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PLATONE

 

 

 

Apologia di Socrate. 1

 

Critone. 15

 

Eutifrone (ovvero del santo. 22)

 

Timeo

 

Fedone

 


 

 

Apologia di Socrate

 

 

I.

 

Quello che è avvenuto a voi, Ateniesi, in udire i miei accusatori, non so; ma io, per cagion loro, poco meno mi dimenticai di me stesso, cosí parlarono persuasivamente: benché, se ho a dire, essi non han detto nulla di vero. Ma delle molte loro menzogne ne ammirai massimamente una, questa: dissero che a voi bene conveniva guardarvi non foste tratti da me in inganno, perciò che sono terribile dicitore. Imperocché a non vergognarsi che tosto li avrei smentiti, mostrando in fatto non essere niente terribile dicitore, questa mi parve la lor maggiore impudenza: salvo che non chiamino terribile dicitore uno che dice il vero; ché, se intendono cosí, ben consentirei che sono oratore io: ma non a lor modo. Essi dunque han detto poco o nulla di vero, come io dico; ma da me voi udirete tutta la verità. Non, per Giove, orazioni ornate, come le loro, di frasi e parole belle; ma sí udirete cose dette senza niuno studio, con quelle parole che vengono, ma giuste, io credo; e niun di voi si aspetti altro da me. Perché non istarebbe bene, che io, o cittadini, venissi innanzi a voi come un giovinetto che modelli sue orazioni; io, a questa età. Anzi, o Ateniesi, di questo prego voi, e voi supplico, che se udite me con quelle parole difender me stesso con le quali son solito parlare e in mercato ai banchi, dove mi hanno udito molti di voi, e altrove, non vi maravigliate né facciate rumore. La cosa va cosí: io, la prima volta ora, vengo su in tribunale e ho settant'anni; onde alla dicitura di qui sono proprio forestiero. E dacché, se fossi veramente forestiero, voi mi perdonereste se io vi parlassi in quella voce e quel modo ne' quali fossi allevato, prego voi ora (e mi par che a ragione) che non badiate alla maniera di dire (forse potrebb'ella esser peggio, forse meglio), e guardiate solo e consideriate se dico cose giuste, o no. Imperocché questa è la virtú del giudice; quella dell'oratore poi, è dire il vero.

 

 

II.

 

E ora, o Ateniesi, è giusto che prima io mi difenda contro le prime false accuse e contro i primi accusatori; poi contro quelle e quelli venuti dopo. Imperocché accusatori miei presso voi ce n'è stati molti, e da un pezzo, sono già molti anni, non dicendo nulla di vero: i quali piú mi dànno paura che non Anito e i suoi seguaci, contuttoché terribili, anche loro. Ma quelli sono piú terribili, o cittadini; i quali, pigliando i piú di voi ancor fanciulli, di loro accuse contro me in nulla vere vi ebbero persuasi: che ci è un certo Socrate, uomo sapiente, speculatore delle cose del cielo e cercatore di tutte le cose sotto terra, e che le piú deboli ragioni fa piú forti. E gli spargitori, o Ateniesi, di questa fama, essi sono i miei terribili accusatori; imperocché pensano quelli che li odono, i cercatori di cotali cose non creder né anche negl'Iddii. E poi questi accusatori sono molti e m'han già accusato da molto tempo, parlando in quella età a voi nella quale molto credevate per essere fanciulli, alcuni giovinetti; e mi hanno accusato, me assente, niuno difendendomi. E la piú strana cosa è che non si possa conoscere e dire loro nomi, salvoché qualche comediografo; ma, tutti quelli che voi ebbero persuasi per invidia o calunnia, o perché persuasi e persuadenti alla loro volta, verso questi non so che fare io: né si può qua menare nessun di loro né argomentar contro; ed è proprio necessità che io mi difenda come se combattessi con ombre, e che, niuno rispondendo, ribatta. Dunque, consentite anche voi, i miei accusatori sono di due specie, i novelli, e gli antichi che dico io: e consentite che io mi ho a difendere prima contro quelli; imperocché voi avete udito quelli accusarmi prima, e piú molto, che non questi venuti dopo. E sia. Ci si ha a difendere, dunque, e ci si ha a provare di trar via fuori dai vostri animi la calunnia che ivi cova da lungo tempo, e trarnela in tempo cosí breve. Oh cosí fosse, se cosí è il meglio per voi e per me; se avessi pure qualche vantaggio, difendendomi; ma la difficoltà la vedo, e non mi si nasconde quale ella è. Ma vada come a Dio piace; si ha a ubbidire alla legge e ci si ha a difendere.

 

 

III.

 

Dunque ripigliamo da principio: che è l'accusa, dalla quale m'è nata la calunnia, e alla quale prestando fede scrisse la querela sua Meleto? e che mai dicendo mi calunniarono i calunniatori? Via, essendo accusatori essi, la lor querela giurata conviene che la legga. Eccola: «Socrate fa rea opera, e temeraria, cercando le cose sotto terra e quelle su in cielo, e le piú deboli ragioni facendo piú forti, e questo insegnando agli altri». - Su per giú cosí ella dice, come avete veduto voi stessi, là, nella comedia di Aristofane: un Socrate sé girante per aria, e di camminare per aria gloriantesi, e predicante altre molte ciancie; delle quali non so nulla io né punto né poco: e non dico cosí come dispregiando questa cotal scienza, se mai alcuno l'avesse: oh non ci vorrebbe altro che da parte di Meleto mi tirassi addosso anche cotesta accusa. Ma, o Ateniesi, io non ne so nulla: e invoco a testimoni i piú di voi, e voglio che vi contiate l'un l'altro quanti mi avete mai udito ragionare, e ce n'è molti; vi contiate l'un l'altro se mi ha udito mai alcuno o poco o molto ragionare di cose simili: e conoscerete che il medesimo valore hanno le altre accuse, le quali contro me dicono.

 

 

IV.

 

Sí non ci è nulla di vero: e se avete mai udito che io mi provo a educare uomini e fo danari, né anche questo è vero. Certo mi parrebbe bello se ci fosse alcuno, atto a educare uomini, come Gorgia il Leontino, o Prodico di Ceo, o Ippia di Elide: a ciascun dei quali, andando di città in città, vien fatto, o Ateniesi, di persuadere i giovani, che pur potrebbero conversare con qualunque volessero dei lor cittadini, e senza paga; persuaderli, lasciata la conversazione di quelli, a conversare con essi, dando danari e col cuore ringraziando. E ci è altro sapiente uomo, che so essere venuto qua fra noi, un di Paro. So questo perché e' m'avvenne d'accostare un che con i sofisti ha speso danaro piú che tutti gli altri, Callia il figliuolo d'Ipponico. Lui che ha due figliuoli, interrogai io: - O Callia, se i tuoi due figliuoli fossero puledri o vitelli, non avremmo a prendere noi a paga un sovrastante, il quale, della virtú a loro convenevole, far li dovesse buoni e belli e sarebbe un cavallerizzo o un che s'intende di campi? Ma, dacché sono uomini, chi hai in mente di prender loro come sovrastante? Chi è intendente della virtú, della umana e civile? Credo che tu ci abbi pensato, dacché hai de' figliuoli. C'è alcuno, - dissi io, - o no? - Oh sí, - rispose. - Chi, - dimandai io, - e di dove è, e per insegnare quanto vuole? - Rispose: - Eveno, o Socrate; di Paro; cinque mine. - Beato Eveno, - diss'io, - s'egli ha questa virtú e sa insegnare cosí bene -. Mi glorierei anch'io ed inorgoglirei, se sapessi; ma io non so, Ateniesi.

 

 

V.

 

Ripiglierà alcuno di voi: - Ma, o Socrate, che faccenda è la tua? D'onde ti sono nate queste calunnie? Se non ti fossi preso brighe che gli altri non si prendono, se fatto non avessi come i piú non fanno, tu non saresti venuto in cosí mala voce. Di' a noi dunque: che è? affinché noi non giudichiamo di te a caso -. Chi dice cosí, dice dirittamente, mi pare; e io mi proverò di chiarire a voi che è mai quel che ha generato contro me la mala fama e calunnia. State a udire: forse parrà ad alcuni di voi che io scherzi; ma, sappiate bene, io vi dirò tutta la verità. Io, Ateniesi, non per altro che per una certa sapienza mi sono procurato cotesta mala fama. Quale sapienza? quella umana, forse: perché può esser bene che di questa sapienza sia io sapiente, e quelli che diceva dianzi sarebbero sapienti di certa sapienza piú che umana: o non so che dico, perocché di questa io non ho cognizione, e chi afferma che sí, mentisce e mi vuole calunniare. E non ischiamazzate, o Ateniesi, se vi par che dica una strana cosa, ché non son mie le parole che io dico, ma sí di tale che degno è che voi gli abbiate fede; imperocché di questa mia, se sapienza ella è, e quale, vi addurrò a testimonio l'Iddio che è in Delfo. Cherofonte, voi lo conoscete: egli fu amico mio da giovine, e amico fu al vostro popolo, e fuggí in questa ultima fuga con voi e tornò con voi; e conoscete Cherofonte com'egli era, e l'impeto suo dove ch'ei si mettesse. Ora andato una volta a Delfo, ecco di che egli osò interrogare l'oracolo; non ischiamazzate, dico, Ateniesi: lo interrogò se alcuno fosse piú sapiente di me. Rispose la Pizia: - Niuno essere piú sapiente. - E di ciò sarà testimonio a voi suo fratello che è qui; ch'egli è morto.

 

 

VI.

 

Guardate perché dico questo: perché voglio che conosciate voi d'onde mi sia nata la calunnia. Dunque, udendo io quelle parole, pensai: «Che mai dice l'Iddio? nelle parole sue che mai nasconde? perché io non ho coscienza, né punto né poco, di essere sapiente. Che mai dice, affermando che io sono sapientissimo? certo non mentisce, ché non gli è lecito». E molto tempo stetti in dubitazione che mai volesse Egli dire. Poi e con fatica, mi fui messo cosí a cercare. Andai a un di quei che paiono sapienti, e fra me dissi: «Or, se mai, smentirò il vaticinio e mostrerò all'oracolo che piú sapiente di me è colui: tu dicesti me». E riguardandolo bene (non c'è bisogno che dica il nome, era un de' politici) ecco che mi avvenne. Messomi a conversare con lui, mi parve che quest'uomo ben paresse sapiente ad altri molti uomini, e massimamente a sé medesimo, ma che non fosse. E mi provai di mostrarglielo: - Tu sí credi essere sapiente, ma non sei -. E tosto a lui, e a molti che ivi erano presenti, venni in odio. Andatomene via, ragionai fra me, e cosí dissi: «Son piú sapiente io di questo uomo; imperocché, a vedere, niuno di noi due sa nulla di bello e di buono, ma costui crede sapere, e non sa; io non so, ma non credo né anche sapere. E pare che per cotesta piccolezza sia piú sapiente io, perciò che non credo sapere quello che non so». E andai a un altro, di quelli che mostravano essere piú sapienti di lui; e me ne parve il medesimo: e cosí venni in odio e a quello e a molti altri.

 

 

VII.

 

E seguitai ad andare: con dolore e tremore, sentendo che veniva in odio; nondimeno parevami necessario far grandissima estimazione della parola dell'Iddio, e andare a tutti coloro che mostravano di sapere qualche cosa, per vedere che dicesse mai l'oracolo. E per il Cane, o giudici (a voi si ha a dire il vero), ei m'avvenne che, cercando secondo la mente dell'Iddio, quelli massimamente riputati mi paressero quasi essere piú da poco, e quelli, a vedere piú da poco, essere piú savii. E la peregrinazione mia conviene che io ve la conti, la quale non fu senza fatiche, acciocché la sentenza dell'oracolo chiaro mi si mostrasse. Perché dopo ai politici andai ai poeti, a quelli di tragedia e a quelli di ditirambi e agli altri, per cogliere in sul fatto me quale piú ignorante di loro. E pigliando in mano i loro poemi, quelli che mi parean piú lavorati, anche per apprendere qualche cosa dai poeti, li interrogai che mai dire volessero. Bene ho vergogna, o giudici, di palesarvi il vero; e pur vi si ha a palesare. Ecco, se ho a dire, di quelli argomenti dei quali aveano cantato, quasi tutti gli astanti ne ragionavan meglio di loro. In breve questo ebbi conosciuto, che i poeti non per sapienza poetavano checché poetassero, ma per certa natura e da Dio occupati, come i divinatori e i vaticinatori; i quali dicono pure molte e belle cose, e non sanno nulla di ciò che dicono. E vidi che tale passione tocca i poeti: e insieme mi fui accorto che essi, perciò che poeti, si reputavano ancora nelle altre cose sapientissimi uomini, senza che fossero: e ne andai via pensando che, per la ragion medesima, al paragone di quelli non altrimenti che al paragone dei politici, piú valeva io.

 

 

VIII.

 

In ultimo andai agli artefici, perché mi sapeva da me non essere io intendente di nulla; e quelli sapeva di avere a trovare intendenti di molte e belle cose. E non mi fui ingannato, perché veramente essi intendevano cose che non intendeva io, e da questo lato erano piú sapienti di me. Ma, o Ateniesi, i buoni artefici mi parve che il medesimo peccato avessero che i poeti, dacché ciascuno, per lo adoperare bene sua arte, si credeva sapientissimo anche nelle altre maggiori cose; e questa stoltizia oscurava quella sapienza. Onde per parte dell'oracolo interrogai me medesimo se io volessi essere cosí come sono, né per nulla sapiente della loro sapienza né ignorante della loro ignoranza, o avere l'una e l'altra cosa, che hanno quelli. Risposi a me e all'oracolo, che mi giovava essere come sono.

 

 

IX.

 

Or da questi esami mi son nate molte inimicizie, o Ateniesi, e molto aspre e fierissime, dalle quali sono nate molte calunnie, fra l'altre questa: ch'ei mi chiamano sapiente. Imperocché ogni volta che argomento contro gli altri, mostrando che non sono sapienti, quelli che stanno lí credono che sapiente sia io. No, cittadini, quel che pare è questo: sapiente davvero essere Iddio, e volere Egli dire per quell'oracolo che la umana sapienza vale poco o nulla: ed è chiaro che non intende Socrate, e che usa del mio nome a fine di porre me a esempio, come se dicesse: - Colui tra voi, o uomini, è sapientissimo, il quale come Socrate conosciuto ha ch'ei non vale nulla in sapienza -. Onde anche ora vo guardando intorno, e cerco tra i cittadini e forestieri chi io creda essere sapiente; e, secondo l'Iddio, lo esamino; e se poi non mi pare tale, aiutando io l'Iddio, gli mostro che non è sapiente. E per questa occupazione non ho tempo di far cosa niuna degna che si dica, né per la città né per la casa, e sono in povertà grande, per servigio dell'Iddio.

 

 

X.

 

Oltre a ciò, i giovani che s'accompagnano meco (e vengon da sé), figliuoli dei piú ricchi, che hanno gran tempo, udendo esaminar gli uomini, godono, e molte volte fra loro provano d'imitare me, e poi si mettono a esaminare gli altri. E sí che ne trovano in abbondanza, penso io, uomini che si credon sapere qualche cosa, sapendo poco o nulla. E ne viene che gli esaminati da loro se la pigliano con me; con loro, no: e dicono che ci è un certo Socrate, scelleratissimo uomo, che guasta i giovani. E se alcuno dimanda: - Per guastarli che fa? e che insegna? - non han da risponder nulla, ché non sanno; ma, per non parere impacciati, dicono quel che si è soliti a dire contro tutti i filosofi: che insegna le cose del cielo e le cose di sotto terra, e a non credere negl'Iddii, e a fare diritto il torto. Perocché la verità credo non la vorrebbero dire, che si sono palesati persone che presumono di sapere, non sapendo nulla. E siccome ambiziosi e furiosi, e molti, e concordemente e persuasivamente e da un pezzo diffamanti, sí di loro gravi calunnie vi ebbero riempiuti gli orecchi. Tra costoro Meleto mi si è levato contro, e Anito e Licone; Meleto in collera per ragion dei poeti; Anito, per gli artefici e i politici; e Licone, per gli oratori. Onde, come diceva dal principio, mi maraviglierei se questa calunnia, fattasi cosí molta, da voi potessi io dissipare in sí poco tempo. Ma la verità è questa, e ve la ho detta tutta, non nascondendo né scemando nulla; sebbene sono quasi certo che perciò mi odiano. Il che è prova ch'io dico vero, e ch'ella è una calunnia, e che la cagione della calunnia è questa. E cercate ora o poi, voi troverete che è cosí.

 

 

XI.

 

E questa difesa, quanto alle colpe delle quali mi hanno accusato i primi miei accusatori, basta. Da Meleto ora mi proverò di difendermi; il buono, l'amante della città, come dice; e dagli altri venuti poi. E dacché questi accusatori son diversi da quelli, la loro giurata querela ripigliamola. Su per giú dice : «Socrate è reo verso ai giovani, guastandoli; e verso agl'Iddii, in quelli non credendo ne' quali la città crede, ma sí in strane cose demoniache, e nuove». Tale è l'accusa: esaminiamola capo per capo. Dice che io sono reo verso i giovani, perché li guasto; e io dico che reo è Meleto, perché scherza pensatamente, trae in tribunale le persone leggermente, e dà a vedere di curarsi molto di cose delle quali nulla non si curò mai. Ch'ella è cosí, mi proverò di mostrarvelo.

 

 

XII.

 

Qua a me, Meleto: di', non ti sta assai a cuore che divengano buoni, quanto si può, i giovani? - A me, sí. - Via, di' a costoro chi li fa migliori. Lo déi sapere, se ti sta a cuore, dacché trovato hai, come tu di', chi li guasta, e me trai al cospetto di costoro, e me accusi. Via, chi li migliora? mostralo: chi è?... Meleto, tu taci, e non sai che dire. E non ti pare brutta cosa? e non ti par sufficiente prova di quel che dico io, che dei giovani non te ne sei curato niente? Ma di', o buono uomo, chi li migliora? - Le leggi. - Ma non dimando questo io, o ottimo uomo, ma sí chi prima conobbe ancora questa medesima cosa, le leggi. - Costoro, o Socrate; i giudici. - Come di', o Meleto? costoro sono atti a educare i giovani, e li migliorano? - Sí certo. - Tutti? o alcuni di loro sí, altri no? - Tutti. - Che buone novelle, per Giunone! oh la gran gente che giova! E questi qua, gli uditori, li migliorano? o no? - Ancora questi. - Che? e i consiglieri? - Ancora i consiglieri. - Ma, o Meleto, i giovani li guastano forse quelli dell'assemblea? o li migliorano ancora quelli? - Ancora quelli. - Tutti gli Ateniesi dunque, come pare, li fan belli e buoni, eccetto me; solo io guasto: cosí di' tu?... - Cosí, cosí dico io. - Oh la grande sventura che mi dici; e rispondi: ti pare il medesimo anche dei cavalli, tutti li migliorano e solo uno li guasta? o, al contrario, li può migliorare solo uno, o pochissimi, i cavallerizzi; e i molti, se hanno a far con cavalli e li adoperano, li guastano? Non è cosí, o Meleto, e dei cavalli e di tutti gli animali? Bene è cosí, o che tu e Anito diciate sí, o no; ché sarebbe gran beatitudine quella dei giovani, se fosse vero che uno solo li guasta, e gli altri li migliorano. Ma, o Meleto, ben mostri non aver pensato mai ai giovani, e prova ne dài chiara; e nondimeno, sotto specie d'amore a questi giovani dei quali non ti sei curato niente, tu qua mi meni.

 

 

XIII.

 

E per Giove ci di', o Meleto, se è meglio abitare fra buoni, o fra malvagi cittadini... Caro! rispondi; non è niente difficil cosa quella che dimando. E i malvagi, a quei che tutto dí li accostano non fanno del male; e del bene i buoni? - Sí. - E ci è chi voglia essere da quelli danneggiato, con i quali conversa, piuttosto che giovato? rispondi, o buono uomo; dice anche la legge che si ha a rispondere; c'è chi voglia essere danneggiato? - No. - Su via, tu trai qua me come un che corrompe e fa malvagi i giovani volontariamente, o involontariamente? - Volontariamente, dico io. - Che, o Meleto? tu all'età tua sei tanto piú savio che non io all'età mia, che tu conosciuto hai che i cattivi sempre fanno del male a quelli che li accostano, e i buoni del bene; e io son cosí ignorante, che financo ignoro che se alcuno farò malvagio di quelli che conversano meco, starò nel pericolo di ricevere del male io da lui; cosí ignorante, che fo cotesto male come di' tu, volontariamente? Non te lo credo, né io né nessun altro. Ma, o non corrompo, o, se mai, involontariamente; sicché in tutte e due i casi tu mentisci. E se involontariamente, per tali involontarii peccati non è di legge trarre qua alcuno, ma sibbene averlo a sé da parte, ammonendo e insegnando. Egli è chiaro che piú non farò quel che io fo involontariamente, quando avrò appreso. Ma ti sei scansato dallo starti con me e dall'insegnarmi; non hai voluto; e mi meni qua dove è di legge che coloro siano menati, i quali han bisogno di castigo, ma non d'insegnamento.

 

 

XIV.

 

Ma, Ateniesi, come io diceva, manifesto è che Meleto di queste cose non se n'è curato mai né molto né poco. Nientedimeno di': come affermi tu, o Meleto, che io corrompo i giovani? O non è chiaro, secondo l'accusa che hai scritta, che insegnando a non credere in quelli Iddii nei quali la città crede, ma bensí in strane cose demoniache, e nuove? Non di' tu che, con insegnare cotesto, io corrompo quelli? - Sí, sí, cotesto. - E via, in nome di questi stessi Iddii dei quali si parla, piú chiaro di' e a me e a questi giudici. Io non posso intendere: di' tu ch'io insegno a credere che ci siano Iddii, e ch'io stesso credo ci siano Iddii, e non sono al tutto ateo, non sono cosí reo; ma non quelli che la città crede, ma sibbene diversi, e, perché diversi, tu mi accusi? o proprio affermi che io stesso non credo niente che ci siano Iddii, e che cotesto insegno io agli altri? - Cosí affermo, che tu non credi proprio niente ci siano Iddii. - O maraviglioso Meleto, perché tu di' cosí? sole e luna non credo io dunque che siano Iddii, come credon gli altri uomini? - Per Giove, no, o Giudici: il sole ei dice che è pietra; e la luna, terra. - Anassagora credi tu accusare, caro Meleto? e cosí sprezzi costoro, e li credi cosí salvatichi di lettere, da non sapere che di cotali discorsi i libri di Anassagora, il Clazomenio, sono pieni? Oh bella! i giovani imparano da me questa dottrina, che quando vogliano, con una dramma a dir molto molto, possono comperare dall'orchestra, dando la baia a Socrate se se ne vuol fare bello lui e di dottrina sí strana! Ma, per Giove, ti par cosí di me, che non creda in nessuno Iddio? - Nessuno, nessuno, per Giove. - Non ti si ha credere, o Meleto, e, a vedere, non credi a te né anche tu. Imperocché costui, Ateniesi, mi par molto procace e prosuntuoso, e che coteste accuse le ha proprio scritte per procacia e prosunzione, e perché giovine. Ch'egli ha l'aria di un che compone enimma, per tentare: «Socrate, il sapiente, o conoscerà che io mi contraddico per pigliarmi gioco di lui, o no; e se no, trarrò lui in inganno e gli altri che odono». Ché manifestamente egli mi si contraddice nell'accusa, come se dicesse: «Socrate è reo, perché non crede esserci Iddii, e crede esserci Iddii». Pare un che burla.

 

 

XV.

 

Guardate con me: ch'ei si contraddice cosí, è chiaro. Tu rispondi a noi, o Meleto: e voi ricordatevi di quello che vi ho pregato in principio, di non mi far rumore se io ragiono nel modo solito. - Ci è alcun uomo, o Meleto, il quale creda esserci cose umane sí, ma uomini no?... (che risponda, o Giudici, e non si dimeni, non ischiamazzi) - c'è alcuno che non creda esserci cavalli, e cose cavalline sí? che non creda esserci sonatori di flauto, e sonate di flauto sí?... Non c'è: o il piú buon uomo, se non vuoi rispondere tu, rispondo io a te e a questi altri. Ma a questo déi rispondere tu: c'è alcuno il quale creda esserci cose demoniache, e demoni no? - Non c'è. - Che bene mi hai fatto! che alla fine tu m'hai risposto un poco: ma sforzato. Ora tu affermi che io credo e insegno esserci demoniache cose, nuove o vecchie che siano? dunque a cose demoniache credo, secondo che di' tu; e giurato l'hai nella tua querela. Ma se io credo in cose demoniache è ben di necessità che io creda anche nei demoni: non è cosí?... Cosí; dacché non rispondi, suppongo che tu consenta. E i demoni non crediamo noi essere Iddii o figli d'Iddii? sí o no? - Eh sí! - Dunque se io credo in demoni come tu affermi, e se i demoni son cotali Iddii, ecco che dico io, tu fai un enimma, per fare il grazioso, affermando che negli Iddii io non ci credo e ci credo. E se poi i demoni son cotai figli spurii d'Iddii, partoriti o da ninfe o da altre che dicono, qual uomo crederebbe esserci figli d'Iddii, e Iddii no? sarebbe tal strana cosa, quale se alcun credesse esserci figli di cavalli e di asini, i muli, e non credesse esserci cavalli e asini. Ma, o Meleto, una delle due: o m'hai scritto l'accusa per pigliarti giuoco di me e mettermi a prova, o per non trovar niuna vera colpa che tu imputare mi potessi; ma che ti venga fatto di persuadere alcuno, anche se di piccola mente, che uno medesimo creda esserci cose demoniache e divine, e demoni e Iddii ed eroi no, non ci è modo né verso.

 

 

XVI.

 

Ma, o Ateniesi, che non sono io reo di quello che mi accusa Meleto di molta difesa mi pare che non ci sia alcun bisogno; queste ragioni bastano. Ma ciò che detto ho dianzi, che io mi sono tirato addosso molto odio e di molti, sapete che è vero. E quest'odio mi perderà, se pur mi può perdere: non Meleto né Anito, sí quest'odio o invidia che perdette e, credo, perderà altri molti e buoni uomini; perché non è a temere per nulla, che in me si arresti. Dirà alcuno: - Non ti vergogni, Socrate, che a tale esercitazione ti sei dato, per la quale stai nel pericolo, presentemente, di morire? - Ma io giustamente risponderei a lui: - Tu non di' bene, o uomo, se credi che uno, valendo pur poco, abbia a ragionare il pericolo della vita o la morte, quando fa alcuna cosa; e non considerare solo se cosa giusta fa o ingiusta, se opera fa di buono o di malvagio uomo. Se no tutti da poco, secondo il tuo discorso, sarebbero quei Semidei morti a Troia; tra gli altri il figlio di Tetide, il quale tanto sprezzò il pericolo per non sostenere vergogna, che, a lui deliberato di uccidere Ettore, dicendo cosí, come penso io, la madre ch'era Dea: «Se tu, o figliuolo, vendicherai la morte di Patroclo, il tuo amico, e ucciderai Ettore, morirai;

 

Dopo quello d'Ettor pronto è il tuo fato»;

 

egli, a udire questo, facendo picciol conto della morte e del pericolo, e temendo la vile vita se gli amici non vendicava, cosí rispose: «Muoia pure io tosto dopo data la pena al reo, acciocché io qua non rimanga a ludibrio presso alle curve navi, peso alla terra». O credi che siasi angustiato per la morte o il pericolo? - In verità è cosí, o Ateniesi: dove si pone alcuno da sé medesimo, giudicando essere il suo meglio; o dove posto è da colui che comanda; ivi, ancoraché in pericolo, deve stare; non badando niente né a morte né a null'altro, ma sí alla vergogna.

 

 

XVII.

 

Laonde io avrei operato perversamente, se quando i capitani da voi eletti per comandarmi m'ebbero assegnato il luogo e in Potidea e in Anfipoli e in Delio, nel luogo assegnato da quelli io stetti, sí come qualunque altro, contuttoché in pericolo di morire; e poi assegnandomi Dio, come ho pensato e supposto, che io dovessi vivere filosofando ed esaminando me e gli altri, qui, impaurito della morte o che altro mai, io avessi abbandonato la ordinanza. Sarebbe assai grave cosa: e allora ben giustamente si trarrebbe me in tribunale perciò che non credo negli Iddii, disubbidendo all'oracolo e temendo la morte e riputandomi sapiente senza che fossi. Imperocché, cittadini, il temere la morte niente altro è, che parer sapienti senza essere; perché è parer di sapere ciò che non si sa. Ché nessuno sa della morte se ella per avventura non sia all'uomo il maggiore di tutti i beni, e ognuno la teme come se ben sapesse essere quella il maggior dei mali. E non è ignoranza cotesta, la piú vituperevole, creder di sapere ciò che non si sa? E io, cittadini, proprio in questo differisco forse dai molti; e se cosa ci è, per la quale io affermerei essere piú sapiente di alcuno, questa è, che come non so delle cose dell'Ade, cosí anche credo di non saperne; ma il fare ingiustizia e il disubbidire a uno migliore, o Dio o uomo, che mala cosa è, e brutta, so io. Giammai non temerò dunque né fuggirò quello che non so se sia un bene, ma sí piú tosto i mali che so essere mali. Onde se anche mi lasciaste ora non dando retta ad Anito (a lui che disse non bisognava che qua io entrassi, ma, entrato, necessità era uccidermi, annunziandovi che se mai io campassi, seguitando gli insegnamenti di Socrate tutti i vostri figliuoli sarebbero tutti guasti); e se mi diceste anche: - O Socrate, ad Anito noi non diamo retta e ti lasciamo, a questo patto, che non passi piú il tempo in fare di quelle investigazioni, che piú non filosofeggi; se no, se ti cogliamo, morirai -; se, come dico, mi lasciaste, ma a questo patto, io vi direi - Miei cari Ateniesi, vi saluto, e piuttosto ubbidirò a Dio, che a voi; e insino a che io ho fiato e forze non cesserò di filosofare e di dare avvertimenti e consigli a voi e a chiunque mi avvenga, dicendo come son solito: «O ottimo uomo, tu che sei Ateniese, e di una gran città e gloriosissima per sapienza e possanza, non ti vergogni di aver cura delle tue ricchezze acciocché quanto si può elle si multiplichino, e della riputazione e dell'onore; e non avere poi cura e sollecitudine della sapienza e della verità, e dell'anima, acciocché, quanto si può, buona ella divenga?» E se alcuno di voi mi oppone che ben egli ne ha cura, nol lascerò cosí tosto, non anderò via, ma lo interrogherò, ed esaminerò, ed iscruterò; e se mi pare ch'ei non possieda la virtú, pur dicendo di sí, lo riprenderò perocché ha a vile ciò che è pregevolissimo, e ha in pregio ciò ch'è vilissimo. E questo fo con giovani e vecchi, in chiunque mi avvenga, con forestieri e cittadini; e piú con voi cittadini, perché mi siete prossimi piú voi di nascita. Ché sappiate, questo mi comanda l'Iddio; e io credo che niuno maggior bene abbia la città vostra, che questo ministerio che fo all'Iddio, questo mio andare attorno non facendo altro che confortar voi, e giovani e vecchi, a non prender cura né de' corpi né delle ricchezze né prima né piú dell'anima, acciocché, quanto si può, ella divenga buona; dicendo che non da ricchezza viene virtú, ma sí da virtú vien ricchezza ed ogni altro bene, e ai cittadini e alla città. E se, dicendo cotesto, corrompo i giovani, pernicioso è quello che io dico; ma se alcuno afferma che, non cotesto, ma sibbene altro insegno io, afferma quel che non è -. E soggiungerei: - Ateniesi, diate retta ad Anito, o no; mi assolviate, o non mi assolviate; io non farò altrimenti, né anche se molte volte io avessi a morire.

 

 

XVIII.

 

Non rumoreggiate, Ateniesi, per quel che dico, ma state quieti a udire come vi ho pregato; ché, udendo, penso che ne riceverete giovamento. Perché altre cose vi ho a dire io, che forse vi faran gridar forte: ma no, state quieti. Via, sappiate che se ucciderete me son quale dico, piú che me, danneggerete voi medesimi. A me non farebbe niuno danno né Meleto né Anito; ché non potrebbero; imperocché, secondo che credo io, non è lecito che il piú buono possa essere danneggiato dal piú tristo. Ucciderebbe egli, o caccerebbe in bando, o disonorerebbe; ché forse le dette cose egli e alcun altro credono grandi mali; ma io no, male piuttosto è fare quello che costui fa, tentare di uccidere ingiustamente un uomo. Dunque io non difendo ora me per me, come penserebbe alcuno, ma per voi; acciocché condannando me, non pecchiate contro il dono di Dio. In vero, se mi ucciderete, non vi sarà agevole cosa (la dirò anche se fo ridere) trovare un altro come me, messo da Dio addosso alla città come addosso a grande e generoso cavallo, ma per la grandezza un poco sonnolento e abbisognoso di essere destato da sprone: ché con tale ufficio direi che Dio ha deputato me alla città, me che scotendo, persuadendo, rampognando, vi sto tutto il dí addosso. Sí, cittadini, un altro come me non vi nascerà facilmente; e voi, se mi date retta, mi risparmierete. Ma forse, da subita ira presi come sonnecchianti desti per forza, tirando calci, dando retta ad Anito, uccidereste leggermente, e consumereste la rimanente vita dormendo, se pure l'Iddio non mandasse alcun altro, avendo di voi cura. E che io sia alla città un dono di Dio, potete intendere considerando che non par cosa umana che abbia trascurato i fatti miei, la mia casa, già è tanti anni, e curi i fatti vostri stando ai fianchi di ciascuno predicando virtú, come padre o come fratello piú vecchio. E se da questi conforti e consigli mia utilità ne traessi, se ne ricevessi mercede, ci sarebbe una ragione. Ma vedete anche voi, che gli accusatori, pur accusandomi di tante altre cose spudoratamente, non hanno avuto tanta spudoratezza da addurre testimoni che io abbia patteggiato mai o dimandato mercede. Ma io un buon testimone credo di avercelo, che io dico vero, la povertà.

 

 

XIX.

 

Ma parrà strano che io dia consigli in privato andando attorno e affaccendandomi; e non ardisca montar su e in pubblico dare consigli alla città, in cospetto del popolo. La cagione l'avete da me udita molte volte: cioè, ch'ei m'avviene un che divino e demoniaco, come disse nella querela anche Meleto, pigliandosene gioco. Ed è una cotale voce, che, sino da fanciullo, sento io dentro. E tutte le volte che io la sento, mi svolge da quello che son per fare: sospingere, non sospinge mai. Ella mi si oppone che non metta mano nelle cose della città; e mi par che a ragione. Perché, Ateniesi, sappiate bene che se da un pezzo ci avessi messo mano, da un pezzo sarei morto, e non avrei niente giovato né a me né a voi. Non mi andate in collera, se dico il vero; ché uomo non si salva, chiunque sia, a voi o ad alcun'altra moltitudine generosamente contrastando e impedendo che cose ingiuste siano fatte nella città, e contrarie alle leggi; ed è necessità a chi combatte per la giustizia che non viva egli in pubblico, se pur vuole salvarsi per picciol tempo, ma sí privatamente.

 

 

XX.

 

E di ciò vi arrecherò grandi prove io medesimo: parole no, ma sí ciò che apprezzate voi, fatti. Udite dunque quel che m'avvenne, acciocché sappiate che io né cederei a nessuno contro giustizia, per paura di morte, né se morire dovessi subitamente per non cedere. Vi dirò cose giudiziali; dolorose, ma vere. Io non ebbi mai, Ateniesi, alcun maestrato in città; sí fui un del Consiglio. E avvenne che quei della mia tribú Antiochide facessero da Pritani quando voi i dieci capitani che non recuperarono i naufraghi e i morti della battaglia navale voleste giudicare tutti insieme, contro legge, come, passando tempo, vi foste accorti voi medesimi. Allora io solo dei Pritani mi fui opposto a voi acciocché nulla fosse fatto contro le leggi; e votai contro. E già gli oratori lesti a interdirmi, menarmi in carcere; incorandoli, gridando voi: ma io pensai meglio mettermi in pericolo con la legge e con la giustizia, che con voi starmene deliberanti la ingiustizia, per paura di catene e di morte. E questo fu, reggentesi tuttavia la città a popolo. Venuta la oligarchia, un dí i Trenta, alla loro volta, mandarono chiamando certuni, e me, quinto, nella sala del Tolo; e comandarono che dovessimo menare via da Salamina Leonte il Salaminio, affinché morisse: e scelleratezze simili ne ordinaron molte e a molti, volendo quelli riempiere di colpe quanti piú potessero. E allora non a parole mostrai, ma sí a fatti (parrò rozzo), che non cale a me nulla della morte, proprio nulla; ma di non far cosa niuna ingiusta né empia, di questo mi cale bene assai. Perocché sí non mi spaventò quella signoria, contuttoché violenta, che cosa niuna ingiusta facessi: ché, usciti di quella sala, i quattro s'avviarono per Salamina e menarono Leonte; e io mi avviai a casa. E forse io era morto, se quella signoria non la cacciavan giú presto: e di questo che dico, eccovi molti testimoni.

 

 

XXI.

 

E credete che poteva durar tanti anni se io era in pubblici ufficii, sostenendo, come si conviene a dabbene uomo, il giusto, e di quello, com'egli è debito, facendo estimazione piú che di ogni altra cosa? Oh no! Ateniesi; né io né verun altro. E io per tutta la vita, e in pubblico, se feci mai cosa alcuna, tale apparirò, e tale in privato, come a niuno mai concedente nulla contro il giusto, chiunque fosse, a niuno, né anche di questi che i miei calunniatori chiamano miei discepoli. Io poi non fui maestro mai di alcuno: e se, parlando e badando io ai fatti miei, alcuno mi vuole udire, sia giovane sia vecchio, non ho detto no mai; né se mi dàn danaro in mano apro bocca, e se non me ne dànno, no; ma similmente e a ricco e a povero mi profferisco per interrogare se voglion rispondere e stare a udire quello che dico io. E o buono diventi alcuno di loro o no, dire che la cagione sono io non sarebbe giusto; io, che a niuno di loro né ho promesso mai d'insegnare né ho insegnato mai niuna dottrina: e se alcuno dice aver mai imparato o udito da me cosa privatamente, la quale tutti gli altri no, sappiate che non dice vero.

 

 

XXII.

 

Ma perché mai alcuni godono a passar con me il tempo? Voi, o Ateniesi, l'avete udito, e io vi ho detto la verità: essi godono a udire esaminare quelli che si credono sapienti e non sono. Certo ella è cosa non spiacevole. E, come io affermo, a me è stato commesso da Dio che facessi questo: per vaticinii, e per sogni, e per tutti quei modi che divino fato, in ordinar cosa alcuna a uomo, usati mai avesse. E queste, o Ateniesi, sono cose vere e ben si dimostrano: imperocché, se dei giovani quali corrompo io, quali io ho corrotto, bisognava, se alcuni di essi venuti su di anni conobbero che io a loro da giovani detti mali consigli, che, montati quassú, m'avessero accusato e preso di me vendetta; e non volendo essi, bisognava che padri, fratelli, congiunti, se mai quei di loro casa ricevettero da me alcun male, ora se ne ricordassero e se ne vendicassero. Molti di loro sono qui presenti; io li vedo: prima Critone, qui, della mia età e della mia tribú, padre di Critobulo, qui; poi Lisania, lo Sfettio, padre di Eschine, qui; e anche Antifonte qui, il Cefisiano, padre di Epigene. E questi altri qui, i fratelli dei quali conversarono meco: Nicostrato, il figliuolo di Teozotide, fratello di Teodoto (Teodoto poi è morto, e nol pregherà che stia zitto); e Paralo, qui, il figliuolo di Demodoco, del quale era fratello Teagete; e questo Adimanto, figliuolo di Aristone, del quale è fratello questo Platone, qui; ed Eantodoro, del quale è fratello Apollodoro, qui: e vi posso nominare altri molti, alcuno dei quali bisognava bene che Meleto messo avesse innanzi come testimonio, nella sua orazione. E se allora se ne fu dimenticato, lo metta innanzi ora; io gli cedo il luogo; se li ha, parli. Ma, cittadini, troverete tutto il contrario, tutti pronti ad aiutare me, il corrompitore, colui che ha fatto male a quelli di loro casa, come dicono Meleto e Anito. Forse i corrotti avrebbero alcuna ragione di aiutarmi; ma i non corrotti, uomini già vecchi, parenti loro, quale altra ragione hanno, aiutandomi, se non la diritta e la giusta, la quale è, che Meleto essi sanno che mentisce, e che io dico vero?

 

 

XXIII.

 

Via, gli argomenti sono su per giú questi, che io avrei per difendermi, e forse altri simili. E tosto si sdegnerebbe alcuno di voi se si ricordasse che, combattendo per cause di minor momento di questa mia, egli pregò e supplicò i giudici con molte lacrime, menando quassú i suoi piccoli figliuoli acciocché quelli a grande commiserazione movesse, e molti altri famigliari e amici; vedendo che io, ancoraché paia essere nello estremo pericolo, non fo nulla di tutto questo. Ciò pensando, e tosto, siccome punto da me, stizzito, con istizza gitterebbe il voto nell'urna. Ora se alcuno di voi è cosí disposto (non affermo che sia, se è), mi par che io direi convenevolmente, dicendo cosí a lui: - O ottimo uomo, parenti ho anch'io (e qui fa quello che dice Omero: «né di quercia son nato né di pietra, ma di uomini»): parenti ho, e figliuoli; tre, uno giovinetto, e due fanciulli; e pur non menerò quassú niun di loro per pregare che mi assolviate. Ciò non farò io. E perché? Non per orgoglio, o Ateniesi, né per disprezzo di voi (quanto alla morte, se la guardo con coraggio in viso o no, gli è un altro discorso), ma sí perché non mi par bello, per la riputazione mia e vostra e di tutta la città, ciò fare: in quest'età poi, con il nome che ho, vero o falso che sia; ché tutti credono in qualche cosa Socrate essere pur differente dagli altri uomini. Or se cosí fossero quelli che o per sapienza o fortezza o qualsiasi altra virtú paiono segnalarsi tra voi, sarebbe vergogna. E di questi tali io ne ho veduto tante volte (che pur parevano essere alcun che) far cose da maravigliare quando li giudicavano i giudici, credendo come avere a patire assai orribil cosa se morivano, come se, non uccidendoli voi, sarebbero stati immortali. Essi mi pare che alla città facciano vergogna, sí che alcun forestiero supporrebbe che quelli segnalati in virtú tra il popolo ateniese, i quali ei presceglie ai magistrati ed agli altri onori, questi niente differiscano dalle donne. Non conviene dunque fare tali cose né anche noi che mostriamo di valere un poco; né a voi si converrebbe tollerarle, se le facessimo; anzi dovreste far chiaro che colui condannereste molto piú, il quale componesse di cotesti pietosi drammi facendo ridicola la città, che non colui il quale quieto se ne rimanesse.

 

 

XXIV.

 

E, lasciando la riputazione, né mi par giusto il pregare il giudice, né pregando procurar suo scampo, ma sí informare e persuadere lui: imperocché non per cotesto siede il giudice, per dispensar graziosamente i diritti, ma sí per giudicare di quelli; e giurò egli non di favoreggiare chi a lui paresse, ma sí di sentenziare secondo le leggi. Dunque non conviene né che noi avvezziamo voi a spergiurare, né voi voi medesimi; ché pii non saremmo né voi né noi. Onde non vogliate, o Ateniesi, che io faccia cotali cose verso voi, quali né reputo belle, né giuste, né sante: specialmente io accusato di empietà, per Giove, da questo Meleto qui. Imperocché egli è manifesto che se persuadessi voi e con il pregare voi sforzassi, i quali avete giurato, io insegnerei a voi a non credere che ci siano Iddii; e proprio in quel che mi difendo di cotesta accusa, mi accuserei da me medesimo che negl'Iddii non credo. Ma no, non è cosí; io credo, Ateniesi, come niuno dei miei accusatori; e lascio a voi, e a Dio, che giudichiate di me nel modo che sarà meglio per me e per voi.

 

(FU GIUDICATO COLPEVOLE).

 

 

XXV.

 

Di questo ch'è avvenuto, che voi, o Ateniesi, mi avete condannato, per molte ragioni non mi sdegno, e specialmente perché mi è giunta non inaspettata la cosa; anzi mi maraviglio assai del numero di voti dell'una e dell'altra parte, perché non mi pensava che avesse a essere differenza cosí poca, ma sí bene molta. Ma ora si vede che se soli trenta voti fossero caduti giú nell'altra urna, scampava io. Ma, anche cosí, da Meleto sono scampato; non pur scampato, ma è manifesto a ognuno che, se non fosse montato quassú Anito e Licone, ei dovea pagar mille dramme, per non aver egli avuto la quinta parte dei voti.

 

 

XXVI.

 

Colui vuole dunque la mia morte? Sia. Ma che pena mi assegnerà da me, o Ateniesi? È chiaro: quella che merito. E quale pena debbo patire o pagare io, perciò che in mia vita non mi quietai mai dalla voglia di apprendere; perciò che non curando di quel che i piú curano, danaro, governo della casa, esser capo di milizia o capopopolo, e gli altri maestrati; e non curando delle congiurazioni e sedizioni nella città, giudicandomi di piú temperato animo che non si convenisse perché, immischiandomici dentro, salvo rimanessi, là non andai, dove andando non poteva giovar niente né a voi né a me, ma dove poteva fare a ciascuno privatamente il maggior benefizio, là andai; provandomi di persuadere ciascun di voi che non dovesse curare delle sue cose prima che di sé medesimo, acciocché buono divenisse e savio quanto potesse, né delle cose della città prima che della città, e via via a questo modo? Adunque quale pena merito io, se sono cosí? non pena, ma premio, se io mi devo assegnare quel che in verità merito: e un premio che mi convenga. E che si conviene a povero e pur benefico uomo, il quale ha bisogno di non intendere ad altro che a confortare voi al bene? Nulla è piú che si convenga, come l'essere cotale uomo nutricato nel Pritanéo; molto piú che se alcun di voi con cavallo o biga o quadriga vinto avesse nei giochi olimpici. Imperocché quello vi fa parer felici, io vi fo essere; e quello non ha niente bisogno di cibo, io sí. Se mi devo dunque assegnare quel che merito, questo mi assegno: vitto nel Pritanéo.

 

 

XXVII.

 

Dicendo cosí, vi parrà forse che io dica per quel sentimento medesimo che quando ho detto della commiserazione e supplicazione, per orgoglio. Ma ciò non è, Ateniesi; piuttosto è che io sono persuaso che mai non ho fatto torto a nessuno volontariamente; ma di questo non persuado voi, perocché poco tempo è che conversiamo insieme. Ché se presso voi fosse una legge, com'è presso altre genti, che non si possa giudicare della morte in un solo dí, ma sibbene in molti, sareste persuasi, credo: ora in sí picciol tempo non è facil cosa dissipare grandi calunnie. Ma persuaso io di non aver fatto torto a nessuno, non ho voglia né anche di fare torto a me medesimo e dire contro me che son degno di patire del male, e condannarmi da me. E per paura di che? che non riceva la pena che vuol Meleto, la quale, dico, non so se è male né se è bene, e per scegliermi in cambio qualche pena la quale so essere male davvero. E quale? la carcere? E perché devo vivere in carcere, sommesso al sovrastante magistrato, agli Undici? Danari forse? e stare in ceppi insino a che non avrò pagato? Ma gli è il medesimo che la carcere, ché danari da pagare non ne ho. Mi condannerò all'esilio? e forse mi condannereste voi a questa pena. Ma dovrei essere accecato dall'amore della mia anima, o Ateniesi, se fossi sí irragionevole che non potessi ragionare cosí: che se voi, che pure siete miei cittadini, non siete stati buoni di sopportare la mia conversazione e i miei discorsi, ma vi furon gravi e odiosi tanto, che cercate di liberarvene; come li sopporteranno gli altri? Oh no! E poi la bella vita che farei io, a questa età, tramutarmi sempre d'una città in altra, sempre cacciato via? perché so bene che dovunque vada, se io parlo, mi ascolteranno, come qui, i giovani: e se non li voglio, essi mi cacceranno via, persuadendo a ciò fare i vecchi; e se li voglio, mi cacceranno via i padri e parenti loro, per cagion di loro.

 

 

XXVIII.

 

Dirà forse alcuno: - Ma non sei buono, Socrate, di vivere tacendo, stando quieto dopo andatone via da noi? - Ma fare intendere ad alcuni di voi questo, è la piú malagevole cosa: perché se dico che questo è disubbidire all'Iddio, e che è impossibile che me ne stia quieto, pensando che io voglia ironeggiare non mi crederete voi; e se dico ch'è grandissimo bene a un uomo far ogni dí ragionamenti su la virtú e quelli argomenti su i quali mi udivate conversare ed esaminare me e gli altri (la vita senza esame è indegna di uomo); se dico questo, tanto meno mi crederete voi. E pure cosí è, come dico; ma non è cosa facile persuadervene. Ma, da altra parte, anch'io non mi sono assuefatto a credermi meritevole di alcun male. Onde se avea danari, mi multava in danari, quanti ce ne voleva; ché non me ne venia danno. Ma non ne ho: salvo che non vi contentiate di quel tanto che posso pagare io (una mina d'argento la potrei forse pagare). Dunque io multo me di tanto. Platone ch'è qui, Ateniesi, e Critone e Critobulo e Apollodoro vogliono che io mi multi di trenta mine, rimanendo essi mallevadori. Dunque io multo me di tanto. E v'entran mallevadori del denaro questi qui; persone delle quali ci è da fidarsi.

 

(FU CONDANNATO A MORTE).

 

 

XXIX

 

Per non aspettare un poco di tempo, voi, Ateniesi, nome avrete e biasimo da coloro che voglion vituperare la città, di avere ucciso Socrate, uomo sapiente: ché mi diranno sapiente, anche se non sono, quelli che vi voglion fare onta. La cosa vi veniva da sé, che io morissi, se aspettavate un poco: perché, guardate la età, come già è lontana dalla vita, e vicina alla morte. Ciò dico, non a tutti voi, ma sí a quelli che hanno votato la mia morte. E a questi stessi dico: - Credete, o Ateniesi, d'avermi colto di quei cotali argomenti sprovvisto con i quali poteva persuadere voi, se credeva che bisognasse dire e fare di tutto pur di scampare dalla condanna? Oh no! sprovvisto sí, non di argomenti, ma sí di audacia e impudenza e non disposto niente a parlare in quei tali modi a voi dolcissimi a udire, piangendo e lamentandomi e altre molte cose facendo e dicendo di me indegne, dico, ma quali a udire vi hanno avvezzato gli altri. Ma né allora io credeva che bisognasse far cosa niuna servile, per paura del pericolo, né ora mi pento di essermi cosí difeso; anzi piú assai volentieri scelgo di essermi difeso in questo modo, e morire, che non in quello, e vivere; perché né in tribunale e né anche in guerra non conviene, né a me né ad alcun altro, far di tutto pur di scampare della morte; perché è certo che molte volte in battaglia uno scamperebbe della morte o se gittasse le armi o se verso gl'inseguitori egli supplichevole si volgesse, e che ci è nei singoli pericoli molti modi per fuggire la morte sí veramente che dia il cuore di fare e dire ogni vile cosa. Ma, Ateniesi, badate non sia malagevole, non già questo, il fuggir la morte; ma sí malagevole piú assai il fuggire la malvagità, la quale corre piú veloce della morte. E ora io, sí come tardo e vecchio, colto fui da quella che è piú tarda; i miei accusatori, sí come piú gagliardi e feroci, da quella che è piú veloce. E io me ne vado, condannato da voi a essere morto; costoro, condannati dalla verità a essere malvagi e ingiusti; e io accetto la pena mia, e questi la loro. Dovea forse essere cosí, e credo che ciascuno ricevuto ha sua misura.

 

 

XXX.

 

E ora a voi, che m'avete votato contro, voglio vaticinare quel che vi succederà dopo, perché sono già nell'ora che piú gli uomini vaticinano, essendo presso alla morte. Dico, a voi che mi avete ucciso, che tosto caderà sopra voi vendetta, piú aspra molto, per Giove, che non quella che presa avete di me, uccidendomi. Ché voi avete fatto questo, immaginando liberarvi dal dover rendere ragione di vostra vita; ma vi succederà tutto il contrario, vi dico, perché accusatori contro voi se ne leveranno piú molti, i quali ratteneva io, non accorgendovene voi; e piú saranno aspri, e v'inriteranno piú, quanto piú sono giovani. Ché se pensate, uccidendo uomini, rattenere alcuno dal rampognare a voi la non diritta vita, pensate stoltamente: imperocché non è cotesta liberazione né possibile per niuno modo, né bella; ma quella è bellissima e molto agevole, che è, non in fare impedimento agli altri, ma sí in procurare di render quanto si può buoni sé medesimi. Dopo questo vaticinio fatto a voi che m'avete votato contro, mi accommiato da voi.

 

 

XXXI.

 

Ma con voi, che avete votato l'assoluzione, ragionerei volentieri di una cosa che m'è avvenuta, mentre i magistrati d'altro si occupano, e non è peranco l'ora di andare là dove mi aspetta la morte. Rimanete dunque con me, questo tempo: ché nulla vieta che noi conversiamo insieme, insino a tanto che è lecito: perché io voglio mostrare a voi, come ad amici, che significa mai quello che m'è avvenuto. M'è avvenuto, o giudici (chiamandovi giudici, parlo dirittamente) una certa cosa maravigliosa; perocché la solita vaticinatrice voce, quella del demone, tutto il tempo innanzi la sentiva io molto frequentemente, contrariandomi pure in piccole cose, se io stava per non far bene. Ma ora mi succedono cose, come voi stessi vedete, le quali si crederebbero e si credono gli estremi mali, e nondimeno né stamane uscendo di casa mi contrariò il segno dell'Iddio, né salendo qua in tribunale, né mentre difendevami qualunque cosa fossi per dire, benché, parlando altre volte, sovente mi fermasse la parola a mezzo. Ma ora, durante questo processo, checché facessi o dicessi, non mi contrariò mai. Quale è la cagione, quella che penso io? Ve la dirò. E' pare che quel che m'è accaduto sia un bene, e non c'è caso che pensiamo dirittamente noi, quanti crediamo che il morire sia un male. Una gran prova è che non poteva il solito segno non contrariarmi, se io era per far cosa che non fosse buona.

 

 

XXXII.

 

E vediamo per questa altra via d'intendere come c'è da sperare molto che sia un bene. Imperciocché morire è una delle due cose: o come non esser nulla, e il morto non ha piú niuno sentimento di niuna cosa; o, secondoché dicono, è un cotal transito e tramutazione dell'anima di questo luogo qui ad un altro luogo. E se non c'è niuno sentimento, ed è come un sonno allora che dormendo non si vede né anche sogno niuno, sarebbe un guadagno maraviglioso la morte. Perciocché io penso che se mai alcuno scegliesse una tal notte, nella quale si fosse addormentato cosí profondamente ch'egli né anche veduto avesse alcun sogno, e contrapponendo a quella le altre notti e giorni di sua vita, ed esaminando, dovesse poi dire quante notti e giorni passati ha in sua vita meglio e piú dolcemente di quella; io penso che, non pure un privato uomo, ma altresí il gran Re queste troverebbe facili assai a contare in comparazione a tutti gli altri giorni e alle altre notti. E se tale è la morte, un guadagno essa è, io dico; imperocché cosí appare nulla piú essere tutto il tempo, che una notte. Se poi la morte è come peregrinazione di qua ad un altro luogo, e vero è tutto quel che si dice, che là abitano tutti i morti, quale maggior bene di questo potrebbe essere mai, o giudici? Imperocché se alcuno, pervenendo nell'Ade, liberatosi di questi che qua si dànno nome di giudici, troverà i veri giudici, i quali si dice che anche là giudicano, Minosse e Radamanto ed Eaco e Triptolemo, e tutti gli altri semidei i quali in vita loro furono giusti; forse che sarebbe da disprezzare cotale peregrinazione? o, al contrario, a qual prezzo non torrebbe qualunque di voi potere conversare con Museo e Orfeo e Esiodo e Omero? Morire molte volte voglio io, se tali cose sono vere. Oh la conversazione maravigliosa che là sarebbe la mia, quando mi abbattessi in Palamede, e Aiace di Telamone, e in alcun altro di quelli antichi, morti per ingiusto giudicio! Certo, a paragonare i casi miei ai loro, non mi dispiacerebbe; e specialmente, che è il meglio, a passare il tempo esaminando e perscrutando quei di là, come faceva questi di qua, e vedere anche tra quelli chi è savio, e chi crede di essere ma non è. Perocché, quanto non pagherebbe alcuno di voi, o giudici, se interrogare colui potesse che la grande oste menò contro a Troia, o Ulisse, o Sisifo, o tanti altri uomini e donne che potrei nominare io; e ragionare e conversare là con essi, ed esaminare? Tale beatitudine sarebbe ella, che forte cosa è a dire. Né mai avviene per cagione di cotesto esame che quelli di là uccidano; perocché, oltre alle altre cose onde piú felici sono quelli di là che questi di qua, quelli sono perpetuamente immortali, se vero è ciò che si dice.

 

 

XXXIII.

 

Ma dovete sperar bene anche voi, o giudici, in cospetto alla morte: e, se non altro, credere per vero solo questo: che a colui che è buono non accade male alcuno, né vivo né morto, e che gl'Iddii non trascurano le cose sue. Né quello che a me è avvenuto ora, è per caso: perocché chiaro vedo che il morire ed esser liberato dalle brighe del mondo per me era il meglio. Perciò non mi contrariò mai il segno dell'Iddio; e io stesso non sono niente in collera con quelli che m'han votato contro e con gli accusatori, quantunque non con questa intenzione m'avessero votato contro e accusato, ma sibbene credendo farmi del male. E in ciò sono da biasimare.

Ma ad essi io mi rivolgo ora, e cosí li prego:

I miei figliuoli, quando saranno giovani, castigateli, o cittadini, tormentandoli come io voi, se vi paiono piuttosto aver cura del danaro o d'altro, che della virtú: e se vi paiono voler mostrare d'esser qualche cosa non essendo nulla, svergognateli, come io voi, per ciò che non curano di quel che devon curare e si credono valere qualche cosa, non valendo nulla. Se ciò farete, avremo ricevuto da voi quello che giusto era che ricevessimo, io e miei figliuoli.

Ma già ora è di andare: io, a morire; voi, a vivere. Chi di noi andrà a stare meglio, occulto è a ognuno, salvoché a Dio.

 

 



 

 

 

CRITONE

 

 

 

 

SOCRATE Come mai sei venuto qui a quest'ora, Critone? Non è ancora presto?

