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PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro
Novelli … ictus …
Blaise Pascal
PENSIERI
I • ORDINE
1
I salmi cantati su tutta la terra.
Chi testimonia a favore di Maometto? Egli stesso. Gesù
Cristo vuole che la propria testimonianza non valga niente.
La qualità dei testimoni comporta che essi siano sempre e
dovunque, mentre, miserabile, egli è solo.
2
Ordine mediante dialoghi.
Cosa devo fare? Dovunque non vedo che oscurità.
Penserò di essere nulla? Penserò di essere Dio?
Tutte le cose mutano e si succedono.
Vi sbagliate, ci sono...
Come, non siete d'accordo che il cielo e gli uccelli provano Dio?
No. Non lo dice la vostra religione? No. Per quanto ciò sia vero, in un
certo senso, riguardo alle anime illuminate da Dio, è tuttavia falso per
la maggior parte delle altre.
Lettera per indurre a cercare Dio.
Ma bisogna indagare presso i filosofi, scettici e dogmatici, che
confonderanno colui che ricerca.
3
Lettera di esortazione a un amico per indurlo a cercare,
obietterà: ma a cosa serve cercare, non vedo niente. Rispondergli: non
disperare. Replicherebbe di essere contento di trovare dei motivi, ma che
secondo la nostra religione credere così non gli servirebbe a niente.
Per questo preferisce non cercare affatto. A ciò rispondergli: la
Macchina.
4
1a Parte. Miseria dell'uomo senza Dio.
2a Parte. Felicità dell'uomo con Dio.
oppure
1a Parte. Che la natura è corrotta, secondo la natura
stessa.
2a Parte. Che vi è un Riparatore, secondo la Scrittura.
5
Lettera che sottolinea l'utilità delle prove. Mediante la
Macchina.
La fede è differente dalla prova. Una è umana e
l'altra è dono di Dio. Justus ex fide vivi. La prova è spesso lo
strumento della fede che Dio mette nel cuore, fides ex auditu, ma la fede
è nel cuore e non fa dire scio ma credo.
6
Ordine.
Vedere in tutta la vicenda degli Ebrei quanto vi è di
chiaro e incontestabile.
7
Nella lettera sull'ingiustizia può esserci:
La storiella dei primogeniti che hanno tutto. Amico mio, tu sei
nato su questo lato della montagna, dunque è giusto che tuo fratello
maggiore abbia tutto.
Perché mi uccidete?
8
Le miserie della vita umana hanno gettato discredito su tutto
ciò. Quando se ne sono accorti si sono dati al divertimento.
9
Ordine. Dopo la lettera sulla ricerca di Dio, farne una sulla
rimozione degli ostacoli, cioè il discorso sulla Macchina, sul preparare
la Macchina, sulla ricerca razionale.
10
Ordine.
Gli uomini disprezzano la religione. La odiano e hanno paura che
sia vera. Per rimediare a ciò bisogna mostrare come la religione non sia
affatto contraria alla ragione, come sia venerabile e incuterne rispetto.
In seguito renderla desiderabile, fare in modo che i buoni sperino
che sia vera, e poi mostrare che è vera.
Venerabile perché ha conosciuto a fondo l'uomo.
Desiderabile perché assicura il vero bene.
II • VANITÀ
11
Due volti somiglianti, nessuno dei quali preso in se stesso fa
ridere, fanno ridere insieme proprio a causa della somiglianza.
12
I cristiani autentici assecondano comunque le convezioni, non
perché le rispettino, ma per rispetto a Dio che le ha imposte agli uomini come
punizione. Omnis creatura subjecta est vanitati, liberabitur. E san Tommaso
commenta il passo di san Giacomo riguardo ai privilegi dei ricchi osservando
che, se la loro ricchezza non è al servizio di Dio, essi escono
dall'ordine della religione.
13
Perseo, re di Macedonia. Paolo Emilio.
Perseo fu rimproverato perché non si uccideva.
14
Vanità.
Che una cosa tanto evidente come la vanità del mondo sia
così poco conosciuta, che risulti strano e sorprendente affermare la
stoltezza di chi ricerca la gloria, questo è ammirevole.
15
Incostanza e bizzarria.
Vivere solo del proprio lavoro e regnare sul più potente
stato del mondo sono cose davvero opposte. Si trovano riunite nella persona del
sultano dei Turchi.
16
751. La punta di un cappuccio arma 25.000 monaci.
17
Ha quattro servitori.
18
Abita oltre il fiume.
19
Quando si è troppo giovani non si può giudicare
bene, e neppure quando si è troppo vecchi.
Se ci pensiamo poco... Se ci pensiamo troppo, c'infatuiamo e ci
ostiniamo.
Quando consideriamo il lavoro subito dopo averlo fatto, ne siamo
ancora coinvolti; se lasciamo passare troppo tempo, non lo riconosciamo
più.
Così per i dipinti guardati da troppo lontano e da troppo
vicino. Non c'è che un solo punto giusto, gli altri sono troppo vicini,
troppo lontani, troppo in alto o troppo in basso. Nell'arte della pittura
spetterà alla prospettiva stabilirlo, ma nel campo della verità e
della morale a chi spetterà?
20
Il potere delle mosche, che vincono battaglie, impediscono alla
nostra anima di agire, mangiano il nostro corpo.
21
Vanità delle scienze.
Quando saremo afflitti, la scienza della realtà fuori di
noi non ci consolerà dell'ignoranza morale, ma la scienza morale mi
consolerà sempre dell'ignoranza delle scienze oggettive.
22
Condizione dell'uomo.
Incostanza, noia, inquietudine.
23
L'abitudine di vedere i re accompagnati da guardie, tamburi,
ufficiali e da tutte quelle cose che costringono la macchina al rispetto e al
terrore, fa sì che il loro volto, anche quando sono soli e privi del consueto
accompagnamento, incuta nei sudditi rispetto e terrore. E questo perché il
nostro pensiero non riesce a separare le loro persone dal codazzo di chi
solitamente li segue; e la gente, che non sa come questo effetto derivi
dall'abitudine, lo attribuisce a una forza naturale. Da ciò viene
l'espressione: sul loro viso sono impressi i tratti della divinità, ecc.
24
Il potere dei re si fonda sulla ragione e sulla follia del popolo,
ma molto più sulla follia. La più grande e importante cosa del
mondo ha per fondamento la debolezza. Si tratta di un fondamento mirabilmente
sicuro, perché non vi è nulla di più certo della debolezza del
popolo. Quanto invece, come la stima della saggezza, si fonda sulla sana
ragione, è mal fondato.
25
Non è nella natura dell'uomo avanzare sempre; essa ha i
suoi andare e venire.
La febbre ha i suoi brividi e i suoi ardori, e come il caldo,
anche il freddo arde di un'intensità febbrile uguale a quella del caldo.
Le invenzioni degli uomini si susseguono da un secolo all'altro.
Lo stesso si può dire in generale della bontà e della cattiveria
del mondo.
Plerumque gratae principibus vices.
26
Debolezza.
Tutte le occupazioni degli uomini sono volte a conseguire il bene,
ma essi non saprebbero giustificarne il giusto possesso, perché non hanno che
la loro fantasia umana e mancano della forza per possederlo in modo sicuro.
Lo stesso capita alla scienza, basta una malattia per cancellarla.
Siamo incapaci di vero e di bene.
27
Ferox gens nullam esse vitam sine armis rati.
Quelli preferiscono la morte alla pace, altri alla guerra
preferiscono la morte. Qualsisi opinione può essere preferita alla vita,
l'amore per la quale ci sembra così forte e naturale.
28
Per comandare un vascello non si sceglie il passeggero di casato
più nobile.
29
Nelle città in cui siamo di passaggio non ci preoccupiamo
della stima degli altri. Ma se ci dobbiamo abitare per un po' di tempo allora
ci preoccupiamo. Quanto tempo? Un tempo proporzionato alla nostra vana e
fragile esistenza.
30
Vanità.
Deferenza significa: scomodatevi.
31
Quello che più mi stupisce è vedere come gli altri
non si stupiscono della loro debolezza. Ciascuno di noi agisce in modo serio,
conformandosi alla propria condizione sociale, non perché questa consuetudine
sia buona, ma come se fossimo davvero in grado di riconoscere la ragione e la
giustizia. Ad ogni istante poi ci sentiamo delusi e, per una ridicola forma di
umiltà, pensiamo che sia colpa nostra e non del metodo che ogni giorno
vantiamo di avere. È comunque un bene che ci siano tanti che non sono
scettici, a gloria dello scetticismo, in modo da far vedere come l'uomo sia
capace delle opinioni più stravaganti, dato che è capace di non
credere alla sua inevitabile e congenita debolezza, ma di credere, al
contrario, in una saggezza naturale.
Niente rinsalda lo scetticismo quanto il fatto che alcuni non sono
scettici. Se tutti lo fossero avrebbero torto. Questa dottrina si rafforza a
causa dei suoi nemici più che dei suoi amici, perché la debolezza umana
si manifesta meglio in quelli che non la riconoscono, piuttosto che in quelli
che la conoscono.
32
Tacco di scarpa.
Oh! Com'è ben tornito! Ecco un bravo operaio! Che
coraggioso soldato! Questa è la fonte delle nostre inclinazioni e della
scelta di una posizione sociale. Quanto beve quello, e quell'altro come beve
poco! Ecco ciò che rende sobri e ubriachi, soldati, codardi, ecc.
33
Chi non vede la vanità del mondo è vano a sua volta.
Ma poi, chi non la vede, tranne i giovani immersi nel frastuono, nel
divertimento e nel pensiero dell'avvenire?
Ma togliete loro ciò che li distrae, li vedrete inaridire
nella noia. Allora, pur senza conoscerlo, sentono il nulla, ed è davvero
una disgrazia essere tristi a tal punto quando si riflette su se stessi, e non
potersi distrarre.
34
Mestieri.
Così grande è la dolcezza della gloria che, a
qualunque oggetto si riferisca, fosse pure la morte, la desideriamo.
35
Troppo vino e troppo poco.
Non dategliene: non può trovare la verità.
Dategliene troppo: lo stesso.
36
Gli uomini s'impegnano a correr dietro a una palla e a una lepre:
anche i re si divertono a questo modo.
37
Che cosa vana la pittura, ammirata perché assomiglia a cose di cui
non ammiriamo affatto gli originali!
38
Due infiniti, in mezzo.
Se leggiamo troppo velocemente o troppo adagio non capiamo niente.
39
Quanti regni c'ignorano!
40
Basta poco per consolarci perché poco basta per affliggerci.
41
Immaginazione.
È la parte dominante dell'uomo, maestra di errori e di
falsità, tanto più infida in quanto non sempre lo è,
perché se fosse una regola infallibile della menzogna, lo sarebbe anche della
verità. Ma, pur essendo il più delle volte falsa, non lascia
alcuna traccia di questa sua qualità, indicando indifferentemente il
vero e il falso. Non parlo dei folli, parlo di quelli più saggi, perché
proprio presso di loro l'immaginazione si arroga il diritto di persuadere gli
uomini. La ragione ha un bel reclamare, essa non può conferire valore
alle cose.
Questa superba potenza, nemica della ragione, che si diverte a
controllarla e a dominarla per mostrare il suo potere su ogni cosa, ha posto
nell'uomo una secona natura. Essa ha i suoi felici e infelici, i suoi sani,
malati, ricchi e poveri. Essa spinge la ragione a credere, a dubitare, a
negare. Essa ottunde i sensi e li fa sentire. Ha i suoi pazzi e i suoi saggi. E
niente ci indispettisce maggiormente che vedere come soddisfa i suoi ospiti in
modo ben più completo della ragione. Chi ha una fervida immaginazione si
valuta in modo ben diverso da quanto, ragionevolmente, possono fare i
più prudenti. Guarda in modo altezzoso la servitù, discute con
impetuosa disinvoltura (gli altri sono timorosi e incerti), così che con
il volto allegro conquista il favore di chi ascolta. Ecco come questi saggi
immaginari godono la stima di giudici della stessa tempra. Pur non potendo far
rinsavire i folli, essa li rende felici, mentre la ragione fa miserabili i suoi
amici, e una li copre di gloria, l'altra di vergogna.
Da dove vengono la reputazione, il rispetto e la venerazione agli
uomini, alle opere, alle leggi, ai nobili, se non da questa facoltà
d'immaginare? Tutte le ricchezze della terra sono insufficienti senza il suo
consenso. Non direste forse che quel funzionario, la cui venerabile vecchiaia
impone rispetto a tutta la popolazione, si comporta secondo una pura e sublime
ragionevolezza e che giudica le cose per quello che sono, senza fermarsi a quei
vani accidenti capaci di colpire l'immaginazione dei deboli? Guardatelo mentre
si reca a un sermone, con il suo zelo devoto, l'ardore della carità in
aiuto alla fermezza della ragione; eccolo pronto all'ascolto con un rispetto
esemplare. Ma quando appare il predicatore, se la natura gli ha dato una voce
rauca e lineamenti bizzarri, se il barbiere l'ha mal rasato e, per di
più, si è per caso inzaccherato, scommetto che il nostro funzionario,
quali che siano le grandi verità annunciate, perderà tutto il suo
aspetto severo.
Puoi essere il maggior filosofo del mondo e stare su un'asse
più grande del necessario, ma se hai sotto un precipizio, per quanto la
ragione ti convinca che sei al sicuro, l'immaginazione sarà più
forte. Molti non saprebbero neppure pensarci senza impallidire e coprirsi di
sudore.
Non voglio certo fare un elenco di tutte le conseguenze. Chi non
sa che la vista di gatti, topi, lo spezzarsi di un carboncino, ecc. mettono in
crisi la ragione? Anche i più saggi sono influenzati dal tono della
voce, capace di dare forza a un discorso e a una poesia. La simpatia o l'odio
cambiano volto alla giustizia, e un avvocato ben pagato in anticipo trova certo
più giusta la causa che difende! L'impeto del suo gesto la fa apparire
migliore ai giudici ingannati dall'apparenza. Ridicola ragione che il vento
piega in tutte le direzioni. Potrei fare l'elenco delle azioni umane scosse
quasi solo dall'immaginazione. Perché la ragione è costretta a cedere, e
anche la più prudente assume come princìpi quelli che
l'immaginazione umana ha dovunque introdotto temerariamente.
‹Chi volesse seguire solo la ragione, secondo il giudizio della
maggior parte degli uomini, sarebbe completamente pazzo. Poiché così
è piaciuto, dobbiamo lavorare tutto il giorno e affannarci per dei beni
palesemente immaginari. E dopo che il sonno ci ha riposato dalle fatiche
imposte dalla nostra ragione immaginaria e messo in un'ammirevole calma,
bisogna subito distruggerla, alzarsi di corsa per correre dietro alle chimere,
piegandosi alle suggestioni di questa padrona del mondo.
Ecco uno dei princìpi dell'errore, ma non è il solo.
L'uomo ha avuto ragione a tenere alleate queste due potenze perché,
sebbene in tempo di pace l'immaginazione la spunti agevolmente, in caso di
guerra non avrebbe limiti. La ragione non sovrasta mai l'immaginazione, mentre
l'immaginazione spodesta frequentemente la ragione.›
I nostri magistrati hanno ben compreso questo mistero. Le loro
toghe rosse, gli ermellini in cui s'infagottano come gatti impellicciati, i
palazzi dove tengono udienza, i fiordalisi, tutta questa messinscena era
assolutamente necessaria; così, se i medici non portassero camici e
pantofole, e i professori berretti quadrati e vesti troppo ampie sui quattro
lati, mai avrebbero ingannato la gente, incapace di resistere a questa
autentica parata. Se i giudici rappresentassero la vera giustizia, e se i
medici conoscessero la vera arte di guarire, non avrebbero bisogno di berretti
quadrati; la dignità di queste scienze sarebbe venerabile per se stessa,
ma essendo scienze immaginarie è inevitabile che si servano di questi
vani strumenti per colpire l'immaginazione con cui hanno a che fare, ed
è ciò appunto che procura loro rispetto. Solo i militari non si
mascherano in questo modo, perché il loro ruolo è più essenziale:
essi s'impongono con la forza, gli altri con le moine.
Per questo i nostri re non hanno voluto simili travestimenti. Non
si sono mascherati con abiti straordinari per sembrare tali. Ma si fanno
accompagnare da guardie. Queste truppe armate di alabarde, che hanno mani e
forza solo per loro, trombe e tamburi che avanzano in testa e le legioni da cui
sono circondati, fanno tremare anche i più fermi. Non hanno l'abito,
hanno la forza. Bisognerebbe avere una ragione davvero pura per vedere nel
sultano, attorniato nel suo superbo serraglio da quarantamila giannizzeri,
soltanto un uomo.
Solo a vedere un avvocato in toga e berretto sul capo, ne ricaviamo
un'impressione favorevole delle sue capacità.
L'immaginazione dispone di tutto, a lei appartengono la bellezza,
la giustizia, la felicità che nel mondo è tutto. Mi piacerebbe
vedere quel libro italiano di cui non conosco che il titolo, che da solo vale
interi libri: Dell'opinione regina del mondo. Sottoscrivo questo libro anche
senza conoscerlo, eccetto che per l'eventuale male in esso contenuto.
Ecco all'incirca gli effetti di questa ingannevole facoltà
che sembra esserci stata data apposta per indurci necessariamente in errore. Ci
sono anche altri princìpi.
Le impressioni antiche non sono le sole capaci di trarci in
inganno, il fascino della novità ha lo stesso potere. Da questo derivano
le dispute tra gli uomini, che si rimproverano o di seguire le false
impressioni dell'infanzia, o di rincorrere temerariamente quelle nuove. Se
qualcuno si tiene nel giusto mezzo, si faccia avanti e lo provi. Non esiste
principio, per quanto naturale possa essere, anche dopo l'infanzia, che non sia
possibile attribuire a una falsa impressione, dovuta all'educazione o ai sensi.
