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HOME     PRIVILEGIA NE IRROGANTO    di Mauro Novelli           ictus


 

Blaise Pascal

 

PENSIERI

 

 

I • ORDINE

 

1

I salmi cantati su tutta la terra.

Chi testimonia a favore di Maometto? Egli stesso. Gesù Cristo vuole che la propria testimonianza non valga niente.

La qualità dei testimoni comporta che essi siano sempre e dovunque, mentre, miserabile, egli è solo.

2

Ordine mediante dialoghi.

Cosa devo fare? Dovunque non vedo che oscurità. Penserò di essere nulla? Penserò di essere Dio?

Tutte le cose mutano e si succedono.

Vi sbagliate, ci sono...

Come, non siete d'accordo che il cielo e gli uccelli provano Dio? No. Non lo dice la vostra religione? No. Per quanto ciò sia vero, in un certo senso, riguardo alle anime illuminate da Dio, è tuttavia falso per la maggior parte delle altre.

Lettera per indurre a cercare Dio.

Ma bisogna indagare presso i filosofi, scettici e dogmatici, che confonderanno colui che ricerca.

3

Lettera di esortazione a un amico per indurlo a cercare, obietterà: ma a cosa serve cercare, non vedo niente. Rispondergli: non disperare. Replicherebbe di essere contento di trovare dei motivi, ma che secondo la nostra religione credere così non gli servirebbe a niente. Per questo preferisce non cercare affatto. A ciò rispondergli: la Macchina.

4

1a Parte. Miseria dell'uomo senza Dio.

2a Parte. Felicità dell'uomo con Dio.

oppure

1a Parte. Che la natura è corrotta, secondo la natura stessa.

2a Parte. Che vi è un Riparatore, secondo la Scrittura.

5

Lettera che sottolinea l'utilità delle prove. Mediante la Macchina.

La fede è differente dalla prova. Una è umana e l'altra è dono di Dio. Justus ex fide vivi. La prova è spesso lo strumento della fede che Dio mette nel cuore, fides ex auditu, ma la fede è nel cuore e non fa dire scio ma credo.

6

Ordine.

Vedere in tutta la vicenda degli Ebrei quanto vi è di chiaro e incontestabile.

7

Nella lettera sull'ingiustizia può esserci:

La storiella dei primogeniti che hanno tutto. Amico mio, tu sei nato su questo lato della montagna, dunque è giusto che tuo fratello maggiore abbia tutto.

Perché mi uccidete?

8

Le miserie della vita umana hanno gettato discredito su tutto ciò. Quando se ne sono accorti si sono dati al divertimento.

9

Ordine. Dopo la lettera sulla ricerca di Dio, farne una sulla rimozione degli ostacoli, cioè il discorso sulla Macchina, sul preparare la Macchina, sulla ricerca razionale.

10

Ordine.

Gli uomini disprezzano la religione. La odiano e hanno paura che sia vera. Per rimediare a ciò bisogna mostrare come la religione non sia affatto contraria alla ragione, come sia venerabile e incuterne rispetto.

In seguito renderla desiderabile, fare in modo che i buoni sperino che sia vera, e poi mostrare che è vera.

Venerabile perché ha conosciuto a fondo l'uomo.

Desiderabile perché assicura il vero bene.

II • VANITÀ

 

11

Due volti somiglianti, nessuno dei quali preso in se stesso fa ridere, fanno ridere insieme proprio a causa della somiglianza.

12

I cristiani autentici assecondano comunque le convezioni, non perché le rispettino, ma per rispetto a Dio che le ha imposte agli uomini come punizione. Omnis creatura subjecta est vanitati, liberabitur. E san Tommaso commenta il passo di san Giacomo riguardo ai privilegi dei ricchi osservando che, se la loro ricchezza non è al servizio di Dio, essi escono dall'ordine della religione.

13

Perseo, re di Macedonia. Paolo Emilio.

Perseo fu rimproverato perché non si uccideva.

14

Vanità.

Che una cosa tanto evidente come la vanità del mondo sia così poco conosciuta, che risulti strano e sorprendente affermare la stoltezza di chi ricerca la gloria, questo è ammirevole.

15

Incostanza e bizzarria.

Vivere solo del proprio lavoro e regnare sul più potente stato del mondo sono cose davvero opposte. Si trovano riunite nella persona del sultano dei Turchi.

16

751. La punta di un cappuccio arma 25.000 monaci.

17

Ha quattro servitori.

18

Abita oltre il fiume.

19

Quando si è troppo giovani non si può giudicare bene, e neppure quando si è troppo vecchi.

Se ci pensiamo poco... Se ci pensiamo troppo, c'infatuiamo e ci ostiniamo.

Quando consideriamo il lavoro subito dopo averlo fatto, ne siamo ancora coinvolti; se lasciamo passare troppo tempo, non lo riconosciamo più.

Così per i dipinti guardati da troppo lontano e da troppo vicino. Non c'è che un solo punto giusto, gli altri sono troppo vicini, troppo lontani, troppo in alto o troppo in basso. Nell'arte della pittura spetterà alla prospettiva stabilirlo, ma nel campo della verità e della morale a chi spetterà?

20

Il potere delle mosche, che vincono battaglie, impediscono alla nostra anima di agire, mangiano il nostro corpo.

21

Vanità delle scienze.

Quando saremo afflitti, la scienza della realtà fuori di noi non ci consolerà dell'ignoranza morale, ma la scienza morale mi consolerà sempre dell'ignoranza delle scienze oggettive.

22

Condizione dell'uomo.

Incostanza, noia, inquietudine.

23

L'abitudine di vedere i re accompagnati da guardie, tamburi, ufficiali e da tutte quelle cose che costringono la macchina al rispetto e al terrore, fa sì che il loro volto, anche quando sono soli e privi del consueto accompagnamento, incuta nei sudditi rispetto e terrore. E questo perché il nostro pensiero non riesce a separare le loro persone dal codazzo di chi solitamente li segue; e la gente, che non sa come questo effetto derivi dall'abitudine, lo attribuisce a una forza naturale. Da ciò viene l'espressione: sul loro viso sono impressi i tratti della divinità, ecc.

24

Il potere dei re si fonda sulla ragione e sulla follia del popolo, ma molto più sulla follia. La più grande e importante cosa del mondo ha per fondamento la debolezza. Si tratta di un fondamento mirabilmente sicuro, perché non vi è nulla di più certo della debolezza del popolo. Quanto invece, come la stima della saggezza, si fonda sulla sana ragione, è mal fondato.

25

Non è nella natura dell'uomo avanzare sempre; essa ha i suoi andare e venire.

La febbre ha i suoi brividi e i suoi ardori, e come il caldo, anche il freddo arde di un'intensità febbrile uguale a quella del caldo.

Le invenzioni degli uomini si susseguono da un secolo all'altro. Lo stesso si può dire in generale della bontà e della cattiveria del mondo.

Plerumque gratae principibus vices.

26

Debolezza.

Tutte le occupazioni degli uomini sono volte a conseguire il bene, ma essi non saprebbero giustificarne il giusto possesso, perché non hanno che la loro fantasia umana e mancano della forza per possederlo in modo sicuro.

Lo stesso capita alla scienza, basta una malattia per cancellarla. Siamo incapaci di vero e di bene.

27

Ferox gens nullam esse vitam sine armis rati.

Quelli preferiscono la morte alla pace, altri alla guerra preferiscono la morte. Qualsisi opinione può essere preferita alla vita, l'amore per la quale ci sembra così forte e naturale.

28

Per comandare un vascello non si sceglie il passeggero di casato più nobile.

29

Nelle città in cui siamo di passaggio non ci preoccupiamo della stima degli altri. Ma se ci dobbiamo abitare per un po' di tempo allora ci preoccupiamo. Quanto tempo? Un tempo proporzionato alla nostra vana e fragile esistenza.

30

Vanità.

Deferenza significa: scomodatevi.

31

Quello che più mi stupisce è vedere come gli altri non si stupiscono della loro debolezza. Ciascuno di noi agisce in modo serio, conformandosi alla propria condizione sociale, non perché questa consuetudine sia buona, ma come se fossimo davvero in grado di riconoscere la ragione e la giustizia. Ad ogni istante poi ci sentiamo delusi e, per una ridicola forma di umiltà, pensiamo che sia colpa nostra e non del metodo che ogni giorno vantiamo di avere. È comunque un bene che ci siano tanti che non sono scettici, a gloria dello scetticismo, in modo da far vedere come l'uomo sia capace delle opinioni più stravaganti, dato che è capace di non credere alla sua inevitabile e congenita debolezza, ma di credere, al contrario, in una saggezza naturale.

Niente rinsalda lo scetticismo quanto il fatto che alcuni non sono scettici. Se tutti lo fossero avrebbero torto. Questa dottrina si rafforza a causa dei suoi nemici più che dei suoi amici, perché la debolezza umana si manifesta meglio in quelli che non la riconoscono, piuttosto che in quelli che la conoscono.

32

Tacco di scarpa.

Oh! Com'è ben tornito! Ecco un bravo operaio! Che coraggioso soldato! Questa è la fonte delle nostre inclinazioni e della scelta di una posizione sociale. Quanto beve quello, e quell'altro come beve poco! Ecco ciò che rende sobri e ubriachi, soldati, codardi, ecc.

33

Chi non vede la vanità del mondo è vano a sua volta. Ma poi, chi non la vede, tranne i giovani immersi nel frastuono, nel divertimento e nel pensiero dell'avvenire?

Ma togliete loro ciò che li distrae, li vedrete inaridire nella noia. Allora, pur senza conoscerlo, sentono il nulla, ed è davvero una disgrazia essere tristi a tal punto quando si riflette su se stessi, e non potersi distrarre.

34

Mestieri.

Così grande è la dolcezza della gloria che, a qualunque oggetto si riferisca, fosse pure la morte, la desideriamo.

35

Troppo vino e troppo poco.

Non dategliene: non può trovare la verità.

Dategliene troppo: lo stesso.

36

Gli uomini s'impegnano a correr dietro a una palla e a una lepre: anche i re si divertono a questo modo.

37

Che cosa vana la pittura, ammirata perché assomiglia a cose di cui non ammiriamo affatto gli originali!

38

Due infiniti, in mezzo.

Se leggiamo troppo velocemente o troppo adagio non capiamo niente.

39

Quanti regni c'ignorano!

40

Basta poco per consolarci perché poco basta per affliggerci.

41

Immaginazione.

È la parte dominante dell'uomo, maestra di errori e di falsità, tanto più infida in quanto non sempre lo è, perché se fosse una regola infallibile della menzogna, lo sarebbe anche della verità. Ma, pur essendo il più delle volte falsa, non lascia alcuna traccia di questa sua qualità, indicando indifferentemente il vero e il falso. Non parlo dei folli, parlo di quelli più saggi, perché proprio presso di loro l'immaginazione si arroga il diritto di persuadere gli uomini. La ragione ha un bel reclamare, essa non può conferire valore alle cose.

Questa superba potenza, nemica della ragione, che si diverte a controllarla e a dominarla per mostrare il suo potere su ogni cosa, ha posto nell'uomo una secona natura. Essa ha i suoi felici e infelici, i suoi sani, malati, ricchi e poveri. Essa spinge la ragione a credere, a dubitare, a negare. Essa ottunde i sensi e li fa sentire. Ha i suoi pazzi e i suoi saggi. E niente ci indispettisce maggiormente che vedere come soddisfa i suoi ospiti in modo ben più completo della ragione. Chi ha una fervida immaginazione si valuta in modo ben diverso da quanto, ragionevolmente, possono fare i più prudenti. Guarda in modo altezzoso la servitù, discute con impetuosa disinvoltura (gli altri sono timorosi e incerti), così che con il volto allegro conquista il favore di chi ascolta. Ecco come questi saggi immaginari godono la stima di giudici della stessa tempra. Pur non potendo far rinsavire i folli, essa li rende felici, mentre la ragione fa miserabili i suoi amici, e una li copre di gloria, l'altra di vergogna.

Da dove vengono la reputazione, il rispetto e la venerazione agli uomini, alle opere, alle leggi, ai nobili, se non da questa facoltà d'immaginare? Tutte le ricchezze della terra sono insufficienti senza il suo consenso. Non direste forse che quel funzionario, la cui venerabile vecchiaia impone rispetto a tutta la popolazione, si comporta secondo una pura e sublime ragionevolezza e che giudica le cose per quello che sono, senza fermarsi a quei vani accidenti capaci di colpire l'immaginazione dei deboli? Guardatelo mentre si reca a un sermone, con il suo zelo devoto, l'ardore della carità in aiuto alla fermezza della ragione; eccolo pronto all'ascolto con un rispetto esemplare. Ma quando appare il predicatore, se la natura gli ha dato una voce rauca e lineamenti bizzarri, se il barbiere l'ha mal rasato e, per di più, si è per caso inzaccherato, scommetto che il nostro funzionario, quali che siano le grandi verità annunciate, perderà tutto il suo aspetto severo.

Puoi essere il maggior filosofo del mondo e stare su un'asse più grande del necessario, ma se hai sotto un precipizio, per quanto la ragione ti convinca che sei al sicuro, l'immaginazione sarà più forte. Molti non saprebbero neppure pensarci senza impallidire e coprirsi di sudore.

Non voglio certo fare un elenco di tutte le conseguenze. Chi non sa che la vista di gatti, topi, lo spezzarsi di un carboncino, ecc. mettono in crisi la ragione? Anche i più saggi sono influenzati dal tono della voce, capace di dare forza a un discorso e a una poesia. La simpatia o l'odio cambiano volto alla giustizia, e un avvocato ben pagato in anticipo trova certo più giusta la causa che difende! L'impeto del suo gesto la fa apparire migliore ai giudici ingannati dall'apparenza. Ridicola ragione che il vento piega in tutte le direzioni. Potrei fare l'elenco delle azioni umane scosse quasi solo dall'immaginazione. Perché la ragione è costretta a cedere, e anche la più prudente assume come princìpi quelli che l'immaginazione umana ha dovunque introdotto temerariamente.

‹Chi volesse seguire solo la ragione, secondo il giudizio della maggior parte degli uomini, sarebbe completamente pazzo. Poiché così è piaciuto, dobbiamo lavorare tutto il giorno e affannarci per dei beni palesemente immaginari. E dopo che il sonno ci ha riposato dalle fatiche imposte dalla nostra ragione immaginaria e messo in un'ammirevole calma, bisogna subito distruggerla, alzarsi di corsa per correre dietro alle chimere, piegandosi alle suggestioni di questa padrona del mondo.

Ecco uno dei princìpi dell'errore, ma non è il solo.

L'uomo ha avuto ragione a tenere alleate queste due potenze perché, sebbene in tempo di pace l'immaginazione la spunti agevolmente, in caso di guerra non avrebbe limiti. La ragione non sovrasta mai l'immaginazione, mentre l'immaginazione spodesta frequentemente la ragione.›

I nostri magistrati hanno ben compreso questo mistero. Le loro toghe rosse, gli ermellini in cui s'infagottano come gatti impellicciati, i palazzi dove tengono udienza, i fiordalisi, tutta questa messinscena era assolutamente necessaria; così, se i medici non portassero camici e pantofole, e i professori berretti quadrati e vesti troppo ampie sui quattro lati, mai avrebbero ingannato la gente, incapace di resistere a questa autentica parata. Se i giudici rappresentassero la vera giustizia, e se i medici conoscessero la vera arte di guarire, non avrebbero bisogno di berretti quadrati; la dignità di queste scienze sarebbe venerabile per se stessa, ma essendo scienze immaginarie è inevitabile che si servano di questi vani strumenti per colpire l'immaginazione con cui hanno a che fare, ed è ciò appunto che procura loro rispetto. Solo i militari non si mascherano in questo modo, perché il loro ruolo è più essenziale: essi s'impongono con la forza, gli altri con le moine.

Per questo i nostri re non hanno voluto simili travestimenti. Non si sono mascherati con abiti straordinari per sembrare tali. Ma si fanno accompagnare da guardie. Queste truppe armate di alabarde, che hanno mani e forza solo per loro, trombe e tamburi che avanzano in testa e le legioni da cui sono circondati, fanno tremare anche i più fermi. Non hanno l'abito, hanno la forza. Bisognerebbe avere una ragione davvero pura per vedere nel sultano, attorniato nel suo superbo serraglio da quarantamila giannizzeri, soltanto un uomo.

Solo a vedere un avvocato in toga e berretto sul capo, ne ricaviamo un'impressione favorevole delle sue capacità.

L'immaginazione dispone di tutto, a lei appartengono la bellezza, la giustizia, la felicità che nel mondo è tutto. Mi piacerebbe vedere quel libro italiano di cui non conosco che il titolo, che da solo vale interi libri: Dell'opinione regina del mondo. Sottoscrivo questo libro anche senza conoscerlo, eccetto che per l'eventuale male in esso contenuto.

Ecco all'incirca gli effetti di questa ingannevole facoltà che sembra esserci stata data apposta per indurci necessariamente in errore. Ci sono anche altri princìpi.

Le impressioni antiche non sono le sole capaci di trarci in inganno, il fascino della novità ha lo stesso potere. Da questo derivano le dispute tra gli uomini, che si rimproverano o di seguire le false impressioni dell'infanzia, o di rincorrere temerariamente quelle nuove. Se qualcuno si tiene nel giusto mezzo, si faccia avanti e lo provi. Non esiste principio, per quanto naturale possa essere, anche dopo l'infanzia, che non sia possibile attribuire a una falsa impressione, dovuta all'educazione o ai sensi.