CRITONE  È presto, sì.

SOCRATE  Che ora è, di preciso?

CRITONE  Manca poco all'alba.

SOCRATE  Mi meraviglio che la guardia della prigione abbia acconsentito ad aprirti.

CRITONE   Ormai mi conosce bene, Socrate: vengo qui spesso, e gli ho pure fatto qualche favore.

SOCRATE  Sei qui da poco, o da tanto?

CRITONE   Da un bel po'.

SOCRATE  E allora perché non mi hai svegliato subito, e te ne stai seduto lì in silenzio?

CRITONE  No davvero, Socrate! Neanch'io vorrei vegliare insonne in tanta sventura. Peraltro sono rimasto meravigliato a vedere come dormivi tranquillamente, e lungamente, non ti svegliavo apposta per farti continuare così, nella massima tranquillità. Se già in più di un'occasione, nel corso della vita, ho avuto a giudicarti felice per il tuo comportamento, a maggior ragione lo farò in una circostanza come questa, che riesci a vivere con tanta serenità e calma.

SOCRATE  Sarebbe ben fuori luogo, Critone, se alla mia età mi rammaricassi di dover morire.

CRITONE  Anche ad altri, Socrate, capita di trovarsi in situazioni simili alla stessa età, eppure ciò non li solleva dal rammarico per la propria sorte.

SOCRATE  È vero. Ma insomma, come sei giunto così presto?

CRITONE  Per portarti, Socrate, una brutta notizia: non per te, mi pare, ma per tutti i tuoi amici, brutta e grave, e che io più di tutti - credo - troverò difficile da sopportare.

SOCRATE  Di che si tratta? È forse arrivata la nave da Delo, al cui arrivo devo morire?

CRITONE  Arrivata non è, ma credo che arriverà oggi, a giudicare da quel che riferiscono alcuni che provengono dal Sunio, e l'hanno lasciata là. Ne risulta, è chiaro, che arriverà oggi: e dunque sarà domani, Socrate, il giorno in cui sei destinato a morire.

SOCRATE  Ebbene, Critone, che tutto vada per il meglio! Se così piace agli dèi, così sia: tuttavia non credo che l'arrivo sarà oggi.

CRITONE   Da cosa lo deduci?

SOCRATE  Ora te lo dico. Devo morire il giorno successivo all'arrivo della nave, no?

CRITONE  Così almeno dicono quelli che decidono di queste cose.

SOCRATE  Perciò non penso che arriverà questo giorno che viene, bensì domani. Lo deduco da un sogno che ho fatto questa notte, poco fa: direi che hai fatto bene a non svegliarmi.

CRITONE  Che sogno era?

SOCRATE Mi veniva incontro, pareva, una donna bella e di nobile aspetto, vestita di bianco, che mi apostrofava con queste parole: "O Socrate, il terzo giorno giungerai a Flia ricca di zolle".

CRITONE  Strano sogno, Socrate.

SOCRATE  Ma chiaro, mi sembra, Critone.

CRITONE  Anche troppo, direi. Ma stammi lo stesso a sentire, mirabile Socrate, salvati. Vedi, se muori non mi colpirà una disgrazia sola: oltre alla perdita di un amico, e tale che mai più ne troverò uno simile, la gente che non conosce abbastanza né me né te crederà che avevo la possibilità di salvarti, purché fossi disposto a metterci del denaro, e me ne sono infischiato. E ci si potrebbe creare fama peggiore che quella di dare più valore al denaro che agli amici? Perché certo la gente non potrà credere che noi ti spingessimo, mentre sei stato tu a non volertene andare da qui.

SOCRATE  Ma, caro Critone, perché preoccuparci dell'opinione della gente? Tanto più che i migliori, dei quali vale più la pena di darsi pensiero, capiranno che le cose sono andate precisamente come sono andate.

CRITONE  Ma tu vedi, Socrate, che dell'opinione della gente è pur necessario curarsi. Proprio la situazione in cui siamo dimostra che la gente è in grado di fare non poco male, per non dire il peggiore, a chi vede calunniato.

SOCRATE  Magari, Critone, la gente fosse capace di fare i mali peggiori! Sarebbe allora capace anche del più gran bene, e sarebbe bello. Ma non sono capaci né dell'una né dell'altra cosa, non sanno far diventare un uomo né saggio né stolto, e si muovono invece come capita.

CRITONE  D'accordo, però devi dirmi, Socrate, un'altra cosa. Ti preoccupi forse per me e per gli altri amici, che se te ne vai i sicofanti ci diano delle noie accusandoci di averti rapito, e ci troviamo obbligati a sborsare tutto il nostro denaro, o buona parte di esso, se non a subire altri danni? Se è di questo che hai paura, lascia perdere: è giusto che per la tua salvezza affrontiamo un rischio del genere, e se occorre anche più serio. E pensa invece solo a prestarmi ascolto.

SOCRATE  Mi preoccupa questo, Critone, e parecchio altro.

CRITONE  Ebbene, abbandona questi timori: non è che chiedano tanto per salvarti portandoti via di qui, e poi non vedi come sono a buon mercato questi sicofanti? Neanche per loro ci vorrà molto... Le mie sostanze, che presumo sufficienti, sono a tua disposizione, e se per qualche scrupolo nei miei confronti tu ritenessi di non dover spendere del mio ci sono, pronti a spendere, questi amici di fuori. Uno di essi, Simmia di Tebe, ha portato da solo abbastanza denaro proprio per questo: ma ci sono, pronti a fare altrettanto, anche Cebete e parecchi altri. Sicché, te lo ripeto, non rinunciare a salvarti per timori di questo tipo. In secondo luogo, non deve farti difficoltà il fatto (lo dicevi in tribunale) che non sapresti cosa fare di te una volta lontano da Atene: è certo che in molti altri luoghi, dovunque capiterai, ti faranno festa. E se per caso decidi di andare in Tessaglia, lì ho amici che ti circonderanno della loro stima e protezione, dimodoché nessuno in Tessaglia potrà nuocerti.

Inoltre, Socrate, non mi sembra neanche giusta questa tua scelta di arrenderti quando hai la possibilità di salvarti: anzi, ti dai da fare per ottenere il risultato che ti vorrebbero procurare - o meglio ti hanno già procurato - i tuoi nemici, che ti vogliono rovinare. Oltretutto mi pare che tu tradisca anche i tuoi figli, che avresti la possibilità di crescere ed educare, mentre andandotene li abbandonerai, indifferente a quanto possa capitar loro: e gli capiterà, è prevedibile, quel che è la norma per gli orfani lasciati soli. I figli, o non bisogna farli, o bisogna faticarci, a tirarli su ed educarli: ma tu, mi sembra che stai scegliendo la strada più comoda! Invece, essendo uno che sostiene di voler coltivare la virtù per tutta la vita, dovresti fare la scelta che farebbe un uomo nobile e coraggioso. Come mi vergogno, per te e per noi tuoi amici, se penso al pericolo di far la figura di aver gestito tutta questa faccenda con un tantino di vigliaccheria!... A partire dal fatto che la causa è stata portata in tribunale, quando era possibile che non lo fosse, e poi il modo in cui si è svolto il dibattimento, e infine - al colmo del ridicolo - questo farci fare la figura di esserci defilati, per meschineria o per viltà, senza salvarti e senza che lo facessi tu, come sarebbe stato possibile anche solo con un piccolo aiuto da parte nostra. Bada dunque, Socrate, che questa situazione non sia anche disonorevole, oltre che disgraziata, sia per te che per noi. Deciditi una buona volta ( a quest'ora, a dire il vero, dovremmo non decidere ma aver già deciso), e la decisione sia una sola. Tutto dev'essere fatto entro la prossima notte: se indugeremo ancora, ogni possibilità verrà meno. Insomma Socrate, devi assolutamente e unicamente prestarmi ascolto.

SOCRATE  Unito a una corretta visione delle cose, Critone, il tuo zelo sarebbe anche apprezzabile: ma in caso contrario, quanto più è vivace e tanto più si fa fastidioso. È perciò opportuno esaminare se dobbiamo o no imbarcarci in questa impresa: del resto non è questa la prima volta, io ho fatto sempre in modo di seguire solo quel ragionamento che, fra i vari che rimugino dentro di me, dopo ponderata riflessione risultasse il migliore. E i ragionamenti che sostenevo prima non posso buttarli adesso a mare solo perché mi è toccata questa sorte: al contrario, mi appaiono più o meno sotto la stessa luce e continuo a tenerli nel massimo conto, esattamente come prima. Se non riusciremo ora a trovarne di meglio, sappilo, non ti darò retta neanche se il potere della gente viene ad agitarci davanti, come a dei bambini, spauracchi anche peggiori di questi, scagliandoci addosso ceppi, condanne a morte o confische di beni. Come fare, a valutare la situazione nel modo più equilibrato? Direi di prendere, per cominciare, il tuo argomento dell'opinione della gente. Avevamo o no ragione ad affermare ripetutamente che di alcune opinioni bisogna tener conto, di altre no? Forse che l'affermazione era ragionevole prima della mia condanna a morte, mentre ora risulta evidente che si diceva così, tanto per dire, ed era in realtà tutto un gioco, uno stare a chiacchiera? Voglio proprio vedere insieme a te, Critone, se quell'argomento mi apparirà sotto una luce uguale o diversa, ora che mi trovo così: e se lo manderemo a farsi benedire o vi aderiremo. Secondo me si è sempre inteso, da parte di quelli che ritengono di aver qualcosa da dire, più o meno quel che ho sostenuto io poco fa: delle opinioni umane alcune vanno tenute in considerazione, altre no. Per gli dèi, Critone, non ti par corretto questo? Per quanto è umanamente verosimile tu non corri il rischio di morire domani, e la presente congiuntura non dovrebbe obnubilare il tuo giudizio. Ti soddisfa quest'affermazione che non tutte le opinioni umane sono apprezzabili, ma alcune sì e altre no, e non quelle di tutti ma di alcuni sì e di altri no? Che mi dici? Non è corretto?

CRITONE  Lo è

SOCRATE  Si tratta dunque di apprezzare le opinioni buone, ma non quelle cattive?

CRITONE  Sì.

SOCRATE  E buone non sono forse quelle degli uomini saggi, cattive quelle degli stolti?

CRITONE  E come no?...

SOCRATE  Ora dimmi come la mettevamo su quest'altro punto. Uno che si dedica specificatamente alla ginnastica fa attenzione all'elogio, al biasimo e all'opinione di chiunque o solamente di un medico o di un istruttore?

CRITONE  Solamente di costui.

SOCRATE  Dunque è il caso di temere i rimproveri o gradire gli elogi di quello solo, non della gente in genere.

CRITONE  Chiaro.

SOCRATE  Dovrà allora comportarsi, e far ginnastica, e mangiare e bere, seguendo le direttive di quell'unico che è esperto e ci capisce, piuttosto che di tutti gli altri?

CRITONE  Proprio così.

SOCRATE  Bene. E se d'altro canto a quell'unico vorrà disubbidire, disprezzandone opinione ed elogi e privilegiando quelli della gente, che pur non ne capisce niente, non ne risentirà alcun danno?

CRITONE  E come no?...

SOCRATE  E che tipo di danno? Dove tende, a quale parte della persona del disubbidiente?

CRITONE  Ma è chiaro, al corpo: è questo, che rovina.

SOCRATE  Giusto. E - senza addentrarci in ogni minuzia - non è lo stesso anche per il resto, Critone? Riguardo cioè al giusto e all'ingiusto, al brutto e al bello, al buono e al cattivo, su cui ora dobbiamo decidere, dobbiamo seguire e temere l'opinione della gente o di quell'unico - se c'è - che se ne intende, che bisogna riverire e temere più che tutti quanti gli altri? E se non daremo retta a lui, finiremo per corrompere e guastare quella parte di noi che per opera di ciò che è giusto diventa migliore, e con l'ingiusto si deteriora. È una sciocchezza, questa?

CRITONE  Ti do ragione, Socrate.

SOCRATE  Proseguiamo: se tralasciando di seguire il parere di chi se ne intende roviniamo quella parte di noi che con ciò che è salutare migliora e con ciò che è malsano si corrompe, una volta che sia corrotta ci resta possibile vivere? E si tratta del corpo, no?...

CRITONE  Sì.

SOCRATE  Ora, ci è mai possibile vivere con un corpo malandato e corrotto?

CRITONE  Assolutamente no.

SOCRATE  E ci sarebbe invece possibile vivere se fosse corrotta quella parte di noi che viene guastata dall'ingiusto, mentre dal giusto riceve giovamento? O giudichiamo inferiore al corpo quella parte di noi, qualunque essa sia, che è di pertinenza della giustizia e dell'ingiustizia?

CRITONE  Niente affatto.

SOCRATE  La giudichiamo, allora, superiore?

CRITONE  E di molto.

SOCRATE  Allora, carissimo, dovremo curarci di cosa dirà di noi non la gente, ma colui che di giusto e ingiusto se ne intende, lui solo, e la verità stessa. Quindi non è corretto, in primo luogo, questa tua proposta di curarci dell'opinione della gente sul giusto, il bello, il buono e i loro contrari. "Ma intanto" si potrebbe dire "la gente è in grado di darci la morte."

CRITONE  Chiaro anche questo: si potrebbe effettivamente dire, Socrate, è vero.

SOCRATE  Ma, mio meraviglioso amico, il ragionamento che abbiamo fatto sin qui mi pare assomigliare ancora al precedente. Rifletti, adesso, se resta vero o meno che estremamente importante è non tanto vivere quanto vivere bene.

CRITONE  Certo che resta vero.

SOCRATE  E resta vero o no, che vivere bene e con onestà e giustizia è la stessa cosa?

CRITONE  Resta vero.

SOCRATE  Sulla base di quanto abbiamo ammesso, esaminiamo ora se sia giusto o ingiusto che io cerchi di evadere senza il consenso degli Ateniesi; e se ci sembra giusto proviamoci, altrimenti lasciamo perdere. Quanto alle tue considerazioni su spesa, reputazione e crescita dei figli, c'è il serio pericolo, Critone, che siano speculazioni da gente che, come facilmente uccide, altrettanto facilmente riporterebbe anche in vita, se solo ne fosse capace: gente cioè, come i più, senza giudizio. Ma noi atteniamoci al nostro ragionamento e chiediamoci solo se, come abbiamo appena detto, spendendo denaro e riconoscenza con questi che mi porteranno fuori di qui faremo cosa giusta, fra te che vuoi tirarmi fuori e me che acconsento: o se, in realtà, con tutto ciò, commetteremo un'ingiustizia. E se ci apparirà chiaro che di un'azione ingiusta si tratta, cerchiamo di non preoccuparci di dover morire o di subire qualsiasi altra pena (e restiamo con tranquillità al nostro posto), dandoci pensiero, piuttosto, di non commettere un'ingiustizia.

CRITONE  Trovo che hai ragione, Socrate: pensa ora al da farsi.

SOCRATE  Riflettiamoci assieme, carissimo. E se hai qualche argomento da opporre ai miei, fai pure e ti ascolterò: altrimenti, benedett'uomo, smetti di ripetere sempre la stessa solfa, che bisogna che me ne vada di qui anche contro il volere degli Ateniesi. Certo, ci tengo a muovermi in questa faccenda dopo averti convinto, non contro la tua approvazione. Vedi ora se ti pare soddisfacente il punto di partenza, e cerca poi di dare alle domande le risposte più meditate.

CRITONE  Ebbene, ci proverò.

SOCRATE  Diciamo che non bisogna commettere volontariamente ingiustizia in nessun caso, o per certi versi sì, e per certi altri no? O diciamo - e su questo punto ci siamo già trovati d'accordo, più d'una volta - che il commettere ingiustizia non è affatto cosa buona, né bella? Che tutte le conclusioni una volta raggiunte si siano in questi pochi giorni rimescolate, e tanto abbiamo indugiato nelle nostre appassionate discussioni, Critone, da non renderci conto che nulla ci distingueva, alla nostra età, da dei bambini? O piuttosto le cose stanno come si diceva allora: sia che la gente lo ammetta o no, sia che siamo costretti a sopportare sofferenze peggiori o più lievi di queste, in ogni caso commettere ingiustizia è, per chi lo fa, cosa brutta e turpe? Sì o no?

CRITONE  Sì.

SOCRATE  Dunque in nessun caso va commessa ingiustizia.

CRITONE  Assolutamente no.

SOCRATE  E dal momento che in nessun caso va commessa ingiustizia, neanche chi la subisca dovrà ricambiarla, come pensa la gente.

CRITONE  Sembra proprio di no.

SOCRATE  E ora, Critone, dimmi se il male bisogna farlo o no.

CRITONE  Certo che no, Socrate.

SOCRATE  E ora dimmi se è giusto o no che uno contraccambi un male subìto, come la gente pensa.

CRITONE  In nessun caso.

SOCRATE  In effetti, far del male a qualcuno è lo stesso che commettere ingiustizia.

CRITONE  Hai ragione.

SOCRATE   Dunque non dobbiamo ricambiare le ingiustizie, né fare del male a nessuno, qualsiasi cosa gli altri facciano a noi. E bada, Critone, di non concordare con me su questo punto se non sei veramente di questo parere: a condividere queste opinioni, lo so bene, sono e sempre saranno in pochi. E fra chi la pensa così e chi no non è possibile comunità d'intenti, è anzi inevitabile che quando confrontano le rispettive scelte provino disprezzo l'uno per l'altro. Perciò, rifletti bene anche tu se condividi la mia opinione, se davvero sei d'accordo (e le nostre considerazioni muovano allora dal principio che non è mai corretto commettere ingiustizia e neppure ricambiarla, né reagire ai maltrattamenti facendo del male a propria volta); o se ti distacchi, e questo principio non lo condividi. Io la penso così da tempo e continuo tuttora, ma se tu la pensi diversamente dillo, e istruiscimi. Se invece resti fedele alle nostre premesse, ascolta il seguito.

CRITONE  Resto fedele sì, sono d'accordo: parla, suvvia.

SOCRATE  Ecco quel che ho da dire. O meglio, una domanda: se si concorda con qualcuno sulla giustezza di qualcosa, la si dovrà fare o evitare?

CRITONE  La si dovrà fare.

SOCRATE  Stai bene attento, allora, a quel che ne consegue. Allontanandoci da qui senza previo consenso della città facciamo del male a qualcuno, e proprio a chi meno dovremmo, oppure no? E rimaniamo fedeli ai principi che avevamo riconosciuto giusti, oppure no?

CRITONE  Alla tua domanda, Socrate, non so rispondere: non capisco.

SOCRATE  Prova, allora, a metterla così. Poniamo che mentre siamo lì lì per fuggire di qui (o comunque vogliamo chiamare questa cosa) venissero le leggi e la città tutta, si piazzassero davanti a noi e ci chiedessero: "Dimmi, Socrate, che cosa hai in mente di fare? Quale può essere il tuo intento, con questo gesto, se non di fare quanto ti è possibile per distruggere noi, le leggi, e la città intera?... O pensi che possa sopravvivere, e non essere sovvertita, una città in cui le sentenze pronunciate non hanno efficacia, e possono essere invalidate e annullate da privati cittadini?". Cosa rispondere, o Critone, a queste o simili domande? Certo, ci sarebbe molto da dire (più di tutti ci riuscirebbe un retore) in difesa della legge che violerei, che impone che le sentenze pronunciate abbiano vigore. Preferiremo forse dare loro una risposta del tipo "la città ci ha fatto un'ingiustizia, emettendo una sentenza scorretta"? Diremo questo, o che altro?

CRITONE  Ma questo, Socrate, per Zeus!

SOCRATE Ma supponiamo che le leggi dicessero: "Ma Socrate, è questo che rientrava nei nostri accordi, o non piuttosto l'impegno di rispettare i giudizi della città?" Se a queste parole facessimo mostra di meravigliarci, potrebbero aggiungere: "Invece di meravigliarti di quello che diciamo, Socrate, rispondi (sei ben abituato a far uso di domanda e risposta). Su, hai qualcosa da rimproverarci a noi e alla città, che ti dai da fare per la nostra rovina? Non ti abbiamo dato noi la vita, tanto per cominciare, non è grazie a noi che tuo padre ha preso in moglie tua madre, e ti ha generato? Di' un po', a quelle leggi fra noi che governano i matrimoni, hai da fare qualche rimprovero?". "Nessuno" direi io. "Ce l'hai allora con quelle che regolano la crescita e l'educazione dei figli, in cui sei stato cresciuto anche tu? Non erano giuste le direttive che la legislazione in materia dava a tuo padre, prescrivendogli di educarti nella musica e nella ginnastica?" "Ma sì" direi ancora "E allora, dopo essere stato generato, allevato ed educato, avresti il coraggio di negare - tanto per cominciare - di essere creatura e schiavo nostro, tu come pure i tuoi antenati? Se è così, poi, credi che tu e noi abbiamo eguali diritti, e che se noi ti facciamo qualcosa hai il diritto di fare altrettanto? Non eri su un piano di parità rispetto a tuo padre, o a un padrone se ne avevi uno, sì da poter ricambiare qualsiasi trattamento, rispondendo alle offese con le offese, alle percosse con le percosse e così via. E te lo permetteresti ora rispetto alla patria e alle leggi, al punto che se riteniamo giusto cercare di ucciderti ti metterai a fare altrettanto con noi, per quanto ti riesce, e sosterrai di agire con ciò giustamente, e saresti uno che genuinamente si cura della virtù? O con tutta la tua sapienza non ti rendi conto che la patria è più preziosa sia della madre che del padre e di tutti gli antenati, e più sacra, e più venerabile, più degna di considerazione da parte degli dèi e degli uomini assennati; e che le si deve obbedire e servirla anche nelle sue ire, più che un padre? E che l'alternativa è fra persuaderla o eseguire i suoi ordini, soffrendo in silenzio se ci impone di soffrire, si tratti di essere battuti o imprigionati, o anche di essere feriti o uccisi se ci manda in guerra; e bisogna farlo - ed è giusto così - senza arrendersi né ritirarsi né lasciare la propria posizione, perché sia in guerra che in tribunale, dappertutto va fatto ciò che la città, la patria comanda a meno di non riuscire a persuaderla di dove sta la giustizia?... Se è un'empietà usar violenza contro il padre e la madre, tanto più lo sarà contro la patria." Cosa potremo replicare a questo discorso, Critone? Che le leggi dicono la verità, o no?

CRITONE  Mi pare di sì.

SOCRATE  "Ora, Socrate" potrebbero soggiungere le leggi "giudica se è davvero ingiusto, come andiamo affermando, il trattamento che ci riservi in questo momento. Noi infatti ti abbiamo messo al mondo, e allevato, ed educato, e abbiamo distribuito fra te e i tuoi concittadini tutti i beni di cui disponevamo: e purtuttavia dichiariamo subito, col darne il permesso a ogni ateniese che lo desideri, che se, raggiunta la condizione di cittadino e osservando come vanno le cose nella città e noi, le leggi, non ci trova di suo gradimento, può benissimo prendere le sue cose e andare dove preferisce. E nessuna di noi leggi pone ostacoli o vieta di andare con le proprie cose, dove gli pare, a chi di voi non gradisca noi e la città e desideri trasferirsi in una nostra colonia, o in altra località a suo piacimento. Se uno di voi rimane, vedendo come amministriamo la giustizia e tutta la cosa pubblica, possiamo dire che di fatto ha acconsentito a eseguire i nostri ordini; e se costui disobbedisce diciamo che commette ingiustizia in tre sensi: in quanto non obbedisce a noi che lo abbiamo messo al mondo, e poi a noi che lo abbiamo allevato, e in quanto non lo fa dopo aver accettato di obbedirci, né d'altronde cerca di persuaderci che stiamo commettendo un errore. Lungi dall'imporre con asprezza di fare ciò che ordiniamo noi non facciamo che proporre, lasciando possibilità di scelta fra persuaderci ed eseguire: eppure costui non fa l'una cosa né l'altra. Ora noi sosteniamo, Socrate, che a siffatte accuse ti presterai anche tu se farai quello che hai in mente: e non meno degli altri Ateniesi, mai più di tutti." E se chiedessi perché mai, forse a ragione mi assalirebbero rimarcando che proprio io, più di tutti gli Ateniesi, sono stretto a loro da questo patto. Ecco quel che direbbero: "Abbiamo buone prove che ti piacevamo, Socrate, noi e la città. In questa città non avresti soggiornato enormemente più a lungo degli altri Ateniesi, se non ti fosse enormemente piaciuta; non ne sei mai uscito per una celebrazione sacra, tranne una volta per andare all'Istmo, né sei mai andato altrove, se non per spedizioni militari, né hai mai viaggiato come amano fare gli altri, né ti è mai venuta voglia di vedere un'altra città e conoscere altre leggi. Ti bastavamo, invece, noi e la nostra città: tanto intensamente ci prediligevi, accettando di vivere sotto il nostro governo (in questa città fra l'altro, dando l'impressione che ti piacesse, hai fatto i tuoi figli)! Inoltre, durante il processo avresti ancora avuto la possibilità di chiedere la pena dell'esilio, se lo avessi voluto, di fare cioè allora, col consenso della città, ciò che cerchi di fare adesso senza. E ti vantavi, allora, di non rammaricarti al pensiero di dover morire, dichiarando anzi di preferire all'esilio la morte! E ora non ti vergogni al ricordo di quei discorsi, e senza alcun riguardi per noi leggi cerchi di distruggerci, e ti comporti come il più vile schiavo tentando di fuggire contro i patti e gli accordi in base ai quali avevi convenuto con noi di regolare la tua vita di cittadino. Anzitutto, dunque, rispondici su questo punto: diciamo o no il vero, quando affermiamo che avevi accettato, e non a parole ma di fatto, di vivere sotto il nostro governo?" Come reagire a questo discorso, Critone, Possiamo far altro che dichiararci d'accordo?

CRITONE  Dobbiamo, Socrate.

SOCRATE  E soggiungerebbero: "Così tu non fai che violare i patti, gli accordi fatti con noi: non vi avevi consentito perché costretto, o ingannato, e un bel po' di tempo hai avuto, per pensarci su: in settant'anni avresti ben avuto modo di partirtene se noi non ti andavamo bene, o se non trovavi giusti i nostri accordi. Tu invece non optavi per Sparta o Creta, di cui stai sempre a lodare il buon governo, né per nessun'altra città greca o barbara: di qui, anzi, sei partito più raramente di quanto non facciano storpi, ciechi o altri invalidi. A tal punto dunque ti andava bene, enormemente più che agli altri Ateniesi, la nostra città, ed evidentemente (a chi andrebbe bene una città senza leggi?) anche noi leggi. E adesso non vuoi stare ai patti? Ma sì se ci ascolti, Socrate: così non ti renderai ridicolo abbandonando la città.

Pensa poi che piacere faresti, a te stesso oltre che ai tuoi amici, cadendo in un errore come quello di trasgredire i patti. Che i tuoi amici correranno anche loro il pericolo di andare in esilio ed essere privati dei diritti civili, o di perdere i propri beni, è abbastanza chiaro. Quanto a te, se ti recherai in qualcuna delle città più vicine, come Tebe o Megara (entrambe vantano una buona legislazione), vi giungerai, Socrate, come un nemico del loro ordinamento civico: tutti quelli che si preoccupano della loro città ti guarderanno con sospetto, considerandoti un guastatore di leggi, e rispetto ai giudici contribuirai a consolidare l'opinione che abbiano emesso una sentenza giusta, in quanto uno che corrompe le leggi può apparire, a maggior ragione, come un corruttore di giovani o di uomini stolti. E allora cosa farai, eviterai le città rette da buone leggi e gli uomini più onesti? Oppure li avvicinerai, senza pudore, per parlare con loro, ma di cosa, Socrate? Argomenterai, come facevi qui, che le cose più preziose per l'uomo sono la virtù e la giustizia, e le leggi e tutto ciò che vi si connette? Non credi che il fare di Socrate apparirà sconveniente? È inevitabile. E se tenendoti alla larga da questi luoghi te ne andassi in Tessaglia, dagli amici di Critone? Certo che lì regnano il più gran disordine e lassismo, e non è escluso che starebbero ad ascoltare volentieri come sei ridicolmente evaso dal carcere mettendoti addosso qualche travestimento (una pelle d'animale, o altre cose che usano per travestirsi i fuggiaschi) per rendere la tua fama irriconoscibile. Non vi sarà nessuno a rilevare che vecchio come sei, verosimilmente con poco tempo ancora da vivere, hai spinto il tuo tenace attaccamento alla vita al punto di trasgredire le leggi più importanti? Forse no, se non infastidirai nessuno: altrimenti, Socrate, ne avrai da sentire di commenti sul tuo conto, e ben umilianti! Potresti vivere ingraziandoti questo e quello, servilmente, e occupandoti di cosa, in Tessaglia, se non di spassartela?... Quasi ci fossi andato per banchettare! E quelle nostre conversazioni sulla giustizia e le altre virtù, dove saranno andate a finire? Ma già, vuoi vivere per i tuoi figli, per allevarli ed educarli. Davvero? Li alleverai ed educherai portandoteli in Tessaglia, facendone degli stranieri per sovrappiù? O in alternativa li farai allevare qui, e con te vivo saranno allevati ed educati meglio, anche se non sei vicino a loro? Certo, se ne prenderanno cura i tuoi amici. Ma lo faranno se partirai per la Tessaglia, e non invece se partirai per l'Ade? Se quelli che si professano tuoi amici vogliono essere di qualche aiuto, lo faranno comunque.

Ma da' ascolto, Socrate, a noi che ti abbiamo allevato: non dare ai figli, alla vita, a null'altro più valore che a ciò che è giusto, affinché al tuo arrivo nell'Ade tu possa richiamare tutto ciò in tua difesa, presso coloro che lì comandano. Il comportamento che non sembra qui a te (né ad alcuno dei tuoi amici) preferibile, né più giusto né più pio, certo non ti apparirà preferibile quando tu sia giunto lì. È vero che andandovi - se poi lo fai - patisci un'ingiustizia, ma non da parte di noi leggi bensì degli uomini. Se invece evadi così ignominiosamente, ricambiando offesa con offesa e male con male, trasgredendo i patti e gli accordi stretti con noi e facendo del male a chi meno dovresti (a te stesso, agli amici, alla patria, a noi), non solo ti attirerai finché vivi la nostra ostilità, ma anche le nostre sorelle laggiù, le leggi dell'Ade, non ti accoglieranno con benevolenza, sapendo che hai cercato, per quanto sta in te, di distruggerci. Insomma, non lasciarti persuadere dai consigli di Critone più che dai nostri".

Questo è ciò che mi sembra di sentire - sappilo mio buon amico Critone - come ai celebranti di riti coribantici sembra di udire i flauti: e risuonando dentro di me, l'eco di queste parole mi impedisce di udire altro. Per quanto mi pare ora, ti assicuro, ogni tua obiezione a esse sarebbe vana. Se speri di ottenere qualcosa di più, comunque, parla pure.

CRITONE  Sono senza parole, Socrate.

SOCRATE  Allora lasciamo perdere, Critone: e scegliamo questa via, visto che ce la addita la divinità.

 

 

 


 

 


L'EUTIFRONE (ovvero Del santo)

 

 

I.

 

EUTIFRONE Oh, che c'è di nuovo, Socrate? mi pianti la conversazione del Liceo e te la spassi qua attorno per il portico del Re? Tu dal Re non ci hai da aver lite, come ce l'ho io.

socrate Eutifrone, gli Ateniesi questa mia non la chiaman lite, no, ma accusa.

eutifrone O bella! ti ha alcuno mosso accusa, pare? Tu a un altro? non credo.

socrate Io no.

eutifrone Un altro, a te?

SOCRATE Sí.

EUTIFRONE Chi?

socrate Né anche io lo conosco bene: e' mi par giovine, una faccia nuova; credo lo chiamino Melito: e di borgo è Pittéo. Hai tu in mente un Melito Pittéo, capelli lunghi, pelo ancor vano, naso adunco?

eutifrone No, Socrate: ma qual è codesta accusa?

socrate Tale, penso io, che non gli farà vergogna; perché ti pare un affar di nulla quel che sa lui, cosí giovine! Sa nientedimeno, come va dicendo, in quali modi sian guasti i giovani, e chi son quei che li guastano. E ho una paura ch'e' sia qualche brav'omo, che, adocchiata la mia ignoranza con la quale io fo prendere mala piega a quelli dell'età sua, ricorre alla repubblica come a una madre, e m'accusa. Certo fra i politici egli è il solo che mi pare cominci a modo: perocché prima convien pigliarsi cura de' giovani perché vengan su buoni quanto può essere; come fa l'accorto lavoratore che prima si piglia cura delle pianticelle piú tenere; poi degli altri. E forse Melito pon la falce prima su noi, che, come va dicendo, annebbiamo i gentili germi de' giovani; dopo, non v'ha dubbio, rivolgendo le cure sue ai piú vecchi, farà al paese nostro un bene da non si dire come s'ha ad aspettare da uno che principia cosí.

 

 

II.

 

EUTIFRONE Dio voglia, Socrate; ma io ho paura di no; perché mi par ch'egli con fare a te oltraggio voglia proprio la rovina della città nostra, proprio. Ma una curiosità me la levi? che fai tu, secondo lui, per guastare i giovani?

socrate Oh, cose dell'altro mondo, mio caro: dice ch'io sono un fabbricatore d'Iddii, e che, mentre ne fo de' nuovi, disfaccio i vecchi: vedi che accusa!

eutifrone Ho bell'e capito: gli è perché sei usato dire che hai un demone con te. E il furbaccio ti accusa che tu fai cose nuove in religione e ti tira in tribunale, sapendo che siffatte calunnie il popolo se le beve. Di me, poi, quando in parlamento apro bocca su cose di religione e predico il futuro, si fan le piú grasse risate di me, come fossi impazzato; e pure quante volte ho predetto, tante ci ho colto. Ma la è tutta invidia: non ci si badi e tiriamo via.

 

 

III.

 

socrate E' non fa nulla, Eutifrone, a esser beffati. Al vedere, cale poco agli Ateniesi se ci sia alcuno bravo, purché ei non si metta a fare il maestro e a piantare altri bravi come lui; se se n'accorgono, sia invidia come di' tu, o che so io, se ne pigliano.

eutifrone Io, caro Socrate, la voglia di far prova come si comporterebbero con me in cotesto caso, io non l'ho davvero.

socrate Forse perché ti fai vedere poco e non ti degni d'insegnare quello che tu sai. Quanto a me, sto in pensiero non si siano avveduti ch'io, per amore degli uomini, con ogni persona butto lí quel che so, non pure senza paga, ma offerendomi da me a chi mi voglia stare a sentire. Dunque torno a dirti che se, come conti di te, avessero anche di me a far le risate, poco male sarebbe a passarcela in tribunale ridendo e burlando; ma se fan per davvero, niuno, salvo che voialtri indovini, sa dove la anderà a finire.

eutifrone Non ne sarà nulla, via; sta' allegro: e poi tu nella tua lite certo ci metterai tutta l'anima, come io farò nella mia.

 

 

IV.

 

socrate Oh, ve', hai lite anche tu? ti difendi o accusi? fuggi o insegui?

EUTIFRONE Inseguo.

SOCRATE Chi?

eutifrone Uno che a inseguirlo io ci fo figura di matto.

socrate O che tu insegui un che vola?

eutifrone Ce ne vuole a volare! è tanto vecchio!

socrate Chi è?

eutifrone Mio padre.

socrate Tuo padre! o uomo dabbene!

eutifrone Per l'appunto.

socrate Qual è il delitto, quale l'accusa?

EUTIFRONE Omicidio.

socrate Per Ercole, gli è un affar grave: i piú sarebbero impicciati a condurlo a bene, ché l'è cosa, non del primo che ti s'abbatta, ma di chi è molto addentro in sapienza.

eutifrone Sí, di chi ci è molto addentro, per Giove.

socrate Il morto era un di casa? certo, per un estranio tu non avventeresti contro a tuo padre.

eutifrone Mi fai ridere tu se credi ci corra nulla da un morto estranio a un morto di casa. Non s'ha ad abbadar solo se chi uccise, uccise a ragione, o no? Se sí, lascialo; se no, dàgli, sia pur che l'uccisore segga allo stesso focolare e alla stessa tavola con te: perché si riman macchiati Io stesso, se a tua saputa te ne stai con lui, e non mondi te e lui accusandolo. Del resto, lo vuoi sapere? il morto era un che ci veniva per casa. Dacché si faceva de' lavori nei nostri poderi a Nasso, ivi si fu allogato ad opra con noi. Un bel giorno s'ubbriaca, s'abbaruffa con un de' nostri servi, e lo ammazza. Mio padre che fa? gli lega mani e piedi, lo butta giú in una fossa, e manda qua per saper dall'Esegeta che aveva a fare. E il bello è che frattanto a quel povero orno, perché micidiale, non ci pensa piú, come nulla fosse caso avesse a morire. E cosí fu. Morí dalla fame, dal freddo, dalle catene; e non era ancor tornato il messo. Or mio padre e gli altri di casa sono in su le furie con me, perch'io per vendicare un micidiale accuso lui, ch'è mio padre, di omicidio. - E poi non l'uccise, - soggiungono: - l'avesse fatto, non era un micidiale quell'altro? che c'è dunque da pigliarsene? non è empietà un figliuolo perseguitare il padre? - non conoscendo li sciocchi che cosa è secondo religione il santo, che cosa è l'empio.

socrate Per Giove, credi tu, Eutifrone, saperne tanto di religione e di ciò ch'è santo ed empio, che, se la è come tu di', non ti batte il core al dubbio aver a fare un'empietà accusando tuo padre?

eutifrone Ma no! altrimenti in che m'avvantaggerei io? in che Eutifrone si segnalerebbe fra gli altri, se non le avessi io cosí in su le punte delle dita codeste bagattelluzze?

 

 

V.

 

socrate Uh! fortunato me dunque se m'accetti per scolaro, o uomo meraviglioso: mi abboccherei con Melito, avanti ch'ei si faccia palesemente a sostenere la sua accusa, e gli direi ch'io per lo passato ho studiato in religione quanto poteva, e che ora, avendomi egli rimproverato che io fabbrico Iddii di mia testa, mi son fatto tuo scolaro. - Eh! delle due cose è l'una, o Melito; non si scappa, - gli direi io: - o mi concedi che Eutifrone in queste faccende è bravo di molto e pensa diritto, e allora fa la medesima reputazione di me, e lasciami; o no, e allora pela la faccia al maestro prima che allo scolaro, a lui che ti guasta i vecchi, me e suo padre: me con insegnamenti storti, suo padre con correzioni e con castighi a sproposito -. E se mi fa il sordo e non ismette, o se in cambio di me non accusa te, io queste medesime ragioni dette a lui, gliele canterei in tribunale.

eutifrone Se gli venisse in capo di pigliarsela con me, eh lo toccherei ben io nel vivo; e prima di me i conti li avrebbe a saldar lui in tribunale, lui.

socrate E io desidero esser tuo scolaro per questo, caro amico, conoscendo che, non che altri, lo stesso Melito non t'ha pesato; me poi m'ha pesato, e come! lí per lí con una sbirciata d'occhio; e però egli, facendo con me a fidanza, m'accusa come empio. Ma ora insegnami, per amor di Giove, quel che tu dicevi dianzi, conoscere cosí a fondo, cioè, che cosa è il santo e che cosa è l'empio, in rispetto all'omicidio o ad altro che sia: perché il santo non è sempre il medesimo in ogni cosa? e l'empio non è tutto il contrario del santo? e non è anch'esso il medesimo ogni volta? e non ha una cotale idea medesima, quella d'empietà, tutto ciò ch'è empio?

EUTIFRONE Bene!

 

 

VI.

 

socrate Adunque mi di': che cosa è, secondo te, il santo, che cosa è l'empio?

eutifrone Ecco, io ti dico che il santo è ciò che io fo ora: chi commette male (ammazzi, rubi sacri arredi, o faccia altre birbonerie) accusarlo, sia padre, madre, chiunque sia: il non far ciò è empio. E che la legge è veramente codesta, non perdonarla a niuno che pecchi, sia chi si sia, guarda, Socrate, la gran prova che ti arreco io e che ho detto già ad altri. Tutte le persone convengono che Giove è il piú buono, il piú giusto degl'Iddii; convengono, da altra parte, che egli messe in catene suo padre Saturno, perché senza alcuna ragione divorava i figliuoli, e che anche Saturno a sua volta per altre cattiverie capponò il padre suo, Urano. Se adunque si stizziscono con me perché io accuso mio padre, che anche lui ne ha fatta una delle grosse, e' si contraddicono sul conto degl'Iddii e sul mio.

socrate Ora intendo perché m'accusa Melito; che quando mi si contano sugl'Iddii di codeste novelle, io a stento le mando giú: ed ecco perché qualcuno va buccinando che io sono un empio. Ma ora muta specie: se ci credi tu, che in queste cose sei maestro, volere o non volere ci ho a credere anch'io. E vuoi ch'io rifiati se di mia bocca confesso che non me ne intendo nulla? Ma per Giove, Dio dell'amicizia, credi tu siano avvenute davvero codeste cose?

eutifrone Coteste ed altre ben piú maravigliose, che la gente non conosce.

SOCRATE E tu credi davvero ci sia guerra fra gl'Iddii e inimicizie spaventose e zuffe, e cose simili che ci contano i poeti, e i bravi pittori ci raffigurano ne' templi, e delle quali è tutto istoriato il peplo che si porta su nell'Acropoli nelle grandi feste Panatenee? E che? s'ha a dire siano proprio tutte vere codeste cose, o Eutifrone?

eutifrone Non solo queste, ma, se n'hai voglia, te ne conterò molte altre, delle belle, che a sentirle tu rimarrai a bocca aperta.

 

 

VII.

 

socrate Eh, non ne farei caso; me le conterai a comodo, un'altra volta. Ma ti prego di chiarirmi meglio ciò ch'io t'ho dimandato dianzi. T'ho dimandato che cosa è il santo; e tu non m'hai insegnato abbastanza infino a ora, ma sí m'hai detto che santo è quello che tu stai facendo, accusare d'omicidio tuo padre.

eutifrone E ho detto vero.

socrate Può essere. Ma credi, Eutifrone, che di cose sante ce ne sia molte altre?

eutifrone Ce n'è.

socrate Ricordati ch'io non t'ho pregato d'insegnarmi una o due delle molte cose sante; ma sí quell'istessa idea per la quale tutte le cose sante son sante: che tu mi hai detto che per una certa idea le cose empie son empie, e le sante sante; o non te ne ricordi?

eutifrone Sí, me ne ricordo.

socrate E insegnami dunque codesta idea, che cosa ella è mai; acciocché, contemplando quella e giovandomene come di esempio, io dica santa ogni azione che le si assomigli, la faccia tu o chiunque altro; e quella che no, no.

eutifrone La vuoi? te la dico.

socrate La voglio.

eutifrone Ecco: ciò ch'è caro agl'Iddii è santo; ciò che no, empio.

socrate Bene assai: m'hai proprio risposto come volevo io. Se è il vero, non so ancora; ma tu mostrerai bene che è vero ciò che tu di', non ne dubito.

EUTIFRONE Ma Sí.

 

 

VII.

 

socrate Badiamo, via, a quello che si dice noi ora: dunque la cosa cara agl'Iddii e l'uomo caro agl'Iddii, è santo; la cosa o l'uomo in odio agl'Iddii, è empio. Or il santo non è la medesima cosa che l'empio, ma tutto il contrario: è vero?

eutifrone Vero.

socrate E pare ben detto!

eutifrone Pare! non dicon cosí?

socrate E non dicono anche cosí, che gl'Iddii han fra loro discordie ed inimicizie?

EUTIFRONE Dicono.

socrate Ora, o valent'uomo, la discordia quando ci fa inimici e ci fa stizzire? Guardiamoci un poco. Se tu ed io fossimo discordi quanto a un numero se egli è piú o meno, c'inimicheremmo perciò e anderemmo in collera? o, facendo i conti, ci metteremmo subito d'accordo?

EUTIFRONE Certo.

socrate E se fossimo discordi del piú lungo e piú corto, misurando, ci concorderemmo anche subito?

eutifrone Certo.

socrate E togliendo in mano la bilancia, penso io che d'amore e d'accordo potremmo giudicare del piú grave e leggero?

eutifrone Certo.

socrate Che è dunque dove non trovandoci d'accordo e non potendo intenderci, ci faremmo nemici e ci accapiglieremmo l'uno coll'altro? O non ti vien su la lingua? Te lo dico io, guarda se egli è vero: è il giusto e l'ingiusto, il bello e il brutto, il buono e il cattivo. Oh le cose nelle quali discordandoci e non potendo comporre insieme nostre opinioni ci faremmo nemici, se fosse il caso, io e tu e tutti, non son codeste?

eutifrone Hai ragione.

socrate Per tanto, se mai gl'Iddii han discordia fra loro, l'avrebbero per codesto?

eutifrone Non può esser per altro.

socrate Dunque, secondo te, o generoso Eutifrone, chi degl'Iddii una cosa la crede giusta, chi iniqua, chi brutta, chi bella, chi buona, chi cattiva? che baruffe non ne farebbero s'ei s'accordassero in queste cose; non è vero?

eutifrone Le tue son parole d'oro.

socrate E che? ciascuno degl'Iddii non ama ciò ch'è bello e buono e giusto? e ciò che no, non l'odia?

eutifrone Certo.

socrate E le medesime cose non di' tu che alcuni Iddii le reputano giuste, altri inique; onde, disputandoci sopra, si guastan fra loro e si fanno guerra? non è cosí?

EUTIFRONE Cosí.

socrate Dunque, come pare, le medesime cose sono odiate dagl'Iddii e sono amate dagl'Iddii; e le medesime cose sono odiose ai loro occhi ed amabili? E cosí sarebber le medesime cose sante ed empie, secondo che tu di'?

eutifrone Pare.

 

 

IX.

 

socrate Dunque, maraviglioso uomo, non m'hai risposto a quel che volevo io; ch'io non t'avevo dimandato che è quello che possa essere a un medesimo tempo santo ed empio. Ciò ch'è caro agl'Iddii, si vede, è altresí odioso agl'Iddii. Onde, Eutifrone, quello che tu ora fai dando addosso a tuo padre, non fa specie se a Giove sia caro, e a Crono e Urano sia odioso; caro a Vulcano, e odioso a Giunone; e similmente se gli altri Iddii chi ci veda bianco e chi nero.

eutifrone Ma in questa faccenda, cioè se convenga punire un che ammazza un altro a torto, son sicuro, Socrate, che nessun degli Iddii dissente dall'altro.

socrate O bella! che hai tu sentito alcun degli uomini far questione se si abbia o no a punire un che ammazzi a torto o commetta altra birbonata?

eutifrone Altro! dovunque, ancora qui in tribunale: anzi sono i piú birbanti quelli che ne dicono e fanno d'ogni colore tanto per iscansare la pena.

socrate Ma ne convengon essi delle birbonate?, e, convenendone, han la faccia di dire che non le han da scontare?

EUTIFRONE No, no!

socrate Per tanto non è vero che ne dicano e ne faccian d'ogni colore, perché non ardiscono far quistione, che, se han commesso male, non l'hanno a scontare, ma dicono solo che male non ne han commesso. È vero?

EUTIFRONE Vero.

socrate Dunque, quanto al doversi punire chi commette male non ci disputano su, ma solo disputano di chi commette il male, come e quando.

EUTIFRONE Dici vero.

socrate Or il caso degl'Iddii è proprio questo, se, come di' tu, s'azzuffano e si rampognano l'un l'altro d'aver fatto ingiustizie; perché, quanto all'altra cosa, non c'è né Dio né uomo che ardisca dire che non si dee castigare un che commette male.

eutifrone Qui hai ragione, Socrate, e il nodo sta proprio qui.

socrate Ma se disputano, disputano dei fatti e Dii e uomini (se pur disputano gl'Iddii), in quanto che gli uni li giudicano giusti, gli altri iniqui. Non è cosí?

EUTIFRONE Cosí.

 

 

X.

 

socrate Caro Eutifrone, insegnami, via, acciocché io impari, che prova hai tu che tutti gl'Iddii giudichino iniqua la morte di quel tale, che, mentre stava a opra, uccide un servo, e, incatenato dal padrone dell'ucciso, muore dalle catene prima che il padrone ricevesse l'imbasciata degli Esegeti su quel che s'avea a fare; e che per un tale uomo sta bene che il figliolo accusi d'omicidio il padre suo e lo perseguiti. Via, la prima cosa, mostrami chiaro che tutti gl'Iddii codesta azione tua la giudicano pietosa; se me lo mostrerai, non rifinirò mai di lodare la tua sapienza.

eutifrone Eh, non è faccenda di poco; perché a te, Socrate mio, avrei a parlare con parole chiare molto.

socrate Intendo: a te pare ch'io abbia testa piú dura che non i giudici; perché a loro, non vi ha dubbio, tu mostrerai che ciò che ha fatto tuo padre è ingiusto e che gl'Iddii l'hanno in odio.

eutifrone Chiaro come questa luce di sole, se mi stanno a udire.

 

 

XI.

 

socrate Eh! Ti staranno a udire, se parrà loro che tu dica bene. Ma guarda, mentre che parlavi mi venne un pensiero; ho detto fra me: «Se pure Eutifrone m'insegnasse chiaro chiaro che tutti gl'Iddii la giudicano iniqua cotesta morte, io che cosa avrei imparato piú da Eutifrone quanto alla natura del santo e dell'empio? Eh avrei imparato che questa azione odiosa è agl'Iddii: ma con ciò non si sarebbe definito che cosa è il santo e l'empio, perché s'è veduto che ciò ch'è odioso agl'Iddii, è anche caro agl'Iddii». Dunque, passiamo oltre; e se vuoi, caro Eutifrone, che quell'azione gl'Iddii la giudichino iniqua, la guardino a occhi torti, vada; ma se la è cosí, bisogna raddirizzar le gambe al ragionamento e dire che il santo è ciò che tutti, badaci ve', tutti gl'Iddii amano; empio, ciò che tutti gl'Iddii odiano; e ciò che né amano né odiano, non è né l'uno né l'altro, o tutt'e due. Vuoi che noi definiamo cosí?

eutifrone Che c'impedisce, o Socrate?

socrate A me? nulla; ma bada a te, se, cosí definendo, ti riescirà poi tanto facile insegnarmi quel che tu hai promesso.

eutifrone Io? io direi cosí, che il santo è ciò che gl'Iddii amano, tutti; e ciò che tutti gl'Iddii odiano, è l'empio.

socrate Vogliamo vedere se è detto bene? o lasciamo andare, e basta che alcuno spacci, la è cosí, e noi: la è cosí; mandando giú a chius'occhi; ovvero bisogna alluciar ben bene quel ch'egli dice.

eutifrone Certo; ma io credo aver detto bene.

 

 

XII.

 

socrate Ora lo sapremo meglio, ora, o bravo uomo. Perché, pensaci anche tu un poco: il santo s'ama dagl'Iddii perché è santo? o è santo perché s'ama?

EUTIFRONE Non ci si capisce.

socrate Farò di parlar piú chiaro. Noi, per esempio, diciamo: portato e portante, condotto e conducente; ora queste e tutte l'altre locuzioni simili intendi che son diverse, e perché son diverse?

eutifrone A me par d'intendere.

socrate Or l'amato è qualcosa diversa dall'amante?

eutifrone Come no?

socrate E dimmi: il portato è portato perché si porta, o per altra ragione?

EUTIFRONE No, per codesto.

socrate E il condotto è condotto perché si conduce? e il veduto è veduto perché si vede?

EUTIFRONE Certo.

socrate Non adunque il veduto perché è veduto si vede, ma, al rovescio, perché si vede è veduto; non il condotto perché condotto si conduce, ma perché si conduce per cotesto è condotto. In somma intendi quel che io vo' dire? vo' dire che se cosa si genera, o patisce accidente alcuno, non perché generata si genera, non perché paziente patisce; ma sí perché si genera è generata, e perché patisce è paziente: convieni tu?

EUTIFRONE Io sí.

socrate E bene, l'amato è qualcosa generata o qualcosa paziente in rispetto a un'altra?

eutifrone Certo.

socrate E siamo lí daccapo. L'amato non perché amato si ama, ma, perché si ama, è amato?

eutifrone Necessariamente.

socrate Dunque che s'ha a dire del santo, o Eutifrone? se non che il santo s'ama da tutti gl'Iddii, come dici tu.

EUTIFRONE Sí.

socrate E s'ama perché è santo, o perché altro?

eutifrone No, ma per cotesto.

socrate Dunque perché è santo si ama, ma non già perché si ama è santo?

eutifrone Pare.

socrate Ma quel ch'è amato dagl'Iddii, quel che a essi è caro, perciò che si ama, perciò è amato ed è caro?

eutifrone Come no?

socrate Non adunque, come di' tu, ciò ch'è caro agl'Iddii è santo, né è santo ciò ch'è caro agl'Iddii; ma le sono cose diverse proprio.

eutifrone Come, Socrate?

socrate Perché s'è convenuto che il santo si ama per questo, perché è santo; e non già ch'è santo perché si ama. È vero?

EUTIFRONE Sí.

 

 

XIII.

 

socrate Quello poi ch'è amato dagl'Iddii, per questo che si ama è amato, e non perché amato si ama.

EUTIFRONE Dici vero.

socrate Ora, mio caro Eutifrone, se fossero tutt'uno l'amato dagl'Iddii e il santo, ne seguirebbe che se il santo si ama perché santo, anche l'amato dagl'Iddii si amerebbe perché amato; ne seguiterebbe che se l'amato dagl'Iddii è amato perche s'ama, anche il santo, perché s'ama sarebbe santo. Ma tu vedi che si comportano essi da contrarii, perché diversi in tutto. E davvero, l'uno perché s'ama, per questo è amabile; l'altro perché è amabile, per questo si ama. E mi pare, o Eutifrone, che avendoti io dimandato che è il santo, tu non mi voglia manifestare la essenza sua, ma dirmene solo qualche accidente, come, per esempio, quello d'essere amato da tutti gl'Iddii; ma quel che sia il santo in sé, non me l'hai detto fino a ora. Di grazia, non me lo nascondere, e dimmi daccapo che cosa è il santo, o che sia amato dagl'Iddii, o che patisca alcun altro accidente; che su questo non vogliam disputare. Via, lesto, il santo che è, e che è l'empio?

eutifrone Ma, Socrate, non ti so dir neppur io quel che penso. Ogni proposizione ci fa la giravolta e non vuol stare dove la si mette.

socrate Codesto, o Eutifrone, va per quella buon'anima del mio antenato, Dedalo. E se le proposizioni uscissero di bocca a me, tu mi potresti dar la baia, dicendomi che per esser io e lui d'un sangue, le mie statue di parole scappan via, e là dove son messe non ci voglion stare. Per fortuna escon di bocca a te; ci vuole dunque un altro scherzo, ci vuole.

eutifrone No, questo ci sta, Socrate; perché codesta smania di far la giravolta e non voler posare, tu ce l'hai messa, tu, non io, e Dedalo sei tu; che per me elle starebber ritte e ferme.

socrate Ma allora, amico mio, io son piú bravo tanto di Dedalo, in quanto che egli faceva frullare le cose sue; io poi, oltre alle mie, anche quelle degli altri, come pare. E la bellezza dell'arte mia si è che io son bravo senza volere: perché io vorrei piuttosto che stessero immobili i miei discorsi, che aver la bravura di Dedalo e per giunta le ricchezze di Tantalo. Basta! Dacché mi pari un po' delicato, via, ti vo' dare io una mano, suggerendoti come mi hai a insegnare in cotesta cosa del santo, perché io non vo' che ti stracchi. Guarda, ti par necessario sia giusto tutto ciò ch'è santo?

EUTIFRONE Sí.

socrate E forse tutto quel ch'è giusto è anche santo? o tutto quel ch'è santo è giusto, e quel ch'è giusto non è tutto santo, ma parte sí, parte no?

eutifrone Ma io non ti tengo dietro, Socrate.

socrate E pur tu se' giovane tanto piú di me, quanto piú savio. Ma ho ragione io! quel che ti stanca è il gran carico di scienza che tu hai addosso. E sforzati un poco, via, beato omo, che alla fine non ci vuol poi molto a intendere quel che dico io. Io dico l'opposto di quel che disse il poeta: Di Giove fattore e vivificatore dell'universo non vuoi tu cantare; perché dov'è paura, là è vergogna. Ma, dove mi scosto dal poeta, te l'ho a dire?

eutifrone Perché no?

socrate Non pare a me che dov'è paura si trovi vergogna: e davvero molti han paura delle malattie e della povertà e di altre simili disgrazie, ne han paura, ma vergogna no. Non pare a te?

EUTIFRONE Sí.

socrate Ma dove è vergogna, lí sí è paura; chi si vergogna e arrossisce di qualche cosa, non teme d'averci a fare una figuraccia? Dunque non sta bene dire, dove è paura, è vergogna; ma sí dove è vergogna, lí è paura. E davvero non dovunque è paura è vergogna, ché l'una piú si stende largamente che l'altra, e la paura è parte della vergogna, come il pari è del numero: ché dovunque è il pari c'è sempre il numero, e dovunque è il numero non ci è sempre il pari. E or mi tieni dietro, ora?

EUTIFRONE Sí.

socrate E la medesima cosa ti domandavo dianzi, cioè il santo si ritrova ogni volta dove è il giusto? ovvero dove è il santo si ritrova il giusto, ma, per contrario, dov'è il giusto non ci si ritrova ogni volta il santo, per essere il santo parte del giusto? S'ha a dir cosí, o altrimenti?

eutifrone No, cosí; che mi pare tu dica bene.

 

 

XIV.

 

socrate Or bada a quest'altra cosa. Se il santo è parte del giusto, non ti par ch'e' converrebbe vedere qual parte egli sia? Per esempio, se tu domandassi me di cose dette, quale parte del numero è il pari, e qual numero è propriamente; ti risponderei ch'e' non è scaleno, ma isoscele: o non par a te?

eutifrone A me sí.

socrate E procura anche tu, via, d'insegnarmi quale parte del giusto sia il santo, acciocché possa dire a Melito che non mi faccia torto, non mi abbia piú come a empio, perché ho imparato da te bene assai quel ch'è pio e santo, e quello che no.

eutifrone Per ora, Socrate, mi par che il pio e il santo sia la parte del giusto che guarda il culto degl'Iddii; e quella che guarda il culto degli uomini, sia l'altra parte.

 

 

XV.

 

socrate E dici bene, mi pare; ma io ho bisogno ancora di una piccola cosa. Io non intendo quel che tu intenda per culto. Certo non dirai che è simile al culto dell'altre cose quello degl'Iddii. Noi si dice, per esempio: non tutti san coltivare i cavalli, ma solo il cavallaio. È vero?

