popolo:
«Esaminiamo
le differenze radicali, finora poco avvertite, e nondimeno importanti, che
Mazzini scorge fra una formola e l'altra. "La Francese è
essenzialmente storica; ricapitola in certo modo la vita
dell'umanità nel passato, accennando poco definitivamente al
futuro". Questo giudizio, né quanto al passato, né quanto al
futuro, non parmi esatto. La formola: Libertà, Eguaglianza,
Fratellanza, non può dirsi che recapitoli la vita reale
dell'umanità nel passato; perché non può ricapitolarsi quello che
non è ancora esistito, e Mazzini per fermo non saprebbe indicarci
nessun'epoca della storia in cui già regnasse la libertà,
l'eguaglianza e la fratellanza universale. Onde egli stesso, tracciando
l'ordine e lo sviluppo con cui si vennero elaborando i tre elementi della formola,
parla sempre dell'idea, non mai del fatto. E però, se la formola
teoricamente è la ricapitolazione del passato, praticamente è la
legge del futuro; legge, non poco definita, ma cosí
chiara, che non ha mestieri d'alcuna spiegazione; cosí vasta, che abbraccia
tutte le condizioni private e pubbliche della vita; cosí progressiva, che
nemmeno col pensiero si può oltrepassare la perfezione, che prefigge
qual meta alla carriera dell'umanità.
"La
formola italiana (cosí appella Mazzini la sua) è invece radicalmente
filosofica; accettando le conquiste del passato, guarda risolutamente al
futuro, e tende a definire il metodo piú opportuno allo svolgimento progressivo
delle facoltà umane". Confesso che tutto questo periodo è
per me un enigma. In qual senso può mai chiamarsi filosofica l'espressione:
Dio e il Popolo? Nessuno di questi due termini ha qualche relazione
particolare con la filosofia: non Dio, perché è concetto
religioso anziché scientifico; non il Popolo, perché è concetto
empirico anziché scientifico razionale. E come può dirsi che quella
formola accetti le conquiste del passato? Né Dio né il Popolo
sono principî che l'umanità abbia conquistato: ma l'uno è il
simbolo di un sentimento connaturale allo spirito umano, e l'altro per sé non
è che un fatto materiale. Come può dunque guardare
al futuro? Come tendere a definire un metodo qualsiasi per lo
svolgimento delle umane facoltà? Ho un bel ripetere a me stesso: Dio
e il Popolo; io non ritrovo in queste parole né passato, né futuro;
non ci veggo né definizione, né metodo di sorta; non ci sento
né progresso, né svolgimento di nessuna facoltà:
scientificamente non ci trovo nulla; perché Dio è un'incognita, e
il Popolo è un fenomeno di storia naturale.
"La
prima esprime compendiato un grande fatto: la seconda scrive su la
bandiera un principio. La prima definisce, afferma il progresso
compiuto: la seconda costituisce lo strumento del progresso, il mezzo, il modo,
per cui deve compirsi". A me sembra tutto il contrario. La formola
francese non esprime un fatto, ma un principio; perché i
suoi elementi sono idee, sono verità che hanno ancora da incarnarsi e
realizzarsi nella storia. Essa adunque afferma bensí un progresso compiuto
nell'ordine del pensiero, ma determina insieme la legge del progresso da
compiersi nell'ordine dell'azione. All'incontro, la formola di Mazzini non
significa né il progresso compiuto, né quello da compirsi; né la
verità d'un principio, né la legge d'un fatto; e l'ingegno il piú acuto
ed analitico del mondo non arriverà giammai a scoprire in quelle due
voci la costituzione di uno strumento, di un mezzo, di un modo
quale che sia di progresso.
Ben
ve lo scorge Mazzini, lo so; ma ve lo scorge mediante un commento che dà
ai due termini un senso tutto suo proprio. Egli continua infatti: "Una formola
filosofico-politica, per aver dritto e potenza d'avviar normalmente i lavori
umani, deve racchiudere due sommi termini: la surgente, la sanzione morale del
progresso: la legge e l'interprete della legge".
