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di Mauro Novelli BIBLIOTECA
Franco Pignatti
Antichi e Moderni
Da http://www.italica.rai.it/rinascimento/monografie/antichi_moderni/
INDICE
Petrarca riscopre gli Antichi e i loro libri
Le scoperte dei libri degli Antichi
Gli Antichi e i Moderni secondo Coluccio Salutati
Ancora Coluccio Salutati sul rapporto dei Moderni con gli
Antichi
La polemica tra Poggio Bracciolini e Lorenzo Valla
La cultura antiquaria di Ciriaco d’Ancona e Felice
Feliciano
L’Umanesimo archeologico: la Roma di Flavio Biondo
La lettera di Castiglione e Raffaello a papa Leone X
Il rapporto tra Antichi e Moderni ha
nel Rinascimento un ruolo di primo piano e costituisce, attraverso le
differenti fasi storiche e i diversi orientamenti del gusto e delle dottrine,
un luogo di riflessione costante per almeno due secoli di cultura. La scoperta
dell'Antichità come altro da noi, ma a noi contigua, contemporanea,
costituisce la grande elaborazione culturale, radicalmente innovativa, che
è alla base dell'Umanesimo e determina progettualmente
la frattura epocale con il Medioevo. Questa nuova cultura colloca da quel
momento in avanti al centro della storia europea la coscienza storica della
separazione tra passato e presente, l'urgenza di stabilire un ponte tra i tempi
attuali e quelli remoti, la consapevolezza che l'esperienza spirituale e intellettuale
dell'uomo è il risultato di una fondazione soggettiva della propria
individualità e che tale fondazione scaturisce dal dialogo con il
passato.
Il sorgere di una nuova
sensibilità nel modo di percepire e porsi in relazione con gli autori
antichi si avverte in termini netti in Francesco Petrarca. In tutta la sua vita
lo studio e la dedizione agli scrittori latini ha un ruolo fondamentale; la
scoperta nei codici antichi di opere che si riteneva perdute fece di Petrarca
l'iniziatore di un processo culturale che nell'arco di circa un secolo
rivoluzionò la conoscenza dell'Antico in tutto il mondo occidentale,
ponendo le basi per una svolta nella storia della civiltà.
Fino alle soglie del Cinquecento,
quando negli interessi degli umanisti italiani e stranieri lo studio del greco
prenderà il sopravvento sul latino, sollecitando nuovi interessi
filosofici e scientifici, la riscoperta e rimessa in circolazione di opere
poetiche, storiche e retoriche sconosciute, o conosciute in maniera
frammentaria, costituisce l'attività culturale predominante e il settore
dove in maniera più vivace e innovativa ha luogo l'elaborazione di una
nuova concezione dell'uomo e della storia. Al centro di questa nuova cultura
è il recupero dell'Antico e la definizione del suo rapporto con i
Moderni.
La scoperta, a
opera di Petrarca, nella Biblioteca Capitolare di Verona, dei sedici
libri delle lettere di Cicerone ad Attico costituisce un evento rivoluzionario,
in quanto restituisce un aspetto inedito del grande oratore latino, quello
privato e intimo della comunicazione epistolare: un Cicerone estraneo allo
schematismo retorico e argomentativo delle orazioni e
dei trattati filosofici, e quindi immune dal lavoro di generazioni di commentatori
che avevano destinato queste opere, nel corso del Medioevo, a una trasmissione
scolastica, tutta incentrata sull'aspetto astratto e normativo dell'arte del
dire e dei procedimenti logici ad essa sottostanti, sicché la disciplina
dell'argomentazione così come risultava teorizzata e realizzata da
Cicerone cessava di essere un'esperienza storicamente definita e umanamente
connotata, per essere ridotta a degli universali di tipo logico, avulsi da ogni
connotazione temporale e spaziale.
Recuperare al di fuori dei
condizionamenti di una tradizione di questo tipo scritti in cui Cicerone
proponeva un'immagine di sé e del suo tempo informale, in forma di meditazione
e di confessione privata e famigliare, significava acquisire in maniera
concreta e pragmatica una dimensione dell'Antico vivificata
dalla quotidiana esperienza umana, dall'urgenza dei sentimenti e delle
passioni, nelle quali gli uomini moderni potevano specchiarsi e riconoscersi
paradossalmente meglio che negli autori a loro più vicini.
