HOME     PRIVILEGIA NE IRROGANTO    di Mauro Novelli             

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OMERO

 

ODISSEA

 

Trad. di Ippolito Pindemonte

 

 

 

 

 

            LIBRO PRIMO

             

             

              Musa, quell'uom di multiforme ingegno

            Dimmi, che molto errò, poich'ebbe a terra

            Gittate d'Ilïòn le sacre torri;

            Che città vide molte, e delle genti

            L'indol conobbe; che sovr'esso il mare

            Molti dentro del cor sofferse affanni,

            Mentre a guardar la cara vita intende,

            E i suoi compagni a ricondur: ma indarno

            Ricondur desïava i suoi compagni,

            Ché delle colpe lor tutti periro.

            Stolti! che osaro vïolare i sacri

            Al Sole Iperïon candidi buoi

            Con empio dente, ed irritâro il nume,

            Che del ritorno il dì lor non addusse.

            Deh! parte almen di sì ammirande cose

            Narra anco a noi, di Giove figlia e diva.

              Già tutti i Greci, che la nera Parca

            Rapiti non avea, ne' loro alberghi

            Fuor dell'arme sedeano e fuor dell'onde;

            Sol dal suo regno e dalla casta donna

            Rimanea lungi Ulisse: il ritenea

            Nel cavo sen di solitarie grotte

            La bella venerabile Calipso,

            Che unirsi a lui di maritali nodi

            Bramava pur, ninfa quantunque e diva.

            E poiché giunse al fin, volvendo gli anni,

            La destinata dagli dèi stagione

            Del suo ritorno, in Itaca, novelle

            Tra i fidi amici ancor pene durava.

            Tutti pietà ne risentìan gli eterni,

            Salvo Nettuno, in cui l'antico sdegno

            Prima non si stancò, che alla sua terra

            Venuto fosse il pellegrino illustre.

            Ma del mondo ai confini e alla remota

            Gente degli Etïòpi (in duo divisa,

            Ver cui quinci il sorgente ed il cadente

            Sole gli obbliqui rai quindi saetta)

            Nettun condotto a un ecatombe s'era

            Di pingui tori e di montoni; ed ivi

            Rallegrava i pensieri, a mensa assiso.

            In questo mezzo gli altri dèi raccolti

            Nella gran reggia dell'olimpio Giove

            Stavansi. E primo a favellar tra loro

            Fu degli uomini il padre e de' celesti,

            Che il bello Egisto rimembrava, a cui

            Tolto avea di sua man la vita Oreste,

            L'inclito figlio del più vecchio Atride.

              “Poh!” disse Giove, “incolperà l'uom dunque

            Sempre gli dèi? Quando a se stesso i mali

            Fabbrica, de' suoi mali a noi dà carco,

            E la stoltezza sua chiama destino.

            Così, non tratto dal destino, Egisto

            Disposó d'Agamennone la donna,

            E lui, da Troia ritornato, spense;

            Benché conscio dell'ultima ruina

            Che l'Argicida esplorator Mercurio,

            Da noi mandato, prediceagli: “Astienti

            Dal sangue dell'Atride, ed il suo letto

            Guàrdati di salir; ché alta vendetta

            Ne farà Oreste, come il volto adorni

            Della prima lanuggine e lo sguardo

            Verso il retaggio de' suoi padri volga”.

            Ma questi di Mercurio utili avvisi

            Colui nell'alma non accolse: quindi

            Pagò il fio d'ogni colpa in un sol punto”.

              “Di Saturno figliuol, padre de' numi,

            Re de' regnanti”, così a lui rispose

            L'occhiazzurra Minerva: “egli era dritto

            Che colui non vivesse: in simil foggia

            Pera chïunque in simil foggia vive!

            Ma io di doglia per l'egregio Ulisse

            Mi struggo, lasso! che, da' suoi lontano,

            Giorni conduce di rammarco in quella

            Isola, che del mar giace nel cuore,

            E di selve nereggia;:isola, dove

            Soggiorna entro alle sue celle secrete

            L'immortal figlia di quel saggio Atlante,

            Che del mar tutto i più riposti fondi

            Conosce e regge le colonne immense

            Che la volta sopportano del cielo.

            Pensoso, inconsolabile, l'accorta ninfa il ritiene e con soavi e molli

            Parolette carezzalo, se mai

            Potesse Itaca sua trargli dal petto:

            Ma ei non brama che veder dai tetti

            Sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,

            E poi chiuder per sempre al giorno i lumi.

            Né commuovere, Olimpio, il cuor ti senti?

            Grati d'Ulisse i sagrifici, al greco

            Navile appresso, ne' troiani campi,

            Non t'eran forse? Onde rancor sì fiero,

            Giove, contra lui dunque in te s'alletta?”

             “Figlia, qual ti lasciasti uscir parola

            Dalla chiostra de' denti?” allor riprese

            L'eterno delle nubi addensatore:

            “Io l'uom preclaro disgradir, che in senno

            Vince tutti i mortali, e gl'Immortali

            Sempre onorò di sacrifici opìmi?

            Nettuno, il nume che la terra cinge,

            D'infurïar non resta pel divino

            Suo Polifemo, a cui lo scaltro Ulisse

            Dell'unic'occhio vedovò la fronte,

            Benché possente più d'ogni Ciclope:

            Pel divin Polifemo, che Toòsa

            Partorì al nume, che pria lei soletta

            Di Forco, re degl'infecondi mari,

            Nelle cave trovò paterne grotte.

            Lo scuotitor della terrena mole

            Dalla patria il disvia da quell'istante,

            E, lasciandolo in vita, a errar su i neri

            Flutti lo sforza. Or via, pensiam del modo

            Che l'infelice rieda; e che Nettuno

            L'ire deponga. Pugnerà con tutti

            Gli eterni ei solo? Il tenterebbe indarno.”

              “Di Saturno figliuol, padre de' numi,

            De' regi re,” replicò a lui la diva

            Cui tinge gli occhi un'azzurrina luce,

            “Se il ritorno d'Ulisse a tutti aggrada,

            Ché non s'invìa nell'isola d'Ogige

            L'ambasciator Mercurio, il qual veloce

            Rechi alla ninfa dalle belle trecce,

            Com'è fermo voler de' sempiterni

            Che Ulisse alfine il natìo suol rivegga?

            Scesa in Itaca intanto, animo e forza

            Nel figlio io spirerò, perch'ei, chiamati

            Gli Achei criniti a parlamento, imbrigli

            Que' proci baldi, che nel suo palagio

            L'intero gregge sgòzzangli, e l'armento

            Dai piedi torti e dalle torte corna.

            Ciò fatto, a Pilo io manderollo e a Sparta,

            Acciocché sappia del suo caro padre,

            Se udirne gli avvenisse in qualche parte,

            Ed anch'ei fama, vïaggiando, acquisti.”

              Detto così, sotto l'eterne piante

            Si strinse i bei talar d'oro, immortali,

            Che lei sul mar, lei su l'immensa terra

            Col soffio trasportavano del vento.

            Poi la grande afferrò lancia pesante,

            Forte, massiccia, di appuntato rame

            Guernita in cima, onde le intere doma

            Falangi degli eroi, con cui si sdegna,

            E a cui sentir fa di qual padre è nata.

            Dagli alti gioghi del beato Olimpo

            Rapidamente in Itaca discese.

            Si fermò all'atrio del palagio in faccia,

            Del cortil su la soglia, e le sembianze

            Vesti di Mente, il condottier de' Tafî.

            La forbita in sua man lancia sfavilla.

              Nel regale atrio, e su le fresche pelli

            Degli uccisi da lor pingui giovenchi

            Sedeano, e trastullavansi tra loro

            Con gli schierati combattenti bossi

            Della Regina i mal vissuti drudi.

            Trascorrean qua e là serventi e araldi

            Frattanto: altri mescean nelle capaci

            Urne l'umor dell'uva e il fresco fonte.

            Altri le mense con forata e ingorda

            Spugna tergeano, e le metteano innanzi,

            E le molte partìan fumanti carni.

            Simile a un dio nella beltà, ma lieto

            Non già dentro del sen, sedea tra i proci

            Telemaco: mirava entro il suo spirto

            L'inclito genitor, qual s'ei, d'alcuna

            Parte spuntando, a sbaragliar si desse

            Per l'ampia sala gli abborriti prenci,

            E l'onor prisco a ricovrar e il regno.

            Fra cotali pensier Pallade scorse,

            Né soffrendogli il cor che lo straniero

            A cielo aperto lungamente stesse,

            Dritto uscì fuor, s'accostò ad essa, prese

            Con una man la sua, con l'altra l'asta,

            E queste le drizzò parole alate:

            “Forestier, salve. Accoglimento amico

            Tu avrai, sporrai le brame tue: ma prima

            Vieni i tuoi spirti a rinfrancar col cibo”.

              Ciò detto, innanzi andava, ed il seguìa

            Minerva. Entrati nell'eccelso albergo,

            Telemaco portò l'asta, e appoggiolla

            A sublime colonna, ove, in astiera,

            Nitida, molte dell'invitto Ulisse

            Dormiano arme simìli. Indi a posarsi

            Su nobil seggio con sgabello ai piedi

            La dea menò, stesovi sopra un vago

            Tappeto ad arte intesto; e un varïato

            Scanno vicin di lei pose a se stesso.

            Così, scevri ambo dagli arditi proci,

            Quell'impronto frastuon l'ospite a mensa

            Non disagiava, e dell'assente padre

            Telemaco potea cercarlo a un tempo.

            Ma scorta ancella da bel vaso d'oro

            Purissim'onda nel bacil d'argento

            Versava, e stendea loro un liscio desco,

            Su cui la saggia dispensiera i pani

            Venne a impor candidissimi, e di pronte

            Dapi serbate generosa copia;

            E carni d'ogni sorta in larghi piatti

            Recò l'abile scalco, ed auree tazze,

            Che, del succo de' grappoli ricolme,

            Lor presentava il banditor solerte.

              Entraro i proci, ed i sedili e i troni

            Per ordine occuparo: acqua gli araldi

            Diero alle mani, e di recente pane

            I ritondi canestri empièr le ancelle.

            Ma in quel che i proci all'imbandito pasto

            Stendean la man superba, incoronaro

            Di vermiglio licor l'urne i donzelli.

            Tosto che in lor del pasteggiar fu pago,

            Pago del bere il natural talento,

            Volgeano ad altro il core: al canto e al ballo

            Che gli ornamenti son d'ogni convito.

            Ed un'argentea cetera l'araldo

            Porse al buon Femio, che per forza il canto

            Tra gli amanti sciogliea. Mentr'ei le corde

            Ne ricercava con maestre dita,

            Telemaco, piegando in vêr la dea,

            Sì che altri udirlo non potesse, il capo,

            Le parlava in tal guisa: “Ospite caro,

            Ti sdegnerai se l'alma io t'apro? In mente

            Non han costor che suoni e canti. Il credo:!

            Siedono impune agli altrui deschi, ai deschi

            Di tal, le cui bianche ossa in qualche terra

            Giacciono a imputridir sotto la pioggia,

            O le volve nel mare il negro flutto.

            Ma s'egli mai lor s'affacciasse un giorno,

            Ben più che in dosso i ricchi panni e l'oro,

            Aver l'ali vorrebbero alle piante.

            Vani desìri! Una funesta morte

            Certo ei trovò, speme non resta, e invano

            Favellariami alcun del suo ritorno;

            Del suo ritorno il dì più non s'accende.

            Su via, ciò dimmi, e non m'asconder nulla:

            Chi? di che loco? e di che sangue sei?

            Con quai nocchier venìstu, e per qual modo

            E su qual nave, in Itaca? Pedone

            Giunto, per alcun patto io non ti credo.

            Di questo tu mi contenta: nuovo

            Giungi, o al mio genitor t'unisce il nodo

            Dell'ospitalità? Molti stranieri

            A' suoi tetti accostavansi; ché Ulisse

            Voltava in sé d'ogni mortale il core”.

              “Tutto da me”, gli rispondea la diva

            Che cerùleo splendor porta negli occhi,

            T'udrai narrare. Io Mente esser mi vanto,

            Figliuol d'Anchìalo bellicoso, e ai vaghi

            Del trascorrere il mar Tafî comando.

            Con nave io giunsi e remiganti miei,

            Fendendo le salate onde, vêr gente

            D'altro linguaggio, e a Temesa recando

            Ferro brunito per temprato rame,

            Ch'io ne trarrò. Dalla città lontano

            Fermossi e sotto il Neo frondichiomoso,

            Nella baia di Retro il mio naviglio.

            Sì, d'ospitalità vincol m'unisce

            Col padre tuo. Chieder ne puoi l'antico,

            Ristringendoti seco, eroe Laerte,

            Che a città, com'è fama, or più non viene;

            Ma vita vive solitaria e trista

            Ne' campi suoi, con vecchierella fante,

            Che, quandunque tornar dalla feconda

            Vigna, per dove si trae a stento, il vede,

            Di cibo il riconforta e di bevanda.

            Me qua condusse una bugiarda voce,

            Fosse il tuo padre di Itaca, da cui

            Stornanlo i numi ancor; ché tra gli estinti

            L'illustre pellegrin, no, non comparve,

            Ma vivo, e a forza in barbara contrada,

            Cui cerchia un vasto mar, gente crudele

            Rattienlo: lo rattien gente crudele

            Vivo, ed a forza in barbara contrada.

            Pur, benché il vanto di profeta, o quello

            D'augure insigne io non m'arroghi, ascolta

            Presagio non fallace che su i labbri

            Mettono a me gli eterni. Ulisse troppo

            Non rimarrà della sua patria in bando,

            Lo stringessero ancor ferrei legami.

            Da quai legami uom di cotanti ingegni

            Disvilupparsi non sapria? Ma schietto

            Parla: sei tu vera sua prole? Certo

            Nel capo e ne' leggiadri occhi ad Ulisse

            Molto arïeggi tu. Pria che per Troia,

            Che tutto a sé chiamò di Grecia il fiore,

            Sciogliesse anch'ei su le cavate navi,

            Io, come oggi appo il tuo, così sedea

            Spesse volte al suo fianco, ed egli al mio.

            D'allora io non più lui, né me vid'egli”.

              E il prudente Telemaco: “Sincero

            Risponderò. Me di lui nato afferma

            La madre veneranda. E chi fu mai

            Che per se stesso conoscesse il padre?

            Oh foss'io figlio d'un che una tranquilla

            Vecchiezza côlto ne' suoi tetti avesse!

            Ma, poiché tu mel chiedi, al più infelice

            Degli uomini la vita, ospite, io deggio”.

              “Se ad Ulisse Penelope”, riprese

            Pallade allor dalle cilestre luci,

            “Ti generò, vollero i dèi che gisse

            Chiaro il tuo nome ai secoli più tardi.

            Garzon, dal ver non ti partir: che festa,

            Che turba è qui? Qual ti sovrasta cura?

            Convito? Nozze? Genial non parmi

            A carco di ciascun mensa imbandita.

            Parmi banchetto sì oltraggioso e turpe,

            Che mirarlo, e non irne in foco d'ira,

            Mal può chïunque un'alma in petto chiuda”.

            Ed il giovane a lui: “Quando tu brami

            Saper cotanto delle mie vicende,

            Abbi che al mondo non fu mai di questa

            Né ricca più, né più innocente casa,

            Finché quell'uomo il piè dentro vi tenne.

            Ma piacque altro agli dèi, che, divisando

            Sinistri eventi, per le vie più oscure,

            Quel che mi cuoce più, sparir mel fêro.

            Piangerei, sì, ma di dolcezza vôto

            Non fôra il lagrimar, s'ei presso a Troia

            Cadea pugnando, o vincitor chiudea

            Tra i suoi più cari in Itaca le ciglia.

            Alzato avriangli un monumento i Greci,

            Che di gloria immortale al figlio ancora

            Stato sarebbe. Or lui le crude Arpìe

            Ignobilmente per lo ciel rapiro:

            Perì non visto, non udito, e al figlio

            Sol di sturbi e di guai lasciò retaggio.

            Ché lui solo io non piango: altre e non poche

            Mi fabbricaro i numi acerbe cose.

            Quanti ha Dulichio e Samo e la boscosa

            Zacinto, e la pietrosa Itaca prenci,

            Ciascun la destra della madre agogna.

            Ella né rigettar può, né fermare

            Le inamabili nozze. Intanto i proci,

            Da mane a sera banchettando, tutte

            Le sostanze mi struggono e gli averi;

            Né molto andrà che struggeran me stesso”.

              S'intenerì Minerva, e: “Oh quanto”, disse,

            “A te bisogna il genitor, che metta

            La ultrice man su i chieditori audaci!

            Sol ch'ei con elmo e scudo, e con due lance

            Sul limitar del suo palagio appena

            Si presentasse, quale io prima il vidi,

            Che, ritornato d'Efira, alla nostra

            Mensa ospital si giocondava assiso,

            (Ratto ad Efira andò chiedendo ad Ilo,

            Di Mèrmero al figliuol, velen mortale,

            Onde le frecce unger volea, veleno

            Che non dal Mermerìde, in cui de' numi

            Era grande il timor, ma poscia ottenne

            Dal padre mio, che fieramente ammollo)

            Sol ch'ei così si presentasse armato,

            De' proci non sarìa, cui non tornasse

            Breve la vita e il maritaggio amaro.

            Ma venir debba di sì trista gente

            A vendicarsi o no, su le ginocchia

            Sta degli dèi. Ben di sgombrarla quinci,

            Vuolsi l'arte pensare. Alle mie voci

            Porrai tu mente? Come il ciel s'inalbi,

            De' Greci i capi a parlamento invita,

            Ragiona franco ad essi e al popol tutto,

            Chiamando i numi in testimonio, e ai proci

            Nelle lor case rientrare ingiungi.

            La madre, ove desìo di nuove nozze

            Nutra, ripari alla magion d'Icario,

            Che ordinerà le sponsalizie, e ricca

            Dote apparecchierà, quale a diletta

            Figliuola è degno che largisca un padre.

            Tu poi, se non ricusi un saggio avviso

            Ch'io ti porgo, seguir, la meglio nave

            Di venti e forti remator guernisci,

            E, del tuo genitor molt'anni assente

            Novelle a procacciarti, alza le vele.

            Troverai forse chi ten parli chiaro,

            O quella udrai voce fortuita, in cui

            Spesso il cercato ver Giove nasconde.

            Proa vanne a Pilo, e interroga l'antico

            Nestore; Sparta indi t'accolga, e il prode

            Menelao biondo, che dall'arsa Troia

            Tra i loricati Achivi ultimo giunse.

            Vive, ed è Ulisse, in sul ritorno? Un anno,

            Benché dolente, sosterrai. Ma, dove

            Lo sapessi tra l'ombre, in patria riedi,

            E qui gli ergi un sepolcro, e i più solenni

            Rendigli, qual s'addice, onor funébri,

            E alla madre presenta un altro sposo.

            Dopo ciò, studia per qual modo i proci

            Con l'inganno tu spegna, o alla scoperta;

            Ché de' trastulli il tempo e de' balocchi

            Passò, ed uscito di pupillo sei.

            Non odi tu levare Oreste al cielo,

            Dappoi che uccise il fraudolento Egisto,

            Che il genitor famoso aveagli morto?

            Me la mia nave aspetta e i miei compagni,

            Cui forse incresce questo indugio. Amico,

            Di te stesso a te caglia, e i miei sermoni,

            Converti in opre: d'un eroe l'aspetto

            Ti veggio: abbine il core, acciò risuoni

            Forte ne' dì futuri anco il tuo nome”.

              “Voci paterne son, non che benigne”,

            D'Ulisse il figlio ripigliava, ed io

            Guarderolle nel sen tutti i miei giorni.

            Ma tu, per fretta che ti punga, tanto

            Férmati almen, che in tepidetto bagno

            Entri, e conforti la dolce alma, e lieto,

            Con un mio dono in man, torni alla nave:

            Don prezïoso per materia ed arte,

            Che sempre in mente mi ti serbi; dono

            Non indegno d'un ospite che piacque”.

              “No, di partir mi tarda”, a lui rispose

            L'occhicerulea diva. “Il bel presente

            Allor l'accetterò, che, questo mare

            Rinavigando, per ripormi in Tafo,

            T'offrirò un dono anch'io che al tuo non ceda”.

            Così la dea dagli occhi glauchi; e, forza

            Infondendogli e ardire, e a lui nel petto

            La per sé viva del suo padre imago

            Ravvivando più ancora, alto levossi,

            E veloce, com'aquila, disparve.

              Da maraviglia, poiché seco in mente

            Ripeté il tutto, e s'avvisò del nume,

            Telemaco fu preso. Indi, già fatto

            Di se stesso maggior, venne tra i proci.

            Taciti sedean questi, e nell'egregio

            Vate conversi tenean gli occhi; e il vate

            Quel difficil ritorno, che da Troia

            Pallade ai Greci destinò crucciata,

            Della cetra d'argento al suon cantava.

            Nelle superne vedovili stanze

            Penelope, d'Icario la prudente

            Figlia, raccolse il divin canto, e scese

            Per l'alte scale al basso, e non già sola,

            Ché due seguìanla vereconde ancelle.

            Non fu de' proci nel cospetto giunta,

            Che s'arrestò della dedalea sala

            L'ottima delle donne in su la porta,

            Lieve adombrando l'una e l'altra gota

            Co' bei veli del capo, e tra le ancelle

            Al sublime cantor gli accenti volse:

            “Femio”, diss'ella, e lagrimava, “Femio,

            Bocca divina, non hai tu nel petto

            Storie infinite ad ascoltar soavi,

            Di mortali e di numi imprese altere,

            Per cui toccan la cetra i sacri vati?

            Narra di quelle, e taciturni i prenci

            Le colme tazze vôtino; ma cessa

            Canzon molesta che mi spezza il cuore,

            Sempre che tu la prendi in su le corde;

            Il cuor, cui doglia, qual non mai da donna

            Provossi, invase, mentre aspetto indarno

            Cotanti anni un eroe, che tutta empiéo

            Del suo nome la Grecia, e ch'è il pensiero

            De' giorni miei, delle mie notti è il sogno.”

              “O madre mia”, Telemaco rispose,

            “Lascia il dolce cantor, che c'innamora,

            Là gir co' versi, dove l'estro il porta.

            I guai, che canta, non li crea già il vate:

            Giove li manda, ed a cui vuole e quando.

            Perché Femio racconti i tristi casi

            De' Greci, biasmo meritar non parmi;

            Ché, quanto agli uditor giunge più nuova,

            Tanto più loro aggrada ogni canzone.

            Udirlo adunque non ti gravi, e pensa

            Che del ritorno il dì Troia non tolse

            Solo ad Ulisse: d'altri eroi non pochi

            Fu sepolcro comune. Or tu risali

            Nelle tue stanze, ed ai lavori tuoi,

            Spola e conocchia, intendi; e alle fantesche

            Commetti, o madre, travagliar di forza.

            Il favellar tra gli uomini assembrati

            Cura è dell'uomo, e in questi alberghi mia

            Più che d'ogni altro; però ch'io qui reggo”.

              Stupefatta rimase, e, del figliuolo

            Portando in mezzo l'alma il saggio detto,

            Nelle superne vedovili stanze

            Ritornò con le ancelle. Ulisse a nome

            Lassù chiamava, il fren lentando al pianto.

            Finché inviolle l'occhiglauca Palla,

            Sopitor degli affanni, un sonno amico.

              I drudi, accesi, via più ancor che prima,

            Del desìo delle nozze a quella vista,

            Tumulto fean per l'oscurata sala.

            E Telemaco ad essi: “O della madre

            Vagheggiatori indocili e oltraggiosi,

            Diletto dalla mensa or si riceva,

            Né si schiamazzi, mentre canta un vate,

            Che uguale ai numi stessi è nella voce.

            Ma, riapparsa la bell'alba, tutti

            Nel Foro aduneremci, ov'io dirovvi

            Senza paura, che di qua sgombriate;

            Che gavazziate altrove; che l'un l'altro

            Inviti alla sua volta, e il suo divori.

            Che se disfare impunemente un solo

            Vi par meglio, seguite. Io dell'Olimpo

            Gli abitatori invocherò, né senza

            Fiducia, che il Saturnio a colpe tali

            Un giusto guiderdon renda, e che inulto

            Tinga un dì queste mura il vostro sangue”.

              Morser le labbra ed inarcar le ciglia

            A sì franco sermon tutti gli amanti.

            E Antinoo, il figliuol d'Eupìte: “Di fermo

            A ragionar, Telemaco, con sensi

            Sublimi e audaci t'impararo i numi.

            Guai, se il paterno scettro a te porgesse

            Nella cinta dal mare Itaca, Giove!

              “Benché udirlo”, Telemaco riprese,

            “Forse Antìnoo, t'incresca, io nol ti celo:

            Riceverollo dalla man di Giove.

            Parrìati una sventura? Il più infelice

            Dal mio lato io non credo in fra i mortali

            Chi re diventa. Di ricchezza il tetto

            Gli splende tosto, e più onorato ei vanne.

            Ma la cinta dal mare Itaca molti

            Sì di canuto pel, come di biondo,

            Chiude, oltre Antìnoo, che potran regnarla,

            Quando sotterra dimorasse il padre.

            Non però ci vivrà chi del palagio

            La signorìa mi tolga, e degli schiavi,

            Che a me solo acquistò l'invitto Ulisse”.

              Eurìmaco di Pòlibo allor surse:

            “Qual degli Achei sarà d'Itaca il rege,

            Posa de' numi onnipossenti in grembo.

            Di tua magion tu il sei; né de' tuoi beni,

            Finché in Itaca resti anima viva,

            Spogliarti uomo ardirà. Ma dimmi, o buono,

            Chi è quello stranier? Dond'ei partissi?

            Di qual terra si gloria e di qual ceppo?

            Del padre non lontan forse il ritorno

            T'annunzia? o venne in questi luoghi antico

            Debito a dimandar? Come disparve

            Ratto! come parea da noi celarsi!

            Certo d'uom vile non avea l'aspetto”.

              “Ah”, ripigliò il garzon, “del genitore

            Svanì, figlio di Pòlibo, il ritorno!

            Giungano ancor novelle, altri indovini

            L'avida madre nel palagio accolga;

            Né indovin più, né più novelle io curo.

            Ospite mio paterno è il forestiere,

            Di Tafo, Mente, che figliuol si vanta

            Del bellicoso Anchìalo, e ai Tafi impera”.

            Tal rispondea: ma del suo cor nel fondo

            La calata dal ciel dea riconobbe.

              I proci, al ballo ed al soave canto

            Rivolti, trastullavansi, aspettando

            Il buio della notte. Della notte

            Lor sopravvenne il buio, e ai tetti loro

            Negli occhi il sonno ad accettar n'andàro.

            Telemaco a corcarsi, ove secreta

            Stanza da un lato del cortil superbo

            Per lui costrutta, si spiccava all'aura,

            Salse, agitando molte cose in mente.

            E con accese in man lucide faci

            Il seguiva Euriclèa, l'onesta figlia

            D'Opi di Pisenór, che già Laerte

            Col prezzo comperò di venti tori,

            Quando fiorìale giovinezza in volto:

            Né cara men della consorte l'ebbe,

            Benché temendo i coniugali sdegni,

            Del toccarla giammai non s'attentasse.

            Con accese il seguìa lucide faci:

            Più gli portava amor ch'ogni altra serva,

            Ed ella fu che il rallevò bambino.

            Costei gli aprì della leggiadra stanza

            La porta: sovra il letto egli s'assise,

            Levò la sottil veste a sé di dosso,

            E all'amorosa vecchia in man la pose,

            Che piegolla con arte, e alla caviglia

            L'appese, accanto il traforato letto.

            Poi d'uscire affrettavasi: la porta

            Si trasse dietro per l'anel d'argento;

            Tirò la fune, e il chiavistello corse.

            Sotto un fior molle di tessuta lana

            Ei volgea nel suo cor, per quell'intera

            Notte, il cammin che gli additò Minerva.

             

             


            LIBRO SECONDO

             

             

              Come la figlia del mattin, la bella

            Dalle dita di rose Aurora surse,

            Surse di letto anche il figliuol d'Ulisse,

            I suoi panni vestì, sospese il brando

            Per lo pendaglio all'omero, i leggiadri

            Calzari strinse sotto i molli piedi

            E della stanza uscì rapidamente,

            Simile ad un degli Immortali in volto.

            Tosto agli araldi dall'arguta voce

            Chiamare impose i capelluti Achivi;

            E questi, al gridar loro accorsi in fretta,

            Si ragunaro, s'affollaro. Ei pure

            Al parlamento s'avviò: tra mano

            Stavagli un'asta di polito rame

            E due bianchi il seguìan cani fedeli.

            Stupìa ciascun, mentr'ei mutava il passo,

            E il paterno sedil, che dai vecchioni

            Gli fu ceduto, ad occupar sen gìa:

            Tanta in quel punto e sì divina grazia

            Sparse d'intorno a lui Pallade amica.

              Chi ragionò primiero? Egizio illustre,

            Che il dorso avea per l'età grande in arco,

            E di vario saver ricca la mente.

            Sulle navi d'Ulisse alla feconda

            Di nobili destrier ventosa Troia

            Andò il più caro de' figliuoli, Antìfo;

            E a lui diè morte nel cavato speco

            Il Ciclope crudel, che la cruenta

            S'imbandì del suo corpo ultima cena.

            Tre figli al vecchio rimanean: l'un, detto

            Eurìnomo, co' proci erasi unito,

            E alla coltura de' paterni campi

            Presedean gli altri due. Ma in quello, in quello,

            Che più non ha, sempre s'affisa il padre,

            Che nel pianto i dì passa, e che sì fatte

            Parole allor, pur lagrimando, sciolse:

            “O Itacesi, uditemi. Nessuna,

            Dacché Ulisse levò nel mar le vele,

            Qui si tenne assemblea. Chi adunò questa?

            Giovane, o veglio? E a che? Primo udì forse

            Di estrania gente che s'appressi armata?

            O d'altro, da cui penda il ben comune,

            Ci viene a favellar? Giusto ed umano

            Costui, penso, esser dee. Che che s'aggiri

            Per la sua mente, il favorisca Giove!

              Telemaco gioìa di tali accenti,

            Quasi d'ottimo augurio, e, sorto in piedi,

            Ché il pungea d'arringar giovane brama,

            Trasse nel mezzo, dalla man del saggio

            Tra gli araldi Pisènore lo scettro

            Prese, e ad Egizio indi rivolto: “O”, disse,

            “Buon vecchio, non è assai quinci lontano

            L'uom che il popol raccolse: a te dinanzi,

            Ma qual, cui punge acuta doglia, il vedi.

            Non di gente che a noi s'appressi armata,

            Né d'altro, da cui penda il ben comune,

            Io vegno a favellarvi. A far parole

            Vegno di me, d'un male, anzi di duo,

            Che aspramente m'investono ad un'ora.

            Il mio padre io perdei! Che dico il mio?

            Popol d'Itaca, il nostro: a tutti padre,

            Più assai che re, si dimostrava Ulisse.

            E a questa piaga, ohimè l'altra s'arroge,

            Che ogni sostanza mi si sperde, e tutta

            Spiantasi dal suo fondo a me la casa.

            Noioso assedio alla ritrosa madre

            Poser de' primi tra gli Achivi i figli.

            Perché di farsi a Icario, e di proporgli

            Trepidan tanto, che la figlia ei doti

            E a consorte la dia cui più vuol bene?

            L'intero dì nel mio palagio in vece

            Banchettan lautamente, e il fior del gregge

            Struggendo e dell'armento, e le ricolme

            Della miglior vendemmia urne votando,

            Vivon di me: né v'ha un secondo Ulisse,

            Che sgombrar d'infra noi vaglia tal peste.

            Io da tanto non son, né uguale all'opra

            In me si trova esperïenza e forza.

            Oh così le avess'io, com'io le bramo!

            Poscia che il lor peccar varca ogni segno.

            E, che più m'ange, con infamia io pero.

            Deh s'accenda in voi pur nobil dispetto;

            Temete il biasmo delle genti intorno;

            Degl'immortali dèi, non forse cada

            Delle colpe de' proci in voi la pena,

            L'ira temete. Per l'Olimpio Giove,

            Per Temi, che i consigli assembra e scioglie,

            Costoro, amici, d'aizzarmi contro

            Restate, e me lasciate a quello in preda

            Cordoglio sol, che il genitor mi reca.

            Se non che forse Ulisse alcuni offese

            De' prodi Achivi, ed or s'intende i torti

            Vendicarne sul figlio. E ben, voi stessi

            Stendete ai beni la rapace destra:

            Meglio fôra per me, quando consunti

            Suppellettil da voi fóssemi e censo,

            Da voi, dond'io sperar potrei restauro.

            Vi assalirei per la città con blande

            Parole ad uno ad un, né cesserei,

            Che tutto in poter mio pria non tornasse,

            E di nuovo s'ergesse in piè il mio stato.

            Ma or dolori entro del petto, a cui

            Non so rimedio alcun, voi mi versate.

              Detto così, gittò lo scettro a terra,

            Ruppe in lagrime d'ira e viva corse

            Di core in cor nel popolo pietade.

            Ma taciturni, immoti, e non osando

            Telemaco ferir d'una risposta,

            Tutti stavano i proci. Antìnoo solo

            Sorse e arringò: “Telemaco, a cui bolle

            Nel petto rabbia che il tuo dir sublìma,

            Quai parole parlasti ad onta nostra?

            Improntar sovra noi macchia sì nera?

            Non i migliori degli Achei: la cara

            Tua madre e l'arti, ond'è maestra, incolpa.

            Già il terzo anno si volse, e or gira il quarto,

            Che degli amanti suoi prendesi gioco;

            Tutti di speme e d'impromesse allatta,

            Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core.

            Tela sottile, tela grande, immensa,

            Questo ancor non pensò novello inganno?

            A oprar si mise, e a sé chiamonne, e disse:

            "Giovani, amanti miei, tanto vi piaccia,

            Poiché già Ulisse tra i defunti scese,

            Le mie nozze indugiar, ch'io questo possa

            Lugubre ammanto per l'eroe Laerte,

            Acciò le fila inutili io non perda,

            Prima fornir, che l'inclemente Parca,

            Di lunghi sonni apportatrice, il colga.

            Non vo' che alcuna delle Achee mi morda,

            Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo,

            Fallisse un drappo in cui giacersi estinto".

            Con simil fola leggermente vinse

            Gli animi nostri generosi. Intanto,

            Finché il giorno splendea, tessea la tela

            Superba, e poi la distessea la notte

            Al complice chiaror di mute faci.

            Così un triennio la sua frode ascose,

            E deluse gli Achei. Ma come il quarto

            Con le volubili ore anno sorvenne,

            Noi da un'ancella non ignara instrutti,

            Penelope trovammo, che la bella

            Disciogliea tela ingannatrice: quindi

            Compierla dové al fin, benché a dispetto.

            Or, perché a te sia noto e ai Greci il tutto,

            Ecco risposta che ti fanno i proci.

            Accommiata la madre, e quel di loro,

            Che non dispiace a Icario e a lei talenta,

            A disposar costringila. Ma dove,

            Le doti usando, onde la ornò Minerva,

            Che man formolle così dotta e ingegno

            Tanto sagace, e accorgimenti dielle,

            Quali non s'udir mai né dell'antiche

            Di Grecia donne dalle belle trecce,

            Tiro, Alcmena, Micene, a cui le menti

            Di sì fini pensier mai non fioriro;

            Dove credesse lungo tempo a bada

            Tenerci ancor, la sua prudenza usata

            Qui l'abbandonerìa. Noi tanto il figlio

            Consumerem, quanto la madre in core

            Serberà questo suo, che un dio le infuse,

            Strano proposto. Eterna gloria forse

            A sé procaccerà, ma gran difetto

            Di vettovaglia a te; mentre noi certo

            Da te pensiam non istaccarci, s'ella

            Quel che le aggrada più pria non impalma”.

              “Io”, rispose Telemaco, “di casa

            Colei sbandir, donde la vita io tengo?

            Dal cui lattante sen pendei bambino?

            Grave inoltre mi fôra, ov'io la madre

            Dipartissi da me, sì ricca dote

            Tornare a Icario. Cruccierìasi un giorno

            L'amato genitor che forse vive,

            Benché lontano, e punìrianmi i numi,

            Perch'ella, slontanandosi, le odiate

            Implorerìa vendicatrici Erinni.

            Che le genti dirìan? No; tal congedo

            Non sarà mai ch'io liberi dal labbro.

            L'avete voi per mal? Da me sgombrate;

            Gozzovigliate altrove; alternamente

            L'un l'altro inviti, e il suo retaggio scemi.

            Che se disfare impunemente un solo

            Vi par meglio, seguìte. Io dell'Olimpo

            Gli abitatori invocherò, né senza

            Speme che il Saturnìde a tai misfatti

            La debita mercé renda, e che inulto

            Scorra nel mio palagio il vostro sangue”.

              Sì favellò Telemaco, e dall'alto

            Del monte due volanti aquile a lui

            Mandò l'eterno onniveggente Giove.

            Tra lor vicine, distendendo i vanni,

            Fendean la vana regïon de' venti.

            Né prima fur dell'assemblea sul mezzo,

            Che si volsero in giro, e, l'ali folte

            Starnazzando, e mirando tutti in faccia,

            Morte auguraro: al fin, poiché a vicenda

            Con l'unghie il capo insanguinato e il collo

            S'ebber, volaro a destra, e dileguârsi

            Della città su per gli eccelsi tetti.

            Maravigliò ciascuno, e ruminava

            Fra sé quai mali promettesse il fato.

              Quivi era un uom di molto tempo e senno,

            Di Mastore figliuol, detto Aliterse,

            Che nell'arte di trar dagli osservati

            Volanti augelli le future cose,

            Tutti vinceva i più canuti crini.

            “Itacesi, ascoltatemi, e più ancora

            M'ascoltin”, disse, “i proci, a cui davante

            S'apre un gran precipizio. Ulisse lungi

            Da' cari suoi non rimarrà molt'anni.

            Che parlo? Ei spunta, e non ai soli proci

            Strage prepara e morte: altri, e non pochi

            Che abitiam la serena Itaca, troppo

            Ci accorgerem di lui. Consultiam dunque

            Come gli amanti, che pel meglio loro

            Cessar dovrìan per sé, noi raffreniamo.

            Uom vi ragiona de' presagi esperto

            Per lunghissima prova. Ecco maturo

            Ciò ch'io vaticinai, quando per Troia

            Scioglieano i Greci, e Ulisse anch'ei salpava.

            “Molti”, io gridai, “patirà duoli, e tutti

            Perderà i suoi: ma nel ventesim'anno,

            Solo e ignoto a ciascun, farà ritorno”.

            Già si compie l'oracolo: tremate!”

              “Folle vecchiardo, in tua magion ricovra”,

            Eurìmaco di Pòlibo rispose,

            “oracoleggia ai figli tuoi, non forse

            Gl'incolga un dì qualche infortunio. Assai

            Più là di te ne' vaticinî io veggio.

            Volan, rivolan mille augelli e mille

            Per l'aere immenso, e non dibatton tutti

            Sotto i raggi del sol penne fatali.

            Quinci lontano perì Ulisse. Oh fossi

            Tu perito con lui! Ché non t'udremmo

            Profetare in tal guisa, e il furor cieco

            Secondar di Telemaco, da cui

            Qualche don, credo, alle tue porte attendi.

            Ma oracol più verace odi. Se quanto

            D'esperïenza il bianco pel t'addusse,

            A sedurre il fanciullo e a più infiammarlo

            L'adopri, tu gli nuoci, a' tuoi disegni

            Non giovi, e noi tale imporremti multa,

            Che morte fìati il sostenerla. Io poi

            Tal consiglio al fanciul porgo: la madre

            Rimandi a Icario, che i sponsali e ricca,

            Qual dee seguir una diletta figlia,

            Dote apparecchierà. Prima io non penso

            Che da questa di nozze ardua tenzone

            I figli degli Achei vorran giù tôrsi.

            Di nessuno temiam; non, benché tanto

            Loquace, di Telemaco; né punto

            Del vaticinio ci curiam, che indarno

            T'uscì, vecchio, di bocca, e che fruttarti

            Maggiore odio sol può. Fine i conviti

            Non avran dunque, e non sarà mai calma,

            Finché d'oggi in doman costei ci mandi.

            Noi ciascun dì contenderem per lei,

            Né ad altre donne andrem, quali ha l'Acaia

            Degne di noi, perché cagion primiera

            Dell'illustre contesa è la virtude”.

              “Eurìmaco e voi tutti”, il giovinetto

            Soggiunse allor, “competitori alteri,

            Non più: già il tutto sanno uomini e dèi.

            Or non vi chiedo che veloce nave

            Con dieci e dieci poderosi remi,

            Che sul mar mi trasporti. All'arenosa

            Pilo ed a Sparta valicare io bramo,

            Del padre assente per ritrar s'io mai

            Trovar potessi chi men parli chiaro,

            O quella udir voce fortuita in cui

            Spesso il cercato ver Giove nasconde.

            Vivrà? ritornerà? Benché dolente,

            Sosterrò un anno. Ma se morto e fatto

            Cenere il risapessi, al patrio nido

            Riederò senza indugio; e qui un sepolcro

            Gli alzerò, renderogli i più solenni,

            Qual si convien, fùnebri onori, e un altro

            Sposo da me riceverà la madre”.

              Tacque, e s'assise; e Mentore levossi

            Del padre il buon compagno, a cui su tutto

            Vegghiar, guardare il tutto, ed i comandi

            Seguitar di Laerte, Ulisse ingiunse,

            Quando per l'alto sal mise la nave.

            “O Itacesi”, tal parlava il saggio

            Vecchio, “alle voci mie l'orecchio date.

            Né giusto più, né liberal, né mite,

            Ma iniquo, ma inflessibile, ma crudo

            D'ora innanzi un re sia, poiché tra gente

            Su cui stendea scettro paterno Ulisse,

            Più non s'incontra un sol, cui viva in core.

            Che arroganti rivali ad opre ingiuste

            Trascorran ciechi della mente, io taccio.

            Svelgono, è ver, sin dalle sue radici,

            La casa di quel Grande, a cui disdetto

            Sperano il ritornar, ma in rischio almeno

            Porgon la vita. Ben con voi m'adiro,

            Con voi, che muti ed infingardi e vili

            Vi state lì, né d'un sol moto il vostro

            Signore ìnclito aitate. Ohimé! dai pochi

            Restano i molti soverchiati e vinti”.

              “Mentor, non so qual più, se audace, o stolto”,

            Leòcrito d'Evènore rispose,

            “Che mai dicestu? Contra noi tu ardisci

            Il popol eccitar? Non lieve impresa

            Una gente assalir, che per la mensa

            Brandisca l'armi, e i piacer suoi difenda.

            Se lo stesso re d'Itaca tornato

            Scacciar tentasse i banchettanti proci,

            Scarso del suo ritorno avrìa diletto

            Questa sua donna, che il sospira tanto,

            E morire il vedrìa morte crudele,

            Benché tra molti ei combattesse: quindi

            Del tuo parlar la vanità si scorge.

            Ma, su via, dividetevi, e alle vostre

            Faccende usate vi rendete tutti.

            Mentore ed Aliterse, che fedeli

            A Telemaco son paterni amici,

            Gli metteran questo viaggio in punto:

            Bench'ei del padre le novelle, in vece

            Di cercarle sul mar, senza fatica

            Le aspetterà nel suo palagio, io credo”.

              Disse, e ruppe il concilio. I cittadini

            Scioglieansi l'un dall'altro, e alle lor case

            Qua e là s'avvïavano: d'Ulisse

            Si ritiraro alla magione i proci.

              Ma, dalla turba solitario e scevro,

            Telemaco rivolse al mare i passi,

            Le mani asterse nel canuto mare,

            E supplicò a Minerva: “O diva amica,

            Che degnasti a me ier scender dal cielo,

            E fender l'onde m'imponesti, un padre

            Per rintracciar, che non ritorna mai,

            Il tuo solo favor puommi davante

            Gl'inciampi tôr, che m'opporranno i Greci,

            E più che altr'uomo in Itaca, i malvagi

            Proci, la cui superbia ognor più monta”.

              Così pregava; e se gli pose allato

            Con la faccia di Mentore e la voce,

            Palla, e a nome chiamollo, e feo tai detti:

            “Telemaco, né ardir giammai, né senno

            Ti verrà men, se la virtù col sangue

            Trasfuse in te veracemente Ulisse,

            Che quanto impreso avea, quanto avea detto,

            Compiea mai sempre. Il tuo vïaggio a vôto

            Non andrà, qual temer, dove tu figlio

            Non gli fossi, io dovrei. Vero è che spesso

            Dal padre il figlio non ritrae: rimane

            Spesso da lui lungo intervallo indietro,

            E raro è assai che aggiungalo od il passi.

            Ma senno a te non verrà men, né ardire,

            Ed io vivere Ulisse in te già veggo.

            Lieto dunque degli atti il fine spera;

            Né t'anga il vano macchinar de' proci,

            Che non sentono, incauti e ingiusti al paro,

            La nera Parca che gli assal da tergo,

            Ed in un giorno sol tutti gli abbranca.

            Io d'Ulisse il compagno, un tale aiuto

            Ti porgerò, che partirai di corto

            Su parata da me celere nave,

            E con me stesso al fianco, in su la poppa.

            Orsù, rïentra nel palagio, ai proci

            Nuovamente ti mostra, ed apparecchia

            Quanto al vïaggio si richiede, e il tutto

            Riponi: il bianco nelle dense pelli

            Gran macinato, ch'è dell'uom la vita,

            E nell'urne il licor che la rallegra.

            Compagni a radunarti in fretta io movo,

            Che ti seguano allegri. Ha sull'arena

            Molte l'ondicerchiata Itaca navi

            Novelle e antiche: ne' salati flutti

            Noi lancerem senza ritardo armata

            Qual miglior mi parrà veleggiatrice”.

              Così di Giove la celeste figlia:

            Né più, gli accenti della diva uditi,

            S'indugiava Telemaco. Al palagio,

            Turbato della mente, ire affrettossi,

            E trovò i proci, che a scoiar capretti,

            E pingui ad abbronzar corpi di verri,

            Nel cortile intendeano. Il vide appena,

            Che gli fu incontro sogghignando, e il prese

            Per mano Antinoo, e gli parlò in tal guisa:

            “O molto in arringar, ma forte poco

            Nel dominar te stesso, ogni rancore

            Scaccia dal petto, e, qual solevi, adopra

            Da prode il dente, e i colmi nappi asciuga.

            Tutto gli Achei t'allestiran di botto:

            Nave e rèmigi eletti, acciò tu possa,

            Ratto varcando alla divina Pilo,

            Correr del padre tuo dietro alla fama”.

              E Telemaco allor: “Sedermi a mensa

            Con voi, superbi, e una tranquilla gioia

            Provarvi, a me non lice. Ah non vi basta

            Cio che de' miei più prezïosi beni

            Nella prima età mia voi mi rapiste?

            Ma or ch'io posso dell'altrui saggezza

            Giovarmi, e sento con le membra in petto

            Cresciutami anco l'alma, io disertarvi

            Tenterò pure, o ch'io qui resti, o parta.

            Ma parto, e non invan, spero, e su nave

            Parto non mia, quando al figliuol d'Ulisse,

            Né ciò sémbravi sconcio, un legno manca”.

            Tal rispose crucciato, e destramente

            Dalla man d'Antinòo la sua disvelse.

              Già il convito apprestavano, ed acerbi

            Motti scoccavan dalle labbra i proci.

            “Certo”, dicea di que' protervi alcuno,

            “Telemaco un gran danno a noi disegna.

            Da Pilo aiuti validi o da Sparta

            Menerà seco, però ch'ei non vive

            Che di sì fatta speme; o al suol fecondo

            D'Efira condurrassi e ritrarranne

            Fiero velen, che getterà nell'urne

            Con man furtiva; e noi berrem la morte”,

            E un altro ancor de' pretendenti audaci:

            “Chi sa ch'egli non men, sul mar vagando,

            Dagli amici lontano, un dì non muoia,

            Come il suo genitor? Carco più grave

            Su le spalle ne avremmo: il suo retaggio

            Partirci tutto, ma la casta madre,

            E quel di noi, ch'ella scegliesse a sposo,

            Nel palagio lasciar sola con solo”.

              Telemaco frattanto in quella scese

            Di largo giro e di sublime volta

            Paterna sala, ove rai biondi e rossi

            L'oro mandava e l'ammassato rame;

            Ove nitide vesti, e di fragrante

            Olio gran copia chiudean l'arche in grembo;

            E presso al muro ìvano intorno molte

            Di vino antico, saporoso, degno

            Di presentarsi a un dio, gravide botti,

            Che del ramingo travagliato Ulisse

            Il ritorno aspettavano. Munite

            D'opportuni serrami eranvi, e doppie

            Con lungo studio accomodate imposte;

            Ed Euriclèa, la vigilante figlia

            D'Opi di Pisenorre, il dì e la notte

            Questi tesori custodìa col senno.

            Chiamolla nella sala, e a lei tai voci

            Telemaco drizzò: “Nutrice, vino,

            Su via, m'attigni delicato, e solo

            Minor di quel che a un infelice serbi,

            Se mai scampato dal destin di morte,

            Comparisse tra noi. Dodici n'empi

            Anfore, e tutte le suggella. Venti

            Di macinato gran giuste misure

            Versami ancor ne' fedeli otri, e il tutto

            Colloca in un: ma sappilo tu sola.

            Come la notte alle superne stanze

            La madre inviti e al solitario letto,

            Per tai cose io verrò: ché l'arenosa

            Pilo visitar voglio, e la ferace

            Sparta, e ad entrambe domandar del padre”.

              Dié un grido, scoppiò in lagrime, e dal petto

            Euriclèa volar feo queste parole:

            “Donde a te, caro figlio, in mente cadde

            Pensiero tal? Tu l'unico rampollo

            Di Penelope, tu, la nostra gioia,

            Per tanto mondo raggirarti? Lunge

            Dal suo nido perì l'inclito Ulisse,

            Fra estranie genti: e perirai tu ancora.

            Sciolta la fune non avrai, che i proci

            Ti tenderanno agguati, uccideranti,

            E tutte partirannosi tra loro

            Le spoglie tue. Deh qui con noi rimani,

            Con noi qui siedi, e su i marini campi,

            Che fecondi non son che di sventure,

            Lascia che altri a sua posta errando vada”.

              “Fa cor, Nutrice”, ei le risponde tosto:

            “Senza un nume non è questo consiglio.

            Ma giura che alla madre, ov'aura altronde

            Non le ne giunga prima e ten richiegga,

            Nulla dirai, che non appaia in cielo

            La dodicesim'aurora; onde col pianto

            Al suo bel corpo ella non rechi oltraggio”.

              L'ottima vecchia il giuramento grande

            Giurò de' numi: e a lui versò ne' cavi

            Otri, versò nell'anfore capaci

            Le candide farine e il rosso vino.

            Ei, nella sala un'altra volta entrato,

            Tra i proci s'avvolgea: né in questo mezzo

            Stavasi indarno la Tritonia Palla.

            Vestite di Telemaco le forme,

            Per tutto si mostrava ed appressava

            Tutti, e loro ingiungea che al mare in riva

            Si raccogliesser nottetempo, e il ratto

            Legno chiedea di Fronio al figlio illustre,

            A Noemòn, cui non chiedealo indarno.

            S'ascose il Sole, e in Itaca omai tutte

            S'inombravan le vie. Minerva il ratto

            Legno nel mar tirò, l'armò di quanto

            Soffre d'arnesi un'impalcata nave,

            E al porto in bocca l'arrestò. Frequenti

            Si raccoglieano i remator forzuti

            Sul lido, e inanimavali la dea

            Dallo sguardo azzurrin, che altro disegno

            Concepì in mente. La magion d'Ulisse

            Ritrova, e sparge su i beventi proci

            Tal di sonno un vapor, che lor si turba

            L'intelletto e confondesi, e di mano

            Casca sul desco, la sonante coppa.

            Sorse, e mosse ciascuno al proprio albergo,

            Né fu più nulla del sedere a mensa:

            Tal pondo stava sulle lor palpèbre.

            Ma l'occhiglauca dea, ripreso il volto

            Di Mentore e la voce, e richiamato

            Fuor del palagio il giovinetto, disse:

            Telemaco, ciascun de' tuoi compagni,

            Che d'egregi schinier veston le gambe,

            Già siede al remo, e, se tu arrivi, guarda”.

              Ciò detto, la via prese, ed il garzone

            Seguitavane l'orme. Al mar calati,

            Trovàr sul lido i capelluti Achivi;

            Cui di tal guisa favellò la sacra

            Di Telemaco possa: “Amici, in casa

            Quanto al cammin bisogna, unito giace:

            Trasportarlo è mestieri. Né la madre

            Sa, né, fuor che una, il mio pensier le ancelle”.

              Tacque, e loro entrò innanzi; e quelli dietro

            Teneangli. Indi con l'anfore e con gli otri,

            Come d'Ulisse il caro figlio ingiunse,

            Tornâro, e il carco nella salda nave

            Deposero. Il garzon sopra vi salse,

            Preceduto da Pallade, che in poppa

            S'assise; accanto ei le sedea: la fune

            I remiganti sciolsero, e montàro

            La negra nave anch'essi, e i banchi empiero.

            Tosto la dea dalle cerulee luci

            Chiamò di verso l'occidente un vento

            Destro, gagliardo, che battendo venne

            Su pel tremulo mar l'ale sonanti.

            “Mano, mano agli attrezzi”, allor gridava

            Telemaco; “ov'è l'albero”? I compagni

            L'udiro, e il grosso e lungo abete in alto

            Drizzaro, e l'impiantaro entro la cava

            Base, e di corda l'annodaro al piede:

            Poi tiravano in su le bianche vele,

            Con bene attorti cuoi. Gonfiò nel mezzo

            Le vele il vento; e forte alla carena

            L'azzurro mar romoreggiava intorno,

            Mentre la nave sino al fin del corso

            Su l'elemento liquido volava.

            Legati i remi del naviglio ai fianchi,

            Incoronaro di vin maschio l'urne,

            E a ciascun degli dèi sempre viventi

            Libaro, ma più a te, figlia di Giove,

            Che le pupille di cilestro tingi.

            Il naviglio correa la notte intera,

            E del suo corso al fin giungea con l'alba.


            LIBRO TERZO

             

             

              Uscito delle salse acque vermiglie,

            Montava il sole per l'eterea volta

            Di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava

            Ed agli uomini il dì su l'alma terra:

            Quando alla forte Pilo, alla cittade

            Fondata da Nelèo, giunse la nave.

            Stavano allor sagrificando i Pili

            Tauri sul lido, tutti negri, al dio

            Dai crini azzurri, che la terra scuote.

            Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra

            Cinquecento seduti, e per ciascuna

            Svenati nove buoi, di cui, gustate

            Le interïora, ardean le cosce al nume.

            La nave intanto d'uguai fianchi armata,

            Se ne venìa dirittamente a proda.

              Le vele ammainâr, pigliaro il porto,

            Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi

            Telemaco, e Minerva il precedea,

            La dea dagli occhi di ceruleo tinti,

            Che gli accenti al garzon primiera volse:

            “Telemaco, depor tutta oggi è d'uopo

            La pueril vergogna. Il mar passasti,

            Ma per udir, dove s'asconda, e a quale

            Destin soggiacque il generoso padre.

            Su, dunque, dritto al domator t'avvia

            Di cavalli Nestorre, onde si vegga

            Quel ch'ei celato nella mente porta.

            Il ver da lui, se tu nel chiedi, avrai:

            Poiché mentir non può cotanto senno”.

              Il prudente Telemaco rispose:

            Mentore, per qual modo al rege amico

            M'accosterò? Con qual saluto? Esperto

            Non sono ancor del favellar de' saggi:

            Né consente pudor, che a far parole

            Cominci col più vecchio il men d'etade”.

              Ma di tal guisa ripigliò la dea,

            Cui cilestrino lume i rai colora:

            “Telemaco, di ciò che dir dovrai,

            Parte da sé ti nascerà nel core,

            Parte nel cor la ti porranno i numi:

            Ché a dispetto di questi in luce, io credo,

            Non ti mandò la madre, e non ti crebbe”.

            Così parlando, frettolosa innanzi

            Palla si mise, ed ei le andava dopo.

            Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pilî,

            Ove Nestor sedea co' figli suoi,

            Mentre i compagni, apparecchiando il pasto,

            Altre avvampavan delle carni, ed altre

            Negli spiedi infilzavanle. Adocchiati

            Ebbero appena i forestier, che incontro

            Lor si fero in un groppo, e gli abbracciâro,

            E a seder gl'invitaro. Ad appressarli

            Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli

            Del re. Li prese ambi per mano, e in molli

            Pelli, onde attappezzata era la sabbia,

            Appo la mensa gli adagiò tra il caro

            Suo padre ed il germano Trasimede:

            Delle viscere calde ad ambi porse;

            E, rosso vin mescendo in tazza d'oro,

            E alla gran figlia dell'Egìoco Giove

            Propinando: “Stranier”; dissele, “or prega

            Dell'acque il sir, nella cui festa, i nostri

            Lidi cercando, t'abbattesti appunto.

            Ma i libamenti, come più s'addice,

            Compiuti e i prieghi, del licor soave

            Presenta il nappo al tuo compagno, in cui

            Pur s'annida, cred'io, timor de' numi,

            Quando ha mestier de' numi ogni vivente.

            Meno ei corse di vita, e d'anni eguale

            Parmi con me: quindi a te pria la coppa”.

            E il soave licor le pose in mano.

              Godea Minerva che l'uom giusto pria

            Offerto il nappo d'oro avesse a lei,

            E subito a Nettun così pregava:

            “Odi, o Nettuno, che la terra cingi,

            E questi voti appagar degna. Eterna

            Gloria a Nestorre, ed a' suoi figli in prima

            E poi grata mercede a tutti i Pili

            Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno

            Concedi inoltre e a me, che, ciò fornito

            Perché venimmo, su le patrie arene

            Con la negra torniam rapida nave”.

              Tal supplicava, e adempiere intendea

            Questi voti ella stessa. Indi al garzone

            La bella offrì gemina coppa e tonda,

            Ed una egual preghiera il caro figlio

            D'Ulisse alzò. S'abbrustolaro intanto

            Le pingui cosce, degli spiedi acuti

            Si dispiccaro e si spartiro: al fine

            L'alto si celebrò prandio solenne.

            Giunto al suo fin, così principio ai detti

            Dava il Gerenio cavalier Nestorre:

            “Gli ospiti ricercare allora è bello,

            Che di cibi e di vini hanno abbastanza

            Scaldato il petto e rallegrato il core.

            Forestieri, chi siete? e da quai lidi

            Prendeste a frequentar l'umide strade?

            Trafficate voi forse? O v'aggirate,

            Come corsali, che la dolce vita,

            Per nuocere ad altrui, rischian sul mare”?

              Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire

            Spirò nel seno, acciò del padre assente

            Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo

            Di sé spargesse per le genti il grido:

            “O degli Achei”, rispose, “illustre vanto,

            Di satisfare ai desir tuoi son presto.

            Giungiam dalla seduta a pie' del Neo

            Itaca alpestre, ed è cagion privata

            Che a Pilo ci menò. Del padre io movo

            Dietro alla fama, che riempie il mondo,

            Del magnanimo Ulisse, onde racconta

            Pubblica voce che i Troiani muri,

            Combattendo con teco, al suol distese.

            Degli altri tutti che co' Troi pugnaro,

            Non ignoriam dove finiro i giorni.

            Ma di lui Giove anco la morte volle

            Nasconderci; né alcun sin qui poteo

            Dir se in terra o sul mar, se per nemico

            Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo.

            Eccomi or dunque alle ginocchia tue,

            Perché tu la mi narri, o vista l'abbi

            Con gli occhi propri, o dalle labbra udita

            D'un qualche pellegrin; però che molto

            Disventurato il partorì la madre.

            Né timore, o pietà, del palesarmi

            Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio

            Mio padre in opra o in detto unqua ti feo

            Bene o comodo alcun, là, ne' Troiani

            Campi che tinse il vostro sangue, o Greci,

            Tel rimembra ora, e non tacermi nulla”.

              Ed il Gerenio cavalier Nestorre:

            “Tu mi ricordi, amico, i guai che molti

            Noi, prole invitta degli Achei, patimmo,

            O quando erranti per le torbid'onde

            Ce ne andavam sovra le navi in traccia

            Di preda, ovunque ci guidasse Achille;

            O allor che pugnavam sotto le mura

            Della cittade alta di Priamo, dove

            Grecia quasi d'eroi spenta rimase.

            Là cadde Achille, e il marzïale Aiace,

            Là Patroclo, nel senno ai dèi vicino;

            Quell'Antiloco là, forte e gentile,

            Mio diletto figliuol, che abil del pari

            La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede.

            Se tu, queste sciagure ed altre assai

            Per ascoltar, sino al quint'anno e sesto

            Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso.

            Leveresti di nuovo in mar le vele,

            Ch'io non sarei del mio racconto a riva.

            Nove anni, offese macchinando, a Troia,

            Ci travagliammo intorno; e, benché ogni arte

            Vi si adoprasse, d'espugnarla Giove

            Ci consentì nel decimo a fatica.

            Duce col padre tuo non s'ardìa quivi

            Di accorgimento gareggiar: cotanto

            Per inventive Ulisse e per ingegni

            Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio,

            E me ingombra stupor, mentr'io ti guardo:

            Ché i detti rassomigliansi, e ne' detti

            Tanto di lui tenère uom, che d'etade

            Minor tanto è di lui, vero non parmi.

            L'accorto Ulisse ed io, né in parlamento

            Mai, né in concilio, parlavam diversi;

            Ma, d'una mente, con maturi avvisi,

            Quel che dell'oste in pro tornar dovesse

            Disegnavamo. Rovesciata l'alta

            Città di Priamo, e i Greci in su le ratte

            Navi saliti, si divise il campo.

            Così piacque al Saturnio; e ben si vide

            Da quell'istante, che un ritorno infausto

            Ci destinava il correttor del mondo.

            Senno non era, né giustizia in tutti:

            Quindi il malanno che su molti cadde,

            Per lo sdegno fatal dell'Occhiglauca,

            Di forte genitor nata, che cieca

            Tra i due figli d'Atrèo discordia mise.

            A parlamento in sul cader del Sole

            Chiamaro incauti, e contra l'uso, i Greci,

            Che, intorbidati dal vapor del vino,

            Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla.

            Menelao prescrivea che l'oste tutta

            Le vele aprisse del ritorno ai venti;

            Ma ritenerla in vece Agamennòne

            Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero

            Sdegno a placar dell'oltraggiata diva.

            Stolto! che non sapea ch'erano indarno:

            Quando per fumo d'immolati tori

            Mente i numi non cangiano in un punto.

            Così, garrendo di parole acerbe,

            Non si movean dal lor proposto. Intanto

            Con insano clamor sorser gli Achivi

            Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni,

            L'altro agli altri piacea. Funeste cose

            La notte in mezzo al sonno agitavamo

            Dentro di noi: che dal disastro il danno

            Giove ci apparecchiava. Il dì comparso,

            Tirammo i legni, nel divino mare,

            E su i legni velìvoli le molte

            Robe imponemmo e le altocinte schiave.

            Se non che mezza l'oste appo l'Atrìde

            Agamennòn rimanea ferma: l'altra

            Dava ne' remi, e per lo mar pescoso,

            Che Nettuno spianò, correa veloce.

            Tènedo preso, sagrificî offrimmo,

            Anelando alla patria: ma nemico

            Dagli occhi nostri rimoveala Giove,

            Che di nuovo partì tra loro i Greci.

            Alcuni che d'intorno erano al ricco

            Di scaltrimenti Ulisse, e al re de' regi

            Gratificar volean, torsero a un tratto

            Le quinci e quindi remiganti navi:

            Ma io de' mali che l'avverso nume

            Divisava, m'accorsi e con le prore,

            Che fide mi seguìan, fuggii per l'alto.

            Fuggì di Tideo il bellicoso figlio,

            Tutti animando i suoi. L'acque salate

            Solcò più lento, e in Lesbo al fine il biondo

            Menelao ci trovò, che della via

            Consigliavam; se all'aspra Chio di sopra,

            Psiria lasciando dal sinistro lato,

            O invece sotto Chio, lungo il ventoso

            Mimanta, veleggiassimo. D'un segno

            Nettun pregammo: ei mostrò un segno e il mare

            Noi fendemmo nel mezzo, e dell'Eubèa

            Navigammo alla volta, onde con quanta

            Fretta si potea più, condurci in salvo.

            Sorse allora e soffiò stridulo vento,

            Che volar per le nere onde, e notturni

            Sorger ci feo sovra Geresto, dove

            Sbarcammo, e al nume dagli azzurri crini,

            Misurato gran mar, molte di tori

            Cosce ponemmo in su la viva brace.

            Già il dì quarto splendea, quando i compagni

            Del prode ne' cavalli Dïomede

            Le salde navi riposaro in Argo:

            Ed io vêr Pilo sempre il corso tenni

            Con quel vento, cui pria mandato in poppa

            M'aveano i numi, e che non mai s'estinse.

            Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi,

            Né so nulla de' Greci o spenti o salvi.

            Ciò poi che intesi ne' miei tetti assiso,

            Celare a te certo non vuolsi. È fama

            Che felice ritorno ebber gli sperti

            Della lancia Mirmìdoni, che il degno

            Figliuol guidava dell'altero Achille.

            Felice l'ebbe Filottète ancora,

            L'illustre prole di Peante. In Creta

            Rimenò Idomenèo quanti compagni

            Con la vita gli uscir fuori dell'arme:

            Un sol non ne inghiottì l'onda vorace.

            D'Agamennòn voi stessi, e come venne,

            Benché lontani dimoriate, udiste,

            E qual gli tramò Egisto acerba morte.

            Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello

            Che il figliuol dell'estinto in vita resti!

            Quel dell'Atride vendicossi a pieno

            Dell'omicida fraudolento e vile,

            Che morto aveagli sì famoso padre.

            Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio

            Di sembiante non men grande che bello,

            Fortezza impara, onde te pure alcuno

            Benedica di quei che un dì vivranno”.

              “Nestore, degli Achei gloria immortale”,

            Telemaco riprese, “ei vendicossi,

            E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome

            Nel canto se n'udrà. Perché in me ancora

            Non infuser gli dèi tanto di lena,

            Che dell'onte de' proci e delle trame

            Potessi a pieno ristorarmi anch'io?

            Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio

            Tanta felicità dagl'immortali

            Fu destinata, e tollerar m'è forza”.

              “Poiché tai mali”, ripigliò Nestorre

            “Mi riduci alla mente, odo la casa

            Molti occuparti a forza, e insidïarti,

            Vagheggiatori della madre. Dimmi:

            Volontario piegasti al giogo il collo?

            O in odio, colpa d'un oracol forse,

            I cittadini t'hanno? Ad ogni modo,

            Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno

            Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi

            Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi?

            Se te così Pallade amasse come

            A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse

            (Sì palese favor d'un nume, quale

            Di Pallade per lui, mai non si vide)

            Se ugual di te cura prendesse, ai proci

            Della mente uscirìan le belle nozze”.

              E d'Ulisse il figliuol: “Tanto io non penso

            Che s'adempia giammai. Troppo dicesti,

            Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte:

            Ché ciò bramar, non conseguir mi lice,

            Non, se agli stessi dèi ciò fosse in grado”.

              “Qual ti sentii volar fuori de' denti,

            Telemaco, parola? allor soggiunse

            La dea che lumi cilestrini gira.

            “Facile a un dio, sempre che il voglia, uom vivo

            Ripatrïar dai più remoti lidi.

            Io per me del ritorno anzi torrei

            Scorgere il dì dopo infiniti guai,

            Che rieder prima, e nel suo proprio albergo

            Cader, come d'Egisto, e dell'infida

            Moglie per frode il miserando Atride.

            La morte sola, comun legge amara,

            Gli stessi dèi né da un amato capo

            Distornarla potrìan, quandunque sopra

            Gli venga in sua stagion l'apportatrice

            Di lunghi sonni disamabil parca”.

              “E temo io ben”, Telemaco rispose,

            “Che una morte crudel, non il ritorno,

            Prefissa gli abbia, o Mentore, il destino.

            Ma di questo non più: benché agli afflitti

            Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia.

            Io voglio d'altro dimandar Nestorre,

            Che vede assai più là d'ogni mortale,

            E l'età terza, qual si dice, or regna,

            Tal che mirare in lui sembrami un nume.

            Figlio di Nèleo, il ver, mi narra. Come

            Chiuse gli occhi Agamènnone, il cui regno

            Stendeasi tanto? Menelao dov'era?

            Qual morte al sommo Agamennòne ordìa

            L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse

            Tanto miglior di sé? Non era dunque

            Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse

            Lontano errava tra straniere genti,

            E quei la spada, imbaldanzito, strinse?”

              Ed il Gerenio cavalier Nestorre:

            “Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni.

            Tu feristi nel segno. Ah! se l'illustre

            Menelao biondo, poiché apparve in Argo,

            Nel palagio trovava Egisto in vita,

            Non si spargea sul costui morto corpo

            Un pugno scarso di cavata terra:

            Fuor delle mura, sovra il nudo campo

            Cani e augelli voravanlo, né un solo

            Delle donne d'Acaia occhio il piangea.

            Noi sotto Troia, travagliando in armi,

            Passavam le giornate; ed ei, nel fondo

            Della ricca di paschi Argo, tranquilla,

            Con detti aspersi di dolce veleno

            La moglie dell'Atride iva blandendo.

            Rifugìa prima dall'indegno fatto

            La vereconda Clitennestra, e retti

            Pensier nutrìa, standole a fianco il vate,

            Cui di casta serbargliela l'Atride

            Molto ingiungea, quando per Troia sciolse.

            Ma sorto il dì che cedere ad Egisto

            La infelice dovea, quegli, menato

            A un'isola deserta il vate in seno,

            Colà de' feri volator pastura

            Lasciallo, e strazio: e ne' suoi tetti addusse,

            Non ripugnante, l'infedel regina.

            E molte cosce del cornuto armento

            Su l'are il folle ardea, sospendea molti

            Di drappi d'oro sfavillanti doni,

            Compiuta un'opra che di trarre a fine

            Speranza ebbe assai men, che non vaghezza.

            Già partiti di Troia, e d'amistade

            Congiunti, battevam lo stesso mare

            Menelao ed io: ma divenimmo al sacro

            Promontorio d'Atene, al Sunio, appena,

            Che il suo nocchier, che del corrente legno

            Stava al governo, un'improvvisa uccise

            Di Febo Apollo mansueta freccia,

            L'Onetoride Fronte, uom senza pari

            Co' marosi a combattere e co' venti.

            L'Atride, benché in lui gran fretta fosse,

            Si fermò al Sunio, ed il compagno pianse,

            E d'esequie onorollo e di sepolcro.

            Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso

            Giunto della Malèa, cammin felice

            Non gli donò l'onniveggente Giove.

            Venti stridenti e smisurati flutti,

            Che ai monti non cedean, contro gli mosse,

            E ne disgiunse i legni, e parte a Creta

            Ne spinse, là 've albergano i Cidonî,

            Alle correnti del Giardano in riva.

            Liscia e pendente sovra il fosco mare

            Di Gortina al confin, sorge una rupe,

            Contro alla cui sinistra, e non da Festo

            Molto lontana punta, Austro i gran flutti

            Caccia; li frange un piccoletto sasso.

            Là, percotendo, si fiaccaro i legni

            Scampate l'alme a gran fatica, e sole

            Cinque altre navi dall'azzurra prora,

            Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda.

            Mentre con queste Menelao tra genti

            D'altra favella s'aggirava, e forza

            Vi raccogliea di vettovaglia e d'oro,

            Tutti ebbe i suoi desir l'iniquo Egisto:

            Agamennòne a tradimento spense,

            Soggettossi gli Argivi, ed anni sette

            Della ricca Micene il fren ritenne.

            Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene

            Per sua sciagura il pari ai numi Oreste,

            Che il perfido assassin del padre illustre

            Spogliò di vita, e la funèbre cena

            Agli Argivi imbandì, per l'odïosa

            Madre non men, che per l'imbelle drudo.

            Lo stesso giorno Menelao comparve,

            Tanta ricchezza riportando seco,

            Che del pondo gemean le stanche navi.

            Figlio, non l'imitar, non vagar troppo,

            Lasciando in preda le sostanze ai proci,

            Che ciò tra lor che non avran consunto,

            Partansi, e il vïaggiar ti torni danno.

            Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo,

            Che il re di Sparta trovi. Ei testé giunse,

            Donde altri, che in quel mar furia di crudo

            Vento cacciasse, perderia la speme

            Di rieder più: mar così immenso e orrendo,

            Che nel giro d'un anno augel nol varca.

            Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse

            Più di tuo grado la terrestre via,

            Cocchio io darotti e corridori, e i miei

            Figli, che guideranti alla divina

            Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna.

            Pregalo, e non temer che le parole

            Re sì prudente di menzogna involva”.

              Disse; e tramontò il Sole, e buio venne.

            Qui la gran diva dal ceruleo sguardo

            Si frappose così: Buon vecchio, tutto

            Dicesti rettamente. Or via, le lingue

            Taglinsi, e di licor s'empian le tazze.

            Poscia, fatti a Nettuno e agli altri numi

            I libamenti, si procuri ai corpi

            Riposo e sonno, come il tempo chiede.

            Già il sol s'ascose, e non s'addice al sacro

            Troppo a lungo seder prandio solenne”.

              Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi

            Dier subito alle man, di vino l'urne

            Coronaro i donzelli, ed il recaro,

            Con le tazze, augurando, a tutti in giro.

            I convitati s'alzano, e le lingue

            Gittan sul fuoco, e libano. Libato

            Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto,

            Palla e d'Ulisse il deiforme figlio

            Ritirarsi voleano al cavo legno.

            Ma Nestore fermolli, e con gentile

            Corruccio: “Ah! Giove tolga, e gli altri”, disse,

            “Non morituri dèi, ch'ire io vi lasci,

            Qual tapino mortale, a cui la casa

            Di vestimenti non abbonda e coltri,

            Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti

            Mollemente s'addormino. Credete

            Che a me vesti non sieno e coltri belle?

            No; su palco di nave il figlio caro

            Di cotant'uom non giacerà, me vivo,

            E vivo un sol de' figli miei, che quanti

            Verranno alle mie case ospiti accolga”.

              “O vecchio amico”, replicò la diva

            Cui sfavilla negli occhi azzurra luce,

            “Motto da te non s'ode altro che saggio.

            Telemaco, ubbidire io ti consiglio.

            Che meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua

            E s'adagi in tua casa. Io vêr la nave

            A confortar rivolgomi, e di tutto

            Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco

            Que' giovani d'età, che non maggiori

            Di Telemaco sono, e accompagnarlo

            Voller per amistade. In sul naviglio

            Mi stenderò: ma, ricomparsa l'alba,

            Ai Caucòni magnanimi non lieve

            Per ricevere andrò debito antico.

            E tu questo garzon, che a te drizzossi,

            Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio

            De' corridori, che in tue stalle nutri,

            I più ratti gli accoppia e più gagliardi”.

              Qui fine al dir pose la dea, cui ride

            Sotto le ciglia un azzurrino lume,

            E si levò com'aquila, e svanìo.

            Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio,

            Visto il portento, s'ammirava; e, preso

            Telemaco per man, nomollo e disse:

            “Ben conosc'ora che dappoco e imbelle,

            Figliuol mio, non sarai, quando compagni

            Così per tempo ti si fanno i numi.

            Degli abitanti dell'Olimpie case

            Chi altri esser porìa che la pugnace

            Figlia di Giove, la Tritonia Palla,

            Che l'egregio tuo padre in fra gli Achivi

            Favorì ognor? Propizia, o gran regina,

            Guardami, e a me co' figli e con la casta

            Consorte gloria non vulgar concedi.

            Giovenca io t'offrirò di larga fronte,

            Che vide un anno solo, e al giogo ancora

            Non sottopose la cervice indoma.

            Questa per te cadrà con le vestite

            Di lucid'oro giovinette corna”.

              Tal supplicava, e l'udì Palla. Quindi

            Generi e figli al suo reale ostello

            Nestore precedea. Giunti, posaro

            Su gli scanni per ordine e su i troni.

            Il re canuto un prezïoso vino,

            Che dalla scoverchiata urna la fida

            Custode attinse nell'undecim'anno,

            Lor mescea nella coppa, e alla possente

            Figlia libava dell'Egìoco Giove,

            Supplichevole orando. E gli altri ancora

            Libaro, e a voglia lor bevvero. Al fine

            Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro.

            Ma nella sua magione il venerato

            Nestore vuol che del divino Ulisse

            La cara prole, in traforato letto

            Sotto il sonante portico, s'addorma;

            E accanto a lui Pisistrato, di gente

            Capo, e il sol de' figliuoi che sin qui viva

            Celibe vita. Ei del palagio eccelso

            Si corcò nel più interno; e la reale

            Consorte il letto preparògli e il sonno.

              Tosto che del mattin la bella figlia

            Con le dita rosate in cielo apparve,

            Surse il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi

            S'assise all'alte porte, in sui politi

            Bianchi e d'unguento luccicanti marmi,

            Su cui sedea par nel consiglio ai numi

            Nelèo, che, vinto dal destin di morte,

            Nelle case di Pluto era già sceso.

            Nestore allora, guardïan de' Greci,

            Lo scettro in man, sedeavi. I figli, usciti

            Di loro stanza maritale anch'essi,

            Frequenti al vecchio si stringeano intorno,

            Echefróne, Persèo, Strazio ed Areto,

            E il nobil Trasimede, a cui s'aggiunse

            Sesto l'eroe Pisistrato. Menaro

            D'Ulisse il figlio deïforme, e al fianco

            Collocârlo del padre, che le labbra

            In queste voci aprì: “Figli diletti,

            Senza dimora il voler mio fornite.

            Prima tra i numi l'Atenèa Minerva

            Non degg'io venerar, che nel solenne

            Banchetto sacro manifesta io vidi?

            Un di voi dunque ai verdi paschi vada,

            Perché tirata dal bifolco giunga

            Ratto la vaccherella. Un altro mova

            Dell'ospite alla nave e, salvo due,

            Tutti i compagni mi conduca. E un terzo

            Laerce chiami, l'ingegnoso mastro,

            Della giovenca ad inaurar le corna.

            Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle

            Faccian le mense apparecchiar, sedili

            Apportar nel palagio, e tronca selva,

            E una pura dal fonte acqua d'argento”.

              Non indarno ei parlò. Venne dal campo

            La giovinetta fera, e dalla nave

            Dell'ospite i compagni; il fabbro venne

            Tutti recando gli strumenti e l'armi,

            L'incude, il buon martello e le tanaglie

            Ben fabbricate, con che l'ôr domava:

            Né ai sacrifici suoi mancò la diva.

            Nestore diè il metallo; e il fabbro, come

            Domato l'ebbe, ne vestì le corna

            Della giovenca, acciocché Palla, visto

            Quel fulgor biondo, ne gioisse in core.

            Per le corna la vittima Echefróne

            Guidava, e Strazio: dalle stanze Arèto

            Purissim'onda in un bacile, a vaghi

            Fiori intagliato, d'una man portava,

            Orzo dell'altra in bel canestro e sale;

            Il bellicoso Trasimede in pugno

            Stringea l'acuta scure, che sul capo

            Scenderà della vittima; ed il vaso,

            Che il sangue raccorrà, Perseo tenea.

            Ma de' cavalli il domator, l'antico

            Nestore, il rito cominciò: le mani

            S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla

            Pregava molto, nell'ardente fiamma

            Le primizie gittando, i peli svelti

            Dalla vergine fronte. Alla giovenca

            S'accostò il forte Trasimede allora

            E con la scure acuta, onde colpilla,

            Del collo i nervi le recise, e tutto

            Svigorì il corpo: supplicanti grida

            Figliuole alzaro, e nuore e la pudica

            Di Nestor donna Euridice, che prima

            Di Climèn tra le figlie al mondo nacque;

            Poi la buessa, che giacea, di terra

            Sollevâr nella testa, e in quel che lei

            Reggean così, Pisistrato scannolla.

            Sgorgato il sangue nereggiante e scorso,

            E abbandonate dallo spirto l'ossa,

            La divisero in fretta: ne tagliaro

            Le intere cosce, qual comanda il rito,

            Di doppio le covriro adipe, e i crudi

            Brani vi adattâr sopra. Ardeale il veglio

            Su gli scheggiati rami, e le spruzzava

            Di rosso vin, mentre abili donzelli

            Spiedi tenean di cinque punte in mano.

            Arse le cosce e i visceri gustati,

            Minuti pezzi fer dell'altro corpo,

            Che rivolgeano ed arrostìano infissi

            Negli acuti schidoni. Policasta,

            La minor figlia di Nestorre, intanto

            Telemaco lavò, di bionda l'unse

            Liquida oliva, e gli vestì una fina

            Tunica e un ricco manto; ed egli emerse

            Fuor del tepido bagno, agl'Immortali

            Simile in volto, e a Nestorre avviossi,

            Pastor di genti, e gli s'assise al fianco.

              Abbrostite le carni ed imbandite,

            Sedeansi a banchettar: donzelli esperti

            Sorgeano, e pronti di vermiglio vino

            Ricolmavan le ciotole dell'oro.

            Ma poiché spenti i naturali fûro

            Della fame desiri e della sete,

            Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre:

            “Miei figli, per Telemaco, su via,

            I corridori dal leggiadro crine

            Giungete sotto il cocchio”. Immantinente

            Quelli ubbidiro, e i corridor veloci

            Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui

            Candido pane e vin purpureo e dapi,

            Quai costumano i re, di Giove alunni,

            La veneranda dispensiera pose.

            Telemaco salì, salì l'ornata

            Biga con lui Pisistrato, di gente

            Capo, e accanto assettossigli; e, le briglie

            Nella man tolte, con la sferza al corso

            I cavalli eccitò, che alla campagna

            Si gittâr lieti: de' garzoni agli occhi

            Di Pilo s'abbassavano le torri.

            Squassavano i destrier tutto quel giorno

            Concordi il giogo ch'era lor sul collo.

            Tramontò il Sole, ed imbrunìan le strade:

            E i due giovani a Fera, e alla magione

            Di Diocle arrivàr, del prode figlio

            Di Orsìloco d'Alfèo, dove riposi

            Ebber tranquilli ed ospitali doni.

              Ma come del mattin la bella figlia

            Comparve in ciel con le rosate dita,

            Aggiogaro i cavalli, e la fregiata

            Biga salîro, e del vestibol fuori

            La spinsero, e del portico sonante.

            Scosse la sferza il Nestorìde, e quelli

            Lietamente volaro. I pingui campi,

            Di ricca messe biondeggianti, indietro

            Fuggìan l'un dopo l'altro; e sì veloci

            Gli allenati destrier movean le gambe,

            Che l'Itacense e il Pilïese al fine

            Del vïaggio pervennero, che d'ombra,

            Il sol caduto, si coprìa la terra.

             


            LIBRO QUARTO

             

             

              Giunsero all'ampia, che tra i monti giace,

            Nobile Sparta, e le regali case

            Del glorïoso Menelao trovaro.

            Questi del figlio e della figlia insieme

            Festeggiava quel dì le doppie nozze,

            E molti amici banchettava. L'una

            Spedìa d'Achille al bellicoso figlio,

            Cui promessa l'avea sott'Ilio un giorno,

            Ed or compieano il maritaggio i numi:

            Quindi cavalli e cocchi alla famosa

            Cittade de' Mirmìdoni condurla

            Doveano, e a Pirro che su lor regnava.

            E alla figlia d'Alettore Spartano

            L'altro, il gagliardo Megapente, unia,

            Che d'una schiava sua tardi gli nacque:

            Poiché ad Elèna gl'immortali dèi

            Prole non concedean dopo la sola

            D'amor degna Ermione, a cui dell'aurea

            Venere la beltà splendea nel volto.

              Così per l'alto spazïoso albergo

            Rallegravansi, assisi a lauta mensa,

            Di Menelao gli amici ed i vicini;

            Mentre vate divin tra lor cantava,

            L'argentea cetra percotendo, e due

            Danzatori agilissimi nel mezzo

            Contempravano al canto i dotti salti.

              Nell'atrio intanto s'arrestaro i figli

            Di Nestore e d'Ulisse. Eteonèo,

            Un vigil servo del secondo Atride,

            Primo adocchiolli, e con l'annunzio corse

            De' popoli al pastore, ed all'orecchio

            Gli sussurrò così: “Due forestieri

            Nell'atrio, o Menelao, di Giove alunno,

            Coppia d'eroi, che del Saturnio prole

            Sembrano in vista. Or di': sciorre i cavalli

            Dobbiamo, o i forestieri a un altro forse

            Mandar de' Greci, che gli accolga e onori?”

              D'ira infiammossi, e in cotal guisa il biondo

            Menelao gli rispose: “O di Boète

            Figliuolo, Eteonèo, tu non sentivi

            Già dello scemo negli andati tempi,

            E or sembri a me bamboleggiar co' detti.

            Non ti sovvien quante ospitali mense

            Spogliammo di vivande, anzi che posa

            Qui trovassimo al fin, se pur vuol Giove

            Privilegiar dopo cotante pene

            La nostra ultima età? Sciogli i cavalli,

            E al mio convito i forestier conduci”.

              Ratto fuor della stanza Eteonèo

            Lanciossi; e tutti a sé gli altri chiamava

            Fidi conservi. Distaccaro i forti

            Di sotto il giogo corridor sudanti,

            E al presepe gli avvinsero, spargendo

            Vena soave di bianc'orzo mista,

            E alla parete lucida il vergato

            Cocchio appoggiâro. Indi per l'ampie stanze

            Guidaro i novelli ospiti, che in giro

            D'inusitata maraviglia carche

            Le pupille movean: però che grande

            Gettava luce, qual di Sole o Luna,

            Del glorïoso Menelao la reggia.

            Del piacer sazî, che per gli occhi entrava,

            Nelle terse calâr tepide conche;

            E come fur dalle pudiche ancelle

            Lavati, di biond'olio unti e di molli

            Tuniche cinti e di vellosi manti,

            Si collocaro appo l'Atride. Quivi

            Solerte ancella da bell'auro vaso

            Nell'argenteo bacile un'onda pura

            Versava, e stendea loro un liscio desco,

            Su cui la saggia dispensiera i pani

            Venne ad impor bianchissimi, e di pronte

            Dapi serbate generosa copia;

            E d'ogni sorta carni in larghi piatti

            Recò l'abile scalco, e tazze d'oro.

            Il re, stringendo ad ambidue la mano:

            “Pasteggiate”, lor disse, “ed alla gioia

            Schiudete il cor: poscia, chi siete, udremo.

            De' vostri padri non s'estinse il nome,

            E da scettrati re voi discendete.

            Piante cotali di radice vile,

            Sia loco al vero, germogliar non ponno”.

              Detto così, l'abbrustolato tergo

            Di pingue bue, che ad onor grande innanzi

            Messo gli avean, d'in su la mensa tolse,

            E innanzi il mise agli ospiti, che pronte

            Steser le mani all'imbandita fera.

            Ma de' cibi il desir pago e de' vini,

            Telemaco, piegando in vêr l'amico,

            Sì che altri udirlo non potesse, il capo,

            Tale a lui favellò: “Mira, o diletto

            Dell'alma mia, figlio di Nestor, come

            Di rame, argento, avorio, elettro ed oro

            L'echeggiante magion risplende intorno!

            Sì fatta, io credo, è dell'Olimpio Giove

            L'aula di dentro. Oh gl'infiniti oggetti!

            Io maraviglio più, quanto più guardo”.

              L'intese il re di Sparta, e ad ambo disse:

            “Figliuoli miei, chi gareggiar mai puote

            De' mortali con Giove? Il suo palagio,

            Ciò ch'ei dentro vi serba, eterno è tutto.

            Quanto all'umana stirpe, altri mi vinca

            Di beni, o ceda; io so che, molti affanni

            Durati e molto navigato mare,

            Queste ricchezze l'ottavo anno addussi.

            Cipro, vagando, e la Fenicia io vidi,

            E ai Sidonî, agli Egizî e agli Etïòpi

            Giunsi, e agli Erembi, e in Libia, ove le agnelle

            Figlian tre volte nel girar d'un anno,

            E spuntan ratto a gli agnellin le corna;

            Né signore o pastor giammai difetto

            Di carne pate, o di rappreso latte,

            Ridondando di latte ognora i vasi.

            Mentr'io vagava qua e là, tesori

            Raccogliendo, il fratello altri m'uccise

            Di furto, all'improvvista, e per inganno

            Della consorte maladetta: quindi

            Non lieto io vivo a questi beni in grembo.

            Voi, quai sieno, ed ovunque, i padri vostri,

            Tanto dalla lor bocca udir doveste.

            Che non soffersi? Ruinai dal fondo

            Casa di ricchi arredi e d'agi colma;

            Onde piacesse ai dèi che sol rimasta

            Mi fosse in man delle tre parti l'una,

            E spirasser le vive aure que' prodi

            Che, lungi dalla verde Argo ferace,

            Ne' lati campi d'Ilïòn perîro!

            Tutti io li piango, e li sospiro tutti,

            Standomi spesso ne' miei tetti assiso,

            E or mi pasco di cure, or nuovamente

            Piglio conforto; che non puote a lungo

            Viver l'uom di tristezza, e al fin molesto

            Torna quel pianto che fu in pria sì dolce.

            Pure io di tutti in un così non m'ango,

            E m'ango assai, come d'un sol che ingrato

            Mi rende, ove a lui penso, il cibo e il sonno:

            Poiché Greco nessuno in tutta l'oste

            O il bene oprando, o sostenendo il male,

            Pareggiò Ulisse. Ma dispose il fato

            Ch'ei tormentasse d'ogni tempo, e ch'io

            Mesti per sua cagion traessi i giorni,

            Io, che nol veggio da tanti anni, e ignoro

            Se viva, o morto giaccia. Il piange intanto

            Laerte d'età pieno, e la prudente

            Penelope e Telemaco, che il padre

            Lasciò lattante ne' suoi dolci alberghi”.

              Disse; e di pianto subitana voglia

            Risvegliossi in Telemaco, che a terra

            Mandò lagrime giù dalle palpèbre,

            Del padre udendo, ed il purpureo manto

            Con le mani s'alzò dinanzi al volto.

            Menelao ben comprese; e se a lui stesso

            Lasciar nomare il padre, o interrogarlo

            Dovesse pria, né serbar nulla in petto,

            Sì e no tenzonavangli nel capo.

              Mentre cosi fra due stava l'Atride,

            Elena dall'eccelsa e profumata

            Sua stanza venne con le fide ancelle,

            Che Diana parea dall'arco d'oro.

            Bel seggio Adrasta avvicinolle, Alcippe

            Tappeto in man di molle lana, e Filo

            Panier recava di forbito argento,

            Don già d'Alcandra, della moglie illustre

            Del fortunato Pòlibo, che i giorni

            Nella ricca menava Egizia Tebe.

            A Menelao due conche argentee, due

            Trìpodi e dieci aurei talenti ei diede.

            Ma la consorte ornar d'eletti doni

            Elena volle a parte: una leggiadra

            Conocchia d'ôr le porse, ed il paniere

            Ritondo sotto, e di forbito argento,

            Se non quanto le labbra oro guernìa.