«Voi credete che sia possibile il vuoto», si dice, «perché fin dall'infanzia, vedendo che in un baule non c'era niente, lo avete creduto vuoto. È un'illusione dei vostri sensi, rafforzata dall'abitudine, che la scienza deve correggere». Altri dicono: «Poiché fin dalla scuola vi hanno detto che non c'è il vuoto, hanno corrotto il vostro senso comune che lo comprendeva così bene prima di questa cattiva impressione, che ora bisogna correggere ricorrendo alla vostra natura originaria». Chi dunque ha ingannato, i sensi o l'educazione?

Abbiamo poi un'altra causa d'errore, le malattie. Esse alterano il giudizio e la sensibilità. E se quelle gravi lo alterano in modo evidente, non ho motivi per dubitare che le piccole, in proporzione, lascino il loro segno.

Il nostro interesse è un altro strumento meraviglioso per creare un'evidenza vantaggiosa. Al più equanime degli uomini non è consentito farsi giudice in una causa che lo riguarda. Conosco alcuni che, per non cadere nella parzialità, sono diventati i più ingiusti di tutti in senso contrario. C'era un modo sicuro per rovinare una causa assolutamente giusta: fargliela raccomandare dai parenti più stretti. La giustizia e la verità sono due punte così sottili che i nostri strumenti sono troppo smussati per arrivarvi con esattezza. Quando questo accade, essi ne ottundono la punta, appoggiandosi intorno, più sul falso che sul vero.

‹L'uomo è dunque fatto in modo così felice da non avere alcun principio giusto del vero, ma molti eccellenti del falso. Vediamo ora come. Ma la causa più ridicola dei suoi errori è la guerra tra i sensi e la ragione.›

L'uomo non è che un soggetto pieno di un errore naturale e incancellabile senza la grazia. Niente gli indica la verità. Tutto lo inganna. Le due fonti di verità, la ragione e i sensi, oltre al fatto che mancano di sincerità, s'ingannano reciprocamente; i sensi sviano la ragione con false apparenze, ma l'inganno con cui raggiungono l'anima, torna a loro. È la sua vendetta. Sono turbati dalle passioni dell'anima che alterano le impressioni. Mentono ingannandosi a vicenda.

Ma oltre a questo errore accidentale, che deriva da una mancanza d'intesa tra facoltà eterogenee...

42

Vanità.

Cause ed effetti dell'amore.

Cleopatra.

43

Non ci accontentiamo mai del presente. Anticipiamo il futuro perché tarda a venire, come per affrettarne il corso, o richiamiamo il passato per fermarlo, come fosse troppo veloce, così, imprudentemente, ci perdiamo in tempi che non ci appartengono, e non pensiamo al solo che è nostro, e siamo tanto vani da occuparci di quelli che non sono nulla, fuggendo senza riflettere il solo che esiste. Ciò dipende dal fatto che di solito il presente ci ferisce. Lo nascondiamo alla nostra vista perché ci affligge, e quando è piacevole temiamo di vederlo scappare. Tentiamo di sostenerlo con il futuro, e ci impegnamo a disporre di cose che non sono in nostro potere, per un tempo a cui non siamo affatto certi di arrivare.

Ciascuno esamini i propri pensieri. Troverà che sono tutti concentrati nel passato o nell'avvenire. Non pensiamo quasi per niente al presente, e se ci pensiamo è solo in funzione di predisporre il futuro. Il presente non costituisce mai il nostro fine. Passato e presente sono mezzi, solo l'avvenire è il nostro fine. Così non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e preparandoci sempre a essere felici è inevitabile che non lo siamo mai.

44

Lo spirito di questo sovrano giudice del mondo non è così indipendente da non essere turbato dal primo chiasso che si fa attorno a lui. Ma non è necessario il rumore di un cannone per impedire il corso dei suoi pensieri. Basta quello di una banderuola o di una puleggia. Se in questo momento non ragiona bene, non stupitevi, c'è una mosca che gli ronza alle orecchie: è sufficiente per impedirgli di riflettere. Se volete che possa trovare la verità, cacciate l'insetto che tiene in scacco la sua ragione e turba la potente intelligenza che governa regni e città.

Che buffo dio! O ridicolissimo heroe!

45

Mi sembra che Cesare fosse troppo vecchio per divertirsi a conquistare il mondo. Queste specie di distrazioni andavano bene per Augusto o Alessandro. Erano giovani, difficili da tenere a freno, ma Cesare doveva essere più maturo.

46

Gli Svizzeri si offendono se vengono chiamati nobili e per venire giudicati degni di cariche importanti devono provare di avere origini plebee.

47

Perché mi uccidete? Ma come! Non abitate dall'altra parte del fiume? Amico mio, se voi abitaste da questa parte io sarei un assassino, e sarebbe ingiusto uccidervi in questo modo. Ma dal momento che vivete dall'altra parte io sono un valoroso e ciò che faccio è giusto.

48

Il buon senso.

Essi sono costretti a dire: «Voi non siete in buona fede, noi non stiamo dormendo, ecc.». Che piacere provo nel vedere la superba ragione umiliata e in suppliche! Perché non parla così un uomo a cui si contesti il suo buon diritto, e che lo difenda con la forza, le armi in pugno. Non si diverte a dire che non si agisce in buona fede, ma punisce questa malafede con la forza.

III • MISERIA

 

49

Bassezza degli uomini che arrivano a sottomettersi alle bestie, fino ad adorarle.

50

Incostanza.

Le cose hanno diverse qualità e l'anima ha diverse inclinazioni, perché niente di ciò che si presenta all'anima è semplice, né l'anima si offre mai semplice ad alcun soggetto. Da ciò dipende la possibilità che una stessa cosa faccia piangere e ridere.

51

Incostanza.

L'uomo non è un organo che possa essere suonato come gli altri. È sì un organo, ma bizzarro, incostante, mutevole. Chi sa suonare solo quelli comuni non ne trarrà accordi. Bisogna sapere dove sono i [pedali].

52

Siamo così sventurati da non saper godere di una cosa se non a condizione di affliggerci nel caso riesca male, ciò può essere causato da infinite cose e capita continuamente. [Chi] trovasse il modo di rallegrarsi del bene senza affliggersi per il male contrario avrebbe fatto centro. È il movimento perpetuo.

53

Non è bene essere troppo liberi.

Non è bene soffrire di ogni bisogno.

54

La tirannia consiste in un desiderio universale di dominio fuori dal proprio ordine.

Diverse categorie di spiriti forti, belli, buoni, devoti, ciascuno dei quali regna nel proprio ambito, non altrove. Ma qualche volta s'incontrano, e quello forte si batte stupidamente con il bello, per decidere chi dei due sarà padrone dell'altro, perché il loro dominio è di natura diversa. Non possono intendersi. La loro colpa è di voler regnare dovunque. Nulla può riuscirvi, neppure la forza: essa infatti è impotente nel regno della conoscenza, riuscendo a imporsi solo sulle azioni esteriori.

Tirannia.

La tirannia consiste nel voler ottenere in un modo ciò che non si può ottenere che in un altro. Dobbiamo onori diversi ai diversi meriti, amore alla bellezza, timore alla forza, credito alla scienza.

È nostro dovere rendere quegli onori, ingiusto rifiutarli e ingiusto reclamarne degli altri.

Discorsi simili sono falsi e tirannici: «Sono bello, dunque mi si deve temere; sono forte, dunque mi si deve amare; sono...». Ma è altrettanto falso e tirannico dire: «Poiché non è forte, non lo stimerò. Non è sapiente, dunque non lo temerò».

55

Quando si deve decidere una guerra per ucciudere tanti uomini, sacrificando tanti Spagnoli alla morte, il giudizio spetta a un solo uomo, e per di più interessato; dovrebbe essere un terzo a giudicare, indifferente.

56

‹Ma forse questo argomento eccede la capacità della ragione. Esaminiamo dunque cosa essa ha escogitato in campi di sua competenza. Se c'è qualcosa dove il suo interesse avrebbe dovuto spingerla ad applicarsi di più, è la ricerca del bene supremo. Vediamo dunque in cosa l'hanno individuato queste anime sottili e dotate, e se sono d'accordo.

Uno dice che il bene supremo è la virtù, l'altro lo identifica nel piacere, un altro nel seguire la natura, un altro nella verità («felix qui potuit rerum cognoscere causas»), uno nella totale ignoranza, uno nell'indifferenza, altri nel resistere alle apparenze, uno nel non meravigliarsi di niente («nihil mirari prope res una quae possit facere et servare beatum»), i veri scettici nella loro atarassia, nel dubbio e nella perenne sospensione del giudizio, mentre altri, più saggi, dicono che non si può trovare, e neppure desiderare di trovarlo. Eccoci sistemati.›

Su cosa l'uomo fonderà l'economia del mondo che vuole governare? Forse sul capriccio dell'individuo? Che confusione! Sulla giustizia? La ignora. Se la conoscesse non avrebbe certo formulato questa massima, la più generale tra quelle umane: che ognuno segua i costumi del proprio paese. Lo splendore della vera equità avrebbe assoggettato tutti i popoli. E i legislatori avrebbero preso come modello questa giustizia immutabile, invece delle fantasie e dei capricci dei Persiani e dei Tedeschi. La si vedrebbe piantata in tutti gli stati del mondo e in tutti i tempi, mentre al contrario vediano che niente, giusto o ingiusto che sia, può evitare di mutare qualità mutando clima. Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza. Un meridiano diventa arbitro della verità. Bastano pochi anni di dominio e le leggi fondamentali mutano, il diritto ha le sue epoche, l'ingresso di Saturno nel Leone decide l'origine di un crimine. Bella giustizia, che ha per confine un corso d'acqua! Verità da questa parte dei Pirenei, errore dall'altra.

Ammettono che la giustizia non risiede nei costumi, ma nelle leggi naturali comuni a tutti i paesi. Se la temerarietà del caso che ha seminato le leggi umane ne avesse trovata almeno una che fosse universale, avrebbero ragione a sostenerla ad oltranza. Ma la cosa buffa è che la varietà dei capricci umani non ne ha reso possibile nessuna.

Il furto, l'incesto, l'uccisione dei figli e dei padri, non c'è nulla che non abbia il suo posto tra le azioni virtuose. Esiste qualcosa di più ridicolo del fatto che un uomo ha diritto di uccidermi perché vive dall'altra parte di un fiume e il suo sovrano è in lite con il mio, sebbene io non lo sia con lui?

È indubbio che ci siano leggi naturali, ma questa bella ragione corrotta ha corrotto ogni cosa. Nihil amplius nostrum est, quod nostrum dicimus artis est. Ex senatusconsultis et plebiscitis crimina exercentur. Ut olim vitiis sic nunc legibus laboramus.

Da questa confusione deriva che uno dice che l'essenza della giustizia è l'autorità del legislatore, l'altro il vantaggio del sovrano, un altro ancora la consuetudine del momento, ed è il parere più fondato. Secondo la pura ragione, nulla è giusto in sé, e col tempo tutto rovina. L'equità si risolve tutta nella consuetudine, per il solo fatto che questa viene accettata. È il fondamento mistico della sua autorità. Chi vuole ricondurla al suo principio la distrugge. Niente è più colpevole di quelle leggi che raddrizzano i torti. Chi obbedisce loro perché sono giuste, obbedisce a una giustizia immaginaria, non certo all'essenza della legge. Essa è tutta racchiusa in se stessa. È una legge, nulla di più. Chi vorrà esaminarne il fondamento scoprirà che esso è così debole e lieve che, se non è abituato a contemplare i prodigi dell'immaginazione umana, si stupirà che un'epoca le abbia tributato tanto sfarzo e rispetto. L'arte di contestare [e di] attentare agli stati si riduce a sovvertirne le consuetudini, analizzandone l'origine, per mettere in luce la loro mancanza di autorità e di giustizia. «Bisogna», si dice, «risalire alle primitive e fondamentali leggi dello stato, abolite da un'ingiusta consuetudine». È il modo più sicuro per distruggere tutto, davanti a questo criterio nessuna giustizia resisterà. Eppure il popolo presta facilmente ascolto a simili discorsi. Appena riconosce il giogo lo scuote, ma sono i potenti che approfitteranno della sua rovina e di quella dei curiosi che hanno indagato sulle consuetudini accettate. Questo è il motivo per cui il più saggio dei legislatori sosteneva che era necessario ingannare spesso gli uomini, nel loro stesso interesse, e un altro bravo politico: «Cum veritatem qua liberetur ignoret, expedit quod fallatur». Il popolo non deve accorgersi della verità dell'usurpazione che, iniziata un tempo senza ragione, è divenuta ragionevole. Bisogna che si guardi ad essa come autentica, eterna, e nasconderne gli inizi se non si vuole che in breve scompaia.

‹Dovendo esaminare se questa bella filosofia, con un lavoro lungo e impegnativo, abbia raggiunto qualche certezza, forse l'anima conoscerà se stessa. Ascoltiamo su questo soggetto i sapienti del mondo. Cosa hanno detto della sua sostanza?

395.

Sono stati forse più fortunati a trovarle una sistemazione?

395.

Cosa hanno scoperto sulle sue origini, sulla sua durata e sulla sua dipartita?

399.

L'anima è dunque un soggetto ancora troppo nobile per le sue deboli capacità? Riduciamola dunque a materia. Vediamo se sa di cosa è fatto il corpo che anima, e gli altri che osserva e muove a suo piacimento. Cosa ne hanno saputo questi grandi dogmatici, che non ignorano niente?

393.

«Harum sententiarum».

Ciò sarebbe sufficiente se la ragione fosse ragionevole. Lo è abbastanza per confessare di non aver ancora trovato niente di fermo, ma non dispera ancora d'arrivarci. Al contrario, è più determinata che mai in questa ricerca, ed è sicura di avere in sé le forze necessarie per una simile conquista.

Bisogna dunque darle il colpo di grazia, e dopo aver esaminato le sue facoltà nei loro effetti, esaminiamole in loro stesse. Vediamo se ha forze e prese capaci di afferrare la verità.›

57

Giustizia.

Come la moda decide dei gusti, così decide della giustizia.

58

Chi avesse avuto l'amicizia del re d'Inghilterra, del re di Polonia e della regina di Svezia, avrebbe mai temuto di mancare di protezione e di asilo nel mondo?

59

La gloria.

L'ammirazione guasta tutto fin dall'infanzia. «Oh, come è ben detto! Oh come ha fatto bene, come è saggio, ecc.».

I ragazzi di Port-Royal, ai quali non viene dato lo stimolo dell'ambizione e della gloria, cadono nell'indolenza.

60

Mio, tuo.

«Questo cane è mio», dicevano quei poveri ragazzi. «Quello è il mio posto al sole». Ecco l'inizio e l'immagine del possesso di tutta la terra.

61

Diversità.

La teologia è una scienza, ma di quante scienze è composta? Un uomo è una sostanza, ma se lo anatomizziamo cosa diventerà? La testa, il cuore, lo stomaco, le vene, ciascun elemento della vena, il sangue, da ciascun umore del sangue.

Una città, una campagna, da lontano sono una città e una campagna, ma quanto più ci avviciniamo, sono case, alberi, tegole, foglie, erba, formiche, zampe di formiche, e via all'infinito. Tutto ciò è racchiuso sotto il nome di campagna.

62

Ingiustizia.

È pericoloso dire al popolo che le leggi non sono giuste, perché obbedisce proprio per il fatto che le crede giuste. Perciò bisogna dirgli al tempo stesso che deve obbedire loro perché sono leggi, così come deve obbedire ai superiori non perché sono giusti, ma perché sono superiori. In questo modo si prevengono le rivolte, se solo si riesce a far capire che questa è la definizione di giustizia.

63

Ingiustizia.

La giurisdizione non è fatta per chi la esercita, ma per chi vi è sottoposto: è pericoloso dirlo al popolo, ma il popolo ha troppa fiducia in voi; questo non gli nuocerà, anzi può servirvi. Bisogna dunque renderlo pubblico. «Pasce oves meas non tuas». Voi mi dovete cibo.

64

Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita dall'eternità che la precede e da quella che la segue («memoria hospitis unius diei praetereuntis»), il piccolo spazio che occupo e che vedo, inabissato nell'infinita immensità di spazi che ignoro e che mi ignorano, mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non c'è motivo che sia qui piuttosto che là, ora piuttosto che un tempo. Chi mi ci ha messo? Per ordine e volontà di chi questo luogo e questo tempo sono stati destinati a me?

65

Miseria.

Giobbe e Salomone.

66

Se la nostra condizione fosse veramente felice, non ci sarebbe bisogno di fare di tutto per non pensarci.

67

Contraddizione.

Orgoglio che bilancia tutte le miserie: o nasconde le miserie, oppure, se le scopre, si gloria di conoscerle.

68

Bisogna conoscere se stessi. Anche se questo non servisse a trovare la verità, servirebbe a regolare la propria vita, e non c'è nulla di più giusto.

69

L'incostanza è causata dalla consapevolezza della falsità dei piaceri presenti, e dall'ignoranza di quelli assenti.

70

Ingiustizia.

Non hanno trovato altro modo per soddisfare la propria concupiscenza senza fare torto agli altri.

71

L'Ecclesiaste mostra che l'uomo senza Dio vive nell'ignoranza di tutto e in un'inevitabile infelicità, perché volere e non potere significa essere infelici. Ora, l'uomo vuole essere felice e sicuro di qualche verità. Ma non può sapere, né fare a meno del desiderio di sapere. Non può neppure dubitare.