EUTIFRONE Sí.

socrate Perché? perché culto de' cavalli è l'arte del cavallaio.

EUTIFRONE Sí.

socrate Né tutti san coltivare i cani, ma solamente il canaio.

EUTIFRONE Sí.

socrate Perché l'arte del canaio è culto de' cani.

EUTIFRONE Si.

socrate E l'arte del bovaio è culto de' bovi?

EUTIFRONE Sí.

socrate E la santità e la pietà è culto degl'Iddii? Cosí di' tu, Eutifrone?

EUTIFRONE Io sí.

socrate Ora ogni culto non s'indirizza su per giú ad alcun bene e giovamento di quello ch'è coltivato? E davvero, i cavalli, tu lo vedi, coltivati per lo allevator di cavalli migliorano: non pare a te?

eutifrone A me sí.

socrate E similmente i cani migliorano per l'arte del canaio, e i bovi per l'arte del bovaio, e via dicendo: o credi tu il culto torni a danno di quello ch'è coltivato?

eutifrone Io no, per Giove.

socrate Ma a vantaggio?

eutifrone Certo.

socrate Adunque, essendo la santità culto degl'Iddii, ella giova agl'Iddii e li fa migliori. Ma se la è cosí, tu dèi concedere che dacché sei lí per fare un'azione santa, tu fai migliori alcuno degl'Iddii?

eutifrone Ah! no.

socrate E né anche io credo che tu ciò voglia dire, Dio me ne scampi; ma perciò ti domandavo che intendi tu per culto degl'Iddii, non potendo pensare che tu intenda proprio cotesto.

eutifrone Bravo, Socrate: non intendo cotesto io.

socrate Ma allora qual è cotesto culto degl'Iddii che tu di' essere la santità? di qual specie sarebbe?

eutifrone Quale è quel de' servi ai padroni.

socrate Ho inteso: la santità sarebbe nel prestar ministerio e servigio agl'Iddii.

eutifrone Proprio.

 

 

XVI.

 

socrate Mi puoi dire tu qual effetto operi il ministerio de' medici?

eutifrone La sanità.

socrate E quello de' navai?

eutifrone La nave.

socrate E quello degli architettori?

eutifrone La casa.

socrate E dimmi, o bravo, il nostro ministerio agl'Iddii per qual effetto sarebbe ministerio? Lo sai senza dubbio, dacché tu fai certanza esser nelle cose della religione il piú dotto uomo che sia al mondo.

eutifrone Ed è vero.

socrate Dunque mi di' qual è la bellissima opera che fanno gl'Iddii, usando essi di noi quali ministri?

eutifrone Molte e belle, o Socrate.

socrate Anco i capitani, o caro: nondimeno l'opera principale tu diresti facilmente ch'ella è procurare vittoria.

eutifrone Come no?

socrate E molte e belle i lavoratori, ma la principale è cavare il nostro campamento dalla terra.

eutifrone Certo.

socrate Su via, delle molte e belle che fanno gl'Iddii per il nostro ministerio, la principale qual è?

eutifrone Te l'avevo detto io dianzi, che non è un affar di poco dire a te per filo e per segno come vanno siffatte cose. Ti dico solamente che se alcuno sa dire e fare cose gioconde agl'Iddii, pregando e sacrificando, egli fa di quelle opere sante che salvano le case e le città; chi fa il contrario, fa opere empie che sconvolgono e mandano a rovina ogni cosa.

 

 

XVII.

 

socrate Ti potevi spicciar prima, Eutifrone, se tu mi volevi rispondere a tono. Ma si vede che voglia d'insegnarmi non ne hai: che già eri lí lí per farlo, e ti sei tirato indietro. Oh! se mi avessi data questa risposta benedetta, io la santità a quest'ora l'avrei bella imparata. Pazienza! e dacché l'amante, volere o non volere, ha a tener dietro all'amato dove ch'egli lo tiri, mi di' di nuovo che cosa è il santo e la santità. È, credi tu, una cotale scienza di pregare e far sacrifizii?

EUTIFRONE Sí, via.

socrate E il far sacrifizii non è un donare agl'Iddii, e il pregare non è un chiedere a loro?

EUTIFRONE Certo.

socrate Dunque la santità sarebbe ella scienza di dare e chiedere agl'Iddii, stando a questo ragionamento?

eutifrone M'hai proprio capito.

socrate Perché, mio caro, io ho sete della tua sapienza, e sto con tanto d'occhi perché non cada in terra né anche un briciolo di quel che t'esce di bocca. Ma di grazia, cotesto nostro ministerio verso agl'Iddii qual tu dici essere la santità, a che mai si riduce? a un dare e chiedere?

EUTIFRONE Sí.

 

 

XVIII.

 

socrate Il chieder bene non è un chiedere a loro quello di che abbisogniamo noi?

eutifrone E che altro?

socrate E il dare bene non è un dar loro quello di che essi abbisognano? ché a dare ciò che non bisogna, la sarebbe sciocchezza.

EUTIFRONE Vero.

socrate Dunque, Eutifrone, la santità sarebbe un'arte di mercanteggiare fra uomini e Dii?

eutifrone Arte di mercanteggiare, se cosí ti piace chiamarla.

socrate A me non piace nulla, se non è vero. E mi di', che utilità cavano gl'Iddii dai doni che piglian da noi? Quel che danno essi, gli è chiaro a tutti, che non c'è bene che non ci venga da loro; ma quel che piglian da noi, a loro che giova? O che noi mercanteggiando ci avvantaggiamo di tanto, che noi pigliamo tutto da loro, ed essi da noi nulla?

eutifrone E che ti gira per il capo, Socrate, che gl'Iddii coi nostri doni ci guadagnino?

socrate E che cosa diamo noi dunque agl'Iddii allora che doniamo?

eutifrone Che altro credi, se non venerazione, onore, e come dicevo dianzi, giocondità e diletto?

socrate Dunque ciò che diletta è il santo; ma non è né ciò ch'è utile, né ciò ch'è caro agl'Iddii.

eutifrome Anzi io credo, che sia la cosa a loro piú cara.

 

 

XIX.

 

socrate E ti maravigli, dicendo cosí, che i ragionamenti non ti stian fermi, ma si muovano; e n'accagioni me e chiami me Dedalo? ma sei tu, che, piú ingegnoso di Dedalo, gli fai fare le giravolte. Oh! non ti se tu accorto che il nostro discorso a furia di girare là è tornato di dove si fu mosso? Ti ricordi che a principio il santo e ciò ch'è caro agl'Iddii non ci parvero medesimi, ma diversi? O non te ne ricordi?

EUTIFRONE Sí!

socrate E or vedi; non ti contraddici a dir: santo è ciò ch'è caro agl'Iddii ossia ciò che amato è dagl'Iddii, ch'è il medesimo: o no?

eutifrone Vero.

socrate Dunque delle due cose è l'una, non se n'esce: o si sbagliava allora, o si sbaglia ora.

eutifrone Pare cosí.

 

 

XX.

 

socrate Dunque s'ha a veder da capo che è il santo, che insino a tanto che non l'avrò imparato, io ti starò ai panni. Ma non mi sprezzare: mettici stavolta tutta l'attenzione e mi di' proprio il vero; che se è al mondo uomo dotto, sei tu; e come Proteo non convien ti lasci scappare, insino a che tu non parli. Se tu non conoscessi chiaro che è il santo e l'empio, per un oprante non piglieresti ad accusar reo di morte quel vecchio di tuo padre: ma avresti paura dello scoppio dell'ira degl'Iddii, al dubbio non fosse la tua una cosa scellerata, e saresti arrossito in faccia agli uomini. Ecco perché io son sicuro che tu sei sicuro del fatto tuo. Deh, parla, bravo Eutifrone, e non mi tener piú nascosto ciò che ne pensi.

eutifrone A un'altra volta, Socrate: ho furia; l'è ora ch'io vada.

socrate Che fai, amico? tu vai via e mi togli la speranza ch'io aveva, dopo imparate da te le cose sante e le empie, di potermi distrigare dell'accusa di Melito; mostrando a lui che Eutifrone m'ha fatto dotto in religione, che io non sono uno sciocco che parlo di mia testa, ch'io non fabbrico nuovi Iddii, che io da oggi in poi avre

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

Il Timeo ovvero Della natura


Indice:

 

Il Timeo  1

Indice: 2

I. 3

II. 4

III. 5

IV. 7

V. 8

VI. 9

VII. 10

VIII. 11

IX. 12

X. 12

XI. 13

XII. 14

XIII. 14

XIV. 15

XV. 15

XVI. 16

XVII. 18

XVIII. 19

XIX. 21

XX. 21

XXI. 22

XXII. 23

XXIII. 24

XXIV. 24

XXV. 25

XXVI. 26

XXVII. 27

XXVIII. 28

XXIX. 28

XXX. 29

XXXI. 30

XXXII. 31

XXXIII. 32

XXXIV. 34

XXXV. 34

XXXVI. 35

XXXVII. 36

XXXVIII. 36

XXXIX. 37

XL. 38

XLI. 39

XLII. 40

XLIII. 41

XLIV. 42


 

 

 

I.

 

SOCRATE Uno, due, tre: e dov'è il quarto, caro Timeo, di quelli che convitai ieri, e che oggi mi convitano?

TIMEO Non istà bene; se no, figurati s'ei non voleva essere qua, in nostra compagnia.

SOCRATE E se non ci è, tocca a te e a costoro fare anco la parte sua.

TIMEO Ma sí, e, quanto è da noi, non lasceremo nulla; ché non sarebbe bene se noi altri, per renderti cambio, non convitassimo ancora di buona voglia te che ci hai accolti ieri a banchetto con tanta amorevolezza e larghezza.

SOCRATE Or vi ricorda egli di quante e quali cose io vi diedi commissione di ragionare?

TIMEO In parte sí: quelle che no, dacché ci sei, ce le ricorderai tu: o, ch'è meglio, fa da capo una ripassata, se non ti è grave, acciocché le teniamo piú a mente.

SOCRATE Farò cosí: de' ragionamenti che io feci ieri su la repubblica, la sostanza su per giú era questa: come avrebbe ella a essere, come i suoi cittadini, perché agli occhi miei fosse bellissima.

TIMEO E molto ci dilettò, o Socrate, ciò che tu hai detto.

SOCRATE Ora, la prima cosa, non isceverammo noi gli agricoltori, e le altre arti, da quei che l'hanno a guardare?

TIMEO Sí.

SOCRATE E, assegnando noi a ciascuno sola una cura e sola un'arte a lui convenevole, non si disse che coloro ai quali di guerreggiare s'appartiene per salvamento di tutti, non hanno altro a essere che guardiani della città, se mai alcuno di fuori o vero di dentro contro a lei si levasse; giudicando benignamente i soggetti loro, come naturali amici, e mostrandosi a' nemici, ai quali s'avvengano, aspri nelle battaglie?

TIMEO Proprio cosí.

SOCRATE E mi par ch'e' si disse, che l'anima dei guardiani ha ad essere singolarmente adirosa e savia, acciocché dirittamente siano agli uni benigni, e crudi agli altri.

TIMEO Sí.

SOCRATE E l'allevamento? forse che non hanno a essere allevati in ginnastica, musica, e in tutte l'altre discipline che loro si convengano?

TIMEO Certamente.

SOCRATE Cosí allevati, si disse ch'eglino aveano a far ragione di non avere possessione propria né d'oro, né argento, né altra veruna cosa al mondo; ma sí ricevere, come guardiani, una cotale mercede della guardia da quelli medesimi guardati da loro, quanta bastasse a temperati uomini; e spendere e mangiare e fare vita comunemente, avendo sollecitudine alla virtú, d'altro non curandosi.

TIMEO Le hai dette cosí.

SOCRATE E ci ricorda che a cotali uomini convien concordare le donne, sí ch'elle abbian comuni con essi tutti gli uffizii di guerra e di pace.

TIMEO Sí; cosí.

SOCRATE E la generazion de' figliuoli? o non sono elle cose agevoli a ricordare, per la novità, se non altro? però che ordinammo fossero comuni nozze e figliuoli, ingegnandoci che mai alcuno non conoscesse il figliuolo suo, e tutti si riputassero una famiglia sola: fratelli e sorelle, quelli nati entro a un medesimo spazio di tempo; e quelli nati su su innanzi, padri e madri e avoli; e quelli nati giú giú appresso, figliuoli, e figliuoli de' figliuoli.

TIMEO Oh, si ricordano!

SOCRATE E perché il piú presto divenissero di natura quanto esser può gentilissimi, non ci ricorda ch'e' si disse bisognare che i governatori e le governatrici in comporre le nozze procacciassero segretamente, facendo pur le viste di trar le sorti, che i cattivi uomini si sposassero con cattive femmine, e i buoni con buone; non nascendo cosí veruno scandalo, da poi che degli sposamenti accagionerebbero il caso?

TIMEO Ce ne ricorda.

SOCRATE E che s'hanno ad allevare i figliuoli dei buoni, si disse anco questo, e quelli de' cattivi s'hanno a meschiare nascostamente infra l'altra cittadinanza; e, venendo su, ad essi aver l'occhio; e, quelli che fossero degni, rimenare; e quelli che indegni fossero presso loro, tramutare nel luogo de' rimenati.

TIMEO Sí.

SOCRATE Non è questa la sostanza di quello che io sposi ieri? o desideriamo noi ancora alcuna cosa la quale si è lasciata, Timeo mio caro?

TIMEO No, o Socrate: proprio queste sono le cose che tu hai dette.

 

 

II.

 

SOCRATE State ora a udire quello che mi sento io dentro, per questa repubblica la quale io vi ho ritratta: mi sento cosí come colui il quale, riguardando in alcuno luogo animali belli, dipinti o vivi veramente, ma che si posano, sí gli vien voglia di vederli muovere e fare un poco prova, come alla lotta, dei lor belli corpi. Cosí mi sento io; imperocché molto volentieri udirei alcuno recitare le virtuose prove le quali la repubblica mia fa quando è a gara con le altre repubbliche, e come ella entri in guerra, e, guerreggiando, mostri per fatti e parole, bene combattendo e negoziando, cose degne della disciplina e instituzione sua. Caro mio Crizia ed Ermocrate, io, come io, dispero che possa mai essere buono di laudare uomini e repubblica cosí fatti. E il caso mio non dee niente maravigliare; ché oggimai io penso cosí ancora dei poeti antichi e di quelli del tempo novello: non già che io abbia a dispetto la generazione dei poeti, ma sí perché egli è chiaro a ogni uomo, come la gente imitativa quelle cose imiterà agevolissimamente e perfettamente, fra le quali s'è allevata; ma quelle stranie all'allevamento proprio, a tutti forte cosa è bene imitare in fatti e vie piú in parole. La generazion dei sofisti la reputo bene valente assai in fare molte orazioni e altre belle cose; ma, vagando essi attorno per le terre e non avendo ferma stanza in niun luogo, temo non possano immaginar le opere che farebbero in guerra e nelle battaglie, e i ragionamenti che avrebbero insieme conversando, uomini filosofi e politici come quelli. Rimangono adunque quelli dell'esser vostro, da poi che per natura hanno le due doti sopraddette, e per ammaestramento. Ecco Timeo, da Locri, città d'Italia ordinata a leggi bellissime, dove per copia di sostanze e gentilezza di sangue non istà dopo a niuno; egli ha avuti là i piú ragguardevoli maestrati e onori: e poi egli è già salito su in cima di tutta filosofia, a quello ch'io vedo. Crizia poi conosciamo bene tutti noi di qua, ch'egli di niuna di quelle cose è nuovo, che noi diciamo. E dell'ingegno e avviamenti di Ermocrate e' s'ha a credere che siano convenevoli a tutte queste cose, molti facendone certanza. A questo pensando io ieri, dimandandomi voi che vi ragionassi della Repubblica, di presente io vi ebbi soddisfatti; conoscendo che niuno è al mondo, il quale possa meglio di voi, pure che vogliate, compiere il ragionamento: imperocché inducendo voi la Repubblica a onesta guerra, infra i vivi potete voi soli ritrarre le chiare opere sue, degne di lei. Compiuto io quello che voi m'avete commesso, commisi altresí a voi quel che io ora dico. E voi, prendendo consiglio insieme, di concordia m'avete invitato oggi alla vostra volta a graziosa imbandigione di ragionamenti: e però eccomi qua tutto pulito, con la maggiore voglia che niuno mai avesse.

ERMOCRATE Come disse Timeo, faremo tutto il nostro potere, di buona voglia, caro Socrate; né ci è scusa per trarsi indietro. E però ieri, tosto usciti di qua, giungendo alla casa di Crizia, nelle camere dove noi alloggiamo, e anco per via, ci mettemmo a pensare. Ora non sai tu? egli ci contò un'istoria antica; va', Crizia, la di' a lui, perché egli veda con noi se fa o non fa.

CRIZIA La dirò, se cosí pare anco al nostro compagno, a Timeo.

TIMEO A me sí, pare.

CRIZIA Sta' a udire, o Socrate, una molto maravigliosa istoria, tutta vera, come una volta raccontolla Solone, de' sette il piú savio. Egli era tutto della casa di Dropido, il nostro proavolo, e assai suo dimestico, come dice spesse volte ne' suoi canti ei medesimo. Ed egli disse a Crizia, l'avolo nostro, come ci contò di poi quel buon vecchio, che grandi e molto mirabili furon le antiche opere della nostra città, oscurate per il tempo e per la morte subitanea degli uomini; e fra tutte una è piú grande, della quale ci conviene oggi fare memoria, e per render grazie a te, e insieme, quasi inneggiando noi alla Dea nella solennità sua, celebrare lei con degne e veraci laudi.

SOCRATE Tu di' bene; ma qual'è cotesta opera non mentovata e nientemeno fatta dalla nostra città anticamente, secondo che raccontò Solone?

 

 

III.

 

CRIZIA Io dirò quest'antica istoria, che io udii da uomo non giovine; perché allora Crizia, come disse ei medesimo, era già presso a novant'anni, ed io in su i dieci. Egli era il dí terzo delle feste della Furbizia, il dí dei Fanciulletti, e quello che usati sono di fare ogni volta, si fe' allora: i nostri padri ci posero premii di recitazione di canti. E ne furon recitati assai, di diversi poeti; ma io e altri molti figliuoli cantammo specialmente quelli di Solone; perché di quel tempo eran cosa nuova. Un certo uomo della nostra tribú, o perché cosí gli paresse, o per far piacere a Crizia, disse che Solone pareva a lui, non solo nelle altre parti il maggiore sapiente che mai fosse, ma ancora in poesia piú notabile di tutt'i poeti. Il vecchio, mi par di vederlo, tutto si rallegrò; e, sorridendo, gli disse: - O Aminandro, se la poesia egli avesse coltivato, non a sollazzo, ma sí come altri studiosamente, e compiuto l'istoria che ci recò egli qua dall'Egitto, la quale le sedizioni e i mali che trovò, facendo ritorno, necessitarono a trascurare; secondo mio avviso né Esiodo, né Omero, né qualunque altro poeta si voglia, mai non sarebbe venuto in maggiore fama di lui -. Quegli domandò: - Qual'era questa istoria, o Crizia? - L'altro rispose: - L'opera piú maravigliosa di questa repubblica, sovra a tutte degna giustamente di rinomanza; ma la memoria sua non bastò in fino a noi, per il tempo e per la perdizione di coloro che l'ebbero fatta -. E quegli: - Mi di' dal principio, che ti raccontò Solone? e come? e chi la raccontò a lui per novella vera?

E Crizia a lui:

In Egitto, nel Delta propriamente, alla cui punta la fiumana Nilo si fende, e sí lo intornia, è una provincia, la quale si chiama Saitica; e la piú grande città di questa provincia è Sais, dove anco nato fu il re Amasi. Gli abitatori tengono fondatrice della città una Dea, e il nome è in lingua egiziaca Neit, e in greca, Atena; contano cosí; e dicono esser molto amici degli Ateniesi, e in alcuna cotale maniera essere di una schiatta con loro. Disse adunque Solone che là pervenendo, lo ricevettero a grandissimo onore; e che, dimandando delle antiche cose a quei sacerdoti in ciò piú savii, si fu accorto che niente, per dire cosí, non sapevano né egli né gli altri Greci. Fra le altre una volta, desideroso di trarli a ragionare degli antichi avvenimenti, si pone a dire delle cose di Grecia piú antichissime: di Foroneo, detto il primo, di Niobe, di Deucalione e Pirra, come camparono appresso il diluvio; e annovera le generazioni loro, e si studia, rammemorando i tempi, mettere a ragione gli anni degli avvenimenti de' quali egli favella.

E uno molto vecchio de' sacerdoti, gli disse cosí: - O Solone, Solone, voi Greci siete sempre fanciulli; un Greco non ci è, vecchio -. Ed egli, ciò udendo, disse: - Come di' tu questo? - Rispose: - Tutti siete giovani dell'anima, imperocché in essa non avete serbato niuna vecchia opinione di tradizione antica, e niuna dottrina canuta per il tempo. La cagione di ciò è questa: ei ci furono e saranno molti e diversi sterminii di uomini, grandissimi quelli per fuoco e acqua, da meno quelli per le altre innumerabili cose. E veramente quello che si dice appresso voi, Fetonte, figliuolo del Sole, una volta aggiogato i cavalli al carro del padre, e montatovi su, non sapendo carreggiare la strada, avere arso ogni cosa sopra la terra, morendo egli di folgore; questo a forma di favola; il vero poi è lo dichinamento degli astri che si rivolvono per lo cielo attorno alla terra, e lo incendimento di tutte le cose sopra la terra per molto fuoco. Piú allora periscono quelli che abitano in su le montagne e in alti luoghi aridi, che non quelli appresso al mare od ai fiumi; ma noi, il Nilo che bene è salvatore nelle altre distrette, campa ancora di questa, sciogliendosi dalle ripe e inondando. E allora che diluviano la terra gli Iddii, si salvano quelli di su le montagne, i bifolchi e i pastori; là dove gli abitatori delle vostre terre portati sono dai fiumi dentro del mare: ma in questa contrada né allora, né le altre volte, mai da su non ruina l'acqua nella campagna; per lo contrario, di giú levasi ella naturalmente, e sí allaga. E però si dice che serbate sono qua le memorie delle antichissime cose, da poi che sempre, alle volte piú e alle volte meno, è umana semenza in tutt'i luoghi de' quali non la discaccino verni crudi o caldi distemperati. Per questo, ogni bella cosa grande o in qual si voglia modo notabile appresso voi intervenuta, o qua, o in altri luoghi, la quale noi avessimo conosciuto per fama, tutto registrato è infino dall'età antica e serbato qua nei templi. Ma i vostri avvenimenti, e quelli degli altri, sono ogni volta registrati di fresco nelle scritture e negli altri monumenti che a repubblica si convengono; e novamente a usati intervalli di anni, sí come un morbo, scoppia, ruinando su voi, la fiumana di cielo, e lascia di voi quelli selvaggi di muse: sicché tornate da capo come giovini, non sapendo nulla di tutti gli avvenimenti di qua, né di quelli presso di voi, che furono negli antichi tempi. Onde, o Solone, quello che hai narrato ora tu delle generazioni vostre, quasi differisce poco dalle novellette dei fanciulli; imperciocché voi non ricordate che uno solo diluvio della terra, là dove furono molti per lo passato; e cosí non avete pure nuove che vissuta sia nella vostra terra la piú bella e buona generazione di uomini che mai si vedesse, de' quali siete usciti, tu e tutta la cittadinanza, del piccol seme salvato; e vi mancan le nuove per ciò che di quelli sopravvanzati molte generazioni finiron la vita loro muti di lettere. Un tempo, o Solone, avanti il paventosissimo scempio delle acque, la repubblica, la quale or si dice degli Ateniesi, era eccellentissima in arme, e in tutto governata a leggi bonissime; e si narrano di lei opere molto leggiadre e ordinanze bellissime sovra tutte quelle che il sol vide sotto il suo cielo, delle quali noi si abbia novelle.

Solone raccontò che egli, a udire, fu molto stupefatto; e prega i sacerdoti con grande istanza, che gli voglian diligentemente narrare e per ordine le cose tutte quante de' cittadini suoi antichi. E il sacerdote a lui: - Niente ho invidia, e sí il fo per te e per la tua città e per la Dea, la quale ebbe in sorte e quella e la nostra, e allevolle e disciplinò tutt'e due: quella mille anni innanzi, prendendo la semenza da Terra e Vulcano, questa poi; e dell'ordinamento suo è segnato nei sacri libri il numero di anni otto mila. Adunque, dei tuoi cittadini vissuti è nove mila anni, ti dirò brevemente la piú gentile opera che mai abbiano fatto: un'altra volta, poi, avendo agio, recandoci in mano le scritture, le sporremo tutte con cura e ordinatamente. Quanto è a leggi, poni mente alle nostre; imperocché molti esempi di quelle che allora furono appresso voi, ritroverai qua appresso noi ancora presentemente. In prima, la generazion dei sacerdoti è sceverata dalle altre; e cosí similmente quella degli artigiani, dei quali ciascheduno, non meschiandosi ad altro, fa suo mestiere: e cosí similmente i pastori, i cacciatori, e gli agricoltori. E la generazion degli uomini d'arme, vedi già ch'ella è spartita da tutte l'altre; ai quali comandan le leggi, che di niun'altra cosa prendano cura, salvo che delle faccende di guerra. È armadura loro eziandio lo scudo, e arma la lancia; e noi primi ce ne fummo armati in Asia, avendole mostrate la Dea prima a noi, siccome mostrolle prima a voi in quei luoghi.

Quanto è poi a gentilezza, tu vedi la legge che è appo noi quanta sollecitudine da principio avesse della universale scienza del mondo, infino alla divinazione e alla medicina che alla sanità provvede, rivolgendo essa queste divine scienze a utilità delle umane cose; e come curasse delle altre scienze che seguitano a quelle. Ora la Dea ordinò voi prima con questa instituzione e ordinamento; e vi elesse per istanza la terra dove nati siete, bene avvedendosi, che, posta essendo a dolce guardatura di cielo, porterebbe ella uomini prudentissimi. Adunque, come vaga ch'ella è di guerra e sapienza, quel luogo elesse e allegrò prima di abitatori, il quale avea a portare uomini simigliantissimi a lei. E vivevate con cotali buone leggi, e ancora con molto piú buono reggimento, entrando voi innanzi a tutti gli uomini in ogni virtú, come si conveniva, essendo voi rampolli e creature degli Iddii. E molte generose opere della vostra repubblica, qua registrate, fanno maraviglia; ma una è, che avanza tutte in virtú e grandezza. Imperocché narrano le scritture quanta spaventosa oste una volta i cittadini vostri raffrenassero, in quello che su tutta Europa e Asia riversavasi furiosamente, erompendo da fuori dall'atlantico pelago. Quel pelago allora era navigabile, da poi che un'isola aveva innanzi dalla bocca, la quale chiamate voi Colonne di Ercole; ed era l'isola piú grande che la Libia e l'Asia insieme, donde era passaggio alle altre isole a quelli che viaggiavano di quel tempo, e dalle isole a tutto il continente che è a dirimpetto, che inghirlanda quel vero mare. E per fermo, quel tanto mare che è dentro alla bocca della quale favelliamo, è un porto dalla stretta entrata, a vedere; ma quell'altro assai propriamente dire si può vero mare, e continente la terra che lo ricigne. Ora, in cotesta isola Atlantide, venne su possanza di cotali re, grande e maravigliosa, che signoreggiavano in tutta l'isola, e in molte altre isole e parti del continente; e di qua dallo stretto, tenevano imperio sovra la Libia infino a Egitto, e sovra l'Europa infino a Tirrenia. E tutta cotesta possanza, in uno restringendosi, tentò una volta, a un impeto, ridurre in servitú e la vostra terra e la nostra e tutte quante giacciono dentro dalla bocca. Allora, o Solone, la milizia della città vostra per virtú e prodezza nel cospetto degli uomini si fe' chiara. Conciossiaché, essendo ella animosa sovra a tutti e molto sperta di guerra, parte conducendo le armi de' Greci, parte necessitata a combatter sola per lo abbandonamento degli altri; ridotta in estremi pericoli; da ultimo gli assalitori ricacciolli e trionfò; e quelli non ancora fatti servi ella campò da servaggio, e quanti abitiamo dentro ai termini di Ercole liberò tutti molto generosamente. Passando poi tempo, facendosi terremoti grandi e diluvii, sopravvegnendo un dí e una notte molto terribili, i guerrieri vostri tutti quanti insieme sprofondarono entro terra; e l'Atlantide isola, somigliantemente inabissando entro il mare, sí sparve. E però ancora presentemente quel pelago non è corso da niuno ed è inesplorabile; essendo d'impedimento il profondo limo, il quale, al nabissare dell'isola, si scommosse.

 

 

IV.

 

Socrate, ecco brevemente le cose raccontate dal vecchio Crizia, secondo ch'egli udí da Solone. Ragionando tu ieri della repubblica e degli uomini che hai mentovati, io mi maravigliai, sovvenendomi di quello che io ora dico; notando come per un cotale abbattimento divino bene tu in gran parte in quelle medesime cose ti abbattessi, le quali disse Solone. Io non volli lí per lí aprir bocca, perché ell'eran cose vecchie, e me ne ricordava poco; e pensai che fosse bisogno innanzi ridurmele dentro me bene a mente, e poi parlare. Ma tosto io accettai ieri la commissione tua, considerando che la difficoltà molto grave la quale suole essere in simiglianti cose, io vo' dire quella di porre innanzi un argomento che piaccia, non ci facea paura. E cosí come ti contò Ermocrate, ieri, uscendo di qua, cominciai a dir loro di questa istoria, cosí come ella mi riveniva alla mente; e partito ch'io fui da loro, pensandoci su la notte, la ripigliai quasi tutta, filo per filo: perché, dice cosí il proverbio, le cose apprese nella puerizia si ricordan ch'è una maraviglia. Per certo non so bene se potessi io rammentare le cose, le quali io udii ieri; e queste che udito ho è tanto tempo, farei le maggiori maraviglie del mondo se pure una me ne sfuggisse. Ché io come fanciullo proprio, pigliava allora gran diletto di stare a udire; e quel buon vecchio ammaestravami di gran voglia, e a tutte le dimande, e quante! mi soddisfaceva sí, che da ultimo elle mi rimasero in mente come dipinture a fuoco che mai poi non isvivano. E però tosto io ridissi loro stamane queste medesime cose, acciocché meco egli avessero argomento di ragionare assai copioso.

Ora adunque, che è quello a che io attendeva, io sono pronto di raccontartele, o Socrate, non pure sommariamente, ma come io le udii, per filo e per segno; e la città, la quale come favoleggiando tu ci adombrasti ieri, traslatando nel vero, porremo qua, da poi che questa è quella medesima; e i cittadini i quali tu hai concepiti nella mente, diremo noi essere propriamente quelli antichi nostri mentovati dal sacerdote, perocché concordano perfettamente, sí che non faremo noi dissonanza alcuna dicendo essere quelli medesimi di quel tempo. E pigliando ciascuno di noi la parte sua, procureremo con tutto il potere nostro di adempiere quello che tu ci hai commesso. Ora, Socrate, è a vedere se piace questo argomento, o se bisogno è cercare di altro in quel cambio.

SOCRATE E quale, Crizia, piglieremmo in cambio di questo? il quale ben si conviene al presente sacrifizio a reverenza della Dea; e poi, che è piú, non è favola immaginata, ma sí vera istoria. Come, e donde ne torremo noi un altro, se lasciamo questo? Non può essere: su via, con la buona ventura, parlate voi; e io, riposandomi per compenso del discorso che io feci ieri, vi starò a udire.

CRIZIA Adunque, Socrate, guarda come noi ti abbiamo ordinata la imbandigione. Parve a noi che Timeo, il quale è fra noi spertissimo di astronomia e ha posto grandissimo studio in conoscere la natura dell'universo, dovesse parlar primo, incominciando dalla generazione del mondo e facendo fine alla natura degli uomini. Io, appresso, da lui ricevendo gli uomini col ragionamento suo generati, e da te quelli che tu hai ammaestrati eccellentemente; e, secondo la legge e l'istoria di Solone, menandoli nel nostro cospetto quasi dinanzi a giudici, farolli cittadini di questa città, come s'eglino fossero quelli Ateniesi d'allora, i quali le scritture sacre di Egitto ci rivelarono essere isvaniti; per ragionar poi di loro come di cittadini nostri e Ateniesi davvero.

SOCRATE Questa imbandigione che voi mi fate, mi par bene copiosissima e splendida. Dunque, par che tocchi a te di cominciare, o Timeo; invocati che tu avrai gl'Iddii, come è costume.

 

 

V.

 

TIMEO Ma tutti, Socrate, anco se di poca mente, in sul mettersi a qualsiasi faccenda, o piccola o grande, sempre invocano Iddio; e noi, che abbiamo a ragionare dell'universo, se egli è generato o no, se non siamo dissennati proprio, necessità è che invochiamo e preghiamo gl'Iddii e le Dee, perché ci faccian parlare in forma, che noi piacciamo a loro specialmente, e poi a noi. E cosí pregati siano gli Iddii. E noi ci abbiamo a confortare perché voi assai agevolmente possiate intendere, e io dica aperto e chiaro ciò ch'io penso delle questioni messe avanti.

Secondo mio avviso si ha a distinguere primieramente queste cose: che è quello che sempre è, e non ha generazione; e che è quello che si genera, e mai non è. L'uno, è ciò che si comprende per intelletto e ragione, siccome quello che è eternamente a un modo; l'altro, per lo contrario, è ciò ch'è opinabile per opinione ed irrazionale senso, generandosi esso e perendo sí, che mai non è veramente. Tutto quello poi che si genera, è necessità che generato sia da alcuna cagione; senza quella non potendo cosa alcuna venire a generazione. E quando l'artefice di qualsivoglia opera vagheggia quello che è medesimo eternalmente, e giovandosene cosí come di esempio, l'idea e virtú di quello reca ad atto, necessità è che faccia cosa bellissima; per lo contrario, non bella, se in alcuna generata cosa egli guarda, e di generato esempio si giova.

Intorno all'intero cielo o mondo, e, se mai voglia alcun altro nome, se gli dia pure, è da considerare presentemente ciò, che in principio è da considerare intorno a ogni cosa: cioè, se fu sempre, senza incominciamento veruno di generazione; o se fu generato, incominciando da alcuno principio. Fu generato: imperocché egli si può vedere, e si può toccare, e ha corpo; e queste cotali cose sono sensibili; le cose sensibili poi, che si comprendono per opinione e senso, si mostrarono generantisi e generate. Ciò poi che è generato, noi dicemmo che da alcuna cagione dee essere generato.

Ma è malagevole cosa trovare il Fattore e il Padre di questo universo; e, trovatolo, impossibile cosa è farlo manifesto a ogni uomo.

Ciò che presentemente è da considerare, si è, il Fabbro, facendo l'universo, quale esempio abbia egli mai vagheggiato, se quello ch'è d'un modo medesimo eternamente, o quello ch'è generato. Se bello è questo mondo, e se l'artefice suo è buono, chiaro è allora ch'egli vagheggiò quello eterno; se poi no, che pure nefanda cosa è a dire, quello generato. Ma egli è palese a ogni uomo che vagheggiò quello eterno; perché il mondo è dei generati il piú bello, e Iddio è dei generanti il piú buono. Generato cosí il mondo, egli fatto è secondo esempio il quale comprendesi per ragione e intelletto, e rimane eternamente a un modo. Per ciò che è ora detto, questo mondo necessariamente dee essere simulacro di alcuno.

Ora, in ogni quistione di grandissimo momento è principiare in forma convenevole; e però, avendo io a favellare del simulacro, in prima è a distinguere due specie di ragionamenti: l'una che è del simulacro, e l'altra che è dell'esempio; essendo parentela fra i ragionamenti e le cose, delle quali quelli sono interpreti. Adunque, quelli intorno a cosa stabile e ferma, che luce all'intelletto, conviene ancora che sieno stabili e fermi, e, quanto esser può, inespugnabili e immobili; quelli poi intorno a cosa che è simulacro di quello che ho mentovato, basta che alla prima specie di ragionamenti siano simiglianti e conformi; imperocché, ciò che essenza è a generazione, verità è a fede[1]. Se dunque, Socrate, dopo le molte cose dette da molti intorno agl'Iddii e alla generazione dell'universo, non possiamo noi offerirti ragionamenti squisiti e concordi in ogni parte seco medesimi, non ti maravigliare; e se i miei non sono men verosimili che quelli di qualunque altro, sta' pure contento; ricordandoti, che io che parlo, e voi, giudici miei, abbiamo umana natura; in modo che su questo argomento ricevendo verosimili novelle, piú non conviene dimandare.

SOCRATE Bene assai, o Timeo; si ha a riceverle come tu di': e già abbiamo ricevuto il tuo proemio con maraviglioso diletto. Seguita pure.

 

 

VI.

 

TIMEO Diciamo per quale cagione il Componitore ebbe fatto la generazione e questo universo. Egli era buono; e mai in uno buono non nasce invidia, per niuna cosa; e però egli volle che tutte le cose s'approssimassero a lui quanto potevano. Se alcuno accoglie da sapienti uomini questa, siccome principal ragione della generazione e del mondo, adopera dirittamente. Imperocché Iddio, volendo che tutte le cose fossero buone, e, quanto poteva, niuna rea, prendendo ciò ch'era a vedere, che non istava quieto ma sregolatamente movevasi e inordinatamente, sí dal disordine ridusselo a ordine, giudicando egli questo al tutto essere migliore di quello. Ora, al Bonissimo lecita cosa né fu né è di fare altro, se non ciò ch'è bellissimo; e da poi ch'egli, ragionando nel cuore suo, trovò niuna delle visibili opere, privata di intelletto, considerata intera, non potere mai essere piú bella di quella che ha intelletto; e non potere abitare intelletto in checchessia, senza anima; per cotesto ragionamento componendo egli un'anima dentro a un corpo, fabbricò l'universo, per compiere la piú bella e buona opera che mai si potesse. Adunque è a dire verosimilmente che questo mondo è generato vivo, animato e in verità intelligente, per provvidenza di Dio.

Se egli è cosí, seguita ora a dire a similitudine di quale degli animali abbialo fatto il Componitore. Non reputeremo noi che egli abbialo fatto a similitudine di alcuno di quelli che hanno particolar forma; perocché niuna cosa non può essere mai bella, la quale somigli a alcuna altra ch'è imperfetta. Ma noi poniamo ch'esso a quello è somigliantissimo, del quale sono parti gli altri animali, considerati singolarmente e ne' loro generi; imperocché cosí quello contiene in sé tutti gl'intelligibili animali, come questo mondo noi contiene e tutti gli animali visibili. E Iddio, volendolo assomigliare, quanto poteva piú, al bellissimo e perfettissimo degl'intelligibili animali, compose un animale solo, visibile, che entro sé raccoglie tutti quanti li animali cognati suoi.

E abbiamo noi detto per avventura dirittamente che uno è il cielo? o piú diritta cosa ella era a dire molti e infiniti? Uno, se il cielo fatto è secondo l'esempio: imperocché non può essere che due siano quelli che in sé contengono tutti quanti gl'intelligibili animali; se no, sarebbe di bisogno un altro animale novamente, il quale tutt'e due contenesse, del quale ei sarebbero parti; e allora non piú direbbesi ragionevolmente che somigliante a quelli è questo mondo. Acciocché adunque il mondo, per essere solo, fosse simile al perfettissimo animale, non fece il fattore due né infiniti mondi, ma sí questo uno e unigenito cielo, il quale cosí è, e sarà.

 

 

VII.

 

Ciò ch'è generato, dee essere corporale, e visibile, e palpabile. Ma niuna cosa mai sarebbe visibile senza fuoco; né palpabile senz'alcuna solidezza; e né anche poi solida, senza terra. Onde, messosi Iddio a comporre l'universal corpo, sí ebbelo fatto di terra e fuoco. Ma non può essere che siano due cose sole legate speciosamente senza una terza; imperocché necessità è che alcuno legame sia in mezzo di loro, il quale le congiunga. E il piú bello de' legami quello è, che faccia di sé e delle cose che lega, quanto esser può, uno. E la proporzione fa ciò in forma bellissima: imperocché, quando di tre numeri o corpi o potenze quali si vogliano, il primo sia verso al medio, ciò che il medio è verso all'ultimo; e, novamente, ciò che l'ultimo è verso al medio, il medio sia verso al primo; allora divenendo il medio primo e ultimo, e l'ultimo e il primo divenendo medii, tutti divengon medesimi fra loro necessariamente; e medesimi divenuti fra loro, tutti sono uno.

Ora se il corpo del mondo avea a essere piano, senza profondità alcuna, un solo medio bastava per collegare i contrarii fra i quali fosse posto, e sé con quelli. Ma ei conveniva che fosse solido; e i solidi non si concordano insieme con un medio solo, ma sí con due ogni volta. E però Iddio, posto acqua e aria in mezzo a fuoco e terra, e proporzionatili fra loro quanto si poteva piú, a un medesimo modo; sicché quello che fuoco fosse verso ad aria, fosse aria verso ad acqua, e quello che aria fosse verso ad acqua, fosse acqua verso a terra; sí collegò e compose un corpo visibile e palpabile. Per queste ragioni, di questi corpi, quattro di numero, cosí fu generato il corpo del mondo, che esso per proporzioni consente seco medesimo, e s'aduna seco medesimo con tanto affetto, che sciogliere non lo può niuno, se non colui che l'ebbe legato.

La mondana fabbrica ricevette in sé tutto quanto ciascuno dei quattro corpi sopradetti; imperocché Iddio compose il mondo di tutto il fuoco e acqua e aria e terra, non lasciando fuori niuna parte o valore di niuno di quelli. In prima, perché il mondo fosse, quanto poteva, animale perfetto, e di perfette parti; e, oltre a ciò, perché fosse uno, non essendo lasciata materia donde generare si potesse un altro simigliante: e poi ancora perché egli fosse senza morte e vecchiezza; avvisando bene Iddio, che il caldo, il freddo e tutte l'altre cose che hanno forte possanza, stando di fuori ai corpi e quelli fuori di tempo assalendo, li sciolgono, e, inducendo morte e vecchiezza, sí li fanno venire a corruzione. Per tal cagione e ragione Iddio lo fe' uno e tutto, compiuto e di compiute parti, e perpetuamente sano e giovine; e diedegli figura alla natura di lui assai convenevole. E da poi che all'animale deputato a raccogliere dentro sé tutti gli altri animali quella figura si conveniva, la quale dentro sé raccoglie tutte le figure; per questo lo torniò in forma di sfera, il mezzo da ogni parte rimoto dagli estremi egualmente, dandogli di tutte le figure quella piú perfetta e simigliante piú a sé medesima, giudicando piú bello infinite volte ciò che simile è, che ciò che è dissimile. E liscio lo fe' studiosamente di fuori tutto intorno, per molte ragioni: perocché niente avea bisogno di occhi, ché non era rimasta fuori niuna cosa a vedere; né di orecchi, ché né anco rimasta era fuori cosa niuna a udire; e non era né anche aria d'attorno, sí che bisogno avesse di respirare; e similmente non avea bisogno di alcuno organo a fine di ricevere nutrimento, e, patito che lo avesse, mandarne via il soperchio, perché, se nulla ci era, egli non perdeva nulla, e nulla non se gli aggiungeva di dove che sia; e fu generato cosí per magisterio di arte, che egli trae suo nutrimento della corruzione sua medesima, e di tutto in sé e di per sé fa e patisce: perché il Componitore pensò che meglio era il mondo bastando a sé medesimo, che se avesse mai avuto bisogno di altre cose. E mani, le quali non gli bisognavano niente per cagion di pigliare o respingere alcuna cosa, non credette bene Iddio appiccargliene vanamente; né i piedi o altro per lo ministerio dell'andare, avendogli assegnato movimento convenevole al corpo suo, cioè, dei sette, quello che piú fa all'intelligenza e alla mente. Ond'egli menando lui intorno, in una medesima forma, in un medesimo spazio, in lui medesimo, sí il fe' volgere in giro, privandolo di tutte l'altre specie di moti e dei lor vagamenti. E da poi ch'egli non avea bisogno di piedi per questo suo rigirare, Iddio il generò senza gambe e piedi.

 

 

VIII.

 

L'Iddio che sempre è, cosí ragionò in cuor suo dell'Iddio che avea a essere quandochessia; e fe' un corpo liscio, tutto a una forma, con il mezzo suo rimoto ugualmente dagli estremi, intero e compiuto, e composto simigliantemente di corpi compiuti. E l'anima, messola nel mezzo, distese per tutte le parti di quello e con essa involselo di fuori tutto d'intorno: e cosí fatto è un solo cielo, solitario, per la virtú sua contento di abitare seco medesimo, di niuno altro non bisognoso, e di sé medesimo conoscitore e amatore assai; e però fatto è Iddio beato. L'anima, non cosí come ne prendiamo noi a favellare dopo il corpo, Iddio la fe' anco piú giovine; perocché egli che li disposò tutt'e due, mai non avrebbe lasciato che il piú giovine governasse il piú vecchio. Ma da poi che molto noi siamo alla balía del caso, cosí parliamo anco un po' a caso alcune volte. Ma l'anima è prima per nascimento e gentilezza, e piú antica del corpo, siccome quella che avea a donneggiare, e il corpo a ubbidire: e Iddio la fe' di questi principii, in questa forma.

Della indivisibile essenza, la quale è medesima eternalmente, e di quella la quale nei corpi generasi di visibile, egli contemperò una terza specie di essenza, la quale sta nel mezzo di quelle due, partecipe della natura del medesimo e di quella dell'altro; e nel mezzo di quelle due sí la pose. E, pigliate che ebbele tutt'e tre, le meschiò in una specie; contemperando per forza la natura dell'altro, indocile a meschianza, con quella del medesimo. E, meschiato queste due nature[2] con la essenza (cioè con la natura che media è fra quelle); e di tre fattone una, tutto questo egli divise novamente in tante parti, quante si convenne; sí che ciascuna fosse temperata della natura del medesimo, di quella dell'altro, e di quella essenza che è nel mezzo. Ed egli cosí cominciò a spartire. Del tutto prima toglie una parte; poi un'altra, ch'era due cotanti di quella; e poi la terza, la quale era una volta e mezzo la seconda, e tre la prima; e poi la quarta, ch'era due cotanti della seconda; e poi la quinta, ch'era tre cotanti della terza; e poi la sesta, la quale era la prima otto volte; e la settima poi, la quale era la prima ventisette volte. Dopo ciò riempie gl'intervalli doppi e tripli (delle due sequenze di numeri che vennero dalla detta divisione, le quali hanno a ragione loro, l'una il due, e l'altra il tre), avendo ancora di là riciso altre parti, e postole in questi intervalli; facendo sí che fossero in ciascuno intervallo due medii, e l'uno avanzasse un estremo e avanzato fosse dall'altro di una medesima parte di ciascuno di quelli; e l'altro che tanto in numero avanzasse un estremo, quanto egli dall'altro estremo fosse avanzato. E messo ne' detti intervalli questi medii, e nati nuovi intervalli, cioè d'uno e un mezzo, d'uno e un terzo e d'uno e un ottavo, egli riempie con l'intervallo d'uno e un ottavo gli intervalli d'uno e un terzo, lasciando parte di ciascuno di essi; e l'intervallo di cotesta parte lasciata era siffatto, che come dugencinquantasei e dugenquarantatré, cosí i termini suoi eran tra loro. Per sí fatto modo Iddio ebbe consumato tutta quella meschianza, della quale levata avea le parti sopraddette. Ora egli scisso in due, per lo lungo, cotesta composizione e adattato l'una parte in su l'altra in sul mezzo loro, a figura della lettera Chi, ciascheduna di quelle per tale modo curvò in cerchio, che i capi dell'una parte si toccassero tra loro e con i capi dell'altra, a dirimpetto alla commessura; e con un movimento le involse, il quale ruota nel medesimo spazio e nella medesima forma. E fe' sí che uno dei cerchi fosse di fuori, l'altro di dentro: e addimanda movimento della natura del medesimo, il movimento del cerchio il quale è di fuori; e della natura dell'altro, quello del cerchio il quale è di dentro. E fe' che il cerchio della natura del medesimo si rigirasse a diritta e di costa; e quello dell'altro a sinistra, secondo diagonale. Nientedimeno la signoria concedette al rivolgimento del medesimo e simile, lasciandolo intero; per lo contrario, spartito sei volte il rivolgimento di dentro, ei ne fe' sette cerchi diseguali, di due specie, e ciascheduna con tre intervalli; e hanno gl'intervalli dell'una specie il due a ragione loro, e quei dell'altra, il tre; e ordinò che i cerchi andassero con moto contrario, tre simigliantemente veloci, e quattro dissimigliantemente e inverso ai tre e fra loro, ma tutti commisuratamente.

 

 

IX.

 

Compiuto che ebbe Iddio l'anima secondo la mente sua, ordinò dentro lei tutto quello che è corporale, e, disposando centro con centro, sí li recò ad armonia. E l'anima dal mezzo insino a ogni parte del corpo dilatata in cerchio, e di fuori fasciatolo, sé in sé rivolgendo incominciò divino principio d'intellettuale vita, durabile in perpetuo. E cosí fatto è visibile il corpo del cielo, l'anima poi invisibile; ma essendo ella partecipe di ragione e armonia, ella è infra tutte le generate cose la piú buona fattura del piú buono degl'intelligibili eternali enti. E come quella che temperata era di queste tre parti, della natura del medesimo, di quella dell'altro e della essenza la quale è nel mezzo, e partita era e collegata proporzionatamente; e come quella che a sé medesima in perpetuo torna per lo suo circulare; ogni volta ch'ella attinga cosa di natura atta a esser divisa, o vero no, movendosi tutta quanta dice quella a quale cosa sia medesima, e da quale diversa; e specialmente ella dice con qual riferimento, e come, e dove, e quando avvenga a ciascuna delle generate cose di esser cosí o cosí passionate, e in rispetto alle cose che divengono, e in rispetto a quelle che rimangono medesime eternalmente. Il logo[3], che è similmente verace, o si volga a cosa la quale abbia natura del medesimo, ovvero dell'altro; rigirandosi dentro quello che da sé muovesi senza suono e voce; quando s'indirizzi a cosa sensata, e il cerchio dell'altro ne dà a tutta l'anima le novelle, girando regolarmente, allora le vere opinioni si generano e le ferme credenze: quando poi s'indirizzi a cosa intellettuale, e il bene roteante cerchio del medesimo sparge le novelle, allora intelligenza e scienza si compiono necessariamente. Se persona volesse mai dimandare con alcun altro nome che quello di anima questa nella quale si generano le due nominate forme di conoscimento, ella certo in niuno modo direbbe vero.

 

 

X.

 

Il Padre, come vede muovere e vivere questo suo generato simulacro degli Iddii eterni, s'allegra; e dalla allegrezza pensò nel cuore suo di farlo tuttavia piú simigliante all'esempio. E perocché questo è eterno animale, egli si fu messo a fare questo universo altresí tale, secondo il potere suo. La natura dunque dell'animale era eterna; ma non potea essere che questa cosa s'adattasse perfettamente a quello che è generato; e pensa fare un cotale mobile simulacro dell'eternità. E cosí ponendo egli sesto al cielo, della eternità immanente nell'uno fa una immagine eterna, procedente secondo numero, quella che noi addimandiamo tempo. Imperciocché giorni e notti e mesi e anni non erano, avanti che fosse generato il cielo; e mentreché si compone questo, Iddio ordina la generazione di quelli. E tutte sono parti di tempo: ed eziandio l'era e il sarà sono generate forme di tempo, le quali senza avvedimento noi traslatiamo non dirittamente, nella essenza eterna; laddove l'è solo si conviene a lei secondo verace parlare, e l'era e il sarà s'ha a dire delle generate cose, procedenti nel tempo: imperocché sono movimenti; e quello che sempre è immobilmente medesimo, non conviene che divenga, o divenuto sia alcuna volta, o presentemente, o abbia mai a divenire piú giovine o piú vecchio, o universalmente checchessia di tutto quello che generazione presta alle cose che si rivolgono al senso[4]; ma elle sono forme del tempo, il quale imita la eternità, e secondo numero sé rigira. Simigliantemente noi siamo usati di dire: il divenuto è divenuto, il divenente è divenente, quello che è a divenire è a divenire, il non ente è non ente; ma cosí dicendo, non diciamo diritto. Ma forse non è egli ora il caso di trattare di ciò diligentemente.

 

 

XI.

 

Adunque si generò il tempo insieme con il cielo, acciocché, generati insieme, si sciolgano ancora insieme, se mai scioglimento alcuno a loro avvenisse. E fu generato il cielo secondo l'esempio della natura eterna, acciocché egli fosse simigliante a lei quanto potesse. L'esempio è ente, tutta la eternità; e il cielo, tutto il tempo, perpetualmente fu ed è e sarà generato. Per questo pensamento e intendimento di Dio inverso al tempo affinché egli si generasse, fatto è il sole, e la luna, e cinque altri astri che s'addomandano pianeti, per la custodia e distinzione dei numeri del tempo. Formato Iddio i corpi di quelli, sette di numero, poseli nelle orbite, sette anche esse, nelle quali la circulazione dell'altro fa suo movimento. Egli pose la Luna nel primo cerchio che inghirlanda la Terra; il Sole in quello ch'è secondo, attorno alla Terra; e Lucifero, e il pianeta che sacrato è a Mercurio, in quelli cerchi che si rigirano veloci cosí come il Sole, ma con avviamento contrario, sí che il Sole e il pianeta di Mercurio e Lucifero, ciascuno giugne l'altro, e giunto è da quello. Se uomo fosse mai vago di sapere per dove messi abbia Iddio gli altri pianeti, e con quale intendimento, bene porgerebbe questa sopraggiunta piú gravezza, che non esso argomento per cagione del quale si è toccato queste cose. Ma ciò si sporrà forse un'altra volta degnamente, a nostro agio.

Incontanente che tutt'i pianeti, ch'erano di bisogno per adoperare insieme la comparita del tempo, furono entrati nei cerchi, e legati con animati legamenti i loro corpi, furon divenuti animali; appresi gli ordinamenti, seguitando il moto dell'altro, che è obbliquo e traverso il moto del medesimo dal quale è signoreggiato, quale si fu messa ad andare per maggiore e quale per minore orbita, e quei dall'orbita minore volgersi piú veloci, quei dalla maggiore, piú lenti; ma a cagione del movimento del medesimo quei di loro che si rivolgono velocissimamente e che giungono i piú lenti, parvero a comparazione di questi essere tardi, e da questi essere giunti. La quale cosa però avvenne, che il moto del medesimo rivolge spiralmente tutti i loro cerchi; sicché per lo andare quelli con due indirizzamenti contrarii[5], quel pianeta che piú tardo si dilunga dal moto del medesimo, il quale è velocissimo, pare tenergli dietro molto da presso.

Ma, acciocché alcuna misura chiara ci fosse della lentezza e velocità con la quale per li otto cerchi questi pianeti, gli uni in rispetto agli altri, farebbero loro viaggio, Iddio accese un lume nel secondo de' cerchi che inghirlanda la terra, il quale chiamato è sole, perché egli illuminasse tutto il cielo molto abbondantemente, e tutti quegli animali partecipassero di numero, ai quali si conveniva, apprendendolo dal volgimento del medesimo e simile. E fatto è cosí dí e notte, per questa ragione; e sono essi il giro della circulazione una e sapientissima. Allora il mese si compie, quando la luna, girata attorno per lo suo cerchio, giugne il sole; e allora l'anno, quando il sole eziandio rigirato ha la sua strada. I giri degli altri pianeti, non avendoli intesi gli uomini, eccetto pochi fra molti, né li addimandano con nomi, né li commisurano fra loro, facendo le ragioni con numeri; in modo che ignorano, per cosí dire, che tempo sono altresí i loro errori smisuratamente molti e varii maravigliosamente. Ma però malagevole cosa non è a intendere, che allora il perfetto numero compie il perfetto anno, quando compiuto il moto loro tutti gli otto giri, il quale misurato è dal cerchio del medesimo che muovesi d'una medesima forma, al principio sono rivenuti di dove pigliaron le mosse. Cosí e per questa ragione sono nati tutti quegli astri che viaggiano per lo cielo e fanno loro svolte, acciocché questo mondo, quanto piú poteva, fosse simigliantissimo al perfetto e intelligibile animale, accostandosi alla natura eterna di quello.

 

 

XII.

 

E già in ogni cosa, infino alla generazione del tempo, fatto è il mondo a similitudine del suo esempio: se non che egli non accoglieva ancora in sé tutti gli animali; e da questo lato era dissimigliante. E Iddio effigia la natura dell'esempio medesimo, e compie il difetto. E siccome contempla la mente sua specie, le quali abitano nell'animale che è veramente; cosí egli pensa che tante e cotali ne abbia ad avere il mondo, quanti e quali son quelle. E son quattro: l'una è celestiale specie d'Iddii; un'altra, che è alata, va per l'aria; la terza è specie acquatica; la quarta poi ella è pedestre e terrena. Fece la specie degl'Iddii in grandissima parte di fuoco, perché ella fosse splendentissima e bella molto a vedere; e la fe' ben ritonda, assimigliandola all'universo, e posela in comunione con l'intelletto di quello che è potentissimo, ordinandola seguace di lui, e distribuendola attorno attorno per tutto il cielo, acciocché egli fosse verace mondo, e in tutte le parti sue molto ornato. E due movimenti avvivò in ciascuno di quelli: uno roteante nel medesimo spazio e nella medesima forma, da poi che egli pensano sempre dentro sé medesimamente di ciò che rimane sempre medesimo; l'altro verso avanti, da poi ch'eglino sono donneggiati dalla circulazione del medesimo e simile; e feceli immobili e fermi in rispetto agli altri cinque movimenti, acciocché quanto si poteva ciascuno di loro fosse sommamente bonissimo. Per tal ragione nati sono gli astri non errabondi, animali divini, eterni, i quali roteando in una medesima forma e in uno medesimo luogo, cosí si rimangono eternalmente: ma quegli altri, rivolventisi, vagabili, generati sono cosí come detto è di sopra. La terra, nostra nutrice, arrotolata intorno all'asse che è disteso per l'universo, egli ordinò guardiana e artefice della notte e del giorno; la quale è la piú venerabile e antica di quanti Iddii generati fossero in cielo.

A dire poi le danze di cotali astri, gli scontramenti loro, il rotare dei cerchi e il loro muovere innanzi; e nei congiugnimenti quali Iddii siano accosto, quali a dirimpetto; e come e quando e dietro o innanzi a quali si celino a noi e infra loro; e come novamente apparendo annunzino futuri danni, mettendo grande paura, a coloro che sono adatti a far le ragioni; a dire ciò, non essendo alcun simulacro di essi astri avanti agli occhi, sarebbe vana fatica. Ma stiamo contenti alle cose che sono dette, e facciamo qua fine al nostro parlare sovra la natura degl'Iddii visibili e generati.

