HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro
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IV L'ATTIVITÀ MILITARE E
IL SOGGIORNO A BOLOGNA
V DALLE
RIME GUITTONIANE ALLA “VITA NUOVA”.
VI LE RIME REALISTICHE. LA
“TENZONE” CON FORESE
VII ESORDI DI UN UOMO POLITICO
VIII DALLE “PETROSE” ALLE RIME
DOTTRINALI
IX DAL PRIORATO ALLA CONDANNA:
XI ENCICLOPEDISMO FILOSOFICO E
Non è legittimo inoltrarci
troppo nella puerizia e nell'adolescenza di Dante, alla ricerca
dell'identità umana, dei sentimenti, delle esperienze del fanciullo e
del giovinetto. Ma è impossibile anche il non presentarci il problema,
non tanto per i richiami continui che nelle sue opere accadranno sulle
sensazioni, gli impulsi del bambino[1],
ma piuttosto per la necessità di intuire il sorgere d'un intelletto
precocemente interessato ai sentimenti, d'una sensibilità velocemente
instradata sul sentiero della riflessione di pensiero, d'una memoria
prodigiosa. Sin dagli anni giovanili, infatti, tanti eventi della storia
fiorentina e italiana ed europea del quarto ventennio del Duecento restano
impressi per sempre in lui, se i racconti a lui resi dai familiari[2]
si coniugano così strettamente con quelli appresi, letti, narratigli
più tardi, da costituire un saldissimo nesso. E questo nesso è
destinato a proliferare col tempo, a divenire uno dei fondamenti della Commedia,
a riuscire a lavorare profondamente nel suo interno, sino a divenire materia
vissuta, a far che gli eroi e le vittime e i perversi uomini di quel periodo
divengano persone quasi contemporanee, personaggi coi quali converserà
come se fossero stati da lui direttamente conosciuti, come se anch'egli avesse
vissuto quegli anni: immediatezza dei sentimenti, delle inquietudini d'un
Manfredi o d'un Farinata.
Il nostos dantesco a Firenze,
non raggiunto nella vita ma vagheggiato sino all'explicit dell'opera
maggiore, si unisce senza soste o ripensamenti a tutta la storia civile del
Duecento, ma con tre zone distinte d'influsso e di riecheggiamenti nella
memoria, a seconda che si tratti di avvenimenti della prima metà del
secolo, sino alla morte di Federico II (1250), ovvero di fatti e personaggi della
storia immediatamente precedenti la nascita o svoltisi lungo gli anni della
puerizia, dall'avventura di Manfredi[3] alle vicissitudini
ghibelline di Pisa e di Firenze, ovvero di tutti gli accadimenti uditi e visti
dall'età della giovinezza all'ultimo spegnersi di terrene vicende nei
canti finali del Paradiso, dalla notizia improvvisa dei Vespri (21 marzo
1282) alle difficoltà tra Venezia e la Romagna, ai primi inizi
dell'impresa di Ludovico il Bavaro[4],
allorché sta ancora combattendo in Germania contro Giovanni di Lussemburgo e
Federico d'Austria, e, per finire, alle oppugnate prescrizioni di papa Giovanni
XXII.
Potrebb'essere persino superfluo
segnalare che la prima fascia cronologica interessa Dante solo episodicamente,
e se ci dà qualche particolare[5], non è tale
da sovrapporsi all'occasione, ma questa lo determina: i pontificati
“francescani” di Innocenzo III e di Onorio III. Tutte e due le prime fasce
hanno zone di silenzio, ma assai più la prima della seconda, anche se
questa s'apre con la glorificazione di Federico II, spiccante nel panorama
della storia europea come l'ultimo imperadore de li Romani[6],
come il protettore, mio segnor, che fu d'onor sì degno[7],
l'eroe, con Manfredi, del De vulgari eloquentia, I, xii, e si chiude con l'accorato
rimpianto sul tramonto svevo, da Manfredi a Corradino, attraverso il resoconto
delle efferatezze di Ezzelino III da Romano, i successi viscontei a Milano e
angioini a Napoli. Lungo tutto l'arco di quegli anni gli uomini e le cose
prendono posto fissamente nel poema, in modo sempre più continuo,
sì da poter costringere (il che non faremo) ad una lunga elencazione.
Gli eroi positivi o negativi, Farinata o Carlo I d'Angiò, costituiscono
punti di riferimento continui della lectura dantesca, e lì
troveranno meglio la loro collocazione. Di tutta la storia coeva c'è da
dire per converso che la nomenclatura è così esaustiva, concerne
tanto direttamente il tessuto del poema, era entrata in qualche parte della Vita
Nuova[8],
entra in tante zone delle Rime della giovinezza e della maturità,
per lo più in quelle a carattere realistico, per riaffiorare con note
dolenti nelle rime dell'esilio, è centro esplicito delle Epistole
e implicito delle Egloghe, è l'elemento motore della Monarchia,
era affiorata anche nel Convivio e nel De vulgari eloquentia,
è prima e dopo l'asse portante dei corrucci e delle invettive
anti/proimperiali, antifrancesi e antipapali, dapprima pro e poi contro il
Guelfismo, dapprima contro e poi a favore del Ghibellinismo, è insomma
così onnipresente, da Firenze alla Sicilia, da Verona alla Francia e
all'Inghilterra, da Ravenna a Roma e ad Avignone, così che è
elenco inutile riportare tutte le vicende echeggianti in Dante e tutti i
personaggi del suo tempo. E anzi ha destato e desta qualche curiosità,
sovente vana, la ricerca del perché del silenzio sopra alcuni, invero pochi
casi, e insomma l'assenza di Giano Della Bella o di Benedetto XI, l'oscurità
in cui è avvolto il caso di Celestino V (anche se non si vuol credere
che sia lui l'ombra misteriosa del Vestibolo infernale), il silenzio su alcune
nazioni quasi che Dante non ne conoscesse l'esistenza, e la conosceva invece
(diciamo la Polonia), solo che non c'è stato modo di citarla,
così come sono assenti tra i papi e gli imperatori del Duecento alcuni
non irrilevanti, non si dice della meteora di Celestino IV, ma, ad esempio,
Alessandro IV o Gregorio X o (il papa della sua giovinezza) Niccolò IV,
o, tra i secondi, l'imperatore Corrado IV, che non è il secondo vento
di Soave[9],
com'era apparso ad antichi commentatori colui che è invece il figlio non
d'una presunta Costanza di Baviera, ma di Beatrice dell'Alta Borgogna, Enrico
VI.
Il fatto essenziale è che
tutta la storia contemporanea che conta è presente in Dante, in
proiezioni differenti se allusa da giovane, se giudicata nei primi anni
dell'esilio, se condannata nell'ultimo decennio della sua vita: quello per noi
decisivo, e che vede la messa in atto dell'Inferno, la scrittura e la
conclusione del Purgatorio e del Paradiso. E la proiezione
è duplice: sia quella dell'uomo che procede d'anno in anno lungo quella
storia e se ne fa idee, impressioni, eccitazioni diverse, sia del poeta che è
tenuto a rispettare la datazione del viaggio escatologico (la Settimana santa
del 1300), e quindi è indotto a “sdoppiare” le suggestioni del
personaggio-Dante che intraprende il cammino per i tre regni dell'oltretomba
cristiano, coi giudizi d'un esule con dieci, quindici, vent'anni di
peregrinazioni per l'Italia e di successivo inasprimento psicologico verso gli
eventi della realtà circostante.
Il maggior tramite di questa presenza
della storia in Dante, non è tanto il trascorrere degli eventi dalla
maggiore età del poeta sino all'estremo periodo, giacché qui la storia
coesiste e convive con Dante. Egli ne è in un breve periodo un
personaggio sia pure non principale, entra in contatto con qualche protagonista
(Bonifacio VIII a Roma, Enrico VII a Vercelli o a Milano, Corso Donati e Vieri
de' Cerchi, tutti i Donateschi e i Bianchi a Firenze, e qui anche Carlo
Martello, e s'era fregiato dell'amicizia di uomini di potere, come Nino
Visconti). Il tramite maggiore, il più suggestivo perché in qualche modo
più sfuggente e avvolto nelle brume della memoria, è quello
costituito dalla storia “orale”, dalla tradizione di eventi così
com'erano stati vissuti dai consanguinei o conosciuti dagli uomini di
più adulta età (Brunetto Latini, per citare subito l'esempio
maggiore), o filtrati attraverso altri racconti di membri di altri casati. Si
rifletta solo un momento quale miniera di notizie sulla storia fiorentina e
italiana dovett'essere l'amico Guido Cavalcanti, la cui famiglia sarebbe scesa
dalla Francia o dalla Germania, aveva avversato la rivolta di Schiatta degli
Uberti, era stata tra i fondatori del Guelfismo fiorentino (in un'epoca in cui
gli Alighieri contavano poco o nulla), aveva partecipato al tentativo di
pacificazione tra Guelfi e Ghibellini (Guido in prima persona, mandato a nozze
con Bice figlia di Farinata) e alla pace del cardinal Latino, schedata come tra
i Grandi negli Ordinamenti di Giustizia, correa dell'alleanza tra i Cerchi e
gli Adimari. La “memoria” di Guido si trasferisce in quella di Dante. Il ricordo
degli eventi del 1248 e del 1260 entra nel ricco bagaglio delle nozioni
storiche di Dante anche attraverso gli eventi dell'amico e del padre di lui,
l'eresiarca del canto X dell'Inferno, condannato nella stessa buca
rovente con il consuocero, a risuggellare ancora una volta, non senza una
stridente ironia, il fallimento del matrimonio tra due casati sempre più
avversi politicamente. E se di Monna Bice sappiamo ben poco, è evidente
che Dante l'aveva conosciuta, entrando così in un rapporto di “memorie”
con la figlia di Farinata prima ancora di conoscere, nell'esilio, i figli e i
nepoti di lui.
Per un verso o per l'altro, in modo
più conforme o maggiormente alla lontana, tutti gli album di famiglia
dei grandi casati fiorentini sono aperti all'avida consultazione della
“memoria” storica di Dante, quei casati la cui elencazione nel canto XVI del Paradiso
rischia per noi d'essere scarsamente parlante, ma per il poeta evocava, nome
per nome, situazione per situazione, una folla di ricordi struggenti o
polemici. E nel novero delle reminiscenze di famiglia, nulla vieta che possano,
anzi debbano essere collocate quelle derivanti dal casato della madre, se essa
è figlia di Durante degli Abati, e da quello della moglie, una parte se
non tutto l'immenso archivio dei Donati.
Tuttavia l'asse della memoria di
Dante, della sua tradizione di storia “orale”, è costituito da
Bellincione Alighieri, l'avo del poeta; di lui, figlio di Alighiero I, nato sul
finire del sec. XII, spettatore di tutta la storia fiorentina sino oltre il
1270 (le ultime sue notizie risalgono al 1269, ma è probabile che
vivesse ancora adolescente il poeta). Bellincione aveva assistito sia alle
vicende pubbliche che a quelle private del casato; sapeva della sorte degli
Elisei, di Moronto, della sanguinosa faida tra i nobili nel corso della quale
era morto Geri Del Bello. Non aveva conosciuto l'avo Cacciaguida, ma aveva
ereditato dal padre il culto di questo piccolo nobile che era stato armato
cavaliere ed era morto eroicamente in battaglia. Per la sua stessa posizione
cronologica nel cuore del Duecento dovett'essere una miniera di notizie, tutte
avidamente apprese dal fanciullo Dante, tutte o gran parte risorgenti nella
reminiscenza tardiva quando i contenuti del sacrato poema lo porteranno
ad utilizzare fatti e personaggi in gran copia. Così di tradizione in
tradizione, dalla famiglia alle consorterie amiche, lo spirito di Dante si
riempie di miti, coltivati profondamente proprio perché attingevano le proprie
radici in tutti i ricordi dell'infanzia, visti certamente per un tramite
rispettato per la sua equanimità di giudizio[10].
L'adulto Dante non potrà
rileggere la storia, soprattutto a partire dal secondo biennio dell'esilio,
nello stesso modo in cui gli veniva favoleggiata dall'avo Bellincione; le sue
nuove convinzioni politiche lo impegneranno a rivedere tante cose del mondo guelfo,
a riesaminare, ad esempio, tutta la politica degli Angiò. Ma i miti
dell'infanzia dovevano parimenti rimanere integri, resistere potentemente in
lui, e mescolandosi coi giudizi dell'età matura, far scaturire quella
visione complessiva d'un secolo di storia che troviamo operante nella Commedia,
e affiorante nelle valutazioni specifiche che di alcuni fatti vengono date
nelle opere minori. Il favellare dell'avo, la replicazione di questi racconti
in bocca all'indotto ma non insensibile Alighiero II, qualche ricordo materno
servivano a fargli figurare lo splendore di un'età passata dinanzi alla
quale il rimpianto è totale, e che serve col distanziarsi di quei fatti
nel tempo a rappresentarli coi colori della grandezza, della magnanimità,
dell'eroismo: quegli attributi che sono alla base del ritratto esemplare (anche
perché l'unico che si stacchi così nettamente) di Farinata e di ritratti
minori, tutti estremamente significativi, sospinti dalla nostalgia verso figure
ancora più antiche, d'un'epoca anche un po' antecedente Cacciaguida,
come Bellincio filius Bertae, Bellincione de' Ravignani, eroe di anni
remotissimi, 1170-80: un secolo prima di questa puerizia del futuro poeta.
Ripercorriamo con ordine la storia
del casato dantesco, riflettendo che forse siamo in grado di conoscere dati che
lo stesso poeta ignorava e di cui aveva memoria imprecisa, sempre in
virtù (o per colpa?) di questa storia “orale”. Egli sa con certezza che
la propria famiglia è fiorentina d'antichissimo ceppo, e ci pone sulla
buona strada parlando più volte delle proprie origini (da Inf.,
XV, 73-
L'aureola del martirio di Cacciaguida
costituì indubbiamente, assieme al titolo di cavaliere di cui l'aveva
armato Corrado III, il maggiore onore della famiglia, accanto ad altro titolo,
meno rilevante ma assai suggestivo per l'esule nelle corti dell'Italia
settentrionale: l'origine padana (Ferrara?) della moglie di Cacciaguida, di
val di Pado, e dal nome di lei, Aldighiera o Adegheria o anche Alagheria,
la causa del cognome, la cui forma, oscillante nei documenti e nei manoscritti
delle opere dantesche, andrà poi consolidandosi nelle due forme
Alaghieri e Alighieri, quest'ultima ormai invalsa nell'uso. Si suppone che
questa moglie padana fosse figlia di un Aldighiero degli Aldighieri, ed or
dunque siamo in grado di risalire ai quadrisavoli del poeta: una genealogia
fiorentino-padana che per il Dante degli ultimi anni suonerà doppiamente
gradita; così l'abitudine di alternare il nome di Alighiero con altro:
usanza che il poeta spezzerà, ma che ripristineranno i suoi figli, con
Alighiero e Alighiera di Pietro e Alighiera di Jacopo.
Cacciaguida ebbe due figli,
Preitenitto (padre di un Bonareddita) e Alighiero, il qual ultimo, il bisavolo
del poeta, ebbe in moglie una figlia di Bellincione Berti, quest'altro antico
eroe della vetusta e gloriosa età di Firenze, anch'esso ascendente del
poeta. Alighiero I visse tra il finire del sec. XII (nel 1189 è presente
in un atto assieme al fratello), e venne a morte poco dopo il 1201: Dante
dirà che Alighiero I ha girato per più di cento anni nella prima
cornice del Purgatorio: il che è stato un dato di fatto assunto per
forzare la data di composizione della Commedia, ma è evidente che
Dante non potesse avere dati sicuri, per quanto tutto fosse affidato alla
memoria dell'avo Bellincione, ai “racconti” di famiglia. Da Alighiero I
nacquero Bello, capostipite del casato dei Del Bello, padre di Geri (altro
personaggio del poema), e Bellincione, come già s'è detto l'avo
di Dante, un personaggio che dovette illuminare con la sua presenza di ricco
uomo d'affari, d'abile mercante di terre e lavoratore d'esse, d'astuto
prestatore di denaro, tutta la puerizia del poeta. Bellincione era in stretti
rapporti d'affari con la nobiltà fiorentina, e forse a ciò si
deve che il nipote potesse ricevere un'educazione non da grasso borghese, ma
quasi d'aristocratico. Bellincione e i suoi erano stati coinvolti in tutte le
gravi vicissitudini della storia fiorentina di metà secolo, e per due
volte aveva conosciuto la via dell'esilio. Ne abbiamo conferma dallo stesso
poeta, là dove mette in bocca a Farinata la sarcastica allusione: sì
che per due fiate li dispersi, e cioè nel 1248 (sino al rientro dei
Guelfi nel gennaio del 1251), e soprattutto dopo la battaglia di Montaperti (4
settembre 1260): esilio più lungo, per quattro anni, sino al
Bellincione ebbe vari figli, ciascuno
dei quali riuscì ad incrementare la fortuna paterna, e così il primo
dei sei figli maschi, Alighiero II, che una mala sorte legata alle accuse di
Forese Donati nella tenzone con Dante tende a descrivere come quasi un
malfattore, che ha avuto a che fare con la giustizia, e un perverso usuraio,
come tale non degno della sepoltura religiosa: sono accuse che fanno parte del divertissement
“giocoso” tra Forese e Dante, e come tali non di gran conto. Certamente non fu
uomo di cultura, e la fama di prestatore di denaro poteva facilmente sconfinare
con la nomea di usuriere; ma i dati in nostro possesso non consentono di
giudicarlo come un malvagio, un poco di buono, né dobbiamo condannarlo soltanto
perché il figlio non ne ha tessuto l'elogio (aveva forse altri motivi per non
farlo, non eventuali condanne penali). Alighiero II seppe comunque conservare
la vitalità finanziaria della famiglia, e non far mancar nulla ai
quattro figli avuti da due matrimoni. Sposò in prime nozze una
giovinetta di nome Bella[12],
la quale gli diede due figli, Durante detto Dante, e una figlia che andò
sposa a Leone Poggi; morì in giovane età, e Alighiero si
risposò quasi subito, con Lapa di Chiarissimo Cialuffi, la quale gli
diede altri due figli, Francesco e Tana, poi andata in moglie a Lapo
Riccomanni.
Tutto ciò che concerne la
madre di Dante, è, dunque, avvolto nell'oscurità, e del pari quel
che sappiamo invece dai documenti relativi ad Alighiero II, non ci pone in
alcuna connessione con la puerizia, la giovinezza, le abitudini del grande
figlio primogenito.
Da un complesso e minuzioso esame
delle testimonianze interne ed esterne, possiamo affermare con quasi assoluta
certezza che Dante nacque in Firenze in un giorno tra il 14 maggio e il 13
giugno dell'anno 1265 (più probabilmente verso la fine del maggio),
nella casa degli Alighieri nel popolo di S. Martino del Vescovo, di fronte alla
Torre della Castagna, casa che era stata di Geri Del Bello, più tardi di
Alighiero. Gli elementi sono molti e molto solidi, e si basano su un'attenta rilettura
di numerosi passi danteschi relativi alla data dell'immaginario viaggio
nell'oltretomba, la primavera o la Settimana santa del 1300, e alla certezza
che alla data del viaggio escatologico Dante era sui trentacinque anni, Guido
Cavalcanti (morto nell'agosto 1300) era ancora in vita, non erano trascorsi tre
mesi dalla data di lucrazione del Giubileo di Bonifacio VIII.
Se siamo sicuri dell'anno e del
periodo, la costellazione dei gemelli (O glorïose stelle, o lume pregno
/ di gran virtù… / con voi nasceva… / quegli ch'è padre d'ogne
mortal vita [il sole] / quand'io senti' di prima l'aere tosco[13]),
non del giorno, possiamo invece esser certi della data del battesimo: 26 marzo
1266, il giorno del Sabato santo in cui, secondo l'antica consuetudine ancora
per molti anni in atto a Firenze, in una pubblica cerimonia che comportava
grande concorso di folla[14]
tutti i fanciulli nati nell'ultimo anno venivano recati al fonte
battesimale, il fonte / del mio battesmo rammentato con struggente
malinconia in Par., XXV, 8-9, il mio bel San Giovanni (per
l'appunto nel passo della prima cantica poco sopra citato), l'antico vostro
Batisteo delle parole di Cacciaguida (in Par., XV, 134). La
cerimonia cadde quell'anno esattamente ad un mese dalla battaglia di Benevento,
mentre in Firenze, giunta la notizia della sconfitta e della morte di Manfredi,
i Guelfi rialzavano la testa nella speranza di ripristinare al più
presto un governo popolare, e gli Alighieri esuli (non tutti i membri del
casato, solo una parte d'essi) si preparavano a rimetter piede in città.
Il suo nome di battesimo fu Durante
(in omaggio al nonno materno?). Dirà molto più tardi F. Villani:
“Poetae in fontibus sacris nomen Durante fuit, sed syncopato nomine, pro diminutivae
locutionis more, appellatus est Dante”. E del resto il poeta non ebbe
mai ad adoperare il nome di Durante, ma le uniche due volte che lo cita,
è nella forma ipocoristica. E il nome Durante non appare in alcuno dei
documenti in vita del poeta, né nel ricordato atto del 1283, né nella
testimonianza del 6 settembre 1291, né nei verbali dei Consigli ovvero nelle
sentenze di condanna. Soltanto una volta, ventidue anni dopo la morte del
poeta, in un documento di Jacopo Alighieri del 9 gennaio 1343, il nome Durante
è citato e ripetuto altre due volte: “Cum Durante, ol. vocatus Dante,
cd. Alagherii de Florentia, fuerit condempnatus
et exbanitus per d. Cantem de Gabriellibus de Egubio”. Forse il
figlio avrà voluto, per qualche suo scrupolo o interesse, esibire nel
testo documentale entrambi i nomi, per maggiore sicurezza di regolarità
dell'atto.
Nulla possiamo inferire sulla
puerizia di Dante, svoltasi certamente nella città di Firenze, ma
alternando con qualche soggiorno, come vedremo, nei poderi di Camerata e di San
Miniato a Pagnolle, che, con l'aggiunta di due piccole aree nel popolo di
Sant'Ambrogio, costituivano ormai, col mutare della situazione della famiglia
(dopo la suddivisione delle proprietà di Bellincione tra sei figli
maschi e varie femmine), tutti i beni degli Alighieri del ramo di Alighiero II,
a meno che questi non si fosse sbarazzato di proprietà campagnole per
accrescere i propri traffici in città. Delle vicende politiche di
Firenze il fanciullo non ebbe ovviamente visione diretta che a partire da una
certa età. La tradizione vorrebbe che il primo impatto coi drammatici
fatti della storia locale potesse accadere in occasione della venuta in
città (giugno 1273) di papa Gregorio X e del re Carlo d'Angiò, in
un evento che non sortì l'effetto sperato per la pacificazione tra
Guelfi e Ghibellini, ma che ebbe grande risonanza di cerimonie pubbliche, se
non altro per sancire la fine del decennio apertosi con Montaperti e chiusosi
con gli scontri del
Non ha rapporti con le vicende
politiche, ma fu senza dubbio episodio sconvolgente per il fanciullo la morte
della madre Bella, presumibilmente tra il 1270 e il 1275. Egli tacerà su
questo dolore della puerizia, ché l'espressione di Inf., VIII, 45, benedetta
colei che in te s'incinse è un calco evangelico (da Luca 11, 27),
però non privo di interna risonanza emotiva: si trattava pur sempre di
ricordare la propria madre, sebbene egli avvertisse quell'esigenza tipica della
tradizione retorica, secondo la quale il poeta deve tacere sui propri prossimi
parenti. Avanzabile è però l'ipotesi ch'egli abbia voluto
immortalare la propria genitrice, fors'anche perché non serbava più una
memoria distinta, sicura.
Poco dopo la morte di Bella,
Alighiero II contraeva nuove nozze (tra il 1275 e il 1278?). Evidentemente
anche della matrigna, Lapa di Chiarissimo Cialuffi, il poeta tace, ma costei
non fu una perfida noverca, anzi il suo nome è legato
positivamente alla sorte degli Alighieri per molti e molti anni, riuscendo essa
a stringere rapporti veramente buoni tra i due figliastri e il proprio figlio
Francesco e la figlia. Certamente un amore profondo fu tra Dante e la propria
sorella di sangue, colei che andrà in moglie a Leone Poggi, e cui Dante
allude nella donna giovane e gentile… di propinquissima sanguinitade
congiunta in Vita Nuova, XXIII, 11-12; la nascita dei tre fratelli
del poeta si pone tra il 1273 e il 1280, ma si può anche riflettere sul
superlativo propinquissima rispetto ad una possibile designazione
“normale” di “parente propinqua” per una sorellastra, per ritenere che Bella,
morendo, lasciasse sia un fanciullo di cinque-sei anni che una bimba di pochi
anni o mesi. Tutto ciò meglio giustificherebbe il ruolo che la giovane
donna svolge nel celebre episodio della Vita Nuova.
Gli anni dell'adolescenza conoscono
poi due altri eventi privati: l'uno, che dobbiamo coerentemente porre nel 1274,
è il primo incontro con Beatrice; l'altro è l'istrumento dotale
di Gemma Donati il 9 gennaio 1277. Il primo, come ognun sa, è
ricostruito dall'interno del testo della Vita Nuova (Nove fiate
già appresso lo mio nascimento… II, 1), nell'esordio così
colmo di riferimenti numerologici e simbolici, eppur tale da permettere qualche
spiraglio ad un effettivo ricordo autobiografico, sottolineato dalla
precisazione del quasi completo volgere del nono anno di vita, quasi a uno
medesimo punto, e dunque tale da consentire a moderni commentatori anche la
citazione del mese: maggio 1274. Si deve d'altronde ritenere che non Dante
adattasse la propria storia al tornare e ritornare del numero nove, ma la
combinazione del nove più nove alla data del 1283 confermasse in lui la
verità dei numeri nel primo e nel secondo apparimento dell'angiola
giovanissima (II, 8). Il documento riguardante Gemma non ha alcun rapporto
col primo, anzi sembrerebbe esserne persino in contraddizione; ma il documento
del 1277 non è una generica promessa di sponsali (e nemmeno, ovviamente,
un vero e proprio atto matrimoniale data l'età dei due fanciulli), ma
“un vero instrumento dotis, cioè un atto che si fa al momento di
combinare effettivamente un matrimonio”[16], anche se si
conveniva tra le parti di rimandare la celebrazione solenne del rito e la
consumazione ad un tempo successivo. L'atto del 1277 non è rimasto in
originale, ma è citato in un documento molto più tardo (del
1329), in cui Gemma reclamava la sua parte dotale sui beni confiscati del
marito; dall'atto si possono trarre elementi utili non soltanto per stabilire
la data effettiva delle nozze di Dante (cfr. tra breve), ma pur per relegare
tra le leggende ch'egli fosse stato in giovane età novizio in S. Croce,
confermando dunque che i primi studi si svolsero esclusivamente in ambiente
laico, presso uno dei tanti doctores puerorum che esercitavano la
professione nella città di Firenze, fors'anche alla scuola d'un Romano
“doctor puerorum populi Sancti Martini” di cui in un documento dello stesso
1277 (la scuola che si conosca, più vicina alle case degli Alighieri).
L'educazione che Dante poté ricevere
da fanciullo presso un “doctor puerorum” fu certo un'istruzione elementare di
grammatica, come da Conv., II, xii,
2-4, non soltanto sugli ardui testi di Cicerone e sugli esametri di Virgilio
(ben conosciuti solo più tardi e forse solo durante il soggiorno a
Bologna), ma sul latino molto più agevole dei Disticha Catonis,
del Liber Esopi, dell'Elegia di Arrigo da Settimello. Non v'era
studio alcuno dei volgari, ma l'interesse per essi penetrava nella scuola dal
di fuori, dagli ambienti cittadini e familiari che avvertivano l'importanza da
darsi ai documenti in volgare per le varie esigenze sociali, ed erano
fortemente sensibilizzati dalla nascente poesia volgare fiorentina. La cultura
francese, alcun tempo prima che Dante si ponesse allo studio della lingua
d'oïl e di quella d'oc, e quindi prima ancora dell'incontro con Brunetto
Latini, sfiorava l'ambiente frequentato dal fanciullo Dante attraverso le
pratiche dei mercanti e gli echi della divulgazione letteraria di stampo
popolare. La condizione economica degli Alighieri, abbastanza buona durante
l'adolescenza del poeta, poteva consentirgli di frequentare coetanei
appartenenti alle consorterie dei Grandi e di scambiare letture, notizie di
poeti e di lingue straniere, impressioni e interpretazioni dei fatti salienti
della vita politico-sociale della città, in modo da poter dar principio
ad idee e giudizi propri all'indomani della pace del cardinale Latino, in quel
L'adolescenza di Dante si chiude con
un altro lutto familiare, si potrà anche dire senza alcuna conseguenza e
risonanza nella sua memoria poetica, ma certo gravido di effetti e di incognite
nella vita materiale della famiglia: la morte di Alighiero. Non è
possibile stabilirne la data se non per approssimazione: tra il 1281 e il 1282,
al limite anche ai primissimi del
Di una così intensa
fanciullezza, di questi anni giovanili ricolmi di tante appassionanti vicende
politiche, non rimase certamente a Dante un'immagine sfocata, imprecisa,
lacunosa, ma serbò per sé, per il tempo a venire, una serie di profonde
e durature suggestioni. E tuttavia esse non si affidano soltanto all'accumulo
di lutti familiari o di cruenti spettacoli di risse cittadine, ma anche ad una
doviziosa esperienza “all'aria aperta”, di “cose viste” una sola volta magari,
ma impresse stabilmente in un intelletto che fu precocissimo, in una
sensibilità nativa forte e autentica, in una memoria che fu sempre
eccezionale, acutissima.
Abbiam visto che la puerizia s'era
svolta non soltanto in città, ma anche nei poderi familiari, tra i colli
e i boschi e i campi aprichi della campagna fiorentina. Forse più tardi
le traversie della vita non gli concedettero che pochi momenti di svago come fu
in quelle primavere ed estati di Camerata e di San Miniato a Pagnolle; donde le
tante figurazioni naturali che creeranno in lui un immediato rapporto analogico
coi fatti del vivere umano. C'è bisogno di ricordarle tutte? Il fulmineo
balzo del ramarro sotto la gran fersa de' dì canicular, lo
splendere delle lucciole giù per la vallea, il lamento del
villanello che scambia la brina per neve (errore più d'un cittadino o
d'un fanciullo non abituato alla vita di campagna, che non d'un villanello),
l'uscita dal chiuso delle pecorelle timidette atterrando l'occhio e 'l muso:
gli oggetti, insomma, “poveri”, la semplicità d'una natura tanto vagheggiata
quanto è ancora tra le poche cose destinate a rasserenare
momentaneamente l'animo amaro del vecchio esule; oggetti “poveri” e
poverissimi: la mosca, la zanzara, il topo, la rana, la biscia, l'anitra ecc.
accanto a qualcosa di più insolito o “nobile”: il battere del becco
delle cicogne, il volo fitto degli storni, quello lento e voglioso delle
colombe, e altre immagini legati al gusto, qui davvero nobile, delle cavallate
e delle cacce: il cinghiale, il lupo e i lupacchiotti, i veltri, il falcone:
elementi d'un vivere aristocratico nelle campagne che gli fu più tardi
familiare ma di cui certo aveva contezza già dalla fanciullezza;
oggetti, tutti, congrui ad arricchire di termini umili o meno umili il
già ricco vocabolario dantesco, pur quelli di modesto vivere agreste o
domestico non certamente respinto per disdegnoso gusto, ma che senza
smancerie o compiacenze idilliche, estranee al suo animo, disvelano l'amore del
poeta per ogni aspetto della natura, sempre accarezzata nel ricordo, sovente
ricercata ancora, durante i duri momenti d'uno o d'altro viaggio di
città in città dell'esilio.
Con la morte del padre e col
raggiungimento della maggiore età Dante si trova a dover assumere nuove
responsabilità familiari, e certamente vi fa fronte come può,
scarsamente dotato per una vita d'affari, la qual pur aveva fatto la fortuna
(modesta come si vuole, ma sussistente) di Bellincione e di Alighiero, e forse
ad un certo momento sostituito dal fratellastro Francesco, il quale sembra aver
ereditato il senso pratico degli Alighieri, e più tardi
provvederà, in un indubbio rapporto d'affetto per il fratello maggiore e
per le sorelle, a prendere in mano l'azienda mercantile e agraria alighieresca.
Gli anni sono mutati anche a Firenze.
Il quadro politico è per un certo momento meno rissoso, e il governo
popolare regge bene le sorti dello Stato. Dante è tuttavia uno
spettatore inerte, per un buon periodo, di queste vicissitudini politiche,
anche se esse contribuiscono a consolidare gli ideali civili ch'egli aveva
ereditato dall'avo Bellincione: fedeltà allo Stato guelfo, accettazione
del nuovo Governo delle Arti (1282), relativa situazione di stabilità
durante il capitanato di Paolo Malatesta (quel personaggio che poi vedremo di
scorcio in uno degli episodi più celebri della Commedia: il canto
di Francesca), una serie d'incontri, di passaggi di personalità, di
varie esperienze di governo di cui Firenze è teatro. Scorre così
un triennio: il quale si apre con le giornate fiorentine di Clemenza d'Asburgo,
nel marzo 1281, messaggera di pace tra l'Impero e gli Angioini, e si chiude nel
1283 col passaggio di Carlo I d'Angiò, nel marzo, e di Carlo II,
nell'autunno.
Dante incappa in qualche prima
difficoltà di carattere pratico, né era uomo da seguire i metodi
sbrigativi (non diciamo disonesti) del padre. La vendita del credito
può, però, essere intesa come un comune atto di riscossione di
quanto dovuto alla famiglia, o anche l'inizio d'un nuovo modo di condurre gli
affari; ma grava il sospetto che si tratti d'altra cosa: cioè di
disinteresse per quel che poi chiamerà il civil negozio,
disinteresse destinato col tempo a tramutarsi in uno stato di necessità
per cui non è più sufficiente la rendita sui capitali, ma
occorrerà intaccare il capitale, e poi, di difficoltà in
difficoltà, accendere qualche mutuo, indebitarsi insomma per poter
provvedere alla famiglia e a sé, anche al suo modo di vita che tende a
identificarsi con quello della classe aristocratica, ad assumere le costumanze
sociali d'essa senza averne la potenza economica.
Nel contempo la famiglia, come si
suol dire, cresce. Dante celebra il matrimonio “effettivo”, che possiamo datare
al 1285 circa; nasce il primo figlio: 1287 circa; poi gli altri, in numero
ancora disputiamo di quattro o di tre: Pietro, Jacopo e Antonia senz'altro, e
forse, come primogenito, un Giovanni, presente in un documento notarile del
1308, e di cui non si sa nulla: forse, però, figlio di un omonimo del
poeta, un Dantino di Alighiero vissuto a Padova (ma è forte la
tentazione di scorgere dietro i tre nomi di apostoli i tre santi che
interrogheranno il poeta nel Paradiso).
La vita familiare e le accresciute
difficoltà non dissuadono tuttavia Dante dal seguire la sua stella.
La vocazione letteraria, vedremo, è molto precoce, e per consolidarla
egli vuol attendere a studi regolari all'università di Bologna (studi
che, come esamineremo tra breve, è costretto ad interrompere quasi
subito, se non forse si reca a Bologna per altri motivi). L'intreccio tra
vicende pubbliche e private, familiari e letterarie è strettissimo, e
non è facile seguirle tutte assieme. È questo il momento per ricordare
che in pari tempo egli ha incontrato i personaggi più rilevanti della
sua vita intellettuale giovanile: in primis il maestro Brunetto Latini,
e poi Guido Cavalcanti, e amici politici, non scevri di interessi culturali:
Nino Visconti, e anche Guido da Polenta, podestà in Firenze tra il 1°
luglio e il 18 novembre del 1290. Ciò che più conta, è
però l'incrocio con le vicende della sua realtà o invenzione
poetica, leggibili nelle Rime giovanili e soprattutto nella Vita
Nuova: nel 1283 la riapparizione di Beatrice e la nascita della poesia
d'amore, almeno quella cognita, col sonetto A ciascun'alma presa e gentil
core; nel 1285 circa: la cosa per la quale me convenne partire de la
sopradetta cittade e ire verso quelle parti dov'era la gentile donna ch'era stata
mia difesa[17];
subito dopo (1286 circa) la corrispondenza poetica con Dante da Maiano; forse
nello stesso 1286 o l'anno successivo il lavoro di volgarizzamento e di
reinvenzione letteraria culminante nei due testi del Fiore e del Detto
d'Amore; di certo nel 1287 le rime del periodo bolognese e la presumibile
data del matrimonio di Beatrice (il lettore non sottolinei troppo queste
coincidenze, ma esse esistono, ed elementi differenti della vita poetica
dantesca continueranno a coesistere, sì che possiamo tenerli distinti quanto
vogliamo, ma la coincidenza non è affatto eliminabile in sé); le date
certe, immediatamente successive, della morte di Folco Portinari e di Beatrice:
31 dicembre del 1289 la prima, l'8 giugno o il 19 giugno del 1290 la seconda:
data, questa, destinata a rimanere memorabile nella vita del poeta. Eppure
occorre insistere sulle coincidenze; l'anno 1289 è anche la dura annata
militare di Campaldino e di Caprona.
Purtuttavia è impresa
disperata seguire contemporaneamente le vicende pubbliche dello Stato
fiorentino e quelle private, letterarie, amorose di Dante. Ed è
opportuno, offerti i dati essenziali dell'intreccio di fatti, operare una netta
differenziazione di trattazione: la scrittura di Vede perfettamente onne
salute da un lato e dall'altro la presenza del poeta sul sanguinoso terreno
di battaglia di Campaldino, l'amicizia con Guido e Cino e la testimonianza
della sortita di Caprona.
Pare difficile stabilire un rapporto
tra la fabula della Vita Nuova e le vicende familiari di Dante.
Analogamente appare complicato stabilire un rapporto di causa ed effetto tra il
matrimonio di Dante e il suo traviamento. Si propone una datazione delle nozze
al 1285 per ricercare una indicazione intermedia tra le varie che sono state
proposte[18].
Non convincono, d'altronde, altre ipotesi, come quella del Torraca[19]
che tende a spostare il matrimonio il più tardi possibile, dopo le
vicende narrate nella Vita Nuova, quasi che la storia di questo libro
debba di necessità presupporre un Dante totalmente libero da impegni
coniugali e tutto assorbito dall'amore per Beatrice e dallo strazio per la
morte di lei. Né convince la serie consecutiva Beatrice ® “traviamento” ® matrimonio,
quando si conosca la capacità dell'intelletto dantesco a muoversi su
piani paralleli e coevi: da un lato l'attività pubblica, d'altro lato
quella letteraria, almeno per tutta la zona della giovinezza. Né si debbono
creare meraviglie che l'esperienza del Fiore possa in tutto o in parte
coincidere con quella della Vita Nuova, ovvero che tra le rime
realistiche e quelle dottrinarie debba di necessità esserci uno iato. I
vari fatti, le varie occupazioni dell'intellettuale Dante Alighieri possono
essere anche coincidenti temporalmente.
Concludo col dire che è
importante per noi che esistano due versanti, l'uno pubblico-politico, l'altro
familiare-amoroso e insomma privato, sui quali agire contestualmente, ai fini
di stabilire l'influsso dell'uno sull'altro e viceversa, e anche la non
permeabilità d'entrambi. Tra quel che diremo sull'attività
militare di Dante e il testo della Vita Nuova, può non esserci
alcun rapporto, o soltanto un filo sottilissimo di correlazione; ma è
rilevante, invece, che questo rapporto esisterà in futuro, e che la Commedia
attua un autobiografismo profondamente diverso da quello sia delle Rime
d'amore che di quelle realistiche, in quanto nel poema tutte le linee
dell'esperienza “totale” di Dante congiurano assieme per arricchire il tessuto
culturale e umano sia dell'Inferno (e soprattutto dell'Inferno),
sia delle altre due cantiche.
L'ATTIVITÀ MILITARE E IL SOGGIORNO A
BOLOGNA
Si può ritenere che sui
vent'anni Dante si trovasse coinvolto nel suo primo impegno militare.
Nell'autunno del 1285 erano scoppiate
ostilità (non si può parlare di vera e propria guerra) tra Siena
e Arezzo; gli Aretini, capeggiati dal vescovo Guglielmino degli Ubertini,
riuscirono a far insorgere a proprio favore gli abitanti di Poggio Santa
Cecilia, inviandovi forti truppe; i Senesi il 27 ottobre strinsero d'assedio la
cittadina e chiesero subito l'aiuto di Firenze; il 15 novembre i Savi decidono
d'inviare cinquanta stipendiari (il numero è poi raddoppiato dalle
Capitudini); il 27-28 novembre parte la cavallata fiorentina (comandava la lega
toscana Guido di Monfort; una parte del corpo di spedizione resta a sorvegliare
i passaggi del Valdarno; il castello cadrà molto più tardi, tra
il 7 e l'8 aprile del 1286). La possibilità che Dante facesse parte
della spedizione si regge esclusivamente sul passo di Vita Nuova, IX,
1-2, Appresso la morte di questa donna [l'amica di Beatrice] alquanti
die avvenne cosa per la quale me convenne partire de la sopradetta cittade e
ire verso quelle parti dov'era la gentile donna ch'era stata mia difesa,
avvegna che non tanto fosse lontano lo termine de lo mio andare quanto ella
era. E tutto ch'io fosse a la compagnia di molti quanto a la vista, l'andare mi
dispiacea sì, che… li suoi occhi [di Amore] mi parea che si
volgessero ad uno fiume bello e corrente e chiarissimo, lo quale sen gia lungo
questo cammino là ov'io era.
Il brano può avere un duplice
significato: trattarsi di un'aristocratica passeggiata o caccia, insomma d'un
diporto secondo le tradizioni della nobiltà cui Dante cerca di tenersi
più accosto possibile (la sua poca… nobiltà di sangue,
se vogliamo leggere a nostro uso il verso del canto XVI del Paradiso,
gli consentiva di comportarsi così), ovvero essere una vera e propria
spedizione militare: così hanno voluto il Del Lungo, il D'Ancona, lo
Zingarelli e altri. A favore di questa seconda ipotesi militano alcune
circostanze: che la spedizione era composta da una compagnia di molti,
che Dante vi si era recato per obbligo (me convenne), fors'anche che la
cavallata si concludesse con una ritornata e avvenisse lungo l'Arno. Ora
la strada di Valdarno è la più corta per chi, passando per
l'Incisa, intendesse recarsi a Poggio Santa Cecilia. Permane indefinito il
riferimento alla località ove si trova la prima donna dello schermo,
eppur persuasivo perché nel clima della fabula della Vita Nuova
introduce un riferimento ad una reale circostanza. Scartiamo altre ipotesi:
quella affacciata dal Balbo, e cioè riferirsi all'andata a Bologna, o
quella sostenuta dal Witte, alludersi alla battaglia di Campaldino; resta in
piedi, quantunque come mera possibilità, che l'episodio della Vita
Nuova apra uno squarcio su un fatto del tutto estraneo alla storia d'amore,
quasi un ulteriore elemento dell'allontanarsi temporaneo da Beatrice.
Però va segnalato che è equipollente l'altra possibilità,
anzi oggi più diffusa: d'una piacevole cavalcata di comitiva nobilesca,
com'è nello spirito del sonetto dello stesso par. 9, Cavalcando
l'altr'ier per un cammino, col suo carattere, scrive De Robertis,
“favoloso e fantastico”[20].
Vero è che i condizionamenti psicologici del sonetto potevano nascere
anche da un'occasione affatto opposta alla cavalcata di spiriti nobili.
Aggiungo che non possediamo notizie
sulla ritornata a Firenze degli stipendiari, ma è probabile che
essi prendessero parte soltanto alla prima fase dell'assedio, e in tal caso la
lontananza di Dante dalla città non sarà stata più lunga
di due o tre mesi al massimo.
L'anno successivo, il 1287, ci
consente invece una certezza: il soggiorno a Bologna, breve ma sicuro. Vedremo
tra poco lo stacco tra le primissime rime e queste riconducibili ai mesi (non
più che sei-sette mesi) trascorsi da Dante nella città del grande
Studio, ma anche il nuovo modo di poetare; si passa dal guittonismo delle prime
alle chiare esperienze dello Stilnovo bolognese delle seconde, non tanto il
sonetto sulla Garisenda, ma altre rime, quali Se Lippo amico se' tu che mi
leggi, ovvero La dispietata mente, che pur mira, o anche Deh
ragioniamo insieme un poco, Amore: stilnovismo tutto bolognese, ancora
esente da quei temi e da quella esecuzione letteraria che subito dopo
riveleranno la presenza del Cavalcanti, e quindi il possesso d'una poetica
tutta fiorentina, e immediatamente tutta dantesca e distinguibile da quella
degli altri poeti concittadini. Ed è la somma di queste esperienze che
ci induce a credere che i volgarizzamenti del Fiore e del Detto
debbano essere sia pur di poco precedenti; un Dante che attenda a rendere il Roman
de la Rose nel proprio volgare in quel modo in cui l'ha reso, può
sospettarsi soltanto il poeta che nel contempo ha tenzonato con Dante da
Maiano.
Se vogliamo sforzarci di dare una
data più approssimata o approssimabile a questo soggiorno in Bologna,
dovremmo pensare al semestre tra l'estate del 1286 e i primi mesi del 1287.
Fatto si è che pochi mesi dopo (secondo semestre del 1287) il notaio
Enrichetto delle Querce era già in grado di trascrivere sul proprio
registro il sonetto dantesco Non mi poriano già mai fare ammenda,
adespoto nel Memoriale bolognese, ma evidentemente una lirica che era
divenuta abbastanza presto ben nota in città se il suo testo poteva
essere trascritto in calce ad un documento notarile, per occupare lo spazio
lasciato libero dal testo del rogito. Il sonetto si presta a varie
interpretazioni, ma quella vincente sembra essere la più facile: il
poeta è così intento a fissare la meraviglia della torre della
Garisenda, che non si accorge (e poi se ne rammarica) del passaggio d'una bella
donna: forse una gentildonna della famiglia dei Garisendi (o anche “Beatrice
lontana”, ipotesi debolissima), o, se si vuole, la vicina torre degli Asinelli;
in ogni caso il sonetto è, come ha scritto il Contini, “una divertita
iperbole di scuola”; e non occorre troppo addentrarsi nella ricerca
dell'oggetto più degno d'ammirazione che non la Garisenda, ma piuttosto
sottolineare la fluidità del dettato poetico, d'un letterato insomma che
s'è da tempo industriato nelle giostre del poetare per tenzone e per
superiore divertissement stilistico, d'un letterato giovane ma che ha
già fortuna e nella sua città e in Bologna, sì da lasciare
così vistosa traccia in uno dei più interessanti (per noi) Memoriali
bolognesi.
Più tardi questo soggiorno di
Dante a Bologna sarà confuso con altro periodo o con altro soggiorno. Il
Villani scriverà: “fu scacciato e sbandito di Firenze, e andossene allo
studio a Bologna, e poi a Parigi”; e il Boccaccio nel Trattatello
aggiungerà: “Egli li primi inizi, sì come di sopra è
dichiarato, prese ne la propria patria, e di quella, sì come a luogo
più fertile di tal cibo, n'andò a Bologna” (nella redazione breve
aggiunge ancora: “non picciol tempo vi spese”, mentre nelle Esposizioni
tace del tutto sul viaggio). Ritroveremo un “Dante de Florentia” in una
testimonianza del 27 ottobre 1291, ma sarà lui? Comunque la sua fama
è già consolidata anche in Bologna se Pietro di Allegranza in un
memoriale del primo semestre del 1292 riporta Donne che avete intelletto
d'amore.
L'anno 1287 è anche quello
dell'esilio da Bologna di Venedico Caccianemico: forse sin da quel momento la
vicenda della Ghisolabella s'imprime nella ferrea memoria del poeta, il quale
la ricorderà nel canto XVIII dell'Inferno:
I' fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del Marchese,
come che suoni la sconcia novella.
Con tutta probabilità durante
i mesi di Bologna Dante deve aver stretto conoscenza o maggiore amicizia con
giovani fiorentini che i documenti dicono esser presenti in quel periodo allo
Studio: Jacopo Cavalcanti, parente di Guido, ovvero Dante degli Abati, da non
identificarsi col Durante degli Abati presunto avo del poeta, ma certamente suo
congiunto e forse nipote, in ogni caso coetaneo del poeta; altro amico
fiorentino a Bologna poté essere Gianni degli Infangati. È arduo
congetturare che Dante potesse entrare in dimestichezza col medico Taddeo
Alderotti, che proprio in quel 1287 accorreva a Roma al capezzale di Onorio IV,
e col giurista Francesco d'Accorso; per supporlo, occorrerebbe esser convinti
che Dante a Bologna frequentasse veramente lo Studio, e in tale ipotesi che sia
stato studente di diritto, o di grammatica e filosofia, o addirittura,
ch'è tra le possibilità la più fragile, medicina. La
necessità, propugnata oltremisura al fine d'assegnargli, come si sa, un cursus
honorum universitario, ha fatto spingere più d'uno studioso
all'opinione già ricordata d'un ritorno a Bologna tra la fine del 1291 e
gli inizi del 1294; per siffatta necessità si son volute attribuire al
poeta testimonianze relative a ladri e truffatori fiorentini operanti a
Bologna, come quel “Dante de Florentia” del citato documento del 27 ottobre
1291[21].
Per il 1288
nulla possiam dire che riguardi Dante direttamente. Ma la storia fiorentina,
quando nel 1287 con l'ingresso delle cinque arti medie accanto alle sette arti
maggiori si incrementa la base popolare nei consigli dello Stato, registra
avvenimenti di rilievo che possono essere posti in rapporto col poeta, se non
altro per analogia alla certa partecipazione sua agli scontri guerreschi
dell'anno successivo.
Il 1288 è l'anno della
“raunata di gente a cavallo e a pié” degli Aretini, comandati da Guglielmino
degli Ubertini, e della presa d'iniziativa da parte dei Fiorentini, i quali “si
dispuosono di contrastare”, come racconta il Villani, “all'aroglio degli
Aretini, e impuosono tra loro ottocento cavallate con ricchi e grossi cavalli,
e bandirono oste sopra Arezzo”. In rapida successione vediamo scorrere i fatti
d'arme di Badia a Ripoli, poi di Leona, delle Conie, di Asciano e di Laterina.
Campeggiano negli scontri personaggi e vicende che poi ritroveremo nella Commedia:
Nino Visconti a Firenze, e inoltre Maghinardo da Susinana, Jacopo del Cassero,
la cattura del conte Ugolino, la morte di Lano a le giostre dal Toppo (27
giugno).
La memoria del poeta ritornerà
poi a questi fatti e uomini, i quali tuttavia per il momento non possono essere
messi in relazione con la sua vita, ad eccezione della presenza del Visconti a
Firenze. Personalmente non credo[22]
che Dante si trovasse presente a questi scontri, e nemmeno che fosse soldato
nel territorio di Arezzo, addirittura presente all'assedio di Arezzo e al
violento scontro tra Senesi e Aretini, in cui pur presero parte stipendiari
fiorentini (come dalla provvisione del 27 luglio). Il massimo dell'ipotesi
possibile vede una concentrazione di forze da parte dei Fiorentini, e di
conseguenza l'inizio di un impegno militare al quale Dante tra breve
dovrà far fronte. Proprio l'infittirsi della guerra è invocabile
come probabile causa della partenza di Dante da Bologna, in qualche modo
“richiamato” o direttamente o per scrupolo morale a far ritorno in patria, per
porsi al servizio d'essa. Del resto era necessario anche per lui come per tutti
i giovani fiorentini della sua “leva” un certo periodo di allestimento e
preparazione all'arte della guerra. Dal che si può dedurre che, lasciata
Bologna, s'addestrasse coi suoi coetanei all'esercizio delle armi in attesa di
recarsi al fronte.
Il ricordo dei corridor che
egli aveva visto battere per la terra vostra, o Aretini[23]
non è necessariamente da mettersi in rapporto coi fatti del 1289, e meno
ancora con quelli dell'anno precedente.
Certissima è invece, come
accennavamo, la presenza di Dante alla battaglia di Campaldino (11 giugno) e
alla sortita di Caprona (16 agosto). Almeno io la dò per certa, tanto i
due episodi, più importante il primo, più evidente il secondo,
sono strettamente assimilabili alle cose “viste” dal poeta, “viste” e sentite
come l'alta pagina della morte di Bonconte da Montefeltro, frutto di una
violenta espressione personale in uno scenario ben noto a lui: la topografia
del campo di battaglia, l'infittirsi delle nubi e infine lo spaventevole
esplodere dell'uragano. Tuttavia la lezione è autentica, e risuona dalla
traduzione (è da ritenere fedelissima) che il Bruni rese d'un'epistola
perduta, forse la stessa Popule mee, quid feci tibi?:
Tutti li
mali e l'inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbono
cagione e principio; del quale priorato, benché per prudenzia io non fussi
degno, niente di meno per fede e per età non ne ero indegno, perocché
dieci anni erano già passati dopo la battaglia di Campaldino, nella
quale la parte ghibellina fu quasi del tutto morta e disfatta, dove mi trovai
non fanciullo nell'armi, dove ebbi temenza molta, e nella fine allegrezza
grandissima, per li vari casi di quella battaglia[24].
Queste parole, alle quali occorre
affidare la massima autenticità, gettano luce su una serie di elementi
di giudizio: anzitutto, per dir qui Dante d'essersi trovato “non fanciullo
nell'armi”, sembra si possa inferire che Campaldino fu la prima esperienza
militare, ché altrimenti non avrebbe rilevato l'età, sebbene questo
particolare serva prevalentemente a rapportare la maturità del giovane
rispetto alla “temenza” subita per lo scontro sanguinoso; poi che la
partecipazione a Campaldino non fu tra le milizie di riserva, ma tra quelle
chiamate all'urto diretto col nemico; infine, e soprattutto, che il testo
dantesco relativamente a Campaldino non si doveva fermare all'espressione sopra
riportata, giacché il Bruni ebbe a trarne più circostanziati dati: la
posizione di Dante nella prima schiera dei cavalieri, il fatto (importantissimo
quale testimonianza diretta) che il raggruppamento dei feditori a cavallo venne
in un primo momento battuto e superato dalla cavalleria aretina, e che fu
proprio questo eccessivo avanzamento dei cavalieri nemici ad allontanarli
troppo dalla fanteria e a causare la sconfitta dei nemici di Firenze ad opera
soprattutto di Corso Donati (G. Villani, Cron., VII, 131). Il Bruni
può aver aggiunto qualche cosa di suo (si veda nel passo sottocitato
l'espressione “e per notizia della cosa saper dobbiamo che Uberti, Lamberti
ecc.”), ma è certo che tutti gli elementi estraibili dall'epistola perduta
(“e disegna la forma della battaglia”) sono stati utilizzati:
[…]
intanto che in quella battaglia memorabile e grandissima, che fu a Campaldino,
lui giovane e bene stimato si trovò nell'armi combattendo vigorosamente
a cavallo nella prima schiera, dove portò gravissimo pericolo: perocché
la prima battaglia fu delle schiere equestri, nella quale e' cavalieri che
erano dalla parte delli Aretini con tanta tempesta vinsero e superchiarono la
schiera de' cavalieri fiorentini, che sbarattati e rotti bisognò fuggire
alla schiera pedestre. Questa rotta fu quella che fe' perdere la battaglia alli
Aretini: perocché i loro cavalieri vincitori perseguitando quelli che fuggivano
per grande distanza, lasciaro addietro la sua pedestre schiera; sicché da
quindi innanzi in niuno luogo interi combatterono, ma i cavalieri soli e di per
sé sanza sussidio di pedoni, e i pedoni poi di per sé sanza sussidio de'
cavalieri. E dalla parte de' Fiorentini addivenne il contrario, ché per esser
fuggiti i loro cavalieri alla schiera pedestre, si ferono tutti un corpo, e
agevolmente vinsero prima i cavalieri e poi i pedoni. Questa battaglia racconta
Dante in una sua epistola, e dice esservi stato a combattere, e disegna la
forma della battaglia; e per notizia della cosa saper dobbiamo che Uberti,
Lamberti, Abati, e tutti gli altri usciti di Firenze erano con li Aretini; e
tutti li usciti d'Arezzo, gentiluomini e popolani guelfi che in quel tempo
tutti erano cacciati, furono co' Fiorentini in questa battaglia […][25].
Si tengano inoltre presenti altre
reminiscenze militari di Dante in Purg., XXIV, 94-96, XXXII, 19-21,
oltre al cit. Inf., XXII, 4-5, che possono esser messe in rapporto con
la decisiva esperienza di Campaldino, con gli esercizi preparatori allo
scontro, con la susseguente impresa contro Pisa.
L'impresa di Caprona porta Dante in
altra zona delle operazioni militari della Taglia guelfa, in un territorio dove
forse egli non s'era ancora recato: la Toscana occidentale:
Nel detto
anno 1289 del mese d'agosto, i Lucchesi feciono oste sopra la città di
Pisa colla forza de' Fiorentini, che v'andarono quattrocento cavalieri di
cavallate, e duemila pedoni di Firenze, e la taglia di loro e dell'altre terre
di parte guelfa di Toscana, e andarono insino alle porte di Pisa, e fecionvi i
Lucchesi correre il palio per la loro festa di San Regolo, e guastarla intorno
in venticinque dì che vi stettono ad oste, e presono il castello di
Caprona, e guastarlo[26].
La disputa della piazzaforte di
Caprona era iniziata dalla primavera; occupata dapprima da Nino Visconti,
capitano dei guelfi pisani fuorusciti e alleato dei Lucchesi, era stata ripresa
da Guido da Montefeltro (due grandi personaggi della Commedia che qui si
fronteggiano!). I Fiorentini, incoraggiati dalla liberazione di Carlo II
d'Angiò (che il 2 maggio era giunto in città, trattenendosi tre
giorni tra feste e tornei), non poterono subito dar man forte ai Lucchesi,
impegnati com'erano nello sforzo militare con gli Aretini. Sconfitti questi a
Campaldino, e rientrati in città (24 luglio), i Fiorentini distolsero
una parte del loro esercito, facendolo marciare alla volta dei confini di Pisa.
Il poeta era tra i quattrocento cavalieri che consentirono al Visconti di
riprendere il castello (16 agosto), dopo qualche giorno d'assedio; lo dimostra
indubitatamente l'episodio di Inf., XXI, 94-96, così
vid'ïo già temer li fanti / ch'uscivan patteggiati di Caprona, /
veggendo sé tra nemici cotanti (un altro ricordo militare nella bolgia dei
barattieri, forse a meglio caratterizzare il tono “comico” di questa zona delle
Malebolge).
I biografi han tratto la deduzione
che durante questa impresa nascesse l'amicizia tra Dante e il giudice Nino,
probabilmente già conosciuto durante il precedente soggiorno del
Visconti a Firenze, e più strettamente frequentato durante il successivo
esilio in città. Non si può invece consentire all'ipotesi che
dopo Caprona Dante entrasse in Pisa, città sempre rimasta in mano ai
Ghibellini; è da ritenere, invece, che il corpo di spedizione fiorentino
facesse subito ritorno in patria, non avendosi tra l'altro notizia d'altri
scontri tra la Taglia guelfa e i Ghibellini nel periodo immediatamente
successivo.
Col rientro a Firenze Dante viene a
trovarsi nel momento saliente dell'avventura narrativa del libello. La
successione dei fatti ha le sue leggi invalicabili, eppure è duro
passare da eventi di così “esterna” rilevanza agli elementi d'una fabula
che vuol sempre essere affatto privata, avulsa dalla realtà circostante,
consegnata tutta ai valori astratti del simbolo e del sentimento. Tuttavia le
vicende della società politica di Firenze riescono in qualche parte ad
attenuare la distanza tra l'iter psicologico e quello della cronaca. Il
governo popolare si consolidava, dopo Campaldino, ma il prestigio che i Grandi
avevano conquistato sul campo militare, costringeva i popolani ad una
controffensiva sul fronte interno impegnandoli da un lato in opere di
più decisa riforma sociale, quale l'abolizione delle servitù nel
contado (il 2 agosto, proprio mentre s'appresta il distaccamento contro Pisa
ghibellina), dall'altro consigliandoli ad affrettare l'approvazione delle
“provvisioni canonizzate” (nel settembre), un argine contro la cattiva
amministrazione finanziaria del Comune. Tutto fa, o farebbe, ritenere che per
un intellettuale, strappato dagli obblighi militari ai diletti della poesia
cortese, e da quegli obblighi avvicinato a conoscere meglio stati d'animo ed
esigenze dei vari ceti cittadini, per di più provvisto ormai
d'esperienza nel campo delle ambizioni politiche di varie città della
Toscana, stesse per dischiudersi un periodo di più acuto interesse per
la vita della propria città. Veniamo a trovarci, invece, davanti ad una
data: 31 dicembre 1289, ch'è quella della morte di Folco Portinari. Se
gli elementi estraibili dalla Vita Nuova possono offrire qualche volta
un elemento di giudizio o di semplice orientamento nel succedersi della vita
giovanile di Dante, si dovrebbe dedurre che col ritorno a Firenze riprendesse
anche l'attività poetica, almeno col sonetto Ne li occhi porta la mia
donna Amore, rispetto al quale la morte del genitore di tanta maraviglia
avvenne non molti dì passati, in Vita Nuova, (XXII,
1), e la divulgazione di Donne ch'avete, la scrittura di Amore e 'l
cor gentil sono una cosa precedono di non molto (autunno dell'89, dunque?,
con la definitiva revisione e divulgazione di Donne ch'avete?; sono
tutte domande che il biografo non può formulare senza avvertirne tutta
la fragilità). Dante possiede più d'un motivo per ricordarsi con
esattezza l'episodio della morte di Folco Portinari, di cui noi abbiamo
contezza per via diretta[27]:
anzitutto l'elaborazione di Voi che portate e di Se' tu colui,
ch'è però argomento sempre debole, come i precedenti, dato che
Dante può aver composto i due sonetti, come gli altri, in epoca
successiva, adattandoli alla circostanza narrativa del funerale del genitore,
del pianto di Beatrice, della disperazione del poeta; poi i nove dì della
dolorosa infermitade, sofferti con l'amarissima pena (in Vita
Nuova, XXIII, 1) dell'incubo per la possibilità della morte di
Beatrice, de lo errare della sua fantasia (anch'essi probabile fictio
poetica per introdurre con patetico racconto la canzone Donna pietosa);
infine, e sopra ogni altra cosa, la data della morte di Beatrice (in Vita
Nuova, XXIX, 1), della quale s'è già discorso a proposito
degli elementi che abbiamo a disposizione per stabilire l'anno di nascita, e
cioè il 19 giugno o l'8 giugno 1290.
Ognuno sa che, per quanto si possa
accrescere o diminuire i dati di fatto relativi alla Beatrice “storica”
rispetto al personaggio poetico, la data predetta non può essere in
alcun modo esclusa dal novero degli eventi centrali della vita di Dante. E si
deve, di conseguenza, attribuire una qualche fiducia all'ipotesi che le rime
che precedono o immediatamente seguono l'evento funesto, dal calendimaggio di Io
mi senti' svegliar al successivo Un dì si venne a me, da Voi,
donne, che pietoso atto mostrate sino all'elaboratissima (e pertanto di
concezione immediata ma completata in epoca successiva) Donna pietosa,
siano opere che per ogni verso riguardano fatti della biografia dantesca del
1290, se non certo prove letterarie di quell'anno fatale, in cui vediamo la
storia di Firenze evolversi per accadimenti e sviluppi che pur ritorneranno
più tardi alla memoria del poeta, anche se non ebbero a riguardarlo da
vicino (nel marzo ritorna in Firenze Nino Visconti; dal 1° luglio al 18
novembre è podestà di Firenze il signore ravennate Guido da
Polenta il Vecchio, padre di Francesca, e da quella fonte si sarà sparsa
in città la storia dell'eccidio di Rimini, consumato un lustro prima;
proprio nel giugno i Fiorentini “feciono la terza oste sopra la città
d'Arezzo”, Villani, Cron., VII, 140; nel settembre si riprendono le
ostilità sul fronte di Pisa, e si distingue con le “masnade” pisane la
perizia militare di Guido da Montefeltro, riconquistatore dei castelli di
Montefoscoli e di Montecchio, ibid. 141; nuove imprese in Romagna del demonio
dei Pagani, Maghinardo da Susinana; podesteria aretina di Galasso da
Montefeltro). Se riflettiamo al sempre più intenso e severo impegno
letterario, sul limitare dell'anno che dovrebbe veder l'inizio (secondo le
congetture di molti) del cosiddetto “traviamento”: 1291, e non molto prima
dell'inizio della Vita Nuova in quanto inserimento delle liriche anche
antiche in una suggestiva cornice “romanzesca”: 1292, c'è da ritenere
improbabile altro effetto della morte di Beatrice che non quello d'una maggiore
consapevolezza letteraria. E si dovrà sfatare, di conseguenza, l'ipotesi
che Dante, affranto dal dolore, abbandonasse il secolo per vestire per qualche
tempo l'abito penitenziale del frate[28]. Si vedrà
tra breve quanto possa accogliersi della tesi che vede Dante allievo di S.