La pulsione originaria è
certamente un moto di ammirazione e di affetto per l’Antico, in cui Petrarca
scopre l'affinità col presente, pur allontanandolo da sé nella
prospettiva storica e comprendendolo nella sua diversità, in primo luogo
religiosa (gli Antichi sono pagani). Un’ammirazione e un affetto che si fa
dialogo incessante con le loro opere, e accetta il confronto con una
realtà culturale e umana che appare con tutta evidenza affine, e per
molti versi superiore e più complessa di quella contemporanea: ma
è con questa realtà che occorre tornare a misurarsi, per
arricchire e aprire spazi inediti alla propria coscienza personale, con
curiosità e inquietudine, insoddisfatti di tradizionali posizioni
assolute di fronte all'eternità della creazione e al problema della salvezza
dell'anima. Per Petrarca diventa necessario fare i conti con la storia, quella
contemporanea come quella del passato, per sottrarsi, per la prima volta, a un teleologismo universalistico, per scoprirsi individuo.
La riscoperta e lo studio dei
classici inaugurato da Petrarca dà luogo a una vera e propria
rivoluzione antropologica, rispetto al Medioevo. Il tempo e la storia dell'uomo
vengono percepiti non più come una
continuità, illuminata dall'avvenimento salvifico dell'incarnazione, tra
i due estremi metastorici della genesi e del giudizio
universale, ma come lo svilupparsi di azioni terrene sottoposte a costanti
universali insite nella natura umana, il che non nega a priori la trascendenza,
ma colloca l'uomo in una diversa prospettiva di protagonista della propria
storia al di fuori di una prospettiva provvidenzialistica.
La conoscenza più ampia e
diretta della letteratura e del pensiero degli Antichi dà netta la
percezione della loro diversità rispetto ai Moderni, in termini del
tutto nuovi rispetto alla cultura medievale, che a questi problemi era stata in massima parte estranea. Come esempio si
può citare l'invenzione del Limbo dei sapienti nel canto IV dell'Inferno
di Dante, dove è interpretata in maniera originale la concezione
cristiana di questa zona dell'oltretomba (destinata per i teologi scolastici a
ospitare i fanciulli premorti al battesimo e i
patriarchi, anteriormente alla loro assunzione nell'Empireo), collocandovi una
serie di poeti, filosofi, scienziati, eroi greci e latini ai quali è
preclusa la salvezza per fede e tuttavia meritano di essere salvati dalla
dannazione in nome della loro virtù e della loro dottrina.
Nel racconto dantesco non sono poche incongruenze e veri e propri errori da un punto di vista
storico-filologico, che rivelano una conoscenza lacunosa e imprecisa della
letteratura antica, e nonostante ci sia stato chi vi ha voluto vedere in questo
episodio della Commedia un anticipo della visione laica e terrena
dell'Umanesimo, non c’è dubbio che l'inserimento - attraverso la
struttura allegorica che informa tutto l'episodio - della cultura antica si
compie nella cornice di teleologismo cristiano di cui
è imbevuta la Commedia e che a quei personaggi era del tutto estranea.
Di fronte a questa rilettura e
manipolazione a cui il Medioevo sottopone i classici,
gli umanisti accentuano la specificità del mondo antico e la
inconciliabilità dei suoi contenuti e valori alla logica cristocentrica dell'età di mezzo.
La polemica contro la distorsione a cui sono stati sottoposti gli autori antichi, la denuncia
dell'ignoranza e delle lacune dei commentatori e della natura fuorviante della
loro erudizione rispetto al problema fondamentale della correttezza del testo,
l'esaltazione del recupero delle reliquie dell'antichità nella loro
purezza dopo secoli di corruzione, sono tutti motivi centrali e costanti del
dibattito che elabora, in consapevole contrapposizione con questo recente
passato, una nuova visione della storia e del modo di concepire il ruolo dell'uomo.
Sulla spinta dei ritrovamenti petrarcheschi, e dell'eco che suscitarono, le generazioni
successive si impegnarono nella ricerca dei codici antichi, disseppellendoli
dalle biblioteche monastiche, dove erano giaciuti, ignorati dalla cultura della
Scolastica, che si muoveva sul piano della speculazione astratta ed era
interessata a elaborare gli apparati logico-formali
piuttosto che quelli, ritenuti inferiori, della grammatica e della retorica.
La scoperta di testi antichi di cui
si conosceva l'esistenza, ma che erano rimasti sinora sconosciuti, il loro
riaffiorare in una scrittura, la carolina, più
nitida, chiara, ariosa della difficile e artificiosa gotica, rappresentò
un evento culturale rivoluzionario, non solo perché la conoscenza
dell'antichità risultava quantitativamente cambiata e i secoli
precedenti emergevano agli occhi degli umanisti in tutta la loro rozzezza, ma
anche perché i testi redivivi esprimevano una cultura diversa da quella teocentrica dell'età precedente e ponevano al centro
le arti liberali, ossia quelle discipline basate sull'ingegno e sull'artificio,
la cui area di espressione era la società e il mondo delle relazioni
umane, non più la sfera astratta dello spirito e della logica formale.