IV • NOIA E QUALITÀ ESSENZIALI DELL'UOMO

 

72

Orgoglio.

Spesso la curiosità non è che vanità; si vuole sapere per poterne parlare; diversamente non si viaggerebbe certo sul mare per non dirne mai nulla e per il solo piacere di vedere, senza speranza di riferirne mai a qualcuno.

73

Descrizione dell'uomo.

Dipendenza, desiderio d'indipendenza, bisogni.

74

Il desiderio che proviamo di abbandonare le occupazioni a cui siamo attaccati. Un uomo vive piacevolmente nella sua famiglia; basta che veda una donna che gli piace e si diverta cinque o sei giorni, ecco che, quando torna alla sua prima occupazione, si sente miserabile. Niente di più comune di tutto ciò.

V • RAGIONI DEGLI EFFETTI

 

75

Deferenza significa: «Scomodatevi».

In apparenza si tratta di una cosa vana, ma è molto giusta, perché vuol dire: «Mi scomoderei certamente se ne aveste bisogno, dal momento che lo faccio senza che ciò vi serva», e inoltre la deferenza esiste per distinguere i nobili. Ora, se deferenza significasse rimanere in poltrona, tutti ne godrebbero e così nessuno verrebbe onorato. Scomodandosi ben si sottolinea una differenza.

76

Le sole regole universali sono le leggi del paese riguardanti le cose ordinarie e l'opinione della maggioranza nelle altre. Quale ne è la causa? La forza.

E da ciò deriva che i re, i quali traggono la forza altrove, non siano soggetti alla maggioranza dei loro ministri.

L'uguaglianza dei beni è certamente giusta ma...

L'impossibilità di costringere ad obbedire alla giustizia ha comportato che si ritenesse giusto obbedire alla costrizione. Non potento rendere costrittiva la giustizia, si è resa giusta la costrizione, così che il giusto e il forte coincidessero in nome della pace, che è il bene supremo.

La saggezza ci rimanda all'infanzia: «Nisi efficiamini sicut parvuli».

77

‹Cartesio.

Approssimativamente si può dire: «Ciò avviene secondo figura e movimento», ed è vero. Ma dire quali e ricostruire la macchina, questo è ridicolo perché inutile, incerto e faticoso. Ma anche quando fosse vero, penso che tutta quanta la filosofia non valga un'ora di pena.›

La gente giudica bene le cose, perché si trova in quell'ignoranza naturale che è la vera condizione umana. Le scienze hanno due estremità che si toccano, la prima è la pura ignoranza naturale, in cui si trovano tutti gli uomini nascendo, l'altra è quella a cui arrivano le anime grandi che, dopo aver attraversato tutto ciò che gli uomini possono sapere, si accorgono di non sapere nulla, ritrovandosi in quella medesima ignoranza da cui erano partiti, ma questa ignoranza consapevole è una forma di saggezza. Quelli che trovandosi tra i due estremi sono usciti dall'ignoranza naturale ma non hanno saputo arrivare all'altra, hanno qualche infarinatura di questa pseudoscienza e si danno delle arie. Sono loro che turbano il mondo e giudicano male di tutto.

Il popolo e i dotti mandano avanti il mondo; quelli invece lo disprezzano e sono disprezzati. Essi giudicano male tutte le cose, ma il mondo giudica bene.

78

«Summum jus, summa injuria».

La maggioranza è la via migliore perché è visibile e ha la forza di farsi obbedire. Tuttavia è l'opinione dei meno competenti.

Se fosse stato possibile, si sarebbe messa la forza nelle mani della giustizia. Ma poiché la forza non si lascia maneggiare come si vuole, essendo una qualità concreta mentre la giustizia è una qualità spirituale di cui si dispone a piacimento, si è messa quest'ultima tra le mani della forza e così chiamiamo giusto ciò che è necessario rispettare.

Da ciò viene il diritto di spada, perché la spada conferisce un autentico diritto.

Diversamente ci sarebbe la violenza da una parte e la giustizia dall'altra. Fine della 12a Provinciale.

Da qui l'ingiustizia della Fronda, che solleva contro la forza la sua pretesa giustizia.

Niente di tutto ciò nella Chiesa, perché qui c'è una giustizia autentica senza nessuna violenza.

79

Veri juris, non ne abbiamo più. Se ne avessimo, non prenderemmo come modello di giustizia la regola di seguire le consuetudini del proprio paese.

Così, non sapendo di trovare il giusto, si è trovata la forza, ecc.

80

Il cancelliere è grave e rivestito d'orpelli, perché il suo posto è illusorio, non così il re. Egli ha la forza, non gli serve l'immaginazione. Giudici, medici, ecc. hanno solo l'immaginazione.

81

È l'effetto della forza, non dell'abitudine, perché quelli che sono capaci d'inventare sono rari. Quelli che sono più forti perché sono in maggioranza non vogliono che accodarsi, e rifiutano la gloria agli inventori che la cercano grazie alle loro scoperte, e se si ostinano a volerla ottenere e a disprezzare coloro che non hanno inventiva, li metteranno in ridicolo, li prenderanno a colpi di bastone. Non ci si vanti dunque di queste sottigliezze, o ci si rallegri nel proprio intimo.

82

Ragione degli effetti.

Questo è notevole: si vorrebbe che io non rendessi onore a un uomo vestito di broccato e seguito da sette o otto lacchè. Ma come! Se non m'inchino mi farà battere. L'abito è un segno della sua forza. È la stessa cosa di un cavallo ben bardato rispetto a un altro! Montaigne è sciocco a non vederne la differenza, a stupirsi che se ne trovi una e a chiederne ragione: «In verità», dice, «da dove viene, ecc.».

83

Ragione degli effetti.

Gradazione. Il popolo onora le persone di origine nobile; gli pseudo dotti li disprezzano sostenendo che la nascita non è un merito dell'individuo ma del caso. I dotti li onorano, non per gli stessi motivi del popolo, ma con un'altra intenzione. I devoti, che hanno più zelo che scienza, li disprezzano malgrado le considerazioni che li fanno onorare dai dotti, perché giudicano sulla base di una comprensione nuova data loro dalla pietà; ma i perfetti cristiani li onorano a causa di una comprensione superiore.

Così le opinioni favorevoli e contrarie si alternano a secondo del grado di comprensione.

84

Ragione degli effetti.

Bisogna avere un pensiero nascosto, e con questo giudicare di tutto, continuando a parlare tuttavia come il popolo.

85

Ragione degli effetti.

Dunque è giusto affermare che tutti si trovano nell'illusione, infatti per quanto le opinioni del popolo siano sane, esse non lo sono nella sua testa, perché ritiene che la verità si trovi dove non c'è. Nelle sue opinioni c'è senz'altro la verità, ma non lì dove crede. È vero che bisogna rendere omaggio ai nobili, ma non perché la nascita sia davvero un merito, ecc.

86

Ragione degli effetti.

Ribaltamento continuo a favore e contro.

Abbiamo dunque mostrato come per l'apprezzamento di cose inessenziali l'uomo sia vano. Tutte queste opinioni sono distrutte.

In seguito abbiamo mostrato che tutte queste opinioni sono sanissime e che il popolo, essendo tutte queste cose vane ben fondate, non è così vano come si dice. Abbiamo distrutto l'opinione che distruggeva quella del popolo.

Ma ora dobbiamo distruggere quest'ultima affermazione, e mostrare che rimane vero che il popolo è vano, benché le sue opinioni siano sane, perché non coglie la verità dove si trova e quindi, mettendola dove non è, le sue opinioni sono sempre del tutto false e malsane.

87

Opinioni sane del popolo.

Il male più grande sono le guerre civili. Esse vanno bene se si vogliono ricompensare i meriti, perché tutti diranno di averne. Il male che si deve temere in seguito alla successione di uno stupido per diritto di nascita, non è così grande, né così certo.

88

Opinioni sane del popolo.

Vestirsi in modo elegante non è troppo vano, significa mostrare che c'è un gran numero di persone che lavorano per noi, mostrare con la propria capigliatura che abbiamo un cameriere, un profumiere, ecc., con il proprio colletto, il filo, la passamaneria, ecc. Disporre di molte braccia non è una semplice superficie, una semplice bardatura.

Più braccia si hanno, più si è forti. L'eleganza rivela la propria forza.

89

Ragione degli effetti.

La debolezza umana è la causa di molte bellezze convenzionali, così saper suonare bene il liuto è una mancanza, in chi non è capace, solo a causa della nostra debolezza.

90

Ragione degli effetti.

La concupiscenza e la forza sono le fonti di tutte le nostre azioni. La concupiscenza genera quelle volontarie, la forza quelle involontarie.

91

Qual è il motivo per cui uno zoppo non ci irrita, ma uno spirito azzoppato sì? Il fatto è che uno zoppo riconosce che noi camminiamo diritti, mentre uno spirito azzoppato dice che gli zoppi siamo noi. Se non fosse per questo proveremmo pietà invece di collera.

Epitteto domanda con molta più forza: «Perché quando ci dicono che abbiamo mal di testa non andiamo in collera, ma questo accade se ci dicono che ragioniamo male o facciamo scelte sbagliate?».

Il fatto è che noi siamo assolutamente sicuri di non aver male alla testa e di non essere zoppi, ma non siamo così certi di scegliere il vero, così che potendoci fidare solo di ciò che vediamo, quando un altro vede il contrario, questo ci mette in ansia e ci stupisce. E ancor di più se molti altri si prendono gioco della nostra scelta, perché dobbiamo anteporre la nostra intelligenza a quella di tanti altri, e ciò è cosa audace e difficile. I sensi che si accertano di uno zoppo non cadono mai in una simile contraddizione.

L'uomo è fatto in modo tale che a forza di dirgli che è uno stupido, ci crede; e ciò accade anche a forza di ripeterlo a se stessi, perché l'uomo è capace di una conversazione interiore che è opportuno saper regolare. «Corrumpunt bonos mores colloquia prava». Per quanto è possibile dobbiamo rimanere in silenzio e riflettere solo su Dio, che sappiamo essere la verità; e così ci si convince.

92

Ragione degli effetti.

Epitteto. Quelli che dicono: «Voi avete il mal di testa», non è lo stesso. Si è sicuri della salute, non della giustizia, e in effetti la sua era una battuta.

Pensava tuttavia di poterla dimostrare distinguendo quello che è in nostro potere da quello che non lo è.

Non si accorgeva che non è in nostro potere controllare il cuore, e aveva torto di dedurlo dal fatto che c'erano dei cristiani.

93

Il popolo ragiona in modo molto sano. Per esempio:

1. aver scelto il divertimento e la caccia piuttosto che un assedio. Gli pseudo dotti lo deridono e proprio da questo traggono la conferma della follia del mondo. Ma, per un motivo che non afferrano, il popolo ha ragione.

2. aver distinto gli uomini in base ai segni esteriori, come la nobiltà o i beni. Anche qui si ha buon gioco a mostrare l'irrazionalità del fatto. Che invece è ragionevolissimo. I cannibali ridono di un re fanciullo.

3. sentirsi offeso da uno schiaffo, o desiderare molto la gloria, anche se ciò è certamente auspicabile a causa di altri beni essenziali che vi sono connessi. E chi ha ricevuto uno schiaffo senza risentirsene viene oppresso da ingiurie e sventure.

4. lavorare per l'incerto, mettersi in mare, camminare su un'asse.

94

Giustizia, forza.

È giusto seguire chi è giusto; è necessario seguire il più forte.

La giustizia senza forza è impotente; la forza senza la giustizia è tirannica.

La giustizia senza forza viene contestata, perché ci saranno sempre dei malvagi. La forza senza giustizia è messa sotto accusa. Bisogna dunque mettere insieme la giustizia e la forza, e con ciò rendere forte quello che è giusto e giusto quello che è forte.

La giustizia è soggetta a discussione. La forza è facilmente riconoscibile e non può essere discussa. Così non si è potuto dare forza alla giustizia perché la forza ha contraddetto la giustizia, sostenendo che era ingiusta, e che solo lei era giusta.

Così, non riuscendo a rendere forte ciò che è giusto, si è reso giusto ciò che è forte.

95

La nobiltà è davvero un gran vantaggio se mette in condizione un uomo di diciotto anni di essere conosciuto e rispettato come un altro potrebbe esserlo solo a cinquanta. Trent'anni guadagnati senza fatica.

VI • LA GRANDEZZA

 

96

Se un animale facesse per intelligenza ciò che fa per istinto, e se parlasse con intelligenza, invece di esprimersi istintivamente, quando va a caccia e deve avvertire i suoi simili che ha trovato la preda o l'ha persa, parlerebbe anche di cose che gli interessano di più, come dire: «Rosicchiate questo laccio che mi ferisce e che non riesco a raggiungere».

97

Grandezza.

Le ragioni degli effetti rivelano la grandezza dell'uomo, la sua capacità di aver tratto dalla concupiscenza un ordine così bello.

98

Il becco che il pappagallo strofina benché sia pulito.

99

Chi dentro di noi prova piacere? La mano forse, il braccio, la carne, il sangue? Deve essere necessariamente qualcosa d'immateriale.

100

Contro lo scetticismo.

Noi supponiamo che tutti le concepiamo allo stesso modo. Ma è una supposizione del tutto gratuita perché non ne abbiamo alcuna prova. Vedo bene che usiamo queste parole nelle medesime circostanze, e che ogni volta che due uomini vedono un corpo cambiare posto, esprimono entrambi l'immagine di questo oggetto con la stessa parola, e l'uno e l'altro dicono che si è mosso, e da questa applicazione costante se ne ricava l'invincibile congettura di una conformità d'idee, ma ciò non è assolutamente convincente, di una certezza ultima, anche se ci si può scommettere, perché si sa che spesso si ottengono le stesse conseguenze da supposizioni diverse.

Questo è sufficiente per imbrogliare almeno la materia, anche se ciò non cancella del tutto l'evidenza naturale che ci assicura dell'esistenza delle cose. Gli accademici avrebbero partita vinta, ma ciò la offusca e turba i dogmatici, per la gloria della cabala scettica che si riduce a questa ambigua ambiguità, e a una certa oscurità dubbiosa, da cui i nostri dubbi non possono togliere ogni chiarezza, né la nostra intelligenza può cacciare ogni tenebra.

101

Noi conosciamo la verità non solo con la ragione ma anche con il cuore. È in quest'ultimo modo che conosciamo i primi princìpi, e invano il ragionamento, che non vi svolge alcun ruolo, cerca di opporvisi. Gli scettici, che non hanno altro scopo, ci provano inutilmente. Sappiamo di non sognare, per quanto ci sia impossibile dimostrarlo con la ragione; questa impossibilità significa che la nostra ragione è debole, non che tutte le nostre conoscenze sono incerte, come essi pretendono. Perché la conoscenza dei primi princìpi, come l'esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri, è salda come nessuna di quelle che ci danno i ragionamenti, ed è su queste conoscenze del cuore e dell'istinto che la ragione deve appoggiarsi, fondandovi ogni suo ragionamento. Il cuore sente che lo spazio ha tre dimensioni e che i numeri sono infiniti, la ragione dimostra in seguito che non esistono due numeri quadrati uno dei quali sia doppio dell'altro. I princìpi si sentono, le preposizioni si deducono, e in entrambi i casi con certezza, sebbene per vie diverse. Ed è inutile e ridicolo che la ragione domandi al cuore le prove di quei primi princìpi per voler dare il suo assenso, così come sarebbe ridicolo che il cuore domandasse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che dimostra di volerle accettare.

Questa impossibilità non deve servire dunque che a umiliare la ragione, che vorrebbe giudicare di tutto, non a negare la certezza, come se non ci fosse che la ragione capace di istruirci. Volesse Dio, al contrario, che non ne avessimo mai bisogno, e che noi conoscessimo ogni cosa con l'istinto e il sentimento! Ma la natura ci ha rifiutato questo bene; al contrario non ci ha dato che pochissime conoscenze di questo tipo; tutte le altre non possono essere acquisite che per mezzo del ragionamento.

Questo è il motivo per cui quelli a cui Dio ha dato la religione per sentimento del cuore sono ben fortunati e ben legittimamente persuasi; ma a quelli che non l'hanno, noi possiamo darla solo per ragionamento, in attesa che Dio la doni loro per il sentimento del cuore, senza di che la fede non è che un fatto umano e inutile per la salvezza.

102

Posso ben concepire un uomo senza mani, piedi, testa, perché solo l'esperienza ci insegna che la testa è più necessaria dei piedi. Ma non posso concepire l'uomo senza pensiero. Sarebbe una pietra o un bruto.

103

Istinto e ragione, segni di due nature.

104

Canna pensante.

Non è nello spazio che devo cercare la mia dignità, ma nell'ordine dei miei pensieri. Non avrei alcuna superiorità possedendo terre. Nello spazio, l'universo mi comprende e m'inghiotte come un punto; nel pensiero, io lo comprendo.

105

Ciò che fa grande la grandezza umana è che si riconosce miserabile; un albero non si riconosce miserabile.

Riconoscersi miserabili significa dunque essere miserabili, ma riconoscersi miserabili significa essere grandi.

106

Immaterialità dell'anima.

Quale materia ha potuto far sì che i filosofi domassero le loro passioni?

107

Anche tutte quelle miserie provano la sua grandezza. Sono miserie da gran signore, miserie di un re spodestato.

108

La grandezza dell'uomo.

La grandezza dell'uomo è così evidente che si ricava perfino dalla sua miseria, perché quello che per gli animali è la natura, nell'uomo lo chiamiamo miseria; da ciò riconosciamo che, se oggi la sua natura è simile a quella degli animali, egli è decaduto da una natura migliore che un tempo era la sua.