Croce oltre che di S. Maria Novella, ma è bene premettere che non si
deve nemmeno opinare ch'egli entrasse da giovane nel Terz'Ordine francescano, e
a fortiori nel Prim'Ordine.
In Conv., II, xii, 1-7 lo scrittore, in sede di esposizione
allegorica e vera, racconta che come per me fu perduto lo primo diletto
de la mia anima […] io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non
mi valeva alcuno. Tuttavia, dopo alquanto tempo (il che non può
significare più anni di stasi dopo il giugno '90, ma un anno o meno d'un
anno) si pose a leggere Boezio e Cicerone, non subito interamente intesi
giacché egli era fornito, oltre che d'ingegno, soltanto dell'arte di
grammatica; ma, appreso il valore della filosofia, cominciai ad andare
là dov'ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li
religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Tradotto con
l'indispensabile cautela, il noto passo del Convivio consente di dedurre
tre fasi nella formazione intellettuale di Dante: quella retorico-grammaticale
(1275-1286 circa, dagli studi dell'adolescenza all'insegnamento di Brunetto e
al Fiore), quella filosofico-letteraria (1287-1290 circa: amicizia col
Cavalcanti, soggiorno bolognese, attività poetica sino ai disegni
letterari susseguenti alla morte di Beatrice), quella filosofico-teologica
(1291-1294 o '95 circa: presso le scuole de li religiosi, il culto
sempre più personale della Donna Gentile e della lode di Beatrice,
cioè filosofia e teologia, sino alla conclusione della Vita Nuova,
per l'appunto 1294 o 1295)[29].
Un'interruzione nel processo intellettuale non vi poté essere; sempre
Dante attese allo studio e all'arte della rima, sia pur con prospettive e con
impegni che s'intensificano col tempo, lasciando ben presto alle spalle Donato,
Prisciano, forse Eutiche, per la cultura “militante” di Brunetto, aperta ad un
dialogo diretto coi classici e in continuità di rapporti con la
letteratura di Francia dell'ultimo mezzo secolo, in un lungo studio e in
un grande amore che, nel momento in cui l'avvicina a chi per lungo
silenzio parea fioco, approfondisce i valori morali e spirituali riposti
dietro la voce di Virgilio e degli altri auctores; ne discopre
l'attualità, esige un sempre maggiore impegno attorno ai testi
filosofici.
Del magistero di Brunetto su Dante
nulla dicono gli antichi biografi, Villani, Boccaccio, ecc.; la notizia compare
nel Lana, nel Falso Boccaccio (“E fu già tempo, ch'elli fu maestro di
Dante”), nel Buti, in Benvenuto, ma non è più che chiosa del
testo di Inf., XV,
L'ingresso nelle scuole de li
religiosi non comporta sostituzione d'un tipo di cultura ad altra, invece
arricchimento e perfezionamento di quella ricchezza e circolarità di
interessi sia nel campo della retorica che in quello della filosofia, in pari
dignità d'impegno, giacché egli è e resterà in futuro
intellettuale attento alle realtà di pensiero e letterato impegnatissimo
a realizzare queste realtà in forme poetiche ad esse pienamente
adeguate. E in aggiunta ad esse una sorta così gagliarda d'impegno
politico da rendere completa la sua fisionomia.
Pensiamo oggi che Dante frequentasse
sia lo studio di Santa Croce, francescano, sia quello di Santa Maria Novella,
domenicano. Forse è in quest'ultimo ch'egli poté compiere esperienze
dottrinarie più profonde e vaste, ripercorrere i testi della Scolastica,
essere interessato alle dispute contro l'Averroismo, assumere
familiarità con le opere di sant'Alberto Magno e di san Tommaso
d'Aquino, conquistarsi lentamente ma con sicurezza una sua particolare visione
filosofico-teologica, insomma divenire il theologus Dantes, nullius dogmatis
expers, come più tardi suonerà per lui l'epitafio di Giovanni
del Virgilio. Ciò accadde non attraverso un regolare, o quasi regolare, curriculum
studentesco, ma attraverso un dibattito aperto, continuo coi maestri dello studium
generale; tanto più che non è sicuro che i laici fossero
ammessi a frequentare le biblioteche degli studia. Ma l'humus
spirituale scaturisce anche e soprattutto dalla vicinanza coi circoli di Santa
Croce, ricchi di vita ascetica, ricolmi di quella energia morale e di quelle
esperienze mistico-profetiche che in Dante sono sicuro approdo del suo anelito
francescano, della sua frequentazione anche coi testi di san Bonaventura da
Bagnoregio.
Se non seguì seminari di
teologia morale e nell'uno e nell'altro studium, dunque disputò coi
filosofanti a tutti i livelli; ed ebbe fertili incontri con Remigio de'
Girolami, con Ubertino da Casale, con Pietro di Giovanni Olivi, i quali nomi
vanno fatti a tutte lettere per comprendere il profondo travaglio dal quale
nascerà il Convivio e scaturirà di lontano il sacrato
poema. Le stesse immagini di Beatrice e della Donna Gentile sono colorate
di riflessi dottrinari che hanno in questo momento la loro solida fondazione.
Nel momento in cui si andava modificando la situazione politica fiorentina con
gli Ordinamenti di Giustizia del 1293, e, soprattutto per quel che
afferirà alle vicende di Dante con i Temperamenti concessivi del 1295,
lo scrittore è in pieno lavoro, il filosofo s'è già quasi
tutto formato: il primo s'è espresso con la Vita Nuova, il
secondo sta fermentando alla vigilia d'un ampio disegno di grande enciclopedia
del sapere, il Convivio e prima del Convivio le rime dottrinarie,
vero e proprio cursus honorum del futuro autore della “divina” Commedia.
DALLE RIME GUITTONIANE ALLA “VITA NUOVA”
Il far storia dei documenti
d'archivio, il valutare appieno i fatti della vita pubblica fiorentina, i
riferimenti autobiografici pur anche, e infine le vicissitudini private
rischierebbero d'apparire una pura e semplice cronistoria esterna se non si
tentasse di penetrare all'interno della storia poetica, di quel lungo anche se
veloce tirocinio letterario che vede già ben abile e noto il primissimo
Dante, quello del sonetto A ciascun'alma presa e gentil core, con cui si
aprirà più tardi la Vita Nuova ma che resta la
testimonianza più antica del poetare dantesco, e poi la risposta
all'inchiesta di Dante da Maiano sull'interpretazione d'una sua visione del
dono d'una ghirlanda da parte d'una bella donna col sonetto Savete giudicar
vostra ragione, e infine la tenzone del “duol d'amore” sempre col Maianese
(cinque sonetti, tre del Maianese e due dell'Alighieri), il momento più
qualificante del guittonianismo del nostro, con una caratterizzazione anche
siculo-provenzale oltre che siculo-toscana, ma una tessitura stilistica
chiaramente guittoniana, giuocata su rime difficili, equivoche o identiche, su
gallicismi d'elevato gusto retorico, su una forzatura del fenomeno retorico
della replicatio. Tuttavia s'evidenzia il dono d'un intellettuale che sa
inserirsi di prepotenza nella composita società comunale toscana, e
disvela una politezza lessicale e musicale la quale potrebbe far sospettare che
tutte le rime guittoniane abbiano fruito d'una successiva accurata
rielaborazione. Il timbro fiorentino è flagrante, sia pure d'una
fiorentinità maianesca, e in essa la singolarità dei contenuti,
anche e soprattutto dove Dante guarda meno ai provenzali e ai siciliani e
più ai toscani, si dipana tuttavia da una capacità di scuola, in
specie ove si discettano i concetti espressi da Dante da Maiano.
Vale la circostanza che i provenzali
e i siciliani sono già conosciuti, se non tutti in molta parte, e anche
se sono letti in chiave toscana non perdono alcune loro prerogative di forma e
di concettosità. Il giudizio su Guittone e i guittoniani dovett'essere
estremamente positivo, e ciò spiega la circostanza della condanna che
poi il Dante della Commedia (condanna, o semplicemente limitazione)
esprimerà, quasi per voler allontanare da sé qualsiasi sospetto d'esser
rimasto in qualche cosa un seguace della scuola siculo-toscana; eppure certe
rime dell'Inferno, poi evitate nelle altre due cantiche, proclamano che
il poeta non s'è scostato completamente di dosso il residuo di questo
giovanile apprendistato.
Anche se vogliamo non dare un
giudizio assoluto di queste rime, e condizionarle alla circostanza che la loro
analisi di stile giuoca in funzione della vicenda biografica, un interrogativo
si pone come centrale: la fase guittoniana di Dante è sua propria
caratteristica che segna un ritardo o una misconoscenza del nuovo modo di
poetare di Guido e di Lapo, nel mentre i due fiorentini s'erano già
staccati risolutamente dal clan dei guittoniani di Firenze, ovvero la
svolta di Dante è coeva a quella di Guido (amici almeno dal tempo di A
ciascun'alma e di Vedeste, al mio parere quando nemmeno Guido
è fuori dal guittonismo), allorché i poetae novi di Firenze
riescono a procurarsi i testi di Guinizzelli e anzi è Dante a recare da
Bologna i materiali di studio? Il ritardo tra lo stilnovismo originario
(Bologna tra il 1265 e il 1274, data dell'esilio del primo Guido, o sino a
qualche anno dopo la morte, 1276, con la divulgazione del canzoniere
guinizzelliano e l'assestamento di tutta la nuova rimeria bolognese) e il
neo-Dolce Stile fiorentino, pensabile per l'appunto soltanto nel decennio
successivo, si può eccellentemente giustificare con la difficoltà
di scalzar subito il predominio di Guittone (là dove a Bologna non era
esistita una grossa personalità, capace di frenare la storia dottrinaria
e poetica del Guinizzelli); ma è indubbio che lo sfasamento è
anche nelle cose, cioè nel tempo di “viaggio” da una cultura regionale
ad un'altra.
La cronologia delle rime del
Cavalcanti e di Dante non è accertabile sino al punto di precisare
(ammesso che la storia della poesia tolleri perentorie cronotassi) i momenti
risolutivi della giovinezza poetica dell'uno e dell'altro amico, almeno avanti Guido,
i' vorrei. L'età maggiore e il prestigio familiare del Cavalcanti
giuocano un ruolo superiore allo stesso confronto dei testi del canzoniere
d'uno e d'altro, sì da mutuare l'ipotesi (che ne potrebbe ammettere una
tutt'affatto diversa se non opposta) della priorità di Guido, “maestro”
dell'Alighieri. Nulla sappiamo di rapporti diretti tra Cavalcanti e Bologna, ma
conosciamo con buona sicurezza, come s'è visto, il primo soggiorno
bolognese di Dante, così da affermare che poco oltre i vent'anni questi
poté avere esperienza diretta del clima poetico di Bologna, e aver contezza
di Guinizzelli più di quanto non potessero gli amici presumibilmente
rimasti a Firenze. È temerario inferire che fu proprio Dante a
trasportare nel pieno del 1287, di Bologna in Firenze, il canzoniere
guinizzelliano e altre rime bolognesi; tuttavia è possibile concedere
che la “svolta” concettuale e programmatica ebbe a prodursi press'a poco nel
medesimo periodo, e che il soggiorno bolognese può aver consentito a
Dante una relativa autonomia di formazione culturale, nel cammino da Guittone
al Dolce Stile, con la possibilità d'una verifica personale
dell'ambiente e dei contenuti della nuova scuola. Si suol dire che il
Cavalcanti giunse per primo ad una personale teorizzazione, e che Dante sino
alla vigilia di Donne ch'avete vive nel clima di Donna me prega;
comunque ciò non significa che nello sviluppo cronologico del movimento,
Dante si trovi ad intervenire nell'arengo poetico in un momento successivo
rispetto al passaggio da l'uno a l'altro Guido, proprio quel Dante che
si fa dire da Bonagiunta d'esser stato lui, colui, a trarre fore
le nove rime (Purg., XXIV, 49-50), per primo o almeno in modo da
creare per primo con Donne ch'avete un più consapevole ed elevato
movimento di idee e di tecnica letteraria, non le “proprie” nove rime,
si badi bene, ma le nove rime in senso assoluto nella storia della
poesia fiorentina.
Quando l'esegesi dei canzonieri
bolognesi si farà sforzo comune dei giovani letterati fiorentini, e in
questo ambito Cavalcanti confermerà la sua posizione più
autorevole di poeta di più antico cursus honorum, accadrà
che una storia d'amore disposta in senso narrativo (la Vita Nuova)
occuperà tutta la mente di Dante, ma si produrrà anche un
movimento in direzione inversa: quasi che egli, alla ricerca del personale senhal,
lo identifichi in un personaggio (Beatrice personaggio), lo elevi a numero e a
simbolo, ne tragga una vicenda tutta propria sino alla poetica della lode,
inscrivendo più degli altri coetanei la propria concezione dell'amore in
una “nuova vita”, in un canticum novum che è movimento (o inizio
d'un movimento) verso l'assunzione del valore di Beatrice nel concetto stesso
della Grazia e della Teologia. Più che per gli altri stilnovisti le
occasioni che avevano indotto Dante all'affermazione delle nove rime,
scaturivano dalla contrapposizione d'un rinnovamento rispetto alla stasi
morale, d'un'assoluta originalità di esperienze rispetto al
convenzionale e al consueto, immettendo la nozione di Amore-virtù, di
Amore “novissimo” all'interno di una “nuova” tecnica letteraria che oscura e
quasi annulla le precedenti forme del poetare, e supera le prefabbricate
situazioni psicologiche dei siculo-toscani sintetizzando energicamente o
analizzando sottilmente gli elementi dell'indagine morale. La fantasia
dantesca, già vivida e pungente all'epoca dell'esperienza guittoniana,
s'è fatta tra il 1291 e il 1294 più concreta nel lento ma
progressivo incardinarsi in un organismo filosofico. Il poeta si serve d'ogni
elemento della fabula narrativa della Vita Nuova per conservare
desta la propria acuta, sovente sofferta sensibilità, e per
rintracciare, al fondo della coscienza, una serie di notazioni morali, tutte
concretamente riconducibili all'uomo-poeta, e perciò naturalmente adatte
ad accogliere quel che di “nuovo” s'agita nei sentimenti: singolarità di
stato morale, autenticità dell'inquietudine, consapevolezza di godere
una “novella età”, godimento di vocaboli e immagini in un clima di
rarefazione della realtà e di trasfigurazione d'ogni simbolo. Nella lode
di Beatrice la stupefatta ammirazione per la donna si trasferisce in un
superiore piano di elevazione concettuale che perfeziona il repertorio visivo
di Guido (subito emulato, presto superato durante il corso redazionale della Vita
Nuova) nel traguardo d'uno stile personalissimo, d'una concettualità
più aerea e melodiosa di quella degli altri Stilnovisti.
Nella Vita Nuova si condensano
una serie di esperienze della Consolatio di Boezio, incentrate
soprattutto nelle proposizioni filosofiche, ma notevoli anche nel rapporto tra
poesia e prosa, nella “fiducia nella possibilità di una soluzione
poetica”[30]
sin dall'immagine dell'apparizione di Amore accanto al letto in “bianchissime
vestimenta” per proseguire in echi di maggiore concentrazione nell'effigie del
momento dello smarrimento di Dante. Il ciceroniano Laelius e la boeziana
Consolatio (giacché va esclusa la conoscenza delle Saturae Menippeae di
Varrone) fermano sin dal primo momento in un rigoroso schema letterario il proposito
di comparare l'autobiografia col ragionamento morale e la poesia con la prosa,
sia quando i primi elementi determinano i secondi, sia allorché sono i secondi
a funzionare da fomite retorico e stilistico, nella generale cornice della
visione. La diversità sostanziale con la struttura di Boezio sta nello
sfasamento cronologico dell'esecuzione letteraria: la meditazione di Boezio
scaturisce da un'alternanza di forme in poesia e in prosa (prosimetro
sincronico), la riflessione dantesca si distanzia nel tempo in quanto la prosa,
per lo più, rievoca uno status emozionale che era già
stato espresso in poesia e che perviene dunque alla condizione poetica
attraverso una lunga scansione temporale (prosimetro diacronico): il che non
vieta che esistano momenti del “libello” in cui la prosa inizia il tema, lo
modula, ne stabilisce gli elementi essenziali, affidando poi alla poesia
l'ulteriore sviluppo del tema stesso e la sua risistemazione in poesia,
soprattutto a partire dal cap. XX.
Evidentemente ciò non va affermato
rigidamente, ma quale piuttosto un modulo con cui presentarsi al lettore,
confrontare se stesso nel breve giro d'un'univoca esperienza personale (Boezio)
o in un lungo monologo narrativo che coinvolge tutte le occasioni della propria
giovinezza e persin puerizia (Dante); un libro di un uomo prossimo a chiudere
la vita (Boezio) e un uomo che si apre per la prima volta ad una grande
avventura terrena (Dante); un libro dove la morte è sentita entro la
coscienza dell'autore e la Filosofia consola un disilluso che ha ben poche
speranze dinanzi a sé, e un libro dove la morte è della persona amata e
semina nel cuore del poeta, conscio del dolore che l'ha per sempre colpito, i
progetti d'una vita da dedicare tutta alla confortante Filosofia e al suscitante
Amore, congiunti in un superiore disegno di “mirabile visione” che sarà
un altro modo, questa volta affidato alle “parole sciolte” del Convivio
e alla totalità d'un'esperienza che nella Divina Commedia
congiunge le “parole sciolte” (le sottostrutture dell'oratio soluta)
alla risurrezione della morta poesì e alla consapevolezza dell'alta
fantasia che non ripudia le rime aspre e chiocce nel rievocare la
propria storia umana in un quadro reso immenso anche in virtù
dell'eccezionale accumulo di molte altre esperienze oltre quelle, sublimi ma
pur limitate nel fine ultimo, dell'Amore. Proprio per questo motivo la
struttura del Convivio non proclama un raffronto diretto di poesia e
prosa, ma quest'ultima è un minuzioso commento a quella, è da
considerare un necessario gradus ad Parnassum dalla mescidanza diretta
di poesia e prosa della Vita Nuova alla globalità del pensare,
vivere, esprimersi in sola poesia del sacrato poema, all'interno del
quale la fermezza “tetragona” della terza rima distrugge qualsiasi residuo di oratio
soluta, di verba soluta modis, non consentendo più nemmeno un
barlume di locuzioni di nascita o elaborazione prosastica, affidandosi ad uno
strumento sempre e ovunque lirico, liricizzante persino le digressioni
filosofiche e teologiche pur echeggiate da una remota memoria prosastica.
Anche nel milieu dei nouveaux
critiques l'attenzione alla struttura della Vita Nuova è
costante, proprio per le molte peculiarità che presenta rispetto alle
forme del romanzo francese contemporaneo. Il Sollers[31], sulla scia
soprattutto di Althusser e nel momento in cui si volge all'esame dei testi
partendo da un'astratta teorizzazione, incontra nella Vita Nuova la
presenza di distinti livelli d'enunciazione: un primo, che è il processo
d'intersezione in cui la vita dell'individuo narrante, possiamo proprio dire
dell'io narrante, s'incontra con la vita d'una figura, Beatrice (in questo
momento avviene “la nascita linguistica del soggetto, in una dimensione
quotidiana e cosmologica”[32]).
Il Sollers avanza l'equazione, definita paradossale: “qualcuno fa parlare, egli
parla, egli parla per qualcuno”, motivo che effettua la triplice conseguenza di
Dante autore-vittima, traduttore e destinatario, e di Beatrice sollecitatrice
delle tre condizioni, autrice di tutti i moti del poeta-prosatore, destinata a
sparire (ripetizione del mito di Euridice) pur conservando una costante
identità anche nell'ultima parte del “libello”. Scrive Sollers:
Si
direbbe che per Dante l'essenziale sia di non esser mai in riposo, di poter
spiegare ogni fenomeno, ogni tratto dei suoi poemi, ma per trasferire la
comprensione e il risultato provvisorio che ha ottenuto nel movimento perpetuo
del desiderio: creazione e critica non saprebbero star separate. L'amore non
possiede nulla e non vuol possedere nulla: la sua sola verità (ma
infinita) è di affidarsi alla morte. In questo senso, la morte di
Beatrice è la chiave del linguaggio di Dante, giacché più che la
morte di un altro, essa è la sola maniera che egli ha di vivere la sua e
di parlarla. A partire da questa morte, il commento passa d'altronde al livello
di racconto, lasciando che il poema termini in silenzio[33].
Certamente la triplice composizione
della Vita Nuova (poesia, prosa narrativa, critica letteraria) è
un unicum irrepetibile nel suo genere, come il De consolatione di
Boezio è un unicum tripharium di poesia, prosa autobiografica,
prosa filosofica: e forse la triplicità di Boezio è stato fomite
incessante per l'autore della Vita Nuova nel momento in cui inserisce
l'autobiografia d'amore nel dettato poetico, per poi sottoporre questo ad un
giudizio stilistico-metrico e attraverso l'esame della forma e del metro
risalire ai valori della testimonianza morale, anzi sia morale che religiosa, e
contemporaneamente ai valori del linguaggio, alla cui coerenza di modulo
espressivo dell'amore e della morte non rinuncia mai, creando uno stupefacente
miracolo di supremo modello letterario, che conserva e consacra tutti i
requisiti, aspetti, costanti e varianti della operazione letteraria.
L'evidente impossibilità di
procedere secondo una direzione univoca, che conglobi diacronicamente e
sincronicamente l'attività dell'uomo politico a contatto con una
situazione etico-sociale in continuo fermento e l'impegno del letterato, il
quale alle prime letture di Provenza e di Francia, di Sicilia e di Toscana va
unendo un interesse sempre più profondo alla filosofia della Scolastica
e alle voci degli auctores classici, è complicata da altro
ostacolo che ora ci interessa in modo specifico per definire la specie del
dantesco prosimetrum: disporre le Rime e in esse i componimenti
poetici della Vita Nuova lungo un ordine cronologico anche
approssimativo e in quanto tale confrontabile con l'ordine di composizione
indubbiamente molto più lineare e coordinato della prosa della Vita
Nuova e riscontrare assetti e fasi di chiara autonomia formale e
concettuale, oltrepassando il momento del melodioso afflato amicale
rappresentato dal sonetto Guido, i' vorrei, e tracciando un itinerario
tutt'affatto personale e originale, con sempre più accentuato
superamento tanto del pensiero quanto dell'esperienza che i suoi coetanei
avevano del volgare illustre.
Insomma la Vita Nuova non
è opera di chi come Boezio, nella solitudine del carcere, opera una
complessa recherche di sé e in poesia e in prosa, ma piuttosto il
prodotto di un uomo che attende contestualmente a vivere una vita letteraria ed
una politica sin dal lavoro attorno al volgarizzamento del Roman de la Rose
(se esso è opera del primo periodo, e non si vede come possa essere
collocato verso le ultime battute del sec. XIII). La necessità di
attingere a moduli espressivi estranei alle scuole cortesi (o di Guittone o del
primo Guido), i frequenti imprestiti linguistici allotri all'usus della
cultura fiorentina di metà Duecento, esigenze grammaticali e sintattiche
inaudite, esperimenti particolarmente difficili sulla rima, istanze di
conservazione dei gallicismi onde poter meglio rendere la patina del testo
originale e una certa qual atmosfera aulica, creano nel “Ser Durante” del Fiore
e quindi del Detto d'amore l'obbligo di raccogliere tutti i materiali
utili anche nel settore della tradizione realistica post-giullaresca e
post-goliardica. L'autore del Fiore non aveva dinanzi a sé gran copia di
elementi in volgare: il Tesoretto e il Favolello (ma non tutto),
le rime comiche e quelle cortesi di Rustico messe a confronto di modo che
già in Firenze Dante trovava prova della necessità di misurarsi
nei due stili, il volvol e lo sturbignon minacciati sul capo
della vecchia rabbiosa dal Guinizzelli, infine le prove anomale del
Cavalcanti, sempreché il sonetto sulla scrignutuzza non sia esso stesso
sotto l'influsso di Dante giovane e magari dello stesso Fiore, e non ne
anticipi toni e scelte lessicali. Doveva quindi effettuare una ponderosa fatica
di adattamento della lingua del Roman de la Rose, ricchissima, al
repertorio lessicale italiano troppo scarno, se non proprio povero, rispetto al
patrimonio culturale e linguistico francese.
Il particolarissimo impegno
dell'autore del Fiore non dovrà essere, tuttavia, chiamato a
giudizio per accrescere le difficoltà che lo studioso incontra nel
tentativo di assegnare un ordine approssimativo a quei testi che non divennero
mai pezzi d'un “canzoniere”. Si dovrà per converso riconoscere che
un'ipotesi di maggiore intensità del divertissement comico (e
comico ed elegiaco!) nella zona centrale del periodo della giovinezza
letteraria di Dante, e cioè il momento saliente ed eccellentemente
costruttivo della Tenzone è pienamente ammissibile, corrisponda o
no alle clausole e alle peculiarità del cosiddetto “traviamento”. In una
sede come questa, dunque, accennare ai problemi basilari della Vita Nuova,
rispetto a quelli delle rime realistiche, infine delle dottrinali, ha un senso
non del tutto generico, e risponde da un lato alla varietà d'interessi e
di costumanze di vita della Firenze tardo-duecentesca ove le classi magnatizie
e popolari si fronteggiano con un'evidente maggior fruizione della poesia da
parte dei nobili, ma anche si permeano a vicenda degli ideali e del gusto
d'entrambi i fronti, d'altro lato anche ad un'ineliminabile ricerca di linee di
sviluppo linguistico-stilistico, nell'analoga direzione perseguita dal Contini
nell'indagare il “nodo” Rose-Fiore-Commedia, un “nodo” ov'è
notevole il transito da un'opera di due autori ad un'opera che più
univoca non potrebb'essere attraverso l'ulteriore replicatio di un “io”
narrante. S'intende che per la borghesia e la parte popolare più evoluta
la scelta della prosa era assai più parlante.
Quanto all'elemento elegiaco nella
versione del Roman de la Rose (assai attraente per chi scandagli i
lacerti dell'esperienza della satira latina, nemmeno qui riuscirei a parlare di
spoudogeloion), difficile è discettare sulle caratteristiche che
Dante, nella parte concepita ma non scritta del De vulgari eloquentia,
avrebbe assegnato allo stile elegiaco: assai probabilmente egli aveva dinanzi a
sé soltanto la tradizione giullaresca e goliardica, ma non è da
escludere qualche lacerto di conoscenza frammentaria di Terenzio, di Orazio
satiro, di Persio e di Giovenale. Ma non è irricevibile l'ipotesi
che il giovane Alighieri, almeno sino alla Tenzone con Forese Donati,
meno attratto dalle possibilità del tono mediano e assai più
dall'icastica contrapposizione tra il tragico e l'elegiaco, attribuisca ai suoi
giuochi realistici e alla corposa natura delle contentiones e del vituperium
il valore che in sede teorica, una decina d'anni più tardi, si preparava
ad assegnare al terzo e infimo stile. Si intuisce dalla contemporaneità
di diversissimi esercizi letterari (tragico di Guido, i' vorrei, comico
di Sonar bracchetti, elegiaco di Chi udisse tossir la malfatata)
il piacere delle nette antitesi stilistiche, in gran parte non recuperabili dai
depositi della letteratura toscana di metà Duecento, ma da inventare
ovvero da scoprire attraverso coeve consultazioni dei Francesi e dei Provenzali
e prelievi di calchi demotici anche plebei, d'un plebeo ricuperato a livello d'usus
di “masnade” aristocratiche che hanno gusto a trivializzarsi anche
nell'espressione verbale.
Tutte le opere giovanili di Dante
vivono al tempo medesimo nella società pubblica e in quella letteraria
(le quali possono incontrarsi più volte, mai coincidere in ogni impulso
e interesse), sì da vedere nella Vita Nuova la forma suprema d'un
civile consorzio, il quale conversa attraverso i vari personaggi dell'opera
(Beatrice, le donne dello schermo, la donna pietosa, ecc.) con un pubblico
pronto a recepire la veste allegorica e l'argomentare dottrinario, e tributare
onori all'autore per aver unificato poesia e prosa del libello, parole
legate e parole sciolte, la raffinata enunciazione di concetti amorosi
nel chiuso della speculazione individuale del poeta e l'animato discorso
romanzesco aperto alle richieste narrative della collettività: insomma
tutte le aspirazioni d'una élite che aveva conservato come sacro il
patrimonio dell'antica cultura (da Cicerone a Boezio) e pur era volta ad
allegoricizzare e spiritualizzare i problemi dell'umano amore nella visione
religiosa della vita attuale. “Il dialogo poesia-prosa”, ha scritto il De
Robertis, “assume, su un diverso piano, il carattere di dialogo tra poesia e
prosa, tra poesia di ieri e poesia di oggi, fra tradizione e innovazione”[34];
e in effetti l'elegante racconto e la limpida presentazione del tema
concettuale costituiscono elementi d'una forte attrazione verso il nuovo stilo
della poesia, destando l'interesse del pubblico “non specializzato” dell'Italia
duecentesca e incoraggiandolo a penetrare nei misteri d'una nuova concezione
dell'amore cortese. Anche il tessuto prosastico, tuttavia, assimila ed esprime
a quel pubblico novità sostanziali, presentando rispetto alla prosa
dottrinaria del tempo una chiarezza di locuzioni, una scioltezza di ritmo, un
fascino “romanzesco” destinati a costituire il vero “successo” letterario
dell'opera, più che i testi poetici, i quali comunque presentavano fatti
nuovi d'indiscutibile presa sul lettore borghese di fine Duecento. Eppure
dinanzi c'è, è vero, un Dante del quale noi possiamo identificare
gli auctores classici (si pensi allo sforzo notevole e ardimentoso che
la dantologia contemporanea ha fatto in direzione di Orazio e di Persio, di
Giovenale e di flores della commedia latina, persino delle Bacchides
plautine), ma questo Dante vive in un consorzio letterario che può non
aver lasciato tracce in scritti, eppur aver maggior sentore del prosimetrum
di quanto non si possa evincere dalle orme che, lievissime, sono rimaste nel
sabbione infuocato della Commedia, in un crogiuolo di auctoritates
che non vuol essere un repertorio di tutte le cose lette.
Ordunque, all'avido pubblico
duecentesco che vuole un suo liber, non in latino o in francese, ma
nella sua propria lingua, la Vita Nuova, nell'offrire una struttura
assai originale di “romanzo-poemetto allegorico”, rivelava il netto superamento
e, al tempo medesimo, il perentorio inveramento dei fermenti innovatori che le
prime rime avevano potuto esprimere soltanto in modo episodico; il superamento
è nell'ordine stesso della struttura letteraria che abbandona le
occasioni (inchieste e referendum di Dante da Maiano, tenzoni cortesi con
Chiaro Davanzati, dubbi comunicati a Puccio Bellondi — se son di Dante Tre
pensier' aggio, Già non m'agenza, Chiaro, e infine Saper
vorria, da voi) per diversa e più alta occasione, conquistata
mediante la disciplina del labor limae sui prodotti giovanili, penserei
in gran parte riscritti e aggiornati stilisticamente all'atto di inserirli nel
racconto, e nel complesso impegnando quella “tecnica dolce” di cui ebbe a
parlare il Contini, e che riesce a “cancellare il suo sforzo”, risolvendosi su
di un “piano tessuto scrittorio modulato senza dislivelli”. La disposizione
simmetrica delle parole e dei costrutti, l'inconfondibile melodia di attacchi
famosi quanto irripetibili nella storia della nostra lirica avanti la nuova
musica verbale del Petrarca: Tanto gentile e tanto onesta pare ne
è soltanto l'esempio più flagrante, ma Venite a intender li
sospiri miei è il caso contrappuntisticamente centrale di questo
dantesco itinerarium, l'abile transito tra il ritmo del verso e il tono
dell'oratio soluta, la maestria della rima e l'asciutta concinnitas
delle glosse esegetiche in tema di retorica o di dottrina, la consumata
abilità che ormai ha Dante nell'assimilare gli elementi della cultura
classica sino a spingersi a citare Omero (sono auctores ora consultati
direttamente, ora mutuati attraverso la chiosa dei dittatori e le disputazioni
de li filosofanti, perfettamente equilibrati con l'insegnamento dei Padri e
dei Dottori della Chiesa): tutti questi elementi risultano guidati e riplasmati
da una personale concezione dell'amore, che deve al Guinizzelli e al Cavalcanti
nella misura in cui originalmente li trasforma e intimizza, e risulta sempre in
perfetta coerenza con l'“ispirazione” d'amore d'uno spirito assetato di
assolutezza ragionativa e di purezza affettiva, eppur continuamente richiamato
dalle proprie ragioni letterarie alla poetica della “oggettivazione” dei
sentimenti, e cioè alla perspicua e dinamica funzionalità
concettuale della loda di Beatrice, per la qual loda non sono
sufficienti la sola poesia ovvero la sola prosa, ma debbono essere chiamate ad
esprimersi entrambe e assieme, in un tutto unico.
L'essenza di questo tutto unico,
poesia più prosa, e prosa più poesia, si disvela nell'armonica
distribuzione del materiale poetico nella “cornice” della Vita Nuova,
con vistosi effetti derivati da innata predisposizione al racconto (il
“romanzo” che sarà poi la Commedia), sì che si sarebbe
tentati, qualche volta almeno, di credere col lettore del libello che le
rime sottintendano alla ragione narrativa, mentre questa è in effetti,
come tutte le cornici, un supremo adattamento, un esercizio post factum
rispetto alla poesia, una misura squisitamente letteraria che serve a
concretare il “momento della realtà” rispetto al “momento
dell'immaginazione”, annullando tutte le lectiones varianti del lavoro
in un unicum testuale. Vero è che noi sappiamo, e sapremo, assai
poco sulle fasi di elaborazione della Vita Nuova, ma forse potrebbe
esser giustificato colui che pensasse non soltanto che la poesia, precedente la
prosa nel suo primario concepimento, è stata sottoposta a definitivo
assetto al momento dell'inserimento nel journal della vita giovanile e
rinnovata, ma anche che è coevo il processo ispirativo rispetto a quello
dottrinario, la causa del poetare rispetto all'effettivo verseggiamento, e inoltre
nascono in momenti estremamente ravvicinati se non affatto coincidenti, le rime
per Beatrice e quelle per le donne dello schermo o per la donna pietosa.
Unica tra le varie opere dantesche ad
apparirci del tutto fiorentina, nella lingua come nel fondale narrativo ovvero
nel tipo di cultura da cui nasce, la Vita Nuova si esprime per moduli di
letture che la dominano, dischiusi ad influssi di Sicilia e di Provenza, di
Bologna e d'altre città toscane, ma fondamentalmente consegnati ad un
processo di mediazione stilistica che è fiorentina, ad un orizzonte
cittadino che è quello del pubblico cui in primis l'autore si
rivolge nei suoi appelli al lettore, insomma agli spettatori-attori d'una
luttuosa storia d'amore che s'erano preparati alla vicenda dolorosa mediante
una precedente vicissitudine e che ora il poeta chiama a testimoni.
Conclusa la vicenda letteraria del
“libello”, il giovane poeta si pone obbiettivi diversi, anche se per il momento
non maggiori (quasi tre lustri separano la fine della Vita Nuova dall'inizio
effettivo dell'Inferno); e non è quindi possibile passare di
colpo dal prosimetrum del romanzo-poemetto (ovvero, se posso
correggermi, romanzo-piccolo canzoniere) a quell'invenzione di tragedia
virgiliana accresciuta da moderne esigenze di commedia, a quel monstrum
di variationes spaziali-temporali-culturali che sarà il poema,
ove la fase della commedia passa ad un certo momento attraverso l'elegia,
si riscatta ed è “pura” e “disposta” a trasferirsi in tragedia;
si può dire d'un passaggio dalla Firenze duecentesca del libro giovanile
ad un'Europa trecentesca della Commedia, in perfetta analogia con quanto
si verifica tra l'elegia fiorentina della Tenzone e il realismo
toscano ed extra-toscano dell'Inferno. Con questa differenza di
prospettiva: che la Vita Nuova è un'opera conclusa in se stessa,
anche come panorama d'una vita aristocratica in Firenze (la città non
era allora scevra di lutti politici, ma questi sembrano relegati in una zona
morta che non macula il clima estatico della storia d'amore), mentre gli
esperimenti realistici sono più dichiaratamente fiorentini,
dall'onomastica alla toponomastica, dalle usanze demotiche al lessico becero,
ma con pur sempre saggi o assaggi d'una materia stilistico-letteraria che
sarà destinata a confluire in un'occasione più grande, sì
da esserne, come pare, non autorizzata la divulgazione. La Vita Nuova,
invece, è stata scritta per essere divulgata a molti, nel senso che
induce a riflettere sulla vasta funzione educativa che Dante si proponeva
d'esercitare con un'opera “attraente” e organica, qual è il “romanzo”
della vita giovanile rispetto alle minori possibilità insegnative che
potevano esprimere gli aristocratici canzonieri dei bolognesi e degli amici
fiorentini. In tal senso ho tentato la definizione “romanzo-piccolo
canzoniere”, con questa diversità e sostanziale e formale: che le rime
della Vita Nuova hanno una loro struttura autonoma di rerum vulgarium
fragmenta rispetto alla prosa, mentre quest'ultima non può
pretendere al rango di “racconto lungo” svincolabile da quel complesso poetico
e assurto a pièce narrativa a sé stante.
S'è detto precedentemente
qualche cosa sul rapporto non solo strutturale, ma anche stilistico-linguistico
tra poesia e prosa della Vita Nuova. È opportuno osservare da
vicino alcuni elementi tecnici[35],
tenendo presente la circostanza già annunciata che il rapporto
poesia-prosa si fa flagrante a partire dal cap. XX, per infittirsi nella zona
successiva, in particolare nel XXIII, nella canzone Donna pietosa e di
novella etate, mentre tutta la prima parte del romanzo è per lo
più in forma di chiosa amplificativa della lirica o in una posizione
nettamente divergente:
Il
discorso in poesia e quello in prosa dispongono gli stessi temi in maniera
assai diversa. Dante nella prosa comincia con la sua infermità, poi il
suo sogno, e in fine l'intervento della donna giovane e gentile e delle
altre donne; nella canzone comincia invece con l'intervento della donna pietosa
e delle altre donne, e dal verso 30 espone il sogno sotto forma di narrazione
tenuta alle donne. La prosa si attiene cioè a una successione
cronologica delle azioni, la poesia porta il sogno nel dialogo con le donne,
col gusto stilnovistico del dialogo, e si avvia sulla presenza della Donna
pietosa e sul pianto del poeta, realizzando l'attesa per conoscere la
ragione di quel pianto. […] La prosa della Vita Nuova, se dà
scarsissime indicazioni locali, s'indugia talora su precisazioni temporali. […]
Tali indicazioni temporali non sono presenti nella canzone; come sono anche
della sola prosa i particolari realistici andare per vedere lo corpo ne lo
quale era stata quella nobilissima e beata anima (par. 8); quando io
avea veduto compiere tutti li dolorosi mestieri che a le corpora de li morti
s'usano fare, mi parea tornare ne la mia camera (par. 10); e della sola
prosa sono anche le precisazioni, l'una localistica, l'altra, per così
dire, anagrafica della Donna Gentile[36].
L'esame fitto e concreto del Baldelli
ha posto in rilievo la collocazione, nella prosa, di vocaboli quali corpo,
faccia, testa, visi di donne scapigliate, visi diversi
e orribili, mentre il linguaggio poetico rifugge da una siffatta scelta
lessicale: a scapigliate si opporrà disciolte, e si
condensa in parole non prosastiche quali frale, smagati, caunoscenza.
L'effetto della differenziazione
poesia-prosa è considerato dallo stesso autore nel rapporto tra il
sonetto Deh peregrini che pensosi andate e la misura del proposito
manifestato dal poeta, la sua giustificazione a posteriori: il che
contrasta, nella prima parte della Vita Nuova, con l'esistenza di prose
amplissime, di vasta tessitura sintattica, a premessa e parerga di
sonetti, e con la sua specie latineggiante, anzi col fitto insorgere di
flagranti latinismi sconosciuti alla poesia, tutta strutturata sulle
consuetudini del verseggiare “nuovo”, ricche di echi di stile “dolce” di
recente coniazione, e che non gradiscono gran copia di elementi estraibili
dalla retorica classica e dalle reminiscenze scritturali, le quali non hanno
grande possibilità di collocazione all'interno del linguaggio poetico:
il che non sarà possibile a partire dagli ultimi canti del Purgatorio
alla tessitura formale della terza cantica.
LE RIME REALISTICHE. LA “TENZONE” CON
FORESE
Abbiam detto che il volgarizzamento
del Roman de la Rose deve essere ritenuto opera giovanile, e non si vede
come infatti il Fiore e di conseguenza il Detto d'Amore trovino
uno spazio sul finire del Duecento, quando Dante è impegnato nelle alte,
“tragiche” esperienze delle Rime dottrinali, e ancor meno ai primi del
Trecento. Nel “Ser Durante” del Fiore l'esigenza di dover attingere a
moduli espressivi estranei alla scuola di Guittone, i frequenti imprestiti
linguistici allotri all'usus della cultura fiorentina di metà
sec. XIII, complesse esigenze di grammatica e di sintassi, prove
particolarmente ardue in tema di rima, necessità di conservare e al
tempo stesso trasformare e adattare i gallicismi, al fine di meglio rendere la
patina del testo originale: tutti questi elementi e altri congiurano ad
impegnare il poeta a raccogliere tutti i materiali utili anche nel settore
della tradizione realistica post-giullaresca e post-goliardica. L'autore del Fiore
non aveva dinanzi a sé gran copia di elementi in volgare: il Tesoretto e
il Favolello (ma non tutto), le rime comiche e quelle cortesi di
Rustico; gli elementi sono tutti messi a confronto e utilizzati per rime del
tipo di Sonar bracchetti, e cacciatori aizzare, sui piaceri della caccia
in un milieu aristocratico, con una prima parte lieve e aggraziata, e
una seconda parte (trattasi di un sonetto) in cui il poeta riflette sul suo
pensamento amoroso: opera di chi conosce e apprezza le prove di Folgore da San
Gimignano. In queste e altre date del realismo giovanile dantesco giuocano molto
le letture delle rime “giocose” del Guinizzelli e del Cavalcanti. Insomma Dante
si cimenta anche in questo campo, e lo fa con tanto impegno, con una
così profonda ammirazione per il lessico di tono basso, persino un certo
gusto dell'osceno e del licenzioso quale s'addice ai componimenti dello stile
elegiaco, da far ben presto rapidi passi anche in questa direzione, così
che si possa affermare senza tema di smentite che tra i realisti
tardo-duecenteschi l'Alighieri è in primissima posizione, così
come tra i poeti del Dolce Stile.
Tra il poderoso lavoro di adattamento
al volgare italiano della lingua del Roman de la Rose e i sonetti della Tenzone
con Forese Donati c'è un collegamento strettissimo, c'è una linea
linguisticamente e letterariamente ascendente, saliente.
Il divertissement dei giocosi
l'attrae, lo eccita, gli fomenta quella sua straordinaria dote d'inventare hapax,
di forgiare nuovi conî lessicali, di tentare soluzioni sintattiche arditissime.
Si tratta di vedere se questo interesse abbia a che fare o no col cosiddetto
“traviamento” di Dante, pur considerando che quel che conta, in definitiva,
è il Dante poeta, il poeta di quel “nodo centrale” Rose-Fiore-Commedia.
E questo poeta si esperimenta sin da
giovane in tutti e tre gli stili della poesia medievale: è un grande
scrittore “tragico” nella Vita Nuova, “comico” nel Sonar bracchetti,
“elegiaco” in Chi udisse tossir la malfatata. L'estensione dello stile
tragico giunge dai momenti di maggiore elevatezza retorica delle rime in morte
di Beatrice, anzi da tutta la rappresentazione dell'amore e della solitudine
dopo la morte in attesa della mirabile visione, sino a momenti di
delicato sentire espressivo di Per una ghirlandetta, di Deh,
Violetta, che in ombra d'Amore, ovvero di Di donne io vidi una gentile
schiera. Lo stile “comico” non è ancora l'eccezionale punto
d'incontro dei tre stili nella Commedia (incontro che coniuga sovente
l'intera gamma delle teorie degli stili all'interno dello stesso episodio,
nella struttura dello stesso canto del poema). Nello stile “elegiaco” si
sviluppa tutta la tessitura della Tenzone con Forese. Vero è che
noi non sappiamo nella necessaria interezza quale potesse essere la posizione
teorica di Dante rispetto al linguaggio della elegia medievale, ma quel
che possiamo inferire, è più che sufficiente per sottolineare la
ricchezza dei giuochi realistici, la corposità della natura letteraria
delle contentiones e dei vituperia, l'accumulo d'un lessico
greve, licenzioso, sfrenato nella sua stessa goduta libertà di misurarsi
con l'avversario, non meno provveduto di lui, sulla strada della contumelia
verbale.
Se il Dante di quegli anni si
sperimenta in tante direzioni (e lo stesso “elegiaco” è sovente una
mescidanza di “comico-elegiaco”, o medio-basso; non c'è dunque
l'adozione separata, staccata prima d'uno stile, poi d'un altro, ma un gustoso collage
che si confronta, sull'altro versante, col collage alto-medio,
cioè “aulico-comico”, tragico-mezzano), non dobbiamo cadere nell'errore
di disgiungere i vari momenti, ma sceverare la contestualità o quasi
come quella di operazioni Vita Nuova-Fiore, rime per le donne dello
schermo e sonetti vituperosi contro Forese, cortesie aristocratiche e
bècere piazzate. Soltanto apprezzando siffatta contestualità
sarà poi possibile comprendere le ragioni di quel monstrum
linguistico che è la Commedia, e leggere la Commedia
valutando il latino delle Egloghe, le rime sciolte, l'oratio
soluta del racconto visionario-messianico con l'ardente prosa latina delle Epistole,
naturalmente delle maggiori.
Alle radici di questa
contestualità sta la circostanza che tutte le opere giovanili dantesche,
nessuna esclusa, vivono al tempo stesso in una società letteraria e in
una società pubblica, servono per i diletti di una raffinatissima élite
e cercano un pubblico sempre più vasto, addestrato già dalla
lettura della Vita Nuova ma che di buon grado apprezza le piacevolezze
del parlar scurrile, le risate sguaiate della Tenzone, i sottintesi
maliziosi e le simbologie erotiche del Fiore. Le due società
convivono, ma solo in parte coesistono in una suprema forma di civile
consorzio.
Il “traviamento” è l'esatto
opposto dell'innamoramento, o meglio l'annullarsi d'esso, il disperdersi di
quelle virtù che l'Amore suscita e da cui è accompagnato; non
c'è amore senza parvenza, ombra, timore di peccato e necessità di
espiazione. Tutta la storia della Commedia sarà congegnata in
questa prospettiva di misura ascetica, di processione di colpe e ravvedimenti.
La Vita Nuova e la Tenzone sono i due termini della questione
attorno a cui si dipanerà tutta l'esperienza del viator del
poema. Se si volesse offrire una spiegazione letterale ai particolari espressi
nella Commedia, si dovrebbe dedurre che il traviamento ebbe inizio
subito dopo la morte di Beatrice:
Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui…[37]
spiegazione letteraria o referente autobiografico? ovvero tutte e due le
cose assieme, una sovrapposizione di causa ed effetto secondo le
modalità dei romanzi cortesi? In tal caso il volgere i passi suoi per
via non vera sarebbe a poca distanza dal giugno 1290; ma se dobbiamo dar
tempo al poeta di redigere la Vita Nuova, dobbiam pure collocare
l'inizio del “traviamento” in anno immediatamente successivo, e considerare il
decennio meramente indicativo, essendo l'elemento fondamentale per Dante
piuttosto il terminus d'un generico decennio che trova la sua
consacrazione nel momento della selva, dopo che Beatrice, esperiti tutti i
tentativi, decide di mostrarli le perdute genti: 25 marzo o, se si
vuole, 8 aprile 1300. Ma il decennio di dispersione e d'allontanamento da
Beatrice sarà indicativo d'una situazione o dottrinale o psicologica o
letteraria ove il terminus a quo addita le cause efficienti e le centra
nel rimprovero del Cavalcanti in I' vegno 'l giorno a te 'nfinite volte,
il terminus ad quem la maturata convinzione di dover intraprendere una
più concreta e vasta realizzazione della mirabile visione.
Conoscendo la perspicacia numerologica e l'impegno prospettico dell'autore
della Commedia, si può ritenere che il decennio del traviamento
conoscesse suddivisioni in curve paraboliche che situano il “vero” momento
della dispersione nella zona centrale del lasso 1290-1300. È deduzione
tradizionale che la Tenzone con Forese ipotizzi il momento “più
grave” del traviamento, e la data presumibile della Tenzone coincida col
punto centrale del decennio: negli anni 1293-1296, non troppo presto rispetto
all'annovale della morte di Beatrice, non oltre ovviamente la data del
decesso di Forese (1296).
Con ciò non si vuole affatto
affermare che l'accadimento materiale del contrasto letterario con Forese
Donati debba avere di necessità una data, un anno, ma che invece Dante
ha voluto ad arte assegnargli una posizione mediale nella sua storia
letteraria, di riflesso nel ricordo che della Tenzone ha o potrebbe
avere nell'episodio della cornice dei golosi, soprattutto in Purg.,
XXIII, 55-60, 85-93, e un po' in tutto il canto. Cosicché le congetture del
Contini e del Pernicone sulla contemporaneità tra Vita Nuova e Tenzone
restano validissime sul terreno della produzione letteraria dantesca, anche se
Dante non avrebbe mai finto che le due fabulae possano essere coeve; una
sua volontà di disporre le Rime a mo' di canzoniere sarebbe
approdata inconfutabilmente alla scelta di due ben distinte zone per il libello
e per il contrasto.
Il “traviamento”, infatti, non fu da
Dante reputato di natura stilistico-retorica, per essersi prestato ai giuochi
della tradizione giocosa sin dal sonetto Sonar bracchetti, e cacciatori
aizzare (la “pluralità degli stili” cui ben s'è riferito il
Contini), ma può anche concernere una certa dispersione d'impegno
letterario che ebbe a verificarsi nel periodo successivo alla morte di Beatrice
(l'“abbattimento” di cui ebbe a parlare Barbi[38]), pentimento di
disperdersi, ultimata la Vita Nuova, in rime spicciolate, senza
affrontare strutture e temi di grande respiro. Un semplice confronto di “mole
di lavoro” tra il decennio che va dalla fine della Vita Nuova all'inizio
del Convivio, e il ventennio (o quasi) successivo, mostra il desiderio
di Dante di trarsi da un'attività frammentaria e pluridirezionale e
concentrarsi in opere organiche: una salvazione letteraria, insomma. L'altra e
più probante ipotesi, che vede nel traviamento una follia
filosofico-teologica, trova più piena giustificazione in quanto il
traviamento è immesso in una crisi che minacciava di disgregare il Dante
poeta, introdurre elementi devianti nella sua storia intellettuale,
disimpegnare il Dante politico davanti ai grandi fatti che s'andavano
producendo in Firenze con gli Ordinamenti di Giustizia, ma soprattutto
allontanare l'animo dai temi della loda a lui congeniali e che gli
avevano procurato, assai più delle rime comiche, la fama di poeta
novus, di dittatore di nove rime.
Si deve concludere affermando che la
collocazione della crisi nella data del viaggio oltremondano (1300) è
puramente indicativa d'una fictio poetica in atto, dunque dell'esigenza
di situare la visio non reale ma simbolico-narrativa in un momento che
rispondesse alla complessa argomentazione allegorica e numerologica; e che,
infine, lo smarrimento filosofico-religioso consta di due tappe, l'una
riversata nel turbamento conseguente la morte di Beatrice, l'altra in un'epoca
più vicina al 1294 che non al 1300: “Là sù di sopra, in
la vita serena”, / rispuos'io lui, “mi smarri'” in una valle, / avanti che
l'età mia fosse piena, come in Inf., XV, 49-51, il che, detto
ad un uomo di cultura quale Brunetto Latini, sottolinea gli elementi
filosofico-letterari del traviamento rispetto a quelli psicologici e morali,
senza peraltro escludere questi (alla fine Brunetto è un dannato per
sodomia!): “E dunque il traviamento di Dante”, ebbe a concludere il Marti, “non
è solo amoroso, né solo religioso, o intellettuale, o morale, o
stilistico, e sarà stato magari tutte queste cose insieme senza essere
specificamente nessuna di esse”[39],
tentando una soluzione sincretica rispetto alla tesi del Barbi sulla
dissipazione morale, del Pietrobono su quella religiosa, del Maggini sopra una
deviazione d'ordine amoroso, del Contini circa un traviamento stilistico, e
rintracciandone le cause in una ricerca della realtà, in un netto
distacco dalla metafisica del Dolce Stile, per il desiderio di immergersi nella
realtà onde “viverla dal di dentro in un atto di effettiva e totale
presenza, guidata dall'inflessibilità dell'imperativo etico”.
Siffatta soluzione sincretica ci
consente di seguire d'ora in poi l'itinerario letterario di Dante in una
conformità più ravvicinata alle vicende politiche, poiché
sappiamo che esse, tutte esse nessuna esclusa, entreranno nel materiale
incandescente della Commedia, e non dovremo più supporre fili
quasi invisibili tra l'attività pubblica e quella privata. Nel contempo,
ora che abbiamo acquisito la coesistenza d'un Dante “tragico” e d'un Dante
“comico” (d'un comico con forti tentazioni verso lo stile basso), possiamo
indagare con maggiore libertà l'approssimarsi del poeta alle ragioni
supreme della sua invenzione letteraria, fictio e non fictio che
sia, e a quelle, per lui non meno rilevanti e attraenti, del giuoco verbale,
sia esso adagiato nelle forme suavissime dello Stilnovo fiorentino, sia
esso sbrigliato dietro i capricci verbali, il continuum inventivo,
l'“indicatore lessicale” che guida il lettore nei meandri dei procedimenti
realistici della Tenzone.
L'interesse documentario della Tenzone
risiede propriamente nella serietà dell'impegno letterario di Dante
anche in questa prova, nonostante i lazzi osceni, i giuochi equivoci di parola,
il dileggio licenzioso: cioè ch'egli ha voluto innalzare a modello d'arte
la vituperatio iocosa sapendo d'avere un pubblico che, conscio dei
risultati raggiunti in stile tragico, non s'aspetta di meno negli esperimenti
comici.
La scelta dei termini, la loro
collocazione in rima o fuori di rima, l'asprezza stridente delle spezzature
rivela un poeta che è andato ben oltre Rustico Filippi e che se non
prosegue su questa strada, lasciando che sia Cecco Angiolieri a percorrerla
tutta, è perché il deposito di questa esperienza gli è più
che sufficiente per potersi impegnare in un'operazione “comica” di ben altra
portata che un semplice scambio di sonetti ove, pur superando in vigore e in
coerenza (per l'appunto all'interno della vituperatio) il suo amico
Forese, il quale resta nel complesso non meno pungente ma ben più
generico e parolaio, le dimensioni della disputa non possono andare oltre un
certo limite letterario, fuori del quale tutto scadrebbe a pretestuoso ed
effimero, e c'è bisogno di ben altra occasione sul piano narrativo, come
sarà lo scambio verbale tra Mastro Adamo e Sinone nel canto XXX dell'Inferno,
e sul piano dello stile comico svariante nella Commedia lungo un arco
amplissimo di moduli stilistici, con un'attenzione superbamente gigantesca
volta a cogliere tutte le possibilità morfologiche, lessicali e
sintattiche inaugurate sì dai giocosi toscani, e ben esperite da lui
stesso nella disputa con Forese, ma ora recate ad una summa comica
così vasta nell'Inferno, da relegare la Tenzone al rango
di semplice prova d'autore.
In tutto questo periodo in cui si
registra la nascita del singolarissimo intellettuale avido di sapere e pronto a
misurarsi con altrettale maestria nel campo della poesia cortese e in quello
del realismo borghese (il risultato nel primo è molto più
considerevole, ma anche la Tenzone è un evento importante nella
storia delle nostre lettere soprattutto se posto in connessione con la genesi
interna dell'Inferno, dei canti centrali delle Malebolge), il nome di
Dante è presente soltanto in un documento d'archivio, per la
verità di scarso rilievo: una presenza nell'atto di procura di un tal
Guiduccio di Ciampolo da Petrognano, il quale nomina in data 6 settembre
Tutte le congetture, a questo punto,
restano aperte: anche se nessuna donna reale possa esser posta in antagonismo a
Beatrice, e ciascun personaggio appaia la proiezione, differentemente
variegata, d'una fitta tipologia psicologico-amorosa che serve ora da mezzo di
contrasto, ora da fondale, ora da contraltare alla loda di Beatrice.
In questo stesso periodo il poeta,
reduce dai campi di battaglia, si veniva a trovare sempre più a contatto
con la vita politica della città. Le vittorie militari, sul duplice fronte
d'Arezzo e di Pisa, rendevano più impegnativa l'attività di
Firenze all'interno della città, a distanza di tanti anni dall'impetuoso
e oltranzista risveglio guelfo dopo il ripristino della carica del capitano del
popolo (speranzoso tentativo di far tornare la vita politica di Firenze
all'aureo momento del “primo popolo”) e dal successivo tentativo d'un governo
bipartito guelfo-ghibellino, che certo aveva creato nell'animo dei giovani
della generazione di Dante suggestioni destinate a fruttificare nel tempo,
speranza d'una pace giusta e definitiva tra le fazioni, purtuttavia di scarsa
durata dinanzi al lento prevalere della Parte Guelfa, dapprima (1281) con
l'energica stretta anti-ghibellina del governo dei Quattordici, poi con la
creazione dei priori (1282), qualche anno dopo con l'ingresso delle cinque Arti
medie nei Consigli del Comune (1287).
La generazione dell'Alighieri era
comunque rimasta spettatrice soltanto degli eventi, e lo resterà anche
durante le campagne del 1289 e con le provvisioni canonizzate, poi, nel
successivo triennio: giugno 1290, quando i Fiorentini “con loro amistà
feciono la terza oste sopra la città d'Arezzo”[40], saccheggiando le
terre degli Aretini e quelle del conte Guido Novello; settembre 1290, con le
zuffe dell'esercito fiorentino contro Pisa ma anche le nuove vittorie di Guido
da Montefeltro che riconquista i castelli di Montefoscolo e di Montecchio; 23
dicembre 1291, con la crudele impresa della distruzione di Ampinana, nel
Mugello, ma anche col nuovo colpo di mano del conte di Montefeltro, il quale
strappa ai Fiorentini il castello di Pontedera, e i Fiorentini non riescono a
organizzare la controffensiva:
Per la
qual cosa s'ordinò in Firenze generale oste sopra Pisa, e diedonsi le
'nsegne, e messer Corso Donati ebbe la reale; ma, qual si fosse la cagione, non
seguì, onde in Firenze n'ebbe grande ripitìo, dicendosi, che
certo grandi n'aveano avuti danari da' Pisani; per la qual cosa, e
sollecitudine di messer Vieri de' Cerchi allora capitano di parte, si rifece la
detta oste, e andossi insino al castello del Bosco, e là attendati,
venne in otto dì continui tanta pioggia, che per necessità si
ritornò la detta oste addietro, e appena si poterono ricogliere e stendare[41];
14 gennaio 1292, con le consulte
fiorentine sulle proposte di pace avanzate da papa Niccolò IV; 4 aprile,
con la morte del papa e l'inizio d'una lunga sede vacante; giugno, con altra
scorreria questa volta vittoriosa contro la città di Pisa: “e sì
era in Pisa il conte da Montefeltro con ottocento cavalieri, e non
s'ardì a mostrare per la viltà che sentiva ne' Pisani, e stette
pure alla guardia della cittade”: fatti senza ragguardevole udienza nella
memoria di Dante, se si eccettui l'interesse sempre vivo per la figura del
Montefeltrano e per i fatti pisani. Tuttavia è proprio verso la
metà del 1292 che cominciano a fermentare eventi nuovi nella storia
politico-sociale di Firenze, sì da destare sempre di più
l'attenzione degli intellettuali della generazione dell'Alighieri; 10 giugno:
richiesta dei priori d'inserire nel Consiglio del Popolo trenta consiglieri in
sovrannumero; estate: un movimento sempre maggiore del ceto popolare, con
immediate ripercussioni nei dibattiti e nelle deliberazioni in seno ai Consigli
cittadini; novembre: animata discussione in vista della nomina dei nuovi priori[42];
e, fatto ancor più appariscente, il passaggio di Giano Della Bella dai
Grandi al partito popolare, inizio dell'agitata stagione del “secondo popolo”,
che sfocierà sul finire dell'anno nei documenti preparatori degli
Ordinamenti di Giustizia, sanciti il 15 gennaio del 1293.
Per quanto il '93 richiami altri
elementi relativi a Dante, i 584 X 2 = 1168 giorni della rivoluzione di Venere
nel suo epiciclo e quindi la vicenda d'agosto dell'apparizione della Donna
Gentile (Conv., II, ii, 1,
Cominciando adunque, dico che la stella di Venere due fiate rivolta
era in quello suo cerchio che la fa parere serotina e matutina, secondo diversi
tempi, appresso lo trapassamento di quella Beatrice beata che vive in cielo con
li angeli e in terra con la mia anima, quando quella gentile donna, cui feci
menzione ne la fine de la Vita Nuova, parve primamente, accompagnata d'Amore, a
li occhi miei e prese luogo alcuno ne la mia mente), lo studio d'ora in poi
fondamentale della filosofia, e al tempo medesimo uno dei possibili momenti
della tenzone con Forese, si mutuerebbe una troppo facile immagine d'un Dante
tutto “solingo in bei pensier d'amore”, in luogo di quella d'un uomo di cultura
che senza nulla detrarre dal proprio impegno filosofico avverte il
sopraggiungere d'una novella età politica, che poco più di
mezz'anno dopo lo vedrà svolgere, come sembra, un ruolo
diplomatico-culturale nient'affatto secondario, in quel 1294 che doveva vedere
la morte di Brunetto Latini; preparativi in Firenze per il passaggio di Carlo
Martello; apprestamento d'una delegazione cittadina, al cui comando è
posto Giano de' Cerchi, figlio di Vieri e coetaneo di Dante, col quale aveva
combattuto a Campaldino; arrivo ai primi di marzo del giovane principe degli
Angiò; indirizzo di saluto di Remigio de' Girolami in S. Maria Novella;
arrivo di Carlo II con la moglie e gli altri figli (11 marzo): partenza dei
reali sul finire dello stesso marzo 1294; soggiorno a Siena.
Tutto il contesto del celebre
episodio del canto VIII del Paradiso non ha consentito che biografi e
commentatori del poema esprimessero il benché minimo dubbio sulla circostanza
che Dante abbia fatto parte della delegazione fiorentina, anzi fosse stato tra
i più intrinseci di Carlo Martello (Benvenuto: “Dantes… qui tunc ardens
amore, vacans sonis et cantibus, uncis amoris promeruit gratiam istius iuvenis
Caroli”). Che l'impegno diplomatico non distraesse Dante dalle fatiche
letterarie, è provato dalla citazione che proprio a Par., VIII,
37 vien fatta dal principe angioino della canzone Voi che 'ntendendo,
rammentata a bella posta dal suo autore forse perché letta e commentata di
persona a Carlo Martello, o argomento tra di loro di conversazione accanto ad
altre rime del Fiorentino, se non addirittura scritta durante i preparativi
dell'arrivo e nelle tre settimane di permanenza in Firenze. Non è cosa
insolita per Dante il ricorrere alle reminiscenze che le anime della Commedia
conservano delle canzoni di lui, non soltanto a scopo di citazione esplicita,
ma anche per presentare qualche elemento orientativo sulla data, pur anche
approssimativa, della loro composizione: Casella e Amor che ne la mente mi
ragiona.
