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OMERO
ODISSEA
LIBRO PRIMO
Musa, quell'uom di multiforme ingegno
Dimmi, che molto errò, poich'ebbe a terra
Gittate d'Ilïòn le sacre torri;
Che città vide molte, e delle genti
L'indol conobbe; che sovr'esso il mare
Molti dentro del cor sofferse affanni,
Mentre a guardar la cara vita intende,
E i suoi compagni a ricondur: ma indarno
Ricondur desïava i suoi compagni,
Ché delle colpe lor tutti periro.
Stolti! che osaro vïolare i sacri
Al Sole Iperïon candidi buoi
Con empio dente, ed irritâro il nume,
Che del ritorno il dì lor non addusse.
Deh! parte almen di sì ammirande cose
Narra anco a noi, di Giove figlia e diva.
Già tutti i Greci, che la nera Parca
Rapiti non avea, ne' loro alberghi
Fuor dell'arme sedeano e fuor dell'onde;
Sol dal suo regno e dalla casta donna
Rimanea lungi Ulisse: il ritenea
Nel cavo sen di solitarie grotte
La bella venerabile Calipso,
Che unirsi a lui di maritali nodi
Bramava pur, ninfa quantunque e diva.
E poiché giunse al fin, volvendo gli anni,
La destinata dagli dèi stagione
Del suo ritorno, in Itaca, novelle
Tra i fidi amici ancor pene durava.
Tutti pietà ne risentìan gli eterni,
Salvo Nettuno, in cui l'antico sdegno
Prima non si stancò, che alla sua terra
Venuto fosse il pellegrino illustre.
Ma del mondo ai confini e alla remota
Gente degli Etïòpi (in duo divisa,
Ver cui quinci il sorgente ed il cadente
Sole gli obbliqui rai quindi saetta)
Nettun condotto a un ecatombe s'era
Di pingui tori e di montoni; ed ivi
Rallegrava i pensieri, a mensa assiso.
In questo mezzo gli altri dèi raccolti
Nella gran reggia dell'olimpio Giove
Stavansi. E primo a favellar tra loro
Fu degli uomini il padre e de' celesti,
Che il bello Egisto rimembrava, a cui
Tolto avea di sua man la vita Oreste,
L'inclito figlio del più vecchio Atride.
“Poh!” disse Giove, “incolperà l'uom dunque
Sempre gli dèi? Quando a se stesso i mali
Fabbrica, de' suoi mali a noi dà carco,
E la stoltezza sua chiama destino.
Così, non tratto dal destino, Egisto
Disposó d'Agamennone la donna,
E lui, da Troia ritornato, spense;
Benché conscio dell'ultima ruina
Che l'Argicida esplorator Mercurio,
Da noi mandato, prediceagli: “Astienti
Dal sangue dell'Atride, ed il suo letto
Guàrdati di salir; ché alta vendetta
Ne farà Oreste, come il volto adorni
Della prima lanuggine e lo sguardo
Verso il retaggio de' suoi padri volga”.
Ma questi di Mercurio utili avvisi
Colui nell'alma non accolse: quindi
Pagò il fio d'ogni colpa in un sol punto”.
“Di Saturno figliuol, padre de' numi,
Re de' regnanti”, così a lui rispose
L'occhiazzurra Minerva: “egli era dritto
Che colui non vivesse: in simil foggia
Pera chïunque in simil foggia vive!
Ma io di doglia per l'egregio Ulisse
Mi struggo, lasso! che, da' suoi lontano,
Giorni conduce di rammarco in quella
Isola, che del mar giace nel cuore,
E di selve nereggia;:isola, dove
Soggiorna entro alle sue celle secrete
L'immortal figlia di quel saggio Atlante,
Che del mar tutto i più riposti fondi
Conosce e regge le colonne immense
Che la volta sopportano del cielo.
Pensoso, inconsolabile, l'accorta ninfa il ritiene e con soavi e molli
Parolette carezzalo, se mai
Potesse Itaca sua trargli dal petto:
Ma ei non brama che veder dai tetti
Sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,
E poi chiuder per sempre al giorno i lumi.
Né commuovere, Olimpio, il cuor ti senti?
Grati d'Ulisse i sagrifici, al greco
Navile appresso, ne' troiani campi,
Non t'eran forse? Onde rancor sì fiero,
Giove, contra lui dunque in te s'alletta?”
“Figlia, qual ti lasciasti uscir parola
Dalla chiostra de' denti?” allor riprese
L'eterno delle nubi addensatore:
“Io l'uom preclaro disgradir, che in senno
Vince tutti i mortali, e gl'Immortali
Sempre onorò di sacrifici opìmi?
Nettuno, il nume che la terra cinge,
D'infurïar non resta pel divino
Suo Polifemo, a cui lo scaltro Ulisse
Dell'unic'occhio vedovò la fronte,
Benché possente più d'ogni Ciclope:
Pel divin Polifemo, che Toòsa
Partorì al nume, che pria lei soletta
Di Forco, re degl'infecondi mari,
Nelle cave trovò paterne grotte.
Lo scuotitor della terrena mole
Dalla patria il disvia da quell'istante,
E, lasciandolo in vita, a errar su i neri
Flutti lo sforza. Or via, pensiam del modo
Che l'infelice rieda; e che Nettuno
L'ire deponga. Pugnerà con tutti
Gli eterni ei solo? Il tenterebbe indarno.”
“Di Saturno figliuol, padre de' numi,
De' regi re,” replicò a lui la diva
Cui tinge gli occhi un'azzurrina luce,
“Se il ritorno d'Ulisse a tutti aggrada,
Ché non s'invìa nell'isola d'Ogige
L'ambasciator Mercurio, il qual veloce
Rechi alla ninfa dalle belle trecce,
Com'è fermo voler de' sempiterni
Che Ulisse alfine il natìo suol rivegga?
Scesa in Itaca intanto, animo e forza
Nel figlio io spirerò, perch'ei, chiamati
Gli Achei criniti a parlamento, imbrigli
Que' proci baldi, che nel suo palagio
L'intero gregge sgòzzangli, e l'armento
Dai piedi torti e dalle torte corna.
Ciò fatto, a Pilo io manderollo e a Sparta,
Acciocché sappia del suo caro padre,
Se udirne gli avvenisse in qualche parte,
Ed anch'ei fama, vïaggiando, acquisti.”
Detto così, sotto l'eterne piante
Si strinse i bei talar d'oro, immortali,
Che lei sul mar, lei su l'immensa terra
Col soffio trasportavano del vento.
Poi la grande afferrò lancia pesante,
Forte, massiccia, di appuntato rame
Guernita in cima, onde le intere doma
Falangi degli eroi, con cui si sdegna,
E a cui sentir fa di qual padre è nata.
Dagli alti gioghi del beato Olimpo
Rapidamente in Itaca discese.
Si fermò all'atrio del palagio in faccia,
Del cortil su la soglia, e le sembianze
Vesti di Mente, il condottier de' Tafî.
La forbita in sua man lancia sfavilla.
Nel regale atrio, e su le fresche pelli
Degli uccisi da lor pingui giovenchi
Sedeano, e trastullavansi tra loro
Con gli schierati combattenti bossi
Della Regina i mal vissuti drudi.
Trascorrean qua e là serventi e araldi
Frattanto: altri mescean nelle capaci
Urne l'umor dell'uva e il fresco fonte.
Altri le mense con forata e ingorda
Spugna tergeano, e le metteano innanzi,
E le molte partìan fumanti carni.
Simile a un dio nella beltà, ma lieto
Non già dentro del sen, sedea tra i proci
Telemaco: mirava entro il suo spirto
L'inclito genitor, qual s'ei, d'alcuna
Parte spuntando, a sbaragliar si desse
Per l'ampia sala gli abborriti prenci,
E l'onor prisco a ricovrar e il regno.
Fra cotali pensier Pallade scorse,
Né soffrendogli il cor che lo straniero
A cielo aperto lungamente stesse,
Dritto uscì fuor, s'accostò ad essa, prese
Con una man la sua, con l'altra l'asta,
E queste le drizzò parole alate:
“Forestier, salve. Accoglimento amico
Tu avrai, sporrai le brame tue: ma prima
Vieni i tuoi spirti a rinfrancar col cibo”.
Ciò detto, innanzi andava, ed il seguìa
Minerva. Entrati nell'eccelso albergo,
Telemaco portò l'asta, e appoggiolla
A sublime colonna, ove, in astiera,
Nitida, molte dell'invitto Ulisse
Dormiano arme simìli. Indi a posarsi
Su nobil seggio con sgabello ai piedi
La dea menò, stesovi sopra un vago
Tappeto ad arte intesto; e un varïato
Scanno vicin di lei pose a se stesso.
Così, scevri ambo dagli arditi proci,
Quell'impronto frastuon l'ospite a mensa
Non disagiava, e dell'assente padre
Telemaco potea cercarlo a un tempo.
Ma scorta ancella da bel vaso d'oro
Purissim'onda nel bacil d'argento
Versava, e stendea loro un liscio desco,
Su cui la saggia dispensiera i pani
Venne a impor candidissimi, e di pronte
Dapi serbate generosa copia;
E carni d'ogni sorta in larghi piatti
Recò l'abile scalco, ed auree tazze,
Che, del succo de' grappoli ricolme,
Lor presentava il banditor solerte.
Entraro i proci, ed i sedili e i troni
Per ordine occuparo: acqua gli araldi
Diero alle mani, e di recente pane
I ritondi canestri empièr le ancelle.
Ma in quel che i proci all'imbandito pasto
Stendean la man superba, incoronaro
Di vermiglio licor l'urne i donzelli.
Tosto che in lor del pasteggiar fu pago,
Pago del bere il natural talento,
Volgeano ad altro il core: al canto e al ballo
Che gli ornamenti son d'ogni convito.
Ed un'argentea cetera l'araldo
Porse al buon Femio, che per forza il canto
Tra gli amanti sciogliea. Mentr'ei le corde
Ne ricercava con maestre dita,
Telemaco, piegando in vêr la dea,
Sì che altri udirlo non potesse, il capo,
Le parlava in tal guisa: “Ospite caro,
Ti sdegnerai se l'alma io t'apro? In mente
Non han costor che suoni e canti. Il credo:!
Siedono impune agli altrui deschi, ai deschi
Di tal, le cui bianche ossa in qualche terra
Giacciono a imputridir sotto la pioggia,
O le volve nel mare il negro flutto.
Ma s'egli mai lor s'affacciasse un giorno,
Ben più che in dosso i ricchi panni e l'oro,
Aver l'ali vorrebbero alle piante.
Vani desìri! Una funesta morte
Certo ei trovò, speme non resta, e invano
Favellariami alcun del suo ritorno;
Del suo ritorno il dì più non s'accende.
Su via, ciò dimmi, e non m'asconder nulla:
Chi? di che loco? e di che sangue sei?
Con quai nocchier venìstu, e per qual modo
E su qual nave, in Itaca? Pedone
Giunto, per alcun patto io non ti credo.
Di questo tu mi contenta: nuovo
Giungi, o al mio genitor t'unisce il nodo
Dell'ospitalità? Molti stranieri
A' suoi tetti accostavansi; ché Ulisse
Voltava in sé d'ogni mortale il core”.
“Tutto da me”, gli rispondea la diva
Che cerùleo splendor porta negli occhi,
T'udrai narrare. Io Mente esser mi vanto,
Figliuol d'Anchìalo bellicoso, e ai vaghi
Del trascorrere il mar Tafî comando.
Con nave io giunsi e remiganti miei,
Fendendo le salate onde, vêr gente
D'altro linguaggio, e a Temesa recando
Ferro brunito per temprato rame,
Ch'io ne trarrò. Dalla città lontano
Fermossi e sotto il Neo frondichiomoso,
Nella baia di Retro il mio naviglio.
Sì, d'ospitalità vincol m'unisce
Col padre tuo. Chieder ne puoi l'antico,
Ristringendoti seco, eroe Laerte,
Che a città, com'è fama, or più non viene;
Ma vita vive solitaria e trista
Ne' campi suoi, con vecchierella fante,
Che, quandunque tornar dalla feconda
Vigna, per dove si trae a stento, il vede,
Di cibo il riconforta e di bevanda.
Me qua condusse una bugiarda voce,
Fosse il tuo padre di Itaca, da cui
Stornanlo i numi ancor; ché tra gli estinti
L'illustre pellegrin, no, non comparve,
Ma vivo, e a forza in barbara contrada,
Cui cerchia un vasto mar, gente crudele
Rattienlo: lo rattien gente crudele
Vivo, ed a forza in barbara contrada.
Pur, benché il vanto di profeta, o quello
D'augure insigne io non m'arroghi, ascolta
Presagio non fallace che su i labbri
Mettono a me gli eterni. Ulisse troppo
Non rimarrà della sua patria in bando,
Lo stringessero ancor ferrei legami.
Da quai legami uom di cotanti ingegni
Disvilupparsi non sapria? Ma schietto
Parla: sei tu vera sua prole? Certo
Nel capo e ne' leggiadri occhi ad Ulisse
Molto arïeggi tu. Pria che per Troia,
Che tutto a sé chiamò di Grecia il fiore,
Sciogliesse anch'ei su le cavate navi,
Io, come oggi appo il tuo, così sedea
Spesse volte al suo fianco, ed egli al mio.
D'allora io non più lui, né me vid'egli”.
E il prudente Telemaco: “Sincero
Risponderò. Me di lui nato afferma
La madre veneranda. E chi fu mai
Che per se stesso conoscesse il padre?
Oh foss'io figlio d'un che una tranquilla
Vecchiezza côlto ne' suoi tetti avesse!
Ma, poiché tu mel chiedi, al più infelice
Degli uomini la vita, ospite, io deggio”.
“Se ad Ulisse Penelope”, riprese
Pallade allor dalle cilestre luci,
“Ti generò, vollero i dèi che gisse
Chiaro il tuo nome ai secoli più tardi.
Garzon, dal ver non ti partir: che festa,
Che turba è qui? Qual ti sovrasta cura?
Convito? Nozze? Genial non parmi
A carco di ciascun mensa imbandita.
Parmi banchetto sì oltraggioso e turpe,
Che mirarlo, e non irne in foco d'ira,
Mal può chïunque un'alma in petto chiuda”.
Ed il giovane a lui: “Quando tu brami
Saper cotanto delle mie vicende,
Abbi che al mondo non fu mai di questa
Né ricca più, né più innocente casa,
Finché quell'uomo il piè dentro vi tenne.
Ma piacque altro agli dèi, che, divisando
Sinistri eventi, per le vie più oscure,
Quel che mi cuoce più, sparir mel fêro.
Piangerei, sì, ma di dolcezza vôto
Non fôra il lagrimar, s'ei presso a Troia
Cadea pugnando, o vincitor chiudea
Tra i suoi più cari in Itaca le ciglia.
Alzato avriangli un monumento i Greci,
Che di gloria immortale al figlio ancora
Stato sarebbe. Or lui le crude Arpìe
Ignobilmente per lo ciel rapiro:
Perì non visto, non udito, e al figlio
Sol di sturbi e di guai lasciò retaggio.
Ché lui solo io non piango: altre e non poche
Mi fabbricaro i numi acerbe cose.
Quanti ha Dulichio e Samo e la boscosa
Zacinto, e la pietrosa Itaca prenci,
Ciascun la destra della madre agogna.
Ella né rigettar può, né fermare
Le inamabili nozze. Intanto i proci,
Da mane a sera banchettando, tutte
Le sostanze mi struggono e gli averi;
Né molto andrà che struggeran me stesso”.
S'intenerì Minerva, e: “Oh quanto”, disse,
“A te bisogna il genitor, che metta
La ultrice man su i chieditori audaci!
Sol ch'ei con elmo e scudo, e con due lance
Sul limitar del suo palagio appena
Si presentasse, quale io prima il vidi,
Che, ritornato d'Efira, alla nostra
Mensa ospital si giocondava assiso,
(Ratto ad Efira andò chiedendo ad Ilo,
Di Mèrmero al figliuol, velen mortale,
Onde le frecce unger volea, veleno
Che non dal Mermerìde, in cui de' numi
Era grande il timor, ma poscia ottenne
Dal padre mio, che fieramente ammollo)
Sol ch'ei così si presentasse armato,
De' proci non sarìa, cui non tornasse
Breve la vita e il maritaggio amaro.
Ma venir debba di sì trista gente
A vendicarsi o no, su le ginocchia
Sta degli dèi. Ben di sgombrarla quinci,
Vuolsi l'arte pensare. Alle mie voci
Porrai tu mente? Come il ciel s'inalbi,
De' Greci i capi a parlamento invita,
Ragiona franco ad essi e al popol tutto,
Chiamando i numi in testimonio, e ai proci
Nelle lor case rientrare ingiungi.
La madre, ove desìo di nuove nozze
Nutra, ripari alla magion d'Icario,
Che ordinerà le sponsalizie, e ricca
Dote apparecchierà, quale a diletta
Figliuola è degno che largisca un padre.
Tu poi, se non ricusi un saggio avviso
Ch'io ti porgo, seguir, la meglio nave
Di venti e forti remator guernisci,
E, del tuo genitor molt'anni assente
Novelle a procacciarti, alza le vele.
Troverai forse chi ten parli chiaro,
O quella udrai voce fortuita, in cui
Spesso il cercato ver Giove nasconde.
Proa vanne a Pilo, e interroga l'antico
Nestore; Sparta indi t'accolga, e il prode
Menelao biondo, che dall'arsa Troia
Tra i loricati Achivi ultimo giunse.
Vive, ed è Ulisse, in sul ritorno? Un anno,
Benché dolente, sosterrai. Ma, dove
Lo sapessi tra l'ombre, in patria riedi,
E qui gli ergi un sepolcro, e i più solenni
Rendigli, qual s'addice, onor funébri,
E alla madre presenta un altro sposo.
Dopo ciò, studia per qual modo i proci
Con l'inganno tu spegna, o alla scoperta;
Ché de' trastulli il tempo e de' balocchi
Passò, ed uscito di pupillo sei.
Non odi tu levare Oreste al cielo,
Dappoi che uccise il fraudolento Egisto,
Che il genitor famoso aveagli morto?
Me la mia nave aspetta e i miei compagni,
Cui forse incresce questo indugio. Amico,
Di te stesso a te caglia, e i miei sermoni,
Converti in opre: d'un eroe l'aspetto
Ti veggio: abbine il core, acciò risuoni
Forte ne' dì futuri anco il tuo nome”.
“Voci paterne son, non che benigne”,
D'Ulisse il figlio ripigliava, ed io
Guarderolle nel sen tutti i miei giorni.
Ma tu, per fretta che ti punga, tanto
Férmati almen, che in tepidetto bagno
Entri, e conforti la dolce alma, e lieto,
Con un mio dono in man, torni alla nave:
Don prezïoso per materia ed arte,
Che sempre in mente mi ti serbi; dono
Non indegno d'un ospite che piacque”.
“No, di partir mi tarda”, a lui rispose
L'occhicerulea diva. “Il bel presente
Allor l'accetterò, che, questo mare
Rinavigando, per ripormi in Tafo,
T'offrirò un dono anch'io che al tuo non ceda”.
Così la dea dagli occhi glauchi; e, forza
Infondendogli e ardire, e a lui nel petto
La per sé viva del suo padre imago
Ravvivando più ancora, alto levossi,
E veloce, com'aquila, disparve.
Da maraviglia, poiché seco in mente
Ripeté il tutto, e s'avvisò del nume,
Telemaco fu preso. Indi, già fatto
Di se stesso maggior, venne tra i proci.
Taciti sedean questi, e nell'egregio
Vate conversi tenean gli occhi; e il vate
Quel difficil ritorno, che da Troia
Pallade ai Greci destinò crucciata,
Della cetra d'argento al suon cantava.
Nelle superne vedovili stanze
Penelope, d'Icario la prudente
Figlia, raccolse il divin canto, e scese
Per l'alte scale al basso, e non già sola,
Ché due seguìanla vereconde ancelle.
Non fu de' proci nel cospetto giunta,
Che s'arrestò della dedalea sala
L'ottima delle donne in su la porta,
Lieve adombrando l'una e l'altra gota
Co' bei veli del capo, e tra le ancelle
Al sublime cantor gli accenti volse:
“Femio”, diss'ella, e lagrimava, “Femio,
Bocca divina, non hai tu nel petto
Storie infinite ad ascoltar soavi,
Di mortali e di numi imprese altere,
Per cui toccan la cetra i sacri vati?
Narra di quelle, e taciturni i prenci
Le colme tazze vôtino; ma cessa
Canzon molesta che mi spezza il cuore,
Sempre che tu la prendi in su le corde;
Il cuor, cui doglia, qual non mai da donna
Provossi, invase, mentre aspetto indarno
Cotanti anni un eroe, che tutta empiéo
Del suo nome la Grecia, e ch'è il pensiero
De' giorni miei, delle mie notti è il sogno.”
“O madre mia”, Telemaco rispose,
“Lascia il dolce cantor, che c'innamora,
Là gir co' versi, dove l'estro il porta.
I guai, che canta, non li crea già il vate:
Giove li manda, ed a cui vuole e quando.
Perché Femio racconti i tristi casi
De' Greci, biasmo meritar non parmi;
Ché, quanto agli uditor giunge più nuova,
Tanto più loro aggrada ogni canzone.
Udirlo adunque non ti gravi, e pensa
Che del ritorno il dì Troia non tolse
Solo ad Ulisse: d'altri eroi non pochi
Fu sepolcro comune. Or tu risali
Nelle tue stanze, ed ai lavori tuoi,
Spola e conocchia, intendi; e alle fantesche
Commetti, o madre, travagliar di forza.
Il favellar tra gli uomini assembrati
Cura è dell'uomo, e in questi alberghi mia
Più che d'ogni altro; però ch'io qui reggo”.
Stupefatta rimase, e, del figliuolo
Portando in mezzo l'alma il saggio detto,
Nelle superne vedovili stanze
Ritornò con le ancelle. Ulisse a nome
Lassù chiamava, il fren lentando al pianto.
Finché inviolle l'occhiglauca Palla,
Sopitor degli affanni, un sonno amico.
I drudi, accesi, via più ancor che prima,
Del desìo delle nozze a quella vista,
Tumulto fean per l'oscurata sala.
E Telemaco ad essi: “O della madre
Vagheggiatori indocili e oltraggiosi,
Diletto dalla mensa or si riceva,
Né si schiamazzi, mentre canta un vate,
Che uguale ai numi stessi è nella voce.
Ma, riapparsa la bell'alba, tutti
Nel Foro aduneremci, ov'io dirovvi
Senza paura, che di qua sgombriate;
Che gavazziate altrove; che l'un l'altro
Inviti alla sua volta, e il suo divori.
Che se disfare impunemente un solo
Vi par meglio, seguite. Io dell'Olimpo
Gli abitatori invocherò, né senza
Fiducia, che il Saturnio a colpe tali
Un giusto guiderdon renda, e che inulto
Tinga un dì queste mura il vostro sangue”.
Morser le labbra ed inarcar le ciglia
A sì franco sermon tutti gli amanti.
E Antinoo, il figliuol d'Eupìte: “Di fermo
A ragionar, Telemaco, con sensi
Sublimi e audaci t'impararo i numi.
Guai, se il paterno scettro a te porgesse
Nella cinta dal mare Itaca, Giove!
“Benché udirlo”, Telemaco riprese,
“Forse Antìnoo, t'incresca, io nol ti celo:
Riceverollo dalla man di Giove.
Parrìati una sventura? Il più infelice
Dal mio lato io non credo in fra i mortali
Chi re diventa. Di ricchezza il tetto
Gli splende tosto, e più onorato ei vanne.
Ma la cinta dal mare Itaca molti
Sì di canuto pel, come di biondo,
Chiude, oltre Antìnoo, che potran regnarla,
Quando sotterra dimorasse il padre.
Non però ci vivrà chi del palagio
La signorìa mi tolga, e degli schiavi,
Che a me solo acquistò l'invitto Ulisse”.
Eurìmaco di Pòlibo allor surse:
“Qual degli Achei sarà d'Itaca il rege,
Posa de' numi onnipossenti in grembo.
Di tua magion tu il sei; né de' tuoi beni,
Finché in Itaca resti anima viva,
Spogliarti uomo ardirà. Ma dimmi, o buono,
Chi è quello stranier? Dond'ei partissi?
Di qual terra si gloria e di qual ceppo?
Del padre non lontan forse il ritorno
T'annunzia? o venne in questi luoghi antico
Debito a dimandar? Come disparve
Ratto! come parea da noi celarsi!
Certo d'uom vile non avea l'aspetto”.
“Ah”, ripigliò il garzon, “del genitore
Svanì, figlio di Pòlibo, il ritorno!
Giungano ancor novelle, altri indovini
L'avida madre nel palagio accolga;
Né indovin più, né più novelle io curo.
Ospite mio paterno è il forestiere,
Di Tafo, Mente, che figliuol si vanta
Del bellicoso Anchìalo, e ai Tafi impera”.
Tal rispondea: ma del suo cor nel fondo
La calata dal ciel dea riconobbe.
I proci, al ballo ed al soave canto
Rivolti, trastullavansi, aspettando
Il buio della notte. Della notte
Lor sopravvenne il buio, e ai tetti loro
Negli occhi il sonno ad accettar n'andàro.
Telemaco a corcarsi, ove secreta
Stanza da un lato del cortil superbo
Per lui costrutta, si spiccava all'aura,
Salse, agitando molte cose in mente.
E con accese in man lucide faci
Il seguiva Euriclèa, l'onesta figlia
D'Opi di Pisenór, che già Laerte
Col prezzo comperò di venti tori,
Quando fiorìale giovinezza in volto:
Né cara men della consorte l'ebbe,
Benché temendo i coniugali sdegni,
Del toccarla giammai non s'attentasse.
Con accese il seguìa lucide faci:
Più gli portava amor ch'ogni altra serva,
Ed ella fu che il rallevò bambino.
Costei gli aprì della leggiadra stanza
La porta: sovra il letto egli s'assise,
Levò la sottil veste a sé di dosso,
E all'amorosa vecchia in man la pose,
Che piegolla con arte, e alla caviglia
L'appese, accanto il traforato letto.
Poi d'uscire affrettavasi: la porta
Si trasse dietro per l'anel d'argento;
Tirò la fune, e il chiavistello corse.
Sotto un fior molle di tessuta lana
Ei volgea nel suo cor, per quell'intera
Notte, il cammin che gli additò Minerva.
LIBRO SECONDO
Come la figlia del mattin, la bella
Dalle dita di rose Aurora surse,
Surse di letto anche il figliuol d'Ulisse,
I suoi panni vestì, sospese il brando
Per lo pendaglio all'omero, i leggiadri
Calzari strinse sotto i molli piedi
E della stanza uscì rapidamente,
Simile ad un degli Immortali in volto.
Tosto agli araldi dall'arguta voce
Chiamare impose i capelluti Achivi;
E questi, al gridar loro accorsi in fretta,
Si ragunaro, s'affollaro. Ei pure
Al parlamento s'avviò: tra mano
Stavagli un'asta di polito rame
E due bianchi il seguìan cani fedeli.
Stupìa ciascun, mentr'ei mutava il passo,
E il paterno sedil, che dai vecchioni
Gli fu ceduto, ad occupar sen gìa:
Tanta in quel punto e sì divina grazia
Sparse d'intorno a lui Pallade amica.
Chi ragionò primiero? Egizio illustre,
Che il dorso avea per l'età grande in arco,
E di vario saver ricca la mente.
Sulle navi d'Ulisse alla feconda
Di nobili destrier ventosa Troia
Andò il più caro de' figliuoli, Antìfo;
E a lui diè morte nel cavato speco
Il Ciclope crudel, che la cruenta
S'imbandì del suo corpo ultima cena.
Tre figli al vecchio rimanean: l'un, detto
Eurìnomo, co' proci erasi unito,
E alla coltura de' paterni campi
Presedean gli altri due. Ma in quello, in quello,
Che più non ha, sempre s'affisa il padre,
Che nel pianto i dì passa, e che sì fatte
Parole allor, pur lagrimando, sciolse:
“O Itacesi, uditemi. Nessuna,
Dacché Ulisse levò nel mar le vele,
Qui si tenne assemblea. Chi adunò questa?
Giovane, o veglio? E a che? Primo udì forse
Di estrania gente che s'appressi armata?
O d'altro, da cui penda il ben comune,
Ci viene a favellar? Giusto ed umano
Costui, penso, esser dee. Che che s'aggiri
Per la sua mente, il favorisca Giove!
Telemaco gioìa di tali accenti,
Quasi d'ottimo augurio, e, sorto in piedi,
Ché il pungea d'arringar giovane brama,
Trasse nel mezzo, dalla man del saggio
Tra gli araldi Pisènore lo scettro
Prese, e ad Egizio indi rivolto: “O”, disse,
“Buon vecchio, non è assai quinci lontano
L'uom che il popol raccolse: a te dinanzi,
Ma qual, cui punge acuta doglia, il vedi.
Non di gente che a noi s'appressi armata,
Né d'altro, da cui penda il ben comune,
Io vegno a favellarvi. A far parole
Vegno di me, d'un male, anzi di duo,
Che aspramente m'investono ad un'ora.
Il mio padre io perdei! Che dico il mio?
Popol d'Itaca, il nostro: a tutti padre,
Più assai che re, si dimostrava Ulisse.
E a questa piaga, ohimè l'altra s'arroge,
Che ogni sostanza mi si sperde, e tutta
Spiantasi dal suo fondo a me la casa.
Noioso assedio alla ritrosa madre
Poser de' primi tra gli Achivi i figli.
Perché di farsi a Icario, e di proporgli
Trepidan tanto, che la figlia ei doti
E a consorte la dia cui più vuol bene?
L'intero dì nel mio palagio in vece
Banchettan lautamente, e il fior del gregge
Struggendo e dell'armento, e le ricolme
Della miglior vendemmia urne votando,
Vivon di me: né v'ha un secondo Ulisse,
Che sgombrar d'infra noi vaglia tal peste.
Io da tanto non son, né uguale all'opra
In me si trova esperïenza e forza.
Oh così le avess'io, com'io le bramo!
Poscia che il lor peccar varca ogni segno.
E, che più m'ange, con infamia io pero.
Deh s'accenda in voi pur nobil dispetto;
Temete il biasmo delle genti intorno;
Degl'immortali dèi, non forse cada
Delle colpe de' proci in voi la pena,
L'ira temete. Per l'Olimpio Giove,
Per Temi, che i consigli assembra e scioglie,
Costoro, amici, d'aizzarmi contro
Restate, e me lasciate a quello in preda
Cordoglio sol, che il genitor mi reca.
Se non che forse Ulisse alcuni offese
De' prodi Achivi, ed or s'intende i torti
Vendicarne sul figlio. E ben, voi stessi
Stendete ai beni la rapace destra:
Meglio fôra per me, quando consunti
Suppellettil da voi fóssemi e censo,
Da voi, dond'io sperar potrei restauro.
Vi assalirei per la città con blande
Parole ad uno ad un, né cesserei,
Che tutto in poter mio pria non tornasse,
E di nuovo s'ergesse in piè il mio stato.
Ma or dolori entro del petto, a cui
Non so rimedio alcun, voi mi versate.
Detto così, gittò lo scettro a terra,
Ruppe in lagrime d'ira e viva corse
Di core in cor nel popolo pietade.
Ma taciturni, immoti, e non osando
Telemaco ferir d'una risposta,
Tutti stavano i proci. Antìnoo solo
Sorse e arringò: “Telemaco, a cui bolle
Nel petto rabbia che il tuo dir sublìma,
Quai parole parlasti ad onta nostra?
Improntar sovra noi macchia sì nera?
Non i migliori degli Achei: la cara
Tua madre e l'arti, ond'è maestra, incolpa.
Già il terzo anno si volse, e or gira il quarto,
Che degli amanti suoi prendesi gioco;
Tutti di speme e d'impromesse allatta,
Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core.
Tela sottile, tela grande, immensa,
Questo ancor non pensò novello inganno?
A oprar si mise, e a sé chiamonne, e disse:
"Giovani, amanti miei, tanto vi piaccia,
Poiché già Ulisse tra i defunti scese,
Le mie nozze indugiar, ch'io questo possa
Lugubre ammanto per l'eroe Laerte,
Acciò le fila inutili io non perda,
Prima fornir, che l'inclemente Parca,
Di lunghi sonni apportatrice, il colga.
Non vo' che alcuna delle Achee mi morda,
Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo,
Fallisse un drappo in cui giacersi estinto".
Con simil fola leggermente vinse
Gli animi nostri generosi. Intanto,
Finché il giorno splendea, tessea la tela
Superba, e poi la distessea la notte
Al complice chiaror di mute faci.
Così un triennio la sua frode ascose,
E deluse gli Achei. Ma come il quarto
Con le volubili ore anno sorvenne,
Noi da un'ancella non ignara instrutti,
Penelope trovammo, che la bella
Disciogliea tela ingannatrice: quindi
Compierla dové al fin, benché a dispetto.
Or, perché a te sia noto e ai Greci il tutto,
Ecco risposta che ti fanno i proci.
Accommiata la madre, e quel di loro,
Che non dispiace a Icario e a lei talenta,
A disposar costringila. Ma dove,
Le doti usando, onde la ornò Minerva,
Che man formolle così dotta e ingegno
Tanto sagace, e accorgimenti dielle,
Quali non s'udir mai né dell'antiche
Di Grecia donne dalle belle trecce,
Tiro, Alcmena, Micene, a cui le menti
Di sì fini pensier mai non fioriro;
Dove credesse lungo tempo a bada
Tenerci ancor, la sua prudenza usata
Qui l'abbandonerìa. Noi tanto il figlio
Consumerem, quanto la madre in core
Serberà questo suo, che un dio le infuse,
Strano proposto. Eterna gloria forse
A sé procaccerà, ma gran difetto
Di vettovaglia a te; mentre noi certo
Da te pensiam non istaccarci, s'ella
Quel che le aggrada più pria non impalma”.
“Io”, rispose Telemaco, “di casa
Colei sbandir, donde la vita io tengo?
Dal cui lattante sen pendei bambino?
Grave inoltre mi fôra, ov'io la madre
Dipartissi da me, sì ricca dote
Tornare a Icario. Cruccierìasi un giorno
L'amato genitor che forse vive,
Benché lontano, e punìrianmi i numi,
Perch'ella, slontanandosi, le odiate
Implorerìa vendicatrici Erinni.
Che le genti dirìan? No; tal congedo
Non sarà mai ch'io liberi dal labbro.
L'avete voi per mal? Da me sgombrate;
Gozzovigliate altrove; alternamente
L'un l'altro inviti, e il suo retaggio scemi.
Che se disfare impunemente un solo
Vi par meglio, seguìte. Io dell'Olimpo
Gli abitatori invocherò, né senza
Speme che il Saturnìde a tai misfatti
La debita mercé renda, e che inulto
Scorra nel mio palagio il vostro sangue”.
Sì favellò Telemaco, e dall'alto
Del monte due volanti aquile a lui
Mandò l'eterno onniveggente Giove.
Tra lor vicine, distendendo i vanni,
Fendean la vana regïon de' venti.
Né prima fur dell'assemblea sul mezzo,
Che si volsero in giro, e, l'ali folte
Starnazzando, e mirando tutti in faccia,
Morte auguraro: al fin, poiché a vicenda
Con l'unghie il capo insanguinato e il collo
S'ebber, volaro a destra, e dileguârsi
Della città su per gli eccelsi tetti.
Maravigliò ciascuno, e ruminava
Fra sé quai mali promettesse il fato.
Quivi era un uom di molto tempo e senno,
Di Mastore figliuol, detto Aliterse,
Che nell'arte di trar dagli osservati
Volanti augelli le future cose,
Tutti vinceva i più canuti crini.
“Itacesi, ascoltatemi, e più ancora
M'ascoltin”, disse, “i proci, a cui davante
S'apre un gran precipizio. Ulisse lungi
Da' cari suoi non rimarrà molt'anni.
Che parlo? Ei spunta, e non ai soli proci
Strage prepara e morte: altri, e non pochi
Che abitiam la serena Itaca, troppo
Ci accorgerem di lui. Consultiam dunque
Come gli amanti, che pel meglio loro
Cessar dovrìan per sé, noi raffreniamo.
Uom vi ragiona de' presagi esperto
Per lunghissima prova. Ecco maturo
Ciò ch'io vaticinai, quando per Troia
Scioglieano i Greci, e Ulisse anch'ei salpava.
“Molti”, io gridai, “patirà duoli, e tutti
Perderà i suoi: ma nel ventesim'anno,
Solo e ignoto a ciascun, farà ritorno”.
Già si compie l'oracolo: tremate!”
“Folle vecchiardo, in tua magion ricovra”,
Eurìmaco di Pòlibo rispose,
“oracoleggia ai figli tuoi, non forse
Gl'incolga un dì qualche infortunio. Assai
Più là di te ne' vaticinî io veggio.
Volan, rivolan mille augelli e mille
Per l'aere immenso, e non dibatton tutti
Sotto i raggi del sol penne fatali.
Quinci lontano perì Ulisse. Oh fossi
Tu perito con lui! Ché non t'udremmo
Profetare in tal guisa, e il furor cieco
Secondar di Telemaco, da cui
Qualche don, credo, alle tue porte attendi.
Ma oracol più verace odi. Se quanto
D'esperïenza il bianco pel t'addusse,
A sedurre il fanciullo e a più infiammarlo
L'adopri, tu gli nuoci, a' tuoi disegni
Non giovi, e noi tale imporremti multa,
Che morte fìati il sostenerla. Io poi
Tal consiglio al fanciul porgo: la madre
Rimandi a Icario, che i sponsali e ricca,
Qual dee seguir una diletta figlia,
Dote apparecchierà. Prima io non penso
Che da questa di nozze ardua tenzone
I figli degli Achei vorran giù tôrsi.
Di nessuno temiam; non, benché tanto
Loquace, di Telemaco; né punto
Del vaticinio ci curiam, che indarno
T'uscì, vecchio, di bocca, e che fruttarti
Maggiore odio sol può. Fine i conviti
Non avran dunque, e non sarà mai calma,
Finché d'oggi in doman costei ci mandi.
Noi ciascun dì contenderem per lei,
Né ad altre donne andrem, quali ha l'Acaia
Degne di noi, perché cagion primiera
Dell'illustre contesa è la virtude”.
“Eurìmaco e voi tutti”, il giovinetto
Soggiunse allor, “competitori alteri,
Non più: già il tutto sanno uomini e dèi.
Or non vi chiedo che veloce nave
Con dieci e dieci poderosi remi,
Che sul mar mi trasporti. All'arenosa
Pilo ed a Sparta valicare io bramo,
Del padre assente per ritrar s'io mai
Trovar potessi chi men parli chiaro,
O quella udir voce fortuita in cui
Spesso il cercato ver Giove nasconde.
Vivrà? ritornerà? Benché dolente,
Sosterrò un anno. Ma se morto e fatto
Cenere il risapessi, al patrio nido
Riederò senza indugio; e qui un sepolcro
Gli alzerò, renderogli i più solenni,
Qual si convien, fùnebri onori, e un altro
Sposo da me riceverà la madre”.
Tacque, e s'assise; e Mentore levossi
Del padre il buon compagno, a cui su tutto
Vegghiar, guardare il tutto, ed i comandi
Seguitar di Laerte, Ulisse ingiunse,
Quando per l'alto sal mise la nave.
“O Itacesi”, tal parlava il saggio
Vecchio, “alle voci mie l'orecchio date.
Né giusto più, né liberal, né mite,
Ma iniquo, ma inflessibile, ma crudo
D'ora innanzi un re sia, poiché tra gente
Su cui stendea scettro paterno Ulisse,
Più non s'incontra un sol, cui viva in core.
Che arroganti rivali ad opre ingiuste
Trascorran ciechi della mente, io taccio.
Svelgono, è ver, sin dalle sue radici,
La casa di quel Grande, a cui disdetto
Sperano il ritornar, ma in rischio almeno
Porgon la vita. Ben con voi m'adiro,
Con voi, che muti ed infingardi e vili
Vi state lì, né d'un sol moto il vostro
Signore ìnclito aitate. Ohimé! dai pochi
Restano i molti soverchiati e vinti”.
“Mentor, non so qual più, se audace, o stolto”,
Leòcrito d'Evènore rispose,
“Che mai dicestu? Contra noi tu ardisci
Il popol eccitar? Non lieve impresa
Una gente assalir, che per la mensa
Brandisca l'armi, e i piacer suoi difenda.
Se lo stesso re d'Itaca tornato
Scacciar tentasse i banchettanti proci,
Scarso del suo ritorno avrìa diletto
Questa sua donna, che il sospira tanto,
E morire il vedrìa morte crudele,
Benché tra molti ei combattesse: quindi
Del tuo parlar la vanità si scorge.
Ma, su via, dividetevi, e alle vostre
Faccende usate vi rendete tutti.
Mentore ed Aliterse, che fedeli
A Telemaco son paterni amici,
Gli metteran questo viaggio in punto:
Bench'ei del padre le novelle, in vece
Di cercarle sul mar, senza fatica
Le aspetterà nel suo palagio, io credo”.
Disse, e ruppe il concilio. I cittadini
Scioglieansi l'un dall'altro, e alle lor case
Qua e là s'avvïavano: d'Ulisse
Si ritiraro alla magione i proci.
Ma, dalla turba solitario e scevro,
Telemaco rivolse al mare i passi,
Le mani asterse nel canuto mare,
E supplicò a Minerva: “O diva amica,
Che degnasti a me ier scender dal cielo,
E fender l'onde m'imponesti, un padre
Per rintracciar, che non ritorna mai,
Il tuo solo favor puommi davante
Gl'inciampi tôr, che m'opporranno i Greci,
E più che altr'uomo in Itaca, i malvagi
Proci, la cui superbia ognor più monta”.
Così pregava; e se gli pose allato
Con la faccia di Mentore e la voce,
Palla, e a nome chiamollo, e feo tai detti:
“Telemaco, né ardir giammai, né senno
Ti verrà men, se la virtù col sangue
Trasfuse in te veracemente Ulisse,
Che quanto impreso avea, quanto avea detto,
Compiea mai sempre. Il tuo vïaggio a vôto
Non andrà, qual temer, dove tu figlio
Non gli fossi, io dovrei. Vero è che spesso
Dal padre il figlio non ritrae: rimane
Spesso da lui lungo intervallo indietro,
E raro è assai che aggiungalo od il passi.
Ma senno a te non verrà men, né ardire,
Ed io vivere Ulisse in te già veggo.
Lieto dunque degli atti il fine spera;
Né t'anga il vano macchinar de' proci,
Che non sentono, incauti e ingiusti al paro,
La nera Parca che gli assal da tergo,
Ed in un giorno sol tutti gli abbranca.
Io d'Ulisse il compagno, un tale aiuto
Ti porgerò, che partirai di corto
Su parata da me celere nave,
E con me stesso al fianco, in su la poppa.
Orsù, rïentra nel palagio, ai proci
Nuovamente ti mostra, ed apparecchia
Quanto al vïaggio si richiede, e il tutto
Riponi: il bianco nelle dense pelli
Gran macinato, ch'è dell'uom la vita,
E nell'urne il licor che la rallegra.
Compagni a radunarti in fretta io movo,
Che ti seguano allegri. Ha sull'arena
Molte l'ondicerchiata Itaca navi
Novelle e antiche: ne' salati flutti
Noi lancerem senza ritardo armata
Qual miglior mi parrà veleggiatrice”.
Così di Giove la celeste figlia:
Né più, gli accenti della diva uditi,
S'indugiava Telemaco. Al palagio,
Turbato della mente, ire affrettossi,
E trovò i proci, che a scoiar capretti,
E pingui ad abbronzar corpi di verri,
Nel cortile intendeano. Il vide appena,
Che gli fu incontro sogghignando, e il prese
Per mano Antinoo, e gli parlò in tal guisa:
“O molto in arringar, ma forte poco
Nel dominar te stesso, ogni rancore
Scaccia dal petto, e, qual solevi, adopra
Da prode il dente, e i colmi nappi asciuga.
Tutto gli Achei t'allestiran di botto:
Nave e rèmigi eletti, acciò tu possa,
Ratto varcando alla divina Pilo,
Correr del padre tuo dietro alla fama”.
E Telemaco allor: “Sedermi a mensa
Con voi, superbi, e una tranquilla gioia
Provarvi, a me non lice. Ah non vi basta
Cio che de' miei più prezïosi beni
Nella prima età mia voi mi rapiste?
Ma or ch'io posso dell'altrui saggezza
Giovarmi, e sento con le membra in petto
Cresciutami anco l'alma, io disertarvi
Tenterò pure, o ch'io qui resti, o parta.
Ma parto, e non invan, spero, e su nave
Parto non mia, quando al figliuol d'Ulisse,
Né ciò sémbravi sconcio, un legno manca”.
Tal rispose crucciato, e destramente
Dalla man d'Antinòo la sua disvelse.
Già il convito apprestavano, ed acerbi
Motti scoccavan dalle labbra i proci.
“Certo”, dicea di que' protervi alcuno,
“Telemaco un gran danno a noi disegna.
Da Pilo aiuti validi o da Sparta
Menerà seco, però ch'ei non vive
Che di sì fatta speme; o al suol fecondo
D'Efira condurrassi e ritrarranne
Fiero velen, che getterà nell'urne
Con man furtiva; e noi berrem la morte”,
E un altro ancor de' pretendenti audaci:
“Chi sa ch'egli non men, sul mar vagando,
Dagli amici lontano, un dì non muoia,
Come il suo genitor? Carco più grave
Su le spalle ne avremmo: il suo retaggio
Partirci tutto, ma la casta madre,
E quel di noi, ch'ella scegliesse a sposo,
Nel palagio lasciar sola con solo”.
Telemaco frattanto in quella scese
Di largo giro e di sublime volta
Paterna sala, ove rai biondi e rossi
L'oro mandava e l'ammassato rame;
Ove nitide vesti, e di fragrante
Olio gran copia chiudean l'arche in grembo;
E presso al muro ìvano intorno molte
Di vino antico, saporoso, degno
Di presentarsi a un dio, gravide botti,
Che del ramingo travagliato Ulisse
Il ritorno aspettavano. Munite
D'opportuni serrami eranvi, e doppie
Con lungo studio accomodate imposte;
Ed Euriclèa, la vigilante figlia
D'Opi di Pisenorre, il dì e la notte
Questi tesori custodìa col senno.
Chiamolla nella sala, e a lei tai voci
Telemaco drizzò: “Nutrice, vino,
Su via, m'attigni delicato, e solo
Minor di quel che a un infelice serbi,
Se mai scampato dal destin di morte,
Comparisse tra noi. Dodici n'empi
Anfore, e tutte le suggella. Venti
Di macinato gran giuste misure
Versami ancor ne' fedeli otri, e il tutto
Colloca in un: ma sappilo tu sola.
Come la notte alle superne stanze
La madre inviti e al solitario letto,
Per tai cose io verrò: ché l'arenosa
Pilo visitar voglio, e la ferace
Sparta, e ad entrambe domandar del padre”.
Dié un grido, scoppiò in lagrime, e dal petto
Euriclèa volar feo queste parole:
“Donde a te, caro figlio, in mente cadde
Pensiero tal? Tu l'unico rampollo
Di Penelope, tu, la nostra gioia,
Per tanto mondo raggirarti? Lunge
Dal suo nido perì l'inclito Ulisse,
Fra estranie genti: e perirai tu ancora.
Sciolta la fune non avrai, che i proci
Ti tenderanno agguati, uccideranti,
E tutte partirannosi tra loro
Le spoglie tue. Deh qui con noi rimani,
Con noi qui siedi, e su i marini campi,
Che fecondi non son che di sventure,
Lascia che altri a sua posta errando vada”.
“Fa cor, Nutrice”, ei le risponde tosto:
“Senza un nume non è questo consiglio.
Ma giura che alla madre, ov'aura altronde
Non le ne giunga prima e ten richiegga,
Nulla dirai, che non appaia in cielo
La dodicesim'aurora; onde col pianto
Al suo bel corpo ella non rechi oltraggio”.
L'ottima vecchia il giuramento grande
Giurò de' numi: e a lui versò ne' cavi
Otri, versò nell'anfore capaci
Le candide farine e il rosso vino.
Ei, nella sala un'altra volta entrato,
Tra i proci s'avvolgea: né in questo mezzo
Stavasi indarno la Tritonia Palla.
Vestite di Telemaco le forme,
Per tutto si mostrava ed appressava
Tutti, e loro ingiungea che al mare in riva
Si raccogliesser nottetempo, e il ratto
Legno chiedea di Fronio al figlio illustre,
A Noemòn, cui non chiedealo indarno.
S'ascose il Sole, e in Itaca omai tutte
S'inombravan le vie. Minerva il ratto
Legno nel mar tirò, l'armò di quanto
Soffre d'arnesi un'impalcata nave,
E al porto in bocca l'arrestò. Frequenti
Si raccoglieano i remator forzuti
Sul lido, e inanimavali la dea
Dallo sguardo azzurrin, che altro disegno
Concepì in mente. La magion d'Ulisse
Ritrova, e sparge su i beventi proci
Tal di sonno un vapor, che lor si turba
L'intelletto e confondesi, e di mano
Casca sul desco, la sonante coppa.
Sorse, e mosse ciascuno al proprio albergo,
Né fu più nulla del sedere a mensa:
Tal pondo stava sulle lor palpèbre.
Ma l'occhiglauca dea, ripreso il volto
Di Mentore e la voce, e richiamato
Fuor del palagio il giovinetto, disse:
Telemaco, ciascun de' tuoi compagni,
Che d'egregi schinier veston le gambe,
Già siede al remo, e, se tu arrivi, guarda”.
Ciò detto, la via prese, ed il garzone
Seguitavane l'orme. Al mar calati,
Trovàr sul lido i capelluti Achivi;
Cui di tal guisa favellò la sacra
Di Telemaco possa: “Amici, in casa
Quanto al cammin bisogna, unito giace:
Trasportarlo è mestieri. Né la madre
Sa, né, fuor che una, il mio pensier le ancelle”.
Tacque, e loro entrò innanzi; e quelli dietro
Teneangli. Indi con l'anfore e con gli otri,
Come d'Ulisse il caro figlio ingiunse,
Tornâro, e il carco nella salda nave
Deposero. Il garzon sopra vi salse,
Preceduto da Pallade, che in poppa
S'assise; accanto ei le sedea: la fune
I remiganti sciolsero, e montàro
La negra nave anch'essi, e i banchi empiero.
Tosto la dea dalle cerulee luci
Chiamò di verso l'occidente un vento
Destro, gagliardo, che battendo venne
Su pel tremulo mar l'ale sonanti.
“Mano, mano agli attrezzi”, allor gridava
Telemaco; “ov'è l'albero”? I compagni
L'udiro, e il grosso e lungo abete in alto
Drizzaro, e l'impiantaro entro la cava
Base, e di corda l'annodaro al piede:
Poi tiravano in su le bianche vele,
Con bene attorti cuoi. Gonfiò nel mezzo
Le vele il vento; e forte alla carena
L'azzurro mar romoreggiava intorno,
Mentre la nave sino al fin del corso
Su l'elemento liquido volava.
Legati i remi del naviglio ai fianchi,
Incoronaro di vin maschio l'urne,
E a ciascun degli dèi sempre viventi
Libaro, ma più a te, figlia di Giove,
Che le pupille di cilestro tingi.
Il naviglio correa la notte intera,
E del suo corso al fin giungea con l'alba.
LIBRO TERZO
Uscito delle salse acque vermiglie,
Montava il sole per l'eterea volta
Di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava
Ed agli uomini il dì su l'alma terra:
Quando alla forte Pilo, alla cittade
Fondata da Nelèo, giunse la nave.
Stavano allor sagrificando i Pili
Tauri sul lido, tutti negri, al dio
Dai crini azzurri, che la terra scuote.
Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra
Cinquecento seduti, e per ciascuna
Svenati nove buoi, di cui, gustate
Le interïora, ardean le cosce al nume.
La nave intanto d'uguai fianchi armata,
Se ne venìa dirittamente a proda.
Le vele ammainâr, pigliaro il porto,
Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi
Telemaco, e Minerva il precedea,
La dea dagli occhi di ceruleo tinti,
Che gli accenti al garzon primiera volse:
“Telemaco, depor tutta oggi è d'uopo
La pueril vergogna. Il mar passasti,
Ma per udir, dove s'asconda, e a quale
Destin soggiacque il generoso padre.
Su, dunque, dritto al domator t'avvia
Di cavalli Nestorre, onde si vegga
Quel ch'ei celato nella mente porta.
Il ver da lui, se tu nel chiedi, avrai:
Poiché mentir non può cotanto senno”.
Il prudente Telemaco rispose:
Mentore, per qual modo al rege amico
M'accosterò? Con qual saluto? Esperto
Non sono ancor del favellar de' saggi:
Né consente pudor, che a far parole
Cominci col più vecchio il men d'etade”.
Ma di tal guisa ripigliò la dea,
Cui cilestrino lume i rai colora:
“Telemaco, di ciò che dir dovrai,
Parte da sé ti nascerà nel core,
Parte nel cor la ti porranno i numi:
Ché a dispetto di questi in luce, io credo,
Non ti mandò la madre, e non ti crebbe”.
Così parlando, frettolosa innanzi
Palla si mise, ed ei le andava dopo.
Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pilî,
Ove Nestor sedea co' figli suoi,
Mentre i compagni, apparecchiando il pasto,
Altre avvampavan delle carni, ed altre
Negli spiedi infilzavanle. Adocchiati
Ebbero appena i forestier, che incontro
Lor si fero in un groppo, e gli abbracciâro,
E a seder gl'invitaro. Ad appressarli
Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli
Del re. Li prese ambi per mano, e in molli
Pelli, onde attappezzata era la sabbia,
Appo la mensa gli adagiò tra il caro
Suo padre ed il germano Trasimede:
Delle viscere calde ad ambi porse;
E, rosso vin mescendo in tazza d'oro,
E alla gran figlia dell'Egìoco Giove
Propinando: “Stranier”; dissele, “or prega
Dell'acque il sir, nella cui festa, i nostri
Lidi cercando, t'abbattesti appunto.
Ma i libamenti, come più s'addice,
Compiuti e i prieghi, del licor soave
Presenta il nappo al tuo compagno, in cui
Pur s'annida, cred'io, timor de' numi,
Quando ha mestier de' numi ogni vivente.
Meno ei corse di vita, e d'anni eguale
Parmi con me: quindi a te pria la coppa”.
E il soave licor le pose in mano.
Godea Minerva che l'uom giusto pria
Offerto il nappo d'oro avesse a lei,
E subito a Nettun così pregava:
“Odi, o Nettuno, che la terra cingi,
E questi voti appagar degna. Eterna
Gloria a Nestorre, ed a' suoi figli in prima
E poi grata mercede a tutti i Pili
Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno
Concedi inoltre e a me, che, ciò fornito
Perché venimmo, su le patrie arene
Con la negra torniam rapida nave”.
Tal supplicava, e adempiere intendea
Questi voti ella stessa. Indi al garzone
La bella offrì gemina coppa e tonda,
Ed una egual preghiera il caro figlio
D'Ulisse alzò. S'abbrustolaro intanto
Le pingui cosce, degli spiedi acuti
Si dispiccaro e si spartiro: al fine
L'alto si celebrò prandio solenne.
Giunto al suo fin, così principio ai detti
Dava il Gerenio cavalier Nestorre:
“Gli ospiti ricercare allora è bello,
Che di cibi e di vini hanno abbastanza
Scaldato il petto e rallegrato il core.
Forestieri, chi siete? e da quai lidi
Prendeste a frequentar l'umide strade?
Trafficate voi forse? O v'aggirate,
Come corsali, che la dolce vita,
Per nuocere ad altrui, rischian sul mare”?
Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire
Spirò nel seno, acciò del padre assente
Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo
Di sé spargesse per le genti il grido:
“O degli Achei”, rispose, “illustre vanto,
Di satisfare ai desir tuoi son presto.
Giungiam dalla seduta a pie' del Neo
Itaca alpestre, ed è cagion privata
Che a Pilo ci menò. Del padre io movo
Dietro alla fama, che riempie il mondo,
Del magnanimo Ulisse, onde racconta
Pubblica voce che i Troiani muri,
Combattendo con teco, al suol distese.
Degli altri tutti che co' Troi pugnaro,
Non ignoriam dove finiro i giorni.
Ma di lui Giove anco la morte volle
Nasconderci; né alcun sin qui poteo
Dir se in terra o sul mar, se per nemico
Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo.
Eccomi or dunque alle ginocchia tue,
Perché tu la mi narri, o vista l'abbi
Con gli occhi propri, o dalle labbra udita
D'un qualche pellegrin; però che molto
Disventurato il partorì la madre.
Né timore, o pietà, del palesarmi
Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio
Mio padre in opra o in detto unqua ti feo
Bene o comodo alcun, là, ne' Troiani
Campi che tinse il vostro sangue, o Greci,
Tel rimembra ora, e non tacermi nulla”.
Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
“Tu mi ricordi, amico, i guai che molti
Noi, prole invitta degli Achei, patimmo,
O quando erranti per le torbid'onde
Ce ne andavam sovra le navi in traccia
Di preda, ovunque ci guidasse Achille;
O allor che pugnavam sotto le mura
Della cittade alta di Priamo, dove
Grecia quasi d'eroi spenta rimase.
Là cadde Achille, e il marzïale Aiace,
Là Patroclo, nel senno ai dèi vicino;
Quell'Antiloco là, forte e gentile,
Mio diletto figliuol, che abil del pari
La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede.
Se tu, queste sciagure ed altre assai
Per ascoltar, sino al quint'anno e sesto
Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso.
Leveresti di nuovo in mar le vele,
Ch'io non sarei del mio racconto a riva.
Nove anni, offese macchinando, a Troia,
Ci travagliammo intorno; e, benché ogni arte
Vi si adoprasse, d'espugnarla Giove
Ci consentì nel decimo a fatica.
Duce col padre tuo non s'ardìa quivi
Di accorgimento gareggiar: cotanto
Per inventive Ulisse e per ingegni
Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio,
E me ingombra stupor, mentr'io ti guardo:
Ché i detti rassomigliansi, e ne' detti
Tanto di lui tenère uom, che d'etade
Minor tanto è di lui, vero non parmi.
L'accorto Ulisse ed io, né in parlamento
Mai, né in concilio, parlavam diversi;
Ma, d'una mente, con maturi avvisi,
Quel che dell'oste in pro tornar dovesse
Disegnavamo. Rovesciata l'alta
Città di Priamo, e i Greci in su le ratte
Navi saliti, si divise il campo.
Così piacque al Saturnio; e ben si vide
Da quell'istante, che un ritorno infausto
Ci destinava il correttor del mondo.
Senno non era, né giustizia in tutti:
Quindi il malanno che su molti cadde,
Per lo sdegno fatal dell'Occhiglauca,
Di forte genitor nata, che cieca
Tra i due figli d'Atrèo discordia mise.
A parlamento in sul cader del Sole
Chiamaro incauti, e contra l'uso, i Greci,
Che, intorbidati dal vapor del vino,
Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla.
Menelao prescrivea che l'oste tutta
Le vele aprisse del ritorno ai venti;
Ma ritenerla in vece Agamennòne
Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero
Sdegno a placar dell'oltraggiata diva.
Stolto! che non sapea ch'erano indarno:
Quando per fumo d'immolati tori
Mente i numi non cangiano in un punto.
Così, garrendo di parole acerbe,
Non si movean dal lor proposto. Intanto
Con insano clamor sorser gli Achivi
Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni,
L'altro agli altri piacea. Funeste cose
La notte in mezzo al sonno agitavamo
Dentro di noi: che dal disastro il danno
Giove ci apparecchiava. Il dì comparso,
Tirammo i legni, nel divino mare,
E su i legni velìvoli le molte
Robe imponemmo e le altocinte schiave.
Se non che mezza l'oste appo l'Atrìde
Agamennòn rimanea ferma: l'altra
Dava ne' remi, e per lo mar pescoso,
Che Nettuno spianò, correa veloce.
Tènedo preso, sagrificî offrimmo,
Anelando alla patria: ma nemico
Dagli occhi nostri rimoveala Giove,
Che di nuovo partì tra loro i Greci.
Alcuni che d'intorno erano al ricco
Di scaltrimenti Ulisse, e al re de' regi
Gratificar volean, torsero a un tratto
Le quinci e quindi remiganti navi:
Ma io de' mali che l'avverso nume
Divisava, m'accorsi e con le prore,
Che fide mi seguìan, fuggii per l'alto.
Fuggì di Tideo il bellicoso figlio,
Tutti animando i suoi. L'acque salate
Solcò più lento, e in Lesbo al fine il biondo
Menelao ci trovò, che della via
Consigliavam; se all'aspra Chio di sopra,
Psiria lasciando dal sinistro lato,
O invece sotto Chio, lungo il ventoso
Mimanta, veleggiassimo. D'un segno
Nettun pregammo: ei mostrò un segno e il mare
Noi fendemmo nel mezzo, e dell'Eubèa
Navigammo alla volta, onde con quanta
Fretta si potea più, condurci in salvo.
Sorse allora e soffiò stridulo vento,
Che volar per le nere onde, e notturni
Sorger ci feo sovra Geresto, dove
Sbarcammo, e al nume dagli azzurri crini,
Misurato gran mar, molte di tori
Cosce ponemmo in su la viva brace.
Già il dì quarto splendea, quando i compagni
Del prode ne' cavalli Dïomede
Le salde navi riposaro in Argo:
Ed io vêr Pilo sempre il corso tenni
Con quel vento, cui pria mandato in poppa
M'aveano i numi, e che non mai s'estinse.
Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi,
Né so nulla de' Greci o spenti o salvi.
Ciò poi che intesi ne' miei tetti assiso,
Celare a te certo non vuolsi. È fama
Che felice ritorno ebber gli sperti
Della lancia Mirmìdoni, che il degno
Figliuol guidava dell'altero Achille.
Felice l'ebbe Filottète ancora,
L'illustre prole di Peante. In Creta
Rimenò Idomenèo quanti compagni
Con la vita gli uscir fuori dell'arme:
Un sol non ne inghiottì l'onda vorace.
D'Agamennòn voi stessi, e come venne,
Benché lontani dimoriate, udiste,
E qual gli tramò Egisto acerba morte.
Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello
Che il figliuol dell'estinto in vita resti!
Quel dell'Atride vendicossi a pieno
Dell'omicida fraudolento e vile,
Che morto aveagli sì famoso padre.
Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio
Di sembiante non men grande che bello,
Fortezza impara, onde te pure alcuno
Benedica di quei che un dì vivranno”.
“Nestore, degli Achei gloria immortale”,
Telemaco riprese, “ei vendicossi,
E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome
Nel canto se n'udrà. Perché in me ancora
Non infuser gli dèi tanto di lena,
Che dell'onte de' proci e delle trame
Potessi a pieno ristorarmi anch'io?
Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio
Tanta felicità dagl'immortali
Fu destinata, e tollerar m'è forza”.
“Poiché tai mali”, ripigliò Nestorre
“Mi riduci alla mente, odo la casa
Molti occuparti a forza, e insidïarti,
Vagheggiatori della madre. Dimmi:
Volontario piegasti al giogo il collo?
O in odio, colpa d'un oracol forse,
I cittadini t'hanno? Ad ogni modo,
Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno
Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi
Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi?
Se te così Pallade amasse come
A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse
(Sì palese favor d'un nume, quale
Di Pallade per lui, mai non si vide)
Se ugual di te cura prendesse, ai proci
Della mente uscirìan le belle nozze”.
E d'Ulisse il figliuol: “Tanto io non penso
Che s'adempia giammai. Troppo dicesti,
Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte:
Ché ciò bramar, non conseguir mi lice,
Non, se agli stessi dèi ciò fosse in grado”.
“Qual ti sentii volar fuori de' denti,
Telemaco, parola? allor soggiunse
La dea che lumi cilestrini gira.
“Facile a un dio, sempre che il voglia, uom vivo
Ripatrïar dai più remoti lidi.
Io per me del ritorno anzi torrei
Scorgere il dì dopo infiniti guai,
Che rieder prima, e nel suo proprio albergo
Cader, come d'Egisto, e dell'infida
Moglie per frode il miserando Atride.
La morte sola, comun legge amara,
Gli stessi dèi né da un amato capo
Distornarla potrìan, quandunque sopra
Gli venga in sua stagion l'apportatrice
Di lunghi sonni disamabil parca”.
“E temo io ben”, Telemaco rispose,
“Che una morte crudel, non il ritorno,
Prefissa gli abbia, o Mentore, il destino.
Ma di questo non più: benché agli afflitti
Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia.
Io voglio d'altro dimandar Nestorre,
Che vede assai più là d'ogni mortale,
E l'età terza, qual si dice, or regna,
Tal che mirare in lui sembrami un nume.
Figlio di Nèleo, il ver, mi narra. Come
Chiuse gli occhi Agamènnone, il cui regno
Stendeasi tanto? Menelao dov'era?
Qual morte al sommo Agamennòne ordìa
L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse
Tanto miglior di sé? Non era dunque
Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse
Lontano errava tra straniere genti,
E quei la spada, imbaldanzito, strinse?”
Ed il Gerenio cavalier Nestorre:
“Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni.
Tu feristi nel segno. Ah! se l'illustre
Menelao biondo, poiché apparve in Argo,
Nel palagio trovava Egisto in vita,
Non si spargea sul costui morto corpo
Un pugno scarso di cavata terra:
Fuor delle mura, sovra il nudo campo
Cani e augelli voravanlo, né un solo
Delle donne d'Acaia occhio il piangea.
Noi sotto Troia, travagliando in armi,
Passavam le giornate; ed ei, nel fondo
Della ricca di paschi Argo, tranquilla,
Con detti aspersi di dolce veleno
La moglie dell'Atride iva blandendo.
Rifugìa prima dall'indegno fatto
La vereconda Clitennestra, e retti
Pensier nutrìa, standole a fianco il vate,
Cui di casta serbargliela l'Atride
Molto ingiungea, quando per Troia sciolse.
Ma sorto il dì che cedere ad Egisto
La infelice dovea, quegli, menato
A un'isola deserta il vate in seno,
Colà de' feri volator pastura
Lasciallo, e strazio: e ne' suoi tetti addusse,
Non ripugnante, l'infedel regina.
E molte cosce del cornuto armento
Su l'are il folle ardea, sospendea molti
Di drappi d'oro sfavillanti doni,
Compiuta un'opra che di trarre a fine
Speranza ebbe assai men, che non vaghezza.
Già partiti di Troia, e d'amistade
Congiunti, battevam lo stesso mare
Menelao ed io: ma divenimmo al sacro
Promontorio d'Atene, al Sunio, appena,
Che il suo nocchier, che del corrente legno
Stava al governo, un'improvvisa uccise
Di Febo Apollo mansueta freccia,
L'Onetoride Fronte, uom senza pari
Co' marosi a combattere e co' venti.
L'Atride, benché in lui gran fretta fosse,
Si fermò al Sunio, ed il compagno pianse,
E d'esequie onorollo e di sepolcro.
Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso
Giunto della Malèa, cammin felice
Non gli donò l'onniveggente Giove.
Venti stridenti e smisurati flutti,
Che ai monti non cedean, contro gli mosse,
E ne disgiunse i legni, e parte a Creta
Ne spinse, là 've albergano i Cidonî,
Alle correnti del Giardano in riva.
Liscia e pendente sovra il fosco mare
Di Gortina al confin, sorge una rupe,
Contro alla cui sinistra, e non da Festo
Molto lontana punta, Austro i gran flutti
Caccia; li frange un piccoletto sasso.
Là, percotendo, si fiaccaro i legni
Scampate l'alme a gran fatica, e sole
Cinque altre navi dall'azzurra prora,
Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda.
Mentre con queste Menelao tra genti
D'altra favella s'aggirava, e forza
Vi raccogliea di vettovaglia e d'oro,
Tutti ebbe i suoi desir l'iniquo Egisto:
Agamennòne a tradimento spense,
Soggettossi gli Argivi, ed anni sette
Della ricca Micene il fren ritenne.
Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene
Per sua sciagura il pari ai numi Oreste,
Che il perfido assassin del padre illustre
Spogliò di vita, e la funèbre cena
Agli Argivi imbandì, per l'odïosa
Madre non men, che per l'imbelle drudo.
Lo stesso giorno Menelao comparve,
Tanta ricchezza riportando seco,
Che del pondo gemean le stanche navi.
Figlio, non l'imitar, non vagar troppo,
Lasciando in preda le sostanze ai proci,
Che ciò tra lor che non avran consunto,
Partansi, e il vïaggiar ti torni danno.
Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo,
Che il re di Sparta trovi. Ei testé giunse,
Donde altri, che in quel mar furia di crudo
Vento cacciasse, perderia la speme
Di rieder più: mar così immenso e orrendo,
Che nel giro d'un anno augel nol varca.
Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse
Più di tuo grado la terrestre via,
Cocchio io darotti e corridori, e i miei
Figli, che guideranti alla divina
Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna.
Pregalo, e non temer che le parole
Re sì prudente di menzogna involva”.
Disse; e tramontò il Sole, e buio venne.
Qui la gran diva dal ceruleo sguardo
Si frappose così: Buon vecchio, tutto
Dicesti rettamente. Or via, le lingue
Taglinsi, e di licor s'empian le tazze.
Poscia, fatti a Nettuno e agli altri numi
I libamenti, si procuri ai corpi
Riposo e sonno, come il tempo chiede.
Già il sol s'ascose, e non s'addice al sacro
Troppo a lungo seder prandio solenne”.
Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi
Dier subito alle man, di vino l'urne
Coronaro i donzelli, ed il recaro,
Con le tazze, augurando, a tutti in giro.
I convitati s'alzano, e le lingue
Gittan sul fuoco, e libano. Libato
Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto,
Palla e d'Ulisse il deiforme figlio
Ritirarsi voleano al cavo legno.
Ma Nestore fermolli, e con gentile
Corruccio: “Ah! Giove tolga, e gli altri”, disse,
“Non morituri dèi, ch'ire io vi lasci,
Qual tapino mortale, a cui la casa
Di vestimenti non abbonda e coltri,
Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti
Mollemente s'addormino. Credete
Che a me vesti non sieno e coltri belle?
No; su palco di nave il figlio caro
Di cotant'uom non giacerà, me vivo,
E vivo un sol de' figli miei, che quanti
Verranno alle mie case ospiti accolga”.
“O vecchio amico”, replicò la diva
Cui sfavilla negli occhi azzurra luce,
“Motto da te non s'ode altro che saggio.
Telemaco, ubbidire io ti consiglio.
Che meglio puoi? Te dunque, o Nestor, siegua
E s'adagi in tua casa. Io vêr la nave
A confortar rivolgomi, e di tutto
Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco
Que' giovani d'età, che non maggiori
Di Telemaco sono, e accompagnarlo
Voller per amistade. In sul naviglio
Mi stenderò: ma, ricomparsa l'alba,
Ai Caucòni magnanimi non lieve
Per ricevere andrò debito antico.
E tu questo garzon, che a te drizzossi,
Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio
De' corridori, che in tue stalle nutri,
I più ratti gli accoppia e più gagliardi”.
Qui fine al dir pose la dea, cui ride
Sotto le ciglia un azzurrino lume,
E si levò com'aquila, e svanìo.
Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio,
Visto il portento, s'ammirava; e, preso
Telemaco per man, nomollo e disse:
“Ben conosc'ora che dappoco e imbelle,
Figliuol mio, non sarai, quando compagni
Così per tempo ti si fanno i numi.
Degli abitanti dell'Olimpie case
Chi altri esser porìa che la pugnace
Figlia di Giove, la Tritonia Palla,
Che l'egregio tuo padre in fra gli Achivi
Favorì ognor? Propizia, o gran regina,
Guardami, e a me co' figli e con la casta
Consorte gloria non vulgar concedi.
Giovenca io t'offrirò di larga fronte,
Che vide un anno solo, e al giogo ancora
Non sottopose la cervice indoma.
Questa per te cadrà con le vestite
Di lucid'oro giovinette corna”.
Tal supplicava, e l'udì Palla. Quindi
Generi e figli al suo reale ostello
Nestore precedea. Giunti, posaro
Su gli scanni per ordine e su i troni.
Il re canuto un prezïoso vino,
Che dalla scoverchiata urna la fida
Custode attinse nell'undecim'anno,
Lor mescea nella coppa, e alla possente
Figlia libava dell'Egìoco Giove,
Supplichevole orando. E gli altri ancora
Libaro, e a voglia lor bevvero. Al fine
Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro.
Ma nella sua magione il venerato
Nestore vuol che del divino Ulisse
La cara prole, in traforato letto
Sotto il sonante portico, s'addorma;
E accanto a lui Pisistrato, di gente
Capo, e il sol de' figliuoi che sin qui viva
Celibe vita. Ei del palagio eccelso
Si corcò nel più interno; e la reale
Consorte il letto preparògli e il sonno.
Tosto che del mattin la bella figlia
Con le dita rosate in cielo apparve,
Surse il buon vecchio, uscì del tetto, e innanzi
S'assise all'alte porte, in sui politi
Bianchi e d'unguento luccicanti marmi,
Su cui sedea par nel consiglio ai numi
Nelèo, che, vinto dal destin di morte,
Nelle case di Pluto era già sceso.
Nestore allora, guardïan de' Greci,
Lo scettro in man, sedeavi. I figli, usciti
Di loro stanza maritale anch'essi,
Frequenti al vecchio si stringeano intorno,
Echefróne, Persèo, Strazio ed Areto,
E il nobil Trasimede, a cui s'aggiunse
Sesto l'eroe Pisistrato. Menaro
D'Ulisse il figlio deïforme, e al fianco
Collocârlo del padre, che le labbra
In queste voci aprì: “Figli diletti,
Senza dimora il voler mio fornite.
Prima tra i numi l'Atenèa Minerva
Non degg'io venerar, che nel solenne
Banchetto sacro manifesta io vidi?
Un di voi dunque ai verdi paschi vada,
Perché tirata dal bifolco giunga
Ratto la vaccherella. Un altro mova
Dell'ospite alla nave e, salvo due,
Tutti i compagni mi conduca. E un terzo
Laerce chiami, l'ingegnoso mastro,
Della giovenca ad inaurar le corna.
Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle
Faccian le mense apparecchiar, sedili
Apportar nel palagio, e tronca selva,
E una pura dal fonte acqua d'argento”.
Non indarno ei parlò. Venne dal campo
La giovinetta fera, e dalla nave
Dell'ospite i compagni; il fabbro venne
Tutti recando gli strumenti e l'armi,
L'incude, il buon martello e le tanaglie
Ben fabbricate, con che l'ôr domava:
Né ai sacrifici suoi mancò la diva.
Nestore diè il metallo; e il fabbro, come
Domato l'ebbe, ne vestì le corna
Della giovenca, acciocché Palla, visto
Quel fulgor biondo, ne gioisse in core.
Per le corna la vittima Echefróne
Guidava, e Strazio: dalle stanze Arèto
Purissim'onda in un bacile, a vaghi
Fiori intagliato, d'una man portava,
Orzo dell'altra in bel canestro e sale;
Il bellicoso Trasimede in pugno
Stringea l'acuta scure, che sul capo
Scenderà della vittima; ed il vaso,
Che il sangue raccorrà, Perseo tenea.
Ma de' cavalli il domator, l'antico
Nestore, il rito cominciò: le mani
S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla
Pregava molto, nell'ardente fiamma
Le primizie gittando, i peli svelti
Dalla vergine fronte. Alla giovenca
S'accostò il forte Trasimede allora
E con la scure acuta, onde colpilla,
Del collo i nervi le recise, e tutto
Svigorì il corpo: supplicanti grida
Figliuole alzaro, e nuore e la pudica
Di Nestor donna Euridice, che prima
Di Climèn tra le figlie al mondo nacque;
Poi la buessa, che giacea, di terra
Sollevâr nella testa, e in quel che lei
Reggean così, Pisistrato scannolla.
Sgorgato il sangue nereggiante e scorso,
E abbandonate dallo spirto l'ossa,
La divisero in fretta: ne tagliaro
Le intere cosce, qual comanda il rito,
Di doppio le covriro adipe, e i crudi
Brani vi adattâr sopra. Ardeale il veglio
Su gli scheggiati rami, e le spruzzava
Di rosso vin, mentre abili donzelli
Spiedi tenean di cinque punte in mano.
Arse le cosce e i visceri gustati,
Minuti pezzi fer dell'altro corpo,
Che rivolgeano ed arrostìano infissi
Negli acuti schidoni. Policasta,
La minor figlia di Nestorre, intanto
Telemaco lavò, di bionda l'unse
Liquida oliva, e gli vestì una fina
Tunica e un ricco manto; ed egli emerse
Fuor del tepido bagno, agl'Immortali
Simile in volto, e a Nestorre avviossi,
Pastor di genti, e gli s'assise al fianco.
Abbrostite le carni ed imbandite,
Sedeansi a banchettar: donzelli esperti
Sorgeano, e pronti di vermiglio vino
Ricolmavan le ciotole dell'oro.
Ma poiché spenti i naturali fûro
Della fame desiri e della sete,
Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre:
“Miei figli, per Telemaco, su via,
I corridori dal leggiadro crine
Giungete sotto il cocchio”. Immantinente
Quelli ubbidiro, e i corridor veloci
Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui
Candido pane e vin purpureo e dapi,
Quai costumano i re, di Giove alunni,
La veneranda dispensiera pose.
Telemaco salì, salì l'ornata
Biga con lui Pisistrato, di gente
Capo, e accanto assettossigli; e, le briglie
Nella man tolte, con la sferza al corso
I cavalli eccitò, che alla campagna
Si gittâr lieti: de' garzoni agli occhi
Di Pilo s'abbassavano le torri.
Squassavano i destrier tutto quel giorno
Concordi il giogo ch'era lor sul collo.
Tramontò il Sole, ed imbrunìan le strade:
E i due giovani a Fera, e alla magione
Di Diocle arrivàr, del prode figlio
Di Orsìloco d'Alfèo, dove riposi
Ebber tranquilli ed ospitali doni.
Ma come del mattin la bella figlia
Comparve in ciel con le rosate dita,
Aggiogaro i cavalli, e la fregiata
Biga salîro, e del vestibol fuori
La spinsero, e del portico sonante.
Scosse la sferza il Nestorìde, e quelli
Lietamente volaro. I pingui campi,
Di ricca messe biondeggianti, indietro
Fuggìan l'un dopo l'altro; e sì veloci
Gli allenati destrier movean le gambe,
Che l'Itacense e il Pilïese al fine
Del vïaggio pervennero, che d'ombra,
Il sol caduto, si coprìa la terra.
LIBRO QUARTO
Giunsero all'ampia, che tra i monti giace,
Nobile Sparta, e le regali case
Del glorïoso Menelao trovaro.
Questi del figlio e della figlia insieme
Festeggiava quel dì le doppie nozze,
E molti amici banchettava. L'una
Spedìa d'Achille al bellicoso figlio,
Cui promessa l'avea sott'Ilio un giorno,
Ed or compieano il maritaggio i numi:
Quindi cavalli e cocchi alla famosa
Cittade de' Mirmìdoni condurla
Doveano, e a Pirro che su lor regnava.
E alla figlia d'Alettore Spartano
L'altro, il gagliardo Megapente, unia,
Che d'una schiava sua tardi gli nacque:
Poiché ad Elèna gl'immortali dèi
Prole non concedean dopo la sola
D'amor degna Ermione, a cui dell'aurea
Venere la beltà splendea nel volto.
Così per l'alto spazïoso albergo
Rallegravansi, assisi a lauta mensa,
Di Menelao gli amici ed i vicini;
Mentre vate divin tra lor cantava,
L'argentea cetra percotendo, e due
Danzatori agilissimi nel mezzo
Contempravano al canto i dotti salti.
Nell'atrio intanto s'arrestaro i figli
Di Nestore e d'Ulisse. Eteonèo,
Un vigil servo del secondo Atride,
Primo adocchiolli, e con l'annunzio corse
De' popoli al pastore, ed all'orecchio
Gli sussurrò così: “Due forestieri
Nell'atrio, o Menelao, di Giove alunno,
Coppia d'eroi, che del Saturnio prole
Sembrano in vista. Or di': sciorre i cavalli
Dobbiamo, o i forestieri a un altro forse
Mandar de' Greci, che gli accolga e onori?”
D'ira infiammossi, e in cotal guisa il biondo
Menelao gli rispose: “O di Boète
Figliuolo, Eteonèo, tu non sentivi
Già dello scemo negli andati tempi,
E or sembri a me bamboleggiar co' detti.
Non ti sovvien quante ospitali mense
Spogliammo di vivande, anzi che posa
Qui trovassimo al fin, se pur vuol Giove
Privilegiar dopo cotante pene
La nostra ultima età? Sciogli i cavalli,
E al mio convito i forestier conduci”.
Ratto fuor della stanza Eteonèo
Lanciossi; e tutti a sé gli altri chiamava
Fidi conservi. Distaccaro i forti
Di sotto il giogo corridor sudanti,
E al presepe gli avvinsero, spargendo
Vena soave di bianc'orzo mista,
E alla parete lucida il vergato
Cocchio appoggiâro. Indi per l'ampie stanze
Guidaro i novelli ospiti, che in giro
D'inusitata maraviglia carche
Le pupille movean: però che grande
Gettava luce, qual di Sole o Luna,
Del glorïoso Menelao la reggia.
Del piacer sazî, che per gli occhi entrava,
Nelle terse calâr tepide conche;
E come fur dalle pudiche ancelle
Lavati, di biond'olio unti e di molli
Tuniche cinti e di vellosi manti,
Si collocaro appo l'Atride. Quivi
Solerte ancella da bell'auro vaso
Nell'argenteo bacile un'onda pura
Versava, e stendea loro un liscio desco,
Su cui la saggia dispensiera i pani
Venne ad impor bianchissimi, e di pronte
Dapi serbate generosa copia;
E d'ogni sorta carni in larghi piatti
Recò l'abile scalco, e tazze d'oro.
Il re, stringendo ad ambidue la mano:
“Pasteggiate”, lor disse, “ed alla gioia
Schiudete il cor: poscia, chi siete, udremo.
De' vostri padri non s'estinse il nome,
E da scettrati re voi discendete.
Piante cotali di radice vile,
Sia loco al vero, germogliar non ponno”.
Detto così, l'abbrustolato tergo
Di pingue bue, che ad onor grande innanzi
Messo gli avean, d'in su la mensa tolse,
E innanzi il mise agli ospiti, che pronte
Steser le mani all'imbandita fera.
Ma de' cibi il desir pago e de' vini,
Telemaco, piegando in vêr l'amico,
Sì che altri udirlo non potesse, il capo,
Tale a lui favellò: “Mira, o diletto
Dell'alma mia, figlio di Nestor, come
Di rame, argento, avorio, elettro ed oro
L'echeggiante magion risplende intorno!
Sì fatta, io credo, è dell'Olimpio Giove
L'aula di dentro. Oh gl'infiniti oggetti!
Io maraviglio più, quanto più guardo”.
L'intese il re di Sparta, e ad ambo disse:
“Figliuoli miei, chi gareggiar mai puote
De' mortali con Giove? Il suo palagio,
Ciò ch'ei dentro vi serba, eterno è tutto.
Quanto all'umana stirpe, altri mi vinca
Di beni, o ceda; io so che, molti affanni
Durati e molto navigato mare,
Queste ricchezze l'ottavo anno addussi.
Cipro, vagando, e la Fenicia io vidi,
E ai Sidonî, agli Egizî e agli Etïòpi
Giunsi, e agli Erembi, e in Libia, ove le agnelle
Figlian tre volte nel girar d'un anno,
E spuntan ratto a gli agnellin le corna;
Né signore o pastor giammai difetto
Di carne pate, o di rappreso latte,
Ridondando di latte ognora i vasi.
Mentr'io vagava qua e là, tesori
Raccogliendo, il fratello altri m'uccise
Di furto, all'improvvista, e per inganno
Della consorte maladetta: quindi
Non lieto io vivo a questi beni in grembo.
Voi, quai sieno, ed ovunque, i padri vostri,
Tanto dalla lor bocca udir doveste.
Che non soffersi? Ruinai dal fondo
Casa di ricchi arredi e d'agi colma;
Onde piacesse ai dèi che sol rimasta
Mi fosse in man delle tre parti l'una,
E spirasser le vive aure que' prodi
Che, lungi dalla verde Argo ferace,
Ne' lati campi d'Ilïòn perîro!
Tutti io li piango, e li sospiro tutti,
Standomi spesso ne' miei tetti assiso,
E or mi pasco di cure, or nuovamente
Piglio conforto; che non puote a lungo
Viver l'uom di tristezza, e al fin molesto
Torna quel pianto che fu in pria sì dolce.
Pure io di tutti in un così non m'ango,
E m'ango assai, come d'un sol che ingrato
Mi rende, ove a lui penso, il cibo e il sonno:
Poiché Greco nessuno in tutta l'oste
O il bene oprando, o sostenendo il male,
Pareggiò Ulisse. Ma dispose il fato
Ch'ei tormentasse d'ogni tempo, e ch'io
Mesti per sua cagion traessi i giorni,
Io, che nol veggio da tanti anni, e ignoro
Se viva, o morto giaccia. Il piange intanto
Laerte d'età pieno, e la prudente
Penelope e Telemaco, che il padre
Lasciò lattante ne' suoi dolci alberghi”.
Disse; e di pianto subitana voglia
Risvegliossi in Telemaco, che a terra
Mandò lagrime giù dalle palpèbre,
Del padre udendo, ed il purpureo manto
Con le mani s'alzò dinanzi al volto.
Menelao ben comprese; e se a lui stesso
Lasciar nomare il padre, o interrogarlo
Dovesse pria, né serbar nulla in petto,
Sì e no tenzonavangli nel capo.
Mentre cosi fra due stava l'Atride,
Elena dall'eccelsa e profumata
Sua stanza venne con le fide ancelle,
Che Diana parea dall'arco d'oro.
Bel seggio Adrasta avvicinolle, Alcippe
Tappeto in man di molle lana, e Filo
Panier recava di forbito argento,
Don già d'Alcandra, della moglie illustre
Del fortunato Pòlibo, che i giorni
Nella ricca menava Egizia Tebe.
A Menelao due conche argentee, due
Trìpodi e dieci aurei talenti ei diede.
Ma la consorte ornar d'eletti doni
Elena volle a parte: una leggiadra
Conocchia d'ôr le porse, ed il paniere
Ritondo sotto, e di forbito argento,
Se non quanto le labbra oro guernìa.
Questo ricolmo di sudato stame
L'ancella Filo le recava, e sopra
Vi riposava la conocchia, a cui
Fini si ravvolgean purpurei velli.