E in effetti chi può lamentarsi di non essere un re se non un re spodestato? Paolo Emilio era forse considerato infelice perché non era un console? Al contrario tutti ritenevano che egli fosse felice di esserlo stato, dal momento che la sua condizione non era di esserlo sempre. Ma Perseo era ritenuto così infelice di non essere più re, dal momento che la sua condizione comportava di esserlo sempre, che si trovava strano sopportasse ancora la vita. Chi si ritiene infelice di non avere che una bocca, e chi non si riterrebbe infelice di avere un occhio solo? A nessuno forse è mai venuto in mente di affliggersi per non avere tre occhi, ma chi non ne ha è inconsolabile.

109

Grandezza dell'uomo fin nella concupiscenza, per averne ricavato un ordine ammirevole e averne fatto un'immagine della carità.

VII • CONTRADDIZIONI

 

110

Contraddizioni.

Dopo aver mostrato la bassezza e la grandezza dell'uomo.

Che ora l'uomo si stimi per quello che vale. Che si ami, perché c'è in lui una natura capace di bene; ma che non per questo ami le bassezze che vi sono in essa. Che si diprezzi, perché questa capacità è vuota; ma non per questo disprezzi questa originaria capacità. Che si odii, che si ami: ha in sé la capacità di conoscere la verità e di essere felice; ma non possiede la verità, né in modo costante, né soddisfacente.

Per questo vorrei portare l'uomo a desiderare di trovarla, a essere pronto e libero dalle passioni, per seguirla dove l'avrà trovata, consapevole di come le passioni hanno offuscato la conoscenza; vorrei che odiasse davvero la concupiscenza che ha in sé e che lo muove, così da impedirle di accecarlo quando deve fare la sua scelta, e di fermarlo quando avrà scelto.

111

La nostra presunzione è tale che vorremmo essere conosciuti dal mondo intero e anche da quelli che verranno quando non ci saremo più. Ma siamo così vani che la stima di cinque o sei persone attorno a noi ci fa piacere e ci soddisfa.

112

È pericoloso esagerare nel far credere all'uomo quanto è uguale agli animali, senza mostrargli la sua grandezza. Ed è pericoloso anche fargli vedere la sua grandezza senza la bassezza. Ma è ancora più pericoloso lasciargli ignorare sia l'una che l'altra, mentre è utile ricordargliele entrambe.

L'uomo non deve credere di essere come le bestie, né come gli angeli, non deve ignorare le due cose, ma conoscerle.

113

A P.R.

Grandezza e miseria.

Poiché la miseria si deduce dalla grandezza e la grandezza dalla miseria, alcuni hanno affermato la miseria quanto più hanno preso come prova la grandezza, altri hanno affermato la grandezza con tanta più forza in quanto l'hanno dedotta dalla miseria stessa. Tutto quello che gli uni hanno potuto dire per mostrare la grandezza è servito agli altri come argomento per dedurre la miseria, perché quanto più si cade dall'alto, tanto più si è miserabili, mentre per gli altri è il contrario. Si sono rincorsi l'un l'altro in un cerchio senza fine, essendo certo che nella misura in cui gli uomini posseggono la ragione, essi trovano nell'uomo miseria e grandezza. In una parola: l'uomo sa di essere miserabile. Egli è dunque miserabile, poiché lo è, ma dal momento in cui lo sa è davvero grande.

114

Contraddizione, disprezzo del nostro essere, morire per nulla, odio del nostro essere.

115

Contraddizioni.

L'uomo è per natura credulo, incredulo, pauroso, temerario.

116

Cosa sono i nostri princìpi naturali se non i princìpi dell'abitudine? E nei bambini quelli che hanno ricevuto dalle consuetudini dei loro padri, come l'istinto della caccia negli animali.

Una diversa abitudine darà altri princìpi naturali. Ce lo dice l'esperienza. E se ce ne sono di quelli che l'abitudine non può cancellare, ce ne sono anche di quelli contro natura dovuti all'abitudine, e che né la natura né un'altra abitudine riescono a cancellare. Ciò dipende dall'inclinazione.

117

I padri temono che l'amore naturale dei figli si cancelli. Che tipo di natura è dunque questa soggetta a essere cancellata?

L'abitudine è una seconda natura che distrugge la prima. Ma cosa significa natura? Temo fortemente che la natura non sia che un'abitudine originaria, così come l'abitudine non è che una seconda natura.

118

Si può considerare la natura umana sotto due profili: secondo il fine, e allora è grande e incomparabile; secondo la media, come quando giudichiamo la natura del cavallo e del cane per il fatto di vedere la corsa e l'animum arcendi, e allora l'uomo è abbietto e vile. Ecco i due modi con cui si può giudicarlo diversamente e che tanto fanno disputare i filosofi.

Uno nega il presupposto dell'altro. Uno dice: «Non è fatto per quel fine, perché tutte le sue azioni vi ripugnano». L'altro: «Quando compie azioni così basse si allontana dal suo fine».

119

Due cose istruiscono l'uomo sulla sua natura: l'istinto e l'esperienza.

120

Mestiere.

Pensieri.

Tutto è uno, tutto è diverso.

Quante nature in quella umana! Quante professioni e tutto per caso! Di solito ciascuno sceglie ciò che ha sentito lodare.

Tacco ben lavorato.

121

Se si vanta, l'abbasso;

se si abbassa, lo vanto

e sempre lo contraddico

fino a fargli capire

che è un mostro incomprensibile.

122

Il principale punto di forza degli scettici, tralasciando cose meno importanti, sta nel fatto che non abbiamo alcuna certezza dei princìpi, al di fuori della fede e della rivelazione, tranne che li avvertiamo naturalmente in noi. Ma questo sentimento naturale non è una prova convincente della loro verità, non essendoci certezza fuori dalla fede se l'uomo sia stato creato da un Dio buono o da un demone cattivo o per caso, c'è da dubitare se questi princìpi, a seconda della nostra origine, siano veri, falsi o incerti.

Inoltre nessuno, al di fuori della fede, è sicuro di dormire o di essere sveglio, dal momento che durante il sonno siamo certi di essere svegli come quando lo siamo veramente. Crediamo di vedere gli spazi, le figure, i movimenti, sentiamo trascorrere il tempo, lo misuriamo, e infine agiamo come da svegli. Così che, passando metà della vita nel sonno, per nostra stessa ammissione o qualunque cosa ce ne sembri, noi non abbiamo alcuna idea della verità, essendo allora tutte le nostre percezioni illusorie. Chi sa se l'altra metà della vita, durante la quale crediamo di essere svegli, non sia un altro tipo di sonno, un po' diverso dal primo, da cui ci risvegliamo quando pensiamo di dormire?

‹E chi dubita che se si sognasse in compagnia e per caso i sogni concordassero, circostanza abbastanza comune, e si vivesse la veglia da soli, ciò in cui crediamo risulterebbe capovolto? E poi, come spesso si sogna di sognare, accumulando un sogno sull'altro, non potrebbe essere che questa metà della vita sia essa stessa un sogno su cui sono innestati gli altri, un sogno da cui ci risveglia la morte e durante il quale noi possediamo così poco i princìpi del vero e del bene quanto durante il sonno naturale? E i differenti pensieri che ci agitano non potrebbero forse essere illusioni simili allo scorrere del tempo, e ai vani fantasmi dei nostri sogni?›

Ecco le principali argomentazioni da una parte e dall'altra, tralascio quelle minori come i discorsi fatti dagli scettici contro le impressioni dovute all'abitudine, all'educazione, ai costumi dei diversi paesi e altre cose simili che, per quanto influenzino la maggior parte degli uomini comuni, che poi dogmatizzano a partire da questi vani fondamenti, vengono rovesciate dal più leggero soffio degli scettici. Non c'è che da scorrere i loro libri; se non si è già persuasi, lo si diventerà molto presto e forse anche troppo.

Per quanto riguarda i dogmatici mi limito al loro unico punto forte, vale a dire che, parlando in buona fede e con sincerità, è impossibile dubitare dei princìpi naturali.

A ciò gli scettici oppongono, in una parola, l'incertezza della nostra origine, che comporta quella della nostra natura. E i dogmatici, da che mondo è mondo, devono ancora rispondere.

Ecco la guerra aperta tra gli uomini, dove ciascuno deve prendere posizione e schierarsi necessariamente con il dogmatismo o con lo scetticismo. Chi crederà di restare neutrale sarà scettico per eccellenza. La neutralità è l'essenza di quella scuola. Chi non è contro di loro è comunque per loro; essi non sono a favore di se stessi, sono neutrali e indifferenti, incerti su tutto senza distinzione.

Cosa deve fare dunque l'uomo in queste condizioni?

Dubiterà di tutto? Sarà in dubbio se è sveglio, se lo pizzicano, se lo bruciano? Dubiterà di dubitare? Dubiterà di esistere? Non si può arrivare a tanto, e sono certo che non ci sono mai stati simili scettici perfetti. Ci pensa la natura a sorreggere la ragione impotente, impedendole di vaneggiare fino a questo punto.

Affermerà dunque al contrario di possedere certamente la verità, lui che, per poco lo si incalzi, non può mostrare alcuna garanzia ed è costretto a lasciare la presa?

Che chimera è dunque l'uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio? Giudice di tutte le cose, ottuso lombrico, depositario del vero, cloaca d'incertezza e d'errore, gloria e rifiuto dell'universo.

Chi sbroglierà questa matassa ‹Questo va al di là del dogmatismo e dello scetticismo, e di tutta la filosofia umana. L'uomo va al di là dell'uomo. Concediamo dunque agli scettici ciò che hanno tanto gridato, che la verità è fuori dalla nostra portata e dal nostro carniere, che non abita sulla terra, che ha famigliarità con il cielo, che vive in seno a Dio, e che non possiamo conoscerla se non nella misura che a lui piace rivelarla. Apprendiamo dunque la nostra vera natura dalla verità increata e incarnata.›

‹È impossibile, cercando la verità con la ragione, evitare una di queste tre scuole.›

‹Non si può essere scettici né accademici senza soffocare la natura, non si può essere dogmatci senza rinunciare alla ragione.›

La natura confonde gli scettici e la ragione confonde i dogmatici. Che sarà dunque di te, o uomo, che indaghi con la ragione naturale sulla tua autentica condizione? Non puoi sottrarti né fermarti in una di queste scuole.

Prendi atto, o superbo, di quale paradosso sei per te stesso. Umiliati, ragione impotente! Taci, debole natura, impara che l'uomo va infinitamente al di là dell'uomo, e ascolta dal tuo maestro qual è la tua vera condizione che ignori.

Ascoltate Dio.

Perché infine, se l'uomo non si fosse mai corrotto, godrebbe stabilmente nella sua innocenza della verità e della felicità. E se non fosse mai stato altro che corrotto, non avrebbe alcuna idea della verità né della beatitudine. Ma la nostra disgrazia consiste nel fatto che, più che se nella nostra condizione non ci fosse alcuna traccia di grandezza, noi abbiamo un'idea della felicità e non possiamo raggiungerla, percepiamo un'immagine della verità e non possediamo che la menzogna, incapaci di un'assoluta ignoranza e di un sapere certo, a tal punto è evidente che siamo stati a un livello di perfezione da cui purtroppo siamo decaduti.

‹Riconosciamo dunque che l'uomo è infinitamente al di là dell'uomo e che, senza il soccorso della fede, sarebbe incomprensibile a se stesso. Chi non vede come, senza la conoscenza di questa doppia condizione della nostra natura, rimarremmo invincibilmente ignoranti della nostra natura?›

È stupefacente, tuttavia, che il mistero più distante dalle nostre conoscenze, la trasmissione del peccato, sia una cosa senza la quale ci è impossibile qualsiasi conoscenza di noi stessi!

Perché senza dubbio non c'è niente che urti maggiormente la nostra ragione dell'affermazione che il peccato del primo uomo ha reso colpevoli coloro che, così lontani da questa origine, sembrano incapaci di avervi parte. Questa emanazione non solo ci sembra impossibile, ma anche molto ingiusta: perché cosa c'è di più contrario alle regole della nostra miserabile giustizia che condannare alla dannazione eterna un bambino incapace di volontà, per un peccato con cui sembra aver poco a che fare, dal momento che è stato commesso seimila anni prima che nascesse? Certamente non c'è nulla che ci urti più brutalmente di questa dottrina, eppure, senza questo mistero, il più incomprensibile di tutti, noi siamo incomprensibili a noi stessi. Il nodo della nostra condizione si piega e si avvolge in questo abisso. Così che l'uomo è più inconcepibile senza questo mistero di quanto questo mistero sia inconcepibile per l'uomo.

‹Da questo sembra che Dio, volendo rendere incomprensibile a noi stessi l'enigma della nostra natura, ne abbia occultata la soluzione ponendola così in alto, o meglio così in basso, da renderci incapaci di raggiungerla. Così che noi possiamo effettivamente conoscerci non con le gesta superbe della nostra ragione, ma con la sua umile sottomissione.

Le solide fondamenta stabilite sull'autorità inviolabile della religione ci fanno conoscere che ci sono due verità di fede egualmente ferme: una, che l'uomo nello stato in cui fu creato o in quello della grazia, è superiore a tutta la natura, reso simile a Dio e partecipe della divinità; l'altra, che nello stato della corruzione e del peccato, egli è decaduto e simile alle bestie. Queste due affermazioni sono ugualmente ferme e certe.

Anche la Scrittura le conferma in modo indiscutibile quando, in più passi dice: «deliciae meae esse cum filiis hominum», «effundam spiritum meum super omnem carnem», «dii estis», etc., e in altri: «omnis caro foenum», «Homo assimilatus est jumentis insipientibus et similis factus est illis», «dixi in corde meo de filiis hominum». Eccl. 3.›

VII • DIVERTIMENTO

 

123

Divertimento.

Se l'uomo fosse felice, tanto più lo sarebbe quanto meno fosse distratto da questa sua condizione, come i santi e Dio.

- Sì, ma la felicità non consiste forse proprio nei piaceri del divertimento?

- No, perché questi vengono da altri e da fuori; e così sono labili e soggetti ad essere turbati da infiniti accidenti, che rendono inevitabile l'afflizione.

124

Divertimento.

Poiché gli uomini non sono riusciti a guarire dalla morte, dalla miseria e dall'ignoranza, hanno deciso di essere felici non pensandoci.

Nonostante queste miserie l'uomo vuole essere felice e non vuole altro e non può non volerlo.

Ma cosa potrà fare? Bisognerebbe che diventasse immortale, ma non riuscendoci si è proibito di pensarvi.

125

Sento che potrei non essere esistito, l'io infatti coincide con il mio pensiero, dunque io che penso non sarei esistio se mia madre fosse stata uccisa prima di mettermi al mondo; dunque non sono un essere necessario. Non sono neppure eterno, né infinito, ma vedo bene che c'è nella natura un essere necessario, eterno e infinito.

126

Divertimento.

Quelle volte in cui mi sono messo a considerare le diverse forme d'inquietudine degli uomini, i pericoli e i dolori a cui si espongono, a Corte, in guerra, e da cui sorgono tante liti, passioni, imprese audaci e spesso malvagie, mi sono detto che tutta l'infelicità degli uomini viene da una sola cosa, non sapersene stare in pace in una camera. Un uomo che abbia abbastanza da vivere, se provasse piacere a restare in casa, non ne uscirebbe certo per andare in mare o all'assedio di una cittadella; e se non trovasse insopportabile rimanere in città, mai più si comprerebbe a caro prezzo una carica nell'esercito; e si cercano le conversazioni e gli svaghi del gioco perché non si sa rimanere piacevolmente a casa.

Ma quando, avendoci riflettuto maggiormente, ho trovato la causa di tutte le nostre disgrazie, ho pensato che ce n'è una davvero autentica, che consiste nell'infelicità naturale della nostra condizione debole, mortale e così miserabile che niente ci può consolare quando ci pensiamo seriamente.

Qualunque condizione possiamo immaginare, che contenga tutti i beni possibili, la regalità rimane il più bel posto del mondo, e tuttavia immaginiamo un re circondato da tutti i piaceri che può ottenere. Appena cessa ogni distrazione, lasciato a meditare e riflettere su ciò che è, tutta la sua fragile felicità non servirà a sostenerlo; cadrà necessariamente nei minacciosi pensieri delle rivolte che possono sopraggiungere, e infine della morte e delle inevitabili malattie, così che se rimane senza quello che chiamiamo divertimento, eccolo infelice, anzi più infelice dell'ultimo dei suoi sudditi che giochi e si diverta. H.

Da ciò deriva che il gioco e la conversazione con le donne, la guerra, gli incarichi importanti, sono così ricercati. Non certo perché racchiudano la felicità, né perché si pensi che la vera beatitudine consista nell'avere il denaro che si può vincere al gioco, o nella lepre che s'insegue; le stesse cose, se ce le offrissero, non le vorremmo. Non cerchiamo certo questa pratica esangue e monotona, che ci lascia pensare alla nostra infelice condizione, né i pericoli della guerra, né le seccature degli incarichi, ma la confusione che ci allontana dal pensarvi e ci distrae.

Ecco perché gli uomini amano tanto il rumore e il trambusto. Ecco perché la prigione è un supplizio così orribile, e il piacere della solitudine una cosa incomprensibile. E infine, il motivo più grande per cui la condizione dei re è una condizione felice, sta nel fatto che si tenta incessantemente di divertirli e di procurare loro ogni tipo di piacere.