            Questo ricolmo di sudato stame

            L'ancella Filo le recava, e sopra

            Vi riposava la conocchia, a cui

            Fini si ravvolgean purpurei velli.

              Ella raccolta nel suo seggio, e posti

            Sul polito sgabello i molli piedi,

            Con questi accenti a Menelao si volse:

            “Sappiam noi, Menelao di Giove alunno,

            Chi siano i due che ai nostri tetti entraro?

            Parlar m'è forza, il vero o il falso io dica:

            Però ch'io mai non vidi, e grande tiemmi

            Nel veder maraviglia, uomo né donna

            Così altrui somigliar, come d'Ulisse

            somigliar dee questo garzone al figlio,

            Ch'era bambino ancor, quando per colpa

            Ahi! di me svergognata, o Greci, a Troia

            Giste, accendendo una sì orrenda guerra”.

              Tosto l'Atride dalla bionda chioma:

            “Ciò che a te, donna, a me pur sembra. Quelle

            Son d'Ulisse le mani, i piè son quelli,

            E il lanciar degli sguardi, e il capo e il crine.

            Io, l'Itacese rammentando, i molti

            Dicea disagi ch'ei per me sostenne;

            E il giovane piovea lagrime amare

            Giù per le guance, e col purpureo manto,

            Che alzò ad ambe le man, gli occhi celava”.

              E Pisistrato allor: “Nato d'Atrèo,

            Di Giove alunno, condottier d'armati,

            Eccoti appunto di quel grande il figlio.

            Ma verecondo per natura, e giunto

            Novellamente, gli parrebbe indegno

            Te delle voci tue fermar nel corso,

            Te, di cui, qual d'un dio, ci beano i detti.

            Nestore, il vecchio genitor, compagno

            Mi fece a lui, che rimirarti in faccia

            Bramava forte, onde poter dell'opra

            Giovarsi, o almen del tuo consiglio. Tutti

            Que' guai che un figliuol soffre, a cui lontano

            Dimora il padre, né d'altronde giunge

            Sussidio alcun, Telemaco li prova.

            Il genitor gli falla, e non gli resta

            Chi dal suo fianco la sciagura scacci”.

              “Numi!” riprese il re dai biondi crini,

            “Tra le mie stesse mura il figlio adunque

            D'uomo io veggio amicissimo, che sempre

            Per me s'espose ad ogni rischio? Ulisse

            Ricettare io pensava entro i miei regni,

            Io carezzarlo sovra tutti i Greci,

            Se ad ambo ritornar su i cavi legni

            L'Olimpio dava onniveggente Giove.

            Una io cedere a lui delle vicine

            Volea cittade Argive, ov'io comando,

            E lui chiamar, che dai nativi sassi

            D'Itaca in quella mia, ch'io prima avrei

            D'uomini vôta e di novelli ornata

            Muri e palagi, ad abitar venisse

            Col figlio, le sostanze e il popol tutto.

            Così, vivendo sotto un cielo, e spesso

            L'un l'altro visitando, avremmo i dolci

            Frutti raccolti d'amistà sì fida,

            Né l'un dall'altro si sarìa disgiunto

            Che steso non si fosse il negro velo

            Di morte sovra noi. Ma un tanto bene

            Giove c'invidïò, cui del ritorno

            Piacque fraudar quell'infelice solo”.

              Sorse in ciascuno a tai parole un vivo

            Di lagrime desïo. Piangea la figlia

            Di Giove, l'Argiva Elena, piangea

            D'Ulisse il figlio ed il secondo Atride,

            Né asciutte avea Pisistrato le guance,

            Che il fratello incolpabile, cui morte

            Diè dell'Aurora la famosa prole,

            Tra sé membrava, e che tai detti sciolse:

            “Atride, il vecchio Nestore mio padre

            Te di prudenza singolar lodava,

            Sempre che in mezzo al ragionare alterno

            Il tuo nome venìa. Fa', se di tanto

            Pregarti io posso, oggi a mio senno. Poco

            Me dilettan le lagrime tra i nappi.

            Ma del mattin la figlia il nuovo giorno

            Ricondurrà; né mi fia grave allora

            Pianger chïunque al suo destin soggiacque;

            Ché solo un tale onore agl'infelici

            Defunti avanza, che altri il crin si tronchi,

            E alle lagrime giuste allarghi il freno.

            Anco a me tolse la rea Parca un frate,

            Che l'ultimo non fu dell'oste Greca.

            Tu il sai, che il conoscesti. Io né vederlo

            Potei, né a lui parlar: ma udii che Antiloco

            Su tutti si mostrò gli emuli suoi

            Veloce al corso, e di sua man gagliardo.

              E Menelao dai capei biondi: Amico,

            L'uom più assennato e in più matura etade,

            Che non è questa tua, né pensamenti

            Diversi avrìa, né detti; e ben si pare

            Agli uni e agli altri da chi tu nascesti.

            Ratto la prole d'un eroe si scorge,

            Cui del natale al giorno, e delle nozze

            Destinò Giove un fortunato corso,

            Come al Nelìde, che invecchiare ottenne

            Nel suo palagio mollemente, e saggi

            Figli mirar, non che dell'asta dotti.

            Dunque, sbandito dalle ciglia il pianto,

            Si ripensi alla cena, e un'altra volta

            La pura su le mani onda si sparga.

            Sermoni alterni anche al novello sole

            Fra Telemaco e me correr potranno”.

              Disse; ed Asfalïone, un servo attento,

            Spargea su le man l'onda, e i convitati

            Nuovamente cibavansi. Ma in altro

            Pensiero allora Elena entrò. Nel dolce

            Vino, di cui bevean, farmaco infuse

            Contrario al pianto e all'ira, e che l'obblìo

            Seco inducea d'ogni travaglio e cura.

            Chïunque misto col vermiglio umore

            Nel seno il ricevé, tutto quel giorno

            Lagrime non gli scorrono dal volto,

            Non, se la madre o il genitor perduto,

            Non, se visto con gli occhi a sé davante

            Figlio avesse o fratel di spada ucciso.

            Cotai la figlia dell'Olimpio Giove

            Farmachi insigni possedea, che in dono

            Ebbe da Polidamna, dalla moglie

            Di Tone nell'Egitto, ove possenti

            Succhi diversi la feconda terra

            Produce, quai salubri e quai mortali;

            Ed ove, più che i medicanti altrove,

            Tutti san del guarir l'arte divina,

            Siccome gente da Peòn discesa.

            Il nepente già infuso, e a' servi imposto

            Versar dall'urne nelle tazze il vino,

            Ella così parlò: “Figlio d'Atrèo,

            E voi, d'eroi progenie, i beni e i mali

            Manda dall'alto alternamente a ognuno

            L'onnipossente Giove. Or pasteggiate

            Nella magione assisi, e de' sermoni

            Piacer prendete in pasteggiando, mentre

            Cose io racconto, che saranno a tempo.

            Non già ch'io tutte le fatiche illustri

            Ricordar sol del pazïente Ulisse

            Possa, non che narrarle: una io ne scelgo,

            Che a Troia, onde gran duol venne agli Argivi,

            L'uom forte imprese e a fin condusse. Il corpo

            Di sconce piaghe afflisse, in rozzi panni

            S'avvolse, e penetrò nella nemica

            Cittade, occulto e di mendìco e schiavo

            Le sembianze portando, ei che de' Greci

            Sì diverso apparìa lungo le navi.

            Tal si gittò nella Troiana terra,

            Né conoscealo alcuno. Io fui la sola

            Che il ravvisai sotto l'estranie forme,

            E tentando l'andava; ed ei pur sempre

            Da me schermìasi con l'usato ingegno.

            Ma come asperso d'onda, unto d'oliva

            L'ebbi, e di veste cinto, ed affidato

            Con giuramento, che ai Troiani primo

            Non manifesterei, che alle veloci

            Navi non fosse, ed alle tende giunto,

            Tutta ei m'aperse degli Achei la mente.

            Quindi, passati con acuta spada

            Molti petti nemici, all'oste Argiva

            Col vanto si rendé d'alta scaltrezza.

            Stridi mettean le donne Iliache ed urli:

            Ma io gioìa tra me; ché gli occhi a Sparta

            Già rivolgeansi e il core, e da me il fallo

            Si piagneva, in cui Venere mi spinse,

            Quando staccommi dalla mia contrada,

            Dalla dolce figliuola, e dal pudìco

            Talamo e da un consorte, a cui, saggezza

            Si domandi o beltà, nulla mancava.

              “Tutto”, l'Atride dalla cròcea chioma,

            “Dicesti, o donna, giustamente. Io terra

            Molta trascorsi, e penetrai col guardo

            Di molti eroi nel sen: ma pari a quella

            Del pazïente Ulisse alma io non vidi.

            Quel che oprò, basti, e che sostenne in grembo

            Del cavallo intagliato, ove sedea,

            Strage portando ad Ilio, il fior de' Greci.

            Sospinta, io credo, da un avverso nume,

            Cui la gloria de' Teucri a core stava,

            Là tu giungesti, e uguale a un dio nel volto

            Su l'orme tue Deïfobo venìa.

            Ben tre fiate al cavo agguato intorno

            T'aggirasti; e il palpavi, e a nome i primi

            Chiamavi degli Achei, contraffacendo

            Delle lor donne le diverse voci.

            Nel mezzo assisi io, Diomede e Ulisse

            Chiamar ci udimmo; e il buon Tidìde ed io

            Ci alzammo, e di scoppiar fuor del cavallo,

            O dar risposta dal profondo ventre,

            Ambo presti eravam: ma nol permise,

            E, benché ardenti, ci contenne Ulisse.

            Taceasi ogni altro, fuorché il solo Anticlo,

            Che risponder voleati, e Ulisse tosto

            La bocca gli calcò con le robuste

            Mani inchiodate, né cessò, che altrove

            Te rimenato non avesse Palla.

            Sì di tutta la Grecia ei fu salute”.

              “E ciò la doglia, o Menelao, m'accresce”,

            Ripigliava il garzone. “A che gli valse

            Tanta virtù se non potea da morte

            Difenderlo, non che altro, un cor di ferro?

            Ma deh! piacciavi omai che ritroviamo

            Dove posarci, acciò su noi del sonno

            La dolcezza ineffabile discenda”.

            Sì disse; e l'Argiva Elena all'ancelle

            I letti apparecchiar sotto la loggia,

            Belle gittarvi porporine coltri,

            E tappeti distendervi, e ai tappeti

            Manti vellosi sovrapporre, ingiunse.

            Quelle, tenendo in man lucide faci,

            Usciro, e i letti apparecchiaro: innanzi

            Movea l'araldo, e gli ospiti guidava.

            Così nell'atrio s'adagiaro entrambi:

            Nel più interno corcavasi l'Atride,

            E la divina tra le donne Elèna

            Il sinuoso peplo, ond'era cinta,

            Depose, e giacque del consorte a lato.

              Ma come del mattin la bella figlia

            Rabbellì il ciel con le rosate dita,

            Menelao sorse, rivestissi, appese

            Per lo pendaglio all'omero la spada,

            E i bei calzar sotto i piè molli avvinse:

            Poi, somigliante nell'aspetto a un nume,

            Lasciò la stanza rapido, e s'assise

            Di Telemaco al fianco; e: “Qual”, gli disse,

            “Cagione a Sparta, su l'immenso tergo

            Del negro mar, Telemaco, t'addusse?

            Pubblico affare, o tuo? Schietto favella”.

              E in risposta il garzon: “Nato d'Atrèo,

            Per risaper del genitore io venni.

            In dileguo ne van tutti i miei beni,

            Colpa una gente nequitosa e audace,

            Che gli armenti divorami e le gregge,

            E ingombra sempre il mio palagio, e anela

            Della madre alle nozze. Io quindi abbraccio

            Le tue ginocchia, e da te udir m'aspetto,

            O visto, o su le labbra inteso l'abbi

            D'un qualche vïandante, il triste fine

            Del padre mio, che sventurato assai

            Della sua genitrice uscì dal grembo.

            Né timore o pietà così t'assalga,

            Che del ver parte ti rimanga in core.

            Venne mai dal mio padre in opra o in detto,

            Bene o comodo a te, là ne' Troiani

            Campi del sangue della Grecia tinti?

            Ecco di rimembrarlo, Atride, il tempo”.

              Trasse il Monarca, dai capei di croco,

            Un profondo sospiro, e: “Ohimè”, rispose,

            “Volean d'un eroe dunque uomini imbelli

            Giacer nel letto? Qual se incauta cerva

            I cerbiatti suoi teneri e lattanti

            Deposti in tana di leon feroce,

            Cerca, pascendo, i gioghi erti e l'erbose

            Valli profonde; e quel feroce intanto

            Riede alla sua caverna, e morte ai figli

            Porta, e alla madre ancor: non altrimenti

            Porterà morte ai concorrenti Ulisse.

            E oh piacesse a Giove, a Febo e a Palla,

            Che qual si levò un dì contra il superbo

            Filomelìde nella forte Lesbo,

            E tra le lodi degli Achivi a terra

            Con mano invitta, lotteggiando, il pose,

            Tal costoro affrontasse! Amare nozze

            Foran le loro, e la lor vita un punto.

            Quanto a ciò che mi chiedi, io tutte intendo

            Schiettamente narrarti, e senza inganno,

            Le arcane cose ch'io da Proteo appresi,

            Dal marino vecchion, che mai non mente.

              Me, che alla patria ritornar bramava,

            Presso l'Egitto ritenean gli dèi,

            Perché onorati io non gli avea di sacre

            Ecatombi legittime; ché sempre

            L'oblio de' lor precetti i numi offese.

            Giace contra l'Egitto e all'onde in mezzo

            Un'isoletta che s'appella Faro,

            Tanto lontana, quanto correr puote,

            Per un intero dì concavo legno,

            Cui stridulo da poppa il vento spiri.

            Porto acconcio vi s'apre, onde il nocchiero,

            Poscia che l'acqua non salata attinse,

            Facilmente nel mar vara la nave.

            Là venti dì mi ritenean gli dèi:

            Né delle navi i condottieri amici

            Comparver mai su per l'azzurro piano,

            Le immobili acque ad increspar col fiato.

            E già con le vivande anco gli spirti

            Per fermo ci fallìan, se una dea, fatta

            Di me pietosa, non m'aprìa lo scampo.

            Idotèa, del marin vecchio la figlia,

            Cui fieramente in sen l'alma io commossi,

            Occorse a me, che solitario errava,

            Mentre i compagni dalla fame stretti

            Giravan l'isoletta, ed i ricurvi

            Ami gettavan qua e là nell'onde.

            "Forestier", disse, come fu vicina,

            "Sei tu del senno e del giudicio in bando,

            O degli affanni tuoi prendi diletto,

            Che così, a un ozio volontario in preda,

            Nell'isola t'indugi, e via non trovi

            D'uscirne mai? Langue frattanto il core

            De' tuoi compagni, e si consuma indarno".

            "O qual tu sii delle immortali Dive,

            Credi", io le rispondea, "che da me venga

            Così lungo indugiar? Vien dai beati,

            Del vasto cielo abitatori eterni,

            Ch'io temo aver non leggiermente offesi.

            Deh, poiché nulla si nasconde ai numi,

            Dimmi, qual è di lor che qui m'arresta,

            E il mar pescoso mi rinserra intorno".

              E repente la dea: "Forestier, nulla

            Celarti io ti prometto. Il non bugiardo

            Soggiorna in queste parti Egizio veglio,

            L'immortal PrOteo, mio creduto padre,

            Che i fondi tutti del gran mar conosce,

            E obbedisce a Nettuno. Ei del vIaggio

            Ti mostrerà le strade, e del ritorno,

            Dove, stando in agguato, insignorirti

            Di lui tu possa. E quello ancor, se il brami,

            Saprai da lui, che di felice o avverso

            Nella casa t'entrò, finché lontano

            Per vie ne andavi perigliose e lunghe".

            "Ma tu gli agguati", io replicai, "m'insegna,

            Ond'io così improvviso a Proteo arrivi,

            Ch'ei non mi sfugga dalle mani. Un nume

            Difficilmente da un mortal si doma".

              "Questo avrai pur da me", la dea riprese.

            Come salito a mezzo cielo è il sole,

            S'alza il vecchio divin dal cupo fondo,

            E uscito dalla bruna onda, che il vento

            Occidentale increspagli sul capo,

            S'adagia entro i suoi cavi antri, e s'addorme

            E spesse a lui dormon le foche intorno,

            Deforme razza di Alosidna bella,

            Già pria dell'onda uscite, e il grave odore

            Lunge spiranti del profondo mare.

            Io te là guiderò, te acconciamente

            Collocherò, ratto che il dì s'inalbi:

            Ma di quanti compagni appo la nave

            Ti sono, eleggi i tre che più tu lodi.

            Ecco le usanze del vegliardo, e l'arti:

            Pria noverar le foche a cinque a cinque,

            Visitandole tutte; indi nel mezzo

            Corcarsi anch'ei, quasi pastor tra il gregge.

            Vistogli appena nelle ciglia il sonno,

            Ricordatevi allor sol della forza,

            E lui, che molto si dibatte e tenta

            Guizzarvi delle man, fermo tenete.

            Ei d'ogni belva che la terra pasce,

            Vestirà le sembianze, e in acqua e in foco

            Si cangerà di portentoso ardore;

            E voi gli fate delle braccia nodi

            Sempre più indissolubili e tenaci.

            Ma quando interrogarti al fin l'udrai,

            Tal mostrandosi a te, quale sdraiossi,

            Tu cessa, o prode, dalla forza, e il vecchio

            Sciogli, e sappi da lui chi è tra i numi,

            Che ti contende la natìa contrada".

            Disse, e nelle fiottanti onde s'immerse.

              Io, combattuto da pensier diversi,

            Colà n'andai, dove giacean del mare

            Su la sabbia le navi, a cui da presso

            La cena in fretta s'apprestò. Sorvenne

            La prezïosa notte, e noi sul lido

            Ci addormentammo al mormorìo dell'acque.

            Ma poiché del mattin la bella figlia

            Consperse il ciel d'orïentali rose,

            Lungo il lido io movea, molto ai celesti

            Pregando, e i tre, nel cui valor per tutte

            Le men facili imprese io più fidava,

            Conducea meco. La deessa intanto

            Dal seno ampio del mare, in ch'era entrata,

            Quattro pelli recò, del corpo tratte

            Novellamente di altrettante foche;

            E tramava con esse inganno al padre.

            Scavò quattro covili entro l'arena:

            Quindi s'assise e ci attendea. Noi presso

            Ci femmo a lei, che subito levossi,

            E noi dispose ne' scavati letti,

            E i cuoi recenti ne addossò. Moleste

            Le insidie ivi tornavano; ché troppo

            Noiava delle foche in mar nutrite

            L'orrendo puzzo. E chi a marina belva

            Può giacersi vicin? Se non che al nostro

            Stato provvide la cortese diva,

            Che ambrosia, onde spirava alma fragranza,

            Venneci a por sotto le afflitte nari,

            Cui del mar più non giunse il grave odore.

              Tutto il mattino aspettavam con alma

            Forte e costante. Le deformi foche

            Dell'onde usciro in frotta, e a mano a mano

            Tutte si distendevano sul lido.

            Uscìo sul mezzogiorno il gran vegliardo

            E trovò foche corpulente e grasse,

            Che attento annoverò. Contò noi prima,

            Né di frode parea nutrir sospetto.

            Ciò fatto, ei pur nella sua grotta giacque.

            Ci avventammo con grida, e le robuste

            Braccia al vecchio divin gittammo intorno,

            Che l'arti sue non obliò in quel punto.

            Leone apparve di gran giubba, e in drago

            Voltossi, ed in pantera, e in verro enorme,

            E corse in onda liquida, e in sublime

            Pianta chiomata verdeggiò. Ma noi

            Il tenevam fermo più sempre. Allora

            L'astuto veglio, che nel petto stanco

            Troppo sentiasi omai stringer lo spirto,

            Con queste voci interrogommi: "Atride,

            Qual fu de' numi che d'insidiarmi

            Ti diè il consiglio, e di pigliarmi a forza?

            Di che mestieri hai tu? "Proteo", io risposi,

            "Tu il sai. Perché il dimandi, e ancor t'infingi?

            Sai che gran tempo l'isoletta tiemmi,

            Che scampo quinci io non ritrovo, e sento

            Distruggermisi il core. Ah! dimmi, quando

            Nulla celasi ai dèi, chi degli Eterni

            M'inceppa e mi rinchiude il mare intorno".

              "Non dovevi salpar", riprese il dio,

            "Che onorato pria Giove e gli altri numi

            Di sagrifici non avessi opimi,

            Se in breve al natìo suol giungere ardevi.

            Or la tua patria, degli amici il volto,

            E la magion ben fabbricata il fato

            Riveder non ti dà, dove tu prima

            Del fiume Egitto, che da Giove scende,

            Non risaluti la corrente, e porgi

            Ecatombe perfette ai dii beati,

            Che il bramato da te mar t'apriranno".

              A tai parole mi s'infranse il core,

            Udendo che d'Egitto in su le rive

            Ricondurmi io dovea per gli atri flutti,

            Lunga e difficil via. Pur dissi: "Vecchio,

            Ciò tutto io compierò. Ma or rispondi,

            Ti priego, a questo, e schiettamente parla:

            Salvi tornaro co' veloci legni

            Tutti gli Achivi che lasciammo addietro,

            Partendo d'Ilïòn, Nestore ed io?

            O perì alcun d'inopinata morte

            Nella sua nave, o ai cari amici in grembo,

            Posate l'armi, per cui Troia cadde?"

              "Atride", ei replicò, perché tal cosa

            Mi cerchi tu? Quel ch'io nell'alma chiudo,

            Saper non fa per te, cui senza pianto,

            Tosto che a te palese il tutto fia,

            Non rimarrà lunga stagione il ciglio.

            Molti colpì l'inesorabil Parca,

            E molti non toccò. Due soli duci

            De' vestiti di rame Achei guerrieri

            Moriro nel ritorno; e, ritenuto

            Del vasto mar nel seno, un terzo vive;

            Aiace ai legni suoi dai lunghi remi

            Perì vicino. Dilivrato in prima

            Dall'onde grosse, e su gli enormi assiso

            Girèi macigni, a cui Nettun lo spinse,

            Potea scampar, benché a Minerva in ira,

            Se non gli uscìa di bocca un orgoglioso

            Motto che assai gli nocque. Osò vantarsi

            Che, in dispetto agli déi, vincer del mare

            Le tempeste varrìa. Nettuno udillo

            Borïante in tal guisa, e col tridente,

            Che in man di botto si piantò, percosse

            La Girèa pietra, e in due spezzolla: l'una

            Colà restava, e l'altra, ove sedea

            Della percossa travagliato il Duce,

            Si rovesciò nel pelago, e il portava

            Pel burrascoso mare, in cui, bevuta

            Molta salsa onda, egli perdeo la vita.

            Il tuo fratello, col favor di Giuno,

            Morte sfuggì nella cavata nave.

            Ma come avvicinossi all'arduo capo

            Della Malèa, fiera tempesta il colse,

            E tra profondi gemiti portollo

            Sino al confin della campagna, dove

            Tieste un giorno, e allora Egisto, il figlio

            Di Tieste, abitava. E quinci ancora

            Parea sicuro il ritornar; ché i numi

            Voltàr subito il vento, e in porto entraro

            Gli stanchi legni. Agamennòn di gioia

            Colmo gittossi nella patria terra,

            E toccò appena la sua dolce terra,

            Che a baciarla chinossi, e per la guancia

            Molte gli discorrean lagrime calde,

            Perché la terra sua con gioia vide.

            Ma il discoprì da una scoscesa cima

            L'esplorator, che il fraudolento Egisto

            Con promessa di due talenti d'oro

            Piantato aveavi. Ei, che spïando stava

            Dall'eccelsa veletta un anno intero

            Non trapassasse ignoto, e forse a guerra

            Intalentato il tuo fratello, corse

            Con l'annunzio al signor, che un'empia frode

            Repente ordì. Venti, e i più forti, elesse:

            E in agguato li mise, e imbandir feo

            Mensa festiva: indi a invitar con pompa

            Di cavalli e di cocchi andò l'Atride,

            Cose orrende pensando, e il ricondusse;

            E, accolto a mensa, lo scannò qual toro,

            Cui scende su la testa, innanzi al pieno

            Presepe suo, l'inaspettata scure.

            Non visse d'Agamènnone o d'Egisto

            Solo un compagno, ma di tutti corse

            Confuso e misto nel palagio il sangue".

              E a me schiantossi il core a queste voci.

            Pianto io versava, su l'arena steso,

            Né più mirar del sol volea la luce.

            Ma come di plorar, di voltolarmi

            Sovra il nudo terren sazio gli parvi,

            Tal seguitava il non mendace vecchio:

            "Resta, o figlio d'Atrèo, dall'infinite

            Lagrime per un mal che omai compenso

            Non pate alcuno, e t'argomenta in vece,

            Più veloce che puoi, riedere in Argo.

            Troverai vivo ne' suoi tetti Egisto,

            O l'avrà poco dianzi Oreste ucciso,

            E tu al funèbre assisterai banchetto".

              Disse, e di gioia un improvviso raggio

            Nel mio cor balenava. "Io già d'Aiace",

            Risposi, "e del fratello assai compresi.

            Chi è quel terzo che il suo reo destino

            Vivo nel sen del mare, o estinto forse

            Ritiene? Io d'udir temo e bramo a un tempo".

              E nuovamente il non bugiardo veglio:

            "D'Itaca il re, che di Laerte nacque.

            Costui dirotto dalle ciglia il pianto

            Spargere io vidi in solitario scoglio,

            Soggiorno di Calipso, inclita ninfa,

            Che rimandarlo niega: ond'ei, cui solo

            Non avanza un naviglio, e non compagni

            Che il trasportin del mare su l'ampio dorso.

            Star gli convien dalla sua patria in bando.

            Ma tu, tu, Menelao, di Giove alunno,

            Chiuder gli occhi non dèi nella nutrice

            Di cavalli Argo; ché non vuole il fato.

            Te nell'Elisio campo, ed ai confini

            Manderan della terra i numi eterni,

            Là 've risiede Radamanto, e scorre

            Senza cura o pensiero all'uom la vita.

            Neve non mai, non lungo verno o pioggia

            Regna colà; ma di Favonio il dolce

            Fiato, che sempre l'Oceàno invia,

            Que' fortunati abitator rinfresca.

            Perché ad Elena sposo, e a Giove stesso

            Genero sei, tal sortirai ventura.

            Tacque, e saltò nel mare, e il mar l'ascose.

              Io, da vari pensier l'alma turbato,

            Movea co' prodi amici in vêr le navi.

            La cena s'apprestò. Cadde la notte,

            Dell'uom ristoratrice, e noi del mare

            Ci addormentammo sul tranquillo lido.

            Ma del mattin la figlia ebbe consperso

            Di rose orïentali appena il cielo,

            Che nel divino mar varammo i legni,

            D'uguali sponde armati, e con le vele

            Gli alberi alzammo: entrâro, e sovra i banchi

            I compagni sedettero, ed assisi

            Co' remi percotean l'onde spumose

            Del fiume Egitto, che da Giove scende.

            Un'altra volta all'abborrita foce

            Io fermai le mie navi, e giuste ai numi

            Vittime offersi, e ne placai lo sdegno.

            Eressi anco al german tomba, che vivo

            In quelle parti ne serbasse il nome.

            Dopo ciò, rimbarcàimi, e con un vento

            Che mi ferìa dirittamente in poppa,

            Pervenni, folgorando, ai porti miei.

            Or, Telemaco, via, tanto ti piaccia

            Rimaner, che l'undecima riluca

            Nell'orïente, o la duodecim'alba.

            Io ti prometto congedarti allora

            Con doni eletti: tre destrieri e un vago

            Cocchio, ed inoltre una leggiadra tazza

            Da libare ai celesti, acciò non sorga

            Giorno che il tuo pensiero a me non torni”.

              Il prudente Telemaco rispose:

            “Gran tempo qui non ritenermi, Atride.

            Non che a me non giovasse un anno intero,

            La patria e i miei quasi obblïando, teco

            Queste case abitar, ché alla tua voce

            L'alma di gioia ricercarmi io sento.

            Ma già muoion di tedio i miei compagni

            Nell'alta Pilo; e tu m'arresti troppo.

            Qualsiasi il don di che mi vuoi far lieto,

            Un picciol sia tuo prezïoso arnese.

            Ad Itaca i destrieri addur non penso;

            Penso lasciarli a te, bello de' tuoi

            Regni ornamento: perocché signore

            Tu sei d'ampie campagne, ove fiorisce

            Loto e cipéro, ove frumenti e spelde,

            Ove il bianc'orzo d'ogni parte alligna.

            Ma non larghe carriere, e non aperti

            Prati in Itaca vedi: è di caprette

            Buona nutrice, e a me di ver più grata,

            Che se cavalli nobili allevasse.

            Nulla del nostro mare isola in verdi

            Piani si stende, onde allevar destrieri;

            E men dell'altre ancora Itaca mia”.

              Sorrise il forte ne' conflitti Atride,

            E la mano a Telemaco stringendo:

            “Sei”, disse, “o figlio, di buon sangue, e a questa

            Tua favella il dimostri. Ebbene, i doni

            Ti cambierò: farlo poss'io. Di quanto

            La mia reggia contien, ciò darti io voglio,

            Che più mi sembra prezïoso e raro:

            Grande urna effigïata, argento tutta,

            Dai labbri in fuor, sovra cui l'oro splende,

            Di Vulcano fattura. Io dall'egregio

            Fèdimo, re di Sidone, un dì l'ebbi,

            Quando il palagio suo me, che di Troia

            Venìa, raccolse; e tu n'andrai con questa.

              Così tra lor si ragionava. Intanto

            Dell'Atride i ministri al suo palagio

            Conducean pingui pecorelle, e vino

            Di coraggio dator, mentre le loro

            Consorti il capo di bei veli adorne

            Candido pan recavano. In tal guisa

            Si mettea qui l'alto convivio in punto.

              Ma in altra parte, e alla magion davante

            Del magnanimo Ulisse, i proci alteri

            Dischi lanciavan per diletto, e dardi

            Sul pavimento lavorato e terso,

            Della baldanza lor solito campo.

            Solo i due capi, che di forza e ardire

            Tutti vinceano, il pari in volto ai numi

            Eurimaco ed Antìnoo, erano assisi.

            S'accostò loro, ed al secondo volse

            Di Fronio il figlio, Noemòn, tai detti:

            “Antinoo, il dì lice saper, che rieda

            Telemaco da Pilo? Ei dipartissi,

            Con la mia nave che or verrìami ad uopo,

            Per tragittar nell'Elide, ove sei

            Pasconmi e sei cavalle, ed altrettanti

            Muli non domi, che lor dietro vanno,

            E di cui, razza faticante, alcuno

            Rimenar bramo e accostumarlo al giogo”.

              Stupìano i prenci che ne' suoi poderi

            De' montoni al custode, o a quel de' verri

            Trapassato il credeano, e non al saggio

            Figliuol di Neleo nell'eccelsa Pilo.

              “Quando si dipartì?” rispose il figlio

            D'Eupìte, Antinoo. “E chi seguillo? Scelti

            Giovani forse d'Itaca, o gli stessi

            Suoi mercenari e schiavi? E osava tanto?

            Schietto favella. Saper voglio ancora,

            Se a mal cuor ti lasciasti il legno tôrre,

            O a lui, che tel chiedea, di grado il desti”.

              “Il diedi a lui, che mel chiedea, di grado”,

            Noemón ripigliò. “Chi potea mai

            Con sì nobil garzone e sì infelice

            Stare in sul niego? Gioventù seguillo

            Della miglior tra il popolo Itacese,

            E condottier salìa la negra nave

            Mentore, o un dio che ne vestìa l'aspetto.

            E maraviglio io ben ch'ieri sull'alba

            Mentore io scôrsi. Or come allor la negra

            Nave salì, che veleggiava a Pilo?”

            Disse, e del padre alla magion si rese.

              Atterriti rimasero. Cessâro

            Gli altri da' giuochi, e s'adagiaro anch'essi,

            E a tutti favellò d'Eupìte il figlio:

            [Se gli gonfiava della furia il core

            Di caligine cinto, e le pupille

            Nella fronte gli ardean come due fiamme.]

            “Grande per fermo e audace impresa è questo,

            Cui già nessun di noi fede prestava,

            Vïaggio di Telemaco! Un garzone,

            Un fanciullo gittar nave nel mare,

            Di tanti uomini ad onta, e aprire al vento

            Con la più scelta gioventù le vele?

            Né il male qui s'arresta: ma Giove

            A Telemaco pria franga ogni possa,

            Che una tal piaga dilatarsi io veggia.

            Su, via, rapida nave e venti remi

            A me, sì ch'io lo apposti, e al suo ritorno

            Nel golfo, che divide Itaca e Same,

            Colgalo; e il folle con suo danno impari

            L'onde a stancar del genitore in traccia”.

            Così Antinoo parlò. Lodi e conforti

            Gli davan tutti: indi sorgeano, e il piede

            Nell'alte stanze riponean d'Ulisse.

              Ma de' consigli che nutrìano in mente,

            Penelope non fu gran tempo ignara.

            Ne la feo dotta il banditor Medonte,

            Che udìa di fuori la consulta iniqua,

            E agli orecchi di lei pronto recolla.

            Ella nol vide oltrepassar la soglia,

            Che sì gli disse: “Araldo, onde tal fretta?

            Ed a che i proci ti mandâro? Forse

            Perché d'Ulisse le solerti ancelle

            Dai lavori si levino, e l'usato

            Convito apprestin loro? O fosse questo

            De' conviti l'estremo, e a me travaglio

            Più non desser, né altrui! Tristi! che, tutto

            Del prudente Telemaco il retaggio

            Per disertar, vi radunate in folla.

            E non udiste voi da' vostri padri,

            Mentr'eravate piccioletti e imberbi,

            I modi che tenea con loro Ulisse,

            Nessuno in opre molestando, o in detti,

            Costume pur degli uomini scettrati,

            Che odio portano agli uni, e agli altri amore?

            Non offese alcun mai: quindi l'indegno

            Vostro adoprar meglio si pare, e il merto

            Che di tanti favor voi gli rendete”.

              Ed il saggio Medonte: “Ai dèi piacesse

            Che questo il peggior mal, reina, fosse!

            Altro dai proci se ne cova in petto

            Più grave assai, che Giove sperda: il caro

            Figlio, che a Pilo sacra, e alla divina

            Sparta si volse, per ritrar del padre,

            Ucciderti di spada al suo ritorno”.

              Penelope infelice, a tali accenti

            Scioglier sentissi le ginocchia e il core.

            Per lungo spazio la voce mancolle,

            Gli occhi di pianto le s'empièr, distinta

            Non poteale dai labbri uscir parola:

            Rispose al fine: “Araldo, e perché il figlio

            Da me staccossi? Qual cagion, qual forza

            Sospingealo a salir le ratte navi,

            Che destrieri del mar sono, e l'immensa

            Varcano umidità? Brama egli dunque

            Che né resti di sé nel mondo il nome?”

              “Qual de' due spinto”, il banditor riprese,

            “L'abbia sul mare, a domandar del padre,

            Se la propria sua voglia, o un qualche nume,

            Reina, ignoro”. E sovra l'orme sue

            Ritornò, così detto, il fido araldo.

              Fiera del petto roditrice doglia

            Penelope ingombrò; né, perché molti

            Fossero i seggi, le bastava il core

            Di posare in alcun; sedea sul nudo

            Limitar della stanza, acuti lai

            Mettendo; e quante la servìano ancelle,

            Sì da canuta età, come di bionda,

            Ululavano a lei d'intorno tutte.

            Ed ella, forte lagrimando: “Amiche,

            Uditemi”, dicea. “Tra quante donne

            Nacquero e crebber meco, ambasce tali

            Chi giammai tollerò? Prima un egregio

            Sposo io perdei, d'invitto cor, fregiato

            D'ogni virtù tra i Greci, ed il cui nome

            Per l'Ellada risuona, e tutta l' Argo.

            Poi le tempeste m'involaro il dolce

            Mio parto, in fama non ancor salito,

            E del vïaggio suo nulla io conobbi.

            Sciaurate! eravi pur l'istante noto,

            Ch'ei nella cava entrò rapida nave:

            Né di voi fu, cui suggerisse il core

            Di scuotermi dal sonno? Ov'io la fuga

            Potuto avessi presentirne, certo

            Da me, benché a fatica, ei non partìa,

            O me lasciava nel palagio estinta.

            Ma dei serventi alcun tosto mi chiami

            L'antico Dolio, schiavo mio, che dato

            Fummi dal genitor, quand'io qua venni,

            Ed or le piante del giardin m'ha in cura.

            Vo' che a Laerte corra, e il tutto narri,

            Sedendosi appo lui, se mai Laerte,

            Di pianto aspersa la senil sua guancia,

            Mostrar credesse al popolo, e lagnarsi

            Di color che schiantar l'unico ramo

            Di lui vorrìano, e del divino Ulisse”.

              E la diletta qui balia Euriclèa:

            “Sposa cara”, rispose, “o tu m'uccida,

            O nelle stanze tue viva mi serbi,

            Parlerò aperto. Il tutto io seppi, e al figlio

            Le candide farine e il rosso vino

            Consegnai: ma giurar col giuramento

            Più sacro io gli dovei, che ove agli orecchi

            Non ti giugnesse della sua partenza

            Aura d'altronde, e tu men richiedessi,

            Io tacerei, finché spuntasse in cielo

            La dodicesim'aurora, onde col pianto

            Da te non s'oltraggiasse il tuo bel corpo.

            Su via, ti bagna, e bianca veste prendi,

            E, con le ancelle tue nell'alto ascesa,

            Priega Minerva che il figliuol ti guardi:

            Né affligger più con imbasciate il veglio

            Già per sé afflitto assai. No, tanto ai numi

            Non è d'Arcesio la progenie in ira,

            Che un germe viver non ne debba, a cui

            Queste muraglie sorgano, e i remoti

            Si ricuopran di messe allegri campi”.

              Con queste voci le sopì nel petto

            La doglia, e il pianto le arrestò sul ciglio

            Ella bagnossi, bianca veste prese,

            E, con le ancelle sue, nell'alto ascesa,

            Pose il sacr'orzo nel canestro e il sale,

            E a Palla supplicò. “M'ascolta”, disse,

            “O dell'Egìoco Giove inclita figlia.

            Se il mio consorte ne' paterni tetti

            Pingui d'agna o di bue cosce mai t'arse,

            Oggi per me ten risovvenga: il figlio

            Guardami, e sgombra dal palagio i proci,

            Di cui, più ciascun dì monta l'orgoglio”.

            Scoppiò in un grido dopo tai parole,

            E l'Atenèa Minerva il priego accolse.

              Tumulto fean sotto le oscure volte

            Coloro intanto, e alcun dicea: “La molto

            Vagheggiata Reina omai le nozze

            Ci appresta, e ignora che al suo figlio morte

            S'apparecchia da noi”. Tanto dal vero

            Quelle superbe menti ivan lontane.

              Ed Antinoo: “Sciaurati, il dire incauto,

            Che potrìa dentro penetrar, frenate.

            Ma che più badiam noi? Tacitamente

            Quel che tutti approvar mettiamo in opra.

              Ciò detto, venti scelse uomini egregi,

            Ed al mare avvïossi. Il negro legno

            Varâro, alzaro l'albero, assettaro

            Gli abili remi in volgitoi di cuoio,

            E le candide vele ai venti apriro.

            Poi, recate arme dagli arditi servi,

            Nell'alta onda fermâr la negra nave.

            Quivi cenaro; e stavansi aspettando

            Che più crescesse della notte il buio.

              Ma la grama Penelope nell'alto

            Giacea digiuna, non gustando cibo,

            Bevanda non gustando; e a lei nel petto

            Sul destin dubbio di sì cara prole

            Fra la speme e il timor l'alma ondeggiava.

            Qual de' lattanti leoncin la madre,

            Cui fan corona insidïosa intorno

            I cacciatori, che a temere impara,

            E in diversi pensier l'alma divide:

            Tal fra sè rivolvea cose diverse,

            Finché la invase un dolce sonno. Stesa

            Sul letto, e tutte le giunture sciolta,

            La donna inconsolabile dormìa.

              Allor la dea dall'azzurrino sguardo

            Nuova cosa pensò. Compose un lieve

            Fantasma, che sembrava in tutto Iftima,

            D'Icario un'altra figlia, a cui legato

            S'era con nodi maritali Eumelo,

            Che in Fere di Tessaglia avea soggiorno.

            Questa Iftima invïò d'Ulisse al tetto,

            Che alla Reina tranquillasse il core,

            E i sospiri da lei bandisse e il pianto.

            Pel varco angusto del fedel serrame

            Entrò il fantasma, e, standole sul capo:

            “Riposi tu, Penelope”, dicea,

            “Nel tuo cordoglio? Gl'immortali dèi

            Lagrimosa non voglionti, nè trista.

            Riederà il figliuol tuo, perché de' numi

            L'ira col suo fallir mai non incorse”.

              E la Reina, che dormìa de' sogni

            Soavissimamente in su le porte:

            “Sorella, a che venistu? io mai da prima

            Non ti vedea, così da lunge alberghi;

            E or vuoi ch'io vinca quel martìr che in cento

            Guise mi stringe l'alma, io, che un consorte

            Perdei sì buon, di sì gran core, ornato

            D'ogni virtù tra i Greci, ed il cui nome

            Per l'Ellada risuona e l'Argo tutta!

            S'arroge a questo, che il diletto figlio

            Partì su ratta nave, un giovinetto

            Delle fatiche e dell'usanze ignaro.

            Più ancor per lui, che per Ulisse, io piango

            E temo nol sorprenda o tra le genti

            Straniere, o in mare, alcun sinistro: tanti

            Nemici ha che l'insidiano, e di vita

            Prima il desìan levar, ch'egli a me torni”.

              Ratto riprese il simulacro oscuro:

            “Scaccia da te questi ribrezzi, e spera.

            Compagna il segue di cotanta possa,

            Che ognun per sé la bramerìa: Minerva,

            Cui pietà di te punse e di cui fida,

            Per tuo conforto ambasciatrice io venni”.

              E la saggia Penelope a rincontro:

            “Poiché una dea sei dunque, o almeno udisti

            La voce d'una dea, parlarmi ancora

            Di quell'altro infelice or non potrai?

            Vive? rimira in qualche parte il Sole?

            O ne' bassi calò regni di Pluto?”

              Ratto riprese il simulacro oscuro:

            “S'ei viva, o no, non t'aspettar ch'io narri.

            Spender non piace a me gli accenti indarno”.

            Disse; e pel varco, ond'era entrata, uscendo

            Si mescolò co' venti e dileguossi.

            Ma la reina si destò in quel punto,

            Ed il cor si sentì d'un'improvvisa

            Brillar letizia, che lasciolle il sogno,

            Che sì chiaro le apparve innanzi l'alba.

              I proci l'onde già fendeano, estrema

            Macchinando a Telemaco ruina.

            Siede tra la pietrosa Itaca e Same

            Un'isola in quel mar, che Asteri è detta,

            Pur dirupata, né già troppo grande,

            Ma con sicuri porti, in cui le navi

            D'ambo i lati entrar ponno. Ivi in agguato

            Telemaco attendean gl'iniqui Achei.

             

             


            LIBRO QUINTO

             

             

              Già l'Aurora, levandosi a Titone

            D'allato, abbandonava il croceo letto,

            E ai dèi portava ed ai mortali il giorno;

            E già tutti a concilio i dèi beati

            Sedean con Giove altitonante in mezzo,

            Cui di possanza cede ogni altro nume.

              Memore Palla dell'egregio Ulisse,

            Che mal suo grado appo la ninfa scorge,

            I molti ritesseane acerbi casi:

            “O Giove”, disse, “e voi tutti d'Olimpo

            Concittadini, che in eterno siete,

            Spoglisi di giustizia e di pietade,

            E iniquitate e crudeltà si vesta

            D'ora innanzi ogni re, quando l'imago

            D'Ulisse più non vive in un sol core

            Di quella gente ch'ei reggea da padre.

            Ei nell'isola intanto, ove Calipso

            In cave grotte ripugnante il tiene,

            Giorni oziosi e travagliosi mena;

            E del tornare alla sua patria è nulla,

            Poiché navi non ha, non ha compagni,

            Che il carreggin del mar su l'ampio tergo.

            Che più? Il figliuol, che all'arenosa Pilo

            Mosse ed a Sparta, onde saver di lui,

            Tôr di vita si brama al suo ritorno.

              “Figlia, qual ti sentii fuggir parola

            Dal recinto de' denti?” a lei rispose

            L'adunator di nubi Olimpio Giove;

            “Tu stessa in te non divisavi, come

            Rieda Ulisse alla patria, e di que' tristi

            Vendetta faccia? In Itaca il figliuolo

            Per opra tua, chi tel contende? salvo

            Rïentri, e l'onde navigate indarno

            Rinavighi de' proci il reo naviglio.

              Disse, e a Mercurio, sua diletta prole,

            Così si rivolgea: “Mercurio, antico

            De' miei comandi apportator fedele,

            Vanne, alla ninfa dalle crespe chiome

            Il fermo annunzia mio voler, che Ulisse

            Le native contrade omai rivegga,

            Ma nol guidi uom, né dio. Parta su travi,

            Con multiplici nodi in un congiunte,

            E il ventesimo dì della feconda

            Scheria le rive, sospirando, attinga;

            E i Feaci l'accolgano, che quasi

            Degl'immortali al par vivon felici.

            Essi qual nume onoreranlo, e al dolce

            Nativo loco il manderan per nave;

            Rame in copia darangli, ed oro e vesti,

            Quanto al fin seco dalla vinta Troia

            Condotto non avrìa, se con la preda,

            Che gli toccò, ne ritornava illeso:

            Ché la patria così, gli amici e l'alto

            Riveder suo palagio, è a lui destino”.

              Obbedì il prode messaggiero. Al piede

            S'avvinse i talar belli, aurei, immortali,

            Che sul mare il portavano, e su i campi

            Della terra infiniti, al par col vento.

            Poi, l'aurea verga nelle man recossi,

            Onde i mortali dolcemente assonna,

            Quanti gli piace, e li dissonna ancora,

            E con quella tra man l'aure fendea.

            Come presi ebbe di Pïeria i gioghi,

            Si calò d'alto, e si gettò sul mare:

            Indi l'acque radea velocemente,

            Simile al laro, che pe' vasti golfi

            S'aggira in traccia de' minuti pesci,

            E spesso nel gran sale i vanni bagna.

            Non altrimenti sen venìa radendo

            Molte onde e molte l'Argicìda Ermete.

            Ma tosto che fu all'isola remota,

            Salendo allor dagli azzurrini flutti,

            Lungo il lido ei sen gìa, finché vicina

            S'offerse a lui la spazïosa grotta,

            Soggiorno della ninfa il crin ricciuta,

            Cui trovò il nume alla sua grotta in seno.

              Grande vi splendea foco, e la fragranza

            Del cedro ardente e dell'ardente tio

            Per tutta si spargea l'isola intorno.

            Ella, cantando con leggiadra voce,

            Fra i tesi fili dell'ordìta tela

            Lucida spola d'ôr lanciando andava.

            Selva ognor verde l'incavato speco

            Cingeva: i pioppi vi cresceano e gli alni

            E gli spiranti odor bruni cipressi:

            E tra i lor rami fabbricato il nido

            S'aveano augelli dalle lunghe penne,

            Il gufo, lo sparviere e la loquace

            Delle rive del mar cornacchia amica.

            Giovane vite di purpurei grappi

            S'ornava e tutto rivestìa lo speco.

            Volvean quattro bei fonti acque d'argento,

            Tra sé vicini prima, e poi divisi

            L'un dall'altro e fuggenti; e di vïole

            Ricca si dispiegava in ogni dove

            De' molli prati l'immortal verzura.

            Questa scena era tal, che sino a un nume

            Non potea farsi ad essa, e non sentirsi

            Di maraviglia colmo e di dolcezza.

            Mercurio, immoto, s'ammirava; e, molto

            Lodatola in suo core, all'antro cavo,

            Non indugiando più, dentro si mise.

              Calipso, inclita dea, non ebbe in lui

            Gli occhi affissati, che il conobbe: quando,

            Per distante che l'un dall'altro alberghi,

            Celarsi l'uno all'altro i dèi non ponno.

            Ma nella grotta il generoso Ulisse

            Non era: mesto sul deserto lido,

            Cui spesso si rendea, sedeasi; ed ivi

            Con dolori, con gemiti, con pianti

            Struggeasi l'alma, e l'infecondo mare

            Sempre agguardava, lagrime stillando.

              La diva il nume interrogò, cui posto

            Su mirabile avea seggio lucente:

            “Mercurio, nume venerato e caro,

            Che della verga d'ôr la man guernisci,

            Qual mai cagione a me, che per l'addietro

            Non visitavi, oggi t'addusse? Parla.

            Cosa ch'io valga oprar, né si sconvegna,

            Disdirti io non saprei, se il pur volessi.

            Su via, ricevi l'ospital convito:

            Poscia favellerai”. Detto, la mensa,

            Che ambrosia ricoprìa, gli pose avanti,

            Ed il purpureo néttare versògli.

            Questo il celere messaggiero e quella

            Prendea; né prima nelle forze usate

            Tornò, che aprìa le labbra in tali accenti:

            “Tu dea me dio dunque richiedi? Il vero,

            Poiché udirlo tu vuoi, schietto io ti narro.

            Questo viaggio di Saturno il figlio

            Mal mio grado mi diè. Chi vorrìa mai

            Varcar tante onde salse, infinite onde,

            Dove città non sorge, e sagrificî

            Non v'ha chi ci offra, ed ecatombe illustri?

            Ma il precetto di Giove a un altro nume

            Né vïolar, né oblïar lice. Teco,”

            Disse l'Egidarmato, “i giorni mena

            L'uom più gramo tra quanti alla cittade

            Di Priamo innanzi combattean nove anni,

            Finché il decimo alfin, Troia combusta,

            Spiegâro in mar le ritornanti vele.

            Ma nel cammino ingiurïar Minerva,

            Che destò le bufere, e immensi flutti

            Contra lor sollevò. Tutti perîro

            Di quest'uomo i compagni; ed ei dal vento

            Venne, e dal fiotto ai lidi tuoi portato.

            Or tu costui congederai di botto;

            Ché non morir dalla sua terra lunge,

            Ma la patria bensì, gli amici e l'alto

            Riveder suo palagio, è a lui destino”.

              Inorridì Calipso, e con alate

            Parole rispondendo: “Ah, numi ingiusti,”

            Sclamò, “che invidia non più intesa è questa,

            Che se una dea con maritale amplesso

            Si congiunge a un mortal, voi non soffrite?

            Quando la tinta di rosato Aurora

            Orïone rapì, voi, dèi, cui vita

            Facile scorre, acre livor mordea,

            Finché in Ortigia il rintracciò la casta

            Dal seggio aureo Dïana, e d'improvvisa

            Morte il colpì con invisibil dardo.

            E allor che venne, inanellata il crine,

            Cerere a Giasïon tutta amorosa,

            E nel maggese, che il pesante aratro

            Tre volte aperto avea, se gli concesse,

            Giove, cui l'opra non fu ignota, uccise

            Giasïon con la folgore affocata.

            Così voi, dèi, con invid'occhio al fianco

            Mi vedete un eroe da me serbato,

            Che solo stava in su i meschini avanzi

            Della nave, che il telo igneo di Giove

            Nel mare oscuro gli percosse e sciolse.

            Io raccogliealo amica, io lo nutria

            Gelosamente, io prometteagli eterni

            Giorni, e dal gel della vecchiezza immuni.

            Ma quando troppo è ver che alcun di Giove

            Precetto vïolare a un altro nume

            Non lice, od obblïar, parta egli e solchi,

            Se il comandò l'Egidarmato, i campi

            Non seminati. Io nol rimando certo;

            Ché navi a me non sono e non compagni,

            Che del mare il carreggino sul tergo.

            Ben sovverrógli di consiglio, e il modo

            Gli additerò, che alla sua dolce terra

            Su i perigliosi flutti ei giunga illeso”.

              “Ogni modo il rimanda,” l'Argicida

            Soggiunse, “e pensa che infiammarsi d'ira

            Potrebbe contra te l'Olimpio un giorno”.

            E sul fin di tai detti a lei si tolse.

              L'augusta ninfa, del Saturnio udita

            la severa imbasciata, il prode Ulisse

            Per cercar s'avvïò. Trovollo assiso

            Del mar in su la sponda, ove le guance

            Di lagrime rigava, e consumava

            Col pensier del ritorno i suoi dolci anni;

            Ché della ninfa non pungealo amore:

            E se le notti nella cava grotta

            Con lei vogliosa non voglioso passa,

            Che altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno,

            Su i lidi assiso e su i romiti scogli,

            Con dolori, con gemiti con pianti

            Struggesi l'alma, e l'infecondo mare,

            Lagrime spesse lagrimando, agguarda.

              Calipso, illustre dea, standogli appresso:

            “Sciagurato”, gli disse, in questi pianti

            “Più non mi dar, né consumare i dolci

            Tuoi begli anni così: la dipartita,

            Non che vietarti, agevolarti io penso.

            Su via, le travi nella selva tronche,

            Larga e con alti palchi a te congegna

            Zattera, che sul mar fosco ti porti.

            Io di candido pan, che l'importuna

            Fame rintuzzi, io di purissim'onda,

            E di rosso licor, gioia dell'alma,

            La carcherò: ti vestirò non vili

            Panni, e ti manderò da tergo un vento,

            Che alle contrade tue ti spinga illeso,

            Sol che d'Olimpo agli abitanti piaccia,

            Con cui di senno in prova io già non vegno”.

              Raccapricciossi a questo il non mai vinto

            Dalle sventure Ulisse, e: “O dea”, rispose

            Con alate parole, “altro di fermo,

            Non il congedo mio, tu volgi in mente,

            Che vuoi ch'io varchi su tal barca i grossi

            Del difficile mar flutti tremendi,

            Che le navi più ratte, e d'uguai fianchi

            Munite, e liete di quel vento amico

            Che da Giove partì, varcano appena.

            No: su barca sì fatta, e a tuo dispetto,

            Non salirò, dove tu pria non degni

            Giurare a me con giuramento grande,

            Che nessuno il tuo cor danno m'ordisce”.

              Sorrise l'Atlantìde, e, della mano

            Divina carezzandolo, la lingua

            Sciolse in tai voci: “Un cattivello sei,

            Né ciò che per te fa, scordi giammai.

            Quali parole mi parlasti! Or sappia

            Dunque la Terra e il Ciel superno, e l'atra,

            Che sotterra si volve, acqua di Stige,

            Di cui né più solenne han, né più sacro

            Gl'Iddii beati giuramento; sappia,

            Che nessuno il mio cor danno t'ordisce.

            Quello anzi io penso, e ti propongo, ch'io

            Torrei per me, se in cotant'uopo io fossi.

            Giustizia regge la mia mente, e un'alma

            Pietosa, non di ferro, in me s'annida”.

              Ciò detto, abbandonava il lido in fretta

            E Ulisse la seguìa. Giunti alla grotta,

            Colà, ond'era l'Argicida sorto,

            S'adagiò il Laerziade; e la dea molti

            Davante gli mettea cibi e licori,

            Quali ricever può petto mortale.

            Poi gli s'assise in fronte; e a lei le ancelle

            L'ambrosia e il roseo néttare imbandiro.

              Come ambo paghi per la mensa furo,

            Con tali accenti cominciava l'alta

            Di Calipso beltade: “O di Laerte

            Figlio divin, molto ingegnoso Ulisse,

            Così tu parti adunque, e alla nativa

            Terra e alle case de' tuoi padri vai?

            Va, poiché sì t'aggrada, e va felice.

            Ma se tu scorger col pensier potessi

            Per quanti affanni ti comanda il fato

            Prima passar, che al patrio suolo arrivi

            Questa casa con me sempre vorresti

            Custodir, ne son certa, e immortal vita

            Da Calipso accettar: benché sì viva

            Brama t'accenda della tua consorte,

            A cui giorno non è che non sospiri.

            Pur non cedere a lei né di statura

            Mi vanto, né di volto; umana donna

            Mal può con una dea, né le s'addice,

            Di persona giostrare, o di sembianza”.

              “Venerabile iddia”, riprese il ricco

            D'ingegni Ulisse, “non voler di questo

            Meco sdegnarti; appien conosco io stesso,

            Che la saggia Penelope tu vinci

            Di persona non men che di sembianza,

            Giudice il guardo che ti stia di contra.

            Ella nacque mortale; e in te né morte

            Può, né vecchiezza. Ma il pensiero è questo;

            Questo il desìo che mi tormenta sempre:

            Veder quel giorno al fin, che alle dilette

            Piagge del mio natal mi riconduca.

            Che se alcun me percoterà de' numi

            Per le fosche onde, io soffrirò, chiudendo

            Forte contra i disastri anima in petto.

            Molti sovr'esso il mar, molti fra l'armi,

            Già ne sostenni; e sosterronne ancora”.

            Disse; e il Sol cadde, ed annottò. Nel seno

            Si ritira<ro della cava grotta,

            Più interno e oscuro, e in dolce sonno avvolti,

            Tutte le cure lor mandaro in bando.

              Ma come del mattin la figlia, l'alma

            Dalle dita di rose Aurora apparve,

            Tunica e manto alle sue membra Ulisse,

            E Calipso alle sue larga ravvolse

            Bella gonna, sottil, bianca di neve;

            Si strinse al fianco un'aurea fascia, e un velo

            Sovra l'ôr crespo della chioma impose.

            Né d'Ulisse a ordinar la dipartita

            Tardava. Scure di temprato rame,

            Grande, manesca e d'ambo i lati aguzza,

            Con leggiadro, d'oliva, e bene attato

            Manubrio, presentògli, e una polita

            Vi aggiunse ascia lucente; indi all'estremo

            Dell'isola il guidò, dove alte piante

            Crescean; pioppi, alni, e sino al cielo abeti,

            Ciascun risecco di gran tempo e arsiccio,

            Che gli sdruccioli agevole sull'onda.

            Le altere piante gli additò col dito,

            E alla sua grotta il pié torse la diva.

              Egli a troncar cominciò il bosco: l'opra

            Nelle man dell'eroe correa veloce;

            Venti distese al suolo arbori interi,

            Gli adeguò, li polì, l'un destramente

            Con l'altro pareggiò. Calipso intanto

            Recava seco gli appuntati succhi,

            Ed ei forò le travi e insieme unille,

            E con incastri assicurolle e chiovi.

            Larghezza il tutto avea, quanta ne dánno

            Di lata nave trafficante al fondo

            Periti fabbri. Su le spesse travi

            Combacianti tra sé lunghe stendea

            Noderose assi, e il tavolato alzava.

            L'albero con l'antenna ersevi ancora,

            E costrusse il timon, che in ambo i lati

            Armar gli piacque d'intrecciati salci

            Contra il marino assalto, e molta selva

            Gittò nel fondo per zavorra o stiva.

            Le tue tele, o Calipso, in man gli andâro

            E buona gli uscì pur di man la vela,

            Cui le funi legò, legò le sarte,

            La poggia e l'orza: al fin, possenti leve

            Supposte, spinse il suo naviglio in mare,

            Che il dì quarto splendea. La dea nel quinto

            Congedollo dall'isola: odorate

            Vesti gli cinse dopo un caldo bagno;

            Due otri, l'un di rosseggiante vino,

            Di limpid'acqua l'altro, e un zaino, in cui

            Molte chiudeansi dilettose dapi,

            Collocò nella barca; e fu suo dono

            Un lenissimo ancor vento innocente,

            Che mandò innanzi ad increspargli il mare.

              Lieto l'eroe dell'innocente vento,

            La vela dispiegò. Quindi al timone

            Sedendo, il corso dirigea con arte,

            Né gli cadea su le palpèbre il sonno

            Mentre attento le Pleiadi mirava,

            E il tardo a tramontar Boòte e l'Orsa

            Che detta è pure il Carro, e là si gira,

            Guardando sempre in Orïone, e sola

            Nel liquido Oceàn sdegna lavarsi

            L'Orsa, che Ulisse, navigando, a manca

            Lasciar dovea, come la diva ingiunse.

            Dieci pellegrinava e sette giorni

            Su i campi d'Anfitrite. Il dì novello

            Gli sorse incontro co' suoi monti ombrosi

            L'isola de' Feaci, a cui la strada

            Conducealo più corta, e che apparìa

            Quasi uno scudo alle fosche onde sopra.

              Sin dai monti di Solima lo scôrse

            Veleggiar per le salse onde tranquille

            Il possente Nettun, che ritornava

            Dall'Etïopia, e nel profondo core

            Più crucciato che mai squassando il capo:

            “Poh!” disse dentro a sé, “nuovo decreto,

            Mentr'io fui tra gli Etiopi, intorno a Ulisse

            Fêr dunque i numi? Ei già la terra vede

            De' Feáci, che il fato a lui per meta

            Delle sue lunghe disventure assegna.

            Pur molto, io credo, a tollerar gli resta”.

              Tacque; e, dato di piglio al gran tridente,

            Le nubi radunò, sconvolse l'acque,

            Tutte incitò di tutti i venti l'ire,

            E la terra di nuvoli coverse;

            Coverse il mar: notte di ciel giù scese.

            S'avventaro sul mar, quasi in un groppo,

            Ed Euro e Noto e il celebre Ponente

            E Aquilon, che pruine aspre su l'ali

            Reca, ed immensi flutti innalza e volve.

              Discior sentissi le ginocchia e il core

            Di Laerte il figliuol, che tal si dolse

            Nel secreto dell'alma: “Ahi, me infelice!

            Che di me sarà omai? Temo, non torni

            Verace troppo della ninfa il detto,

            Che al patrio nido io giungerei per mezzo

            Delle fatiche solo e dell'angosce.

            Di quai nuvole il ciel ampio inghirlanda

            Giove, e il mar conturba? E come tutti

            Fremono i venti? A certa morte io corro.

            Oh tre fïate fortunati e quattro,

            Cui perir fu concesso innanzi a Troia,

            Per gli Atridi pugnando! E perché allora

            Non caddi anch'io, che al morto Achille intorno

            Tante i Troiani in me lance scagliaro?

            Sepolto i Greci co' funèbri onori

            M'avriano, e alzato ne' lor canti al cielo.

            Or per via così infausta ir deggio a Dite”.

              Mentre così doleasi, un'onda grande

            Venne d'alto con furia e urtò la barca,

            E rigirolla; e lui, che andar lasciossi

            Dalle mani il timon, fuori ne spinse.

            Turbine orrendo d'aggruppati venti

            L'albero al mezzo gli fiaccò; lontane

            Vela ed antenne caddero. Ei gran tempo

            Stette di sotto, mal potendo il capo

            Levar dall'onde impetuose e grosse;

            Ché le vesti gravavanlo, che in dono

            Da Calipso ebbe. Spuntò tardi, e molta

            Dalla bocca gli uscìa, gli piovea molta

            Dalla testa e dal crine onda salata.

            Non però della zatta il prese obblìo:

            Ma, da sé i flutti respingendo, ratto

            L'apprese, e già di sopra, il fin di morte

            Schivando, vi sedea. Rapìala il fiotto

            Qua e là per lo golfo. A quella guisa

            Che sovra i campi il tramontan d'autunno

            Fascio trabalza d'annodate spine,

            I venti trabalzavanla sul mare.

            Or Noto da portare a Borea l'offre,

            Ed or, perché davanti a sé la cacci,

            Euro la cede d'occidente al vento.

              La bella il vide dal tallon di perla

            Figlia di Cadmo, Ino chiamata, al tempo

            Che vivea tra i mortali: or nel mar gode

            Divini onori, e Leucotèa si noma.

            Compunta il cor per lui d'alta pietade,

            S'alzò dell'onda fuor, qual mergo a volo,

            E su le travi bene avvinte assisa,

            Così gli favellò: “Perché, meschino,

            S'accese mai con te d'ira sì acerba

            Lo Scotitor della terrena mole,

            Che ti semina i mali? Ah! non fia certo,

            Ch'ei, per quanto il desìi, spenga i tuoi giorni.

            Fa, poiché vista m'hai d'uomo non folle,

            Ciò ch'io t'insegno. I panni tuoi svestiti,

            Lascia il naviglio da portarsi ai venti,

            E a nuoto cerca il Feacese lido,

            Che per mèta de' guai t'assegna il fato.

            Ma questa prendi; e la t'avvolgi al petto,

            Fascia immortal, né temer morte o danno.

            Tocco della Feacia il lido appena,

            Spogliala, e in mar dal continente lungi

            La gitta, e torci nel gittarla il volto”.

            Ciò detto, e a lui l'immortal fascia data,

            Rïentrò, pur qual mergo in seno al fosco

            Mare ondeggiante, che su lei si chiuse.

              Pensoso resta e in forse il pazïente

            Laerziade divino, e con se stesso,

            Raddoppiando i sospir, tal si consiglia:

            “Ohimé! che nuovo non mi tessa inganno

            De' Sempiterni alcun, che dal mio legno

            Partir m'ingiunge. Io così tosto penso

            Non ubbidirgli; ché la terra, dove

            Di scampo ei m'affidò, troppo è lontana.

            Ma ecco quel che ottimo parmi: quanto

            Congiunte rimarran tra lor le travi,

            Non abbandonerolle, e co' disastri

            Fermo io combatterò. Sciorralle il flutto?

            Porrommi a nuoto, né veder so meglio”.

              Tai cose in sé volgea, quando Nettuno

            Sollevò un'onda immensa, orrenda, grave,

            Di monte in guisa, e la sospinse. Come

            Disperse qua e là vanno le secche

            Paglie, di cui sorgea gran mucchio in prima,

            Se mai le investe un furïoso turbo,

            le tavole per mar disperse andaro.

            Sovra un sol trave a cavalcioni Ulisse

            Montava: i panni che la dea Calipso

            Dati gli avea, svestì, s'avvolse al petto

            l'immortal benda, e si gittò ne' gorghi

            Boccon, le braccia per nôtare aprendo.

            Né già s'ascose dal ceruleo iddio,

            Che, la testa crollando: “A questo modo

            Erra”, dicea tra sé “di flutto in flutto

            Dopo tante sciagure, e a genti arriva

            Da Giove amate: benché speme io porti

            Che né tra quelle brillerài di gioia”.

            Così Nettuno; e della verde sferza

            Toccò i cavalli alle leggiadre chiome,

            Che il condussero ad Ega, ove gli splende

            Nobile altezza di real palagio.

              Pallade intanto, la prudente figlia

            Di Giove, altro pensò. Fermò gli alati

            Venti, e silenzio impose loro, e tutti

            Gli avvinse di sopor, fuorché il veloce

            Borea, che, da lei spinto, i vasti flutti

            Dinanzi a Ulisse infranse ond'ei le rive

            Del vago di remar popol Feace,

            Pigliar potesse, ed ingannar la Parca.

            Due giorni in cotal foggia, e tante notti

            Per l'ampio golfo errava, e spesso il core

            Morte gli presagìa. Ma quando l'Alba

            Cinta la fronte di purpuree rose

            Il dì terzo recò, tacquesi il vento,

            E un tranquillo seren regnava intorno.

            Ulisse allor, cui levò in alto un grosso

            Flutto, la terra non lontana scôrse,

            Forte aguzzando le bramose ciglia.

            Quale appar dolce a un figliuol pio la vista

            Del genitor, che su dolente letto

            Scarno, smunto, distrutto, e da un maligno

            Demone giacque lunghi dì percosso,

            E poi del micidial morbo cortesi

            Il disciolser gli dèi: tale ad Ulisse

            La terra e il verde della selva apparve.

            Quinci ei, nôtando, ambi movea di tutta

            Sua forza i piedi a quella volta. Come

            Presso ne fu, quanto d'uom corre un grido,

            Fiero il colpì romor: poiché i ruttati

            Sin dal fondo del mar flutti tremendi,

            Che agli aspri si rompean lidi ronchiosi,

            Strepitavan, mugghiavano, e di bianca

            Spuma coprìan tutta la sponda, mentre

            Porto capace di navigli, o seno

            Non vi s'aprìa, ma littorali punte

            Risaltavano in fuori, e scogli e sassi.

              Le forze a tanto ed il coraggio Ulisse

            Fallir si sente, e dice a sé, gemendo:

            “Qual pro che Giove il disperato suolo

            Mostri, e io m'abbia la via per l'onde aperta,

            Se dell'uscirne fuor non veggio come?

            Sporgon su l'onde acuti sassi, a cui

            L'impetuoso flutto intorno freme,

            E una rupe va su liscia e lucente:

            Né così basso è il mar, che nell'arena

            Fermare il pie' securamente io valga.

            Quindi, s'io trar men voglio, un gran maroso

            Sovra di sé può tormi, e in dura pietra

            Cacciarmi; o s'io lungo le rupi cerco

            Nôtando un porto, o una declìve schiena,

            Temo, non procellosa onda m'avvolga,

            E, sospirando gravemente, in grembo

            Mi risospinga del pescoso mare.

            Forse un de' mostri ancor, che molti nutre

            Ne' gorghi suoi la nobile Anfitrite,

            M'assalirà: ché l'odio io ben conobbi

            Che m'ha quel dio, per cui la terra trema”.

              Stando egli in tai pensieri, una sconcia onda

            Trasportollo con sé ver l'ineguale

            Spiaggia, che lacerata in un sol punto

            La pelle avrìagli, e sgretolate l'ossa,

            Senza un consiglio che nel cor gli pose

            L'occhicerulea diva. Afferrò ad ambe

            Mani la rupe, in ch'ei già dava, e ad essa

            Gemendo s'attenea. Deluso intanto

            Gli passò su la testa il vïolento

            Flutto: se non che poi, tornando indietro,

            Con nuova furia il ripercosse, e lunge

            Lo sbalzò della spiaggia al mare in grembo.

            Polpo così dalla pietrosa tana

            Strappato vien, salvo che a lui non pochi

            Restan lapilli nelle branche infitti:

            E Ulisse in vece la squarciata pelle

            Delle nervose man lasciò alla rupe.

            L'onde allora il copriro, e l'infelice

            Contro il fato perìa: ma infuse a lui

            Nuovo pensier l'Occhiazzurrina. Sorto

            Dall'onde, il lido costeggiava, ai flutti

            Che vel portavan contrastando, e attento

            Mirando sempre, se da qualche parte

            Scendesse una pendice, o un seno entrasse:

            Né dall'opra cessò, che d'un bel fiume

            Giunto si vide all'argentina foce.

            Ottimo qui gli sembrò il loco al fine,

            Siccome quel che né di sassi aspro era,

            Né discoperto ai venti. Avvisò ratto

            Il puro umor che devolveasi al mare,

            E tal dentro di sé preghiera feo:

            “O chiunque tu sii, re di quest'acque,

            Odimi: a te, cui sospirai cotanto,

            Gli sdegni di Nettuno e le minacce

            Fuggendo, io m'appresento. È sacra cosa

            Per gl'Immortali ancor l'uom, che d'altronde

            Venga errando, com'io, che dopo molti

            Durati affanni, ecco alla tua corrente

            Giungo, e ai ginocchi tuoi. Pietà d'Ulisse,

            Che tuo supplice vedi, o re, ti prenda”.

            Disse, ed il nume acchetò il corso, e l'onda

            Ritenne, sparsa una perfetta calma

            E alla foce il salvò del suo bel fiume.

            L'eroe, tocca la terra, ambo i ginocchi

            Piegò, piegò le nerborute braccia:

            Tanto il gran sale l'affliggeva. Gonfiava

            Tutto quanto il suo corpo, e per la bocca

            Molto mar gli sgorgava, e per le nari;

            Ed ei senza respiro e senza voce

            Giaceasi, e spento di vigore affatto:

            Che troppa nel suo corpo entrò stanchezza.

            Ma come il fiato ed il pensier rïebbe,

            Tosto dal petto la divina benda

            Sciolse, e gittolla ove amareggia il fiume.

            La corrente rapivala, né tarda

            A riprenderla fu con man la dea.

            Ei dall'onda ritráttosi, chinossi

            Su i molli giunchi, e baciò l'alma terra.

            Poi nel secreto della sua grand'alma

            Così parlava e sospirava insieme:

            “Eterni dèi, che mi rimase ancora

            Di periglioso a tollerar? Dov'io

            Questa gravosa notte al fiume in riva

            Vegghiassi, l'aer freddo e il molle guazzo

            Potrian me di persona e d'alma infermo

            Struggere al tutto, ché sui primi albori

            Nemica brezza spirerà dal fiume.

            Salirò al colle in vece, ed all'ombrosa

            Selva, e m'addormirò tra i folti arbusti,

            Sol che non vieti la fiacchezza o il ghiado,

            Che il sonno in me passi furtivo? Preda

            Diventar delle fere e pasto io temo”.

              Dopo molto dubbiar questo gli parve

            Men reo partito. Si rivolse al bosco,

            Che non lunge dall'acque a un poggio in cima

            Fea di sé mostra, e s'internò tra due

            Sì vicini arboscei, che dalla stessa

            Radice uscir pareano, ambi d'ulivo,

            Ma domestico l'un, l'altro selvaggio.

            La forza non crollavali de' venti,

            Né l'igneo Sole co' suoi raggi addentro

            Li saettava, né le dense piogge

            Penetravan tra lor; sì uniti insieme

            Crebbero, e tanto s'intrecciaro i rami.

            Ulisse sottentrovvi, e ammontichiossi

            Di propria man comodo letto, quando

            Tal ricchezza era qui di foglie sparse,

            Che ripararvi uomini tre, non che uno,

            Potuto avrìano ai più crudeli verni.

            Gioì alla vista delle molte foglie

            L'uom divino, e corcossi entro alle foglie,

            E a sé di foglie sovrappose un monte.

            Come se alcun, che solitaria suole

            Condur la vita in sul confin d'un campo,

            Tizzo nasconde fumeggiante ancora

            Sotto la bruna cenere, e del foco,

            Perché cercar da sé lungi nol debba,

            Serba in tal modo il prezïoso seme:

            Così celossi tra le foglie Ulisse.

            Pallade allor che di sì rea fatica

            Bramava torgli l'importuno senso,

            Un sonno gli versò dolce negli occhi,

            Le dilette palpèbre a lui velando.

             

             


            LIBRO SESTO

             

             

              Mentre sepolto in un profondo sonno

            Colà posava il travagliato Ulisse,

            Minerva al popol de' Feaci e all'alta

            Lor città s'avvïò. Questi da prima

            Ne' vasti d'Iperèa fecondi piani

            Far dimora solean, presso i Ciclopi,

            Gente di cuor superbo, e a' suoi vicini

            Tanto molesta più quanto più forte.

            Quindi Nausitoo, somigliante a un dio,

            Di tal sede levolli, e in una terra,

            Che dagli uomini industri il mar divide,

            Gli allogò, nella Scheria; e qui condusse

            Alla cittade una muraglia intorno.

            Le case fabbricò, divise i campi,

            E agl'Immortali i sacri templi eresse.

            Colpito dalla Parca, ai foschi regni

            Era già sceso, e Alcinoo, che i beati

            Numi assennato avean, reggea lo scettro.

              L'occhicilestra dea, che sempre fissa

            Nel ritorno d'Ulisse avea la mente,

            Tenne verso la reggia, e alla secreta

            Dedalea stanza si rivolse, dove

            Giovinetta dormìa, che le immortali

            D'indole somigliava e di fattezze,

            Nausica, del re figlia; ed alla porta,

            Che rinchiusa era, e risplendea nel buio.

            Giacean due, l'una quinci e l'altra quindi,

            Pudìche ancelle, cui le Grazie istesse

            Di non vulgar beltà la faccia ornâro.

              La dea, che gli occhi in azzurrino tinge,

            Quasi fiato leggier di picciol vento,

            S'avvicinò della fanciulla al letto,

            E sul capo le stette, e, preso il volto

            Della figlia del prode in mar Dimante

            Molto a lei cara, e ugual d'etade a lei,

            Cotali le drizzò voci nel sonno:

            “Deh, Nausica, perché te così lenta

            La genitrice partorì? Neglette

            Lasci giacerti le leggiadre vesti.

            Benché delle tue nozze il dì s'appressi,

            Quando le membra tue cinger dovrai

            Delle vesti leggiadre, e a quelli offrirne,

            Che scorgeranti dello sposo ai tetti.

            Così fama s'acquista, e ne gioisce

            Col genitor la veneranda madre.

            Dunque i bei panni, come il cielo imbianchi,

            Vadasi a por nell'onda: io nell'impresa,

            Onde trarla più ratto a fin tu possa,

            Compagna ti sarò. Vergine, io credo

            Non rimarrai gran pezza; e già di questo,

            Tra cui nascesti tu, popol Feace

            I migliori ti ambiscono. Su via,

            Spuntato appena in orïente il Sole,

            Trova l'inclito padre e de' gagliardi

            Muli il richiedi, e del polito carro,

            Che i pepli, gli scheggiali e i prezïosi

            Manti conduca: poiché sì distanno

            Dalla città i lavacri, che del cocchio

            Valerti e non del piede, a te s'addice”.

              Finiti ch'ebbe tali accenti, e messo

            Consiglio tal della fanciulla in petto,

            La dea, che guarda con azzurre luci,

            All'Olimpo tornò, tornò alla ferma

            De' sempiterni dèi sede tranquilla,

            Che né i venti commuovono, né bagna

            La pioggia mai, né mai la neve ingombra;

            Ma un seren puro vi si spande sopra

            Da nube alcuna non offeso, e un vivo

            Candido lume la circonda, in cui

            Si giocondan mai sempre i dii beati.

              L'Aurora intanto d'in su l'aureo trono

            Comparve in orïente, e alla sopita

            Vergine dal bel peplo i lumi aperse.

            La giovinetta s'ammirò del sogno,

            E al padre per narrarlo, ed alla madre

            Corse, e trovolli nel palagio entrambi.

            La madre assisa al focolare, e cinta

            Dalle sue fanti, e con la destra al fuso

            Lane di fina porpora torcea.

            Ma nel caro suo padre, in quel che al grande

            Concilio andava, ove attendeanlo i capi

            De' Feacesi, s'abbatte Nausica,

            E stringendosi a lui: “Babbo mio dolce,

            Non vuoi tu farmi apparecchiar”, gli disse,

            “L'eccelso carro dalle lievi ruote,

            Acciocché le neglette io rechi al fiume

            Vesti oscurate, e nitide le torni?

            Troppo a te si convien, che tra i soprani

            Nelle consulte ragionando siedi,

            Seder con monde vestimenta in dosso.

            Cinque in casa ti vedi amati figli,

            Due già nel maritaggio, e tre cui ride

            Celibe fior di giovinezza in volto.

            Questi al ballo ir vorrìan con panni sempre

            Giunti dalle lavande allora allora.

            E tai cose a me son pur tutte in cura”.

              Tacquesi a tanto; ché toccar le nozze

            Sue giovanili non s'ardìa col padre.

            Ma ei comprese il tutto, e sì rispose:

            “Né di questo io potrei, né d'altro, o figlia,

            Non soddisfarti. Va: l'alto, impalcato

            Carro veloce appresteranti i servi.

            Disse; e gli ordini diede, e pronti i servi”.

            La mular biga dalle lievi ruote

            Trasser fuori, e allestîro, e i forti muli

            Vi miser sotto, e gli accoppiâro. Intanto

            Venìa Nausica con le belle vesti,

            Che sulla biga lucida depose.

            Cibi graditi e di sapor diversi

            La madre collocava in gran paniere

            E nel capace sen d'otre caprigno

            Vino infondea soave: indi alla figlia,

            Ch'era sul cocchio, perché dopo il bagno

            Sé con le ancelle, che seguìanla, ungesse,

            Porse in ampolla d'or liquida oliva.

            Nausica in man le rilucenti briglie

            Prese, prese la sferza, e diè di questa

            Sovra il tergo ai quadrupedi robusti,

            Che si moveano strepitando, e i passi

            Senza posa allungavano, portando

            Le vesti, e la fanciulla, e non lei sola,

            Quando ai fianchi di lei sedean le ancelle.

              Tosto che fur dell'argentino fiume

            Alla pura corrente, ed ai lavacri

            Di viva ridondanti acqua perenne,

            Da cui macchia non è che non si terga,

            Sciolsero i muli, e al vorticoso fiume

            Il verde a morsecchiar cibo soave

            Del mele al pari, li mandaro in riva.

            Poscia dal cocchio su le braccia i drappi

            Recavanli, e gittavanli nell'onda,

            Che nereggiava tutta; e in larghe fosse

            Gìanli con presto piè pestando a prova.

            Purgati e netti d'ogni lor bruttura,

            L'uno appo l'altro gli stendean sul lido,

            Là dove le pietruzze il mar poliva.

            Ciò fatto, si bagnò ciascuna, e s'unse,

            E poi del fiume pasteggiâr sul margo:

            Mentre d'alto co' raggi aureolucenti

            Gli stesi drappi rasciugava il Sole.

            Ma, spento della mensa ogni desìo,

            Una palla godean trattar per gioco,

            Deposti prima dalla testa i veli;

            Ed il canto intonava alle compagne

            Nausica bella dalle bianche braccia.

            Come Dïana per gli eccelsi monti

            O del Taigeto muove, o d'Erimanto,

            Con la faretra agli omeri, prendendo

            De' ratti cervi e de' cinghiai diletto:

            Scherzan, prole di Giove, a lei d'intorno

            Le boscherecce Ninfe onde a Latona

            Serpe nel cor tacita gioia; ed ella

            Va del capo sovrana, e della fronte

            Visibilmente a tutte l'altre, e vaga

            Tra loro è più qual da lei meno è vinta:

            Così spiccava tra le ancelle questa

            Da giogo marital vergine intatta.

              Nella stagion che al suo paterno tetto

            I muli aggiunti e ripiegati i manti

            Ritornar disponea, nacque un novello

            Consiglio in mente all'occhiglauca diva,

            Perché Ulisse dissonnisi, e gli appaia

            La giovinetta dalle nere ciglia

            Che de' Feaci alla cittade il guidi.

            Nausica in man tolse la palla, e ad una

            Delle compagne la scagliò: la palla

            Desvïossi dal segno a cui volava,

            E nel profondo vortice cadé.

            Tutte misero allora un alto grido,

            Per cui si ruppe incontanente il sonno

            Nel capo a Ulisse; che a seder drizzossi

            Tai cose in sé volgendo: Ahi fra qual gente

            Mi ritrovo io? Cruda, villana, ingiusta,

            O amica degli estrani, e ai dii sommessa?

            Quel, che l'orecchio mi percosse, un grido

            Femminil parmi di fanciulle ninfe,

            Che de' monti su i gioghi erti, e de' fiumi

            Nelle sorgenti, e per l'erbose valli

            Albergano. O son forse umane voci,

            Che testé mi ferîro? Io senza indugio

            Dagli stessi occhi miei sapronne il vero.

              Ciò detto, uscìa l'eroe fuor degli arbusti,

            E con la man gagliarda, in quel che uscìa,

            Scemò la selva d'un foglioso ramo,

            Che velame gli valse ai fianchi intorno.

            Quale dal natìo monte, ove la pioggia

            Sostenne e i venti impetuosi, cala

            Leon, che nelle sue forze confida;

            Foco son gli occhi suoi; greggia ed armento

            O le cerve selvatiche, al digiuno

            Ventre ubbidendo, parimente assalta,

            Né, perché senta ogni pastore in guardia,

            Tutto teme investìr l'ovile ancora:

            Tal, benché nudo, sen veniva Ulisse,

            Necessità stringendolo, alla volta

            Delle fanciulle dal ricciuto crine

            Cui, lordo di salsuggine com'era,

            Sì fiera cosa rassembrò, che tutte

            Fuggîro qua e là per l'alte rive.

            Sola d'Alcinoo la diletta figlia,

            Cui Pallade nell'alma infuse ardire,

            E francò d'ogni tremito le membra,

            Piantossegli di contra e immota stette.

            In due pensieri ei dividea la mente:

            O le ginocchia strignere a Nausica,

            Di supplicante in atto; o di lontano

            Pregarla molto con blande parole

            Che la città mostrargli, e d'una vesta

            Rifornirlo, volesse. A ciò s'attenne;

            Ché dello strigner de' ginocchi sdegno

            Temea che in lei si risvegliasse. Accenti

            Dunque le inviò blandi e accorti a un tempo.

              “Regina, odi i miei voti. Ah degg'io dea

            Chiamarti, o umana donna? Se tu alcuna

            Sei delle dive che in Olimpo han seggio,

            Alla beltade, agli atti, al maestoso

            Nobile aspetto, io l'immortal Dïana,

            Del gran Giove la figlia, in te ravviso.

            E se tra quelli, che la terra nutre,

            Le luci apristi al dì, tre volte il padre

            Beato, e tre la madre veneranda,

            E beati tre volte i tuoi germani,

            Cui di conforto almo s'allarga e brilla

            Di schietta gioia il cor, sempre che in danza

            Veggiono entrar sì grazïoso germe.

            Ma felice su tutti oltra ogni detto,

            Chi potrà un dì nelle sue case addurti

            D'illustri carca nuzïali doni.

            Nulla di tal s'offerse unqua nel volto

            O di femmina, o d'uomo, alle mie ciglia:

            Stupor, mirando, e riverenza tiemmi.

            Tal quello era bensì che un giorno in Delo,

            Presso l'ara d'Apollo, ergersi io vidi

            Nuovo rampollo di mirabil palma:

            Ché a Delo ancora io mi condussi, e molta

            Mi seguìa gente armata in quel viaggio

            Che in danno rïuscir doveami al fine.

            E com'io, fìssi nella palma gli occhi

            Colmo restai di meraviglia, quando

            Di terra mai non surse arbor sì bello;

            Così te, donna, stupefatto ammiro,

            E le ginocchia tue, benché m'opprima

            Dolore immenso, io pur toccar non oso.

            Me uscito dell'Ogigia isola dieci

            Portava giorni e dieci il vento e il fiotto.

            Scampai dall'onda ier soltanto, e un nume

            Su queste piagge, a trovar forse nuovi

            Disastri, mi gittò: poscia che stanchi

            Di travagliarmi non cred'io gli eterni.

            Pietà di me, Regina, a cui la prima

            Dopo tante sventure innanzi io vegno,

            Io, che degli abitanti, o la campagna

            Tengali, o la città, nessun conobbi.

            La cittade m'addita; e un panno dammi,

            Che mi ricopra; dammi un sol, se panni

            Qua recasti con te, di panni invoglio.

            E a te gli dèi, quanto il tuo cor desìa,

            Si compiaccian largir: consorte e figli,

            E un sol volere in due, però ch'io vita,

            Non so più invidïabile, che dove

            La propria casa con un'alma sola

            Veggonsi governar marito e donna.

            Duol grande i tristi m'hanno, e gioia i buoni:

            Ma quei ch'esultan più, sono i due sposi”.

              “O forestier, tu non mi sembri punto

            Dissennato e dappoco”, allor rispose

            La verginetta dalle bianche braccia.

            “L'Olimpio Giove, che sovente al tristo

            Non men che al buon felicità dispensa,

            Mandò a te la sciagura, e tu da forte

            La sosterrai. Ma, poiché ai nostri lidi

            Ti convenne approdar, di veste o d'altro,

            Che ai supplici si debba ed ai meschini,

            Non patirai disagio. Io la cittade

            Mostrarti non ricuso, e il nome dirti

            Degli abitanti. È de' Feaci albergo

            Questa fortunata isola; ed io nacqui

            Dal magnanimo Alcinoo, in cui la somma

            Del poter si restringe, e dell'impero”.

              Tal favellò Nausica, e alle compagne:

            “Olà”, disse, “fermatevi. In qual parte

            Fuggite voi, perché v'apparse un uomo?

            Mirar credeste d'un nemico il volto?

            Non fu, non è: e non fia chi a noi s'attenti

            Guerra portar: tanto agli dèi siam cari.

            Oltre che in sen dell'ondeggiante mare

            Solitari viviam, viviam divisi

            Da tutto l'altro della stirpe umana.

            Un misero è costui, che a queste piagge

            Capitò errando, e a cui pensare or vuolsi.

            Gli stranieri, vedete, ed i mendichi

            Vengon da Giove tutti, e non v'ha dono

            Picciolo sì, che lor non torni caro.

            Su via, di cibo e di bevanda il nuovo

            Ospite soccorrete, e pria d'un bagno

            Colà nel fiume, ove non puote il vento”.

              Le compagne ristêro, ed a vicenda

            Si rincorâro, e, come avea d'Alcinoo

            La figlia ingiunto, sotto un bel frascato

            Menâro Ulisse, e accanto a lui le vesti

            Poser, tunica e manto, e la rinchiusa

            Nell'ampolla dell'ôr liquida oliva:

            Quindi ad entrar col piè nella corrente

            Lo inanimîro. Ma l'eroe: “Fanciulle,

            Appartarvi da me non vi sia grave,

            Finché io questa salsuggine marina

            Mi terga io stesso, e del salubre m'unga

            Dell'oliva licor, conforto ignoto

            Da lungo tempo alle mie membra. Io certo

            Non laverommi nel cospetto vostro;

            Ché tra voi starmi non ardisco ignudo”.

              Trasser le ancelle indietro, ed a Nausica

            Ciò riportaro. Ei dalle membra il sozzo

            Nettunio sal, che gl'incrostò le larghe

            Spalle ed il tergo, si togliea col fiume,

            E la bruttura del feroce mare

            Dal capo s'astergea. Ma come tutto

            Si fu lavato ed unto, e di que' panni

            Vestito, ch'ebbe da Nausica in dono,

            Lui Minerva, la prole alma di Giove,

            Maggior d'aspetto, e più ricolmo in faccia

            Rese, e più fresco, e de' capei lucenti,

            Che di giacinto a fior parean sembianti,

            Su gli omeri cader gli feo le anella.

            E qual se dotto mastro, a cui dell'arte

            Nulla celaro Pallade o Vulcano,

            Sparge all'argento il liquid'oro intorno,

            Sì che all'ultimo suo giunge con l'opra:

            Tale ad Ulisse l'Atenèa Minerva

            Gli omeri e il capo di decoro asperse;

            Ad Ulisse, che poscia, ito in disparte,

            Su la riva sedea del mar canuto,

            Di grazia irradïato e di beltade.

              La donzella stordiva; ed all'ancelle

            Dal crin ricciuto disse: “Un mio pensiero

            Nascondervi io non posso. Avversi, il giorno

            Che le nostre afferrò sponde beate,

            Non erano a costui tutti del cielo

            Gli abitatori: egli, d'uom vile e abbietto

            Vista m'avea da prima, ed or simìle

            Sembrami a un dio che su l'Olimpo siede.

            Oh colui fosse tal, che i numi a sposo

            Mi destinâro! Ed oh piacesse a lui

            Fermar qui la sua stanza! Orsù, di cibo

            Sovvenitelo, amiche, e di bevanda”.

              Quelle ascoltaro con orecchio teso,

            E il comando seguîr: cibo e bevanda

            All'ospite imbandîro, e il paziente

            Divino Ulisse con bramose fauci

            L'uno e l'altra prendea, qual chi gran tempo

            Bramò i ristori della mensa indarno.

              Qui l'occhinera vergine novello

            Partito immaginò. Sul vago carro

            Le ripiegate vestimenta pose,

            Aggiunse i muli di forte unghia, e salse.