Carlo Martello era il primo
personaggio politico di spiccata importanza che Dante ebbe modo di conoscere da
vicino, e del quale divenire intimo, d'un'amicizia che, a stare al testo della Commedia,
sembrerebbe esser durata a lungo, dopo la partenza di Carlo (da Assai
m'amasti a segnor mio ecc.); ma non si vede in qual modo ciò
potesse verificarsi, poiché il re titolare d'Ungheria non ebbe a ripassare per
Firenze, né è ricevibile l'ipotesi che Dante con gli altri Fiorentini lo
scortasse sino ai confini del Regno di Napoli. Si dovrà affermare, per
converso, che probabilmente egli volle interpretare nella luce d'un grande
affetto un breve episodio di dimestichezza con un regnante, non già per
esaltare se medesimo oltre ogni misura, ma per meglio effigiare poeticamente
l'atmosfera di quel cielo di Venere e la raffinata cortesia di quel singolare
personaggio tra gli Angiò, l'eccezione a contrasto con la dura “ragion
di Stato” e le colpe morali del padre e dell'avo.
È nota la compromissione
politica di Carlo Martello in una vicenda, sempre nel '94, centralissima nella
memoria personale e poi “poetica” di Dante: l'elezione papale e l'abdicazione
di Celestino V, da Carlo Martello raggiunto nella città dell'Aquila poco
dopo il 5 maggio, a meglio rinsaldare le mene del Ciotto di Ierusalemme;
la presenza alla consacrazione episcopale, poi all'incoronazione papale di
Pietro del Morrone (17-21 e 29 agosto); più tardi (13 dicembre)
l'abdicazione; dieci giorni dopo l'ascesa di Bonifacio VIII. Fu proprio Carlo
Martello, in quanto vicario del Regno, ad inseguire e catturare Celestino a
Vieste, all'interno del suo feudo di Monte S. Angelo.
S'innesta qui l'ipotesi della
partecipazione di Dante all'ambasceria fiorentina a Napoli (5 ottobre 1294), durante
la residenza che Celestino V fu costretto a prendere nella capitale del Regno,
già dal settembre: ipotesi fragilissima se non addirittura
insussistente, legata da un lato alla profondità dell'amicizia che il
poeta proclama d'aver avuto con Carlo Martello, il quale col padre Carlo II
aveva scortato il vecchio pontefice dall'Aquila a Napoli (è possibile
che tra gli ambasciatori fiorentini ci fosse un amico personale del giovane
principe? c'è chi ha risposto di sì), d'altro canto implicata dal
vidi e conobbi con cui viene identificata la misteriosa figura del
vestibolo dell'Inferno, e cioè, per i più, Celestino V.
Altri elementi, tra i quali la notizia aberrante fornita dal Filelfo secondo
cui Dante si sarebbe recato a studiare logica allo studio di Napoli, ovvero il
ricordo del monte Cacume, tra Roma e Napoli, ma ben visibile anche da Anagni,
se Dante vi si recò durante l'ambasceria presso Bonifacio VIII nel 1301,
possono esser ancor meno invocati, e lo stesso si può dire per la
precisione delle notizie che Dante rivela di avere nella Commedia sulla
situazione politica di Napoli e le prevaricazioni di Carlo II d'Angiò,
notizie che Dante potrà aver avuto in epoca successiva. E del resto
Dante nel 1294 non aveva una posizione politica tale da far sì che potesse
esser chiamato a far parte d'un'ambasceria: posizione anzi impedita dagli
Ordinamenti di Giustizia e rimossa soltanto coi Temperamenti del 1295. La
chiamata a far parte d'un corteggio di giovani cittadini al servizio di Carlo
Martello, si può però soggiungere, non era necessariamente un
incarico politico, ma piuttosto “cortigiano” al quale il governo del “secondo
popolo” poteva trovar utile delegare gentiluomini in quanto tali esclusi dai
pubblici poteri. Del rimanente anche coloro che sono convinti esser Celestino V
l'ombra dell'Antinferno, non insistono sulla necessità che Dante
conoscesse di persona Pietro del Morrone, e sono ben lontani dal rifarsi alla
vecchia congettura secondo cui Celestino V, in fuga dopo l'abdicazione, sarebbe
passato per Firenze.
Insomma non v'è alcuna base di
certezza per affermare che Dante seguisse il principe angioino sino a Napoli e
assistesse alle drammatiche vicende che portarono al rifiuto il vecchio
anacoreta della Maiella. Meno che mai è sostenibile la tesi che Dante si
fosse trattenuto a lungo a Napoli, anche durante il seguito delle vicende
dell'abdicazione, il tentativo di Carlo II, i malumori del popolo napoletano e
magari anche il conclave che sempre a Napoli si tenne e dal quale usciva papa
(il 23 dicembre), al terzo scrutinio, il cardinale Benedetto Caetani,
cioè Bonifacio VIII. Per concludere sono più forti le ragioni che
militano contro, anziché quelle a favore d'un soggiorno di Dante a Napoli, a
quell'epoca, e men che mai in epoca susseguente.
Era stato altamente drammatico il
dicembre del
Ora noi sappiamo quasi tutto circa le
condizioni che consentirono l'iscrizione di Dante ad un'Arte e quindi l'adito
alla vita del governo popolare. Purtroppo non possediamo più le
matricole più antiche degli Statuti dell'Arte dei Medici e Speziali; soltanto
in un estratto tardo, del 1447, sotto la rubrica “Al libro primo delle
matricole di Firençe segnato "A" che comincia nell'anno m. cc.°
lxxxxvij” si trova scritto tra gli altri il nome di “Dante d'aldighieri degli
aldighieri poeta fiorentino.
Il Barbi[43] ha dimostrato che
l'inclusione del nome di Dante nella matricola del 1297 “non vuol dire che esso
non figurasse altresì in quella anteriore, essendo uso che ogni tanto le
matricole si rinnovassero e che gli interessati ripetessero l'operazione”.
L'iscrizione cade in una data assai
prossima al 6 luglio 1295 se troviamo Dante a far parte dei Trentasei del
Capitano già nel semestre 1° nov. 1295-30 apr. 1296. Indubbiamente le
chiamate politiche di Dante, in tutto il periodo che va sino all'ambasceria
sangimignanese, furono in rapporto al suo prestigio personale, non ad
un'esperienza specifica nell'amministrazione della cosa pubblica, men che mai
al rango occupato all'interno della Parte Guelfa; il che si evince dalla
circostanza che il suo nome non compare nei Consigli della Parte o in quello
della Credenza o dei Sessanta. Anche se il periodo d'effettiva importanza
politica di questi Consigli è precedente al momento dell'ingresso di
Dante nell'arengo politico, i Consigli di Parte continueranno nell'età
successiva al periodo 1267-1280, e cioè alla pace del cardinale Latino,
allorché amministrarono in pratica la vita del Comune, ponendo in ombra il
Consiglio del giudice sindaco. Da quando entra in funzione (1 ottobre 1289) il
Consiglio dei Cento, un mese dopo le Provvisioni canonizzate, i Consigli di
Parte subiscono un'ulteriore decrescenza del proprio potere, a vantaggio d'un
notevole incremento delle istituzioni di governo, non di partito. Il che fa buon
giuoco a chi voglia scorgere nell'attività pubblica di Dante il riflesso
d'un impegno civico e morale, non l'effetto di accordi e di compromissioni
nelle anticamere del partito guelfo; donde la messa in luce di prerogative e di
istanze tipiche d'uno dei Savi o Richesti, come fu il poeta nel 1295, al
servizio del potere delle Arti.
Sicuramente definito dal Barbi che
Dante non poté prendere parte al Consiglio del 6 luglio, le incombenze del
consigliere politico nel semestre predetto non si espressero in pubbliche
dichiarazioni; le sue parole vengono verbalizzate in una diversa seduta, il 14
dicembre 1295, quand'egli interloquisce in un consiglio di Capitudini,
esprimendo un parere, non conoscibile dalla schematica traccia del verbale,
attorno alle modalità necessarie per procedere all'elezione dei futuri
priori; la sua mansione di Savio gli veniva da una scelta ch'era stata operata
all'interno dei vari sesti, e Dante Alagherii è delegato “de
sextu portae Sancti Petri”, nel qual sesto era il popolo di San Martino. E fu
mansione non soltanto d'indubbio rilievo, ma così sicuramente accertata
da far revocare in dubbio, come s'è detto, ch'egli potesse far parte dei
Consigli di Podestà nel secondo semestre del '95, poiché gli statuti
fiorentini impedivano che la stessa persona fosse membro contemporaneamente di
due Consigli.
A seguito della deliberazione del
Consiglio dei Cento, del 23 maggio 1296, Dante viene a far parte del consesso
quando già dal precedente 1 aprile questo era entrato in funzione; la
cooptazione avvenne in luogo d'un consigliere mancante. Di ciò è
prova un altro verbale, dal quale risulta che il poeta interloquì nella
riunione del 5 giugno '96, convocata per deliberare sopra alcune proposte di
legge, per le quali Dante prese la parola onde sostenerne l'approvazione: tali
proposte riguardavano lavori di restauro e di costruzione di edifici e inoltre
due leggi di contenuto più specificamente politico[44]: la prima
predisponeva provvedimenti affinché non venissero accolti in città e
nemmeno ospitati nelle campagne coloro che erano stati posti al bando dal
Comune di Pistoia (era grave il pericolo che venissero a costituire forze
disordinate e tumultuarie facilmente eccitate dai Magnati), la seconda concedeva
pieni poteri al Gonfaloniere di giustizia e ai priori affinché potessero
procedere contro chiunque, “et maxime magnates”, compisse atti di violenza e di
offesa contro popolani investiti di cariche pubbliche.
La situazione s'andava ulteriormente
deteriorando. I Grandi, esclusi dal governo, fomentavano un continuo stato di
tensione in città. Essi non avevano voluto piegarsi al compromesso
chiedendo l'iscrizione ad un'Arte, e quindi scatenavano una lotta aperta,
trovando proseliti un po' dappertutto, specialmente tra le frange ghibelline o
ex-ghibelline e nell'ambiente dei fuorusciti delle altre città toscane.
Continuavano a detenere il potere nel Consiglio di Parte Guelfa, e di lì
cercavano di contrastare la politica dei priori e del Consiglio del Popolo.
Situazioni d'attrito e di scontento cominciano a determinarsi anche all'interno
della Parte, dapprima tra le singole consorterie magnatizie, indi col
polarizzarsi della lotta intestina all'ombra delle sempre crescenti
ostilità tra i Cerchi e i Donati, poi con lo spianare la strada ad una
vera e propria suddivisione a livello di partito, già in atto nel 1297.
Ormai si parlerà esclusivamente della lotta tra i Bianchi, seguaci della
fazione cerchiesca, e i Neri, seguaci di quella donatesca. Una vera e propria
guerra nelle strade della città, in quelle del contado, con immediati
riflessi sui borghi e le cittadine viciniori, si avrà più tardi,
ma la situazione è tesissima.
Imparentato coi Donati per parte
della moglie Gemma (d'un ramo però collaterale e non molto eminente),
Dante è tuttavia coi Bianchi, vicino per temperamento e per ideali a
Vieri de' Cerchi e ad altri capi bianchi, ma non intende prendere netto partito
a favore di costoro: simpatia, vicinanza ideale, non molto di più, non
un'ascrizione al partito. Non erano lontani i tempi d'una cruenta lotta come
nella primavera del 1300, ma Dante fiuta il pericolo. Il suo voto a favore dei
due disegni di legge anti-magnatizia del '96 comincia a porlo in una situazione
difficile anche con l'ala più conservatrice dei Bianchi, e la rottura
coi Neri non è ancora effettiva, almeno finché resta in vita Forese
Donati (fratello di Corso), amico nella vita anche se scherzoso avversario
sulle scene letterarie. Nessuna delle due fazioni, d'altronde, è
così potente, ha talmente consolidato il proprio predominio da poter
osteggiare apertamente chi è rimasto, come Dante, in una posizione
prudente.
Del resto, a stare ai documenti
pubblici, dopo l'exploit del '95-'96 Dante sembra rientrare nell'ombra.
Purtroppo sono andati perduti i verbali delle Consulte dal luglio 1298 al
febbraio 1301, ma se il poeta avesse avuto qualche incarico di spicco, ne
sarebbe rimasta traccia negli altri documenti. L'unico dato è che anche
nel 1297 Dante “arringatur”, ma il motivo e il contenuto di tali interventi non
dovettero essere di grande importanza; pure e semplici dichiarazioni di voto.
Ancora una volta lo studioso di Dante
è richiamato al parallelo e (ancor per qualche anno) non convergente
svilupparsi d'una linea pubblica-privata e d'una linea letteraria; si
vedrà tra breve di quest'ultima, e come negli anni di cui ci stiamo
occupando, siano cautelosamente collocabili le “storie d'amore” con la
Pargoletta e con la Donna Pietra (1296-1297?), la prima parte della
corrispondenza poetica con Cino da Pistoia (Io ho veduto; Perch'io
non trovo; 1298?), poi Messer Brunetto, quindi Io sento sì
d'Amor (1299?). Sul versante della vita “reale” accanto ai documenti della
partecipazione politica si situano presenze archivistiche affatto private, a
documentare il sempre più difficile stato economico della famiglia
Alighieri, o di Dante soltanto se la vicinanza di Francesco deve intendersi
esclusivamente in chiave di garante “interno” alla situazione finanziaria del
poeta, gravato dal mantenimento dei figli: Pietro e Jacopo ormai adolescenti,
Antonia nata in questo periodo (ma ciò non è possibile; in questi
anni Francesco Alighieri è poco più che ventenne, e quindi non
ancora in grado di distinguersi come il membro economicamente vivo della
famiglia, come avverrà qualche anno dopo).
L'11 aprile 1297 Dante e Francesco
rilasciano una quietanza per la somma di 227 fiorini e mezzo attraverso un atto
formale al creditore Andrea di Guido de' Ricci. Il 23 dicembre dello stesso
anno gli stessi Dante e Francesco dichiarano d'aver ricevuto da Iacopo de'
Corbizzi un mutuo di 480 fiorini d'oro: evidentemente la situazione finanziaria
s'era aggravata nel corso del '97, e il secondo debito, contratto forse per far
fronte alla restituzione del primo, segna comunque a fine d'anno un passivo
piuttosto pesante, d'oltre 250 fiorini. Che le difficoltà fossero molte,
sta a provarlo l'intervento, nel secondo mutuo, di vari garanti, di cui due
particolarmente legati al casato dei debitori: Manetto Donati, il suocero del
poeta, e Durante degli Abati, il nonno materno (beninteso se è
propriamente questi il padre di Bella; la questione, come s'è detto,
è tutt'altro che sicura). Avrà toccato in qualche modo anche
Dante, se non altro per la comune solvibilità rispetto ai due debiti del
'97, un documento concernente Francesco, per il quale il fratello del poeta, il
23 ottobre 1299, s'impegna a restituire ad un tal Gano di Lotto Cavolini un
mutuo di 53 fiorini d'oro. Anni, dunque, particolarmente duri per Dante, alla
vigilia poi di momenti di tale gravità quali accadranno nel biennio
“fatale” 1300-1301, che s'apre, nella serie documentaria, con un'altra carta,
non meno pesante proprio perché legata a debiti contratti all'interno della
famiglia (Francesco s'è sollevato nel frattempo dalle strettezze, ed
è già in grado di dar una mano al fratello maggiore, come poi,
durante l'esilio): il 14 marzo 1300 Dante promette di restituire a Francesco un
mutuo di 125 fiorini; tre mesi dopo, altra sottoscrizione d'impegno con
Francesco: l'11 giugno 1300 Dante promette di restituire al fratello minore un
debito di novanta fiorini, non s'intende se ad estinzione o ad accumulo del
precedente mutuo (direi proprio ad aggravio, ché non appare negli atti alcuna
quietanza liberatoria; tuttavia è possibile fosse avvenuta con carta
privata).
La motivazione contingente del mutuo
dell'11 giugno risiedeva nella circostanza che, dovendo i priori rimanere
giorno e notte nel palazzo della Signoria, nel corso dell'intero bimestre,
Dante potesse trovarsi nella necessità di dover avere un po' di denaro
liquido da lasciare alla famiglia, alla vigilia del 15 giugno. Per due mesi non
avrebbe potuto seguire i suoi interessi. Ma ciò toglie poco alle
difficoltà di carattere generale in cui il poeta di certo si dibatteva
da anni e che non erano attenuate dalla situazione economica di Firenze. La
città, infatti, era in un periodo d'indubbia floridezza e
solidità delle strutture commerciali, ma la crisi era alle porte, con
quelle lotte che dilaniavano le classi e toccavano anche i Magnati, e
soprattutto con la corruzione e gli scandali che dilagavano. Ed è
evidente che i primi ad essere colpiti da una situazione del genere erano
proprio i borghesi che si sorreggevano, come Dante, su modesti redditi agrari e
su una limitatissima possibilità di traffici.
Lo scandalo più clamoroso fu
la confessione, resa però sotto tortura, da Monfiorito da Coderta,
podestà nel primo semestre 1299: confessione di molte malefatte,
coinvolgenti anche un falso messo in atto da Nicola Acciaiuoli, il quale aveva
alterato, con la complicità di Baldo d'Aguglione, il libro notarile
contenente la confessione di Monfiorito. Se ne ricorderà tanti anni dopo
il poeta quando rimpiangerà, la pura etade / ch'era sicuro il
quaderno e la doga[45],
l'età dell'antica generazione fiorentina.
Fuori di città il panorama era
ancor più fosco. Bonifacio VIII aveva posto l'occhio sulla città,
anzi su tutta la Toscana: “Papa Bonifacius volebat sibi dari totam Tusciam”.
Per il momento le sue mosse sono molto caute, così caute da convincere i
governanti fiorentini che avevano in lui un alleato e un protettore contro le
pretese del vicario imperiale, Giovanni di Chalon; anzi più che un
protettore un amico, disponibile ad arbitrare la lotta tra le due fazioni,
quella favorevole al ritorno di Giano Della Bella e quella contraria (1296), e
ben felice che i Fiorentini gli dessero una mano nell'assedio di Palestrina
contro i Colonna (1297), mandando un contingente di truppe.
Le guerre continuavano a insanguinare
le terre d'Italia. Il feroce Maghinardo Pagani sconfigge i Bolognesi e
conquista Imola (aprile 1296). Durante una veglia funebre in casa Frescobaldi i
Cerchi e i Donati vengono alle mani (dicembre 1296). I Veneziani sono battuti
dai Genovesi sul mare, a Curzola (settembre 1298). Un'altra cruenta zuffa
s'accende tra Bianchi e Neri entro la città di Firenze (dicembre 1298).
Federico II d'Aragona ingaggia dura battaglia in Sicilia contro il fratello
Giacomo e contro Carlo II d'Angiò (1299), e s'avrà poi la
battaglia navale di Capo d'Orlando, con una nuova vittoria di Ruggero di
Lauria.
Tutto ciò non basta. A Firenze
nello scandalo di Monfiorito è coinvolto, a torto o a ragione, anche
Corso Donati. Il capo dei Neri è riconosciuto colpevole e viene posto al
bando. È giunto il momento per Bonifacio VIII d'intervenire, e lo fa
prendendo le difese di Corso: lo nomina podestà di Orvieto. Siamo sul
finire del 1299. Forse la mossa di papa Caetani scatena la reazione, con gli
altri, dello stesso Dante, sino ad allora rimasto in attesa, in silenzio. Molti
Fiorentini, e tra questi Dante, sono ormai persuasi delle mene di Bonifacio e
della pericolosità della strategia dei Neri. La pace in Firenze non
può essere mantenuta che con la partecipazione dei cittadini. Cade l'ultimo
velo dinanzi alla sempre maggiore parzialità di Bonifacio. Per Dante
è venuto il momento di scendere nell'agone politico.
DALLE “PETROSE” ALLE RIME DOTTRINALI
Vediamo tuttavia durante questo
agitato momento della storia italiana, mentre in Dante non era ancora maturato
il dovere di gettarsi nella mischia politica, come si era andata svolgendo la
sua attività letteraria. Giacché è impossibile seguire di pari
passo questa e l'attività politica, ed è quindi necessario che
l'una o l'altra (meglio la seconda) vengano esaminate inizialmente. Diciamo
sùbito, tuttavia, che di quel convulso periodo nulla trapela nelle Rime
della maturità precedenti l'esilio.
Le rime d'amore per la cosiddetta
Donna Pietra possono essere collocate tra l'ultima decade del dicembre del 1296
(a prestar fede all'interpretazione astronomica dei primi versi di Io son
venuto al punto de la rota) e la fine del 1297 o i primi dei 1298, e sono
quattro canzoni per un amore non corrisposto verso una giovane donna, la cui durezza
è paragonata alla pietra. Poco probabile, anche perché il poeta
riconosce esplicitamente di non aver voluto designare il nome della donna, che
essa avesse per nome proprio Pietra: verrebbe a mancare il segreto del
mascheramento. L'importante è che lo sviluppo psicologico e stilistico
delle quattro canzoni, da Io son venuto a Al poco giorno e al gran
cerchio d'ombra, da Amor, tu vedi ben che questa donna a Così
nel mio parlar voglio esser aspro, si svolge lungo una direttrice di
potente realismo, non scevro però di una voluta oscurità di
significati: il Contini[46]
ha chiamato le “Petrose” il secondo trovare oscuro di Dante, dopo il
primo della fase guittoniana, e nel quale il poeta si rifà alle fonti
della propria esperienza provenzale, riscoprendo il “valore energico ed
evocativo della parola”, scandita con una forza sino ad allora inusitata, e che
apre anch'essa verso la scansione verbale della Commedia.
Tuttavia le “Petrose” non costituiscono
soltanto un tentativo di nuovo linguaggio (che entro certi limiti si può
dire confluente dalle rime stilnovistiche e da quelle realistiche
contemporaneamente), ma preparano il teso processo ragionativo delle canzoni
dottrinali, anticipando persino, quantunque in una diversa temperie, il modulo
della presentazione e dello sviluppo del tema centrale. L'eccezionalità
di alcuni passaggi al confine di un pretto realismo non abdica al timbro
“tragico” del verso, tanto che, soprattutto nella seconda parte di Così
nel mio parlar, si è indotti piuttosto a ricercare la dottrina
che s'asconde / sotto 'l velame de li versi strani, cioè dietro la
ripetizione della parola-chiave petra, mentre non occorre disperdere il
tipo particolare di esperienza compiuta da Dante in questi anni. L'esordio
minuziosamente indugiante sulla perifrasi astronomica è un elemento che
caratterizzerà tanti incipit di canti della Commedia, ed
esso definisce la struttura di questa canzone, una delle maggiori cruces
della dantologia, uno dei momenti salienti del lavorìo letterario
dantesco sul finire del sec. XIII. La canzone segna poi un netto iato
relativamente ai moduli del precedente verseggiare, introducendo nella storia
di queste Variae dantesche toni cupi, densi, profondi e ritmi
inquietamente prolungati, una voce oscura e quasi roca che leggerà le
parole d'angoscia e d'irrequietezza della passione, inserite in uno scabro e
sconvolto paesaggio invernale: Levasi de la rena d'Etiopia / lo vento
peregrin che l'aere turba (in Rime, C, 14-15), e fittamente
costellate da immagini di fredda neve e di noiosa pioggia, di morta…
erba e di crudele spina, di acqua morta e di freddura.
Siamo, come si vede, in un paesaggio peculiarmente da Inferno. E si
arricchisce sempre più la gamma espressiva di Dante, conoscendo inauditi
sviluppi e passaggi anche nell'analisi di segrete dolcezze riposte al fondo dei
turbamenti amorosi: ché li dolzi pensier non mi son tolti / né mi son dati
per volta di tempo, / ma donna li mi dà c'ha picciol tempo (ivi, vv.
37-39).
Un certo rilievo retorico avrebbe la
possibilità di considerare successiva a Io son venuto la
canzone-sestina Al poco giorno, in quanto che si avrebbe la prova di una
qualità caratteristica della Commedia, e cioè la variatio
all'interno dello stesso sistema ragionativo o discorsivo: il contenuto non
è fortemente differenziato nei riguardi dell'argomento di Io son
venuto, ma mutano le tournures del verso a partire dal bellissimo
inizio per proseguire con l'effigie della nova donna la quale si sta
gelata come neve a l'ombra (vedi in Rime, CI, 7-8), figura
robustamente scandita sulla parola-rima e parola-chiave petra, in una
cornice paesaggistica ora diversa (sembra di passare d'un balzo dal canto di
Ciacco al Paradiso terrestre), fatta di antichi ma per Dante mai consunti
elementi poetici di fioretti e d'erba, e di ghirlanda, dei colori
gialli e verdi, dei riccioli, del verde dei vestimenti, del bel prato d'erba,
per disegnare in modo più icastico l'indistruttibile fissità
della passione: un tema già quasi petrarchesco, ma come sconvolto e
divorato da un'interiore crudele febbre. Il motivo della petra si rivela
funzionale in rapporto al freddo invernale (come poi in Amor, tu vedi ben
che questa donna); il sopraggiungere della fiorente primavera non è
scisso dal costante punto di riferimento alla donna “Pietra”; insomma il
sistema ragionativo dantesco si può appoggiare sulla comparazione
naturale in ogni momento, e così sarà poi nella Commedia,
ove non c'è moto dell'intelletto, impulso del cuore, intuito dei sensi
che non troverà immediatamente un luogo di contatto, verifica,
esemplificazione in fenomeni della natura: acustici, ottici, olfattivi, o l'uno
d'essi o due d'essi collocati assieme, giacché la narrazione di eventi deve
sempre essere sostenuta da una similitudine, ed essa esser tratta ora
dall'osservazione diretta, ora dalla reminiscenza letteraria d'un bel paragone
di Virgilio o di Ovidio, d'un loro episodio, d'un semplice attributo da essi o
da altri poeti classici conferito a quel singolo fenomeno della natura, a
quella singola rappresentazione di un oggetto. Cose “viste” e cose “lette” nei
classici costituiranno (e in qualche misura già costituiscono nelle
“Petrose”) un unicum su cui si esercita la formidabile memoria visiva e
auditiva di Dante, la sua capacità d'immergersi acutamente nel
paesaggio, e ivi reperire una maniera per esprimere proprie idee o sentimenti o
impulsi emotivi o auto-analisi o analisi del personaggio di cui intende
effigiare i tratti fondamentali: un dannato, uno spirito “astratto” del Paradiso,
un'ombra del Purgatorio, un luogo del paesaggio escatologico. L'itinerarium
di Dante per approdare alla massima sua opera è costantemente in
movimento, e attraversa, dopo le “Petrose”, le canzoni della maturità
prima e dopo l'esilio, la materia stessa del Convivio, ove noi
registreremo in parole sciolte passaggi e ragionamenti che ritornano
nella Commedia in una veste formale ancor più matura, in un
complesso ragionativo ancor più acuto.
Si giunge così alle rime
dottrinali, le quali collegandosi col Convivio, con l'inizio e
l'interrompimento d'esso, sembrano precedere l'inizio dell'Inferno quasi
senza frazione di tempo, in un continuum compositivo. Ovviamente
ciò va detto con qualche prudenza, giacché il lettore avverte subito, al
levarsi del sipario sulla selva selvaggia, che maiora canamus; lo
stacco c'è ed è fortissimo. Ma esistono anche interni canali di
collegamento, che andranno qui detti, ora e quando passeremo a considerare la
produzione dei primi anni dell'esilio. È lecito parlare di “terzo stile”
dantesco, indicato da decisi sviluppi retorico-stilistici e da una presa di
possesso maggiore della necessità, per Dante, di elaborarsi una propria
filosofia.
Nelle rime dottrinali avvertiamo
d'altronde che Dante intende costituirsi a filosofo, e che si prepara a
comporre un'enciclopedia filosofica. Che poi il Convivio resti
interrotto dal sopraggiungere della ideazione definitiva di quello che era
stato anni prima il disegno di una mirabile visione, al momento ciò
importa poco, e conta che Dante covi dentro di sé dal
Le rime dottrinali sono ancora aperte
sul discorso della loda di Beatrice, in una zona intermedia tra il
simbolo della Donna Pietosa e quello della Donna Gentile. Dante pesca nel
proprio serbatoio d'un mai realizzato canzoniere, e riabilita Voi che
'ntendendo il terzo ciel movete (che si direbbe del 1293), realizza proprio
sull'estremo limitare duecentesco Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato,
tiene ancora sul tavolo e rielabora Le dolci rime d'amor ch'i' solia,
ove, supponendosi nell'argomento una contrapposizione, inesistente in pratica,
tra le rime dolci e quelle aspre e sottili, Dante proclama a tutte
lettere la necessità di un adeguamento totale della lingua alle esigenze
espressive di travagliate disquisizioni filosofiche, con larghi ricorsi alla
terminologia teologico-morale. Per giungere a ciò egli tempera il calamo
a tutte le difficoltà formali che la mirabile visione poi
presenterà, e non perde mai il contatto tra la consapevolezza del
preminente valore della ragione e la glorificazione della vera nobiltà.
Supera gli schemi allegorici del Dolce Stile e approda ad una ars della
filosofia di complessa e completa novità formale e orditura sostanziale.
Si celebra la vera natura dell'omo gentile, si consacra la perenne
validità di un pregio che non risiede nella ricchezza (come avrebbero
voluto affermare i Magnati; c'è dell'anti-aristocraticismo materiale in
questo superbo progetto del poeta, fiero di appartenere ad un governo
popolare), ma nella nobiltà dello spirito.
Non interessa la diatriba dei
dantologi intorno alla possibile figura reale della Donna Gentile. Importa al
momento che attraverso essa Dante riapproda a Beatrice, e questo ritorno, sul
finire del Duecento, trova poi la propria sublimazione nella scelta d'una data,
a cavallo tra i due secoli, per fissare l'inizio e la conclusione del ritorno a
Beatrice: la Settimana santa del 1300.
LE VICENDE D'UNO
SCONFITTO
Il 1300 sembrava presentarsi come un
anno tranquillo. L'indizione del Giubileo da parte di Bonifacio VIII pareva
cadere in un momento di pacificazione degli animi, a Firenze, ora che Corso
Donati era stato allontanato ed erano stati individuati i complici dello
scandalo dell'Acciaiuoli e di Baldo d'Aguglione, e i Cerchi avevano stretto
migliori rapporti col ceto popolare. I governanti attendono a nuove importanti
opere pubbliche: il palazzo dei Priori o della Signoria, la nuova cerchia delle
mura; nel contempo non trascurano di sorvegliare le mosse dei Neri, così
coinvolti nello scandalo. Naturalmente molti dei nuovi governanti dovranno poi
subire, come Dante, l'onta della condanna e dell'esilio; i Neri non
dimenticheranno certo lo scacco subìto.
Bonifacio VIII continua nella sua
astuta politica d'amicizia e di favoreggiamento coi Grandi toscani, dai potenti
conti Guidi e Alberti ai Buondelmonti. L'esigenza di bandire il Giubileo non
è da porsi in relazione con queste mene temporalistiche: è
un'esigenza di pietà e di devozione reale (l'uomo, su cui grava la
pesante condanna di uno Jacopone e di un Dante, è profondamente
religioso), ma di certo il Caetani non trascura il versante politico della sua
visione teocratica del papato.
Dante fu tra i numerosissimi
pellegrini venuti a Roma per lucrare il Giubileo (numerosi anche i Fiorentini)?
È una domanda che gli studiosi si sono posti in connessione coi numerosi
ricordi della città di Roma, molti ascrivibili al tempo dell'ambasceria
fiorentina del 1301, ma non quello della gran ressa dei romei sul ponte
Sant'Angelo:
come i Roman per l'essercito molto,
l'anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,
che da l'un lato tutti hanno la fronte
verso 'l castello e vanno a Santo Pietro,
da l'altra sponda vanno verso 'l monte…[47]
Ma la circostanza poteva esser nota a
Dante dal racconto di altri pellegrini fiorentini, o dai Romani l'anno
successivo, recandosi a visitare quei luoghi. Ma se dobbiamo assegnare una data
al giubileo dantesco, essa non può esser posta che nei primissimi mesi
del 1300, prima dell'incarico presso San Gimignano e del priorato, al
più tardi nella Settimana santa, cioè proprio nei giorni in cui
andrà collocato il viaggio di Dante nella Commedia.
Il papa si volge ormai al completo
favore dei Donati, non volendo “perdere gli uomini per le femminelle” (come
racconterà il Compagni[48]),
e affretta i tempi. Vieri de' Cerchi, chiamato a Roma per stringere pace e
alleanza coi Donati, aveva declinato l'offerta insidiosa. Corso, lasciato
Orvieto, ottiene dal papa la nomina (8 febbraio) a rettore di Massa Trabaria,
tra Cagli e Urbino; in un certo senso s'approssima ai confini dello stato
fiorentino, e comunque gode di più aperta protezione pontificia. Per il
momento non avrà modo di rientrare in Firenze (dove giungerà
soltanto, come vedremo, nel novembre del 1301), ma fomenta la zuffa di Calendimaggio
(che erroneamente il Bruni pone nel periodo del priorato di Dante) e organizza
di lontano la radunata nera, qualche settimana dopo, nella chiesa di Santa
Trinita. I priori del bimestre aprile-giugno (quello precedente alla carica di
Dante) condannano a morte Corso e ordinano la distruzione delle sue case.
Dunque il conflitto tra Bianchi e Neri è ormai guerra aperta, senza
esclusione di colpi.
Tra la zuffa di Calendimaggio e il
convegno di Santa Trinita cade un incarico particolare affidato a Dante (7
maggio): recarsi quale ambasciatore di Firenze presso il vicino comune di San
Gimignano, allo scopo di rinsaldare i rapporti, nell'imminenza dello scontro
finale, tra i due Comuni. Attraverso questa ambasceria, senza dubbio d'una
certa rilevanza, i Bianchi cercano di assicurarsi l'alleanza delle città
più vicine, e il poeta ormai è più che esposto.
Davanti al Consiglio generale di San
Gimignano Dante svolge una relazione a nome dei Fiorentini, al fine di
organizzare l'elezione del nuovo capitano della Taglia guelfa di Toscana e di
convincere i Sangimignanesi a partecipare alla riunione; il che nel frattempo
faranno del pari altri ambasciatori fiorentini con i governanti di altre
città alleate, da Lucca a Prato, da Pistoia a Volterra, da Colle a
Poggibonsi e a San Miniato. Si tratta d'una iniziativa a vasto raggio, e per
essa Dante svolge una lunga perorazione che sortisce buon effetto: i
Sangimignanesi aderiscono alla proposta e nominano i loro delegati alla
radunanza della Taglia, che avrebbe dovuto aver luogo ad Empoli, ma si tenne,
forse troppo tardi, a Castelfiorentino nell'ultima decade di giugno, quando
Dante era già priore e attivo all'interno del palazzo priorale.
Ma la situazione politica è
tutt'altro che serena in città: due fatti che non avrebbero dovuto
riguardare direttamente Dante, ma che concernendo il priorato precedente gli
saranno stati in qualche modo imputati, più tardi: la congiura che nel
marzo Lapo Saltarelli, il gonfaloniere Lippo Rinucci-Becca e ser Bondone
Gherardi avevano scoperto e sventato nei riguardi di tre cittadini di Firenze i
quali in Roma, con la protezione del papa, tramavano contro l'autonomia della
loro città: la condanna, inflitta il 18 aprile, provocò lo sdegno
di Bonifacio, il quale pretese (24 aprile) attraverso il vescovo di Firenze l'annullamento
della sentenza; i consigli del Comune non soltanto ricusarono nettamente le
pretese papali, ma sfidando direttamente il pontefice chiamarono il Saltarelli
alla carica priorale (bimestre 15 aprile-15 giugno).
V'è ancora un margine per le
trattative, ma la nomina di Matteo d'Acquasparta a legato papale per la
Toscana, la Romagna e altre parti d'Italia (nomina avvenuta il 23 maggio) crea
una situazione diplomatica ancor più difficile. Egli avrebbe dovuto
esercitare le funzioni di paciaro tra le opposte fazioni di Firenze dopo lo
scontro di Calendimaggio e la riunione a Santa Trinita, ma in segreto s'adopera
a rafforzare al massimo i Neri, e in genere svolge una politica di favore per i
magnati e contro il partito popolare. Si trova in Romagna, quando, richiamato
dalla situazione di Firenze si precipita in città (siamo giunti ai
primissimi giorni di giugno), con un suo sottile accorgimento che avrebbe
dovuto mettere in crisi il reggimento popolare. L'accorgimento consisteva nel
limitare l'elettorato passivo per le nomine a priore ad una lista di nomi
scelti apertamente tra i migliori cittadini d'ogni sesto.
Attraverso questo marchingegno anche
i Neri sarebbero entrati nell'elenco, dal quale i nomi dei sei priori prescelti
sarebbero stati tratti per sorteggio e non per elezione segreta. La votazione
avrebbe sconfitto i Neri, il sorteggio non ne avrebbe di certo esclusi
più d'uno, e anzi c'era la probabilità che la maggioranza del
governo priorale passasse saldamente nelle mani dei Neri. Il rivolgimento politico
sarebbe stato completo.
Tuttavia i popolani non si prestarono
al giuoco dell'astuto frate, e imposero il vecchio sistema elettorale.
S'andò alle urne il 13 di giugno, e risultarono eletti Noffo di Guido,
Neri di Iacopo del Giudice, Nello d'Arrighetto Doni, Bindo di Donato Bilenchi,
Ricco Falconetti e Dante Alighieri. Subito dopo lo scrutinio i sei eletti si
ritirarono, com'era l'uso, in un convento, col nuovo gonfaloniere di giustizia
Fazio da Micciole.
Al mattino del 15 giugno Dante e i
suoi cinque colleghi prendono possesso della carica nella chiesa di San Piero
Scheraggio e dinanzi alla ringhiera del palazzo priorale. Immediatamente dopo
entrano in palazzo, dal quale non sarebbero potuti uscire per tutto il
bimestre.
Dante è giunto, dunque, alla massima
carica dello Stato, e sarà proprio a questo bimestre priorale che
più tardi egli farà risalire la causa di tutte le sue sventure
d'esule: “Tutti li mali e l'inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio
priorato ebbono cagione e principio”, come dirà in un'epistola perduta,
ma letta da Leonardo Bruni[49].
E l'amarezza dell'esule sarà tale che nessuno dei protagonisti di quel
fatale periodo si salverà dallo sdegno, o, peggio ancora, dal polemico
silenzio del poeta. Quasi a voler cancellare ogni rapporto con quella compagnia
con la quale aveva pur così coraggiosamente combattuto, nessun
protagonista sarà salvato dall'avversione.
A poche ore dall'insediamento i
priori sono costretti a prendere una grave decisione. Il notaio del Comune, ser
Sostegno di Busatto, consegna loro e al gonfaloniere di giustizia il testo
della condanna dei tre congiurati (Noffo di Quintavalle, Simone di Gerardo e
ser Cambio da Sesto): il qual documento “dicti priores et vexillifer iustitie
acceperunt et apud se retinuerunt”, come registra l'imbreviatura di Lapo
Gianni, o meglio (s'è lo stesso, come pare, del poeta amico di Dante),
di ser Lapo di Gianni Ricevuti[50].
E alla sentenza diedero esecuzione: una multa “in libr. duobus milibus pro
quolibet” e il taglio della lingua (la qual ultima pena ha fatto raccapricciare
qualche nostro recente biografo, come se potesse apparire inelegante o
biasimevole che il poeta della “divina” Commedia si fosse macchiato di
siffatta crudeltà). Era la messa in opera d'un dispositivo giudiziario
del quale i nuovi membri dell'apparato esecutivo non avevano diretta
responsabilità e che non avrebbero potuto in alcun modo annullare senza
grosso rischio sul piano politico e, dunque, verso la politica del Consiglio
generale; purtuttavia resta sempre il prim'atto d'un programma autonomistico di
cui il second'atto segue subito dopo, quando ha luogo la discussione se
avanzare o meno richiesta ai Cento di concedere la balìa a Matteo
d'Acquasparta, che l'aveva domandata con impazienza e che, alla fine, l'ottenne
dopo il 27 giugno, sebbene con notevoli limitazioni nell'esercizio d'essa. E
l'ottenne a causa dell'aggravarsi della situazione sul piano dell'ordine
interno, quando la sera della vigilia di S. Giovanni, il 23 giugno, i Grandi
erano venuti alle mani coi consoli delle Arti e notabili del governo popolare i
quali sfilavano in processione per recare in San Giovanni le offerte votive.
Preciso ed emozionato è il ricordo della zuffa nella Cronica del
Compagni:
Andando
una vigilia di San Giovanni l'Arti a offerere, come era usanza, e essendo i
consoli innanzi, furono manomessi da certi grandi, e battuti, dicendo loro:
“Noi siamo quelli che demo la sconfitta in Campaldino; e voi ci avete rimossi
degli uffici e onori della nostra città”. I Signori, sdegnati, ebbono
consiglio da più cittadini, e io Dino fui uno di quelli. E confinorono
alcuni di ciascuna parte (Cron., I, 21).
I Donateschi vennero condannati al
confino nella terra perugina di Castel della Pieve; i Cerchieschi a Sarzana, e
tra quest'ultimi fu, com'è noto, Guido Cavalcanti: otto capi per parte
nera, sette per i Bianchi, e tutti con “loro consorti”, familiari e famigli.
“Il provvedimento, insomma, fu ispirato a giustizia, e non fa torto a Dante,
che lo approvò e forse lo propose, a Dante che, certo non senza dolore,
si trovò costretto a includere fra i confinati Bianchi anche il suo primo
amico Guido Cavalcanti”[51].
La lacuna dei verbali dei consigli dal luglio 1298 al febbraio 1301 non
consente di dir di più sopra questo momento così centrale nella
vita del poeta, ed è appena il caso di ricordare che né il Compagni, né
il Villani o altri cronisti danno alcun peso alla partecipazione di Dante ai
fatti del 1300 (si vedrà che non è così, invece, per il
1301).
I Bianchi si recano subito al loro
confino di Lunigiana, ma i Neri si rifiutano di partire per l'Umbria. La
balìa del cardinale Matteo non si esercita nella giusta direzione: i
Neri non sono puniti, e anzi il paciaro cerca di ottenere milizie da Lucca per
imporre con la forza il suo arbitrato. I priori (e non è difficile
pensare che Dante spingesse più degli altri la reazione governativa)
chiedono ai Lucchesi di non dar seguito alla richiesta dell'Acquasparta e di
scongiurare il pericolo d'uno scontro armato tra le due città, e le
fazioni d'esse.
Viene il momento del conflitto aperto
tra i Bianchi e il cardinal Matteo, sostenuto sempre di più da Bonifacio
VIII. È dunque scontro aperto tra il papa e i sei priori, dal nostro
punto di vista tra Bonifacio e Dante; il paciaro sa trarre eccellente spunto da
un incidente, forse procurato ad arte: un popolano attenta alla vita di Matteo
tra il 15 e il 18 luglio, comunque prima del 19. I priori tentano di placare le
ire del legato papale, decidendo di offrirgli una coppa d'argento piena di
duemila fiorini d'oro, ma il cardinale rifiuta. Il governo però non
disarma, e i Neri sono costretti a prendere la via dell'esilio. Il cardinale
d'Acquasparta cede per il momento, e più tardi, 28-29 settembre, scaglia
l'anatema sui governanti fiorentini e abbandona la città. I Bianchi
sembrano avere partita vinta; i priori scadono, e dobbiamo pensare che Dante
uscisse da palazzo con l'impressione d'aver vinto, anzi stravinto.
I nuovi priori revocano il bando ai
sette Bianchi, e questo atto fu quello che provocò la condanna da parte
di Matteo. Nell'ombra Bonifacio prepara la vendetta. Nell'epistola perduta, e
di cui abbiam detto resta memoria nella Vita scritta dal Bruni, Dante si
giustifica
che
quando quelli di Serezzana [Sarzana] furono rivocati, esso era fuori
dell'uffizio del priorato, e che a lui non si debba imputare: più dice,
che la ritornata loro fu per l'infirmità e morte di Guido Cavalcanti, il
quale ammalò a Serezzana per l'aere cattiva, e poco appresso morì[52].
Nella mia Biografia di Dante
mi sono intrattenuto sulle cause di questa revoca del bando. Basti ora dire che
fu certamente un errore politico, in quanto prova che ci fu faziosità
dei priori a vantaggio d'una delle due parti, e che Dante, ben conscio della
conseguenza di questo errore, si sarebbe dissociato dall'avventata decisione
politica. Per il momento la sua vicinanza coi Bianchi non è compromessa,
ma più tardi individuerà in quella vicenda (lo si deduce dal tono
della lettera) un profondo dissenso con quella parte con la quale
continuerà tuttavia a collaborare ancora un altro anno, sino alle
estreme conseguenze.
Molti dei successivi eventi[53]
non sono riferibili a Dante in modo diretto. Del resto, come s'è detto,
siamo privi dei necessari documenti d'archivio. Il nome di Dante riappare il 14
aprile 1301, giorno nel quale egli interloquisce nel Consiglio delle
Capitudini, per due volte nella stessa giornata (una seduta al mattino e una al
pomeriggio?). Esiste anche un documento privato del 2 marzo: una garanzia che i
due fratelli Dante e Francesco offrono per un mutuo contratto da Durante degli
Abati, ma si tratta di un particolare non molto rilevante.
La seduta del 14 aprile era stata
convocata per deliberare sui modi dell'elezione dei priori, e Dante si schiera
per la proposta più avanzata: sorteggio su quattro nomi, e non due, per
ogni sesto. Il prestigio politico di Dante è dunque intatto, e lo
sarà ancor di più il 19 giugno, quando hanno luogo sedute del
Consiglio dei Cento: la prima aperta ai consigli generale, speciale e delle
Capitudini delle Arti, la seconda “ristretta” ai soli Cento. Tra le due
importanti sedute, del 14 aprile e del 19 giugno, Dante aveva assolto anche ad
un'incombenza che possiamo dir minore, durata due mesi e “sine aliquo salario”:
fu infatti ufficiale e sovrastante ai lavori di costruzione della via di S.
Procolo che dal borgo della Piagentina sarebbe giunta sino all'Affrico. La
delibera era stata assunta dal consiglio dei Sei sindaci, e non è che
per eseguire l'incarico fosse richiesta una particolare esperienza di
“urbanista” o di architetto: si trattava, a detta del Barbi, di una modesta
opera di rafforzamento della via “tra campi e casupole”, non di costruire
palazzi o giardini sul fianco della via. Però, per quanto modesta,
l'incombenza rivestiva una certa responsabilità amministrativa: il che
prova la stima d'onestà che i concittadini avevano per il poeta.
Ma veniamo alla seduta del 19 giugno.
È un fatto centrale nella vita di Dante. A nome del papa, Matteo
d'Acquasparta chiedeva cento cavalieri per l'impresa papale in Maremma contro
Margherita Aldobrandeschi. Nella prima seduta due oratori si erano pronunciati
a favore dell'accoglimento della richiesta di Bonifacio VIII, un altro propose
un rinvio, il solo Dante si scagliò contro: “Dante Alagherii consuluit
quod de servitio faciendo d. pape nichil fiat”. Nel contempo si pronunciava a
favore d'una richiesta di minor peso politico: l'assunzione della difesa di
Colle Valdelsa.
La questione viene riproposta lo
stesso giorno, ora nel consiglio ristretto, e Dante conferma la sua netta
opposizione, ma prevale con 49 voti positivi e 32 contrari il parere favorevole
d'un altro oratore, successivamente ratificato dagli altri Consigli.
Da
ciò emerge che nelle file dei Bianchi non fosse completa concordia, come
l'accorta previdenza della maggioranza, guidata dai Cerchi, non piacesse a
tutti. Dante doveva tuttavia esercitare un forte ascendente, dal tempo del suo
priorato, come capo di una minoranza nella fazione dominante[54]…
Il che, com'è evidente, gli
sarà particolarmente imputato al momento della condanna, e potrà
influire, assieme alla precedente presa di posizione del 14 aprile, nella
specifica accusa di baratteria[55].
Altre tre volte ancora, e saranno le
ultime prima del bando, il nome del consigliere Dante riappare nei verbali dei
Cento, in seduta allargata il 13 e il 20 settembre, in ristretta ai soli Cento
il 28 dello stesso mese: si pronuncia favorevolmente alla conservazione degli
Ordinamenti di Giustizia e in genere del governo popolare, indi si pronuncia in
senso positivo alla richiesta d'autorizzazione da parte di Bologna al trasporto
di granaglie, da Pisa al territorio bolognese, passando per quello fiorentino,
e infine, il 28 settembre, a favore dell'accoglimento di otto proposte (di cui
importanti la concessione della balìa ai priori per procedere contro
reati di violenza e aggressione o di falsa testimonianza), proposte che
tendevano a snellire le procedure istruttorie e giudiziarie in un momento di
sempre maggiore confusione e criminalità nell'ordine pubblico;
più rilevante, tuttavia, fu sul piano politico l'amnistia concessa a
Neri, figlio di Gherardino Diodati (quest'ultimo priore nel bimestre precedente
quello di Dante), condannato innocente per un delitto di sangue; e l'importanza
dell'episodio s'evince dal fatto che la sentenza era stata emessa dal
podestà Cante de' Gabrielli di Gubbio, il quale, ritornando
podestà il 9 novembre 1301, avrebbe avuto un motivo in più di
risentimento contro il consigliere che aveva fatto annullare il suo dispositivo
(il nome di Gherardino riapparirà nella sentenza di condanna del 27
gennaio 1302 con Dante, ma neanche questa coincidenza può essere
ritenuta prova di parzialità da parte del magistrato eugubino).
Solo in apparenza la politica dei
Bianchi può sembrare nel complesso avveduta verso il papa ed energica
nei riguardi dei Neri; in realtà la sfida rivolta a Bonifacio da parte
d'una minoranza oltranzista e la repressione subìta dai Neri a Pistoia,
città chiaramente soggetta alla politica fiorentina (apri li orecchi
al mio annunzio, e odi. / Pistoia in pria d'i Neri si dimagra; / poi Fiorenza
rinova gente e modi[56]),
affrettano la decisione d'intervento militare. Carlo di Valois era già
dall'11 luglio in territorio italiano, e Bonifacio è certo di poter
utilizzare la spedizione per i suoi fini egemonici sulla Toscana. La precisa
ricostruzione che delle consulte del 19 giugno ha reso il Barbadoro[57],
mostra l'efficacia, oltre che politica anche procedurale, dell'intervento
negativo di Dante, cui si deve forse l'inusitata ampiezza della verbalizzazione
per illustrare l'ordine del giorno della seconda riunione. La negazione degli
aiuti, prima a Carlo d'Angiò e poi a Bonifacio VIII, è la causa
prima e fondamentale del processo del 1302, i cui giudici dovettero consultare
più volte quei verbali per formulare l'accusa a Dante; vero è che
il breve tempo intercorso, poco più di sei mesi, non rendeva poi
necessaria una rigorosa ricerca negli atti, tanto la virulenza dell'Alighieri
doveva essere impressa nella memoria di tutti[58]. L'atteggiamento
pubblico di Dante è un crescendo di temerarietà e di coerenza, e
se ne potrebbero documentare meglio le varie fasi se si vuol credere al
Barbadoro sull'effettiva esistenza d'un'arringa dantesca anche nella consulta
del 15 marzo 1301, diretta a respingere le richieste dell'Angiò, donde
l'errore d'un postillatore trecentesco che fa riferimento ad una differente
deliberazione, afferente a donativi offerti a Carlo di Valois nella provvisione
del 26 marzo 1302, quando Dante era da varie settimane al bando[59].
L'imminenza del pericolo, dopo
l'incontro bolognese tra Carlo di Valois e i Neri (Compagni, Cron., II,
3), il passaggio del principe francese lungo i confini dello stato di Firenze,
l'arrivo a Roma, la presentazione ufficiale alla presenza del papa in Anagni (5
settembre), consigliarono i governanti ad un'estrema e forse anch'essa
improvvida mossa: inviare un'ambasceria presso Bonifacio. Quando partì
la missione? E fu certamente Dante tra di essi? Nell'assenza di documenti
pubblici, tocca dar massima fede al resoconto del Compagni (che il 15 ottobre
entrava in Palazzo come uno dei priori), confermato subito dopo dall'Ottimo e
da un compendio del Villani, più tardi dal Bruni. Dino da principio non
registra i nomi degli ambasciatori, ma soltanto le terribili parole del
Caetani:
Giunti li
anbasciatori in Roma, il Papa gli ebbe soli in camera, e disse loro in segreto:
“Perché siete voi così ostinati? Umiliatevi a me: e io vi dico in
verità, che io non ho altra intenzione che di vostra pace. Tornate
indietro due di voi; e abiano la mia benedizione, se procurano che sia ubidita
la mia volontà” (Cron., II, 4).
L'incipit del paragrafo
successivo, “In questo stante furono in Firenze eletti nuovi Signori”, fa
riflettere che l'ambasceria era partita qualche giorno prima delle nuove
elezioni, anticipate al 7 d'ottobre per offrire una tempestiva prova di buona
volontà; e anzi il colloquio stesso con Bonifacio è sentito dal
Compagni come un fatto precedente i comizi di ottobre. È dunque
probabile che l'ambasceria partisse da Firenze a brevissima distanza dal 28
settembre, non essendo da escludere che, in tutta segretezza e senza lasciarne
traccia nei verbali, fosse stata decisa in questa stessa seduta o, comunque,
contestualmente alla medesima sessione di lavori. Si deve al Del Lungo
l'ipotesi che, per volontà dei Fiorentini, all'ambasceria si unissero
anche messi del comune di Bologna: cinque uomini di toga che, eletti il 1°
ottobre, si misero subito in cammino. Il Compagni narra l'episodio di Ubaldino
de' Malavolti, che si fermò per istrada “per raddomandare giurisdizioni
d'uno castello il quale teneano i Fiorentini, dicendo che a lui appartenea”,
non è detto, però, che tutta la missione tardasse a muoversi, ma
soltanto che ciò impedì ai Bolognesi di giungere a tempo. E
d'altronde il problema non ha un'importanza rilevante, poiché Carlo di Valois
s'era mosso da Anagni prima del 20 settembre, e intorno al 16 ottobre era
già a Siena. Per giungere a Roma in tempo per fermare l'inviato di
Bonifacio a Carlo, l'ambasceria avrebbe dovuto esser formata molto tempo prima,
e aver già patteggiato la resa ai voleri del papa almeno dalla
metà di settembre: il che non fu.
Il Compagni ci dice il nome degli
ambasciatori (o di tre d'essi se la missione diplomatica fu più
numerosa) in due fasi: quello di Maso Minerbetti e del Corazza da Signa
allorché narra che due dei Fiorentini furono rimandati indietro dal pontefice,
e quello di “Dante Allighieri che era anbasciadore a Roma” (Cron., II,
25), quando elenca i principali Bianchi condannati nel 1302. E il poeta, or
dunque (personaggio troppo influente perché Bonifacio potesse correre il
rischio di rimandarlo a Firenze), restò in corte, per vario tempo,
almeno fin quando gli giunge notizia del precipitare della situazione in
Firenze, della vanità del suo incarico a Roma, del pericolo ch'egli
stesso corre ove si trova, e i suoi familiari e sodali in patria, per la
violenta repressione posta in opera dai Neri vincitori, anche con distruzioni e
saccheggi di case, comprese quelle degli Alighieri. Il Minerbetti e il Corazza
saran dunque ripartiti prima che giungesse alla corte papale la nuova
dell'ingresso di Carlo di Valois a Firenze; 1° novembre, ma prima del 4 erano
già in città; Dante si sarà mosso soltanto dopo che
giunsero a Roma le notizie della nuova Signoria nera (7 novembre), della
presenza in città di Corso Donati e di Cante de' Gabrielli, del ritorno
di Matteo d'Acquasparta, della fuga dei Bianchi, come c'è dato di
conoscere dalla drammatica cronistoria del Compagni, e infine delle eloquenti
provvisioni della nuova Signoria il 24 novembre, che confermavano in diritto il
nuovo stato di fatto.
Resterebbe ancora da chiederci se l'ambasceria
fosse ricevuta da Bonifacio in Anagni o a Roma, e se dunque Dante si spingesse
sino alla città natale del Caetani[60]. Certo si è
che Bonifacio VIII era solito, per lo più, di trattenersi ad Anagni sino
all'autunno inoltrato: nel 1297 rientrò a Roma ai primi di novembre (nel
1299 il 27 settembre, nel 1300 il 3 ottobre, nel 1301 il 2 ottobre, nel 1302 il
14 settembre, nel 1303 il 18 settembre: sconvolto dopo l'onta di Sciarra
Colonna). L'ipotesi che pertanto la drammatica udienza avesse avuto luogo nel
palazzo papale di Anagni, e in data successiva i messi del comune di Firenze si
portassero a Roma al seguito del pontefice, è tuttavia piuttosto
fragile. C'è inoltre da discutere intorno ad un'altra
possibilità, non pare considerata dagli studiosi: è sicura una
precedente ambasceria fiorentina nel novembre 1300 (l'udienza avvenne l'11
nov.): che il Compagni confondesse questa con quella del 1301 designando Dante
nell'elenco dei condannati del '2, non è possibile, ma ha un filo di
probabilità l'ipotesi che scrivendo “era anbasciadore a Roma” intendesse
dire non che lo era al momento della condanna (come, a ragionare per il
sottile, non era più da qualche mese, essendo caduta la Signoria che
l'aveva mandato in missione), ma lo “era stato”. In tal caso Dante sarebbe
stato ambasciatore un anno prima, avrebbe in quell'occasione lucrato il Giubileo,
e tutte le impressioni romane (la pigna, il Laterano, il Castello, Montemario
ecc.) si riferiscono ad un unico soggiorno, nell'autunno del 1300. Offriamo
quest'ipotesi pur rendendoci conto che appare nel complesso un po' meno solida
di quella tradizionale, sebbene resti il dubbio che la presenza di Dante alla
corte di Roma nel 1300 poteva avere un significato politico, all'indomani del
suo priorato e delle sue scelte imparziali tra Bianchi e Neri dopo lo scontro
della vigilia di San Giovanni, e sortire qualche effetto di mitigazione degli
sdegni e delle mene bonifaciani, mentre la partecipazione all'ambasceria da
parte d'un uomo che da solo, nei Consigli del 1301, s'era levato a parlare
contro le richieste del pontefice, rischiava d'aver soltanto l'aspetto d'una
provocazione grave verso la terrificante suscettibilità di Bonifacio.
Valga questa o l'altra
possibilità, comunque resta in piedi l'interrogativo se durante le
violenze dei Neri e agli inizi delle inquisizioni verso i Bianchi ch'avevano
avuto cariche pubbliche, Dante lasciasse tempestivamente Firenze come nel
Villani, nel Boccaccio, in Marchionne di Coppo Stefani ovvero, proveniente da
Roma (e, se si vuol dar credito al Bruni, a Siena “intesa chiaramente la sua
calamità”), non stimasse prudente ritornarvi. Da principio Dante avrebbe
anche potuto sperare di non essere coinvolto nella repressione; insomma nel
dicembre 1301 e nei primissimi giorni del 1302 poteva essere ancora in
città. Ma quando la situazione fu chiarissima per tutti, la fuga divenne
inevitabile: Tu lascerai ogne cosa diletta / più caramente… collocato
in Par., XVII, 55 sgg. subito dopo La colpa seguirà la parte
offensa / in grido, come suol; ma la vendetta / fia testimonio al ver che la
dispensa.
I Consigli bloccarono ogni
procedimento che era stato promosso dalla precedente amministrazione dello
Stato, dandone espresso ordine l'11 gennaio al podestà Cante de'
Gabrielli. Nuovi processi erano messi in atto, e tutti i vecchi in pratica si
riducevano ad un'amnistia generale. La seconda decade del gennaio passò
con una febbrile impostazione di nuovi procedimenti, istruiti con tale
rapidità che il 18 gennaio Cante già era in grado di pronunciare
la prima sentenza e il 27 successivo era già in condizioni di
pronunciare la sentenza di condanna in contumacia di vari fiorentini: tra di
essi è Dante. Una vera e propria istruttoria sommaria, con rapidi tempi
per la citazione, il bando, l'emissione della sentenza. Tale celerità
dà ragione dello scarso fondamento giuridico delle imputazioni.
Dante già da tempo non si
doveva esser fatto illusioni in proposito. Ma era già fuori di Firenze
prima dell'ordinanza dell'11 gennaio, ovvero fece in tempo a mettersi in salvo
tra la prima sentenza (che non lo riguardava, ma aveva tutta l'aria di non
rimanere la sola) e la seconda? Tutto ciò che egli aveva fatto come
membro autorevole dei Consigli e come priore, gli si ritorceva contro:
soprattutto l'atteggiamento drastico assunto verso Bonifacio VIII e Carlo
d'Angiò. Ma la nuova magistratura aveva rivolto a lui e agli altri
condannati un'altra accusa: d'aver brigato a favore della cacciata dei Neri da
Pistoia. Il tutto senza alcuna prova, anzi soltanto fama publica referente.
I condannati sarebbero stati esclusi
in perpetuo dalle cariche pubbliche, multati con un'ammenda di cinquemila
fiorini piccoli, banditi per due anni al confino quali falsarii et
baracterii. Qualora non si fossero presentati a pagare l'ammenda, “omnia
bona talis non solventis publicentur, vastentur et destruantur, et vastata et
destructa remaneant in comuni”.
I condannati non si presentarono a
giustificarsi delle gravissime imputazioni, né pagarono l'ammenda. La seconda
condanna intervenne più tardi (forse il Gabrielli era impegnato in
troppi processi?, forse si sperava in una resipiscenza o dell'uno o dell'altro
dei condannati? forse voleva comprendere in un unica sentenza più
imputati?). Fatto sta che solo il 10 marzo Cante emetteva la condanna a morte
di Dante e di altri quattordici imputati: “si quis predictorum ullo tempore in
fortiam dicti comunis pervenerit, talis perveniens igne comburatur sic quod
moriatur”.
La lettura del celebre documento
è uno dei momenti più impressionanti per chi intraprende lo
studio di Dante. Ma, ci chiediamo, il poeta certo seppe della condanna a
brevissima distanza di tempo, e forse ne lesse addirittura una copia di
citazione?
“Uscito adunche in cotal maniera
Dante di quella città” (Boccaccio), “bene che fosse guelfo, e però,
sanza altra colpa” (Villani), senza dubbio per molto tempo non
s'allontanò dai confini dello stato fiorentino: “ed il primo
accozzamento fu in una congregazione delli usciti, la quale si fe' a Gargonsa”
(L. Bruni)[61].
Egli è solo, come recita concorde la tradizione, a principiare dal
Boccaccio: “Lasciati adunque la moglie e i piccoli figliuoli nelle mani della
fortuna, et uscito di quella città, nella qual mai tornare non doveva”.
Scarsissimi i suoi mezzi di sostentamento. Saccheggiati i suoi beni di casa dai
Neri trionfanti: “gli fu corso a casa e rubata ogni sua cosa, e dato il guasto
alle sue possessioni”. L'unico a potergli tendere una mano fu il fratellastro
Francesco, il quale, per nulla compromesso dalle vicende politiche che avevano
rappresentato la rovina anche economica del poeta, poté continuare i suoi
traffici in città, e non gli fu difficile mantenere, anche personalmente
(come poi vedremo all'epoca del soggiorno ad Arezzo), contatti col fuggiasco. E
le notizie che a questo provenivano da cittadini o viandanti oppur compagni
d'esilio provenienti da Firenze, allontanavano per il momento alcuna speranza
di poter rimettere piede in patria o che la situazione generale, sullo
scacchiere toscano, si volgesse a proprio favore.
Anche se già da questo momento
è scarsissima la sua fiducia nell'abilità diplomatica e
nell'energia guerresca dei Bianchi, siamo ancora lontani dalla rottura, ed
egli, d'altronde, non ha alcuna possibilità di sviluppare un proprio
disegno politico. Cede alle mene “revanchiste” dei Bianchi la personale
posizione di fallito leader dell'ala oltranzista filo-popolare e
anti-bonifaciana. E giunge al punto di trovar conveniente, pur di tornare in
patria, l'alleanza che a Gargonza prima, poi a S. Godenzo in Mugello, i Bianchi
sconfitti stringono coi Ghibellini da tantissimo tempo in esilio. Il che fu
indubbiamente un colpo di scena sul fronte politico, l'inizio d'un sistema di
alleanze che sembra poter recare qualche frutto con la conquista dei castelli
di Figline e di Piantravigne (primavera del 1302) e l'aiuto considerevolissimo
d'una potente consorteria qual è quella degli Ubertini, per rivelarsi
poi un grosso sbaglio politico, dacché l'ingresso dei Ghibellini nel territorio
fiorentino rinfocola le preoccupazioni d'altre città guelfe di Toscana,
consente a Carlo di Valois di ritornare sui propri passi, pone Bonifacio VIII
in condizione di raddoppiare il suo appoggio ai Neri di Firenze, e soprattutto
mette costoro in grado di incrudelire con le citazioni, i bandi, le
imputazioni, le condanne. Giustamente oggi[62] s'anticipa la data
dell'incontro di Gargonza, in Val di Chiana, al mese di febbraio del 1302,
prima delle sentenze di morte del 10 marzo che ne sono, per l'appunto,
l'effetto più vistoso.
