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Franco Pignatti

 

Antichi e Moderni

 

Da http://www.italica.rai.it/rinascimento/monografie/antichi_moderni/

 


 

INDICE

Premessa. 1

Petrarca riscopre gli Antichi e i loro libri 2

Gli umanisti e gli Antichi 3

Le scoperte dei libri degli Antichi 4

Gli Antichi e i Moderni secondo Coluccio Salutati 6

Ancora Coluccio Salutati sul rapporto dei Moderni con gli Antichi 7

La polemica tra Poggio Bracciolini e Lorenzo Valla. 9

La posizione di Pomponio Leto. 11

La cultura antiquaria di Ciriaco d’Ancona e Felice Feliciano. 12

L’Umanesimo archeologico: la Roma di Flavio Biondo. 14

La lettera di Castiglione e Raffaello a papa Leone X. 15

Machiavelli e gli Antichi 17

 


 

Premessa

         

Il rapporto tra Antichi e Moderni ha nel Rinascimento un ruolo di primo piano e costituisce, attraverso le differenti fasi storiche e i diversi orientamenti del gusto e delle dottrine, un luogo di riflessione costante per almeno due secoli di cultura. La scoperta dell'Antichità come altro da noi, ma a noi contigua, contemporanea, costituisce la grande elaborazione culturale, radicalmente innovativa, che è alla base dell'Umanesimo e determina progettualmente la frattura epocale con il Medioevo. Questa nuova cultura colloca da quel momento in avanti al centro della storia europea la coscienza storica della separazione tra passato e presente, l'urgenza di stabilire un ponte tra i tempi attuali e quelli remoti, la consapevolezza che l'esperienza spirituale e intellettuale dell'uomo è il risultato di una fondazione soggettiva della propria individualità e che tale fondazione scaturisce dal dialogo con il passato.

 

Petrarca riscopre gli Antichi e i loro libri

         

Il sorgere di una nuova sensibilità nel modo di percepire e porsi in relazione con gli autori antichi si avverte in termini netti in Francesco Petrarca. In tutta la sua vita lo studio e la dedizione agli scrittori latini ha un ruolo fondamentale; la scoperta nei codici antichi di opere che si riteneva perdute fece di Petrarca l'iniziatore di un processo culturale che nell'arco di circa un secolo rivoluzionò la conoscenza dell'Antico in tutto il mondo occidentale, ponendo le basi per una svolta nella storia della civiltà.

Fino alle soglie del Cinquecento, quando negli interessi degli umanisti italiani e stranieri lo studio del greco prenderà il sopravvento sul latino, sollecitando nuovi interessi filosofici e scientifici, la riscoperta e rimessa in circolazione di opere poetiche, storiche e retoriche sconosciute, o conosciute in maniera frammentaria, costituisce l'attività culturale predominante e il settore dove in maniera più vivace e innovativa ha luogo l'elaborazione di una nuova concezione dell'uomo e della storia. Al centro di questa nuova cultura è il recupero dell'Antico e la definizione del suo rapporto con i Moderni.

La scoperta, a opera di Petrarca, nella Biblioteca Capitolare di Verona, dei sedici libri delle lettere di Cicerone ad Attico costituisce un evento rivoluzionario, in quanto restituisce un aspetto inedito del grande oratore latino, quello privato e intimo della comunicazione epistolare: un Cicerone estraneo allo schematismo retorico e argomentativo delle orazioni e dei trattati filosofici, e quindi immune dal lavoro di generazioni di commentatori che avevano destinato queste opere, nel corso del Medioevo, a una trasmissione scolastica, tutta incentrata sull'aspetto astratto e normativo dell'arte del dire e dei procedimenti logici ad essa sottostanti, sicché la disciplina dell'argomentazione così come risultava teorizzata e realizzata da Cicerone cessava di essere un'esperienza storicamente definita e umanamente connotata, per essere ridotta a degli universali di tipo logico, avulsi da ogni connotazione temporale e spaziale.

Recuperare al di fuori dei condizionamenti di una tradizione di questo tipo scritti in cui Cicerone proponeva un'immagine di sé e del suo tempo informale, in forma di meditazione e di confessione privata e famigliare, significava acquisire in maniera concreta e pragmatica una dimensione dell'Antico vivificata dalla quotidiana esperienza umana, dall'urgenza dei sentimenti e delle passioni, nelle quali gli uomini moderni potevano specchiarsi e riconoscersi paradossalmente meglio che negli autori a loro più vicini.

La pulsione originaria è certamente un moto di ammirazione e di affetto per l’Antico, in cui Petrarca scopre l'affinità col presente, pur allontanandolo da sé nella prospettiva storica e comprendendolo nella sua diversità, in primo luogo religiosa (gli Antichi sono pagani). Un’ammirazione e un affetto che si fa dialogo incessante con le loro opere, e accetta il confronto con una realtà culturale e umana che appare con tutta evidenza affine, e per molti versi superiore e più complessa di quella contemporanea: ma è con questa realtà che occorre tornare a misurarsi, per arricchire e aprire spazi inediti alla propria coscienza personale, con curiosità e inquietudine, insoddisfatti di tradizionali posizioni assolute di fronte all'eternità della creazione e al problema della salvezza dell'anima. Per Petrarca diventa necessario fare i conti con la storia, quella contemporanea come quella del passato, per sottrarsi, per la prima volta, a un teleologismo universalistico, per scoprirsi individuo.