            Poi così Ulisse confortava: “Sorgi

            Stranier, se alla cittade ir ti talenta

            E il mio padre veder, nel cui palagio

            S'accoglieran della Feacia i capi.

            Ma, quando folle non mi sembri punto,

            Cotal modo terrai. Finché moviamo

            De' buoi tra le fatiche e de' coloni,

            Tu con le ancelle dopo il carro vieni

            Non lentamente: io ti sarò per guida.

            Come da presso la cittade avremo,

            Divideremci. È la città da un alto

            Muro cerchiata, e due bei porti vanta

            D'angusta foce, un quinci e l'altro quindi,

            Su le cui rive tutti in lunga fila

            Posan dal mare i naviganti legni.

            Tra un porto e l'altro si distende il foro

            Di pietre quadre, e da vicina cava

            Condotte, lastricato; e al fôro in mezzo

            L'antico tempio di Nettun si leva.

            Colà gli arnesi delle negre navi,

            Gomene e vele, a racconciar s'intende,

            E i remi a ripulir: ché de' Feaci

            Non lusingano il core archi e faretre,

            Ma veleggianti e remiganti navi,

            Su cui passano allegri il mar spumante.

            Di cotestoro a mio potere io sfuggo

            Le voci amare, non alcun da tergo

            Mi morda, e tal, che s'abbattesse a noi

            Della feccia più vil: "Chi è", non dica,

            "Quel forestiero che Nausica siegue,

            Bello d'aspetto e grande? Ove trovollo?

            Certo è lo sposo. Forse alcun di quelli,

            Che da noi parte il mar, ramingo giunse,

            Ed ella il ricevé, che uscìa di nave:

            O da lunghi chiamato ardenti voti

            Scese di cielo, e le comparve un nume,

            Che seco riterrà tutti i suoi giorni.

            Più bello ancor, se andò ella stessa in traccia

            D'uom d'altronde venuto, e a lui donossi,

            Dappoi che i molti, che l'ambìano, illustri

            Feaci tanto avanti ebbe in dispetto".

            Così dirìano; e crudelmente offesa

            Ne sarìa la mia fama. Io stessa sdegno

            Concepirei contra chïunque osasse,

            De' genitori non contenti in faccia,

            Pria meschiarsi con gli uomini, che sorto

            Fosse delle sue nozze il dì festivo.

            Dunque a' miei detti bada; e leggermente

            Ritorno e scorta impetrerai dal padre.

            Folto di pioppi ed a Minerva sacro

            Ci s'offrirà per via bosco fronzuto,

            Cui viva fonte bagna, e molli prati

            Cingono: ivi non più dalla cittade

            Lontan, che un gridar d'uomo, il bel podere

            Giace del padre, e l'orto suo verdeggia.

            Ivi, tanto che a quella ed al paterno

            Tetto io giunga, sostieni; e allor che giunta

            Mi crederai, tu pur t'inurba, e cerca

            Il palagio del re. Del re il palagio

            Gli occhi tosto a sé chiama, e un fanciullino

            Vi ti potrìa condur; che de' Feaci

            Non sorge ostello che il paterno adegui.

            Entrato nel cortil, rapidamente

            Sino alla madre mia per le superbe

            Camere varca. Ella davanti al foco,

            Che del suo lume le colora il volto,

            Siede, e, poggiata a una colonna, torce,

            Degli sguardi stupor, purpuree lane.

            Siedonle a tergo le fantesche; e presso

            S'alza del padre il trono, in ch'ei, qual dio,

            S'adagia, e della vite il nèttar bee.

            Declina il trono, e stendi alle ginocchia

            De la madre le braccia; onde tra poco

            Del tuo ritorno alle natìe contrade,

            Per remote che sien, ti spunti il giorno.

            Stùdiati entrarle tanto e quanto in core;

            E di non riveder le patrie sponde,

            Gli alberghi avìti, e degli amici il volto,

            Bandisci dalla mente ogni sospetto”.

              Detto così, della lucente sferza

            Diè sulle groppe ai vigorosi muli,

            Che pronti si lasciâro il fiume addietro.

            Venìan correndo ed alternando a gara,

            Bello a vedersi, le nervose gambe;

            E la donzella, perché Ulisse a piede

            Lei con le ancelle seguitar potesse,

            Attenta carreggiava e fea con arte

            Scoppiare in alto della sferza il suono.

            Cadea nell'acque occidentali il sole,

            Che al sacro di Minerva illustre bosco

            Fûro; ed Ulisse ivi s'assise. Quindi

            A Minerva pregava in tali accenti:

            “Odimi, invitta dell'Egìoco figlia,

            Ed oggi almen fa' pieni i voti miei

            Tu, che pieni i miei voti unqua non festi,

            Finché su l'onde mi sbalzò Nettuno.

            Tu dammi che, gradito e non indegno

            Di pietade, ai Feaci io m'appresenti”.

              Disse, e Palla l'udì; ma non ancora

            Visibilmente gli assistea, per tema

            Del zio possente, al cui tremendo cruccio

            Era, pria che i natìi lidi toccasse,

            Bersaglio eterno il pari ai numi Ulisse.

             

             


            LIBRO SETTIMO

             

             

              Mentre così pregava il pazïente

            Divino Ulisse, dal vigor de' muli

            Portata era Nausica alla cittade.

            Giunta d'Alcinoo alla magion sublime,

            S'arrestò nel vestibolo; e i germani,

            Belli al par degli Eterni, intorno a lei

            D'ogni parte venìan: sciolsero i muli,

            E le vesti recaro entro la reggia.

            Ma la fanciulla il piede alla secreta

            Movea sua stanza: e raccendeale il foco

            Eurimedusa, una sua vecchia fante,

            Nata in Epiro, e su le negre navi

            Condotta, e al prode Alcinoo offerta in dono

            Perché ai Feaci ei comandava, e lui,

            Qual se un dio favellasse, udìan le genti.

            Costei Nausica dal braccio di neve

            Rallevò nel palagio, ed ora il foco

            Raccendeale, e mettea la cena in punto.

              Ulisse intanto sorse, e il cammin prese

            Della città. Ma l'Atenéa Minerva,

            Che da lui non torcea l'occhio giammai,

            Di molta il cinse impenetrabil nebbia,

            Onde nessun Feace o di parole,

            Scontrandolo, il mordesse, o il domandasse

            Del nome e della patria. Ei già già entrava

            Nell'amena città, quando la diva

            Gli occhi cerulea, se gli fece incontro,

            Non dissimile a vergine, che piena

            Sul giovinetto capo urna sostenti.

            Stettegli a fronte in tal sembianza, e Ulisse

            Così la interrogava: “O figlia, al tetto

            D'Alcinoo, che tra questi uomini impera,

            Vuoi tu condurmi? Io forestier di lunge,

            E dopo molti guai venni, né alcuno

            Della città conobbi, o del contorno”.

              “Ospite padre”, rispondea la diva

            Dai glauchi lumi, “il tetto desïato

            Mostrar ti posso di leggier; ché quello

            Del mio buon genitor per poco il tocca.

            Ma in silenzio tu seguimi e lo sguardo

            Non drizzare ad alcun, non che la voce.

            Render costoro agli stranieri onore

            Non sanno punto, né accoglienze amiche

            Trova, o carezze qui, chi altronde giunga.

            Essi, fidando nelle ratte navi,

            Per favor di Nettuno il vasto mare

            In un istante varcano: veloci

            Come l'ale o il pensier sono i lor legni”.

              Dette tai cose, frettolosa Palla

            Gli entrava innanzi, e l'orme ei ne calcava.

            Né i Feaci scorgeanlo andar tra loro:

            Così volendo la possente diva,

            Pallade, che al suo ben sempre intendea,

            E di sacra l'avvolse oscura nube.

            Ulisse i porti e i bei costrutti legni

            Maravigliava, e le superbe piazze,

            Ove i prenci s'assembrano, e le lunghe,

            Spettacolo ammirando, eccelse mura

            Di steccati munite e di ripari.

            Ma non prima d'Alcinoo alle regali

            Case appressaro, che Minerva disse:

            “Eccoti, ospite padre, in faccia il tetto

            Che mi richiedi: là vedrai gli alunni

            Di Giove, i prenci, a lauta mensa assisi.

            Cacciati dentro, e non temer: l'uom franco

            D'ogni difficoltate, a cui s'incontri,

            Meglio si trae, benché di lunge arrivi.

            Pria la Regina, che si noma Arete,

            E comun con Alcinoo il sangue vanta,

            Ti s'offrirà alla vista. Il dio che scuote

            Del suo tridente la terrena mole,

            Un bambin ricevé dalla più bella

            Donna di quell'età, da Peribèa,

            Figlia minor d'Eurimedonte, a cui

            De' Giganti obbedìa l'oltracotata

            Progenie rea, che per le lunghe guerre

            Tutta col suo re stesso al fin s'estinse.

            Nettun di lei s'accese, e n'ebbe un figlio,

            Nausìtoo generoso, il qual fu padre

            Di Ressènore e Alcinoo; e sul Feace

            Popol regnava. Il primo, a cui fallìa

            Prole del miglior sesso, avea di poco

            Nella sua reggia la consorte addotta

            Che Apollo dall'argenteo arco il trafisse;

            Né rimase di lui che una figliuola,

            Arete, e questa in moglie Alcinoo tolse,

            E venerolla fieramente: donna

            Non vive in nodi maritali stretta,

            Che sì alto al suo sposo in mente sieda.

            E in gran pregio non men l'hanno, ed amore

            Portanle i figli, e i cittadini ancora,

            Che a lei, quandunque va per la cittade,

            Gli occhi alzan, come a diva, e con accenti

            Festivi la ricevono; ché senno

            Né a lei pur manca vêr chi più tien caro,

            E le liti non rado ella compone.

            Se un loco prender nel suo cor tu sai,

            La terra, dove i lumi apristi al giorno,

            La magion de' tuoi padri, e degli amici

            I noti volti riveder confida”.

              Detto, la dea, ch'è nelle luci azzurra,

            Su pel mare infruttifero lanciossi.

            Lasciò la bella Scheria, e Maratona

            Trovò, ed Atene dalle larghe vie,

            E nel suo tempio entrò, che d'Erettèo

            Fu ròcca inespugnabile. Ma Ulisse

            All'ostello reale il piè movea,

            E molte cose rivolgea per l'alma,

            Pria ch'ei toccasse della soglia il bronzo:

            Ché d'Alcinoo magnanimo l'augusto

            Palagio chiara, qual di sole o luna,

            Mandava luce. Dalla prima soglia

            Sino al fondo correan due di massiccio

            Rame pareti risplendenti, e un fregio

            Di ceruleo metal girava intorno.

            Porte d'ôr tutte la inconcussa casa

            Chiudean: s'ergean dal limitar di bronzo

            Saldi stìpiti argentei, ed un argenteo

            Sosteneano architrave, e anello d'oro

            Le porte ornava; d'ambo i lati a cui,

            Stavan d'argento e d'ôr vigili cani:

            Fattura di Vulcan, che in lor ripose

            Viscere dotte, e da vecchiezza immuni

            Temperolli, e da morte, onde guardato

            Fosse d'Alcinoo il glorïoso albergo.

            E quanto si stendean le due pareti,

            Eranvi sedie quinci e quindi affisse,

            Con fini pepli sovrapposti, lunga

            Delle donne di Scheria opra solerte.

            Qui de' Feaci s'assideano i primi,

            La mano ai cibi ed ai licor porgendo,

            Che lor metteansi ciascun giorno avante:

            E la notte garzoni in oro sculti

            Su piedistalli a grande arte construtti,

            Spargean lume con faci in su le mense.

            Cinquanta il re servono ancelle: l'une

            Sotto pietra rotonda il biondo grano

            Frangono; e l'altre o tesson panni, o fusi

            Con la rapida man rotano assise,

            Movendosi ad ognor, quali agitate

            Dal vento foglie di sublime pioppo.

            Splendono i drappi a maraviglia intesti,

            Come se un olio d'ôr su vi scorresse.

            Poiché quanto i Feaci a regger navi

            Gente non han che li pareggi, tanto

            Valgon tele in oprar le Feacesi,

            Cui mano industre più che all'altre donne

            Diede Minerva, e più sottile ingegno.

              Ma di fianco alla reggia un orto grande,

            Quanto ponno in dì quattro arar due tori

            Stendesi, e viva siepe il cinge tutto.

            Alte vi crescon verdeggianti piante,

            Il pero e il melagrano, e di vermigli

            Pomi carico il melo, e col soave

            Fico nettáreo la canuta oliva.

            Né il frutto qui, regni la state, o il verno,

            Pêre, o non esce fuor: quando sì dolce

            D'ogni stagione un zeffiretto spira,

            Che mentre spunta l'un, l'altro matura.

            Sovra la pera giovane, e su l'uva

            L'uva, e la pera invecchia, e i pomi e i fichi

            Presso ai fichi ed ai pomi. Abbarbicata

            Vi lussureggia una feconda vigna,

            De' cui grappoli il sol parte dissecca

            Nel più aereo ed aprìco, e parte altrove

            La man dispicca dai fogliosi tralci,

            O calca il piè ne' larghi tini: acerbe

            Qua buttan l'uve i redolenti fiori,

            E di porpora là tingonsi e d'oro.

            Ma del giardino in sul confin tu vedi

            D'ogni erba e d'ogni fior sempre vestirsi

            Ben culte aiuole, e scaturir due fonti

            Che non taccion giammai: l'una per tutto

            Si dirama il giardino, e l'altra corre,

            Passando del cortil sotto alla soglia,

            Sin davanti al palagio; e a questa vanno

            Gli abitanti ad attingere. Sì bella

            Sede ad Alcinoo destinaro i numi.

            Di maraviglia tacito e sospeso

            Ulisse colà stava; e visto ch'ebbe

            Tutto, e rivisto con secreta lode,

            Nell'eccelsa magion ratto si mise.

            Trovò i Feaci condottieri e prenci,

            Che libavan co' nappi all'Argicida

            Mercurio, a cui libar solean da sezzo,

            Come del letto gli assalìa la brama;

            E innanzi trapassò, dentro alla folta

            Nube che Palla gli avea sparsa intorno,

            Finché ad Arete e al suo marito giunse.

            Circondò con le braccia alla Reina

            Le ginocchia; ed in quel da lui staccossi

            La nube sacra, e in vento si disciolse.

            Tutti repente ammutolîro, e forte

            Stupìan, guardando l'uom che alla Reina

            Supplicava in tal forma: “O del divino

            Ressènore figliuola, illustre Arete,

            Alle ginocchia tue, dopo infiniti

            Disastri, io vegno, vegno al tuo consorte,

            E a questi grandi ancor, cui dì felici

            Menar gli dèi concedano, e ne' figli

            Le ricchezze domestiche e gli onori

            Che s'acquistaro, tramandare. Or voi

            Scorta m'apparecchiate, acciocché in breve

            Alla patria io mi renda ed agli amici,

            Da cui vivo lontan tra i guai gran tempo”.

              Disse, e andò al focolare, e innanzi al foco

            Sovra l'immonda cenere sedette:

            Né alcun fra tanti aprìa le labbra. Al fine

            Parlò l'eroe vecchio Etenèo, che in pronto

            Molte avea cose trapassate, e tutti

            Di facondia vincea, non men che d'anni:

            “Alcinoo”, disse con amico petto,

            “Poco ti torna onor, che su l'immonda

            Cenere il forestier sieda; e se nullo

            Muovesi, egli è perché un tuo cenno aspetta.

            Su via, leval di terra, e in sedia il poni

            Borchiettata d'argento; e ai banditori

            Mescer comanda, onde al gran Giove ancora

            Che del fulmine gode, e s'accompagna

            Co' venerandi supplici, libiamo.

            La dispensiera poi di quel che in serbo

            Tiene, presenti al forestier per cena”.

              Alcinoo, udito ciò, lo scaltro Ulisse

            Prese per man, dal focolare alzollo

            E l'adagiò sovra un lucente seggio,

            Fatto sorgerne prima il più diletto

            De' suoi figliuoli che sedeangli accanto,

            L'amico di virtù Laodamante.

            Tosto l'ancella da bel vaso d'oro

            Purissim'acqua nel bacil d'argento

            Gli versava, e stendea desco polìto,

            Su cui l'onesta dispensiera bianchi

            Pani venne ad imporre, e di serbate

            Dapi gran copia. Ma la sacra possa

            Di Alcinoo al banditor: “Pontònoo, il rosso

            Licore infondi nelle tazze, e in giro

            Recalo a tutti, onde al gran Giove ancora,

            Che del fulmine gode, e s'accompagna

            Co' venerandi supplici, libiamo”.

              Disse; e Pontònoo il buon licore infuse,

            E il recò, propinando, a tutti in giro.

            Ma il re, come libato ebbero, e a piena

            Voglia bevuto, in tai parole uscìo:

            “O condottieri de' Feaci, o capi,

            Ciò che il cor dirvi mi consiglia, udite.

            Già banchettati foste: i vostri alberghi

            Cercate adunque e riposate. Al primo

            Raggio di Sole in numero più spessi

            Ci adunerem, perché da noi s'onori

            L'ospite nel palagio, e più superbe

            Vittime immoleransi: indi con quale

            Scorta al suol patrio, per lontan che giaccia,

            Possa, non pur senza fatica o noia,

            Ma lieto e rapidissimo condursi,

            Diviseremo. Esser dee nostra cura

            Che danno non l'incolga, in sin ch'ei tocco

            Non abbia il suol natìo. Colà poi giunto,

            Quel soffrirà, che le severe Parche

            Nel dì del suo natale a lui filâro.

            E se un dio fosse dall'Olimpo sceso?

            Altro s'avvolgerìa disegno in mente

            De' numi allora. Spesso a noi mostrarsi

            Nell'ecatombe più solenni, e nosco

            Starsi degnaro ad una mensa. Dove

            Un qualche vïandante in lor s'avvenga,

            Non l'occultano a noi, che per vetusta

            Origine lor siam molto vicini,

            Non altrimenti che i Ciclopi antichi,

            E de' Giganti la selvaggia stirpe”.

              “Alcinoo”, gli rispose il saggio Ulisse,

            “Muta questo pensiero. Io dell'immenso

            Cielo ai felici abitatori eterni

            Né d'indole somiglio, né d'aspetto.

            Somiglio ai figli de' mortali, e a quanti

            Voi conoscete in più angoscioso stato.

            Né ad alcuno di lor cedo ne' mali:

            Tanti e sì gravi men crearo i numi.

            Or cenar mi lasciate, ancor che afflitto;

            Però che nulla io so di più molesto

            Che il digiun ventre, di cui l'uom mal puote

            Dimenticarsi per gravezze o doglie.

            Nel fondo io son de' guai: pur questo interno

            Signor, che mai di domandar non resta,

            Vuol ch'io più non rammenti i danni miei,

            E ai cibi stenda ed ai licor la mano.

            Ma voi, comparso in Orïente il giorno,

            Rimandarmi vi piaccia. Io non ricuso,

            Visti i miei servi, l'alte case e i campi,

            Gli occhi al lume del Sol chiuder per sempre”.

              Disse; e tutti assentìano, e fean gran ressa,

            Che lo stranier, che ragionò sì bene,

            Buona scorta impetrasse. Al fin, libato

            Ch'ebbero e a pien bevuto, il proprio albergo

            Ciascun cercava, per entrar nel sonno.

            Sol nella reggia rimaneasi Ulisse,

            E presso gli sedeano Alcinoo e Arete,

            Mentre le ancelle del convito i vasi

            Dalla mensa toglieano. Arete prima

            Gli favellò, come colei che il manto

            Riconobbe, e la tunica, leggiadre

            Vesti, che di sua man tessute avea

            Con le sue fanti, e che or vedeagli in dosso:

            “Stranier”, gli disse con alate voci,

            Di questo io te cercar voglio la prima:

            Chi sei tu? Donde sei? Da chi tai panni?

            Non ci fai creder tu che ai nostri lidi

            Misero, errante e naufrago approdasti?”

              E il saggio Ulisse replicògli: “Forte,

            Regina, i mali raccontar, che molti

            M'invïaro gli dèi. Quel che più brami

            Sapere, io toccherò. Lontana giace

            Un'isola nel mar che Ogigia è detta.

            Quivi d'Atlante la fallace figlia

            Dai ben torti capei, Calipso, alberga,

            Terribil dea, con cui nessun de' numi

            Conversa, o de' mortali. Un genio iniquo

            Con lei me solo a dimorar costrinse,

            Dappoi che Giove a me per l'onde scure

            La ratta nave folgorando sciolse.

            Tutti morti ne fûro i miei compagni:

            Ma io, con ambe mani alla carena

            Della nave abbracciatomi, per nove

            Giorni fui trasportato, e nella fosca

            Decima notte all'isoletta spinto

            Della dea, che m'accolse, e amicamente

            Mi trattava e nodriva, e promettea

            Da morte assicurarmi e da vecchiezza;

            Né però il cor mi piegò mai nel petto.

            Sette anni interi io mi vedea con lei,

            E di perenni lagrime i divini

            Panni bagnava, che mi porse in dono.

            Ma tosto che l'ottavo anno si volse,

            La diva, o fosse imperïal messaggio

            Del figliuol di Saturno, o di lei stessa

            Mutamento improvviso, alle mie case

            Ritornar confortavami. Su travi,

            Da moltiplici nodi in un congiunte,

            Con molti doni accommiatommi: pane

            Candido e dolce vin diemmi, e odorate

            Vesti vestimmi, e, ad incresparmi il mare,

            Un placido mandò vento innocente.

            Io dieci viaggiava e sette giorni

            Su le liquide strade. Al nuovo albore

            Mi sorse incontro co' suoi monti ombrosi

            L'isola vostra, e a me infelice il core

            Ridea, benché altri guai m'apparecchiasse

            Nettun, che incitò i venti, il mar commosse,

            Mi precise la via; né più speranza

            Già m'avanzava, che il naviglio frale

            Me gemente portasse all'onde sopra.

            Ruppelo al fine il turbo. A nuoto allora

            Misurai questo mar, finché alla vostra

            Contrada il vento mi sospinse e il flutto.

            Quivi alla terra, nell'uscir dell'acque,

            Franto un'onda m'avrìa, che me in acute

            Punte cacciava, e in disamabil riva:

            Se non ch'io, ritirandomi dal lido,

            Tanto nôtava, che a un bel fiume sceso

            Da Giove io giunsi, ove opportuno il loco

            Parvemi e liscio; né in balìa de' venti.

            Scampai, le forze raccogliendo. Intanto

            Spiegò i suoi veli la divina Notte,

            Ed io, lasciato da una parte il fiume,

            Sovra un letto di foglie e tra gli arbusti

            Giacqui, e m'infuse lungo sonno un dio.

            Dormìi l'intera notte insino all'alba,

            Dormìi sino al meriggio; e già calava

            Verso Occidente il Sole, allor che il dolce

            Sonno m'abbandonò. Vidi le ancelle

            Della tua figlia trastullar su l'erba,

            E lei tra quelle, che una dea mi parve,

            E a cui preghiere io porsi; ed ella senno

            Mostrava tal, qual non s'attende mai

            L'uom da una età sì fresca, in cui s'abbatta,

            Perché la fresca età sempre folleggia.

            Ella recente pan, vino possente,

            Ella comodo bagno a me nel fiume,

            Ed ella vesti. Me infelice il fato

            Render potrà, ma non potrà bugiardo”.

              Ed Alcinoo repente: “Ospite, in questo

            La mia figlia sfallì, che non condusse

            Te con le ancelle alla magion, quantunque

            Tu a lei primiera supplicato avessi”.

              “Eccelso eroe, non mi biasmar”, rispose

            Lo scaltro Ulisse, “per cagion sì lieve

            La incolpabil fanciulla. Ella m'ingiunse

            Di seguitarla con le ancelle; ed io

            Men guardai, per timor che il tuo vedermi

            T'infiammasse di sdegno. Umana, il sai,

            Razza noi siamo al sospettare inchina”.

              Ed Alcinoo di nuovo: “Ospite, un'alma

            Già non s'annida in me, che fuoco prenda

            Sì prontamente. Alla ragione io cedo,

            E quel che onesto è più, sempre io trascelgo.

            Ed oh piacesse a Giove, a Palla e a Febo,

            Che, qual ti scorgo, e d'un parer con meco

            Sposa volessi a te far la mia figlia,

            Genero mio chiamarti, e la tua stanza

            Fermar tra noi! Case otterresti e beni

            Da me, dove il restar non ti sgradisse:

            Ché ritenerti a forza, e l'ospitale

            Giove oltraggiar, nullo qui fia che ardisca.

            Però così su l'alba il tuo vïaggio

            Noi disporrem, che abbandonarti al sonno

            Nella nave potrai, mentre i Feaci

            L'azzurra calma romperan co' remi,

            Né cesseran, che nella patria messo

            T'abbiano, e ovunque ti verrà desìo,

            Foss'anco oltre l'Eubèa, cui più lontana

            D'ogni altra regïon che alzi dal mare,

            Dicon que' nostri che la vider, quando

            A Tizio, figlio della terra, il biondo

            Radamanto condussero. All'Eubèa

            S'indrizzar, l'afferrar, ne ritornaro

            Tutto in un giorno; e non fu grave impresa.

            Conoscerai quanto sien bene inteste

            Le nostre navi, e i giovani gagliardi

            Nel voltar sottosopra il mar co' remi”.

              Gioì a tai detti il pazïente Ulisse,

            E, le braccia levando: “O Giove padre”,

            Sclamò, “tutte adempir le sue promesse

            Possami Alcinoo! Ei gloria eterna avranne,

            Ed io porrò nelle mie case il piede”.

              Queste correan tra lor parole alterne.

            Ma la Reina, candida le braccia,

            Arete, intanto alle fantesche impose

            Il letto collocar sotto la loggia,

            Belle gittarvi porporine coltri,

            E tappeti distendervi, e ai tappeti

            Manti vellosi sovrapporre. Uscîro

            Quelle, tenendo in man lucide faci,

            Il denso letto sprimacciaro in fretta,

            E rïentrate: “Sorgi, ospite; or puoi”,

            Dissero a Ulisse, “chiuder gli occhi al sonno”.

            Né punto al forestier l'invito spiacque.

            Così ei sotto il portico sonante

            Là s'addormìa ne' traforati letti.

            Alcinoo si corcò del tetto eccelso

            Ne' penetrali; e a lui da presso Arete,

            La consorte real, che a sé ed a lui

            Preparò di sua mano il letto e i sonni.

             

             


            LIBRO OTTAVO

             

             

              Ma tosto che rosata ambo le palme,

            Comparve in ciel l'aggiornatrice Aurora,

            Surse di letto la sacrata possa

            Del magnanimo Alcinoo, e il divin surse

            Rovesciator delle cittadi Ulisse.

            La possanza d'Alcinoo al parlamento,

            Che i Feaci tenean presso le navi,

            Prima d'ogni altro mosse. A mano a mano

            Venìano i Feacesi, e su polite

            Pietre sedeansi. L'occhiglauca diva,

            Cui d'Ulisse il ritorno in mente stava,

            Tolte del regio banditor le forme,

            Qua e là s'avvolgea per la cittade,

            E appressava ciascuno, e: “Su”, dicea,

            “Su, prenci e condottieri, al foro, al foro,

            Se udir vi cal dello stranier che giunse

            Ad Alcinoo testé per molto mare,

            E assai più, che dell'uom, del nume ha in viso”.

              Disse, e tutti eccitò. Della raccolta

            Gente fûro in brev'ora i seggi pieni.

            Ciascun guardava con le ciglìa in arco

            Di Laerte il figliuol: ché a lui Minerva

            Sovra il capo diffuse e su le spalle

            Divina grazia, ed in grandezza e in fiore

            Crebbelo, e in gagliardìa, perch'ei ne' petti

            Destar potesse riverenza e affetto,

            E de' nobili giuochi, ove chiamato

            Fosse a dar di sé prova, uscir con vanto.

              Concorsi tutti, e in una massa uniti,

            Tra loro arringò Alcinoo in questa guisa:

            “O condottieri de' Feaci, e prenci,

            Ciò che il cor dirvi mi comanda, udite.

            Questo a me ignoto forestier, che venne

            Ramingo, e ignoro ancor se donde il Sole

            Nasce, o donde tramonta, ai tetti miei

            Scorta dimanda pel viaggio, e prega

            Gli sia ratto concessa. Or noi l'usanza

            Non seguirem con lui? Uomo, il sapete,

            Ai tetti miei non capitò, che mesto

            Languir dovesse sovra queste piagge,

            Per difetto di scorta, i giorni e i mesi.

            Traggasi adunque nel profondo mare

            Legno dall'onde non battuto ancora,

            E s'eleggan cinquanta e due garzoni

            Tra il popol tutto, gli ottimi. Costoro,

            Varato il legno, e avvinti ai banchi i remi,

            Subite e laute ad apprestar m'andranno

            Mense, che a tutti oggi imbandite io voglio.

            Ma quei che di bastone ornan la mano,

            L'ospite nuovo ad onorar con meco

            Vengano ad una; e il banditor mi chiami

            L'immortale Demodoco, a cui Giove

            Spira sempre de' canti il più soave,

            Dovunque l'estro, che l'infiamma, il porti”.

              Detto, si mise in via. Tutti i scettrati

            Seguìanlo ad una, e all'immortal cantore

            L'araldo indirizzavasi. I cinquanta

            Garzoni e due, come il re imposto avea,

            Fûro del mar non seminato al lido;

            La nave negra nel profondo mare

            Trassero, alzâro l'albero e la vela.

            I lunghi remi assicurâr con forti

            Lacci di pelle, a maraviglia il tutto,

            E, le candide vele al vento aperte,

            Arrestaro nell'alta onda la nave:

            Poscia d'Alcinoo ritrovar l'albergo.

            Già i portici s'empiean, s'empieano i chiostri,

            Non che ogni stanza, della varia gente,

            Che s'accogliea, bionde e canute teste,

            Una turba infinita. Il re quel giorno

            Diede al sacro coltel dodici agnelle,

            Otto corpi di verri ai bianchi denti,

            E due di tori dalle torte corna.

            Gli scoiâr, gli acconciâr, ne apparecchiaro

            Convito invidïabile. L'araldo

            Ritorno feo, per man guidando il vate,

            Cui la Musa portava immenso amore,

            Benché il ben gli temprasse e il male insieme.

            Degli occhi il vedovò, ma del più dolce

            Canto arricchillo. Il banditor nel mezzo

            Sedia d'argento borchiettata a lui

            Pose, e l'affisse ad una gran colonna:

            Poi la cetra vocale a un aureo chiodo

            Gli appese sovra il capo, ed insegnògli,

            Come a staccar con mano indi l'avesse.

            Ciò fatto, un desco gli distese avanti

            Con panier sopra, e una capace tazza,

            Ond'ei, qual volta nel pungea desìo,

            Del vermiglio licor scaldasse il petto.

              Come la fame rintuzzata, e spenta

            Fu la sete in ciascun, l'egregio vate,

            Che già tutta sentìasi in cor la Musa,

            De' forti il pregio a risonar si volse,

            Sciogliendo un canto, di cui sino al cielo

            Salse in que' dì la fama. Era l'antica

            Tenzon d'Ulisse e del Pelìade Achille,

            Quando di acerbi detti ad un solenne

            Convito sacro si ferîro entrambi.

            Il re de' prodi Agamennòn gioìa

            Tacitamente in sé, visti a contesa

            Venire i primi degli Achei: ché questo

            Della caduta d'Ilio era il segnale.

            Tanto da Febo nella sacra Pito,

            Varcato appena della soglia il marmo,

            Predirsi allora udì, che di que' mali,

            Che sovra i Teucri, per voler di Giove,

            Rovesciarsi doveano, e su gli Achivi,

            Si cominciava a dispiegar la tela.

              A tai memorie il Laerziade, preso

            L'ampio ad ambe le man purpureo manto,

            Sel trasse in testa, e il nobil volto ascose,

            Vergognando che lagrime i Feaci

            Vedesserlo stillar sotto le ciglia.

            Tacque il cantor divino; ed ei, rasciutte

            Le guancie in fretta, dalla testa il manto

            Si tolse, e, dato a una ritonda coppa

            Di piglio, libò ai numi. I Feacesi

            Cui gioia erano i carmi, a ripigliarli

            Il poeta eccitavano, che aprìa

            Novamente le labbra; e novamente

            Coprirsi il volto e lagrimare Ulisse.

            Così, gocciando lagrime, da tutti

            Celossi. Alcinoo sol di lui s'avvide,

            E l'adocchiò, sedendogli da presso,

            Oltre che forte sospirare udillo;

            E più non aspettando: “Udite”, disse,

            “Della Feacia condottieri e prenci.

            Già del comun convito, e dell'amica

            De' conviti solenni arguta cetra

            Godemmo. Usciamo, e ne' diversi giuochi

            Proviamci, perché l'ospite, com'aggia

            Rimesso il piè nelle paterne case,

            Narri agli amici, che l'udranno attenti,

            Quanto al cesto e alla lotta, e al salto e al corso,

            Cede a noi, vaglia il vero, ogni altra gente”.

              Disse, ed entrò in cammino; e i prenci insieme

            Seguìanlo. Ma l'araldo, alla caviglia

            Rïappiccata la sonante cetra,

            Prese il cantor per mano, e fuor del tetto

            Menollo: indi guidavalo per quella

            Strada, in cui posto erasi Alcinoo e i capi.

            Movean questi veloce al Foro il piede,

            E gente innumerabile ad un corpo

            Lor tenea dietro. Ed ecco sorger molta,

            Per cimentarsi, gioventù forzuta.

            Sorse Acroneo ed Ocìalo. Eleatrèo sorse,

            E Nauteo e Prìmneo e Anchìalo: levossi

            Eretméo ancor, Pontèo, Proto, Toòne,

            Non che Anabesinèo, non che Anfiàlo,

            Di Polinèo Tectonide la prole,

            E non ch'Eurìalo all'omicida Marte

            Somigliante, e Naubòlide, che tutti,

            Ma dopo il senza neo Laodamante,

            Vincea di corpo e di beltà. Né assisi

            I tre restâr figli d'Alcinoo: desso

            Laodamante, Alio, che al Rege nacque

            Secondo, e Clitonèo pari ad un nume.

              Del corso fu la prima gara. Un lungo

            Spazio stendeasi alla carriera; e tutti

            Dalle mosse volavano in un groppo

            Densi globi di polvere levando.

            Avanzò gli altri Clitonèo, che, giunto

            Della carriera al fin, lasciolli indietro

            Quell'intervallo che i gagliardi muli

            I tardi lascian corpulenti buoi,

            Se lo stesso noval fendono a un'ora.

            Succedé al corso l'ostinata lotta,

            Ed Eurìalo prevalse. Il maggior salto

            Anfiàlo spiccollo, e il disco lunge

            Non iscagliò nessun, com'Elatrèo.

            Laodamante, il real figlio egregio,

            Nel pùgile severo ebbe la palma.

              Fine al diletto de' certami posto,

            Parlò tra lor Laodamante: “Amici,

            Su via, l'estraneo domandiam di queste

            Prove, se alcuna in gioventù ne apprese.

            Di buon taglio e' mi sembra; e, dove ai fianchi,

            Dove alle gambe, e delle mani ai dossi

            Guárdisi, e al fermo collo, una robusta

            Natura io veggio, e non mi par che ancora

            Degli anni verdi l'abbandoni il nerbo.

            Ma il fransero i disagi all'onde in grembo:

            Ché non è, quanto il mar, siccome io credo,

            Per isconfigger l'uom, benché assai forte”.

              “Laodamante, il tuo parlar fu bello”,

            Eurìalo rispondea. “Però l'abborda

            Tu stesso, e il tenta; e a fuori uscir l'invita”.

              Come d'Alcinoo l'incolpabil figlio

            Questo ebbe udito, si fe' innanzi, e stando

            Nel mezzo: “Orsù, gli disse, ospite padre,

            Tu ancor ne' giochi le tue forze assaggia,

            Se alcun mai ne apparasti a' giorni tuoi,

            E degno è ben che non ten mostri ignaro:

            Quando io non so per l'uom gloria maggiore

            Che del piè con prodezza e della mano,

            Mentre in vita riman, poter valersi.

            T'arrischia dunque, e la tristezza sgombra

            Dall'alma. Poco il desïato istante

            Del tuo vïaggio tarderà: varata

            Fu già la nave, e i rèmigi son pronti”.

              Ma così gli rispose il saggio Ulisse:

            “Laodamante, a che cotesto invito,

            Deridendomi quasi? Io, più che giochi,

            Disastri volgo per l'afflitta mente,

            Io, che tanto patìi, sostenni tanto,

            E or qui, mendico di ritorno e scorta,

            Siedomi, al re pregando, e al popol tutto”.

              Il bravo Eurìalo a viso aperto allora:

            “Uom non mi sembri tu, che si conosca

            Di quelle pugne che la stirpe umana

            Per suo diletto esercitar costuma.

            Tu m'hai vista di tal che presso nave

            Di molti banchi s'affaccendi, capo

            Di marinari al trafficare intesi,

            Che in mente serba il carico, ed al vitto

            Pensa; e ai guadagni con rapina fatti:

            Ma nulla certo dell'atleta tieni”.

              Mirollo bieco, e replicògli Ulisse:

            “Male assai favellasti, e ad uom protervo

            Somigli in tutto. Così è ver che i numi

            Le più care non dan doti ad un solo:

            Sembiante, ingegno e ragionar che piace.

            L'un bellezza non ha, ma della mente

            Gl'interni sensi in cotal guisa esprime,

            Che par delle parole ornarsi il volto.

            Gode chiunque il mira. Ei, favellando

            Con soave modestia, e franco a un tempo,

            Spicca in ogni consesso; e allor che passa

            Per la città, gli occhi a sé attrae, qual nume.

            L'altro nel viso e nelle membra un mostra

            Degl'immortali dèi: pur non si vede

            Grazia che ai detti suoi s'avvolga intorno.

            Così te fregia la beltà, né meglio

            Formar saprìan gli stessi eterni un volto:

            Se non che poco della mente vali.

            Mi trafiggesti l'anima nel petto,

            Villane voci articolando; io nuovo

            Non son de' giochi qual tu cianci e credo

            Anzi, ch'io degli atleti andai tra i primi,

            Finché potei de' verdi anni e di queste

            Braccia fidarmi. Or me, che aspre fatiche

            Durai, tra l'armi penetrando e l'onde,

            Gl'infortunï domaro. E non pertanto

            Cimenterommi: ché mordace troppo

            Fu il tuo sermon, ne più tenermi io valgo”.

              Disse; e co' panni stessi, in ch'era involto,

            Lanciossi, ed afferrò massiccio disco,

            Che quelli, onde giocar solean tra loro,

            Molto di mole soverchiava e pondo.

            Rotollo in aria, e con la man robusta

            Lo spinse: sonò il sasso, ed i Feaci,

            Que' naviganti celebri, que' forti

            Remigatori, s'abbattero in terra

            Per la foga del sasso il qual, partito

            Da sì valida destra, i segni tutti

            Rapidamente sorvolò. Minerva,

            Vestite umane forme, il segno pose,

            E all'ospite conversa: “Un cieco”, disse,

            “Trovar, palpando, tel potrìa: ché primo,

            Né già di poco, e solitario sorge.

            Per questa prova dunque alcun timore

            Non t'anga: lunge dal passarti, alcuno

            Tra i Feaci non fia che ti raggiunga”.

            Rallegrossi a tai voci, e si compiacque

            Il Laerzìade, che nel circo uom fosse

            Che tanto il favorìa. Quindi ai Feaci

            Più mollemente le parole volse:

            “Quello arrivate, o damigelli, e un altro

            Pari, o più grande, fulminarne in breve

            Voi mi vedrete, io penso. Ed anco in altri

            Certami, o cesto, o lotta, o corso ancora,

            Chi far periglio di se stesso agogna,

            Venga in campo con me: poiché di vero

            Mi provocaste oltre misura. Uom vivo

            Tra i Feacesi io non ricuso, salvo

            Laodamante, che ricetto dammi.

            Chi entrar vorrebbe con l'amico in giostra?

            Stolto e da nulla è senza dubbio, e tutto

            Storpia le imprese sue, chïunque, in mezzo

            D'un popol stranier, con chi l'alberga

            Si presenta a contendere. Degli altri

            Nessun temo, o dispregio, e son con tutti

            Nel dì più chiaro a misurarmi pronto,

            Come colui che non mi credo imbelle,

            Quale il cimento sia. L'arco lucente

            Trattare appresi: imbroccherei primaio,

            Saettando un guerrier dell'oste avversa,

            Benché turba d'amici a me d'intorno

            Contra quell'oste disfrenasse i dardi.

            Sol Filottete mi vincea dell'arco,

            Mentre a gara il tendean sotto Ilio i Greci:

            Ma quanti sulla terra or v'ha mortali,

            Cui la forza del pane il cor sostenta,

            Io di gran lunga superar mi vanto:

            Ché non vo' pormi io già co' prischi eroi,

            Con Eurìto d'Ecalia, o con Alcìde,

            Che agli dèi stessi di scoccar nell'arte

            Si pareggiâro. Che ne avvenne? Giorni

            Sorser pochi ad Eurìto, e le sue case

            Nol videro invecchiar, poscia che Apollo

            Forte si corrucciò che disfidato

            L'avesse all'arco, e di sua man l'uccise.

            Dell'asta poi, quanto nessun di freccia

            Saprebbe, io traggo. Sol nel corso io temo

            Non mi vantaggi alcun: ché, tra che molto

            M'afflisse il mare, e che non fu il mio legno

            Sempre vettovagliato, a me, qual prima,

            Non ubbidisce l'infedel ginocchio”.

              Ammutolì ciascuno, e Alcinoo solo

            Rispose: “Forestier, la tua favella

            Sgradir non ci potea. Sdegnato a dritto

            De' motti audaci, onde colui ti morse,

            La virtù mostrar vuoi che t'accompagna,

            Virtù, che or da chi tanto o quanto scorga,

            Più biasmata non fia. Ma tu m'ascolta,

            Acciocché un dì, quando nel tuo palagio

            Sederai con la sposa e i figli a mensa,

            E quel che di gentile in noi s'annida,

            Rimembrerai, possa un illustre amico

            Favellando narrar, quali redammo

            Studi dagli avi, per voler di Giove.

            Non siam né al cesto, né alla lotta egregi;

            Ma rapidi moviam, correndo, i passi,

            E a maraviglia navighiamo. In oltre

            Giocondo sempre il banchettar ci torna,

            Musica e danza, ed il cangiar di veste,

            I tepidi lavacri e i letti molli.

            Su dunque voi, che tra i Feaci il sommo

            Pregio dell'arte della danza avete,

            Fate che lo straniero a' suoi più cari,

            Risalutate le paterne mura,

            Piacciasi raccontar, quanto anche al ballo,

            Non che al nautico studio ed alla corsa,

            Noi da tutte le genti abbiam vantaggio.

            E tu, Pontonoo, per l'arguta cetra,

            Che nel palagio alla colonna pende,

            Vanne e al divin Demodoco la reca”.

              Sorse, e partì l'araldo; e al tempo stesso

            Sorsero i nove a presedere ai giuochi

            Giudici eletti dai comuni voti:

            Ed il campo agguagliâro, e dilataro,

            Rimosse alquanto le persone, il circo.

            Tornò l'araldo con la cetra, e in mano

            La pose di Demodoco, che al circo

            S'adagiò in mezzo. Danzatori allora

            D'alta eccellenza, e in sul fiorir degli anni

            Feano al vate corona, ed il bel circo

            Co' presti piedi percoteano. Ulisse

            De' frettolosi piè gli sfolgorìi

            Molto lodava; e non si rïavea

            Dallo stupor che gl'ingombrava il petto.

              Ma il poeta divin, citareggiando,

            Del bellicoso Marte, e della cinta

            Di vago serto il crin Vener Ciprigna,

            Prese a cantar gli amori, ed il furtivo

            Lor conversar nella superba casa

            Del re del fuoco, di cui Marte il casto

            Letto macchiò nefandemente, molti

            Doni offerti alla dea, con cui la vinse.

            Repente il Sole, che la colpa vide,

            A Vulcan nunzïolla; e questi, udito

            L'annunzio doloroso, alla sua negra

            Fucina corse, un'immortal vendetta

            Macchinando nell'anima. Sul ceppo

            Piantò una magna incude; e col martello

            Nodi, per ambo imprigionarli, ordìa

            A frangersi impossibili, o a disciorsi.

            Fabbricate le insidie, ei, contra Marte

            D'ira bollendo, alla secreta stanza,

            Ove steso giaceagli il caro letto,

            S'avvïò in fretta, e alla lettiera bella

            Sparse per tutto i fini lacci intorno,

            E molti sospendeane all'alte travi,

            Quai fila sottilissime d'aragna,

            Con tanta orditi e sì ingegnosa fraude,

            Che né d'un dio li potea l'occhio tôrre.

            Poscia che tutto degl'industri inganni

            Circondato ebbe il letto, ir finse in Lenno.

            Terra ben fabbricata, e, più che ogni altra

            Cittade, a lui diletta. In questo mezzo

            Marte, che d'oro i corridori imbriglia,

            Alle vedette non istava indarno.

            Vide partir l'egregio fabbro, e, sempre

            Nel cor portando la di vago serto

            Cinta il capo Ciprigna, alla magione

            Del gran mastro de' fuochi in fretta mosse.

            Ritornata di poco era la diva

            Dal Saturnìde onnipossente padre

            Nel coniugale albergo; e Marte, entrando,

            La trovò che posava, e lei per mano

            Prese, e a nome chiamò: “Venere”, disse,

            “Ambo ci aspetta il solitario letto.

            Di casa uscì Vulcano; altrove, a Lenno

            Vassene, e ai Sinti di selvaggia voce”.

              Piacque l'invito a Venere, e su quello

            Salì con Marte, e si corcò: ma i lacci

            Lor s'avvolgean per cotal guisa intorno,

            Che stendere una man, levare un piede,

            Tutto era indarno; e s'accorgeano al fine

            Non aprirsi di scampo alcuna via.

            S'avvicinava intanto il fabbro illustre,

            Che volta diè dal suo viaggio a Lenno:

            Perocché il Sole spïator la trista

            Storia gli raccontò. Tutto dolente

            Giunse al suo ricco tetto ed arrestossi

            Nell'atrio: immensa ira l'invase, e tale

            Dal petto un grido gli scoppiò, che tutti

            Dell'Olimpo l'udir gli abitatori:

            “O Giove padre, e voi”, disse, beati

            Numi, che d'immortal vita godete,

            Cose venite a rimirar da riso,

            Ma pure insopportabili. Ciprigna,

            Di Giove figlia, me, perché impedito

            De' piedi son, copre d'infamia ognora,

            Ed il suo cor nell'omicida Marte

            Pone, come in colui che bello e sano

            Nacque di gambe, dove io mal mi reggo.

            Chi sen vuole incolpar? Non forse i soli,

            Che tal non mi dovean mettere in luce,

            Parenti miei? testimon siate, o numi,

            Del lor giacersi uniti, e dell'ingrato

            Spettacol che oggi sostener m'è forza.

            Ma infredderan nelle lor voglie, io credo,

            Benché sì accesi, e a cotai sonni in preda

            Più non vorranno abbandonarsi. Certo

            Non si svilupperan d'este catene,

            Se tutti prima non mi torna il padre

            Quei ch'io posi in sua man, doni dotali

            Per la fanciulla svergognata: quando

            Bella, sia loco al ver, figlia ei possiede,

            Ma del proprio suo cor non donna punto”.

              Disse; e i dèi s'adunâro alla fondata

            Sul rame casa di Vulcano. Venne

            Nettuno, il dio per cui la terra trema,

            Mercurio venne de' mortali amico,

            Venne Apollo dal grande arco d'argento.

            Le dee non già; ché nelle stanze loro

            Ritenevale vergogna. Ma i datori

            D'ogni bramato ben dèi sempiterni

            Nell'atrio s'adunâr: sorse tra loro

            Un riso inestinguibile, mirando

            Di Vulcan gli artifici; e alcun, volgendo

            Gli occhi al vicino, in tai parole uscìa:

            “Fortunati non sono i nequitosi

            Fatti, e il tardo talor l'agile arriva.

            Ecco Vulcan, benché sì tardo, Marte,

            Che di velocità tutti d'Olimpo

            Vince gli abitator, cogliere: il colse,

            Zoppo essendo, con l'arte; onde la multa

            Dell'adulterio gli può tôrre a dritto”.

              Allor così a Mercurio il gaio Apollo:

            “Figlio di Giove, messaggiero accorto,

            Di grate cose dispensier cortese,

            Vorrestu avvinto in sì tenaci nodi

            Dormire all'aurea Venere da presso?”

              “Oh questo fosse”, gli rispose il nume

            Licenzïoso, e ad opre turpi avvezzo;

            “Fosse, o sir dall'argenteo arco, e in legami

            Tre volte tanti io mi trovassi avvinto,

            E intendessero i numi in me lo sguardo

            Tutti, e tutte le dee! Non mi dorrìa

            Dormire all'aurea Venere da presso”.

              Tacque; e in gran riso i Sempiterni diero.

            Ma non ridea Nettuno; anzi Vulcano,

            L'inclito mastro, senza fin pregava,

            Liberasse Gradivo, e con alate

            Parole gli dicea: “Scioglilo. Io t'entro

            Mallevador, che agl'Immortali in faccia

            Tutto ei compenserà, com'è ragione”.

              “Questo”, rispose il dio dai piè distorti

            Al Tridentier dalle cerulee chiome,

            “Non ricercar da me. Triste son quelle

            Malleverìe che dànnosi pe' tristi.

            Come legarti agl'Immortali in faccia

            Potrei, se Marte, de' suoi lacci sciolto,

            Del debito, fuggendo, anco s'affranca?”

              “Io ti satisfarò”, riprese il nume

            Che la terra circonda, e fa tremarla.

              E il divin d'ambo i piè zoppo ingegnoso:

            “Bello non fôra il ricusar, né lice”.

            Disse, e d'un sol suo tocco i lacci infranse.

              Come liberi fûr, saltaro in piede,

            E Marte in Tracia corse, ma la diva

            Del riso amica, riparando a Cipri

            In Pafo si fermò, dove a lei sacro

            Frondeggia un bosco, ed un altar vapora.

            Qui le Grazie lavaro, e del fragrante

            Olio, che la beltà cresce de' numi,

            Unsero a lei le delicate membra:

            Poi così la vestir, che meraviglia

            Non men che la dea stessa, era il suo manto.

              Tal cantava Demodoco; ed Ulisse

            E que' remigator forti, que' chiari

            Navigatori, di piacere, udendo,

            Le vene ricercar sentìansi, e l'ossa.

              Ma di Laodamante e d'Alio soli,

            Ché gareggiar con loro altri non osa,

            Ad Alcinoo mirar la danza piacque.

            Nelle man tosto la leggiadra palla

            Si recaro, che ad essi avea l'industre

            Polibo fatta, e colorata in rosso.

            L'un la palla gittava in vêr le fosche

            Nubi, curvato indietro; e l'altro, un salto

            Spiccando, riceveala, ed al compagno

            La rispingea senza fatica o sforzo,

            Pria che di nuovo il suol col piè toccasse.

            Gittata in alto la vermiglia palla,

            La nutrice di molti amica terra

            Co' dotti piedi cominciaro a battere,

            A far volte e rivolte alterne e rapide,

            Mentre lor s'applaudìa dagli altri giovani

            Nel circo, e acute al ciel grida s'alzavano.

              Così ad Alcinoo l'Itacese allora:

            “O de' mortali il più famoso e grande,

            Mi promettesti danzatori egregi,

            E ingannato non m'hai. Chi può mirarli

            Senza inarcar dello stupor le ciglia?”

              Gioì d'Alcinoo la sacrata possa,

            E ai Feaci rivolto: “Udite”, disse,

            “Voi che per sangue e merto i primi siete.

            Saggio assai parmi il forestiero, e degno

            Che di ricchi l'orniam doni ospitali.

            Dodici reggon questa gente illustri

            Capi, e tra loro io tredicesmo siedo.

            Tunica, e manto, ed un talento d'oro

            Presentiamgli ciascuno, e tosto, e a un tempo,

            Ond'ei, così donato, alla mia cena,

            Con più gioia nel cor vegna e s'assida.

            Eurìalo, che il ferì d'acerbi motti

            Co' doni, e in un con le parole, il plachi”.

              Assenso diè ciascuno, e un banditore

            Mandò pe' doni, e così Eurìalo: “Alcinoo,

            Il più famoso de' mortali e grande,

            L'ospite io placherò, come tu imponi.

            Gli offrirò questa di temprato rame

            Fedele spada che d'argento ha l'elsa,

            La vagina d'avorio: e fu l'avorio

            Tagliato dall'artefice di fresco.

            Non l'avrà, io penso, il forestier a sdegno”.

              Ciò detto, a Ulisse in man la spada pose

            Con tali accenti: “Ospite padre, salve.

            Se dura fu profferta e incauta voce,

            Prendala, e seco il turbine la porti.

            E a te della tua donna e degli amici,

            Donde lungi, e tra i guai, gran tempo vivi,

            Giove conceda i desïati aspetti”.

              “Salve”, gli replicò subito Ulisse,

            “Amico, e tu. Gli abitator d'Olimpo

            Dìanti felici dì: né mai nel petto

            Per volger d'anni uopo o desir ti nasca

            Di questa spada ch'io da te ricevo,

            Benché placato già sol da' tuoi detti”.

            Tacque; e il buon brando agli omeri sospese.

              Già declinava il Sole, e innanzi a Ulisse

            Stavano i doni. Gli onorati araldi

            Nella reggia portâro i doni eletti,

            Che dai figli del re tolti, e all'augusta

            Madre davante collocati fûro.

            Alcinoo entrò alla reggia, e seco i prenci,

            Che altamente sedero; e del re il sacro

            Valore in forma tal parlò ad Arete:

            “Donna, su via, la più sald'arca e bella

            Fuor traggi, ed una tunica vi stendi,

            E un manto di cui nulla offenda il lustro.

            Scaldisi in oltre allo stranier nel cavo

            Rame sul foco una purissim'onda,

            Perché, le membra asterse, e visti in bello

            Ordin riposti de' Feaci i doni,

            Meglio il cibo gli sappia, e più gradito

            Scendagli al core per l'orecchio il canto.

            Io questa gli darò di pregio eccelso

            Mia coppa d'oro, acciò non sorga giorno,

            Ch'ei d'Alcinoo non pensi, al Saturnide

            Libando nel suo tetto, e agli altri numi”.

              Disse; ed Arete alle sue fanti ingiunse

            Porre il treppiede in su le brace ardenti.

            Quelle il treppiede in su le ardenti brace

            Posero, e versâr l'onda, e le raccolte

            Legne accendeanvi sotto: il cavo rame

            Cingean le fiamme, e si scaldava il fonte.

            Arete fuor della secreta stanza

            Trasse dell'arche la più salda e bella,

            E tutti con la tunica e col manto

            Vi allogò i doni in vestimenta e in oro,

            Indi assennava l'ospite: “Il coverchio

            Metti tu stesso, e bene avvolgi il nodo,

            Non fosse alcun ti nuoccia, ove te il dolce

            Sonno cogliesse nella negra nave”.

              L'accorto eroe, che non udilla indarno,

            Mise il coverchio, e l'intricato nodo

            Prestamente formò, di cui mostrato

            Gli ebbe il secreto la dedalea Circe.

            E qui ad entrar la dispensiera onesta

            L'invitava nel bagno. Ulisse vide

            I lavacri fumar tanto più lieto,

            Ché tai conforti s'accostâr di rado

            Al suo corpo, dal dì che della ninfa

            Le grotte più nol ritenean, dov'era

            D'ogni cosa adagiato al par d'un nume.

              Lavato ed unto per le scorte ancelle,

            E di manto leggiadro e di leggiadra

            Tunica cinto, alla gioconda mensa

            Da' tepidi lavacri Ulisse giva.

            Nausica, cui splendea tutta nel volto

            La beltà degli dèi, della superba

            Sala fermossi alle lucenti porte.

            Sguardava Ulisse, e l'ammirava, e queste

            Mandavagli dal sen parole alate:

            “Felice, ospite, vivi e ti ricorda,

            Come sarai nella natìa terra,

            Di quella, onde pria venne a te salute”.

              “Nausica, del pro' Alcinoo inclita figlia”,

            Ulisse rispondeale; “oh! così Giove,

            L'altitonante di Giunon marito,

            Voglia che il dì del mio ritorno spunti,

            Com'io nel dolce ancor nido nativo

            Sempre, qual dea, t'onorerò: ché fosti

            La mia salvezza tu, fanciulla illustre”.

              Già le carni partìansi, e nelle coppe

            Gli umidi vini si mesceano. Ed ecco

            Il banditor venir, guidar per mano

            L'onorato da tutti amabil vate,

            E adagiarlo, facendogli d'un'alta

            Colonna appoggio, ai convitati in mezzo.

            Ulisse allor dall'abbrostita e ghiotta

            Schiena di pingue, dentibianco verro

            Tagliò un florido brano, ed all'araldo:

            “Te'”, disse, “questo, e al vate il porta, ond'io

            Rendagli, benché afflitto, un qualche onore.

            Chi è che in pregio e in riverenza i vati

            Non tenga? i vati, che ama tanto, e a cui

            Sì dolci melodie la Musa impara”.

              Portò l'araldo il dono, e il vate il prese,

            E per l'alma gli andò tacita gioia.

              Alle vivande intanto e alle bevande

            Porgean la mano; e fûro spenti appena

            Della fame i desìri e della sete,

            Che il saggio Ulisse tali accenti sciolse:

            “Demodoco, io te sopra ogni vivente

            Sollevo, te, che la canora figlia

            Del sommo Giove, o Apollo stesso inspira.

            Tu i casi degli Achivi, e ciò che oprâro,

            Ciò che soffrìro, con estrema cura,

            Quasi visto l'avessi, o da' que' prodi

            Guerrieri udito, su la cetra poni.

            Via, dunque, siegui e l'edifizio canta

            Del gran cavallo, che d'inteste travi,

            Con Pallade al suo fianco, Epèo construsse,

            E Ulisse penetrar feo nella rocca

            Dardania, pregno (stratagemma insigne!)

            Degli eroi, per cui Troia andò in faville.

            Ciò fedelmente mi racconta, e tutti

            Sclamar m'udranno, ed attestar che il petto

            Di tutta la sua fiamma il dio t'accende”.

              Demodoco, che pieno era del nume,

            D'alto a narrar prendea, come gli Achivi,

            Gittato il foco nelle tende, i legni

            Parte saliro, e aprir le vele ai venti.

            Parte sedean col valoroso Ulisse

            Ne' fianchi del cavallo entro la rocca.

            I Troi, standogli sotto in cerchio assisi,

            Molte cose dicean; ma incerte tutte.

            E in tre sentenze divideansi: o il cavo

            Legno intagliato lacerar con l'armi,

            O addurlo in cima d'una rupe, e quindi

            Precipitarlo; o il simulacro enorme

            Agli adirati numi offrire in voto.

            Questo prevalse alfin: poiché destino

            Era che allor perisse Ilio superbo,

            Che ricettata nel suo grembo avesse

            L'immensa mole intesta, ove de' Greci,

            Morte ai Troi per recar, sedeano i capi.

            Narrava pur, come de' Greci i figli,

            Fuor di quella versatisi, e lasciate

            Le cave insidie, la cittade a terra

            Gittaro; e come, mentre i lor compagni

            Guastavan qua e là palagi e templi,

            Ulisse di Deïfobo alla casa

            Col divin Menelao corse, qual Marte,

            E un duro v'ebbe a sostener conflitto,

            Donde uscì vincitore, auspice Palla.

            A tali voci, a tai ricordi Ulisse

            Struggeasi dentro, e per le smorte guance

            Piovea lagrime giù dalle palpèbre.

            Qual donna piange il molto amato sposo,

            Che alla sua terra innanzi, e ai cittadini

            Cadde e ai pargoli suoi, da cui lontano

            Volea tener l'ultimo giorno; ed ella,

            Che moribondo il vede e palpitante,

            Sovra lui s'abbandona, ed urla e stride,

            Mentre ha di dietro chi dell'asta il tergo

            Le va battendo e gli omeri, e le intima

            Schiavitù dura, e gran fatica e strazio,

            Sì che già del dolor la miserella

            Smunto ne porta e disfiorato il volto:

            Così Ulisse di sotto alle palpèbre

            Consumatrici lagrime piovea.

            Pur del suo pianto non s'accorse alcuno,

            Salvo re Alcinoo, che sedeagli appresso,

            E gemere il sentìa: però ai Feaci:

            “Udite”, disse, “o condottieri e prenci;

            Deponga il vate la sonante cetra;

            Ché a tutti il canto suo grato non giunge.

            Dal primo istante ch'ei toccolla, in pianto

            Cominciò a romper l'ospite, a cui siede

            Certo un'antica in sen cura mordace.

            La mano adunque dalle corde astenga;

            E lieto allo stranier del par che a noi

            Che il ricettammo, questo giorno cada.

            Consiglio altro non v'ha. Per chi tal festa?

            Per chi la scorta preparata e i doni,

            D'amistà pegni, e le accoglienze oneste?

            Un supplice straniero ad uom, che punto

            Scorga diritto, è di fratello in vece.

            Ma tu di quel ch'io domandarti intendo,

            Nulla celarmi astutamente: meglio

            Torneranne a te stesso. Il nome dimmi,

            Con che il padre solea, solea la madre,

            E i cittadin chiamarti, ed i vicini:

            Ché senza nome uom non ci vive in terra,

            Sia buono o reo; ma, come aperse gli occhi,

            Da' genitori suoi l'acquista in fronte.

            Dimmi il tuo suol, le genti e la cittade,

            Sì che la nave d'intelletto piena

            Prenda la mira, e vi ti porti. I legni

            Della Feacia di nocchier mestieri

            Non han, né di timon: mente hanno, e tutti

            Sanno i disegni di chi stavvi sopra.

            Conoscon le cittadi e i pingui campi,

            E senza tema di ruina o storpio,

            Rapidissimi varcano, e di folta

            Nebbia coverti, le marine spume.

            Bensì al padre Nausitoo io dire intesi

            Che Nettun contra noi forte s'adira,

            Perché illeso alla patria ogni mortale

            Riconduciamo; e che un de' nostri legni

            Ben fabbricati, al suo ritorno, il dio

            Struggerà nelle fosche onde, e la nostra

            Cittade coprirà d'alta montagna.

            Ma effetto abbiano, o no, queste minacce,

            Tu mi racconta, né fraudarmi il vero,

            I mari scorsi e i visitati lidi.

            Parlami delle genti, e delle terre

            Che di popol ridondano, e di quante

            Veder t'avvenne nazioni agresti,

            Crudeli, ingiuste, o agli stranieri amiche,

            A cui timor de' numi alberga in petto.

            Né mi tacer, perché secreto piangi,

            Quando il fato di Grecia e d'Ilio ascolti.

            Se venne dagli dèi strage cotanta,

            Lor piacque ancor che degli eroi le morti

            Fossero il canto dell'età future.

            Ti perì forse un del tuo sangue a Troia,

            Genero prode, o suocero, i più dolci

            Nomi al cor nostro dopo i figli e i padri?

            O forse un fido, che nell'alma entrarti

            Sapea, compagno egregio? È qual fratello

            L'uom che sempre usa teco, e a cui fornìro

            D'alta prudenza l'intelletto i numi”.

             

             


            LIBRO NONO

             

             

              “Alcinoo Rege, che ai mortali tutti

            Di grandezza e di gloria innanzi vai,

            Bello è l'udir”, gli replicava Ulisse,

            “Cantor, come DemOdoco, di cui

            Pari a quella d'un dio suona la voce:

            Né spettacol più grato havvi, che quando

            Tutta una gente si dissolve in gioia,

            Quando alla mensa, che il cantor rallegra,

            Molti siedono in ordine, e le lanci

            Colme di cibo son, di vino l'urne,

            Donde coppier nell'auree tazze il versi,

            E ai convitati assisi il porga in giro.

            Ma tu la storia de' miei guai domandi,

            Perch'io rinnovi ed inacerbi il duolo.

            Qual pria dirò, qual poi, qual nell'estremo

            Racconto serberò delle sventure,

            Che gravi e molte m'invïAro i numi?

            Prima il mio nome, acciò, se vita un giorno,

            Mi si concede riposata e ferma,

            Dell'ospitalità ci unisca il nodo,

            Benché quinci lontan sorga il mio tetto.

            Ulisse, il figlio di Laerte, io sono,

            Per tutti accorgimenti al mondo in pregio,

            E già noto per fama in sino agli astri.

            Abito la serena Itaca, dove

            Lo scotifronde Nérito si leva

            Superbo in vista, ed a cui giaccion molte

            Non lontane tra loro isole intorno,

            Dulichio, Same, e la di selve bruna

            Zacinto. All'orto e al mezzogiorno queste,

            Itaca al polo si rivolge, e meno

            Dal continente fugge: aspra di scogli,

            Ma di gagliarda gioventù nutrice.

            Deh qual giammai l'uom può della natìa

            Sua contrada veder cosa più dolce?

            Calipso, inclita diva, in cave grotte

            Mi ritenea, mi ritenea con arte

            Nelle sue case la dedalea Circe,

            Desïando d'avermi entrambe a sposo.

            Ma né Calipso a me, né Circe il core

            Piegava mai; ché di dolcezza tutto

            La patria avanza, e nulla giova un ricco

            Splendido albergo a chi, da' suoi disgiunto,

            Vive in estrania terra. Or tu mi chiedi

            Quel che da Troia prescriveami Giove

            Lacrimabil ritorno; ed io tel narro.

              Ad Ismaro, de' Cìconi alla sede,

            Me, che lasciava Troia, il vento spinse.

            Saccheggiai la città, strage menai

            Degli abitanti; e sì le molte robe

            Dividemmo e le donne, che alla preda

            Ciascuno ebbe ugual parte. Io gli esortava

            Partir subito e in fretta; e i forsennati,

            Dispregiando il mio dir, pecore pingui,

            Pingui a scannar tortocornuti tori,

            E larghi nappi ad asciugar sul lido.

            S'allontanaro in questo mezzo, e voce

            Diero i Cìconi ai Cìconi vicini,

            Che più addentro abitavano. Costoro,

            Che in numero vincean gli altri, ed in forza,

            E battagliare a piè, come dal carro,

            Sapean del pari, mattutini, e tanti,

            Quante son fronde a primavera e fiori,

            Vennero; e allor di cielo a noi meschini

            Riversò addosso un gran sinistro Giove.

            Stabile accanto alle veloci navi

            Pugna si commettea: d'ambo le parti

            Volavan le pungenti aste omicide.

            Finché il mattin durava, e il sacro sole

            Acquistava del ciel, benché più scarsi,

            Sostenevam della battaglia il nembo.

            Ma come il sol, calandosi all'Occaso,

            L'ora menò, che dal pesante giogo

            Si disciolgono i buoi, l'achiva forza

            Fu dall'aste de' Cìconi respinta.

            Sei de' compagni agli schinieri egregi

            Perdé ogni nave: io mi salvai col resto.

              Lieti nel cor della schivata morte,

            E de' compagni nella pugna uccisi

            Dolenti in un, ci allargavam dal lido;

            Ma le ondìvaghe navi il lor cammino

            Non proseguian, che tre fïate in prima,

            Non si fosse da noi chiamato a nome

            Ciascun di quei che giacean freddi addietro.

            L'adunator de' nembi olimpio Giove

            Contro ci svegliò intanto una feroce

            Tempesta boreal, che d'atre nubi

            La terra a un tempo ricoverse e il mare,

            E la notte di cielo a piombo scese.

            Le vele ai legni, che moveansi obbliqui,

            Squarciò in tre e quattro parti il forte turbo.

            Noi del timore ammainammo, e ratto

            I navigli affrettammo in vêr la spiaggia,

            Ove due giorni interi, e tante notti,

            Posavam lassi, e addolorati e muti.

              Ma come l'Alba dai capelli d'oro

            Il dì terzo recò, gli alberi alzati,

            E dispiegate le candide vele,

            Entro i navigli sedevam, la cura

            Al timonier lasciandone ed al vento.

            Tempo era quello da toccar le amate

            Sponde natìe: se non che Borea e un'aspra

            Corrente me, che la Malèa girava,

            Respinse indietro ed a Citera volse.

            Per nove infausti dì sul mar pescoso

            I venti rei mi trasportâro. Al fine

            Nel decimo sbarcammo in su le rive

            De' Lotofàgi, un popolo, a cui cibo

            È d'una pianta il florido germoglio.

            Entrammo nella terra, acqua attignemmo,

            E pasteggiammo appo le navi. Estinti

            Della fame i desiri e della sete,

            Io due scelgo de' nostri, a cui per terzo

            Giungo un araldo, e a investigar li mando,

            Quai mortali il paese alberghi e nutra.

            Partiro e s'affrontaro a quella gente,

            Che, lunge dal voler la vita loro,

            Il dolce loto a savorar lor porse.

            Chïunque l'esca dilettosa e nuova

            Gustato avea, con le novelle indietro

            Non bramava tornar: colà bramava

            Starsi, e, mangiando del soave loto,

            La contrada natìa sbandir dal petto.

            È ver ch'io lagrimosi al mar per forza

            Li ricondussi, entro i cavati legni

            Li cacciai, gli annodai di sotto ai banchi:

            E agli altri risalir con gran prestezza

            Le negre navi comandai, non forse

            Ponesse alcun nel dolce loto il dente,

            E la patria cadessegli dal core.

            Quei le navi saliano, e sovra i banchi

            Sedean l'un dopo l'altro, e gìan battendo

            Co' pareggiati remi il mar canuto.

              Ci portammo oltre, e de' Ciclopi altieri,

            Che vivon senza leggi, a vista fummo.

            Questi, lasciando ai numi ogni pensiero,

            Né ramo o seme por, né soglion gleba

            Col vomero spezzar; ma il tutto viene

            Non seminato, non piantato o arato:

            L'orzo, il frumento e la gioconda vite,

            Che si carca di grosse uva, e cui Giove

            Con pioggia tempestiva educa e cresce.

            Leggi non han, non radunanze, in cui

            Si consulti tra lor: de' monti eccelsi

            Dimoran per le cime, o in antri cavi;

            Su la moglie ciascun regna e su i figli,

            Né l'uno all'altro tanto o quanto guarda.

            Ai Ciclopi di contra, e né vicino

            Troppo, né lunge, un'isoletta siede

            Di foreste ombreggiata, ed abitata

            Da un'infinita nazïon di capre

            Silvestri, onde la pace alcun non turba;

            Che il cacciator, che per burroni e boschi

            Si consuma la vita, ivi non entra,

            Non aratore o mandrïan v'alberga.

            Manca d'umani totalmente, e solo

            Le belanti caprette, inculta, pasce.

            Però che navi dalle rosse guance

            Tu cerchi indarno tra i Ciclopi, indarno

            Cerchi fabbro di nave a saldi banchi,

            Su cui passare i golfi, e le straniere

            Città trovar, qual delle genti è usanza,

            Che spesso van l'una dall'altra ai lidi,

            E all'isola deserta addur coloni.

            Malvagia non è certo, e in sua stagione

            Tutto darebbe. Molli e irrigui prati

            Spiegansi in riva del canuto mare.

            Si vestirìan di grappi ognor le viti,

            E così un pingue suolo il vomer curvo

            Riceverìa, che altissima troncarvi

            Potrìasi al tempo la bramata messe.

            Che del porto dirò? Non v'ha di fune

            Ne d'àncora mestieri; e chi già entrovvi,

            Tanto vi può indugiar, che de' nocchieri

            Le voglie si raccendano, e secondi

            Spirino i venti. Ma del porto in cima

            S'apre una grotta, sotto cui zampilla

            L'argentina onda d'una fonte, e a cui

            Fan verdissimi pioppi ombra e corona.

            Là smontavamo, e per l'oscura notte,

            Noi, spenta ogni veduta, un dio scorgea:

            Ché una densa caligine alle navi

            Stava d'intorno, né splendea dal cielo

            La luna, che d'un nembo era coverta.

            Quindi nessun l'isola vide, e i vasti

            Flutti al lido volventisi, che prima

            Approdati non fossimo. Approdati,

            Tutte le vele raccogliemmo, uscimmo

            Sul lido, e l'Alba dalle rosee dita,

            Nel sonno disciogliendoci, aspettammo.

              Sorta la figlia del mattino appena,

            L'isoletta, che in noi gran maraviglia

            Destò, passeggiavamo. Allor le Ninfe,

            Prole cortese dell'egïoco Giove,

            Per fornir di convito i miei compagni,

            Quelle capre levaro. E noi repente,

            Presi i curvi archi e le asticciuole acute,

            E tre schiere di noi fatte, in tal guisa

            Il monte fulminammo e il bosco tutto,

            Ch'io non so, se dai numi in sì brev'ora

            Fu concessa giammai caccia sì ricca.

            Dodici navi mi seguìano, e nove

            Capre ottenne ciascuna: io dieci n'ebbi.

            Tutto quel giorno sedevamo a mensa

            Tra carni immense e prezïoso vino:

            Poiché restava su le navi ancora

            Del licore, onde molte anfore e molte

            Rïempiuto avevam, quando la sacra

            Dispogliammo de' Cìconi cittade.

            E de' Ciclopi nel vicin paese

            Levate intanto tenevam le ciglia,

            E salir vedevamo il fumo, e miste

            Col belo dell'agnelle e delle capre

            Raccoglievam le voci. Il sole ascoso,

            Ed apparse le tenebre, le membra

            Sul marin lido a riposar gettammo.

            Ma come del mattin la figlia sorse,

            Tutti chiamati a parlamento: "Amici",

            Dissi, vi piaccia rimaner, mentr'io

            Della gente a spïar vo' col mio legno,

            Se ingiusta, soperchievole, selvaggia,

            O di core ospital siasi, ed a cui

            Timor de' numi si racchiuda in petto".

            Detto, io montai la nave, e ai remiganti

            Montarla ingiunsi, e liberar la fune.

            E quei ratto ubbidiro, e già su i banchi

            Sedean l'un dopo l'altro, e gìan battendo

            Co' pareggiati remi il mar canuto.

              Giunti alla terra, che sorgeaci a fronte,

            Spelonca eccelsa nell'estremo fianco

            Di lauri opaca, e al mar vicina, io vidi.

            Entro giaceavi innumerabil greggia,

            Pecore e capre, e di recise pietre

            Composto, e di gran pini e querce ombrose

            Alto recinto vi correa d'intorno.

            Uom gigantesco abita qui, che lunge

            Pasturava le pecore solingo.

            In disparte costui vivea da tutti,

            E cose inique nella mente cruda

            Covava: orrendo mostro, né sembiante

            Punto alla stirpe che di pan si nutre,

            Ma più presto al cucuzzolo selvoso

            D'una montagna smisurata, dove

            Non gli s'alzi da presso altro cacume.

            Lascio i compagni della nave a guardia,

            E con dodici sol, che i più robusti

            Mi pareano e più arditi, in via mi pongo,

            Meco in otre caprin recando un negro

            Licor nettàreo, che ci diè Marone

            D'Evantèo figlio, e sacerdote a Febo,

            Cui d'Ismaro le torri erano in cura.

            Soggiornava del dio nel verde bosco,

            E noi, di santa riverenza tocchi,

            Con la moglie il salvammo e con la prole.

            Quindi ei mi porse incliti doni: sette

            Talenti d'or ben lavorato, un'urna

            D'argento tutta, e dodici d'un vino

            Soave, incorruttibile, celeste,

            Anfore colme; un vin ch'egli, la casta

            Moglie e la fida dispensiera solo,

            Non donzelli sapeanlo, e non ancelle.

            Quandunque ne bevean, chi empiea la tazza,

            Venti metri infondea d'acqua di fonte,

            E tal dall'urna scoverchiata odore

            Spirava, e sì divin, che somma noia

            Stato sarìa non confortarne il petto.

            Io dell'alma bevanda un otre adunque

            Tenea, tenea vivande a un zaino in grembo:

            Ché ben diceami il cor, quale di strana

            Forza dotato le gran membra, e insieme

            Debil conoscitor di leggi e dritti,

            Salvatic'uom mi si farebbe incontra.

              Alla spelonca divenuti in breve,

            Lui non trovammo, che per l'erte cime

            Le pecore lanigere aderbava.

            Entrati, gli occhi stupefatti in giro

            Noi portavam: le aggraticciate corbe

            Cedeano al peso de' formaggi, e piene

            D'agnelli e di capretti eran le stalle:

            E i più grandi, i mezzani, i nati appena,

            Tutti, come l'etade, avean del pari

            Lor propria stanza, e i pastorali vasi,

            Secchie, conche, catini, ov'ei le poppe

            Premer solea delle feconde madri,

            Entro il siere nôtavano. Qui forte

            I compagni pregavanmi che, tolto

            Pria di quel cacio, si tornasse addietro,

            Capretti s'adducessero ed agnelli

            Alla nave di fretta, e in mar s'entrasse.

            Ma io non volli, benché il meglio fosse:

            Quando io bramava pur vederlo in faccia,

            E trar doni da lui, che rïuscirci

            Ospite sì inamabile dovea.

            Racceso il foco, un sagrifizio ai numi

            Femmo, e assaggiammo del rappreso latte:

            Indi l'attendevam nell'antro assisi.

              Venne, pascendo la sua greggia, e in collo

            Pondo non lieve di risecca selva

            Che la cena cocessegli, portando.

            Davanti all'antro gittò il carco, e tale

            Levòssene un romor, che sbigottiti

            Nel più interno di quel ci ritraemmo.

            Ei dentro mise le feconde madri,

            E gl'irchi a cielo aperto, ed i montoni

            Nella corte lasciò. Poscia una vasta

            Sollevò in alto ponderosa pietra,

            Che ventidue da quattro ruote e forti

            Carri di loco non avrìano smossa,

            E l'ingresso acciecò della spelonca.

            Fatto, le agnelle, assiso, e le belanti

            Capre mugnea, tutto serbando il rito,

            E a questa i parti mettea sotto, e a quella.

            Mezzo il candido latte insieme strinse,

            E su i canestri d'intrecciato vinco

            Collocollo ammontato; e l'altro mezzo,

            Che dovea della cena esser bevanda,

            Il ricevero i pastorecci vasi.

              Di queste sciolto cotidiane cure,

            Mentre il foco accendea, ci scòrse, e disse:

            "Forestieri, chi siete? E da quai lidi

            Prendeste a frequentar l'umide strade?

            Siete voi trafficanti? O errando andate,

            Come corsari che la vita in forse,

            Per danno altrui recar, metton su i flutti?"

            Della voce al rimbombo, ed all'orrenda

            Faccia del mostro, ci s'infranse il core.

            Pure io così gli rispondea: Siam Greci

            Che di Troia partiti e trabalzati

            Su pel ceruleo mar da molti venti

            Cercando il suol natìo, per altre vie,

            E con vïaggi non pensati, a queste

            (Così piacque agli dèi), sponde afferrammo.

            Seguimmo, e cen vantiam, per nostro capo

            Quell'Atrìde Agamennone che il mondo

            Empièo della sua fama, ei che distrusse

            Città sì grande, e tante genti ancise.

            Ed or, prostesi alle ginocchia tue,

            Averci ti preghiam d'ospiti in grado,

            E d'un tuo dono rimandarci lieti.

            Ah! temi, o potentissimo, gli dèi:

            Che tuoi supplici siam, pensa, e che Giove

            Il supplicante vendica, e l'estrano,

            Giove ospital, che l'accompagna e il rende

            Venerabile altrui". Ciò detto, io tacqui.

              Ed ei con atroce alma: "O ti fallisce

            Straniero, il senno, o tu di lunge vieni,

            Che vuoi che i numi io riverisca e tema.

            L'Egidarmato di Saturno figlio

            Non temono i Ciclopi, o gli altri iddii:

            Ché di loro siam noi molto più forti.

            Né perché Giove inimicarmi io debba,

            A te concederò perdono, e a questi

            Compagni tuoi, se a me il mio cor nol detta.

            Ma dimmi: ove approdasti? All'orlo estremo

            Di questa terra, o a più propinquo lido?"

            Così egli tastommi; ed io, che molto

            D'esperïenza ricettai nel petto,

            Ravvìstomi del tratto, incontanente

            Arte in tal modo gli rendei per arte:

            "Nettuno là, 've termina e s'avanza

            La vostra terra con gran punta in mare,

            Spinse la nave mia contra uno scoglio,

            E le spezzate tavole per l'onda

            Sen portò il vento. Dall'estremo danno

            Con questi pochi io mi sottrassi appena".

            Nulla il barbaro a ciò: ma, dando un lancio,

            La man ponea sovra i compagni, e due

            Brancavane ad un tempo, e, quai cagnuoli,

            Percoteali alla terra, e ne spargea

            Le cervella ed il sangue. A brano a brano

            Dilacerolli, e s'imbandì la cena.

            Qual digiuno leon, che in monte alberga,

            Carni ed interïora, ossa e midolle,

            Tutto vorò, consumò tutto. E noi

            A Giove ambo le man tra il pianto alzammo,

            Spettacol miserabile scorgendo

            Con gli occhi nostri, e disperando scampo.

              Poiché la gran ventraia empiuto s'ebbe,

            Pasteggiando dell'uomo, e puro latte

            Tracannandovi sopra, in fra le agnelle

            Tutto quant'era ei si distese, e giacque.

            Io, di me ricordandomi, pensai

            Fàrmigli presso, e la pungente spada

            Tirar nuda dal fianco, e al petto, dove

            La coràta dal fegato si cinge,

            Ferirlo. Se non ch'io vidi che certa

            Morte noi pure incontreremmo, e acerba:

            Che non era da noi tôr dall'immenso

            Vano dell'antro la sformata pietra

            Che il Ciclope fortissimo v'impose.

            Però, gemendo, attendevam l'aurora.

              Sorta l'aurora, e tinto in roseo il cielo,

            Il foco ei raccendea, mugnea le grasse

            Pecore belle, acconciamente il tutto,

            E i parti a questa mettea sotto e a quella.

            Né appena fu delle sue cure uscito,

            Che altri due mi ghermì de' cari amici,

            E carne umana desinò. Satollo,

            Cacciava il gregge fuor dell'antro, tolto

            Senza fatica il disonesto sasso,

            Che dell'antro alla bocca indi ripose,

            Qual chi a farètra il suo coverchio assesta.

            Poi su pel monte si mandava il pingue

            Gregge davanti, alto per via fischiando.

              Ed io tutti a raccolta i miei pensieri

            Chiamai, per iscoprir come di lui

            Vendicarmi io potessi, e un'immortale

            Gloria comprarmi col favor di Palla.

            Ciò al fin mi parve il meglio. Un verde, enorme

            Tronco d'oliva, che il Ciclope svelse

            Di terra, onde fermar con quello i passi,

            Entro la stalla a inaridir giacea.

            Albero scorger credevam di nave

            Larga, mercanteggiante, e l'onde brune

            Con venti remi a valicare usata:

            Sì lungo era e sì grosso. Io ne recisi

            Quanto è sei piedi, e la recisa parte

            Diedi ai compagni da polirla. Come

            Polita fu, da un lato io l'affilai,

            L'abbrustolai nel foco, e sotto il fimo,

            Ch'ivi in gran copia s'accogliea, l'ascosi.

            Quindi a sorte tirar coloro io feci,

            Che alzar meco dovessero, e al Ciclope

            L'adusto palo conficcar nell'occhio,

            Tosto che i sensi gli togliesse il sonno.

            Fortuna i quattro, ch'io bramava, appunto

            Donommi, e il quinto io fui. Cadea la sera,

            E dai campi tornava il fier pastore,

            Che la sua greggia di lucenti lane

            Tutta introdusse nel capace speco:

            O di noi sospettasse, o prescrivesse

            Così il Saturnio. Novamente imposto

            Quel, che rimosso avea, disconcio masso,

            Pecore e capre alla tremola voce

            Mungea sedendo, a maraviglia il tutto,

            E a questa mettea sotto e a quella i parti.

            Fornita ogni opra, m'abbrancò di nuovo

            Due de' compagni, e cenò d'essi il mostro.

            Allora io trassi avanti, e, in man tenendo

            D'edra una coppa: "Te' Ciclope", io dissi:

            "Poiché cibasti umana carne, vino

            Bevi ora, e impara, qual su l'onde salse

            Bevanda carreggiava il nostro legno.

            Questa, con cui libar, recarti io volli,

            Se mai, compunto di nuova pietade,

            Mi rimandassi alle paterne case.

            Ma il tuo furor passa ogni segno. Iniquo!

            Chi più tra gl'infiniti uomini in terra

            Fia che s'accosti a te? Male adoprasti".

              La coppa ei tolse, e bevve, ed un supremo

            Del soave licor prese diletto,

            E un'altra volta men chiedea: "Straniero,

            Darmene ancor ti piaccia, e mi palesa

            Subito il nome tuo, perch'io ti porga

            L'ospital dono che ti metta in festa.

            Vino ai Ciclopi la feconda terra

            Produce col favor di tempestiva

            Pioggia, onde Giove le nostre uve ingrossa:

            Ma questo è ambrosia e nèttare celeste".

              Un'altra volta io gli stendea la coppa.

            Tre volte io la gli stesi; ed ei ne vide

            Nella stoltezza sua tre volte il fondo.

            Quando m'accorsi che saliti al capo

            Del possente licor gli erano i fumi,

            Voci blande io drizzavagli: "Il mio nome

            Ciclope, vuoi? L'avrai: ma non frodarmi

            Tu del promesso a me dono ospitale.

            Nessuno è il nome; me la madre e il padre

            Chiaman Nessuno, e tutti gli altri amici".

            Ed ei con fiero cor: "L'ultimo ch'io

            Divorerò, sarà Nessuno. Questo

            Riceverai da me dono ospitale".

              Disse, diè indietro, e rovescion cascò.

            Giacea nell'antro con la gran cervice

            Ripiegata su l'omero: e dal sonno,

            Che tutti doma, vinto, e dalla molta

            Crapula oppresso, per la gola fuori

            Il negro vino e della carne i pezzi,

            Con sonanti mandava orrendi rutti.

            Immantinente dell'ulivo il palo

            Tra la cenere io spinsi; e in questo gli altri

            Rincorava, non forse alcun per tema

            M'abbandonasse nel miglior dell'opra.

            Come, verde quantunque, a prender fiamma

            Vicin mi parve, rosseggiante il trassi

            Dalle ceneri ardenti, e al mostro andai

            Con intorno i compagni: un dio per fermo

            D'insolito ardimento il cor ci armava.

            Quelli afferrâr l'acuto palo, e in mezzo

            Dell'occhio il conficcaro; ed io di sopra,

            Levandomi su i piè, movealo in giro.

            E come allor che tavola di nave

            Il trapano appuntato investe e fora,

            Che altri il regge con mano, altri tirando

            Va d'ambo i lati le corregge, e attorno

            L'instancabile trapano si volve:

            Sì nell'ampia lucerna il trave acceso

            Noi giravamo. Scaturiva il sangue,

            La pupilla bruciava, ed un focoso

            Vapor, che tutta la palpèbra e il ciglio

            Struggeva, uscìa della pupilla, e l'ime

            Crepitarne io sentìa rotte radici.

            Qual se fabbro talor nell'onda fredda

            Attuffò un'ascia o una stridente scure,

            E temprò il ferro, e gli diè forza; tale,

            L'occhio intorno al troncon cigola e frigge.

              Urlo il Ciclope sì tremendo mise,

            E tanto l'antro rimbombò, che noi

            Qua e là ci spargemmo impauriti.

            Ei fuor cavossi dall'occhiaia il trave,

            E da sé lo scagliò di sangue lordo,

            Furïando per doglia: indi i Ciclopi,

            Che non lontani le ventose cime

            Abitavan de' monti in cave grotte,

            Con voce alta chiamava. Ed i Ciclopi

            Quinci e quindi accorrean, la voce udita

            E soffermando alla spelonca il passo,

            Della cagione il richiedean del duolo:

            "Per quale offesa, o Polifemo, tanto

            Gridàstu mai? Perché così ci turbi

            La balsamica notte e i dolci sonni?

            Fùrati alcun la greggià? o uccider forse

            Con inganno ti vuole, o a forza aperta?"

            E Polifemo dal profondo speco:

            "Nessuno, amici, uccidemi, e ad inganno,

            Non già colla virtude". "Or se nessuno

            Ti nuoce", rispondeano, "e solo alberghi,

            Da Giove è il morbo, e non v'ha scampo. Al padre

            Puoi bene, a re Nettun, drizzare i prieghi".

            Dopo ciò, ritornâr su i lor vestigi:

            Ed a me il cor ridea, che sol d'un nome

            Tutta si fosse la mia frode ordita.

              Polifemo da duoli aspri crucciato,

            Sospirando altamente, e brancolando

            Con le mani il pietron di loco tolse.

            Poi, dove l'antro vaneggiava, assiso

            Stavasi con le braccia aperte e stese,

            Se alcun di noi, che tra le agnelle uscisse,

            Giungesse ad aggrappar: tanta ei credeo

            Semplicitade in me. Ma io gli amici

            E me studiava riscattar, correndo

            Per molte strade con la mente astuta:

            Ché la vita ne andava, e già pendea

            Su le teste il disastro. Al fine in questa,

            Dopo molto girar, fraude io m'arresto.

            Montoni di gran mole e pingui e belli,

            Di folta carchi porporina lana,

            Rinchiudea la caverna. Io tre per volta

            Prendeane, e in un gli unìa tacitamente

            Co' vinchi attorti, sovra cui solea

            Polifemo dormir: quel ch'era in mezzo,

            Portava sotto il ventre un de' compagni,

            Cui fean riparo i due ch'ivan da lato,

            E così un uomo conducean tre bruti.

            Indi afferrai pel tergo un arïete

            Maggior di tutti, e della greggia il fiore;

            Mi rivoltai sotto il lanoso ventre,

            E, le mani avolgendo entro ai gran velli,

            Con fermo cor mi v'attenea sospeso.

            Così, gemendo, aspettavam l'aurora.

              Sorta l'aurora, e tinto in roseo il cielo,

            Fuor della grotta i maschi alla pastura

            Gittavansi; e le femmine non munte,

            Che gravi molto si sentìan le poppe,

            Rïempìan di belati i lor serragli.

            Il padron, cui ferìan continue doglie,

            D'ogni montone, che diritto stava,

            Palpava il tergo, e non s'avvide il folle

            Che dalle pance del velluto gregge

            Pendean gli uomini avvinti. Ultimo uscìa

            De' suoi velli bellissimi gravato

            L'arïete, e di me, cui molte cose

            S'aggiravan per l'alma. Polifemo

            Tai detti, brancicandolo, gli volse:

            "Arïete dappoco, e perché fuori

            Così da sezzo per la grotta m'esci?

            Già non solevi dell'agnelle addietro

            Restarti: primo, e di gran lunga, i molli

            Fiori del prato a lacerar correvi

            Con lunghi passi; degli argentei fiumi

            Primo giungevi alle correnti; primo

            Ritornavi da sera al tuo presepe:

            Ed oggi ultimo sei. Sospiri forse

            L'occhio del tuo signor? L'occhio che un tristo

            Mortal mi svelse co' suoi rei compagni,

            Poiché doma col vin m'ebbe la mente,

            Nessuno, ch'io non credo in salvo ancora.