Questa
nozione della formola politica, a mio avviso, è falsa. Una formola
scientifica non è altro, che l'espressione chiara e concisa, e quasi la
riduzione a' minimi termini di una legge. Ora che cosa sono, nel linguaggio
filosofico, le leggi? Sono i rapporti naturali e necessarî degli esseri. Ma per
determinare questi rapporti non fa d'uopo di assegnarne la surgente; e nessuna
legge fisica, matematica, metafisica e morale si fa dipendere in alcuna guisa
dal concetto della sua causa. Dunque il primo termine, che Mazzini prescrive
alla formola, non le appartiene. E non le appartiene neppur il secondo, che
è, giusta la sua dottrina, la sanzione o l'interpretazione della
legge. In primo luogo, perché la sanzione d'una legge non ha che fare
con la sua interpretazione: identificare l'una con l'altra, è
distruggerle entrambe. In secondo luogo, perché la formola d'una legge è
affatto diversa ed indipendente dalla sua interpretazione e dalla sua sanzione:
le sono quistioni d'ordine e di natura al tutto differente: confonderle in una
è renderle insolubili tutte.
La
formula politica adunque non deve esprimere altro che la legge sociale, ossia i
rapporti naturali e necessarî de' cittadini verso la nazione, e delle nazioni
verso l'umanità. La surgente poi e la sanzione di questa
legge sono due problemi a parte, gravissimi e importantissimi quanto si voglia,
ma indipendenti dalla formola. Dunque allorché Mazzini soggiunge: "Questi
due termini mancano alla formola francese, costituiscono l'italiana",
pronuncia senz'accorgersene il piú grande elogio di quella e la piú severa
condanna della sua.
"La
surgente, la sanzione morale della legge sta in Dio, cioè in una sfera
inviolabile, eterna, suprema, su tutta quanta l'umanità, e indipendente
dall'arbitrio, dall'errore, dalla forza cieca e di breve durata. Piú
esattamente Dio e legge sono termini identici". Con questo commento, lungi
dallo spiegare la sua formola, Mazzini l'immerge in un pelago di nuove
difficoltà e di nuovi misteri. Se Dio e legge sono termini
identici, la sua tesi, che la surgente, la sanzione della legge
sta in Dio, equivale precisamente a quest'altre: la surgente della legge
è la legge: - la sanzione della legge è la legge; - la surgente
di Dio è Dio; - la sanzione di Dio è Dio; - la legge è la
legge, - Dio è Dio. - E che senso daremo noi a questo gergo? Inoltre se
la legge è Dio, convien dunque sapere che cos'è Dio per conoscere
che cosa sia la legge. E il Dio di Mazzini qual è? Ecco il nodo della
questione. L'accennare, come egli fa, ad una sfera inviolabile, eterna,
suprema, non è definire; poiché a tutte quante le religioni e le
sette possono appropriarsi quelle belle parole; ma son parole! Avanti
d'accettare la sua formola, dobbiamo chiedergli che ci dica una buona volta,
senza ambagi e senza tropi, che cos'è Dio? Ovvero fra i varî Dei
presentemente noti in Europa, qual è il suo? Teologicamente noi possiamo
annoverarne quattro, assai diversi fra loro: il Dio degli ebrei, il Dio de'
cattolici, il Dio de' maomettani, e il Dio de' protestanti. Filosoficamente,
poi, li Dei possono contarsi a centinaia. Ciascuno de' molti sistemi di
panteismo, di materialismo, di spiritualismo, d'idealismo, ecc., ha un suo Dio
particolare, che è sempre la negazione del Dio di ciascun altro. Or
bene: fra questa turba di Dei, qual è il Dio che Mazzini adora e che
vuol farci adorare? Da' suoi scritti non mi venne mai fatto di raccapezzarlo;
poiché ci sono frasi per tutti: ce n'è per il Dio del papa, per quello
di Lutero, per quello di Maometto, per quello di Socino, per quello di
Rousseau, per quello di Spinoza… Non è dunque possibile che la sua
formola abbia un valore, finché il primo e massimo elemento non è ben
definito.