Una celebre lettera di Poggio Bracciolini da Costanza del 16 dicembre 1416 (Bracciolini 1984-1987, II, pp. 153-156) testimonia lo stato
d'animo e la consapevolezza intellettuale che il riaffiorare delle opere degli
Antichi pone in primo piano l'uomo e la più nobile delle arti che egli
domina, quella della parola, la retorica. Poggio scrive a Guarino Veronese
della scoperta compiuta nel monastero di San Gallo, a pochi chilometri da
Costanza (dove egli si trovava a causa del suo impiego in Curia in occasione
del Concilio), dell'Institutio oratoria di Quintiliano,
dei primi tre libri e di metà del quarto delle Argonautiche di Valerio Flacco e dei commenti di Asconio Pediano a sette orazioni
di Cicerone.
L'entusiasmo del ricercatore, il
legittimo orgoglio per il clamoroso ritrovamento (specie quello di Quintiliano,
che restituiva integro l'altro grande retore latino accanto a Cicerone),
l'ansia di divulgare il testo sono gli aspetti emozionali che emergono dalla
lettera, ma accanto a questa componente passionale sta la chiara consapevolezza
che il recupero del trattato di Quintiliano costituisce un accrescimento netto
della civiltà contemporanea, perché aumenta le conoscenze nel campo
dell'arte del dire, cioè di quella disciplina su cui si fondano i
rapporti tra gli individui e la civile convivenza e senza la quale la ragione
stessa e l'intelletto non potrebbero esprimersi, né sarebbe possibile
esercitare le virtù dell'animo.
Il recupero dei testi e della cultura
degli autori antichi ruota tuttavia intorno a una visione cristiana, espressa
dal termine e dal concetto, del tutto presente agli uomini del Quattrocento, di
"rinascita". Il riemergere dell'Antico nel Moderno, dopo l'eclissi e
la distorsione dei secoli oscuri, implica infatti una
concezione palingenetica, anche se i valori su cui si
basa sono completamente diversi dal millenarismo apocalittico presente in tanta
parte del pensiero medievale. Il primato delle litterae
humanae sulle divinae,
cioè della letteratura morale sulla teologia, oltre che il rovesciamento
delle gerarchie del sapere, e l'emergere di un nuovo stile argomentativo
basato sulla retorica contro la dialettica degli Scolastici (cioè sul
sillogismo probabile anziché su quello dimostrativo), comporta l'elaborazione
di un complesso di valori, etici ed estetici, che ha al suo centro l'uomo come
principio costante della storia.
È questo il concetto di humanitas che elaborano Coluccio
Salutati e il circolo dei primi umanisti fiorentini che ruota intorno a lui,
accentuando nel termine il versante dottrinale di "sapienza" e
"scienza morale" su quello comportamentale di
"benignità".
Nella lettera del 10 settembre
Contro le
tesi radicalmente filoclassicistiche si era mosso
risolutamente Salutati, che nella disputa tra Antichi e Moderni prese
risolutamente la parte di questi ultimi. Nella lettera a Giovanni Bartolomei del 13 luglio 1379 (IV
L'eloquenza poetica è
paragonabile a un fiume che scorre entro gli argini ed è allietata dalla
limpidezza e dal vigore della corrente, ma l'eloquenza prosastica è come
il mare in cui si spazia senza limiti. Perciò Petrarca è maggiore
di Virgilio e non inferiore a Cicerone, che è il massimo astro
dell'eloquenza, artefice della lingua latina, creatore dell'arte del ben dire
ed espositore dei suoi precetti. Pure Petrarca ha discusso in alcune sue
lettere di arte del dire e in lui si ritrova lo stesso vigore ed efficacia
d'espressione che è in Cicerone; in quanto a moralità (moralitas) la religione cristiana lo rende superiore a
Cicerone e all'altro grande filosofo romano Seneca.
Da queste posizioni Coluccio stigmatizza il classicismo antiquario che
dall'esaltazione della superiorità irripetibile degli Antichi traeva la
svalutazione della cultura comunale e l'impossibilità per i Moderni di
fare cultura se non nel solco degli Antichi. Il problema affrontato è
quello medesimo che sarà al centro dei Dialogi
ad Petrum Histrum, però da un'ottica differente: non tanto
quella della tradizione culturale che nei continuatori del cenacolo fiorentino
di Salutati interessava recuperare in continuità con la tradizione
comunale trecentesca, quanto quella dell'evoluzione storica della cultura, e
perciò della necessità di un suo costante aggiornamento, che, se
non esclude la lezione dei classici, impedisce di farne un baluardo
inespugnabile.