 

 

XIII.

 

Dire poi e sapere la generazione degli altri Demoni, ella è cosa piú che da noi; ed è a credere a coloro che di ciò han favellato innanzi, discendendo quelli da Iddii e bene conoscendo i parenti proprii. Adunque non si può non credere a figliuoli d'Iddii, poniamo che parlino senza prove verosimili o vere; e noi, seguitando la legge, crediamo pure, dacché dicono di contar fatti di casa.

La generazione adunque di questi Iddii, cosí com'egli la contano, cosí sia e si dica. Di Gea e Urano furon figliuoli Oceano e Teti; di Oceano e Teti furono figliuoli Forci, Crono e Rea, e gli altri; di Crono e Rea sono poi nati Giove, Giunone e quanti noi sappiamo essere addimandati loro fratelli; e poi anco i figliuoli loro.

Da poi che furono generati tutti questi Iddii che si rivolgono manifestamente per lo cielo, e quegli altri che appariscono quando essi vogliono, cosí disse a loro il Generatore dell'universo: O Iddii, figliuoli d'Iddii, le fatture, delle quali io sono artefice e padre, sono indissolubili; cosí voglio. Per certo, ciò ch'è legato, tutto è dissolubile: nientedimeno, a voler sciogliere cosa la quale buona è a vedere e fatta è bellamente, egli è da malvagi. Onde, se voi non siete immortali né indissolubili totalmente perciò che siete generati, voi non sarete né anche sciolti, e mai non v'incoglierà fato di morte; cosí voglio; e la volontà mia bene è piú tenace legame e forte, che non quelli con i quali foste legati nascendo. Aprite ora la mente a ciò che io dico e paleso. Rimangono ancora a generare tre specie di mortali: non generandosi, sarebbe il cielo imperfetto, non avendo egli in sé ogni ragione d'animali; e pure mestieri è che li abbia, se dee esser perfetto come si conviene. Ma, generandoli e avvivando io, eglino agguaglierebbero gl'Iddii. Adunque, acciocché sian mortali, e questo universo tale sia veramente, attendete voi secondo vostra natura a fare gli animali, e la mia virtú imitate, la quale io, generando voi, feci manifesta. E quanto è a quella parte di loro, la quale conviene che abbia un nome cogl'Immortali, e che si addomanderà divina, e in quelli di loro sarà duce, i quali vorranno seguitare giustizia, io ve ne porgerò la semenza con la germoglia. Quanto è all'altro, sovrattessendo voi la natura immortale a quella mortale, sí fate e generate animali, e nutricateli, e allevateli, e, venendo essi a morte, riceveteli novamente.

 

 

XIV.

 

Disse queste cose. Poi di nuovo, nel vaso nel quale temperato avea e meschiato l'anima dell'universo, i sopravvanzati elementi gittò e rimeschíò, quasi nella maniera medesima: se non che non eran come quelli, ma sí bene secondi e terzi in ischiettezza. E ne fa un tutto, e lo diparte in tante anime, quanti sono gli astri, a ciascuno di questi distribuendo una di quelle. E postole ivi, cosí come in cocchio, mostrò loro la natura dell'universo; e le fatali leggi disse a loro: che il primo nascimento a tutti sarà uno medesimo, perché da lui non fosse diminuito niuno: che disseminate ciascuna in uno strumento di tempo che a lei convenisse, sí avrà a nascere l'animale piú pio; e da poi che la umana natura è gemina, piú forte sarà quel sesso il quale dipoi si addomanderà maschio: che come elle saranno piantate di necessità nei corpi, e a essi corpi una cosa s'aggiugne, un'altra ne va via, un sentimento medesimo s'avrà a ingenerare in tutti gli animali, fatto di passioni violente; e poi amore, mischiato di dilettanze e di doglie; e paura poi, ira, e l'altre cose seguaci a queste o contrarie; le quali se eglino signoreggeranno, sí viveranno in giustizia; e se da quelli saranno signoreggiati, in iniquità: che qualunque viverà onestamente per lo tempo segnato a lui, di nuovo egli nella abitazione dell'astro suo ritornando, menerà vita beata. Per lo contrario, se in ciò falla, nel secondo nascimento egli trapasserà in natura di femmina; e se non si rimane ancora dalla malvagità sua, al modo che immalvagisce, cosí egli dibasserà ogni volta in alcuna cotal bestiale natura: che mai le permutazioni sue e ambasce non avranno riposo, innanzi ch'egli, seguitando il giro del medesimo e simile il quale si volge entro lui, non domi con la ragione la molta turba, la quale se gli fu ingenerata poi, di fuoco, aria e acqua e terra; schiamazzante, pazza; e in sua onestà non rivenga.

Fatti questi bandi, acciocché poi non fosse colpabile della malvagità futura di ciascuno animale, egli disseminò le anime quali nella Terra, quali nella Luna, e quali via via negli altri strumenti di tempo. Commise poi a giovini Iddii quello che era a fare dopo la seminagione, cioè di comporre mortali corpi e quelle parti dell'anima che erano ancora di bisogno, e l'altro che segue appresso; e di correggere e a lor potere bellissimamente e ottimamente governare il mortale animale: salvo che del male suo non fosse cagione egli medesimo.

 

 

XV.

 

E colui che ordinò tutte queste cose, rimaneva in suo essere, secondo suo modo; e cosí rimanendosi, i figliuoli, tosto come inteso ebbero il comandamento del padre, già ubbidivano. E, ricevuto l'immortale principio di mortale animale, imitando il lor Fabbro, preso in prestanza dal mondo particelle di fuoco, terra, acqua e aria, le quali gli si aveano poi a rendere novamente, appiccaronle insieme; non già con indissolubili legami, come i loro propri, bensí commettendoli con cotali fitti chiovelli, non possibili di vedere per la picciolezza loro; e di questa materia facendo ciascuno corpo, dentro a esso corpo legarono gl'immortali giri dell'anima, il quale a cagion di suoi effluvii e riffluvii molto era commosso fortemente. I quali, legati dentro a grossa fiumana, non erano né vincenti né perdenti, ma cosí portati eran di forza e portavano, che immantinenti tutto l'animale muovesi sregolato, dove fortuna lo mena, senza ragione, avendo egli tutt'e sei movimenti; e innanzi, addietro, a diritta, a sinistra, su, giú, per tutt'e sei le vie tragettarsi. Imperocché molto essendo l'impeto dell'allagante e ritraentesi onda, ministra di nutrimento, bene piú ancora molto era il tumulto che faceano a ciascuno le passioni ricevute da fuori, allorquando imbattendosi quello in estranio fuoco, o intoppando in rigida terra, o balenando fra molli iscorrimenti delle acque, o avviluppato dal turbinio dei venti mossi dall'aria, i moti di tali cose, trapassando per il corpo, sí investivano l'anima: i quali moti per questo si chiamarono poi in genere sensazioni, e sono chiamati cosí ancora presentemente.

Queste arrecando subitamente, eziandio allora, moltissimo e grandissimo moto, e turbando con il perenne fluente rivo i giri dell'anima e conquassandoli, fermarono del tutto quello del medesimo, scorrendo di contro a esso, e sí gli impedirono il governare e lo andare; e cosí ancora il giro dell'altro conquassarono, che esso, e insieme i tre intervalli di ciascun dei due ordini, di quel che ha il due a ragione sua, e di quello che ha il tre, e i medii, e i legami d'uno e un mezzo e d'uno e un terzo e d'uno e un ottavo, da poi che non erano dissolubili totalmente se non da colui che legolli, in tutt'i modi scontorsero, facendo seni ne' cerchi e disuguaglianze quante piú potevano. Onde i cerchi tenendosi insieme a mala pena, si moveano sí, ma senza ragione, or contrarii, or obbliqui, e or riversati cosí, come quando riversato è alcuno, pontando in terra il suo capo e gittando in su i piedi e appoggiandoli ad alcuna cosa: imperocché, cosí stando, in rispetto di coloro che lo guardano, la diritta di quelli a lui, e la diritta di lui a quelli, sinistra apparisce, e la sinistra diritta. Ora patendo fortemente i giri queste medesime turbazioni e altre simiglianti, quando s'abbattono in cosa esteriore della natura del medesimo o dell'altro[6], sí divengono fallaci e dissensati, e dei due giri nessuno è signore e duce; se poi generandosi alcune sensazioni da fuori, e, investendo l'anima, rapiscono a sé tutto lo interno di lei, allora ancellano le circulazioni dei predetti giri, avvegnaché paiano donneggiare. E per tutte queste passioni, e ora e al principio, l'anima, non sí tosto che è legata in mortale corpo, diviene dimentica. Appresso poi, quando un poco scema il rigoglio della dilagante onda ministra di crescimento e di nutrimento, e i giri di nuovo tranquillandosi vanno piú l'uno dí che l'altro regolatamente per loro cammino; allora, tornati i cerchi a loro modo sereno, e le ordinate circulazioni appellando dirittamente ciò che è altro e ciò che è medesimo, colui che li ha, fanno savio. Se viene ancora in aiuto un buono ammaestramento, l'uomo, schivato il piú esiziale morbo, si fa intiero perfettamente e sano; ma se egli non bada, menata vita sciancata, difettuoso, stupido anderà di nuovo in inferno. Ma elle son cose che verranno quandochessia; di ciò poi che ci siamo proposti presentemente, è a ragionare piú con cura; e in prima della generazione delle singole parti del corpo, e di quelle dell'anima, dicendo per quali cagioni e provvidenze degli Iddii si generassero; appigliandoci a ciò che è piú verosimile.

 

 

XVI.

 

Gl'Iddii, vaghi d'imitare la ritonda figura dell'universo, legarono i divini giri, che sono due, in un corpo sferale, questo che dimandasi da noi capo presentemente: il quale è divinissima cosa, e su le altre membra ha signoria. E componendo il corpo, sí glielo dettero a suo servigio; intendendo che quanti movimenti ci ha, tanti ne avesse egli ad avere. Perché dunque egli rotolando per la terra, la quale si leva e avvalla in ogni forma, là non penasse a montar su e di qua a calar giú, sí lo ebbero adagiato di questo cocchio. Onde fu fatto lungo il corpo, e sporse fuori quattro membra tese e pieghevoli; e fu Iddio fabbro di questi strumenti del cammino, per i quali quello appigliandosi e puntandosi, potette andare per ogni luogo, su portando lo abitacolo di quello che è divinissimo e santissimo. Cosí e per questa ragione diramarono dal corpo gambe e mani: e gli Iddii, pensando che il davanti è piú gentile cosa e piú fatto a signoria che il di dietro, per quel verso ebbero donato a noi in grandissima parte lo andare. E, convenendo che l'uomo avesse il davanti del corpo suo bene contrassegnato e dissimile, eglino, intorno un lato del capo sottoponendo la faccia, legarono quivi organi per ogni provvidenza dell'anima; e però la faccia ordinarono duce, la quale è da natura sua volta avanti.

Degli organi prima fabbricarono i luciferi occhi, e legaronli ivi, adoperando cosí. Il fuoco, quello che non ha potenza di ardere, ma sí di porgere dolce lume, quale è quello del giorno, procacciaron che divenisse corpo: imperocché il fuoco sincero ch'è dentro noi, fratello di questo fuoco del giorno, fecero ch'e' scorresse per gli occhi; il limpido e il denso, tutto; costringendo il mezzo degli occhi, sí che alla parte piú crassa facesse intoppo, e lasciasse la via solo a quella piú limpida. E quando il lume del dí è intorno al rivo della vista, rifuggendosi allora il simile in verso del simile[7], intimamente meschiandosi, là dovunque s'abbattano sí fanno un corpo secondo lo indirizzamento dell'occhio. Il quale luminoso essendo e passionabile tutto simigliantemente a cagione della simiglianza delle parti sue, il moto di ciò che esso tocca o di ciò ond'esso è toccato, spandendo in tutt'il corpo nostro infino all'anima, arrecò questo sentimento per lo quale noi diciamo di vedere. Ma quando il cognato fuoco, quello del giorno, se ne va via per entro alla notte, allora scisso è il ruscello della luce degli occhi; perocché, uscendo fuori e entrando entro a un dissimile, si altera e spegne, non avendo piú amistà veruna con l'aria che è intorno, siccome quella che non ha fuoco. Allora il vedere si fa vano, e vien sonno. Imperocché le palpebre, le quali furono congegnate a salvamento della vista, chiudendosi, sí interchiudono la potenza del fuoco degli occhi, il quale allora spande gl'interiori moti e li uguaglia; e, uguagliati, si fa quiete; e se è molta quiete, sí viene sonno insieme con lievi sogni: e se mai sono rimasti moti piú vivi, essi, secondo la qualità e il luogo loro nel corpo, suscitano fantasmi somiglianti a cose di dentro o di fuori; i quali, svegliati che noi siamo, ci si girano ancora per la mente.

La cosa poi della formazione delle immagini negli specchi, e universalmente in tutti quanti i corpi lucidi e puliti, non è oramai niente forte cosa a chiarire; perocché dalla comunione del fuoco di dentro e di quello di fuori, e dall'unimento loro ogni volta sovra al polito piano dello specchio, in un corpo il quale si rimuti per molte guise e si adatti a quello, si fanno queste tali parvenze necessariamente; mischiandosi allora insieme su per lo polito e lucido specchio il lume che vien dalla faccia dell'obbietto con quello che deriva dagli occhi. E quello che è sinistro, pare destro; perciocché avviene che le parti della luce della vista si abbattono in quelle contrarie della luce delle cose, contro al modo usato. Ma il destro par destro, e il sinistro sinistro, quando la luce della vista in quel che si mesce con quella veniente dalla cosa, sé rivolve: e ciò incontra se la polita faccia dello specchio di qua e di là si leva, e manda il lume del destro lato dell'obbietto verso al lato manco del lume dell'occhio, e quello del manco a quello del destro. Un cotale specchio, colcato secondo la lunghezza della faccia, fa sí che paia riversata ogni cosa, mandando il di giú del lume dell'obbietto verso il di su del lume della vista, e il di su verso il di giú.

Tutte queste sono cagioni ausiliarie, delle quali giovasi Iddio come di ministre per recar quanto si può ad atto l'idea del bonissimo. I piú son di opinione che elle non siano cagioni ausiliarie, ma sí bene cagioni schiette di tutte le cose; da poi ch'elle raffreddano e scaldano, densano e spargono, e altri effetti operano simiglianti a questi. Ma non possono elle aver ragion né intelligenza a cosa niuna, imperocché l'anima s'ha a dire che è degli enti quello al quale solo convien possedere intelligenza, ed ella è invisibile; ma fuoco, acqua, aria, terra sono tutti corpi che si vedono.

Ora, colui che ha amore alla mente e alla scienza, dee primieramente cercare le cagioni prime, cioè quelle di natura intellettuale, e poi le seconde, cioè quelle che si generano da cose, le quali, da altre mosse, di necessità altre muovono alla loro volta. E cosí conviene fare anche a noi, cioè dire di tutt'e due le specie di cagioni sceveratamente, di quelle che operano con intelletto cose belle e buone, e di quelle private d'intelletto, che operano ogni volta a caso e disordinatamente.

E già delle seconde cagioni onde hanno gli occhi questa virtú loro, si è ragionato sufficientemente. Ora è a dire qual'è il piú gran bene degli occhi, per lo quale ce li ha donati Iddio. La vista io penso che è a noi cagione del maggior bene del mondo; perocché giammai dire non si poteva niuna di queste cose dell'universo, se non vedevamo noi astri, né sole, né cielo. Ora il dí e la notte, che noi vediamo, i mesi e i giri degli anni, ci hanno fornito il numero e il concetto del tempo, e il modo di cercare la natura dell'universo; onde ci siamo noi procacciato cosí la filosofia, della quale un maggiore bene né fu né sarà donato mai dagl'Iddii alla mortale generazione. Dico questo grande bene degli occhi; tutti gli altri da meno a che celebrare e laudare? dei quali occhi se alcuno è orbato, il quale non sia filosofo, egli si piangerebbe e farebbe lamento invano. Io dico, io dico che per la detta ragione Iddio ci ha trovato gli occhi e ci ha donata la vista, acciocché noi contemplando in cielo i giri dell'intelligenza, per le circulazioni della nostra mente ce ne giovassimo, le quali sono simili a quelli; se non che, quelli sono sereni, queste turbate; e appreso la dirittura e le ragioni de' loro moti, imitando i non errabili giri dell'Iddio, i nostri proprii, i quali sono erranti, ricomponessimo.

Si dica pure la medesima cosa della voce e udito, cioè che per la stessa cagione e lo stesso fine ci furono donati dagl'Iddii; ché veramente la parola è indirizzata al fine sopraddetto, molto conferendo ella al conseguimento suo: e cosí quanto ha di giovevole nella musicale voce tutto deputato è all'udito, a cagione dell'armonia. E l'armonia che ha movimenti simili alle circulazioni della nostra anima, a chi si giovi sapientemente delle Muse non parrà ella fatta a procurare stolta dilettazione, come si pensa al dí d'oggi; ma sí perché fosse a noi aiutatrice a ricomporre in bello ordine le circulazioni della nostra anima, e a concordarle con lei medesima: sí, per questo fu donata a noi dalle Muse. E simigliantemente fu donato il ritmo, perché ci aiutasse a illeggiadrire l'abito, il quale è nei piú senza modo e grazia.

 

 

XVII.

 

Le cose che insino a qui sono dette, han chiarito, salvo poche, quello che fu operato dalla Mente; ma ci conviene aggiungere quello che fu fatto da Necessità: perocché mista è la generazione di questo mondo, essendo esso stato generato dell'accordanza di Necessità e di Mente. Ma la Mente donneggiando la Necessità, confortolla di voler ridurre al Bene la piú parte delle cose che si generavano; ed essendosi la Necessità alla persuasiva sapienza di lei umiliata, cosí da principio fatto è per tale modo questo universo. Onde se alcuno vorrà dire di quello come veramente è generato, ci dee anche mischiare cotesta specie di cagione vagabile dove sua natura la mena.

Adunque è a rifare la via; e ripigliando queste cose in altra piú convenevole forma, cominciamo pure da capo cosí come fatto è per quelle altre cose dette dinanzi. È a considerare quali fossero la natura e gli accidenti del fuoco, dell'acqua, dell'aria e della terra, avanti alla generazione del cielo, non avendo mai nessuno mentovato il loro nascimento: e come se noi conoscessimo ciò ch'è fuoco, acqua, aria e terra, li addimandiamo principii, ponendoli elementi dell'universo; laddove, non che ad elementi o lettere, né anche a sillabe conviene loro essere assimigliati da chi ha alcuno intendimento. Quanto è a noi, del vero principio, o principii, o che altro si pensi, non se ne ha a ragionare al presente, per niuna altra ragione che per essere malagevole cosa secondo questa forma di trattazione far manifesto quello che ce ne pare: e non pensate nel cuore vostro che io abbia a ragionarvene, che non sarei buono né anche io di persuadermi che gittandomi in cotanta impresa io farei bene. In quel cambio salvando quello ch'io vi promisi in sul cominciare, la verisimiglianza, e studiando di arrecare ragioni, non già meno, sí piú verosimili di quelle di chicchessia, mi farò dal principio a dire di ogni cosa in genere e singolarmente. E ancora sul metterci in quest'altro ragionamento invochiamo di nuovo Iddio salvatore, perché da opinioni fallaci e strane riduca noi a credenza di verosimili cose: ciò fatto, incominciamo a dire.

 

 

XVIII.

 

E in prima è da fare maggiore distinzione che non nel ragionamento d'innanzi: imperocché allora noi abbiamo distinto due generi, e al presente è a palesare un terzo genere nuovo; perocché allora erano sufficienti quei due, l'uno posto come specie di esempio, il quale è intelligibile e rimane medesimamente in eterno; e l'altro come copia dell'esempio, il quale è visibile ed ha generazione. Allora non abbiamo distinto il terzo genere, pensando che i due fossero sufficienti; ma ora pare che ci costringa il ragionamento di prendere a chiarire con le parole questa faticosa specie ed oscura. E quale penseremo noi che sia la potenza e la natura sua? questa principalmente, di essere ricettacolo, e quasi nutrice, di tutto ciò che si genera. Detto è il vero, nientedimeno si dee mostrare con piú chiarezza; e ciò è malagevole, specialmente perché è necessario porre innanzi alcuni dubbi quanto al fuoco e agli altri compagni del fuoco. Certamente a dire quale di essi in verità è piuttosto da chiamar acqua che fuoco, e perché è piuttosto il tale che non tutti e ciascuno indifferentemente, e dire ciò con saldo ragionamento e securo, ella è malagevole cosa. E in qual modo solveremo noi questi dubbi ragionevoli?

In prima, ciò che testè noi abbiamo chiamato acqua, densandosi, ci pare vederla diventar pietra e terra; e se si solve e discerne, vento e aria; e affiammandosi l'aria, diventar fuoco; e densandosi il fuoco e spegnendo, tornare nuovamente in forma di aria; e l'aria se si costringe e affolta, diventar nuvole e nebbie; e queste, pressate piú, sciogliersi in acqua; e dall'acqua riuscire di nuovo pietra e terra: sicché, come pare, essi dannosi in giro la generazione vicendevolmente. E cosí queste cose mai non rimanendo medesime, di quale di esse affermerà alcuno per certo, questa è, senza che di sé si vergogni? ma di ciò egli è molto securo cosí dire: sempre quello che noi veggiamo quando generarsi in una forma, quando in un'altra, come il fuoco, non si dee nominare Questo, ma sempre Cotale; cosí, il cotale fuoco[8], e né anche quest'acqua ma sí la cotale acqua: e universalmente le altre cose siffatte non convien chiamare cosí come se elle avesser fermezza, dico io quelle, per le quali noi usiamo, per mostrarle, dei nomi Questo e Cotesto, immaginandoci di manifestare alcuna cosa: imperocché elle fuggono, non aspettando il Questo o Cotesto o a Cotesto o altra parola simigliante che le significhi com'enti stabili. E non si ha a nominare fuoco, aria, acqua, terra, ciascuno sceveratamente[9]; ma sibbene e di ciascuno e di tutti si dee nominare la perpetuamente rigirantesi e simile parvenza, chiamandola Cotale. E però dovunque apparisca la parvenza Fuoco, ella è a nominare Cotale; e cosí si dica simigliantemente di tutto ciò che ha generazione. Ma a quello, dove ogni volta le parvenze mentovate appaiono nascendo e d'onde isvaniscono novamente, solo a quello si conviene il nome di Questo e Cotesto; checché poi è cosí, e cosí, come caldo, bianco, e i contrarii loro o ciò che nasce di loro, non gli si conviene. Ma di ciò procuriamo di parlar di nuovo piú chiaramente.

Ecco, poniamo che alcuno, pigliato oro, da quello cavi figure d'ogni ragione, senza restar mai del trasfigurare ciascuna in tutte; mostrando alcuno una figura, e domandando, che è? per certo egli è molto sicuro rispondere in questa forma: È oro. Il triangolo e qualunque figura ivi si generasse, non sono da nominare cosí come fossero enti; imperocché, pria che fatte, elle sono disfatte: e se egli volesse ricevere a fidanza la risposta che son Cotali, si ha a stare contenti[10]. Il medesimo ragionamento vale per la natura la quale accoglie in sé tutti i corpi; ella è a dire che è la medesima eternamente, perocché ella niente mai non esce di sua potenza, accogliendo sempre tutte le cose e per niuno modo mai non pigliando forma niuna che simile fosse a alcuna cosa di quelle che in lei entrano: imperocché ella è di natura sua quale passionabile materia, e a tutto soggiace, e mossa e affigurata da ciò che in lei entra, ora ella appare in una forma, ora in un'altra. Le cose ch'entrano ed escono, imitative sono degli eternali enti, stampate da quelli per inenarrabile modo e maraviglioso; il quale cercheremo poi.

Presentemente adunque è a distinguere tre generi, cioè il generato, e quello nel quale egli si genera, e quello dal quale egli, generandosi, riceve la somiglianza. E conviene anco paragonare quello che riceve, a madre; quel dal quale riceve, a padre; e quello che è nel mezzo di loro, a figliuolo. E si ponga mente che avendoci a essere una effigie in tutte guise svariata, non altrimenti bene apparecchiato sarebbe quello nel quale ella si stampa, salvoché non avendo niuna forma, di tutte quelle idee che fosse per ricever da fuori; imperocché se mai a cosa alcuna somigliasse di quelle che in lei entrano, quando venissero quelle di natura contraria e totalmente diversa, ella, ricevendole, male segnerebbesi di loro stampa, da poi che trasparirebbe il suo viso. E però cotesta natura che dee accoglier da fuori nel seno suo tutti i generi, è mestieri ch'ella sia ignuda di ogni forma. Cosí come quelli che conciano unguenti odorosi, con loro industrie fanno sí che inodoroso sia al tutto l'umore il quale dee prendere l'odore; e cosí come quelli che pigliano a improntar figure in materia docile, non lascian che vi traspaia segno di figura alcuna, e ripulendola prima, quanto è in poter loro la lisciano; cosí simigliantemente quello che dee in ogni parte sua ricevere bellamente e spesse volte le similitudini degli eternali enti, convien che di natura ignudo sia di ogni forma.

E però la madre e ricettacolo delle generate cose che si vedono e sentono pienamente, non la dimandiamo noi terra, né fuoco, né acqua, e nulla di tutte quelle cose che siano fattrici loro o loro fatture; ma sibbene diciamola un cotale invisibile genere senza forma, che ricetta ogni cosa, di ciò che è intelligibile partecipe in un tal modo che dire non si può ed è forte molto a intendere; e, dicendo cosí, non si falla.

E per quello che detto è, per quanto arrivare si può la natura sua, cosí si direbbe molto dirittamente: ogni volta par fuoco la parte di lei che è affocata, quella inumidita, acqua; e in tanto ella par terra e aria, in quanto riceve le loro somiglianze. Ma, volendo noi definire la cosa piú chiaramente, è a cercare se ci sia mai un fuoco da sé; e similmente è a cercare di tutte quelle cose, di ciascuna delle quali noi siamo usati dire ogni volta, ch'ella è da sé: o se queste cose che veggiamo, e tutte quelle che sentiamo per mezzo del corpo, elle sole hanno cotale verità, e nessuna non è oltre a quelle per nessun modo; sí che tutto dí noi diciamo vanamente, che di ogni cosa è una cotale intelligibile specie, non essendo altro coteste specie che parole. Per certo se noi lasciamo la presente questione non esaminata né giudicata, non è bene asseverare a fidanza che la è cosí o cosí; ma da altra parte né anco è bene appiccare una lunga giunta a un lungo ragionamento. Laddove poi si trovasse modo di ridurre, il molto in poco, ciò proprio farebbe al caso. Io penso cosí: se mente e verace opinione son due generi, sí che allora ci sono veramente coteste cose da sé, specie non sensibili a noi, soltanto intelligibili; ma se opinione verace non differisce in nulla da scienza secondoché pare ad alcuni, sole quelle cose sono a reputare certissime, le quali sentiamo per via del corpo. Ma sono due generi, cosí è a dire: imperocché elle separatamente si generano e si comportano dissimigliantemente; perché l'una si genera per insegnamento, e l'altra per persuasione; e l'una accompagnasi ogni volta con verace ragione, l'altra è irrazionabile; e l'una non è pieghevole a persuasione, l'altra sí, e si cangia a ogni persuasione novella; e dell'opinione è da affermare che partecipe è ogni uomo, della mente poi gli Iddii e di uomini una schiera piccola assai. E s'egli è cosí, è da consentire che ci è una specie che rimane medesima eternamente, non generata né peritura, che né altra cosa riceve dentro sé da altrove, né va in altra cosa, non visibile né sensibile per veruno modo, quella la quale solo all'intelletto fu dato di considerare; e che ci è una seconda specie che ha il medesimo nome di quella rammentata, simile a quella, sensibile, generata, in perpetuo movimento, che nata in un luogo di nuovo di là tosto isvanisce, la quale si comprende per mezzo della opinione accompagnata col senso; e che ci è da ultimo una terza specie, lo spazio, da corruzione securo, che a tutto ciò che ha generazione dà stanza, che apprendesi senza il senso, per mezzo d'una cotal bastarda ragione, credibile a mala pena: al quale riguardando, noi sogniamo, e diciamo ch'egli è necessario che ogni ente sia in alcuno luogo e occupi alcuno spazio, e che ciò che non è in terra né in cielo, è un nulla. E poi, a cagion di cotesto sognare, anco svegliati, i detti pensieri e i fratelli loro siamo sciocchi a sceverarli da quelli che si convengono alla natura vigile, che è ente schietto; e sciocchi siamo a dire il vero: cioè, che il simulacro, da poi che quello per lo quale fu generato non gli si appartiene, ed esso simulacro muovesi come fantasma di un altro e diverso è da quello, perciò conviene che similmente si generi in alcun altro diverso perché egli si appoggi all'essere in alcun modo; ovvero convien che sia proprio un nulla. Ma all'ente verace soccorre con sollecitudine la verace ragione, la quale dice, che insino a tanto che una cosa è una cosa, e un'altra è un'altra, niuna delle due non può generarsi nell'altra giammai, e insieme essere uno e due[11].

 

 

XIX.

 

Adunque, il ragionamento mio è questo, secondo ch'io penso; e io lo ridico in breve. Ci sono Ente, Spazio, Generazione, tre cose, ciascuna in suo modo, e innanzi che si generasse il cielo; e la nutrice della generazione, umidendosi e affocando, e le forme di terra accogliendo e di aria, e tutte l'altre passioni ricevendo, le quali seguono a queste, svariata è a vedere; e per essere ella piena di forze non simiglianti né contrappesate, non librasi da niuna parte, ma sí da ogni parte si dilibra fuor di misura, e dalle sopraddette forze ella squassata, alla sua volta le squassa; e quelle, mosse cosí, disceverarsi e quali trarre in un luogo, quali in un altro. E siccome cose scosse e ventilate da vagli e arnesi da purgare frumento, che le dense e gravi si radducono in una parte, le rare e lievi in un'altra; cosí allora i quattro generi scossi, come da istromento che scuota, dal recettacolo sé dimenante, i dissimigliantissimi gli uni dilungarsi da gli altri quanto potevano, e i simigliantissimi quanto potevano costrignersi in un luogo medesimo: perocché essi tenevano diversi luoghi avanti che ordinati fossero per lo nascimento dell'universo; e però si comportavano irragionevolmente e isregolatamente. E allora che preso ebbe Iddio a comporre l'universo, fuoco e acqua e terra e aria, che aveano pure certi vestigi di loro forme, giacevan cosí proprio come convien giacere a ogni cosa dalla quale Iddio sia lontano: e cosí stando essi naturalmente, da prima Iddio affigurolle di forme e di numeri; e che le compose in modo bellissimo e bonissimo il piú ch'egli potesse, doveché eran scomposte, ciò universalmente si dica pure da noi ogni volta. Ora mostrerò a voi con ragionamento inusato l'ordinamento e generazione di ciascuna di queste specie; e certo voi, non nuovi delle vie della scienza per le quali necessità è andare per veder chiaro le dette cose, mi seguirete.

 

 

XX.

 

In prima, che fuoco, terra, acqua, aria, siano corpi, ciò manifesto è ad ogni uomo. E ogni specie di corpo ha profondità; e ogni profondità poi dee avere il piano; e un diritto piano è fatto di triangoli. I triangoli poi nascono di due triangoli, i quali hanno un angolo diritto e due acuti; de' quali triangoli l'uno da tutt'e due i canti ha una parte uguale di angolo diritto con lati uguali; l'altro ha due parti ineguali di angolo diritto con lati ineguali. Questi due triangoli poniamo quali principii del fuoco e degli altri corpi, procedendo noi secondo quella ragion verosimile la quale possa stare insieme con Necessità; i principii di sopra a questi sa Iddio, e degli uomini colui il quale gli è caro. Adunque è a dire quali siano i corpi bellissimi, dissimiglianti fra loro, de' quali alcuni sono possenti, sciogliendosi, di rigenerarsi gli uni dagli altri. Ci vien fatto questo? e noi avremo il vero della generazione della terra, del fuoco e di quelli corpi i quali secondo proporzione tengono il mezzo; e a nessuno non consentiremo che ci siano altri piú belli corpi a vedere, considerati essi singolarmente nel genere loro. Procacciamo adunque di comporre questi quattro generi di corpi insigni in bellezza, e cosí diremo avere noi inteso la natura loro sufficientemente. De' due triangoli, a quello il quale ha uguali due lati toccò una sola natura, innumerabili poi allo allungato; e però è da scegliere fra cotesti allungati quello che è bellissimo, volendo incominciar bene: se per avventura poi avesse alcuno a dircene uno piú bello a comporre questi corpi, scelto da lui, non un nemico vincerebbe noi, ma sí bene un amico. Poniamo dunque de' molti triangoli il bellissimo, lasciando gli altri, cioè quello del quale due compongono un terzo triangolo con uguali lati. A dir la ragione si anderebbe per le lunghe; ma a chi contraddice a questo e ritrova che non è cosí, amicizia è il premio che apparecchiamo a lui.

Adunque i due triangoli eletti, de' quali sono orditi i corpi del fuoco, dell'aria, acqua e terra, siano quello con due lati uguali e quello che sempre ha secondo potenza il maggior lato tre cotanti di quello che è minore. Ma ciò che innanzi detto è oscuramente, ora è piú da chiarire: perché prima i quattro generi di corpi tutti ci parevano per sé avere mutuo nascimento gli uni dagli altri; ma ella fu apparenza fallace. Il vero è che de' triangoli da noi scelti nascono le quattro specie di corpi: tre da uno, da quello che ha i lati disuguali, e la quarta sola da quello che ha due lati uguali. Non possono adunque tutti questi corpi, sciogliendosi gli uni negli altri, di molti piccioli generarsi pochi grandi; ma tre, sí, possono: imperocché essendo essi nati da un triangolo, sciolti i piú grandi di loro si faranno molti piccoli, pigliando convenevoli figure; e di nuovo disseminandosi molti piccoli secondo i loro primarii triangoli, adunandosi poi in un solo numero, possono compier una sola grande specie di un solo corpo. E ciò basti della mutua loro generazione.

Seguita ora a dire in qual figura è generata ciascuna delle quattro specie di corpi, e per quale convenimento di numeri, principiando dalla prima specie, la composizione della quale è piú semplice. Elemento suo è quel triangolo, il quale ha la ipotenusa due cotanti piú lunga che il lato minore: due siffatti triangoli cosí componendosi insieme, che tutte le ipotenuse si tocchino, e ripetendosi tre fiate sí, che le ipotenuse e i lati brevi si appuntino in uno, siccome in centro, nasce di sei triangoli un triangolo solo equilatero. Componendosi poi insieme quattro equilateri triangoli, sí che ogni unione loro ternaria faccia un angolo solido il quale tosto segua il piú ottuso angolo piano; e compiuti quattro di cotali angoli solidi, fatta è la prima solida specie, per mezzo della quale può essere compartita una sfera in parti simili e uguali. La seconda specie si fa degli stessi elementari triangoli cosí legati insieme in otto triangoli equilateri, che da ogni accostamento di quattro angoli piani si compia un solo angolo solido: e, compiuti sei di cotali angoli solidi, fatta è la figura del secondo corpo. Il terzo corpo, il quale ha venti facce triangolari e equilatere, si genera di due volte sessanta dei detti elementari triangoli, commessi cosí fra loro, che facciano dodici angoli solidi, ciascun de' quali è compreso da cinque triangoli piani di uguali lati. E già è consumato uno de' due elementi dopo generate queste figure. Il triangolo poi da' due lati uguali generò cosí il quarto corpo: ripetendo sé quattro volte, e i diritti angoli suoi appuntando nel centro, ebbe fatto un tetragono equilatero; e, commessi poi insieme sei cotali tetragoni, fatti sono otto solidi angoli, ciascuno dei quali composto è di tre piani angoli e diritti: e cosí è nata una figura di corpo, che è il cubo, il quale ha sei piane basi tetragone e equilatere. Rimanendo ancora una forma di composizione, che è la quinta, di quella si fu giovato Iddio per lo disegno dell'universo.

 

 

XXI.

 

Ora, se guarda alcuno alle cose sopraddette, starà dubbioso se convenga dire i mondi essere infiniti in numero, o vero finiti; ma giudicherà tosto che, a dire infiniti i mondi, ella è credenza di uomo privato di conoscenze delle quali pure avrebbe a esser fornito; ma questo, se uno solo è, o cinque, piú darebbegli cagione di dubitare. Uno, dice la mente nostra, che è il mondo, secondo ragion verisimile: altri, ad altra cosa riguardando, opinerà altrimenti. Ma, lasciando ciò, le specie, che noi generammo dianzi col ragionamento, distinguiamo in fuoco, terra, acqua e aria. E alla terra noi assegniamo figura cubica, perocché ella è la piú immobile delle quattro specie di corpi e la piú pastosa; e somma necessità è che tale sia quel corpo, il quale ha basi securissime. Ora, de' triangoli posti dinanzi, la base di quelli a due lati uguali è naturalmente piú secura che la base di quelli che hanno tutti i lati loro disuguali; e quanto alla figura piana fatta da ciascuna di coteste due specie di triangoli, di necessità il tetragono equilatero, sí nelle parti sue come in tutto, sta piú fermo che il triangolo equilatero. E però noi salviamo la verosimiglianza assegnando la figura mentovata alla terra, e all'acqua quella meno mobile, e quella mobilissima al fuoco, e quella ch'è nel mezzo all'aria; e al fuoco quella acutissima, la seconda in acume all'aria; e la terza all'acqua. Onde quella di tutte queste figure la quale ha pochissima base, è di necessità mobilissima, taglientissima, da poi ch'ella è acutissima sovra a tutte; e anco è leggerissima, però ch'è composta di pochissime parti medesime; la seconda ha secondamente le qualità sopraddette; e terzamente la terza. Sia adunque secondo verisimile e diritta ragione la figura solida della piramide or generata, elemento e seme del fuoco; e la seconda per nascimento, dell'aria; e la terza, dell'acqua. Ma è da considerare che tutte queste seminali figure son picciole sí, che noi delle singole parti di ciascun genere per la loro picciolezza non veggiamo niente, e che ragunandosi molte insieme, allora si vede il loro volume; ed è a considerare che Iddio, quanto è alle ragioni delle moltitudini e movimenti loro e altre loro potenze, provvedendo egli con amore, fe' proporzionatamente ogni cosa.

 

 

XXII.

 

Perciò che detto è innanzi intorno ai generi, la cosa avrebbe a stare cosí. Terra abbattendosi a fuoco, sciolta dall'acume di esso, qua e là rigirandosi, in fino a tanto che le parti sue, o ch'elle cosí sciolte si trovino entro all'istesso fuoco, o entro ad aria o acqua, disposandosi fra loro novamente, tornino terra; ché non trapasserebbero mai in altra specie. Acqua spartita da fuoco o anco da aria, acconsente, ricomponendosi insieme, di fare un corpo di fuoco o due di aria; e se è spartita aria, si fanno di una parte sua due corpi di fuoco. E novamente, se chiuso è fuoco da aria o da acqua o da alcuna parte di terra, essendo esso poco entro a molti; dimenandosi quelli, ed esso in mezzo di loro dibattendosi, combattendo; sí é vinto e spezzato: e allora due corpi di fuoco si ricompongono in uno di aria. E se è domata aria e sminuzzolata, due intieri corpi e mezzo di quella si costringono in uno di acqua.

Perché noi cosí ragioniamo di nuovo a questo proposito: che quando il fuoco piglia alcun altro genere, e con l'acume de' suoi angoli e canti, sí taglialo; egli ricomponendosi nella natura di fuoco, non è piú tagliato; imperocché ogni genere simile a sé medesimo non può in un genere a lui simile operare alcuno mutamento, e né anco patire può cosa alcuna da quello. Ma insino a tanto che un genere si scontri in un altro di principii diversi, ed esso, che è debole, combatta con uno gagliardo, non rifinisce di sciogliersi. Per lo contrario, quando corpi piccoli e pochi son chiusi fra molti piú grossi, essendo minuzzati, si dissipano: ma quando si vogliano ricomporre nella forma del vincitore, il dissipamento loro ha fine: e cosí di fuoco nasce aria, e di aria, acqua. In ultimo, se un genere di corpi investano in un altro quale che sia e combattano parimenti, essi non ristanno di sciogliersi tutt'e due, insino a che, respingendosi e sciogliendosi pienamente, non si rifuggano ai cognati loro; ovvero che i vinti, da molti facendosi uno e simile al vincitore, non si rimangano ad abitare seco lui. E per le dette passioni i corpi mutano cosí loro sedi: perocché le moltitudini de' corpi di un genere medesimo si traggono per lo squassare del ricettacolo a un luogo loro proprio; ma fatti dissimili tra loro, e per contrario simili ad altri corpi di diverso genere, per questo scotimento al luogo di quelli son portati, ai quali sono fatti simili.

Adunque i corpi schietti e primarii sono generati per queste cagioni. Dell'esser poi nate in quelli diverse specie di forme si dee accagionare la composizione di ciascuno dei due elementi, della quale non venne in sul principio un triangolo isoscele d'una specie e grandezza, e né anco uno scaleno d'una grandezza; ma sí tanti ne vennero piú piccoli e piú grandi, quante son le specie delle corporali forme: e però i detti triangoli, mischiati seco medesimi e fra loro, fanno varietà infinita, alla quale dee riguardare chi ragionar voglia della natura secondo verisimiglianza.

 

 

XXIII.

 

Quanto a moto e a quiete, se non consentiamo per quale via e modo siano generati, assai impedimenti avrà il ragionamento che segue. Detta è già alcuna cosa, e ora aggiungiamo questo, che moto mai non può essere nella ugualità; imperocché malagevole anzi impossibile è che ci sia cosa mossa senza alcuno movente, o alcuno movente senza alcuna cosa mossa. E da poi che, non essendo quelli, non è moto, e quelli non possono essere uguali: segue che la quiete è nella ugualità, e il moto è nella disugualità: cagione poi della disugualità è dissimiglianza, e già noi abbiamo favellato della generazione sua. Ma niente detto è ancora perché mai i corpi, dopo sceverati secondo loro generi, non cessassero di muoversi e rigirare gli uni per entro gli altri. Ciò noi chiariamo ora in questa forma. Posciaché abbracciato ebbe il cielo tutti i generi, essendo egli circulare e naturalmente voglioso di raccogliersi seco medesimo, sí li strinse e non lasciò rimanere spazio alcuno vuoto. Onde il fuoco per tutto trascorse velocissimamente; l'aria secondamente, come quella che in sottigliezza è seconda al fuoco; e cosí gli altri: imperocché lasciando i corpi fatti di grandissime parti grandissimo vacuo nella composizione loro, e piccolissimo quelli fatti di parti piccolissime, il costringimento che seguita alla pressura caccia i piccoli corpi per entro agl'intervalli dei grandi. E i piccoli, cacciati per entro ai grandi, li discernono; e questi, a loro volta, quelli adunano: onde tutti i corpi sono portati su e giú ai proprii loro luoghi; imperocché ciascuno di essi corpi muta sito con mutare grandezza. E cosí perseverando in perpetuo la generazione della disuguaglianza, ella è cagione del perpetuo moto de' corpi; il quale è e sarà senza intermissione.

 

 

XXIV.

 

Dopo ciò è da considerare che sono molte specie di fuoco, come la fiamma; e quello che si sparge dalla fiamma e non arde, ma sí porge lume agli occhi; e quello che, morta la fiamma, rimane ne' corpi affocati. Similmente dell'aria, ci è la limpidissima, chiamata etere, e la torbidissima, chiamata nebbia e caligine, e diverse altre specie senza nome, generate dalla disugualità dei triangoli. Di acqua sono primieramente due specie, la umida, e quella che si scioglie. La umida, perocché fatta di parti di acqua piccole e disuguali, ella è movevole da sé e per altro, a cagione della disugualità e figura sua. L'acqua fatta di parti grandi e uguali è piú stabile di quella, ed è grave per la ugualità sua, e serrata; ma se l'addentra fuoco e la scioglie, ella, perduta la egualità, prende piú del moto; e, fatta mobilissima, dalla prossima aria è cacciata e distesa in terra. Or il distemperarsi della massa sua ebbe nome di struggimento, e di scorrimento lo stendersi che ella fa giú in terra. E poi di nuovo isfuggendo di là il fuoco, perocché non esce nel vacuo, la vicina aria, premuta da esso, premendo a sua volta la liquida e ancor leggermente mobile acqua nelle sedi del fuoco, la rimescola tutta; e quella, premuta, ripigliando la ugualità sua, essendo andato già via il fabbro della disugualità che è il fuoco, riviene uniforme: or affreddamento detta è la dipartita del fuoco, e detto è serrato il corpo che si costringe immantinenti che il fuoco ne è andato via.

Di tutte queste acque le quali abbiamo detto che si sciolgono, quella ch'è densa molto per esser di sottilissime e ugualissime parti, genere che ha sola una specie e che è di color giallo e lucente, è la preziosa cosa dell'oro, che, stillando giú per le pietre, fassi duro. E il nodo dell'oro, durissimo per la sua fittezza, e che è nero, fu chiamato adamante. Quello che sta appresso all'oro per la natura delle sue parti, e accoglie piú che una specie, ed è piú fitto, e ha picciola e sottile porzioncella di terra sí ch'è piú duro che l'oro, ma piú leggiero per li grandi intervalli che ha dentro, è il rame; il quale si fa di splendenti e indurite acque. Quella parte di terra che è mista al rame, allora fatta parvente quando essi invecchiati si sceverano l'uno dall'altro, si dice ruggine.

E dell'altre cose siffatte né anco è malagevole favellare, seguendo verisimiglianza. E se mai alcuno per desiderio di riposo lasciando di speculare gli eternali enti, e rimirando pure alle verosimili ragioni delle generate cose, prende in esse diletto che da niuno pentimento non è turbato, egli potrebbesi procacciare modesto e ragionevole sollazzo in vita sua. Il qual sollazzo vogliamo anco noi avere, e però seguitiamo a dire, guardando pure al nostro proponimento, ciò che è verisimile. L'acqua mista a fuoco, quella sottile liquida, per lo movimento suo e lo andare che fa rivolvendosi giú in terra si dice fluida; e anco molle, perocché le basi sue son cedevoli, siccome meno stabili che quelle della terra. Quest'acqua, quando l'abbandonano fuoco e aria, divien piú uguale, e in sé medesima si costringe per la uscita di quelli. E se ella serrasi molto fortemente, su, lungi da terra, s'addimanda gragnuola; diaccio, se in terra; addomandasi poi neve se è di piú piccole parti e si serra mezza, su, lungi da terra; e pruina, se in terra, generandosi di rugiada. Le moltissime specie di acqua miste fra loro, stillanti per le piante figliate dalla terra, in genere, sono chiamate succhi. I quali, diversi essendo per loro diverse mischianze, hanno molte specie senza nome; ma quattro, d'ignea natura, per essere molto parventi, ricevettero nome. Quella che riscalda anima e corpo, si chiamò vino. Quella polita, che ha potenza di discettare la vista, e che splendevole è però a vedere e lucida e nitida, è la olearia: cioè pece e resina e l'olio medesimo e ogni altra cosa dell'istessa possanza. Quella che le mischianze spande entro alla bocca e però porge dolcezza, universalmente per questa virtú sua ebbe nome di miele. Quella che arde la carne e dissolvela, specie spumosa che è notabile fra gli altri succhi, si disse oppio.

 

 

XXV.

 

Quanto è alle specie di terra, quella che distilla per acqua, diviene cosí corpo petroso. L'acqua mista a essa terra, se picchiata è nella sua mischianza, trapassa in aria; e, aria fatta, ricorre su al suo luogo. Ma, non essendoci vuoto, ella preme l'aria che è da presso; la quale, siccome grave, premuta e stesa attorno alla massa della terra, costringe questa fortemente e nelle sedi la caccia di dove si levò su l'aria novella. E la terra, premuta dall'aria sí che scioglier non la possa acqua, fassi pietra. Piú bella è quella trasparente, che ha parti uguali, liscie, di simile forma; la contraria è piú brutta. La terra, se a lei succia ogni umore la rapina del fuoco sicché ne divenga piú secca, si fa ciò che noi chiamiamo argilla. Alcuna volta la terra, rimanendole umore, strutta che è da fuoco e poi raffreddata, diviene la pietra di color nero. E simigliantemente se ella è privata di molta acqua, e ha parti piú sottili, ed è salata, condensandosi a mezzo sí che di nuovo la possa sciogliere acqua, e' se ne fa due cose: cioè nitro, il quale purga olio e terra; e sale, il quale fa che le vivande s'insaporino, e, secondoché dice la legge, è cara cosa agli Iddii.

E si sono densati cosí poi tutt'i corpi di acqua e terra, i quali non si sciolgono per acqua, ma sí per fuoco. Fuoco e aria non istruggono masse di terra: imperocché essendo naturalmente le parti loro piú piccole de' vani che sono per entro alla composizione della terra, trapassano senza violenza per queste molte vie spaziose; e, non isciogliendo, la lasciano però soda. Ma le parti dell'acqua, da poi che naturalmente sono piú grandi, facendo violento passaggio e dissolvendo, sí la struggono. E cosí terra, se ella non è serrata, sola acqua la scioglie, e di viva forza; se poi ella è serrata, niuna cosa non la scioglie salvo il fuoco, perché a niuna cosa non è lasciato entrare, salvo che al fuoco. L'acqua, solo il fuoco la scioglie, se è la pressura, sua molto forte; se no, la sciolgon fuoco e aria, tutt'e due, l'una spargendosi per entro i vani, e l'altro dislegando infino anco i triangoli. L'aria serrata di gran forza niuna cosa non la scioglie, salvoché non la sciolga negli elementi[12]; se non è gagliardamente costretta, la scioglie solo il fuoco[13]. Adunque ne' corpi misti di terra e acqua, insino a che l'acqua tiene i vani della terra, se mai la terra serrata sia forte e nuova acqua sopravvenga di fuori, le parti di questa, non essendo lasciate entrare, scorrono di fuori attorno di quelli, e non li sciolgono. Ma il fuoco, entrando le parti sue ne' vani dell'acqua, e facendo esso fuoco ad acqua ciò che acqua fa a terra e ciò ch'esso fuoco fa ad aria, egli solo è cagione che il misto corpo si sciolga e torni scorrevole. Or avviene di questi corpi che alcuni abbiano piú terra che acqua, e son tutte le specie di vetri e pietre, che si sciolgono; altri piú acqua, e sono tutti quei corpi densati in forma di cera, e odorosi.

 

 

XXVI.

 

Sono quasi mostrate tutte le specie di corpi svariati per figura e comunioni e vicendevoli trapassamenti; ora è a vedere di far chiaro, le passioni che esse fanno, di dove si generano. In prima, le dette specie bisogna che le sentiamo; ma non si è ragionato ancora della generazione della carne e di ciò che tocca alla carne, né di ciò che l'anima ha di mortale; e bene non si può dire di queste cose, non dicendo di tutte le sensibili affezioni, né di queste senza quelle; e dire di tutt'e due a una volta, né anche si può. E però prima è a porre una cosa, e chiarirla; e le altre, poste dopo, si hanno a chiarire dopo. Per dire ordinatamente delle affezioni secondo le specie dei corpi che le fanno, in prima diciamo di quelle che toccano all'anima e al corpo.

Adunque vediamo primieramente perché si dice caldo il fuoco, e per vedere ciò consideriamo il discernimento e tagliamento che egli fa nel corpo; imperocché sentiamo quasi tutti che l'affezione sua è qualcosa acuta. Poi è da mettere a ragione la sottilità dei lati suoi e l'acutezza degli angoli e la piccolezza delle parti e la velocità del moto; per le quali cagioni essendo egli tagliente e veemente, di netto taglia quello che gl'intoppa: ed anco è a ricordare la generazione di sua figura, ché ella, e non altra, sminuzza e taglia sottilissimamente i nostri corpi; e allora sarà manifesto perché ciò che ora noi diciamo caldo, dia quell'affezione e prenda quel nome.

L'affezione contraria a questa, ella è chiara; nondimeno io non voglio che rimanga desiosa di ragionamento. Gli umori intorno al corpo, che hanno parti piú grosse, entrando in esso corpo e pigliando gli umori di dentro che hanno parti piú sottili, e, non potendo cacciarsi nel luogo loro, pressandoli e da disuguali e mossi facendoli immobili e uguali, per la ugualità e la pressura sí li rappigliano. Ma quello che pigiato è contro a natura, secondo natura combatte, per lo contrario lato sé sospingendo: e a cotale battaglia e scotimento posto è nome di tremore e ghiado; e posto è nome di freddo a tutte queste cotali affezioni e alla cagione loro.

Si dicon duri tutt'i corpi ai quali si umilia la nostra carne; quelli che si umiliano a essa, molli; e cosí similmente, considerando i corpi fra loro. Si umilia quello che è fondato sovra piccole basi; quello che su basi quadrangolari, da poi che sta assai fermo, resiste, e, riserrandosi molto, rilutta molto gagliardamente.

Il grave e il leggiero, se alcuno li riguarda in rispetto al su e giú cosí detti, gli si faran chiari. Certo non è niente diritto a pensare che ci siano due cotali luoghi che spartiscano in due l'universo, e contrarii: l'uno giú, al quale si trae tutto ciò che è corporale; l'altro su, verso al quale ogni corpo muovesi di mala voglia: imperocché, essendo tutto il cielo sferale, tutt'i luoghi rimoti di uguale spazio dal mezzo sono estremi a un modo; e il mezzo che è di uguale spazio rimoto dagli estremi, dee stare di contro a tutti similmente a un modo. E se fatto è cosí il mondo, ponendoci alcuno i cosí detti su e giú, non è egli palese che dirà nomi niente convenevoli? imperocché il mezzo, a parlare dirittamente, non è su né giú, ma sí nel mezzo; e il dintorno non è mezzo, né ha parte sua alcuna la quale guardi al mezzo differentemente di come lo guardi alcuna altra parte sua che è a dirimpetto. Onde se alcuno mai dà nomi contrarii, quali che siano, a ciò ch'è naturalmente simile da ogni lato, come reputerà egli di parlare dirittamente? E per certo, se un corpo fosse inlibrato nel mezzo dell'universo, esso mai non si trarrebbe verso alcuno degli estremi, a cagione della perfetta loro simiglianza. E se alcuno camminasse attorno di quello, avendo molte fiate le piante volte là contro ove le avea dinanzi, egli chiamerebbe su e giú un medesimo luogo di questo corpo medesimo. E però, come detto è, essendo sferoidale l'universo, non è da savio uomo dire ch'esso abbia un luogo su, un altro giú.

Ma onde siano venuti questi nomi e dove hanno vero valore, perché poi ci adusammo di spartire anche tutto il cielo in su e in giú, è da chiarire; e ciò chiariamo cosí, ponendo noi questo caso. Se alcuno levatosi su a quel luogo ch'ebbe specialmente il fuoco a sua stanza, e dov'esso è ragunato molto copiosamente, e verso dove si muove ogni fuoco; e, potendo, pigliato parti di fuoco, le pesi ponendole nelle coppe d'alcuna bilancia, levando il giogo e per forza traendo il fuoco per entro al dissimile suo, che è l'aria; manifesto è come la parte piú piccola piú si umilia alla violenza facilmente, che non la piú grande. Imperocché con medesima forza levati insieme su in aria due corpi, è necessario che quel ch'è piú, secondi meno, e quel ch'è meno, secondi piú la forza che li tira: e allora quel ch'è molto si dice grave e che va giú, e quel ch'è poco, leggiero e che va su. Via, si badi anco a noi in quello che si fa di ciò sperienza qui in terra: perché camminando, dispiccando noi della materia terrena, e alcuna volta della terra istessa, la traggiamo di forza nella dissimile aria; contro a natura, da poi che ciascuno si stringe amorosamente al cognato suo. Ora il piú piccolo cede prima a noi che lo sforziamo ad andar a quello che gli è dissimile, piú facilmente che non il piú grande: e però quello diciamo leggiero, e su il luogo al quale lo sforziamo ad andare; e il contrario diciamo grave, e giú.

Ma coteste cose necessità è che si contengano verso di sé medesime differentemente; imperocché le moltitudini dei generi occupano luoghi contrarii. Per fermo, ciò che leggiero è in un luogo, vedesi ch'ei diviene ed è contrario, obbliquo e totalmente diverso a comparazione di ciò ch'è leggiero nel luogo a dirimpetto; e cosí il grave inverso al grave, e il su al su, e il giú al giú. Nientedimeno si dee pensar cosí di tutte queste cose, cioè che l'indirizzamento di ciascun corpo verso al cognato suo, fa essere grave il corpo che si muove, e giú il luogo al quale si muove; e fa esser contrarii i contrarii. Ecco le cagioni delle affezioni mentovate di sopra.

La cagion poi dell'affezione dell'aspro e del liscio chi guardi un poco, bene la può altrui dichiarare: imperocché durezza e disugualità fanno l'una; e ugualità e fittezza, l'altra.

 

 

XXVII.

 

Detto delle affezioni comuni a tutto il corpo, rimane a dire, che è piú, qual cagione le fa piacevoli o dolorose; ed eziandio quali affezioni fanno per le parti del corpo sensazioni che sono seguitate da diletto o vero da doglia. Cosí anco noi vogliamo cogliere le cagioni d'ogni sensibile o insensibile affezione, recandoci a mente la distinzione fatta innanzi, cioè della natura che leggermente si muove, e di quella che no; imperocché la via questa è per andare in traccia di ciò che di avere siamo desiderosi. Per certo, ogni parte assai mobile, eziandio se riceva leggiera passione, la comunica ad altre parti, in giro; e queste ad altre; in sino a tanto che giungendo essa alla intellettiva, novelle a lei reca della virtú della cagione che l'ebbe fatta. Ma ogni parte del nostro corpo di contraria natura, ch'è stabile e che non si gira nulla, patisce solamente, e non muove nessuna delle parti che sono appresso; sicché, le parti non comunicando fra loro e non procedendo la prima passione per tutto l'animale, ne seguita che non si senta la parte che patisce, la quale si dice però insensata. Questo va per le ossa e i capelli e tutte quelle altre parti massimamente terrestri, le quali abbiamo in noi; quello detto innanzi va per la vista e l'udito, essendo in loro grandissima possanza di fuoco e di aria.