Che Dante sia nella lista dei
condannati a morte è prova che, come nel Bruni, sia stato presente
all'“accozzamento” di Gargonza, e comunque ch'esso sia avvenuto con l'appoggio
e per iniziativa anche di lui. Forse fu soltanto una radunata informale, senza
che tutti i capi vi partecipassero; mentre S. Godenzo è altra cosa. L'8
giugno, nella pieve mugellana, convengono con Dante sedici fiorentini che s'impegnano
a risarcire il casato degli Ubaldini d'ogni danneggiamento che potesse derivare
ai loro beni dall'imminente guerra contro Firenze, “occasione novitatis seu
guerre facte vel faciende”[63].
La radunata di tutto lo stato maggiore dei Bianchi, con Vieri de' Cerchi in
testa, è resa ancora più pericolosa, sulle falde dell'Appennino e
a poche miglia dalla città di Firenze, dalla contemporanea presenza di
famiglie ghibelline che da decenni attendevano l'occasione per una guerra senza
quartiere contro i governanti guelfi “intrinseci”; tra di essi, particolarmente
denso di significato l'arrivo degli Uberti, nella persona soprattutto di Lapo:
una vicinanza indiretta ma non meno emblematica tra il cantore del canto X dell'Inferno
e il suo magnanimo protagonista.
La promessa di rifusione dei danni e
l'ipoteca di tutti i beni dei Bianchi e dei Ghibellini a vantaggio degli
Ubaldini erano atti indubbiamente necessari dinanzi alla prospettiva d'una
guerra lunga, costosa e rovinosa; ma non certo poté essere l'unico argomento
della radunata di S. Godenzo, soltanto quello apparente e verbalizzabile. In
realtà si trattò di stabilire tutti i modi della organizzazione e
condotta della guerra, i limiti della resa che poteva esser chiesta ai Neri
sconfitti, soprattutto la futura possibilità d'un'alleanza politica tra
due partitanti così lontani negli ideali e nei programmi, e che non so
quanto avrebbe potuto convivere nel tempo, e in particolare far rivivere gli
ordinamenti democratici ch'erano stati della tradizione dei Bianchi dinanzi ai
tentativi di restaurazione d'istituti e costumi aristocratico-feudali che i
Ghibellini avrebbero cercato di porre in opera, riuscendo miracolosamente a
ripetere una nuova Montaperti a distanza di 43 anni.
Ma il miracolo non si ripeté. Dopo i
successi iniziali di Serravalle, Piantravigne, Gaville e Ganghereto, dopo la
sollevazione di Montagliari e Montaguto, cominciano i primi rovesci, e i
confederati sono costretti a retrocedere sul fronte del Mugello e di Romagna, e
perdono Piantravigne (metà luglio) per tradimento di Carlino de' Pazzi,
che indusse a tradire anche tre dei suoi congiunti, e pattuì col nuovo
podestà fiorentino, Gherardino da Gambara, in 400 fiorini d'oro il
prezzo del suo tradimento.
Non pare possibile che Dante
scendesse in battaglia, ma è certo che non si tenne lontano dalla zona
degli scontri, sospesi col sopraggiungere del maltempo. E allora egli deve
ancora una volta (e non sarà l'ultima!) riflettere sulla necessità
di spostarsi dal territorio immediato della guerra, per prestare meglio la sua
opera come intermediario politico, e attendere ad una migliore preparazione
delle ostilità del 1303. E si reca a Forlì[64]: autunno del 1302.
Ma anche la guerra della primavera
del 1303 si risolse negativamente per Dante e per i Bianchi. Il lavoro di
preparazione svolto da Dante presso il signore di Forlì, Scarpetta degli
Ordelaffi, lo portò ad essergli vicino anche durante il periodo delle
ostilità, e forse il poeta fu presente all'espugnazione di Castel
Puliciano, se non proprio al fulmineo e vittorioso sopraggiungere del nuovo podestà
di Firenze, Fulcieri da Calboli, tanto è immediata l'impressione di quel
fatto nel Purgatorio:
Io veggio tuo nepote che diventa
cacciator di quei lupi in su la riva
del fiero fiume, e tutti li sgomenta.
Vende la carne loro essendo viva;
poscia li ancide come antica belva;
molti di vita e sé di pregio priva.
Sanguinoso esce de la trista selva…[65]
quasi trasferendo sul campo di battaglia l'eco delle sanguinose repressioni
dei Neri. Un documento successivo pone problemi precisi: il nome di Dante, il
18 giugno del 1303, non è tra i firmatari dell'atto d'obbligazione a
pagare i mercenari della guerra del Mugello; conseguentemente, e anche per la
ristrettezza del tempo, Dante non è tra gli ambasciatori che da Forlì
giungono a Bologna, il 25 giugno successivo.
Egli era già a Verona? E v'era
come semplice rifugiato ovvero quale ambasciatore dei Bianchi presso gli
Scaligeri? Lo storico Biondo Flavio parla di questa ambasceria bianca, e anche
se erra attribuendone la controparte a Cangrande della Scala (a quell'epoca
ancora giovinetto, così come ricorderà Dante in Par.,
XVII, 79-81), l'ambasceria sembra sicura, dopo l'infausta conclusione della
guerra del Mugello, tra il maggio e il giugno, quando “i bianchi e' ghibellini
usciti rimasero rotti e sciarrati”.
In un mio studio[66] mi sono
intrattenuto a lungo sulla vicenda biografica a Verona, e sono venuto alla
conclusione che essa ebbe luogo tra il maggio-giugno 1303 e il marzo 1304. Non
ne ripeterò i ragionamenti ivi svolti, se non per sottolineare che
l'ospitante nel primo refugio, primo ostello del fuggiasco poeta
(lo ricorderà nello stesso canto XVII del Paradiso, vv. 70-71) fu
certamente Bartolomeo della Scala, venuto a morte il 7 marzo
Ora ci si pone l'interrogativo. Quale
circostanza determinò la partenza di Dante da Verona? Forse la morte di
Bartolomeo? Sembra poco probabile, mentre appare più convincente
l'ipotesi del sopraggiungere a Verona d'una notizia del tutto sconvolgente per
Dante: dopo l'elezione a pontefice del mite Benedetto XI (sul quale il poeta
già da qualche mese faceva affidamento), la nomina a proprio legato e
paciaro in Toscana del cardinale Niccolò da Prato (31 gennaio), con lo
specifico compito di mettere pace in Firenze alle lotte intestine, accresciute
ora dal conflitto sorto tra Corso Donati e Rosso della Tosa. Certo s'era sparsa
la voce che il compito del paciaro non era limitato soltanto a quest'ultimo
compito, ma egli aveva l'incombenza di arrivare ad una pace generale tra i
Guelfi, consentendo ai Bianchi di ritornare in città.
Il 17 marzo 1304 i Consigli
fiorentini concedevano la balìa al cardinale. C'era necessità per
Dante di trovarsi nelle vicinanze del territorio in cui il cardinale operava,
anche perché il suo arbitrato era in difficoltà per l'accordo che era
stato precedentemente steso tra Bianchi e Ghibellini. Dante sente che la sua
presenza è indispensabile per indirizzare bene la politica della Universitas
Alborum, nel cui seno era stato tra i protagonisti e la sua voce doveva
essere ancora molto ascoltata.
Insomma è certo, per me, che
immediatamente Dante si mise in cammino. Quando Niccolò da Prato manda
con lettere un confratello presso il Consiglio bianco, Dante è sul
posto, e stila, direi verso i primi d'aprile, l'epistola già ricordata,
lettera che deve intendersi, come ha ben detto il Mazzoni nel commento a questa
Epist., I, “la notificazione ufficiale della avvenuta delibera formale,
presa da tutti i fuorusciti, nella loro organizzazione e per le loro
rappresentanze, di affidarsi in totum al legato pontificio,
compromettendo in lui ogni trattativa di pace”[67].
Se è possibile che nell'aprile
Dante scrivesse dalla Toscana (l'epistola potrebb'essere stata anche redatta
dalla Romagna), il mese successivo è certamente in Toscana, e a ridosso
del confine dello stato di Firenze, allorché redige (maggio-giugno) una missiva
di cordoglio ad Uberto e a Guido conti di Romena per la morte del loro zio, il
conte Alessandro. Ma in quale località della Toscana? Tutto fa ritenere
che la sede fosse ormai ad Arezzo, giacché quivi il 13 maggio 1304 il
fratellastro Francesco Alighieri, con la garanzia d'un altro fiorentino,
Capontozzo dei Lamberti, prometteva di restituire un prestito di dodici fiorini
d'oro ottenuto dallo speziale Foglione di Giobbo. Francesco teneva dimora e
mercato fiorente in patria, e quindi non aveva alcuna necessità di
contrarre mutui in altro luogo; evidentemente s'era recato apposta ad Arezzo
per aiutare con un modesto finanziamento il suo grande congiunto, il cui nome,
per quanto alto cominciasse a suonare nel campo delle lettere, poco valeva ai
fini commerciali. Del resto il Bruni ci dice che gli esuli bianchi “fermarono
la sedia loro ad Arezzo”, e viene ad implicitamente confermare il soggiorno del
poeta nella città toscana.
Da questo luogo Dante segue con
ansiosa speranza, poi con crescente delusione l'evolversi delle vicende, e qui
avvenne (giova congetturarlo) la sua rottura coi Bianchi, non convinto com'era
della validità della spedizione in Val di Mugnone. I fatti si susseguono
con drammatica rapidità: 18-20 aprile: l'arrivo dei delegati bianchi in
città, con una piccola rappresentanza d'esuli ghibellini; il 26 aprile:
la pace di Santa Maria Novella, effimero tentativo di comporre un contrasto
insanabile; qualche giorno dopo la riconciliazione tra il Comune e le casate
degli Ubertini, dei Griffoni e dei Gherardini di parte Bianca; 9 maggio e sgg.:
viaggio del paciaro a Prato e a Pistoia, e congiura pratese di Corso Donati; 29
maggio: lettera di Benedetto XI ai Fiorentini, osanna popolari ai Bianchi ma
anche ad alcuni vecchi Ghibellini, tra cui Lapo nipote di Farinata; tumulti dei
Neri e resistenza dei Cerchi e dei Cavalcanti; 8 giugno: il paciaro consiglia
Bianchi e Ghibellini ad uscire da Firenze; 10 giugno: i Neri appiccano il fuoco
a varie case della città; stesso 10 giugno: Niccolò da Prato
lascia Firenze; ultima decade di giugno: i Neri consolidano il loro potere in
città impadronendosi di tutte le cariche pubbliche.
In tutto questo periodo Dante, coi
capi della Fraternita bianca, non si mosse da Arezzo: eccellente luogo per
seguire lo svolgimento dei fatti ed eventualmente per intervenire, anzi, come
si spera nella prima fase delle trattative, per rientrare pacificati in patria.
Tra fine giugno e primi di luglio la Universitas Alborum si consulta sul
da farsi, ed è doveroso congetturare che Dante fosse tra i più
attivi consiglieri, anzi riprendesse la pienezza dei suoi poteri e obblighi
consiliari. Ma la situazione era profondamente mutata da quella di cui Dante
era stato protagonista nel biennio 1300-1301; il poeta, forte dell'esperienza
politica che ha contratto in tutto questo periodo è maturato durante il
pacato momento del soggiorno veronese, non è più nel rango di
imperterrito oltranzista della lotta senza quartiere. Ha conosciuto molto bene,
ormai, anche l'ambiente dei Ghibellini “usciti”, e sa che con i colpi di mano
non si può far molto; che c'è bisogno d'una situazione
politico-diplomatica del tutto solida e ampia per poter sperare di rovesciare
la Signoria nera.
I Bianchi discutono accanitamente sul
da farsi, e Dante si trova solo, o quasi solo, a combattere gli ingenui e
pericolosi ottimismi dei suoi colleghi di Parte. Viene messo in minoranza, e l'Universitas
decide di riprendere l'ostilità scendendo in campo contro i Fiorentini
“intrinseci”. È questo il momento in cui Dante si distacca dalla compagnia
malvagia e scempia, e arroga a sé il vanto, d'ora in poi, di far parte
per se stesso. Forse, nella foga della discussione, qualche Bianco
avrà accusato Dante di tradimento o di debolezza: che tutta ingrata
[la compagnia], tutta matta ed empia / si farà contr'a te. La
morte di Benedetto XI, il 7 luglio, rende ancor più precaria e
pericolosa l'iniziativa dei Bianchi. Si leva il campo. Il 19 luglio i Bianchi e
i Ghibellini “apparvero sulle alture a nord della città”. Il 20 luglio
ha luogo la disfatta della Lastra in Val di Mugnone (che in realtà fu
battaglia particolarmente combattuta entro le mura di Firenze, persino davanti
a San Giovanni): ma, poco appresso, ella, non tu, n'avrà rossa la
tempia. Quattrocento tra Bianchi, Ghibellini e confederati di Bologna,
Arezzo e Pisa cadevano sul campo di battaglia: Di sua bestialitate il suo
processo / farà la prova (abbiamo voluto chiosare quei terribili
eventi con l'unica voce che ci preme far ascoltare: quella del poeta).
Il duro, certo sofferto ma fors'anche
troppo reciso distacco di Dante dalla compagnia data qualche settimana
avanti la disfatta della Lastra[68].
Propenderei a credere che Dante non provvedesse a lasciar subito Arezzo, ma di
qui seguisse lo svolgimento dell'impresa che aveva previsto fallimentare: da
Arezzo, dove la numerosa colonia di esuli fiorentini gli dava ancora la
parvenza di poter fare qualcosa di diverso e di costruttivo sul piano politico,
e in effetti di poter sventare sino all'ultimo la partenza delle truppe per il
confine dello stato di Firenze, per tentare operazioni diplomatiche in
direzione diversa, per poter continuare a mantenere rapporti con la famiglia
per il tramite del fratellastro. Se tutto ciò può esser ritenuto
verosimile, se dunque la partenza da Arezzo è successiva all'annuncio
infausto della sconfitta del 20 luglio, se ne potrà trarre la
conseguenza che il poeta della Commedia era in Arezzo in quello stesso
20 luglio in cui nasceva il poeta dei Rerum vulgarium fragmenta. Il
Petrarca ricordava bene, scrivendone al Boccaccio nel 1366, la singolare
coincidenza della sua nascita nel giorno in cui i concittadini del padre
avevano tentato di vendicare con le armi l'onta dell'immeritato esilio.
Sentita la nuova della terribile
disfatta, ormai vanificate le speranze di rientrare in patria, Dante sente
l'inutilità della sua presenza in Toscana; decide, come sembra certo,
d'esulare in Italia Settentrionale. Non può tornare a Verona, dove
signoreggia l'avverso Alboino, ma può sembrargli confacente la dimora in
qualche corte che, per affinità di ideali e di munificenza verso i dotti
poeti, possa apparire consimile a quella ch'era stata la Verona del tempo del Gran
Lombardo. S'aprono anni nei quali è difficilissimo seguire le
vicende di Dante, sovente impossibile.
Un soggiorno prolungato a Treviso alla
corte di Gherardo da Camino, tra l'estate 1304 e la metà del 1306, non
è impossibile, sempreché non si voglia considerare che quei due anni
siano trascorsi esclusivamente nella città della Marchia Trivisina,
ma comprendano una serie di spostamenti, più o meno prolungati nel
tempo, tra Padova e Venezia e altre città non lontane. Ognun sa quanto
le prime due cantiche della Commedia, e in particolare l'Inferno,
siano colme di reminiscenze e allusioni alla zona del Veneto. La tradizione
insiste molto su questi ricordi, dalla ruina dell'Adige all'arzanà
dei Veneziani e al castello di Tiralli, dalle dighe dei Padovani lungo la
Brenta al Bacchiglione, al Piave, al drappo verde di Verona, al padoano
nel gruppo degli usurai (Reginaldo degli Scrovegni, accanto ad un futuro
dannato padovano, Vitaliano del Dente), ecc. Il lettore del De vulgari
eloquentia valuta la notevole esperienza che Dante possiede dei dialetti
veneti: le sincopi deformanti dei participi dei Padovani, la citazione
onorifica di Aldobrandino de' Mezzabati, il ricordo d'un canto veneziano, “Per
le plaghe de Dio tu no verras”, i crudi accenti degli abitanti di Aquileia e
dell'Istria; al limite delle cose non “viste” ma sentite dire: i sepolcri di
Pola, il Carnaro, ecc. Un commentatore rigoroso qual fu Benvenuto da Imola
segnala la circostanza dell'incontro con Giotto a Padova, dove si vuol che il
poeta ammirasse la cappella degli Scrovegni (dunque tra il 1304-1305)[69].
Se si guardi ad uno solo di questi
elementi, poco esso potrebbe provare, ma l'intera messe di suggestivi ricordi
ha in complesso un peso determinante per ritenere possibile la presenza di
Dante nel Veneto, né si potrebbe affermare qualche altro periodo avanti la
composizione e la divulgazione dell'Inferno possa essere ipotizzato
fuori del biennio 1304-1306, prima di ritrovare con certezza il poeta mentre
sale l'erta (6 ottobre 1306) che da Sarzana porta a Castelnuovo, come
procuratore di pace presso il vescovo di Luni, da parte dei nuovi suoi ospiti
Franceschino, Corradino e Moroello Malaspina. È pur vero che vi
sarà un'altra zona buia nella vita di Dante avanti la divulgazione dell'Inferno
(da porsi sul finire del 1314), ma è difficilmente pensabile che nel
periodo 1309-1310 (impossibile poi più tardi) il testo dell'Inferno
restasse aperto ad inserti così cospicui. Tuttavia, se si deve lasciare
aperto il discorso sul soggiorno veneto del '4-'6, occorre con fermezza
respingere (come del resto ha fatto la critica dantesca più autorevole)
qualunque ulteriore tentativo di identificare il poeta col “Dantino quodam
Alligerii de Florentia et nunc stat Paduae” dal documento già ricordato
del 27 agosto 1306, ovvero col “Dante toscano” ricordato in un documento di
Parenzo del 4 ottobre 1308, come di recente s'è tornato a riproporre;
non meno labili sono le costruzioni che si son fatte, d'un soggiorno a Treviso
tra la morte di Gherardo e quella di Rizzardo, giacché soltanto con questa
cronologia si comprendono le ragioni dell'elogio del primo e del biasimo del
secondo.
La lunga disputa tra i Malaspina e i
vescovi-conti di Luni nasceva dalle continue pressioni che la consorteria
magnatizia effettuava sulle terre sotto il diretto dominio vescovile. Se Dante
accetta la nomina a procuratore, vuol dire che egli è sul posto da
qualche tempo per poter fruire della fiducia di tutti e tre i rami dei
Malaspina, e già doveva aver svolto altre meno importanti incombenze
consiliari. E deve aver accettato di buon grado, poiché la pace con il vescovo
Antonio consentiva non soltanto di por fine allo stato d'ostilità tra i
due poteri, ma di rafforzare la posizione dei Malaspina nei riguardi del
guelfismo toscano, non precludendo loro la possibilità d'un benevolo
aiuto da parte delle autorità ecclesiastiche della Toscana, costituendo
infine un precedente per quel che sarà ancora per vari anni l'assillo
del procuratore: il ritorno a Firenze. I Malaspina assumevano così un
prestigio notevole, e, quel che è meglio, non contro le mire della
Curia, in un momento in cui il nuovo papa, Clemente V (eletto il 5 giugno del
1305), potrebbe ancora presentarsi in Italia, il che invece non farà né
in questi momenti, né poi, con ulteriore cruccio di Dante.
Lo scambio di sonetti tra Cino (Cercando
di trovar minera in oro) e Dante in nome del marchese Moroello (Degno fa
voi trovare ogni tesoro), e di quelli diretti tra i due poeti (Dante,
quando per caso s'abbandona e Io sono stato con Amore insieme, che
è accompagnato da Epist., III, per il Mazzoni del 1306) non
è necessariamente riconducibile a questo periodo, ché vige anche
l'ipotesi d'una successiva permanenza di tutti e tre i corrispondenti alla
corte di Enrico VII, al momento della presenza di Moroello durante la
pacificazione di Vercelli (ottobre 1310). Per quanto si debba ricordare con
somma cautela l'episodio narrato dal Boccaccio (ritrovamento in Firenze dei
primi 7 canti dell'Inferno e inoltre delle carte affidate da Gemma a
Dino Frescobaldi, il quale le recapita a Moroello affinché questi persuada
l'autore a riprendere il lavoro interrotto con l'esilio), il caso opinato
può riguardare tanto l'autunno del 1306 quanto un'età
immediatamente precedente, mai un periodo così tardo come quello
dell'incontro di Vercelli[70].
Dante non soggiornò poco tempo
in Lunigiana; poco dopo la partenza, dunque nel 1307, offertosi il Casentino
come terra di breve sosta al peregrinare del poeta (forse ospite del conte
Guido di Batifolle), egli a limine suspirate postea curie separato posa
i piedi iuxta Sarni fluenta, e gli appare una donna meis auspitiis
undique moribus et forma conformis (Epist., IV, 2), come legge la
missiva nuncupatoria della canzone Amor, da che convien pur ch'io mi doglia[71].
Si potrebbe in extremis postergare la quarta epistola ad un momento
successivo al soggiorno lucchese, quindi subito dopo il 1308; ma non se ne vede
proprio la necessità, ché il tono encomiastico della lettera tradisce il
ringraziamento per un'ospitalità recente e ancora abbisognosa d'elogi.
Lucca, invece, può star bene dopo l'episodio casentinese, perché ne
riceve luce, in fondo, anche il documento della presenza del figlio “ipotetico”
Giovanni, non solo ma con gran parte della famiglia; lo stesso Barbi, oltre
ammettere temporanee soste a Lucca anche prima del periodo che stiamo trattando[72],
non è lontano dal ritenere che Lucca possa essere stata la sede stabile
di Gemma Donati e dei figliuoli, appena il più giovane dei maschi,
Iacopo, ebbe raggiunto i quattordici anni. Il massimo del soggiorno lucchese,
raddolcito dall'ospitalità della donna Gentucca, si muove dalla fine del
1307 o dai primi dell'8 (l'atto mercantile che riguarda Giovanni è del
21 ottobre 1308) ai primi del '9, giacché con editto del 31 marzo 1309 il
Comune di Lucca faceva divieto agli sbanditi e ai condannati fiorentini di
permanere in città e nei territori limitrofi.
Si ricollegano al periodo lucchese,
ma non necessariamente determinati da esso anziché da precedenti soste, i folti
ricordi che nell'Inferno e nel Purgatorio permangono della
città, non importa se tal volta mossi da risentimento polemico, di quella
terra [in cui] ogn'uom v'è barattier, fuor che Bonturo; / del no,
per li denar, vi si fa ita, Inf., XXI, 40-42, perché non c'è
reminiscenza di terra e di popoli che non sia anche comprensiva di rammarichi,
rimbrotti, polemiche sovente anche astiose.
Nel famoso luogo di Conv., I, iii, 4, Dante parla della sua pena…
d'essilio e di povertate, fa cenno a sue molte peregrinazioni, tutte in
terra italiana: per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende,
peregrino, quasi mendicando, sono andato, senza far riferimento a viaggi
oltremontani, ché se essi vi fossero stati, avrebbero pur aggiunto gravezza
maggiore alle sofferenze dell'esule, non lontano soltanto dalla sua
città, ma dalla stessa nazione. La “leggenda” del viaggio a Parigi[73]
non potrà essere situata, or dunque, che successivamente
all'interruzione del trattato filosofico ovvero, in tempo più stretto,
alla scrittura del primo libro, e precedentemente alla spedizione italiana di
Enrico VII. Le continue peregrinazioni del legno sanza vela e sanza governo
non rallentano mai l'attività letteraria di Dante, cui possono essere
assegnati in questo primo settennio d'esilio opere come il De vulgari
eloquentia, il Convivio, rime varie e tutto o quasi l'Inferno.
Se osserviamo con attenzione i due momenti meno turbati e più propizi al
lavoro, l'anno scaligero 1303-1304 e il triennio lunigiano-toscano 1306-1308
(con particolare riguardo per il soggiorno presso Moroello e a Lucca rispetto
alla breve avventura casentinese), si sarebbe tentati di suddividere le tre
parti fondamentali di questa produzione in un modo all'incirca come il
seguente: a Verona il De vulgari eloquentia la cui datazione canonica,
per motivi interni al testo, è del 1303-1304; in Lunigiana il Convivio
(1304-1307); a Lucca l'Inferno nella sua completezza esecutiva, non nel
disegno e nella verseggiatura (dunque sia 1304-1308 che 1306-1309:
verseggiatura che è anche dell'età della Marca Trivigiana).
Ovviamente è questo un
discorso meramente schematico, giacché per vario tempo la composizione del
trattato linguistico e quella dell'enciclopedia filosofica s'intrecciano e si
completano a vicenda, e non si può far iniziare sic et simpliciter
la composizione dell'Inferno al momento della “crisi” che cade al termine
dell'assai complesso commento alla canzone della nobiltà. A parziale
prova di quanto s'è detto, è conveniente osservare che la stesura
del De vulgari eloquentia non suppone un lavorio concettuale e culturale
dello stesso genere di quello del Convivio, e quindi può essere
stata opera sollecita e di getto, altrettanto rapidamente e bruscamente
interrotta come principiata, mentre la chiusura del IV libro del Convivio
avviene, si direbbe, col punto fermo.
I primi testimoni del viaggio di
Dante a Parigi sono anche i più importanti, e difficilmente confutabili.
Il Villani scrive: “e poi a Parigi, e in più parti del mondo”, mentre il
Boccaccio chiosa: “e già vicino alla sua vecchiezza, non gli parve grave
l'andarne a Parigi, dove non dopo molta dimora con tanta gloria di sé
disputando più volte mostrò l'altezza del suo ingegno, che ancora
narrandosi se ne maravigliano gli uditori”. Parlano di questo viaggio, poi, il
Pucci, il Buti, Benvenuto, il Serravalle, ma ne tace Pietro di Dante, ne tace
Leonardo Bruni[74].
È probabile che il soggiorno parigino venisse interrotto dalla notizia
dell'imminente discesa di Enrico VII, ma di questo vedremo più tardi
(cfr. Cap. xiii).
Si potrebbe qui aprire un altrettanto
lungo discorso attorno alla espressione del Villani: “e in più parti del
mondo”. Qui la dantologia di cinquanta, sessant'anni fa s'è proprio
sbizzarrita, e non vogliamo qui riferirne nemmeno gli estremi, e per quel che
riguarda le contrade più insolite d'Italia, e per varie città
fuori d'Italia: Oxford, Colonia, ecc.[75].
TEORESI DELLA
LINGUA
Il Convivio e il De vulgari
eloquentia, il trattato filosofico e quello sul volgare, sono rimasti
interrotti, com'è noto, rispettivamente il primo al quarto libro
concluso, il secondo al quattordicesimo capitolo del secondo libro. Il Convivio
doveva essere composto di quattordici trattati, preceduti da un altro ancora che
servisse da proemio, ciascun trattato preceduto e chiosante una canzone (le tre
canzoni del Convivio sono Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete,
Amor che ne la mente mi ragiona, Le dolci rime d'amor ch'i' solia).
Invece il De vulgari eloquentia sarebbe stato compreso in quattro libri.
Dunque i due trattati sono stati interrotti l'uno quasi ad un quarto della
fatica, l'altro quasi a metà. Ciò vuol dir poco, in una
statistica ad essi relativa, ma è sintomatico il fatto che il Convivio
si spezza ad un luogo molto lontano dalla conclusione, e quindi la sostanza
d'esso, un'enciclopedia del sapere, un “banchetto” culturale tra uomini dotti
viene a mancare perché il disegno della Commedia assorbe questa stessa
tensione culturale ma trasferisce in una struttura più aperta ad un
grande pubblico e riferita fuori degli schemi trattatistici; mentre il trattato
linguistico si spezza quando il poeta ha finito d'esaminare le qualità
dello stile tragico, e deve analizzare il secondo stile, quello mezzano, il
comico, e il terzo stile, quello basso, l'elegiaco: impresa che gli si veniva a
vanificare nel momento in cui scava e trova in sé la possibilità
d'esprimersi in uno stile “trifase”, che ha dell'uno e dell'altro, e ora poggia
sul tragico, ora procede lungo i binari del comico (donde una ragione del
titolo: Comedìa rispetto alla tragedìa per
eccellenza, l'Eneide di Virgilio), ora sussume vocaboli bassi, elegiaci.
La filosofia deve trovare spazio adeguato perché entri la teologia, e questa
avrebbe dovuto richiedere da sé sola un altro “convito”; e sarà bene che
entrambe le scienze, quella umana e razionale, quella divina e mistica, si
rivelino al lettore sotto le specie di figure umane, Virgilio e Beatrice,
Stazio e san Bernardo, Brunetto Latini e i tre apostoli Pietro, Giacomo e
Giovanni, tutte storiche. Anche Beatrice è in questo particolare senso
una figura “storica”, un'immagine stabile e precisa nella “storia” personale
del poeta, poco importa se fosse soltanto un senhal medievale o Bice di
Folco Portinari, “nata de domo quorundam civium florentinorum qui dicuntur
Portinarii”, come scriverà Pietro Alighieri, moglie “di un cavaliere de'
Bardi, chiamato messer Simone”, e che “nel ventiquattresimo anno di sua
età passò di questa vita, negli anni di Cristo
I due trattati, o ciò che
resta d'essi, possono essere stati scritti l'uno dopo l'altro, ma la
circostanza che entrambi restino interrotti (e la causa di questa interruzione
non può che essere il maggior pondo del poema sacro, anche se possono
esistere concause: più per il De vulgari eloquentia, meno per il Convivio,
l'arduo impegno che essi comportavano in sede strettamente teorica) fa ritenere
probante l'ipotesi che il poeta attendesse ad essi quasi contemporaneamente.
Certamente sono primissime opere
dell'esilio, di quell'esilio che l'ha già fatto fremere nella canzone Tre
donne intorno al cor mi son venute, là dove esprime lo strazio di
persona “discacciata e stanca”, colpita dalle rovinose condizioni dello jus
divinum et naturale impersonato nella prima delle tre figure della canzone;
di quell'esilio che gli fa gridare
E io, che ascolto nel parlar divino
consolarsi e dolersi
così alti dispersi,
l'essilio che m'è dato, onor mi
tegno[76]
L'ipotesi d'una quasi
contemporaneità d'azione letteraria è, ripeto, molto
affascinante, e tiene conto, nei limiti del possibile, delle necessità
d'appoggio e di sosta del lavoro secondo le possibilità offerte dal
luogo del soggiorno, insomma un minimo (non si dice di più), un minimo
di sostegno presso un centro di cultura qualificato, il che per un lavoratore
“solitario” come Dante non significa mai apertura totale verso un preciso milieu
letterario e filosofico, che so?, uno Studio o una grande corte onusta d'uomini
di cultura, ma pur sempre la possibilità di consultare qualche opera di
classico pagano o di scrittore cristiano.
La biblioteca dell'Alighieri non fu
certo molto ricca. La povertà del soggetto non lo consentiva, e
così i continui traslochi da un luogo all'altro. Tuttavia si può
opinare che possedesse una dozzina di auctores, tra classici e
cristiani, un'epitome (magari una sola) storica e una geografica, o
storico-geografica assieme, una piccolissima raccolta di poeti provenzali,
francesi e italiani, forse le Razos de trobar di R. Vidal e la Summa di
Guido Faba. Avrà consultato qualche biblioteca? Sarà andato, a
Verona, nella Capitolare? Se lo avrà fatto, non avvenne certamente per
scoprire classici sepolti nella polvere, per frugare nelle carte di codici
dimenticati, ma per verificare luoghi ed espressioni di auctores che
già conosceva.
Non sembra dunque recare offesa ad un
certo ordine logico della mente di Dante, assegnare a momenti e città
differenti il nucleo sostanziale della produzione letteraria. E si può
dar subito spazio al problema della composizione del De vulgari eloquentia
da assegnare al primo rifugio veronese, e che pur nell'affinità
gemellare col Convivio quanto all'esposizione di concetti celebrativi
della dignità del volgare italiano, sembra che abbia una certa
precedenza. In tal senso il rapporto tra Dante e il suo tempo è
più comprensibile come indice del grandioso influsso ch'egli
esercitò sulla cultura linguistica del suo tempo, anziché come studio
dell'influenza che l'età produsse sopra di lui; considerando queste
fondamentali prospettive, poco importa soggiungere come l'altissimo concetto
ch'egli aveva dell'arte e della cultura si traducesse, infine, in una visione
troppo letteraria della nuova lingua, ché nella Commedia provvederà,
con l'intuito fulmineo e la forza ineguagliabile del suo genio espressivo, a
temperare la sua stessa concezione teorica, immettendo nel vivo dello stile i
fecondi e vivi apporti della parlata comune e dei dialetti, soprattutto del
dialetto fiorentino nel quale, sostanzialmente, venne scritto il suo capolavoro
ma è anche redatta la prosa del Convivio (si sarebbe tentati di
dire che anche il trattato linguistico, se fosse stato elaborato in volgare,
presenterebbe una peculiare veste fiorentina! e non c'è necessità
di soffermarsi sul tessuto fiorentino del suo “tragico” e “aulico” linguaggio
nelle canzoni dottrinali). Infatti nel passo di Conv., I, v, 9 se coloro che partiron d'esta
vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi crederebbero la loro
cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante. Di
questo si parlerà altrove più compiutamente in uno libello ch'io
intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza, è evidente
che la materia del De vulgari eloquentia, per quanto già iniziata
fosse la stesura, gli appare meno rilevante o, comunque, meno urgente.
I limiti lunghi tra il terminus a
quo e quello ad quem (dopo il 29 agosto 1302 - prima del febbraio
1305) possono essere ristretti alla zona esattamente centrale: autunno
1303-fine inverno 1304. Vero è che il ricordo come ancora vivente di
Giovanni I di Monferrato nel De vulgari eloquentia (il marchese
morì nel gennaio 1305) è da valorizzare soltanto per la sezione
iniziale, I, i-xv, e quindi la stesura del secondo
libro può anch'essere successiva; ma la brevità del testo
rispetto all'ampiezza del disegno iniziale del Convivio non pretende uno
spazio di tempo della misura di circa tre anni, anche gran parte della
documentazione sui dialetti e sulla struttura della canzone poteva essere
assicurata da precedenti ricerche o esperienze (i “materiali” di stile di cui
dispone ogni scrittore!), compiute sul vivo dell'elaborazione personale della
propria lingua e metrica, usufruendo inoltre d'elementi quasi tutti mnemonici e
pochissimo di consultazione diretta (versi altrui, battute dialettali,
osservazioni colte al volo, trasferimento e dato teorico di scelte operate in
pratica da un decennio). Direi anzi che la sommarietà delle nozioni che
il poeta possiede di alcune zone linguistiche d'Italia (diciamo di quelle che
poi furono la sede delle sue peregrinazioni, non d'un'Apulia o Sicilia o
simili), sta a mostrare che il De vulgari eloquentia si colloca prima e
non dopo le peregrinazioni nella Marca Trivigiana e nell'Italia centrale:
quelle che gli faranno affermare invece nel Convivio (I, iii, 4) per le parti quasi tutte a
le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato,
mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al
piagato molte volte essere imputata, che non ha rispondenza in analoga
dichiarazione nel De vulgari eloquentia, dove è registrato
soltanto il proprio stato d'esule: Nos autem, cui mundus est patria velut
piscibus equor, quanquam Sarnum biberimus ante dentes et Florentiam adeo
diligamus ut, quia dileximus, exilium patiamur iniuste, rationi magis quam
sensui spatulas nostri iudicii podiamus, I, vi, 3 (cfr. anche I, xvii,
6, Quantum vero suos familiares [i poeti volgari] gloriosos efficiat,
nos ipsi novimus, qui huius dulcedine glorie nostrum exilium postergamus).
Tale registrazione risulterà generica formalmente per la diversa
impostazione trattatistica del De vulgari eloquentia rispetto al Convivio,
in sostanza anche perché l'esperienza geografico-culturale dell'esule è
ancora limitata, e la difesa delle posizioni di scuola sue e dei suoi amici del
Dolce Stile non lascia all'inizio esplicito spazio a convinzioni politiche
precise o a confessioni personali, che pure hanno modo d'espandersi in forma
oscura anche nei primi paragrafi (ad es. il ricordo di Pietramala, passaggio
obbligato durante i preparativi della guerra mugellana e i viaggi tra la
Toscana e Bologna).
L'esordio del De vulgari
eloquentia è opera d'un uomo che tende celeriter a
valorizzare l'originalità della propria impostazione di studio e il
frutto dell'aqua nostri ingenii, quasi sollecitato da esteriori motivi
che l'inducano a stendere un trattato che possa procacciargli udienza presso le
corti o meglio in una città illustrata dallo Studio (donde le gentili
espressioni indirizzate a Bologna, proprietaria del miglior volgare municipale,
I, xv, 6, e d'un dialetto
armoniosamente equilibrante la mollezza dei Romagnoli con la gutturalità
dei Lombardi, I, xv, 3;
città che è stata sede di illustri maestri dell'arte del dire, I,
xv, 6). Tuttavia dall'iniziale
proposito accademico è subitaneo il passaggio all'occasione politica,
che erompe irresistibilmente allorché al cenno sulla condizione di chi patisce exilium
iniuste pur amando la gloria, si mescola con obbiettività di
trattatista la convinzione di quanto sia errato ritenere che in Italia non vi siano
regioni e città magis nobiles et magis delitiosas della Toscana e
di Firenze: dove è opportuno cogliere il dato iniziale dell'autore come
non scevro ma nemmeno ancor corrucciato da risentimenti politici verso la
città natale, e richiamato all'aspirazione d'una patria linguistica
più vasta perché retaggio dell'intera nazione e perché apportatrice di
ideali ed esigenze culturali non ristretti ai sentimenti, ai programmi d'una
sola città, quanto invece proiettato nell'amplissimo orizzonte del mondo
politico italiano. È pur vero che la lingua delle grandi canzoni
dottrinali non s'intende senza l'elaborazione teorica del De vulgari
eloquentia nel II libro, ma è anche questa a risultare condizionata
e sorretta dal lavoro ormai decennale attorno allo stile e alla metrica della
canzone, cosicché ben si potrà intendere la preoccupazione d'una teoresi
linguistica nella zona anche cronologicamente intermedia tra il testo della
singola canzone e la lezione concettuale dei previsti quattordici commenti:
teoresi che vede non soltanto l'esaltazione della propria opera di
filosofo-poeta, maestro di componimenti morali (Doglia mi reca
dell'amico di Cino), quanto in modo meno flagrante la rispondenza dei requisiti
di “illustre” (illustrante e illustrato), di aulico e di curiale ad ogni
elemento espressivo di questa e delle altre canzoni, esempio vivente di stile
tragico, con gravitas sententie, con superbia carminum, con excellentia
vocabulorum, modello palese di elevata utilizzazione dei più nobili
risultati linguistici, metrici e retorici dei Siciliani, dei toscani di scuola
guittoniana e degli Stilnovisti, come pure d'abile utilizzazione dei
Provenzali.
Non è meno importante un
ulteriore nesso tra i due trattati: giustificare il concetto d'un volgare
anti-municipale e affatto aulico e curiale come preparazione d'un disegno
enciclopedico di totale fruizione nazionale, il Convivio, a tutti i
livelli e aree linguistiche. Quando si trasporta tutto questo intenso lavorio
speculativo e applicativo (il De vulgari eloquentia, il Convivio,
e per qualche illustre dantista anche la Monarchia) sul piano delle
rispondenze biografiche, ci si stupisce ancora una volta della possanza
intellettiva d'un uomo che, in anni di così turbinosi accadimenti
interiori e repentini spostamenti di contrada in contrada d'Italia, sia
riuscito a conservare una così grande capacità di concentrazione
mentale: davvero un poeta è Dante dall'intelletto imperturbabilmente (o
quasi) in continua condizione di lavoro; si oserebbe dire di lui che mai s'era
veduto e si vedrà un animus tanto agitato in una mente
così serenatrice e ordinata. Ed è questo, anche, il segreto d'una
“memoria” invincibile e inestinguibile di cose lette e di cose sentite, tutte
in un assieme di circostanze traumatiche com'è per l'Alighieri il semplice
vivere in un'età di grandiosi sconvolgimenti politici, tutti i poli
opposti (tra Medioevo e Umanesimo, tra autunno del feudalesimo e trionfo delle
libertà comunali) i quali enuclea la visione storica di quel periodo
nella vastità dei temi della Commedia. In tale prospettiva
prendono luce le anticipazioni del mondo della Commedia riscontrabili
dapprima nel De vulgari eloquentia, poi nel Convivio: l'amara
riflessione sulle colpe dell'umana natura nella prima cantica: Dispudet,
heu, nunc humani generis ignominiam renovare! Sed quia preterire non possumus
quia transeamus per illam, quanquam rubor in ora consurgat animusque refugiat,
percurremus. O semper nostra natura prona peccatis, o ab initio et nunquam
desinens nequitatrix! Num fuerat satis ad tui correptionem, quod per primam
prevaricationem eluminata, delitiarum exulabas a patria?, I, vii, 1; il calco biblico delle
invettive del Paradiso: O sine mensura clementia celestis imperii!
Quis patrum tot sustineret insultus a filio? Sed exurgens non hostili scutica,
sed paterna et alias verberibus assueta, rebellantem filium pia correctione
necnon memorabili castigavit, I, vii,
5; il dispregio per la vana superbia dei principi degeneri nell'Antipurgatono: in
obprobrium ytalorum principum […], qui non heroico more, sed plebeio secuntur
superbiam, I, xii, 3;
l'esaltazione delle virtù dell'Impero onninamente sparsa nel poema,
massimamente nel canto VI della terza cantica: Siquidem illustres heroes,
Fredericus cesar et bene genitus eius Manfredus, nobilitatem ac rectitudinem
sue forme pandentes, donec fortuna permisit, humana secuti sunt, brutalia
dedignates, I, xii, 4; la
presunzione dei cittadini di Firenze, I, xiii,
1; l'ottusa insensibilità dei Toscani, qui alle eleganze del dire, I, xiii, 3, nel Purgatorio ai
sentimenti di pace e di giustizia, XIV, 28-66, nelle parole di Guido del Duca:
sono due spie dell'analogo assillo per la degenerazione dei costumi; infine la
nostalgia della patria lontana nell'esordio di Purg., VIII e dapprima
nell'exemplum di stile severo in De vulgari eloquentia II, vi, 5, Piget me cunctis pietate
maiorem, quicumque in exilio tabescentes patriam tantum sompniando revisunt.
Il filosofo che parla delle superiori
finalità dell'anima umana nel De vulgari eloquentia, e teorizza
sul concetto di dignità e sul triplex iter delle istanze
dell'uomo, fonda nozioni che saranno più centrali nel Convivio. A
chi legga con attenzione il noto passo del trattato linguistico (II, ii, 6-8), non potranno sfuggire
intonazioni ragionative e predisposizioni di materiale filosofico che appaiono
formulate in modo preliminare rispetto al Convivio; entrambi sono
trattati, ma quello linguistico esige e tempi e spazi minori, mentre
l'enciclopedia filosofica poteva comportare il lavoro d'un decennio e in essa
Dante riponeva speranze di plausi e d'ufficiali riconoscimenti ben maggiori,
coinvolgendo una somma d'implicazioni letterarie tutte o quasi di diretta
responsabilità dell'autore, ben poco essendo affidato (rispetto almeno
alle trattazioni volgari del Duecento) alla scolastica ripetizione di concetti
e nozioni scientifiche, morali, retoriche d'uso comune e di stanca glossatura
negli Studi. Un alto proposito insegnativo aveva presieduto alla duplice fatica
di Brunetto Latini e a molte somme e tesori precedenti, con lo scopo d'istruire
i lettori attraverso un'esposizione il più possibile completa dello
scibile umano; Dante non segue questa strada, blocca sin dall'inizio la materia
ai campi più varii ma pur sempre concentrati della filosofia morale,
astrae centralmente dalla metafisica e dalla fisica, dalle scienze matematiche
e dalla geografia astronomica, e soltanto ne utilizza gli elementi e la
fenomenologia là dove questi siano deputati a risolvere il singolo caso
etico, il quale è visto sempre in connessione col preciso dettato dei
versi delle canzoni, di modo che il risultato sia al tempo medesimo letterario
e filosofico, e sfugga ad un limitato fine d'esclusiva proiezione
dell'enciclopedismo del Duecento. Inoltre il proposito trattatistico cede
più volte alla veemente carica d'idealità morali e politiche
delle quali era nutrito l'animo dantesco, e anzi se ne andava sempre più
nutrendo verso la direzione che sarà indicata nella Monarchia ma
è già intuibile nei concetti di perennità dell'Impero
romano, di vitale difesa dei diritti del volgare, e nel vigoroso entusiasmo per
tutto ciò che è nobile e dotto; la moderna concezione della
nobiltà dello spirito.
La suddivisione della materia nei
quattro libri è presto detta; ma non è tale da farci comprendere
con esattezza quale sarebbe stata la struttura generale dell'opera ove recata a
compimento, né da renderci edotti del timbro filosofico-letterario dei libri
successivi, così come delle ragioni poetiche che avrebbero presieduto.
Nel proemio l'autore proclama il suo ripudio del linguaggio delle scuole e il
desiderio, anzi la necessità di adottare il “prezioso” volgare,
intendendo fermamente difenderlo dai “cattivi d'Italia”, i quali “commendano lo
volgare altrui e lo loro proprio dispregiano”. Nel secondo trattato il poeta celebra
il profondo contrasto tra il ricordo struggente dell'amore per Beatrice e il
nuovo innamoramento per la Donna Gentile, che è figura solo in parte
rispondente alla donna pietosa della Vita Nuova in quanto simbolo della
Filosofia. Nel terzo trattato si esaltano le somme virtù della Donna
Gentile e si celebrano gli intensi piaceri che nascono dall'innamoramento per
essa. Infine nel quarto trattato si enuncia il concetto del privilegio della
nobiltà.
Le tre canzoni, a commento del II,
III e IV libro, chiariscono da per sé sole la pregnanza dottrinaria del
trattato. Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete consente di scorgere
un Dante attento a valutare il rilievo poetico dell'amore, inteso quale moto
spiritale che si agita entro i fatti contingenti e li supera, sublimandoli
emotivamente e discernendoli concettualmente come accoglimento di universali
valenze dottrinarie. Amor che ne la mente mi ragiona rivela i limiti che
il dittatore è consapevole di avere in se stesso per l'alta barriera per
cui la limitatezza dell'intelletto constata di soffrire oggetti incomprensibili
o solo parzialmente afferrabili per via dei sensi, in virtù del
sentimento d'amore insito nel miracolo della presenza di Beatrice e del
rispetto sommo per l'elevatezza della Donna Gentile. Le dolci rime d'amor
ch'ì' solia è canzone di pura ed elata consapevolezza della
difficile arte del rimare e della necessaria coerenza tra di essa e le esigenze
del mutamento del percorso intellettivo; per offrire la completa dimostrazione
che la nobiltà non è quella del sangue, bensì
dell'intelletto e poiché “l'esercizio di ogni virtù presuppone la
perfezione del soggetto operante, che è appunto la nobiltà,
mentre questa può essere nell'uomo senza che ci sia operazione di
virtù”[77],
è inderogabile l'abbandono del soave stile che aveva messo in
atto nel trattar d'amore, e s'impone ormai l'uso di una rima aspr'e
sottile proiezione storicamente solida che il nuovo stile sarà sottile,
e cioè acuto, ingegnoso, aspro e cioè austero, nobilmente
improntato: e sarà dunque lo stile plurigenetico ma omogeneo che nella Commedia
verrà messo in atto ogniqualvolta dovrà essere trattata una
materia d'alto sentire.
Il riflesso dell'esperienza personale
è necessario all'inizio, quasi a stabilire una preliminare connessione
tra il tempo storico delle canzoni (in un momento, goduto in patria, di libera
applicazione di pensiero, nel transito elaborativo e sempre più
teologizzante da Beatrice alla Donna Pietosa, dalla Donna Gentile di nuovo e
definitivamente a Beatrice) e il tempo della prosa, di forte grumo concettuale
perché sono anzi vissuti da un uomo che non siede a la beata mensa, non
si qualifica scienziato sic et simpliciter, ma fruitore di scienza, e
non ha alcuna possibilità d'attendere a studi specifici poiché è
portato a diversi porti e foci e lidi dal vento secco che vapora la dolorosa
povertade, è costretto a raccogliere le briciole del convito dei
dotti dato che altro le circostanze non possono consentirgli che chiosare le quattordici
canzoni sì d'amor come di vertù materiate (Conv., I, i, 14).
Se dunque avanza un'eccezione alla
norma per cui parlare alcuno di se medesimo pare non licito (Conv.,
I, ii, 2), è per
giustificare due motivi personali che ha dovuto addurre, ed entrambi evinti da
quelle cagioni di fuori da l'uomo, estranee alla volontà del
filosofo-poeta che pur vorrebbe aver possibilità di “tempo libero” e di
libertà di movimenti, indispensabili all'uomo di scienza, mentre egli,
Dante Alighieri, esule fiorentino, è insidiato dalle preminenti esigenze
del vivere sociale, la cura familiare e civile di cui in Conv.,
I, i, 4 (in concreto gli obblighi
cancellereschi e secretariali ora presso un signore, ora presso un altro; non
già il ricordo, sempre più lontanante, dei doveri politici in
Firenze), ed è inoltre impedito nel libero esercizio degli studi dai
luoghi in cui è costretto a vivere (dove la persona è nata e
al caso ora è nutrita), da Verona alla Lunigiana, capitali
politiche ma non centri di studio, città remote dalle Università,
da ogni Studio ma anche da gente studiosa lontano; da qual passo,
per quanto lo scrittore s'affanni a considerare una simile possibilità degna
di biasimo e d'abominazione, è agevole dedurre la solitudine di
Dante intellettuale nelle prime città dell'esilio,
l'impossibilità di comunicare ad alcuno alcunché dei suoi interrogativi
e fabbisogni culturali (forse soltanto a Ravenna e all'epoca del Paradiso
Dante avrà il privilegio di vivere in un consorzio di agguerrita
vivacità intellettuale soprattutto nell'arte di spezzare e manucare lo
pane de li angeli; e in quest'arte sono ormai istrutti anche i figli).
Tuttavia egli avverte anche il pregio estremo della solitudine in quanto
l'eccessivo commercio con gli uomini non è causa di maggiore perfezionamento
interiore, così come vuol rimproverarsi che per ragioni indipendenti
dalla sua volontà è apparito a li occhi a molti in modo da
far sembrare la propria persona inferiore alla fama (Conv., I, iii, 5, e cfr. poi I, iv, 2 sgg.): Ahi, piaciuto fosse al
dispensatore de l'universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata!
ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente,
pena, dico, d'essilio e di povertate, I, iii,
3.
Il passo celeberrimo raffigura con
virulenza amara i ricordi del recente bando, i quali, per quanto feriscano
l'animo del poeta, non si mescolano ad alcun atteggiamento di voluta rottura
coi governanti. Tra il I libro del Convivio e i primi canti dell'Inferno
c'è veramente un salto, che poco si giustifica coi due o tre anni di
distanza tra le due scritture, e meglio trova ragione nell'atteggiamento
palesemente polemico degli anni di revisione della prima cantica: 1313-1314.
Firenze è ancora la bellissima e famosissima figlia di Roma, e al
dolce seno della patria non sono vaticinate sciagure, né sono vituperati
come degenerati e corrotti i suoi cittadini. V'è soltanto l'autoritratto
d'un uomo infelice, perseguitato dall'avversa fortuna. Bene a questo proposito
e a questo momento della vita di Dante si possono attribuire le parole con cui
il Bruni toccò dell'atteggiamento speranzoso, cauto, rispettoso del
poeta, il quale s'era ridotto “tutto umiltà, cercando con buone opere e
con buoni portamenti racquistar la grazia di poter tornare in Firenze per
ispontanea revocazione di chi reggeva la terra”[78]; tristezza,
nostalgia, anche disperazione dunque, in quegli anni, non ira ed esecrazione.
Soltanto in Conv., IV, xxvii,
2 (evidentemente in qualche mese l'atteggiamento verso Firenze s'è
andato modificando, e ne era già stata prova in II, xiii,
La tua
città, ch'è piena
d'invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena…
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c'hanno i cuori accesi.
Le immediatezze del Convivio sono
altre, anche, e in direzione diversa: il sarcasmo contro Alboino della Scala,
dalla cui signoria s'era staccato con disdegno pochi mesi prima (che è
sarcasmo “a caldo”, da porre a raffronto con quello lanciato con altrettale
immediatezza nel De vulgari eloquentia contro il secondo Totila, Carlo
di Valois); lo strale, indiretto ma non meno eloquente, contro i signori di
sì asinina natura che comandano lo contrario di quello che vogliono (Conv.,
I, vi, 3; nessun suo ospite, in
particolare, ma in piccola parte tutti costoro); il costante ricordo, accanto
al simbolo, degli anni in cui la sua vita non era vedovata dal trapassamento
di quella Beatrice beata che vive in cielo con li angeli e in terra con la mia
anima (II, ii, 1), e dei
successivi, intensamente applicati allo studio della filosofia sino a riuscire a
sentire de la sua dolcezza (ivi, xii,
7); tante notti di sacrificio (III, i,
3, Oh quante notti furono, che li occhi de l'altre persone chiusi dormendo
si posavano, che li miei ne lo abitaculo del mio amore fisamente miravano!)
sino a debilitare la vista così che le stelle mi pareano tutte
d'alcuno albore ombrate, III, ix,
15; lo sprezzante giudizio sui successori di Federico II, ultimo imperatore
de li Romani — ultimo dico per rispetto al tempo presente, IV, iii, 6[79]; l'addolorata
consapevolezza delle tristi condizioni italiane, misera Italia, che sanza
mezzo alcuno a la sua governazione è rimasa!, IV, ix, 10, e pur era destinata ad esser
sede dell'Impero (i signori elogiati in IV, xi,
14, son tutti d'azione cento-duecentesca, sino a Galasso di Montefeltro che per
l'appunto muore nel 1300; si spingono agli anni del Convivio i soli
Gherardo da Camino e Guido da Castello); la notazione ancora favorevole per il nobilissimo
nostro latino Guido montefeltrano (IV, xxviii,
8), e gli accenni a personaggi viventi o a casate ancora preminenti, il
prefetto Manfredi da Vico, i Sannazzaro, i Piscitelli: poche aperture sulle
vicissitudini che in quegli anni angustiavano il poeta, ma sufficienti a
proclamare che le eccezioni all'imperturbabilità del lavoro
intellettuale (cui ci si riferiva poc'anzi) aprono verso un mondo non soltanto
vario e complesso, ma differente per zone e ambiti politico-sociali difficili,
ricchi di conflitti e d'amarezze, che non possono non riflettersi, in diversa
misura, sul poeta, il quale “sente” da per sé solo, ma “sente” anche quello che
era l'animus della gente “media” e del popolo per le infinite lotte che
insanguinano l'Europa e il giardin de lo imperio.
Per por rimedio ad esse è
necessario un nuovo messaggio di pace e di giustizia, e questo non può
essere espresso nella fitta arida trattatistica d'un'opera come il Convivio;
ci vuole una nuova poesìa, un nuovo modo di poetare (la scoperta
della terzina, martellante metro, rispetto ai tempi lenti della canzone o alla
brevità del sonetto), l'inserimento di queste tematiche in un disegno
affatto nuovo o comunque non ancora sollevato a vetta d'ispirazione letteraria.
Lo spazio bianco che intercorre tra il commiato di Le dolci rime e i
primi versi dell'Inferno, così nuovi, così imprevedibili
ove si consideri lo status delle lettere italiane ai primi del Trecento,
è coperto dalla ripresa del giovanile progetto della mirabile visione,
dal fulmineo intuito d'un nuovo linguaggio, dalla percezione di un grandioso
disegno strutturale (così grandioso eppur così velocemente
concepito). Una grandiosa rivoluzione poetico-letteraria irrompe con le prime
terzine dell'Inferno. La svolta che ha la nostra letteratura è
radicale, puntante verso l'alto tutte le motivazioni filosofiche del Convivio.
Veramente tutto andava abbandonato per dedicarsi alla comedìa.
Almeno per vari anni, ché poi l'andamento regolare della composizione, l'habitus
culturale indotto, l'usus quasi normale del flusso della ispirazione,
potrà consentire anche qualche momento d'interruzione.
Lo vedremo. Sarà il momento
della Monarchia. Sarà il momento delle Egloghe o della Questio.
Non tanto il momento delle Epistole, giacché esse non contrassegneranno
l'interrompersi del lavoro attorno alla Commedia, anzi l'accompagnano,
ne sono illustrate e lo illustrano: è la corrispondenza d'un
intellettuale che non si arresta più dinanzi a nessuna
difficoltà, e che le proprie opere, quella immensa della Commedia
e quella relativamente modesta della Questio, le reca tutte a
conclusione, e le Epistole le marca tutte a fuoco con l'impressione
veemente del proprio temperamento, con l'accumulo duro eppur profondo delle
proprie occasioni del vivere.
Si sono accennati e si riprenderanno
tra breve i problemi relativi alla vita del poeta in connessione col momento e
con i luoghi in cui venne composto l'Inferno. Per motivi di discorso
più appropriato non s'è voluto scindere l'interrogativo intorno
alla data di concezione della prima cantica dal resoconto sulle vicissitudini dell'esule.
Sappiamo bene che c'è il rischio, se questa fosse l'unica strada
praticata, di “leggere” l'Inferno dall'esterno, di rifiutarsi di
indagare le cause interiori della sua genesi o rendersi conto soltanto di
quelle prettamente retoriche, stilistiche, filosofiche: la scelta di uno schema
escatologico che trovava precedenti illustri nell'Eneide e nelle Sacre
Scritture, soprattutto in san Paolo e nell'Apocalisse, più che nei poemi
duecenteschi; la scelta d'uno stile “mezzano” che è pronto a rendersi permeabile
alle altezze dello stile tragico e alle bassure di quello elegiaco; l'adozione
d'un disegno aristotelico-tolemaico delle colpe e della loro suddivisione. Ma
anche questi punti dell'ottica di lettura dell'Inferno vanno enunciati e
spiegati, se non altro per completezza d'informazione, da poi che è
assai difficile in questi settori riuscire ad esprimere un qualche barlume di
cosa nuova.
Il germe, l'abbiam già detto e
più d'una volta, è nel proposito enunciato al termine della Vita
Nuova, di dedicare alla vicenda dell'amore di Beatrice e della situazione
morale del poeta dopo la morte della gentilissima una più degna sede
letteraria, collegata alla “mirabile visione”. Nel germe c'era appena l'idea di
una “seconda” Vita Nuova, forse d'un poemetto allegorico, ma a poco a
poco, nel mentre il poeta attende ad altre iniziative anche nel settore
pratico, s'allarga, si consolida, si fissa in un grande poema che consentisse
non già in un sogno terreno (cosa non impossibile, epperò inutile
fantasticheria), ma nell'aldilà di una “mirabile visione” di incontrare
di nuovo Beatrice, di riprendere il dialogo spirituale e amoroso interrotto
dalla precoce dipartita di lei. Forse (e sottolineando questo “forse”) in
origine si dovè trattare soltanto d'una visione paradisiaca, d'una visio
beatifica della donna beatificante. Ma la gran somma di esperienze umane fatte
dal poeta sconsigliava soltanto un “trionfo” dell'Amore e della
Eternità, dove non avrebbero potuto trovar posto, o allogarsi troppo di
stretto, tutte quelle esperienze di vita reale: politica, morale, sociale,
pubblica e privata, fiorentina e toscana, italiana ed europea. Prende corpo in
luogo d'una visio paradisiaca una visio generale dello status
animarum post mortem; così Dante non veniva meno al suo compito, ma
lo integrava con una gran copia di fatti e personaggi che difficilmente erano
collegabili alla vicenda della loda di Beatrice, e s'immergeva nella
realtà contemporanea, non in quella sempre più remota del 1290.
Il viaggio d'uno spirito vivente
nell'aldilà non era estraneo alla cultura medievale, e probabilmente
Dante nel tracciare le linee generali del suo poema si rendeva conto che non
poteva evitare il confronto con la Visio sancti Pauli, con la Navigatio
sancti Brandani, con la Visio Alberici ovvero con la Visio
Tungdali, col Purgatorio di san Patrizio o con i poemi di Giacomino
Veronese e di Bonvesin da la Riva o col Libro de' Vizi e delle Virtudi,
se si vuole anche con un'opera musulmana, il Libro della Scala, tradotto
dall'arabo in castigliano per ordine di re Alfonso. Dato e non concesso che
l'Alighieri conoscesse tutta questa letteratura escatologica (ritengo che ne
avesse letto soltanto qualche campione, ma molti anni prima, sì che
gliene era rimasta un'impressione piuttosto generica), certo si è che
egli ha voluto fare un'opera totalmente nuova, e per ampiezza di costruzione e
soprattutto per completezza, giacché tutti i luoghi di tutti i regni
dell'oltretomba cristiano dovevano essere oggetto della visita del personaggio-viator,
dello studio analitico del poeta-profeta della rigenerazione
dell'umanità. Tutta quella letteratura escatologica, comunque sia,
andava riordinata secondo schemi più organici e sicuri, staccando il
rapporto terra-aldilà, supponendo sin dall'inizio che il protagonista
fosse immerso in una visio in somniis, deducendo gli scomparti dalla
tradizione filosofica dell'aristotelismo diretto o mediato attraverso la
Scuola, scoprendo un rapporto immediato tra i segmenti della struttura e i
personaggi da far emergere dalla propria memoria. Le affinità, quelle
poche che ci sono, con i poemi duecenteschi, integrate dalla conoscenza di
rappresentazioni delle arti figurative, arricchite da un confronto diretto coi
classici, possono al massimo aver dato qualche porzione d'immagine o fatto emergere
qualche cosa letta; non di più. Le due vere “fonti” del poema sono l'Eneide,
quale costante ricordo d'una grande esperienza letteraria di descrizione di una
discesa agli Inferi, e la Bibbia, come somma di visioni profetiche annunciate
nel Vecchio, vissute nel Nuovo Testamento, e come grande costruzione
mistico-visionaria. Un sacrum commercium s'instaura tra Virgilio e san
Giovanni Evangelista, tra altri auctores classici e san Paolo o i Padri
o i mistici della tradizione benedettina o di quella francescana. Questi grandi
libri erano del tutto ignoti agli indotti autori di poemi o poemetti
duecenteschi, o ne avevano una pallidissima idea, e così per la Etica
nicomachea e la Retorica di Aristotele, per il De Officiis di
Cicerone, per tutto il patrimonio morale insito in Virgilio e in Stazio, in
Agostino e Bernardo, in Alberto Magno o Bonaventura o Tommaso.
Pare opportuno far ritornare alla
nostra memoria qualche esempio: l'idea di collocare il Paradiso terrestre sopra
la cima d'un alto monte era già presente in scritti di Padri della
Chiesa orientale, e così san Bonaventura aveva situato il Paradiso in
un'atmosfera pura, e la struttura dell'oltretomba risponde ai tre gradi
conoscitivi elaborati da san Tommaso. Questo per ciò che riguarda
situazioni della seconda e della terza cantica; il sito dell'Inferno appare
più vicino, invece, alla concezione classica, secondo lo schema
aristotelico-tolemaico delle colpe. Tuttavia si tratta di elementi accessori,
ché tutta la topografia e geografica e morale dell'oltretomba è
sottoposta ad una profonda revisione, sia per quel che concerne il vario
paesaggio, sia per l'animazione d'esso attraverso simboli e figure di
trapassati.
Insomma il discorso sulle “fonti”
della Commedia finisce per ritornare alla potenza creativa del suo
autore, il quale utilizza episodi della mitologia classica in forma
estremamente libera, situandoli nell'aldilà (così la selva
popolata dalle Arpie, la diversa collocazione dei fiumi infernali, l'utilizzazione
ad esempio del Letè e dell'Eunoè). Altrettanto dicasi per la
figura dell'inferno come un'immensa voragine conica a forma di gigantesco
anfiteatro, aperto nell'emisfero boreale sino al centro della terra, con un
asse verticale che unisce Gerusalemme al centro del globo; se l'ingresso
è situato nelle vicinanze della città santa, l'inferno è
all'interno d'una sfera, la terra, immobile al centro dell'universo.