Ella raccolta nel suo seggio, e posti
Sul polito sgabello i molli piedi,
Con questi accenti a Menelao si volse:
“Sappiam noi, Menelao di Giove alunno,
Chi siano i due che ai nostri tetti entraro?
Parlar m'è forza, il vero o il falso io dica:
Però ch'io mai non vidi, e grande tiemmi
Nel veder maraviglia, uomo né donna
Così altrui somigliar, come d'Ulisse
somigliar dee questo garzone al figlio,
Ch'era bambino ancor, quando per colpa
Ahi! di me svergognata, o Greci, a Troia
Giste, accendendo una sì orrenda guerra”.
Tosto l'Atride dalla bionda chioma:
“Ciò che a te, donna, a me pur sembra. Quelle
Son d'Ulisse le mani, i piè son quelli,
E il lanciar degli sguardi, e il capo e il crine.
Io, l'Itacese rammentando, i molti
Dicea disagi ch'ei per me sostenne;
E il giovane piovea lagrime amare
Giù per le guance, e col purpureo manto,
Che alzò ad ambe le man, gli occhi celava”.
E Pisistrato allor: “Nato d'Atrèo,
Di Giove alunno, condottier d'armati,
Eccoti appunto di quel grande il figlio.
Ma verecondo per natura, e giunto
Novellamente, gli parrebbe indegno
Te delle voci tue fermar nel corso,
Te, di cui, qual d'un dio, ci beano i detti.
Nestore, il vecchio genitor, compagno
Mi fece a lui, che rimirarti in faccia
Bramava forte, onde poter dell'opra
Giovarsi, o almen del tuo consiglio. Tutti
Que' guai che un figliuol soffre, a cui lontano
Dimora il padre, né d'altronde giunge
Sussidio alcun, Telemaco li prova.
Il genitor gli falla, e non gli resta
Chi dal suo fianco la sciagura scacci”.
“Numi!” riprese il re dai biondi crini,
“Tra le mie stesse mura il figlio adunque
D'uomo io veggio amicissimo, che sempre
Per me s'espose ad ogni rischio? Ulisse
Ricettare io pensava entro i miei regni,
Io carezzarlo sovra tutti i Greci,
Se ad ambo ritornar su i cavi legni
L'Olimpio dava onniveggente Giove.
Una io cedere a lui delle vicine
Volea cittade Argive, ov'io comando,
E lui chiamar, che dai nativi sassi
D'Itaca in quella mia, ch'io prima avrei
D'uomini vôta e di novelli ornata
Muri e palagi, ad abitar venisse
Col figlio, le sostanze e il popol tutto.
Così, vivendo sotto un cielo, e spesso
L'un l'altro visitando, avremmo i dolci
Frutti raccolti d'amistà sì fida,
Né l'un dall'altro si sarìa disgiunto
Che steso non si fosse il negro velo
Di morte sovra noi. Ma un tanto bene
Giove c'invidïò, cui del ritorno
Piacque fraudar quell'infelice solo”.
Sorse in ciascuno a tai parole un vivo
Di lagrime desïo. Piangea la figlia
Di Giove, l'Argiva Elena, piangea
D'Ulisse il figlio ed il secondo Atride,
Né asciutte avea Pisistrato le guance,
Che il fratello incolpabile, cui morte
Diè dell'Aurora la famosa prole,
Tra sé membrava, e che tai detti sciolse:
“Atride, il vecchio Nestore mio padre
Te di prudenza singolar lodava,
Sempre che in mezzo al ragionare alterno
Il tuo nome venìa. Fa', se di tanto
Pregarti io posso, oggi a mio senno. Poco
Me dilettan le lagrime tra i nappi.
Ma del mattin la figlia il nuovo giorno
Ricondurrà; né mi fia grave allora
Pianger chïunque al suo destin soggiacque;
Ché solo un tale onore agl'infelici
Defunti avanza, che altri il crin si tronchi,
E alle lagrime giuste allarghi il freno.
Anco a me tolse la rea Parca un frate,
Che l'ultimo non fu dell'oste Greca.
Tu il sai, che il conoscesti. Io né vederlo
Potei, né a lui parlar: ma udii che Antiloco
Su tutti si mostrò gli emuli suoi
Veloce al corso, e di sua man gagliardo.
E Menelao dai capei biondi: Amico,
L'uom più assennato e in più matura etade,
Che non è questa tua, né pensamenti
Diversi avrìa, né detti; e ben si pare
Agli uni e agli altri da chi tu nascesti.
Ratto la prole d'un eroe si scorge,
Cui del natale al giorno, e delle nozze
Destinò Giove un fortunato corso,
Come al Nelìde, che invecchiare ottenne
Nel suo palagio mollemente, e saggi
Figli mirar, non che dell'asta dotti.
Dunque, sbandito dalle ciglia il pianto,
Si ripensi alla cena, e un'altra volta
La pura su le mani onda si sparga.
Sermoni alterni anche al novello sole
Fra Telemaco e me correr potranno”.
Disse; ed Asfalïone, un servo attento,
Spargea su le man l'onda, e i convitati
Nuovamente cibavansi. Ma in altro
Pensiero allora Elena entrò. Nel dolce
Vino, di cui bevean, farmaco infuse
Contrario al pianto e all'ira, e che l'obblìo
Seco inducea d'ogni travaglio e cura.
Chïunque misto col vermiglio umore
Nel seno il ricevé, tutto quel giorno
Lagrime non gli scorrono dal volto,
Non, se la madre o il genitor perduto,
Non, se visto con gli occhi a sé davante
Figlio avesse o fratel di spada ucciso.
Cotai la figlia dell'Olimpio Giove
Farmachi insigni possedea, che in dono
Ebbe da Polidamna, dalla moglie
Di Tone nell'Egitto, ove possenti
Succhi diversi la feconda terra
Produce, quai salubri e quai mortali;
Ed ove, più che i medicanti altrove,
Tutti san del guarir l'arte divina,
Siccome gente da Peòn discesa.
Il nepente già infuso, e a' servi imposto
Versar dall'urne nelle tazze il vino,
Ella così parlò: “Figlio d'Atrèo,
E voi, d'eroi progenie, i beni e i mali
Manda dall'alto alternamente a ognuno
L'onnipossente Giove. Or pasteggiate
Nella magione assisi, e de' sermoni
Piacer prendete in pasteggiando, mentre
Cose io racconto, che saranno a tempo.
Non già ch'io tutte le fatiche illustri
Ricordar sol del pazïente Ulisse
Possa, non che narrarle: una io ne scelgo,
Che a Troia, onde gran duol venne agli Argivi,
L'uom forte imprese e a fin condusse. Il corpo
Di sconce piaghe afflisse, in rozzi panni
S'avvolse, e penetrò nella nemica
Cittade, occulto e di mendìco e schiavo
Le sembianze portando, ei che de' Greci
Sì diverso apparìa lungo le navi.
Tal si gittò nella Troiana terra,
Né conoscealo alcuno. Io fui la sola
Che il ravvisai sotto l'estranie forme,
E tentando l'andava; ed ei pur sempre
Da me schermìasi con l'usato ingegno.
Ma come asperso d'onda, unto d'oliva
L'ebbi, e di veste cinto, ed affidato
Con giuramento, che ai Troiani primo
Non manifesterei, che alle veloci
Navi non fosse, ed alle tende giunto,
Tutta ei m'aperse degli Achei la mente.
Quindi, passati con acuta spada
Molti petti nemici, all'oste Argiva
Col vanto si rendé d'alta scaltrezza.
Stridi mettean le donne Iliache ed urli:
Ma io gioìa tra me; ché gli occhi a Sparta
Già rivolgeansi e il core, e da me il fallo
Si piagneva, in cui Venere mi spinse,
Quando staccommi dalla mia contrada,
Dalla dolce figliuola, e dal pudìco
Talamo e da un consorte, a cui, saggezza
Si domandi o beltà, nulla mancava.
“Tutto”, l'Atride dalla cròcea chioma,
“Dicesti, o donna, giustamente. Io terra
Molta trascorsi, e penetrai col guardo
Di molti eroi nel sen: ma pari a quella
Del pazïente Ulisse alma io non vidi.
Quel che oprò, basti, e che sostenne in grembo
Del cavallo intagliato, ove sedea,
Strage portando ad Ilio, il fior de' Greci.
Sospinta, io credo, da un avverso nume,
Cui la gloria de' Teucri a core stava,
Là tu giungesti, e uguale a un dio nel volto
Su l'orme tue Deïfobo venìa.
Ben tre fiate al cavo agguato intorno
T'aggirasti; e il palpavi, e a nome i primi
Chiamavi degli Achei, contraffacendo
Delle lor donne le diverse voci.
Nel mezzo assisi io, Diomede e Ulisse
Chiamar ci udimmo; e il buon Tidìde ed io
Ci alzammo, e di scoppiar fuor del cavallo,
O dar risposta dal profondo ventre,
Ambo presti eravam: ma nol permise,
E, benché ardenti, ci contenne Ulisse.
Taceasi ogni altro, fuorché il solo Anticlo,
Che risponder voleati, e Ulisse tosto
La bocca gli calcò con le robuste
Mani inchiodate, né cessò, che altrove
Te rimenato non avesse Palla.
Sì di tutta la Grecia ei fu salute”.
“E ciò la doglia, o Menelao, m'accresce”,
Ripigliava il garzone. “A che gli valse
Tanta virtù se non potea da morte
Difenderlo, non che altro, un cor di ferro?
Ma deh! piacciavi omai che ritroviamo
Dove posarci, acciò su noi del sonno
La dolcezza ineffabile discenda”.
Sì disse; e l'Argiva Elena all'ancelle
I letti apparecchiar sotto la loggia,
Belle gittarvi porporine coltri,
E tappeti distendervi, e ai tappeti
Manti vellosi sovrapporre, ingiunse.
Quelle, tenendo in man lucide faci,
Usciro, e i letti apparecchiaro: innanzi
Movea l'araldo, e gli ospiti guidava.
Così nell'atrio s'adagiaro entrambi:
Nel più interno corcavasi l'Atride,
E la divina tra le donne Elèna
Il sinuoso peplo, ond'era cinta,
Depose, e giacque del consorte a lato.
Ma come del mattin la bella figlia
Rabbellì il ciel con le rosate dita,
Menelao sorse, rivestissi, appese
Per lo pendaglio all'omero la spada,
E i bei calzar sotto i piè molli avvinse:
Poi, somigliante nell'aspetto a un nume,
Lasciò la stanza rapido, e s'assise
Di Telemaco al fianco; e: “Qual”, gli disse,
“Cagione a Sparta, su l'immenso tergo
Del negro mar, Telemaco, t'addusse?
Pubblico affare, o tuo? Schietto favella”.
E in risposta il garzon: “Nato d'Atrèo,
Per risaper del genitore io venni.
In dileguo ne van tutti i miei beni,
Colpa una gente nequitosa e audace,
Che gli armenti divorami e le gregge,
E ingombra sempre il mio palagio, e anela
Della madre alle nozze. Io quindi abbraccio
Le tue ginocchia, e da te udir m'aspetto,
O visto, o su le labbra inteso l'abbi
D'un qualche vïandante, il triste fine
Del padre mio, che sventurato assai
Della sua genitrice uscì dal grembo.
Né timore o pietà così t'assalga,
Che del ver parte ti rimanga in core.
Venne mai dal mio padre in opra o in detto,
Bene o comodo a te, là ne' Troiani
Campi del sangue della Grecia tinti?
Ecco di rimembrarlo, Atride, il tempo”.
Trasse il Monarca, dai capei di croco,
Un profondo sospiro, e: “Ohimè”, rispose,
“Volean d'un eroe dunque uomini imbelli
Giacer nel letto? Qual se incauta cerva
I cerbiatti suoi teneri e lattanti
Deposti in tana di leon feroce,
Cerca, pascendo, i gioghi erti e l'erbose
Valli profonde; e quel feroce intanto
Riede alla sua caverna, e morte ai figli
Porta, e alla madre ancor: non altrimenti
Porterà morte ai concorrenti Ulisse.
E oh piacesse a Giove, a Febo e a Palla,
Che qual si levò un dì contra il superbo
Filomelìde nella forte Lesbo,
E tra le lodi degli Achivi a terra
Con mano invitta, lotteggiando, il pose,
Tal costoro affrontasse! Amare nozze
Foran le loro, e la lor vita un punto.
Quanto a ciò che mi chiedi, io tutte intendo
Schiettamente narrarti, e senza inganno,
Le arcane cose ch'io da Proteo appresi,
Dal marino vecchion, che mai non mente.
Me, che alla patria ritornar bramava,
Presso l'Egitto ritenean gli dèi,
Perché onorati io non gli avea di sacre
Ecatombi legittime; ché sempre
L'oblio de' lor precetti i numi offese.
Giace contra l'Egitto e all'onde in mezzo
Un'isoletta che s'appella Faro,
Tanto lontana, quanto correr puote,
Per un intero dì concavo legno,
Cui stridulo da poppa il vento spiri.
Porto acconcio vi s'apre, onde il nocchiero,
Poscia che l'acqua non salata attinse,
Facilmente nel mar vara la nave.
Là venti dì mi ritenean gli dèi:
Né delle navi i condottieri amici
Comparver mai su per l'azzurro piano,
Le immobili acque ad increspar col fiato.
E già con le vivande anco gli spirti
Per fermo ci fallìan, se una dea, fatta
Di me pietosa, non m'aprìa lo scampo.
Idotèa, del marin vecchio la figlia,
Cui fieramente in sen l'alma io commossi,
Occorse a me, che solitario errava,
Mentre i compagni dalla fame stretti
Giravan l'isoletta, ed i ricurvi
Ami gettavan qua e là nell'onde.
"Forestier", disse, come fu vicina,
"Sei tu del senno e del giudicio in bando,
O degli affanni tuoi prendi diletto,
Che così, a un ozio volontario in preda,
Nell'isola t'indugi, e via non trovi
D'uscirne mai? Langue frattanto il core
De' tuoi compagni, e si consuma indarno".
"O qual tu sii delle immortali Dive,
Credi", io le rispondea, "che da me venga
Così lungo indugiar? Vien dai beati,
Del vasto cielo abitatori eterni,
Ch'io temo aver non leggiermente offesi.
Deh, poiché nulla si nasconde ai numi,
Dimmi, qual è di lor che qui m'arresta,
E il mar pescoso mi rinserra intorno".
E repente la dea: "Forestier, nulla
Celarti io ti prometto. Il non bugiardo
Soggiorna in queste parti Egizio veglio,
L'immortal PrOteo, mio creduto padre,
Che i fondi tutti del gran mar conosce,
E obbedisce a Nettuno. Ei del vIaggio
Ti mostrerà le strade, e del ritorno,
Dove, stando in agguato, insignorirti
Di lui tu possa. E quello ancor, se il brami,
Saprai da lui, che di felice o avverso
Nella casa t'entrò, finché lontano
Per vie ne andavi perigliose e lunghe".
"Ma tu gli agguati", io replicai, "m'insegna,
Ond'io così improvviso a Proteo arrivi,
Ch'ei non mi sfugga dalle mani. Un nume
Difficilmente da un mortal si doma".
"Questo avrai pur da me", la dea riprese.
Come salito a mezzo cielo è il sole,
S'alza il vecchio divin dal cupo fondo,
E uscito dalla bruna onda, che il vento
Occidentale increspagli sul capo,
S'adagia entro i suoi cavi antri, e s'addorme
E spesse a lui dormon le foche intorno,
Deforme razza di Alosidna bella,
Già pria dell'onda uscite, e il grave odore
Lunge spiranti del profondo mare.
Io te là guiderò, te acconciamente
Collocherò, ratto che il dì s'inalbi:
Ma di quanti compagni appo la nave
Ti sono, eleggi i tre che più tu lodi.
Ecco le usanze del vegliardo, e l'arti:
Pria noverar le foche a cinque a cinque,
Visitandole tutte; indi nel mezzo
Corcarsi anch'ei, quasi pastor tra il gregge.
Vistogli appena nelle ciglia il sonno,
Ricordatevi allor sol della forza,
E lui, che molto si dibatte e tenta
Guizzarvi delle man, fermo tenete.
Ei d'ogni belva che la terra pasce,
Vestirà le sembianze, e in acqua e in foco
Si cangerà di portentoso ardore;
E voi gli fate delle braccia nodi
Sempre più indissolubili e tenaci.
Ma quando interrogarti al fin l'udrai,
Tal mostrandosi a te, quale sdraiossi,
Tu cessa, o prode, dalla forza, e il vecchio
Sciogli, e sappi da lui chi è tra i numi,
Che ti contende la natìa contrada".
Disse, e nelle fiottanti onde s'immerse.
Io, combattuto da pensier diversi,
Colà n'andai, dove giacean del mare
Su la sabbia le navi, a cui da presso
La cena in fretta s'apprestò. Sorvenne
La prezïosa notte, e noi sul lido
Ci addormentammo al mormorìo dell'acque.
Ma poiché del mattin la bella figlia
Consperse il ciel d'orïentali rose,
Lungo il lido io movea, molto ai celesti
Pregando, e i tre, nel cui valor per tutte
Le men facili imprese io più fidava,
Conducea meco. La deessa intanto
Dal seno ampio del mare, in ch'era entrata,
Quattro pelli recò, del corpo tratte
Novellamente di altrettante foche;
E tramava con esse inganno al padre.
Scavò quattro covili entro l'arena:
Quindi s'assise e ci attendea. Noi presso
Ci femmo a lei, che subito levossi,
E noi dispose ne' scavati letti,
E i cuoi recenti ne addossò. Moleste
Le insidie ivi tornavano; ché troppo
Noiava delle foche in mar nutrite
L'orrendo puzzo. E chi a marina belva
Può giacersi vicin? Se non che al nostro
Stato provvide la cortese diva,
Che ambrosia, onde spirava alma fragranza,
Venneci a por sotto le afflitte nari,
Cui del mar più non giunse il grave odore.
Tutto il mattino aspettavam con alma
Forte e costante. Le deformi foche
Dell'onde usciro in frotta, e a mano a mano
Tutte si distendevano sul lido.
Uscìo sul mezzogiorno il gran vegliardo
E trovò foche corpulente e grasse,
Che attento annoverò. Contò noi prima,
Né di frode parea nutrir sospetto.
Ciò fatto, ei pur nella sua grotta giacque.
Ci avventammo con grida, e le robuste
Braccia al vecchio divin gittammo intorno,
Che l'arti sue non obliò in quel punto.
Leone apparve di gran giubba, e in drago
Voltossi, ed in pantera, e in verro enorme,
E corse in onda liquida, e in sublime
Pianta chiomata verdeggiò. Ma noi
Il tenevam fermo più sempre. Allora
L'astuto veglio, che nel petto stanco
Troppo sentiasi omai stringer lo spirto,
Con queste voci interrogommi: "Atride,
Qual fu de' numi che d'insidiarmi
Ti diè il consiglio, e di pigliarmi a forza?
Di che mestieri hai tu? "Proteo", io risposi,
"Tu il sai. Perché il dimandi, e ancor t'infingi?
Sai che gran tempo l'isoletta tiemmi,
Che scampo quinci io non ritrovo, e sento
Distruggermisi il core. Ah! dimmi, quando
Nulla celasi ai dèi, chi degli Eterni
M'inceppa e mi rinchiude il mare intorno".
"Non dovevi salpar", riprese il dio,
"Che onorato pria Giove e gli altri numi
Di sagrifici non avessi opimi,
Se in breve al natìo suol giungere ardevi.
Or la tua patria, degli amici il volto,
E la magion ben fabbricata il fato
Riveder non ti dà, dove tu prima
Del fiume Egitto, che da Giove scende,
Non risaluti la corrente, e porgi
Ecatombe perfette ai dii beati,
Che il bramato da te mar t'apriranno".
A tai parole mi s'infranse il core,
Udendo che d'Egitto in su le rive
Ricondurmi io dovea per gli atri flutti,
Lunga e difficil via. Pur dissi: "Vecchio,
Ciò tutto io compierò. Ma or rispondi,
Ti priego, a questo, e schiettamente parla:
Salvi tornaro co' veloci legni
Tutti gli Achivi che lasciammo addietro,
Partendo d'Ilïòn, Nestore ed io?
O perì alcun d'inopinata morte
Nella sua nave, o ai cari amici in grembo,
Posate l'armi, per cui Troia cadde?"
"Atride", ei replicò, perché tal cosa
Mi cerchi tu? Quel ch'io nell'alma chiudo,
Saper non fa per te, cui senza pianto,
Tosto che a te palese il tutto fia,
Non rimarrà lunga stagione il ciglio.
Molti colpì l'inesorabil Parca,
E molti non toccò. Due soli duci
De' vestiti di rame Achei guerrieri
Moriro nel ritorno; e, ritenuto
Del vasto mar nel seno, un terzo vive;
Aiace ai legni suoi dai lunghi remi
Perì vicino. Dilivrato in prima
Dall'onde grosse, e su gli enormi assiso
Girèi macigni, a cui Nettun lo spinse,
Potea scampar, benché a Minerva in ira,
Se non gli uscìa di bocca un orgoglioso
Motto che assai gli nocque. Osò vantarsi
Che, in dispetto agli déi, vincer del mare
Le tempeste varrìa. Nettuno udillo
Borïante in tal guisa, e col tridente,
Che in man di botto si piantò, percosse
La Girèa pietra, e in due spezzolla: l'una
Colà restava, e l'altra, ove sedea
Della percossa travagliato il Duce,
Si rovesciò nel pelago, e il portava
Pel burrascoso mare, in cui, bevuta
Molta salsa onda, egli perdeo la vita.
Il tuo fratello, col favor di Giuno,
Morte sfuggì nella cavata nave.
Ma come avvicinossi all'arduo capo
Della Malèa, fiera tempesta il colse,
E tra profondi gemiti portollo
Sino al confin della campagna, dove
Tieste un giorno, e allora Egisto, il figlio
Di Tieste, abitava. E quinci ancora
Parea sicuro il ritornar; ché i numi
Voltàr subito il vento, e in porto entraro
Gli stanchi legni. Agamennòn di gioia
Colmo gittossi nella patria terra,
E toccò appena la sua dolce terra,
Che a baciarla chinossi, e per la guancia
Molte gli discorrean lagrime calde,
Perché la terra sua con gioia vide.
Ma il discoprì da una scoscesa cima
L'esplorator, che il fraudolento Egisto
Con promessa di due talenti d'oro
Piantato aveavi. Ei, che spïando stava
Dall'eccelsa veletta un anno intero
Non trapassasse ignoto, e forse a guerra
Intalentato il tuo fratello, corse
Con l'annunzio al signor, che un'empia frode
Repente ordì. Venti, e i più forti, elesse:
E in agguato li mise, e imbandir feo
Mensa festiva: indi a invitar con pompa
Di cavalli e di cocchi andò l'Atride,
Cose orrende pensando, e il ricondusse;
E, accolto a mensa, lo scannò qual toro,
Cui scende su la testa, innanzi al pieno
Presepe suo, l'inaspettata scure.
Non visse d'Agamènnone o d'Egisto
Solo un compagno, ma di tutti corse
Confuso e misto nel palagio il sangue".
E a me schiantossi il core a queste voci.
Pianto io versava, su l'arena steso,
Né più mirar del sol volea la luce.
Ma come di plorar, di voltolarmi
Sovra il nudo terren sazio gli parvi,
Tal seguitava il non mendace vecchio:
"Resta, o figlio d'Atrèo, dall'infinite
Lagrime per un mal che omai compenso
Non pate alcuno, e t'argomenta in vece,
Più veloce che puoi, riedere in Argo.
Troverai vivo ne' suoi tetti Egisto,
O l'avrà poco dianzi Oreste ucciso,
E tu al funèbre assisterai banchetto".
Disse, e di gioia un improvviso raggio
Nel mio cor balenava. "Io già d'Aiace",
Risposi, "e del fratello assai compresi.
Chi è quel terzo che il suo reo destino
Vivo nel sen del mare, o estinto forse
Ritiene? Io d'udir temo e bramo a un tempo".
E nuovamente il non bugiardo veglio:
"D'Itaca il re, che di Laerte nacque.
Costui dirotto dalle ciglia il pianto
Spargere io vidi in solitario scoglio,
Soggiorno di Calipso, inclita ninfa,
Che rimandarlo niega: ond'ei, cui solo
Non avanza un naviglio, e non compagni
Che il trasportin del mare su l'ampio dorso.
Star gli convien dalla sua patria in bando.
Ma tu, tu, Menelao, di Giove alunno,
Chiuder gli occhi non dèi nella nutrice
Di cavalli Argo; ché non vuole il fato.
Te nell'Elisio campo, ed ai confini
Manderan della terra i numi eterni,
Là 've risiede Radamanto, e scorre
Senza cura o pensiero all'uom la vita.
Neve non mai, non lungo verno o pioggia
Regna colà; ma di Favonio il dolce
Fiato, che sempre l'Oceàno invia,
Que' fortunati abitator rinfresca.
Perché ad Elena sposo, e a Giove stesso
Genero sei, tal sortirai ventura.
Tacque, e saltò nel mare, e il mar l'ascose.
Io, da vari pensier l'alma turbato,
Movea co' prodi amici in vêr le navi.
La cena s'apprestò. Cadde la notte,
Dell'uom ristoratrice, e noi del mare
Ci addormentammo sul tranquillo lido.
Ma del mattin la figlia ebbe consperso
Di rose orïentali appena il cielo,
Che nel divino mar varammo i legni,
D'uguali sponde armati, e con le vele
Gli alberi alzammo: entrâro, e sovra i banchi
I compagni sedettero, ed assisi
Co' remi percotean l'onde spumose
Del fiume Egitto, che da Giove scende.
Un'altra volta all'abborrita foce
Io fermai le mie navi, e giuste ai numi
Vittime offersi, e ne placai lo sdegno.
Eressi anco al german tomba, che vivo
In quelle parti ne serbasse il nome.
Dopo ciò, rimbarcàimi, e con un vento
Che mi ferìa dirittamente in poppa,
Pervenni, folgorando, ai porti miei.
Or, Telemaco, via, tanto ti piaccia
Rimaner, che l'undecima riluca
Nell'orïente, o la duodecim'alba.
Io ti prometto congedarti allora
Con doni eletti: tre destrieri e un vago
Cocchio, ed inoltre una leggiadra tazza
Da libare ai celesti, acciò non sorga
Giorno che il tuo pensiero a me non torni”.
Il prudente Telemaco rispose:
“Gran tempo qui non ritenermi, Atride.
Non che a me non giovasse un anno intero,
La patria e i miei quasi obblïando, teco
Queste case abitar, ché alla tua voce
L'alma di gioia ricercarmi io sento.
Ma già muoion di tedio i miei compagni
Nell'alta Pilo; e tu m'arresti troppo.
Qualsiasi il don di che mi vuoi far lieto,
Un picciol sia tuo prezïoso arnese.
Ad Itaca i destrieri addur non penso;
Penso lasciarli a te, bello de' tuoi
Regni ornamento: perocché signore
Tu sei d'ampie campagne, ove fiorisce
Loto e cipéro, ove frumenti e spelde,
Ove il bianc'orzo d'ogni parte alligna.
Ma non larghe carriere, e non aperti
Prati in Itaca vedi: è di caprette
Buona nutrice, e a me di ver più grata,
Che se cavalli nobili allevasse.
Nulla del nostro mare isola in verdi
Piani si stende, onde allevar destrieri;
E men dell'altre ancora Itaca mia”.
Sorrise il forte ne' conflitti Atride,
E la mano a Telemaco stringendo:
“Sei”, disse, “o figlio, di buon sangue, e a questa
Tua favella il dimostri. Ebbene, i doni
Ti cambierò: farlo poss'io. Di quanto
La mia reggia contien, ciò darti io voglio,
Che più mi sembra prezïoso e raro:
Grande urna effigïata, argento tutta,
Dai labbri in fuor, sovra cui l'oro splende,
Di Vulcano fattura. Io dall'egregio
Fèdimo, re di Sidone, un dì l'ebbi,
Quando il palagio suo me, che di Troia
Venìa, raccolse; e tu n'andrai con questa.
Così tra lor si ragionava. Intanto
Dell'Atride i ministri al suo palagio
Conducean pingui pecorelle, e vino
Di coraggio dator, mentre le loro
Consorti il capo di bei veli adorne
Candido pan recavano. In tal guisa
Si mettea qui l'alto convivio in punto.
Ma in altra parte, e alla magion davante
Del magnanimo Ulisse, i proci alteri
Dischi lanciavan per diletto, e dardi
Sul pavimento lavorato e terso,
Della baldanza lor solito campo.
Solo i due capi, che di forza e ardire
Tutti vinceano, il pari in volto ai numi
Eurimaco ed Antìnoo, erano assisi.
S'accostò loro, ed al secondo volse
Di Fronio il figlio, Noemòn, tai detti:
“Antinoo, il dì lice saper, che rieda
Telemaco da Pilo? Ei dipartissi,
Con la mia nave che or verrìami ad uopo,
Per tragittar nell'Elide, ove sei
Pasconmi e sei cavalle, ed altrettanti
Muli non domi, che lor dietro vanno,
E di cui, razza faticante, alcuno
Rimenar bramo e accostumarlo al giogo”.
Stupìano i prenci che ne' suoi poderi
De' montoni al custode, o a quel de' verri
Trapassato il credeano, e non al saggio
Figliuol di Neleo nell'eccelsa Pilo.
“Quando si dipartì?” rispose il figlio
D'Eupìte, Antinoo. “E chi seguillo? Scelti
Giovani forse d'Itaca, o gli stessi
Suoi mercenari e schiavi? E osava tanto?
Schietto favella. Saper voglio ancora,
Se a mal cuor ti lasciasti il legno tôrre,
O a lui, che tel chiedea, di grado il desti”.
“Il diedi a lui, che mel chiedea, di grado”,
Noemón ripigliò. “Chi potea mai
Con sì nobil garzone e sì infelice
Stare in sul niego? Gioventù seguillo
Della miglior tra il popolo Itacese,
E condottier salìa la negra nave
Mentore, o un dio che ne vestìa l'aspetto.
E maraviglio io ben ch'ieri sull'alba
Mentore io scôrsi. Or come allor la negra
Nave salì, che veleggiava a Pilo?”
Disse, e del padre alla magion si rese.
Atterriti rimasero. Cessâro
Gli altri da' giuochi, e s'adagiaro anch'essi,
E a tutti favellò d'Eupìte il figlio:
[Se gli gonfiava della furia il core
Di caligine cinto, e le pupille
Nella fronte gli ardean come due fiamme.]
“Grande per fermo e audace impresa è questo,
Cui già nessun di noi fede prestava,
Vïaggio di Telemaco! Un garzone,
Un fanciullo gittar nave nel mare,
Di tanti uomini ad onta, e aprire al vento
Con la più scelta gioventù le vele?
Né il male qui s'arresta: ma Giove
A Telemaco pria franga ogni possa,
Che una tal piaga dilatarsi io veggia.
Su, via, rapida nave e venti remi
A me, sì ch'io lo apposti, e al suo ritorno
Nel golfo, che divide Itaca e Same,
Colgalo; e il folle con suo danno impari
L'onde a stancar del genitore in traccia”.
Così Antinoo parlò. Lodi e conforti
Gli davan tutti: indi sorgeano, e il piede
Nell'alte stanze riponean d'Ulisse.
Ma de' consigli che nutrìano in mente,
Penelope non fu gran tempo ignara.
Ne la feo dotta il banditor Medonte,
Che udìa di fuori la consulta iniqua,
E agli orecchi di lei pronto recolla.
Ella nol vide oltrepassar la soglia,
Che sì gli disse: “Araldo, onde tal fretta?
Ed a che i proci ti mandâro? Forse
Perché d'Ulisse le solerti ancelle
Dai lavori si levino, e l'usato
Convito apprestin loro? O fosse questo
De' conviti l'estremo, e a me travaglio
Più non desser, né altrui! Tristi! che, tutto
Del prudente Telemaco il retaggio
Per disertar, vi radunate in folla.
E non udiste voi da' vostri padri,
Mentr'eravate piccioletti e imberbi,
I modi che tenea con loro Ulisse,
Nessuno in opre molestando, o in detti,
Costume pur degli uomini scettrati,
Che odio portano agli uni, e agli altri amore?
Non offese alcun mai: quindi l'indegno
Vostro adoprar meglio si pare, e il merto
Che di tanti favor voi gli rendete”.
Ed il saggio Medonte: “Ai dèi piacesse
Che questo il peggior mal, reina, fosse!
Altro dai proci se ne cova in petto
Più grave assai, che Giove sperda: il caro
Figlio, che a Pilo sacra, e alla divina
Sparta si volse, per ritrar del padre,
Ucciderti di spada al suo ritorno”.
Penelope infelice, a tali accenti
Scioglier sentissi le ginocchia e il core.
Per lungo spazio la voce mancolle,
Gli occhi di pianto le s'empièr, distinta
Non poteale dai labbri uscir parola:
Rispose al fine: “Araldo, e perché il figlio
Da me staccossi? Qual cagion, qual forza
Sospingealo a salir le ratte navi,
Che destrieri del mar sono, e l'immensa
Varcano umidità? Brama egli dunque
Che né resti di sé nel mondo il nome?”
“Qual de' due spinto”, il banditor riprese,
“L'abbia sul mare, a domandar del padre,
Se la propria sua voglia, o un qualche nume,
Reina, ignoro”. E sovra l'orme sue
Ritornò, così detto, il fido araldo.
Fiera del petto roditrice doglia
Penelope ingombrò; né, perché molti
Fossero i seggi, le bastava il core
Di posare in alcun; sedea sul nudo
Limitar della stanza, acuti lai
Mettendo; e quante la servìano ancelle,
Sì da canuta età, come di bionda,
Ululavano a lei d'intorno tutte.
Ed ella, forte lagrimando: “Amiche,
Uditemi”, dicea. “Tra quante donne
Nacquero e crebber meco, ambasce tali
Chi giammai tollerò? Prima un egregio
Sposo io perdei, d'invitto cor, fregiato
D'ogni virtù tra i Greci, ed il cui nome
Per l'Ellada risuona, e tutta l' Argo.
Poi le tempeste m'involaro il dolce
Mio parto, in fama non ancor salito,
E del vïaggio suo nulla io conobbi.
Sciaurate! eravi pur l'istante noto,
Ch'ei nella cava entrò rapida nave:
Né di voi fu, cui suggerisse il core
Di scuotermi dal sonno? Ov'io la fuga
Potuto avessi presentirne, certo
Da me, benché a fatica, ei non partìa,
O me lasciava nel palagio estinta.
Ma dei serventi alcun tosto mi chiami
L'antico Dolio, schiavo mio, che dato
Fummi dal genitor, quand'io qua venni,
Ed or le piante del giardin m'ha in cura.
Vo' che a Laerte corra, e il tutto narri,
Sedendosi appo lui, se mai Laerte,
Di pianto aspersa la senil sua guancia,
Mostrar credesse al popolo, e lagnarsi
Di color che schiantar l'unico ramo
Di lui vorrìano, e del divino Ulisse”.
E la diletta qui balia Euriclèa:
“Sposa cara”, rispose, “o tu m'uccida,
O nelle stanze tue viva mi serbi,
Parlerò aperto. Il tutto io seppi, e al figlio
Le candide farine e il rosso vino
Consegnai: ma giurar col giuramento
Più sacro io gli dovei, che ove agli orecchi
Non ti giugnesse della sua partenza
Aura d'altronde, e tu men richiedessi,
Io tacerei, finché spuntasse in cielo
La dodicesim'aurora, onde col pianto
Da te non s'oltraggiasse il tuo bel corpo.
Su via, ti bagna, e bianca veste prendi,
E, con le ancelle tue nell'alto ascesa,
Priega Minerva che il figliuol ti guardi:
Né affligger più con imbasciate il veglio
Già per sé afflitto assai. No, tanto ai numi
Non è d'Arcesio la progenie in ira,
Che un germe viver non ne debba, a cui
Queste muraglie sorgano, e i remoti
Si ricuopran di messe allegri campi”.
Con queste voci le sopì nel petto
La doglia, e il pianto le arrestò sul ciglio
Ella bagnossi, bianca veste prese,
E, con le ancelle sue, nell'alto ascesa,
Pose il sacr'orzo nel canestro e il sale,
E a Palla supplicò. “M'ascolta”, disse,
“O dell'Egìoco Giove inclita figlia.
Se il mio consorte ne' paterni tetti
Pingui d'agna o di bue cosce mai t'arse,
Oggi per me ten risovvenga: il figlio
Guardami, e sgombra dal palagio i proci,
Di cui, più ciascun dì monta l'orgoglio”.
Scoppiò in un grido dopo tai parole,
E l'Atenèa Minerva il priego accolse.
Tumulto fean sotto le oscure volte
Coloro intanto, e alcun dicea: “La molto
Vagheggiata Reina omai le nozze
Ci appresta, e ignora che al suo figlio morte
S'apparecchia da noi”. Tanto dal vero
Quelle superbe menti ivan lontane.
Ed Antinoo: “Sciaurati, il dire incauto,
Che potrìa dentro penetrar, frenate.
Ma che più badiam noi? Tacitamente
Quel che tutti approvar mettiamo in opra.
Ciò detto, venti scelse uomini egregi,
Ed al mare avvïossi. Il negro legno
Varâro, alzaro l'albero, assettaro
Gli abili remi in volgitoi di cuoio,
E le candide vele ai venti apriro.
Poi, recate arme dagli arditi servi,
Nell'alta onda fermâr la negra nave.
Quivi cenaro; e stavansi aspettando
Che più crescesse della notte il buio.
Ma la grama Penelope nell'alto
Giacea digiuna, non gustando cibo,
Bevanda non gustando; e a lei nel petto
Sul destin dubbio di sì cara prole
Fra la speme e il timor l'alma ondeggiava.
Qual de' lattanti leoncin la madre,
Cui fan corona insidïosa intorno
I cacciatori, che a temere impara,
E in diversi pensier l'alma divide:
Tal fra sè rivolvea cose diverse,
Finché la invase un dolce sonno. Stesa
Sul letto, e tutte le giunture sciolta,
La donna inconsolabile dormìa.
Allor la dea dall'azzurrino sguardo
Nuova cosa pensò. Compose un lieve
Fantasma, che sembrava in tutto Iftima,
D'Icario un'altra figlia, a cui legato
S'era con nodi maritali Eumelo,
Che in Fere di Tessaglia avea soggiorno.
Questa Iftima invïò d'Ulisse al tetto,
Che alla Reina tranquillasse il core,
E i sospiri da lei bandisse e il pianto.
Pel varco angusto del fedel serrame
Entrò il fantasma, e, standole sul capo:
“Riposi tu, Penelope”, dicea,
“Nel tuo cordoglio? Gl'immortali dèi
Lagrimosa non voglionti, nè trista.
Riederà il figliuol tuo, perché de' numi
L'ira col suo fallir mai non incorse”.
E la Reina, che dormìa de' sogni
Soavissimamente in su le porte:
“Sorella, a che venistu? io mai da prima
Non ti vedea, così da lunge alberghi;
E or vuoi ch'io vinca quel martìr che in cento
Guise mi stringe l'alma, io, che un consorte
Perdei sì buon, di sì gran core, ornato
D'ogni virtù tra i Greci, ed il cui nome
Per l'Ellada risuona e l'Argo tutta!
S'arroge a questo, che il diletto figlio
Partì su ratta nave, un giovinetto
Delle fatiche e dell'usanze ignaro.
Più ancor per lui, che per Ulisse, io piango
E temo nol sorprenda o tra le genti
Straniere, o in mare, alcun sinistro: tanti
Nemici ha che l'insidiano, e di vita
Prima il desìan levar, ch'egli a me torni”.
Ratto riprese il simulacro oscuro:
“Scaccia da te questi ribrezzi, e spera.
Compagna il segue di cotanta possa,
Che ognun per sé la bramerìa: Minerva,
Cui pietà di te punse e di cui fida,
Per tuo conforto ambasciatrice io venni”.
E la saggia Penelope a rincontro:
“Poiché una dea sei dunque, o almeno udisti
La voce d'una dea, parlarmi ancora
Di quell'altro infelice or non potrai?
Vive? rimira in qualche parte il Sole?
O ne' bassi calò regni di Pluto?”
Ratto riprese il simulacro oscuro:
“S'ei viva, o no, non t'aspettar ch'io narri.
Spender non piace a me gli accenti indarno”.
Disse; e pel varco, ond'era entrata, uscendo
Si mescolò co' venti e dileguossi.
Ma la reina si destò in quel punto,
Ed il cor si sentì d'un'improvvisa
Brillar letizia, che lasciolle il sogno,
Che sì chiaro le apparve innanzi l'alba.
I proci l'onde già fendeano, estrema
Macchinando a Telemaco ruina.
Siede tra la pietrosa Itaca e Same
Un'isola in quel mar, che Asteri è detta,
Pur dirupata, né già troppo grande,
Ma con sicuri porti, in cui le navi
D'ambo i lati entrar ponno. Ivi in agguato
Telemaco attendean gl'iniqui Achei.
LIBRO QUINTO
Già l'Aurora, levandosi a Titone
D'allato, abbandonava il croceo letto,
E ai dèi portava ed ai mortali il giorno;
E già tutti a concilio i dèi beati
Sedean con Giove altitonante in mezzo,
Cui di possanza cede ogni altro nume.
Memore Palla dell'egregio Ulisse,
Che mal suo grado appo la ninfa scorge,
I molti ritesseane acerbi casi:
“O Giove”, disse, “e voi tutti d'Olimpo
Concittadini, che in eterno siete,
Spoglisi di giustizia e di pietade,
E iniquitate e crudeltà si vesta
D'ora innanzi ogni re, quando l'imago
D'Ulisse più non vive in un sol core
Di quella gente ch'ei reggea da padre.
Ei nell'isola intanto, ove Calipso
In cave grotte ripugnante il tiene,
Giorni oziosi e travagliosi mena;
E del tornare alla sua patria è nulla,
Poiché navi non ha, non ha compagni,
Che il carreggin del mar su l'ampio tergo.
Che più? Il figliuol, che all'arenosa Pilo
Mosse ed a Sparta, onde saver di lui,
Tôr di vita si brama al suo ritorno.
“Figlia, qual ti sentii fuggir parola
Dal recinto de' denti?” a lei rispose
L'adunator di nubi Olimpio Giove;
“Tu stessa in te non divisavi, come
Rieda Ulisse alla patria, e di que' tristi
Vendetta faccia? In Itaca il figliuolo
Per opra tua, chi tel contende? salvo
Rïentri, e l'onde navigate indarno
Rinavighi de' proci il reo naviglio.
Disse, e a Mercurio, sua diletta prole,
Così si rivolgea: “Mercurio, antico
De' miei comandi apportator fedele,
Vanne, alla ninfa dalle crespe chiome
Il fermo annunzia mio voler, che Ulisse
Le native contrade omai rivegga,
Ma nol guidi uom, né dio. Parta su travi,
Con multiplici nodi in un congiunte,
E il ventesimo dì della feconda
Scheria le rive, sospirando, attinga;
E i Feaci l'accolgano, che quasi
Degl'immortali al par vivon felici.
Essi qual nume onoreranlo, e al dolce
Nativo loco il manderan per nave;
Rame in copia darangli, ed oro e vesti,
Quanto al fin seco dalla vinta Troia
Condotto non avrìa, se con la preda,
Che gli toccò, ne ritornava illeso:
Ché la patria così, gli amici e l'alto
Riveder suo palagio, è a lui destino”.
Obbedì il prode messaggiero. Al piede
S'avvinse i talar belli, aurei, immortali,
Che sul mare il portavano, e su i campi
Della terra infiniti, al par col vento.
Poi, l'aurea verga nelle man recossi,
Onde i mortali dolcemente assonna,
Quanti gli piace, e li dissonna ancora,
E con quella tra man l'aure fendea.
Come presi ebbe di Pïeria i gioghi,
Si calò d'alto, e si gettò sul mare:
Indi l'acque radea velocemente,
Simile al laro, che pe' vasti golfi
S'aggira in traccia de' minuti pesci,
E spesso nel gran sale i vanni bagna.
Non altrimenti sen venìa radendo
Molte onde e molte l'Argicìda Ermete.
Ma tosto che fu all'isola remota,
Salendo allor dagli azzurrini flutti,
Lungo il lido ei sen gìa, finché vicina
S'offerse a lui la spazïosa grotta,
Soggiorno della ninfa il crin ricciuta,
Cui trovò il nume alla sua grotta in seno.
Grande vi splendea foco, e la fragranza
Del cedro ardente e dell'ardente tio
Per tutta si spargea l'isola intorno.
Ella, cantando con leggiadra voce,
Fra i tesi fili dell'ordìta tela
Lucida spola d'ôr lanciando andava.
Selva ognor verde l'incavato speco
Cingeva: i pioppi vi cresceano e gli alni
E gli spiranti odor bruni cipressi:
E tra i lor rami fabbricato il nido
S'aveano augelli dalle lunghe penne,
Il gufo, lo sparviere e la loquace
Delle rive del mar cornacchia amica.
Giovane vite di purpurei grappi
S'ornava e tutto rivestìa lo speco.
Volvean quattro bei fonti acque d'argento,
Tra sé vicini prima, e poi divisi
L'un dall'altro e fuggenti; e di vïole
Ricca si dispiegava in ogni dove
De' molli prati l'immortal verzura.
Questa scena era tal, che sino a un nume
Non potea farsi ad essa, e non sentirsi
Di maraviglia colmo e di dolcezza.
Mercurio, immoto, s'ammirava; e, molto
Lodatola in suo core, all'antro cavo,
Non indugiando più, dentro si mise.
Calipso, inclita dea, non ebbe in lui
Gli occhi affissati, che il conobbe: quando,
Per distante che l'un dall'altro alberghi,
Celarsi l'uno all'altro i dèi non ponno.
Ma nella grotta il generoso Ulisse
Non era: mesto sul deserto lido,
Cui spesso si rendea, sedeasi; ed ivi
Con dolori, con gemiti, con pianti
Struggeasi l'alma, e l'infecondo mare
Sempre agguardava, lagrime stillando.
La diva il nume interrogò, cui posto
Su mirabile avea seggio lucente:
“Mercurio, nume venerato e caro,
Che della verga d'ôr la man guernisci,
Qual mai cagione a me, che per l'addietro
Non visitavi, oggi t'addusse? Parla.
Cosa ch'io valga oprar, né si sconvegna,
Disdirti io non saprei, se il pur volessi.
Su via, ricevi l'ospital convito:
Poscia favellerai”. Detto, la mensa,
Che ambrosia ricoprìa, gli pose avanti,
Ed il purpureo néttare versògli.
Questo il celere messaggiero e quella
Prendea; né prima nelle forze usate
Tornò, che aprìa le labbra in tali accenti:
“Tu dea me dio dunque richiedi? Il vero,
Poiché udirlo tu vuoi, schietto io ti narro.
Questo viaggio di Saturno il figlio
Mal mio grado mi diè. Chi vorrìa mai
Varcar tante onde salse, infinite onde,
Dove città non sorge, e sagrificî
Non v'ha chi ci offra, ed ecatombe illustri?
Ma il precetto di Giove a un altro nume
Né vïolar, né oblïar lice. Teco,”
Disse l'Egidarmato, “i giorni mena
L'uom più gramo tra quanti alla cittade
Di Priamo innanzi combattean nove anni,
Finché il decimo alfin, Troia combusta,
Spiegâro in mar le ritornanti vele.
Ma nel cammino ingiurïar Minerva,
Che destò le bufere, e immensi flutti
Contra lor sollevò. Tutti perîro
Di quest'uomo i compagni; ed ei dal vento
Venne, e dal fiotto ai lidi tuoi portato.
Or tu costui congederai di botto;
Ché non morir dalla sua terra lunge,
Ma la patria bensì, gli amici e l'alto
Riveder suo palagio, è a lui destino”.
Inorridì Calipso, e con alate
Parole rispondendo: “Ah, numi ingiusti,”
Sclamò, “che invidia non più intesa è questa,
Che se una dea con maritale amplesso
Si congiunge a un mortal, voi non soffrite?
Quando la tinta di rosato Aurora
Orïone rapì, voi, dèi, cui vita
Facile scorre, acre livor mordea,
Finché in Ortigia il rintracciò la casta
Dal seggio aureo Dïana, e d'improvvisa
Morte il colpì con invisibil dardo.
E allor che venne, inanellata il crine,
Cerere a Giasïon tutta amorosa,
E nel maggese, che il pesante aratro
Tre volte aperto avea, se gli concesse,
Giove, cui l'opra non fu ignota, uccise
Giasïon con la folgore affocata.
Così voi, dèi, con invid'occhio al fianco
Mi vedete un eroe da me serbato,
Che solo stava in su i meschini avanzi
Della nave, che il telo igneo di Giove
Nel mare oscuro gli percosse e sciolse.
Io raccogliealo amica, io lo nutria
Gelosamente, io prometteagli eterni
Giorni, e dal gel della vecchiezza immuni.
Ma quando troppo è ver che alcun di Giove
Precetto vïolare a un altro nume
Non lice, od obblïar, parta egli e solchi,
Se il comandò l'Egidarmato, i campi
Non seminati. Io nol rimando certo;
Ché navi a me non sono e non compagni,
Che del mare il carreggino sul tergo.
Ben sovverrógli di consiglio, e il modo
Gli additerò, che alla sua dolce terra
Su i perigliosi flutti ei giunga illeso”.
“Ogni modo il rimanda,” l'Argicida
Soggiunse, “e pensa che infiammarsi d'ira
Potrebbe contra te l'Olimpio un giorno”.
E sul fin di tai detti a lei si tolse.
L'augusta ninfa, del Saturnio udita
la severa imbasciata, il prode Ulisse
Per cercar s'avvïò. Trovollo assiso
Del mar in su la sponda, ove le guance
Di lagrime rigava, e consumava
Col pensier del ritorno i suoi dolci anni;
Ché della ninfa non pungealo amore:
E se le notti nella cava grotta
Con lei vogliosa non voglioso passa,
Che altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno,
Su i lidi assiso e su i romiti scogli,
Con dolori, con gemiti con pianti
Struggesi l'alma, e l'infecondo mare,
Lagrime spesse lagrimando, agguarda.
Calipso, illustre dea, standogli appresso:
“Sciagurato”, gli disse, in questi pianti
“Più non mi dar, né consumare i dolci
Tuoi begli anni così: la dipartita,
Non che vietarti, agevolarti io penso.
Su via, le travi nella selva tronche,
Larga e con alti palchi a te congegna
Zattera, che sul mar fosco ti porti.
Io di candido pan, che l'importuna
Fame rintuzzi, io di purissim'onda,
E di rosso licor, gioia dell'alma,
La carcherò: ti vestirò non vili
Panni, e ti manderò da tergo un vento,
Che alle contrade tue ti spinga illeso,
Sol che d'Olimpo agli abitanti piaccia,
Con cui di senno in prova io già non vegno”.
Raccapricciossi a questo il non mai vinto
Dalle sventure Ulisse, e: “O dea”, rispose
Con alate parole, “altro di fermo,
Non il congedo mio, tu volgi in mente,
Che vuoi ch'io varchi su tal barca i grossi
Del difficile mar flutti tremendi,
Che le navi più ratte, e d'uguai fianchi
Munite, e liete di quel vento amico
Che da Giove partì, varcano appena.
No: su barca sì fatta, e a tuo dispetto,
Non salirò, dove tu pria non degni
Giurare a me con giuramento grande,
Che nessuno il tuo cor danno m'ordisce”.
Sorrise l'Atlantìde, e, della mano
Divina carezzandolo, la lingua
Sciolse in tai voci: “Un cattivello sei,
Né ciò che per te fa, scordi giammai.
Quali parole mi parlasti! Or sappia
Dunque la Terra e il Ciel superno, e l'atra,
Che sotterra si volve, acqua di Stige,
Di cui né più solenne han, né più sacro
Gl'Iddii beati giuramento; sappia,
Che nessuno il mio cor danno t'ordisce.
Quello anzi io penso, e ti propongo, ch'io
Torrei per me, se in cotant'uopo io fossi.
Giustizia regge la mia mente, e un'alma
Pietosa, non di ferro, in me s'annida”.
Ciò detto, abbandonava il lido in fretta
E Ulisse la seguìa. Giunti alla grotta,
Colà, ond'era l'Argicida sorto,
S'adagiò il Laerziade; e la dea molti
Davante gli mettea cibi e licori,
Quali ricever può petto mortale.
Poi gli s'assise in fronte; e a lei le ancelle
L'ambrosia e il roseo néttare imbandiro.
Come ambo paghi per la mensa furo,
Con tali accenti cominciava l'alta
Di Calipso beltade: “O di Laerte
Figlio divin, molto ingegnoso Ulisse,
Così tu parti adunque, e alla nativa
Terra e alle case de' tuoi padri vai?
Va, poiché sì t'aggrada, e va felice.
Ma se tu scorger col pensier potessi
Per quanti affanni ti comanda il fato
Prima passar, che al patrio suolo arrivi
Questa casa con me sempre vorresti
Custodir, ne son certa, e immortal vita
Da Calipso accettar: benché sì viva
Brama t'accenda della tua consorte,
A cui giorno non è che non sospiri.
Pur non cedere a lei né di statura
Mi vanto, né di volto; umana donna
Mal può con una dea, né le s'addice,
Di persona giostrare, o di sembianza”.
“Venerabile iddia”, riprese il ricco
D'ingegni Ulisse, “non voler di questo
Meco sdegnarti; appien conosco io stesso,
Che la saggia Penelope tu vinci
Di persona non men che di sembianza,
Giudice il guardo che ti stia di contra.
Ella nacque mortale; e in te né morte
Può, né vecchiezza. Ma il pensiero è questo;
Questo il desìo che mi tormenta sempre:
Veder quel giorno al fin, che alle dilette
Piagge del mio natal mi riconduca.
Che se alcun me percoterà de' numi
Per le fosche onde, io soffrirò, chiudendo
Forte contra i disastri anima in petto.
Molti sovr'esso il mar, molti fra l'armi,
Già ne sostenni; e sosterronne ancora”.
Disse; e il Sol cadde, ed annottò. Nel seno
Si ritira<ro della cava grotta,
Più interno e oscuro, e in dolce sonno avvolti,
Tutte le cure lor mandaro in bando.
Ma come del mattin la figlia, l'alma
Dalle dita di rose Aurora apparve,
Tunica e manto alle sue membra Ulisse,
E Calipso alle sue larga ravvolse
Bella gonna, sottil, bianca di neve;
Si strinse al fianco un'aurea fascia, e un velo
Sovra l'ôr crespo della chioma impose.
Né d'Ulisse a ordinar la dipartita
Tardava. Scure di temprato rame,
Grande, manesca e d'ambo i lati aguzza,
Con leggiadro, d'oliva, e bene attato
Manubrio, presentògli, e una polita
Vi aggiunse ascia lucente; indi all'estremo
Dell'isola il guidò, dove alte piante
Crescean; pioppi, alni, e sino al cielo abeti,
Ciascun risecco di gran tempo e arsiccio,
Che gli sdruccioli agevole sull'onda.
Le altere piante gli additò col dito,
E alla sua grotta il pié torse la diva.
Egli a troncar cominciò il bosco: l'opra
Nelle man dell'eroe correa veloce;
Venti distese al suolo arbori interi,
Gli adeguò, li polì, l'un destramente
Con l'altro pareggiò. Calipso intanto
Recava seco gli appuntati succhi,
Ed ei forò le travi e insieme unille,
E con incastri assicurolle e chiovi.
Larghezza il tutto avea, quanta ne dánno
Di lata nave trafficante al fondo
Periti fabbri. Su le spesse travi
Combacianti tra sé lunghe stendea
Noderose assi, e il tavolato alzava.
L'albero con l'antenna ersevi ancora,
E costrusse il timon, che in ambo i lati
Armar gli piacque d'intrecciati salci
Contra il marino assalto, e molta selva
Gittò nel fondo per zavorra o stiva.
Le tue tele, o Calipso, in man gli andâro
E buona gli uscì pur di man la vela,
Cui le funi legò, legò le sarte,
La poggia e l'orza: al fin, possenti leve
Supposte, spinse il suo naviglio in mare,
Che il dì quarto splendea. La dea nel quinto
Congedollo dall'isola: odorate
Vesti gli cinse dopo un caldo bagno;
Due otri, l'un di rosseggiante vino,
Di limpid'acqua l'altro, e un zaino, in cui
Molte chiudeansi dilettose dapi,
Collocò nella barca; e fu suo dono
Un lenissimo ancor vento innocente,
Che mandò innanzi ad increspargli il mare.
Lieto l'eroe dell'innocente vento,
La vela dispiegò. Quindi al timone
Sedendo, il corso dirigea con arte,
Né gli cadea su le palpèbre il sonno
Mentre attento le Pleiadi mirava,
E il tardo a tramontar Boòte e l'Orsa
Che detta è pure il Carro, e là si gira,
Guardando sempre in Orïone, e sola
Nel liquido Oceàn sdegna lavarsi
L'Orsa, che Ulisse, navigando, a manca
Lasciar dovea, come la diva ingiunse.
Dieci pellegrinava e sette giorni
Su i campi d'Anfitrite. Il dì novello
Gli sorse incontro co' suoi monti ombrosi
L'isola de' Feaci, a cui la strada
Conducealo più corta, e che apparìa
Quasi uno scudo alle fosche onde sopra.
Sin dai monti di Solima lo scôrse
Veleggiar per le salse onde tranquille
Il possente Nettun, che ritornava
Dall'Etïopia, e nel profondo core
Più crucciato che mai squassando il capo:
“Poh!” disse dentro a sé, “nuovo decreto,
Mentr'io fui tra gli Etiopi, intorno a Ulisse
Fêr dunque i numi? Ei già la terra vede
De' Feáci, che il fato a lui per meta
Delle sue lunghe disventure assegna.
Pur molto, io credo, a tollerar gli resta”.
Tacque; e, dato di piglio al gran tridente,
Le nubi radunò, sconvolse l'acque,
Tutte incitò di tutti i venti l'ire,
E la terra di nuvoli coverse;
Coverse il mar: notte di ciel giù scese.
S'avventaro sul mar, quasi in un groppo,
Ed Euro e Noto e il celebre Ponente
E Aquilon, che pruine aspre su l'ali
Reca, ed immensi flutti innalza e volve.
Discior sentissi le ginocchia e il core
Di Laerte il figliuol, che tal si dolse
Nel secreto dell'alma: “Ahi, me infelice!
Che di me sarà omai? Temo, non torni
Verace troppo della ninfa il detto,
Che al patrio nido io giungerei per mezzo
Delle fatiche solo e dell'angosce.
Di quai nuvole il ciel ampio inghirlanda
Giove, e il mar conturba? E come tutti
Fremono i venti? A certa morte io corro.
Oh tre fïate fortunati e quattro,
Cui perir fu concesso innanzi a Troia,
Per gli Atridi pugnando! E perché allora
Non caddi anch'io, che al morto Achille intorno
Tante i Troiani in me lance scagliaro?
Sepolto i Greci co' funèbri onori
M'avriano, e alzato ne' lor canti al cielo.
Or per via così infausta ir deggio a Dite”.
Mentre così doleasi, un'onda grande
Venne d'alto con furia e urtò la barca,
E rigirolla; e lui, che andar lasciossi
Dalle mani il timon, fuori ne spinse.
Turbine orrendo d'aggruppati venti
L'albero al mezzo gli fiaccò; lontane
Vela ed antenne caddero. Ei gran tempo
Stette di sotto, mal potendo il capo
Levar dall'onde impetuose e grosse;
Ché le vesti gravavanlo, che in dono
Da Calipso ebbe. Spuntò tardi, e molta
Dalla bocca gli uscìa, gli piovea molta
Dalla testa e dal crine onda salata.
Non però della zatta il prese obblìo:
Ma, da sé i flutti respingendo, ratto
L'apprese, e già di sopra, il fin di morte
Schivando, vi sedea. Rapìala il fiotto
Qua e là per lo golfo. A quella guisa
Che sovra i campi il tramontan d'autunno
Fascio trabalza d'annodate spine,
I venti trabalzavanla sul mare.
Or Noto da portare a Borea l'offre,
Ed or, perché davanti a sé la cacci,
Euro la cede d'occidente al vento.
La bella il vide dal tallon di perla
Figlia di Cadmo, Ino chiamata, al tempo
Che vivea tra i mortali: or nel mar gode
Divini onori, e Leucotèa si noma.
Compunta il cor per lui d'alta pietade,
S'alzò dell'onda fuor, qual mergo a volo,
E su le travi bene avvinte assisa,
Così gli favellò: “Perché, meschino,
S'accese mai con te d'ira sì acerba
Lo Scotitor della terrena mole,
Che ti semina i mali? Ah! non fia certo,
Ch'ei, per quanto il desìi, spenga i tuoi giorni.
Fa, poiché vista m'hai d'uomo non folle,
Ciò ch'io t'insegno. I panni tuoi svestiti,
Lascia il naviglio da portarsi ai venti,
E a nuoto cerca il Feacese lido,
Che per mèta de' guai t'assegna il fato.
Ma questa prendi; e la t'avvolgi al petto,
Fascia immortal, né temer morte o danno.
Tocco della Feacia il lido appena,
Spogliala, e in mar dal continente lungi
La gitta, e torci nel gittarla il volto”.
Ciò detto, e a lui l'immortal fascia data,
Rïentrò, pur qual mergo in seno al fosco
Mare ondeggiante, che su lei si chiuse.
Pensoso resta e in forse il pazïente
Laerziade divino, e con se stesso,
Raddoppiando i sospir, tal si consiglia:
“Ohimé! che nuovo non mi tessa inganno
De' Sempiterni alcun, che dal mio legno
Partir m'ingiunge. Io così tosto penso
Non ubbidirgli; ché la terra, dove
Di scampo ei m'affidò, troppo è lontana.
Ma ecco quel che ottimo parmi: quanto
Congiunte rimarran tra lor le travi,
Non abbandonerolle, e co' disastri
Fermo io combatterò. Sciorralle il flutto?
Porrommi a nuoto, né veder so meglio”.
Tai cose in sé volgea, quando Nettuno
Sollevò un'onda immensa, orrenda, grave,
Di monte in guisa, e la sospinse. Come
Disperse qua e là vanno le secche
Paglie, di cui sorgea gran mucchio in prima,
Se mai le investe un furïoso turbo,
le tavole per mar disperse andaro.
Sovra un sol trave a cavalcioni Ulisse
Montava: i panni che la dea Calipso
Dati gli avea, svestì, s'avvolse al petto
l'immortal benda, e si gittò ne' gorghi
Boccon, le braccia per nôtare aprendo.
Né già s'ascose dal ceruleo iddio,
Che, la testa crollando: “A questo modo
Erra”, dicea tra sé “di flutto in flutto
Dopo tante sciagure, e a genti arriva
Da Giove amate: benché speme io porti
Che né tra quelle brillerài di gioia”.
Così Nettuno; e della verde sferza
Toccò i cavalli alle leggiadre chiome,
Che il condussero ad Ega, ove gli splende
Nobile altezza di real palagio.
Pallade intanto, la prudente figlia
Di Giove, altro pensò. Fermò gli alati
Venti, e silenzio impose loro, e tutti
Gli avvinse di sopor, fuorché il veloce
Borea, che, da lei spinto, i vasti flutti
Dinanzi a Ulisse infranse ond'ei le rive
Del vago di remar popol Feace,
Pigliar potesse, ed ingannar la Parca.
Due giorni in cotal foggia, e tante notti
Per l'ampio golfo errava, e spesso il core
Morte gli presagìa. Ma quando l'Alba
Cinta la fronte di purpuree rose
Il dì terzo recò, tacquesi il vento,
E un tranquillo seren regnava intorno.
Ulisse allor, cui levò in alto un grosso
Flutto, la terra non lontana scôrse,
Forte aguzzando le bramose ciglia.
Quale appar dolce a un figliuol pio la vista
Del genitor, che su dolente letto
Scarno, smunto, distrutto, e da un maligno
Demone giacque lunghi dì percosso,
E poi del micidial morbo cortesi
Il disciolser gli dèi: tale ad Ulisse
La terra e il verde della selva apparve.
Quinci ei, nôtando, ambi movea di tutta
Sua forza i piedi a quella volta. Come
Presso ne fu, quanto d'uom corre un grido,
Fiero il colpì romor: poiché i ruttati
Sin dal fondo del mar flutti tremendi,
Che agli aspri si rompean lidi ronchiosi,
Strepitavan, mugghiavano, e di bianca
Spuma coprìan tutta la sponda, mentre
Porto capace di navigli, o seno
Non vi s'aprìa, ma littorali punte
Risaltavano in fuori, e scogli e sassi.
Le forze a tanto ed il coraggio Ulisse
Fallir si sente, e dice a sé, gemendo:
“Qual pro che Giove il disperato suolo
Mostri, e io m'abbia la via per l'onde aperta,
Se dell'uscirne fuor non veggio come?
Sporgon su l'onde acuti sassi, a cui
L'impetuoso flutto intorno freme,
E una rupe va su liscia e lucente:
Né così basso è il mar, che nell'arena
Fermare il pie' securamente io valga.
Quindi, s'io trar men voglio, un gran maroso
Sovra di sé può tormi, e in dura pietra
Cacciarmi; o s'io lungo le rupi cerco
Nôtando un porto, o una declìve schiena,
Temo, non procellosa onda m'avvolga,
E, sospirando gravemente, in grembo
Mi risospinga del pescoso mare.
Forse un de' mostri ancor, che molti nutre
Ne' gorghi suoi la nobile Anfitrite,
M'assalirà: ché l'odio io ben conobbi
Che m'ha quel dio, per cui la terra trema”.
Stando egli in tai pensieri, una sconcia onda
Trasportollo con sé ver l'ineguale
Spiaggia, che lacerata in un sol punto
La pelle avrìagli, e sgretolate l'ossa,
Senza un consiglio che nel cor gli pose
L'occhicerulea diva. Afferrò ad ambe
Mani la rupe, in ch'ei già dava, e ad essa
Gemendo s'attenea. Deluso intanto
Gli passò su la testa il vïolento
Flutto: se non che poi, tornando indietro,
Con nuova furia il ripercosse, e lunge
Lo sbalzò della spiaggia al mare in grembo.
Polpo così dalla pietrosa tana
Strappato vien, salvo che a lui non pochi
Restan lapilli nelle branche infitti:
E Ulisse in vece la squarciata pelle
Delle nervose man lasciò alla rupe.
L'onde allora il copriro, e l'infelice
Contro il fato perìa: ma infuse a lui
Nuovo pensier l'Occhiazzurrina. Sorto
Dall'onde, il lido costeggiava, ai flutti
Che vel portavan contrastando, e attento
Mirando sempre, se da qualche parte
Scendesse una pendice, o un seno entrasse:
Né dall'opra cessò, che d'un bel fiume
Giunto si vide all'argentina foce.
Ottimo qui gli sembrò il loco al fine,
Siccome quel che né di sassi aspro era,
Né discoperto ai venti. Avvisò ratto
Il puro umor che devolveasi al mare,
E tal dentro di sé preghiera feo:
“O chiunque tu sii, re di quest'acque,
Odimi: a te, cui sospirai cotanto,
Gli sdegni di Nettuno e le minacce
Fuggendo, io m'appresento. È sacra cosa
Per gl'Immortali ancor l'uom, che d'altronde
Venga errando, com'io, che dopo molti
Durati affanni, ecco alla tua corrente
Giungo, e ai ginocchi tuoi. Pietà d'Ulisse,
Che tuo supplice vedi, o re, ti prenda”.
Disse, ed il nume acchetò il corso, e l'onda
Ritenne, sparsa una perfetta calma
E alla foce il salvò del suo bel fiume.
L'eroe, tocca la terra, ambo i ginocchi
Piegò, piegò le nerborute braccia:
Tanto il gran sale l'affliggeva. Gonfiava
Tutto quanto il suo corpo, e per la bocca
Molto mar gli sgorgava, e per le nari;
Ed ei senza respiro e senza voce
Giaceasi, e spento di vigore affatto:
Che troppa nel suo corpo entrò stanchezza.
Ma come il fiato ed il pensier rïebbe,
Tosto dal petto la divina benda
Sciolse, e gittolla ove amareggia il fiume.
La corrente rapivala, né tarda
A riprenderla fu con man la dea.
Ei dall'onda ritráttosi, chinossi
Su i molli giunchi, e baciò l'alma terra.
Poi nel secreto della sua grand'alma
Così parlava e sospirava insieme:
“Eterni dèi, che mi rimase ancora
Di periglioso a tollerar? Dov'io
Questa gravosa notte al fiume in riva
Vegghiassi, l'aer freddo e il molle guazzo
Potrian me di persona e d'alma infermo
Struggere al tutto, ché sui primi albori
Nemica brezza spirerà dal fiume.
Salirò al colle in vece, ed all'ombrosa
Selva, e m'addormirò tra i folti arbusti,
Sol che non vieti la fiacchezza o il ghiado,
Che il sonno in me passi furtivo? Preda
Diventar delle fere e pasto io temo”.
Dopo molto dubbiar questo gli parve
Men reo partito. Si rivolse al bosco,
Che non lunge dall'acque a un poggio in cima
Fea di sé mostra, e s'internò tra due
Sì vicini arboscei, che dalla stessa
Radice uscir pareano, ambi d'ulivo,
Ma domestico l'un, l'altro selvaggio.
La forza non crollavali de' venti,
Né l'igneo Sole co' suoi raggi addentro
Li saettava, né le dense piogge
Penetravan tra lor; sì uniti insieme
Crebbero, e tanto s'intrecciaro i rami.
Ulisse sottentrovvi, e ammontichiossi
Di propria man comodo letto, quando
Tal ricchezza era qui di foglie sparse,
Che ripararvi uomini tre, non che uno,
Potuto avrìano ai più crudeli verni.
Gioì alla vista delle molte foglie
L'uom divino, e corcossi entro alle foglie,
E a sé di foglie sovrappose un monte.
Come se alcun, che solitaria suole
Condur la vita in sul confin d'un campo,
Tizzo nasconde fumeggiante ancora
Sotto la bruna cenere, e del foco,
Perché cercar da sé lungi nol debba,
Serba in tal modo il prezïoso seme:
Così celossi tra le foglie Ulisse.
Pallade allor che di sì rea fatica
Bramava torgli l'importuno senso,
Un sonno gli versò dolce negli occhi,
Le dilette palpèbre a lui velando.
LIBRO SESTO
Mentre sepolto in un profondo sonno
Colà posava il travagliato Ulisse,
Minerva al popol de' Feaci e all'alta
Lor città s'avvïò. Questi da prima
Ne' vasti d'Iperèa fecondi piani
Far dimora solean, presso i Ciclopi,
Gente di cuor superbo, e a' suoi vicini
Tanto molesta più quanto più forte.
Quindi Nausitoo, somigliante a un dio,
Di tal sede levolli, e in una terra,
Che dagli uomini industri il mar divide,
Gli allogò, nella Scheria; e qui condusse
Alla cittade una muraglia intorno.
Le case fabbricò, divise i campi,
E agl'Immortali i sacri templi eresse.
Colpito dalla Parca, ai foschi regni
Era già sceso, e Alcinoo, che i beati
Numi assennato avean, reggea lo scettro.
L'occhicilestra dea, che sempre fissa
Nel ritorno d'Ulisse avea la mente,
Tenne verso la reggia, e alla secreta
Dedalea stanza si rivolse, dove
Giovinetta dormìa, che le immortali
D'indole somigliava e di fattezze,
Nausica, del re figlia; ed alla porta,
Che rinchiusa era, e risplendea nel buio.
Giacean due, l'una quinci e l'altra quindi,
Pudìche ancelle, cui le Grazie istesse
Di non vulgar beltà la faccia ornâro.
La dea, che gli occhi in azzurrino tinge,
Quasi fiato leggier di picciol vento,
S'avvicinò della fanciulla al letto,
E sul capo le stette, e, preso il volto
Della figlia del prode in mar Dimante
Molto a lei cara, e ugual d'etade a lei,
Cotali le drizzò voci nel sonno:
“Deh, Nausica, perché te così lenta
La genitrice partorì? Neglette
Lasci giacerti le leggiadre vesti.
Benché delle tue nozze il dì s'appressi,
Quando le membra tue cinger dovrai
Delle vesti leggiadre, e a quelli offrirne,
Che scorgeranti dello sposo ai tetti.
Così fama s'acquista, e ne gioisce
Col genitor la veneranda madre.
Dunque i bei panni, come il cielo imbianchi,
Vadasi a por nell'onda: io nell'impresa,
Onde trarla più ratto a fin tu possa,
Compagna ti sarò. Vergine, io credo
Non rimarrai gran pezza; e già di questo,
Tra cui nascesti tu, popol Feace
I migliori ti ambiscono. Su via,
Spuntato appena in orïente il Sole,
Trova l'inclito padre e de' gagliardi
Muli il richiedi, e del polito carro,
Che i pepli, gli scheggiali e i prezïosi
Manti conduca: poiché sì distanno
Dalla città i lavacri, che del cocchio
Valerti e non del piede, a te s'addice”.
Finiti ch'ebbe tali accenti, e messo
Consiglio tal della fanciulla in petto,
La dea, che guarda con azzurre luci,
All'Olimpo tornò, tornò alla ferma
De' sempiterni dèi sede tranquilla,
Che né i venti commuovono, né bagna
La pioggia mai, né mai la neve ingombra;
Ma un seren puro vi si spande sopra
Da nube alcuna non offeso, e un vivo
Candido lume la circonda, in cui
Si giocondan mai sempre i dii beati.
L'Aurora intanto d'in su l'aureo trono
Comparve in orïente, e alla sopita
Vergine dal bel peplo i lumi aperse.
La giovinetta s'ammirò del sogno,
E al padre per narrarlo, ed alla madre
Corse, e trovolli nel palagio entrambi.
La madre assisa al focolare, e cinta
Dalle sue fanti, e con la destra al fuso
Lane di fina porpora torcea.
Ma nel caro suo padre, in quel che al grande
Concilio andava, ove attendeanlo i capi
De' Feacesi, s'abbatte Nausica,
E stringendosi a lui: “Babbo mio dolce,
Non vuoi tu farmi apparecchiar”, gli disse,
“L'eccelso carro dalle lievi ruote,
Acciocché le neglette io rechi al fiume
Vesti oscurate, e nitide le torni?
Troppo a te si convien, che tra i soprani
Nelle consulte ragionando siedi,
Seder con monde vestimenta in dosso.
Cinque in casa ti vedi amati figli,
Due già nel maritaggio, e tre cui ride
Celibe fior di giovinezza in volto.
Questi al ballo ir vorrìan con panni sempre
Giunti dalle lavande allora allora.
E tai cose a me son pur tutte in cura”.
Tacquesi a tanto; ché toccar le nozze
Sue giovanili non s'ardìa col padre.
Ma ei comprese il tutto, e sì rispose:
“Né di questo io potrei, né d'altro, o figlia,
Non soddisfarti. Va: l'alto, impalcato
Carro veloce appresteranti i servi.
Disse; e gli ordini diede, e pronti i servi”.
La mular biga dalle lievi ruote
Trasser fuori, e allestîro, e i forti muli
Vi miser sotto, e gli accoppiâro. Intanto
Venìa Nausica con le belle vesti,
Che sulla biga lucida depose.
Cibi graditi e di sapor diversi
La madre collocava in gran paniere
E nel capace sen d'otre caprigno
Vino infondea soave: indi alla figlia,
Ch'era sul cocchio, perché dopo il bagno
Sé con le ancelle, che seguìanla, ungesse,
Porse in ampolla d'or liquida oliva.
Nausica in man le rilucenti briglie
Prese, prese la sferza, e diè di questa
Sovra il tergo ai quadrupedi robusti,
Che si moveano strepitando, e i passi
Senza posa allungavano, portando
Le vesti, e la fanciulla, e non lei sola,
Quando ai fianchi di lei sedean le ancelle.
Tosto che fur dell'argentino fiume
Alla pura corrente, ed ai lavacri
Di viva ridondanti acqua perenne,
Da cui macchia non è che non si terga,
Sciolsero i muli, e al vorticoso fiume
Il verde a morsecchiar cibo soave
Del mele al pari, li mandaro in riva.
Poscia dal cocchio su le braccia i drappi
Recavanli, e gittavanli nell'onda,
Che nereggiava tutta; e in larghe fosse
Gìanli con presto piè pestando a prova.
Purgati e netti d'ogni lor bruttura,
L'uno appo l'altro gli stendean sul lido,
Là dove le pietruzze il mar poliva.
Ciò fatto, si bagnò ciascuna, e s'unse,
E poi del fiume pasteggiâr sul margo:
Mentre d'alto co' raggi aureolucenti
Gli stesi drappi rasciugava il Sole.
Ma, spento della mensa ogni desìo,
Una palla godean trattar per gioco,
Deposti prima dalla testa i veli;
Ed il canto intonava alle compagne
Nausica bella dalle bianche braccia.
Come Dïana per gli eccelsi monti
O del Taigeto muove, o d'Erimanto,
Con la faretra agli omeri, prendendo
De' ratti cervi e de' cinghiai diletto:
Scherzan, prole di Giove, a lei d'intorno
Le boscherecce Ninfe onde a Latona
Serpe nel cor tacita gioia; ed ella
Va del capo sovrana, e della fronte
Visibilmente a tutte l'altre, e vaga
Tra loro è più qual da lei meno è vinta:
Così spiccava tra le ancelle questa
Da giogo marital vergine intatta.
Nella stagion che al suo paterno tetto
I muli aggiunti e ripiegati i manti
Ritornar disponea, nacque un novello
Consiglio in mente all'occhiglauca diva,
Perché Ulisse dissonnisi, e gli appaia
La giovinetta dalle nere ciglia
Che de' Feaci alla cittade il guidi.
Nausica in man tolse la palla, e ad una
Delle compagne la scagliò: la palla
Desvïossi dal segno a cui volava,
E nel profondo vortice cadé.
Tutte misero allora un alto grido,
Per cui si ruppe incontanente il sonno
Nel capo a Ulisse; che a seder drizzossi
Tai cose in sé volgendo: Ahi fra qual gente
Mi ritrovo io? Cruda, villana, ingiusta,
O amica degli estrani, e ai dii sommessa?
Quel, che l'orecchio mi percosse, un grido
Femminil parmi di fanciulle ninfe,
Che de' monti su i gioghi erti, e de' fiumi
Nelle sorgenti, e per l'erbose valli
Albergano. O son forse umane voci,
Che testé mi ferîro? Io senza indugio
Dagli stessi occhi miei sapronne il vero.
Ciò detto, uscìa l'eroe fuor degli arbusti,
E con la man gagliarda, in quel che uscìa,
Scemò la selva d'un foglioso ramo,
Che velame gli valse ai fianchi intorno.
Quale dal natìo monte, ove la pioggia
Sostenne e i venti impetuosi, cala
Leon, che nelle sue forze confida;
Foco son gli occhi suoi; greggia ed armento
O le cerve selvatiche, al digiuno
Ventre ubbidendo, parimente assalta,
Né, perché senta ogni pastore in guardia,
Tutto teme investìr l'ovile ancora:
Tal, benché nudo, sen veniva Ulisse,
Necessità stringendolo, alla volta
Delle fanciulle dal ricciuto crine
Cui, lordo di salsuggine com'era,
Sì fiera cosa rassembrò, che tutte
Fuggîro qua e là per l'alte rive.
Sola d'Alcinoo la diletta figlia,
Cui Pallade nell'alma infuse ardire,
E francò d'ogni tremito le membra,
Piantossegli di contra e immota stette.
In due pensieri ei dividea la mente:
O le ginocchia strignere a Nausica,
Di supplicante in atto; o di lontano
Pregarla molto con blande parole
Che la città mostrargli, e d'una vesta
Rifornirlo, volesse. A ciò s'attenne;
Ché dello strigner de' ginocchi sdegno
Temea che in lei si risvegliasse. Accenti
Dunque le inviò blandi e accorti a un tempo.
“Regina, odi i miei voti. Ah degg'io dea
Chiamarti, o umana donna? Se tu alcuna
Sei delle dive che in Olimpo han seggio,
Alla beltade, agli atti, al maestoso
Nobile aspetto, io l'immortal Dïana,
Del gran Giove la figlia, in te ravviso.
E se tra quelli, che la terra nutre,
Le luci apristi al dì, tre volte il padre
Beato, e tre la madre veneranda,
E beati tre volte i tuoi germani,
Cui di conforto almo s'allarga e brilla
Di schietta gioia il cor, sempre che in danza
Veggiono entrar sì grazïoso germe.
Ma felice su tutti oltra ogni detto,
Chi potrà un dì nelle sue case addurti
D'illustri carca nuzïali doni.
Nulla di tal s'offerse unqua nel volto
O di femmina, o d'uomo, alle mie ciglia:
Stupor, mirando, e riverenza tiemmi.
Tal quello era bensì che un giorno in Delo,
Presso l'ara d'Apollo, ergersi io vidi
Nuovo rampollo di mirabil palma:
Ché a Delo ancora io mi condussi, e molta
Mi seguìa gente armata in quel viaggio
Che in danno rïuscir doveami al fine.
E com'io, fìssi nella palma gli occhi
Colmo restai di meraviglia, quando
Di terra mai non surse arbor sì bello;
Così te, donna, stupefatto ammiro,
E le ginocchia tue, benché m'opprima
Dolore immenso, io pur toccar non oso.
Me uscito dell'Ogigia isola dieci
Portava giorni e dieci il vento e il fiotto.
Scampai dall'onda ier soltanto, e un nume
Su queste piagge, a trovar forse nuovi
Disastri, mi gittò: poscia che stanchi
Di travagliarmi non cred'io gli eterni.
Pietà di me, Regina, a cui la prima
Dopo tante sventure innanzi io vegno,
Io, che degli abitanti, o la campagna
Tengali, o la città, nessun conobbi.
La cittade m'addita; e un panno dammi,
Che mi ricopra; dammi un sol, se panni
Qua recasti con te, di panni invoglio.
E a te gli dèi, quanto il tuo cor desìa,
Si compiaccian largir: consorte e figli,
E un sol volere in due, però ch'io vita,
Non so più invidïabile, che dove
La propria casa con un'alma sola
Veggonsi governar marito e donna.
Duol grande i tristi m'hanno, e gioia i buoni:
Ma quei ch'esultan più, sono i due sposi”.
“O forestier, tu non mi sembri punto
Dissennato e dappoco”, allor rispose
La verginetta dalle bianche braccia.
“L'Olimpio Giove, che sovente al tristo
Non men che al buon felicità dispensa,
Mandò a te la sciagura, e tu da forte
La sosterrai. Ma, poiché ai nostri lidi
Ti convenne approdar, di veste o d'altro,
Che ai supplici si debba ed ai meschini,
Non patirai disagio. Io la cittade
Mostrarti non ricuso, e il nome dirti
Degli abitanti. È de' Feaci albergo
Questa fortunata isola; ed io nacqui
Dal magnanimo Alcinoo, in cui la somma
Del poter si restringe, e dell'impero”.
Tal favellò Nausica, e alle compagne:
“Olà”, disse, “fermatevi. In qual parte
Fuggite voi, perché v'apparse un uomo?
Mirar credeste d'un nemico il volto?
Non fu, non è: e non fia chi a noi s'attenti
Guerra portar: tanto agli dèi siam cari.
Oltre che in sen dell'ondeggiante mare
Solitari viviam, viviam divisi
Da tutto l'altro della stirpe umana.
Un misero è costui, che a queste piagge
Capitò errando, e a cui pensare or vuolsi.
Gli stranieri, vedete, ed i mendichi
Vengon da Giove tutti, e non v'ha dono
Picciolo sì, che lor non torni caro.
Su via, di cibo e di bevanda il nuovo
Ospite soccorrete, e pria d'un bagno
Colà nel fiume, ove non puote il vento”.
Le compagne ristêro, ed a vicenda
Si rincorâro, e, come avea d'Alcinoo
La figlia ingiunto, sotto un bel frascato
Menâro Ulisse, e accanto a lui le vesti
Poser, tunica e manto, e la rinchiusa
Nell'ampolla dell'ôr liquida oliva:
Quindi ad entrar col piè nella corrente
Lo inanimîro. Ma l'eroe: “Fanciulle,
Appartarvi da me non vi sia grave,
Finché io questa salsuggine marina
Mi terga io stesso, e del salubre m'unga
Dell'oliva licor, conforto ignoto
Da lungo tempo alle mie membra. Io certo
Non laverommi nel cospetto vostro;
Ché tra voi starmi non ardisco ignudo”.
Trasser le ancelle indietro, ed a Nausica
Ciò riportaro. Ei dalle membra il sozzo
Nettunio sal, che gl'incrostò le larghe
Spalle ed il tergo, si togliea col fiume,
E la bruttura del feroce mare
Dal capo s'astergea. Ma come tutto
Si fu lavato ed unto, e di que' panni
Vestito, ch'ebbe da Nausica in dono,
Lui Minerva, la prole alma di Giove,
Maggior d'aspetto, e più ricolmo in faccia
Rese, e più fresco, e de' capei lucenti,
Che di giacinto a fior parean sembianti,
Su gli omeri cader gli feo le anella.
E qual se dotto mastro, a cui dell'arte
Nulla celaro Pallade o Vulcano,
Sparge all'argento il liquid'oro intorno,
Sì che all'ultimo suo giunge con l'opra:
Tale ad Ulisse l'Atenèa Minerva
Gli omeri e il capo di decoro asperse;
Ad Ulisse, che poscia, ito in disparte,
Su la riva sedea del mar canuto,
Di grazia irradïato e di beltade.
La donzella stordiva; ed all'ancelle
Dal crin ricciuto disse: “Un mio pensiero
Nascondervi io non posso. Avversi, il giorno
Che le nostre afferrò sponde beate,
Non erano a costui tutti del cielo
Gli abitatori: egli, d'uom vile e abbietto
Vista m'avea da prima, ed or simìle
Sembrami a un dio che su l'Olimpo siede.
Oh colui fosse tal, che i numi a sposo
Mi destinâro! Ed oh piacesse a lui
Fermar qui la sua stanza! Orsù, di cibo
Sovvenitelo, amiche, e di bevanda”.
Quelle ascoltaro con orecchio teso,
E il comando seguîr: cibo e bevanda
All'ospite imbandîro, e il paziente
Divino Ulisse con bramose fauci
L'uno e l'altra prendea, qual chi gran tempo
Bramò i ristori della mensa indarno.
Qui l'occhinera vergine novello
Partito immaginò. Sul vago carro
Le ripiegate vestimenta pose,
Aggiunse i muli di forte unghia, e salse.
Poi così Ulisse confortava: “Sorgi
Stranier, se alla cittade ir ti talenta
E il mio padre veder, nel cui palagio
S'accoglieran della Feacia i capi.