Del piacere poi e dolore è da pensare cosí: quella passione la quale è contro a natura, ch'è violenta e tutta a una fiata, è dolorosa; ma quella che ristora la natura tutta a una fiata, è piacevole; quella poi non si sente, la quale si fa lievemente e a poco a poco; la contraria, sí. Quella che si fa agevolmente è sensibile molto, ma è privata di piacere e dolore, come la passione del fuoco della vista: il quale, come detto è innanzi, è cognato alla luce del dí ed è connaturato intimamente con noi, perocché a esso fuoco tagli e bruciamenti e altre passioni non fanno alcuno dolore, e né anche fa piacere il ritornar di nuovo all'essere suo; e nondimeno egli ha sensazioni molto grandi e vivissime, e per le passioni che riceve, e per quelle che da sé medesimo si procaccia indirizzandosi ad alcuna cosa e quella giugnendo; e la ragione è, che nel congregamento e disgregamento suo non è alcuna violenza.

Ma quelli corpi fatti di parti piú grandi, i quali cedono a mala pena a ciò che li passiona, e nientedimeno comunicano loro movimento a tutto il corpo, quelli hanno piaceri e dolori: dolori, quando sono alterati; resi nell'esser loro, piaceri. Tutte quelle parti nelle quali si fanno a poco a poco le perdite ed i vacuamenti, e i riempimenti in abbondanza e a una fiata, da poi che quelli non si sentono e questi sí, non porgono dolori alla mortale anima, ma sí piaceri grandissimi: e ciò assai chiaro si vede negli odori soavi. Ma quelle parti che si alterano tutte a una fiata, e che ritornano a fatica e a poco a poco in loro essere, secondoché si mostra ne' bruciamenti e tagli del corpo, adoperano il contrario di ciò che detto è innanzi.

 

 

XXVIII.

 

Sono quasi dette oramai le passioni comuni a tutto il corpo, e i nomi delle cagioni loro. Procuriamo di dire presentemente, se pure possiamo, delle passioni che avvengono in parti speciali del corpo, e delle cagioni che le fanno. In prima è da chiarire il piú che si possa quello che abbiamo tralasciato innanzi, favellando de' succhi, cioè la maniera loro propria di passionare la lingua. Egli è palese che questa passione fatta da loro, come le altre molte, è per alcuni congregamenti e discernimenti; e oltre a ciò, piú che nelle altre, è singolarmente per asprezza e politezza. Perocché, quando parti terrestri, miste a molli e delicate parti della lingua e sciolte, entrano e attorniano le picciole vene della medesima lingua, le quali come messaggeri suoi si distendono insino al cuore, allora costringono queste picciole vene e le seccano: e se elle sono molto aspre, paiono acerbe; se poco, brusche. E fra esse parti terrestri e sciolte quelle che tergon la lingua di ciò che l'appanni, e fanno ciò senza modo sí che la disfiorano e mangiano, come il nitro, dette sono amare universalmente; e quelle meno aspre che il nitro, che tergono un poco, salse ci paiono senza avere in sé la ruvidezza dell'amaro, e piuttosto piacevoli che no. Quelle che, scaldate e intenerite dalla bocca, incendono poi e ardono a loro volta la bocca che scaldolle, e levandosi su per la leggerezza infino ai sensi del capo tagliano checché loro s'intoppa, acri si addimandano per cotesta loro possanza. Delle mentovate sostanze quelle assottigliate prima dalla putredine, che s'insinuano entro le strette venuzze, essendo commisurate alle parti di terra e aria che sono ivi dentro, sí le fanno per loro proprio movimento rimescolare; e, rimescolate, rigirare e entrare le une nelle altre, sicché queste si gonfiano, e attorno a quelle si distendono le quali sono entrate. Ed essendo l'umor disteso attorno all'aria alcuna fiata terroso e alcuna fiata puro, si fanno umidi e ritondi e cavi vaselli di acqua, con entro aria: e quelli di umore puro son trasparenti, e si dicono ampolle; e quelli di umore mosso e levato, si dicon fervori e bogliori, e la cagion che li fa, acido.

La passione contraria a tutte queste nominate, procede da contraria cagione: cioè, quando alcuna sostanza sciolta nella umidezza della saliva fa per la lingua, e lisciando le aspreggiate parti allenisce; e ciò ch'è costretto contro a natura o diffuso, questo costringe e quello rilassa, e molto ristora ogni cosa copiosamente allo stato suo proprio; cotale soave cosa cara a ognuno, che è medicina delle violenti passioni, chiamata è dolce.

 

 

XXIX.

 

Ella è cosí per li sapori. Per ciò che tocca all'olfatto, non vi ha specie; imperocché essendo ogni odore una cotal natura mezzana, nessuna specie è che possa fare odore. Per certo le nostre vene dell'odorato son fatte cosí, che elle molto sono strette alla terra e all'acqua, e molto sono larghe al fuoco e all'aria; onde niuno mai non sentí odore di niuno di questi corpi. E ogni volta nascono gli odori o da cosa ammollita, ovvero fradicia, ovvero liquefatta o isvaporata; perciocché in quel mezzo nascono che l'acqua trapassa in aria, e l'aria in acqua. E sono tutti gli odori fumo o nebbia: aria che torna in acqua, è nebbia; acqua che torna in aria, è fumo: onde tutti gli odori son piú fini che acqua, e piú crassi che aria. E ciò è manifesto quando alcuno, essendo il respiro suo impedito, tragga con forza entro sé l'aria; perciocché allora non viene odore niuno, ma sí schietta aria privata d'ogni odore. Sono adunque negli odori queste due innominate variazioni, non fatte di specie molteplici né semplici; ma i due odori, lo aggradevole e il disaggradevole, soli essi ricevettero nome, perocché molto notabili: l'un che rabbrusca e viola tutto il cavo ch'è fra il cocuzzolo e l'ombelico, l'altro che lo addolcia e soavemente rendelo di nuovo nel suo essere naturale.

Riguardando alla terza potenza sensitiva ch'è in noi, cioè quella dell'udito, è a dire per quali cagioni avvengano le passioni sue. Noi poniamo universalmente il suono essere percossa, dall'aria comunicata all'anima per li orecchi, il cervello ed il sangue: e il movimento che a quella segue, il quale comincia dalla testa e finisce alla sede del fegato, essere ciò che detto è udito: e il movimento veloce essere suono acuto; quello piú lento, grave: e quello ch'è simile, uguale e dolce; il contrario, aspro: e il molto, grande; quel che no, piccolo. Della concordanza dei suoni a quell'ora si ha a dire, quando si dirà di altre cose che seguitano appresso.

 

 

XXX.

 

Or ci rimane un quarto genere sensibile, il quale è da specificare, perocché accoglie molte variazioni, le quali in genere noi diciamo colori: i quali son fiamma ch'esce dai corpi; e cotal fiamma ha particelle proporzionate sí al fuoco della vista, che se ne genera sensazioni. La cagione del nascimento del fuoco della vista si è chiarita innanzi, e però è bene cosí presentemente favellare de' colori, attenendoci a ciò che è verisimile. Le particelle che si scompagnano dalle altre e corrono incontro al fuoco della vista, le uguali a quelle del detto fuoco sono insensibili, le quali noi addimandiamo diafane; quanto è poi alle piú grandi e piú piccole, quelle congregative e quelle disgregative della vista, elle fanno passione simigliante a quella che in verso alla carne fanno le cose calde e fredde; e a quella che fanno tutte l'altre cose le quali, perocché incalorano, sono chiamate acri. E per certo il bianco e il nero è passione simigliante a quella che fanno le dette cose, la quale, perciò pare diversa, che è fatta in organi di diversa specie. Adunque è da segnarli cosí: quello che discetta la vista è bianco; e il contrario suo, nero. Quando, con piú violento moto, fuoco di diverso genere scontrasi nel fuoco della vista, discettandolo infin dentro negli occhi, e di forza gli usci degli occhi disserrando e struggendo, e facendo di quivi isgorgare fuoco e copiosa acqua, che noi chiamiamo lagrime, le quali ancora fuoco sono da entro scorrente incontro all'altro fuoco di fuori; allora, guizzando il fuoco interno come lampo, e il fuoco di fuori, in quello che entra, morendo nell'umore, si generano da questa mischianza colori di ogni ragione. Noi la detta passione abbiam chiamato abbarbaglio; e quel che la fa, splendente e lucente. La specie di fuoco che tiene il mezzo in rispetto a questi, e che, pervenendo nell'umore degli occhi e con esso mescendosi, non luce, ma sí ha colore sanguigno a cagione dello splendore suo che è temperato dall'umore predetto, lo diciamo rosso. Colore splendente, misto a bianco e rosso, torna in giallo: ma a dire il quanto, e con quanto si abbia a mischiare, non sarebbe da savio, eziandio se alcuno ciò conoscesse, perocché non se ne potrebbe assegnare prova sufficiente, né necessaria né verosimile. Rosso, temperato con nero e bianco, torna in purpureo; e in bruno cupo, quando si mischia piú di nero ai predetti colori mischiati insieme e ancora vivaci. Il fulvo nasce della meschianza di giallo e bruno. Il bruno, poi, di quella di bianco e nero. Il pallido, di quella di bianco e giallo. Se colore splendente si sposa a bianco, e s'abbatte a nero cupo, si fa azzurro. E colore azzurro temperato con bianco, si fa cilestro. Temperato fulvo con nero, fassi verde. Chiariti questi colori, è palese di quali mischianze nascano gli altri verisimigliantemente. Se attendesse mai alcuno a fare sperienza di cotali cose, egli sconoscerebbe la distanza che è dalla umana alla divina natura: cioè, sconoscerebbe che solo Iddio è atto a meschiare i molti in uno, e sciogliere novamente l'uno in molti, perocché egli è sapiente e possente; ma uomo niuno è adatto a fare né l'una cosa né l'altra, né presentemente né poi.

Il Fabbro della piú bella e buona opera pigliò tutte queste cose di mezzo al divenimento mondano, le quali cosí allora eran fatte di necessità. E quando egli generava l'Iddio bastante a sé e perfettissimo, giovossi del ministerio di queste cause servili e fatali; ma quanto è al bene[14], in tutte le divenenti cose l'operò egli medesimo.

E però giova sceverare due specie di cagioni, l'una necessaria, l'altra divina; e la divina è a cercare di ogni cosa, perché si abbia vita lieta, quanto natura nostra può avere; e la necessaria, a cagione della divina: ponendo mente che senza quella non si può né anche intendere questa da sé sola, né avere concetto alcuno di lei, né partecipare di lei per alcuno modo.

 

 

XXXI.

 

Dacché queste due specie di cause, sovra le quali è a tessere l'altro ragionamento, cosí stanno dinanzi a noi, come apparecchiata materia sta dinanzi a fabbri; di nuovo cominciamo da capo, là tornando ratto di dove per venire in qua ci movemmo; e ingegniamoci di trarre il ragionamento a conclusione consentevole con ciò che detto è innanzi.

Adunque a principio disordinate essendo coteste cose, Iddio tanta commisuranza pose in ciascuna in verso di sé medesima e delle altre, per quanto ella avea in sé di potenza: perciocché allora niuna cosa era commisurata, salvo se a caso, e universalmente niuna di quelle cose degna era di essere nominata, le quali presentemente hanno nome, come fuoco e acqua o altro che sia; e Iddio le ordinò tutte, e compose questo universo, sí che fosse uno animale che accoglie tutt'i mortali e immortali animali nel seno suo. E di quelli divini è egli medesimo il fabbro; quanto è poi alla generazione de' mortali, egli la commise ai suoi figliuoli. I quali ricevuto da lui un immortale principio di anima, lui imitando, intorno a esso formarono un corpo mortale, dandoglielo a modo come cocchio. E ancora entro al corpo ebbero fatto un'altra specie di anima, quella ch'è mortale, che in sé accoglie fatali passioni violenti: in prima il piacere, forte incitatore di mali; i dolori poi, fugatori di beni; e anco audacia e paura, stolti consiglieri; e la implacabile ira, e la speranza che lasciasi leggermente menare dall'irrazionale senso e dall'arrisicato amore, il quale a ogni cosa pone mano: e meschiando secondo necessità coteste passioni, sí ebbero fatto l'anima mortale. E temendo non s'illaidisse il principio divino, se pure ciò non fosse di necessità, essi albergano in altra stanza del corpo il principio mortale, fabbricando un congiungimento e termine nel mezzo fra la testa e il petto, cioè il collo, acciocché separatamente quelli abitassero. Adunque nel petto o torace, cosí è chiamato, legaron l'anima mortale. E perciocché una parte di lei ha migliore natura, e l'altra peggiore, ei spartirono in due il cavo del petto, come se una parte fosse abitazione di donne e l'altra di uomini, spiegando il diaframma a modo come un tramezzo. Onde quella parte dell'anima ch'è forte e irosa, come battagliera ch'ella è, gl'Iddii stanziarono piú presso al capo, fra il diaframma e il collo, acciocché ella, obbediente alla Ragione, per forza insieme con lei affrenasse l'altra parte concupiscibile, quando ai savii comandamenti che si bandiscono su dalla rocca non volesse ella per niuno modo ubbidire di buona voglia. E il cuore, nodo delle vene e fontana del sangue, il quale per tutte le membra aggirasi con empito, posero nella stanza dei satelliti; acciocché, quando l'ira bolle, allora la Ragione dando la nuova che alcuna iniqua operazione si fa da fuori nelle membra, ovvero di dentro per i desiderii, ratto quanto è sensitivo nel corpo, sentendo per coteste viuzze i conforti e le minacce, tornasse ubbidiente a Ragione e seguissela in tutto, lasciando per cotale modo sovra sé donneggiare la parte di noi la quale è piú gentile. Al picchiar forte del cuore nell'aspettazion di cose paurose e al gonfiare dell'ira, preconoscendo gl'Iddii che avea a generarsi per fuoco tutto questo rigoglio degli irati, a fin di procacciare un cotale aiuto al cuore, piantarono dentro il petto la figura del polmone, il quale è morbido, senza sangue, e insieme tutto è forato dentro a celluzze, come spugna, acciocché, con ricevere aria e bevanda e con dare refrigerio, procurasse respiro e sollievo nell'ardore. E però eglino incisero nel polmone i canali dell'arteria, e quello siccome molle e cedevole posero attorno al cuore; acciocché, quando monti l'ira, il cuore picchiando in umile cosa e rinfrescandosi e però meno travagliando, potesse piú rendere suo servigio alla ragione ed all'ira.

 

 

XXXII.

 

La parte dell'anima cupida di cibi e bevande e di ciò di che ha bisogno la natura stessa del corpo, allogarono nel mezzo del diaframma e dell'ombelico, avendo in tutto questo luogo fabbricato come una mangiatoia per lo nutrimento del corpo. E ivi quella legarono come bestia salvatica, che, essendo pure congiunta a noi intimamente, s'avea a nutrire se mai nascer dovesse generazione alcuna mortale. E le assegnarono codesto luogo, lungi piú che si potesse dalla provvida anima, acciocché, pascendosi tutto dí alla mangiatoia, schiamazzasse ella e turbasse il men che potesse, e lasciasse quella serena prender consiglio di ciò che è giovevole a tutte le parti comunemente, la quale è piú gentile ed onesta. Ma vedendo gli Iddii ch'ella fatta è tale che non intende ragione e non se ne dà cura, avvegnaché ne abbia pure alcuno sentimento, e che si lascia tirare specialmente da simulacri e fantasmi, di notte e di giorno; Iddio, per provvedere a ciò, compose la figura del fegato e allogollo nell'abitazione di lei, ingegnosamente facendo sí ch'egli fosse spesso, polito, lucido, dolce e anco amaro: acciocché la possanza dei pensieri che muove dalla mente, ricevuta quivi come in ispecchio che prende postille e fa imagini agli occhi, paura le dia allora ch'ella, usando dell'amarezza che è nel fegato e appressandosegli con rigido viso, minacci; e, la detta amarezza per tutto esso rimescolando finamente, mostri colori di bile; e, costringendolo, lo innasprisca ed arrughi; e insieme il lobo istorcendo dalla sua diritta postura, e i recettacoli e le porte assiepando e rinserrando, gli faccia doglia ed ambascia. Per lo contrario, allora che nel fegato alcuna dolce aura della Ragione dipinge serene parvenze, a lei[15] dà riposo e acquetare fa l'amarezza, perocché ella non vuol muovere né toccare cotesta natura contraria alla sua; e usando al fegato della dolcezza che è in lui medesimo, in ogni parte sua facendolo diritto, pulito e franco, placa e umilia la parte dell'anima che è albergata presso al fegato, sí che essa fa di notte convenevole ufficio, cioè quel di divinare nel sonno, da poi che è privata di ragione e intelletto. E per fermo quelli che ci hanno fatto, aveano bene a mente la commissione del Padre, il quale commise loro di fare il mortal genere il meglio che si potesse; e però, nobilitando la parte di noi meno gentile acciocché ancora ella sfiorasse della verità in alcun modo, quivi posero la virtú della divinazione. Un sufficiente segno che Iddio fe' dono della divinatoria a quella parte dell'uomo che è senza intelletto, si è, che nessuno fa presagio spirato da Dio e verace mentre ha la mente franca, ma sí quando ella legata è per sonno, ovvero è peregrina, per morbo o per alcuno furore divino. A interpretare poi e ricordare le parole dette in sonno, ovvero in vegghia, da alcuna divinante natura, ella è cosa di colui che ha l'intelletto chiaro; e similmente cosa sua è mettere a ragione tutte le apparse visioni, e ritrarre come e a chi significhino alcuno bene o male futuro, o passato, o presente: ma colui il quale è e rimane in furore, non può far giudizio di ciò che veduto è o vociato da lui; e però sino da antico tempo si dice che il bene operare, e il conoscere le cose sue e sé medesimo, è di uomo savio. Onde è legge che i profeti siano preposti a giudici delle divinazioni ispirate: i quali alcuni chiamano divinatori, al tutto ignorando ch'eglino sono bensí giudici o interpreti delle sacre voci e visioni per enigmi, ma non sono divinatori; nientedimeno potrebbesi molto dirittamente chiamarli profeti di quelli i quali sono divinatori. Adunque fatto è cosí il fegato, e posto nel luogo che diciamo, per cagion della divinazione. Ed esso, infino a tanto che è vivo, porge segnali un po' chiari; ma privato che è di vita, divien cieco e ha divinazioni sí dubbiose, che trarre non se ne può alcuno significato.

 

 

XXXIII.

 

Il viscere che è appresso al fegato, allogato a sinistra, fatto è in suo servigio, cioè per serbarlo lucido e terso: come apparecchiata e pronta spugna, che posta è allato a uno specchio. E però se immondizia alcuna si raccoglie nel fegato per alcuno morbo del corpo, la milza, la quale è rara, la riceve; e cosí lo monda, essendo ella una cotale tessitura cava, senza sangue. Onde, ripiena essa del raccolto fastidio, laidisce e gonfia; e purgato di nuovo che sia il corpo, umiliandosi, torna come di prima.

Il nostro ragionamento su l'anima, cioè su quanto ella ha di mortale e quanto di divino, e come, con quali organi, per quali cagioni sono le due parti albergate in due ostelli, allora, come detto è innanzi, affermeremmo ch'egli è vero, quando Iddio acconsentisse; ma che abbiamo noi detto ciò che è verisimile, si può affermare sin da ora; e tanto piú, quanto piú ci penso.

Per simigliante modo è da cercare quello che segue, cioè come è generato l'altro corpo. Par che generato sia specialmente secondo questa ragione.

La nostra intemperanza futura in mangiare e bere conoscevano assai coloro che ci composero, e che noi ci saremmo per avidità riempiti oltre al bisogno, fuor di misura. Perché adunque repente morte non c'incogliesse, e per cagion di morbi non finisse subitamente la generazione umana ancora imperfetta[16], provvedendo a ciò, posero il cosí detto alvo a ricettacolo del soverchio della vivanda e bevanda, e avvolsero spiralmente gli interiori quivi entro; acciocché il rovinoso passare del cibo tosto non necessitasse il corpo ad aver bisogno novamente di altro cibo, e, per lo diluviare a cagion dello sfondato ventre, tutta la specie umana selvaggia non divenisse di filosofia e di muse, e disubbidiente a quello che entro noi è piú divino.

Ella è cosí poi la cosa delle ossa e carni e ogni simigliante natura. Il principio loro è nella generata midolla; perocché, legandosi l'anima col corpo, i vincoli della vita annodati entro dalla midolla radici furono alla specie mortale. La midolla poi si generò di altre cose; imperocché Iddio, scelto de' triangoli quelli primarii, regolati e puliti e assai adatti a fare a perfezione fuoco, acqua, aria; e spartito quelli dalle loro singolari specie, e mischiatoli insieme sí che fossero misurati fra loro, ebbe in siffatto modo apparecchiato la universale semenza a tutta la generazione mortale. Iddio lavorò la midolla, e in essa piantando le tre specie di anime, quivi le fermò; e in sul principio, in quello che distribuiva le cose, in tante e cotali forme figurò la midolla, quante e quali facea mestieri che ella ne avesse. E quella parte di midolla, la quale cosí come se un campo ella fosse accoglier dovea entro di sé il divino seme, fe' tutta ritonda, e le pose nome di encefalo, cioè di midolla serbata entro il capo; imperocché, compiuto ciascun animale, il capo avea a esser vasello deputato a riceverla. La midolla poi che avea ad accoglier l'altra parte dell'anima, quella ch'è mortale, distinse in figure tonde e lunghe, e le chiamò tutte midolla; e da essa gittò, cosí come da ancore, i ligami di tutta l'anima, e attorno a essa fabbricò tutto il nostro corpo, poi che le ebbe fatto un coprimento di osso. E fa l'osso cosí: vagliato pura terra e polita, mischiala con midolla e la intenerisce; dopo ciò la pone a fuoco; e poi tuffala in acqua; poi novamente a fuoco, e novamente in acqua; e cosí traslatandola molte volte da fuoco in acqua, e da acqua in fuoco, la fe' tale, che stemperar non la possa niuno dei due. E Iddio, giovandosi di questa materia, tornisce attorno al cerebro una sfera di osso, nella quale lasciò uno stretto forame: e poi intorno alla midolla cervicale e dorsale distese le vertebre, fabbricandole della medesima materia; e distesele come cardini, dalla testa giú giú per tutto il cavo, una sotto l'altra. E cosí, per sicurare tutto il seme, riparollo di una recinta petrosa; e quivi pose articolazioni per cagion del movimento e pieghevolezza, usando egli della potenza dell'altro, la quale pose nel mezzo delle articolazioni medesime. Poi avvisando che l'osso di natura sua è piú secco e rigido che non è di bisogno; e che in affocarsi e poi freddare si sarebbe guasto, e corrotto prestamente il seme di dentro; per questo ordinò i nervi e la carne: quelli, acciocché, essendo legate tutte le membra, per il loro distendersi e rilassare attorno le vertebre curvassero o raddirizzassero il corpo; e questa, acciocché fosse schermo e riparo dai caldi e dai freddi ed eziandio dalle cadute, da poi che, simile ad arnese di lana pigiata, la carne mollemente e soavemente sé umilia ai corpi, e dentro sé avendo un cotale umor caldo, il quale di state geme e irrora, sí sparge per tutto il corpo sua frescura, e di verno per lo suo fuoco misuratamente respinge il gelo che ci assale e si appiglia. Il nostro Fabbro considerando queste cose, mischiato avendo e contemperato terra con acqua e fuoco, e fattone un fermento acido e salso, sí ne dedusse la carne molle e succosa. I nervi fece d'una mischianza d'osso e carne non fermentata, sí che riuscissero le due nature a una la quale avesse media possanza, usando d'un cotal colore giallo: e però i nervi son piú consistenti e tegnenti che le carni, e piú morbidi che le ossa e piú umidi. E Iddio, con la carne e i nervi avvolgendo ossa e midolla, fra loro legò le ossa co' nervi; poi adombrolle di carni. E quelle ossa avvolge di pochissime carni, le quali erano molto animate; e, per lo contrario, quelle al tutto inanimate di dentro, di moltissime e fittissime: e fa crescere alle commessure delle ossa poche carni, salvo dove ragione mostrò essere bisogno che ce ne fosse, perché non facessero tardi i corpi per la difficoltà del movimento impacciandone la pieghevolezza; ed eziandio perché molte essendo, spesse e fra loro pigiate forte, istupidendo il sentimento per la durezza, avrebbero ingrossato la memorativa e la intellettiva. E però le cosce e le gambe e il torno delle anche e le ossa delle braccia e delle antibraccia e le altre nostre ossa private di articolazioni, e tutte quelle che sono vacue di mente a cagione della poca anima che è nella midolla, tutte queste furono affoltate di carni; non cosí quelle ossa le quali sono vaselli della mente. E, salvoché appositamente Iddio non abbia fatto di carne alcuno organo per lo ministerio del senso, come la lingua, la cosa bene sta a quel modo: imperocché natura niuna la quale nasca e si svolga secondo necessità, non consente per niuno modo di avere fitto osso e molta carne, insieme con sentimento acuto. Veramente ciò, piú che per alcun altro organo, si sarebbe fatto per il capo; e se gli uomini aveano carnuto il capo e nerboruto e forte, godevano vita due volte anzi molte volte piú lunga e sana e franca di dolori, che non com'ella è al presente. Ma i nostri Fabbri, pensando nel cuore loro se e' convenisse fare noi di vita piú lunga ma piú cattivi, ovvero piú buoni e di vita piú breve, avvisarono che a una vita lunga e mala fosse per ogni ragione da porre innanzi una vita breve e buona. E però eglino copersero il capo di raro osso, ma non di carni e nervi, non avendo il capo a piegare niuna sua parte. E per le dette ragioni annestato è al corpo di ogni uomo il capo, fatto sí di senso e di mente piú vivace, ma piú debole molto. E però pose Iddio nervi giú allo estremo del capo, avvolgendone il collo, e ivi li saldò per virtú di lor somiglianza, e legò con essi le chiavi delle mascelle sotto alla faccia, e gli altri nervi disseminò per tutte le membra, articolazione adattando ad articolazione.

Ci ornarono la bocca, quelli che ci ornarono, di denti, lingua e labbra, a cagion di cose necessarie e di cose bonissime, al modo com'ella è presentemente; ordinando la entrata per lo ministerio delle cose necessarie, e la uscita per quello delle cose bonissime. E veramente è necessario tutto ciò che entra, porgendo nutrimento al corpo; ma fuori il ruscello ne scaturisce della parola, per lo ministerio della sapienza, il quale è piú bello e buono di tutt'i ruscelli.

Il capo non si convenia lasciare schietto osso ignudo, per lo trasmodar delle stagioni per un verso o per l'altro; né ingombrato cosí, che stupido e disensato ne divenisse per lo soperchio delle carni. E però si fu sceverato il maggiore avanzo della carne non seccata, ciò che pelle s'addimanda presentemente; la quale, per l'umore del cerebro costringendosi e germinando, sí coperse il capo tutto d'intorno; e quell'umore, gemendo di sotto le cuciture dell'osso, irrigolla, e chiusela in sul cocuzzolo in forma di nodo. Le cosí svariate forme di cuciture vennero per virtú dei giri dell'anima, e per lo nutrimento: piú molte, quando piú coteste due forze tenzonano fra loro; quando meno, piú poche. E Iddio punzecchia in giro tutta questa pelle, con fuoco; e punta che è, l'umor surge su fuori per i foruzzi, e tutto l'umido e il caldo sincero ne va via: ma quella parte ch'è mista delle stesse sostanze che la pelle, tratta su per lo commovimento suo medesimo, si stese in fuori, lunga, sottile quanto il foruzzo; e, per la sua lentezza, dall'aria d'intorno risospinta dentro novamente e costretta sotto la pelle, sí vi messe radice. E per lo effetto di queste cagioni venner su i capelli, a modo come corregiuoli, di natura simiglianti alla pelle, ma piú duri e fitti dalla pressura del raffreddamento, per la quale ciascun capello, slungandosi fuor dalla pelle, raffreddato ebbe ad affittire. E cosí il Fabbro fe' irsuto il capo, usando i modi mentovati da noi; perocché pensò che facendo i capelli ufficio di carne, sarebbero essi coprimento leggiero al cervello per salvezza sua, e molto gli farebbero ombra di state, e riparo di verno, senza esser d'impedimento alla sottilità del senso.

Una parte dello intrecciamento di nervo, pelle e osso, ch'è nelle dita, mista anch'essa di tutte queste cose, si disseccò e sí divenne sola una cosa, cioè pelle dura; la quale è fatta per queste secondarie cagioni, ma lavorata è dalla Mente, che è cagione primaria, specialmente a contemplazione delle cose future. Che dagli uomini s'aveano a generare quandochessia femmine e altri animali, i nostri Componitori ciò conoscevano, e intendevano eziandio che a molti animali erano di bisogno le unghie per molti usi; e però agli uomini, appena nati, abbozzaron le unghie. Per questa cagione e con questi intendimenti gl'Iddii lasciarono crescere pelle, capelli e unghie, in su le estremità delle membra.

 

 

XXXIV.

 

Poi che furono sposate insieme tutte le parti e membra del mortale vivente, avendo egli a vivere per necessità in fuoco e aria, i quali l'avriano disfatto e succiato, gli soccorrono gl'Iddii; imperocché, temperando una natura cognata all'umana, ma con altra forma e sentimento sí ch'ella fosse un altro animale, la piantano: io dico gli alberi e piante e semenze, che al presente fatti gentili per l'agricoltura si sono domesticati con noi; ché prima non ci avea che sole specie salvatiche, le quali son piú antiche che le domestiche. Certo, tutto quel che partecipa di vita si può bene addimandare animale; e questa, della quale noi favelliamo presentemente, partecipa della terza specie di anima, che è allogata fra il diaframma e l'ombelico, la quale non ha niente opinione, né ragione e intelletto, e solo ha piacevole e doloroso sentimento, con desiderii. Imperocché la pianta è passionata tuttodí da ogni cosa; ma, volgendosi ella in sé attorno di sé, respingendo il moto di fuori e quello suo adoperando, per questo natura non le concedette di conoscere e considerare i fatti suoi per niuno modo. E però vive e non differisce da un animale, ma stassi radicata e salda, da poi ch'ella è privata di potersi muovere per proprio moto.

 

 

XXXV.

 

I signori nostri seminato ch'ebbero tutte queste specie per nutrimento di noi, loro soggetti, cavarono nel corpo nostro, come si fa ne' giardini, canali, perché egli cosí fosse irrigato, come da vivo ruscello. E prima cavaron canali nascosti laggiú colà dove la pelle muore nella carne, cioè le vene dorsali; due in numero, perocché ancora il corpo similmente s'indua, in lato destro e sinistro; e le avviaron giú accosto alla spina, sí che elle richiudessero in mezzo a loro la generativa midolla, acciocché fiorisse ella con il maggior rigoglio che potesse mai, e l'onda sua di lí assai lievemente nell'altra parte scorrendo, da poi che in giú dichina, tutte per uguale modo le irrigasse. Dopo ciò scindendo attorno al capo le vene e per contrario verso li rami loro intrecciando, quelli del lato diritto del corpo piegando verso al sinistro, e quelli del sinistro lato verso al diritto, acciocché esse, e anco la pelle, legassero il capo con il busto; perocché il capo presso al cocuzzolo non era cinto in giro di nervi; ed eziandio acciocché le passioni dei sensi fossero da tutt'e due le parti comunicate per tutto il corpo. Dipoi apparecchiarono lo irrigamento in una cotale maniera, la quale piú agevole è discernere, se prima noi in questo ci concordiamo: che tutte le cose che si compongono di parti piú piccole rattengono quelle composte di parti piú grosse, e che, per lo contrario, queste non rattengono quelle; e che il fuoco sovra tutt'i generi è quello che si compone di parti piccolissime, ond'egli trapassa per acqua e terra e aria e per tutte quelle cose che di loro si fanno, e nulla è che il rattenga. La medesima cosa è a pensare del nostro ventre, cioè che i cibi e bevande quando vi calan giú dentro, ei li rattiene; ma non aria né fuoco, essendo piú piccole le parti componitive di quelli, che non le sue proprie. Del fuoco e aria cosí dunque usò Iddio per lo conducimento dell'acqua dal ventre per entro alle vene. Tesse egli una cotal nassa d'aria e fuoco intrecciati insieme, con due cestelli alla bocca, dei quali uno si gemina: e dai cestelli stende in giro per tutto, infino alla estremità della nassa, come giunchi. E tutto il di dentro della nassa fa di fuoco; i cestelli e il loro di dentro, di aria.

E Iddio, pigliato la nassa, ne irretisce il formato animale in cotale modo; uno de' cestelli messe giú per la bocca, e, da poi ch'esso era gemino, l'un de' cestellini suoi mette giú per le arterie dentro il polmone, e l'altro a costa alle arterie giú dentro del ventre. E spartito l'altro cestello, l'una e l'altra parte cosí messe per entro i canali del naso, che comunicassero col cestello detto innanzi; acciocché quando la bocca di quel cestello, la quale riesce alla bocca, si turasse, passassero per cotesto altro cestello delle narici tutte le reme eziandio che aveano a passare per quello.

Nell'altro interno della nassa irretisce tutto il nostro corpo, quanto esso è cavo. E tutto questo interno della nassa quando fe' insieme scorrere innanzi mollemente per entro i cestelli, da poi ch'erano aria, e quando riscorrere questi indietro. E fece ancora che la nassa, essendo il corpo raro, ondeggiando, entrasse in quello e novamente ne uscisse; e che i raggi di fuoco intessuti in ogni parte per lo suo interno accompagnassero l'aria al suo entrar dentro e all'uscire, e che mai non avesse questo a cessare, in sino a tanto che dura il mortale animale: alla quale operazione diciamo che pose nome d'inspirazione ed espirazione Colui il quale pose i nomi. Or tutto questo fare e patire del nostro corpo è, perché esso irrigato e refrigerato si nutra e viva: perocché il fuoco intessuto nell'interno seguitando il respiro il qual va dentro e fuori, e però discorrendo, al suo entrare nel ventre s'appiglia ai cibi e alle bevande, e minuzzandoli sí li scioglie; e poi menandoli per le vie di dove egli esce, e cosí derivandoli nelle vene come da fontana in canali, fa quelli a modo come ruscelli scorrere giú per il corpo come per valle.

 

 

XXXVI.

 

Di nuovo consideriamo perché sia tale riescita la respirazione, quale essa è al presente.

Ecco, da poi che non è alcuno vacuo dove possa entrar cosa che si muova, e da poi che il fiato va fuori, manifesto è già ad ogni uomo quel che ne segue, cioè che non va in alcuno vacuo, ma sí caccia dal luogo suo la prossima aria; e la cacciata aria alla sua volta sempre ricaccia quella che le è appresso; e secondo questa necessità respinta è in giro tutta l'aria nel luogo d'onde uscí il fiato, e, entrando ivi e riempiendo, segue il fiato: e ciò si fa tutto insieme, a modo come girante ruota, perocché non ci è vacuo. Però messo fuori il respiro dal polmone e dal petto, di nuovo quelli sono riempiuti dall'aria che è attorno al corpo; la quale, cacciata in giro, torna per li vani delle carni; e volgendosi indietro di nuovo, e per la via del corpo uscendo fuori, ricaccia dentro circularmente il respiro, per lo passaggio della bocca e delle narici. E la cagione dell'incominciare di questo moto è a dire questa. Ogni animale nel sangue e nelle vene sue ha calore, come se fosse in lui fontana di fuoco: la qual cosa noi abbiamo assomigliato alla nassa, dicendo che dentro ella è tessuta di fuoco, e fuori, di aria. Il caldo si ha a consentire che naturalmente va fuori al suo cognato, nel luogo suo. Ed essendoci due uscite, una fuori per il corpo, l'altra per la bocca e narici, quando esso caldo per l'una delle uscite fa empito, caccia in giro l'aria la quale è attorno all'altra uscita; e quella, cacciata cosí in giro, abbattendosi nel fuoco che è dentro il corpo, incalorisce, e quella ch'esce, si fredda; e mutato luogo il calore, e l'aria che è presso a una delle uscite divenuta piú calda, essa novamente volgendosi per questa uscita, desiosa di andare inverso alla natura sua, dentro ricaccia in giro quell'altra aria che è presso dell'altra uscita. E ricevendo quest'aria e rendendo la passione medesima, cosí sbattuta di qua e di là e aggirata, per lo stesso fare suo e patire compie la inspirazione e la espirazione.

 

 

XXXVII.

 

E cosí ancora sono da chiarire le passioni delle ventose medicinali, e lo inghiottire, e le gettate dei corpi, o che si traggano su in cielo o giú in terra; e cosí i suoni veloci o lenti, che paiono acuti e gravi, movendosi alcuna volta disarmoniosi e alcuna volta armoniosi, secondoché sono desti in noi movimenti simili ovvero dissimili[17]. E per certo, quando i piú veloci movimenti incominciati innanzi son per quetare, e si son fatti simili a' suoni lenti, se a essi s'aggiungono suoni lenti e avvivando li occupano, e occupando non li turbano però che non hanno diverso movimento, ma, al contrario, adattano il principio d'un movimento piú tardo a una somigliante fine d'un movimento piú veloce, che muore; allora contemperano una passione di acuto e grave, la qual dà sollazzo agli stolti, e letizia ai savii, intravedendo essi ne' mortali movimenti la simiglianza della celestiale armonia. E cosí similmente si chiarisce lo scorrere delle acque, il piombare de' fulmini e il maraviglioso trarre che fanno a sé gli elettri e le pietre d'Ercole: perocché veramente in nessuna mai di cotali cose è virtú di trarre; ma il non essere niente vacuo, e il cacciarsi cotesti corpi intorno mutuamente, e congregandosi e disgregandosi mutar sito e andare ciascuno al luogo suo, da queste due cagioni, legate insieme, parranno essere operate le dette maraviglie a chi cerca studiosamente.

 

 

XXXVIII.

 

E la respirazione dalla quale pigliò le mosse il ragionamento si generò altresí in questo modo e per queste cagioni, come detto è innanzi. E però che il fuoco minuzza i cibi, e poi levandosi su di dentro e accompagnando il respiro, in quello che si leva, dall'alvo attinge i cibi minuzzati e ne riempie le vene; però scorron per tutto il corpo, in ogni animale, i ruscelli del nutrimento. Il quale minuzzato di fresco, e veniente da cognati corpi, cioè parte da frutti, parte da erbe, le quali cose piantò per noi Iddio perché ci fossero nutrimento, a cagion della mischianza ha ogni ragion di colori: ma il rosso vi si sparge piú copiosamente, il quale è fatto da fuoco che incide e nell'umore sé impronta. Onde il colore del ruscello scorrente per il corpo tale è a vedere, qual si è descritto; e quello chiamiamo sangue, pastura delle carni e di tutto il corpo, dal quale le singolari parti irrigate, sí riempiono il vacuo fatto da ciò che ne va via. Il modo del riempimento e votamento è come il moto di ogni cosa nell'universo: cioè, egli è un trarsi che fa il simile al simile. Da vero, le cose di fuori ci sciolgono perseverantemente, e distribuiscono le parti sciolte, avviando ciascuna di quelle alla specie sua.

Ma le sostanze sanguigne dipartite minutamente entro noi, e comprese cosí da ogni organato animale come da cielo, sono necessitate d'imitare il moto dell'universo; e traendosi ciascuna di loro al cognato suo, sí riempiono novamente dove si fe' vuoto. E se è piú di quel che scorre entro quel che ne va fuori, tutto scema; se meno, prospera e aumenta. E però se è fatto novellamente l'animale, e freschi in loro radice sono ancora i triangoli suoi formativi, ministrati da' quattro generi di corpi, la loro commessura è forte: nientedimeno tenero è tutto il corpo suo, perocché è di midolla pure ora nata e nutricata di latte. Onde, allorché in essa midolla sono accolti i triangoli venuti da fuori, de' quali si fanno i cibi e le bevande, essendo essi piú vecchi e deboli de' triangoli della midolla, questa, incidendoli co' suoi triangoli novelli, sí li vince, e l'animale, essendo nutricato di molti simili, cresce. Poi quando la radice dei triangoli della midolla dalle molte battaglie combattute in molto tempo, contro a molti, si rilassa, sí ch'essi non possano piú incidere a lor simiglianza, anzi per contrario son di leggieri sciolti da questi triangoli che invadono di fuori; allora vinto è tutto l'animale e si disfoglia: ecco la vecchiezza. Da ultimo, quando non piú tengono gli armoniosi legami dei triangoli della midolla, allentati per lo travaglio, allora allentano a loro volta i vincoli dell'anima: la quale, secondo il suo desio naturale sciolta, con suo diletto vola via: perciocché quello è doloroso, ch'è contro a natura; quello poi ch'è secondo natura, è dolce. E cosí anco dolorosa, violenta morte è quella ch'è per morbo o ferite; meno penosa poi di tutte è quella che giunge naturalmente per vecchiezza, e piú presto arreca ella piacere, che doglia.

 

 

XXXIX.

 

Di che si facciano i morbi, egli è chiaro a ogni uomo; imperocché essendo quattro i generi de' quali è organato il corpo, cioè terra, fuoco, acqua e aria, il soperchio loro contro a natura o il difetto, e la tramutazion di luogo, cioè dal loro proprio in uno straneo; e ancora, da poi che il fuoco e gli altri elementi hanno piú specie, il pigliare parti ciascun di essi, che non gli convengano; queste cagioni e le altre simiglianti fanno ribellioni e morbi.

Imperocché contro a natura generandosi i detti corpi e mutando loro luogo, fassi caldo ciò che prima era freddo, e il secco umido, e il leggiero grave, e il grave leggiero; ricevendo quelli per siffatto modo mutamenti di ogni maniera. Imperocché, cosí noi diciamo, solamente se il medesimo viene al medesimo e se ne diparte secondo medesima forma e con proporzione medesima, il corpo, non alterandosi, si rimarrà sano e salvo; ma se falla contro alcuna di queste leggi ciò che si diparte o viene, sí recherà ogni ragione di turbamenti e morbi e corruzioni senza fine.

Ma da poi che c'è seconde composizioni naturali, è da considerare, chi ne abbia voglia, una seconda specie di morbi.

Dacché midolla e osso e carne e nervi sono fatti di fuoco, acqua, aria e terra; ed eziandio il sangue fatto è cosí, sebbene in diversa forma; segue che in essi la piú parte de' morbi avvenga per le cagioni dette innanzi: ma si fanno in questo modo i piú crudi e gravi. Quando procede perversamente la generazione di quelle composizioni seconde, elle si corrompono. Secondo natura poi carni e nervi si generano di sangue: i nervi, delle fibre del sangue, per la parentela che hanno con esse; e le carni, della presa del sangue, il quale, disfibrandosi, rappiglia. E il vischio o grasso che fiorisce dai nervi, parte appicca la carne all'osso, e nutrisce l'osso ch'è attorno alla midolla e l'accresce; e parte, quella che ha mondissimi triangoli e politissimi e molto nitidi, insinuandosi per la spessezza dell'ossa e gemendo e stillando, bagna la midolla. Or se si genera cosí ciascuna delle dette sostanze, per lo piú è sanità; se contrariamente, morbi. Imperocché, quando la carne dissolvendosi avventa la dissoluzione sua per entro alle vene, allora, in esse vene insieme ad aria scorrendo molto sangue e diverso, e svariato di colori e amarezze e anco di sapori acidi e salsi, ella genera bile e sieri e flemme di ogni specie. Perocché perversamente generati tutti codesti umori, e corrotti, in prima essi corrompono il sangue medesimo; e ancora, non porgendo essi nutrimento niuno al corpo, si rigirano per le vene non serbando l'ordine delle naturali circulazioni, inimici fra lor medesimi, non si prestando servigio che sia uno all'altro, e infesti alle parti del corpo sode e tuttavia perseveranti nel loro luogo, guastandole e infracidandole. E se la infracidata carne è vecchissima, perocché è scocevole per la vecchia arsione, fassi nera; e, perocché tutta mangiata[18] essendo amara, fastidiosa è a ogni parte del corpo non per anco corrotta. E talfiata ha sapore acido quel color nero, in cambio dell'amarezza; e, assottigliandosi piú l'amaro, a volte l'amarezza si tinge di sangue, e però ha colore un po' rosso; e, mescendovisi il nero, ha color del verde. Si mischia ancora con l'amarezza il color giallo, quando sia strutta dalla fiamma del fuoco giovine carne. E fu posto il comune nome di bile a tutti cotesti umori o da alcuni medici, o da persona possente di riguardare a molte cose dissimili e scorgere in quelle un genere solo medesimo, degno che dia il nome suo a tutti: la ragione degli altri speciali nomi di bile, è nel colore. Il licore, quello del sangue, è siero dolce; ma quello della nera bile acida, è brusco quando si mischia per calore a salsa sostanza, e s'addimanda flemma acida.

Quando gentil carne giovine strutta sia per cagione d'aria che entri dentro, ed essa aria gonfii, e sia chiusa da umore sí che si levino bolle, le quali a una a una non si veggono dalla piccolezza, ma bene appariscono tutte insieme, e hanno colore per la surgente spuma bianco a vedere; allora tutto cotesto struggimento di tenera carne intramista d'aria, diciamo flemma bianca. Sono siero di flemma fresca il sudore e le lacrime, e gli altri simili umori che il corpo da sé cola tuttodí a fine di purgarsi. E sono tutti questi umori strumenti di morbi, alloraché il sangue non si riempe di cibi e bevande conformemente a natura, ma sí prende sua sostanza da contrarie cose, contro a natura. Adunque, se la carne si disfogli per morbi e tuttavia le rimangano le radici, è mezza la possanza del male, perocché elle tosto rimettono. Ma quando infermi quel che appicca la carne alle ossa, e quel che si secerne dalle fibre e da nervi piú non è nutrimento all'ossa, né vincolo fra la carne e l'ossa, ma da grasso, liscio, vischioso, fassi aspro, salso, squalente per laido vitto; allora quel cotal succhio, cosí cangiato, da sé tutto si sbriciola sotto alla carne e i nervi, dispiccandosi dalle ossa, e le carni, cascando infino dalle radici, lasciano i nervi ignudi e pieni d'umor salso, ed esse rituffandosi dentro il rivo del sangue, moltiplicano i morbi mentovati. Cotesti accidenti del corpo, sí, son gravi; ma son bene piú gravi quelli che vanno innanzi. Quando l'osso per foltezza di carne non riflata sufficientemente, e dalla carie incalorito e mangiato non riceve nutrimento, anzi, per lo contrario, tritato si mescola in esso nutrimento, e questo torna nella carne, e la stemperata carne torna nel sangue; allora tutt'i morbi piú si fanno maligni, che non quelli nominati.

Il peggio è quando inferma la midolla o per difetto suo o per alcuno soperchio, perocché ella fa i piú fieri morbi che siano al mondo, mortali, iscorrendo allora tutta la natura del corpo necessariamente a ritroso.

 

 

XL.

 

La terza specie di morbi è a reputare che ella venga da tre cagioni, cioè alcuni da aria, alcuni da flemma, e altri da bile. Imperocché, quando turato è dagl'iscorrenti umori il polmone, ch'è dispensatore degli spiriti al corpo, e non dà sgomberati i passaggi all'aria, allora qua non penetrando niente aria, là entrando entro piú copiosa ch'e' non sia di bisogno, sí ne vien che le parti non respiranti illaidiscano; e là dov'entra copiosamente, ella sforza le vene e storcele, dissolvendo il corpo sí ch'ella rimane chiusa dal diaframma nel mezzo del corpo: e di queste cagioni si fanno innumerabili morbi, dolorosi, con abbondante sudore. Molte volte in quello che la carne si sfittisce nel corpo nascendo quivi entro aria, e non potendo uscire, le medesime doglie ella arreca, che l'aria veniente di fuori: acerbissime quando spandendosi attorno de' nervi e delle prossime venuzze, i tendini e gli attegnentisi nervi enfiando, distendeli all'indietro: i quali morbi tetani e opistotoni furono chiamati a cagion dell'istesso distendimento. E anco è malagevole la medicina loro; imperocché specialmente febbri sopravvenienti sciolgono cotali morbi. Maligna è la flemma bianca, per la richiusa aria delle bolle; men maligna poi è se l'aria ha fiatamento fuori per il corpo. Nientedimeno ella macola il corpo di vitiligine bianca, e fa altri morbi simili a questi. Mischiata poi la detta flemma a nera bile, e ne' divinissimi giri del capo spargendosi e turbandoli, se vien nel sonno, è mite un poco; ma se ci assale in vegghia, egli è piú malagevole che vada via. E questo morbo, perocché ei si avventa a natura o organo sacro[19], si dice sacro molto dirittamente. La flemma acida e salsa è fonte di tutt'i morbi distillativi e secondo i varii luoghi per li quali essi distillano, ha ricevuto nomi varii. Di tutte quelle parti poi del corpo le quali si dicono affiammate, egli è la bile che incende e affiamma. E la bile, poniamo che respiri di fuori, manda su ogni specie di tumidezze, ribogliendo; compressa poi dentro, fa morbi molti e urenti; e il piú grave si è quando essa, mischiata con puro sangue, guasta l'ordinamento delle fibre: le quali furono seminate nel sangue acciocché misuratamente egli avesse sottilità e crassezza; e non gettasse fuor per li pori del corpo come fluido, per lo soperchio caldo; né come pigro, perché denso di molto, a stento per entro dalle vene sé rivolvesse. Or le fibre per loro naturale virtú salvano la convenevole misura, le quali, ancoraché morto e diacciato il sangue, se alcuno raccolga, tutto l'altro sangue che rimane sí torna iscorrevole; subitamente poi si rappiglia per lo freddo d'intorno, se le rilascia. Da poi che hanno le fibre questa possanza nel sangue, la bile che è di sua natura sangue vecchio il quale di nuovo liquescente delle carni torna nel sangue; la bile, calda e fluida tornando nelle vene, si rappiglia per la virtú delle fibre, se è poca; e, rappigliata e di forza estinta, mette tempesta dentro il corpo e tremore. E piú abbondevolmente ella scorrendo, col caldo suo soperchiando le fibre, bogliendo, commovele insino a che le scompiglia; e se ella ha possanza di soperchiare del tutto, penetrando fino entro nella midolla, ardendo col fuoco suo il cavo che tien come nave legata ivi l'anima, sí lasciala andare. Quando poi la bile sia meno copiosa, e il corpo al suo discioglimento rilutta, vinta, ella o è sospinta fuori per tutte le vie del corpo, o è ricacciata per le vene entro al luogo di giú o di su del ventre; e, come fuggiasco da ribellante città cosí scappando dal corpo, fa profluvii, disenterie e altri simiglianti morbi.

Se il corpo inferma specialmente per soperchio di fuoco, esso ha ardori e febbri continuate; quotidiane, se per soperchio di aria; e terzane, se per soperchio di acqua, da poi ch'ella è piú pigra che l'aria e il fuoco; e se per soperchio di terra, per essere ella quattro volte piú pigra di quelli altri corpi, in quadrupli giri di tempo purgandosi, ha febbri quartane, delle quali malagevole cosa è che alcuno sé affranchi.

 

 

XLI.

 

I morbi del corpo sono usati di nascere a questo modo; quelli poi dell'anima vengon da mali abiti del corpo. Imperocché egli è a concedere che la demenza è morbo dell'anima, e che ce ne ha due specie, una è l'insania, l'altra la ignoranza; e quale sia l'affezione che si provi dell'una o dell'altra specie, è a dire morbo. E si ha ad affermare che i piaceri e dolori smisurati sono di tutt'i morbi dell'anima i piú gravi; imperocché uomo lieto o addolorato oltre modo, avendo furia di avere quella cotal cosa, e schivare quell'altra, nulla vedere può né udire dirittamente, arrovellasi e non bada a ragione. Certo, colui al quale vivida copiosa semenza rigoglia nella midolla sua, che fatta è sí come albero troppo carico di poma, costui ogni volta ricevendo dalle sue amorose voglie molta pena e diletto, furioso è la piú parte di sua vita; ed avvegnaché sia inferma l'anima sua e demente a cagion del corpo, nientedimeno, non come infermo, ma sí come di volontà sua malo, malamente è reputato. Il vero è che la immoderanza negli amorosi dilettamenti procede in molta parte dalla qualità di una cotale specie di umore, che scorre nel corpo per lo raro dell'ossa e lo ammolla, e torna cosí in morbo dell'anima; e quasi tutto ciò che si addomanda intemperanza in piaceri e che si vitupera negli uomini come se malvagi egli fossero di volontà loro, non si vitupera a ragione; imperocché malvagio niuno è di volontà sua, ma sibbene malvagio è il malvagio per alcuno laido abito del corpo e per allevamento salvatico, le quali cose inimiche sono a ognuno, e gl'incolgono contro sua voglia. E ancora simigliantemente l'anima, quanto è a' dolori, riceve molta tristizia per il corpo: imperocché quando gli umori delle flemme acide e salse, e tutti quelli umori amari e biliosi vagabili per il corpo, non respiran di fuori, costretti dentro, il loro alito avventando incontro al moto dell'anima e con esso mescendolo, sí fanno ogni specie di morbi piú e men gravi, piú pochi e piú molti; e traendosi a' tre luoghi dell'anima, là dove s'abbattano, molte specie di melanconia arrecano e di scoramento, e di audacie e viltà, e smemoratezze e tarda apprensiva.

E se, oltre a essere i corpi male complessionati, è cattivo il reggimento del comune, e cattivi parlamenti si fanno in palese e in privato, e non si apprenda dai giovini dottrina alcuna che rimedio sia a cotali mali; ecco, per queste due ragioni, senza punto volere, tutti noi cattivi diveniamo cattivi; e ogni volta ciò piú si conviene imputare ai parenti che ai figliuoli, piú agli allevatori che agli allevati: nientedimeno ciascuno dee procurare il piú ch'egli può, per via di ammaestramenti e buoni studii e dottrine, di schivare la malvagità e di conseguire il contrario suo. Ma egli è suggetto che richiede ragionamento di altra forma.

 

 

XLII.

 

Presentemente si convien bene favellare dell'opposto, cioè del modo di curare e salvare il corpo e la mente; imperocché piú giusta cosa è ragionar de' beni, che de' mali. Ecco, tutto ciò ch'è buono, è bello; ciò ch'è bello, non è privato di misura; dunque buono è l'animale se è misurato. In fatto di commisuranze sentendo noi solamente le piccole, noi facciamo di quelle ragione, e alle principalissime e grandissime non volgiamo la mente. Imperocché in rispetto a sanità e a morbi, a virtú e a vizii niuna commisuranza e dismisuranza è maggiore, che quella dell'istessa anima inverso all'istesso corpo. Alle quali cose non badiamo noi, e non intendiamo neanco che allora che infralito e piccolo corpo porti possente e per ogni rispetto grande anima, o allora ch'è il contrario, non è bello l'animale, perocché della maggiore delle commisuranze egli è privato; se questo non è, egli è, a chi ha occhi, di tutti gli spettacoli il piú dilettoso a vedere e piú bello. Come un corpo il quale abbia slungate gambe o alcun altro soperchio, oltre a esser non consentevole seco medesimo, brutto, sopportando nella comunion delle fatiche delle membra molte stracchezze ed ispasimi, e per lo barcollare cascando molte volte, esso è cagione a sé medesimo d'innumerabili mali; cosí simigliantemente è a giudicare dell'anima e corpo, congiunti insieme, che è quello che noi diciamo animale: cioè, che quando l'anima, per essere piú possente del corpo, è in orgoglio, quello commovendo tutto di dentro, riempie di morbi; e quando ella in alcune dottrine e questioni medita intentamente, lo dimacra; e ammaestrando o vero battagliando in palese o in privato, per le venienti disputazioni e contese affocandolo, sí lo strugge; e flussioni arrecando trae in errore i piú de' cosí detti medici, i quali riconoscono questi effetti da contrarie cagioni. E quando poi grande e rigoglioso corpo è sposato a mente piccola e inferma, essendo negli uomini due concreati desiderii, quello del nutrimento per il corpo, e quello della sapienza per la parte divinissima che è in noi, soperchiando i movimenti del piú forte e crescendo ogni dí, e facendo però stupida l'anima e ismemorata, arrecano il gravissimo morbo ch'è l'ignoranza. Sola salvezza è questa per tutt'e due: né muovere l'anima senza corpo, né il corpo senza anima; acciocché, contendendo essi, riescano a librarsi e a stare sani. Onde il matematico, e qualunque è intento in alcuna mentale operazione, dee procacciare che il corpo abbia suo movimento, facendo ginnastica; e chi è studioso del corpo dee procacciare che abbia ancora l'anima suoi movimenti, giovandosi della musica e della filosofia tutta quanta, se desiderio egli ha d'essere chiamato a ragione bello e buono uomo. E, imitando la forma dell'universo, similmente sono da curare le singolari parti del corpo. Imperocché, essendo il corpo incalorito internamente o freddato per quel che in esso entra, e per quel ch'è di fuori essendo seccato e umidito, e altre variazioni ricevendo seguaci di queste due specie di movimenti; quando alcuno dia il corpo suo, che quieta, alla signoria dei detti movimenti, esso è soperchiato e disfatto: ma se imitando egli quella chiamata da noi balia e nutrice dell'universo, quanto può, mai non lasci quetare il corpo suo, ma sí lo muova; e procurando ogni volta alcuni scotimenti in tutte le membra, i moti di dentro e di fuori ribatta secondo che richiede natura; e cosí scotendolo misuratamente, le vagabili affezioni e parti di quello secondo loro parentela conduca a ordine; egli, siccome detto è dell'universo, non lascerà il nemico presso il nemico a fargli guerra e morbi, ma sí procurerà che l'amico stia bene accosto all'amico, a fine di operare salute.

De' movimenti quello in sé e da sé è il piú buono movimento, per la gran parentela sua a quello della mente e dell'universo; quello che fatto è da altro, è peggiore; pessimo è quello che, fatto da altro, muove il corpo solamente in alcuna parte, mentre che esso giace e riposa. E però di tutti i modi di purgare e raffermare il corpo piú buono è quello della ginnastica; secondo è quello dei dondolamenti in nave o in altra forma di vettura quale si voglia, sí veramente che non istracchi; terza specie di moto alcuna volta proficuo assai a chi a quello è necessitato, se no, un che ha senno non gli ha a fare niuna accoglienza, è quello delle purgagioni medicinali: imperocché i morbi, quei che non han gravi pericoli, non son da irritare mai coi medicamenti; imperocché ogni natura di morbi somiglia in alcuno modo a quella degli animali. In vero, non solo tutto l'universal genere degli animali ha in sé, in fino dalla nascita sua, preordinato e fatato i tempi di sua vita, ma ancora ogni singolo animale nascendo reca in sé medesimo il fato suo, salvo ciò che gli possa incontrare per operazion della Necessità: imperocché i triangoli, ne' quali tosto da principio celasi la possanza di ogni animale, son composti cosí che bastano sino a certo tempo; di là dal quale piú non può alcuno mai avere vita. E il medesimo è de' morbi, i quali, quando alcuno di qua dal fatale tempo guastare voglia con suoi medicamenti, di piccoli si fan gravi, e di pochi, molti: onde conviene governarli tutti vivendo quanto si può vita regolata, e non farli malignare usando medicamenti.