L'anfiteatro infernale è
diviso in nove cerchi concentrici, ma di circonferenza sempre più stretta
sino a scendere nel pianoro circolare dov'è confitto Lucifero; con lo
stringersi della circonferenza e il passaggio da un cerchio all'altro,
s'aggrava la colpa, che ha tre suddivisioni fondamentali, rispondenti a tre
male disposizioni: l'incontinenza, la bestialità e la malizia. Dopo il
primo cerchio, occupato dal Limbo, dal secondo al quinto cerchio trovano
collocazione i dannati per incontinenza, cioè coloro che non hanno
saputo frenare gli istinti naturali dell'uomo: lussuriosi, golosi, avari e
prodighi, iracondi e accidiosi. La seconda grande sezione infernale va dal
sesto al settimo cerchio, dagli eretici ai violenti (divisi questi in tre
gironi: omicidi e predoni, suicidi e scialacquatori, bestiemmiatori sodomiti e
usurai). La malizia, cioè la frode, è rappresentata nell'ottavo
cerchio (frodolenti contro chi non si fida, collocati in dieci borse o “bolge”,
per l'appunto le Malebolge) e nel nono cerchio (frodolenti in chi si fida:
traditori dei congiunti, della patria, degli ospiti e della Chiesa e dell'Impero).
Come si vede lo schema aristotelico
è adoprato con grande libertà, ed esistono, né poteva avvenire
altrimenti, peccati non contemplati da Aristotele, come ad esempio quello di
eresia; ma, quel che più importa, ristrutturato secondo una originale
creazione poetico-narrativa che s'insinua nella linea centrale del poema: il
viaggio d'un uomo vivente dal peccato alla redenzione, assetato di sapere,
indotto dai simboli infernali a riflettere sulle proprie colpe: dai simboli e
dagl'incontri con personaggi storici antichi e contemporanei.
Anche di recente[80] è stato
riesaminato il problema della rilevanza che ha per Dante la cultura dei due
Ordini Mendicanti, e quanto del francescanesimo da un lato, dall'altro della
cultura domenicana sia penetrato nella tessitura della Commedia, prima
nella struttura del Convivio:
i
principî fondamentali dell'ideologia domenicana — pace ordine gerarchia charitas
— saranno anche quelli di Dante. La stessa idea di un intellettuale consigliere
del principe e mediatore del sapere e del consenso, come è espressa nel De
Vulgari eloquentia e nel Convivio, trova un corrispettivo nella
teoria e nella prassi conventuale[81].
ed è osservazione condivisibile a condizione che non si obliino
altri “vettori” fondamentali dell'esperienza dantesca: tra i quali sono
preminenti la tradizione dei classici, l'esigenza di uniformarsi alla voce
degli antichi e dei Padri, e accanto ad essa, in un rilievo tutto da
ridefinire, l'importanza della cultura benedettina e di quella agostiniana,
evidenti nell'apparato della mistica della Commedia la prima,
nell'escavo di sé, nella ricerca delle proprie stesse ragioni dell'essere
cristiano, la seconda. Ma è certo che la presenza della cultura
domenicana investe in maggior copia di situazioni l'apparato filosofico
dell'Alighieri, e la spiritualità francescana alcuni temi centrali della
Commedia: l'ansia di purezza, il ripudio dei beni terreni, i sentimenti
di carità e di povertà, mentre gli altri due cardini del
messaggio di san Francesco d'Assisi (dalla Regula non bullata al Testamentum:
testi che indubbiamente Dante conosceva, e bene), cioè l'umiltà e
l'obbedienza, la “sacra obbedienza”, sembrano se non estranei, poco consentanei
al temperamento di Dante. Cosicché la distinzione operata dal Bologna[82] è altrettanto condivisibile:
Soprattutto,
per i frati che optano con lucidità di metodo per il sermo planus e
maternus, la Commedia dantesca brilla come il maggior faro
etico-letterario non solo dell'età moderna. A differenza dell'ordine
domenicano, che in Dante intuì forse il più massiccio ostacolo
alla sua ipotesi d'una cultura integralmente religiosa, quello francescano
dedicò al monumento poetico dell'età nuova una mai interrotta
venerazione, in esso probabilmente individuando il supremo, laicissimo ma
teologicamente solidale, tentativo di una reductio quasi-bonaventuriana
del sapere alla via mistico-speculativa, che oltretutto l'etica municipale
della Commedia innestava con maggiore omogeneità nell'esito
urbano del francescanesimo.
Sono, per concludere, istanze
più che valide, a condizione che non restino isolate in un più
generale contesto d'esame dell'intera zona d'influenza della Commedia,
contemporaneamente operante su più fronti, sovente in modo
rivoluzionario, e al tempo stesso nascente da una gran copia di scaturigini
politiche e dottrinarie.
Per la struttura dell'Inferno
è opportuno intendere bene quelle che sono le due linee conduttrici
dell'intero poema: l'itinerario ascetico-morale e quello
stilistico-linguistico, da individuare all'interno di un organismo compatto,
particolarmente ed eccezionalmente solido quale è la Commedia. Ma
altre correnti di sviluppo perseguono i due indiscutibili propositi di
perfezionamento, dell'uomo di fede e del letterato, e contribuiscono a rendere
più ricca la compagine del poema: dalla politica alla cronaca
contemporanea, dal rapporto coi classici latini alla esperienza teologica, dal
percorso del protagonista redimibile a quello di altri viandanti (Virgilio, poi
Stazio, poi Beatrice e san Bernardo) o personaggi stanti, da Ciacco a Farinata,
da Brunetto a Ulisse e Ugolino, da Manfredi a Forese, da Piccarda a Carlo
Martello, in una galleria veramente infinita di uomini diversissimi, di cose
antiche e moderne, di esperienze d'orrore e di gaudio, di sofferenza e di
cristiana letizia. La Commedia da questo angolo visuale appare non un
monumento immobile, ma un'opera in continuo movimento, un'opera che perfeziona
e sviluppa se stessa di canto in canto.
Sarebbe sufficiente considerare la
varietà del colorito linguistico, in un'alternanza di zone di chiaro
impegno letterario “illustre” a momenti di forte afrore “comico” e di passaggi
flagrantemente “elegiaci”, scurrili, violentemente trivializzati, con scelte
peculiarmente demotiche, senza che la tenuta stilistica generale ne abbia mai a
soffrire, ma contribuendo a creare un assieme ricchissimo di prospettive di
scrittura come anche di angolazione etica, in cui il protagonista non sta
immobile, ma migliora sé di momento in momento, passa dalle esperienze
più aspre al supremo momento della triplice visione della
Divinità, in un'alternanza di toni e timbri che non ha l'eguale nella
letteratura del Medioevo: donde il carattere dirompente, culturalmente, della
“divina” Commedia, un'opera che apparve subito ai contemporanei come
tutto affatto fuori della norma, una straordinaria summa del sapere. Gli
itinerari della Commedia si muovono in un comune tracciato, nonostante
la varietà delle situazioni, le differenze sostanziali, ad es. a pochi
canti di distanza, tra una Francesca e un Farinata: due mondi che sembrano
quasi opposti, comunque ad una prima impressione diversissimi, ma restituiti
all'unicum proprio dalla presenza di Dante-personaggio, il quale espia
due peccati diversi, nel primo caso quello della lussuria, nel secondo
l'eresia, e quindi unifica zone remote, apparentemente remote, di modo che
tutti gli aspetti della vita morale vengono chiamati in causa, tutta la
problematica filosofica (nel primo caso la concezione dell'Amore, nel secondo
l'errore ideologico) è in costante presa con gli argomenti trattati, e
unitario si ridisegna lo schema esemplificativo: il viaggio nell'oltretomba
cristiano, viaggio che costringe e impegna assiduamente il poeta a tendere con
straordinaria fermezza all'Uno, richiamato di volta in volta sotto differenti
motivazioni, ma sempre richiamato, sempre il fine fondamentale del poema.
Nella impossibilità di operare
una netta distinzione tra allegorie e simboli, occorre assegnare piuttosto la
costruzione allegorica al complesso della struttura dell'Inferno e la
presenza dei simboli alla singola individuazione di personaggi portatori di
simbologie particolari, il tutto in stretto rapporto con l'idea centrale del
poema come viaggio d'un'anima che si stava perdendo e riesce a salvarsi e a
fruire della visione della Divinità. Il testo poetico, ce lo spiega lo
stesso Dante all'inizio del secondo trattato del Convivio, va
interpretato secondo quattro sensi: il primo è il senso letterale: la
lettera precisa che ogni singola invenzione proclama; il secondo è il
senso allegorico, nascosto dietro la fabula, al pari di come sotto la
“bella menzogna” si cela la Verità; il terzo è il senso morale,
che viene ad essere definito e compreso secondo la propria utilità; il
quarto è il senso anagogico o “sovrasenso”, l'esplicazione spirituale di
un testo che è strutturato in funzione della salvezza dell'anima e della
beatitudine celeste. Sotto questa quadruplice interpretazione del testo cadono
non soltanto le Sacre Scritture, ma anche i classici pagani, in particolare l'Eneide
di Virgilio, il cui messaggio poetico è spiegato in tutti e quattro i
modi, e persino i differenti miti pagani, quelli ad esempio descritti da Ovidio
nelle Metamorfosi, tutti suscettibili di valenza allegorica in senso di
preannuncio di fatti dell'era cristiana. Naturalmente è soprattutto
sulla Bibbia che si svolge l'explicatio dantesca, e in essa emerge, per
profondità di annunci e di riferimenti simbolici, l'Apocalisse di
san Giovanni.
Alla luce di questa interpretazione
tutti i simboli della Commedia trovano la loro collocazione esatta nel
contesto di quel grande messaggio profetico e visionario che il poema sacro
vuol essere, vera e propria nuova Bibbia per gli uomini nuovi della presente e
della futura generazione, e l'apparato simbolico cresce col procedere del
viaggio escatologico, per infittirsi nel Paradiso, ove non è
immessa un'interpretazione quasi esclusivamente filosofica, qual è
quella del Convivio e dell'Inferno, ma una sia teologica che
filosofica, presente negli ultimi canti del Purgatorio e dispiegantesi
per tutti i cieli della terza cantica. Nell'Inferno resta centrale la
figura del Messo celeste, giunto a dischiudere la porta della città di
Dite a Dante e a Virgilio, ma un notevole significato è espresso anche
dal Veglio di Creta, la cui spiegazione deve essere posta in raffronto con la
soluzione che nella Bibbia Daniele dà del sogno di Nabucodonosor: il
preannuncio della fine degli Imperi terrestri. Strumento per la predicazione e
l'attuazione della palingenesi è il Veltro, figura non soltanto biblica
ma strettamente connessa a significati attuali, offerti dalla situazione
etico-politica contingente, quella dell'età di Dante. Altre simbologie,
di carattere più particolare, vengono offerte dai diavoli, ciascheduno
dei quali riconducibile ad una complessa chiave di lettura cui la demonologia
offre spunti descrittivi e parziali spiegazioni.
Per comprendere le invenzioni
demoniache non è sufficiente far ricorso alla ricerca medievale e
perciò dantesca di trovare un'unità o un'analogia tra la cultura
classica e quella cristiana, poiché proprio nel campo della demonologia tali affinità
creerebbero incognite non facilmente risolvibili. Gli scrittori cristiani erano
convinti che le potenze del male, le forze demoniache erano state giustamente
intese come tali dai classici, anche se essi, prima della Rivelazione, non
erano in grado che di fornirne rappresentazioni letterarie. Ha ben detto il
Padoan che
per il
cristiano il demonio si caratterizza anzitutto come forza violenta e bestiale
che agisce nel bruto istinto della distruzione e che assume forme in una
mescolanza mostruosa di figura umana e figura animalesca.
Per rappresentare il mondo infernale
Dante non poteva eliminare le rappresentazioni letterarie della
classicità, e anche le divinità non infernali, i personaggi della
mitologia, dovevano essere immessi nel circolo; donde la sua scelta di affidare
a personaggi mitologici il compito di custodi dei cerchi, e ad alcuni d'essi
compiti anche più rilevanti nell'allegoria del viaggio escatologico.
Considerevole è l'esempio di Gerione, che anche nella letteratura classica
era collegato a miti infernali, e Virgilio l'aveva collocato tra i mostri posti
a custodia dell'Averno, “forma tricorporis umbrae” (Eneide, VI, 289). Il
servizio che il mostro rende ai due poeti, facendoli discendere a volo dal
settimo all'ottavo cerchio, è lungamente descritto, da quando su invito
di Virgilio Dante si scioglie d'una corda di cui era cinto e la porge al
maestro che la protende in un profondo burrato, all'attesa di un misterioso
evento, all'apparizione del mostro orrendo, al volo spaventevole, all'approdo.
La descrizione, di forte densità realistica, è tutta svolta in
chiave simbolica: il significato della corda, il modo irripetibile del
traghettamento aereo, i connotati del mostro, figura della tentazione e della
frode onnipresenti (Gerione ammorba tutto il mondo), ecc. Il che serve ai
nostri fini a presentare un caso, fra i tanti, in cui non viene presentata una
sola allegoria, ma l'episodio racchiude in sé simboli diversi eppur convergenti
in un'unica struttura narrativa che tutti li prospetta nel clima arcano dei
sovrasensi e nel rapporto tra di essi e la lettera, e che ha una sua facciata
esterna, avventurosa e romanzesca, tra le più “incredibili” e
perciò più insegnative dell'Inferno.
L'insegnamento che l'episodio
impartisce a Dante, non viene dalla viva parola d'un dannato ma dall'evidente
concentrazione di tutti i simboli, in un caso narrativo in cui tra il
personaggio Dante e il personaggio Gerione non viene a crearsi nessun rapporto,
anzi il poeta prova repugnanza anche per il contatto fisico col mostro; al fine
di evidenziare l'estraneità del protagonista, il ripudio totale della
frode, la più grave delle offese che possano essere rivolte a Dio, e
anche la più composita (le dieci bolge, la quadripartizione di Cocito),
tesa a ingannare l'uomo in forme molteplici, e dinanzi alla quale la ragione,
che è Virgilio, ha modo di costruire un sistema di protezione e persino
di utilizzazione, a fin di bene, per lo spaurito alunno.
Tutti i motivi dell'animus
cristiano di Dante andranno scorti e apprezzati nella rigorosa assunzione
d'ogni fermento umano, d'ogni reazione emotiva, d'ogni status
psicologico, d'ogni impulso morale in un ritmo spirituale che tutti li
comprende e li colorisce, ed è per l'appunto la perfetta fusione del
movimento di purificazione ascetica e dell'iter mistico, immersi in un
ardente crogiuolo di passioni terrene, politiche, personali. Le profezie post
factum cui dianzi alludevamo, servono a rendere ancor più
incandescente e attualizzante il magma politico, a rendere più spontaneo
lo sfogo passionale; esse sono irregolarmente disposte in varie parti
dell'opera, non più nell'Inferno che nelle altre cantiche: onde
più efficace risulterà, all'indagine del fatto poetico, la
schietta vivezza della reiezione morale e della provocazione politica. Il poeta
si affida felicemente alle sorprese del viaggio, alla casualità degli
incontri: è il viator nell'oltretomba cristiano che reca con sé
tutto il bagaglio delle proprie quotidiane esperienze d'uomo di parte e di
battaglia; è l'asceta che non mortifica in sé una nozione astratta di
peccato, ma un peccato concreto, personalizzato e “visualizzato” nei singoli
personaggi che incontra: conosciuti o sconosciuti (Ciacco o Francesca), antichi
o moderni (Ulisse o Farinata), venerati o esecrati (Brunetto Latini o Filippo
Argenti), oggetti d'odio, di pietà (o pièta),
d'ammirazione, di biasimo, di curiosità, di sdegno, d'attrazione, di
ripulsa.
Ma questo “viaggio di un'anima”, ci
si chiede, è un'invenzione letteraria o una profondissima istanza dello
spirito? Gli studiosi di Dante si sono interrogati se la Commedia sia
una vera e propria visio in somniis o una mera finzione poetica.
L'interpretazione del poema come verace visio mystica fu particolarmente
apprezzata dagli antichi esegeti, e, ritenuta valida anche dal Foscolo,
è stata ripresa anche in tempi recenti (ad es. da Bruno Nardi): la Commedia
fu sentita come
vera
visione profetica, apparsa [a Dante] dopo le accese meditazioni sull'Eneide
e sulle visioni profetiche e apocalittiche della Bibbia […] E se visioni e
rivelazioni ebbero S. Francesco e i suoi compagni, perché non poteva averne
Dante? Né d'altra parte, è necessario che il lettore moderno pensi e
creda quel che Dante ha pensato e creduto della sua vicenda, bensì che
egli intenda e giustifichi storicamente quel modo di pensare e di sentire,
senza ritenerlo demenza
(ha scritto, per l'appunto, il Nardi)[83]. Ma oggi si tende a valutare la Commedia soltanto come fictio
poetica, la quale trovava i precedenti nelle “finzioni” dell'Eneide
e faceva coincidere le res dell'escatologia con i verba della
narrazione letteraria: poema letterario, dunque, sebbene d'argomento mistico,
non resoconto d'un vero raptus mistico, d'un sogno, concepito con la
consapevolezza di dar vita ad una fictio poetica.
Il “viaggio di un'anima”, quantunque
opera d'un letterato, deve essere avvolto nelle ambagi di un allegorismo fitto,
in parte arcano, sempre presente in ogni episodio e personaggio del poema.
L'allegoria è elemento inscindibile della creazione letteraria.
Perché ciò avvenga sono
necessari vari percorsi d'indole narrativa, risolti per lo più con la
straordinaria invenzione di crescite e susseguenti attenuazioni dell'io
narrante, cioè l'io parlante che sente, anche quando non conversa
con Virgilio o con le ombre se non in forma meramente didascalica e indiretta,
di una retorica “inversa”, nel mentre che l'io audiente e vedente
è continuamente sollecitato e anzi sconvolto da una serie di particolari
fonici e visivi. La rappresentazione muove sovente dall'apparato scenico del
fantastico per insinuarsi in un simbolismo anfibologico, il quale integra il
paesaggio (d'ispirazione diretta o d'eco virgiliana o classica in genere,
qualche volta d'ascendenza scritturale) con una ricca messe di figure
allegoriche e con copia d'esemplificazione sulla nascita dello speech,
non tanto il linguaggio in sé quanto la produzione del linguaggio.
Gli episodi si collocano in una
temperie che è diversa: ora contingente, legata propriamente ad una
esperienza dantesca del passato, ora misterico-profetica; in entrambi i casi si
dilata in svolgimenti eminentemente narrativi e al tempo medesimo d'esperienza
religiosa dei fatti, in una nuova lettura delle cose sulla base delle esigenze
del canticum novum, per immergersi nei chiaroscuri delle scene tragiche
con l'attenzione ben desta a cogliere, di volta in volta, la qualità
dell'impegno dantesco inteso a congiungere storia politica e storia culturale,
due storie entrambe centrali per il richiamo che proviene all'intelletto del
poeta dalla esemplarità della singola individualità
rappresentata, esemplare se modesto personaggio o eroe del mondo antico (Ciacco
o Ulisse), se personalità politica (Farinata, Ugolino, i tre cavalieri
fiorentini) o letteraria (Brunetto Latini) o del mondo aristocratico femminile
(Francesca da Polenta), ovvero congiungente due dei vari mondi in uno, per lo
più quello politico e quello culturale: Brunetto e Pier delle Vigne, con
conseguenze d'alto livello retorico. Questo livello produce ora strette
possenti di scorci narrativi, dialogati ora veementi ora effusi, contatti
linguistici diversi, differenti modi di partecipazione del viator inseriti
in una sorta di grandioso iperbato della costruzione generale del poema oppure
della cantica ovvero del canto, con tensioni crescenti verso l'ultima parte del
singolo episodio, nell'incalzare inevitabile della catastrofe, per esempio, e
sono esempi massimi, nella zona terminale del racconto di Francesca e di quello
di Ugolino, centrati nei finali così come Ulisse, così come
(poniamo per un momento tra i personaggi del poema) l'io narrante Dante,
che stringe il ritmo del racconto sul finire d'un canto o lo rallenta in piane
ma non meno seducenti chiuse didascaliche, quando non riesce a produrre serie
di rallentamenti e di spezzature più volte all'interno del singolo
episodio. Si veda il caso esemplare del canto dei papi simoniaci, ritmato sugli
incipit grandiosi, sugli attacchi del dialogato.
In ogni evenienza del racconto, e
ciò vale anche per il Purgatorio e il Paradiso,
l'apparecchio profetico è sempre disposto senza alcuna casualità,
secondo un disegno che vede sempre più impegnato il visionarismo dantesco
nel procedere del viaggio escatologico. La Commedia come profezia
lanciata agli uomini di buona volontà si disvela anche in episodi che
nulla di esplicitamente profetico sembrano manifestare, rispetto ad altri
momenti dove vige una profezia in atto, sia riguardante la vita di Dante (da
Ciacco e Farinata a Cacciaguida), sia la problematica spirituale d'ordine
generico: la linea d'un profetismo funzionale alla missione del nuovo Enea e
nuovo san Paolo, iniziantesi col Veltro e procedente sino agli ultimi canti del
Paradiso, ove a figure simboliche si sostituisce lo stesso Dante, egli
profeta d'una nuova rigenerazione dell'umanità. L'assenza d'astrattezza
in questa linea di profetismo è riguadagnata continuamente col ricorso
alle vicende personali, non perché egli intende proporsi ad esemplare, ma in
quanto ha avvertito d'esser stato soggetto d'una particolare rivelazione: e
dunque le vicende personali sono quelle dell'uomo futuro rispetto ai giorni
della Settimana santa del 1300, non riferibili ad un passato mai obliato ma mai
collocato sotto una luce personale. Mentre tanti fatti del decennio precedente
restano coperti da una fitta coltre allegorica, tutto ciò che si svolge
successivamente alla data del viaggio è implicitamente o esplicitamente
riferito. Non manca nessun passaggio, non manca alcun personaggio del ventennio
1300 e anni successivi, nei limiti in cui la loro collocazione è
possibile, giacché nessuno sforzo deve essere compiuto al riguardo. Sono
sottolineati le cause e gli effetti dell'esilio, i temi della terrena
ingratitudine e dell'abbandono d'ogni presenza amica (per esempio nel canto di
Pier delle Vigne), dell'inestricabile legame tra la personalità degli
uomini e la sfortuna politica. Pur variando la situazione etico-psicologica, i
fatti restano quelli che sono. Si tratterà, secondo la portata della
singola occasione, d'un incontro con un dannato e poi con un'anima purgante,
infine con un beato, di accrescere o attenuare le peculiarità dell'io
parlante che sente, dell'io audiente e vedente. Questo io
può anche esimersi dal commentare il singolo episodio quand'esso
è parlante per proprio conto e serve utilmente a congiungere storia
politica con storia culturale (Brunetto Latini) o ad accentuare l'una rispetto
all'altra, in una indefinita varietà di soluzioni tutte richiamabili
all'essenza dell'io totale, non un eroe che va a costruirsi una nuova
patria (Enea), non un prediletto da Dio chiamato ad insegnare la sua scienza
(san Paolo), ma un'anima che vuole raggiungere la patria celeste, additata come
conoscibile e godibile dai segnali ricevuti dalla fede cristiana: lungo nostos
al cielo, dunque, ma sempre attraverso un viaggio percorso per le vie della
terra.
La conoscenza che il viator
Dante acquisisce dei vari tipi e forme della dannazione, non vuol rimanere pura
acquisizione del vario modo in cui l'uomo può cadere in peccato e come,
non essendosi pentito, lo sconti in eterno. Il viaggio nell'oltretomba deve
servire a Dante stesso, deve fornirgli i mezzi per poter poi ripudiare il peccato
e indicare agli altri, all'umanità intera cui la Commedia
è indirizzata, la maniera per evitarlo. La singola dannazione non ha
sviluppi interni, non diminuisce o progredisce col tempo: l'anima patisce le
pene dell'Inferno nella stessa perenne intensità; né l'incontro che essa
ha con Dante può in qualche guisa alleviare o accrescere il modo della
condanna, stabilita per l'eternità. Tuttavia (e anche in questo è
la prova della straordinaria capacità inventiva del poeta) sul terreno narrativo
i personaggi si comportano in modo diverso, poiché il colloquio con Dante
lascia qualche segno visibile sulla loro dannazione. Il viator è
in un certo modo uno strumento della “vendetta” di Dio. Cogliendo un ramicel
da un gran pruno o percotendo il piè nel viso ad una Dante accresce
la pena d'un suicida, Pier delle Vigne, o d'un traditore, Bocca degli Abati. La
notizia che Dante fornisce a Farinata, che i Fiorentini continuano a detestare
il nome di lui, fa sospirare di sofferenza e d'amarezza il vecchio
capo-ghibellino. Così nel Purgatorio Dante è strumento
della clemenza di Dio arrecando a Nino Visconti la certezza che otterrà
preghiere propiziatrici dalla figlioletta Giovanna, e così via.
Ma non è in ciò il
significato essenziale del viaggio escatologico di Dante nell'Inferno:
conoscendo il peccato, constatando a quale dannazione esso rechi, il poeta
attua in sé il primo grado del processo ascetico, quello di prendere nozione
del male. E proprio perché, procedendo di cerchio in cerchio dell'Inferno, il
peccato si fa più grave, l'esperienza morale compiuta dal
personaggio-Dante si avvertirà sempre più aspra, l'orrore si
farà più forte ogni volta si scende d'un grado verso il centro
della voragine, maggiore sarà lo sgomento del personaggio, maggiore la
sua sorpresa, più icastico e drammatico il modo della rappresentazione
letteraria. Tutto ciò non avverrebbe se il protagonista del viaggio
assistesse soltanto ad uno spettacolo schematico e scheletrico d'uno o d'altro
peccato, trovandosi dinanzi a dannati senza nome (in qualche caso egli visita
zone senza individuare i singoli dannati, ed è felicissima variatio
narrativa); le ombre hanno una identificazione storica precisa, furono uomini e
donne del lontano passato, persino della mitologia pagana, o dell'immediato
ieri, amici o nemici toscani coi quali ha vissuto la propria giovinezza, o di
cui ha sentito parlare in quanto operarono in una generazione immediatamente
precedente la sua, o che ha dovuto fronteggiare in vita: il tremendo nemico
Bonifacio VIII. E per attualizzare la temperie umana dell'Inferno, per
vivere più intensamente quel mondo, inventa l'espediente di far
profetizzare i fatti successivi al 1300 dalle anime che incontra (i dannati non
conoscono il presente, ma hanno la prescienza del futuro).
Non v'ha dubbio che la realtà
contemporanea sia il fatto che più intensamente incide sulla misteriosa
nascita e sull'espressivo rigoglio dell'arte dantesca, sol che si comprenda
nella dicitura dei realia il complesso d'un cinquantennio di storia
pubblica soprattutto italiana. L'exemplum dell'episodio di Francesca da
Polenta non è eccezionale, dato che quella vicenda è avvertita da
Dante come un fatto non di cronaca privata, ma tale da aver assunto i contorni
d'una vicissitudine pubblica. L'elemento delle admonitiones impresse al ductus
morale del poema dà al racconto di Francesca il respiro d'una
confessione non privata, ma offerta alla pietà di tutti i
contemporanei: ed è questo fenomeno di pubblica esemplarità che
spiega la reazione, non personale ma a nome di tutti, dello svenimento del
Dante personaggio. Questa incidenza di fatti reali è più
avvertibile nell'Inferno, ma è tutt'altro che assente nelle altre
cantiche: nel Paradiso Piccarda sopravanza in potenziale poetico
Giustiniano, san Francesco è personaggio più forte di san
Benedetto, e la contemporaneità di Cacciaguida resta funzionale al
racconto dell'esilio del remoto nipote, e le vicende fiorentine assumono il
contorno della nostalgia d'un guelfo deluso e di un quasi neo-ghibellino
com'è l'io scrivente. Del resto il numero dei personaggi
contemporanei in tanto è prevalente sopra la series degli antichi
(di cui uno soltanto, Ulisse, si può dire che resti a pari altezza dei
moderni, nella sua aura fabulosa così icasticamente attualizzata), in
quanto lo scopo primario d'un'opera “comica” è di rivolgersi a quel
lettore primo-trecentesco naturaliter portato a subire più il
fascino dei fatti a lui noti, ben noti o poco noti ma sempre richiamati dalla
contemporaneità, che non l'ignoto mitico del folle volo di
Ulisse, la parola di Giustiniano, la esemplarità di Traiano, il “caso”
Rifeo.
Tuttavia le sorprese che il poema
desta al suo pubblico, non si fermano alla dicotomia antico-moderno, ma la
travalicano fornendoci fabulae ove l'antico e il contemporaneo entrano
in coniugio, producendo il rumoroso impatto della rissa tra Mastro Adamo e
Sinone (un caso che per noi può parere normale, ma che per un lettore
del Trecento produceva una sconcertante dissonanza). Questo diverbio solo
apparentemente si configura nella contemporaneità figurale dei due
dannati. È tale da costituire per Dante un problema di “dialogato” allo
stesso livello di scrittura, problema superbamente risolto con il conio dei due
“parlati” analoghi e al tempo stesso dissimili: vera prosecuzione, con una complessità
letteraria ben visibile, dell'esperienza fatta oltre un decennio prima con la Tenzone,
momento isolato ma preparatorio di una più matura esperienza letteraria
che va a concludersi con la disputa di san Francesco col diavolo per l'anima di
Guido da Montefeltro.
In tutte e tre le cantiche c'è
un climax, ma di diversa direzione. Nel Paradiso il vettore dello
stile tragico spinge la scrittura ad una sempre maggiore incorporeità,
ad un linguaggio cui si confanno tutti gli attributi dell'astrattismo (si osa
troppo se si parla di astrattismo nel Paradiso?; in altra sede abbiam
visto che questo è possibile se ci si riferisce al gusto dantesco per le
arti figurative) e conosce sempre più impervie mescidanze di locuzioni
teologali e di fluidità narrativa “normale”, secondo i consueti stilemi
del racconto escatologico. Nel Purgatorio tutto è in funzione di
una più concreta visualizzazione figurativa, in lenta e costante
preparazione del paesaggio esemplare del paradiso terrestre e della varia
personificazione animata dei personaggi scritturali della processione mistica.
Altra cosa è la gradatio nella prima cantica. Tutto il linguaggio
si spinge verso zone più buie, coloriture più in ombra, maggiori
crudezze non già di semplici vocaboli (ché questa rudezza di tratto
è già raggiunta nei canti delle Malebolge), ma di vicissitudini
umane. Il caso del conte Ugolino è sintomatico anche per la sua
collocazione sul finire dell'Inferno, quasi a riassumere tutta la
casistica morale del primo regno in un exemplum che più sconvolgente
non potrebb'essere. Dal che si deduce che non hanno torto quei commentatori che
leggono in chiave di antropofagia l'episodio. Altro epilogo più
drammatico non poteva esser dato alla cantica di un dannato che si è
cibato in vita delle carni dei figli con un atto non inconsapevole come Tieste,
ma doppiamente cosciente rispetto a Tideo; di modo che tutte le colpe umane
cadono sul padre così infelice come demoniacamente attratto alla
maggiore violenza possibile resa in sfregio e in accusa alla giustizia divina:
responsabile politico quale e ben più di Farinata, sacrilego verso la dolcezza
di figlio e senza alcuna pieta di vecchio padre, ferocemente
antropofago nella vita rivissuta all'inferno in una prospezione figurale che lo
vede rodere la nuca dell'arcivescovo Ruggieri con una pari spietatezza che
quella che in terra ebbe a mettere in opera verso i figli (e nepoti) innocenti
per l'età novella, e quindi redenti. Essi sono dunque salvi, ora,
mentre il Della Gherardesca riprova la crudeltà d'un gesto che lascia
però, per la “magnanimità” dell'animo del poeta, largo spazio al
rimorso e alla sofferenza perenne, con un dolore ben più forte che il
patimento di Farinata, la consapevolezza dell'errore in Francesca, il rimpianto
d'aver volutamente lasciato ogne cosa diletta di Ulisse, il ricordo
delle belle imprese accanto alle malvage d'un Guido da Montefeltro, anche d'un
Pier delle Vigne e dei tre cavalieri fiorentini, Jacopo Rusticucci, Guido
Guerra e Tegghiaio Aldobrandi.
La ricchezza delle esperienze classiche
di Dante, che non sarà certo quella della generazione successiva, da
Petrarca a Boccaccio, e avrà un indirizzo e una finalità diversi
da quella di Albertino Mussato, ma assume sul finire del Medioevo una
particolarità spiccatissima, s'accentua sempre di più nella sua
opera via via che si procede dalla filigrana ciceroniana della Vita Nuova
alle letture che sovraintendono alla preparazione del Convivio, dagli
echi virgiliani e ovidiani fittissimi dell'Inferno a tutta la tessitura
letteraria del Purgatorio e del Paradiso (ove il mondo classico
è soverchiato dalle ascendenze scritturali e patristiche). Non è
sufficiente, per comprendere il complesso della cultura classica di Dante,
fermarsi sugli auctores che ricorda esplicitamente (i personaggi del
Limbo) o sui passi che traduce o imita direttamente (Ovidio, Lucano, ovviamente
Virgilio). Occorre scandagliare più in profondità: come è
stato fatto per gli echi delle tragedie di Seneca nell'Inferno, per
Plauto, per Terenzio, per Persio, per Properzio, per Claudiano, per Boezio, per
le conoscenze indirette dei Greci, soprattutto di Omero, per l'Ars poetica
di Orazio, per le narrazioni storiche di Tito Livio, per le biografie di Donato
e di Servio su Virgilio, per san Girolamo. Ne esce fuori il ritratto d'un intellettuale
avidissimo di letture dei classici pur nelle dimensioni e cognizioni della sua
età, scarsamente propenso a porsi problemi di critica del testo ma
nemmeno ignaro della necessità di attenersi al fedele dettato della voce
degli antichi, oscillante tra prevenzioni e limitatezze in uso nelle scuole di
retorica del Medioevo, e orizzonti più larghi di curiositas
culturale già adombrante l'inizio di un nuovo sapere del mondo latino
(e, poi, greco), tra supine ripetizioni di dati estraibili da epitomi ed enciclopedie
d'uso scolastico ed esegesi indubbiamente originali, dirette, acutamente
meditate. Si guardi ad un auctor che è personaggio fuggevolissimo
del canto IV dell'Inferno, e cioè Cicerone (Tulïo e Lino
e Seneca morale…), ma accompagna tutta la vita intellettuale di Dante, con
la vicinanza del De amicitia alla Vita Nuova, la consultazione
giovanile del De Inventione e della Rhetorica ad Herennium (nel
Medioevo attribuita con certezza a Cicerone), la presenza assidua del De
Officiis, del De Finibus, del De Senectute, la probabile
conoscenza del Somnium Scipionis. L'elenco si potrà estendere,
anche se esclude le lettere ciceroniane, certamente ignote a Dante, e non
sarà esente da una caratteristica medievale dalla quale sarebbe
improprio pensare che Dante possa liberarsi, e cioè la citazione d'un
classico al servizio d'un'interpretazione morale attualizzante e d'una messa in
movimento di spunti concettuali da piegare alla visione cristiana della vita
etica. Dietro l'inventio dei personaggi sta sempre una particolare auctoritas
classica o moderna, e coglierla nei suoi connotati essenziali è stato ed
è impegno costante della critica: così i moduli della cancelleria
imperiale dietro le parole di Pier delle Vigne, le clausole dell'eloquenza
politica nel parlato di Farinata, la severità del linguaggio dell'uomo
di scienza e di cultura nelle parole di Brunetto Latini, le costumanze di
lettura della società cortese (dai romanzi al trattato De Amore
di Andrea Cappellano) dietro la narrazione post-stilnovistica e fortemente
emozionale di Francesca da Polenta; ma al tempo medesimo Dante interviene di
persona in questo procedimento d'echi letterari, con la severità o la pièta
che contraddistingue la sua funzione di viator nell'oltretomba,
cosicché, soltanto per restare a Francesca, il poeta non oblia l'exemplum
morale per farsi vincere dalla commozione, e circoscrive in termini precisi, se
non proprio rigidi e afosamente rigoristici, la constatazione dell'umana
debolezza nel peccato di carne, constatazione che d'altronde Dante ha la
prudenza di non attribuire a se stesso o alla propria guida Virgilio, ma fa
scaturire direttamente dalle parole di Francesca, la quale non vuol essere
assolta, non pretende nulla per sé e per Paolo, ma riconosce apertamente la
potenza irrefrenabile della passione lussuriosa e la superiorità, non
discutibile, del giudizio divino. Tutta la critica contemporanea ha letto il
canto di Francesca dall'angolo dei sentimenti, sicuri e non romanticamente
oscillanti, del poeta-personaggio, in cui ha visto in forma non facilmente
percepibile ma non certo assente la violenza delle proprie stesse emozioni
d'uomo dietro l'indistruttibile necessità del giudizio.
Il simbolo anche in altre evenienze
si mescola di apporti culturali diversi. Il Veglio di Creta non è
soltanto figura scritturale, ma la collocazione geografica che Dante dà
alla statua apparsa in sogno a Nabucodonosor, è di per sé sola prova di
reminiscenze classiche; nell'isola di Creta i poeti antichi avevano situato la
sede della prima età dell'uomo; in essa si svolgeva il mito di Saturno e
dell'età dell'oro; in Creta era stata rinvenuta dopo un terremoto,
racconta Plinio il Vecchio, l'immagine di un gigante; l'etimologia dei fiumi
infernali, che nascono dal Veglio, è attinta da Servio oltre che da Isidoro.
Sul significato allegorico del Veglio le interpretazioni dei dantisti sono
state numerose, e sovente molto difformi le une dalle altre: simbolo della
superbia, immagine della varietà della natura umana, allegoria dei vari
periodi della storia umana dalla primitiva purezza all'attuale degenerazione,
simbolo dell'uomo corrotto dopo il peccato originale. Di maggiore chiarezza
allegorica è il Messo celeste: per vincere la tracotanza dei
diavoli (i quali avevano cercato d'usarla anche contro Cristo, allorché discese
in Inferno per liberare i giusti dal Limbo) è necessario un intervento
straordinario, esercitato da un personaggio da ciel messo; il problema
fondamentale dell'esegesi dantesca verte qui sulla natura, fisionomia e
identificazione del Messo: se esso sia un angelo (che è l'ipotesi
tradizionale, e tra i vari angeli è prevalsa la scelta su S. Michele),
un personaggio biblico (sia vetero-testamentario, Mosè, sia evangelico:
S. Pietro), un personaggio della mitologia classica (Mercurio, Ercole, Enea) o
della storia romana (Cesare) o di quella contemporanea (Enrico VII); al
problema si è collegato anche il rapporto tra la particolare funzione
descritta, dischiudere le porte della città di Dite, e un ruolo che il
Messo celeste eserciti stabilmente nell'Inferno, in rispondenza alle fonti
scritturali (nell'Apocalisse è detto di un angelo che possiede le
chiavi dell'Inferno; S. Paolo parla di un arcano katéchon che vieta alle
forze infernali di scatenarsi in terra). Il Messo celeste è forse un
angelo che sovraintende al Limbo, ove sono avvertibili i segni di una presenza
celeste, e dove sappiamo che Beatrice, donna… beata e bella, può
far giungere il suo desiderio a Virgilio che si trovava tra color che son
sospesi, scendendo di persona, lo scender qua giuso in questo centro /
de l'ampio loco ove tornar tu ardi. In tal modo si viene a strutturare
un'ampia compagine allegorica all'interno delle gerarchie angeliche, sia pur
soltanto il solo Messo (e quindi S. Michele), anche in rapporto alla prima
cantica, oltre che alla costante presenza negli altri due regni oltremondani.
L'unità drammatica
Vangelo-storia contemporanea permea di sé tutto il discorso del pellegrino
escatologico, e ha come analogia simmetrica l'unità drammatica
Dante-Virgilio, la quale influisce in modo sensibile sulla pregnanza
concettuale delle varie apostrofi politiche, in quanto la ragione umana
suggerisce all'indignatio, ancor che passionale e istintiva, le reali
motivazioni del giudizio storico. Se non sempre, però spessissimo il
poeta dispone su un piano storico gl'incentivi della propria causa, e ne
individua nel canto XIX dell'Inferno la causa fondamentale nella
donazione (falso credita) dell'imperatore Costantino al papa Silvestro.
S'è molto disputato sull'opinione non sfavorevole che Dante s'era fatto
delle intenzioni del gesto imperiale e della nessuna responsabilità
diretta che l'Impero possedeva nei riguardi dell'uso degenerato e corrotto che
la Chiesa ebbe a fare del dono, da intendersi come semplice costituzione di
dote per le opere di carità che la Chiesa era tenuta a compiere. Ma
della dote i papi s'erano appropriati, facendo una vera e propria institutio
statale. Il concetto potrà cambiare nella Monarchia, ma all'epoca
dell'Inferno la donazione è vera e propria dote, e quindi
proprietà, presa fraudolentemente dai papi ma non soltanto gestita da
essi, non fructus come nella Monarchia, e cioè temporaneo
possesso per trarne gli utili.
Dal concetto di fructus
discendono tre soggetti giuridici per il dominio temporale: il proprietario
(l'Impero), il possessore (la Chiesa), l'usufruttuario (i poveri), mentre i
beni spirituali della Chiesa sono anche e soprattutto le cose di Dio,
cioè un patrimonio di esclusiva proprietà divina, che di
bontate / deon essere spose, e sono invece materia d'adulterio. Motivazioni
diverse concorrono a rendere esecrabile per Dante (in ciò rimasto ben
fermo sulle stesse posizioni del periodo del priorato) il dominio temporale dei
papi: il traffico delle indulgenze, la vendita delle cariche ecclesiastiche,
possibili anche senza la donazione, sono indipendenti tuttavia dalla
temporalità nella misura in cui essa ha potenziato il desiderio di ricchezze,
ed esteso smisuratamente il mercimonio, che nella Curia di Roma ha consentito
damnationem
meretricis magnae, quae sedet super aquas multas, cum qua fornicati sunt reges
terrae, et inebriati sunt qui inhabitant terram de vino prostitutionis eius (Apoc.,
17, I),
dunque la rinascita dell'immagine giovannea della Roma pagana nella Roma
cristiana, con l'aggravante della contaminazione tra la meretrix e la bestia
per l'inespressa volontà di unire due figure apocalittiche in una, onde
dare a questa un più icastico significato allegorico e una più
vivida rappresentazione, a rischio d'alterare profondamente il testo
evangelico. L'immagine terrificante dell'Anticristo è reinterpretata da
Dante con la figura della lupa, regina della nuova Babilonia che stende i
propri artigli su nazioni e città così come la prostituta
s'adagia sulle acque copiose.
Il personaggio Virgilio che
s'accompagna a Dante nel viaggio oltremondano da quando questi retrocede in
gran fretta dal pendio del colle alla bassura della selva (Inf., I, 61)
al momento della riapparizione di Beatrice (Purg., XXX, 43) non è
scindibile dal poeta latino, della cui opera, del cui influsso culturale,
formale, morale Dante aveva mostrato profonda conoscenza ed effetto già
dalle opere giovanili. E però da queste, e poi dal Convivio alla Commedia,
il salto dell'ascendenza virgiliana è nettissimo per intensità
d'approfondimento e per copia d'interpretazione allegorica. Al termine
dell'educazione retorica e grammaticale giovanile, Virgilio è già
per Dante un auctor da interrogare diuturnamente per conoscere le leggi
morali che vigono nel mondo e quelle della cultura classica, in nulla da
rifiutare, tutte da apprendere, recepire, far proprie, rivivere interiormente;
nel Convivio Virgilio è già il simbolo della saggezza naturale;
nella Commedia è subito oggetto d'un disegno provvidenziale, il
quale fa sì ch'egli, non potendo esprimere alcun valore inerente alla
Rivelazione, simboleggi la dipendenza e la soggezione della ragione umana alla
trascendenza, e prepara l'avvento della Rivelazione, avvia verso la teologia,
dunque avvia Dante verso Beatrice.
L'allegoria non elimina mai,
s'è detto, lo spessore culturale e l'identità biografica di
Virgilio, cantore di Enea e quindi cantore della storia di Roma e della
provvidenzialità di questa storia, uomo di somma cultura (famoso
saggio) e dunque “fonte” di qualsivoglia discorso poetico: maestro di stile
e d'auctoritas, profeta d'una novella età, intimamente partecipe
del processo di rinnovamento spirituale dell'umanità, non soltanto
capace di imprimere ai poeti futuri (Dante lo dice a Stazio) forza a cantar
de li uomini e de' dei, ma di rivelare agli altri (Stazio lo confessa a
Virgilio) la necessità del pentimento morale, e d'essere strumento
diretto, in conseguenza dell'intervento delle tre donne benedette, della
salvazione di Dante, con la sua presenza di “guida” anche col suo parlare
onesto, con l'energica efficacia della parola poetica, per mezzo della
quale Virgilio è in grado di manifestare la somma delle proprie
esperienze storiche e morali e di rendere chiara a Dante la portata del
messaggio di Verità divina di cui egli è “pagano” araldo,
malinconicamente conscio del proprio stato d'inferiorità verso le anime
purganti e i beati.
Al personaggio il suo alunno Dante
attribuisce un'umanità straordinariamente viva e mobile nelle emozioni,
nei rimpianti, nella severità del maestro, nell'accortezza della guida,
nella perentorietà del dottore, nell'affettuosità
dell'amico più anziano, del “fratello maggiore”. E questo personaggio
Virgilio non è mai statico nei propri atteggiamenti, i quali alcune
volte sembrano quasi essere di “piglio” dantesco, a cominciare dalla sdegnata
apostrofe a Pluto, altre di sicurezza e d'imperio, talaltre d'incertezza e di
inquietudine, sì da creare nel complesso un'entità fisionomica
comprensiva d'ogni attributo umano, oltre che di completo Mentore culturale, di
diretto ispiratore di immagini all'alunno: il superbo Ilïòn,
l'umile Italia, ecc. Il suo incontro con l'altro personaggio principale
della Commedia, cioè Dante, non ha soltanto significato simbolico
nel contesto religioso e morale del poema, ma è anche un preciso
avvertimento letterario, preceduto e accompagnato dal ripudio di un altro
poeta, Ovidio, e della poesia erotica, per un più ambizioso e difficile
programma di rinascenza culturale: emblema letterario del passaggio dalla
poesia stilnovistica alla nuova ispirazione poetica di tipo “virgiliano”.
Procedono nella via dei cerchi infernali un auctor, Virgilio, e un
“nuovo autore” Dante, da un lato il rappresentante di quei philosophi et
inventores artium la cui auctoritas, aveva riflettuto l'Alighieri
nel Convivio, coincide perfettamente con un “atto degno di fede e
d'obbedienza”; d'altro lato colui che richiama se stesso alla più
modesta possibilità di scrivere e di agire; Virgilio quale profeta della
novella età che prende inizio da Cristo, e Dante quale profeta d'una
seconda nuova età, rigenerata (secondo Gioacchino da Fiore) dall'arrivo
e dal trionfo dello Spirito Santo sull'Anticristo. Il rapporto di
fedeltà e dell'ossequio verso il dottore e poeta e savio,
nel mentre che definisce i ritratti dei due personaggi, viene elevato da Dante
ad una superiore sfera di comprensione, sì da costringere il lettore
medievale ad ammirare sempre, dietro la sapienza di Virgilio, quella di Dante,
che si consacra erede ed interprete di tutto il patrimonio di civiltà e
di perizia poetica che Virgilio aveva consegnato alla cultura latina e a quella
medievale. Ha scritto il Curtius:
La
riscoperta di Virgilio da parte di Dante fa pensare ad un arco di fuoco che va
da una grande anima a un'altra grande anima. Nella tradizione europea non
c'è un incontro che colpisca di più, per la sua levatura, la sua
delicatezza, la sua fecondità, di quello dei due più grandi
Latini. Storicamente, si tratta dell'alleanza che il Medio Evo latino ha
suggellato tra il mondo antico e il mondo moderno. È soltanto nella misura in cui
siamo capaci di cogliere Virgilio in tutta la grandezza del suo genio poetico…
che potremo comprendere Dante per intero[84].
Non esisteranno dunque differenze tra
il personaggio storico e quello poeticamente rappresentato da Dante,
così come non possono accadere per altri personaggi del poema. Secondo
l'interpretazione dell'Auerbach d'un “realismo figurale” (motivo esegetico e allegorico
di tutto il Medioevo), per il quale i personaggi e gli eventi del Vecchio
Testamento preparano, annunciano e prefigurano l'avvento di Cristo, e nessun
uomo può realizzare nella vita terrena la propria identità
spirituale, ma soltanto nell'al di là raggiunge la sua quidditas,
anche Publio Virgilio Marone ha vissuto nella vita terrena, nella sua
età e nelle congiunture storico-culturali che ad essa furono proprie, il
preannuncio della sua vera essenza, si realizza nella vita ultraterrena con la
missione che gli è stata affidata di guidare Dante nell'Inferno e nel
Purgatorio. Il vero compimento di Virgilio è qui, accanto a Dante,
mentre lo sprona a procedere, gli impartisce lezioni di verità umana, lo
fa esperto di situazioni anche pratiche, gli crea un clima di pietas o
di severità morale che è necessario al pellegrino escatologico
perché il suo viaggio rechi alla salvezza dell'anima. L'esser abitante del
Limbo è già compimento della “figura”, ma la missione affidatagli
da Beatrice arricchisce il modo di “compiersi”, lo colloca in un livello
superiore a quello raggiunto da ogni altro filosofo e poeta antico.
Simbolo della ragione umana o della
scienza umana, Virgilio è stato così inteso dagli antichi e
moderni commentatori come una ineliminabile necessità del viaggio
dantesco; si sono aggiunti nell'età del Risorgimento altri elementi che
sono valsi a condensare ulteriori significati nel dottore: il poeta di
Roma, e quindi l'incarnazione degli ideali politici che saranno sentiti e
rispettivamente discussi dall'autore della Commedia e della Monarchia;
il dantismo contemporaneo ha ulteriormente portato avanti il discorso del
debito culturale che Dante deve al poeta dell'Eneide (lo studio dei
virgilianismi danteschi reca indubbiamente ad una ricca messe di riscontri, di
simiglianze, persino di traduzioni letterali) e lo ha congiunto con quello
della missione provvidenziale assegnata a Virgilio. La ragione umana ch'egli
simboleggia non è quindi assoluta e autosufficiente, ma è
sottoposta alla fede, è mossa e a sua volta guidata dalla teologia
(cioè da Beatrice): una particolare tipologia della ragione umana. Anche
Virgilio è, a suo modo, fruitore dell'eccezionale grazia che è
stata commessa a Dante; anch'egli compie una profonda esperienza umana,
più nel Purgatorio che nell'Inferno, ma anche nei cerchi
infernali. L'incontro con Ulisse, ad esempio, non tocca soltanto il personaggio
Dante, che sembra quasi appartarsi, ma Virgilio, che con Ulisse può
intendersi, e che da Ulisse apprende cose che la “storia” non poteva fornirgli:
la conclusione del folle viaggio. Di questo interno itinerario
spirituale di Virgilio il suo figliuol non è inerte testimone, ma
compartecipe d'ansie e di speranze.
La presenza di Virgilio andrà
avvertita, dunque, nella sua globalità: sia allegorica che culturale,
sia morale che letteraria; guida del pellegrino, e scrittore le cui opere,
massimamente l'Eneide, l'alta tragedìa, plasmano il
linguaggio volgare di Dante, insegnano a narrare poeticamente, suggeriscono
continuamente nuovi stimoli, aprono verso altri orizzonti culturali, confermano
il valore messianico e palingenetico della poesia, spiegano l'alta funzione
della civiltà di Roma e la sua continuità storica nella missione
attuale dell'Impero.
Dicevamo che per dovere
d'informazione questi punti dell'ottica di lettura dell'Inferno andavano
enunciati, e li abbiamo riferiti così come li presenta la dantologia
vecchia e moderna. Ma si rischierebbe di non comprenderne la genesi, di non
rendersi conto della “struttura profonda” dell'Inferno se non se ne
ricercassero le ragioni dall'“interno” di Dante, dalle intime latebre d'uno
spirito inquieto, animoso, avido di sapere, fornito d'una prodigiosa memoria di
cose “viste” e “lette”, soggetto di profondi sentimenti e di un intenso senso
di sé, così da accertare in ogni zona dell'Inferno, e poi del Purgatorio
e del Paradiso, la costante presenza di un uomo ben tetragono ma
incline anche alla suavitas del canto d'amore di Francesca, alla
attualizzazione della plastica figura d'un capo politico quale Farinata, alla
enunciazione dei propri debiti culturali verso il maestro Brunetto e nel
contempo al grido d'orgoglio:
La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l'una parte e l'altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l'erba.
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s'alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que' Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta[85]
alla ripresa della “favola antica” di Ulisse in un contesto nuovo e
attualizzante il folle volo, alla cupezza “scura” del racconto di
Ugolino, questi e tanti altri incontri che prospettano altrettali proiezioni
della grande summa di potenzialità emotiva. È quel Dante
che parla in prima persona. Dopo anni di tentativi più che lodevoli
attorno a rime e a trattati, il sedimento ora si solleva dal profondo, immagini
appena apparse sullo schermo della memoria prendono corpo, uomini “letti” sui
poemi degli auctores divengono figure viventi, fatti storici si
risollevano dalla morta gora di antiche cronache scritte od orali e divengono
emozionanti e laceranti episodi di realtà quotidiana.
La polisemia della parola dantesca
inizia sùbito, col primo canto dell'Inferno e prosegue per tutti
e cento i canti del poema sacro; la parola ha nel fondo, nella zona
più interna del suo significato, due stimolazioni, legate l'una all'ordo
della visione mistico-escatologica, l'altra, al valore di rivelazione
profetica, di preannuncio d'una novella età. Accanto al carisma
c'è poi il dono dell'insegnamento, cioè l'ossatura
epico-didattica dell'opera, in quanto deve servire all'agens o viator
(non evidentemente all'autore) e nel contempo al lettore, cui il poeta si
rivolge con continui “appelli” volti non tanto ad attirarne l'attenzione,
quanto a sottolineare il significato morale e insegnativo del singolo exemplum
descritto. L'opera deve essere utile, sì a colui che dice io, ma
soprattutto a coloro che leggeranno e ne resteranno ammaestrati. Il che si
evince ovviamente dal complesso dell'opera, ma anche da singole zone d'una
cantica, destinate ad uno specifico ammaestramento, d'ordine pratico e
parziale, con un'opportunità didattica che s'inquadra in un messaggio
generale, ma lo scompone in una serie d'insegnamenti localizzati e funzionali
ad una singola colpa, ad un singolo modo del riscatto morale, della catarsi
ascetica, dell'insegnamento etico politico.
Irrompe una poesia nuova, non
è la morta poesì che resurga (s'intende che alteriamo
il significato dell'attributo), ma un aggressivo èmpito di veemenza
creativa che ha bisogno di cose reali, di uomini dalla sanguigna esperienza
terrena, non importa se figure del proprio tempo o simulacri di una antica
civiltà. Vero è che questi protagonisti (poiché non ci sembra a
questo punto cosa buona chiamare soltanto “personaggi” Francesca o Farinata,
Ulisse o Ugolino) sono, secondo Auerbach, figure che realizzano loro stesse
nell'aldilà, nel “divenire immanente nell'essere senza tempo”. Ciò
è pur valido da un'angolazione filosofica, ma va pur soggiunto che
questi protagonisti si realizzano soltanto nell'efflatus vocis dantesco,
in quei rapidissimi ingressi dei personaggi che staccano nel silenzio la loro
voce: O Tosco che per la città del foco, ovvero E Se miseria
d'esto loco sollo, ossia Se' tu già costì ritto, o
anche Perché mi peste?, ovvero Tu vuo' ch'io rinovelli, in Dante
e per Dante: O Simon mago, o miseri seguaci o La bocca sollevò
dal fiero pasto, con Dante e nel suo modo irripetibile di far poesia con le
cose:
Quali colombe dal disio chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere, dal voler portate…
in una lunghissima galleria di immagini di sé: Io non so ben ridir… Ma
poi ch'i fui al piè d'un colle giunto…guardai in alto…la notte ch'i'
passai con tanta pièta… Di questa galleria fanno parte gli appelli
al lettore, gli scambi lenti ora o veloci del dialogo, i lunghi indugi sulle
similitudini, le perifrasi, gli scambi di parole, le robuste oltre che callidae
juncturae, gli armoniosi enjambements, la forza incalzante e
incrociata delle rime, i lunghi ritmi dell'endecasillabo, le sue spezzature, i
tagli netti del periodare o le ampie volture sintattiche, le parole piane e
quelle difficili, lo scontro (dove l'attenzione di Dante si fa particolarmente
viva) tra vocaboli del linguaggio aulico e di quelli del mezzano, gli ingressi
violenti dello stile infimo, i giuochi di parole assonanzate, le rime interne,
i solchi ampi tra terzina e terzina ovvero i passaggi interni tra due terzine
consecutive, le frantumazioni della terzina in più periodi ovvero le
coincidenze tra una terzina di proposizione dipendente e una terzina di
proposizione principale (o di due coordinate, in parallelo). Le occasioni della
narrazione sono talvolta affidate alla voce dell'io narrante, ossia è
Virgilio che spiega l'azione ed enuncia la opportuna didascalia narrativa,
ovvero ancora l'azione è dettata dalle voci degli stessi personaggi. Si
produce una vastissima gamma espressiva che congloba sempre ed esalta la
presenza dell'io narrante sulla scena, la sua duplice individuazione in un
personaggio o nell'autore dei versi, in una figura astratta e indeterminata di viator
penitenziale o in quel preciso viator che è il fiorentino Dante
Alighieri, uomo politico sconfitto ed esule, partitante costretto a vivere
lontano dalla patria, protagonista tra personaggi a lui familiari o talmente
lontani che, com'è il caso di Ulisse, c'è bisogno di un tramite,
Virgilio stesso: un tramite che d'altronde è sempre operante, attivo,
compartecipe degli stati d'animo dell'io narrante.
Questo è il segreto del vero
autobiografismo nell'Inferno, umano e politico, come poi nel Purgatorio
un autobiografismo soprattutto letterario e di stile. Lo scenario infernale,
come poi quello all'aria aperta del Purgatorio, è interamente
occupato dall'umanità di Dante, il quale riuscirà a rompere la
quinta astratta dei cieli con la medesima continuità della sua presenza.
Dante compie la sua specie figurale esclusivamente nel dettato poetico. Si
può e si deve vedere anche nell'Inferno il filosofo, in qualche
passaggio pur il teologo, ma l'occupazione totale degli spazi del poetare
è la caratteristica fondamentale della prima cantica: nella poesia
dantesca il “divenire” si effettua in un sublimante vivere dell'essere “nel
tempo”, per voler capovolgere la formula auerbachiana, applicabile a tutti i
momenti della Commedia ma non proprio al suo autore, in cui si muovono
tutte le altre figure per confluire poi di nuovo in lui e attualizzarsi
nell'“essere Dante”, in un unicum spazio-tempo per cui la glossa
può spiegarci che Brunetto, Farinata, Ugolino e Francesca e Pier delle
Vigne sono coetanei o quasi, ma la poesia attualizza sia loro, sia i coetanei
dello stesso poeta, Ciacco o Vanni Fucci, sia e con pari apertura di obiettivo
i remoti Capaneo o Ulisse. Insomma Flegias e Filippo Argenti, Sinone e Mastro
Adamo coincidono temporalmente con Virgilio nella contestualità
narrativa della loro comparsa dinanzi a Dante. Dante non potrebbe parlare con
Ulisse, e la conversazione è tenuta da Virgilio, il quale discorre in un
tempo fittizio mentre Ulisse racconta in un tempo reale: nell'oggi della
poesia, giustificato sì con l'oggi della Settimana santa del
In che cosa consiste il “patto
autobiografico” di Dante coi contenuti della sua poesia, nel momento in cui
avviene il simultaneo definirsi dello scrittore come persona reale e autore del
discorso? L'io che parla non è riducibile a nessuno dei suoi testi in
quanto li oltrepassa tutti. Tuttavia un più sottile, segreto
autobiografismo permea tutto il tessuto dell'Inferno, ed è
affidato alla sofferta consapevolezza che le proprie scelte politiche e di
conseguenza l'esilio, la vita errabonda di corte in corte, non siano o siano
state amarissime solo per sé, ma anche, e ancor più dolorosamente, per i
propri figli: l'“unico” dolore di Farinata è nel veder coinvolti nella
medesima condanna e per sua colpa quei del suo sangue; ed è dolore anche
del conte Ugolino, o di Mosca de' Lamberti. A questa filigrana autobiografica,
così ben messa in rilievo dal Bosco, si rifanno molte delle scelte di facta
e di mores. La biografia non è impersonale, poiché i personaggi
trasudano le passioni dello stesso loro autore, e il rapporto tra fabula
e verbum coincide nell'esigenza di ricercare il verbum che
procede contemporaneamente al signum. Il poeta è forse un
sopravvissuto alla sua stessa biografia, ma proprio in virtù di
ciò il fatto storico sopravvanza la presenza materiale degli accadimenti
del poeta, il quale supera anch'esso la sua biografia per l'autenticità
dei propri empiti emozionali e per la verità massima assegnata alla funzione
catartica che il viandante escatologico subisce nel corso del suo itinerario
per i cerchi infernali.
XIII
LA SUPREMA
ILLUSIONE: ENRICO VII
Non è possibile collocare con
esattezza il punto iniziale dell'Inferno, anche se è suggestiva
l'ipotesi che i primi canti siano stati scritti durante il soggiorno ad Arezzo
(tarda primavera-estate 1304), da quell'importante osservatorio politico dal
quale Dante segue il succedersi degli eventi politici, e portato avanti sino al
La notizia giunse in Italia
all'incirca nel momento in cui nella cattedrale di Aquisgrana Enrico VII
cingeva la corona: 6 gennaio 1309. E forse la notizia non destò subito
in Italia una grande speranza, ma ben presto gli ambienti ghibellini e anche
quelli del fuoruscitismo guelfo bianco cominciano a nutrire qualche illusione
con la dieta di Spira, della fine d'agosto del 1310 (Dante è nel pieno
del febbrile lavoro attorno al Purgatorio). S'era conclusa da poco la
guerra di Corso Donati, ucciso il 6 ottobre 1308, e s'era manifestata in pieno
l'azione militare di Uguccione della Faggiuola. Anche all'interno le sorti del
ghibellinismo riprendevano a verdeggiare. Si guarda con interesse alle mosse
del giovane Enrico, al suo pronto rivelarsi un imperatore desideroso di
scendere in Italia e ripristinare la supremazia dell'impero: frattanto
necessitato a scendere a Roma per l'incoronazione papale.
Senza dubbio iniziarono presto una
serie di contatti diplomatici coi signori di varie città dell'Italia
settentrionale. L'incoronazione era stata stabilita per il 2 febbraio 1312, ma
l'alto Arrigo avrebbe potuto precedere la cerimonia con una spedizione
militare già vari mesi prima. E, con gli altri, spererà Dante, il
quale era troppo attento scrutatore della situazione politica italiana per non
rendersi conto che la discesa di Enrico rappresentava ben più che un
atto di ossequio all'autorità della Chiesa: anzi una sfida a Clemente V.
S'è già detto che la
partenza del corteo imperiale poté essere forse la causa dell'improvviso
ritorno di Dante da Parigi, e giacché sappiamo da lui stesso dell'incontro con
Enrico VII, più importante durante le prime fasi della spedizione che in
un secondo momento, non è da scartare l'ipotesi che questo incontro si
fosse verificato prima che l'imperatore varcasse le Alpi al Cenisio e
raggiungesse Susa (23 ottobre 1310: come si vede ben più d'un anno prima
della incoronazione a Roma, e chiaramente con un preciso disegno politico). Se
tuttavia l'ipotesi di un incontro in terra di Francia non reggesse, è
certo che Dante poté essere ricevuto dall'imperatore molto presto, allorché
rendette ossequio al giovane Lussemburghese e benignissimum vidi et
clementissimum te audivi, cum pedes tuos manus mee tractarunt et labia mea
debitum persolverunt[86]:
durante il soggiorno di Torino?, o nella tappa di Asti, in quella di Vercelli?,
o meglio ancora appena Enrico giunse a Milano (23 dicembre), alla vigilia della
incoronazione reale (6 gennaio 1311), o fors'anche durante la stessa cerimonia
così toccante per il cuore del vecchio esule, ripieno di speranza che
col proseguire dell'azione politico-militare anche Firenze fosse “liberata” dal
dominio dei Neri ed egli potesse farvi ritorno al seguito delle milizie
imperiali?