Ma, quando folle non mi sembri punto,
Cotal modo terrai. Finché moviamo
De' buoi tra le fatiche e de' coloni,
Tu con le ancelle dopo il carro vieni
Non lentamente: io ti sarò per guida.
Come da presso la cittade avremo,
Divideremci. È la città da un alto
Muro cerchiata, e due bei porti vanta
D'angusta foce, un quinci e l'altro quindi,
Su le cui rive tutti in lunga fila
Posan dal mare i naviganti legni.
Tra un porto e l'altro si distende il foro
Di pietre quadre, e da vicina cava
Condotte, lastricato; e al fôro in mezzo
L'antico tempio di Nettun si leva.
Colà gli arnesi delle negre navi,
Gomene e vele, a racconciar s'intende,
E i remi a ripulir: ché de' Feaci
Non lusingano il core archi e faretre,
Ma veleggianti e remiganti navi,
Su cui passano allegri il mar spumante.
Di cotestoro a mio potere io sfuggo
Le voci amare, non alcun da tergo
Mi morda, e tal, che s'abbattesse a noi
Della feccia più vil: "Chi è", non dica,
"Quel forestiero che Nausica siegue,
Bello d'aspetto e grande? Ove trovollo?
Certo è lo sposo. Forse alcun di quelli,
Che da noi parte il mar, ramingo giunse,
Ed ella il ricevé, che uscìa di nave:
O da lunghi chiamato ardenti voti
Scese di cielo, e le comparve un nume,
Che seco riterrà tutti i suoi giorni.
Più bello ancor, se andò ella stessa in traccia
D'uom d'altronde venuto, e a lui donossi,
Dappoi che i molti, che l'ambìano, illustri
Feaci tanto avanti ebbe in dispetto".
Così dirìano; e crudelmente offesa
Ne sarìa la mia fama. Io stessa sdegno
Concepirei contra chïunque osasse,
De' genitori non contenti in faccia,
Pria meschiarsi con gli uomini, che sorto
Fosse delle sue nozze il dì festivo.
Dunque a' miei detti bada; e leggermente
Ritorno e scorta impetrerai dal padre.
Folto di pioppi ed a Minerva sacro
Ci s'offrirà per via bosco fronzuto,
Cui viva fonte bagna, e molli prati
Cingono: ivi non più dalla cittade
Lontan, che un gridar d'uomo, il bel podere
Giace del padre, e l'orto suo verdeggia.
Ivi, tanto che a quella ed al paterno
Tetto io giunga, sostieni; e allor che giunta
Mi crederai, tu pur t'inurba, e cerca
Il palagio del re. Del re il palagio
Gli occhi tosto a sé chiama, e un fanciullino
Vi ti potrìa condur; che de' Feaci
Non sorge ostello che il paterno adegui.
Entrato nel cortil, rapidamente
Sino alla madre mia per le superbe
Camere varca. Ella davanti al foco,
Che del suo lume le colora il volto,
Siede, e, poggiata a una colonna, torce,
Degli sguardi stupor, purpuree lane.
Siedonle a tergo le fantesche; e presso
S'alza del padre il trono, in ch'ei, qual dio,
S'adagia, e della vite il nèttar bee.
Declina il trono, e stendi alle ginocchia
De la madre le braccia; onde tra poco
Del tuo ritorno alle natìe contrade,
Per remote che sien, ti spunti il giorno.
Stùdiati entrarle tanto e quanto in core;
E di non riveder le patrie sponde,
Gli alberghi avìti, e degli amici il volto,
Bandisci dalla mente ogni sospetto”.
Detto così, della lucente sferza
Diè sulle groppe ai vigorosi muli,
Che pronti si lasciâro il fiume addietro.
Venìan correndo ed alternando a gara,
Bello a vedersi, le nervose gambe;
E la donzella, perché Ulisse a piede
Lei con le ancelle seguitar potesse,
Attenta carreggiava e fea con arte
Scoppiare in alto della sferza il suono.
Cadea nell'acque occidentali il sole,
Che al sacro di Minerva illustre bosco
Fûro; ed Ulisse ivi s'assise. Quindi
A Minerva pregava in tali accenti:
“Odimi, invitta dell'Egìoco figlia,
Ed oggi almen fa' pieni i voti miei
Tu, che pieni i miei voti unqua non festi,
Finché su l'onde mi sbalzò Nettuno.
Tu dammi che, gradito e non indegno
Di pietade, ai Feaci io m'appresenti”.
Disse, e Palla l'udì; ma non ancora
Visibilmente gli assistea, per tema
Del zio possente, al cui tremendo cruccio
Era, pria che i natìi lidi toccasse,
Bersaglio eterno il pari ai numi Ulisse.
LIBRO SETTIMO
Mentre così pregava il pazïente
Divino Ulisse, dal vigor de' muli
Portata era Nausica alla cittade.
Giunta d'Alcinoo alla magion sublime,
S'arrestò nel vestibolo; e i germani,
Belli al par degli Eterni, intorno a lei
D'ogni parte venìan: sciolsero i muli,
E le vesti recaro entro la reggia.
Ma la fanciulla il piede alla secreta
Movea sua stanza: e raccendeale il foco
Eurimedusa, una sua vecchia fante,
Nata in Epiro, e su le negre navi
Condotta, e al prode Alcinoo offerta in dono
Perché ai Feaci ei comandava, e lui,
Qual se un dio favellasse, udìan le genti.
Costei Nausica dal braccio di neve
Rallevò nel palagio, ed ora il foco
Raccendeale, e mettea la cena in punto.
Ulisse intanto sorse, e il cammin prese
Della città. Ma l'Atenéa Minerva,
Che da lui non torcea l'occhio giammai,
Di molta il cinse impenetrabil nebbia,
Onde nessun Feace o di parole,
Scontrandolo, il mordesse, o il domandasse
Del nome e della patria. Ei già già entrava
Nell'amena città, quando la diva
Gli occhi cerulea, se gli fece incontro,
Non dissimile a vergine, che piena
Sul giovinetto capo urna sostenti.
Stettegli a fronte in tal sembianza, e Ulisse
Così la interrogava: “O figlia, al tetto
D'Alcinoo, che tra questi uomini impera,
Vuoi tu condurmi? Io forestier di lunge,
E dopo molti guai venni, né alcuno
Della città conobbi, o del contorno”.
“Ospite padre”, rispondea la diva
Dai glauchi lumi, “il tetto desïato
Mostrar ti posso di leggier; ché quello
Del mio buon genitor per poco il tocca.
Ma in silenzio tu seguimi e lo sguardo
Non drizzare ad alcun, non che la voce.
Render costoro agli stranieri onore
Non sanno punto, né accoglienze amiche
Trova, o carezze qui, chi altronde giunga.
Essi, fidando nelle ratte navi,
Per favor di Nettuno il vasto mare
In un istante varcano: veloci
Come l'ale o il pensier sono i lor legni”.
Dette tai cose, frettolosa Palla
Gli entrava innanzi, e l'orme ei ne calcava.
Né i Feaci scorgeanlo andar tra loro:
Così volendo la possente diva,
Pallade, che al suo ben sempre intendea,
E di sacra l'avvolse oscura nube.
Ulisse i porti e i bei costrutti legni
Maravigliava, e le superbe piazze,
Ove i prenci s'assembrano, e le lunghe,
Spettacolo ammirando, eccelse mura
Di steccati munite e di ripari.
Ma non prima d'Alcinoo alle regali
Case appressaro, che Minerva disse:
“Eccoti, ospite padre, in faccia il tetto
Che mi richiedi: là vedrai gli alunni
Di Giove, i prenci, a lauta mensa assisi.
Cacciati dentro, e non temer: l'uom franco
D'ogni difficoltate, a cui s'incontri,
Meglio si trae, benché di lunge arrivi.
Pria la Regina, che si noma Arete,
E comun con Alcinoo il sangue vanta,
Ti s'offrirà alla vista. Il dio che scuote
Del suo tridente la terrena mole,
Un bambin ricevé dalla più bella
Donna di quell'età, da Peribèa,
Figlia minor d'Eurimedonte, a cui
De' Giganti obbedìa l'oltracotata
Progenie rea, che per le lunghe guerre
Tutta col suo re stesso al fin s'estinse.
Nettun di lei s'accese, e n'ebbe un figlio,
Nausìtoo generoso, il qual fu padre
Di Ressènore e Alcinoo; e sul Feace
Popol regnava. Il primo, a cui fallìa
Prole del miglior sesso, avea di poco
Nella sua reggia la consorte addotta
Che Apollo dall'argenteo arco il trafisse;
Né rimase di lui che una figliuola,
Arete, e questa in moglie Alcinoo tolse,
E venerolla fieramente: donna
Non vive in nodi maritali stretta,
Che sì alto al suo sposo in mente sieda.
E in gran pregio non men l'hanno, ed amore
Portanle i figli, e i cittadini ancora,
Che a lei, quandunque va per la cittade,
Gli occhi alzan, come a diva, e con accenti
Festivi la ricevono; ché senno
Né a lei pur manca vêr chi più tien caro,
E le liti non rado ella compone.
Se un loco prender nel suo cor tu sai,
La terra, dove i lumi apristi al giorno,
La magion de' tuoi padri, e degli amici
I noti volti riveder confida”.
Detto, la dea, ch'è nelle luci azzurra,
Su pel mare infruttifero lanciossi.
Lasciò la bella Scheria, e Maratona
Trovò, ed Atene dalle larghe vie,
E nel suo tempio entrò, che d'Erettèo
Fu ròcca inespugnabile. Ma Ulisse
All'ostello reale il piè movea,
E molte cose rivolgea per l'alma,
Pria ch'ei toccasse della soglia il bronzo:
Ché d'Alcinoo magnanimo l'augusto
Palagio chiara, qual di sole o luna,
Mandava luce. Dalla prima soglia
Sino al fondo correan due di massiccio
Rame pareti risplendenti, e un fregio
Di ceruleo metal girava intorno.
Porte d'ôr tutte la inconcussa casa
Chiudean: s'ergean dal limitar di bronzo
Saldi stìpiti argentei, ed un argenteo
Sosteneano architrave, e anello d'oro
Le porte ornava; d'ambo i lati a cui,
Stavan d'argento e d'ôr vigili cani:
Fattura di Vulcan, che in lor ripose
Viscere dotte, e da vecchiezza immuni
Temperolli, e da morte, onde guardato
Fosse d'Alcinoo il glorïoso albergo.
E quanto si stendean le due pareti,
Eranvi sedie quinci e quindi affisse,
Con fini pepli sovrapposti, lunga
Delle donne di Scheria opra solerte.
Qui de' Feaci s'assideano i primi,
La mano ai cibi ed ai licor porgendo,
Che lor metteansi ciascun giorno avante:
E la notte garzoni in oro sculti
Su piedistalli a grande arte construtti,
Spargean lume con faci in su le mense.
Cinquanta il re servono ancelle: l'une
Sotto pietra rotonda il biondo grano
Frangono; e l'altre o tesson panni, o fusi
Con la rapida man rotano assise,
Movendosi ad ognor, quali agitate
Dal vento foglie di sublime pioppo.
Splendono i drappi a maraviglia intesti,
Come se un olio d'ôr su vi scorresse.
Poiché quanto i Feaci a regger navi
Gente non han che li pareggi, tanto
Valgon tele in oprar le Feacesi,
Cui mano industre più che all'altre donne
Diede Minerva, e più sottile ingegno.
Ma di fianco alla reggia un orto grande,
Quanto ponno in dì quattro arar due tori
Stendesi, e viva siepe il cinge tutto.
Alte vi crescon verdeggianti piante,
Il pero e il melagrano, e di vermigli
Pomi carico il melo, e col soave
Fico nettáreo la canuta oliva.
Né il frutto qui, regni la state, o il verno,
Pêre, o non esce fuor: quando sì dolce
D'ogni stagione un zeffiretto spira,
Che mentre spunta l'un, l'altro matura.
Sovra la pera giovane, e su l'uva
L'uva, e la pera invecchia, e i pomi e i fichi
Presso ai fichi ed ai pomi. Abbarbicata
Vi lussureggia una feconda vigna,
De' cui grappoli il sol parte dissecca
Nel più aereo ed aprìco, e parte altrove
La man dispicca dai fogliosi tralci,
O calca il piè ne' larghi tini: acerbe
Qua buttan l'uve i redolenti fiori,
E di porpora là tingonsi e d'oro.
Ma del giardino in sul confin tu vedi
D'ogni erba e d'ogni fior sempre vestirsi
Ben culte aiuole, e scaturir due fonti
Che non taccion giammai: l'una per tutto
Si dirama il giardino, e l'altra corre,
Passando del cortil sotto alla soglia,
Sin davanti al palagio; e a questa vanno
Gli abitanti ad attingere. Sì bella
Sede ad Alcinoo destinaro i numi.
Di maraviglia tacito e sospeso
Ulisse colà stava; e visto ch'ebbe
Tutto, e rivisto con secreta lode,
Nell'eccelsa magion ratto si mise.
Trovò i Feaci condottieri e prenci,
Che libavan co' nappi all'Argicida
Mercurio, a cui libar solean da sezzo,
Come del letto gli assalìa la brama;
E innanzi trapassò, dentro alla folta
Nube che Palla gli avea sparsa intorno,
Finché ad Arete e al suo marito giunse.
Circondò con le braccia alla Reina
Le ginocchia; ed in quel da lui staccossi
La nube sacra, e in vento si disciolse.
Tutti repente ammutolîro, e forte
Stupìan, guardando l'uom che alla Reina
Supplicava in tal forma: “O del divino
Ressènore figliuola, illustre Arete,
Alle ginocchia tue, dopo infiniti
Disastri, io vegno, vegno al tuo consorte,
E a questi grandi ancor, cui dì felici
Menar gli dèi concedano, e ne' figli
Le ricchezze domestiche e gli onori
Che s'acquistaro, tramandare. Or voi
Scorta m'apparecchiate, acciocché in breve
Alla patria io mi renda ed agli amici,
Da cui vivo lontan tra i guai gran tempo”.
Disse, e andò al focolare, e innanzi al foco
Sovra l'immonda cenere sedette:
Né alcun fra tanti aprìa le labbra. Al fine
Parlò l'eroe vecchio Etenèo, che in pronto
Molte avea cose trapassate, e tutti
Di facondia vincea, non men che d'anni:
“Alcinoo”, disse con amico petto,
“Poco ti torna onor, che su l'immonda
Cenere il forestier sieda; e se nullo
Muovesi, egli è perché un tuo cenno aspetta.
Su via, leval di terra, e in sedia il poni
Borchiettata d'argento; e ai banditori
Mescer comanda, onde al gran Giove ancora
Che del fulmine gode, e s'accompagna
Co' venerandi supplici, libiamo.
La dispensiera poi di quel che in serbo
Tiene, presenti al forestier per cena”.
Alcinoo, udito ciò, lo scaltro Ulisse
Prese per man, dal focolare alzollo
E l'adagiò sovra un lucente seggio,
Fatto sorgerne prima il più diletto
De' suoi figliuoli che sedeangli accanto,
L'amico di virtù Laodamante.
Tosto l'ancella da bel vaso d'oro
Purissim'acqua nel bacil d'argento
Gli versava, e stendea desco polìto,
Su cui l'onesta dispensiera bianchi
Pani venne ad imporre, e di serbate
Dapi gran copia. Ma la sacra possa
Di Alcinoo al banditor: “Pontònoo, il rosso
Licore infondi nelle tazze, e in giro
Recalo a tutti, onde al gran Giove ancora,
Che del fulmine gode, e s'accompagna
Co' venerandi supplici, libiamo”.
Disse; e Pontònoo il buon licore infuse,
E il recò, propinando, a tutti in giro.
Ma il re, come libato ebbero, e a piena
Voglia bevuto, in tai parole uscìo:
“O condottieri de' Feaci, o capi,
Ciò che il cor dirvi mi consiglia, udite.
Già banchettati foste: i vostri alberghi
Cercate adunque e riposate. Al primo
Raggio di Sole in numero più spessi
Ci adunerem, perché da noi s'onori
L'ospite nel palagio, e più superbe
Vittime immoleransi: indi con quale
Scorta al suol patrio, per lontan che giaccia,
Possa, non pur senza fatica o noia,
Ma lieto e rapidissimo condursi,
Diviseremo. Esser dee nostra cura
Che danno non l'incolga, in sin ch'ei tocco
Non abbia il suol natìo. Colà poi giunto,
Quel soffrirà, che le severe Parche
Nel dì del suo natale a lui filâro.
E se un dio fosse dall'Olimpo sceso?
Altro s'avvolgerìa disegno in mente
De' numi allora. Spesso a noi mostrarsi
Nell'ecatombe più solenni, e nosco
Starsi degnaro ad una mensa. Dove
Un qualche vïandante in lor s'avvenga,
Non l'occultano a noi, che per vetusta
Origine lor siam molto vicini,
Non altrimenti che i Ciclopi antichi,
E de' Giganti la selvaggia stirpe”.
“Alcinoo”, gli rispose il saggio Ulisse,
“Muta questo pensiero. Io dell'immenso
Cielo ai felici abitatori eterni
Né d'indole somiglio, né d'aspetto.
Somiglio ai figli de' mortali, e a quanti
Voi conoscete in più angoscioso stato.
Né ad alcuno di lor cedo ne' mali:
Tanti e sì gravi men crearo i numi.
Or cenar mi lasciate, ancor che afflitto;
Però che nulla io so di più molesto
Che il digiun ventre, di cui l'uom mal puote
Dimenticarsi per gravezze o doglie.
Nel fondo io son de' guai: pur questo interno
Signor, che mai di domandar non resta,
Vuol ch'io più non rammenti i danni miei,
E ai cibi stenda ed ai licor la mano.
Ma voi, comparso in Orïente il giorno,
Rimandarmi vi piaccia. Io non ricuso,
Visti i miei servi, l'alte case e i campi,
Gli occhi al lume del Sol chiuder per sempre”.
Disse; e tutti assentìano, e fean gran ressa,
Che lo stranier, che ragionò sì bene,
Buona scorta impetrasse. Al fin, libato
Ch'ebbero e a pien bevuto, il proprio albergo
Ciascun cercava, per entrar nel sonno.
Sol nella reggia rimaneasi Ulisse,
E presso gli sedeano Alcinoo e Arete,
Mentre le ancelle del convito i vasi
Dalla mensa toglieano. Arete prima
Gli favellò, come colei che il manto
Riconobbe, e la tunica, leggiadre
Vesti, che di sua man tessute avea
Con le sue fanti, e che or vedeagli in dosso:
“Stranier”, gli disse con alate voci,
Di questo io te cercar voglio la prima:
Chi sei tu? Donde sei? Da chi tai panni?
Non ci fai creder tu che ai nostri lidi
Misero, errante e naufrago approdasti?”
E il saggio Ulisse replicògli: “Forte,
Regina, i mali raccontar, che molti
M'invïaro gli dèi. Quel che più brami
Sapere, io toccherò. Lontana giace
Un'isola nel mar che Ogigia è detta.
Quivi d'Atlante la fallace figlia
Dai ben torti capei, Calipso, alberga,
Terribil dea, con cui nessun de' numi
Conversa, o de' mortali. Un genio iniquo
Con lei me solo a dimorar costrinse,
Dappoi che Giove a me per l'onde scure
La ratta nave folgorando sciolse.
Tutti morti ne fûro i miei compagni:
Ma io, con ambe mani alla carena
Della nave abbracciatomi, per nove
Giorni fui trasportato, e nella fosca
Decima notte all'isoletta spinto
Della dea, che m'accolse, e amicamente
Mi trattava e nodriva, e promettea
Da morte assicurarmi e da vecchiezza;
Né però il cor mi piegò mai nel petto.
Sette anni interi io mi vedea con lei,
E di perenni lagrime i divini
Panni bagnava, che mi porse in dono.
Ma tosto che l'ottavo anno si volse,
La diva, o fosse imperïal messaggio
Del figliuol di Saturno, o di lei stessa
Mutamento improvviso, alle mie case
Ritornar confortavami. Su travi,
Da moltiplici nodi in un congiunte,
Con molti doni accommiatommi: pane
Candido e dolce vin diemmi, e odorate
Vesti vestimmi, e, ad incresparmi il mare,
Un placido mandò vento innocente.
Io dieci viaggiava e sette giorni
Su le liquide strade. Al nuovo albore
Mi sorse incontro co' suoi monti ombrosi
L'isola vostra, e a me infelice il core
Ridea, benché altri guai m'apparecchiasse
Nettun, che incitò i venti, il mar commosse,
Mi precise la via; né più speranza
Già m'avanzava, che il naviglio frale
Me gemente portasse all'onde sopra.
Ruppelo al fine il turbo. A nuoto allora
Misurai questo mar, finché alla vostra
Contrada il vento mi sospinse e il flutto.
Quivi alla terra, nell'uscir dell'acque,
Franto un'onda m'avrìa, che me in acute
Punte cacciava, e in disamabil riva:
Se non ch'io, ritirandomi dal lido,
Tanto nôtava, che a un bel fiume sceso
Da Giove io giunsi, ove opportuno il loco
Parvemi e liscio; né in balìa de' venti.
Scampai, le forze raccogliendo. Intanto
Spiegò i suoi veli la divina Notte,
Ed io, lasciato da una parte il fiume,
Sovra un letto di foglie e tra gli arbusti
Giacqui, e m'infuse lungo sonno un dio.
Dormìi l'intera notte insino all'alba,
Dormìi sino al meriggio; e già calava
Verso Occidente il Sole, allor che il dolce
Sonno m'abbandonò. Vidi le ancelle
Della tua figlia trastullar su l'erba,
E lei tra quelle, che una dea mi parve,
E a cui preghiere io porsi; ed ella senno
Mostrava tal, qual non s'attende mai
L'uom da una età sì fresca, in cui s'abbatta,
Perché la fresca età sempre folleggia.
Ella recente pan, vino possente,
Ella comodo bagno a me nel fiume,
Ed ella vesti. Me infelice il fato
Render potrà, ma non potrà bugiardo”.
Ed Alcinoo repente: “Ospite, in questo
La mia figlia sfallì, che non condusse
Te con le ancelle alla magion, quantunque
Tu a lei primiera supplicato avessi”.
“Eccelso eroe, non mi biasmar”, rispose
Lo scaltro Ulisse, “per cagion sì lieve
La incolpabil fanciulla. Ella m'ingiunse
Di seguitarla con le ancelle; ed io
Men guardai, per timor che il tuo vedermi
T'infiammasse di sdegno. Umana, il sai,
Razza noi siamo al sospettare inchina”.
Ed Alcinoo di nuovo: “Ospite, un'alma
Già non s'annida in me, che fuoco prenda
Sì prontamente. Alla ragione io cedo,
E quel che onesto è più, sempre io trascelgo.
Ed oh piacesse a Giove, a Palla e a Febo,
Che, qual ti scorgo, e d'un parer con meco
Sposa volessi a te far la mia figlia,
Genero mio chiamarti, e la tua stanza
Fermar tra noi! Case otterresti e beni
Da me, dove il restar non ti sgradisse:
Ché ritenerti a forza, e l'ospitale
Giove oltraggiar, nullo qui fia che ardisca.
Però così su l'alba il tuo vïaggio
Noi disporrem, che abbandonarti al sonno
Nella nave potrai, mentre i Feaci
L'azzurra calma romperan co' remi,
Né cesseran, che nella patria messo
T'abbiano, e ovunque ti verrà desìo,
Foss'anco oltre l'Eubèa, cui più lontana
D'ogni altra regïon che alzi dal mare,
Dicon que' nostri che la vider, quando
A Tizio, figlio della terra, il biondo
Radamanto condussero. All'Eubèa
S'indrizzar, l'afferrar, ne ritornaro
Tutto in un giorno; e non fu grave impresa.
Conoscerai quanto sien bene inteste
Le nostre navi, e i giovani gagliardi
Nel voltar sottosopra il mar co' remi”.
Gioì a tai detti il pazïente Ulisse,
E, le braccia levando: “O Giove padre”,
Sclamò, “tutte adempir le sue promesse
Possami Alcinoo! Ei gloria eterna avranne,
Ed io porrò nelle mie case il piede”.
Queste correan tra lor parole alterne.
Ma la Reina, candida le braccia,
Arete, intanto alle fantesche impose
Il letto collocar sotto la loggia,
Belle gittarvi porporine coltri,
E tappeti distendervi, e ai tappeti
Manti vellosi sovrapporre. Uscîro
Quelle, tenendo in man lucide faci,
Il denso letto sprimacciaro in fretta,
E rïentrate: “Sorgi, ospite; or puoi”,
Dissero a Ulisse, “chiuder gli occhi al sonno”.
Né punto al forestier l'invito spiacque.
Così ei sotto il portico sonante
Là s'addormìa ne' traforati letti.
Alcinoo si corcò del tetto eccelso
Ne' penetrali; e a lui da presso Arete,
La consorte real, che a sé ed a lui
Preparò di sua mano il letto e i sonni.
LIBRO OTTAVO
Ma tosto che rosata ambo le palme,
Comparve in ciel l'aggiornatrice Aurora,
Surse di letto la sacrata possa
Del magnanimo Alcinoo, e il divin surse
Rovesciator delle cittadi Ulisse.
La possanza d'Alcinoo al parlamento,
Che i Feaci tenean presso le navi,
Prima d'ogni altro mosse. A mano a mano
Venìano i Feacesi, e su polite
Pietre sedeansi. L'occhiglauca diva,
Cui d'Ulisse il ritorno in mente stava,
Tolte del regio banditor le forme,
Qua e là s'avvolgea per la cittade,
E appressava ciascuno, e: “Su”, dicea,
“Su, prenci e condottieri, al foro, al foro,
Se udir vi cal dello stranier che giunse
Ad Alcinoo testé per molto mare,
E assai più, che dell'uom, del nume ha in viso”.
Disse, e tutti eccitò. Della raccolta
Gente fûro in brev'ora i seggi pieni.
Ciascun guardava con le ciglìa in arco
Di Laerte il figliuol: ché a lui Minerva
Sovra il capo diffuse e su le spalle
Divina grazia, ed in grandezza e in fiore
Crebbelo, e in gagliardìa, perch'ei ne' petti
Destar potesse riverenza e affetto,
E de' nobili giuochi, ove chiamato
Fosse a dar di sé prova, uscir con vanto.
Concorsi tutti, e in una massa uniti,
Tra loro arringò Alcinoo in questa guisa:
“O condottieri de' Feaci, e prenci,
Ciò che il cor dirvi mi comanda, udite.
Questo a me ignoto forestier, che venne
Ramingo, e ignoro ancor se donde il Sole
Nasce, o donde tramonta, ai tetti miei
Scorta dimanda pel viaggio, e prega
Gli sia ratto concessa. Or noi l'usanza
Non seguirem con lui? Uomo, il sapete,
Ai tetti miei non capitò, che mesto
Languir dovesse sovra queste piagge,
Per difetto di scorta, i giorni e i mesi.
Traggasi adunque nel profondo mare
Legno dall'onde non battuto ancora,
E s'eleggan cinquanta e due garzoni
Tra il popol tutto, gli ottimi. Costoro,
Varato il legno, e avvinti ai banchi i remi,
Subite e laute ad apprestar m'andranno
Mense, che a tutti oggi imbandite io voglio.
Ma quei che di bastone ornan la mano,
L'ospite nuovo ad onorar con meco
Vengano ad una; e il banditor mi chiami
L'immortale Demodoco, a cui Giove
Spira sempre de' canti il più soave,
Dovunque l'estro, che l'infiamma, il porti”.
Detto, si mise in via. Tutti i scettrati
Seguìanlo ad una, e all'immortal cantore
L'araldo indirizzavasi. I cinquanta
Garzoni e due, come il re imposto avea,
Fûro del mar non seminato al lido;
La nave negra nel profondo mare
Trassero, alzâro l'albero e la vela.
I lunghi remi assicurâr con forti
Lacci di pelle, a maraviglia il tutto,
E, le candide vele al vento aperte,
Arrestaro nell'alta onda la nave:
Poscia d'Alcinoo ritrovar l'albergo.
Già i portici s'empiean, s'empieano i chiostri,
Non che ogni stanza, della varia gente,
Che s'accogliea, bionde e canute teste,
Una turba infinita. Il re quel giorno
Diede al sacro coltel dodici agnelle,
Otto corpi di verri ai bianchi denti,
E due di tori dalle torte corna.
Gli scoiâr, gli acconciâr, ne apparecchiaro
Convito invidïabile. L'araldo
Ritorno feo, per man guidando il vate,
Cui la Musa portava immenso amore,
Benché il ben gli temprasse e il male insieme.
Degli occhi il vedovò, ma del più dolce
Canto arricchillo. Il banditor nel mezzo
Sedia d'argento borchiettata a lui
Pose, e l'affisse ad una gran colonna:
Poi la cetra vocale a un aureo chiodo
Gli appese sovra il capo, ed insegnògli,
Come a staccar con mano indi l'avesse.
Ciò fatto, un desco gli distese avanti
Con panier sopra, e una capace tazza,
Ond'ei, qual volta nel pungea desìo,
Del vermiglio licor scaldasse il petto.
Come la fame rintuzzata, e spenta
Fu la sete in ciascun, l'egregio vate,
Che già tutta sentìasi in cor la Musa,
De' forti il pregio a risonar si volse,
Sciogliendo un canto, di cui sino al cielo
Salse in que' dì la fama. Era l'antica
Tenzon d'Ulisse e del Pelìade Achille,
Quando di acerbi detti ad un solenne
Convito sacro si ferîro entrambi.
Il re de' prodi Agamennòn gioìa
Tacitamente in sé, visti a contesa
Venire i primi degli Achei: ché questo
Della caduta d'Ilio era il segnale.
Tanto da Febo nella sacra Pito,
Varcato appena della soglia il marmo,
Predirsi allora udì, che di que' mali,
Che sovra i Teucri, per voler di Giove,
Rovesciarsi doveano, e su gli Achivi,
Si cominciava a dispiegar la tela.
A tai memorie il Laerziade, preso
L'ampio ad ambe le man purpureo manto,
Sel trasse in testa, e il nobil volto ascose,
Vergognando che lagrime i Feaci
Vedesserlo stillar sotto le ciglia.
Tacque il cantor divino; ed ei, rasciutte
Le guancie in fretta, dalla testa il manto
Si tolse, e, dato a una ritonda coppa
Di piglio, libò ai numi. I Feacesi
Cui gioia erano i carmi, a ripigliarli
Il poeta eccitavano, che aprìa
Novamente le labbra; e novamente
Coprirsi il volto e lagrimare Ulisse.
Così, gocciando lagrime, da tutti
Celossi. Alcinoo sol di lui s'avvide,
E l'adocchiò, sedendogli da presso,
Oltre che forte sospirare udillo;
E più non aspettando: “Udite”, disse,
“Della Feacia condottieri e prenci.
Già del comun convito, e dell'amica
De' conviti solenni arguta cetra
Godemmo. Usciamo, e ne' diversi giuochi
Proviamci, perché l'ospite, com'aggia
Rimesso il piè nelle paterne case,
Narri agli amici, che l'udranno attenti,
Quanto al cesto e alla lotta, e al salto e al corso,
Cede a noi, vaglia il vero, ogni altra gente”.
Disse, ed entrò in cammino; e i prenci insieme
Seguìanlo. Ma l'araldo, alla caviglia
Rïappiccata la sonante cetra,
Prese il cantor per mano, e fuor del tetto
Menollo: indi guidavalo per quella
Strada, in cui posto erasi Alcinoo e i capi.
Movean questi veloce al Foro il piede,
E gente innumerabile ad un corpo
Lor tenea dietro. Ed ecco sorger molta,
Per cimentarsi, gioventù forzuta.
Sorse Acroneo ed Ocìalo. Eleatrèo sorse,
E Nauteo e Prìmneo e Anchìalo: levossi
Eretméo ancor, Pontèo, Proto, Toòne,
Non che Anabesinèo, non che Anfiàlo,
Di Polinèo Tectonide la prole,
E non ch'Eurìalo all'omicida Marte
Somigliante, e Naubòlide, che tutti,
Ma dopo il senza neo Laodamante,
Vincea di corpo e di beltà. Né assisi
I tre restâr figli d'Alcinoo: desso
Laodamante, Alio, che al Rege nacque
Secondo, e Clitonèo pari ad un nume.
Del corso fu la prima gara. Un lungo
Spazio stendeasi alla carriera; e tutti
Dalle mosse volavano in un groppo
Densi globi di polvere levando.
Avanzò gli altri Clitonèo, che, giunto
Della carriera al fin, lasciolli indietro
Quell'intervallo che i gagliardi muli
I tardi lascian corpulenti buoi,
Se lo stesso noval fendono a un'ora.
Succedé al corso l'ostinata lotta,
Ed Eurìalo prevalse. Il maggior salto
Anfiàlo spiccollo, e il disco lunge
Non iscagliò nessun, com'Elatrèo.
Laodamante, il real figlio egregio,
Nel pùgile severo ebbe la palma.
Fine al diletto de' certami posto,
Parlò tra lor Laodamante: “Amici,
Su via, l'estraneo domandiam di queste
Prove, se alcuna in gioventù ne apprese.
Di buon taglio e' mi sembra; e, dove ai fianchi,
Dove alle gambe, e delle mani ai dossi
Guárdisi, e al fermo collo, una robusta
Natura io veggio, e non mi par che ancora
Degli anni verdi l'abbandoni il nerbo.
Ma il fransero i disagi all'onde in grembo:
Ché non è, quanto il mar, siccome io credo,
Per isconfigger l'uom, benché assai forte”.
“Laodamante, il tuo parlar fu bello”,
Eurìalo rispondea. “Però l'abborda
Tu stesso, e il tenta; e a fuori uscir l'invita”.
Come d'Alcinoo l'incolpabil figlio
Questo ebbe udito, si fe' innanzi, e stando
Nel mezzo: “Orsù, gli disse, ospite padre,
Tu ancor ne' giochi le tue forze assaggia,
Se alcun mai ne apparasti a' giorni tuoi,
E degno è ben che non ten mostri ignaro:
Quando io non so per l'uom gloria maggiore
Che del piè con prodezza e della mano,
Mentre in vita riman, poter valersi.
T'arrischia dunque, e la tristezza sgombra
Dall'alma. Poco il desïato istante
Del tuo vïaggio tarderà: varata
Fu già la nave, e i rèmigi son pronti”.
Ma così gli rispose il saggio Ulisse:
“Laodamante, a che cotesto invito,
Deridendomi quasi? Io, più che giochi,
Disastri volgo per l'afflitta mente,
Io, che tanto patìi, sostenni tanto,
E or qui, mendico di ritorno e scorta,
Siedomi, al re pregando, e al popol tutto”.
Il bravo Eurìalo a viso aperto allora:
“Uom non mi sembri tu, che si conosca
Di quelle pugne che la stirpe umana
Per suo diletto esercitar costuma.
Tu m'hai vista di tal che presso nave
Di molti banchi s'affaccendi, capo
Di marinari al trafficare intesi,
Che in mente serba il carico, ed al vitto
Pensa; e ai guadagni con rapina fatti:
Ma nulla certo dell'atleta tieni”.
Mirollo bieco, e replicògli Ulisse:
“Male assai favellasti, e ad uom protervo
Somigli in tutto. Così è ver che i numi
Le più care non dan doti ad un solo:
Sembiante, ingegno e ragionar che piace.
L'un bellezza non ha, ma della mente
Gl'interni sensi in cotal guisa esprime,
Che par delle parole ornarsi il volto.
Gode chiunque il mira. Ei, favellando
Con soave modestia, e franco a un tempo,
Spicca in ogni consesso; e allor che passa
Per la città, gli occhi a sé attrae, qual nume.
L'altro nel viso e nelle membra un mostra
Degl'immortali dèi: pur non si vede
Grazia che ai detti suoi s'avvolga intorno.
Così te fregia la beltà, né meglio
Formar saprìan gli stessi eterni un volto:
Se non che poco della mente vali.
Mi trafiggesti l'anima nel petto,
Villane voci articolando; io nuovo
Non son de' giochi qual tu cianci e credo
Anzi, ch'io degli atleti andai tra i primi,
Finché potei de' verdi anni e di queste
Braccia fidarmi. Or me, che aspre fatiche
Durai, tra l'armi penetrando e l'onde,
Gl'infortunï domaro. E non pertanto
Cimenterommi: ché mordace troppo
Fu il tuo sermon, ne più tenermi io valgo”.
Disse; e co' panni stessi, in ch'era involto,
Lanciossi, ed afferrò massiccio disco,
Che quelli, onde giocar solean tra loro,
Molto di mole soverchiava e pondo.
Rotollo in aria, e con la man robusta
Lo spinse: sonò il sasso, ed i Feaci,
Que' naviganti celebri, que' forti
Remigatori, s'abbattero in terra
Per la foga del sasso il qual, partito
Da sì valida destra, i segni tutti
Rapidamente sorvolò. Minerva,
Vestite umane forme, il segno pose,
E all'ospite conversa: “Un cieco”, disse,
“Trovar, palpando, tel potrìa: ché primo,
Né già di poco, e solitario sorge.
Per questa prova dunque alcun timore
Non t'anga: lunge dal passarti, alcuno
Tra i Feaci non fia che ti raggiunga”.
Rallegrossi a tai voci, e si compiacque
Il Laerzìade, che nel circo uom fosse
Che tanto il favorìa. Quindi ai Feaci
Più mollemente le parole volse:
“Quello arrivate, o damigelli, e un altro
Pari, o più grande, fulminarne in breve
Voi mi vedrete, io penso. Ed anco in altri
Certami, o cesto, o lotta, o corso ancora,
Chi far periglio di se stesso agogna,
Venga in campo con me: poiché di vero
Mi provocaste oltre misura. Uom vivo
Tra i Feacesi io non ricuso, salvo
Laodamante, che ricetto dammi.
Chi entrar vorrebbe con l'amico in giostra?
Stolto e da nulla è senza dubbio, e tutto
Storpia le imprese sue, chïunque, in mezzo
D'un popol stranier, con chi l'alberga
Si presenta a contendere. Degli altri
Nessun temo, o dispregio, e son con tutti
Nel dì più chiaro a misurarmi pronto,
Come colui che non mi credo imbelle,
Quale il cimento sia. L'arco lucente
Trattare appresi: imbroccherei primaio,
Saettando un guerrier dell'oste avversa,
Benché turba d'amici a me d'intorno
Contra quell'oste disfrenasse i dardi.
Sol Filottete mi vincea dell'arco,
Mentre a gara il tendean sotto Ilio i Greci:
Ma quanti sulla terra or v'ha mortali,
Cui la forza del pane il cor sostenta,
Io di gran lunga superar mi vanto:
Ché non vo' pormi io già co' prischi eroi,
Con Eurìto d'Ecalia, o con Alcìde,
Che agli dèi stessi di scoccar nell'arte
Si pareggiâro. Che ne avvenne? Giorni
Sorser pochi ad Eurìto, e le sue case
Nol videro invecchiar, poscia che Apollo
Forte si corrucciò che disfidato
L'avesse all'arco, e di sua man l'uccise.
Dell'asta poi, quanto nessun di freccia
Saprebbe, io traggo. Sol nel corso io temo
Non mi vantaggi alcun: ché, tra che molto
M'afflisse il mare, e che non fu il mio legno
Sempre vettovagliato, a me, qual prima,
Non ubbidisce l'infedel ginocchio”.
Ammutolì ciascuno, e Alcinoo solo
Rispose: “Forestier, la tua favella
Sgradir non ci potea. Sdegnato a dritto
De' motti audaci, onde colui ti morse,
La virtù mostrar vuoi che t'accompagna,
Virtù, che or da chi tanto o quanto scorga,
Più biasmata non fia. Ma tu m'ascolta,
Acciocché un dì, quando nel tuo palagio
Sederai con la sposa e i figli a mensa,
E quel che di gentile in noi s'annida,
Rimembrerai, possa un illustre amico
Favellando narrar, quali redammo
Studi dagli avi, per voler di Giove.
Non siam né al cesto, né alla lotta egregi;
Ma rapidi moviam, correndo, i passi,
E a maraviglia navighiamo. In oltre
Giocondo sempre il banchettar ci torna,
Musica e danza, ed il cangiar di veste,
I tepidi lavacri e i letti molli.
Su dunque voi, che tra i Feaci il sommo
Pregio dell'arte della danza avete,
Fate che lo straniero a' suoi più cari,
Risalutate le paterne mura,
Piacciasi raccontar, quanto anche al ballo,
Non che al nautico studio ed alla corsa,
Noi da tutte le genti abbiam vantaggio.
E tu, Pontonoo, per l'arguta cetra,
Che nel palagio alla colonna pende,
Vanne e al divin Demodoco la reca”.
Sorse, e partì l'araldo; e al tempo stesso
Sorsero i nove a presedere ai giuochi
Giudici eletti dai comuni voti:
Ed il campo agguagliâro, e dilataro,
Rimosse alquanto le persone, il circo.
Tornò l'araldo con la cetra, e in mano
La pose di Demodoco, che al circo
S'adagiò in mezzo. Danzatori allora
D'alta eccellenza, e in sul fiorir degli anni
Feano al vate corona, ed il bel circo
Co' presti piedi percoteano. Ulisse
De' frettolosi piè gli sfolgorìi
Molto lodava; e non si rïavea
Dallo stupor che gl'ingombrava il petto.
Ma il poeta divin, citareggiando,
Del bellicoso Marte, e della cinta
Di vago serto il crin Vener Ciprigna,
Prese a cantar gli amori, ed il furtivo
Lor conversar nella superba casa
Del re del fuoco, di cui Marte il casto
Letto macchiò nefandemente, molti
Doni offerti alla dea, con cui la vinse.
Repente il Sole, che la colpa vide,
A Vulcan nunzïolla; e questi, udito
L'annunzio doloroso, alla sua negra
Fucina corse, un'immortal vendetta
Macchinando nell'anima. Sul ceppo
Piantò una magna incude; e col martello
Nodi, per ambo imprigionarli, ordìa
A frangersi impossibili, o a disciorsi.
Fabbricate le insidie, ei, contra Marte
D'ira bollendo, alla secreta stanza,
Ove steso giaceagli il caro letto,
S'avvïò in fretta, e alla lettiera bella
Sparse per tutto i fini lacci intorno,
E molti sospendeane all'alte travi,
Quai fila sottilissime d'aragna,
Con tanta orditi e sì ingegnosa fraude,
Che né d'un dio li potea l'occhio tôrre.
Poscia che tutto degl'industri inganni
Circondato ebbe il letto, ir finse in Lenno.
Terra ben fabbricata, e, più che ogni altra
Cittade, a lui diletta. In questo mezzo
Marte, che d'oro i corridori imbriglia,
Alle vedette non istava indarno.
Vide partir l'egregio fabbro, e, sempre
Nel cor portando la di vago serto
Cinta il capo Ciprigna, alla magione
Del gran mastro de' fuochi in fretta mosse.
Ritornata di poco era la diva
Dal Saturnìde onnipossente padre
Nel coniugale albergo; e Marte, entrando,
La trovò che posava, e lei per mano
Prese, e a nome chiamò: “Venere”, disse,
“Ambo ci aspetta il solitario letto.
Di casa uscì Vulcano; altrove, a Lenno
Vassene, e ai Sinti di selvaggia voce”.
Piacque l'invito a Venere, e su quello
Salì con Marte, e si corcò: ma i lacci
Lor s'avvolgean per cotal guisa intorno,
Che stendere una man, levare un piede,
Tutto era indarno; e s'accorgeano al fine
Non aprirsi di scampo alcuna via.
S'avvicinava intanto il fabbro illustre,
Che volta diè dal suo viaggio a Lenno:
Perocché il Sole spïator la trista
Storia gli raccontò. Tutto dolente
Giunse al suo ricco tetto ed arrestossi
Nell'atrio: immensa ira l'invase, e tale
Dal petto un grido gli scoppiò, che tutti
Dell'Olimpo l'udir gli abitatori:
“O Giove padre, e voi”, disse, beati
Numi, che d'immortal vita godete,
Cose venite a rimirar da riso,
Ma pure insopportabili. Ciprigna,
Di Giove figlia, me, perché impedito
De' piedi son, copre d'infamia ognora,
Ed il suo cor nell'omicida Marte
Pone, come in colui che bello e sano
Nacque di gambe, dove io mal mi reggo.
Chi sen vuole incolpar? Non forse i soli,
Che tal non mi dovean mettere in luce,
Parenti miei? testimon siate, o numi,
Del lor giacersi uniti, e dell'ingrato
Spettacol che oggi sostener m'è forza.
Ma infredderan nelle lor voglie, io credo,
Benché sì accesi, e a cotai sonni in preda
Più non vorranno abbandonarsi. Certo
Non si svilupperan d'este catene,
Se tutti prima non mi torna il padre
Quei ch'io posi in sua man, doni dotali
Per la fanciulla svergognata: quando
Bella, sia loco al ver, figlia ei possiede,
Ma del proprio suo cor non donna punto”.
Disse; e i dèi s'adunâro alla fondata
Sul rame casa di Vulcano. Venne
Nettuno, il dio per cui la terra trema,
Mercurio venne de' mortali amico,
Venne Apollo dal grande arco d'argento.
Le dee non già; ché nelle stanze loro
Ritenevale vergogna. Ma i datori
D'ogni bramato ben dèi sempiterni
Nell'atrio s'adunâr: sorse tra loro
Un riso inestinguibile, mirando
Di Vulcan gli artifici; e alcun, volgendo
Gli occhi al vicino, in tai parole uscìa:
“Fortunati non sono i nequitosi
Fatti, e il tardo talor l'agile arriva.
Ecco Vulcan, benché sì tardo, Marte,
Che di velocità tutti d'Olimpo
Vince gli abitator, cogliere: il colse,
Zoppo essendo, con l'arte; onde la multa
Dell'adulterio gli può tôrre a dritto”.
Allor così a Mercurio il gaio Apollo:
“Figlio di Giove, messaggiero accorto,
Di grate cose dispensier cortese,
Vorrestu avvinto in sì tenaci nodi
Dormire all'aurea Venere da presso?”
“Oh questo fosse”, gli rispose il nume
Licenzïoso, e ad opre turpi avvezzo;
“Fosse, o sir dall'argenteo arco, e in legami
Tre volte tanti io mi trovassi avvinto,
E intendessero i numi in me lo sguardo
Tutti, e tutte le dee! Non mi dorrìa
Dormire all'aurea Venere da presso”.
Tacque; e in gran riso i Sempiterni diero.
Ma non ridea Nettuno; anzi Vulcano,
L'inclito mastro, senza fin pregava,
Liberasse Gradivo, e con alate
Parole gli dicea: “Scioglilo. Io t'entro
Mallevador, che agl'Immortali in faccia
Tutto ei compenserà, com'è ragione”.
“Questo”, rispose il dio dai piè distorti
Al Tridentier dalle cerulee chiome,
“Non ricercar da me. Triste son quelle
Malleverìe che dànnosi pe' tristi.
Come legarti agl'Immortali in faccia
Potrei, se Marte, de' suoi lacci sciolto,
Del debito, fuggendo, anco s'affranca?”
“Io ti satisfarò”, riprese il nume
Che la terra circonda, e fa tremarla.
E il divin d'ambo i piè zoppo ingegnoso:
“Bello non fôra il ricusar, né lice”.
Disse, e d'un sol suo tocco i lacci infranse.
Come liberi fûr, saltaro in piede,
E Marte in Tracia corse, ma la diva
Del riso amica, riparando a Cipri
In Pafo si fermò, dove a lei sacro
Frondeggia un bosco, ed un altar vapora.
Qui le Grazie lavaro, e del fragrante
Olio, che la beltà cresce de' numi,
Unsero a lei le delicate membra:
Poi così la vestir, che meraviglia
Non men che la dea stessa, era il suo manto.
Tal cantava Demodoco; ed Ulisse
E que' remigator forti, que' chiari
Navigatori, di piacere, udendo,
Le vene ricercar sentìansi, e l'ossa.
Ma di Laodamante e d'Alio soli,
Ché gareggiar con loro altri non osa,
Ad Alcinoo mirar la danza piacque.
Nelle man tosto la leggiadra palla
Si recaro, che ad essi avea l'industre
Polibo fatta, e colorata in rosso.
L'un la palla gittava in vêr le fosche
Nubi, curvato indietro; e l'altro, un salto
Spiccando, riceveala, ed al compagno
La rispingea senza fatica o sforzo,
Pria che di nuovo il suol col piè toccasse.
Gittata in alto la vermiglia palla,
La nutrice di molti amica terra
Co' dotti piedi cominciaro a battere,
A far volte e rivolte alterne e rapide,
Mentre lor s'applaudìa dagli altri giovani
Nel circo, e acute al ciel grida s'alzavano.
Così ad Alcinoo l'Itacese allora:
“O de' mortali il più famoso e grande,
Mi promettesti danzatori egregi,
E ingannato non m'hai. Chi può mirarli
Senza inarcar dello stupor le ciglia?”
Gioì d'Alcinoo la sacrata possa,
E ai Feaci rivolto: “Udite”, disse,
“Voi che per sangue e merto i primi siete.
Saggio assai parmi il forestiero, e degno
Che di ricchi l'orniam doni ospitali.
Dodici reggon questa gente illustri
Capi, e tra loro io tredicesmo siedo.
Tunica, e manto, ed un talento d'oro
Presentiamgli ciascuno, e tosto, e a un tempo,
Ond'ei, così donato, alla mia cena,
Con più gioia nel cor vegna e s'assida.
Eurìalo, che il ferì d'acerbi motti
Co' doni, e in un con le parole, il plachi”.
Assenso diè ciascuno, e un banditore
Mandò pe' doni, e così Eurìalo: “Alcinoo,
Il più famoso de' mortali e grande,
L'ospite io placherò, come tu imponi.
Gli offrirò questa di temprato rame
Fedele spada che d'argento ha l'elsa,
La vagina d'avorio: e fu l'avorio
Tagliato dall'artefice di fresco.
Non l'avrà, io penso, il forestier a sdegno”.
Ciò detto, a Ulisse in man la spada pose
Con tali accenti: “Ospite padre, salve.
Se dura fu profferta e incauta voce,
Prendala, e seco il turbine la porti.
E a te della tua donna e degli amici,
Donde lungi, e tra i guai, gran tempo vivi,
Giove conceda i desïati aspetti”.
“Salve”, gli replicò subito Ulisse,
“Amico, e tu. Gli abitator d'Olimpo
Dìanti felici dì: né mai nel petto
Per volger d'anni uopo o desir ti nasca
Di questa spada ch'io da te ricevo,
Benché placato già sol da' tuoi detti”.
Tacque; e il buon brando agli omeri sospese.
Già declinava il Sole, e innanzi a Ulisse
Stavano i doni. Gli onorati araldi
Nella reggia portâro i doni eletti,
Che dai figli del re tolti, e all'augusta
Madre davante collocati fûro.
Alcinoo entrò alla reggia, e seco i prenci,
Che altamente sedero; e del re il sacro
Valore in forma tal parlò ad Arete:
“Donna, su via, la più sald'arca e bella
Fuor traggi, ed una tunica vi stendi,
E un manto di cui nulla offenda il lustro.
Scaldisi in oltre allo stranier nel cavo
Rame sul foco una purissim'onda,
Perché, le membra asterse, e visti in bello
Ordin riposti de' Feaci i doni,
Meglio il cibo gli sappia, e più gradito
Scendagli al core per l'orecchio il canto.
Io questa gli darò di pregio eccelso
Mia coppa d'oro, acciò non sorga giorno,
Ch'ei d'Alcinoo non pensi, al Saturnide
Libando nel suo tetto, e agli altri numi”.
Disse; ed Arete alle sue fanti ingiunse
Porre il treppiede in su le brace ardenti.
Quelle il treppiede in su le ardenti brace
Posero, e versâr l'onda, e le raccolte
Legne accendeanvi sotto: il cavo rame
Cingean le fiamme, e si scaldava il fonte.
Arete fuor della secreta stanza
Trasse dell'arche la più salda e bella,
E tutti con la tunica e col manto
Vi allogò i doni in vestimenta e in oro,
Indi assennava l'ospite: “Il coverchio
Metti tu stesso, e bene avvolgi il nodo,
Non fosse alcun ti nuoccia, ove te il dolce
Sonno cogliesse nella negra nave”.
L'accorto eroe, che non udilla indarno,
Mise il coverchio, e l'intricato nodo
Prestamente formò, di cui mostrato
Gli ebbe il secreto la dedalea Circe.
E qui ad entrar la dispensiera onesta
L'invitava nel bagno. Ulisse vide
I lavacri fumar tanto più lieto,
Ché tai conforti s'accostâr di rado
Al suo corpo, dal dì che della ninfa
Le grotte più nol ritenean, dov'era
D'ogni cosa adagiato al par d'un nume.
Lavato ed unto per le scorte ancelle,
E di manto leggiadro e di leggiadra
Tunica cinto, alla gioconda mensa
Da' tepidi lavacri Ulisse giva.
Nausica, cui splendea tutta nel volto
La beltà degli dèi, della superba
Sala fermossi alle lucenti porte.
Sguardava Ulisse, e l'ammirava, e queste
Mandavagli dal sen parole alate:
“Felice, ospite, vivi e ti ricorda,
Come sarai nella natìa terra,
Di quella, onde pria venne a te salute”.
“Nausica, del pro' Alcinoo inclita figlia”,
Ulisse rispondeale; “oh! così Giove,
L'altitonante di Giunon marito,
Voglia che il dì del mio ritorno spunti,
Com'io nel dolce ancor nido nativo
Sempre, qual dea, t'onorerò: ché fosti
La mia salvezza tu, fanciulla illustre”.
Già le carni partìansi, e nelle coppe
Gli umidi vini si mesceano. Ed ecco
Il banditor venir, guidar per mano
L'onorato da tutti amabil vate,
E adagiarlo, facendogli d'un'alta
Colonna appoggio, ai convitati in mezzo.
Ulisse allor dall'abbrostita e ghiotta
Schiena di pingue, dentibianco verro
Tagliò un florido brano, ed all'araldo:
“Te'”, disse, “questo, e al vate il porta, ond'io
Rendagli, benché afflitto, un qualche onore.
Chi è che in pregio e in riverenza i vati
Non tenga? i vati, che ama tanto, e a cui
Sì dolci melodie la Musa impara”.
Portò l'araldo il dono, e il vate il prese,
E per l'alma gli andò tacita gioia.
Alle vivande intanto e alle bevande
Porgean la mano; e fûro spenti appena
Della fame i desìri e della sete,
Che il saggio Ulisse tali accenti sciolse:
“Demodoco, io te sopra ogni vivente
Sollevo, te, che la canora figlia
Del sommo Giove, o Apollo stesso inspira.
Tu i casi degli Achivi, e ciò che oprâro,
Ciò che soffrìro, con estrema cura,
Quasi visto l'avessi, o da' que' prodi
Guerrieri udito, su la cetra poni.
Via, dunque, siegui e l'edifizio canta
Del gran cavallo, che d'inteste travi,
Con Pallade al suo fianco, Epèo construsse,
E Ulisse penetrar feo nella rocca
Dardania, pregno (stratagemma insigne!)
Degli eroi, per cui Troia andò in faville.
Ciò fedelmente mi racconta, e tutti
Sclamar m'udranno, ed attestar che il petto
Di tutta la sua fiamma il dio t'accende”.
Demodoco, che pieno era del nume,
D'alto a narrar prendea, come gli Achivi,
Gittato il foco nelle tende, i legni
Parte saliro, e aprir le vele ai venti.
Parte sedean col valoroso Ulisse
Ne' fianchi del cavallo entro la rocca.
I Troi, standogli sotto in cerchio assisi,
Molte cose dicean; ma incerte tutte.
E in tre sentenze divideansi: o il cavo
Legno intagliato lacerar con l'armi,
O addurlo in cima d'una rupe, e quindi
Precipitarlo; o il simulacro enorme
Agli adirati numi offrire in voto.
Questo prevalse alfin: poiché destino
Era che allor perisse Ilio superbo,
Che ricettata nel suo grembo avesse
L'immensa mole intesta, ove de' Greci,
Morte ai Troi per recar, sedeano i capi.
Narrava pur, come de' Greci i figli,
Fuor di quella versatisi, e lasciate
Le cave insidie, la cittade a terra
Gittaro; e come, mentre i lor compagni
Guastavan qua e là palagi e templi,
Ulisse di Deïfobo alla casa
Col divin Menelao corse, qual Marte,
E un duro v'ebbe a sostener conflitto,
Donde uscì vincitore, auspice Palla.
A tali voci, a tai ricordi Ulisse
Struggeasi dentro, e per le smorte guance
Piovea lagrime giù dalle palpèbre.
Qual donna piange il molto amato sposo,
Che alla sua terra innanzi, e ai cittadini
Cadde e ai pargoli suoi, da cui lontano
Volea tener l'ultimo giorno; ed ella,
Che moribondo il vede e palpitante,
Sovra lui s'abbandona, ed urla e stride,
Mentre ha di dietro chi dell'asta il tergo
Le va battendo e gli omeri, e le intima
Schiavitù dura, e gran fatica e strazio,
Sì che già del dolor la miserella
Smunto ne porta e disfiorato il volto:
Così Ulisse di sotto alle palpèbre
Consumatrici lagrime piovea.
Pur del suo pianto non s'accorse alcuno,
Salvo re Alcinoo, che sedeagli appresso,
E gemere il sentìa: però ai Feaci:
“Udite”, disse, “o condottieri e prenci;
Deponga il vate la sonante cetra;
Ché a tutti il canto suo grato non giunge.
Dal primo istante ch'ei toccolla, in pianto
Cominciò a romper l'ospite, a cui siede
Certo un'antica in sen cura mordace.
La mano adunque dalle corde astenga;
E lieto allo stranier del par che a noi
Che il ricettammo, questo giorno cada.
Consiglio altro non v'ha. Per chi tal festa?
Per chi la scorta preparata e i doni,
D'amistà pegni, e le accoglienze oneste?
Un supplice straniero ad uom, che punto
Scorga diritto, è di fratello in vece.
Ma tu di quel ch'io domandarti intendo,
Nulla celarmi astutamente: meglio
Torneranne a te stesso. Il nome dimmi,
Con che il padre solea, solea la madre,
E i cittadin chiamarti, ed i vicini:
Ché senza nome uom non ci vive in terra,
Sia buono o reo; ma, come aperse gli occhi,
Da' genitori suoi l'acquista in fronte.
Dimmi il tuo suol, le genti e la cittade,
Sì che la nave d'intelletto piena
Prenda la mira, e vi ti porti. I legni
Della Feacia di nocchier mestieri
Non han, né di timon: mente hanno, e tutti
Sanno i disegni di chi stavvi sopra.
Conoscon le cittadi e i pingui campi,
E senza tema di ruina o storpio,
Rapidissimi varcano, e di folta
Nebbia coverti, le marine spume.
Bensì al padre Nausitoo io dire intesi
Che Nettun contra noi forte s'adira,
Perché illeso alla patria ogni mortale
Riconduciamo; e che un de' nostri legni
Ben fabbricati, al suo ritorno, il dio
Struggerà nelle fosche onde, e la nostra
Cittade coprirà d'alta montagna.
Ma effetto abbiano, o no, queste minacce,
Tu mi racconta, né fraudarmi il vero,
I mari scorsi e i visitati lidi.
Parlami delle genti, e delle terre
Che di popol ridondano, e di quante
Veder t'avvenne nazioni agresti,
Crudeli, ingiuste, o agli stranieri amiche,
A cui timor de' numi alberga in petto.
Né mi tacer, perché secreto piangi,
Quando il fato di Grecia e d'Ilio ascolti.
Se venne dagli dèi strage cotanta,
Lor piacque ancor che degli eroi le morti
Fossero il canto dell'età future.
Ti perì forse un del tuo sangue a Troia,
Genero prode, o suocero, i più dolci
Nomi al cor nostro dopo i figli e i padri?
O forse un fido, che nell'alma entrarti
Sapea, compagno egregio? È qual fratello
L'uom che sempre usa teco, e a cui fornìro
D'alta prudenza l'intelletto i numi”.
LIBRO NONO
“Alcinoo Rege, che ai mortali tutti
Di grandezza e di gloria innanzi vai,
Bello è l'udir”, gli replicava Ulisse,
“Cantor, come DemOdoco, di cui
Pari a quella d'un dio suona la voce:
Né spettacol più grato havvi, che quando
Tutta una gente si dissolve in gioia,
Quando alla mensa, che il cantor rallegra,
Molti siedono in ordine, e le lanci
Colme di cibo son, di vino l'urne,
Donde coppier nell'auree tazze il versi,
E ai convitati assisi il porga in giro.
Ma tu la storia de' miei guai domandi,
Perch'io rinnovi ed inacerbi il duolo.
Qual pria dirò, qual poi, qual nell'estremo
Racconto serberò delle sventure,
Che gravi e molte m'invïAro i numi?
Prima il mio nome, acciò, se vita un giorno,
Mi si concede riposata e ferma,
Dell'ospitalità ci unisca il nodo,
Benché quinci lontan sorga il mio tetto.
Ulisse, il figlio di Laerte, io sono,
Per tutti accorgimenti al mondo in pregio,
E già noto per fama in sino agli astri.
Abito la serena Itaca, dove
Lo scotifronde Nérito si leva
Superbo in vista, ed a cui giaccion molte
Non lontane tra loro isole intorno,
Dulichio, Same, e la di selve bruna
Zacinto. All'orto e al mezzogiorno queste,
Itaca al polo si rivolge, e meno
Dal continente fugge: aspra di scogli,
Ma di gagliarda gioventù nutrice.
Deh qual giammai l'uom può della natìa
Sua contrada veder cosa più dolce?
Calipso, inclita diva, in cave grotte
Mi ritenea, mi ritenea con arte
Nelle sue case la dedalea Circe,
Desïando d'avermi entrambe a sposo.
Ma né Calipso a me, né Circe il core
Piegava mai; ché di dolcezza tutto
La patria avanza, e nulla giova un ricco
Splendido albergo a chi, da' suoi disgiunto,
Vive in estrania terra. Or tu mi chiedi
Quel che da Troia prescriveami Giove
Lacrimabil ritorno; ed io tel narro.
Ad Ismaro, de' Cìconi alla sede,
Me, che lasciava Troia, il vento spinse.
Saccheggiai la città, strage menai
Degli abitanti; e sì le molte robe
Dividemmo e le donne, che alla preda
Ciascuno ebbe ugual parte. Io gli esortava
Partir subito e in fretta; e i forsennati,
Dispregiando il mio dir, pecore pingui,
Pingui a scannar tortocornuti tori,
E larghi nappi ad asciugar sul lido.
S'allontanaro in questo mezzo, e voce
Diero i Cìconi ai Cìconi vicini,
Che più addentro abitavano. Costoro,
Che in numero vincean gli altri, ed in forza,
E battagliare a piè, come dal carro,
Sapean del pari, mattutini, e tanti,
Quante son fronde a primavera e fiori,
Vennero; e allor di cielo a noi meschini
Riversò addosso un gran sinistro Giove.
Stabile accanto alle veloci navi
Pugna si commettea: d'ambo le parti
Volavan le pungenti aste omicide.
Finché il mattin durava, e il sacro sole
Acquistava del ciel, benché più scarsi,
Sostenevam della battaglia il nembo.
Ma come il sol, calandosi all'Occaso,
L'ora menò, che dal pesante giogo
Si disciolgono i buoi, l'achiva forza
Fu dall'aste de' Cìconi respinta.
Sei de' compagni agli schinieri egregi
Perdé ogni nave: io mi salvai col resto.
Lieti nel cor della schivata morte,
E de' compagni nella pugna uccisi
Dolenti in un, ci allargavam dal lido;
Ma le ondìvaghe navi il lor cammino
Non proseguian, che tre fïate in prima,
Non si fosse da noi chiamato a nome
Ciascun di quei che giacean freddi addietro.
L'adunator de' nembi olimpio Giove
Contro ci svegliò intanto una feroce
Tempesta boreal, che d'atre nubi
La terra a un tempo ricoverse e il mare,
E la notte di cielo a piombo scese.
Le vele ai legni, che moveansi obbliqui,
Squarciò in tre e quattro parti il forte turbo.
Noi del timore ammainammo, e ratto
I navigli affrettammo in vêr la spiaggia,
Ove due giorni interi, e tante notti,
Posavam lassi, e addolorati e muti.
Ma come l'Alba dai capelli d'oro
Il dì terzo recò, gli alberi alzati,
E dispiegate le candide vele,
Entro i navigli sedevam, la cura
Al timonier lasciandone ed al vento.
Tempo era quello da toccar le amate
Sponde natìe: se non che Borea e un'aspra
Corrente me, che la Malèa girava,
Respinse indietro ed a Citera volse.
Per nove infausti dì sul mar pescoso
I venti rei mi trasportâro. Al fine
Nel decimo sbarcammo in su le rive
De' Lotofàgi, un popolo, a cui cibo
È d'una pianta il florido germoglio.
Entrammo nella terra, acqua attignemmo,
E pasteggiammo appo le navi. Estinti
Della fame i desiri e della sete,
Io due scelgo de' nostri, a cui per terzo
Giungo un araldo, e a investigar li mando,
Quai mortali il paese alberghi e nutra.
Partiro e s'affrontaro a quella gente,
Che, lunge dal voler la vita loro,
Il dolce loto a savorar lor porse.
Chïunque l'esca dilettosa e nuova
Gustato avea, con le novelle indietro
Non bramava tornar: colà bramava
Starsi, e, mangiando del soave loto,
La contrada natìa sbandir dal petto.
È ver ch'io lagrimosi al mar per forza
Li ricondussi, entro i cavati legni
Li cacciai, gli annodai di sotto ai banchi:
E agli altri risalir con gran prestezza
Le negre navi comandai, non forse
Ponesse alcun nel dolce loto il dente,
E la patria cadessegli dal core.
Quei le navi saliano, e sovra i banchi
Sedean l'un dopo l'altro, e gìan battendo
Co' pareggiati remi il mar canuto.
Ci portammo oltre, e de' Ciclopi altieri,
Che vivon senza leggi, a vista fummo.
Questi, lasciando ai numi ogni pensiero,
Né ramo o seme por, né soglion gleba
Col vomero spezzar; ma il tutto viene
Non seminato, non piantato o arato:
L'orzo, il frumento e la gioconda vite,
Che si carca di grosse uva, e cui Giove
Con pioggia tempestiva educa e cresce.
Leggi non han, non radunanze, in cui
Si consulti tra lor: de' monti eccelsi
Dimoran per le cime, o in antri cavi;
Su la moglie ciascun regna e su i figli,
Né l'uno all'altro tanto o quanto guarda.
Ai Ciclopi di contra, e né vicino
Troppo, né lunge, un'isoletta siede
Di foreste ombreggiata, ed abitata
Da un'infinita nazïon di capre
Silvestri, onde la pace alcun non turba;
Che il cacciator, che per burroni e boschi
Si consuma la vita, ivi non entra,
Non aratore o mandrïan v'alberga.
Manca d'umani totalmente, e solo
Le belanti caprette, inculta, pasce.
Però che navi dalle rosse guance
Tu cerchi indarno tra i Ciclopi, indarno
Cerchi fabbro di nave a saldi banchi,
Su cui passare i golfi, e le straniere
Città trovar, qual delle genti è usanza,
Che spesso van l'una dall'altra ai lidi,
E all'isola deserta addur coloni.
Malvagia non è certo, e in sua stagione
Tutto darebbe. Molli e irrigui prati
Spiegansi in riva del canuto mare.
Si vestirìan di grappi ognor le viti,
E così un pingue suolo il vomer curvo
Riceverìa, che altissima troncarvi
Potrìasi al tempo la bramata messe.
Che del porto dirò? Non v'ha di fune
Ne d'àncora mestieri; e chi già entrovvi,
Tanto vi può indugiar, che de' nocchieri
Le voglie si raccendano, e secondi
Spirino i venti. Ma del porto in cima
S'apre una grotta, sotto cui zampilla
L'argentina onda d'una fonte, e a cui
Fan verdissimi pioppi ombra e corona.
Là smontavamo, e per l'oscura notte,
Noi, spenta ogni veduta, un dio scorgea:
Ché una densa caligine alle navi
Stava d'intorno, né splendea dal cielo
La luna, che d'un nembo era coverta.
Quindi nessun l'isola vide, e i vasti
Flutti al lido volventisi, che prima
Approdati non fossimo. Approdati,
Tutte le vele raccogliemmo, uscimmo
Sul lido, e l'Alba dalle rosee dita,
Nel sonno disciogliendoci, aspettammo.
Sorta la figlia del mattino appena,
L'isoletta, che in noi gran maraviglia
Destò, passeggiavamo. Allor le Ninfe,
Prole cortese dell'egïoco Giove,
Per fornir di convito i miei compagni,
Quelle capre levaro. E noi repente,
Presi i curvi archi e le asticciuole acute,
E tre schiere di noi fatte, in tal guisa
Il monte fulminammo e il bosco tutto,
Ch'io non so, se dai numi in sì brev'ora
Fu concessa giammai caccia sì ricca.
Dodici navi mi seguìano, e nove
Capre ottenne ciascuna: io dieci n'ebbi.
Tutto quel giorno sedevamo a mensa
Tra carni immense e prezïoso vino:
Poiché restava su le navi ancora
Del licore, onde molte anfore e molte
Rïempiuto avevam, quando la sacra
Dispogliammo de' Cìconi cittade.
E de' Ciclopi nel vicin paese
Levate intanto tenevam le ciglia,
E salir vedevamo il fumo, e miste
Col belo dell'agnelle e delle capre
Raccoglievam le voci. Il sole ascoso,
Ed apparse le tenebre, le membra
Sul marin lido a riposar gettammo.
Ma come del mattin la figlia sorse,
Tutti chiamati a parlamento: "Amici",
Dissi, vi piaccia rimaner, mentr'io
Della gente a spïar vo' col mio legno,
Se ingiusta, soperchievole, selvaggia,
O di core ospital siasi, ed a cui
Timor de' numi si racchiuda in petto".
Detto, io montai la nave, e ai remiganti
Montarla ingiunsi, e liberar la fune.
E quei ratto ubbidiro, e già su i banchi
Sedean l'un dopo l'altro, e gìan battendo
Co' pareggiati remi il mar canuto.
Giunti alla terra, che sorgeaci a fronte,
Spelonca eccelsa nell'estremo fianco
Di lauri opaca, e al mar vicina, io vidi.
Entro giaceavi innumerabil greggia,
Pecore e capre, e di recise pietre
Composto, e di gran pini e querce ombrose
Alto recinto vi correa d'intorno.
Uom gigantesco abita qui, che lunge
Pasturava le pecore solingo.
In disparte costui vivea da tutti,
E cose inique nella mente cruda
Covava: orrendo mostro, né sembiante
Punto alla stirpe che di pan si nutre,
Ma più presto al cucuzzolo selvoso
D'una montagna smisurata, dove
Non gli s'alzi da presso altro cacume.
Lascio i compagni della nave a guardia,
E con dodici sol, che i più robusti
Mi pareano e più arditi, in via mi pongo,
Meco in otre caprin recando un negro
Licor nettàreo, che ci diè Marone
D'Evantèo figlio, e sacerdote a Febo,
Cui d'Ismaro le torri erano in cura.
Soggiornava del dio nel verde bosco,
E noi, di santa riverenza tocchi,
Con la moglie il salvammo e con la prole.
Quindi ei mi porse incliti doni: sette
Talenti d'or ben lavorato, un'urna
D'argento tutta, e dodici d'un vino
Soave, incorruttibile, celeste,
Anfore colme; un vin ch'egli, la casta
Moglie e la fida dispensiera solo,
Non donzelli sapeanlo, e non ancelle.
Quandunque ne bevean, chi empiea la tazza,
Venti metri infondea d'acqua di fonte,
E tal dall'urna scoverchiata odore
Spirava, e sì divin, che somma noia
Stato sarìa non confortarne il petto.
Io dell'alma bevanda un otre adunque
Tenea, tenea vivande a un zaino in grembo:
Ché ben diceami il cor, quale di strana
Forza dotato le gran membra, e insieme
Debil conoscitor di leggi e dritti,
Salvatic'uom mi si farebbe incontra.
Alla spelonca divenuti in breve,
Lui non trovammo, che per l'erte cime
Le pecore lanigere aderbava.
Entrati, gli occhi stupefatti in giro
Noi portavam: le aggraticciate corbe
Cedeano al peso de' formaggi, e piene
D'agnelli e di capretti eran le stalle:
E i più grandi, i mezzani, i nati appena,
Tutti, come l'etade, avean del pari
Lor propria stanza, e i pastorali vasi,
Secchie, conche, catini, ov'ei le poppe
Premer solea delle feconde madri,
Entro il siere nôtavano. Qui forte
I compagni pregavanmi che, tolto
Pria di quel cacio, si tornasse addietro,
Capretti s'adducessero ed agnelli
Alla nave di fretta, e in mar s'entrasse.
Ma io non volli, benché il meglio fosse:
Quando io bramava pur vederlo in faccia,
E trar doni da lui, che rïuscirci
Ospite sì inamabile dovea.
Racceso il foco, un sagrifizio ai numi
Femmo, e assaggiammo del rappreso latte:
Indi l'attendevam nell'antro assisi.
Venne, pascendo la sua greggia, e in collo
Pondo non lieve di risecca selva
Che la cena cocessegli, portando.
Davanti all'antro gittò il carco, e tale
Levòssene un romor, che sbigottiti
Nel più interno di quel ci ritraemmo.
Ei dentro mise le feconde madri,
E gl'irchi a cielo aperto, ed i montoni
Nella corte lasciò. Poscia una vasta
Sollevò in alto ponderosa pietra,
Che ventidue da quattro ruote e forti
Carri di loco non avrìano smossa,
E l'ingresso acciecò della spelonca.
Fatto, le agnelle, assiso, e le belanti
Capre mugnea, tutto serbando il rito,
E a questa i parti mettea sotto, e a quella.
Mezzo il candido latte insieme strinse,
E su i canestri d'intrecciato vinco
Collocollo ammontato; e l'altro mezzo,
Che dovea della cena esser bevanda,
Il ricevero i pastorecci vasi.
Di queste sciolto cotidiane cure,
Mentre il foco accendea, ci scòrse, e disse:
"Forestieri, chi siete? E da quai lidi
Prendeste a frequentar l'umide strade?
Siete voi trafficanti? O errando andate,
Come corsari che la vita in forse,
Per danno altrui recar, metton su i flutti?"
Della voce al rimbombo, ed all'orrenda
Faccia del mostro, ci s'infranse il core.
Pure io così gli rispondea: Siam Greci
Che di Troia partiti e trabalzati
Su pel ceruleo mar da molti venti
Cercando il suol natìo, per altre vie,
E con vïaggi non pensati, a queste
(Così piacque agli dèi), sponde afferrammo.
Seguimmo, e cen vantiam, per nostro capo
Quell'Atrìde Agamennone che il mondo
Empièo della sua fama, ei che distrusse
Città sì grande, e tante genti ancise.
Ed or, prostesi alle ginocchia tue,
Averci ti preghiam d'ospiti in grado,
E d'un tuo dono rimandarci lieti.
Ah! temi, o potentissimo, gli dèi:
Che tuoi supplici siam, pensa, e che Giove
Il supplicante vendica, e l'estrano,
Giove ospital, che l'accompagna e il rende
Venerabile altrui". Ciò detto, io tacqui.
Ed ei con atroce alma: "O ti fallisce
Straniero, il senno, o tu di lunge vieni,
Che vuoi che i numi io riverisca e tema.
L'Egidarmato di Saturno figlio
Non temono i Ciclopi, o gli altri iddii:
Ché di loro siam noi molto più forti.
Né perché Giove inimicarmi io debba,
A te concederò perdono, e a questi
Compagni tuoi, se a me il mio cor nol detta.
Ma dimmi: ove approdasti? All'orlo estremo
Di questa terra, o a più propinquo lido?"
Così egli tastommi; ed io, che molto
D'esperïenza ricettai nel petto,
Ravvìstomi del tratto, incontanente
Arte in tal modo gli rendei per arte:
"Nettuno là, 've termina e s'avanza
La vostra terra con gran punta in mare,
Spinse la nave mia contra uno scoglio,
E le spezzate tavole per l'onda
Sen portò il vento. Dall'estremo danno
Con questi pochi io mi sottrassi appena".
Nulla il barbaro a ciò: ma, dando un lancio,
La man ponea sovra i compagni, e due
Brancavane ad un tempo, e, quai cagnuoli,
Percoteali alla terra, e ne spargea
Le cervella ed il sangue. A brano a brano
Dilacerolli, e s'imbandì la cena.
Qual digiuno leon, che in monte alberga,
Carni ed interïora, ossa e midolle,
Tutto vorò, consumò tutto. E noi
A Giove ambo le man tra il pianto alzammo,
Spettacol miserabile scorgendo
Con gli occhi nostri, e disperando scampo.
Poiché la gran ventraia empiuto s'ebbe,
Pasteggiando dell'uomo, e puro latte
Tracannandovi sopra, in fra le agnelle
Tutto quant'era ei si distese, e giacque.
Io, di me ricordandomi, pensai
Fàrmigli presso, e la pungente spada
Tirar nuda dal fianco, e al petto, dove
La coràta dal fegato si cinge,
Ferirlo. Se non ch'io vidi che certa
Morte noi pure incontreremmo, e acerba:
Che non era da noi tôr dall'immenso
Vano dell'antro la sformata pietra
Che il Ciclope fortissimo v'impose.
Però, gemendo, attendevam l'aurora.
Sorta l'aurora, e tinto in roseo il cielo,
Il foco ei raccendea, mugnea le grasse
Pecore belle, acconciamente il tutto,
E i parti a questa mettea sotto e a quella.
Né appena fu delle sue cure uscito,
Che altri due mi ghermì de' cari amici,
E carne umana desinò. Satollo,
Cacciava il gregge fuor dell'antro, tolto
Senza fatica il disonesto sasso,
Che dell'antro alla bocca indi ripose,
Qual chi a farètra il suo coverchio assesta.
Poi su pel monte si mandava il pingue
Gregge davanti, alto per via fischiando.
Ed io tutti a raccolta i miei pensieri
Chiamai, per iscoprir come di lui
Vendicarmi io potessi, e un'immortale
Gloria comprarmi col favor di Palla.
Ciò al fin mi parve il meglio. Un verde, enorme
Tronco d'oliva, che il Ciclope svelse
Di terra, onde fermar con quello i passi,
Entro la stalla a inaridir giacea.
Albero scorger credevam di nave
Larga, mercanteggiante, e l'onde brune
Con venti remi a valicare usata:
Sì lungo era e sì grosso. Io ne recisi
Quanto è sei piedi, e la recisa parte
Diedi ai compagni da polirla. Come
Polita fu, da un lato io l'affilai,
L'abbrustolai nel foco, e sotto il fimo,
Ch'ivi in gran copia s'accogliea, l'ascosi.
Quindi a sorte tirar coloro io feci,
Che alzar meco dovessero, e al Ciclope
L'adusto palo conficcar nell'occhio,
Tosto che i sensi gli togliesse il sonno.
Fortuna i quattro, ch'io bramava, appunto
Donommi, e il quinto io fui. Cadea la sera,
E dai campi tornava il fier pastore,
Che la sua greggia di lucenti lane
Tutta introdusse nel capace speco:
O di noi sospettasse, o prescrivesse
Così il Saturnio. Novamente imposto
Quel, che rimosso avea, disconcio masso,
Pecore e capre alla tremola voce
Mungea sedendo, a maraviglia il tutto,
E a questa mettea sotto e a quella i parti.
Fornita ogni opra, m'abbrancò di nuovo
Due de' compagni, e cenò d'essi il mostro.
Allora io trassi avanti, e, in man tenendo
D'edra una coppa: "Te' Ciclope", io dissi:
"Poiché cibasti umana carne, vino
Bevi ora, e impara, qual su l'onde salse
Bevanda carreggiava il nostro legno.
Questa, con cui libar, recarti io volli,
Se mai, compunto di nuova pietade,
Mi rimandassi alle paterne case.
Ma il tuo furor passa ogni segno. Iniquo!
Chi più tra gl'infiniti uomini in terra
Fia che s'accosti a te? Male adoprasti".
La coppa ei tolse, e bevve, ed un supremo
Del soave licor prese diletto,
E un'altra volta men chiedea: "Straniero,
Darmene ancor ti piaccia, e mi palesa
Subito il nome tuo, perch'io ti porga
L'ospital dono che ti metta in festa.
Vino ai Ciclopi la feconda terra
Produce col favor di tempestiva
Pioggia, onde Giove le nostre uve ingrossa:
Ma questo è ambrosia e nèttare celeste".
Un'altra volta io gli stendea la coppa.
Tre volte io la gli stesi; ed ei ne vide
Nella stoltezza sua tre volte il fondo.
Quando m'accorsi che saliti al capo
Del possente licor gli erano i fumi,
Voci blande io drizzavagli: "Il mio nome
Ciclope, vuoi? L'avrai: ma non frodarmi
Tu del promesso a me dono ospitale.
Nessuno è il nome; me la madre e il padre
Chiaman Nessuno, e tutti gli altri amici".
Ed ei con fiero cor: "L'ultimo ch'io
Divorerò, sarà Nessuno. Questo
Riceverai da me dono ospitale".
Disse, diè indietro, e rovescion cascò.
Giacea nell'antro con la gran cervice
Ripiegata su l'omero: e dal sonno,
Che tutti doma, vinto, e dalla molta
Crapula oppresso, per la gola fuori
Il negro vino e della carne i pezzi,
Con sonanti mandava orrendi rutti.
Immantinente dell'ulivo il palo
Tra la cenere io spinsi; e in questo gli altri
Rincorava, non forse alcun per tema
M'abbandonasse nel miglior dell'opra.
Come, verde quantunque, a prender fiamma
Vicin mi parve, rosseggiante il trassi
Dalle ceneri ardenti, e al mostro andai
Con intorno i compagni: un dio per fermo
D'insolito ardimento il cor ci armava.
Quelli afferrâr l'acuto palo, e in mezzo
Dell'occhio il conficcaro; ed io di sopra,
Levandomi su i piè, movealo in giro.
E come allor che tavola di nave
Il trapano appuntato investe e fora,
Che altri il regge con mano, altri tirando
Va d'ambo i lati le corregge, e attorno
L'instancabile trapano si volve:
Sì nell'ampia lucerna il trave acceso
Noi giravamo. Scaturiva il sangue,
La pupilla bruciava, ed un focoso
Vapor, che tutta la palpèbra e il ciglio
Struggeva, uscìa della pupilla, e l'ime
Crepitarne io sentìa rotte radici.
Qual se fabbro talor nell'onda fredda
Attuffò un'ascia o una stridente scure,
E temprò il ferro, e gli diè forza; tale,
L'occhio intorno al troncon cigola e frigge.
Urlo il Ciclope sì tremendo mise,
E tanto l'antro rimbombò, che noi
Qua e là ci spargemmo impauriti.
Ei fuor cavossi dall'occhiaia il trave,
E da sé lo scagliò di sangue lordo,
Furïando per doglia: indi i Ciclopi,
Che non lontani le ventose cime
Abitavan de' monti in cave grotte,
Con voce alta chiamava. Ed i Ciclopi
Quinci e quindi accorrean, la voce udita
E soffermando alla spelonca il passo,
Della cagione il richiedean del duolo:
"Per quale offesa, o Polifemo, tanto
Gridàstu mai? Perché così ci turbi
La balsamica notte e i dolci sonni?
Fùrati alcun la greggià? o uccider forse
Con inganno ti vuole, o a forza aperta?"
E Polifemo dal profondo speco:
"Nessuno, amici, uccidemi, e ad inganno,
Non già colla virtude". "Or se nessuno
Ti nuoce", rispondeano, "e solo alberghi,
Da Giove è il morbo, e non v'ha scampo. Al padre
Puoi bene, a re Nettun, drizzare i prieghi".
Dopo ciò, ritornâr su i lor vestigi:
Ed a me il cor ridea, che sol d'un nome
Tutta si fosse la mia frode ordita.
Polifemo da duoli aspri crucciato,
Sospirando altamente, e brancolando
Con le mani il pietron di loco tolse.
Poi, dove l'antro vaneggiava, assiso
Stavasi con le braccia aperte e stese,
Se alcun di noi, che tra le agnelle uscisse,
Giungesse ad aggrappar: tanta ei credeo
Semplicitade in me. Ma io gli amici
E me studiava riscattar, correndo
Per molte strade con la mente astuta:
Ché la vita ne andava, e già pendea
Su le teste il disastro. Al fine in questa,
Dopo molto girar, fraude io m'arresto.
Montoni di gran mole e pingui e belli,
Di folta carchi porporina lana,
Rinchiudea la caverna. Io tre per volta
Prendeane, e in un gli unìa tacitamente
Co' vinchi attorti, sovra cui solea
Polifemo dormir: quel ch'era in mezzo,
Portava sotto il ventre un de' compagni,
Cui fean riparo i due ch'ivan da lato,
E così un uomo conducean tre bruti.
Indi afferrai pel tergo un arïete
Maggior di tutti, e della greggia il fiore;
Mi rivoltai sotto il lanoso ventre,
E, le mani avolgendo entro ai gran velli,
Con fermo cor mi v'attenea sospeso.
Così, gemendo, aspettavam l'aurora.
Sorta l'aurora, e tinto in roseo il cielo,
Fuor della grotta i maschi alla pastura
Gittavansi; e le femmine non munte,
Che gravi molto si sentìan le poppe,
Rïempìan di belati i lor serragli.
Il padron, cui ferìan continue doglie,
D'ogni montone, che diritto stava,
Palpava il tergo, e non s'avvide il folle
Che dalle pance del velluto gregge
Pendean gli uomini avvinti. Ultimo uscìa
De' suoi velli bellissimi gravato
L'arïete, e di me, cui molte cose
S'aggiravan per l'alma. Polifemo
Tai detti, brancicandolo, gli volse:
"Arïete dappoco, e perché fuori
Così da sezzo per la grotta m'esci?
Già non solevi dell'agnelle addietro
Restarti: primo, e di gran lunga, i molli
Fiori del prato a lacerar correvi
Con lunghi passi; degli argentei fiumi
Primo giungevi alle correnti; primo
Ritornavi da sera al tuo presepe:
Ed oggi ultimo sei. Sospiri forse
L'occhio del tuo signor? L'occhio che un tristo
Mortal mi svelse co' suoi rei compagni,
Poiché doma col vin m'ebbe la mente,
Nessuno, ch'io non credo in salvo ancora.