Questo è tutto quello che gli uomini hanno saputo inventare per essere felici; e quelli che filosofeggiano su tutto ciò, dicendo che la gente è proprio priva di ragione se passa tutto il giorno a correre dietro a una lepre che non vorrebbe comprare, non conoscono affatto la natura umana. Non è la lepre a difenderci dai pensieri della morte e delle miserie che ci circondano, ma la caccia. A. E così, quando li si rimprovera di cercare con tanta foga ciò che non potrà appagarli, se rispondessero, come dovrebbero qualora ci riflettessero, che in tutto ciò cercano un'occupazione violenta e impetuosa che li allontani dal pensare a sé, e che è per questo che si prefiggono uno scopo attraente che li affascini e li seduca ardentemente, lascerebbero i loro avversari senza replica. Ma non è questo che rispondono, perché non conoscono se stessi. Non sanno di cercare la caccia e non la preda. Essi pensano che se ottenessero quella carica, in seguito si riposerebbero piacevolmente, senza accorgersi dell'insaziabile natura della loro cupidigia; credono in perfetta buona fede di cercare il riposo, mentre non inseguono che l'affanno. Obbediscono a un segreto istinto che li spinge a cercare fuori di sé il divertimento e l'occupazione, che viene dalla coscienza delle loro continue miserie. Ma c'è anche un altro istinto segreto, un ricordo della grandezza della nostra prima natura, che li rende consapevoli di come la felicità risieda nella quiete, non nel tumulto, e questi due istinti contrari formano in loro una prospettiva confusa, nascosta a loro stessi in fondo all'anima, che li spinge a perseguire il riposo tramite l'agitazione, e a illudersi ogni volta che l'appagamento che non conoscono arriverà quando, dopo aver superato le difficoltà di cui sono consapevoli, si apriranno loro le porte del riposo. Così scorre tutta la vita; si cerca la quiete affrontando gli ostacoli ma, quando li abbiamo superati, il riposo diventa insopportabile per la noia che procura; dobbiamo uscirne mendicando un po' di agitazione. Perché pensiamo sempre alle miserie presenti o a quelle che ci minacciano. E anche quando ci sapessimo abbastanza al sicuro da ogni parte, la noia, con la sua consueta autorità, non smetterebbe di uscire dal fondo del cuore dove ha radici naturali, colmando lo spirito di veleno. B

L'uomo è così infelice che per annoiarsi non ha bisogno di motivi, gli basta la condizione della sua natura. Ed è così fragile che pur essendo pieno di mille motivi validi per annoiarsi, è sufficiente una piccolissima cosa, come un biliardo e una palla, per distrarlo. Perché quell'uomo che da pochi mesi ha perso il suo unico figlio e che ancora questa mattina, preso da processi e litigi, era così turbato, ora non ci pensa più? Non vi stupite, è troppo intento a vedere da che parte passerà il cinghiale che i cani inseguono con tanta energia da sei ore: basta questo. Per quanto un uomo sia colmo di tristezza, se si riesce a distrarlo in qualche modo, eccolo felice in quel lasso di tempo; ma per quanto un uomo sia felice, se non si diverte o non è preso da qualche passione o passatempo che impedisca a la noia di prendere il sopravvento, diventerà in breve triste e infelice. Senza distrazioni non c'è gioia; con le distrazioni non c'è tristezza; ed è proprio questo che costituisce la felicità delle persone di elevata condizione, avere un gran numero di individui che le distraggono, e poter mantenere questa situazione.

Se ci pensate, cos'altro significa essere sovrintendente, cancelliere, primo presidente, se non trovarsi nella condizione in cui, fin dal mattino, c'è una quantità di gente che viene da ogni parte per non lasciare loro neppure un'ora in tutta la giornata per poter pensare a se stessi. E quando cadono in disgrazia e vengono rimandati alle loro case di campagna, dove certo non mancano di beni né di servitù per assisterli nelle loro necessità, non smettono un istante di sentirsi miserabili e abbandonati perché nessuno impedisce loro di pensare a se stessi.

127

Divertimento.

La dignità reale non è abbastanza grande per colui che la possiede da renderlo felice al solo pensiero di ciò che è? Sarà forse necessario distrarlo da questo pensiero come la gente comune? So bene che per rendere felice un uomo basta distrarlo dalle sue miserie famigliari e non farlo pensare ad altro che a danzare bene, ma sarà lo stesso con un re, e si sentirà più felice rincorrendo questi futili passatempi piuttosto che contemplando la propria grandezza? Quale scopo più gratificante gli si potrà indicare? Non sarà fare torto alla sua felicità spingere la sua anima a preoccuparsi di regolare i passi alla cadenza di una melodia, o di mettere al posto giusto una sbarra, invece di lasciargli godere tranquillamente lo spettacolo della gloriosa maestà che lo circonda? Proviamo, lasciamo un re completamente solo, senza alcuna soddisfazione per i sensi, senza alcuna preoccupazione nello spirito, senza compagnie, del tutto libero di pensare a se stesso, e si vedrà che un re privo di distrazioni non è che un uomo pieno di miserie. Perciò si evita questo accuratamente, e accanto alle persone della famiglia reale non manca mai chi si preoccupa di alternare i divertimenti agli affari di stato, e chi tiene conto del loro tempo libero per occuparlo con cose piacevoli e giochi, affinché non ci siano vuoti. Voglio dire che sono attorniati da persone che hanno l'eccezionale dovere di impedire che il re rimanga solo e in condizione di pensare a sé, ben sapendo che, per quanto sia re, pensandoci si sentirebbe miserabile.

Con tutto ciò non intendo parlare dei re cristiani come cristiani, ma solo come re.

128

Divertimento.

È più facile sopportare la morte senza pensarvi che il pensiero della morte senza pericolo.

129

Divertimento.

Fin dall'infanzia opprimiamo gli uomini con le preoccupazioni per il loro onore, i loro beni, i loro amici, e ancor più per i beni e l'onore dei loro amici, li opprimiamo con le preoccupazioni, con l'apprendimento delle lingue e gli esercizi, e facciamo loro credere che non potranno essere felici se la loro salute, l'onore, la fortuna, e quelle dei loro amici non saranno in buone condizioni, e che sarà sufficiente la mancanza di una sola cosa per renderli infelici. Così si danno loro incarichi e affari che li mettono in agitazione fin dall'alba.

- Ecco, direte, un modo ben strano per renderli felici; si potrebbe escogitare qualcosa di meglio per renderli infelici?

- Come, cosa si potrebbe escogitare? Basterebbe togliere loro tutte le preoccupazioni, perché allora si vedrebbero e penserebbero a ciò che sono, da dove vengono, dove vanno, e per questo non li si occupa e non li si distrae mai abbastanza. Per questo, dopo avergli preparato tante occupazioni, se resta loro qualche momento di tregua, li si consiglia di impiegarlo a divertirsi, a giocare, a impegnarsi sempre totalmente in qualcosa.

Com'è profondo il cuore dell'uomo e pieno di abiezione!

IX • FILOSOFI

 

130

Anche se Epitteto avesse visto perfettamente la via, egli dice agli uomini: «Voi ne seguite una falsa». Mostra che ce n'è un'altra, ma non ci porta ad essa. Che è quella di volere quello che vuole Dio. Solo Gesù Cristo ci conduce ad essa: «Via veritas».

I vizi dello stesso Zenone.

131

Filosofi.

Bella cosa gridare a un uomo che non conosce se stesso, di andare da solo a Dio. Ma bella cosa anche dirlo a un uomo che si conosce.

132

Filosofi.

Essi pensano che solo Dio è degno di essere amato e ammirato, ma hanno desiderato di essere amati e ammirati dagli uomini, senza accorgersi della loro corruzione. Se si sentono pieni di sentimenti per amarlo e adorarlo, e in ciò trovano la loro gioia principale, si stimino dunque buoni! Ma se trovano in sé ripugnanza per questo modo di fare, se la loro inclinazione consiste solo nel volersi assicurare la stima degli uomini, e se, come colmo della perfezione, mirano a che gli uomini, senza essere costretti, siano felici amandoli, definirei orribile questa perfezione. Come! Essi hanno conosciuto Dio e non si sono accontentati che gli uomini lo amassero, ma hanno desiderato che gli uomini si fermassere a loro. Hanno voluto essere il deliberato oggetto della felicità umana.

133

Filosofi.

Siamo pieno di cose che ci gettano fuori di noi.

L'istinto ci dice che dobbiamo cercare la felicità fuori di noi. Le passioni ci spingono fuori di noi, anche quando non ci fossero stimoli per eccitarle. Gli oggetti esterni ci tentano per se stessi e ci attirano anche quando non ci pensiamo. Hanno un bel dire i filosofi. «rientrate in voi stessi, lì troverete il vostro bene», nessuno crede loro, e quelli che ci credono sono i più vuoti e i più sciocchi.

134

La proposta degli stoici è così difficile e vana.

Dicono gli stoici: «Tutti coloro che non raggiungono il più alto grado di saggezza sono pazzi e viziosi allo stesso modo, come quelli che stanno due dita sott'acqua».

135

Le tre concupiscenze hanno generato tre scuole e i filosofi non fanno che seguire una di queste tre concupiscenze.

136

Stoici.

Essi ne deducono che ciò che possiamo fare qualche volta possiamo farlo sempre e che, poiché il desiderio di gloria permette a coloro che ne sono dominati di far qualcosa, anche gli altri lo potranno fare.

Sono sentimenti febbrili che chi è sano non può imitare.

Per Epitteto, che ci siano dei cirstiani fermi significa che tutti possono esserlo.

X • IL BENE SUPREMO

 

137

Il bene supremo.

Disputa sul bene supremo.

«Ut sis contentus temetipso et ex te nascentibus bonis».

Si contraddicono, perché alla fine consigliano di uccidersi.

Una vita davvero felice quella da cui ci si libera come dalla peste.

138

Seconda parte.

Come l'uomo senza la fede non possa conoscere il vero bene né la giustizia.

Tutti gli uomini cercano di essere felici. Per quanto i mezzi possano differire, ciò si verifica senza eccezione. Tutti tendono a questo fine. Chi va in guerra e chi non ci va sono spinti dallo stesso desiderio, anche se con idee diverse. La volontà non si muove di un passo se non in questa direzione. È la causa di tutte le azioni di tutti gli uomini, anche di quelli che vanno a impiccarsi.

E tuttavia, dopo tanto tempo, non c'è mai stato qualcuno che, senza la fede, abbia raggiunto quello che tutti vogliono continuamente. Tutti si lamentano, principi, sudditi, nobili, plebei, vecchi, giovani, forti, deboli, dotti, ignoranti, sani, malati, di ogni paese, in tutti i tempi, a ogni età e di tutte le condizioni.

Una testimonianza così prolungata, continua e uniforme dovrebbe assolutamente convincerci della nostra incapacità ad arrivare al bene con le sole nostre forze. Ma l'esempio ci è servito poco. Non ci sembra mai così perfettamente adeguato da escludere una sottile differenza, e proprio da questi ci ripromettiamo, in un caso e nell'altro, il soddisfacimento delle nostre attese; e così, con un presente che sempre ci delude, l'esperienza ci inganna, e di sventura in sventura ci conduce fino alla morte, che ne costituisce l'eterno suggello.

Cosa ci gridano dunque l'avidità e l'impotenza se non che un tempo nell'uomo c'è stata un'autentica felicità, di cui ora gli rimangono il segno e l'impronta vuota, che egli tenta invano di riempire con tutto quanto lo circonda, ripromettendosi dalle cose assenti l'aiuto che non ottiene da quelle presenti, ma invano, perché questo abisso infinito non può essere colmato che da un'infinita e immutabile realtà, cioè Dio stesso.

Solo lui è il suo vero bene. E da quando l'ha abbandonato è singolare che non vi sia nella natura niente capace di prenderne il posto, astri, cielo, terra, elementi, piante, cavoli, porri, animali, insetti, vitelli, serpenti, febbre, peste, guerra, carestia, vizi, adulterio, incesto. Da quando ha perso il vero bene, tutto gli può sembrare bene, anche la propria distruzione, benché contraria a Dio, alla ragione e alla natura insieme.

Alcuni lo cercano nell'autorità, altri nelle rarità e nelle scienze, altri nei piaceri.

Altri ancora, e vi si sono effettivamente più avvicinati, hanno riflettuto sulla circostanza che necessariamente questo bene universale, desiderato da tutti gli uomini, non deve risiedere in nessuna cosa particolare, che potrebbe essere posseduta da uno solo, o che, divisa tra molti, affliggerebbe i vari possessori per la parte di cui sarebbero privi, più che rallegrarli per quella in loro possesso. Essi hanno compreso che il bene autentico deve essere tale che tutti possano averlo senza diminuzione e senza invidia, e che nessuno possa perderlo contro la sua volontà; e la ragione è che, essendo questo desiderio connaturato all'uomo, poiché si trova necessariamente in tutti, e nessuno può non averlo, ne concludono...

XI • A P.R.

 

139

A P.R. Per domani.

[Appunti preparatori]

Prosopopea.

Inutilmente, uomini, cercate in voi stessi il rimedio alle vostre miserie. Tutta la vostra intelligenza può solo farvi capire che non troverete in voi né la verità né il bene.

I filosofi ve l'hanno promesso ma non hanno saputo farlo. Essi non conoscono qual è il vostro bene autentico, né qual è ‹la vostra autentica condizione. Io sola posso insegnarvi queste cose, e quale sia l'autentico bene, e questo insegno a coloro che mi ascoltano. I libri che ho messo tra le mani degli uomini sono molto chiari a tal proposito, ma non ho voluto che questo tipo di conoscenza fosse troppo evidente. Io insegno agli uomini ciò che può renderli felici. Perché rifiutate di ascoltarmi?›

‹Non cercate soddisfazione su questa terra, non sperate niente dagli uomini, il vostro bene si trova solo in Dio, e la suprema felicità consiste nel conoscere Dio, nell'unirsi a lui per sempre nell'eternità. Il vostro dovere sta nell'amarlo con tutto il cuore. Egli vi ha creato...› Come avrebbero potuto darvi dei rimedi per i vostri mali, se non sanno neppure quali sono? Le vostre malattie più gravi sono l'orgoglio, che vi allontana da Dio, la concupiscenza che vi tiene legati alla terra. Essi non fanno altro che alimentare una o l'altra di queste malattie. Se vi hanno dato Dio come scopo è stato solo per realizzare la vostra superbia; vi hanno fatto credere che eravate simili a lui e della stessa natura. Mentre quelli che si sono accorti di questa vana pretesa vi hanno spinto verso l'altro precipizio, facendovi credere che eravate della stessa natura delle bestie, e vi hanno convinto a cercare il bene in quelle concupiscenze che sono il dominio degli animali.

Non è certo questo il modo per guarire dalle ingiustizie che questi sapienti non hanno conosciuto. Solo io posso farvi comprendere chi siete...

Adamo, Gesù Cristo.

Se vi unite a Dio, ciò avviene per grazia, non per natura.

Se venite abbassati, ciò avviene per penitenza, non per natura.

Così questa duplice capacità.

La vostra condizione non è più quella di quando siete stati creati.

Una volta rivelate queste due condizioni, è impossibile che non le riconosciate.

Seguite le vostre azioni. Osservatevi e vedrete che scoprirete le tracce viventi di queste due nature.

Sarebbe possibile trovare in un soggetto semplice tante contraddizioni?

[Redazione definitiva]

Incomprensibile.

Che una cosa sia incomprensibile non implica che non esista. Il numero infinito, uno spazio infinito uguale al finito.

Inconcepibile che Dio si congiunga a noi.

Questa considerazione è ricavata dalla visione della nostra bassezza, ma se questa visione è davvero sincera, spingetevi fino in fondo come me, e riconoscete che siamo così in basso da risultare incapaci di conoscere con le nostre sole forze se la sua misericordia possa renderci capaci di lui. Perché vorrei sapere da dove questo animale che si riconosce così debole prende il diritto di misurare la misericordia di Dio, per porle i limiti che la sua fantasia gli suggerisce. Sa così poco cosa sia Dio, che non sa neppure cos'è egli stesso. E tutto turbato dalla visione della propria condizione, ha il coraggio di affermare che Dio non può renderlo capace di comunicare con lui. Ma vorrei domandargli se Dio gli chieda qualcos'altro oltre l'amarlo e conoscerlo, e come riesca a pensare che Dio non possa farsi oggetto di conoscenza e di amore per l'uomo, dal momento che l'uomo è per natura capace d'amore e di conoscenza. Ma allora, se dalle tenebre dove si trova, egli scorge qualcosa, e trova pur qualche soggetto d'amore in mezzo alle realtà terrene, perché, se Dio gli svela qualche raggio della sua essenza, non dovrebbe essere capace di conoscerlo e di amarlo, in quelle forme che a Dio parrà di comunicare con noi? C'è dunque in questa specie di ragionamenti un'intollerabile presunzione, per quanto essi sembrino fondarsi su un'apparente umiltà, che non è sincera né ragionevole, nella misura in cui c'impedisce di confessare che, incapaci di conoscere chi siamo, non possiamo apprenderlo che da Dio.

A P.R.

Inizio.

Dopo aver spiegato l'icomprensibilità.

La grandezza e la miseria dell'uomo sono così evidenti che è necessario che la vera religione ci ammaestri sull'esistenza di qualche grande principio della grandezza e della miseria umana.

È necessario anche che ci spieghi queste stupefacenti contraddizioni.

