HOME   PRIVILEGIA NE IRROGANTO           di Mauro Novelli               BIBLIOTECA


 

 

 

ILIADE

 

di Omero

 

traduzione di Vincenzo Monti

 

 

 

INDICE

LIBRO PRIMO.. 1

LIBRO SECONDO.. 22

LIBRO TERZO.. 50

LIBRO QUARTO.. 65

LIBRO QUINTO.. 82

LIBRO SESTO.. 111

LIBRO SETTIMO.. 128

LIBRO OTTAVO.. 142

LIBRO NONO.. 161

LIBRO DECIMO.. 183

LIBRO UNDECIMO.. 201

LIBRO DUODECIMO.. 228

LIBRO DECIMOTERZO.. 243

LIBRO DECIMOQUARTO.. 269

LIBRO DECIMOQUINTO.. 284

LIBRO DECIMOSESTO.. 307

LIBRO DECIMOSETTIMO.. 337

LIBRO DECIMOTTAVO.. 360

LIBRO DECIMONONO.. 381

LIBRO VENTESIMO.. 392

LIBRO VENTESIMOPRIMO.. 407

LIBRO VENTESIMOSECONDO.. 426

LIBRO VENTESIMOTERZO.. 442

LIBRO VENTESIMOQUARTO.. 470

 


 

LIBRO PRIMO

 

 

Cantami, o Diva, del Pelìde Achille

l'ira funesta che infiniti addusse

lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco

generose travolse alme d'eroi,

e di cani e d'augelli orrido pasto

lor salme abbandonò (così di Giove

l'alto consiglio s'adempìa), da quando

primamente disgiunse aspra contesa

il re de' prodi Atride e il divo Achille.

E qual de' numi inimicolli? Il figlio

di Latona e di Giove. Irato al Sire

destò quel Dio nel campo un feral morbo,

e la gente perìa: colpa d'Atride

che fece a Crise sacerdote oltraggio.

Degli Achivi era Crise alle veloci

prore venuto a riscattar la figlia

con molto prezzo. In man le bende avea,

e l'aureo scettro dell'arciero Apollo:

e agli Achei tutti supplicando, e in prima

ai due supremi condottieri Atridi:

O Atridi, ei disse, o coturnati Achei,

gl'immortali del cielo abitatori

concedanvi espugnar la Prïameia

cittade, e salvi al patrio suol tornarvi.

Deh mi sciogliete la diletta figlia,

ricevetene il prezzo, e il saettante

figlio di Giove rispettate. - Al prego

tutti acclamār: doversi il sacerdote

riverire, e accettar le ricche offerte.

Ma la proposta al cor d'Agamennóne

non talentando, in guise aspre il superbo

accommiatollo, e minaccioso aggiunse:

Vecchio, non far che presso a queste navi

ned or né poscia più ti colga io mai;

ché forse nulla ti varrà lo scettro

né l'infula del Dio. Franca non fia

costei, se lungi dalla patria, in Argo,

nella nostra magion pria non la sfiori

vecchiezza, all'opra delle spole intenta,

e a parte assunta del regal mio letto.

Or va, né m'irritar, se salvo ir brami.

Impaurissi il vecchio, ed al comando

obbedì. Taciturno incamminossi

del risonante mar lungo la riva;

e in disparte venuto, al santo Apollo

di Latona figliuol, fe' questo prego:

Dio dall'arco d'argento, o tu che Crisa

proteggi e l'alma Cilla, e sei di Tènedo

possente imperador, Smintèo, deh m'odi.

Se di serti devoti unqua il leggiadro

tuo delubro adornai, se di giovenchi

e di caprette io t'arsi i fianchi opimi,

questo voto m'adempi; il pianto mio

paghino i Greci per le tue saette.

Sì disse orando. L'udì Febo, e scese

dalle cime d'Olimpo in gran disdegno

coll'arco su le spalle, e la faretra

tutta chiusa. Mettean le frecce orrendo

su gli omeri all'irato un tintinnìo

al mutar de' gran passi; ed ei simìle

a fosca notte giù venìa. Piantossi

delle navi al cospetto: indi uno strale

liberò dalla corda, ed un ronzìo

terribile mandò l'arco d'argento.

Prima i giumenti e i presti veltri assalse,

poi le schiere a ferir prese, vibrando

le mortifere punte; onde per tutto

degli esanimi corpi ardean le pire.

Nove giorni volār pel campo acheo

le divine quadrella. A parlamento

nel decimo chiamò le turbe Achille;

ché gli pose nel cor questo consiglio

Giuno la diva dalle bianche braccia,

de' moribondi Achei fatta pietosa.

Come fur giunti e in un raccolti, in mezzo

levossi Achille piè-veloce, e disse:

Atride, or sì cred'io volta daremo

nuovamente errabondi al patrio lido,

se pur morte fuggir ne fia concesso;

ché guerra e peste ad un medesmo tempo

ne struggono. Ma via; qualche indovino

interroghiamo, o sacerdote, o pure

interprete di sogni (ché da Giove

anche il sogno procede), onde ne dica

perché tanta con noi d'Apollo è l'ira:

se di preci o di vittime neglette

il Dio n'incolpa, e se d'agnelli e scelte

capre accettando l'odoroso fumo,

il crudel morbo allontanar gli piaccia.

Così detto, s'assise. In piedi allora

di Testore il figliuol Calcante alzossi,

de' veggenti il più saggio, a cui le cose

eran conte che fur, sono e saranno;

e per quella, che dono era d'Apollo,

profetica virtù, de' Greci a Troia

avea scorte le navi. Ei dunque in mezzo

pien di senno parlò queste parole:

Amor di Giove, generoso Achille,

vuoi tu che dell'arcier sovrano Apollo

ti riveli lo sdegno? Io t'obbedisco.

Ma del braccio l'aita e della voce

a me tu pria, signor, prometti e giura:

perché tal che qui grande ha su gli Argivi

tutti possanza, e a cui l'Acheo s'inchina,

n'andrà, per mio pensar, molto sdegnoso.

Quando il potente col minor s'adira,

reprime ei sì del suo rancor la vampa

per alcun tempo, ma nel cor la cova,

finché prorompa alla vendetta. Or dinne

se salvo mi farai. - Parla securo,

rispose Achille, e del tuo cor l'arcano,

qual ch'ei si sia, di' franco. Per Apollo

che pregato da te ti squarcia il velo

de' fati, e aperto tu li mostri a noi,

per questo Apollo a Giove caro io giuro:

nessun, finch'io m'avrò spirto e pupilla,

con empia mano innanzi a queste navi

oserà vïolar la tua persona,

nessuno degli Achei; no, s'anco parli

d'Agamennón che sé medesmo or vanta

dell'esercito tutto il più possente.

Allor fe' core il buon profeta, e disse:

né d'obblïati sacrifici il Dio

né di voti si duol, ma dell'oltraggio

che al sacerdote fe' poc'anzi Atride,

che francargli la figlia ed accettarne

il riscatto negò. La colpa è questa

onde cotante ne diè strette, ed altre

l'arcier divino ne darà; né pria

ritrarrà dal castigo la man grave,

che si rimandi la fatal donzella

non redenta né compra al padre amato,

e si spedisca un'ecatombe a Crisa.

Così forse avverrà che il Dio si plachi.

Tacque, e s'assise. Allor l'Atride eroe

il re supremo Agamennón levossi

corruccioso. Offuscavagli la grande

ira il cor gonfio, e come bragia rossi

fiammeggiavano gli occhi. E tale ei prima

squadrò torvo Calcante, indi proruppe:

Profeta di sciagure, unqua un accento

non uscì di tua bocca a me gradito.

Al maligno tuo cor sempre fu dolce

predir disastri, e d'onor vote e nude

son l'opre tue del par che le parole.

E fra gli Argivi profetando or cianci

che delle frecce sue Febo gl'impiaga,

sol perch'io ricusai della fanciulla

Crisėide il riscatto. Ed io bramava

certo tenerla in signoria, tal sendo

che a Clitennestra pur, da me condutta

vergine sposa, io la prepongo, a cui

di persona costei punto non cede,

né di care sembianze, né d'ingegno

ne' bei lavori di Minerva istrutto.

Ma libera sia pur, se questo è il meglio;

ché la salvezza io cerco, e non la morte

del popol mio. Ma voi mi preparate

tosto il compenso, ché de' Greci io solo

restarmi senza guiderdon non deggio;

ed ingiusto ciò fōra, or che una tanta

preda, il vedete, dalle man mi fugge.

O d'avarizia al par che di grandezza

famoso Atride, gli rispose Achille,

qual premio ti daranno, e per che modo

i magnanimi Achei? Che molta in serbo

vi sia ricchezza non partita, ignoro:

delle vinte città tutte divise

ne fur le spoglie, né diritto or torna

a nuove parti congregarle in una.

Ma tu la prigioniera al Dio rimanda,

ché più larga n'avrai tre volte e quattro

ricompensa da noi, se Giove un giorno

l'eccelsa Troia saccheggiar ne dia.

E a lui l'Atride: Non tentar, quantunque

ne' detti accorto, d'ingannarmi: in questo

né gabbo tu mi fai, divino Achille,

né persuaso al tuo voler mi rechi.

Dunque terrai tu la tua preda, ed io

della mia privo rimarrommi? E imponi

che costei sia renduta? Il sia. Ma giusti

concedanmi gli Achivi altra captiva

che questa adegui e al mio desir risponda.

Se non daranla, rapirolla io stesso,

sia d'Aiace la schiava, o sia d'Ulisse,

o ben anco la tua: e quegli indarno

fremerà d'ira alle cui tende io vegna.

Ma di ciò poscia parlerem. D'esperti

rematori fornita or si sospinga

nel pelago una nave, e vi s'imbarchi

coll'ecatombe la rosata guancia

della figlia di Crise, e ne sia duce

alcun de' primi, o Aiace, o Idomenèo,

o il divo Ulisse, o tu medesmo pure,

tremendissimo Achille, onde di tanto

sacrificante il grato ministero

il Dio ne plachi che da lunge impiaga.

Lo guatò bieco Achille, e gli rispose:

Anima invereconda, anima avara,

chi fia tra i figli degli Achei sì vile

che obbedisca al tuo cenno, o trar la spada

in agguati convegna o in ria battaglia?

Per odio de' Troiani io qua non venni

a portar l'armi, io no; ché meco ei sono

d'ogni colpa innocenti. Essi né mandre

né destrier mi rapiro; essi le biade

della feconda popolosa Ftia

non saccheggiār; ché molti gioghi ombrosi

ne son frapposti e il pelago sonoro.

Ma sol per tuo profitto, o svergognato,

e per l'onor di Menelao, pel tuo,

pel tuo medesmo, o brutal ceffo, a Troia

ti seguitammo alla vendetta. Ed oggi

tu ne disprezzi ingrato, e ne calpesti,

e a me medesmo di rapir minacci

de' miei sudori bellicosi il frutto,

l'unico premio che l'Acheo mi diede.

Né pari al tuo d'averlo io già mi spero

quel dì che i Greci l'opulenta Troia

conquisteran; ché mio dell'aspra guerra

certo è il carco maggior; ma quando in mezzo

si dividon le spoglie, è tua la prima,

ed ultima la mia, di cui m'è forza

tornar contento alla mia nave, e stanco

di battaglia e di sangue. Or dunque a Ftia,

a Ftia si rieda; ché d'assai fia meglio

al paterno terren volger la prora,

che vilipeso adunator qui starmi

di ricchezze e d'onori a chi m'offende.

Fuggi dunque, riprese Agamennóne,

fuggi pur, se t'aggrada. Io non ti prego

di rimanerti. Al fianco mio si stanno

ben altri eroi, che a mia regal persona

onor daranno, e il giusto Giove in prima.

Di quanti ei nudre regnatori abborro

te più ch'altri; sì, te che le contese

sempre agogni e le zuffe e le battaglie.

Se fortissimo sei, d'un Dio fu dono

la tua fortezza. Or va, sciogli le navi,

fa co' tuoi prodi al patrio suol ritorno,

ai Mirmìdoni impera; io non ti curo,

e l'ire tue derido; anzi m'ascolta.

Poiché Apollo Crisėide mi toglie,

parta. D'un mio naviglio, e da' miei fidi

io la rimando accompagnata, e cedo.

Ma nel tuo padiglione ad involarti

verrò la figlia di Brisèo, la bella

tua prigioniera, io stesso; onde t'avvegga

quant'io t'avanzo di possanza, e quindi

altri meco uguagliarsi e cozzar tema.

Di furore infiammār l'alma d'Achille

queste parole. Due pensier gli fêro

terribile tenzon nell'irto petto,

se dal fianco tirando il ferro acuto

la via s'aprisse tra la calca, e in seno

l'immergesse all'Atride; o se domasse

l'ira, e chetasse il tempestoso core.

Fra lo sdegno ondeggiando e la ragione

l'agitato pensier, corse la mano

sovra la spada, e dalla gran vagina

traendo la venìa; quando veloce

dal ciel Minerva accorse, a lui spedita

dalla diva Giunon, che d'ambo i duci

egual cura ed amor nudrìa nel petto.

Gli venne a tergo, e per la bionda chioma

prese il fiero Pelìde, a tutti occulta,

a lui sol manifesta. Stupefatto

si scosse Achille, si rivolse, e tosto

riconobbe la Diva a cui dagli occhi

uscìan due fiamme di terribil luce,

e la chiamò per nome, e in ratti accenti,

Figlia, disse, di Giove, a che ne vieni?

Forse d'Atride a veder l'onte? Aperto

io tel protesto, e avran miei detti effetto:

ei col suo superbir cerca la morte,

e la morte si avrà. - Frena lo sdegno,

la Dea rispose dalle luci azzurre:

io qui dal ciel discesi ad acchetarti,

se obbedirmi vorrai. Giuno spedimmi,

Giuno ch'entrambi vi difende ed ama.

Or via, ti calma, né trar brando, e solo

di parole contendi. Io tel predìco,

e andrà pieno il mio detto: verrà tempo

che tre volte maggior, per doni eletti,

avrai riparo dell'ingiusta offesa.

Tu reprimi la furia, ed obbedisci.

E Achille a lei: Seguir m'è forza, o Diva,

benché d'ira il cor arda, il tuo consiglio.

Questo fia lo miglior. Ai numi è caro

chi de' numi al voler piega la fronte.

Disse; e rattenne su l'argenteo pomo

la poderosa mano, e il grande acciaro

nel fodero respinse, alle parole

docile di Minerva. Ed ella intanto

all'auree sedi dell'Egìoco padre

sul cielo risalì fra gli altri Eterni.

Achille allora con acerbi detti

rinfrescando la lite, assalse Atride:

Ebbro! cane agli sguardi e cervo al core!

Tu non osi giammai nelle battaglie

dar dentro colla turba; o negli agguati

perigliarti co' primi infra gli Achei,

ché ogni rischio t'è morte. Assai per certo

meglio ti torna di ciascun che franco

nella grand'oste achea contro ti dica,

gli avuti doni in securtà rapire.

Ma se questa non fosse, a cui comandi,

spregiata gente e vil, tu non saresti

del popol tuo divorator tiranno,

e l'ultimo de' torti avresti or fatto.

Ma ben t'annunzio, ed altamente il giuro

per questo scettro (che diviso un giorno

dal montano suo tronco unqua né ramo

né fronda metterà, né mai virgulto

germoglierà, poiché gli tolse il ferro

con la scorza le chiome, ed ora in pugno

sel portano gli Achei che posti sono

del giusto a guardia e delle sante leggi

ricevute dal ciel), per questo io giuro,

e invïolato sacramento il tieni:

stagion verrà che negli Achei si svegli

desiderio d'Achille, e tu salvarli

misero! non potrai, quando la spada

dell'omicida Ettòr farà vermigli

di larga strage i campi: e allor di rabbia

il cor ti roderai, ché sì villana

al più forte de' Greci onta facesti.

Disse; e gittò lo scettro a terra, adorno

d'aurei chiovi, e s'assise. Ardea l'Atride

di novello furor, quando nel mezzo

surse de' Pilii l'orator, Nestorre

facondo sì, che di sua bocca uscièno

più che mel dolci d'eloquenza i rivi.

Di parlanti con lui nati e cresciuti

nell'alma Pilo ei già trascorse avea

due vite, e nella terza allor regnava.

Con prudenti parole il santo veglio

così loro a dir prese: Eterni Dei!

Quanto lutto alla Grecia, e quanta a Prìamo

gioia s'appresta ed a' suoi figli e a tutta

la dardania città, quando fra loro

di voi s'intenda la fatal contesa,

di voi che tutti di valor vincete

e di senno gli Achei! Deh m'ascoltate,

ché minor d'anni di me siete entrambi;

ed io pur con eroi son visso un tempo

di voi più prodi, e non fui loro a vile:

ned altri tali io vidi unqua, né spero

di riveder più mai, quale un Drïante

moderator di genti, e Piritòo,

Cèneo ed Essadio e Polifemo uom divo,

e l'Egìde Teseo pari ad un nume.

Alme più forti non nudrìa la terra,

e forti essendo combattean co' forti,

co' montani Centauri, e strage orrenda

ne fean. Con questi, a lor preghiera, io spesso

partendomi da Pilo e dal lontano

Apio confine, a conversar venìa,

e secondo mie forze anch'io pugnava.

Ma di quanti mortali or crea la terra

niun potrìa pareggiarli. E nondimeno

da quei prestanti orecchio il mio consiglio

ed il mio detto obbedïenza ottenne.

E voi pur anco m'obbedite adunque,

ché l'obbedirmi or giova. Inclito Atride,

deh non voler, sebben sì grande, a questi

tor la fanciulla; ma ch'ei s'abbia in pace

da' Greci il dato guiderdon consenti:

né tu cozzar con inimico petto

contra il rege, o Pelìde. Un re supremo,

cui d'alta maestà Giove circonda,

uguaglianza d'onore unqua non soffre.

Se generato d'una diva madre

tu lui vinci di forza, ei vince, o figlio,

te di poter, perché a più genti impera.

Deh pon giù l'ira, Atride, e placherassi

pure Achille al mio prego, ei che de' Greci

in sì ria guerra è principal sostegno.

Tu rettissimo parli, o saggio antico,

pronto riprese il regnatore Atride;

ma costui tutti soverchiar presume,

tutti a schiavi tener, dar legge a tutti,

tutti gravar del suo comando. Ed io

potrei patirlo? Io no. Se il fêro i numi

un invitto guerrier, forse pur anco

di tanto insolentir gli diero il dritto?

Tagliò quel dire Achille, e gli rispose:

Un pauroso, un vil certo sarei

se d'ogni cenno tuo ligio foss'io.

Altrui comanda, a me non già; ch'io teco

sciolto di tutta obbedienza or sono.

Questo solo vo' dirti, e tu nel mezzo

lo rinserra del cor. Per la fanciulla

un dì donata, ingiustamente or tolta,

né con te né con altri il brando mio

combatterà. Ma di quant'altre spoglie

nella nave mi serbo, né pur una,

s'io la niego, t'avrai. Vien, se nol credi,

vieni alla prova; e il sangue tuo scorrente

dalla mia lancia farà saggio altrui.

Con questa di parole aspra tenzone

levārsi, e sciolto fu l'acheo consesso.

Con Patroclo il Pelìde e co' suoi prodi

riede a sue navi nelle tende; e Atride

varar fa tosto a venti remi eletti

una celere prora colla sacra

ecatombe. Di Crise egli medesmo

vi guida e posa l'avvenente figlia;

duce v'ascende il saggio Ulisse, e tutti

già montati correan l'umide vie.

Ciò fatto, indisse al campo Agamennóne

una sacra lavanda: e ognun devoto

purificarsi, e via gittar nell'onde

le sozzure, e del mar lungo la riva

offrir di capri e di torelli intere

ecatombi ad Apollo. Al ciel salìa

volubile col fumo il pingue odore.

Seguìan nel campo questi riti. E fermo

nel suo dispetto e nella dianzi fatta

ria minaccia ad Achille, intanto Atride

Euribate e Taltibio a sé chiamando,

fidi araldi e sergenti, Ite, lor disse,

del Pelìde alla tenda, e m'adducete

la bella figlia di Brisèo. Se il niega,

io ne verrò con molta mano, io stesso,

a gliela tōrre: e ciò gli fia più duro.

Disse; e il cenno aggravando in via li pose.

Del mar lunghesso l'infecondo lido

givan quelli a mal cuore, e pervenuti

de' Mirmidóni alla campal marina

trovār l'eroe seduto appo le navi

davanti al padiglion: né del vederli

certo Achille fu lieto. Ambo al cospetto

regal fermārsi trepidanti e chini,

né far motto fur osi né dimando.