«Voi credete che sia possibile il vuoto», si dice, «perché fin
dall'infanzia, vedendo che in un baule non c'era niente, lo avete creduto
vuoto. È un'illusione dei vostri sensi, rafforzata dall'abitudine, che
la scienza deve correggere». Altri dicono: «Poiché fin dalla scuola vi hanno
detto che non c'è il vuoto, hanno corrotto il vostro senso comune che lo
comprendeva così bene prima di questa cattiva impressione, che ora
bisogna correggere ricorrendo alla vostra natura originaria». Chi dunque ha
ingannato, i sensi o l'educazione?
Abbiamo poi un'altra causa d'errore, le malattie. Esse alterano il
giudizio e la sensibilità. E se quelle gravi lo alterano in modo
evidente, non ho motivi per dubitare che le piccole, in proporzione, lascino il
loro segno.
Il nostro interesse è un altro strumento meraviglioso per
creare un'evidenza vantaggiosa. Al più equanime degli uomini non
è consentito farsi giudice in una causa che lo riguarda. Conosco alcuni
che, per non cadere nella parzialità, sono diventati i più
ingiusti di tutti in senso contrario. C'era un modo sicuro per rovinare una
causa assolutamente giusta: fargliela raccomandare dai parenti più
stretti. La giustizia e la verità sono due punte così sottili che
i nostri strumenti sono troppo smussati per arrivarvi con esattezza. Quando
questo accade, essi ne ottundono la punta, appoggiandosi intorno, più
sul falso che sul vero.
‹L'uomo è dunque fatto in modo così felice da non
avere alcun principio giusto del vero, ma molti eccellenti del falso. Vediamo
ora come. Ma la causa più ridicola dei suoi errori è la guerra
tra i sensi e la ragione.›
L'uomo non è che un soggetto pieno di un errore naturale e
incancellabile senza la grazia. Niente gli indica la verità. Tutto lo
inganna. Le due fonti di verità, la ragione e i sensi, oltre al fatto
che mancano di sincerità, s'ingannano reciprocamente; i sensi sviano la
ragione con false apparenze, ma l'inganno con cui raggiungono l'anima, torna a
loro. È la sua vendetta. Sono turbati dalle passioni dell'anima che
alterano le impressioni. Mentono ingannandosi a vicenda.
Ma oltre a questo errore accidentale, che deriva da una mancanza
d'intesa tra facoltà eterogenee...
42
Vanità.
Cause ed effetti dell'amore.
Cleopatra.
43
Non ci accontentiamo mai del presente. Anticipiamo il futuro
perché tarda a venire, come per affrettarne il corso, o richiamiamo il passato
per fermarlo, come fosse troppo veloce, così, imprudentemente, ci
perdiamo in tempi che non ci appartengono, e non pensiamo al solo che è
nostro, e siamo tanto vani da occuparci di quelli che non sono nulla, fuggendo
senza riflettere il solo che esiste. Ciò dipende dal fatto che di solito
il presente ci ferisce. Lo nascondiamo alla nostra vista perché ci affligge, e
quando è piacevole temiamo di vederlo scappare. Tentiamo di sostenerlo
con il futuro, e ci impegnamo a disporre di cose che non sono in nostro potere,
per un tempo a cui non siamo affatto certi di arrivare.
Ciascuno esamini i propri pensieri. Troverà che sono tutti
concentrati nel passato o nell'avvenire. Non pensiamo quasi per niente al
presente, e se ci pensiamo è solo in funzione di predisporre il futuro.
Il presente non costituisce mai il nostro fine. Passato e presente sono mezzi,
solo l'avvenire è il nostro fine. Così non viviamo mai, ma
speriamo di vivere, e preparandoci sempre a essere felici è inevitabile
che non lo siamo mai.
44
Lo spirito di questo sovrano giudice del mondo non è
così indipendente da non essere turbato dal primo chiasso che si fa
attorno a lui. Ma non è necessario il rumore di un cannone per impedire
il corso dei suoi pensieri. Basta quello di una banderuola o di una puleggia.
Se in questo momento non ragiona bene, non stupitevi, c'è una mosca che
gli ronza alle orecchie: è sufficiente per impedirgli di riflettere. Se
volete che possa trovare la verità, cacciate l'insetto che tiene in
scacco la sua ragione e turba la potente intelligenza che governa regni e
città.
Che buffo dio! O ridicolissimo heroe!
45
Mi sembra che Cesare fosse troppo vecchio per divertirsi a
conquistare il mondo. Queste specie di distrazioni andavano bene per Augusto o
Alessandro. Erano giovani, difficili da tenere a freno, ma Cesare doveva essere
più maturo.
46
Gli Svizzeri si offendono se vengono chiamati nobili e per venire
giudicati degni di cariche importanti devono provare di avere origini plebee.
47
Perché mi uccidete? Ma come! Non abitate dall'altra parte del
fiume? Amico mio, se voi abitaste da questa parte io sarei un assassino, e sarebbe
ingiusto uccidervi in questo modo. Ma dal momento che vivete dall'altra parte
io sono un valoroso e ciò che faccio è giusto.
48
Il buon senso.
Essi sono costretti a dire: «Voi non siete in buona fede, noi non
stiamo dormendo, ecc.». Che piacere provo nel vedere la superba ragione
umiliata e in suppliche! Perché non parla così un uomo a cui si contesti
il suo buon diritto, e che lo difenda con la forza, le armi in pugno. Non si
diverte a dire che non si agisce in buona fede, ma punisce questa malafede con
la forza.
III • MISERIA
49
Bassezza degli uomini che arrivano a sottomettersi alle bestie,
fino ad adorarle.
50
Incostanza.
Le cose hanno diverse qualità e l'anima ha diverse
inclinazioni, perché niente di ciò che si presenta all'anima è
semplice, né l'anima si offre mai semplice ad alcun soggetto. Da ciò
dipende la possibilità che una stessa cosa faccia piangere e ridere.
51
Incostanza.
L'uomo non è un organo che possa essere suonato come gli
altri. È sì un organo, ma bizzarro, incostante, mutevole. Chi sa
suonare solo quelli comuni non ne trarrà accordi. Bisogna sapere dove
sono i [pedali].
52
Siamo così sventurati da non saper godere di una cosa se
non a condizione di affliggerci nel caso riesca male, ciò può
essere causato da infinite cose e capita continuamente. [Chi] trovasse il modo
di rallegrarsi del bene senza affliggersi per il male contrario avrebbe fatto
centro. È il movimento perpetuo.
53
Non è bene essere troppo liberi.
Non è bene soffrire di ogni bisogno.
54
La tirannia consiste in un desiderio universale di dominio fuori
dal proprio ordine.
Diverse categorie di spiriti forti, belli, buoni, devoti, ciascuno
dei quali regna nel proprio ambito, non altrove. Ma qualche volta s'incontrano,
e quello forte si batte stupidamente con il bello, per decidere chi dei due
sarà padrone dell'altro, perché il loro dominio è di natura
diversa. Non possono intendersi. La loro colpa è di voler regnare
dovunque. Nulla può riuscirvi, neppure la forza: essa infatti è
impotente nel regno della conoscenza, riuscendo a imporsi solo sulle azioni
esteriori.
Tirannia.
La tirannia consiste nel voler ottenere in un modo ciò che
non si può ottenere che in un altro. Dobbiamo onori diversi ai diversi
meriti, amore alla bellezza, timore alla forza, credito alla scienza.
È nostro dovere rendere quegli onori, ingiusto rifiutarli e
ingiusto reclamarne degli altri.
Discorsi simili sono falsi e tirannici: «Sono bello, dunque mi si
deve temere; sono forte, dunque mi si deve amare; sono...». Ma è
altrettanto falso e tirannico dire: «Poiché non è forte, non lo
stimerò. Non è sapiente, dunque non lo temerò».
55
Quando si deve decidere una guerra per ucciudere tanti uomini,
sacrificando tanti Spagnoli alla morte, il giudizio spetta a un solo uomo, e
per di più interessato; dovrebbe essere un terzo a giudicare,
indifferente.
56
‹Ma forse questo argomento eccede la capacità della
ragione. Esaminiamo dunque cosa essa ha escogitato in campi di sua competenza.
Se c'è qualcosa dove il suo interesse avrebbe dovuto spingerla ad applicarsi
di più, è la ricerca del bene supremo. Vediamo dunque in cosa
l'hanno individuato queste anime sottili e dotate, e se sono d'accordo.
Uno dice che il bene supremo è la virtù, l'altro lo
identifica nel piacere, un altro nel seguire la natura, un altro nella
verità («felix qui potuit rerum cognoscere causas»), uno nella totale
ignoranza, uno nell'indifferenza, altri nel resistere alle apparenze, uno nel
non meravigliarsi di niente («nihil mirari prope res una quae possit facere et
servare beatum»), i veri scettici nella loro atarassia, nel dubbio e nella
perenne sospensione del giudizio, mentre altri, più saggi, dicono che
non si può trovare, e neppure desiderare di trovarlo. Eccoci sistemati.›
Su cosa l'uomo fonderà l'economia del mondo che vuole governare?
Forse sul capriccio dell'individuo? Che confusione! Sulla giustizia? La ignora.
Se la conoscesse non avrebbe certo formulato questa massima, la più
generale tra quelle umane: che ognuno segua i costumi del proprio paese. Lo
splendore della vera equità avrebbe assoggettato tutti i popoli. E i
legislatori avrebbero preso come modello questa giustizia immutabile, invece
delle fantasie e dei capricci dei Persiani e dei Tedeschi. La si vedrebbe
piantata in tutti gli stati del mondo e in tutti i tempi, mentre al contrario
vediano che niente, giusto o ingiusto che sia, può evitare di mutare
qualità mutando clima. Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la
giurisprudenza. Un meridiano diventa arbitro della verità. Bastano pochi
anni di dominio e le leggi fondamentali mutano, il diritto ha le sue epoche,
l'ingresso di Saturno nel Leone decide l'origine di un crimine. Bella
giustizia, che ha per confine un corso d'acqua! Verità da questa parte
dei Pirenei, errore dall'altra.
Ammettono che la giustizia non risiede nei costumi, ma nelle leggi
naturali comuni a tutti i paesi. Se la temerarietà del caso che ha
seminato le leggi umane ne avesse trovata almeno una che fosse universale,
avrebbero ragione a sostenerla ad oltranza. Ma la cosa buffa è che la
varietà dei capricci umani non ne ha reso possibile nessuna.
Il furto, l'incesto, l'uccisione dei figli e dei padri, non
c'è nulla che non abbia il suo posto tra le azioni virtuose. Esiste
qualcosa di più ridicolo del fatto che un uomo ha diritto di uccidermi
perché vive dall'altra parte di un fiume e il suo sovrano è in lite con
il mio, sebbene io non lo sia con lui?
È indubbio che ci siano leggi naturali, ma questa bella
ragione corrotta ha corrotto ogni cosa. Nihil amplius nostrum est, quod nostrum
dicimus artis est. Ex senatusconsultis et plebiscitis crimina exercentur. Ut
olim vitiis sic nunc legibus laboramus.
Da questa confusione deriva che uno dice che l'essenza della
giustizia è l'autorità del legislatore, l'altro il vantaggio del
sovrano, un altro ancora la consuetudine del momento, ed è il parere
più fondato. Secondo la pura ragione, nulla è giusto in sé, e col
tempo tutto rovina. L'equità si risolve tutta nella consuetudine, per il
solo fatto che questa viene accettata. È il fondamento mistico della sua
autorità. Chi vuole ricondurla al suo principio la distrugge. Niente
è più colpevole di quelle leggi che raddrizzano i torti. Chi
obbedisce loro perché sono giuste, obbedisce a una giustizia immaginaria, non
certo all'essenza della legge. Essa è tutta racchiusa in se stessa.
È una legge, nulla di più. Chi vorrà esaminarne il
fondamento scoprirà che esso è così debole e lieve che, se
non è abituato a contemplare i prodigi dell'immaginazione umana, si
stupirà che un'epoca le abbia tributato tanto sfarzo e rispetto. L'arte
di contestare [e di] attentare agli stati si riduce a sovvertirne le
consuetudini, analizzandone l'origine, per mettere in luce la loro mancanza di
autorità e di giustizia. «Bisogna», si dice, «risalire alle primitive e
fondamentali leggi dello stato, abolite da un'ingiusta consuetudine». È
il modo più sicuro per distruggere tutto, davanti a questo criterio
nessuna giustizia resisterà. Eppure il popolo presta facilmente ascolto
a simili discorsi. Appena riconosce il giogo lo scuote, ma sono i potenti che
approfitteranno della sua rovina e di quella dei curiosi che hanno indagato
sulle consuetudini accettate. Questo è il motivo per cui il più
saggio dei legislatori sosteneva che era necessario ingannare spesso gli
uomini, nel loro stesso interesse, e un altro bravo politico: «Cum veritatem
qua liberetur ignoret, expedit quod fallatur». Il popolo non deve accorgersi
della verità dell'usurpazione che, iniziata un tempo senza ragione,
è divenuta ragionevole. Bisogna che si guardi ad essa come autentica,
eterna, e nasconderne gli inizi se non si vuole che in breve scompaia.
‹Dovendo esaminare se questa bella filosofia, con un lavoro lungo
e impegnativo, abbia raggiunto qualche certezza, forse l'anima conoscerà
se stessa. Ascoltiamo su questo soggetto i sapienti del mondo. Cosa hanno detto
della sua sostanza?
395.
Sono stati forse più fortunati a trovarle una sistemazione?
395.
Cosa hanno scoperto sulle sue origini, sulla sua durata e sulla
sua dipartita?
399.
L'anima è dunque un soggetto ancora troppo nobile per le
sue deboli capacità? Riduciamola dunque a materia. Vediamo se sa di cosa
è fatto il corpo che anima, e gli altri che osserva e muove a suo
piacimento. Cosa ne hanno saputo questi grandi dogmatici, che non ignorano
niente?
393.
«Harum sententiarum».
Ciò sarebbe sufficiente se la ragione fosse ragionevole. Lo
è abbastanza per confessare di non aver ancora trovato niente di fermo,
ma non dispera ancora d'arrivarci. Al contrario, è più
determinata che mai in questa ricerca, ed è sicura di avere in sé le
forze necessarie per una simile conquista.
Bisogna dunque darle il colpo di grazia, e dopo aver esaminato le
sue facoltà nei loro effetti, esaminiamole in loro stesse. Vediamo se ha
forze e prese capaci di afferrare la verità.›
57
Giustizia.
Come la moda decide dei gusti, così decide della giustizia.
58
Chi avesse avuto l'amicizia del re d'Inghilterra, del re di
Polonia e della regina di Svezia, avrebbe mai temuto di mancare di protezione e
di asilo nel mondo?
59
La gloria.
L'ammirazione guasta tutto fin dall'infanzia. «Oh, come è
ben detto! Oh come ha fatto bene, come è saggio, ecc.».
I ragazzi di Port-Royal, ai quali non viene dato lo stimolo
dell'ambizione e della gloria, cadono nell'indolenza.
60
Mio, tuo.
«Questo cane è mio», dicevano quei poveri ragazzi. «Quello
è il mio posto al sole». Ecco l'inizio e l'immagine del possesso di
tutta la terra.
61
Diversità.
La teologia è una scienza, ma di quante scienze è
composta? Un uomo è una sostanza, ma se lo anatomizziamo cosa diventerà?
La testa, il cuore, lo stomaco, le vene, ciascun elemento della vena, il
sangue, da ciascun umore del sangue.
Una città, una campagna, da lontano sono una città e
una campagna, ma quanto più ci avviciniamo, sono case, alberi, tegole,
foglie, erba, formiche, zampe di formiche, e via all'infinito. Tutto ciò
è racchiuso sotto il nome di campagna.
62
Ingiustizia.
È pericoloso dire al popolo che le leggi non sono giuste,
perché obbedisce proprio per il fatto che le crede giuste. Perciò
bisogna dirgli al tempo stesso che deve obbedire loro perché sono leggi,
così come deve obbedire ai superiori non perché sono giusti, ma perché
sono superiori. In questo modo si prevengono le rivolte, se solo si riesce a
far capire che questa è la definizione di giustizia.
63
Ingiustizia.
La giurisdizione non è fatta per chi la esercita, ma per
chi vi è sottoposto: è pericoloso dirlo al popolo, ma il popolo
ha troppa fiducia in voi; questo non gli nuocerà, anzi può
servirvi. Bisogna dunque renderlo pubblico. «Pasce oves meas non tuas». Voi mi
dovete cibo.
64
Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita
dall'eternità che la precede e da quella che la segue («memoria hospitis
unius diei praetereuntis»), il piccolo spazio che occupo e che vedo, inabissato
nell'infinita immensità di spazi che ignoro e che mi ignorano, mi
spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non
c'è motivo che sia qui piuttosto che là, ora piuttosto che un
tempo. Chi mi ci ha messo? Per ordine e volontà di chi questo luogo e
questo tempo sono stati destinati a me?
65
Miseria.
Giobbe e Salomone.
66
Se la nostra condizione fosse veramente felice, non ci sarebbe
bisogno di fare di tutto per non pensarci.
67
Contraddizione.
Orgoglio che bilancia tutte le miserie: o nasconde le miserie,
oppure, se le scopre, si gloria di conoscerle.
68
Bisogna conoscere se stessi. Anche se questo non servisse a
trovare la verità, servirebbe a regolare la propria vita, e non
c'è nulla di più giusto.
69
L'incostanza è causata dalla consapevolezza della
falsità dei piaceri presenti, e dall'ignoranza di quelli assenti.
70
Ingiustizia.
Non hanno trovato altro modo per soddisfare la propria
concupiscenza senza fare torto agli altri.
71
L'Ecclesiaste mostra che l'uomo senza Dio vive nell'ignoranza di
tutto e in un'inevitabile infelicità, perché volere e non potere
significa essere infelici. Ora, l'uomo vuole essere felice e sicuro di qualche
verità. Ma non può sapere, né fare a meno del desiderio di sapere.
Non può neppure dubitare.
IV • NOIA E QUALITÀ ESSENZIALI DELL'UOMO
72
Orgoglio.