Per rendere felice l'uomo essa gli deve mostrare che c'è un Dio, che siamo obbligati ad amarlo, che la nostra vera felicità consiste nell'essere in lui e il nostro unico male nel rimanere separati da lui, che è consapevole delle tenebre di cui siamo pieni, tenebre che ci impediscono di conoscerlo e di amarlo. E che proprio per questo, poiché i nostri doveri ci obbligano ad amare Dio ma le nostre concupiscenze ce ne allontanano, siamo pieni d'ingiustizia. Ci deve spiegare questo rifiuto che noi proviamo nei confronti di Dio e del nostro bene. Ci deve insegnare i rimedi per questa incapacità e i mezzi per ottenere questi rimedi. Si esaminino su tutto ciò tutte le religioni del mondo e si veda se ce n'è una al di fuori di quella cristiana che soddisfi a queste esigenze.

Saranno forse i filosofi che come massimo bene ci propongono i beni che troviamo in noi? È forse questo il vero bene? Hanno trovato il rimedio per i nostri mali? Aver reso l'uomo uguale a Dio significa averlo guarito dalla sua presunzione? Quelli che ci fanno uguali alle bestie, o i musulmani, che non vedono altro bene al di fuori dei piaceri terreni, e questo perfino nella vita eterna, hanno posto rimedio alle nostre concupiscenze?

Quale religione c'insegnerà dunque a guarire dall'orgoglio e dalla concupiscenza? E quale religione infine c'insegnerà quale siano il nostro bene, i nostri doveri, le debolezze che ce ne distolgono, la causa di queste debolezze, i rimedi che le possono guarire e i mezzi per ottenere questi rimedi? Tutte le altre religioni non ci sono riuscite, vediamo quello che farà la sapienza di Dio.

«Non apettatevi o uomini», dice, «né verità né consolazione dagli uomini. Io sono quella che vi ha concepiti e l'unica che può dirvi chi siete. Ma ora non vi trovate nella condizione in cui vi avevo creato. Io ho fatto l'uomo santo, innocente, perfetto; io l'ho colmato di luce e d'intelligenza; io gli ho comunicato la mia gloria e i miei prodigi. Allora l'occhio dell'uomo vedeva la maestà di Dio. Non si trovava ancora nelle tenebre che lo accecano, e neppure nella mortalità e nelle miserie che lo affliggono. Ma egli non ha saputo sostenere tanta gloria senza cadere nella presunzione. Egli ha voluto farsi centro di se stesso, indipendente dal mio soccorso. Si è sottratto al mio dominio e poiché, desiderando di trovare in sé la propria felicità, si è voluto fare uguale a me, l'ho abbandonato a se stesso. Così, rivoltandogli contro le creature che gli erano sottomesse, gliele ho rese nemiche, e oggi l'uomo è divenuto simile alle bestie, e talmente lontano da me che a stento gli rimane un confuso barlume del suo autore, a tal punto è estinta o turbata ogni sua conoscenza. I sensi, indipendenti dalla ragione e spesso suoi padroni, l'hanno trascinato alla ricerca dei piaceri. Tutte le creature l'affliggono o lo tentano, e lo dominano imponendosi con la loro forza o seducendolo con le loro lusinghe, che sono una forma di dominio più terribile e ingiuriosa.

Ecco in quale condizione si trovano oggi gli uomini. Rimane loro qualche inutile conato di felicità della loro prima natura, ma sono immersi nelle miserie dell'accecamento e della concupiscenza, che è diventata la loro seconda natura.

Da questo principio che vi rivelo, potete riconoscere la causa di tante contraddizioni che hanno colpito tutti gli uomini, dividendoli in modi di sentire così diversi. Ma osservate ora tutti quei moti di grandezza e di gloria che la prova di tante miserie non ha potuto soffocare, e vedrete se la causa di ciò possa non risiedere in un'altra natura.

Con questo non voglio che vi sottomettiate a me senza ragione, né intendo assoggettarvi in modo tirannico. Neppure pretendo di spiegarvi ogni cosa. Per conciliare le contraddizioni voglio farvi vedere in modo chiaro, con prove convincenti, quei segni della divinità che sono in me, capaci di convincervi su ciò che sono, e conquistandomi autorità per mezzo di fatti meravigliosi e prove che non possiate rifiuatare, e che in seguito crediate alle cose che vi insegno quando non avrete altro motivo per rifiutarle se non che da soli non potete sapere se siano o non siano vere».

Dio ha voluto riscattare gli uomini e offrire la salvezza a coloro che lo cercano, ma gli uomini se ne rendono così indegni che è giusto che ad alcuni, a causa della loro durezza, Dio rifiuti ciò che accorda ad altri a causa di una misericordia che non è certo loro dovuta. Se avesse voluto superare l'ostinatezza dei più refrattari, avrebbe potuto farlo rivelandosi in modo tale che essi non avrebbero potuto dubitare della verità della sua essenza, così come apparirà l'ultimo giorno con un tale bagliore di fulmini e un tale sovvertimento naturale che i morti risusciteranno e anche i più ciechi lo vedranno.

Ma non è così che ha voluto fare la sua comparsa con il suo avvento di dolcezza, in modo da lasciare privi di quel bene che non volevano tanti uomini indegni della sua clemenza. Non era giusto che apparisse nell'evidenza della sua divinità per convincere infallibilmente tutti gli uomini, ma neppure era giusto che venisse nascosto al punto da non poter essere riconosciuto da quelli che lo cercavano sinceramente. A costoro si è voluto rendere perfettamente riconoscibile; così, volendosi rivelare a coloro che lo cercano con tutto il cuore, e nascondere a coloro che con tutto il cuore lo fuggono, egli ha temperato...

A P.R. per domani. 2.

temperato la sua conoscenza, in modo da lasciare tracce di sé visibili a quelli che lo cercano ma non a quelli che non lo cercano.

Per chi desidera vedere c'è abbastanza luce, e abbastanza oscurità per chi ha intenzioni opposte.

XII • PRINCIPIO

 

140

Gli empi che si piccano di seguire la ragione devono essere straordinariamente razionali.

Cosa affemano dunque?

«Non è forse vero», dicono, «che muoiono le bestie come gli uomini, e i turchi come i cristiani? Anche loro, come noi, hanno cerimonie, profeti, dottori, santi, religiosi, ecc.».

Se non vi preoccupate affatto di conoscere la verità, eccone abbastanza per lasciarvi in pace. Ma se desiderate con tutto il vostro cuore conoscerla, bisogna scendere nei dettagli. Potrebbe bastare per una discussione filosofica, ma qui, dove tutto è in gioco...

E tuttavia, dopo una riflessione superficiale di questo tipo, c'è da divertirsi, ecc.

Ci si informi su questa religione; anche se non fose in grado di giustificare l'oscurità, forse potrebbe ammaestrarci.

141

Siamo ben ridicoli a cercar conforto nella compagnia dei nostri simili, miserabili come noi, come noi impotenti; non ci saranno d'aiuto: moriremo soli.

Dobbiamo dunque comportarci come se fossimo soli. Si costruirebbero allora palazzi superbi? ecc., cercheremmo senza esitazione la verità. Se ci rifiutiamo vuol dire che per noi vale più la stima degli uomini che la ricerca della verità.

142

Tra noi e l'inferno o tra noi e il cielo c'è solo la vita, che è la cosa più fragile del mondo.

143

Cosa mi promettete infine, dal momento che quanto mi spetta se mi ritiro dal gioco saranno una decina d'anni, dieci anni di amor proprio, trascorsi nel tentativo di piacere senza riuscirvi, per non parlare delle sofferenze certe?

144

Spartizioni.

Nel mondo, a seconda delle diverse ipotesi, si deve vivere diversamente:

1. ‹se è sicuro che ci saremo sempre› se potessimo esserci sempre.

‹2. se è incerto se ci saremo sempre o no,›

‹3. se è sicuro che non ci saremo sempre, ma ci venga assicurato che ci saremo per molto tempo,›

‹4. se è sicuro che non ci saremo sempre, e incerto se ci saremo per molto tempo,›

5. se è sicuro che non ci saremo per moilto tempo, e incerto se ci saremo anche solo un'ora.

L'ultima ipotesi è la nostra.

Cuore

Istinto

Princìpi

145

Avere compassione degli atei che cercano, non sono infatti abbastanza infelici? Ingiuriare quelli che se ne vantano.

146

Ateismo segno di forza d'animo, ma solo fino a un certo punto.

147

Dovete impegnarvi nella ricerca della verità per mezzo del calcolo delle spartizioni; perché se morirete senza adorare il vero principio sarete perduti. «Ma», dite «se avesse voluto che io l'adorassi, mi avrebbe lasciato dei segni della sua volontà». Così ha fatto, ma voi li ignorate. Andate alla loro ricerca, ne val certo la pena.

148

Dover dare otto giorni di vita è come dover dare cent'anni.

149

Non ci sono che tre tipi di uomini: quelli che, avendo trovato Dio, lo servono; quelli che, non avendolo trovato, s'impegnano a cercarlo; e gli altri, che trascorrono la vita senza trovarlo e senza averlo cercato. I primi sono ragionevoli e felici, gli ultimi sono folli e infelici, quelli in mezzo sono infelici ma ragionevoli.

150

Gli atei devono dire cose perfettamente chiare. Ora, non è affatto chiaro che l'anima sia materiale.

151

Cominciare con l'avere compassione degli increduli. Sono abastanza infelici a causa della loro condizione.

Bisognerebbe insultarli solo se questo fosse loro di aiuto, ma ciò nuoce loro.

152

Se un uomo in prigione non sa se sia stato emesso l'ordine d'arresto e non gli rimane che un'ora per venirlo a sapere e, una volta a conoscenza, qualora sia stato emesso, abbia solo quell'ora per farlo revocare, è contro natura che egli, invece di informarsi sull'arresto, impieghi quell'ora a giocare a picchetto.

Così è soprannaturale che l'uomo, ecc. È un premere della mano divina.

Così non solo lo zelo di chi lo cerca è una prova di Dio, ma anche la cecità di chi non lo cerca.

153

Principio.

Prigione.

Trovo giusto non approfondire l'opinione di Copernico. Ma questo.

Sapere se l'anima è mortale o immortale è una cosa che riguarda tutta la vita.

154

Per quanto la commedia sia stata bella in ogni sua parte, l'ultimo atto è insanguinato. Alla fine ci gettano un po' di terra sulla testa ed eccoci sistemati per sempre.

155

Corriamo spensieratamente verso l'abisso, non prima di aver messo qualcosa tra noi e lui per impedirci di vederlo.

XIII • SOTTOMISSIONE E USO DELLA RAGIONE

 

156

Sottomissione e uso della ragione: in cosa consiste il vero cristianesimo.

157

Come odio queste sciocchezze di non credere all'eucarestia, ecc.

Se il Vangelo è vero, se Gesù Cristo è Dio, che difficoltà vi si trova?

158

Senza i miracoli non sarei cristiano, dice sant'Agostino.

159

Sottomissione.

Bisogna saper dubitare quando è necessario, o dare il proprio assenso, oppure sottomettersi, quando è necessario. Chi non si comporta in questo modo non comprende la forza della ragione. C'è chi infrange questi tre princìpi, o assentendo come se tutto fosse dimostrato, per ignoranza di cosa significhi dimostrare, o dubitando di tutto, per ignoranza di quanto ci si deve sottomettere, o sottomettendosi a tutto, per ignoranza di quando è necessario esercitare il giudizio.

Scettico, matematico, cristiano: dubbio, assenso, sottomissione.

160

«Susceperunt verbum cum omni aviditate scrutantes scripturas si ita se haberent».

161

La volontà di Dio, che dispone ogni cosa con dolcezza, è di mettere la religione nella mente per mezzo di ragionamenti e nel cuore per mezzo della grazia. Volerla mettere nella mente e nel cuore con la forza e le minacce, non significa mettervi la religione, ma il terrore. Terrorem potius quam religionem.

162

Se tutto viene sottomesso alla ragione, la nostra religione perderà ogni carattere di mistero e soprannaturalità.

Se si urtano i princìpi della ragione, la nostra religione sarà assurda e ridicola.

163

Sant'Agostino. La ragione non si sottometterebbe mai se non decidesse che ci sono circostanze in cui deve sottomettersi.

Dunque è giusto che si sottometta quando decide di doversi sottomettere.

164

I dannati verranno confusi quando vedranno che la loro condanna dipende da quella ragione in nome della quale hanno preteso di condannare la religione cristiana.

165

Quelli che non amano la verità si appellano alla sua contestazione e alla moltitudine di coloro che la negano. Il loro errore deriva dal fatto che non amano la verità e la carità, e dunque non hannbo giustificazione.

166

L'argomento della contraddizione è una cativa garanzia di verità.

Molte cose certe sono contraddette.

Molte cose false circolano senza essere contraddette.

Venire contraddetto non è segno di falsità, così come il contrario non è segno di verità.

167

Vedi i due tipi di uomini sotto il titolo Perpetuità.

168

Sono pochi i veri cristiani. Dico proprio riguardo alla fede. Ce ne sono certo che credono, ma per superstizione. Ce ne sono che non credono, ma per libertinaggio. Pochi tra le due categorie.

In ciò non comprendo ovviamente quelli che sono nell'autentica pietà dei costumi e tutti quelli che credono per un moto del cuore.

169

Gesù Cristo ha fatto dei miracoli, e dopo di lui gli apostoli. E in gran numero i primi santi, perché non essendosi ancora adempiute le profezie, e potendole adempire soltanto loro, solo i miracoli potevano rendere testimonianza. Era stato predetto che il Messia avrebbe convertito le nazioni. Come avrebbe potuto realizzarsi questa profezia senza la conversione delle nazioni? Ma come si sarebbero potute convertire al Messia le nazioni, non potendo vedere quest'ultima conseguenza delle profezie che lo provano? Prima dunque che fosse morto, resuscitato e avesse convertito le nazioni, niente era stato adempiuto, e perciò in tutto questo tempo furono necessari i miracoli. Ora non ce n'è più bisogno contro gli ebrei, perché il compimento delle profezie è un miracolo permanente.

170

La pietà è diversa dalla superstizione.

Sostenere la pietà con la superstizione significa distruggerla.

Gli eretici ci rimproverano questa sottomissione superstiziosa: ciò vuol dire fare quanto ci rimproverano.

Empietà di non credere nell'eucarestia perché non la vediamo.

Superstizione di credere in alcune affermazioni, ecc.

Fede, ecc.

171

Niente è più conforme alla ragione che questa sconfessione della ragione stessa.

172

Due eccessi:

escludere la ragione, non accettare che la ragione.

173

Non si sarebbe peccato non credendo in Gesù Cristo senza i miracoli.

Videte an mentiar.

174

Certo la fede ci dice quello che i sensi non dicono, ma non il contrario di quello che vedono. Essa è al di sopra, non contro.

175

Voi abusate della fiducia che il popolo ha nella Chiesa e li fate credere.

176

Non è raro che si debba riprendere la gente per troppa docilità.

Si tratta di un vizio naturale, come l'incredulità, e altrettanto pernicioso.

Superstizione.

177

L'ultimo passo della ragione consiste nel riconoscere che ci sono un'infinità di cose che la superano. È ben debole se non lo riconosce.

Se le stesse cose naturali la superano, che dire di quelle soprannaturali?

XIV • ECCELLENZA DI QUESTO MODO DI PROVARE DIO

 

178

Dio per mezzo di Gesù Cristo.

È solo per mezzo di Gesù Cristo che noi conosciamo Dio. Senza questo mediatore ogni comunicazione con Dio è tolta. Per mezzo di Gesù Cristo noi conosciamo Dio. Tutti coloro che hanno preteso di conoscere Dio e di provarlo senza Gesù Cristo non avevano che prove impotenti. Ma per provare Gesù Cristo noi abbiamo le profezie che sono prove solide e concrete. Poiché queste profezie si sono realizzate e sono state confermate dagli avvenimenti, esse attestano la verità certa, la prova della divinità di Gesù Cristo. In lui dunque e per mezzo suo noi conosciamo Dio. Al di là di questo e senza le Scritture, senza il peccato originale, senza il necessario mediatore, promesso e arrivato, non è assolutamente possibile provare Dio e s'insegnano la morale e la dottrina. Dunque Gesù Cristo è il vero Dio degli uomini.

Ma al tempo stesso noi veniamo a conoscenza della nostra miseria, perché quel Dio non è altro che il riparatore della nostra miseria. Così non ci è possibile conoscere adeguatamente Dio se non conoscendo le nostre iniquità.

Ecco perché quelli che hanno conosciuto Dio senza conoscere la propria miseria se ne sono gloriati, non l'hanno glorificato.

«Quia non cognovit per sapientiam, placuit deo per stultitiam praedicationis salvos facere».

179

Prefazione.

Le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal modo di ragionare degli uomini e così complesse, che colpiscono poco; e anche se ciò servisse a qualcuno, non servirebbe che nel solo istante in cui si vede la dimostrazione, ma dopo un'ora verrebbe il dubbio di essersi sbagliati.

«Quod curiositate cognoverunt, superbia amiserunt».

Questo è il risultato della conoscenza di Dio che non proviene da Gesù Cristo: comunicare senza mediatore con quel Dio che senza mediatore si è conosciuto.

Mentre quelli che hanno conosciuto Dio per mezzo del mediatore conoscono la propria miseria.

180

Non è solo impossibile, ma anche inutile conoscere Dio senza Gesù Cristo. Non se ne sono allontanati ma avvicinati; non si sono abbassati ma...