Ma tutto ei vide in suo pensiero, e disse:

Messaggeri di Giove e delle genti,

salvete, araldi, e v'appressate. In voi

niuna è colpa con meco. Il solo Atride,

ei solo è reo, che voi per la fanciulla

Brisėide qui manda. Or va, fuor mena,

generoso Patròclo, la donzella,

e in man di questi guidator l'affida.

Ma voi medesmi innanzi ai santi numi

ed innanzi ai mortali e al re crudele

siatemi testimon, quando il dì splenda

che a scampar gli altri di rovina il mio

braccio abbisogni. Perocché delira

in suo danno costui, ned il presente

vede, né il poi, né il come a sua difesa

salvi alle navi pugneran gli Achei.

Disse; e Patròclo del diletto amico

al comando obbedì. Fuor della tenda

Brisėide menò, guancia gentile,

ed agli araldi condottier la cesse.

Mentre ei fanno alle navi achee ritorno,

e ritrosa con lor partìa la donna,

proruppe Achille in un subito pianto,

e da' suoi scompagnato in su la riva

del grigio mar s'assise, e il mar guardando

le man stese, e dolente alla diletta

madre pregando, Oh madre! è questo, disse,

questo è l'onor che darmi il gran Tonante

a conforto dovea del viver breve

a cui mi partoristi? Ecco, ei mi lascia

spregiato in tutto: il re superbo Atride

Agamennón mi disonora; il meglio

de' miei premi rapisce, e sel possiede.

Sì piangendo dicea. La veneranda

genitrice l'udì, che ne' profondi

gorghi del mare si sedea dappresso

al vecchio padre; udillo, e tosto emerse,

come nebbia, dall'onda: accanto al figlio,

che lagrime spargea, dolce s'assise,

e colla mano accarezzollo, e disse:

Figlio, a che piangi? e qual t'opprime affanno?

Di', non celarlo in cor, meco il dividi.

Madre, tu il sai, rispose alto gemendo

il piè-veloce eroe. Ridir che giova

tutto il già conto? Nella sacra sede

d'Eezïon ne gimmo; la cittade

ponemmo a sacco, e tutta a questo campo

fu condotta la preda. In giuste parti

la diviser gli Achivi, e la leggiadra

Crisėide fu scelta al primo Atride.

Crise d'Apollo sacerdote allora

con l'infula del nume e l'aureo scettro

venne alle navi a riscattar la figlia.

Molti doni offerì, molte agli Achivi

porse preghiere, ed agli Atridi in prima.

Invan; ché preghi e doni e sacerdote

e degli Achei l'assenso ebbe in dispregio

Agamennón, che minaccioso e duro

quel misero cacciò dal suo cospetto.

Partì sdegnato il veglio; e Apollo, a cui

diletto capo egli era, il suo lamento

esaudì dall'Olimpo, e contra i Greci

pestiferi vibrò dardi mortali.

Perìa la gente a torme, e d'ogni parte

sibilanti del Dio pel campo tutto

volavano gli strali. Alfine un saggio

indovin ne fe' chiaro in assemblea

l'oracolo d'Apollo. Io tosto il primo

esortai di placar l'ire divine.

Sdegnossene l'Atride, e in piè levato

una minaccia mi fe' tal che pieno

compimento sortì. Gli Achivi a Crisa

sovr'agil nave già la schiava adducono

non senza doni a Febo; e dalla tenda

a me pur dianzi tolsero gli araldi,

e menār seco di Brisèo la figlia,

la fanciulla da' Greci a me donata.

Ma tu che il puoi, tu al figlio tuo soccorri,

vanne all'Olimpo, e porgi preghi a Giove,

s'unqua Giove per te fu nel bisogno

o d'opera aitato o di parole.

Nel patrio tetto, io ben lo mi ricordo,

spesso t'intesi glorïarti, e dire

che sola fra gli Dei da ria sciagura

Giove campasti adunator di nembi,

il giorno che tentār Giuno e Nettunno

e Pallade Minerva in un con gli altri

congiurati del ciel porlo in catene;

ma tu nell'uopo sopraggiunta, o Dea,

l'involasti al periglio, all'alto Olimpo

prestamente chiamando il gran Centìmano,

che dagli Dei nomato è Brïarèo,

da' mortali Egeóne, e di fortezza

lo stesso genitor vincea d'assai.

Fiero di tanto onore alto ei s'assise

di Giove al fianco, e n'ebber tema i numi,

che poser di legarlo ogni pensiero.

Or tu questo rammentagli, e al suo lato

siedi, e gli abbraccia le ginocchia, e il prega

di dar soccorso ai Teucri, e far che tutte

fino alle navi le falangi achee

sien spinte e rotte e trucidate. Ognuno

lo si goda così questo tiranno;

senta egli stesso il gran regnante Atride

qual commise follìa quando superbo

fe' de' Greci al più forte un tanto oltraggio.

E lagrimando a lui Teti rispose:

Ahi figlio mio! se con sì reo destino

ti partorii, perché allevarti, ahi lassa!

Oh potessi ozioso a questa riva

senza pianto restarti e senza offese,

ingannando la Parca che t'incalza,

ed omai t'ha raggiunto! Ora i tuoi giorni

brevi sono ad un tempo ed infelici,

ché iniqua stella il dì ch'io ti produssi

i talami paterni illuminava.

E nondimen d'Olimpo alle nevose

vette n'andrò, ragionerò con Giove

del fulmine signore, e al tuo desire

piegarlo tenterò. Tu statti intanto

alle navi; e nell'ozio del tuo brando

senta l'Achivo de' tuoi sdegni il peso.

Perocché ieri in grembo all'Oceàno

fra gl'innocenti Etïopi discese

Giove a convito, e il seguīr tutti i numi.

Dopo la luce dodicesma al cielo

tornerà. Recherommi allor di Giove

agli eterni palagi; al suo ginocchio

mi gitterò, supplicherò, né vana

d'espugnarne il voler speranza io porto.

Partì, ciò detto; e lui quivi di bile

macerato lasciò per la fanciulla

suo mal grado rapita. Intanto a Crisa

colla sacra ecatombe Ulisse approda.

Nel seno entrati del profondo porto,

le vele ammaïnār, le collocaro

dentro il bruno naviglio, e prestamente

dechinār colle gomone l'antenna,

e l'adagiār nella corsìa. Co' remi

il naviglio accostār quindi alla riva;

e l'ancore gittate, e della poppa

annodati i ritegni, ecco sul lido

tutta smontar la gente, ecco schierarsi

l'ecatombe d'Apollo, e dalla nave

dell'onde vïatrice ultima uscire

Crisėide. All'altar l'accompagnava

l'accorto Ulisse, ed alla man del caro

genitor la ponea con questi accenti:

Crise, il re sommo Agamennón mi manda

a ti render la figlia, e offrir solenne

un'ecatombe a Febo, onde gli sdegni

placar del nume che gli Achei percosse

d'acerbissima piaga. - In questo dire

l'amata figlia in man gli cesse; e il vecchio

la si raccolse giubilando al petto.

Tosto dintorno al ben costrutto altare

in ordinanza statuīr la bella

ecatombe del Dio; lavār le palme,

presero il sacro farro, e Crise alzando

colla voce la man, fe' questo prego:

Dio che godi trattar l'arco d'argento,

tu che Crisa proteggi e la divina

Cilla, signor di Tènedo possente,

m'odi: se dianzi a mia preghiera il campo

acheo gravasti di gran danno, e onore

mi desti, or fammi di quest'altro voto

contento appieno. La terribil lue,

che i Dànai strugge, allontanar ti piaccia.

Sì disse orando, ed esaudillo il nume.

Quindi fin posto alle preghiere, e sparso

il salso farro, alzar fêr suso in prima

alle vittime il collo, e le sgozzaro.

tratto il cuoio, fasciār le incise cosce

di doppio omento, e le coprīr di crudi

brani. Il buon vecchio su l'accese schegge

le abbrustolava, e di purpureo vino

spruzzando le venìa. Scelti garzoni

al suo fianco tenean gli spiedi in pugno

di cinque punte armati: e come fûro

rosolate le coste, e fatto il saggio

delle viscere sacre, il resto in pezzi

negli schidoni infissero, con molto

avvedimento l'arrostiro, e poscia

tolser tutto alle fiamme. Al fin dell'opra,

poste le mense, a banchettar si diero,

e del cibo egualmente ripartito

sbramārsi tutti. Del cibarsi estinto

e del bere il desìo, d'almo lïeo

coronando il cratere, a tutti in giro

ne porsero i donzelli, e fe' ciascuno,

libagion colle tazze. E così tutto

cantando il dì la gioventude argiva,

e un allegro peàna alto intonando,

laudi a Febo dicean, che nell'udirle

sentìasi tocco di dolcezza il core.

Fugato il sole dalla notte, ei diersi

presso i poppesi della nave al sonno.

Poi come il cielo colle rosee dita

la bella figlia del mattino aperse,

conversero la prora al campo argivo,

e mandò loro in poppa il vento Apollo.

Rizzār l'antenna, e delle bianche vele

il seno dispiegār. L'aura seconda

le gonfiava per mezzo, e strepitoso,

nel passar della nave, il flutto azzurro

mormorava dintorno alla carena.

Giunti agli argivi accampamenti, in secco

trasser la nave su la colma arena,

e lunghe vi spiegār travi di sotto

acconciamente. Per le tende poi

si dispersero tutti e pe' navili.

Appo i suoi legni intanto il generoso

Pelìde Achille nel segreto petto

di sdegno si pascea, né al parlamento,

scuola illustre d'eroi, né alle battaglie

più comparìa; ma il cor struggea di doglia

lungi dall'armi, e sol dell'armi il suono

e delle pugne il grido egli sospira.

Rifulse alfin la dodicesma aurora,

e tutti di conserva al ciel gli Eterni

fean ritorno, ed avanti iva il re Giove.

Memore allor del figlio e del suo prego,

Teti emerse dal mare, e mattutina

in cielo al sommo dell'Olimpo alzossi.

Sul più sublime de' suoi molti gioghi

in disparte trovò seduto e solo

l'onniveggente Giove. Innanzi a lui

la Dea s'assise, colla manca strinse

le divine ginocchia, e colla destra

molcendo il mento, e supplicando disse:

Giove padre, se d'opre e di parole

giovevole fra' numi unqua ti fui,

un mio voto adempisci. Il figlio mio,

cui volge il fato la più corta vita,

deh, m'onora il mio figlio a torto offeso

dal re supremo Agamennón, che a forza

gli rapì la sua donna, e la si tiene.

Onoralo, ti prego, olimpio Giove,

sapientissimo Iddio; fa che vittrici

sien le spade troiane, infin che tutto

e doppio ancora dagli Achei pentiti

al mio figlio si renda il tolto onore.

Disse; e nessuna le facea risposta

il procelloso Iddio; ma lunga pezza

muto stette, e sedea. Teti il ginocchio

teneagli stretto tuttavolta, e i preghi

iterando venìa: Deh, parla alfine;

dimmi aperto se nieghi, o se concedi;

nulla hai tu che temer; fa ch'io mi sappia

se fra le Dee son io la più spregiata.

Profondamente allora sospirando

l'adunator de' nembi le rispose:

Opra chiedi odiosa che nemico

farammi a Giuno, e degli ontosi suoi

motti bersaglio. Ardita ella mai sempre

pur dinanzi agli Dei vien meco a lite,

e de' Troiani aiutator m'accusa.

Ma tu sgombra di qua, ché non ti vegga

la sospettosa. Mio pensier fia poscia

che il desir tuo si cómpia, e a tuo conforto

abbine il cenno del mio capo in pegno.

Questo fra' numi è il massimo mio giuro,

né revocarsi, né fallir, né vana

esser può cosa che il mio capo accenna.

Disse; e il gran figlio di Saturno i neri

sopraccigli inchinò. Su l'immortale

capo del sire le divine chiome

ondeggiaro, e tremonne il vasto Olimpo.

Così fermo l'affar si dipartiro.

Teti dal ciel spiccò nel mare un salto;

Giove alla reggia s'avviò. Rizzārsi

tutti ad un tempo da' lor troni i numi

verso il gran padre, né veruno ardissi

aspettarne il venir fermo al suo seggio,

ma mosser tutti ad incontrarlo. Ei grave

si compose sul trono. E già sapea

Giuno il fatto del Dio; ch'ella veduto

in segreti consigli avea con esso

la figlia di Nerèo, Teti la diva

dal bianco piede. Con parole acerbe

così dunque l'assalse: E qual de' numi

tenne or teco consulta, o ingannatore?

Sempre t'è caro da me scevro ordire

tenebrosi disegni, né ti piacque

mai farmi manifesto un tuo pensiero.

E degli uomini il padre e degli Dei

le rispose: Giunon, tutto che penso

non sperar di saperlo. Ardua ten fōra

l'intelligenza, benché moglie a Giove.

Ben qualunque dir cosa si convegna,

nullo, prima di te, mortale o Dio

la si saprà. Ma quel che lungi io voglio

dai Celesti ordinar nel mio segreto,

non dimandarlo né scrutarlo, e cessa.

Acerbissimo Giove, e che dicesti?

Riprese allor la maestosa il guardo

veneranda Giunon: gran tempo è pure

che da te nulla cerco e nulla chieggo,

e tu tranquillo adempi ogni tuo senno.

Or grave un dubbio mi molesta il core,

che Teti, del marin vecchio la figlia,

non ti seduca; ch'io la vidi, io stessa,

sul mattino arrivar, sederti accanto,

abbracciarti i ginocchi; e certo a lei

di molti Achivi tu giurasti il danno

appo le navi, per onor d'Achille.

E a rincontro il signor delle tempeste:

Sempre sospetti, né celarmi io posso,

spirto maligno, agli occhi tuoi. Ma indarno

la tua cura uscirà, ch'anzi più sempre

tu mi costringi a disamarti, e questo

a peggio ti verrà. S'al ver t'apponi,

che al ver t'apponga ho caro. Or siedi, e taci,

e m'obbedisci; ché giovarti invano

potrìan quanti in Olimpo a tua difesa

accorresser Celesti, allor che poste

le invitte mani nelle chiome io t'abbia.

Disse; e chinò la veneranda Giuno

i suoi grand'occhi paurosa e muta,

e in cor premendo il suo livor s'assise.

Di Giove in tutta la magion le fronti

si contristār de' numi, e in mezzo a loro

gratificando alla diletta madre

Vulcan l'inclito fabbro a dir sì prese:

Una malvagia intolleranda cosa

questa al certo sarà, se voi cotanto,

de' mortali a cagion, piato movete,

e suscitate fra gli Dei tumulto.

De' banchetti la gioia ecco sbandita,

se la vince il peggior. Madre, t'esorto,

benché saggia per te; vinci di Giove,

vinci del padre coll'ossequio l'ira,

onde a lite non torni, e del convito

ne conturbi il piacer; ch'egli ne puote,

del fulmine signore e dell'Olimpo,

dai nostri seggi rovesciar, se il voglia;

perocché sua possanza a tutte è sopra.

Or tu con care parolette il molci,

e tosto il placherai. - Surse, ciò detto,

ed all'amata genitrice un tondo

gemino nappo fra le mani ei pose,

bisbigliando all'orecchio: O madre mia,

benché mesta a ragion, sopporta in pace,

onde te con quest'occhi io qui non vegga,

te, che cara mi sei, forte battuta;

ché allor nessuna con dolor mio sommo

darti aìta io potrei. Duro egli è troppo

cozzar con Giove. Altra fiata, il sai,

volli in tuo scampo venturarmi. Il crudo

afferrommi d'un piede, e mi scagliò

dalle soglie celesti. Un giorno intero

rovinai per l'immenso, e rifinito

in Lenno caddi col cader del sole,

dalli Sinzii raccolto a me pietosi.

Disse; e la Diva dalle bianche braccia

rise, e in quel riso dalla man del figlio

prese il nappo. Ed ei poscia agli altri Eterni,

incominciando a destra, e dal cratere

il nèttare attignendo, a tutti in giro

lo mescea. Suscitossi infra' Beati

immenso riso nel veder Vulcano

per la sala aggirarsi affaccendato

in quell'opra. Così, fino al tramonto,

tutto il dì convitossi, ed egualmente

del banchetto ogni Dio partecipava.

Né l'aurata mancò lira d'Apollo,

né il dolce delle Muse alterno canto.

Ratto, poi che del Sol la luminosa

lampa si spense, a' suoi riposi ognuno

ne' palagi n'andò, che fabbricati

a ciascheduno avea con ammirando

artifizio Vulcan l'inclito zoppo.

E a' suoi talami anch'esso, ove qual volta

soave l'assalìa forza di sonno,

corcar solea le membra, il fulminante

Olimpio s'avvïò. Quivi salito

addormentossi il nume, ed al suo fianco

giacque l'alma Giunon che d'oro ha il trono.

 

 

LIBRO SECONDO

 

 

Tutti ancora dormìan per l'alta notte

i guerrieri e gli Dei; ma il dolce sonno

già le pupille abbandonato avea

di Giove che pensoso in suo segreto

divisando venìa come d'Achille,

con molta strage delle vite argive,

illustrar la vendetta. Alla divina

mente alfin parve lo miglior consiglio

invïar all'Atride Agamennóne

il malefico Sogno. A sé lo chiama,

e con presto parlar, Scendi, gli dice,

scendi, Sogno fallace, alle veloci

prore de' Greci, e nella tenda entrato

d'Agamennón, quant'io t'impongo, esponi

esatto ambasciator. Digli che tutte

in armi ei ponga degli Achei le squadre,

che dell'iliaco muro oggi è decreta

su nel ciel la caduta; che discordi

degli eterni d'Olimpo abitatori

più non sono le menti; che di Giuno

cessero tutti al supplicar; che in somma

l'estremo giorno de' Troiani è giunto.

Disse; ed il Sogno, il divin cenno udito,

avvïossi e calossi in un baleno

su l'argoliche navi. Entra d'Atride

nel queto padiglione, e immerso il trova

nella dolcezza di nettareo sonno.

Di Nestore Nelìde il volto assume,

di Nestore, cui sovra ogni altro duce

Agamennóne riveriva, e in queste

forme sul capo del gran re sospesa,

così la diva visïon gli disse:

Tu dormi, o figlio del guerriero Atrèo?

Tutta dormir la notte ad uom sconviensi

di supremo consiglio, a cui son tante

genti commesse e tante cure. Attento

dunque m'ascolta. A te vengh'io celeste

nunzio di Giove, che lontano ancora

su te veglia pietoso. Egli precetto

ti fa di porre tutti quanti in arme

prontamente gli Achei. Tempo è venuto

che l'ampia Troia in tua man cada: i numi

scesero tutti, intercedente Giuno,

in un solo volere, e alla troiana

gente sovrasta l'infortunio estremo

preparato da Giove. Or tu ben figgi

questo avviso nell'alma, e fa che seco

non lo si porti, col partirsi, il sonno.

Sparve ciò detto; e delle udite cose,

di che contrario uscir dovea l'effetto,

pensoso lo lasciò. Prender di Troia

quel dì stesso le mura egli sperossi,

né di Giove sapea, stolto! i disegni,

né qual aspro pugnar, né quanta il Dio

di lagrime cagione e di sospiri

ai Troiani e agli Achivi apparecchiava.

Si riscuote dal sonno, e la divina

voce dintorno gli susurra ancora.

Sorge, e del letto su la sponda assiso

una molle s'avvolge alla persona

tunica intatta, immacolata; gittasi

il regal manto indosso; il piè costringe

ne' bei calzari; il brando aspro e lucente

d'argentee borchie all'omero sospende,

l'invïolato avito scettro impugna,

ed alle navi degli Achei cammina.

Già sul balzo d'Olimpo alta ascendea

di Titon la consorte, annunziatrice

dell'alma luce a Giove e agli altri Eterni;

quando con chiara voce i banditori

per comando d'Atride a parlamento

convocaro gli Achei, che frettolosi

accorsero e frequenti. Ma raccolse

de' magnanimi duci Agamennóne

prima il senato alla nestorea nave,

e raccolti che fûro, in questi accenti

il suo prudente consultar propose:

M'udite, amici. Nella queta notte

una divina visïon m'apparve,

che te, Nestore padre, alla statura,

agli atti, al volto somigliava in tutto.

Sul mio capo librossi, e così disse:

Figlio d'Atrèo, tu dormi? A sommo duce

cui di tanti guerrieri e tante cure

commesso è il pondo, non s'addice il sonno.

M'odi adunque: mandato a te son io

da Giove che dal ciel di te pensiero

prende e pietate. Ei tutte ti comanda

armar le truppe de' chiomati Achei,

ché di Troia il conquisto oggi è maturo;

poiché di Giuno il supplicar compose

la discordia de' numi, e grave ai Teucri

danno sovrasta per voler di Giove.

Tu di Giove il comando in cor riponi.