Spesso la curiosità non è che vanità; si
vuole sapere per poterne parlare; diversamente non si viaggerebbe certo sul
mare per non dirne mai nulla e per il solo piacere di vedere, senza speranza di
riferirne mai a qualcuno.
73
Descrizione dell'uomo.
Dipendenza, desiderio d'indipendenza, bisogni.
74
Il desiderio che proviamo di abbandonare le occupazioni a cui
siamo attaccati. Un uomo vive piacevolmente nella sua famiglia; basta che veda
una donna che gli piace e si diverta cinque o sei giorni, ecco che, quando
torna alla sua prima occupazione, si sente miserabile. Niente di più
comune di tutto ciò.
V • R
75
Deferenza significa: «Scomodatevi».
In apparenza si tratta di una cosa vana, ma è molto giusta,
perché vuol dire: «Mi scomoderei certamente se ne aveste bisogno, dal momento
che lo faccio senza che ciò vi serva», e inoltre la deferenza esiste per
distinguere i nobili. Ora, se deferenza significasse rimanere in poltrona, tutti
ne godrebbero e così nessuno verrebbe onorato. Scomodandosi ben si
sottolinea una differenza.
76
Le sole regole universali sono le leggi del paese riguardanti le
cose ordinarie e l'opinione della maggioranza nelle altre. Quale ne è la
causa? La forza.
E da ciò deriva che i re, i quali traggono la forza
altrove, non siano soggetti alla maggioranza dei loro ministri.
L'uguaglianza dei beni è certamente giusta ma...
L'impossibilità di costringere ad obbedire alla giustizia
ha comportato che si ritenesse giusto obbedire alla costrizione. Non potento
rendere costrittiva la giustizia, si è resa giusta la costrizione,
così che il giusto e il forte coincidessero in nome della pace, che
è il bene supremo.
La saggezza ci rimanda all'infanzia: «Nisi efficiamini sicut
parvuli».
77
‹Cartesio.
Approssimativamente si può dire: «Ciò avviene
secondo figura e movimento», ed è vero. Ma dire quali e ricostruire la
macchina, questo è ridicolo perché inutile, incerto e faticoso. Ma anche
quando fosse vero, penso che tutta quanta la filosofia non valga un'ora di
pena.›
La gente giudica bene le cose, perché si trova in quell'ignoranza
naturale che è la vera condizione umana. Le scienze hanno due
estremità che si toccano, la prima è la pura ignoranza naturale,
in cui si trovano tutti gli uomini nascendo, l'altra è quella a cui
arrivano le anime grandi che, dopo aver attraversato tutto ciò che gli
uomini possono sapere, si accorgono di non sapere nulla, ritrovandosi in quella
medesima ignoranza da cui erano partiti, ma questa ignoranza consapevole
è una forma di saggezza. Quelli che trovandosi tra i due estremi sono
usciti dall'ignoranza naturale ma non hanno saputo arrivare all'altra, hanno
qualche infarinatura di questa pseudoscienza e si danno delle arie. Sono loro
che turbano il mondo e giudicano male di tutto.
Il popolo e i dotti mandano avanti il mondo; quelli invece lo
disprezzano e sono disprezzati. Essi giudicano male tutte le cose, ma il mondo
giudica bene.
78
«Summum jus, summa injuria».
La maggioranza è la via migliore perché è visibile e
ha la forza di farsi obbedire. Tuttavia è l'opinione dei meno
competenti.
Se fosse stato possibile, si sarebbe messa la forza nelle mani
della giustizia. Ma poiché la forza non si lascia maneggiare come si vuole,
essendo una qualità concreta mentre la giustizia è una
qualità spirituale di cui si dispone a piacimento, si è messa
quest'ultima tra le mani della forza e così chiamiamo giusto ciò
che è necessario rispettare.
Da ciò viene il diritto di spada, perché la spada conferisce
un autentico diritto.
Diversamente ci sarebbe la violenza da una parte e la giustizia
dall'altra. Fine della 12a Provinciale.
Da qui l'ingiustizia della Fronda, che solleva contro la forza la
sua pretesa giustizia.
Niente di tutto ciò nella Chiesa, perché qui c'è una
giustizia autentica senza nessuna violenza.
79
Veri juris, non ne abbiamo più. Se ne avessimo, non
prenderemmo come modello di giustizia la regola di seguire le consuetudini del
proprio paese.
Così, non sapendo di trovare il giusto, si è trovata
la forza, ecc.
80
Il cancelliere è grave e rivestito d'orpelli, perché il suo
posto è illusorio, non così il re. Egli ha la forza, non gli
serve l'immaginazione. Giudici, medici, ecc. hanno solo l'immaginazione.
81
È l'effetto della forza, non dell'abitudine, perché quelli
che sono capaci d'inventare sono rari. Quelli che sono più forti perché
sono in maggioranza non vogliono che accodarsi, e rifiutano la gloria agli
inventori che la cercano grazie alle loro scoperte, e se si ostinano a volerla
ottenere e a disprezzare coloro che non hanno inventiva, li metteranno in
ridicolo, li prenderanno a colpi di bastone. Non ci si vanti dunque di queste
sottigliezze, o ci si rallegri nel proprio intimo.
82
Ragione degli effetti.
Questo è notevole: si vorrebbe che io non rendessi onore a
un uomo vestito di broccato e seguito da sette o otto lacchè. Ma come!
Se non m'inchino mi farà battere. L'abito è un segno della sua
forza. È la stessa cosa di un cavallo ben bardato rispetto a un altro!
Montaigne è sciocco a non vederne la differenza, a stupirsi che se ne
trovi una e a chiederne ragione: «In verità», dice, «da dove viene,
ecc.».
83
Ragione degli effetti.
Gradazione. Il popolo onora le persone di origine nobile; gli
pseudo dotti li disprezzano sostenendo che la nascita non è un merito
dell'individuo ma del caso. I dotti li onorano, non per gli stessi motivi del
popolo, ma con un'altra intenzione. I devoti, che hanno più zelo che
scienza, li disprezzano malgrado le considerazioni che li fanno onorare dai
dotti, perché giudicano sulla base di una comprensione nuova data loro dalla
pietà; ma i perfetti cristiani li onorano a causa di una comprensione
superiore.
Così le opinioni favorevoli e contrarie si alternano a
secondo del grado di comprensione.
84
Ragione degli effetti.
Bisogna avere un pensiero nascosto, e con questo giudicare di
tutto, continuando a parlare tuttavia come il popolo.
85
Ragione degli effetti.
Dunque è giusto affermare che tutti si trovano
nell'illusione, infatti per quanto le opinioni del popolo siano sane, esse non
lo sono nella sua testa, perché ritiene che la verità si trovi dove non
c'è. Nelle sue opinioni c'è senz'altro la verità, ma non
lì dove crede. È vero che bisogna rendere omaggio ai nobili, ma
non perché la nascita sia davvero un merito, ecc.
86
Ragione degli effetti.
Ribaltamento continuo a favore e contro.
Abbiamo dunque mostrato come per l'apprezzamento di cose
inessenziali l'uomo sia vano. Tutte queste opinioni sono distrutte.
In seguito abbiamo mostrato che tutte queste opinioni sono
sanissime e che il popolo, essendo tutte queste cose vane ben fondate, non
è così vano come si dice. Abbiamo distrutto l'opinione che
distruggeva quella del popolo.
Ma ora dobbiamo distruggere quest'ultima affermazione, e mostrare
che rimane vero che il popolo è vano, benché le sue opinioni siano sane,
perché non coglie la verità dove si trova e quindi, mettendola dove non
è, le sue opinioni sono sempre del tutto false e malsane.
87
Opinioni sane del popolo.
Il male più grande sono le guerre civili. Esse vanno bene
se si vogliono ricompensare i meriti, perché tutti diranno di averne. Il male
che si deve temere in seguito alla successione di uno stupido per diritto di
nascita, non è così grande, né così certo.
88
Opinioni sane del popolo.
Vestirsi in modo elegante non è troppo vano, significa
mostrare che c'è un gran numero di persone che lavorano per noi,
mostrare con la propria capigliatura che abbiamo un cameriere, un profumiere,
ecc., con il proprio colletto, il filo, la passamaneria, ecc. Disporre di molte
braccia non è una semplice superficie, una semplice bardatura.
Più braccia si hanno, più si è forti.
L'eleganza rivela la propria forza.
89
Ragione degli effetti.
La debolezza umana è la causa di molte bellezze
convenzionali, così saper suonare bene il liuto è una mancanza,
in chi non è capace, solo a causa della nostra debolezza.
90
Ragione degli effetti.
La concupiscenza e la forza sono le fonti di tutte le nostre
azioni. La concupiscenza genera quelle volontarie, la forza quelle
involontarie.
91
Qual è il motivo per cui uno zoppo non ci irrita, ma uno
spirito azzoppato sì? Il fatto è che uno zoppo riconosce che noi
camminiamo diritti, mentre uno spirito azzoppato dice che gli zoppi siamo noi.
Se non fosse per questo proveremmo pietà invece di collera.
Epitteto domanda con molta più forza: «Perché quando ci
dicono che abbiamo mal di testa non andiamo in collera, ma questo accade se ci
dicono che ragioniamo male o facciamo scelte sbagliate?».
Il fatto è che noi siamo assolutamente sicuri di non aver
male alla testa e di non essere zoppi, ma non siamo così certi di
scegliere il vero, così che potendoci fidare solo di ciò che
vediamo, quando un altro vede il contrario, questo ci mette in ansia e ci stupisce.
E ancor di più se molti altri si prendono gioco della nostra scelta,
perché dobbiamo anteporre la nostra intelligenza a quella di tanti altri, e
ciò è cosa audace e difficile. I sensi che si accertano di uno
zoppo non cadono mai in una simile contraddizione.
L'uomo è fatto in modo tale che a forza di dirgli che
è uno stupido, ci crede; e ciò accade anche a forza di ripeterlo
a se stessi, perché l'uomo è capace di una conversazione interiore che
è opportuno saper regolare. «Corrumpunt bonos mores colloquia prava».
Per quanto è possibile dobbiamo rimanere in silenzio e riflettere solo
su Dio, che sappiamo essere la verità; e così ci si convince.
92
Ragione degli effetti.
Epitteto. Quelli che dicono: «Voi avete il mal di testa», non
è lo stesso. Si è sicuri della salute, non della giustizia, e in
effetti la sua era una battuta.
Pensava tuttavia di poterla dimostrare distinguendo quello che
è in nostro potere da quello che non lo è.
Non si accorgeva che non è in nostro potere controllare il
cuore, e aveva torto di dedurlo dal fatto che c'erano dei cristiani.
93
Il popolo ragiona in modo molto sano. Per esempio:
1. aver scelto il divertimento e la caccia piuttosto che un
assedio. Gli pseudo dotti lo deridono e proprio da questo traggono la conferma
della follia del mondo. Ma, per un motivo che non afferrano, il popolo ha
ragione.
2. aver distinto gli uomini in base ai segni esteriori, come la
nobiltà o i beni. Anche qui si ha buon gioco a mostrare
l'irrazionalità del fatto. Che invece è ragionevolissimo. I
cannibali ridono di un re fanciullo.
3. sentirsi offeso da uno schiaffo, o desiderare molto la gloria,
anche se ciò è certamente auspicabile a causa di altri beni
essenziali che vi sono connessi. E chi ha ricevuto uno schiaffo senza
risentirsene viene oppresso da ingiurie e sventure.
4. lavorare per l'incerto, mettersi in mare, camminare su un'asse.
94
Giustizia, forza.
È giusto seguire chi è giusto; è necessario
seguire il più forte.
La giustizia senza forza è impotente; la forza senza la
giustizia è tirannica.
La giustizia senza forza viene contestata, perché ci saranno
sempre dei malvagi. La forza senza giustizia è messa sotto accusa.
Bisogna dunque mettere insieme la giustizia e la forza, e con ciò
rendere forte quello che è giusto e giusto quello che è forte.
La giustizia è soggetta a discussione. La forza è
facilmente riconoscibile e non può essere discussa. Così non si
è potuto dare forza alla giustizia perché la forza ha contraddetto la
giustizia, sostenendo che era ingiusta, e che solo lei era giusta.
Così, non riuscendo a rendere forte ciò che è
giusto, si è reso giusto ciò che è forte.
95
La nobiltà è davvero un gran vantaggio se mette in
condizione un uomo di diciotto anni di essere conosciuto e rispettato come un
altro potrebbe esserlo solo a cinquanta. Trent'anni guadagnati senza fatica.
VI • LA GRANDEZZA
96
Se un animale facesse per intelligenza ciò che fa per
istinto, e se parlasse con intelligenza, invece di esprimersi istintivamente,
quando va a caccia e deve avvertire i suoi simili che ha trovato la preda o
l'ha persa, parlerebbe anche di cose che gli interessano di più, come
dire: «Rosicchiate questo laccio che mi ferisce e che non riesco a
raggiungere».
97
Grandezza.
Le ragioni degli effetti rivelano la grandezza dell'uomo, la sua
capacità di aver tratto dalla concupiscenza un ordine così bello.
98
Il becco che il pappagallo strofina benché sia pulito.
99
Chi dentro di noi prova piacere? La mano forse, il braccio, la
carne, il sangue? Deve essere necessariamente qualcosa d'immateriale.
100
Contro lo scetticismo.
Noi supponiamo che tutti le concepiamo allo stesso modo. Ma
è una supposizione del tutto gratuita perché non ne abbiamo alcuna
prova. Vedo bene che usiamo queste parole nelle medesime circostanze, e che
ogni volta che due uomini vedono un corpo cambiare posto, esprimono entrambi
l'immagine di questo oggetto con la stessa parola, e l'uno e l'altro dicono che
si è mosso, e da questa applicazione costante se ne ricava l'invincibile
congettura di una conformità d'idee, ma ciò non è assolutamente
convincente, di una certezza ultima, anche se ci si può scommettere,
perché si sa che spesso si ottengono le stesse conseguenze da supposizioni
diverse.
Questo è sufficiente per imbrogliare almeno la materia,
anche se ciò non cancella del tutto l'evidenza naturale che ci assicura
dell'esistenza delle cose. Gli accademici avrebbero partita vinta, ma
ciò la offusca e turba i dogmatici, per la gloria della cabala scettica
che si riduce a questa ambigua ambiguità, e a una certa oscurità
dubbiosa, da cui i nostri dubbi non possono togliere ogni chiarezza, né la
nostra intelligenza può cacciare ogni tenebra.
101
Noi conosciamo la verità non solo con la ragione ma anche
con il cuore. È in quest'ultimo modo che conosciamo i primi
princìpi, e invano il ragionamento, che non vi svolge alcun ruolo, cerca
di opporvisi. Gli scettici, che non hanno altro scopo, ci provano inutilmente.
Sappiamo di non sognare, per quanto ci sia impossibile dimostrarlo con la
ragione; questa impossibilità significa che la nostra ragione è
debole, non che tutte le nostre conoscenze sono incerte, come essi pretendono.
Perché la conoscenza dei primi princìpi, come l'esistenza dello spazio,
del tempo, del movimento, dei numeri, è salda come nessuna di quelle che
ci danno i ragionamenti, ed è su queste conoscenze del cuore e
dell'istinto che la ragione deve appoggiarsi, fondandovi ogni suo ragionamento.
Il cuore sente che lo spazio ha tre dimensioni e che i numeri sono infiniti, la
ragione dimostra in seguito che non esistono due numeri quadrati uno dei quali
sia doppio dell'altro. I princìpi si sentono, le preposizioni si
deducono, e in entrambi i casi con certezza, sebbene per vie diverse. Ed
è inutile e ridicolo che la ragione domandi al cuore le prove di quei
primi princìpi per voler dare il suo assenso, così come sarebbe
ridicolo che il cuore domandasse alla ragione un sentimento di tutte le
proposizioni che dimostra di volerle accettare.
Questa impossibilità non deve servire dunque che a umiliare
la ragione, che vorrebbe giudicare di tutto, non a negare la certezza, come se
non ci fosse che la ragione capace di istruirci. Volesse Dio, al contrario, che
non ne avessimo mai bisogno, e che noi conoscessimo ogni cosa con l'istinto e
il sentimento! Ma la natura ci ha rifiutato questo bene; al contrario non ci ha
dato che pochissime conoscenze di questo tipo; tutte le altre non possono
essere acquisite che per mezzo del ragionamento.
Questo è il motivo per cui quelli a cui Dio ha dato la
religione per sentimento del cuore sono ben fortunati e ben legittimamente
persuasi; ma a quelli che non l'hanno, noi possiamo darla solo per
ragionamento, in attesa che Dio la doni loro per il sentimento del cuore, senza
di che la fede non è che un fatto umano e inutile per la salvezza.
102
Posso ben concepire un uomo senza mani, piedi, testa, perché solo
l'esperienza ci insegna che la testa è più necessaria dei piedi.
Ma non posso concepire l'uomo senza pensiero. Sarebbe una pietra o un bruto.
103
Istinto e ragione, segni di due nature.
104
Canna pensante.
Non è nello spazio che devo cercare la mia dignità,
ma nell'ordine dei miei pensieri. Non avrei alcuna superiorità
possedendo terre. Nello spazio, l'universo mi comprende e m'inghiotte come un
punto; nel pensiero, io lo comprendo.
105
Ciò che fa grande la grandezza umana è che si
riconosce miserabile; un albero non si riconosce miserabile.
Riconoscersi miserabili significa dunque essere miserabili, ma
riconoscersi miserabili significa essere grandi.
106
Immaterialità dell'anima.
Quale materia ha potuto far sì che i filosofi domassero le
loro passioni?
107
Anche tutte quelle miserie provano la sua grandezza. Sono miserie
da gran signore, miserie di un re spodestato.
108
La grandezza dell'uomo.
La grandezza dell'uomo è così evidente che si ricava
perfino dalla sua miseria, perché quello che per gli animali è la
natura, nell'uomo lo chiamiamo miseria; da ciò riconosciamo che, se oggi
la sua natura è simile a quella degli animali, egli è decaduto da
una natura migliore che un tempo era la sua.