 

Gli umanisti e gli Antichi

         

La riscoperta e lo studio dei classici inaugurato da Petrarca dà luogo a una vera e propria rivoluzione antropologica, rispetto al Medioevo. Il tempo e la storia dell'uomo vengono percepiti non più come una continuità, illuminata dall'avvenimento salvifico dell'incarnazione, tra i due estremi metastorici della genesi e del giudizio universale, ma come lo svilupparsi di azioni terrene sottoposte a costanti universali insite nella natura umana, il che non nega a priori la trascendenza, ma colloca l'uomo in una diversa prospettiva di protagonista della propria storia al di fuori di una prospettiva provvidenzialistica.

La conoscenza più ampia e diretta della letteratura e del pensiero degli Antichi dà netta la percezione della loro diversità rispetto ai Moderni, in termini del tutto nuovi rispetto alla cultura medievale, che a questi problemi era stata in massima parte estranea. Come esempio si può citare l'invenzione del Limbo dei sapienti nel canto IV dell'Inferno di Dante, dove è interpretata in maniera originale la concezione cristiana di questa zona dell'oltretomba (destinata per i teologi scolastici a ospitare i fanciulli premorti al battesimo e i patriarchi, anteriormente alla loro assunzione nell'Empireo), collocandovi una serie di poeti, filosofi, scienziati, eroi greci e latini ai quali è preclusa la salvezza per fede e tuttavia meritano di essere salvati dalla dannazione in nome della loro virtù e della loro dottrina.

Nel racconto dantesco non sono poche incongruenze e veri e propri errori da un punto di vista storico-filologico, che rivelano una conoscenza lacunosa e imprecisa della letteratura antica, e nonostante ci sia stato chi vi ha voluto vedere in questo episodio della Commedia un anticipo della visione laica e terrena dell'Umanesimo, non c’è dubbio che l'inserimento - attraverso la struttura allegorica che informa tutto l'episodio - della cultura antica si compie nella cornice di teleologismo cristiano di cui è imbevuta la Commedia e che a quei personaggi era del tutto estranea.

Di fronte a questa rilettura e manipolazione a cui il Medioevo sottopone i classici, gli umanisti accentuano la specificità del mondo antico e la inconciliabilità dei suoi contenuti e valori alla logica cristocentrica dell'età di mezzo.

La polemica contro la distorsione a cui sono stati sottoposti gli autori antichi, la denuncia dell'ignoranza e delle lacune dei commentatori e della natura fuorviante della loro erudizione rispetto al problema fondamentale della correttezza del testo, l'esaltazione del recupero delle reliquie dell'antichità nella loro purezza dopo secoli di corruzione, sono tutti motivi centrali e costanti del dibattito che elabora, in consapevole contrapposizione con questo recente passato, una nuova visione della storia e del modo di concepire il ruolo dell'uomo.

 

Le scoperte dei libri degli Antichi

         

Sulla spinta dei ritrovamenti petrarcheschi, e dell'eco che suscitarono, le generazioni successive si impegnarono nella ricerca dei codici antichi, disseppellendoli dalle biblioteche monastiche, dove erano giaciuti, ignorati dalla cultura della Scolastica, che si muoveva sul piano della speculazione astratta ed era interessata a elaborare gli apparati logico-formali piuttosto che quelli, ritenuti inferiori, della grammatica e della retorica.

La scoperta di testi antichi di cui si conosceva l'esistenza, ma che erano rimasti sinora sconosciuti, il loro riaffiorare in una scrittura, la carolina, più nitida, chiara, ariosa della difficile e artificiosa gotica, rappresentò un evento culturale rivoluzionario, non solo perché la conoscenza dell'antichità risultava quantitativamente cambiata e i secoli precedenti emergevano agli occhi degli umanisti in tutta la loro rozzezza, ma anche perché i testi redivivi esprimevano una cultura diversa da quella teocentrica dell'età precedente e ponevano al centro le arti liberali, ossia quelle discipline basate sull'ingegno e sull'artificio, la cui area di espressione era la società e il mondo delle relazioni umane, non più la sfera astratta dello spirito e della logica formale.

Una celebre lettera di Poggio Bracciolini da Costanza del 16 dicembre 1416 (Bracciolini 1984-1987, II, pp. 153-156) testimonia lo stato d'animo e la consapevolezza intellettuale che il riaffiorare delle opere degli Antichi pone in primo piano l'uomo e la più nobile delle arti che egli domina, quella della parola, la retorica. Poggio scrive a Guarino Veronese della scoperta compiuta nel monastero di San Gallo, a pochi chilometri da Costanza (dove egli si trovava a causa del suo impiego in Curia in occasione del Concilio), dell'Institutio oratoria di Quintiliano, dei primi tre libri e di metà del quarto delle Argonautiche di Valerio Flacco e dei commenti di Asconio Pediano a sette orazioni di Cicerone.