«Quo quisque optimus eo pessimus si hoc ipsum quod sit optimus ascribat sibi».

181

La conoscenza di Dio senza la conoscenza della propria miseria genera l'orgoglio.

La conoscenza della propria miseria senza la conoscenza di Dio genera la disperazione.

La conoscenza di Gesù Cristo sta tra una e l'altra, poiché in essa troviamo Dio e la nostra miseria.

XV • PASSAGGIO DALLA CONOSCENZA DELL'UOMO A DIO

 

182

La prevenzione che induce all'errore.

È una cosa deplorevole vedere che gli uomini si occupano solo dei mezzi e non del fine. Ognuno pensa a come assolvere i doveri della propria condizione, ma la scelta della condizione e della patria tocca alla sorte.

È penoso vedere quanti turchi, eretici, infedeli, seguono le abitudini dei padri per il solo motivo che ciascuno pensa siano le migliori, così come ciascuno si adegua alla condizione di fabbro, soldato, ecc.

Per lo stesso motivo i selvaggi non sanno che farsene della Provenza.

183

Perché la mia conoscenza è limitata, e così la mia statura, e posso durare cent'anni piuttosto che mille? Quale ragione ha avuto la natura di darmi proprio quella, e di sceglierla al posto di un'altra in un'infinità in mezzo a cui non c'è ragione di scegliere una cosa invece di un'altra, dove nulla può attirare più di altro?

‹Poco di tutto.

Poiché non si può essere universali, sapendo gratuitamente tutto ciò che è possibile sapere su tutto, è meglio sapere un po' di tutto, poiché è molto più bello conoscere qualcosa di tutto piuttosto che conoscere tutto di una sola cosa. È un'universalità più bella. Se si potessero avere entrambe sarebbe meglio; ma dovendo scegliere, dobbiamo scegliere la seconda. La gente lo sa e lo mette in pratica, poiché spesso la gente è buon giudice.

Il mio gusto mi fa disprezzare uno che fa rumore e che sbuffa mangiando. Il gusto ha un grande peso. Cosa dobbiamo dedurne? Che ci lasceremo trascinare da questo peso dal momento che è naturale? Al contrario, gli resisteremo.

Nulla rivela la vanità degli uomini meglio della riflessione sulle cause e sugli effetti di quell'amore, poiché il mondo intero ne risultò cambiato. Il naso di Cleopatra.›

184

H.5.

Vedendo l'accecamento e la miseria dell'uomo, osservando come tutto l'universo sia muto e l'uomo senza luce, abbandonato a se stesso e quasi smarrito in questo angolo dell'universo, senza conoscere chi ve lo ha messo, cosa ci deve fare, che ne sarà di lui con la morte, incapace di ogni conoscenza, mi afferra la paura, come un uomo che fosse stato portato nel sonno su un'isola deserta e terribile e si svegliasse senza sapere dove si trova e senza poterne uscire. E mi stupisco che non ci si disperi in una condizione così miserabile. Attorno a me vedo altre persone di una simile natura. Chiedo loro se sono meglio istruite di me. Mi rispondono di no; e in effetti questi uomini abbandonati e miserabili, dopo essersi guardati attorno e aver scorto qualche oggetto gradevole, vi si sono affidati e aggrappati. Per quanto mi riguarda, non mi sono aggrappato a niente, e riflettendo su come sia probabile che ci siano altre cose oltre a quelle che vedo, mi sono messo a cercare se Dio non avesse lasciato qualche traccia di sé.

Vedo più religioni in contrasto tra loro, e dunque tutte false tranne una. Ciascuna esige di essere creduta in forza della propria autorità e minaccia gli increduli. Non è per questo motivo dunque che posso credere loro. Chiunque può dirlo. Chiunque può dirsi profeta, ma nella religione cristiana trova delle profezie, e questo non tutti possono farlo.

185

H.9.

Sproporzione dell'uomo.

‹Ecco dove ci conducono le conoscenze naturali. Se non sono vere, nell'uomo con c'è verità, ma se lo sono, questo è un motivo di grande umiliazione per lui, costretto in un modo o nell'altro ad abbassarsi.

Ma poiché non può vivere senza credervi, mi auguro che, prima di inoltrarsi nelle più profonde ricerche della natura, egli la consideri almeno una volta con calma e serietà e pensi anche a se stesso, riconoscendone le proporzioni.›

Che l'uomo contempli dunque l'intera natura nella sua alta e piena maestà, distolga il suo sguardo dai bassi oggetti che lo circondano. Osservi quella luce splendente messa come una lampada eterna per illuminare l'universo, finché la terra gli appaia come un punto a confronto con il vasto giro descritto dall'astro, e si stupisca di come quello stesso vasto giro non è che un filo fragilissimo rispetto a quello percorso dagli astri che ruotano nel firmamento. Ma se la nostra vista si ferma lì, che l'immaginazione vada oltre, sarà lei a smettere di pensare prima che la natura smetta di fornirle materia. L'intero mondo visibile non è che un impercettibile segno nell'ampio seno della natura. Nessuna idea vi si avvicina. Abbiamo un bel dilatare i nostri pensieri al di là degli spazi immaginabili, a confronto della realtà partoriremo dei semplici atomi. È una sfera infinita il cui centro è dovunque e la circonferenza in nessun luogo. Che la nostra immaginazione si perda in questo pensiero è in fondo la più grande testimonianza sensibile dell'onnipotenza divina.

Dopo aver fatto ritorno a sé, l'uomo consideri ciò che è rispetto a ciò che esiste, si veda smarrito in un angolo dimenticato della natura, e da questa piccola cella dove si trova, cioè l'universo, impari a dare il giusto valore alla terra, ai regni, alle città e a se stesso.

Cos'è un uomo nell'infinito?

Ma per fornirgli un altro prodigio di uguale eccezionalità, esamini le cose più impercettibili, come un acaro, che pur nella piccolezza del suo corpo rivela parti incomparabilmente più piccole: zampe con giunture, e vene nelle zampe, e sangue nelle vene, e umori nel sangue, e gocce in questi umori, e vapori nelle gocce. Ma divida ancora queste ultime cose, spinga al limite la sua capacità di pensare, e l'ultimo oggetto a cui può arrivare sia per ora quello che interessa il nostro discorso. Forse penserà che questa è la cosa più piccola della natura.

Ma anche là dentro voglio che scorga un nuovo abisso. Non voglio raffigurargli solo l'universo visibile, ma l'immensità della natura racchiusa in questo minuscolo atomo. Guardi che infinità di universi, ciascuno col suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nelle stesse proporzioni del mondo visibile. E animali su questa terra, e acari nei quali ritroverà tutto ciò che ha trovato negli altri, e altri ancora nei quali ritroverà le medesime cose, incessantemente e senza tregua. Si perda in queste meraviglie stupefacenti per la loro piccolezza come le altre per la loro grandezza. Chi non proverà ammirazione per il fatto che il nostro corpo, poco fa impercettibile in un universo a sua volta impercettibile in seno al tutto, sia diventato ora un colosso, un mondo o meglio un tutto davanti all'inarrivabile nulla? Chi rifletterà in questo modo si spaventerà di se stesso, e considerandosi sospeso alla massa che la natura gli ha dato tra i due abissi dell'infinito e del nulla, tremerà alla vista di queste meraviglie e penso che, mutando la curiosità in ammirazione, sarà più disposto a contemplarle in silenzio che a farne oggetto di una ricerca presuntuosa.

Ma alla fine, cos'è un uomo nella natura? Un nulla davanti all'infinito, un tutto davanti al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto, infinitamente lontano dal comprendere gli estremi. Il fine e il principio delle cose gli sono inesorabilmente nascosti da un segreto impenetrabile.

Incapace al tempo stesso di vedere il nulla da dove è tratto e l'infinito che lo sommerge, cosa potrà fare se non cogliere qulche aspetto di ciò che sta a metà, disperando eternamente di conoscerne il principio e la fine? Tutte le cose sono uscite dal nulla e portate nell'infinito. Chi saprà seguire questi incredibili passaggi? Solo il loro autore li comprende. Nessun altro lo può fare.

Per non aver contemplato questi infiniti, gli uomini si sono messi alla temeraria ricerca della natura, come se tra loro e la natura ci fosse qualche proporzione.

È curioso che abbiano voluto comprendere i princìpi delle cose per poi spingersi a conoscere tutto, con una presunzione infinita quanto il suo oggetto. Poiché certamente un simile progetto è possibile solo a patto di una presunzione o di una capacità infinita, come quella della natura.

Quando si è studiato si capisce che, avendo la natura impresso la propria immagine e quella del suo autore in tutte le cose, quasi tutte partecipano della sua doppia infinità. Per questo constatiamo che l'estensione della ricerca è infinita in tutte le scienze, e così, per esempio, chi può dubitare che la geometria possa dispiegare un'infinita infinità di proposizioni? Anche la moltitudine e la sottigliezza dei loro princìpi sono infinite, perché chi non vede come quelli che prendiamo per ultimi non si sostengono da soli, ma si appoggiano ad altri i quali, appoggiandosi ad altri ancora, non ne ammetteranno mai un ultimo definitivo?

Ma riguardo ai princìpi ultimi che appaiono alla ragione, noi ci comportiamo come davanti alle cose corporee, quando chiamiamo indivisibile quel punto oltre il quale i nostri sensi non percepiscono altro, per quanto infinitamente divisibile per sua natura.

Di questi due infiniti delle scienze, l'infinitamente grande è molto più evidente, ed è per questo che poche persone hanno avuto la pretesa di conoscere tutte le cose. «Parlerò di tutto», diceva Democrito.

Invece l'infinititamente piccolo è molto meno visibile. Sono stati piuttosto i filosfi a pretendere di arrivarvi, e qui tutti si sono arenati. Da questo hanno origine titoli così comuni come: I Princìpi delle cose,I Princìpi della filosofia, e altri ugualmente pomposi, a dir la verità, benché meno appariscenti di questo che abbaglia: De omni scibili.

Naturalmente ci si crede molto più capaci di raggiungere il centro delle cose che di abbracciare la loro circonferenza, e l'estensione visibile del mondo ci oltrepassa visibilmente. Ma, dal momento che oltrepassiamo le piccole cose, ci crediamo anche più capaci di possederle, senza pensare che non ci vuole meno capacità per raggiungere il nulla di quanta ce ne voglia per raggiungere il tutto. Si tratta di una capacità infinita per l'uno e per l'altro, e secondo me chi avesse compreso i princìpi ultimi delle cose potrebbe anche arrivare a conoscere l'infinito. Uno dipende dall'altro, uno conduce all'altro. Questi estremi si toccano e si ricongiungono in forza della loro lontananza, e in Dio, in Dio solo si ritrovano.

Riconosciamo dunque i nostri limiti. Noi siamo qualcosa, non siamo tutto. Quel poco d'essere che abbiamo ci sottrae la conoscenza di quei primi princìpi che nascono dal nulla, ma la sua stessa esiguità ci nasconde la vista dell'infinito.

La nostra intelligenza sta all'ordine delle cose intellegibili come il nostro corpo sta all'estensione della natura.

Limitati in ogni genere, questa condizione, che sta a metà tra i due estremi, si rivela in ogni nostra facoltà. I nostri sensi non sono in grado di percepire niente di estremo, un rumore eccessivo ci assorda, una luce troppo forte ci acceca, una distanza esageratamente lunga o corta ci impedisce di vedere. Un discorso troppo lungo o troppo breve diventa oscuro, un eccesso di verità ci stordisce. Conosco gente che non riesce a comprendere come sottraendo quattro allo zero, questo rimanga zero. I primi princìpi sono troppo evidenti per noi; troppo piacere ci spiace, anche nella musica un eccesso di armonia lo troviamo disdicevole e troppa benevolenza ci irrita. Vogliamo essere sempre in grado di ricambiare in sovrappiù il debito. «Beneficia eo usque laeta sunt dum videntur exsolvi posse; ubi multum antevenere, pro gratia odium redditur». Non avvertiamo né il caldo né il freddo estremi. Le qualità eccessive ci sono ostili e non le percepiamo, le soffriamo. Troppa giovinezza e troppa vecchiaia impacciano lo spirito, così come troppa o troppo poca istruzione.

Infine, le cose estreme sono per noi come se non fossero affatto, e noi non siamo nulla nei loro confronti. O noi sfuggiamo a loro o loro a noi.

Ecco la nostra vera condizione. È questo che ci rende incapaci di un sapere certo e di un'assoluta ignoranza. Navighiamo nella vastità, sempre incerti e fluttuanti, spinti da un estremo all'altro. Qualunque appiglio a cui pensiamo di attaccarci per essere sicuri, viene meno e ci abbandona, e se lo seguiamo si sottrae alla nostra presa, scivola e fugge in una fuga eterna. Niente per noi è solido. È la nostra condizione naturale eppure la più contraria alle nostre inclinazioni. Ci brucia un desiderio di trovare un fondamento sicuro, e come una base ferma per costruirvi una torre che si alzi verso l'infinito, ma ogni fondamento si spezza e la terra si apre fino agli abissi.

Non cerchiamo dunque sicurezza e stabilità, la nostra ragione è continuamente delusa dalla mutevolezza delle apparenze: niente può fissare la finitezza tra i due infiniti che la racchiudono e la fuggono.

Se questo è stato davvero capito, credo che resteremo tranquilli, ciascuno nella condizione dove l'ha posto la natura.

Essendo questa mediocrità che ci è toccata in sorte sempre lontana dagli estremi, che importanza può avere che un altro conosca un po' di più le cose? Se ne ha, egli le prende da un po' più in alto, ma non è sempre e infinitamente lontano dalla meta? E la durata della nostra vita, se anche fosse prolungata di dieci anni, non è forse ugualmente infima rispetto all'eternità? Al cospetto di questi infiniti, tutti i finiti sono eguali, e non vedo perché riposare la propria immaginazione su uno piuttosto che su un altro.

Il solo confrontarci con il finito ci addolora.

Se l'uomo studiasse prima di tutto se stesso, si accorgerebbe di come è incapace di andare oltre. Come potrebbe una parte conoscere il tutto? Forse egli desidererà almeno conoscere le parti con cui è in proporzione. Ma le parti del mondo sono tutte in una tale relazione e talmente concatenate tra loro, che ritengo impossibile conoscerne una senza l'altra e senza il tutto.

L'uomo, per esempio, è in relazione con tutto ciò che conosce. Ha bisogno di un luogo che lo contenga, del tempo per durare, del movimento per vivere, di elementi che lo compongano, di calore e di alimenti per nutrirsi, d'aria per respirare. Egli vede la luce, sente i corpi, tutto cade insomma in relazione con lui. Per conoscere l'uomo è necessario dunque sapere perché abbia bisogno d'aria per vivere, e per conoscere l'aria sapere in che rapporto sta con la vita dell'uomo, ecc.

La fiamma non vive senza l'aria, dunque per conoscere una bisogna conoscere l'altra.

Essendo così tutte le cose cause ed effetti, sostegni e sostenuti, mediate e immediate, ed essendo reciprocamente implicate da legami naturali e non sensibili che le legano per quanto lontane e indifferenti, ritengo impossibile la conoscenza delle parti senza la conoscenza del tutto, non meno della conoscenza del tutto senza la conoscenza specifica delle parti.

‹L'eternità delle cose in se stesse o in Dio dovrebbe colpire la nostra piccola durata. Anche la fissa e costante immobilità della natura, paragonata al continuo mutamento che si verifica in noi, dovrebbe provocare il medesimo effetto.›

Ma ciò che completa la nostra impotenza di conoscere le cose è che esse sono semplici in sé e che noi siamo composti di due nature opposte e di genere diverso, l'anima e il corpo. È impossibile che la parte che in noi ragiona non sia quella spirituale. Ma anche se qualcuno ipotizzasse che siamo esseri puramente corporei, proprio ciò ci escluderebbe a maggior ragione dalla conoscenza delle cose, niente essendo così poco plausibile dell'affermazione che la materia conosce se stessa. Non ci è possibile conoscere come essa si conoscerebbe.

E così, se siamo semplici creature materiali, non possiamo conoscere niente, e se siamo composti di spirito e di materia, non possiamo conoscere perfettamente le cose semplici, spirituali o corporali che siano.

Da ciò deriva che quasi tutti i filosofi confondono le idee di queste cose e parlano in modo spirituale delle cose corporali e in modo corporale delle cose spirituali, affermando audacemente che i corpi tendono verso il basso, che aspirano al loro centro, che fuggono la loro distruzione, che temono il vuoto, che hanno inclinazioni, simpatie, antipatie, tutte cose che appartengono solo allo spirito. Viceversa, parlando degli spiriti essi li considerano come se fossero in un luogo, attribuiscono loro il movimento da uno spazio a un altro, tutte cose che appartengono solo ai corpi.

Invece di formulare le idee pure di queste cose, noi le coloriamo con le nostre qualità, proiettando la nostra natura composta su ogni cosa semplice.

Chi dubiterebbe, vedendoci attribuire a ogni cosa spirito e corpo, che questa mescolanza ci sia comprensibile? E tuttavia è la cosa meno comprensibile: l'uomo è per se stesso il più prodigioso fenomeno della natura, dal momento che non riesce a comprendere cosa sia corpo e ancora meno cosa sia spirito, e meno di tutto come un corpo possa essere unito a uno spirito. Proprio questo è il culmine delle sue difficoltà, e proprio questo è il suo essere: «modus quo corporibus adhaerent spiritus comprehendi ab homine non potest, et hoc tamen homo est».