Oh! se a parte venir de' miei pensieri
Potessi, e, voci articolando, dirmi,
Dove dalla mia forza ei si ricovra,
Ti giuro che il cervel, dalla percossa
Testa schizzato, scorrerìa per l'antro,
Ed io qualche riposo avrei da' mali
Che Nessuno recommi, un uom da nulla".
Disse: e da sé lo spingea fuori al pasco.
Tosto che dietro a noi l'infame speco
Lasciato avemmo, ed il cortile ingiusto,
Tardo a sciormi io non fui dall'arïete,
E poi gli altri a slegar, che, ragunate
Molte in gran fretta piedilunghe agnelle,
Cacciavansele avanti in sino al mare.
Desïati apparimmo, e come usciti
Dalle fauci di morte, a quei che in guardia
Rimaser della nave, e che i compagni,
Che non vedeano, a lagrimar si diero.
Ma io non consentìalo, e con le ciglia
Cenno lor fea di ritenere il pianto,
E comandava lor che, messe in nave
Le molte in pria vellosplendenti agnelle,
Si fendessero i flutti. E già il naviglio
Salìan, sedean su i banchi, e percotendo
Gìan co' remi concordi il bianco mare.
Ma come fummo un gridar d'uom lontani
Così il Ciclope io motteggiai: "Ciclope,
Color che nel tuo cavo antro, le grandi
Forze abusando, divorasti, amici
Non eran dunque d'un mortal da nulla,
E il mal te pur coglier dovea. Malvagio!
Che la carne cenar nelle tue case
Non temevi degli ospiti. Vendetta
Però Giove ne prese e gli altri numi".
A queste voci Polifemo in rabbia
Montò più alta, e con istrana possa
Scagliò d'un monte la divelta cima,
Che davanti alla prua càddemi: al tonfo
L'acqua levossi, ed innondò la nave,
Che alla terra crudel, dai rifluenti
Flutti portata, quasi a romper venne.
Ma io, dato di piglio a un lungo palo,
Ne la staccai, pontando; ed i compagni
D'incurvarsi sul remo, e in salvo addursi,
Più de' cenni pregai che della voce:
E quelli tutte ad inarcar le terga.
Scorso di mar due volte tanto, i detti
A Polifemo io rivolgea di nuovo,
Benché gli amici con parole blande
D'ambo i lati tenessermi: "Infelice!
Perché la fera irritar vuoi più ancora?
Così poc'anzi a saettar si mise,
Che tre dita mancò, che risospinto
Non percotesse al continente il legno.
Fa che gridare o favellar ci senta,
E volerà per l'aere un'altra rupe,
Che le nostre cervella, e in un la nave
Sfracellerà: tanto colui dardeggia".
L'alto mio cor non si piegava. Quindi:
"Ciclope", io dissi con lo sdegno in petto,
"Se della notte, in che or tu giaci, alcuno
Ti chiederà, gli narrerai che Ulisse,
D'Itaca abitator, figlio a Laerte,
Struggitor di cittadi, il dì ti tolse".
Egli allora, ululando: "Ohimè!" rispose,
Da' prischi vaticinî eccomi côlto.
Indovino era qui, prode uomo e illustre,
Tèlemo figliuol d'Eurimo, che avea
Dell'arte il pregio, ed ai Ciclopi in mezzo
Profetando invecchiava. Ei queste cose
Mi presagì: mi presagì che il caro
Lume dell'occhio spegnerìami Ulisse.
Se non ch'io sempre uom gigantesco e bello
E di forze invincibili dotato,
Rimirar m'aspettava; ed ecco in vece
La pupilla smorzarmi un piccoletto
Greco ed imbelle, che col vin mi vinse.
Ma qua, su via vientene, Ulisse, ch'io
Ti porga l'ospital dono, e Nettuno
Di fortunare il tuo ritorno prieghi.
Io di lui nacqui, ed ei sen vanta, e solo
Voglial, mi sanerà; non altri, io credo,
Tra i mortali nel mondo, o in ciel tra i numi".
"Oh! così potess'io", ratto ripresi,
"Te spogliar della vita, e negli oscuri
Precipitar regni di Pluto, come
Né da Nettuno ti verrà salute".
Ed ei, le palme alla stellata volta
Levando, il supplicava: "O chiomazzurro,
Che la terra circondi, odi un mio voto.
Se tuo pur son, se padre mio ti chiami,
Di tanto mi contenta: in patria Ulisse,
D'Itaca abitator, figlio a Laerte
Struggitor di cittadi, unqua non rieda.
E dove il natìo suolo, e le paterne
Case il destin non gli negasse, almeno
Vi giunga tardi e a stento, e in nave altrui,
Perduti in pria tutti i compagni, e nuove
Nell'avìta magion trovi sciagure".
Fatte le preci e da Nettuno accolte,
Sollevò un masso di più vasta mole,
E, rotandol nell'aria, e una più grande
Forza immensa imprimendovi, lanciollo.
Cadde dopo la poppa, e del timone
La punta rasentò: levossi al tonfo
L'onda, e il legno coprì, che all'isoletta,
Spinto dal mar, subitamente giunse.
Quivi eran l'altre navi in su l'arena,
E i compagni, che assisi ad esse intorno
Ci attendean sempre con agli occhi il pianto.
Noi tosto in secco la veloce nave
Tirammo, e fuor n'uscimmo, e, del Ciclope
Trattone il gregge, il dividemmo in guisa,
Che parte ugual n'ebbe ciascuno. È vero
Che voller che a me sol, partite l'agne,
Il superbo arïete anco toccasse.
Io di mia mano al Saturnìde, al cinto
D'oscure nubi Correttor del Mondo,
L'uccisi, e n'arsi le fiorite cosce.
Ma non curava i sacrifizi Giove,
Che anzi tra sé volgea, com'io le navi
Tutte, e tutti i compagni al fin perdessi.
L'intero dì sino al calar del Sole
Sedevam banchettando: il Sole ascoso,
Ed apparse le tenebre, le membra
Sul marin lido a riposar gettammo.
Ma come del mattin la figlia, l'Alba
Ditirosata in Orïente sorse,
I compagni esortai, comandai loro
Di rimbarcarsi, e liberar le funi.
E quei si rimbarcavano, e su i banchi
Sedean l'un dopo l'altro, e percotendo
Gìan co' remi concordi il bianco mare.
Così noi lieti per lo scampo nostro
E per l'altrui sventura in un dolenti,
Del mar di nuovo solcavam le spume.
LIBRO DECIMO
Giungemmo nell'Eolia, ove il diletto
Agl'immortali dèi d'Ippota figlio,
Eolo, abitava in isola natante,
Cui tutta un muro d'infrangibil rame
E una liscia circonda eccelsa rupe.
Dodici, sei d'un sesso e sei dell'altro,
Gli nacquer figli in casa; ed ei congiunse
Per nodo marital suore e fratelli,
Che avean degli anni il più bel fior sul volto.
Costoro ciascun dì siedon tra il padre
Caro e l'augusta madre, ad una mensa
Di varie carca dilicate dapi.
Tutto il palagio, finché il giorno splende,
Spira fragranze, e d'armonie risuona;
Poi, caduta su l'isola la notte,
Chiudono al sonno le bramose ciglia
In traforati e attappezzati letti
Con le donne pudìche i fidi sposi.
Questo il paese fu, questo il superbo
Tetto, in cui me per un intero mese
Co' modi più gentili Eolo trattava.
Di molte cose mi chiedea: di Troia,
Del navile de' Greci, e del ritorno;
E il tutto io gli narrai di punto in punto.
Ma come, giunta del partir mio l'ora,
Parole io mossi ad impetrar licenza,
Ei, non che dissentir, del mio vïaggio
Pensier si tolse e cura, e della pelle
Di bue novenne appresentommi un otre,
Che imprigionava i tempestosi venti:
Poiché de' venti dispensier supremo
Fu da Giove nomato; ed a sua voglia
Stringer lor puote, o rallentare il freno.
L'otre nel fondo del naviglio avvinse
Con funicella lucida d'argento,
Che non ne uscisse la più picciol'aura;
E sol tenne di fuori un opportuno
Zefiro, cui le navi e i naviganti
Diede a spinger su l'onda. Eccelso dono,
Che la nostra follìa volse in disastro!
Nove dì senza posa, e tante notti
Veleggiavamo; e già venìaci incontro
Nel decimo la patria, e omai vicini
Quei vedevam che raccendeano i fochi:
Quando me stanco, perch'io regger volli
Della nave il timon, né in mano altrui,
Onde il corso affrettar, lasciarlo mai,
Sorprese il sonno. I miei compagni intanto
Favellavan tra loro, e fean pensiero
Che argento ed oro alle mie case, doni
Del generoso Ippòtade, io recassi.
"Numi!" come di sé, "dicea taluno
Rivolto al suo vicin, "tutti innamora
Costui, dovunque navigando arriva!
Molti da Troia dispogliata arredi
Riporta belli e preziosi; e noi,
Che le vie stesse misurammo, a casa
Torniam con le man vote. Inoltre questi
L'Ippòtade gli diè pegni d'amore.
Orsù, veggiam quanto in suo grembo asconda
D'oro e d'argento la bovina pelle".
Così prevalse il mal consiglio. L'otre
Fu preso e sciolto; e immantinente tutti
Con furia ne scoppiâr gli agili venti.
La subitana orribile procella
Li rapìa dalla patria e li portava
Sospirosi nell'alto. Io, cui l'infausto
Sonno si ruppe, rivolgea nell'alma,
Se di poppa dovessi in mar lanciarmi,
O soffrir muto, e rimaner tra i vivi.
Soffrii, rimasi: ma, coverto il capo,
Giù nel fondo io giacea, mentre le navi,
Che i compagni di lutto empieano indarno,
Ricacciava in Eolia il fiero turbo.
Scendemmo a terra, acqua attignemmo e a mensa
Presso le navi ci adagiammo. Estinta
Del cibarsi e del ber l'innata voglia,
Io con un de' compagni, e con l'araldo
M'inviai d'Eolo alla magion superba;
E tra la dolce sposa e i figli cari
Banchettante il trovai. Sul limitare
Sedevam della porta. Alto stupore
Mostrâro i figli, e con parole alate:
"Ulisse", mi dicean, "come venìstu?
Qual t'assalì dèmone avverso? Certo
Cosa non fu da noi lasciata indietro,
Perché alla patria e al tuo palagio, e ovunque
Ti talentasse più, salvo giungessi".
Ed io con petto d'amarezza colmo:
"Tristi compagni, e un sonno infausto a tale
Condotto m'hanno. Or voi sanate, amici,
Ché il potete, tal piaga". In questa guisa
Le anime loro io raddolcir tentai.
Quelli ammutiro. Ma il crucciato padre:
"Via", rispose, "da questa isola, e tosto,
O degli uomini tutti il più malvagio:
Ché a me né accôr, né rimandar con doni
Lice un mortal che degli eterni è in ira.
Via, poiché l'odio lor qua ti condusse".
Così Eolo sbandìa me dal suo tetto,
Che de' gemiti miei tutto sonava.
Mesti di nuovo prendevam dell'alto:
Ma si stancavan di lottar con l'onda,
Remigando, i compagni, e del ritorno
Morìa la speme ne' dogliosi petti.
Sei dì navigavamo, e notti sei;
E col settimo sol della sublime
Città di Lamo dalle larghe porte,
Di Lestrigonia pervenimmo a vista.
Quivi pastor, che a sera entra col gregge,
Chiama un altro, che fuor con l'armento esce.
Quivi uomo insonne avria doppia mercede.
L'una pascendo i buoi, l'altra le agnelle
Dalla candida lana: sì vicini
Sono il dïurno ed il notturno pasco.
Bello ed ampio n'è il porto; eccelsi scogli
Cerchianlo d'ogni parte, e tra due punte,
Che sporgon fuori e ad incontrar si vanno,
S'apre un'angusta bocca. I miei compagni,
Che nel concavo porto a entrar fûr pronti,
Propinque vi tenean le ondivaganti
Navi, e avvinte tra lor; quando né grande
Vi s'alza mai, né picciola onda, e sempre
Una calma vi appar tacita e bianca.
Io sol rimasi col naviglio fuori,
Che al sasso estremo con intorta fune
Raccomandai: poi, su la rupe asceso,
Quanto si discoprìa, mirava intorno.
Lavor di bue non si scorgea, né d'uomo:
Sol di terra salir vedeasi un fumo.
Scelgo allor due compagni, e con l'araldo
Màndoli a investigar, quali l'ignota
Terra produce abitatori e nutre.
La via diritta seguitâr, per dove
I carri conduceano alla cittade
Dagli alti monti la troncata selva;
E s'abbattero a una real fanciulla,
Del Lestrigone Antìfate alla figlia.
Che del fonte d'Artacia, onde costuma
Il cittadino attignere, in quel punto
Alle pure scendea linfe d'argento.
Le si fêro da presso, e chi del loco
Re fosse, e su qual gente avesse impero,
La domandaro; ed ella pronta l'alto
Loro additò con man tetto del padre.
Tocco ne aveano il limitare appena,
Che femmina trovâr di sì gran mole
Che rassembrava una montagna; e un gelo
Si sentîro d'orror correr pel sangue.
Costei di botto Antifate chiamava
Dalla pubblica piazza, il rinomato
Marito suo, che disegnò lor tosto
Morte barbara e orrenda. Uno afferronne,
Che gli fu cena; gli altri due con fuga
Precipitosa giunsero alle navi.
Di grida la cittade intanto empiea
Antifate. I Lestrìgoni l'udiro,
E accorrean chi da un lato e chi dall'altro,
Forti di braccio, in numero infiniti,
E giganti alla vista. Immense pietre
Così dai monti a fulminar si diêro,
Che d'uomini spiranti e infranti legni
Sorse nel porto un suon tetro e confuso.
Ed alcuni infilzati eran con l'aste,
Quali pesci guizzanti, e alle ferali
Mense future riserbati. Mentre
Tal seguìa strage, io, sguainato il brando
E la fune recisa, a' miei compagni
Dar di forza nel mar co' remi ingiunsi,
Se il fuggir morte premea loro; e quelli
Di tal modo arrancavano, che i gravi
Massi, che piovean d'alto, il mio naviglio
Lietamente schivò: ma gli altri tutti
Colà restâro sfracellati e spersi.
Contenti dello scampo, e in un dogliosi
Per li troppi compagni in sì crudele
Guisa periti, navigammo avanti,
E su l'isola Eèa sorgemmo, dove
Circe, diva terribile, dal crespo
Crine e dal dolce canto, avea soggiorno.
Suora germana del prudente Eeta,
Dal Sole aggiornator nacque, e da Persa,
Dell'antico Oceàn figliuola illustre.
Taciti a terra ci accostammo, entrammo,
Non senza un dio che ci guidasse, il cavo
Porto, e sul lido uscimmo; e qui due giorni
Giacevamo, e due notti, il cor del pari
La stanchezza rodendoci e la doglia.
Come recato ebbe il dì terzo l'alba,
Io, presa l'asta ed il pungente brando,
Rapidamente andai sovra un'altezza,
Se d'uomo io vedessi opra, o voce udissi.
Fermato il piè su la scoscesa cima.
Scôrsi un fumo salir d'infra una selva
Di querce annose, che in un vasto piano
Di Circe alla magion sorgeano intorno.
Entrar disposi senza indugio in via,
E il paese cercar: poi, ripensando,
Al legno invece rivoltar i passi,
Cibo dare ai compagni, e alcuni prima
A esplorare invïar, mi parve il meglio.
Già tra la nave e me poco restava:
Quando ad un de' celesti, in cui pietade
Per quella solitudine io destai,
Grosso ed armato di ramose corna
Drizzare alla mia volta un cervo piacque.
Spinto dal Sole, che il cocea co' raggi,
De' paschi uscìa della foresta, e al fiume
Scendea con labbra sitibonde; ed io
Su la spina lo colsi a mezzo il tergo
Sì che tutto il passò l'asta di rame.
Nella polve cadé, mandando un grido,
E via ne volò l'alma. Accorsi, e, il piede
Pontando in esso, dalla fonda piaga
Trassi il cerro sanguigno, ed il sanguigno
Cerro deposi a terra: indi virgulti
Divelsi e giunchi, attorcigliaili, fune
Sei spanne lunga ne composi, e i morti
Piedi ne strinsi dell'enorme fera.
Al fin sul collo io la mi tolsi, e mossi,
Su la lancia poggiandomi, al naviglio:
Ché mal potuto avrei sovra una sola
Spalla portar così sformata belva.
Presso la nave scaricàila; e ratto
Con soavi parole i miei compagni,
A questo rivolgendomi ed a quello,
Così tentai rïanimare: "Amici,
Prima del nostro dì, d'Aide alle porte
Non calerem, benché ci opprima il duolo.
Su, finché cibo avemo, avem licore,
Non mettiamli in obblìo; né all'importuna
Fame lasciamci consumar di dentro".
Quelli ubbidendo alle mie voci, uscîro
Delle latebre loro, e, in riva al mare,
Che frumento non genera, venuti,
Stupìan del cervo: sì gran corno egli era!
E come sazi del mirarlo fûro,
Ne apparecchiâro non vulgar convito,
Sparse prima di chiara onda le palme.
Così tutto quel dì sino all'occaso
Di carne opìma e di fumoso vino
L'alma riconfortammo: il sol caduto
E comparse le tenebre, nel sonno
Ci seppellimmo al mormorio dell'onde.
Ma sorta del mattin la rosea figlia,
Tutti io raccolsi a parlamento, e dissi:
"Compagni, ad onta di guai tanti, udite.
Qui, d'onde l'austro spiri o l'aquilone,
E in qual parte il Sole alza, in qual dechina,
Noto non è. Pur consultare or vuolsi,
Qual consiglio da noi prender si debba,
Se v'ha un consiglio: di che forte io temo,
Io d'in su alpestre poggio isola vidi
Cinta da molto mar, che bassa giace,
E nel cui mezzo un nereggiante fumo
D'infra un bosco di querce al ciel si volve",
Rompere a questo si sentiro il core,
D'Antìfate membrando e del Ciclope
La ferocia, i misfatti, e le nefande
Della carne dell'uom mense imbandite.
Strida metteano, e discioglieansi in pianto.
Ma del pianto che pro? che delle strida?
Tutti in due schiere uguali io li divisi.
E diedi ad ambo un duce: all'una il saggio
Eurìloco, e me all'altra, indi nel cavo
Rame dell'elmo agitavam le sorti,
Ed Euriloco uscì, che in via si pose
Senza dimora. Ventidue compagni,
Lagrimando, il seguìan; né affatto asciutte
Di noi, che rimanemmo, eran le guance.
Edificata con lucenti pietre
Di Circe ad essi la magion s'offerse,
Che vagheggiava una feconda valle.
Montani lupi e leon falbi, ch'ella
Mansuefatti avea con sue bevande,
Stavano a guardia del palagio eccelso,
Né lor già s'avventavano; ma invece
Lusingando scotean le lunghe code,
E su l'anche s'ergeano. E quale i cani
Blandiscono il signor, che dalla mensa
Si leva, e ghiotti bocconcelli ha in mano;
Tal quelle di forte unghia orride belve
Gli ospiti nuovi, che smarriti al primo
Vederle s'arretraro, ivan blandendo.
Giunti alle porte, la deessa udìro
Dai ben torti capei, Circe, che dentro
Canterellava con leggiadra voce,
Ed un'ampia tessea, lucida, fina,
Maravigliosa, immortal tela, e quale
Della man delle dive uscir può solo.
Pòlite allor, d'uomini capo, e molto
Più caro e in pregio a me, che gli altri tutti
Sciogliea tai detti: "Amici, in queste mura
Soggiorna, io non so ben se donna o diva.
Che tele oprando, del suo dolce canto
Tutta fa risentir la casa intorno.
Voce mandiamo a lei." Disse, e a lei voce
Mandaro; e Circe di là tosto ov'era,
Levossi e aprì le luminose porte,
E ad entrare invitavali. In un groppo
La seguìan tutti incautamente salvo
Eurìloco, che fuor, di qualche inganno
Sospettando, restò. La dea li pose
Sovra splendidi seggi: e lor mescea
Il Pramnio vino con rappreso latte,
Bianca farina e mel recente; e un succo
Giungeavi esizïal, perché con questo
Della patria l'obblìo ciascun bevesse.
Preso e vôtato dai meschini il nappo,
Circe batteali d'una verga, e in vile
Stalla chiudeali: avean di porco testa,
Corpo, sétole, voce; ma lo spirto
Serbavan dentro, qual da prima, intègro.
Così rinchiusi, sospirando, fûro:
Ed ella innanzi a lor del cornio i frutti
Gettava, e della rovere e dell'elce,
De' verri accovacciati usato cibo.
Nunzio verace dell'infausto caso
Venne rapido Euriloco alla nave.
Ma non potea per iterati sforzi
La lingua disnodar: gonfi portava
Di pianto i lumi, e un vïolento duolo
L'alma gli percotea. Noi, figurando
Sventure nel pensier, con maraviglia
L'interrogammo; ed ei l'eccidio al fine
De' compagni narrò: "Nobile Ulisse,
Attraversato delle querce il bosco,
Come tu comandavi, eccoci a fronte
Magion construtta di politi marmi,
Che di mezzo a una valle alto s'ergea.
Tessea di dentro una gran tela, e canto,
Donna o diva, chi 'l sa? stridulo alzava.
Voce mandaro a lei. Levossi e aperse
Le porte e ne invitò. Tutti ad un corpo
Nella magion disavvedutamente
Seguìanla: io no, che sospettai di frode.
Svaniro insieme tutti; e per istarmi
Lungo ch'io feci ad esplorare assiso,
Traccia d'alcun di lor più non m'apparve".
Disse; ed io grande alle mie spalle, e acuta,
Spada, d'argento bullettata, appesi,
Appesi un valid'arco, e ingiunsi a lui,
Che innanzi per la via stessa mi gisse.
Ma Euriloco, i ginocchi ad ambe mani
Stringendomi e piangendo: "Ah! mal mio grado",
Con sùpplici gridò parole alate,
"Lá non guidarmi, o del gran Giove alunno,
Donde, non che altri ricondur, tu stesso
Ritornar non potrai. Fuggiam, fuggiamo
Senza indugio con questi, e la vicina
Parca schiviam, finché schivarla è dato".
"Euriloco", io risposi, "e tu rimanti,
Di carne e vino a riempirti il ventre,
Lungo la nave. Io, cui severa stringe
Necessitate, andrò". Ciò detto, a tergo
La nave negra io mi lasciava e il mare.
Già per le sacre solitarie valli
Della Maga possente all'alta casa
Presso io mi fea, quando Mercurio, il nume
Che arma dell'aureo caduceo la destra,
In forma di garzone, a cui fiorisce
Di lanugine molle il mento appena,
Mi venne incontro, e per la man mi prese,
E: "Misero!" diss'ei con voce amica,
"Perché ignaro de' lochi, e tutto solo,
Muòvi così per queste balze a caso?
Sono in poter di Circe i tuoi compagni,
E li chiudon, quai verri, anguste stalle.
Venìstu forse a riscattarli? Uscito
Dell'immagine tua penso che a terra
Tu ancor cadrai. Se non che trarti io voglio
Fuor d'ogni storpio, e in salvo porti. Prendi
Questo mirabil farmaco, che il tristo
Giorno dal capo tuo storni, e con esso
Trova il tetto di Circe, i cui perversi
Consigli tutti io t'aprirò. Bevanda
Mista, e di succo esizïale infusa,
Colei t'appresterà: ma le sue tazze
Contra il farmaco mio nulla varranno.
Più oltre intendi. Come te la diva
Percosso avrà d'una sua lunga verga,
Tu cava il brando che ti pende al fianco,
E, di ferirla in atto, a lei t'avventa.
Circe, compresa da timor, sue nozze
T'offrirà pronta: non voler tu il letto
Della dea ricusare, acciò ti sciolga
Gli amici, e amica ti si renda. Solo
Di giurarti costringila col grande
Degl'immortali dèi giuro, che nulla
Più non sarà per macchinarti a danno;
Onde, poiché t'avrà l'armi spogliate,
Del cor la forza non ti spogli ancora".
Finito il ragionar l'erba salubre
Porsemi già dal suol per lui divelta,
E la natura divisonne: bruna
N'è la radice; il fior bianco di latte;
Moli i numi la chiamano: resiste
Alla mano mortal, che vuol dal suolo
Staccarla; ai dèi, che tutto ponno, cede.
Detto, dalla boscosa isola il nume
Alle pendici dell'Olimpo ascese;
Ed io vêr Circe andai; ma di pensieri
In gran tempesta m'ondeggiava il core.
Giunto alla diva dalle belle trecce,
La voce alzai dall'atrio. Udimmi, e ratta
Levossi, e aprì le luminose porte,
E m'invitava: io la seguìa non lieto.
Sovra un distinto d'argentini chiovi
Seggio a grand'arte fatto, e vago assai,
Mi pose: lo sgabello i piè reggea.
Quindi con alma che pensava mali,
La mista preparommi in aureo nappo
Bevanda incantatrice, ed io la presi
Dalla sua mano, e bebbi; e non mi nocque.
Però in quel che la dea me della lunga
Verga percosse, e: "Vanne", disse, "e a terra
Co' tuoi compagni nella stalla giaci",
Tirai dal fianco il brando, e contra lei,
Di trafiggerla in atto, io mi scagliai.
Circe, mandando una gran voce, corse
Rapida sotto il colpo, e le ginocchia
Con le braccia afferrommi, e queste alate
Parole mi drizzò, non senza pianto:
"Chi sei tu? donde sei? la patria dove?
Dove i parenti a te? Stupor m'ingombra,
Che l'incanto bevuto in te non possa,
Quando io non vidi, cui passasse indarno
Per la chiostra de' denti il mio veleno.
Certo un'anima invitta in petto chiudi.
Saréstu forse quel sagace Ulisse,
Che Mercurio a me sempre iva dicendo
Dover d'Ilio venir su negra nave?
Per fermo sei. Nella vagina il brando
Riponi, e sali il letto mio: dal core
D'entrambi ogni sospetto amor bandisca".
"Circe", risposi, "che da me richiedi?
Io cortese vêr te, che in sozze belve
Mi trasformasti gli uomini? Rivolgi
Tacite frodi entro te stessa; ed io
La tua penetrerò stanza secreta,
Onde, poiché m'avrai l'armi spogliate,
Del cor la forza tu mi spogli ancora?
No, se non giuri prima, e con quel grande
Degl'immortali dèi giuro, che nulla
Più non sarai per macchinarmi a danno".
Dissi; e la dea giurò. Di Circe allora
Le belle io salsi maritali piume.
Quattro serviano a lei nel suo palagio
Di quelle Ninfe che dai boschi nate
Sono, o dai fonti liquidi, o dai sacri,
Che devolvonsi al mar, rapidi fiumi.
L'una gittava su i politi seggi
Bei tappeti di porpora, cui sotto
Bei tappeti mettea di bianco lino:
L'altra mense d'argento innanzi ai seggi
Spiegava, e d'oro v'imponea canestri:
Mescea la terza nell'argentee brocche
Soavissimi vini, e d'auree tazze
Coprìa le mense: ma la quarta il fresco
Fonte recava, e raccendea gran fuoco
Sotto il vasto treppié, che l'onda cape.
Già fervea questa nel cavato bronzo,
E me la ninfa guidò al bagno, e l'onda
Pel capo mollemente e per le spalle
Spargermi non cessò, ch'io mi sentii
Di vigor nuovo rifiorir le membra.
Lavato ed unto di licor d'oliva,
E di tunica e clamide coverto,
Sovra un distinto d'argentini chiovi
Seggio a grand'arte fatto, e vago assai,
Mi pose: lo sgabello i piè reggea.
E un'altra ninfa da bel vaso d'oro
Purissim'acqua nel bacil d'argento
Mi versava, e stendeami un liscio desco,
Che di candido pane e di serbate
Dapi a fornir la dispensiera venne:
"Cìbati", mi dicea la veneranda
Dispensiera, ed instava; ed io, d'ogni esca
Schivo, in altri pensieri, e tutti foschi,
Tenea la mente, pur sedendo, infissa.
Circe, ratto che avvidesi ch'io mesto
Non mi curava della mensa punto,
Con queste m'appresso voci sul labbro:
"Perché così, qual chi non ha favella,
Siedi, Ulisse, struggendoti, e vivanda
Non tocchi, né bevanda? In te sospetto
S'annida forse di novello inganno?
Dopo il mio giuramento a torto temi".
Ed io: "Circe, qual mai retto uomo e saggio
Vivanda toccheria prima, o bevanda,
Che i suoi vedesse riscattati e salvi?
Fa' che liberi io scorga i miei compagni,
Se vuoi che della mensa io mi sovvegna".
Circe uscì tosto con in man la verga,
E della stalla gl'infelici trasse,
Che di porci novenni avean l'aspetto.
Tutti le stavan di rincontro; e Circe,
D'uno all'altro passando, un prezïoso
Sovra lor distendea benigno unguento.
Gli odiati peli, che la tazza infesta
Produsse, a terra dalle membra loro
Cadevano; e ciascun più che non era,
Grande apparve di corpo, e assai più fresco
D'etade in faccia, e di beltà più adorno.
Mi ravvisò ciascuno, ed afferrommi
La destra; e un così tenero e sì forte
Compianto si levò, che la magione
Ne risonava orrendamente, e punta
Sentìasi di pietà la stessa Maga.
Ella, standomi al fianco: "O sovrumano
Di Laerte figliuol, provvido Ulisse,
Corri", diceami, "alla tua nave, e in secco
La tira, e cela nelle cave grotte
Le ricchezze e gli arnesi: indi a me torna.
E i diletti compagni adduci teco".
M'entrò il suo dir nell'alma. Al lido io corsi,
E i compagni trovai, che appo la nave
Di lagrime nutrìansi e di sospiri.
Come, se riedon le satolle vacche
Dai verdi prati al rusticale albergo,
I vitelli saltellano, e alle madri,
Che più serraglio non ritienli o chiostra,
Con frequente muggir corrono intorno:
Così con pianto a me, vistomi appena,
Intorno s'aggiravano i compagni,
E quei mostravan su la faccia segni,
Che vi si scorgerìan, se il dolce nido,
Dove nacquero e crebbero, se l'aspra
Itaca avesser tocca: "O", lagrimando
Dicean, "di Giove alunno, una tal gioia
Sarebbe a stento in noi, se ci accogliesse
D'Itaca il porto. Ma, su via, l'acerbo
Fato degli altri raccontar ti piaccia".
Ed io con dolce favellar: "La nave
Si tiri in secco, e nelle cave grotte
Le ricchezze si celino e gli arnesi.
Poi seguitemi in fretta; ed i compagni
Nel tetto sacro dell'illustre Circe
Vedrete assisi ad una mensa, in cui
Di là d'ogni desio la copia regna".
Pronti obbediro. Ripugnava Euriloco
Solo, ed or questo m'arrestava, or quello,
Gridando: "Sventurati, ove ne andiamo?
Qual mai vi punge del disastro sete,
Che discendiate alla maliarda, e vôlti
Siate in leoni, in lupi, o in sozzi verri,
Il suo palagio a custodir dannati?
L'ospizio avrete del Ciclope, quando
Calâro i nostri nella grotta, e questo
Prode Ulisse guidavali, di cui
Morte ai miseri fu lo stolto ardire".
Così Euriloco; ed io la lunga spada
Cavar pensai della vagina, e il capo
Dal busto ai piè sbalzargli in su la polve,
Benché vincol di sangue a me l'unisse.
Ma tutti quinci riteneanmi, e quindi
Con favella gentil: "Di Giove alunno,
Costui sul lido, se ti piace in guardia
Della nave rimangasi, e alla sacra
Magion noi guida". Detto ciò, dal mare
Meco venìan, né restò quegli indietro:
Tanto della minaccia ebbe spavento.
Cura prendeasi Circe in questo mezzo
Degli altri, che lavati, unti, e di buone
Tuniche cinti e di bei manti fûro.
Seduti a mensa li trovammo. Come
Si sguardâro l'un l'altro, e sul passato
Con la mente tornâro, in pianti e in grida
Davano; e ne gemean pareti e volte.
M'appressò allora, e mi parlò in tal guisa
L'inclita tra le dive: "O di Laerte
Gran prole, o ricco di consigli Ulisse,
Modo al dirotto lagrimar si ponga.
Noto è a me pur, quanti nel mar pescoso
Duraste affanni, e so le crude offese
Che vi recâro in terra uomini ostili.
Su via, gioite omai, finché nel petto
Vi rinasca l'ardir, ch'era in voi, quando
Itaca alpestre abbandonaste in prima.
Bassi or gli spirti avete, e freddo il sangue,
Per la memoria de' vïaggi amari
Nelle menti ancor viva, e l'allegrezza
Disimparaste tra cotanti guai".
Agevolmente ci arrendemmo. Quindi
Pel continuo rotar d'un anno intero
Giorno non ispuntò, che a lauta mensa
Me non vedesse e i miei compagni in festa.
Ma rivolto già l'anno, e le stagioni
Tornate in sé col varïar de' mesi,
Ed il cerchio dei dì molti compiuto,
I compagni, traendomi in disparte:
"Infelice!" mi dissero, "del caro
Cielo nativo e delle avite mura
Non ti rammenterai, se vuole il fato
Che in vita tu rimanga, e le rivegga?"
Sano avviso mi parve. Il sol caduto,
E coverta di tenebre la terra,
Quei si corcâro per le stanze; ed io,
Salito il letto a maraviglia bello
Di Circe, supplichevoli drizzai
Alla dea, che m'udì, queste parole:
"Attiemmi, o Circe, le impromesse, e al caro
Rendimi natìo ciel, cui sempre vola,
Non pure il mio, ma de' compagni il core,
De' compagni, che stanno a me d'intorno,
Sempre che tu da me t'apparti, e tutta
Con le lagrime lor mi struggon l'alma".
"O di Laerte sovrumana prole",
La dea rispose, "ritenervi a forza
Io più oltre non vo'. Ma un'altra via
Correre in prima è d'uopo: è d'uopo i foschi
Di Pluto e di Proserpina soggiorni
Vedere in prima, e interrogar lo spirto
Del teban vate, che, degli occhi cieco,
Puro conserva della mente il lume;
Di Tiresia, cui sol diè Proserpina
Tutto portar tra i morti il senno antico.
Gli altri non son che vani spettri ed ombre".
Rompere il core io mi sentìi. Piagnea,
Su le piume giacendomi, né i raggi
Volea del Sol più rimirare. Al fine,
Poiché del pianger mio, del mio voltarmi
Su le piume io fui sazio: "Or qual", ripresi,
"Di tal vïaggio sarà il duce? All'Orco
Nessun giunse finor su negra nave".
"Per difetto di guida", ella rispose
Non t'annoiar. L'albero alzato, e aperte
Le tue candide vele, in su la poppa
T'assidi, e spingerà Borea la nave.
Come varcato l'Oceàno avrai,
Ti appariranno i bassi lidi, e il folto
Di pioppi eccelsi e d'infecondi salci
Bosco di Proserpìna: e a quella piaggia,
Che l'Oceán gorghiprofondo batte,
Ferma il naviglio, e i regni entra di Pluto.
Rupe ivi s'alza, presso cui due fiumi
S'urtan tra lor rumoreggiando, e uniti
Nell'Acheronte cadono: Cocito,
Ramo di Stige, e Piriflegetonte.
Appréssati alla rupe, ed una fossa,
Che un cubito si stenda in lungo e in largo,
Scava, o prode, tu stesso; e mel con vino,
Indi vin puro e limpidissim'onda
Vèrsavi, a onor de' trapassati, intorno,
E di bianche farine il tutto aspergi.
Poi degli estinti prega i frali e vôti
Capi, e prometti lor che nel tuo tetto
Entrato con la nave in porto appena,
Vacca infeconda, dell'armento fiore
Lor sagrificherai, di doni il rogo
Riempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,
Immolerai nerissimo arïete,
Che della greggia tua pasca il più bello.
Compiute ai mani le preghiere, uccidi
Pecora bruna, ed un monton, che all'Orco
Volgan la fronte: ma converso tieni
Del fiume alla corrente in quella il viso.
Molte Ombre accorreranno. A' tuoi compagni
Le già sgozzate vittime e scoiate
Mettere allor sovra la fiamma, e ai numi,
Al prepotente Pluto e alla tremenda
Proserpina drizzar voti comanda.
E tu col brando sguainato siedi,
Né consentir, che anzi che parli al vate,
I mani al sangue accostinsi. Repente
Il profeta verrà, duce di genti,
Che sul vïaggio tuo, sul tuo ritorno
Pel mar pescoso alle natìe contrade
Ti darà, quanto basta, indizio e lume".
Così la diva; e d'in su l'aureo trono
L'Aurora comparì. Tunica e manto
Circe stessa vestimmi; a sé ravvolse
Bella, candida, fina ed ampia gonna;
Si strinse al fianco un'aurea fascia, e un vago
Su i ben torti capei velo s'impose.
Ma io, passando d'una in altra stanza,
Confortava i compagni, e ad uno ad uno
Con molli detti gli abbordava: "Tempo
Non è più da sfiorare i dolci sonni.
Partiamo, e tosto. Il mi consiglia Circe".
Si levâro, e obbedîro. Ahi che né quinci
Mi si concesse ricondurli tutti!
Un Elpénore v'era, il qual d'etate
Dopo gli altri venìa, poco nell'armi
Forte, né troppo della mente accorto.
Caldo del buon licore, onde irrigossi,
Si divise dagli altri, ed al palagio
Mi si corcò, per rinfrescarsi, in cima.
Udìto il suon della partenza, e il moto,
Riscossesi ad un tratto, e, per la lunga
Scala di dietro scendere obblïando.
Mosse di punta sovra il tetto, e cadde
Precipite dall'alto: il collo ai nodi
Gli s'infranse, e volò l'anima a Dite.
Ragunatisi i miei: "Forse", io lor dissi,
"Alle patrie contrade andar credete.
Ma un altro pria la venerabil diva
Ci destinò cammin, che ai foschi regni
Di Pluto e di Proserpina conduce,
Per quivi interrogar del rinomato
Teban Tiresia l'indovino spirto".
Duol mortale gli assalse a questi detti.
Piangeano, e fermi rimanean lì lì,
E la chioma stracciavansi: ma indarno
Lo strazio della chioma era, ed il pianto.
Mentre al mar tristi tendevamo, e spesse
Lagrime spargevam, Circe, che in via
Pur s'era posta, alla veloce nave
Legò la bruna pecora e il montone.
Ci oltrepassò, che non ce ne avvedemmo,
Con piè leggiero. Chi potrìa de' numi
Scorgere alcun che qua o là si mova
Quando dall'occhio uman voglion celarsi?
LIBRO UNDICESIMO
Giunti al divino mare, il negro legno
Prima varammo, albero ergemmo e vele,
E prendemmo le vittime, e nel cavo
Legno le introducemmo: indi con molto
Terrore e pianto v'entravam noi stessi.
La dal crin crespo e dal canoro labbro
Dea veneranda un gonfiator di vela
Vento in poppa mandò, che fedelmente
Ci accompagnava per l'ondosa via;
Tal che ozïosi nella ratta nave
Dalla cerulea prua, giacean gli arnesi,
E noi tranquilli sedevam, la cura
Al timonier lasciandone ed al vento.
Quanto il dì risplendé, con vele sparse
Navigavamo. Spento il giorno, e d'ombra
Ricoperte le vie, dell'Oceano
Toccò la nave i gelidi confini,
Là 've la gente de' Cimmerî alberga,
Cui nebbia e buio sempiterno involve.
Monti pel cielo stelleggiato, o scenda
Lo sfavillante d'ôr sole non guarda
Quegl'infelici popoli, che trista
Circonda ognor pernizïosa notte.
Addotto in su l'arena il buon naviglio,
E il monto e la pecora sbarcati,
Alla corrente dell'Oceano in riva
Camminavam; finché venimmo ai lochi
Che la dea c'insegnò. Quivi per mano
Eurìloco teneano e Perimede
Le due vittime; ed io, fuor tratto il brando,
Scavai la fossa cubitale, e mele
Con vino, indi vin puro e lucid'onda
Versàivi, a onor de' trapassati, intorno
E di bianche farine il tutto aspersi.
Poi degli estinti le debili teste
Pregai, promisi lor che nel mio tetto,
Entrato con la nave in porto appena,
Vacca infeconda, dell'armento fiore,
Lor sagrificherei, di doni il rogo
Rïempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,
Immolerei nerissimo arïete,
Che della greggia mia pasca il più bello.
Fatte ai mani le preci, ambo afferrai
Le vittime, e sgozzàile in su la fossa,
Che tutto riceveane il sangue oscuro.
Ed ecco sorger della gente morta
Dal più cupo dell'Erebo, e assembrarsi
Le pallid'ombre: giovanette spose,
Garzoni ignari delle nozze, vecchi
Da nemica fortuna assai versati,
E verginelle tenere, che impressi
Portano i cuori di recente lutto;
E molti dalle acute aste guerrieri
Nel campo un dì feriti, a cui rosseggia
Sul petto ancor l'insanguinato usbergo.
Accorrean quinci e quindi, e tanti a tondo
Aggiravan la fossa, e con tai grida,
Ch'io ne gelai per subitana tema.
Pure a Eurìloco ingiunsi, e a Periméde
Le già scannate vittime e scoiate
Por su la fiamma, e molti ai dèi far voti,
Al prepotente Pluto e alla tremenda
Proserpina: ma io col brando ignudo
Sedea, né consentia che al vivo sangue,
Pria ch'io Tiresia interrogato avessi,
S'accostasser dell'ombre i vôti capi.
Primo ad offrirsi a me fu il simulacro
D'Elpènore, di cui non rinchiudea
La terra il corpo nel suo grembo ancora.
Lasciato in casa l'avevam di Circe
Non sepolto cadavere e non pianto.
Che incalzavaci allor diversa cura.
Piansi a vederlo, e ne sentii pietade,
E, con alate voci a lui converso:
"Elpènore", diss'io, "come scendesti
Nell'oscura caligine? Venisti
Più ratto a piè, ch'io su la negra nave".
Ed ei, piangendo: "O di Laerte egregia
Prole, sagace Ulisse, un nequitoso
Demone avverso, e il molto vin m'offese.
Stretto dal sonno alla magione in cima,
Men disciolsi ad un tratto: e, per la lunga
Di calar non membrando interna scala
Mossi di punta sovra il tetto, e d'alto
Precipitai: della cervice i nodi
Ruppersi, ed io volai qua con lo spirto.
Ora io per quelli da cui lunge vivi,
Per la consorte tua, pel vecchio padre,
Che a tanta cura t'allevò bambino,
Pel giovane Telemaco, che dolce
Nella casa lasciasti unico germe,
Ti prego, quando io so, che alla Circea
Isola il legno arriverai di nuovo,
Ti prego che di me, signor mio, vogli
Là ricordarti, onde io non resti, come
Della partenza spiegherai le vele,
Senza lagrime addietro e senza tomba,
E tu venghi per questo ai numi in ira.
Ma con quell'armi, ch'io vestìa, sul foco
Mi poni, e in riva del canuto mare
A un misero guerrier tumulo innalza,
Di cui favelli la ventura etade.
Queste cose m'adempi; ed il buon remo,
Ch'io tra i compagni miei, mentre vivea
Solea trattar, sul mio sepolcro infiggi.
"Sventurato", io risposi, "a pien fornita
Sarà, non dubitarne, ogni tua voglia".
Così noi sedevam, meste parole
Parlando alternamente, io con la spada
Sul vivo sangue ognora, e a me di contra
La forma lieve del compagno, a cui
Suggerìa molti accenti il suo disastro.
Comparve in questo dell'antica madre
L'ombra sottile, d'Anticlèa, che nacque
Dal magnanimo Autolico, e a quel tempo
Era tra i vivi ch'io per Troia sciolsi.
La vidi appena, che pietà mi strinse,
E il lagrimar non tenni: ma né a lei,
Quantunque men dolesse, io permettea
Al sangue atro appressar, se il vate prima
Favellar non s'udìa. Levossi al fine
Con l'aureo scettro nella man famosa
L'alma Tebana di Tiresia, e ratto
Mi riconobbe, e disse: "Uomo infelice,
Perché, del sole abbandonati i raggi,
Le dimore inamabili de' morti
Scendesti a visitar? Da questa fossa
Ti scosta, e torci in altra parte il brando,
Sì ch'io beva del sangue, e il ver ti narri".
Il piè ritrassi, e invaginai l'acuto
D'argentee borchie tempestato brando.
Ma ei, poiché bevuto ebbe, in tal guisa
Movea le labbra: "Rinomato Ulisse,
Tu alla dolcezza del ritorno aneli
E un nume invidïoso il ti contende
Come celarti da Nettun, che grave
Contra te concepì sdegno nel petto
Pel figlio, a cui spegnesti in fronte l'occhio?
Pur, sebbene a gran pena, Itaca avrai,
Sol che te stesso e i tuoi compagni affreni,
Quando, tutti del mar vinti i perigli,
Approderai col ben formato legno
Alla verde Trinacria isola, in cui
Pascon del Sol, che tutto vede ed ode,
I nitidi montoni e i buoi lucenti.
Se pasceranno illesi, e a voi non caglia
Che della patria, il rivederla dato,
Benché a stento, vi fia. Ma dove osiate
Lana o corno toccargli, eccidio a' tuoi,
E alla nave io predico, ed a te stesso.
E ancor che morte tu schivassi, tardo
Fora, ed infausto, e senza un sol compagno,
E su nave straniera, il tuo ritorno.
Mali oltra ciò t'aspetteranno a casa:
Protervo stuol di giovani orgogliosi,
Che ti spolpa, ti mangia, e alla divina
Moglie con doni aspira. È ver che a lungo
Non rimarrai senza vendetta. Uccisi
Dunque o per frode, o alla più chiara luce,
Nel tuo palagio i temerarî amanti,
Prendi un ben fatto remo, e in via ti metti:
Né rattenere il piè, che ad una nuova
Gente non sii, che non conosce il mare,
Né cosperse di sal vivande gusta,
Né delle navi dalle rosse guance,
O de' politi remi, ali di nave,
Notizia vanta. Un manifesto segno
D'esser nella contrada io ti prometto.
Quel dì che un altro pellegrino, a cui
T'abbatterai per via, te quell'arnese
Con che al vento su l'aia il gran si sparge
Portar dirà su la gagliarda spalla,
Tu repente nel suol conficca il remo.
Poi, vittime perfette a re Nettuno
Svenate, un toro, un arïete, un verro,
Riedi, e del cielo agli abitanti tutti
Con l'ordine dovuto offri ecatombe
Nella tua reggia, ove a te fuor del mare,
E a poco a poco da muta vecchiezza
Mollemente consunto, una cortese
Sopravverrà morte tranquilla, mentre
Felici intorno i popoli vivranno.
L'oracol mio, che non t'inganna, è questo.
"Tiresia", io rispondea, "così prescritto
(Chi dubbiar ne potrebbe?) hanno i celesti.
Ma ciò narrami ancora: io della madre
L'anima scorgo, che tacente siede
Appo la cava fossa, e d'uno sguardo,
Non che d'un motto, il suo figliuol non degna.
Che far degg'io, perché mi riconosca?
Ed egli: Troppo bene io nella mente
Io ti porrò. Quai degli spirti al sangue
Non difeso da te giunger potranno,
Sciorran parole non bugiarde: gli altri
Da te si ritrarran taciti indietro".
Svelate a me tai cose, in seno a Dite
Del profetante re l'alma s'immerse.
Ma io di là non mi togliea. La madre
S'accostò intanto, né del negro sangue
Prima bevé, che ravvisommi, e queste
Mi drizzò, lagrimando, alate voci:
"Deh come, figliuol mio, scendéstu vivo
Sotto l'atra caligine? Chi vive,
Difficilmente questi alberghi mira,
Però che vasti fiumi e paurose
Correnti ci dividono, e il temuto
Ocean, cui varcare ad uom non lice,
Se nol trasporta una dedalea nave.
Forse da Troia, e dopo molti errori,
Con la nave e i compagni a questo buio
Tu vieni? Né trovar sapesti ancora
Itaca tua? né della tua consorte
Riveder nel palagio il caro volto? "
"O madre mia, necessità", risposi,
"L'alma indovina a interrogar m'addusse
Del Tebano Tiresia. Il suolo acheo
Non vidi ancor, né i liti nostri attinsi;
Ma vo ramingo, e dalle cure oppresso,
Dappoi che a Troia ne' puledri bella
Seguìi, per disertarla, il primo Atride.
Su via, mi narra, e schiettamente, come
Te la di lunghi sonni apportatrice
Parca domò. Ti vinse un lungo morbo,
O te Dïana faretrata assalse
Con improvvisa non amara freccia?
Vive l'antico padre, il figlio vive,
Che in Itaca io lasciai? Nelle man loro
Resta, o passò ad altrui la mia ricchezza,
E ch'io non rieda più, si fa ragione?
E la consorte mia qual cor, qual mente
Serba? Dimora col fanciullo, e tutto
Gelosamente custodisce, o alcuno
Tra i primi degli Achei forse impalmolla? "
Riprese allor la veneranda madre:
"La moglie tua non lasciò mai la soglia
Del tuo palagio; e lentamente a lei
Scorron nel pianto i dì, scorron le notti.
Stranier nel tuo retaggio, in sin ch'io vissi,
Non entrò: il figlio su i paterni campi
Vigila in pace, e alle più illustri mense,
Cui l'invita ciascuno, e che non dee
Chi nacque al regno dispregiar, s'asside.
Ma in villa i dì passa Laerte, e mai
A cittade non vien: colà non letti,
Non coltri, o strati sontuosi, o manti.
Di vestimenta ignobili coverto
Dorme tra i servi al focolare il verno
Su la pallida cenere: e se torna
L'arida estate, o il verdeggiante autunno,
Lettucci umìli di raccolte foglie,
Stesi a lui qua e là per la feconda
Sua vigna, preme travagliato, e il duolo
Nutre, piangendo la tua sorte: arrogi,
La vecchiezza increscevole che il colse.
Non altrimenti de' miei stanchi giorni
Giunse il termine a me, cui non Dïana,
Sagittaria infallibile, di un sordo
Quadrello assalse, o di que' morbi invase,
Che soglion trar delle consunte membra
L'anima fuor con odïosa tabe:
Ma il desìo di vederti, ma l'affanno
Della tua lontananza, ma i gentili
Modi e costumi tuoi, nobile Ulisse,
La vita un dì sì dolce hannomi tolta".
Io, pensando tra me, l'estinta madre
Volea stringermi al sen: tre volte corsi,
Quale il mio cor mi sospingea, vêr lei,
E tre volte m'usci fuor delle braccia,
Come nebbia sottile, o lieve sogno.
Cura più acerba mi trafisse e ratto:
"Ahi, madre", le diss'io, "perché mi sfuggi
D'abbracciarti bramoso, onde, anco a Dite,
Le man gittando l'un dell'altro al collo,
Di duol ci satolliamo ambi, e di pianto?
Fantasma vano, acciò più sempre io m'anga,
Forse l'alta Proserpina mandommi?"
"O degli uomini tutti il più infelice",
La veneranda genitrice aggiunse,
"No, l'egregia Proserpina, di Giove
La figlia, non t'inganna. È de' mortali
Tale il destin, dacché non son più in vita,
Che i muscoli tra sé, l'ossa ed i nervi
Non si congiungan più: tutto consuma
La gran possanza dell'ardente foco,
Come prima le bianche ossa abbandona,
E vagola per l'aere il nudo spirto.
Ma tu d'uscire alla superna luce
Da questo buio affretta: e ciò che udisti,
E porterai nell'anima scolpito,
Penelope da te risappia un giorno".
Mentre così favellavam, sospinte
Dall'inclita Proserpina le figlie
Degli eroi comparïano, e le consorti
E traean della fossa al margo in folla.
Io, come interrogarle ad una ad una
Rivolgea meco; e ciò mi parve il meglio.
Stretta la spada, non patïa che tutte
Beessero ad un tempo. Alla sua volta
Così accorrea ciascuna, e l'onorato
Lignaggio ed i suoi casi a me narrava.
Prima s'appresentò l'illustre Tiro,
Che, del gran Salmonèo figlia, e consorte
Di Creteo, un de' figliuoli d'Eolo, sé disse.
Costei d'un fiume nell'amore accesa,
Dell'Enipèo divin, che la più bella
Sovra i più ameni campi onda rivolve,
Spesso e bagnarsi in quegli argenti entrava.
L'azzurro nume che la terra cinge,
Nettuno, in forma di quel dio, corcossi
Delle sue vorticose acque alla foce;
E la porporeggiante onda d'intorno
Gli stette, e in un arco si piegò, qual monte,
Lui celando, e la giovane, cui tosto
Sciols'ei la zona virginale, e un casto
Sopore infuse. Indi per man la prese,
E chiamolla per nome, e tai parole
Le feo: "Di questo amor, donna, t'allegra.
Compiuto non avrà l'anno il suo giro,
Che diverrai di bei fanciulli madre,
Quando vane giammai degl'immortali
Non riescon le nozze. I bei fanciulli
Prendi in cura, e nutrisci. Or vanne, e sappi,
Ma il sappi sola, che tu in me vedesti
Nettuno, il nume che la terra scuote".
Disse; e ne' gorghi suoi l'accolse il mare.
Ella di Nèleo e Pèlia, ond'era grave,
S'allevïò. Forti del sommo Giove
Ministri, l'un nell'arenosa Pilo,
Nell'ampia l'altro, e di feconde gregge
Ricca Iaolco, ebbe soggiorno e scettro.
Quindi altra prole, Esòn, Ferete, e il chiaro
Domator di cavalli Amitaòne,
Diede a Creteo costei, che delle donne
Reina parve alla sembianza e agli atti.
Poi d'Asòpo la figlia, Antiopa, venne,
Che dell'amor di Giove andò superba,
E due figli creò, Zeto e Anfione.
Tebe costoro dalle sette porte
Primi fondaro, e la munir di torri:
Ché mal potean la spazïosa Tebe
Senza torri guardar, benché gagliardi.
Venne d'Amfitrïon la moglie, Alcmena
Che al Saturnìde l'animoso Alcide,
Cor di leone, partorì. Megàra
Di Creonte magnanimo figliuola
E moglie dell'invitto Ercole, venne.
D'Edipo ancor la genitrice io vidi,
La leggiadra Epicasta, che nefanda
Per cecità di mente opra commise,
L'uom disposando da lei nato. Edìpo
La man, con che avea prima il padre ucciso,
Porse alla madre: né celaro i dèi
Tal misfatto alle genti. Ei per crudele
Voler de' numi nell'amena Tebe
Addolorato su i Cadmei regnava.
Ma la donna, cui vinse il proprio affanno,
L'infame nodo ad un'eccelsa trave
Legato, scese alla magion di Pluto
Dalle porte infrangibili, e tormenti
Lasciò indietro al figliuol, quanti ne danno
Le ultrici Furie, che una madre invoca.
Vidi colei non men, che ultima nacque
All'Iaside Anfïón, cui l'arenosa
Pilo negli anni andati, e il Minïeo
Orcomeno ubbidìa, l'egregia Clori,
Che Neleo, di lei preso, a sé congiunse,
Poscia ch'egli ebbe di dotali doni
La vergine ricolma. Ed ella il feo
Ricco di vaga e di lui degna prole,
Di Nestore, di Cromio, e dell'eroe
Periclimeno; e poi di quella Pero,
Che maraviglia fu d'ogni mortale.
Tutti i vicini la chiedean; ma il padre
Sol concedeala a chi le belle vacche
Dalla lunata spazïosa fronte,
Che appo sé riteneasi il forte Ificle,
Gli rimenasse, non leggiera impresa,
Dai pascoli di Filaca. L'impresa
Melampo assunse, un indovino illustre;
Se non che a lui s'attraversaro i fati,
E pastori salvatichi, da cui
Soffrir dové d'aspre catene il pondo.
Ma non prima, già in sé rivolto l'anno,
I mesi succedettersi ed i giorni,
E compiêr le stagioni il corso usato
Che Ifìcle, a cui gli oracoli de' numi
Svelati avea l'irreprensibil vate,
I suoi vincoli ruppe; e così al tempo
L'alto di Giove s'adempiea consiglio.
Leda comparve, da cui Tindaro ebbe
Due figli alteri, Castore e Pollùce,
L'un di cavalli domatore, e l'altro
Pugile invitto. Benché l'alma terra
Ritengali nel sen, di vita un germe
(Così Giove tra l'Ombre anco gli onora)
Serbano: ciascun giorno, e alternamente,
Rïapron gli occhi, e chiudonli alla luce,
E glorïosi al par van degli eterni.
Dopo costei mi si parò davanti
D'Aloèo la consorte, Ifimidèa;
Cui di dolce d'amor nodo si strinse
Lo Scuotiterra. Ingenerò due figli,
Oto a un dio pari, e l'inclito Efialte,
Che la luce del sol poco fruîro.
Né di statura ugual, né di beltade,
Altri nodrì la comun madre antica,
Sol che fra tutti d'Orïon si taccia.
Non avean tocco il decim'anno ancora,
Che in largo nove cubiti, e tre volte
Tanto cresciuti erano in lungo i corpi.
Questi volendo ai sommi dèi su l'etra
Nuova portar sediziosa guerra,
L'Ossa sovra l'Olimpo, e sovra l'Ossa
L'arborifero Pelio impor tentaro,
Onde il cielo scalar di monte in monte;
E il fean, se i volti pubertà infiorava;
Ma di Giove il figliuolo, e di Latona,
Sterminolli ambo, che del primo pelo
Le guance non ombravano, ed il mento.
Fedra comparve ancor, Procri ed Arianna
Che l'amante Teseo rapì da Creta,
E al suol fecondo della sacra Atene
Condur volea. Vane speranze! In Nasso,
Cui cinge un vasto mar, fu da Dïana,
Per l'indizio di Bacco, aggiunta e morta.
Né restò Mera inosservata indietro,
Né Climene restò, né l'abborrita
Erifile, che il suo diletto sposo
Per un aureo monil vender poteo.
Ma dove io tutte degli eroi le apparse
Figlie nomar volessi, e le consorti,
Pria mancherìami la divina Notte.
E a me par tempo da posar la testa
O in nave o qui, tutta del mio ritorno
Ai celesti lasciando, e a voi la cura.
Tacque. I Feaci per l'oscura sala
Stavansi muti, e nel piacere assorti.
Ruppe il silenzio l'immortal regina
La bracciobianca Arete: “Feacesi,
Che vi par di costui? del suo sembiante?
Della maschia persona? e di quel senno
Che in lui risiede? Ospite è mio, ma tutti
Dell'onor, che io ricevo, a parte siete.
Non congedate in fretta, e senza doni
Chi nulla tien, voi, che di buono in casa
Per favor degli dèi tanto serbate”.
Qui favellò Echenèo, che gli altri tutti
Vincea d'etade: “Fuor del segno, amici,
Arete non colpì con la sua voce.
Obbediscasi a lei: se non che prima
Del re l'esempio attenderemo e il detto”.
“Ciò sarà ch'ella vuole”, Alcinoo disse
“Se vita e scettro a me lascian gli dèi.
Ma, benché tanto di partir gli tardi,
L'ospite indugi sino al nuovo sole,
Sì ch'io tutti i regali insieme accoglia.
Cura esser dee comun che lieto ei parta
E più, che d'altri, mia, s'io qui son primo”.
“Alcinoo re, che di grandezza e fama”,
Riprese Ulisse, “ogni mortale avanzi,
Sei mesi ancor mi riteneste e sei,
E fida scorta intanto e ricchi doni
M'apparecchiaste, io non dovrei sgradirlo:
Ché quanto io tornerò con man più piene
A' miei sassi natii, tanto la gente
Con più onore accorrammi e con più affetto”.
Ed Alcinoo in risposta: “Allora, Ulisse
Che ti adocchiamo, un impostor fallace,
D'alte menzogne inaspettato fabbro,
Scorger non sospettiam, quali benigna
La terra qua e là molti ne pasce.
Leggiadria di parole i labbri t'orna,
Né prudenza minor t'alberga in petto.
L'opre de' Greci e le tue doglie, quasi
Lo spirto della Musa in te piovesse,
Ci narrasti così, ch'era un vederle.
Deh siegui, e dimmi, se t'apparve alcuno
Di tanti eroi che veleggiâro a Troia
Teco, e spenti rimaservi. La notte
Con lenti passi or per lo ciel cammina,
E finché ci esporrai stupende cose,
Non fia chi del dormir qui si rammenti.
Quando parlar di te sino all'aurora
Ti consentisse il duol sino all'aurora
Io penderei dalle tue labbra immoto”.
“V'ha un tempo Alcinoo, di racconti ed havvi”,
Ulisse ripigliò, “di sonni un tempo;
Che se udir vuoi più avanti, io non ricuso
La sorte di color molto più dura
Rappresentarti, che scampâr dai rischi
D'una terribil guerra, e nel ritorno,
Colpa d'una rea donna, ohimé! periro.
Poiché le femminili Ombre famose
La casta Proserpìna ebbe disperse,
Mesto, e cinto da quei che fato uguale
Trovâr d'Egisto negl'infidi alberghi,
Si levò d'Agamennone il fantasma.
Assaggiò appena dell'oscuro sangue,
Che ravvisommi; e dalle tristi ciglia
Versava in copia lagrime, e le mani
Mi stendea, di toccarmi invan bramose;
Ché quel vigor, quella possanza, ch'era
Nelle sue membra ubbidïenti ed atte,
Derelitto l'avea. Lagrime anch'io
Sparsi a vederlo, e intenerìi nell'alma,
E tai voci, nomandolo, gli volsi:
"O inclito d'Atrèo figlio, o de' prodi
re, Agamennòne, qual destin ti vinse,
E i lunghi t'arrecò sonni di morte?
Nettuno in mar ti domò forse, i fieri
Spirti eccitando de' crudeli venti?
O t'offesero in terra uomini ostili,
Che armenti depredavi e pingui greggi.
O delle patrie mura, e delle caste
Donne a difesa, roteavi il brando? "
"Laerziade preclaro, accorto Ulisse"
Ratto rispose dell'Atride l'ombra
Me non domò Nettuno all'onde sopra,
Né m'offesero in terra uomini ostili.
Egisto, ordita con la mia perversa
Donna una frode, a sé invitommi, e a mensa
Come alle greppie inconsapevol bue,
L'empio mi trucidò. Così morìi
Di morte infelicissima; e non lunge
Gli amici mi cadean, quai per illustri
Nozze, o banchetto sontuoso, o lauta
A dispendio comun mensa imbandita,
Cadono i verri dalle bianche sanne.
Benché molti a' tuoi giorni o in folta pugna;
Vedessi estinti, o in singolar certame,
Non solita pietà tocco t'avrebbe,
Noi mirando, che stesi all'ospitali
Coppe intorno eravam, mentre correa
Purpureo sangue il pavimento tutto.
La dolente io sentìi voce pietosa
Della figlia di Priamo, di Cassandra,
Cui Clitennestra m'uccidea da presso,
La moglie iniqua; ed io, giacendo a terra,
Con moribonda man cercava il brando:
Ma la sfrontata si rivolse altrove,
Né gli occhi a me, che già scendea tra l'Ombre
Chiudere, né compor degnò le labbra.
No: più rea peste, più crudel non dassi
Di donna, che sì atroci opre commetta,
Come questa infedel, che il danno estremo
Tramò, cui s'era vergine congiunta.
Lasso! dove io credea che, ritornando,
Figliuoli e servi m'accorrìan con festa,
Costei, che tutta del peccar sa l'arte,
Si ricoprì d'infamia, e quante al mondo
Verranno, e le più oneste anco, ne asperse".
"Oh quanta", io ripigliai, "sovra gli Atridi
Le femmine attirâro ira di Giove!
Fu di molti de' Greci Elena strage!
E a te, cogliendo l'assenza il tempo,
Funesta rete Clitennestra tese".
"Quindi troppa tu stesso", ei rispondea,
"Con la tua donna non usar dolcezza,
Né il tutto a lei svelar, ma parte narra
De' tuoi secreti a lei, parte ne taci,
Benché a te dalla tua venir disastro
Non debba: ché Penelope, la saggia
Figlia d'Icario, altri consigli ha in core.
Moglie ancor giovinetta, e con un bimbo,
Che dalla mamma le pendea contento,
Tu la lasciavi, navigando a Troia:
Ed oggi il tuo Telemaco felice
Già s'asside uom tra gli uomini, e il diletto
Padre lui vedrà, un giorno, ed egli al padre
Giusti baci porrà sovra la fronte.
Ma la consorte mia né questo almeno
Mi consentì, ch'io satollassi gli occhi
Nel volto del mio figlio, e pria mi spense.
Credi al fine a' miei detti, e ciò nel fondo
Serba del petto: le native spiagge
Secretamente afferra, e a tutti ignoto,
Quando fidar più non si puote in donna.
Or ciò mi conta, e schiettamente: udisti,
Dove questo mio figlio i giorni tragga?
In Orcomeno forse? O forse tienlo
Pilo arenosa, o la capace Sparta
Presso re Menelao? Certo non venne
Finor sotterra il mio gentil Oreste".
Ed io: "Perché di ciò domandi, Atride,
Me, cui né conto è pur se Oreste spira
Le dolci aure di sopra, o qui soggiorna?
Lode non merta il favellare al vento".
Così parlando alternamente, e il volto
Di lagrime rigando, e il suol di Dite,
Ce ne stavam disconsolati: ed ecco
Sorger lo spirto del Pelìade Achille,
Di Patroclo, d'Antìloco e d'Aiace,
Che gli Achei tutti, se il Pelìde togli,
Di corpo superava e di sembiante.
Mi riconobbe del veloce al corso
Eacide l'imago; e, lamentando:
O, disse, di Laerte inclita prole,
Qual nuova in mente, sciagurato, volgi
Macchina, che ad ogni altra il pregio scemi?
Come osasti calar ne' foschi regni,
Degli estinti magion, che altro non sono
Che aeree forme e simulacri ignudi? "
"Di Peleo", io rispondea, "figlio, da cui
Tanto spazio rimase ogni altro Greco,
Tiresia io scesi a interrogar, che l'arte
Di prender m'insegnasse Itaca alpestre
Sempre involto ne' guai, l'Acaica terra
Non vidi ancor, né il patrio lido attinsi.
Ma di te, forte Achille, uom più beato
Non fu, né giammai fia. Vivo d'un nume
T'onoravamo al pari, ed or tu regni
Sovra i defunti. Puoi tristarti morto?"
"Non consolarmi della morte", a Ulisse
Replicava il Pelìde. "Io pria torrei
Servir bifolco per mercede, a cui
Scarso e vil cibo difendesse i giorni,
Che del Mondo defunto aver l'impero.
Su via, ciò lascia, e del mio figlio illustre
Parlami in vece. Nelle ardenti pugne
Corre tra i primi avanti? E di Pelèo
Del mio gran genitor, nulla sapesti?
Sieguon fedeli a reverirlo i molti
Mirmìdoni, o nell'Ellada ed in Ftia
Spregiato vive per la troppa etade,
Che le membra gli agghiaccia? Ahi! che guardarlo
Sotto i raggi del Sol più non mi lice:
Ché passò il tempo che la Troica sabbia
D'esanimi io covrìa corpi famosi,
Proteggendo gli Achei. S'io con la forza
Che a que' giorni era in me, toccar potessi
Per un istante la paterna soglia,
A chïunque oltraggiarlo, e degli onori
Fraudarlo ardisse, questa invitta mano
Metterebbe nel core alto spavento.
Nulla, io risposi, di Pelèo, ma tutto
Del figliuol posso, e fedelmente, dirti,
Di Neottolemo tuo, che all'oste Achiva
Io stesso sopra cava e d'uguai fianchi
Munita nave rimenai da Sciro.
Sempre che ad Ilio tenevam consulte,
Primo egli a favellar s'alzava in piedi,
Né mai dal punto devïava; soli
Gareggiavam con lui Nestore ed io.
Ma dove l'armi si prendean, confuso
Già non restava in fra la turba, e ignoto:
Precorrea tutti, e di gran lunga, e intere
Le falangi struggea. Quant'ei mandasse
Propugnacol de' Greci, anime all'Orco,
Da me non t'aspettare. Abbiti solo,
Che il Telefìde Eurìpilo trafisse
Fra i suoi Cetèi, che gli morìano intorno;
Euripilo di Troia ai sacri muri
Per la impromessa man d'una del rege
Figlia venuto, ed in quell'oste intera,
Dopo il deiforme Mènnone, il più bello.
Che del giorno dirò, che il fior de' Greci
Nel costrutto da Epèo cavallo salse,
Che in cura ebb'io, poiché a mia voglia solo
Aprìasi, o rinchiudeasi, il cavo agguato?
Tergeansi capi e condottier con mano
Le umide ciglia, e le ginocchia sotto
Tremavano a ciascun; né bagnare una
Lagrima a lui, né di pallore un'ombra
Tingere io vidi la leggiadra guancia.
Bensì prieghi porgeami onde calarsi
Giù del cavallo, e della lunga spada
Palpeggiava il grand'else, e l'asta grave
Crollava, mali divisando a Troia
Poi la cittade incenerita, in nave
Delle spoglie più belle adorno e carco
Montava, e illeso: quando lunge, o presso,
Di spada, o stral, non fu giammai chi vanto
Del ferito Neottòlemo si desse".
Dissi, e d'Achille alle veloci piante
Per li prati d'asfodelo vestiti
L'alma da me sen giva a lunghi passi,
Lieta, che udì del figliuol suo la lode.
D'altri guerrieri le sembianze tristi
Compariano; e ciascun suoi guai narrava.
Sol dello spento Telamonio Aiace
Stava in disparte il disdegnoso spirto
Perché vinto da me nella contesa
Dell'armi del Pelide appo le navi.
Teti, la madre veneranda, in mezzo
Le pose, e giudicaro i Teucri e Palla.
Oh côlta mai non avess'io tal palma,
Se l'alma terra nel suo vasto grembo
Celar dovea sì glorïosa testa,
Aiace, a cui d'aspetto e d'opre illustri,
Salvo l'irreprensibile Pelìde
Non fu tra i Greci chi agguagliarsi osasse!
Io con blande parole: "Aiace", dissi,
"Figlio del sommo Telamon, gli sdegni
Per quelle maledette arme concetti
Dunque né morto spoglierai? Fatali
Certo reser gli dèi quell'arme ai Greci,
Che in te perdero una sì ferma torre.
Noi per te nulla men, che per Achille,
Dolenti andiam; né alcuno n'è in colpa, il credi:
Ma Giove, che infinito ai bellicosi
Danai odio porta, la tua morte volle.
Su via, t'accosta, o re, porgi cortese
L'orecchio alle mie voci, e la soverchia
Forza del generoso animo doma".
Nulla egli a ciò: ma, ritraendo il piede,
Fra l'altre degli estinti Ombre si mise:
Pur, seguendolo io quivi, una risposta
Forse data ei m'avrìa; se non che voglia
Altro di rimirar m'ardea nel petto.
Minosse io vidi, del Saturnio il chiaro
Figliuol, che assiso in trono, e un aureo scettro
Stringendo in man, tenea ragione all'ombre
Che tutte, qual seduta e quale in piedi,
Conti di sé rendeangli entro l'oscura
Di Pluto casa dalle larghe porte.
Vidi il grande Orïòn, che delle fiere,
Che uccise un dì sovra i boscosi monti,
Or gli spettri seguìa de' prati inferni
Per l'asfodelo in caccia; e maneggiava
Perpetua mazza d'infrangibil rame.
Ecco poi Tizio, della Terra figlio,
Che sforzar non temé l'alma di Giove
Sposa, Latona, che volgeasi a Pito
Per le ridenti Panopèe campagne.
Sul terren distendevasi, e ingombrava
Quando in dì nove ara di tauri un giogo:
E due avvoltoi, l'un quinci, e l'altro quindi,
Ch'ei con mano scacciar tentava indarno
rodeangli il cor, sempre ficcando addentro
Nelle fibre rinate il curvo rostro.
Stava là presso con acerba pena
Tantalo in piedi entro un argenteo lago,
La cui bell'onda gli toccava il mento.
Sitibondo mostravasi, e una stilla
Non ne potea gustar: ché quante volte
Chinava il veglio le bramose labbra,
Tante l'onda fuggìa dal fondo assorta,
Sì che apparìagli ai piè solo una bruna
Da un Genio avverso inaridita terra.
Piante superbe, il melagrano, il pero,
E di lucide poma il melo adorno,
E il dolce fico, e la canuta oliva,
Gli piegavan sul capo i carchi rami;
E in quel ch'egli stendea dritto la destra
Vêr le nubi lanciava i rami il vento.
Sìsifo altrove smisurato sasso
Tra l'una e l'altra man portava, e doglia
Pungealo inenarrabile. Costui
La gran pietra alla cima alta d'un monte,
Urtando con le man, coi piè pontando,
Spingea: ma giunto in sul ciglion non era,
Che, risospinta da un poter supremo,
Rotolavasi rapida pel chino
Sino alla valle la pesante massa.
Ei nuovamente di tutta sua forza
Su la cacciava: dalle membra a gronde
Il sudore colavagli, e perenne
Dal capo gli salìa di polve un nembo.
D'Ercole mi s'offerse al fin la possa,
Anzi il fantasma: però ch'ei de' numi
Giocondasi alla mensa e cara sposa
Gli siede accanto la dal piè leggiadro
Ebe, di Giove figlia e di Giunone,
Che muta il passo, coturnata d'oro.
Schiamazzavan gli spirti a lui d'intorno,
Come volanti augei da subitana
Tema compresi; ed ei fosco, qual notte,
Con l'arco in mano, e con lo stral sul nervo,
Ed in atto ad ognor di chi saetta,
Orrendamente qua e là guatava.
Ma il petto attraversavagli una larga
D'ôr cintura terribile, su cui
Storïate vedeansi opre ammirande,
Orsi, cinghiai feroci e leon torvi,
E pugne, e stragi, e sanguinose morti;
Cintura, a cui l'eguale, o prima o dopo,
Non fabbricò, qual che si fosse, il mastro.
Mi sguardò, riconobbemi, e con voce
Lugubre: "O", disse, "di Laerte figlio,
Ulisse accorto, ed infelice a un'ora,
Certo un crudo t'opprime avverso fato,
Qual sotto i rai del Sole anch'io sostenni.
Figliuol quantunque dell'Egìoco Giove,
Pur, soggetto vivendo ad uom che tanto
Valea manco di me, molto io soffersi.
Fatiche gravi ei m'addossava, e un tratto
Spedimmi a quinci trarre il can trifauce,
Che la prova di tutte a me più dura
Sembravagli; ed io venni, e quinci il cane
Trifauce trassi ripugnante indarno,
D'Ermete col favore e di Minerva".
Tacque, e nel più profondo Erebo scese.
Di loco io non moveami, altri aspettando
De' prodi, che spariro, è omai gran tempo.
E que' due forse mi sarien comparsi,
Ch'io più veder bramava, eroi primieri,
Teseo e Piritoo, glorïosa prole
Degl'immortali dèi. Ma un infinito
Popol di spirti con frastuono immenso
Si ragunava; e in quella un improvviso
Timor m'assalse, non l'orribil testa
Della tremenda Gòrgone la diva
Proserpina invïasse a me dall'Orco.
Dunque senza dimora al cavo legno
Mossi, e ai compagni comandai salirlo,
E liberar le funi; ed i compagni
Ratto il salìano, e s'assidean su i banchi.
Pria l'aleggiar de' remi il cavo legno
Mandava innanzi d'Ocean su l'onde:
Poscia quel, che levossi, ottimo vento.
LIBRO DODICESIMO
Poiché la nave uscì dalle correnti
Del gran fiume Oceàno, ed all'Eèa
Isola giunse nell'immenso mare,
Là 've gli alberghi dell'Aurora e i balli
Sono, e del sole i lucidi Levanti,
Noi dalla nave, che fu in secco tratta,
Scesi, e corcati su la muta spiaggia,
Aspettammo dell'alba il sacro lume.
Ma come del mattin la bella figlia
Colorò il ciel con le rosate dita,
Di Circe andaro alla magione alcuni,
Che dell'estinto Elpenore la fredda
Spoglia ne riportassero. Troncammo
Frassini e abeti, e all'infelice amico,
Dolenti il core, e lagrimosi il ciglio,
L'esequie femmo, ove sporgea più il lido.
Né prima il corpo e le armi ebbe arse il foco,
Che noi, composto un tumulo, ed eretta
SOpravi una colonna, il ben formato
Remo infiggemmo della tomba in cima.
Mentr'eravamo al trist'ufficio intenti,
Circe, che d'Aide ci sapea tornati,
S'adornò e venne in fretta, e con la dea
Venner d'un passo le serventi ninfe,
Forza di carni e pan seco recando,
E rosso vino, che le vene infiamma.
L'inclita tra le dee stava nel mezzo,
E così favellava: "O sventurati,
Che in carne viva nel soggiorno entraste
D'Aide, e di cui la sorte è due fiate
Morir, quando d'ogni altro uomo è una sola.
Su via, tra i cibi scorra ed i licori
Tutto a voi questo dì su le mie rive.
Come nel ciel rosseggerà l'Aurora,
Navigherete; ma il cammino, e quanto
Di saper v'è mestieri, udrete in prima,
Sì che non abbia per un mal consiglio
Grave in terra, od in mare, a incorvi danno".
Chi persuaso non sarìasi? Quindi
Tra lanci piene e coronate tazze,
Finché il sol si mostrò, sedemmo a mensa.
Il sol celato ed imbrunito il mondo,
Si colcaro i compagni appo la nave.
Ma Circe me prese per mano, e trasse
Da parte, e a seder pose; indi, seduta
Di contra, interrogommi, ed io su tutto
La satisfeci pienamente. Allora
Tai parole sciogliea l'illustre diva:
"Tu compiesti ogni cosa. Or quello ascolta,
Ch'io vo' manifestarti, e che al bisogno
Ti torneranno nella mente i numi.
Alle Sirene giungerai da prima,
Che affascìnan chïunque i lidi loro
Con la sua prora veleggiando tocca.
Chïunque i lidi incautamente afferra
Delle Sirene, e n'ode il canto, a lui
Né la sposa fedel, né i cari figli
Verranno incontro su le soglie in festa.
Le Sirene sedendo in un bel prato,
Mandano un canto dalle argute labbra,
Che alletta il passeggier: ma non lontano
D'ossa d'umani putrefatti corpi
E di pelli marcite, un monte s'alza.
Tu veloce oltrepassa, e con mollita
Cera de' tuoi così l'orecchio tura,
Che non vi possa penetrar la voce.
Odila tu, se vuoi; sol che diritto
Te della nave all'albero i compagni
Leghino, e i piedi stringanti, e le mani;
Perché il diletto di sentir la voce
Delle Sirene tu non perda. E dove
Pregassi o comandassi a' tuoi di sciorti,
Le ritorte raddoppino ed i lacci.
Poiché trascorso tu sarai, due vie
Ti s'apriranno innanzi; ed io non dico,
Qual più giovi pigliar, ma, come d'ambo
Ragionato t'avrò, tu stesso il pensa.
Vedrai da un lato discoscese rupi
Sovra l'onde pendenti, a cui rimbomba
Dell'azzurra Anfitrite il salso fiotto.
Gl'Iddii beati nella lor favella
Chiàmanle Erranti. Non che ogni altro augello,
Trasvolarle non sanno impunemente
Né le colombe pur, che al padre Giove
Recan l'ambrosia: la polita pietra
Sempre alcuna ne fura, e della spenta
Surroga invece altra colomba il padre.
Nave non iscampò dal periglioso
Varco sin qui: ché de' navigli tutti
Le tavole del pari e i naviganti
Sen porta il vincitor flutto, e la pregna
Di mortifero foco atra procella.
Sola quell'Argo che solcava il mare,
Degli uomini pensiero e degli dèi
Trapassar valse, navigando a Colco:
E se non che Giunon, cui molto a cuore
Giasone stava, di sua man la spinse,
Quella non meno avrìan contra le vaste
Rupi cacciata i tempestosi flutti.
Dall'altra parte havvi due scogli: l'uno
Va sino agli astri, e fosca nube il cinge
Né su l'acuto vertice, l'estate
Corra o l'autunno, un puro ciel mai ride.
Montarvi non potrebbe altri, o calarne,
Venti mani movesse e venti piedi:
Sì liscio è il sasso e la costa superba.
Nel mezzo, vôlta all'occidente e all'orco,
S'apre oscura caverna, a cui davanti
Dovrai ratto passar; giovane arciero
Che dalla nave disfrenasse il dardo,
Non toccherebbe l'incavato speco.
Scilla ivi alberga, che moleste grida
Di mandar non ristà. La costei voce
Altro non par che un guaiolar perenne
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
Mostro, e sino ad un dio, che a lei si fesse,
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo.
Dodici ha piedi, anterïori tutti,
Sei lunghissimi colli, e su ciascuno
Spaventosa una testa, e nelle bocche
Di spessi denti un triplicato giro,
E la morte più amara in ogni dente.
Con la metà di sé nell'incavato
Speco profondo ella s'attuffa, e fuori
Sporge le teste, riguardando intorno
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que' mostri maggior che a mille a mille
Chiude Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.
Né mai nocchieri oltrepassaro illesi:
Poiché quante apre disoneste bocche,
Tanti dal cavo legno uomini invola.
Men l'altro s'alza contrapposto scoglio
E il dardo tuo ne colpirìa la cima.
Grande verdeggia in questo e d'ampie foglie
Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe
La temuta Cariddi il negro mare.
Tre fiate il rigetta, e tre nel giorno
L'assorbe orribilmente. Or tu a Cariddi
Non t'accostar mentre il mar negro inghiotte;
Ché mal saprìa dalla ruina estrema
Nettuno stesso dilivrarti. A Scilla
Tienti vicino, e rapido trascorri.
Perder sei de' compagni entro la nave
Torna più assai, che perir tutti a un tempo".
Tal ragionava; ed io: "Quando m'avvegna
Schivare, o Circe, la fatal Cariddi,
Respinger, dimmi il ver, Scilla non deggio,
Che gli amici a distruggermi s'avventa?"
"O sventurato", rispondea la diva
Dunque le pugne in mente ed i travagli
Rivolgi ancor, né ceder pensi ai numi?
Cosa mortal credi tu Scilla? Eterno
Credila, e duro, e faticoso, e immenso
Male, ed inespugnabile, da cui
Schermo non havvi, e cui fuggir fia ìl meglio
Se indugi, e vesti appo lo scoglio l'armi,
Sbucherà, temo, ad un secondo assalto,
E tanti de' compagni un'altra volta
Ti rapirà, quante spalanca bocche.
Vola dunque sul pelago, e la madre
Cratèi, che al mondo generò tal peste,
E ritenerla, che a novella preda
Non si slanci, potrà, nel corso invoca.
Allora incontro ti verran le belle
Spiagge della Trinacria isola, dove
Pasce il gregge del Sol, pasce l'armento:
Sette branchi di buoi, d'agnello tanti,
E di teste cinquanta i branchi tutti.
Non cresce, o scema, per natale o morte,
Branco; e le Dive sono i lor pastori
Faetusa e Lampezie il crin ricciute
Che partorì d'Iperïone al figlio
Ninfe leggiadre, la immortal Neera.
Come l'augusta madre ambo le ninfe
Dopo il felice parto ebbe nodrite,
A soggiornar lungi da sé mandolle
Nella Trinacria; e le paterne vacche
Dalla fronte lunata, ed i paterni
Monton lucenti a custodir lor diede.
Pascoleranno intatti e a voi soltanto
Calerà del ritorno? il suol nativo,
Non però senza guai, fiavi concesso.
Ma se giovenca molestaste od agna,
Sterminio a te predìco, al legno e a' tuoi
E pognam, che tu salvo ancor ne andassi,
Riederai tardi, e a gran fatica, e solo".
Disse; e sul trono d'ôr l'Aurora apparve.
Circe, non molto poi, da me rivolse
Per l'isola i suoi passi; ed io, trovata
La nave, a entrarvi e a disnodar la fune
Confortava i compagni; ed i compagni
V'entraro, e s'assidean su i banchi, e assisi
Fean co' remi nel mar spume d'argento.
La dea possente ci spedì un amico
Vento di vela gonfiator, che fido
Per l'ondoso cammin ne accompagnava:
Sì che, deposti nella negra nave
Dalla prora cerulea i lunghi remi,
Sedevamo, di spingerci e guidarci
Lasciando al timonier la cura e al vento.
Qui, turbato del core: "Amici", io dissi,
Degno mi par che a tutti voi sia conto
Quel che predisse a me l'inclita Circe.
Scoltate adunque, acciocché, tristo o lieto,
Non ci sorprenda ignari il nostro fato.
Sfuggire in pria delle Sirene il verde
Prato e la voce dilettosa ingiunge.
Vuole ch'io l'oda io sol: ma voi diritto
Me della nave all'albero legate
Con fune sì, ch'io dar non possa un crollo;
E dove di slegarmi io vi pregassi
Pur con le ciglia, o comandassi, voi
Le ritorte doppiatemi ed i lacci".
Mentre ciò loro io discoprìa, la nave,
Che avea da poppa il vento, in picciol tempo
Delle Sirene all'isola pervenne.
Là il vento cadde, ed agguagliossi il mare,
E l'onde assonnò un demone. I compagni
Si levâr pronti, e ripiegâr le vele,
E nella nave collocarle: quindi
Sedean sui banchi ed imbiancavan l'onde
Co' forti remi di polito abete.
Io la duttile cera, onde una tonda
Tenea gran massa, sminuzzai con destro
Rame affilato; ed i frammenti n'iva
Rivoltando e premendo in fra le dita.
Né a scaldarsi tardò la molle pasta;
Perocché lucidissimi dall'alto
Scoccava i rai d'Iperïone il figlio.
De' compagni incerai senza dimora
Le orecchie di mia mano; e quei diritto
Me della nave all'albero legaro
Con fune, i piè stringendomi e le mani.
Poi su i banchi adagiavansi, e co' remi
Batteano il mar, che ne tornava bianco.
Già, vogando di forza, eravam quanto
Corre un grido dell'uomo, alle Sirene
Vicini. Udito il flagellar de' remi,
E non lontana omai vista la nave,
Un dolce canto cominciaro a sciorre:
"O molto illustre Ulisse, o degli Achei
Somma gloria immortal, su via, qua vieni,
Ferma la nave; e il nostro canto ascolta.
Nessun passò di qua su negro legno,
Che non udisse pria questa che noi
Dalle labbra mandiam, voce soave;
Voce, che innonda di diletto il core,
E di molto saver la mente abbella.
Ché non pur ciò, che sopportaro a Troia
Per celeste voler Teucri ed Argivi,
Noi conosciam, ma non avvien su tutta
La delle vite serbatrice terra
Nulla, che ignoto o scuro a noi rimanga".