Per Poggio e Niccoli,
integralmente volti all'Antico, fare cultura significa recuperare il patrimonio
dell'antichità classica rispetto al quale le età posteriori sono
solo degenerazione, o comunque, per Poggio, oggetto di una critica puntigliosa
e sarcastica. In Salutati, invece, fermo restando il giudizio negativo
sull'età medievale, la superiorità dei Moderni poggia sulla
concezione comunque di uno sviluppo progressivo della civiltà e sulla
rivelazione cristiana come elemento di superiorità dei Moderni sul
paganesimo degli Antichi.
Semmai il problema è di
risalire all'autenticità della testimonianza cristiana, rimuovendo le
deformazioni della Scolastica, che aveva dissipato il patrimonio morale e
teologico della Patristica greca e latina. Perciò la posizione di
Salutati contempla un compromesso e un'unione tra cultura classica e pensiero
cristiano, reso più flessibile e dinamico dall'abbandono dell'ortodossia
tomistica e dal recupero degli autori delle origini nella loro testimonianza di una fede vissuta nella sfera dell'interiorità e
della coscienza, non della dimostrazione razionale.
Un ruolo determinante in questa
esperienza svolsero le Confessioni di sant'Agostino,
che erano state libro rivoluzionario per Petrarca e continuarono a esercitare la loro influenza attraverso Salutati e l'agostiniano Luigi
Marsili, che fu il principale responsabile del trasferimento
dell'eredità petrarchesca nell'ambiente
fiorentino (a lui il poeta, in un gesto carico di significato, donò il
suo esemplare delle Confessioni: cfr. Seniles XV 7).
In una lettera a Bracciolini
del 15 dicembre 1405 Coluccio replica al dissenso che
Poggio e un suo "dotto amico", probabilmente Niccoli,
avevano espresso sul contenuto della lettera al Bartolomei. Avevano sostenuto che non è possibile
alcun confronto tra Antichi e Moderni. Coluccio
risponde che innanzi tutto bisogna distinguere negli Antichi tra cristiani e
pagani. Dei primi, Gerolamo, Ambrogio e Gregorio sono
certamente superiori a ogni moderno e tutti e tre sono inferiori a sant'Agostino, che fu più grande di tutti i filosofi
pagani.
Ma al di là delle possibili
graduatorie di merito, Coluccio contesta ai
destinatari l'apriorismo che l'antichità conferisca comunque grandezza e splendore. Come Cicerone potè contrapporre la dottrina romana alla sapienza
dei Greci e superarla, così non ha senso condannare tutti i Moderni al
culto del passato. Gli stessi Antichi mostrarono di non idolatrare i loro
predecessori: Aristotele, ad esempio, criticò tutti i filosofi
precedenti. Per quanto riguarda Petrarca, invece, nei suoi scritti non si
è mai contrapposto all'antichità, e laddove se ne è allontanato,
le sue idee sono da preferire a quelle dei pagani.
Le doti che fanno grande uno
scrittore, secondo Salutati, sono due: dottrina ed eloquenza. Rispetto alla
prima gli scrittori moderni sono indiscutibilmente superiori, perché posseggono
la verità della religione cristiana, che ha svelato la vanità dei
culti dei gentili e la debolezza del loro insegnamento morale, incentrato sul
piacere, o sulla virtù, o sulla meditazione della morte, e non sulle
verità luminose della religione. Se il primato dei Moderni sul piano
della dottrina non può essere messo in discussione, quanto
all'eloquenza, è innegabile anche per Coluccio
che gli scrittori pagani abbiano brillato nell'arte
del dire più che gli autori cristiani. Però questa eccellenza
è stata impiegata in vani saperi, come l'investigazione della natura, la
speculazione filosofia, la metafisica, ignorando soprattutto del vero fine di
tutto che è Dio; per questo, gli Antichi non hanno edificato nulla di
eterno e imperituro.
Petrarca, sempre secondo
Salutati, ha invece accoppiato la sapienza alla dottrina, realizzando
quella sintesi di vero e di bello che agli Antichi era impossibile: se non ha
superato i modelli nei diversi campi in cui eccelsero, ha conseguito comunque
la bellezza dello stile in maniera più completa. Il messaggio ultimo che
si ricava dal ragionamento di Coluccio è
quello di un'evoluzione storica del pensiero e del gusto, per
cui non è pensabile declinare pedissequamente il moderno sui
valori degli Antichi come dati statici e perenni: anche il linguaggio muta
secondo i tempi e le nuove idee.
Il recupero entusiastico dell'Antico,
che ha il suo mentore in Poggio, si scontra verso la metà del
Quattrocento con un'altra concezione, che mette in primo piano l'esigenza della
scientificità e del rigore, e la necessità di un metodo che
superi l'approccio retorico in una chiara conoscenza dei meccanismi logici
sottostanti alla grammatica e abbia una nitida visione storica della lingua. Di
questa concezione è portatore Lorenzo Valla, che si schierò
contro Poggio, dando luogo ad una accesa polemica in
cui si confrontarono concezioni opposte e inconciliabili di intendere la
cultura umanistica.