            Oh! se a parte venir de' miei pensieri

            Potessi, e, voci articolando, dirmi,

            Dove dalla mia forza ei si ricovra,

            Ti giuro che il cervel, dalla percossa

            Testa schizzato, scorrerìa per l'antro,

            Ed io qualche riposo avrei da' mali

            Che Nessuno recommi, un uom da nulla".

            Disse: e da sé lo spingea fuori al pasco.

              Tosto che dietro a noi l'infame speco

            Lasciato avemmo, ed il cortile ingiusto,

            Tardo a sciormi io non fui dall'arïete,

            E poi gli altri a slegar, che, ragunate

            Molte in gran fretta piedilunghe agnelle,

            Cacciavansele avanti in sino al mare.

            Desïati apparimmo, e come usciti

            Dalle fauci di morte, a quei che in guardia

            Rimaser della nave, e che i compagni,

            Che non vedeano, a lagrimar si diero.

            Ma io non consentìalo, e con le ciglia

            Cenno lor fea di ritenere il pianto,

            E comandava lor che, messe in nave

            Le molte in pria vellosplendenti agnelle,

            Si fendessero i flutti. E già il naviglio

            Salìan, sedean su i banchi, e percotendo

            Gìan co' remi concordi il bianco mare.

            Ma come fummo un gridar d'uom lontani

            Così il Ciclope io motteggiai: "Ciclope,

            Color che nel tuo cavo antro, le grandi

            Forze abusando, divorasti, amici

            Non eran dunque d'un mortal da nulla,

            E il mal te pur coglier dovea. Malvagio!

            Che la carne cenar nelle tue case

            Non temevi degli ospiti. Vendetta

            Però Giove ne prese e gli altri numi".

              A queste voci Polifemo in rabbia

            Montò più alta, e con istrana possa

            Scagliò d'un monte la divelta cima,

            Che davanti alla prua càddemi: al tonfo

            L'acqua levossi, ed innondò la nave,

            Che alla terra crudel, dai rifluenti

            Flutti portata, quasi a romper venne.

            Ma io, dato di piglio a un lungo palo,

            Ne la staccai, pontando; ed i compagni

            D'incurvarsi sul remo, e in salvo addursi,

            Più de' cenni pregai che della voce:

            E quelli tutte ad inarcar le terga.

            Scorso di mar due volte tanto, i detti

            A Polifemo io rivolgea di nuovo,

            Benché gli amici con parole blande

            D'ambo i lati tenessermi: "Infelice!

            Perché la fera irritar vuoi più ancora?

            Così poc'anzi a saettar si mise,

            Che tre dita mancò, che risospinto

            Non percotesse al continente il legno.

            Fa che gridare o favellar ci senta,

            E volerà per l'aere un'altra rupe,

            Che le nostre cervella, e in un la nave

            Sfracellerà: tanto colui dardeggia".

            L'alto mio cor non si piegava. Quindi:

            "Ciclope", io dissi con lo sdegno in petto,

            "Se della notte, in che or tu giaci, alcuno

            Ti chiederà, gli narrerai che Ulisse,

            D'Itaca abitator, figlio a Laerte,

            Struggitor di cittadi, il dì ti tolse".

              Egli allora, ululando: "Ohimè!" rispose,

            Da' prischi vaticinî eccomi côlto.

            Indovino era qui, prode uomo e illustre,

            Tèlemo figliuol d'Eurimo, che avea

            Dell'arte il pregio, ed ai Ciclopi in mezzo

            Profetando invecchiava. Ei queste cose

            Mi presagì: mi presagì che il caro

            Lume dell'occhio spegnerìami Ulisse.

            Se non ch'io sempre uom gigantesco e bello

            E di forze invincibili dotato,

            Rimirar m'aspettava; ed ecco in vece

            La pupilla smorzarmi un piccoletto

            Greco ed imbelle, che col vin mi vinse.

            Ma qua, su via vientene, Ulisse, ch'io

            Ti porga l'ospital dono, e Nettuno

            Di fortunare il tuo ritorno prieghi.

            Io di lui nacqui, ed ei sen vanta, e solo

            Voglial, mi sanerà; non altri, io credo,

            Tra i mortali nel mondo, o in ciel tra i numi".

              "Oh! così potess'io", ratto ripresi,

            "Te spogliar della vita, e negli oscuri

            Precipitar regni di Pluto, come

            Né da Nettuno ti verrà salute".

              Ed ei, le palme alla stellata volta

            Levando, il supplicava: "O chiomazzurro,

            Che la terra circondi, odi un mio voto.

            Se tuo pur son, se padre mio ti chiami,

            Di tanto mi contenta: in patria Ulisse,

            D'Itaca abitator, figlio a Laerte

            Struggitor di cittadi, unqua non rieda.

            E dove il natìo suolo, e le paterne

            Case il destin non gli negasse, almeno

            Vi giunga tardi e a stento, e in nave altrui,

            Perduti in pria tutti i compagni, e nuove

            Nell'avìta magion trovi sciagure".

              Fatte le preci e da Nettuno accolte,

            Sollevò un masso di più vasta mole,

            E, rotandol nell'aria, e una più grande

            Forza immensa imprimendovi, lanciollo.

            Cadde dopo la poppa, e del timone

            La punta rasentò: levossi al tonfo

            L'onda, e il legno coprì, che all'isoletta,

            Spinto dal mar, subitamente giunse.

            Quivi eran l'altre navi in su l'arena,

            E i compagni, che assisi ad esse intorno

            Ci attendean sempre con agli occhi il pianto.

            Noi tosto in secco la veloce nave

            Tirammo, e fuor n'uscimmo, e, del Ciclope

            Trattone il gregge, il dividemmo in guisa,

            Che parte ugual n'ebbe ciascuno. È vero

            Che voller che a me sol, partite l'agne,

            Il superbo arïete anco toccasse.

            Io di mia mano al Saturnìde, al cinto

            D'oscure nubi Correttor del Mondo,

            L'uccisi, e n'arsi le fiorite cosce.

            Ma non curava i sacrifizi Giove,

            Che anzi tra sé volgea, com'io le navi

            Tutte, e tutti i compagni al fin perdessi.

            L'intero dì sino al calar del Sole

            Sedevam banchettando: il Sole ascoso,

            Ed apparse le tenebre, le membra

            Sul marin lido a riposar gettammo.

              Ma come del mattin la figlia, l'Alba

            Ditirosata in Orïente sorse,

            I compagni esortai, comandai loro

            Di rimbarcarsi, e liberar le funi.

            E quei si rimbarcavano, e su i banchi

            Sedean l'un dopo l'altro, e percotendo

            Gìan co' remi concordi il bianco mare.

            Così noi lieti per lo scampo nostro

            E per l'altrui sventura in un dolenti,

            Del mar di nuovo solcavam le spume.

             

             


            LIBRO DECIMO

             

             

              Giungemmo nell'Eolia, ove il diletto

            Agl'immortali dèi d'Ippota figlio,

            Eolo, abitava in isola natante,

            Cui tutta un muro d'infrangibil rame

            E una liscia circonda eccelsa rupe.

            Dodici, sei d'un sesso e sei dell'altro,

            Gli nacquer figli in casa; ed ei congiunse

            Per nodo marital suore e fratelli,

            Che avean degli anni il più bel fior sul volto.

            Costoro ciascun dì siedon tra il padre

            Caro e l'augusta madre, ad una mensa

            Di varie carca dilicate dapi.

            Tutto il palagio, finché il giorno splende,

            Spira fragranze, e d'armonie risuona;

            Poi, caduta su l'isola la notte,

            Chiudono al sonno le bramose ciglia

            In traforati e attappezzati letti

            Con le donne pudìche i fidi sposi.

              Questo il paese fu, questo il superbo

            Tetto, in cui me per un intero mese

            Co' modi più gentili Eolo trattava.

            Di molte cose mi chiedea: di Troia,

            Del navile de' Greci, e del ritorno;

            E il tutto io gli narrai di punto in punto.

            Ma come, giunta del partir mio l'ora,

            Parole io mossi ad impetrar licenza,

            Ei, non che dissentir, del mio vïaggio

            Pensier si tolse e cura, e della pelle

            Di bue novenne appresentommi un otre,

            Che imprigionava i tempestosi venti:

            Poiché de' venti dispensier supremo

            Fu da Giove nomato; ed a sua voglia

            Stringer lor puote, o rallentare il freno.

            L'otre nel fondo del naviglio avvinse

            Con funicella lucida d'argento,

            Che non ne uscisse la più picciol'aura;

            E sol tenne di fuori un opportuno

            Zefiro, cui le navi e i naviganti

            Diede a spinger su l'onda. Eccelso dono,

            Che la nostra follìa volse in disastro!

              Nove dì senza posa, e tante notti

            Veleggiavamo; e già venìaci incontro

            Nel decimo la patria, e omai vicini

            Quei vedevam che raccendeano i fochi:

            Quando me stanco, perch'io regger volli

            Della nave il timon, né in mano altrui,

            Onde il corso affrettar, lasciarlo mai,

            Sorprese il sonno. I miei compagni intanto

            Favellavan tra loro, e fean pensiero

            Che argento ed oro alle mie case, doni

            Del generoso Ippòtade, io recassi.

            "Numi!" come di sé, "dicea taluno

            Rivolto al suo vicin, "tutti innamora

            Costui, dovunque navigando arriva!

            Molti da Troia dispogliata arredi

            Riporta belli e preziosi; e noi,

            Che le vie stesse misurammo, a casa

            Torniam con le man vote. Inoltre questi

            L'Ippòtade gli diè pegni d'amore.

            Orsù, veggiam quanto in suo grembo asconda

            D'oro e d'argento la bovina pelle".

              Così prevalse il mal consiglio. L'otre

            Fu preso e sciolto; e immantinente tutti

            Con furia ne scoppiâr gli agili venti.

            La subitana orribile procella

            Li rapìa dalla patria e li portava

            Sospirosi nell'alto. Io, cui l'infausto

            Sonno si ruppe, rivolgea nell'alma,

            Se di poppa dovessi in mar lanciarmi,

            O soffrir muto, e rimaner tra i vivi.

            Soffrii, rimasi: ma, coverto il capo,

            Giù nel fondo io giacea, mentre le navi,

            Che i compagni di lutto empieano indarno,

            Ricacciava in Eolia il fiero turbo.

              Scendemmo a terra, acqua attignemmo e a mensa

            Presso le navi ci adagiammo. Estinta

            Del cibarsi e del ber l'innata voglia,

            Io con un de' compagni, e con l'araldo

            M'inviai d'Eolo alla magion superba;

            E tra la dolce sposa e i figli cari

            Banchettante il trovai. Sul limitare

            Sedevam della porta. Alto stupore

            Mostrâro i figli, e con parole alate:

            "Ulisse", mi dicean, "come venìstu?

            Qual t'assalì dèmone avverso? Certo

            Cosa non fu da noi lasciata indietro,

            Perché alla patria e al tuo palagio, e ovunque

            Ti talentasse più, salvo giungessi".

            Ed io con petto d'amarezza colmo:

            "Tristi compagni, e un sonno infausto a tale

            Condotto m'hanno. Or voi sanate, amici,

            Ché il potete, tal piaga". In questa guisa

            Le anime loro io raddolcir tentai.

            Quelli ammutiro. Ma il crucciato padre:

            "Via", rispose, "da questa isola, e tosto,

            O degli uomini tutti il più malvagio:

            Ché a me né accôr, né rimandar con doni

            Lice un mortal che degli eterni è in ira.

            Via, poiché l'odio lor qua ti condusse".

            Così Eolo sbandìa me dal suo tetto,

            Che de' gemiti miei tutto sonava.

              Mesti di nuovo prendevam dell'alto:

            Ma si stancavan di lottar con l'onda,

            Remigando, i compagni, e del ritorno

            Morìa la speme ne' dogliosi petti.

            Sei dì navigavamo, e notti sei;

            E col settimo sol della sublime

            Città di Lamo dalle larghe porte,

            Di Lestrigonia pervenimmo a vista.

            Quivi pastor, che a sera entra col gregge,

            Chiama un altro, che fuor con l'armento esce.

            Quivi uomo insonne avria doppia mercede.

            L'una pascendo i buoi, l'altra le agnelle

            Dalla candida lana: sì vicini

            Sono il dïurno ed il notturno pasco.

            Bello ed ampio n'è il porto; eccelsi scogli

            Cerchianlo d'ogni parte, e tra due punte,

            Che sporgon fuori e ad incontrar si vanno,

            S'apre un'angusta bocca. I miei compagni,

            Che nel concavo porto a entrar fûr pronti,

            Propinque vi tenean le ondivaganti

            Navi, e avvinte tra lor; quando né grande

            Vi s'alza mai, né picciola onda, e sempre

            Una calma vi appar tacita e bianca.

            Io sol rimasi col naviglio fuori,

            Che al sasso estremo con intorta fune

            Raccomandai: poi, su la rupe asceso,

            Quanto si discoprìa, mirava intorno.

            Lavor di bue non si scorgea, né d'uomo:

            Sol di terra salir vedeasi un fumo.

            Scelgo allor due compagni, e con l'araldo

            Màndoli a investigar, quali l'ignota

            Terra produce abitatori e nutre.

            La via diritta seguitâr, per dove

            I carri conduceano alla cittade

            Dagli alti monti la troncata selva;

            E s'abbattero a una real fanciulla,

            Del Lestrigone Antìfate alla figlia.

            Che del fonte d'Artacia, onde costuma

            Il cittadino attignere, in quel punto

            Alle pure scendea linfe d'argento.

            Le si fêro da presso, e chi del loco

            Re fosse, e su qual gente avesse impero,

            La domandaro; ed ella pronta l'alto

            Loro additò con man tetto del padre.

            Tocco ne aveano il limitare appena,

            Che femmina trovâr di sì gran mole

            Che rassembrava una montagna; e un gelo

            Si sentîro d'orror correr pel sangue.

            Costei di botto Antifate chiamava

            Dalla pubblica piazza, il rinomato

            Marito suo, che disegnò lor tosto

            Morte barbara e orrenda. Uno afferronne,

            Che gli fu cena; gli altri due con fuga

            Precipitosa giunsero alle navi.

              Di grida la cittade intanto empiea

            Antifate. I Lestrìgoni l'udiro,

            E accorrean chi da un lato e chi dall'altro,

            Forti di braccio, in numero infiniti,

            E giganti alla vista. Immense pietre

            Così dai monti a fulminar si diêro,

            Che d'uomini spiranti e infranti legni

            Sorse nel porto un suon tetro e confuso.

            Ed alcuni infilzati eran con l'aste,

            Quali pesci guizzanti, e alle ferali

            Mense future riserbati. Mentre

            Tal seguìa strage, io, sguainato il brando

            E la fune recisa, a' miei compagni

            Dar di forza nel mar co' remi ingiunsi,

            Se il fuggir morte premea loro; e quelli

            Di tal modo arrancavano, che i gravi

            Massi, che piovean d'alto, il mio naviglio

            Lietamente schivò: ma gli altri tutti

            Colà restâro sfracellati e spersi.

              Contenti dello scampo, e in un dogliosi

            Per li troppi compagni in sì crudele

            Guisa periti, navigammo avanti,

            E su l'isola Eèa sorgemmo, dove

            Circe, diva terribile, dal crespo

            Crine e dal dolce canto, avea soggiorno.

            Suora germana del prudente Eeta,

            Dal Sole aggiornator nacque, e da Persa,

            Dell'antico Oceàn figliuola illustre.

            Taciti a terra ci accostammo, entrammo,

            Non senza un dio che ci guidasse, il cavo

            Porto, e sul lido uscimmo; e qui due giorni

            Giacevamo, e due notti, il cor del pari

            La stanchezza rodendoci e la doglia.

              Come recato ebbe il dì terzo l'alba,

            Io, presa l'asta ed il pungente brando,

            Rapidamente andai sovra un'altezza,

            Se d'uomo io vedessi opra, o voce udissi.

            Fermato il piè su la scoscesa cima.

            Scôrsi un fumo salir d'infra una selva

            Di querce annose, che in un vasto piano

            Di Circe alla magion sorgeano intorno.

            Entrar disposi senza indugio in via,

            E il paese cercar: poi, ripensando,

            Al legno invece rivoltar i passi,

            Cibo dare ai compagni, e alcuni prima

            A esplorare invïar, mi parve il meglio.

            Già tra la nave e me poco restava:

            Quando ad un de' celesti, in cui pietade

            Per quella solitudine io destai,

            Grosso ed armato di ramose corna

            Drizzare alla mia volta un cervo piacque.

            Spinto dal Sole, che il cocea co' raggi,

            De' paschi uscìa della foresta, e al fiume

            Scendea con labbra sitibonde; ed io

            Su la spina lo colsi a mezzo il tergo

            Sì che tutto il passò l'asta di rame.

            Nella polve cadé, mandando un grido,

            E via ne volò l'alma. Accorsi, e, il piede

            Pontando in esso, dalla fonda piaga

            Trassi il cerro sanguigno, ed il sanguigno

            Cerro deposi a terra: indi virgulti

            Divelsi e giunchi, attorcigliaili, fune

            Sei spanne lunga ne composi, e i morti

            Piedi ne strinsi dell'enorme fera.

            Al fin sul collo io la mi tolsi, e mossi,

            Su la lancia poggiandomi, al naviglio:

            Ché mal potuto avrei sovra una sola

            Spalla portar così sformata belva.

            Presso la nave scaricàila; e ratto

            Con soavi parole i miei compagni,

            A questo rivolgendomi ed a quello,

            Così tentai rïanimare: "Amici,

            Prima del nostro dì, d'Aide alle porte

            Non calerem, benché ci opprima il duolo.

            Su, finché cibo avemo, avem licore,

            Non mettiamli in obblìo; né all'importuna

            Fame lasciamci consumar di dentro".

            Quelli ubbidendo alle mie voci, uscîro

            Delle latebre loro, e, in riva al mare,

            Che frumento non genera, venuti,

            Stupìan del cervo: sì gran corno egli era!

            E come sazi del mirarlo fûro,

            Ne apparecchiâro non vulgar convito,

            Sparse prima di chiara onda le palme.

            Così tutto quel dì sino all'occaso

            Di carne opìma e di fumoso vino

            L'alma riconfortammo: il sol caduto

            E comparse le tenebre, nel sonno

            Ci seppellimmo al mormorio dell'onde.

              Ma sorta del mattin la rosea figlia,

            Tutti io raccolsi a parlamento, e dissi:

            "Compagni, ad onta di guai tanti, udite.

            Qui, d'onde l'austro spiri o l'aquilone,

            E in qual parte il Sole alza, in qual dechina,

            Noto non è. Pur consultare or vuolsi,

            Qual consiglio da noi prender si debba,

            Se v'ha un consiglio: di che forte io temo,

            Io d'in su alpestre poggio isola vidi

            Cinta da molto mar, che bassa giace,

            E nel cui mezzo un nereggiante fumo

            D'infra un bosco di querce al ciel si volve",

              Rompere a questo si sentiro il core,

            D'Antìfate membrando e del Ciclope

            La ferocia, i misfatti, e le nefande

            Della carne dell'uom mense imbandite.

            Strida metteano, e discioglieansi in pianto.

            Ma del pianto che pro? che delle strida?

            Tutti in due schiere uguali io li divisi.

            E diedi ad ambo un duce: all'una il saggio

            Eurìloco, e me all'altra, indi nel cavo

            Rame dell'elmo agitavam le sorti,

            Ed Euriloco uscì, che in via si pose

            Senza dimora. Ventidue compagni,

            Lagrimando, il seguìan; né affatto asciutte

            Di noi, che rimanemmo, eran le guance.

              Edificata con lucenti pietre

            Di Circe ad essi la magion s'offerse,

            Che vagheggiava una feconda valle.

            Montani lupi e leon falbi, ch'ella

            Mansuefatti avea con sue bevande,

            Stavano a guardia del palagio eccelso,

            Né lor già s'avventavano; ma invece

            Lusingando scotean le lunghe code,

            E su l'anche s'ergeano. E quale i cani

            Blandiscono il signor, che dalla mensa

            Si leva, e ghiotti bocconcelli ha in mano;

            Tal quelle di forte unghia orride belve

            Gli ospiti nuovi, che smarriti al primo

            Vederle s'arretraro, ivan blandendo.

            Giunti alle porte, la deessa udìro

            Dai ben torti capei, Circe, che dentro

            Canterellava con leggiadra voce,

            Ed un'ampia tessea, lucida, fina,

            Maravigliosa, immortal tela, e quale

            Della man delle dive uscir può solo.

            Pòlite allor, d'uomini capo, e molto

            Più caro e in pregio a me, che gli altri tutti

            Sciogliea tai detti: "Amici, in queste mura

            Soggiorna, io non so ben se donna o diva.

            Che tele oprando, del suo dolce canto

            Tutta fa risentir la casa intorno.

            Voce mandiamo a lei." Disse, e a lei voce

            Mandaro; e Circe di là tosto ov'era,

            Levossi e aprì le luminose porte,

            E ad entrare invitavali. In un groppo

            La seguìan tutti incautamente salvo

            Eurìloco, che fuor, di qualche inganno

            Sospettando, restò. La dea li pose

            Sovra splendidi seggi: e lor mescea

            Il Pramnio vino con rappreso latte,

            Bianca farina e mel recente; e un succo

            Giungeavi esizïal, perché con questo

            Della patria l'obblìo ciascun bevesse.

            Preso e vôtato dai meschini il nappo,

            Circe batteali d'una verga, e in vile

            Stalla chiudeali: avean di porco testa,

            Corpo, sétole, voce; ma lo spirto

            Serbavan dentro, qual da prima, intègro.

            Così rinchiusi, sospirando, fûro:

            Ed ella innanzi a lor del cornio i frutti

            Gettava, e della rovere e dell'elce,

            De' verri accovacciati usato cibo.

              Nunzio verace dell'infausto caso

            Venne rapido Euriloco alla nave.

            Ma non potea per iterati sforzi

            La lingua disnodar: gonfi portava

            Di pianto i lumi, e un vïolento duolo

            L'alma gli percotea. Noi, figurando

            Sventure nel pensier, con maraviglia

            L'interrogammo; ed ei l'eccidio al fine

            De' compagni narrò: "Nobile Ulisse,

            Attraversato delle querce il bosco,

            Come tu comandavi, eccoci a fronte

            Magion construtta di politi marmi,

            Che di mezzo a una valle alto s'ergea.

            Tessea di dentro una gran tela, e canto,

            Donna o diva, chi 'l sa? stridulo alzava.

            Voce mandaro a lei. Levossi e aperse

            Le porte e ne invitò. Tutti ad un corpo

            Nella magion disavvedutamente

            Seguìanla: io no, che sospettai di frode.

            Svaniro insieme tutti; e per istarmi

            Lungo ch'io feci ad esplorare assiso,

            Traccia d'alcun di lor più non m'apparve".

              Disse; ed io grande alle mie spalle, e acuta,

            Spada, d'argento bullettata, appesi,

            Appesi un valid'arco, e ingiunsi a lui,

            Che innanzi per la via stessa mi gisse.

            Ma Euriloco, i ginocchi ad ambe mani

            Stringendomi e piangendo: "Ah! mal mio grado",

            Con sùpplici gridò parole alate,

            "Lá non guidarmi, o del gran Giove alunno,

            Donde, non che altri ricondur, tu stesso

            Ritornar non potrai. Fuggiam, fuggiamo

            Senza indugio con questi, e la vicina

            Parca schiviam, finché schivarla è dato".

              "Euriloco", io risposi, "e tu rimanti,

            Di carne e vino a riempirti il ventre,

            Lungo la nave. Io, cui severa stringe

            Necessitate, andrò". Ciò detto, a tergo

            La nave negra io mi lasciava e il mare.

              Già per le sacre solitarie valli

            Della Maga possente all'alta casa

            Presso io mi fea, quando Mercurio, il nume

            Che arma dell'aureo caduceo la destra,

            In forma di garzone, a cui fiorisce

            Di lanugine molle il mento appena,

            Mi venne incontro, e per la man mi prese,

            E: "Misero!" diss'ei con voce amica,

            "Perché ignaro de' lochi, e tutto solo,

            Muòvi così per queste balze a caso?

            Sono in poter di Circe i tuoi compagni,

            E li chiudon, quai verri, anguste stalle.

            Venìstu forse a riscattarli? Uscito

            Dell'immagine tua penso che a terra

            Tu ancor cadrai. Se non che trarti io voglio

            Fuor d'ogni storpio, e in salvo porti. Prendi

            Questo mirabil farmaco, che il tristo

            Giorno dal capo tuo storni, e con esso

            Trova il tetto di Circe, i cui perversi

            Consigli tutti io t'aprirò. Bevanda

            Mista, e di succo esizïale infusa,

            Colei t'appresterà: ma le sue tazze

            Contra il farmaco mio nulla varranno.

            Più oltre intendi. Come te la diva

            Percosso avrà d'una sua lunga verga,

            Tu cava il brando che ti pende al fianco,

            E, di ferirla in atto, a lei t'avventa.

            Circe, compresa da timor, sue nozze

            T'offrirà pronta: non voler tu il letto

            Della dea ricusare, acciò ti sciolga

            Gli amici, e amica ti si renda. Solo

            Di giurarti costringila col grande

            Degl'immortali dèi giuro, che nulla

            Più non sarà per macchinarti a danno;

            Onde, poiché t'avrà l'armi spogliate,

            Del cor la forza non ti spogli ancora".

              Finito il ragionar l'erba salubre

            Porsemi già dal suol per lui divelta,

            E la natura divisonne: bruna

            N'è la radice; il fior bianco di latte;

            Moli i numi la chiamano: resiste

            Alla mano mortal, che vuol dal suolo

            Staccarla; ai dèi, che tutto ponno, cede.

            Detto, dalla boscosa isola il nume

            Alle pendici dell'Olimpo ascese;

            Ed io vêr Circe andai; ma di pensieri

            In gran tempesta m'ondeggiava il core.

              Giunto alla diva dalle belle trecce,

            La voce alzai dall'atrio. Udimmi, e ratta

            Levossi, e aprì le luminose porte,

            E m'invitava: io la seguìa non lieto.

            Sovra un distinto d'argentini chiovi

            Seggio a grand'arte fatto, e vago assai,

            Mi pose: lo sgabello i piè reggea.

            Quindi con alma che pensava mali,

            La mista preparommi in aureo nappo

            Bevanda incantatrice, ed io la presi

            Dalla sua mano, e bebbi; e non mi nocque.

            Però in quel che la dea me della lunga

            Verga percosse, e: "Vanne", disse, "e a terra

            Co' tuoi compagni nella stalla giaci",

            Tirai dal fianco il brando, e contra lei,

            Di trafiggerla in atto, io mi scagliai.

            Circe, mandando una gran voce, corse

            Rapida sotto il colpo, e le ginocchia

            Con le braccia afferrommi, e queste alate

            Parole mi drizzò, non senza pianto:

            "Chi sei tu? donde sei? la patria dove?

            Dove i parenti a te? Stupor m'ingombra,

            Che l'incanto bevuto in te non possa,

            Quando io non vidi, cui passasse indarno

            Per la chiostra de' denti il mio veleno.

            Certo un'anima invitta in petto chiudi.

            Saréstu forse quel sagace Ulisse,

            Che Mercurio a me sempre iva dicendo

            Dover d'Ilio venir su negra nave?

            Per fermo sei. Nella vagina il brando

            Riponi, e sali il letto mio: dal core

            D'entrambi ogni sospetto amor bandisca".

              "Circe", risposi, "che da me richiedi?

            Io cortese vêr te, che in sozze belve

            Mi trasformasti gli uomini? Rivolgi

            Tacite frodi entro te stessa; ed io

            La tua penetrerò stanza secreta,

            Onde, poiché m'avrai l'armi spogliate,

            Del cor la forza tu mi spogli ancora?

            No, se non giuri prima, e con quel grande

            Degl'immortali dèi giuro, che nulla

            Più non sarai per macchinarmi a danno".

            Dissi; e la dea giurò. Di Circe allora

            Le belle io salsi maritali piume.

              Quattro serviano a lei nel suo palagio

            Di quelle Ninfe che dai boschi nate

            Sono, o dai fonti liquidi, o dai sacri,

            Che devolvonsi al mar, rapidi fiumi.

            L'una gittava su i politi seggi

            Bei tappeti di porpora, cui sotto

            Bei tappeti mettea di bianco lino:

            L'altra mense d'argento innanzi ai seggi

            Spiegava, e d'oro v'imponea canestri:

            Mescea la terza nell'argentee brocche

            Soavissimi vini, e d'auree tazze

            Coprìa le mense: ma la quarta il fresco

            Fonte recava, e raccendea gran fuoco

            Sotto il vasto treppié, che l'onda cape.

            Già fervea questa nel cavato bronzo,

            E me la ninfa guidò al bagno, e l'onda

            Pel capo mollemente e per le spalle

            Spargermi non cessò, ch'io mi sentii

            Di vigor nuovo rifiorir le membra.

            Lavato ed unto di licor d'oliva,

            E di tunica e clamide coverto,

            Sovra un distinto d'argentini chiovi

            Seggio a grand'arte fatto, e vago assai,

            Mi pose: lo sgabello i piè reggea.

            E un'altra ninfa da bel vaso d'oro

            Purissim'acqua nel bacil d'argento

            Mi versava, e stendeami un liscio desco,

            Che di candido pane e di serbate

            Dapi a fornir la dispensiera venne:

            "Cìbati", mi dicea la veneranda

            Dispensiera, ed instava; ed io, d'ogni esca

            Schivo, in altri pensieri, e tutti foschi,

            Tenea la mente, pur sedendo, infissa.

            Circe, ratto che avvidesi ch'io mesto

            Non mi curava della mensa punto,

            Con queste m'appresso voci sul labbro:

            "Perché così, qual chi non ha favella,

            Siedi, Ulisse, struggendoti, e vivanda

            Non tocchi, né bevanda? In te sospetto

            S'annida forse di novello inganno?

            Dopo il mio giuramento a torto temi".

              Ed io: "Circe, qual mai retto uomo e saggio

            Vivanda toccheria prima, o bevanda,

            Che i suoi vedesse riscattati e salvi?

            Fa' che liberi io scorga i miei compagni,

            Se vuoi che della mensa io mi sovvegna".

              Circe uscì tosto con in man la verga,

            E della stalla gl'infelici trasse,

            Che di porci novenni avean l'aspetto.

            Tutti le stavan di rincontro; e Circe,

            D'uno all'altro passando, un prezïoso

            Sovra lor distendea benigno unguento.

            Gli odiati peli, che la tazza infesta

            Produsse, a terra dalle membra loro

            Cadevano; e ciascun più che non era,

            Grande apparve di corpo, e assai più fresco

            D'etade in faccia, e di beltà più adorno.

            Mi ravvisò ciascuno, ed afferrommi

            La destra; e un così tenero e sì forte

            Compianto si levò, che la magione

            Ne risonava orrendamente, e punta

            Sentìasi di pietà la stessa Maga.

            Ella, standomi al fianco: "O sovrumano

            Di Laerte figliuol, provvido Ulisse,

            Corri", diceami, "alla tua nave, e in secco

            La tira, e cela nelle cave grotte

            Le ricchezze e gli arnesi: indi a me torna.

            E i diletti compagni adduci teco".

              M'entrò il suo dir nell'alma. Al lido io corsi,

            E i compagni trovai, che appo la nave

            Di lagrime nutrìansi e di sospiri.

            Come, se riedon le satolle vacche

            Dai verdi prati al rusticale albergo,

            I vitelli saltellano, e alle madri,

            Che più serraglio non ritienli o chiostra,

            Con frequente muggir corrono intorno:

            Così con pianto a me, vistomi appena,

            Intorno s'aggiravano i compagni,

            E quei mostravan su la faccia segni,

            Che vi si scorgerìan, se il dolce nido,

            Dove nacquero e crebbero, se l'aspra

            Itaca avesser tocca: "O", lagrimando

            Dicean, "di Giove alunno, una tal gioia

            Sarebbe a stento in noi, se ci accogliesse

            D'Itaca il porto. Ma, su via, l'acerbo

            Fato degli altri raccontar ti piaccia".

              Ed io con dolce favellar: "La nave

            Si tiri in secco, e nelle cave grotte

            Le ricchezze si celino e gli arnesi.

            Poi seguitemi in fretta; ed i compagni

            Nel tetto sacro dell'illustre Circe

            Vedrete assisi ad una mensa, in cui

            Di là d'ogni desio la copia regna".

              Pronti obbediro. Ripugnava Euriloco

            Solo, ed or questo m'arrestava, or quello,

            Gridando: "Sventurati, ove ne andiamo?

            Qual mai vi punge del disastro sete,

            Che discendiate alla maliarda, e vôlti

            Siate in leoni, in lupi, o in sozzi verri,

            Il suo palagio a custodir dannati?

            L'ospizio avrete del Ciclope, quando

            Calâro i nostri nella grotta, e questo

            Prode Ulisse guidavali, di cui

            Morte ai miseri fu lo stolto ardire".

              Così Euriloco; ed io la lunga spada

            Cavar pensai della vagina, e il capo

            Dal busto ai piè sbalzargli in su la polve,

            Benché vincol di sangue a me l'unisse.

            Ma tutti quinci riteneanmi, e quindi

            Con favella gentil: "Di Giove alunno,

            Costui sul lido, se ti piace in guardia

            Della nave rimangasi, e alla sacra

            Magion noi guida". Detto ciò, dal mare

            Meco venìan, né restò quegli indietro:

            Tanto della minaccia ebbe spavento.

              Cura prendeasi Circe in questo mezzo

            Degli altri, che lavati, unti, e di buone

            Tuniche cinti e di bei manti fûro.

            Seduti a mensa li trovammo. Come

            Si sguardâro l'un l'altro, e sul passato

            Con la mente tornâro, in pianti e in grida

            Davano; e ne gemean pareti e volte.

            M'appressò allora, e mi parlò in tal guisa

            L'inclita tra le dive: "O di Laerte

            Gran prole, o ricco di consigli Ulisse,

            Modo al dirotto lagrimar si ponga.

            Noto è a me pur, quanti nel mar pescoso

            Duraste affanni, e so le crude offese

            Che vi recâro in terra uomini ostili.

            Su via, gioite omai, finché nel petto

            Vi rinasca l'ardir, ch'era in voi, quando

            Itaca alpestre abbandonaste in prima.

            Bassi or gli spirti avete, e freddo il sangue,

            Per la memoria de' vïaggi amari

            Nelle menti ancor viva, e l'allegrezza

            Disimparaste tra cotanti guai".

              Agevolmente ci arrendemmo. Quindi

            Pel continuo rotar d'un anno intero

            Giorno non ispuntò, che a lauta mensa

            Me non vedesse e i miei compagni in festa.

            Ma rivolto già l'anno, e le stagioni

            Tornate in sé col varïar de' mesi,

            Ed il cerchio dei dì molti compiuto,

            I compagni, traendomi in disparte:

            "Infelice!" mi dissero, "del caro

            Cielo nativo e delle avite mura

            Non ti rammenterai, se vuole il fato

            Che in vita tu rimanga, e le rivegga?"

              Sano avviso mi parve. Il sol caduto,

            E coverta di tenebre la terra,

            Quei si corcâro per le stanze; ed io,

            Salito il letto a maraviglia bello

            Di Circe, supplichevoli drizzai

            Alla dea, che m'udì, queste parole:

            "Attiemmi, o Circe, le impromesse, e al caro

            Rendimi natìo ciel, cui sempre vola,

            Non pure il mio, ma de' compagni il core,

            De' compagni, che stanno a me d'intorno,

            Sempre che tu da me t'apparti, e tutta

            Con le lagrime lor mi struggon l'alma".

              "O di Laerte sovrumana prole",

            La dea rispose, "ritenervi a forza

            Io più oltre non vo'. Ma un'altra via

            Correre in prima è d'uopo: è d'uopo i foschi

            Di Pluto e di Proserpina soggiorni

            Vedere in prima, e interrogar lo spirto

            Del teban vate, che, degli occhi cieco,

            Puro conserva della mente il lume;

            Di Tiresia, cui sol diè Proserpina

            Tutto portar tra i morti il senno antico.

            Gli altri non son che vani spettri ed ombre".

              Rompere il core io mi sentìi. Piagnea,

            Su le piume giacendomi, né i raggi

            Volea del Sol più rimirare. Al fine,

            Poiché del pianger mio, del mio voltarmi

            Su le piume io fui sazio: "Or qual", ripresi,

            "Di tal vïaggio sarà il duce? All'Orco

            Nessun giunse finor su negra nave".

              "Per difetto di guida", ella rispose

            Non t'annoiar. L'albero alzato, e aperte

            Le tue candide vele, in su la poppa

            T'assidi, e spingerà Borea la nave.

            Come varcato l'Oceàno avrai,

            Ti appariranno i bassi lidi, e il folto

            Di pioppi eccelsi e d'infecondi salci

            Bosco di Proserpìna: e a quella piaggia,

            Che l'Oceán gorghiprofondo batte,

            Ferma il naviglio, e i regni entra di Pluto.

            Rupe ivi s'alza, presso cui due fiumi

            S'urtan tra lor rumoreggiando, e uniti

            Nell'Acheronte cadono: Cocito,

            Ramo di Stige, e Piriflegetonte.

            Appréssati alla rupe, ed una fossa,

            Che un cubito si stenda in lungo e in largo,

            Scava, o prode, tu stesso; e mel con vino,

            Indi vin puro e limpidissim'onda

            Vèrsavi, a onor de' trapassati, intorno,

            E di bianche farine il tutto aspergi.

            Poi degli estinti prega i frali e vôti

            Capi, e prometti lor che nel tuo tetto

            Entrato con la nave in porto appena,

            Vacca infeconda, dell'armento fiore

            Lor sagrificherai, di doni il rogo

            Riempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,

            Immolerai nerissimo arïete,

            Che della greggia tua pasca il più bello.

            Compiute ai mani le preghiere, uccidi

            Pecora bruna, ed un monton, che all'Orco

            Volgan la fronte: ma converso tieni

            Del fiume alla corrente in quella il viso.

            Molte Ombre accorreranno. A' tuoi compagni

            Le già sgozzate vittime e scoiate

            Mettere allor sovra la fiamma, e ai numi,

            Al prepotente Pluto e alla tremenda

            Proserpina drizzar voti comanda.

            E tu col brando sguainato siedi,

            Né consentir, che anzi che parli al vate,

            I mani al sangue accostinsi. Repente

            Il profeta verrà, duce di genti,

            Che sul vïaggio tuo, sul tuo ritorno

            Pel mar pescoso alle natìe contrade

            Ti darà, quanto basta, indizio e lume".

              Così la diva; e d'in su l'aureo trono

            L'Aurora comparì. Tunica e manto

            Circe stessa vestimmi; a sé ravvolse

            Bella, candida, fina ed ampia gonna;

            Si strinse al fianco un'aurea fascia, e un vago

            Su i ben torti capei velo s'impose.

            Ma io, passando d'una in altra stanza,

            Confortava i compagni, e ad uno ad uno

            Con molli detti gli abbordava: "Tempo

            Non è più da sfiorare i dolci sonni.

            Partiamo, e tosto. Il mi consiglia Circe".

              Si levâro, e obbedîro. Ahi che né quinci

            Mi si concesse ricondurli tutti!

            Un Elpénore v'era, il qual d'etate

            Dopo gli altri venìa, poco nell'armi

            Forte, né troppo della mente accorto.

            Caldo del buon licore, onde irrigossi,

            Si divise dagli altri, ed al palagio

            Mi si corcò, per rinfrescarsi, in cima.

            Udìto il suon della partenza, e il moto,

            Riscossesi ad un tratto, e, per la lunga

            Scala di dietro scendere obblïando.

            Mosse di punta sovra il tetto, e cadde

            Precipite dall'alto: il collo ai nodi

            Gli s'infranse, e volò l'anima a Dite.

              Ragunatisi i miei: "Forse", io lor dissi,

            "Alle patrie contrade andar credete.

            Ma un altro pria la venerabil diva

            Ci destinò cammin, che ai foschi regni

            Di Pluto e di Proserpina conduce,

            Per quivi interrogar del rinomato

            Teban Tiresia l'indovino spirto".

              Duol mortale gli assalse a questi detti.

            Piangeano, e fermi rimanean lì lì,

            E la chioma stracciavansi: ma indarno

            Lo strazio della chioma era, ed il pianto.

              Mentre al mar tristi tendevamo, e spesse

            Lagrime spargevam, Circe, che in via

            Pur s'era posta, alla veloce nave

            Legò la bruna pecora e il montone.

            Ci oltrepassò, che non ce ne avvedemmo,

            Con piè leggiero. Chi potrìa de' numi

            Scorgere alcun che qua o là si mova

            Quando dall'occhio uman voglion celarsi?

             

             


            LIBRO UNDICESIMO

             

             

              Giunti al divino mare, il negro legno

            Prima varammo, albero ergemmo e vele,

            E prendemmo le vittime, e nel cavo

            Legno le introducemmo: indi con molto

            Terrore e pianto v'entravam noi stessi.

            La dal crin crespo e dal canoro labbro

            Dea veneranda un gonfiator di vela

            Vento in poppa mandò, che fedelmente

            Ci accompagnava per l'ondosa via;

            Tal che ozïosi nella ratta nave

            Dalla cerulea prua, giacean gli arnesi,

            E noi tranquilli sedevam, la cura

            Al timonier lasciandone ed al vento.

            Quanto il dì risplendé, con vele sparse

            Navigavamo. Spento il giorno, e d'ombra

            Ricoperte le vie, dell'Oceano

            Toccò la nave i gelidi confini,

            Là 've la gente de' Cimmerî alberga,

            Cui nebbia e buio sempiterno involve.

            Monti pel cielo stelleggiato, o scenda

            Lo sfavillante d'ôr sole non guarda

            Quegl'infelici popoli, che trista

            Circonda ognor pernizïosa notte.

              Addotto in su l'arena il buon naviglio,

            E il monto e la pecora sbarcati,

            Alla corrente dell'Oceano in riva

            Camminavam; finché venimmo ai lochi

            Che la dea c'insegnò. Quivi per mano

            Eurìloco teneano e Perimede

            Le due vittime; ed io, fuor tratto il brando,

            Scavai la fossa cubitale, e mele

            Con vino, indi vin puro e lucid'onda

            Versàivi, a onor de' trapassati, intorno

            E di bianche farine il tutto aspersi.

            Poi degli estinti le debili teste

            Pregai, promisi lor che nel mio tetto,

            Entrato con la nave in porto appena,

            Vacca infeconda, dell'armento fiore,

            Lor sagrificherei, di doni il rogo

            Rïempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,

            Immolerei nerissimo arïete,

            Che della greggia mia pasca il più bello.

            Fatte ai mani le preci, ambo afferrai

            Le vittime, e sgozzàile in su la fossa,

            Che tutto riceveane il sangue oscuro.

            Ed ecco sorger della gente morta

            Dal più cupo dell'Erebo, e assembrarsi

            Le pallid'ombre: giovanette spose,

            Garzoni ignari delle nozze, vecchi

            Da nemica fortuna assai versati,

            E verginelle tenere, che impressi

            Portano i cuori di recente lutto;

            E molti dalle acute aste guerrieri

            Nel campo un dì feriti, a cui rosseggia

            Sul petto ancor l'insanguinato usbergo.

            Accorrean quinci e quindi, e tanti a tondo

            Aggiravan la fossa, e con tai grida,

            Ch'io ne gelai per subitana tema.

            Pure a Eurìloco ingiunsi, e a Periméde

            Le già scannate vittime e scoiate

            Por su la fiamma, e molti ai dèi far voti,

            Al prepotente Pluto e alla tremenda

            Proserpina: ma io col brando ignudo

            Sedea, né consentia che al vivo sangue,

            Pria ch'io Tiresia interrogato avessi,

            S'accostasser dell'ombre i vôti capi.

              Primo ad offrirsi a me fu il simulacro

            D'Elpènore, di cui non rinchiudea

            La terra il corpo nel suo grembo ancora.

            Lasciato in casa l'avevam di Circe

            Non sepolto cadavere e non pianto.

            Che incalzavaci allor diversa cura.

            Piansi a vederlo, e ne sentii pietade,

            E, con alate voci a lui converso:

            "Elpènore", diss'io, "come scendesti

            Nell'oscura caligine? Venisti

            Più ratto a piè, ch'io su la negra nave".

              Ed ei, piangendo: "O di Laerte egregia

            Prole, sagace Ulisse, un nequitoso

            Demone avverso, e il molto vin m'offese.

            Stretto dal sonno alla magione in cima,

            Men disciolsi ad un tratto: e, per la lunga

            Di calar non membrando interna scala

            Mossi di punta sovra il tetto, e d'alto

            Precipitai: della cervice i nodi

            Ruppersi, ed io volai qua con lo spirto.

            Ora io per quelli da cui lunge vivi,

            Per la consorte tua, pel vecchio padre,

            Che a tanta cura t'allevò bambino,

            Pel giovane Telemaco, che dolce

            Nella casa lasciasti unico germe,

            Ti prego, quando io so, che alla Circea

            Isola il legno arriverai di nuovo,

            Ti prego che di me, signor mio, vogli

            Là ricordarti, onde io non resti, come

            Della partenza spiegherai le vele,

            Senza lagrime addietro e senza tomba,

            E tu venghi per questo ai numi in ira.

            Ma con quell'armi, ch'io vestìa, sul foco

            Mi poni, e in riva del canuto mare

            A un misero guerrier tumulo innalza,

            Di cui favelli la ventura etade.

            Queste cose m'adempi; ed il buon remo,

            Ch'io tra i compagni miei, mentre vivea

            Solea trattar, sul mio sepolcro infiggi.

              "Sventurato", io risposi, "a pien fornita

            Sarà, non dubitarne, ogni tua voglia".

              Così noi sedevam, meste parole

            Parlando alternamente, io con la spada

            Sul vivo sangue ognora, e a me di contra

            La forma lieve del compagno, a cui

            Suggerìa molti accenti il suo disastro.

            Comparve in questo dell'antica madre

            L'ombra sottile, d'Anticlèa, che nacque

            Dal magnanimo Autolico, e a quel tempo

            Era tra i vivi ch'io per Troia sciolsi.

            La vidi appena, che pietà mi strinse,

            E il lagrimar non tenni: ma né a lei,

            Quantunque men dolesse, io permettea

            Al sangue atro appressar, se il vate prima

            Favellar non s'udìa. Levossi al fine

            Con l'aureo scettro nella man famosa

            L'alma Tebana di Tiresia, e ratto

            Mi riconobbe, e disse: "Uomo infelice,

            Perché, del sole abbandonati i raggi,

            Le dimore inamabili de' morti

            Scendesti a visitar? Da questa fossa

            Ti scosta, e torci in altra parte il brando,

            Sì ch'io beva del sangue, e il ver ti narri".

              Il piè ritrassi, e invaginai l'acuto

            D'argentee borchie tempestato brando.

            Ma ei, poiché bevuto ebbe, in tal guisa

            Movea le labbra: "Rinomato Ulisse,

            Tu alla dolcezza del ritorno aneli

            E un nume invidïoso il ti contende

            Come celarti da Nettun, che grave

            Contra te concepì sdegno nel petto

            Pel figlio, a cui spegnesti in fronte l'occhio?

            Pur, sebbene a gran pena, Itaca avrai,

            Sol che te stesso e i tuoi compagni affreni,

            Quando, tutti del mar vinti i perigli,

            Approderai col ben formato legno

            Alla verde Trinacria isola, in cui

            Pascon del Sol, che tutto vede ed ode,

            I nitidi montoni e i buoi lucenti.

            Se pasceranno illesi, e a voi non caglia

            Che della patria, il rivederla dato,

            Benché a stento, vi fia. Ma dove osiate

            Lana o corno toccargli, eccidio a' tuoi,

            E alla nave io predico, ed a te stesso.

            E ancor che morte tu schivassi, tardo

            Fora, ed infausto, e senza un sol compagno,

            E su nave straniera, il tuo ritorno.

            Mali oltra ciò t'aspetteranno a casa:

            Protervo stuol di giovani orgogliosi,

            Che ti spolpa, ti mangia, e alla divina

            Moglie con doni aspira. È ver che a lungo

            Non rimarrai senza vendetta. Uccisi

            Dunque o per frode, o alla più chiara luce,

            Nel tuo palagio i temerarî amanti,

            Prendi un ben fatto remo, e in via ti metti:

            Né rattenere il piè, che ad una nuova

            Gente non sii, che non conosce il mare,

            Né cosperse di sal vivande gusta,

            Né delle navi dalle rosse guance,

            O de' politi remi, ali di nave,

            Notizia vanta. Un manifesto segno

            D'esser nella contrada io ti prometto.

            Quel dì che un altro pellegrino, a cui

            T'abbatterai per via, te quell'arnese

            Con che al vento su l'aia il gran si sparge

            Portar dirà su la gagliarda spalla,

            Tu repente nel suol conficca il remo.

            Poi, vittime perfette a re Nettuno

            Svenate, un toro, un arïete, un verro,

            Riedi, e del cielo agli abitanti tutti

            Con l'ordine dovuto offri ecatombe

            Nella tua reggia, ove a te fuor del mare,

            E a poco a poco da muta vecchiezza

            Mollemente consunto, una cortese

            Sopravverrà morte tranquilla, mentre

            Felici intorno i popoli vivranno.

            L'oracol mio, che non t'inganna, è questo.

              "Tiresia", io rispondea, "così prescritto

            (Chi dubbiar ne potrebbe?) hanno i celesti.

            Ma ciò narrami ancora: io della madre

            L'anima scorgo, che tacente siede

            Appo la cava fossa, e d'uno sguardo,

            Non che d'un motto, il suo figliuol non degna.

            Che far degg'io, perché mi riconosca?

            Ed egli: Troppo bene io nella mente

            Io ti porrò. Quai degli spirti al sangue

            Non difeso da te giunger potranno,

            Sciorran parole non bugiarde: gli altri

            Da te si ritrarran taciti indietro".

            Svelate a me tai cose, in seno a Dite

            Del profetante re l'alma s'immerse.

              Ma io di là non mi togliea. La madre

            S'accostò intanto, né del negro sangue

            Prima bevé, che ravvisommi, e queste

            Mi drizzò, lagrimando, alate voci:

            "Deh come, figliuol mio, scendéstu vivo

            Sotto l'atra caligine? Chi vive,

            Difficilmente questi alberghi mira,

            Però che vasti fiumi e paurose

            Correnti ci dividono, e il temuto

            Ocean, cui varcare ad uom non lice,

            Se nol trasporta una dedalea nave.

            Forse da Troia, e dopo molti errori,

            Con la nave e i compagni a questo buio

            Tu vieni? Né trovar sapesti ancora

            Itaca tua? né della tua consorte

            Riveder nel palagio il caro volto? "

              "O madre mia, necessità", risposi,

            "L'alma indovina a interrogar m'addusse

            Del Tebano Tiresia. Il suolo acheo

            Non vidi ancor, né i liti nostri attinsi;

            Ma vo ramingo, e dalle cure oppresso,

            Dappoi che a Troia ne' puledri bella

            Seguìi, per disertarla, il primo Atride.

            Su via, mi narra, e schiettamente, come

            Te la di lunghi sonni apportatrice

            Parca domò. Ti vinse un lungo morbo,

            O te Dïana faretrata assalse

            Con improvvisa non amara freccia?

            Vive l'antico padre, il figlio vive,

            Che in Itaca io lasciai? Nelle man loro

            Resta, o passò ad altrui la mia ricchezza,

            E ch'io non rieda più, si fa ragione?

            E la consorte mia qual cor, qual mente

            Serba? Dimora col fanciullo, e tutto

            Gelosamente custodisce, o alcuno

            Tra i primi degli Achei forse impalmolla? "

              Riprese allor la veneranda madre:

            "La moglie tua non lasciò mai la soglia

            Del tuo palagio; e lentamente a lei

            Scorron nel pianto i dì, scorron le notti.

            Stranier nel tuo retaggio, in sin ch'io vissi,

            Non entrò: il figlio su i paterni campi

            Vigila in pace, e alle più illustri mense,

            Cui l'invita ciascuno, e che non dee

            Chi nacque al regno dispregiar, s'asside.

            Ma in villa i dì passa Laerte, e mai

            A cittade non vien: colà non letti,

            Non coltri, o strati sontuosi, o manti.

            Di vestimenta ignobili coverto

            Dorme tra i servi al focolare il verno

            Su la pallida cenere: e se torna

            L'arida estate, o il verdeggiante autunno,

            Lettucci umìli di raccolte foglie,

            Stesi a lui qua e là per la feconda

            Sua vigna, preme travagliato, e il duolo

            Nutre, piangendo la tua sorte: arrogi,

            La vecchiezza increscevole che il colse.

            Non altrimenti de' miei stanchi giorni

            Giunse il termine a me, cui non Dïana,

            Sagittaria infallibile, di un sordo

            Quadrello assalse, o di que' morbi invase,

            Che soglion trar delle consunte membra

            L'anima fuor con odïosa tabe:

            Ma il desìo di vederti, ma l'affanno

            Della tua lontananza, ma i gentili

            Modi e costumi tuoi, nobile Ulisse,

            La vita un dì sì dolce hannomi tolta".

              Io, pensando tra me, l'estinta madre

            Volea stringermi al sen: tre volte corsi,

            Quale il mio cor mi sospingea, vêr lei,

            E tre volte m'usci fuor delle braccia,

            Come nebbia sottile, o lieve sogno.

            Cura più acerba mi trafisse e ratto:

            "Ahi, madre", le diss'io, "perché mi sfuggi

            D'abbracciarti bramoso, onde, anco a Dite,

            Le man gittando l'un dell'altro al collo,

            Di duol ci satolliamo ambi, e di pianto?

            Fantasma vano, acciò più sempre io m'anga,

            Forse l'alta Proserpina mandommi?"

              "O degli uomini tutti il più infelice",

            La veneranda genitrice aggiunse,

            "No, l'egregia Proserpina, di Giove

            La figlia, non t'inganna. È de' mortali

            Tale il destin, dacché non son più in vita,

            Che i muscoli tra sé, l'ossa ed i nervi

            Non si congiungan più: tutto consuma

            La gran possanza dell'ardente foco,

            Come prima le bianche ossa abbandona,

            E vagola per l'aere il nudo spirto.

            Ma tu d'uscire alla superna luce

            Da questo buio affretta: e ciò che udisti,

            E porterai nell'anima scolpito,

            Penelope da te risappia un giorno".

              Mentre così favellavam, sospinte

            Dall'inclita Proserpina le figlie

            Degli eroi comparïano, e le consorti

            E traean della fossa al margo in folla.

            Io, come interrogarle ad una ad una

            Rivolgea meco; e ciò mi parve il meglio.

            Stretta la spada, non patïa che tutte

            Beessero ad un tempo. Alla sua volta

            Così accorrea ciascuna, e l'onorato

            Lignaggio ed i suoi casi a me narrava.

              Prima s'appresentò l'illustre Tiro,

            Che, del gran Salmonèo figlia, e consorte

            Di Creteo, un de' figliuoli d'Eolo, sé disse.

            Costei d'un fiume nell'amore accesa,

            Dell'Enipèo divin, che la più bella

            Sovra i più ameni campi onda rivolve,

            Spesso e bagnarsi in quegli argenti entrava.

            L'azzurro nume che la terra cinge,

            Nettuno, in forma di quel dio, corcossi

            Delle sue vorticose acque alla foce;

            E la porporeggiante onda d'intorno

            Gli stette, e in un arco si piegò, qual monte,

            Lui celando, e la giovane, cui tosto

            Sciols'ei la zona virginale, e un casto

            Sopore infuse. Indi per man la prese,

            E chiamolla per nome, e tai parole

            Le feo: "Di questo amor, donna, t'allegra.

            Compiuto non avrà l'anno il suo giro,

            Che diverrai di bei fanciulli madre,

            Quando vane giammai degl'immortali

            Non riescon le nozze. I bei fanciulli

            Prendi in cura, e nutrisci. Or vanne, e sappi,

            Ma il sappi sola, che tu in me vedesti

            Nettuno, il nume che la terra scuote".

            Disse; e ne' gorghi suoi l'accolse il mare.

              Ella di Nèleo e Pèlia, ond'era grave,

            S'allevïò. Forti del sommo Giove

            Ministri, l'un nell'arenosa Pilo,

            Nell'ampia l'altro, e di feconde gregge

            Ricca Iaolco, ebbe soggiorno e scettro.

            Quindi altra prole, Esòn, Ferete, e il chiaro

            Domator di cavalli Amitaòne,

            Diede a Creteo costei, che delle donne

            Reina parve alla sembianza e agli atti.

              Poi d'Asòpo la figlia, Antiopa, venne,

            Che dell'amor di Giove andò superba,

            E due figli creò, Zeto e Anfione.

            Tebe costoro dalle sette porte

            Primi fondaro, e la munir di torri:

            Ché mal potean la spazïosa Tebe

            Senza torri guardar, benché gagliardi.

              Venne d'Amfitrïon la moglie, Alcmena

            Che al Saturnìde l'animoso Alcide,

            Cor di leone, partorì. Megàra

            Di Creonte magnanimo figliuola

            E moglie dell'invitto Ercole, venne.

              D'Edipo ancor la genitrice io vidi,

            La leggiadra Epicasta, che nefanda

            Per cecità di mente opra commise,

            L'uom disposando da lei nato. Edìpo

            La man, con che avea prima il padre ucciso,

            Porse alla madre: né celaro i dèi

            Tal misfatto alle genti. Ei per crudele

            Voler de' numi nell'amena Tebe

            Addolorato su i Cadmei regnava.

            Ma la donna, cui vinse il proprio affanno,

            L'infame nodo ad un'eccelsa trave

            Legato, scese alla magion di Pluto

            Dalle porte infrangibili, e tormenti

            Lasciò indietro al figliuol, quanti ne danno

            Le ultrici Furie, che una madre invoca.

              Vidi colei non men, che ultima nacque

            All'Iaside Anfïón, cui l'arenosa

            Pilo negli anni andati, e il Minïeo

            Orcomeno ubbidìa, l'egregia Clori,

            Che Neleo, di lei preso, a sé congiunse,

            Poscia ch'egli ebbe di dotali doni

            La vergine ricolma. Ed ella il feo

            Ricco di vaga e di lui degna prole,

            Di Nestore, di Cromio, e dell'eroe

            Periclimeno; e poi di quella Pero,

            Che maraviglia fu d'ogni mortale.

            Tutti i vicini la chiedean; ma il padre

            Sol concedeala a chi le belle vacche

            Dalla lunata spazïosa fronte,

            Che appo sé riteneasi il forte Ificle,

            Gli rimenasse, non leggiera impresa,

            Dai pascoli di Filaca. L'impresa

            Melampo assunse, un indovino illustre;

            Se non che a lui s'attraversaro i fati,

            E pastori salvatichi, da cui

            Soffrir dové d'aspre catene il pondo.

            Ma non prima, già in sé rivolto l'anno,

            I mesi succedettersi ed i giorni,

            E compiêr le stagioni il corso usato

            Che Ifìcle, a cui gli oracoli de' numi

            Svelati avea l'irreprensibil vate,

            I suoi vincoli ruppe; e così al tempo

            L'alto di Giove s'adempiea consiglio.

            Leda comparve, da cui Tindaro ebbe

            Due figli alteri, Castore e Pollùce,

            L'un di cavalli domatore, e l'altro

            Pugile invitto. Benché l'alma terra

            Ritengali nel sen, di vita un germe

            (Così Giove tra l'Ombre anco gli onora)

            Serbano: ciascun giorno, e alternamente,

            Rïapron gli occhi, e chiudonli alla luce,

            E glorïosi al par van degli eterni.

              Dopo costei mi si parò davanti

            D'Aloèo la consorte, Ifimidèa;

            Cui di dolce d'amor nodo si strinse

            Lo Scuotiterra. Ingenerò due figli,

            Oto a un dio pari, e l'inclito Efialte,

            Che la luce del sol poco fruîro.

            Né di statura ugual, né di beltade,

            Altri nodrì la comun madre antica,

            Sol che fra tutti d'Orïon si taccia.

            Non avean tocco il decim'anno ancora,

            Che in largo nove cubiti, e tre volte

            Tanto cresciuti erano in lungo i corpi.

            Questi volendo ai sommi dèi su l'etra

            Nuova portar sediziosa guerra,

            L'Ossa sovra l'Olimpo, e sovra l'Ossa

            L'arborifero Pelio impor tentaro,

            Onde il cielo scalar di monte in monte;

            E il fean, se i volti pubertà infiorava;

            Ma di Giove il figliuolo, e di Latona,

            Sterminolli ambo, che del primo pelo

            Le guance non ombravano, ed il mento.

              Fedra comparve ancor, Procri ed Arianna

            Che l'amante Teseo rapì da Creta,

            E al suol fecondo della sacra Atene

            Condur volea. Vane speranze! In Nasso,

            Cui cinge un vasto mar, fu da Dïana,

            Per l'indizio di Bacco, aggiunta e morta.

              Né restò Mera inosservata indietro,

            Né Climene restò, né l'abborrita

            Erifile, che il suo diletto sposo

            Per un aureo monil vender poteo.

            Ma dove io tutte degli eroi le apparse

            Figlie nomar volessi, e le consorti,

            Pria mancherìami la divina Notte.

            E a me par tempo da posar la testa

            O in nave o qui, tutta del mio ritorno

            Ai celesti lasciando, e a voi la cura.

            Tacque. I Feaci per l'oscura sala

            Stavansi muti, e nel piacere assorti.

              Ruppe il silenzio l'immortal regina

            La bracciobianca Arete: “Feacesi,

            Che vi par di costui? del suo sembiante?

            Della maschia persona? e di quel senno

            Che in lui risiede? Ospite è mio, ma tutti

            Dell'onor, che io ricevo, a parte siete.

            Non congedate in fretta, e senza doni

            Chi nulla tien, voi, che di buono in casa

            Per favor degli dèi tanto serbate”.

              Qui favellò Echenèo, che gli altri tutti

            Vincea d'etade: “Fuor del segno, amici,

            Arete non colpì con la sua voce.

            Obbediscasi a lei: se non che prima

            Del re l'esempio attenderemo e il detto”.

              “Ciò sarà ch'ella vuole”, Alcinoo disse

            “Se vita e scettro a me lascian gli dèi.

            Ma, benché tanto di partir gli tardi,

            L'ospite indugi sino al nuovo sole,

            Sì ch'io tutti i regali insieme accoglia.

            Cura esser dee comun che lieto ei parta

            E più, che d'altri, mia, s'io qui son primo”.

              “Alcinoo re, che di grandezza e fama”,

            Riprese Ulisse, “ogni mortale avanzi,

            Sei mesi ancor mi riteneste e sei,

            E fida scorta intanto e ricchi doni

            M'apparecchiaste, io non dovrei sgradirlo:

            Ché quanto io tornerò con man più piene

            A' miei sassi natii, tanto la gente

            Con più onore accorrammi e con più affetto”.

              Ed Alcinoo in risposta: “Allora, Ulisse

            Che ti adocchiamo, un impostor fallace,

            D'alte menzogne inaspettato fabbro,

            Scorger non sospettiam, quali benigna

            La terra qua e là molti ne pasce.

            Leggiadria di parole i labbri t'orna,

            Né prudenza minor t'alberga in petto.

            L'opre de' Greci e le tue doglie, quasi

            Lo spirto della Musa in te piovesse,

            Ci narrasti così, ch'era un vederle.

            Deh siegui, e dimmi, se t'apparve alcuno

            Di tanti eroi che veleggiâro a Troia

            Teco, e spenti rimaservi. La notte

            Con lenti passi or per lo ciel cammina,

            E finché ci esporrai stupende cose,

            Non fia chi del dormir qui si rammenti.

            Quando parlar di te sino all'aurora

            Ti consentisse il duol sino all'aurora

            Io penderei dalle tue labbra immoto”.

              “V'ha un tempo Alcinoo, di racconti ed havvi”,

            Ulisse ripigliò, “di sonni un tempo;

            Che se udir vuoi più avanti, io non ricuso

            La sorte di color molto più dura

            Rappresentarti, che scampâr dai rischi

            D'una terribil guerra, e nel ritorno,

            Colpa d'una rea donna, ohimé! periro.

              Poiché le femminili Ombre famose

            La casta Proserpìna ebbe disperse,

            Mesto, e cinto da quei che fato uguale

            Trovâr d'Egisto negl'infidi alberghi,

            Si levò d'Agamennone il fantasma.

            Assaggiò appena dell'oscuro sangue,

            Che ravvisommi; e dalle tristi ciglia

            Versava in copia lagrime, e le mani

            Mi stendea, di toccarmi invan bramose;

            Ché quel vigor, quella possanza, ch'era

            Nelle sue membra ubbidïenti ed atte,

            Derelitto l'avea. Lagrime anch'io

            Sparsi a vederlo, e intenerìi nell'alma,

            E tai voci, nomandolo, gli volsi:

            "O inclito d'Atrèo figlio, o de' prodi

            re, Agamennòne, qual destin ti vinse,

            E i lunghi t'arrecò sonni di morte?

            Nettuno in mar ti domò forse, i fieri

            Spirti eccitando de' crudeli venti?

            O t'offesero in terra uomini ostili,

            Che armenti depredavi e pingui greggi.

            O delle patrie mura, e delle caste

            Donne a difesa, roteavi il brando? "

              "Laerziade preclaro, accorto Ulisse"

            Ratto rispose dell'Atride l'ombra

            Me non domò Nettuno all'onde sopra,

            Né m'offesero in terra uomini ostili.

            Egisto, ordita con la mia perversa

            Donna una frode, a sé invitommi, e a mensa

            Come alle greppie inconsapevol bue,

            L'empio mi trucidò. Così morìi

            Di morte infelicissima; e non lunge

            Gli amici mi cadean, quai per illustri

            Nozze, o banchetto sontuoso, o lauta

            A dispendio comun mensa imbandita,

            Cadono i verri dalle bianche sanne.

            Benché molti a' tuoi giorni o in folta pugna;

            Vedessi estinti, o in singolar certame,

            Non solita pietà tocco t'avrebbe,

            Noi mirando, che stesi all'ospitali

            Coppe intorno eravam, mentre correa

            Purpureo sangue il pavimento tutto.

            La dolente io sentìi voce pietosa

            Della figlia di Priamo, di Cassandra,

            Cui Clitennestra m'uccidea da presso,

            La moglie iniqua; ed io, giacendo a terra,

            Con moribonda man cercava il brando:

            Ma la sfrontata si rivolse altrove,

            Né gli occhi a me, che già scendea tra l'Ombre

            Chiudere, né compor degnò le labbra.

            No: più rea peste, più crudel non dassi

            Di donna, che sì atroci opre commetta,

            Come questa infedel, che il danno estremo

            Tramò, cui s'era vergine congiunta.

            Lasso! dove io credea che, ritornando,

            Figliuoli e servi m'accorrìan con festa,

            Costei, che tutta del peccar sa l'arte,

            Si ricoprì d'infamia, e quante al mondo

            Verranno, e le più oneste anco, ne asperse".

              "Oh quanta", io ripigliai, "sovra gli Atridi

            Le femmine attirâro ira di Giove!

            Fu di molti de' Greci Elena strage!

            E a te, cogliendo l'assenza il tempo,

            Funesta rete Clitennestra tese".

              "Quindi troppa tu stesso", ei rispondea,

            "Con la tua donna non usar dolcezza,

            Né il tutto a lei svelar, ma parte narra

            De' tuoi secreti a lei, parte ne taci,

            Benché a te dalla tua venir disastro

            Non debba: ché Penelope, la saggia

            Figlia d'Icario, altri consigli ha in core.

            Moglie ancor giovinetta, e con un bimbo,

            Che dalla mamma le pendea contento,

            Tu la lasciavi, navigando a Troia:

            Ed oggi il tuo Telemaco felice

            Già s'asside uom tra gli uomini, e il diletto

            Padre lui vedrà, un giorno, ed egli al padre

            Giusti baci porrà sovra la fronte.

            Ma la consorte mia né questo almeno

            Mi consentì, ch'io satollassi gli occhi

            Nel volto del mio figlio, e pria mi spense.

            Credi al fine a' miei detti, e ciò nel fondo

            Serba del petto: le native spiagge

            Secretamente afferra, e a tutti ignoto,

            Quando fidar più non si puote in donna.

            Or ciò mi conta, e schiettamente: udisti,

            Dove questo mio figlio i giorni tragga?

            In Orcomeno forse? O forse tienlo

            Pilo arenosa, o la capace Sparta

            Presso re Menelao? Certo non venne

            Finor sotterra il mio gentil Oreste".

              Ed io: "Perché di ciò domandi, Atride,

            Me, cui né conto è pur se Oreste spira

            Le dolci aure di sopra, o qui soggiorna?

            Lode non merta il favellare al vento".

              Così parlando alternamente, e il volto

            Di lagrime rigando, e il suol di Dite,

            Ce ne stavam disconsolati: ed ecco

            Sorger lo spirto del Pelìade Achille,

            Di Patroclo, d'Antìloco e d'Aiace,

            Che gli Achei tutti, se il Pelìde togli,

            Di corpo superava e di sembiante.

            Mi riconobbe del veloce al corso

            Eacide l'imago; e, lamentando:

            O, disse, di Laerte inclita prole,

            Qual nuova in mente, sciagurato, volgi

            Macchina, che ad ogni altra il pregio scemi?

            Come osasti calar ne' foschi regni,

            Degli estinti magion, che altro non sono

            Che aeree forme e simulacri ignudi? "

              "Di Peleo", io rispondea, "figlio, da cui

            Tanto spazio rimase ogni altro Greco,

            Tiresia io scesi a interrogar, che l'arte

            Di prender m'insegnasse Itaca alpestre

            Sempre involto ne' guai, l'Acaica terra

            Non vidi ancor, né il patrio lido attinsi.

            Ma di te, forte Achille, uom più beato

            Non fu, né giammai fia. Vivo d'un nume

            T'onoravamo al pari, ed or tu regni

            Sovra i defunti. Puoi tristarti morto?"

              "Non consolarmi della morte", a Ulisse

            Replicava il Pelìde. "Io pria torrei

            Servir bifolco per mercede, a cui

            Scarso e vil cibo difendesse i giorni,

            Che del Mondo defunto aver l'impero.

            Su via, ciò lascia, e del mio figlio illustre

            Parlami in vece. Nelle ardenti pugne

            Corre tra i primi avanti? E di Pelèo

            Del mio gran genitor, nulla sapesti?

            Sieguon fedeli a reverirlo i molti

            Mirmìdoni, o nell'Ellada ed in Ftia

            Spregiato vive per la troppa etade,

            Che le membra gli agghiaccia? Ahi! che guardarlo

            Sotto i raggi del Sol più non mi lice:

            Ché passò il tempo che la Troica sabbia

            D'esanimi io covrìa corpi famosi,

            Proteggendo gli Achei. S'io con la forza

            Che a que' giorni era in me, toccar potessi

            Per un istante la paterna soglia,

            A chïunque oltraggiarlo, e degli onori

            Fraudarlo ardisse, questa invitta mano

            Metterebbe nel core alto spavento.

              Nulla, io risposi, di Pelèo, ma tutto

            Del figliuol posso, e fedelmente, dirti,

            Di Neottolemo tuo, che all'oste Achiva

            Io stesso sopra cava e d'uguai fianchi

            Munita nave rimenai da Sciro.

            Sempre che ad Ilio tenevam consulte,

            Primo egli a favellar s'alzava in piedi,

            Né mai dal punto devïava; soli

            Gareggiavam con lui Nestore ed io.

            Ma dove l'armi si prendean, confuso

            Già non restava in fra la turba, e ignoto:

            Precorrea tutti, e di gran lunga, e intere

            Le falangi struggea. Quant'ei mandasse

            Propugnacol de' Greci, anime all'Orco,

            Da me non t'aspettare. Abbiti solo,

            Che il Telefìde Eurìpilo trafisse

            Fra i suoi Cetèi, che gli morìano intorno;

            Euripilo di Troia ai sacri muri

            Per la impromessa man d'una del rege

            Figlia venuto, ed in quell'oste intera,

            Dopo il deiforme Mènnone, il più bello.

            Che del giorno dirò, che il fior de' Greci

            Nel costrutto da Epèo cavallo salse,

            Che in cura ebb'io, poiché a mia voglia solo

            Aprìasi, o rinchiudeasi, il cavo agguato?

            Tergeansi capi e condottier con mano

            Le umide ciglia, e le ginocchia sotto

            Tremavano a ciascun; né bagnare una

            Lagrima a lui, né di pallore un'ombra

            Tingere io vidi la leggiadra guancia.

            Bensì prieghi porgeami onde calarsi

            Giù del cavallo, e della lunga spada

            Palpeggiava il grand'else, e l'asta grave

            Crollava, mali divisando a Troia

            Poi la cittade incenerita, in nave

            Delle spoglie più belle adorno e carco

            Montava, e illeso: quando lunge, o presso,

            Di spada, o stral, non fu giammai chi vanto

            Del ferito Neottòlemo si desse".

              Dissi, e d'Achille alle veloci piante

            Per li prati d'asfodelo vestiti

            L'alma da me sen giva a lunghi passi,

            Lieta, che udì del figliuol suo la lode.

              D'altri guerrieri le sembianze tristi

            Compariano; e ciascun suoi guai narrava.

            Sol dello spento Telamonio Aiace

            Stava in disparte il disdegnoso spirto

            Perché vinto da me nella contesa

            Dell'armi del Pelide appo le navi.

            Teti, la madre veneranda, in mezzo

            Le pose, e giudicaro i Teucri e Palla.

            Oh côlta mai non avess'io tal palma,

            Se l'alma terra nel suo vasto grembo

            Celar dovea sì glorïosa testa,

            Aiace, a cui d'aspetto e d'opre illustri,

            Salvo l'irreprensibile Pelìde

            Non fu tra i Greci chi agguagliarsi osasse!

            Io con blande parole: "Aiace", dissi,

            "Figlio del sommo Telamon, gli sdegni

            Per quelle maledette arme concetti

            Dunque né morto spoglierai? Fatali

            Certo reser gli dèi quell'arme ai Greci,

            Che in te perdero una sì ferma torre.

            Noi per te nulla men, che per Achille,

            Dolenti andiam; né alcuno n'è in colpa, il credi:

            Ma Giove, che infinito ai bellicosi

            Danai odio porta, la tua morte volle.

            Su via, t'accosta, o re, porgi cortese

            L'orecchio alle mie voci, e la soverchia

            Forza del generoso animo doma".

              Nulla egli a ciò: ma, ritraendo il piede,

            Fra l'altre degli estinti Ombre si mise:

            Pur, seguendolo io quivi, una risposta

            Forse data ei m'avrìa; se non che voglia

            Altro di rimirar m'ardea nel petto.

              Minosse io vidi, del Saturnio il chiaro

            Figliuol, che assiso in trono, e un aureo scettro

            Stringendo in man, tenea ragione all'ombre

            Che tutte, qual seduta e quale in piedi,

            Conti di sé rendeangli entro l'oscura

            Di Pluto casa dalle larghe porte.

              Vidi il grande Orïòn, che delle fiere,

            Che uccise un dì sovra i boscosi monti,

            Or gli spettri seguìa de' prati inferni

            Per l'asfodelo in caccia; e maneggiava

            Perpetua mazza d'infrangibil rame.

              Ecco poi Tizio, della Terra figlio,

            Che sforzar non temé l'alma di Giove

            Sposa, Latona, che volgeasi a Pito

            Per le ridenti Panopèe campagne.

            Sul terren distendevasi, e ingombrava

            Quando in dì nove ara di tauri un giogo:

            E due avvoltoi, l'un quinci, e l'altro quindi,

            Ch'ei con mano scacciar tentava indarno

            rodeangli il cor, sempre ficcando addentro

            Nelle fibre rinate il curvo rostro.

              Stava là presso con acerba pena

            Tantalo in piedi entro un argenteo lago,

            La cui bell'onda gli toccava il mento.

            Sitibondo mostravasi, e una stilla

            Non ne potea gustar: ché quante volte

            Chinava il veglio le bramose labbra,

            Tante l'onda fuggìa dal fondo assorta,

            Sì che apparìagli ai piè solo una bruna

            Da un Genio avverso inaridita terra.

            Piante superbe, il melagrano, il pero,

            E di lucide poma il melo adorno,

            E il dolce fico, e la canuta oliva,

            Gli piegavan sul capo i carchi rami;

            E in quel ch'egli stendea dritto la destra

            Vêr le nubi lanciava i rami il vento.

              Sìsifo altrove smisurato sasso

            Tra l'una e l'altra man portava, e doglia

            Pungealo inenarrabile. Costui

            La gran pietra alla cima alta d'un monte,

            Urtando con le man, coi piè pontando,

            Spingea: ma giunto in sul ciglion non era,

            Che, risospinta da un poter supremo,

            Rotolavasi rapida pel chino

            Sino alla valle la pesante massa.

            Ei nuovamente di tutta sua forza

            Su la cacciava: dalle membra a gronde

            Il sudore colavagli, e perenne

            Dal capo gli salìa di polve un nembo.

              D'Ercole mi s'offerse al fin la possa,

            Anzi il fantasma: però ch'ei de' numi

            Giocondasi alla mensa e cara sposa

            Gli siede accanto la dal piè leggiadro

            Ebe, di Giove figlia e di Giunone,

            Che muta il passo, coturnata d'oro.

            Schiamazzavan gli spirti a lui d'intorno,

            Come volanti augei da subitana

            Tema compresi; ed ei fosco, qual notte,

            Con l'arco in mano, e con lo stral sul nervo,

            Ed in atto ad ognor di chi saetta,

            Orrendamente qua e là guatava.

            Ma il petto attraversavagli una larga

            D'ôr cintura terribile, su cui

            Storïate vedeansi opre ammirande,

            Orsi, cinghiai feroci e leon torvi,

            E pugne, e stragi, e sanguinose morti;

            Cintura, a cui l'eguale, o prima o dopo,

            Non fabbricò, qual che si fosse, il mastro.

            Mi sguardò, riconobbemi, e con voce

            Lugubre: "O", disse, "di Laerte figlio,

            Ulisse accorto, ed infelice a un'ora,

            Certo un crudo t'opprime avverso fato,

            Qual sotto i rai del Sole anch'io sostenni.

            Figliuol quantunque dell'Egìoco Giove,

            Pur, soggetto vivendo ad uom che tanto

            Valea manco di me, molto io soffersi.

            Fatiche gravi ei m'addossava, e un tratto

            Spedimmi a quinci trarre il can trifauce,

            Che la prova di tutte a me più dura

            Sembravagli; ed io venni, e quinci il cane

            Trifauce trassi ripugnante indarno,

            D'Ermete col favore e di Minerva".

            Tacque, e nel più profondo Erebo scese.

              Di loco io non moveami, altri aspettando

            De' prodi, che spariro, è omai gran tempo.

            E que' due forse mi sarien comparsi,

            Ch'io più veder bramava, eroi primieri,

            Teseo e Piritoo, glorïosa prole

            Degl'immortali dèi. Ma un infinito

            Popol di spirti con frastuono immenso

            Si ragunava; e in quella un improvviso

            Timor m'assalse, non l'orribil testa

            Della tremenda Gòrgone la diva

            Proserpina invïasse a me dall'Orco.

            Dunque senza dimora al cavo legno

            Mossi, e ai compagni comandai salirlo,

            E liberar le funi; ed i compagni

            Ratto il salìano, e s'assidean su i banchi.

            Pria l'aleggiar de' remi il cavo legno

            Mandava innanzi d'Ocean su l'onde:

            Poscia quel, che levossi, ottimo vento.

             

             

             


            LIBRO DODICESIMO

             

             

              Poiché la nave uscì dalle correnti

            Del gran fiume Oceàno, ed all'Eèa

            Isola giunse nell'immenso mare,

            Là 've gli alberghi dell'Aurora e i balli

            Sono, e del sole i lucidi Levanti,

            Noi dalla nave, che fu in secco tratta,

            Scesi, e corcati su la muta spiaggia,

            Aspettammo dell'alba il sacro lume.

            Ma come del mattin la bella figlia

            Colorò il ciel con le rosate dita,

            Di Circe andaro alla magione alcuni,

            Che dell'estinto Elpenore la fredda

            Spoglia ne riportassero. Troncammo

            Frassini e abeti, e all'infelice amico,

            Dolenti il core, e lagrimosi il ciglio,

            L'esequie femmo, ove sporgea più il lido.

            Né prima il corpo e le armi ebbe arse il foco,

            Che noi, composto un tumulo, ed eretta

            SOpravi una colonna, il ben formato

            Remo infiggemmo della tomba in cima.

              Mentr'eravamo al trist'ufficio intenti,

            Circe, che d'Aide ci sapea tornati,

            S'adornò e venne in fretta, e con la dea

            Venner d'un passo le serventi ninfe,

            Forza di carni e pan seco recando,

            E rosso vino, che le vene infiamma.

            L'inclita tra le dee stava nel mezzo,

            E così favellava: "O sventurati,

            Che in carne viva nel soggiorno entraste

            D'Aide, e di cui la sorte è due fiate

            Morir, quando d'ogni altro uomo è una sola.

            Su via, tra i cibi scorra ed i licori

            Tutto a voi questo dì su le mie rive.

            Come nel ciel rosseggerà l'Aurora,

            Navigherete; ma il cammino, e quanto

            Di saper v'è mestieri, udrete in prima,

            Sì che non abbia per un mal consiglio

            Grave in terra, od in mare, a incorvi danno".

              Chi persuaso non sarìasi? Quindi

            Tra lanci piene e coronate tazze,

            Finché il sol si mostrò, sedemmo a mensa.

            Il sol celato ed imbrunito il mondo,

            Si colcaro i compagni appo la nave.

            Ma Circe me prese per mano, e trasse

            Da parte, e a seder pose; indi, seduta

            Di contra, interrogommi, ed io su tutto

            La satisfeci pienamente. Allora

            Tai parole sciogliea l'illustre diva:

            "Tu compiesti ogni cosa. Or quello ascolta,

            Ch'io vo' manifestarti, e che al bisogno

            Ti torneranno nella mente i numi.

            Alle Sirene giungerai da prima,

            Che affascìnan chïunque i lidi loro

            Con la sua prora veleggiando tocca.

            Chïunque i lidi incautamente afferra

            Delle Sirene, e n'ode il canto, a lui

            Né la sposa fedel, né i cari figli

            Verranno incontro su le soglie in festa.

            Le Sirene sedendo in un bel prato,

            Mandano un canto dalle argute labbra,

            Che alletta il passeggier: ma non lontano

            D'ossa d'umani putrefatti corpi

            E di pelli marcite, un monte s'alza.

            Tu veloce oltrepassa, e con mollita

            Cera de' tuoi così l'orecchio tura,

            Che non vi possa penetrar la voce.

            Odila tu, se vuoi; sol che diritto

            Te della nave all'albero i compagni

            Leghino, e i piedi stringanti, e le mani;

            Perché il diletto di sentir la voce

            Delle Sirene tu non perda. E dove

            Pregassi o comandassi a' tuoi di sciorti,

            Le ritorte raddoppino ed i lacci.

            Poiché trascorso tu sarai, due vie

            Ti s'apriranno innanzi; ed io non dico,

            Qual più giovi pigliar, ma, come d'ambo

            Ragionato t'avrò, tu stesso il pensa.

              Vedrai da un lato discoscese rupi

            Sovra l'onde pendenti, a cui rimbomba

            Dell'azzurra Anfitrite il salso fiotto.

            Gl'Iddii beati nella lor favella

            Chiàmanle Erranti. Non che ogni altro augello,

            Trasvolarle non sanno impunemente

            Né le colombe pur, che al padre Giove

            Recan l'ambrosia: la polita pietra

            Sempre alcuna ne fura, e della spenta

            Surroga invece altra colomba il padre.

            Nave non iscampò dal periglioso

            Varco sin qui: ché de' navigli tutti

            Le tavole del pari e i naviganti

            Sen porta il vincitor flutto, e la pregna

            Di mortifero foco atra procella.

            Sola quell'Argo che solcava il mare,

            Degli uomini pensiero e degli dèi

            Trapassar valse, navigando a Colco:

            E se non che Giunon, cui molto a cuore

            Giasone stava, di sua man la spinse,

            Quella non meno avrìan contra le vaste

            Rupi cacciata i tempestosi flutti.

              Dall'altra parte havvi due scogli: l'uno

            Va sino agli astri, e fosca nube il cinge

            Né su l'acuto vertice, l'estate

            Corra o l'autunno, un puro ciel mai ride.

            Montarvi non potrebbe altri, o calarne,

            Venti mani movesse e venti piedi:

            Sì liscio è il sasso e la costa superba.

            Nel mezzo, vôlta all'occidente e all'orco,

            S'apre oscura caverna, a cui davanti

            Dovrai ratto passar; giovane arciero

            Che dalla nave disfrenasse il dardo,

            Non toccherebbe l'incavato speco.

            Scilla ivi alberga, che moleste grida

            Di mandar non ristà. La costei voce

            Altro non par che un guaiolar perenne

            Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce

            Mostro, e sino ad un dio, che a lei si fesse,

            Non mirerebbe in lei senza ribrezzo.

            Dodici ha piedi, anterïori tutti,

            Sei lunghissimi colli, e su ciascuno

            Spaventosa una testa, e nelle bocche

            Di spessi denti un triplicato giro,

            E la morte più amara in ogni dente.

              Con la metà di sé nell'incavato

            Speco profondo ella s'attuffa, e fuori

            Sporge le teste, riguardando intorno

            Se delfini pescar, lupi, o alcun puote

            Di que' mostri maggior che a mille a mille

            Chiude Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.

            Né mai nocchieri oltrepassaro illesi:

            Poiché quante apre disoneste bocche,

            Tanti dal cavo legno uomini invola.

            Men l'altro s'alza contrapposto scoglio

            E il dardo tuo ne colpirìa la cima.

            Grande verdeggia in questo e d'ampie foglie

            Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe

            La temuta Cariddi il negro mare.

            Tre fiate il rigetta, e tre nel giorno

            L'assorbe orribilmente. Or tu a Cariddi

            Non t'accostar mentre il mar negro inghiotte;

            Ché mal saprìa dalla ruina estrema

            Nettuno stesso dilivrarti. A Scilla

            Tienti vicino, e rapido trascorri.

            Perder sei de' compagni entro la nave

            Torna più assai, che perir tutti a un tempo".

              Tal ragionava; ed io: "Quando m'avvegna

            Schivare, o Circe, la fatal Cariddi,

            Respinger, dimmi il ver, Scilla non deggio,

            Che gli amici a distruggermi s'avventa?"

              "O sventurato", rispondea la diva

            Dunque le pugne in mente ed i travagli

            Rivolgi ancor, né ceder pensi ai numi?

            Cosa mortal credi tu Scilla? Eterno

            Credila, e duro, e faticoso, e immenso

            Male, ed inespugnabile, da cui

            Schermo non havvi, e cui fuggir fia ìl meglio

            Se indugi, e vesti appo lo scoglio l'armi,

            Sbucherà, temo, ad un secondo assalto,

            E tanti de' compagni un'altra volta

            Ti rapirà, quante spalanca bocche.

            Vola dunque sul pelago, e la madre

            Cratèi, che al mondo generò tal peste,

            E ritenerla, che a novella preda

            Non si slanci, potrà, nel corso invoca.

              Allora incontro ti verran le belle

            Spiagge della Trinacria isola, dove

            Pasce il gregge del Sol, pasce l'armento:

            Sette branchi di buoi, d'agnello tanti,

            E di teste cinquanta i branchi tutti.

            Non cresce, o scema, per natale o morte,

            Branco; e le Dive sono i lor pastori

            Faetusa e Lampezie il crin ricciute

            Che partorì d'Iperïone al figlio

            Ninfe leggiadre, la immortal Neera.

            Come l'augusta madre ambo le ninfe

            Dopo il felice parto ebbe nodrite,

            A soggiornar lungi da sé mandolle

            Nella Trinacria; e le paterne vacche

            Dalla fronte lunata, ed i paterni

            Monton lucenti a custodir lor diede.

            Pascoleranno intatti e a voi soltanto

            Calerà del ritorno? il suol nativo,

            Non però senza guai, fiavi concesso.

            Ma se giovenca molestaste od agna,

            Sterminio a te predìco, al legno e a' tuoi

            E pognam, che tu salvo ancor ne andassi,

            Riederai tardi, e a gran fatica, e solo".

            Disse; e sul trono d'ôr l'Aurora apparve.

              Circe, non molto poi, da me rivolse

            Per l'isola i suoi passi; ed io, trovata

            La nave, a entrarvi e a disnodar la fune

            Confortava i compagni; ed i compagni

            V'entraro, e s'assidean su i banchi, e assisi

            Fean co' remi nel mar spume d'argento.

            La dea possente ci spedì un amico

            Vento di vela gonfiator, che fido

            Per l'ondoso cammin ne accompagnava:

            Sì che, deposti nella negra nave

            Dalla prora cerulea i lunghi remi,

            Sedevamo, di spingerci e guidarci

            Lasciando al timonier la cura e al vento.

              Qui, turbato del core: "Amici", io dissi,

            Degno mi par che a tutti voi sia conto

            Quel che predisse a me l'inclita Circe.

            Scoltate adunque, acciocché, tristo o lieto,

            Non ci sorprenda ignari il nostro fato.

            Sfuggire in pria delle Sirene il verde

            Prato e la voce dilettosa ingiunge.

            Vuole ch'io l'oda io sol: ma voi diritto

            Me della nave all'albero legate

            Con fune sì, ch'io dar non possa un crollo;

            E dove di slegarmi io vi pregassi

            Pur con le ciglia, o comandassi, voi

            Le ritorte doppiatemi ed i lacci".

              Mentre ciò loro io discoprìa, la nave,

            Che avea da poppa il vento, in picciol tempo

            Delle Sirene all'isola pervenne.

            Là il vento cadde, ed agguagliossi il mare,

            E l'onde assonnò un demone. I compagni

            Si levâr pronti, e ripiegâr le vele,

            E nella nave collocarle: quindi

            Sedean sui banchi ed imbiancavan l'onde

            Co' forti remi di polito abete.

            Io la duttile cera, onde una tonda

            Tenea gran massa, sminuzzai con destro

            Rame affilato; ed i frammenti n'iva

            Rivoltando e premendo in fra le dita.

            Né a scaldarsi tardò la molle pasta;

            Perocché lucidissimi dall'alto

            Scoccava i rai d'Iperïone il figlio.

            De' compagni incerai senza dimora

            Le orecchie di mia mano; e quei diritto

            Me della nave all'albero legaro

            Con fune, i piè stringendomi e le mani.

            Poi su i banchi adagiavansi, e co' remi

            Batteano il mar, che ne tornava bianco.

            Già, vogando di forza, eravam quanto

            Corre un grido dell'uomo, alle Sirene

            Vicini. Udito il flagellar de' remi,

            E non lontana omai vista la nave,

            Un dolce canto cominciaro a sciorre:

            "O molto illustre Ulisse, o degli Achei

            Somma gloria immortal, su via, qua vieni,

            Ferma la nave; e il nostro canto ascolta.

            Nessun passò di qua su negro legno,

            Che non udisse pria questa che noi

            Dalle labbra mandiam, voce soave;

            Voce, che innonda di diletto il core,

            E di molto saver la mente abbella.