Sparve, ciò detto, e quel mio dolce sonno

m'abbandonò. La guisa or noi di porre

gli Achivi in arme esaminiam. Ma pria

giovi con finto favellar tentarne,

fin dove lice, i sentimenti. Io dunque

comanderò che su le navi ognuno

si disponga alla fuga, e sparsi ad arte

voi l'impedite con opposti accenti.

Così detto s'assise. In piè rizzossi

dell'arenosa Pilo il regnatore

Nestore, e saggio ragionando disse:

O amici, o degli Achei principi e duci,

s'altro qualunque Argivo un cotal sogno

detto n'avesse, un menzogner l'avremmo,

e spregeremmo: ma lo vide il sommo

capo del campo. A risvegliar si corra

dunque l'acheo valore. - E sì dicendo

usciva il vecchio dal consiglio, e tutti

surti in piè lo seguìan gli altri scettrati

del re supremo ossequiosi. Intanto

il popolo accorrea. Quale dai fori

di cava pietra numeroso sbuca

lo sciame delle pecchie, e succedendo

sempre alle prime le seconde, volano

sui fior di aprile a gara, e vi fan grappolo

altre di qua affollate, altre di là;

così fuor delle navi e delle tende

correan per l'ampio lido a parlamento

affollate le turbe, e le spronava

l'ignea Fama, di Giove ambasciatrice.

Si congregaro alfin. Tumultuoso

brulicava il consesso, ed al sedersi

di tante genti il suol gemea di sotto.

Ben nove araldi d'acchetar fean prova

quell'immenso frastuono, alto gridando:

Date fine ai clamori, udite i regi,

udite, Achivi, del gran Dio gli alunni.

Sostārsi alfine: ne' suoi seggi ognuno

si compose, e cessò l'alto fragore.

Allor rizzossi Agamennón stringendo

lo scettro, esimia di Vulcan fatica.

Diè pria Vulcano quello scettro a Giove,

e Giove all'uccisor d'Argo Mercurio;

questi a Pelope auriga, esso ad Atrèo;

Atrèo morendo al possessor di pingui

greggi Tieste, e da Tieste alfine

nella destra passò d'Agamennóne,

che poi sovr'Argo lo distese, e sopra

isole molte. A questo il grande Atride

appoggiato, sì disse: Amici eroi,

Dànai, di Marte bellicosi figli,

in una dura e perigliosa impresa

Giove m'avvolse, Iddio crudel, che prima

mi promise e giurò delle superbe

iliache mura la conquista, e in Argo

glorioso il ritorno. Or mi delude

indegnamente, e dopo tante in guerra

vite perdute, di tornar m'impone

inonorato alle paterne rive.

Del prepotente Iddio questo è il talento,

di lui che nell'immensa sua possanza

già di molte città l'eccelse rocche

distrusse, e molte struggeranne ancora.

Ma qual onta per noi appo i futuri

che contra minor oste un tale e tanto

esercito di forti una sì lunga

guerra guerreggi; e non la cómpia ancora?

Certo se tutti convocati insieme

salda pace a giurar Teucri ed Achivi,

e di questi e di quei levato il conto,

ad ogni dieci Achivi un Teucro solo

mescer dovesse di lïeo la spuma,

molte decurie si vedrìan chiedenti

con labbro asciutto il mescitor: cotanto

maggior de' Teucri cittadini estimo

il numero de' nostri. Ma li molti

da diverse città raccolti e scesi

in lor sussidio bellicosi amici

duro intoppo mi fanno, e a mio dispetto

mi vietano espugnar d'Ilio le mura.

Già del gran Giove il nono anno si volge

da che giungemmo, e già marciti i fianchi

son delle navi, e logore le sarte;

e le nostre consorti e i cari figli

desïando ne stanno e richiamando

nelle vedove case. E noi l'impresa

che a queste sponde ne condusse, ancora

consumar non sapemmo. Al vento adunque,

diamo al vento le vele, io vel consiglio,

alla dolce fuggiam terra natìa

di concorde voler, ché disperata

delle mura troiane è la conquista.

Mosse quel dire delle turbe i petti,

e fremea l'adunanza, a quella guisa

che dell'icario mare i vasti flutti

si confondono allor che Noto ed Euro

della nube di Giove il fianco aprendo

a sollevar li vanno impetuosi.

E come quando di Favonio il soffio

denso campo di biade urta, e passando

il capo inchina delle bionde spiche;

tal si commosse il parlamento, e tutti

alle navi correan precipitosi

con fremito guerrier. Sotto i lor piedi

s'alza la polve, e al ciel si volve oscura.

I navigli allestir, lanciarli in mare,

espurgarne le fosse, ed i puntelli

sottrarre alle carene era di tutti

la faccenda e la gara. Arde ogni petto

del sacro amore delle patrie mura,

e tutto di clamori il cielo eccheggia.

E degli Achei quel dì sarìa seguìto,

contro il voler de' fati, il dipartire,

se con questo parlar non si volgea

Giuno a Minerva: O dell'Egìoco Padre

invincibile figlia, così dunque,

il mar coprendo di fuggenti vele,

al patrio lido rediran gli Achivi?

Ed a Priamo l'onore, ai Teucri il vanto

lasceran tutto dell'argiva Elèna

dopo tante per lei, lungi dal caro

nido natìo, qui spente anime greche?

Deh scendi al campo acheo, scendi, ed adopra

lusinghiero parlar, molci i soldati,

frena la fuga, né patir che un solo

de' remiganti pini in mar sia tratto.

Obbediente la cerulea Diva

dalle cime d'Olimpo dispiccossi

velocissima, e tosto fu sul lido.

Ivi Ulisse trovò, senno di Giove,

occupato non già del suo naviglio,

ma del dolor che il preme, e immoto in piedi.

Gli si fece davanti la divina

Glaucopide dicendo: O di Laerte

generoso figliuol, prudente Ulisse,

così dunque n'andrete? E al patrio suolo

navigherete, e lascerete a Priamo

di vostra fuga il vanto, ed ai Troiani

d'Argo la donna, e invendicato il sangue

di tanti, che per lei qui lo versaro,

bellicosi compagni? A che ti stai?

T'appresenta agli Achei, rompi gl'indugi,

dolci adopra parole e li trattieni,

né consentir che antenna in mar si spinga.

Così disse la Dea. Ne riconobbe

l'eroe la voce, e via gittato il manto,

che dopo lui raccolse il banditore

Eurìbate itacense, a correr diessi;

e incontrato l'Atride Agamennóne,

ratto ne prende il regal scettro, e vola

con questo in pugno tra le navi achee;

e quanti ei trova o duci o re, li ferma

con parlar lusinghiero; e, Che fai, dice,

valoroso campione? A te de' vili

disconvien la paura. Or via, ti resta,

pregoti, e gli altri fa restar. La mente

ben palese non t'è d'Agamennóne;

egli tenta gli Achei, pronto a punirli.

Non tutti han chiaro ciò che dianzi in chiuso

consesso ei disse. Deh badiam, che irato

non ne percuota d'improvvisa offesa.

Di re supremo acerba è l'ira, e Giove,

che al trono l'educò, l'onora ed ama.

S'uom poi vedea del vulgo, e lo cogliea

vociferante, collo scettro il dosso

batteagli; e, Taci, gli garrìa severo,

taci tu tristo, e i più prestanti ascolta

tu codardo, tu imbelle, e nei consigli

nullo e nell'armi. La vogliam noi forse

far qui tutti da re? Pazzo fu sempre

de' molti il regno. Un sol comandi, e quegli

cui scettro e leggi affida il Dio, quei solo

ne sia di tutti correttor supremo.

Così l'impero adoperando Ulisse

frena le turbe, e queste a parlamento

dalle navi di nuovo e dalle tende

con fragore accorrean, pari a marina

onda che mugge e sferza il lido, ed alto

ne rimbomba l'Egeo. Queto s'asside

ciascheduno al suo posto: il sol Tersite

di gracchiar non si resta, e fa tumulto

parlator petulante. Avea costui

di scurrili indigeste dicerìe

pieno il cerèbro, e fuor di tempo, e senza

o ritegno o pudor le vomitava

contro i re tutti; e quanto a destar riso

infra gli Achivi gli venìa sul labbro,

tanto il protervo beffator dicea.

Non venne a Troia di costui più brutto

ceffo; era guercio e zoppo, e di contratta

gran gobba al petto; aguzzo il capo, e sparso

di raro pelo. Capital nemico

del Pelìde e d'Ulisse, ei li solea

morder rabbioso: e schiamazzando allora

colla stridula voce lacerava

anche il duce supremo Agamennóne,

sì che tutti di sdegno e di corruccio

fremean; ma il tristo ognor più forti alzava

le rampogne e gridava: E di che dunque

ti lagni, Atride? che ti manca? Hai pieni

di bronzo i padiglioni e di donzelle,

delle vinte città spoglie prescelte

e da noi date a te primiero. O forse

pur d'auro hai fame, e qualche Teucro aspetti

che d'Ilio uscito lo ti rechi al piede,

prezzo del figlio da me preso in guerra,

da me medesmo, o da qualch'altro Acheo?

O cerchi schiava giovinetta a cui

mescolarti in amore alla spartita?

Eh via, che a sommo imperador non lice

scandalo farsi de' minori. Oh vili,

oh infami, oh Achive, non Achei! Facciamo

vela una volta; e qui costui si lasci

qui lui solo a smaltir la sua ricchezza,

onde a prova conosca se l'aita

gli è buona o no delle nostr'armi. E dianzi

nol vedemmo pur noi questo superbo

ad Achille, a un guerrier che sì l'avanza

di fortezza, for onta? E dell'offeso

non si tien egli la rapita schiava?

Ma se d'Achille il cor di generosa

bile avvampasse, e un indolente vile

non si fosse egli pur, questo sarìa

stato l'estremo de' tuoi torti, Atride.

Così contra il supremo Agamennóne

impazzava Tersite. Gli fu sopra

repente il figlio di Laerte, e torvo

guatandolo gridò: Fine alle tue

faconde ingiurie, ciarlator Tersite.

E tu sendo il peggior di quanti a Troia

con gli Atridi passār, tu audace e solo

non dar di cozzo ai re, né rimenarli

su quella lingua con villane aringhe,

né del ritorno t'impacciar, ché il fine

di queste cose al nostro sguardo è oscuro,

né sappiam se felice o sventurato

questo ritorno riuscir ne debba.

Ma di tue contumelie al sommo Atride

so ben io lo perché: donato il vedi

di molti doni dagli achivi eroi,

per ciò ti sbracci a maledirlo. Or io

cosa dirotti che vedrai compiuta.

Se com'oggi insanir più ti ritrovo,

caschimi il capo dalle spalle, e detto

di Telemaco il padre io più non sia,

mai più, se non t'afferro, e delle vesti

tutto nudo, da questo almo consesso

non ti caccio malconcio e piangoloso.

Sì dicendo, le terga gli percuote

con lo scettro e le spalle. Si contorce

e lagrima dirotto il manigoldo

dell'aureo scettro al tempestar, che tutta

gli fa la schiena rubiconda; ond'egli

di dolor macerato e di paura

s'assise, e obbliquo riguardando intorno

col dosso della man si terse il pianto.

Rallegrò quella vista i mesti Achivi,

e surse in mezzo alla tristezza il riso;

e fu chi vòlto al suo vicin dicea:

Molte in vero d'Ulisse opre vedemmo

eccellenti e di guerra e di consiglio,

ma questa volta fra gli Achei, per dio!

fe' la più bella delle belle imprese,

frenando l'abbaiar di questo cane

dileggiator. Che sì, che all'arrogante

passò la frega di dar morso ai regi!

Mentre questo dicean, levossi in piedi

e collo scettro di parlar fe' cenno

l'espugnatore di cittadi Ulisse.

In sembianza d'araldo accanto a lui

la fiera Diva dalle luci azzurre

silenzio a tutti impose, onde gli estremi

del par che i primi udirne le parole

potessero, ed in cor pesarne il senno.

Allora il saggio diè principio: Atride,

questi Achivi di te vonno far oggi

il più infamato de' mortali. Han posto

le promesse in obblìo fatte al partirsi

d'Argo alla volta d'Ilïon, giurando

di non tornarsi che Ilïon caduto.

Guardali: a guisa di fanciulli, a guisa

di vedovelle sospirar li senti,

e a vicenda plorar per lo desìo

di riveder le patrie mura. E in vero

tal qui si pate traversìa, che scusa

il desiderio de' paterni tetti.

Se a navigante da vernal procella

impedito e sbattuto in mar che freme,

pur di un mese è crudel la lontananza

dalla consorte, che pensar di noi

che già vedemmo del nono anno il giro

su questo lido? Compatir m'è forza

dunque agli Achivi, se a mal cor qui stanno.

Ma dopo tanta dimoranza è turpe

vōti di gloria ritornar. Deh voi,

deh ancor per poco tollerate, amici,

tanto indugiate almen, che si conosca

se vero o falso profetò Calcante.

In cuor riposte ne teniam noi tutti

le divine parole, e voi ne foste

testimoni, voi sì quanti la Parca

non aveste crudel. Parmi ancor ieri

quando le navi achee di lutto a Troia

apportatrici in Aulide raccolte,

noi ci stavamo in cerchio ad una fonte

sagrificando sui devoti altari

vittime elette ai Sempiterni, all'ombra

d'un platano al cui piè nascea di pure

linfe il zampillo. Un gran prodigio apparve

subitamente. Un drago di sanguigne

macchie spruzzato le cerulee terga,

orribile a vedersi, e dallo stesso

re d'Olimpo spedito, ecco repente

sbucar dall'imo altare, e tortuoso

al platano avvinghiarsi. Avean lor nido

in cima a quello i nati tenerelli

di passera feconda, latitanti

sotto le foglie: otto eran elli, e nona

la madre. Colassù l'angue salito

gl'implumi divorò, miseramente

pigolanti. Plorava i dolci figli

la madre intanto, e svolazzava intorno

pietosamente; finché ratto il serpe

vibrandosi afferrò la meschinella

all'estremo dell'ala, e lei che l'aure

empiea di stridi, nella strozza ascose.

Divorata co' figli anco la madre,

del vorator fe' il Dio che lo mandava

nuovo prodigio; e lo converse in sasso.

Stupidi e muti ne lasciò del fatto

la meraviglia, e a noi, che dell'orrendo

portento fra gli altari intervenuto

incerti ci stavamo e paventosi,

Calcante profetò: Chiomati Achivi,

perché muti così? Giove ne manda

nel veduto prodigio un tardo segno

di tardo evento, ma d'eterno onore.

Nove augelli ingoiò l'angue divino,

nov'anni a Troia ingoierà la guerra,

e la città nel decimo cadrà.

Così disse il profeta, ed ecco omai

tutto adempirsi il vaticinio. Or dunque

perseverate, generosi Achei,

restatevi di Troia al giorno estremo.

Levossi a questo dire un alto grido,

a cui le navi con orribil eco

rispondean, grido lodator del saggio

parlamento d'Ulisse. Ed incalzando

quei detti il vecchio cavalier Nestorre,

Oh vergogna, dicea; sul vostro labbro

parole intesi di fanciulli a cui

nulla cal della guerra. Ove n'andranno

i giuramenti, le promesse e i tanti

consigli de' più saggi e i tanti affanni,

le libagioni degli Dei, la fede

delle congiunte destre? Dissipati

n'andran col fumo dell'altare? Achei,

noi contendiamo di parole indarno,

e in vane induge il tempo si consuma,

che dar si debbe a salutar riparo.

Tien fermo, Atride, il tuo coraggio, e fermo

su gli Achei nelle pugne alza lo scettro:

ed in proposte, che d'effetto vote

cadran mai sempre, marcir lascia i pochi

che in disparte consultano se in Argo

redir si debba, pria che falsa o vera

si conosca di Giove la promessa.

Io ti fo certo che il saturnio figlio,

il giorno che di Troia alla ruïna

sciolser gli Achivi le veloci antenne,

non dubbio cenno di favor ne fece

balenando a diritta. Alcun non sia

dunque che parli del tornarsi in Argo,

se prima in braccio di troiana sposa

non vendica d'Elèna il ratto e i pianti.

Se taluno pur v'ha che voglia a forza

di qua partirsi, di toccar si provi

il suo naviglio, e troverà primiero

la meritata morte. Tu frattanto

pria ti consiglia con te stesso, o sire,

indi cogli altri, né sprezzar l'avviso

ch'io ti porgo. Dividi i tuoi guerrieri

per curie e per tribù, sì che a vicenda

si porga aita una tribù con l'altra,

l'una con l'altra curia. A questa guisa,

obbedendo agli Achei, ti fia palese

de' capitani a un tempo e de' soldati

qual siasi il prode e quale il vil; ché ognuno

con emula virtù pel suo fratello

combatterà. Conoscerai pur anco

se nume avverso, o codardìa de' tuoi,

o poca d'armi maestrìa ti tolga

delle dardanie mura la conquista.

Saggio vegliardo, gli rispose Atride,

in tutti della guerra i parlamenti

nanzi a tutti tu vai. Piacesse a Giove,

a Minerva piacesse e al santo Apollo,

ch'altri dieci io m'avessi infra gli Achei

a te pari in consiglio; ed atterrata

cadrìa ben tosto la città troiana.

Ma me l'Egìoco Giove in alti affanni

sommerse, e incauto mi sospinse in vane

gare e contese. Di parole avemmo

gran lite Achille ed io d'una fanciulla,

ed io fui primo all'ira. Ma se fia

che in amistà si torni, un sol momento

non tarderà di Troia il danno estremo.

Or via, di cibo a ristorar le forze

itene tutti per la pugna. Ognuno

l'asta raffili, ognun lo scudo assetti,

di copioso alimento ognun governi

i corridor veloci, e diligente

visiti il cocchio, e mediti il conflitto;

onde questo sia giorno di battaglia

tutto e di sangue, e senza posa alcuna,

finché la notte non estingua l'ire

de' combattenti. Di guerrier sudore

bagnerassi la soga dello scudo

sui caldi petti, verrà manco il pugno

sovra il calce dell'asta, e destrier molli

trarranno il cocchio con infranta lena.

Qualunque io poscia scorgerò che lungi

dalla pugna si resti appo le navi

neghittoso, non fia chi salvo il mandi

dalla fame de' cani e degli augelli.

Così disse, e al finir di sue parole

mandār gli Achivi un altissimo grido

somigliante al muggir d'onda spezzata

all'alto lido ove il soffiar la caccia

di furioso Noto incontro ai fianchi

di prominente scoglio, flagellato

da tutti i venti e da perpetue spume.

Si levār frettolosi, si dispersero

per le navi, destār per tutto il lido

globi di fumo, ed imbandīr le mense.

Chi a questo dio sacrifica, chi a quello,

al suo ciascun si raccomanda, e il prega

di camparlo da morte nella pugna.

Ma il re de' prodi Agamennóne un pingue

toro quinquenne al più possente nume

sagrifica, e convita i più prestanti:

Nestore primamente e Idomenèo,

quindi entrambi gli Aiaci, e di Tidèo

l'inclito figlio, e sesto il divo Ulisse.

Spontaneo venne Menelao, cui noto

era il travaglio del fratello. E questi

fêr di sé stessi una corona intorno

alla vittima, e preso il salso farro

nel mezzo Agamennóne orando disse:

Glorioso de' nembi adunatore

Massimo Giove abitator dell'etra,

pria che il sole tramonti e l'aria imbruni,

fa che fumanti al suol di Priamo io getti

gli alti palagi, e d'ostil fiamma avvampi

le regie porte; fa che la mia lancia

squarci l'usbergo dell'ettòreo petto,

e che dintorno a lui molti suoi fidi

boccon distesi mordano la polve.

Disse; ed il nume l'olocausto accolse,

ma non il voto, e a lui più lutto ancora

preparando venìa. Finito il prego

e sparso il farro, ed incurvato all'ara

della vittima il collo, la scannaro,

la discuoiaro, ne squartār le cosce,

le rivestīr di doppio zirbo, e sopra

poservi i crudi brani. Indi la fiamma

d'aride schegge alimentando, a quella

cocean gli entragni nello spiedo infissi.

Adusti i fianchi, e fatto delle sacre

viscere il saggio, lo restante in pezzi

negli schidon confissero, ed acconcia-

-mente arrostito ne levaro il tutto.

Finita l'opra, apparecchiār le mense,

e a suo talento vivandò ciascuno.

Di cibo sazi e di bevanda, prese

a così dire il cavalier Nestorre:

Re delle genti glorioso Atride

Agamennón, si tolga ogni dimora

all'impresa che in pugno il Dio ne pone.

Degli araldi la voce alla rassegna

chiami sul lido i loricati Achei,

e noi scorriamo le raccolte squadre,

e di Marte destiam l'ira e il desìo.