 

 

XLIII.

 

E, ragionando noi di tutto l'animale e del corpo suo, basta ciò che detto è quanto al modo come l'uomo governando sé e da sé governato viverebbe perfettamente secondo ragione. Ma convien prima che si apparecchi secondo potere la parte che ha a donneggiare acciocché ella sia bellissima e molto buona al governamento. Ma e' sarebbe tema sufficiente a un'opera di per sé, a voler ragionare di ciò con cura; nientedimeno se mai alcuno fosse vago di parlarne incidentalmente seguendo ciò che detto è di sopra, egli potrebbe non isconvenientemente porre fine con questa considerazione: cioè, da poi che, come abbiamo detto assai volte, furono albergate in noi tre specie di anime, in tre ostelli, e da poi che ciascuna ha movimenti suoi, cosí in breve è a dire che qual di loro impigrisce e i movimenti suoi fa quetare, necessità è che divenga debole molto; e, per contrario, quella che li adopera, molto forte. E però è a badare che tutte e tre le anime si muovano insieme, misuratamente una in verso all'altra. E conviene pensare cosí della gentilissima specie di anima che è dentro noi, che Iddio l'ha data a ciascuno di noi come demone; e diciamo ch'ella abita in su la sommità del corpo, e leva noi da terra per la parentela ch'ella ha con il cielo: imperocché non siamo noi piante terrene, ma sí celesti; e ciò noi diciamo molto dirittamente. E per fermo là sospese Iddio il nostro capo o radice, e dirizzò tutto il corpo, di dove trasse l'anima suo principio. A chi dunque s'involge in sensuali desiderii, e si gitta in irose contenzioni e fieramente vi si travaglia, necessità è che ogni credenza sua nasca mortale, e che, tanto quanto può essere, egli divenga mortale, tutto, tutto, come colui che proprio questa parte sua mortale ebbe messo in rigoglio; e a colui, per contrario, che pone l'amore suo nella sapienza e studia nell'intendimento della verità, e in ciò egli piú si è adoperato che in altra sua cosa, ponghiamo che abbia giunta la verità, allora è necessario che letizii la mente sua in immortali cose divine, e che, quanto esser può la umana natura vasello d'immortalità, bene si riempia di quella; e che, siccome colui che ha sempre coltivato il divino e dentro sé alberga un demone molto bellissimo, beato sia sovra a tutti. Adunque la cura che dee avere ogni uomo di ogni specie di anima, si è darle nutrimenti e movimenti proprii di lei. E al divino che è in noi cognati movimenti sono i pensamenti e volgimenti dell'universo; e però ciascun uomo quelli dee seguitare, e i giri che si fanno nel nostro capo, guasti in sul nascimento, dee raddirizzare per la considerazione delle armonie e giri dell'universo; acciocché egli renda sé contemplante simile alla cosa contemplata conformemente alla sua antica natura, e, simile fatto, giunga il fine proposto dagli Iddii agli uomini, quello di una vita bonissima e presentemente e nel tempo futuro.

 

 

XLIV.

 

Oggimai quasi è compiuta l'opera assegnata a noi da principio, cioè di ragionare dell'universo insino alla umana generazione. Or s'ha a dire brevemente come furono nati gli altri animali, salvo che non sia necessità di allungare: per tale modo noi potremo far ragione di aver serbato in questa sposizione un po' di misura. Quelli, infra gli uomini, codardi e che passarono loro vita iniquitosamente, nella seconda nascita si trasnaturarono, secondo verisimiglianza, in femmine. E crearono però a quei tempo gl'Iddii l'amore del congiugnimento, facendolo animato e vivo: uno in noi, l'altro nelle femmine, in tale forma. Da poi che la bevanda discendendo per lo polmone sotto alle reni, si accoglie nella vescica, e poi, premuta dall'aria, ne va fuori; quella parte propriamente per la quale ne va fuori per tale modo forarono gl'Iddii, che riescisse il foro nella spessa midolla che scorre dalla testa giú per lo collo e la spina, e alla quale fu posto nome di seme. E da poi che il detto seme è animato e respira, in quella parte proprio, per la quale ei respira, Iddio avendo messo viva brama di espandersi, si ebbe fatto l'amore generativo. E però quello negli uomini, dove è vergogna, è disubbidiente, imperioso, e come animal sordo a ragione con sue furenti libidini ismania di sommettere a sé tutto. E nelle femmine la matrice, cosí detta, e vulva, essendo per queste ragioni medesime anche ella animal bramoso di aver figliuoli, quando gran pezzo in là dalla stagione si rimane infruttifera, si sopporta molestamente e si corruccia; ed errando per tutto il corpo e le vie dello spirito affogando e non lasciando respirare, gitta in crudelissime angosce, facendo ogni specie di morbi: insino a tanto che il desiderio e l'amore di tutt'e due gli animali lasciando, cosí come da albero, spuntare un frutto, e cogliendolo poi, e come in un campo seminando nella matrice animaluzzi invisibili dalla picciolezza e informi, e poi affigurandoli e nutricandoli e crescendoli e mettendoli in luce, non compia la generazione di animali.

Le femmine, dunque, e tutto il sesso femmino, cosí sono nati. Gli uccelli sono poi nati dagli uomini per trasmutamento, mettendo penne in iscambio di capelli: dagli uomini non malvagi, ma leggieri e di ragionar vaghi delle cose del cielo; immaginandosi, a cagione della semplicità loro, ch'elle mostrar si potessero per lo vedere molto securamente. Le pedestri fiere furon nate di coloro che niente si giovarono della filosofia e niente contemplarono delle cose del cielo, non essendosi approdati de' giri che sono nel capo e seguito avendo come duci le parti dell'anima che hanno albergo dentro il petto. E per coteste loro basse voglie alla terra traendo per la parentela loro con essa le membra davanti e i capi, ivi li pontarono, slungando e in molte maniere difformando i cocuzzoli, dove si furon propriamente ristretti in ciascun di loro i giri della mente per loro pigrizia. La quatrupede specie e quella dai molti piedi si generò, dunque, per la mentovata ragione; e Iddio sottopose ai piú dementi piú sostegni, acciocché eglino fossero tirati piú a terra. E quelli di loro dementissimi, gittanti a terra tutto il lor corpo, non avendo pure alcuno bisogno di piedi, sí li ebbero fatti gl'Iddii senza piedi e volventisi e striscianti in terra. La quarta specie, l'acquatica, generossi di quelli in tutto dementissimi e sommamente salvatichissimi, i quali i trasformatori non degnaron né anche dell'aere puro, come quelli che polluto aveano in ogni peccato l'anima loro; e, anziché nella fine aria e chiara, la cacciaron giú a respirar la torba e cupa acqua. È nata di loro la generazion de' pesci e delle ostriche e di tutti gli animali acquatici, ai quali toccarono in sorte le estreme abitazioni in pena della estrema loro ignoranza. In siffatto modo e allora e presentemente si mutan tutti gli animali gli uni negli altri; e si fa il mutamento secondo ch'eglino perdono o acquistano intendimento o stoltizia.

Diciamo oggimai che finito è il ragionamento nostro su l'universo: imperocché avendo questo mondo ricevuto mortali animali e immortali, ed essendo compiuto, sí egli divenne visibile animale che accoglie in sé tutt'i visibili animali; sensibile Iddio, immagine dell'intelligibile Iddio; grandissimo e bonissimo; bellissimo e perfettissimo; quest'uno cielo unigenito.

 

 


 

 

 

IL FEDONE

I

 

 

ECHECRATE

Di' un po', Fedone, eri presente tu quando, in carcere, Socrate bevve il veleno o ne hai sentito parlare da altri?

FEDONE

C'ero io proprio, Echecrate.

ECHECRATE

E che disse prima di morire? E come morì? Vorrei proprio saperlo; perché, noi di Fliunte, non andiamo quasi mai ad Atene e da quella città non è venuto nessuno che potesse riferirci notizie sicure su questo fatto. Così sappiamo soltanto che è morto dopo aver bevuto il veleno. E nessuno ci ha saputo dire di più.

FEDONE

Così non sapete nulla nemmeno del processo?

ECHECRATE

Del processo sì, ne fummo informati; anzi ci meravigliammo del fatto che la morte fosse seguita a così lunga distanza dalla sentenza. Com'è che è successo questo, Fedone?

FEDONE

Fu una coincidenza, Echecrate, perché proprio il giorno prima del giudizio, fu incoronata la poppa della nave che gli Ateniesi mandano a Delo.

ECHECRATE

Cos'è questa storia della nave?

FEDONE

La nave sulla quale, anticamente, a quanto dicono gli ateniesi, Teseo andò a Creta con le sette coppie di ragazzi e di fanciulle e li salvò tutti, scampandone anche lui e rientrando in patria. Ora, poiché si dice che gli ateniesi avevano fatto un voto ad Apollo, di mandare ogni anno a Delo una ambasceria sacra, se quei giovani si fossero salvati, ecco che, da allora, tutti gli anni, adempiono questo rito. E inoltre c'è una legge che impone che dall'inizio della cerimonia la città si conservi pura e, quindi, sono assolutamente vietate le esecuzioni capitali per tutto il tempo che la nave giunga a Delo e non rientri in patria e, talvolta, può anche accadere che passi molto tempo se i venti contrari ostacolano la navigazione. La cerimonia, poi, ha inizio dal momento in cui il sacerdote di Apollo cinge di corone la poppa della nave. Ecco perché Socrate stette in carcere per tanto tempo prima che la condanna venisse eseguita.

 

II

 

 

ECHECRATE

Ma che sai dirmi, di preciso, della sua morte, Fedone? Che cosa disse e che fece? E quali amici si trovò accanto in quell'ora? Oppure i giudici non lasciarono che ci fosse nessuno vicino a lui ed egli rimase solo e senza conforto?

FEDONE

Anzi, per la verità, amici ce n'erano e anche parecchi.

ECHECRATE

Andiamo, allora, raccontaci tutto, per filo e per segno, a meno che tu non abbia altri impegni.

FEDONE

Nessun impegno; e poi voglio raccontarvelo anche perché ricordarmi di Socrate, o che sia io a parlarne o che ne senta parlare da altri, è per me, sempre, una cosa dolcissima.

ECHECRATE

Anche per noi, Fedone, che siamo qui ad ascoltarti. Raccontaci, se puoi, ogni cosa e dicci come effettivamente avvenne.

FEDONE

Ora che ci penso, che strano effetto mi faceva stare accanto a quell'uomo; ero lì, che moriva un amico, e non provavo alcuna pietà. Mi pareva felice, Echecrate, sia dal suo modo di fare che da come parlava: c'era in lui una nobile e intrepida fierezza, tanto da farmi pensare che egli se ne andava non senza il soccorso di un dio e che, nell'al di là, sarebbe stato il più felice di tutti. Ecco perché, forse, non provavo quella pietà che pure sarebbe stata così naturale in tanta sventura.

E il bello era che non provavo nemmeno un sentimento di diletto (anche se si discuteva di filosofia); ma era come se dentro di me si agitasse una strana sensazione, uno stato d'animo misto di gioia e di dolore insieme: e sì che, di lì a poco, egli sarebbe morto. E tutti noi che eravamo là, provavamo, presso a poco la stessa cosa: ora piangevamo, ora ridevamo, specialmente uno, Apollodoro, tu lo conosci e sai che tipo è.

ECHECRATE

E come non lo conosco?

FEDONE

Era proprio al colmo dell'agitazione ma anch'io e gli altri eravamo tutti in questo stato.

ECHECRATE

Chi c'era, Fedone?

FEDONE

Di quelli del luogo, oltre ad Apollodoro, c'erano Critobulo con suo padre, Ermogene, Epigene, Eschine e Antistene; c'erano anche Ctesippo di Peania, Menesseno e qualche altro. Platone, credo fosse ammalato.

ECHECRATE

E gente di fuori ce n'era?

FEDONE

Sì. Di Tebe c'erano Simmia, Cebete e Fedonda; poi, vi erano Euclide e Terpione di Megara.

ECHECRATE

E Aristippo e Cleombroto, non c'erano?

FEDONE

No. Si disse che erano a Egina.

ECHECRATE

E chi c'era ancora?

FEDONE

Mi pare che fossero presenti solo questi.

ECHECRATE

E dimmi, quali furono i vostri discorsi?

 

III

 

 

FEDONE

Ora cercherò di raccontarti tutto dal principio.

Sempre, nei giorni che precedettero la morte, io e gli altri eravamo soliti incontrarci con Socrate. Ci riunivamo al mattino, appena faceva chiaro, nel tribunale dove venne fatto il processo, che era vicino al carcere e lì, chiacchierando, aspettavamo che ci venisse aperta la prigione. A volte si aspettava anche un bel po'; ma quando ci aprivano, correvamo da Socrate e restavamo con lui anche tutta la giornata. Quella mattina, poi, giungemmo molto presto perché la sera prima, lasciando il carcere, sentimmo dire che era tornata la nave da Delo e così fummo d'accordo di vederci il giorno dopo al solito posto, al più presto possibile.

Quando giungemmo, il custode, che ci aveva sempre fatti passare, venne fuori e ci disse di attendere e di non entrare fino a quando non ce lo avesse detto lui, perché gli Undici proprio in quel momento stavano togliendo le catene a Socrate e comunicandogli che quello era il giorno della sua morte.

Dopo un po' tornò e ci disse che potevamo entrare e noi, infatti, trovammo Socrate libero dai ceppi e Santippe (tu la conosci, no?), che con il bambino più piccolo in braccio, gli stava vicino. Appena quella ci vide, cominciò a strillare e a dire le solite cose che dicono le donne: «Ahimè, Socrate, ecco che è l'ultima volta che i tuoi amici parlano con te e tu con loro.» E Socrate, rivolgendosi a Critone: «Che qualcuno me la levi di torno e la riporti a casa.» Alcuni servi di Critone, così, la condussero via, mentre lei continuava a smaniare e a battersi il petto.

Socrate, intanto, che s'era seduto sul letto, piegando una gamba, cominciò a grattarsela a lungo: «Che strana cosa, amici, sembra quella che gli uomini chiamano piacere. E che straordinario rapporto tra questo e il suo contrario, cioè il dolore. E pensare che essi convivono nell'uomo e pur si respingono sempre e chi cerca e riesce a cogliere l'uno, si vede costretto, sempre, a sobbarcarsi anche l'altro come se, pur essendo due, fossero attaccati entrambi a uno stesso capo.»

«Credo,» soggiunse, «che se Esopo ci avesse pensato su ne avrebbe fatto una favola presso a poco così: ‹Dio, volendo riconciliare questi due, sempre in guerra tra loro e non riuscendovi, li legò insieme per la testa così che dove va l'uno va anche l'altro.› È quello che è capitato a me: per la catena, qui, alla gamba, poco fa, io sentivo dolore; ed ecco che ora sento piacere.»

 

IV

 

 

«A proposito, hai fatto bene a ricordarmelo, per Giove,» intervenne, allora, Cebete, «perché molti e, appena l'altro ieri, lo stesso Eveno, mi hanno chiesto come mai da quando sei in carcere tu ti sia messo a far poesie sui ritmi di Esopo, e a comporre un inno in onore di Apollo dato che, prima d'ora, non avevi mai fatto cose del genere. Se tu, dunque, vuoi che risponda qualcosa ad Eveno, quando me lo domanderà (perché di sicuro egli me lo chiede), dimmi che cosa devo riferirgli.»

«Digli la verità, Cebete: che io non mi son messo a far versi per competere con lui (il che non sarebbe stato facile), ma per spiegarmi cosa volessero dire certi sogni e mettermi così la coscienza in pace; se, per caso, non fosse proprio questo genere di musica che essi mi ordinavano di comporre. Spesso, infatti, mi è capitato, per il passato, che lo stesso sogno, in diversi modi, mi ripetesse la medesima cosa: ‹Socrate,› mi diceva, ‹scrivi e componi musica›; ed io, in un primo tempo, credevo che il sogno mi incoraggiasse a far quello che già facevo, cioè, come si incitano i corridori in una corsa, mi esortasse a dedicarmi sempre più alla filosofia, che consideravo la più alta espressione dell'armonia, ma dopo il giudizio, poiché la cerimonia in onore del dio aveva rimandato l'esecuzione della sentenza, pensai se il sogno non avesse voluto intendere che io avrei dovuto dedicarmi alla composizione di vera e propria musica e se, dunque, non fosse stato il caso di obbedire al sogno e, prima di andarmene, mettermi in pace con la coscienza componendo versi e rispettando il suggerimento.

«Fu così che feci, per prima, una poesia per il dio di cui si celebrava la festa, poi, pensando che un poeta, per essere veramente tale, deve scrivere per immagini e non per deduzioni logiche ed io non essendone capace, decisi di prendere spunto da quelle favole di Esopo che ricordavo a memoria, così come mi venivano in mente.

 

V

 

 

«Rispondi così ad Eveno, caro Cebete; salutamelo e digli che, se è saggio, mi segua al più presto possibile. Io me ne vado, oggi, a quel che sembra: così vogliono gli ateniesi.»

E Simmia: «Che bell'invito che fai a Eveno, Socrate! Molte volte io mi sono intrattenuto con lui e, in verità, da quello che mi è parso, non penso sia disposto ad accettare il tuo consiglio.»

«Ma come, Eveno non è forse un filosofo?»

«Lo è, credo,» disse Simmia.

«E allora, vedrai che non chiederà nulla di meglio che seguirmi e, insieme con lui, ogni altro che si occupa degnamente di queste questioni. Che però non faccia violenza a se stesso, perché questo, come dicono, non è lecito.»

Mise giù le gambe dal letto e, restando seduto, continuò a parlarci. E Cebete, a un tratto, gli chiese: «Com'è questo fatto, Socrate, che, da un lato dici che non è permesso farsi violenza e, dall'altro, che il filosofo non chiede di meglio che seguire chi muore?» «Ma come, Cebete, tu e Simmia non avete già sentito simili discorsi alla scuola di Filolao?»

«Sì, Socrate, ma nulla di preciso, però.»

«Ma anch'io parlo per sentito dire; tuttavia nessuno mi impedisce di riferirvi quello che ho udito, tanto più che mi sembra cosa assai naturale, per chi sta per andarsene all'altro mondo, indagare e fantasticare su questo viaggio e come egli se lo immagina. E poi, cosa potremmo, fare di meglio, in tutto questo tempo, fino al tramonto?»

 

VI

 

 

«Socrate, ma in che senso dicono che non è lecito darsi la morte? Che sia una cosa da non farsi (come anche tu hai or ora accennato), io l'ho già sentito dire da Filolao, quando era tra noi e anche da altri ma, per quale esatto motivo, mai nessuno me l'ha chiarito.»

«E, allora, coraggio; forse adesso lo potrai sapere,» disse. «Anzitutto, è probabile che quello che ti sto per dire ti sembrerà strano anche se, in effetti, è semplice, che cioè vi sono degli uomini che desidererebbero morire piuttosto che vivere e, tuttavia, non possono procurarsi questo beneficio con le loro stesse mani se non vogliono macchiarsi di empietà e, quindi, devono aspettarlo da mani altrui.»

«Se Giove ci capisce è bravo,» commentò Cebete, sorridendo, nel suo dialetto.

«Veramente la cosa, così com'è, può anche sembrare irragionevole,» replicò Socrate; eppure, una sua logica ce l'ha. A questo proposito c'è una frase nei Misteri che dice: ‹In una sorta di prigione siamo rinchiusi noi uomini, e non è lecito liberarsi da soli, né evaderne.› Una frase, per me, tanto profonda quanto oscura. Ma una cosa tuttavia è chiara, Cebete, che cioè gli dei si prendono cura di noi e, noi uomini, siamo un po' come un loro possesso. Non ti pare?»

«Ah, senza dubbio,» rispose.

«E dimmi un po', allora, non ti arrabbieresti anche tu se uno dei tuoi schiavi si uccidesse, a tua insaputa, senza che tu avessi consentito alla sua decisione di morire e non lo puniresti, per questo suo gesto, se ne avessi ancora la possibilità?»

«Certo,» asserì.

«Quindi, da questo punto di vista, non sembra per niente illogico che uno non debba togliersi la vita prima che un dio non lo abbia messo nella necessità di farlo, come in questa, per esempio, in cui oggi mi trovo io.»

 

VII

 

 

«Può essere,» ammise Cebete. «Ma quello che mi sembra assurdo è il fatto che proprio i filosofi debbano desiderare la morte se, come dicevi poco fa, di noi si prendono cura gli dei e, anzi, noi stessi siamo un loro possesso. Infatti non riesco proprio a capire come costoro, che sono i più saggi, non debbano dolersi di liberarsi, con la morte, da questa tutela che gli impedisce di continuare a servire i migliori padroni che ci siano, cioè gli dei. Infatti, non è possibile credere che un uomo con la testa sulle spalle possa pensare di star meglio, una volta libero; soltanto un pazzo potrebbe avere una simile idea e credere che sia un bene fuggire dal proprio padrone, senza pensare che è, invece, un grosso errore e che è un bene, al contrario, restar legati, quanto più è possibile, al buon padrone: chi ha un po' di senno, desidera restare sempre con chi è migliore di lui. Il fatto è, Socrate, che così ragionando, veniamo ad affermare proprio il contrario di quello che dicevamo prima, che cioè gli uomini di buon senso si dolgono di morire e gli sciocchi, al contrario, se ne rallegrano.»

Socrate s'era tutto rallegrato (almeno così mi pareva) ascoltando il fervorino di Cebete e, rivolgendosi dalla nostra parte, disse: «Come al solito Cebete va in cerca di sottigliezze e non si lascia mica tanto facilmente convincere da quello che gli dicono gli altri.»

«Sì, però, stavolta,» intervenne Simmia, «mi pare che nel ragionamento di Cebete ci sia qualcosa di valido. Per qual motivo, infatti, degli uomini di buon senso dovrebbero fuggire e piantare in asso padroni migliori di loro? E, poi, mi pare che Cebete ce l'avesse proprio con te che, a cuor leggero, vuoi abbandonare non soltanto noi, ma anche degli ottimi padroni, quali, come tu stesso dici, sono gli dei.»

«Avete ragione. Ed io credo che voi vogliate proprio invitarmi a difendermi da queste argomentazioni, come se fossi in tribunale.»

«Proprio così,» confermò Simmia.

 

VIII

 

 

«E sia. Cercherò di difendermi, allora, dinanzi a voi, in maniera più convincente di quanto non abbia fatto davanti ai giudici. È vero, miei cari Simmia e Cebete, se io non fossi convinto di andare presso altri dei, saggi e buoni e, inoltre, tra uomini morti, di gran lunga migliori dei vivi, oh, certo, sarei ben uno sciocco a non dolermi di morire. Che io mi recherò tra uomini buoni è, beninteso, una speranza e non lo posso sostenere con sicurezza, ma che io mi troverò accanto a degli dei che sono ineguagliabilmente ottimi padroni, oh, questo sì, io lo posso affermare fino in fondo.

«Ecco perché non mi rattristo, come gli altri, al pensiero di morire ma, anzi, mi consola la speranza che al di là della morte, come da tempo si afferma, qualcosa ci sia e assai migliore per i buoni che per i malvagi.»

«E proprio ora che te ne vuoi andare, Socrate, - interruppe Simmia -, vuoi tenertela tutta per te questa fede e non parteciparla anche a noi? È questo un bene che deve essere elargito un po' a tutti, almeno così mi pare, e che, al tempo stesso, potrà essere la tua difesa se quello che dici riuscirà a convincerci.»

«Cercherò, ma prima vediamo cosa vuol dire il buon Critone.»

«Eh? Nient'altro che quello che mi sta ripetendo, da un pezzo, l'uomo che dovrà somministrarti il veleno, che cioè tu discuta il meno possibile, perché se parli troppo e ti accalori, il veleno potrà anche non fare il suo effetto e, allora, dovrai berne anche due o tre volte.»

«Digli di non preoccuparsi: faccia pure quello che deve fare e sia pronto a darmelo anche due e tre volte, se sarà necessario.»

«Me l'ero immaginato che avresti risposto così; ma quello è da molto che insiste.»

«E tu lascialo dire. Ma a voi, come se foste miei giudici, voglio esporre le mie ragioni e dirvi perché io credo che un uomo che abbia dedicato tutta la sua vita alla filosofia, quand'è sul punto di morire, non ha alcun timore, ma, anzi, una legittima speranza di ottenere, nell'al di là, premi grandissimi. Come questo sia vero, miei cari, cercherò di dimostrarvelo.

 

IX

 

 

«Gli uomini non sospettano affatto che chi si dedica alla filosofia, nel senso più vero della parola, non miri ad altro che a morire e presto. E, dunque, sarebbe veramente ben strano che chi per tutta la vita ha desiderato la morte, quando poi essa giunga, si addolorasse proprio di ciò che ha, per tanto tempo, desiderato e cercato.»

Sorrise Simmia e: «Per Giove, Socrate,» disse, «io non ne avevo voglia e tu mi hai fatto ridere perché penso a tutta quella gente che, nell'ascoltare queste tue parole, crederà che tutti i filosofi siano degli aspiranti alla morte; specialmente, poi, i miei concittadini direbbero che essi se la meritano.»

«E avrebbero ragione di dire così, Simmia, salvo poi a capirne qualcosa; però, credo che non comprenderebbero in che senso i veri filosofi aspirino alla morte e a quale specie di morte e come di essa ne siano degni. Ma lasciamo perdere la gente e ragioniamo, dunque, tra noi. Orbene, a nostro avviso, la morte è qualcosa?»

«Sicuro.»

«E che altro è se non separazione dell'anima dal corpo? E il morire cos'è se non un distinguersi del corpo dall'anima, un isolarsi in sé, un separarsi dall'anima e, questa, a sua volta, dal corpo? Che altro è la morte se non questo?»

«Proprio così.»

«Guarda, ora, mio caro, se sei d'accordo con me, perché questo è importante per comprendere meglio quello di cui discutiamo. Ti pare che un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e del bere ?»

«Niente affatto.»

«E di quelli d'amore?»

«Nemmeno.»

«E degli altri piaceri del corpo, come, per esempio, bei vestiti, scarpe di marca, altri ornamenti del genere, tu credi che il filosofo li tenga in gran conto e, comunque, più di quanto la necessità lo richieda?»

«Credo che il vero filosofo le disprezzi tutte queste cose.»

«E allora,» proseguì, «non ti pare che tutte le preoccupazioni di un uomo simile siano rivolte non al corpo, che anzi, per quanto può, egli trascura, ma all'anima?»

«Sì, certo.»

«E, allora, non è chiaro, tanto per cominciare, che, in tutto questo, il filosofo cerca di liberare, per quanto possibile, l'anima da ogni influenza del corpo, riuscendovi assai meglio degli altri?»

«Pare.»

«Per questo motivo, Simmia, la maggior parte della gente giudica indegno di vivere colui che non prova diletto per certi piaceri materiali, anzi come se fosse già col piede nella tomba chi non si cura di quei piaceri che sono propri del corpo.»

«Dici proprio giusto.»

 

X

 

 

«E per quanto riguarda l'acquisto della sapienza, pensi che il corpo possa essere d'impedimento se noi ne chiediamo il concorso? Voglio dire questo, cioè: la vista o l'udito danno agli uomini la certezza assoluta oppure, come ci dicono i poeti, noi nulla vediamo e nulla udiamo con precisione? E se questi sensi non sono né sicuri, né adeguati, noi non possiamo fare affidamento sugli altri che, in effetti, sono ancora più approssimativi e difettosi, non credi?»

«Eh, certo.»

«Quand'è, dunque, che l'anima coglie la verità? evidente che, quando essa si accinge a considerare qualche questione e lo fa con l'aiuto dei sensi, cade in inganno.»

«Esatto.»

«E allora, non è attraverso l'attività razionale, più che con ogni altra, che l'anima coglie in pieno la verità del reale?»

«Sì.»

«E, senza dubbio, l'anima esplica questa sua atti-vità quando nessun turbamento, da parte dei sensi, venga a distoglierla, né la vista, né l'udito, né il dolore o il piacere; solo quando resta tutta isolata e raccolta in sé, trascurando il corpo, staccandosi completamente da esso, senza più alcun contatto, essa può cogliere la verità.»

«È così.»

«Non è quindi per questo che l'anima del filosofo disprezza il corpo e lo fugge e, d'altra parte, desidera isolarsi in se stessa?»

«È chiaro.»

«Ma, Simmia, che dobbiamo concludere, allora? Che esiste il giusto con la ‹G› maiuscola, o no?»

«Sicuro che esiste, per Giove.»

«E, così, che c'è anche il Bello e la Bontà?»

«Come no.»

«Ma le hai viste tu, con i tuoi occhi, queste cose?»

«Io no, mai,» ammise.

«E le hai forse conosciute con qualche altro senso? E, bada, che non mi riferisco solo alle cose che ho nominate ma ad ogni altra, per esempio, alla Salute, alla Forza, in una parola, cioè, alla vera realtà di tutte le cose, a quello che ogni cosa è in se stessa. E allora? La realtà in sé delle cose si conosce attraverso i sensi oppure pensi che giunga alla perfetta conoscenza di essa chi, tra noi, si appresti a esaminare e penetrare le cose nella loro intima realtà, con la pura attività razionale?»

«Così, certamente.»

«E a questo risultato, dunque, giungerà unicamente chi, per cogliere la realtà in sé delle cose, userà, nel più alto grado, la sola ragione, senza ricorrere all'ausilio della vista o, che so io, di qualche altro organo di senso; chi, con la ragione e grazie soltanto ad essa, cercherà di attingere il vero escludendo, quanto più possibile, l'intervento del corpo, l'uso degli occhi, degli orecchi, che sono essi a turbargli l'anima e ad impedirgli di attingere verità e conoscenza. Non è, dunque, costui, o Simmia, l'uomo che più di ogni altro potrà cogliere la realtà?»

«È proprio esatto quanto dici, Socrate.»

 

XI

 

 

«E allora,» soggiunge Socrate, «necessariamente, tutte queste considerazioni inducono i veri filosofi a un ragionamento presso a poco di questo genere: ‹Esiste come un sentiero che ci porta nella direzione giusta, ma fino a che avremo un corpo e la nostra anima sarà confusa a una simile bruttura, noi non giungeremo mai a possedere ciò che desideriamo, che è, poi, quello che noi chiamiamo verità. E non solo il nostro corpo ci procura infiniti fastidi, per il fatto stesso che, ovviamente, dobbiamo nutrirlo, ma quando si ammala, sorgono sempre nuovi impedimenti che ci distolgono dalla nostra ricerca della verità; e, poi, ancora, amori, desideri, timori, visioni fallaci d'ogni genere, vanità innumerevoli, non fanno che frastornarci (è la parola giusta) così che, fino a quando siamo in sua balia, non possiamo concentrarci su nulla. E così pure le guerre, le discordie, le zuffe, è il corpo che le fa nascere con le sue passioni. La brama di possesso, ecco la causa di tutte le guerre e se noi ci affanniamo a procurarci la ricchezza, è il corpo di cui siamo gli schiavi. Da tutto questo deriva il fatto che noi non troviamo più il tempo per dedicarci alla filosofia. E il peggio è che, se pure, riusciamo, per un momento, a liberarcene e a volgere la nostra mente a qualcosa, subito ne siamo distolti, per la sua importuna intrusione, che ci confonde, ci distrae, ci frastorna, al punto di renderci incapaci, ormai, di distinguere la verità.

‹Dunque, è chiaro che se vogliamo giungere alla pura conoscenza di qualche cosa, dobbiamo staccarci dal corpo e contemplare con la sola anima le cose in sé. Soltanto allora, a quel che sembra, noi avremo ciò che desideriamo e che dichiariamo di amare: la sapienza, ma dopo che saremo morti e non certo da vivi, come tutto questo discorso vuol dimostrare.

‹Se, infatti, non ci è possibile conoscere nulla nella sua purezza, perché siamo legati al corpo, due sono le cose: o in nessun modo ci è dato acquistare il sapere o esso ci sarà concesso solo dopo morti, perché soltanto allora l'anima sarà libera dal corpo e tutta sola con se stessa, prima no. Ma è chiaro che durante la nostra vita, noi saremo tanto più vicini alla conoscenza, nella misura in cui meno avremo a dipendere dal nostro corpo e ad avere con esso rapporti, se non per assoluta necessità, nella misura in cui riusciremo, cioè, ad essere, il meno possibile, contaminati dalla sua natura e quanto più, d'altronde, resteremo puri dal suo contatto, fino al giorno in cui dio non ci avrà del tutto da esso disciolti. Oh, allora, liberi e puri dalla fallacia del corpo, noi saremo uniti, con ogni probabilità, ad esseri simili a noi e potremo noi stessi contemplare tutto ciò che è puro. Questa, forse, è la verità: non è lecito, a chi è impuro, toccare ciò che è puro.›

«Questo io penso, Simmia, debbano essere le parole e i pensieri di tutti coloro che sono i veri amici della sapienza, non credi?»

«Oh, sì, niente di più probabile, Socrate.»

 

XII

 

 

«E, allora, amico mio,» proseguì Socrate, «se questa è la verità, quale grande speranza per chi giunga dove ora io sto per andare perché, più che in qualsiasi altro luogo, potrà ottenere pienamente quello per cui tanto tribolammo quaggiù, nella nostra vita trascorsa. E, quindi, questo viaggio che oggi mi si comanda, non è senza una lusinghiera speranza che si compie, per me, come per chiunque altro abbia disposto l'anima sua alla purezza.»

«Oh, indubbiamente,» fece Simmia.

«E questa purificazione non la si raggiunge, come dice anche l'antica tradizione, separando, più che sia possibile, l'anima dal corpo, esercitandola a restarne staccata, tutta in sé raccolta, nella presente come nella vita futura, libera dal corpo che è il suo carcere?»

«Certamente.»

«E non è questa la morte, questo liberarsi, questo separarsi dell'anima dal corpo?»

«Verissimo.»

«E questa separazione, come abbiamo detto, dell'anima dal corpo, la desiderano soltanto e soprattutto quelli che si occupano rettamente di filosofia perché questo è, appunto, l'impegno dei filosofi: separare e riscattare l'anima dal corpo. Non è così?»

«È, chiaro.»

«Non sarebbe, dunque, ridicolo, come dicevo poco fa, che un uomo, il quale in tutti i suoi anni s'è preparato a vivere in modo che la sua vita somigliasse, quanto più possibile, alla morte, quando questa poi giunga se ne rammaricasse?»

«Certo che sarebbe ridicolo.»

«E, dunque, Simmia, quelli che si occupano seriamente di filosofia, si abituano alla morte e l'idea di morire a loro fa meno paura che agli altri uomini. Giudica tu, allora. Se i veri filosofi, che hanno avuto sempre in uggia il corpo, che ardentemente e sempre desiderano che la loro anima sia da esso staccata e tutta raccolta in sé, dovessero, poi, lasciarsi prendere dalla paura e dal dolore, quando ciò si avvera, non sarebbe illogico, dico, se non andassero tutti lieti là dove, una volta giunti, possono sperare di ottenere quello che, per tutta la vita, hanno desiderato: la sapienza cioè, di cui erano innamorati e così sciogliersi da ciò che li impacciava, sentirsi finalmente liberi dal suo potere?

«E, poi, molti scesero nell'Ade spinti dalla speranza di rivedere mogli, o figli, o amanti, insomma creature dilette e ricongiungersi a loro nell'al di là, e vuoi, allora, che un uomo, il quale è stato innamorato della sapienza e che ha sempre nutrito la speranza di conseguirla in nessun altro luogo se non nell'al di là, vuoi che costui si spaventi di morire e non si rallegri di andare laggiù? Oh, proprio no, amico mio, se è un vero filosofo, perché egli sarà pienamente convinto che soltanto laggiù e in nessun altro luogo potrà trovare la sapienza pura. Stando così le cose non sarebbe veramente assurdo, come dicevo un attimo fa, che un uomo simile avesse paura della morte?»

«Ah, certo,» ammise.

 

XIII

 

 

«E non pensi,» riprese «sia una prova più che sufficiente vedere uno che, in punto di morte, si rattrista, per dire che egli non è amante della sapienza ma del proprio corpo? Anzi, c'è da credere che costui amerà anche ricchezze e onori o addirittura le due cose insieme.»

«Di sicuro, è proprio come dici tu.»

«E dimmi un po', Simmia, ciò che noi chiamiamo coraggio, non si addice, forse, in modo particolare, ai filosofi?»

«Senza dubbio.»

«E la temperanza, quella che comunemente si chiama così, cioè quell'atteggiamento distaccato e prudente in virtù del quale si dominano le passioni, non è proprio e soltanto di quelli che disprezzano il corpo e vivono da filosofi?»

«Certo.»

«E se pensi un po' al coraggio e alla temperanza degli altri uomini, vedrai che sono ben strani.»

«E come può essere, Socrate?»

«Lo sai che tutti gli altri uomini considerano la morte tra i mali peggiori?»

«Lo credo,» disse.

«E che quelli, tra costoro, che si ritengono coraggiosi, quando sono a tu per tu con la morte, l'affrontano per il timore di mali ancora più grandi?»

«È così.»

«E, dunque, tutti paurosi e vigliacchi nel loro coraggio, tranne i filosofi, anche se è una contraddizione dire che si è coraggiosi per paura e per viltà.»

«Ah, certo.»

«E passiamo a quelli che sono i temperanti; non è per una sorta di intemperanza che sono tali? Potremmo dire che anche questo è assurdo, ma, in effetti, costoro, in virtù di questa loro specie di temperanza, si vengono a trovare in una situazione analoga. Infatti, solo nel timore di privarsi di certi piaceri, che essi desiderano e di cui sono schiavi, rinunciano ad altri. Ma l'esser dominato dai piaceri è proprio dell'intemperante ed è quello che succede a costoro che, solo per godere di alcuni piaceri, ne dominano altri. Questo era quello che volevo dire poco fa quando accennavo che per intemperanza costoro sono temperanti.»

«E, infatti, è così.»

«Ma questo, caro Simmia, non è proprio un cambio all'insegna della virtù, questo barattare piaceri con piaceri, dolori con dolori, paura con paura, una cosa che vale di più con una che vale di meno, come se fossero monete. E, invece, bisognerebbe dar via tutto per la sola moneta che vale, il sapere, grazie alla quale si possono davvero vendere e comprare coraggio, saggezza, giustizia, insomma la virtù vera, non disgiunta dalla sapienza, si accompagnino, poi, o meno, piaceri, timori e passioni del genere.

«Quando, invece, tutto questo è separato dal sapere e diviene oggetto di mutuo scambio, oh, allora, non è vera virtù ma la sua apparenza ingannevole, una virtù d'accatto, che non ha nulla di sano e di vero. Piuttosto là verità è che la temperanza, il coraggio, la giustizia nascono quando ci si purifica di tutte queste passioni e che il sapere è, forse, il mezzo per questa purificazione.

«Inoltre io non credo che siano stati uomini dappoco quelli che istituirono i Misteri i quali, sotto il velo dell'enigma, ci hanno pur detto, fin dai tempi più remoti, che chi giungerà nell'oltretomba, come un profano, senza esserne iniziato, giacerà immerso nel fango, mentre chi vi giungerà purificato e consapevole, abiterà con gli dei. Perché, vedi, come dicono gli interpreti dei Misteri, ‹molti portano il tirso ma pochi sono i veri iniziati›. E solo questi ultimi, a mio avviso, son quelli che si son dedicati nel vero senso della parola, alla filosofia. E per essere anch'io dei loro, nulla ho trascurato nella mia vita ma anzi, per quanto ho potuto, vi ho messo tutto lo zelo e, se ho agito rettamente, se ho ottenuto qualche risultato, lo sapremo quando, a dio piacendo, saremo di là, come io credo. «Questa è la mia difesa, o Simmia e Cebete, e queste le ragioni per cui, lasciando voi e i miei padroni di quaggiù, io non sono in pena né in collera, dal momento che sono convinto di trovare laggiù, non meno che qui, padroni e amici altrettanto buoni. La gente non presta fede a queste cose, è vero, ma io sarei felice se in questa mia difesa fossi stato con voi più persuasivo di quanto non fui con i giudici ateniesi.»

 

XIV

 

 

Così concluse Socrate e Cebete, intervenendo: «Benissimo, Socrate, anch'io son d'accordo con te su molte cose, ma per quel che riguarda l'anima, a mio avviso, gli uomini restano alquanto scettici, perché pensano che, una volta separatasi dal corpo, essa non abbia più esistenza alcuna, che anzi si dissolva e perisca nell'istante in cui l'uomo muore; temono, insomma, che nel momento in cui si distacca dal corpo, se ne voli via come soffio di vento o un po' di fumo, così, dissolta nel nulla.

«Se fosse vero, invece, che essa si rifugiasse in qualche luogo, tutta raccolta in sé e libera da quei mali che tu, or ora, hai elencati, oh, allora, che bella e grande speranza nascerebbe dalle tue parole. Quindi, occorre, senza dubbio, una prova, e non è cosa facile, per dimostrare che l'anima non solo continui ad avere una sua esistenza, anche dopo la morte del corpo, ma pure una sua forza vitale, una sua capacità intellettiva.»

«È vero, Cebete. E allora, cosa vogliamo fare? Vuoi che discutiamo di questo argomento per vedere se la questione è degna di fede o meno?»

«Sicuro. Sarei proprio contento di sapere quali sono le tue idee in proposito.»

«Ed io penso che non vi sarà nessuno che, ascoltandomi, abbia ora il coraggio di dire (nemmeno se fosse un poeta comico), che io sono un ciarlatano e che parlo di cose che non mi riguardano. Se lo vuoi, dunque, esaminiamo a fondo la questione.

 

XV

 

 

«Cominciamo, dunque, a considerare questo: se nell'Ade vi siano o meno le anime dei morti. Un'antica tradizione, di cui ci è rimasto il ricordo, ci dice che laggiù vi sono le anime di coloro che vissero sulla terra, le quali, di nuovo, torneranno quassù, rigenerandosi dai morti. Se è così, se dai defunti nascono i vivi, come non ammettere che le nostre anime vivano nell'al di là? Non è possibile, infatti, che esse rinascano se non esistessero. Basterebbe questo a provare la loro esistenza, dimostrare, cioè, che i vivi non hanno altra origine se non dai morti. Se, invece, non è così, allora è necessario ricorrere a un altro ragionamento.»

«Certamente,» ammise Cebete.

«Non esaminare, però, la questione limitandola soltanto agli uomini ma, se vuoi che essa ti sia più comprensibile, estendila anche agli animali e alle piante, insomma a tutto ciò che ha una nascita e vediamo, così, se ciascun essere nasce in questo modo, cioè dal suo contrario (laddove, ovviamente, esiste una tale antitesi), per esempio, il bello dal brutto, che è il suo contrario, il giusto dall'ingiusto e così via di seguito. In conclusione, dobbiamo esaminare se ogni cosa che ha un suo contrario, non nasca necessariamente da esso. Per esempio, quando una cosa diventa più grande, non è forse divenuta tale da piccola che era prima?»

«Certo.»

«E quando una cosa diviene più piccola, non diventa tale da più grande che era prima?»

«È così.»

«Per lo stesso motivo, quindi, dal più forte non nasce il più debole e dal più lento il più veloce?»

«Sicuro.»

«Ne vuoi di più? Una cosa che diventa peggiore, non è nata, forse, da una migliore e quella più giusta non deriva, per caso, dalla più ingiusta?»

«E come può altrimenti?»

«E, quindi, sufficientemente abbiamo provato che tutte le cose nascono dai loro contrari.»

«Va bene.»

«Però c'è un fatto che tra due contrari c'è qualcosa di intermedio, come un duplice processo generativo che va da un'estremo all'altro e viceversa. Prendiamo una cosa più grande e una più piccola: tra le due non c'è, rispettivamente, un processo di crescita e di decrescita per cui noi diciamo che l'una cresce e l'altra diminuisce?»

«Sì.»

«E il decomporsi e il generarsi delle cose, il loro raffreddarsi e riscaldarsi, il loro continuo mutare, non si svolge, forse, in questo modo, attraverso un reciproco divenire, un processo di mutua generazione dell'uno dall'altro, anche se non abbiamo termini esatti per definire tutto questo?»

«Certamente.»

 

XVI

 

 

«E allora? C'è qualcosa di contrario alla vita, come alla veglia c'è il sonno?»

«Certo.»

«Che cosa?»

«La morte,» ammise.

«E questi due stati non si generano l'uno dall'altro, poiché sono reciprocamente contrari ed essendo due, non è anche duplice il loro processo generativo?»

«Ma certo.»

«Ebbene, di una delle due coppie di contrari, che ora ho citato, te ne parlerò io, chiarendoti il suo duplice processo generativo; tu, poi, mi dirai dell'altra. Allora io ti dico: da una parte c'è il sonno, dall'altra la veglia; dal sonno nasce la veglia e dalla veglia il sonno; di questi due estremi i processi generativi sono l'addormentarsi e il ridestarsi. È chiaro o no?»

«Chiarissimo.»

«Dimmi ora tu,» disse, «riguardo alla vita e alla morte. Non convieni che la vita è il contrario della morte?»

«Io sì.»

«E che l'una si genera dall'altra?»

«Sì.»

«Che cosa nasce dunque dalla vita?»

«La morte.»

«E dalla morte?» incalzò Socrate.

«Ah, bisogna convenire,» ammise, «che nasce la vita.»

«Cioè che dai morti nascono le cose viventi, caro Cebete, i vivi?»

«È chiaro,» ammise.

«E allora, le nostre anime, sono nell'Ade?»

«Almeno.»

«E del duplice processo generativo dei contrari di cui stiamo parlando, ce n'è, forse, uno che non lascia alcun dubbio? Infatti, il morire è fuori discussione, o no?»

«Certamente,» disse.

«E allora, come la mettiamo? Non contrapporremo a questo processo generativo il suo contrario? O che forse la natura, in questo caso, presenta una falla? Non bisogna invece contrapporre al morire il processo opposto?»

«Ma certamente,» disse.

«E quale?»

«Il rivivere.»

«Dunque, se esiste il rivivere non sarà proprio questo il processo generativo dai morti ai vivi?»

«Senza dubbio.»

«Siamo d'accordo, allora, su questo: che i vivi si generano dai morti, non meno che i morti dai vivi. Stando così le cose è sufficientemente provato che le anime dei morti esistono in qualche luogo e che da lì tornano, poi, a nascere.»

«Dopo quanto si è detto, Socrate, anche a me sembra così.»

 

XVII

 

 

«Vedi, dunque, Cebete, che non senza ragione ci siamo trovati d'accordo, come sembra. Se, infatti, un processo generativo non procedesse continuamente dall'altro, come un perenne ciclo, se il divenire si svolgesse secondo una linea retta, da uno all'altro contrario, senza che ciascun contrario facesse la via all'indietro e confluisse, a sua volta, quasi compiendo un giro, nel suo opposto, oh, allora, tu capisci che tutte le cose avrebbero un unico aspetto e si troverebbero nel medesimo stato e il loro divenire si arresterebbe.»

«Come dici?» fece.

«Non è difficile capire quello che sto dicendo. Per esempio, se ci fosse l'addormentarsi senza che gli corrispondesse il destarsi, che è il suo contrario, capirai che la condizione ultima di tutte le cose farebbe apparire il caso di Endimione una banalità, perché tutto si troverebbe nelle sue condizioni, immerso, come lui, nel sonno. E, ancora, se tutte le cose si unissero, senza mai decomporsi, il detto di Anassagora ‹tutte le cose insieme›, sarebbe presto una realtà.

«E supponiamo, ancora, caro Cebete, che ogni cosa che ha vita morisse e che, una volta morta, rimanesse sempre in questo stato, senza mai più rivivere; non vi sarebbe, allora, necessariamente, soltanto morte e più nessuna forma di vita? E ammettiamo, infatti, che i vivi nascano non dai morti ma da altri esseri e che poi muoiano; come si potrebbe evitare che tutte le cose siano consumate dalla morte?»

«In nessun modo, Socrate, a mio giudizio,» ammise Cebete. «Mi pare, anzi, che tu abbia proprio ragione.»

«Infatti, Cebete, la mia opinione è che la questione stia proprio così e che il nostro accordo non si fondi su un inganno. Vi è, infatti, proprio una realtà che continuamente si ridesta alla vita e i vivi son generati dai morti e le anime dei morti hanno una loro esistenza, migliore quelle buone, peggiore quelle malvage.»

 

XVIII

 

 

«Infatti,» aggiunse Cebete, «mi sembra che sia proprio questo il senso di quella frase famosa (ammesso che sia vera) che tu sei sempre solito ripetere, che cioè sapere non è altro che ricordare. Da ciò deriva il fatto che noi dobbiamo avere già imparato, in un tempo precedente, ciò che ora ricordiamo; e questo non sarebbe possibile se la nostra anima non fosse già esistita in qualche luogo prima di assumere la sua forma umana. Anche per questo motivo, dunque, è da credere che l'anima sia immortale.»

«Ma, Cebete, come possiamo provarlo, tutto questo?» interloquì Simmia. «Cerca, di rinfrescarmi la memoria, perché in questo momento mi pare di non ricordare più bene.»

«Ma esiste una prova formidabile,» assicurò Cebete. «Prova a interrogare un uomo qualsiasi: se ci sai fare, vedrai che ti saprà rispondere da sé, su tutto e questo non potrebbe essere se in lui non ci fossero già delle cognizioni e una capacità di giudizio. Mettilo, poi, davanti a un problema di geometria o a qualcos'altro del genere, e vedrai chiaramente, allora, che le cose stanno proprio così.»

«Se però questo non riesce a convincerti,» intervenne Socrate, «vedi un po' se la questione, come te la pongo io, può trovarti d'accordo. Tu, in fondo, non riesci a convincerti come la conoscenza non sia altro che ricordo.»

«Che io proprio non ne sia convinto,» precisò Simmia, «non è esatto; solo vorrei provare su di me l'evidenza della nostra questione, cioè, vorrei che mi si facessero ricordare le cose. Veramente, da quello che ha detto Cebete, mi par già di ricordare qualcosa e comincio a convincermi; ad ogni modo, vorrei sentire com'è che tu imposti la questione.»

«Così. Siamo d'accordo, è vero, che quando uno ricorda qualcosa deve, indubbiamente, averla già vista prima?»

«Ma certo.»

«E quindi siamo anche d'accordo su questo punto: che il sapere, cioè, quando si acquista attraverso un particolare procedimento, è reminiscenza? E ti dico subito da quale: se uno ha visto una cosa o ne ha sentito parlare o ne ha provato una sensazione qualunque, non conosce solo questa data cosa, ma se ne richiama alla mente un'altra, del tutto diversa, che non ha nulla a che fare con la prima. Non dobbiamo, allora, affermare che egli si è ‹ricordato› di questa cosa che s'è venuta in lui ridestando?»

«Che intendi dire?»

«Questo, cioè, che altro è il concetto di uomo, altro quello di lira.»

«Be', certo.»

«E non sai che gli innamorati, vedendo una lira o un mantello o qualche altra cosa che la loro dolce metà, di solito, adopera, non solo riconoscono la lira ma richiamano alla loro mente l'immagine fisica della persona amata cui la lira appartiene? E questo è la reminiscenza. Allo stesso modo che vedendo Simmia ci si ricorda di Cebete. E di esempi simili se ne possono citare a migliaia.»

«Caspita, ma certo,» riconobbe Simmia.

«E, in questo caso, non si ha una reminiscenza? Specialmente, poi, per quelle cose che, o per il tempo o perché non sono più sotto i nostri occhi, avevamo dimenticate?»

«Sicuro,» confermò.

«E dimmi ancora: se uno vede il disegno di un cavallo o quello di una lira, si può ricordare di un uomo? O se vede il ritratto di Simmia, ricordarsi di Cebete?» «Ma certo,» fece.

«E ci si può ricordare di Simmia, in carne e ossa, vedendo un suo ritratto?»

«Sicuro che si può.»

 

XIX

 

 

«E da tutto questo, non ne consegue che la reminiscenza nasce da ciò che è simile ma anche da ciò che è dissimile?»

«È vero.»

«Ma quando il ricordo di qualcosa viene stimolato da qualche altra cosa che le somiglia, necessariamente, non vien fatto di pensare se vi sia somiglianza più o meno perfetta tra l'oggetto che ha suscitato il ricordo e l'immagine ridestatasi nella nostra memoria?»

«Certamente,» disse.

«E allora, vediamo un po' che succede,» riprese Socrate. «Noi diciamo, senza alcun dubbio, che vi è l'eguale, non voglio dire nel senso di un pezzo di legno che è eguale a un altro pezzo di legno o di una pietra eguale a un'altra e così via, ma alludo a qualcosa che è all'infuori di tutti questi oggetti eguali, diversa, cioè all'Eguale in sé. Dobbiamo dire che esiste o no?»

«Certo che dobbiamo affermarlo, per dio,» disse Simmia.

«E sappiamo pure che cosa sia?»

Sicuro.»

«E da dove ne è derivata la sua conoscenza? Forse da quelle cose di cui parlavamo, legni, pietre e roba del genere, che, vedendoli eguali, ci han suggerito il concetto dell'Eguale in sé, che è diverso dagli altri?

O forse, a te, non sembra tale? Ebbene, sta attento: non può essere che legni o pietre eguali, pur restando sempre quelli, ad alcuni sembrano eguali e ad altri no?»

«Certo.»

«Ebbene, l'Eguale in sé ti è mai apparso diseguale, cioè l'eguaglianza ti si è mai presentata come disuguaglianza?»

«Mai, Socrate.»

«Difatti, questi eguali e l'Eguale in sé, non sono la stessa cosa.»

«Mi pare proprio di no, Socrate.»

«Eppure, non è proprio da queste cose eguali, sebbene diverse dall'Eguale in sé, che tu hai potuto risalire e giungere alla conoscenza di quest'ultimo?»

«Verissimo,» rispose.

«Sia che somigli o che sia diverso da quelle, non ti pare?»

«Certo.»

«È, naturale, non c'è differenza,» confermò, «perché ogni volta che tu, vedendo una cosa ne pensi un'altra, eguale o diversa che sia, necessariamente, in te s'è prodotta una reminiscenza.»

«Esatto.»

«Ma, allora,» ribatté, «non possiamo dire che succede qualcosa di simile riguardo all'eguaglianza dei pezzi di legno o degli altri oggetti eguali di cui si parlava or ora? Ci sembrano proprio eguali all'Eguale in sé o mancano di qualcosa per essere come quello?»

«Mancano di molte cose,» ammise.

«E noi, quindi, non siamo d'accordo che se uno, vedendo una cosa pensa: ‹quest'oggetto che io ora vedo, tende ad essere simile a un'altra realtà, ma non riesce a conformarvici per una sua imperfezione, anzi ne resta inferiore›; non siamo d'accordo che per pensare così, indubbiamente, è necessario che abbia conosciuto prima questa realtà cui egli fa assomigliare il suo oggetto per quanto difettoso?»

«Certamente.»

«E, allora, è così o no, anche per noi, a proposito delle cose eguali e dell'Eguale in sé?»

«Proprio così.»

«Necessariamente, quindi, noi dobbiamo aver conosciuto l'Eguale in sé prima che la vista di cose eguali ci abbia fatto pensare che esse tendono ad essere come l'Eguale in sé, pur restandogli inferiori.»

«È proprio così.»

«E allora noi ci troviamo d'accordo anche su questo altro punto: che alla base di tutte le nostre cognizioni su quanto si è detto e delle loro stesse possibilità, vi è la vista, il tatto e qualche altra sensazione, qualunque essa sia, tanto non fa differenza.»

«Infatti, Socrate, questo, per la nostra questione, non ha alcuna importanza.»

«Comunque sia, sono certamente le nostre sensazioni a farci comprendere che tutte le eguaglianze sensibili tendono alla realtà dell'Eguale in sé a cui, però, restano inferiori. Altrimenti, come potremmo dire?»

«Così.»

«E quindi, prima che noi cominciassimo a vedere, a udire e a percepire con gli altri sensi, noi dovevamo avere, necessariamente, in qualche modo, già una conoscenza dell'Eguale in sé e della sua realtà, perché altrimenti noi non avremmo mai potuto paragonargli le eguaglianze sensibili, né pensare che, pur aspirando ad essergli simili, queste ultime gli restavano inferiori.»

«Da ciò che si è detto, Socrate, è proprio così.»

«E noi non abbiamo cominciato a vedere, a udire,

a usare gli altri sensi, subito, appena nati?»

«Sicuro.»

«Ma non abbiamo detto che, per questo, era necessario aver prima la conoscenza dell'Eguale in sé?»

«Sì.»

«Quindi, questa conoscenza, noi l'avevamo prima di nascere.»

«Pare di sì.»

 

XX

 

 

«Dunque, se noi, prima di nascere, possedevamo questa conoscenza e, con la nascita, ne potemmo disporre, ne consegue che già prima e, poi, una volta nati, noi avevamo non solo il concetto di Eguale in sé e quello di Maggiore e di Minore, ma anche tutte le altre Idee. Perché il nostro discorso, ora, non vale solo per l'Eguale in sé ma anche per il Bello, per il Buono, per il Giusto, per il Santo, insomma per tutto ciò che noi, parlando, definiamo coi termine di ‹realtà in sé›, sia nelle questioni che poniamo che nelle risposte che diamo. Dunque, necessariamente, di tutte queste realtà, noi dobbiamo averne avuto conoscenza prima di nascere.»

«È così.»

«E se una volta acquistata, noi non perdessimo con la nascita, questa conoscenza, nasceremmo sempre sapienti e tali saremmo per tutta la vita. Esser sapienti, infatti, significa aver acquistato conoscenza di qualcosa e conservarla, non perderla; perché forse, dimenticanza non è, Simmia, perdita di conoscenza?»

«Senza dubbio, Socrate.»

«Al contrario, se dopo aver perduto con la nascita questa conoscenza precedentemente acquisita, in seguito, con l'uso delle sensazioni, noi veniamo riacquistando le cognizioni che un tempo avevamo, ciò che noi chiamiamo imparare non consiste forse in un riacquisto di quel sapere che era già nostro? E se questo noi chiamiamo ‹reminiscenza›, non diciamo bene?»

«Sì, certo.»

«Infatti, si è dimostrato, che, percependo noi una data cosa con la vista o l'udito o con qualche altro organo di senso, ci si presenta alla mente un'altra cosa, che avevamo dimenticato, ma che ha una relazione con la prima, che può assomigliarle o meno. Da qui, una delle due: o siamo nati con la conoscenza, ripeto, delle realtà in sé e continuiamo ad averla per tutta la vita, oppure, quelli che noi diciamo che imparano dopo non fanno che ricordarsi e, in tal caso, la sapienza non è che reminiscenza.»