            Ché non pur ciò, che sopportaro a Troia

            Per celeste voler Teucri ed Argivi,

            Noi conosciam, ma non avvien su tutta

            La delle vite serbatrice terra

            Nulla, che ignoto o scuro a noi rimanga".

              Cosi cantaro. Ed io, porger volendo

            Più da vicino il dilettato orecchio,

            Cenno ai compagni fea, che ogni legame

            Fossemi rotto; e quei più ancor sul remo

            Incurvavano il dorso, e Perimede

            Sorgea ratto, ed Euriloco, e di nuovi

            Nodi cingeanmi, e mi premean più ancora.

            Come trascorsa fu tanto la nave,

            Che non potea la perigliosa voce

            Delle Sirene aggiungerci, coloro

            A sé la cera dall'orecchio tosto,

            E dalle membra a me tolsero i lacci.

              Già rimanea l'isola indietro; ed ecco

            Denso apparirmi un fumo e vasti flutti,

            E gli orecchi intronarmi alto fragore.

            Ne sbigottiro i miei compagni, e i lunghi

            Remi di man lor caddero, e la nave,

            Che de' fidi suoi remi era tarpata,

            Là immantinente s'arrestò. Ma io

            Di su, di giù, per la corsìa movendo,

            E con blanda favella or questo, or quello

            De' compagni abbordando: "O", dissi, "meco

            Sin qua passati per cotanti affanni,

            Non ci sovrasta un maggior mal, che quando

            L'infinito vigor di Polifemo

            Nell'antro ci chiudea. Pur quinci ancora

            Col valor mio vi trassi, e col mio senno,

            E vi fia dolce il rimembrarlo un giorno.

            Via, dunque, via, ciò ch'io comando, tutti

            Facciam: voi, stando sovra i banchi, l'onde

            Percotete co' remi, e Giove, io spero,

            Concederà dalle correnti scampo.

            Ma tu, che il timon reggi, abbiti in mente

            Questo, né l'obblïar: guida il naviglio

            Fuor del fumo e del fiotto, ed all'opposta

            Rupe ognor mira e ad essa tienti, o noi

            Getterai nell'orribile vorago".

              Tutti alla voce mia ratto ubbidiro.

            Se non ch'io Scilla, immedicabil piaga,

            Tacqui, non forse, abbandonati i banchi,

            L'un sovra l'altro per soverchia tema

            Della nave cacciassersi nel fondo.

            E qui, di Circe, che vietommi l'arme,

            Negletto il disamabile comando,

            Io dell'arme vestìami, e con due lunghe

            Nell'impavida mano aste lucenti

            Salìa sul palco della nave in prua,

            Attendendo colà, che l'efferata

            Abitatrice dell'infame scoglio

            Indi, gli amici a m'involar, sbalzasse:

            Né, perché del ficcarli in tutto il bruno

            Macigno stanchi io mi sentissi gli occhi,

            Da parte alcuna rimirarla io valsi.

            Navigavamo addolorati intanto

            Per l'angusto sentier: Scilla da un lato,

            Dall'altro era l'orribile Cariddi,

            Che del mare inghiottia l'onde spumose.

            Sempre che rigettavale, siccome

            Caldaia in molto rilucente foco,

            Mormorava bollendo; e i larghi sprazzi,

            Che andavan sino al cielo, in vetta d'ambo

            Gli scogli ricadevano. Ma quando

            I salsi flutti ringhiottiva, tutta

            Commovéasi di dentro, ed alla rupe

            Terribilmente rimbombava intorno,

            E, l'onda il seno aprendo, un'azzurrigna

            Sabbia parea nell'imo fondo: verdi

            Le guance di paura a tutti io scôrsi.

            Mentre in Cariddi tenevam le ciglia,

            Una morte temendone vicina,

            Sei de' compagni, i più di man gagliardi,

            Scilla rapimmi dal naviglio. Io gli occhi

            Torsi, e li vidi che levati in alto

            Braccia e piedi agitavano, ed Ulisse

            Chiamavan, lassi!, per l'estrema volta.

            Qual pescatore che su pendente rupe

            Tuffa di bue silvestre in mare il corno

            Con lunghissima canna, un'infedele

            Esca ai minuti abitatori offrendo,

            E fuor li trae dall'onda, e palpitanti

            Scagliali sul terren: non altrimenti

            Scilla i compagni dal naviglio alzava

            E innanzi divoravali allo speco,

            Che dolenti mettean grida, e le mani

            Nel gran disastro mi stendeano indarno.

            Fra i molti acerbi casi, ond'io sostenni,

            Solcando il mar, la vista, oggetto mai

            Di cotanta pietà non mi s'offerse.

              Scilla e Cariddi oltrepassate, in faccia

            La feconda ci apparve isola amena,

            Ove il gregge del Sol pasce e l'armento;

            E ne giungean dall'ampie stalle a noi

            I belati su l'aure ed i muggiti.

            Gli avvisi allor mi si svegliaro in mente

            Del Teban vate e della maga Circe,

            Ch'io l'isola schivar del Sol dovessi,

            Di cui rallegra ogni vivente il raggio.

            Ond'io: "Compagni, lor dicea, per quanto

            Siate angosciati, la sentenza udite

            Del Teban vate e della maga Circe,

            Ch'io l'isola schivar debba del Sole,

            Di cui rallegra ogni vivente il raggio.

            Circe affermava che il maggior de' guai

            Quivi c'incoglieria. Lasciarla indietro

            Ci convien dunque con la negra nave".

              Colpo tai detti fûr quasi mortale.

            Né a molestarmi Euriloco in tal guisa

            Tardava: "Ulisse, un barbaro io ti chiamo,

            Perché di forze abbondi, e mai non cedi,

            Né fibra è in te che non sia ferro, a' tuoi

            Contendi il toccar terra, e di non parca

            Cena sul lido ristorarsi. Esigi

            Che in mezzo le notturne ombre su questo

            Pelago a caso erriam, benché la notte

            Gravi produca disastrosi venti.

            Or chi fuggir potrà l'ultimo danno

            Dove repente un procelloso fiato

            Di Mezzodì ci assalga, o di Ponente,

            Che de' numi anco ad onta, il legno sperda?

            S'obbedisca oggi alla divina notte,

            E la cena nell'isola s'appresti.

            Come il dì spunti, salirem di nuovo

            La nave, e nell'immensa onda entreremo".

              Questa favella con applauso accolta

            Fu dai compagni ad una; ed io ben m'avvidi

            Che mali un genio prepotente ordìa:

            "Euriloco", io risposi, "oggimai troppa,

            Tutti contra ad un sol, forza mi fate.

            Giurate almeno, e col più saldo giuro,

            Che, se greggi troviam, troviamo armenti,

            Non sia chi, spinto da stoltezza iniqua,

            Giovenca uccida, o pecorella offenda:

            Ma tranquilli di ciò pasteggerete,

            Che in don vi porse la benigna Circe".

            Quelli giuraro, e non sì tosto a fine

            L'invïolabil giuro ebber condotto,

            Che la nave nel porto appo una fonte

            Fermâro, e ne smontaro, e lauta cena

            Solertemente apparecchiâr sul lido.

            Paga delle vivande e de' licori

            La naturale avidità pungente,

            Risovvenìansi di color che Scilla

            Dalla misera nave alto rapiti

            Vorossi, e li piangean, finché discese

            Su gli occhi lagrimosi il dolce sonno.

              Già corsi avea del suo cammin due terzi

            La notte e dechinavano le stelle,

            Quando il cinto di nembi Olimpio Giove

            Destò un gagliardo, turbinoso vento,

            Che la terra coverse, e il mar di nubi,

            E la notte di cielo a piombo cadde.

            Ma come poi l'orocrinita Aurora

            Colorò il ciel con le rosate dita,

            Tirammo a terra il legno, e in cavo speco

            De' seggi ornato delle ninfe, ch'ivi

            I lor balli tessean, l'introducemmo.

            Subito io tutti mi raccolsi intorno

            E: "Compagni", diss'io, "cibo e bevanda

            Restanci ancor nella veloce nave.

            Se non vogliam perir, lungi, vedete,

            La man dal gregge e dall'armento; al Sole,

            Terribil dio, che tutto vede ed ode,

            Pascono i monton pingui e i bianchi tori".

            Dissi; e acchetârsi i generosi petti.

            Per un intero mese Austro giammai

            Di spirar non restava, e poscia fiato

            Non sorgea mai, che di Levante o d'Austro.

            Finché il pan non fallì loro ed il vino,

            Ubbidïenti e della vita avari,

            Rispettavan l'armento. E già la nave

            Nulla contenea più. Gìvano adunque,

            Come il bisogno li pungea, dispersi

            Per l'isola, d'augelli e pesci in traccia,

            Con archi ed ami, o di quale altra preda

            Lor venisse alle man; però che forte

            Rodeali dentro l'importuna fame.

            Io, dai compagni scevro, una remota

            Cercai del piede solitaria piaggia,

            Gli eterni a Supplicar, se alcun la via

            Mi dimostrasse del ritorno, e in parte

            Giunto, che d'aura non sentìasi colpo,

            Sparsi di limpid'onda, e a tutti alzai

            Gli abitanti del cielo ambo le palme.

            Né guari andò, che d'un tranquillo sonno

            Gli occhi ed il petto rïempièrmi i numi.

              Eurìloco frattanto un mal consiglio

            Pose innanzi ai compagni: "O da sì acerbe

            Sciagure oppressi, la mia voce udite.

            Tutte odïose certo ad uom le morti;

            Ma nulla tanto, che il perir di fame.

            Che più si tarda? Meniam via le belle

            Giovenche, e sagrifici ai numi offriamo.

            Ché se afferrar ci sarà dato i lidi

            Nativi, al Sole Iperïone un ricco

            Tempio illustre alzeremo, appenderemo

            Molti alle mura prezïosi doni.

            E dov'ei, per li buoi dalla superba

            Testa crucciato, sperder voglia il legno,

            Né alcun dio gli contrasti, io tolgo l'alma

            Pria tra i flutti esalar, che, su deserta

            Isola stando, intisichir più a lungo".

              Disse: e tutti assentìano. Incontanente

            Del Sol cacciate le più belle vacche

            Di fronte larga e con le corna in arco,

            Che dalla nave non pascean lontane,

            Stavano ad esse intorno, e, côlte prima,

            Per difetto che avean di candid'orzo,

            Tenere foglie di sublime quercia,

            Voti féano agli dèi. Compiuti i voti,

            Le vittime sgozzaro e le scoiaro,

            E, le cosce tagliatene, di zirbo

            Le copriro doppiate, e i crudi brani

            Sopra vi collocaro. Acqua, che il rosso

            Vino scusasse, onde patìan disagio,

            Versavan poi su i sagrifici ardenti,

            E abbrostìan tutti gl'intestini. Quindi,

            Le cosce omai combuste, ed assaggiate

            Le interïora, tutto l'altro in pezzi

            Fu messo, e infitto negli acuti spiedi;

            E a me uscì delle ciglia il dolce sonno.

            Sorsi, e alla nave in fretta io mi condussi.

            Ma vicina del tutto ancor non m'era,

            Ch'io mi sentii dall'avvampate carni

            Muovere incontro un odoroso vento,

            E gridai, lamentando, ai numi eterni:

            "O Giove padre, e voi, dèi sempre stanti,

            Certo in un crudo e fatal sonno voi

            Mi seppelliste, se doveasi intanto

            Compier da cotestoro un tal misfatto".

              Nunzia non tarda dell'ucciso armento,

            Lampezie al Sole andò, di lungo peplo

            Coperta. Il Sole, in grande ira montato,

            Si volse ai numi e: "Giove", disse, e voi

            Tutti, immortali dèi, paghino il fio

            Del Laerzìade Ulisse i rei compagni,

            Che le giovenche trucidarmi osaro,

            Della cui vista, o ch'io per la stellata

            Volta salissi, o discendessi, nuovo

            Diletto ciascun dì prendea il mio core.

            Colpa e pena in lor sia d'una misura:

            O calerò nella magion di Pluto,

            E al popol morto porterò mia luce".

              E il nimbifero Giove a lui rispose:

            "Tra gl'Immortali, o Sole, ed i mortali

            Vibra su l'alma terra, e in cielo, i raggi.

            Io senza indugio d'un sol tocco lieve

            Del fulmine affocato il lor naviglio

            Sfracellerò del negro mar nel seno".

              Queste cose Calipso un giorno udìa

            Dal messaggier Mercurio; e a me narrolle

            La ricciuta il bel crin ninfa Calipso.

              Giunto alla nave, io rampognavo or questo

            De' compagni, ed or quel: ma vïolato

            L'armento fu, né avea compenso il male.

            Strani prodigi intanto agl'infelici

            Mostravano gl'iddii: le fresche pelli

            Strisciavan sul terren, muggian le incotte

            Carni e le crude, agli schidoni intorno,

            E de' buoi lor sembrava udir la voce.

            Pur del fior dell'armento ancor sei giorni

            Si cibaro i colpevoli. Comparsa

            La settim'alba, il turbinoso vento

            Stancossi: e noi ci rimbarcammo, e, alzato

            L'albero prontamente, e dispiegate

            Le bianche vele, ci mettemmo in mare.

              Di vista già della Trinacria usciti,

            Altro non ci apparìa che il cielo e l'onda,

            Quando il Saturnio sul veloce legno

            Sospese in alto una cerulea nube,

            Sotto cui tutte intenebrârsi l'acque.

            La nave non correa che un tempo breve;

            Poiché ratto uno stridulo Ponente,

            Infurïando, imperversando, venne

            Di contra e ruppe con tremenda buffa

            Le due funi dell'albero, che a poppa

            Cadde; ed antenne in uno, e vele e sarte

            Nella sentina scesero. Percosse

            L'alber, cadendo, al timoniere in capo,

            E l'ossa fracassògli; ed ei da poppa

            Saltò nel mar, di palombaro in guisa,

            E cacciata volò dal corpo l'alma.

            Ma Giove che tonato avea più volte,

            Scagliò il fulmine suo contra la nave,

            Che si girò, dal fulmine colpita

            Del Saturnio, e s'empieo di zolfo tutta.

            Tutti fuor ne cascarono i compagni,

            E ad essa intorno l'ondeggiante sale,

            Quai corvi, li portava; e così Giove

            Il ritorno togliea loro, e la vita.

            Io pel naviglio su e giù movea,

            Finché gli sciolse la tempesta i fianchi

            Dalla carena, che rimase inerme.

            Poi la base dell'albero l'irata

            Onda schiantò: ma di taurino cuoio

            Rivestìalo una striscia, ed io con questa

            L'albero e la carena in un legai,

            E sopra mi v'assisi; e tale i venti

            Esizïali mi spingean su l'onde.

            Zefiro a un tratto rallentò la rabbia:

            Se non che sopraggiunse un Austro in fretta,

            Che, noiandomi forte in ver Cariddi

            Ricondur mi volea. L'intera notte

            Scorsi su i flutti; e col novello Sole

            Tra la grotta di Scilla, e la corrente

            Mi ritrovai della fatal vorago,

            Che in quel punto inghiottia le salse spume

            Io, slanciandomi in alto, a quel selvaggio

            M'aggrappai fico eccelso, e mi v'attenni,

            Qual vipistrello: ché né dove i piedi

            Fermar, né come ascendere, io sapea,

            Tanto eran lungi le radici, e tanto

            Remoti dalla mano i lunghi, immensi

            Rami, che d'ombra ricoprìan Cariddi.

            Là dunque io m'attenea bramando sempre,

            Che rigettati dall'orrendo abisso

            Fosser gli avanzi della nave. Al fine

            Dopo un lungo desìo vennero a galla.

            Nella stagion che il giudicante, sciolte

            Varie di caldi giovani contese,

            Sorge dal foro, e per cenar s'avvìa,

            Dell'onde usciro i sospirati avanzi.

            Le braccia apersi allora, e mi lasciai

            Giù piombar con gran tonfo all'onde in mezzo,

            Non lunge da que' legni, a cui m'assisi

            Di sopra, e delle man remi io mi feci.

            Ma degli uomini il padre e de' Celesti

            Di rivedermi non permise a Scilla;

            Ché toccata sarìami orrida morte.

            Per nove dì mi trabalzava il fiotto,

            E la decima notte i dèi sul lido

            Mi gettâr dell'Ogigia isola, dove

            Calipso alberga, la divina ninfa,

            Che raccoglieami amica, e in molte guise

            Mi confortava. Perché ciò ti narro?

            Tai cose, Alcinoo illustre, ieri le udivi,

            Le udìa con teco la tua casta donna,

            E ciò ridir, ch'io dissi, a me non torna”.

             

             


            LIBRO TREDICESIMO

             

             

              Stavansi tutti per l'oscura sala

            Taciti, immoti, e nel diletto assorti.

            Così al fine il silenzio Alcinoo ruppe:

            “Poiché alla mia venisti alta e di rame

            Solido e liscio edificata casa,

            No, Ulisse, non cred'io che al tuo ritorno

            L'onde t'agiteran, comunque afflitto

            T'abbia sin qui co' suoi decreti il fato.

            Voi, tutti, che vôtar nel mio palagio

            Del serbato ai più degni ardente vino

            Solete i nappi, ed ascoltare il vate,

            L'animo a quel ch'io vi dichiaro, aprite.

            Le vesti e l'oro d'artificio miro,

            E ogni altro don, che de' Feaci i capi

            Recâro al forestier, l'arca polìta

            Già nel suo grembo accolse. Or d'un treppiede

            Anco e d'un'urna il presentiam per testa;

            Indi farem che tutta in questi doni,

            Di cui male potremmo al grave peso

            Regger noi soli, la città concorra”.

              Disse; e piacquero i detti, e al proprio albergo

            Ciascun le piume a ritrovar si volse.

            Ma come del mattin la bella figlia

            Aperse il ciel con le rosate dita,

            Vêr la nave affrettavansi, portando

            Il bel, che onora l'uom, bronzo foggiato.

            Lo stesso re, ch'entrò per questo in nave,

            Attentamente sotto i banchi il mise,

            Onde, mentre daran de' remi in acqua,

            Non impedisse alcun de' Feacesi

            Giovani, e l'offendesse urna o treppiede.

            Né di condursi al real tetto, dove

            La mensa gli attendea, tardaro i prenci.

              Per lor d'Alcinoo la sacrata possa

            Un bue quel giorno uccise al ghirlandato

            D'atre nubi Signor dell'Universo.

            Arse le pingui cosce, un prandio lauto

            Celebran lietamente; e il venerato

            Dalla gente Demodoco, il divino

            Cantor, percuote la sonante cetra.

            Ma Ulisse il capo alla dïurna lampa

            Spesso torcea, se tramontasse al fine;

            Ché il ritorno nel cor sempre gli stava.

            Quale a villan, che dalla prima luce

            Co' negri tori e col pesante aratro

            Un terren franse riposato e duro,

            Cade gradito il Sole in occidente,

            Pel desìo della cena, a cui s'avvia

            Con le ginocchia, che gli treman sotto:

            Tal cadde a Ulisse in occidente il sole.

            Tosto agli amanti del remar Feaci,

            E al re, più che ad altrui, così drizzossi:

            “Facciansi, Alcinoo, i libamenti, e illeso

            Mandatemi; e gl'iddii vi guardin sempre.

            Tutti ho già i miei desir: pronta è la scorta,

            E della nave in sen giacciono i doni,

            Da cui vogliano i dèi che pro mi vegna.

            Vogliano ancor, che in Itaca l'egregia

            Consorte io trovi, e i cari amici in vita.

            Voi, restandovi qui, serbate in gioia

            Quelle, che uniste a voi, vergini spose,

            E i dolci figli che ne aveste: i numi

            V'ornin d'ogni virtù, né possa mai

            I dì vostri turbar pubblico danno”.

              Tacque; e applaudìa ciascuno, e molto instava

            Si compiacesse allo stranier, da cui

            Uscita era sì nobile favella.

            Ed Alcinoo all'araldo allor tai detti:

            “Pontonoo, il vino mesci, e a tutti in giro

            Porgilo, acciò da noi, pregato Giove,

            S'accommiati oggimai l'ospite amico”.

            Mescé l'araldo il vino, e il porse in giro;

            E tutti dai lor seggi agl'immortali

            Numi libaro. Ma il divino Ulisse

            Sorse, e d'Arete in man gemina pose

            Tazza rotonda, e tai parole sciolse:

            “Vivi felici dì, Regina illustre,

            Finché vecchiezza ti sorprenda, e morte,

            Comun retaggio degli umani. Io parto:

            Te del popol, de' figli e del marito

            Il rispetto feliciti e l'amore”.

              Disse, e varcò la soglia. Alcinoo innanzi

            Muover gli fece il banditor, che al ratto

            Legno li guidasse e al mare: e Arete dietro

            Tre serve gli spedì, l'un con tersa

            Tunica in mano ed un lucente manto,

            L'altra con la fedele arca, e con bianchi

            pani la terza e rosseggianti vini.

            Tutto da lor, come sul lido fûro,

            I remiganti tolsero, e nel fondo

            Della nave allogar: poi su la poppa

            Steser candidi lini e bella coltre,

            Dove tranquillo il forestier dormisse.

            Vi montò egli, e tacito corcossi.

            E quei sedean su i banchi, e, poiché sciolta

            Dal traforato sasso ebber la fune,

            Fatigavan co' remi il mar canuto.

            Ma un dolce sonno al Laerzïade, un sonno

            Profondo, ineccitabile, e alla morte

            Per poco egual, su le palpebre scese.

            Come talvolta in polveroso campo

            Quattro maschi destrieri a un cocchio aggiunti,

            E tutti dal flagel percossi a un tempo,

            Sembran levarsi nel vôto aere in alto,

            E la prescritta via compier volando:

            Sì la nave correa con alta poppa,

            Dietro da cui precipitava il grosso

            Del risonante mar flutto cilestro.

            Correa sicura, né l'avrìa sparviere,

            Degli augei velocissimo, raggiunta;

            Con sì celere prora i salsi flutti

            Solcava, un uom seco recando ai dii

            Pari di senno, che infiniti affanni

            Durati avea tra l'armi, avea tra l'onde,

            E allor, d'obblìo sparsa ogni cura, in braccio

            D'un sonno placidissimo giacea.

            Quando comparve quel sì fulgid'astro,

            Che della rosea Aurora è messaggiero,

            La ratta nave ad Itaca approdava.

              Il porto è qui del marin vecchio Forco,

            Che due sporgenti in mar lidi scoscesi,

            E l'uno all'altro ripieganti incontra,

            Sì dal vento riparano e dal fiotto,

            Che di fune mestier non v'han le navi.

            Spande sovra la cima i larghi rami

            Vivace oliva, e presso a questa un antro

            S'apre amabile, opaco, ed alle ninfe

            Nàiadi sacro. Anfore ed urne, in cui

            Forman le industri pecchie il mel soave,

            Vi son di marmo tutte, e pur di marmo

            Lunghi telai, dove purpurei drappi,

            Maraviglia a veder, tesson le ninfe.

            Perenni onde vi scorrono, e due porte

            Mettono ad esso: ad Aquilon si volge

            L'una, e schiudesi all'uom; l'altra, che Noto

            Guarda, ha più del divino, ed un mortale

            Per lei non varca: ella è la via de' numi.

              In questo porto ai Feacesi conto,

            Dirittamente entrò l'agile nave,

            Che sul lido andò mezza: di sì forti

            Remigatori la spingean le braccia!

            Si gittaro nel lido; e Ulisse in prima

            Co' bianchi lini e con la bella coltre

            Sollevâr dalla nave, e seppellito

            Nel sonno, siccom'era, in su l'arena

            Poserlo giù. Poi ne levaro i doni,

            Ch'ei riportò dalla Feacia gente,

            Per favor di Minerva, e al piede uniti

            Li collocaro della verde oliva,

            Fuor del cammin, non s'avvenisse in loro

            Vïandante, e la man su lor mettesse,

            Mentre l'eroe dormìa. Quindi ritorno

            Fean con la nave alla natìa contrada.

              Nettuno intanto, che serbava in mente

            Le minacce che un dì contra il divino

            Laerzìade scagliò, così il pensiero

            Ne spïava di Giove: “O Giove padre,

            Chi più tra i dèi m'onorerà, se onore

            Nieganmi i Feacesi, che mortali

            Sono, e a me dèon l'origine? Io credea

            Che della sua nativa isola ai sassi

            Giunger dovesse tra gli affanni Ulisse,

            Cui non invidïava io quel ritorno

            Che tu gli promettesti, e del tuo capo

            Confermasti col cenno. Ma i Feaci

            Dormendo il trasportâr su ratta nave,

            E in Itaca il deposero, e il colmâro

            Di doni in bronzo, e in oro, e in bei tessuti:

            Ricchezza immensa, e qual dall'arsa Troia

            Recato ei non avrìa, se con la preda,

            Che gli toccò, ne ritornava illeso”.

              “O della terra scotitor possente”,

            Il nubiadunator Giove rispose,

            “Qual parola parlasti? Alcun de' numi

            Te in dispregio non ha, né lieve fôra

            Dispregiar dio sì poderoso e antico.

            Ma dove uom troppo di suo forze altero

            T'osasse ingiurïar, tu ne puoi sempre

            Qual più t'aggradirà, prender vendetta”.

              “Mi starei forse, o nubipadre Giove”,

            Nettun riprese, “s'io dal tuo corruccio

            Non mi guardassi ognora? Io de' Feaci

            Perché di ricondur gli ospiti il vezzo

            Pèrdano al fin, strugger vorrei nel mare

            L'inclita nave ritornante; e in oltre

            Grande alla lor città montagna imporre”.

              “Ciò”, replicava il Nubipadre, “il meglio,

            Ottimo nume, anco a me sembra: quando

            I Feacesi scorgeran dal lido

            Venir la nave a tutto corso, e poco

            Sarà lontana, convertirla in sasso

            Che di naviglio abbia sembianza, e oggetto

            Si mostri a ognun di maraviglia; e in oltre

            Grande alla lor città montagna imporre”.

              Lo Scuotiterra, udito questo appena,

            Si portò a Scheria in fretta, e qui fermossi.

            Ed ecco spinta dagl'illustri remi

            Su per l'onde venir l'agile nave.

            Egli appressolla, e convertilla in sasso,

            E d'un sol tocco della man divina

            La radicò nel fondo. Indi scomparve.

              Molte allor de' Feaci in mar famosi

            Fur le alterne parole. “Ahi! chi nel mare

            Legò la nave che vêr noi solcava

            L'acque di volo, che apparìa già tutta”?

            Così, gli occhi volgendo al suo vicino,

            Favellava talun: ma rimanea

            La cagion del portento a tutti ignota.

            Se non che Alcinoo a ragionar tra loro

            Prese in tal foggia: “Oh dèi! côlto io mi veggo,

            Qual dubbio v'ha? dai vaticini antichi

            Del padre, che dicea, come sdegnato

            Nettun fosse con noi, perché securo

            Riconduciam su l'acque ogni mortale.

            Dicea, che insigne de' Feaci nave,

            Dagli altrui nel redire ai porti suoi,

            Distruggerìa nell'oscure onde, e questa

            Cittade coprirìa d'alta montagna.

            Così arringava il vecchio, ed oggi il tutto

            Si compie. Or via, sottomettiamoci ognuno:

            Dal ricondur cessiam gli ospiti nostri,

            E dodici a Nettuno eletti tori

            Sagrifichiam, perché di noi gl'incresca,

            Né d'alto monte la città ricopra”.

            Disse. Penetrò in quelli un timor sacro,

            E i cornigeri tori apparecchiaro.

              Mentre intorno all'altar prieghi a Nettuno

            Drizzavan della Scheria i duci e i capi,

            Svegliossi il pari agl'immortali Ulisse,

            Che su la terra sua dormìa disteso,

            Né la sua terra riconobbe: stato

            N'era lunge gran tempo, e Palla cinto

            L'avea di nebbia, per celarlo altrui,

            E di quanto è mestier dargli contezza,

            Sì che la moglie, i cittadin, gli amici

            Nol ravvisin, che prìa de' tristi proci

            Fatto ei non abbia universal macello.

            Quindi ogni cosa gli parea mutata,

            Le lunghe strade, i ben difesi porti,

            E le ombrose foreste, e l'alte rupi.

            Sguardò, fermo su i piè, la patria ignota,

            Poi non tenne le lagrime, e la mano

            Batté su l'anca, e lagrimando disse:

            “Misero! tra qual nuova estrania gente

            Sono io? Chi sa, se nequitosa e cruda,

            O giusta in vece, ed ospitale e pia?

            Ove questa recar molta ricchezza,

            Ove ire io stesso? Oh nella Scheria fosse

            Rimasta, ed io giunto all'eccelsa casa

            D'altro signor magnanimo, che, accolto

            Dolcemente m'avesse, e rimandato

            Securamente! Io, dove porla ignoro,

            Né lasciarla vo' qui, che altri la involi.

            Men che saggi eran dunque, e men che probi

            De' Feacesi i condottieri e i capi,

            Che non alla serena Itaca, come

            Dicean, ma in questa sconosciuta piaggia

            Condur mi fêro. Li punisca Giove,

            De' supplici custode, a cui nessuno

            Celasi, e che non lascia inulto un fallo.

            Queste ricchezze noveriam, veggiamo,

            Se via non ne portò nulla la nave”.

              Dette tai cose, i tripodi superbi

            Contava, e l'urne e l'oro e le tessute

            Vesti leggiadre; e non fallìagli nulla,

            Ma la sua patria sospirava, e molti

            Lungo il lido del mar romoreggiante

            Passi e lamenti fea. Pallade allora,

            Di pastorello delicato in forma,

            Quale un figlio di re mostrasi al guardo,

            S'offerse a lui: doppia e ben fatta veste

            Avea d'intorno agli omeri, calzari

            Sotto i piè molli, e nella destra un dardo.

            Gioì Ulisse a mirarla, e incontanente

            Le mosse incontro con tai detti: “Amico,

            Che qui primiero mi t'affacci, salve.

            Deh non mi t'affacciar con alma ostile:

            Ma questi beni e me serba, che abbraccio

            Le tue ginocchia, e te, qual nume, invoco.

            Che terra è questa? che città? che gente?

            Una dell'ondicinte isole forse?

            O di fecondo continente spiaggia,

            Che scende in sino al mar? Schietto favella”.

              “Stolto sei bene, o di lontan venisti”,

            La dea rispose dall'azzurro sguardo,

            “Se di questa contrada, ospite, chiedi.

            Cui non è nota? La conosce appieno

            Qual vêr l'aurora e il Sol, qual vêr l'oscura

            Notte soggiorna. Alpestra sorge, e male

            Vi si cavalca, né si stende assai.

            Sterile non però torna: di grano

            Risponde e d'uva, e la rugiada sempre

            Bàgnala, e il nembo: ottimo pasco i buoi

            E le capre vi trovano; verdeggia

            D'ogni pianta, e perenne acqua l'irrìga.

            Sin d'Ilio ai campi, che dal suolo Acheo,

            Come sentìi narrar, molto distanno,

            D'Itaca giunge, o forestiero, il nome.

              Al nome della patria, che su i labbri

            Dell'immortal sonò figlia di Giove,

            S'empié di gioia il Laerzìade, e tardo

            A risponder non fu, benché, volgendo

            Nel suo cor sempre gli artifici usati,

            Contraria al vero una novella ordisse.

            “Io già d'Itaca udìa nell'ampia Creta,

            Che lungi nel mar giace, e donde io venni,

            Metà recando de' miei beni, e ai figli

            Lasciandone metà. Di Creta io fuggo,

            Perché vi uccisi Orsiloco, il diletto

            D'Idomenèo figliuol, da cui nel corso

            Uom non era colà che non perdesse.

            Costui di tutta la Troiana preda,

            Che tanti in mezzo all'onde, in mezzo all'arme,

            Travagli mi costò, volea fraudarmi,

            Sdegnato, ch'io, d'altri guerrieri duce,

            Sotto il padre di lui servir negassi.

            In quel ch'ei nella strada uscìa dal campo,

            Gli tesi insidie con un mio compagno,

            E di lancia il ferìi. Notte assai fosca

            L'aere ingombrava, e non che agli altri, a lui,

            Che di vita io spogliai, rimasi occulto.

            Trovai sul lido una Fenicia nave,

            E a quegl'illustri naviganti ricca

            Mercede offersi, e li pregai che in Pilo

            Mi ponessero, o in Elide divina,

            Dominio, degli Epéi. Se non che il vento

            Indi gli svolse, e forte a lor mal cuore;

            Ché inganni non pensavano. Venimmo,

            Notturni errando, a questa piaggia, e a forza

            Di remi, e con gran stento, il porto entrammo.

            Né della cena favellossi punto,

            Benché ciascuno in grande uopo ne fosse;

            Ma del naviglio alla rinfusa usciti,

            Giacevam su l'arena. Ivi un tranquillo

            Sonno me stanco invase; e quei, levate

            Dalla nave e deposte, ov'io giaceva,

            Le mie ricchezze, in ver la popolosa

            Sidone andaro, e me lasciâr nel duolo”.

              Sorrise a questo la degli occhi azzurra,

            E con man careggiollo; e uguale a donna

            Bella, di gran sembiante, e di famosi

            Lavori esperta, in un momento apparve,

            E a così fatti accenti il volo sciolse:

            “Certo sagace anco tra i numi, e solo

            Colui sarìa, che d'ingannar nell'arte

            Te superasse! Sciagurato, scaltro,

            Di frodi insazïabile, non cessi

            Dunque né in patria dai fallaci detti,

            Che ti piaccion così sin dalla culla?

            Ma di questo non più: che d'astuzie ambo

            Maestri siam; tu di gran lunga tutti

            D'inventive i mortali e di parole

            Sorpassi, tutti io di gran lunga i numi.

            Dunque la figlia ravvisar di Giove

            Tu non sapesti, che a te assisto sempre

            Nelle tue prove, e te conservo, e grazia

            Ti fei trovare appo i Feaci? E or venni

            Per ammonirti, e per celare i fatti

            Col mio soccorso a te splendidi doni,

            Non che narrarti ciò che per destino

            Nel tuo palagio a sopportar ti resta.

            Tu soffri, benché astretto; e ad uomo o a donna

            L'arrivo tuo non palesar; ma tieni

            Chiusi nel petto i tuoi dolori, e solo

            Col silenzio rispondi a chi t'oltraggia”.

              E tosto il ricco di consigli Ulisse:

            “Difficilmente, o dea, può ravvisarti

            Mortal, cui t'appresenti, ancor che saggio;

            Tante forme rivesti. Io ben rammento

            Che visitar tu mi degnavi un giorno,

            Mentre noi, figli degli Achivi, a Troia

            Combattevam: ma poiché l'alte torri

            Ruinammo di Priamo, e su le navi

            Partimmo, e un dio l'Achiva oste disperse,

            Più non ti scôrsi, o del Tonante figlia,

            Né m'avvidi unqua che m'entrassi in nave,

            per cavarmi d'affanno. Abbandonato

            Solo a me stesso e afflitto io gìa vagando,

            Finché pria che il tuo labbro in tra i Feaci

            Mi confortasse, e nella lor cittade

            M'introducessi tu, le mie sventure

            Gl'Immortali finiro. Ora io ti priego

            Pel tuo gran padre, quando in terra estrana,

            Non nella patria mia, credomi, e temo

            Che tu di me prender ti voglia gioco,

            Ti priego dirmi, o dea, se veramente

            Degli occhi Itaca io veggio, e del piè calco”.

              E la dea, che rivolge azzurri i lumi:

            “Tu mai te stesso non oblii. Quind'io

            Non posso ai mali abbandonarti in preda;

            Tal mostri ingegno, tal facondia e senno.

            Altri, che dopo error molti giungesse,

            Sposa e figli mirar vorrìa repente;

            E a te nulla sapere, o chieder piace,

            Se con gran cura non assaggi e tenti

            Prima la tua, che invan t'aspetta, e a cui

            Scorron nel pianto i dì, scorron le notti.

            Dubbio io non ebbi mai del tuo ritorno,

            Benché ritorno solitario e tristo;

            Se non che al zio Nettun con te crucciato

            Dell'occhio che spegnesti al figlio in fronte,

            Repugnar non volea. Ma or ti mostro

            D'Itaca il sito, e a credermi io ti sforzo.

            Ecco il porto di Forcine, e la verde

            Frondosa oliva che gli sorge in cima.

            Ecco non lunge opaco antro ameno,

            Alle Naiadi sacro; la convessa

            Spelonca vasta riconosci, dove

            Ecatombi legittime alle ninfe

            Sagrificar solevi. Ecco il sublime

            Nerito monte che di selve ondeggia.

              Disse, e ruppe la nebbia, e il sito apparve.

            Giubilò Ulisse alla diletta vista

            Della sua patria, e baciò l'alma terra.

            Poi levando le man, subitamente

            Le ninfe supplicò: “Naiadi ninfe,

            Non credea rivedervi, e con devote

            Labbra, in vece io salùtovi, o di Giove

            Nate; a cui doni porgerem novelli,

            Se me in vita conserva, e dì felici

            A Telemaco mio concede amica

            La bellicosa del Saturnio figlia”.

              “Ti rassicura, e non temer, riprese

            La dea dagli occhi di cilestro tinti,

            “Che d'aiuto io ti manchi. Or senza indugio

            Nel cavo sen della divina grotta,

            Su via, poniam queste ricchezze in salvo,

            E di ciò consultiam che più ti torna”.

              Tacque, ed entrava nella grotta oscura,

            Le ascosaglie cercandone; ed Ulisse,

            L'oro ed il bronzo, e le superbe vesti

            Portando, la seguìa. Tutto depose

            Acconciamente dell'Egìoco Giove

            La figlia, e l'antro d'un macigno chiuse;

            Ciò fatto, al piè della sacrata oliva

            Ambi sedendo, e investigando l'arte

            Di tor di mezzo i temerari proci,

            Così a parlar la prima era Minerva:

            “Studiar convienti, o Laerzìade, come

            Metter la man su gli arroganti drudi,

            Che regnano in tua casa, oggi è terz'anno,

            E della moglie tua con ricchi doni

            Chiedono a gara le bramate nozze.

            Ella, ognor sospirando il tuo ritorno,

            Ciascun di speme e d'impromesse allatta,

            Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core”.

              “Ah! Dunque”, le rispose il saggio Ulisse,

            “Me dell'Atride Agamennòn l'acerbo

            Fato attendea nelle paterne case,

            Se il tutto, inclita dea, tu non m'aprivi.

            Ma tu la via, che a vendicarmi io prenda,

            M'addita, e a me soccorri, e quell'audace

            Spirto m'infondi, che accendeami, quando

            Sfemmo di Troia le famose mura.

            Mi starai tu del pari al fianco sempre?

            Io pugnar con trecento allor non temo”.

              “Sempre al fianco m'avrai, non m'uscirai”,

            La dea riprese dalle glauche luci,

            “Di vista un sol momento in questa impresa.

            Questi superbi, che le tue sostanze

            Mandano a male, imbratteran di sangue

            L'immenso pavimento, e di cervella.

            Ma io così vo' trasformarti, Ulisse,

            Che riconoscer non ti possa uom vivo,

            Cotesta liscia ed ancor fresca pelle,

            Che le membra flessibili ti copre,

            Disseccherò, raggrinzerò; di biondo

            Nulla ti rimarrà sovra la testa,

            E te circonderan miseri panni,

            Da cui lo sguardo di ciascun rifugga.

            Gli occhi poi sì belli e sì vivaci,

            Saran sì oscuri e avran tai pieghe intorno,

            Che turpe ai proci, e alla tua donna e al figlio,

            Cui lasciasti bambin, cosa parrai.

            Tu prima cerca de' tuoi pingui verri

            Il fido guardïan che t'ama, ed ama

            Telemaco, ama la tua saggia donna.

            Il troverai, che guarderà la nera

            Greggia che beve d'Aretusa al fonte,

            E alla pietra del Corvo addenta, e rompe

            La dolce ghianda, per la cui virtude

            Il florido sul dosso adipe cresce.

            Quivi ti ferma, ed al suo fianco assisa

            D'ogni cosa il richiedi; ed io frattanto

            Andrò alla bella nelle donne Sparta,

            In traccia del figliuol, che vi s'addusse,

            Onde saper di te dal bellicoso

            Menelao biondo; e udir, se vivi, e dove”.

              “Perché non dirgliel tu, cui noto è il tutto?”

            Rispose il ricco di consigli Ulisse.

            “Forse perch'ei su l'infecondo mare

            Tormenti errando, come il padre, e intanto

            Le sue sostanze a male altri gli mandi?”

              “Ciò non t'affligga”, ripigliò la dea

            Che cilestre in altrui le luci intende.

            “Io stessa, nome ad acquistarsi e grido,

            Già l'invïava là, 've nulla il turba:

            Là 've tranquillo, e d'ogni cosa agiato,

            Nel regal siede dell'Atride albergo.

            So ben che agguati in nave negra i proci

            Tendongli, desïando a lui dar morte

            Pria ch'ei torni; ma invan: che anzi, lui vivo

            Coprirà i suoi nemici e tuoi, la terra”.

              Disse Minerva, e della sua potente

            Verga l'eroe toccò. S'inaridisce

            La molle cute, e si rincrespa; rari

            Spuntano e bianchi su la testa i crini;

            Tutta d'un vecchio la persona ei prende,

            Rotto dagli anni, e stanco; e foschi, estinti

            Son gli occhi, in che un divin foco brillava.

            Tunica trista, e mala cappa in dosso

            L'amica dea cacciògli, ambo squarciate,

            Discolorate, affumicate e sozze:

            Sopra gli vestì ancor di ratto cervo

            Un gran cuoio spelato, e nella destra

            Pose bastone; ed una vil bisaccia,

            Che in più luoghi s'aprìa, per una torta

            Coreggia antica agli òmeri sospese.

              Preso il consiglio che più acconcio parve,

            L'un dall'altro staccârsi; e alla divina

            Sparta, del figlio in traccia, andò Minerva.

             

             


            LIBRO QUATTORDICESIMO

             

             

              Ei, la riva lasciata, entrò in un'aspra

            Strada, e per gioghi e per silvestri lochi

            Là si rivolse, dove Palla môstro

            Gli avea l'inclito Eumèo, di cui fra tutti

            D'Ulisse i miglior servi alcun non era,

            Che i beni del padron meglio guardasse.

            Trovollo assiso nella prima entrata

            D'un ampio e bello ed altamente estrutto

            Recinto, a un colle solitario in cima.

            Il fabbricava Eumèo con pietre tolte

            Da una cava propinqua, e mentre lungi

            Stavasi Ulisse, e senz'alcun dal veglio

            Laerte, o da Penelope, soccorso:

            D'un'irta siepe ricingealo, e folti

            Di bruna, che spezzò, quercia scorzata

            Pali frequenti vi piantava intorno.

            Dodici v'eran dentro, una appo l'altra,

            Comode stalle, che cinquanta a sera

            Madri feconde ricevean ciascuna.

            I maschi dormìan fuor, molto più scarsi,

            Perché scemati dall'ingordo dente

            De' proci, a cui mandar sempre dovea

            L'ottimo della greggia il buon custode.

            Trecento ne contava egli, e sessanta;

            E presso lor, quando volgea la notte

            Quattro cani giacean pari a leoni,

            Che il pastor di sua mano avea nodriti.

            Calzari allor s'accomodava ai piedi,

            Di bue tagliando una ben tinta pelle,

            Mentre chi qua chi là gìano i garzoni.

            Tre conducean la nera mandra, e il quarto

            Alla cittade col tributo usato

            Lo stesso Eumèo spedìalo, e a que' superbi,

            Cui ciascun dì gli avidi ventri empiea

            Della sgozzata vittima la carne.

              Videro Ulisse i latratori cani,

            E a lui con grida corsero: ma egli

            S'assise accorto, e il baston pose a terra.

            Pur fiero strazio alle sue stalle avanti

            Soffrìa, s'Eumèo non era, il qual, veloce

            Scaglìandosi dall'atrio, e la bovina

            Pelle di man lasciandosi cadere,

            Sgridava i suoi mastini, e or questo, or quello

            Con spesse pietre qua o là cacciava.

            Poi, rivolto al suo re: “Vecchio”, gli disse,

            “Poco fallì non te n'andassi in pezzi,

            E il biasmo in me ne ricadesse, quasi

            Sciagure altre io non pata, io, che dolente

            Siedo, e piango un signore ai numi eguale,

            E i pingui verri all'altrui gola allevo:

            Mentr'ei s'aggira per estranie terre

            Famelico e digiuno; ove ancor viva,

            E gli splenda del Sole il dolce lume.

            Ma tu séguimi, o vecchio, ed al mio albergo

            Vientene, acciò, come di cibo e vino

            Sentirai sazio il natural talento,

            La tua patria io conosca, e i mali tuoi”.

              Ciò detto, gli entrò innanzi, e l'introdusse

            Nel padiglione suo. Qui di fogliosi

            Virgulti densi, sovra cui velloso

            Cuoio distese di selvaggia capra,

            Gli feo, non so qual più, se letto o seggio,

            L'eroe gioìa dell'accoglienza amica,

            E così favellava: “Ospite, Giove

            Con tutti gli altri dèi compia i tuoi voti,

            E d'accoglienza tal largo ti paghi”.

              E tu così gli rispondesti, Eumèo:

            “Buon vecchio, a me non lice uno straniero,

            Fosse di te men degno, avere a scherno;

            Che gli stranieri tutti ed i mendichi

            Vengon da Giove. Poco fare io posso,

            Poco potendo far servi che stanno

            Sempre in timor sotto un novello impero:

            Pure anco un picciol don grazia ritrova.

            Colui fraudAro del ritorno i numi,

            Che amor sincero mi portava, e dato

            Podere avrìami, e casa, e donna molto

            Bramata; e quanto al fin dolce signore

            A servo dà, che in suo pro sudi, e il cui

            Travaglio prosperar degnino i dèi,

            Come arridono al mio. Certo ei giovato,

            Se incanutiva qui, molto m'avrebbe.

            Ma perì l'infelice. Ah perché tutta

            D'Elena in vece non perì la stirpe,

            Che di cotanti eroi sciolse le membra?

            Quel prode anch'ei volger le prore armato,

            per l'onor degli Atridi, a Troia volle”.

              Detto così, la tunica si strinse

            Col cinto, ed alle stalle in fretta mosse,

            E, tolti due dalla rinchiusa mandra

            Giovinetti porcelli, ambo gli uccise,

            Gli abbronzò, gli spartì, negli appuntati

            Spiedi gl'infisse: indi, arrostito il tutto,

            Caldo e fumante negli stessi spiedi

            Recollo, e il pose al Laerzìade innanzi,

            E di farina candida l'asperse.

            Ciò fatto, e in tazza d'ellera mesciuto

            L'umor dolce dell'uva, a lui di fronte

            S'assise, e rincorollo in questa forma:

            “Su via, quel mangia, o forestier, che a servi

            Lice imbandir, di porcelletti carne:

            Quando i più grandi corpi ed i più pingui

            Li divorano i proci, a cui non entra

            Pietade in petto, né timor de' numi.

            Ma non aman gli dèi l'opre malvage,

            E il giusto ricompensano ed il retto.

            Quelli che armati su le altrui riviere

            Scendono, e a cui tornar Giove consente

            Co' legni carchi alla natìa contrada,

            Spavento ad essi ancor delle divine

            Vendette passa nel rapace spirto.

            Certo, per voce umana o per divina,

            Han della morte del mio re contezza,

            Poiché né gareggiar, come s'addice,

            Per la sua donna, né ai dominî loro

            Voglionsi ricondur; ma gli altrui beni

            Senza pudore alcun struggono in pace.

            Giove dì o notte non produce, in cui

            Una vittima o due paghi li renda

            E il più scelto licor bevono a oltraggio.

            Dovizia molta ei possedea, qual venti,

            Sul continente o in Itaca, mortali

            Non felicita insieme. Udirla vuoi?

            Dodici armenti nell'Epiro, e tante

            Di pecorelle greggi e di maiali

            Pastori a guardia. In Itaca serragli

            Di capre undici, e larghi, e nell'estremo

            Tutti della campagna, e con robusti

            Custodi, che ogni dì recano ai drudi

            Qual nel vasto capril veggion più grassa

            Bestia, e più bella. Io sovra i porci veglio,

            E della mandra il fior sempre lor mando”.

              Ulisse intanto, senza dir parola,

            Tutto in cacciar la fame era e la sete,

            E i mali ai proci macchinava in petto.

            Rinfrancati ch'egli ebbe i fiacchi spirti,

            Eumèo la tazza, entro cui ber solea,

            Colma gli porse, ed ei la prese, e questi

            Detti, brillando in core, ad Eumèo volse:

            “Amico, chi l'uom fu sì ricco e forte,

            Che del suo ti comprò, come racconti?

            Morto tu il dici per l'Atride. Io forse

            Conòbbilo. Il Saturnio e gli altri numi

            Sanno s'io di lui visto alcuna posso

            Contezza darti, io, che vagai cotanto”.

              “Vecchio”, rispose Eumèo, d'uomini capo,

            “Pellegrin che venisse oggi il ritorno

            Del Rege a nunzïar, né la sua donna

            Gli crederebbe, né il diletto figlio:

            Troppo usati a mentir son questi erranti,

            Che mestieri han d'asilo. Un non ne giunge,

            E alla reina mia non si presenta,

            Che false cose non favelli, o vane.

            Tutti ella accoglie con benigno aspetto,

            Cento cose domanda, e dalle ciglia

            Le cadono le lagrime: costume

            Di donna, cui morì lo sposo altrove.

            E chi m'accerta che tu ancor, buon vecchio,

            Una favola a ordir non fossi pronto,

            Dove tunica e manto altri ti desse?

            Ma i cani, io temo, ed i veloci augelli

            Tutta dall'ossa gli staccar la cute,

            O i pesci il divoraro, e l'ossa ignude

            Giaccion sul lido nell'arena involte.

            Cosi perìo, lungo agli amici affanno

            Lasciando, ed a me più, che, ovunque io vada,

            Non ispero trovar bontà sì grande,

            Non, se del padre e della madre al dolce

            Nativo albergo io riparassi. È vero

            Che rivederli ardentemente io bramo

            Nella terra natìa: pur men li piango

            D'Ulisse, ond'io l'assenza ognor sospiro

            Ospite, così appena io nomar l'oso,

            Benché lontan da me: tanto ei m'amava,

            Tal pigliava di me cura e pensiero.

            Maggior fratello, dopo ancor la cruda

            Sua dipartita, io più sovente il chiamo”.

              “Dunque”, l'eroe riprese, “al suo ritorno

            Non credi, e stai sul niego? Ed io ti giuro

            Che Ulisse riede; né già parlo a caso.

            Ma tu la strenna del felice annunzio

            M'appresta, bella tunica, bel manto

            Di cui mi coprirai, com'egli appaia.

            Prima, sebben d'ogni sostanza scusso,

            Nulla io riceverei: ché delle inferne

            Porte al par sempre io destai chi, vinto

            Dalla sua povertade, il falso vende.

            Chiamo il Saturnio in testimonio, chiamo

            L'ospital mensa, e dell'egregio Ulisse

            Il venerando focolar, cui venni:

            Ciò ch'io dico, avverrà. Quest'anno istesso,

            L'un mese uscendo o entrando l'altro, il piede

            Ei metterà nella sua reggia, e grande

            Di chïunque il figliuolo, e la pudica

            Donna gli oltraggia, prenderà vendetta”.

              E tu in risposta gli dicesti, Eumèo:

            “Né strenna, o vecchio, io ti darò, né Ulisse

            Metterà più nella sua reggia il piede.

            Su via, tranquillo bevi, e ad altra cosa

            Voltiam la lingua: ché mi cruccia troppo

            Di sì nobil signor la rimembranza.

            Lasciam da parte i giuramenti, e Ulisse

            Venga, qual bramiam tutti, io, la Regina,

            E l'antico Laerte, e il pari a un nume

            Telemaco, per cui tremando io vivo.

            Questo fanciullo, che d'Ulisse nacque,

            E cui poscia, qual pianta in florid'orto,

            Crebber gli dèi, sì ch'io credea che il padre

            Di senno agguaglierìa, come d'aspetto,

            La dritta mente or degli eterni alcuno

            Gli offese, io penso, o de' mortali. Ei mosse,

            L'orme paterne investigando, a Pilo,

            E agguati i proci tendongli al ritorno,

            Perché tutto d'Arcesio il sangue manchi.

            Or né di questo più: trarranlo a morte

            Forse i nemici, o forse a vôto ancora

            Le insidie andranno, e la sua destra Giove

            Sul capo gli terrà. Ma tu gli affanni

            Tuoi stessi, o vecchio, e il tuo destin mi narra

            Chi sei tu? Donde sei? Dove i parenti?

            Dove la tua città? Quai ti menaro

            Nocchieri, e di qual guisa, e con qual nave?

            Certo in Itaca il piè non ti condusse”.

              “Tutto”, rispose lo scaltrito Ulisse,

            “Schiettamente io dirò. Ma un anno intero,

            Che, fuori uscito a sue faccende ogni altro,

            Da noi si consumasse ad una lauta

            Nel padiglione tuo mensa tranquilla,

            Per raccontar non basterìa le pene

            Di cui tessermi ai dèi piacque la vita.

            Patria m'è l'ampia Creta, e mi fu padre

            Ricco uom, cui di legittima consorte

            Molti nacquero in casa e crebber figli.

            Me compra donna generò, né m'ebbe

            Men per ciò de' fratelli il padre in conto,

            L'Ilacide Castòr, di cui mi vanto

            Sentirmi il sangue nelle vene, e a cui

            Per fortuna, dovizia e illustre prole

            Divin rendeasi dai Cretesi onore.

            Sorpreso dalla Parca, e ad Aide spinto,

            Tra sé partiro le sostanze i figli.

            Gittate in pria le sorti, e me di scarsa

            Provvigion consolaro, e d'umil tetto.

            Ma donna io tolsi di gran beni in moglie,

            E a me solo il dovei, però ch'io vile

            Non fui d'aspetto, nè fugace in guerra.

            E benché nulla oggi mi resti, e gli anni

            M'opprimano ed i guai, la mêsse, io credo,

            Può dalla paglia ravvisarsi ancora.

            Forza tra l'armi e ardir Marte e Minerva

            Sempre infusero a me, quando i migliori

            Per gli agguati io scegliea contra i nemici:

            O allor che primo, e senza mai la morte

            Dinanzi a me veder, nelle battaglie

            Mi scagliava, e color che dal mio brando

            Si sottraeano, io raggiungea con l'asta.

            Tal nella guerra io fui. Me della pace

            Non dilettavan l'arti, o della casa

            Le molli cure e della prole. Navi

            Dilettavano e pugne, e rilucenti

            Dardi, e quadrelli acuti: amare, orrende

            Cose per molti, a me soavi e belle,

            Come vari dell'uom sono i desiri.

            Prima che la Greca oste Ilio cercasse,

            Nove fïate io comandai sul mare

            Contra gente straniera; e la fortuna

            Così m'arrise, che tra ciò che in sorte

            Toccommi della preda, e quel ch'io stesso

            A mio senno eleggea, rapidamente

            Crebbe il mio stato, e non passò gran tempo

            Che in sommo pregio tra i Cretesi io salsi.

            Ma quando Giove quel fatal viaggio

            Prescrisse, che mandò tante alme a Pluto,

            A me de' legni ondivaghi, ed al noto

            Per fama Idomenèo, diero il governo,

            Né modo v'ebbe a ricusar: sì grave

            Il popolo e sì ardita ergea la voce.

            Colà nove anni pugnavam noi Greci,

            E nel decimo al fin, Troia combusta,

            Ritornavamo; e ci disperse un nume.

            Se non che Giove una più ria ventura

            Contra me disegnò. Passato un mese

            Tra i figli cari appena e la diletta

            Sposa che vergin s'era a me congiunta,

            Novella brama dell'Egitto ai lidi

            Con egregi compagni, e su navigli

            Ben corredati a navigar m'indusse.

            Nove legni adornai; né a rïunirsi

            Tardò l'amica gente, a cui non poche

            Pe' sacrifizi loro e pe' conviti,

            Che durâro sei dì, vittime io dava.

            La settim'alba in orïente apparsa,

            Creta lasciammo, e con un Borea in poppa

            Sincero e fido, agevolmente, e come

            Sovra un fiume a seconda, il mar fendemmo.

            Nave non fu né leggermente offesa,

            E noi sicuri sedevam, bastando

            I timonieri al nostro uopo ed il vento.

            Presa il dì quinto la bramata foce

            Del ricco di bell'onda Egitto fiume

            Io nel fiume arrestai le veleggianti

            Navi, e ai compagni comandai che in guardia

            De' legni rimanessero, e la terra

            Gissero alcuni ad esplorar dall'alto.

            Ma questi, da un ardir folle e da un cieco

            Desìo portati, a saccheggiar le belle

            Campagne degli Egizi, a via menarne

            Le donne e i figli non parlanti, i grami

            Coltivatori a uccidere. Ne giunse

            Tosto il rumore alla città, né prima

            L'aurora comparì, che i cittadini

            Vennero, e pieno di cavalli e fanti

            Fu tutto il campo, e del fulgor dell'armi.

            Cotale allora il Fulminante pose

            Desir di fuga de' compagni in petto,

            Che un sol far fronte non osava: uccisi

            Fur parte, e parte presi, e ad opre dure

            Sforzati; e ovunque rivolgeansi gli occhi,

            Un disastro apparìa. Ma il Saturnide

            Nuovo consiglio m'ispirò nel core.

            (Deh, perché nell'Egitto anch'io non caddi,

            Se nuovi guai m'apparecchiava il fato?)

            Io l'elmo dalla testa al suol deposi,

            Dagli omeri lo scudo, e gittai lunge

            Da me la lancia: indi ai cavalli incontro

            Corsi e al cocchio del re, strinsi e baciai

            Le sue ginocchia; ed ei serbommi in vita.

            Compunto di pietà, me che piagnea

            Levò nel cocchio, e al suo palagio addusse.

            È ver che gli altri m'assalìan con l'aste

            Di rabbia accesi, e mi voleano estinto.

            Ma il re lontani e con cenni e con voci

            Teneali per timor dell'ospitale

            Giove, che i supplicanti, a cui mercede

            Dall'uom non s'usi, vendicar suol sempre.

            Sett'anni io colà vissi, e assai tesori

            Raccolsi: doni mi porgea chïunque.

            Poi, volgendo l'ottavo anno, un Fenice

            Comparve, uom fraudolento, e di menzogne

            Gran fabbro, che già molti avea tradito.

            Nella Fenicia a seguitarlo, dove

            Casa e poderi avea, costui piegommi;

            E seco io dimorai di sole un giro.

            Ma, rivolto già l'anno, e le stagioni

            Tornate in sé col trapassar de' mesi,

            Ed il cerchio dei dì lunghi compiuto,

            Far vela volle per la Libia, e finse

            Non poter senza me carcar la nave.

            Che nave? in Libia vendermi a gran prezzo

            Pensava il tristo. Io che potea? Costretto,

            Di nuovo il seguitai: benché del vero

            Mi trascorresse per la mente un lampo.

            Su Creta sorse il rapido naviglio,

            Che un gagliardo Aquilon feriva in poppa,

            Mentre gli ordìa l'ultimo eccidio Giove.

            Già né più Creta si vedea, né altra

            Terra, ma cielo in ogni parte, o mare,

            Quando il Fulminator sul nostro capo

            Sospese d'alto una cerulea nube,

            Sotto a cui tutte intenebrarsi l'acque.

            Tonò più volte, e al fin lanció il suo telo

            Contra la nave, che del fiero colpo

            Si contorse, s'empieo di zolfo, e tutti

            Ne cadettero giù. Quai corvi, intorno

            Le s'aggiravan su per l'onde, e Giove

            Lor togliea con la patria anco la vita.

            Salvò me solo nel mortal periglio:

            Ché alle mani venir mi fece il lungo

            Albero della nave, a cui m'attenni,

            E così mi lasciai su i tempestosi

            Flutti portar per nove giorni ai venti:

            Finché la notte decima mi spinse

            De' Tespròti alla terra il negro fiotto.

            Qui de' Tespròti il Sir, l'eroe Fidone,

            Generoso m'accolse. A sorte il figlio

            Sul lido mi trovò tutto tremante

            Di freddo, e omai dalla fatica vinto,

            E, con man sollevatomi, del padre

            Al real tetto mi condusse, e pormi

            Tunica e manto si compiacque in dosso.

            Quivi io d'Ulisse udii. Diceami il Rege,

            Ch'ei l'accolse, e il trattò cortesemente

            Nel suo ritorno alle natìe contrade:

            E il rame e l'ôr mostravami, ed il ferro,

            E quanto al fin di prezïoso e bello

            Ulisse avea raccolto, e nella reggia

            Deposto; forza, che per dieci etadi

            Padri e figliuoli a sostener bastava.

            E aggiungea, che a Dodona era passato,

            Per Giove consultare, e udir dall'alta

            Quercia indovina, se ridursi ai dolci

            Colli d'Itaca sua dopo sì lunga

            Stagion dovea palesemente, o ignoto.

            Poi, libando, giurò ch'era nel mare

            Tratta la nave, e i remiganti pronti,

            Per rimenarlo in Itaca. Ma prima

            Me stesso accommiatò: ché per ventura

            Al ferace Dulichio un legno andava

            Di nocchieri Tespròti. Al Rege Acasto

            Costor dovean raccomandarmi, e in vece

            Un consiglio tessean, perch'io cadessi

            Novamente ne' guai. Come lontano

            Da terra fu l'ondivagante legno,

            Il negro m'apparì giorno servile.

            Tunica e manto mi spogliaro, e questi

            In dosso mi gettâr laceri panni,

            E, venuti all'amena Itaca a notte

            Me nella nave con ben torta e salda

            Fune legaro. Indi n'usciro, e cena

            Frettolosa del mar presero in riva.

            Ma un nume ruppe i miei legami; ed io

            Giù sdrucciolai pel timon liscio; al mare

            Mi consegnai col petto, e ad ambe mani

            Nôtando remigai sì, che in brev'ora

            Fuori di lor vista io fui. Giunsi, ove bella

            Sorgea di querce una foresta, e giacqui.

            Quei, di me con dolore in traccia mossi,

            Né credendo cercarne invan più oltre,

            Si rimbarcaro, e me gl'Iddii, che ascoso

            Facilmente m'avean, d'un uom saputo

            Guidâr benigni al pastoreccio albergo,

            poiché in vita il destin mi vuole ancora”.

              E tal fu a lui la tua risposta, Eumèo:

            “O degli ospiti misero, tu l'alma

            Mi commovesti addentro, i tuoi vïaggi

            Narrando, e i mali tuoi. Sol ciò non lodo,

            Che d'Ulisse dicesti, e non tel credo,

            Perché, degno uom qual sei, mentire indarno?

            So anch'io pur troppo, qual del suo ritorno

            Speme nodrir si possa, e l'infinito,

            Che gli portano i numi, odio io conosco.

            Quindi ei non cadde, combattendo, a Troia,

            O degli amici in sen dopo la guerra.

            Sepolto avrianlo nobilmente i Greci,

            E dalla tomba sua verrìa un rilampo

            Di gloria al suo figliuol: ma inonorato

            Le Arpie crudeli sel rapiro in vece.

            Tale io ne provo duol, che appo la mandra

            Vivomi occulto, ed a città non vado,

            Se non quando Penelope, comparso

            Da qualche banda con novelle alcuno,

            Chiamami a sé per caso. Allora stanno

            Tutti d'intorno allo straniero, e mille

            Gli fan domande, così quei che doglia

            Dell'assenza del re sentono in petto,

            Come color che gioia; e le sostanze

            Ne distruggon frattanto in tutta pace.

            Ma io domande far dal dì non amo,

            Che mi deluse un vagabondo Etòlo,

            Reo d'omicidio, che al mio tetto giunse.

            Molto io l'accarezzava, ed ei mi disse

            Che presso Idomenèo nell'ampia Creta

            Veduto avealo risarcir le navi

            Dalla procella sconquassate, e aggiunse

            Che l'estate o l'autunno al suo paese

            Capiterìa ben compagnato e ricco.

            Or non volermi e tu, vecchio infelice,

            Con falsi detti, poiché un dio t'addusse

            Molcere o lusingar: ché non per questo

            Ben trattato sarai, ma perché temo

            L'ospital Giove, e che ho di te pietade”.

              “Un incredulo cor”, rispose Ulisse

            “Tu chiudi in te, quando a prestarmi fede

            Né co' miei giuramenti indurti posso

            Su via, férmisi un patto, e testimoni

            Ne sien dall'alto gl'immortali dèi.

            Riederà il tuo signor, com'io predissi?

            Tunica e manto vestimi, e a Dulichio

            Mi manda, ov'io da molti giorni ir bramo.

            Ma s'ei non torna, eccita i servi, e getta

            Me capovolto da un'eccelsa rupe,

            Sì che più non ti beffi alcun mendico”.

              “Gran merto in vero, e memorabil nome,”

            Il pastor ripigliò, m'acquisterei

            “Appo la nostra e la ventura etade

            E, ricevuto avendoti, e trattato

            Ospitalmente, io t'uccidessi, e fuori

            Ti traessi del sen l'anima cara!

            Come franco io potrei preghiere a Giove

            Porgere allora! Or della cena è il tempo

            I miei compagni entreran tosto, e lauta

            S'appresterà nel padiglion la mensa”.

              Così tra lor diceano; ed ecco il nero

            Gregge, e i garzoni che ne' suoi serragli

            Metteanlo: immenso delle pingui troie,

            Che andavansi a corcar, sorse il grugnito.

            Ratto ai compagni favellava Eumèo:

            “L'ottimo a me de' porci, affinché muoia

            Pel venuto di lungi ospite, e un tratto

            Noi pur festa facciam, noi, che soffriamo

            Per questo armento dalle bianche sanne,

            Mentre in riposo e in gioia altri le nostre

            Fatiche si divorano e gli affanni”.

              Detto così, con affilata scure

            Quercia secca recise, e quelli un grasso

            D'anni cinque d'età porco menaro,

            E al focolare il collocâr davanti.

            Né de' celesti Eumèo, che molto senno

            Nutriva in sé, dimenticossi. I peli

            Dal capo svelti del grugnante, in mezzo

            Gittolli al foco, e innalzò voti ai numi

            Pel ritorno d'Ulisse. Indi un troncone

            Della quercia ch'ei fèsse, alto levando,

            Percosse e senza vita a terra stese

            La vittima. I garzoni ad ammazzarla,

            Ad abbronzarla e a farla in pezzi; ed egli

            I crudi brani da ogni membro tolti

            Parte metteali su l'omento, e parte,

            Di farina bianchissima cospersi

            Consegnavali al foco. Il resto tutto

            Poi sminuzzâro, e l'abbrostîro infisso

            Con modo acconcio negli spiedi; e al fine

            Dagli spiedi cavato in su la mensa

            Poserlo. Eumèo, che sapea il giusto e il retto,

            Surse, e il tutto divise in sette parti:

            Offrì l'una alle Ninfe, ed al figliuolo

            Di Maia, e l'altre a ciascun porse in giro.

            Ma dell'intera del sannuto schiena

            Solo Ulisse onorava, e gaudio in petto

            Spandea del sire, che diceagli: “Eumèo,

            Così tu possa caro al padre Giove

            Viver, qual vivi a me, poiché sì grande

            Nello stato, in ch'io son, mi rendi onore”.

              E tu dicesti, rispondendo, Eumèo:

            “O preclaro degli ospiti, ti ciba,

            E di quel godi, che imbandirti io valgo

            Concede, o niega, il correttor del mondo,

            Come gli aggrada più: ché tutto ei puote.

              Ciò detto, ai numi le primizie offerse;

            E, libato ch'egli ebbe, in man d'Ulisse,

            Che al suo loco sedea, pose la tazza.

            Mesaulio, ch'ei del proprio, e nol sapendo

            Né la regina né Laerte, avea,

            Mentre lungi era il sir, compro dai Tafi,

            Il pane dispensò. Stendeano ai cibi

            La mano; e, paga del mangiar la voglia,

            Paga quella del ber, Mesaulio il pane

            Raccolse, e gli altri a dar le membra al sonno

            Ristorati affrettavansi e satolli.

            Fosca sorvenne e disastrosa notte:

            Giove piovea senza intervallo, e fiero

            Di ponente spirava un vento acquoso.

            Ulisse allor, poiché vedeasi tanto

            Carezzato da Eumèo, tentare il volle,

            Se gli prestasse il proprio manto, o almeno

            Quel d'alcun de' compagni aver gli fesse:

            “Eumèo”, diss'egli, “ascoltami, e i compagni

            M'ascoltin tutti. Io millantarmi alquanto

            Voglio qual mi comanda il folle vino,

            Che talvolta i più saggi a cantar mosse

            Più in là d'ogni misura, a mollemente

            Rider, spiccar salti improvvisi, ed anche

            Quello a parlar, ch'era tacere il meglio.

            Ma dacché un tratto a cicalare io presi,

            Nulla io terrò nel petto. Oh di quel fiore

            Fossi, e tornassi in quelle forze, ch'io

            Sentìami al tempo che sott'Ilio agguati

            Tendemmo, Ulisse ed il secondo Atride,

            E, così ad essi piacque, io terzo duce!

            Tosto che alla cittade e all'alte mura

            Vicini fummo, tra i virgulti densi,

            E nelle canne paludose a terra

            Giacevam sotto l'armi. Impronta notte

            Ci assalse: un crudo tramontan soffiava,

            Scendea la neve, qual gelata brina,

            E gli scudi incrostava il ghiaccio. Gli altri,

            Che manti avevano e tuniche, tranquilli

            Dormìan, poggiando alle lor targhe il dosso

            Ma io, partendo dai compagni, il manto

            Nella stoltezza mia lasciai tra loro,

            Non isperando un sì pungente verno;

            E una tunica, un cingolo e uno scudo

            Meco sol tolsi. Della notte il terzo

            Era, e gli astri cadevano, e ad Ulisse,

            Che mi giacea da presso, io tai parole,

            Frugandolo del gomito, rivolsi:

            "Illustre e scaltro di Laerte figlio,

            Così mi doma il gel, ch'io più tra i vivi

            Non rimarrò. Mi falla un manto. Un dio,

            Che mi deluse, di vestirmi solo

            La tunica inspirommi. Or quale scampo?"

              Ei, le parole udite un suo partito

            Scelse di botto, come quei che meno

            Ai consigli non fu, che all'armi, pronto:

            "Taci", rispose con sommessa voce,

            Che alcun Greco non t'oda. "E poi, del braccio

            Facendo e della man sostegno al mento:

            "Amici, disse, un sogno, un divin sogno,

            Dormendo m'avvertì, che dilungati

            Troppo ci siam dalle veloci navi.

            Quindi al pastor di genti Agamennòne

            Corra un di noi, perché, se ben gli sembra,

            Ne mandi altri guerrieri e ne rinforzi".

              Disse, e Toante, d'Andremòne il figlio,

            Sorse, e corse al navil, deposto prima

            Il purpureo suo manto; ed io con gioia

            Men cinsi, e vi stetti entro, in sin che apparve

            Sul trono d'ôr la ditirosea Aurora.

            Se quel fior, quelle forze io non piangessi,

            Me forse alcun de' tuoi compagni, Eumèo,

            Per riverenza e amore ad un buon vecchio,

            Di manto fornirìa: ma or veggendo

            Questi miei cenci, ciascun tiemmi a vile”.

              Tu così, Eumèo, gli rispondesti allora:

            “Bella fu, amico, la tua storia, e un motto

            Non t'usci dalle labbra o sconcio o vano.

            Però di veste o d'altro, che infelice

            Merta supplicante uomo, in questa notte

            Difetto non avrai. Ma, nato il sole,

            T'adatterai gli usati panni intorno.

            Poche son qui le cappe, e a suo piacere

            Di tunica non puote alcun mutarsi:

            Star dee contento ad una sola ognuno.

            Come giunto sarà d'Ulisse il figlio,

            Ei di vestirti e di mandarti, dove

            Ti consiglia il tuo cor, pensier darassi”.

              S'alzò, così dicendo, e presso al foco

            Poneagli il letto, e di montoni e capre

            Pelli stendeavi, in che l'eroe sdraiossi;

            E d'un largo il coprì suo denso manto,

            Ch'egli a se stesso circondar solea

            Quando turbava il ciel fiera tempesta.

            Così là giacque Ulisse; e accanto a lui

            Si corcâro i garzoni: ma corcarsi

            Disgiunto da' suoi verri Eumèo non volle.

            Fuori uscito ei s'armava; e Ulisse in core

            Gioìa, mirando lui del suo re tanto

            Curare i beni, benché lungi il creda.

            Prima ei sospese agli omeri gagliardi

            L'acuta spada: indi a sé intorno un folto

            Manto gittò, che il difendea dal vento;

            Tolse una pelle di corputa e grassa

            Capra; e un pungente dardo in man recossi,

            Degli uomini spavento e de' mastini.

            Tale s'andò a corcar, dove protetti

            Dal soffio d'Aquilone i setolosi

            Verri dormìan sotto una cava rupe.

             

             


            LIBRO QUINDICESIMO

             

             

              Nell'ampia Lacedèmone Minerva

            Entrava intanto ad ammonir d'Ulisse

            L'inclita prole, che di far ritorno

            Alle patrie contrade era già tempo.

            Trovollo che giacea di Menelao

            Nell'atrio con Pisistrato. Ingombrava

            Un molle sonno di Nestorre il figlio:

            Ma l'Ulisside, cui l'incerta sorte

            Del caro padre fieramente turba,

            Pensavane ad ognora, e invan per lui

            D'alto i balsami suoi spargea la notte.

              La dea, che azzurri gli occhi in giro muove,

            Appressollo, e: “Telemaco”, gli disse,

            “Non fa per te di rimanerti ancora

            D'Itaca fuori, e lungi dall'altera

            Turba malnata degli arditi proci,

            Che, divisa tra lor la tua sostanza

            Divorinsi al fin tutto, e, non che vano,

            Dannoso a te questo vïaggio torni.

            Lèvati, e pressa il valoroso Atride

            Di congedarti, onde nel tuo palagio

            Trovi la madre tua, che Icario il padre

            Co' fratelli oggimai sforza alla mano

            D'Eurimaco, il qual cresce i maritali

            Doni, e ogni suo rival d'àmbito vince.

            Guarda non del palagio, a tuo dispetto,

            Parte de' beni con la madre t'esca:

            Però che sai qual cor s'abbia ogni donna:

            Ingrandir brama del secondo sposo

            La nuova casa; e de' suoi primi figli

            E di colui che vergin impalmolla

            Non si rammenta più, più non ricerca,

            Quando ei nel buio della tomba giace.

            Tu, partita la madre, a quale ancella

            Più dabbene ti sembri e più sentita,

            Commetti il tutto, finché illustre sposa

            Ti presentino al guardo i dèi clementi.

            Altro dirotti, e il riporrai nel core.

            Degli amanti i più rei, che tôr dal mondo

            Prima vorrìanti che alla patria arrivi,

            Nel mar tra la pietrosa Itaca e Same

            Stanno in agguato. Io crederò che indarno,

            E che la terra pria l'ossa spolpate

            De' tuoi nemici chiuderà nel seno.

            Non pertanto la nave indi lontana

            Tieni, e notturno naviga: un amico

            Vento t'invïerà quel tra gli eterni,

            Chïunque sia, che ti difende e guarda.

            Come d'Itaca giunto alla più estrema

            Riva sarai, lascia ir la nave, e tutti

            Alla città i compagni; e tu il custode

            Cerca de' verri, che un gran ben ti vuole.

            Seco passa la notte, ed in sull'alba

            Mandal significando alla Regina,

            Che a lei da Pilo ritornasti illeso”.

            Ciò detto, in un balen salse all'Olimpo.

              Egli l'amico dal suo dolce sonno,

            Urtandolo del pie', subito scosse,

            E gli drizzò queste parole: “Sorgi,

            Pisistrato, ed al cocchio i corridori

            Solidounghiati sottoponi e accoppia,

            Se anche il viaggio nostro aver dee fine”.

              “Telemaco”, il Nestoride rispose,

            “Benché ci tardi di partir, non lice

            Dell'atra notte carreggiar per l'ombre.

            Poco l'Aurora tarderà. Sostieni

            Tanto almen che il di lancia esperto Atride

            Ponga nel cocchio gli ospitali doni,

            E gentilmente ti licenzi. Eterna

            L'ospite rimembranza in petto serba

            Di chi un bel pegno d'amistà gli porse”.

            Disse; e nel trono d'ôr l'Aurora apparve.

              Il prode Menelao, di letto allora

            Sorto e d'allato della bella Elèna,

            Venne alla volta lor; né prima il caro

            Figliuol d'Ulisse l'avvisò, che in fretta

            Della lucente tunica le membra

            Cinse e gittò il gran manto a sé d'intorno,

            Ed uscì fuori, e l'abbordò e gli disse:

            “Figlio d'Atrèo, di Giove alunno, duce

            Di genti, me rimanda oggi al diletto

            Nativo ciel, cui già con l'alma io volo”.

              “Telemaco”, rispose il forte Atride,

            “Io ritenerti qui lunga stagione

            Non voglio a tuo mal cuore. Odio chi suole

            Gli ospiti suoi festeggiar troppo, o troppo

            Spregiarli: il meglio sempre è star nel mezzo.

            Certo peccan del par chi discortese

            L'ospite caccia di restar bramoso,

            E chi bramoso di partir l'arresta.

            Carezzalo indugiante, e quando scorgi

            Che levarsi desìa, dágli commiato.

            Tanto dimora sol, ch'io non vulgari

            Doni nel cocchio, te presente, ponga,

            E comandi alle femmine che un pronto

            Conforto largo di serbate dapi

            T'apprestin nella sala. È glorïoso

            Del par che utile a te dell'infinita

            Terra su i campi non passar digiuno.

            Vuoi tu aggirarti per la Grecia e l'Argo?

            Giungerò i miei destrieri, e alle diverse

            Città ti condurrò: treppiede o conca

            Di bronzo o due bene appaiati muli,

            O vaga d'oro effigïata tazza,

            Ci donerà ciascuno, e senza doni

            Cittade non sarà che ci accommiati”.

              Telemaco a rincontro: “Menelao,

            Di Giove alunno, condottier di genti,

            Nel mio palagio, ove nessun che il guardi,

            Partendone, io lasciai, rieder mi giova,

            Acciocché, mentre il padre indarno io cerco,

            Tutti io non perda i suoi tesori e i miei”.

              Udito questo, ad Elena e alle fanti

            L'Atride comandò s'apparecchiasse

            Subita e lauta mensa. Eteonèo,

            Che poco lungi dal suo re dormìa,

            Sorto appena di letto, a lui sen venne;

            E il foco suscitar, cuocer le carni

            Gl'impose Menelao: né ad ubbidirgli

            Tardò un istante di Boete il figlio.

            Nell'odorata solitaria stanza

            Menelao scese, e non già sol: ché seco

            Scesero Elèna e Megapente. Giunti

            Là 've la ricca suppellettil giace,

            Tolse l'Atride biondo una ritonda

            Gemina coppa, e di levare un'urna

            D'argento al figlio Megapente ingiunse.

            Ma la donna fermossi all'arche innanzi,

            Ove i pepli giacean che da lei stessa

            Travagliati già fûro, e varïati

            Con ogni sorta d'artificio. Elèna

            Il più ampio traeane, ed il più bello

            Per molteplici fregi: era nel fondo

            Dell'arca, e sì rilusse in quel che alzollo,

            Che stella parve che dai flutti emerga.

            Con tai doni le stanze attraversaro,

            Finché fûro a Telemaco davante,

            Cui questi accenti Menelao converse:

            “Fortunato così, come tu il brami,

            Ti consenta, o Telemaco, il ritorno

            L'altitonante di Giunon marito.

            Io di quel che possiedo, a te dar voglio

            Ciò che mi sembra più leggiadro e raro:

            Un'urna effigïata, argento tutta,

            Se non quanto su i labbri oro gialleggia,

            Di Vulcano fattura. Il generoso

            Re di Sidone Fèdimo donolla

            A me, che d'Ilio ritornava, e cui

            Ricettò ne' suoi tetti; e a te io la dono.

              L'Atride in mano gli mettea la tonda

            Gèmina coppa: Megapente ai piedi

            Gli recò l'urna sfolgorante; e poi

            Elena, bella guancia, a lui di contra

            Stette col peplo su le braccia e disse:

            “Ricevi anco da me, figlio diletto,

            Quest'altro dono, e per memoria tienlo

            Delle mani d'Elèna. Alla tua sposa

            Nel sospirato dì delle sue nozze

            Le membra coprirà. Rimanga intanto

            Della prudente genitrice in guardia;

            E tu alla patria terra e alle superbe

            Case de' padri tuoi giungi felice”.

            Ei con gioia sel prese: e i doni tutti,

            Poiché ammirata la materia e l'arte

            N'ebbe, allogò Pisistrato nel carro.

            Quindi l'Atride dalla bionda testa

            Ambi condusse nella reggia, dove

            Sovra i troni sedettero. L'ancella

            Subitamente da bel vaso d'oro

            Nell'argenteo bacile acqua lucente

            Spandea, stendea desco polito, in cui

            La veneranda dispensiera i bianchi

            Pani venne ad imporre, e non già poche

            Delle dapi serbate, ond'è custode.

            Eteonèo partìa le carni, e il vino

            Megapente versava; e i due stranieri

            La mano all'uno e all'altro ivan porgendo.

            Ma come sazi della mensa fûro,

            Aggiogaro i cavalli, e la vergata

            Biga pronti salîro, e l'agitaro

            Fuor dell'atrio e del portico sonante.

            Uscì con essi Menelao, spumosa,

            Perché libasser pria, ciotola d'oro

            Nella destra tenendo, e de' cavalli

            Fermossi a fronte, e, propinando, disse:

            “Salute, o prodi giovinetti, a voi

            Ed al pastor de' popoli salute

            Per vostra bocca, a Nestore, che fummi

            Dolce, qual padre, sotto i Teucri muri”.

              Ed il saggio Telemaco a rincontro:

            “Tutto, non dubitar, di Giove alunno,

            Saprà il buon vecchio. Oh potess'io non manco,

            Tosto ch'io sarò in Itaca, ad Ulisse

            Mostrare i tanti e così ricchi doni

            Ch'io da te ricevetti, e raccontargli

            Quale accoglienza io n'ebbi e qual commiato!”

              Tal favellava; e a lui di sopra e a destra

            Un'aquila volò, che bianca e grande

            Domestica oca con gli adunchi artigli

            Dalla corte rapia. Dietro gridando

            Uomini e donne le correan: ma quella

            S'accostò pur da destra ai due garzoni,

            E davanti ai destrier rivolò in alto.

            Tutti gioiro a cotal vista, e primo

            Fu Pisistrato a dir: “Nobile Atride,

            Pensa in te stesso, se a te forse o a noi

            Tal prodigio invïâro i sempiterni”.

              Ei la risposta entro da sé cercava;

            Ma l'antivenne la divina Elèna

            Dicendo: “Udite me. Quel ch'io indovino,

            Certo avverrà: ché me l'inspira un nume.

            Come questa valente aquila scesa

            Dal natìo monte, che i suoi parti guarda,

            Si rapì l'oca nel cortil nodrita,

            Non altrimenti Ulisse, alle paterne

            Case venuto da lontani lidi,

            Su i proci piomberà; se pur non venne,

            E lor non apparecchia orrida morte”.

              E Telemaco allor: “Così ciò voglia

            L'altitonante di Giunon marito,

            Come voti da me tu avrai, qual diva!”

            Disse, e i destrieri flagellò, che ratti

            Mosser per la cittade e ai campi usciro.

            Correan l'intero dì, squassando il giogo,

            Che ad ambi stava sul robusto collo.

            Tramontò il Sole ed imbrunìan le strade;

            E i due giovani a Fera, e alla magione

            Di Dïòcle, del prode figlio

            D'Orsìloco d'Alfèo, dove riposi

            Ebber tranquilli ed ospitali doni.

            Ma come al sole con le man rosate

            L'Aurora aperse le celesti porte,

            I cavalli aggiogaro, e risaliro

            La vergolata biga e l'agitaro

            Fuor dell'atrio e del portico sonante.

            Sferzò i destrier Pisistrato, e i destrieri

            Di buon grado volavano: né molto

            Stetter di Pilo ad apparir le torri.

              Allor così Telemaco si volse

            Al figliuol di Nestorre: “O di Nestorre

            Figliuol, non desti a me fede, che sempre

            Ciò tu faresti che mi fosse gioia?

            Paterni ospiti siam, siam d'un'etade,

            E più ancor ci unirà questo vïaggio.

            Non mi guidare oltra il naviglio mio;

            Colà mi lascia. Ritenermi il vecchio,

            Mal mio grado, appo sé di carezzarmi

            Desïoso, potrebbe: e a me bisogna

            Toccare in breve la natìa contrada”.

              Mentre così l'un favellava all'altro,

            Che d'attener la sua promessa i modi

            Discorrea con la mente, in questo parve

            Dover fermarsi. Ripiegò i destrieri

            Verso il mare e il naviglio; e i bei presenti,

            Onde ornato il compagno aveva l'Atride,

            Scaricò su la poppa. Indi: “Su via

            Monta”, disse, “di fretta, e a' tuoi comanda

            Pria la nave salir, che me il mio tetto

            Riceva, e il tutto al genitore io narri.

            So, qual chiuda nel petto alma sdegnosa:

            Ti negherà il congedo, in su la riva

            Verrà egli stesso, e benché senza doni

            Da lui, cred'io, tu non partissi, un forte

            Della collera sua scoppio io preveggo”.

              Dette tai cose, alla città de' Pili

            Spinse i destrieri dal leggiadro crine,

            E all'eccelsa magion rapido giunse.

              E Telemaco a' suoi: “Pronti la nave,

            Compagni, armate, e su montiamvi e andiamo”.

            L'ascoltâro, e ubbidiro. Immantinente

            Montava e s'assidea ciascun su i banchi.

            Ei, la partenza accelerando, a Palla

            Prieghi, alla poppa, e sagrifici offrìa;

              Quando, esul dalla verde Argo ferace,

            Per non voluta uccisïone ignoto

            Vïandante appressollo: era indovino,

            E di Melampo dalla stirpe sceso.

            Nella madre di greggi inclita Pilo

            Melampo prima soggiornava, e, come

            Ricco uom, superbo vi abitava ostello:

            Poi, fuggendo la patria ed il più illustre

            Tra gli uomini Nelèo, che i suoi tesori

            Un anno intiero riteneagli a forza,

            Capitò ad altre genti, e duri lacci

            Nell'albergo di Filaco, e dolori

            Gravi sostenne per la vaga figlia

            Di Nelèo e per l'audace opra, cui messa

            Gli aveva nel capo la tremenda Erinni.

            Ma scampò dalla morte, e a Pilo addusse

            Le contrastate altomugghianti vacche;

            Si vendicò dell'infedel Nelèo,

            E consorte al fratel la vaga Pero

            Da Filace menò. Quindi all'altrìce

            Di nobili destrieri Argo sen venne,

            Volendo il fato che su i molti Argivi

            Regnasse; sposa quivi scelse; al cielo

            Levò le pietre della sua dimora;

            E i forti generò Mantio e Antifáte.

            Di questo il grande Oiclèo nacque, e d'Oiclèo

            Il salvator di genti Anfiarao,

            Cui tanto amor Febo portava e Giove.

            Pur di vecchiezza non toccò la soglia:

            Ché, generati Anfiloco e Alcmeòne,

            Sotto Tebe perì, dalla più avara

            Donna tradito. Ma da Mantio al giorno

            Clito usciro e Polìfide. L'Aurora,

            Per la beltà che in Clito alta splendea,

            Rapillo, e il collocò tra gl'immortali;

            E Febo, spento Anfiarao, concesse

            Più che ad altr'uom, de' vaticini il dono

            A Polifide, il qual, crucciato al padre,

            Trapassò in Iperesia, ove a ciascuno

            Del futuro squarciar solea il velame.

              Figlio a questo era il pellegrin che stette

            Di Telemaco al fianco, e si chiamava

            Teoclimèno; appo la negra nave,

            Mentr'ei libava e supplicava, il colse,

            E a lui con voci alate: “Amico”, disse,

            “Poich'io ti trovo a questi uffici intento,

            Pe' sagrifizi tuoi, pel dio cui gli offri,

            Per lo tuo capo stesso e per cotesti

            Compagni tuoi, non mi nasconder nulla

            Di quanto io chiederò. Chi, e donde sei?

            Dove i parenti a te? e la patria dove?

              “Stranier”, così Telemaco rispose,

            “Su i labbri miei non sonerà che il vero.

            Itaca è la mia patria, il padre è Ulisse,

            Se un padre ho ancor: quel, di cui forte io temo.

            Però con negra nave e gente fida

            Partii, cercando per diversi lochi

            Novelle di quel misero, cui lunge

            Tien dalla patria sua gran tempo il fato”.

              E il pari ai dèi Teoclimèno: “Anch'io

            Lungi erro dalla mia, dacché v'uccisi

            Uom della mia tribù, che lasciò molti

            Parenti e amici prepossenti in Argo.

            Delle lor man vendicatrici uscito,

            Fuggo, e sieguo il destin che l'ampia terra

            Con pie' ramingo a calpestar mi tragge.

            Deh! su la nave tua me supplicante

            Ricovra, e da color che vengon forse

            Su i miei vestigi, tu, che il puoi, mi salva”.

              Il prudente Telemaco di nuovo:

            “Dalla mia nave, in cui salir tu brami,

            Esser non potrà mai ch'io ti respinga.

            Seguimi pur: non mancheranti in nave

            Quei, che di darti è in me, doni ospitali”.

              Ciò detto, l'asta dalla man gli prese,

            E della nave stésela sul palco.

            Poscia montovvi e sedé in poppa, e al fianco

            Seder si feo Teoclimèno. Sciolte

            Dai compagni le funi, ei lor impose

            Di correre agli attrezzi, ed i compagni

            Ratti ubbidiro: il grosso abete in alto

            Drizzaro, e l'impiantâro entro la cava

            Base, di corda l'annodaro al piede,

            E le candide vele in su tiraro

            Con bene attorti cuoi. La dea che in giro

            Pupille tinte d'azzurrino muove,

            Precipite mandò dal cielo un vento

            Destro, gagliardo, perché in brevi istanti

            Misurasse del mar l'onde il naviglio.

            Crune passò il buon legno, e la di belle

            Acque irrigata Calcide, che il sole

            Già tramontava ed imbrunìan le strade;

            E, spinto sempre da quel vento amico,

            Cui governava un dio, sopra Fea sorse,

            E di là costeggiò l'Elide, dove

            Regnan gli Epei. Quinci il figliuol d'Ulisse

            Tra le scoscese Echinadi si mise,

            Pur rivolgendo nel suo cor, se i lacci

            Schiverebbe de' proci, o vi cadrebbe.

              Ma in altra parte Ulisse e il buon custode,

            Sedean sott'esso il padiglione a cena,

            E non lunge sedean gli altri pastori.

            Pago de' cibi il natural talento,

            Ulisse favellò, tentando Eumèo,

            S'ei, non cessando dalle cure amiche,

            Ritenerlo appo sé nella sua cara

            Stalla intendesse o alla città mandarlo:

            “Eumèo”, disse, “m'ascolta; e voi pur tutti.