Cosi cantaro. Ed io, porger volendo
Più da vicino il dilettato orecchio,
Cenno ai compagni fea, che ogni legame
Fossemi rotto; e quei più ancor sul remo
Incurvavano il dorso, e Perimede
Sorgea ratto, ed Euriloco, e di nuovi
Nodi cingeanmi, e mi premean più ancora.
Come trascorsa fu tanto la nave,
Che non potea la perigliosa voce
Delle Sirene aggiungerci, coloro
A sé la cera dall'orecchio tosto,
E dalle membra a me tolsero i lacci.
Già rimanea l'isola indietro; ed ecco
Denso apparirmi un fumo e vasti flutti,
E gli orecchi intronarmi alto fragore.
Ne sbigottiro i miei compagni, e i lunghi
Remi di man lor caddero, e la nave,
Che de' fidi suoi remi era tarpata,
Là immantinente s'arrestò. Ma io
Di su, di giù, per la corsìa movendo,
E con blanda favella or questo, or quello
De' compagni abbordando: "O", dissi, "meco
Sin qua passati per cotanti affanni,
Non ci sovrasta un maggior mal, che quando
L'infinito vigor di Polifemo
Nell'antro ci chiudea. Pur quinci ancora
Col valor mio vi trassi, e col mio senno,
E vi fia dolce il rimembrarlo un giorno.
Via, dunque, via, ciò ch'io comando, tutti
Facciam: voi, stando sovra i banchi, l'onde
Percotete co' remi, e Giove, io spero,
Concederà dalle correnti scampo.
Ma tu, che il timon reggi, abbiti in mente
Questo, né l'obblïar: guida il naviglio
Fuor del fumo e del fiotto, ed all'opposta
Rupe ognor mira e ad essa tienti, o noi
Getterai nell'orribile vorago".
Tutti alla voce mia ratto ubbidiro.
Se non ch'io Scilla, immedicabil piaga,
Tacqui, non forse, abbandonati i banchi,
L'un sovra l'altro per soverchia tema
Della nave cacciassersi nel fondo.
E qui, di Circe, che vietommi l'arme,
Negletto il disamabile comando,
Io dell'arme vestìami, e con due lunghe
Nell'impavida mano aste lucenti
Salìa sul palco della nave in prua,
Attendendo colà, che l'efferata
Abitatrice dell'infame scoglio
Indi, gli amici a m'involar, sbalzasse:
Né, perché del ficcarli in tutto il bruno
Macigno stanchi io mi sentissi gli occhi,
Da parte alcuna rimirarla io valsi.
Navigavamo addolorati intanto
Per l'angusto sentier: Scilla da un lato,
Dall'altro era l'orribile Cariddi,
Che del mare inghiottia l'onde spumose.
Sempre che rigettavale, siccome
Caldaia in molto rilucente foco,
Mormorava bollendo; e i larghi sprazzi,
Che andavan sino al cielo, in vetta d'ambo
Gli scogli ricadevano. Ma quando
I salsi flutti ringhiottiva, tutta
Commovéasi di dentro, ed alla rupe
Terribilmente rimbombava intorno,
E, l'onda il seno aprendo, un'azzurrigna
Sabbia parea nell'imo fondo: verdi
Le guance di paura a tutti io scôrsi.
Mentre in Cariddi tenevam le ciglia,
Una morte temendone vicina,
Sei de' compagni, i più di man gagliardi,
Scilla rapimmi dal naviglio. Io gli occhi
Torsi, e li vidi che levati in alto
Braccia e piedi agitavano, ed Ulisse
Chiamavan, lassi!, per l'estrema volta.
Qual pescatore che su pendente rupe
Tuffa di bue silvestre in mare il corno
Con lunghissima canna, un'infedele
Esca ai minuti abitatori offrendo,
E fuor li trae dall'onda, e palpitanti
Scagliali sul terren: non altrimenti
Scilla i compagni dal naviglio alzava
E innanzi divoravali allo speco,
Che dolenti mettean grida, e le mani
Nel gran disastro mi stendeano indarno.
Fra i molti acerbi casi, ond'io sostenni,
Solcando il mar, la vista, oggetto mai
Di cotanta pietà non mi s'offerse.
Scilla e Cariddi oltrepassate, in faccia
La feconda ci apparve isola amena,
Ove il gregge del Sol pasce e l'armento;
E ne giungean dall'ampie stalle a noi
I belati su l'aure ed i muggiti.
Gli avvisi allor mi si svegliaro in mente
Del Teban vate e della maga Circe,
Ch'io l'isola schivar del Sol dovessi,
Di cui rallegra ogni vivente il raggio.
Ond'io: "Compagni, lor dicea, per quanto
Siate angosciati, la sentenza udite
Del Teban vate e della maga Circe,
Ch'io l'isola schivar debba del Sole,
Di cui rallegra ogni vivente il raggio.
Circe affermava che il maggior de' guai
Quivi c'incoglieria. Lasciarla indietro
Ci convien dunque con la negra nave".
Colpo tai detti fûr quasi mortale.
Né a molestarmi Euriloco in tal guisa
Tardava: "Ulisse, un barbaro io ti chiamo,
Perché di forze abbondi, e mai non cedi,
Né fibra è in te che non sia ferro, a' tuoi
Contendi il toccar terra, e di non parca
Cena sul lido ristorarsi. Esigi
Che in mezzo le notturne ombre su questo
Pelago a caso erriam, benché la notte
Gravi produca disastrosi venti.
Or chi fuggir potrà l'ultimo danno
Dove repente un procelloso fiato
Di Mezzodì ci assalga, o di Ponente,
Che de' numi anco ad onta, il legno sperda?
S'obbedisca oggi alla divina notte,
E la cena nell'isola s'appresti.
Come il dì spunti, salirem di nuovo
La nave, e nell'immensa onda entreremo".
Questa favella con applauso accolta
Fu dai compagni ad una; ed io ben m'avvidi
Che mali un genio prepotente ordìa:
"Euriloco", io risposi, "oggimai troppa,
Tutti contra ad un sol, forza mi fate.
Giurate almeno, e col più saldo giuro,
Che, se greggi troviam, troviamo armenti,
Non sia chi, spinto da stoltezza iniqua,
Giovenca uccida, o pecorella offenda:
Ma tranquilli di ciò pasteggerete,
Che in don vi porse la benigna Circe".
Quelli giuraro, e non sì tosto a fine
L'invïolabil giuro ebber condotto,
Che la nave nel porto appo una fonte
Fermâro, e ne smontaro, e lauta cena
Solertemente apparecchiâr sul lido.
Paga delle vivande e de' licori
La naturale avidità pungente,
Risovvenìansi di color che Scilla
Dalla misera nave alto rapiti
Vorossi, e li piangean, finché discese
Su gli occhi lagrimosi il dolce sonno.
Già corsi avea del suo cammin due terzi
La notte e dechinavano le stelle,
Quando il cinto di nembi Olimpio Giove
Destò un gagliardo, turbinoso vento,
Che la terra coverse, e il mar di nubi,
E la notte di cielo a piombo cadde.
Ma come poi l'orocrinita Aurora
Colorò il ciel con le rosate dita,
Tirammo a terra il legno, e in cavo speco
De' seggi ornato delle ninfe, ch'ivi
I lor balli tessean, l'introducemmo.
Subito io tutti mi raccolsi intorno
E: "Compagni", diss'io, "cibo e bevanda
Restanci ancor nella veloce nave.
Se non vogliam perir, lungi, vedete,
La man dal gregge e dall'armento; al Sole,
Terribil dio, che tutto vede ed ode,
Pascono i monton pingui e i bianchi tori".
Dissi; e acchetârsi i generosi petti.
Per un intero mese Austro giammai
Di spirar non restava, e poscia fiato
Non sorgea mai, che di Levante o d'Austro.
Finché il pan non fallì loro ed il vino,
Ubbidïenti e della vita avari,
Rispettavan l'armento. E già la nave
Nulla contenea più. Gìvano adunque,
Come il bisogno li pungea, dispersi
Per l'isola, d'augelli e pesci in traccia,
Con archi ed ami, o di quale altra preda
Lor venisse alle man; però che forte
Rodeali dentro l'importuna fame.
Io, dai compagni scevro, una remota
Cercai del piede solitaria piaggia,
Gli eterni a Supplicar, se alcun la via
Mi dimostrasse del ritorno, e in parte
Giunto, che d'aura non sentìasi colpo,
Sparsi di limpid'onda, e a tutti alzai
Gli abitanti del cielo ambo le palme.
Né guari andò, che d'un tranquillo sonno
Gli occhi ed il petto rïempièrmi i numi.
Eurìloco frattanto un mal consiglio
Pose innanzi ai compagni: "O da sì acerbe
Sciagure oppressi, la mia voce udite.
Tutte odïose certo ad uom le morti;
Ma nulla tanto, che il perir di fame.
Che più si tarda? Meniam via le belle
Giovenche, e sagrifici ai numi offriamo.
Ché se afferrar ci sarà dato i lidi
Nativi, al Sole Iperïone un ricco
Tempio illustre alzeremo, appenderemo
Molti alle mura prezïosi doni.
E dov'ei, per li buoi dalla superba
Testa crucciato, sperder voglia il legno,
Né alcun dio gli contrasti, io tolgo l'alma
Pria tra i flutti esalar, che, su deserta
Isola stando, intisichir più a lungo".
Disse: e tutti assentìano. Incontanente
Del Sol cacciate le più belle vacche
Di fronte larga e con le corna in arco,
Che dalla nave non pascean lontane,
Stavano ad esse intorno, e, côlte prima,
Per difetto che avean di candid'orzo,
Tenere foglie di sublime quercia,
Voti féano agli dèi. Compiuti i voti,
Le vittime sgozzaro e le scoiaro,
E, le cosce tagliatene, di zirbo
Le copriro doppiate, e i crudi brani
Sopra vi collocaro. Acqua, che il rosso
Vino scusasse, onde patìan disagio,
Versavan poi su i sagrifici ardenti,
E abbrostìan tutti gl'intestini. Quindi,
Le cosce omai combuste, ed assaggiate
Le interïora, tutto l'altro in pezzi
Fu messo, e infitto negli acuti spiedi;
E a me uscì delle ciglia il dolce sonno.
Sorsi, e alla nave in fretta io mi condussi.
Ma vicina del tutto ancor non m'era,
Ch'io mi sentii dall'avvampate carni
Muovere incontro un odoroso vento,
E gridai, lamentando, ai numi eterni:
"O Giove padre, e voi, dèi sempre stanti,
Certo in un crudo e fatal sonno voi
Mi seppelliste, se doveasi intanto
Compier da cotestoro un tal misfatto".
Nunzia non tarda dell'ucciso armento,
Lampezie al Sole andò, di lungo peplo
Coperta. Il Sole, in grande ira montato,
Si volse ai numi e: "Giove", disse, e voi
Tutti, immortali dèi, paghino il fio
Del Laerzìade Ulisse i rei compagni,
Che le giovenche trucidarmi osaro,
Della cui vista, o ch'io per la stellata
Volta salissi, o discendessi, nuovo
Diletto ciascun dì prendea il mio core.
Colpa e pena in lor sia d'una misura:
O calerò nella magion di Pluto,
E al popol morto porterò mia luce".
E il nimbifero Giove a lui rispose:
"Tra gl'Immortali, o Sole, ed i mortali
Vibra su l'alma terra, e in cielo, i raggi.
Io senza indugio d'un sol tocco lieve
Del fulmine affocato il lor naviglio
Sfracellerò del negro mar nel seno".
Queste cose Calipso un giorno udìa
Dal messaggier Mercurio; e a me narrolle
La ricciuta il bel crin ninfa Calipso.
Giunto alla nave, io rampognavo or questo
De' compagni, ed or quel: ma vïolato
L'armento fu, né avea compenso il male.
Strani prodigi intanto agl'infelici
Mostravano gl'iddii: le fresche pelli
Strisciavan sul terren, muggian le incotte
Carni e le crude, agli schidoni intorno,
E de' buoi lor sembrava udir la voce.
Pur del fior dell'armento ancor sei giorni
Si cibaro i colpevoli. Comparsa
La settim'alba, il turbinoso vento
Stancossi: e noi ci rimbarcammo, e, alzato
L'albero prontamente, e dispiegate
Le bianche vele, ci mettemmo in mare.
Di vista già della Trinacria usciti,
Altro non ci apparìa che il cielo e l'onda,
Quando il Saturnio sul veloce legno
Sospese in alto una cerulea nube,
Sotto cui tutte intenebrârsi l'acque.
La nave non correa che un tempo breve;
Poiché ratto uno stridulo Ponente,
Infurïando, imperversando, venne
Di contra e ruppe con tremenda buffa
Le due funi dell'albero, che a poppa
Cadde; ed antenne in uno, e vele e sarte
Nella sentina scesero. Percosse
L'alber, cadendo, al timoniere in capo,
E l'ossa fracassògli; ed ei da poppa
Saltò nel mar, di palombaro in guisa,
E cacciata volò dal corpo l'alma.
Ma Giove che tonato avea più volte,
Scagliò il fulmine suo contra la nave,
Che si girò, dal fulmine colpita
Del Saturnio, e s'empieo di zolfo tutta.
Tutti fuor ne cascarono i compagni,
E ad essa intorno l'ondeggiante sale,
Quai corvi, li portava; e così Giove
Il ritorno togliea loro, e la vita.
Io pel naviglio su e giù movea,
Finché gli sciolse la tempesta i fianchi
Dalla carena, che rimase inerme.
Poi la base dell'albero l'irata
Onda schiantò: ma di taurino cuoio
Rivestìalo una striscia, ed io con questa
L'albero e la carena in un legai,
E sopra mi v'assisi; e tale i venti
Esizïali mi spingean su l'onde.
Zefiro a un tratto rallentò la rabbia:
Se non che sopraggiunse un Austro in fretta,
Che, noiandomi forte in ver Cariddi
Ricondur mi volea. L'intera notte
Scorsi su i flutti; e col novello Sole
Tra la grotta di Scilla, e la corrente
Mi ritrovai della fatal vorago,
Che in quel punto inghiottia le salse spume
Io, slanciandomi in alto, a quel selvaggio
M'aggrappai fico eccelso, e mi v'attenni,
Qual vipistrello: ché né dove i piedi
Fermar, né come ascendere, io sapea,
Tanto eran lungi le radici, e tanto
Remoti dalla mano i lunghi, immensi
Rami, che d'ombra ricoprìan Cariddi.
Là dunque io m'attenea bramando sempre,
Che rigettati dall'orrendo abisso
Fosser gli avanzi della nave. Al fine
Dopo un lungo desìo vennero a galla.
Nella stagion che il giudicante, sciolte
Varie di caldi giovani contese,
Sorge dal foro, e per cenar s'avvìa,
Dell'onde usciro i sospirati avanzi.
Le braccia apersi allora, e mi lasciai
Giù piombar con gran tonfo all'onde in mezzo,
Non lunge da que' legni, a cui m'assisi
Di sopra, e delle man remi io mi feci.
Ma degli uomini il padre e de' Celesti
Di rivedermi non permise a Scilla;
Ché toccata sarìami orrida morte.
Per nove dì mi trabalzava il fiotto,
E la decima notte i dèi sul lido
Mi gettâr dell'Ogigia isola, dove
Calipso alberga, la divina ninfa,
Che raccoglieami amica, e in molte guise
Mi confortava. Perché ciò ti narro?
Tai cose, Alcinoo illustre, ieri le udivi,
Le udìa con teco la tua casta donna,
E ciò ridir, ch'io dissi, a me non torna”.
LIBRO TREDICESIMO
Stavansi tutti per l'oscura sala
Taciti, immoti, e nel diletto assorti.
Così al fine il silenzio Alcinoo ruppe:
“Poiché alla mia venisti alta e di rame
Solido e liscio edificata casa,
No, Ulisse, non cred'io che al tuo ritorno
L'onde t'agiteran, comunque afflitto
T'abbia sin qui co' suoi decreti il fato.
Voi, tutti, che vôtar nel mio palagio
Del serbato ai più degni ardente vino
Solete i nappi, ed ascoltare il vate,
L'animo a quel ch'io vi dichiaro, aprite.
Le vesti e l'oro d'artificio miro,
E ogni altro don, che de' Feaci i capi
Recâro al forestier, l'arca polìta
Già nel suo grembo accolse. Or d'un treppiede
Anco e d'un'urna il presentiam per testa;
Indi farem che tutta in questi doni,
Di cui male potremmo al grave peso
Regger noi soli, la città concorra”.
Disse; e piacquero i detti, e al proprio albergo
Ciascun le piume a ritrovar si volse.
Ma come del mattin la bella figlia
Aperse il ciel con le rosate dita,
Vêr la nave affrettavansi, portando
Il bel, che onora l'uom, bronzo foggiato.
Lo stesso re, ch'entrò per questo in nave,
Attentamente sotto i banchi il mise,
Onde, mentre daran de' remi in acqua,
Non impedisse alcun de' Feacesi
Giovani, e l'offendesse urna o treppiede.
Né di condursi al real tetto, dove
La mensa gli attendea, tardaro i prenci.
Per lor d'Alcinoo la sacrata possa
Un bue quel giorno uccise al ghirlandato
D'atre nubi Signor dell'Universo.
Arse le pingui cosce, un prandio lauto
Celebran lietamente; e il venerato
Dalla gente Demodoco, il divino
Cantor, percuote la sonante cetra.
Ma Ulisse il capo alla dïurna lampa
Spesso torcea, se tramontasse al fine;
Ché il ritorno nel cor sempre gli stava.
Quale a villan, che dalla prima luce
Co' negri tori e col pesante aratro
Un terren franse riposato e duro,
Cade gradito il Sole in occidente,
Pel desìo della cena, a cui s'avvia
Con le ginocchia, che gli treman sotto:
Tal cadde a Ulisse in occidente il sole.
Tosto agli amanti del remar Feaci,
E al re, più che ad altrui, così drizzossi:
“Facciansi, Alcinoo, i libamenti, e illeso
Mandatemi; e gl'iddii vi guardin sempre.
Tutti ho già i miei desir: pronta è la scorta,
E della nave in sen giacciono i doni,
Da cui vogliano i dèi che pro mi vegna.
Vogliano ancor, che in Itaca l'egregia
Consorte io trovi, e i cari amici in vita.
Voi, restandovi qui, serbate in gioia
Quelle, che uniste a voi, vergini spose,
E i dolci figli che ne aveste: i numi
V'ornin d'ogni virtù, né possa mai
I dì vostri turbar pubblico danno”.
Tacque; e applaudìa ciascuno, e molto instava
Si compiacesse allo stranier, da cui
Uscita era sì nobile favella.
Ed Alcinoo all'araldo allor tai detti:
“Pontonoo, il vino mesci, e a tutti in giro
Porgilo, acciò da noi, pregato Giove,
S'accommiati oggimai l'ospite amico”.
Mescé l'araldo il vino, e il porse in giro;
E tutti dai lor seggi agl'immortali
Numi libaro. Ma il divino Ulisse
Sorse, e d'Arete in man gemina pose
Tazza rotonda, e tai parole sciolse:
“Vivi felici dì, Regina illustre,
Finché vecchiezza ti sorprenda, e morte,
Comun retaggio degli umani. Io parto:
Te del popol, de' figli e del marito
Il rispetto feliciti e l'amore”.
Disse, e varcò la soglia. Alcinoo innanzi
Muover gli fece il banditor, che al ratto
Legno li guidasse e al mare: e Arete dietro
Tre serve gli spedì, l'un con tersa
Tunica in mano ed un lucente manto,
L'altra con la fedele arca, e con bianchi
pani la terza e rosseggianti vini.
Tutto da lor, come sul lido fûro,
I remiganti tolsero, e nel fondo
Della nave allogar: poi su la poppa
Steser candidi lini e bella coltre,
Dove tranquillo il forestier dormisse.
Vi montò egli, e tacito corcossi.
E quei sedean su i banchi, e, poiché sciolta
Dal traforato sasso ebber la fune,
Fatigavan co' remi il mar canuto.
Ma un dolce sonno al Laerzïade, un sonno
Profondo, ineccitabile, e alla morte
Per poco egual, su le palpebre scese.
Come talvolta in polveroso campo
Quattro maschi destrieri a un cocchio aggiunti,
E tutti dal flagel percossi a un tempo,
Sembran levarsi nel vôto aere in alto,
E la prescritta via compier volando:
Sì la nave correa con alta poppa,
Dietro da cui precipitava il grosso
Del risonante mar flutto cilestro.
Correa sicura, né l'avrìa sparviere,
Degli augei velocissimo, raggiunta;
Con sì celere prora i salsi flutti
Solcava, un uom seco recando ai dii
Pari di senno, che infiniti affanni
Durati avea tra l'armi, avea tra l'onde,
E allor, d'obblìo sparsa ogni cura, in braccio
D'un sonno placidissimo giacea.
Quando comparve quel sì fulgid'astro,
Che della rosea Aurora è messaggiero,
La ratta nave ad Itaca approdava.
Il porto è qui del marin vecchio Forco,
Che due sporgenti in mar lidi scoscesi,
E l'uno all'altro ripieganti incontra,
Sì dal vento riparano e dal fiotto,
Che di fune mestier non v'han le navi.
Spande sovra la cima i larghi rami
Vivace oliva, e presso a questa un antro
S'apre amabile, opaco, ed alle ninfe
Nàiadi sacro. Anfore ed urne, in cui
Forman le industri pecchie il mel soave,
Vi son di marmo tutte, e pur di marmo
Lunghi telai, dove purpurei drappi,
Maraviglia a veder, tesson le ninfe.
Perenni onde vi scorrono, e due porte
Mettono ad esso: ad Aquilon si volge
L'una, e schiudesi all'uom; l'altra, che Noto
Guarda, ha più del divino, ed un mortale
Per lei non varca: ella è la via de' numi.
In questo porto ai Feacesi conto,
Dirittamente entrò l'agile nave,
Che sul lido andò mezza: di sì forti
Remigatori la spingean le braccia!
Si gittaro nel lido; e Ulisse in prima
Co' bianchi lini e con la bella coltre
Sollevâr dalla nave, e seppellito
Nel sonno, siccom'era, in su l'arena
Poserlo giù. Poi ne levaro i doni,
Ch'ei riportò dalla Feacia gente,
Per favor di Minerva, e al piede uniti
Li collocaro della verde oliva,
Fuor del cammin, non s'avvenisse in loro
Vïandante, e la man su lor mettesse,
Mentre l'eroe dormìa. Quindi ritorno
Fean con la nave alla natìa contrada.
Nettuno intanto, che serbava in mente
Le minacce che un dì contra il divino
Laerzìade scagliò, così il pensiero
Ne spïava di Giove: “O Giove padre,
Chi più tra i dèi m'onorerà, se onore
Nieganmi i Feacesi, che mortali
Sono, e a me dèon l'origine? Io credea
Che della sua nativa isola ai sassi
Giunger dovesse tra gli affanni Ulisse,
Cui non invidïava io quel ritorno
Che tu gli promettesti, e del tuo capo
Confermasti col cenno. Ma i Feaci
Dormendo il trasportâr su ratta nave,
E in Itaca il deposero, e il colmâro
Di doni in bronzo, e in oro, e in bei tessuti:
Ricchezza immensa, e qual dall'arsa Troia
Recato ei non avrìa, se con la preda,
Che gli toccò, ne ritornava illeso”.
“O della terra scotitor possente”,
Il nubiadunator Giove rispose,
“Qual parola parlasti? Alcun de' numi
Te in dispregio non ha, né lieve fôra
Dispregiar dio sì poderoso e antico.
Ma dove uom troppo di suo forze altero
T'osasse ingiurïar, tu ne puoi sempre
Qual più t'aggradirà, prender vendetta”.
“Mi starei forse, o nubipadre Giove”,
Nettun riprese, “s'io dal tuo corruccio
Non mi guardassi ognora? Io de' Feaci
Perché di ricondur gli ospiti il vezzo
Pèrdano al fin, strugger vorrei nel mare
L'inclita nave ritornante; e in oltre
Grande alla lor città montagna imporre”.
“Ciò”, replicava il Nubipadre, “il meglio,
Ottimo nume, anco a me sembra: quando
I Feacesi scorgeran dal lido
Venir la nave a tutto corso, e poco
Sarà lontana, convertirla in sasso
Che di naviglio abbia sembianza, e oggetto
Si mostri a ognun di maraviglia; e in oltre
Grande alla lor città montagna imporre”.
Lo Scuotiterra, udito questo appena,
Si portò a Scheria in fretta, e qui fermossi.
Ed ecco spinta dagl'illustri remi
Su per l'onde venir l'agile nave.
Egli appressolla, e convertilla in sasso,
E d'un sol tocco della man divina
La radicò nel fondo. Indi scomparve.
Molte allor de' Feaci in mar famosi
Fur le alterne parole. “Ahi! chi nel mare
Legò la nave che vêr noi solcava
L'acque di volo, che apparìa già tutta”?
Così, gli occhi volgendo al suo vicino,
Favellava talun: ma rimanea
La cagion del portento a tutti ignota.
Se non che Alcinoo a ragionar tra loro
Prese in tal foggia: “Oh dèi! côlto io mi veggo,
Qual dubbio v'ha? dai vaticini antichi
Del padre, che dicea, come sdegnato
Nettun fosse con noi, perché securo
Riconduciam su l'acque ogni mortale.
Dicea, che insigne de' Feaci nave,
Dagli altrui nel redire ai porti suoi,
Distruggerìa nell'oscure onde, e questa
Cittade coprirìa d'alta montagna.
Così arringava il vecchio, ed oggi il tutto
Si compie. Or via, sottomettiamoci ognuno:
Dal ricondur cessiam gli ospiti nostri,
E dodici a Nettuno eletti tori
Sagrifichiam, perché di noi gl'incresca,
Né d'alto monte la città ricopra”.
Disse. Penetrò in quelli un timor sacro,
E i cornigeri tori apparecchiaro.
Mentre intorno all'altar prieghi a Nettuno
Drizzavan della Scheria i duci e i capi,
Svegliossi il pari agl'immortali Ulisse,
Che su la terra sua dormìa disteso,
Né la sua terra riconobbe: stato
N'era lunge gran tempo, e Palla cinto
L'avea di nebbia, per celarlo altrui,
E di quanto è mestier dargli contezza,
Sì che la moglie, i cittadin, gli amici
Nol ravvisin, che prìa de' tristi proci
Fatto ei non abbia universal macello.
Quindi ogni cosa gli parea mutata,
Le lunghe strade, i ben difesi porti,
E le ombrose foreste, e l'alte rupi.
Sguardò, fermo su i piè, la patria ignota,
Poi non tenne le lagrime, e la mano
Batté su l'anca, e lagrimando disse:
“Misero! tra qual nuova estrania gente
Sono io? Chi sa, se nequitosa e cruda,
O giusta in vece, ed ospitale e pia?
Ove questa recar molta ricchezza,
Ove ire io stesso? Oh nella Scheria fosse
Rimasta, ed io giunto all'eccelsa casa
D'altro signor magnanimo, che, accolto
Dolcemente m'avesse, e rimandato
Securamente! Io, dove porla ignoro,
Né lasciarla vo' qui, che altri la involi.
Men che saggi eran dunque, e men che probi
De' Feacesi i condottieri e i capi,
Che non alla serena Itaca, come
Dicean, ma in questa sconosciuta piaggia
Condur mi fêro. Li punisca Giove,
De' supplici custode, a cui nessuno
Celasi, e che non lascia inulto un fallo.
Queste ricchezze noveriam, veggiamo,
Se via non ne portò nulla la nave”.
Dette tai cose, i tripodi superbi
Contava, e l'urne e l'oro e le tessute
Vesti leggiadre; e non fallìagli nulla,
Ma la sua patria sospirava, e molti
Lungo il lido del mar romoreggiante
Passi e lamenti fea. Pallade allora,
Di pastorello delicato in forma,
Quale un figlio di re mostrasi al guardo,
S'offerse a lui: doppia e ben fatta veste
Avea d'intorno agli omeri, calzari
Sotto i piè molli, e nella destra un dardo.
Gioì Ulisse a mirarla, e incontanente
Le mosse incontro con tai detti: “Amico,
Che qui primiero mi t'affacci, salve.
Deh non mi t'affacciar con alma ostile:
Ma questi beni e me serba, che abbraccio
Le tue ginocchia, e te, qual nume, invoco.
Che terra è questa? che città? che gente?
Una dell'ondicinte isole forse?
O di fecondo continente spiaggia,
Che scende in sino al mar? Schietto favella”.
“Stolto sei bene, o di lontan venisti”,
La dea rispose dall'azzurro sguardo,
“Se di questa contrada, ospite, chiedi.
Cui non è nota? La conosce appieno
Qual vêr l'aurora e il Sol, qual vêr l'oscura
Notte soggiorna. Alpestra sorge, e male
Vi si cavalca, né si stende assai.
Sterile non però torna: di grano
Risponde e d'uva, e la rugiada sempre
Bàgnala, e il nembo: ottimo pasco i buoi
E le capre vi trovano; verdeggia
D'ogni pianta, e perenne acqua l'irrìga.
Sin d'Ilio ai campi, che dal suolo Acheo,
Come sentìi narrar, molto distanno,
D'Itaca giunge, o forestiero, il nome.
Al nome della patria, che su i labbri
Dell'immortal sonò figlia di Giove,
S'empié di gioia il Laerzìade, e tardo
A risponder non fu, benché, volgendo
Nel suo cor sempre gli artifici usati,
Contraria al vero una novella ordisse.
“Io già d'Itaca udìa nell'ampia Creta,
Che lungi nel mar giace, e donde io venni,
Metà recando de' miei beni, e ai figli
Lasciandone metà. Di Creta io fuggo,
Perché vi uccisi Orsiloco, il diletto
D'Idomenèo figliuol, da cui nel corso
Uom non era colà che non perdesse.
Costui di tutta la Troiana preda,
Che tanti in mezzo all'onde, in mezzo all'arme,
Travagli mi costò, volea fraudarmi,
Sdegnato, ch'io, d'altri guerrieri duce,
Sotto il padre di lui servir negassi.
In quel ch'ei nella strada uscìa dal campo,
Gli tesi insidie con un mio compagno,
E di lancia il ferìi. Notte assai fosca
L'aere ingombrava, e non che agli altri, a lui,
Che di vita io spogliai, rimasi occulto.
Trovai sul lido una Fenicia nave,
E a quegl'illustri naviganti ricca
Mercede offersi, e li pregai che in Pilo
Mi ponessero, o in Elide divina,
Dominio, degli Epéi. Se non che il vento
Indi gli svolse, e forte a lor mal cuore;
Ché inganni non pensavano. Venimmo,
Notturni errando, a questa piaggia, e a forza
Di remi, e con gran stento, il porto entrammo.
Né della cena favellossi punto,
Benché ciascuno in grande uopo ne fosse;
Ma del naviglio alla rinfusa usciti,
Giacevam su l'arena. Ivi un tranquillo
Sonno me stanco invase; e quei, levate
Dalla nave e deposte, ov'io giaceva,
Le mie ricchezze, in ver la popolosa
Sidone andaro, e me lasciâr nel duolo”.
Sorrise a questo la degli occhi azzurra,
E con man careggiollo; e uguale a donna
Bella, di gran sembiante, e di famosi
Lavori esperta, in un momento apparve,
E a così fatti accenti il volo sciolse:
“Certo sagace anco tra i numi, e solo
Colui sarìa, che d'ingannar nell'arte
Te superasse! Sciagurato, scaltro,
Di frodi insazïabile, non cessi
Dunque né in patria dai fallaci detti,
Che ti piaccion così sin dalla culla?
Ma di questo non più: che d'astuzie ambo
Maestri siam; tu di gran lunga tutti
D'inventive i mortali e di parole
Sorpassi, tutti io di gran lunga i numi.
Dunque la figlia ravvisar di Giove
Tu non sapesti, che a te assisto sempre
Nelle tue prove, e te conservo, e grazia
Ti fei trovare appo i Feaci? E or venni
Per ammonirti, e per celare i fatti
Col mio soccorso a te splendidi doni,
Non che narrarti ciò che per destino
Nel tuo palagio a sopportar ti resta.
Tu soffri, benché astretto; e ad uomo o a donna
L'arrivo tuo non palesar; ma tieni
Chiusi nel petto i tuoi dolori, e solo
Col silenzio rispondi a chi t'oltraggia”.
E tosto il ricco di consigli Ulisse:
“Difficilmente, o dea, può ravvisarti
Mortal, cui t'appresenti, ancor che saggio;
Tante forme rivesti. Io ben rammento
Che visitar tu mi degnavi un giorno,
Mentre noi, figli degli Achivi, a Troia
Combattevam: ma poiché l'alte torri
Ruinammo di Priamo, e su le navi
Partimmo, e un dio l'Achiva oste disperse,
Più non ti scôrsi, o del Tonante figlia,
Né m'avvidi unqua che m'entrassi in nave,
per cavarmi d'affanno. Abbandonato
Solo a me stesso e afflitto io gìa vagando,
Finché pria che il tuo labbro in tra i Feaci
Mi confortasse, e nella lor cittade
M'introducessi tu, le mie sventure
Gl'Immortali finiro. Ora io ti priego
Pel tuo gran padre, quando in terra estrana,
Non nella patria mia, credomi, e temo
Che tu di me prender ti voglia gioco,
Ti priego dirmi, o dea, se veramente
Degli occhi Itaca io veggio, e del piè calco”.
E la dea, che rivolge azzurri i lumi:
“Tu mai te stesso non oblii. Quind'io
Non posso ai mali abbandonarti in preda;
Tal mostri ingegno, tal facondia e senno.
Altri, che dopo error molti giungesse,
Sposa e figli mirar vorrìa repente;
E a te nulla sapere, o chieder piace,
Se con gran cura non assaggi e tenti
Prima la tua, che invan t'aspetta, e a cui
Scorron nel pianto i dì, scorron le notti.
Dubbio io non ebbi mai del tuo ritorno,
Benché ritorno solitario e tristo;
Se non che al zio Nettun con te crucciato
Dell'occhio che spegnesti al figlio in fronte,
Repugnar non volea. Ma or ti mostro
D'Itaca il sito, e a credermi io ti sforzo.
Ecco il porto di Forcine, e la verde
Frondosa oliva che gli sorge in cima.
Ecco non lunge opaco antro ameno,
Alle Naiadi sacro; la convessa
Spelonca vasta riconosci, dove
Ecatombi legittime alle ninfe
Sagrificar solevi. Ecco il sublime
Nerito monte che di selve ondeggia.
Disse, e ruppe la nebbia, e il sito apparve.
Giubilò Ulisse alla diletta vista
Della sua patria, e baciò l'alma terra.
Poi levando le man, subitamente
Le ninfe supplicò: “Naiadi ninfe,
Non credea rivedervi, e con devote
Labbra, in vece io salùtovi, o di Giove
Nate; a cui doni porgerem novelli,
Se me in vita conserva, e dì felici
A Telemaco mio concede amica
La bellicosa del Saturnio figlia”.
“Ti rassicura, e non temer, riprese
La dea dagli occhi di cilestro tinti,
“Che d'aiuto io ti manchi. Or senza indugio
Nel cavo sen della divina grotta,
Su via, poniam queste ricchezze in salvo,
E di ciò consultiam che più ti torna”.
Tacque, ed entrava nella grotta oscura,
Le ascosaglie cercandone; ed Ulisse,
L'oro ed il bronzo, e le superbe vesti
Portando, la seguìa. Tutto depose
Acconciamente dell'Egìoco Giove
La figlia, e l'antro d'un macigno chiuse;
Ciò fatto, al piè della sacrata oliva
Ambi sedendo, e investigando l'arte
Di tor di mezzo i temerari proci,
Così a parlar la prima era Minerva:
“Studiar convienti, o Laerzìade, come
Metter la man su gli arroganti drudi,
Che regnano in tua casa, oggi è terz'anno,
E della moglie tua con ricchi doni
Chiedono a gara le bramate nozze.
Ella, ognor sospirando il tuo ritorno,
Ciascun di speme e d'impromesse allatta,
Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core”.
“Ah! Dunque”, le rispose il saggio Ulisse,
“Me dell'Atride Agamennòn l'acerbo
Fato attendea nelle paterne case,
Se il tutto, inclita dea, tu non m'aprivi.
Ma tu la via, che a vendicarmi io prenda,
M'addita, e a me soccorri, e quell'audace
Spirto m'infondi, che accendeami, quando
Sfemmo di Troia le famose mura.
Mi starai tu del pari al fianco sempre?
Io pugnar con trecento allor non temo”.
“Sempre al fianco m'avrai, non m'uscirai”,
La dea riprese dalle glauche luci,
“Di vista un sol momento in questa impresa.
Questi superbi, che le tue sostanze
Mandano a male, imbratteran di sangue
L'immenso pavimento, e di cervella.
Ma io così vo' trasformarti, Ulisse,
Che riconoscer non ti possa uom vivo,
Cotesta liscia ed ancor fresca pelle,
Che le membra flessibili ti copre,
Disseccherò, raggrinzerò; di biondo
Nulla ti rimarrà sovra la testa,
E te circonderan miseri panni,
Da cui lo sguardo di ciascun rifugga.
Gli occhi poi sì belli e sì vivaci,
Saran sì oscuri e avran tai pieghe intorno,
Che turpe ai proci, e alla tua donna e al figlio,
Cui lasciasti bambin, cosa parrai.
Tu prima cerca de' tuoi pingui verri
Il fido guardïan che t'ama, ed ama
Telemaco, ama la tua saggia donna.
Il troverai, che guarderà la nera
Greggia che beve d'Aretusa al fonte,
E alla pietra del Corvo addenta, e rompe
La dolce ghianda, per la cui virtude
Il florido sul dosso adipe cresce.
Quivi ti ferma, ed al suo fianco assisa
D'ogni cosa il richiedi; ed io frattanto
Andrò alla bella nelle donne Sparta,
In traccia del figliuol, che vi s'addusse,
Onde saper di te dal bellicoso
Menelao biondo; e udir, se vivi, e dove”.
“Perché non dirgliel tu, cui noto è il tutto?”
Rispose il ricco di consigli Ulisse.
“Forse perch'ei su l'infecondo mare
Tormenti errando, come il padre, e intanto
Le sue sostanze a male altri gli mandi?”
“Ciò non t'affligga”, ripigliò la dea
Che cilestre in altrui le luci intende.
“Io stessa, nome ad acquistarsi e grido,
Già l'invïava là, 've nulla il turba:
Là 've tranquillo, e d'ogni cosa agiato,
Nel regal siede dell'Atride albergo.
So ben che agguati in nave negra i proci
Tendongli, desïando a lui dar morte
Pria ch'ei torni; ma invan: che anzi, lui vivo
Coprirà i suoi nemici e tuoi, la terra”.
Disse Minerva, e della sua potente
Verga l'eroe toccò. S'inaridisce
La molle cute, e si rincrespa; rari
Spuntano e bianchi su la testa i crini;
Tutta d'un vecchio la persona ei prende,
Rotto dagli anni, e stanco; e foschi, estinti
Son gli occhi, in che un divin foco brillava.
Tunica trista, e mala cappa in dosso
L'amica dea cacciògli, ambo squarciate,
Discolorate, affumicate e sozze:
Sopra gli vestì ancor di ratto cervo
Un gran cuoio spelato, e nella destra
Pose bastone; ed una vil bisaccia,
Che in più luoghi s'aprìa, per una torta
Coreggia antica agli òmeri sospese.
Preso il consiglio che più acconcio parve,
L'un dall'altro staccârsi; e alla divina
Sparta, del figlio in traccia, andò Minerva.
LIBRO QUATTORDICESIMO
Ei, la riva lasciata, entrò in un'aspra
Strada, e per gioghi e per silvestri lochi
Là si rivolse, dove Palla môstro
Gli avea l'inclito Eumèo, di cui fra tutti
D'Ulisse i miglior servi alcun non era,
Che i beni del padron meglio guardasse.
Trovollo assiso nella prima entrata
D'un ampio e bello ed altamente estrutto
Recinto, a un colle solitario in cima.
Il fabbricava Eumèo con pietre tolte
Da una cava propinqua, e mentre lungi
Stavasi Ulisse, e senz'alcun dal veglio
Laerte, o da Penelope, soccorso:
D'un'irta siepe ricingealo, e folti
Di bruna, che spezzò, quercia scorzata
Pali frequenti vi piantava intorno.
Dodici v'eran dentro, una appo l'altra,
Comode stalle, che cinquanta a sera
Madri feconde ricevean ciascuna.
I maschi dormìan fuor, molto più scarsi,
Perché scemati dall'ingordo dente
De' proci, a cui mandar sempre dovea
L'ottimo della greggia il buon custode.
Trecento ne contava egli, e sessanta;
E presso lor, quando volgea la notte
Quattro cani giacean pari a leoni,
Che il pastor di sua mano avea nodriti.
Calzari allor s'accomodava ai piedi,
Di bue tagliando una ben tinta pelle,
Mentre chi qua chi là gìano i garzoni.
Tre conducean la nera mandra, e il quarto
Alla cittade col tributo usato
Lo stesso Eumèo spedìalo, e a que' superbi,
Cui ciascun dì gli avidi ventri empiea
Della sgozzata vittima la carne.
Videro Ulisse i latratori cani,
E a lui con grida corsero: ma egli
S'assise accorto, e il baston pose a terra.
Pur fiero strazio alle sue stalle avanti
Soffrìa, s'Eumèo non era, il qual, veloce
Scaglìandosi dall'atrio, e la bovina
Pelle di man lasciandosi cadere,
Sgridava i suoi mastini, e or questo, or quello
Con spesse pietre qua o là cacciava.
Poi, rivolto al suo re: “Vecchio”, gli disse,
“Poco fallì non te n'andassi in pezzi,
E il biasmo in me ne ricadesse, quasi
Sciagure altre io non pata, io, che dolente
Siedo, e piango un signore ai numi eguale,
E i pingui verri all'altrui gola allevo:
Mentr'ei s'aggira per estranie terre
Famelico e digiuno; ove ancor viva,
E gli splenda del Sole il dolce lume.
Ma tu séguimi, o vecchio, ed al mio albergo
Vientene, acciò, come di cibo e vino
Sentirai sazio il natural talento,
La tua patria io conosca, e i mali tuoi”.
Ciò detto, gli entrò innanzi, e l'introdusse
Nel padiglione suo. Qui di fogliosi
Virgulti densi, sovra cui velloso
Cuoio distese di selvaggia capra,
Gli feo, non so qual più, se letto o seggio,
L'eroe gioìa dell'accoglienza amica,
E così favellava: “Ospite, Giove
Con tutti gli altri dèi compia i tuoi voti,
E d'accoglienza tal largo ti paghi”.
E tu così gli rispondesti, Eumèo:
“Buon vecchio, a me non lice uno straniero,
Fosse di te men degno, avere a scherno;
Che gli stranieri tutti ed i mendichi
Vengon da Giove. Poco fare io posso,
Poco potendo far servi che stanno
Sempre in timor sotto un novello impero:
Pure anco un picciol don grazia ritrova.
Colui fraudAro del ritorno i numi,
Che amor sincero mi portava, e dato
Podere avrìami, e casa, e donna molto
Bramata; e quanto al fin dolce signore
A servo dà, che in suo pro sudi, e il cui
Travaglio prosperar degnino i dèi,
Come arridono al mio. Certo ei giovato,
Se incanutiva qui, molto m'avrebbe.
Ma perì l'infelice. Ah perché tutta
D'Elena in vece non perì la stirpe,
Che di cotanti eroi sciolse le membra?
Quel prode anch'ei volger le prore armato,
per l'onor degli Atridi, a Troia volle”.
Detto così, la tunica si strinse
Col cinto, ed alle stalle in fretta mosse,
E, tolti due dalla rinchiusa mandra
Giovinetti porcelli, ambo gli uccise,
Gli abbronzò, gli spartì, negli appuntati
Spiedi gl'infisse: indi, arrostito il tutto,
Caldo e fumante negli stessi spiedi
Recollo, e il pose al Laerzìade innanzi,
E di farina candida l'asperse.
Ciò fatto, e in tazza d'ellera mesciuto
L'umor dolce dell'uva, a lui di fronte
S'assise, e rincorollo in questa forma:
“Su via, quel mangia, o forestier, che a servi
Lice imbandir, di porcelletti carne:
Quando i più grandi corpi ed i più pingui
Li divorano i proci, a cui non entra
Pietade in petto, né timor de' numi.
Ma non aman gli dèi l'opre malvage,
E il giusto ricompensano ed il retto.
Quelli che armati su le altrui riviere
Scendono, e a cui tornar Giove consente
Co' legni carchi alla natìa contrada,
Spavento ad essi ancor delle divine
Vendette passa nel rapace spirto.
Certo, per voce umana o per divina,
Han della morte del mio re contezza,
Poiché né gareggiar, come s'addice,
Per la sua donna, né ai dominî loro
Voglionsi ricondur; ma gli altrui beni
Senza pudore alcun struggono in pace.
Giove dì o notte non produce, in cui
Una vittima o due paghi li renda
E il più scelto licor bevono a oltraggio.
Dovizia molta ei possedea, qual venti,
Sul continente o in Itaca, mortali
Non felicita insieme. Udirla vuoi?
Dodici armenti nell'Epiro, e tante
Di pecorelle greggi e di maiali
Pastori a guardia. In Itaca serragli
Di capre undici, e larghi, e nell'estremo
Tutti della campagna, e con robusti
Custodi, che ogni dì recano ai drudi
Qual nel vasto capril veggion più grassa
Bestia, e più bella. Io sovra i porci veglio,
E della mandra il fior sempre lor mando”.
Ulisse intanto, senza dir parola,
Tutto in cacciar la fame era e la sete,
E i mali ai proci macchinava in petto.
Rinfrancati ch'egli ebbe i fiacchi spirti,
Eumèo la tazza, entro cui ber solea,
Colma gli porse, ed ei la prese, e questi
Detti, brillando in core, ad Eumèo volse:
“Amico, chi l'uom fu sì ricco e forte,
Che del suo ti comprò, come racconti?
Morto tu il dici per l'Atride. Io forse
Conòbbilo. Il Saturnio e gli altri numi
Sanno s'io di lui visto alcuna posso
Contezza darti, io, che vagai cotanto”.
“Vecchio”, rispose Eumèo, d'uomini capo,
“Pellegrin che venisse oggi il ritorno
Del Rege a nunzïar, né la sua donna
Gli crederebbe, né il diletto figlio:
Troppo usati a mentir son questi erranti,
Che mestieri han d'asilo. Un non ne giunge,
E alla reina mia non si presenta,
Che false cose non favelli, o vane.
Tutti ella accoglie con benigno aspetto,
Cento cose domanda, e dalle ciglia
Le cadono le lagrime: costume
Di donna, cui morì lo sposo altrove.
E chi m'accerta che tu ancor, buon vecchio,
Una favola a ordir non fossi pronto,
Dove tunica e manto altri ti desse?
Ma i cani, io temo, ed i veloci augelli
Tutta dall'ossa gli staccar la cute,
O i pesci il divoraro, e l'ossa ignude
Giaccion sul lido nell'arena involte.
Cosi perìo, lungo agli amici affanno
Lasciando, ed a me più, che, ovunque io vada,
Non ispero trovar bontà sì grande,
Non, se del padre e della madre al dolce
Nativo albergo io riparassi. È vero
Che rivederli ardentemente io bramo
Nella terra natìa: pur men li piango
D'Ulisse, ond'io l'assenza ognor sospiro
Ospite, così appena io nomar l'oso,
Benché lontan da me: tanto ei m'amava,
Tal pigliava di me cura e pensiero.
Maggior fratello, dopo ancor la cruda
Sua dipartita, io più sovente il chiamo”.
“Dunque”, l'eroe riprese, “al suo ritorno
Non credi, e stai sul niego? Ed io ti giuro
Che Ulisse riede; né già parlo a caso.
Ma tu la strenna del felice annunzio
M'appresta, bella tunica, bel manto
Di cui mi coprirai, com'egli appaia.
Prima, sebben d'ogni sostanza scusso,
Nulla io riceverei: ché delle inferne
Porte al par sempre io destai chi, vinto
Dalla sua povertade, il falso vende.
Chiamo il Saturnio in testimonio, chiamo
L'ospital mensa, e dell'egregio Ulisse
Il venerando focolar, cui venni:
Ciò ch'io dico, avverrà. Quest'anno istesso,
L'un mese uscendo o entrando l'altro, il piede
Ei metterà nella sua reggia, e grande
Di chïunque il figliuolo, e la pudica
Donna gli oltraggia, prenderà vendetta”.
E tu in risposta gli dicesti, Eumèo:
“Né strenna, o vecchio, io ti darò, né Ulisse
Metterà più nella sua reggia il piede.
Su via, tranquillo bevi, e ad altra cosa
Voltiam la lingua: ché mi cruccia troppo
Di sì nobil signor la rimembranza.
Lasciam da parte i giuramenti, e Ulisse
Venga, qual bramiam tutti, io, la Regina,
E l'antico Laerte, e il pari a un nume
Telemaco, per cui tremando io vivo.
Questo fanciullo, che d'Ulisse nacque,
E cui poscia, qual pianta in florid'orto,
Crebber gli dèi, sì ch'io credea che il padre
Di senno agguaglierìa, come d'aspetto,
La dritta mente or degli eterni alcuno
Gli offese, io penso, o de' mortali. Ei mosse,
L'orme paterne investigando, a Pilo,
E agguati i proci tendongli al ritorno,
Perché tutto d'Arcesio il sangue manchi.
Or né di questo più: trarranlo a morte
Forse i nemici, o forse a vôto ancora
Le insidie andranno, e la sua destra Giove
Sul capo gli terrà. Ma tu gli affanni
Tuoi stessi, o vecchio, e il tuo destin mi narra
Chi sei tu? Donde sei? Dove i parenti?
Dove la tua città? Quai ti menaro
Nocchieri, e di qual guisa, e con qual nave?
Certo in Itaca il piè non ti condusse”.
“Tutto”, rispose lo scaltrito Ulisse,
“Schiettamente io dirò. Ma un anno intero,
Che, fuori uscito a sue faccende ogni altro,
Da noi si consumasse ad una lauta
Nel padiglione tuo mensa tranquilla,
Per raccontar non basterìa le pene
Di cui tessermi ai dèi piacque la vita.
Patria m'è l'ampia Creta, e mi fu padre
Ricco uom, cui di legittima consorte
Molti nacquero in casa e crebber figli.
Me compra donna generò, né m'ebbe
Men per ciò de' fratelli il padre in conto,
L'Ilacide Castòr, di cui mi vanto
Sentirmi il sangue nelle vene, e a cui
Per fortuna, dovizia e illustre prole
Divin rendeasi dai Cretesi onore.
Sorpreso dalla Parca, e ad Aide spinto,
Tra sé partiro le sostanze i figli.
Gittate in pria le sorti, e me di scarsa
Provvigion consolaro, e d'umil tetto.
Ma donna io tolsi di gran beni in moglie,
E a me solo il dovei, però ch'io vile
Non fui d'aspetto, nè fugace in guerra.
E benché nulla oggi mi resti, e gli anni
M'opprimano ed i guai, la mêsse, io credo,
Può dalla paglia ravvisarsi ancora.
Forza tra l'armi e ardir Marte e Minerva
Sempre infusero a me, quando i migliori
Per gli agguati io scegliea contra i nemici:
O allor che primo, e senza mai la morte
Dinanzi a me veder, nelle battaglie
Mi scagliava, e color che dal mio brando
Si sottraeano, io raggiungea con l'asta.
Tal nella guerra io fui. Me della pace
Non dilettavan l'arti, o della casa
Le molli cure e della prole. Navi
Dilettavano e pugne, e rilucenti
Dardi, e quadrelli acuti: amare, orrende
Cose per molti, a me soavi e belle,
Come vari dell'uom sono i desiri.
Prima che la Greca oste Ilio cercasse,
Nove fïate io comandai sul mare
Contra gente straniera; e la fortuna
Così m'arrise, che tra ciò che in sorte
Toccommi della preda, e quel ch'io stesso
A mio senno eleggea, rapidamente
Crebbe il mio stato, e non passò gran tempo
Che in sommo pregio tra i Cretesi io salsi.
Ma quando Giove quel fatal viaggio
Prescrisse, che mandò tante alme a Pluto,
A me de' legni ondivaghi, ed al noto
Per fama Idomenèo, diero il governo,
Né modo v'ebbe a ricusar: sì grave
Il popolo e sì ardita ergea la voce.
Colà nove anni pugnavam noi Greci,
E nel decimo al fin, Troia combusta,
Ritornavamo; e ci disperse un nume.
Se non che Giove una più ria ventura
Contra me disegnò. Passato un mese
Tra i figli cari appena e la diletta
Sposa che vergin s'era a me congiunta,
Novella brama dell'Egitto ai lidi
Con egregi compagni, e su navigli
Ben corredati a navigar m'indusse.
Nove legni adornai; né a rïunirsi
Tardò l'amica gente, a cui non poche
Pe' sacrifizi loro e pe' conviti,
Che durâro sei dì, vittime io dava.
La settim'alba in orïente apparsa,
Creta lasciammo, e con un Borea in poppa
Sincero e fido, agevolmente, e come
Sovra un fiume a seconda, il mar fendemmo.
Nave non fu né leggermente offesa,
E noi sicuri sedevam, bastando
I timonieri al nostro uopo ed il vento.
Presa il dì quinto la bramata foce
Del ricco di bell'onda Egitto fiume
Io nel fiume arrestai le veleggianti
Navi, e ai compagni comandai che in guardia
De' legni rimanessero, e la terra
Gissero alcuni ad esplorar dall'alto.
Ma questi, da un ardir folle e da un cieco
Desìo portati, a saccheggiar le belle
Campagne degli Egizi, a via menarne
Le donne e i figli non parlanti, i grami
Coltivatori a uccidere. Ne giunse
Tosto il rumore alla città, né prima
L'aurora comparì, che i cittadini
Vennero, e pieno di cavalli e fanti
Fu tutto il campo, e del fulgor dell'armi.
Cotale allora il Fulminante pose
Desir di fuga de' compagni in petto,
Che un sol far fronte non osava: uccisi
Fur parte, e parte presi, e ad opre dure
Sforzati; e ovunque rivolgeansi gli occhi,
Un disastro apparìa. Ma il Saturnide
Nuovo consiglio m'ispirò nel core.
(Deh, perché nell'Egitto anch'io non caddi,
Se nuovi guai m'apparecchiava il fato?)
Io l'elmo dalla testa al suol deposi,
Dagli omeri lo scudo, e gittai lunge
Da me la lancia: indi ai cavalli incontro
Corsi e al cocchio del re, strinsi e baciai
Le sue ginocchia; ed ei serbommi in vita.
Compunto di pietà, me che piagnea
Levò nel cocchio, e al suo palagio addusse.
È ver che gli altri m'assalìan con l'aste
Di rabbia accesi, e mi voleano estinto.
Ma il re lontani e con cenni e con voci
Teneali per timor dell'ospitale
Giove, che i supplicanti, a cui mercede
Dall'uom non s'usi, vendicar suol sempre.
Sett'anni io colà vissi, e assai tesori
Raccolsi: doni mi porgea chïunque.
Poi, volgendo l'ottavo anno, un Fenice
Comparve, uom fraudolento, e di menzogne
Gran fabbro, che già molti avea tradito.
Nella Fenicia a seguitarlo, dove
Casa e poderi avea, costui piegommi;
E seco io dimorai di sole un giro.
Ma, rivolto già l'anno, e le stagioni
Tornate in sé col trapassar de' mesi,
Ed il cerchio dei dì lunghi compiuto,
Far vela volle per la Libia, e finse
Non poter senza me carcar la nave.
Che nave? in Libia vendermi a gran prezzo
Pensava il tristo. Io che potea? Costretto,
Di nuovo il seguitai: benché del vero
Mi trascorresse per la mente un lampo.
Su Creta sorse il rapido naviglio,
Che un gagliardo Aquilon feriva in poppa,
Mentre gli ordìa l'ultimo eccidio Giove.
Già né più Creta si vedea, né altra
Terra, ma cielo in ogni parte, o mare,
Quando il Fulminator sul nostro capo
Sospese d'alto una cerulea nube,
Sotto a cui tutte intenebrarsi l'acque.
Tonò più volte, e al fin lanció il suo telo
Contra la nave, che del fiero colpo
Si contorse, s'empieo di zolfo, e tutti
Ne cadettero giù. Quai corvi, intorno
Le s'aggiravan su per l'onde, e Giove
Lor togliea con la patria anco la vita.
Salvò me solo nel mortal periglio:
Ché alle mani venir mi fece il lungo
Albero della nave, a cui m'attenni,
E così mi lasciai su i tempestosi
Flutti portar per nove giorni ai venti:
Finché la notte decima mi spinse
De' Tespròti alla terra il negro fiotto.
Qui de' Tespròti il Sir, l'eroe Fidone,
Generoso m'accolse. A sorte il figlio
Sul lido mi trovò tutto tremante
Di freddo, e omai dalla fatica vinto,
E, con man sollevatomi, del padre
Al real tetto mi condusse, e pormi
Tunica e manto si compiacque in dosso.
Quivi io d'Ulisse udii. Diceami il Rege,
Ch'ei l'accolse, e il trattò cortesemente
Nel suo ritorno alle natìe contrade:
E il rame e l'ôr mostravami, ed il ferro,
E quanto al fin di prezïoso e bello
Ulisse avea raccolto, e nella reggia
Deposto; forza, che per dieci etadi
Padri e figliuoli a sostener bastava.
E aggiungea, che a Dodona era passato,
Per Giove consultare, e udir dall'alta
Quercia indovina, se ridursi ai dolci
Colli d'Itaca sua dopo sì lunga
Stagion dovea palesemente, o ignoto.
Poi, libando, giurò ch'era nel mare
Tratta la nave, e i remiganti pronti,
Per rimenarlo in Itaca. Ma prima
Me stesso accommiatò: ché per ventura
Al ferace Dulichio un legno andava
Di nocchieri Tespròti. Al Rege Acasto
Costor dovean raccomandarmi, e in vece
Un consiglio tessean, perch'io cadessi
Novamente ne' guai. Come lontano
Da terra fu l'ondivagante legno,
Il negro m'apparì giorno servile.
Tunica e manto mi spogliaro, e questi
In dosso mi gettâr laceri panni,
E, venuti all'amena Itaca a notte
Me nella nave con ben torta e salda
Fune legaro. Indi n'usciro, e cena
Frettolosa del mar presero in riva.
Ma un nume ruppe i miei legami; ed io
Giù sdrucciolai pel timon liscio; al mare
Mi consegnai col petto, e ad ambe mani
Nôtando remigai sì, che in brev'ora
Fuori di lor vista io fui. Giunsi, ove bella
Sorgea di querce una foresta, e giacqui.
Quei, di me con dolore in traccia mossi,
Né credendo cercarne invan più oltre,
Si rimbarcaro, e me gl'Iddii, che ascoso
Facilmente m'avean, d'un uom saputo
Guidâr benigni al pastoreccio albergo,
poiché in vita il destin mi vuole ancora”.
E tal fu a lui la tua risposta, Eumèo:
“O degli ospiti misero, tu l'alma
Mi commovesti addentro, i tuoi vïaggi
Narrando, e i mali tuoi. Sol ciò non lodo,
Che d'Ulisse dicesti, e non tel credo,
Perché, degno uom qual sei, mentire indarno?
So anch'io pur troppo, qual del suo ritorno
Speme nodrir si possa, e l'infinito,
Che gli portano i numi, odio io conosco.
Quindi ei non cadde, combattendo, a Troia,
O degli amici in sen dopo la guerra.
Sepolto avrianlo nobilmente i Greci,
E dalla tomba sua verrìa un rilampo
Di gloria al suo figliuol: ma inonorato
Le Arpie crudeli sel rapiro in vece.
Tale io ne provo duol, che appo la mandra
Vivomi occulto, ed a città non vado,
Se non quando Penelope, comparso
Da qualche banda con novelle alcuno,
Chiamami a sé per caso. Allora stanno
Tutti d'intorno allo straniero, e mille
Gli fan domande, così quei che doglia
Dell'assenza del re sentono in petto,
Come color che gioia; e le sostanze
Ne distruggon frattanto in tutta pace.
Ma io domande far dal dì non amo,
Che mi deluse un vagabondo Etòlo,
Reo d'omicidio, che al mio tetto giunse.
Molto io l'accarezzava, ed ei mi disse
Che presso Idomenèo nell'ampia Creta
Veduto avealo risarcir le navi
Dalla procella sconquassate, e aggiunse
Che l'estate o l'autunno al suo paese
Capiterìa ben compagnato e ricco.
Or non volermi e tu, vecchio infelice,
Con falsi detti, poiché un dio t'addusse
Molcere o lusingar: ché non per questo
Ben trattato sarai, ma perché temo
L'ospital Giove, e che ho di te pietade”.
“Un incredulo cor”, rispose Ulisse
“Tu chiudi in te, quando a prestarmi fede
Né co' miei giuramenti indurti posso
Su via, férmisi un patto, e testimoni
Ne sien dall'alto gl'immortali dèi.
Riederà il tuo signor, com'io predissi?
Tunica e manto vestimi, e a Dulichio
Mi manda, ov'io da molti giorni ir bramo.
Ma s'ei non torna, eccita i servi, e getta
Me capovolto da un'eccelsa rupe,
Sì che più non ti beffi alcun mendico”.
“Gran merto in vero, e memorabil nome,”
Il pastor ripigliò, m'acquisterei
“Appo la nostra e la ventura etade
E, ricevuto avendoti, e trattato
Ospitalmente, io t'uccidessi, e fuori
Ti traessi del sen l'anima cara!
Come franco io potrei preghiere a Giove
Porgere allora! Or della cena è il tempo
I miei compagni entreran tosto, e lauta
S'appresterà nel padiglion la mensa”.
Così tra lor diceano; ed ecco il nero
Gregge, e i garzoni che ne' suoi serragli
Metteanlo: immenso delle pingui troie,
Che andavansi a corcar, sorse il grugnito.
Ratto ai compagni favellava Eumèo:
“L'ottimo a me de' porci, affinché muoia
Pel venuto di lungi ospite, e un tratto
Noi pur festa facciam, noi, che soffriamo
Per questo armento dalle bianche sanne,
Mentre in riposo e in gioia altri le nostre
Fatiche si divorano e gli affanni”.
Detto così, con affilata scure
Quercia secca recise, e quelli un grasso
D'anni cinque d'età porco menaro,
E al focolare il collocâr davanti.
Né de' celesti Eumèo, che molto senno
Nutriva in sé, dimenticossi. I peli
Dal capo svelti del grugnante, in mezzo
Gittolli al foco, e innalzò voti ai numi
Pel ritorno d'Ulisse. Indi un troncone
Della quercia ch'ei fèsse, alto levando,
Percosse e senza vita a terra stese
La vittima. I garzoni ad ammazzarla,
Ad abbronzarla e a farla in pezzi; ed egli
I crudi brani da ogni membro tolti
Parte metteali su l'omento, e parte,
Di farina bianchissima cospersi
Consegnavali al foco. Il resto tutto
Poi sminuzzâro, e l'abbrostîro infisso
Con modo acconcio negli spiedi; e al fine
Dagli spiedi cavato in su la mensa
Poserlo. Eumèo, che sapea il giusto e il retto,
Surse, e il tutto divise in sette parti:
Offrì l'una alle Ninfe, ed al figliuolo
Di Maia, e l'altre a ciascun porse in giro.
Ma dell'intera del sannuto schiena
Solo Ulisse onorava, e gaudio in petto
Spandea del sire, che diceagli: “Eumèo,
Così tu possa caro al padre Giove
Viver, qual vivi a me, poiché sì grande
Nello stato, in ch'io son, mi rendi onore”.
E tu dicesti, rispondendo, Eumèo:
“O preclaro degli ospiti, ti ciba,
E di quel godi, che imbandirti io valgo
Concede, o niega, il correttor del mondo,
Come gli aggrada più: ché tutto ei puote.
Ciò detto, ai numi le primizie offerse;
E, libato ch'egli ebbe, in man d'Ulisse,
Che al suo loco sedea, pose la tazza.
Mesaulio, ch'ei del proprio, e nol sapendo
Né la regina né Laerte, avea,
Mentre lungi era il sir, compro dai Tafi,
Il pane dispensò. Stendeano ai cibi
La mano; e, paga del mangiar la voglia,
Paga quella del ber, Mesaulio il pane
Raccolse, e gli altri a dar le membra al sonno
Ristorati affrettavansi e satolli.
Fosca sorvenne e disastrosa notte:
Giove piovea senza intervallo, e fiero
Di ponente spirava un vento acquoso.
Ulisse allor, poiché vedeasi tanto
Carezzato da Eumèo, tentare il volle,
Se gli prestasse il proprio manto, o almeno
Quel d'alcun de' compagni aver gli fesse:
“Eumèo”, diss'egli, “ascoltami, e i compagni
M'ascoltin tutti. Io millantarmi alquanto
Voglio qual mi comanda il folle vino,
Che talvolta i più saggi a cantar mosse
Più in là d'ogni misura, a mollemente
Rider, spiccar salti improvvisi, ed anche
Quello a parlar, ch'era tacere il meglio.
Ma dacché un tratto a cicalare io presi,
Nulla io terrò nel petto. Oh di quel fiore
Fossi, e tornassi in quelle forze, ch'io
Sentìami al tempo che sott'Ilio agguati
Tendemmo, Ulisse ed il secondo Atride,
E, così ad essi piacque, io terzo duce!
Tosto che alla cittade e all'alte mura
Vicini fummo, tra i virgulti densi,
E nelle canne paludose a terra
Giacevam sotto l'armi. Impronta notte
Ci assalse: un crudo tramontan soffiava,
Scendea la neve, qual gelata brina,
E gli scudi incrostava il ghiaccio. Gli altri,
Che manti avevano e tuniche, tranquilli
Dormìan, poggiando alle lor targhe il dosso
Ma io, partendo dai compagni, il manto
Nella stoltezza mia lasciai tra loro,
Non isperando un sì pungente verno;
E una tunica, un cingolo e uno scudo
Meco sol tolsi. Della notte il terzo
Era, e gli astri cadevano, e ad Ulisse,
Che mi giacea da presso, io tai parole,
Frugandolo del gomito, rivolsi:
"Illustre e scaltro di Laerte figlio,
Così mi doma il gel, ch'io più tra i vivi
Non rimarrò. Mi falla un manto. Un dio,
Che mi deluse, di vestirmi solo
La tunica inspirommi. Or quale scampo?"
Ei, le parole udite un suo partito
Scelse di botto, come quei che meno
Ai consigli non fu, che all'armi, pronto:
"Taci", rispose con sommessa voce,
Che alcun Greco non t'oda. "E poi, del braccio
Facendo e della man sostegno al mento:
"Amici, disse, un sogno, un divin sogno,
Dormendo m'avvertì, che dilungati
Troppo ci siam dalle veloci navi.
Quindi al pastor di genti Agamennòne
Corra un di noi, perché, se ben gli sembra,
Ne mandi altri guerrieri e ne rinforzi".
Disse, e Toante, d'Andremòne il figlio,
Sorse, e corse al navil, deposto prima
Il purpureo suo manto; ed io con gioia
Men cinsi, e vi stetti entro, in sin che apparve
Sul trono d'ôr la ditirosea Aurora.
Se quel fior, quelle forze io non piangessi,
Me forse alcun de' tuoi compagni, Eumèo,
Per riverenza e amore ad un buon vecchio,
Di manto fornirìa: ma or veggendo
Questi miei cenci, ciascun tiemmi a vile”.
Tu così, Eumèo, gli rispondesti allora:
“Bella fu, amico, la tua storia, e un motto
Non t'usci dalle labbra o sconcio o vano.
Però di veste o d'altro, che infelice
Merta supplicante uomo, in questa notte
Difetto non avrai. Ma, nato il sole,
T'adatterai gli usati panni intorno.
Poche son qui le cappe, e a suo piacere
Di tunica non puote alcun mutarsi:
Star dee contento ad una sola ognuno.
Come giunto sarà d'Ulisse il figlio,
Ei di vestirti e di mandarti, dove
Ti consiglia il tuo cor, pensier darassi”.
S'alzò, così dicendo, e presso al foco
Poneagli il letto, e di montoni e capre
Pelli stendeavi, in che l'eroe sdraiossi;
E d'un largo il coprì suo denso manto,
Ch'egli a se stesso circondar solea
Quando turbava il ciel fiera tempesta.
Così là giacque Ulisse; e accanto a lui
Si corcâro i garzoni: ma corcarsi
Disgiunto da' suoi verri Eumèo non volle.
Fuori uscito ei s'armava; e Ulisse in core
Gioìa, mirando lui del suo re tanto
Curare i beni, benché lungi il creda.
Prima ei sospese agli omeri gagliardi
L'acuta spada: indi a sé intorno un folto
Manto gittò, che il difendea dal vento;
Tolse una pelle di corputa e grassa
Capra; e un pungente dardo in man recossi,
Degli uomini spavento e de' mastini.
Tale s'andò a corcar, dove protetti
Dal soffio d'Aquilone i setolosi
Verri dormìan sotto una cava rupe.
LIBRO QUINDICESIMO
Nell'ampia Lacedèmone Minerva
Entrava intanto ad ammonir d'Ulisse
L'inclita prole, che di far ritorno
Alle patrie contrade era già tempo.
Trovollo che giacea di Menelao
Nell'atrio con Pisistrato. Ingombrava
Un molle sonno di Nestorre il figlio:
Ma l'Ulisside, cui l'incerta sorte
Del caro padre fieramente turba,
Pensavane ad ognora, e invan per lui
D'alto i balsami suoi spargea la notte.
La dea, che azzurri gli occhi in giro muove,
Appressollo, e: “Telemaco”, gli disse,
“Non fa per te di rimanerti ancora
D'Itaca fuori, e lungi dall'altera
Turba malnata degli arditi proci,
Che, divisa tra lor la tua sostanza
Divorinsi al fin tutto, e, non che vano,
Dannoso a te questo vïaggio torni.
Lèvati, e pressa il valoroso Atride
Di congedarti, onde nel tuo palagio
Trovi la madre tua, che Icario il padre
Co' fratelli oggimai sforza alla mano
D'Eurimaco, il qual cresce i maritali
Doni, e ogni suo rival d'àmbito vince.
Guarda non del palagio, a tuo dispetto,
Parte de' beni con la madre t'esca:
Però che sai qual cor s'abbia ogni donna:
Ingrandir brama del secondo sposo
La nuova casa; e de' suoi primi figli
E di colui che vergin impalmolla
Non si rammenta più, più non ricerca,
Quando ei nel buio della tomba giace.
Tu, partita la madre, a quale ancella
Più dabbene ti sembri e più sentita,
Commetti il tutto, finché illustre sposa
Ti presentino al guardo i dèi clementi.
Altro dirotti, e il riporrai nel core.
Degli amanti i più rei, che tôr dal mondo
Prima vorrìanti che alla patria arrivi,
Nel mar tra la pietrosa Itaca e Same
Stanno in agguato. Io crederò che indarno,
E che la terra pria l'ossa spolpate
De' tuoi nemici chiuderà nel seno.
Non pertanto la nave indi lontana
Tieni, e notturno naviga: un amico
Vento t'invïerà quel tra gli eterni,
Chïunque sia, che ti difende e guarda.
Come d'Itaca giunto alla più estrema
Riva sarai, lascia ir la nave, e tutti
Alla città i compagni; e tu il custode
Cerca de' verri, che un gran ben ti vuole.
Seco passa la notte, ed in sull'alba
Mandal significando alla Regina,
Che a lei da Pilo ritornasti illeso”.
Ciò detto, in un balen salse all'Olimpo.
Egli l'amico dal suo dolce sonno,
Urtandolo del pie', subito scosse,
E gli drizzò queste parole: “Sorgi,
Pisistrato, ed al cocchio i corridori
Solidounghiati sottoponi e accoppia,
Se anche il viaggio nostro aver dee fine”.
“Telemaco”, il Nestoride rispose,
“Benché ci tardi di partir, non lice
Dell'atra notte carreggiar per l'ombre.
Poco l'Aurora tarderà. Sostieni
Tanto almen che il di lancia esperto Atride
Ponga nel cocchio gli ospitali doni,
E gentilmente ti licenzi. Eterna
L'ospite rimembranza in petto serba
Di chi un bel pegno d'amistà gli porse”.
Disse; e nel trono d'ôr l'Aurora apparve.
Il prode Menelao, di letto allora
Sorto e d'allato della bella Elèna,
Venne alla volta lor; né prima il caro
Figliuol d'Ulisse l'avvisò, che in fretta
Della lucente tunica le membra
Cinse e gittò il gran manto a sé d'intorno,
Ed uscì fuori, e l'abbordò e gli disse:
“Figlio d'Atrèo, di Giove alunno, duce
Di genti, me rimanda oggi al diletto
Nativo ciel, cui già con l'alma io volo”.
“Telemaco”, rispose il forte Atride,
“Io ritenerti qui lunga stagione
Non voglio a tuo mal cuore. Odio chi suole
Gli ospiti suoi festeggiar troppo, o troppo
Spregiarli: il meglio sempre è star nel mezzo.
Certo peccan del par chi discortese
L'ospite caccia di restar bramoso,
E chi bramoso di partir l'arresta.
Carezzalo indugiante, e quando scorgi
Che levarsi desìa, dágli commiato.
Tanto dimora sol, ch'io non vulgari
Doni nel cocchio, te presente, ponga,
E comandi alle femmine che un pronto
Conforto largo di serbate dapi
T'apprestin nella sala. È glorïoso
Del par che utile a te dell'infinita
Terra su i campi non passar digiuno.
Vuoi tu aggirarti per la Grecia e l'Argo?
Giungerò i miei destrieri, e alle diverse
Città ti condurrò: treppiede o conca
Di bronzo o due bene appaiati muli,
O vaga d'oro effigïata tazza,
Ci donerà ciascuno, e senza doni
Cittade non sarà che ci accommiati”.
Telemaco a rincontro: “Menelao,
Di Giove alunno, condottier di genti,
Nel mio palagio, ove nessun che il guardi,
Partendone, io lasciai, rieder mi giova,
Acciocché, mentre il padre indarno io cerco,
Tutti io non perda i suoi tesori e i miei”.
Udito questo, ad Elena e alle fanti
L'Atride comandò s'apparecchiasse
Subita e lauta mensa. Eteonèo,
Che poco lungi dal suo re dormìa,
Sorto appena di letto, a lui sen venne;
E il foco suscitar, cuocer le carni
Gl'impose Menelao: né ad ubbidirgli
Tardò un istante di Boete il figlio.
Nell'odorata solitaria stanza
Menelao scese, e non già sol: ché seco
Scesero Elèna e Megapente. Giunti
Là 've la ricca suppellettil giace,
Tolse l'Atride biondo una ritonda
Gemina coppa, e di levare un'urna
D'argento al figlio Megapente ingiunse.
Ma la donna fermossi all'arche innanzi,
Ove i pepli giacean che da lei stessa
Travagliati già fûro, e varïati
Con ogni sorta d'artificio. Elèna
Il più ampio traeane, ed il più bello
Per molteplici fregi: era nel fondo
Dell'arca, e sì rilusse in quel che alzollo,
Che stella parve che dai flutti emerga.
Con tai doni le stanze attraversaro,
Finché fûro a Telemaco davante,
Cui questi accenti Menelao converse:
“Fortunato così, come tu il brami,
Ti consenta, o Telemaco, il ritorno
L'altitonante di Giunon marito.
Io di quel che possiedo, a te dar voglio
Ciò che mi sembra più leggiadro e raro:
Un'urna effigïata, argento tutta,
Se non quanto su i labbri oro gialleggia,
Di Vulcano fattura. Il generoso
Re di Sidone Fèdimo donolla
A me, che d'Ilio ritornava, e cui
Ricettò ne' suoi tetti; e a te io la dono.
L'Atride in mano gli mettea la tonda
Gèmina coppa: Megapente ai piedi
Gli recò l'urna sfolgorante; e poi
Elena, bella guancia, a lui di contra
Stette col peplo su le braccia e disse:
“Ricevi anco da me, figlio diletto,
Quest'altro dono, e per memoria tienlo
Delle mani d'Elèna. Alla tua sposa
Nel sospirato dì delle sue nozze
Le membra coprirà. Rimanga intanto
Della prudente genitrice in guardia;
E tu alla patria terra e alle superbe
Case de' padri tuoi giungi felice”.
Ei con gioia sel prese: e i doni tutti,
Poiché ammirata la materia e l'arte
N'ebbe, allogò Pisistrato nel carro.
Quindi l'Atride dalla bionda testa
Ambi condusse nella reggia, dove
Sovra i troni sedettero. L'ancella
Subitamente da bel vaso d'oro
Nell'argenteo bacile acqua lucente
Spandea, stendea desco polito, in cui
La veneranda dispensiera i bianchi
Pani venne ad imporre, e non già poche
Delle dapi serbate, ond'è custode.
Eteonèo partìa le carni, e il vino
Megapente versava; e i due stranieri
La mano all'uno e all'altro ivan porgendo.
Ma come sazi della mensa fûro,
Aggiogaro i cavalli, e la vergata
Biga pronti salîro, e l'agitaro
Fuor dell'atrio e del portico sonante.
Uscì con essi Menelao, spumosa,
Perché libasser pria, ciotola d'oro
Nella destra tenendo, e de' cavalli
Fermossi a fronte, e, propinando, disse:
“Salute, o prodi giovinetti, a voi
Ed al pastor de' popoli salute
Per vostra bocca, a Nestore, che fummi
Dolce, qual padre, sotto i Teucri muri”.
Ed il saggio Telemaco a rincontro:
“Tutto, non dubitar, di Giove alunno,
Saprà il buon vecchio. Oh potess'io non manco,
Tosto ch'io sarò in Itaca, ad Ulisse
Mostrare i tanti e così ricchi doni
Ch'io da te ricevetti, e raccontargli
Quale accoglienza io n'ebbi e qual commiato!”
Tal favellava; e a lui di sopra e a destra
Un'aquila volò, che bianca e grande
Domestica oca con gli adunchi artigli
Dalla corte rapia. Dietro gridando
Uomini e donne le correan: ma quella
S'accostò pur da destra ai due garzoni,
E davanti ai destrier rivolò in alto.
Tutti gioiro a cotal vista, e primo
Fu Pisistrato a dir: “Nobile Atride,
Pensa in te stesso, se a te forse o a noi
Tal prodigio invïâro i sempiterni”.
Ei la risposta entro da sé cercava;
Ma l'antivenne la divina Elèna
Dicendo: “Udite me. Quel ch'io indovino,
Certo avverrà: ché me l'inspira un nume.
Come questa valente aquila scesa
Dal natìo monte, che i suoi parti guarda,
Si rapì l'oca nel cortil nodrita,
Non altrimenti Ulisse, alle paterne
Case venuto da lontani lidi,
Su i proci piomberà; se pur non venne,
E lor non apparecchia orrida morte”.
E Telemaco allor: “Così ciò voglia
L'altitonante di Giunon marito,
Come voti da me tu avrai, qual diva!”
Disse, e i destrieri flagellò, che ratti
Mosser per la cittade e ai campi usciro.
Correan l'intero dì, squassando il giogo,
Che ad ambi stava sul robusto collo.
Tramontò il Sole ed imbrunìan le strade;
E i due giovani a Fera, e alla magione
Di Dïòcle, del prode figlio
D'Orsìloco d'Alfèo, dove riposi
Ebber tranquilli ed ospitali doni.
Ma come al sole con le man rosate
L'Aurora aperse le celesti porte,
I cavalli aggiogaro, e risaliro
La vergolata biga e l'agitaro
Fuor dell'atrio e del portico sonante.
Sferzò i destrier Pisistrato, e i destrieri
Di buon grado volavano: né molto
Stetter di Pilo ad apparir le torri.
Allor così Telemaco si volse
Al figliuol di Nestorre: “O di Nestorre
Figliuol, non desti a me fede, che sempre
Ciò tu faresti che mi fosse gioia?
Paterni ospiti siam, siam d'un'etade,
E più ancor ci unirà questo vïaggio.
Non mi guidare oltra il naviglio mio;
Colà mi lascia. Ritenermi il vecchio,
Mal mio grado, appo sé di carezzarmi
Desïoso, potrebbe: e a me bisogna
Toccare in breve la natìa contrada”.
Mentre così l'un favellava all'altro,
Che d'attener la sua promessa i modi
Discorrea con la mente, in questo parve
Dover fermarsi. Ripiegò i destrieri
Verso il mare e il naviglio; e i bei presenti,
Onde ornato il compagno aveva l'Atride,
Scaricò su la poppa. Indi: “Su via
Monta”, disse, “di fretta, e a' tuoi comanda
Pria la nave salir, che me il mio tetto
Riceva, e il tutto al genitore io narri.
So, qual chiuda nel petto alma sdegnosa:
Ti negherà il congedo, in su la riva
Verrà egli stesso, e benché senza doni
Da lui, cred'io, tu non partissi, un forte
Della collera sua scoppio io preveggo”.
Dette tai cose, alla città de' Pili
Spinse i destrieri dal leggiadro crine,
E all'eccelsa magion rapido giunse.
E Telemaco a' suoi: “Pronti la nave,
Compagni, armate, e su montiamvi e andiamo”.
L'ascoltâro, e ubbidiro. Immantinente
Montava e s'assidea ciascun su i banchi.
Ei, la partenza accelerando, a Palla
Prieghi, alla poppa, e sagrifici offrìa;
Quando, esul dalla verde Argo ferace,
Per non voluta uccisïone ignoto
Vïandante appressollo: era indovino,
E di Melampo dalla stirpe sceso.
Nella madre di greggi inclita Pilo
Melampo prima soggiornava, e, come
Ricco uom, superbo vi abitava ostello:
Poi, fuggendo la patria ed il più illustre
Tra gli uomini Nelèo, che i suoi tesori
Un anno intiero riteneagli a forza,
Capitò ad altre genti, e duri lacci
Nell'albergo di Filaco, e dolori
Gravi sostenne per la vaga figlia
Di Nelèo e per l'audace opra, cui messa
Gli aveva nel capo la tremenda Erinni.
Ma scampò dalla morte, e a Pilo addusse
Le contrastate altomugghianti vacche;
Si vendicò dell'infedel Nelèo,
E consorte al fratel la vaga Pero
Da Filace menò. Quindi all'altrìce
Di nobili destrieri Argo sen venne,
Volendo il fato che su i molti Argivi
Regnasse; sposa quivi scelse; al cielo
Levò le pietre della sua dimora;
E i forti generò Mantio e Antifáte.
Di questo il grande Oiclèo nacque, e d'Oiclèo
Il salvator di genti Anfiarao,
Cui tanto amor Febo portava e Giove.
Pur di vecchiezza non toccò la soglia:
Ché, generati Anfiloco e Alcmeòne,
Sotto Tebe perì, dalla più avara
Donna tradito. Ma da Mantio al giorno
Clito usciro e Polìfide. L'Aurora,
Per la beltà che in Clito alta splendea,
Rapillo, e il collocò tra gl'immortali;
E Febo, spento Anfiarao, concesse
Più che ad altr'uom, de' vaticini il dono
A Polifide, il qual, crucciato al padre,
Trapassò in Iperesia, ove a ciascuno
Del futuro squarciar solea il velame.
Figlio a questo era il pellegrin che stette
Di Telemaco al fianco, e si chiamava
Teoclimèno; appo la negra nave,
Mentr'ei libava e supplicava, il colse,
E a lui con voci alate: “Amico”, disse,
“Poich'io ti trovo a questi uffici intento,
Pe' sagrifizi tuoi, pel dio cui gli offri,
Per lo tuo capo stesso e per cotesti
Compagni tuoi, non mi nasconder nulla
Di quanto io chiederò. Chi, e donde sei?
Dove i parenti a te? e la patria dove?
“Stranier”, così Telemaco rispose,
“Su i labbri miei non sonerà che il vero.
Itaca è la mia patria, il padre è Ulisse,
Se un padre ho ancor: quel, di cui forte io temo.
Però con negra nave e gente fida
Partii, cercando per diversi lochi
Novelle di quel misero, cui lunge
Tien dalla patria sua gran tempo il fato”.
E il pari ai dèi Teoclimèno: “Anch'io
Lungi erro dalla mia, dacché v'uccisi
Uom della mia tribù, che lasciò molti
Parenti e amici prepossenti in Argo.
Delle lor man vendicatrici uscito,
Fuggo, e sieguo il destin che l'ampia terra
Con pie' ramingo a calpestar mi tragge.
Deh! su la nave tua me supplicante
Ricovra, e da color che vengon forse
Su i miei vestigi, tu, che il puoi, mi salva”.
Il prudente Telemaco di nuovo:
“Dalla mia nave, in cui salir tu brami,
Esser non potrà mai ch'io ti respinga.
Seguimi pur: non mancheranti in nave
Quei, che di darti è in me, doni ospitali”.
Ciò detto, l'asta dalla man gli prese,
E della nave stésela sul palco.
Poscia montovvi e sedé in poppa, e al fianco
Seder si feo Teoclimèno. Sciolte
Dai compagni le funi, ei lor impose
Di correre agli attrezzi, ed i compagni
Ratti ubbidiro: il grosso abete in alto
Drizzaro, e l'impiantâro entro la cava
Base, di corda l'annodaro al piede,
E le candide vele in su tiraro
Con bene attorti cuoi. La dea che in giro
Pupille tinte d'azzurrino muove,
Precipite mandò dal cielo un vento
Destro, gagliardo, perché in brevi istanti
Misurasse del mar l'onde il naviglio.
Crune passò il buon legno, e la di belle
Acque irrigata Calcide, che il sole
Già tramontava ed imbrunìan le strade;
E, spinto sempre da quel vento amico,
Cui governava un dio, sopra Fea sorse,
E di là costeggiò l'Elide, dove
Regnan gli Epei. Quinci il figliuol d'Ulisse
Tra le scoscese Echinadi si mise,
Pur rivolgendo nel suo cor, se i lacci
Schiverebbe de' proci, o vi cadrebbe.
Ma in altra parte Ulisse e il buon custode,
Sedean sott'esso il padiglione a cena,
E non lunge sedean gli altri pastori.
Pago de' cibi il natural talento,
Ulisse favellò, tentando Eumèo,
S'ei, non cessando dalle cure amiche,
Ritenerlo appo sé nella sua cara
Stalla intendesse o alla città mandarlo:
“Eumèo”, disse, “m'ascolta; e voi pur tutti.
Tosto che il ciel s'inalbi, alla cittade,
Ond'io te non consumi ed i compagni,
Condurmi io voglio a mendicar la vita.