La disputa si svolse in tempi molto
serrati tra il 1452 e il 1453 e fu iniziata da Poggio, che attaccò il
metodo filologico di Valla, consacrato nelle Elegantiae
latinae linguae ("Le
eleganze della lingua latina"). Valla poneva alla base del rapporto con la
cultura classica un rigoroso metodo storico e teorizzava la necessità di
una chiara distinzione nel recupero degli autori tra autenticità
documentale e sovrastrutture della tradizione. Le Elegantiae
testimoniano appunto il progetto di restituire il latino alla sua purezza
originaria, disincrostandolo dalle impurità sovrappostesi nei secoli
intermedi e dalle manipolazioni operate sui testi, e di riportare la lingua
alla sua purezza grammaticale, che è espressione della ratio
("ragione " e "metodo"), distinta dal paradigma fuorviante
dell'usus ("uso").
Nella visione di Valla lo studio
metodico del linguaggio nelle sue forme morfologiche, lessicali, sintattiche e
con la consapevolezza della sua stratificazione storica diventava il nerbo
della retorica, cioè della disciplina che regola l'espressione
linguistica nel suo complesso, e pone alla base dell'eloquenza il valore
dell'erudizione. Questa concezione critica del recupero dell'Antico, che
sottoponeva al vaglio selettivo le autorità, si opponeva a un'idea degli
studia humanitatis centrata
sull'imitazione e sull'emulazione.
Per Poggio la rinascita dell'Antico
non può essere scissa dalla tradizione, nel cui solco è lievitata
e giunta fino a no. La letteratura cristiana e medievale è un tramite
che si salda senza soluzione di continuità alla cultura antica e che fa
tutt'uno con essa: pensare di rimuoverla costituisce
un atto di impietas ("mancanza di
pietà") e di arroganza intellettuale, o addirittura, laddove Valla,
distinguendo in maniera ineccepibile tra sostanza spirituale della rivelazione
e mezzo linguistico, applica il metodo alle Sacre scritture e al diritto
canonico, ciò rappresenta una minaccia ai fondamenti dottrinali della
Chiesa, che non si possono scindere dalla tradizione, e in definitiva un atto
da considerare alla stregua di una vera e propria eresia.
In questa contrapposizione
inconciliabile, Poggio rifiuta anche l'idea di eloquenza come culto esclusivo
del "bene et apte dicere" ("parlare in forma corretta e
conveniente"), che Valla matura nella chiara visione della natura storica
della lingua, e che lo porta al rifiuta del mito della
retorica come terreno di coltura del bene e della sapienza, tutto costruito su
Cicerone e proposto come modello integrale di scrittura e di vita.
La palma dell'eloquenza conferita da
Valla a Quintiliano risponde a una concezione più scientifica e neutrale
dell'arte del dire, fondata sulla ragione e sull'erudizione, che esclude
l'imitazione nei termini nei quali si era esplicata fino a quel momento. La
devozione tributata da Poggio allo stile di Cicerone è
infatti lungi dal configurarsi come un'imitazione pedissequa e
meticolosa dei fatti dello stile sin nelle cellule minime. Dello scrittore
latino Poggiò ricreò soprattutto il giro di frase e aderì
all'idea di uno scrittura in cui fosse riversato tutto
l'uomo, interessi, affetti, passioni, virtù e debolezze, convinto
dell'impossibilità di restaurare lo stile latino senza accoglierne
insieme i contenuti umani e personali, in un atteggiamento di affabile e
cordiale immedesimazione.
Ma lo stile vivace e naturale che
contemporanei e posteri riconobbero, nel bene o nel male, a Poggio rappresenta
nel panorama della prosa d'arte quattrocentesca un risultato personalissimo e
irripetibile. La riproposta della lingua e dei generi degli Antichi (epistola,
facezia, dialogo, orazione), in una filiazione diretta che considerava
formalismi fuorvianti dalla sostanza spirituale dell'insegnamento degli Antichi
le speculazioni sui verba ("le parole"),
era al contrario tutta tesa a rivivere nell'esperienza
contemporanea le tensioni ideali e psicologiche di quell'insegnamento, convinta
della sua trasmissibilità naturale attraverso le epoche.
Allievo di Valla fu a Roma Pomponio
Leto, fondatore dell'Accademia Romana e rappresentante della reazione
all'indirizzo filologico impresso dal maestro agli studi umanistici, che non
poteva soddisfare le esigenze di quegli intellettuali che ricercavano nell'Antico non rigorose e algide armonie formali, ma
testimonianza di vita e di costumi. Figuradi secondo
piano dell'ambiente universitario romano, nel quale ebbe un insegnamento nel
ginnasio cittadino, ma minore e mal pagato,
animò nella sua modesta casa sull'Esquilino e nella sua vigna sul
Quirinale un cenacolo di letterati che si distinse per il culto quasi idolatrico dell'antichità.