‹Ecco una parte dei motivi che rendono l'uomo così inadatto a conoscere la natura. Essa gode di una doppia infinità, egli è finito e limitato; essa dura e si conserva perpetuamente nel suo essere, egli passa ed è mortale. Le cose in particolare si corrompono e mutano ad ogni istante. Egli le vede solo di sfuggita. Esse hanno un principio e una fine. Egli non comprende né l'uno né l'altra. Esse sono semplici, egli è composto di due nature diverse.›

Infine, per esaurire le prove della nostra debolezza, farò ancora un paio di considerazioni...

186

H. 3

L'uomo non è che un fuscello, il più debole della natura, ma è un fuscello che pensa. Non è necessario che l'universo intero si armi per spezzarlo, bastano un po' di vapore, una goccia d'acqua, per ucciderlo. Ma anche quando l'universo lo spezzasse, l'uomo rimarrebbe ancora più nobile di ciò che lo uccide, poiché sa di morire, mentre del vantaggio che l'universo ha su di lui, l'universo stesso non sa niente.

Ogni nostra dignità consiste dunque nel pensare. Su ciò dobbiamo far leva, non sullo spazio e sulla durata, che non sapremmo colmare.

Sforziamoci dunque di pensare correttamente: ecco il principio della morale.

187

L'eterno silenzio di questi spazi infiniti mi atterrisce.

188

Consolatevi: non è da voi che dovete aspettarla, al contrario, l'attenderete non aspettandovi niente da voi.

XV bis • LA NATURA È CORROTTA

 

[N.d.R. A questo titolo, presente nell'elenco compilato da Pascal, non corrisponde alcun testo].

XVI • FALSITÀ DELLE ALTRE RELIGIONI

 

189

Falsità delle altre religioni.

Maometto privo di autorità.

Le sue ragioni dovrebbero dunque essere ben robuste, non confidando che nella loro forza.

Cosa dice? Che bisogna credere.

190

Falsità delle altre religioni.

Essi non hanno testimoni. Questi ne hanno.

Dio sfida le altre religioni a produrre segni simili. Isaia, 43,9; 44,8.

191

Se c'è un solo principio di tutto, un solo fine di tutto - tutto da e tutto per lui - è dunque necessario che la vera religione ci insegni a non adorare e a non amare che lui. Ma trovandoci noi nell'incapacità di adorare ciò che non conosciamo e di amare qualcosa al di fuori di noi, bisogna che la religione che ci ammaestra su questi doveri ci ammaestri anche su queste forme d'impotenza, e ci indichi i rimedi. Essa ci insegna che a causa di un uomo tutto è stato perso e si è rotto il legame tra Dio e noi, e che quel legame, sempre a causa di un solo uomo, è stato riparato. Fin dalla nascita siamo così avversi all'amore di Dio, pure così necessario, che inevitabilmente o nasciamo colpevoli o Dio è ingiusto.

192

Rem viderunt, causam non viderunt.

193

Contro Maometto.

Il Corano non appartiene a Maometto più di quanto il Vangelo a san Matteo. Esso è citato da molti autori in ogni secolo. Gli stessi avversari, Celso e Porfirio, non l'hanno mai negato.

Il Corano dice che san Matteo era un uomo di bene, dunque esso era un falso profeta, o perché chiamava gente di bene i malvagi, o perché non accettava quello che essi hanno detto di Gesù Cristo.

194

‹Possiamo camminare rassicurati al chiarore di queste luci celesti. E dopo avere.›

Cosa hanno saputo fare gli uomini senza queste divine conoscenze, se non o insuperbire nell'intimo sentimento che rimane loro della passata grandezza, o abbattersi alla vista della debolezza presente?

Non abbracciando la verità intera, non hanno potuto arrivare a una virtù perfetta. Alcuni giudicano la natura incorrotta, altri come non rimediabile, non hanno potuto sfuggire all'orgoglio o all'ignavia, che sono le due sorgenti di tutti i vizi, perché non possono che abbandonarvisi per debolezza o uscirne per orgoglio. Quando infatti riconoscevano l'eccellenza dell'uomo ne ignoravano la corruzione, così che evitavano certamente l'ignavia ma si perdevano nella superbia, e quando riconoscevano l'infermità della natura ne ignoravano la dignità, così che evitavano la vanità ma solo per precipitare nella disperazione.

Da qui vengono le diverse scuole degli stoici e degli epicurei, dei dogmatici, degli accademici, ecc.

Solo la religione cristiana ha potuto guarire questi due vizi, non già cacciandoli entrambi con la semplicità del Vangelo. Essa infatti insegna ai giusti, che eleva fino a partecipare della divinità stessa, che anche in questa sublime condizione essi portano ancora in sé la fonte di ogni corruzione che, per tutta la vita, li rende soggetti all'errore, alla miseria, alla morte, al peccato. Essa grida ai più empi che anch'essi sono capaci della grazia del loro redentore. Così, suscitando tremore in quelli che rende giusti, e consolando quelli che condanna, essa addolcisce con tanto equilibrio il timore con la speranze, per mezzo di questa duplice capacità della grazia e del peccato che è comune a tutti, che sa abbassare infinitamente di più di quanto non sappia fare la ragione, ma senza disperazione, ed innalza infinitamente di più dell'orgoglio naturale, ma senza superbia, con ciò dimostrando che lei sola è esente dall'errore e dal vizio, e dunque solo a lei tocca istruire e correggere gli uomini.

Chi dunque può rifiutarsi di credere e di adorare queste luci celesti? Non è forse più chiaro del giorno che sentiamo in noi stessi i segni incancellabili dell'eccellenza, e non è altrettanto vero che ad ogni istante sperimentiamo gli effetti della nostra deplorevole situazione?

Cosa ci gridano dunque questo caos e questa mostruosa confusione se non la verità di queste due condizioni, con voce così potente che è impossibile resisterle?

195

Differenza tra Gesù Cristo e Maometto.

Maometto non predice, Gesù Cristo predice.

Maometto uccide, Gesù Cristo lascia uccidere i suoi.

Maometto proibisce di leggere, gli apostoli ordinano di leggere.

Le cose sono così opposte che, se Maometto ha preso la via del successo umano, Gesù Cristo ha preso quella di morire umanamente. E invece di concludere che, poiché Maometto ha avuto successo, anche Gesù Cristo poteva avere successo, bisogna dire che dal momento che Maometto ha avuto successo, Gesù Cristo doveva morire.

196

Per natura tutti gli uomini si odiano reciprocamente. Ci si è serviti fin dove si è potuto della concupiscenza per asservirla al bene comune. Ma si tratta pur sempre di una menzogna e di una falsa immagine della carità, perché al fondo non c'è che l'odio.

197

Dalla concupiscenza sono state tratte e fondate norme ammirevoli di governo, di morale e di giustizia.

Ma il fondo, questo volgare fondo dell'uomo, questo figmentum malum, è solo occultato. Non è tolto.

198

Gesù Cristo è un Dio a cui ci si avvicina senza orgoglio e davanti al quale ci si abbassa senza disperazione.

199

«Dignior plagis quam osculis,

non timeo quia amo».

200

Il segno della vera religione consiste nell'obbligare ad amare il proprio Dio. Pur essendo una cosa giusta, nessuna religione, tranne la nostra, l'ha ordinato.

La vera religione deve riconoscere la concupiscenza e l'impotenza, come ha fatto la nostra.

Deve sapervi portare rimedio, come con la preghiera. Nessuna religione ha chiesto a Dio di amarlo e di seguirlo.

201

Dopo aver compreso tutta la natura dell'uomo bisogna, perché una religione sia vera, che essa abbia conosciuto la nostra natura. Essa deve aver riconosciuto la grandezza e la bassezza e le ragioni dell'una e dell'altra. Qualcuno le ha conosciute al di fuori della religione cristiana?

202

La vera religione ci ammaestra sui nostri doveri, sulla nostra impotenza, sull'orgoglio e sulla concupiscenza, ma anche sui rimedi, sull'umiltà, sulla mortificazione.

203

Alcune figure sono chiare ed esaurienti, ma altre sembrano un po' tirate per i capelli, e non servono da prova se non per coloro che sono già persuasi. Sono simili a quelle degli apocalittici.

Ma la differenza è che essi non ne hanno di indubitabili, al punto che non vi è nulla di così ingiusto come quando pretendono che le loro siano altrettanto ben fondate delle nostre.

Il confronto non è alla pari. Non bisogna equiparare e confondere queste cose solo perché per un verso sembrano essere simili, mentre sono così diverse per un altro. In fatto di cose divine, è sulla base di quelle chiare che dobbiamo rispettare quelle oscure.

‹È come per quelli che usano tra loro un gergo oscuro, quelli che non lo conoscono capiranno solo sciocchezze.›

204

Non voglio giudicare Maometto per quelle oscurità che potrebbero far pensare al mistero, ma per quanto c'è in lui di chiaro, per il suo paradiso e per il resto. In questo egli è ridicolo. Ed è per questo che non è giusto prendere le sue oscurità per dei misteri, dal momento che le cose chiare sono ridicole.

Le cose vanno diversamente per la Scrittura. Certamente ci sono delle oscurità altrettanto bizzare di quelle di Maometto, ma ci sono anche cose chiare in modo esemplare e profezie evidentemente realizzate. Il confronto non è alla pari. Non dobbiamo mettere sullo stesso piano cose che si assomigliano solo per quanto vi è di oscuro e non per quella chiarezza che riscatta l'oscurità stessa.

205

Le altre religioni, come quelle pagane, sono più popolari, perché sono esteriori, esse non valgono per i più sottili. Una religione puramente intellettuale sarebbe più adatta per gli spiriti sottili, ma risulterebbe inservibile per il popolo. Solo la religione cristiana è adatta a tutti, mescolando l'interiorità e l'esteriorità. Essa eleva il popolo verso l'interiorità e abbassa i superbi verso l'esteriore, e la sua perfezione consiste in emtrambe, perché è necessario che il popolo comprenda lo spirito della lettera e che i dotti sottomettano il loro spirito alla lettera.

206

Nessuna religione ha proposto di odiare se stessi, nessun'altra religione dunque può piacere a coloro che si odiano e che sono alla ricerca di un essere veramente degno di amore. E costoro, anche se non avessero mai sentito parlare della religione di un Dio umiliato, l'abbraccerebbero immediatamente.

XVII • RENDERE LA RELIGIONE DEGNA DI AMORE

 

207

Gesù Cristo per tutti / Mosè per un popolo.

Gli Ebrei benedetti in Abramo: «Io benedirò quelli che ti benediranno», ma «tutte le nazioni benedette nel suo seme».

«Parum est ut ecc.» Isaia / «Lumen ad revelationem gentium».

«Non fecit taliter omni natione», diceva Davide, parlando della legge. Ma parlando di Gesù Cristo bisogna dire: «Fecit taliter omni nationi, parum est ut ecc.» Isaia.

Così Gesù Cristo è l'essere universale, la Chiesa stessa non offre il sacrificio che per i fedeli. Gesù Cristo ha offerto il sacrificio della croce per tutti.

208

Non solo gli Ebrei carnali e i pagani hanno delle miserie, ma anche i cristiani. Per i pagani non c'è redentore, perché non ci sperano nemmeno. Non c'è redentore per gli Ebrei, essi vi sperano invano. Solo per i cristiani c'è il rendentore.

Vedere «Perpetuità».

XVIII • FONDAMENTI DELLA RELIGIONE E RISPOSTA ALLE OBIEZIONI

 

209

Dobbiamo mettere nel capitolo sui fondamenti ciò che, in quello riguardante le figure, concerne la loro causa. Perché fu profetizzato il primo avvento di Gesù Cristo? Perché i modi di questo avvento furono profetizzati oscuramente?

210

Gli increduli sono in realtà i più credenti, per non credere nei miracoli di Mosè, credono in quelli di Vespasiano.

211

Come Gesù Cristo ha vissuto confuso agli altri uomini, così la sua verità vive in mezzo alle altre opinioni senza alcuna differenza esteriore. Così pure l'eucarestia si confonde con il pane comune.

Tutta la fede si riduce a Gesù Cristo e ad Adamo, e tutta la morale alla concupiscenza e alla grazia.

212

Cosa hanno da dire contro la resurrezione e il parto di una vergine? Forse è più facile riprodurre un uomo o un animale che produrlo? E se non avessero mai visto una specie animale, sarebbero in grado di intuire la necessità o meno dell'accoppiamento?

213

Cosa dicono i profeti di Gesù Cristo? Che sarà Dio in modo evidente? Al contrario, che è un Dio realmente nascosto, che non verrà riconosciuto, che non penseranno che sia lui, che sarà una pietra d'inciampo contro cui molti urteranno, ecc.

Che non ci si rimproveri dunque più la mancanza di evidenza, perché è proprio ciò che ammettiamo. Ma, si obietta, ci sono delle oscurità, e senza di loro non si urterebbe contro Gesù Cristo. È uno dei disegni espliciti dei profeti. «Excaeca».

214

Quanto gli uomini avevano potuto conoscere con i più grandi sforzi d'intelligenza, questa religione lo insegnava ai bambini.

215

Non perché qualcosa è incomprensibile è per questo meno reale.

216

‹Se per caso si vuole sostenere che l'uomo è troppo poca cosa per meritare di comunicare con Dio, bisogna essere ben grandi per giudicarne.›

217

Non si può capire nulla delle opere di Dio se non si parte dal principio che egli ha voluto accecare gli uni e illuminare gli altri.

218

Gesù Cristo non dice che non è di Nazareth per lasciare i malvagi nel loro accecamento, né che non è figlio di Giuseppe.

219

Dio vuole disporre più della volontà che dell'intelletto. L'evidenza perfetta servirebbe all'intelletto ma nuocerebbe alla volontà.

Umiliare la superbia.

220

Gesù Cristo è venuto per accecare quelli che vedevano chiaramente e per dare la vista ai ciechi, guarire i malati e lasciar morire i sani, chiamare alla penitenza e giustificare i peccatori, lasciare i giusti nel loro peccato, saziare i poveri e lasciare vuoti i ricchi.

221

C'è luce a sufficienza per illuminare gli eletti e abbastanza oscurità per umiliarli. C'è oscurità a sufficienza per accecare i reietti e abbastanza luce per condannarli senza attenuanti.

La genealogia di Gesù Cristo nell'Antico Testamento è mescolata a tante altre inutili al punto da non poter essere distinta da quelle. Se Mosè avesse tenuto conto solo degli antenati di Gesù Cristo, sarebbe stato troppo chiaro; se non avesse annotati quelli di Gesù Cristo, ciò non sarebbe stato abbastanza chiaro. Ma, dopo tutto, chi osservi da vicino si accorge che quella di Gesù Cristo è ben distinta per mezzo di Thamar, Ruth, ecc.

Quelli che ordinavano quei sacrifici ne conoscevano l'inutilità, e coloro che ne affermavano l'inutilità non hanno smesso di praticarli.

Se Dio avesse permesso una sola religione, essa sarebbe stata troppo riconoscibile. Ma se guardiamo bene, possiamo distinguere quella vera in mezzo alla confusione.

Principio: Mosè era un uomo sottile. Se dunque si comportava secondo la sua ragione, non doveva proporre nulla contro la ragione.

Così anche la debolezza più appariscente è una forza.

Esempio: le due genealogie di san Matteo e di san Luca. Non è forse evidente che non l'hanno fatto accordandosi?

222

Se Gesù Cristo fosse venuto solo per santificare, tutta la Scrittura e tutte le cose tenderebbero a questo, e sarebbe facile convincere gli increduli. Se Gesù Cristo fosse venuto solo per accecare, tutto il suo comportamento sarebbe confuso e non avremmo alcun mezzo per convincere gli increduli. Ma poiché è venuto «in sanctificationem et in scandalum», come dice Isaia, noi non possiamo convincere gli increduli ed essi non possono convincere noi, ma proprio per questo noi li convinciamo, affermando che in tutta la sua condotta non ci sono elementi per rimanere convinti in un senso piuttosto che nell'altro.

223

Figure.

Volendo Dio privare i suoi di beni caduchi, per dimostrare che ciò non era frutto d'impotenza creò il popolo ebreo.

224

L'uomo non è degno di Dio ma non è incapace di venirne reso degno.

È indegno di Dio unirsi alla miseria umana, ma non è indegno di Dio sottrarre l'uomo alla miseria.

225

Prova.

Profezia e compimento.

Ciò che ha preceduto e ciò che ha seguito Gesù Cristo.

226

Fonte di contraddizioni. Un Dio umiliato fino alla morte in croce. Due nature in Gesù Cristo. Due venute. Due condizioni della natura umana. Un Messia che morendo trionfa sulla morte.

227

Che Dio ha voluto celarsi.

Se ci fosse una sola religione, Dio sarebbe ben evidente.

Anche se ci fossero martiri solo nella nostra religione.

Essendosi Dio celato, tutte le religioni che negano sia celato non sono vere, e se una religione non lo spiega, non può educare. La nostra fa tutto ciò: «Vere tu es deus absconditus».

‹Fondamento della nostra fede.›

La religione pagana è priva di fondamento. ‹oggi. Si dice che in altri tempi lo ha avuto per via degli oracoli che hanno parlato. Ma quali libri ce ne assicurano? La virtù dei loro autori li rende davvero degni di fede? Son forse conservati con tanta cura da poter essere certi che non si sono affatto corrotti?›

La religione maomettana ha come fondamenti il Corano e Maometto. Ma chi ha predetto che lui doveva essere l'ultimo profeta del mondo? Ci sono segni che possano distinguerlo da qualsiasi uomo voglia proclam