Assentì pronto il sire, ed al suo cenno

l'acuto grido degli araldi diede

della pugna agli Achivi il fiero invito.

Corsero quelli frettolosi; e i regi

di Giove alunni, che seguìan l'Atride,

li ponean ratti in ordinanza. Errava

Minerva in mezzo, e le splendea sul petto

incorrotta, immortal la prezïosa

Egida da cui cento eran sospese

frange conteste di finissim'oro,

e valea cento tauri ogni gherone.

In quest'arme la Diva folgorando

concitava gli Achivi, ed accendea

l'ardir ne' petti, e li facea gagliardi

a pugnar fieramente e senza posa.

Allor la guerra si fe' dolce al core

più che il volger le vele al patrio nido.

Siccome quando la vorace vampa

sulla montagna una gran selva incende,

sorge splendor che lungi si propaga;

così al marciar delle falangi achive

mandan l'armi un chiaror che tutto intorno

di tremuli baleni il cielo infiamma.

E qual d'oche o di gru volanti eserciti

ovver di cigni che snodati il tenue

collo van d'Asio ne' bei verdi a pascere

lungo il Caïstro, e vagolando esultano

su le larghe ale, e nel calar s'incalzano

con tale un rombo che ne suona il prato;

così le genti achee da navi e tende

si diffondono in frotte alla pianura

del divino Scamandro, e il suol rimbomba

sotto il piè de' guerrieri e de' cavalli

terribilmente. Nelle verdi lande

del fiume s'arrestār gremìti e spessi

come le foglie e i fior di primavera.

Conti lo sciame dell'impronte mosche

che ronzano in april nella capanna,

quando di latte sgorgano le secchie,

chi contar degli Achei desìa le torme

anelanti de' Teucri alla rovina.

Ma quale è de' caprai la maestrìa

nel divider le greggie, allor che il pasco

le confonde e le mesce, a questa guisa

in ordinate squadre i capitani

schieravano gli Achivi alla battaglia.

Agamennón qual tauro era nel mezzo,

che nobile e sovrana alza la fronte

sovra tutto l'armento e lo conduce:

e tal fra tanti eroi Giove gl'infonde

e garbo e maestà, che Marte al cinto,

Nettunno al petto, e il Folgorante istesso

negli sguardi somiglia e nella testa.

Muse dell'alto Olimpo abitatrici,

or voi ne dite (ché voi tutte, o Dive,

riguardate le cose e le sapete:

a noi nessuna è conta, e ne susurra

di fuggitiva fama un'aura appena),

dite voi degli Achivi i condottieri.

Della turba infinita io né parole

farò né nome, ché bastanti a questo

non dieci lingue mi sarìan né dieci

bocche, né voce pur di ferreo petto.

Di tutta l'oste ad Ilio navigata

divisar la memoria altri non puote

che l'alme figlie dell'Egìoco Giove.

Sol dunque i duci, e sol le navi io canto.

Erano de' Beozi i capitani

Arcesilao, Leìto e Penelèo

e Protenore e Clonio, e traean seco

d'Iria i coloni e d'Aulide petrosa,

con quei di Scheno e Scolo, e quei dell'erta

Eteono e di Tespia, e quei che manda

la spazïosa Micalesso e Grea;

e quei che d'Arma la contrada edùca,

ed Ilesio ed Erìtre ed Eleone

e Peteone ed Ila ed Ocalèa.

Seguono i prodi della ben costrutta

Medeone e di Cope, e gli abitanti

d'Eutresi e Tisbe di colombe altrice.

Di Coronèa vien dopo e dell'erbosa

Alïarto e di Glissa e di Platèa

e d'Ipotebe dalle salde mura

una gran torma: ed altri abbandonaro

le sacrate a Nettunno inclite selve

d'Onchesto, e d'Arne i pampinosi colli;

altri il pian di Midèa; altri di Nisa

gli almi boschetti, e gli ultimi confini

d'Antèdone. Di questi eran cinquanta

le navi, e ognuna cento prodi e venti,

fior di beozia gioventù, portava.

Dell'Orcomèno Minïèo gli eletti,

misti a quei d'Aspledóne, hanno a lor duci

Ascalafo e Ialmeno, ambo di Marte

egregia prole. Ne' secreti alberghi

d'Attore Azìde partorilli Astioche

vereconda fanciulla, alle superne

stanze salita, e al forte iddio commista

in amplesso furtivo. Eran di questi

trenta le navi che schierārsi al lido.

Regge la squadra de' Focensi il cenno

di Schedio e d'Epistròfo, incliti figli

del generoso Naubolìde Ifìto.

Invìa questi guerrier la discoscesa

balza di Pito, e Ciparisso e Crissa,

gentil paese, e Daulide e Panope.

D'Anemoria e di Jampoli van seco

gli abitatori, e quei che del Cefiso

beon l'onde sacre, e quei che di Lilèa

domano i gioghi alle cefisie fonti.

Son quaranta le prore al mar fidate

da questi prodi, e tutte in ordinanza

de' Beozī disposte al manco lato.

Di Locride guidava i valorosi

Aiace d'Oïlèo, veloce al corso.

Di tutta la persona egli è minore

del Telamonio, né minor di poco;

ma picciolo quantunque e non coperto

che di lino torace, ei tutti avanza

e Greci e Achivi nel vibrar dell'asta.

Di Cino, di Callïaro e d'Opunte

lo seguono i deletti, e quei di Bessa,

e quei che i colti dell'amena Augèe

e di Scarfe lasciār, misti di Tarfa

ai duri agresti, e quei di Tronio a cui

il Boagrio torrente i campi allaga.

Venti e venti il seguìan preste carene

della locrese gioventù venuta

di là dai fini della sacra Eubèa.

Ma gl'incoli d'Eubèa gli arditi Abanti,

Eretrïensi, Calcidensi, e quelli

dell'aprica vitifera Istïea,

e di Cerinto e in una i marinari,

e i montanari dell'alpestre Dio,

e quei di Stira e di Caristo han duce

il bellicoso Elefenòr, figliuolo

di Calcodonte, e sir de' prodi Abanti.

Snellissimi di piè portan costoro

fiocchi di chiome su la nuca, egregi

combattitori, a maraviglia sperti

nell'abbassar la lancia, e sul nemico

petto smagliati fracassar gli usberghi.

E quaranta di questi eran le vele.

Della splendida Atene ecco gli eroi,

popolo del magnanimo Erettèo

cui l'alma terra partorì. Nudrillo

ed in Atene il collocò Minerva

alla sant'ombra de' suoi pingui altari,

ove l'attica gente a statuito

giro di soli con agnelli e tauri

placa la Diva. Guidator di questi

era il Petìde Menestèo. Non vede

pari il mondo a costui nella scïenza

di squadronar cavalli e fanti. Il solo

Nestor l'eguaglia, perché d'anni il vince.

Cinquanta navi ha seco. Unīrsi a queste

sei altre e sei di Salamina uscite,

al Telamonio Aiace obbedienti.

Seguìa l'eletta de' guerrier, cui d'Argo

mandava la pianura e la superba

d'ardue mura Tirinto e le di cupo

golfo custodi Ermïone ed Asìne.

Con essi di Trezene e della lieta

di pampini Epidauro e d'Eïone

venìa la squadra; e dopo questa un fiero

di giovani drappello che d'Egina

lasciò gli scogli e di Masete. A questi

tre sono i duci, il marzio Dïomede,

Stènelo dell'altero Capanèo

diletta prole, e il somigliante a nume

Eurïalo figliuol di Mecistèo

Talaionide. Ma del corpo tutto

condottiero supremo è Dïomede.

E sono ottanta di costor le antenne.

Ma ben cento son quelle a cui comanda

il regnatore Agamennóne Atride.

Sua seguace è la gente che gl'invìa

la regale Micene e l'opulenta

Corinto, e quella della ben costrutta

Cleone e quella che d'Ornee discende,

e dall'amena Aretirèa. Né scarsa

fu de' suoi Sicïon, seggio primiero

d'Adrasto. Anco Iperesia, anco l'eccelsa

Gonoessa e Pellene ed Egio e tutte

le marittime prode, e tutta intorno

d'Elice la campagna impoverīrsi

d'abitatori. E questa truppa è fiore

di gagliardi, e la più di quante allora

schierārsi in campo. D'arme rilucenti

iva il duce vestito, ed esultava

in suo segreto del vedersi il primo

fra tanti eroi; e veramente egli era

il maggior di que' regi, e conducea

il maggior nerbo delle forze achive.

Il concavo di balze incoronato

lacedemonio suol Sparta e Brisèe,

e Fari e Messa di colombe altrice,

e Augìe la lieta e l'amiclèa contrada,

Etila ed Elo al mar giacente e Laa,

queste tutte spedīr sovra sessanta

prore i lor figli; e Menelao li guida

aïtante guerrier. Disgiunta ei tiene

dalla fraterna la sua schiera, e forte

del suo proprio valor la sprona all'armi,

di vendicar su i Teucri impazïente

l'onta e i sospir della rapita Elèna.

Di novanta navigli capitano

veniva il veglio cavalier Nestorre.

Di Pilo ei guida e dell'aprica Arene

gli abitanti e di Trio, guado d'Alfèo,

e della ben fondata Epi, con quelli

a cui Ciparissente e Anfigenìa

sono stanza, e Ptelèo ed Elo e Dorio,

Dorio famosa per l'acerbo scontro

che col tracio Tamiri ebber le Muse

il giorno che d'Ecalia e dagli alberghi

dell'ecaliese Eurìto ei fea ritorno.

Millantava costui che vinte avrìa

al paragon del canto anco le Muse,

le Muse figlie dell'Egìoco Giove.

Adirate le dive al burbanzoso

tolser la luce e il dolce canto e l'arte

delle corde dilette animatrice.

Seguìa l'arcade schiera dalle falde

del Cillene discesa e dai contorni

del tumulo d'Epìto, esperta gente

nel ferir da vicino. Uscìa con essa

di campestri garzoni una caterva,

che del Fenèo li paschi e il pecoroso

Orcomeno lasciār. V'eran di Ripe

e di Strazia i coloni e di Tegèa,

e quei d'Enispe tempestosa, e quelli

cui dell'amena Mantinèa nutrisce

l'opima gleba e la stinfalia valle

e la parrasia selva. Avean costoro

spiegate al vento di cinquanta e dieci

navi le vele, che a varcar le negre

onde lor diè lo stesso rege Atride

Agamennóne; perocché di studi

marinareschi all'Arcade non cale.

D'intrepidi nell'arme e sperti petti

iva carca ciascuna, e la reggea

d'Ancèo figliuolo il rege Agapenorre.

La squadra che consegue, e si divide

quadripartita, ha quattro duci, e ognuno

a dieci navi accenna. Le montaro

molti Epèi valorosi, e gli abitanti

di Buprasio e del sacro elèo paese,

e di tutto il terren che tra il confine

di Mirsino ed Irmino si racchiude,

e tra l'Olenia rupe e l'erto Alìsio.

Di Cteato figliuol l'illustre Anfimaco

guida il primo squadron, Talpio il secondo

egregio seme dell'Eurìto Attòride;

Dïore il terzo, generosa prole

d'Amarincèo. Del quarto è correttore

il simigliante a nume Polisseno,

germe dell'Augeïade Agastene.

Ai forti di Dulichio e delle sacre

Echinadi isolette, che rimpetto

alle contrade elèe rompon l'opposto

pelago, a questi è condottier Megete,

di sembiante guerrier pari a Gradivo.

Il generò Filèo diletto a Giove,

buon cavalier che dai paterni un giorno

odii sospinto alla dulichia terra

migrò fuggendo, e v'ebbe impero. Il figlio

quaranta prore ad Ilïon guidava.

Dei prodi Cefaleni, abitatori

d'Itaca alpestre e di Nerito ombroso,

di Crocilèa, di Samo e di Zacinto

e dell'aspra Egelìpe e dell'opposto

continente, di tutti è duce Ulisse

vero senno di Giove; e lo seguièno

dodici navi di vermiglio pinte.

Ne spinge in mar quaranta il capitano

degli Etoli Toante, a cui fu padre

Andrèmone; e traea seco le torme

di Pleurone, d'Oleno e di Pilene,

quelle dell'aspra Calidone e quelle

di Calcide. E raccolta era in Toante

degli Etòli la somma signorìa

da che la Parca i figli ebbe percosso

del magnanimo Enèo, posto col biondo

Meleagro infelice ei pur sotterra.

Il gran mastro di lancia Idomenèo

guida i Cretesi che di Gnosso usciro,

di Litto, di Mileto e della forte

Gortina e dalla candida Licasto

e di Festo e di Rizio, inclite tutte

popolose contrade, ed altri molti

dell'alma Creta abitator, di Creta

che di cento città porta ghirlanda.

Di questi tutti Idomenèo divide

col marzio Merïon la glorïosa

capitananza; e ottanta navi han seco.

Nove da Rodi ne varār gli alteri

Rodïani per l'isola partiti

in triplice tribù: Lindo, Jaliso,

e il biancheggiante di terren Camiro.

L'Eraclide Tlepòlemo è lor duce,

grande e robusto battaglier che al forte

Ercole un giorno Astïochèa produsse,

cui d'Efira e dal fiume Selleente

seco addusse l'eroe, poiché distrutto

v'ebbe molte cittadi e molta insieme

gioventù generosa. Entro i paterni

fidi alberghi Tlepòlemo cresciuto

di subitaneo colpo a morte mise

Licinnio, al padre avuncolo diletto,

e canuto guerrier. Ratto costrusse

alquante navi l'uccisore, e accolti

molti compagni, si fuggì per l'onde,

l'ira vitando e il minacciar degli altri

figli e nipoti dell'erculeo seme.

Dopo error molti e stenti i fuggitivi

toccār di Rodi il lido, e qui divisi

tutti in tre parti posero la stanza:

e il gran re de' mortali e degli Dei

li dilesse, e su lor piovve la piena

d'infinita mirabile ricchezza.

Nirèo tre navi conducea da Sima,

Nirèo d'Aglaia figlio e di Caropo,

Nirèo di quanti navigaro a Troia

il più vago, il più bel, dopo il Pelìde

beltà perfetta. Ma un imbelle egli era;

e turba lo seguìa di pochi oscuri.

Quei che tenean Nisiro e Caso e Cràpato

e Coo seggio d'Euripilo, e le prode

dell'isole Calidne, il cenno regge

d'Antifo e di Fidippo, ambo figliuoli

di Tessalo Eraclìde. E trenta navi

aravano a costor l'onda marina.

Ditene adesso, o Dive, i valorosi

d'Alo e d'Alope e del pelasgic'Argo

e di Trachine; né di Ftia né d'Ellade,

di bellissime donne educatrice,

gli eroi tacete, Mirmidon chiamati,

ed Elleni ed Achei. Sopra cinquanta

prore a costoro è capitano Achille.

Ma di guerra in que' cor tace il pensiero,

ch'ei più non hanno chi a pugnar li guidi.

Il divino Pelìde appo le navi

neghittoso si giace, e della tolta

Briseide l'ira si smaltisce in petto,

bella di belle chiome alma fanciulla

che in Lirnesso ei s'avea con molto affanno

conquistata per mezzo alla ruïna

di Lirnesso e di Tebe, a morte spinti

del bellicoso Eveno ambo i figliuoli

Epistrofo e Minete. Per costei

languìa nell'ozio il mesto eroe; ma il giorno

del suo destarsi all'armi era vicino.

Quei che Filàce e la fiorita Pìrraso,

terra a Cerere sacra, e la feconda

di molto gregge Itóne, e quei che manda

la marittima Antrone e di Ptelèo

l'erboso suol, reggea, mentre che visse,

il marzïal Protesilao. Ma lui

la negra terra allor chiudea nel seno,

e la moglie in Filàce derelitta

le belle gote lacerava, e tutta

vedova del suo re piangea la casa.

Primo ei balzossi dalle navi, e primo

trafitto cadde dal dardanio ferro:

ma senza duce non restò sua schiera,

ché Podarce or la guida, esimio figlio

del Filacide Ificlo, che di pingui

lanose torme avea molta ricchezza.

Del magnanimo ucciso era Podarce

minor germano; ma perché quel grande

non pur d'anni il vincea, ma di prodezza,

l'egregio estinto duce era pur sempre

di sua schiera il desìo. Di questa squadra

son quaranta le navi in ordinanza.

Gli abitator di Fere, appo il bebèo

stagno, e quelli di Bebe e di Glafira

e dell'alta Jaolco avean salpato

con undici navigli. Eumelo è duce,

germe caro d'Admeto, e la divina

in fra le donne Alcesti il partorìo,

delle figlie di Pelia la più bella.

Di Metone, Taumacia e Melibèa

e dell'aspra Olizone era venuto

con sette prore un fier drappello, e carca

di cinquanta gagliardi era ciascuna,

sperti di remo e d'arco e di battaglia.

Famoso arciero li reggea da prima

Filottete; ma questi egro d'acuti

spasmi ora giace nella sacra Lenno,

ove da tetra di pestifer angue

piaga offeso gli Achei l'abbandonaro.

Ma dell'afflitto eroe gl'ingrati Argivi

ricorderansi, e in breve. Intanto il fido

suo stuol si strugge del desìo di lui,

ma non va senza duce. Lo governa

Medon cui spurio figlio ad Oïlèo

eversor di città Rena produsse.

Que' poi che Tricca e la scoscesa Itome

ed Ecalia tenean seggio d'Eurito,

han capitani d'Esculapio i figli,

della paterna medic'arte entrambi

sperti assai, Podalirio e Macaone.

Fan trenta navi di costor la schiera.

Ormenio, Asterio e l'iperèe fontane,

e del Titano le candenti cime

i lor prodi mandār sotto il comando

del chiaro figlio d'Evemone Eurìpilo

da quaranta carene accompagnato.

D'Argissa e di Girton, d'Orte e d'Elona

e della bianca Oloossona i figli

procedono suggetti al fermo e forte

Polipete, figliuol di Piritòo,

del sempiterno Giove inclito seme;

e generollo a Piritòo l'illustre

Ippodamìa quel dì che dei bimembri

irti Centauri ei fe' l'alta vendetta,

e li cacciò dal Pelio, e agli Eticesi

li confinò. Né solo è Polipete,

ma seco è Leontèo, marzio germoglio

del Cenìde magnanimo Corone.

e questa è squadra di quaranta antenne.

Venti da Cifo e due Gunèo ne guida

d'Enïeni onerose e di Perebi,

franchi soldati, e di color che intorno

alla fredda Dodona avean la stanza,

e di quelli che solcano gli ameni

campi cui l'onda titaresia irriga,

rivo gentil che nel Penèo devolve

le sue bell'acque, né però le mesce

con gli argenti penèi, ma vi galleggia

come liquida oliva; ché di Stige

(giuramento tremendo) egli è ruscello.

Ultimo vien di Tentredone il figlio

il veloce Protòo, duce ai Magneti

dal bel Penèo mandati e dal frondoso

Pelio. Il seguìan quaranta navi. E questi

fur dell'achiva armata i capitani.

Dimmi or, Musa, chi fosse il più valente

di tanti duci e de' cavalli insieme

che gli Atridi seguīr. Prestanti assai

eran le ferezïadi puledre

ch'Eumèlo maneggiava, agili e ratte

come penna d'augello, ambe d'un pelo,

d'età pari e di dosso a dritto filo.

Il vibrator del curvo arco d'argento

Febo educolle ne' pïerii prati,

e portavan di Marte la paura

nelle battaglie. Degli eroi primiero

era l'Aiace Telamonio, mentre

perseverò nell'ira il grande Achille,

il più forte di tutti; e innanzi a tutti

ivan di pregio i corridor portanti

l'incomparabil Tessalo. Ma questi

nelle ricurve navi si giacea

inoperoso, e sempre spirante ira

contro l'Atride Agamennóne. Intanto

lunghesso il mare al disco, all'asta, all'arco

i suoi guerrieri si prendean diletto.

Ozïosi i cavalli appo i lor cocchi

pasceano l'apio paludoso e il loto,

e i cocchi si giacean coperti e muti

nelle tende dei duci, e i duci istessi,

del bellicoso eroe desiderosi,

givan pel campo vagabondi e inerti.

Movean le schiere intanto in vista eguali

a un mar di foco inondator, che tutta

divorasse la terra; ed alla pesta

de' trascorrenti piedi il suol s'udìa

rimbombar. Come quando il fulminante

irato Giove Inarime flagella

duro letto a Tifèo, siccome è grido;

così de' passi al suon gemea la terra.