            Tosto che il ciel s'inalbi, alla cittade,

            Ond'io te non consumi ed i compagni,

            Condurmi io voglio a mendicar la vita.

            Ma tu d'utili avvisi, e d'una scorta

            Fidata mi provvedi. Andrò vagando

            Di porta in porta, e ricercando, come

            Sfòrzami rea necessità, chi un pane

            Mi porga ed una ciotola. D'Ulisse

            Mi farò ai tetti, e alla sua donna saggia

            Novelle recheronne, e avvolgerommi

            Tra i proci alteri, che lasciarmi forse

            Nella lor copia non vorran digiuno.

            Io, che piaccia lor, subito e bene,

            Eseguirò; poiché saper t'è d'uopo

            Che per favor del messaggiero Ermete,

            Da cui grazia ed onore acquista ogni opra,

            Tal son, che ne' servigi, o il foco sparso

            Raccor convenga, o le risecche legna

            Fendere, o cuocer le tagliate carni,

            O il vin d'alto versare, uffici tutti

            Che i minori prestar sogliono i grandi,

            Me nessun vince su l'immensa terra”.

              Sdegnato assai gli rispondesti, Eumèo:

            “Ahi! qual pensier ti cadde, ospite, in capo?

            Brami perir, se raggirarti pensi

            Tra i proci, la cui folle oltracotanza

            Sale del ciel sino alla ferrea volta.

            Credi a te somigliare i lor donzelli?

            Giovani in bella vestimenta, ed unti

            La chioma sempre e la leggiadra faccia,

            Ministrano ai superbi; e sempre carche

            Delle carni, de' pani e de' licori

            Splendono agli occhi le polite mense.

            Rimani: che né a me, né de' compagni

            Grave ad alcun la tua presenza torna.

            Ma come giunto sia d'Ulisse il figlio,

            Da lui tunica e manto, e da lui scorta

            Riceverai, dove che andar t'aggradi”.

              “Eumèo”, rispose il pazïente Ulisse,

            “possa Giove amar te, siccome io t'amo,

            Te, che al vagar mio lungo ed all'inopia

            Ponesti fine! Io non so peggio vita:

            Ma il famelico stomaco latrante

            Gl'ìnopi a errar, per acchetarlo, sforza,

            E que' mali a soffrir, che ad una vita

            Povera s'accompagnano e raminga.

            Or, quando vuoi ch'io teco resti e aspetti

            Telemaco, su via, della canuta

            Madre d'Ulisse parlami e del padre,

            Che al tempo che il figliuol sciolse per Troia,

            Della vecchiezza il limitar toccava.

            Veggon del Sole in qualche parte i rai?

            O d'Aide la magion freddi gli accolse?”

              “Ospite”, ripigliò l'inclito Eumèo,

            “Altro da me tu non udrai che il vero.

            Laerte vive ancora, e Giove prega

            Che la stanca dal corpo alma gli tragga:

            Tanto del figlio per l'assenza, tanto

            Per la morte si duol della prudente

            Moglie, che intatta disposollo, e in trista

            Morendo il collocò vecchiezza cruda.

            La lontananza del suo figlio illustre

            A poco a poco ed infelicemente,

            Sotterra la condusse. Ah tolga Giove,

            Che qual m'è amico, e con amor mi tratta,

            Per una simil via discenda a Dite!

            Finch'ella visse, m'era dolce cosa,

            Sebben dolente si mostrasse in faccia,

            L'interrogarla e il ricercarla spesso:

            Poich'ella mi nutrì con la de' pepli

            Vaga Ctimene, sua figliuola egregia,

            E de' suoi parti l'ultimo. Con questa

            Cresceami, e quasi m'onorava al pari.

            Ma come fummo della nostra etade

            Ambi sul primo invidïabil fiore,

            Sposa lei fêro in Same, e ricchi doni

            N'ebbero ed infiniti; e me con vesti

            Leggiadre in dosso e bei calzari ai piedi,

            Mandò i campi abitar la mia signora,

            Che di cor ciascun dì vie più m'amava.

            Quanto seco io perdetti! È ver che queste

            Fatiche dure, in che la vita io spendo,

            Mi fortunano i numi, e ch'io gli estrani

            Finor ne alimentai, non che me stesso.

            Ma di fatti conforto o di parole

            Sperare or da Penelope non lice:

            Ché tutta in preda di superba gente

            È la magion; né alla regina ponno

            Rappresentarsi e far domande i servi,

            Pigliar cibo e bevanda al suo cospetto,

            E poi di quello ancor, che l'alma loro

            Sempre rallegra, riportare ai campi”.

              “Eumèo”, rispose l'avveduto Ulisse,

            “Te dalla patria lungi e da' parenti

            Pargoletto sbalzò dunque il tuo fato?

            Orsù, ciò dimmi e schiettamente: venne

            La città disertata, in cui soggiorno

            Avea la madre veneranda e il padre?

            O incautamente abbandonato fosti

            Presso le agnelle o i tori, e gente ostile

            Ti rapì su le navi, e ai tetti addusse

            Di questo re, che ti comprò a gran prezzo?”

              Ed a rincontro Eumèo, d'uomini capo:

            “Quando a te risaperlo, ospite, cale,

            Tacito ascolta e goditi, e alle labbra

            Metti, assiso, la tazza. Or così lunghe

            Le notti van, che trapassar si ponno

            Parte dormendo, e novellando parte.

            Né corcarti t'è d'uopo innanzi al tempo:

            Anco il gran sonno nuoce. Ove degli altri

            Ciò piacesse ad alcuno, esca e s'addorma:

            Ma, fatto bianco l'orïente, siegua,

            Non digiuno però, gl'ispidi verri.

            E noi sediam nel padiglione a mensa,

            Ambi a vicenda delle nostre doglie

            Diletto, rimembrandole, prendendo;

            Poiché de' mali ancora uom, che sofferse

            Molto e molto vagò, prende diletto.

              “Cert'isola, se mai parlar ne udisti,

            Giace a Delo di sopra, e Siria è detta,

            Dove segnati del corrente sole

            I ritorni si veggono. Già grande

            Non è troppo, ma buona; armenti e greggi

            Produce in copia, e ogni speranza vince

            Col frumento e col vino. Ivi la fame

            Non entra mai, né alcun funesto morbo

            Consuma lento i miseri mortali:

            Ma come il crine agli abitanti imbianca,

            Cala, portando in man l'arco d'argento,

            Apollo con Artèmide, e gli uccide

            Di saetta non vista un dolce colpo.

            Due cittadi ivi son di nerbo eguale;

            E l'Ormenide Ctesio, il mio divino

            Padre, dell'una e l'altra il fren reggea.

            Capitò un giorno di Fenicî, scaltra

            Gente e del mare misuratrice illustre,

            Rapida nave negra, che infinite

            Chiudea in se stessa bagattelle industri.

            Sedusser questi una Fenicia donna,

            Che il padre schiava nel palagio avea,

            Bella, di gran persona, e di leggiadri

            Lavori esperta. I maculati panni

            Lavava al fonte, presso il cavo legno,

            Quando un di que' ribaldi a ciò la trasse,

            Che alle femmine incaute, ancor che vôte

            Non sien d'ogni virtude, il senno invola,

            Poscia chi fosse, richiedeale, e donde

            Venuta; ed ella senza indugio l'alte

            Del padre mio case additògli e disse:

            "Io cittadina della chiara al mondo

            Sidone metallifera e del ricco

            Aribante figliuola esser mi vanto.

            Tafî ladroni mi rapiro un giorno,

            Che dai campi tornava, e mi vendèro,

            Trasportata sul mare, a quel signore,

            Che ben degno di me prezzo lor diede".

              "Non ti sarìa", colui rispose allora,

            "Caro dunque il seguirci, ed il superbo

            De' tuoi parenti rivedere albergo?

            Riveder lor, che pur son vivi, e in fama

            Di dovizia tra noi?" "Certo mi fôra"

            La donna ripigliò, "sol che voi tutti

            Di ricondurmi al natìo suol giuriate

            Salva sul mar navigero e sicura".

            Disse; e tutti giuravano. E in tal guisa

            Tra lor di nuovo favellò la donna:

            "Statevi or cheti e, o per trovarmi al fonte

            O incontrarmi tra via, nessun mi parli.

            Risaprebbelo il vecchio e di catene

            Me graverebbe, sospettando, e a voi

            Morte, cred'io, macchinerìa. La cosa

            Tenete dunque in seno, e a provvedervi

            Di quanto v'è mestier pensate intanto.

            La nave appien vettovagliata e carca,

            Giungane a me l'annunzio in tutta fretta,

            Ed io non che altro, recherò con meco

            Quanto sotto alle man verrammi d'oro.

            Altra mercé vi darò ancora: un figlio

            Di quest'ottimo re nel suo palagio

            Rallevo, un vispo tal, che ad ogn'istante

            Fuor mi scappa di casa. Io vi prometto

            Alla nave condurlovi; né voi

            Picciol tesor ne ritrarrete, ovunque

            Per venderlo il meniate a estranie genti".

              Disse, e alla reggia ritornò. Coloro,

            Nel paese restando un anno intero

            Fean di vitto e di merci immenso acquisto.

            Fornito il carco e di salpare in punto,

            Un messaggio alla femmina spedîro,

            Uomo spedir d'accorgimenti mastro,

            Che con un bello, aureo monile e d'ambra

            Vagamente intrecciato, a noi sen venne.

            Madre ed ancelle il rivolgean tra mano,

            Prezzo non lieve promettendo, e a gara

            Gli occhi vi tenean su. Tacitamente

            Quegli ammiccò alla donna: indi alla nave

            Drizzava i passi. Ella per mano allora

            Presemi, e fuori uscì: trovò le mense

            Nell'atrio e i nappi, in che bevean del padre

            I commensali al parlamento andati

            Con esso il padre caro; e di que' nappi

            Tre, che in grembo celò, via ne portava;

            Ed io seguìala nella mia stoltezza.

            Già tramontava il Sole, e di tenèbre

            Ricoprìasi ogni strada; e noi veloci

            Giungemmo al porto e alla Fenicia nave.

            Tutti saliti, le campagne acquose

            Fendevam lieti con un vento in poppa,

            Che da Giove spiccavasi. Sei giorni

            Le fendevamo e notti sei: ma Giove

            Il settimo non ebbe agli altri aggiunto,

            Che dalla dea, d'avventar dardi amante,

            Colpita fu la nequitosa donna.

            Nella sentina con rimbombo cadde,

            Quasi trafitta folaga. Tra l'acque

            La scagliaro i Fenici, esca futura

            Ai marini vitelli; e nella nave

            Solo io rimasi, abbandonato e mesto.

            Poi l'onda e il vento li sospinse ai lidi

            D'Itaca, dove me comprò Laerte.

            E così questa terra, ospite, io vidi”.

              “Eumèo”, rispose il pazïente Ulisse,

            “Molto a me l'alma commovesti in petto,

            Narrando i casi tuoi. Ma Giove almeno

            Vicin tosto ti pose al male il bene,

            Poiché venisti ad un signor cortese,

            Che quanto a rallegrar non che a serbare,

            La vita e d'uopo, non ti niega. Ed io

            Sol dopo lunghi e incomodi vïaggi

            Di terra in terra, a queste rive approdo.

              Tali fra lor correan parole alterne.

            Dormiro al fin, ma non un lungo sonno;

            Ché in seggio a comparir d'oro la bella

            Già non tardò ditirosata Aurora.

              Frattanto di Telemaco i compagni

            Presso alla riva raccogliean le vele.

            L'albero declinâr, lanciâro a remi

            La nave in porto, l'ancore gittâro,

            Ed i canapi avvinsero. Ciò fatto,

            Sul lido usciàno ed allestìan la cena.

            Rintuzzata la fame, e spenta in loro

            La sete: “Voi”, così d'Ulisse il figlio,

            “Alla città guidatemi la nave,

            Mentre a' miei campi ed ai pastori io movo.

            Del cielo all'imbrunir, visti i lavori,

            Io pure inurberommi, e in premio a voi

            Lauto domani imbandirò convito”.

              “E io dove ne andrò, figlio diletto?”

            Teoclimèno disse. “A chi tra quelli,

            Che nella discoscesa Itaca sono

            Più potenti, offrirommi? Alla tua madre

            Dritto ir dovronne, e alla magion tua bella?”

              Il prudente Telemaco riprese:

            “Io stesso in miglior tempo al mio palagio

            T'invïerei, dove cortese ospizio

            Tu non avresti a desïare. Or male

            Capiteresti: io non sarei con teco

            Né te vedrìa Penelope, che scevra

            Dai proci, a cui raro si mostra, tele

            Nelle più alte stanze a oprare intende.

            Un uom bensì t'additerò, cui franco

            Puoi presentarti: Eurimaco, del saggio

            Polibo il figlio, che di nume in guisa

            Onoran gl'Itacesi. Egli è il più prode,

            E il regno, più che agli altri, e la consorte

            D'Ulisse affêtta. Ma se, pria che questo

            Maritaggio si compia, i proci tutti

            Non scenderanno ad abitar con Pluto,

            L'Olimpio il sa, benché sì alto alberghi”.

              Tal favellava; ed un augello a destra

            Gli volò sovra il capo, uno sparviere

            Ratto nunzio d'Apollo: avea nell'ugne

            Bianca colomba e la spennava, e a terra

            Fra lo stesso Telemaco e la nave

            Le piume ne spargea. Teoclimèno

            Ciò vide appena, che il garzon per mano

            Prese e il trasse in disparte, e sì gli disse:

            “Senza un nume, o Telemaco, l'augello

            Non volò a destra. Io, che di contra il vidi

            Per augurale il riconobbi. Stirpe

            Più regia della tua qui non si trova,

            Qui possente ad ognor fia la tua casa”.

              “Così questo”, Telemaco rispose,

            “S'avveri o forestier, com'io tai pegni

            Ti darei d'amistà, che te, chiunque

            Ti riscontrasse, chiamerìa beato”.

            Quindi si volse in cotal guisa al fido

            Suo compagno Pirèo: “Figlio di Clito,

            Tu che le voglie mie festi mai sempre

            Tra quanti a Pilo mi seguiro e a Sparta,

            Condurmi il forestiero in tua magione

            Piacciati e usargli, finché io vengo, onore”.

              “Per tardi”, gli rispose il buon Pireo,

            “Che tu venissi, io ne avrò cura, e nulla

            D'ospitale sarà che nel mio tetto,

            Dove il condurrò tosto, ei non riceva”.

              Detto, salse il naviglio, e dopo lui

            Gli altri salìanlo, e s'assidean su i banchi.

            Telemaco s'avvinse i bei calzari

            Sotto i pie' molli, e la sua valid'asta

            Rameappuntata, che giacea sul palco

            Della nave, in man tolse; e quei le funi

            Sciolsero. Si spingean su con la nave

            Vêr la città, come il garzone ingiunse;

            Ed ei studiava il passo, in sin che innanzi

            Gli s'aperse il cortile ove le molte

            S'accovacciavan setolose scrofe,

            Tra cui vivea l'inclito Eumèo, che, o fosse

            Nella veglia o nel sonno, i suoi padroni

            Dormendo ancor, non che vegliando, amava.

             

             


            LIBRO SEDICESIMO

             

             

              L'inclito Eumèo nel padiglione e Ulisse,

            Racceso il foco in su la prima luce,

            Leggier pasto allestìano; e fuori al campo

            Co' neri porci uscìan gli altri custodi.

            Ma i cani latrator, non che a Telemaco

            Non abbaiar, festa gli feano intorno.

            S'avvide Ulisse del blandir de' cani,

            E d'uomo un calpestìo raccolse e queste

            Voci drizzò al pastor: “Certo qua, Eumèo,

            O tuo compagno o conoscente, giunge,

            Poichè, lontani dal gridare, i cani

            Latratori carezzanlo, ed il basso

            De' suoi vicini piè strepito io sento.

              Non era Ulisse al fin di questi detti,

            Che nell'atrio Telemaco gli apparve”.

            Balzò Eumèo stupefatto e a lui di mano

            I vasi, ove mescea l'ardente vino,

            Caddero: andògli incontro e il capo ed ambi

            Gli baciò i rilucenti occhi e le mani,

            E un largo pianto di dolcezza sparse.

            Come un tenero padre un figlio abbraccia,

            Che il decim'anno da remota piaggia

            Ritorna, unico figlio e tardi nato,

            Per cui soffrì cento dolori e cento:

            Non altrimenti Eumèo, gittate al collo

            Del leggiadro Telemaco le braccia,

            Tutto baciollo, quasi allora uscito

            Dalle branche di Morte, e lagrimando:

            “Telemaco”, gli disse, “amato lume,

            Venisti adunque! Io non avea più speme

            Di te veder, poiché volasti a Pilo.

            Su via, diletto figlio, entrar ti piaccia,

            Sì ch'io goda mirarti or che d'altronde

            Nel mio soggiorno capitasti appena.

            Raro i campi tu visiti e i pastori:

            Ma la città ritienti e la funesta

            Turba de' proci che osservar ti cale”.

              “Entrerò, babbo mio, quegli rispose:

            Ché per te vederti, e le tue voci

            Per ascoltare, al padiglione io vegno.

            Restami nel palagio ancor la madre?

            O alcun de' proci disposolla, e nudo

            Di coltri e strati, e ai sozzi aragni in preda

            Giace del figlio di Laerte il letto?”

              “Nel tuo palagio”, ripigliava Eumèo,

            “Riman con alma intrepida la madre,

            Benché nel pianto a lei passino i giorni,

            Passin le notti; ed ella viva indarno”.

              Ciò detto, l'asta dalla man gli prese,

            E Telemaco il piè mettea sul marmo

            Della soglia; ed entrava. Ulisse a lui

            Lo scanno, in cui sedea, cesse; ma egli

            Dal lato suo non consentìalo, e: “Statti,

            Forestier”, disse, “assiso; un altro seggio

            Noi troverem nella capanna nostra.

            Né quell'uomo è lontan, che dar mel puote”.

              Ulisse, indietro fAttosi, di nuovo

            Sedea. Ma il saggio guardïan distese

            Virgulti verdi e una vellosa pelle,

            E il garzon vi adagiò. Poi le rimaste

            Del giorno addietro abbrustolate carni

            Lor recò su i taglieri; e, ne' canestri

            Posti l'un sovra l'altro in fretta i pani,

            E il rosso vino nelle tazze infuso,

            Ad Ulisse di contra egli s'assise.

            Sbramato della mensa ebbero appena

            Il desiderio natural, che queste

            Telemaco ad Eumèo drizzò parole:

            “Babbo, d'onde quest'ospite? In che guisa

            E quai nocchieri ad Itaca il menâro?

            Certo a piedi su l'onda ei qua non venne”.

              E tu così gli rispondesti, Eumèo:

            “Nulla, figliuol, ti celerò. Natìo

            Dell'ampia Creta egli si vanta, e dice

            Molti paesi errando aver trascorsi

            Per volontà d'un nume avverso. Al fine

            Si calò giù da una Tesprozia nave,

            E al mio tugurio trasse. Io tel consegno.

            Quel che tu vuoi, ne fa': sol ti rammenta

            Ch'ei di tuo supplicante ambisce il nome”.

              “Grave al mio cor”, Telemaco riprese,

            “Parola, Eumèo, tu proferisti. Come

            L'ospite ricettar nella paterna

            Magion poss'io? Troppo io son verde ancora,

            Né respinger da lui con questo braccio

            Chi primo l'assalisse, io mi confido.

            La madre sta infra due, se, rispettando

            La comun voce e il marital suo letto,

            Viva col figlio e la magion governi;

            O a quel s'unisca degli Achei, che doni

            Le presenta più ricchi ed è più prode.

            Bensì al tuo forestier tunica e manto,

            E una spada a due tagli e bei calzari

            Dar voglio, e là invïarlo, ov'ei desìa.

            Che se a te piace ritenerlo, e cura

            Prenderne, io vesti e d'ogni sorta cibi,

            Perché te non consumi e i tuoi compagni,

            Qua manderò. Ma ch'ei s'accosti ai proci,

            Che d'ingiurie il feriscano e d'oltraggi

            Con dolor mio, non sarà mai ch'io soffra.

            Che potrìa contro a tanti e sì valenti

            Nemici un sol, benché animoso e forte?”

              “Nobile amico”, così allora Ulisse,

            “Se anco a me favellare or si concede,

            Il cor nel petto mi si rode, udendo

            La indegnitade in tua magion de' proci,

            Mentre di tal sembiante io pur ti veggo.

            Cedi tu volontario? O in odio forse

            Per l'oracolo d'un dio t'ha la cittade?

            O i fratelli abbandónanti, cui tanto

            S'affida l'uom nelle più dure imprese?

            Perché con questo cor l'età mia prima

            Non ho? Perché non son d'Ulisse il figlio?

            Perché Ulisse non son? Vorrei che tronco

            Per mano estrana mi cadesse il capo,

            S'io, nella reggia penetrando, tutti

            Non mandassi in rovina. E quando ancora

            Me soverchiasse l'infinita turba,

            Perir torrei nella mia reggia ucciso

            Pria che mirar tuttora opre sì turpi,

            Gli ospiti mal menati, vïolate

            (Ahi colpa!) le fantesche, ed inghiottito

            A caso, indarno e senza fine o frutto,

            Quanto si miete ogni anno e si vendemmia.

              “Straniero”, eccoti il ver, ratto rispose

            Il prudente Telemaco: “non tutti

            M'odiano i cittadin, né de' fratelli,

            Cui tanto l'uom nelle più dubbie imprese

            Suole appoggiarsi, richiamarmi io posso.

            Volle il Saturnio che di nostra stirpe

            D'età in età spuntasse un sol rampollo.

            Arcesio generò Laerte solo,

            Laerte il solo Ulisse, e poscia Ulisse

            Me lasciò nel palagio, unico figlio

            Di cui poco godé: quindi piantossi

            Nemica gente al nostro albergo in seno.

            Quanti ha Dulichio e Same e la selvosa

            Zacinto e la pietrosa Itaca prenci,

            Ciascun la destra della madre agogna.

            Ella né rigettar può, né fermare

            Le inamabili nozze. Intanto i proci

            Coprono i deschi con le pingui membra

            Delle sgozzate vittime, e gli averi

            Mi struggon tutti; né anderá molto forse,

            Che più grata sarò vittima io stesso;

            Ma ciò de' numi su i ginocchi posa.

            Babbo, tu vanne rapido, e alla madre

            Narra che salvo io le tornai da Pilo.

            Così nárralo a lei, che alcun non t'oda

            Degli Achivi e qua riedi, ov'io m'arresto.

            Ben sai che molti del mio sangue han sete”.

              E tu in risposta gli dicesti, Eumèo:

            “Conosco, veggo: ad uom che intende, parli.

            Ma non vorrai che messo all'infelice

            Laerte ancor per la via stessa io vada?

            Ei, pensoso d'Ulisse un tempo e tristo,

            Pur dei campi ai lavor guardava intento,

            E dove brama nel pungesse, in casa

            Pasteggiava co' servi. Ed oggi è fama

            Che da quel dì che navigasti a Pilo,

            Né pasteggiò co' servi, né de' campi

            Più ai lavori guardò: ma sospirando

            Siede e piangendo, e alle scarne ossa intanto

            S'affigge, ohimè! l'inaridita cute”.

              “Gran pietade”Télemaco riprese,

            “Ma lasciamolo ancor per brevi istanti

            Nella sua doglia. Se in man nostra tutto

            Fosse, il ritorno a procurar del padre

            Non si rivolgerebbe ogni mia cura?

            Esponi adunque l'imbasciata, e riedi,

            Né a lui pe' campi divertir; ma solo

            Priega la madre, che in tua vece al vecchio

            Secreta imbasciatrice e frettolosa

            La veneranda economa destini.

              Detto così, eccitollo; ed ei con mano

            Presi i calzari, e avvìntiseli ai piedi,

            Subitamente alla città tendea.

            Non partì dalla stalla il buon custode,

            Che l'armigera dea non se ne addesse.

            Scese dal cielo e somigliante in vista

            A bella e grande e de' più bei lavori

            Femmina esperta, si fermò alla porta

            Del padiglion di contra, e a Ulisse apparve.

            Telemaco non vìdela: ché a tutti

            Non si mostran gl'Iddii. Videla il padre,

            E i mastini la videro, che a lei

            Non abbaiAr, ma del cortil nel fondo

            Trepidi si celâro e guaiolanti.

            Ella accennò co' sopraccigli, e il padre

            La intese, ed uscì fuori, e innanzi stette

            Nella corte alla dea, che sì gli disse:

            “O Laerzìade generoso e accorto,

            Tempo è che al tuo figliuol tu ti palesi,

            Onde, sterminio meditando ai proci,

            Moviate uniti alla città. Vicina

            Ed accinta a pugnar, tosto m'avrete”.

              Tacque Minerva, e della verga d'oro

            Toccollo. Ed ecco circondargli a un tratto

            Belle vesti le membra, e il corpo farsi

            Più grande e più robusto ecco le guance

            Stendersi, e già ricolorarsi in bruno,

            E all'azzurro tirar su per lo mento

            I peli, che parean d'argento in prima.

              La dea sparì, rïentrò Ulisse; e il figlio,

            Da maraviglia preso e da terrore,

            Chinò gli sguardi, e poscia: “Ospite”, disse,

            “Altro da quel di prima or mi ti mostri,

            Altri panni tu vesti, ed a te stesso

            Più non somigli. Alcun per fermo sei

            Degli abitanti dell'Olimpo. Amico

            Guárdane, acciò per noi vittime grate,

            Grati s'offrano a te doni nell'oro

            Con arte sculti: ma tu a noi perdona”.

              “Non sono alcun degl'Immortali”, Ulisse

            Gli rispondea. “Perché agli dèi m'agguagli?

            Tuo padre io son: quel per cui tante soffri

            Nella tua fresca età sciagure ed onte”.

              Così dicendo baciò il figlio, e al pianto,

            Che dentro gli occhi avea costantemente

            Ritenuto sin qui, l'uscita aperse.

            Telemaco d'aver su gli occhi il padre

            Credere ancor non sa. “No”, replicava,

            “Ulisse tu, tu il genitor non sei,

            Ma per maggior mia pena un dio m'inganna.

            Tai cose oprar non vale uom da se stesso,

            Ed è mestier che a suo talento il voglia

            Ringiovanire, od invecchiarlo, un nume.

            Bianco i capei testé, turpe le vesti

            Eri, ed ora un Celicola pareggi”.

              “Telemaco”, riprese il saggio eroe,

            “Poco per veritade a te s'addice,

            Mentre possiedi il caro padre, solo

            Maraviglia da lui trarre e spavento:

            Ché un altro Ulisse aspetteresti indarno.

            Si, quello io son, che dopo tanti affanni

            Durati e tanti, nel vigesim'anno

            La mia patria rividi. Opra fu questa

            Della Tritonia bellicosa diva,

            Che qual più aggrada a lei, tale mi forma:

            Ora un canuto mendicante, e quando

            Giovane con bei panni al corpo intorno:

            Però che alzare un de' mortali al cielo,

            O negli abissi porlo, è lieve ai numi”.

              Così detto, s'assise. Il figlio allora

            Del genitor s'abbandonò sul collo,

            In lagrime scoppiando ed in singhiozzi.

            Ambi un vivo desir sentìan del pianto:

            Né di voci sì flebili e stridenti

            Risonar s'ode il saccheggiato nido

            D'aquila o d'avoltoio, a cui pastore

            Rubò i figliuoli non ancor pennuti,

            Come de' pianti loro e delle grida

            Miseramente il padiglion sonava.

            E già piagnenti e sospirosi ancora

            Lasciati avrìali, tramontando, il Sole,

            Se il figlio al padre non dicea: “Qual nave,

            Padre, qua ti condusse, e quai nocchieri?

            Certo in Itaca il piè non ti portava”.

              “Celerò il vero a te?” l'eroe rispose,

            “I Feaci sul mar dotti, e di quanti

            Giungono errando alle lor piagge industri

            Riconduttori, me su ratta nave

            Dormendo per le salse onde guidâro,

            E in Itaca deposero. Mi fêro

            Di bronzo in oltre e d'oro e intesti panni

            Bei doni, e molti, che in profonde grotte

            Per consiglio divin giaccionmi ascosi.

            Ed io qua venni al fin, teco de' proci

            Nostri nemici a divisar la strage,

            Con l'avviso di Pallade. Su via,

            Cóntali a me, si ch'io conosca, quanti

            Uomini sono e quali, e nella mente

            Libri, se contra lor combatter soli,

            O in aiuto chiamare altri convegna”.

              “O padre mio”, Telemaco riprese,

            “Io sempre udìa te celebrar la fama

            Bellicoso di man, di mente accorto:

            Ma tu cosa dicesti or gigantesca

            Cotanto che alta maraviglia tiemmi:

            Due soli battagliar con molti e forti?

            Non pensar che a una decade o due sole

            Montin: sono assai più. Cinquantadue

            Giovani eletti da Dulichio uscîro,

            E sei donzelli li seguìano. Venti

            Ne mandò Same e quattro; e abbandonâro

            Venti Zacinto. Itaca stessa danne

            Dodici, e tutti prodi; e v'ha con essi

            Medonte araldo ed il cantor divino,

            E due dell'arte loro incliti scalchi.

            Ci affronterem con questa turba intera,

            Che la nostra magion possiede a forza?

            Temo che allegra non ne avrem vendetta.

            Se rinvenir si può chi a noi soccorra

            Con pronto braccio e cor dunque tu pensa”.

              “Chi a noi soccorra?” rispondeagli Ulisse.

            “Giudicar lascio a te, figlio diletto,

            Se Pallade a noi basti, e basti Giove,

            O cercar d'altri, che ci aiuti, io deggia”.

              E il prudente Telemaco: “Quantunque

            Siedan lungi da noi su l'alte nubi,

            Nessun ci può meglio aiutar di loro,

            Che su i mortali imperano e su i Divi”.

              “Non sederan da noi lungi gran tempo”,

            Il saggio Ulisse ripigliava, “quando

            Sarà della gran lite arbitro Marte.

            Ma tu il palagio su l'aprir dell'alba

            Trova, e t'aggira tra i superbi proci.

            Me poi simile in vista ad un mendìco

            Dispregevole vecchio il fido Eumèo

            Nella cittade condurrà. Se oltraggio

            Mi verrà fatto tra le nostre mura,

            Soffrilo; e dove ancor tu mi vedessi

            Trar per il piè fuor della soglia, o segno

            D'acerbi colpi far, lo sdegno affrena.

            Sol di cessar dalle follìe gli esorta,

            Parole usando di mèle consperse,

            A cui non baderan: però che pende

            L'ultimo sovra lor giorno fatale.

            Altro dirôtti, e tu fedel conserva

            Nel tuo petto ne fa'. Sei tu mio figlio?

            Scorre per le tue vene il sangue mio?

            Non oda alcun ch'è in sua magione Ulisse;

            E né a Laerte pur, né al fido Eumèo,

            Né alla stessa Penelope, ne venga.

            Noi soli spïerem, tu ed io, l'ingegno

            Dell'ancelle e de' servi; e vedrem noi,

            Qual ci rispetti e nel suo cuor ci tema,

            O quale a me non guardi e te non curi,

            Benché fuor dell'infanzia, e non da ieri”.

              “Padre”, riprese il giovinetto illustre,

            “Spero che me conoscerai tra poco,

            E ch'io né ignavo ti parrò, né folle.

            Ma troppo utile a noi questa ricerca,

            Credo, non fôra; e ciò pesar ti stringo.

            Vagar dovresti lungamente e indarno

            Visitando i lavori e ciascun servo

            Tentando; e intanto i proci entro il palagio

            Ogni sostanza tua struggon tranquilli.

            Ben tastar puoi delle fantesche l'alma

            Qual colpevole sia, quale innocente:

            Ma de' famigli a investigar pe' campi

            Soprastare io vorrei, se di vittoria

            Segno ti diè l'egidarmato Giove”.

              Mentre si fean da lor queste parole,

            La nave, che Telemaco e i compagni

            Condotti avea da Pilo, alla cittade

            Giunse e nel porto entrò. Tirâro in secco

            Gli abili servi e disarmâro il legno,

            E di Clito alla casa i prezïosi

            Doni recAro dell'Atride. In oltre

            Mosse un araldo alla magion d'Ulisse

            Nunzïando a Penelope che il figlio

            Ne' campi suoi si trattenea, perch'ella,

            Visto entrar senza lui nel porto il legno,

            Di nuovo pianto non bagnasse il volto.

            L'araldo ed il pastor diêr l'un nell'altro

            Con la stessa imbasciata entro i lor petti.

            Né pria varcar della magion la soglia,

            Che il banditor gridò tra le fantesche:

            “Reina, è giunto il tuo diletto figlio”.

            Ma il pastore a lei sola e all'orecchio,

            Ciò tutto espose, che versato in core

            Telemaco gli avea: quindi alle mandre

            Ritornare affrettavasi, l'eccelse

            Case lasciando, e gli steccati a tergo.

              Ma tristezza e dolor l'animo invase

            De' proci. Uscîro del palagio, il vasto

            Cortile attraversAro, ed alle porte

            Sedean davanti! “Amici”, in cotal guisa

            Eurìmaco a parlar tra lor fu il primo:

            “Ebben, che dite voi di questo, a cui

            Fede sì poca ciaschedun prestava,

            Vïaggio di Telemaco? Gran cosa

            Certo, e condotta audacemente a fine.

            Convien nave mandar delle migliori

            Con buoni remiganti, acciocchè torni

            Quella di botto, che Agli agguati stava”.

              Profferte non avea l'ultime voci,

            Che Anfinomo, rivolti al lido gli occhi,

            Un legno scorse nel profondo porto,

            Ed altri intesi a ripiegar le vele,

            Altri i remi a deporre, e, dolcemente

            Ridendo: “Non s'invii messaggio alcuno,

            Disse; già dentro sono: o un nume accorti

            Li fece, o trapassar videro, o indarno

            Giunger tentáro del garzon la nave”.

              Sorsero, e al lito andro. Il negro legno

            Fu tratto in secco, e disarmato; e tutti

            Per consultar si radunaro i proci.

            Né con lor permettean che altri sedesse,

            Giovane o vecchio; e così Antinoo disse:

            “Poh! come a tempo il dilivraro i numi!

            L'intero dì su le ventose cime

            A vicenda sedean gli esploratori:

            Poi, dato volta il sol, la notte a terra

            Mai non passammo, ma su ratta nave

            Stancavam l'onde sino ai primi albori,

            Tendendo insidie al giovane, e l'estremo

            Preparandogli eccidio. E non pertanto

            Nella sua patria il ricondusse un dio.

            Consultiam dunque, come certa morte

            Dare al giovine qui. Speriamo indarno

            La nostra impresa maturar, s'ei vive:

            Ché non gli falla il senno, e a favor nostro

            La gente, come un dì, più non inchina.

            Non aspettiam che a parlamento ei chiami

            Gli Achivi tutti, né crediam che lento

            Si mostri, e molle troppo. Arder di sdegno

            Véggolo, e, sorto in piè, dir che ruina

            Noi gli ordivamo, e che andò il colpo a vôto,

            Prevenirlo è mestieri, e o su la via

            Della cittade spegnerlo, o ne' campi.

            Non piace forse a voi la mia favella,

            E bramate ch'ei viva, e del paterno

            Retaggio goda interamente? Adunque

            Noi dal fruirlo ritiriamci, l'uno

            Disgiungasi dall'altro, e al proprio albergo

            Si renda. Indi Penelope richieda,

            E quel cui sceglie il fato, e che offre a lei

            Più ricchi doni la regina impalmi”.

              Tutti ammutîro a cotai voci. Al fine

            Sorse tra lor dell'Arezìade Niso

            La regia prole, Anfinomo, che, duce

            Di quei competitor che dal ferace

            Dulichio uscîro, e di più sana mente

            Tra i rivali dotato, alla regina

            Men, che ogni altro, sgradìa co' detti suoi:

            “Amici”, disse, “troppo forte impresa

            Struggere affatto un real germe. I numi

            Domandiamone in pria. Sarà di Giove

            Questo il voler? Vibrerò il colpo io stesso,

            Non che gli altri animar; dov'ei decreti

            Diversamente, io vi consiglio starvi”.

            Così d'Arezio il figlio, e non indarno.

            S'alzaro, e rïentrâr nell'ampia sala,

            E sovra i seggi nitidi posaro.

              Ma la casta Penelope, che udito

            Avea per bocca del fedel Medonte

            Il mortal rischio del figliuol, consiglio

            Prese di comparire ai tracotanti

            Proci davante. La divina donna

            Uscì dell'erma stanza; e con le ancelle

            Sul limitar della dedalea sala

            Giunta, e adombrando co' sottili veli,

            Che le pendean dal capo, ambe le guance,

            Antinoo rampognava in questi accenti:

            Antinoo, alma oltraggiosa, e di sciagure

            Macchinator, nella città v'ha dunque

            Chi tra gli eguali tuoi primo vantarti

            Per saggezza osi, e per facondia? Tale

            Giammai non fosti. Insano! e al par che insano

            Empio, che di Telemaco alla vita

            Miri e non cùri i supplici, per cui

            Giove dall'alto si dichiara. Ignoto

            Forse ti fu sin qui, che fuggitivo

            Qua riparava e sbigottito un giorno

            Il padre tuo, che de' Tesproti a danno

            Co' Tafî predator s'era congiunto?

            Nostri amici eran quelli, e porlo a morte

            Voleano, il cor volean trargli del petto,

            Non che i suoi campi disertar: ma Ulisse

            Si levò, si frammise; e, benché ardenti,

            Li ritenea. Tu di quest'uom la casa

            Ruini e disonori; la consorte

            Ne ambisci, uccidi il figlio, e me nel fondo

            Sommergi delle cure. Ah! cessa, e agli altri

            Cessare ancor, quanto è da te, comanda”.

              “Figlia illustre d'Icario”, a lei rispose

            Eurimaco di Pòlibo, “fa' core,

            E sì tristi pensier da te discaccia.

            Non è, non fu, non sarà mai chi ardisca

            Contra il figlio d'Ulisse alzar la mano,

            Me vivo, e con questi occhi in fronte aperti.

            Di cotestui, cosa non dubbia, il nero

            Sangue scorrerìa giù per la mia lancia.

            Me il distruttor delle cittadi Ulisse

            Tolse non rado sovra i suoi ginocchi,

            Le incotte carni nella man mi pose,

            L'almo licor m'offrì. Quindi uom più caro

            Io non ho di Telemaco, e non voglio

            Che la morte dai proci egli paventi.

            Se la mandan gli dèi, chi può scamparne?”

            Così dicea, lei confortando, e intanto

            L'eccidio del figliuol gli stava in core.

            Ma ella salse alle sue stanze, dove

            A lagrimar si dava il suo consorte,

            Finché, per tregua a tanti affanni, un dolce

            Sonno invïolle l'occhiglauca Palla.

              Con la notte comparve il fido Eumèo

            Ad Ulisse ed a Telemaco, che, pingue

            Sagrificato ai numi adulto porco,

            Lauta se ne allestìan cena in quel punto.

            Se non che Palla al Laerziade appresso

            Fecesi, e lui della sua verga tocco,

            Nella vecchiezza il ritornò di prima

            E ne' primi suoi cenci; onde il pastore

            Non ravvisasse in faccia, e, mal potendo

            Premer nel cor la subitanea gioia,

            Con l'annunzio a Penelope non gisse.

              “Ben venga il buon pastor! così primiero.”

            Telemaco parlò. “Qual corre grido

            Per la città? Vi rïentrâro i proci?

            O mi tendon sul mare insidie ancora?”

              E tu così gli rispondesti Eumèo:

            “La mente a questo io non avea, passando

            Fra i cittadini: ché portar l'avviso,

            E di botto redir, fu sol mia cura.

            Bensì m'avvenni al banditor, che primo

            Corse parlando alla Regina. Un'altra

            Cosa dirò, quando la vidi io stesso.

            Prendendo il monte che a Mercurio sorge,

            E la cittade signoreggia, vidi

            Rapidamente scendere nel porto

            Nave d'uomini piena, e d'aste acute

            Carca e di scudi. Sospettai che il legno

            Fosse de' proci; né più avanti io seppi”.

              A tai voci Telemaco sorrise,

            Pur sogguardando il padre e gli occhi a un tempo

            Del custode schivando. A questo modo

            Fornita ogni opra e già parati i cibi,

            D'una egual parte in questi ognun godea.

            Ma come il lor desìo più non richiese,

            Si corcâro al fin tutti, ed il salubre

            Dono del sonno ricettâr nel petto.

             

             


            LIBRO DICIASSETTESIMO

             

             

              Tosto che aperse del mattin la figlia

            Con rosea man l'eteree porte al Sole,

            Telemaco, d'Ulisse il caro germe,

            Che inurbarsi volea, sotto le piante

            S'avvinse i bei calzari, e la nodosa

            Lancia che in man ben gli s'attava, tolse,

            E queste al suo pastor drizzò parole:

            “Babbo, a cittade io vo, perché la madre

            Véggami, e cessi il doloroso pianto,

            Che altramente cessar, credo, non puote.

            Tu l'infelice forestier la vita

            Guìdavi a mendicar: d'un pan, d'un colmo

            Nappo non mancherà chi lo consoli:

            Nello stato in ch'io sono, a me non lice

            Sostener tutti. Monteranne in ira?

            Non farà che il suo male. Io dal mio lato

            Parlerò sempre con diletto il vero”.

              “Amico”, disse allora il saggio Ulisse,

            “Partire intendo anch'io. Più che ne' campi,

            Nella cittade accattar giova: un frusto

            Chi vorrà, porgerammi. In più d'etade

            Non sono a rimaner presso le stalle,

            E obbedire un padron, checché m'imponga.

            Tu vanne: a me quest'uom sarà per guida,

            Come tu ingiungi, sol che prima il foco

            Mi scaldi alquanto, e più s'innalzi il Sole.

            Triste, qual vedi, ho vestimenta, e guardia

            Prender degg'io dal mattutino freddo,

            Che sul cammin che alla città conduce

            Ed è, sento, non breve, offender puommi”.

              Telemaco senz'altro in via si pose,

            Mutando i passi con prestezza, e mali

            Nella sua mente seminando ai proci.

            Come fu giunto al ben fondato albergo,

            Portò l'asta, e appoggiolla ad una lunga

            Colonna, e in casa, la marmorea soglia

            Varcando, penetrò. Primiera il vide

            La nutrice Euriclèa, che le polite

            Pelli stendea su i varïati seggi,

            E a lui diritta, lagrimando, accorse:

            Poi tutte gli accorrean l'altre d'Ulisse

            Fantesche intorno, e tra le braccia stretto

            Su le spalle il baciavano e sul capo.

            Frattanto uscìa della secreta stanza,

            Pari a Dïana e all'aurea Vener pari,

            La prudente Penelope, che al caro

            Figlio gettò le man, piangendo, al collo,

            E la fronte baciògli ed ambo gli occhi

            Stellanti; e non restandosi dal pianto:

            “Telemaco”, gli disse, “amata luce,

            Venisti adunque! Io non credea più i lumi,

            Fissare in te, dacché una ratta nave,

            Contra ogni mio desir, dietro alla fama

            Del genitor furtivamente a Pilo

            T'addusse. Parla: quale incontro avesti?”

              “Madre, del grave rischio ond'io campai”,

            Replicava Telemaco, “il dolore

            Non rinnovarmi in petto e lo spavento.

            Ma in alto sali con le ancelle: quivi

            Lavata e cinta d'una pura veste

            Le membra delicate, a tutti i numi

            Ecatombe legittime prometti,

            Se mi consente il vendicarmi Giove.

            Io per un degno forestier, che venne

            Meco da Pilo, andrò alla piazza. Innanzi

            Co' miei fidi compagni io lo spedii,

            E commisi a Pirèo, che in una magione

            L'introducesse e fino al mio ritorno

            Con onore il trattasse e con affetto”.

              Non indarno ei parlò. Lavata e cinta

            Di veste pura il delicato corpo,

            Penelope d'intègre a tutti i numi

            Ecatombe votavasi, ove al figlio

            Il vendicarsi consentisse Giove.

            Né Telemaco a uscir fuor del palagio

            Molto tardò: l'asta gli empiea la mano,

            E due bianchi il seguìan cani fedeli.

            Stupìa ciascun, mentr'ei mutava il passo:

            Tal grazia sovra lui Palla diffuse.

            Gli alteri proci stavangli da questo

            Lato e da quel, voci parlando amiche,

            Ma nel profondo cor fraudi covando.

            Se non ch'ei tosto si sciogliea da essi;

            E là, dove sedea Mentore, dove

            Antifo ed Aliterse, che paterni

            Gli eran compagni dalla prima etade,

            A posar s'avvïò: quei d'ogni cosa

            L'addimandaro. Sopraggiunse intanto

            Pirèo, lancia famosa, il qual nel foro

            Per la cittade il forestier menava,

            A cui s'alzò Telemaco e s'offerse.

            E così primo favellò Pirèo:

            “Telemaco, farai che al mio soggiorno

            Vengan le donne tue per que' superbi

            Doni, onde Menelao ti fu cortese”.

              E il prudente Telemaco: “Pirèo,

            Ignoto è ancor di queste cose il fine.

            Se i proci, me secretamente anciso,

            Tutto divideransi il mio retaggio,

            Prima che alcun di loro, io di que' doni

            Vo' che tu goda. E dove io lor dia morte

            A me lieto recar li potrai lieto”.

              Disse, e guidò nella sua bella casa

            L'ospite sventurato. Ivi, deposte

            Sovra i troni le clamidi vellute,

            Sceser nel bagno: e come astersi ed unti

            Per le servili man fûro, e di manto

            Vago e di vaga tunica vestiti,

            Su i ricchi seggi a collocarsi andaro.

            E qui l'ancella da bell'aureo vaso

            Purissim'acqua nel bacil d'argento

            Versava, e stendea loro un liscio desco,

            Su cui la saggia dispensiera i bianchi

            Pani venne ad imporre, e non già poche

            Delle dapi non fresche, ond'è custode.

            Penelope sedea di fronte al caro

            Figlio, e non lungi dalle porte; e fini

            Velli purpurei, a una polita sede

            Poggiandosi, torcea. Que' due la destra

            Stendeano ai cibi: nè fu pria repressa

            La fame loro, e la lor sete spenta,

            Che in tai voci la madre i labbri apriva:

            “Io, figlio, premerò, salita in alto,

            Quel che divenne a me lugubre letto

            Dappoi che Ulisse inalberò le vele

            Co' figliuoli d'Atrèo; lugubre letto,

            Ch'io da quel giorno del mio pianto aspergo.

            Non vorrai dunque tu, prima che i proci

            Entrino alla magion, dirmi, se nulla

            Del ritorno del padre udir t'avvenne?”

              E il prudente Telemaco a rincontro:

            “Madre, il tutto io dirò. Pilo trovammo

            Ed il pastor de' popoli Nestorre.

            Qual padre accoglie con carezze un figlio

            Dopo lunga stagion d'altronde giunto,

            Tal me in sua reggia e tra l'illustre prole,

            La bianca testa di Nestorre accolse.

            Ma diceami, che nulla udì d'Ulisse,

            O vivo fosse, o fatto polve ed ombra.

            Quindi al pugnace Menelao mandommi

            Con buon cocchio e destrieri; ed io là vidi

            L'argiva Elèna, per cui Teucri e Greci,

            Così piacque agli dèi, tanto sudâro.

            Il bellicoso Menelao repente

            Chiedeami, qual bisogno alla divina

            Sparta m'avesse addotto. Io non gli tacqui

            Nulla, e l'Atride: "Ohimè! d'un eroe dunque

            Volean giacer nel letto uomini imbelli?

            Siccome allor che malaccorta cerva,

            I cerbiatti suoi teneri e lattanti

            Deposti in tana di leon feroce,

            Cerca, pascendo, i gioghi erti e l'erbose

            Valli profonde: e quello alla sua cava

            Riede frattanto e cruda morte ai figli

            Porta, e alla madre ancor: non altrimenti

            Porterà cruda morte ai proci Ulisse.

            Ed oh piacesse a Giove, a Febo e a Palla,

            Che qual si levò un dì contra l'altero

            Filomelìde nella forte Lesbo,

            E tra le lodi degli Achivi a terra

            Con mano invitta, lotteggiando, il pose,

            Tal costoro affrontasse! Amare nozze

            Foran le loro, e la lor vita un punto.

            Quanto alla tua domanda", il re soggiunse,

            "Ciò raccontarti senza fraude intendo

            Che un oracol verace, il marin vecchio

            Proteo, svelommi. Asseverava il nume

            Che molte e molte lagrime dagli occhi

            Spargere il vide in solitario scoglio,

            Soggiorno di Calipso, inclita ninfa,

            Che rimandarlo niega; ond'ei, cui solo

            Non avanza un naviglio, e non compagni

            Che il careggin del mar su l'ampio dorso,

            Star gli convien della sua patria in bando".

            Ciò in Isparta raccolto, io ne partii:

            E un vento in poppa m'inviâro i numi,

            Che rattissimo ad Itaca mi spinse.

              Con tai voci Telemaco alla madre

            L'anima in petto scompigliava. Insorse

            Teoclimèno allora: “O veneranda

            Della gran prole di Laerte donna,

            Tutto ei già non conobbe. Odi i miei detti:

            Vero e intégro sarà l'oracol mio.

            Primo tra i numi in testimonio Giove

            E la mensa ospital chiamo ed il sacro

            Del grande Ulisse limitar, cui venni:

            Lo sposo tuo nella sua patria terra

            Siede o cammina, le male opre ascolta,

            E morte a tutti gli orgogliosi proci

            Nella sua mente sémina. Mel disse

            Chiaro dal cielo un volator, ch'io scôrsi,

            E al tuo figlio mostrai, sedendo in nave”.

              E la saggia Penelope: “Deh questo,

            Ospite, accada! Tali e tanti avresti

            Del mio sincero amor pegni, che ognuno

            Ti chiamerìa, scontrandoti, beato”.

              Mentre così parlando, e rispondendo

            Di dentro ivan la madre, il figlio e il vate,

            Gli alteri proci alla magion davante

            Dischi lanciavan per diletto, e dardi

            Sul pavimento lavorato e terso,

            Della baldanza lor solito arringo.

            Ma giunta l'ora della mensa, e addotte

            Le vittime da tutti intorno i campi,

            Medonte, che nel genio ai proci dava

            Più che altro in fra gli araldi e ai lor banchetti

            Sempre assistea: “Giovani”, disse, “quando

            Godeste omai de' giochi, entrar v'aggradi,

            Sì che il convivio s'imbandisca. Ingrata

            Cosa non parmi il convivare al tempo”.

            Sursero immantinente, ed alle voci

            Del banditor non repugnaro. Entrati,

            Deposer su le sedie i manti loro.

            Pingui capre scannavansi e più grandi

            Montoni e grossi porci e una buessa

            Di branco; e il prandio s'apprestava. E intanto

            Dai campi alla cittade andar d'un passo

            Preparavansi Ulisse ed il pastore.

              Pria favellava Eumèo d'uomini capo:

            “Stranier, se il mio piacere io far potessi,

            Tu delle stalle rimarresti a guardia.

            Ma poiché partir brami, e ció pur vuolsi

            Dal mio signor, le cui rampogne io temo,

            Però che gravi son l'ire de' grandi,

            Moviam: già vedi che scemato è il giorno,

            E infredderà più l'aere in ver la sera”.

              “Tai cose ad uom, che non le ignora, insegni”,

            Ripigliò il Laerzìade. “Ebben, muoviamo:

            Ma vammi innanzi, e da', se da una pianta

            Il recidesti, un forte legno, a cui

            Per la via, che malvagia odo, io mi regga”.

            Disse, e agli omeri suoi per una torta

            Corda il suo rotto e vil zaino sospese,

            E il bramato baston porsegli Eumèo.

            Quindi le stalle abbandonar, di cui

            Rimaneano i famigli a guardia e i cani.

            Così vêr la città, sotto le forme

            D'un infelice mendicante e vecchio,

            E curvo sul bastone e con le membra

            Nelle vesti più turpi, il suo re stesso

            L'amoroso pastore allor guidava.

              Già, vinto il sentiero aspro, alla cittade

            Si fean vicini, ed apparìa la bella,

            Donde attignea ciascun, fonte artefatta,

            Che una pura tra l'erbe onda volvea.

            Construsserla tre regi: Itaco prima,

            Poi Nerito e Polittore. Rotondo

            D'alni acquidosi la cerchiava un bosco.

            Fredda cadea l'onda da un sasso, e sovra

            Un altar vi sorgea sacro alle Ninfe

            Dove offria preci il vïandante e doni.

            Qui di Dolio il figliuol, Melanzio, in loro

            S'incontrò: conducea le capre, il fiore

            Del gregge, ai proci; e il seguìan due pastori.

            Li vide appena che bravolli, e indegne

            Saettò in loro e temerarie voci,

            Che tutto commovean d'Ulisse il core.

            “Or sì”, dicea, “che un tristo a un tristo è guida.

            Giove li forma, indi gli accoppia. Dove

            Meni tu quel ghiottone, o buon porcaio,

            Quel mendìco importuno, e delle mense

            Pêste che a molte signorili porte

            Logorerassi gli omeri, di pane

            Frusti chiedendo, non treppiedi o conche?

            Se tu le stalle a custodir mel dessi,

            E a purgarmi la corte, e a' miei capretti

            La frasca molle ad arrecar, di solo

            Bevuto siere ingrosserìa ne' fianchi.

            Ma poiché solo alle tristi opre intese,

            Travagliar non vorrà; vorrà più presto,

            Di porta in porta domandando, un ventre

            Pascere insazïabile. Ma senti

            Cosa che certo avvenir dee. Se all'alta

            Magion s'accosterà del grande Ulisse,

            Molti sgabelli di man d'uom lanciati

            Alla sua testa voleranno intorno,

            E le coste trarrànnogli di loco”.

              Ciò disse ed appressollo, e nella coscia

            Gli dièe'd'un calcio, come stolto ch'era,

            Nè dalla via punto lo mosse: fermo

            Restava Ulisse e in sé volgea, se l'alma

            Col nodoso baston tôrgli dovesse,

            O in alto sollevarlo, e su la nuda

            Terra gettarlo capovolto. Ei l'ira

            Contenne e sopportò. Se non ch'Eumèo

            Al caprar si converse e improverollo,

            E, levate le man, molto pregava:

            “O belle figlie dell'Egioco, Ninfe

            Nàiadi, se il mio re v'arse giammai

            D'agnelli e di capretti i pingui lombi,

            Empiete il voto mio. Rieda, ed un nume

            La via gli mostri. Ti cadrìa, capraio,

            Quella superbia dalle ardite ciglia,

            Con cui vieni oltraggioso e sì frequente

            Dai campi alla città. Quindi per colpa

            De' cattivi pastori a mal va il gregge”.

              “Oh oh”, Melanzio ripigliò di botto,

            Che mi latra oggi quello scaltro cane,

            Che un giorno io spedirò sovra una bruna

            Nave dalla serena Itaca lunge,

            Perché a me in copia vettovaglia trovi?

            Così il dio dal sonante arco d'argento

            Telemaco uccidesse oggi, o dai proci

            Domo fosse il garzon, come ad Ulisse

            Non sorgerà della tornata il giorno!”

              Ciò detto, ivi lasciolli ambo, che lento

            Moveano il piede, e, suo cammin seguendo,

            D'Ulisse alla magion ratto pervenne.

            Subito entrava, e s'assidea tra i proci

            Di rimpetto ad Eurimaco, che tutto

            Era il suo amore; né i donzelli accorti,

            E la solerte dispensiera, innanzi

            Un solo istante s'indugiâro a porgli

            Quei parte delle carni, e i pani questa.

              Ulisse ed il pastore al regio albergo

            Giungeano intanto. S'arrestaro, udita

            L'armonia dolce della cava cetra:

            Ché l'usata canzon Femio intonava.

            Tale ad Eumèo, che per man prese, allora

            Favellò il Laerzìade: “Eumèo, d'Ulisse

            La bella casa ecco per certo. Fôra,

            Cinto il cortile e di steccati, doppie

            Sono e salde le porte. Or chi espugnarla

            Potrìa? Gran prandio vi si tiene, io credo:

            Poiché l'odor delle vivande sale,

            E risuona la cetera, cui fida

            Voller compagna de' conviti i numi”.

              E tu cosi gli rispondesti Eumèo:

            “Facile a te, che lunge mai dal segno

            Non vai, fu il riconoscerla. Su via,

            Ciò pensiam che dee farsi. O tu primiero

            Entra e ai proci ti mesci, ed io qui resto;

            O tu rimani, e metterommi io dentro.

            Ma troppo a bada non istar: ché forse,

            Te veggendo di fuor, potrebbe alcuno

            Percuoterti o scacciarti. Il tutto pesa”.

              “Quel veggio anch'io, che alla tua mente splende”,

            Gli replicava il pazïente Ulisse.

            “Dentro mettiti adunque: io rimarrommi.

            Nuovo ai colpi non sono e alle ferite,

            E la costanza m'insegnâro i molti

            Tra l'armi e in mar danni sofferti, a cui

            Questo s'aggiungerà. Tanto comanda

            La forza invitta dell'ingordo ventre,

            Per cui cotante l'uom dura fatiche,

            E navi arma talor, che guerra altrui

            Dell'infecondo mar portan su i campi”.

              Così dicean tra lor, quando Argo, il cane,

            Ch'ivi giacea, del pazïente Ulisse

            La testa ed ambo sollevò gli orecchi.

            Nutrillo un giorno di sua man l'eroe,

            Ma côrne, spinto dal suo fato a Troia,

            Poco frutto poté. Bensì condurlo

            Contro i lepri ed i cervi e le silvestri

            Capre solea la gioventù robusta.

            Negletto allor giacea nel molto fimo

            Di muli e buoi sparso alle porte innanzi,

            Finché i poderi a fecondar d'Ulisse,

            Nel togliessero i servi. Ivi il buon cane,

            Di turpi zecche pien, corcato stava.

            Com'egli vide il suo signor più presso,

            E benché tra que' cenci, il riconobbe,

            Squassò la coda festeggiando, ed ambe

            Le orecchie, che drizzate avea da prima,

            Cader lasciò: ma incontro al suo signore

            Muover, siccome un dì, gli fu disdetto.

            Ulisse, riguardatolo, s'asterse

            Con man furtiva dalla guancia il pianto,

            Celandosi da Eumèo, cui disse tosto:

            “Eumèo, quale stupor! Nel fimo giace

            Cotesto, che a me par cane sì bello.

            Ma non so se del pari ei fu veloce,

            O nulla valse, come quei da mensa,

            Cui nutron per bellezza i lor padroni”.

              E tu così gli rispondesti, Eumèo:

            “Del mio re lungi morto è questo il cane.

            Se tal fosse di corpo e d'atti, quale

            Lasciollo, a Troia veleggiando, Ulisse,

            Sì veloce a vederlo e sì gagliardo

            Gran maraviglia ne trarresti: fiera

            Non adocchiava, che del folto bosco

            Gli fuggisse nel fondo, e la cui traccia

            Perdesse mai. Or l'infortunio ei sente.

            Perì d'Itaca lunge il suo padrone,

            Nè più curan di lui le pigre ancelle;

            Ché pochi dì stanno in cervello i servi,

            Quando il padrone lor più non impera.

            L'onniveggente di Saturno figlio

            Mezza toglie ad un uom la sua virtude,

            Come sopra gli giunga il dì servile”.

            Ciò detto, il piè nel sontuoso albergo

            Mise, e avvïossi drittamente ai proci;

            Ed Argo, il fido can, poscia che visto

            Ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse,

            Gli occhi nel sonno della morte chiuse.

              Ma l'egregio Telemaco fu il primo

            Che scorgesse il pastor nella superba

            Sala passato; e a sé il chiamò d'un cenno.

            Ed ei, rivolto d'ogni intorno il guardo,

            Levò uno scanno ivi giacente, dove

            Seder solea lo scalco, e le infinite

            Carni partire ai banchettanti proci.

            Levollo, ed a Telemaco di contra

            Il piantò presso il desco, e vi s'assise;

            E delle carni a lui pose davanti

            Lo scalco, e pani dal canestro tolti.

              Ulisse ivi a non molto anch'egli entrava

            Simil ne' cenci e nel baston nodoso,

            Su cui piegava il tergo, a un infelice

            Paltonier d'anni carco. Entrato appena,

            Sopra il frassìneo limitar sedea,

            Con le spalle appoggiandosi ad un saldo

            Stipite cipressin, cui già perito

            Fabbro alzò a piombo e ripolì con arte.

            Telemaco il pastor chiama, e, togliendo

            Quanto avea pane il bel canestro, e quanta

            Carne nelle sue man capìr potea:

            “Questo”, gli dice, “all'ospite tu reca.

            E gli comanda che a ciascun de' proci

            S'accosti mendicando. A cui nel fondo

            Dell'inopia cascò, nuoce il pudore”.

              Andò il pastor repente, e, allo straniero

            Soffermandosi in faccia: “Ospite, disse

            Ciò ti manda Telemaco, e t'ingiunge

            Che mendicando ti presenti a ognuno

            De' proci in giro. "A cui nel fondo", ei dice,

            "Dell'inopia cascò, nuoce il pudore"”.

              E il Laerzïade rispondea: Re Giove,

            Telemaco dal ciel con occhio guarda

            Benigno sì, ch'ei nulla brami indarno”.

              Detto ciò solo, prese ad ambe mani

            Ulisse il tutto, e colà innanzi ai piedi

            Su la bisaccia ignobile sel pose.

            Finché il divin Demodoco cantava,

            Cibavasi l'uom saggio; al tempo stesso

            L'un dal cibo cessò, l'altro dal canto.

            Strepitavano i proci entro la sala:

            Ma Palla, al figlio di Laerte apparsa

            L'esortò i pani ad accattar dai proci,

            Tastando chi più asconda o men tristezza,

            Benché a tutti la dea scempio destini.

            Ei volse a destra, e ad accattar da tutti

            Gìa, stendendo la man, come se mai

            Esercitato non avesse altr'arte.

            Mossi a pietade il soccorreano e forte

            Stupìano, e domandavansi a vicenda

            Chi fosse e d'onde il forestier venisse.

              E qui Melanzio: “Udite, o dell'illustre

            Penelope, dicea vagheggiatori.

            L'ospite io vidi, a cui la via mostrava

            De' porci il guardïan: ma da qual chiara

            Stirpe disceso egli si vanti, ignoro”.

              “Guardïan famosissimo”, Antinòo

            Così Eumèo rimbrottò, “perché costui

            Guidasti alla città? Ci mancan forse

            Vagabondanti paltonieri infesti,

            Delle mense flagello? O che d'Ulisse

            Qui si nutra ciascun, poco ti cale,

            Che questo ancor, donde io non so, chiamasti?”

              E tal risposta tu gli fésti, Eumèo:

            “Prode, Antinoo, sei tu, ma ben non parli.

            Chi un forestiero a invitar mai d'altronde

            Va, dove tal non sia che al mondo giovi,

            Come profeta, o sanator di morbi,

            O fabbro industre in legno, o nobil vate,

            Che le nostr'alme di dolcezza innondi?

            Questi invìtansi ognor, non un mendìco

            Che ci consumi, e non diletti, o serva.

            Ma tu i ministri del mio re lontano

            Più che ogni altro de' proci, e de' ministri

            Me più, che ogni altro, tormentar non cessi.

            Non men curo io però, finché la saggia

            Penelope e Telemaco deiforme

            Vivono a me nella magion d'Ulisse”.

              Ma Telemaco a lui: “Taci, parole

            Non cangiar molte con Antinoo. È usanza

            Di costui l'assalir con aspri detti

            Chi non l'offende, e incitar gli altri ancora”.

            Poi, converso a quel tristo: “In ver, soggiunse,

            Cura di me, qual padre, Antinoo, prendi,

            Tu che l'ospite vuoi sì duramente

            Quinci sbandire. Ah nol consenta Giove!

            Dagline: io, non che oppormi, anzi l'esigo.

            La madre d'annoiare, o alcun de' servi

            Del padre mio, tu non temer per questo.

            Ma cosa tal non è da te, cui solo

            La propria gola soddisfar talenta”.

              “O alto di favella e d'alma indómo”,

            D'Eupite disse incontanente il figlio,

            “Che parlasti, Telemaco? Se i proci

            Quel don, ch'io serbo a lui, gli fesser tutti

            Starsi almeno ei dovrìa tre lune in casa

            Da noi lontano”. E lo sgabello preso,

            Su cui tenea beendo i molli piedi,

            Alto in aria il mostrò. Gli altri cortesi

            Gli eran pur d'alcun che, sì ch'ei trovossi

            Di carni e pani la bisaccia colma.

            Mentre alla soglia, degli Achivi i doni

            Per gustar, ritornava, ad Antinòo

            Si fermò innanzi e disse: “Amico, nulla

            Dunque mi porgi? degli Achivi il primo

            Mi sembri, come quei che a re somiglia.

            Quindi più ancor che agli altri, a te s'addice

            Largo mostrarti: io le tue lodi, il giuro,

            Per tutta spargerò l'immensa terra.

            Tempo già fu ch'io, di te al par felice,

            Belle case abitava, e ad un ramingo,

            Qual fosse e in quale stato a me venisse,

            Del mio largìa: molti avea servi, e nulla

            Di ciò fallìami, onde gioiscon quelli

            Che ricchi e fortunati il mondo chiama.

            Giove, il perché ei ne sa, strugger mi volle,

            Ei, che in Egitto, per mio mal, mi spinse

            Con ladroni moltivaghi; vïaggio

            Lungo e funesto. Nell'Egitto fiume

            Fermai le ratte navi, ed ai compagni

            Restarne a guardia ingiunsi, e quell'ignota

            Terra ire alcuni ad esplorar dall'alto.

            Ma questi da un ardir folle e da un cieco

            Desìo portati, a saccheggiar le belle

            Campagne degli Egizî, a via menarne

            Le donne e i figli non parlanti, i grami

            Coltivatori a uccidere. Volonne

            Tosto il rumore alla città: né prima

            L'Alba s'imporporò, che i cittadini

            Vennero, e pieno di cavalli e fanti

            Fu tutto il campo, e del fulgor dell'armi

            Cotale allora il Fulminante pose

            Desir di fuga de' compagni in petto,

            Che un sol far testa non osava: uccisi

            Fur parte e parte presi, e ad opre dure

            Sforzati; e ovunque rivolgeansi gli occhi,

            Un disastro apparìa. Me consegnâro

            A Demetore Iaside, che in quelle

            Parti era giunto, e dominava in Cipro,

            Dond'io carco di mali al fin qua venni”.

              E di nuovo così d'Eupìte il figlio:

            “Qual Genio avverso una sì fatta lue,

            Le nostre mense a conturbar, ci addusse?

            Tienti nel mezzo, e dal mio desco lunge,

            Se un altro Egitto amaro e un'altra Cipro

            Trovar non brami in Itaca. Io mendìco

            Mai non conobbi più impudente e audace.

            T'offri a ciascun l'un dopo l'altro, e allarga

            Ciascun per te la man senza consiglio:

            Ché rotto cade ogni ritegno, dove

            Regna la copia, e dell'altrui si dona”.

              “Poh!” replicava il Laerzìade, indietro

            Ritirandosi alquanto, “alla sembianza

            Poco l'animo adunque in te risponde.

            Chi mai creder potrìa che pur di sale

            A supplicante tu daresti un grano

            Dalla tua mensa, tu che un frusto darmi

            Dall'altrui non sapesti, e così ricca?”

              Montò Antinoo in più furia, e, torve in lui

            Fissando le pupille: “Ora io non penso

            Che uscirai quinci con le membra sane,

            Poscia che all'onte ne venisti”. Disse,

            E afferrò lo sgabello, ed avventollo,

            E in sulla punta della destra spalla

            Percosse il forestiero. Ulisse fermo

            Stette qual rupe, né d'Antìnoo il colpo

            Smòsselo: bensì tacito la testa

            Crollò, agitando la vendetta in core.

            Indi sul limitar sedea di nuovo,

            Deposto il zaino tutto pieno, e ai proci

            Favellava così: “Competitori

            Dell'illustre Reina: udir vi piaccia

            Ciò che il cor dirvi mi comanda. Dove

            Pe' campi, per la greggia o per l'armento

            Pugnando è l'uom ferito, il porta in pace.

            Me, per la trista ed importuna fame,

            Gran fonte di disastri, Antìnoo offese.

            Ma se ha prôpizî dèi, se ha Furie ultrìci,

            Chi non ha nulla, della morte il giorno

            Pria che quel delle nozze, Antìnoo colga”.

              E d'Eupìte il figliuol: “Tranquillo e assiso,

            Cibati, o forestiere, o quinci sgombra

            Acciò gli schiavi, poiché si favelli,

            Per li piedi e le man te del palagio

            Non traggan fuori, e tu ne vada in pezzi”.

              Tutti d'ira s'accesero, ed alcuno;

            “Mal”, disse, “festi, Eupìtide, un tapino

            Vïandante a ferir. Sciaurato! S'egli

            Degli abitanti dell'Olimpo fosse?

            Spesso d'estrano pellegrino in forma

            Per le cittadi si raggira un nume,

            Vestendo ogni sembianza, e alle malvage

            De' mortali opre ed alle giuste guarda”.

              Tai voci Antìnoo dispregiava. Intanto

            Della percossa rea gran duol nel petto

            Telemaco nodrìa. Non però a terra

            Dalle ciglia una lagrima gli cadde.

            Sol crollò anch'ei tacitamente il capo,

            Ruminando nel cor l'alta vendetta.

            Ma la saggia Penelope, cui giunse

            L'annunzio in alto dell'indegno colpo,

            Tra le ancelle proruppe in questi accenti:

            “Deh così lui d'un de' suoi dardi il nume

            Dal famoso d'argento arco ferisca!”

            Ed Eurìnome a lei: “Se gl'Immortali

            Fesser pieni i miei voti, a un sol de' proci

            Non mostrerìasi la nuov'alba in cielo”.

              “Nutrice mia”, Penelope riprese,

            “Mi spiaccion tutti, perché tutti ingiusti:

            Ma del par che la morte Antìnoo abborro.

            Move per casa un ospite infelice

            Dalla sua fame a mendicar costretto.

            Ciascun gli dà, tal ch'ei n'ha il zaino colmo;

            E d'Eupite il figliuol d'uno sgabello

            Nella punta dell'òmero il percuote”.

              Cotesti accenti tra le ancelle assisa

            Liberò dalle labbra; e in quella Ulisse

            il suo prandio compiea. Ma la Regina,

            Eumèo chiamato a sè: “Va, gli dicea,

            De' pastori il più egregio, ed a me invia

            Quel forestiere, onde in colloquio io seco

            Mi restringa, e richiedagli, se mai

            D'Ulisse udì, se il vide mai con gli occhi.

            Ei, che di gran vïaggi uom mi rassembra”.

              E tu così le rispondesti, Eumèo:

            “Oh volesser gli Achei per te, regina,

            Tacersi alcuni istanti! Ei tal favella,

            Che somma in cor ti verserìa dolcezza.

            Io tre giorni appo me l'ebbi e tre notti;

            Che fuggito era da un'odiata nave:

            Né però tutti mi narrò i suoi guai.

            Qual racceso dai numi illustre vate

            Voce sì grata agli ascoltanti innalza,

            Che l'orecchio, fissando in lui le ciglia,

            Se dal canto riman, tendono ancora:

            Tal mi beava nella mia capanna.

            Dissemi che di padre in figlio a Ulisse

            Dell'ospitalità stringealo il nodo;

            Che nativo di Creta era, del grande

            Minosse culla; e che di là, cadendo

            D'un mal sempre nell'altro, a' tuoi ginocchi

            Venìa di gramo supplicante in atto.

            M'affermò che d'Ulisse avea tra i ricchi

            Tesproti udito, che vive anco, e molti

            All'avìta magion tesori adduce”.

              La prudente Penelope a rincontro:

            “Vanne ed a me l'invia, sì ch'io l'ascolti.

            Gli altri o fuor delle porte o nel palagio

            Trastullin pur, poscia che han lieto il core.

            Crescono i monti delle lor sostanze,

            Di cui solo una parte i servi loro

            Toccano; ed essi qui l'intero giorno

            Banchettan lautamente, e il fior del gregge

            Struggendo e dell'armento, e le ricolme

            Della miglior vendemmia urne votândo,

            Fanno una strage: né v'ha un altro Ulisse,

            Che atto a fermarla sia. Ma l'eroe giunge,

            E piena con Telemaco di tanti

            Barbari oltraggi prenderà vendetta”.

              Finito non avea, che il figlio ruppe

            In un alto starnuto, onde la casa

            Risonò tutta. La Regina rise,

            E: “Va, disse ad Eumèo, corri, e il mendìco

            Mandami. Starnutare alle mie voci

            Non udisti Telemaco? Maturo

            De' proci è il fato, né alcun fia che scampi.

            Ciò senti ancora, e in mente il serba. Quando

            Verace in tutto ei mi rïesca, i cenci

            Gli cangerò di botto in vesti belle”.

              Corse il fido pastore, e allo straniero,

            Standogli presso: “Ospite padre, disse,

            Te la saggia Penelope, la madre

            Di Telemaco vuole: il cor la spinge

            D'Ulisse a ricercar, benché sol dato

            Le abbian sin qui le sue ricerche duolo.

            Quando verace ti conosca, i cenci

            Ti cangerà di botto in vesti belle:

            Cibo non mancherà chi ti largisca,

            Se tu l'andrai per la città chiedendo”.

              “Eumèo”, rispose il pazïente Ulisse,

            “Alla figlia d'Icario, alla prudente

            Penelope, da me nulla del vero

            Si celerà. So le vicende appieno

            D'Ulisse, con cui sorte io m'ebbi eguale:

            Ma la turba difficile de' proci,

            Di cui del ciel sino alla ferrea volta

            Monta l'audace tracotanza, io temo.

            Pur testé, mentr'io gìa lungo la sala,

            Nulla oprando di mal, percosso io fui;

            E non prevenne il doloroso insulto

            Telemaco, non che altri. Il sol cadente

            Ad aspettar nelle sue stanze adunque

            Tu la conforta. Mi domandi allora

            Del ritorno d'Ulisse innanzi al foco:

            Poiché il vestito mio mal mi difende.

            Tu il sai, cui prima supplicante io venni”.

              Diè volta, udito questo, il buon pastore;

            E Penelope a lui, che già la soglia

            Col piè varcava: “Non mel guidi, Eumèo?

            Che pensa il forestier? Tema de' proci,

            O vergogna di sé, forse occupollo?

            Guai quel mendico cui ritien vergogna!”

              Ma tu così le rispondesti, Eumèo:

            “Ei, come altri farebbe in pari stato,

            De' superbi schivar l'onte desìa.

            Bensì t'esorta sostener, Regina,

            Finché il dì cada. Cosi meglio voi

            Potrete ragionar, sola con solo”.

              “Gran senno in lui, chïunque sia, dimora”,

            Ella riprese: “ché sì audaci e ingiusti

            Non ha l'intero mondo uomini altrove”.

              Eumèo ritornò ai proci, e di Telemaco

            Parlando, onde altri non potesse udirlo,

            All'orecchia vicin: “Caro”, gli disse,

            “Le mandre, tua ricchezza e mio sostegno,

            A custodire io vo'. Tu su le cose

            Qui veglia, e più sovra te stesso, e pensa

            Che i giorni passi tra una gente ostile,

            Cui, prima ch'ella noi, Giove disperda”.

              “Sì, babbo mio”, Telemaco rispose.

            “Parti, ma dopo il cibo, e al dì novello

            Torna e vittime pingui adduci teco”.

              Tacque; ed Eumèo sovra il polito scanno

            Novamente sedea. Cibato, ai campi

            Ire affrettossi, gli steccati addietro

            Lasciando e la magion d'uomini piena

            Gozzoviglianti, cui piacere il ballo

            Era e il canto piacer, mentre spiegava

            L'ali sue nere sovra lor la notte.

             

             


            LIBRO DICIOTTESIMO

             

             

              Un accattante pubblico sorvenne,

            Di mendicar per la cittade usato,

            Famoso vorator, che mai non disse

            Per molto cibo, e per vin molto: “Basta!”

            E gigante a vederlo, ancor che poco

            Di forza e cuore in sì gran corpo fosse.

            Egli avea nome Arnèo: così chiamollo,

            Nel dì che nacque, la diletta madre.

            Ma dai giovani tutti Iro nomato

            Era, come colui che le imbasciate

            Portar solea, qual gliene desse il carco.

            Giunto fu appena, che scacciava Ulisse

            Dalla sua casa, ed il mordea co' detti:

            “Vecchio, via dal vestibolo, se vuoi

            Ch'io non ti tragga fuor per un de' piedi,

            Non vedi l'ammiccar, perch'io ti tragga,

            Di tutti a me? Pur m'arrossisco, e stommi.

            Ma lèvati, o alle prese io con te vegno”.

              Bieco Ulisse guatollo, e: “Sciagurato”,

            Rispose, “in opra io non t'offendo o in voce,

            Né che alcuno a te doni, anco a man piene,

            T'invidio io punto. Questa soglia entrambi

            Ci capirà. Tu non dovresti noia

            Del mio bene sentir, tu, che un mendico

            Mi sembri al par di me. Dispensatori

            Delle ricchezze all'uom sono i celesti.

            Invitarmi a pugnar non ti consiglio,

            Onde infiammato, benché vecchio, d'ira

            Le labbra io non t'insanguini ed il petto.

            Più assai tranquillo io ne sarei domane:

            Ché alla magion del figlio di Laerte

            Ritorno far tu non potresti, io credo”.

              “Poh”, sdegnato il pezzente Iro riprese,

            “Più volubili i detti a questo ghiotto

            Corrono e ratti più, che non a vecchia

            Che sempre al focolar s'aggira intorno.

            S'io queste man pongogli addosso, tutti

            Dalle mascelle, come a ingordo porco

            Entrato fra le biade, i denti io schianto.

            Or bene, un cinto senza più ti copra,

            E questi ci conoscano alla pugna

            Che tosto avremo. Io veder voglio, come

            Con uom combatterai tanto più verde”.

              Così sul liscio limitar dell'alte

            Porte garrìan d'ingiurïosi motti.

            Avvisossene Antinoo, e, dolcemente

            Ridendo, sciolse tai parole: “Amici,

            Nulla di sì giocondo a questi alberghi

            Gli abitator dell'etra unqua mandaro.

            Si bisticcian tra lor l'ospite ed Iro,

            E già le man frammischiano. Su via,

            Meglio alla zuffa raccendiamli ancora”.

              Tutti s'alzâro, nelle risa dando,

            E ai due straccioni s'affollâro intorno.

            Ed Antinoo così: “Nobili proci,

            Sentite un pensier mio. Di que' ventrigli

            Di capre, che di sangue e grasso empiuti

            Sul foco stan per la futura cena

            Scelga qual più vorrà chi vince, e quindi

            D'ogni nostro convito a parte sia;

            Né più tra noi s'aggiri altro cencioso”.

              Ciò piacque a tutti. Ma l'accorto eroe,

            Cui non fallìan le astuzie: “Amici disse,

            Ad uom dagli anni e dai disastri rotto

            Con giovane pugnar non parmi bello.

            E pur botte a ricevere, e ferite

            La rea mi spinge imperïosa fame.

            Ma voi giurate almen che nessuno, Iro

            Per favorir, me della man gagliarda

            Percuoterà, male adoprando: troppo

            Mi tornerebbe allor duro il cimento”.

              Giurâro. E di Telemaco in tal guisa

            La sacra possa favellò: “Straniero,

            Di respinger costui ti detta il core?

            Respingilo: né alcun temer de' proci.

            Chi t'oserà percuotere, con molti

            A combattere avrà. Gli ospiti io curo,

            E tal favella non condannan certo

            Eurimaco ed Antinoo, ambo prudenti”.

              Disse, e ciascuno approvò il detto. Ulisse

            Si spogliò tutto, e de' suoi panni un cinto

            Formossi, e nudi i lati omeri, nudo

            Mostrò il gran petto e le robuste braccia

            E i magni fianchi discoprì: Minerva,

            Che per lui scese dall'Olimpo, tutte

            De' popoli al pastor le membra crebbe.

            Stupîro i proci fieramente, e alcuno

            Così dicea, volgendosi al vicino:

            “Iro, già non più Iro, in su la testa

            S'avrà tratto egli stesso il suo malanno;

            Tai fianchi ostenta e tali braccia il veglio!”

            A queste voci malamente d'Iro

            L'animo commoveasi. E non pertanto

            Col cinto ai lombi e pallido la faccia,

            Gli schiavi a forza il conducean: su l'ossa

            Tremavangli le carni. Antinoo allora

            Prendealo a rimbrottar: “Millantatore,

            Perché or non muori, o a che nascesti un giorno,

            Tu, che sì temi e tremi, uom dagli affanni,

            Non men che dall'età, snervato e domo?

            Ma odi quel che di te fia. Se a terra

            Con vincitrice man colui ti mette,

            Io te gettato in una ratta nave

            Manderò nell'Epiro al rege Echeto,

            Flagello de' mortali, il qual ti mozzi

            Gli orecchi e il naso con acerbo ferro,

            E, da stracciarsi crudi, a un can vorace

            Butti gli svelti genitali in preda”.

              Un tremor gli entrò in corpo ancor più forte:

            Ma il condusser nel mezzo. I due campioni

            Le mani alzâro: dubitava Ulisse,

            Se del pugno così dar gli dovesse,

            Che lui caduto abbandonasse l'alma,

            O atterrarlo, e non più, con minor colpo.

            Questo partito scelse, onde agli Achivi

            Celarsi meglio. Iro la destra spalla

            Ad Ulisse colpì, ma Ulisse in guisa

            Sotto l'orecchia l'investì nel collo,

            Che l'ossa fracassògli: uscìagli il rosso

            Sangue fuor per la bocca; ed ei mugghiando

            Cascò, digrignò i denti, e il pavimento

            Calcitrando batté. Gli amanti a quella

            Vista, levate le lor braccia in alto,

            Scoppiavan delle risa. Intanto Ulisse,

            L'un de' piedi afferratogli, il traea

            Pel vestibolo fuor sino alla corte,

            E all'entrata del portico. Ciò fatto,

            Col dosso al muro l'appoggiò, gli pose

            Bastone in mano e: “Qui”, gli disse, “or siedi.

            E scaccia dal palagio i cani e i ciacchi,

            Né più arrogarti, così vil qual sei

            Su gli ospiti dominio e su i mendichi:

            Ché un'altra volta non t'incontri peggio”.

              Così dicendo, si gittava intorno

            Alle spalle il suo zaino, e al limitare

            Ritornava, e sedeavi. Rientraro

            Con dolce riso in su le labbra i proci,

            Ed a lui blande rivolgean parole:

            “Ospite, Giove a te con gli altri numi

            Quanto più brami, e t'è più caro, invii,

            A te, che la città smorbasti a un tratto

            Di questo insazïabile accattone,

            Che ad Echeto, degli uomini flagello,

            Tra poco andrà su gli Epiroti lidi”.

              Così parlâro; e dell'augurio Ulisse

            Godea nell'alma, e Antinoo un gran ventriglio

            Di sangue e di pinguedine ripieno

            Gli recò innanzi. Ma il valente Anfinomo

            Due presentògli dal canestro tolti

            Candidissimi pani, e, propinando

            Con aurea tazza: “Salve”, disse, “o padre,

            Forestier, salve: se infelice or vivi,

            Lieti scórranti almeno i dì futuri”.

              “Anfinomo”, l'eroe scaltro rispose,

            “D'intendimento e di ragion dotato

            Mi sembri, e in questo tu ritrai dal padre,

            Da Niso Dulichiense, ond'io la fama

            Sonare udìa, buono del par che ricco,

            Da cui diconti nato; e fede ancora

            Ne fa il tuo senno e le parole e gli atti.

            A te dunque io favello, e tu i miei detti

            Ricevi, e serba in te. Sai tu di quanto

            Spira e passeggia su la terra o serpe,

            Ciò che al mondo havvi di più infermo? È l'uomo.

            Finché stato felice i dèi gli dánno,

            E il suo ginocchio di vigor fiorisce,

            Non crede che venir debbagli sopra

            L'infortunio giammai. Sopra gli viene?

            Con repugnante alma indegnata il soffre:

            Ché quali i giorni son, che foschi o chiari,

            De' mortali il gran padre e de' celesti

            D'alto gli manda, tal dell'uomo è il core.

            Vissi anch'io vita fortunata e illustre,

            E, secondando la mia forza, e troppo

            Nel genitor fidando e ne' germani,

            Non giuste, vaglia il vero, opre io commisi.

            Ma ciascuno a ben far dee per l'ingegno,

            E quel, che dai numi ha, fruir tranquillo:

            Né costoro imitar, che iniquamente

            Struggono i beni, e la pudica donna

            Oltraggian d'un eroe, che lungo tempo

            Dalla sua patria e dagli amici, io credo,

            Lontano ancor non rimarrà; che a questi

            Luoghi anzi è assai vicino. Al tuo ricetto

            Quindi possa guidarti un dio pietoso,

            E torti agli occhi suoi, com'egli appaia:

            Poiché decisa senza molto sangue

            Messo ch'egli abbia in sua magione il piede,

            Non fia tra i proci e lui l'alta contesa”.

            Libò, ciò detto, e accostò ai labbri il nappo,

            E tornollo ad Anfinomo. Costui

            Per la sala iva, conturbato il core,

            E squassando la testa, ed il suo male

            Divinando, ma invan: fuggir non puote,

            Legato anch'ei da Palla, onde cadesse

            Per l'asta di Telemaco. Nel seggio,

            Donde sorto era, si ripose intanto.

              Ma d'Icario alla figlia, alla prudente

            Penelope, la dea dai glauchi lumi

            Spirò il disegno di mostrarsi ai proci,

            Perché lor s'allargasse il core in petto

            Di nuova speme, ed in onor più grande

            Presso il consorte e il figlio ella salisse.

            Diede, né ben sa come, in un gran riso,

            E tai detti formò: “Sento un desire

            Non pria sentito di mostrarmi ai proci,

            Eurinome, bench'io tutti gli abborra.

            Utile avviso in lor presenza io bramo

            A Telemaco dare, il qual troppo usa

            Con que' superbi giovani, che accenti

            Ti drizzan blandi, e insidianti da tergo”.

              “Saggio è il consiglio”, Eurinome rispose.

            “Va' figlia, dunque, ed il tuo nato assenna.

            Ma pria ti lava, e su le guance poni

            L'usato unguento. Apparir vuoi con faccia

            Dalle lagrime tue solcata e guasta?

            Quel pianger sempre e dall'un giorno all'altro

            Nullo divario far, poco s'addice.

            Già venne il figlio nell'età fiorita,

            In cui vederlo con l'onor del mento

            Sì ardentemente supplicavi ai numi”.

              “Per zelo che di me l'alma ti scaldi”,

            Replicava Penelope, “di bagni,

            Eurinome, o di lisci, or non parlarmi.

            Il dì che Ulisse s'imbarcò per Troia,

            Tolsermi ogni beltà dal volto i numi,

            Bensì Autonòe mi chiama e Ippodamìa,

            Che da lato mi stieno. Ai proci sola

            Non offrirommi: ché pudor mel vieta”.

            Tacque; e la vecchia Eurinome le donne

            A chiamar tosto e ad affrettarle, uscìo.

              Ma l'occhiazzurra dea, nuovo pensiero

            Formando nella mente, alla pudica

            Figlia d'Icario un molle sonno infuse.

            Mentre giacea sovra il suo seggio, e tutte

            Il molle sonno le sciogliea le membra,

            Palla Minerva di celesti doni

            La rifornìa, perché di lei più sempre

            Invaghisser gli Achei. Pria su le guance

            Quella, che tien dalla bellezza il nome,

            Sparse divina essenza, onde si lustra

            La inghirlandata d'ôr Vener, se mai

            Va delle Grazie al dilettoso ballo:

            Poi di corpo la crebbe, e ricolmolla

            Nel volto, e tal su lei candor distese,

            Che l'avorio tagliato allora allora

            Ceder dovesse al paragon. La diva

            Risalì dell'Olimpo in su le cime.

              Venner le ancelle strepitando, e ratto

            Si riscosse Penelope dal sonno;

            E con man gli occhi stropicciossi e disse:

            “Qual dolce sonno della sua fosc'ombra

            Me infelice coprì! Deh così dolce

            Morte subitamente in me la casta

            Artemide scoccasse; ed io l'etade

            Più non avessi a consumar nel pianto,

            Sospirando il valor sommo, infinito,

            D'un eroe, cui non sorse in Grecia il pari”.

              Così detto, scendea dalle superne

            Lucide stanze al basso, e non già sola:

            Ma con Autonoe e Ippodamia da tergo.

            Sul limitar della dedàlea sala,

            Ove i proci sedean, trovasi appena,

            Che arresta il pié tra l'una e l'altra ancella

            L'ottima delle donne, e co' sottili

            Veli del capo ambo le guance adombra.

            Senza forza restaro e senza moto:

            L'alma più intenerìa, si raddoppiava

            Delle nozze il desire in ogni petto.

            Ella queste a Telemaco parole:

            “Figlio, io te più non riconosco. Sensi

            Nutrivi in mente più maturi e scorti

            Nella tua fanciullezza; ed or che grande

            Ti veggio, e in un'età più ferma entrato,

            Or, che stranier, che a riguardar si fesse

            La tua statura e la beltà, te prole

            D'uom beato dirìa, più non dimostri

            Giustizia o senno. Tollerar sì indegno

            Trattamento d'un ospite in tua reggia?

            Oltraggio sì crudel, che vendicato

            Non siagli, puote a un forestier qui usarsi,

            Che su te non ne cada eterno scorno?”

              Il prudente Telemaco rispose:

            “Madre, perché ti crucci, io non mi sdegno.

            Meglio, che pria ch'io di fanciullo uscissi,

            Le umane cose, il pur mi credi, intendo,

            E tra lor non confondo il torto e il dritto.

            Ma tutto operare o antiveder non valgo,

            Circondato qual sono e insidïato

            Da fiera gente, e d'assistenti solo.

            Quanto alla lotta tra l'estranio ed Iro,

            Parte i proci non v'ebbero, e del primo

            Fu la vittoria. Ed oh! piacesse al padre

            Giove e alla diva Pallade e ad Apollo,

            Che tentennasse a cotestor già domi

            La testa e si sfasciassero le membra,

            Nel vestibolo agli uni, e agli altri in sala

            Come a quell'Iro, che alle porte or siede

            Dell'atrio, il capo qua e là piegando,

            D'un ebbro in guisa e che su i piedi starsi

            Non può, né a casa ricondursi: tanto

            Le membra riportonne afflitte e peste”.

              Così la madre e il figlio. Indi tai voci

            Eurimaco a Penelope drizzava:

            “Figlia d'Icario, se te vista tutti

            Avesser per l'Iasio Argo gli Achivi,

            Turba qui di rivali assai più folta

            Banchetterìa dallo spuntar dell'alba:

            Ché non v'ha donna che per gran sembiante

            Per bellezza e per senno a te s'agguagli”.

              E la nobile a lui d'Icario figlia:

            “Eurimaco, virtù, sembianza tutto

            Mi rapiro gli dèi, quando gli Argivi

            Sciolser per Troia, e con gli Argivi Ulisse.