L'entusiasmo del ricercatore, il legittimo orgoglio per il clamoroso ritrovamento (specie quello di Quintiliano, che restituiva integro l'altro grande retore latino accanto a Cicerone), l'ansia di divulgare il testo sono gli aspetti emozionali che emergono dalla lettera, ma accanto a questa componente passionale sta la chiara consapevolezza che il recupero del trattato di Quintiliano costituisce un accrescimento netto della civiltà contemporanea, perché aumenta le conoscenze nel campo dell'arte del dire, cioè di quella disciplina su cui si fondano i rapporti tra gli individui e la civile convivenza e senza la quale la ragione stessa e l'intelletto non potrebbero esprimersi, né sarebbe possibile esercitare le virtù dell'animo.

 

Gli Antichi e i Moderni secondo Coluccio Salutati

         

Il recupero dei testi e della cultura degli autori antichi ruota tuttavia intorno a una visione cristiana, espressa dal termine e dal concetto, del tutto presente agli uomini del Quattrocento, di "rinascita". Il riemergere dell'Antico nel Moderno, dopo l'eclissi e la distorsione dei secoli oscuri, implica infatti una concezione palingenetica, anche se i valori su cui si basa sono completamente diversi dal millenarismo apocalittico presente in tanta parte del pensiero medievale. Il primato delle litterae humanae sulle divinae, cioè della letteratura morale sulla teologia, oltre che il rovesciamento delle gerarchie del sapere, e l'emergere di un nuovo stile argomentativo basato sulla retorica contro la dialettica degli Scolastici (cioè sul sillogismo probabile anziché su quello dimostrativo), comporta l'elaborazione di un complesso di valori, etici ed estetici, che ha al suo centro l'uomo come principio costante della storia.

È questo il concetto di humanitas che elaborano Coluccio Salutati e il circolo dei primi umanisti fiorentini che ruota intorno a lui, accentuando nel termine il versante dottrinale di "sapienza" e "scienza morale" su quello comportamentale di "benignità".

Nella lettera del 10 settembre 1401 a Carlo Malatesta signore di Rimini, dopo avere elogiato la mansuetudo ("mansuetudine") e la comitas ("affabilità") del destinatario, Coluccio scrive: "virtutem atque doctrinam [...] duo unicum illud humanitatis vocabulum representat. Nam non solum illa virtus, que etiam benignitas dici solet, hoc nomine significatur, sed etiam peritia et doctrina: plus igitur humanitatis importatur verbo quam communiter cogitetur. Optimi quidem auctorum, tam Cicero quam alii plures, hoc vocabulo pro doctrina moralique scientia usi sunt; nec mirum. Preter hominem quidem nullum animal doctrinabile reperitur. Ut, cum homini proprium sit doceri et docti plus hominis habeant quam indocti, convenientissime prisci per humanitatem significaverint et doctrinam" (Epistolae XII, 8 in Salutati 1891-1905, III, p. 536: "bisogna riconoscere che tu non sei più in vista per dignità e condizione di quanto non lo sia per virtù e dottrina. E l'una e l'altra sono indicate contemporaneamente col termine "umanità". Questo vocabolo, infatti, non esprime soltanto quella virtù che si è soliti chiamare anche benignità, ma anche cultura; dunque la parola "umanità" comprende in sé più di quanto comunemente si creda. D'altra parte i migliori autori, come Cicerone e molti altri, usavano questo termine per indicare dottrina e scienza morale. Né è strano, dal momento che non si trova alcun altro essere animato oltre l'uomo che sia suscettibile di formazione culturale. E così, dato che è proprio dell'uomo istruirsi e dato che i colti realizzano l'umanità più degli incolti, giustamente gli Antichi indicarono con umanità anche la cultura").

 

Ancora Coluccio Salutati sul rapporto dei Moderni con gli Antichi

         

Contro le tesi radicalmente filoclassicistiche si era mosso risolutamente Salutati, che nella disputa tra Antichi e Moderni prese risolutamente la parte di questi ultimi. Nella lettera a Giovanni Bartolomei del 13 luglio 1379 (IV 20, in Salutati 1891-1905, II, pp. 334-342) rimprovera all'amico il dubbio da lui espresso se si debba anteporre Petrarca ai più illustri scrittori dell'antichità. Prende a esempio, tra i vari autori eccellenti, Virgilio e Cicerone, e dichiara che Petrarca è stato più grande di Virgilio perché non gli è stato inferiore in poesia e lo ha superato nella prosa (dove il poeta, secondo un giudizio che aveva il suo archetipo in Seneca – Controversiae, III 8 - non brillava), che è composizione più ardua di quella in versi.