Una cosa è, comunque, certa:
Dante si trova in quei mesi nell'Italia settentrionale; ha preso contatto coi
signori dell'Italia ghibellina, con gli ambasciatori, anche, di Cangrande della
Scala, al seguito di Enrico sin dal soggiorno ad Asti: 2 dicembre.
Il momento è solenne. Tutti
gli antichi fuorusciti fiorentini, Ghibellini e Bianchi, sono intenti a seguire
le mosse dell'alto Arrigo, e impazienti vorrebbero che egli non ponesse
ulteriori indugi, e subito puntasse al cuore della Toscana. Con la speranza
prende corpo in Dante una diversa o comunque più precisa convinzione
politica. Dapprima la esprime con la quinta epistola nella quale l'humilis
ytalus si rivolge ai signori e ai popoli d'Italia. Questo “dapprima” quando
cade? Prima dell'incontro con Enrico, e cioè quando egli è ancora
in movimento dalla Germania verso la Francia, e di qui avanza verso il Cenisio?
Si può affermare di sicuro soltanto che essa precede l'incontro
personale con Enrico: dunque ottobre-novembre 1310, e fu il miglior biglietto
di presentazione che Dante potesse produrre al giovane monarca. La fitta
elaborazione della quinta epistola aveva richiesto qualche tempo, e quindi
almeno questa poteva esser stata iniziata in Francia, terminata in Italia poco
prima dell'incontro. Enrico quasi certamente non doveva saper nulla su Dante
prima di giungere in Italia, ma quella solenne missiva rivestiva, per la
missione che egli intendeva intraprendere, un'importanza fuori del comune. Era
l'avallo che tutta la intellettualità italiana rilasciava alle sue
ambizioni di gloria nella terra in cui s'erano distinti i suoi predecessori nel
sec. XII e nel XIII: una patente di nobiltà politica che più alta
e ispirata né Federico I, né Federico II avevano mai ricevuto da un dotto
italiano.
L'irrefutabile prova dell'epistola
casentinese del 17 aprile, col ricordo dell'incontro del poeta col suo monarca,
contrasta con l'affermazione del Boccaccio secondo cui Dante sarebbe rientrato
da Parigi mentre Enrico è all'assedio di Brescia (maggio-settembre
1311); e inoltre la precedente epistola agli scelleratissimi Fiorentini e i
seguenti biglietti a nome della contessa di Batifolle fanno pensare a un
interesse precipuamente volto alle cose di Toscana, da un lato, e dall'altro a
una certa durata del soggiorno in Casentino (dove non può essersi recato
come messo di Enrico, ché anzi scrivendo tam pro me quam pro aliis
mostra di esser portavoce di tutta la comunità degli esuli fiorentini).
È da qualche mese in questa regione, forse già dal gennaio, se il
31 marzo, pridie Kalendas Apriles, avverte la necessità
(così per la settima e la decima delle Epistole) di adornare la lettera
con una precisazione di tempo e luogo, in finibus Tuscie sub fontem Sarni,
a documentare, come in Epist., X, una sorta di pubblica affermazione di
legame, per quel poco che durerà, col signore di Poppi, Guido di
Batifolle, perpetuando un'ospitalità con tutta la famiglia dei Guidi che
gli aveva concesso anni prima momenti di relativa serenità (la canzone Amor,
da che convien) e d'intenso lavoro attorno all'Inferno. Il ramo
casentinese però, nonostante la presenza di così illustre
patrocinatore, si va mostrando e si mostrerà ancor più
nell'autunno successivo piuttosto tiepido verso l'imperatore che non i consorti
di Romena e di Modigliana. Si deve riflettere che fu questa tiepidezza
(destinata a divenire ben presto distacco, infine ostilità) a
consigliare Dante sul finire dell'anno a cambiare dimora, e degli abitanti a
serbare pessimo ricordo (i brutti porci di Purg., XIV,
Tuttavia, finché Dante fu a Poppi,
l'ambiente politico si mostrava propenso a che un suo illustre ospite si
facesse banditore delle finalità politiche della spedizione imperiale,
rampognando i Fiorentini della loro superba ostilità e vaticinando
terribili castighi (Epist., VI), incitando (Epist., VII, del 17
aprile) Enrico a non indugiare nelle terre dell'Italia settentrionale, irretito
in angustissima mundi area, e a calar fulmineo sulla Toscana, dove
s'annida la volpe sicura dai cacciatori, et Florentia, forte nescis?, dira
haec pernicies nuncupatur (VII, 15, 23) è la vipera che s'avventa
contro le viscere della madre. Da Poppi compone e trascrive tre lettere che la
moglie di Guido, Gherardesca di Batifolle, invia all'imperatrice Margherita (Epist.,
VIII, IX, X) scritte tra la fine di aprile e il 18 maggio: indispensabile
officio di un dotto dittatore ai signori che lo ospitano e lo tollerano anche
soltanto per esprimere auguri e consensi per le imprese vittoriose di Enrico:
occupazione di Cremona, inizio dell'assedio di Brescia. E non dovettero essere
le sole missive che Dante ebbe a scrivere nel
Il soggiorno in Casentino si fa
dunque sempre più rischioso e precario. Il Boccaccio accenna nel Trattatello
in laude di Dante[87]
a una sosta “col conte Salvatico in Casentino”; potrà essere possibile
che Dante beneficiasse dell'ospitalità del conte Guido Salvatico di
Dovadola nel 1307, non nell'11, poiché anche e soprattutto Salvatico s'era
nettamente schierato coi Neri; si è supposto in via subordinata che il
soggiorno nascesse dalla necessità di persuadere Guido a volgersi contro
i Neri nel
Non avvenne che l'imperatore
ascoltasse i consigli e le implorazioni di Dante e di altri come lui:
invece di
dirigersi su Bologna e sulla Toscana, seguendo non una saggia riflessione, ma
l'impeto dell'ira, mosse verso Nord contro Brescia, che si trovava anch'essa in
rivolta, e per mesi si accanì nella lotta contro una città, la
conquista della quale non poteva avere alcun valore decisivo. Quando alla fine
ci riuscì, egli stesso fu un vincitore vinto[88].
Il 15 maggio Enrico s'era mosso per
Brescia; il 18 settembre, soltanto, la città cadeva, e l'imperatore
nella sua così ritardata marcia verso il centro dell'Italia devia su
Genova, dove giunge nell'ottobre (e dove il 14 dicembre veniva a morte, di
peste, l'imperatrice Margherita). Nel contempo spedisce ambasciatori a Firenze
per imporre l'obbedienza; 25 ottobre: i messi giungono alle porte della
città, ma non riescono a stabilire alcuna intesa col governo nero, anzi
sono costretti a fuggire. L'oltraggio inflitto agli ambasciatori spinge Enrico
(20 novembre) a imbastire un regolare processo contro la città, e per
esso furono escussi vari testimoni; non v'è indizio che Dante fosse
chiamato a deporre, ma la sua posizione in seno ai governanti fiorentini non
era certo migliorata dopo le pubbliche dichiarazioni delle epistole
casentinesi, note tutte ai Neri, non soltanto quella a essi diretta. Quando
Firenze, con la cosiddetta “Riformagione” di Baldo d'Aguglione aveva concesso
l'amnistia (2 settembre 1311) a vari guelfi al bando — e il motivo essenziale
fu forse quello di procacciare nuove entrate all'erario cittadino coll'incasso
delle penalità degli ex condannati — Dante è tra gli esclusi, coi
figli di Cione del Bello e molti altri anche dello stesso sesto di Porta San
Pietro.
A metà di febbraio del 1312
Enrico parte da Genova; il 6 marzo a Porto Pisano “pose piede su quella terra
di Toscana che doveva essergli fatale”[89]. L'elemento di
fatto dell'incontro del Petrarca fanciullo con Dante suole, per maggiore
consenso degli studiosi, cadere in questa evenienza, a Genova nel 1311. Dal
punto di vista strettamente dantesco l'episodio, collocato a Pisa tra la
seconda metà di marzo e l'aprile del 1312, dà maggiori garanzie,
anche in ordine alla convergenza dei motivi che avrebbero potuto spingere Dante
e ser Petracco (che il figlio illustre vorrà più tardi innalzare
a un rango di esule pari a quello dell'Alighieri) a tentare ancora una volta le
intenzioni di Enrico VII in ordine a un'immediata spedizione contro Firenze e,
a seguito della delusione di ciò, allorché l'imperatore prende la strada
di Roma, allontanandosi dall'obiettivo che più premeva al padre del
Petrarca e a Dante, la necessità per Petracco di prendere la strada di
Marsiglia e di Avignone, per Dante di allontanarsi dalla Toscana. Gli ostacoli
a che Dante potesse aver osato soggiornare a Pisa al tempo della discesa
imperiale, lui che aveva lanciato la terribile invettiva contro la città
di Ugolino, cadono al semplice ragionamento che a quell'epoca l'Inferno
non era ancora pubblicato. L'esclusione dall'amnistia del precedente 2
settembre e le lontane cause del ribandimento del 1315 (di cui poi si
dirà) hanno più forte rilievo quando si consideri che il reo non
era lontano dai confini di Firenze, anzi s'era spostato dal quasi-neutrale
Casentino (donde dapprima soltanto un diniego di amnistia) alla nemicissima
città di Pisa; per cui si comincia a preparare per il poeta e i suoi
più fiera condanna; non dimentichiamo la circostanza che nella
Riformagione di Baldo i figli di Dante non sono ancora nominati, e se
certamente nel '15 avevano superato di gran lunga i quattordici anni,
quest'ultima età avevano anche quattro anni prima.
Siamo tuttavia nel campo delle
ipotesi, ma poiché Dante non è, il 7 marzo del 1313, tra i fuorusciti
fiorentini presenti al campo di Enrico VII, che da mesi è fermo a San
Casciano e poi nella cittadella di Poggibonsi, ogni possibilità di
dedurre che Dante era già lontano dalla Toscana potrebbe risultare
aperta alla discussione, non trascurando che, se i biografi non sogliono farlo
assistere, per antica tradizione, agli ultimi atti della tragedia che si chiude
a Buonconvento, il momento più propizio a che il poeta, già in
parte sconcertato dalla lunga fierissima resistenza dei Fiorentini, cominciasse
a provare il peso della disillusione e pensasse a migrare altrove, è
propriamente quello della partenza di Enrico verso Roma, o, se si vuole, quando
l'imperatore inferisce la seconda e più grave delusione ai fuorusciti
togliendo l'assedio (1° novembre).
A ciò che siamo andati
dicendo, ostano le parole del Boccaccio, il quale scrive che alla morte di
Enrico VII
generalmente
ciascuno che a lui attendea disperatosi e massimamente Dante, sanza andare di
suo ritorno più avanti cercando, passate l'alpi d'Appennino, se ne
andò in Romagna, là dove l'ultimo suo dì, e che alle sue
fatiche doveva por fine, l'aspettava[90].
La notizia è certamente
erronea, poiché non è pensabile un precoce arrivo a Ravenna,
all'indomani del 24 agosto
Per tener fede al racconto
boccacciano il Cosmo[91]
ha voluto spostare l'arrivo a Verona tra il 1317 e il 1318, dopo un soggiorno,
quindi, di oltre quattro anni in Romagna, e per suffragare l'ipotesi s'è
servito a suo modo dell'epistola a Cangrande, quella cognita ovviamente: Epist.,
XIII. Non è pensabile che Dante, presente a Ravenna subito dopo la morte
di Lamberto (22 giugno 1316) come vedremo poi, ospite del nuovo podestà
e signore Guido Novello, lasciasse a un certo momento la corte ravennate,
s'allogasse presso Cangrande, per tornare dai Polentani qualche anno dopo.
Tutto congiura contro la tesi del Cosmo, a principiare proprio dalla lettera a
Cangrande, la datazione della quale è stata posta dal Mazzoni, con
felice ragionamento, al 1316 circa, e che presuppone in tutto il testo (devotissimus
suus Dantes... Veronam petii fidis oculis discursurus audita, ibique magnalia
vestra vidi... sed ex visu postmodum devotissimus et amicus...) un lungo
rapporto di sodalità e di fedeltà. Quand'anche in tema di
cronologia dei primi quattro paragrafi di Epist., XIII, s'accettasse
l'opinione del Nardi, una datazione al 1319, comunque antecedente la sconfitta
di Padova dell'agosto 1320, proverebbe che il testo venne scritto al termine
del soggiorno veronese, ma non mutuerebbe tesi del tipo di quella del Cosmo.
Sia che l'epistola, integralmente autentica, accompagnasse il solo primo canto
del Paradiso, con dedica di tutta la terza cantica al signore di Verona,
sia che i primi quattro paragrafi, i soli autentici per il Nardi, offrissero in
dono e dedicassero tutto il Paradiso, resta il fatto che l'intero
esordio tradisce un'esperienza personale intensamente provata e maturata: vidi
beneficia simul et tetigi, ossia amicitiam vestram... servare desidero.
Se, per concludere, nel '16 Dante poteva ciò dire di Cangrande, è
evidente ch'egli si trovava a Verona da qualche anno, né è accettabile
che in tutto questo periodo egli fosse rimasto o ritornato presso Moroello
Malaspina[92].
Anche il quadro politico sospinge a
ritenere eccellente l'ipotesi che colloca alla metà del 1312 il ritorno
del poeta a Verona, ove Cangrande ha assunto un ruolo sempre più
centrale nella politica ghibellina d'Italia: vicario imperiale con Alboino dal
marzo 1311, da solo col successivo novembre, assoggetta Vicenza nell'aprile e
punta con la guerra contro Padova al predominio assoluto nella Marca
Trevigiana, sino alla battaglia del 17 settembre 1314 nei pressi di Vicenza. Da
un così rilevante osservatorio, e lontano dalla Toscana, Dante assiste
all'ultimo atto della tragedia di Enrico: 7 maggio
Giungendo a Verona, Dante recava con
sé un messaggio ben più importante di ogni suo atto politico ufficiale:
il testo delle prime due cantiche. Gli anni durissimi di alterni stati d'animo,
tra speranze e sconforti, tra spostamenti improvvisi e scomodi indugi di sede
in sede variamente ospitali, non avevano menomamente scalfito l'intenso
travaglio compositivo del poema, che forse aveva avuto nel periodo del
Casentino il lasso di tempo più lungo per la redazione del Purgatorio,
sul quale tuttavia non erano mancati larghi squarci di applicazione anche nei
successivi spostamenti. Una cronologia particolareggiata sarà sempre
impossibile, ma individuare due grandi isole di lavoro, Lucca per l'Inferno,
Casentino per il Purgatorio, dovrà essere ritenuto con
sufficiente approssimazione un punto fermo nella genesi della Commedia.
Così vicino a Firenze, il tono “cortese” raffinatamente commosso del Purgatorio
reperisce momenti d'intensa animazione affettiva nel rimpianto per gli amici
della giovinezza, da Casella e Belacqua a Forese e a Nino Visconti, nel
prodigioso recupero e totale riscrittura di forme e immagini della giovanile
ispirazione stilnovistica, soprattutto nel ricordo dell'uno e dell'altro Guido,
delle sue conclamate passioni per la musica e per le arti figurative,
d'incantati paesaggi naturali, dal terribile teatro di battaglia di Campaldino
(per l'appunto a piè del Casentino) alle memorie di Lucca e della
Lunigiana: eccezionale summa di tutti gli anni toscani prima e dopo
l'esilio, risolta infine e sublimata col ritorno di Beatrice, non dieci come
nella finzione letteraria, ma vent'anni dopo la sua dipartita. Recuperare quel
mondo giovanile o risolvere quei drammi di “memorie lontane” o comprendere
ancora una volta quel mondo della vicina e pur lontana Firenze furono per Dante
asperrime e disagevoli operazioni di reinvenzione poetica, tutte svolgentisi
sopra un amplissimo territorio di reazioni umane, di affermazioni politiche, di
rancori e corrucci terreni, perciò riconducibili in qualche modo alle
linee più sicure e cognite dell'animo di Dante in quegli anni di
accadimenti drammatici dei quali la spedizione di Enrico VII è il
culmine.
Invece il ritorno di Beatrice, la
misura ascetica del Purgatorio dal rito liturgico del primo canto alla
mistica processione, ai misteri della Grazia che promanano dalla comparsa di
Matelda e dal ritorno della gentilissima, sono fatti che non hanno
più rapporto diretto col mondo del 1309, 1310, 1311, 1312, coinvolgendo
fenomeni unici e irripetibili di una profondissima esperienza religiosa. Se
è anzi consentito spingersi oltre e temerariamente nel campo delle
ipotesi, si dovrebbe inferire che la toscanità degli episodi sino al
XXIV canto del Purgatorio trova diretto riferimento con l'ansioso
impegno di Dante in finibus Tuscie, e che al contrario il distacco dal
mondo e l'assunzione di pure responsabilità spirituali coincide col
momento in cui il poeta vede l'imperatore prendere la strada di Roma,
allontanarsi da Firenze, obiettivo risolutore della spedizione per le speranze
di Dante, sì ch'egli si può sentire ormai svincolato dalle
contingenze ed entrare nella divina foresta, percorrere con lenti
passi la strada verso il fiume Lete, iniziare un viaggio ancor più
importante, rivivere e attualizzare la riapparizione di Beatrice con una forza
di suasoria morale ben più “contemporanea”
che non i fatti contingenti della politica, superati nettissimamente
dall'urgenza di celebrare in tutto e per tutto il proprio risorgimento
spirituale all'alba di quella teofania a lui solo concessa, insomma di aver fatta
parte per se stesso in una rivelazione che possiede pur carattere
carismatico e profetico e dunque trasferisce gl'interessi del poeta dal piano
ascetico-storico a quello della più alta mistica, vent'anni dopo la
promessa resa al termine della Vita Nuova, dieci anni dopo l'esilio.
XIV
L'IMMAGINE DEL
“PURGATORIO”
Lo scrittore, accingendosi a lavorare
attorno al Purgatorio, ha da vari anni presente il quadro linguistico in
cui dovrà essere calata la triplice materia della Commedia. Le
idee espresse nel De vulgari eloquentia sono da un pezzo superate, ché
egli ha trovato uno stile unico che comprende tutte e tre le possibilità
enunciate nella trattatistica e insieme congloba l'elevatezza dello stile
tragico, la fluidità narrativa del comico, l'asprezza realistica
dell'elegiaco. Ma da cantica a cantica il timbro espressivo deve cambiare,
senza inutili stacchi, ma alla ricerca di una omogeneità linguistica che
caratterizzi, ora, il Purgatorio rispetto all'Inferno. Non
c'è bisogno di attingere a nuove risorse. Già la prima cantica
aveva espresso superbe prove d'un linguaggio più tenue, raffinato,
malinconico: quale si adatta ai contenuti ascetici e morali del secondo
regno dell'oltretomba cristiano, nella cui montagna l'umano spirito si
purga / e di salire al ciel diventa degno. E il tono è raggiunto
sùbito, appena conclusa la breve protasi, col sussidio d'una
caratterizzazione paesaggistica totalmente nuova, con una visione dell'umano a
cielo scoperto:
Dolce color d'orïental zaffiro,
che s'accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricominciò diletto…
… Lo bel pianeto che d'amar conforta
faceva tutto rider l'orïente…
… Goder pareva 'l ciel di lor fiammelle…
Nel contempo tutto l'immenso
patrimonio stilistico coniato per l'Inferno non dev'essere perduto, ma
ha da servire a momenti in cui la tonalità fondamentale del Purgatorio
cede il cammino a passaggi di forte valore d'apostrofe, a veementi reazioni
dinanzi alla situazione politica dell'Italia e alla generale decadenza dei
costumi nel mondo. E allora una poderosa inarcatura va dall'Inferno fin
nel mezzo del Purgatorio, e congiunge le invettive della prima cantica
con quelle della seconda, in una perfetta osmosi espressiva che salda
strettamente l'unità stilistica del poema, e che poi ritornando nel Paradiso
fa salva l'unicità del timbro del sacrato poema: un tutt'uno
inscindibile. I luoghi salienti sono ben noti: le rampogne contro la serva
Italia nel canto VI del Purgatorio, i polemici riferimenti agli
scandali che hanno degradato la città di Firenze nel canto XII, il
plastico ritratto di Provenzan Salvani, sino a terminare con la tribunizia
requisitoria di Beatrice. Anche sotto il profilo stilistico, oltre che per quel
che afferisce alla concezione politica, il canto di Marco Lombardo può
essere assunto a prova della unitarietà stilistica del poema: canto
centrale nella seconda cantica, e di conseguenza canto centrale, il
cinquantesimo dei cento della Commedia: un canto in cui ritorna
l'immagine del buio d'inferno e si anticipa, come in molti altri, il
tema della beatitudine celeste nella preghiera.
D'altronde tutta la seconda cantica
è una lunga preparazione al ritorno di Beatrice, ed è naturale
che riaffiorino alla memoria poetica di Dante quelle tonalità formali
che erano state al centro dell'esperienza verbale della Vita Nuova.
Attraverso strappi, diversioni verso il recupero realistico, memorie della
presente situazione d'Italia, incontri con amici e con poeti (è il Purgatorio
la cantica dove più fitto vive il motivo del reincontro con gli amici
della giovinezza e con i maestri del suo tirocinio letterario), tutta la
cantica tende verso il ritorno di Beatrice, e ciò reca con sé echi delle
occasioni poetiche più elevate della Vita Nuova, reminiscenze di
alcune ballate dalla ondosa musicalità, di erranti fantasmi di sogni
“cortesi” come nel sonetto Guido, i' vorrei, momenti di abbandono. E per
far ciò Dante poteva attingere di nuovo alla propria memoria, senza il
bisogno di consultare ad hoc canzonieri provenzali o tosco-siculi: vi
arrivava da solo, non aveva necessità per porre in bocca ad Arnaldo
Daniello versi in provenzale d'andarsi a studiare di nuovo la lingua
occitanica, o per far parlare Ugo Capeto quella d'oïl. Un intellettuale
che al massimo può esser costretto a risfogliare le Sacre Scritture e l'Eneide
per trovare una similitudine, un episodio, una figura che gli servisse nella
trama vastissima del poema, non aveva bisogno di attingere ai libri della
letteratura contemporanea o quasi contemporanea. E se varranno consultazioni di
Alberto Magno, di Tommaso, se si vuole di Bonaventura, all'epoca del Paradiso
(in quella prodigiosa memoria potevano esserci indici parlanti per ogni
argomento, non di necessità il ricordo totale di tutto e per tutto dello
scibile cognito in quel tempo di tardo Medioevo, sui primi bagliori di un
autunno che vede esplodere la grandezza dell'Alighieri), qui troveremo una
diminuita necessità di consultare i classici pagani, di esercitare il
mestiere di “traduttore-rifacitore” degli auctores della
classicità.
Alcuni incontri non sono senza
profonda motivazione: aprire con Casella e chiudere (prima del ritorno di
Beatrice) con Guido Guinizzelli, ciò ha un profondo significato, il
quale deve esser colto per sancire la ripresa del Dolce Stile in termini
assolutamente limitati e piuttosto l'invenzione di un terzo “stilnuovo”, dopo
il primo guinizzelliano-bolognese, un secondo
cavalcantiano-dantesco-fiorentino, con una assoluta renovatio di forme
basilari dei primi due momenti storici e la creazione di un terzo tempo di
Dolce Stile che avrà più conseguenze di quante non si vogliano
riconoscere sulla nascita del quarto “stilnovismo”, quello definitivo nella
storia della nostra letteratura, ad opera di Francesco Petrarca.
La scansione narrativa della seconda
cantica è basata su tre ritmi diversi, coincidenti con le tre
ripartizioni essenziali: l'un ritmo più ampio e dilatato, rispondente ai
primi otto canti e mezzo, e cioè a tutto l'Antipurgatorio; un secondo,
che occupa tutto il vero e proprio Purgatorio, in cui la materia dei
sette cerchi è ristretta all'interno di poco più di diciassette
canti (e quindi della metà circa della materia della cantica), ed
è ritmo più rapido, colmo, stretto di tempi e d'accadimenti, e un
terzo ritmo rispondente al lungo indugio nel Paradiso terrestre. Quindi, a
differenza dell'Inferno e del Paradiso, ove la topografia morale
vera e propria occupa tutto il paesaggio infernale (superati il prologo e la
protasi) e tutto quello celestiale, il Purgatorio è un trittico
narrativo attentamente studiato, come sempre, nei particolari ma con andamenti
diversi. La grande importanza concessa all'Antipurgatorio, rispetto al breve
spazio dell'Antinferno, risponde non soltanto a ragioni narrative, ma ad
un'esigenza dottrinaria dei desideri spirituali e di ineliminabili residui di
rapimento terrestre, sotto la forte luce dell'attesa della purificazione, dopo
la cerimonia liturgica del canto I, che è nuovo battesimo d'un
catecumeno che ha ancora bisogno di ulteriori esperienze prima d'entrare nella
porta del Purgatorio. Dante attende, e tutte le anime attendono. Attendono i
morti scomunicati, e con essi Manfredi, e girano lentissimamente, con un passo
che sembra a Dante più quiete che moto. Attendono i neghittosi, e
giacciono immobili, in una immobilità non spezzata fisicamente ma
sì frantumata letterariamente dalla presenza di un bizzarro episodio
qual è quello legato al personaggio di Belacqua. Attendono i morti di
morte violenta, e questi invece corrono verso Dante, come schiera che corre
sanza freno. Attendono nella valletta, sedendo e cantando, i prìncipi.
Ognuna delle quattro forme dell'attesa risponde ad un diverso disegno
teologico: attesa nel timore quella degli scomunicati, quel timore di Dio che
non ebbero in vita, sì da affrontare pervicaci la condanna da parte
della Chiesa di Cristo; attesa nella pazienza quella dei pigri, con un
interessante divario tra la pigrizia degli atti esterni e la pazienza del loro
interno sentire, aspettando una purificazione che non può essere
affrettata dalla volontà ma deve attendere il tempo assegnato dalla
Giustizia divina, senza in nulla venir meno del fervore ascetico: un fervore
paziente, se è lecito giuocare sulle parole; attesa nella prudenza
quella dei morti violentemente, i quali in vita ne furono privi e agirono
sconsideratamente (Jacopo del Cassero, Bonconte da Montefeltro, Pia de'
Tolomei); attesa nella misericordia quella dei prìncipi, i quali non si
trovano nella valletta soltanto perché tardi si pentirono, circostanza comune a
tutto l'Antipurgatorio, ma in quanto furono scarsamente attivi quali reggitori
di popoli, e, pusillanimi e negligenti, attendono la purificazione cantando il Salve
Regina, che è l'inno della misericordia e della carità verso
gli uomini: timor Domini, pazienza, prudenza, misericordia, quattro
virtù che andavano qui illustrate, non potendo trovare spazio né nel
Purgatorio e men che mai nel terzo regno.
Nell'arco di presenze letterarie
più fitta è la partecipazione di personaggi nella seconda
metà del Purgatorio, quasi a creare prima ancora della
processione mistica in onore della ricomparente Beatrice una prima galleria di
spiriti che hanno illustrato il mondo delle lettere: anche l'incontro con
Forese, oltre che quello con Bonagiunta, ha questa funzione. Ma ancora una
volta è attraverso la presenza di Virgilio che sono realizzate le motivazioni
letterarie e le reminiscenze della cultura classica, di quel Virgilio che
è con Dante un diretto agens del viaggio ultraterreno.
Dopo Virgilio, gli esemplari
più rilevanti sono quelli offerti da Catone e da Stazio, collocati in
una posizione antitetica e quasi antagonistica: il primo ha funzione di
guardiano dell'Antipurgatorio (prima che inizi il processo di salvazione dello
spirito di Dante), il secondo accompagna gli ultimi stadi del processo
ascetico, anche oltre la guida di Virgilio. E Stazio sana, almeno in parte,
quel tanto d'incerto (dal punto di vista dottrinario) che è nella figura
di Catone, vissuto in età precristiana, morto suicida, eppure austero
sacerdote della liturgica iniziazione di Dante al nuovo clima morale, ministro
del primo rito ascetico: un che di mezzo, di non perfettamente saldato tra
l'eroe repubblicano e il custode d'un regno cristiano, investito di compiti
appena d'un poco inferiori a quelli che saranno assunti, nel corso del vero e
proprio Purgatorio, dagli angeli: spia, dunque, prova di quel tentato e non
completo sincretismo tra mondo classico e Cristianesimo che fu dell'età
di Dante, e del nostro poeta in particolare; esemplare storico di altezza
morale, di spregio della vita, di fedeltà inconcussa alla
libertà, ma con significazioni spirituali che il personaggio reale, lo
stoico, non può tutti contenere o esprimere, e anche con aporie sul
piano storico se il custode dell'Antipurgatorio era stato l'avversario di
Cesare, cioè di colui che fu per Dante il fondatore dell'Impero, anzi il
primo degli imperatori.
Si può dedurre che la funzione
di Catone si svolga tutta su di un piano morale, non storico-politico, in
quanto primo avvertitore dell'imminenza della Rivelazione: per essersi
rifiutato d'interrogare l'oracolo pagano, giacché l'unica voce che va ascoltata
è quella della coscienza morale, ove è presente e opera il vero
Dio. L'austerità della scelta di Catone lo pone al di sopra d'ogni
condanna, ma anche al di qua d'una vera e propria salvezza (quale sarà
quella di Stazio, di Traiano, di Rifeo): egli non può varcare la soglia
del Purgatorio, e anzi non può nemmeno muoversi dalle propinquità
della spiaggia della montagna: accoglie, non guida; inizia, non reca a
soluzione il processo catartico; simboleggia la magnanimità dell'uomo
libero, non l'opposizione al compito provvidenziale dell'Impero; precede
storicamente la costituzione dell'Impero, e quindi non può essere
considerato uno strumento che ne ritarda la nascita e gli effetti voluti da
Dio, e all'intelletto dell'esule e libero cittadino fiorentino Dante Alighieri
rappresenta il cittadino dell'antica Roma che resta fedele sino all'ultimo al
sentimento di patria e non agisce per la divisione degli animi, ma contro le
lotte fratricide della guerra civile. In analogia a quanto trova scritto nella Pharsalia
(“Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni”), Dante reinterpreta, reinventa
il personaggio storico in forza d'un altissimo principio morale, che lo pone,
nel dialogo con Virgilio (Purg., I, 40-108), in uno stato superiore
anche al grande poeta di Roma, il quale gli si rivolge con reverenza, con
ammirazione, persino con accattivante umiltà: segno che, nonostante la
funzione di Virgilio nel viaggio di Dante sia superiore a quella di Catone, la
collocazione di questi è superiore a quella d'un malinconico abitante
del Limbo, d'uno che è sospeso, mentre Catone guida i primi passi
dell'anima cristiana, è ministro d'un culto sacramentale. Tuttavia (e il
dialogo con Virgilio lo comprova) Catone vive in stato di perpetua solitudine:
ammonisce, rimbrotta anzi aspramente, inizia la liturgia, ma non gode dei doni
che pur elargisce con la sua parola eloquente, con i suoi atti sacerdotali.
Resta un magnanimo senza un futuro, almeno presumibile, il magnanimo, ha
scritto il Paratore, “fra tutti i magnanimi della Commedia in una
rappresentazione più nuda e più severa di ogni altra sua”, un
ideale morale assoluto per Dante, non condannato perché la sua altezza di
concezioni è tale che, se tutti i cittadini romani fossero stati come
lui, l'umanità avrebbe da sola conquistata quella pace, acquisito quel
senso della giustizia, mancando il quale si rese necessaria da parte di Dio
l'istituzione della potestà imperiale.
Assai diverso è il caso di
Stazio. Anzitutto va detto che Catone era un auctor indiretto per Dante,
mentre la Tebaide e l'Achilleide erano libri sui quali s'era
formata la cultura classica dell'Alighieri, come quella di tutta la generazione
medievale sua e precedente la sua; le citazioni, le reminiscenze, persino le
“traduzioni” dalla Tebaide s'inseriscono in tutto il tessuto inventivo
della Commedia. Per le valutazioni critiche complessive che poteva avere
un uomo dell'ultimo Medioevo, Stazio era da considerare uno dei massimi poeti
latini, forse, per Dante, secondo soltanto a Virgilio, pari o quasi ad Ovidio,
e mentre Ovidio poeta d'amore va ripudiato per accettare il messaggio
spirituale di Virgilio e dei tempi nuovi, Stazio poteva rimanere nell'interezza
dell'opera in quell'epoca conosciuta un auctor completo. E ciò
sollecita Dante a tracciare una biografia di lui, che (a parte l'errore sul
luogo di nascita, e la confusione col tolosano Lucio Stazio Ursulo pretore del
periodo di Nerone) costituisce nel complesso un fatto nuovo nella Commedia,
cui nulla toglie ovviamente il fatto che siano ignorate, come lo furono nel
Medioevo, le Silvae, e cui molto aggiunge (non già sul piano
erudito, ma per la cura con cui Dante intende costruire il suo personaggio)
ciò che viene inventato o canonizzato: la circostanza che in vita sia
stato preda dei peccati di accidia e di prodigalità, che ha scontato per
tutto questo periodo nel Purgatorio e di cui ora s'è liberato, ora che
il tuono proclama l'esaltazione della sua anima nel Paradiso, s'aggiunge
alla questione tanto discussa sulla presunta conversione di Stazio alla
religione cristiana, su suggerimento dell'annuncio dato da Virgilio nella
quarta egloga:
quando dicesti: “Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenïe scende dal ciel
nova”
(Purg.,
XXII, 70-72)
Dov'è la fonte di questa
induzione dantesca? Anzitutto è da scorgere nell'analogia con quanto
aveva scritto Vincenzo di Beauvais (che Secundiano, Marcelliano e Verriano
s'erano convertiti alla religione cristiana sotto l'influsso della quarta
egloga), poi nelle numerose allegorie di cui è costellata la Tebaide,
nelle frequenti dichiarazioni ammirative per Virgilio, in alcune particolari
figure staziane il cui significato morale venne colto anche dai primi
commentatori della Commedia (di rilievo le parole con cui Guido da Pisa
interpreta quale figura Christi il personaggio mitologico di Teseo,
apportatore di pace), nella straordinaria fama che tutto il Medioevo
nutrì per Stazio.
Alla luce di questa ammirazione
dantesca, Stazio assume una funzione rilevante, di sostegno alla missione di
Virgilio, e di apertura verso quella di Beatrice; e l'assolve nella lezione del
canto XXV, in cui afferma la conciliabilità tra la ragione umana e la
scienza divina (la conciliazione tra Virgilio e Beatrice) discutendo attorno al
problema della generazione dell'uomo e alla continuità della vita
dell'anima dopo la morte del corpo, che non è definitivo separarsi di
anima e corpo, ma un momento della loro eterna simbiosi, in attesa che si
ricongiungano all'atto del Giudizio universale, allorché si completerà
il lungo periodo in cui l'anima razionale, creata da Dio in quanto “sostanza”,
attua di nuovo il contatto con le funzioni sensitive e vegetative (non spente
all'atto della morte, ma come sospese o attenuate nell'attesa di riprendere la
loro definitiva efficienza). Le fonti del lungo ragionamento che Dante pone
sulle labbra di Stazio, sono essenzialmente in Aristotele e in san Tommaso, ma
non mancano accenni nella stessa opera di Stazio, insufficienti a spiegare il
fenomeno, ma tali da suggerire a Dante l'impressione che il poeta latino si sia
posto il problema.
Stazio, inoltre, è personaggio
del Purgatorio anche sotto il riguardo della rappresentazione narrativa:
c'è in lui quella dolcezza, unita ad affettuosità e a benevolenza,
che caratterizza tutte le anime del secondo regno, e che trova il suo punto
saliente nel momento in cui, appreso da Dante che l'altra ombra è quella
di Virgilio, già s'inchinava ad abbracciar li piedi / al mio dottor
sospinto da un moto irrefrenabile di filiale adorazione per il sommo poeta di
Roma. E altri tratti, altre parole di Stazio contribuiscono a creare intorno a
lui un alone d'umana simpatia, che è il modo con cui Dante si sdebita di
quanto la lettura della Tebaide gli sia stata salutare ed essenziale per
la sua formazione letteraria, non rinunciando a dipingere, dietro un altro dottore
e un antico vate, l'immagine vivida d'un uomo.
A differenza del sistema di pena
dell'Inferno quello in atto nel Purgatorio è duplice (e se
ne intende facilmente la ragione: le anime purganti non debbono solo patire, ma
deve esser loro fornito il mezzo per superare la fase di sofferenza in
preparazione del gaudio eterno): al patimento è unito un esempio morale,
di segno opposto a quello del peccato che le anime scontano nel secondo regno e
che è indispensabile affinché esse siano in grado di esercitare, o,
meglio, di prepararsi ad esercitare la virtù di cui difettarono in vita,
meditando sulla virtù e aspirando fortemente ad essa. Gli esempi non
sono astratti, ma, in forme diverse di rappresentazione scenica o fonica,
nascono dalla storia sacra e da quella profana antica, anche da antichi
prodotti del novellare caro al popolo devoto; e seguono un percorso non fisso,
tranne per il primo esempio che è sempre relativo alla vita di Maria
Vergine, in quanto assomma tutte le virtù in un supremo grado di
perfezione.
La varietà dell'exemplum
morale è eccezionale per originalità d'invenzione, ed è
sempre in ordine alla rappresentazione narrativa specifica d'ogni girone. Nel
primo i superbi debbono contemplare una serie di altorilievi scolpiti sulla
parte inferiore della parete della montagna, e sono esempi di umiltà
(l'Annunciazione; la danza di David, vestito succintamente, davanti all'Arca
Santa; l'incontro di Traiano con la vedovella). Nella seconda cornice
esempi di carità (che è virtù che s'oppone all'invidia)
sono gridati da voci misteriose alitanti per l'aria (le parole di Maria a
Gesù durante le nozze di Cana: “Vinum non habent”; il generoso offrirsi
di Oreste in difesa di Pilade; il precetto evangelico “Diligite inimicos
vestros”). Agli iracondi appaiono rapidissime visioni mistiche di mansuetudine
(le parole soavi della Madonna quando ritrova il fanciullo Gesù nel
Tempio; il perdono di Pisistrato al giovane che aveva baciato in pubblico la
figlia del tiranno ateniese; le parole di perdono di S. Stefano durante il
martirio). Nella quarta cornice, degli accidiosi, esempi di sollecitudine sono
gridati da due anime che camminano in testa alla numerosa turba (la sollecitudine
di Maria che s'affretta a render visita ad Elisabetta; la velocità con
cui Giulio Cesare soggioga la ribellione di Marsiglia e procede oltre alla
conquista della Spagna; altre parole di generica spinta ad agire: Ratto,
ratto che 'l tempo non si perda / per poco amor). Nel girone degli avari e
prodighi è lo stesso protagonista del canto, Ugo Capeto, che pronuncia
esempi di povertà e di generosità (anche in ciò è
il segno dell'instancabile variatio narrativa di Dante; affidare ad una
delle anime penitenti il compito di promuovere la meditazione delle altre; gli
esempi sono: la povertà di Maria che diede alla luce il proprio figlio
in una stalla; il dispregio delle ricchezze da parte del console romano Caio
Fabrizio; la liberalità di S. Nicola nel dotare tre pulcelle).
Una voce misteriosa, nella cornice dei golosi, grida esempi di temperanza (la
sobrietà di Maria che, ancora durante le nozze di Cana, non pensa a sé,
ma alle esigenze degli ospiti; la temperanza delle antiche Romane che bevevano
soltanto acqua; quella del profeta Daniele; l'austerità di vita nella
prima età del mondo; quella del Battista che nel deserto si nutriva di
locuste e di miele). I lussuriosi alternano al canto esempi di castità
(la verginità della Madonna, la castità di Diana, che scaccia
dalla propria schiera la ninfa Elice o Calisto, ch'era stata sedotta da Giove;
generici esempi di castità tra coniugi), e, accanto ad esse — altra
novità inventiva dell'exemplum, cioè il sottolineare la
gravità del peccato — casi di lussuria (Sodoma e Gomorra, l'infamia di
Pasifae).
Tra le varie risorse di lettura e i
più emblematici e caratterizzanti episodi del Purgatorio, occorre
isolare alcuni topoi caratteristici, e uno dei più ritornanti
è il lungo canto d'affetto per gli amici di giovinezza, con gioia
ritrovati durante il percorso purgatoriale perché ormai sicuri di futura
beatitudine. Il Grundthema dell'amicizia polarizza toni poetici centrali
della seconda cantica: il sentimento di cortesia cavalleresca, il perdono
ricevuto e dato (nell'ambito del grande perdono divino), il ricordo di luoghi e
occasioni carissime all'animo del giovane fiorentino non ancora colpito dalla
sventura, le amicizie strette anche con personaggi d'altri ambienti politici[93],
la varietà narrativa con cui vengono risolti questi incontri e la
medesima varietà sociale dei personaggi, da un musico ad un liutaio, da
un poeta ad un politico di sangue aristocratico. E se dagli amici di
gioventù debbono essere esclusi di necessità quelli ancora in
vita nel 1300, non mancherà l'occasione di tessere le lodi d'alcuni:
Giotto, Guido Cavalcanti. Il reticolato non vorrà essere esaustivo, ma
paradigmatico; tale da donare al Purgatorio quella diffusa
tonalità di gentilezza, d'affettuosità, di soavità che
è il segno della poesia di questa cantica e anche d'un accurato mosaico
rappresentante le amicizie terrene a preparazione del gran finale dove è
l'incontro massimo, con l'amica del suo intelletto e della sua memoria
giovanile: Beatrice, il quadro principale d'una lunga galleria d'amicizie.
Tra le anime traghettate dal celestial
nocchiero, e stupite d'incontrare sulla spiaggia della montagna un uomo
vivo, si stacca, sospinto da un moto improvviso d'affetto, il musico Casella.
Egli, dopo il primo canto, quello austero e liturgico di Catone, dà il la
alla lunga sinfonia dell'amicizia cortese; offre un inizio che ha risvolti
narrativi (il triplice abbraccio di virgiliana memoria), risoluzioni nuove di
“parlato”, possibilità d'informazioni dottrinarie sul perché della sosta
delle anime alla foce del Tevere prima che l'angelo le chiami per la trasmigrazione
marina sino al Purgatorio, e soprattutto l'agio di poter creare un
incontro che desse realmente il senso di quegli anni di gioventù: l'amoroso
canto, il melodioso modo d'intonare una canzone, quello (anche se non
è espressamente detto) d'accompagnare il canto col suono d'uno strumento
musicale, e la perfezione dell'incontro con la scelta d'una canzone dello
stesso Dante, Amor che ne la mente mi ragiona; se vogliamo, orgogliosa
autocitazione, ma anche modo di circondare l'episodio di un'aura più
intima, più cara, coinvolgente direttamente il clima d'amicizia
spirituale e culturale che ha unito in vita il giovane poeta col più
anziano, ma non meno diletto musico e cantore.
Ma Dante non interviene sovente nel
dialogo; lascia che gli stessi personaggi esplichino e quindi rivelino le loro species
figurali con le loro stesse parole: che altro il poeta potrebbe dire a Pia de'
Tolomei fuor di quel ch'essa riferisce di sé? Vero è che il caso
d'intervento diretto, immediato e chiuso in se stesso, non unico ma raro nel
poema (la didascalia seguitò il terzo spirito al secondo
trascorre insosservata, e comunque non interrompe il timbro del “parlato”)
è nel canto V replicato tre volte, con effetti eccezionali di passaggi
di voce “a quattro”, per il peso “tonale” dei precedenti interventi di Dante,
vv. 58 sgg. Perché ne' vostri visi guati, vv. 91 sgg., Qual forza o
qual ventura: passaggi ampliati dai discorsi interni del singolo
personaggio (il grido di rabbia del diavolo che si vede sfuggire l'anima di
Bonconte da Montefeltro: O tu del ciel, perché mi privi?…, vv. 105
sgg.), realizzati su un'ampia tastiera che va, per l'appunto, dalla voce del
diavolo a quella “angelica” di Pia, e le cui note centrali sono espresse da
Bonconte, nella sua duplice “uscita” stilistica: il racconto delle ultime ore
di vita, dopo la ferita mortale, e la disputa tra l'angelo e il diavolo per il
possesso dell'anima del figlio del conte Guido, ma anche nella sostanziale
unità dell'episodio, dalla cortese fiduciosa invocazione iniziale (Deh,
se quel disio / si compia che ti tragge a l'alto monte) al tempestoso
scenario della battaglia di Campaldino, il cui paesaggio è descritto con
cura persin troppo minuziosa, come di chi, personaggio egli stesso di quel
tragico evento dell'11 giugno
L'invenzione dantesca avviene sempre
per processi d'analogia o di opposizione. Nell'Inferno era stata narrata
un'altra disputa per il possesso d'un'anima: quella del padre di Bonconte,
Guido. Nella bolgia infernale il contrasto è dominato dalla beffarda
sottigliezza “loica” del diavolo, e san Francesco appare quasi in un angolo,
muto e impotente dinanzi all'irrevocabilità del peccato mortale; anche
l'angelo che s'impadronisce dell'anima di Bonconte è silenzioso, ma
sovrasta la scena davanti alle vane querimonie del diavolo, inutilmente
devastatore di quel corpo senza anima. Nell'entroterra letteraria delle
dispute, collegate dal rapporto di stretta parentela delle due anime, giuocano
echi virgiliani, soprattutto dell'episodio di Palinuro, o reminiscenze dei
leggendari medievali, dove i combattimenti per l'anima tra Cristo e Satana, tra
un angelo e un demonio, tra un santo e uno spirito maligno, sono diffusissimi,
e trapassano nei laudari, giungeranno sino a Jacopone da Todi. L'elemento
diverbiale però ha in sé una differente finalità letteraria, in
quanto polo opposto rispetto al clima di pace e di ripudio degli odî terreni che, come ha ben visto il Bosco,
sovrasta le cupe note della guerra e della bufera scatenata dalle
potestà infernali.
Nel disegno del Purgatorio
prevale, o meglio s'accentua quell'interesse per le arti figurative, che era
già emerso in similitudini dell'Inferno. Il canto dei pittori e
dei miniatori (il canto XI) è fermamente incentrato nelle latitudini
morali del peccato, ma si connota l'acuta sensibilità dell'intellettuale
che constata con amarezza il rapido dileguarsi degli ideali e della fortuna
della propria generazione, che è la stessa di Franco Bolognese, maestro
questi nel “pennelleggiare” e nel far “ridere” le carte in un giuoco di
luci e di colori che il poeta della seconda e della terza cantica doveva amare
assai più della vivida ma pur sempre tradizionale tecnica
bizantineggiante dell'onor d'Agobbio, eppur supera questa amarezza nella
solida convinzione di “storicizzare” il valore assoluto d'ogni scuola e d'ogni
generazione artistiche. Alla severità del disegno teologico del sacrato
poema non poteva sfuggire il mondo terreno dei poeti (da Guinizzelli al
Cavalcanti) e degli artisti (da Cimabue a Giotto) pur vagheggiato dal giovane
Dante della Firenze aristocratica e stilnovistica, ma la serietà di
giudizio non aveva risparmiato alcuna categoria d'intellettuali e non poteva
esimersi dall'inventare il rapporto arte-superbia alla vigilia della condanna
d'un altro rapporto: poesia-lussuria. L'itinerario “figurativo” di Dante
è completo, dal possente strutturismo realistico dell'Inferno
alle vere e proprie esecuzioni scultoree del canto X del Purgatorio, per
giungere all'arte “astratta” della terza cantica, al luminismo incorporeo,
immateriato, d'un variegato cromatismo che farà prevalere, per
l'appunto, nel Paradiso la poesia “dell'occhio” e dei “suoni” fomentata
dalla lunga ricerca della luce etterna, presagita dai colori dei rubini,
degli smeraldi, degli zaffiri, in un'incessante creatività di simboli
pittorici intuibili e godibili, così come i suoni del verso, l'armonia
della parola, il ritmo della rima e degli accenti interni dell'endecasillabo,
quasi esclusivamente attraverso le sovrapposizioni e i movimenti armonici della
parola e delle luci in una miriade di giuochi semantici e coloristici ricchi di
un'incomparabile suggestione fonica e ottica. Pictura ut poesis. Così
veramente in un unicum che coinvolge anche la musica (parola, immagine,
suono) si costruisce la dirompente novità della creazione di Dante,
affidata a tutti i possibili effetti di letteratura e di cultura, a tutte le
risorse possibili (nessuna esclusa) del poetare, dalle reminiscenze del trobar
clus alla linearità “modernissima” di tanti passaggi narrativi, di
tante battute di dialogo, di figure scolpite con l'onnivora capacità di
sfruttare ogni segreto che si cela dietro la lingua della poesia. C'è
bisogno di dire che nei nuovi volgari nessuno prima di Dante era giunto a
tanto?
Fissiamo un modulo di scrittura che
sia legato all'exemplum: esso potrebb'essere costituito dal personaggio
di Manfredi: figura descritta con procedimento insolito: biondo era e bello
e di gentile aspetto (in Purg., III,107) in un'opera in cui, con
recisa decisione, anche per i personaggi femminili (e faccia eccezione qualche
tratto di Beatrice) è espunta qualsivoglia stasi fisiognomica, e non per
altro motivo che per far emergere ancora di più nel panorama dei
personaggi un uomo cui era andata l'esecrazione del casato degli Alighieri e
della propria parte politica (di quel guelfismo oltranzista cui Dante aveva
aderito oltre dieci anni prima), e che ora sente caduta nell'errore d'aver
combattuto proprio coloro, Manfredi o Corradino (combattuto o consentito che
gli alleati del momento li combattessero: gli Angioini), i quali avrebbero
potuto precedere d'un cinquantennio l'arrivo del Veltro, se la bassezza degli
uomini, il loro gusto dello scontro e dell'assoluto diniego non avessero
infranto i più che sacrosanti sogni di redenzione dell'umanità
dei giovani prìncipi.
Troppo lontano nel tempo Federico II,
e poi non promovibile per la fama (non discussa da Dante) di eresia, e disceso
troppo tardi Enrico VII, Manfredi resta l'esempio per eccellenza del principe
giusto e pio, capace di redimersi dai propri peccati e di divenire un redentore
(ma ora Dante è persuaso della orribilità di quei peccati,
secondo le accuse più volte promosse dai Guelfi), nobilmente distaccato
da interessi particolaristici, religiosamente disposto ad accogliere il suo
destino di morte, discreto persino nel presentarsi ad un uomo d'una generazione
più giovane e non di pari sangue (anzi un avversario di parte), e nel
descrivere con parola casta la sua miserevole fine. La gentilezza del
personaggio impegna Dante ad espressioni d'alto sentire epico: è il
nuovo Roland d'una moderna Chanson, è il malinconico eroe di un
ideale altissimo per il quale è perito con le armi in pugno, senza
recriminazioni per il vincitore, mondo dinanzi a Dio d'ogni vanità
terrena e dell'astio del vinto. Ancora una volta Dante si immedesima nella
figura che ha creato, l'avverte come un modello per sé (la filigrana
autobiografica che scorre in tutto il poema si rivela anche qui, come nel fato
di Nino Visconti, più tardi nella mite immagine di Carlo Martello):
è morto l'uomo politico Dante, caduto sotto i colpi di forze temporali
troppo più grandi della sua tenacia di cavaliere dell'ideale, una grave
mora ha sepolto tutte le ambizioni terrene, disperse come le ossa di
Manfredi; resta però, anzi risorge dalle ceneri della irrevocabile
sconfitta il poeta Dante, testimone, missus quasi celestiale, profeta di
una futura vittoria contro il male; e proprio lui, erede dei nemici
dell'Impero, consacra qui la nobilità dell'estremo tentativo di casa
Sveva per ripristinare la pace tra le contrade d'Italia.
Nel quadro della simbologia
purgatoriale si possono individuare alcuni nuclei centrali: il primo e
più rapido è nella valletta dei prìncipi, il più
ampio, vario e composito si sviluppa nel Paradiso terrestre, e ha il suo
esemplare maggiore nelle due apparizioni, di Matelda e di Beatrice, il suo
momento politico nella profezia del Cinquecento diece e cinque. La scena
dell'arrivo del serpe nella valletta non è stata centralizzata a
sufficienza nell'allegoria generale del Purgatorio, se non per quel che
attiene nell'aspetto più comprensibile della mala striscia, il
serpente che ha tentato Eva e che ora viene discacciato dagli angeli,
cioè dalla Grazia divina. La funzione tentatoria del serpe è
stata estesa a tutto il processo di purgazione delle anime: nel qual processo
il momento della tentazione (sulla quale tanto si erano trattenuti gli
scrittori sacri del Medioevo) è indispensabile per la conoscenza del vizio
e il raggiungimento della virtù, “momento effettivo dell'espiazione
cristiana, che implica, nella contritio cordis, la meditazione del
peccato e della virtù opposta ad esso, coll'odio del primo e l'amore
della seconda, i quali comprovano insieme la metanoia del cristiano”[94].
La scena non è rappresentata davanti a tutte le anime del Purgatorio e
nemmeno dell'Antipurgatorio, ma soltanto dinanzi ai prìncipi negligenti,
e dunque simboleggia i conflitti e le lacerazioni ai quali sono sottoposte le terre
d'Italia per l'infingardaggine dei regnanti e per l'indifferenza o la
lontananza dell'imperatore: dunque la “sacra” rappresentazione della battaglia
del serpente e degli angeli ha un significato tanto religioso quanto politico.
Nel corso della processione mistica
Beatrice (Purg., XXXIII, 37-45) profetizza a Dante che l'aguglia che
lasciò le penne al carro non resterà per sempre sanza reda,
senza un effettivo titolare, poiché verrà un cinquecento diece e
cinque, Messo di Dio, che ucciderà la meretrice (la sede
pontificale) e il gigante (il re di Francia). Dante, scriba Dei,
auto-proclamatosi profeta dei tempi nuovi, avrebbe in questo misterioso
personaggio, il cui numero, DXV, letto in ordine diverso, darebbe DVX, “dux”,
una seconda figurazione del Veltro, ma con una diversa precisazione di
particolari, incentrati nella missione imperiale di questo Messo di Dio,
chiamato a uccidere, per rinnovarla, la Chiesa, e ad esercitare la
potestà di pace e di giustizia in terra. Il momento di redazione di
questi ultimi canti, verso il 1312, e quello di revisione, il 1315, possono
consentire un'identificazione del Dux tanto in Enrico VII, quanto in
Cangrande della Scala, o, meglio ancora, in una misteriosa potestà della
quale Dante non sa né può dir di più, se non che verrà,
perché il mondo non può restare troppo a lungo in questo stato di
prostrazione e di degenerazione, il messaggio di Cristo deve compiersi,
l'umanità tutta dovrà volgersi ai voleri di Dio, i quali sono
stati fermissimi tanto nell'istituire la sua Chiesa, quanto nel proclamare la
necessaria continuità dell'Impero romano.
La presentazione emblematica,
allusiva ma in un cerchio affatto indeterminabile, vaghissimo, di Matelda ha
indotto gli studiosi a sforzare il testo alla ricerca dell'identificazione
storica, anziché sconsigliare o relegare in un angolo non importante la
necessità dell'investigazione. Se Dante ha voluto esprimersi per enigmi,
il volerli risolvere ad ogni costo è andare contro le intenzioni dello
scrittore, soprattutto quando non esista una prova, interna o esterna,
concretissima della persona storica: la contessa Matilde di Canossa (cui
credevano il Lana e anche Pietro di Dante), santa Matilde regina, santa Matilde
di Hackenborn, Matilde di Magdeburgo: e s'è giunti persino a formulare
ipotesi fuori della denominazione Matelda-Matilde cioè Maria Maddalena o
altri personaggi delle Sacre Scritture e della vita religiosa medievale. Se
dobbiamo respingere seduzioni di “realtà” storica, ciò non
significa che dietro il simbolo di Matelda venga fatto divieto di scorgere il
riflesso d'un'esperienza giovanile del poeta che trovi il grande corrispettivo
e risolvente nel personaggio di Beatrice, cui Matelda è strettamente
connessa anche nella fabula simbolico-narrativa del Paradiso terrestre,
in un parallelismo Lia-Rachele da un lato, Matelda-Beatrice dall'altro, che
consente di risolvere altre cruces della processione mistica. In tal
senso sono stimolanti le pagine del Contini, là dove sottolinea una
“solidarietà onomastica nella prima quanto nella seconda coppia”, in
modo da poter sostenere “l'opinione di chi tende a ravvisare in Matelda una
delle amate subalterne di Dante, verisimilmente una di quelle della Vita
Nuova”, in netta opposizione al diniego del Barbi che in Matelda
s'identificasse una delle “fiorentinelle” amate dal poeta in gioventù.
Il rapporto tra il protagonista e la bella
donna, provenga esso da un remoto ricordo, o sia effetto d'una costruzione
simbolica che tragga nascita addirittura dal decennale della morte di Beatrice
(cioè significhi per il personaggio una mera presenza ideale che
completi quella di Beatrice), spiega le ragioni dell'apparizione di un'“altra”
donna prima e accanto alla gentilissima, il perché del salmo Delectasti
cantato dalla donna soletta, che solo più tardi s'inserisce,
guidando Dante, vicino alle quattro belle, le ancelle di Beatrice (Purg.,
XXIX, 103-104), fa bere a Dante le acque del Letè e dell'Eunoè.
Matelda è, dunque, una “guida”, una ripetizione del simbolo di Lia,
figura della vita attiva, e una ministra liturgica (simbolo della Chiesa cui
è stato affidato da Cristo il compito di amministrare i sacramenti da
Lui istituiti). Si può privilegiare uno dei tre compiti di Matelda,
sottolineando in modo particolare l'accostamento a Lia e quindi parlando di una
vita attiva “perfetta”, ovvero ponendo in maggiore risalto la funzione
culturale: immersione nell'acqua (nuovo battesimo) e dissetamento dell'anima
con l'acqua, un rito non consueto, non legato alla pratica sacramentale dei
fedeli che vivono nella Chiesa, ma inventato e orchestrato appositamente per un
pellegrino d'eccezione qual è il poeta.
Quale ministro rituale e simbolo
dell'azione carismatica, Matelda è una ravvivatrice della virtù,
facendo riemergere la coscienza morale dell'uomo ad un livello di
auto-conoscenza e costringendo (con l'immersione, con la potazione) a
purificare la coscienza ora tutta cognita, tutta impegnata nello sforzo di
mortificazione ascetica e di purezza spirituale. All'interno di questa esegesi
del simbolo, e non come sostituzione d'una figura ad altra, possono ancora
trovare spazio altre ipotesi: Matelda come la Sapienza personificata, ovvero
come la Filosofia (in un rapporto, quindi, non acclarabile rispetto ai simboli
della Donna Gentile e di Virgilio), o la felicità temporale, o infine
l'innocenza originaria che godé l'uomo nel Paradiso terrestre prima del peccato
originale, ovvero (qui entra il modo di leggere Dante tipico di Giovanni
Pascoli) l'Arte nel senso propugnato da san Tommaso. Tutti questi complessi
interrogativi, ognuno dei quali non è del tutto privo di qualche favilla
d'ammissibilità, non debbono peraltro vietarci di godere la figura
poetica del personaggio, in quell'incantato paesaggio pittorico e musicale
della divina foresta e di tutto il panorama figurativo del Paradiso
terrestre, realizzato, come ebbe a scrivere il Croce, “in una nuova forma di
squisita perfezione, in cui il fascino della gioventù, della bellezza,
dell'amore e del riso si esalta in ogni immagine”[95].
Nel racconto del viaggio nel Paradiso
terrestre Matelda ha inoltre un'altra funzione, la quale per sé sola non
sarebbe sufficiente a spiegare il simbolo che la bella donna esprime,
anche nel caso in cui si volesse far coincidere in Matelda tanto il valore
della vita attiva quanto quello della vita contemplativa (Lia che va intorno
tessendosi una ghirlanda di fiori, e la sorella Rachele che non si disgiunge
mai dal suo specchio). È la funzione dell'attesa di Beatrice, il rito
preparatorio del ritorno del poeta alla sua stessa origine emotiva e
concettuale, la “messa dei catecumeni” celebrata da una donna bella e
prototipica sì, ma che è destinata a dileguarsi, sebbene
lentamente, da un territorio dottrinario che d'ora in poi dovrà essere
occupato soltanto da Beatrice. Tutti i primi sessantatré canti della Commedia
(sessanta multiplo di sei e di tre, e tre numero perfetto) altro non sono che
una faticosa preparazione al ritorno di Beatrice, ma dalle fiamme dei
lussuriosi all'apparizione di Matelda il ritmo che precede il ritorno della gentilissima
si fa più incalzante. Scoprire i tempi di questo ritmo nella complicata
simbologia della processione mistica, è anzitutto affidare un reale
valore poetico ad uno scenario così sovraccarico di figure e riferimenti
allegorici, diviso nei due atti della processione mistica, al cui centro vibra
la requisitoria della riapparsa Beatrice contro il traviamento del poeta.
Gli elementi che compongono eventi e
personificazioni del rito, non offrono insormontabili difficoltà
all'esegesi; lo sciogliersi del velame allegorico è piuttosto nel
rapporto che lega tra di loro gli elementi stessi, dai sette candelabri d'oro,
accesi alla sommità, con cui inizia la processione, e che rappresentano
i sette doni dello Spirito Santo, ai susseguenti ventiquattro seniori
biancovestiti, procedenti a due a due, con in capo corone di gigli, ed
esaltanti la bellezza di una donna, eccelsa tra tutte le figlie di Adamo: sono
i libri dell'Antico Testamento. Sùbito dopo vengono quattro animali,
ciascuno dei quali è fornito di sei ali e ha una corona di fronde verdi:
sono i quattro Evangeli, le cui corone sono il segno del trionfo della parola
di Cristo, e le sei ali simboleggiano la vastità della potenza
speculativa. I quattro animali stanno ai lati d'un carro che è trainato
da un grifone, un mostro col corpo di leone, la testa e le ali d'un'aquila,
protese in alto. Il triunfal veiculo è la Chiesa trionfante e
militante; il carro ha due ruote, che possono essere intese come i due
Testamenti (ma essi erano già stati rappresentati), o come la vita
attiva e la vita contemplativa; il grifone è Cristo, la cui parte
leonina simboleggia la potenza, e quella aquilina la sapienza (Cristo nella sua
duplice natura: divina e umana). Le tre donne alla ruota destra sono la Fede
(quella vestita di bianco), la Speranza (verde), la Carità (rossa), le
tre virtù teologali, mentre alla ruota sinistra procedono quattro donne,
le virtù cardinali, Prudenza, Fortezza, Giustizia e Temperanza: tutte
quattro in porpora vestite perché mosse prevalentemente dallo spirito
della Carità. Appresso tutto il pertrattato nodo seguono due
vecchi con abiti disuguali e in portamento austero e dignitoso; l'uno pare un
medico (è san Luca, veramente già rappresentato in uno dei
quattro Evangelisti, ma qui rivisto nella funzione, a lui affidata nel
Medioevo, di autore degli Atti degli Apostoli), l'altro ha una spada
affilata in mano: è san Paolo, che prima della conversione era soldato
nell'esercito romano, e come Apostolo si distinse per la combattività
della propria oratoria, la forza dell'insegnamento profuso nelle Lettere.
Altri quattro uomini che seguono nella processione in umile paruta, in
quanto portatori di messaggi di minore importanza, sono i rappresentanti delle
altre Epistole: di san Giacomo, di san Pietro, di san Giovanni e di san
Giuda; e di retro da tutti un vecchio solo / venir, dormendo, con la faccia
arguta: è la figura dell'Apocalisse, opera di sogno profetico vissuta
da un veggente che sa penetrare, “arguto”, nel mistero. Questi ultimi sette
personaggi sono vestiti di bianco come i seniori, ma recano corone di rose e di
altri fiori rossi, anziché di gigli; infatti sono bianchi gli scrittori del
Vecchio Testamento, la cui essenziale virtù fu la fede nel Cristo
venturo, e rossi gli scrittori del Nuovo Testamento, che per l'appunto
testimoniano la passione di Gesù, e quindi la parola di Cristo venuto.