"L'interpret[azione]
della legge fu problema continuo all'umanità. - La formola italiana
affida l'interpretazione della legge al popolo, cioè alla Nazione,
all'Umanità collettiva, all'associazione di tutte le facoltà, di
tutte le forze, coordinate ad un patto". Qui abbiamo una certa
definizione; ma siccome è arbitraria, cosí non vale a costituire né
legge né formola veruna. Chi abbia già del Popolo la sublime idea
che a Mazzini venne inspirata dal suo nobile cuore, dirà come lui,
certamente: ma i termini d'una formula, di una legge sociale, devono portare in
se stessi il loro valore, e non ritrarlo dall'arbitrio e dall'intenzione dello
scrittore. Fra i due termini Dio e il Popolo, non è espresso
alcun rapporto; dunque o bisogna supporre che l'unico rapporto possibile sia
quello di Mazzini; o altrimenti la sua formula non significa nulla perché non
determina nulla. Il primo caso non è ammessibile, dacché ripugna
egualmente alla logica ed alla storia; dunque sta il secondo.
"La
formola italiana, intesa a dovere, sopprime dunque per sempre ogni casta, ogni
interprete privilegiato, ogni intermediario per diritto proprio tra Dio, padre
e inspiratore dell'umanità, e l'umanità stessa". Ma perché
possa produrre tanti bei frutti la formola va intesa a dovere,
cioè nel senso di Mazzini; chè, altrimenti, preso ciascun termine
come suona, non ha senso alcuno determinato. E questa clausola sola non prova
abbastanza la completa nullità della formula mazziniana?
La francese all'incontro sopprime ogni casta, ogni interprete privilegiato,
senza bisogno di chiose che ne la facciano intendere a dovere; ma
semplicemente in virtú del senso naturale, ordinario e vulgarissimo delle
parole. Dovunque sia libertà, eguaglianza e fratellanza, ivi è
impossibile fino il concetto di casta e di privilegio; laddove Dio e il Popolo
son dappertutto, e pure dappertutto regna il privilegio e la casta.
"La
formula italiana, generalizzata da una nazione all'associazione delle nazioni,
dichiara fondamento d'una teoria della vita: Dio è Dio, e
l'umanità è suo profeta". Non so capire come un apostolo
del progresso abbia potuto tenere questo linguaggio che odora cosí forte di
musulmano. Oh! Mazzini dovea lasciarlo a quei devoti e fanatici settarî, i
quali credono tanto piú fermamente una cosa, quanto piú è
incomprensibile ed assurda; ma egli parla ad uomini civili del secolo XIX, e sa
meglio di me che costoro non sono disposti a credere se non quello che
intendono. O spera forse d'aver loro tolto ogni dubbio e chiarita ogni
difficultà con quella strana definizione: Dio è Dio? E
quando avranno imparato che Dio è Dio, conosceran poi davvero che
cos'è Dio? Quando pure gli concedano che l'Umanità è
profeta di Dio, potranno persuadersi d'aver trovato il fondamento
d'una teoria della vita? Una teoria non può assumere per fondamento
se non un principio certo ed evidente; e Mazzini vuol fondare la teoria
della vita sopra d'un giuoco di parole, sopra di un'incognita?
"La
formula italiana è dunque essenzialmente, inevitabilmente,
esclusivamente repubblicana; non può uscire che da una credenza
repubblicana; non può inaugurare che repubblica". Ed anche questa
conclusione è fallace. La formula Dio e il Popolo non è, e
non può dirsi né esclusivamente, né inevitabilmente repubblicana,
poiché è essenzialmente indeterminata, ossia nulla. Essa riceve
il suo significato dal carattere di chi la proclama; ed è repubblicana
sulla bandiera di Mazzini, come sarebbe teocratica su quella di Pio IX.
"La
formula francese, non accennando alla surgente eterna della legge, ha potere
per difendere con la forza, co 'l terrore, non con l'educazione, alla quale
manca la base, le conquiste del passato; è muta, incerta, mal ferma su
l'avvenire". V'ha qui un gruppo di metafore, in cui non veggo lume da
nessuna parte. Accusare una formula di non potersi difendere! Mescolare
insieme formula e forza; formula e terrore, formula ed educazione!