L'eloquenza poetica è paragonabile a un fiume che scorre entro gli argini ed è allietata dalla limpidezza e dal vigore della corrente, ma l'eloquenza prosastica è come il mare in cui si spazia senza limiti. Perciò Petrarca è maggiore di Virgilio e non inferiore a Cicerone, che è il massimo astro dell'eloquenza, artefice della lingua latina, creatore dell'arte del ben dire ed espositore dei suoi precetti. Pure Petrarca ha discusso in alcune sue lettere di arte del dire e in lui si ritrova lo stesso vigore ed efficacia d'espressione che è in Cicerone; in quanto a moralità (moralitas) la religione cristiana lo rende superiore a Cicerone e all'altro grande filosofo romano Seneca.

Da queste posizioni Coluccio stigmatizza il classicismo antiquario che dall'esaltazione della superiorità irripetibile degli Antichi traeva la svalutazione della cultura comunale e l'impossibilità per i Moderni di fare cultura se non nel solco degli Antichi. Il problema affrontato è quello medesimo che sarà al centro dei Dialogi ad Petrum Histrum, però da un'ottica differente: non tanto quella della tradizione culturale che nei continuatori del cenacolo fiorentino di Salutati interessava recuperare in continuità con la tradizione comunale trecentesca, quanto quella dell'evoluzione storica della cultura, e perciò della necessità di un suo costante aggiornamento, che, se non esclude la lezione dei classici, impedisce di farne un baluardo inespugnabile.

Per Poggio e Niccoli, integralmente volti all'Antico, fare cultura significa recuperare il patrimonio dell'antichità classica rispetto al quale le età posteriori sono solo degenerazione, o comunque, per Poggio, oggetto di una critica puntigliosa e sarcastica. In Salutati, invece, fermo restando il giudizio negativo sull'età medievale, la superiorità dei Moderni poggia sulla concezione comunque di uno sviluppo progressivo della civiltà e sulla rivelazione cristiana come elemento di superiorità dei Moderni sul paganesimo degli Antichi.

Semmai il problema è di risalire all'autenticità della testimonianza cristiana, rimuovendo le deformazioni della Scolastica, che aveva dissipato il patrimonio morale e teologico della Patristica greca e latina. Perciò la posizione di Salutati contempla un compromesso e un'unione tra cultura classica e pensiero cristiano, reso più flessibile e dinamico dall'abbandono dell'ortodossia tomistica e dal recupero degli autori delle origini nella loro testimonianza di una fede vissuta nella sfera dell'interiorità e della coscienza, non della dimostrazione razionale.

Un ruolo determinante in questa esperienza svolsero le Confessioni di sant'Agostino, che erano state libro rivoluzionario per Petrarca e continuarono a esercitare la loro influenza attraverso Salutati e l'agostiniano Luigi Marsili, che fu il principale responsabile del trasferimento dell'eredità petrarchesca nell'ambiente fiorentino (a lui il poeta, in un gesto carico di significato, donò il suo esemplare delle Confessioni: cfr. Seniles XV 7).

In una lettera a Bracciolini del 15 dicembre 1405 Coluccio replica al dissenso che Poggio e un suo "dotto amico", probabilmente Niccoli, avevano espresso sul contenuto della lettera al Bartolomei. Avevano sostenuto che non è possibile alcun confronto tra Antichi e Moderni. Coluccio risponde che innanzi tutto bisogna distinguere negli Antichi tra cristiani e pagani. Dei primi, Gerolamo, Ambrogio e Gregorio sono certamente superiori a ogni moderno e tutti e tre sono inferiori a sant'Agostino, che fu più grande di tutti i filosofi pagani.

Ma al di là delle possibili graduatorie di merito, Coluccio contesta ai destinatari l'apriorismo che l'antichità conferisca comunque grandezza e splendore. Come Cicerone potè contrapporre la dottrina romana alla sapienza dei Greci e superarla, così non ha senso condannare tutti i Moderni al culto del passato. Gli stessi Antichi mostrarono di non idolatrare i loro predecessori: Aristotele, ad esempio, criticò tutti i filosofi precedenti. Per quanto riguarda Petrarca, invece, nei suoi scritti non si è mai contrapposto all'antichità, e laddove se ne è allontanato, le sue idee sono da preferire a quelle dei pagani.

Le doti che fanno grande uno scrittore, secondo Salutati, sono due: dottrina ed eloquenza. Rispetto alla prima gli scrittori moderni sono indiscutibilmente superiori, perché posseggono la verità della religione cristiana, che ha svelato la vanità dei culti dei gentili e la debolezza del loro insegnamento morale, incentrato sul piacere, o sulla virtù, o sulla meditazione della morte, e non sulle verità luminose della religione. Se il primato dei Moderni sul piano della dottrina non può essere messo in discussione, quanto all'eloquenza, è innegabile anche per Coluccio che gli scrittori pagani abbiano brillato nell'arte del dire più che gli autori cristiani. Però questa eccellenza è stata impiegata in vani saperi, come l'investigazione della natura, la speculazione filosofia, la metafisica, ignorando soprattutto del vero fine di tutto che è Dio; per questo, gli Antichi non hanno edificato nulla di eterno e imperituro.