Ma tu d'utili avvisi, e d'una scorta
Fidata mi provvedi. Andrò vagando
Di porta in porta, e ricercando, come
Sfòrzami rea necessità, chi un pane
Mi porga ed una ciotola. D'Ulisse
Mi farò ai tetti, e alla sua donna saggia
Novelle recheronne, e avvolgerommi
Tra i proci alteri, che lasciarmi forse
Nella lor copia non vorran digiuno.
Io, che piaccia lor, subito e bene,
Eseguirò; poiché saper t'è d'uopo
Che per favor del messaggiero Ermete,
Da cui grazia ed onore acquista ogni opra,
Tal son, che ne' servigi, o il foco sparso
Raccor convenga, o le risecche legna
Fendere, o cuocer le tagliate carni,
O il vin d'alto versare, uffici tutti
Che i minori prestar sogliono i grandi,
Me nessun vince su l'immensa terra”.
Sdegnato assai gli rispondesti, Eumèo:
“Ahi! qual pensier ti cadde, ospite, in capo?
Brami perir, se raggirarti pensi
Tra i proci, la cui folle oltracotanza
Sale del ciel sino alla ferrea volta.
Credi a te somigliare i lor donzelli?
Giovani in bella vestimenta, ed unti
La chioma sempre e la leggiadra faccia,
Ministrano ai superbi; e sempre carche
Delle carni, de' pani e de' licori
Splendono agli occhi le polite mense.
Rimani: che né a me, né de' compagni
Grave ad alcun la tua presenza torna.
Ma come giunto sia d'Ulisse il figlio,
Da lui tunica e manto, e da lui scorta
Riceverai, dove che andar t'aggradi”.
“Eumèo”, rispose il pazïente Ulisse,
“possa Giove amar te, siccome io t'amo,
Te, che al vagar mio lungo ed all'inopia
Ponesti fine! Io non so peggio vita:
Ma il famelico stomaco latrante
Gl'ìnopi a errar, per acchetarlo, sforza,
E que' mali a soffrir, che ad una vita
Povera s'accompagnano e raminga.
Or, quando vuoi ch'io teco resti e aspetti
Telemaco, su via, della canuta
Madre d'Ulisse parlami e del padre,
Che al tempo che il figliuol sciolse per Troia,
Della vecchiezza il limitar toccava.
Veggon del Sole in qualche parte i rai?
O d'Aide la magion freddi gli accolse?”
“Ospite”, ripigliò l'inclito Eumèo,
“Altro da me tu non udrai che il vero.
Laerte vive ancora, e Giove prega
Che la stanca dal corpo alma gli tragga:
Tanto del figlio per l'assenza, tanto
Per la morte si duol della prudente
Moglie, che intatta disposollo, e in trista
Morendo il collocò vecchiezza cruda.
La lontananza del suo figlio illustre
A poco a poco ed infelicemente,
Sotterra la condusse. Ah tolga Giove,
Che qual m'è amico, e con amor mi tratta,
Per una simil via discenda a Dite!
Finch'ella visse, m'era dolce cosa,
Sebben dolente si mostrasse in faccia,
L'interrogarla e il ricercarla spesso:
Poich'ella mi nutrì con la de' pepli
Vaga Ctimene, sua figliuola egregia,
E de' suoi parti l'ultimo. Con questa
Cresceami, e quasi m'onorava al pari.
Ma come fummo della nostra etade
Ambi sul primo invidïabil fiore,
Sposa lei fêro in Same, e ricchi doni
N'ebbero ed infiniti; e me con vesti
Leggiadre in dosso e bei calzari ai piedi,
Mandò i campi abitar la mia signora,
Che di cor ciascun dì vie più m'amava.
Quanto seco io perdetti! È ver che queste
Fatiche dure, in che la vita io spendo,
Mi fortunano i numi, e ch'io gli estrani
Finor ne alimentai, non che me stesso.
Ma di fatti conforto o di parole
Sperare or da Penelope non lice:
Ché tutta in preda di superba gente
È la magion; né alla regina ponno
Rappresentarsi e far domande i servi,
Pigliar cibo e bevanda al suo cospetto,
E poi di quello ancor, che l'alma loro
Sempre rallegra, riportare ai campi”.
“Eumèo”, rispose l'avveduto Ulisse,
“Te dalla patria lungi e da' parenti
Pargoletto sbalzò dunque il tuo fato?
Orsù, ciò dimmi e schiettamente: venne
La città disertata, in cui soggiorno
Avea la madre veneranda e il padre?
O incautamente abbandonato fosti
Presso le agnelle o i tori, e gente ostile
Ti rapì su le navi, e ai tetti addusse
Di questo re, che ti comprò a gran prezzo?”
Ed a rincontro Eumèo, d'uomini capo:
“Quando a te risaperlo, ospite, cale,
Tacito ascolta e goditi, e alle labbra
Metti, assiso, la tazza. Or così lunghe
Le notti van, che trapassar si ponno
Parte dormendo, e novellando parte.
Né corcarti t'è d'uopo innanzi al tempo:
Anco il gran sonno nuoce. Ove degli altri
Ciò piacesse ad alcuno, esca e s'addorma:
Ma, fatto bianco l'orïente, siegua,
Non digiuno però, gl'ispidi verri.
E noi sediam nel padiglione a mensa,
Ambi a vicenda delle nostre doglie
Diletto, rimembrandole, prendendo;
Poiché de' mali ancora uom, che sofferse
Molto e molto vagò, prende diletto.
“Cert'isola, se mai parlar ne udisti,
Giace a Delo di sopra, e Siria è detta,
Dove segnati del corrente sole
I ritorni si veggono. Già grande
Non è troppo, ma buona; armenti e greggi
Produce in copia, e ogni speranza vince
Col frumento e col vino. Ivi la fame
Non entra mai, né alcun funesto morbo
Consuma lento i miseri mortali:
Ma come il crine agli abitanti imbianca,
Cala, portando in man l'arco d'argento,
Apollo con Artèmide, e gli uccide
Di saetta non vista un dolce colpo.
Due cittadi ivi son di nerbo eguale;
E l'Ormenide Ctesio, il mio divino
Padre, dell'una e l'altra il fren reggea.
Capitò un giorno di Fenicî, scaltra
Gente e del mare misuratrice illustre,
Rapida nave negra, che infinite
Chiudea in se stessa bagattelle industri.
Sedusser questi una Fenicia donna,
Che il padre schiava nel palagio avea,
Bella, di gran persona, e di leggiadri
Lavori esperta. I maculati panni
Lavava al fonte, presso il cavo legno,
Quando un di que' ribaldi a ciò la trasse,
Che alle femmine incaute, ancor che vôte
Non sien d'ogni virtude, il senno invola,
Poscia chi fosse, richiedeale, e donde
Venuta; ed ella senza indugio l'alte
Del padre mio case additògli e disse:
"Io cittadina della chiara al mondo
Sidone metallifera e del ricco
Aribante figliuola esser mi vanto.
Tafî ladroni mi rapiro un giorno,
Che dai campi tornava, e mi vendèro,
Trasportata sul mare, a quel signore,
Che ben degno di me prezzo lor diede".
"Non ti sarìa", colui rispose allora,
"Caro dunque il seguirci, ed il superbo
De' tuoi parenti rivedere albergo?
Riveder lor, che pur son vivi, e in fama
Di dovizia tra noi?" "Certo mi fôra"
La donna ripigliò, "sol che voi tutti
Di ricondurmi al natìo suol giuriate
Salva sul mar navigero e sicura".
Disse; e tutti giuravano. E in tal guisa
Tra lor di nuovo favellò la donna:
"Statevi or cheti e, o per trovarmi al fonte
O incontrarmi tra via, nessun mi parli.
Risaprebbelo il vecchio e di catene
Me graverebbe, sospettando, e a voi
Morte, cred'io, macchinerìa. La cosa
Tenete dunque in seno, e a provvedervi
Di quanto v'è mestier pensate intanto.
La nave appien vettovagliata e carca,
Giungane a me l'annunzio in tutta fretta,
Ed io non che altro, recherò con meco
Quanto sotto alle man verrammi d'oro.
Altra mercé vi darò ancora: un figlio
Di quest'ottimo re nel suo palagio
Rallevo, un vispo tal, che ad ogn'istante
Fuor mi scappa di casa. Io vi prometto
Alla nave condurlovi; né voi
Picciol tesor ne ritrarrete, ovunque
Per venderlo il meniate a estranie genti".
Disse, e alla reggia ritornò. Coloro,
Nel paese restando un anno intero
Fean di vitto e di merci immenso acquisto.
Fornito il carco e di salpare in punto,
Un messaggio alla femmina spedîro,
Uomo spedir d'accorgimenti mastro,
Che con un bello, aureo monile e d'ambra
Vagamente intrecciato, a noi sen venne.
Madre ed ancelle il rivolgean tra mano,
Prezzo non lieve promettendo, e a gara
Gli occhi vi tenean su. Tacitamente
Quegli ammiccò alla donna: indi alla nave
Drizzava i passi. Ella per mano allora
Presemi, e fuori uscì: trovò le mense
Nell'atrio e i nappi, in che bevean del padre
I commensali al parlamento andati
Con esso il padre caro; e di que' nappi
Tre, che in grembo celò, via ne portava;
Ed io seguìala nella mia stoltezza.
Già tramontava il Sole, e di tenèbre
Ricoprìasi ogni strada; e noi veloci
Giungemmo al porto e alla Fenicia nave.
Tutti saliti, le campagne acquose
Fendevam lieti con un vento in poppa,
Che da Giove spiccavasi. Sei giorni
Le fendevamo e notti sei: ma Giove
Il settimo non ebbe agli altri aggiunto,
Che dalla dea, d'avventar dardi amante,
Colpita fu la nequitosa donna.
Nella sentina con rimbombo cadde,
Quasi trafitta folaga. Tra l'acque
La scagliaro i Fenici, esca futura
Ai marini vitelli; e nella nave
Solo io rimasi, abbandonato e mesto.
Poi l'onda e il vento li sospinse ai lidi
D'Itaca, dove me comprò Laerte.
E così questa terra, ospite, io vidi”.
“Eumèo”, rispose il pazïente Ulisse,
“Molto a me l'alma commovesti in petto,
Narrando i casi tuoi. Ma Giove almeno
Vicin tosto ti pose al male il bene,
Poiché venisti ad un signor cortese,
Che quanto a rallegrar non che a serbare,
La vita e d'uopo, non ti niega. Ed io
Sol dopo lunghi e incomodi vïaggi
Di terra in terra, a queste rive approdo.
Tali fra lor correan parole alterne.
Dormiro al fin, ma non un lungo sonno;
Ché in seggio a comparir d'oro la bella
Già non tardò ditirosata Aurora.
Frattanto di Telemaco i compagni
Presso alla riva raccogliean le vele.
L'albero declinâr, lanciâro a remi
La nave in porto, l'ancore gittâro,
Ed i canapi avvinsero. Ciò fatto,
Sul lido usciàno ed allestìan la cena.
Rintuzzata la fame, e spenta in loro
La sete: “Voi”, così d'Ulisse il figlio,
“Alla città guidatemi la nave,
Mentre a' miei campi ed ai pastori io movo.
Del cielo all'imbrunir, visti i lavori,
Io pure inurberommi, e in premio a voi
Lauto domani imbandirò convito”.
“E io dove ne andrò, figlio diletto?”
Teoclimèno disse. “A chi tra quelli,
Che nella discoscesa Itaca sono
Più potenti, offrirommi? Alla tua madre
Dritto ir dovronne, e alla magion tua bella?”
Il prudente Telemaco riprese:
“Io stesso in miglior tempo al mio palagio
T'invïerei, dove cortese ospizio
Tu non avresti a desïare. Or male
Capiteresti: io non sarei con teco
Né te vedrìa Penelope, che scevra
Dai proci, a cui raro si mostra, tele
Nelle più alte stanze a oprare intende.
Un uom bensì t'additerò, cui franco
Puoi presentarti: Eurimaco, del saggio
Polibo il figlio, che di nume in guisa
Onoran gl'Itacesi. Egli è il più prode,
E il regno, più che agli altri, e la consorte
D'Ulisse affêtta. Ma se, pria che questo
Maritaggio si compia, i proci tutti
Non scenderanno ad abitar con Pluto,
L'Olimpio il sa, benché sì alto alberghi”.
Tal favellava; ed un augello a destra
Gli volò sovra il capo, uno sparviere
Ratto nunzio d'Apollo: avea nell'ugne
Bianca colomba e la spennava, e a terra
Fra lo stesso Telemaco e la nave
Le piume ne spargea. Teoclimèno
Ciò vide appena, che il garzon per mano
Prese e il trasse in disparte, e sì gli disse:
“Senza un nume, o Telemaco, l'augello
Non volò a destra. Io, che di contra il vidi
Per augurale il riconobbi. Stirpe
Più regia della tua qui non si trova,
Qui possente ad ognor fia la tua casa”.
“Così questo”, Telemaco rispose,
“S'avveri o forestier, com'io tai pegni
Ti darei d'amistà, che te, chiunque
Ti riscontrasse, chiamerìa beato”.
Quindi si volse in cotal guisa al fido
Suo compagno Pirèo: “Figlio di Clito,
Tu che le voglie mie festi mai sempre
Tra quanti a Pilo mi seguiro e a Sparta,
Condurmi il forestiero in tua magione
Piacciati e usargli, finché io vengo, onore”.
“Per tardi”, gli rispose il buon Pireo,
“Che tu venissi, io ne avrò cura, e nulla
D'ospitale sarà che nel mio tetto,
Dove il condurrò tosto, ei non riceva”.
Detto, salse il naviglio, e dopo lui
Gli altri salìanlo, e s'assidean su i banchi.
Telemaco s'avvinse i bei calzari
Sotto i pie' molli, e la sua valid'asta
Rameappuntata, che giacea sul palco
Della nave, in man tolse; e quei le funi
Sciolsero. Si spingean su con la nave
Vêr la città, come il garzone ingiunse;
Ed ei studiava il passo, in sin che innanzi
Gli s'aperse il cortile ove le molte
S'accovacciavan setolose scrofe,
Tra cui vivea l'inclito Eumèo, che, o fosse
Nella veglia o nel sonno, i suoi padroni
Dormendo ancor, non che vegliando, amava.
LIBRO SEDICESIMO
L'inclito Eumèo nel padiglione e Ulisse,
Racceso il foco in su la prima luce,
Leggier pasto allestìano; e fuori al campo
Co' neri porci uscìan gli altri custodi.
Ma i cani latrator, non che a Telemaco
Non abbaiar, festa gli feano intorno.
S'avvide Ulisse del blandir de' cani,
E d'uomo un calpestìo raccolse e queste
Voci drizzò al pastor: “Certo qua, Eumèo,
O tuo compagno o conoscente, giunge,
Poichè, lontani dal gridare, i cani
Latratori carezzanlo, ed il basso
De' suoi vicini piè strepito io sento.
Non era Ulisse al fin di questi detti,
Che nell'atrio Telemaco gli apparve”.
Balzò Eumèo stupefatto e a lui di mano
I vasi, ove mescea l'ardente vino,
Caddero: andògli incontro e il capo ed ambi
Gli baciò i rilucenti occhi e le mani,
E un largo pianto di dolcezza sparse.
Come un tenero padre un figlio abbraccia,
Che il decim'anno da remota piaggia
Ritorna, unico figlio e tardi nato,
Per cui soffrì cento dolori e cento:
Non altrimenti Eumèo, gittate al collo
Del leggiadro Telemaco le braccia,
Tutto baciollo, quasi allora uscito
Dalle branche di Morte, e lagrimando:
“Telemaco”, gli disse, “amato lume,
Venisti adunque! Io non avea più speme
Di te veder, poiché volasti a Pilo.
Su via, diletto figlio, entrar ti piaccia,
Sì ch'io goda mirarti or che d'altronde
Nel mio soggiorno capitasti appena.
Raro i campi tu visiti e i pastori:
Ma la città ritienti e la funesta
Turba de' proci che osservar ti cale”.
“Entrerò, babbo mio, quegli rispose:
Ché per te vederti, e le tue voci
Per ascoltare, al padiglione io vegno.
Restami nel palagio ancor la madre?
O alcun de' proci disposolla, e nudo
Di coltri e strati, e ai sozzi aragni in preda
Giace del figlio di Laerte il letto?”
“Nel tuo palagio”, ripigliava Eumèo,
“Riman con alma intrepida la madre,
Benché nel pianto a lei passino i giorni,
Passin le notti; ed ella viva indarno”.
Ciò detto, l'asta dalla man gli prese,
E Telemaco il piè mettea sul marmo
Della soglia; ed entrava. Ulisse a lui
Lo scanno, in cui sedea, cesse; ma egli
Dal lato suo non consentìalo, e: “Statti,
Forestier”, disse, “assiso; un altro seggio
Noi troverem nella capanna nostra.
Né quell'uomo è lontan, che dar mel puote”.
Ulisse, indietro fAttosi, di nuovo
Sedea. Ma il saggio guardïan distese
Virgulti verdi e una vellosa pelle,
E il garzon vi adagiò. Poi le rimaste
Del giorno addietro abbrustolate carni
Lor recò su i taglieri; e, ne' canestri
Posti l'un sovra l'altro in fretta i pani,
E il rosso vino nelle tazze infuso,
Ad Ulisse di contra egli s'assise.
Sbramato della mensa ebbero appena
Il desiderio natural, che queste
Telemaco ad Eumèo drizzò parole:
“Babbo, d'onde quest'ospite? In che guisa
E quai nocchieri ad Itaca il menâro?
Certo a piedi su l'onda ei qua non venne”.
E tu così gli rispondesti, Eumèo:
“Nulla, figliuol, ti celerò. Natìo
Dell'ampia Creta egli si vanta, e dice
Molti paesi errando aver trascorsi
Per volontà d'un nume avverso. Al fine
Si calò giù da una Tesprozia nave,
E al mio tugurio trasse. Io tel consegno.
Quel che tu vuoi, ne fa': sol ti rammenta
Ch'ei di tuo supplicante ambisce il nome”.
“Grave al mio cor”, Telemaco riprese,
“Parola, Eumèo, tu proferisti. Come
L'ospite ricettar nella paterna
Magion poss'io? Troppo io son verde ancora,
Né respinger da lui con questo braccio
Chi primo l'assalisse, io mi confido.
La madre sta infra due, se, rispettando
La comun voce e il marital suo letto,
Viva col figlio e la magion governi;
O a quel s'unisca degli Achei, che doni
Le presenta più ricchi ed è più prode.
Bensì al tuo forestier tunica e manto,
E una spada a due tagli e bei calzari
Dar voglio, e là invïarlo, ov'ei desìa.
Che se a te piace ritenerlo, e cura
Prenderne, io vesti e d'ogni sorta cibi,
Perché te non consumi e i tuoi compagni,
Qua manderò. Ma ch'ei s'accosti ai proci,
Che d'ingiurie il feriscano e d'oltraggi
Con dolor mio, non sarà mai ch'io soffra.
Che potrìa contro a tanti e sì valenti
Nemici un sol, benché animoso e forte?”
“Nobile amico”, così allora Ulisse,
“Se anco a me favellare or si concede,
Il cor nel petto mi si rode, udendo
La indegnitade in tua magion de' proci,
Mentre di tal sembiante io pur ti veggo.
Cedi tu volontario? O in odio forse
Per l'oracolo d'un dio t'ha la cittade?
O i fratelli abbandónanti, cui tanto
S'affida l'uom nelle più dure imprese?
Perché con questo cor l'età mia prima
Non ho? Perché non son d'Ulisse il figlio?
Perché Ulisse non son? Vorrei che tronco
Per mano estrana mi cadesse il capo,
S'io, nella reggia penetrando, tutti
Non mandassi in rovina. E quando ancora
Me soverchiasse l'infinita turba,
Perir torrei nella mia reggia ucciso
Pria che mirar tuttora opre sì turpi,
Gli ospiti mal menati, vïolate
(Ahi colpa!) le fantesche, ed inghiottito
A caso, indarno e senza fine o frutto,
Quanto si miete ogni anno e si vendemmia.
“Straniero”, eccoti il ver, ratto rispose
Il prudente Telemaco: “non tutti
M'odiano i cittadin, né de' fratelli,
Cui tanto l'uom nelle più dubbie imprese
Suole appoggiarsi, richiamarmi io posso.
Volle il Saturnio che di nostra stirpe
D'età in età spuntasse un sol rampollo.
Arcesio generò Laerte solo,
Laerte il solo Ulisse, e poscia Ulisse
Me lasciò nel palagio, unico figlio
Di cui poco godé: quindi piantossi
Nemica gente al nostro albergo in seno.
Quanti ha Dulichio e Same e la selvosa
Zacinto e la pietrosa Itaca prenci,
Ciascun la destra della madre agogna.
Ella né rigettar può, né fermare
Le inamabili nozze. Intanto i proci
Coprono i deschi con le pingui membra
Delle sgozzate vittime, e gli averi
Mi struggon tutti; né anderá molto forse,
Che più grata sarò vittima io stesso;
Ma ciò de' numi su i ginocchi posa.
Babbo, tu vanne rapido, e alla madre
Narra che salvo io le tornai da Pilo.
Così nárralo a lei, che alcun non t'oda
Degli Achivi e qua riedi, ov'io m'arresto.
Ben sai che molti del mio sangue han sete”.
E tu in risposta gli dicesti, Eumèo:
“Conosco, veggo: ad uom che intende, parli.
Ma non vorrai che messo all'infelice
Laerte ancor per la via stessa io vada?
Ei, pensoso d'Ulisse un tempo e tristo,
Pur dei campi ai lavor guardava intento,
E dove brama nel pungesse, in casa
Pasteggiava co' servi. Ed oggi è fama
Che da quel dì che navigasti a Pilo,
Né pasteggiò co' servi, né de' campi
Più ai lavori guardò: ma sospirando
Siede e piangendo, e alle scarne ossa intanto
S'affigge, ohimè! l'inaridita cute”.
“Gran pietade”Télemaco riprese,
“Ma lasciamolo ancor per brevi istanti
Nella sua doglia. Se in man nostra tutto
Fosse, il ritorno a procurar del padre
Non si rivolgerebbe ogni mia cura?
Esponi adunque l'imbasciata, e riedi,
Né a lui pe' campi divertir; ma solo
Priega la madre, che in tua vece al vecchio
Secreta imbasciatrice e frettolosa
La veneranda economa destini.
Detto così, eccitollo; ed ei con mano
Presi i calzari, e avvìntiseli ai piedi,
Subitamente alla città tendea.
Non partì dalla stalla il buon custode,
Che l'armigera dea non se ne addesse.
Scese dal cielo e somigliante in vista
A bella e grande e de' più bei lavori
Femmina esperta, si fermò alla porta
Del padiglion di contra, e a Ulisse apparve.
Telemaco non vìdela: ché a tutti
Non si mostran gl'Iddii. Videla il padre,
E i mastini la videro, che a lei
Non abbaiAr, ma del cortil nel fondo
Trepidi si celâro e guaiolanti.
Ella accennò co' sopraccigli, e il padre
La intese, ed uscì fuori, e innanzi stette
Nella corte alla dea, che sì gli disse:
“O Laerzìade generoso e accorto,
Tempo è che al tuo figliuol tu ti palesi,
Onde, sterminio meditando ai proci,
Moviate uniti alla città. Vicina
Ed accinta a pugnar, tosto m'avrete”.
Tacque Minerva, e della verga d'oro
Toccollo. Ed ecco circondargli a un tratto
Belle vesti le membra, e il corpo farsi
Più grande e più robusto ecco le guance
Stendersi, e già ricolorarsi in bruno,
E all'azzurro tirar su per lo mento
I peli, che parean d'argento in prima.
La dea sparì, rïentrò Ulisse; e il figlio,
Da maraviglia preso e da terrore,
Chinò gli sguardi, e poscia: “Ospite”, disse,
“Altro da quel di prima or mi ti mostri,
Altri panni tu vesti, ed a te stesso
Più non somigli. Alcun per fermo sei
Degli abitanti dell'Olimpo. Amico
Guárdane, acciò per noi vittime grate,
Grati s'offrano a te doni nell'oro
Con arte sculti: ma tu a noi perdona”.
“Non sono alcun degl'Immortali”, Ulisse
Gli rispondea. “Perché agli dèi m'agguagli?
Tuo padre io son: quel per cui tante soffri
Nella tua fresca età sciagure ed onte”.
Così dicendo baciò il figlio, e al pianto,
Che dentro gli occhi avea costantemente
Ritenuto sin qui, l'uscita aperse.
Telemaco d'aver su gli occhi il padre
Credere ancor non sa. “No”, replicava,
“Ulisse tu, tu il genitor non sei,
Ma per maggior mia pena un dio m'inganna.
Tai cose oprar non vale uom da se stesso,
Ed è mestier che a suo talento il voglia
Ringiovanire, od invecchiarlo, un nume.
Bianco i capei testé, turpe le vesti
Eri, ed ora un Celicola pareggi”.
“Telemaco”, riprese il saggio eroe,
“Poco per veritade a te s'addice,
Mentre possiedi il caro padre, solo
Maraviglia da lui trarre e spavento:
Ché un altro Ulisse aspetteresti indarno.
Si, quello io son, che dopo tanti affanni
Durati e tanti, nel vigesim'anno
La mia patria rividi. Opra fu questa
Della Tritonia bellicosa diva,
Che qual più aggrada a lei, tale mi forma:
Ora un canuto mendicante, e quando
Giovane con bei panni al corpo intorno:
Però che alzare un de' mortali al cielo,
O negli abissi porlo, è lieve ai numi”.
Così detto, s'assise. Il figlio allora
Del genitor s'abbandonò sul collo,
In lagrime scoppiando ed in singhiozzi.
Ambi un vivo desir sentìan del pianto:
Né di voci sì flebili e stridenti
Risonar s'ode il saccheggiato nido
D'aquila o d'avoltoio, a cui pastore
Rubò i figliuoli non ancor pennuti,
Come de' pianti loro e delle grida
Miseramente il padiglion sonava.
E già piagnenti e sospirosi ancora
Lasciati avrìali, tramontando, il Sole,
Se il figlio al padre non dicea: “Qual nave,
Padre, qua ti condusse, e quai nocchieri?
Certo in Itaca il piè non ti portava”.
“Celerò il vero a te?” l'eroe rispose,
“I Feaci sul mar dotti, e di quanti
Giungono errando alle lor piagge industri
Riconduttori, me su ratta nave
Dormendo per le salse onde guidâro,
E in Itaca deposero. Mi fêro
Di bronzo in oltre e d'oro e intesti panni
Bei doni, e molti, che in profonde grotte
Per consiglio divin giaccionmi ascosi.
Ed io qua venni al fin, teco de' proci
Nostri nemici a divisar la strage,
Con l'avviso di Pallade. Su via,
Cóntali a me, si ch'io conosca, quanti
Uomini sono e quali, e nella mente
Libri, se contra lor combatter soli,
O in aiuto chiamare altri convegna”.
“O padre mio”, Telemaco riprese,
“Io sempre udìa te celebrar la fama
Bellicoso di man, di mente accorto:
Ma tu cosa dicesti or gigantesca
Cotanto che alta maraviglia tiemmi:
Due soli battagliar con molti e forti?
Non pensar che a una decade o due sole
Montin: sono assai più. Cinquantadue
Giovani eletti da Dulichio uscîro,
E sei donzelli li seguìano. Venti
Ne mandò Same e quattro; e abbandonâro
Venti Zacinto. Itaca stessa danne
Dodici, e tutti prodi; e v'ha con essi
Medonte araldo ed il cantor divino,
E due dell'arte loro incliti scalchi.
Ci affronterem con questa turba intera,
Che la nostra magion possiede a forza?
Temo che allegra non ne avrem vendetta.
Se rinvenir si può chi a noi soccorra
Con pronto braccio e cor dunque tu pensa”.
“Chi a noi soccorra?” rispondeagli Ulisse.
“Giudicar lascio a te, figlio diletto,
Se Pallade a noi basti, e basti Giove,
O cercar d'altri, che ci aiuti, io deggia”.
E il prudente Telemaco: “Quantunque
Siedan lungi da noi su l'alte nubi,
Nessun ci può meglio aiutar di loro,
Che su i mortali imperano e su i Divi”.
“Non sederan da noi lungi gran tempo”,
Il saggio Ulisse ripigliava, “quando
Sarà della gran lite arbitro Marte.
Ma tu il palagio su l'aprir dell'alba
Trova, e t'aggira tra i superbi proci.
Me poi simile in vista ad un mendìco
Dispregevole vecchio il fido Eumèo
Nella cittade condurrà. Se oltraggio
Mi verrà fatto tra le nostre mura,
Soffrilo; e dove ancor tu mi vedessi
Trar per il piè fuor della soglia, o segno
D'acerbi colpi far, lo sdegno affrena.
Sol di cessar dalle follìe gli esorta,
Parole usando di mèle consperse,
A cui non baderan: però che pende
L'ultimo sovra lor giorno fatale.
Altro dirôtti, e tu fedel conserva
Nel tuo petto ne fa'. Sei tu mio figlio?
Scorre per le tue vene il sangue mio?
Non oda alcun ch'è in sua magione Ulisse;
E né a Laerte pur, né al fido Eumèo,
Né alla stessa Penelope, ne venga.
Noi soli spïerem, tu ed io, l'ingegno
Dell'ancelle e de' servi; e vedrem noi,
Qual ci rispetti e nel suo cuor ci tema,
O quale a me non guardi e te non curi,
Benché fuor dell'infanzia, e non da ieri”.
“Padre”, riprese il giovinetto illustre,
“Spero che me conoscerai tra poco,
E ch'io né ignavo ti parrò, né folle.
Ma troppo utile a noi questa ricerca,
Credo, non fôra; e ciò pesar ti stringo.
Vagar dovresti lungamente e indarno
Visitando i lavori e ciascun servo
Tentando; e intanto i proci entro il palagio
Ogni sostanza tua struggon tranquilli.
Ben tastar puoi delle fantesche l'alma
Qual colpevole sia, quale innocente:
Ma de' famigli a investigar pe' campi
Soprastare io vorrei, se di vittoria
Segno ti diè l'egidarmato Giove”.
Mentre si fean da lor queste parole,
La nave, che Telemaco e i compagni
Condotti avea da Pilo, alla cittade
Giunse e nel porto entrò. Tirâro in secco
Gli abili servi e disarmâro il legno,
E di Clito alla casa i prezïosi
Doni recAro dell'Atride. In oltre
Mosse un araldo alla magion d'Ulisse
Nunzïando a Penelope che il figlio
Ne' campi suoi si trattenea, perch'ella,
Visto entrar senza lui nel porto il legno,
Di nuovo pianto non bagnasse il volto.
L'araldo ed il pastor diêr l'un nell'altro
Con la stessa imbasciata entro i lor petti.
Né pria varcar della magion la soglia,
Che il banditor gridò tra le fantesche:
“Reina, è giunto il tuo diletto figlio”.
Ma il pastore a lei sola e all'orecchio,
Ciò tutto espose, che versato in core
Telemaco gli avea: quindi alle mandre
Ritornare affrettavasi, l'eccelse
Case lasciando, e gli steccati a tergo.
Ma tristezza e dolor l'animo invase
De' proci. Uscîro del palagio, il vasto
Cortile attraversAro, ed alle porte
Sedean davanti! “Amici”, in cotal guisa
Eurìmaco a parlar tra lor fu il primo:
“Ebben, che dite voi di questo, a cui
Fede sì poca ciaschedun prestava,
Vïaggio di Telemaco? Gran cosa
Certo, e condotta audacemente a fine.
Convien nave mandar delle migliori
Con buoni remiganti, acciocchè torni
Quella di botto, che Agli agguati stava”.
Profferte non avea l'ultime voci,
Che Anfinomo, rivolti al lido gli occhi,
Un legno scorse nel profondo porto,
Ed altri intesi a ripiegar le vele,
Altri i remi a deporre, e, dolcemente
Ridendo: “Non s'invii messaggio alcuno,
Disse; già dentro sono: o un nume accorti
Li fece, o trapassar videro, o indarno
Giunger tentáro del garzon la nave”.
Sorsero, e al lito andro. Il negro legno
Fu tratto in secco, e disarmato; e tutti
Per consultar si radunaro i proci.
Né con lor permettean che altri sedesse,
Giovane o vecchio; e così Antinoo disse:
“Poh! come a tempo il dilivraro i numi!
L'intero dì su le ventose cime
A vicenda sedean gli esploratori:
Poi, dato volta il sol, la notte a terra
Mai non passammo, ma su ratta nave
Stancavam l'onde sino ai primi albori,
Tendendo insidie al giovane, e l'estremo
Preparandogli eccidio. E non pertanto
Nella sua patria il ricondusse un dio.
Consultiam dunque, come certa morte
Dare al giovine qui. Speriamo indarno
La nostra impresa maturar, s'ei vive:
Ché non gli falla il senno, e a favor nostro
La gente, come un dì, più non inchina.
Non aspettiam che a parlamento ei chiami
Gli Achivi tutti, né crediam che lento
Si mostri, e molle troppo. Arder di sdegno
Véggolo, e, sorto in piè, dir che ruina
Noi gli ordivamo, e che andò il colpo a vôto,
Prevenirlo è mestieri, e o su la via
Della cittade spegnerlo, o ne' campi.
Non piace forse a voi la mia favella,
E bramate ch'ei viva, e del paterno
Retaggio goda interamente? Adunque
Noi dal fruirlo ritiriamci, l'uno
Disgiungasi dall'altro, e al proprio albergo
Si renda. Indi Penelope richieda,
E quel cui sceglie il fato, e che offre a lei
Più ricchi doni la regina impalmi”.
Tutti ammutîro a cotai voci. Al fine
Sorse tra lor dell'Arezìade Niso
La regia prole, Anfinomo, che, duce
Di quei competitor che dal ferace
Dulichio uscîro, e di più sana mente
Tra i rivali dotato, alla regina
Men, che ogni altro, sgradìa co' detti suoi:
“Amici”, disse, “troppo forte impresa
Struggere affatto un real germe. I numi
Domandiamone in pria. Sarà di Giove
Questo il voler? Vibrerò il colpo io stesso,
Non che gli altri animar; dov'ei decreti
Diversamente, io vi consiglio starvi”.
Così d'Arezio il figlio, e non indarno.
S'alzaro, e rïentrâr nell'ampia sala,
E sovra i seggi nitidi posaro.
Ma la casta Penelope, che udito
Avea per bocca del fedel Medonte
Il mortal rischio del figliuol, consiglio
Prese di comparire ai tracotanti
Proci davante. La divina donna
Uscì dell'erma stanza; e con le ancelle
Sul limitar della dedalea sala
Giunta, e adombrando co' sottili veli,
Che le pendean dal capo, ambe le guance,
Antinoo rampognava in questi accenti:
Antinoo, alma oltraggiosa, e di sciagure
Macchinator, nella città v'ha dunque
Chi tra gli eguali tuoi primo vantarti
Per saggezza osi, e per facondia? Tale
Giammai non fosti. Insano! e al par che insano
Empio, che di Telemaco alla vita
Miri e non cùri i supplici, per cui
Giove dall'alto si dichiara. Ignoto
Forse ti fu sin qui, che fuggitivo
Qua riparava e sbigottito un giorno
Il padre tuo, che de' Tesproti a danno
Co' Tafî predator s'era congiunto?
Nostri amici eran quelli, e porlo a morte
Voleano, il cor volean trargli del petto,
Non che i suoi campi disertar: ma Ulisse
Si levò, si frammise; e, benché ardenti,
Li ritenea. Tu di quest'uom la casa
Ruini e disonori; la consorte
Ne ambisci, uccidi il figlio, e me nel fondo
Sommergi delle cure. Ah! cessa, e agli altri
Cessare ancor, quanto è da te, comanda”.
“Figlia illustre d'Icario”, a lei rispose
Eurimaco di Pòlibo, “fa' core,
E sì tristi pensier da te discaccia.
Non è, non fu, non sarà mai chi ardisca
Contra il figlio d'Ulisse alzar la mano,
Me vivo, e con questi occhi in fronte aperti.
Di cotestui, cosa non dubbia, il nero
Sangue scorrerìa giù per la mia lancia.
Me il distruttor delle cittadi Ulisse
Tolse non rado sovra i suoi ginocchi,
Le incotte carni nella man mi pose,
L'almo licor m'offrì. Quindi uom più caro
Io non ho di Telemaco, e non voglio
Che la morte dai proci egli paventi.
Se la mandan gli dèi, chi può scamparne?”
Così dicea, lei confortando, e intanto
L'eccidio del figliuol gli stava in core.
Ma ella salse alle sue stanze, dove
A lagrimar si dava il suo consorte,
Finché, per tregua a tanti affanni, un dolce
Sonno invïolle l'occhiglauca Palla.
Con la notte comparve il fido Eumèo
Ad Ulisse ed a Telemaco, che, pingue
Sagrificato ai numi adulto porco,
Lauta se ne allestìan cena in quel punto.
Se non che Palla al Laerziade appresso
Fecesi, e lui della sua verga tocco,
Nella vecchiezza il ritornò di prima
E ne' primi suoi cenci; onde il pastore
Non ravvisasse in faccia, e, mal potendo
Premer nel cor la subitanea gioia,
Con l'annunzio a Penelope non gisse.
“Ben venga il buon pastor! così primiero.”
Telemaco parlò. “Qual corre grido
Per la città? Vi rïentrâro i proci?
O mi tendon sul mare insidie ancora?”
E tu così gli rispondesti Eumèo:
“La mente a questo io non avea, passando
Fra i cittadini: ché portar l'avviso,
E di botto redir, fu sol mia cura.
Bensì m'avvenni al banditor, che primo
Corse parlando alla Regina. Un'altra
Cosa dirò, quando la vidi io stesso.
Prendendo il monte che a Mercurio sorge,
E la cittade signoreggia, vidi
Rapidamente scendere nel porto
Nave d'uomini piena, e d'aste acute
Carca e di scudi. Sospettai che il legno
Fosse de' proci; né più avanti io seppi”.
A tai voci Telemaco sorrise,
Pur sogguardando il padre e gli occhi a un tempo
Del custode schivando. A questo modo
Fornita ogni opra e già parati i cibi,
D'una egual parte in questi ognun godea.
Ma come il lor desìo più non richiese,
Si corcâro al fin tutti, ed il salubre
Dono del sonno ricettâr nel petto.
LIBRO DICIASSETTESIMO
Tosto che aperse del mattin la figlia
Con rosea man l'eteree porte al Sole,
Telemaco, d'Ulisse il caro germe,
Che inurbarsi volea, sotto le piante
S'avvinse i bei calzari, e la nodosa
Lancia che in man ben gli s'attava, tolse,
E queste al suo pastor drizzò parole:
“Babbo, a cittade io vo, perché la madre
Véggami, e cessi il doloroso pianto,
Che altramente cessar, credo, non puote.
Tu l'infelice forestier la vita
Guìdavi a mendicar: d'un pan, d'un colmo
Nappo non mancherà chi lo consoli:
Nello stato in ch'io sono, a me non lice
Sostener tutti. Monteranne in ira?
Non farà che il suo male. Io dal mio lato
Parlerò sempre con diletto il vero”.
“Amico”, disse allora il saggio Ulisse,
“Partire intendo anch'io. Più che ne' campi,
Nella cittade accattar giova: un frusto
Chi vorrà, porgerammi. In più d'etade
Non sono a rimaner presso le stalle,
E obbedire un padron, checché m'imponga.
Tu vanne: a me quest'uom sarà per guida,
Come tu ingiungi, sol che prima il foco
Mi scaldi alquanto, e più s'innalzi il Sole.
Triste, qual vedi, ho vestimenta, e guardia
Prender degg'io dal mattutino freddo,
Che sul cammin che alla città conduce
Ed è, sento, non breve, offender puommi”.
Telemaco senz'altro in via si pose,
Mutando i passi con prestezza, e mali
Nella sua mente seminando ai proci.
Come fu giunto al ben fondato albergo,
Portò l'asta, e appoggiolla ad una lunga
Colonna, e in casa, la marmorea soglia
Varcando, penetrò. Primiera il vide
La nutrice Euriclèa, che le polite
Pelli stendea su i varïati seggi,
E a lui diritta, lagrimando, accorse:
Poi tutte gli accorrean l'altre d'Ulisse
Fantesche intorno, e tra le braccia stretto
Su le spalle il baciavano e sul capo.
Frattanto uscìa della secreta stanza,
Pari a Dïana e all'aurea Vener pari,
La prudente Penelope, che al caro
Figlio gettò le man, piangendo, al collo,
E la fronte baciògli ed ambo gli occhi
Stellanti; e non restandosi dal pianto:
“Telemaco”, gli disse, “amata luce,
Venisti adunque! Io non credea più i lumi,
Fissare in te, dacché una ratta nave,
Contra ogni mio desir, dietro alla fama
Del genitor furtivamente a Pilo
T'addusse. Parla: quale incontro avesti?”
“Madre, del grave rischio ond'io campai”,
Replicava Telemaco, “il dolore
Non rinnovarmi in petto e lo spavento.
Ma in alto sali con le ancelle: quivi
Lavata e cinta d'una pura veste
Le membra delicate, a tutti i numi
Ecatombe legittime prometti,
Se mi consente il vendicarmi Giove.
Io per un degno forestier, che venne
Meco da Pilo, andrò alla piazza. Innanzi
Co' miei fidi compagni io lo spedii,
E commisi a Pirèo, che in una magione
L'introducesse e fino al mio ritorno
Con onore il trattasse e con affetto”.
Non indarno ei parlò. Lavata e cinta
Di veste pura il delicato corpo,
Penelope d'intègre a tutti i numi
Ecatombe votavasi, ove al figlio
Il vendicarsi consentisse Giove.
Né Telemaco a uscir fuor del palagio
Molto tardò: l'asta gli empiea la mano,
E due bianchi il seguìan cani fedeli.
Stupìa ciascun, mentr'ei mutava il passo:
Tal grazia sovra lui Palla diffuse.
Gli alteri proci stavangli da questo
Lato e da quel, voci parlando amiche,
Ma nel profondo cor fraudi covando.
Se non ch'ei tosto si sciogliea da essi;
E là, dove sedea Mentore, dove
Antifo ed Aliterse, che paterni
Gli eran compagni dalla prima etade,
A posar s'avvïò: quei d'ogni cosa
L'addimandaro. Sopraggiunse intanto
Pirèo, lancia famosa, il qual nel foro
Per la cittade il forestier menava,
A cui s'alzò Telemaco e s'offerse.
E così primo favellò Pirèo:
“Telemaco, farai che al mio soggiorno
Vengan le donne tue per que' superbi
Doni, onde Menelao ti fu cortese”.
E il prudente Telemaco: “Pirèo,
Ignoto è ancor di queste cose il fine.
Se i proci, me secretamente anciso,
Tutto divideransi il mio retaggio,
Prima che alcun di loro, io di que' doni
Vo' che tu goda. E dove io lor dia morte
A me lieto recar li potrai lieto”.
Disse, e guidò nella sua bella casa
L'ospite sventurato. Ivi, deposte
Sovra i troni le clamidi vellute,
Sceser nel bagno: e come astersi ed unti
Per le servili man fûro, e di manto
Vago e di vaga tunica vestiti,
Su i ricchi seggi a collocarsi andaro.
E qui l'ancella da bell'aureo vaso
Purissim'acqua nel bacil d'argento
Versava, e stendea loro un liscio desco,
Su cui la saggia dispensiera i bianchi
Pani venne ad imporre, e non già poche
Delle dapi non fresche, ond'è custode.
Penelope sedea di fronte al caro
Figlio, e non lungi dalle porte; e fini
Velli purpurei, a una polita sede
Poggiandosi, torcea. Que' due la destra
Stendeano ai cibi: nè fu pria repressa
La fame loro, e la lor sete spenta,
Che in tai voci la madre i labbri apriva:
“Io, figlio, premerò, salita in alto,
Quel che divenne a me lugubre letto
Dappoi che Ulisse inalberò le vele
Co' figliuoli d'Atrèo; lugubre letto,
Ch'io da quel giorno del mio pianto aspergo.
Non vorrai dunque tu, prima che i proci
Entrino alla magion, dirmi, se nulla
Del ritorno del padre udir t'avvenne?”
E il prudente Telemaco a rincontro:
“Madre, il tutto io dirò. Pilo trovammo
Ed il pastor de' popoli Nestorre.
Qual padre accoglie con carezze un figlio
Dopo lunga stagion d'altronde giunto,
Tal me in sua reggia e tra l'illustre prole,
La bianca testa di Nestorre accolse.
Ma diceami, che nulla udì d'Ulisse,
O vivo fosse, o fatto polve ed ombra.
Quindi al pugnace Menelao mandommi
Con buon cocchio e destrieri; ed io là vidi
L'argiva Elèna, per cui Teucri e Greci,
Così piacque agli dèi, tanto sudâro.
Il bellicoso Menelao repente
Chiedeami, qual bisogno alla divina
Sparta m'avesse addotto. Io non gli tacqui
Nulla, e l'Atride: "Ohimè! d'un eroe dunque
Volean giacer nel letto uomini imbelli?
Siccome allor che malaccorta cerva,
I cerbiatti suoi teneri e lattanti
Deposti in tana di leon feroce,
Cerca, pascendo, i gioghi erti e l'erbose
Valli profonde: e quello alla sua cava
Riede frattanto e cruda morte ai figli
Porta, e alla madre ancor: non altrimenti
Porterà cruda morte ai proci Ulisse.
Ed oh piacesse a Giove, a Febo e a Palla,
Che qual si levò un dì contra l'altero
Filomelìde nella forte Lesbo,
E tra le lodi degli Achivi a terra
Con mano invitta, lotteggiando, il pose,
Tal costoro affrontasse! Amare nozze
Foran le loro, e la lor vita un punto.
Quanto alla tua domanda", il re soggiunse,
"Ciò raccontarti senza fraude intendo
Che un oracol verace, il marin vecchio
Proteo, svelommi. Asseverava il nume
Che molte e molte lagrime dagli occhi
Spargere il vide in solitario scoglio,
Soggiorno di Calipso, inclita ninfa,
Che rimandarlo niega; ond'ei, cui solo
Non avanza un naviglio, e non compagni
Che il careggin del mar su l'ampio dorso,
Star gli convien della sua patria in bando".
Ciò in Isparta raccolto, io ne partii:
E un vento in poppa m'inviâro i numi,
Che rattissimo ad Itaca mi spinse.
Con tai voci Telemaco alla madre
L'anima in petto scompigliava. Insorse
Teoclimèno allora: “O veneranda
Della gran prole di Laerte donna,
Tutto ei già non conobbe. Odi i miei detti:
Vero e intégro sarà l'oracol mio.
Primo tra i numi in testimonio Giove
E la mensa ospital chiamo ed il sacro
Del grande Ulisse limitar, cui venni:
Lo sposo tuo nella sua patria terra
Siede o cammina, le male opre ascolta,
E morte a tutti gli orgogliosi proci
Nella sua mente sémina. Mel disse
Chiaro dal cielo un volator, ch'io scôrsi,
E al tuo figlio mostrai, sedendo in nave”.
E la saggia Penelope: “Deh questo,
Ospite, accada! Tali e tanti avresti
Del mio sincero amor pegni, che ognuno
Ti chiamerìa, scontrandoti, beato”.
Mentre così parlando, e rispondendo
Di dentro ivan la madre, il figlio e il vate,
Gli alteri proci alla magion davante
Dischi lanciavan per diletto, e dardi
Sul pavimento lavorato e terso,
Della baldanza lor solito arringo.
Ma giunta l'ora della mensa, e addotte
Le vittime da tutti intorno i campi,
Medonte, che nel genio ai proci dava
Più che altro in fra gli araldi e ai lor banchetti
Sempre assistea: “Giovani”, disse, “quando
Godeste omai de' giochi, entrar v'aggradi,
Sì che il convivio s'imbandisca. Ingrata
Cosa non parmi il convivare al tempo”.
Sursero immantinente, ed alle voci
Del banditor non repugnaro. Entrati,
Deposer su le sedie i manti loro.
Pingui capre scannavansi e più grandi
Montoni e grossi porci e una buessa
Di branco; e il prandio s'apprestava. E intanto
Dai campi alla cittade andar d'un passo
Preparavansi Ulisse ed il pastore.
Pria favellava Eumèo d'uomini capo:
“Stranier, se il mio piacere io far potessi,
Tu delle stalle rimarresti a guardia.
Ma poiché partir brami, e ció pur vuolsi
Dal mio signor, le cui rampogne io temo,
Però che gravi son l'ire de' grandi,
Moviam: già vedi che scemato è il giorno,
E infredderà più l'aere in ver la sera”.
“Tai cose ad uom, che non le ignora, insegni”,
Ripigliò il Laerzìade. “Ebben, muoviamo:
Ma vammi innanzi, e da', se da una pianta
Il recidesti, un forte legno, a cui
Per la via, che malvagia odo, io mi regga”.
Disse, e agli omeri suoi per una torta
Corda il suo rotto e vil zaino sospese,
E il bramato baston porsegli Eumèo.
Quindi le stalle abbandonar, di cui
Rimaneano i famigli a guardia e i cani.
Così vêr la città, sotto le forme
D'un infelice mendicante e vecchio,
E curvo sul bastone e con le membra
Nelle vesti più turpi, il suo re stesso
L'amoroso pastore allor guidava.
Già, vinto il sentiero aspro, alla cittade
Si fean vicini, ed apparìa la bella,
Donde attignea ciascun, fonte artefatta,
Che una pura tra l'erbe onda volvea.
Construsserla tre regi: Itaco prima,
Poi Nerito e Polittore. Rotondo
D'alni acquidosi la cerchiava un bosco.
Fredda cadea l'onda da un sasso, e sovra
Un altar vi sorgea sacro alle Ninfe
Dove offria preci il vïandante e doni.
Qui di Dolio il figliuol, Melanzio, in loro
S'incontrò: conducea le capre, il fiore
Del gregge, ai proci; e il seguìan due pastori.
Li vide appena che bravolli, e indegne
Saettò in loro e temerarie voci,
Che tutto commovean d'Ulisse il core.
“Or sì”, dicea, “che un tristo a un tristo è guida.
Giove li forma, indi gli accoppia. Dove
Meni tu quel ghiottone, o buon porcaio,
Quel mendìco importuno, e delle mense
Pêste che a molte signorili porte
Logorerassi gli omeri, di pane
Frusti chiedendo, non treppiedi o conche?
Se tu le stalle a custodir mel dessi,
E a purgarmi la corte, e a' miei capretti
La frasca molle ad arrecar, di solo
Bevuto siere ingrosserìa ne' fianchi.
Ma poiché solo alle tristi opre intese,
Travagliar non vorrà; vorrà più presto,
Di porta in porta domandando, un ventre
Pascere insazïabile. Ma senti
Cosa che certo avvenir dee. Se all'alta
Magion s'accosterà del grande Ulisse,
Molti sgabelli di man d'uom lanciati
Alla sua testa voleranno intorno,
E le coste trarrànnogli di loco”.
Ciò disse ed appressollo, e nella coscia
Gli dièe'd'un calcio, come stolto ch'era,
Nè dalla via punto lo mosse: fermo
Restava Ulisse e in sé volgea, se l'alma
Col nodoso baston tôrgli dovesse,
O in alto sollevarlo, e su la nuda
Terra gettarlo capovolto. Ei l'ira
Contenne e sopportò. Se non ch'Eumèo
Al caprar si converse e improverollo,
E, levate le man, molto pregava:
“O belle figlie dell'Egioco, Ninfe
Nàiadi, se il mio re v'arse giammai
D'agnelli e di capretti i pingui lombi,
Empiete il voto mio. Rieda, ed un nume
La via gli mostri. Ti cadrìa, capraio,
Quella superbia dalle ardite ciglia,
Con cui vieni oltraggioso e sì frequente
Dai campi alla città. Quindi per colpa
De' cattivi pastori a mal va il gregge”.
“Oh oh”, Melanzio ripigliò di botto,
Che mi latra oggi quello scaltro cane,
Che un giorno io spedirò sovra una bruna
Nave dalla serena Itaca lunge,
Perché a me in copia vettovaglia trovi?
Così il dio dal sonante arco d'argento
Telemaco uccidesse oggi, o dai proci
Domo fosse il garzon, come ad Ulisse
Non sorgerà della tornata il giorno!”
Ciò detto, ivi lasciolli ambo, che lento
Moveano il piede, e, suo cammin seguendo,
D'Ulisse alla magion ratto pervenne.
Subito entrava, e s'assidea tra i proci
Di rimpetto ad Eurimaco, che tutto
Era il suo amore; né i donzelli accorti,
E la solerte dispensiera, innanzi
Un solo istante s'indugiâro a porgli
Quei parte delle carni, e i pani questa.
Ulisse ed il pastore al regio albergo
Giungeano intanto. S'arrestaro, udita
L'armonia dolce della cava cetra:
Ché l'usata canzon Femio intonava.
Tale ad Eumèo, che per man prese, allora
Favellò il Laerzìade: “Eumèo, d'Ulisse
La bella casa ecco per certo. Fôra,
Cinto il cortile e di steccati, doppie
Sono e salde le porte. Or chi espugnarla
Potrìa? Gran prandio vi si tiene, io credo:
Poiché l'odor delle vivande sale,
E risuona la cetera, cui fida
Voller compagna de' conviti i numi”.
E tu cosi gli rispondesti Eumèo:
“Facile a te, che lunge mai dal segno
Non vai, fu il riconoscerla. Su via,
Ciò pensiam che dee farsi. O tu primiero
Entra e ai proci ti mesci, ed io qui resto;
O tu rimani, e metterommi io dentro.
Ma troppo a bada non istar: ché forse,
Te veggendo di fuor, potrebbe alcuno
Percuoterti o scacciarti. Il tutto pesa”.
“Quel veggio anch'io, che alla tua mente splende”,
Gli replicava il pazïente Ulisse.
“Dentro mettiti adunque: io rimarrommi.
Nuovo ai colpi non sono e alle ferite,
E la costanza m'insegnâro i molti
Tra l'armi e in mar danni sofferti, a cui
Questo s'aggiungerà. Tanto comanda
La forza invitta dell'ingordo ventre,
Per cui cotante l'uom dura fatiche,
E navi arma talor, che guerra altrui
Dell'infecondo mar portan su i campi”.
Così dicean tra lor, quando Argo, il cane,
Ch'ivi giacea, del pazïente Ulisse
La testa ed ambo sollevò gli orecchi.
Nutrillo un giorno di sua man l'eroe,
Ma côrne, spinto dal suo fato a Troia,
Poco frutto poté. Bensì condurlo
Contro i lepri ed i cervi e le silvestri
Capre solea la gioventù robusta.
Negletto allor giacea nel molto fimo
Di muli e buoi sparso alle porte innanzi,
Finché i poderi a fecondar d'Ulisse,
Nel togliessero i servi. Ivi il buon cane,
Di turpi zecche pien, corcato stava.
Com'egli vide il suo signor più presso,
E benché tra que' cenci, il riconobbe,
Squassò la coda festeggiando, ed ambe
Le orecchie, che drizzate avea da prima,
Cader lasciò: ma incontro al suo signore
Muover, siccome un dì, gli fu disdetto.
Ulisse, riguardatolo, s'asterse
Con man furtiva dalla guancia il pianto,
Celandosi da Eumèo, cui disse tosto:
“Eumèo, quale stupor! Nel fimo giace
Cotesto, che a me par cane sì bello.
Ma non so se del pari ei fu veloce,
O nulla valse, come quei da mensa,
Cui nutron per bellezza i lor padroni”.
E tu così gli rispondesti, Eumèo:
“Del mio re lungi morto è questo il cane.
Se tal fosse di corpo e d'atti, quale
Lasciollo, a Troia veleggiando, Ulisse,
Sì veloce a vederlo e sì gagliardo
Gran maraviglia ne trarresti: fiera
Non adocchiava, che del folto bosco
Gli fuggisse nel fondo, e la cui traccia
Perdesse mai. Or l'infortunio ei sente.
Perì d'Itaca lunge il suo padrone,
Nè più curan di lui le pigre ancelle;
Ché pochi dì stanno in cervello i servi,
Quando il padrone lor più non impera.
L'onniveggente di Saturno figlio
Mezza toglie ad un uom la sua virtude,
Come sopra gli giunga il dì servile”.
Ciò detto, il piè nel sontuoso albergo
Mise, e avvïossi drittamente ai proci;
Ed Argo, il fido can, poscia che visto
Ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse,
Gli occhi nel sonno della morte chiuse.
Ma l'egregio Telemaco fu il primo
Che scorgesse il pastor nella superba
Sala passato; e a sé il chiamò d'un cenno.
Ed ei, rivolto d'ogni intorno il guardo,
Levò uno scanno ivi giacente, dove
Seder solea lo scalco, e le infinite
Carni partire ai banchettanti proci.
Levollo, ed a Telemaco di contra
Il piantò presso il desco, e vi s'assise;
E delle carni a lui pose davanti
Lo scalco, e pani dal canestro tolti.
Ulisse ivi a non molto anch'egli entrava
Simil ne' cenci e nel baston nodoso,
Su cui piegava il tergo, a un infelice
Paltonier d'anni carco. Entrato appena,
Sopra il frassìneo limitar sedea,
Con le spalle appoggiandosi ad un saldo
Stipite cipressin, cui già perito
Fabbro alzò a piombo e ripolì con arte.
Telemaco il pastor chiama, e, togliendo
Quanto avea pane il bel canestro, e quanta
Carne nelle sue man capìr potea:
“Questo”, gli dice, “all'ospite tu reca.
E gli comanda che a ciascun de' proci
S'accosti mendicando. A cui nel fondo
Dell'inopia cascò, nuoce il pudore”.
Andò il pastor repente, e, allo straniero
Soffermandosi in faccia: “Ospite, disse
Ciò ti manda Telemaco, e t'ingiunge
Che mendicando ti presenti a ognuno
De' proci in giro. "A cui nel fondo", ei dice,
"Dell'inopia cascò, nuoce il pudore"”.
E il Laerzïade rispondea: Re Giove,
Telemaco dal ciel con occhio guarda
Benigno sì, ch'ei nulla brami indarno”.
Detto ciò solo, prese ad ambe mani
Ulisse il tutto, e colà innanzi ai piedi
Su la bisaccia ignobile sel pose.
Finché il divin Demodoco cantava,
Cibavasi l'uom saggio; al tempo stesso
L'un dal cibo cessò, l'altro dal canto.
Strepitavano i proci entro la sala:
Ma Palla, al figlio di Laerte apparsa
L'esortò i pani ad accattar dai proci,
Tastando chi più asconda o men tristezza,
Benché a tutti la dea scempio destini.
Ei volse a destra, e ad accattar da tutti
Gìa, stendendo la man, come se mai
Esercitato non avesse altr'arte.
Mossi a pietade il soccorreano e forte
Stupìano, e domandavansi a vicenda
Chi fosse e d'onde il forestier venisse.
E qui Melanzio: “Udite, o dell'illustre
Penelope, dicea vagheggiatori.
L'ospite io vidi, a cui la via mostrava
De' porci il guardïan: ma da qual chiara
Stirpe disceso egli si vanti, ignoro”.
“Guardïan famosissimo”, Antinòo
Così Eumèo rimbrottò, “perché costui
Guidasti alla città? Ci mancan forse
Vagabondanti paltonieri infesti,
Delle mense flagello? O che d'Ulisse
Qui si nutra ciascun, poco ti cale,
Che questo ancor, donde io non so, chiamasti?”
E tal risposta tu gli fésti, Eumèo:
“Prode, Antinoo, sei tu, ma ben non parli.
Chi un forestiero a invitar mai d'altronde
Va, dove tal non sia che al mondo giovi,
Come profeta, o sanator di morbi,
O fabbro industre in legno, o nobil vate,
Che le nostr'alme di dolcezza innondi?
Questi invìtansi ognor, non un mendìco
Che ci consumi, e non diletti, o serva.
Ma tu i ministri del mio re lontano
Più che ogni altro de' proci, e de' ministri
Me più, che ogni altro, tormentar non cessi.
Non men curo io però, finché la saggia
Penelope e Telemaco deiforme
Vivono a me nella magion d'Ulisse”.
Ma Telemaco a lui: “Taci, parole
Non cangiar molte con Antinoo. È usanza
Di costui l'assalir con aspri detti
Chi non l'offende, e incitar gli altri ancora”.
Poi, converso a quel tristo: “In ver, soggiunse,
Cura di me, qual padre, Antinoo, prendi,
Tu che l'ospite vuoi sì duramente
Quinci sbandire. Ah nol consenta Giove!
Dagline: io, non che oppormi, anzi l'esigo.
La madre d'annoiare, o alcun de' servi
Del padre mio, tu non temer per questo.
Ma cosa tal non è da te, cui solo
La propria gola soddisfar talenta”.
“O alto di favella e d'alma indómo”,
D'Eupite disse incontanente il figlio,
“Che parlasti, Telemaco? Se i proci
Quel don, ch'io serbo a lui, gli fesser tutti
Starsi almeno ei dovrìa tre lune in casa
Da noi lontano”. E lo sgabello preso,
Su cui tenea beendo i molli piedi,
Alto in aria il mostrò. Gli altri cortesi
Gli eran pur d'alcun che, sì ch'ei trovossi
Di carni e pani la bisaccia colma.
Mentre alla soglia, degli Achivi i doni
Per gustar, ritornava, ad Antinòo
Si fermò innanzi e disse: “Amico, nulla
Dunque mi porgi? degli Achivi il primo
Mi sembri, come quei che a re somiglia.
Quindi più ancor che agli altri, a te s'addice
Largo mostrarti: io le tue lodi, il giuro,
Per tutta spargerò l'immensa terra.
Tempo già fu ch'io, di te al par felice,
Belle case abitava, e ad un ramingo,
Qual fosse e in quale stato a me venisse,
Del mio largìa: molti avea servi, e nulla
Di ciò fallìami, onde gioiscon quelli
Che ricchi e fortunati il mondo chiama.
Giove, il perché ei ne sa, strugger mi volle,
Ei, che in Egitto, per mio mal, mi spinse
Con ladroni moltivaghi; vïaggio
Lungo e funesto. Nell'Egitto fiume
Fermai le ratte navi, ed ai compagni
Restarne a guardia ingiunsi, e quell'ignota
Terra ire alcuni ad esplorar dall'alto.
Ma questi da un ardir folle e da un cieco
Desìo portati, a saccheggiar le belle
Campagne degli Egizî, a via menarne
Le donne e i figli non parlanti, i grami
Coltivatori a uccidere. Volonne
Tosto il rumore alla città: né prima
L'Alba s'imporporò, che i cittadini
Vennero, e pieno di cavalli e fanti
Fu tutto il campo, e del fulgor dell'armi
Cotale allora il Fulminante pose
Desir di fuga de' compagni in petto,
Che un sol far testa non osava: uccisi
Fur parte e parte presi, e ad opre dure
Sforzati; e ovunque rivolgeansi gli occhi,
Un disastro apparìa. Me consegnâro
A Demetore Iaside, che in quelle
Parti era giunto, e dominava in Cipro,
Dond'io carco di mali al fin qua venni”.
E di nuovo così d'Eupìte il figlio:
“Qual Genio avverso una sì fatta lue,
Le nostre mense a conturbar, ci addusse?
Tienti nel mezzo, e dal mio desco lunge,
Se un altro Egitto amaro e un'altra Cipro
Trovar non brami in Itaca. Io mendìco
Mai non conobbi più impudente e audace.
T'offri a ciascun l'un dopo l'altro, e allarga
Ciascun per te la man senza consiglio:
Ché rotto cade ogni ritegno, dove
Regna la copia, e dell'altrui si dona”.
“Poh!” replicava il Laerzìade, indietro
Ritirandosi alquanto, “alla sembianza
Poco l'animo adunque in te risponde.
Chi mai creder potrìa che pur di sale
A supplicante tu daresti un grano
Dalla tua mensa, tu che un frusto darmi
Dall'altrui non sapesti, e così ricca?”
Montò Antinoo in più furia, e, torve in lui
Fissando le pupille: “Ora io non penso
Che uscirai quinci con le membra sane,
Poscia che all'onte ne venisti”. Disse,
E afferrò lo sgabello, ed avventollo,
E in sulla punta della destra spalla
Percosse il forestiero. Ulisse fermo
Stette qual rupe, né d'Antìnoo il colpo
Smòsselo: bensì tacito la testa
Crollò, agitando la vendetta in core.
Indi sul limitar sedea di nuovo,
Deposto il zaino tutto pieno, e ai proci
Favellava così: “Competitori
Dell'illustre Reina: udir vi piaccia
Ciò che il cor dirvi mi comanda. Dove
Pe' campi, per la greggia o per l'armento
Pugnando è l'uom ferito, il porta in pace.
Me, per la trista ed importuna fame,
Gran fonte di disastri, Antìnoo offese.
Ma se ha prôpizî dèi, se ha Furie ultrìci,
Chi non ha nulla, della morte il giorno
Pria che quel delle nozze, Antìnoo colga”.
E d'Eupìte il figliuol: “Tranquillo e assiso,
Cibati, o forestiere, o quinci sgombra
Acciò gli schiavi, poiché si favelli,
Per li piedi e le man te del palagio
Non traggan fuori, e tu ne vada in pezzi”.
Tutti d'ira s'accesero, ed alcuno;
“Mal”, disse, “festi, Eupìtide, un tapino
Vïandante a ferir. Sciaurato! S'egli
Degli abitanti dell'Olimpo fosse?
Spesso d'estrano pellegrino in forma
Per le cittadi si raggira un nume,
Vestendo ogni sembianza, e alle malvage
De' mortali opre ed alle giuste guarda”.
Tai voci Antìnoo dispregiava. Intanto
Della percossa rea gran duol nel petto
Telemaco nodrìa. Non però a terra
Dalle ciglia una lagrima gli cadde.
Sol crollò anch'ei tacitamente il capo,
Ruminando nel cor l'alta vendetta.
Ma la saggia Penelope, cui giunse
L'annunzio in alto dell'indegno colpo,
Tra le ancelle proruppe in questi accenti:
“Deh così lui d'un de' suoi dardi il nume
Dal famoso d'argento arco ferisca!”
Ed Eurìnome a lei: “Se gl'Immortali
Fesser pieni i miei voti, a un sol de' proci
Non mostrerìasi la nuov'alba in cielo”.
“Nutrice mia”, Penelope riprese,
“Mi spiaccion tutti, perché tutti ingiusti:
Ma del par che la morte Antìnoo abborro.
Move per casa un ospite infelice
Dalla sua fame a mendicar costretto.
Ciascun gli dà, tal ch'ei n'ha il zaino colmo;
E d'Eupite il figliuol d'uno sgabello
Nella punta dell'òmero il percuote”.
Cotesti accenti tra le ancelle assisa
Liberò dalle labbra; e in quella Ulisse
il suo prandio compiea. Ma la Regina,
Eumèo chiamato a sè: “Va, gli dicea,
De' pastori il più egregio, ed a me invia
Quel forestiere, onde in colloquio io seco
Mi restringa, e richiedagli, se mai
D'Ulisse udì, se il vide mai con gli occhi.
Ei, che di gran vïaggi uom mi rassembra”.
E tu così le rispondesti, Eumèo:
“Oh volesser gli Achei per te, regina,
Tacersi alcuni istanti! Ei tal favella,
Che somma in cor ti verserìa dolcezza.
Io tre giorni appo me l'ebbi e tre notti;
Che fuggito era da un'odiata nave:
Né però tutti mi narrò i suoi guai.
Qual racceso dai numi illustre vate
Voce sì grata agli ascoltanti innalza,
Che l'orecchio, fissando in lui le ciglia,
Se dal canto riman, tendono ancora:
Tal mi beava nella mia capanna.
Dissemi che di padre in figlio a Ulisse
Dell'ospitalità stringealo il nodo;
Che nativo di Creta era, del grande
Minosse culla; e che di là, cadendo
D'un mal sempre nell'altro, a' tuoi ginocchi
Venìa di gramo supplicante in atto.
M'affermò che d'Ulisse avea tra i ricchi
Tesproti udito, che vive anco, e molti
All'avìta magion tesori adduce”.
La prudente Penelope a rincontro:
“Vanne ed a me l'invia, sì ch'io l'ascolti.
Gli altri o fuor delle porte o nel palagio
Trastullin pur, poscia che han lieto il core.
Crescono i monti delle lor sostanze,
Di cui solo una parte i servi loro
Toccano; ed essi qui l'intero giorno
Banchettan lautamente, e il fior del gregge
Struggendo e dell'armento, e le ricolme
Della miglior vendemmia urne votândo,
Fanno una strage: né v'ha un altro Ulisse,
Che atto a fermarla sia. Ma l'eroe giunge,
E piena con Telemaco di tanti
Barbari oltraggi prenderà vendetta”.
Finito non avea, che il figlio ruppe
In un alto starnuto, onde la casa
Risonò tutta. La Regina rise,
E: “Va, disse ad Eumèo, corri, e il mendìco
Mandami. Starnutare alle mie voci
Non udisti Telemaco? Maturo
De' proci è il fato, né alcun fia che scampi.
Ciò senti ancora, e in mente il serba. Quando
Verace in tutto ei mi rïesca, i cenci
Gli cangerò di botto in vesti belle”.
Corse il fido pastore, e allo straniero,
Standogli presso: “Ospite padre, disse,
Te la saggia Penelope, la madre
Di Telemaco vuole: il cor la spinge
D'Ulisse a ricercar, benché sol dato
Le abbian sin qui le sue ricerche duolo.
Quando verace ti conosca, i cenci
Ti cangerà di botto in vesti belle:
Cibo non mancherà chi ti largisca,
Se tu l'andrai per la città chiedendo”.
“Eumèo”, rispose il pazïente Ulisse,
“Alla figlia d'Icario, alla prudente
Penelope, da me nulla del vero
Si celerà. So le vicende appieno
D'Ulisse, con cui sorte io m'ebbi eguale:
Ma la turba difficile de' proci,
Di cui del ciel sino alla ferrea volta
Monta l'audace tracotanza, io temo.
Pur testé, mentr'io gìa lungo la sala,
Nulla oprando di mal, percosso io fui;
E non prevenne il doloroso insulto
Telemaco, non che altri. Il sol cadente
Ad aspettar nelle sue stanze adunque
Tu la conforta. Mi domandi allora
Del ritorno d'Ulisse innanzi al foco:
Poiché il vestito mio mal mi difende.
Tu il sai, cui prima supplicante io venni”.
Diè volta, udito questo, il buon pastore;
E Penelope a lui, che già la soglia
Col piè varcava: “Non mel guidi, Eumèo?
Che pensa il forestier? Tema de' proci,
O vergogna di sé, forse occupollo?
Guai quel mendico cui ritien vergogna!”
Ma tu così le rispondesti, Eumèo:
“Ei, come altri farebbe in pari stato,
De' superbi schivar l'onte desìa.
Bensì t'esorta sostener, Regina,
Finché il dì cada. Cosi meglio voi
Potrete ragionar, sola con solo”.
“Gran senno in lui, chïunque sia, dimora”,
Ella riprese: “ché sì audaci e ingiusti
Non ha l'intero mondo uomini altrove”.
Eumèo ritornò ai proci, e di Telemaco
Parlando, onde altri non potesse udirlo,
All'orecchia vicin: “Caro”, gli disse,
“Le mandre, tua ricchezza e mio sostegno,
A custodire io vo'. Tu su le cose
Qui veglia, e più sovra te stesso, e pensa
Che i giorni passi tra una gente ostile,
Cui, prima ch'ella noi, Giove disperda”.
“Sì, babbo mio”, Telemaco rispose.
“Parti, ma dopo il cibo, e al dì novello
Torna e vittime pingui adduci teco”.
Tacque; ed Eumèo sovra il polito scanno
Novamente sedea. Cibato, ai campi
Ire affrettossi, gli steccati addietro
Lasciando e la magion d'uomini piena
Gozzoviglianti, cui piacere il ballo
Era e il canto piacer, mentre spiegava
L'ali sue nere sovra lor la notte.
LIBRO DICIOTTESIMO
Un accattante pubblico sorvenne,
Di mendicar per la cittade usato,
Famoso vorator, che mai non disse
Per molto cibo, e per vin molto: “Basta!”
E gigante a vederlo, ancor che poco
Di forza e cuore in sì gran corpo fosse.
Egli avea nome Arnèo: così chiamollo,
Nel dì che nacque, la diletta madre.
Ma dai giovani tutti Iro nomato
Era, come colui che le imbasciate
Portar solea, qual gliene desse il carco.
Giunto fu appena, che scacciava Ulisse
Dalla sua casa, ed il mordea co' detti:
“Vecchio, via dal vestibolo, se vuoi
Ch'io non ti tragga fuor per un de' piedi,
Non vedi l'ammiccar, perch'io ti tragga,
Di tutti a me? Pur m'arrossisco, e stommi.
Ma lèvati, o alle prese io con te vegno”.
Bieco Ulisse guatollo, e: “Sciagurato”,
Rispose, “in opra io non t'offendo o in voce,
Né che alcuno a te doni, anco a man piene,
T'invidio io punto. Questa soglia entrambi
Ci capirà. Tu non dovresti noia
Del mio bene sentir, tu, che un mendico
Mi sembri al par di me. Dispensatori
Delle ricchezze all'uom sono i celesti.
Invitarmi a pugnar non ti consiglio,
Onde infiammato, benché vecchio, d'ira
Le labbra io non t'insanguini ed il petto.
Più assai tranquillo io ne sarei domane:
Ché alla magion del figlio di Laerte
Ritorno far tu non potresti, io credo”.
“Poh”, sdegnato il pezzente Iro riprese,
“Più volubili i detti a questo ghiotto
Corrono e ratti più, che non a vecchia
Che sempre al focolar s'aggira intorno.
S'io queste man pongogli addosso, tutti
Dalle mascelle, come a ingordo porco
Entrato fra le biade, i denti io schianto.
Or bene, un cinto senza più ti copra,
E questi ci conoscano alla pugna
Che tosto avremo. Io veder voglio, come
Con uom combatterai tanto più verde”.
Così sul liscio limitar dell'alte
Porte garrìan d'ingiurïosi motti.
Avvisossene Antinoo, e, dolcemente
Ridendo, sciolse tai parole: “Amici,
Nulla di sì giocondo a questi alberghi
Gli abitator dell'etra unqua mandaro.
Si bisticcian tra lor l'ospite ed Iro,
E già le man frammischiano. Su via,
Meglio alla zuffa raccendiamli ancora”.
Tutti s'alzâro, nelle risa dando,
E ai due straccioni s'affollâro intorno.
Ed Antinoo così: “Nobili proci,
Sentite un pensier mio. Di que' ventrigli
Di capre, che di sangue e grasso empiuti
Sul foco stan per la futura cena
Scelga qual più vorrà chi vince, e quindi
D'ogni nostro convito a parte sia;
Né più tra noi s'aggiri altro cencioso”.
Ciò piacque a tutti. Ma l'accorto eroe,
Cui non fallìan le astuzie: “Amici disse,
Ad uom dagli anni e dai disastri rotto
Con giovane pugnar non parmi bello.
E pur botte a ricevere, e ferite
La rea mi spinge imperïosa fame.
Ma voi giurate almen che nessuno, Iro
Per favorir, me della man gagliarda
Percuoterà, male adoprando: troppo
Mi tornerebbe allor duro il cimento”.
Giurâro. E di Telemaco in tal guisa
La sacra possa favellò: “Straniero,
Di respinger costui ti detta il core?
Respingilo: né alcun temer de' proci.
Chi t'oserà percuotere, con molti
A combattere avrà. Gli ospiti io curo,
E tal favella non condannan certo
Eurimaco ed Antinoo, ambo prudenti”.
Disse, e ciascuno approvò il detto. Ulisse
Si spogliò tutto, e de' suoi panni un cinto
Formossi, e nudi i lati omeri, nudo
Mostrò il gran petto e le robuste braccia
E i magni fianchi discoprì: Minerva,
Che per lui scese dall'Olimpo, tutte
De' popoli al pastor le membra crebbe.
Stupîro i proci fieramente, e alcuno
Così dicea, volgendosi al vicino:
“Iro, già non più Iro, in su la testa
S'avrà tratto egli stesso il suo malanno;
Tai fianchi ostenta e tali braccia il veglio!”
A queste voci malamente d'Iro
L'animo commoveasi. E non pertanto
Col cinto ai lombi e pallido la faccia,
Gli schiavi a forza il conducean: su l'ossa
Tremavangli le carni. Antinoo allora
Prendealo a rimbrottar: “Millantatore,
Perché or non muori, o a che nascesti un giorno,
Tu, che sì temi e tremi, uom dagli affanni,
Non men che dall'età, snervato e domo?
Ma odi quel che di te fia. Se a terra
Con vincitrice man colui ti mette,
Io te gettato in una ratta nave
Manderò nell'Epiro al rege Echeto,
Flagello de' mortali, il qual ti mozzi
Gli orecchi e il naso con acerbo ferro,
E, da stracciarsi crudi, a un can vorace
Butti gli svelti genitali in preda”.
Un tremor gli entrò in corpo ancor più forte:
Ma il condusser nel mezzo. I due campioni
Le mani alzâro: dubitava Ulisse,
Se del pugno così dar gli dovesse,
Che lui caduto abbandonasse l'alma,
O atterrarlo, e non più, con minor colpo.
Questo partito scelse, onde agli Achivi
Celarsi meglio. Iro la destra spalla
Ad Ulisse colpì, ma Ulisse in guisa
Sotto l'orecchia l'investì nel collo,
Che l'ossa fracassògli: uscìagli il rosso
Sangue fuor per la bocca; ed ei mugghiando
Cascò, digrignò i denti, e il pavimento
Calcitrando batté. Gli amanti a quella
Vista, levate le lor braccia in alto,
Scoppiavan delle risa. Intanto Ulisse,
L'un de' piedi afferratogli, il traea
Pel vestibolo fuor sino alla corte,
E all'entrata del portico. Ciò fatto,
Col dosso al muro l'appoggiò, gli pose
Bastone in mano e: “Qui”, gli disse, “or siedi.
E scaccia dal palagio i cani e i ciacchi,
Né più arrogarti, così vil qual sei
Su gli ospiti dominio e su i mendichi:
Ché un'altra volta non t'incontri peggio”.
Così dicendo, si gittava intorno
Alle spalle il suo zaino, e al limitare
Ritornava, e sedeavi. Rientraro
Con dolce riso in su le labbra i proci,
Ed a lui blande rivolgean parole:
“Ospite, Giove a te con gli altri numi
Quanto più brami, e t'è più caro, invii,
A te, che la città smorbasti a un tratto
Di questo insazïabile accattone,
Che ad Echeto, degli uomini flagello,
Tra poco andrà su gli Epiroti lidi”.
Così parlâro; e dell'augurio Ulisse
Godea nell'alma, e Antinoo un gran ventriglio
Di sangue e di pinguedine ripieno
Gli recò innanzi. Ma il valente Anfinomo
Due presentògli dal canestro tolti
Candidissimi pani, e, propinando
Con aurea tazza: “Salve”, disse, “o padre,
Forestier, salve: se infelice or vivi,
Lieti scórranti almeno i dì futuri”.
“Anfinomo”, l'eroe scaltro rispose,
“D'intendimento e di ragion dotato
Mi sembri, e in questo tu ritrai dal padre,
Da Niso Dulichiense, ond'io la fama
Sonare udìa, buono del par che ricco,
Da cui diconti nato; e fede ancora
Ne fa il tuo senno e le parole e gli atti.
A te dunque io favello, e tu i miei detti
Ricevi, e serba in te. Sai tu di quanto
Spira e passeggia su la terra o serpe,
Ciò che al mondo havvi di più infermo? È l'uomo.
Finché stato felice i dèi gli dánno,
E il suo ginocchio di vigor fiorisce,
Non crede che venir debbagli sopra
L'infortunio giammai. Sopra gli viene?
Con repugnante alma indegnata il soffre:
Ché quali i giorni son, che foschi o chiari,
De' mortali il gran padre e de' celesti
D'alto gli manda, tal dell'uomo è il core.
Vissi anch'io vita fortunata e illustre,
E, secondando la mia forza, e troppo
Nel genitor fidando e ne' germani,
Non giuste, vaglia il vero, opre io commisi.
Ma ciascuno a ben far dee per l'ingegno,
E quel, che dai numi ha, fruir tranquillo:
Né costoro imitar, che iniquamente
Struggono i beni, e la pudica donna
Oltraggian d'un eroe, che lungo tempo
Dalla sua patria e dagli amici, io credo,
Lontano ancor non rimarrà; che a questi
Luoghi anzi è assai vicino. Al tuo ricetto
Quindi possa guidarti un dio pietoso,
E torti agli occhi suoi, com'egli appaia:
Poiché decisa senza molto sangue
Messo ch'egli abbia in sua magione il piede,
Non fia tra i proci e lui l'alta contesa”.
Libò, ciò detto, e accostò ai labbri il nappo,
E tornollo ad Anfinomo. Costui
Per la sala iva, conturbato il core,
E squassando la testa, ed il suo male
Divinando, ma invan: fuggir non puote,
Legato anch'ei da Palla, onde cadesse
Per l'asta di Telemaco. Nel seggio,
Donde sorto era, si ripose intanto.
Ma d'Icario alla figlia, alla prudente
Penelope, la dea dai glauchi lumi
Spirò il disegno di mostrarsi ai proci,
Perché lor s'allargasse il core in petto
Di nuova speme, ed in onor più grande
Presso il consorte e il figlio ella salisse.
Diede, né ben sa come, in un gran riso,
E tai detti formò: “Sento un desire
Non pria sentito di mostrarmi ai proci,
Eurinome, bench'io tutti gli abborra.
Utile avviso in lor presenza io bramo
A Telemaco dare, il qual troppo usa
Con que' superbi giovani, che accenti
Ti drizzan blandi, e insidianti da tergo”.
“Saggio è il consiglio”, Eurinome rispose.
“Va' figlia, dunque, ed il tuo nato assenna.
Ma pria ti lava, e su le guance poni
L'usato unguento. Apparir vuoi con faccia
Dalle lagrime tue solcata e guasta?
Quel pianger sempre e dall'un giorno all'altro
Nullo divario far, poco s'addice.
Già venne il figlio nell'età fiorita,
In cui vederlo con l'onor del mento
Sì ardentemente supplicavi ai numi”.
“Per zelo che di me l'alma ti scaldi”,
Replicava Penelope, “di bagni,
Eurinome, o di lisci, or non parlarmi.
Il dì che Ulisse s'imbarcò per Troia,
Tolsermi ogni beltà dal volto i numi,
Bensì Autonòe mi chiama e Ippodamìa,
Che da lato mi stieno. Ai proci sola
Non offrirommi: ché pudor mel vieta”.
Tacque; e la vecchia Eurinome le donne
A chiamar tosto e ad affrettarle, uscìo.
Ma l'occhiazzurra dea, nuovo pensiero
Formando nella mente, alla pudica
Figlia d'Icario un molle sonno infuse.
Mentre giacea sovra il suo seggio, e tutte
Il molle sonno le sciogliea le membra,
Palla Minerva di celesti doni
La rifornìa, perché di lei più sempre
Invaghisser gli Achei. Pria su le guance
Quella, che tien dalla bellezza il nome,
Sparse divina essenza, onde si lustra
La inghirlandata d'ôr Vener, se mai
Va delle Grazie al dilettoso ballo:
Poi di corpo la crebbe, e ricolmolla
Nel volto, e tal su lei candor distese,
Che l'avorio tagliato allora allora
Ceder dovesse al paragon. La diva
Risalì dell'Olimpo in su le cime.
Venner le ancelle strepitando, e ratto
Si riscosse Penelope dal sonno;
E con man gli occhi stropicciossi e disse:
“Qual dolce sonno della sua fosc'ombra
Me infelice coprì! Deh così dolce
Morte subitamente in me la casta
Artemide scoccasse; ed io l'etade
Più non avessi a consumar nel pianto,
Sospirando il valor sommo, infinito,
D'un eroe, cui non sorse in Grecia il pari”.
Così detto, scendea dalle superne
Lucide stanze al basso, e non già sola:
Ma con Autonoe e Ippodamia da tergo.
Sul limitar della dedàlea sala,
Ove i proci sedean, trovasi appena,
Che arresta il pié tra l'una e l'altra ancella
L'ottima delle donne, e co' sottili
Veli del capo ambo le guance adombra.
Senza forza restaro e senza moto:
L'alma più intenerìa, si raddoppiava
Delle nozze il desire in ogni petto.
Ella queste a Telemaco parole:
“Figlio, io te più non riconosco. Sensi
Nutrivi in mente più maturi e scorti
Nella tua fanciullezza; ed or che grande
Ti veggio, e in un'età più ferma entrato,
Or, che stranier, che a riguardar si fesse
La tua statura e la beltà, te prole
D'uom beato dirìa, più non dimostri
Giustizia o senno. Tollerar sì indegno
Trattamento d'un ospite in tua reggia?
Oltraggio sì crudel, che vendicato
Non siagli, puote a un forestier qui usarsi,
Che su te non ne cada eterno scorno?”
Il prudente Telemaco rispose:
“Madre, perché ti crucci, io non mi sdegno.
Meglio, che pria ch'io di fanciullo uscissi,
Le umane cose, il pur mi credi, intendo,
E tra lor non confondo il torto e il dritto.
Ma tutto operare o antiveder non valgo,
Circondato qual sono e insidïato
Da fiera gente, e d'assistenti solo.
Quanto alla lotta tra l'estranio ed Iro,
Parte i proci non v'ebbero, e del primo
Fu la vittoria. Ed oh! piacesse al padre
Giove e alla diva Pallade e ad Apollo,
Che tentennasse a cotestor già domi
La testa e si sfasciassero le membra,
Nel vestibolo agli uni, e agli altri in sala
Come a quell'Iro, che alle porte or siede
Dell'atrio, il capo qua e là piegando,
D'un ebbro in guisa e che su i piedi starsi
Non può, né a casa ricondursi: tanto
Le membra riportonne afflitte e peste”.
Così la madre e il figlio. Indi tai voci
Eurimaco a Penelope drizzava:
“Figlia d'Icario, se te vista tutti
Avesser per l'Iasio Argo gli Achivi,
Turba qui di rivali assai più folta
Banchetterìa dallo spuntar dell'alba:
Ché non v'ha donna che per gran sembiante
Per bellezza e per senno a te s'agguagli”.
E la nobile a lui d'Icario figlia:
“Eurimaco, virtù, sembianza tutto
Mi rapiro gli dèi, quando gli Argivi
Sciolser per Troia, e con gli Argivi Ulisse.
S'egli, riposto in sua magione il piede,
A reggere il mio stato ancor prendesse,
Ciò mia gloria sarebbe e beltà mia.