O che? la formula dev'essere dunque un esercito o una fortezza, una scuola o
un'accademia? E la formula di Mazzini ha dunque il potere di educare? A
crederlo però aspetteremo di vederla salire in bigoncia, e di ascoltare
le sue pedagogiche lezioni!… Del resto che la francese non accenni alla
surgente della legge, è appunto il suo pregio e il suo merito
principale; e che sia muta, incerta, mal ferma su l'avvenire, non
può sostenerlo, se non chi ignori o voglia affatto dimenticare il senso
piú ovvio delle parole libertà, eguaglianza, fratellanza.
Il
rimanente del suo discorso dovrei dire, se non si trattasse di Giuseppe
Mazzini, che offende troppo il senso comune: "La formola francese non
definendo l'interprete della legge, lascia schiuso il varco
agl'interpreti privilegiati, papi, monarchi o soldati. Quella formola poté
nascere dagl'ultimi aneliti d'una monarchia: sussistere ipocritamente in una
repubblica che strozzava la libertà repubblicana di Roma: soccombere sotto
il nepote di Napoleone, che dichiarava: io sono il migliore interprete della
legge, io sarò tutore alla libertà, all'eguaglianza, alla
fratellanza de' milioni". Come! Mazzini trova modo di associare
insieme questi concetti: libertà e privilegio, eguaglianza e papa,
fraternità e monarca o soldato! Ma se questi non sono
concetti rigorosamente, evidentemente, palpabilmente contraddittori, c'insegni
un po' che cosa sia ripugnanza e contraddizione; giacché, se mi permette di
ragionare con la sua logica, io gli convertirò tutti gli assurdi in
altrettanti assiomi. Inoltre, quel rimprovero che esso rivolge alla formola
francese, mi fa nuovamente dubitare ch'egli esiga proprio dalle formole
l'officio degli schioppi, dei cannoni e delle bombe.
Ma non è una stranezza, a dir poco, l'imputare ad una
formola le iniquità di un governo? Quelle iniquità erano forse
una conseguenza legittima e necessaria di quella formola? Questo governo era
forse fedele al suo principio? A chi mai farà credere Mazzini che se in
luogo delle parole: liberté, égalité, fraternité, fosse stato scritto in
fronte a' pubblici monumenti: Dio e il Popolo, l'assemblea francese non
avrebbe decretato la spedizione di Roma, né il Bonaparte avrebbe fatto il colpo
di stato? Le parole: Dio e il Popolo ben erano scritte sulle
bandiere di Roma; e perché non fecero il miracolo di salvarla? Perché Mazzini
non isconfisse i battaglioni francesi, non disperse le artiglierie tedesche,
non mantenne saldi ed incolumi i bastioni italiani co 'l suo magico grido: Dio
e il Popolo? - In verità, io arrossisco di dover discutere argumenti
cosí stravaganti. No, Napoleone non commise la follia di dichiararsi tutore
della libertà, dell'uguaglianza, e della fratellanza dei milioni. Egli
fu assai piú consentaneo a se stesso: "giú la libertà, egli disse,
giú l'eguaglianza e la fratellanza! Io sono il vincitore e comando: il popolo
è vinto e obbedisca". E quella povera formula, che Mazzini stima
conciliabile di fatto col dispotismo, Napoleone non la giudicò
compatibile, né pur di solo nome, co 'l suo potere: la cancellò
dapertutto! Ma invece quale è la formula che trovò bella e fatta
per lui? È quella di Mazzini: in nome di Dio e del Popolo (par la
grace de Dieu et la volonté nationale)…
Ed
è la storia, non io, che dà una smentita cosí fresca e solenne a
quell'altra singolare asserzione: "Né papa né re potrebbero
assumere co' repubblicani italiani linguaggio siffatto. La formola
inesorabile gli direbbe: non conosciamo interpreti intermediarî,
privilegiati tra Dio e il popolo; scendi ne' suoi ranghi, ed abdica".
Sí, Bonaparte ha assunto linguaggio siffatto co' repubblicani;
e la formola di Mazzini si mostrò, non mica inesorabile, ma la
piú compiacente e pieghevole creatura del mondo. Essa non solamente stette
cheta e si tacque; ma fece assai piú, ed assai peggio. Si presentò lesta
lesta al Bonaparte e gli disse: "Tu cerchi un'insegna per la tua bandiera
ed un'iscrizione pe' tuoi decreti: eccomi qua, nata, fatta per te. Grida
sempre: Dio e Popolo, e fa quel che vuoi: tu avrai sempre ragione".