Mentre il campo traversano veloci

gli Achei, col piè che i venti adegua, ai Teucri

Iri discese di feral novella

apportatrice, e la spedìa di Giove

un comando. Tenean questi consiglio

giovani e vecchi, congregati tutti

ne' regali vestiboli. Mischiossi

tra lor la Diva, di Polìte assunta

l'apparenza e la voce. Era Polìte

di Priamo un figlio che, del piè fidando

nella prestezza, stavasi de' Teucri

esploratore al monumento in cima

dell'antico Esïeta, e vi spïava

degli Achivi la mossa. In queste forme

trasse innanzi la Diva, e al re conversa,

Padre, disse, che fai? Sempre a te piace

il molto sermonar come ne' giorni

della pace; né pensi alla ruina

che ne sovrasta. Molte pugne io vidi,

ma tali e tante non vid'io giammai

ordinate falangi. Numerose

al pari delle foglie e dell'arene

procedono nel campo a dar battaglia

sotto Troia. Tu dunque primamente,

Ettore, ascolta un mio consiglio, e il poni

ad effetto. Nel sen di questa grande

città diversi di diverse lingue

abbiam guerrieri di soccorso. Ognuno

de' lor duci si ponga alla lor testa,

e tutti in punto di pugnar li metta.

Conobbe Ettorre della Dea la voce,

e di subito sciolse il parlamento.

Corresi all'armi, si spalancan tutte

le porte, e folti sboccano in tumulto

fanti e cavalli. Alla città rimpetto

solitario nel piano ergesi un colle

a cui s'ascende d'ogni parte. È detto

da' mortai Batïèa, dagl'immortali

tomba dell'agilissima Mirinna;

ivi i Teucri schierārsi e i collegati.

Capitan de' Troiani è il grande Ettorre,

d'eccelso elmetto agitator. Lo segue

de' più forti guerrier schiera infinita

coll'aste in pugno di ferir bramose.

Ai Dardani comanda il valoroso

figliuol d'Anchise Enea cui la divina

Venere in Ida partorì, commista

Diva immortale ad un mortal; ned egli

solo comanda, ma ben anco i due

Antenòridi Archìloco e Acamante

in tutte guise di battaglia esperti.

Quei che dell'Ida alle radici estreme

hanno stanza in Zelèa ricchi Troiani

la profonda beventi acqua d'Asepo,

Pandaro guida, licaonio figlio,

cui fe' dono dell'arco Apollo istesso.

Della città d'Apesio e d'Adrastèa,

di Pitïèa la gente e dell'eccelsa

ferèa montagna han duci Adrasto ed Anfio

corazzato di lino, ambo rampolli

di Merope Percosio. Era costui

divinator famoso, ed a' suoi figli

non consentìa l'andata all'omicida

guerra. Ma i figli non l'udir; ché nero

a morir li traea fato crudele.

Mandār Percote e Prazio e Sesto e Abido

e la nobile Arisba i lor guerrieri,

ed Asio li conduce, Asio figliuolo

d'Irtaco, e prence che d'Arisba venne

da fervidi portato alti cavalli

alla riviera sellentèa nudriti.

Dalla pingue Larissa i furibondi

lanciatori pelasghi Ippòtoo mena

con Pilèo, bellicosi ambo germogli

del pelasgico Leto Teutamìde.

Acamante e l'eroe duce Piròo

i Traci conducean quanti ne serra

l'estuoso Ellesponto; ed i Cicòni

del giavellotto vibratori, Eufemo

del Ceade Trezeno alto nipote;

poi Pirecme i Peòni a cui sul tergo

suonan gli archi ricurvi, e gli spedisce

la rimota Amidone, e l'Assio, fiume

di larga correntìa, l'Assio di cui

non si spande ne' campi onda più bella.

Dall'èneto paese ov'è la razza

dell'indomite mule, conducea

di Pilemene l'animoso petto

i Paflagoni, di Citoro e Sèsamo

e di splendide case abitatori

lungo le rive del Partenio fiume,

e d'Egiàlo e di Cromna e dell'eccelse

balze eritine. Li seguìa la squadra

degli Alizoni d'Alibe discesi,

d'Alibe ricca dell'argentea vena.

Duci a questi eran Hodio ed Epistròfo,

e Cromi ai Misii e l'indovino Ennòmo.

Ma con gli augurii il misero non seppe

schivar la Parca. Sotto l'asta ei cadde

del Pelìde, quel dì che di nemica

strage vermiglio lo Scamandro ei fece.

Forci ed Ascanio dėiforme al campo

dall'Ascania traean le frigie torme

di commetter battaglia impazïenti.

Di Pilemene i figli Antifo e Mestle,

alla gigèa palude partoriti,

ai Meonii eran duci, a quelli ancora

che alla falda del Tmolo ebber la vita.

Quindi i Carii di barbara favella

di Mileto abitanti e del frondoso

monte de' Ftiri e del meandrio fiume

e dell'erte di Mìcale pendici.

Anfimaco a costor con Naste impera,

figli di Nomïon, Naste un prudente,

Anfimaco un insano. Iva alla pugna

carco d'oro costui come fanciulla:

stolto! ché l'oro allontanar non seppe

l'atra morte che il giunse allo Scamandro.

Ivi il ferro achilleo lo stese, e l'oro

preda del forte vincitor rimase.

Venìan di Licia alfine, e dai rimoti

gorghi del Xanto i Licii, e li guidava

l'incolpabile Glauco e Sarpedonte.

 

 

LIBRO TERZO

 

 

Poiché sotto i lor duci ambo schierati

gli eserciti si fur, mosse il troiano

come stormo d'augei, forte gridando

e schiamazzando, col romor che mena

lo squadron delle gru, quando del verno

fuggendo i nembi l'oceàn sorvola

con acuti clangori, e guerra e morte

porta al popol pigmeo. Ma taciturni

e spiranti valor marcian gli Achivi,

pronti a recarsi di conserto aita.

Come talor del monte in su la cima

di Scirocco il soffiar spande la nebbia

al pastore odiosa, al ladro cara

più che la notte, né va lunge il guardo

più che tiro di pietra: a questa guisa

si destava di polve una procella

sotto il piè de' guerrieri che veloci

l'aperto campo trascorrean. Venuti

di poco spazio l'un dell'altro a fronte

gli eserciti nemici, ecco Alessandro

nelle prime apparir file troiane

bello come un bel Dio. Portava indosso

una pelle di pardo, ed il ricurvo

arco e la spada; e due dardi guizzando

ben ferrati ed aguzzi, iva de' Greci

sfidando i primi a singolar conflitto.

Il vide Menelao dinanzi a tutti

venir superbo a lunghi passi; e quale

il cor s'allegra di lïon che visto

un cervo di gran corpo o caprïolo,

spinto da fame a divorarlo intende,

e il latrar de' molossi, e degli audaci

villan robusti il minacciar non cura;

tale alla vista del Troian leggiadro

esultò Menelao. Piena sperando

far sopra il traditor la sua vendetta,

balza armato dal cocchio: e lui scorgendo

venir tra' primi, in cor turbossi il drudo,

e della morte paventoso in salvo

si ritrasse tra' suoi. Qual chi veduto

in montana foresta orrido serpe

risalta indietro, e per la balza fugge

di paura tremante e bianco in viso,

tal fra le schiere de' superbi Teucri,

l'ira temendo del figliuol d'Atreo,

l'avvenente codardo retrocesse.

Ettore il vide, e con ripiglio acerbo

gli fu sopra gridando: Ahi sciagurato!

ahi profumato seduttor di donne,

vile del pari che leggiadro! oh mai

mai non fossi tu nato, o morto fossi

anzi ch'esser marito, ché tal fōra

certo il mio voto, e per te stesso il meglio,

più che carco d'infamia ir mostro a dito.

Odi le risa de' chiomati Achei,

che al garbo dell'aspetto un valoroso

ti suspicār da prima, e or sanno a prova

che vile e fiacca in un bel corpo hai l'alma.

E vigliacco qual sei tu il mar varcasti

con eletti compagni? e visitando

straniere genti tu dall'apia terra

donna d'alta beltà, moglie d'eroi,

rapir potesti, e il padre e Troia e tutti

cacciar nelle sciagure, agl'inimici

farti bersaglio, ed infamar te stesso?

Perché fuggi? perché di Menelao

non attendi lo scontro? Allor saprai

di qual prode guerrier t'usurpi e godi

la florida consorte: né la cetra

ti varrà né il favor di Citerea,

né il vago aspetto né la molle chioma,

quando cadrai riverso nella polve.

Oh fosser meno paurosi i Teucri!

ché tu n'andresti già, premio al mal fatto,

d'un guarnello di sassi rivestito.

Ed il vago a rincontro: Ettore, il veggo,

a ragion mi rampogni, ed io t'escuso.

Ma quel duro tuo cor scure somiglia

che ben tagliente una navale antenna

fende, vibrata da gagliardi polsi,

e nerbo e lena al fenditor raddoppia.

Non rinfacciarmi di Ciprigna i doni,

ché, qualunque pur sia, gradito e bello

sempre è il dono d'un Dio; né il conseguirlo

è nel nostro volere. Or se t'aggrada

ch'io scenda a duellar, fa che l'achee

squadre e le teucre seggansi tranquille,

e me nel mezzo e Menelao mettete

d'Elena armati a terminar la lite,

e di tutto il tesor di ch'ella è ricca.

Qual si vinca di noi s'abbia la donna

con tutto insieme il suo regal corredo,

e via la meni alle sue case; e tutti

su le percosse vittime giurando

amistà, voi di Troia abiterete

l'alma terra securi, e quelli in Argo

faran ritorno e nell'Acaia in braccio

alle vaghe lor donne. - A questo dire

brillò di gioia Ettorre, ed elevando

l'asta brandita e procedendo in mezzo,

di sostarsi fe' cenno alle sue schiere.

Tutte fêr alto: ma gl'infesti Achei

a saettar si diero alla sua mira

e dardi e sassi, infin che forte alzando

la voce Agamennón: Cessate, ei grida,

cessate, Argivi; non vibrate, Achei,

ch'egli par che parlarne il bellicoso

Ettore brami. - Riverenti tutti

cessār le offese, e si fur queti. Allora

fra questo campo e quello Ettor sì disse:

Troiani, Achivi, dal mio labbro udite

ciò che parla Alessandro, esso per cui

fra noi surta ed accesa è tanta guerra.

Egli vuol che de' Teucri e degli Achei

quete stian l'armi, e sia da solo a solo

col bellicoso Menelao decisa

d'Elena la querela, e in un di quanta

ricchezza le pertien. Quegli de' due

che rimarrassi vincitor, si prenda

la bella donna, e in sua magion l'adduca

col tutto che possiede: e sia tra noi

con saldi patti l'amistà giurata.

Disse; e tutti ammutīr. Ma non già muto

si restò Menelao, che doloroso,

Me pur, gridava, me me pure udite,

ché il primo offeso mi son io. Fra' Greci

bramo io pur diffinita e fra' Troiani

questa lite una volta e le sofferte

molte sventure per la mia ragione

e per l'oltraggio d'Alessandro. Or quello

perisca di noi due, che dalla Parca

è dannato a perire; e voi con pace

vi separate. Una negr'agna adunque

svenate, o Teucri, all'alma Terra, e un agno

di bianco pelo al Sole: un terzo a Giove

offrirassi da noi. Ma venga all'ara

la maestà di Prïamo, e la pace

giuri egli stesso su le sacre fibre

(ché spergiuri per prova e senza fede

io conosco i suoi figli), onde protervo

nessun di Giove i giuramenti infranga.

Incostante, com'aura, è per natura

de' giovani il pensier; ma dove il senno

intervien de' canuti, a cui presenti

son le passate e le future cose,

ivi è felice d'ambe parti il fine.

Sì disse; e rallegrò Teucri ed Achei

la dolce speme di finir la guerra.

Schieraro i cocchi e ne smontār: svestiti

quindi dell'armi, le adagiār su l'erba,

l'une appresso dell'altre, e breve spazio

separava le schiere. Alla cittade

due banditori, a trarne i sacri agnelli

e a chiamar ratti il padre, Ettore invìa:

invìa del pari il rege Agamennóne

alle navi Taltibio, onde la terza

ostia n'adduca; e obbediente ei corse.

Scese intanto dal cielo ambasciatrice

Iri ad Elèna dalle bianche braccia,

della cognata Laodice assunto

il sembiante gentil, di Laodice

che pregiata del prence Elicaone,

d'Antènore figliuolo, era consorte,

e tra le figlie prïamee tenuta

la più vaga. Trovolla che tessea

a doppia trama una splendente e larga

tela, e su quella istorïando andava

le fatiche che molte a sua cagione

soffrìano i Teucri e i loricati Achei.

La Diva innanzi le si fece, e disse:

Sorgi, sposa diletta, a veder vieni

de' Troiani e de' Greci un ammirando

spettacolo improvviso. Essi che dianzi

di sangue ingordi lagrimosa guerra

si fean nel campo, or fatto han tregua, e queti

seggonsi e curvi su gli scudi in mezzo

alle lunghe lor picche al suol confitte.

Alessandro frattanto e Menelao

per te coll'asta in singolar certame

combatteranno, e tu verrai chiamata

del prode vincitor cara consorte.

Con questo ragionar la Dea le mise

un subito nel cor dolce desìo

del primiero marito e della patria

e de' parenti. Ond'ella in bianco velo

prestamente ravvolta, e di segrete

tenere stille rugiadosa il ciglio,

della stanza n'usciva; e non già sola,

ma due donzelle la seguìan, Climene

per grand'occhi lodata, e di Pitteo

Etra la figlia. Delle porte Scee

giunser tosto alla torre, ove seduto

Priamo si stava, e con lui Lampo e Clizio,

Pantòo, Timete, Icetaone e i due

spegli di senno Ucalegonte e Antènore,

del popol senïori, che dell'armi

per vecchiezza deposto avean l'affanno,

ma tutti egregi dicitor, sembianti

alle cicade che agli arbusti appese

dell'arguto lor canto empion la selva.

Come vider venire alla lor volta

la bellissima donna i vecchion gravi

alla torre seduti, con sommessa

voce tra lor venìan dicendo: In vero

biasmare i Teucri né gli Achei si denno

se per costei sì dïuturne e dure

sopportano fatiche. Essa all'aspetto

veracemente è Dea. Ma tale ancora

via per mar se ne torni, e in nostro danno

più non si resti né de' nostri figli.

Dissero; e il rege la chiamò per nome:

Vieni, Elena, vien qua, figlia diletta,

siedimi accanto, e mira il tuo primiero

sposo e i congiunti e i cari amici. Alcuna

non hai colpa tu meco, ma gli Dei,

che contra mi destār le lagrimose

arme de' Greci. Or drizza il guardo, e dimmi

chi sia quel grande e maestoso Acheo

di sì bel portamento? Altri l'avanza

ben di statura, ma non vidi al mondo

maggior decoro, né mortale io mai

degno di tanta riverenza in vista:

Re lo dice l'aspetto. - E la più bella

delle donne così gli rispondea:

Suocero amato, la presenza tua

di timor mi rïempie e di rispetto.

Oh scelta una crudel morte m'avessi,

pria che l'orme del tuo figlio seguire,

il marital mio letto abbandonando

e i fratelli e la cara figlioletta

e le dolci compagne! Al ciel non piacque;

e quindi è il pianto che mi strugge. Or io

di ciò che chiedi ti farò contento.

Quegli è l'Atride Agamennón di molte

vaste contrade correttor supremo,

ottimo re, fortissimo guerriero,

un dì cognato a me donna impudica,

s'unqua fui degna che a me tale ei fosse.

Disse; ed in lui maravigliando il vecchio

fisse il guardo e sclamò: Beato Atride,

cui nascente con fausti occhi miraro

la Parca e la Fortuna, onde il comando

di fior tanto d'eroi ti fu sortito!

Sovviemmi il giorno ch'io toccai straniero

la vitifera Frigia. Un denso io vidi

popolo di cavalli agitatore

dell'inclito Migdon schiere e d'Otrèo,

che poste del Sangario alla riviera

avean le tende, ed io co' miei m'aggiunsi

lor collegato, e fui del numer uno

il dì che a pugna le virili Amàzzoni

discesero. Ma tante allor non fûro

le frigie torme no quante or l'achee.

Visto un secondo eroe, di nuovo il vecchio

la donna interrogò: Dinne chi sia

quell'altro, o figlia. Egli è di tutto il capo

minor del sommo Agamennón, ma parmi

e del petto più largo e della spalla.

Gittate ha l'armi in grembo all'erba, ed egli

come arïète si ravvolve e scorre

tra le file de' prodi; e veramente

parmi di greggia guidator lanoso

quando per mezzo a un branco si raggira

di candide belanti, e le conduce.

Quegli è l'astuto laerziade Ulisse,

la donna replicò, là nell'alpestre

suol d'Itaca nudrito, uom che ripieno

di molti ingegni ha il capo e di consigli.

Donna, parlasti il ver, soggiunse il saggio

Antènore. Spedito a dimandarti

col forte Menelao qua venne un tempo

ambasciatore Ulisse, ed io fui loro

largo d'ospizio e d'accoglienze oneste,

e d'ambo studïai l'indole e il raro

accorgimento. Ma venuto il giorno

di presentarsi nel troian senato,

notai che, stanti l'uno e l'altro in piedi,

il soprastava Menelao di spalla;

ma seduti, apparìa più augusto Ulisse.

Come poi la favella e de' pensieri

spiegār la tela, ognor succinto e parco

ma concettoso Menelao parlava;

ch'uom di molto sermone egli non era,

né verbo in fallo gli cadea dal labbro,

benché d'anni minor. Quando poi surse

l'itaco duce a ragionar, lo scaltro

stavasi in piedi con lo sguardo chino

e confitto al terren, né or alto or basso

movea lo scettro, ma tenealo immoto

in zotica sembianza, e un dispettoso

detto l'avresti, un uom balzano e folle.

Ma come alfin dal vasto petto emise

la sua gran voce, e simili a dirotta

neve invernal piovean l'alte parole,

verun mortale non avrebbe allora

con Ulisse conteso; e noi ponemmo

la maraviglia di quel suo sembiante.

Qui vide un terzo il re d'eccelso e vasto

corpo, ed inchiese: Chi quell'altro fia

che ha membra di gigante, e va sovrano

degli omeri e del capo agli altri tutti? -

Il grande Aiace, rispondea racchiusa

nel fluente suo vel la dìa Lacena,

Aiace, rocca degli Achei. Quell'altro

dall'altra banda è Idomenèo: lo vedi?

ritto in piè fra' Cretensi un Dio somiglia,

e de' Cretensi gli fan cerchio i duci.

Spesso ad ospizio nelle nostre case

l'accolse Menelao, ben lo ravviso,

e ravviso con lui tutti del greco

campo i primi, e potrei di ciascheduno

dir anco il nome: ma li due non veggo

miei germani gemelli, incliti duci,

Càstore di cavalli domatore,

e il valoroso lottator Polluce.

Forse di Sparta non son ei venuti;

o venuti, di sé nelle battaglie

niegan far mostra, del mio scorno ahi! forse

vergognosi, e dell'onta che mi copre.

Così parlava, né sapea che spenti

il diletto di Sparta almo terreno

lor patrio nido li chiudea nel grembo.

Venìan recando i banditori intanto

dalla città le sacre ostie di pace,

due trascelti agnelletti, e della terra

giocondo frutto generoso vino

chiuso in otre caprigno. Il messaggiero

Idèo recava un fulgido cratere

ed aurati bicchier. Giunto al cospetto

del re vegliardo sì l'invita e dice:

Sorgi, figliuol laomedonteo; nel campo

ti chiamano de' Teucri e degli Achei

gli ottimati a giurar l'ostie percosse

d'un accordo. Alessandro e Menelao

disputeransi colle lunghe lancie

l'acquisto della sposa; e questa e tutte

sue dovizie daransi al vincitore.

Noi patteggiando un'amistà fedele

Ilio securi abiteremo, e in Argo

daran volta gli Achei. Sì disse; e strinse

il cor del vecchio la pietà del figlio.

A' suoi sergenti nondimen comanda

d'aggiogargli i destrieri, e quelli al cenno

pronti obbediro. Montò Priamo, e indietro

tratte le briglie, fe' su l'alto cocchio

salirsi al fianco Antènore. Drizzaro

fuor delle Scee nel campo i corridori.

De' Troi giunti al cospetto e degli Achei

scesero a terra, e fra l'un campo e l'altro

procedean venerandi. Ad incontrarli

tosto rizzossi Agamennón, rizzossi

l'accorto Ulisse; e i risplendenti araldi

tutto venìan frattanto apparecchiando

dell'accordo il bisogno, e nel cratere

mescean le sacre spume. Indi de' regi

dieder l'acqua alle mani; e Agamennóne

tratto il coltello che alla gran vagina

della spada portar solea sospeso,

de' consecrati agnei recise il ciuffo:

e quinci in giro e quindi distributo

fu dagli araldi il sacro pelo ai duci,

de' quai nel mezzo Agamennón, levando

e la voce e le man, supplice disse:

Giove, d'Ida signor, massimo padre,

e sovra ogni altro glorioso Iddio,

Sole che tutto vedi e tutto ascolti,

alma Tellure genitrice, e voi

fiumi, e voi che punite ogni spergiuro

laggiù nel morto regno, inferni Dei,

siate voi testimoni e in un custodi

del patto che giuriam. Se a Menelao

darà morte Alessandro, egli in sua possa

Elena e tutto il suo tesor si tegna;

e noi spedito promettiam ritorno

su l'ondivaghe prore al patrio lido.