Petrarca, sempre secondo Salutati, ha invece accoppiato la sapienza alla dottrina, realizzando quella sintesi di vero e di bello che agli Antichi era impossibile: se non ha superato i modelli nei diversi campi in cui eccelsero, ha conseguito comunque la bellezza dello stile in maniera più completa. Il messaggio ultimo che si ricava dal ragionamento di Coluccio è quello di un'evoluzione storica del pensiero e del gusto, per cui non è pensabile declinare pedissequamente il moderno sui valori degli Antichi come dati statici e perenni: anche il linguaggio muta secondo i tempi e le nuove idee.

 

La polemica tra Poggio Bracciolini e Lorenzo Valla

         

Il recupero entusiastico dell'Antico, che ha il suo mentore in Poggio, si scontra verso la metà del Quattrocento con un'altra concezione, che mette in primo piano l'esigenza della scientificità e del rigore, e la necessità di un metodo che superi l'approccio retorico in una chiara conoscenza dei meccanismi logici sottostanti alla grammatica e abbia una nitida visione storica della lingua. Di questa concezione è portatore Lorenzo Valla, che si schierò contro Poggio, dando luogo ad una accesa polemica in cui si confrontarono concezioni opposte e inconciliabili di intendere la cultura umanistica.

La disputa si svolse in tempi molto serrati tra il 1452 e il 1453 e fu iniziata da Poggio, che attaccò il metodo filologico di Valla, consacrato nelle Elegantiae latinae linguae ("Le eleganze della lingua latina"). Valla poneva alla base del rapporto con la cultura classica un rigoroso metodo storico e teorizzava la necessità di una chiara distinzione nel recupero degli autori tra autenticità documentale e sovrastrutture della tradizione. Le Elegantiae testimoniano appunto il progetto di restituire il latino alla sua purezza originaria, disincrostandolo dalle impurità sovrappostesi nei secoli intermedi e dalle manipolazioni operate sui testi, e di riportare la lingua alla sua purezza grammaticale, che è espressione della ratio ("ragione " e "metodo"), distinta dal paradigma fuorviante dell'usus ("uso").

Nella visione di Valla lo studio metodico del linguaggio nelle sue forme morfologiche, lessicali, sintattiche e con la consapevolezza della sua stratificazione storica diventava il nerbo della retorica, cioè della disciplina che regola l'espressione linguistica nel suo complesso, e pone alla base dell'eloquenza il valore dell'erudizione. Questa concezione critica del recupero dell'Antico, che sottoponeva al vaglio selettivo le autorità, si opponeva a un'idea degli studia humanitatis centrata sull'imitazione e sull'emulazione.

Per Poggio la rinascita dell'Antico non può essere scissa dalla tradizione, nel cui solco è lievitata e giunta fino a no. La letteratura cristiana e medievale è un tramite che si salda senza soluzione di continuità alla cultura antica e che fa tutt'uno con essa: pensare di rimuoverla costituisce un atto di impietas ("mancanza di pietà") e di arroganza intellettuale, o addirittura, laddove Valla, distinguendo in maniera ineccepibile tra sostanza spirituale della rivelazione e mezzo linguistico, applica il metodo alle Sacre scritture e al diritto canonico, ciò rappresenta una minaccia ai fondamenti dottrinali della Chiesa, che non si possono scindere dalla tradizione, e in definitiva un atto da considerare alla stregua di una vera e propria eresia.

In questa contrapposizione inconciliabile, Poggio rifiuta anche l'idea di eloquenza come culto esclusivo del "bene et apte dicere" ("parlare in forma corretta e conveniente"), che Valla matura nella chiara visione della natura storica della lingua, e che lo porta al rifiuta del mito della retorica come terreno di coltura del bene e della sapienza, tutto costruito su Cicerone e proposto come modello integrale di scrittura e di vita.

La palma dell'eloquenza conferita da Valla a Quintiliano risponde a una concezione più scientifica e neutrale dell'arte del dire, fondata sulla ragione e sull'erudizione, che esclude l'imitazione nei termini nei quali si era esplicata fino a quel momento. La devozione tributata da Poggio allo stile di Cicerone è infatti lungi dal configurarsi come un'imitazione pedissequa e meticolosa dei fatti dello stile sin nelle cellule minime. Dello scrittore latino Poggiò ricreò soprattutto il giro di frase e aderì all'idea di uno scrittura in cui fosse riversato tutto l'uomo, interessi, affetti, passioni, virtù e debolezze, convinto dell'impossibilità di restaurare lo stile latino senza accoglierne insieme i contenuti umani e personali, in un atteggiamento di affabile e cordiale immedesimazione.

Ma lo stile vivace e naturale che contemporanei e posteri riconobbero, nel bene o nel male, a Poggio rappresenta nel panorama della prosa d'arte quattrocentesca un risultato personalissimo e irripetibile. La riproposta della lingua e dei generi degli Antichi (epistola, facezia, dialogo, orazione), in una filiazione diretta che considerava formalismi fuorvianti dalla sostanza spirituale dell'insegnamento degli Antichi le speculazioni sui verba ("le parole"), era al contrario tutta tesa a rivivere nell'esperienza contemporanea le tensioni ideali e psicologiche di quell'insegnamento, convinta della sua trasmissibilità naturale attraverso le epoche.