Oh! Mazzini è tornato in mal punto a celebrare la sua formola. Doveva
almeno purgarla dal fango, di cui l'ha contaminata Bonaparte! e assolverla
dall'infamia, onde l'hanno coperta i bonapartisti!…»
Ho
cominciato a trascrivere questa splendida confutazione della formula
mazziniana, col proposito di sceverarla de' periodi meno interessanti; ma,
fatta eccezione di alcune parole, nel principio ed alla fine, le une che
servono di legame con quello di cui precedentemente ragiona l'A. e le altre che
riguardano lui personalmente, non ho trovato nulla che ridondi, che non
interessi, che non piaccia, perciò interamente e fedelmente l'ho
trascritta. Aggiungo ora le mie osservazioni.
Le
condizioni alle quali debba soddisfare una formola politica, attenendoci alle opinioni
medesime del Mazzini e del Franchi, sono che: deve esprimere la verità
d'un principio, la legge d'un fatto; un principio che, base del patto sociale,
determini i rapporti de' cittadini fra loro e con la società, ed accenni
eziandio la legge che darà norma al progresso futuro. E tutto
ciò, leggendo la formola, deve presentarsi chiaro, immediato, concreto
alla mente d'ognuno, senza aver bisogno d'interpreti o di commenti.
A
me pare che la formola francese non soddisfi a queste condizioni. Il suo merito
altro non è che non contraddirle. Libertà non può
esistere senza eguaglianza; quindi una di queste due parole ridonda; se
tutti sono eguali non potranno essere che liberi, né potranno dirsi liberi i
cittadini fra cui non siavi eguaglianza; e la fratellanza poi, come che accenni
il fine a cui tende la nazione, il patto che lega i cittadini è
un'ipocrisia perché non esiste in natura; e se i cittadini vivranno come
fratelli perché tali li rendono gl'interessi tutti cospiranti al bene pubblico,
non perciò saranno tali; inoltre da questa parola viene l'odore del
cristianesmo a mille miglia.
Non
comprendo come sia sfuggita alla mente di tutti la formola semplicissima e
chiarissima, già titolo d'un savio giornaletto che pubblicavasi in
Genova: LIBERTÀ ED ASSOCIAZIONE.
Questa
formola, evidente per se medesima, non ha bisogno né d'interpreti, né di
commenti; essa è un principio, ed è quello appunto su cui deve
basarsi il patto sociale: la libertà esprime il diritto d'ogni Italiano,
l'associazione la sola legge a cui si sottopongono, il solo patto che li
unisce, l'unico rapporto sociale; e sotto questa unica legge, eziandio, deve
svilupparsi l'indefinito progresso sociale.
Come
Ausonio Franchi, dico che per noi deve essere «nostrale ogni verità,
straniero ogni errore»: ma in parità di circostanze preferisco
ciò ch'è italiano a ciò ch'è straniero. E quando ad
una formola adottata da un'altra nazione io trovo da sostituirne altra uguale o
migliore, non dubito un istante, perché l'imitazione mai è scompagnata
da qualche cosa di servile. Sono umanitario, ma innanzitutto italiano, e come
in una nazione non può costituirsi il nuovo patto fra i cittadini, se
ognuno di essi non acquisti piena ed intera la sua individualità, cosí
non vi sarà fratellanza, o meglio associazione di popoli, se prima ogni
popolo non ottenga la sua completa autonomia; e come è impossibile
sorgere a libertà prima che ognuno senta ed operi liberamente, del pari
il primo passo che dobbiamo fare noi Italiani, onde avviarci alla soluzione del
problema umanitario, è quello di sentirci e di costituirci
esclusivamente italiani. Come dalla libera manifestazione del pensiero d'ognuno
risulta il vasto concetto nazionale; cosí dalla libertà ed esistenza
propria ed assoluta d'ogni nazione può risultarne il patto umanitario;
chi ammette supremazia di nazione, astri e satelliti, nega la rivoluzione verso
cui aspiriamo.
Genova, 24
giugno 1857.
Nel momento d'avventurarmi in una
intrapresa risicata, voglio manifestare al paese la mia opinione per combattere
la critica del volgo, sempre disposto a far plauso ai vincitori e a maledire ai
vinti.