E in effetti chi può lamentarsi di non essere un re se non
un re spodestato? Paolo Emilio era forse considerato infelice perché non era un
console? Al contrario tutti ritenevano che egli fosse felice di esserlo stato,
dal momento che la sua condizione non era di esserlo sempre. Ma Perseo era
ritenuto così infelice di non essere più re, dal momento che la
sua condizione comportava di esserlo sempre, che si trovava strano sopportasse
ancora la vita. Chi si ritiene infelice di non avere che una bocca, e chi non
si riterrebbe infelice di avere un occhio solo? A nessuno forse è mai
venuto in mente di affliggersi per non avere tre occhi, ma chi non ne ha
è inconsolabile.
109
Grandezza dell'uomo fin nella concupiscenza, per averne ricavato
un ordine ammirevole e averne fatto un'immagine della carità.
VII • CONTRADDIZIONI
110
Contraddizioni.
Dopo aver mostrato la bassezza e la grandezza dell'uomo.
Che ora l'uomo si stimi per quello che vale. Che si ami, perché
c'è in lui una natura capace di bene; ma che non per questo ami le
bassezze che vi sono in essa. Che si diprezzi, perché questa capacità
è vuota; ma non per questo disprezzi questa originaria capacità.
Che si odii, che si ami: ha in sé la capacità di conoscere la verità
e di essere felice; ma non possiede la verità, né in modo costante, né
soddisfacente.
Per questo vorrei portare l'uomo a desiderare di trovarla, a
essere pronto e libero dalle passioni, per seguirla dove l'avrà trovata,
consapevole di come le passioni hanno offuscato la conoscenza; vorrei che
odiasse davvero la concupiscenza che ha in sé e che lo muove, così da
impedirle di accecarlo quando deve fare la sua scelta, e di fermarlo quando
avrà scelto.
111
La nostra presunzione è tale che vorremmo essere conosciuti
dal mondo intero e anche da quelli che verranno quando non ci saremo
più. Ma siamo così vani che la stima di cinque o sei persone
attorno a noi ci fa piacere e ci soddisfa.
112
È pericoloso esagerare nel far credere all'uomo quanto
è uguale agli animali, senza mostrargli la sua grandezza. Ed è
pericoloso anche fargli vedere la sua grandezza senza la bassezza. Ma è
ancora più pericoloso lasciargli ignorare sia l'una che l'altra, mentre è
utile ricordargliele entrambe.
L'uomo non deve credere di essere come le bestie, né come gli
angeli, non deve ignorare le due cose, ma conoscerle.
113
A P.R.
Grandezza e miseria.
Poiché la miseria si deduce dalla grandezza e la grandezza dalla
miseria, alcuni hanno affermato la miseria quanto più hanno preso come
prova la grandezza, altri hanno affermato la grandezza con tanta più
forza in quanto l'hanno dedotta dalla miseria stessa. Tutto quello che gli uni
hanno potuto dire per mostrare la grandezza è servito agli altri come
argomento per dedurre la miseria, perché quanto più si cade dall'alto,
tanto più si è miserabili, mentre per gli altri è il
contrario. Si sono rincorsi l'un l'altro in un cerchio senza fine, essendo
certo che nella misura in cui gli uomini posseggono la ragione, essi trovano
nell'uomo miseria e grandezza. In una parola: l'uomo sa di essere miserabile.
Egli è dunque miserabile, poiché lo è, ma dal momento in cui lo
sa è davvero grande.
114
Contraddizione, disprezzo del nostro essere, morire per nulla,
odio del nostro essere.
115
Contraddizioni.
L'uomo è per natura credulo, incredulo, pauroso, temerario.
116
Cosa sono i nostri princìpi naturali se non i
princìpi dell'abitudine? E nei bambini quelli che hanno ricevuto dalle
consuetudini dei loro padri, come l'istinto della caccia negli animali.
Una diversa abitudine darà altri princìpi naturali.
Ce lo dice l'esperienza. E se ce ne sono di quelli che l'abitudine non
può cancellare, ce ne sono anche di quelli contro natura dovuti
all'abitudine, e che né la natura né un'altra abitudine riescono a cancellare.
Ciò dipende dall'inclinazione.
117
I padri temono che l'amore naturale dei figli si cancelli. Che
tipo di natura è dunque questa soggetta a essere cancellata?
L'abitudine è una seconda natura che distrugge la prima. Ma
cosa significa natura? Temo fortemente che la natura non sia che un'abitudine
originaria, così come l'abitudine non è che una seconda natura.
118
Si può considerare la natura umana sotto due profili:
secondo il fine, e allora è grande e incomparabile; secondo la media,
come quando giudichiamo la natura del cavallo e del cane per il fatto di vedere
la corsa e l'animum arcendi, e allora l'uomo è abbietto e vile. Ecco i
due modi con cui si può giudicarlo diversamente e che tanto fanno
disputare i filosofi.
Uno nega il presupposto dell'altro. Uno dice: «Non è fatto
per quel fine, perché tutte le sue azioni vi ripugnano». L'altro: «Quando
compie azioni così basse si allontana dal suo fine».
119
Due cose istruiscono l'uomo sulla sua natura: l'istinto e
l'esperienza.
120
Mestiere.
Pensieri.
Tutto è uno, tutto è diverso.
Quante nature in quella umana! Quante professioni e tutto per
caso! Di solito ciascuno sceglie ciò che ha sentito lodare.
Tacco ben lavorato.
121
Se si vanta, l'abbasso;
se si abbassa, lo vanto
e sempre lo contraddico
fino a fargli capire
che è un mostro incomprensibile.
122
Il principale punto di forza degli scettici, tralasciando cose
meno importanti, sta nel fatto che non abbiamo alcuna certezza dei
princìpi, al di fuori della fede e della rivelazione, tranne che li
avvertiamo naturalmente in noi. Ma questo sentimento naturale non è una
prova convincente della loro verità, non essendoci certezza fuori dalla
fede se l'uomo sia stato creato da un Dio buono o da un demone cattivo o per
caso, c'è da dubitare se questi princìpi, a seconda della nostra
origine, siano veri, falsi o incerti.
Inoltre nessuno, al di fuori della fede, è sicuro di
dormire o di essere sveglio, dal momento che durante il sonno siamo certi di
essere svegli come quando lo siamo veramente. Crediamo di vedere gli spazi, le
figure, i movimenti, sentiamo trascorrere il tempo, lo misuriamo, e infine
agiamo come da svegli. Così che, passando metà della vita nel
sonno, per nostra stessa ammissione o qualunque cosa ce ne sembri, noi non abbiamo
alcuna idea della verità, essendo allora tutte le nostre percezioni
illusorie. Chi sa se l'altra metà della vita, durante la quale crediamo
di essere svegli, non sia un altro tipo di sonno, un po' diverso dal primo, da
cui ci risvegliamo quando pensiamo di dormire?
‹E chi dubita che se si sognasse in compagnia e per caso i sogni
concordassero, circostanza abbastanza comune, e si vivesse la veglia da soli,
ciò in cui crediamo risulterebbe capovolto? E poi, come spesso si sogna
di sognare, accumulando un sogno sull'altro, non potrebbe essere che questa
metà della vita sia essa stessa un sogno su cui sono innestati gli
altri, un sogno da cui ci risveglia la morte e durante il quale noi possediamo
così poco i princìpi del vero e del bene quanto durante il sonno
naturale? E i differenti pensieri che ci agitano non potrebbero forse essere
illusioni simili allo scorrere del tempo, e ai vani fantasmi dei nostri sogni?›
Ecco le principali argomentazioni da una parte e dall'altra,
tralascio quelle minori come i discorsi fatti dagli scettici contro le
impressioni dovute all'abitudine, all'educazione, ai costumi dei diversi paesi
e altre cose simili che, per quanto influenzino la maggior parte degli uomini
comuni, che poi dogmatizzano a partire da questi vani fondamenti, vengono
rovesciate dal più leggero soffio degli scettici. Non c'è che da
scorrere i loro libri; se non si è già persuasi, lo si
diventerà molto presto e forse anche troppo.
Per quanto riguarda i dogmatici mi limito al loro unico punto
forte, vale a dire che, parlando in buona fede e con sincerità, è
impossibile dubitare dei princìpi naturali.
A ciò gli scettici oppongono, in una parola, l'incertezza
della nostra origine, che comporta quella della nostra natura. E i dogmatici,
da che mondo è mondo, devono ancora rispondere.
Ecco la guerra aperta tra gli uomini, dove ciascuno deve prendere
posizione e schierarsi necessariamente con il dogmatismo o con lo scetticismo.
Chi crederà di restare neutrale sarà scettico per eccellenza. La
neutralità è l'essenza di quella scuola. Chi non è contro
di loro è comunque per loro; essi non sono a favore di se stessi, sono
neutrali e indifferenti, incerti su tutto senza distinzione.
Cosa deve fare dunque l'uomo in queste condizioni?
Dubiterà di tutto? Sarà in dubbio se è
sveglio, se lo pizzicano, se lo bruciano? Dubiterà di dubitare?
Dubiterà di esistere? Non si può arrivare a tanto, e sono certo
che non ci sono mai stati simili scettici perfetti. Ci pensa la natura a
sorreggere la ragione impotente, impedendole di vaneggiare fino a questo punto.
Affermerà dunque al contrario di possedere certamente la
verità, lui che, per poco lo si incalzi, non può mostrare alcuna
garanzia ed è costretto a lasciare la presa?
Che chimera è dunque l'uomo? Quale novità, quale
mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio? Giudice
di tutte le cose, ottuso lombrico, depositario del vero, cloaca d'incertezza e
d'errore, gloria e rifiuto dell'universo.
Chi sbroglierà questa matassa ‹Questo va al di là
del dogmatismo e dello scetticismo, e di tutta la filosofia umana. L'uomo va al
di là dell'uomo. Concediamo dunque agli scettici ciò che hanno
tanto gridato, che la verità è fuori dalla nostra portata e dal
nostro carniere, che non abita sulla terra, che ha famigliarità con il
cielo, che vive in seno a Dio, e che non possiamo conoscerla se non nella
misura che a lui piace rivelarla. Apprendiamo dunque la nostra vera natura
dalla verità increata e incarnata.›
‹È impossibile, cercando la verità con la ragione,
evitare una di queste tre scuole.›
‹Non si può essere scettici né accademici senza soffocare
la natura, non si può essere dogmatci senza rinunciare alla ragione.›
La natura confonde gli scettici e la ragione confonde i dogmatici.
Che sarà dunque di te, o uomo, che indaghi con la ragione naturale sulla
tua autentica condizione? Non puoi sottrarti né fermarti in una di queste
scuole.
Prendi atto, o superbo, di quale paradosso sei per te stesso.
Umiliati, ragione impotente! Taci, debole natura, impara che l'uomo va
infinitamente al di là dell'uomo, e ascolta dal tuo maestro qual
è la tua vera condizione che ignori.
Ascoltate Dio.
Perché infine, se l'uomo non si fosse mai corrotto, godrebbe
stabilmente nella sua innocenza della verità e della felicità. E
se non fosse mai stato altro che corrotto, non avrebbe alcuna idea della
verità né della beatitudine. Ma la nostra disgrazia consiste nel fatto
che, più che se nella nostra condizione non ci fosse alcuna traccia di
grandezza, noi abbiamo un'idea della felicità e non possiamo raggiungerla,
percepiamo un'immagine della verità e non possediamo che la menzogna,
incapaci di un'assoluta ignoranza e di un sapere certo, a tal punto è
evidente che siamo stati a un livello di perfezione da cui purtroppo siamo
decaduti.
‹Riconosciamo dunque che l'uomo è infinitamente al di
là dell'uomo e che, senza il soccorso della fede, sarebbe
incomprensibile a se stesso. Chi non vede come, senza la conoscenza di questa
doppia condizione della nostra natura, rimarremmo invincibilmente ignoranti
della nostra natura?›
È stupefacente, tuttavia, che il mistero più
distante dalle nostre conoscenze, la trasmissione del peccato, sia una cosa
senza la quale ci è impossibile qualsiasi conoscenza di noi stessi!
Perché senza dubbio non c'è niente che urti maggiormente la
nostra ragione dell'affermazione che il peccato del primo uomo ha reso
colpevoli coloro che, così lontani da questa origine, sembrano incapaci
di avervi parte. Questa emanazione non solo ci sembra impossibile, ma anche
molto ingiusta: perché cosa c'è di più contrario alle regole
della nostra miserabile giustizia che condannare alla dannazione eterna un
bambino incapace di volontà, per un peccato con cui sembra aver poco a
che fare, dal momento che è stato commesso seimila anni prima che
nascesse? Certamente non c'è nulla che ci urti più brutalmente di
questa dottrina, eppure, senza questo mistero, il più incomprensibile di
tutti, noi siamo incomprensibili a noi stessi. Il nodo della nostra condizione
si piega e si avvolge in questo abisso. Così che l'uomo è
più inconcepibile senza questo mistero di quanto questo mistero sia
inconcepibile per l'uomo.
‹Da questo sembra che Dio, volendo rendere incomprensibile a noi
stessi l'enigma della nostra natura, ne abbia occultata la soluzione ponendola
così in alto, o meglio così in basso, da renderci incapaci di
raggiungerla. Così che noi possiamo effettivamente conoscerci non con le
gesta superbe della nostra ragione, ma con la sua umile sottomissione.
Le solide fondamenta stabilite sull'autorità inviolabile
della religione ci fanno conoscere che ci sono due verità di fede
egualmente ferme: una, che l'uomo nello stato in cui fu creato o in quello
della grazia, è superiore a tutta la natura, reso simile a Dio e partecipe
della divinità; l'altra, che nello stato della corruzione e del peccato,
egli è decaduto e simile alle bestie. Queste due affermazioni sono
ugualmente ferme e certe.
Anche la Scrittura le conferma in modo indiscutibile quando, in
più passi dice: «deliciae meae esse cum filiis hominum», «effundam
spiritum meum super omnem carnem», «dii estis», etc., e in altri: «omnis caro
foenum», «Homo assimilatus est jumentis insipientibus et similis factus est
illis», «dixi in corde meo de filiis hominum». Eccl. 3.›
VII • DIVERTIMENTO
123
Divertimento.
Se l'uomo fosse felice, tanto più lo sarebbe quanto meno
fosse distratto da questa sua condizione, come i santi e Dio.
- Sì, ma la felicità non consiste forse proprio nei
piaceri del divertimento?
- No, perché questi vengono da altri e da fuori; e così
sono labili e soggetti ad essere turbati da infiniti accidenti, che rendono
inevitabile l'afflizione.
124
Divertimento.
Poiché gli uomini non sono riusciti a guarire dalla morte, dalla
miseria e dall'ignoranza, hanno deciso di essere felici non pensandoci.
Nonostante queste miserie l'uomo vuole essere felice e non vuole
altro e non può non volerlo.
Ma cosa potrà fare? Bisognerebbe che diventasse immortale,
ma non riuscendoci si è proibito di pensarvi.
125
Sento che potrei non essere esistito, l'io infatti coincide con il
mio pensiero, dunque io che penso non sarei esistio se mia madre fosse stata
uccisa prima di mettermi al mondo; dunque non sono un essere necessario. Non
sono neppure eterno, né infinito, ma vedo bene che c'è nella natura un
essere necessario, eterno e infinito.
126
Divertimento.
Quelle volte in cui mi sono messo a considerare le diverse forme
d'inquietudine degli uomini, i pericoli e i dolori a cui si espongono, a Corte,
in guerra, e da cui sorgono tante liti, passioni, imprese audaci e spesso
malvagie, mi sono detto che tutta l'infelicità degli uomini viene da una
sola cosa, non sapersene stare in pace in una camera. Un uomo che abbia
abbastanza da vivere, se provasse piacere a restare in casa, non ne uscirebbe
certo per andare in mare o all'assedio di una cittadella; e se non trovasse
insopportabile rimanere in città, mai più si comprerebbe a caro
prezzo una carica nell'esercito; e si cercano le conversazioni e gli svaghi del
gioco perché non si sa rimanere piacevolmente a casa.
Ma quando, avendoci riflettuto maggiormente, ho trovato la causa
di tutte le nostre disgrazie, ho pensato che ce n'è una davvero
autentica, che consiste nell'infelicità naturale della nostra condizione
debole, mortale e così miserabile che niente ci può consolare
quando ci pensiamo seriamente.
Qualunque condizione possiamo immaginare, che contenga tutti i
beni possibili, la regalità rimane il più bel posto del mondo, e
tuttavia immaginiamo un re circondato da tutti i piaceri che può
ottenere. Appena cessa ogni distrazione, lasciato a meditare e riflettere su
ciò che è, tutta la sua fragile felicità non
servirà a sostenerlo; cadrà necessariamente nei minacciosi
pensieri delle rivolte che possono sopraggiungere, e infine della morte e delle
inevitabili malattie, così che se rimane senza quello che chiamiamo
divertimento, eccolo infelice, anzi più infelice dell'ultimo dei suoi
sudditi che giochi e si diverta. H.
Da ciò deriva che il gioco e la conversazione con le donne,
la guerra, gli incarichi importanti, sono così ricercati. Non certo
perché racchiudano la felicità, né perché si pensi che la vera
beatitudine consista nell'avere il denaro che si può vincere al gioco, o
nella lepre che s'insegue; le stesse cose, se ce le offrissero, non le
vorremmo. Non cerchiamo certo questa pratica esangue e monotona, che ci lascia
pensare alla nostra infelice condizione, né i pericoli della guerra, né le
seccature degli incarichi, ma la confusione che ci allontana dal pensarvi e ci
distrae.
Ecco perché gli uomini amano tanto il rumore e il trambusto. Ecco
perché la prigione è un supplizio così orribile, e il piacere
della solitudine una cosa incomprensibile. E infine, il motivo più
grande per cui la condizione dei re è una condizione felice, sta nel
fatto che si tenta incessantemente di divertirli e di procurare loro ogni tipo
di piacere.