«Effettivamente è così, Socrate.»

 

XXI

 

 

«Cosa ne pensi, dunque, Simmia, che noi siamo nati già sapienti, oppure che, man mano, in seguito, ci ricordiamo di quanto già conoscevamo?»

«Mah, così sul momento, non so proprio che cosa dire, Socrate.»

«Però saprai dirmi la tua opinione almeno su questo: un uomo che sa, sarà in grado di render conto delle cose che sa?»

«Certo che lo sarà, Socrate.»

«E credi che tutti siano capaci di dare una ragione delle realtà di cui ora parlavamo?»

«Ah, lo vorrei proprio, ma temo,» rispose Simmia, «che domani a quest'ora non ci sarà nessuno capace di cavarsela degnamente.»

«Quindi, Simmia, secondo te, non tutti conoscono queste realtà?»

«Ah, no di certo.»

«Allora si ricordano di quello che appresero un tempo?»

«Certamente.»

«Ma quand'è che le nostre anime hanno conosciuto queste realtà? Non certo da quando è iniziata la nostra vita umana?»

«No, certo.»

«Allora prima?»

«Sì.»

«Quindi, Simmia, le anime esistevano prima ancora di assumere forma umana, separate dal corpo e dotate di intelligenza.»

«A meno che, Socrate, questa conoscenza non l'acquistiamo al momento di nascere. C'è anche questa eventualità.»

«Ah, sì? Ma allora quand'è che noi perdiamo la conoscenza di queste realtà? Infatti, abbiamo appena detto che noi non la possediamo alla nostra nascita. O pensi che la perdiamo nel momento stesso in cui l'abbiamo acquistata? O mi sai dire quando?»

«No, Socrate e ora m'accorgo di aver detto una sciocchezza.»

 

XXII

 

 

«Non è così, Simmia? Se esistono queste realtà di cui stiamo tanto parlando, cioè, il Bello, il Buono, e così via e se ad esse riconduciamo le cose che percepiamo con i sensi, perché riconosciamo che quelle realtà sono in noi preesistenti, se ad esse confrontiamo le cose sensibili, allora bisogna pur dire che come esistono queste realtà così anche la nostra anima esiste ancora prima della nostra nascita. Se non fosse così, non se ne andrebbe all'aria tutto il nostro ragionamento? Non è, quindi, logico e necessario che, se esistono queste realtà, anche le nostre anime devono esistere prima della nostra nascita e, viceversa, se non esistono le une, non possono nemmeno esistere le altre?»

«Sicuro, Socrate,» ammise Simmia, «c'è un'innegabile correlazione tra i due fatti e mi pare proprio che la questione si sia risolta in questo rapporto necessario tra l'esistenza dell'anima, prima della nostra nascita, e quella delle realtà di cui hai parlato. Niente ora è più chiaro di questo, cioè che tutte queste realtà di cui s'è parlato, il Bello, il Buono e così via hanno al più alto grado, una loro esistenza. E mi pare che questo sia stato dimostrato abbastanza.»

«E Cebete?» soggiunse Socrate, «bisogna convincere, ora, anche lui.»

«Ma lo sarà anche lui,» disse Simmia, «almeno credo, per quanto sia l'uomo più cocciuto del mondo di fronte a certe questioni. Penso, comunque, che anch'egli si sia convinto che le nostre anime esistono prima della nostra nascita.»

 

XXIII

 

 

«Però, c'è un punto, Socrate, che neanche a me sembra ancora dimostrato, se cioè l'anima continua ad esistere anche dopo la morte; resta valida l'opinione comune, quella a cui poco fa accennava Cebete, che cioè l'anima si disperda con la morte dell'uomo e conclude così la sua esistenza. Infatti, se essa si genera e si forma in qualche luogo ed esiste prima di entrare in un corpo umano, com'è che poi, dopo esservi entrata e successivamente distaccatasene, non muore anch'essa e non si dissolve?»

«Ben detto, Simmia,» approvò Cebete. «È chiaro che si è dimostrato solo la metà di ciò che bisognava dimostrare, cioè solo che la nostra anima esiste prima che noi nasciamo; occorre ora dimostrare che essa esisterà, né più né meno, anche dopo la nostra morte, se vogliamo che la dimostrazione sia completa.»

«Ma la dimostrazione,» intervenne Socrate, «è presto fatta, Simmia e Cebete, basta che voi fate coincidere ciò che ora s'è concluso con la questione che poco fa ci ha trovato tutti d'accordo, cioè che ciò che è vivo nasce da ciò che è morto. Giacché se è vero che l'anima esiste prima della nascita del corpo, se, per generarsi e per vivere essa deve nascere dalla morte e dall'essere noi precedentemente morti, non sarà altrettanto vero che essa sopravviverà alla morte per il fatto che deve nuovamente generarsi? Ecco che la cosa cui avete accennato è già bell'e dimostrata.

 

XXIV

 

 

«Eppure, se non mi sbaglio, tu e Simmia, vorreste esaminare più a fondo la questione perché mi pare che siete spaventati come dei bambini, quasi che l'anima, appena fuori del corpo, se la portasse via il vento e la disperdesse, specie poi quando ci tocca morire non con tempo sereno ma in mezzo a una gran bufera.»

«E tu assicuraci, Socrate,» fece Cebete, sorridendo, «come se noi, effettivamente, avessimo paura o meglio, come se non fossimo noi ad essere spaventati ma quel fanciullo che è in noi. Dunque, fa in modo che questo fanciullo non abbia paura della morte come del bau-bau.»

«Bisognerebbe fargli ogni giorno gli incantesimi,» ammise Socrate, «per liberarlo da questi timori.»

«E dove andremo a trovarlo un incantatore capace, per queste paure, visto che tu ci stai per lasciare?»

«Oh, Cebete, la Grecia è grande,» rispose, «e non manca di uomini in gamba; e poi, vi sono i paesi esteri, verso i quali voi dovete rivolgere le vostre ricerche. E non risparmiate né spese né fatiche per un tale incantatore, perché voi non potreste spendere meglio il vostro denaro. Ma soprattutto datevi da fare voi stessi, gli uni con gli altri, perché è difficile che troviate persone capaci di assolvere questo compito, più che voi stessi.»

«Ma certo, lo faremo,» assicurò Cebete. «Però, ora, se non ti dispiace, torniamo al punto dove eravamo.»

«Affatto, figurati, perché dovrebbe?»

«Bene, allora.»

 

XXV

 

 

«Anzitutto,» riprese Socrate, «dobbiamo chiederci qual è la cosa destinata a dissolversi e per la quale, perciò, noi temiamo la morte e quale invece, no. In seguito considereremo a quale delle due appartenga l'anima; ed è solo allora che potremo star tranquilli o temere per la sua morte.»

«È vero,» disse.

«Non credi che soltanto ciò che è composto, che è tale per natura, è soggetto a una corrispondente decomposizione, mentre ciò che, per sua natura, non è composto sfugge a tale destino?»

«Sembra così anche a me,» ammise Cebete.

«E le cose non composte non sono quelle che restano sempre costanti e immutabili mentre quelle composte mutano continuamente e assumono ora un aspetto ora un altro?»

«Certo.»

«E allora, torniamo al discorso di prima. Quella realtà in sé di cui, tra domande e risposte, demmo la definizione, resta sempre la stessa o muta di volta in volta? L'eguale in sé, il bello in sé, la realtà in sé di ogni cosa, la sua essenza, sono, per quanto poco, mutabili? O piuttosto, ciascuna di queste realtà, che esiste in sé e per sé, resta costante e immutabile e non ammette, in alcun modo, giammai, alcuna alterazione?»

«Ah, resta sempre costante e invariabile, penso, Socrate,» confermò Cebete.

«E che ne pensi di tutte le molteplici altre cose, come gli uomini, i cavalli, i vestiti e cosi via, di tutte quelle cose, insomma, che sono eguali o belle, che hanno lo stesso nome delle realtà in sé? Restano immutabili o, al contrario delle suddette realtà, non sono mai identiche a se stesse o tra loro, mai, per cosi dire, invariabili?»

«È così,» ammise Cebete, «esse non hanno mai il medesimo aspetto.»

«Ebbene, tutte queste cose tu le puoi vedere, toccare, percepire con i sensi, mentre quelle immutabili non puoi coglierle se non attraverso il pensiero e la meditazione. Non si sottraggono, forse, alla nostra vista, non sono esse invisibili?»

«È verissimo quello che dici.»

 

XXVI

 

 

«E allora, vuoi che ammettiamo due realtà, una visibile e l'altra invisibile?»

«Ammettiamolo, certo,» disse.

«E che quella invisibile resta sempre immutabile, mentre la visibile mai?»

«Ammettiamo anche questo,» confermò.

«E dimmi,» continuò Socrate, «noi non siam fatti, per una parte, di corpo e per l'altra, di anima?»

«Certo.»

«E a quale delle due realtà credi che, per natura, il corpo sia più affine?»

«È chiaro a tutti,» rispose, «che è più affine a quella visibile.»

«E l'anima? Alla visibile o all'invisibile?»

«A quest'ultima, Socrate, almeno per l'uomo.»

«Ma quando noi parliamo di realtà visibile o meno, la diciamo tale rispetto alla natura umana o, pensi, rispetto a qualche altra?»

«A quella umana, certo.»

«E che diciamo dell'anima che è visibile o che non è visibile?»

«Che non è visibile.»

«Che è dunque invisibile?»

«Sì.»

«Quindi l'anima somiglia, più del corpo, alla realtà invisibile e il corpo a quella visibile.»

«Necessariamente, Socrate.»

 

XXVII

 

 

«E non dicevamo poco fa anche questo che l'anima, quando si serve del corpo per esaminare qualcosa, mediante la vista o l'udito o un altro organo di senso (infatti, servirsi dell'aiuto del corpo vuol dire, appunto, esaminare mediante i sensi), non dicevamo che l'anima è spinta dal corpo verso ciò che è mutabile e, allora, essa stessa ondeggia incerta e perturbata, presa da vertigini, come fosse ebbra, perché venuta a contatto con cose che così si comportano?»

«Certamente.»

«Invece, quando essa si volge in una sua ricerca, tutta raccolta in sé, allora, si eleva a ciò che è puro, immortale, eterno e immutabile, si sente di natura affine e gli dimora accanto, ogni qual volta le sia possibile. Così cessa dal suo lungo errare e resta immutabile e identica a se stessa, congiunta con quelle realtà che sono tali. E questa condizione dell'anima non si chiama intelligenza?»

«Dici bene, Socrate; è proprio vero.»

«A quale delle due realtà, dunque, secondo te, dopo quello che s'è detto prima e dopo quanto abbiamo ora concluso, assomiglia l'anima?»

«Ma anche il più duro di mente, Socrate, dopo un simile ragionamento, deve ammettere, in tutto e per tutto, che l'anima è più affine a ciò che è immutabile, che a ciò che non lo è.»

«E il corpo?»

«È più affine all'altra realtà.»

 

XXVIII

 

 

«Ma sta ancora a sentire: quando l'anima e il corpo sono uniti, la natura, a quest'ultimo, impone di servire e obbedire, a quella, invece, di comandare e di dominare. Anche da quest'altro punto di vista, quale dei due ti sembra simile a ciò che è divino e quale a ciò che è mortale? Non ti pare che il divino sia, per sua natura, atto a comandare e a dirigere mentre ciò che è mortale, a farsi dominare e a servire?»

«Ah, sicuro.»

«E a quale dei due somiglia l'anima?»

«È chiaro, Socrate, che l'anima somiglia a ciò che è divino, il corpo, invece, a ciò che è mortale.»

«E allora, Cebete, vedi un po' se da tutto questo che si è detto, possiamo concludere che l'anima è simile a ciò che è divino, immortale, intelligibile, uniforme, indissolubile, mentre il corpo è simile all'umano, al mortale, all'inintelligibile, al multiforme, al dissolubile, insomma a ciò che non è mai eguale a se stesso. Siamo in grado di opporre qualche altro argomento per provare che non è così?»

«Ah, proprio no.»

 

XXIX

 

 

«E, allora, stando così le cose, non è il corpo destinato a dissolversi e l'anima, invece, a restare indissolubile o giù di lì?»

«Certo, come no?»

«Orbene, puoi comprendere ora che quando l'uomo muore, la sua parte visibile, cioè il suo corpo, che giace in luogo visibile, ciò che noi chiamiamo cadavere, che è destinato a corrompersi, a dissolversi, a perdersi in fumo, non si altera subito, ma resta, così com'è, per un periodo di tempo abbastanza lungo, specie quando è un corpo ancor florido e giovane e se poi è disseccato come le mummie egiziane, allora si conserva quasi intatto, addirittura indefinitamente; e poi, anche quando il corpo si corrompe, vi sono delle parti, come ossa, tendini e organi simili che sono per così dire, immortali. Non è così?»

«Sì.»

«Ma l'anima, allora, ciò che di noi è invisibile, che va in un luogo della stessa natura, nobile, puro, cioè nell'Ade, accanto a un dio buono e saggio, là dove anche l'anima mia dovrà tra poco andare, se dio vuole, questa nostra anima, dunque, dotata di tal natura, una volta separatasi dal corpo, sarà destinata, come crede la maggior parte della gente, a dissolversi, a svanire? Sì, ce ne vuole, miei cari Simmia e Cebete. Invece, è proprio vero il contrario. Se essa si distacca pura dal corpo, senza tirarsene dietro gli impacci, dato che durante la vita, nulla ha voluto avere in comune con esso ma anzi lo ha fuggito ed è rimasta tutta raccolta in sé, come per un esercizio - e questo significa niente altro che darsi alla filosofia, nel vero senso della parola, un esercitarsi a morire senza rimpianti, e forse, non è anche un prepararsi alla morte?...»

«Oh, senza alcun dubbio.»

«... dunque, se questa è la sua condizione, non se ne andrà verso quel luogo che le si addice, verso l'invisibile, verso il divino, l'immortale, l'intelligibile, dove, una volta giunta, sarà felice, libera dall'errore, dalla malvagità, dalla paura, dalle selvagge passioni, da tutti gli altri mali dell'uomo e dove potrà trascorrere tutto il tempo avvenire, come si dice a proposito degli iniziati, veramente, in compagnia degli dei? È così o no, Cebete?»

 

XXX

 

 

«Ma certo, per dio,» fece Cebete.

«Se, invece, l'anima si separa dal corpo contaminata e impura perché è vissuta con esso in stretto rapporto, servendolo e amandolo e condividendone le passioni e i desideri, ritenendo per vero solo ciò che era corporeo, cioè quello che si può toccare, vedere, bere, mangiare e usare per i piaceri d'amore e odiando, invece, e fuggendo impaurita ciò che ai nostri occhi è oscuro e invisibile, ciò che si può percepire solo con il pensiero e comprendere mediante la filosofia, un'anima così fatta, ripeto, credi tu che si possa sciogliere dal corpo pura e tutta raccolta in sé?»

«In nessun modo,» ammise.

«Non credi, invece, che sarà tutta pervasa da quell'elemento corporeo che, per la familiarità con il corpo di cui ella ha condiviso l'esistenza, per quel suo vivergli premurosamente insieme, le si è come connaturato?»

«Certamente.»

«E ciò che è corporeo, amico mio, pesa - credi pure -, è terragno, visibile. E un'anima di tal fatta ne è come gravata, attirata nuovamente verso la sfera del visibile, perché impaurita dall'invisibile, dal cosiddetto regno dell'Ade e si aggira tra le tombe e i sepolcri, dove se ne vedono, appunto, sotto forma di spettri, im-magini di anime staccatesi dal corpo, impure, partecipi ancora della realtà visibile e, perciò, come tali, visibili anch'esse.»

«È probabile, Socrate.»

«Altro che probabile, Cebete, come - del resto - che queste non siano le anime dei buoni ma dei malvagi, costrette ad errare per questi luoghi e pagare così il fio della loro precedente esistenza, che fu malvagia. E vanno errando fin quando il desiderio di ciò che è corporeo, che sempre le accompagna, non le spinge a unirsi nuovamente a un corpo.

 

XXXI

 

 

«E si legano, com'è naturale, a quei corpi che hanno abitudini e sistemi di vita che esse praticarono nella loro precedente esistenza.»

«E quali sarebbero, Socrate?»

«Che quelle anime, per esempio, che più di ogni cosa, si abbandonarono ai piaceri del ventre, a quelli della carne o, del bere, senza alcuna misura, è probabile che entrino in corpi d'asino o di animali del genere. Non credi?»

«È probabile ciò che dici.»

«E quelle che poi preferirono ingiustizie, tirannidi, rapine, entreranno in corpi di lupi, di sparvieri, di nibbi. E dove potrebbero andare tali anime?»

«Ah, certo, in corpi simili,» ammise Cebete.

«Non è chiaro, allora,» continuò Socrate, «che anche per le altre anime, il loro destino sarà corrispondente alle loro precedenti abitudini?»

«Chiaro, non potrebbe essere altrimenti.»

«E tra queste ultime, le più felici, quelle che andranno nella sede migliore, non saranno quelle che praticarono le virtù sociali e civili, cioè quelle virtù che vengon chiamate temperanza e giustizia, che nascono dalla consuetudine e dalla pratica della vita, senza, però, il concorso della filosofia e della riflessione?»

«Ma com'è che saranno più felici?»

«Perché è probabile che ritornino in una specie di animali mansueti, che vivono associati, come api, vespe, formiche o anche in forma umana, generando uomini buoni.»

«È probabile.»

 

XXXII

 

 

«E, invece, non è lecito giungere fino agli dei a chi non abbia dedicato tutto se stesso alla filosofia e non si sia distaccato dalla terra completamente puro, cioè solo a chi sia amante del sapere. Per questo, Simmia e Cebete, i veri filosofi si tengon lontani da tutte le passioni terrene e sanno opporvisi senza cedere minimamente, padroni come son di se stessi, né li spaventa la perdita del patrimonio o la povertà (com'è della maggior parte degli uomini e specie di quelli che sono attaccati al denaro), né un'esistenza senza onori, (come gli ambiziosi e i vanitosi); per questo se ne tengono lontani.»

«Ah, certo, Socrate, non sarebbe nemmeno conveniente,» ammise Cebete.

«Proprio no, caspita,» confermò Socrate. «Per questo, Cebete, quelli a cui sta a cuore la propria anima e che non passano la vita a corteggiare il proprio corpo, danno un bel saluto a tutti gli altri, che non sanno nemmeno dove andranno a finire, e non si mettono sulla loro strada; ma, convinti come sono che non bisogna comportarsi contrariamente a quanto suggerisce la filosofia e a ciò che essa fa per renderci liberi e puri, si volgono ad essa, seguendola per quella via che essa addita.»

 

XXXIII

 

 

«In che modo, Socrate?»

«Ora te lo dico:» fece, «quelli che amano il sapere, sanno bene che la loro anima, appena la filosofia comincia a guidarla, è come legata, anzi interamente avvinta al corpo, costretta a rivolgere lo sguardo alla realtà non da sé sola, con i propri mezzi, ma come attraverso un carcere, per cui essa è gravata da una profonda ignoranza, riconoscendo benissimo che sono le passioni umane, questo terribile carcere e che, chi vi si ritrova prigioniero, lo deve solo a se stesso. Quelli che amano il sapere, ripeto, sanno che la filosofia quando prende a guidare la loro anima, che è in simile stato, la conforta, cerca di liberarla, facendole vedere come sia illusoria qualsiasi indagine svolta non solo per mezzo della vista, ma anche attraverso l'udito o con l'ausilio degli altri sensi; la persuade, così, a farne a meno, dei sensi, se non per quel tanto che le sia necessario servirsi di essi e la esorta a comporsi, a raccogliersi in sé, a non fidarsi che di se stessa e solo di quella realtà che ella indaga con le sue facoltà e a giudicare falsa, invece, quell'altra, mutevole e contingente, che ella esamina con mezzi non suoi; perché questa è sensibile e visibile, mentre quella è intelligibile e invisibile. L'anima, dunque, del vero filosofo sa di non doversi opporre a questa liberazione e, perciò, si tiene lontana, quanto più può, dai piaceri terreni, dai desideri, dagli affanni e dai timori, ben sapendo che se uno si fa vincere dalle passioni, dai timori, dai dolori e dai desideri, il male che ne potrà ricevere, anche il più grande, come per esempio una malattia o la perdita di tutti i suoi beni, sarebbe ben poca cosa di fronte al male estremo cui andrebbe incontro e al quale, purtroppo, non ci si pensa.»

«E qual è questo male, Socrate?» chiese Cebete.

«Che cioè l'anima di ogni uomo quando prova un dolore o un piacere intenso per qualche cosa, crede che ciò che le produce questa intensa emozione, sia l'unica realtà, vera ed evidente, mentre non lo è affatto. Si tratta, invece, solo della realtà visibile. Non è forse così?»

«Sicuro.»

«E non è forse in queste occasioni, soprattutto, che l'anima diventa schiava del corpo?»

«E come?»

«Perché ogni piacere e ogni dolore, quasi fossero chiodi, inchiodano l'anima al corpo, gliela saldano in modo che essa diventa corporea, fino a ritener per vere le cose ritenute tali dal corpo. Infatti, se l'anima ha le stesse inclinazioni del corpo, se ne condivide i piaceri, io credo che essa ne ha dovuto assimilare un po' le tendenze e la natura e che, quindi, mai potrà giungere all'Ade nella sua purezza, contaminata com'è dal corpo donde è uscita; essa, presto, cadrà in un altro corpo, come un seme, e vi germoglierà. Ecco perché non potrà mai partecipare del divino, del puro, e del semplice.»

«Verissimo questo che dici, Socrate,» ammise Cebete.

 

XXXIV

 

 

«Per questi motivi, Cebete, sono temperanti e forti quelli che amano il sapere e non per quel che ne dice la gente. O tu la pensi come gli altri?»

«Oh, no, no, di certo.»

«No, davvero, perché l'anima di un filosofo non penserà certo che, mentre la filosofia sta per liberarla dal corpo, essa possa deliberatamente abbandonarsi ai piaceri o agli affanni e tornare schiava, facendo un po', ma a rovescio, lo stesso interminabile lavoro di Penelope che s'affaticava sulla sua tela ora in un verso ora nell'altro. Essa, invece, placa le passioni al lume della ragione che le è sempre di guida, contempla il vero, il divino, ciò che è al di là delle opinioni e che è il suo cibo spirituale, convinta com'è che così essa deve vivere la sua vita fino alla fine e che quando sarà giunta al termine, perverrà là dove tutto le sarà congeniale e consimile, libera, ormai, da ogni umana miseria. Così arricchita, Simmia e Cebete, ella non deve più temere d'essere lacerata quando si staccherà dal corpo e, dispersa dai venti, di essere un nulla nel nulla.»

 

XXXV

 

 

Un lungo silenzio seguì a queste parole di Socrate che, a guardarlo, sembrava tutto assorto a ripensare a quanto aveva detto, come, del resto, un po' tutti noi. Soltanto Cebete e Simmia continuavano a discorrere tra loro a bassa voce.

«Dite un po', voi due,» fece Socrate quando se ne accorse, «forse che quanto s'è detto non vi ha soddisfatti? Certo che se si volesse approfondire la questione, ci sarebbero ancora molti punti da chiarire e parecchie obiezioni da fare. Se, però, voi state parlando di altro io ho finito, ma se avete qualche incertezza in proposito, parlate pure, dite le vostre ragioni, se vi pare di poter meglio precisare qualche punto e servitevi pure di me se questo vi potrà giovare.»

«Ebbene, Socrate,» ammise Simmia, «la verità è che da un pezzo noi abbiamo qualche dubbio in proposito e ci stiamo esortando a vicenda a farti delle domande, perché vorremmo sentire il tuo parere, ma abbiamo paura di darti fastidio, di turbarti troppo nella presente sventura.»

Sorrise Socrate placidamente a queste parole: «Purtroppo, Simmia, mi sarà difficile persuadere gli altri del fatto che io non reputo una sventura la mia sorte presente, dal momento che non riesco a convincere nemmeno voi che ve ne state lì tutti preoccupati, credendo che io sia d'un umore più tetro che per il passato. Si vede che in fatto di virtù profetiche voi mi giudicate assai meno dei cigni che, pur avendo sempre cantato, quando sentono vicina la morte, levano più alto e più bello il loro canto, lieti perché sanno di recarsi presso il dio di cui sono i ministri. Gli uomini, invece, con tutta la loro paura della morte, interpretano erroneamente questo canto e dicono che essi si lamentano così perché stanno per morire e, quindi, cantano per il dolore, senza sapere che nessun uccello canta se ha fame o ha freddo o sta male, nemmeno l'usignolo, la rondine o l'upupa, anche se si dice che il loro canto sia un pianto di dolore; nessun uccello, credo, canta per il dolore e tanto meno i cigni che son sacri ad Apollo e che, perciò, dotati come sono di senso profetico, prevedono le delizie dell'Ade e cantano felici, in quell'occasione, più di quanto non abbiano mai fatto in tutta la loro vita.

«Credo di essere anch'io simile ai cigni, nella mia devozione al dio e sacro a lui e di aver avuto dal mio signore, non meno di loro, il dono della profezia e di non staccarmi dalla vita meno lietamente. Per questo voi dovete dirmi e chiedermi ciò che volete finché ce lo concedono gli Undici di Atene.»

«Va bene, allora,» disse Simmia. «Comincerò io a dirti i miei dubbi e Cebete, poi, ti dirà quello che non approva di quanto è stato detto. Mi sembra, Socrate, e forse sarai anche tu del mio parere, che essere così sicuri su certe questioni, sia una cosa impossibile o, per lo meno, molto difficile, almeno in questa vita; d'altronde, io penso che il non esaminare da un punto di vista critico le cose che si son dette, il lasciar perdere il problema, prima di averlo indagato sotto ogni aspetto, sia proprio dell'uomo dappoco; quindi, in casi simili, non c'è altro da fare: o imparare da altri, come stanno le cose, o trovare da sé, oppure, se questo è impossibile, accettare l'opinione degli uomini, la migliore s'intende, e la meno confutabile e con essa, come su di una zattera, varcare a proprio rischio il gran mare dell'esistenza, a meno che uno non abbia la possibilità di far la traversata con più sicurezza e con minor rischio su una barca più solida, cioè con l'aiuto di una rivelazione divina. Ecco perché io, ora, non mi faccio scrupolo di interrogarti, dal momento che anche tu insisti e d'altra parte non voglio che, un domani, io debba rammaricarmi di non averti detto quello che oggi penso. Infatti, Socrate, ripensando tra me e poi anche con Cebete, alle questioni discusse, non mi sembra che siano molto chiare.»

 

XXXVI

 

 

«Forse la tua impressione non è sbagliata,» ammise Socrate; «ad ogni modo, amico mio, dimmi cos'è precisamente che non ti ha soddisfatto.»

«Vedi, il tuo ragionamento, a mio avviso, potrebbe andar benissimo anche per quel che riguarda un accordo musicale, poniamo, di una lira; la melodia, infatti, che nasce dalle corde di una lira ben accordata è invisibile, incorporea, stupendamente bella, addirittura divina, mentre la lira e le sue corde sono cose materiali, corpi, di natura terrena e mortale. Ora, ammettiamo che uno rompa la lira, spezzi e strappi via le corde, da quanto hai detto, si potrebbe sostenere che la melodia, lungi dal dissolversi, continui a sussistere, poiché sarebbe impossibile che la lira continui ad esistere anche con le corde spezzate, che sono di natura mortale e che la melodia, invece, che partecipa del divino e dell'immortale, si dissolva, consumandosi prima di ciò che è finito. E, anzi, bisognerebbe affermare che è l'armonia che continuerà a sussistere in qualche parte, mentre il legno e le corde imputridiranno assai prima che ad essa capiti qualcosa. E io credo, Socrate, che anche tu abbia visto che noi, sull'anima, pensiamo press'a poco qualcosa di questo genere: dato che il corpo è armonicamente regolato e sorretto dal caldo e dal freddo, dal secco e dall'umido e da altri fattori analoghi, anche la nostra anima è costituita dalla combinazione e dall'armonia di questi stessi elementi convenientemente e proporzionatamente fusi tra loro. Se, dunque, l'anima è armonia, è chiaro che quando il nostro corpo, per una malattia o per altri malanni, subisce un rilassamento o un'eccessiva tensione, anche l'anima, necessariamente, verrà distrutta benché sia, in sommo grado, di natura divina, come del resto tutte le altre forme di armonia, quelle cioè che sono nei suoni o in ogni altra espressione d'arte, mentre i resti del corpo umano durano più a lungo e fino a quando non vengono cremati o non si decompongono. Vedi un po' tu, ora, cosa c'è da obbiettare se si sostiene che l'anima, dato che è formata da quegli stessi elementi di cui è fatto il corpo, quando giunge la cosiddetta morte, sarà essa la prima a morire.»

 

XXXVII

 

 

«Non è mica tanto sbagliato quello che dice Simmia,» e Socrate volse intorno quel suo sguardo penetrante che gli conoscevamo, poi soggiunse sorridendo. «Se qualcuno di voi si sente meno incerto di me, risponda pure; infatti, mi pare proprio che Simmia abbia mosso un attacco in piena regola alla mia tesi. Sarebbe, però, opportuno che, prima di rispondere, sentissimo cosa ne pensa Cebete, anche per prenderci tempo per la nostra risposta. Dopo che li avremo ascoltati entrambi, o accetteremo le loro obiezioni, se ci sembreranno intonate, o riprenderemo a difendere la nostra tesi tutta da capo. E, allora, parla, Cebete, dì pure quello che ti rende perplesso.»

«Eccomi qua,» rispose Cebete: «mi pare che la discussione sia ferma allo stesso punto e che su quanto abbiamo detto ora si possono fare le stesse obiezioni di prima. Che la nostra anima esista anche prima di assumere la forma umana, io non lo nego: la cosa, infatti, è stata dimostrata con molta finezza e, senza voler essere presuntuosi, anche in modo del tutto soddisfacente; ma che l'anima, anche dopo la nostra morte, continui a vivere, questo, poi, proprio non mi persuade. D'altro canto non sono nemmeno d'accordo su quanto ha detto Simmia, che, cioè, l'anima non sia affatto più forte e resistente del corpo. Son convinto, invece, che c'è una gran bella differenza, sotto tutti i punti di vista. ‹Ma, allora,› tu potresti dirmi nel tuo ragionamento, ‹perché hai ancora dei dubbi, quando vedi che dopo la morte dell'uomo la sua parte più debole continua ad esistere? Non ti pare allora che anche la parte più resistente e durevole, necessariamente, debba continuare a vivere, almeno quanto l'altra?› Vedi un po', ora, se a questo proposito, dico bene, perché anch'io, come Simmia, devo parlare per immagini. Io credo che lo stesso discorso si potrebbe fare a proposito di un vecchio tessitore morto e dire che il poveretto non è mica morto ma viva sano e vegeto in qualche parte e, a prova di questo, si mostrasse il mantello che egli indossava e che si era tessuto con le sue mani, ancora in buone condizioni e per niente rovinato. A chi non volesse crederci, si potrebbe domandare se sia più lunga la vita di un uomo o quella del mantello che indossa. Indubbiamente la risposta sarebbe che è più lunga la vita di un uomo e con ciò, a più forte ragione, sarebbe dimostrato che l'uomo è senz'altro vivo, dato che il mantello, che è cosa meno durevole, non è ancora consumato. Ma io credo, Simmia, che le cose non stiano così; cerca, perciò di seguirmi. Ognuno può rendersi conto che questa tesi è molto debole. Infatti, questo tuo tessitore, che ha tessuto e consumato molti mantelli, se è vero che è morto dopo averne usati molti, è anche vero che egli ha cessato di vivere prima di aver consumato l'ultimo e questo non mi sembra affatto un motivo valido per affermare che l'uomo sia da meno e più debole di un mantello. Lo stesso esempio potrebbe farsi, penso, riguardo all'anima e ai suoi rapporti col corpo e credo che andrebbe proprio bene, cioè che l'anima è di natura molto resistente, il corpo, invece, più fragile e meno durevole. In realtà, si potrebbe dire che ogni anima logora molti corpi, specialmente poi se vive per molti anni (supponiamo, infatti, che mentre l'uomo vive se il corpo è come un flusso che scorre e si esaurisce, l'anima, invece, rinnova via via ciò che si consuma); ma è inevitabile che essa, quando giunge l'ora della morte, si troverà ad avere la sua ultima veste e che muoia, quindi, prima di questa. Morta l'anima, il corpo, allora, rivelerà tutta la sua fragilità e, corrompendosi rapidamente, si dissolverà. Da questo discorso, ne viene, di conseguenza, che noi non possiamo ancora credere che, dopo morti, la nostra anima continui a vivere da qualche parte. Ma voglio anche concederti più di quanto affermi, ammettere, cioè, che le nostre anime non solo siano esistite prima della nostra nascita, ma che nulla impedisce che esistano anche dopo la nostra morte in altri esseri che nasceranno e morranno (e l'anima è, per sua natura, così resistente da poter sopportare tutte queste reincarnazioni); ammesso tutto ciò, non si potrebbe mai concederti che l'anima non si indebolisca in queste continue rinascite e che, alla fine, in una delle tante sue morti corporali, non muoia anch'essa definitivamente, una buona volta. In verità, tu potresti affermare che nessuno può saperne nulla di quest'ultima morte del corpo che segna anche la rovina dell'anima - infatti è impossibile per qualsiasi di noi averne completa consapevolezza -; in tal caso, nessuno può giustificare la sua tranquillità dinanzi alla morte, se non è in grado di provare che l'anima è senz'altro immortale e indistruttibile, almeno che non la giudichi egli stesso un'insensatezza. Diversamente, chi sta per morire, deve per forza temere per la propria anima, che, al momento della sua separazione dal corpo, noti si dissolva anch'essa del tutto.»

 

XXXVIII

 

 

Dopo averli ascoltati, tutti noi provammo una penosa impressione, come più tardi ci confidammo l'un l'altro perché, com'eravamo rimasti convinti del ragionamento precedente, così, ora, ci sembrava che quei due ci avessero confuso le idee e rigettato nella sfiducia non solo riguardo ai discorsi che si eran fatti finora ma anche su quelli che si sarebbero tenuti in seguito, quasi come se noi fossimo incapaci di giudicare o che la questione stessa fosse del tutto campata in aria.

ECHECRATE

Per tutti gli dei, Fedone, io vi comprendo benissimo. Anche a me che ti ho sentito parlare, ora vien fatto di chiedermi: «Ma a quale tesi, d'ora in poi, dovremo credere, dal momento che gli argomenti di Socrate, così persuasivi, si son rivelati addirittura tanto poco credibili?» Mi ha sempre profondamente suggestionato la tesi che la nostra anima fosse un'armonia; l'averla ora sentita, in certo qual modo, ripetere, mi ha confermato quanto io la condividessi. Ecco, intanto, che ora mi ci vuole una nuova dimostrazione, come se incominciassimo tutto da capo, per convincermi che l'anima non muore con la morte del corpo. Dimmi un po', insomma, come Socrate se l'è cavata, dopo tutto quel discorso. Apparve, come voi, turbato o meno? O affrontò tranquillamente la cosa? Ha ribattuto efficacemente, o no? Raccontami tutto, per filo e per segno, se è possibile.

FEDONE

Ah, Echecrate, tu sai quanta ammirazione abbia sempre avuto per Socrate, eppure, mai come quest'ultima volta che gli fui vicino. Che un uomo come lui avesse i suoi argomenti per replicare, niente di straordinario, ma quello che, soprattutto, mi stupì, fu la dolcezza, la benevolenza, la serenità con cui accolse le obiezioni di quei due giovani e l'intuito, poi, con cui si accorse del turbamento che quei loro discorsi ci avevano procurato e come seppe rimediare alla cosa, come ci richiamò e ci ridette fiducia a seguirlo e ad esaminare con lui la questione, noi che eravamo già sbandati e sconfitti.

ECHECRATE

E come?

FEDONE

Te lo dico subito. Mi trovavo seduto, alla sua destra, su uno sgabello, accanto al letto; lui, invece, stava più in alto di me. Cominciò ad accarezzarmi il capo, lisciandomi i capelli che mi scendevano sul collo (aveva l'abitudine di prendermi in giro, di tanto in tanto, per i miei capelli): «Forse, domani, Fedone, ti taglierai questi bei capelli,» mi disse.

«Oh, sì Socrate, è naturale,» gli risposi.

«E, invece, no, se mi ascolterai.»

«Ma come?» esclamai.

«Oggi i capelli ce li taglieremo tutti e due se lasceremo lì la nostra questione, senza saperla portare in porto. Anzi, se fossi in te, non riuscendo a sostenere la nostra tesi, giurerei, come gli Argivi, di non farmeli più crescere prima d'aver demolito, con rinnovata energia, gli argomenti di Simmia e di Cebete.»

«Ma contro due non ce la fa nemmeno Ercole, almeno così dice il proverbio.»

«E allora chiama me in aiuto, come se fossi il tuo Iolao, finché è ancora giorno.»

«Sì, ti chiamerò in aiuto, ma non come se fossi io Ercole ma Iolao, che chiama Ercole in suo soccorso.» «Ma andiamo, che è lo stesso.»

 

XXXIX

 

 

«Prima di tutto bisogna stare attenti che non ci succeda qualche guaio.»

«E quale?» domandai.

«Che non diventiamo dei misologi, come certi che diventano misantropi. Non c'è male peggiore che questo di odiare ogni discussione. Misologia e misantropia nascono nello stesso modo. La misantropia nasce quando si è riposta eccessiva fiducia in qualcuno, senza conoscerlo bene, ritenendolo amico leale, sincero, fedele mentre poi, a poco a poco, si scopre che è malvagio e infido, un essere del tutto diverso. Quando questa esperienza si ripete più volte, specie con quelli che stimavamo più fidati e più amici, si finisce, dopo tante delusioni, con l'odiare tutti e col credere che in nessun uomo vi sia qualcosa di buono. Non succede così?»

«Proprio così,» risposi.

«E non è ingiusto, questo? Non è forse vero che chi si comporta così, evidentemente vive tra gli uomini senza averne nessuna esperienza? Se, infatti, li conoscesse appena, saprebbe che son pochi quelli veramente buoni o completamente malvagi e che per la maggior parte, invece, sono dei mediocri.»

«In che senso?» feci.

«È lo stesso delle cose molto piccole e molto grandi. Credi forse che sia tanto facile trovare un uomo o un cane o un altro essere qualunque molto grande o molto piccolo o, che so io, uno molto veloce o molto lento o molto brutto o molto bello o tutto bianco o tutto nero? Non ti sei mai accorto che in tutte le cose gli estremi sono rari mentre gli aspetti intermedi sono frequenti, anzi numerosi?»

«Ma certo,» riconobbi io.

«E non credi che se si facesse una gara di malvagità, pochissimi arriverebbero tra i primi?»

«È probabile,» ammisi.

«Altro che,» disse. «Ma su questo punto, non si può fare un parallelo tra le discussioni e gli uomini. Il fatto è che tu hai continuato a discutere ed io ti son venuto dietro. Si può vedervi una relazione, invece, in questo senso, quando uno presta, cioè, troppa fede a una tesi e la ritiene buona senza conoscerla a fondo e poi in un secondo momento, gli sembra falsa, a volte anche a ragione, ma a volte a torto, e quando questo gli capita spesso... Tu sai bene che quelli che si perdono in discussioni sul pro e sul contro, finiscono col credersi dei sapientoni e di essere i soli ad avere intuito che niente a questo mondo, e tanto meno le discussioni, è stabile e sicuro e credono che tutto, come nell'Euripo, vada su e giù, senza sosta, senza un momento di tregua.»

«È proprio vero, è così!» affermai.

«Ebbene, Fedone,» riprese, «sarebbe una cosa veramente deplorevole se, con tutte le tesi vere e sicure che vi sono e vengono riconosciute tali, soltanto per il fatto che ci si imbatte in altre che, pur essendo sempre le stesse, ora ci sembrano vere ora false, si finisse col dare la colpa non a se stessi e alla propria incapacità ma, per la stizza, agli argomenti e si passasse tutta la vita a odiare e maledire ogni discussione privandoci, così, della verità e della conoscenza della realtà.»

«Santo cielo,» esclamai, «sarebbe veramente una brutta cosa.»

 

XL

 

 

«Dunque, prima di tutto,» disse, «stiamo attenti che in noi non si insinui la convinzione che ogni tesi sia falsa, ma che, piuttosto, non ci sia proprio in noi qualcosa che non va. Comportiamoci virilmente quindi e cerchiamo di vederci chiaro, tu e gli altri, per tutti gli anni che vi restano da vivere, io, invece, per la morte che mi sta sopra perché, proprio in una questione come questa, data la mia situazione, corro il rischio di non comportarmi come un vero filosofo ma come quelli che non capiscono niente e vogliono avere ragione a tutti i costi. Questa gente, quando discute di qualche cosa, non si preoccupa affatto di stabilire la verità ma solo di fare apparire come vero ai presenti, quello che sostiene. La differenza tra me e loro è che io non cerco di far passare per vero, a voi qui presenti, quello che dico (cosa questa del tutto secondaria) ma che appaia tale soprattutto a me stesso. Io, infatti, la penso così, mio caro (guarda come faccio bene i miei calcoli): se quello che affermo corrisponde a verità, è certamente un bene che me ne sia persuaso; se, invece, dopo la morte non c'è che il nulla, allora, almeno, in queste poche ore che mi restano prima di morire, non vi avrò annoiato con i miei lamenti; del resto non durerà per molto questa mia ignoranza, il che sarebbe veramente un grosso guaio, ma ancora un poco e poi sarà finita. Eccomi, dunque, Simmia e Cebete, pronto a riprendere la questione e voi datemi ascolto, non preoccupatevi tanto di Socrate ma soprattutto della verità e se vi sembra che io dico il vero, datemi il vostro consenso, altrimenti contradditemi pure, in tutti i modi, e state attenti che, per la troppa foga, io non inganni voi e me stesso e non vi lasci, nel partirmene dalla terra, il pungiglione, come un'ape.»

 

XLI

 

 

«Suvvia allora,» disse. «Prima di tutto ricordatemi quello che stavate dicendo se, per caso, me ne dimenticassi. Se non sbaglio, Simmia dubita e teme che l'anima, pur essendo di natura divina e più bella del corpo, muoia prima di esso perché è una specie di armonia. Cebete, invece, mi pareva che fosse d'accordo con me nel ritenere che l'anima è, per natura, più resistente del corpo ma che nessuno, però, può sapere se, dopo aver consumato in molte vite un certo numero di corpi, muoia anch'essa nel separarsi dall'ultimo e che la morte sia, appunto, proprio questo dissolversi dell'anima dal moínento che il corpo muore sempre un po', continuamente. Son queste le questioni che dobbiamo affrontare, Simmia e Cebete, o ce ne sono altre?»

Tutti e due dissero che erano soltanto queste.

«E le cose che si son discusse prima, le respingete tutte oppure soltanto in parte?»

«Alcune sì, altre no,» affermarono insieme.

«E che ne pensate di quello che abbiamo detto, cioè che scienza è reminiscenza e quindi, se questo è esatto, che l'anima nostra deve pur esistere in qualche parte prima di entrare in un corpo?»

«Per conto mio,» ammise Cebete, «ne sono rimasto straordinariamente persuaso e perciò niente potrebbe, ora, farmi cambiare idea.»

«Sono d'accordo anch'io,» aggiunse Simmia, «e molto mi meraviglierei se dovessi cambiare opinione.»

«Eppure, tebano, non dovresti pensarla cosi, se insisti a credere che l'anima sia una specie d'armonia e, come tale, composta da quegli stessi elementi corporei sapientemente armonizzati tra loro. Infatti, non vorrai mica ammettere che l'armonia, che è un composto, appunto, di elementi, esista prima degli elementi che la compongono, o credi che sia così?»

«Niente affatto, Socrate.»

«Ma, intanto, non è questo che vieni a sostenere quando, per un verso, dici che l'anima esiste prima di entrare in una forma umana e di legarsi a un corpo e, per l'altro, che essa è composta di quegli elementi che non esistevano prima di lei? L'armonia non è affatto quella cosa a cui vorresti paragonarla; prima esistono, infatti, la lira, le corde e i suoni non ancora armonizzati e, soltanto per ultima, si forma l'armonia che, del resto, è poi, la prima a dissolversi. Come credi, quindi, di poter accordare questo tuo ragionamento con l'altro?»

«Ah, certo, non è possibile,» fece Simmia.

«E si che se c'è un argomento sul quale è bene trovare un accordo,» coinnìeiìtò Socrate, «è proprio questo sull'armonia.»

«Ah, certo, sarebbe bene,» ammise Simmia.

«E, invece, il tuo ragionamento non è affatto accordato. Vedi un po', allora, di scegliere quale delle due ipotesi preferisci: che la scienza sia reminiscenza o che l'anima sia un'armonia?»

«Molto più volentieri il primo, Socrate; l'altro, infatti, m'è venuto fuori così, senza che me ne rendessi veramente conto, ma solo per una certa approssimazione, come del resto, in fondo, un po' tutte le opinioni degli uomini; ed io, invece, so bene che i ragionamenti fondati su analogie non sono che ciarle e se uno non fa attenzione può essere facilmente tratto in errore, sia nella geometria che in tutte le altre discipline. Invece, il ragionamento che si è fatto sulla reminiscenza e sulla scienza, è partito da un'ipotesi degna di essere accettata. Infatti è stato detto che la nostra anima esiste ancor prima di entrare in un corpo, così come esistono quelle essenze a cui abbiamo dato il nome di realtà in sé e che sono un suo possesso. Orbene, questa ipotesi, dato che ne sono pienamente convinto, io l'ho a buon diritto accettata. Quindi, devo ammettere, logicamente, che non è più possibile sostenere, né da parte mia, né da parte di altri, che l'anima è un'armonia.»

 

XLII

 

 

«E di un po', allora, Simmia: secondo te l'armonia e ogni altra cosa composta, può essere di natura diversa, di quella degli elementi che la costituiscono?»

«Assolutamente no.»

«E allora io credo che non sia nemmeno possibile che faccia qualcosa, o la subisca, diversa da quella che possono fare o subire quegli elementi stessi.»

Lo ammise.

«Così che l'armonia non può guidare gli elementi che la compongono ma solo seguirli.»

Ammise anche questo.

«E, per di più, non v'è alcuna possibilità che essa possa emettere suoni o vibrazioni indipendentemente o, comunque, in maniera contraria, alle parti che la compongono.»

«Ah, sicuramente no.»

«E dimmi ancora una cosa: l'armonia, per sua natura, non è ciò che i singoli elementi, armonizzati tra loro, producono?»

«Non capisco,» azzardò.

«Cioè che se si potesse riuscire, ammesso che fosse possibile, ad armonizzare in accordi più alti e perfetti questi elementi, si potrebbe avere, forse, un'armonia più bella e più piena, mentre se gli accordi fossero più deboli e più bassi, l'armonia sarebbe, anch'essa, debole e grave?»

«Certamente.»

«E può succedere questo per l'anima, che cioè essa sia, anche se in parte minima, più o meno anima di un'altra, per intensità ed estensione e restare sempre quello che è, cioè anima?»

«Niente affatto,» ammise.

«Andiamo avanti, allora,» disse: «Non si dice che un'anima è buona quando ha senno e virtù e che, invece, è malvagia quando in sé ha cattiveria e stoltezza? giusto dire così?»

«È giusto, certo.»

«E allora, quelli che sostengono che l'anima sia un'armonia, cosa diranno della virtù e del vizio, cioè di queste qualità che si trovano nelle anime? Che l'una è un'altra specie di armonia e l'altra una disarmonia? Dirà che l'anima buona, perfettamente armonizzata, essendo già un'armonia ne possiede un'altra e che quella cattiva, invece, essendo disarmonica, non ne ha alcuna?»

«Ah, io non so che dirti,» ammise Simmia, «ma è chiaro che chi la pensa così direbbe qualcosa di simile.»

«Ma poco prima,» Socrate riprese, «abbiamo ammesso che non esiste un'anima che sia più o meno anima di un'altra e questo significa che non esiste un'armonia che sia più o meno tale rispetto a un'altra. Non è così?»

«Certo.»

«E un'armonia che non può essere più o meno tale, non sarà, quindi, neanche più o meno armonizzata. Ti pare?»

«È così.»

«E un'armonia che non può essere più o meno armonizzata, può partecipare, invece, in misura maggiore o minore, all'armonia o deve essere perfettamente corrispondente?»

«Deve essere corrispondente.»

«E, quindi, un'anima, per il fatto che non è più o meno tale rispetto a un'altra e che è, appunto soltanto anima, non può neanche essere più o meno armonizzata.»

«Ma certo.»

«Ed essendo questa la sua condizione, potrà avere più armonia o disarmonia di un'altra?»

«Indubbiamente no.»

«E se è vero che il vizio è disarmonia e la virtù armonia, potrà un'anima essere, più di un'altra, virtuosa o malvagia?»

«In alcun modo.»

«Anzi, a voler esser precisi, Simmia, senza dubbio dobbiamo dire che nessuna anima può essere rnalvagia se è un'armonia. L'armonia, infatti, per il fatto di essere decisamente tale, cioè armonia, non può essere disarmonia.»

«Certamente no.»

«E quindi neanche l'anima che è decisamente anima, può essere malvagia.»

«E come potrebbe, dopo quel che s'è detto?»

«Dunque, da questo ragionamento, consegue, secondo noi, che tutte le anime, di tutti gli esseri viventi, sono egualmente buone se, per loro natura, sono tali, cioè anime.»

«Certo, Socrate, anch'io la penso così.»

«E ti pare che sia giusto tutto questo,» aggiunse Socrate, «e che il nostro discorso sarebbe giunto a queste conclusioni se fosse esatta l'ipotesi che l'anima è un'armonia?»

«Ah, no, di certo,» ammise.

 

XLIII

 

 

«E ora,» riprese Socrate, «puoi dirmi se di tutte le facoltà possedute dall'uomo ve ne sia qualcuna che abbia una sua superiorità sulle altre, all'infuori dell'anima che, per di più, è razionale?»

«Ah, io no.»

«Ed è superiore perché cede alle passioni del corpo o perché vi si oppone? Mi spiego meglio: bruciamo per l'arsura, per esempio, e abbiamo sete, l'anima spinge il nostro corpo in senso contrario, cioè, a non bere e se siamo affamati a non mangiare; e infiniti altri sarebbero gli esempi, a confermarci che l'anima si oppone agli istinti del corpo. Non è forse vero?»

«Sì, è proprio così.»

«Ma noi non abbiamo concluso che se l'anima fosse un'armonia non potrebbe mai dar suoni contrari a quelli degli elementi che la compongono, ora tesi, ora allentati, ora più vibranti, ma dovrebbe seguirli e non già guidarli?»

«E come no? Così, infatti, concludemmo,» disse.

«E allora? Non è evidente che l'anima si comporta tutto il contrario, che cioè guida tutti quegli elementi di cui si dice che è composta, che, anzi, si oppone ad essi durante tutta la vita, esercitando il suo dominio in tutti i modi, tenendoli a freno, ora con maggiore durezza e con sistemi anche dolorosi, come per esempio esercizi ginnici o cure mediche, ora con minore intransigenza, con minacce o consigli, volgendosi agli istinti, alle ire, ai timori, come se fosse estranea ad essi ed essi del tutto diversi da lei. Qualcosa di simile volle dire Omero nell'Odissea quando così fa parlare Ulisse:

battendosi il petto così apostrofava il suo cuore:

sopporta o mio cuore, altre volte

soffristi già un male più acuto.

Credi che egli avrebbe scritto così se avesse pensato che l'anima è un'armonia e tale da essere succube delle passioni del corpo e non, invece, capace di guidarle e di dominarle e, quindi, cosa troppo divina per esser messa al livello di un'armonia?»

«Per Giove, Socrate, pare anche a me che è così.»

«Dunque, mio caro amico, non è proprio più il caso di affermare che l'anima è un'armonia perché, a quanto pare, non ci troveremmo d'accordo né con Omero, quel divino poeta, né con noi stessi.»

«È proprio così,» disse.

 

XLIV

 

 

«Bene, allora,» riprese Socrate, «per quel che riguarda Armonia, quella tebana, in un certo qual modo ce la siam fatta amica; ma, Cebete, come la mettiamo con Cadmo, in che modo e con quale ragionamento possiamo tirarcelo dalla nostra parte?»

E Cebete: «Il modo lo saprai trovare tu. Il ragionamento che ora hai fatto contro la tesi dell'armonia è stato addirittura straordinario da superare ogni mia aspettativa. Infatti, mentre Simmia parlava esponendo i suoi dubbi in proposito, io mi chiedevo tutto stupito se vi potesse essere qualcuno capace di spuntarla contro le sue obiezioni e, così, mi parve addirittura incredibile come esse crollassero di fronte al primo assalto delle tue parole. Non mi meraviglierei, quindi, affatto che capitasse lo stesso alla tesi di Cadmo.»

«Mio buon amico,» disse Socrate, «non vantiamoci troppo, può essere di cattivo augurio e rovinarci tutto il ragionamento che ci accingiamo a fare. Dopo tutto, anche in questo caso, siamo nelle mani di dio; da parte nostra facciamoci sotto, come i guerrieri di Omero, e vediamo, un po' se in quello che hai detto c'è qualcosa di buono. In poche parole tu chiedi che ti si mostri che la nostra anima è immortale e incorruttibile, se si vuole che la speranza di un filosofo, in punto di morire, che crede di essere felice dopo morto, in un'altra vita, assai più che se fosse vissuto in modo del tutto diverso, non sia una vana e sciocca speranza. Dire, poi, che l'anima è qualcosa di resistente e di divino e che esisteva già prima che noi divenissimo creature umane, questo - seconto te - non prova che essa sia immortale ma solo, tutt'al più, che è più durevole e che è vissuta precedentemente in qualche luogo, per lunghissimo tempo e che sapeva e faceva molte cose; il fatto stesso, poi, che la sua discesa in un corpo umano segni il principio della sua fine e sia come l'inizio di una malattia, è un altro motivo per non credere nella sua immortalità, per cui essa vive tutta questa nostra vita fra mille tribolazioni fino a quando, al sopraggiungere della cosiddetta morte, non si dissolve del tutto. Infine dicevi che non c'è differenza, per quel che riguarda il nostro timore della morte, se l'anima entri una sola volta in un corpo o se le sue reincarnazioni siano numerose; perché chi non sa e non può dimostrare che essa è immortale, ha sempre mille ragioni di temere, almeno che non sia fuor di senno. Questo, Cebete, presso a poco, è quello che tu hai affermato; io l'ho riassunto a bella posta perché niente possa sfuggirci e perché tu possa, se credi, aggiungervi o togliervi qualcosa.»

E Cebete: «No, non devo togliere né aggiungere altro: questo è ciò che sostengo.»

 

XLV

 

 

Socrate rimase a lungo in silenzio, tutto assorto in un suo pensiero, poi disse: «Non è una questione da nulla questa che proponi, perché si tratta di indagare sulle cause della vita e della morte. E io voglio incominciare col narrarti, se lo desideri, quello che è capitato a me, in proposito; e se ciò che dico ti sembrerà utile, giovatene pure per rendere convincente la tua tesi.»

«Ma certo,» assicurò Cebete, «è proprio questo che voglio.»

«Sta attento, allora, a quel che sto per dirti. Quando ero giovane, Cebete, avevo una gran passione per quella scienza che vien detta storia naturale; mi sembrava, infatti, che fosse una disciplina meravigliosa quella che insegnava a conoscere le cause delle singole cose, della loro nascita e della loro morte, nonché il mistero della loro vita. E spesso gravi dubbi sorgevano in me quando meditavo su questi problemi: ‹Che forse quando il caldo e il freddo producono una specie di putrefazione, come dicono alcuni, si ha allora la vita?› - ‹O è forse il sangue che dà origine, in noi, al pensiero, o l'aria, o il fuoco?› - ‹O nulla di tutto questo, ma è il cervello, invece, che ci dà le sensazioni dell'udito, della vista, dell'olfatto, dalle quali poi nascerebbero la memoria e le opinioni che una volta stabilizzatesi in noi, ci darebbero, poi, la conoscenza?› E andavo studiando anche i processi opposti, il morir delle cose e le vicende del cielo e della terra, ma, alla fine, dovetti persuadermi di non essere assolutamente portato per studi di questo genere. E te ne darò una prova sufficiente: infatti, quello che sapevo prima, in modo abbastanza chiaro, o almeno, così sembrava e non solo a me ma anche agli altri, dopo quelle mie ricerche, mi divenne così oscuro che disimparai letteralmente tutto ciò che prima credevo di sapere, una tra le tante, per esempio, come fa l'uomo a crescere. Prima d'allora credevo che fosse una cosa evidente che l'uomo cresce perché si ciba e si disseta. Infatti, quando col cibo si aggiungono carne alla carne e ossa alle ossa e, così, per la stessa legge, ogni elemento specifico alle altre parti, credevo, allora, che, in tal modo, il volume del corpo, da piccolo che era, divenisse più grande. Così io pensavo e non ti pare che avessi ragione?»

«Secondo me, sì,» rispose Cebete.

«Continua a seguirmi. Io credevo che fosse giusto pensare che un uomo alto posto accanto a uno piccolo sembrasse più grande, appunto, per il capo e, così, un cavallo, rispetto a un altro; e posso farti altri esempi anche più lampanti: dieci, mi pareva che fosse più di otto per il fatto che ha due unità in più e che la misura di due cubiti fosse più grande di quella di un cubito perché superiore della metà.»

«Ma qual è, ora, la tua opinione in proposito?» intervenne Cebete.

«Ah, io ora,» esclamò, «sono ben lontano dal credere di conoscere la causa di questi fatti, io che non mi azzardo più ad ammettere che un'unità cui si aggiunga un'altra unità, diventa due o che, per questa aggiunta, risultino tali sia la prima che la seconda unità. Non so proprio rendermi conto come, finché ciascuna di queste unità era separata dall'altra, fosse una e non due mentre, poi, una volta congiunte insieme, ecco che son diventate due e la causa di questo sia stata proprio l'averle collocate l'una accanto all'altra. Del resto non riesco più nemmeno a capacitarmi come, dividendo per metà un'unità, essa diventi due, per il fatto stesso della divisione, cioè per una causa contraria alla precedente per la quale l'uno era ugualmente diventato due. Prima, infatti, l'uno è diventato due perché un'unità era stata aggiunta a un'altra e ora, invece, perché l'una viene allontanata e separata dall'altra. Non mi faccio più alcuna illusione di sapere com'è che si forma quest'unità né, in una parola, come nasce, vive e muore ogni altra cosa con questo sistema che non mi fa approdare più a nulla. Ecco, perciò, la necessità di trovare un nuovo metodo, ma così, a caso magari perché questo non va assolutamente.