 

La posizione di Pomponio Leto

         

Allievo di Valla fu a Roma Pomponio Leto, fondatore dell'Accademia Romana e rappresentante della reazione all'indirizzo filologico impresso dal maestro agli studi umanistici, che non poteva soddisfare le esigenze di quegli intellettuali che ricercavano nell'Antico non rigorose e algide armonie formali, ma testimonianza di vita e di costumi. Figuradi secondo piano dell'ambiente universitario romano, nel quale ebbe un insegnamento nel ginnasio cittadino, ma minore e mal pagato, animò nella sua modesta casa sull'Esquilino e nella sua vigna sul Quirinale un cenacolo di letterati che si distinse per il culto quasi idolatrico dell'antichità.

Gli accademici si infervorarono a resuscitare lo spirito e la mentalità degli Antichi nei precetti e nei costumi della vita quotidiana, assumendo atteggiamenti di forte indipendenza e di dissenso verso la cultura contemporanea, che si spinsero fino ad uno stile di vita paganeggiante ispirato alle dottrine epicuree e forse a una critica organica alla tradizione cristiana.

Se è tuttora difficile stabilire in che misura questo avvenne, anche in ragione delle diverse personalità che confluirono nel cenacolo romano, certo è che sul terreno dell'adorazione viscerale dell'antichità si innestarono tendenze e fermenti eterodossi in campo spirituale e politico, l'aspirazione a un trasferimento del passato nel presente che non poté non impensierire il Papato anche sul piano temporale.

Nel 1468 l'Accademia infatti fu sciolta dal pontefice Paolo II sotto una serie di accuse: empietà, ateismo, blasfemia, epicureismo, libertinismo, eccetera, e gli accademici furono processati e detenuti in Castel Sant’Angelo, e liberati solo dopo una non breve prigionia, al termine della quale la riabilitazione di Pomponio e la ripresa degli studi non fu sufficiente a evitare la dispersione del cenacolo e l'eclisse nell'ambiente romano di un'esperienza così incondizionata e inattuale di comunione con l'Antico.

Tuttavia l'eredità di Pomponio fu importante per i letterati della generazione successiva, molti dei quali furono suoi discepoli, e diedero vita, sotto gli auspici della politica temporalistica e mecenatizia di Giulio II, Leone X, Clemente VII, alla grande stagione del Classicismo romano.

 

La cultura antiquaria di Ciriaco d’Ancona e Felice Feliciano

         

Nella rinascita degli Antichi, accanto ai metodi retorico, etico-politico, filologico, sinora illustrati, e che, aldilà delle polemiche e delle contrapposizioni, concorrono a promuovere una sempre più consapevole e partecipe conoscenza della cultura classica, soprattutto sul piano letterario e filosofico, un ulteriore, ed essenziale, approccio all'Antico è rappresentato, nell’Umanesimo, dalle indagini archeologiche ed epigrafiche, la cui influenza è avvertibile piuttosto nelle arti figurative.

La scoperta, ora davvero, fuor di metafora, nei termini di disseppellimento dalle viscere della terra, delle lapidi e degli edifici antichi, stimola una vera passione per lo studio e la decifrazione di questi monumenti. Accanto alle biblioteche nasce il collezionismo: principi e signori investono energie e capitali per il reperimento di volumi preziosi e di iscrizioni da tesaurizzare nei loro palazzi.

I rappresentanti più significativi di questo aspetto dell’appassionato dialogo con l'antichità sono gli epigrafisti Ciriaco Pizzicolli di Ancona e Felice Feliciano veronese. L'uno e l'altro, tramandati come personaggi eccentrici e curiosi, ebbero vita movimentata e avventurosa, trascorsa alla ricerca indefessa di iscrizioni, che lasciarono trascritte nei loro lapidari, cioè raccolte di disegni di lapidi e di monumenti e delle scritte incise su di essi.

Ciriaco, vero e proprio padre fondatore di questa disciplina, viaggiò in Grecia, in Oriente e in Egitto; Feliciano, più modestamente, fu attivo in Italia settentrionale e a Roma, ma più di Ciriaco influenzò le arti, grazie alla sua sensibilità artistica e alla passione per il disegno (fu amico di vari artisti, tra i quali Mantegna) e la scrittura (a lui si deve il recupero della capitale lapidaria romana, ricostruita in maniera empirica sulle iscrizioni).

Questo versante antiquario e archeologico del recupero dell'antichità ebbe la sua diffusione soprattutto nelle regioni settentrionali dove trovò il terreno preparato dall'attività dei cosiddetti preumanisti veneti (Giovanni del Virgilio, Albertino Mussato, Lovato Lovati) che già nel secolo precedente avevano avviato lo studio degli autori latini, ma anche dalla politica mecenatizia delle corti padane, che nel recupero delle immagini dell'Antico, pure in termini decorativi ed encomiastici, traeva alimento per una strategia rappresentativa indispensabile alla promozione delle nuove forme statali signorili e principesche.