            S'egli, riposto in sua magione il piede,

            A reggere il mio stato ancor prendesse,

            Ciò mia gloria sarebbe e beltà mia.

            Ora io m'angoscio: tanti a me sul capo

            Mali piombaro. Ei, d'imbarcarsi in atto,

            Prese la mia con la sua destra, e: "Donna",

            Disse "non credo io già che i forti Achei

            Da Troia tutti riederanno illesi:

            Poiché sento pugnaci essere i Teucri,

            Gran sagittari e cavalieri egregi.

            Che pel campo agitar sanno i destrieri

            Rapidamente: quel che in breve il fato

            Delle guerre terribili decide.

            Quindi, se me ricondurran gli eterni,

            O Troia riterrà morto o cattivo,

            Sposa, io non so. Tu, sovra tutto, veglia.

            Rispetta il padre mio, la madre onora,

            Come oggi, od ancor più, finch'io son lunge.

            E allor che del suo pel vedrai vestito

            Del figlio il mento, a qual ti fia più in grado,

            Lasciando la magion, vanne consorte."

            Tal favellava; ed ecco giunto il tempo.

            L'infausta notte apparirà, che dee

            Portare a me queste odïose nozze,

            A me, cui Giove ogni letizia spense.

            Ma ciò la mia tristezza oggi più aggrava,

            Che gli usi antichi non si guardan punto.

            Color, che donna illustre e d'uom possente

            Figlia un dì ambìano e contendean tra loro,

            Belle conducean vittime, gli amici

            Per convitar della bramata donna,

            E doni a questa offrìan: non già l'altrui

            Struggeano impunemente a mensa assisi”.

              Disse, e l'eroe gioì ch'ella in tal modo

            De' proci i doni procurasse, e loro

            Molcesse il petto con parole blande,

            Mentre in fondo del cor altro volgea.

              Ma così Antìnoo allor: “Nobil d'Icario

            Figlia, saggia Penelope, ricevi

            I doni che gli Achei già per offrirti

            Sono, e cui fora il ricusar stoltezza;

            Ma noi di qua non ci torrem, se un prima

            De' più illustri fra noi te non acquista”.

              Piacquero i detti: e alla sua casa ognuno

            Per li doni spedì. L'araldo un grande

            Recò ad Antìnoo e vario e assai bel peplo,

            Che avea dodici d'ôr fibbie lampanti

            Con ardiglioni ben ricurvi attate.

            Eurimaco un monile addur si fece

            D'oro e intrecciato d'ambra, opra da insigne

            Mastro sudata, che splendea qual sole.

            Due serventi portaro a Euridamante

            Finissimi orecchini a tre pupille,

            Donde grazia infinita uscìa di raggi.

            Fregio non fu men prezïoso il vezzo,

            Che re Pisandro, di Polittor figlio,

            Dalle mani d'un servo ebbe; e non meno

            Belli d'ogni altro Acheo parvero i doni.

            La divina Penelope, seguita

            Dall'ancelle, co' doni alle superne

            Stanze montava; e i proci al ballo e al canto

            Finché, a romper nel mezzo i lor diletti,

            L'ombra notturna sovra lor cadesse.

              Caduta sovra lor l'ombra notturna,

            Tre gran bracieri saettanti luce,

            Cui legne secche e dure e fesse appena

            Nodrìano, i servi collocar nel mezzo;

            E allumâr qua e là più faci ancora.

            Cura di questi fuochi aveano alterna

            Le donne del palagio. A queste feo

            Tai detti il ricco di consigli Ulisse:

            “Schiave d'Ulisse, del re vostro assente

            Per sì lunga stagion, la veneranda

            Regina vostra a ritrovar salite.

            Fusi rotando o pettinando lane,

            Sedetele vicino, e ne' suoi mali

            La confortate. Mio pensier frattanto

            Sarà, che ai proci non fallisca il lume.

            Quando attendere ancor volesser l'alba,

            Me non istancheran: ché molto io sono

            Da molto tempo a tollerare avvezzo”.

              Questi detti lor feo. Riser le ancelle,

            E a vicenda guardavansi, e schernirlo

            Con villane parole una Melanto,

            Bella guancia, s'ardìa. Dolio costei

            Generò, ma Penelope nutrilla,

            Siccome figlia, nulla mai di quanto

            Lusinga le fanciulle, a lei negando:

            Né s'afflisse per ciò con la Regina

            Melanto mai, che anzi tradìala, e s'era

            A Eurimaco d'amor turpe congiunta.

            Costei pungea villanamente Ulisse:

            “Ospite miserabile, tu sei

            Un uomo, io credo, di cervello uscito,

            Tu, che in vece d'andar nell'officina

            D'un fabbro a coricarti o in vil taverna

            Qui tra una schiera te ne stai di prenci,

            Lungo cianciando, e intrepido. Alla mente

            Ti salì senza forse il molto vino,

            O d'uom brïaco hai tu la mente, e quindi

            Senza construtto parli. O esulti tanto,

            Perchè il ramingo Iro vincesti? Bada,

            Non alcun qui senza indugiare insorga,

            Che, d'Iro assai miglior, te nella testa

            Con le robuste man pesti, e t'insozzi

            Tutto di sangue, e del palagio scacci”.

              Bieco guatolla, e le rispose Ulisse:

            “Cagna, io ratto a Telemaco i tuoi sensi

            Perch'ei ti tagli qui medesimo in pezzi,

            A riportare andrò”. Così dicendo,

            Le femmine atterrì, che per la casa

            Mosser veloci, benché a tutte forte

            Le ginocchia tremassero: sì presso

            Ciò ch'ei lor detto avea, credeano al vero.

            Ei si fermò presso i bracieri ardenti,

            La luce ravvivandone, e tenendo

            Gli occhi ne' proci ognor, mentre nemiche

            Cose agitava, e non indarno, in petto.

              Minerva intanto non lasciava i proci

            Rimanersi dall'onte, acciò in Ulisse

            Crescer dovesse col dolor lo sdegno.

            Eurimaco di Pòlibo parlava

            Primo, l'eroe mordendo e a nuovo riso

            Provocando i compagni: Udite, amanti

            Dell'inclita regina, un mio pensiero,

            Che tacer non poss'io. Non senza un nume

            Venne costui nella magion d'Ulisse.

            Splender gli veggo, come face, il capo,

            Sovra cui non ispunta un sol capello”.

            Quindi, al rovesciator delle munite

            Città, converso: “Forestier”, soggiunse,

            “Vorréstu a me servir, s'io ti pigliassi

            Per assestar nel mio poder le siepi,

            E gli alberi piantar? Buona mercede

            Tu ne otterresti: cotidiano vitto

            E vestimenti al dosso e ai piè calzari.

            Ma perché sol fosti di vizî a scuola,

            Anzi che faticar, pitoccar vuoi,

            Onde, se t'è possibile, sfamarti.

              “Eurimaco”, rispose il saggio Ulisse,

            “Se tra noi gara di lavor sorgesse

            A primavera, quando il giorno allunga,

            E con adunche in man falci taglienti

            Ci ritenesse un prato ambo digiuni

            Sino alla notte, e non mancasse l'erba;

            O fosser da guidare ad ambo dati

            Grandi rossi, gagliardi e d'erba sazî

            Tauri d'etade e di virtude eguali,

            E date quattro da spezzar sul campo

            Sode bubulce col pesante aratro:

            Vedresti il mio vigor, vedresti, come

            Aprir saprei dritto e profondo il solco!

            Poni ancor, che il Saturnio un'aspra guerra

            Da qualche parte ci volgesse addosso,

            Ed io scudo e due lance, ed alle tempie

            Salda celata di metallo avessi,

            Misto ai primi guerrier mi scorgeresti

            Nella battaglia, e l'importuna fame

            Gittare a me non oseresti in faccia.

            Or protervo è il tuo labbro e duro il core,

            E forte in certa guisa e grande sembri,

            Perché con poca gente usi e non brava:

            Ma Ulisse giunga, o appressi almeno, e queste

            Porte, benché assai larghe, a te già vôlto

            Negli amari, cred'io, passi di fuga

            Deh come a un tratto sembreriano anguste!”

              Eurimaco in maggior collera salse,

            E, guardandolo bieco: “Ah! Doloroso”,

            Disse, “vuoi tu ch'io ti diserti? Ardisci

            Così gracchiar fra tanti, e nulla temi?

            O il vin t'ingombra, o tu nascesti pazzo,

            O quel vinto Iro ti cavò di senno”.

              Ciò detto, prese lo sgabel: ma Ulisse

            S'abbassava d'Anfinomo ai ginocchi

            Per cansarsi da Eurimaco, che in vece

            Nella man destra del coppier percosse.

            Cascata rimbombò la coppa in terra,

            E il pincerna ululando andò riverso.

            Strepitavano i proci entro la sala

            Dall'ombre cinta della notte, e alcuno

            Mirando il suo vicin: “Morto”, dicea,

            “Prima che giunto qua, l'ospite fosse!

            Portato non ci avrìa questo sì grave

            Tumulto. Or si battaglia, e per chi dunque?

            Per un mendìco, e già svanì de' nostri

            Prandî il diletto ed il più vil trionfa”.

              E Telemaco allor: “Che insania è questa,

            Miseri, a cui non cal più della mensa?

            Certo vi turba e vi commuove un dio.

            Su via, poiché de' cibi e de' licori

            Tacerà il desiderio in tutti voi,

            Ite a corcarvi, se vel detta il core,

            Ne' vostri alberghi: ché nessuno io scaccio”.

              Tutti, mordendo il labbro, alle sicure

            Parole di Telemaco stupîro.

            Ma tra lor sorse Anfinomo, l'illustre

            Figliuol di Niso: “Amici, a chi ben parla

            Sinistro più non si risponda o acerbo,

            Né l'ospite s'oltraggi, o alcun de' servi,

            Che in corte son del rinomato Ulisse.

            Muova il coppiere in giro; e poscia, fatti

            I libamenti, nelle nostre case,

            Le membra al sonno per offrir, si vada,

            E si lasci a Telemaco la cura

            Dello stranier, quando al suo tetto ei venne”.

              Disse, e non fu cui non piacesse il detto.

            L'inclito Mulio, il Dulichiense araldo

            D'Anfinomo, versò dall'urna il vino,

            E a tutti in giro nelle tazze il porse;

            Ed i proci libaro, e del licore

            Dolce, qual mele, s'innondaro il petto.

            Ma com ebber libato, e piena voglia

            Bevuto, ognun, per dar le membra al sonno,

            Affrettò di ritrarsi al proprio albergo.

             

             


            LIBRO DECIMONONO

             

             

              Nell'ampia sala rimanea l'eroe,

            Strage con Palla macchinando ai proci.

            Subito al figlio si converse, e disse:

            “Telemaco, levar di questi luoghi

            L'armi conviene, e trasportarle in alto.

            Se le bell'armi chiederanno i proci,

            Con parolette a lusingarli vôlto:

            "Io", lor dirai, "dal fumo atro le tolsi,

            Perché non eran più quali lasciolle

            Ulisse il giorno che per Troia sciolse:

            Ma deturpate, scolorate, ovunque

            Il bruno le toccò vapor del foco.

            Sovra tutto io temei, né senza un nume

            Destossi in me questo timor, non forse

            Dopo molto vôtar di dolci tazze

            Tra voi sorgesse un'improvvisa lite,

            E l'un l'altro ferisse, ed il convito

            Contaminaste e gli sponsali. Grande

            Allettamento è all'uom lo stesso ferro".”

              Telemaco seguì del suo diletto

            Padre il comando, e alla nutrice, cui

            Tosto a sé dimandò: “Mamma”, dicea,

            Su via, ritieni nelle stanze loro

            Le femmine rinchiuse, in sin ch'io l'armi,

            Che qui nella mia infanzia, e nell'assenza

            Del padre, mi guastò neglette il fumo,

            Trasporti in alto. Collocarle io voglio,

            Dove del foco non le attinga il vampo.

              Ed Euriclèa: “Figlio”, rispose, “in petto

            Deh ti s'annidi al fin senno cotanto,

            Che regger possa la tua casa, e intatti

            Serbar gli averi tuoi! Ma chi la strada

            Ti schiarerà? Quando non vuoi che innanzi

            Con le fiaccole in man vadan le ancelle”.

              “Il forestier”, Telemaco riprese;

            “Chi si nutre del mio, benché venuto

            Di lunge, io mai non patirollo inerte”.

            Tanto bastò a colei, perché ogni porta

            Del ben construtto ginecèo fermasse.

              Ulisse incontanente e il caro figlio

            Correano ad allogar gli elmi chiomati,

            Gli umbilicati scudi e l'aste acute;

            E avanti ad ambo l'Atenèa Minerva,

            Tenendo in mano una lucerna d'oro,

            Chiarissimo spargea lume d'intorno.

            E Telemaco al padre: “O padre, quale

            Portento! Le pareti ed i bei palchi,

            E le travi d'abete e le sublimi

            Colonne a me rifolgorare io veggio.

            Scese, io credo, qua dentro alcun de' numi”.

              “Taci”, rispose Ulisse: “i tuoi pensieri

            Rinserra in te, né cercare oltre. Usanza

            Degli abitanti dell'Olimpo è questa.

            Or tu vanne a corcarti: io qui rimango

            Le ancelle a spïar meglio, e della saggia

            Madre le inchieste a provocar, che molte

            Certo, ed al pianto miste, udire avviso”.

              Disse; e il figliuolo indi spiccossi, e al vivo

            Delle faci splendor nella remota

            Cella si ritirò de' suoi riposi,

            L'Aurora ad aspettar. Ma nella sala,

            Strage con Palla agli orgogliosi proci

            Architettando, rimanea l'eroe.

              La prudente Reina intanto uscìa

            Pari a Dïana, e all'aurea Vener pari,

            Della stanza secreta. Al foco appresso

            L'usato seggio di gran pelle steso,

            E cui d'Icmalio l'ingegnosa mano

            Tutto d'avorî e argenti avea commesso,

            Le collocaro: sostenea le piante

            Un polito sgabello. In questa sede

            La madre di Telemaco posava.

            Venner le ancelle dalle bianche braccia

            A tor via dalle mense il pan rimasto,

            E i vòti nappi, onde bevean gli amanti.

            Poi dai bracieri il mezzospento foco

            Scossero a terra, e nuove legna e molte

            Sopra vi accatastâr, perché schiarata

            La sala fosse e riscaldata a un tempo.

            Melanto allor per la seconda volta

            Ulisse rampognava: “Ospite, adunque

            La notte ancor t'avvolgerai molesto

            Per questa casa, e adocchierai le donne?

            Fuori, sciagurato, esci, e del convito,

            Che ingoiasti, t'appaga; o ver, percosso

            Da questo tizzo, salterai la soglia”.

              Con torvo sguardo le rispose Ulisse:

            “Malvagia, perché a me guerra sì atroce?

            Perché la faccia mia forse non lustra?

            Perch'io mal vesto, e, dal bisogno astretto,

            Qual tapino uomo e vïandante, accatto?

            Felice un giorno anch'io splendidi ostelli

            Tra le genti abitava, e ad un ramingo,

            Qual fosse, o in quale stato a me s'offrisse,

            Del mio largìa; molti avea servi, e nulla

            Di ciò mi venìa meno, ond'è chiamato

            Ricco, e beata l'uom vita conduce.

            Ma Giove, il figlio di Saturno, e nota

            La cagione n'è a lui, disfar mi volle.

            Guarda però, non tutta un giorno cada,

            Donna, dal viso tuo quella beltade,

            Di cui fra l'altre ancelle or vai superba:

            Guarda, non monti in ira o ti punisca

            La tua padrona, o non ritorni Ulisse,

            Come speme ne' petti ancor ne vive.

            E s'ei perì, tal per favor d'Apollo

            Fuor venne il figlio dell'acerba etade,

            Che femmina, di cui sien turpi i fatti,

            Mal potrìa nel palagio a lui celarsi”.

              Udì tutto Penelope, e l'ancella

            Sgridò repente: “O temerario petto,

            Cagna sfacciata, io pur nelle tue colpe,

            Che in testa ricadrannoti, ti colgo.

            Sapevi ben, poiché da me l'udisti,

            Ch'io lo straniero interrogar volea,

            Un conforto cercando in tanta doglia”.

              Dopo questo, ad Eurìnome si volse

            Con tali accenti: “Eurìnome, uno scanno

            Reca, e una pelle, ove, sedendo, m'oda

            L'ospite favellargli e mi risponda”.

              Disse; e la dispensiera un liscio scanno

            Recò in fretta, e giù pose, e d'una densa

            Pelle il coprì. Vi s'adagiava il molto

            Dai casi afflitto, e non mai domo, Ulisse,

            Cui Penelope a dir così prendea:

            “Ospite, io questo chiederotti in prima.

            Chi? di che loco? e di che stirpe sei?”

              E Ulisse, che più là d'ogni uomo seppe:

            “Donna, esser può giammai pel mondo tutto

            Chi la lingua snodare osi in tuo biasmo?

            La gloria tua sino alle stelle sale,

            Qual di re sommo, che sembiante a un nume,

            E su molti imperando uomini e forti,

            Sostiene il dritto: la ferace terra

            Di folti gli biondeggia orzi e frumenti,

            Gli arbor di frutti aggravansi: robuste

            Figlian le pecorelle, il mar dà pesci

            Sotto il prudente reggimento; e giorni

            L'intera nazïon mena felici.

            Ma pria che della patria e del lignaggio,

            Di tutt'altro mi chiedi, acciò non cresca

            Di tai memorie il dolor mio più ancora.

            Un infelice io son, né mi conviene

            Seder, piagnendo, nella tua magione;

            Che i suoi confini ha il pianto, e ai luoghi vuolsi

            Mirare e ai tempi. Se non tu, sdegnarsi

            Ben potrìa contro a me delle serventi

            Tue donne alcuna, e dire ancor che quello,

            Che fuor m'esce degli occhi, è il molto vino”.

              E la saggia Penelope a rincontro:

            “Ospite, a me virtù, sembianza, tutto

            Rapito fu dagl'immortali, quando

            Co' Greci ad Ilio navigava Ulisse:

            S'ei, rïentrando negli alberghi avìti,

            A reggere il mio stato ancor togliesse,

            Ciò mia gloria sarebbe, e beltà mia.

            Or le cure m'opprimono, che molte

            Mandâro a me gli abitator d'Olimpo.

            Quanti ha Dulichio e Same e la selvosa

            Zacinto, e la serena Itaca prenci,

            Mi ambiscon ripugnante; e sottosopra

            Volgon così la reggia mia, che poco

            Agli ospiti omai fommi e ai supplicanti

            Veder, né troppo degli araldi io curo.

            Io mi consumo, sospirando Ulisse.

            Quei m'affrettano intanto all'abborrito

            Passo, ed io contra lor d'inganni m'armo.

            Pria grande a oprar tela sottile, immensa,

            Nelle mie stanze, come un dio spirommi,

            Mi diedi, e ai proci incontanente io dissi:

            "Giovani, amanti miei, tanto vi piaccia,

            Quando già Ulisse tra i defunti scese,

            Le mie nozze indugiar, ch'io questo possa

            Lugubre ammanto per l'eroe Laerte,

            Acciocchè a me non pêra il vano stame,

            Prima fornir, che l'inclemente Parca

            Di lunghi sonni apportatrice il colga.

            Non vo' che alcuna delle Achee mi morda,

            Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo,

            Fallisse un drappo, in cui giacersi estinto".

            A questi detti s'acchetâro. Intanto

            Io, finché il dì splendea, l'insigne tela

            Tesseva, e poi la distessea la notte,

            Di mute faci alla propizia fiamma.

            Un trïennio così l'accorgimento

            Sfuggii degli Achei tutti, e fede ottenni.

            Ma, giuntomi il quarto anno, e le stagioni

            Tornate in sé con lo scader de' mesi,

            E de' celeri dì compiuto il giro,

            Côlta da proci, per viltà di donne

            Nulla di me curanti, alla sprovvista,

            E gravemente improverata, il drappo

            Condurre al termin suo dovei per forza.

            Ora io né declinar le odiate nozze

            So, né trovare altro compenso. A quelle

            M'esortano i parenti, e non comporta

            Che la sua casa gli si strugga il figlio,

            Che ormai tutto conosce, e al suo retaggio

            Intender può, qual cui dà gloria Giove.

            Ad ogni modo la tua patria dimmi,

            Dimmi la stirpe; d'una pietra certo

            Tu non uscisti o d'una quercia, come

            Suona d'altri nel mondo antica fama”.

              “O veneranda”, le rispose Ulisse,

            “Donna del Laerzìade, il mio lignaggio

            Saper vuoi dunque? Io te l'insegno. È vero

            Che augumento ne avran gli affanni miei,

            Natural senso di chïunque visse

            Misero pellegrin molt'anni e molti

            Dalla patria lontan: ma tu non cessi

            D'interrogarmi, e satisfarti io voglio.

            Bella e feconda sovra il negro mare

            Giace una terra che s'appella Creta,

            Dalle salse onde d'ogni parte attinta.

            Gli abitanti v'abbondano, e novanta

            Contien cittadi, e la favella è mista;

            Poiché vi son gli Achei, sonvi i natìi

            Magnanimi Cretesi ed i Cidonî,

            E i Dorî in tre divisi, e i buon Pelasgi.

            Gnosso vi sorge, città vasta, in cui

            Quel Minosse regnò, che del Tonante

            Ogni nono anno era agli arcani ammesso.

            Ei generò Deucalïone, ond'io,

            Cui nascendo d'Etón fu posto il nome,

            Nacqui, e nacque il mio frate Idomenèo,

            Di popoli pastor, che di virtute

            Primo, non che d'età, co' degni Atridi

            Ad Ilio andò su le rostrate navi.

            Là vidi Ulisse, ed ospitali doni

            Gli feci. A Creta spinto avealo un forte

            Vento, che, mentr'ei pur vêr la superba

            Troia tendea, dalle Malèe lo svolse,

            E il fermò nell'Amniso, ove lo speco

            D'Ilitia s'apre in disastrosa piaggia,

            Sì che scampò dalle burrasche appena.

            Entrato alla città, d'Idomenèo,

            Che venerando e caro egli chiamava

            Ospite suo, cercò: se non che il giorno

            Correa decimo o undecimo, che a Troia

            Passato il mio fratello era sul mare.

            Ma io l'addussi nel palagio, a cui

            Nulla d'agi mancava, e dove io stesso

            Quell'onor gli rendei ch'io seppi meglio.

            E fu per opra mia che la cittade

            Bianco pan, dolce vino e buoi da mazza,

            I suoi compagni a rallegrar, gli diede.

            Dodici dì nell'isola restâro,

            Perché levato da un avverso nume

            Imperversava un Aquilon sì fiero,

            Che a stento si reggea l'uomo sui piedi.

            Quello il dì terzodecimo al fin cadde;

            E solcavan gli Achei l'onde tranquille”.

              Così fingea, menzogne molte al vero

            Simili proferendo: ella, in udirle,

            Pianto versava e distruggeasi tutta.

            E come neve che su gli alti monti

            Sùbito vento d'occidente sparse,

            Sciogliesi d'Euro all'improvviso fiato,

            Sì che gonfiati al mar corrono i fiumi:

            Tal si stemprava in lagrime, piangendo

            L'uom suo diletto, che sedeale al fianco.

            Della consorte lagrimosa Ulisse

            Pietà nell'alma risentìa: ma gli occhi

            Stávangli, quasi corno o ferro fosse,

            Nelle palpebre immoti, e gli stagnava

            Nel petto ad arte il ritenuto pianto.

              Ella, poiché di lagrime fu sazia,

            Così ripigliò i detti: “Ospite io voglio

            Far prova ora di te, se, qual racconti

            Ulisse e i suoi tu ricettasti in Creta.

            Dimmi: quai panni rivestìanlo? e quale

            Di lui, de' suoi compagni era l'aspetto?”

              Rispose il ricco di consigli Ulisse:

            “Vigesim'anno è omai ch'egli da Creta

            Si drizzò a Troia, e il favellare, o donna,

            Di sì antica stagion duro mi sembra.

            Io tutta volta ubbidirò, per quanto

            Potrà sovra di sé tornar la mente.

            Un folto Ulisse avea manto velloso

            Di porpora, cui doppio unìa sul petto

            Fermaglio d'oro, e nel dinanzi ornava

            Mirabile ricamo: un can da caccia

            Tenea co' piedi anterïori stretto

            Vaio cerbiatto, e con aperta bocca

            Sovra lui, che tremavane, pendea;

            E stupìa il mondo a rimirarli in oro

            Effigïati ambo così, che l'uno

            Soffoca l'altro e già l'addenta, e l'altro

            Fuggir si sforza e palpita ne' piedi.

            In dosso ancora io gli osservai sì molle

            Tunica e fina sì, qual di cipolla

            Vidi talor l'inaridita spoglia,

            E splendea, come il Sol; tal che di molte

            Donne, che l'addocchiâr, fu maraviglia.

            Ma io non so, se in Itaca gli stessi

            Vestiti usasse, o alcun di quei che seco

            Partiro su la nave, o in lor magioni

            Viaggiante l'accolsero, donati

            Gli avesse a lui: che ben voluto egli era,

            E pochi l'agguagliâro in Grecia eroi.

            So che una spada del più fino rame

            E un bel manto purpureo, e una talare

            Veste in dono io gli porsi, e all'impalcata

            Nave il guidai, di riverenza in segno.

            Araldo, che d'età poco il vincea,

            L'accompagnava, alto di spalle e grosso,

            Dov'io rappresentarlo a te dovessi,

            Nero la cute ed i capelli crespo,

            E chiamavasi Eurìbate. Fra tutti

            I suoi compagni l'apprezzava Ulisse,

            Come più di pensieri a sé conforme”.

              A queste voci maggior voglia in lei

            Surse di pianto, conosciuti i segni

            Che sì chiari e distinti esporsi udiva.

            Fermato il lagrimare: “Ospite”, disse,

            “Di pietà mi sembrasti, e d'ora innanzi

            Di grazia mi parrai degno e d'onore.

            Io stessa gli recai dalla secreta

            Stanza piegate le da te descritte

            Vesti leggiadre, io nel purpureo manto

            La sfavillante d'ôr fibbia gli affissi.

            Or né vederlo più, né accôrlo in questa

            Sua dolce terra sperar posso. Ahi crudo

            Destin ben fu, che alla malvagia Troia,

            Nome abborrito, su per l'onda il trasse!”

              “D'Ulisse”, egli riprese, “inclita donna,

            Al bel corpo, che struggi, omai perdona,

            Né più volerti macerar nell'alma,

            L'uom tuo piangendo. Non già ch'io ten biasmi

            Ché ognuna spento quell'uom piange, a cui

            Vergine si congiunse e diede infanti,

            Benché diverso nel valor da Ulisse,

            Che agli dèi somigliar canta la fama.

            Ma resta dalle lagrime, e l'orecchio

            Porgi al mio dir, che sarà vero e intègro.

            Io de' Tespròti tra la ricca gente

            Ch'ei vive, intesi, e già ritorna, e molti

            Tesor, che qua e là raccolse, adduce.

            È ver che perdé il legno e i suoi compagni

            Della Trinacria abbandonando i lidi,

            Per la giusta di Giove ira e del Sole

            Di cui morto que' folli avean l'armento.

            Il mar, che tutti gl'inghiottì, sospinse

            Lui su gli avanzi della nave infranta

            Al caro degli dèi popol Feace.

            Costor di cuore il riverian qual nume,

            Colmávanlo di doni, e in patria salvo

            Ricondurre il volean: se non che nuove

            Terre veder pellegrinando e molti

            Tesori radunar, più saggio avviso

            Parve all'eroe d'accorgimenti mastro,

            E cui non v'ha chi di saver non ceda.

            Così a me de' Tespròti il re Fidone

            Disse e giurava, in sua magion libando,

            Che varata la barca era, e parati

            Quei che dovean ripatrïarlo. Quindi

            Mi congedò: ché per Dulichio a sorte

            Le vele alzava una Tesprozia nave.

            Ma ei mostrommi in pria quanto avea Ulisse

            Raccolto errando, e che una casa intera

            Per dieci etadi a sostener bastava.

            Poi soggiungeami, che a Dodona ir volle,

            Giove per consultare, e udir dall'alta

            Quercia indovina, se ridursi ai dolci

            Campi d'Itaca sua dopo sì lunga

            Stagion dovesse alla scoperta, o ignoto.

            Salvo è dunque e vicin; né dagli amici

            Disgiunto e schiuso dalle avite mura

            Gran tempo rimarrà. Vuoi tu ch'io giuri?

            Prima il Saturnio in testimonio io chiamo,

            Sommo tra i numi ed ottimo, e d'Ulisse

            Poscia il sacrato focolar, cui venni:

            Tutto, qual dico, seguir dee. Quest'anno,

            L'uno uscendo de' mesi o entrando l'altro,

            Varcherà Ulisse le paterne soglie.

              “Oh s'avveri!” Penelope rispose.

            “Tai dell'affetto mio pegni tu avresti,

            Che quale, o forestiero, in te con gli occhi

            Dêsse, dirìa: "Vedi mortal beato!"

            Ma altro io penso, e quel ch'io penso, fia:

            Né riedere il consorte, né tu scorta

            Impetrerai; ché non v'ha più un Ulisse

            Qui, se pur v'era un giorno e non fu sogno,

            Un Ulisse non v'ha, che i venerandi

            Ospiti accôr nel suo real palagio

            Sappia ed accommiatarli. Or voi mie donne

            Lavate i piedi allo straniero, e un denso

            Di coltri e vesti e splendidi mantelli

            Letto gli apparecchiate, ov'ei corcato

            Tutta notte si scaldi in sino all'alba.

            L'alba comparsa in orïente appena,

            Voi tergetelo e ungetelo; ed ei mangi

            Seduto in casa col mio figlio, e guai

            De' servi a quel che ingiurïarlo ardisse!

            Ufficio più non gli sarà commesso,

            Per cruccio ch'ei mostrassene. Deh come

            Sapresti, o forastier, ch'io l'altre donne

            Vinco, se vinco, di bontate e senno,

            Mentre di cenci e di squallor coverto

            Pasteggiar ti lasciassi entro l'albergo?

            Cose brevi son gli uomini. Chi nacque

            Con alma dura e duri sensi nutre,

            Le sventure a lui vivo il mondo prega,

            E il maledice morto. Ma se alcuno

            Ciò che v'ha di più bello ama ed in alto

            Poggia con l'intelletto, in ogni dove

            Gli ospiti portan la sua gloria, e vola

            Eterno il nome suo di bocca in bocca”.

              “Saggia del figlio di Laerte donna”,

            Ripigliò Ulisse, “le vellose vesti

            Cadeanmi in odio ed i superbi manti,

            Da quel dì che su nave a lunghi remi

            Lasciai di Creta i nevicosi monti.

            Io giacerò, qual pur solea, passando

            Le intere notti insonne. Oh quante notti

            Giacqui in sordido letto, e dell'Aurora

            Mal corcato affrettai la sacra luce!

            Né a me de' piedi la lavanda piace:

            Né delle donne, che ne' tuoi servigi

            Spendonsi, alcuna toccherà il mio piede,

            Se non è qualche annosa e onesta vecchia,

            Che al par di me sofferto abbia a' suoi giorni

            A questa il piede non disdirei toccarmi”.

              E l'egregia Penelope di nuovo:

            “Ospite caro, pellegrin di senno

            Non capitò qua mai ché di te al core

            Mi s'accostasse più, di te, che in modo

            Leggiadro esprimi ogni prudente senso.

            Una vecchia ho, molto avvisata e scorta,

            Che nelle braccia sue quell'infelice

            Raccolse uscito del materno grembo,

            E buon latte gli dava ed il crescea.

            Ella, benché di vita un soffio in lei

            Rimanga sol, ti laverà le piante.

            Via, fedele Euriclèa, sorgi e a chi d'anni

            Pareggia il tuo signor, le piante lava.

            Tal ne' piedi vederlo e nelle mani

            Parmi in qualche da noi lontana parte:

            Ché ratto l'uom tra le sciagure invecchia”.

              Euriclèa con le man coperse il volto

            E versò calde lagrime, e dolenti

            Parole articolò: “Me sventurata,

            Figlio, per amor tuo! Più che altri al mondo,

            Te, che nol merti, odia il Saturnio padre.

            Tanti non gli arse alcun floridi lombi,

            Tante ecatombe non gli offerse, come

            Tu, di giunger pregandolo a tranquilla

            Vecchiezza, e un prode allevar figlio; ed ecco

            Che del ritorno il dì Giove ti spense.

            O buon vegliardo, allor che a un alto albergo

            D'alcun signor lontano ei pellegrino

            S'appresserà, l'insulteran le donne,

            Qual te insultâro tutte queste serpi,

            Da cui, l'onte schivandone e gli oltraggi,

            Venir tocco ricusi; ed a me quindi

            La figlia saggia del possente Icario

            Tal ministero impon, che non mi grava.

            Io dunque il compierò, sì per amore

            Della reina, e sì per tuo: ché forte

            Commossa dentro il sen l'alma io mi sento.

            Ma tu ricevi un de' miei detti ancora:

            Fra molti grami forestier, che a questa

            Magion s'avvicinâro, un sol, che Ulisse

            Nella voce, ne' piedi, in tutto il corpo,

            Somigliasse cotanto io mai nol vidi”.

              “Vecchia”, rispose lo scaltrito eroe,

            “Così chïunque ambo ci scôrse, afferma:

            Correr tra Ulisse e me, qual tu ben dici,

            Somiglianza cotal, che l'un par l'altro”.

              L'ottima vecchia una lucente conca

            Prese, e molta fredd'acqua entro versovvi

            E su vi sparse la bollente. Ulisse,

            Che al focolar sedea, vêr l'ombra tutto

            Si girò per timor, non Euriclèa

            Scorgesse, brancicandolo, l'antica

            Margine ch'ei portava in su la coscia,

            E alla sua fraude si togliesse il velo.

            Euriclèa nondimen, che già da presso

            Fatta gli s'era ed il suo re lavava,

            Il segno ravvisò della ferita

            Dal bianco dente d'un cinghiale impressa

            Sul monte di Parnaso; e ciò fu, quando

            Della sua madre al genitor famoso

            Garzone andò ad Autolico, che tutti

            Del rapir vinse e del giurar nell'arti,

            Per favor di Mercurio, a cui sì grate

            Cosce d'agnelli ardeva e di capretti,

            Che ogni suo passo accompagnava il nume.

              Autolico un dì venne all'Itacese

            Popolo in mezzo e alla città, che nato

            Era di poco alla sua figlia un figlio.

            Questo Euriclèa su le ginocchia all'avo

            Dopo il convito pose, e feo tai detti:

            “Autolico, tu stesso il nome or trova

            Da imporre in fronte al grazïoso parto,

            Per cui stancasti co' tuoi voti i numi”.

            E prontamente Autolico in risposta:

            “Genero e figlia mia, quel gl'imporrete

            Nome, ch'io vi dirò. D'uomini e donne

            Su l'altrìce di molti immensa terra

            Spavento io fui: dunque si chiami Ulisse.

            Io poi, se, di bambin fatto garzone,

            Nel superbo verrà materno albergo

            Sovra il Parnaso, ove ho le mie ricchezze,

            Doni gli porgerò, per cui più lieto

            Discenderà da me che a me non salse”.

            A ricevere Ulisse andò tai doni,

            E Autolico l'accolse ed i suoi figli,

            Con amiche parole e aperte braccia;

            E l'avola Anfitèa, strettolo al petto,

            Il capo ed ambi gli baciò i begli occhi.

            Ai figli il padre comandò, né indarno,

            La mensa: un bue di cinque anni menaro,

            Lo scoiâr, l'acconciâr, tutto il partiro;

            E i brani, che ne fur con arte fatti,

            Negli schidoni infissero, e ugualmente

            Li dispensâr, domi che gli ebbe il foco.

            Così tutto quel dì d'ugual per tutti

            Prandio godean sino all'occaso. Il sole

            Caduto e apparsa della notte l'ombra,

            La dolcezza provâr, cui reca il sonno.

            Ma come figlia del mattin l'Aurora

            Si mostrò in ciel ditirosata e bella,

            I figliuoli d'Autolico ed Ulisse

            Con molti cani a una gran caccia usciro.

            La vestita di boschi alta montagna

            Salgono, e in breve tra i ventosi gioghi

            Veggonsi di Parnaso. Il sol recente,

            Dalle placide sorto acque profonde

            Dell'Oceán, su i rugiadosi campi

            Saettava i suoi raggi, e i cacciatori

            Scendeano in una valle: innanzi i cani

            Ivan, fiutando le salvatic'orme,

            E co' figli d'Autolico, pallando

            Una lancia, che lunga ombra gittava,

            Tra i cani e i cacciatori andava Ulisse.

            Smisurato cinghiale in così folta

            Macchia giacea, ché di venti acquosi

            Forza, né raggio mai d'acuto sole

            La percoteva, né le piogge affatto

            V'entravano: coprìa di secche foglie

            Gran dovizia la terra. Il cinghial fiero,

            Che al calpestìo, che gli sonava intorno,

            Appressare ognor più sentìa la caccia,

            Sbucò del suo ricetto, e orribilmente

            Rizzando i peli della sua cervice,

            E con pregni di foco occhi guatando,

            Stette di contra. Ulisse il primo, l'asta

            Tenendo soprammano, impeto fece

            In lui, ch'ei d'impiagare ardea di voglia:

            Ma la fera prevennelo, ed il colse

            Sovra il ginocchio con un colpo obliquo

            Della gran sanna e ne rapì assai carne;

            Né però della coscia all'osso aggiunse.

            Ferilla Ulisse allor nell'omer destro,

            Dove il colpo assestò: scese profonda

            L'aguzza punta della fulgid'asta;

            E il mostro su la polvere cadé,

            Mettendo un grido e ne volò via l'alma.

            Ma d'Autolico i figli a Ulisse tutti

            Travagliavansi intorno: acconciamente

            Fasciâr la piaga, e con possente incanto

            Il sangue ne arrestâro, e dell'amato

            Padre all'albergo il trasportaro in fretta.

            Sanato appieno e di bei doni carco,

            Contenti alla cara Itaca contento

            Lo rimandaro. Il padre suo Laerte

            E la madre Anticlèa gioìan pur troppo

            Del suo ritorno; e il richiedean di tutto,

            E più della ferita; ed ei narrava,

            Come, invitato a una silvestre guerra

            Da' figliuoli dell'avo, il bianco dente

            Piagollo d'un cinghial sovra il Parnaso.

              Tal cicatrice l'amorosa vecchia

            Conobbe, brancicandola, ed il piede

            Lasciò andar giù: la gamba nella conca

            Cadde, ne rimbombò il concavo rame,

            E piegò tutto da una banda; e in terra

            L'acqua si sparse. Gaudio a un'ora e duolo

            La prese, e gli occhi le s'empiêr di pianto,

            E in uscir le tornò la voce indietro.

            Proruppe al fin, prendendolo pel mento:

            “Caro figlio, tu sei per certo Ulisse,

            Né io, né io ti ravvisai, che tutto

            Pria non avessi il mio signor tastato”.

              Tacque; e guardò Penelope, volendo

            Mostrar che l'amor suo lungi non era.

            Ma la reina né veder di contra

            Poteo, né mente por: che Palla il core

            Le torse altrove. Ulisse intanto strinse

            Con la man destra ad Euriclèa la gola,

            E a sé tirolla con la manca, e disse:

            “Nutrice, vuoi tu perdermi? Tu stessa,

            Sì, mi tenesti alla tua poppa un giorno,

            E nell'anno ventesimo, sofferte

            Pene infinite, alla mia patria io venni.

            Ma, poiché mi scopristi, e un dio sì volle,

            Taci, e di me qui dentro altri non sappia:

            Però ch'io giuro, e non invan, che s'io

            Con l'aiuto de' numi i proci spegno,

            Né da te pur, benché mia balia, il braccio,

            Che l'altre donne ucciderà, ritengo”.

              “Figlio, qual mai dal core osò parola

            Salirti in su le labbra?” ella riprese.

            “Non mi conosci tu nel petto un'alma

            Ferma ed inespugnabile? Il segreto

            Io serberò, qual dura selce o bronzo.

            Ciò senti ancora, e tel rammenta: dove

            Spengan gli dèi per la tua mano i proci

            Delle donne in palagio ad una ad una

            Qual t'ingiuria io dirotti, e qual t'onora”.

              “Nutrice, del tuo indizio uopo non havvi”,

            Ripigliò Ulisse, “io per me stesso tutte

            Le osserverò, conoscerolle: solo

            Tu a tacer pensa, e lascia il resto ai numi”.

              La vecchia tosto per nuov'acqua uscìo,

            Sparsa tutta la prima. Asterso ch'ebbe

            Ulisse ed unto, ei nuovamente al foco,

            Calde aure a trarne, s'accostò col seggio,

            E co' panni la margine coverse.

            E Penelope allor: “Brevi parole,

            Ospite, ancora. Già de' dolci sonni

            Il tempo è giunto per color, cui lieve

            Doglia consente il ricettarli in petto.

            Ma doglia a me non lieve i numi diero.

            Finché riluce il dì, solo ne' pianti

            Piacere io trovo e ne' sospiri, mentre

            Guardo ai lavori dell'ancelle e a' miei.

            La notte poi, quando ciascun s'addorme,

            Che val corcarmi, se le molte cure

            Crudele intorno al cor muovonmi guerra?

            Come allor che di Pándaro la figlia,

            Ne' giorni primi del rosato aprile,

            La fioriscente Filomela, assisa

            Degli arbor suoi tra le più dense fronde,

            Canta soavemente, e in cento spezza

            Suoni diversi la instancabil voce;

            Iti, che a Zeto partorì, piangendo,

            Iti caro, che poi barbara uccise

            Per insania, onde più sé non conobbe:

            Non altrimenti io piango, e l'alma incerta

            In questa or piega ed ora in quella parte,

            S'io stia col figlio, e intègro serbi il tutto,

            Le sostanze, le serve e gli alti tetti,

            Del mio consorte rispettando il letto,

            E del popol le voci; o quello io siegua

            Degli Achei tra i miglior, che alle mie nozze,

            Doni infiniti presentando, aspira.

            Sino a tanto che il figlio era di senno,

            Come d'età, fanciullo ancor, lasciata

            Questa io mai non avrei per altra casa:

            Ma or ch'ei crebbe, e della pubertade

            Già la soglia toccò, men priega ei stesso

            Non potendo mirar lo strazio indegno

            Che di lui fan gli Achivi. Or tu, su via,

            Spiegami un sogno, ch'io narrarti intendo.

            Venti nella mia corte oche nutrisco,

            E di qualche diletto emmi il vederle

            Coglier da limpid'acqua il biondo grano.

            Mentr'io le osservo, ecco dall'alto monte

            Grande aquila calar curvorostrata,

            Frangere a tutte la cervice, tutte

            L'una su l'altra riversarle spente.

            E risalir vèr l'etere divino.

            Io mettea lai, benché nel sogno, e strida,

            E le nobili Achee dal crin ricciuto

            Venìano a me, che miserabilmente

            L'oche plorava dall'aguglia morte,

            E a me intorno affollavansi. Ma quella,

            Rivolando dal ciel, su lo sporgente

            Tetto sedeasi, e con umana voce:

            "Ti accheta", diceami, "e spera, o figlia

            Del glorïoso Icario: un vano sogno

            Questo non è, ma visïon verace

            Di ciò che seguirà. Nell'oche i proci"

            Ravvisa, e in queste d'aquila sembianze

            Il tuo consorte, che al fin venne, e tutti

            Stenderà nel lor sangue a terra i proci.

            Tácquesi: ed il sonno abbandonommi, ed io,

            Gittando gli occhi per la corte, vidi

            Le oche mie, che nel truògolo, qual prima,

            I graditi frumenti ivan beccando”.

              “Donna”, rispose di Laerte il figlio,

            “Altramente da quel che Ulisse feo

            Non lice il sonno interpretar: l'eccidio

            Di tutti i proci manifesto appare”.

              E la saggia Penelope: “Non tutti,

            Ospite, i sogni investigar si ponno.

            Scuro parlano e ambiguo, e non risponde

            L'effetto sempre. Degli aerei sogni

            Son due le porte, una di corno, e l'altra

            D'avorio. Dall'avorio escono i falsi,

            E fantasmi con sé fallaci e vani

            Portano: i veri dal polito corno,

            E questi mai l'uom non iscorge indarno.

            Ah! creder non poss'io che quinci uscisse

            L'immagin fiera d'un evento, donde

            Tanta verrebbe a me gioia e al mio figlio.

            Ma odi attento i detti miei. Già l'Alba,

            Che rimuover mi dee da questi alberghi,

            Ad apparir non tarderà. Che farmi?

            Un giuoco io propor vo'. Dodici pali,

            Quai puntelli di nave, intorno a cui

            Va del fabbro la man, piantava Ulisse

            L'un dietro all'altro con anelli in cima;

            Ed ei, lunge tenendosi, spingea

            Per ogni anello la pennuta freccia.

            Io tal cimento proporrò. Chi meglio

            Tender l'arco saprà fra tutti i proci,

            E d'anello in anello andar col dardo,

            Lui seguir non ricuso, abbandonando

            Questa sì bella e ben fornita e ricca

            Magion de' miei verd'anni, ond'anche in sogno

            Dovermi spesso ricordare io penso”.

              “O veneranda”, ripigliava Ulisse,

            Donna del Laerzìade, una tal prova

            Punto non differir: pria che un de' proci

            Questo maneggi arco lucente, e il nervo

            Ne tenda e passi pe' ritondi ferri,

            Ti s'offrirà davante il tuo consorte”.

              E Penelope al fine: “Ospite, quando,

            Vicino a me sedendoti, il diletto

            Protrar della tua voce a me volessi,

            Non mi cadrebbe su le ciglia il sonno.

            Ma non può sempre l'uom vivere insonne:

            Ché legge a tutto stabilîro e meta

            Su la terra fruttifera gli eterni.

            Io, nelle stanze alte salita, un letto

            Premerò, che divenne a me lugubre

            Dal dì che Ulisse il canape funesto

            Per la nemica sciolse infanda Troia.

            Tu nel palagio ti riposa, e a terra

            Sdráiati, o, se ti piace, a te le mie

            Donne apparecchieran, dove corcarti”.

              La Regina, ciò detto, alle superne

            Montò sue stanze, e non già sola; ed ivi

            Sino a tanto piangea l'amato Ulisse,

            Che un dolce sonno sovra lei spargesse

            La cilestra negli occhi augusta diva.

             

             


            LIBRO VENTESIMO

             

             

              Il magnanimo figlio di Laerte

            Giacea nell'atrio. Una recente pelle

            Steso aveasi di bue con altre molte

            Di pingui agnelle, dagl'ingordi Achei

            Sacrificate; e d'un velloso manto

            Lui già corcato Eurìnome coverse.

            Qui co' pensieri suoi l'eroe vegliava,

            Sventure ai proci divisando. Intanto

            Le ancelle, che soleano ai proci darsi,

            Usciro di lor camere, in gran riso

            Prorompendo tra loro e in turpe gioia.

            Ei forte l'alma si sentìa commossa,

            E bilanciava, se avventarsi, e tutte

            Porle a morte dovesse in un istante,

            O consentir che per l'estrema volta

            Delinquesser le tristi; e in sé fremea.

            E come allor che ai cagnolini intorno

            Gira la madre, e, se un ignoto spunta,

            Latra e brama pugnar: non altrimenti

            Egli, che mal patìa l'opre nefande,

            Alto fremea nel generoso petto.

            Pur, battendosi l'anca e rampognando

            Egli stesso il suo cor: “Soffri”, gli disse,

            “Tu che assai peggior male allor soffristi

            Che il Ciclope fortissimo gli amici

            Mi divorava. Tollerar sapesti,

            Finché me fuor dell'antro il senno trasse

            Quand'io già della vita era sull'orlo”.

              Ei così i moti reprimea del core

            Che ne' recinti suoi cheto si stette.

            Non lasciava però su l'un de' fianchi

            Di voltarsi o sull'altro, a quella guisa

            Che pien di sangue e d'ádipe ventriglio

            Uom, che si strugge di vederlo incotto,

            D'un gran foco all'ardor volge e rivolge.

            Su questo ei si voltava o su quel fianco,

            Meditando fra sé, come potesse

            Scagliarsi al fin contra i malnati prenci,

            Contra molti egli solo; ed ecco, scesa

            Di cielo, a lui manifestarsi, in forma

            D'una mortale, l'Atenèa Minerva.

            Stettegli sovra il capo, e tai parole

            Gli volse: “O degli umani il più infelice,

            Perché i conforti rifiutar del sonno?

            Sei pur nel tuo palagio, appo la fida

            Tua donna, e al fianco d'un figliuolo, a cui

            Vorrìano aver l'uguale i padri tutti”.

              “Il ver parlasti, o dea”, rispose Ulisse:

            “Se non che meco io mi consiglio, come

            Scagliarmi ai proci svergognati incontro,

            Mentre in folla ognor son quelli, ed io solo.

            In oltre io penso, e ciò più ancor mi turba,

            Che, quando col favore anco m'avvenga

            Del Tonante e col tuo, cacciarli a Dite;

            Non so dove sottrarmi a quella turba

            Che vengiarli vorrà. Tu questo libra”.

              “Tristo!” riprese la negli occhi Azzurra,

            “L'uomo a un compagno suo crede, a un mortale

            Peggior di sé talvolta e meno esperto,

            E tu non a me diva, e a me, che in ogni

            Travaglio tuo sempre ti guardo? Sappi,

            Che se cinquanta d'uomini parlanti

            Fosserci intorno pugnatrici schiere,

            Sparsi per la campagna i greggi loro

            Tua preda diverrìano e i loro armenti.

            Chétati, e il sonno nel tuo sen ricevi:

            Ché vegliando passar la notte in guardia

            Troppo è molesto. Uscirai fuor tra poco

            Da tutti senza dubbio i mali tuoi”.

            Disse, e un sopor dolcissimo gl'infuse:

            Né pria le membra tutte quante sciolte

            Gli vide, e sgombra d'ogni affanno l'alma

            Che all'Olimpo tornò l'inclita diva.

              Ma il sonno sen fuggì dagli occhi a un tratto

            Della reina, che già sovra il molle

            Letto sedeasi e ricadea nel pianto.

            Come sazia ne fu, calde a Dïana

            Preghiere alzò la sconsolata donna:

            “O del Saturnio figlia, augusta dea.

            Deh! nel mio seno un de' tuoi dardi scocca,

            E ratto poni in libertà quest'alma,

            O mi rapisca il turbine, e trasporti

            Per l'aria, e nelle rapide correnti

            Dell'Oceàn retrogrado mi getti.

            Così già le Pandàridi spariro,

            Che per voler de' numi, alla lor madre

            Crucciati e al padre, nella mesta casa

            Orfanelle rimaste erano e sole;

            Venere le nutrì di dolce mele,

            Di vin soave e di rappreso latte:

            Senno e beltade sovra ogni altra donna

            Giuno compartì loro, Artemi un'alta

            Statura, ed ai lavori i più leggiadri

            Mano e intelletto la gran dea d'Atene.

            Già Venere d'Olimpo i gioghi eccelsi

            Montato avea, per dimandar le nozze

            Delle fanciulle al fulminante Giove,

            Che nulla ignora e i tristi eventi e i lieti

            Conosce de' mortali, e quelle intanto

            Dalle veloci Arpie fûro rapite,

            E in balìa date alle odïose Erinni.

            Cosi d'Itaca me tolgano i numi,

            O d'un de' dardi suoi l'orocrinita

            Dïana mi ferisca; ond'io ritrovi,

            Benché ne' regni della morte, Ulisse,

            E del mio maritaggio uom non rallegri,

            Che di lui fia tanto minore. Ahi lassa!

            Ben regger puossi la più ria sventura,

            Quando, passati lagrimando i giorni,

            Le notti almen ci riconforta il sonno,

            Che su i beni l'obblìo sparge e su i mali.

            Ma sogni a me fallaci un nume invìa:

            E questa notte ancor mi si corcava

            Da presso il mio consorte in quel sembiante

            Che avea nel dì che su la nave ascese”.

            Tacque; e sul trono d'ôr l'Aurora apparve.

              Ulisse udì le lagrimose voci,

            Ed in sospetto entrò, che fatta accorta

            Di lui si fosse, e già pareagli al capo

            Vedersela vicina. Alzossi, e il manto

            E i cuoi, tra cui giacea, raccolse e pose

            Sovra una sedia, e la bovina pelle

            Fuor portò del palagio. Indi, levate

            Le mani, a Giove supplicava: “O Giove

            Padre e dèi tutti, che per terra e mare

            Me dopo tanti affanni al patrio nido

            Riconduceste, un lieto augurio in bocca

            Mettete ad un di quei che nell'interno

            Végghiano; e all'aria aperta un tuo prodigio

            Giove, mi mostra”. Così orando, disse.

              Udillo il sommo Giove, e incontanente

            Dal sublime tonò lucido Olimpo

            E l'eroe giubilonne. Al tempo istesso

            Donna, che il grano macinava, detti

            Presàghi gli mandò, donde non lungi

            Del pastor delle genti eran le mole,

            Dodici donne con assidua cura

            Giravan ciascun dì dodici mole

            E in bianca polve que' frumenti ed orzi

            Riducean, che dell'uom son forza e vita.

            Le altre dormìan dopo il travaglio grave:

            Ma quella, cui reggean manco le braccia,

            Compiuto non l'avea. Costei la mola

            Fermò di botto, e feo volar tai voci,

            Che segnale al re fûro: “O padre Giove,

            Degli uomini signore e degli dèi,

            Forte tonasti dall'eterea volta,

            E non v'ha nube. Tal portento è al certo

            Per alcun de' mortali. Ah! le preghiere

            Anco di me infelice adempi, o padre;

            Cessi quest'oggi nella bella sala

            Il disonesto pasteggiar de' proci,

            Che di fatica m'hanno e di tristezza

            Presso un grave macigno omai consunta.

            L'ultimo sia de' lor banchetti questo!”

              Della voce allegravasi e del tuono

            L'illustre figlio di Laerte, e l'alta

            Già in pugno si tenea giusta vendetta.

              L'altre fantesche raccoglieansi intanto,

            E un foco raccendean vivo e perenne.

            Ma il deiforme Telemaco di letto

            Surse, vestì le giovanili membra,

            L'acuto brando all'òmero sospese,

            Legò sotto i piè molli i bei calzari,

            E una valida strinse asta nodosa

            Con fino rame luminoso in punta.

            Giunto alla soglia, s'arrestò col piede

            E ad Euriclèa parlò: “Cara nutrice,

            Il trattaste voi ben di cibo e letto

            L'ospite? O forse non curato giacque?

            Anco la madre mia, benché sì saggia,

            Sfallisce in questo: chi è men degno, onora,

            E non cura onorar chi più sel merta”.

              Ed Euriclèa: “Figliuol, non incolparmi

            La innocente tua madre. A suo piacere

            Bevea l'ospite assiso; e quanto all'esca,

            Domandato da lei, disse, mestieri

            Non ne aver più. Come appressava l'ora

            Del riposo e del sonno, apparecchiargli

            C'impose un letto: ma i tappeti molli

            Rifiutò, qual chi vive ai mali in grembo.

            Corcossi nel vestibolo su fresca

            Pelle di tauro e cuoi d'agnelli: noi

            D'una vellosa clamide il coprimmo”.

              Telemaco, ciò udito, uscìa dell'alte

            Stanze, al foro per ir, con l'asta in mano;

            E due seguìanlo pieveloci cani.

            Colà gli Achei dagli schinieri egregi

            Raccolti l'attendean: mentre l'antica

            D'Opi di Pisenòr figlia, le ancelle

            Stimolando: “Affrettatevi”, dicea,

            “Parte a nettar la sala e ad inaffiarla,

            E le purpuree su i ben fatti seggi

            Coverte a dispiegar; parte le mense

            Con le umide a lavar forate spugne

            E i vasi a ripolire e i lavorati

            Nappi ritondi; ed al profondo fonte

            Parte andate per l'acqua, e nel palagio

            Recatela di fretta. I proci molto

            Non tarderan: sollecitar li dee

            Questo dì, che festivo a tutti splende”.

              Tutti ascoltâro ed ubbidîro. Venti

            Al fonte s'avvïâr dalle nere acque:

            L'altre gli altri compieano interni uffici.

            Vennero i servi degli Achivi, e secche

            Legna con arte dividean; le donne

            Venner dal fonte; venne Eumèo, guidando

            Tre, della mandra fior, nitidi verri,

            Che nel vasto cortil pascer lasciava.

            Quindi, fermate nel suo re le ciglia:

            “Vecchio, imparâro a rispettarti forse,

            O”, disse, “a t'oltraggiar seguon gli Achei?”

              “Eumèo”, rispose il re, “piacesse ai numi

            Questa gente punir, che nell'altrui

            Magion rei fatti, ingiurïando, pensa,

            E dramma di pudor non serba in petto!”

              Così tra lor dicean, quando il capraio

            Co' più bei della greggia eletti corpi,

            L'avido ventre a rïempir de' proci,

            Giunse, Melanzio; e seco due pastori.

            Ei le capre legò sotto il sonante

            Portico, e morse nuovamente Ulisse:

            “Stranier, molesto ci sarai tu ancora,

            Mendicando da ognun? Fuori una volta

            Non uscirai? Difficilmente, io credo,

            Noi ci dividerem, che l'un dell'altro

            Assaggiate le man non abbia in prima:

            Però che tu villanamente accatti.

            Altra mensa in città dunque non fuma?”

              Nulla l'offeso eroe: ma sol crollava

            Tacitamente il capo, e la risposta,

            Che farà con la man, tra sé volgea.

              Filezio in quella sopraggiunse terzo,

            Grassa vacca menando e pingui capre,

            Cui traghettò su passeggiera barca

            Gente di mar, che a questa cura intende.

            Le avvinse sotto il portico, e, vicino

            Fattosi a Eumèo, l'interrogava: “Eumèo,

            Chi è quello stranier che ai nostri alberghi

            Testé arrivò? Quali esser dice, e dove

            La sua terra nativa e i padri suoi?

            Lasso! un monarca egli mi sembra in vista.

            Certo piace agli dèi metter nel fondo

            Delle sventure i vïandanti, quando

            Si destina da loro ai re tal sorte”.

            Disse, e appressando il forestiero e a lui

            La man porgendo: “Ospite padre, salve!”

            Soggiunse: “almen, se nella doglia or vivi,

            Sorganti più sereni i giorni estremi!

            Giove, qual mai di te nume più crudo,

            Che alla fatica e all'infortunio in preda

            Lasci i mortali, cui la vita desti?

            Freddo sudor bagnommi e mi s'empiêro

            Gli occhi di pianto, immaginando Ulisse,

            Cui veder parmi con tai panni in dosso

            Tra gli uomini vagar, se qualche terra

            Sostienlo ancora, e gli risplende il Sole.

            Sventurato di me! L'inclito Ulisse

            A me fanciullo delle sue giovenche

            La cura diè ne' Cefalleni campi;

            Ed io sì le guardai, che in infinito

            L'armento crebbe dalle larghe fronti.

            Questo sul mare trasportar per esca

            Deggio a una turba di signori estrani,

            Che né guarda al figliuol, né gli dèi teme:

            Mentre de' beni del mio sir lontano

            La parte, cui finor perdonò il dente,

            Con gli occhi ella divora e col desìo.

            Ora io stommi fra due: perché rea cosa

            Certo sarìa, vivo il figliuolo, a un'altra

            Gente con l'armento ir; ma d'altra parte

            Pesami fieramente appo una mandra

            Restar, che a me divenne omai straniera.

            E se non fosse la non morta speme

            Che quel misero rieda e sperda i proci,

            Io di qualche magnanimo padrone

            Già nella corte riparato avrei:

            Ché tai cose durar più non si ponno”.

              E l'eroe sì gli rispondea: “Pastore,

            Poiché malvagio non mi sembri e stolto,

            E senno anche dimostri, odi i miei detti,

            E il giuramento che su questi siede.

            Io pria tra i numi in testimonio Giove,

            E la mensa ospital chiamo, e d'Ulisse

            Il venerando focolar, cui venni:

            Giungerà il figlio di Laerte, e all'Orco

            Precipitar gli usurpatori proci

            Vedranlo, se tu vuoi, gli occhi tuoi stessi”.

              “Ospite, questo il Saturnìde adempia”,

            Replicò il guardïan: “vedresti, come

            Intrepido seguir del mio signore

            La giusta ira io saprei”. Tacque; ed Eumèo

            S'unìa con esso, e agl'immortali tutti

            Pel ritorno del re preghiere fea.

              Morte intanto a Telemaco s'ordìa

            Dai proci. È ver che alla sinistra loro

            Un'aquila comparve altovolante,

            Che avea colomba trepida tra l'ugne.

            Tosto Anfinomo sorse, e: “Amici”, disse,

            “Lasciam da un lato la cruenta trama,

            Cui più che invan, si pensa; ed il convito

            Ci sovvenga più presto”. E il detto piacque.

            I proci entraro nel palagio, e i manti

            Sovra i seggi deposero: le pingui

            Capre e i montoni s'immolaro, corse

            De' verri il sangue, e la buessa, onore

            Dell'armento, cadé. Fûro spartite

            Le abbrustolate viscere, e mesciuto

            Nell'urne il rosso vino. Eumèo le tazze,

            Filezio i pani dispensò ne' vaghi

            Canestri: ma dall'urne il buon licore

            Melanzio nelle ciòtole versava.

            E già i prenci volgeano all'apprestate

            Mense il pensier, quando d'Ulisse il figlio,

            Non senza un suo perché, seder fe' il padre

            Presso il marmoreo limitar, su rozzo

            Scanno ed a picciol desco; e qui una parte

            Gl'imbandì delle viscere, e gl'infuse

            Vermiglio vino in tazza d'oro, e tale

            Parlò: “Tu pur siedi co' prenci, e bevi.

            Io dalle lingue audaci e dalle mani

            Ti schermirò: ché non è questo albergo

            Pubblico, ma d'Ulisse, ed a me solo

            Egli acquistollo. E voi frenate, o proci,

            Le man, non che le lingue, onde contesa

            Qui non s'accenda e subitana rissa”.

              Strinser le labbra, ed inarcâr le ciglia.

            Ed Antìnoo così: “La minacciosa,

            Compagni, di Telemaco favella,

            Per molesta che sia, durarla vuolsi.

            Giove il protegge: ché altramente imposto,

            Benché canoro arringator, gli avremmo

            Silenzio eterno da gran tempo”. Disse;

            E il dispregiò Telemaco, e si tenne.

              Già i banditori l'ecatombe sacra

            Degli dèi conducean per la cittade,

            E raccoglieansi i capelluti Achivi

            Sotto il bosco frondifero d'Apollo,

            Di cui per cotanto aere il dardo vola.

            E al tempo stesso, incotte omai le carni,

            Nel palagio d'Ulisse, e dagli acuti

            Schidoni tratte, e poi divise in brani,

            L'alto vi si tenea prandio solenne.

            Parte uguale con gli altri anco ad Ulisse

            Fu posta innanzi dai ministri, come

            Volle il caro figliuol: né degli oltraggi

            Però Minerva consentìa che i proci

            Rimettessero un punto, acciocché al Rege

            L'ira più addentro penetrasse in petto.

            V'era tra loro un malvagio uom, che avea

            Nome Ctesippo, e dimorava in Same.

            Costui, fidando ne' tesor paterni,

            La consorte del re con gli altri ambiva.

            Surse, e tal favellò: “Proci, ascoltate.

            Il forestier, qual convenìasi, ottenne

            Parte uguale con noi. Chi mai vorrìa

            Di Telemaco un ospite fraudarne,

            Chïunque fosse? Ora io di fargli intendo

            Un nobil don, ch'egli potrà in mercede

            Dar poscia o al bagnaiuolo, o a qual tra i servi

            Gli piacerà dell'immortale Ulisse”.

              Così dicendo, una bovina zampa

            Levò su da un canestro, e con gagliarda

            Mano avventolla. L'inconcusso eroe

            Sfuggilla, il capo declinando alquanto,

            Ed in quell'atto d'un cotal suo riso

            Sardonico ridendo; e il piè del bue

            A percuotere andò nella parete.

            “Meglio d'assai per te, che nol cogliesti”,

            Sì Telemaco allora il tracotante

            Ctesippo rabbuffò: “meglio, che il colpo

            L'oste schivasse; però ch'io nel mezzo

            Del cor senz'alcun dubbio un'asta acuta

            T'avrei piantata, e delle nozze in vece

            Celebrate t'avrìa l'esequie il padre.

            Fine dunque agl'insulti. Io più fanciullo

            Non son, tutto m'è noto, ed i confini

            Segnar del retto e del non retto, io valgo

            Credete voi ch'io soffrirei tal piaga

            Nelle sostanze mie, se forte troppo

            Non fosse impresa il frenar molti a un solo?

            Su via, cessate dall'offese, o, dove

            Sete del sangue mio l'alme vi pugna,

            Prendetevi il mio sangue. Io ciò pria voglio.

            Che veder ciascun giorno opre sì indegne:

            I forestieri dileggiati e spesso

            Battuti, e nello splendido palagio

            Contaminate, oh reità! le ancelle”.

              Tutti ammutiro, e sol, ma tardi molto,

            Favellò il Damastòride Agelao:

            “Nobili amici, a chi parlò con senno,

            Nessun risponda ingiurioso e avverso;

            Né forestier più si percuota, o altr'uomo

            Che in corte serva del divino Ulisse.

            Io poi darò a Telemaco e alla madre

            Util consiglio con parole blande,

            Se in cor loro entrerà. Finché speranza

            Del ritorno d'Ulisse a voi fioriva,

            Gl'indugi perdonare ed i pretesti

            Vi si poteano, e il trarre in lungo i proci:

            Ché, quando apparsa la sua faccia fosse,

            Di prudenza lodati avrìavi il mondo.

            Ma chiaro parmi che più in man d'Ulisse

            Il ritorno non è. Trova la madre

            Dunque e la pressa tu, che a quel de' proci,

            Che ha più virtude e più doni offre, vada:

            Onde tu rïentrar ne' beni tutti

            Del padre possa, e alla tua mensa in gioia,

            Non che in pace, seder, mentre la madre

            Del nuovo sposo allegrerà le mura.

              E il prudente Telemaco: “Per Giove”,

            Rispose “e per li guai del padre mio,

            Ch'erra o perì, dalla sua patria lunge,

            Ti protesto, Agelao, ch'io della madre

            Non indugio le nozze, anzi la esorto

            Quello a seguir che più le aggrada, ed offre

            Doni in copia maggior: ma i Dii beati

            Tolgan che involontaria io la sbandisca

            Da queste soglie con severi accenti”.

              Disse, e Minerva inestinguibil riso

            Destò ne' proci e ne travolse il senno.

            Ma il riso era stranier su quelle guance:

            Ma sanguigne inghiottìan delle sgozzate

            Bestie le carni, e poi dagli occhi a un tratto

            Sgorgava loro un improvviso pianto,

            E di prevista disventura il duolo

            Ne' lor petti regnava. E qui levossi

            Teoclimèno, il gran profeta, e disse:

            “Ah miseri, che veggio? E qual v'incontra

            Caso funesto? Al corpo intorno, intorno

            D'atra notte vi gira al capo un nembo.

            Urlo fiero scoppiò; bagnansi i volti

            D'involontarie lagrime; di sangue

            Tingonsi le pareti ed i bei palchi;

            L'atrio s'empie e il cortil d'ombre, che in fretta

            Giù discendon nell'Erebo; disparve

            Dal cielo il sole, e degli aerei campi

            Una densa caligine indonnossi”.

              Tutti beffarsi del profeta, e queste

            Voci Eurimaco sciolse: “Il forestiero,

            Che qua venne testé non so da dove,

            Vaneggia, io penso. Giovani, su via,

            Mettetel fuori, acciocché in piazza ei vada,

            Poscia che qui per notte il giorno prende”.

              E l'indovino: “Eurimaco”, rispose,

            “Coteste guide, che vuoi darmi, tienti.

            Occhi ho in testa ed orecchi, e due piè sotto,

            E di tempra non vile un'alma in petto.

            Con tai soccorsi io sgombrerò, scorgendo

            Il mal che sopra voi pende, e a cui torsi

            Non potrà un sol di voi, che gli stranieri

            Oltraggiate, e studiate iniquitadi

            Nella magion del pari ai numi Ulisse”.

            Ciò detto, uscì da loro, ed a Pirèo,

            Che di buon grado il ricevé, s'addusse.

              Ma i proci, riguardandosi a vicenda,

            E beffe d'ambo i forestier facendo,

            Provocavan Telemaco. “Non havvi,

            Talun dicea, chi ad ospiti stia peggio,

            Telemaco, di te. L'uno è un mendìco

            Errante, omai di fame e sete morto,

            Senza prodezza, senza industria, peso

            Disutil della terra; e l'altro un pazzo,

            Che, per far del profeta, in piè si leva.

            Vuoi tu questo seguir, ch'io ti propongo,

            Sano partito? Ambo gittiamli in nave,

            E li mandiam della Sicilia ai lidi.

            Più gioveranno a te, se tu li vendi”.

              Telemaco di lui nulla curava,

            Ma levati tenea tacito gli occhi

            Nel genitor, sempre aspettando il punto

            Ch'ei fatto contra i proci impeto avrebbe.

              In faccia della sala, e in su la porta

            Del ginecèo, da un suo lucente seggio

            Tutti i lor detti la regina udìa.

            E quei, ridendo, il più soave e lauto,

            Però che molte avean vittime uccise,

            Convito celebrâr: ma più ingioconda

            Cena di quella non fu mai, che ai proci,

            Degna mercé della nequizia loro.

            Stavan per imbandir Palla ed Ulisse.

             

             


            LIBRO VENTUNESIMO

             

             

              Ma Palla, occhio azzurrino, alla prudente

            Figlia d'Icario entro lo spirto mise

            Di propor l'arco ai proci e i ferrei anelli,

            Nella casa d'Ulisse: acerbo gioco,

            E di strage principio e di vendetta.

            La donna salse alla magion più alta,

            E dell'abil sua man la bella e ad arte

            Curvata chiave di metallo prese

            Pel manubrio di candido elefante.

            Ciò fatto, andò con le fedeli ancelle

            Nella stanza più interna, ove i tesori

            Serbavansi del re: rame, oro e ferro

            Ben travagliato. E qui giacea pur l'arco

            Ritorto e il sagittifero turcasso,

            Che molte dentro a sé frecce chiudea

            Dolorifere: doni, che ad Ulisse,

            Cui s'abbatté nella Laconia un giorno,

            Feo l'Eurìtide Ifìto, ai numi eguale.

              S'incontrâro gli eroi nella magione

            D'Ortìloco in Messenia. Di Messene

            Una masnada pecore trecento

            Co' lor custodi su le lunghe navi,

            Rapito avea dagl'Itacesi paschi;

            E a richiederle il padre e gli altri vecchi,

            Giovane ambasciator per lunga strada,

            Mandâro Ulisse. D'altra parte Ifìto

            In traccia sen venìa delle perdute

            Sue dodici cavalle, e delle forti

            Alla lor mamma pazïenti mule,

            Donde ruina derivògli e morte:

            Però che Alcide, il gran figliuol di Giove,

            D'opere grandi fabbro, a lui, che accolto

            Nel suo palagio avea, non paventando

            Né la giustizia degli dèi, né quella

            Mensa ospital che gli avea posta innanzi,

            Tolse iniquo la vita, e le giumente

            Dalla forte unghia in sua balìa ritenne.

            Queste cercando, s'abbatté ad Ulisse,

            E l'arco gli donò, che il chiaro Eurìto

            Portava, e in man del suo diletto figlio

            Pose morendo negli eccelsi alberghi.

            E il Laerzìade un'affilata spada

            Diede e una lancia noderosa a Ifìto,

            D'un'amistà non lunga unico pegno:

            Ché di mensa conoscersi a vicenda

            Lor non fu dato, e il figliuol di Giove

            L'Euritìde divino innanzi uccise.

            Quest'arco Ulisse, allorché in negra nave

            Alle dure traea belliche prove,

            Nol togliea mai; ma per memoria eterna

            Del caro amico alla parete appeso

            Lasciar solealo, e sol gravarne il dosso

            Nell'isola natìa gli era diletto.

              Come pervenne alla secreta stanza

            L'egregia donna, e il limitar di quercia

            Salì construtto a squadra e ripolito

            Da fabbro industre, che adattòvvi ancora

            Le imposte ferme e le lucenti porte,

            Tosto la fune dell'anello sciolse,

            E introdusse la chiave, ed i serrami

            Respinse: un rimugghiar come di tauro,

            Che di rauco boato empie la valle

            S'udì, quando le porte a lei s'aprîro.

            Ella montò su l'elevato palco,

            Dove giaceano alle bell'arche in grembo

            Le profumate vesti, e, distendendo

            Quindi la man, dalla cavicchia l'arco

            Con tutta distaccò la luminosa

            Vagina, entro cui stava. Indi s'assise;

            E quel posato su le sue ginocchia,

            Ne' pianti dava e ne' lamenti: al fine

            Dalla custodia sua l'arco fuor trasse.

            Ma poiché fu di lai sazia e di pianti,

            Scese, e de' proci nel cospetto venne,

            Quello in man sostenendo, e la faretra

            Gravida di mortifere saette:

            Mentre le ancelle la seguìan con cesta

            Del ferro piena, che leggiadro a Ulisse

            Di forza esercizio era e di destrezza.

            Giunta ove quei sedean, fermava il piede

            Della sala dedalea in su la soglia

            Tra l'una e l'altra ancella, e co' sottili

            Veli del crine ambo le guance ombrava,

            Poi sciogliea tali accenti: “O voi, che in questa

            Casa, lontano Ulisse, a forza entraste,

            Gl'interi giorni a consumar tra i nappi,

            Né di tal reità miglior difesa

            Sapeste addur che le mie nozze, udite:

            Quando sorse il gran dì, che la mia mano

            Ritener più non deggio, ecco d'Ulisse

            L'arco, che per certame io vi propongo.

            Chi tenderallo, e passerà per tutti

            Con la freccia volante i ferrei cerchi,

            Lui seguir non ricuso, abbandonata

            Questa sì bella, e di ricchezza colma

            Magion de' miei verd'anni, ond'anche in sogno

            Dovermi spesso ricordare io penso”.

              Disse; e, chiamato Eumèo, recare ai proci

            L'arco gl'ingiunse, e degli anelli il ferro.

            Ei lagrimando il prese, e nella sala

            Depóselo; e Filezio in altra parte,

            Vista l'arma del re, pianto versava.

            Ma sgridavali Antìnoo in tai parole:

            “Sciocchi villani, la cui mente inferma

            Oltre il presente dì mai non si stende,

            Perché tal piagnisteo? Perché alla donna

            L'alma nel petto commovete, quasi

            Per se stessa non dolgasi abbastanza

            Del perduto consorte? O qui sedete

            Taciti a bere, o a singhiozzare uscite,

            E lasciate a noi l'arco, impresa molto,

            Vaglia il ver, forte per noi tutti, e a gabbo

            Da non pigliar: ché non havvi uom tra noi

            Pari ad Ulisse per curvarlo. Il vidi

            Negli anni miei più teneri, ed impressa

            Me ne sta in mente da quel dì l'imago”.

            Così d'Eupite il figlio; e non pertanto

            Il nervo confidavasi piegarne,

            E d'anello in anel mandar lo strale.

            Ma dovea prima l'infallibìl freccia

            Gustare in vece dall'eroe scoccata,

            Cui poc'anzi oltraggiava, e incontro a cui

            Aizzava i compagni a mensa assiso.

              Qui tra i proci parlò la sacra forza

            Di Telemaco: “Oh dèi! Me Giove al certo

            Cavò di senno. La diletta madre

            Dice un altro consorte, abbandonando

            Queste mura, seguir, benché sì saggia,

            E folle io rido e a sollazzarmi attendo.

            Su via, poiché a voi donna in premio s'offre,

            Cui non l'Acaica terra e non la sacra

            Pilo ed Argo, Micene, Itaca stessa

            Vanta l'eguale, o la feconda Epiro;

            E il sapete voi ben, né ch'io vi lodi

            La genitrice, oggi è mestier; su via,

            Con vane scuse non tirate in lungo

            Questo certame, e non rifugga indietro

            Dalla tesa dell'arco il vostro braccio.

            Cimenterommi anch'io. S'io tenderollo,

            E ne' ferri entrerò con la mia freccia,

            Me qui lasciar per nuove nozze in duolo

            La genitrice non vorrà, fuggire

            Non vorrà da un figliuol, che ne' paterni

            Giochi la palma riportar già vale”.

              Surse, ciò detto, ed il purpureo manto

            Dagli omeri deposto e il brando acuto,

            Scavò, la prima cosa, un lungo fosso;

            Le colonnette con gli anelli in cima

            Piantovvi, a squadra dirizzolle, e intorno

            La terra vi calcò. Stupìano i proci,

            Vedendole piantare a lui sì bene,

            Bench'egli a nessun pria viste le avesse.

            Ciò fatto, delle porte andò alla soglia,

            E, fermatovi il piè, l'arco tentava.

            Tre fiate trar volle il nervo al petto,

            Tre dalla man gli scappò il nervo. Pure

            Non disperava che la quarta prova

            Più felice non fosse. E già, la corda

            Traendo al petto per la quarta volta,

            Teso avrìa l'arco: ma il vietava Ulisse

            D'un cenno, e lui, che tutto ardea, frenava.

            E Telemaco allor: “Numi!” soggiunse,

            “O debile io vivrò dunque e dappoco

            Tutto il mio tempo, o almen la poca etade

            Forze da ributtar chi ad oltraggiarmi

            Si scagliasse primier, non dammi ancora.

            Ma voi, che siete più gagliardi, l'arma

            Tastate adunque, e si compisca il gioco”.

              Detto così, l'arco ei depose a terra,

            E all'incollate tavole polite

            L'appoggiò della porta, e posò il dardo

            Sul cerchio, che dell'arco il sommo ornava.

            Poi s'assise di nuovo.“E Antìnoo, il figlio

            D'Eupìte, favellò: Tutti, o compagni,

            Dalla destra per ordine v'alzate,

            Cominciando ciascun, donde il vermiglio

            Licor si versa”. Il detto piacque, e primo

            L'Enòpide Leòde alzossi, ch'era

            Loro indovino, e alla bell'urna sempre

            Sedea più presso. Odio alla colpa ei solo

            Portava, e gli altri riprendea. Costui

            L'arco lunato ed il pennuto strale

            Si recò in mano, e alla soglia ito e fermo

            Su i piedi, tentò il grave arco e nol tese:

            Ché sentì intorno alla ribelle corda

            Prima stancarsi la man liscia e molle:

            “Altri”, disse, “sel prenda; io certo, amici,

            Nol tenderò: ma credo ben, che a molti

            Sarà morte quest'arco. È ver che meglio

            Torna il morire, che il giù tôrsi vivi

            Da quella speme altissima, che in queste

            Mura raccolti sino a qui ci tenne.

            Spera oggi alcun, non che in suo core il brami,

            La regina impalmar; ma, come visto

            Questo arnese abbia e maneggiato, un'altra

            Chiederà dell'Achee peplo-addobbate,

            Nuzïali presenti a lei porgendo,

            E a Penelope il fato uom, che di doni

            Ricolmeralla, condurrà d'altronde”.

              Così parlato, ei mise l'arco a terra,

            E all'incollate tavole polite

            L'appoggiò della porta, e posò il dardo

            Sul cerchio che dell'arco il sommo ornava.

            Quindi tornò al suo seggio. E Antìnoo in tali

            Voci proruppe: “Qual molesto, acerbo

            Dalla chiostra de' denti a te, Leode,

            Detto sfuggì, che di furor m'infiamma?

            A noi dunque sarà morte quest'arco?

            Se tu curvar nol puoi, la madre incolpa,

            Che d'archi uom non ti fece e di saette:

            Ma gli altri proci il curveranno, io penso”.

              Disse, e al custode del caprino gregge

            Questo precetto diè: “Melanzio, accendi

            Possente foco nella sala, e appresso

            Vi poni seggio che una pelle cuopra.

            Poi di bianco e indurato adipe reca

            Grande, ritonda massa, acciocché s'unga

            Per noi l'arco e si scaldi, ed in tal guisa

            Questo certame si conduca a fine”.

              Melanzio accese un instancabil foco,

            E con pelle di sopra un seggio pose.

            Poi di bianco e indurato adipe massa

            Grande e tonda recò. L'arco unto e caldo

            Piegar tentaro i giovani. Che valse,

            Se lor non rispondean le braccia imbelli?

            Ma dalla prova s'astenean finora

            Eurìmaco ed Antinoo, che de' proci

            Eran di grado e di valore i primi.

              Usciro intanto del palagio a un tempo

            Il pastor de' maiali, e quel de' buoi,

            E Ulisse dopo. Delle porte appena

            Fuor si trovâro e del cortil, ch'ei, dolci

            Parole ad ambi rivolgendo: “Eumèo”,

             Disse, “e Filezio, favellar degg'io,

            O i detti ritener? Di ritenerli

            L'animo non mi dà. Quali sareste

            D'Ulisse a pro, se d'improvviso al vostro

            Cospetto innanzi il presentasse un nume?

            Ai proci, o a lui, soccorrereste voi?

            Ciò che nel cor vi sta venga sul labbro”.

              “O Giove padre”, sclamò allor Filezio,

            “Adempi il voto mio! L'eroe qua giunga,

            E un nume il guidi. Tu vedresti, o vecchio,

            Quale in me l'ardir fora e quale il braccio”.

            Ed Eumèo nulla meno agli dèi tutti

            Pel ritorno del re preghiere alzava.

              Ei, come certo a pien fu della mente

            Sincera e fida d'ambiduo, soggiunse:

            “In casa eccomi io stesso, io, che, sofferte

            Sventure senza numero, alla terra

            Nativa giunsi nel vigesim'anno.

            So che a voi soli desïato io spunto

            Tra i servi miei: poiché degli altri tutti

            Non udii che un bramasse il mio ritorno.

            Quel ch'io farò per voi, dunque ascoltate.

            Voi da me donna e robe, ove dai numi

            D'esterminar mi si conceda i proci,

            Voi case, dalla mia non lunge estrutte,

            Riceverete: ed io terrovvi in conto

            Di compagni a Telemaco e fratelli.

            Ma perché in forse non restiate punto,

            Eccovi a segno manifesto il colpo,

            Che d'un fiero cinghial la bianca sanna

            M'impresse il dì ch'io sul Parnaso salsi

            Co' figliuoli d'Autolico”. Ciò detto,

            Dalla gran cicatrice i panni tolse.

              Quei, tutto visto attentamente e tocco,

            Piagnean, gittate di Laerte al figlio

            Le mani intorno e gli omeri, e la testa,

            Stringendol, gli baciavano; ed Ulisse

            Lor baciò similmente e mani e capo.

            E già lasciati il tramontato sole

            Lagrimosi gli avrìa, se così Ulisse

            Non correggeali: “Fine ai pianti! Alcuno

            Potrìa vederli, uscendo, e riportarli

            Di dentro. Udite. Nella sala il piede

            Riponiam tutti, io prima, e poscia voi,

            E d'un segnale ci accordiamo. I proci,

            Che a me si porga la faretra e l'arco,

            Non patiran: ma tu, divino Eumèo,

            L'uno e l'altra mi reca, e di' alle donne,

            Che gli usci chiudan delle stanze loro;

            E per romor nessuna, o per lamento,

            Che l'orecchio a ferir le andasse a un tratto,

            Mostrisi fuori, ma quell'opra siegua,

            Che avrà tra mano allor, né se ne smaghi.

            Raccomando a te poi, Filezio illustre,

            Serrar la porta del cortile a chiave,

            E con ritorte rafforzarla in fretta”.

            Entrò, ciò detto, e donde pria sorto era,

            S'assise; ed ivi a poco entraro i servi.

              Già per le mani Eurimaco il grand'arco

            Si rivolgeva, ed a' rai quinci e quindi

            Della fiamma il vibrava. Inutil cura!

            Meglio che gli altri non per questo il tese;

            Gemé nel cor superbo, e queste voci

            Tra i sospiri mandò: “Lasso! un gran duolo

            Di me stesso e di voi sento ad un'ora.

            Né già sol piango le perdute nozze:

            Ché nell'ondicerchiata Itaca e altrove,

            Sul capo a molte Achee s'increspa il crine.

            Piango, che, se di forze al grande Ulisse

            Tanto cediam da non curvar quest'arco,

            Si rideran di noi l'età future”.

              “No”, l'Eupitìde Antìnoo a lui rispose,

            “Ciò, Eurimaco, non fia: tu stesso il vedi.

            Sacro ad Apollo è questo dì. Chi l'arco

            Tender potrebbe? Deponiamlo, e tutti

            Lasciamo star gli anelli, e non temiamo

            Che alcun da dove son rapirli ardisca.

            Su via, l'abil coppier vada co' nappi

            Ricolmi in giro, e, poiché avrem libato,

            Mettiam l'arco da parte. Al dì novello

            Melanzio a noi le più fiorenti capre

            Guidi da tutti i branchi, onde, bruciati

            I pingui lombi al glorïoso Arciero,

            Si riprenda il cimento, e a fin s'adduca”.

              Piacque il suo detto. I banditori tosto

            L'acqua diero alle man, l'urne i donzelli

            Di vino incoronaro, e il dispensaro

            Con le tazze augurando a tutti in giro.

            Come libato e a piena voglia tutti

            Bevuto ebber gli amanti, il saggio Ulisse,

            Che stratagemmi in cor sempre agitava,

            Così lor favellò: “Competitori

            Dell'inclita Regina, udir v'aggradi

            Ciò che il cor dirvi mi consiglia e sforza.

            Eurimaco fra tutti e il pari a un nume

            Antinoo, che parlò sì acconciamente,

            L'orecchio aprire alle mie voci io priego.

            Perdonate oggi all'arco, e degli eterni

            Non ostate al voler: forza domane

            A cui lor piacerà, daranno i numi.

            Ma intanto a me, proci, quell'arma: io prova

            Voglio far del mio braccio, e veder s'io

            Nelle membra pieghevoli l'antico

            Vigor mantengo, o se i miei lunghi errori

            Disperso l'hanno e i molti miei disagi”.

              Rinfocolârsi a ciò, forte temendo,

            Non il polito arco ei piegasse. E Antinoo

            Lo sgridava in tal guisa: “O miserando

            Degli ospiti, sei tu fuor di te stesso?

            Non ti contenti, che tranquillo siedi

            Con noi principi a mensa, e, che a null'altro

            Stranier mendico si concede, vieni

            Delle vivande e de' sermoni a parte?

            Certo te offende il saporoso vino,

            Che tracannato avidamente, e senza

            Modo e termine alcuno, a molti nocque.

            Nocque al famoso Eurizïon Centauro,

            Quando venne tra i Lápiti, e nell'alta

            Casa ospitale di Piritoo immensi,

            Compreso di furor, mali commise.

            Molto ne dolse a quegli eroi, che incontro

            Se gli avventaro, e del vestibol fuori

            Trasserlo, e orecchie gli mozzaro e nari

            Con affilato brando; ed ei, cui spento

            Dell'intelletto il lume avean le tazze,

            Sen gìa manco nel corpo e nella mente.

            Quindi s'accese una cruenta pugna

            Tra gli sdegnati Làpiti e i Centauri:

            Ma, gravato dal vin, primo il disastro

            Eurizïon portò sovra se stesso.

            Così te pur grave infortunio aspetta,

            Se l'arco tenderai. Del popol tutto

            Non fia chi s'alzi in tua difesa, e noi

            Ad Echeto, degli uomini flagello,

            Dalle cui man né tu salvo uscirai,

            Ti manderem su rapido naviglio.

            Chetati adunque, ed il pensiero impronto

            Di contender co' giovani ti spoglia”.

              Qui Penelope disse: “Antìnoo, quali

            Di Telemaco mio gli ospiti sieno,

            Turpe ed ingiusto è il tempestarli tanto.

            Pensi tu forse, che ove lo straniero,

            Fidandosi di sé, l'arco tendesse,

            Me quinci condurrìa moglie al suo tetto?

            Né lo spera egli, né turbato a mensa

            Dee per questo sedere alcun di voi.

            Cosa io veder non so, che men s'addica”.

              Ed Eurimaco a lei: “D'Icario figlia,

            Non v'ha fra noi, cui nella mente cada,

            Che te pigli a consorte uom che sì poco

            Degno è di te. Ma degli Achei le lingue

            Temiamo e delle Achee. La più vil bocca:

            "Ve'" griderìa, "quai d'un eroe la donna

            Chiedono a gara giovinotti imbelli,

            Che né valgon piegare il suo bell'arco,

            Mentre un tapino, un vagabondo, un giunto

            Testé, curvollo agevolmente, e il dardo

            Per gli anelli mandò". Tal griderebbe;

            E tinto andrìa d'infamia il nostro nome.

              E così a lui Penelope rispose:

            “Eurimaco, non lice un nome illustre

            Tra i popoli agognare a chi d'egregio

            Signor la casa dal suo fondo schianta.

            Perché tinger voi stessi il nome vostro

            D'infamia? È lo stranier di gran sembiante,

            Ben complesso di membra, e generosa

            La stirpe vanta, e non vulgare il padre;

            Dategli il risplendente arco, e veggiamo.

            Se il tende, e gloria gli concede Apollo,

            Prometto, e non invan, tunica bella

            Vestirgli e bella clamide, ed in oltre

            Un brando a doppio taglio, e un dardo acuto

            Mettergli in mano, e sotto ai piè calzari;

            E là invïarlo, dove il suo cor mira.

              “Madre”, disse Telemaco, “a me solo

            Sta in mano il dare, o no, quell'arco, io credo:

            Né ha in lui ragione degli Achivi alcuno,

            Che son nell'alpestra Itaca signori,

            O nell'isole prossime alla verde

            Elide, chiara di cavalli altrice.

            E quando farne ancor dono io volessi

            Al forestier, chi 'nvidïar mel puote?

            Ma tu rïentra; ed al telaio e al fuso,

            Come pur suoli, con le ancelle attendi.

            Cura sarà degli uomini quell'arma,

            E più che d'altri, mia: ché del palagio

            Il governo in me sol, madre risiede”.

              Attonita rimase, e del figliuolo

            Con la parola, che nell'alma entrolle,

            Risalì in alto tra le fide ancelle.

            Quivi, aprendo alle lagrime le porte:

            Ulisse Ulisse a nome iva chiamando:

            Finché un dolce di tanti e tanti affanni

            Sopitor sonno le mandò Minerva.

              L'arco Eumèo tolse intanto; e già il portava,

            E i proci tutti nel garrìano, e alcuno

            Così dicea de' giovani orgogliosi:

            “Dove il grand'arco porti, o dissennato

            Porcaio sozzo? Appo le troie in breve

            Te mangeran fuor d'ogni umano aiuto

            Gli stessi cani di tua man nutriti,

            Se Apollo è a noi propizio e gli altri numi”.

              Impaurito delle lor rampogne,

            L'arco ei depose. Ma dall'altra parte

            Con minacce Telemaco gridava:

            “Orsù, va innanzi con quell'arco. Credi

            Che l'obbedire a tutti in pro ti torni?

            Pon cura ch'io con iscagliati sassi

            Dalla cittade non ti cacci al campo,

            Io, minor d'anni, ma di te più forte.