Gli accademici si infervorarono a
resuscitare lo spirito e la mentalità degli Antichi nei precetti e nei
costumi della vita quotidiana, assumendo atteggiamenti di forte indipendenza e
di dissenso verso la cultura contemporanea, che si spinsero fino ad uno stile
di vita paganeggiante ispirato alle dottrine epicuree e forse a una critica
organica alla tradizione cristiana.
Se è tuttora difficile
stabilire in che misura questo avvenne, anche in ragione delle diverse
personalità che confluirono nel cenacolo romano, certo è che sul
terreno dell'adorazione viscerale dell'antichità si innestarono tendenze
e fermenti eterodossi in campo spirituale e politico, l'aspirazione a un
trasferimento del passato nel presente che non poté
non impensierire il Papato anche sul piano temporale.
Nel
Tuttavia l'eredità di Pomponio
fu importante per i letterati della generazione successiva, molti dei quali
furono suoi discepoli, e diedero vita, sotto gli auspici della politica temporalistica e mecenatizia di
Giulio II, Leone X, Clemente VII, alla grande stagione del Classicismo romano.
Nella rinascita degli
Antichi, accanto ai metodi retorico, etico-politico,
filologico, sinora illustrati, e che, aldilà delle polemiche e delle
contrapposizioni, concorrono a promuovere una sempre più consapevole e
partecipe conoscenza della cultura classica, soprattutto sul piano letterario e
filosofico, un ulteriore, ed essenziale, approccio all'Antico è
rappresentato, nell’Umanesimo, dalle indagini archeologiche ed epigrafiche, la
cui influenza è avvertibile piuttosto nelle arti figurative.
La scoperta, ora davvero, fuor di
metafora, nei termini di disseppellimento dalle viscere della terra, delle
lapidi e degli edifici antichi, stimola una vera passione per lo studio e la
decifrazione di questi monumenti. Accanto alle biblioteche nasce il collezionismo:
principi e signori investono energie e capitali per il reperimento di volumi
preziosi e di iscrizioni da tesaurizzare nei loro palazzi.
I rappresentanti più
significativi di questo aspetto dell’appassionato dialogo con
l'antichità sono gli epigrafisti Ciriaco Pizzicolli
di Ancona e Felice Feliciano veronese. L'uno e l'altro, tramandati come
personaggi eccentrici e curiosi, ebbero vita movimentata e avventurosa,
trascorsa alla ricerca indefessa di iscrizioni, che lasciarono trascritte nei
loro lapidari, cioè raccolte di disegni di lapidi e di monumenti e delle
scritte incise su di essi.
Ciriaco, vero e proprio padre
fondatore di questa disciplina, viaggiò in Grecia, in Oriente e in
Egitto; Feliciano, più modestamente, fu attivo in Italia settentrionale
e a Roma, ma più di Ciriaco influenzò le arti, grazie alla sua
sensibilità artistica e alla passione per il disegno (fu amico di vari
artisti, tra i quali Mantegna) e la scrittura (a lui
si deve il recupero della capitale lapidaria romana, ricostruita in maniera
empirica sulle iscrizioni).
Questo versante antiquario e
archeologico del recupero dell'antichità ebbe la sua diffusione
soprattutto nelle regioni settentrionali dove trovò il terreno preparato
dall'attività dei cosiddetti preumanisti veneti
(Giovanni del Virgilio, Albertino Mussato, Lovato Lovati) che già nel secolo precedente avevano
avviato lo studio degli autori latini, ma anche dalla politica mecenatizia delle corti padane, che nel recupero delle
immagini dell'Antico, pure in termini decorativi ed encomiastici, traeva
alimento per una strategia rappresentativa indispensabile alla promozione delle
nuove forme statali signorili e principesche.
Di fronte alla disposizione
intellettuale dell'Umanesimo fiorentino, nel quale aveva comunque avuto parte
la suggestione per un recupero collezionistico e museale dell'Antico, ben poca cosa potevano sembrare i
furori antiquari di un Ciriaco, del quale Poggio dà un impietoso
ritratto nelle sue Facetiae, dove l'antiquario
è dipinto disperato e affranto addirittura per la caduta dell'impero
romano: "Ciriacus Anconitanus,
homo verbosus et nimium loquax, deplorabat aliquando, astantibus nobis, casum atque eversionem
Imperii Romani, inque ea re vehementius angi videbatur. Tum Antonius Luscus,
vir doctissimus, qui in coetu aderat, ridens
hominis stultam curam..." (Bracciolini 1995, 82: "Ciriaco d'Ancona, da
quell'inguaribile chiacchierone qual è, un giorno deplorava in mia
presenza la caduta e la distruzione dell'Impero romano e appariva oltremodo
afflitto per quell'avvenimento. A questo punto Antonio Loschi,
uomo di grande cultura e che era della compagnia, intervenne a deridere quella
sciocca preoccupazione").