Ma se avverrà che Menelao di vita

spogli Alessandro, i Teucri allor la donna

ne renderanno e l'aver suo con ella,

pagando ammenda che convegna, e tale

che ne passi il ricordo anco ai futuri.

Se Priamo e i figli suoi, spento Alessandro,

negheran di pagarla, io qui coll'arme

sosterrò mia ragione, e rimarrovvi

finché punito il mancator ne sia.

Disse; e col ferro degli agnelli incise

le mansuete gole, e palpitanti

sul terren li depose e senza vita.

Ciò fatto, il sacro di Lïeo licore

dal cratere attignendo, agl'Immortali

fean colle tazze libagioni e voti;

e qualche Teucro e qualche Acheo s'intese

in questo mentre così dire: O sommo

augustissimo Giove, e voi del cielo

Dii tutti quanti, udite: A chi primiero

rompa l'accordo, sia Troiano o Greco,

possa il cerèbro distillarsi, a lui

ed a' suoi figli, al par di questo vino,

e adultera la moglie ir d'altri in braccio.

Così pregār: ma chiuse a cotal voto

Giove l'orecchio. Il re dardanio allora,

Uditemi, dicea, Teucri ed Achei:

alla cittade io riedo. A qual de' due

troncar debba la Parca il vital filo

sol Giove e gli altri Sempiterni il sanno.

Ma contemplar del fiero Atride a fronte

un amato figliuol, vista sì cruda

gli occhi d'un padre sostener non ponno.

Sì dicendo, sul cocchio le sgozzate

vittime pose il venerando veglio,

e ascesovi egli stesso, e tratte al petto

le pieghevoli briglie, al par con seco

fe' Antènore salire, e via con esso

al ventoso Ilïon si ricondusse.

Ettore allora primamente e Ulisse

misurano la lizza. Indi le sorti

scosser nell'elmo a chi primier dovesse

l'asta vibrar. L'un campo intanto e l'altro

le mani alzando supplicava al cielo,

e qualche labbro bisbigliar s'udìa:

Giove padre, che grande e glorïoso

godi in Ida regnar, quello de' due,

che tra noi fu cagion di sì gran lite,

fa che spento precipiti alla cupa

magion di Pluto, ed una salda a noi

amistà ne concedi e patti eterni.

Fra questo supplicar l'elmo squassava

Ettòr, guardando addietro: ed ecco uscire

di Paride la sorte. Allor s'assise

al suo posto ciascun, vicino a' suoi

scalpitanti destrieri e alle giacenti

armi diverse. Della ben chiomata

Elena intanto l'avvenente sposo

Alessandro di fulgida armatura

tutto si veste. E pria di bei schinieri

che il morso costrignea d'argentea fibbia,

cinse le tibie. Quindi una lorica

del suo germano Licaon, che fatta

al suo sesto parea, si pose al petto:

all'omero sospese il brando, ornato

d'argentei chiovi; un poderoso scudo

di grand'orbe imbracciò; chiuse la fronte

nel ben temprato e lavorato elmetto,

a cui d'equine chiome in su la cima

alta una cresta orribilmente ondeggia.

Ultima prese una robusta lancia

che tutto empieagli il pugno. In questo mentre

del par s'armava il bellicoso Atride.

Di lor tutt'arme accinti i due guerrieri

s'appresentār nel mezzo, e si guataro

biechi. Al vederli stupor prese e tema

i Dardani e gli Achei. L'un contra l'altro

l'aste squassando al mezzo dell'arena

s'avvicinār sdegnosi; ed il Troiano

primier la lunga e grave asta vibrando

la rotella colpì del suo nemico,

ma non forolla, ché la buona targa

rintuzzonne la punta. Allor secondo

coll'asta alzata Menelao si mosse

così pregando: Dammi, o padre Giove,

sovra costui che m'oltraggiò primiero,

dammi sovra il fellon piena vendetta.

Tu sotto i colpi di mia destra il doma

sì che il postero tremi, e a non tradire

l'ospite apprenda che l'accolse amico.

Disse, e l'asta avventò, la conficcò

dell'avversario nel rotondo scudo.

Penetrò fulminando la ferrata

punta il pavese rilucente, e tutta

trapassò la corazza, lacerando

la tunica sul fianco a fior di pelle.

Incurvossi il Troiano, ed il mortale

colpo schivò. L'irato Atride allora

trasse la spada, ed erto un gran fendente

gli calò ruïnoso in su l'elmetto.

Non resse il brando, ché in più pezzi infranto

gli lasciò la man nuda; ond'ei gemendo

e gli occhi alzando dispettoso al cielo,

Crudel Giove, gridava, il più crudele

di tutti i numi! Io mi sperai punire

di questo traditor l'oltraggio: ed ecco

che in pugno, oh rabbia! mi si spezza il ferro,

e gittai l'asta indarno e senza offesa.

Così fremendo, addosso all'inimico

con furor si disserra: alla criniera

dell'elmo il piglia, e tragge a tutta forza

verso gli Achivi quel meschino, a cui

la delicata gola soffocava

il trapunto guinzaglio che le barbe

annodava dell'elmo sotto il mento.

E l'avrìa strascinato, e a lui gran lode

venuta ne sarìa; ma del periglio

fatta Venere accorta i nodi sciolse

del bovino guinzaglio, e il vōto elmetto

seguì la mano del traente Atride.

Aggirollo l'eroe, e fra le gambe

lo scagliò degli Achei, che festeggianti

il raccolsero. Allor di porlo a morte

risoluto l'Atride, alto coll'asta

di nuovo l'assalì. Di nuovo accorsa

lo scampò Citerea, che agevolmente

il poté come Diva: lo ravvolse

di molta nebbia, e fra il soave olezzo

dei profumati talami il depose.

Ella stessa a chiamar quindi la figlia

corse di Leda, e la trovò nell'alta

torre in bel cerchio di dardanie spose.

Prese il volto e le rughe d'un'antica

filatrice di lane, che sfiorarne

ad Elena solea di molte e belle

nei paterni soggiorni, e sommo amore

posto le avea. Nella costei sembianza

la Dea le scosse la nettarea veste,

e, Vieni, le dicea, vieni; ti chiama

Alessandro che già negli odorati

talami stassi, e su i trapunti letti

tutto risplende di beltà divina

in sì gaio vestir, che lo diresti

ritornarsi non già dalla battaglia,

ma invïarsi alla danza, o dalla danza

riposarsi. Sì disse, e il cor nel seno

le commosse. Ma quando all'incarnato

del bellissimo collo, e all'amoroso

petto, e degli occhi al tremolo baleno

riconobbe la Dea, coglier sentissi

di sacro orrore, e ritrovate alfine

le parole, sclamò: Trista! e che sono

queste malizie? Ad alcun'altra forse

di Meonia o di Frigia alta cittade

vuoi tu condurmi affascinata in braccio

d'alcun altro tuo caro? Ed or che vinto

il suo rival, me d'odio carca a Sparta

e perdonata Menelao radduce,

sei tu venuta con novelli inganni

ad impedirlo? E ché non vai tu stessa

e goderti quel vile? Obblìa per lui

l'eterea sede, né calcar più mai

dell'Olimpo le vie: statti al suo fianco,

soffri fedele ogni martello, e il cova

finché t'alzi all'onor di moglie o ancella;

ch'io tornar non vo' certo (e fōra indegno)

a sprimacciar di quel codardo il letto,

argomento di scherno alle troiane

spose, e a me stessa d'infinito affanno.

E irata a lei la Dea: Non irritarmi,

sciagurata! non far ch'io t'abbandoni

nel mio disdegno, e tanto io sia costretta

ad abborrirti alfin quanto t'amai;

e t'amai certo a dismisura. Or io

negli argolici petti e ne' troiani

metterò, se mi tenti, odii sì fieri,

che di mal fato perirai tu pure.

L'alma figlia di Leda a questo dire

tremò, si chiuse nel suo bianco velo,

e cheta cheta in via si pose, a tutte

le Troadi celata, e precorreva

a' suoi passi la Dea. Poiché venute

fur d'Alessandro alle splendenti soglie,

corser di qua di là le scaltre ancelle

ai donneschi lavori, ed ella intanto

bellissima saliva e taciturna

ai talami sublimi. Ivi l'amica

del riso Citerea le trasse innanzi

di propria mano un seggio, e di rimpetto

ad Alessandro il collocò. S'assise

la bella donna, e con amari accenti,

garrì, senza mirarlo, il suo marito:

E così riedi dalla pugna? Oh fossi

colà rimasto per le mani anciso

di quel gagliardo un dì mio sposo! E pure

e di lancia e di spada e di fortezza

ti vantasti più volte esser migliore.

Fa cor dunque, va, sfida il forte Atride

alla seconda singolar tenzone.

Ma t'esorto, meschino, a ti star queto,

né nuovo ritentar d'armi periglio

col tuo rivale, se la vita hai cara.

Non mi ferir con aspri detti, o donna,

le rispose Alessandro. Fu Minerva

che vincitor fe' Menelao, sol essa.

Ma lui del pari vincerò pur io,

ch'io pure al fianco ho qualche Diva. Or via

pace, o cara, e ne sia pegno un amplesso

su queste piume; ché giammai sì forte

per te le vene non scaldommi Amore,

quel dì né pur che su veloci antenne

io ti rapìa di Sparta, e tuo consorte

nell'isola Crenea ti giacqui in braccio.

No, non t'amai quel dì quant'ora, e quanto

di te m'invoglia il cor dolce desìo.

Disse; ed al letto s'avvïaro, ei primo,

ella seconda; e l'un dell'altro in grembo

su i mollissimi strati si confuse.

Come irato lïon l'Atride intanto

di qua di là si ravvolgea cercando

il leggiadro rival; né lui fra tanta

turba di Teucri e d'alleati alcuno

significar sapea, né lo sapendo

l'avrìa di certo per amor celato;

ché come il negro ceffo della morte

abborrito da tutti era costui.

Fattosi innanzi allora Agamennóne,

Teucri, Dardani, ei disse, e voi di Troia

alleati, m'udite. Vincitore

fu, lo vedeste, Menelao. Voi dunque

Elena ne rendete, e tutta insieme

la sua ricchezza, e d'un'ammenda inoltre

ne rintegrate che convegna, e tale

che memoria ne passi anco ai nepoti.

Disse; e tutto gli plause il campo acheo.

 

 

LIBRO QUARTO

 

 

Nell'auree sale dell'Olimpo accolti

intorno a Giove si sedean gli Dei

a consulta. Fra lor la veneranda

Ebe versava le nettaree spume,

e quelli a gara con alterni inviti

l'auree tazze vōtavano mirando

la troiana città. Quand'ecco il sommo

Saturnio, inteso ad irritar Giunone,

con un obliquo paragon mordace

così la punse: Due possenti Dive

aiutatrici ha Menelao, l'Argiva

Giuno e Minerva Alalcomènia. E pure

neghittose in disparte ambo si stanno

sol del vederlo dilettate. Intanto

fida al fianco di Paride l'amica

del riso Citerea lungi respinge

dal suo caro la Parca; e dianzi, in quella

ch'ei morto si tenea, servollo in vita.

Rimasta è al forte Menelao la palma;

ma l'alto affar non è compiuto, e a noi

tocca il condurlo, e statuir se guerra

fra le due genti rinnovar si debba,

od in pace comporle. Ove la pace

tutti appaghi gli Dei, stia Troia, e in Argo

con la consorte Menelao ritorni.

Strinser, fremendo a questo dir, le labbia

Giuno e Minerva, che vicin sedute

venìan de' Teucri macchinando il danno.

Quantunque al padre fieramente irata

tacque Minerva e non fiatò. Ma l'ira

non contenne Giunone, e sì rispose:

Acerbo Dio, che parli? A far di tante

armate genti accolta, alla ruïna

di Priamo e de' suoi figli, ho stanchi i miei

immortali corsieri; e tu pretendi

frustrar la mia fatica, ed involarmi

de' miei sudori il frutto? Eh ben t'appaga;

ma di noi tutti non sperar l'assenso.

Feroce Diva, replicò sdegnoso

l'adunator de' nembi, e che ti fêro,

e Priamo e i Priamìdi, onde tu debba

voler sempre di Troia il giorno estremo?

La tua rabbia non fia dunque satolla

se non atterri d'Ilïon le porte,

e sull'infrante mura non ti bevi

del re misero il sangue e de' suoi figli

e di tutti i Troiani? Or su, fa come

più ti talenta, onde fra noi sorgente

d'acerbe risse in avvenir non sia

questo dissidio: ma riponi in petto

le mie parole. Se desìo me pure

prenderà d'atterrar qualche a te cara

città, non porre a' miei disdegni inciampo,

e liberi li lascia. A questo patto

Troia io pur t'abbandono, e di mal cuore;

ché, di quante città contempla in terra

l'occhio del sole e dell'eteree stelle,

niuna io m'aggio più cara ed onorata

come il sacro Ilïone e Priamo e tutta

di Priamo pur la bellicosa gente:

perocché l'are mie per lor di sacre

opìme dapi abbondano mai sempre,

e di libami e di profumi, onore

solo alle dive qualità sortito.

Compose a questo dir la veneranda

Giuno gli sguardi maestosi, e disse:

Tre cittadi sull'altre a me son care

Argo, Sparta, Micene; e tu le struggi

se odiose ti sono. A lor difesa

né man né lingua moverò; ché quando

pure impedir lo ti volessi, indarno

il tentarlo uscirìa, sendo d'assai

tu più forte di me. Ma dritto or parmi

che tu vano non renda il mio disegno,

ch'io pur son nume, e a te comune io traggo

l'origine divina, io dell'astuto

Saturno figlia, e in alto onor locata,

perché nacqui sorella e perché moglie

son del re degli Dei. Facciam noi dunque

l'un dell'altro il volere, e il seguiranno

gli altri Eterni. Or tu ratto invìa Minerva

fra i due commossi eserciti, onde spinga

i Troiani ad offendere primieri,

rotto l'accordo, i baldanzosi Achei.

Assentì Giove al detto, ed a Minerva,

Scendi, disse, veloce, e fa che i Teucri

primi offendan gli Achei, turbando il patto.

A Minerva, per sé già desïosa,

sprone aggiunse quel cenno. In un baleno

dall'Olimpo calò. Quale una stella

cui portento a' nocchieri o a numerose

schiere d'armati scintillante e chiara

invìa talvolta di Saturno il figlio;

tale in vista precipita dall'alto

Minerva in terra, e piantasi nel mezzo.

Stupīr Teucri ed Achivi all'improvvisa

visïone, e talun disse al vicino:

Arbitro della guerra oggi vuol Giove

per certo rinnovar fra un campo e l'altro

l'acerba pugna, o confermar la pace.

La Dea mischiossi tra la folta intanto

delle turbe troiane, e la sembianza

di Laòdoco assunta (un valoroso

d'Antènore figliuol) si pose in traccia

del dėiforme Pandaro. Trovollo

stante in piedi nel mezzo al clipeato

stuolo de' forti che l'avea seguìto

dalle rive d'Esepo. Appropinquossi

a lui la Diva, e disse: Inclito germe

di Licaon, vuoi tu ascoltarmi? Ardisci,

vibra nel petto a Menelao la punta

d'un veloce quadrello. E grazia e lode

te ne verrà dai Dardani e dal prence

Paride in prima, che d'illustri doni

colmeratti, vedendo il suo rivale

montar sul rogo, dal tuo stral trafitto.

Su via dunque, dardeggia il burbanzoso

Atride, e al licio saettante Apollo

prometti che, tornato al patrio tetto

nella sacra Zelèa, darai di scelti

primogeniti agnelli un'ecatombe.

Così disse Minerva, e dello stolto

persuase il pensier. Diè mano ei tosto

al bell'arco, già spoglia di lascivo

capro agreste. L'aveva egli d'agguato,

mentre dal cavo d'una rupe uscìa,

colto nel petto, e su la rupe steso

resupino. Sorgevano alla belva

lunghe sedici palmi su l'altera

fronte le corna. Artefice perito

le polì, le congiunse, e di lucenti

anelli d'oro ne fregiò le cime.

Tese quest'arco, e dolcemente a terra

Pandaro l'adagiò. Dinanzi a lui

protendono le targhe i fidi amici,

onde assalito dagli Achei non vegna,

pria ch'egli il marzio Menelao percuota.

Scoperchiò la faretra, ed un alato

intatto strale ne cavò, sorgente

di lagrime infinite. Indi sul nervo

l'adattando promise al licio Apollo

di primonati agnelli un'ecatombe

ritornato in Zelèa. Tirò di forza

colla cocca la corda, alla mammella

accostò il nervo, all'arco il ferro, e fatto

dei tesi estremi un cerchio, all'improvviso

l'arco e il nervo fischiar forte s'udiro,

e lo strale fuggì desideroso

di volar fra le turbe. Ma non fûro

immemori di te, tradito Atride,

in quel punto gli Dei. L'armipotente

figlia di Giove si parò davanti

al mortifero telo, e dal tuo corpo

lo devïò sollecita, siccome

tenera madre che dal caro volto

del bambino che dorme un dolce sonno,

scaccia l'insetto che gli ronza intorno.

Ella stessa la Dea drizzò lo strale

ove appunto il bel cinto era frenato

dall'auree fibbie, e si stendea davanti

qual secondo torace. Ivi l'acerbo

quadrello cadde, e traforando il cinto

nel panzeron s'infisse e nella piastra

che dalle frecce il corpo gli schermìa.

Questa gli valse allor d'assai, ma pure

passolla il dardo, e ne sfiorò la pelle,

sì che tosto diè sangue la ferita.

Come quando meonia o caria donna

tinge d'ostro un avorio, onde fregiarne

di superbo destriero le mascelle;

molti d'averlo cavalieri han brama;

ma in chiusa stanza ei serbasi bel dono

a qualche sire, adornamento e pompa

del cavallo ed in un del cavaliero:

così di sangue imporporossi, Atride,

la tua bell'anca, e per lo stinco all'imo

calcagno corse la vermiglia riga.

Raccapricciossi a questa vista il rege

Agamennón, raccapricciò lo stesso

marzïal Menelao; ma quando ei vide

fuor della polpa l'amo dello strale,

gli tornò tosto il core, e si rïebbe.

Per man tenealo intanto Agamennóne,

ed altamente fra i dolenti amici

sospirando dicea: Caro fratello,

perché qui morto tu mi fossi, io dunque

giurai l'accordo, te mettendo solo

per gli Achivi a pugnar contra i Troiani,

contra i Troiani che l'accordo han rotto,

e a tradimento ti ferīr? Ma vano

non andrà delle vittime il giurato

sangue, né i puri libamenti ai numi,

né la fé delle destre. Il giusto Giove

può differire ei sì, ma non per certo

obblïar la vendetta; e caro un giorno

colle lor teste, colle mogli e i figli

ne pagheranno gli spergiuri il fio.

Tempo verrà (di questo ho certo il core)

ch'Ilio e Priamo perisca, e tutta insieme

la sua perfida gente. Dall'eccelso

etereo seggio scoterà sovr'essi

l'egida orrenda di Saturno il figlio

di tanta frode irato; e non cadranno

vōti i suoi sdegni. Ma d'immenso lutto

tu cagion mi sarai, dolce fratello,

se morte tronca de' tuoi giorni il corso.

Sorgerà negli Achei vivo il desìo

del patrio suolo, e d'onta carco in Argo

io tornerommi, e lasceremo ai Teucri,

glorïoso trofeo, la tua consorte.

Putride intanto nell'iliaca terra

l'ossa tue giaceran, senz'aver dato

fine all'impresa, e il tumulo del mio

prode fratello un qualche Teucro altero

calpestando, dirà: Possa i suoi sdegni

satisfar così sempre Agamennóne,

siccome or fece, senza pro guidando

l'argoliche falangi a questo lido,

d'onde scornato su le vote navi

alla patria tornò, qui derelitto

l'illustre Menelao. Sì fia ch'ei dica;

e allor mi s'apra sotto i piè la terra.

Ti conforta, rispose il biondo Atride,

né co' lamenti spaventar gli Achivi.

In mortal parte non ferì l'acuto

dardo: di sopra il ricamato cinto

mi difese, e di sotto la corazza

e questa fascia che di ferrea lama

buon fabbro foderò. - Sì voglia il cielo,

diletto Menelao, l'altro riprese.