Di fronte alla disposizione intellettuale dell'Umanesimo fiorentino, nel quale aveva comunque avuto parte la suggestione per un recupero collezionistico e museale dell'Antico, ben poca cosa potevano sembrare i furori antiquari di un Ciriaco, del quale Poggio dà un impietoso ritratto nelle sue Facetiae, dove l'antiquario è dipinto disperato e affranto addirittura per la caduta dell'impero romano: "Ciriacus Anconitanus, homo verbosus et nimium loquax, deplorabat aliquando, astantibus nobis, casum atque eversionem Imperii Romani, inque ea re vehementius angi videbatur. Tum Antonius Luscus, vir doctissimus, qui in coetu aderat, ridens hominis stultam curam..." (Bracciolini 1995, 82: "Ciriaco d'Ancona, da quell'inguaribile chiacchierone qual è, un giorno deplorava in mia presenza la caduta e la distruzione dell'Impero romano e appariva oltremodo afflitto per quell'avvenimento. A questo punto Antonio Loschi, uomo di grande cultura e che era della compagnia, intervenne a deridere quella sciocca preoccupazione").

La scarsa considerazione per il lavoro archeologico ed erudito evidente nella battuta di Poggio non esprime solo un giudizio di valore sul livello culturale del protagonista, ma riflette anche la scarsa considerazione in cui erano tenute le arti figurative: poco di più di una attività artigianale, in quanto arti non liberali, bensì "meccaniche" (cioè manuali); lo stesso statuto dell'artista era ancora ben lontano dal conquistare quel prestigio che sarà riconosciuto solo nel Cinquecento.

Tuttavia, pur con questa subordinazione gerarchica nel sistema umanistico delle arti, l'antichistica e il collezionismo quattrocentesco, di marca per lo più signorile e amatoriale, a differenza di quello accademico ed erudito del secolo successivo, trasmettono all'immaginario figurativo delle età a venire un fondamentale patrimonio destinato a durare, con variazioni e innovazioni, lungo tutto la cultura di Antico regime. Il capolavoro dell'arte tipografica quattrocentesca, l'Hypnerotomachia Poliphili, pubblicata da Aldo Manuzio nel 1499, rappresenta l'esempio più eclatante di questo uso indiscriminato e creativo del repertorio iconografico antico in termini di un rigoglioso e sincretistico riuso, invece che di una filologia.

 

L’Umanesimo archeologico: la Roma di Flavio Biondo

 

Il centro dell'umanesimo antiquario ed archeologico fu naturalmente Roma, dove fu attivo l'umanista forlivese Flavio Biondo, che si dedicò allo studio delle antichità italiche e delle vestigia romane dell'Urbe. Oltre che storico (compose delle Ab inclinatione Romanorum imperii decades: "Decadi dal declino dell’Impero romano") e panegirista, fu autore di compilazioni erudite: nella Italia illustrata diede una vasta documentazione geografica e toponomastica della penisola, arricchendola di notazioni storiche e letterarie; con la Roma instaurata compose una vera e propria opera di archeologia, cogliendo l'occasione dai restauri dei monumenti promossi da papa Eugenio IV, cui l'opera è dedicata, e infine la Roma triumphans ("Roma trionfante"), dedicata a Pio II, è un trattato di antichità romane in forma di esposizione sistematica degli edifici antichi della città.

 

Biondo vi ricostruisce la topografia della Roma imperiale, narrando con l'aiuto di fonti storiche, letterarie ed epigrafiche, la storia dei monumenti scomparsi o diruti, non senza collegamenti con il Medioevo e con l'età contemporanea. L'enciclopedismo erudito è il pregio e insieme il limite di questa archeologia: versatile e piena di interessi per i diversi campi della cultura e delle testimonianze del passato, ma fatalmente incline all'accumulo e alla farragine, vi si trovano affastellati anche una messe di dati e notizie sull'età di mezzo, della quale si comprende lucidamente la decadenza rispetto alla perfezione classica, ma senza che si avverta la necessità di ristabilire quella perfezione nella sua autonomia e purezza concettuale, prima ancora che documentaria e monumentale. Biondo è autore anche di un libello De Romanorum elocutione ("La lingua dei Romani"), in cui sostiene la derivazione del volgare dal latino a causa della corruzione provocata dalle invasioni barbariche.

 

La lettera di Castiglione e Raffaello a papa Leone X

         

Un documento straordinario per consapevolezza culturale e formale di cosa comporti il recupero delle vestigia residue dell'antichità è la lettera scritta da Baldassarre Castiglione come prefazione della raccolta di disegni degli edifici dell'Urbe eseguita da Raffaello su incarico di Leone X, e databile al 1519.