Giunto il carro dinanzi al poeta, si ode un tuono e la processione subitamente
s'arresta, in attesa di un evento eccezionale che richiede una sosta, una
meditazione su tutto ciò che è stato prima e su quel che ora
accadrà.
Il secondo tempo della mistica
processione avviene dopo l'apparizione di Beatrice (di cui vedremo tra breve),
la scomparsa di Virgilio, i rimproveri aspri della donna, la contrizione di
Dante, la magia del paesaggio silvestre che si fonde armoniosamente con i
profondi significati del simbolo religioso (paesaggio visto e accarezzato con
l'occhio del pittore, e interiore paesaggio di un'anima assetata della
conquista di se stesso), il pianto di Dante che consacra il sublime istante in
cui l'uomo ha preso coscienza della Grazia divina che è scesa in lui e
lo ha redento da tutte le passioni e i desideri terreni, e infine lo
svenimento, l'immersione nelle acque del Letè per le cure di Matelda. Le
quattro virtù cardinali accompagnano il poeta, pentito e redento dal suo
pianto, dinanzi a Beatrice e lo invitano ad ammirare la bellezza di lei, nei cui
occhi Dante vede riflesso, come il sole in uno specchio, il grifone, che gli
appare ora nella sua sembianza leonina, ora in quella d'aquila. Dopo il lungo
mirare la bellezza di Beatrice da parte del poeta, la processione riprende il
suo incedere, attuando una totale conversione dalla parte destra. Beatrice
scende dal carro (e ciò simboleggia il suo approssimarsi a Dante, nella
funzione di guida nel Paradiso), e tutti pronunciano il nome di Adamo, a
significare il ritorno all'origine, attraverso il ripercorrere le varie fasi
della storia umana così com'essa è stata predisposta dalla
volontà di Dio; e quindi circondano una pianta completamente spoglia di
foglie e di ogni altra fronda. Un nuovo complesso simbolo è affidato a
questa rappresentazione della pianta dispogliata: forse l'Umanità in
tutta la sua storia, o anche l'ubbidienza ai voleri divini, o la Chiesa, o
anche il diritto naturale, più probabilmente l'albero della scienza del
bene e del male, la Sapienza che è necessaria perché l'uomo possa completare
il proprio ciclo ascetico, ma non esaustiva del processo di redenzione che ha
bisogno della salvaguardia e della protezione della Chiesa. Il grifone lega il
carro ai piedi dell'albero con un ramo che è tratto dall'albero stesso,
e la pianta sùbito si rifà nuova: Cristo, sia quale Figlio di Dio
che Figlio dell'Uomo, afferma il suo rispetto per i voleri di Dio, infranti da
Adamo e da Eva, ma con l'Incarnazione rigenera di nuova linfa la pianta,
cioè l'umanità, ch'è redenta dalla Passione, dal sacrificio
di Gesù che è qui rappresentato dai fiori che spuntano sul ramo, men
che di rose e più che di vïole
(il rosso del sangue di Cristo e il violaceo dei paramenti sacri durante la
Settimana santa?).
Il poeta è di nuovo oggetto
d'un profondo sonno, al cui termine scorge Beatrice che è seduta al
piè dell'albero in compagnia delle virtù cardinali e teologali.
Sarà compito di Matelda illuminare il poeta delle ragioni per le quali
il resto della processione ha seguito il grifone nel suo ritorno al cielo,
poiché tutta la liturgia che sino ad ora si è svolta dinanzi agli occhi
di Dante, vuole rappresentare la nascita e la costituzione della Chiesa, che
ora trionfa con Cristo nell'alto cielo. Ma l'apprendimento rituale non è
ancora terminato.
Il ritorno di Beatrice è il
centro e il fine del poema, la soluzione di tutti gli enigmi, il
perfezionamento di ogni stimolo intellettuale, l'occasione che ha dato vita al
realizzarsi letterario e filosofico-teologico della Commedia dal tempo
della mirabile visione; la meta suprema dell'intellettuale fiorentino
Dante Alighieri, che ha vissuto in Toscana tutte le sue amare esperienze
politiche, s'allontana da una terra insanguinata dalle risse cittadine, e a
Verona (non già nell'amata-odiata Firenze) ritrova, durante la scrittura
dei canti XXVIII-XXXIII del Purgatorio, la donna della giovinezza:
figuralmente a dieci anni dalla morte (1290-1300), realmente a vent'anni dalla Vita
Nuova (1292-1312 circa), a dieci anni dalla sentenza di morte (1302-1312),
in una rispondenza numerologica che non appaga soltanto il letterato medievale,
ma l'uomo di fede che àncora al ritornare nel tempo, secondo i numeri
perfetti, i sogni e le speranze d'un passato che, non senza grande sofferenza,
riesce a tradurre in presente, e a trasmettere, in quanto il sacrato poema
è profezia dei tempi che verranno, nel futuro. Occorre riguardare con
attenzione le date di cui sopra: il vero ritorno di Beatrice, quello poetico e
interiore, attua il pieno riscatto del poeta, ma ciò avviene non in
conseguenza (come la fabula della Commedia vorrebbe far supporre)
in modo da “disbramare” la decenne sete, ma come effetto d'un
lunghissimo processo catartico (un ventennio!) che si avvarrà sia delle
remote esperienze del periodo fiorentino, sia e ancor di più di tutte le
ricerche filosofiche, delle ansie politiche, delle conquiste
retorico-stilistiche, d'una completa acquisizione della teologia non quale
semplice tessuto della Commedia, ma come onnipresenza concettuale.
Ancora una volta si realizza nel poema (notevolissima prospettiva dalla quale non
dobbiamo mai distaccarci se vogliamo dare un senso concreto alle affermazioni e
ai fantasmi della Commedia) una duplicazione tra il viaggio di
Dante nell'oltretomba quale fictio poetica e gli stati d'animo di lui
nel momento in cui genera il singolo episodio, quel canto, quella parte della
cantica. Il personaggio ricerca e ritrova l'altro personaggio, Beatrice, mentre
il poeta realizza in quella riapparizione una parte essenziale del suo
messaggio di maestro e profeta di una nuova età; il personaggio trasmette
all'episodio la sua somma d'incertezze, di dubbi, di tormenti, indispensabili
per una rigenerazione interiore: è un uomo ancora stretto dalle colpe,
con una percezione in qualche modo confusa dei modi della propria salvezza, con
la coscienza che soltanto un processo implacabile quale può nascere
dalla requisitoria di Beatrice varrà a cancellare le
responsabilità del passato. Il poeta è al di là del muro
di fuoco, al di là d'una drammatica stretta d'affanni morali quali la
visita delle cornici del Purgatorio può accrescere e poi trasfigurare in
rito purificatorio (il quale è sempre più severo, al contrario
del cammino del viator che è sempre più spedito) e “finge”
di creare una situazione scenica (il processo al peccatore Dante, la faticata
assoluzione dal proprio traviamento), immagina un'attualizzazione che nella
realtà degli anni veronesi non esiste più.
Dobbiamo, peraltro, osservare
più il prodotto letterario che le intenzioni o i modi del vivere morale
nel momento in cui Dante crea. Il clima della riapparizione della donna amata
è perfettamente risolto in forme, è rappresentato con la massima
esattezza nei termini di un reincontro umano; Beatrice, sempre presente ma non
ancora in grado di investire con la sua persona simbolica tutto il mondo morale
del personaggio della Commedia, riemerge da un remoto passato e si fa
attuale, parla con una voce che fu la sua voce, ricorda all'amante smarrito
circostanze e propositi che erano di lui o di lei, “ripassa” tutta la vita
giovanile, la “vita nuova” di Dante senza obliare alcun evento di fondo, e
puntando con aspro risentito affetto al cuore di quell'inobliabile pagina di
vita.
Perché questo ritorno di Beatrice
possa incidere profondamente nella suggestione d'un lettore medievale, non era
sufficiente una semplice riapparizione: discreta e proveniente quasi
dall'ombra, come le comparse di Virgilio o di san Bernardo, rapidi ritratti
figurativi qual è quello di Matelda. Il lettore non s'acquietava d'un
ingresso che non fosse un vero e proprio trionfo liturgico, un grande
“spettacolo”, per il mezzo di ingredienti scenici, nei limiti impliciti allo
stesso processo d'idealizzazione che è in atto in ogni disegno medievale
della donna amata, purtuttavia non esenti da precise reminiscenze di
particolari che non erano ovviamente incancellabili soltanto dalla memoria di
Dante, ma che facevano parte d'un patrimonio di letture ben noto all'immediato
destinatario del Purgatorio: il passaggio mnemonico dal drappo
sanguigno della Vita Nuova al color di fiamma viva di Purg.,
XXX, 33, dal bianco velo del ritratto giovanile all'attuale candido
vel, dalla nebula alla nuvola di fiori, dal mirabile
tremore al rinnovato trepidante smarrimento che desta la riapparizione, al
ricordo delle belle membra, alla potenza del suo sguardo, al sorriso, il
primo di tanti sorrisi di Beatrice. Non nasce in questo momento, ma si rinnova,
si attua in più perfezionate forme e fantasie quella ricchezza di
atteggiamenti e di espressioni di Beatrice cui poi ci abituerà la
lettura del Paradiso. Si potrà affermare, per ora, che le
proprietà figurative di Beatrice di cui poi nel Paradiso,
appaiono durante la processione mistica fortemente concentrate, sì da
rendere ancora indefinito il simbolo, il quale dovrà disvelarsi
lentamente e attraverso una serie notevole di dibattiti e di precisazioni
dottrinarie, nella terza cantica, atti ad esprimere altre interiori
significazioni spirituali, il messaggio mistico, il magistero teologico, il
vero valore, insomma, della guida di Beatrice, ancora in fase proemiale negli
ultimi canti del Purgatorio e in piena continua funzione in tutto il Paradiso,
per lo più direttamente (con le parole “esplicite” di Beatrice), ma
anche in forme indirette, con gli occhi, col sorriso, talvolta attraverso le
espressioni di altri personaggi.
XV
LA CONCEZIONE
POLITICA
DAL “PURGATORIO”
ALLA “MONARCHIA”
Col passare degli anni, lontani ormai
i tempi del priorato e dell'ambasceria romana, non placatosi l'animo ma ben
diverso da quello del giovane “consigliere” pronto a sfidare le ire di papa
Bonifacio VIII pur di rimaner coerente con le proprie idee di strenuo difensore
delle libertà popolari in Firenze, Dante va evolvendo la sua concezione
politica. Troviamo qualche divergenza tra quanto espresso nel canto di Marco
Lombardo e quanto tratteggiato e accuratamente discusso nella Monarchia,
ma siffatte divergenze sono all'interno dello stesso sistema politico,
decisamente filo-imperiale e in stretta aderenza agli assunti e ai proclami
della pubblicistica ghibellina. Che cosa è rimasto dell'oltranzismo del
guelfo bianco di “estrema sinistra” degli anni che corrono dai Temperamenti
alla calata di Carlo di Valois? Sembra poco o nulla, se non lo stesso
oltranzismo ma piegato a ragioni non bisogna dire opposte, ma profondamente
diverse.
Dapprima la Chiesa era concepita come
un'istituzione divina ma che abusava del proprio potere impadronendosi delle
norme della politica terrena, propria della libertà del Comune, della
autonoma volontà popolare, della gelosa difesa della indipendenza dello
Stato fiorentino (di conseguenza di tutti gli stati terreni) dal potere di
Roma. Ora il temporalismo, anzi la “simonia” e il “nepotismo” dei papi è
attaccato dalla parte opposta, da quella dei diritti dell'Impero, di cui il
Dante giovane non teneva alcun conto, e anzi ignorava tutt'affatto, preso
dall'esclusivo amore per la libertà del reggimento popolare, per la
difesa della democrazia fiorentina. Oggi tutti questi regimi locali non debbono
essere altro che vassalli dell'Impero, concordemente uniti a lui nella
protezione della pace e della giustizia terrena, che solo il Monarca può
assicurare. Si può trovare diversità più profonda tra il
Dante a cavallo dei due secoli e il Dante del canto XVI del Purgatorio?
È chiaro che il nostro animo
di lettore moderno è tutto per il Dante giovane, ma senza comprendere
l'evoluzione della sua concezione politica si rischia di non afferrare il senso
fondamentale del messaggio palingenetico e visionario della “divina” Commedia,
così come lentamente si dipana dai versi dell'Inferno dedicati
piuttosto alla parte dextruens della lotta alla Chiesa, mentre
l'apparato construens è devoluto alla seconda cantica: la
degenerazione dei tempi, l'infingardaggine dei regnanti, la mala disposizione
della Chiesa, l'assenteismo da troppo tempo prolungato dell'imperatore, le
nostalgiche accoratezze per personaggi politici di un'altra e ben più
degna età.
Su tutto questo vibrante registro
è tenuto il grido di Dante a commento del fraterno abbraccio di Sordello
a Virgilio: lungo, appassionato, intensissimo grido[96], che condensa
disperazioni, disillusioni, invettive, amarezze d'un esule da sette-otto anni
lontano da Fiorenza mia, testimone sgomento delle guerre fratricide,
delle tirannie di cui son piene le città d'Italia. E a
questi versi, che ebbero la ventura di costituire un punto di riferimento
morale per le generazioni del nostro Risorgimento, e son pagine di storia
italiana, altri se ne aggiungono, di minore altezza poetica, ma non meno
sofferti, non meno emblematici: la condanna dell'operato politico di Filippo il
Bello e di Corso Donati, il mascheramento delle malefatte di Bonifacio VIII e
di Clemente V (o di tutti e due assieme) dietro l'allegoria della puttana
sciolta, della fuia, l'elenco delle negligenze e degli errori dei
principi nella valletta fiorita[97],
i ritratti negativi ma non polemici di ecclesiastici, da papa Adriano V
all'Abate di San Zeno.
Vengono ad avvivare ancor di
più l'autobiografia politico-religiosa del Purgatorio altri e non
meno famosi episodi, legati all'offesa recata alla somma dignità del
vicario di Cristo con lo schiaffo d'Anagni, o a uomini politici apprezzati per
le loro gentili doti (da Nino Visconti a Corrado Malaspina) o il loro coraggio
(Bonconte da Montefeltro), o ad un eccezionale personaggio storico, di cui il
nipote di Bellincione Alighieri avrà sentito da fanciullo nomare le
gesta con timore misto a venerazione, ma ora l'esule che s'è avvicinato
agli ambienti ghibellini e che nutre in sé ammirazione e speranza per la
restaurazione dell'Impero, riguarda come ad un meraviglioso simbolo
dell'età passata: Manfredi. La dipintura raffinatissima della
fisionomia, il supremo tono di gentilezza che spira dall'episodio e che
s'esprime nel sorriso di Manfredi, nella discreta autopresentazione (nepote
di Costanza imperadrice), nel racconto emozionato delle ultime sue ore, nel
profondo senso di religiosità dello scomunicato contrito, la preghiera
umile rivolta a Dante, questi elementi e altri ancora contribuiscono ad
effigiare il ritratto politico più convinto, più partecipe
dell'intera Commedia.
Nel canto XVI del Purgatorio
un personaggio che Dante incontra tra gli iracondi, Marco Lombardo[98],
risponde a Dante, che lo interroga sulle cause della degenerazione del tempo
presente, esser colpa dell'umano libero arbitrio se la situazione morale
s'è così corrotta, giacché Iddio aveva invece disposto che due
potestà provvedessero a guidare gli uomini sulla retta via:
Soleva Roma, che 'l buon mondo feo,
due soli aver, che l'una e l'altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L'un l'altro ha spento; ed è giunta
la spada
col pasturale, e l'un con l'altro inseme
per viva forza mal convien che vada...
Questa perentoria affermazione,
collocata alla metà del Purgatorio, e quindi alla metà
giusta dell'intera Commedia, esprime in sintesi il concetto che è
alla base della autobiografia politico-religiosa di Dante, superato il primo
periodo di sbandamento ideologico susseguente all'esilio: non elaborato ma
già esplicito nel Convivio, centrale nel poema, oggetto di lungo
dibattito nella Monarchia, causa di alcune Epistole politiche, e
soprattutto ragione dell'intero comportamento pubblico di Dante almeno dall'annunzio
della spedizione italiana di Enrico VII, non oppugnato nemmeno negli ultimi
anni di vita, quando il suo animo è tutto preso dal grande sogno di
farsi banditore e profeta della nuova età, d'esser lui Dante il Veltro e
il Cinquecento diece e cinque, il portatore della buona novella agli
uomini di buona volontà.
A cagione del peccato d'Adamo
l'umanità s'è allontanata dalla via tracciata da Dio al momento
della Creazione del primo uomo, ed è iniziata la degenerazione della
natura umana. Per riportare l'umanità sulla retta strada Iddio ha voluto
che il suo Figliuolo s'incarnasse e patisse il supplizio, di modo che l'Agnello
di Dio ha potuto liberare il genere umano dal peccato originale:
Volendo
la 'nmensurabile bontà divina l'umana creatura a sé riconformare, che
per lo peccato de la prevaricazione del primo uomo da Dio era partita e
disformata, eletto fu in quello altissimo e congiuntissimo consistorio de la
Trinidade, che 'l Figliuol di Dio in terra discendesse a fare questa concordia[99].
La liberazione dal peccato originale
non ha tuttavia consentito che il genere umano fosse immune dal cadere in
colpa, poiché una certa infirmitas lo espone al continuo rischio di
peccare; la tentazione di Eva s'è trasmessa a tutti i figli della carne.
Ma la clemenza del Signore ha voluto fornire agli uomini, nessuno escluso
purché sappia esserne degno, i mezzi per sfuggire alla tentazione, evitare il
peccato, praticare la virtù, aspirare al gaudio eterno. Gli strumenti
creati da Dio furono due autorità, l'Impero e la Chiesa: rimedi contro
l'infermità derivata dal peccato.
Dante lumeggia il dato di fatto
secondo cui l'uomo tende a raggiungere la felicità nella vita terrena,
per poter aspirare a raggiungere, dopo la morte, la letizia celeste: “Due fini,
dunque, l'inesprimibile Provvidenza pose innanzi all'uomo, acciocché li
perseguisse: la felicità in questa vita e l'eterna beatitudine”. Per il
raggiungimento della letizia terrestre è necessaria la pace, che ovunque
si realizzi, impedisce il dilaniarsi delle fazioni politiche, le asperrime
guerre tra città e città, regni e regni, reggitori e reggitori:
“la pace universale è la migliore tra le cose che contribuiscono alla
nostra beatitudine”. Una potestà è stata voluta da Dio perché la
pace sia universale, l'Impero. Ma esso non è immune da pericoli stante
la circostanza che è continuamente insidiato dalla malvagità e
dai rancori del genere umano:
...con
ciò sia cosa che l'animo umano in terminata possessione di terra non si
queti, ma sempre desideri gloria d'acquistare, sì come per esperienza
vedemo, discordie e guerre conviene surgere intra regno e regno, le quali sono
tribulazioni de le cittadi, e per le cittadi de le vicinanze, e per le
vicinanze de le case, e per le case de l'uomo; e così s'impedisce la
felicitade[100].
La potestà divina che è
dell'Impero, deve innanzi tutto combattere la malvagità degli uomini,
soprattutto la cupidigia, distruggendo la quale (il Veltro che scaccerà
la lupa, simbolo dell'avarizia) la felicità è assicurata a tutti.
Tutto ciò può essere compiuto soltanto dall'imperatore,
lo quale,
tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi tegna contenti
ne li termini de li regni, sì che pace intra loro sia, ne la quale si
posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze s'amino, in questo amore le
case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, l'uomo viva felicemente[101].
La distruzione della cupidigia
sradica il male principale che affligge l'umanità, e l'imperatore
è perciò da ritenere come l'unico che possa assolvere ad una
così essenziale necessità per il genere umano; così ha
voluto Iddio nei suoi provvidenziali disegni a favore delle proprie creature, e
in modo analogo, sia pure per fini ancor più alti, ha voluto che Cristo
fondasse la Chiesa, strumento perché l'uomo possa essere guidato in terra alla
conquista della propria salvezza e sia disposto a godere la felicità in
cielo.
La disposizione divina dei due
soli è stata però elusa dall'imperversare della cupidigia in
terra. L'avarizia dei pontefici ha fatto sì ch'essi trascurino la loro
missione spirituale e attendano esclusivamente al potere temporale, non voluto
da Dio; la Chiesa di Cristo è vacante; sul suo soglio siede un
usurpatore. E Dante mette in bocca proprio a san Pietro, il primo vicario di
Cristo, l'invettiva contro la vacanza della sede:
Quelli ch'usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio, che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio[102].
La cupidigia dei pontefici è
giunta ad impadronirsi dei beni dell'impero, ad arrogarsi diritti spettanti
all'imperatore, distruggendo la pace, scatenando il male, privando l'uomo
d'ogni aiuto per poter raggiungere la beatitudine celeste. Anche l'Impero
è vacante; per troppo tempo non è stato dato un successore ai Re
dei Romani, poiché Alberto I d'Austria, imperatore dal 1298 al 1308, s'è
occupato soltanto delle cose della Germania e ha trascurato il giardin de lo
'mperio, l'Italia (né Rodolfo I, né Alberto I, pur avendo il titolo,
vennero in Italia per farsi incoronare a Roma, nella sede degli Apostoli);
donde l'accorata apostrofe di Purg., VI, 97-102:
O Alberto tedesco, ch'abbandoni
costei ch'è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che 'l tuo successor temenza n'aggia!
Sono amarissime parole, scritte
certamente dopo la morte del primogenito di Alberto, Rodolfo, re di Boemia
(1307), e nell'imminenza della discesa di Enrico VII, o dopo il fallimento
della sua spedizione[103],
ma indubbiamente proclamanti la gravità della situazione non soltanto in
Italia, bensì nel mondo intero, dove la Monarchia universale ha cessato
di affermarsi e di dominare. V'è qualche rimedio ad una così
drammatica assenza dei due soli? Nella concezione politica dantesca
s'inserisce qui un elemento di grande messianica speranza: che il mondo
tornerà rigenerato: dal Veltro, prima; ora dal Cinquecento diece e
cinque; infine da una parola ancor più perenne: quella dello stesso
poeta proclamatosi profeta della nuova età attraverso il messaggio
lanciato dal poema sacro. Per il momento occorrerà sostenersi su
altre due forze, la filosofia e la Rivelazione (Virgilio e Beatrice): a queste
due felicità, terrena e ultraterrena, bisogna arrivare con mezzi
diversi, così come si giunge a conclusioni differenti. Alla prima
possiamo giungere per mezzo della filosofia, quando la seguiamo operando secondo
le virtù morali ed intellettuali; alla seconda per mezzo di
verità che trascendono la ragione umana, quando la seguiamo operando
secondo le virtù teologali: la fede, cioè, la speranza e la
carità. Verrà poi l'ora del trionfo dello Spirito Santo, secondo
le profezie di Gioacchino da Fiore, dell'arrivo del distruggitore
dell'Anticristo, e allora l'Impero e la Chiesa torneranno ad assolvere le loro
rispettive funzioni. Il monarca universale ucciderà allora la cupidigia,
costringerà la Chiesa a restringersi nell'ufficio che Iddio le ha
affidato, restituirà la pace alle terre insanguinate d'Italia; egli
sarà executor iustitie, e se commetterà errori
nell'esercizio del potere temporale, il papa lo consiglierà a tornare
nel retto governo dei popoli così come l'imperatore guiderà il
papa se questi avesse a fallire nelle cose spirituali. Un perfetto equilibrio
si ristabilirà nel mondo; la pace sarà eterna, come sarà
eterno il gaudio in cielo.
L'autobiografia ecclesiale dantesca,
già compiutamente espressa nel canto di Marco Lombardo e nella
trattazione della Monarchia, si consolida di ulteriori convinzioni, nel
corso del Paradiso, relativamente alla necessità d'una totale
rigenerazione del genere umano e al compito, che in tal senso è affidato
alla parola stessa del poeta, di preannunciare i tempi e i modi d'una
nuovissima età cristiana. La cronologia che oggi P. G. Ricci ha
confermato sulla genesi del trattato politico e il protrarsi del dibattito
circa la giurisdizione dell'Impero oltre il momento dell'elezione del nuovo
papa Giovanni XXII (7 agosto 1316), investono direttamente la composizione del Paradiso,
e in qualche misura trovano spazio nella scrittura dell'Epistola XIII,
là dove Dante, sollecitato dalla lunga vacanza della sede papale a
compiangere le sorti d'una Curia individuata in Roma, sede del Vicario di
Cristo ma vedova e derelitta, in una veemente pagina che trova qui, forse, il
vertice dell'energia letteraria dantesca per quel che concerne la prosa in
latino, si rivolge ai cardinali italiani affinché concordino tra di loro
l'elezione d'un pontefice che riporti la sede della Chiesa a Roma. Questo
complesso d'emozioni vibra (ben oltre la data della convocazione del conclave)
in tutto il tessuto politico del Paradiso, sia pur fittiziamente
riportato alla data del viaggio dantesco nell'oltretomba, nel corso del quale
il viator riprende più volte questo concetto ed esplode
altrettante volte nell'amarezza di constatare la degradazione della Chiesa di
Cristo, sino a raggiungere il proprio climax nei canti finali del Paradiso,
ad esempio nel rimpianto di san Pietro in presenza di Cristo, non degli uomini:
rimpianto che reca con sé l'amarezza che sia venuta a mancare, nonostante la
buona volontà di pochi e in conseguenza della perversità di
molti, la possibilità di risolvere col tramite d'una potestà
ciò che né la Chiesa, né l'Impero erano riusciti a compiere, per la vita
dell'anima e per la giustizia in terra. Eppure, nonostante i sarcasmi, i
rimproveri, le invettive, poste sulle labbra non soltanto di Beatrice, ma anche
del Principe degli Apostoli, la speranza non è sopita nel profondo del
cuore del poeta: speranza che siano (non ora, ma più tardi, e proprio in
virtù del messaggio carismatico affidato al poema sacro)
rimarginate le sanguinanti ferite inferte al corpo della Chiesa dai suoi
indegni pastori, sanza legge e che hanno negletto la cura della Sposa di
Cristo, sono divenuti “folli”, si sono lasciati attrarre dalla cupidigia della
ricchezza (schiavi della lupa) e hanno perciò stesso deviato il corso
della volontà divina.
Il vocabolo impero,
nell'accezione più diffusa e che concerne il concetto e le forme
istituzionali della Monarchia universale, la dottrina dell'Impero, le speranze
e le disillusioni connesse con le immense possibilità con l'istituzione
e col fallimento d'esse, le figure di imperatori romani e moderni (sino allo
scranno vuoto che attende lo spirito di Enrico VII), costellano tutto il
tessuto morale della terza cantica, animano alcuni dei suoi momenti di
più alta tensione emotiva. Anche sotto il profilo strettamente
concettuale la lettura della terza cantica offre elementi di ulteriore
conferma, se non proprio d'originale sviluppo. Il centro dell'attenzione
dantesca riposa nel canto di Giustiniano, sul piano storico, nella lunga
descrizione del volo dell'aquila romana, da Cesare a Carlo Magno, e sul piano
teoretico, nell'affermazione (Par., VI, 82-93) che la pienezza della
giurisdizione romana su tutto il mondo aveva potuto consentire a Dio che con la
passione e morte del Figlio, eseguite con l'assenso di Roma (per il tramite
della licenza data da Ponzio Pilato ai Giudei di farsi promotori della
crocefissione), Egli potesse punire il peccato antico, la colpa di
Adamo. Infatti Cristo, incarnandosi e soffrendo la passione durante
l'età imperiale, ha inteso rispettare la legge di Roma, riconoscendone
quindi la legittimità e l'universalità[104]. La vendetta
di Dio si è estesa poi al popolo ebreo, crocefissore di Cristo, allorché
il Signore ha concesso che un imperatore romano, Tito, punisse gli Ebrei
distruggendo Gerusalemme.
Altrove[105] il testo del Paradiso
offre un ulteriore sostegno alla concezione dei due distinti ruoli che Iddio ha
affidato alla Chiesa e all'Impero con l'amara constatazione che la prima (la
gente ch'al mondo più traligna) ha travalicato i propri compiti
invadendo prerogative spettanti al Monarca universale; e quindi divenendo
ostile matrigna, noverca, dell'Impero, e facendo sì che la sede
di Cristo resti vacante perché i papi usurpano il potere temporale e trascurano
i loro doveri di capi spirituali. Rivelatrice, inoltre, del pensiero politico
dantesco è l'affermazione della continuità etico-giuridica della
potestà di Roma nel Sacro Romano Impero (translatio a Graecis in
Germanos), il cui atto di nascita è l'incoronazione di Carlo Magno
nella basilica vaticana, sulla tomba del primo vicario di Cristo.
XVI
DA VERONA A
RAVENNA.
LE “EPISTOLE”,
LE “EGLOGHE”, LA “QUESTIO”
Anche per l'ultimo quindicennio della
vita, le scarne notizie che noi possiamo dedurre dalle testimonianze esterne e
interne appaiono soverchiate dalla storia complessiva della Commedia,
poiché tutti avvertiamo che il vero “fatto” di quella vita è esplicitato
nel poema, è il poema stesso nelle alterne vicende di quell'intelletto;
ciò vale sia per il sessennio veronese, dal 1312 al 1318, sia per il
triennio o poco più ravennate: dal 1318 al 1321, ove si potrà
inferire al massimo qualche sporadica uscita dalle città per incombenze
di carattere politico, assai raramente per altri motivi, anche se culturali. A
Verona è chiuso in se stesso, non ha bisogno di comunicare personalmente
coi dotti del tempo, non gli necessita d'entrare in contatto con gli ambienti
delle Università. Si potrà vedere tra breve che esisterà
un piccolo cenacolo dantesco a Ravenna; non credo che invece ne fosse esistito
un altro nella corte scaligera. Tutto l'impegno è concentrato nel lavoro
di revisione dell'Inferno e del Purgatorio e nella iniziativa di
pubblicare le due cantiche.
Entra in scena il cosiddetto
argomento barberiniano. In una chiosa alla carta 63 dell'autografo dei Documenti
d'Amore[106],
Francesco da Barberino parla di Mantova e di Virgilio, e a questo proposito
soggiunge:
Hunc
[Virgilium] Dante Arigherij in quodam suo opere quod dicitur Comedia et de
infernalibus inter cetera multa tractat, commendat protinus ut magistrum; et
certe, si quis opus illud bene conspiciat, videre poterit ipsum Dantem super
ipsum Virgilium vel longo tempore studuisse, vel in parvo tempore plurimum
profecisse.
Si tratta della prima attestazione
dell'esistenza o della conoscenza che il mondo letterario ha del poema
dantesco, e quindi ci si è molto adoperati per datare quella chiosa del
Barberino, al fine di accertare la data di conclusione e di divulgazione almeno
della prima cantica, ovvero sia dell'Inferno che del Purgatorio.
È arbitrario pensare che la chiosa venisse scritta a Mantova nel
principio dell'estate del 1313, mentre è più opportuno spostarla
oltre il 1314-1315. Non è in ogni caso provato, come affermò il
Nardi, che l'Inferno girasse già nel 1313 per il mondo. Insomma
ritengo che l'Inferno sia stato pubblicato nella seconda metà del
1314, e il Purgatorio nell'autunno del
Sull'epoca e sulle ragioni della
partenza da Verona molto s'è scritto, eppur in modo da lasciare aperte
ipotesi diverse quando non contrastanti. Tra di esse mi sento di optare per
l'anno 1318, quale quello dell'arrivo a Ravenna. È parso al Ricci[107]
che l'epidemia di peste, imperversante “in Provincia Romandiolae” dal 1318 al
1319, debba aver impedito, o almeno sconsigliato l'accesso alla città di
Ravenna in data posteriore ai primi del
Quali i motivi della partenza da
Verona? Per il Torre[109]
Dante si sarebbe mosso da Verona per espresso incarico di Cangrande,
interessato al sale di Cervia e desideroso d'indurre Guido Novello da Polenta a
resistere ai Veneziani. Giunto come ambasciatore a Ravenna, vi sarebbe rimasto
come ospite stabile? Affermare ciò sembra almeno cosa superficiale, e
induce a spostare la partenza da Verona almeno al 1320, con problematica
identificazione di siffatto incarico con l'ambasceria a Venezia di cui poi si
dirà. Le cause della partenza sono da cercare a Verona, non a Ravenna:
disagio cresciuto col tempo d'una imposta sodalitas con cortigiani che
non stimava e forse ne osteggiavano il temperamento[110]; il tipo di
politica “locale” intrapresa ad un certo momento da Cangrande, lontano dalle
grandi prospettive “italiane” cui Dante lo sentiva destinato e nelle quali
s'ostinava ancora a credere[111].
Se una causa “ravennate” ci fu, non fu forse politica, ma culturale: le
attrattive di spendere gli ultimi anni in un ambiente di letterati e di dotti
quali erano attorno a Guido Novello, poeta anch'egli (e già con qualche
successo prima ancora che Dante pensasse di trasferirsi nella sua sede).
A gloria degli anni veronesi non
sarà da attribuire soltanto una vicenda lunga e centrale relativa alla Commedia,
ma la stesura d'altri scritti: la Monarchia e le ultime tre Epistole.
Il problema della composizione del trattato politico è complesso oltre
ogni grado: si oscilla tra il 1308 circa, secondo il Nardi, e il 1317 “o di
poco posteriore”, secondo il Ricci, il quale fa leva sull'autocitazione sicut
in Paradiso Comedie iam dixi (I, xii,
6), giustamente riabilitata come autentica, e sull'infittirsi delle diatribe
della pubblicistica contemporanea sulla giurisdizione imperiale all'indomani
dell'elezione di Giovanni XXII (7 agosto 1316). L'autocitazione, che riguarda Par.,
V, 19-22, Lo maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando, e a la
sua bontate / più conformato, e quel ch'e' più apprezza, / fu de
la volontà la libertate, potrà essere però tanto del
'17 o successivi quanto dello stesso 1316, autunno; in ogni caso è fatta
salva la nascita veronese del trattato. In altro momento c'era parso più
congruo accostare Commedia e Monarchia nella loro genesi,
piuttosto facendo conto delle approssimazioni di pensiero e persino di
linguaggio politico tra il trattato e il canto di Marco Lombardo, ma oggi
è prevalente l'ipotesi d'una data intorno al 1318.
Dunque la Monarchia segue, e
non precede, com'è nella cronologia tradizionale, le tre Epistole,
le quali si staccano l'una l'altra d'un anno: 1314 Epist. XI, 1315, Epist.
XII, 1316 Epist. XIII. Alla morte di Clemente V, 20 aprile 1314, Dante
aveva ripreso in forma pubblica il suo costante interesse diretto alle vicende
d'Italia, sopita come forse s'era all'annuncio della fine di Enrico VII la sua
volontà d'intervenire di persona, e cioè fuori dei proclami
espressi dalle terzine della Commedia. Costretto a piangere Romam…
viduam et disertam, si rivolge ai cardinali italiani affinché venga eletto
un papa che riporti la sede a Roma, pro sede Sponse que Roma est (Epist.
XI: forse il vertice della prosa latina di Dante per veemente concitazione di
ritmo e selezione di termini e costrutti biblicizzanti; certo il momento in cui
il latino dantesco si approssima più al linguaggio delle grandi
invettive del Purgatorio e prepara le corrispondenti apostrofi del Paradiso).
Se, come par certo, la missiva cade nel breve periodo intercorrente tra la
convocazione del conclave (maggio, a Carpentras) e l'estromissione dei
cardinali italiani (14 luglio), questa fu tra le speranze nutrite dal poeta
quella più rapidamente tramontata, sì da accrescere nel lungo
periodo di sede vacante (Giovanni XXII venne eletto a Lione due anni dopo)
l'amarezza del poeta per il luogo…che vaca / ne la presenza del Figliuol di
Dio, in Par., XXVII, 23-24, il rimpianto per la mancata
possibilità di risolvere col tramite d'una potestà ciò che
l'altro sole non era riuscito a realizzare. Dalla missiva, a dire il vero, non
traspare altra illusione che quella di veder rimarginate le ferite inferte al
corpo della Chiesa dal pastor sanza legge macchiatosi di più
laida opra (in Inf., XIX, 82-83), e quindi si può evincere
una serie di proposte che nascono dall'empito profetico-visionario
dell'invettiva e riguardano esclusivamente il campo ecclesiale, dacché il corso
della Chiesa s'è fatto “folle” per la negligenza di coloro che hanno mal
diretto cursum Sponse, allontanandola dalla strada segnata dal
Crocifisso, ma non si può del tutto evitare l'ipotesi che da un papa
italiano o di stanza italiana Dante sperasse che poteva nascere un nuovo corso
politico, il quale riaprisse il problema dello status guelfo di Firenze,
dunque della condizione stessa degli esuli.
Non è che, com'è stato
detto dal Sestan[112],
dopo la scomparsa di Enrico difetti “un interesse di Dante per le vicende
fiorentine” (ma il Sestan prosegue: “benché sia difficile escluderlo in
assoluto”); s'è già visto infatti il rilievo che il poeta intese
dare all'episodio di Montecatini, e si deve premettere l'attenzione, diretta o
indiretta che sia, legata alle imprese toscane di Uguccione della Faggiuola, la
cui alleanza con Cangrande dopo il fallimento della conquista di Pistoia (10
dicembre 1314) può essere passata per le mani di Dante o comunque
sancita dal suo consenso e accompagnata dal consueto bagaglio di speranze.
Nell'anno 1315, poi, i fatti occorsi in Firenze investono frontalmente il
poeta, e per di più in connessione con le campagne vittoriose di
Uguccione, il quale nel maggio stringe d'assedio San Miniato. Sotto l'urgenza
della minaccia militare i governanti di Firenze accettano le proposte del
vicario Ranieri di Zaccaria di concedere una larga amnistia a tutti gli esuli,
nessuno escluso, previi il pagamento d'una parte soltanto (dodici denari per
ogni lira) della multa dovuta allo Stato sino ad un massimo di cinquanta lire,
e la rituale offerta nel giorno di san Giovanni. I Consigli approvano il 19
maggio, e di certo qualche settimana dopo Dante veniva a conoscenza delle
possibilità che gli si aprivano dinanzi, per tramite di insistenti
inviti d'un nipote e di vari amici. Ad uno d'essi, non chiaramente
identificabile, Dante risponde immediatamente: giugno-luglio[113].
La missiva del poeta, cioè Epist. XII, avrebbe prodotto senza
dubbio grande eco in città, e quindi scrivendo ad uno solo Dante sa di
rispondere alle lettere aliorum quamplurium amicorum. Non è
pensabile ch'egli possa accettare l'infamia della multa e il marchio
dell'offerta, notam oblationis. Il rifiuto è nettissimo: Non
est haec via redeundi ad patriam, pater mi, ma ancora concede una
possibilità ai governanti: sed si alia per vos ante aut deinde per
alios invenitur quae famae Dantisque honori non deroget, illam non lentis
passibus acceptabo. Il poeta spera davvero in una concreta
possibilità che gli venga dai Consigli cittadini, o si tratta d'una mera
formula di cortesia per mitigare, alle orecchie degli amici “intrinseci”, la
durezza della risposta irremovibile, o forse prende tempo, in attesa che le
armi di Uguccione risolvano la questione in ben altro modo?
La battaglia di Montecatini non
è però seguita da un deciso sfruttamento ghibellino del
vantaggio. Uguccione non stringe d'assedio Firenze, impresa che forse gli
appare inutile o impossibile. I priori e il gonfaloniere di giustizia ricevono
i pieni poteri per far fronte con alacrità ai rischi immani della
situazione, e inoltre per prendere provvedimenti nei riguardi dei numerosi
esuli che non si sono presentati alle porte della città.
Dante è tra costoro, e con
lui, lontano da Firenze, restano i suoi figli. E tutti gli Alighieri il 15
ottobre vengono condannati a morte e alla confisca e distruzione dei loro beni.
Sarebbe stato possibile il perdono se i “rei” si fossero presentati “hodie et
cras per totam diem”[114],
ma a parte che non ne avevano l'intenzione, gli Alighieri non ne avrebbero
avuto nemmeno il tempo.
Il 6 novembre il vicario Ranieri di
Zaccaria bolla al bando e all'esecuzione capitale Dante e i figli, i quali
avevano spregiato bandi e ordini del governo. Ma cadrà per questo la
speranza del poeta di rientrare in patria? Certamente no, se anni dopo
nell'attacco celeberrimo del canto XXV del Paradiso risuoneranno ancora
parole di speranza: Se mai continga che 'l poema sacro…
Per troppi anni Dante spererà
nelle armi dei nemici di Firenze, in una violenta caduta del regime nero e in
un tripudiante ritorno dei Ghibellini e degli esuli bianchi. In forza di tale
speranza recide ogni rapporto tra sé e gli “scelleratissimi fiorentini di
dentro”. Nei versi del Paradiso vibrerà sempre la nostalgia della
patria lontana, e non vorrà insistere sulle vicissitudini dello Stato
fiorentino in quegli anni, quasi a non accrescere il solco delle diversità
politiche tra di lui e i Fiorentini. Saranno dunque senza eco nella Commedia
la guerra di Castruccio Castracani contro i Fiorentini nel
Di questa s'è già detto
quanto a congetture di cronologia (1316), e quanto all'autenticità
integrale del testo. Si deve sottolineare l'evidente proposito del poeta di non
andar oltre generiche formule dedicatorie ed encomiastiche, il cui superamento
lo costringerebbe a dir qualcosa di sé, ove si eccettui la ripetizione florentini
natione, non moribus, di suoi vincoli e debiti culturali con l'ambiente
veronese, di sue aspettative personali, idee concrete nell'esecuzione
evocativa, memoriale, storico-politica del Paradiso, convinzioni in
materia di fede, soluzioni concrete della visio mistica. Poiché
l'indagine del soggetto e della forma del poema è limitata alla
determinazione del carattere di “comedìa” impresso al titolo e alla
natura dell'opera, e infine al valore proemiale e definitorio della trattazione
nei riguardi della terza cantica, la lettura dell'epistola rivela i problemi
d'uno scrittore ancora agli inizi dell'impostazione dottrinaria e della fabula
del Paradiso: il che favorisce, ancora dall'interno del testo, la
proposta d'una datazione così “antica”, 1316, e potrebbe risolvere
alcuni, almeno, tra i dubbi avanzati dai sostenitori dell'apocrifia (B. Nardi in
primis). Come nella Monarchia l'aggancio indubbio con la
pubblicistica ghibellina del tempo non annulla la posizione di solitudine di
Dante, solo con se stesso, a misurare il terreno della propria teoresi politica
col metro di ambizioni storicamente impossibili, in un'età che va sempre
più mutando prospettive ed esigenze, così nell'epistola a
Cangrande s'avverte l'uomo di cultura che svolge un discorso meditato, senza
precisi destinatari e fruitori nella cultura dell'epoca, e insomma senza i
numerosi interlocutori che invece ha il Paradiso: i teologi di scuola.
L'epistola a Cangrande non ha un “pubblico” nella generazione di Dante;
potrà averlo più tardi. La Monarchia, che non può
avere effetto concreto nelle vicende del tempo, è un elemento, uno tra i
tanti, della grande disputa tra i sostenitori del diritto imperiale e i fautori
del diritto pontificio, e anche nei riguardi di coloro che tentarono una
soluzione intermedia tra le due dottrine, ha una storia a sé, e la conoscenza
degli scritti pubblicati all'epoca della controversia tra Bonifacio VIII e
Filippo il Bello e dei trattati redatti nell'ambiente curialesco e
anticurialesco francese è fondamentale per situare Dante tra i teologi
dell'imperialismo ghibellino, dove non è né un caposcuola, né un
epigono, né un politico puro, né un rigoroso filosofo della politica[115].
La difesa dei diritti dell'Impero,
per quanto non sia remota da interpretazioni largamente discusse, quali quelle
di Giovanni da Parigi e di Giacomo da Viterbo, non dipende da un'unica fonte
dottrinaria, ma è conseguenza d'un modo d'impostare il problema del
tutto tipico dell'intelletto di Dante, specialmente nella equilibrata difesa
(scevra di polemiche) delle tesi ierocratiche.
Abbiamo già avuto modo
d'intrattenerci sul rapporto tra Purgatorio e Monarchia, e anzi
abbiamo visto nella Monarchia quasi un momento di parentesi e di sosta
del lavoro della Commedia. Infatti la Monarchia deve essere messa
in rapporto col Paradiso, al fine di stabilire la continuità
delle idee dantesche sulla funzione della Chiesa e dell'Impero, pur marcando un
certo stacco che esiste tra il trattato e la materia ormai così
ardentemente visionaria e profetica del Paradiso, in una possente
tensione religiosa che i capitoli della Monarchia certamente non
potevano esprimere. Lo stesso Nardi ha ben posto in rilievo che le premesse
averroistiche le quali secondo la sua tesi sono al fondamento del Convivio,
e dal Convivio sono travasate nella Monarchia, non possono
più rintracciarsi nel tessuto teologico del Paradiso: appunto
poiché più teologica che filosofica, la materia della terza cantica
segna anzi il ripudio d'ogni volontà di portare avanti un discorso
filosofico per instradarsi soltanto sul cammino della teologia mistica e della
teologia dogmatica. Lo stacco è notevole, molto maggiore di quel che
invece poteva esistere tra gli ultimi canti del Purgatorio e i primi del
Paradiso, ove invece c'è una continuità di ricerche
teologali, di visioni mistiche, di riflessioni dottrinarie. La lettura della
processione mistica, il nitore del paesaggio allegorico (e anche del paesaggio
naturale) del Paradiso terrestre, la centralità della figura di Beatrice
e del suo simbolo di Verità rivelata, accostano le due cantiche in un
aggancio che ha dell'eccezionale, e che consente di coprire ogni spazio,
giacché non vi fu certamente nemmeno alcuno iato temporale. La revisione del Purgatorio
s'effettua in un momento in cui tutta la materia del Paradiso è
già dentro la mente di Dante. Occasioni di metafore e di altri traslati,
immagini di luce e di suoni non ancora utilizzabili ovvero non transitabili
nella materia dell'ultima parte del Purgatorio, sono già
assicurate saldamente al fondale della memoria poetica dello scrittore.
L'attacco sarà al tutto naturale: La gloria di colui che tutto move…
Non è continuata sino ai
nostri giorni la querelle sull'andata a Ravenna per svolgere l'ufficio
di lettore di retorica volgare, ché infatti non si suol più dar fede
alle parole di Ubaldo di Bastiano da Gubbio e del Boccaccio, ritenute al
massimo una vanteria del primo e una personale ipotesi del secondo, cui era
utile stabilire un raffronto con l'incarico lusinghiero ch'egli aveva ricevuto
dai Ravennati: così da un lato leggiamo “fece più scolari in
poesia e massimamente nella volgare”, d'altro canto “quivi a molti
dimostrò la ragione del dire in rima, la quale maravigliosamente
esaltò”. Nel fervido cenacolo della città e della corte di Guido
Novello da Polenta, più d'un coetaneo e più d'un giovane
letterato o retore o giurista si strinse accanto al celebrato autore della Commedia,
accogliendo con entusiasmo l'arrivo d'un sommo uomo di pensiero e di scienza,
il quale era ben in grado nella sua conversazione dalla impareggiabile altezza
d'impartire preziose nozioni di stile e di retorica; ma da questo a ritenere
che Dante esercitasse l'ufficio di maestro la differenza è notevolissima:
egli era stato a Verona e tale rimase a Ravenna “dolce maestro”, “pedagogo e
maestro mio” nel senso in cui così lo celebrarono Pieraccio Tedaldi e
Giovanni Quirini.
Se si vuol poi valutare la
qualità della sua collaborazione politica con Guido Novello, si
può dedurre che il signore di Ravenna volle impegnarlo, e forse
più volte, in ambascerie e relazioni cancelleresche, mai in un servizio
continuo e ufficiale di segretario che avrebbe distolto Dante dal compito di
continuare e porre fine al Paradiso: incombenza che il Polentano volle
rispettare in massima misura, fornendogli un tranquillo rifugio dopo i
trambusti e le difficoltà della eterogenea corte di Verona verso cui
l'atteggiamento del poeta fu sempre di rispetto e di collaborazione e tale restò
anche dopo la partenza, in riconoscenza, tra l'altro, dei vincoli che Verona
aveva contratto coi figli Pietro e Jacopo, ai quali Cangrande aveva fornito i
mezzi per studiare (che tali vincoli siano rimasti e resteranno sempre molto
stretti, è provato dalla circostanza che Pietro vi tornerà a
vivere, e Jacopo godrà d'un canonicato e di vari benefici anche nel
periodo successivo in cui si stabilirà a Firenze).
La presenza di Dante determina un
effetto nella tradizione letteraria di Ravenna così ampio e profondo che
uno simile non s'avrà, vivente lui o nel decennio successivo al 1321, né
a Verona, né a Firenze, né in altro ambiente culturale italiano; si va
dall'imitazione più fedele ma anche più consapevole del Mezzani
alla giovanile epigonia scolastica del Perini, fiorentino anch'egli, dalla sodalitas
certo culturale ma prevalentemente personale del Giardini all'esperienza
scientifica e filosofica del Milotti e di Guido Vacchetta.
Nel cenacolo hanno posto anche Pietro
e Jacopo, sia pur in posizione secondaria per la loro età giovanile alla
quale le cariche di Pietro poco aggiungevano, sebbene il soggiorno a poco a
poco offra uno spazio proprio anche ai figli del poeta. Lo si vede dalla
sentenza del 4 gennaio 1321 con cui il concilio del clero ravennate condannava
tra gli altri Pietro a pagare le procurazioni dovute al cardinal Bertrando del
Poggetto, e che si pone al termine di precedenti richieste e citazioni[116].
Eppure pensiamo ai figli, naturalmente
anche ad Antonia, monaca forse col nome di suor Beatrice nel monastero di Santo
Stefano degli Ulivi, non già per ingrossare le file del cenacolo
dantesco, ma per un motivo in più perché l'autore della Commedia
si trovasse in agio nella città dei Polenta per concludere il poema
sacro. Gemma fu con loro? In genere si tende ad escluderne la
possibilità, soprattutto in forza della suggestione delle parole del
Boccaccio “né mai dove ella fosse volle venir, né sofferse che là dove
egli fosse ella venisse giammai”; chi scrive, è ben lungi dall'escludere
la circostanza: Ravenna offriva molto di più di quanto aveva dato e dava
Verona (altrimenti il trasferimento non avrebbe avuto ragione), ed era
più vicina a Firenze, almeno della metà. Se Antonia è a
Ravenna ed entra nella vita religiosa, più probabilmente vivente il
padre anziché dopo la sua morte, la presenza della madre è più
che possibile[117].
Gli altri elementi richiamati al fine
di stabilire la data dell'arrivo a Ravenna pesano assai poco. La discussa
lettera a Guido da Polenta, pubblicata dal Doni nel 1547 nelle Prose antiche,
non può essere assunta a prova, nemmeno a vaghissimo orientamento sopra
una circostanza di fatto. Non ha parimenti alcuna possibilità di
costituire sufficiente elemento di rilievo biografico la disputa sulla
nobiltà che Dante avrebbe avuto con Cecco d'Ascoli al momento di tornare
a Ravenna.
Appartengono agli anni di Ravenna le
due Egloghe. Quanto alla Questio de aqua et terra, a stare alle
premesse la disputa accademica apparirebbe allestita di ritorno da Mantova,
durante un'occasionale sosta alla corte di Cangrande, e la lettura d'essa il
giorno di domenica 20 gennaio 1320, nel sacello di Sant'Elena, farebbe
presupporre un primo periodo di predisposizione dei materiali a Mantova stessa,
una stesura della lectio nei giorni precedenti il 20 gennaio, e forse
(ipotesi dopo altre ipotesi!) la consegna del testo a Cangrande. Possibile
è, però, che la disputazione sia un lavoro al tutto occasionale e
imprevisto?, ovvero Dante serbò in sé per vario tempo l'intenzione di
ratificare le proprie cognizioni e supposizioni cosmogoniche, a chiarimento e
superamento di quanto aveva affermato nel canto XXXIV dell'Inferno, e
provocasse in qualche modo la lezione veronese dopo una qualche precedente
discussione a Mantova stessa? In tal caso anche la Questio
potrebb'essere lavoro ravennate, nell'inoltrato 1319, tenuto da parte per una
cerimonia ufficiale a Verona non predisposta all'ultimo momento, con un
occasionale passaggio al castello di Cangrande, ma da tempo offerta a questi
quale omaggio dell'antico ospite[118].
Nulla sappiamo sulla disputa
mantovana, ma è da ritenere che essa avesse per oggetto solo e soltanto
l'argomento trattato da Dante, e che gli altri contendenti sostenessero
opinioni del tutto aberranti all'idea che se n'era fatta il poeta scrivendo l'Inferno.
Egli raccoglie quindi una provocazione che era nell'aria circa la posizione del
globo terracqueo al centro dell'universo e la collocazione del centro della
sfera terrestre in esatta coincidenza col centro dell'universo, e porta avanti
un discorso tutto suo sul reciproco rapporto tra l'acqua e la terra, sulla
“gibbosità” della sfera dell'acqua rispetto alla sfera della terra in
rapporto ad una concezione, da molti condivisa, sulla eccentricità del
comportamento dell'acqua in rapporto alla forza d'attrazione dei corpi celesti,
in particolare della luna. Dante afferma con sicuro orgoglio di scienziato che
in nessun punto l'acqua è più alta della terra emersa ed è
impossibile l'esistenza di “gibbosità” della sfera equorea, e che le due
sfere sono concentriche, e infine che l'emersione della terra dall'acqua abbia
nell'emisfero boreale una gobba simile a quella d'un semilunio. Dice bene il
Mazzoni:
Per
capacità di sintesi e rigore dialettico, per il suo vigoroso, ben
condotto e strutturato argomentare, la Questio è insomma, nel
genere suo, un pezzo di bravura […] Avvince e convince il moderno lettore il
piglio disinvolto e sicuro (e talora il franco cipiglio) con cui Dante affronta
l'argomento, e il livello — la soglia — con cui è portata la
discussione, sorretta da una ben articolata e sapiente struttura magisteriale,
da ordinata chiarezza di pensiero, da estrema precisione tecnica di linguaggio[119].
Nella cronologia della corrispondenza
poetica con Giovanni del Virgilio, dagli inizi del 1319 prolungabile sino alla
fine del 1320, i due componimenti bucolici di Dante possono essere stati
redatti con un intervallo di circa un anno: per motivi che emergono da
riferimenti storici interni al testo del Del Virgilio, e anche dalla
testimonianza esterna del Boccaccio, il quale riferisce che Dante tardò
un anno a rispondere, così che il testo della seconda egloga dantesca
sarebbe pervenuto al destinatario dopo la morte del poeta. Tutto ciò non
contrasta con le idee che ci siamo fatte circa le date di composizione del Paradiso.
Soltanto a Paradiso concluso e sul tavolo della definitiva revisione
l'animo del poeta si poteva volgere ad una iniziativa letteraria indubbiamente
per lui collaterale, qual era quella d'una seconda missiva in veste bucolica,
anche se è caratteristico del poeta (così come era avvenuto in
giovinezza) riuscire a tener contemporaneamente sul telaio opere di stampo
diversissimo, e così si possono conciliare il lavoro sul Paradiso
con l'arida prosa della Questio e coi raffinati esametri delle Egloghe.
Il primo elemento di assoluta
originalità nella cultura medievale è rappresentato dalla
iniziativa di ridar vita al genere bucolico, ancora una volta rivaleggiando con
Virgilio, e al tempo stesso nel nome di Virgilio offrire un nuovo modo di
poetare, questa volta in latino, in un confronto diretto con le Bucoliche.
Giovanni del Virgilio gli aveva indirizzato un'epistola, Pyeridum vox alma.
Dante avrebbe potuto rispondere nella stessa forma, ma inaspettatamente,
sorprendendo il corrispondente, ribaltando a proprio vantaggio la tenzone
poetica, reinventa i modi e i contenuti dell'egloga. È una riscoperta
tutt'altro che secondaria, e con essa egli pone un'ulteriore pietra miliare
nella sua collocazione tra Medioevo e Umanesimo; con Vidimus in nigris
intende staccarsi da un'antica tradizione epistolografica, aprire su un
paesaggio letterario estremamente nuovo, puntare su un diverso modo di
verseggiare in latino che instauri una nuova tradizione letteraria, così
come in effetti avverrà nei riguardi non solo della sua generazione (che
è tenuta a seguirlo, come farà Giovanni del Virgilio con l'egloga
responsiva Forte sub inriguos), ma della successiva: e lo seguiranno,
non c'è dubbio, Petrarca e Boccaccio. Questa diversa ars poetandi
non pretende d'essere nuova in sé, ma per le nuove radici che colloca nella
cultura del tempo: esametri narrativamente molto mossi, attingenti alle
sorgenti più pure del genere bucolico, ma di tratto inconfondibilmente
moderno, quasi che l'Alighieri non dettasse direttamente in latino, ma
traducesse alcune sue caratteristiche movenze volgari, soprattutto nel fitto
dialogato del canto amebeo, dialogato che presuppone l'esperienza del “parlato”
nella Commedia, agile, ricco di incontri e scontri verbali. Infatti nel
passaggio da Vidimus in nigris all'altra egloga, Velleribus Colchis,
il sottofondo “volgare”, osiamo dire “comico”, del latino dantesco si rileva
ancor di più, ad esempio nella festosa ed elegante descrizione dei
vecchi pastori che ridono all'arrivo di Melibeo (figura di Dino Perini), e alla
recitazione della bucolica di Giovanni tacciono, compresi dell'evento, o anche
nelle splendenti aperture paesaggistiche: fraxineam silvam tiliis
platanisque frequentem, infine nella consapevolezza della sua stessa
bravura tecnica, nella ricchezza dei personaggi, da Titiro (lo stesso Dante) a
Mopso (figura di Giovanni del Virgilio), ad Alfesibeo (Fiducio de' Milotti), al
misterioso Polifemo (forse un bolognese avverso a Dante: Romeo de' Pepoli?, un
discendente di Venedico Caccianemico?, o, più probabilmente, Fulcieri
de' Calboli?). L'intrico dei riferimenti ha impegnato molto la dantologia nel
discoprire uomini e fatti dietro il velo dell'allegoria pastorale; non possiamo
attardarci su tante vexatae quaestiones; sia sufficiente sottolineare
che anche in queste prove d'un Dante “minore” c'è la sete di raggiungere
pari vette del poetare, c'è l'ardimento lessicale e prosodico d'un
grande poeta latino che solo parzialmente s'è espresso, ma tanto quanto
basta per lasciare un segno indelebile nella storia della poesia umanistica.
Il lavoro sulle prime cantiche poteva
pur svolgersi in mezzo alle mille occasioni d'un turbinoso pellegrinaggio
d'esule, di regione in regione, di corte in corte, mentre per il Paradiso
era necessaria una sosta più tranquilla, pacata, inducente alle
solitarie meditazioni. Anche con quel poco che siamo venuti dicendo circa i
tempi dell'Inferno e del Purgatorio, anche con la nostra
intenzione di studiare Dante dall'interno di Dante e di inseguire le varie fasi
della sua vita con la prospettiva d'individuare le linee correnti
dell'autobiografismo, non ci sentiremmo mai di appoggiare una cantica “diversa”
come l'Inferno a momenti più travagliosi, e la terza cantica a
esperienze relativamente più tranquille. A ciò contrasta la
stessa poesia dell'Inferno nel momento in cui si piega a pacatezze
dolcissime, a malinconiche riflessioni sulla condizione spirituale. E vi
contrasta, vedremo tra breve, la poesia del Paradiso dove vengono
ripresi e riespressi con pari vigoria polemica gli argomenti del risentimento
dantesco verso il mondo, e la simbologia della gradualità della
esperienza mistica lascia larghi valichi all'irrompere dell'animo tempestoso
del poeta, alle sue irrequietudini che hanno bisogno di alte grida di rimbrotto
verso il mondo (non importa se sono Beatrice o san Pietro a pronunciarle, o
altri spiriti del cielo), come pure di tristi ripiegamenti verso speranze mai
dissolte e sempre ritornanti: se mai continga… vinca la crudeltà che
fuor mi serra… ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo
prenderò 'l cappello[120].
Anche a Ravenna, anche in un cenacolo
di spiriti intellettuali che lo rispettano, anzi l'ammirano, anche in un milieu
più culturale, non c'è posto per una zona di pace. Il poeta deve
vivere sino in fondo, anche se misticamente sulla grande scalea eretta verso il
cielo, la sua vita travagliosa e asperrima. E chissà se i canti
più “astratti”, più “mistici” del Paradiso non
corrispondano proprio ai momenti di maggiore agitazione umana del vecchio
poeta.
XVII
LA POESIA DEL
“PARADISO”
Tutta la Commedia ha la
struttura, la veste allegorica, la linea narrativa di una visio mystica
e di un messaggio profetico lanciato alle nuove generazioni affinché ritrovino
la strada della giustizia e si emendino dai loro peccati. Tuttavia questa
carica visionaria e profetica è particolarmente forte, insistente, e
soprattutto esplicita nel Paradiso, dove l'elemento del raptus
è più evidente, giacché al viaggio pur sempre “terreno” nella
cavità della terra e nel monte del Purgatorio si sostituisce un
rapimento del corpo e dell'anima in cielo, una ripetizione della esperienza di
san Paolo, e intenzionalmente (non realmente) più di san Paolo ricolma
di segnali e di insegnamenti per l'umanità traviata: e questi non sono
soltanto d'ordine ascetico-mistico, e perciò strettamente religioso, ma
anche etico-politico, con una ripetizione ancor più battente del
carattere del poema sacro anche quale breviario politico lanciato agli
uomini di buona volontà.
Nella epistola a Cangrande Dante ha
avvertito e chiosato questo carattere di rivelazione mistica, là dove
scrive che finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu
miserie et perducere ad statum felicitatis, Epist. XIII, 39,
attraverso la conoscenza delle terribili conseguenze della ostinazione
dell'uomo a vivere nel peccato (nell'Inferno), i modi e le forme in cui
l'uomo che s'è pentito può prepararsi alla beatitudine celeste
(nel Purgatorio), i vari gradi di detta beatitudine e la sublime
fruizione della vista del Creatore (nel Paradiso).
I primi commentatori della Commedia,
sia che conoscessero l'epistola a Cangrande, sia no (e certamente la conobbero
i due figli del poeta, Pietro e Jacopo), si resero ben conto del valore del
poema come nuova “Sacra Scrittura”, nuovo “vangelo” di rivelazione, opera di un
sommo teologo ma anche di un uomo che aveva direttamente attinto alla propria
esperienza personale per dettare parole di guida, stimolo, rimprovero, viatico
per l'umanità tutta. Del resto i lettori della Commedia furono in
numero sempre più grande via via che passano i decenni del Trecento; e
lo vediamo dalla copia crescente di manoscritti che ci sono rimasti: forse la Commedia
fu un libro per pochi soltanto durante la vita del poeta e nei primi anni
successivi alla morte, ma ben presto diventa per eccellenza il “libro” del
secolo. Questi lettori erano indotti dalla conoscenza degli scritti dei mistici
dei secoli precedenti a ritenere valida qualsiasi opera letteraria o di
pensiero basata su una rivelazione mistica, e a credere come effettivamente
avvenuto il “sogno” di Dante, cioè che il poeta fosse stato, proprio
lui, investito dal carisma della profezia e della visione dell'aldilà.
Noi oggi, di certo, non possiamo giungere a tanto, ma è assai agevole
ritenere (è la ben nota tesi del Nardi) che Dante fosse persuaso d'avere
questo dono della profezia, ha creduto insomma a tutta questa vicenda di inferi
e di cieli.
Certo tutto quello che siamo andati
dicendo attorno alla Commedia, è esplicabile anche col ricorso
all'esame delle varie situazioni culturali che Dante ha attraversato nella sua
sufficientemente lunga esperienza d'intellettuale, all'esame delle istituzioni
in cui si è ritrovato e in parte confrontato (il Comune di Firenze, le
corti centro-settentrionali, gli Ordini Mendicanti, la civiltà laica
della aristocrazia ghibellina, l'empito sanguigno della civiltà
popolare), ma sarebbe vano ritenere che tutti questi “vettori” possano da soli
o tutti assieme metterci in condizione di capire tutto di Dante prescindendo
dalla complessità della struttura umana di questo poeta eccezionale
dalla vita eccezionale, dalle passioni e dalle macerazioni dottrinarie
eccezionali. Se pervicacemente ci intestardissimo a perseguire i singoli
percorsi vettoriali e fenomenici, perderemmo di vista l'oggetto fondamentale, e
per abbracciare tutto questo immenso agglomerato di contenuti rischieremmo di
ricuperare soltanto qualche favilla.