Intanto tratterà medica mano

la tua ferita, e farmaco porravvi

atto a lenire ogni dolor. - Si volse

all'araldo, ciò detto, e, Va, soggiunse,

vola, o Taltibio, e fa che ratto il figlio

d'Esculapio, divin medicatore,

Macaon qua ne vegna, e degli Achei

al forte duce Menelao soccorra,

cui di freccia ferì qualche troiano

o licio saettier che sé di gloria,

noi di lutto coprì. - Disse, e l'araldo

tra le falangi achee corse veloce

in traccia dell'eroe. Ritto lo vide

fra lo stuolo de' prodi che da Tricca

altrice di corsier l'avea seguìto:

appressossi, e con rapide parole,

Vien, gli disse, t'affretta, o Macaone;

Agamennón ti chiama: il valoroso

Menelao fu di stral colto da qualche

licio arciero o troiano che superbo

va del nostro dolor. Corri, e lo sana.

Al tristo annunzio si commosse il figlio

d'Esculapio; e veloci attraversando

il largo campo acheo, fur tosto al loco

ove al ferito dėiforme Atride

facean cerchio i migliori. Incontanente

dal balteo estrasse Macaon lo strale,

di cui curvārsi nell'uscir gli acuti

ami: disciolse ei quindi il vergolato

cinto e il torace colla ferrea fascia

sovrapposta; e scoperta la ferita,

succhionne il sangue, e destro la cosparse

dei lenitivi farmaci che al padre,

d'amor pegno, insegnati avea Chirone.

Mentre questi alla cura intenti sono

del bellicoso Atride, ecco i Troiani

marciar di nuovo con gli scudi al petto,

e di nuovo gli Achei l'armi vestire

di battaglia bramosi. Allor vedevi

non assonnarsi, non dubbiar, né pugna

schivar l'illustre Agamennón; ma ratto

volar nel campo della gloria. Il carro

e i fervidi destrier tratti in disparte

lascia all'auriga Eurimedonte, figlio

del Piraìde Tolomèo; gl'impone

di seguirlo vicin, mentre pel campo

ordinando le turbe egli s'aggira,

onde accorrergli pronto ove stanchezza

gli occupasse le membra. Egli pedone

scorre intanto le file, e quanti all'armi

affrettarsi ne vede, ei colla voce

fortemente gl'incuora, e grida: Argivi,

niun rallenti le forze: il giusto Giove

bugiardi non aiuta: chi primiero

l'accordo vïolò, pasto vedrassi

di voraci avoltoi, mentre captive

le dilette lor mogli in un co' figli

noi nosco condurremo, Ilio distrutto.

Quanti poi ne scorgea ritrosi e schivi

della battaglia, con irati accenti

li rabbuffando, O Argivi, egli dicea,

o guerrier da balestra, o vitupèri!

Non vi prende vergogna? A che vi state

istupiditi come zebe, a cui,

dopo scorso un gran campo, la stanchezza

ruba il piede e la lena? E voi del pari

allibiti al pugnar vi sottraete.

Aspettate voi forse che il nemico

alla spiaggia s'accosti ove ritratte

stan sul secco le prore, onde si vegga

se Giove allor vi stenderà la mano?

Così imperando trascorrea le schiere.

Venne ai Cretesi; e li trovò che all'armi

davan di piglio intorno al bellicoso

Idomenèo. Per vigorìa di forze

pari a fiero cinghiale Idomenèo

guidava l'antiguardia, e Merïone

la retroguardia. Del vederli allegro

il sir de' forti Atride al re cretese

con questo dolce favellar si volse:

Idomenèo, te sopra i Dànai tutti

cavalieri veloci in pregio io tegno,

sia nella guerra, sia nell'altre imprese,

sia ne' conviti, allor che ne' crateri

d'almo antico lïeo versan la spuma

i supremi tra' Greci. Ove degli altri

chiomati Achivi misurato è il nappo,

il tuo del par che il mio sempre trabocca,

quando ti prende di bombar la voglia.

Or entra nella pugna, e tal ti mostra

qual dianzi ti vantasti. - E de' Cretensi

a lui lo duce: Atride, io qual già pria

t'impromisi e giurai, fido compagno

per certo ti sarò. Ma tu rinfiamma

gli altri Achivi a pugnar senza dimora.

Rupper l'accordo i Teucri, e perché primi

del patto vïolār la santitate,

sul lor capo cadran morti e ruïne.

Disse; e gioioso proseguì l'Atride

fra le caterve la rivista, e venne

degli Aiaci alla squadra. In tutto punto

metteansi questi, e li seguìa di fanti

un nugolo. Siccome allor che scopre

d'alto loco il pastor nube che spinta

su per l'onde da Cauro s'avvicina,

e bruna più che pece il mar vïaggia,

grave il seno di nembi; inorridito

ei la guarda, ed affretta alla spelonca

le pecorelle; così negre ed orride

per gli scudi e per l'aste si moveano

sotto gli Aiaci accolte le falangi

de' giovani veloci al rio conflitto.

Allegrossi a tal vista Agamennóne,

e a' lor duci converso in presti accenti,

Aiaci, ei disse, condottieri egregi

de' loricati Achivi, io non v'esorto,

(ciò fōra oltraggio) a inanimar le vostre

schiere; già per voi stessi a fortemente

pugnar le stimolate. Al sommo Giove

e a Pallade piacesse e al santo Apollo,

che tal coraggio in ogni petto ardesse,

e tosto presa ed adeguata al suolo

per le man degli Achei Troia cadrebbe.

Così detto lasciolli, e procedendo

a Nestore arrivò, Nestore arguto

de' Pilii arringator, che in ordinanza

i suoi prodi metteva, e alla battaglia

li concitava. Stavangli dintorno

il grande Pelagonte ed Alastorre,

e il prence Emone e Cromio, ed il pastore

di popoli Biante. In prima ei pose

alla fronte coi carri e coi cavalli

i cavalieri, e al retroguardo i fanti,

che molti essendo e valorosi, il vallo

formavano di guerra. Indi nel mezzo

i codardi rinchiuse, onde forzarli

lor mal grado a pugnar. Ma innanzi a tutto

porge ricordo ai combattenti equestri

di frenar lor cavalli, e non mischiarsi

confusamente nella folla. - Alcuno

non sia, soggiunse, che in suo cor fidando

e nell'equestre maestrìa, s'attenti

solo i Teucri affrontar di schiera uscito:

né sia chi retroceda; ché cedendo

si sgagliarda il soldato. Ognun che sceso

dal proprio carro l'ostil carro assalga,

coll'asta bassa investalo, ché meglio

sì pugnando gli torna. Con quest'arte,

con questa mente e questo ardir nel petto

le città rovesciār gli antichi eroi.

Il canuto così mastro di guerra

le sue genti animava. In lui fissando

gli occhi l'Atride, giubilonne, e tosto

queste parole gli drizzò: Buon veglio,

oh t'avessi tu salde le ginocchia

e saldi i polsi come hai saldo il core!

La ria vecchiezza, che a null'uom perdona,

ti logora le forze: ah perché d'altro

guerrier non grava la crudel le spalle!

perché de' tuoi begli anni è morto il fiore!

Ed il gerenio cavalier rispose:

Atride, al certo bramerei pur io

quelle forze ch'io m'ebbi il dì che morte

diedi all'illustre Ereutalion. Ma tutti

tutto ad un tempo non comparte Giove

i suoi doni al mortal. Rideami allora

gioventude: or mi doma empia vecchiezza.

Ma qual pur sono mi starò nel mezzo

de' cavalieri nella pugna, e gli altri

gioverò di parole e di consiglio,

ché questo è officio de' provetti. Dêssi

lasciar dell'aste il tiro ai giovinetti

di me più destri e nel vigor securi.

Disse; e lieto l'Atride oltrepassando

venne al Petìde Menestèo, perito

di cocchi guidator, ritto nel mezzo

de' suoi prodi Cecròpii. Eragli accanto

lo scaltro Ulisse colle forti schiere

de' Cefaleni, che non anco udito

di guerra il grido avean, poiché le teucre

e l'argive falangi allora allora

cominciavan le mosse: e questi in posa

aspettavan che stuolo altro d'Achei

impeto fêsse ne' Troiani il primo,

e ingaggiasse battaglia. In quello stato

li sorprese l'Atride; e corruccioso

fe' dal labbro volar questa rampogna:

Petìde Menestèo, figlio non degno

d'un alunno di Giove, e tu d'inganni

astuto fabbro, a che tremanti state

gli altri aspettando, e separati? A voi

entrar conviensi nella mischia i primi,

perché primi io vi chiamo anche ai conviti

ch'ai primati imbandiscono gli Achei.

Ivi il saìme saporar vi giova

delle carni arrostite, e a piena gola

di soave lïeo cioncar le tazze.

Or vi giova esser gli ultimi, e vi fōra

grato il veder ben dieci squadre achee

innanzi a voi scagliarsi entro il conflitto.

Lo guatò bieco Ulisse, e gli rispose:

Qual detto, Atride, ti fuggì di bocca?

E come ardisci di chiamarne in guerra

neghittosi? Allorché contra i Troiani

daran principio al rio marte gli Achei,

vedrai, se il brami e te ne cal, vedrai

nelle dardanie file antesignane

di Telemaco il padre. Or cianci al vento.

Veduto il cruccio dell'eroe, sorrise

l'Atride, e dolce ripigliò: Divino

di Laerte figliuol, sagace Ulisse,

né sgridarti vogl'io, né comandarti

fuor di stagione, ch'io ben so che in petto

volgi pensieri generosi, e senti

ciò ch'io pur sento. Or vanne, e pugna; e s'ora

dal labbro mi fuggì cosa mal detta,

ripareremla in altro tempo. Intanto

ne disperdano i numi ogni ricordo.

Ciò detto, gli abbandona, e ad altri ei passa;

e ritto in piedi sul lucente cocchio

il magnanimo figlio di Tidèo

Diomede ritrova. Al fianco ha Stènelo,

prole di Capanèo. Si volse il sire

Agamennóne a Diomede, e ratto

con questi accenti rampognollo: Ahi figlio

del bellicoso cavalier Tidèo,

di che paventi? Perché guardi intorno

le scampe della pugna? Ah! non solea

così Tidèo tremar; ma precorrendo

d'assai gli amici, co' nemici ei primo

s'azzuffava. Ciascun che ne' guerrieri

travagli il vide, lo racconta. In vero

né compagno io gli fui né testimone,

ma udii che ogni altro di valore ei vinse.

Ben coll'illustre Polinice un tempo

senz'armati in Micene ospite ei venne,

onde far gente che alle sacre mura

li seguisse di Tebe, a cui già mossa

avean la guerra; e ne fêr ressa e preghi

per ottenerne generosi aiuti;

e volevam noi darli, e la domanda

tutta appagar; ma con infausti segni

Giove da tanto ne distolse. Or come

gli eroi si fûro dipartiti e giunti

dopo molto cammino al verdeggiante

giuncoso Asopo, ambasciatore a Tebe

spedīr Tidèo gli Achivi. Andovvi, e molti

banchettanti Cadmei trovò del forte

Eteòcle alle mense. In mezzo a loro,

quantunque estrano e solo, il cavaliero

senza punto temer tutti sfidolli

al paragon dell'armi, e tutti ei vinse,

col favor di Minerva. Irati i vinti

di cinquanta guerrieri, al suo ritorno,

gli posero un agguato. Eran lor duci

l'Emonide Meone, uom d'almo aspetto,

e d'Autofano il figlio Licofonte,

intrepido campion. Tidèo gli uccise

tutti, ed un solo per voler de' numi,

il sol Meone rimandonne a Tebe.

Tal fu l'etòlo eroe, padre di prole

miglior di lingua, ma minor di fatti.

Non rispose all'acerbo il valoroso

Tidìde, e rispettò del venerando

rege il rabbuffo; ma rispose il figlio

del chiaro Capanèo, dicendo: Atride,

non mentir quando t'è palese il vero.

Migliori assai de' nostri padri a dritto

noi ci vantiam. Noi Tebe e le sue sette

porte espugnammo: e nondimen più scarsi

eran gli armati che guidammo al sacro

muro di Marte, ne' divini auspìci

fidando e in Giove. Per l'opposto quelli

peccār d'insano ardire e vi periro.

Non pormi adunque in onor pari i padri.

Gli volse un guardo di traverso il forte

Tidìde, e ripigliò: T'accheta, amico,

ed obbedisci al mio parlar. Non io,

se il re supremo Agamennóne istiga

alla pugna gli Achei, non io lo biasmo.

Fia sua la gloria, se, domati i Teucri,

noi la sacra cittade espugneremo,

e suo, se spenti noi cadremo, il lutto.

Dunque a dar prove di valor si pensi.

Disse, e armato balzò dal cocchio in terra.

Orrendamente risonār sul petto

l'armi al re concitato, a tal che preso

n'avrìa spavento ogni più fermo core.

Siccome quando al risonante lido,

di Ponente al soffiar, l'uno sull'altro

del mar si spinge il flutto; e prima in alto

gonfiasi, e poscia su la sponda rotto

orribilmente freme, e intorno agli erti

scogli s'arriccia, li sormonta, e in larghi

sprazzi diffonde la canuta spuma:

incessanti così l'una su l'altra

movon l'achee falangi alla battaglia

sotto il suo duce ognuna; e sì gran turba

marcia sì cheta, che di voce priva

la diresti al vederla; e riverenza

era de' duci quel silenzio; e l'armi

di varia guisa, di che gìan vestiti

tutti in ischiera, li cingean di lampi.

Ma simiglianti i Teucri a numeroso

gregge che dentro il pecoril di ricco

padron, nell'ora che si spreme il latte,

s'ammucchiano, e al belar de' cari agnelli

rispondono belando alla dirotta;

così per l'ampio esercito un confuso

mettean schiamazzo i Teucri, ché non uno

era di tutti il grido né la voce,

ma di lingue un mistìo, sendo una gente

da più parti raccolta. A questi Marte,

a quei Minerva è sprone, e quinci e quindi

lo Spavento e la Fuga, e del crudele

Marte suora e compagna la Contesa

insazïabilmente furibonda,

che da principio piccola si leva,

poi mette il capo tra le stelle, e immensa

passeggia su la terra. Essa per mezzo

alle turbe scorrendo, e de' mortali

addoppiando gli affanni, in ambedue

le bande sparse una rabbiosa lite.

Poiché l'un campo e l'altro in un sol luogo

convenne, e si scontrār l'aste e gli scudi,

e il furor de' guerrieri, scintillanti

ne' risonanti usberghi, e delle colme

targhe già il cozzo si sentìa, levossi

un orrendo tumulto. Iva confuso

col gemer degli uccisi il vanto e il grido

degli uccisori, e il suol sangue correa.

Qual due torrenti che di largo sbocco

devolvonsi dai monti, e nella valle

per lo concavo sen d'una vorago

confondono le gonfie onde veloci:

n'ode il fragor da lungi in cima al balzo

l'atterrito pastor: tal dai commisti

eserciti sorgea fracasso e tema.

Primo Antiloco uccise un valoroso

Teucro, alle mani nelle prime file,

il Taliside Echèpolo, il ferendo

nel cono del chiomato elmo: s'infisse

la ferrea punta nella fronte, e l'osso

trapanò: s'abbuiār gli occhi al meschino,

che strepitoso cadde come torre.

Ghermì pe' piedi quel caduto il prence

de' magnanimi Abanti Elefenorre

figliuol di Calcodonte, e desïoso

di spogliarlo dell'armi, lo traea

fuor della mischia: ma fallì la brama;

ché mentre il morto ei dietro si strascina,

Agenore il sorprende, e a lui che curvo

offrìa nudati di pavese i fianchi,

tale un colpo assestò, che gli disciolse

le forze, e l'alma abbandonollo. Allora

tra i Troiani e gli Achei surse una fiera

zuffa sovr'esso: s'affrontār quai lupi,

e in mutua strage si metteano a morte.

Qui fu che Aiace Telamonio il figlio

d'Antemion percosse il giovinetto

Simoesio, cui scesa dall'Idee

cime la madre partorì sul margo

del Simoenta, un giorno ivi venuta

co' genitori a visitar la greggia;

e Simoesio lo nomār dal fiume.

Misero! Ché dei presi in educarlo

dolci pensieri ai genitor diletti

rendere il merto non poteo: la lancia

d'Aiace il colse, e il viver suo fe' breve.

Al primo scontro lo colpì nel petto

su la destra mammella, e la ferrata

punta pel tergo riuscir gli fece.

Cadde il garzone nella polve a guisa

di liscio pioppo su la sponda nato

d'acquidosa palude: a lui de' rami

già la pompa crescea, quando repente

colla fulgida scure lo recise

artefice di carri, e inaridire

lungo la riva lo lasciò del fiume,

onde poscia foggiarne di bel cocchio

le volubili rote: così giacque

l'Antemide trafitto Simoesio,

e tale dispogliollo il grande Aiace.

Contro Aiace l'acuta asta diresse

d'infra le turbe allor di Priamo il figlio

Antifo, e il colpo gli fallì; ma colse

nell'inguine il fedel d'Ulisse amico

Leuco che già di Simoesio altrove

traea la salma; e accanto al corpo esangue,

che di man gli cadea, cadde egli pure.

Forte adirato dell'ucciso amico

si spinse Ulisse tra gl'innanzi, tutto

scintillante di ferro, e più dappresso

facendosi, e dintorno il guardo attento

rivolgendo, librò l'asta lucente.

Si misero a quell'atto in guardia i Teucri,

e lo cansār; ma quegli il telo a vōto

non sospinse, e ferì Democoonte,

Priamide bastardo che d'Abido

con veloci puledre era venuto.

A costui fulminò l'irato Ulisse

nelle tempie la lancia; e trapassolle

la ferrea punta. Tenebrārsi i lumi

al trafitto che cadde fragoroso,

e cupo gli tonār l'armi sul petto.

Rinculò de' Troiani, al suo cadere,

la fronte, rinculò lo stesso Ettorre;

dier gli Argivi alte grida, ed occupati

i corpi uccisi, s'avanzār di punta.

Dalla rocca di Pergamo mirolli

sdegnato Apollo, e rincorando i Teucri

con gran voce gridò: Fermo tenete,

valorosi Troiani, ed agli Achei

non cedete l'onor di questa pugna,

ché né pietra né ferro è la lor pelle

da rintuzzar delle vostr'armi il taglio.

Non combatte qui, no, della leggiadra

Tétide il figlio: non temete; Achille

stassi alle navi a digerir la bile.

Così dall'alto della rocca il Dio

terribile sclamò. Ma la feroce

Palla, di Giove glorïosa figlia,

discorrendo le file inanimava

gli Achivi, ovunque li vedea rimessi.

Qui la Parca allacciò l'Amarancìde

Dïore. Un'aspra e quanto cape il pugno

grossa pietra il percosse alla diritta

tibia presso il tallone, e feritore

fu l'Imbraside Piro che de' Traci

condottiero dall'Eno era venuto.

Franse ambidue li nervi e la caviglia

l'improbo sasso, ed ei cadde supino

nella sabbia, e mal vivo ambo le mani

ai compagni stendea. Sopra gli corse

il percussore, e l'asta in mezzo all'epa

gli cacciò. Si versār tutte per terra

le intestina, e mortale ombra il coperse.

All'irruente Piro allor l'Etòlo

Toante si rivolge; e lui nel petto

con la lancia ferendo alla mammella

nel polmon gliela ficca. Indi appressato

gliela sconficca dalla piaga; e in pugno

stretta l'acuta spada glie l'immerse

nella ventraia, e gli rapìo la vita;

l'armi non già, ché intorno al morto Piro

colle lungh'aste in pugno irti di ciuffi

affollārsi i suoi Traci, e il chiaro Etòlo,

benché grande e gagliardo, allontanaro

sì che a forza respinto si ritrasse.

Così l'uno appo l'altro nella polve

giacquero i due campioni, il tracio duce,

e il duce degli Epei. Dintorno a questi

molt'altri prodi ritrovār la morte.

Chi da ferite illeso, e da Minerva

per man guidato, e preservato il petto

dal volar degli strali, avvolto in mezzo

alla pugna si fosse, avrìa le forti

opre stupito degli eroi, ché molti

e Troiani ed Achivi nella polve

giacquer proni e confusi in quel conflitto.

 

 

LIBRO QUINTO

 

 

Allor Palla Minerva a Dïomede

forza infuse ed ardire, onde fra tutti

gli Achei splendesse glorïoso e chiaro.

Lampi gli uscìan dall'elmo e dallo scudo

d'inestinguibil fiamma, al tremolìo

simigliante del vivo astro d'autunno,

che lavato nel mar splende più bello.