Ora io m'angoscio: tanti a me sul capo
Mali piombaro. Ei, d'imbarcarsi in atto,
Prese la mia con la sua destra, e: "Donna",
Disse "non credo io già che i forti Achei
Da Troia tutti riederanno illesi:
Poiché sento pugnaci essere i Teucri,
Gran sagittari e cavalieri egregi.
Che pel campo agitar sanno i destrieri
Rapidamente: quel che in breve il fato
Delle guerre terribili decide.
Quindi, se me ricondurran gli eterni,
O Troia riterrà morto o cattivo,
Sposa, io non so. Tu, sovra tutto, veglia.
Rispetta il padre mio, la madre onora,
Come oggi, od ancor più, finch'io son lunge.
E allor che del suo pel vedrai vestito
Del figlio il mento, a qual ti fia più in grado,
Lasciando la magion, vanne consorte."
Tal favellava; ed ecco giunto il tempo.
L'infausta notte apparirà, che dee
Portare a me queste odïose nozze,
A me, cui Giove ogni letizia spense.
Ma ciò la mia tristezza oggi più aggrava,
Che gli usi antichi non si guardan punto.
Color, che donna illustre e d'uom possente
Figlia un dì ambìano e contendean tra loro,
Belle conducean vittime, gli amici
Per convitar della bramata donna,
E doni a questa offrìan: non già l'altrui
Struggeano impunemente a mensa assisi”.
Disse, e l'eroe gioì ch'ella in tal modo
De' proci i doni procurasse, e loro
Molcesse il petto con parole blande,
Mentre in fondo del cor altro volgea.
Ma così Antìnoo allor: “Nobil d'Icario
Figlia, saggia Penelope, ricevi
I doni che gli Achei già per offrirti
Sono, e cui fora il ricusar stoltezza;
Ma noi di qua non ci torrem, se un prima
De' più illustri fra noi te non acquista”.
Piacquero i detti: e alla sua casa ognuno
Per li doni spedì. L'araldo un grande
Recò ad Antìnoo e vario e assai bel peplo,
Che avea dodici d'ôr fibbie lampanti
Con ardiglioni ben ricurvi attate.
Eurimaco un monile addur si fece
D'oro e intrecciato d'ambra, opra da insigne
Mastro sudata, che splendea qual sole.
Due serventi portaro a Euridamante
Finissimi orecchini a tre pupille,
Donde grazia infinita uscìa di raggi.
Fregio non fu men prezïoso il vezzo,
Che re Pisandro, di Polittor figlio,
Dalle mani d'un servo ebbe; e non meno
Belli d'ogni altro Acheo parvero i doni.
La divina Penelope, seguita
Dall'ancelle, co' doni alle superne
Stanze montava; e i proci al ballo e al canto
Finché, a romper nel mezzo i lor diletti,
L'ombra notturna sovra lor cadesse.
Caduta sovra lor l'ombra notturna,
Tre gran bracieri saettanti luce,
Cui legne secche e dure e fesse appena
Nodrìano, i servi collocar nel mezzo;
E allumâr qua e là più faci ancora.
Cura di questi fuochi aveano alterna
Le donne del palagio. A queste feo
Tai detti il ricco di consigli Ulisse:
“Schiave d'Ulisse, del re vostro assente
Per sì lunga stagion, la veneranda
Regina vostra a ritrovar salite.
Fusi rotando o pettinando lane,
Sedetele vicino, e ne' suoi mali
La confortate. Mio pensier frattanto
Sarà, che ai proci non fallisca il lume.
Quando attendere ancor volesser l'alba,
Me non istancheran: ché molto io sono
Da molto tempo a tollerare avvezzo”.
Questi detti lor feo. Riser le ancelle,
E a vicenda guardavansi, e schernirlo
Con villane parole una Melanto,
Bella guancia, s'ardìa. Dolio costei
Generò, ma Penelope nutrilla,
Siccome figlia, nulla mai di quanto
Lusinga le fanciulle, a lei negando:
Né s'afflisse per ciò con la Regina
Melanto mai, che anzi tradìala, e s'era
A Eurimaco d'amor turpe congiunta.
Costei pungea villanamente Ulisse:
“Ospite miserabile, tu sei
Un uomo, io credo, di cervello uscito,
Tu, che in vece d'andar nell'officina
D'un fabbro a coricarti o in vil taverna
Qui tra una schiera te ne stai di prenci,
Lungo cianciando, e intrepido. Alla mente
Ti salì senza forse il molto vino,
O d'uom brïaco hai tu la mente, e quindi
Senza construtto parli. O esulti tanto,
Perchè il ramingo Iro vincesti? Bada,
Non alcun qui senza indugiare insorga,
Che, d'Iro assai miglior, te nella testa
Con le robuste man pesti, e t'insozzi
Tutto di sangue, e del palagio scacci”.
Bieco guatolla, e le rispose Ulisse:
“Cagna, io ratto a Telemaco i tuoi sensi
Perch'ei ti tagli qui medesimo in pezzi,
A riportare andrò”. Così dicendo,
Le femmine atterrì, che per la casa
Mosser veloci, benché a tutte forte
Le ginocchia tremassero: sì presso
Ciò ch'ei lor detto avea, credeano al vero.
Ei si fermò presso i bracieri ardenti,
La luce ravvivandone, e tenendo
Gli occhi ne' proci ognor, mentre nemiche
Cose agitava, e non indarno, in petto.
Minerva intanto non lasciava i proci
Rimanersi dall'onte, acciò in Ulisse
Crescer dovesse col dolor lo sdegno.
Eurimaco di Pòlibo parlava
Primo, l'eroe mordendo e a nuovo riso
Provocando i compagni: Udite, amanti
Dell'inclita regina, un mio pensiero,
Che tacer non poss'io. Non senza un nume
Venne costui nella magion d'Ulisse.
Splender gli veggo, come face, il capo,
Sovra cui non ispunta un sol capello”.
Quindi, al rovesciator delle munite
Città, converso: “Forestier”, soggiunse,
“Vorréstu a me servir, s'io ti pigliassi
Per assestar nel mio poder le siepi,
E gli alberi piantar? Buona mercede
Tu ne otterresti: cotidiano vitto
E vestimenti al dosso e ai piè calzari.
Ma perché sol fosti di vizî a scuola,
Anzi che faticar, pitoccar vuoi,
Onde, se t'è possibile, sfamarti.
“Eurimaco”, rispose il saggio Ulisse,
“Se tra noi gara di lavor sorgesse
A primavera, quando il giorno allunga,
E con adunche in man falci taglienti
Ci ritenesse un prato ambo digiuni
Sino alla notte, e non mancasse l'erba;
O fosser da guidare ad ambo dati
Grandi rossi, gagliardi e d'erba sazî
Tauri d'etade e di virtude eguali,
E date quattro da spezzar sul campo
Sode bubulce col pesante aratro:
Vedresti il mio vigor, vedresti, come
Aprir saprei dritto e profondo il solco!
Poni ancor, che il Saturnio un'aspra guerra
Da qualche parte ci volgesse addosso,
Ed io scudo e due lance, ed alle tempie
Salda celata di metallo avessi,
Misto ai primi guerrier mi scorgeresti
Nella battaglia, e l'importuna fame
Gittare a me non oseresti in faccia.
Or protervo è il tuo labbro e duro il core,
E forte in certa guisa e grande sembri,
Perché con poca gente usi e non brava:
Ma Ulisse giunga, o appressi almeno, e queste
Porte, benché assai larghe, a te già vôlto
Negli amari, cred'io, passi di fuga
Deh come a un tratto sembreriano anguste!”
Eurimaco in maggior collera salse,
E, guardandolo bieco: “Ah! Doloroso”,
Disse, “vuoi tu ch'io ti diserti? Ardisci
Così gracchiar fra tanti, e nulla temi?
O il vin t'ingombra, o tu nascesti pazzo,
O quel vinto Iro ti cavò di senno”.
Ciò detto, prese lo sgabel: ma Ulisse
S'abbassava d'Anfinomo ai ginocchi
Per cansarsi da Eurimaco, che in vece
Nella man destra del coppier percosse.
Cascata rimbombò la coppa in terra,
E il pincerna ululando andò riverso.
Strepitavano i proci entro la sala
Dall'ombre cinta della notte, e alcuno
Mirando il suo vicin: “Morto”, dicea,
“Prima che giunto qua, l'ospite fosse!
Portato non ci avrìa questo sì grave
Tumulto. Or si battaglia, e per chi dunque?
Per un mendìco, e già svanì de' nostri
Prandî il diletto ed il più vil trionfa”.
E Telemaco allor: “Che insania è questa,
Miseri, a cui non cal più della mensa?
Certo vi turba e vi commuove un dio.
Su via, poiché de' cibi e de' licori
Tacerà il desiderio in tutti voi,
Ite a corcarvi, se vel detta il core,
Ne' vostri alberghi: ché nessuno io scaccio”.
Tutti, mordendo il labbro, alle sicure
Parole di Telemaco stupîro.
Ma tra lor sorse Anfinomo, l'illustre
Figliuol di Niso: “Amici, a chi ben parla
Sinistro più non si risponda o acerbo,
Né l'ospite s'oltraggi, o alcun de' servi,
Che in corte son del rinomato Ulisse.
Muova il coppiere in giro; e poscia, fatti
I libamenti, nelle nostre case,
Le membra al sonno per offrir, si vada,
E si lasci a Telemaco la cura
Dello stranier, quando al suo tetto ei venne”.
Disse, e non fu cui non piacesse il detto.
L'inclito Mulio, il Dulichiense araldo
D'Anfinomo, versò dall'urna il vino,
E a tutti in giro nelle tazze il porse;
Ed i proci libaro, e del licore
Dolce, qual mele, s'innondaro il petto.
Ma com ebber libato, e piena voglia
Bevuto, ognun, per dar le membra al sonno,
Affrettò di ritrarsi al proprio albergo.
LIBRO DECIMONONO
Nell'ampia sala rimanea l'eroe,
Strage con Palla macchinando ai proci.
Subito al figlio si converse, e disse:
“Telemaco, levar di questi luoghi
L'armi conviene, e trasportarle in alto.
Se le bell'armi chiederanno i proci,
Con parolette a lusingarli vôlto:
"Io", lor dirai, "dal fumo atro le tolsi,
Perché non eran più quali lasciolle
Ulisse il giorno che per Troia sciolse:
Ma deturpate, scolorate, ovunque
Il bruno le toccò vapor del foco.
Sovra tutto io temei, né senza un nume
Destossi in me questo timor, non forse
Dopo molto vôtar di dolci tazze
Tra voi sorgesse un'improvvisa lite,
E l'un l'altro ferisse, ed il convito
Contaminaste e gli sponsali. Grande
Allettamento è all'uom lo stesso ferro".”
Telemaco seguì del suo diletto
Padre il comando, e alla nutrice, cui
Tosto a sé dimandò: “Mamma”, dicea,
Su via, ritieni nelle stanze loro
Le femmine rinchiuse, in sin ch'io l'armi,
Che qui nella mia infanzia, e nell'assenza
Del padre, mi guastò neglette il fumo,
Trasporti in alto. Collocarle io voglio,
Dove del foco non le attinga il vampo.
Ed Euriclèa: “Figlio”, rispose, “in petto
Deh ti s'annidi al fin senno cotanto,
Che regger possa la tua casa, e intatti
Serbar gli averi tuoi! Ma chi la strada
Ti schiarerà? Quando non vuoi che innanzi
Con le fiaccole in man vadan le ancelle”.
“Il forestier”, Telemaco riprese;
“Chi si nutre del mio, benché venuto
Di lunge, io mai non patirollo inerte”.
Tanto bastò a colei, perché ogni porta
Del ben construtto ginecèo fermasse.
Ulisse incontanente e il caro figlio
Correano ad allogar gli elmi chiomati,
Gli umbilicati scudi e l'aste acute;
E avanti ad ambo l'Atenèa Minerva,
Tenendo in mano una lucerna d'oro,
Chiarissimo spargea lume d'intorno.
E Telemaco al padre: “O padre, quale
Portento! Le pareti ed i bei palchi,
E le travi d'abete e le sublimi
Colonne a me rifolgorare io veggio.
Scese, io credo, qua dentro alcun de' numi”.
“Taci”, rispose Ulisse: “i tuoi pensieri
Rinserra in te, né cercare oltre. Usanza
Degli abitanti dell'Olimpo è questa.
Or tu vanne a corcarti: io qui rimango
Le ancelle a spïar meglio, e della saggia
Madre le inchieste a provocar, che molte
Certo, ed al pianto miste, udire avviso”.
Disse; e il figliuolo indi spiccossi, e al vivo
Delle faci splendor nella remota
Cella si ritirò de' suoi riposi,
L'Aurora ad aspettar. Ma nella sala,
Strage con Palla agli orgogliosi proci
Architettando, rimanea l'eroe.
La prudente Reina intanto uscìa
Pari a Dïana, e all'aurea Vener pari,
Della stanza secreta. Al foco appresso
L'usato seggio di gran pelle steso,
E cui d'Icmalio l'ingegnosa mano
Tutto d'avorî e argenti avea commesso,
Le collocaro: sostenea le piante
Un polito sgabello. In questa sede
La madre di Telemaco posava.
Venner le ancelle dalle bianche braccia
A tor via dalle mense il pan rimasto,
E i vòti nappi, onde bevean gli amanti.
Poi dai bracieri il mezzospento foco
Scossero a terra, e nuove legna e molte
Sopra vi accatastâr, perché schiarata
La sala fosse e riscaldata a un tempo.
Melanto allor per la seconda volta
Ulisse rampognava: “Ospite, adunque
La notte ancor t'avvolgerai molesto
Per questa casa, e adocchierai le donne?
Fuori, sciagurato, esci, e del convito,
Che ingoiasti, t'appaga; o ver, percosso
Da questo tizzo, salterai la soglia”.
Con torvo sguardo le rispose Ulisse:
“Malvagia, perché a me guerra sì atroce?
Perché la faccia mia forse non lustra?
Perch'io mal vesto, e, dal bisogno astretto,
Qual tapino uomo e vïandante, accatto?
Felice un giorno anch'io splendidi ostelli
Tra le genti abitava, e ad un ramingo,
Qual fosse, o in quale stato a me s'offrisse,
Del mio largìa; molti avea servi, e nulla
Di ciò mi venìa meno, ond'è chiamato
Ricco, e beata l'uom vita conduce.
Ma Giove, il figlio di Saturno, e nota
La cagione n'è a lui, disfar mi volle.
Guarda però, non tutta un giorno cada,
Donna, dal viso tuo quella beltade,
Di cui fra l'altre ancelle or vai superba:
Guarda, non monti in ira o ti punisca
La tua padrona, o non ritorni Ulisse,
Come speme ne' petti ancor ne vive.
E s'ei perì, tal per favor d'Apollo
Fuor venne il figlio dell'acerba etade,
Che femmina, di cui sien turpi i fatti,
Mal potrìa nel palagio a lui celarsi”.
Udì tutto Penelope, e l'ancella
Sgridò repente: “O temerario petto,
Cagna sfacciata, io pur nelle tue colpe,
Che in testa ricadrannoti, ti colgo.
Sapevi ben, poiché da me l'udisti,
Ch'io lo straniero interrogar volea,
Un conforto cercando in tanta doglia”.
Dopo questo, ad Eurìnome si volse
Con tali accenti: “Eurìnome, uno scanno
Reca, e una pelle, ove, sedendo, m'oda
L'ospite favellargli e mi risponda”.
Disse; e la dispensiera un liscio scanno
Recò in fretta, e giù pose, e d'una densa
Pelle il coprì. Vi s'adagiava il molto
Dai casi afflitto, e non mai domo, Ulisse,
Cui Penelope a dir così prendea:
“Ospite, io questo chiederotti in prima.
Chi? di che loco? e di che stirpe sei?”
E Ulisse, che più là d'ogni uomo seppe:
“Donna, esser può giammai pel mondo tutto
Chi la lingua snodare osi in tuo biasmo?
La gloria tua sino alle stelle sale,
Qual di re sommo, che sembiante a un nume,
E su molti imperando uomini e forti,
Sostiene il dritto: la ferace terra
Di folti gli biondeggia orzi e frumenti,
Gli arbor di frutti aggravansi: robuste
Figlian le pecorelle, il mar dà pesci
Sotto il prudente reggimento; e giorni
L'intera nazïon mena felici.
Ma pria che della patria e del lignaggio,
Di tutt'altro mi chiedi, acciò non cresca
Di tai memorie il dolor mio più ancora.
Un infelice io son, né mi conviene
Seder, piagnendo, nella tua magione;
Che i suoi confini ha il pianto, e ai luoghi vuolsi
Mirare e ai tempi. Se non tu, sdegnarsi
Ben potrìa contro a me delle serventi
Tue donne alcuna, e dire ancor che quello,
Che fuor m'esce degli occhi, è il molto vino”.
E la saggia Penelope a rincontro:
“Ospite, a me virtù, sembianza, tutto
Rapito fu dagl'immortali, quando
Co' Greci ad Ilio navigava Ulisse:
S'ei, rïentrando negli alberghi avìti,
A reggere il mio stato ancor togliesse,
Ciò mia gloria sarebbe, e beltà mia.
Or le cure m'opprimono, che molte
Mandâro a me gli abitator d'Olimpo.
Quanti ha Dulichio e Same e la selvosa
Zacinto, e la serena Itaca prenci,
Mi ambiscon ripugnante; e sottosopra
Volgon così la reggia mia, che poco
Agli ospiti omai fommi e ai supplicanti
Veder, né troppo degli araldi io curo.
Io mi consumo, sospirando Ulisse.
Quei m'affrettano intanto all'abborrito
Passo, ed io contra lor d'inganni m'armo.
Pria grande a oprar tela sottile, immensa,
Nelle mie stanze, come un dio spirommi,
Mi diedi, e ai proci incontanente io dissi:
"Giovani, amanti miei, tanto vi piaccia,
Quando già Ulisse tra i defunti scese,
Le mie nozze indugiar, ch'io questo possa
Lugubre ammanto per l'eroe Laerte,
Acciocchè a me non pêra il vano stame,
Prima fornir, che l'inclemente Parca
Di lunghi sonni apportatrice il colga.
Non vo' che alcuna delle Achee mi morda,
Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo,
Fallisse un drappo, in cui giacersi estinto".
A questi detti s'acchetâro. Intanto
Io, finché il dì splendea, l'insigne tela
Tesseva, e poi la distessea la notte,
Di mute faci alla propizia fiamma.
Un trïennio così l'accorgimento
Sfuggii degli Achei tutti, e fede ottenni.
Ma, giuntomi il quarto anno, e le stagioni
Tornate in sé con lo scader de' mesi,
E de' celeri dì compiuto il giro,
Côlta da proci, per viltà di donne
Nulla di me curanti, alla sprovvista,
E gravemente improverata, il drappo
Condurre al termin suo dovei per forza.
Ora io né declinar le odiate nozze
So, né trovare altro compenso. A quelle
M'esortano i parenti, e non comporta
Che la sua casa gli si strugga il figlio,
Che ormai tutto conosce, e al suo retaggio
Intender può, qual cui dà gloria Giove.
Ad ogni modo la tua patria dimmi,
Dimmi la stirpe; d'una pietra certo
Tu non uscisti o d'una quercia, come
Suona d'altri nel mondo antica fama”.
“O veneranda”, le rispose Ulisse,
“Donna del Laerzìade, il mio lignaggio
Saper vuoi dunque? Io te l'insegno. È vero
Che augumento ne avran gli affanni miei,
Natural senso di chïunque visse
Misero pellegrin molt'anni e molti
Dalla patria lontan: ma tu non cessi
D'interrogarmi, e satisfarti io voglio.
Bella e feconda sovra il negro mare
Giace una terra che s'appella Creta,
Dalle salse onde d'ogni parte attinta.
Gli abitanti v'abbondano, e novanta
Contien cittadi, e la favella è mista;
Poiché vi son gli Achei, sonvi i natìi
Magnanimi Cretesi ed i Cidonî,
E i Dorî in tre divisi, e i buon Pelasgi.
Gnosso vi sorge, città vasta, in cui
Quel Minosse regnò, che del Tonante
Ogni nono anno era agli arcani ammesso.
Ei generò Deucalïone, ond'io,
Cui nascendo d'Etón fu posto il nome,
Nacqui, e nacque il mio frate Idomenèo,
Di popoli pastor, che di virtute
Primo, non che d'età, co' degni Atridi
Ad Ilio andò su le rostrate navi.
Là vidi Ulisse, ed ospitali doni
Gli feci. A Creta spinto avealo un forte
Vento, che, mentr'ei pur vêr la superba
Troia tendea, dalle Malèe lo svolse,
E il fermò nell'Amniso, ove lo speco
D'Ilitia s'apre in disastrosa piaggia,
Sì che scampò dalle burrasche appena.
Entrato alla città, d'Idomenèo,
Che venerando e caro egli chiamava
Ospite suo, cercò: se non che il giorno
Correa decimo o undecimo, che a Troia
Passato il mio fratello era sul mare.
Ma io l'addussi nel palagio, a cui
Nulla d'agi mancava, e dove io stesso
Quell'onor gli rendei ch'io seppi meglio.
E fu per opra mia che la cittade
Bianco pan, dolce vino e buoi da mazza,
I suoi compagni a rallegrar, gli diede.
Dodici dì nell'isola restâro,
Perché levato da un avverso nume
Imperversava un Aquilon sì fiero,
Che a stento si reggea l'uomo sui piedi.
Quello il dì terzodecimo al fin cadde;
E solcavan gli Achei l'onde tranquille”.
Così fingea, menzogne molte al vero
Simili proferendo: ella, in udirle,
Pianto versava e distruggeasi tutta.
E come neve che su gli alti monti
Sùbito vento d'occidente sparse,
Sciogliesi d'Euro all'improvviso fiato,
Sì che gonfiati al mar corrono i fiumi:
Tal si stemprava in lagrime, piangendo
L'uom suo diletto, che sedeale al fianco.
Della consorte lagrimosa Ulisse
Pietà nell'alma risentìa: ma gli occhi
Stávangli, quasi corno o ferro fosse,
Nelle palpebre immoti, e gli stagnava
Nel petto ad arte il ritenuto pianto.
Ella, poiché di lagrime fu sazia,
Così ripigliò i detti: “Ospite io voglio
Far prova ora di te, se, qual racconti
Ulisse e i suoi tu ricettasti in Creta.
Dimmi: quai panni rivestìanlo? e quale
Di lui, de' suoi compagni era l'aspetto?”
Rispose il ricco di consigli Ulisse:
“Vigesim'anno è omai ch'egli da Creta
Si drizzò a Troia, e il favellare, o donna,
Di sì antica stagion duro mi sembra.
Io tutta volta ubbidirò, per quanto
Potrà sovra di sé tornar la mente.
Un folto Ulisse avea manto velloso
Di porpora, cui doppio unìa sul petto
Fermaglio d'oro, e nel dinanzi ornava
Mirabile ricamo: un can da caccia
Tenea co' piedi anterïori stretto
Vaio cerbiatto, e con aperta bocca
Sovra lui, che tremavane, pendea;
E stupìa il mondo a rimirarli in oro
Effigïati ambo così, che l'uno
Soffoca l'altro e già l'addenta, e l'altro
Fuggir si sforza e palpita ne' piedi.
In dosso ancora io gli osservai sì molle
Tunica e fina sì, qual di cipolla
Vidi talor l'inaridita spoglia,
E splendea, come il Sol; tal che di molte
Donne, che l'addocchiâr, fu maraviglia.
Ma io non so, se in Itaca gli stessi
Vestiti usasse, o alcun di quei che seco
Partiro su la nave, o in lor magioni
Viaggiante l'accolsero, donati
Gli avesse a lui: che ben voluto egli era,
E pochi l'agguagliâro in Grecia eroi.
So che una spada del più fino rame
E un bel manto purpureo, e una talare
Veste in dono io gli porsi, e all'impalcata
Nave il guidai, di riverenza in segno.
Araldo, che d'età poco il vincea,
L'accompagnava, alto di spalle e grosso,
Dov'io rappresentarlo a te dovessi,
Nero la cute ed i capelli crespo,
E chiamavasi Eurìbate. Fra tutti
I suoi compagni l'apprezzava Ulisse,
Come più di pensieri a sé conforme”.
A queste voci maggior voglia in lei
Surse di pianto, conosciuti i segni
Che sì chiari e distinti esporsi udiva.
Fermato il lagrimare: “Ospite”, disse,
“Di pietà mi sembrasti, e d'ora innanzi
Di grazia mi parrai degno e d'onore.
Io stessa gli recai dalla secreta
Stanza piegate le da te descritte
Vesti leggiadre, io nel purpureo manto
La sfavillante d'ôr fibbia gli affissi.
Or né vederlo più, né accôrlo in questa
Sua dolce terra sperar posso. Ahi crudo
Destin ben fu, che alla malvagia Troia,
Nome abborrito, su per l'onda il trasse!”
“D'Ulisse”, egli riprese, “inclita donna,
Al bel corpo, che struggi, omai perdona,
Né più volerti macerar nell'alma,
L'uom tuo piangendo. Non già ch'io ten biasmi
Ché ognuna spento quell'uom piange, a cui
Vergine si congiunse e diede infanti,
Benché diverso nel valor da Ulisse,
Che agli dèi somigliar canta la fama.
Ma resta dalle lagrime, e l'orecchio
Porgi al mio dir, che sarà vero e intègro.
Io de' Tespròti tra la ricca gente
Ch'ei vive, intesi, e già ritorna, e molti
Tesor, che qua e là raccolse, adduce.
È ver che perdé il legno e i suoi compagni
Della Trinacria abbandonando i lidi,
Per la giusta di Giove ira e del Sole
Di cui morto que' folli avean l'armento.
Il mar, che tutti gl'inghiottì, sospinse
Lui su gli avanzi della nave infranta
Al caro degli dèi popol Feace.
Costor di cuore il riverian qual nume,
Colmávanlo di doni, e in patria salvo
Ricondurre il volean: se non che nuove
Terre veder pellegrinando e molti
Tesori radunar, più saggio avviso
Parve all'eroe d'accorgimenti mastro,
E cui non v'ha chi di saver non ceda.
Così a me de' Tespròti il re Fidone
Disse e giurava, in sua magion libando,
Che varata la barca era, e parati
Quei che dovean ripatrïarlo. Quindi
Mi congedò: ché per Dulichio a sorte
Le vele alzava una Tesprozia nave.
Ma ei mostrommi in pria quanto avea Ulisse
Raccolto errando, e che una casa intera
Per dieci etadi a sostener bastava.
Poi soggiungeami, che a Dodona ir volle,
Giove per consultare, e udir dall'alta
Quercia indovina, se ridursi ai dolci
Campi d'Itaca sua dopo sì lunga
Stagion dovesse alla scoperta, o ignoto.
Salvo è dunque e vicin; né dagli amici
Disgiunto e schiuso dalle avite mura
Gran tempo rimarrà. Vuoi tu ch'io giuri?
Prima il Saturnio in testimonio io chiamo,
Sommo tra i numi ed ottimo, e d'Ulisse
Poscia il sacrato focolar, cui venni:
Tutto, qual dico, seguir dee. Quest'anno,
L'uno uscendo de' mesi o entrando l'altro,
Varcherà Ulisse le paterne soglie.
“Oh s'avveri!” Penelope rispose.
“Tai dell'affetto mio pegni tu avresti,
Che quale, o forestiero, in te con gli occhi
Dêsse, dirìa: "Vedi mortal beato!"
Ma altro io penso, e quel ch'io penso, fia:
Né riedere il consorte, né tu scorta
Impetrerai; ché non v'ha più un Ulisse
Qui, se pur v'era un giorno e non fu sogno,
Un Ulisse non v'ha, che i venerandi
Ospiti accôr nel suo real palagio
Sappia ed accommiatarli. Or voi mie donne
Lavate i piedi allo straniero, e un denso
Di coltri e vesti e splendidi mantelli
Letto gli apparecchiate, ov'ei corcato
Tutta notte si scaldi in sino all'alba.
L'alba comparsa in orïente appena,
Voi tergetelo e ungetelo; ed ei mangi
Seduto in casa col mio figlio, e guai
De' servi a quel che ingiurïarlo ardisse!
Ufficio più non gli sarà commesso,
Per cruccio ch'ei mostrassene. Deh come
Sapresti, o forastier, ch'io l'altre donne
Vinco, se vinco, di bontate e senno,
Mentre di cenci e di squallor coverto
Pasteggiar ti lasciassi entro l'albergo?
Cose brevi son gli uomini. Chi nacque
Con alma dura e duri sensi nutre,
Le sventure a lui vivo il mondo prega,
E il maledice morto. Ma se alcuno
Ciò che v'ha di più bello ama ed in alto
Poggia con l'intelletto, in ogni dove
Gli ospiti portan la sua gloria, e vola
Eterno il nome suo di bocca in bocca”.
“Saggia del figlio di Laerte donna”,
Ripigliò Ulisse, “le vellose vesti
Cadeanmi in odio ed i superbi manti,
Da quel dì che su nave a lunghi remi
Lasciai di Creta i nevicosi monti.
Io giacerò, qual pur solea, passando
Le intere notti insonne. Oh quante notti
Giacqui in sordido letto, e dell'Aurora
Mal corcato affrettai la sacra luce!
Né a me de' piedi la lavanda piace:
Né delle donne, che ne' tuoi servigi
Spendonsi, alcuna toccherà il mio piede,
Se non è qualche annosa e onesta vecchia,
Che al par di me sofferto abbia a' suoi giorni
A questa il piede non disdirei toccarmi”.
E l'egregia Penelope di nuovo:
“Ospite caro, pellegrin di senno
Non capitò qua mai ché di te al core
Mi s'accostasse più, di te, che in modo
Leggiadro esprimi ogni prudente senso.
Una vecchia ho, molto avvisata e scorta,
Che nelle braccia sue quell'infelice
Raccolse uscito del materno grembo,
E buon latte gli dava ed il crescea.
Ella, benché di vita un soffio in lei
Rimanga sol, ti laverà le piante.
Via, fedele Euriclèa, sorgi e a chi d'anni
Pareggia il tuo signor, le piante lava.
Tal ne' piedi vederlo e nelle mani
Parmi in qualche da noi lontana parte:
Ché ratto l'uom tra le sciagure invecchia”.
Euriclèa con le man coperse il volto
E versò calde lagrime, e dolenti
Parole articolò: “Me sventurata,
Figlio, per amor tuo! Più che altri al mondo,
Te, che nol merti, odia il Saturnio padre.
Tanti non gli arse alcun floridi lombi,
Tante ecatombe non gli offerse, come
Tu, di giunger pregandolo a tranquilla
Vecchiezza, e un prode allevar figlio; ed ecco
Che del ritorno il dì Giove ti spense.
O buon vegliardo, allor che a un alto albergo
D'alcun signor lontano ei pellegrino
S'appresserà, l'insulteran le donne,
Qual te insultâro tutte queste serpi,
Da cui, l'onte schivandone e gli oltraggi,
Venir tocco ricusi; ed a me quindi
La figlia saggia del possente Icario
Tal ministero impon, che non mi grava.
Io dunque il compierò, sì per amore
Della reina, e sì per tuo: ché forte
Commossa dentro il sen l'alma io mi sento.
Ma tu ricevi un de' miei detti ancora:
Fra molti grami forestier, che a questa
Magion s'avvicinâro, un sol, che Ulisse
Nella voce, ne' piedi, in tutto il corpo,
Somigliasse cotanto io mai nol vidi”.
“Vecchia”, rispose lo scaltrito eroe,
“Così chïunque ambo ci scôrse, afferma:
Correr tra Ulisse e me, qual tu ben dici,
Somiglianza cotal, che l'un par l'altro”.
L'ottima vecchia una lucente conca
Prese, e molta fredd'acqua entro versovvi
E su vi sparse la bollente. Ulisse,
Che al focolar sedea, vêr l'ombra tutto
Si girò per timor, non Euriclèa
Scorgesse, brancicandolo, l'antica
Margine ch'ei portava in su la coscia,
E alla sua fraude si togliesse il velo.
Euriclèa nondimen, che già da presso
Fatta gli s'era ed il suo re lavava,
Il segno ravvisò della ferita
Dal bianco dente d'un cinghiale impressa
Sul monte di Parnaso; e ciò fu, quando
Della sua madre al genitor famoso
Garzone andò ad Autolico, che tutti
Del rapir vinse e del giurar nell'arti,
Per favor di Mercurio, a cui sì grate
Cosce d'agnelli ardeva e di capretti,
Che ogni suo passo accompagnava il nume.
Autolico un dì venne all'Itacese
Popolo in mezzo e alla città, che nato
Era di poco alla sua figlia un figlio.
Questo Euriclèa su le ginocchia all'avo
Dopo il convito pose, e feo tai detti:
“Autolico, tu stesso il nome or trova
Da imporre in fronte al grazïoso parto,
Per cui stancasti co' tuoi voti i numi”.
E prontamente Autolico in risposta:
“Genero e figlia mia, quel gl'imporrete
Nome, ch'io vi dirò. D'uomini e donne
Su l'altrìce di molti immensa terra
Spavento io fui: dunque si chiami Ulisse.
Io poi, se, di bambin fatto garzone,
Nel superbo verrà materno albergo
Sovra il Parnaso, ove ho le mie ricchezze,
Doni gli porgerò, per cui più lieto
Discenderà da me che a me non salse”.
A ricevere Ulisse andò tai doni,
E Autolico l'accolse ed i suoi figli,
Con amiche parole e aperte braccia;
E l'avola Anfitèa, strettolo al petto,
Il capo ed ambi gli baciò i begli occhi.
Ai figli il padre comandò, né indarno,
La mensa: un bue di cinque anni menaro,
Lo scoiâr, l'acconciâr, tutto il partiro;
E i brani, che ne fur con arte fatti,
Negli schidoni infissero, e ugualmente
Li dispensâr, domi che gli ebbe il foco.
Così tutto quel dì d'ugual per tutti
Prandio godean sino all'occaso. Il sole
Caduto e apparsa della notte l'ombra,
La dolcezza provâr, cui reca il sonno.
Ma come figlia del mattin l'Aurora
Si mostrò in ciel ditirosata e bella,
I figliuoli d'Autolico ed Ulisse
Con molti cani a una gran caccia usciro.
La vestita di boschi alta montagna
Salgono, e in breve tra i ventosi gioghi
Veggonsi di Parnaso. Il sol recente,
Dalle placide sorto acque profonde
Dell'Oceán, su i rugiadosi campi
Saettava i suoi raggi, e i cacciatori
Scendeano in una valle: innanzi i cani
Ivan, fiutando le salvatic'orme,
E co' figli d'Autolico, pallando
Una lancia, che lunga ombra gittava,
Tra i cani e i cacciatori andava Ulisse.
Smisurato cinghiale in così folta
Macchia giacea, ché di venti acquosi
Forza, né raggio mai d'acuto sole
La percoteva, né le piogge affatto
V'entravano: coprìa di secche foglie
Gran dovizia la terra. Il cinghial fiero,
Che al calpestìo, che gli sonava intorno,
Appressare ognor più sentìa la caccia,
Sbucò del suo ricetto, e orribilmente
Rizzando i peli della sua cervice,
E con pregni di foco occhi guatando,
Stette di contra. Ulisse il primo, l'asta
Tenendo soprammano, impeto fece
In lui, ch'ei d'impiagare ardea di voglia:
Ma la fera prevennelo, ed il colse
Sovra il ginocchio con un colpo obliquo
Della gran sanna e ne rapì assai carne;
Né però della coscia all'osso aggiunse.
Ferilla Ulisse allor nell'omer destro,
Dove il colpo assestò: scese profonda
L'aguzza punta della fulgid'asta;
E il mostro su la polvere cadé,
Mettendo un grido e ne volò via l'alma.
Ma d'Autolico i figli a Ulisse tutti
Travagliavansi intorno: acconciamente
Fasciâr la piaga, e con possente incanto
Il sangue ne arrestâro, e dell'amato
Padre all'albergo il trasportaro in fretta.
Sanato appieno e di bei doni carco,
Contenti alla cara Itaca contento
Lo rimandaro. Il padre suo Laerte
E la madre Anticlèa gioìan pur troppo
Del suo ritorno; e il richiedean di tutto,
E più della ferita; ed ei narrava,
Come, invitato a una silvestre guerra
Da' figliuoli dell'avo, il bianco dente
Piagollo d'un cinghial sovra il Parnaso.
Tal cicatrice l'amorosa vecchia
Conobbe, brancicandola, ed il piede
Lasciò andar giù: la gamba nella conca
Cadde, ne rimbombò il concavo rame,
E piegò tutto da una banda; e in terra
L'acqua si sparse. Gaudio a un'ora e duolo
La prese, e gli occhi le s'empiêr di pianto,
E in uscir le tornò la voce indietro.
Proruppe al fin, prendendolo pel mento:
“Caro figlio, tu sei per certo Ulisse,
Né io, né io ti ravvisai, che tutto
Pria non avessi il mio signor tastato”.
Tacque; e guardò Penelope, volendo
Mostrar che l'amor suo lungi non era.
Ma la reina né veder di contra
Poteo, né mente por: che Palla il core
Le torse altrove. Ulisse intanto strinse
Con la man destra ad Euriclèa la gola,
E a sé tirolla con la manca, e disse:
“Nutrice, vuoi tu perdermi? Tu stessa,
Sì, mi tenesti alla tua poppa un giorno,
E nell'anno ventesimo, sofferte
Pene infinite, alla mia patria io venni.
Ma, poiché mi scopristi, e un dio sì volle,
Taci, e di me qui dentro altri non sappia:
Però ch'io giuro, e non invan, che s'io
Con l'aiuto de' numi i proci spegno,
Né da te pur, benché mia balia, il braccio,
Che l'altre donne ucciderà, ritengo”.
“Figlio, qual mai dal core osò parola
Salirti in su le labbra?” ella riprese.
“Non mi conosci tu nel petto un'alma
Ferma ed inespugnabile? Il segreto
Io serberò, qual dura selce o bronzo.
Ciò senti ancora, e tel rammenta: dove
Spengan gli dèi per la tua mano i proci
Delle donne in palagio ad una ad una
Qual t'ingiuria io dirotti, e qual t'onora”.
“Nutrice, del tuo indizio uopo non havvi”,
Ripigliò Ulisse, “io per me stesso tutte
Le osserverò, conoscerolle: solo
Tu a tacer pensa, e lascia il resto ai numi”.
La vecchia tosto per nuov'acqua uscìo,
Sparsa tutta la prima. Asterso ch'ebbe
Ulisse ed unto, ei nuovamente al foco,
Calde aure a trarne, s'accostò col seggio,
E co' panni la margine coverse.
E Penelope allor: “Brevi parole,
Ospite, ancora. Già de' dolci sonni
Il tempo è giunto per color, cui lieve
Doglia consente il ricettarli in petto.
Ma doglia a me non lieve i numi diero.
Finché riluce il dì, solo ne' pianti
Piacere io trovo e ne' sospiri, mentre
Guardo ai lavori dell'ancelle e a' miei.
La notte poi, quando ciascun s'addorme,
Che val corcarmi, se le molte cure
Crudele intorno al cor muovonmi guerra?
Come allor che di Pándaro la figlia,
Ne' giorni primi del rosato aprile,
La fioriscente Filomela, assisa
Degli arbor suoi tra le più dense fronde,
Canta soavemente, e in cento spezza
Suoni diversi la instancabil voce;
Iti, che a Zeto partorì, piangendo,
Iti caro, che poi barbara uccise
Per insania, onde più sé non conobbe:
Non altrimenti io piango, e l'alma incerta
In questa or piega ed ora in quella parte,
S'io stia col figlio, e intègro serbi il tutto,
Le sostanze, le serve e gli alti tetti,
Del mio consorte rispettando il letto,
E del popol le voci; o quello io siegua
Degli Achei tra i miglior, che alle mie nozze,
Doni infiniti presentando, aspira.
Sino a tanto che il figlio era di senno,
Come d'età, fanciullo ancor, lasciata
Questa io mai non avrei per altra casa:
Ma or ch'ei crebbe, e della pubertade
Già la soglia toccò, men priega ei stesso
Non potendo mirar lo strazio indegno
Che di lui fan gli Achivi. Or tu, su via,
Spiegami un sogno, ch'io narrarti intendo.
Venti nella mia corte oche nutrisco,
E di qualche diletto emmi il vederle
Coglier da limpid'acqua il biondo grano.
Mentr'io le osservo, ecco dall'alto monte
Grande aquila calar curvorostrata,
Frangere a tutte la cervice, tutte
L'una su l'altra riversarle spente.
E risalir vèr l'etere divino.
Io mettea lai, benché nel sogno, e strida,
E le nobili Achee dal crin ricciuto
Venìano a me, che miserabilmente
L'oche plorava dall'aguglia morte,
E a me intorno affollavansi. Ma quella,
Rivolando dal ciel, su lo sporgente
Tetto sedeasi, e con umana voce:
"Ti accheta", diceami, "e spera, o figlia
Del glorïoso Icario: un vano sogno
Questo non è, ma visïon verace
Di ciò che seguirà. Nell'oche i proci"
Ravvisa, e in queste d'aquila sembianze
Il tuo consorte, che al fin venne, e tutti
Stenderà nel lor sangue a terra i proci.
Tácquesi: ed il sonno abbandonommi, ed io,
Gittando gli occhi per la corte, vidi
Le oche mie, che nel truògolo, qual prima,
I graditi frumenti ivan beccando”.
“Donna”, rispose di Laerte il figlio,
“Altramente da quel che Ulisse feo
Non lice il sonno interpretar: l'eccidio
Di tutti i proci manifesto appare”.
E la saggia Penelope: “Non tutti,
Ospite, i sogni investigar si ponno.
Scuro parlano e ambiguo, e non risponde
L'effetto sempre. Degli aerei sogni
Son due le porte, una di corno, e l'altra
D'avorio. Dall'avorio escono i falsi,
E fantasmi con sé fallaci e vani
Portano: i veri dal polito corno,
E questi mai l'uom non iscorge indarno.
Ah! creder non poss'io che quinci uscisse
L'immagin fiera d'un evento, donde
Tanta verrebbe a me gioia e al mio figlio.
Ma odi attento i detti miei. Già l'Alba,
Che rimuover mi dee da questi alberghi,
Ad apparir non tarderà. Che farmi?
Un giuoco io propor vo'. Dodici pali,
Quai puntelli di nave, intorno a cui
Va del fabbro la man, piantava Ulisse
L'un dietro all'altro con anelli in cima;
Ed ei, lunge tenendosi, spingea
Per ogni anello la pennuta freccia.
Io tal cimento proporrò. Chi meglio
Tender l'arco saprà fra tutti i proci,
E d'anello in anello andar col dardo,
Lui seguir non ricuso, abbandonando
Questa sì bella e ben fornita e ricca
Magion de' miei verd'anni, ond'anche in sogno
Dovermi spesso ricordare io penso”.
“O veneranda”, ripigliava Ulisse,
Donna del Laerzìade, una tal prova
Punto non differir: pria che un de' proci
Questo maneggi arco lucente, e il nervo
Ne tenda e passi pe' ritondi ferri,
Ti s'offrirà davante il tuo consorte”.
E Penelope al fine: “Ospite, quando,
Vicino a me sedendoti, il diletto
Protrar della tua voce a me volessi,
Non mi cadrebbe su le ciglia il sonno.
Ma non può sempre l'uom vivere insonne:
Ché legge a tutto stabilîro e meta
Su la terra fruttifera gli eterni.
Io, nelle stanze alte salita, un letto
Premerò, che divenne a me lugubre
Dal dì che Ulisse il canape funesto
Per la nemica sciolse infanda Troia.
Tu nel palagio ti riposa, e a terra
Sdráiati, o, se ti piace, a te le mie
Donne apparecchieran, dove corcarti”.
La Regina, ciò detto, alle superne
Montò sue stanze, e non già sola; ed ivi
Sino a tanto piangea l'amato Ulisse,
Che un dolce sonno sovra lei spargesse
La cilestra negli occhi augusta diva.
LIBRO VENTESIMO
Il magnanimo figlio di Laerte
Giacea nell'atrio. Una recente pelle
Steso aveasi di bue con altre molte
Di pingui agnelle, dagl'ingordi Achei
Sacrificate; e d'un velloso manto
Lui già corcato Eurìnome coverse.
Qui co' pensieri suoi l'eroe vegliava,
Sventure ai proci divisando. Intanto
Le ancelle, che soleano ai proci darsi,
Usciro di lor camere, in gran riso
Prorompendo tra loro e in turpe gioia.
Ei forte l'alma si sentìa commossa,
E bilanciava, se avventarsi, e tutte
Porle a morte dovesse in un istante,
O consentir che per l'estrema volta
Delinquesser le tristi; e in sé fremea.
E come allor che ai cagnolini intorno
Gira la madre, e, se un ignoto spunta,
Latra e brama pugnar: non altrimenti
Egli, che mal patìa l'opre nefande,
Alto fremea nel generoso petto.
Pur, battendosi l'anca e rampognando
Egli stesso il suo cor: “Soffri”, gli disse,
“Tu che assai peggior male allor soffristi
Che il Ciclope fortissimo gli amici
Mi divorava. Tollerar sapesti,
Finché me fuor dell'antro il senno trasse
Quand'io già della vita era sull'orlo”.
Ei così i moti reprimea del core
Che ne' recinti suoi cheto si stette.
Non lasciava però su l'un de' fianchi
Di voltarsi o sull'altro, a quella guisa
Che pien di sangue e d'ádipe ventriglio
Uom, che si strugge di vederlo incotto,
D'un gran foco all'ardor volge e rivolge.
Su questo ei si voltava o su quel fianco,
Meditando fra sé, come potesse
Scagliarsi al fin contra i malnati prenci,
Contra molti egli solo; ed ecco, scesa
Di cielo, a lui manifestarsi, in forma
D'una mortale, l'Atenèa Minerva.
Stettegli sovra il capo, e tai parole
Gli volse: “O degli umani il più infelice,
Perché i conforti rifiutar del sonno?
Sei pur nel tuo palagio, appo la fida
Tua donna, e al fianco d'un figliuolo, a cui
Vorrìano aver l'uguale i padri tutti”.
“Il ver parlasti, o dea”, rispose Ulisse:
“Se non che meco io mi consiglio, come
Scagliarmi ai proci svergognati incontro,
Mentre in folla ognor son quelli, ed io solo.
In oltre io penso, e ciò più ancor mi turba,
Che, quando col favore anco m'avvenga
Del Tonante e col tuo, cacciarli a Dite;
Non so dove sottrarmi a quella turba
Che vengiarli vorrà. Tu questo libra”.
“Tristo!” riprese la negli occhi Azzurra,
“L'uomo a un compagno suo crede, a un mortale
Peggior di sé talvolta e meno esperto,
E tu non a me diva, e a me, che in ogni
Travaglio tuo sempre ti guardo? Sappi,
Che se cinquanta d'uomini parlanti
Fosserci intorno pugnatrici schiere,
Sparsi per la campagna i greggi loro
Tua preda diverrìano e i loro armenti.
Chétati, e il sonno nel tuo sen ricevi:
Ché vegliando passar la notte in guardia
Troppo è molesto. Uscirai fuor tra poco
Da tutti senza dubbio i mali tuoi”.
Disse, e un sopor dolcissimo gl'infuse:
Né pria le membra tutte quante sciolte
Gli vide, e sgombra d'ogni affanno l'alma
Che all'Olimpo tornò l'inclita diva.
Ma il sonno sen fuggì dagli occhi a un tratto
Della reina, che già sovra il molle
Letto sedeasi e ricadea nel pianto.
Come sazia ne fu, calde a Dïana
Preghiere alzò la sconsolata donna:
“O del Saturnio figlia, augusta dea.
Deh! nel mio seno un de' tuoi dardi scocca,
E ratto poni in libertà quest'alma,
O mi rapisca il turbine, e trasporti
Per l'aria, e nelle rapide correnti
Dell'Oceàn retrogrado mi getti.
Così già le Pandàridi spariro,
Che per voler de' numi, alla lor madre
Crucciati e al padre, nella mesta casa
Orfanelle rimaste erano e sole;
Venere le nutrì di dolce mele,
Di vin soave e di rappreso latte:
Senno e beltade sovra ogni altra donna
Giuno compartì loro, Artemi un'alta
Statura, ed ai lavori i più leggiadri
Mano e intelletto la gran dea d'Atene.
Già Venere d'Olimpo i gioghi eccelsi
Montato avea, per dimandar le nozze
Delle fanciulle al fulminante Giove,
Che nulla ignora e i tristi eventi e i lieti
Conosce de' mortali, e quelle intanto
Dalle veloci Arpie fûro rapite,
E in balìa date alle odïose Erinni.
Cosi d'Itaca me tolgano i numi,
O d'un de' dardi suoi l'orocrinita
Dïana mi ferisca; ond'io ritrovi,
Benché ne' regni della morte, Ulisse,
E del mio maritaggio uom non rallegri,
Che di lui fia tanto minore. Ahi lassa!
Ben regger puossi la più ria sventura,
Quando, passati lagrimando i giorni,
Le notti almen ci riconforta il sonno,
Che su i beni l'obblìo sparge e su i mali.
Ma sogni a me fallaci un nume invìa:
E questa notte ancor mi si corcava
Da presso il mio consorte in quel sembiante
Che avea nel dì che su la nave ascese”.
Tacque; e sul trono d'ôr l'Aurora apparve.
Ulisse udì le lagrimose voci,
Ed in sospetto entrò, che fatta accorta
Di lui si fosse, e già pareagli al capo
Vedersela vicina. Alzossi, e il manto
E i cuoi, tra cui giacea, raccolse e pose
Sovra una sedia, e la bovina pelle
Fuor portò del palagio. Indi, levate
Le mani, a Giove supplicava: “O Giove
Padre e dèi tutti, che per terra e mare
Me dopo tanti affanni al patrio nido
Riconduceste, un lieto augurio in bocca
Mettete ad un di quei che nell'interno
Végghiano; e all'aria aperta un tuo prodigio
Giove, mi mostra”. Così orando, disse.
Udillo il sommo Giove, e incontanente
Dal sublime tonò lucido Olimpo
E l'eroe giubilonne. Al tempo istesso
Donna, che il grano macinava, detti
Presàghi gli mandò, donde non lungi
Del pastor delle genti eran le mole,
Dodici donne con assidua cura
Giravan ciascun dì dodici mole
E in bianca polve que' frumenti ed orzi
Riducean, che dell'uom son forza e vita.
Le altre dormìan dopo il travaglio grave:
Ma quella, cui reggean manco le braccia,
Compiuto non l'avea. Costei la mola
Fermò di botto, e feo volar tai voci,
Che segnale al re fûro: “O padre Giove,
Degli uomini signore e degli dèi,
Forte tonasti dall'eterea volta,
E non v'ha nube. Tal portento è al certo
Per alcun de' mortali. Ah! le preghiere
Anco di me infelice adempi, o padre;
Cessi quest'oggi nella bella sala
Il disonesto pasteggiar de' proci,
Che di fatica m'hanno e di tristezza
Presso un grave macigno omai consunta.
L'ultimo sia de' lor banchetti questo!”
Della voce allegravasi e del tuono
L'illustre figlio di Laerte, e l'alta
Già in pugno si tenea giusta vendetta.
L'altre fantesche raccoglieansi intanto,
E un foco raccendean vivo e perenne.
Ma il deiforme Telemaco di letto
Surse, vestì le giovanili membra,
L'acuto brando all'òmero sospese,
Legò sotto i piè molli i bei calzari,
E una valida strinse asta nodosa
Con fino rame luminoso in punta.
Giunto alla soglia, s'arrestò col piede
E ad Euriclèa parlò: “Cara nutrice,
Il trattaste voi ben di cibo e letto
L'ospite? O forse non curato giacque?
Anco la madre mia, benché sì saggia,
Sfallisce in questo: chi è men degno, onora,
E non cura onorar chi più sel merta”.
Ed Euriclèa: “Figliuol, non incolparmi
La innocente tua madre. A suo piacere
Bevea l'ospite assiso; e quanto all'esca,
Domandato da lei, disse, mestieri
Non ne aver più. Come appressava l'ora
Del riposo e del sonno, apparecchiargli
C'impose un letto: ma i tappeti molli
Rifiutò, qual chi vive ai mali in grembo.
Corcossi nel vestibolo su fresca
Pelle di tauro e cuoi d'agnelli: noi
D'una vellosa clamide il coprimmo”.
Telemaco, ciò udito, uscìa dell'alte
Stanze, al foro per ir, con l'asta in mano;
E due seguìanlo pieveloci cani.
Colà gli Achei dagli schinieri egregi
Raccolti l'attendean: mentre l'antica
D'Opi di Pisenòr figlia, le ancelle
Stimolando: “Affrettatevi”, dicea,
“Parte a nettar la sala e ad inaffiarla,
E le purpuree su i ben fatti seggi
Coverte a dispiegar; parte le mense
Con le umide a lavar forate spugne
E i vasi a ripolire e i lavorati
Nappi ritondi; ed al profondo fonte
Parte andate per l'acqua, e nel palagio
Recatela di fretta. I proci molto
Non tarderan: sollecitar li dee
Questo dì, che festivo a tutti splende”.
Tutti ascoltâro ed ubbidîro. Venti
Al fonte s'avvïâr dalle nere acque:
L'altre gli altri compieano interni uffici.
Vennero i servi degli Achivi, e secche
Legna con arte dividean; le donne
Venner dal fonte; venne Eumèo, guidando
Tre, della mandra fior, nitidi verri,
Che nel vasto cortil pascer lasciava.
Quindi, fermate nel suo re le ciglia:
“Vecchio, imparâro a rispettarti forse,
O”, disse, “a t'oltraggiar seguon gli Achei?”
“Eumèo”, rispose il re, “piacesse ai numi
Questa gente punir, che nell'altrui
Magion rei fatti, ingiurïando, pensa,
E dramma di pudor non serba in petto!”
Così tra lor dicean, quando il capraio
Co' più bei della greggia eletti corpi,
L'avido ventre a rïempir de' proci,
Giunse, Melanzio; e seco due pastori.
Ei le capre legò sotto il sonante
Portico, e morse nuovamente Ulisse:
“Stranier, molesto ci sarai tu ancora,
Mendicando da ognun? Fuori una volta
Non uscirai? Difficilmente, io credo,
Noi ci dividerem, che l'un dell'altro
Assaggiate le man non abbia in prima:
Però che tu villanamente accatti.
Altra mensa in città dunque non fuma?”
Nulla l'offeso eroe: ma sol crollava
Tacitamente il capo, e la risposta,
Che farà con la man, tra sé volgea.
Filezio in quella sopraggiunse terzo,
Grassa vacca menando e pingui capre,
Cui traghettò su passeggiera barca
Gente di mar, che a questa cura intende.
Le avvinse sotto il portico, e, vicino
Fattosi a Eumèo, l'interrogava: “Eumèo,
Chi è quello stranier che ai nostri alberghi
Testé arrivò? Quali esser dice, e dove
La sua terra nativa e i padri suoi?
Lasso! un monarca egli mi sembra in vista.
Certo piace agli dèi metter nel fondo
Delle sventure i vïandanti, quando
Si destina da loro ai re tal sorte”.
Disse, e appressando il forestiero e a lui
La man porgendo: “Ospite padre, salve!”
Soggiunse: “almen, se nella doglia or vivi,
Sorganti più sereni i giorni estremi!
Giove, qual mai di te nume più crudo,
Che alla fatica e all'infortunio in preda
Lasci i mortali, cui la vita desti?
Freddo sudor bagnommi e mi s'empiêro
Gli occhi di pianto, immaginando Ulisse,
Cui veder parmi con tai panni in dosso
Tra gli uomini vagar, se qualche terra
Sostienlo ancora, e gli risplende il Sole.
Sventurato di me! L'inclito Ulisse
A me fanciullo delle sue giovenche
La cura diè ne' Cefalleni campi;
Ed io sì le guardai, che in infinito
L'armento crebbe dalle larghe fronti.
Questo sul mare trasportar per esca
Deggio a una turba di signori estrani,
Che né guarda al figliuol, né gli dèi teme:
Mentre de' beni del mio sir lontano
La parte, cui finor perdonò il dente,
Con gli occhi ella divora e col desìo.
Ora io stommi fra due: perché rea cosa
Certo sarìa, vivo il figliuolo, a un'altra
Gente con l'armento ir; ma d'altra parte
Pesami fieramente appo una mandra
Restar, che a me divenne omai straniera.
E se non fosse la non morta speme
Che quel misero rieda e sperda i proci,
Io di qualche magnanimo padrone
Già nella corte riparato avrei:
Ché tai cose durar più non si ponno”.
E l'eroe sì gli rispondea: “Pastore,
Poiché malvagio non mi sembri e stolto,
E senno anche dimostri, odi i miei detti,
E il giuramento che su questi siede.
Io pria tra i numi in testimonio Giove,
E la mensa ospital chiamo, e d'Ulisse
Il venerando focolar, cui venni:
Giungerà il figlio di Laerte, e all'Orco
Precipitar gli usurpatori proci
Vedranlo, se tu vuoi, gli occhi tuoi stessi”.
“Ospite, questo il Saturnìde adempia”,
Replicò il guardïan: “vedresti, come
Intrepido seguir del mio signore
La giusta ira io saprei”. Tacque; ed Eumèo
S'unìa con esso, e agl'immortali tutti
Pel ritorno del re preghiere fea.
Morte intanto a Telemaco s'ordìa
Dai proci. È ver che alla sinistra loro
Un'aquila comparve altovolante,
Che avea colomba trepida tra l'ugne.
Tosto Anfinomo sorse, e: “Amici”, disse,
“Lasciam da un lato la cruenta trama,
Cui più che invan, si pensa; ed il convito
Ci sovvenga più presto”. E il detto piacque.
I proci entraro nel palagio, e i manti
Sovra i seggi deposero: le pingui
Capre e i montoni s'immolaro, corse
De' verri il sangue, e la buessa, onore
Dell'armento, cadé. Fûro spartite
Le abbrustolate viscere, e mesciuto
Nell'urne il rosso vino. Eumèo le tazze,
Filezio i pani dispensò ne' vaghi
Canestri: ma dall'urne il buon licore
Melanzio nelle ciòtole versava.
E già i prenci volgeano all'apprestate
Mense il pensier, quando d'Ulisse il figlio,
Non senza un suo perché, seder fe' il padre
Presso il marmoreo limitar, su rozzo
Scanno ed a picciol desco; e qui una parte
Gl'imbandì delle viscere, e gl'infuse
Vermiglio vino in tazza d'oro, e tale
Parlò: “Tu pur siedi co' prenci, e bevi.
Io dalle lingue audaci e dalle mani
Ti schermirò: ché non è questo albergo
Pubblico, ma d'Ulisse, ed a me solo
Egli acquistollo. E voi frenate, o proci,
Le man, non che le lingue, onde contesa
Qui non s'accenda e subitana rissa”.
Strinser le labbra, ed inarcâr le ciglia.
Ed Antìnoo così: “La minacciosa,
Compagni, di Telemaco favella,
Per molesta che sia, durarla vuolsi.
Giove il protegge: ché altramente imposto,
Benché canoro arringator, gli avremmo
Silenzio eterno da gran tempo”. Disse;
E il dispregiò Telemaco, e si tenne.
Già i banditori l'ecatombe sacra
Degli dèi conducean per la cittade,
E raccoglieansi i capelluti Achivi
Sotto il bosco frondifero d'Apollo,
Di cui per cotanto aere il dardo vola.
E al tempo stesso, incotte omai le carni,
Nel palagio d'Ulisse, e dagli acuti
Schidoni tratte, e poi divise in brani,
L'alto vi si tenea prandio solenne.
Parte uguale con gli altri anco ad Ulisse
Fu posta innanzi dai ministri, come
Volle il caro figliuol: né degli oltraggi
Però Minerva consentìa che i proci
Rimettessero un punto, acciocché al Rege
L'ira più addentro penetrasse in petto.
V'era tra loro un malvagio uom, che avea
Nome Ctesippo, e dimorava in Same.
Costui, fidando ne' tesor paterni,
La consorte del re con gli altri ambiva.
Surse, e tal favellò: “Proci, ascoltate.
Il forestier, qual convenìasi, ottenne
Parte uguale con noi. Chi mai vorrìa
Di Telemaco un ospite fraudarne,
Chïunque fosse? Ora io di fargli intendo
Un nobil don, ch'egli potrà in mercede
Dar poscia o al bagnaiuolo, o a qual tra i servi
Gli piacerà dell'immortale Ulisse”.
Così dicendo, una bovina zampa
Levò su da un canestro, e con gagliarda
Mano avventolla. L'inconcusso eroe
Sfuggilla, il capo declinando alquanto,
Ed in quell'atto d'un cotal suo riso
Sardonico ridendo; e il piè del bue
A percuotere andò nella parete.
“Meglio d'assai per te, che nol cogliesti”,
Sì Telemaco allora il tracotante
Ctesippo rabbuffò: “meglio, che il colpo
L'oste schivasse; però ch'io nel mezzo
Del cor senz'alcun dubbio un'asta acuta
T'avrei piantata, e delle nozze in vece
Celebrate t'avrìa l'esequie il padre.
Fine dunque agl'insulti. Io più fanciullo
Non son, tutto m'è noto, ed i confini
Segnar del retto e del non retto, io valgo
Credete voi ch'io soffrirei tal piaga
Nelle sostanze mie, se forte troppo
Non fosse impresa il frenar molti a un solo?
Su via, cessate dall'offese, o, dove
Sete del sangue mio l'alme vi pugna,
Prendetevi il mio sangue. Io ciò pria voglio.
Che veder ciascun giorno opre sì indegne:
I forestieri dileggiati e spesso
Battuti, e nello splendido palagio
Contaminate, oh reità! le ancelle”.
Tutti ammutiro, e sol, ma tardi molto,
Favellò il Damastòride Agelao:
“Nobili amici, a chi parlò con senno,
Nessun risponda ingiurioso e avverso;
Né forestier più si percuota, o altr'uomo
Che in corte serva del divino Ulisse.
Io poi darò a Telemaco e alla madre
Util consiglio con parole blande,
Se in cor loro entrerà. Finché speranza
Del ritorno d'Ulisse a voi fioriva,
Gl'indugi perdonare ed i pretesti
Vi si poteano, e il trarre in lungo i proci:
Ché, quando apparsa la sua faccia fosse,
Di prudenza lodati avrìavi il mondo.
Ma chiaro parmi che più in man d'Ulisse
Il ritorno non è. Trova la madre
Dunque e la pressa tu, che a quel de' proci,
Che ha più virtude e più doni offre, vada:
Onde tu rïentrar ne' beni tutti
Del padre possa, e alla tua mensa in gioia,
Non che in pace, seder, mentre la madre
Del nuovo sposo allegrerà le mura.
E il prudente Telemaco: “Per Giove”,
Rispose “e per li guai del padre mio,
Ch'erra o perì, dalla sua patria lunge,
Ti protesto, Agelao, ch'io della madre
Non indugio le nozze, anzi la esorto
Quello a seguir che più le aggrada, ed offre
Doni in copia maggior: ma i Dii beati
Tolgan che involontaria io la sbandisca
Da queste soglie con severi accenti”.
Disse, e Minerva inestinguibil riso
Destò ne' proci e ne travolse il senno.
Ma il riso era stranier su quelle guance:
Ma sanguigne inghiottìan delle sgozzate
Bestie le carni, e poi dagli occhi a un tratto
Sgorgava loro un improvviso pianto,
E di prevista disventura il duolo
Ne' lor petti regnava. E qui levossi
Teoclimèno, il gran profeta, e disse:
“Ah miseri, che veggio? E qual v'incontra
Caso funesto? Al corpo intorno, intorno
D'atra notte vi gira al capo un nembo.
Urlo fiero scoppiò; bagnansi i volti
D'involontarie lagrime; di sangue
Tingonsi le pareti ed i bei palchi;
L'atrio s'empie e il cortil d'ombre, che in fretta
Giù discendon nell'Erebo; disparve
Dal cielo il sole, e degli aerei campi
Una densa caligine indonnossi”.
Tutti beffarsi del profeta, e queste
Voci Eurimaco sciolse: “Il forestiero,
Che qua venne testé non so da dove,
Vaneggia, io penso. Giovani, su via,
Mettetel fuori, acciocché in piazza ei vada,
Poscia che qui per notte il giorno prende”.
E l'indovino: “Eurimaco”, rispose,
“Coteste guide, che vuoi darmi, tienti.
Occhi ho in testa ed orecchi, e due piè sotto,
E di tempra non vile un'alma in petto.
Con tai soccorsi io sgombrerò, scorgendo
Il mal che sopra voi pende, e a cui torsi
Non potrà un sol di voi, che gli stranieri
Oltraggiate, e studiate iniquitadi
Nella magion del pari ai numi Ulisse”.
Ciò detto, uscì da loro, ed a Pirèo,
Che di buon grado il ricevé, s'addusse.
Ma i proci, riguardandosi a vicenda,
E beffe d'ambo i forestier facendo,
Provocavan Telemaco. “Non havvi,
Talun dicea, chi ad ospiti stia peggio,
Telemaco, di te. L'uno è un mendìco
Errante, omai di fame e sete morto,
Senza prodezza, senza industria, peso
Disutil della terra; e l'altro un pazzo,
Che, per far del profeta, in piè si leva.
Vuoi tu questo seguir, ch'io ti propongo,
Sano partito? Ambo gittiamli in nave,
E li mandiam della Sicilia ai lidi.
Più gioveranno a te, se tu li vendi”.
Telemaco di lui nulla curava,
Ma levati tenea tacito gli occhi
Nel genitor, sempre aspettando il punto
Ch'ei fatto contra i proci impeto avrebbe.
In faccia della sala, e in su la porta
Del ginecèo, da un suo lucente seggio
Tutti i lor detti la regina udìa.
E quei, ridendo, il più soave e lauto,
Però che molte avean vittime uccise,
Convito celebrâr: ma più ingioconda
Cena di quella non fu mai, che ai proci,
Degna mercé della nequizia loro.
Stavan per imbandir Palla ed Ulisse.
LIBRO VENTUNESIMO
Ma Palla, occhio azzurrino, alla prudente
Figlia d'Icario entro lo spirto mise
Di propor l'arco ai proci e i ferrei anelli,
Nella casa d'Ulisse: acerbo gioco,
E di strage principio e di vendetta.
La donna salse alla magion più alta,
E dell'abil sua man la bella e ad arte
Curvata chiave di metallo prese
Pel manubrio di candido elefante.
Ciò fatto, andò con le fedeli ancelle
Nella stanza più interna, ove i tesori
Serbavansi del re: rame, oro e ferro
Ben travagliato. E qui giacea pur l'arco
Ritorto e il sagittifero turcasso,
Che molte dentro a sé frecce chiudea
Dolorifere: doni, che ad Ulisse,
Cui s'abbatté nella Laconia un giorno,
Feo l'Eurìtide Ifìto, ai numi eguale.
S'incontrâro gli eroi nella magione
D'Ortìloco in Messenia. Di Messene
Una masnada pecore trecento
Co' lor custodi su le lunghe navi,
Rapito avea dagl'Itacesi paschi;
E a richiederle il padre e gli altri vecchi,
Giovane ambasciator per lunga strada,
Mandâro Ulisse. D'altra parte Ifìto
In traccia sen venìa delle perdute
Sue dodici cavalle, e delle forti
Alla lor mamma pazïenti mule,
Donde ruina derivògli e morte:
Però che Alcide, il gran figliuol di Giove,
D'opere grandi fabbro, a lui, che accolto
Nel suo palagio avea, non paventando
Né la giustizia degli dèi, né quella
Mensa ospital che gli avea posta innanzi,
Tolse iniquo la vita, e le giumente
Dalla forte unghia in sua balìa ritenne.
Queste cercando, s'abbatté ad Ulisse,
E l'arco gli donò, che il chiaro Eurìto
Portava, e in man del suo diletto figlio
Pose morendo negli eccelsi alberghi.
E il Laerzìade un'affilata spada
Diede e una lancia noderosa a Ifìto,
D'un'amistà non lunga unico pegno:
Ché di mensa conoscersi a vicenda
Lor non fu dato, e il figliuol di Giove
L'Euritìde divino innanzi uccise.
Quest'arco Ulisse, allorché in negra nave
Alle dure traea belliche prove,
Nol togliea mai; ma per memoria eterna
Del caro amico alla parete appeso
Lasciar solealo, e sol gravarne il dosso
Nell'isola natìa gli era diletto.
Come pervenne alla secreta stanza
L'egregia donna, e il limitar di quercia
Salì construtto a squadra e ripolito
Da fabbro industre, che adattòvvi ancora
Le imposte ferme e le lucenti porte,
Tosto la fune dell'anello sciolse,
E introdusse la chiave, ed i serrami
Respinse: un rimugghiar come di tauro,
Che di rauco boato empie la valle
S'udì, quando le porte a lei s'aprîro.
Ella montò su l'elevato palco,
Dove giaceano alle bell'arche in grembo
Le profumate vesti, e, distendendo
Quindi la man, dalla cavicchia l'arco
Con tutta distaccò la luminosa
Vagina, entro cui stava. Indi s'assise;
E quel posato su le sue ginocchia,
Ne' pianti dava e ne' lamenti: al fine
Dalla custodia sua l'arco fuor trasse.
Ma poiché fu di lai sazia e di pianti,
Scese, e de' proci nel cospetto venne,
Quello in man sostenendo, e la faretra
Gravida di mortifere saette:
Mentre le ancelle la seguìan con cesta
Del ferro piena, che leggiadro a Ulisse
Di forza esercizio era e di destrezza.
Giunta ove quei sedean, fermava il piede
Della sala dedalea in su la soglia
Tra l'una e l'altra ancella, e co' sottili
Veli del crine ambo le guance ombrava,
Poi sciogliea tali accenti: “O voi, che in questa
Casa, lontano Ulisse, a forza entraste,
Gl'interi giorni a consumar tra i nappi,
Né di tal reità miglior difesa
Sapeste addur che le mie nozze, udite:
Quando sorse il gran dì, che la mia mano
Ritener più non deggio, ecco d'Ulisse
L'arco, che per certame io vi propongo.
Chi tenderallo, e passerà per tutti
Con la freccia volante i ferrei cerchi,
Lui seguir non ricuso, abbandonata
Questa sì bella, e di ricchezza colma
Magion de' miei verd'anni, ond'anche in sogno
Dovermi spesso ricordare io penso”.
Disse; e, chiamato Eumèo, recare ai proci
L'arco gl'ingiunse, e degli anelli il ferro.
Ei lagrimando il prese, e nella sala
Depóselo; e Filezio in altra parte,
Vista l'arma del re, pianto versava.
Ma sgridavali Antìnoo in tai parole:
“Sciocchi villani, la cui mente inferma
Oltre il presente dì mai non si stende,
Perché tal piagnisteo? Perché alla donna
L'alma nel petto commovete, quasi
Per se stessa non dolgasi abbastanza
Del perduto consorte? O qui sedete
Taciti a bere, o a singhiozzare uscite,
E lasciate a noi l'arco, impresa molto,
Vaglia il ver, forte per noi tutti, e a gabbo
Da non pigliar: ché non havvi uom tra noi
Pari ad Ulisse per curvarlo. Il vidi
Negli anni miei più teneri, ed impressa
Me ne sta in mente da quel dì l'imago”.
Così d'Eupite il figlio; e non pertanto
Il nervo confidavasi piegarne,
E d'anello in anel mandar lo strale.
Ma dovea prima l'infallibìl freccia
Gustare in vece dall'eroe scoccata,
Cui poc'anzi oltraggiava, e incontro a cui
Aizzava i compagni a mensa assiso.
Qui tra i proci parlò la sacra forza
Di Telemaco: “Oh dèi! Me Giove al certo
Cavò di senno. La diletta madre
Dice un altro consorte, abbandonando
Queste mura, seguir, benché sì saggia,
E folle io rido e a sollazzarmi attendo.
Su via, poiché a voi donna in premio s'offre,
Cui non l'Acaica terra e non la sacra
Pilo ed Argo, Micene, Itaca stessa
Vanta l'eguale, o la feconda Epiro;
E il sapete voi ben, né ch'io vi lodi
La genitrice, oggi è mestier; su via,
Con vane scuse non tirate in lungo
Questo certame, e non rifugga indietro
Dalla tesa dell'arco il vostro braccio.
Cimenterommi anch'io. S'io tenderollo,
E ne' ferri entrerò con la mia freccia,
Me qui lasciar per nuove nozze in duolo
La genitrice non vorrà, fuggire
Non vorrà da un figliuol, che ne' paterni
Giochi la palma riportar già vale”.
Surse, ciò detto, ed il purpureo manto
Dagli omeri deposto e il brando acuto,
Scavò, la prima cosa, un lungo fosso;
Le colonnette con gli anelli in cima
Piantovvi, a squadra dirizzolle, e intorno
La terra vi calcò. Stupìano i proci,
Vedendole piantare a lui sì bene,
Bench'egli a nessun pria viste le avesse.
Ciò fatto, delle porte andò alla soglia,
E, fermatovi il piè, l'arco tentava.
Tre fiate trar volle il nervo al petto,
Tre dalla man gli scappò il nervo. Pure
Non disperava che la quarta prova
Più felice non fosse. E già, la corda
Traendo al petto per la quarta volta,
Teso avrìa l'arco: ma il vietava Ulisse
D'un cenno, e lui, che tutto ardea, frenava.
E Telemaco allor: “Numi!” soggiunse,
“O debile io vivrò dunque e dappoco
Tutto il mio tempo, o almen la poca etade
Forze da ributtar chi ad oltraggiarmi
Si scagliasse primier, non dammi ancora.
Ma voi, che siete più gagliardi, l'arma
Tastate adunque, e si compisca il gioco”.
Detto così, l'arco ei depose a terra,
E all'incollate tavole polite
L'appoggiò della porta, e posò il dardo
Sul cerchio, che dell'arco il sommo ornava.
Poi s'assise di nuovo.“E Antìnoo, il figlio
D'Eupìte, favellò: Tutti, o compagni,
Dalla destra per ordine v'alzate,
Cominciando ciascun, donde il vermiglio
Licor si versa”. Il detto piacque, e primo
L'Enòpide Leòde alzossi, ch'era
Loro indovino, e alla bell'urna sempre
Sedea più presso. Odio alla colpa ei solo
Portava, e gli altri riprendea. Costui
L'arco lunato ed il pennuto strale
Si recò in mano, e alla soglia ito e fermo
Su i piedi, tentò il grave arco e nol tese:
Ché sentì intorno alla ribelle corda
Prima stancarsi la man liscia e molle:
“Altri”, disse, “sel prenda; io certo, amici,
Nol tenderò: ma credo ben, che a molti
Sarà morte quest'arco. È ver che meglio
Torna il morire, che il giù tôrsi vivi
Da quella speme altissima, che in queste
Mura raccolti sino a qui ci tenne.
Spera oggi alcun, non che in suo core il brami,
La regina impalmar; ma, come visto
Questo arnese abbia e maneggiato, un'altra
Chiederà dell'Achee peplo-addobbate,
Nuzïali presenti a lei porgendo,
E a Penelope il fato uom, che di doni
Ricolmeralla, condurrà d'altronde”.
Così parlato, ei mise l'arco a terra,
E all'incollate tavole polite
L'appoggiò della porta, e posò il dardo
Sul cerchio che dell'arco il sommo ornava.
Quindi tornò al suo seggio. E Antìnoo in tali
Voci proruppe: “Qual molesto, acerbo
Dalla chiostra de' denti a te, Leode,
Detto sfuggì, che di furor m'infiamma?
A noi dunque sarà morte quest'arco?
Se tu curvar nol puoi, la madre incolpa,
Che d'archi uom non ti fece e di saette:
Ma gli altri proci il curveranno, io penso”.
Disse, e al custode del caprino gregge
Questo precetto diè: “Melanzio, accendi
Possente foco nella sala, e appresso
Vi poni seggio che una pelle cuopra.
Poi di bianco e indurato adipe reca
Grande, ritonda massa, acciocché s'unga
Per noi l'arco e si scaldi, ed in tal guisa
Questo certame si conduca a fine”.
Melanzio accese un instancabil foco,
E con pelle di sopra un seggio pose.
Poi di bianco e indurato adipe massa
Grande e tonda recò. L'arco unto e caldo
Piegar tentaro i giovani. Che valse,
Se lor non rispondean le braccia imbelli?
Ma dalla prova s'astenean finora
Eurìmaco ed Antinoo, che de' proci
Eran di grado e di valore i primi.
Usciro intanto del palagio a un tempo
Il pastor de' maiali, e quel de' buoi,
E Ulisse dopo. Delle porte appena
Fuor si trovâro e del cortil, ch'ei, dolci
Parole ad ambi rivolgendo: “Eumèo”,
Disse, “e Filezio, favellar degg'io,
O i detti ritener? Di ritenerli
L'animo non mi dà. Quali sareste
D'Ulisse a pro, se d'improvviso al vostro
Cospetto innanzi il presentasse un nume?
Ai proci, o a lui, soccorrereste voi?
Ciò che nel cor vi sta venga sul labbro”.
“O Giove padre”, sclamò allor Filezio,
“Adempi il voto mio! L'eroe qua giunga,
E un nume il guidi. Tu vedresti, o vecchio,
Quale in me l'ardir fora e quale il braccio”.
Ed Eumèo nulla meno agli dèi tutti
Pel ritorno del re preghiere alzava.
Ei, come certo a pien fu della mente
Sincera e fida d'ambiduo, soggiunse:
“In casa eccomi io stesso, io, che, sofferte
Sventure senza numero, alla terra
Nativa giunsi nel vigesim'anno.
So che a voi soli desïato io spunto
Tra i servi miei: poiché degli altri tutti
Non udii che un bramasse il mio ritorno.
Quel ch'io farò per voi, dunque ascoltate.
Voi da me donna e robe, ove dai numi
D'esterminar mi si conceda i proci,
Voi case, dalla mia non lunge estrutte,
Riceverete: ed io terrovvi in conto
Di compagni a Telemaco e fratelli.
Ma perché in forse non restiate punto,
Eccovi a segno manifesto il colpo,
Che d'un fiero cinghial la bianca sanna
M'impresse il dì ch'io sul Parnaso salsi
Co' figliuoli d'Autolico”. Ciò detto,
Dalla gran cicatrice i panni tolse.
Quei, tutto visto attentamente e tocco,
Piagnean, gittate di Laerte al figlio
Le mani intorno e gli omeri, e la testa,
Stringendol, gli baciavano; ed Ulisse
Lor baciò similmente e mani e capo.
E già lasciati il tramontato sole
Lagrimosi gli avrìa, se così Ulisse
Non correggeali: “Fine ai pianti! Alcuno
Potrìa vederli, uscendo, e riportarli
Di dentro. Udite. Nella sala il piede
Riponiam tutti, io prima, e poscia voi,
E d'un segnale ci accordiamo. I proci,
Che a me si porga la faretra e l'arco,
Non patiran: ma tu, divino Eumèo,
L'uno e l'altra mi reca, e di' alle donne,
Che gli usci chiudan delle stanze loro;
E per romor nessuna, o per lamento,
Che l'orecchio a ferir le andasse a un tratto,
Mostrisi fuori, ma quell'opra siegua,
Che avrà tra mano allor, né se ne smaghi.
Raccomando a te poi, Filezio illustre,
Serrar la porta del cortile a chiave,
E con ritorte rafforzarla in fretta”.
Entrò, ciò detto, e donde pria sorto era,
S'assise; ed ivi a poco entraro i servi.
Già per le mani Eurimaco il grand'arco
Si rivolgeva, ed a' rai quinci e quindi
Della fiamma il vibrava. Inutil cura!
Meglio che gli altri non per questo il tese;
Gemé nel cor superbo, e queste voci
Tra i sospiri mandò: “Lasso! un gran duolo
Di me stesso e di voi sento ad un'ora.
Né già sol piango le perdute nozze:
Ché nell'ondicerchiata Itaca e altrove,
Sul capo a molte Achee s'increspa il crine.
Piango, che, se di forze al grande Ulisse
Tanto cediam da non curvar quest'arco,
Si rideran di noi l'età future”.
“No”, l'Eupitìde Antìnoo a lui rispose,
“Ciò, Eurimaco, non fia: tu stesso il vedi.
Sacro ad Apollo è questo dì. Chi l'arco
Tender potrebbe? Deponiamlo, e tutti
Lasciamo star gli anelli, e non temiamo
Che alcun da dove son rapirli ardisca.
Su via, l'abil coppier vada co' nappi
Ricolmi in giro, e, poiché avrem libato,
Mettiam l'arco da parte. Al dì novello
Melanzio a noi le più fiorenti capre
Guidi da tutti i branchi, onde, bruciati
I pingui lombi al glorïoso Arciero,
Si riprenda il cimento, e a fin s'adduca”.
Piacque il suo detto. I banditori tosto
L'acqua diero alle man, l'urne i donzelli
Di vino incoronaro, e il dispensaro
Con le tazze augurando a tutti in giro.
Come libato e a piena voglia tutti
Bevuto ebber gli amanti, il saggio Ulisse,
Che stratagemmi in cor sempre agitava,
Così lor favellò: “Competitori
Dell'inclita Regina, udir v'aggradi
Ciò che il cor dirvi mi consiglia e sforza.
Eurimaco fra tutti e il pari a un nume
Antinoo, che parlò sì acconciamente,
L'orecchio aprire alle mie voci io priego.
Perdonate oggi all'arco, e degli eterni
Non ostate al voler: forza domane
A cui lor piacerà, daranno i numi.
Ma intanto a me, proci, quell'arma: io prova
Voglio far del mio braccio, e veder s'io
Nelle membra pieghevoli l'antico
Vigor mantengo, o se i miei lunghi errori
Disperso l'hanno e i molti miei disagi”.
Rinfocolârsi a ciò, forte temendo,
Non il polito arco ei piegasse. E Antinoo
Lo sgridava in tal guisa: “O miserando
Degli ospiti, sei tu fuor di te stesso?
Non ti contenti, che tranquillo siedi
Con noi principi a mensa, e, che a null'altro
Stranier mendico si concede, vieni
Delle vivande e de' sermoni a parte?
Certo te offende il saporoso vino,
Che tracannato avidamente, e senza
Modo e termine alcuno, a molti nocque.
Nocque al famoso Eurizïon Centauro,
Quando venne tra i Lápiti, e nell'alta
Casa ospitale di Piritoo immensi,
Compreso di furor, mali commise.
Molto ne dolse a quegli eroi, che incontro
Se gli avventaro, e del vestibol fuori
Trasserlo, e orecchie gli mozzaro e nari
Con affilato brando; ed ei, cui spento
Dell'intelletto il lume avean le tazze,
Sen gìa manco nel corpo e nella mente.
Quindi s'accese una cruenta pugna
Tra gli sdegnati Làpiti e i Centauri:
Ma, gravato dal vin, primo il disastro
Eurizïon portò sovra se stesso.
Così te pur grave infortunio aspetta,
Se l'arco tenderai. Del popol tutto
Non fia chi s'alzi in tua difesa, e noi
Ad Echeto, degli uomini flagello,
Dalle cui man né tu salvo uscirai,
Ti manderem su rapido naviglio.
Chetati adunque, ed il pensiero impronto
Di contender co' giovani ti spoglia”.
Qui Penelope disse: “Antìnoo, quali
Di Telemaco mio gli ospiti sieno,
Turpe ed ingiusto è il tempestarli tanto.
Pensi tu forse, che ove lo straniero,
Fidandosi di sé, l'arco tendesse,
Me quinci condurrìa moglie al suo tetto?
Né lo spera egli, né turbato a mensa
Dee per questo sedere alcun di voi.
Cosa io veder non so, che men s'addica”.
Ed Eurimaco a lei: “D'Icario figlia,
Non v'ha fra noi, cui nella mente cada,
Che te pigli a consorte uom che sì poco
Degno è di te. Ma degli Achei le lingue
Temiamo e delle Achee. La più vil bocca:
"Ve'" griderìa, "quai d'un eroe la donna
Chiedono a gara giovinotti imbelli,
Che né valgon piegare il suo bell'arco,
Mentre un tapino, un vagabondo, un giunto
Testé, curvollo agevolmente, e il dardo
Per gli anelli mandò". Tal griderebbe;
E tinto andrìa d'infamia il nostro nome.
E così a lui Penelope rispose:
“Eurimaco, non lice un nome illustre
Tra i popoli agognare a chi d'egregio
Signor la casa dal suo fondo schianta.
Perché tinger voi stessi il nome vostro
D'infamia? È lo stranier di gran sembiante,
Ben complesso di membra, e generosa
La stirpe vanta, e non vulgare il padre;
Dategli il risplendente arco, e veggiamo.
Se il tende, e gloria gli concede Apollo,
Prometto, e non invan, tunica bella
Vestirgli e bella clamide, ed in oltre
Un brando a doppio taglio, e un dardo acuto
Mettergli in mano, e sotto ai piè calzari;
E là invïarlo, dove il suo cor mira.
“Madre”, disse Telemaco, “a me solo
Sta in mano il dare, o no, quell'arco, io credo:
Né ha in lui ragione degli Achivi alcuno,
Che son nell'alpestra Itaca signori,
O nell'isole prossime alla verde
Elide, chiara di cavalli altrice.
E quando farne ancor dono io volessi
Al forestier, chi 'nvidïar mel puote?
Ma tu rïentra; ed al telaio e al fuso,
Come pur suoli, con le ancelle attendi.
Cura sarà degli uomini quell'arma,
E più che d'altri, mia: ché del palagio
Il governo in me sol, madre risiede”.
Attonita rimase, e del figliuolo
Con la parola, che nell'alma entrolle,
Risalì in alto tra le fide ancelle.
Quivi, aprendo alle lagrime le porte:
Ulisse Ulisse a nome iva chiamando:
Finché un dolce di tanti e tanti affanni
Sopitor sonno le mandò Minerva.
L'arco Eumèo tolse intanto; e già il portava,
E i proci tutti nel garrìano, e alcuno
Così dicea de' giovani orgogliosi:
“Dove il grand'arco porti, o dissennato
Porcaio sozzo? Appo le troie in breve
Te mangeran fuor d'ogni umano aiuto
Gli stessi cani di tua man nutriti,
Se Apollo è a noi propizio e gli altri numi”.
Impaurito delle lor rampogne,
L'arco ei depose. Ma dall'altra parte
Con minacce Telemaco gridava:
“Orsù, va innanzi con quell'arco. Credi
Che l'obbedire a tutti in pro ti torni?
Pon cura ch'io con iscagliati sassi
Dalla cittade non ti cacci al campo,
Io, minor d'anni, ma di te più forte.