I miei principî politici sono
sufficientemente conosciuti; io credo al socialismo, ma ad un socialismo
diverso dai sistemi francesi, tutti piú o meno fondati sull'idea monarchica e
dispotica, che prevale nella nazione: esso è l'avvenire inevitabile e
prossimo dell'Italia e fors'anche dell'Europa intiera. Il socialismo, di cui
parlo, può definirsi in queste due parole: libertà e associazione.
Questa opinione fu da me sviluppata in due volumi, che ho composto, frutto
di quasi sei anni di studi, ai quali per mancanza di tempo non ho potuto
dedicare le ultime cure che richiedono lo stile e la dizione. Se qualcheduno
fra [i] miei amici volesse surrogarmi e pubblicare questi due volumi, io gliene
sarei riconoscentissimo.
Io sono convinto che le strade di
ferro, i telegrafi elettrici, le macchine, i miglioramenti dell'industria,
tutto ciò finalmente che sviluppa e facilita il commercio, è da
una legge fatale destinato ad impoverire le masse fino a che il riparto dei
benefizi sia fatto dalla concorrenza. Tutti quei mezzi aumentano i prodotti, ma
li accumolano in un piccolo numero di mani, dal che deriva che il tanto vantato
progresso termina per non esser altro che decadenza. Se tali pretesi
miglioramenti si considerano come un progresso, questo sarà nel senso di
aumentar la miseria del povero per spingerlo infallibilmente a una terribile
rivoluzione, la quale cambiando l'ordine sociale metterà a profitto di
tutti ciò che ora riesce a profitto di alcuni.
Io sono convinto che l'Italia
sarà grande per la libertà o sarà schiava: io sono convinto
che i rimedî temperati, come il regime costituzionale del Piemonte e le
migliorie progressive accordate alla Lombardia, ben lungi dal far avanzare il
risorgimento d'Italia, non possono che ritardarlo. Per quanto mi riguarda, io
non farei il piú piccolo sacrifizio per cambiare un ministero o per ottenere
una costituzione, neppure per scacciare gli Austriaci dalla Lombardia e riunire
questa provincia al regno di Sardegna. Per mio avviso la dominazione della casa
di Savoia e la dominazione della casa d'Austria sono precisamente la stessa
cosa. Io credo pure che il regime costituzionale del Piemonte è piú
nocivo all'Italia di quello che lo sia la tirannia di Ferdinando II. Io credo
fermamente che se il Piemonte fosse stato governato nello stesso modo che lo furono
gli altri Stati italiani, la rivoluzione d'Italia sarebbe a quest'ora compiuta.
Questa opinione pronunciatissima
deriva in me dalla profonda mia convinzione di essere la propagazione dell'idea
una chimera e l'istruzione popolare un'assurdità. Le idee nascono dai
fatti e non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero perché
sarà istrutto, ma sarà ben tosto istrutto quando sarà
libero. La sola cosa, che può fare un cittadino per essere utile al suo
paese, è di attendere pazientemente il giorno, in cui potrà
cooperare ad una rivoluzione materiale: le cospirazioni, i complotti, i
tentativi di insurrezione sono, secondo me, la serie dei fatti per mezzo dei
quali l'Italia s'incammina verso il suo scopo, l'unità. L'intervento
della baionetta di Milano ha prodotto una propaganda molto piú efficace che
mille volumi scritti dai dottrinari, che sono la vera peste del nostro paese e
del mondo intiero.
Vi sono delle persone che dicono: la
rivoluzione dev'esser fatta dal paese. Ciò è incontestabile. Ma
il paese è composto di individui, e se attendessero tranquillamente il
giorno della rivoluzione senza prepararla colla cospirazione, la rivoluzione
non scoppierebbe mai. Se al contrario tutti dicessero: la rivoluzione deve
farsi dal paese e siccome io sono parte infinitesimale del paese, cosí ho io
pure la mia parte infinitesimale di dovere da adempiere, e l'adempisse, la
rivoluzione sarebbe fatta immediatamente e riuscirebbe invincibile perché
immensa. Si può non esser d'accordo sulla forma di una cospirazione, sul
luogo e sul tempo in cui una cospirazione debba compiersi: ma non essere
d'accordo sul principio è un'assurdità, un'ipocrisia, un modo di
celare il piú basso egoismo.