Questo è tutto quello che gli uomini hanno saputo inventare
per essere felici; e quelli che filosofeggiano su tutto ciò, dicendo che
la gente è proprio priva di ragione se passa tutto il giorno a correre
dietro a una lepre che non vorrebbe comprare, non conoscono affatto la natura
umana. Non è la lepre a difenderci dai pensieri della morte e delle
miserie che ci circondano, ma la caccia. A. E così, quando li si
rimprovera di cercare con tanta foga ciò che non potrà appagarli,
se rispondessero, come dovrebbero qualora ci riflettessero, che in tutto
ciò cercano un'occupazione violenta e impetuosa che li allontani dal
pensare a sé, e che è per questo che si prefiggono uno scopo attraente
che li affascini e li seduca ardentemente, lascerebbero i loro avversari senza
replica. Ma non è questo che rispondono, perché non conoscono se stessi.
Non sanno di cercare la caccia e non la preda. Essi pensano che se ottenessero
quella carica, in seguito si riposerebbero piacevolmente, senza accorgersi
dell'insaziabile natura della loro cupidigia; credono in perfetta buona fede di
cercare il riposo, mentre non inseguono che l'affanno. Obbediscono a un segreto
istinto che li spinge a cercare fuori di sé il divertimento e l'occupazione,
che viene dalla coscienza delle loro continue miserie. Ma c'è anche un
altro istinto segreto, un ricordo della grandezza della nostra prima natura,
che li rende consapevoli di come la felicità risieda nella quiete, non nel
tumulto, e questi due istinti contrari formano in loro una prospettiva confusa,
nascosta a loro stessi in fondo all'anima, che li spinge a perseguire il riposo
tramite l'agitazione, e a illudersi ogni volta che l'appagamento che non
conoscono arriverà quando, dopo aver superato le difficoltà di
cui sono consapevoli, si apriranno loro le porte del riposo. Così scorre
tutta la vita; si cerca la quiete affrontando gli ostacoli ma, quando li
abbiamo superati, il riposo diventa insopportabile per la noia che procura;
dobbiamo uscirne mendicando un po' di agitazione. Perché pensiamo sempre alle
miserie presenti o a quelle che ci minacciano. E anche quando ci sapessimo
abbastanza al sicuro da ogni parte, la noia, con la sua consueta
autorità, non smetterebbe di uscire dal fondo del cuore dove ha radici
naturali, colmando lo spirito di veleno. B
L'uomo è così infelice che per annoiarsi non ha
bisogno di motivi, gli basta la condizione della sua natura. Ed è
così fragile che pur essendo pieno di mille motivi validi per annoiarsi,
è sufficiente una piccolissima cosa, come un biliardo e una palla, per
distrarlo. Perché quell'uomo che da pochi mesi ha perso il suo unico figlio e
che ancora questa mattina, preso da processi e litigi, era così turbato,
ora non ci pensa più? Non vi stupite, è troppo intento a vedere
da che parte passerà il cinghiale che i cani inseguono con tanta energia
da sei ore: basta questo. Per quanto un uomo sia colmo di tristezza, se si
riesce a distrarlo in qualche modo, eccolo felice in quel lasso di tempo; ma per
quanto un uomo sia felice, se non si diverte o non è preso da qualche
passione o passatempo che impedisca a la noia di prendere il sopravvento,
diventerà in breve triste e infelice. Senza distrazioni non c'è
gioia; con le distrazioni non c'è tristezza; ed è proprio questo
che costituisce la felicità delle persone di elevata condizione, avere
un gran numero di individui che le distraggono, e poter mantenere questa
situazione.
Se ci pensate, cos'altro significa essere sovrintendente,
cancelliere, primo presidente, se non trovarsi nella condizione in cui, fin dal
mattino, c'è una quantità di gente che viene da ogni parte per
non lasciare loro neppure un'ora in tutta la giornata per poter pensare a se
stessi. E quando cadono in disgrazia e vengono rimandati alle loro case di
campagna, dove certo non mancano di beni né di servitù per assisterli
nelle loro necessità, non smettono un istante di sentirsi miserabili e
abbandonati perché nessuno impedisce loro di pensare a se stessi.
127
Divertimento.
La dignità reale non è abbastanza grande per colui
che la possiede da renderlo felice al solo pensiero di ciò che è?
Sarà forse necessario distrarlo da questo pensiero come la gente comune?
So bene che per rendere felice un uomo basta distrarlo dalle sue miserie famigliari
e non farlo pensare ad altro che a danzare bene, ma sarà lo stesso con
un re, e si sentirà più felice rincorrendo questi futili
passatempi piuttosto che contemplando la propria grandezza? Quale scopo
più gratificante gli si potrà indicare? Non sarà fare
torto alla sua felicità spingere la sua anima a preoccuparsi di regolare
i passi alla cadenza di una melodia, o di mettere al posto giusto una sbarra,
invece di lasciargli godere tranquillamente lo spettacolo della gloriosa
maestà che lo circonda? Proviamo, lasciamo un re completamente solo,
senza alcuna soddisfazione per i sensi, senza alcuna preoccupazione nello
spirito, senza compagnie, del tutto libero di pensare a se stesso, e si
vedrà che un re privo di distrazioni non è che un uomo pieno di
miserie. Perciò si evita questo accuratamente, e accanto alle persone
della famiglia reale non manca mai chi si preoccupa di alternare i divertimenti
agli affari di stato, e chi tiene conto del loro tempo libero per occuparlo con
cose piacevoli e giochi, affinché non ci siano vuoti. Voglio dire che sono
attorniati da persone che hanno l'eccezionale dovere di impedire che il re
rimanga solo e in condizione di pensare a sé, ben sapendo che, per quanto sia
re, pensandoci si sentirebbe miserabile.
Con tutto ciò non intendo parlare dei re cristiani come
cristiani, ma solo come re.
128
Divertimento.
È più facile sopportare la morte senza pensarvi che
il pensiero della morte senza pericolo.
129
Divertimento.
Fin dall'infanzia opprimiamo gli uomini con le preoccupazioni per
il loro onore, i loro beni, i loro amici, e ancor più per i beni e
l'onore dei loro amici, li opprimiamo con le preoccupazioni, con
l'apprendimento delle lingue e gli esercizi, e facciamo loro credere che non
potranno essere felici se la loro salute, l'onore, la fortuna, e quelle dei
loro amici non saranno in buone condizioni, e che sarà sufficiente la
mancanza di una sola cosa per renderli infelici. Così si danno loro
incarichi e affari che li mettono in agitazione fin dall'alba.
- Ecco, direte, un modo ben strano per renderli felici; si
potrebbe escogitare qualcosa di meglio per renderli infelici?
- Come, cosa si potrebbe escogitare? Basterebbe togliere loro
tutte le preoccupazioni, perché allora si vedrebbero e penserebbero a
ciò che sono, da dove vengono, dove vanno, e per questo non li si occupa
e non li si distrae mai abbastanza. Per questo, dopo avergli preparato tante
occupazioni, se resta loro qualche momento di tregua, li si consiglia di
impiegarlo a divertirsi, a giocare, a impegnarsi sempre totalmente in qualcosa.
Com'è profondo il cuore dell'uomo e pieno di abiezione!
IX • FILOSOFI
130
Anche se Epitteto avesse visto perfettamente la via, egli dice
agli uomini: «Voi ne seguite una falsa». Mostra che ce n'è un'altra, ma
non ci porta ad essa. Che è quella di volere quello che vuole Dio. Solo
Gesù Cristo ci conduce ad essa: «Via veritas».
I vizi dello stesso Zenone.
131
Filosofi.
Bella cosa gridare a un uomo che non conosce se stesso, di andare
da solo a Dio. Ma bella cosa anche dirlo a un uomo che si conosce.
132
Filosofi.
Essi pensano che solo Dio è degno di essere amato e
ammirato, ma hanno desiderato di essere amati e ammirati dagli uomini, senza
accorgersi della loro corruzione. Se si sentono pieni di sentimenti per amarlo
e adorarlo, e in ciò trovano la loro gioia principale, si stimino dunque
buoni! Ma se trovano in sé ripugnanza per questo modo di fare, se la loro
inclinazione consiste solo nel volersi assicurare la stima degli uomini, e se,
come colmo della perfezione, mirano a che gli uomini, senza essere costretti,
siano felici amandoli, definirei orribile questa perfezione. Come! Essi hanno
conosciuto Dio e non si sono accontentati che gli uomini lo amassero, ma hanno
desiderato che gli uomini si fermassere a loro. Hanno voluto essere il
deliberato oggetto della felicità umana.
133
Filosofi.
Siamo pieno di cose che ci gettano fuori di noi.
L'istinto ci dice che dobbiamo cercare la felicità fuori di
noi. Le passioni ci spingono fuori di noi, anche quando non ci fossero stimoli
per eccitarle. Gli oggetti esterni ci tentano per se stessi e ci attirano anche
quando non ci pensiamo. Hanno un bel dire i filosofi. «rientrate in voi stessi,
lì troverete il vostro bene», nessuno crede loro, e quelli che ci
credono sono i più vuoti e i più sciocchi.
134
La proposta degli stoici è così difficile e vana.
Dicono gli stoici: «Tutti coloro che non raggiungono il più
alto grado di saggezza sono pazzi e viziosi allo stesso modo, come quelli che
stanno due dita sott'acqua».
135
Le tre concupiscenze hanno generato tre scuole e i filosofi non
fanno che seguire una di queste tre concupiscenze.
136
Stoici.
Essi ne deducono che ciò che possiamo fare qualche volta
possiamo farlo sempre e che, poiché il desiderio di gloria permette a coloro
che ne sono dominati di far qualcosa, anche gli altri lo potranno fare.
Sono sentimenti febbrili che chi è sano non può
imitare.
Per Epitteto, che ci siano dei cirstiani fermi significa che tutti
possono esserlo.
X • IL BENE SUPREMO
137
Il bene supremo.
Disputa sul bene supremo.
«Ut sis contentus temetipso et ex te nascentibus bonis».
Si contraddicono, perché alla fine consigliano di uccidersi.
Una vita davvero felice quella da cui ci si libera come dalla
peste.
138
Seconda parte.
Come l'uomo senza la fede non possa conoscere il vero bene né la
giustizia.
Tutti gli uomini cercano di essere felici. Per quanto i mezzi
possano differire, ciò si verifica senza eccezione. Tutti tendono a
questo fine. Chi va in guerra e chi non ci va sono spinti dallo stesso
desiderio, anche se con idee diverse. La volontà non si muove di un
passo se non in questa direzione. È la causa di tutte le azioni di tutti
gli uomini, anche di quelli che vanno a impiccarsi.
E tuttavia, dopo tanto tempo, non c'è mai stato qualcuno
che, senza la fede, abbia raggiunto quello che tutti vogliono continuamente.
Tutti si lamentano, principi, sudditi, nobili, plebei, vecchi, giovani, forti,
deboli, dotti, ignoranti, sani, malati, di ogni paese, in tutti i tempi, a ogni
età e di tutte le condizioni.
Una testimonianza così prolungata, continua e uniforme
dovrebbe assolutamente convincerci della nostra incapacità ad arrivare
al bene con le sole nostre forze. Ma l'esempio ci è servito poco. Non ci
sembra mai così perfettamente adeguato da escludere una sottile
differenza, e proprio da questi ci ripromettiamo, in un caso e nell'altro, il
soddisfacimento delle nostre attese; e così, con un presente che sempre
ci delude, l'esperienza ci inganna, e di sventura in sventura ci conduce fino
alla morte, che ne costituisce l'eterno suggello.
Cosa ci gridano dunque l'avidità e l'impotenza se non che
un tempo nell'uomo c'è stata un'autentica felicità, di cui ora
gli rimangono il segno e l'impronta vuota, che egli tenta invano di riempire
con tutto quanto lo circonda, ripromettendosi dalle cose assenti l'aiuto che
non ottiene da quelle presenti, ma invano, perché questo abisso infinito non
può essere colmato che da un'infinita e immutabile realtà,
cioè Dio stesso.
Solo lui è il suo vero bene. E da quando l'ha abbandonato
è singolare che non vi sia nella natura niente capace di prenderne il
posto, astri, cielo, terra, elementi, piante, cavoli, porri, animali, insetti,
vitelli, serpenti, febbre, peste, guerra, carestia, vizi, adulterio, incesto.
Da quando ha perso il vero bene, tutto gli può sembrare bene, anche la
propria distruzione, benché contraria a Dio, alla ragione e alla natura
insieme.
Alcuni lo cercano nell'autorità, altri nelle rarità
e nelle scienze, altri nei piaceri.
Altri ancora, e vi si sono effettivamente più avvicinati,
hanno riflettuto sulla circostanza che necessariamente questo bene universale,
desiderato da tutti gli uomini, non deve risiedere in nessuna cosa particolare,
che potrebbe essere posseduta da uno solo, o che, divisa tra molti, affliggerebbe
i vari possessori per la parte di cui sarebbero privi, più che
rallegrarli per quella in loro possesso. Essi hanno compreso che il bene
autentico deve essere tale che tutti possano averlo senza diminuzione e senza
invidia, e che nessuno possa perderlo contro la sua volontà; e la
ragione è che, essendo questo desiderio connaturato all'uomo, poiché si
trova necessariamente in tutti, e nessuno può non averlo, ne
concludono...
XI • A P.R.
139
A P.R. Per domani.
[Appunti preparatori]
Prosopopea.
Inutilmente, uomini, cercate in voi stessi il rimedio alle vostre
miserie. Tutta la vostra intelligenza può solo farvi capire che non
troverete in voi né la verità né il bene.
I filosofi ve l'hanno promesso ma non hanno saputo farlo. Essi non
conoscono qual è il vostro bene autentico, né qual è ‹la vostra
autentica condizione. Io sola posso insegnarvi queste cose, e quale sia
l'autentico bene, e questo insegno a coloro che mi ascoltano. I libri che ho
messo tra le mani degli uomini sono molto chiari a tal proposito, ma non ho
voluto che questo tipo di conoscenza fosse troppo evidente. Io insegno agli
uomini ciò che può renderli felici. Perché rifiutate di
ascoltarmi?›
‹Non cercate soddisfazione su questa terra, non sperate niente
dagli uomini, il vostro bene si trova solo in Dio, e la suprema felicità
consiste nel conoscere Dio, nell'unirsi a lui per sempre nell'eternità.
Il vostro dovere sta nell'amarlo con tutto il cuore. Egli vi ha creato...› Come
avrebbero potuto darvi dei rimedi per i vostri mali, se non sanno neppure quali
sono? Le vostre malattie più gravi sono l'orgoglio, che vi allontana da
Dio, la concupiscenza che vi tiene legati alla terra. Essi non fanno altro che
alimentare una o l'altra di queste malattie. Se vi hanno dato Dio come scopo
è stato solo per realizzare la vostra superbia; vi hanno fatto credere
che eravate simili a lui e della stessa natura. Mentre quelli che si sono
accorti di questa vana pretesa vi hanno spinto verso l'altro precipizio,
facendovi credere che eravate della stessa natura delle bestie, e vi hanno
convinto a cercare il bene in quelle concupiscenze che sono il dominio degli
animali.
Non è certo questo il modo per guarire dalle ingiustizie
che questi sapienti non hanno conosciuto. Solo io posso farvi comprendere chi
siete...
Adamo, Gesù Cristo.
Se vi unite a Dio, ciò avviene per grazia, non per natura.
Se venite abbassati, ciò avviene per penitenza, non per
natura.
Così questa duplice capacità.
La vostra condizione non è più quella di quando
siete stati creati.
Una volta rivelate queste due condizioni, è impossibile che
non le riconosciate.
Seguite le vostre azioni. Osservatevi e vedrete che scoprirete le
tracce viventi di queste due nature.
Sarebbe possibile trovare in un soggetto semplice tante
contraddizioni?
[Redazione definitiva]
Incomprensibile.
Che una cosa sia incomprensibile non implica che non esista. Il
numero infinito, uno spazio infinito uguale al finito.
Inconcepibile che Dio si congiunga a noi.
Questa considerazione è ricavata dalla visione della nostra
bassezza, ma se questa visione è davvero sincera, spingetevi fino in
fondo come me, e riconoscete che siamo così in basso da risultare
incapaci di conoscere con le nostre sole forze se la sua misericordia possa
renderci capaci di lui. Perché vorrei sapere da dove questo animale che si
riconosce così debole prende il diritto di misurare la misericordia di
Dio, per porle i limiti che la sua fantasia gli suggerisce. Sa così poco
cosa sia Dio, che non sa neppure cos'è egli stesso. E tutto turbato
dalla visione della propria condizione, ha il coraggio di affermare che Dio non
può renderlo capace di comunicare con lui. Ma vorrei domandargli se Dio
gli chieda qualcos'altro oltre l'amarlo e conoscerlo, e come riesca a pensare
che Dio non possa farsi oggetto di conoscenza e di amore per l'uomo, dal
momento che l'uomo è per natura capace d'amore e di conoscenza. Ma
allora, se dalle tenebre dove si trova, egli scorge qualcosa, e trova pur
qualche soggetto d'amore in mezzo alle realtà terrene, perché, se Dio gli
svela qualche raggio della sua essenza, non dovrebbe essere capace di
conoscerlo e di amarlo, in quelle forme che a Dio parrà di comunicare
con noi? C'è dunque in questa specie di ragionamenti un'intollerabile
presunzione, per quanto essi sembrino fondarsi su un'apparente umiltà,
che non è sincera né ragionevole, nella misura in cui c'impedisce di
confessare che, incapaci di conoscere chi siamo, non possiamo apprenderlo che
da Dio.
A P.R.
Inizio.
Dopo aver spiegato l'icomprensibilità.
La grandezza e la miseria dell'uomo sono così evidenti che
è necessario che la vera religione ci ammaestri sull'esistenza di
qualche grande principio della grandezza e della miseria umana.
È necessario anche che ci spieghi queste stupefacenti
contraddizioni.