 

XLVI

 

 

«Ma ecco che un giorno io sentii un tizio che leggeva un libro di Anassagora, almeno così mi diceva, dove c'era scritto che esiste una Mente ordinatrice, causa di tutte le cose. Io mi rallegrai al pensiero che ci fosse una Mente, causa di tutto e lo trovai giusto: se è così, pensai, questa Mente ordinatrice, deve effettivamente presiedere all'ordine universale e disporre nel modo migliore possibile ogni cosa. Se uno, dunque, volesse trovare la causa di ciascuna cosa, come essa, cioè, nasca, perisca o esista, costui deve scoprire, di ciascuna cosa, il suo modo migliore di essere, di subire o di fare alcunché.

«Partendo da questa premessa, io ritenni che un uomo, se avesse voluto indagare su se stesso o sulle altre cose, non avrebbe dovuto far altro che scoprire ciò che è perfetto ed eccellente; questo lo avrebbe necessariamente portato a conoscere anche il pessimo, perché unica è la scienza in proposito. E, così ragionando, io mi rallegravo di aver trovato chi avrebbe potuto insegnarmi, nel modo a me più confacente, le cause di ciò che è, Anassagora, che mi avrebbe detto se la terra è piatta o è rotonda e poi me ne avrebbe spiegato la causa e la necessità, persuadendomi del perché è meglio che sia così; e se avesse affermato che la terra è il centro dell'universo, mi avrebbe certamente anche spiegato perché è meglio che essa stia al centro. Oh, se mi avesse spiegato tutto questo io ero pronto ad abbandonare ogni altra ricerca sulla causalità delle cose. Naturalmente ero disposto a ricevere un simile insegnamento, anche per ciò che riguarda il sole, la luna e gli altri astri, la loro reciproca velocità, le loro orbite, le altre loro vicende e sentirmi dire perché è meglio che ciascuno di essi produca o subisca simili fenomeni. In effetti io non avrei mai pensato che egli, dichiarando che tiitte queste cose erano state ordinate da una Mente, poi attribuisse loro una causa diversa da questa, che cioè il meglio per esse è di essere come sono; quindi, ritenevo che egli, dopo aver attribuito a ciascuna di esse e a tutte insieme questa causa, avrebbe chiarito quale fosse il meglio per ciascuna e il bene comune a tutte. Ah, a nessun costo avrei ceduto queste speranze e così, con grande entusiasmo, mi gettai sui suoi libri e li lessi di furia per sapere, il più presto possibile, il meglio o il peggio delle cose.

 

XLVII

 

 

«Ah, ma a questa meravigliosa speranza, amico mio, subentrò la delusione, perché, via via che procedevo nella lettura, mi vedevo davanti un uomo che non si serviva affatto della Mente e che ad essa non assegnava alcuna causalità nell'ordine delle cose ma indicava come causa, l'aria, l'etere, l'acqua e altri assurdi principi del genere. Mi pareva che egli facesse precisamente come uno che, mentre dice, per esempio, che Socrate, tutto quel che fa, lo fa con la mente, quando poi si tratta di spiegare le cause di ogni mio gesto, se ne esce col dire che io sto seduto perché il mio corpo è fatto di ossa e di muscoli e che le ossa son rigide e hanno le articolazioni che le separano le une dalle altre, mentre i muscoli son fatti in modo che si possono tendere e allentare, che essi circondano le ossa insieme alla carne e alla pelle che tutto racchiude e che, quindi, grazie alle ossa che fanno leva sulle loro giunture e ai muscoli che si tendono e si allentano, io ho la possibilità di piegare le membra e che, quindi, per questo motivo, ora sto qui seduto con le gambe piegate. E del fatto che io ora sto parlando con voi, potrebbe tirare in ballo un sacco di cause simili, la voce, per esempio, l'aria, l'udito e altre del genere, ma non quelle che sono le vere ragioni, cioè che, siccome gli ateniesi han pensato bene di condannarmi, io, a mia volta, ho ritenuto che fosse più opportuno restarmene seduto qui e più giusto subire la pena che essi hanno decretato. Ah, vi assicuro, perdinci, che queste ossa e questi muscoli sarebbero, a quest'ora, già a Megara o in Beozia, sicure che lì sarebbero state certo assai meglio, se io non avessi, invece, ritenuto più giusto e più bello, anziché tagliare la corda e fuggire, pagare alla patria qualunque pena essa mi avesse inflitto. Chiamare cause tutte queste cose, mi sembra proprìo un'assurdità: al massimo uno può dire che, senza ossa, senza muscoli e tutto il resto, io non potrei fare ciò che voglio, ed avrebbe ragione, ma affermare che di tutto ciò che faccio - che è pure il frutto di un mio pensiero -, la causa sono i muscoli e le ossa e non la conseguenza di una scelta del meglio, è proprio un voler deformare il senso delle parole. Perché questo, infatti, significa non capire che una cosa è la causa vera e propria e un'altra è la condizione senza la quale la causa non potrà mai essere tale. E io credo proprio che per quest'ultima, molta gente, andando a tentoni, come nel buio, usi un termine che non le spetta, definendola impropriamente come se fosse la vera causa. Ne viene di conseguenza che c'è chi dice che attorno alla terra v'è, come un vortice d'aria e che, per questo essa si mantiene sospesa e ferma nello spazio e chi ancora la immagina come una larga madia e, sotto, l'aria che la sostiene. Ma quel potere in virtù del quale e terra e aria e cielo sono ora disposti nel miglior modo possibile, costoro non lo ricercano affatto, né pensano che esso abbia una forza divina, ma credono di poter trovare, un giorno, un Atlante più robusto e più longevo dell'antico, capace di sostenere l'universo intero e non si accorgono che, invece, è proprio il Bene e ciò che si conviene a realizzare e a tenere unite le cose. E io, invece, quanto volentieri sarei diventato discepolo di chiunque mi avesse insegnato a far luce su questa vera causa. Ma siccome essa mi sfuggiva, né io ero in grado di scoprirla da me, né di apprenderla da altri, allora, decisi di cambiar rotta e tu, Cebete, vuoi, forse, che ti racconti come mi sono adoperato in questa mia nuova ricerca?»

«Certo, con quale piacere lo voglio.»

 

XLVIII

 

 

«Stanco di simili indagini,» riprese Socrate, «pensai dopo tutto di dover stare attento che non mi succedesse ciò che capita a quelli che guardano un'eclissi di sole che, se non osservano l'immagine dell'astro riflessa nell'acqua o attraverso qualche altro schermo, talvolta finiscono coi rovinarsi gli occhi. Anch'io pensai a una cosa di questo genere e temetti di restare con l'anima completamente cieca se avessi volto alle cose soltanto gli occhi e cercato di coglierle solo con i sensi. Ritenni, perciò, necessario ricorrere ai concetti e cercare in essi la verità delle cose. Ma forse il paragone non è del tutto esatto perché io contesto fermamente che chi considera le cose nei loro concetti le veda in immagine, anziché nella loro realtà. Comunque, questa fu la strada che seguii e prendendo, di volta in volta, come premessa, quel concetto che, a mio avviso, era più sicuro, tutto ciò che mi pareva concordare con esso lo ritenevo vero, sia che si trattasse del principio di causa, sia di altre questioni; quello che non concordava, invece, lo giudicavo falso. Voglio, però, spiegarti meglio quello che intendo dire perché mi pare che tu non abbia ben capito.»

«Non troppo bene, infatti,» ammise Cebete.

 

XLIX

 

 

«Tuttavia non c'è niente di nuovo in quello che sto dicendo, niente che non abbia già detto altre volte e anche nella discussione di prima. Voglio, quindi, ora, mostrarti qual è il tipo di causa per cui mi son tanto dato da fare ed ecco che torno da capo su quanto s'è già tante volte discusso, ammettendo, come ipotesi, l'esistenza di un Bello, di un Buono, di un Grande in sé e così via. Se tu mi concedi che queste cose esistono, se lo ammetti, io spero poterti svelare e dimostrare, prendendo le mosse da qui, che l'anima è immortale.»

«Ma certo, fa conto di si,» assicurò Cebete; «basta che cominci subito.»

«Vedi un po', dunque, che cosa ne consegue dall'esistenza di questi enti e se sei d'accordo con me. A me pare, infatti, che se c'è qualche cosa bella all'infuori del Bello in sé è tale solo perché partecipa di questo Bello e così per tutte le altre cose. Sei d'accordo che sia questa la causa?»

«Sì, sono d'accordo.»

«Stando così le cose,» continuò Socrate, «io non riesco più a capirle, non riesco più a spiegarmele tutte le altre cause, quelle tirate in ballo dai sapienti che mi vogliono far credere che una cosa è bella perché ha un bel colore o una bella forma o altra roba del genere, tutte cause che io te le saluto e che mi lasciano assai perplesso; mentre, invece, con tutta semplicità e forse anche ingenuamente, io me ne resto nella mia convinzione che una cosa è, bella soltanto perché in essa vi è o la presenza del Bello in sé o una sua partecipazione o un qualche altro rapporto qualsiasi, perché io non faccio tanto questione di questo ma solo del fatto che è per il Bello che tutte le cose belle sono tali. Questa è, infatti, la spiegazione più convincente che io posso dare a me stesso e agli altri. Fedele a questo principio, son certo di non cadere mai in fallo e che tanto per me, quanto per gli altri, la risposta sicura è che le cose belle sono tali per il Bello. Non credi?»

«Lo credo.»

«E che le cose grandi sono così per la Grandezza e quelle più grandi sono più grandi per la stessa ragione, come è per la Piccolezza che son piccole le cose piccole?»

«Sì.»

«Quindi, tu non saresti mica d'accordo se uno ti venisse a dire che Tizio è più alto di Caio per la testa e che Caio è più piccolo per lo stesso motivo, ma affermeresti, invece, che, a tuo avviso, una cosa è grande per nessun'altra ragione che per la Grandezza e che quindi solo questa è la causa per cui essa è grande; così come una cosa è piccola per nessun'altra ragione che per la Piccolezza e che, quindi, solo la Piccolezza è la causa per cui essa è tale; tu risponderesti fermamente questo perché se dicessi che Tizio è più alto di Caio e Caio più piccolo di Tizio per la testa dovresti proprio aspettarti, credo, una duplice obiezione, che cioè, il più grande è più grande e il più piccolo è più piccolo per un identico motivo e poi che il più grande è tale per una cosa che è piccola. Ed è molto strano che una cosa sia grande per una cosa piccola. Non te la devi aspettare un'obiezione simile?»

Cebete, ridendo: «Oh, sì, certo.»

«E avresti il coraggio di affermare,» riprese Socrate, «che il dieci supera l'otto per due unità e che per questo motivo esso è maggiore e non, invece, che è per la Quantità e che questa ne è la causa? E così pure, per una lunghezza di due cubiti, diresti che è più grande del cubito per la metà e non, invece, per la Grandezza? La paura di cadere nel medesimo errore è sempre la stessa.»

«Ah, certamente.»

«Ancora: se aggiungessimo un'unità a un'altra unità, non ti guarderesti, forse, dal dire che è stata questa aggiunta a produrre il due, così come, se l'unità sì dividesse in due, che è stata la divisione? Tu, invece, diresti a gran voce che non sai in che altro modo si generi ogni singola cosa se non partecipando dell'essenza propria di quella data realtà di cui partecipa e che, nei nostri due casi, non v'è altra causa che l'unità divenga due se non quella della sua partecipazione alla Dualità e che ciò che sta per diventare due, necessariamente, deve partecipare di questa Dualità, come quello che sta per diventare uno deve partecipare dell'Unità; e manderesti al diavolo tutte le divisioni, le addizioni e le altre finezze del genere, lasciandole ai più sapienti di te; tu, invece, timoroso, come suol dirsi, della tua stessa ombra, intimidito della tua inesperienza e, d'altro canto, fermo nella tua tesi, risponderesti così. Se poi qualcuno s'opponesse all'ipotesi in sé, tu lascialo perdere e non rispondere fino a quando non avrai esaminato che tutte le conseguenze che ne derivano, concordino o meno, secondo te, tra loro, e quando tu dovrai render conto di essa, presa in se stessa, usa lo stesso metodo, poni, cioè, a tua volta, un'altra ipotesi, quella che ti sembrerà la migliore fra quante hanno carattere universale, finché non giungerai al risultato che più ti soddisfi. In tal modo non farai confusione come quelli che ti sciorinano in una stessa tesi il pro e il contro, discutendo, nel medesimo tempo, del principio e delle conseguenze, e solo così potrai giungere a qualche verità. Quei tipi, infatti, della verità non ne parlano e non se ne danno proprio alcun pensiero, ma, nella loro sapienza, mescolano e confondono ogni cosa, solo per piacere a se stessi. Ma tu, invece, se sei veramente un filosofo, farai, credo, come dico io.»

«Dici cose verissime,» approvarono, insieme, Simmia e Cebete.

ECHECRATE

Santo cielo, Fedone, hanno proprio avuto ragione; mi sembra, infatti, che Socrate sia stato d'una chiarezza fantastica, anche per chi ha la testa dura.

FEDONE

Proprio così, Echecrate, lo stesso parve anche a tutti i presenti.

ECHECRATE

Anche a noi che non c'eravamo e che ora soltanto ne sentiamo parlare. E che vi diceste, dopo?

 

L

 

 

FEDONE

Se ben ricordo, dopo che fummo d'accordo con lui e ammettemmo che ogni Idea ha una sua esistenza reale e che tutte le cose sensibili, partecipando di queste Idee, ne prendono il nome, egli riprese, ponendo questa domanda: «Se tu condividi tutto questo,» disse, «quando affermi che Simmia è più grande di Socrate ma più piccolo di Fedone, non vieni a dire che in Simmia vi sono, nello stesso tempo, l'una e l'altra cosa, cioè la Grandezza e la Piccolezza?»

«Sicuro.»

«Ma, in realtà sei d'accordo che quando dici che Simmia è più grande di Socrate, le parole non corrispondono alla verità dei fatti? E che, in effetti, non è della natura di Simmia l'essere più grande per questo, cioè, per il fatto che è Simmia, ma perché ha in sé, per caso, la Grandezza e che, d'altronde, supera Socrate non in quanto Socrate è Socrate ma perché questi ha la Piccolezza in confronto alla Grandezza di lui?»

«È vero.»

«E che se a sua volta è più basso di Fedone, questo non dipende dal fatto che Fedone è Fedone ma perché Fedone ha in sé la Grandezza rispetto alla Piccolezza di Simmia? Così che, possiamo dire che Simmia è grande e piccolo nello stesso tempo essendo la sua statura intermedia, perché con la sua grandezza supera la piccolezza dell'uno e lascia insieme superare la sua piccolezza dalla grandezza dell'altro. Mi pare di parlare,» soggiunse con un sorriso, «come un notaio, ma le cose stanno proprio così come dico.»

E Cebete assentì.

«E se dico questo è perchè voglio che anche tu la pensi come me. A me, tuttavia, sembra chiara una cosa, che cioè non solo la Grandezza in sé non può mai essere grande e piccola nello stesso tempo, ma anche la grandezza che è in noi, non può accogliere la Piccolezza e lasciarsi superare. Quindi, una delle due: o la Grandezza cede e fugge quando le si avvicina il suo contrario, cioè la Piccolezza o, quando questa subentra, scompare, ma mai che possa restarsene lì, accogliere in sé la Piccolezza ed essere diversa da quello che era. Io, per esempio, accogliendo in me la Piccolezza, resto sempre quello che sono, cioè un uomo piccolo, ma la Grandezza, invece, essendo tale, non può accogliere la Piccolezza. E lo stesso discorso vale per la piccolezza che è in noi, che non può assolutamente diventar grande e restare quello che era e, così, ogni contrario, che non tollera di diventare o di essere, nello stesso tempo, il suo contrario e se ciò dovesse accadere o cessa di essere o scompare.»

«Sembra anche a me chiarissimo,» confermò Cebete.

 

LI

 

 

Allora, uno che era lì presente, non ricordo bene chi, osservò: «Ma nel discorso di prima non s'era affermato proprio il contrario di quello che ora si va dicendo, che cioè, dal più piccolo si genera il più grande e viceversa e che i contrari hanno la loro origine, esclusivamente, dai loro contrari? Da quel che sento, ora mi pare proprio che non sia più così.»

E Socrate che lo aveva ascoltato, volse verso di lui il capo e: «Bravo che te ne sei ricordato; tuttavia non hai pensato alla differenza che c'è tra quello che abbiamo detto ora e il discorso di prima. Allora si parlava che da una cosa contraria nasce cosa contraria, ora, invece, s'è detto che il contrario in sé non può mai diventare contrario a se stesso, né quello che è in noi, né quello che è in natura. Insomma, mio caro, prima si parlava di cose che hanno i contrari in sé e che noi chiamavamo col nome di questi contrari; ora, invece, stiamo parlando dei contrari in sé i quali, per il fatto che sono nelle cose, danno a queste il loro nome ed è appunto di questi contrari che noi diciamo che non si possono generare gli uni dagli altri.» Poi Socrate si volse verso Cebete e: «Ti sei forse turbato, Cebete, all'obiezione dell'amico?»

«Oh, per niente. Non posso dire però, di non avere ancora molte incertezze.»

«Comunque, su una cosa siamo d'accordo che il contrario non sarà mai contrario a se stesso.»

«Ah, indubbiamente,» confermò l'altro.

 

LII

 

 

«E vedi un po',» proseguì Socrate, «se ti trovi d'accordo anche su questo: c'è qualcosa che tu chiami caldo e qualche altra che chiami freddo?»

«Io sì.»

«Cioè, precisamente, quello che tu chiami neve e fuoco?»

«Oh, no.»

«Allora il caldo e il freddo son qualcosa di diverso dal fuoco e dalla neve?»

«Sicuro.»

«Perciò io credo che tu sia persuaso che la neve se riceve il caldo, come dicevamo prima, non potrà assolutamente continuare ad essere ciò che era prima, e cioè neve e caldo insieme ma, al contrario, avvicinandosi il caldo o gli cederà il posto o scomparirà.»

«Certamente.»

«E lo stesso è per il fuoco, quando gli si avvicinerà il freddo o si ritirerà o cesserà di essere fuoco, ma non potrà mai restare quel che era e accogliere il freddo, cioè esser fuoco e freddo nello stesso tempo.»

«È proprio vero,» ammise.

«Può, quindi, capitare in casi del genere,» continuò Socrate, «che a mantenere il proprio nome in perpetuo non sia soltanto l'Idea in sé ma anche qualche cosa che da essa si distingue pur mantenendone i caratteri per tutto il tempo della sua esistenza. Ma eccoti un esempio che potrà meglio chiarirti quello che voglio dire. Il Dispari deve avere, sempre, in ogni caso, il nome di dispari, che noi ora gli diamo. Non ti pare?»

«Certo.»

«E fra tutte le cose solo esso - perché questo è il punto - deve essere chiamato così o anche qualche altra cosa che pur non essendo propriamente il Dispari può esser chiamato con questo nome oltre che col suo proprio, dato che ha tale natura che non può mai allontanarsi dal Dispari? Intendo dire che questo è il caso del tre, per esempio, e di molti altri numeri. Pensa bene a questo tre: non ti pare che debba essere sempre chiamato non solo con il suo nome ma anche con quello di dispari sebbene quest'ultimo non sia la stessa cosa del tre? Eppure è tale la natura del tre e del cinque e di tutta una metà della serie numerica, che essi pur non essendo la stessa cosa del Dispari sono, tuttavia, sempre dispari. E, d'altra parte, il due, il quattro e tutta l'altra metà della serie dei numeri, pur non essendo la stessa cosa del Pari, sono tuttavia sempre pari. Sei d'accordo o no?»

«E come non esserlo?» disse.

«Ora sta attento a un altro fatto: è evidente che non soltanto i contrari in sé non si accolgono a vicenda ma che anche quelle cose che, pur non essendo fra loro contrarie, hanno in sé i contrari, non possono ricevere una proprietà contraria a quella che le caratterizza e quando questo avviene o si ritirano o scompaiono. E non diremo che il tre, piuttosto che diventare pari, scomparirà o subirà qualsiasi altra sorte, essendo ancora tre?»

«Di sicuro,» confermò Cebete.

«Eppure,» replicò Socrate, «il due e il tre non sono contrari.»

«No di certo.»

«Quindi, non solo le Idee contrarie non possono accostarsi tra loro ma vi sono anche altre cose che non tollerano questo accostamento di contrari.»

«È verissimo quello che dici,» confermò.

 

LIII

 

 

«E allora,» riprese Socrate, «vuoi che proviamo un po' - se ci riusciamo - a chiarire di qual natura siano queste cose?»

«Va bene.»

«Non saranno forse, Cebete, quelle che se qualche cosa s'impossessa di loro, son costrette non solo ad accogliere l'Idea che è propria di quest'ultima ma anche l'Idea di una qualche proprietà contraria a quella che in essa, per esempio, è costante?»

«Come dici?»

«Quello che dicevamo poco fa. Infatti, indubbiamente, ora tu sai che tutto ciò che è dominato dall'Idea del Tre, non è soltanto tre ma anche dispari.»

«Ah, di sicuro.»

«E, naturalmente, aggiungiamo, in una cosa di questo genere non vi sarà mai l'Idea contraria a quella che possa produrre il Tre.»

«No di certo.»

«E non era l'Idea del Dispari che produceva il Tre?»

«Sì.»

«E a questa non è contraria l'Idea del Pari?»

«Sì.»

«E, allora, nel Tre non vi sarà mai l'Idea del Pari.»

«No, mai.»

«E quindi il Pari non avrà mai nulla a che fare con il tre.»

«Niente proprio.»

«Quindi si conclude che il tre è dispari.»

«Sì.»

«Ecco, dunque, quello che volevo precisare, cioè, quali sono le cose che, pur non essendo contrarie ad altre, le respingono, com'è, per esempio, il caso del tre che, pur non essendo contrario al Pari, lo esclude, perché ha in sé il contrario del Pari e così anche il due, che ha in sé, sempre, il contrario del Dispari e il fuoco, il contrario del Freddo e così via. Vedi, allora un po' se ti va questa conclusione che cioè, non solo il contrario non ammette in sé il suo contrario, ma che anche quella cosa che porti con sé un contrario, in qualunque altra cosa essa vada, non può mai accogliere il contrario del contrario che da essa è portato. Cerca di ricordarti (non è male, infatti, sentire due volte le stesse cose): il cinque, non avrà mai in sé l'Idea del Pari né il dieci che è il doppio del cinque, l'Idea del Dispari; e questo doppio, che, del resto, è contrario a qualche altra cosa, non avrà mai in sé l'Idea del Dispari, come pure la frazione 3/2, o, che so io, altre dello stesso tipo, che hanno per denominatore il due, non avranno mai in loro l'Idea dell'Intero; così le frazioni che sottintendono il tre e tutte le altre della stessa natura, se mi stai seguendo e se sei d'accordo con me.»

«Ti seguo benissimo e condivido la tua opinione,» disse.

 

LIV

 

 

«E, allora, cerca di rifarti al principio, ma non rispondermi ripetendo la mia domanda; cerca, invece, di far come faccio io. Voglio dire che, oltre alla risposta che abbiamo data prima e che era in ogni caso sicura, dopo quanto s'è ora detto, possiamo darne un'altra altrettanto certa. Se, tu, infatti, ti chiedessi che cosa ci dev'essere in un corpo perché sia caldo, io non ti risponderei, come avrei fatto prima, in modo sicuro ma un po' banale che, cioè, occorre il calore, ma, dopo quel che s'è detto, in modo più pertinente, cioè che è necessario il fuoco. E se mi domandi che ci vuole perché un corpo si ammali, non ti risponderà più la malattia, ma la febbre. E, ancora, che cosa occorre perché un numero diventi dispari, io non dirò più che occorre il dispari, ma l'unità e così via. Vedi un po' se hai capito quello che voglio dire.»

«Benissimo,» assicurò Cebete.

«E allora rispondi a questo: che cosa occorre perché un corpo sia vivo?»

«L'anima penso,» rispose.

«Ed è sempre così, per caso?»

«Ma certo.»

«L'anima allora, in qualunque cosa entri, porta sempre la vita?»

«Sì, certamente.»

«E c'è il contrario della vita o no?»

«Sicuro che c'è,» disse.

«E cos'è?»

«La morte.»

«Non è forse vero, allora, che l'anima, stando a quel che abbiamo ammesso prima, non può mai contenere il contrario di ciò che reca con sé?»

«Senza alcun dubbio,» riconobbe Cebete.

 

LV

 

 

«Ancora? Ciò che non riceve l'Idea del Pari, com'è che lo abbiamo chiamato poco fa?»

«Dispari,» ammise.

«E ciò che non accoglie l'Idea del Giusto o quella della Cultura?»

«Ingiusto il primo e Incolto il secondo,» rispose.

«E ciò che non può avere in sé l'Idea della Morte, come dobbiamo chiamarlo?»

«Immortale,» disse.

«E l'anima, forse, non ha in sé la Morte?»

«No.»

«Ma, allora, l'anima è immortale.»

«Sì, immortale.»

«E, allora, proseguiamo, perché su questo ci siamo,

non ti pare?»

«Ah, sì, sì, Socrate, in tutto e per tutto.»

«E allora, Cebete,» riprese Socrate, «se il Dispari fosse indistruttibile, non sarebbe, di conseguenza indistruttibile anche il tre?»

«E come no?»

«E se anche il Freddo fosse indistruttibile, se alla neve si accostasse il Caldo, questa non si ritirerebbe intatta senza sciogliersi? Infatti, essa non potrebbe distruggersi né, d'altra parte, star lì ferma a ricevere il calore.»

«È vero.»

«E così pure se fosse il Caldo ad essere incorruttibile e al fuoco si avvicinasse il Freddo, certo esso non potrebbe estinguersi o morire, ma se ne andrebbe via intatto.»

«Per forza.»

«E, così, non è lo stesso per ciò che è immortale? Se l'immortale è indistruttibile, non è possibile che l'anima muoia, quand'anche le si avvicinasse la Morte; infatti, per quanto s'è detto, essa non accoglierà la Morte, né sarà un'anima destinata a morire, così come il tre, dicevamo, non sarà mai pari e tanto meno il fuoco può essere freddo e il calore che è nel fuoco. Ma che cosa impedisce, potrebbe chieder qualcuno, che il Dispari, all'avvicinarsi del Pari, anche se non diventa tale, cessi di esistere e, al suo posto, si generi il Pari? A questa domanda, non potremmo sostenere che il Dispari, non perisce. Infatti, esso non è indistruttibile; solo se noi avessimo convenuto questo potremmo affermare facilmente che, quando sopravviene il Pari, il Dispari, come del resto il tre, se ne vanno lontani; e così potremmo dire del Fuoco e del Caldo e di ogni altra cosa. Non è così?»

«Certamente.»

«Ma, ora, tornando all'immortale, se siamo d'accordo che esso è indistruttibile, l'anima oltre ad essere immortale sarà anche indistruttibile. Se, invece, non ne sei persuaso, dovremo riprendere la questione tutta da capo.»

«Niente affatto,» esclamò, «almeno su questo punto. Infatti, se l'immortale che è eterno, fosse corruttibile, difficilmente si troverebbe qualcosa che non fosse anch'essa tale.»

 

LVI

 

 

«Io credo,» proseguì Socrate, «che nessuno voglia ammettere che la divinità, l'Idea stessa della vita o quanto d'immortale vi sia, possa morire.»

«Ah, certo, nessuno,» riconobbe Cebete, «né da parte nostra e tanto meno da parte degli dei.»

«E dal momento che l'immortale è anche incorruttibile, l'anima, se è immortale, non sarà incorruttibile anch'essa?»

«Per forza.»

«E, quindi, quando nell'uomo sopraggiunge la morte, la parte di lui che è mortale, muore, ma ciò che è immortale se ne fugge intatto e si sottrae alla morte.»

«È chiaro.»

«Tanto più, dunque,» disse, «l'anima che è immortale e incorruttibile, Cebete, e quindi, sicuramente, le nostre vivranno nell'Ade.»

«Per conto mio non ho nulla da ridire, Socrate, né ho motivo di dubitare delle tue parole. Se, però, Simmia o qualcun altro hanno da dire qualcosa, ebbene, che lo facciano e che non se ne stiano lì, tutti zitti. Non so a quale altra occasione più opportuna potrebbero rimandare la discussione su quest'argomento.»

«Sì, anch'io,» assicurò Simmia, «posso dire di non aver dubbi, dopo quanto s'è detto. Certo è che l'ampiezza del problema e la poca fiducia che ho nella fragilità dell'umana natura, mi fanno avere qualche riserva su quel che s'è concluso.»

E Socrate: «Dici bene, Simmia, specie per quel che riguarda le nostre premesse che, sebbene voi le abbiate accettate, devono comunque essere meglio riesaminate. Quando voi le avrete analizzate a fondo, solo allora, credo, potrete cogliere il problema nei suoi sviluppi, per quanto sia possibile a un uomo; e quando ve ne sareste resi ben conto, non proseguirete più oltre nella vostra ricerca.»

«È vero ciò che dici,» concluse.

 

LVII

 

 

«È bene, però, amici,» riprese Socrate, «che ora si consideri un'altra cosa, che cioè, se l'anima è immortale, essa richiede delle cure e non solo per il tempo che chiamiamo vita ma per l'eternità; non preoccuparsene sarebbe un grosso rischio. Se, infatti, la morte fosse separazione da tutto, sarebbe una bella fortuna per i malvagi che, una volta morti, verrebbero a trovarsi liberi del corpo e dell'anima e, quindi, da tutte le loro iniquità. Dato che è chiaro, invece, che l'anima è immortale, essa potrà avere nessun altro scampo dai mali, né salvezza se non col diventare, quanto più è possibile, saggia e virtuosa, poiché l'anima quando giunge nell'al di là, non ha null'altro che la sua formazione morale e il suo costume di vita, cioè - a quanto si dice - soltanto quello che giova o nuoce moltissimo al defunto, giunto alle soglie dell'eternità. A questo proposito si racconta che quando uno è morto il suo demone che l'ha avuto in custodia durante la vita, ha l'incarico di condurre la sua anima in un luogo prestabilito, dove si raccolgono tutte le altre anime per essere giudicate. Da qui, spinte da colui che ha il compito di accompagnarle, esse vanno verso le dimore dell'Ade. Qui, una volta subita la sorte loro assegnata e trascorso un periodo di tempo stabilito, un'altra guida le conduce nuovamente verso la terra ma questo attraverso un vastissimo arco di tempo. È chiaro che il cammino non è come dice Telefo in Eschilo, il quale assicura che una strada diritta conduce all'Ade; e, invece, per me, essa non è né semplice, né una sola, perché, in tal caso, non ci sarebbe bisogno di guida e nessuno sbaglierebbe direzione, se così fosse. Pare, invece, che essa abbia molte diramazioni e biforcazioni; dico questo da quel che posso arguire dai sacrifici e dai riti che si fari qui sulla terra. Dunque, l'anima prudente e saggia segue la sua guida e non ignora il suo destino; quella che, invece, è legata bramosamente al corpo, come dissi prima, per lungo tempo, resta attratta violentemente al mondo sensibile e solo dopo molta resistenza e gran patimenti se ne distacca, trascinata a forza e a fatica dal demone che le è stato assegnato. Giunta, infine, dove sono le altre, impura com'è per le cattive azioni commesse, per nefande uccisioni o altri delitti del genere che fanno il paio con queste e son degni di anime simili, a quest'anima che tutti fuggono e scansano, nessuno vuol far da guida e da compagno di viaggio ed essa se ne va, così, errando disorientata, penosamente sola, fin quando non si sia maturato il prescritto ordine d'anni e, fatalmente, allora, non sia condotta nel luogo che le spetta. L'anima, invece, che ha trascorso una vita pura e sobria, trova gli dei a guida e compagni di viaggio e pone la sua dimora nel luogo che le si addice. Vi sono, poi, molti luoghi meravigliosi sulla terra che, peraltro, per natura e dimensione non è affatto come la credono quelli che son soliti parlarne: un tale, almeno, di questo m'ha convinto.»

 

LVIII

 

 

«Che vuoi dire, Socrate?» interruppe Simmia.

«Anch'io ne ho sentito molte sulla terra ma la teoria che t'ha convinto non la conosco e quindi ti ascolterei volentieri.»

«Ah, non ci vuol mica l'arte di un Glauco per spiegartela; che risponda però, a verità è un'altra questione e mi sembra molto difficile potertela dimostrare anche se possedessi l'arte di un Glauco. E, poi, credo, che non ne sarei nemmeno capace o, ammesso che lo fossi, il poco tempo che mi resta da vivere, Simmia, non credo sarebbe sufficiente per l'ampiezza della questione. Tuttavia posso, però, benissimo parlarti dell'aspetto esteriore della terra e delle sue regioni, almeno per quel che ne so.»

«Ma sì,» fece Simmia, «sarà più che sufficiente.»

«Io, prima di tutto, son convinto di una cosa,» riprese Socrate, «che se la terra è al centro dell'universo ed è rotonda, essa, per non cadere, non ha bisogno né dell'aria, né di alcun altro sostegno del genere; ma ciò che basta a reggerla è l'omogeneità costante dell'universo e il perfetto equilibrio della terra stessa. Infatti, una cosa equilibrata, posta al centro di una sostanza omogenea, non potrà mai inclinarsi da nessuna parte, né poco né tanto ma, risultando essa stessa omogenea, resterà immobile. Prima di tutto io di questo sono convinto.»

«E giustamente,» riconobbe Simmia.

«Poi,» riprese, «ritengo che la terra sia grandissima e che noi, dal Fasi alle colonne d'Ercole, non ne abitiamo che una ben piccola parte, solo quella in prossimità del mare, come formiche o rane intorno a uno stagno; e molti altri popoli vivono anch'essi in regioni un po' simili alle nostre. Infatti, sparse su tutta la superficie terrestre vi sono cavità di ogni specie, per forma e per grandezza, nelle quali si raccolgono l'acqua, la nebbia e l'aria. Ma la terra vera e propria, la terra pura si libra nel cielo limpido, dove son gli astri, in quella parte chiamata etere da coloro che sogliono discutere di queste questioni; ciò che confluisce continuamente nelle cavità terrestri non è che un suo sedimento. Noi che viviamo in queste fosse non ce ne accorgiamo e crediamo di essere alti sulla terra, come uno che stando in fondo al mare credesse di essere alla superficie e vedendo il sole e le altre stelle attraverso l'acqua, scambiasse il mare per il cielo; costui non è mai riuscito, per inerzia o debolezza, a salire alla superficie del mare e non ha mai, così, potuto osservare, emergendo dalle onde e sollevando il capo verso la nostra dimora, quanto essa fosse più pura e più bella della sua, né ha sentito mai parlarne da qualcuno che l'abbia vista. È quello che capita anche a noi: relegati in qualche cavità della terra, crediamo di abitare in alto, sulla sua sommità e chiamiamo cielo, l'aria, convinti come siamo che esso sia lo spazio dove si volgono gli astri; il caso è identico e anche noi, per debolezza e inerzia, siamo incapaci di attraversare gli strati dell'aria, fino ai più eccelsi; se potessimo giungere fin lassù o aver l'ali per volare in alto, noi vedremmo, levando il capo, le cose di lassù, come i pesci che, emergendo dalle onde, vedono quanto accade quaggiù; e se le nostre facoltà fossero in grado di sostenerne la vista, noi riconosceremmo che il vero cielo è quello, quella la vera luce e la vera terra. Perché questa nostra terra, le sue pietre e tutta quanta la regione che abitiamo, sono guaste e corrose come, dalla salsedine, quelle sommerse nel mare; nulla nasce nel mare di cui valga la pena parlare, nulla che sia, per così dire, perfetto, ma dirupi e sabbie e distese di fango e pantani ovunque, anche dove c'è terra, insomma, cose che non si possono per nulla paragonare alle bellezze che abbiamo noi; quelle di lassù, poi, sono di gran lunga superiori alle nostre. E sarà bello come ascoltare una favola, Simmia, sentir parlare di queste terre vicine al cielo.»

«Oh, sì, Socrate,» esclamò Simmia, «e noi ascolteremo volentieri questa favola.»

 

LIX

 

 

«Ecco, amico mio, quel che si dice, che per prima cosa questa vera terra, a chi la guardi dall'alto, appare come una di quelle variopinte sfere di cuoio, divise in dodici spicchi, dai colori diversi, simili questi, appena, a quelli che di solito usano quaggiù i pittori. E quella terra lassù, tutta di questi colori è dipinta, ma molto più luminosi e più puri dei nostri: ora, infatti, è purpurea, di una meravigliosa bellezza, ora è color dell'oro o tutta bianca, più bianca del gesso e della neve, e gli altri colori, poi, di cui è composta, assai più numerosi e più belli di quanti noi mai ne abbiamo visti. E le stesse cavità della terra, colme corsie son d'acqua e d'aria, assumono una colorazione particolare nella gamma variopinta degli altri colori, così che la terra appare in una sua tonalità cangiante e uniforme insieme. E, in modo analogo, crescono i prodotti che le si addicono, alberi, fiori, frutti; e le montagne, poi e le pietre, nella stessa proporzione, sono come di smalto, trasparenti, dai vividi colori, di una bellezza estrema; le nostre pietruzze di quaggiù, quelle che teniamo in gran conto, sardonici, diaspri e simili, ne sono i frammenti. Lassù, insomma, non v'è nulla che non sia come queste nostre gemme, anzi tutto è ancora più bello. E la ragione è che lì le pietre sono pure, non corrose, né guaste, come le nostre, dalla putredine e dalla salsedine che son prodotte da tutto ciò che quaggiù confluisce e che apportano deformazioni e malattie alle rocce, alla terra, agli animali e così pure alle piante. E quella terra non è soltanto ornata di tutte queste bellezze ma anche d'oro e d'argento e d'altri metalli del genere. Essi si trovano alla superficie, in gran quantità, dovunque, ed è una visione meravigliosa concessa a spettatori beati. E vi sono anche molti animali diversi da quelli di qui e uomini, poi, che abitano all'interno, altri sulle rive dell'aria, come noi, qui, su quelle del mare e altri ancora in isole avvolte d'aria, non lungi dal continente. In una parola, quello che per noi, per i nostri bisogni, è l'acqua e il mare, per loro è, l'aria e ciò che è l'aria per noi, per loro è l'etere. E le stagioni son così temperate che quella gente non conosce malattie e vive una vita assai più lunga della nostra. Ed è così superiore a noi per la vista, per l'udito, per l'intelligenza, per ogni altra facoltà, come l'aria lo è per purezza rispetto all'acqua e l'etere all'aria. Lì vi sono anche boschi sacri e templi, dove realmente abitano gli dei e si avverano oracoli e profezie, per cui, veramente, quegli uomini hanno contatti visibili e rapporti concreti con le divinità. E il sole, la luna e le stelle essi li vedono come sono in realtà e v'è ogni altra beatitudine che s'accompagna a queste cose.

 

LX

 

 

«Così appare, dunque, la terra nel suo insieme e negli aspetti particolari della sua superficie. Nelle zone interne e disposte tutt'intorno, in corrispondenza delle cavità terrestri, vi sono molte regioni, alcune più profonde e più vaste di quella che abitiamo noi, altre ancora di profondità minore ma più estese. Tutte queste regioni sono, in molti luoghi, comunicanti tra loro attraverso gallerie più o meno larghe. Vi sono cunicoli profondi per dove molta acqua passa da una regione all'altra come in grandi bacini e fiumi perenni, sotterranei, di enorme grandezza, che portano acque calde e fredde; e molto fuoco, fiumi di fuoco e, molti, anche di fango, ora più liquido, ora più denso, come in Sicilia quelli che scorrono davanti alla lava, simili alla lava stessa. E tutti sboccano, questi fiumi, in quelle regioni e le colmano dove, di volta in volta, la corrente li riversa; e la causa di questo, di tutti questi fiumi che vanno su e giù, è data da un movimento pendolare sotterraneo dovuto al fatto che fra le tante voragini della terra, ce n'è una, la più vasta, che la perfora da parte a parte, quella di cui parla Omero53 quando dice:

‹molto lontano, dove sotterra c'è un baratro immenso› quella, insomma, che non solo lui, in altri passi, ma anche altri poeti, chiamano Tartaro. In questo baratro confluiscono tutti i fiumi per poi, nuovamente, defluire e ciascuno di essi assume un proprio aspetto a seconda la natura del terreno che attraversa. Il motivo per cui tutte queste acque correnti piombano in questo baratro e né tornano a sgorgare è che questa gran massa d'acqua non ha né un fondo né una base ma resta come sospesa e ondeggia, quindi, su e giù.

Lo stesso è per l'aria e il vapore che la circonda: esso segue, infatti, il corso delle acque, sia quando precipitano verso la parte opposta della terra che quando ritornano in su verso la nostra: un po' come quando noi respiriamo, che provochiamo un continuo flusso e deflusso d'aria, così anche laggiù, il vapore, seguendo il moto delle acque, dà origine, quando entra e quando esce, a terribili venti vorticosi. Orbene, quando l'acqua si ritira verso l'emisfero comunemente detto meridionale, affluisce, attraverso la terra, nei ghiareti di laggiù e li riempie come se fossero canali d'irrigazione; quando, invece, defluisce da lì e irrompe nel nostro emisfero, allora, colma i greti che son qui e, gonfia, scorre nei canali attraverso la terra giungendo fin dove riesce a scavarsi una strada e forma mari, laghi, fiumi e sorgenti. Da qui, nuovamente, tutte quelle acque si inabissano nella terra e, dopo aver percorso giri ora più brevi ora più lunghi e numerosi, si riversano ancora nel Tartaro; alcune molto più in giù del punto da cui erano sgorgate, altre meno, ma sempre tutte si gettano in un punto più basso di quello da cui, prima, scaturirono. Talvolta irrompono dalla parte opposta, altre volte dalla medesima. Ve ne sono, poi, alcune che, dopo aver circondato la terra con uno o più giri, a spirale, come serpenti penetrano così in profondità da sfociare, poi, nel punto più basso del Tartaro. È possibile, ora, per queste acque, da una parte e dall'altra dei due emisferi, scendere verso il centro ma non andar oltre perché, dal centro, le correnti, se volessero proseguire verso la parte opposta, troverebbero una salita.

 

LXI

 

 

«In conclusione ve ne sono tanti di fiumi d'ogni specie e molto grandi e tra questi, soprattutto quattro, di cui il più grande e quello che scorre più esternamente, e quindi più lontano dal centro, vien chiamato Oceano. Dalla parte opposta, e con un corso contrario, c'è l'Acheronte che attraversa regioni desertiche e poi prosegue sotto terra per giungere alla palude acherusiade dove si raccolgono le infinite anime dei morti che dopo quel certo tempo a loro destinato, più o meno lungo, vengono restituite alla luce per incarnarsi in esseri viventi. Il terzo fiume sgorga tra questi due e, dopo un breve percorso, si riversa in una grande pianura arsa tutta da un fuoco violento e forma una palude più grande del nostro mare, tutta ribollente d'acqua e di fango; da qui scorre circolarmente, torbido e fangoso e, sempre sotto terra, volge a spirale il suo corso e giunge, dopo aver attraversato diverse zone, alle estreme rive della palude acherusiade ma senza mescolarsi alle sue acque; e dopo molti altri giri sotterranei, si getta in un punto del Tartaro che è più in basso. Questo è il fiume che chiamano Periflegetonte e che riversa sulla terra torrenti di lava dovunque trovi uno sbocco. Di fronte gli scaturisce il quarto fiume che dilaga, a quanto si dice, in una regione spaventosa e selvaggia, dal colore blu cupo, che chiamano Stigia e Stige la palude che esso forma con le sue acque. Qui riversandosi, da quelle acque acquista terribile violenza, poi s'inabissa e scorre a spirale, in senso contrario al Periflegetonte, fino a toccare, dalla parte opposta, le sponde della palude acherusiade; ma nemmeno que-sto fiume vi mescola le sue correnti e, dopo aver compiuto un largo giro, si getta nel Tartaro dalla parte opposta al Periflegetonte. Il suo nome, così almeno lo chiamano i poeti, è Cocito.

 

LXII

 

 

«Questa è, dunque, la disposizione dei fiumi e quando i morti giungono, ciascuno, in quel luogo dove il demone li ha guidati, prima di tutto vengono giudicati e distinti secondo che vissero o meno onestamente e santamente. Quelli che nella vita tennero, invece, una condotta mediocre, giunti all'Acheronte, salgono su delle barche già pronte per loro e arrivano alla palude acherusiade e lì si fermano per purificarsi e scontare le loro pene e liberarsi delle colpe se mai ne hanno commesse, dove però ricevono anche il premio delle buone azioni compiute, ciascuno secondo il suo merito. Ma quelli che sono stati riconosciuti peccatori senza rimedio, per la gravità dei loro delitti, per numerosi sacrilegi , per ingiuste e crudeli uccisioni o altri misfatti del genere, un giusto destino li precipita nel Tartaro, da dove non escono mai più. Quelli poi i cui peccati, sebbene gravi, son giudicati espiabili, per esempio chi nell'impeto dell'ira è stato violento contro il padre e la madre, ma poi ha trascorso in pentimento il resto della sua vita o chi ha commesso qualche omicidio sotto lo stesso impulso, costoro precipitano anch'essi nel Tartaro ma vi restano soltanto un anno, perché l'onda li ricaccia fuori, gli omicidi, nella corrente del Cocito, i violenti contro il padre e la madre, in quella del Periflegetonte; così sospinti, giungono alla palude acherusiade e qui chiamano con alte grida e invocano coloro che uccisero e che oltraggiarono, pregandoli di lasciarli passare nella palude e di accoglierli con loro; se riescono a persuaderli, passano al di là e le loro pene finiscono, altrimenti sono risospinti nuovamente nel Tartaro e ancora nei fiumi a patire il loro destino fino a quando non siano riusciti a piegare quelli che hanno offeso: è questa, infatti, la pena che per costoro han voluto i giudici. Quelli, invece, che si son distinti per santità di vita, e che son poi coloro che si son liberati da questa terra e se ne sono allontanati come da un carcere, giungono in alto, in una pura dimora e abitano la vera terra. E specialmente quelli che si son purificati attraverso la filosofia, vivono sciolti da ogni legame corporeo, per l'eternità, anzi giungono in sedi ancor più belle di queste che non è facile descrivere e del resto ne mancherebbe, ora, anche il tempo.

«Quindi, Simmia, dopo questo che ti ho detto, bisogna far di tutto per acquistare nella vita virtù e sapienza: perché il premio è bello e la speranza è grande.

 

LXIII

 

 

«Certamente, affannarsi a dimostrare che le cose stanno proprio così come io le ho esposte, non mi pare troppo assennato; ma che sia questa la sorte delle nostre anime, questa la loro dimora o presso a poco, dal momento che s'è indiscutibilmente dimostrato la loro immortalità, mi sembra che valga proprio il rischio di crederlo. Bello, infatti, è questo rischio e, in simili argomenti v'è, per così dire, come un incantesimo che bisogna fare a se stessi, ecco perché, da un pezzo mi sto indugiando nel mio racconto. Ma ecco anche perché deve aver fede nella sorte della sua anima chi nella vita ha allontanato i piaceri del corpo e i suoi vezzi, considerandoli del tutto estranei, anzi più dannosi che altro; chi ha goduto, invece, dei piaceri che dà la sapienza, chi ha abbellito la sua anima non di ornamenti esteriori ma di quelli che le si addicono, temperanza, giustizia, fortezza, libertà, verità, costui sì che attende il momento di mettersi in viaggio verso l'Ade, quando lo chiami il destino.»

E così concluse: «Anche voi, Simmia e Cebete e tutti gli altri, ve ne partirete, uno alla volta, quando verrà la vostra ora; quanto a me, invece, il destino già mi chiama, direbbe qui un eroe tragico, e quindi, quasi quasi è il momento che io faccia un bagno: è più giusto, infatti, che mi lavi da me, prima di bere il veleno e non dar così il fastidio alle donne di dover lavare un cadavere.»

 

LXIV

 

 

Ebbe appena finito che Critone gli chiese: «Hai da darci qualche disposizione, Socrate, sui tuoi ragazzi o cosa possiamo fare per te, che ti sia maggiormente gradita?»

«Non ho nulla di nuovo da dirvi,» rispose, «se non quello che vi ho sempre detto: abbiate cura di voi stessi e così farete cosa gradita a me e a voi, anche se ora non mi dovete promettere nulla; se, invece, vi lascerete andare, se non sarete disposti a seguire, per così dire, le tracce di quanto s'è detto, non solo ora ma anche per il passato, se pure adesso venite a farmi molte e solenni promesse, non concluderete un bel niente.»

«Ce la metteremo tutta a far come tu dici,» assicurò. «Ma per i tuoi funerali, che dobbiam fare?»

«Ma fate come volete, sempre che riusciate ad afferrarmi e che io non vi sfugga.»

Sorrise serenamente e volgendo gli occhi verso di noi, soggiunse: «Non mi riesce, amici, di persuadere Critone che il vero Socrate sono proprio io, questo che, ora, vi sta parlando, che sta mettendo in buon ordine, per benino, i suoi pensieri; invece, egli crede che io sia già un altro, quello che tra poco vedrà cadavere e perciò mi chiede cosa fare per i miei funerali. E tutto il lungo discorso che vi ho fatto, che cioè, dopo che ho bevuto il veleno, io non me ne starò più con voi ma me ne andrò, via di qui, verso la felicità dei beati, mi pare proprio che per lui sia stato inutile, fatto solo per consolare voi e, a un tempo, un po' anche me stesso. Fatevi voi, ora, garanti di me verso Critone, ma del contrario di ciò che in mio nome egli garantì ai giudici, che cioè non sarei fuggito; voi, invece, assicurategli che io non rimarrò qui dopo morto ma che me ne partirò, così che Critone potrà sopportare più facilmente la cosa e non dolersi troppo per me vedendo bruciare o seppellire il mio corpo, come se stessi soffrendo chissà quali atroci tormenti e non dire, magari, durante i funerali che è il suo Socrate che egli espone, che sta portando via e che va a seppellire.

«Devi, infatti, sapere, mio caro Critone, che parlare in modo scorretto, non solo è brutto di per sé ma danneggia anche le anime. Suvvia, non avere, di queste preoccupazioni, quindi e di', piuttosto, che è solo il mio corpo che seppellisci e perciò fa come credi, come meglio vuole l'usanza.»

 

LXV

 

 

Detto questo si alzò e andò in un'altra stanza per lavarsi e Critone che gli andò dietro ci disse di aspettare. Così noi rimanemmo e ci mettemmo a discutere e a ripensare su quel che s'era detto e, inoltre, sulla grande disgrazia che c'era capitata, sentendoci, veramente, come se avessimo perduto un padre e dovuto trascorrere, ormai, da orfani, tutta la vita.

Quand'ebbe finito il bagno, gli condussero i figliuoletti (ne aveva due ancora piccoli e uno più grandicello) e vennero anche le donne di casa; egli si intrattenne un po' con loro, alla presenza di Critone, fece qualche raccomandazione, poi le pregò di allontanarsi con i bambini e tornò da noi. Era stato parecchio di là e, perciò, il sole stava ormai tramontando. Tornò, dunque, dopo il bagno e si venne a sedere, ma da quel momento scambiò soltanto qualche parola. Poi entrò il funzionario degli Undici che gli andò vicino e gli disse: «Socrate, con te, non mi toccherà quello che spesso mi capita con gli altri, che se la prendono con me e mi maledicono, quando porto loro il veleno per ordine dei magistrati. In tutti questi giorni, invece, io ho capito che tu sei l'uomo più nobile, più mite, più buono di quanti sono entrati finora qua dentro; io so benissimo, ora, che tu non ce l'hai con me ma con i responsabili e tu li conosci bene. E, ora, addio, perché sai quel che son venuto ad annunziarti e cerca di sopportare come meglio puoi la tua sorte.»

Non finì di parlare che gli venne da piangere, si voltò dall'altra parte e se ne andò.

Socrate lo seguì con lo sguardo: «Addio anche a te,» disse. «faremo come tu dici.» E rivolto a noi, «che brav'uomo che è; in tutti questi giorni è venuto a trovarmi e, spesso, s'è messo anche a parlare con me, proprio una degna persona e ora, che caro, con quel suo pianto. Ma via, Critone, obbediamogli, che portino il veleno, se è già stato preparato; altrimenti che facciano presto.»

E Critone: «Ma Socrate, se non mi sbaglio, il sole non è mica tramontato, è ancora sui monti, e io so di gente che ha aspettato un bel pezzo prima di bere il veleno, anzi dopo aver mangiato e bevuto e, alcuni, magari, dopo esser rimasti con chi volevano. Quindi, non aver fretta, c'è ancora tempo.»

E Socrate: «Ma è naturale, Critone, che questi tali di cui parli, facciano così, perché credono di guadagnarci qualcosa. Ma è anche naturale che io mi comporti diversamente perché so che non ci guadagno nulla a bere un po' più tardi se non di rendermi ridicolo a me stesso mostrandorni cosi attaccato alla vita, cercando di risparmiarla, proprio quando non resta più nulla. Va, dunque,» concluse, «e fa come ti dico.»

 

LXVI

 

 

E Critone, allora, fece cenno a un suo servo che se ne stava in disparte. Questi uscì e dopo un po' tornò con l'uomo che, in una ciotola, portava già tritato il veleno che doveva somministrargli.

«Tu, brav'uomo, che sei pratico di queste cose,» disse Socrate vedendolo, «cos'è, allora, che bisogna fare?»

«Nient'altro che bere e poi passeggiare un po' per la stanza finché non ti senti le gambe pesanti; poi ti metti disteso e così farà il suo effetto.»

Così dicendo porse la ciotola a Socrate. La prese, Echecrate, con tutta la sua serenità, senza alcun tremito, senza minimamente alterare colore o espressione del volto, ma guardando quell'uomo, di sotto in sù, con quei suoi occhi grandi di toro. «Che ne dici di questa bevanda, se ne può fare o no libagione a qualcuno? È permesso?»

«Socrate, noi ne tritiamo giusta la quantità che serve.»

«Capisco, ma pregare gli dei che il trapasso da qui all'al di là, avvenga felicemente, questo mi pare sia lecito; questo io voglio fare e così sia.»

Così dicendo, tutto d'un fiato, vuotò tranquillamente la ciotola.

Molti di noi che fino allora, alla meglio, erano riusciti a trattenere le lacrime, quando lo videro bere, quando videro che egli aveva bevuto, non ce la fecero più; anche a me le lacrime, malgrado mi sforzassi, sgorgarono copiose e nascosi il volto nel mantello e piansi me stesso, oh, piansi non per lui ma per me, per la mia sventura, di tanto amico sarei rimasto privo. Critone, poi, ancora prima di me, non riusciva a dominarsi e s'era alzato per uscire. Apollodoro, poi, che fin dal principio non aveva fatto che piangere, scoppiò in tali singhiozzi e in tali lamenti che tutti noi presenti ci sentimmo spezzare il cuore, tranne uno solo, Socrate, anzi: «Ma che state facendo?» esclamò. «Siete straordinari. E io che ho mandato via le donne perché non mi facessero scene simili; a quanto ho sentito dire, bisognerebbe morire tra parole di buon augurio. State calmi, via, e siate forti.»

E noi, provammo un senso di vergogna a sentirlo parlare così e trattenemmo il pianto. Egli, allora, andò un po' su e giù per la stanza, poi disse che si sentiva le gambe farsi pesanti e cosi si stese supino come gli aveva detto l'uomo del veleno il quale, intanto, toccandolo dì quando in quando, gli esaminava le gambe e i piedi'e a un tratto, premette forte un piede chiedendogli se gli facesse male. Rispose di no. Dopo un po' gli toccò le gambe, giù in basso e poi, risalendo man mano, sempre più in su, facendoci vedere come si raffreddasse e si andasse irrigidendo. Poi, continuando a toccarlo: «Quando gli giungerà al cuore,» disse, «allora, sarà finita.»

Egli era già freddo, fino all'addome, quando si sco-. prì (s'era, infatti, coperto) e queste furono le sue ultime parole: «Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio, dateglielo, non ve ne dimenticate.»

«Certo,» assicurò Critone, «ma vedi se hai qualche altra cosa da dire.»

Ma lui non rispose. Dopo un po' ebbe un sussulto. L'uomo lo scoprì: aveva gli occhi fissi.

Vedendolo, Critone gli chiuse le labbra e gli occhi.

Questa, Echecrate, la fine del nostro amico, un uomo che fu il migliore, possiamo ben dirlo, fra quanti, del suo tempo, abbiamo conosciuto e, senza paragone, il più saggio e il più giusto.

 



[1] Essenza dee esser presa nel sentimento di enti immutevoli, o idee; generazione poi, nel sentimento di tutto ciò che diviene, di tutto ciò che apparisce e sparisce.

[2] Cioè, quella dell'altro, e quella del medesimo; quella dov'è piú variabilità, e quella dov'è piú invariabilità.

[3] Il verbo interiore dell'anima.

[4] Cioè di tutto quello che il moto del divenimento presta alle cose sensibili: cioè di tutto quello che le cose sensibili possono essere, perciò che divengono e mai non sono.

[5] Siccome soggetti al moto diurno, e a quello obbliquo dell'eclittica, i quali moti sono contrarii fra loro.

[6] Quel ch'è medesimo a cosa, appellando altro, contro il vero; e quel ch'è altro da cosa, medesimo.

[7] Questo lume di dentro, e il lume il quale è raggiato dalla cosa di fuori.

[8] Imperocché la prima parola significa ente invariabile, e la seconda significa parvenza che muta.

[9] Come se fosse cosa da sé e per sé, cioè come fosse idea o specie.

[10] Per esempio Cotale triangolo è, e non già Questo triangolo è: perocché cosí tu non lo mostri com'ente; ma sibbene come fantasma fuggevole, che rende imperfettamente l'idea sua.

[11] Cioè insino a che l'idea è una essenzialmente, e lo spazio è molti, l'idea non può sussistere nello spazio; se no, ella sarebbe uno e molti.

[12] Cioè, trasformandola.

[13] Dilatandola, senza che la trasformi.

[14] Bene è a Necessità, come fine è a forza.

[15] All'anima o al principio concupiscibile.

[16] Non avendo conseguito suo fine.

[17] Cioè le dette cose son da chiarire per mezzo del principio che chiarisce la respirazione: il qual è, che non ci è vacuo, e che i singolari corpi tratti al luogo dei cognati loro, si cacciano in giro.

[18] Per effetto dell'affiammamento.

[19] Cioè al capo ch'è luogo del principio razionale e rende immagine dell'universo per la sua figura.