Io stimo colui che approva la
cospirazione ed egli stesso non cospira: ma non sento che disprezzo per coloro,
che non solo non voglion far niente ma che si compiacciono nel biasimare e nel
maledire gli uomini d'azione. Secondo i miei principî avrei creduto di mancare
ad un sacro dovere se vedendo la possibilità di tentare un colpo di mano
su d'un punto bene scelto ed in circostanze favorevoli, non avessi spiegato
tutta la mia energia per eseguirlo e farlo riuscire a buon fine.
Io non ho la pretesa, come molti
oziosi me ne accusano per giustificare se stessi, di essere il salvatore della
patria. No: ma io sono convinto che nel mezzogiorno dell'Italia la rivoluzione
morale esiste: che un impulso energico può spingere le popolazioni a
tentare un movimento decisivo ed è perciò che i miei sforzi si
sono diretti al compimento di una cospirazione che deve dare quello impulso. Se
giungo sul luogo dello sbarco, che sarà Sapri, nel Principato citeriore,
io crederò aver ottenuto un grande successo personale, dovessi pure
lasciar la vita sul palco. Semplice individuo, quantunque sia sostenuto da un
numero assai grande di uomini generosi, io non posso che ciò fare, e lo
faccio. Il resto dipende dal paese, e non da me. Io non ho che la mia vita da
sacrificare per quello scopo ed in questo sacrifizio non esito punto.
Io sono persuaso, se l'impresa
riesce, otterrò gli applausi generali: se soccombo, il pubblico mi
biasimerà. Sarò detto pazzo, ambizioso, turbolento, e quelli, che
nulla mai facendo passano la loro vita nel criticare gli altri, esamineranno
minuziosamente il tentativo, metteranno a scoperto i miei errori, mi
accuseranno di non esser riuscito per mancanza di spirito, di cuore e di
energia... Tutti questi detrattori, lo sappiano bene, io li considero non solo
incapaci di fare ciò che si è da me tentato, ma anche di
concepirne l'idea. A quelli che diranno che l'impresa era d'impossibile
riuscita io rispondo che se prima di combinare di tali imprese si dovesse
ottenerne l'approvazione nel mondo bisognerebbe rinunziarvi. Il mondo non
approva in prevenzione che i disegni volgari. Fu detto un pazzo colui che fece
in America l'esperimento del primo battello a vapore, e si è piú tardi
dimostrata l'impossibilità di traversare l'Atlantico con tali battelli.
Era un pazzo il nostro Colombo prima di aver scoperto l'America, e l'uomo
volgare avrebbe trattato di pazzi e d'imbecilli Annibale e Napoleone se
avessero avuto a soccombere quello alla Trebbia, questo a Marengo. Io non
pretendo paragonare la mia impresa con quelle di questi grandi uomini. Essa per
altro loro rassomiglia in una parte: perché sarà l'oggetto dell'universale
disapprovazione se fallisco, e dell'ammirazione di tutti se riesco. Se
Napoleone prima di abbandonare l'isola d'Elba per sbarcare a Fréjus con
cinquanta granatieri avesse domandato dei consigli, il suo progetto sarebbe
stato biasimato all'unanimità. Napoleone aveva ciò ch'io non ho,
il prestigio del suo nome, ma io unisco alla mia bandiera tutte le affezioni e
tutte le speranze della rivoluzione italiana. Combatteranno con me tutti i
dolori e tutte le miserie d'Italia.
Io piú non aggiungo che una parola:
se non riesco disprezzo profondamente l'uomo ignobile e volgare che mi
condannerà: se riesco apprezzerò assai poco i suoi applausi. Ogni
mia ricompensa io la troverò nel fondo della mia coscienza e nell'animo
di questi cari e generosi amici, che mi hanno recato il loro concorso ed hanno
diviso i battiti del mio cuore e le mie speranze: che se il nostro sacrifizio
non apporta alcun bene all'Italia, sarà almeno una gloria per essa
l'aver prodotto dei figli che vollero immolarsi al suo avvenire.
Sottoscritto
CARLO
PISACANE