La scarsa considerazione per il
lavoro archeologico ed erudito evidente nella battuta di Poggio non esprime
solo un giudizio di valore sul livello culturale del protagonista, ma riflette
anche la scarsa considerazione in cui erano tenute le arti figurative: poco di
più di una attività artigianale, in
quanto arti non liberali, bensì "meccaniche" (cioè manuali);
lo stesso statuto dell'artista era ancora ben lontano dal conquistare quel
prestigio che sarà riconosciuto solo nel Cinquecento.
Tuttavia, pur con questa
subordinazione gerarchica nel sistema umanistico delle arti, l'antichistica e il collezionismo quattrocentesco, di marca
per lo più signorile e amatoriale, a differenza di quello accademico ed
erudito del secolo successivo, trasmettono all'immaginario figurativo delle
età a venire un fondamentale patrimonio destinato a durare, con
variazioni e innovazioni, lungo tutto la cultura di
Antico regime. Il capolavoro dell'arte tipografica quattrocentesca, l'Hypnerotomachia Poliphili,
pubblicata da Aldo Manuzio nel 1499, rappresenta
l'esempio più eclatante di questo uso indiscriminato e creativo del repertorio
iconografico antico in termini di un rigoglioso e sincretistico
riuso, invece che di una filologia.
Il centro dell'umanesimo antiquario
ed archeologico fu naturalmente Roma, dove fu attivo l'umanista forlivese Flavio Biondo, che si dedicò allo studio
delle antichità italiche e delle vestigia romane dell'Urbe. Oltre che storico (compose delle Ab inclinatione
Romanorum imperii decades: "Decadi dal declino dell’Impero romano")
e panegirista, fu autore di compilazioni erudite: nella Italia illustrata diede
una vasta documentazione geografica e toponomastica della penisola,
arricchendola di notazioni storiche e letterarie; con la Roma instaurata
compose una vera e propria opera di archeologia, cogliendo l'occasione dai
restauri dei monumenti promossi da papa Eugenio IV, cui l'opera è
dedicata, e infine la Roma triumphans ("Roma
trionfante"), dedicata a Pio II, è un trattato di antichità
romane in forma di esposizione sistematica degli edifici antichi della
città.
Biondo vi ricostruisce la topografia
della Roma imperiale, narrando con l'aiuto di fonti storiche, letterarie ed
epigrafiche, la storia dei monumenti scomparsi o diruti,
non senza collegamenti con il Medioevo e con l'età contemporanea.
L'enciclopedismo erudito è il pregio e insieme il limite di questa
archeologia: versatile e piena di interessi per i diversi campi della cultura e
delle testimonianze del passato, ma fatalmente incline all'accumulo e alla
farragine, vi si trovano affastellati anche una messe di dati e notizie
sull'età di mezzo, della quale si comprende lucidamente la decadenza
rispetto alla perfezione classica, ma senza che si avverta la necessità
di ristabilire quella perfezione nella sua autonomia e purezza concettuale,
prima ancora che documentaria e monumentale. Biondo è autore anche di un
libello De Romanorum elocutione
("La lingua dei Romani"), in cui sostiene la derivazione del volgare
dal latino a causa della corruzione provocata dalle invasioni barbariche.
Un documento straordinario per
consapevolezza culturale e formale di cosa comporti il recupero delle vestigia
residue dell'antichità è la lettera scritta da Baldassarre Castiglione come prefazione della raccolta di disegni degli edifici dell'Urbe eseguita da Raffaello su incarico di
Leone X, e databile al 1519.
L'epistola è dedicata nella
sua seconda parte agli aspetti prettamente tecnici dell'operazione: vi è
descritto lo strumento, una sorta di bussola o rosa dei venti, ideato da
Raffaello per procedere alla misurazione degli edifici orientandoli nello
spazio. Per quanto tutta tecnica, questa parte mostra il rigore con cui
l'artista si è accinto all'impresa e il suo intento filologico di
restituire, attraverso un corretto metodo di studio, quelle parti degli edifici
antichi andate distrutte o danneggiate nel corso dei secoli: solo così
potranno risorgere le membra lacere (il "cadavere" di Roma, come
scrive Castiglione) dell'architettura
antica e solo così potrà essere restaurato nel perduto
splendore, se non altro nella realtà virtuale (mentale) dell'atlante di
disegni consegnato al Pontefice.