Oh così, qual di te, più forte io fossi
De' proci tutti che qui sono! Alcuno
Tosto io ne sbalzerei fuor del palagio,
Dove il tesser malanni è lor bell'arte”.
Tutti scoppiâro in un giocondo riso
Sul custode de' verri, e della grave
Contra il garzone ira allentâro. Eumèo,
Traversata la sala, innanzi a Ulisse
Fermossi, ed il grande arco in man gli mise.
Poi, chiamata Euriclèa, parlò in tal forma:
“Saggia Euriclèa, Telemaco le stanze
Chiuder t'ingiunge, e dell'ancelle vuole,
Che per rumor nessuna, o per lamento,
Che l'orecchio a ferir le andasse a un tratto,
Mostrisi fuori, ma quell'opra siegua,
Che avrà tra mano allor, né se ne smaghi”.
Non parlò al vento. La nutrice annosa
Tutte impedì le uscite; e al tempo istesso
Filezio si gittò tacitamente
Fuor del palagio, e rinserrò le porte
Del cortil ben munito. Una gran fune
D'Egizio giunco per navigli intesta
Giacea sotto la loggia; ed ei con quella
Più ancor le porte rafforzò. Ciò fatto,
Rïentrava, e la sedia, ond'era sorto,
Premea di nuovo, riguardando Ulisse.
Ulisse l'arco maneggiava, e attento
Per ogni parte rivoltando il giva,
Qua tastandolo e là, se i muti tarli
Ne avesser mai ròse le corna, mentre
N'era il signor lontano. E alcun, rivolti
Gli sguardi al suo vicino: “Uom”, gli dicea,
“Che si conosce a maraviglia d'archi,
È certo, o un arco somigliante pende
A lui dalla domestica parete,
O fabbricante un dì tal fatta ei pensa:
Così questo infelice vagabondo
L'arco tra le sua man volta e rivolta!”
E un altro ancor de' giovani protervi:
“Deh così in bene gli rïesca tutto,
Come teso da lui sarà quell'arco!”
Ma il Laerzìade, come tutto l'ebbe
Ponderato e osservato a parte a parte,
Qual perito cantor, che, le ben torte
Minuge avvinte d'una sua novella
Cetera ad ambo i lati, agevolmente
Tira, volgendo il bìschero, la corda:
Tale il grande arco senza sforzo tese.
Poi saggio far volle del nervo: aperse
La mano, e il nervo mandò un suono acuto,
Qual di garrula irondine è la voce.
Gran duolo i proci ne sentiro, e in volto
Trascoloraro; e con aperti segni
Fortemente tonò Giove dall'alto.
Gioì l'eroe, che di Saturno il figlio,
Di Saturno, che obliqui ha pensamenti,
Gli dimostrasse il suo favor dal cielo;
E un aligero stral, che su la mensa
Risplendea, tolse: tutte l'altre frecce,
Che gli Achivi assaggiar dovean tra poco,
In sé chiudeale il concavo turcasso.
Posto su l'arco ed incoccato il dardo,
Traeva seduto, siccom'era, al petto
Con la man destra il nervo: indi la mira
Tra i ferrei cerchi prese, e spinse il telo,
Che, senza quinci devïare o quindi,
Passò tutti gli anelli alto ronzando.
Subitamente si rivolse al figlio,
E: “Telemaco”, disse, “il forestiero
Non ti svergogna, parmi. Io punto lunge
Dal segno non andai, né a tender l'arco
Faticai molto; le mie forze intere
Serbo, e non merto villanìe dai proci.
Ma tempo è omai che alla cadente luce
Lor s'appresti la cena; e poi si tocchi
La cetra molticorde, e s'alzi il canto,
In che più di piacer la mensa acquista”.
Disse, e accennò co' sopraccigli. Allora
Telemaco, d'Ulisse il pegno caro,
La spada cinse, impugnò l'asta, e, tutto
Risplendendo nell'armi, accanto al padre,
Che pur seduto rimanea, locossi.
LIBRO VENTIDUESIMO
Surse e spogliossi de' suoi cenci Ulisse,
E sul gran limitare andò d'un salto,
L'arco tenendo e la faretra. I ratti
Strali, onde gravida era, ivi gittossi
Davante ai piedi, e ai proci disse: “A fine
Questa difficil prova è già condotta.
Ora io vedrò, se altro bersaglio, in cui
Nessun diede sin qui, toccar m'avviene,
E se me tanto privilegia Apollo”.
Così dicendo, ei dirigea l'amaro
Strale in Antinoo. Antinoo una leggiadra
Stava per innalzar coppa di vino
Colma a due orecchie, e d'oro: ed alle labbra
Già l'appressava: né pensier di morte
Nel cor gli si volgea. Chi avrìa creduto
Che fra cotanti a lieta mensa assisi
Un sol, quantunque di gran forze, il nero
Fabbricar gli dovesse ultimo fato?
Nella gola il trovò col dardo Ulisse,
E sì colpillo, che dall'altra banda
Pel collo delicato uscì la punta.
Ei piegò da una parte e dalle mani
La coppa gli cadé: tosto una grossa
Vena di sangue mandò fuor pel naso;
Percosse colle piante, e da sé il desco
Respinse; sparse le vivande a terra;
Ed i pani imbrattavansi e le carni.
Visto Antìnoo cader, tumulto i proci
Fêr nella sala, e dai lor seggi alzâro,
Turbati raggirandosi, e guardando
Alle pareti qua e là: ma lancia
Dalle pareti non pendea, né scudo.
Allor con voci di grand'ira Ulisse
Metteansi a improverare: “Ospite, il dardo
Ne' petti umani malamante scocchi;
Parte non avrai più ne' giuochi nostri:
Anzi grave ruina a te sovrasta.
Sai tu che un uomo trafiggesti ch'era
Dell'Itacense gioventude il fiore?
Però degli avoltoi sarai qui pasto”.
Così, pensando involontario il colpo,
Dicean: né s'avvedean folli, che posto
Ne' confini di morte avean già il piede.
Ma torvo riguardolli, e in questa guisa
Favellò Ulisse: “Credevate, o cani,
Che d'Ilio io più non ritornassi, e intanto
La casa disertar, stuprar le ancelle,
E la consorte mia, me vivo, ambire
Costumavate, non temendo punto
Né degli dèi la grave ira, né il biasmo
Permanente degli uomini. Ma venne
La fatale per voi tutti ultima sera”.
Tutti inverdiro del timore, e gli occhi,
Uno scampo a cercar, volsero intorno.
Solo, e in tal forma, Eurimaco rispose:
“Quando il vero tu sii d'Itaca Ulisse
Fra noi rinato, di molt'opre ingiuste,
Che sì nel tuo palagio e sì ne' campi
Commesse fûro, ti quereli a dritto.
Ma costui, che di tutto era cagione,
Eccolo in terra, Antìnoo. Ei dell'ingiuste
Opre fu l'autor primo: e non già tanto
Pel desiderio delle altere nozze,
Quanto per quel del regno, a cui tendea,
Insidïando il tuo figliuolo: occulte
Macchine, che il Saturnio in man gli ruppe.
Poiché morto egli giace, alla tua gente
Perdona tu. Pubblica emenda farti
Noi promettiamo: promettiam con venti
Tauri ciascun e con oro e con bronzo,
Quel vôto rïempir, che ne' tuoi beni
Gozzovigliando aprimmo; in sin che il core
Alla letizia ti si schiuda, e sgombri
L'ira, onde a gran ragione arse da prima”.
Bieco mirollo, e replicògli Ulisse:
“Dove, Eurimaco, tutte ancor mi deste
L'eredità vostre paterne, e molti
Beni stranieri vi poneste accanto,
Io questa man non riterrei dal sangue,
Che la vendetta mia piena non fosse.
Or, qual de' due vi piacerà, scegliete,
Combattere o fuggir, se pur v'ha fuga
Per un solo di voi: ciò ch'io non credo”.
Ciascuno de' proci il cor dentro mancarsi
Sentì, e piegarsi le ginocchia sotto.
Ed Eurimaco ad essi: “Amici, indarno
Sperate che le braccia egli non muova.
L'arco una volta ed il turcasso assunti,
Disfrenerà dal limitare i dardi,
Finché tutti ci atterri. Alla battaglia
Dunque si pensi: distringiam le spade,
E, delle mense alle letali frecce
Scudo facendo a noi, piombiamgli sopra
Tutti in un groppo. Se da quella porta
Scacciarlo ne rïesce, e la cittade
Scorrere, alzando al ciel subite voci,
Dal saettar si rimarrà per sempre”.
Disse, e l'acuto di temprato rame
Brando a due tagli strinse, e su lui corse
Con terribili grida. In quella Ulisse,
Vôtato l'arco, al petto il colse, e il pronto
Nel fegato gl'infisse acerbo strale.
Lasciò Eurimaco il brando, e dopo alquanti
Giri, curvato su la mensa cadde,
E i cibi riversaronsi e la coppa.
Ma ei batté sopra la terra il capo,
Nell'alma tapinandosi, ed il seggio,
Che già premer solea, con ambo i piedi
Forte springando, scosse: al fine un'atra
Tutto il coverse sempiterna notte.
Ma d'altra parte Anfinomo avventossi
Col brando in man contra l'eroe, se mai
Dalla soglia disvellerlo potesse.
Il prevenne Telemaco, e da tergo
Tra le spalle il ferì con la pungente
Lancia, che fuor gli rïuscì del petto.
Quell'infelice rimbombò caduto,
E con tutta la fronte il suol percosse.
Ma il garzon sottraeasi, abbandonando
La lancia entro d'Anfinomo: temea,
Non alcun degli Achei, mentr'egli chino
Starìasi l'asta a sconficcare intento,
Di furto il martellasse, o con la spada
Sopra mano il ferisse alla scoperta.
Quindi ricovrò ratto, e in un baleno
Al caro padre fu vicino e a lui:
Padre, disse, uno scudo e lance due,
E un adatto alle tempie elmo lucente
Ti recherò, m'armerò io stesso, ed armi
A Filezio darò, darò ad Eumèo:
De' consigli il miglior sembrami questo”.
“Sì, corri”, Ulisse gli rispose, “e riedi,
Finché restano a me dardi a difesa:
Ma riedi prestamente, onde gli Achei
Me, che son solo, non ismuovan quinci”.
Ubbidì il figlio, e alla superna stanza,
Dove l'armi giaceano, andò di passo
Lanciato, e targhe quattro ed otto lance
Prese, e quattro lucenti elmi di chioma
Equina folti, e in brevi istanti al caro
Genitor si rendé. Qui del metallo
Munì egli primo la persona, e i servi
Parimente le belle armi vestîro,
Ed all'accorto eroe stettero intorno.
Questi, finché le frecce a lui bastâro,
Togliea la mira ed imbroccava ognora,
E cadean l'un su l'altro i suoi nemici.
Ma poiché le infallibili saette
Gli fûr venute men, l'arco ei depose,
E l'appoggiò del ben fondato albergo
Al nitido parete. Indi le spalle
Si carcò d'uno scudo a quattro doppi,
L'elmo dedàleo con l'equina chioma
Piantossi in capo, e due possenti lance
Nella man si recò: sovra la testa
Gli ondeggiava il cimier terribilmente.
Era in capo alla sala, e nel parete
Del ben fondato albergo una seconda
Di congiunte assi rinforzata porta,
Che in pubblico mettea non largo calle.
Di questa, per cui sol s'apriva un passo,
Ulisse volle il fido Eumèo per guardia.
Agelao v'ebbe l'occhio, e disse: “Amici,
Non ci sarà chi quella porta sforzi,
E sparga voce, o il popolo a romore
Levi, perché costui cessi dai colpi?”
“Ciò”, rispose Melanzio, “ad alcun patto
Non possiamo, Agelao di Giove alunno.
Le porte del cortil troppo vicine
Sono, ed angusta è quell'uscita, e un solo
Cui non manchi valor, cento respinge.
Pur non temete. Io porterò a voi l'armi
Dalla stanza superna, in cui riposte
Da Ulisse e dal figliuol senz'altro fûro”.
Detto, andar su e giù per l'alta scala,
Entrar, pigliar dodici targhe e lance
Tante e tanti criniti elmi, ed il tutto
Mettere in man de' palpitanti proci,
Fu di pochi momenti opra felice.
Turbar l'animo Ulisse e le ginocchia
Languir sentì, ratto che ai proci vide
Prender gli elmi e gli scudi, e le lunghe aste
Ir con la destra palleggiando; e allora
L'arduo conobbe dell'assunta impresa.
Si converse al figliuol tosto, e: “Telemaco”,
Con dolenti gli disse alate voci,
“Certo il capraio, o delle donne alcuna
Raccende contro noi quest'aspra guerra”.
E Telemaco a lui: “Padre”, rispose,
“Io sol peccai, non altri, io, che la salda
Porta lasciai mezzo tra chiusa e aperta;
Ed un esplorator di me più astuto
Si giovò intanto del mio fallo. Or vanne
Tu, prode Eumèo, chiudi la porta, e sappi,
Se ciò vien da un'ancella, o dalla trista,
Come parmi più ver, di Dolio prole”.
Mentre tali correan voci tra loro,
Melanzio per le belle armi di nuovo
Salse. Adocchiollo Eumèo, né a dir tardava
Così ad Ulisse, che lontan non gli era:
“Laerzìade divin, quella rea peste,
Di cui noi sospettiam, sale di nuovo.
Parlami chiaro: deggio porlo a morte,
Se rimángogli sopra, o qua condurlo,
Perché a te innanzi d'ogni suo delitto
Meritamente il fio paghi una volta?”
E il saggio Ulisse: “A sostenere i proci,
Come che ardenti, io col mio figlio basto.
Filezio dunque, e tu, poiché l'avrete
Entro la stanza rovesciato a terra,
Ambo i piedi stringetegli, e le mani
Sul tergo, chiusa dietro a voi la porta;
E lui, d'una insolubile catena
Cinto, tirate sino all'alte travi
Lungo una gran colonna, acciocché il tutto
Sconti con morte dolorosa e lunga”.
Pronti i servi ubbidîro. Alla sublime
Camera s'affrettâr, da lui, che dentro
Era e cercava nel più interno l'arme,
Non visti e non sentiti; e si piantâro
Quinci e quindi alla porta. Ei per la soglia
Passava ratto in una man portando
Luminosa celata, ed un vetusto
Nell'altra e largo e arrugginito scudo,
Che gli omeri gravò del buon Laerte
Sul primo fior dell'età sua, deposto
Poscia e dimenticato, e da cui rotte
Le corregge pendevano. Veloci
L'assaltâr, l'abbracciâr, lo strascinâro
Dentro pel ciuffo, e l'atterrâr dolente,
Indi ambo i piedi gli legâro, ed ambo
Sovra il tergo le man, qual di Laerte
Comandò il figlio; e lui d'una catena
Insolubile cinto in sino all'alte
Travi tirar lungo una gran colonna.
“E così allor tu il deridesti, Eumèo:
Melanzio, or certo veglierai la notte
Su letto molle, come a te s'addice,
Corcato; né uscirà dalle correnti
Dell'Ocean, che tu non la vagheggi,
L'Aurora in trono d'ôr, quando le pingui
Capre alla mensa condurrai de' proci”.
Tal fu Melanzio fra legami acerbi
Sospeso e abbandonato; e quei con l'arme
Sceser, la porta risplendente chiusa;
E presso al ricco di consigli Ulisse,
Forza spiranti e ardire, il piè fermâro.
Così quattro guerrier in su la soglia
Erano e nella sala un numeroso
Drappello e non ignobile. Ma Palla
L'armipotente del Saturnio figlia,
Con la faccia di Mentore e la voce,
Tra le due parti d'improvviso apparve.
Gioì a vederla il Laerzìade, e disse:
Mentore, mi seconda, e ti rammenta
Del tuo dolce compagno, onde a lodarti
Non raro avesti, e a cui sei d'anni eguale”.
Così l'eroe: ma non gli tace il core,
Che la sua diva in Mentore s'asconde.
Dall'altra parte la garrìano i proci,
E primo il Damastòride Agelao
A minacciarla fu: “Mentore, bada,
Che a pugnare in suo pro contra gli Achivi
Non ti seduca favellando Ulisse.
Però che quando per man nostra uccisi
Giaceran, come ho fede, il padre e il figlio,
Morrai tu ancora, e il sangue tuo darai
Per ciò che oprar nella magione or pensi.
Che più? Te fatto cenere, co' beni
D'Ulisse in monte andrà quant'or possiedi
Nel tuo palagio e fuor, né a figli o a figlie
Menare i dì sotto il natìo lor tetto
Consentirem, né alla tua casta donna
D'Itaca soggiornar nella cittade”.
Vie più s'accende a così fatte voci
L'ira di Palla, ed in rimbrotti scoppia
Contra Ulisse lanciáti: “Io nulla, Ulisse,
Di quel fermo vigor, nulla più veggio
Di quell'ardire in te, che allor mostrasti,
Che innanzi a Troia per le bianche braccia
Della nata di Giove inclita Elèna
Combattesti un decennio. Entro il lor sangue
Molti stendesti de' nemici, e prima
S'ascrive a te, se la dall'ampie strade
Città di Priamo in cenere fu vòlta.
Ed or che giunto alle paterne case
La tua donna difendi e i beni tuoi,
Mollemente t'adopri? Orsù, vicino
Stammi, ed osserva, quale il figlio d'Alcìmo,
Mentore, fra una gente a te nemica
De' benefici tuoi merto ti rende”.
Tal favellava: ma perché l'innata
Virtù del padre e del figliuol volea
Provare ancor, per alcun tempo incerta
La vittoria lasciò tra loro e i proci.
Quindi, montando rapida, su trave
Lucido ed alto, a rimirar la pugna,
Di rondine in sembianza, ella s'assise.
Frattanto il Damastòride Agelao,
Anfimedonte, Eurinomo, e il prudente
Pòlibo, e Demoptòlemo, e Pisandro,
Di Polittore il figlio, alla coorte
Spirti aggiungean, come color che i primi
Eran di forza tra i rimasti in piedi,
E l'alma difendean; gli altri avean domi
L'arco famoso e le frequenti frecce.
Parlò a tutti Agelao: “Compagni, io penso
Che le indomite man frenare un tratto
Costui dovrà. Già Mentore disparve
Dopo il bravar suo vano, e su la soglia
Quattro sono, e non più. Voi non lanciate
Tutti, io ven priego, unitamente: sei
Aste volino in prima; e il vanto Giove
Di colpire in Ulisse a noi conceda.
Caduto lui, nulla del resto io curo”.
Sei, com'egli bramava, aste volâro,
E tutte andar le feo Pallade a vôto.
L'un de' pungenti frassini la porta
Percosse, un altro su la soglia cadde,
Ed un terzo investì nella parete.
Scansáti i colpi, di Laerte il figlio:
“Amici”, disse, “nello stuol de' proci,
Che, non contenti alle passate offese,
Della vita spogliar voglionci ancora,
Io crederei che saettar si debba”.
Ciascun la mira di rincontro tolse,
E trasse d'una lancia. Il divo Ulisse
Demoptòlemo uccise, e scagliò morte
Telemaco ad Eurìade, a Elato Eumèo,
Ed a Pisandro il buon Filezio: tutti
Del pavimento morsero la polve.
Gli altri nel fondo della sala il piede
Tiraro indietro: Ulisse e i tre compagni
Corsero, e svelser dagli estinti l'aste.
Allor lanciaro novamente i proci
Di tutta forza, e tutti quasi i colpi
Nuovamente svïò Pallade amica.
La gran soglia, la porta e la parete
Li ricevette o li respinse: solo
Anfimedonte tanto o quanto lese
La destra di Telemaco nel polso,
E appena ne graffiò la somma cute;
E la lung'asta di Ctesippo, a Eumèo
Lo scudo rasentando, e lievemente
Solcandogli la spalla, il suo tenore
Seguì, e ricadde sovra il palco morta.
Ma non così dall'altra parte spinte
Fûr contra i proci le pungenti travi.
Quella del distruttor de' muri Ulisse
Fulminò Euridamante; Anfimedonte
Per quella giacque del suo figlio: Eumèo
Scontrò con la sua Pòlibo, e Filezio
Ctesippo colse con la sua nel petto,
E su lui stette alteramente, e disse:
“Politersìde, degli oltraggi amante,
Cessa dal secondar la tua stoltezza,
Con vana pompa favellando, e ai numi
Cedi, che di te son molto più forti.
Questo è il dono ospital di quello in merto,
Che al nostro re, che mendicava festi:
Alla zampa del bue l'asta rispose”.
Così d'Ulisse l'armentario illustre.
In questo mezzo di Laerte il figlio
Conquise il Damastoride da presso
Di profonda ferita; e a Leocrito
Telemaco piantò nel ventre il telo,
Che delle reni fuor gli ricomparve.
L'Evenorìde stramazzò boccone,
E la terra batté con tutto il fronte.
Pallade allor, che rivestì la diva,
Alto levò dalla soffitta eccelsa
La funesta ai mortali egida, e infuse
Ne' superstiti proci immensa tema.
Saltavan qua e là, come le agresti
Madri talvolta del cornuto armento,
Se allo scaldarsi ed allungar de' giorni
Le punge il fiero assillo e le scompiglia.
Ma in quella guisa che avoltori, il rostro
Ricurvi e l'unghia, piombano, calando
Dalla montagna, su i minori augelli,
Che trepidi vorrìano ir vêr le nubi:
E quei su lor ripiombano e ne fanno,
Quando difesa non rimane o scampo,
Strazio e rapina del villano agli occhi,
Che di tale spettacolo si pasce:
Non altrimenti Ulisse e i tre compagni
Si scagliavan su i proci, e tale strage
Ne menavan, che fronte omai non v'era
Che non s'aprisse sotto i gran fendenti;
E un gemer tetro alzavasi, e di nero
Sangue ondeggiava il pavimento tutto.
Leode le ginocchia a prender corse
Del figliuol di Laerte, e in supplice atto
Gli drizzò tali accenti: “Eccomi, Ulisse,
Alle ginocchia tue, che di te imploro
Gli sguardi e la pietade. Io delle donne
In fatto o in detto non offesi alcuna:
Anzi gli altri alle sozze opre rivolti
Di ritenere io fea. Non m'obbedîro:
Però una morte subitana e acerba
Delle sozze opre lor fu la mercede.
Ma io, io, che indovin tra i proci vissi
Io, che nulla commisi unqua di male,
Qui spento giacerò degli altri al paro?
È questo il pregio che a virtù si serba?”
E Ulisse, torvi in lui gli occhi fissando:
“Poiché tra i proci indovinar ti piacque,
Spesso chiedesti nel palagio ai numi,
Che del ritorno il dì non mi splendesse;
Che te seguisse, e procreasse figli
La mia consorte a te: quindi e tu al grave
Sonno perpetuo chiuderai le ciglia”.
Così dicendo, con la man gagliarda
Dal suol raccolse la tagliente spada,
Che Agelao su la morte avea perduto;
E di percossa tal diede al profeta
Pel collo, che di lui, che ancor parlava,
Rotolò nella polvere la testa.
Ma di Terpio il figliuol, l'inclito Femio,
Che tra i proci sciogliea per forza il canto,
Morte schivò. Della seconda porta
Con la sonante in man cetra d'argento
Vicino erasi fatto, e in due pensieri
Dividea la sua mente: o fuori uscito
Sedersi all'ara del gran Giove Ercèo,
Dove Laerte e il suo diletto figlio
Molte solean bruciar cosce taurine;
O ad Ulisse prostrarsi, e le ginocchia
Stringergli e supplicarlo; e delle due
Questa gli parve la miglior sentenza.
Prima tra una capace urna e un distinto
D'argentei chiovi travagliato seggio
Depose a terra l'incavata cetra:
Poi vêr l'eroe si mosse, e le ginocchia
Stringeagli, e gli dicea con voci alate:
“Ulisse, ascolta queste mie preghiere,
E di Femio pietà l'alma ti punga.
Doglia tu stesso indi ne avrai, se uccidi
Uom che agli uomini canta ed agli dèi.
Dotto io son da me solo, e non già l'arte,
Ma un dio mi seminò canti infiniti
Nell'intelletto. Gioirai, qual nume,
Della mia voce al suono. E tu la mano
Insanguinar ti vuoi nel corpo mio?
Ne domanda Telemaco, il tuo dolce
Figlio, ed ei ti dirà, che né vaghezza
Di plauso mai, né scarsità di vitto,
Tra i proci alteri a musicar m'indusse.
Ma co' molti, co' giovani, co' forti,
Uom che potea debile, vecchio e solo?”
Tal favellava: e la sacrata possa
Di Telemaco udillo, e ratto al padre,
Che non gli era lontan: “T'arresta”, disse,
“E di questo innocente i dì rispetta.
Medonte ancor, che de' miei giorni primi
Cura prendea, noi serberemo in vita:
Sol ch'ei non sia per man d'un de' pastori
Caduto, e in te dato non abbia, mentre
Per la sala menavi in furia i colpi”.
L'udì Medonte, il banditor solerte,
Che sdraiato giacea sotto un sedile,
E, l'atro fato declinando, s'era
D'una fresca di bue pelle coverto.
Surse da sotto il seggio, e il bovin cuoio
Svestissi, e andò a Telemaco, e, gittate
A' suoi ginocchi ambe le braccia: “Caro”,
Gridava, “eccomi qua: salvami, e al padre
Di', che irato co' proci, onde scemati
Gli erano i beni, e vilipeso il figlio,
Non s'inaspri in me ancora e non m'uccida”.
Sorrise Ulisse, e a lui: “Sta' di buon core.
Già di rischio Telemaco ti trasse,
E in salvo pose, acciocché sappi, e il narri,
Quanto più del far male il ben far torna.
Tu, araldo, intanto, e tu, vate immortale,
Fuor del palagio e della strage usciti,
Sedete nel cortil, finch'io di dentro
Tutta l'impresa mia conduco a riva”.
Tacque; ed uscîro, e appo l'altar del sommo
Giove sedean, guardandosi all'intorno,
Qual se ad ogni momento, e in ogni loco,
Dovesse lor sopravvenir la Parca.
Lo sguardo allora per la casa in giro
L'eroe mandò, se mai de' proci alcuno
Fuggito avesse della morte il fato.
Non rimanea di tanti un che nel sangue
Steso non fosse e nella polve. Come
Gli abitatori del canuto mare,
Che il pescator con rete a molti vani
Su dall'onda tirò nel curvo lido,
Giaccion, bramando le native spume,
Per l'arena odïata, e loro il sole
Con gl'infiammati rai le anime fura:
Così giacean l'un presso l'altro i proci.
Subitamente Ulisse in questa forma
Si converse a Telemaco: “Telemaco,
La nutrice Euriclèa, su via, mi chiama,
Ciò per udir, che a me di dirle è in grado.
Ubbidì egli e incamminossi, e, dato
D'urto alla porta: “O d'anni carca”, disse,
“Sorgi, Euriclèa, che nella nostra casa
Vegli sovra le ancelle. Il padre mio,
Che desìa favellarti, a sé ti vuole”.
Non sen portava le parole il vento.
Aprì Euriclèa le porte, e in via con lui,
Che precedeala, entrò veloce, e brutto
Di polve tra i cadaveri e di sangue
Ulisse ritrovò. Qual par leone,
Che vien da divorar nel campo un toro,
E il vasto petto e l'una guancia e l'altra
Ne riporta cruenta, e dalle ciglia
Spira terror: tale insozzati Ulisse
Mostrava i piedi e delle mani i dossi.
Quella, come i cadaveri ed il molto
Sangue mirò, volle gridar di gioia
A spettacolo tal: ma ei frenolla,
Benché anelante, e con parole alate:
“Godi dentro di te”, disse, “ma in voci,
Vecchia, non dar di giubilo: ché vampo
Menar non lice sovra gente uccisa.
Questi domò il destino, e morte a loro
Le stesse lor malvagitadi fûro:
Quando non rispettâro alcun giammai,
Buon fosse o reo, che in Itaca giungesse,
Dunque a dritto periro. Or tu, nutrice,
Di' delle donne a me, quai nel palagio
Son macchiate di colpa, e quali intatte”.
E la diletta a lui vecchia Euriclèa:
“Figliuol, da me tu non avrai che il vero.
Cinquanta chiude il tuo palagio, a cui
Le lane pettinar, tesser le tele,
E sostener con animo tranquillo
La servitute, io stessa un giorno appresi.
Dodici tra costor tutta spogliâro
La verecondia, e, non che me, la stessa
Dispregiâro Penelope. Non era
Troppo innanzi venuto ancor negli anni
Il figlio tuo, né su le donne alcuno
Gli consentìa la saggia madre impero.
Ma che fo io, che alle lucenti stanze
Non salgo di Penelope, che giace
Da un dio sepolta in un profondo sonno?”
“Non la destare ancor”, rispose Ulisse,
“Bensì alle donne, il cui peccar t'è noto,
Che a me si rappresentino, dirai”.
La balia senza indugio a invitar mosse
Le peccatrici e ad esortarle tutte,
Che si rappresentassero all'eroe.
E intanto egli, Telemaco a sé avuto,
E il custode de' verri, e quel de' tori,
Tai parole lor feo: “Le morte salme
Più non si tardi a trasportare altrove,
E dell'infìde ancelle opra sia questa.
Poi con l'acqua e le spugne a molte bocche,
I bei sedili tergeransi e i deschi.
Tutta rimessa la magione in punto,
Le ancelle ne trarrete, e, poste in mezzo
Tra la picciola torre ed il superbo
Recinto del cortil, tanto co' lunghi
Le cercherete feritori brandi,
Che si disciolga dai lor corpi l'alma,
E dalle menti lor fugga l'immonda
Venere, onde s'unìan di furto ai proci”.
Ciò detto appena, ecco venire a un corpo
Le grame, sollevando alti lamenti,
E una pioggia di lagrime versando,
Pria trasportâr gl'inanimati corpi,
Che del cortile, aitandosi a vicenda,
Sotto alla loggia collocâro. Instava
Co' suoi comandi Ulisse; e quelle il tristo
Ministero compiean, benché a mal cuore.
Poi con l'acqua e le spugne a molte bocche,
I bei sedili si tergeano e i deschi.
Ma Telemaco, e seco i due pastori,
Con rigide scorrean pungenti scope
Sul pavimento del ben fatto albergo;
E la bruttura raccogliean le afflitte
Donne, e fuori recavanla. Né prima
Rimessa fu la magion tutta in un punto,
Che fra la torre ed il recinto poste
Le malvage si videro, e in tal guisa
Serrate là, che del fuggir nulla era.
E Telemaco: “Io, no, con morte onesta
Non torrò l'alma da coteste donne,
Che a me sul capo od alla madre, scherni
Versaro; e che s'unìan d'amor co' proci”.
Disse; e di nave alla cerulea prora
Canape, che partìa da un gran pilastro,
Gittò alla torre a tale altezza intorno,
Che le ancelle, per cui gittarlo piacque,
Non potesser del piè toccar la terra.
E come incontra che o colombe o torde
Che al verde chiuso d'una selva entraro,
Van con ali spiegate a dar di petto
Nelle pèndule reti, ove ciascuna
Trova un letto feral: tali a mirarle
Eran le donne con le teste in fila,
E con avvinto ad ogni collo un laccio,
Di morte infelicissima strumento.
Guizzan co'piedi alquanto e più non sono.
Telemaco indi, e i due pastori seco,
Nella corte per l'atrio il mal capraio
Conducean: recideangli orecchie e nari,
E i genitali, da buttarsi crudi
Ai can voraci, gli svelleano, i piedi
Mozzavangli e le man; tanta fu l'ira.
Punito al fine ogni misfatto, e mani
Con pura onda di fonte e piè lavati,
Ritorno fêr nella magione a Ulisse.
Questi allor tai parole alla diletta
Nutrice rivolgea: “Portami, o vecchia,
Il zolfo salutifero ed il fuoco,
Perché l'albergo vaporare io possa,
E Penelope a me con le fedeli
Sue donne venga; e tu l'altre per casa
Femmine tutte a qua venir conforta”.
Ed ella: “Figlio mio, quanto dicesti
Io lodo assai. Ma non vuoi tu che prima
Manto a coprirti e tunica io ti rechi?
Indegno fora con tai cenci indosso
Nel tuo palagio rimaner più a lungo”.
“Prima il zolfo ed il fuoco”, ad Euriclèa
Rispose il pien d'accorgimenti eroe.
La nutrice, ubbidendo, il sacro zolfo
Portògli e il fuoco prestamente; e Ulisse
La sala ed il vestibolo e il cortile
Più volte vaporò. Salì frattanto
Colei le ancelle a confortar, che franche
Vedere omai si fessero. Le ancelle
Delle camere usciro, in man tenendo
Lucide faci: poscia intorno a lui
Si spargeano e abbracciavanlo, ed il capo
Baciavangli, stringendolo e le spalle,
E l'afferravan nelle mani. Ulisse
Tutte le riconobbe ad una ad una
Nel consapevol petto, e un dolce il prese
Di sospiri e di lagrime desìo.
LIBRO VENTITREESIMO
La buona vecchia gongolando ascese
Nelle stanze superne, alla padrona
Per nunzïar, ch'era il marito in casa.
Non le tremavan più gl'invigoriti
Ginocchi sotto; ed ella a salti giva.
Quindi le stette sovra il capo, e: “Sorgi”,
Disse, “Penelopèa, figlia diletta,
Se il desìo rimirar de' giorni tutti
Vuoi co' propri occhi. Ulisse venne, Ulisse
Nel suo palagio entrò dopo anni tanti,
E i proci temerari, onde turbata
La casa t'era, consumati i beni,
Molestato il figliuol, ruppe e disperse”.
E Penelope a lei: “Cara nutrice,
Gl'Iddii, che fanno, come lor talenta,
Del folle un saggio e del più saggio un folle,
La ragion ti travolsero. Guastâro
Cotesta mente, che fu sempre intègra,
Senza dubbio gl'Iddii. Perché ti prendi
Gioco di me, cui sì gran doglia preme,
Favole raccontandomi, e mi scuoti
Da un sonno dolce, che, abbracciate e strette
Le mie tenea care palpebre? Io mai,
Dacché Ulisse levò nel mar le vele
Per la malvagia innominanda Troia,
Così, no, non dormìi. Su via, discendi,
Balia, e ritorna onde movesti, e sappi,
Che se tali novelle altra mi fosse
Delle mie donne ad arrecar venuta,
E me dal sonno scossa, io rimandata
Tostamente l'avrei con modi acerbi:
Ma giovi a te, che quel tuo crin sia bianco”.
“Diletta figlia”, ripigliò la vecchia,
“Io di te gioco non mi prendo. Ulisse
Capitò veramente, ed il suo tetto
Rivide al fin: quel forestier da tutti
Svillaneggiato nella sala è Ulisse.
Telemaco il sapea: ma scortamente
I paterni consigli in sé celava,
Delle vendette a preparar lo scoppio”.
Giubbilò allor Penelope, e, di letto
Sbalzata, al seno s'accostò la vecchia,
Lasciando ir giù le lagrime dagli occhi,
E con parole alate: “Ah! non volermi,
Balia cara, deludere”, rispose.
“S'ei, come narri, in sua magione alberga,
Di qual guisa poté solo agli audaci
Drudi, che in folla rimaneanvi sempre,
Le ultrici far sentir mani omicide?”
“Io nol vidi, né il so”, colei riprese:
“Solo il gemer di quei, ch'eran trafitti,
L'orecchio mi ferìa. Noi delle belle
Stanze, onde aprir non potevam le porte,
Nel fondo sedevam, turbate il core;
Ed ecco a me Telemaco mandato
Dal genitor, che mi volea. Trovai
Ulisse in piè tra i debellati proci,
Che giacean l'un su l'altro, il pavimento
Tutto ingombrando. Oh come ratto in gioia
La tua lunga tristezza avresti vôlta:
Se di polve e di sangue asperso e brutto,
Qual feroce leon, visto l'avessi!
Or, del palagio fuor tutti in un monte
Stannosi; ed ei con solforati fuochi,
Ei, che a te m'inviò nunzia fedele,
La nobile magion purga e risana.
Seguimi adunque; e dopo tanti mali
Ambo schiudete alla letizia il core.
Già questo lungo desiderio antico,
Che distruggeati, cessa: Ulisse vivo
Venne al suo focolare, e nel palagio
Trovò la sposa e il figlio, e di coloro,
Che gli noceano, vendicossi a pieno”.
“Tanto non esultar, non trïonfare,
Nutrice mia”, Penelope soggiunse,
“Perché t'è noto, quanto caro a tutti,
E sovra tutti a me caro, e al cresciuto
Suo figlio e mio, capiterebbe Ulisse.
Ma tu il ver non parlasti. Un nume, un nume
Fu, che dell'opre ingiuste e de' superbi
Scherni indegnato, mandò all'Orco i proci,
Che dispregiavan sempre ogni novello
Stranier, buon fosse, o reo: quindi perîro.
Ma Ulisse lungi dall'Acaica terra
Il ritorno perdé, perdé la vita”.
“Deh quale, o figlia, ti sfuggì parola
Dalla chiostra de' denti?” a lei la vecchia.
“Il ritorno perdé, perdé la vita,
Mentre in sua casa e al focolar suo sacro
Dimora? Il veggio: chiuderai nel petto
Un incredulo cor, finché vivrai.
Se non che un segno manifesto in prova
Ti recherò; la cicatrice onesta
Della piaga, che in lui di guerreggiato
Cinghial feroce il bianco dente impresse;
Quella, i piedi lavandogli, io conobbi
E volea palesartela: ma egli,
Con le mani afferrandomi alla bocca,
D'accortezza maestro, il mi vietava.
Séguimi, io dico. Ecco me stessa io metto
Nelle tue forze: s'io t'avrò delusa,
La morte più crudel fammi morire”.
E di nuovo Penelope: “Nutrice,
Chi le vie degli dèi conoscer puote?
Né tu col guardo a penetrarle basti.
Ogni modo a Telemaco si vada,
E la morte de' proci e il nostro io vegga
Liberatore, un uomo ei siasi o un nume”.
Detto così, dalla superna stanza
Scese con mente in due pensier divisa:
Se di lontano a interrogar l'amato
Consorte avesse o ad appressarlo in vece,
E nelle man baciarlo e nella testa.
Varcata, entrando, la marmorea soglia,
Da quella parte, contra lui s'assise,
Dinanzi al foco, che su lei raggiava;
Ed ei, poggiato a una colonna lunga,
Sedea con gli occhi a terra, e le parole
Sempre attendea della preclara donna,
Poiché giunti su lui n'eran gli sguardi.
Tacita stette e attonita gran tempo:
Il riguardava con immote ciglia,
E in quel che ravvisarlo ella credea,
Traeanla fuor della notizia antica
Gli abiti vili, onde scorgealo avvolto.
Non si tenne Telemaco, che lei
Forte non rampognasse: “O madre mia,
Madre infelice e barbara consorte,
Perché così dal genitor lontana?
Ché non siedi appo lui? ché non gli parli?
Null'altra fôra così fredda e schiva
Con marito alla patria, ed a lei giunto
Dopo guai molti nel ventesim'anno.
Ma una pietra per cuore a te sta in petto”.
E a rincontro Penelope: “Sospesa,
Figlio, di stupor sono, ed un sol detto
Formar non valgo, una dimanda sola,
E né, quant'io vorrei, mirarlo in faccia.
Ma s'egli è Ulisse e la sua casa il tiene,
Nulla più resta che il mio stato inforsi.
Però che segni v'han dal nuzïale
Ricetto nostro impenetrabil tratti,
Ch'esser noti sappiamo a noi due solo”.
Sorrise il saggio e pazïente Ulisse,
E converso a Telemaco: “La madre
Lascia”, diceagli, “a suo piacer tentarmi:
Svanirà, figlio, ogni suo dubbio in breve.
Perché in vesti mi vede umili e abbiette,
Spregiami, e penetrar non san per queste
Sino ad Ulisse i timidi suoi sguardi,
Noi quel partito consultiamo intanto
Che abbracciar sarà meglio. Uom, che di vita
Spogliò un uom solo e oscuro, e di cui pochi
Sono i vendicator, pur fugge, e il dolce
Nido abbandona ed i congiunti cari.
Or noi della città tolto il sostegno,
E il fior dell'Itacese gioventude
Mietuto abbiamo. Qual è il tuo consiglio?”
E il prudente Telemaco: “A te spetta,
Diletto padre, il consigliar”, rispose:
“A te, con cui non v'ha chi d'accortezza
Contendere osi. Io seguirotti pronto
In ogni tuo disegno, e men, cred'io,
Le forze mi verran pria, che il coraggio”.
“Questo a me sembra”, ripigliava Ulisse.
“Bagnatevi, abbigliatevi, e novelle
Prenda ogni donna e più leggiadre vesti.
Poi con l'arguta cetera il divino
Cantore inviti a una gioconda danza.
Acciò chi di fuori ode, o passa, o alberga
Vicin, le nozze celebrarsi creda.
Così pria non andrà per la cittade
Della strage de' proci il sanguinoso
Grido, che noi non siam nell'ombreggiata
Campagna nostra giunti, in cui vedremo
Ciò che inspirarci degnerà l'Olimpio”.
Scoltato ed ubbidito ei fu ad un'ora.
Si bagnâr, s'abbigliâr, vesti novelle
Prese ogni donna, e più fregiata apparve.
Femio la cetra nelle man recossi,
E del canto soave e dell'egregia
Danza il desìo svegliò. Tutta sonava
Quella vasta magion del calpestìo
Degli uomini trescanti e delle donne,
Cui bella fascia circondava i fianchi.
E tal che udìa di fuor, tra sé dicea:
“Alcun per fermo la cotanto ambita
Regina ottenne. Trista! che gli eccelsi
Tetti di quel, cui vergine congiunta
S'era, non custodì, finch'ei venisse”.
Così parlava; e di profonda notte
Lo strano caso rimanea tra l'ombre.
In questo mezzo Eurìnome cosperse
Di lucid'onda il generoso Ulisse,
E del biondo licor l'unse, ed il cinse
Di tunica e di clamide: ma il capo
D'alta beltade gl'illustrò Minerva.
Ei de' lavacri uscì pari ad un nume,
E di nuovo s'assise, ond'era sorto,
Alla sua moglie di rincontro, e disse:
“Mirabile! a te più che all'altre donne,
Gli abitatori dell'Olimpie case
Un cuore impenetrabile formâro.
Quale altra accoglierìa con tanto gelo
L'uom suo, che dopo venti anni di duolo
Alla sua patria ritornasse e a lei?
Su via, nutrice, per me stendi un letto,
Dov'io mi corchi, e mi riposi anch'io:
Quando di costei l'alma è tutta ferro”.
“Mirabil”, rispondea la saggia donna,
“Io né orgoglio di me, né di te nutro
Nel cor disprezzo, né stupor soverchio
M'ingombra: ma guardinga i dèi mi fero.
Ben mi ricorda, quale allor ti vidi,
Che dalle spiagge d'Itaca naviglio
Ti allontanò di remi lungo armato.
Or che badi, Euriclèa, che non gli stendi
Fuor della stanza maritale il denso
Letto, ch'ei di sua mano un dì costrusse,
E pelli e manti e sontuose coltri
Su non vi getti?” Ella così dicea,
Far volendo di lui l'ultima prova.
Crucciato ei replicò: “Donna, parola
T'usci da' labbri fieramente amara.
Chi altrove il letto collocommi? Dura
Al più saputo tornerìa l'impresa.
Solo un nume potrebbe agevolmente
Scollocarlo: ma vivo uomo nessuno,
Benché degli anni in sul fiorir, di loco
Mutar potrìa senza i maggiori sforzi
Letto così ingegnoso, ond'io già fui,
Né compagni ebbi all'opra, il dotto fabbro.
Bella d'olivo rigogliosa pianta
Sorgea nel mio cortile, i rami larga,
E grossa molto, di colonna in guisa.
Io di commesse pietre ad essa intorno
Mi architettai la maritale stanza,
E d'un bel tetto la coversi, e salde
Porte v'imposi e fermamente attate.
Poi, vedovata del suo crin l'oliva,
Alquanto su dalla radice il tronco
Ne tagliai netto, e con le pialle sopra
Vi andai leggiadramente, v'adoprai
La infallibile squadra e il succhio acuto.
Così il sostegno mi fec'io del letto;
E il letto a molta cura io ripolìi,
L'intarsïai d'oro, d'avorio e argento
Con arte varia, e di taurine pelli,
Tinte in lucida porpora, il ricinsi.
Se a me riman, qual fabbricailo, intatto,
O alcun, succiso dell'olivo il fondo,
Portollo in altra parte, io, donna, ignoro”.
Questo fu il colpo che i suoi dubbi tutti
Vincitore abbatté. Pallida, fredda,
Mancò, perdé gli spiriti e disvenne.
Poscia corse vêr lui dirittamente,
Disciogliendosi in lagrime; ed al collo
Ambe le braccia gli gettava intorno,
E baciavagli il capo e gli dicea:
“Ah! tu con me non t'adirare, Ulisse,
Che in ogni evento ti mostrasti sempre
Degli uomini il più saggio. Alla sventura
Condannavanci i numi, a cui non piacque
Che de' verdi godesse anni fioriti
L'uno appo l'altro, e quindi a poco a poco
L'un vedesse imbiancar dell'altro il crine.
Ma, se il mirarti e l'abbracciarti un punto
Per me non fu, tu non montarne in ira.
Sempre nel caro petto il cor tremavami,
Non venisse a ingannarmi altri con fole:
Ché astuzie ree covansi a molti in seno.
Né la nata di Giove Elena Argiva
D'amor sarìasi e sonno a uno straniero
Congiunta mai, dove previsto avesse
Che degli Achei la bellicosa prole
Nuovamente l'avrebbe alla diletta
Sua casa in Argo ricondotta un giorno.
Un dio la spinse a una indegna opra; ed ella
Pria che di dentro ne sentisse il danno,
Non conobbe il velen, velen da cui
Tanto cordoglio a tutti noi discorse.
Ma tu mi desti della tua venuta
Certissimo segnale: il nostro letto,
Che nessun vide mai, salvo noi due,
E Attoride la fante, a me già data
Dal padre mio, quand'io qua venni, e a cui
Dell'inconcussa nuzïale stanza
Le porte in guardia son, tu quello affatto
Mi descrivesti; e al fin pieghi il mio core,
Ch'esser potrìa, nol vo' negar, più molle”.
A questi detti s'eccitò in Ulisse
Desìo maggior di lagrime. Piagnea,
Sì valorosa donna e sì diletta
Stringendo al petto. E il cor di lei qual era?
Come ai naufraghi appar grata la terra
Se Nettuno fracassò nobile nave,
Che i vasti flutti combatteano e i venti,
Tanto che pochi dal canuto mare
Scampâr nôtando a terra e con le membra
Di schiuma e sal tutte incrostate, e lieti
Su la terra montâr, vinto il periglio:
Così gioìa Penelope, il consorte
Mirando attenta, né staccar sapea
Le braccia d'alabastro a lui dal collo.
E già risorta lagrimosi il ciglio
Visti gli avrìa la ditirosea Aurora,
Se l'occhio azzurro di Minerva un pronto
Non trovava compenso. Egli la Notte
Nel fin ritenne della sua carriera,
Ed entro all'Ocean fermò l'Aurora,
Giunger non consentendole i veloci
Dell'alma luce portator destrieri,
Lampo e Fetonte, ond'è guidata in cielo
La figlia del mattin su trono d'oro.
Ulisse allor queste parole volse
Non liete alla donna: “O donna, giunto
Non creder già de' miei travagli il fine.
Opra grande rimane, immensa, e cui
Fornir, benché a fatica, io tutta deggio.
Tanto mi disse di Tiresia l'ombra
Il dì ch'io per saver del mio ritorno,
E di quel de' compagni, al fosco albergo
Scesi di Dite. Or basta. Il nostro letto
Ci chiama e il sonno, di cui tutta in noi
Entrerà l'ineffabile dolcezza”.
E Penelope a lui così rispose:
“Quello a te sempre apparecchiato giace,
Poiché di ritornar ti diêro i numi.
Ma tu quest'opra, di cui qualche dio
Risvegliò in te la rimembranza, dimmi.
Tu non vorrai da me, penso, celarla
Poscia; e il tosto saperla a me par meglio”.
“Sventurata, perché”, l'altro riprese,
“Tal nel tuo petto e sì fervente brama?
Nulla io t'asconderò: benché goderne
Certo più che il mio core, il tuo non deggia.
L'ombra ir m'impose a città molte, un remo
Ben fabbricato nelle man tenendo,
Né prima il piè fermar, che ad una nuova
Gente io non sia, che non conosce il mare,
Né cosperse di sal vivande gusta,
Né delle navi dalle rosse guance
O de' remi, che sono ale alle navi,
Notizia vanta. E mi diè un segno il vate.
Quel dì, che un altro pellegrino, a cui
M'abbatterò per via, me un ventilabro
Portar dirà su la gagliarda spalla,
Allora, infitto nella terra il remo,
E vittime perfette a re Nettuno
Svenate, un toro, un arïete, un verro,
Riedere io debbo alle paterne case,
E per ordine offrir sacre ecatombi
Agli dèi tutti che in Olimpo han seggio.
Quindi a me fuor del mare, e mollemente
Consunto al fin da una lenta vecchiezza,
Morte sopravverà placida e dolce,
E beate vivran le genti intorno.
Ecco il destin che il tuo consorte aspetta”.
Ed ella ripigliò: “Se una vecchiezza
Migliore i dèi prométtonti, che tutta
L'altra etade non fu, t'allegra dunque,
O d'ogni angoscia vincitor felice”.
Eurìnome frattanto ed Euriclèa
Di molli coltri e di tappeti il casto
Letto adornavan delle faci al lume.
Ciò in brev'ora compiuto, a' suoi riposi
Euriclèa si ritrasse, ed Eurinòme
In vêr la stanza maritale Ulisse
Precedeva, e Penelope, tenendo
Fiaccola in man: poi ritirossi anch'ella;
E con pari vaghezza i due consorti
Del prisco letto rinnovaro i patti.
Telemaco non meno ed i pastori,
Fatti i lor piè cessar dalla gioconda
Danza, e quei delle donne, al sonno in preda
S'abbandonaro nell'oscura sala.
Ma Penelope e Ulisse un sovrumano
De' mutui lor ragionamenti vari,
Che la notte coprìa, prendean diletto.
Ella narrava, quanto a lei di doglia
Diè la vista de' proci, ed il trambusto
In ch'era la magion, mentre, velando
La loro audacia dell'amor del manto,
Sempre a terra stendean pecora o bue,
E dai capaci dogli il delicato
Vino attigneano. D'altra parte Ulisse
Que' mali, che in se stesso o a gente avversa
Sofferti avea pellegrinando, o inflitti,
Le raccontava: un non so che di dolce
L'anima ricercavale ed a lei,
Finch'ei per tutte andò le sue vicende,
Non abbassava le palpèbre il sonno.
Tolse a dir, come i Cìconi da prima
Vinse, e poi de' Lotòfagi alla pingue
Terra sen venne; e rammentò gli eccessi
Del barbaro Ciclope, e la sagace
Vendetta fatta di color tra i suoi,
Ch'ei metteasi a vorar senza pietade.
Come ad Eolo approdò, da cui gentile
Accoglienza e licenza ebbe del pari:
Ma non ancor gli concedeano i fati
La contrada natìa, donde rapillo
Subitana procella, e sospirante
Molto e gemente, il ricacciò nell'alto.
Quindi l'amaro descriveale arrivo
Alla funesta dalle larghe porte
Cittade de' Lestrìgoni, e gli ancisi
Compagni tanti, e i fracassati legni,
Fuor che uno, sovra cui salvossi appena.
Gli scaltrimenti descrivea di Circe
E il vïaggio impensato in salda nave,
Per consultar del Teban vate l'alma,
Alla casa inamabile di Pluto,
Dove s'offrîro a lui gli antichi amici,
Ombre guerriere, ed Anticlèa, che in luce
Poselo, e intese alla sua infanzia cara.
Aggiunse le Sirene, innanzi a cui
Passare ardì con disarmati orecchi;
E gl'instabili scogli, e la tremenda
Cariddi e Scilla, cui non vider mai
I più destri nocchieri impunemente.
Né l'estinto tacea del Sole armento,
E la vermiglia folgore di Giove
Altitonante, che percosse il legno,
E i compagni sperdé. Campò egli a terra
Solo, e afferrò all'Ogigia isola; ed ivi
Calipso, che bramava essergli sposa,
Il ritenea nelle sue cave grotte,
L'adagiava di tutto, e giorni eterni
Senza canizie prometteagli: pure
Nel seno il cor mai non piegògli. Al fine
Dopo infiniti guai giunse ai Feaci,
Che al par d'un nume l'onorâro, e in nave
Di rame carca e d'oro e di vestiti,
All'aere dolce de' natii suoi monti
Rimandârlo. Quest'ultima parola
Delle labbra gli uscìa, quando soave
Scioglitor delle membra e d'ogni cura
Disgombrator, sovra lui cadde il sonno.
Ma in questo mezzo la Pupilleazzurra
Di Laerte il figliuol non obblïava.
Come le parve ch'ei goduto avesse
Di notturna quïete appo la fida
Moglie abbastanza, incontanente mosse
E a levarsi eccitò dall'Oceàno
Sul trono d'ôr la ditirosea Aurora,
Perché la terra illuminasse e il cielo.
Sorse allora l'eroe dal molle letto,
E questi accenti alla consorte volse:
“Consorte, sino al fondo ambi la coppa
Bevemmo del dolor; tu, che piangevi
Il mio ritorno disastroso, ed io,
Cui Giove e gli altri dèi, dalla bramata
Patria volean tra mille affanni in bando.
Or, che agli Eterni rïunirci piacque,
Cura tu prenderai di quanto in casa
Rèstami; ed io di ciò, che gli orgogliosi
Proci usurpâro a me, parte co' doni
Del popol mio, parte co' miei conquisti,
Ristorerommi a pieno, in sin che tutte
Si rïempian di nuovo a me le stalle.
Io nella folta di diverse piante
Campagna sua corro a veder l'antico
Genitor, che per me tanto dolora.
Tu, benché saggia, il mio precetto ascolta.
Sorto il novello sol, per la cittade
Della morte de' proci andrà la fama.
Sali nell'alto con le ancelle e siedi,
Ed in guisa ivi sta, che non t'accada
Né voce ad alcun volgere, né sguardo”.
Detto, vestissi le bell'armi, e il prode
Figlio animava e i due pastori, e a tutti
Prendere ingiunse i marzïali arnesi.
Quelli, obbedendo, armavansi, e, dischiuse
Le porte, uscìano: precedeali Ulisse.
Già si spargea su per la terra il lume;
Ma fuor della città tosto li trasse
Di nube cinti l'Atenèa Minerva.
LIBRO VENTIQUATTRESIMO
Mercurio intanto, di Cillene il dio
L'alme de' proci estinti a sé chiamava.
Tenea la bella in man verga dell'oro,
Onde i mortali dolcemente assonna,
Sempre che il vuole, e li dissonna ancora.
Con questa conducea l'alme chiamate,
Che stridendo il seguìano. E come appunto
Vipistrelli nottIvaghi nel cupo
Fondo talor d'una solenne grotta,
Se avvien che alcun dal sasso ove congiunti
L'uno appo l'altro s'atteneano, caschi,
Tutti stridendo allor volano in folla:
Così movean gli spirti, e per la fosca
Via precedeali il mansueto ErmEte.
L'Oceàn trapassavano, e la bianca
Pietra e del sole le lucenti porte,
Ed il popol de' sogni: indi ai vestiti
D'asfodèlo immortale inferni prati
Giunser, dove soggiorno han degli estinti
Le aeree forme e i simulacri ignudi.
L'alma trovâro del Pelìade Achille,
Di Pátroclo, d'Antiloco e d'Aiace,
Che i Danai tutti, salvo il gran Pelìde,
Di corpo superava e di sembiante,
Corona fean di Pèleo al figlio: ed ecco
Dolente presentarsegli lo spirto
Dell'Atride Agamennone, cui tutti
Seguìan coloro che d'Egisto un giorno
Nella casa infedel con lui periro.
Primo gli volse le parole Achille:
Noi credevamti sovra tutti, Atride
Della Grecia gli eroi diletto al vago
Del fulmin Giove, poiché a molta e forte
Gente imperavi sotto l'alte mura
Di Troia, lungo degli Achivi affanno.
Pur te assalir dovea, primo tra quelli
Che ritornâro, la severa Parca,
Da cui scampar non lice ad uom che nacque.
Ché non moristi almeno in quell'eccelso
Grado, di cui godevi, ad Ilio innanzi?
Qual tomba i Greci, che al tuo figlio ancora
Somma gloria sarìa ne' dì futuri,
Non t'avrìano innalzata? Oh miseranda
Fine che in vece ti prescrisse il fato!”
“Felice te”, gli rispondea l'Atride,
“Figlio di Pèleo, Achille ai numi eguale,
Tu che a Troia cadesti, e lunge d'Argo,
E a cui de' Greci e de' Troiani i primi,
Che pugnavan per te, cadeano intorno!
Tu de' cavalli immemore e de' cocchi,
Cadaver grande sovra un grande spazio,
Giacevi in mezzo a un vortice di polve;
E noi combattevam da mane a sera,
Né cessava col dì, credo, l'atroce
Pugna ostinata, se da Giove mosso
Gli uni non dividea dagli altri un turbo.
Tosto che fuor della battaglia tratto,
E alle navi per noi condotto fosti,
Asperso prima il tuo formoso corpo
Con tepid'acque e con fragranti essenze,
Ti deponemmo in su funèbre letto;
E molte sovra te lagrime calde
Spargeano i Danai e recideansi il crine.
Ma la tua madre, il grave annunzio udito,
Del mare uscì con le Nereidi eterne,
E un immenso clamor corse per l'onde,
Tal che tremarsi le ginocchia sotto
Gli Achei tutti sentiro. E già salite
Precipitosi avrìan le ratte navi,
S'uom non li ritenea, la lingua e il petto
Pien d'antico saver, Nestor, di cui
Ottimo sempre il consigliar tornava:
"Arrestatevi, Argivi, non fuggite",
Disse il profondo del Nelìde senno,
"O figli degli Achei: questa è la madre,
Ch'esce dall'onda con l'equòree Dive
E al figliuol morto viene". A tai parole
Ciascun risté. Ti circondaro allora
Del vecchio Nereo le cerulee figlie,
Lugubri lai mettendo, e a te divine
Vesti vestiro. Il coro anche plorava
Delle nove sorelle, alternamente
Sciogliendo il canto or l'una, or l' altra; e tale
Il poter fu delle canore Muse,
Che un sol Greco le lagrime non tenne.
Dieci dì e sette ed altrettante notti,
Uomini e dèi ti piangevam del pari:
Ma il giorno che seguì, ti demmo al foco,
E agnelle di pinguedine fiorite
Sgozzammo e buoi dalla lunata fronte.
Tu nelle vesti degli dèi, nel dolce
Mele fosti arso e nel soave unguento;
E mentre ardevi, degli Acaici eroi
Molti corser con l'arme intorno al rogo,
Chi sul cocchio, chi a piedi; ed un rimbombo
Destossi che salì fino alle stelle.
Come consunto la vulcania fiamma,
Achille, t'ebbe, noi le candide ossa,
Del più puro tra i vini e del più molle
Tra gli unguenti irrigandole, su l'Alba
Raccoglievamo; e la tua madre intanto
Portò lucida d'oro urna, che dono
Dicea di Bacco e di Vulcan fattura.
Entro quest'urna le tue candide ossa
Con quelle di Patròclo, illustre Achille,
Giaccion: ed ivi pur, benché disgiunte,
L'ossa posan d'Antìloco, cui tanto
Sovra tutti i compagni onor rendevi,
Spento di vita il Menezìade. Quindi
Massima ergemmo e sontuosa tomba
Noi de' pugnaci Achivi oste temuta,
Su l'Ellesponto, ove più sporge il lido:
Perché chi vive e chi non nacque ancora,
Solcando il mar la dimostrasse a dito.
La madre tua, che interrogonne i numi,
Splendidi in mezzo il campo al fior dell'oste
Giuochi propose. Io molte esequie illustri
Dove all'urna d'un re la gioventude
Si cinge i fianchi, e a lotteggiar s'appresta,
Vidi al mio tempo: ma più assai, che gli altri
Certami tutti, con le ciglia in arco
Quelle giostre io mirai, che per te diede
Sì belle allor la piediargentea Teti.
Così caro vivevi agl'immortali!
Però il tuo nome non si spense teco:
Anzi la gloria tua pel mondo tutto
Rifiorirà, Pelìde, ognor più bella.
Ma io qual pro di così lunga guerra
Da me finita, se cotal ruina
Per man d'Egisto e d'una moglie infame,
Pronta mi tenea Giove al mio ritorno?”
Cotesti avean ragionamenti, quando
Lor s'accostò l'interprete Argicida,
Che de' proci testé da Ulisse vinti
L'alme guidava. Agamennòne e Achille
Non prima li sguardâr che ad incontrarli
Maravigliando mossero. L'Atride
Ratto conobbe Anfimedonte, il caro
Figlio di quel Melanio, onde ospizio ebbe
In Itaca, e così primo gli disse:
“Anfimedonte, per qual caso indegno
Scendeste voi sotterra, eletta gente,
E tutti d'una età? Scêrre i migliori
Meglio non si potrìa nella cittade.
Nettuno forse vi annoiò sul mare,
Fieri venti eccitando e immani flutti?
O v'offesero in terra uomini ostili,
Mentre buoi predavate e pingui agnelle?
O per la patria e per le care donne
Combattendo cadeste? A un tuo paterno
Ospite, che tel chiede, manifesta.
Non ti ricorda di quel tempo, ch'io
Col divin Menelao venni al tuo tetto,
Ulisse a persuader, che su le armate
Di saldi banchi e ben velate navi
Ci accompagnasse a Troia? Un mese intero
Durò il passaggio per l'immenso mare,
Poiché svelto da noi fu a stento il prode
Rovesciator delle cittadi Ulisse”.
E di rincontro Anfimedonte: “O figlio
Glorïoso d'Atrèo, re delle genti,
Serbo in mente ciò tutto; e qual reo modo
Ci toccasse di morte, ora io ti narro.
D'Ulisse, ch'era di molt'anni assente,
La consorte ambivamo. Ella nel core
Morte a noi macchinava, e non volendo
Né rifiutar, né trarre a fin le nozze,
Un compenso inventò. Mettea la trama
In sottile ampia, immensa tela ordita
Da lei nel suo palagio; e, noi chiamati:
"Giovinetti", dicea, "miei proci, Ulisse
Sensa dubbio morì. Tanto a voi dunque
Piaccia indugiar le nozze mie ch'io questo
Lugubre ammanto per l'eroe Laerte,
Onde a mal non mi vada il vano stame,
Pria fornir possa, che la negra il colga
D'eterno sonno apportatrice Parca.
Volete voi che mòrdanmi le Achee,
Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo,
Fallisse un drappo, in cui giacersi estinto?"
Con siffatte parole il core in petto
Ci tranquillò. Tessea di giorno intanto
L'insigne tela e la stessea di notte,
Di mute faci al consapevol raggio.
Un trïennio così nella sua frode
Celavasi e tenea gli Achivi a bada.
Ma sorgiunto il quart'anno, e le stagioni,
Uscendo i mesi, nuovamente apparse,
E compiuta de' giorni ogni rivolta,
Noi, da un ancella non ignara instrutti,
Penelope trovammo al suo notturno
Retrogrado lavoro, e ripugnante
Pur di condurlo la sforzammo a riva.
Quando ci mostrò alfin l'inclito ammanto,
Che risplendea, come fu asterso tutto,
Del sole al pari o di Selene, allora
Ulisse, non so d'onde, un genio avverso
Menò al confin del campo, ove abitava
Il custode de' verri, ed ove giunse
D'Ulisse il figlio, che ritorno fea
Dall'arenosa Pilo in negra nave.
Morte a noi divisando, alla cittade
Vennero; innanzi il figlio e il padre dopo.
Questi in lacero arnese e somigliante
A un infelice paltoniere annoso,
Che sul bastone incurvasi, condotto
Fu dal pastor de' verri; i più meschini
Vestiti appena il ricoprìan, né alcuno
Tra i più attempati ancor, seppe di noi,
Com'ei s'offerse, ravvisarlo. Quindi
Motteggi e colpi le accoglienze fûro.
Colpi egli pazïente in sua magione
Per un tempo soffrìa, non che motteggi;
Ma, come spinto dall'Egìoco Giove
Sentissi, l'armi dalla sala tolse,
E con l'aìta del figliuol nell'alto
Le serrò del palagio. Indi con molto
Prevedimento alla reina ingiunse
Che l'arco proponesse e il ferro ai proci:
Funesto gioco, che finì col sangue.
Nessun di noi del valid'arco il nervo
Tender potea: ché opra da noi non era.
Ma dell'eroe va in man l'arma. Il pastore
Noi tutti sgridavam, perché all'eroe
Non la recasse. Indarno fu. Telemaco
Comandògli recarla, e Ulisse l'ebbe.
Ei, prese in man l'arco famoso, il tese
Così e il tirò, che ambo le corna estreme
Si vennero ad unir: poi la saetta
Per fra tutti gli anei sospinse a volo.
Ciò fatto, stette in su la soglia, e i ratti
Strali versossi ai piedi, orrendamente
Guardando intorno. Antìnoo colse il primo,
E dopo lui, sempre di contra or l'uno
Tolto e or l'altro di mira, i sospirosi
Dardi scoccava, e cadea l'un su l'altro.
Certo un nume l'aitava. I suoi compagni,
Seguendo qua e là l'impeto suo,
A gara trucidavanci: lugùbri
Sorgean lamenti, rimbombar s'udìa
Delle teste percosse ogni parete;
E correa sangue il pavimento tutto.
Così, Atride, perimmo e i nostri corpi
Giaccion negletti nel cortil d'Ulisse:
Poiché nulla ne san gli amici ancora,
Che dalla tabe a tergerci e dal sangue
Non tarderìano e a piangerci deposti,
De' morti onor, sovra un funèbre letto”.
“O fortunato”, gridò allor l'Atride
“Di Laerte figliuol, con qual valore
La donna tua riconquistasti! E quanto
Saggia o memore ognor dell'uomo, a cui
Nel pudico suo fiore unita s'era
Visse d'Icario la figliuola illustre!
La rimembranza della sua virtude
Durerà sempre, e amabile ne' canti
Ne sonerà per l'universo il nome.
Non così la Tindaride, che, osando
Scellerata opra, con la man, che data
Vergine aveagli, il suo marito uccise.
Costei fia tra le genti un odïoso
Canto perenne: ché di macchia tale
Le donne tutte col suo fallo impresse,
Che le più oneste ancor tinte n'andranno”.
Tal nell'oscure, dove alberga Pluto,
Della terra caverne, ivan quell'alme
Di lor vicende ragionando insieme.
Ulisse e il figlio intanto e i due pastori
Giunser, dalla città calando, in breve
Del buon Laerte al poder culto e bello,
De' suoi molti pensier frutto, e de' molti
Studi e travagli suoi. Comoda casa
Gli sorgea quivi di capanne cinta,
Ove cibo e riposo ai corpi, e sonno
Davan famigli, che, richiesti all'uopo
Delle sue terre, per amor più ancora,
Che per dover, servìanlo; ed una buona
Pur v'abitava Siciliana fante,
Che in quella muta solitudin verde
De' canuti anni suoi cura prendea.
Ulisse ai due pastori e al caro pegno:
“Entrate”, disse, “nella ben construtta
Casa, e per cena un de' più grassi porci
Subito apparecchiate. Io voglio il padre
Tentar, s'ei dopo una sì lunga assenza
Mi ravvisa con gli occhi, o estinta in mente
Gli abbia di me la conoscenza il tempo”.
Detto, consegnò lor l'armi; e Telemaco,
E i due pastor rapidi entrâro. Ulisse
Del grande orto pomifero alla volta
Mosse, né Dolio, discendendo in quello,
Trovò, né alcun de' figli o degli schiavi,
Che tutti a raccôr pruni, onde il bell'orto
D'ispido circondar muro campestre,
S'eran rivolti; e precedeali Dolio.
Sol trovò il genitor, che ad una pianta
Curvo zappava intorno. Il ricoprìa
Tunica sozza ricucita e turpe:
Dalle punture degli acuti rovi
Le gambe difendevan gli schinieri
Di rattoppato cuoio e le man guanti:
Ma berretton di capra in su la testa
Portava il vecchio; e così ei la doglia
Nutriva ed accrescea nel caro petto.
Tosto che Ulisse l'avvisò dagli anni
Suoi molti, siccom'era, e da' suoi molti
Mali più ancor, che dall'età, consunto,
Lagrime, stando sotto un alto pero,
Dalle ciglia spandea. Poi nella mente
Volse e nel cor, qual de' due fosse il meglio,
Se con amplessi a lui farsi e con baci,
E narrar del ritorno il quando e il come,
O interrogarlo prima, e punzecchiarlo
Con detti forti risvegliando il duolo,
Per raddoppiar la gioia; e a ciò s'attenne.
Si drizzò dunque a lui, che basso il capo
Tenea zappando ad una pianta intorno,
E: “Vecchio”, disse, “della cura ignaro,
Cui domanda il verzier, certo non sei,
Arbor non v'ha, non fico, vite, oliva
Che l'abil mano del cultor non mostri,
Né sfuggì all'occhio tuo di terra un palmo.
Altro, e non adirartene, io dirotti:
Nulla è negletto qui, fuorché tu stesso.
Coverto di squallor véggioti e avvolto
In panni rei, non che dagli anni infranto.
Se mal ti tratta il tuo signor, per colpa
Della pigrizia tua non è ciò, penso:
Anzi tu nulla di servil nel corpo
Tieni o nel volto, chi ti guarda fisso.
Somigli ad un re nato; ad uom somigli,
Che, dopo il bagno e la gioconda mensa,
Mollemente dormir debba su i letti
Com'è l'usanza de' vegliardi. Or dimmi
Preciso e netto chi tu servi, e a cui
L'orto governi, e fa' ch'io sappia in oltre,
Se questa è veramente Itaca, dove
Son giunto, qual testé colui narrommi
Che in me scontrossi, uom di non molto senno,
Quando né il tutto raccontar, né volle
Me udir, che il richiedea, se in qualche parte
D'Itaca un certo vive ospite mio,
O morte il chiude la magion di Dite.
A te parlerò in vece, e tu l'orecchio
Non ricusar di darmi. Ospite un tale
Nella mia patria io ricevei, di cui
Non venne di lontano al tetto mio
Forestier mai, che più nel cor m'entrasse.
Nato ei diceasi in Itaca, e Laerte,
D'Arcesio il figlio, a genitor vantava.
Il trattai, l'onorai, l'accarezzai
Nel mio di beni ridondante albergo,
E degni in sul partir doni io gli porsi:
Sette di lavorato oro talenti,
Urna d'argento tutta e a fiori sculta,
Dodici vesti tutte scempie, e tanto
Di tappeti, di tuniche e di manti;
E quattro belle, oneste, e di lavori
Femmine sperte ch'egli stesso elesse”.
“Stranier”, rispose lagrimando il padre,
“Sei nella terra di cui chiedi, ed ove
Una pessima gente ed oltraggiosa
Regna oggidì. Que' molti doni, a cui
Ei con misura eguale avrìa risposto,
Come degno era bene, or, che qui vivo
Nol trovi più, tu gli spargesti al vento.
Ma schiettamente mi favella: quanti
Passâro anni dal dì che ricevesti
Questo nelle tue case ospite gramo,
Che s'ei vivesse ancor sarìa il mio figlio?
Misero! in qualche parte, e dalla patria
Lungi, o fu in mar pasto de' pesci, o in terra
De' volatori preda e delle fere:
Né ricoperto la sua madre il pianse,
Né il pianse il genitor; né la dotata
Di virtù, come d'ôr, Penelopèa
Con lagrime onorò l'estinto sposo
Sopra fùnebre letto, e gli occhi prima
Non gli compose con mal ferma destra.
Ciò palesami ancor: chi sei tu? e donde?
Dove a te la città? la madre? il padre?
A qual piaggia s'attiene il ratto legno
Che te condusse e i tuoi compagni illustri?
O passeggier venisti in nave altrui,
E, te sbarcato, i giovani partiro?”
“Tutto”, riprese lo scaltrito eroe,
“Narrerò acconciamente. Io figlio sono
Del re Polipemònide Afidante.
In Alibante nacqui, ove ho un eccelso
Tetto, e mi chiamo Epèrito. Me svelse
Dalla Sicilia un Genio avverso, e a queste
Piagge sospinse; ed or vicino ai campi,
Lungi della città, stassi il mio legno.
Volge il quint'anno omai che Ulisse sciolse
Dalla mia patria. Sventurato! a destra
Gli volavano allor gli augelli, ed io
Lui, che lieto partì, congedai lieto:
Quando ambi speravam che rinnovato
L'ospizio avremmo e ricambiati i doni”.
Disse, e fosca di duol nube coverse
La fronte al padre, che la fulva polve
Prese ad ambo le mani, e il venerando
Capo canuto se ne sparse, mentre
Nel petto spesseggiavangli i sospiri.
Ulisse tutto commoveasi dentro,
E un acre si sentìa pungente spirto
Correre alle narici, il caro padre
Mirando attento: al fin su lui gittossi,
E stretto il si recava in fra le braccia,
E il baciava più volte, e gli dicea:
“Quell'io, padre, quell'io, che tu sospiri,
Ecco nel ventesmo anno in patria venni.
Cessa dai pianti, dai lamenti cessa,
E sappi in breve, perché il tempo stringe,
Ch'io tutti i proci uccisi, e vendicai
Tanti e sì gravi torti in un dì solo”.
“Ulisse tu?” così Laerte tosto,
“Tu il figlio mio? Dammene un segno, e tale,
Che in forse io non rimanga un solo istante”.
E Ulisse: “Pria la cicatrice mira
Della ferita che cinghial sannuto
M'aperse un dì sovra il Parnaso, quando
Ad Autolico io fui per quei che in Itaca
M'avea doni promessi, accompagnando
Col moto della testa i detti suoi.
Gli arbori inoltre io ti dirò, di cui
Nell'ameno verzier dono mi festi.
Fanciullo io ti seguìa con ineguali
Passi per l'orto, e or questo árbore, or quello
Chiedeati; e tu, come andavam tra loro,
Mi dicevi di lor l'indole e il nome.
Tredici peri a me donasti e dieci
Meli e fichi quaranta, e promettesti
Ben cinquanta filari anco di viti,
Che di bella vendemmia eran già carche:
Poiché vi fan d'ogni sorta uve, e l'Ore,
Del gran Giove ministre, i lor tesori
Versano in copia su i fecondi tralci”.
Quali dar gli potea segni più chiari?
Laerte, a cui si distemprava il core,
E vacillavan le ginocchia, avvolse
Subito ambe le mani al collo intorno
Del figlio; e il figlio lui, ch'era di spirti
Spento affatto, a sé prese ed il sostenne.
Ma come il fiato in seno, e nella mente
I dispersi pensieri ebbe raccolti:
“O Giove padre”, sclamò egli, “e voi,
Numi, voi certo su l'Olimpo ancora
Siete e regnate ancor, se la dovuta
Pena portâr de' lor misfatti i proci.
Ma un timore or m'assal, non gl'Itacesi
Vengan tra poco a queste parti in folla,
E messi qua e là mandino a un tempo
De' Cefalleni alle città vicine.
“Sta di buon core”, gli rispose Ulisse,
“Né ti prenda di ciò cura o pensiero.
Alla magion, che non lontana siede,
Moviamo: io là Telemaco invïai
Con Filezio ed Eumèo, perché allestita
Prestamente da lor fosse la cena”.
In via, ciò detto, entraro, e, come giunti
Fûro al rural non disagiato albergo,
Telemaco trovâr co' due pastori,
Che incidea molte carni, ed un possente
Vino mescea. La Siciliana fante
Lavò Laerte e di biond'olio l'unse
E d'un bel manto il rivestì: ma Palla,
Scesa per lui di ciel, le membra crebbe
De' popoli al pastore; e di persona
Più alto il rese, e più ritondo in faccia.
Maravigliava Ulisse, allor che il vide
Simile in tutto agl'Immortali, e: “Padre”,
Disse, “opra fu, cred'io, d'un qualche nume
Cotesta tua statura, e la novella
Beltà, che in te dopo i lavacri io scorgo”.
“Oh”, riprese Laerte, “al padre Giove
Stato fosse e a Minerva e a Febo in grado,
Che quale allora io fui, che su la terra
Continental, de' Cefalleni duce,
La ben construtta Nerico espugnai,
Tal potuto avess'io con l'arme in dosso
Starmi al tuo fianco nella nostra casa,
E i proci ributtar, quando per loro
Splendea l'ultimo sol! Di loro a molti
Sciolte avrei le ginocchia, e a te sarebbe
Infinito piacer corso per l'alma”.
Così Laerte e il figlio. E già, cessata
Dell'apparecchio la fatica, a mensa
Tutti sedeansi. Non aveano ai cibi
Stese l'avide man, che Dolio apparve.
E seco i figli dal lavoro stanchi:
Poiché uscita a chiamarli era la buona
Sicula madre, che nudrìali sempre,
E il vecchio Dolio dall'etade oppresso
Con amor grande governava. Ulisse
Veduto e ravvisatolo, restâro
Tutti in un piè di maraviglia colmi:
Ma ei con blande voci: “O vecchio”, disse,
Siedi alla mensa, e lo stupor deponi.
Buon tempo è già che, desïando ai cibi
Stender le nostre mani, e non volendo
Cominciar senza voi, cen rimanemmo”.
Dolio a tai detti con aperte braccia
Mosse dirittamente incontro a Ulisse,
E la man, che afferrò, baciògli al polso.
Poi così gli dicea: “Signor mio dolce,
S'è ver che a noi, che di vederti brama
Più assai che speme, chiudevam nel petto,
Te rimenâro alfin gli stessi numi,
Vivi, gioisci, d'ogni dolce cosa
Ti consolino i dèi. Ma dimmi il vero:
Sa la regina per indizio certo
Che ritornasti, o vuoi che a rallegrarla
Di sì prospero evento un nunzio corra?”
“Dolio”, ripigliò Ulisse, “la regina
Già il tutto sa. Perché t'affanni tanto?”
Il vecchio allora sovra un polito scanno
Prontamente sedé. Né men di lui,
Festa feano ad Ulisse i suoi figliuoli,
E or l'un le mani gli afferrava, or l'altro:
Indi sedean di sotto al caro padre
Conforme all'età loro. Ed in tal guisa
Della mensa era quivi ogni pensiero.
La fama intanto il reo destin de' proci
Per tutta la città portava intorno.
Tutti, sentite le funeste morti,
Chi di qua chi di là, con urli e pianti
Venìan d'Ulisse al tetto, e i corpi vani
Fuor ne traeano, e li ponean sotterra.
Ma quei, cui diede altra isola il natale,
Mettean su ratte pescherecce barche,
E ai lor tetti mandavanli. Ciò fatto,
Nel Foro s'adunâr dolenti e in folla.
Come adunati fûr, surse tra gli altri
Eupite, a cui per Antinòo sua prole,
Che primo cadde della man d'Ulisse,
Stava nell'alma un indelebil duolo.
Questi arringò, piangendo amaramente:
“Amici, qual costui strana fortuna
Agli Achei fabbricò! Molti ed egregi,
Ne addusse prima su le navi a Troia,
E le navi perdette, ed i compagni
Seppellì in mar: poi nella propria casa,
Tornato, altri ne spense, e d'Aide ai regni
Mandò di Cefallenia i primi lumi.
Su via, pria ch'egli a Pilo, e alla regnata
Dagli Epei divina Elide ricovri,
Vadasi; o infamia patiremo eterna.
Sì, l'onta nostra ne' futuri tempi
Rimbombar s'udrà ognor, se gli uccisori
De' figli non puniamo e de' fratelli.
Io certo più viver non curo, e, dove
Subito non si vada, e la lor fuga,
Non si prevenga, altro io non bramo, o voglio,
Salvo che rïunirmi ombra a quell'ombre.
Così ei, non restandosi dal pianto;
E la pietade in ogni petto entrava.
Giunsero allor dalla magion d'Ulisse
Medonte araldo ed il cantor divino,
Dal sonno sviluppatisi, e nel mezzo
Si collocâro. Alto stupore invase
Tutti, e il saggio Medonte i labbri aperse:
“O Itacesi, uditemi. Credete
Voi che Ulisse abbia tolto impresa tale
Contra il voler de' sempiterni? Un dio
Vidi io stesso al suo fianco, un dio, che affatto
Mentore somigliava. Or gli apparìa
Davanti, in atto d'animarlo, ed ora
Per l'atterrita sala impeto fea,
Sgominando gli Achei, che l'un su l'altro
Traboccavano”. Disse; e di tai detti
Inverdì a tutti per timor la guancia.
Favellò ancor nel Foro un vecchio eroe,
Aliterse Mastòride, che solo
Vedea gli andati ed i venturi tempi,
E che, sentendo rettamente, disse:
“Or me udite, Itacesi. Egli è per colpa
Vostra che ciò seguì: però che sordi
Agli avvisi di Mentore ed a' miei,
Lasciar le briglie sovra il collo ai vostri
Figli vi piacque, che al mal far dirotti
La davano pel mezzo in ogni tempo,
Le sostanze rodendo, e ingiurïando
La casta moglie d'un signor preclaro,
Di cui sogno parea loro il ritorno.
Obbeditemi al fin, mossa non fate:
Onde pur troppo alcun quella sventura,
Che sarà ito a ricercar, non trovi”.
Tacque; e s'alzaro i più con grida e plausi.
Gli altri uniti rimasero: ché loro
Non gustò il detto, ma seguìano Eupìte.
Poscia, chi qua, chi là, correano all'armi.
Cinti e splendenti del guerrier metallo
Si raccolser davanti alla cittade
Quasi in un globo; ed era incauto duce
Della stoltezza loro Eupìte stesso.
Credea la morte vendicar del figlio,
E lui, che redituro indi non era,
Coglier dovea la immansueta Parca,
Pallade, il tutto visto, al Saturnide
Si converse in tal guisa: “O nostro padre,
Di Saturno figliuol, re de' regnanti,
Mostrami ciò che nel tuo cor s'asconde.
Prolungar vuoi la guerra e i fieri sdegni?
O accordo tra le parti, e amistà porre?”
“Perché di questo mi richiedi, o figlia?”
Il nembifero Giove a lei rispose.
“Non fu consiglio tuo, che ritornato
Punisse i proci di Laerte il figlio?
Fa' come più t'aggrada: io quel che il meglio
Parmi, dirò. Poiché l'illustre Ulisse
De' proci iniqui vendicossi, ei fermi
Patto eterno con gli altri, e sempre regni.
Noi la memoria delle morti acerbe
In ogni petto cancelliam: risorga
Il mutuo amor nella città turbata,
E v'abbondin, qual pria, ricchezza e pace”.
Con questi detti stimolò la diva,
Ch'era per sé già pronta, e che dall'alte
D'Olimpo cime rapida discese.
Ulisse intanto, che con gli altri avea
Sotto il campestre di Laerte tetto
Rinfrancati del cibo omai gli spirti:
“Esca”, disse, “alcun fuori, e attento guardi
Se alla volta di noi vengon gli Achei”.
Subitamente uscì di Dolio un figlio,
E su la soglia stette, e non lontani
Scôrse i nemici: “All'armi! All'armi!” ei tosto
Gridò, “vicini sono”. Ulisse allora
Ed il figlio sorgeano e i due pastori.
E l'armi rivestìano: i sei figliuoli
Rivestìanle di Dolio, e poi gli stessi
Dolio e Laerte. In così picciola oste
Anco i bianchi capei premer dee l'elmo.
Ratto che armati fûr, le porte aperte,
Tutti sboccâro: precedeali Ulisse.
Né di muover con lor lasciò la figlia
Di Giove, Palla, a Mentore nel corpo
Tutta sembiante e nella voce. Ulisse
Mirolla e n'esultava, e volto al figlio:
“Telemaco”, dicea, “nella battaglia,
Ove l'imbelle si conosce e il prode,
Deh non disonestar la stirpe nostra,
Che per forza e valor fu sempre chiara”.
E Telemaco a lui: “Padre diletto,
Vedrai, spero, se vuoi, ch'io non traligno”.
Gioì Laerte, ed esclamò: “Qual sole
Oggi risplende in cielo, amati numi!
Gareggian di virtù figlio e nipote.
Giorno più bello non mi sorse mai”.
Qui l'appressò con tali accenti in bocca
La diva che ne' begli occhi azzurreggia:
“O d'Arcesio figliuol, che a me più caro,
Sei d'ogni altro compagno, a Giove alzáti
Prima, e alla figlia dal ceruleo sguardo,
Devotamente i prieghi tuoi, palleggia
Cotesta di lunga ombra asta, e l'avventa”.
Così dicendo, una gran forza infuse
In Laerte Minerva. Il vecchio, a Giove
Prima e alla figlia dal ceruleo sguardo,
Alzati i prieghi, palleggiò la lunga
Sua lancia ed avventolla, e in fronte a Eupìte
Il forte trapassando elmo di rame,
La piantò e immerse: con gran suono Eupìte
Cadde, e gli rimbombâr l'armi di sopra.
Si scagliâro in quel punto Ulisse e il figlio
Contra i primieri, e con le spade scempio
Ne feano, e con le lance a doppio filo.
E già nessuno alla sua dolce casa
Tornato fora degli Achei, se Palla,
Dell'Egìoco la figlia, un grido messo,
Non mutava i lor cuori: “Cittadini
D'Itaca, fine all'aspra guerra. Il campo
Lasciate tosto, e non più sangue”. Disse;
Ed un verde pallor tinse ogni fronte.
L'armi scappavan dalle man tremanti,
D'aste coverto il suolo era e di brandi,
Levata che Minerva ebbe la voce;
E tutti avari della cara vita
Alla città si rivolgeano. Ulisse
Con un urlo, che andò sino alle stelle,
Inseguìa ratto i fuggitivi, a guisa
D'aquila tra le nubi altovolante.
Se non che Giove il fulmine contorse;
E alla Sguardoazzurrina innanzi ai piedi
Cascò l'eterea fiamma: “O generoso”,
Così la diva, “di Laerte figlio,
Contienti e frena il desiderio ardente
Della guerra, che a tutti è sempre grave,
Non contro a te di troppa ira s'accenda
L'ampia veggente di Saturno prole”.
Obbedì Ulisse e s'allegrò nell'alma.
Ma eterno poi tra le due parti accordo
La figlia strinse dell'Egìoco Giove
Che a Mentore nel corpo e nella voce
Rassomigliava, la gran dea d'Atene.
FINE