Per rendere felice l'uomo essa gli deve mostrare che c'è un
Dio, che siamo obbligati ad amarlo, che la nostra vera felicità consiste
nell'essere in lui e il nostro unico male nel rimanere separati da lui, che
è consapevole delle tenebre di cui siamo pieni, tenebre che ci
impediscono di conoscerlo e di amarlo. E che proprio per questo, poiché i
nostri doveri ci obbligano ad amare Dio ma le nostre concupiscenze ce ne
allontanano, siamo pieni d'ingiustizia. Ci deve spiegare questo rifiuto che noi
proviamo nei confronti di Dio e del nostro bene. Ci deve insegnare i rimedi per
questa incapacità e i mezzi per ottenere questi rimedi. Si esaminino su
tutto ciò tutte le religioni del mondo e si veda se ce n'è una al
di fuori di quella cristiana che soddisfi a queste esigenze.
Saranno forse i filosofi che come massimo bene ci propongono i
beni che troviamo in noi? È forse questo il vero bene? Hanno trovato il
rimedio per i nostri mali? Aver reso l'uomo uguale a Dio significa averlo
guarito dalla sua presunzione? Quelli che ci fanno uguali alle bestie, o i
musulmani, che non vedono altro bene al di fuori dei piaceri terreni, e questo
perfino nella vita eterna, hanno posto rimedio alle nostre concupiscenze?
Quale religione c'insegnerà dunque a guarire dall'orgoglio
e dalla concupiscenza? E quale religione infine c'insegnerà quale siano
il nostro bene, i nostri doveri, le debolezze che ce ne distolgono, la causa di
queste debolezze, i rimedi che le possono guarire e i mezzi per ottenere questi
rimedi? Tutte le altre religioni non ci sono riuscite, vediamo quello che
farà la sapienza di Dio.
«Non apettatevi o uomini», dice, «né verità né consolazione
dagli uomini. Io sono quella che vi ha concepiti e l'unica che può dirvi
chi siete. Ma ora non vi trovate nella condizione in cui vi avevo creato. Io ho
fatto l'uomo santo, innocente, perfetto; io l'ho colmato di luce e
d'intelligenza; io gli ho comunicato la mia gloria e i miei prodigi. Allora
l'occhio dell'uomo vedeva la maestà di Dio. Non si trovava ancora nelle
tenebre che lo accecano, e neppure nella mortalità e nelle miserie che
lo affliggono. Ma egli non ha saputo sostenere tanta gloria senza cadere nella
presunzione. Egli ha voluto farsi centro di se stesso, indipendente dal mio
soccorso. Si è sottratto al mio dominio e poiché, desiderando di trovare
in sé la propria felicità, si è voluto fare uguale a me, l'ho
abbandonato a se stesso. Così, rivoltandogli contro le creature che gli
erano sottomesse, gliele ho rese nemiche, e oggi l'uomo è divenuto
simile alle bestie, e talmente lontano da me che a stento gli rimane un confuso
barlume del suo autore, a tal punto è estinta o turbata ogni sua
conoscenza. I sensi, indipendenti dalla ragione e spesso suoi padroni, l'hanno
trascinato alla ricerca dei piaceri. Tutte le creature l'affliggono o lo tentano,
e lo dominano imponendosi con la loro forza o seducendolo con le loro lusinghe,
che sono una forma di dominio più terribile e ingiuriosa.
Ecco in quale condizione si trovano oggi gli uomini. Rimane loro
qualche inutile conato di felicità della loro prima natura, ma sono
immersi nelle miserie dell'accecamento e della concupiscenza, che è
diventata la loro seconda natura.
Da questo principio che vi rivelo, potete riconoscere la causa di
tante contraddizioni che hanno colpito tutti gli uomini, dividendoli in modi di
sentire così diversi. Ma osservate ora tutti quei moti di grandezza e di
gloria che la prova di tante miserie non ha potuto soffocare, e vedrete se la
causa di ciò possa non risiedere in un'altra natura.
Con questo non voglio che vi sottomettiate a me senza ragione, né
intendo assoggettarvi in modo tirannico. Neppure pretendo di spiegarvi ogni
cosa. Per conciliare le contraddizioni voglio farvi vedere in modo chiaro, con
prove convincenti, quei segni della divinità che sono in me, capaci di convincervi
su ciò che sono, e conquistandomi autorità per mezzo di fatti
meravigliosi e prove che non possiate rifiuatare, e che in seguito crediate
alle cose che vi insegno quando non avrete altro motivo per rifiutarle se non
che da soli non potete sapere se siano o non siano vere».
Dio ha voluto riscattare gli uomini e offrire la salvezza a coloro
che lo cercano, ma gli uomini se ne rendono così indegni che è
giusto che ad alcuni, a causa della loro durezza, Dio rifiuti ciò che
accorda ad altri a causa di una misericordia che non è certo loro
dovuta. Se avesse voluto superare l'ostinatezza dei più refrattari,
avrebbe potuto farlo rivelandosi in modo tale che essi non avrebbero potuto
dubitare della verità della sua essenza, così come apparirà
l'ultimo giorno con un tale bagliore di fulmini e un tale sovvertimento
naturale che i morti risusciteranno e anche i più ciechi lo vedranno.
Ma non è così che ha voluto fare la sua comparsa con
il suo avvento di dolcezza, in modo da lasciare privi di quel bene che non
volevano tanti uomini indegni della sua clemenza. Non era giusto che apparisse
nell'evidenza della sua divinità per convincere infallibilmente tutti
gli uomini, ma neppure era giusto che venisse nascosto al punto da non poter
essere riconosciuto da quelli che lo cercavano sinceramente. A costoro si
è voluto rendere perfettamente riconoscibile; così, volendosi
rivelare a coloro che lo cercano con tutto il cuore, e nascondere a coloro che
con tutto il cuore lo fuggono, egli ha temperato...
A P.R. per domani. 2.
temperato la sua conoscenza, in modo da lasciare tracce di sé
visibili a quelli che lo cercano ma non a quelli che non lo cercano.
Per chi desidera vedere c'è abbastanza luce, e abbastanza
oscurità per chi ha intenzioni opposte.
XII • PRINCIPIO
140
Gli empi che si piccano di seguire la ragione devono essere
straordinariamente razionali.
Cosa affemano dunque?
«Non è forse vero», dicono, «che muoiono le bestie come gli
uomini, e i turchi come i cristiani? Anche loro, come noi, hanno cerimonie,
profeti, dottori, santi, religiosi, ecc.».
Se non vi preoccupate affatto di conoscere la verità,
eccone abbastanza per lasciarvi in pace. Ma se desiderate con tutto il vostro
cuore conoscerla, bisogna scendere nei dettagli. Potrebbe bastare per una
discussione filosofica, ma qui, dove tutto è in gioco...
E tuttavia, dopo una riflessione superficiale di questo tipo,
c'è da divertirsi, ecc.
Ci si informi su questa religione; anche se non fose in grado di
giustificare l'oscurità, forse potrebbe ammaestrarci.
141
Siamo ben ridicoli a cercar conforto nella compagnia dei nostri
simili, miserabili come noi, come noi impotenti; non ci saranno d'aiuto:
moriremo soli.
Dobbiamo dunque comportarci come se fossimo soli. Si
costruirebbero allora palazzi superbi? ecc., cercheremmo senza esitazione la
verità. Se ci rifiutiamo vuol dire che per noi vale più la stima
degli uomini che la ricerca della verità.
142
Tra noi e l'inferno o tra noi e il cielo c'è solo la vita,
che è la cosa più fragile del mondo.
143
Cosa mi promettete infine, dal momento che quanto mi spetta se mi
ritiro dal gioco saranno una decina d'anni, dieci anni di amor proprio,
trascorsi nel tentativo di piacere senza riuscirvi, per non parlare delle
sofferenze certe?
144
Spartizioni.
Nel mondo, a seconda delle diverse ipotesi, si deve vivere
diversamente:
1. ‹se è sicuro che ci saremo sempre› se potessimo esserci
sempre.
‹2. se è incerto se ci saremo sempre o no,›
‹3. se è sicuro che non ci saremo sempre, ma ci venga
assicurato che ci saremo per molto tempo,›
‹4. se è sicuro che non ci saremo sempre, e incerto se ci
saremo per molto tempo,›
5. se è sicuro che non ci saremo per moilto tempo, e
incerto se ci saremo anche solo un'ora.
L'ultima ipotesi è la nostra.
Cuore
Istinto
Princìpi
145
Avere compassione degli atei che cercano, non sono infatti
abbastanza infelici? Ingiuriare quelli che se ne vantano.
146
Ateismo segno di forza d'animo, ma solo fino a un certo punto.
147
Dovete impegnarvi nella ricerca della verità per mezzo del
calcolo delle spartizioni; perché se morirete senza adorare il vero principio
sarete perduti. «Ma», dite «se avesse voluto che io l'adorassi, mi avrebbe
lasciato dei segni della sua volontà». Così ha fatto, ma voi li
ignorate. Andate alla loro ricerca, ne val certo la pena.
148
Dover dare otto giorni di vita è come dover dare cent'anni.
149
Non ci sono che tre tipi di uomini: quelli che, avendo trovato
Dio, lo servono; quelli che, non avendolo trovato, s'impegnano a cercarlo; e
gli altri, che trascorrono la vita senza trovarlo e senza averlo cercato. I
primi sono ragionevoli e felici, gli ultimi sono folli e infelici, quelli in
mezzo sono infelici ma ragionevoli.
150
Gli atei devono dire cose perfettamente chiare. Ora, non è
affatto chiaro che l'anima sia materiale.
151
Cominciare con l'avere compassione degli increduli. Sono abastanza
infelici a causa della loro condizione.
Bisognerebbe insultarli solo se questo fosse loro di aiuto, ma
ciò nuoce loro.
152
Se un uomo in prigione non sa se sia stato emesso l'ordine
d'arresto e non gli rimane che un'ora per venirlo a sapere e, una volta a
conoscenza, qualora sia stato emesso, abbia solo quell'ora per farlo revocare,
è contro natura che egli, invece di informarsi sull'arresto, impieghi
quell'ora a giocare a picchetto.
Così è soprannaturale che l'uomo, ecc. È un
premere della mano divina.
Così non solo lo zelo di chi lo cerca è una prova di
Dio, ma anche la cecità di chi non lo cerca.
153
Principio.
Prigione.
Trovo giusto non approfondire l'opinione di Copernico. Ma questo.
Sapere se l'anima è mortale o immortale è una cosa
che riguarda tutta la vita.
154
Per quanto la commedia sia stata bella in ogni sua parte, l'ultimo
atto è insanguinato. Alla fine ci gettano un po' di terra sulla testa ed
eccoci sistemati per sempre.
155
Corriamo spensieratamente verso l'abisso, non prima di aver messo
qualcosa tra noi e lui per impedirci di vederlo.
XIII • SOTTOMISSIONE E USO DELLA R
156
Sottomissione e uso della ragione: in cosa consiste il vero
cristianesimo.
157
Come odio queste sciocchezze di non credere all'eucarestia, ecc.
Se il Vangelo è vero, se Gesù Cristo è Dio,
che difficoltà vi si trova?
158
Senza i miracoli non sarei cristiano, dice sant'Agostino.
159
Sottomissione.
Bisogna saper dubitare quando è necessario, o dare il
proprio assenso, oppure sottomettersi, quando è necessario. Chi non si
comporta in questo modo non comprende la forza della ragione. C'è chi
infrange questi tre princìpi, o assentendo come se tutto fosse
dimostrato, per ignoranza di cosa significhi dimostrare, o dubitando di tutto,
per ignoranza di quanto ci si deve sottomettere, o sottomettendosi a tutto, per
ignoranza di quando è necessario esercitare il giudizio.
Scettico, matematico, cristiano: dubbio, assenso, sottomissione.
160
«Susceperunt verbum cum omni aviditate scrutantes
scripturas si ita se haberent».
161
La volontà di Dio, che dispone ogni cosa con dolcezza,
è di mettere la religione nella mente per mezzo di ragionamenti e nel
cuore per mezzo della grazia. Volerla mettere nella mente e nel cuore con la
forza e le minacce, non significa mettervi la religione, ma il terrore.
Terrorem potius quam religionem.
162
Se tutto viene sottomesso alla ragione, la nostra religione
perderà ogni carattere di mistero e soprannaturalità.
Se si urtano i princìpi della ragione, la nostra religione
sarà assurda e ridicola.
163
Sant'Agostino. La ragione non si sottometterebbe mai se non
decidesse che ci sono circostanze in cui deve sottomettersi.
Dunque è giusto che si sottometta quando decide di doversi
sottomettere.
164
I dannati verranno confusi quando vedranno che la loro condanna
dipende da quella ragione in nome della quale hanno preteso di condannare la
religione cristiana.
165
Quelli che non amano la verità si appellano alla sua
contestazione e alla moltitudine di coloro che la negano. Il loro errore deriva
dal fatto che non amano la verità e la carità, e dunque non
hannbo giustificazione.
166
L'argomento della contraddizione è una cativa garanzia di
verità.
Molte cose certe sono contraddette.
Molte cose false circolano senza essere contraddette.
Venire contraddetto non è segno di falsità,
così come il contrario non è segno di verità.
167
Vedi i due tipi di uomini sotto il titolo Perpetuità.
168
Sono pochi i veri cristiani. Dico proprio riguardo alla fede. Ce
ne sono certo che credono, ma per superstizione. Ce ne sono che non credono, ma
per libertinaggio. Pochi tra le due categorie.
In ciò non comprendo ovviamente quelli che sono
nell'autentica pietà dei costumi e tutti quelli che credono per un moto
del cuore.
169
Gesù Cristo ha fatto dei miracoli, e dopo di lui gli
apostoli. E in gran numero i primi santi, perché non essendosi ancora adempiute
le profezie, e potendole adempire soltanto loro, solo i miracoli potevano
rendere testimonianza. Era stato predetto che il Messia avrebbe convertito le
nazioni. Come avrebbe potuto realizzarsi questa profezia senza la conversione
delle nazioni? Ma come si sarebbero potute convertire al Messia le nazioni, non
potendo vedere quest'ultima conseguenza delle profezie che lo provano? Prima dunque
che fosse morto, resuscitato e avesse convertito le nazioni, niente era stato
adempiuto, e perciò in tutto questo tempo furono necessari i miracoli.
Ora non ce n'è più bisogno contro gli ebrei, perché il compimento
delle profezie è un miracolo permanente.
170
La pietà è diversa dalla superstizione.
Sostenere la pietà con la superstizione significa
distruggerla.
Gli eretici ci rimproverano questa sottomissione superstiziosa:
ciò vuol dire fare quanto ci rimproverano.
Empietà di non credere nell'eucarestia perché non la
vediamo.
Superstizione di credere in alcune affermazioni, ecc.
Fede, ecc.
171
Niente è più conforme alla ragione che questa
sconfessione della ragione stessa.
172
Due eccessi:
escludere la ragione, non accettare che la ragione.
173
Non si sarebbe peccato non credendo in Gesù Cristo senza i
miracoli.
Videte an mentiar.
174
Certo la fede ci dice quello che i sensi non dicono, ma non il
contrario di quello che vedono. Essa è al di sopra, non contro.
175
Voi abusate della fiducia che il popolo ha nella Chiesa e li fate
credere.
176
Non è raro che si debba riprendere la gente per troppa
docilità.
Si tratta di un vizio naturale, come l'incredulità, e
altrettanto pernicioso.
Superstizione.
177
L'ultimo passo della ragione consiste nel riconoscere che ci sono
un'infinità di cose che la superano. È ben debole se non lo
riconosce.
Se le stesse cose naturali la superano, che dire di quelle
soprannaturali?
XIV • ECCELLENZA DI QUESTO MODO DI PROVARE DIO
178
Dio per mezzo di Gesù Cristo.
È solo per mezzo di Gesù Cristo che noi conosciamo
Dio. Senza questo mediatore ogni comunicazione con Dio è tolta. Per
mezzo di Gesù Cristo noi conosciamo Dio. Tutti coloro che hanno preteso
di conoscere Dio e di provarlo senza Gesù Cristo non avevano che prove
impotenti. Ma per provare Gesù Cristo noi abbiamo le profezie che sono
prove solide e concrete. Poiché queste profezie si sono realizzate e sono state
confermate dagli avvenimenti, esse attestano la verità certa, la prova
della divinità di Gesù Cristo. In lui dunque e per mezzo suo noi
conosciamo Dio. Al di là di questo e senza le Scritture, senza il
peccato originale, senza il necessario mediatore, promesso e arrivato, non
è assolutamente possibile provare Dio e s'insegnano la morale e la dottrina.
Dunque Gesù Cristo è il vero Dio degli uomini.
Ma al tempo stesso noi veniamo a conoscenza della nostra miseria,
perché quel Dio non è altro che il riparatore della nostra miseria.
Così non ci è possibile conoscere adeguatamente Dio se non
conoscendo le nostre iniquità.
Ecco perché quelli che hanno conosciuto Dio senza conoscere la
propria miseria se ne sono gloriati, non l'hanno glorificato.
«Quia non cognovit per sapientiam, placuit deo per stultitiam
praedicationis salvos facere».
179
Prefazione.
Le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal modo di
ragionare degli uomini e così complesse, che colpiscono poco; e anche se
ciò servisse a qualcuno, non servirebbe che nel solo istante in cui si
vede la dimostrazione, ma dopo un'ora verrebbe il dubbio di essersi sbagliati.
«Quod curiositate cognoverunt, superbia amiserunt».
Questo è il risultato della conoscenza di Dio che non
proviene da Gesù Cristo: comunicare senza mediatore con quel Dio che
senza mediatore si è conosciuto.
Mentre quelli che hanno conosciuto Dio per mezzo del mediatore
conoscono la propria miseria.
180
Non è solo impossibile, ma anche inutile conoscere Dio
senza Gesù Cristo. Non se ne sono allontanati ma avvicinati; non si sono
abbassati ma...