Il disegno
degli edifici si divide in tre parti: la pianta, l'esterno con le sue
decorazioni, l'interno pure con le sue decorazioni; e ciascuno di questi
rilevamenti deve seguire regole precise e scrupolose: "Secondo il mio
giudizio - scrive Castiglione, interpretando il
pensiero di Raffaello - molti s'ingannanno circa il
disegnare gli edifici, che in luogo di far quello che appartiene
all'architetto, fanno quello che appartiene al pittore" (Castiglione, 1978, p. 539).
Ma è nella prima parte della
lettera che viene enunciato il senso culturale di
questo lavoro di Raffaello. Strutturata come veloce sintesi della storia
dell'architettura dall'età romana a quella contemporanea, fa emergere
con assoluta evidenza la consapevolezza della nuova cultura della rinascita e
la sua determinazione a contrapporre verticalmente la perfezione dell'arte
antica e la degradazione dell'arte "tedesca"
(cioè il "gotico").
Altro enunciato significativo della
lettera sono le considerazioni sulle cause della decadenza del modello antico.
La scomparsa dell'arte classica non è dovuta
solo a fattori esterni e per così dire naturali, che hanno determinato
la caduta dell'Impero romano: la Fortuna o le invasioni barbariche. Non sono
queste le sole cause del crollo di quel perfetto sistema che sembrava destinato
a non avere fine: parte rilevante ha avuto l'incuria e l'insipienza degli
uomini del Medioevo, che, insensibili alle vestigia di tanta grandezza, hanno
fatto scempio di essa, smantellando i monumenti per
farne materiale da costruzione o calcificando le statue.
Il rammarico espresso a Leone X per
la condotta di tanti papi precedenti che hanno contribuito a questo saccheggio,
si trasforma, è ovvio, in motivo celebrativo e propagandistico del papa
mediceo protettore delle arti, sotto il cui patrocinio si poteva intraprendere
l'opera di restauro e di ricostruzione. Ma non c’è solo questo: la
lettera individua la ragione culturale di quel degrado, ne sottolinea il
rilievo antropologico, in altre parole enuncia la diversità
dell'età moderna, che finalmente ha consumato una frattura con la
barbarie dell'età di mezzo e ha reso possibile la rinascita della
perfezione antica, che quella era stata incapace di comprendere.
Il suo recupero non può che
essere parziale e frammentario, dati i guasti e le perdite consumate: tra la
perfezione degli Antichi e la barbarie dei secoli oscuri, all'età
moderna spetta una posizione intermedia, di studio e di imitazione. Una
posizione che può essere positiva, perché consapevole di aver recuperato
la forma produttiva di quell'arte perfetta, e può quindi farla rivivere
non solo nelle spoglie esteriori ma nella sua sostanza. Con questa lettera
siamo, dunque, di fronte alla maturità del concetto di
Rinascita e al dato di fatto dell'acquisizione del modello antico come forma e
regola (aurea).
Al chiudersi dell'esperienza
repubblicana fiorentina che aveva visto alla sua origine l'impegno degli
umanisti nel trasferire e aggiornare la cultura classica nel dibattito politico
e istituzionale contemporaneo, il dialogo con gli Antichi viene
riproposto in maniera genuina, e alla luce di una sintesi inedita tra teoria e
prassi, nell'esperienza di Machiavelli.
Nell'esilio di Sant'Andrea
in Percussina, presso San Casciano,
nel contado fiorentino, dove lo aveva relegato la diffidenza del nuovo
reggimento mediceo, dal confronto tra l'esperienza vissuta e la testimonianza
delle storie antiche nascono le opere di teoria politica: il commento perpetuo della prima deca di Tito Livio, che dà vita ai tre libri
dei Discorsi, e dal cui disegno, secondo la tesi più accreditata, si
sarebbe distaccato il trattatello sul Principe.
Queste opere capitali nascono da un
dialogo diretto con gli Antichi, fondato sulla consapevolezza machiavelliana
della continuità ideale dell'indole e della storia umana. Una
straordinaria testimonianza di questa necessità di estrarre dalle storie
antiche quelle regole universali da adoperare per leggere e intervenire nella
realtà moderna, è nella celebre lettera all'amico Francesco Vettori
del 10 dicembre 1513, nella quale Machiavelli
annuncia la composizione del Principe e dà notizie sulla sua vita di
esilio: "Venuta la sera, mi ritorno a casa, ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana,
piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente entro nelle antique
corti degli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto condecentemente,
mi pasco di quel cibo che solum è mio, e che
io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandarli della
ragione delle loro actioni; e quelli per loro
umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia,
sdimentico ogni affanno, non temo la povertà,
non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in
loro" (Machiavelli 1961, p. 304).