L'epistola è dedicata nella sua seconda parte agli aspetti prettamente tecnici dell'operazione: vi è descritto lo strumento, una sorta di bussola o rosa dei venti, ideato da Raffaello per procedere alla misurazione degli edifici orientandoli nello spazio. Per quanto tutta tecnica, questa parte mostra il rigore con cui l'artista si è accinto all'impresa e il suo intento filologico di restituire, attraverso un corretto metodo di studio, quelle parti degli edifici antichi andate distrutte o danneggiate nel corso dei secoli: solo così potranno risorgere le membra lacere (il "cadavere" di Roma, come scrive Castiglione) dell'architettura antica e solo così potrà essere restaurato nel perduto splendore, se non altro nella realtà virtuale (mentale) dell'atlante di disegni consegnato al Pontefice.

Il disegno degli edifici si divide in tre parti: la pianta, l'esterno con le sue decorazioni, l'interno pure con le sue decorazioni; e ciascuno di questi rilevamenti deve seguire regole precise e scrupolose: "Secondo il mio giudizio - scrive Castiglione, interpretando il pensiero di Raffaello - molti s'ingannanno circa il disegnare gli edifici, che in luogo di far quello che appartiene all'architetto, fanno quello che appartiene al pittore" (Castiglione, 1978, p. 539).

Ma è nella prima parte della lettera che viene enunciato il senso culturale di questo lavoro di Raffaello. Strutturata come veloce sintesi della storia dell'architettura dall'età romana a quella contemporanea, fa emergere con assoluta evidenza la consapevolezza della nuova cultura della rinascita e la sua determinazione a contrapporre verticalmente la perfezione dell'arte antica e la degradazione dell'arte "tedesca" (cioè il "gotico").

Altro enunciato significativo della lettera sono le considerazioni sulle cause della decadenza del modello antico. La scomparsa dell'arte classica non è dovuta solo a fattori esterni e per così dire naturali, che hanno determinato la caduta dell'Impero romano: la Fortuna o le invasioni barbariche. Non sono queste le sole cause del crollo di quel perfetto sistema che sembrava destinato a non avere fine: parte rilevante ha avuto l'incuria e l'insipienza degli uomini del Medioevo, che, insensibili alle vestigia di tanta grandezza, hanno fatto scempio di essa, smantellando i monumenti per farne materiale da costruzione o calcificando le statue.

Il rammarico espresso a Leone X per la condotta di tanti papi precedenti che hanno contribuito a questo saccheggio, si trasforma, è ovvio, in motivo celebrativo e propagandistico del papa mediceo protettore delle arti, sotto il cui patrocinio si poteva intraprendere l'opera di restauro e di ricostruzione. Ma non c’è solo questo: la lettera individua la ragione culturale di quel degrado, ne sottolinea il rilievo antropologico, in altre parole enuncia la diversità dell'età moderna, che finalmente ha consumato una frattura con la barbarie dell'età di mezzo e ha reso possibile la rinascita della perfezione antica, che quella era stata incapace di comprendere.

Il suo recupero non può che essere parziale e frammentario, dati i guasti e le perdite consumate: tra la perfezione degli Antichi e la barbarie dei secoli oscuri, all'età moderna spetta una posizione intermedia, di studio e di imitazione. Una posizione che può essere positiva, perché consapevole di aver recuperato la forma produttiva di quell'arte perfetta, e può quindi farla rivivere non solo nelle spoglie esteriori ma nella sua sostanza. Con questa lettera siamo, dunque, di fronte alla maturità del concetto di Rinascita e al dato di fatto dell'acquisizione del modello antico come forma e regola (aurea).

 

Machiavelli e gli Antichi

         

Al chiudersi dell'esperienza repubblicana fiorentina che aveva visto alla sua origine l'impegno degli umanisti nel trasferire e aggiornare la cultura classica nel dibattito politico e istituzionale contemporaneo, il dialogo con gli Antichi viene riproposto in maniera genuina, e alla luce di una sintesi inedita tra teoria e prassi, nell'esperienza di Machiavelli.

Nell'esilio di Sant'Andrea in Percussina, presso San Casciano, nel contado fiorentino, dove lo aveva relegato la diffidenza del nuovo reggimento mediceo, dal confronto tra l'esperienza vissuta e la testimonianza delle storie antiche nascono le opere di teoria politica: il commento perpetuo della prima deca di Tito Livio, che dà vita ai tre libri dei Discorsi, e dal cui disegno, secondo la tesi più accreditata, si sarebbe distaccato il trattatello sul Principe.

Queste opere capitali nascono da un dialogo diretto con gli Antichi, fondato sulla consapevolezza machiavelliana della continuità ideale dell'indole e della storia umana. Una straordinaria testimonianza di questa necessità di estrarre dalle storie antiche quelle regole universali da adoperare per leggere e intervenire nella realtà moderna, è nella celebre lettera all'amico Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, nella quale Machiavelli annuncia la composizione del Principe e dà notizie sulla sua vita di esilio: "Venuta la sera, mi ritorno a casa, ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto condecentemente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandarli della ragione delle loro actioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro" (Machiavelli 1961, p. 304).