«Quo quisque optimus eo pessimus si hoc ipsum quod sit optimus
ascribat sibi».
181
La conoscenza di Dio senza la conoscenza della propria miseria
genera l'orgoglio.
La conoscenza della propria miseria senza la conoscenza di Dio
genera la disperazione.
La conoscenza di Gesù Cristo sta tra una e l'altra, poiché in
essa troviamo Dio e la nostra miseria.
XV • PASSAGGIO DALLA CONOSCENZA DELL'UOMO A DIO
182
La prevenzione che induce all'errore.
È una cosa deplorevole vedere che gli uomini si occupano
solo dei mezzi e non del fine. Ognuno pensa a come assolvere i doveri della
propria condizione, ma la scelta della condizione e della patria tocca alla
sorte.
È penoso vedere quanti turchi, eretici, infedeli, seguono
le abitudini dei padri per il solo motivo che ciascuno pensa siano le migliori,
così come ciascuno si adegua alla condizione di fabbro, soldato, ecc.
Per lo stesso motivo i selvaggi non sanno che farsene della
Provenza.
183
Perché la mia conoscenza è limitata, e così la mia
statura, e posso durare cent'anni piuttosto che mille? Quale ragione ha avuto
la natura di darmi proprio quella, e di sceglierla al posto di un'altra in
un'infinità in mezzo a cui non c'è ragione di scegliere una cosa
invece di un'altra, dove nulla può attirare più di altro?
‹Poco di tutto.
Poiché non si può essere universali, sapendo gratuitamente
tutto ciò che è possibile sapere su tutto, è meglio sapere
un po' di tutto, poiché è molto più bello conoscere qualcosa di
tutto piuttosto che conoscere tutto di una sola cosa. È
un'universalità più bella. Se si potessero avere entrambe sarebbe
meglio; ma dovendo scegliere, dobbiamo scegliere la seconda. La gente lo sa e
lo mette in pratica, poiché spesso la gente è buon giudice.
Il mio gusto mi fa disprezzare uno che fa rumore e che sbuffa
mangiando. Il gusto ha un grande peso. Cosa dobbiamo dedurne? Che ci lasceremo
trascinare da questo peso dal momento che è naturale? Al contrario, gli
resisteremo.
Nulla rivela la vanità degli uomini meglio della
riflessione sulle cause e sugli effetti di quell'amore, poiché il mondo intero
ne risultò cambiato. Il naso di Cleopatra.›
184
H.5.
Vedendo l'accecamento e la miseria dell'uomo, osservando come
tutto l'universo sia muto e l'uomo senza luce, abbandonato a se stesso e quasi
smarrito in questo angolo dell'universo, senza conoscere chi ve lo ha messo,
cosa ci deve fare, che ne sarà di lui con la morte, incapace di ogni
conoscenza, mi afferra la paura, come un uomo che fosse stato portato nel sonno
su un'isola deserta e terribile e si svegliasse senza sapere dove si trova e
senza poterne uscire. E mi stupisco che non ci si disperi in una condizione
così miserabile. Attorno a me vedo altre persone di una simile natura.
Chiedo loro se sono meglio istruite di me. Mi rispondono di no; e in effetti
questi uomini abbandonati e miserabili, dopo essersi guardati attorno e aver
scorto qualche oggetto gradevole, vi si sono affidati e aggrappati. Per quanto
mi riguarda, non mi sono aggrappato a niente, e riflettendo su come sia
probabile che ci siano altre cose oltre a quelle che vedo, mi sono messo a
cercare se Dio non avesse lasciato qualche traccia di sé.
Vedo più religioni in contrasto tra loro, e dunque tutte
false tranne una. Ciascuna esige di essere creduta in forza della propria
autorità e minaccia gli increduli. Non è per questo motivo dunque
che posso credere loro. Chiunque può dirlo. Chiunque può dirsi
profeta, ma nella religione cristiana trova delle profezie, e questo non tutti
possono farlo.
185
H.9.
Sproporzione dell'uomo.
‹Ecco dove ci conducono le conoscenze naturali. Se non sono vere,
nell'uomo con c'è verità, ma se lo sono, questo è un
motivo di grande umiliazione per lui, costretto in un modo o nell'altro ad
abbassarsi.
Ma poiché non può vivere senza credervi, mi auguro che,
prima di inoltrarsi nelle più profonde ricerche della natura, egli la
consideri almeno una volta con calma e serietà e pensi anche a se
stesso, riconoscendone le proporzioni.›
Che l'uomo contempli dunque l'intera natura nella sua alta e piena
maestà, distolga il suo sguardo dai bassi oggetti che lo circondano.
Osservi quella luce splendente messa come una lampada eterna per illuminare
l'universo, finché la terra gli appaia come un punto a confronto con il vasto
giro descritto dall'astro, e si stupisca di come quello stesso vasto giro non
è che un filo fragilissimo rispetto a quello percorso dagli astri che
ruotano nel firmamento. Ma se la nostra vista si ferma lì, che
l'immaginazione vada oltre, sarà lei a smettere di pensare prima che la
natura smetta di fornirle materia. L'intero mondo visibile non è che un
impercettibile segno nell'ampio seno della natura. Nessuna idea vi si avvicina.
Abbiamo un bel dilatare i nostri pensieri al di là degli spazi
immaginabili, a confronto della realtà partoriremo dei semplici atomi.
È una sfera infinita il cui centro è dovunque e la circonferenza
in nessun luogo. Che la nostra immaginazione si perda in questo pensiero
è in fondo la più grande testimonianza sensibile dell'onnipotenza
divina.
Dopo aver fatto ritorno a sé, l'uomo consideri ciò che
è rispetto a ciò che esiste, si veda smarrito in un angolo dimenticato
della natura, e da questa piccola cella dove si trova, cioè l'universo,
impari a dare il giusto valore alla terra, ai regni, alle città e a se
stesso.
Cos'è un uomo nell'infinito?
Ma per fornirgli un altro prodigio di uguale eccezionalità,
esamini le cose più impercettibili, come un acaro, che pur nella
piccolezza del suo corpo rivela parti incomparabilmente più piccole:
zampe con giunture, e vene nelle zampe, e sangue nelle vene, e umori nel
sangue, e gocce in questi umori, e vapori nelle gocce. Ma divida ancora queste
ultime cose, spinga al limite la sua capacità di pensare, e l'ultimo
oggetto a cui può arrivare sia per ora quello che interessa il nostro
discorso. Forse penserà che questa è la cosa più piccola
della natura.
Ma anche là dentro voglio che scorga un nuovo abisso. Non
voglio raffigurargli solo l'universo visibile, ma l'immensità della
natura racchiusa in questo minuscolo atomo. Guardi che infinità di
universi, ciascuno col suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nelle
stesse proporzioni del mondo visibile. E animali su questa terra, e acari nei
quali ritroverà tutto ciò che ha trovato negli altri, e altri
ancora nei quali ritroverà le medesime cose, incessantemente e senza
tregua. Si perda in queste meraviglie stupefacenti per la loro piccolezza come
le altre per la loro grandezza. Chi non proverà ammirazione per il fatto
che il nostro corpo, poco fa impercettibile in un universo a sua volta
impercettibile in seno al tutto, sia diventato ora un colosso, un mondo o meglio
un tutto davanti all'inarrivabile nulla? Chi rifletterà in questo modo
si spaventerà di se stesso, e considerandosi sospeso alla massa che la
natura gli ha dato tra i due abissi dell'infinito e del nulla, tremerà
alla vista di queste meraviglie e penso che, mutando la curiosità in
ammirazione, sarà più disposto a contemplarle in silenzio che a
farne oggetto di una ricerca presuntuosa.
Ma alla fine, cos'è un uomo nella natura? Un nulla davanti
all'infinito, un tutto davanti al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il
tutto, infinitamente lontano dal comprendere gli estremi. Il fine e il
principio delle cose gli sono inesorabilmente nascosti da un segreto
impenetrabile.
Incapace al tempo stesso di vedere il nulla da dove è
tratto e l'infinito che lo sommerge, cosa potrà fare se non cogliere
qulche aspetto di ciò che sta a metà, disperando eternamente di
conoscerne il principio e la fine? Tutte le cose sono uscite dal nulla e
portate nell'infinito. Chi saprà seguire questi incredibili passaggi?
Solo il loro autore li comprende. Nessun altro lo può fare.
Per non aver contemplato questi infiniti, gli uomini si sono messi
alla temeraria ricerca della natura, come se tra loro e la natura ci fosse
qualche proporzione.
È curioso che abbiano voluto comprendere i princìpi
delle cose per poi spingersi a conoscere tutto, con una presunzione infinita
quanto il suo oggetto. Poiché certamente un simile progetto è possibile
solo a patto di una presunzione o di una capacità infinita, come quella
della natura.
Quando si è studiato si capisce che, avendo la natura
impresso la propria immagine e quella del suo autore in tutte le cose, quasi
tutte partecipano della sua doppia infinità. Per questo constatiamo che
l'estensione della ricerca è infinita in tutte le scienze, e così,
per esempio, chi può dubitare che la geometria possa dispiegare
un'infinita infinità di proposizioni? Anche la moltitudine e la
sottigliezza dei loro princìpi sono infinite, perché chi non vede come
quelli che prendiamo per ultimi non si sostengono da soli, ma si appoggiano ad
altri i quali, appoggiandosi ad altri ancora, non ne ammetteranno mai un ultimo
definitivo?
Ma riguardo ai princìpi ultimi che appaiono alla ragione,
noi ci comportiamo come davanti alle cose corporee, quando chiamiamo
indivisibile quel punto oltre il quale i nostri sensi non percepiscono altro,
per quanto infinitamente divisibile per sua natura.
Di questi due infiniti delle scienze, l'infinitamente grande
è molto più evidente, ed è per questo che poche persone
hanno avuto la pretesa di conoscere tutte le cose. «Parlerò di tutto»,
diceva Democrito.
Invece l'infinititamente piccolo è molto meno visibile.
Sono stati piuttosto i filosfi a pretendere di arrivarvi, e qui tutti si sono
arenati. Da questo hanno origine titoli così comuni come: I
Princìpi delle cose,I Princìpi della filosofia, e altri
ugualmente pomposi, a dir la verità, benché meno appariscenti di questo
che abbaglia: De omni scibili.
Naturalmente ci si crede molto più capaci di raggiungere il
centro delle cose che di abbracciare la loro circonferenza, e l'estensione
visibile del mondo ci oltrepassa visibilmente. Ma, dal momento che
oltrepassiamo le piccole cose, ci crediamo anche più capaci di
possederle, senza pensare che non ci vuole meno capacità per raggiungere
il nulla di quanta ce ne voglia per raggiungere il tutto. Si tratta di una
capacità infinita per l'uno e per l'altro, e secondo me chi avesse
compreso i princìpi ultimi delle cose potrebbe anche arrivare a
conoscere l'infinito. Uno dipende dall'altro, uno conduce all'altro. Questi
estremi si toccano e si ricongiungono in forza della loro lontananza, e in Dio,
in Dio solo si ritrovano.
Riconosciamo dunque i nostri limiti. Noi siamo qualcosa, non siamo
tutto. Quel poco d'essere che abbiamo ci sottrae la conoscenza di quei primi princìpi
che nascono dal nulla, ma la sua stessa esiguità ci nasconde la vista
dell'infinito.
La nostra intelligenza sta all'ordine delle cose intellegibili
come il nostro corpo sta all'estensione della natura.
Limitati in ogni genere, questa condizione, che sta a metà
tra i due estremi, si rivela in ogni nostra facoltà. I nostri sensi non
sono in grado di percepire niente di estremo, un rumore eccessivo ci assorda,
una luce troppo forte ci acceca, una distanza esageratamente lunga o corta ci impedisce
di vedere. Un discorso troppo lungo o troppo breve diventa oscuro, un eccesso
di verità ci stordisce. Conosco gente che non riesce a comprendere come
sottraendo quattro allo zero, questo rimanga zero. I primi princìpi sono
troppo evidenti per noi; troppo piacere ci spiace, anche nella musica un
eccesso di armonia lo troviamo disdicevole e troppa benevolenza ci irrita.
Vogliamo essere sempre in grado di ricambiare in sovrappiù il debito.
«Beneficia eo usque laeta sunt dum videntur exsolvi posse; ubi multum antevenere,
pro gratia odium redditur». Non avvertiamo né il caldo né il freddo estremi. Le
qualità eccessive ci sono ostili e non le percepiamo, le soffriamo.
Troppa giovinezza e troppa vecchiaia impacciano lo spirito, così come
troppa o troppo poca istruzione.
Infine, le cose estreme sono per noi come se non fossero affatto,
e noi non siamo nulla nei loro confronti. O noi sfuggiamo a loro o loro a noi.
Ecco la nostra vera condizione. È questo che ci rende
incapaci di un sapere certo e di un'assoluta ignoranza. Navighiamo nella
vastità, sempre incerti e fluttuanti, spinti da un estremo all'altro.
Qualunque appiglio a cui pensiamo di attaccarci per essere sicuri, viene meno e
ci abbandona, e se lo seguiamo si sottrae alla nostra presa, scivola e fugge in
una fuga eterna. Niente per noi è solido. È la nostra condizione
naturale eppure la più contraria alle nostre inclinazioni. Ci brucia un
desiderio di trovare un fondamento sicuro, e come una base ferma per costruirvi
una torre che si alzi verso l'infinito, ma ogni fondamento si spezza e la terra
si apre fino agli abissi.
Non cerchiamo dunque sicurezza e stabilità, la nostra
ragione è continuamente delusa dalla mutevolezza delle apparenze: niente
può fissare la finitezza tra i due infiniti che la racchiudono e la fuggono.
Se questo è stato davvero capito, credo che resteremo
tranquilli, ciascuno nella condizione dove l'ha posto la natura.
Essendo questa mediocrità che ci è toccata in sorte
sempre lontana dagli estremi, che importanza può avere che un altro
conosca un po' di più le cose? Se ne ha, egli le prende da un po'
più in alto, ma non è sempre e infinitamente lontano dalla meta?
E la durata della nostra vita, se anche fosse prolungata di dieci anni, non
è forse ugualmente infima rispetto all'eternità? Al cospetto di
questi infiniti, tutti i finiti sono eguali, e non vedo perché riposare la
propria immaginazione su uno piuttosto che su un altro.
Il solo confrontarci con il finito ci addolora.
Se l'uomo studiasse prima di tutto se stesso, si accorgerebbe di
come è incapace di andare oltre. Come potrebbe una parte conoscere il
tutto? Forse egli desidererà almeno conoscere le parti con cui è
in proporzione. Ma le parti del mondo sono tutte in una tale relazione e
talmente concatenate tra loro, che ritengo impossibile conoscerne una senza
l'altra e senza il tutto.
L'uomo, per esempio, è in relazione con tutto ciò
che conosce. Ha bisogno di un luogo che lo contenga, del tempo per durare, del
movimento per vivere, di elementi che lo compongano, di calore e di alimenti
per nutrirsi, d'aria per respirare. Egli vede la luce, sente i corpi, tutto
cade insomma in relazione con lui. Per conoscere l'uomo è necessario
dunque sapere perché abbia bisogno d'aria per vivere, e per conoscere l'aria
sapere in che rapporto sta con la vita dell'uomo, ecc.
La fiamma non vive senza l'aria, dunque per conoscere una bisogna
conoscere l'altra.
Essendo così tutte le cose cause ed effetti, sostegni e
sostenuti, mediate e immediate, ed essendo reciprocamente implicate da legami
naturali e non sensibili che le legano per quanto lontane e indifferenti,
ritengo impossibile la conoscenza delle parti senza la conoscenza del tutto,
non meno della conoscenza del tutto senza la conoscenza specifica delle parti.
‹L'eternità delle cose in se stesse o in Dio dovrebbe
colpire la nostra piccola durata. Anche la fissa e costante immobilità
della natura, paragonata al continuo mutamento che si verifica in noi, dovrebbe
provocare il medesimo effetto.›
Ma ciò che completa la nostra impotenza di conoscere le
cose è che esse sono semplici in sé e che noi siamo composti di due
nature opposte e di genere diverso, l'anima e il corpo. È impossibile
che la parte che in noi ragiona non sia quella spirituale. Ma anche se qualcuno
ipotizzasse che siamo esseri puramente corporei, proprio ciò ci
escluderebbe a maggior ragione dalla conoscenza delle cose, niente essendo
così poco plausibile dell'affermazione che la materia conosce se stessa.
Non ci è possibile conoscere come essa si conoscerebbe.
E così, se siamo semplici creature materiali, non possiamo
conoscere niente, e se siamo composti di spirito e di materia, non possiamo
conoscere perfettamente le cose semplici, spirituali o corporali che siano.
Da ciò deriva che quasi tutti i filosofi confondono le idee
di queste cose e parlano in modo spirituale delle cose corporali e in modo
corporale delle cose spirituali, affermando audacemente che i corpi tendono
verso il basso, che aspirano al loro centro, che fuggono la loro distruzione,
che temono il vuoto, che hanno inclinazioni, simpatie, antipatie, tutte cose
che appartengono solo allo spirito. Viceversa, parlando degli spiriti essi li
considerano come se fossero in un luogo, attribuiscono loro il movimento da uno
spazio a un altro, tutte cose che appartengono solo ai corpi.
Invece di formulare le idee pure di queste cose, noi le coloriamo
con le nostre qualità, proiettando la nostra natura composta su ogni
cosa semplice.
Chi dubiterebbe, vedendoci attribuire a ogni cosa spirito e corpo,
che questa mescolanza ci sia comprensibile? E tuttavia è la cosa meno
comprensibile: l'uomo è per se stesso il più prodigioso fenomeno
della natura, dal momento che non riesce a comprendere cosa sia corpo e ancora
meno cosa sia spirito, e meno di tutto come un corpo possa essere unito a uno
spirito. Proprio questo è il culmine delle sue difficoltà, e
proprio questo è il suo essere: «modus quo corporibus adhaerent spiritus
comprehendi ab homine non potest, et hoc tamen homo est».