Coloro che sono riusciti a comprendere
in un sol corpus critico-letterario l'integro mistero del sacrato
poema (avanziamo soltanto i nomi di Foscolo e di De Sanctis, per attenerci
ai massimi lettori del secolo scorso), continuano ad insegnarci che alla fin
fine Dante va letto e spiegato con Dante, e i suoi innumerevoli personaggi, le
tante posizioni di cultura, gl'infiniti risvolti del suo intelletto, possono
essere intesi soltanto tenendo il volto di Dante a distanza ravvicinata dai
nostri occhi della mente, e lasciando che le altre cose sfumino nella distanza,
attenuino le loro luci dinanzi al bagliore d'una voce poetica assoluta in se
stessa e che conosce solo in sé le ragioni di tanta eminenza, il perché della
nascita improvvisa, lacerante e grandiosa di una summa poetica che dev'essere
sempre ricondotta a Dante, alla sua vertiginosa statura d'uomo, alle
peculiarità d'un intelletto grandissimo: insomma, s'abbia pure il
coraggio di dirlo, all'uomo Dante e al genio Dante[121].
La topografia morale del Paradiso
commisura gradi di beatitudine in rapporto ad un maggiore o minore sentimento
con cui i beati avvertono la carità per il Creatore sotto l'impulso
dello Spirito Santo. Pur tutti in stabile sede nell'Empireo di lì si
muovono appositamente per incontrarsi con Dante in uno dei nove cieli che
precedono l'Empireo, onde consentire al poeta di conoscere le varie
intensità di beatitudine in connessione col vario influsso che gli astri
hanno determinato sulla vita spirituale degli uomini e che le gerarchie
celesti, gli angeli, mediano. In tal modo è fatto salvo il principio
narrativo della varia esperienza che Dante deve compiere per poter egli stesso,
vivente, raggiungere l'Empireo e godere indi della triplice visione della
Divinità. Ogni stella ha una propria virtù, ovvero una
particolare prevalenza d'una virtù fondamentale su quelle affini. Così
nel cielo della Luna i beati che mancarono in terra ai voti; in quello di
Mercurio gli spiriti attivi che conseguirono in terra onore e fama; nel cielo
di Venere, il terzo, coloro che risentirono nella loro vita terrena in modo
particolare gli impulsi dei sensi; nel cielo del Sole gli spiriti dotati di
sapienza; nel quinto cielo, di Marte, coloro che combatterono per la fede e la
verità della Rivelazione; nel cielo di Giove gli spiriti giusti; nel
cielo di Saturno gli spiriti contemplativi; nell'ottavo cielo, delle Stelle fisse,
non vi sono anime dotate d'una particolare virtù, ma appare a Dante il
trionfo di Cristo, della Madonna e di tutti i beati; nel nono cielo, detto
Primo Mobile, Dante ha la vista dei nove cori angelici ruotanti attorno ad un
punto di particolarissima lucentezza, che è Iddio; nel decimo cielo,
finalmente, e cioè nell'Empireo, tutti i beati e gli angeli appaiono a
Dante, il quale gode finalmente della visione divina: dapprima la vista della
presenza del cosmo in Dio, poi la cognizione del mistero della Trinità:
tre cerchi concentrici, in forma di tre cerchi luminosi di pari diametro;
infine una rapida apparizione d'un volto umano offre al poeta la percezione del
mistero della Incarnazione.
Il dibattito intorno alla struttura
della Commedia come vera visio in somniis ovvero quale fictio
poetica appare centrale nella comprensione dell'essenza del Paradiso.
Va distinta nettamente la circostanza della consapevolezza di Dante ad erigersi
a reale profeta “rivelatore” dei modi in cui potrà riscattarsi la
novella età, da altro fatto: e cioè che Dante intenda d'essere
stato soggetto di una vera e propria estasi mistica, sia pure in somniis,
nel corso della quale egli abbia potuto conoscere l'oltretomba e giungere a
vedere il mistero di Dio. In effetti Dante non è che raramente in quella
particolare condizione dello spirito che si designa come apatia, egli
non è passivo oggetto dell'azione totale e libera di Dio che nella
visione dell'Empireo, anche narrativamente concepita come una visione
dall'alto. Ed è vero che il mistico non può riferire o non vuole
che alcuni elementi del raptus e che circonda la narrazione d'un vago
alone d'arcano enigma, comprensibile a pochi o addirittura indecifrabile, ma
occorre anche sottolineare che le visioni del Creatore presente nel cosmo, del
mistero della Trinità e di quello della Incarnazione come si presentano
a Dante nell'ultimo canto del Paradiso, non comportano alcuna forma di unio
mistica, ma sono appena il bagliore, intuito, dell'ultimo stadio del raptus.
Per questa rappresentazione della visio, tuttavia, Dante ha utilizzato i
più grandi testi della mistica medievale, soprattutto san Bonaventura,
richiamandosi a quanto questi aveva scritto a proposito del “gusto” dell'anima
di conquistare la suprema pace in attesa di ricongiungersi col Creatore. Aveva
detto il santo di Bagnoregio: “Chiunque vuol ascendere a Dio, è
necessario che ascenda al di sopra di se stesso, attraverso l'universo che
è scala a Dio, per una ascesi dell'anima, esercitando le naturali
potenze, senso, immaginazione, ragione, intelletto, apice della mente”. E
dunque l'autore del sacrato poema, il letterato intriso di cognizioni
filosofiche e teologiche, ha posto in movimento tutte le proprie qualità
intellettive e ragionative, non limitandosi a registrare (come se fosse in trance)
i guizzi dell'estasi ricevuta, i lacerti che la memoria gli ha serbato; ha
inteso compiere una vasta opera di ricognizioni di tutto l'universo del
pensiero, e produrre un proprio contributo personale alla delucidazione di
importanti questioni sia della scienza divina, sia della scienza umana.
Per tal motivo nel Paradiso i
prodotti dell'intelletto si equilibrano con quelli dell'interiore carica
emozionale o con quelli della mera immaginazione letteraria. Tutto ciò
avviene da un lato col costante sentimento dell'uomo che partecipa alle
sventure umane (così nell'incontro con Piccarda Donati) o alle proprie
(nella rivelazione che dell'esilio gli fa il trisavolo Cacciaguida), dall'altro
canto con la volontà di costruire un vasto scenario paradisiaco, dipinto
su fondali di colore, mosso da musiche sublimi, animato da movimenti di danza,
costruito su sontuose forme scenografiche (la fiumana), i segni dell'Aquila e
della Croce, l'anfiteatro, ecc.: il tutto mirabilmente effigiato nei
particolari, in cui la fortissima percentuale d'originalità creativa
è arricchita con l'invenzione del lago luminoso, dal circuito più
ampio della circonferenza del sole, con le righe fiorite dei beati
biancovestiti, ma non rive pianeggianti, invece subito digradanti verso l'alto
in più di mille gradini, creando in tal modo l'immagine della grandiosa
candida rosa. Dante ha accettato il topos della scalinata,
trasformandolo tuttavia in una costruzione scenografica assai più
complessa e mossa. E dunque anche in ciò si può constatare come
Dante accolga motivi peculiari della letteratura mistica, li trasformi in
creazione poetica, ma si impegni soprattutto a seguire le necessità
logiche e gnoseologiche dello schema fondamentale della conoscenza di se stesso
attraverso la rivelazione della fruitio divini aspectus, che non si
limita a far “vedere” il processo unitivo con Dio, ma offre le basi sostanziali
per l'approfondimento delle condizioni morali della propria conoscenza. Si
sale, dunque, per meglio conoscersi interiormente, e siffatta gradualità
mistica fa progredire contestualmente nella fruizione di Dio e nella conoscenza
del proprio essere morale coloro i quali “ascensionibus in corde suo
dispositi”, dice san Bernardo nel De gradibus (I, 2), “de virtute in
virtutem, id est de gradu in gradum proficiunt, donec ad culmen humilitatis
perveniant, in quo velut in Sion, id est in speculatione, positi, veritatem
prospiciant”.
Lo schema ascetico-mistico è
regolato sulla nozione di eccellenza e primato della carità, in quanto
forma di tutte le altre virtù e modo efficiente della ricerca di Dio.
Ma, ci chiediamo, è vero che nella contiguità delle immagini
poetiche dedicate alla rappresentazione di Dio vige un sentimento troppo
astratto, poco ardente d'Esso? Ciò non sembra sostenibile in
virtù d'un continuo richiamo che il Paradiso presenta e proclama
di passioni umane sempre correlate al differente fervore affettivo in rapporto
alla maggiore o minore intensità della visione di Dio che è nei
personaggi, a partire da Piccarda per concludersi con san Bernardo, anzi con lo
stesso Dante redento dalla triplice vista dei misteri divini. Questo concetto
della divinità è espresso in termini di assoluto rigore
dottrinario, senza nulla di sfingeo e di disumano, senza alcuna accezione che
possa aver senso relativamente a Dio-mistero che non sia anche Dio-chiarezza.
Il viaggio di Dante è continuamente richiamabile sia alla ricerca della
“luce” che a quella del “mistero”; il secondo è illuminato dalla prima,
e questa non è mai tanto assoluta che non riveli in qualche modo la
presenza di stimoli terreni, avvertibili (anche questo va detto) non in
connessione alla prima parte del Paradiso, e poi annullati dalla
accresciuta fruizione divina, ma sempre presenti, sin nelle amare apostrofi di
san Pietro e di Beatrice. Del resto la collocazione, al centro della cantica,
dei canti più “autobiografici”, quindi più facilmente riducibili
a dimensione umana, quelli di Cacciaguida, è indicativa della volontà
ferrea del poeta di non lasciar mai sopire la memoria via via che l'intelletto
possiede gradi maggiori di conoscenza, e ciò accade anche per la
ricchezza, questa sì crescente, delle immagini fulgenti col procedere
del viaggio nei cieli, donde la piena consapevolezza dell'imperscrutabile
mistero della essenza della Divinità giunge come ineffabile e arcana, ma
al termine di concrete esperienze compiute, dall'ampia confessione del canto
XIX sino al congedo del XXXIII.
Non distingueremo pertanto un Dio
giovanneo da un Dio paolino, nella Commedia, poiché la charitas e
lo sforzo razionale (o comunque di razionalizzare la scienza divina) operano
congiuntamente non a partire dalla Commedia, ma sin dal momento del Convivio,
quando Dante già “traduceva” san Paolo e già presentiva lo
scenario allegorico dell'Apocalisse, cioè compieva un'operazione al
tempo medesimo sensitiva e intellettualistica, èmpito del cuore mai
addormentato e slancio della mente sempre alla ricerca di nuovi traguardi da
raggiungere, pur nei presupposti della limitatezza e dei sensi e della ragione
dinanzi a quella che per l'appunto nel Conv., IV, xxi, 6 chiamava la “altezza de le
divizie de la sapienza di Dio”, e che nel Paradiso riprende con tutti
gl'indugi sul tema della Prima bonitas.
Iddio, il Primo Amore, in sua
etternità di tempo fore, e attraverso un atto esplicito di
volontà, come i piacque, si schiuse, sbocciò, s'aperse
in nuovi amor, in una plenitudine di entità amanti, gli angeli, e
operò in tal modo non per aumentare la sua stessa qualità di
Sommo Bene (il che sarebbe impossibile, poiché il suo bene non è
accrescibile essendo già supremo), ma affinché lo splendore diffuso
della sua essenza acquistasse piena consapevolezza del proprio essere.
Conchiuso il preambolo, Beatrice presenta e risolve la prima proposizione, elaborata
lungo l'arco di dieci terzine:
Né prima quasi torpente si giacque;
ché né prima né poscia procedette
lo discorrer di Dio sovra quest'acque.
Forma e materia, congiunte e purette,
usciro ad esser che non avia fallo,
come d'arco tricordo tre saette.
E come in vetro, in ambra o in cristallo
raggio resplende sì, che dal venire
a l'esser tutto non è intervallo,
così 'l triforme effetto del suo
sire
ne l'esser suo raggiò insieme tutto
sanza distinzïone in essordire.
Concreato fu ordine e costrutto
a le sustanze; e quelle furon cima
nel mondo in che puro atto fu produtto;
pura potenza tenne la parte ima;
nel mezzo strinse potenza con atto
tal vime, che già mai non si divima…[122]
Queste prime sei delle dieci terzine
vengono a costituire il nerbo della proposizione; le tre successive (Jeronimo
vi scrisse lungo tratto ecc.) una specie di corollario
polemico-bibliografico, insomma la storia della critica sullo specifico quesito
dottrinario; l'ultima terzina (Or sai tu dove e quando questi amori
ecc.) piuttosto il riepilogo della questione, determinato più dal
proposito di spianare la strada al successivo argomento che di ribadire il
concetto del resto già chiaramente dedotto ed espresso. Or dunque: alla
base della quaestio che s'agita nella mente di Dante, è il
concetto del tutto fondamentale che non vi sono antefatti e addizioni all'atto
creativo del Padre, il quale prima della creazione non giaceva inoperoso, quasi
addormentato, torpente, e la creazione si rivolge proprio da principio,
nello stesso momento e immediatamente (ché sono respinte le teorie dei
neoplatonici secondo cui la materia fisica non venne prodotta da Dio ma dal
cielo lunare a noi più contiguo), in tre direzioni od oggetti: i puri
spiriti, forme allo stato puro e perciò privi di materia; la pura
materia, priva di forma e ingenerata, incorruttibile, cioè potenza,
collocata nella parte più bassa del mondo sensibile; e infine, posto nel
mezzo tra forma e materia, il composto dell'una e dell'altra, indissolubilmente
stretto da tal vime, che già mai non si divima.
Per assegnare a Dio la diretta
creazione della materia senza forma, Dante ha compiuto una notevole intrapresa
d'ordine filosofico, allontanandosi e dall'aristotelismo averroistico e dal
tomismo ed elaborando una sua propria concezione. Per meglio significare la
simultaneità e immediatezza dell'atto creativo crea due fra le
più suggestive sue comparazioni: l'immagine di tre saette scagliate
contemporaneamente da un ipotetico arco dotato di tre corde[123] e l'immagine,
poeticamente più felice, d'un raggio luminoso che batte e traversa nello
stesso istante tutta la superficie d'un corpo trasparente: in vetro, in
ambra o in cristallo. Anche queste figure, e in specie la seconda,
realizzano l'esigenza non tanto retorico-stilistica ma squisitamente spirituale
ed ascetica di non chiudere in astratta solitudine l'itinerarium ad Deum,
anzi d'applicarsi alle immagini comparative per rendere più piena la
consapevolezza d'un determinato stato della coscienza verso i dati — che
potrebbero apparire astratti e persin esterni — dell'esperienza teologale o
scientifica. La semplice glossa d'un concetto o d'una sensazione è
elevata al rango di intervento patibile della coscienza, pur senza perdere il
dono prezioso di rafforzativo della delibazione lirica, emarginando
dall'interno le singole componenti naturali o artificiali della similitudine,
quasi che esse fossero già contenute nell'arcana visione che al poeta
è stata concessa dalla Grazia divina. Eppure, al tempo medesimo, le
figure appaiono prescelte e ordinate sul fondamento di una esemplificazione
d'origine sia scolastica (dello scolasticismo aristotelico) che letteraria.
Non è possibile scindere i
vari momenti dell'attività mentale di Dante, tanto essi appaiono fusi in
un unico organismo intellettuale. I poeti provenzali che trattano d'amore, e
san Tommaso che discetta sull'Amore divino, ispirano contestualmente.
Certamente le varie componenti giuocano in modo diverso, in un iter che
va dai fitti provenzalismi della giovinezza alla scolastica senile, ma come
è un tutt'uno l'opera, così è tentativo da rifiutare
quello di dividere nettamente le due zone d'ispirazione filosofica, poiché esse
raggiungono il loro unicum in quello che è il pensiero
indipendente, libero, autonomo di Dante. Lo si vede nella produzione di
immagini, similitudini, nel modo di citare, in quello di assimilare, nella
capacità di fondere filosofia umana e scienza divina, ragionamenti
cortesi e alte disputazioni, ragionamento e sensazioni, raziocinio e
immaginazione. Par quasi che l'immensa memoria di Dante abbia assimilato il
tutto, e lo offra in dono alla poesia, ne fa e dà una versione poetica
in piena coerenza di ideali e di argomentazioni. Altrettanto (ed è
questa una forma di lettura da privilegiare nel Paradiso) si fondono
teologia mistica e teologia dogmatica, anche se le esperienze mistiche si staccano
più nettamente dal dettato poetico e fomentano l'immaginazione
letteraria, la alimentano nelle varie vicissitudini del racconto poetico.
In tale duplice ordine d'esperienza
interiore, sofferta sempre e in sommo grado, e d'intervento intellettivo le figure
comparative, le immagini spirituali, le didascalie, i “parlati”, le
straordinarie similitudini del Paradiso tratte dall'osservazione
naturale o da reminiscenze culte, ricevono maggior alimento e più ricco
gusto sensibile, in quanto che proprio esse riescono ad amalgamare in un unicum
poetico che possiede il dono del medesimo status compositivo, l'esempio
tratto dal filosofo di scuola o dall'uomo di scienza e quell'ardita
immaginativa che Dante aveva letto e ammirato nei mistici medievali, serbando
la ferma concretezza dei primi col fervoroso fantasticare d'un Bonaventura, per
esempio, ovvero di quella perfetta unità di pensiero e di estasi che
egli trovava in san Bernardo.
Per poter mettere assieme tutta
questa varia congerie di nozioni e di intuizioni, Dante, come al solito, non
costruisce un'astratta cattedrale di dottrina, ma mette in azione personaggi
celestiali con un habitus mentale umano, aperto alla comprensione delle
difficoltà e delle carenze che l'autore proclama appartenergli. Continua
la necessità d'una guida. Il viaggio escatologico non è mai
compiuto da solo, e tra la lunga guida d'un personaggio storico-culturale,
Virgilio, e quella breve d'un personaggio altrettanto assunto dalla storia e
dalla cultura, san Bernardo, riprende posto la guida intellettuale d'un
personaggio di “fantasia”: Beatrice, ma di una “fantasia” che ha radici nella
realtà e trae nutrimento dalla sua complessa species simbolica,
continuazione qual è, e sublimazione d'un lungo processo etico-religioso
del simbolo, dalla gentilissima della Vita Nuova in poi, in un quasi
ininterrotto trentennio di esperienze compiute nel nome della loda di
Beatrice e della esaltazione della Donna Gentile, dalla caldezza emotiva
dell'apparizione della pietosa nella Vita Nuova alla sapiente
rappresentazione dottrinaria della Filosofia nel Convivio. Per contro la
loda di Beatrice assume sempre di più, di momento in momento
dell'opera dantesca, la sua funzione di simbolo teologico, ma qui, nel Paradiso
con una funzione accresciuta: non di semplice “oggetto” d'amore, non di pura
simbologia della scienza divina, ma di interprete e testimone della
volontà del poeta tesa ad attribuirsi la funzione di giudice e di guida
della umanità futura sulla strada della redenzione dallo stato presente
di corruttela morale. Accanto a questa funzione di testimone Beatrice assume anche
le vesti del supremo doctor; è un vero e proprio immaginario
Dottore della Chiesa, doctor di dogmatica e di morale, di scienza e di
mistica, un doctor affettuosamente riconducibile sempre alla figura di
donna amata in gioventù, pianta per tutta la vita. E dunque anche domina
et magistra, inserita in un magico giuoco di luci, di sorrisi, di sguardi,
di fulgori sprigionanti dagli occhi, di sapienza espressa dalla sua voce ricca
di spirituale sororitas; certo sancta Beatrix, ma anche soror
Beatrix, ammirevole per tempismo, per rapida intuizione delle
difficoltà e delle esigenze del frater alumnus, per concretezza
di lettura attraverso Iddio delle domande che angosciano lo scolaro. In
ciò sta tutta la celestialità della figura di Beatrice, ma anche
nel Paradiso, si vorrebbe dire soprattutto nel Paradiso, la sua
essenza di donna “reale”, di soggetto portante dei sogni del suo poeta.
Procedendo lungo la redazione della
terza cantica Dante si dovette ricordare di quanto Bernardo aveva detto nel De
Consideratione a proposito delle gerarchie angeliche e degli attributi di
Dio. Ma le poche righe dedicate nel cap. IV del libro quinto alle “lucidas
mansiones” del Paradiso ove si possono contemplare le “viscera
misericordiae” e le “divitiae salutis”, e ragionare delle doti che gli Angeli
hanno ricevuto da Dio, certo determinarono in Dante la necessità di
conoscere meglio gli scritti mistici di Bernardo, di approfondire soprattutto
la sua dottrina mariana, nascendo così l'idea di assegnare all'abate di
Clairvaux un compito altissimo, quello di sostituire Beatrice nel momento
terminale del processo conoscitivo e unitivo, alle soglie della visione della
Divinità. Commentando il canto XXXI del Paradiso m'è
occorso d'avanzare riferimento, spero persuasivo, all'influsso che il De
diligendo Deo ha esercitato su Dante nella rappresentazione della candida
rosa, in particolare nell'immagine dei beati come fiori e degli angeli
come faville, luogo ricorrente un po' in tutti i mistici medievali ma in
specie bernardiano:
et
quomodo solis luce perfusus aer in eamdem trasformatur luminis claritatem, adeo
ut non tam illuminatus quam ipsum lumen esse videatur, sic omnem tunc in
sanctis humanam affectionem quodam ineffabili modo necesse erit a semetipsa
liquescere, atque in Dei penitus transfundi voluntatem (X, 28).
La preliminarità delle
immagini di luce non relega in posizione subordinata il motivo dei fiori,
simbolicamente inteso come segno dell'anima risorta a nuova vita e rinnovata
dall'Amore divino; motivo diffuso nei mistici medievali sulla scorta di
reminiscenze scritturali, in specie del Cantico: “Ecco, tu sei bello,
amato mio, e leggiadro: il nostro letto è coperto di fiori” (I, 16), e,
tra i mistici, in particolar modo dal Dottore Mellifluo, che, per l'appunto nel
De diligendo Deo aveva scritto:
Monimenta
siquidem Passionis, fructus agnosce anni quasi praeteriti, omnium utique retro
temporum sub peccati mortisque inperio decursorum, tandem in plenitudine
temporis apparentes. Porro autem Resurrectionis insignia, novos adverte flores
sequentis temporis, in novam sub gratia revirescentis aestatem, quorum fructum
generalis futura resurrectio in fine parturiet sine fine mansurum (III, 8),
precisando ulteriormente: “Haec mala, hi flores, quibus sponsa se interim
stipari postulat et fulciri” (De diligendo Deo, III, 10). Ma a questo
punto occorre muovere una osservazione che potrebbe rimanere centrale, si
spera, nell'interpretare la visione dantesca dell'Empireo: che, cioè,
pur servendosi in abbondanza di concetti e immagini della mistica benedettina e
francescana (soprattutto nella linea, ch'è continua, da san Bernardo a
san Bonaventura, e anche per il tramite di Gioacchino da Fiore, che nel Liber
Concordiae novi et veteris testamenti, IV, 38, vede in Bernardo il grande
personaggio dell'età dello Spirito), il richiamo della scolastica d'area
tomistica è così forte da suggerire a Dante una serie di
considerazioni di tipo razionalistico che non hanno più rapporto col
mondo dell'esperienza mistica. Perché il Dante del Paradiso, in specie
nella finale rappresentazione della unio con Dio, non è un
mistico stricto sensu piuttosto un poeta-filosofo che utilizza gli
elementi della letteratura mistica per narrare un caso di visio in somniis
a lui occorso o di cui finge l'accadimento, in ogni modo nella doverosa necessità
di documentarsi altrove, dal De gradibus humilitatis all'Itinerarium
mentis ad Deum, sui modi e tempi e oggetti della fruizione estatica a
vantaggio d'una esauriente costruzione letteraria, compiuta da uno “fluctuante
inter caelum et terram” (De gradibus, X, 34), che è “suspensus in
aere” e vede “descendentes et ascendentes angelos” (ivi, X, 35), che si
confronta, come già Bernardo, con la visione di Paolo, “me qui procul
dubio minor sum Paulo” (VIII, 22), Io non Enëa, io non Paulo sono (Inf., II, 32).
La folla di personaggi che Dante ha
incontrato nell'Inferno e nel Purgatorio decresce nella terza
cantica; prevalgono immagini legate a concetti, riflessioni dottrinarie,
disquisizioni teologiche; ma resta pur sempre una larga partecipazione di figure
umane, le quali possono dividersi in creature del mondo contemporaneo “salvate”
dal poeta: così Piccarda Donati o Cunizza, così il trisavolo
Cacciaguida; e personaggi del mondo biblico, classico e patristico, di quello
del mondo spirituale duecentesco. Il comportamento del viator Dante
Alighieri è solo apparentemente analogo; in realtà esiste una
forte carica emozionale per il primo caso: i personaggi risvegliano il suo mai
obliato impegno di politico, e Cunizza consente di riesaminare il cruento campo
di battaglia di opposte fazioni politiche e familiari nella Marca Trevisana; la
soave figura di Piccarda (e di conseguenza l'evocazione di Costanza
d'Altavilla) s'estolle purissima sopra le sanguinose sopraffazioni della
consorteria dei Neri, e dà possibilità al poeta di riprendere un
suo del resto mai pretermesso discorso polemico sulla situazione di Firenze
nell'ultimo scorcio del sec. XIII: figura tanto soave, e così figura
tanto amata quella di Forese nel Purgatorio quanto è sempre viva
e acre l'abominazione per il fratello Corso e per i perversi suoi compagni di
guerra contro la pace di Firenze, la concordia degli antichi cittadini evocata
con così larghe parole d'affetto e di rimpianto da Cacciaguida, il quale
presta se stesso a Dante per un amplissimo panorama sulla Firenze del buon
tempo antico e sui durissimi anni d'esilio del discendente, e attua la reale
rappresentazione figurale del probo cittadino, difensore dell'onestà di
vita della patria e difensore della fede di Cristo.
Di altra natura è l'atteggiamento
del poeta dinanzi ai santi antichi e moderni: ammirazione, rispetto, filiale
devozione, attenta auscultazione, dei loro moniti e insegnamenti, amoroso
ritratto della loro vita: dagli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, remoti
emotivamente ma maestri severi della sapienza divina, ai più vicini e
sentiti e amati Francesco e Domenico, Tommaso e Bonaventura: avvertiti in un
certo qual modo quali santi della sua epoca, d'altronde erano del secolo in cui
Dante è nato: pochi decenni li separano dagli anni della puerizia del
poeta, trascorsa in religiosa educazione e nel culto d'essi, soprattutto di
Francesco d'Assisi, il santo della sua giovinezza in Santa Croce, il santo
della sua vicinanza agli Spirituali, il santo di quei concetti di carità
e di povertà che la vita dell'esule era tenuta, era impegnata a
rispettare per sé e per gli altri: lo sposo di Domina Paupertas,
l'assertore inflessibile e austero della povertà individuale e di quella
conventuale, l'ispiratore indiretto ma non esplicito di tutte le accorate
proteste dantesche contro l'avarizia e dei rimpianti per la purezza e
sobrietà degli antichi fiorentini, del ripudio dei beni terreni e dello
sdegno per la cupidigia dilagante nel proprio tempo. In una posizione
intermedia, né antico né contemporaneo e attuale è san Bernardo, ma per
quanto a lui sia dedicato tanto spazio e venga chiaramente espressa la
filialità mariana, il centro spirituale del Paradiso è
proprio nell'elogio di san Francesco tessuto da san Tommaso d'Aquino, è
il momento in cui Dante commisura, condensa, esprime, sublima tutta la sua
religiosità.
La primaria impressione che desta,
sotto il profilo linguistico, la lettura del Paradiso è dovuta
alla notevolissima presenza di latinismi, derivati tanto dal linguaggio
filosofico-teologico quanto da quello scientifico, e accresciuti da una
particolare predilezione del poeta a coniare nuovi sostantivi e verbi in
analogia o in stretta dipendenza dalla lingua latina.
Il Baldelli[124] ha portato avanti
il discorso sulla presenza dei latinismi ribadendo che essi pongono in luce la
preminenza di valori di “evocazione reale e culturale sui rapporti
fonosimbolici”; e prosegue:
La
sostanza latina della parola appare cioè più importante del suo
essere costituita, ad esempio, di doppia liquida, di muta più liquida e
così via. Dante infatti largamente ricorre ai latinismi più
insoliti, specialmente in rima difficile, pur se si presentano “aspri”, anche
nelle parti di più rarefatta poesia del Paradiso.
Il plurilinguismo della Commedia
apre, anche nel Paradiso, larghi varchi a sperimenti lessicali e
sintattici in direzione non coincidente, non si dirà opposta, a quella
dei latinismi: è stata notata la presenza di crudi realismi (cloaca,
puzza); si possono aggiungere cotenne ovvero opere sozze o
bozze; notevole è la crescita dei gallicismi, i quali,
d'estrazione dotta, contribuiscono a sollevare il tono del discorso poetico nel
momento in cui diminuiscono i dialettalismi fiorentini e in genere toscani, di
timbro più demotico e d'uso più realistico. La distribuzione dei
vari modi plurilinguistici è sempre funzionale al contenuto;
così, ad esempio, le grandi apostrofi politiche o messianiche si
colorano di calchi scritturali, le lezioni teologiche, invece, sono intessute
di linguaggio patristico e scolastico, le descrizioni storiche riprendono l'uso
di reminiscenze di eredità classico-pagana, con allusioni mitologiche
che potrebbero sorprendere il lettore moderno, ma risultano perfettamente
consonanti al momento poetico ad un lettore medievale. Anche nella sintassi
s'avvertono novità di costruzione; così nella rima, negli usi dei
traslati, nella morfologia. L'ampiezza di costruzione linguistica del Paradiso
raggiunge un vertice d'altezza e d'eccezionale novità anche rispetto
alle prime due cantiche; lo spessore linguistico è maggiore.
L'endecasillabo e la terzina si svolgono all'interno d'una straordinaria
concatenazione logica, sì che non si possa mai dire se è il
linguaggio che stimola la serie sterminata delle similitudini, o queste guidino
quello verso una soluzione stilisticamente perfetta anche sotto il risguardo
culturale. La mimesi della forma risulta sempre collegata alla varietà
dei discorsi dottrinari. Cultura teologica, riprese di discorso filosofico,
agganci con la realtà politica circostante si uniscono in un agglomerato
espressivo di inimitabile perfezione: “inimitabile” proprio perché da tanta
materia dell'Inferno e anche del Purgatorio potranno nascere
epigonie letterarie, si potranno sviluppare discendenze di forma e di moduli
d'argomentare e di descrivere, nel corso dei secoli, mentre il Paradiso
resta una grandissima pagina subito aperta e poi subito chiusa sulla scena
della poesia d'ogni paese. Dante ha imitatori; il Paradiso no. E se non
vi sono continuatori possibili del Paradiso, è pur vero che
nemmeno Dante, se fosse vissuto ancora, sarebbe potuto andare oltre? C'è
infatti un oltre al Paradiso?, esiste una possibilità di portare
più avanti l'esperienza così altamente raggiunta nel canto
centesimo della “divina” Commedia? Ipotesi oziose se ne possono fare:
qualche altra prolusione scientifica, qualche altro aggiustamento di propri
concetti in epistole e magari in trattati. Ma non si vede come sarebbe potuta
continuare la “poesia” di Dante, il quale, per nostra grande fortuna, ha
concluso sino all'ultima limatura possibile il suo gigantesco sforzo creativo,
non ha lasciato nulla di indefinito e di “non finito”. Nella veste
stilistico-linguistica, nella struttura di pensiero, nel procedere del
racconto, il Paradiso appare un'opera conclusa in tutti i minimi
particolari.
In tal modo, anche se non ha avuto il
tempo di pubblicare il Paradiso, la terza cantica era pronta per il
mondo. Non restava altro che congedarsi dalla vita. E verrebbe quasi da pensare
che l'ambasceria fatale a Venezia sia accaduta, o che il poeta si sia
dichiarato pronto a compierla, soltanto dopo che gli ultimi endecasillabi erano
pronti per la “divulgazione”, ne varietur.
XVIII
COMMIATO DEL
POETA
Gli anni dedicati all'immenso lavoro
erano stati tanti, sfibranti, senza un attimo di sosta. La famiglia era
raccolta a Ravenna. C'è sempre, vivo, pungente, il desiderio di
ritornare in Firenze. Forse la divulgazione del Paradiso
convincerà gli “scelleratissimi fiorentini di dentro” che è
urgente la revoca della condanna, e che un così grande uomo deve tornare
con tutti gli onori a Firenze? Proprio in tale prospettiva, mai abbandonata ma
ora vieppiù sognata, sta il consenso che Dante dà a Guido Novello
di recarsi con l'ambasceria ravennate a Venezia, nel 1321, per scongiurare i
propositi di guerra della Repubblica di San Marco, sdegnata per i continui
attacchi delle navi di Ravenna. Se Dante risolverà la controversia,
apparirà agli occhi di tutti gl'Italiani, agli occhi (il che a lui preme
in maggior grado) dei Fiorentini, come un “uomo di pace”, come altra persona
ormai dall'aggressivo e implacabile partitante bianco degli anni 1300-1301,
lontanissimi.
L'ambasceria è sicura; ce lo
dice una fonte controllatissima e degna di tutta fede, il Villani: “essendo
tornato d'ambasceria da Vinegia in servigio de' signori da Polenta”. Ormai
è da scartare la leggenda del nipote del Villani, Filippo, secondo cui i
Veneziani avrebbero impedito a Dante di pronunziare la propria allocuzione nel
timore che ne restassero persuasi, e poi avrebbero negato a Dante il permesso
di ritornare per via di mare (via tanto più salubre), nel timore questa
volta che Dante portasse dalla propria parte l'ammiraglio della flotta. La
leggenda, da espungere, può al massimo essere assunta a riprova delle
capacità di mediazione e di persuasione del vecchio glorioso
ambasciatore, e fors'anche per consentire al “nero” Villani di scaricare su
altri la colpa della malattia e della morte del grande concittadino, tale anche
se esule.
Si possono fare ipotesi sulla data
dell'ambasceria, oscillando tra la fine di luglio e i primi di agosto.
Tuttavia, poiché un documento del 20 ottobre, in epoca dunque assai più
tarda, assicura la presenza a Venezia di ambasciatori ravennati (fu al momento
in cui Ravenna riuscì a comporre la vertenza), sono nati ulteriori
interrogativi: una seconda ambasceria?, ovvero la stessa, dalla quale
però s'era staccato proprio Dante, ammalatosi a Venezia o durante il
viaggio d'andata attraversando le paludi di Comacchio, e tornato indietro in
così gravi condizioni da perire qualche settimana dopo? Propenderei per
questa seconda ipotesi, ma anche la prima non è da scartare: la prima
ambasceria essere stata a carattere esplorativo, la seconda per concludere e
stringere i patti.
Aveva Dante un compito preciso in
questa ambasceria, indubbiamente composta da varie persone? Anche questa
è una domanda senza risposta. Forse Guido Novello invia Dante per dare
maggior credito all'importante missione diplomatica: un segno di garanzia per
l'onestà e la lealtà delle proposte inviate ai signori di
Venezia: insomma una partecipazione meramente rappresentativa che il poeta non
aveva modo di rifiutare al suo ospite, e che poteva tornare utile al sogno di
cui s'è detto: tornare in Firenze.
Anche la data della morte è
sicura. Vero è che per Dante non c'è data possibile che non sia
destinata, o meglio non lo sia stata in passato, ad essere messa in
discussione. Non ci fermeremo in questo dibattito (chi ne vuol sapere qualcosa
consulti il Ricci, L'ultimo rifugio cit.). Il mese della morte è
erratamente riferito dal Villani: “Nel detto anno 1321, del mese di luglio,
morì Dante Alighieri…”. Ma il racconto del Boccaccio è troppo
preciso al riguardo per poter rimettere in discussione il problema: il mese
è settembre. Ma quale giorno? Il Boccaccio e i codici del cosiddetto
“gruppo del Cento” non esitano al riguardo: il 14 settembre: “nel dì che
la esaltazione della Santa Croce si celebra dalla Chiesa”, dice il Boccaccio.
Invece gli epitafi di Giovanni del Virgilio (Theologus Dantes) e di
Menghino Mezzani (Inclita fama) danno la data del 13 settembre.
Se una scelta s'impone, essa deve
andare agli autori degli epitafi. Essi abbisognavano per il loro ambìto
compito della data esattissima; il Boccaccio poteva averne meno bisogno. Ma non
è da escludere un'ipotesi intermedia[125]: cioè che
il poeta sia venuto a morte dopo il vespro, nella notte tra il 13 e il 14, e
che valesse la data del giorno dopo, quando Guido Novello e gli amici di Dante
ne ebbero contezza dai figli e i familiari del poeta, usciti di buon'ora dalla
casa, la quale forse era di rimpetto al convento francescano.
Si può ritenere valido, pur
entro certi limiti, il racconto del Boccaccio sulla gara dei poeti di Romagna
per aver l'incarico di scrivere l'epitafio, e sulle solenni esequie volute da
Guido da Polenta.
La salma fu tumulata presso la chiesa
di San Pier Maggiore, poi chiamata San Francesco. Guido Novello aveva
intenzione di costruire una solenne tomba, ma gli accadimenti politici,
conclusisi col suo esilio, non gli consentirono di tributare questo ultimo
onore al grande amico. Il sacello sarà riattato più tardi ad
opera del pretore Bernardo Bembo, il padre dello scrittore, durante la
dominazione veneziana (1483), poi risistemato nel 1692 dal legato card. Corsi,
infine (1780) ricostruito in forme neoclassiche dal Morigia, su iniziativa del
cardinal legato Valenti Gonzaga. Le continue richieste delle ossa da parte dei
Fiorentini (una petizione solenne dell'Accademia Medicea, firmata anche da
Michelangelo, fu avanzata nel
Purtroppo la perdita dell'autografo
della Commedia e d'ogni autografo dantesco è accresciuta dalla
dispersione di tutte le copie del poema nel primo decennio successivo alla
morte: il primo esemplare, e nemmeno cognito se non indirettamente, è
una copia scritta tra l'ottobre del 1330 e il gennaio del 1331 da un pievano
Forese Donati di Santo Stefano in Botena. Indubbiamente subito dopo la morte
del poeta (vera o no la leggenda boccacciana del ritrovamento degli ultimi
canti per un fortunoso sogno d'uno dei figli del poeta) il Paradiso era
stato reso pubblico, ed era andato a congiungersi nella tradizione manoscritta
alle prime due cantiche. Vero è che il primo commento, per l'appunto del
figlio Jacopo, è relativo al solo Inferno, e siamo al 1322 circa;
ma a breve distanza il poema era tramandato compatto, e il theologus Dantes,
il philosophiae verus alumnus, l'omnium rerum divinarum humanarumque
doctissimus, per voler adoperare gli epiteti di Giovanni del Virgilio, di
Graziolo o del Salutati, aveva iniziato il suo secolare itinere culturale e si
preparava a tornare, nelle vesti del suo massimo liber, in Firenze.
BIBLIOGRAFIA
ESSENZIALE*
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4. Storie
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5. Testi
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De
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A. Marigo, Firenze 1938, 19573; a c. di P.V. Mengaldo, vol. I,
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a c. di G. Busnelli e G. Vandelli, con introd. di M. Barbi, Firenze 1934-1937;
a c. di M. Simonelli, Bologna 1966.
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a c. di P.G. Ricci, in Edizione Nazionale, Firenze 1965.
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secondo l'antica vulgata, a c. di G. Petrocchi, in Edizione Nazionale, voll.
1-4, Milano 1966-67.
Il Fiore
e il Detto d'Amore, a c. di G. Contini, in Edizione Nazionale, Milano
1984.
6. Biografie
Per tutti
i documenti concernenti gli Alighieri v. R. Piattoli, Codice diplomatico Dantesco,
Firenze 1950, 2a ed. (appendici in “Studi danteschi”, XXX, 1951, pp. 203-206; XLII, 1965, pp.
393-417; XLIV, 1967, pp. 223-68), e in “Archiv.
storic. ital.”, CXXVII, 1969, pp. 3-108. Le biografie antiche possono essere
consultate in A. Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte
fino al sec. XVI, Milano 1904. Si vedano inoltre: I. Del Lungo, Dante
nei tempi di Dante, Bologna 1888; V. Imbriani, Studi danteschi,
Firenze 1891; C. Ricci, L'ultimo rifugio di D. A., Milano 1891, ora con
aggiornamento di E. Chiarini, Ravenna 1965; M. Scherillo, L'anno della
nascita di Dante, Milano 1895; Id., Alcuni capitoli della biografa di
Dante, Torino 1896; I. Del Lungo, Da Bonifazio VIII ad Arrigo VII.
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e Firenze, Firenze 1903; G. Salvadori, Sulla vita giovanile di D.,
Roma 1906; G. Livi, Dante, suoi primi cultori, sua gente in Bologna,
Bologna 1921; G. Biscaro, D. a Ravenna, Roma 1921; F. Torraca, Nuovi
studi danteschi, Napoli 1921; F. Filippini, Dante scolaro e maestro,
Ginevra 1929; M. Barbi, Problemi di critica dantesca, voll. I-II,
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7. Studi
complessivi sulle singole opere
La “Commedia”: sul poema e su Dante, F. De
Sanctis, Lezioni e saggi su D., a c. di S. Romagnoli, Torino 1955; G.
Pascoli, Scritti danteschi, a c. di A. Vicinelli, in Prose, vol.
II, Milano 1952; L. Pietrobono, Il poema sacro, Bologna 1915; F.
Flamini, Il significato e il fine della D. C., Livorno 1916; B. Croce, La
poesia di D., Bari 1921; E.G. Parodi, Poesia e storia nella D. C.,
Napoli 1921 (Venezia 19652); Id., Lingua e Letteratura, 2
voll., Venezia 1957; K. Vossler, La D. C. studiata nella sua genesi e
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autore della corrispondenza D. - Giovanni del Virgilio, in “Miscell. stor.
della Valdelsa”, LXIX (1963), pp. 130-72; G. Billanovich, Giovanni del
Virgilio, Pietro da Miglio, Francesco da Fiano, in “Italia medioevale e
umanistica”, VI (1963), pp. 203-34, e ivi, VII (1964), pp. 279-324; G.
Martellotti, Dalla tenzone al carme bucolico, ivi, VII (1964), pp.
325-56, ora in Dante e Boccaccio e altri scrittori dall'Umanesimo al
Romanticismo, Firenze 1983; E. Cecchini, Giovanni del Virgilio, D.,
Boccaccio, ivi, XIV (1971), pp. 25-56; G. Padoan, ne Il pio Enea,
l'empio Ulisse cit.; G. Billanovich, Il vecchio Dante e il giovane
Petrarca, in “Letture Classensi”, 11, Ravenna 1982, pp. 99-118.
“Epistole” e “Questio”: Vedi soprattutto i citt. studi di F. Mazzoni e di G.
Padoan, e l'ed. delle Opere minori, cit., Milano-Napoli 1979.
[1] Sono sensazioni e impulsi visti sempre con l'occhio dell'adulto, se si
vuole del padre, ingordo di perscrutare le mosse, le parole dei bambini, il
loro linguaggio, così come è avido d'ogni esperienza e non
può rifiutarsi d'osservare quella che viene dal fanciullo. Vedi G. Petrocchi,
Dante, in Enciclopedia della Pedagogia, vol. I, Brescia 1983, ad
l.; Id., Biografia di Dante, in Enciclopedia Dantesca, vol. VI,
Roma 1978, pp. 1-53.
[2] Soprattutto i racconti dell'avo Bellincione, il quale, come vedremo tra
breve, era stato un personaggio se non maggiore, certo non trascurabile della
storia fiorentina di metà Duecento.
[3] Si va dal massimo fulgore del ritorno di Manfredi a Palermo e
dell'incoronazione, 11 agosto 1258, alla morte eroica in co del ponte.
[4] Ludovico il Bavaro non è ricordato direttamente; si vuole ch'egli
possa essere identificato col Cinquecento diece e cinque.
[5] Così per il secolo precedente la crociata di Corrado III in cui
muore il trisavolo Cacciaguida, poco avanti il settembre del 1148 o
l'apparizione dell'abate di san Zeno, governante in Verona sotto lo 'mperio
del buon Barbarossa, intravisto questi di scorcio, tuttavia quale
restauratore della giustizia e della pace in terra.
[6] Vedi Conv., IV, iii,
6.
[7] Vedi Inf., XIII, 75.
[8] Vedremo tra breve l'ipotesi della “cavallata”, ma per l'intanto si
rifletta almeno sul ricordo dei pellegrini che vanno verso Roma, la presenza
costante di quell'istituto fondamentale che per Dante è la città
di Firenze, le sue consuetudini di vita.
[9] Par., III, 119.
[10] Così, è lecito supporre, i giudizi
sui protagonisti della storia avversa, da Federico II a Manfredi, da Farinata a
Corradino, e su quelli d'una storia originariamente non dipintagli
negativamente ma la quale, scavando nel tempo, egli sentiva come suscettibile
di profonde revisioni: tutta la zona dunque degli alleati della Taglia guelfa
toscana, tutta la politica dei papi a vantaggio del partito guelfo.
[11] Di cui non sappiamo quasi nulla; forse soltanto
che è quell'antico cittadino di Firenze la cui discendenza, filii et
nepotes Morunci de Arcu, è ricordata nelle carte della Badia.
[12] Forse della famiglia degli Abati, e con
altrettanta probabilità la figlia di Durante degli Abati, con evidente
effetto sul nome del primogenito.
[13] Par., XXII, 112-117. Per una
più attenta analisi della datazione di nascita vedi G. Petrocchi, Biografia
di Dante cit. Vedi inoltre M. Scherillo, L'anno della nascita di Dante, Milano
1895; L. Azzolina, L'anno della nascita di Dante Alighieri, Palermo
1901.
[14] Come dall'episodio di Inf., XIX 16-21.
[15] In primis Farinata degli
Uberti, e poi Tegghiaio Aldobrandi, Guido Guerra Guidi, ecc.
[16] Vedi M. Barbi, Un altro figlio di Dante?,
in “Studi danteschi”, V (1922), pp. 15-16, poi in Problemi di critica
dantesca, serie II, Firenze 1934-41, vol. II, pp. 353-354.
[17] Vedi Vita Nuova, IX, I; e potrebb'essere
valida l'ipotesi, che poi si discuterà, che trattasi di un accadimento
pubblico, non privato, e cioè la cavallata per l'impresa militare di
Poggio Santa Cecilia, il 12 novembre del 1285.
[18] Sul problema vedi M. Barbi, Problemi cit.,
vol. II, p. 351; e si veda anche quel che molto più analiticamente
è detto nella mia Biografia di Dante cit.
[19] Vedi F. Torraca, in “Bullettino della
Società Dantesca Italiana”, XIX (1912), p. 192, ove la data del
matrimonio è spostata “sei o sette anni prima di andare in esilio”,
quindi nel 1294 o nel 1295, certamente troppo tardi ove si consideri la
necessità di porre molto prima la nascita di almeno due figli, Pietro e
Jacopo.
[20] Vedi D. De Robertis, Il libro della “Vita
Nuova”, Firenze 1961, p. 59.
[21] Si veda poi per l'ipotesi d'un insegnamento a
Bologna tra il 1308 e il 1309.
[22] Vedi G. Petrocchi, Biografia di Dante cit.
[23] Inf., XXII 4-5.
[24] Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio, a c. di A. Solerti, Milano 1904, p. 100.
[25] Vite, cit., p. 99.
[26] G. Villani. Cron., VII, 137.
[27] Vedi I. Del Lungo, Beatrice, Milano 1891.
[28] Ciò sostenne il Buti difeso
appassionatamente dal Salvadori il quale reputava sicura l'appartenenza di
Dante ai Fratelli della Penitenza (cfr. Sulla vita giovanile, pp.
268-269).
[29] Il 1294 sembra oggi, dal Cosmo al De Robertis, la
data più probabile di redazione del libello, dinanzi al '92-'93
di Zingarelli, Barbi ecc.
[30] Vedi D. De Robertis, Il libro della “Vita
Nuova” cit., p. 18.
[31] Vedi Ph. Sollers, Sur le matérialisme,
Parigi 1973 (trad. it. Milano
'73).
[32] Vedi G. Benelli, La nouvelle critique. Il
dibattito critico in Francia dal 1980 ad oggi, Bologna 1981, p. 195.
[33] Sollers, op. cit., pp. 7, 59.
[34] Vedi D. De Robertis, op. cit.
[35] La gran parte d'essi sono dedotti dalla
acutissima analisi condotta da I. Baldelli, Lingua e stile delle opere in
volgare di Dante, in Enciclopedia Dantesca, vol. VI, Appendice,
Roma 1978, pp. 57-112.
[36] Vedi ivi, p. 82.
[37] Purg., XXX, 124-126.
[38] Vedi M. Barbi, Problemi cit., vol.
I, p. 40; vol. II, pp. 1 sgg.
[39] Vedi M. Marti, Realismo dantesco e altri studi,
Milano-Napoli 1961, p. 31.
[40] Vedi G. Villani, Cron., VII, 140.
[41] Ivi, 148.
[42] Vedi G. Salvemini, Magnati e popolari in
Firenze dal 1280 al 1295, Milano 1966, pp. 132-133.
[43] M. Barbi, Problemi di critica dantesca
cit., vol. II, pp. 381-82.
[44] Vedi M. Barbi, Problemi cit., vol. I, p.
153.
[45] Purg., XII, 104-105.
[46] Vedi Dante Alighieri, Rime, a c. di
G. Contini, Torino 1946, pp. 91-92.
[47] Inf., XVIII, 28-33.
[48] Vedi D. Compagni, Cron., II, 11.
[49] Vedi Dante Alighieri, Le Opere. Testo
critico della Società Dantesca Italiana, Firenze I9602, p.
412.
[50] Vedi R. Piattoli, Codice diplomatico dantesco,
Firenze 1950, p. 75.
[51] Vedi L. Fassò, Vita di Dante,
Firenze 19552, p. 34.
[52] Vedi le Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio
cit., p. 102.
[53] Per una loro più minuziosa conoscenza e
valutazione rimando alla mia cit. Biografia di Dante.
[54] Vedi R. Davidsohn, Storia di Firenze,
trad. it. Firenze 1956, vol. III, p. 198.
[55] “Secondo i suoi avversari anche in quella
elezione dei priori sarebbero stati corrotti elettori con denaro o con promesse
di crediti, registrate nei libri di commercio”, ivi, p. 199.
[56] Inf., XXIV, 142-144.
[57] Vedi B. Barbadoro, La condanna di Dante e le
fazioni politiche del suo tempo, in “Studi danteschi”, II (1920), pp. 35
sgg.
[58] Ivi, pp. 42-44.
[59] Il Barbadoro ha acutamente sostenuto l'importanza
della testimonianza del postillatore, pur nella svista tra una provvisione e
l'altra; e dunque anche per le forme del comportamento pubblico di Dante nel
1301, avanti l'ambasceria, la procedura che portò alla condanna fu
legalmente perfetta, anche se è evidente la malafede degli accusatori
sulla specifica imputazione di baratteria, non suffragata da prove testimoniali
o da altra documentazione che per ipotesi s'evincesse dai verbali dei Consigli
dalla primavera all'autunno del 1301 (cfr. ivi, p. 31).
[60] È noto il ricordo abbastanza diretto del
monte Cacume, se così va letto in Purg., IV, 26, montasi su in
Bismantova e 'n Cacume, anziché montasi su in Bismantova in cacume.
[61] Vedi nelle citt. Vite, ediz. Solerti.
[62] Vedi G. Pampaloni, I primi anni dell'esilio di
Dante, in Conferenze aretine, Arezzo 1966, pp. 133-145.
[63] Vedi R. Piattoli, Codice cit., p. 92; la
data dell'8 giugno non è sicuramente leggibile nel documento, ma la
lettura pur incerta corrisponde abbastanza alla cronologia dei fatti bellici,
avanti lo scontro di Monte Accianico, nell'agosto, e la resa del castello
pistoiese di Serravalle, il 12 di settembre.
[64] Sulla certezza del soggiorno di Dante alla corte
dell'Ordelaffi vedi la mia cit. Biografia di Dante. La sicurezza ci
viene da una testimonianza di Biondo Flavio, che l'aveva appresa da alcuni
scritti (probabilmente una cronaca) di Pellegrino Calvi, cancelliere del
signore di Forlì. Non sembra invece da porre nell'ordine delle probabilità
che in quel periodo Dante fosse ad Arezzo, dove, come vedremo, si
recherà più tardi.
[65] Purg., XIV, 58-64.
[66] Vedi G. Petrocchi, Itinerari danteschi,
Bari 1969.
[67] Vedi Dante Alighieri, Epistole I-V, saggio
di ediz. crit. a c. di F. Mazzoni, Milano 1967, p. 7.
[68] Si legge infatti nell'ultima redazione del
commento dall'Ottimo, contenuta nel Barberiniano latino 4103: “et qui tocca
come li Bianchi ebboro a sospetto Dante per uno consiglio ch'egli rendee, che
l'aiutorio delli amici s'indugiasse di prenderlo nel tempo di verno, alla
seguente istate più utile tempo a guerregiare; il quale consiglio
seguitato da' Bianchi non ebbe l'effetto che l'autore credette, però che
l'amico poi richesto non prestoe l'aiutorio, onde i Bianchi stimarono che Dante
corrotto da' Fiorentini avesse renduto malvagio consiglio”, non si può congetturare
sul nome dell'“amico” il cui intervento sarebbe stato fondamentale per Dante.
[69] Sull'ipotesi della presenza di Giotto ad Assisi
nel 1309 v. tuttavia la nostra Biografia di Dante cit.
[70] V'è un altro elemento ad entrare nel
discorso luneense di Dante: è la cosiddetta epistola del monaco Ilaro ad
Uguccione della Faggiuola (su cui vedi Enciclopedia Dantesca, alla voce Ilaro);
ma nell'uno o nell'altro giudizio che si può dare del testo esso
comprova esternamente il folto indice di frequenza dei rapporti tra Dante e la
terra di Luni, per i quali occorrerebbe prospettare un secondo passaggio del
poeta almeno un cinque-sei anni dopo, se non all'epoca della primavera del '12,
dopo la sosta a Pisa.
[71] Vero è che non è mancato chi, ad
es. il Torraca, crede che la Curia sia qui quella di Enrico VII e sposta
epistola e canzona al 1311; ma credo proprio a torto e ora la dimostrazione di
F. Mazzoni, Epistole cit., pp. 69 sgg., riconduce l'episodio al 1307 e
al Casentino.
[72] Vedi M. Barbi, Problemi cit., vol. II, p.
358.
[73] Resta nel campo delle pure ipotesi che durante il
soggiorno parigino Dante possa aver conseguito la “licentia docendi in
artibus”.
[74] Nella mia cit. Biografia di Dante ho
valutato, attentamente come ho potuto, le parole del Boccaccio, chiaramente
suggestionate dal tono apologetico del Trattatello e dalle suggestioni
che su di lui esercitarono le letture delle biografie di Virgilio. Mi sono
anche soffermato a valutare le tre volte in cui Benvenuto da Imola accenna al
viaggio a Parigi. Infine ho discusso le varie ipotesi che sono state avanzate
intorno alla data di questo viaggio, per avvicinarmi alla tesi sostenuta da Pio
Rajna, in Per la questione dell'andata di Dante a Parigi, in “Studi
danteschi”, II (1920), soprattutto p. 85, là dove il Rajna si sofferma
sull'importanza che hanno i particolari che Dante riferisce sui procedimenti e
le peculiarità della Scuola parigina, accanto ad altre citazioni di
luoghi francesi. Insomma io opterei per una data tra il 1309 e il 1310.
[75] Anche su questi punti rimando alla mia Biografia
di Dante, avvertendo che qui ho discusso le ipotesi con un minimo, proprio
un minimo, di ragionevolezza, non volendomi intrattenere sulle tante bizzarrie
avanzate nell'Ottocento e nei primi del Novecento. Ci vorrebbe un repertorio
per contenerle tutte. Unica eccezione dovrà essere costituita dalla
Toscana, poiché è indubitabile che il poeta conobbe, in uno o in altro
momento, tutte le più importanti città della sua regione, e anche
i borghi della sua terra fiorentina. Dunque, quando l'ipotesi riguarda la
Toscana, non c'è più bizzarria: tutto è possibile, se non
proprio tutto non è sicuro. Ad esempio cita la Maremma, ma è
necessario congetturare che si sia proprio recato tra Cecina e Corneto?
E questo valga solo come esempio.
[76] Rime, CIV, 73-76.
[77] Vedi M. Pazzaglia, in Enc. Dant., ad. v.
[78] Vedi L. Bruni, Vita di Dante, nella ed.
Solerti, p. 103.
[79] Non soltanto per il fatto formale che Rodolfo,
Adolfo e Alberto non giunsero ad essere incoronati, ma per sostanziale pochezza
del loro operato e per disinteresse ai problemi dell'Italia.
[80] Vedi R. Antonelli, L 'Ordine domenicano e la
letteratura nell'Italia pretridentina, e C. Bologna, L'Ordine
francescano e la letteratura nell'Italia pretridentina (in AA.VV., Letteratura
italiana, vol. I, Il letterato e le istituzioni, Torino 1982).
[81] Vedi R. Antonelli, ibid.
[82] Ibid.
[83] Vedi B. Nardi, Saggi e note di critica
dantesca, Milano-Napoli 1966, pp. 176 sgg., anche pp. 120, 136-138,
144-146.
[84] Vedi E. R. Curtius, La littérature et le moyen
âge latin, trad. francese riveduta e corretta dall'originale tedesco di J.
Brejoux, Parigi 1956, p. 442.
[85] Inf., XV, 70-78.
[86] Epist., Vll, 9.
[87] Vedi G. Boccaccio, Opere, a cura di P. G.
Ricci, Milano-Napoli 1955, p. 592.
[88] R. Davidsohn, op. cit., vol.
III, p. 593.
[89] Ivi, p. 637.
[90] Nel Trattatello cit., p. 594.
[91] Vedi U. Cosmo, Guida a Dante, Bari 1930,
nuova ed. Firenze 1962, pp. 122 sgg.
[92] Resta ancora il caso della cosiddetta epistola di
frate Ilaro, della quale s'è già discorso, se si vorrà dar
fede al generoso sforzo del Padoan a favore dell'autenticità della
lettera dello Zibaldone Laurenziano, la nostra ricostruzione non ne è
scossa, giacché il fantasioso incontro del monaco col viandante “ad partes
ultramontanas” avrebbe potuto
avvenire anche nel
[93] La gentilezza che ammanta il reincontro con Nino
Visconti e con Corrado Malaspina: un motivo che si ritroverà poi nel Paradiso
nell'incontro con un personaggio del massimo rango, Carlo Martello.
[94] Vedi F. Forti, Magnanimitade, Studi su un tema
dantesco, Bologna 1977, p. 89.
[95] Vedi B. Croce, La poesia di Dante, Bari
19486, p. 121.
[96] Il grido, colmo d'ardente amarezza, occupa ben
oltre venticinque terzine del canto VI del Purgatorio, dal v. 76 alla
chiusa del canto.
[97] Dall'imperatore Rodolfo d'Asburgo al re boemo
Ottocaro, da Filippo III di Francia ad Enrico di Navarra, via via sino a
Guglielmo VII di Monferrato.
[98] Il personaggio non è di facile identificazione storica: certamente
un uomo di notevole levatura intellettuale, adusato alle dotte disquisizioni in
uso nelle corti dell'Italia settentrionale; o lombardo di nascita, ovvero uno
del casato Lombardi di Venezia.
[99] Vedi Conv., IV, v, 3.
[100] Conv., IV, iv, 3.
[101] Conv., IV, iv, 4.
[102] Par., XXVII, 22-24.
[103] Sul problema, ancora aperto, vedi G. Petrocchi, Itinerari
danteschi cit., pp.105-108.
[104] Mon., II, ii, 1-5.
[105] Par., XVI, 58-59.
[106] Vedi i particolari di questa vicenda nei miei Itinerari
danteschi cit.
[107] C. Ricci, L'ultimo rifugio di D. A.,
Milano 1891, ora con agg. di E. Chiarini, Ravenna 1965.
[108] Epoca generalmente accolta per la datazione del
carme di Giovanni del Virgilio.
[109] Vedi A. Torre, L'ambasceria di Dante a Venezia,
in Almanacco ravennate, Ravenna 1959, pp. 385-400.
[110] N'è rimasta traccia nei Rerum
memorandarum libri del Petrarca, nel capitolo De mordacibus locis,
II, 83, testimonianza “verace” anche a detta del Billanovich, e che s'inserisce
in un'aneddotica letteraria e popolare sul carattere superbo e aspro del divino
poeta.
[111] La guerra contro Padova non poteva avere alcun
interesse per Dante, lontano ormai da Verona al tempo della catastrofe militare
del Bassanello, il 26 agosto 1320, ma di cui probabilmente aveva previsto
l'inevitabilità se quelli erano le mire e gli sforzi di Cangrande.
[112] Vedi E. Sestan, nella Enciclopedia Dantesca,
sub v. firenze, Storia.
[113] Giustamente N. Zingarelli, La vita, i tempi e
le opere di Dante, Milano 19312, p. 658, esclude che l'occasione
dell'epistola dantesca possa riferirsi ad altre provvisioni assolutorie, del
1316.
[114] Una minuziosa analisi si troverà nella mia
cit. Biografia di Dante, anche per quel che riguarda i vari documenti di
condanna; si vedano anche M. Barbi, Problemi cit., vol. I, pp. 48-53, e
R. Piattoli, Codice diplomatico dantesco cit., pp. 114 e 183.
[115] Rispetto alla Commedia la Monarchia
rivela, come acutamente ha scritto il Vinay, “una espressione parziale di
contro ad una totale” della complessa personalità dantesca.
[116] Vedi G. Biscaro, Dante a Ravenna, Roma
1921. Il Biscaro, in nome della sua tesi dell'arrivo di Dante a Ravenna tra la
fine del 1319 e il maggio-giugno
[117] Se non si vorrà congetturare che vari anni
dopo Antonia s'allontanasse da Firenze per Ravenna per prendere il velo, o
già suora ottenesse di lasciare un monastero fiorentino per vivere
accanto alla tomba del padre: fantasticherie certo, aggravate dalla circostanza
che in tal caso una vocazione troppo tardiva — Antonia doveva avere
ventidue-ventitré anni alla morte di Dante —l'avrebbe chiamata al chiostro a
distanza di tempo dal 1321.
[118] Vedi la mia cit. Biografia di Dante.
[119] Vedi F. Mazzoni, introduz. alla Questio,
in Dante Alighieri, Opere minori, t. II, Milano-Napoli 1979, p. 711.
[120] Par., XXV, 1-9.
[121] S'è preferita la strada della sua vita
(non dirò, meccanicamente, della “biografia”) per avvicinarlo; l'abbiamo
inseguito di momento in momento, di città in città, per trovare a
noi stessi, trovare e provare, la ragione di quell'eccellenza. Altri
giudicherà se il nostro tentativo sia fallito; ma continuiamo a ritenere
che questo era, ed è nell'anno di grazia
[122] Par., XXIX, 19-36.
[123] Sviluppo d'una precedente figura dell'arco, nel
canto I del Paradiso:
né pur le creature
che son fore
d'intelligenza quest'arco saetta,
ma quelle c'hanno intelletto e amore.
[124] Vedi la sua amplissima e acuta analisi in Enciclopedia
Dantesca cit., vol. VI, n. 57.
[125] Vedi la mia cit. Biografia di Dante.
* La presente nota bibliografica non pretende in alcun modo di
voler essere una ricca e men che mai esaustiva bibliografia delle edizioni
dantesche e degli studi su Dante, ma rappresenta soltanto l'elencazione di quei
lemmi il cui studio ha inciso di più nella stesura di questo libro. Per
una bibliografia più ampia si rinvia al cit. volume di A. Vallone, Storia
della critica dantesca e alle note bibliografiche delle singole voci della Enciclopedia
Dantesca, soprattutto del VI volume (Appendice). Si consultino
inoltre i fascicoli 1-14 del Repertorio bibliografico dantesco nella
rivista “L'Alighieri”, Roma, Casa di Dante, 1960-83; la Bibliografia
dantesca ragionata pubblicata nella rivista “Studi danteschi” editi sotto
gli auspici della Società Dantesca Italiana, Firenze 1920-81, voll.
I-LIII. Per l'ultimo trentennio si vedano particolarmente, infine, le ottime
bibliografie ragionate di E. Esposito, citt. in questa stessa Bibliografia
(Repertori).