            Oh così, qual di te, più forte io fossi

            De' proci tutti che qui sono! Alcuno

            Tosto io ne sbalzerei fuor del palagio,

            Dove il tesser malanni è lor bell'arte”.

              Tutti scoppiâro in un giocondo riso

            Sul custode de' verri, e della grave

            Contra il garzone ira allentâro. Eumèo,

            Traversata la sala, innanzi a Ulisse

            Fermossi, ed il grande arco in man gli mise.

            Poi, chiamata Euriclèa, parlò in tal forma:

            “Saggia Euriclèa, Telemaco le stanze

            Chiuder t'ingiunge, e dell'ancelle vuole,

            Che per rumor nessuna, o per lamento,

            Che l'orecchio a ferir le andasse a un tratto,

            Mostrisi fuori, ma quell'opra siegua,

            Che avrà tra mano allor, né se ne smaghi”.

              Non parlò al vento. La nutrice annosa

            Tutte impedì le uscite; e al tempo istesso

            Filezio si gittò tacitamente

            Fuor del palagio, e rinserrò le porte

            Del cortil ben munito. Una gran fune

            D'Egizio giunco per navigli intesta

            Giacea sotto la loggia; ed ei con quella

            Più ancor le porte rafforzò. Ciò fatto,

            Rïentrava, e la sedia, ond'era sorto,

            Premea di nuovo, riguardando Ulisse.

            Ulisse l'arco maneggiava, e attento

            Per ogni parte rivoltando il giva,

            Qua tastandolo e là, se i muti tarli

            Ne avesser mai ròse le corna, mentre

            N'era il signor lontano. E alcun, rivolti

            Gli sguardi al suo vicino: “Uom”, gli dicea,

            “Che si conosce a maraviglia d'archi,

            È certo, o un arco somigliante pende

            A lui dalla domestica parete,

            O fabbricante un dì tal fatta ei pensa:

            Così questo infelice vagabondo

            L'arco tra le sua man volta e rivolta!”

            E un altro ancor de' giovani protervi:

            “Deh così in bene gli rïesca tutto,

            Come teso da lui sarà quell'arco!”

              Ma il Laerzìade, come tutto l'ebbe

            Ponderato e osservato a parte a parte,

            Qual perito cantor, che, le ben torte

            Minuge avvinte d'una sua novella

            Cetera ad ambo i lati, agevolmente

            Tira, volgendo il bìschero, la corda:

            Tale il grande arco senza sforzo tese.

            Poi saggio far volle del nervo: aperse

            La mano, e il nervo mandò un suono acuto,

            Qual di garrula irondine è la voce.

            Gran duolo i proci ne sentiro, e in volto

            Trascoloraro; e con aperti segni

            Fortemente tonò Giove dall'alto.

            Gioì l'eroe, che di Saturno il figlio,

            Di Saturno, che obliqui ha pensamenti,

            Gli dimostrasse il suo favor dal cielo;

            E un aligero stral, che su la mensa

            Risplendea, tolse: tutte l'altre frecce,

            Che gli Achivi assaggiar dovean tra poco,

            In sé chiudeale il concavo turcasso.

            Posto su l'arco ed incoccato il dardo,

            Traeva seduto, siccom'era, al petto

            Con la man destra il nervo: indi la mira

            Tra i ferrei cerchi prese, e spinse il telo,

            Che, senza quinci devïare o quindi,

            Passò tutti gli anelli alto ronzando.

            Subitamente si rivolse al figlio,

            E: “Telemaco”, disse, “il forestiero

            Non ti svergogna, parmi. Io punto lunge

            Dal segno non andai, né a tender l'arco

            Faticai molto; le mie forze intere

            Serbo, e non merto villanìe dai proci.

            Ma tempo è omai che alla cadente luce

            Lor s'appresti la cena; e poi si tocchi

            La cetra molticorde, e s'alzi il canto,

            In che più di piacer la mensa acquista”.

              Disse, e accennò co' sopraccigli. Allora

            Telemaco, d'Ulisse il pegno caro,

            La spada cinse, impugnò l'asta, e, tutto

            Risplendendo nell'armi, accanto al padre,

            Che pur seduto rimanea, locossi.

             

             


            LIBRO VENTIDUESIMO

             

             

              Surse e spogliossi de' suoi cenci Ulisse,

            E sul gran limitare andò d'un salto,

            L'arco tenendo e la faretra. I ratti

            Strali, onde gravida era, ivi gittossi

            Davante ai piedi, e ai proci disse: “A fine

            Questa difficil prova è già condotta.

            Ora io vedrò, se altro bersaglio, in cui

            Nessun diede sin qui, toccar m'avviene,

            E se me tanto privilegia Apollo”.

              Così dicendo, ei dirigea l'amaro

            Strale in Antinoo. Antinoo una leggiadra

            Stava per innalzar coppa di vino

            Colma a due orecchie, e d'oro: ed alle labbra

            Già l'appressava: né pensier di morte

            Nel cor gli si volgea. Chi avrìa creduto

            Che fra cotanti a lieta mensa assisi

            Un sol, quantunque di gran forze, il nero

            Fabbricar gli dovesse ultimo fato?

            Nella gola il trovò col dardo Ulisse,

            E sì colpillo, che dall'altra banda

            Pel collo delicato uscì la punta.

            Ei piegò da una parte e dalle mani

            La coppa gli cadé: tosto una grossa

            Vena di sangue mandò fuor pel naso;

            Percosse colle piante, e da sé il desco

            Respinse; sparse le vivande a terra;

            Ed i pani imbrattavansi e le carni.

            Visto Antìnoo cader, tumulto i proci

            Fêr nella sala, e dai lor seggi alzâro,

            Turbati raggirandosi, e guardando

            Alle pareti qua e là: ma lancia

            Dalle pareti non pendea, né scudo.

            Allor con voci di grand'ira Ulisse

            Metteansi a improverare: “Ospite, il dardo

            Ne' petti umani malamante scocchi;

            Parte non avrai più ne' giuochi nostri:

            Anzi grave ruina a te sovrasta.

            Sai tu che un uomo trafiggesti ch'era

            Dell'Itacense gioventude il fiore?

            Però degli avoltoi sarai qui pasto”.

              Così, pensando involontario il colpo,

            Dicean: né s'avvedean folli, che posto

            Ne' confini di morte avean già il piede.

            Ma torvo riguardolli, e in questa guisa

            Favellò Ulisse: “Credevate, o cani,

            Che d'Ilio io più non ritornassi, e intanto

            La casa disertar, stuprar le ancelle,

            E la consorte mia, me vivo, ambire

            Costumavate, non temendo punto

            Né degli dèi la grave ira, né il biasmo

            Permanente degli uomini. Ma venne

            La fatale per voi tutti ultima sera”.

              Tutti inverdiro del timore, e gli occhi,

            Uno scampo a cercar, volsero intorno.

            Solo, e in tal forma, Eurimaco rispose:

            “Quando il vero tu sii d'Itaca Ulisse

            Fra noi rinato, di molt'opre ingiuste,

            Che sì nel tuo palagio e sì ne' campi

            Commesse fûro, ti quereli a dritto.

            Ma costui, che di tutto era cagione,

            Eccolo in terra, Antìnoo. Ei dell'ingiuste

            Opre fu l'autor primo: e non già tanto

            Pel desiderio delle altere nozze,

            Quanto per quel del regno, a cui tendea,

            Insidïando il tuo figliuolo: occulte

            Macchine, che il Saturnio in man gli ruppe.

            Poiché morto egli giace, alla tua gente

            Perdona tu. Pubblica emenda farti

            Noi promettiamo: promettiam con venti

            Tauri ciascun e con oro e con bronzo,

            Quel vôto rïempir, che ne' tuoi beni

            Gozzovigliando aprimmo; in sin che il core

            Alla letizia ti si schiuda, e sgombri

            L'ira, onde a gran ragione arse da prima”.

              Bieco mirollo, e replicògli Ulisse:

            “Dove, Eurimaco, tutte ancor mi deste

            L'eredità vostre paterne, e molti

            Beni stranieri vi poneste accanto,

            Io questa man non riterrei dal sangue,

            Che la vendetta mia piena non fosse.

            Or, qual de' due vi piacerà, scegliete,

            Combattere o fuggir, se pur v'ha fuga

            Per un solo di voi: ciò ch'io non credo”.

              Ciascuno de' proci il cor dentro mancarsi

            Sentì, e piegarsi le ginocchia sotto.

            Ed Eurimaco ad essi: “Amici, indarno

            Sperate che le braccia egli non muova.

            L'arco una volta ed il turcasso assunti,

            Disfrenerà dal limitare i dardi,

            Finché tutti ci atterri. Alla battaglia

            Dunque si pensi: distringiam le spade,

            E, delle mense alle letali frecce

            Scudo facendo a noi, piombiamgli sopra

            Tutti in un groppo. Se da quella porta

            Scacciarlo ne rïesce, e la cittade

            Scorrere, alzando al ciel subite voci,

            Dal saettar si rimarrà per sempre”.

              Disse, e l'acuto di temprato rame

            Brando a due tagli strinse, e su lui corse

            Con terribili grida. In quella Ulisse,

            Vôtato l'arco, al petto il colse, e il pronto

            Nel fegato gl'infisse acerbo strale.

            Lasciò Eurimaco il brando, e dopo alquanti

            Giri, curvato su la mensa cadde,

            E i cibi riversaronsi e la coppa.

            Ma ei batté sopra la terra il capo,

            Nell'alma tapinandosi, ed il seggio,

            Che già premer solea, con ambo i piedi

            Forte springando, scosse: al fine un'atra

            Tutto il coverse sempiterna notte.

              Ma d'altra parte Anfinomo avventossi

            Col brando in man contra l'eroe, se mai

            Dalla soglia disvellerlo potesse.

            Il prevenne Telemaco, e da tergo

            Tra le spalle il ferì con la pungente

            Lancia, che fuor gli rïuscì del petto.

            Quell'infelice rimbombò caduto,

            E con tutta la fronte il suol percosse.

            Ma il garzon sottraeasi, abbandonando

            La lancia entro d'Anfinomo: temea,

            Non alcun degli Achei, mentr'egli chino

            Starìasi l'asta a sconficcare intento,

            Di furto il martellasse, o con la spada

            Sopra mano il ferisse alla scoperta.

            Quindi ricovrò ratto, e in un baleno

            Al caro padre fu vicino e a lui:

            Padre, disse, uno scudo e lance due,

            E un adatto alle tempie elmo lucente

            Ti recherò, m'armerò io stesso, ed armi

            A Filezio darò, darò ad Eumèo:

            De' consigli il miglior sembrami questo”.

              “Sì, corri”, Ulisse gli rispose, “e riedi,

            Finché restano a me dardi a difesa:

            Ma riedi prestamente, onde gli Achei

            Me, che son solo, non ismuovan quinci”.

              Ubbidì il figlio, e alla superna stanza,

            Dove l'armi giaceano, andò di passo

            Lanciato, e targhe quattro ed otto lance

            Prese, e quattro lucenti elmi di chioma

            Equina folti, e in brevi istanti al caro

            Genitor si rendé. Qui del metallo

            Munì egli primo la persona, e i servi

            Parimente le belle armi vestîro,

            Ed all'accorto eroe stettero intorno.

            Questi, finché le frecce a lui bastâro,

            Togliea la mira ed imbroccava ognora,

            E cadean l'un su l'altro i suoi nemici.

            Ma poiché le infallibili saette

            Gli fûr venute men, l'arco ei depose,

            E l'appoggiò del ben fondato albergo

            Al nitido parete. Indi le spalle

            Si carcò d'uno scudo a quattro doppi,

            L'elmo dedàleo con l'equina chioma

            Piantossi in capo, e due possenti lance

            Nella man si recò: sovra la testa

            Gli ondeggiava il cimier terribilmente.

              Era in capo alla sala, e nel parete

            Del ben fondato albergo una seconda

            Di congiunte assi rinforzata porta,

            Che in pubblico mettea non largo calle.

            Di questa, per cui sol s'apriva un passo,

            Ulisse volle il fido Eumèo per guardia.

            Agelao v'ebbe l'occhio, e disse: “Amici,

            Non ci sarà chi quella porta sforzi,

            E sparga voce, o il popolo a romore

            Levi, perché costui cessi dai colpi?”

              “Ciò”, rispose Melanzio, “ad alcun patto

            Non possiamo, Agelao di Giove alunno.

            Le porte del cortil troppo vicine

            Sono, ed angusta è quell'uscita, e un solo

            Cui non manchi valor, cento respinge.

            Pur non temete. Io porterò a voi l'armi

            Dalla stanza superna, in cui riposte

            Da Ulisse e dal figliuol senz'altro fûro”.

              Detto, andar su e giù per l'alta scala,

            Entrar, pigliar dodici targhe e lance

            Tante e tanti criniti elmi, ed il tutto

            Mettere in man de' palpitanti proci,

            Fu di pochi momenti opra felice.

              Turbar l'animo Ulisse e le ginocchia

            Languir sentì, ratto che ai proci vide

            Prender gli elmi e gli scudi, e le lunghe aste

            Ir con la destra palleggiando; e allora

            L'arduo conobbe dell'assunta impresa.

            Si converse al figliuol tosto, e: “Telemaco”,

            Con dolenti gli disse alate voci,

            “Certo il capraio, o delle donne alcuna

            Raccende contro noi quest'aspra guerra”.

              E Telemaco a lui: “Padre”, rispose,

            “Io sol peccai, non altri, io, che la salda

            Porta lasciai mezzo tra chiusa e aperta;

            Ed un esplorator di me più astuto

            Si giovò intanto del mio fallo. Or vanne

            Tu, prode Eumèo, chiudi la porta, e sappi,

            Se ciò vien da un'ancella, o dalla trista,

            Come parmi più ver, di Dolio prole”.

              Mentre tali correan voci tra loro,

            Melanzio per le belle armi di nuovo

            Salse. Adocchiollo Eumèo, né a dir tardava

            Così ad Ulisse, che lontan non gli era:

            “Laerzìade divin, quella rea peste,

            Di cui noi sospettiam, sale di nuovo.

            Parlami chiaro: deggio porlo a morte,

            Se rimángogli sopra, o qua condurlo,

            Perché a te innanzi d'ogni suo delitto

            Meritamente il fio paghi una volta?”

              E il saggio Ulisse: “A sostenere i proci,

            Come che ardenti, io col mio figlio basto.

            Filezio dunque, e tu, poiché l'avrete

            Entro la stanza rovesciato a terra,

            Ambo i piedi stringetegli, e le mani

            Sul tergo, chiusa dietro a voi la porta;

            E lui, d'una insolubile catena

            Cinto, tirate sino all'alte travi

            Lungo una gran colonna, acciocché il tutto

            Sconti con morte dolorosa e lunga”.

              Pronti i servi ubbidîro. Alla sublime

            Camera s'affrettâr, da lui, che dentro

            Era e cercava nel più interno l'arme,

            Non visti e non sentiti; e si piantâro

            Quinci e quindi alla porta. Ei per la soglia

            Passava ratto in una man portando

            Luminosa celata, ed un vetusto

            Nell'altra e largo e arrugginito scudo,

            Che gli omeri gravò del buon Laerte

            Sul primo fior dell'età sua, deposto

            Poscia e dimenticato, e da cui rotte

            Le corregge pendevano. Veloci

            L'assaltâr, l'abbracciâr, lo strascinâro

            Dentro pel ciuffo, e l'atterrâr dolente,

            Indi ambo i piedi gli legâro, ed ambo

            Sovra il tergo le man, qual di Laerte

            Comandò il figlio; e lui d'una catena

            Insolubile cinto in sino all'alte

            Travi tirar lungo una gran colonna.

            “E così allor tu il deridesti, Eumèo:

            Melanzio, or certo veglierai la notte

            Su letto molle, come a te s'addice,

            Corcato; né uscirà dalle correnti

            Dell'Ocean, che tu non la vagheggi,

            L'Aurora in trono d'ôr, quando le pingui

            Capre alla mensa condurrai de' proci”.

              Tal fu Melanzio fra legami acerbi

            Sospeso e abbandonato; e quei con l'arme

            Sceser, la porta risplendente chiusa;

            E presso al ricco di consigli Ulisse,

            Forza spiranti e ardire, il piè fermâro.

            Così quattro guerrier in su la soglia

            Erano e nella sala un numeroso

            Drappello e non ignobile. Ma Palla

            L'armipotente del Saturnio figlia,

            Con la faccia di Mentore e la voce,

            Tra le due parti d'improvviso apparve.

            Gioì a vederla il Laerzìade, e disse:

            Mentore, mi seconda, e ti rammenta

            Del tuo dolce compagno, onde a lodarti

            Non raro avesti, e a cui sei d'anni eguale”.

            Così l'eroe: ma non gli tace il core,

            Che la sua diva in Mentore s'asconde.

              Dall'altra parte la garrìano i proci,

            E primo il Damastòride Agelao

            A minacciarla fu: “Mentore, bada,

            Che a pugnare in suo pro contra gli Achivi

            Non ti seduca favellando Ulisse.

            Però che quando per man nostra uccisi

            Giaceran, come ho fede, il padre e il figlio,

            Morrai tu ancora, e il sangue tuo darai

            Per ciò che oprar nella magione or pensi.

            Che più? Te fatto cenere, co' beni

            D'Ulisse in monte andrà quant'or possiedi

            Nel tuo palagio e fuor, né a figli o a figlie

            Menare i dì sotto il natìo lor tetto

            Consentirem, né alla tua casta donna

            D'Itaca soggiornar nella cittade”.

              Vie più s'accende a così fatte voci

            L'ira di Palla, ed in rimbrotti scoppia

            Contra Ulisse lanciáti: “Io nulla, Ulisse,

            Di quel fermo vigor, nulla più veggio

            Di quell'ardire in te, che allor mostrasti,

            Che innanzi a Troia per le bianche braccia

            Della nata di Giove inclita Elèna

            Combattesti un decennio. Entro il lor sangue

            Molti stendesti de' nemici, e prima

            S'ascrive a te, se la dall'ampie strade

            Città di Priamo in cenere fu vòlta.

            Ed or che giunto alle paterne case

            La tua donna difendi e i beni tuoi,

            Mollemente t'adopri? Orsù, vicino

            Stammi, ed osserva, quale il figlio d'Alcìmo,

            Mentore, fra una gente a te nemica

            De' benefici tuoi merto ti rende”.

              Tal favellava: ma perché l'innata

            Virtù del padre e del figliuol volea

            Provare ancor, per alcun tempo incerta

            La vittoria lasciò tra loro e i proci.

            Quindi, montando rapida, su trave

            Lucido ed alto, a rimirar la pugna,

            Di rondine in sembianza, ella s'assise.

              Frattanto il Damastòride Agelao,

            Anfimedonte, Eurinomo, e il prudente

            Pòlibo, e Demoptòlemo, e Pisandro,

            Di Polittore il figlio, alla coorte

            Spirti aggiungean, come color che i primi

            Eran di forza tra i rimasti in piedi,

            E l'alma difendean; gli altri avean domi

            L'arco famoso e le frequenti frecce.

              Parlò a tutti Agelao: “Compagni, io penso

            Che le indomite man frenare un tratto

            Costui dovrà. Già Mentore disparve

            Dopo il bravar suo vano, e su la soglia

            Quattro sono, e non più. Voi non lanciate

            Tutti, io ven priego, unitamente: sei

            Aste volino in prima; e il vanto Giove

            Di colpire in Ulisse a noi conceda.

            Caduto lui, nulla del resto io curo”.

              Sei, com'egli bramava, aste volâro,

            E tutte andar le feo Pallade a vôto.

            L'un de' pungenti frassini la porta

            Percosse, un altro su la soglia cadde,

            Ed un terzo investì nella parete.

            Scansáti i colpi, di Laerte il figlio:

            “Amici”, disse, “nello stuol de' proci,

            Che, non contenti alle passate offese,

            Della vita spogliar voglionci ancora,

            Io crederei che saettar si debba”.

              Ciascun la mira di rincontro tolse,

            E trasse d'una lancia. Il divo Ulisse

            Demoptòlemo uccise, e scagliò morte

            Telemaco ad Eurìade, a Elato Eumèo,

            Ed a Pisandro il buon Filezio: tutti

            Del pavimento morsero la polve.

            Gli altri nel fondo della sala il piede

            Tiraro indietro: Ulisse e i tre compagni

            Corsero, e svelser dagli estinti l'aste.

            Allor lanciaro novamente i proci

            Di tutta forza, e tutti quasi i colpi

            Nuovamente svïò Pallade amica.

            La gran soglia, la porta e la parete

            Li ricevette o li respinse: solo

            Anfimedonte tanto o quanto lese

            La destra di Telemaco nel polso,

            E appena ne graffiò la somma cute;

            E la lung'asta di Ctesippo, a Eumèo

            Lo scudo rasentando, e lievemente

            Solcandogli la spalla, il suo tenore

            Seguì, e ricadde sovra il palco morta.

              Ma non così dall'altra parte spinte

            Fûr contra i proci le pungenti travi.

            Quella del distruttor de' muri Ulisse

            Fulminò Euridamante; Anfimedonte

            Per quella giacque del suo figlio: Eumèo

            Scontrò con la sua Pòlibo, e Filezio

            Ctesippo colse con la sua nel petto,

            E su lui stette alteramente, e disse:

            “Politersìde, degli oltraggi amante,

            Cessa dal secondar la tua stoltezza,

            Con vana pompa favellando, e ai numi

            Cedi, che di te son molto più forti.

            Questo è il dono ospital di quello in merto,

            Che al nostro re, che mendicava festi:

            Alla zampa del bue l'asta rispose”.

            Così d'Ulisse l'armentario illustre.

              In questo mezzo di Laerte il figlio

            Conquise il Damastoride da presso

            Di profonda ferita; e a Leocrito

            Telemaco piantò nel ventre il telo,

            Che delle reni fuor gli ricomparve.

            L'Evenorìde stramazzò boccone,

            E la terra batté con tutto il fronte.

            Pallade allor, che rivestì la diva,

            Alto levò dalla soffitta eccelsa

            La funesta ai mortali egida, e infuse

            Ne' superstiti proci immensa tema.

            Saltavan qua e là, come le agresti

            Madri talvolta del cornuto armento,

            Se allo scaldarsi ed allungar de' giorni

            Le punge il fiero assillo e le scompiglia.

            Ma in quella guisa che avoltori, il rostro

            Ricurvi e l'unghia, piombano, calando

            Dalla montagna, su i minori augelli,

            Che trepidi vorrìano ir vêr le nubi:

            E quei su lor ripiombano e ne fanno,

            Quando difesa non rimane o scampo,

            Strazio e rapina del villano agli occhi,

            Che di tale spettacolo si pasce:

            Non altrimenti Ulisse e i tre compagni

            Si scagliavan su i proci, e tale strage

            Ne menavan, che fronte omai non v'era

            Che non s'aprisse sotto i gran fendenti;

            E un gemer tetro alzavasi, e di nero

            Sangue ondeggiava il pavimento tutto.

              Leode le ginocchia a prender corse

            Del figliuol di Laerte, e in supplice atto

            Gli drizzò tali accenti: “Eccomi, Ulisse,

            Alle ginocchia tue, che di te imploro

            Gli sguardi e la pietade. Io delle donne

            In fatto o in detto non offesi alcuna:

            Anzi gli altri alle sozze opre rivolti

            Di ritenere io fea. Non m'obbedîro:

            Però una morte subitana e acerba

            Delle sozze opre lor fu la mercede.

            Ma io, io, che indovin tra i proci vissi

            Io, che nulla commisi unqua di male,

            Qui spento giacerò degli altri al paro?

            È questo il pregio che a virtù si serba?”

              E Ulisse, torvi in lui gli occhi fissando:

            “Poiché tra i proci indovinar ti piacque,

            Spesso chiedesti nel palagio ai numi,

            Che del ritorno il dì non mi splendesse;

            Che te seguisse, e procreasse figli

            La mia consorte a te: quindi e tu al grave

            Sonno perpetuo chiuderai le ciglia”.

            Così dicendo, con la man gagliarda

            Dal suol raccolse la tagliente spada,

            Che Agelao su la morte avea perduto;

            E di percossa tal diede al profeta

            Pel collo, che di lui, che ancor parlava,

            Rotolò nella polvere la testa.

              Ma di Terpio il figliuol, l'inclito Femio,

            Che tra i proci sciogliea per forza il canto,

            Morte schivò. Della seconda porta

            Con la sonante in man cetra d'argento

            Vicino erasi fatto, e in due pensieri

            Dividea la sua mente: o fuori uscito

            Sedersi all'ara del gran Giove Ercèo,

            Dove Laerte e il suo diletto figlio

            Molte solean bruciar cosce taurine;

            O ad Ulisse prostrarsi, e le ginocchia

            Stringergli e supplicarlo; e delle due

            Questa gli parve la miglior sentenza.

            Prima tra una capace urna e un distinto

            D'argentei chiovi travagliato seggio

            Depose a terra l'incavata cetra:

            Poi vêr l'eroe si mosse, e le ginocchia

            Stringeagli, e gli dicea con voci alate:

            “Ulisse, ascolta queste mie preghiere,

            E di Femio pietà l'alma ti punga.

            Doglia tu stesso indi ne avrai, se uccidi

            Uom che agli uomini canta ed agli dèi.

            Dotto io son da me solo, e non già l'arte,

            Ma un dio mi seminò canti infiniti

            Nell'intelletto. Gioirai, qual nume,

            Della mia voce al suono. E tu la mano

            Insanguinar ti vuoi nel corpo mio?

            Ne domanda Telemaco, il tuo dolce

            Figlio, ed ei ti dirà, che né vaghezza

            Di plauso mai, né scarsità di vitto,

            Tra i proci alteri a musicar m'indusse.

            Ma co' molti, co' giovani, co' forti,

            Uom che potea debile, vecchio e solo?”

              Tal favellava: e la sacrata possa

            Di Telemaco udillo, e ratto al padre,

            Che non gli era lontan: “T'arresta”, disse,

            “E di questo innocente i dì rispetta.

            Medonte ancor, che de' miei giorni primi

            Cura prendea, noi serberemo in vita:

            Sol ch'ei non sia per man d'un de' pastori

            Caduto, e in te dato non abbia, mentre

            Per la sala menavi in furia i colpi”.

              L'udì Medonte, il banditor solerte,

            Che sdraiato giacea sotto un sedile,

            E, l'atro fato declinando, s'era

            D'una fresca di bue pelle coverto.

            Surse da sotto il seggio, e il bovin cuoio

            Svestissi, e andò a Telemaco, e, gittate

            A' suoi ginocchi ambe le braccia: “Caro”,

            Gridava, “eccomi qua: salvami, e al padre

            Di', che irato co' proci, onde scemati

            Gli erano i beni, e vilipeso il figlio,

            Non s'inaspri in me ancora e non m'uccida”.

              Sorrise Ulisse, e a lui: “Sta' di buon core.

            Già di rischio Telemaco ti trasse,

            E in salvo pose, acciocché sappi, e il narri,

            Quanto più del far male il ben far torna.

            Tu, araldo, intanto, e tu, vate immortale,

            Fuor del palagio e della strage usciti,

            Sedete nel cortil, finch'io di dentro

            Tutta l'impresa mia conduco a riva”.

            Tacque; ed uscîro, e appo l'altar del sommo

            Giove sedean, guardandosi all'intorno,

            Qual se ad ogni momento, e in ogni loco,

            Dovesse lor sopravvenir la Parca.

              Lo sguardo allora per la casa in giro

            L'eroe mandò, se mai de' proci alcuno

            Fuggito avesse della morte il fato.

            Non rimanea di tanti un che nel sangue

            Steso non fosse e nella polve. Come

            Gli abitatori del canuto mare,

            Che il pescator con rete a molti vani

            Su dall'onda tirò nel curvo lido,

            Giaccion, bramando le native spume,

            Per l'arena odïata, e loro il sole

            Con gl'infiammati rai le anime fura:

            Così giacean l'un presso l'altro i proci.

              Subitamente Ulisse in questa forma

            Si converse a Telemaco: “Telemaco,

            La nutrice Euriclèa, su via, mi chiama,

            Ciò per udir, che a me di dirle è in grado.

              Ubbidì egli e incamminossi, e, dato

            D'urto alla porta: “O d'anni carca”, disse,

            “Sorgi, Euriclèa, che nella nostra casa

            Vegli sovra le ancelle. Il padre mio,

            Che desìa favellarti, a sé ti vuole”.

              Non sen portava le parole il vento.

            Aprì Euriclèa le porte, e in via con lui,

            Che precedeala, entrò veloce, e brutto

            Di polve tra i cadaveri e di sangue

            Ulisse ritrovò. Qual par leone,

            Che vien da divorar nel campo un toro,

            E il vasto petto e l'una guancia e l'altra

            Ne riporta cruenta, e dalle ciglia

            Spira terror: tale insozzati Ulisse

            Mostrava i piedi e delle mani i dossi.

              Quella, come i cadaveri ed il molto

            Sangue mirò, volle gridar di gioia

            A spettacolo tal: ma ei frenolla,

            Benché anelante, e con parole alate:

            “Godi dentro di te”, disse, “ma in voci,

            Vecchia, non dar di giubilo: ché vampo

            Menar non lice sovra gente uccisa.

            Questi domò il destino, e morte a loro

            Le stesse lor malvagitadi fûro:

            Quando non rispettâro alcun giammai,

            Buon fosse o reo, che in Itaca giungesse,

            Dunque a dritto periro. Or tu, nutrice,

            Di' delle donne a me, quai nel palagio

            Son macchiate di colpa, e quali intatte”.

              E la diletta a lui vecchia Euriclèa:

            “Figliuol, da me tu non avrai che il vero.

            Cinquanta chiude il tuo palagio, a cui

            Le lane pettinar, tesser le tele,

            E sostener con animo tranquillo

            La servitute, io stessa un giorno appresi.

            Dodici tra costor tutta spogliâro

            La verecondia, e, non che me, la stessa

            Dispregiâro Penelope. Non era

            Troppo innanzi venuto ancor negli anni

            Il figlio tuo, né su le donne alcuno

            Gli consentìa la saggia madre impero.

            Ma che fo io, che alle lucenti stanze

            Non salgo di Penelope, che giace

            Da un dio sepolta in un profondo sonno?”

              “Non la destare ancor”, rispose Ulisse,

            “Bensì alle donne, il cui peccar t'è noto,

            Che a me si rappresentino, dirai”.

              La balia senza indugio a invitar mosse

            Le peccatrici e ad esortarle tutte,

            Che si rappresentassero all'eroe.

            E intanto egli, Telemaco a sé avuto,

            E il custode de' verri, e quel de' tori,

            Tai parole lor feo: “Le morte salme

            Più non si tardi a trasportare altrove,

            E dell'infìde ancelle opra sia questa.

            Poi con l'acqua e le spugne a molte bocche,

            I bei sedili tergeransi e i deschi.

            Tutta rimessa la magione in punto,

            Le ancelle ne trarrete, e, poste in mezzo

            Tra la picciola torre ed il superbo

            Recinto del cortil, tanto co' lunghi

            Le cercherete feritori brandi,

            Che si disciolga dai lor corpi l'alma,

            E dalle menti lor fugga l'immonda

            Venere, onde s'unìan di furto ai proci”.

              Ciò detto appena, ecco venire a un corpo

            Le grame, sollevando alti lamenti,

            E una pioggia di lagrime versando,

            Pria trasportâr gl'inanimati corpi,

            Che del cortile, aitandosi a vicenda,

            Sotto alla loggia collocâro. Instava

            Co' suoi comandi Ulisse; e quelle il tristo

            Ministero compiean, benché a mal cuore.

            Poi con l'acqua e le spugne a molte bocche,

            I bei sedili si tergeano e i deschi.

            Ma Telemaco, e seco i due pastori,

            Con rigide scorrean pungenti scope

            Sul pavimento del ben fatto albergo;

            E la bruttura raccogliean le afflitte

            Donne, e fuori recavanla. Né prima

            Rimessa fu la magion tutta in un punto,

            Che fra la torre ed il recinto poste

            Le malvage si videro, e in tal guisa

            Serrate là, che del fuggir nulla era.

              E Telemaco: “Io, no, con morte onesta

            Non torrò l'alma da coteste donne,

            Che a me sul capo od alla madre, scherni

            Versaro; e che s'unìan d'amor co' proci”.

              Disse; e di nave alla cerulea prora

            Canape, che partìa da un gran pilastro,

            Gittò alla torre a tale altezza intorno,

            Che le ancelle, per cui gittarlo piacque,

            Non potesser del piè toccar la terra.

            E come incontra che o colombe o torde

            Che al verde chiuso d'una selva entraro,

            Van con ali spiegate a dar di petto

            Nelle pèndule reti, ove ciascuna

            Trova un letto feral: tali a mirarle

            Eran le donne con le teste in fila,

            E con avvinto ad ogni collo un laccio,

            Di morte infelicissima strumento.

            Guizzan co'piedi alquanto e più non sono.

              Telemaco indi, e i due pastori seco,

            Nella corte per l'atrio il mal capraio

            Conducean: recideangli orecchie e nari,

            E i genitali, da buttarsi crudi

            Ai can voraci, gli svelleano, i piedi

            Mozzavangli e le man; tanta fu l'ira.

            Punito al fine ogni misfatto, e mani

            Con pura onda di fonte e piè lavati,

            Ritorno fêr nella magione a Ulisse.

              Questi allor tai parole alla diletta

            Nutrice rivolgea: “Portami, o vecchia,

            Il zolfo salutifero ed il fuoco,

            Perché l'albergo vaporare io possa,

            E Penelope a me con le fedeli

            Sue donne venga; e tu l'altre per casa

            Femmine tutte a qua venir conforta”.

              Ed ella: “Figlio mio, quanto dicesti

            Io lodo assai. Ma non vuoi tu che prima

            Manto a coprirti e tunica io ti rechi?

            Indegno fora con tai cenci indosso

            Nel tuo palagio rimaner più a lungo”.

              “Prima il zolfo ed il fuoco”, ad Euriclèa

            Rispose il pien d'accorgimenti eroe.

              La nutrice, ubbidendo, il sacro zolfo

            Portògli e il fuoco prestamente; e Ulisse

            La sala ed il vestibolo e il cortile

            Più volte vaporò. Salì frattanto

            Colei le ancelle a confortar, che franche

            Vedere omai si fessero. Le ancelle

            Delle camere usciro, in man tenendo

            Lucide faci: poscia intorno a lui

            Si spargeano e abbracciavanlo, ed il capo

            Baciavangli, stringendolo e le spalle,

            E l'afferravan nelle mani. Ulisse

            Tutte le riconobbe ad una ad una

            Nel consapevol petto, e un dolce il prese

            Di sospiri e di lagrime desìo.

             

             


            LIBRO VENTITREESIMO

             

             

              La buona vecchia gongolando ascese

            Nelle stanze superne, alla padrona

            Per nunzïar, ch'era il marito in casa.

            Non le tremavan più gl'invigoriti

            Ginocchi sotto; ed ella a salti giva.

            Quindi le stette sovra il capo, e: “Sorgi”,

            Disse, “Penelopèa, figlia diletta,

            Se il desìo rimirar de' giorni tutti

            Vuoi co' propri occhi. Ulisse venne, Ulisse

            Nel suo palagio entrò dopo anni tanti,

            E i proci temerari, onde turbata

            La casa t'era, consumati i beni,

            Molestato il figliuol, ruppe e disperse”.

              E Penelope a lei: “Cara nutrice,

            Gl'Iddii, che fanno, come lor talenta,

            Del folle un saggio e del più saggio un folle,

            La ragion ti travolsero. Guastâro

            Cotesta mente, che fu sempre intègra,

            Senza dubbio gl'Iddii. Perché ti prendi

            Gioco di me, cui sì gran doglia preme,

            Favole raccontandomi, e mi scuoti

            Da un sonno dolce, che, abbracciate e strette

            Le mie tenea care palpebre? Io mai,

            Dacché Ulisse levò nel mar le vele

            Per la malvagia innominanda Troia,

            Così, no, non dormìi. Su via, discendi,

            Balia, e ritorna onde movesti, e sappi,

            Che se tali novelle altra mi fosse

            Delle mie donne ad arrecar venuta,

            E me dal sonno scossa, io rimandata

            Tostamente l'avrei con modi acerbi:

            Ma giovi a te, che quel tuo crin sia bianco”.

              “Diletta figlia”, ripigliò la vecchia,

            “Io di te gioco non mi prendo. Ulisse

            Capitò veramente, ed il suo tetto

            Rivide al fin: quel forestier da tutti

            Svillaneggiato nella sala è Ulisse.

            Telemaco il sapea: ma scortamente

            I paterni consigli in sé celava,

            Delle vendette a preparar lo scoppio”.

              Giubbilò allor Penelope, e, di letto

            Sbalzata, al seno s'accostò la vecchia,

            Lasciando ir giù le lagrime dagli occhi,

            E con parole alate: “Ah! non volermi,

            Balia cara, deludere”, rispose.

            “S'ei, come narri, in sua magione alberga,

            Di qual guisa poté solo agli audaci

            Drudi, che in folla rimaneanvi sempre,

            Le ultrici far sentir mani omicide?”

              “Io nol vidi, né il so”, colei riprese:

            “Solo il gemer di quei, ch'eran trafitti,

            L'orecchio mi ferìa. Noi delle belle

            Stanze, onde aprir non potevam le porte,

            Nel fondo sedevam, turbate il core;

            Ed ecco a me Telemaco mandato

            Dal genitor, che mi volea. Trovai

            Ulisse in piè tra i debellati proci,

            Che giacean l'un su l'altro, il pavimento

            Tutto ingombrando. Oh come ratto in gioia

            La tua lunga tristezza avresti vôlta:

            Se di polve e di sangue asperso e brutto,

            Qual feroce leon, visto l'avessi!

            Or, del palagio fuor tutti in un monte

            Stannosi; ed ei con solforati fuochi,

            Ei, che a te m'inviò nunzia fedele,

            La nobile magion purga e risana.

            Seguimi adunque; e dopo tanti mali

            Ambo schiudete alla letizia il core.

            Già questo lungo desiderio antico,

            Che distruggeati, cessa: Ulisse vivo

            Venne al suo focolare, e nel palagio

            Trovò la sposa e il figlio, e di coloro,

            Che gli noceano, vendicossi a pieno”.

              “Tanto non esultar, non trïonfare,

            Nutrice mia”, Penelope soggiunse,

            “Perché t'è noto, quanto caro a tutti,

            E sovra tutti a me caro, e al cresciuto

            Suo figlio e mio, capiterebbe Ulisse.

            Ma tu il ver non parlasti. Un nume, un nume

            Fu, che dell'opre ingiuste e de' superbi

            Scherni indegnato, mandò all'Orco i proci,

            Che dispregiavan sempre ogni novello

            Stranier, buon fosse, o reo: quindi perîro.

            Ma Ulisse lungi dall'Acaica terra

            Il ritorno perdé, perdé la vita”.

              “Deh quale, o figlia, ti sfuggì parola

            Dalla chiostra de' denti?” a lei la vecchia.

            “Il ritorno perdé, perdé la vita,

            Mentre in sua casa e al focolar suo sacro

            Dimora? Il veggio: chiuderai nel petto

            Un incredulo cor, finché vivrai.

            Se non che un segno manifesto in prova

            Ti recherò; la cicatrice onesta

            Della piaga, che in lui di guerreggiato

            Cinghial feroce il bianco dente impresse;

            Quella, i piedi lavandogli, io conobbi

            E volea palesartela: ma egli,

            Con le mani afferrandomi alla bocca,

            D'accortezza maestro, il mi vietava.

            Séguimi, io dico. Ecco me stessa io metto

            Nelle tue forze: s'io t'avrò delusa,

            La morte più crudel fammi morire”.

              E di nuovo Penelope: “Nutrice,

            Chi le vie degli dèi conoscer puote?

            Né tu col guardo a penetrarle basti.

            Ogni modo a Telemaco si vada,

            E la morte de' proci e il nostro io vegga

            Liberatore, un uomo ei siasi o un nume”.

              Detto così, dalla superna stanza

            Scese con mente in due pensier divisa:

            Se di lontano a interrogar l'amato

            Consorte avesse o ad appressarlo in vece,

            E nelle man baciarlo e nella testa.

            Varcata, entrando, la marmorea soglia,

            Da quella parte, contra lui s'assise,

            Dinanzi al foco, che su lei raggiava;

            Ed ei, poggiato a una colonna lunga,

            Sedea con gli occhi a terra, e le parole

            Sempre attendea della preclara donna,

            Poiché giunti su lui n'eran gli sguardi.

            Tacita stette e attonita gran tempo:

            Il riguardava con immote ciglia,

            E in quel che ravvisarlo ella credea,

            Traeanla fuor della notizia antica

            Gli abiti vili, onde scorgealo avvolto.

            Non si tenne Telemaco, che lei

            Forte non rampognasse: “O madre mia,

            Madre infelice e barbara consorte,

            Perché così dal genitor lontana?

            Ché non siedi appo lui? ché non gli parli?

            Null'altra fôra così fredda e schiva

            Con marito alla patria, ed a lei giunto

            Dopo guai molti nel ventesim'anno.

            Ma una pietra per cuore a te sta in petto”.

              E a rincontro Penelope: “Sospesa,

            Figlio, di stupor sono, ed un sol detto

            Formar non valgo, una dimanda sola,

            E né, quant'io vorrei, mirarlo in faccia.

            Ma s'egli è Ulisse e la sua casa il tiene,

            Nulla più resta che il mio stato inforsi.

            Però che segni v'han dal nuzïale

            Ricetto nostro impenetrabil tratti,

            Ch'esser noti sappiamo a noi due solo”.

              Sorrise il saggio e pazïente Ulisse,

            E converso a Telemaco: “La madre

            Lascia”, diceagli, “a suo piacer tentarmi:

            Svanirà, figlio, ogni suo dubbio in breve.

            Perché in vesti mi vede umili e abbiette,

            Spregiami, e penetrar non san per queste

            Sino ad Ulisse i timidi suoi sguardi,

            Noi quel partito consultiamo intanto

            Che abbracciar sarà meglio. Uom, che di vita

            Spogliò un uom solo e oscuro, e di cui pochi

            Sono i vendicator, pur fugge, e il dolce

            Nido abbandona ed i congiunti cari.

            Or noi della città tolto il sostegno,

            E il fior dell'Itacese gioventude

            Mietuto abbiamo. Qual è il tuo consiglio?”

              E il prudente Telemaco: “A te spetta,

            Diletto padre, il consigliar”, rispose:

            “A te, con cui non v'ha chi d'accortezza

            Contendere osi. Io seguirotti pronto

            In ogni tuo disegno, e men, cred'io,

            Le forze mi verran pria, che il coraggio”.

              “Questo a me sembra”, ripigliava Ulisse.

            “Bagnatevi, abbigliatevi, e novelle

            Prenda ogni donna e più leggiadre vesti.

            Poi con l'arguta cetera il divino

            Cantore inviti a una gioconda danza.

            Acciò chi di fuori ode, o passa, o alberga

            Vicin, le nozze celebrarsi creda.

            Così pria non andrà per la cittade

            Della strage de' proci il sanguinoso

            Grido, che noi non siam nell'ombreggiata

            Campagna nostra giunti, in cui vedremo

            Ciò che inspirarci degnerà l'Olimpio”.

              Scoltato ed ubbidito ei fu ad un'ora.

            Si bagnâr, s'abbigliâr, vesti novelle

            Prese ogni donna, e più fregiata apparve.

            Femio la cetra nelle man recossi,

            E del canto soave e dell'egregia

            Danza il desìo svegliò. Tutta sonava

            Quella vasta magion del calpestìo

            Degli uomini trescanti e delle donne,

            Cui bella fascia circondava i fianchi.

            E tal che udìa di fuor, tra sé dicea:

            “Alcun per fermo la cotanto ambita

            Regina ottenne. Trista! che gli eccelsi

            Tetti di quel, cui vergine congiunta

            S'era, non custodì, finch'ei venisse”.

            Così parlava; e di profonda notte

            Lo strano caso rimanea tra l'ombre.

              In questo mezzo Eurìnome cosperse

            Di lucid'onda il generoso Ulisse,

            E del biondo licor l'unse, ed il cinse

            Di tunica e di clamide: ma il capo

            D'alta beltade gl'illustrò Minerva.

            Ei de' lavacri uscì pari ad un nume,

            E di nuovo s'assise, ond'era sorto,

            Alla sua moglie di rincontro, e disse:

            “Mirabile! a te più che all'altre donne,

            Gli abitatori dell'Olimpie case

            Un cuore impenetrabile formâro.

            Quale altra accoglierìa con tanto gelo

            L'uom suo, che dopo venti anni di duolo

            Alla sua patria ritornasse e a lei?

            Su via, nutrice, per me stendi un letto,

            Dov'io mi corchi, e mi riposi anch'io:

            Quando di costei l'alma è tutta ferro”.

              “Mirabil”, rispondea la saggia donna,

            “Io né orgoglio di me, né di te nutro

            Nel cor disprezzo, né stupor soverchio

            M'ingombra: ma guardinga i dèi mi fero.

            Ben mi ricorda, quale allor ti vidi,

            Che dalle spiagge d'Itaca naviglio

            Ti allontanò di remi lungo armato.

            Or che badi, Euriclèa, che non gli stendi

            Fuor della stanza maritale il denso

            Letto, ch'ei di sua mano un dì costrusse,

            E pelli e manti e sontuose coltri

            Su non vi getti?” Ella così dicea,

            Far volendo di lui l'ultima prova.

              Crucciato ei replicò: “Donna, parola

            T'usci da' labbri fieramente amara.

            Chi altrove il letto collocommi? Dura

            Al più saputo tornerìa l'impresa.

            Solo un nume potrebbe agevolmente

            Scollocarlo: ma vivo uomo nessuno,

            Benché degli anni in sul fiorir, di loco

            Mutar potrìa senza i maggiori sforzi

            Letto così ingegnoso, ond'io già fui,

            Né compagni ebbi all'opra, il dotto fabbro.

            Bella d'olivo rigogliosa pianta

            Sorgea nel mio cortile, i rami larga,

            E grossa molto, di colonna in guisa.

            Io di commesse pietre ad essa intorno

            Mi architettai la maritale stanza,

            E d'un bel tetto la coversi, e salde

            Porte v'imposi e fermamente attate.

            Poi, vedovata del suo crin l'oliva,

            Alquanto su dalla radice il tronco

            Ne tagliai netto, e con le pialle sopra

            Vi andai leggiadramente, v'adoprai

            La infallibile squadra e il succhio acuto.

            Così il sostegno mi fec'io del letto;

            E il letto a molta cura io ripolìi,

            L'intarsïai d'oro, d'avorio e argento

            Con arte varia, e di taurine pelli,

            Tinte in lucida porpora, il ricinsi.

            Se a me riman, qual fabbricailo, intatto,

            O alcun, succiso dell'olivo il fondo,

            Portollo in altra parte, io, donna, ignoro”.

              Questo fu il colpo che i suoi dubbi tutti

            Vincitore abbatté. Pallida, fredda,

            Mancò, perdé gli spiriti e disvenne.

            Poscia corse vêr lui dirittamente,

            Disciogliendosi in lagrime; ed al collo

            Ambe le braccia gli gettava intorno,

            E baciavagli il capo e gli dicea:

            “Ah! tu con me non t'adirare, Ulisse,

            Che in ogni evento ti mostrasti sempre

            Degli uomini il più saggio. Alla sventura

            Condannavanci i numi, a cui non piacque

            Che de' verdi godesse anni fioriti

            L'uno appo l'altro, e quindi a poco a poco

            L'un vedesse imbiancar dell'altro il crine.

            Ma, se il mirarti e l'abbracciarti un punto

            Per me non fu, tu non montarne in ira.

            Sempre nel caro petto il cor tremavami,

            Non venisse a ingannarmi altri con fole:

            Ché astuzie ree covansi a molti in seno.

            Né la nata di Giove Elena Argiva

            D'amor sarìasi e sonno a uno straniero

            Congiunta mai, dove previsto avesse

            Che degli Achei la bellicosa prole

            Nuovamente l'avrebbe alla diletta

            Sua casa in Argo ricondotta un giorno.

            Un dio la spinse a una indegna opra; ed ella

            Pria che di dentro ne sentisse il danno,

            Non conobbe il velen, velen da cui

            Tanto cordoglio a tutti noi discorse.

            Ma tu mi desti della tua venuta

            Certissimo segnale: il nostro letto,

            Che nessun vide mai, salvo noi due,

            E Attoride la fante, a me già data

            Dal padre mio, quand'io qua venni, e a cui

            Dell'inconcussa nuzïale stanza

            Le porte in guardia son, tu quello affatto

            Mi descrivesti; e al fin pieghi il mio core,

            Ch'esser potrìa, nol vo' negar, più molle”.

              A questi detti s'eccitò in Ulisse

            Desìo maggior di lagrime. Piagnea,

            Sì valorosa donna e sì diletta

            Stringendo al petto. E il cor di lei qual era?

            Come ai naufraghi appar grata la terra

            Se Nettuno fracassò nobile nave,

            Che i vasti flutti combatteano e i venti,

            Tanto che pochi dal canuto mare

            Scampâr nôtando a terra e con le membra

            Di schiuma e sal tutte incrostate, e lieti

            Su la terra montâr, vinto il periglio:

            Così gioìa Penelope, il consorte

            Mirando attenta, né staccar sapea

            Le braccia d'alabastro a lui dal collo.

            E già risorta lagrimosi il ciglio

            Visti gli avrìa la ditirosea Aurora,

            Se l'occhio azzurro di Minerva un pronto

            Non trovava compenso. Egli la Notte

            Nel fin ritenne della sua carriera,

            Ed entro all'Ocean fermò l'Aurora,

            Giunger non consentendole i veloci

            Dell'alma luce portator destrieri,

            Lampo e Fetonte, ond'è guidata in cielo

            La figlia del mattin su trono d'oro.

              Ulisse allor queste parole volse

            Non liete alla donna: “O donna, giunto

            Non creder già de' miei travagli il fine.

            Opra grande rimane, immensa, e cui

            Fornir, benché a fatica, io tutta deggio.

            Tanto mi disse di Tiresia l'ombra

            Il dì ch'io per saver del mio ritorno,

            E di quel de' compagni, al fosco albergo

            Scesi di Dite. Or basta. Il nostro letto

            Ci chiama e il sonno, di cui tutta in noi

            Entrerà l'ineffabile dolcezza”.

              E Penelope a lui così rispose:

            “Quello a te sempre apparecchiato giace,

            Poiché di ritornar ti diêro i numi.

            Ma tu quest'opra, di cui qualche dio

            Risvegliò in te la rimembranza, dimmi.

            Tu non vorrai da me, penso, celarla

            Poscia; e il tosto saperla a me par meglio”.

              “Sventurata, perché”, l'altro riprese,

            “Tal nel tuo petto e sì fervente brama?

            Nulla io t'asconderò: benché goderne

            Certo più che il mio core, il tuo non deggia.

            L'ombra ir m'impose a città molte, un remo

            Ben fabbricato nelle man tenendo,

            Né prima il piè fermar, che ad una nuova

            Gente io non sia, che non conosce il mare,

            Né cosperse di sal vivande gusta,

            Né delle navi dalle rosse guance

            O de' remi, che sono ale alle navi,

            Notizia vanta. E mi diè un segno il vate.

            Quel dì, che un altro pellegrino, a cui

            M'abbatterò per via, me un ventilabro

            Portar dirà su la gagliarda spalla,

            Allora, infitto nella terra il remo,

            E vittime perfette a re Nettuno

            Svenate, un toro, un arïete, un verro,

            Riedere io debbo alle paterne case,

            E per ordine offrir sacre ecatombi

            Agli dèi tutti che in Olimpo han seggio.

            Quindi a me fuor del mare, e mollemente

            Consunto al fin da una lenta vecchiezza,

            Morte sopravverà placida e dolce,

            E beate vivran le genti intorno.

            Ecco il destin che il tuo consorte aspetta”.

              Ed ella ripigliò: “Se una vecchiezza

            Migliore i dèi prométtonti, che tutta

            L'altra etade non fu, t'allegra dunque,

            O d'ogni angoscia vincitor felice”.

              Eurìnome frattanto ed Euriclèa

            Di molli coltri e di tappeti il casto

            Letto adornavan delle faci al lume.

            Ciò in brev'ora compiuto, a' suoi riposi

            Euriclèa si ritrasse, ed Eurinòme

            In vêr la stanza maritale Ulisse

            Precedeva, e Penelope, tenendo

            Fiaccola in man: poi ritirossi anch'ella;

            E con pari vaghezza i due consorti

            Del prisco letto rinnovaro i patti.

            Telemaco non meno ed i pastori,

            Fatti i lor piè cessar dalla gioconda

            Danza, e quei delle donne, al sonno in preda

            S'abbandonaro nell'oscura sala.

              Ma Penelope e Ulisse un sovrumano

            De' mutui lor ragionamenti vari,

            Che la notte coprìa, prendean diletto.

            Ella narrava, quanto a lei di doglia

            Diè la vista de' proci, ed il trambusto

            In ch'era la magion, mentre, velando

            La loro audacia dell'amor del manto,

            Sempre a terra stendean pecora o bue,

            E dai capaci dogli il delicato

            Vino attigneano. D'altra parte Ulisse

            Que' mali, che in se stesso o a gente avversa

            Sofferti avea pellegrinando, o inflitti,

            Le raccontava: un non so che di dolce

            L'anima ricercavale ed a lei,

            Finch'ei per tutte andò le sue vicende,

            Non abbassava le palpèbre il sonno.

              Tolse a dir, come i Cìconi da prima

            Vinse, e poi de' Lotòfagi alla pingue

            Terra sen venne; e rammentò gli eccessi

            Del barbaro Ciclope, e la sagace

            Vendetta fatta di color tra i suoi,

            Ch'ei metteasi a vorar senza pietade.

            Come ad Eolo approdò, da cui gentile

            Accoglienza e licenza ebbe del pari:

            Ma non ancor gli concedeano i fati

            La contrada natìa, donde rapillo

            Subitana procella, e sospirante

            Molto e gemente, il ricacciò nell'alto.

            Quindi l'amaro descriveale arrivo

            Alla funesta dalle larghe porte

            Cittade de' Lestrìgoni, e gli ancisi

            Compagni tanti, e i fracassati legni,

            Fuor che uno, sovra cui salvossi appena.

            Gli scaltrimenti descrivea di Circe

            E il vïaggio impensato in salda nave,

            Per consultar del Teban vate l'alma,

            Alla casa inamabile di Pluto,

            Dove s'offrîro a lui gli antichi amici,

            Ombre guerriere, ed Anticlèa, che in luce

            Poselo, e intese alla sua infanzia cara.

            Aggiunse le Sirene, innanzi a cui

            Passare ardì con disarmati orecchi;

            E gl'instabili scogli, e la tremenda

            Cariddi e Scilla, cui non vider mai

            I più destri nocchieri impunemente.

            Né l'estinto tacea del Sole armento,

            E la vermiglia folgore di Giove

            Altitonante, che percosse il legno,

            E i compagni sperdé. Campò egli a terra

            Solo, e afferrò all'Ogigia isola; ed ivi

            Calipso, che bramava essergli sposa,

            Il ritenea nelle sue cave grotte,

            L'adagiava di tutto, e giorni eterni

            Senza canizie prometteagli: pure

            Nel seno il cor mai non piegògli. Al fine

            Dopo infiniti guai giunse ai Feaci,

            Che al par d'un nume l'onorâro, e in nave

            Di rame carca e d'oro e di vestiti,

            All'aere dolce de' natii suoi monti

            Rimandârlo. Quest'ultima parola

            Delle labbra gli uscìa, quando soave

            Scioglitor delle membra e d'ogni cura

            Disgombrator, sovra lui cadde il sonno.

              Ma in questo mezzo la Pupilleazzurra

            Di Laerte il figliuol non obblïava.

            Come le parve ch'ei goduto avesse

            Di notturna quïete appo la fida

            Moglie abbastanza, incontanente mosse

            E a levarsi eccitò dall'Oceàno

            Sul trono d'ôr la ditirosea Aurora,

            Perché la terra illuminasse e il cielo.

            Sorse allora l'eroe dal molle letto,

            E questi accenti alla consorte volse:

            “Consorte, sino al fondo ambi la coppa

            Bevemmo del dolor; tu, che piangevi

            Il mio ritorno disastroso, ed io,

            Cui Giove e gli altri dèi, dalla bramata

            Patria volean tra mille affanni in bando.

            Or, che agli Eterni rïunirci piacque,

            Cura tu prenderai di quanto in casa

            Rèstami; ed io di ciò, che gli orgogliosi

            Proci usurpâro a me, parte co' doni

            Del popol mio, parte co' miei conquisti,

            Ristorerommi a pieno, in sin che tutte

            Si rïempian di nuovo a me le stalle.

            Io nella folta di diverse piante

            Campagna sua corro a veder l'antico

            Genitor, che per me tanto dolora.

            Tu, benché saggia, il mio precetto ascolta.

            Sorto il novello sol, per la cittade

            Della morte de' proci andrà la fama.

            Sali nell'alto con le ancelle e siedi,

            Ed in guisa ivi sta, che non t'accada

            Né voce ad alcun volgere, né sguardo”.

              Detto, vestissi le bell'armi, e il prode

            Figlio animava e i due pastori, e a tutti

            Prendere ingiunse i marzïali arnesi.

            Quelli, obbedendo, armavansi, e, dischiuse

            Le porte, uscìano: precedeali Ulisse.

            Già si spargea su per la terra il lume;

            Ma fuor della città tosto li trasse

            Di nube cinti l'Atenèa Minerva.

             

             


            LIBRO VENTIQUATTRESIMO

             

             

              Mercurio intanto, di Cillene il dio

            L'alme de' proci estinti a sé chiamava.

            Tenea la bella in man verga dell'oro,

            Onde i mortali dolcemente assonna,

            Sempre che il vuole, e li dissonna ancora.

            Con questa conducea l'alme chiamate,

            Che stridendo il seguìano. E come appunto

            Vipistrelli nottIvaghi nel cupo

            Fondo talor d'una solenne grotta,

            Se avvien che alcun dal sasso ove congiunti

            L'uno appo l'altro s'atteneano, caschi,

            Tutti stridendo allor volano in folla:

            Così movean gli spirti, e per la fosca

            Via precedeali il mansueto ErmEte.

            L'Oceàn trapassavano, e la bianca

            Pietra e del sole le lucenti porte,

            Ed il popol de' sogni: indi ai vestiti

            D'asfodèlo immortale inferni prati

            Giunser, dove soggiorno han degli estinti

            Le aeree forme e i simulacri ignudi.

              L'alma trovâro del Pelìade Achille,

            Di Pátroclo, d'Antiloco e d'Aiace,

            Che i Danai tutti, salvo il gran Pelìde,

            Di corpo superava e di sembiante,

            Corona fean di Pèleo al figlio: ed ecco

            Dolente presentarsegli lo spirto

            Dell'Atride Agamennone, cui tutti

            Seguìan coloro che d'Egisto un giorno

            Nella casa infedel con lui periro.

            Primo gli volse le parole Achille:

            Noi credevamti sovra tutti, Atride

            Della Grecia gli eroi diletto al vago

            Del fulmin Giove, poiché a molta e forte

            Gente imperavi sotto l'alte mura

            Di Troia, lungo degli Achivi affanno.

            Pur te assalir dovea, primo tra quelli

            Che ritornâro, la severa Parca,

            Da cui scampar non lice ad uom che nacque.

            Ché non moristi almeno in quell'eccelso

            Grado, di cui godevi, ad Ilio innanzi?

            Qual tomba i Greci, che al tuo figlio ancora

            Somma gloria sarìa ne' dì futuri,

            Non t'avrìano innalzata? Oh miseranda

            Fine che in vece ti prescrisse il fato!”

              “Felice te”, gli rispondea l'Atride,

            “Figlio di Pèleo, Achille ai numi eguale,

            Tu che a Troia cadesti, e lunge d'Argo,

            E a cui de' Greci e de' Troiani i primi,

            Che pugnavan per te, cadeano intorno!

            Tu de' cavalli immemore e de' cocchi,

            Cadaver grande sovra un grande spazio,

            Giacevi in mezzo a un vortice di polve;

            E noi combattevam da mane a sera,

            Né cessava col dì, credo, l'atroce

            Pugna ostinata, se da Giove mosso

            Gli uni non dividea dagli altri un turbo.

            Tosto che fuor della battaglia tratto,

            E alle navi per noi condotto fosti,

            Asperso prima il tuo formoso corpo

            Con tepid'acque e con fragranti essenze,

            Ti deponemmo in su funèbre letto;

            E molte sovra te lagrime calde

            Spargeano i Danai e recideansi il crine.

            Ma la tua madre, il grave annunzio udito,

            Del mare uscì con le Nereidi eterne,

            E un immenso clamor corse per l'onde,

            Tal che tremarsi le ginocchia sotto

            Gli Achei tutti sentiro. E già salite

            Precipitosi avrìan le ratte navi,

            S'uom non li ritenea, la lingua e il petto

            Pien d'antico saver, Nestor, di cui

            Ottimo sempre il consigliar tornava:

            "Arrestatevi, Argivi, non fuggite",

            Disse il profondo del Nelìde senno,

            "O figli degli Achei: questa è la madre,

            Ch'esce dall'onda con l'equòree Dive

            E al figliuol morto viene". A tai parole

            Ciascun risté. Ti circondaro allora

            Del vecchio Nereo le cerulee figlie,

            Lugubri lai mettendo, e a te divine

            Vesti vestiro. Il coro anche plorava

            Delle nove sorelle, alternamente

            Sciogliendo il canto or l'una, or l' altra; e tale

            Il poter fu delle canore Muse,

            Che un sol Greco le lagrime non tenne.

            Dieci dì e sette ed altrettante notti,

            Uomini e dèi ti piangevam del pari:

            Ma il giorno che seguì, ti demmo al foco,

            E agnelle di pinguedine fiorite

            Sgozzammo e buoi dalla lunata fronte.

            Tu nelle vesti degli dèi, nel dolce

            Mele fosti arso e nel soave unguento;

            E mentre ardevi, degli Acaici eroi

            Molti corser con l'arme intorno al rogo,

            Chi sul cocchio, chi a piedi; ed un rimbombo

            Destossi che salì fino alle stelle.

            Come consunto la vulcania fiamma,

            Achille, t'ebbe, noi le candide ossa,

            Del più puro tra i vini e del più molle

            Tra gli unguenti irrigandole, su l'Alba

            Raccoglievamo; e la tua madre intanto

            Portò lucida d'oro urna, che dono

            Dicea di Bacco e di Vulcan fattura.

            Entro quest'urna le tue candide ossa

            Con quelle di Patròclo, illustre Achille,

            Giaccion: ed ivi pur, benché disgiunte,

            L'ossa posan d'Antìloco, cui tanto

            Sovra tutti i compagni onor rendevi,

            Spento di vita il Menezìade. Quindi

            Massima ergemmo e sontuosa tomba

            Noi de' pugnaci Achivi oste temuta,

            Su l'Ellesponto, ove più sporge il lido:

            Perché chi vive e chi non nacque ancora,

            Solcando il mar la dimostrasse a dito.

            La madre tua, che interrogonne i numi,

            Splendidi in mezzo il campo al fior dell'oste

            Giuochi propose. Io molte esequie illustri

            Dove all'urna d'un re la gioventude

            Si cinge i fianchi, e a lotteggiar s'appresta,

            Vidi al mio tempo: ma più assai, che gli altri

            Certami tutti, con le ciglia in arco

            Quelle giostre io mirai, che per te diede

            Sì belle allor la piediargentea Teti.

            Così caro vivevi agl'immortali!

            Però il tuo nome non si spense teco:

            Anzi la gloria tua pel mondo tutto

            Rifiorirà, Pelìde, ognor più bella.

            Ma io qual pro di così lunga guerra

            Da me finita, se cotal ruina

            Per man d'Egisto e d'una moglie infame,

            Pronta mi tenea Giove al mio ritorno?”

              Cotesti avean ragionamenti, quando

            Lor s'accostò l'interprete Argicida,

            Che de' proci testé da Ulisse vinti

            L'alme guidava. Agamennòne e Achille

            Non prima li sguardâr che ad incontrarli

            Maravigliando mossero. L'Atride

            Ratto conobbe Anfimedonte, il caro

            Figlio di quel Melanio, onde ospizio ebbe

            In Itaca, e così primo gli disse:

              “Anfimedonte, per qual caso indegno

            Scendeste voi sotterra, eletta gente,

            E tutti d'una età? Scêrre i migliori

            Meglio non si potrìa nella cittade.

            Nettuno forse vi annoiò sul mare,

            Fieri venti eccitando e immani flutti?

            O v'offesero in terra uomini ostili,

            Mentre buoi predavate e pingui agnelle?

            O per la patria e per le care donne

            Combattendo cadeste? A un tuo paterno

            Ospite, che tel chiede, manifesta.

            Non ti ricorda di quel tempo, ch'io

            Col divin Menelao venni al tuo tetto,

            Ulisse a persuader, che su le armate

            Di saldi banchi e ben velate navi

            Ci accompagnasse a Troia? Un mese intero

            Durò il passaggio per l'immenso mare,

            Poiché svelto da noi fu a stento il prode

            Rovesciator delle cittadi Ulisse”.

              E di rincontro Anfimedonte: “O figlio

            Glorïoso d'Atrèo, re delle genti,

            Serbo in mente ciò tutto; e qual reo modo

            Ci toccasse di morte, ora io ti narro.

            D'Ulisse, ch'era di molt'anni assente,

            La consorte ambivamo. Ella nel core

            Morte a noi macchinava, e non volendo

            Né rifiutar, né trarre a fin le nozze,

            Un compenso inventò. Mettea la trama

            In sottile ampia, immensa tela ordita

            Da lei nel suo palagio; e, noi chiamati:

            "Giovinetti", dicea, "miei proci, Ulisse

            Sensa dubbio morì. Tanto a voi dunque

            Piaccia indugiar le nozze mie ch'io questo

            Lugubre ammanto per l'eroe Laerte,

            Onde a mal non mi vada il vano stame,

            Pria fornir possa, che la negra il colga

            D'eterno sonno apportatrice Parca.

            Volete voi che mòrdanmi le Achee,

            Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo,

            Fallisse un drappo, in cui giacersi estinto?"

            Con siffatte parole il core in petto

            Ci tranquillò. Tessea di giorno intanto

            L'insigne tela e la stessea di notte,

            Di mute faci al consapevol raggio.

            Un trïennio così nella sua frode

            Celavasi e tenea gli Achivi a bada.

            Ma sorgiunto il quart'anno, e le stagioni,

            Uscendo i mesi, nuovamente apparse,

            E compiuta de' giorni ogni rivolta,

            Noi, da un ancella non ignara instrutti,

            Penelope trovammo al suo notturno

            Retrogrado lavoro, e ripugnante

            Pur di condurlo la sforzammo a riva.

            Quando ci mostrò alfin l'inclito ammanto,

            Che risplendea, come fu asterso tutto,

            Del sole al pari o di Selene, allora

            Ulisse, non so d'onde, un genio avverso

            Menò al confin del campo, ove abitava

            Il custode de' verri, ed ove giunse

            D'Ulisse il figlio, che ritorno fea

            Dall'arenosa Pilo in negra nave.

            Morte a noi divisando, alla cittade

            Vennero; innanzi il figlio e il padre dopo.

            Questi in lacero arnese e somigliante

            A un infelice paltoniere annoso,

            Che sul bastone incurvasi, condotto

            Fu dal pastor de' verri; i più meschini

            Vestiti appena il ricoprìan, né alcuno

            Tra i più attempati ancor, seppe di noi,

            Com'ei s'offerse, ravvisarlo. Quindi

            Motteggi e colpi le accoglienze fûro.

            Colpi egli pazïente in sua magione

            Per un tempo soffrìa, non che motteggi;

            Ma, come spinto dall'Egìoco Giove

            Sentissi, l'armi dalla sala tolse,

            E con l'aìta del figliuol nell'alto

            Le serrò del palagio. Indi con molto

            Prevedimento alla reina ingiunse

            Che l'arco proponesse e il ferro ai proci:

            Funesto gioco, che finì col sangue.

            Nessun di noi del valid'arco il nervo

            Tender potea: ché opra da noi non era.

            Ma dell'eroe va in man l'arma. Il pastore

            Noi tutti sgridavam, perché all'eroe

            Non la recasse. Indarno fu. Telemaco

            Comandògli recarla, e Ulisse l'ebbe.

            Ei, prese in man l'arco famoso, il tese

            Così e il tirò, che ambo le corna estreme

            Si vennero ad unir: poi la saetta

            Per fra tutti gli anei sospinse a volo.

            Ciò fatto, stette in su la soglia, e i ratti

            Strali versossi ai piedi, orrendamente

            Guardando intorno. Antìnoo colse il primo,

            E dopo lui, sempre di contra or l'uno

            Tolto e or l'altro di mira, i sospirosi

            Dardi scoccava, e cadea l'un su l'altro.

            Certo un nume l'aitava. I suoi compagni,

            Seguendo qua e là l'impeto suo,

            A gara trucidavanci: lugùbri

            Sorgean lamenti, rimbombar s'udìa

            Delle teste percosse ogni parete;

            E correa sangue il pavimento tutto.

            Così, Atride, perimmo e i nostri corpi

            Giaccion negletti nel cortil d'Ulisse:

            Poiché nulla ne san gli amici ancora,

            Che dalla tabe a tergerci e dal sangue

            Non tarderìano e a piangerci deposti,

            De' morti onor, sovra un funèbre letto”.

              “O fortunato”, gridò allor l'Atride

            “Di Laerte figliuol, con qual valore

            La donna tua riconquistasti! E quanto

            Saggia o memore ognor dell'uomo, a cui

            Nel pudico suo fiore unita s'era

            Visse d'Icario la figliuola illustre!

            La rimembranza della sua virtude

            Durerà sempre, e amabile ne' canti

            Ne sonerà per l'universo il nome.

            Non così la Tindaride, che, osando

            Scellerata opra, con la man, che data

            Vergine aveagli, il suo marito uccise.

            Costei fia tra le genti un odïoso

            Canto perenne: ché di macchia tale

            Le donne tutte col suo fallo impresse,

            Che le più oneste ancor tinte n'andranno”.

              Tal nell'oscure, dove alberga Pluto,

            Della terra caverne, ivan quell'alme

            Di lor vicende ragionando insieme.

              Ulisse e il figlio intanto e i due pastori

            Giunser, dalla città calando, in breve

            Del buon Laerte al poder culto e bello,

            De' suoi molti pensier frutto, e de' molti

            Studi e travagli suoi. Comoda casa

            Gli sorgea quivi di capanne cinta,

            Ove cibo e riposo ai corpi, e sonno

            Davan famigli, che, richiesti all'uopo

            Delle sue terre, per amor più ancora,

            Che per dover, servìanlo; ed una buona

            Pur v'abitava Siciliana fante,

            Che in quella muta solitudin verde

            De' canuti anni suoi cura prendea.

            Ulisse ai due pastori e al caro pegno:

            “Entrate”, disse, “nella ben construtta

            Casa, e per cena un de' più grassi porci

            Subito apparecchiate. Io voglio il padre

            Tentar, s'ei dopo una sì lunga assenza

            Mi ravvisa con gli occhi, o estinta in mente

            Gli abbia di me la conoscenza il tempo”.

              Detto, consegnò lor l'armi; e Telemaco,

            E i due pastor rapidi entrâro. Ulisse

            Del grande orto pomifero alla volta

            Mosse, né Dolio, discendendo in quello,

            Trovò, né alcun de' figli o degli schiavi,

            Che tutti a raccôr pruni, onde il bell'orto

            D'ispido circondar muro campestre,

            S'eran rivolti; e precedeali Dolio.

            Sol trovò il genitor, che ad una pianta

            Curvo zappava intorno. Il ricoprìa

            Tunica sozza ricucita e turpe:

            Dalle punture degli acuti rovi

            Le gambe difendevan gli schinieri

            Di rattoppato cuoio e le man guanti:

            Ma berretton di capra in su la testa

            Portava il vecchio; e così ei la doglia

            Nutriva ed accrescea nel caro petto.

            Tosto che Ulisse l'avvisò dagli anni

            Suoi molti, siccom'era, e da' suoi molti

            Mali più ancor, che dall'età, consunto,

            Lagrime, stando sotto un alto pero,

            Dalle ciglia spandea. Poi nella mente

            Volse e nel cor, qual de' due fosse il meglio,

            Se con amplessi a lui farsi e con baci,

            E narrar del ritorno il quando e il come,

            O interrogarlo prima, e punzecchiarlo

            Con detti forti risvegliando il duolo,

            Per raddoppiar la gioia; e a ciò s'attenne.

            Si drizzò dunque a lui, che basso il capo

            Tenea zappando ad una pianta intorno,

            E: “Vecchio”, disse, “della cura ignaro,

            Cui domanda il verzier, certo non sei,

            Arbor non v'ha, non fico, vite, oliva

            Che l'abil mano del cultor non mostri,

            Né sfuggì all'occhio tuo di terra un palmo.

            Altro, e non adirartene, io dirotti:

            Nulla è negletto qui, fuorché tu stesso.

            Coverto di squallor véggioti e avvolto

            In panni rei, non che dagli anni infranto.

            Se mal ti tratta il tuo signor, per colpa

            Della pigrizia tua non è ciò, penso:

            Anzi tu nulla di servil nel corpo

            Tieni o nel volto, chi ti guarda fisso.

            Somigli ad un re nato; ad uom somigli,

            Che, dopo il bagno e la gioconda mensa,

            Mollemente dormir debba su i letti

            Com'è l'usanza de' vegliardi. Or dimmi

            Preciso e netto chi tu servi, e a cui

            L'orto governi, e fa' ch'io sappia in oltre,

            Se questa è veramente Itaca, dove

            Son giunto, qual testé colui narrommi

            Che in me scontrossi, uom di non molto senno,

            Quando né il tutto raccontar, né volle

            Me udir, che il richiedea, se in qualche parte

            D'Itaca un certo vive ospite mio,

            O morte il chiude la magion di Dite.

            A te parlerò in vece, e tu l'orecchio

            Non ricusar di darmi. Ospite un tale

            Nella mia patria io ricevei, di cui

            Non venne di lontano al tetto mio

            Forestier mai, che più nel cor m'entrasse.

            Nato ei diceasi in Itaca, e Laerte,

            D'Arcesio il figlio, a genitor vantava.

            Il trattai, l'onorai, l'accarezzai

            Nel mio di beni ridondante albergo,

            E degni in sul partir doni io gli porsi:

            Sette di lavorato oro talenti,

            Urna d'argento tutta e a fiori sculta,

            Dodici vesti tutte scempie, e tanto

            Di tappeti, di tuniche e di manti;

            E quattro belle, oneste, e di lavori

            Femmine sperte ch'egli stesso elesse”.

              “Stranier”, rispose lagrimando il padre,

            “Sei nella terra di cui chiedi, ed ove

            Una pessima gente ed oltraggiosa

            Regna oggidì. Que' molti doni, a cui

            Ei con misura eguale avrìa risposto,

            Come degno era bene, or, che qui vivo

            Nol trovi più, tu gli spargesti al vento.

            Ma schiettamente mi favella: quanti

            Passâro anni dal dì che ricevesti

            Questo nelle tue case ospite gramo,

            Che s'ei vivesse ancor sarìa il mio figlio?

            Misero! in qualche parte, e dalla patria

            Lungi, o fu in mar pasto de' pesci, o in terra

            De' volatori preda e delle fere:

            Né ricoperto la sua madre il pianse,

            Né il pianse il genitor; né la dotata

            Di virtù, come d'ôr, Penelopèa

            Con lagrime onorò l'estinto sposo

            Sopra fùnebre letto, e gli occhi prima

            Non gli compose con mal ferma destra.

            Ciò palesami ancor: chi sei tu? e donde?

            Dove a te la città? la madre? il padre?

            A qual piaggia s'attiene il ratto legno

            Che te condusse e i tuoi compagni illustri?

            O passeggier venisti in nave altrui,

            E, te sbarcato, i giovani partiro?”

              “Tutto”, riprese lo scaltrito eroe,

            “Narrerò acconciamente. Io figlio sono

            Del re Polipemònide Afidante.

            In Alibante nacqui, ove ho un eccelso

            Tetto, e mi chiamo Epèrito. Me svelse

            Dalla Sicilia un Genio avverso, e a queste

            Piagge sospinse; ed or vicino ai campi,

            Lungi della città, stassi il mio legno.

            Volge il quint'anno omai che Ulisse sciolse

            Dalla mia patria. Sventurato! a destra

            Gli volavano allor gli augelli, ed io

            Lui, che lieto partì, congedai lieto:

            Quando ambi speravam che rinnovato

            L'ospizio avremmo e ricambiati i doni”.

              Disse, e fosca di duol nube coverse

            La fronte al padre, che la fulva polve

            Prese ad ambo le mani, e il venerando

            Capo canuto se ne sparse, mentre

            Nel petto spesseggiavangli i sospiri.

            Ulisse tutto commoveasi dentro,

            E un acre si sentìa pungente spirto

            Correre alle narici, il caro padre

            Mirando attento: al fin su lui gittossi,

            E stretto il si recava in fra le braccia,

            E il baciava più volte, e gli dicea:

            “Quell'io, padre, quell'io, che tu sospiri,

            Ecco nel ventesmo anno in patria venni.

            Cessa dai pianti, dai lamenti cessa,

            E sappi in breve, perché il tempo stringe,

            Ch'io tutti i proci uccisi, e vendicai

            Tanti e sì gravi torti in un dì solo”.

              “Ulisse tu?” così Laerte tosto,

            “Tu il figlio mio? Dammene un segno, e tale,

            Che in forse io non rimanga un solo istante”.

              E Ulisse: “Pria la cicatrice mira

            Della ferita che cinghial sannuto

            M'aperse un dì sovra il Parnaso, quando

            Ad Autolico io fui per quei che in Itaca

            M'avea doni promessi, accompagnando

            Col moto della testa i detti suoi.

            Gli arbori inoltre io ti dirò, di cui

            Nell'ameno verzier dono mi festi.

            Fanciullo io ti seguìa con ineguali

            Passi per l'orto, e or questo árbore, or quello

            Chiedeati; e tu, come andavam tra loro,

            Mi dicevi di lor l'indole e il nome.

            Tredici peri a me donasti e dieci

            Meli e fichi quaranta, e promettesti

            Ben cinquanta filari anco di viti,

            Che di bella vendemmia eran già carche:

            Poiché vi fan d'ogni sorta uve, e l'Ore,

            Del gran Giove ministre, i lor tesori

            Versano in copia su i fecondi tralci”.

              Quali dar gli potea segni più chiari?

            Laerte, a cui si distemprava il core,

            E vacillavan le ginocchia, avvolse

            Subito ambe le mani al collo intorno

            Del figlio; e il figlio lui, ch'era di spirti

            Spento affatto, a sé prese ed il sostenne.

            Ma come il fiato in seno, e nella mente

            I dispersi pensieri ebbe raccolti:

            “O Giove padre”, sclamò egli, “e voi,

            Numi, voi certo su l'Olimpo ancora

            Siete e regnate ancor, se la dovuta

            Pena portâr de' lor misfatti i proci.

            Ma un timore or m'assal, non gl'Itacesi

            Vengan tra poco a queste parti in folla,

            E messi qua e là mandino a un tempo

            De' Cefalleni alle città vicine.

              “Sta di buon core”, gli rispose Ulisse,

            “Né ti prenda di ciò cura o pensiero.

            Alla magion, che non lontana siede,

            Moviamo: io là Telemaco invïai

            Con Filezio ed Eumèo, perché allestita

            Prestamente da lor fosse la cena”.

              In via, ciò detto, entraro, e, come giunti

            Fûro al rural non disagiato albergo,

            Telemaco trovâr co' due pastori,

            Che incidea molte carni, ed un possente

            Vino mescea. La Siciliana fante

            Lavò Laerte e di biond'olio l'unse

            E d'un bel manto il rivestì: ma Palla,

            Scesa per lui di ciel, le membra crebbe

            De' popoli al pastore; e di persona

            Più alto il rese, e più ritondo in faccia.

            Maravigliava Ulisse, allor che il vide

            Simile in tutto agl'Immortali, e: “Padre”,

            Disse, “opra fu, cred'io, d'un qualche nume

            Cotesta tua statura, e la novella

            Beltà, che in te dopo i lavacri io scorgo”.

              “Oh”, riprese Laerte, “al padre Giove

            Stato fosse e a Minerva e a Febo in grado,

            Che quale allora io fui, che su la terra

            Continental, de' Cefalleni duce,

            La ben construtta Nerico espugnai,

            Tal potuto avess'io con l'arme in dosso

            Starmi al tuo fianco nella nostra casa,

            E i proci ributtar, quando per loro

            Splendea l'ultimo sol! Di loro a molti

            Sciolte avrei le ginocchia, e a te sarebbe

            Infinito piacer corso per l'alma”.

              Così Laerte e il figlio. E già, cessata

            Dell'apparecchio la fatica, a mensa

            Tutti sedeansi. Non aveano ai cibi

            Stese l'avide man, che Dolio apparve.

            E seco i figli dal lavoro stanchi:

            Poiché uscita a chiamarli era la buona

            Sicula madre, che nudrìali sempre,

            E il vecchio Dolio dall'etade oppresso

            Con amor grande governava. Ulisse

            Veduto e ravvisatolo, restâro

            Tutti in un piè di maraviglia colmi:

            Ma ei con blande voci: “O vecchio”, disse,

            Siedi alla mensa, e lo stupor deponi.

            Buon tempo è già che, desïando ai cibi

            Stender le nostre mani, e non volendo

            Cominciar senza voi, cen rimanemmo”.

              Dolio a tai detti con aperte braccia

            Mosse dirittamente incontro a Ulisse,

            E la man, che afferrò, baciògli al polso.

            Poi così gli dicea: “Signor mio dolce,

            S'è ver che a noi, che di vederti brama

            Più assai che speme, chiudevam nel petto,

            Te rimenâro alfin gli stessi numi,

            Vivi, gioisci, d'ogni dolce cosa

            Ti consolino i dèi. Ma dimmi il vero:

            Sa la regina per indizio certo

            Che ritornasti, o vuoi che a rallegrarla

            Di sì prospero evento un nunzio corra?”

              “Dolio”, ripigliò Ulisse, “la regina

            Già il tutto sa. Perché t'affanni tanto?”

            Il vecchio allora sovra un polito scanno

            Prontamente sedé. Né men di lui,

            Festa feano ad Ulisse i suoi figliuoli,

            E or l'un le mani gli afferrava, or l'altro:

            Indi sedean di sotto al caro padre

            Conforme all'età loro. Ed in tal guisa

            Della mensa era quivi ogni pensiero.

              La fama intanto il reo destin de' proci

            Per tutta la città portava intorno.

            Tutti, sentite le funeste morti,

            Chi di qua chi di là, con urli e pianti

            Venìan d'Ulisse al tetto, e i corpi vani

            Fuor ne traeano, e li ponean sotterra.

            Ma quei, cui diede altra isola il natale,

            Mettean su ratte pescherecce barche,

            E ai lor tetti mandavanli. Ciò fatto,

            Nel Foro s'adunâr dolenti e in folla.

            Come adunati fûr, surse tra gli altri

            Eupite, a cui per Antinòo sua prole,

            Che primo cadde della man d'Ulisse,

            Stava nell'alma un indelebil duolo.

            Questi arringò, piangendo amaramente:

            “Amici, qual costui strana fortuna

            Agli Achei fabbricò! Molti ed egregi,

            Ne addusse prima su le navi a Troia,

            E le navi perdette, ed i compagni

            Seppellì in mar: poi nella propria casa,

            Tornato, altri ne spense, e d'Aide ai regni

            Mandò di Cefallenia i primi lumi.

            Su via, pria ch'egli a Pilo, e alla regnata

            Dagli Epei divina Elide ricovri,

            Vadasi; o infamia patiremo eterna.

            Sì, l'onta nostra ne' futuri tempi

            Rimbombar s'udrà ognor, se gli uccisori

            De' figli non puniamo e de' fratelli.

            Io certo più viver non curo, e, dove

            Subito non si vada, e la lor fuga,

            Non si prevenga, altro io non bramo, o voglio,

            Salvo che rïunirmi ombra a quell'ombre.

            Così ei, non restandosi dal pianto;

            E la pietade in ogni petto entrava.

              Giunsero allor dalla magion d'Ulisse

            Medonte araldo ed il cantor divino,

            Dal sonno sviluppatisi, e nel mezzo

            Si collocâro. Alto stupore invase

            Tutti, e il saggio Medonte i labbri aperse:

            “O Itacesi, uditemi. Credete

            Voi che Ulisse abbia tolto impresa tale

            Contra il voler de' sempiterni? Un dio

            Vidi io stesso al suo fianco, un dio, che affatto

            Mentore somigliava. Or gli apparìa

            Davanti, in atto d'animarlo, ed ora

            Per l'atterrita sala impeto fea,

            Sgominando gli Achei, che l'un su l'altro

            Traboccavano”. Disse; e di tai detti

            Inverdì a tutti per timor la guancia.

              Favellò ancor nel Foro un vecchio eroe,

            Aliterse Mastòride, che solo

            Vedea gli andati ed i venturi tempi,

            E che, sentendo rettamente, disse:

            “Or me udite, Itacesi. Egli è per colpa

            Vostra che ciò seguì: però che sordi

            Agli avvisi di Mentore ed a' miei,

            Lasciar le briglie sovra il collo ai vostri

            Figli vi piacque, che al mal far dirotti

            La davano pel mezzo in ogni tempo,

            Le sostanze rodendo, e ingiurïando

            La casta moglie d'un signor preclaro,

            Di cui sogno parea loro il ritorno.

            Obbeditemi al fin, mossa non fate:

            Onde pur troppo alcun quella sventura,

            Che sarà ito a ricercar, non trovi”.

              Tacque; e s'alzaro i più con grida e plausi.

            Gli altri uniti rimasero: ché loro

            Non gustò il detto, ma seguìano Eupìte.

            Poscia, chi qua, chi là, correano all'armi.

            Cinti e splendenti del guerrier metallo

            Si raccolser davanti alla cittade

            Quasi in un globo; ed era incauto duce

            Della stoltezza loro Eupìte stesso.

            Credea la morte vendicar del figlio,

            E lui, che redituro indi non era,

            Coglier dovea la immansueta Parca,

              Pallade, il tutto visto, al Saturnide

            Si converse in tal guisa: “O nostro padre,

            Di Saturno figliuol, re de' regnanti,

            Mostrami ciò che nel tuo cor s'asconde.

            Prolungar vuoi la guerra e i fieri sdegni?

            O accordo tra le parti, e amistà porre?”

              “Perché di questo mi richiedi, o figlia?”

            Il nembifero Giove a lei rispose.

            “Non fu consiglio tuo, che ritornato

            Punisse i proci di Laerte il figlio?

            Fa' come più t'aggrada: io quel che il meglio

            Parmi, dirò. Poiché l'illustre Ulisse

            De' proci iniqui vendicossi, ei fermi

            Patto eterno con gli altri, e sempre regni.

            Noi la memoria delle morti acerbe

            In ogni petto cancelliam: risorga

            Il mutuo amor nella città turbata,

            E v'abbondin, qual pria, ricchezza e pace”.

            Con questi detti stimolò la diva,

            Ch'era per sé già pronta, e che dall'alte

            D'Olimpo cime rapida discese.

              Ulisse intanto, che con gli altri avea

            Sotto il campestre di Laerte tetto

            Rinfrancati del cibo omai gli spirti:

            “Esca”, disse, “alcun fuori, e attento guardi

            Se alla volta di noi vengon gli Achei”.

              Subitamente uscì di Dolio un figlio,

            E su la soglia stette, e non lontani

            Scôrse i nemici: “All'armi! All'armi!” ei tosto

            Gridò, “vicini sono”. Ulisse allora

            Ed il figlio sorgeano e i due pastori.

            E l'armi rivestìano: i sei figliuoli

            Rivestìanle di Dolio, e poi gli stessi

            Dolio e Laerte. In così picciola oste

            Anco i bianchi capei premer dee l'elmo.

            Ratto che armati fûr, le porte aperte,

            Tutti sboccâro: precedeali Ulisse.

            Né di muover con lor lasciò la figlia

            Di Giove, Palla, a Mentore nel corpo

            Tutta sembiante e nella voce. Ulisse

            Mirolla e n'esultava, e volto al figlio:

            “Telemaco”, dicea, “nella battaglia,

            Ove l'imbelle si conosce e il prode,

            Deh non disonestar la stirpe nostra,

            Che per forza e valor fu sempre chiara”.

              E Telemaco a lui: “Padre diletto,

            Vedrai, spero, se vuoi, ch'io non traligno”.

              Gioì Laerte, ed esclamò: “Qual sole

            Oggi risplende in cielo, amati numi!

            Gareggian di virtù figlio e nipote.

            Giorno più bello non mi sorse mai”.

              Qui l'appressò con tali accenti in bocca

            La diva che ne' begli occhi azzurreggia:

            “O d'Arcesio figliuol, che a me più caro,

            Sei d'ogni altro compagno, a Giove alzáti

            Prima, e alla figlia dal ceruleo sguardo,

            Devotamente i prieghi tuoi, palleggia

            Cotesta di lunga ombra asta, e l'avventa”.

            Così dicendo, una gran forza infuse

            In Laerte Minerva. Il vecchio, a Giove

            Prima e alla figlia dal ceruleo sguardo,

            Alzati i prieghi, palleggiò la lunga

            Sua lancia ed avventolla, e in fronte a Eupìte

            Il forte trapassando elmo di rame,

            La piantò e immerse: con gran suono Eupìte

            Cadde, e gli rimbombâr l'armi di sopra.

            Si scagliâro in quel punto Ulisse e il figlio

            Contra i primieri, e con le spade scempio

            Ne feano, e con le lance a doppio filo.

            E già nessuno alla sua dolce casa

            Tornato fora degli Achei, se Palla,

            Dell'Egìoco la figlia, un grido messo,

            Non mutava i lor cuori: “Cittadini

            D'Itaca, fine all'aspra guerra. Il campo

            Lasciate tosto, e non più sangue”. Disse;

            Ed un verde pallor tinse ogni fronte.

            L'armi scappavan dalle man tremanti,

            D'aste coverto il suolo era e di brandi,

            Levata che Minerva ebbe la voce;

            E tutti avari della cara vita

            Alla città si rivolgeano. Ulisse

            Con un urlo, che andò sino alle stelle,

            Inseguìa ratto i fuggitivi, a guisa

            D'aquila tra le nubi altovolante.

            Se non che Giove il fulmine contorse;

            E alla Sguardoazzurrina innanzi ai piedi

            Cascò l'eterea fiamma: “O generoso”,

            Così la diva, “di Laerte figlio,

            Contienti e frena il desiderio ardente

            Della guerra, che a tutti è sempre grave,

            Non contro a te di troppa ira s'accenda

            L'ampia veggente di Saturno prole”.

              Obbedì Ulisse e s'allegrò nell'alma.

            Ma eterno poi tra le due parti accordo

            La figlia strinse dell'Egìoco Giove

            Che a Mentore nel corpo e nella voce

            Rassomigliava, la gran dea d'Atene.

             

            FINE