‹Ecco una parte dei motivi che rendono l'uomo così inadatto
a conoscere la natura. Essa gode di una doppia infinità, egli è
finito e limitato; essa dura e si conserva perpetuamente nel suo essere, egli
passa ed è mortale. Le cose in particolare si corrompono e mutano ad
ogni istante. Egli le vede solo di sfuggita. Esse hanno un principio e una
fine. Egli non comprende né l'uno né l'altra. Esse sono semplici, egli è
composto di due nature diverse.›
Infine, per esaurire le prove della nostra debolezza, farò
ancora un paio di considerazioni...
186
H. 3
L'uomo non è che un fuscello, il più debole della
natura, ma è un fuscello che pensa. Non è necessario che
l'universo intero si armi per spezzarlo, bastano un po' di vapore, una goccia
d'acqua, per ucciderlo. Ma anche quando l'universo lo spezzasse, l'uomo
rimarrebbe ancora più nobile di ciò che lo uccide, poiché sa di
morire, mentre del vantaggio che l'universo ha su di lui, l'universo stesso non
sa niente.
Ogni nostra dignità consiste dunque nel pensare. Su
ciò dobbiamo far leva, non sullo spazio e sulla durata, che non sapremmo
colmare.
Sforziamoci dunque di pensare correttamente: ecco il principio
della morale.
187
L'eterno silenzio di questi spazi infiniti mi atterrisce.
188
Consolatevi: non è da voi che dovete aspettarla, al
contrario, l'attenderete non aspettandovi niente da voi.
XV bis • LA NATURA È CORROTTA
[N.d.R. A questo titolo, presente nell'elenco compilato da Pascal,
non corrisponde alcun testo].
XVI • FALSITÀ DELLE ALTRE RELIGIONI
189
Falsità delle altre religioni.
Maometto privo di autorità.
Le sue ragioni dovrebbero dunque essere ben robuste, non
confidando che nella loro forza.
Cosa dice? Che bisogna credere.
190
Falsità delle altre religioni.
Essi non hanno testimoni. Questi ne hanno.
Dio sfida le altre religioni a produrre segni simili. Isaia, 43,9;
44,8.
191
Se c'è un solo principio di tutto, un solo fine di tutto -
tutto da e tutto per lui - è dunque necessario che la vera religione ci
insegni a non adorare e a non amare che lui. Ma trovandoci noi
nell'incapacità di adorare ciò che non conosciamo e di amare
qualcosa al di fuori di noi, bisogna che la religione che ci ammaestra su
questi doveri ci ammaestri anche su queste forme d'impotenza, e ci indichi i
rimedi. Essa ci insegna che a causa di un uomo tutto è stato perso e si
è rotto il legame tra Dio e noi, e che quel legame, sempre a causa di un
solo uomo, è stato riparato. Fin dalla nascita siamo così avversi
all'amore di Dio, pure così necessario, che inevitabilmente o nasciamo
colpevoli o Dio è ingiusto.
192
Rem viderunt, causam non viderunt.
193
Contro Maometto.
Il Corano non appartiene a Maometto più di quanto il
Vangelo a san Matteo. Esso è citato da molti autori in ogni secolo. Gli
stessi avversari, Celso e Porfirio, non l'hanno mai negato.
Il Corano dice che san Matteo era un uomo di bene, dunque esso era
un falso profeta, o perché chiamava gente di bene i malvagi, o perché non
accettava quello che essi hanno detto di Gesù Cristo.
194
‹Possiamo camminare rassicurati al chiarore di queste luci
celesti. E dopo avere.›
Cosa hanno saputo fare gli uomini senza queste divine conoscenze,
se non o insuperbire nell'intimo sentimento che rimane loro della passata
grandezza, o abbattersi alla vista della debolezza presente?
Non abbracciando la verità intera, non hanno potuto
arrivare a una virtù perfetta. Alcuni giudicano la natura incorrotta,
altri come non rimediabile, non hanno potuto sfuggire all'orgoglio o
all'ignavia, che sono le due sorgenti di tutti i vizi, perché non possono che
abbandonarvisi per debolezza o uscirne per orgoglio. Quando infatti
riconoscevano l'eccellenza dell'uomo ne ignoravano la corruzione, così
che evitavano certamente l'ignavia ma si perdevano nella superbia, e quando
riconoscevano l'infermità della natura ne ignoravano la dignità,
così che evitavano la vanità ma solo per precipitare nella
disperazione.
Da qui vengono le diverse scuole degli stoici e degli epicurei,
dei dogmatici, degli accademici, ecc.
Solo la religione cristiana ha potuto guarire questi due vizi, non
già cacciandoli entrambi con la semplicità del Vangelo. Essa
infatti insegna ai giusti, che eleva fino a partecipare della divinità
stessa, che anche in questa sublime condizione essi portano ancora in sé la
fonte di ogni corruzione che, per tutta la vita, li rende soggetti all'errore,
alla miseria, alla morte, al peccato. Essa grida ai più empi che
anch'essi sono capaci della grazia del loro redentore. Così, suscitando
tremore in quelli che rende giusti, e consolando quelli che condanna, essa
addolcisce con tanto equilibrio il timore con la speranze, per mezzo di questa
duplice capacità della grazia e del peccato che è comune a tutti,
che sa abbassare infinitamente di più di quanto non sappia fare la
ragione, ma senza disperazione, ed innalza infinitamente di più dell'orgoglio
naturale, ma senza superbia, con ciò dimostrando che lei sola è
esente dall'errore e dal vizio, e dunque solo a lei tocca istruire e correggere
gli uomini.
Chi dunque può rifiutarsi di credere e di adorare queste
luci celesti? Non è forse più chiaro del giorno che sentiamo in
noi stessi i segni incancellabili dell'eccellenza, e non è altrettanto
vero che ad ogni istante sperimentiamo gli effetti della nostra deplorevole
situazione?
Cosa ci gridano dunque questo caos e questa mostruosa confusione
se non la verità di queste due condizioni, con voce così potente
che è impossibile resisterle?
195
Differenza tra Gesù Cristo e Maometto.
Maometto non predice, Gesù Cristo predice.
Maometto uccide, Gesù Cristo lascia uccidere i suoi.
Maometto proibisce di leggere, gli apostoli ordinano di leggere.
Le cose sono così opposte che, se Maometto ha preso la via
del successo umano, Gesù Cristo ha preso quella di morire umanamente. E
invece di concludere che, poiché Maometto ha avuto successo, anche Gesù
Cristo poteva avere successo, bisogna dire che dal momento che Maometto ha
avuto successo, Gesù Cristo doveva morire.
196
Per natura tutti gli uomini si odiano reciprocamente. Ci si
è serviti fin dove si è potuto della concupiscenza per asservirla
al bene comune. Ma si tratta pur sempre di una menzogna e di una falsa immagine
della carità, perché al fondo non c'è che l'odio.
197
Dalla concupiscenza sono state tratte e fondate norme ammirevoli
di governo, di morale e di giustizia.
Ma il fondo, questo volgare fondo dell'uomo, questo figmentum malum,
è solo occultato. Non è tolto.
198
Gesù Cristo è un Dio a cui ci si avvicina senza
orgoglio e davanti al quale ci si abbassa senza disperazione.
199
«Dignior plagis quam osculis,
non timeo quia amo».
200
Il segno della vera religione consiste nell'obbligare ad amare il
proprio Dio. Pur essendo una cosa giusta, nessuna religione, tranne la nostra,
l'ha ordinato.
La vera religione deve riconoscere la concupiscenza e l'impotenza,
come ha fatto la nostra.
Deve sapervi portare rimedio, come con la preghiera. Nessuna
religione ha chiesto a Dio di amarlo e di seguirlo.
201
Dopo aver compreso tutta la natura dell'uomo bisogna, perché una
religione sia vera, che essa abbia conosciuto la nostra natura. Essa deve aver
riconosciuto la grandezza e la bassezza e le ragioni dell'una e dell'altra.
Qualcuno le ha conosciute al di fuori della religione cristiana?
202
La vera religione ci ammaestra sui nostri doveri, sulla nostra
impotenza, sull'orgoglio e sulla concupiscenza, ma anche sui rimedi,
sull'umiltà, sulla mortificazione.
203
Alcune figure sono chiare ed esaurienti, ma altre sembrano un po'
tirate per i capelli, e non servono da prova se non per coloro che sono
già persuasi. Sono simili a quelle degli apocalittici.
Ma la differenza è che essi non ne hanno di indubitabili,
al punto che non vi è nulla di così ingiusto come quando
pretendono che le loro siano altrettanto ben fondate delle nostre.
Il confronto non è alla pari. Non bisogna equiparare e
confondere queste cose solo perché per un verso sembrano essere simili, mentre
sono così diverse per un altro. In fatto di cose divine, è sulla
base di quelle chiare che dobbiamo rispettare quelle oscure.
‹È come per quelli che usano tra loro un gergo oscuro,
quelli che non lo conoscono capiranno solo sciocchezze.›
204
Non voglio giudicare Maometto per quelle oscurità che
potrebbero far pensare al mistero, ma per quanto c'è in lui di chiaro,
per il suo paradiso e per il resto. In questo egli è ridicolo. Ed
è per questo che non è giusto prendere le sue oscurità per
dei misteri, dal momento che le cose chiare sono ridicole.
Le cose vanno diversamente per la Scrittura. Certamente ci sono
delle oscurità altrettanto bizzare di quelle di Maometto, ma ci sono
anche cose chiare in modo esemplare e profezie evidentemente realizzate. Il
confronto non è alla pari. Non dobbiamo mettere sullo stesso piano cose
che si assomigliano solo per quanto vi è di oscuro e non per quella
chiarezza che riscatta l'oscurità stessa.
205
Le altre religioni, come quelle pagane, sono più popolari,
perché sono esteriori, esse non valgono per i più sottili. Una religione
puramente intellettuale sarebbe più adatta per gli spiriti sottili, ma
risulterebbe inservibile per il popolo. Solo la religione cristiana è
adatta a tutti, mescolando l'interiorità e l'esteriorità. Essa
eleva il popolo verso l'interiorità e abbassa i superbi verso
l'esteriore, e la sua perfezione consiste in emtrambe, perché è
necessario che il popolo comprenda lo spirito della lettera e che i dotti
sottomettano il loro spirito alla lettera.
206
Nessuna religione ha proposto di odiare se stessi, nessun'altra
religione dunque può piacere a coloro che si odiano e che sono alla
ricerca di un essere veramente degno di amore. E costoro, anche se non avessero
mai sentito parlare della religione di un Dio umiliato, l'abbraccerebbero
immediatamente.
XVII • RENDERE LA RELIGIONE DEGNA DI AMORE
207
Gesù Cristo per tutti / Mosè per un popolo.
Gli Ebrei benedetti in Abramo: «Io benedirò quelli che ti
benediranno», ma «tutte le nazioni benedette nel suo seme».
«Parum est ut ecc.» Isaia / «Lumen ad revelationem gentium».
«Non fecit taliter omni natione», diceva Davide, parlando della
legge. Ma parlando di Gesù Cristo bisogna dire: «Fecit taliter omni
nationi, parum est ut ecc.» Isaia.
Così Gesù Cristo è l'essere universale, la
Chiesa stessa non offre il sacrificio che per i fedeli. Gesù Cristo ha
offerto il sacrificio della croce per tutti.
208
Non solo gli Ebrei carnali e i pagani hanno delle miserie, ma anche
i cristiani. Per i pagani non c'è redentore, perché non ci sperano
nemmeno. Non c'è redentore per gli Ebrei, essi vi sperano invano. Solo
per i cristiani c'è il rendentore.
Vedere «Perpetuità».
XVIII • FONDAMENTI DELLA RELIGIONE E RISPOSTA ALLE OBIEZIONI
209
Dobbiamo mettere nel capitolo sui fondamenti ciò che, in
quello riguardante le figure, concerne la loro causa. Perché fu profetizzato il
primo avvento di Gesù Cristo? Perché i modi di questo avvento furono
profetizzati oscuramente?
210
Gli increduli sono in realtà i più credenti, per non
credere nei miracoli di Mosè, credono in quelli di Vespasiano.
211
Come Gesù Cristo ha vissuto confuso agli altri uomini,
così la sua verità vive in mezzo alle altre opinioni senza alcuna
differenza esteriore. Così pure l'eucarestia si confonde con il pane
comune.
Tutta la fede si riduce a Gesù Cristo e ad Adamo, e tutta
la morale alla concupiscenza e alla grazia.
212
Cosa hanno da dire contro la resurrezione e il parto di una
vergine? Forse è più facile riprodurre un uomo o un animale che
produrlo? E se non avessero mai visto una specie animale, sarebbero in grado di
intuire la necessità o meno dell'accoppiamento?
213
Cosa dicono i profeti di Gesù Cristo? Che sarà Dio
in modo evidente? Al contrario, che è un Dio realmente nascosto, che non
verrà riconosciuto, che non penseranno che sia lui, che sarà una
pietra d'inciampo contro cui molti urteranno, ecc.
Che non ci si rimproveri dunque più la mancanza di
evidenza, perché è proprio ciò che ammettiamo. Ma, si obietta, ci
sono delle oscurità, e senza di loro non si urterebbe contro Gesù
Cristo. È uno dei disegni espliciti dei profeti. «Excaeca».
214
Quanto gli uomini avevano potuto conoscere con i più grandi
sforzi d'intelligenza, questa religione lo insegnava ai bambini.
215
Non perché qualcosa è incomprensibile è per questo
meno reale.
216
‹Se per caso si vuole sostenere che l'uomo è troppo poca
cosa per meritare di comunicare con Dio, bisogna essere ben grandi per
giudicarne.›
217
Non si può capire nulla delle opere di Dio se non si parte
dal principio che egli ha voluto accecare gli uni e illuminare gli altri.
218
Gesù Cristo non dice che non è di Nazareth per
lasciare i malvagi nel loro accecamento, né che non è figlio di
Giuseppe.
219
Dio vuole disporre più della volontà che
dell'intelletto. L'evidenza perfetta servirebbe all'intelletto ma nuocerebbe
alla volontà.
Umiliare la superbia.
220
Gesù Cristo è venuto per accecare quelli che
vedevano chiaramente e per dare la vista ai ciechi, guarire i malati e lasciar
morire i sani, chiamare alla penitenza e giustificare i peccatori, lasciare i
giusti nel loro peccato, saziare i poveri e lasciare vuoti i ricchi.
221
C'è luce a sufficienza per illuminare gli eletti e
abbastanza oscurità per umiliarli. C'è oscurità a sufficienza
per accecare i reietti e abbastanza luce per condannarli senza attenuanti.
La genealogia di Gesù Cristo nell'Antico Testamento
è mescolata a tante altre inutili al punto da non poter essere distinta
da quelle. Se Mosè avesse tenuto conto solo degli antenati di
Gesù Cristo, sarebbe stato troppo chiaro; se non avesse annotati quelli
di Gesù Cristo, ciò non sarebbe stato abbastanza chiaro. Ma, dopo
tutto, chi osservi da vicino si accorge che quella di Gesù Cristo è
ben distinta per mezzo di Thamar, Ruth, ecc.
Quelli che ordinavano quei sacrifici ne conoscevano
l'inutilità, e coloro che ne affermavano l'inutilità non hanno
smesso di praticarli.
Se Dio avesse permesso una sola religione, essa sarebbe stata
troppo riconoscibile. Ma se guardiamo bene, possiamo distinguere quella vera in
mezzo alla confusione.
Principio: Mosè era un uomo sottile. Se dunque si
comportava secondo la sua ragione, non doveva proporre nulla contro la ragione.
Così anche la debolezza più appariscente è
una forza.
Esempio: le due genealogie di san Matteo e di san Luca. Non
è forse evidente che non l'hanno fatto accordandosi?
222
Se Gesù Cristo fosse venuto solo per santificare, tutta la
Scrittura e tutte le cose tenderebbero a questo, e sarebbe facile convincere
gli increduli. Se Gesù Cristo fosse venuto solo per accecare, tutto il
suo comportamento sarebbe confuso e non avremmo alcun mezzo per convincere gli
increduli. Ma poiché è venuto «in sanctificationem et in scandalum»,
come dice Isaia, noi non possiamo convincere gli increduli ed essi non possono
convincere noi, ma proprio per questo noi li convinciamo, affermando che in
tutta la sua condotta non ci sono elementi per rimanere convinti in un senso
piuttosto che nell'altro.
223
Figure.
Volendo Dio privare i suoi di beni caduchi, per dimostrare che
ciò non era frutto d'impotenza creò il popolo ebreo.
224
L'uomo non è degno di Dio ma non è incapace di
venirne reso degno.
È indegno di Dio unirsi alla miseria umana, ma non è
indegno di Dio sottrarre l'uomo alla miseria.
225
Prova.
Profezia e compimento.
Ciò che ha preceduto e ciò che ha seguito
Gesù Cristo.
226
Fonte di contraddizioni. Un Dio umiliato fino alla morte in croce.
Due nature in Gesù Cristo. Due venute. Due condizioni della natura
umana. Un Messia che morendo trionfa sulla morte.
227
Che Dio ha voluto celarsi.
Se ci fosse una sola religione, Dio sarebbe ben evidente.
Anche se ci fossero martiri solo nella nostra religione.
Essendosi Dio celato, tutte le religioni che negano sia celato non
sono vere, e se una religione non lo spiega, non può educare. La nostra
fa tutto ciò: «Vere tu es deus absconditus».
‹Fondamento della nostra fede.›
La religione pagana è priva di fondamento. ‹oggi. Si dice
che in altri tempi lo ha avuto per via degli oracoli che hanno parlato. Ma
quali libri ce ne assicurano? La virtù dei loro autori li rende davvero
degni di fede? Son forse conservati con tanta cura da poter essere certi che
non si sono affatto corrotti?›
La religione maomettana ha come fondamenti il Corano e Maometto.
Ma chi ha predetto che lui doveva essere l'ultimo profeta del mondo? Ci sono
segni che possano distinguerlo da qualsiasi uomo voglia proclam