Tal mandava dal capo e dalle spalle

divin foco l'eroe, quando la Diva

lo sospinse nel mezzo ove più densa

ferve la mischia. Era fra' Teucri un certo

Darete, uom ricco e d'onoranza degno,

di Vulcan sacerdote, e genitore

di due prodi figliuoi mastri di guerra

Fegèo nomati e Idèo. Precorsi agli altri

si fêr costoro incontro a Dïomede,

essi sul cocchio, ed ei pedone: e a fronte

divenuti così, scagliò primiero

la lung'asta Fegèo. L'asta al Tidìde

lambì l'omero manco, e non l'offese.

Col ferrato suo cerro allor secondo

mosse il Tidìde, né di mano indarno

il telo gli fuggì, ché tra le poppe

del nemico s'infisse, e dalla biga

lo spiombò. Diede Idèo, visto quel colpo,

un salto a terra, e in un col suo bel carro

smarrito abbandonò la pia difesa

dell'ucciso fratel. Né avrìa schivato

perciò la morte; ma Vulcan di nebbia

lo ricinse e servollo, onde non resti

il vecchio padre desolato al tutto.

Tolse i destrieri il vincitore, e trarli

da' compagni li fece alle sue navi.

Visti i due figli di Darete i Teucri

l'un freddo nella polve e l'altro in fuga,

turbārsi; e la glaucopide Minerva

preso per mano il fero Marte disse:

O Marte, Marte, esizïoso Iddio

che lordo ir godi d'uman sangue e al suolo

adeguar le città, non lasceremo

noi dunque battagliar soli tra loro

Teucri ed Achei, qualunque sia la parte

cui dar la palma vorrà Giove? Or via

ritiriamci, evitiam l'ira del nume.

In questo favellar trasse la scaltra

l'impetuoso Dio fuor del conflitto,

e su la riva riposar lo fece

dell'erboso Scamandro. Allora i Dànai

cacciār li Teucri in fuga; e ognun de' duci

un fuggitivo uccise. Agamennóne

primier riversa il vasto Hodio dal carro,

degli Alizóni condottiero, e primo

al fuggir. Gli piantò l'asta nel tergo,

e fuor del petto uscir la fece. Ei cadde

romoroso, e suonār l'armi sovr'esso.

Dalla glebosa Tarne era venuto

Festo figliuol del Mèone Boro. Il colse

Idomenèo coll'asta alla diritta

spalla nel punto che salìa sul carro.

Cadde il meschin d'orrenda notte avvolto,

e i servi lo spogliār d'Idomenèo.

L'Atride Menelao di Strofio il figlio

Scamandrio uccise, cacciator famoso

cui la stessa Dïana ammaestrava

le fere a saettar quante ne pasce

montana selva. E nulla allor gli valse

la Diva amica degli strali, e nulla

l'arte dell'arco. Menelao lo giunse

mentre innanzi gli fugge, e tra le spalle

l'asta gli spinse, e trapassòglì il petto.

Boccon cadde il trafitto, e cupamente

l'armi sovr'esso rimbombar s'udiro.

Prole del fabbro Armònide, Fereclo

da Merïon fu spento. Era costui

per tutte guise di lavori industri

maraviglioso, e a Pallade Minerva

caramente diletto. Opra fur sua

di Paride le navi, onde principio

ebbe il danno de' Teucri, e di lui stesso,

perché i decreti degli Dei non seppe.

L'inseguì, lo raggiunse, lo percosse

nel destro clune Merïone, e sotto

l'osso vêr la vescica uscì la punta.

Gli mancār le ginocchia, e guaiolando

e cadendo il coprì di morte il velo.

Mege uccise Pedèo, bastarda prole

d'Antènore, cui l'inclita Teano,

gratificando al suo consorte, avea

con molta cura nutricato al paro

dei diletti suoi figli. Si fe' sopra

a costui coll'acuta asta il Filìde

Mege, e alla nuca lo ferì. Trascorse

tra i denti il ferro, e gli tagliò la lingua.

Così concio egli cadde, e nella sabbia

fe' tenaglia co' denti al freddo acciaro.

Ipsènore, figliuol del generoso

Dolopïon, scamandrio sacerdote

riverito qual Dio, fugge davanti

al chiaro germe d'Evemone Eurìpilo.

Eurìpilo l'insegue, e via correndo

tal gli cala su l'omero un fendente

che il braccio gli recide. Sanguinoso

casca il mozzo lacerto nella polve,

e la purpurea morte e il violento

fato le luci gli abbuiār. Di questi

tal nell'acerba pugna era il lavoro.

Ma di qual parte fosse Dïomede,

se troiano od acheo, mal tu sapresti

discernere, sì fervido ei trascorre

il campo tutto; simile alla piena

di tumido torrente che cresciuto

dalle piogge di Giove, ed improvviso

precipitando i saldi ponti abbatte

debil freno alle fiere onde, e de' verdi

campi i ripari rovesciando, ingoia

con fragor le speranze e le fatiche

de' gagliardi coloni: a questa guisa

sgominava il Tidìde e dissipava

le caterve de' Troi, che sostenerne

non potean, benché molti, la ruina.

Come Pandaro il vide sì furente

scorrere il campo, e tutte a sé dinanzi

scompigliar le falangi, alla sua mira

curvò subito l'arco, e l'irruente

eroe percosse alla diritta spalla.

Entrò pel cavo dell'usbergo il crudo

strale, e forollo, e il sanguinò. Coraggio,

forte allora gridò l'inclito figlio

di Licaon, magnanimi Troiani,

stimolate i cavalli, ritornate

alla pugna. Ferito è degli Achei

il più forte guerrier, né credo ei possa

a lungo tollerar l'acerbo colpo,

se vano feritor non mi sospinse

qua dalla Licia il re dell'arco Apollo.

Così gridava il vantator. Ma domo

non restò da quel colpo Dïomede,

che ritraendo il passo, e de' cavalli

coprendosi e del cocchio, al suo fedele

Capaneìde si rivolse, e disse:

Corri, Stènelo mio, scendi dal carro,

e dall'omero tosto mi divelli

questo acerbo quadrel. - Diè un salto a terra

Stènelo e corse, e l'aspro stral gli svelse

dall'omero trafitto. Per la maglia

dell'usbergo spicciava il caldo sangue,

e imperturbato sì l'eroe pregava:

Invitta figlia dell'Egìoco Giove,

se nelle ardenti pugne unqua a me fosti

del tuo favor cortese e al mio gran padre,

odimi, o Dea Minerva, ed or di nuovo

m'assisti, e al tiro della lancia mia

manda il mio feritor: dammi ch'io spegna

questo ventoso nebulon che grida

ch'io del Sol non vedrò più l'aurea luce.

Udì la Diva il prego, e a lui repente

e mani e piedi e tutta la persona

agile rese, e fattasi vicina

e manifesta disse: Ti rinfranca

Dïomede, e co' Troi pugna securo;

ch'io del tuo grande genitor Tidèo

l'invitta gagliardìa ti pongo in petto,

e la nube dagli occhi ecco ti sgombro

che la vista mortal t'appanna e grava,

onde tu ben discerna le divine

e l'umane sembianze. Ove alcun Dio

qui ti venga a tentar, tu con gli Eterni

non cimentarti, no; ma se in conflitto

vien la figlia di Giove Citerea,

l'acuto ferro adopra, e la ferisci.

Sparve, ciò detto, la cerulea Diva.

Allor diè volta e si mischiò tra' primi

combattenti il Tidìde, a pugnar pronto

più che prima d'assai; ché in quel momento

triplice in petto si sentì la forza.

Come lïon che, mentre il gregge assalta,

ferito dal pastor, ma non ucciso,

vie più s'infuria, e superando tutte

resistenze si slancia entro l'ovile:

derelitte, tremanti ed affollate

l'una addosso dell'altra si riversano

le pecorelle, ed ei vi salta in mezzo

con ingordo furor: tal dentro ai Teucri

diede il forte Tidìde. A prima giunta

Astìnoo uccise ed Ipenòr: trafisse

l'uno coll'asta alla mammella; all'altro

la paletta dell'omero percosse

con tale un colpo della grande spada,

che gli spiccò dal collo e dalla schiena

l'omero netto. Dopo questi addosso

ad Abante si spicca e a Poliido,

figli del veglio interprete di sogni

Euridamante; ma il meschin non seppe

nella lor dipartenza a questa volta

divinarne il destin, ch'ambi il Tidìde

li pose a morte e li spogliò. Drizzossi

quindi a Xanto e Faon figli a Fenopo,

ambo a lui nati nell'età canuta.

In amara vecchiezza il derelitto

genitor si struggea, ché d'altra prole,

cui sua reda lasciar, lieto non era.

Gli spense ambo il Tidìde, e lor togliendo

la cara vita, in aspre cure e in pianti

pose il misero padre, a cui negato

fu il vederli tornar dalla battaglia

salvi al suo seno; e di lui morto in lutto

ignoti eredi si partīr l'avere.

Due Prïamidi, Cromio ed Echemóne,

venìano entrambi in un sol cocchio. A questi

s'avventò Dïomede; e col furore

di lïon che una mandra al bosco assalta

e di giovenca o bue frange la nuca;

così mal conci entrambi il fier Tidìde

precipitolli dalla biga, e tolte

l'arme de' vinti, a' suoi sergenti ei dienne

i destrieri onde trarli alla marina.

Come de' Teucri sbarattar le file

videlo Enea, si mosse, e per la folta

e fra il rombo dell'aste discorrendo

a cercar diessi il valoroso e chiaro

figlio di Licaon, Pandaro. Il trova,

gli si appresenta e fa queste parole:

Pandaro, dov'è l'arco? ove i veloci

tuoi strali? ov'è la gloria in che qui nullo

teco gareggia, né verun si vanta

licio arcier superarti? Or su, ti sveglia,

alza a Giove la mano, un dardo allenta

contro costui, qualunque ei sia, che desta

cotanta strage, e sì malmena i Teucri,

de' quai già molti e forti a giacer pose:

se pur egli non fosse un qualche nume

adirato con noi per obblïati

sacrifizi: e de' numi acerba è l'ira.

Così d'Anchise il figlio. E il figlio a lui

di Licaone: O delle teucre genti

inclito duce Enea, se quello scudo

e quell'elmo a tre coni e quei destrieri

ben riconosco, colui parmi in tutto

il forte Dïomede. E nondimeno

negar non l'oso un immortal. Ma s'egli

è il mortale ch'io dico, il bellicoso

figliuolo di Tidèo, tanto furore

non è senza il favor d'un qualche iddio,

che di nebbia i celesti omeri avvolto

stagli al fianco, e dal petto gli disvìa

le veloci saette. Io gli scagliai

dianzi un dardo, e lo colsi alla diritta

spalla nel cavo del torace, e certo

d'averlo mi credea sospinto a Pluto.

Pur non lo spensi: e irato quindi io temo

qualche nume. Non ho su cui salire

or qui cocchio verun. Stolto! che in serbo

undici ne lasciai nel patrio tetto

di fresco fatti e belli, e di cortine

ricoperti, con due d'orzo e di spelda

ben pasciuti cavalli a ciascheduno.

E sì che il giorno ch'io partii, gli eccelsi

nostri palagi abbandonando, il veglio

guerriero Licaon molti ne dava

prudenti avvisi, e mi facea precetto

di guidar sempre mai montato in cocchio

le troiane coorti alla battaglia.

Certo era meglio l'obbedir; ma, folle!

nol feci, ed ebbi ai corridor riguardo,

temendo che assueti a largo pasto

di pasto non patissero difetto

in racchiusa città. Lasciàili adunque,

e pedon venni ad Ilio, ogni fidanza

posta nell'arco, che giovarmi poscia

dovea sì poco. Saettai con questo

due de' primi, l'Atride ed il Tidìde,

e ferii l'uno e l'altro, e il vivo sangue

ne trassi io sì, ma n'attizzai più l'ira.

In mal punto spiccai dunque dal muro

gli archi ricurvi il dì che al grande Ettore

compiacendo qua mossi, e de' Troiani

il comando accettai. Ma se redire,

se con quest'occhi riveder m'è dato

la patria, la consorte e la sublime

mia vasta reggia, mi recida ostile

ferro la testa, se di propria mano

non infrango e non getto nell'accese

vampe quest'arco inutile compagno.

E al borïoso il duce Enea: Non dire,

no, questi spregi. Della pugna il volto

cangerà, se ambedue sopra un medesmo

cocchio raccolti affronterem costui,

e farem delle nostre armi periglio.

Monta dunque il mio carro, e de' cavalli

di Troe vedi la vaglia, e come in campo

per ogni lato sappiano veloci

inseguire e fuggir. Questi (se avvegna

che il Tonante di nuovo a Dïomede

dia dell'armi l'onor), questi trarranno

salvi noi pure alla cittade. Or via

prendi tu questa sferza e queste briglie,

ch'io de' corsieri, per pugnar, ti cedo

il governo; o costui tu stesso affronta,

ché de' corsieri sarà mia la cura.

Sì (riprese il figliuol di Licaone)

tien tu le briglie, Enea, reggi tu stesso

i tuoi cavalli, che la mano udendo

del consueto auriga, il curvo carro

meglio trarranno, se fuggir fia forza

dal figlio di Tidèo. Se lor vien manco

la tua voce, potrìan per caso istrano

spaventati adombrarsi, e senza legge

aggirarsi pel campo, e a trarne fuori

della pugna indugiar tanto che il fero

Dïomede n'assegua impetuoso,

ed entrambi n'uccida, e via ne meni

i destrieri di Troe. Resta tu dunque

al timone e alle briglie, ché coll'asta

io del nemico sosterrò l'assalto.

Montār, ciò detto, sull'adorno cocchio,

e animosi drizzār contra il Tidìde

i veloci cavalli. Il chiaro figlio

di Capanèo li vide, ed all'amico

vòlto il presto parlar, Tidìde, ei disse,

mio diletto Tidìde, a pugnar teco

veggo pronti venir due di gran nerbo

valorosi guerrier, l'uno il famoso

Pandaro arciero che figliuol si vanta

di Licaone, e l'altro Enea che prole

vantasi ei pur di Venere e d'Anchise.

Su, presto in cocchio; ritiriamci, e incauto

tu non istarmi a furiar tra i primi

con sì gran rischio della dolce vita.

Bieco guatollo il gran Tidìde, e disse:

Non parlarmi di fuga. Indarno tenti

persuadermi una viltà. Fuggire

dal cimento e tremar, non lo consente

la mia natura: ho forze intégre, e sdegno

de' cavalli il vantaggio. Andrò pedone,

quale mi trovo, ad incontrar costoro;

ché Pallade mi vieta ogni paura.

Ma non essi ambedue salvi di mano

ci scapperan, dai rapidi sottratti

lor corridori, ed avverrà che appena

ne scampi un solo. Un altro avviso ancora

vo' dirti, e tu non l'obblïar. Se fia

che l'alto onore d'atterrarli entrambi

la prudente Minerva mi conceda,

tu per le briglie allora i miei cavalli

lega all'anse del cocchio, e ratto vola

ai cavalli d'Enea, e dai Troiani

via te li mena fra gli Achei. Son essi

della stirpe gentil di quei che Giove,

prezzo del figlio Ganimede, un giorno

a Troe donava; né miglior destrieri

vede l'occhio del Sole e dell'Aurora.

Al re Laomedonte il prence Anchise

la razza ne furò, sopposte ai padri

segretamente un dì le sue puledre

che di tale imeneo sei generosi

corsier gli partoriro. Egli n'impingua

quattro di questi a sé nel suo presepe,

e due ne cesse al figlio Enea, superbi

cavalli da battaglia. Ove n'avvegna

di predarli, n'avremo immensa lode.

Mentre seguìan tra lor queste parole,

quelli incitando i corridor veloci

tosto appressārsi, e Pandaro primiero

favellò: Bellicoso ardito figlio

dell'illustre Tidèo, poiché l'acuto

mio stral non ti domò, vengo a far prova

s'io di lancia ferir meglio mi sappia.

Così detto, la lunga asta vibrando

fulminolla, e colpì di Dïomede

lo scudo sì, che la ferrata punta

tutto passollo, e ne sfiorò l'usbergo.

Sei ferito nel fianco (alto allor grida

l'illustre feritor), né a lungo, io spero,

vivrai: la gloria che mi porti è somma.

Errasti, o folle, il colpo (imperturbato

gli rispose l'eroe); ben io m'avviso

ch'uno almeno di voi, pria di ristarvi

da questa zuffa, nel suo sangue steso

l'ira di Marte sazierà. Ciò detto,

scagliò. Minerva ne diresse il telo,

e a lui che curvo lo sfuggìa, cacciollo

tra il naso e il ciglio. Penetrò l'acuto

ferro tra' denti, ne tagliò l'estrema

lingua, e di sotto al mento uscì la punta.

Piombò dal cocchio, gli tonār sul petto

l'armi lucenti, sbigottīr gli stessi

cavalli, e a lui si sciolsero per sempre

e le forze e la vita. Enea temendo

in man non caggia degli Achei l'ucciso,

scese, e protesa a lui l'asta e lo scudo

giravagli dintorno a simiglianza

di fier lïone in suo valor sicuro;

e parato a ferir qual sia nemico

che gli si accosti, il difendea gridando

orribilmente. Diè di piglio allora

ad un enorme sasso Dïomede

di tal pondo, che due nol porterebbero

degli uomini moderni; ed ei vibrandolo

agevolmente, e solo e con grand'impeto

scagliandolo, percosse Enea nell'osso

che alla coscia s'innesta ed è nomato

ciotola. Il fracassò l'aspro macigno

con ambi i nervi, e ne stracciò la pelle.

Diè del ginocchio al grave colpo in terra

l'eroe ferito, e colla man robusta

puntellò la persona. Un negro velo

gli coperse le luci, e qui perìa,

se di lui tosto non si fosse avvista

l'alma figlia di Giove Citerea

che d'Anchise pastor l'avea concetto.

Intorno al caro figlio ella diffuse

le bianche braccia, e del lucente peplo

gli antepose le falde, onde dall'armi

ripararlo, e impedir che ferro acheo

gli passi il petto e l'anima gl'involi.

Mentre al fiero conflitto ella sottragge

il diletto figliuol, Stènelo il cenno

membrando dell'amico, ne sostiene

in disparte i cavalli, e prestamente

all'anse della biga avviluppate

le redini, s'avventa ai ben chiomati

corridori d'Enea; di mezzo ai Teucri

agli Achivi li spinge, ed alle navi

spedisceli fidati al dolce amico

Dėipilo, cui sopra ogni altro eguale,

perché d'alma conforme, in pregio ei tiene.

Esso intanto l'eroe capaneìde

rimontato il suo cocchio, e in man riprese

le riluccnti briglie, allegramente

de' cavalli sonar l'ugna facea

dietro il Tidìde che coll'empio ferro

l'alma Venere insegue, la sapendo

non una delle Dee che de' mortali

godon le guerre amministrar, siccome

Minerva e la di mura atterratrice

torva Bellona, ma un'imbelle Diva.

Poiché raggiunta per la folta ei l'ebbe,

abbassò l'asta il fiero, e coll'acuto

ferro l'assalse, e della man gentile

gli estremi le sfiorò verso il confine

della palma. Forò l'asta la cute,

rotto il peplo odoroso a lei tessuto

dalle Grazie, e fluì dalla ferita

l'icòre della Dea, sangue immortale,

qual corre de' Beati entro le vene;

ch'essi, né frutto cereal gustando

né rubicondo vino, esangui sono,

e quindi han nome d'Immortali. Al colpo

died'ella un forte grido, e dalle braccia

depose il figlio, a cui difesa Apollo

corse tosto, e l'ascose entro una nube,

onde camparlo dall'achee saette.

Il bellicoso Dïomede intanto,

Cedi, figlia di Giove, alto gridava,

cedi il piè dalla pugna. E non ti basta

sedur d'imbelli femminette il core?

Se qui troppo t'avvolgi, io porto avviso

che tale desteratti orror la guerra,

ch'anco il sol nome ti darà paura.

Disse; ed ella turbata ed affannosa

partiva. La veloce Iri per mano

la prese, la tirò fuor del tumulto

carca di doglie e livida le nevi

della morbida cute. Alla sinistra

della pugna seduto il furibondo

Marte trovò: la grande asta del Nume

e i veloci corsier cingea la nebbia.

Gli abbracciò le ginocchia supplicando

la sorella, e gridò: Caro fratello,

miserere di me, dammi il tuo cocchio

ond'io salga all'Olimpo. Assai mi cruccia

una ferita che mi feo la destra

d'un ardito mortal, di Dïomede,

che pur con Giove piglierìa contesa.

Sì prega, e Marte i bei destrier le cede.

Salì sul cocchio allor la dolorosa,

salì al suo fianco la taumanzia figlia,

e in man tolte le briglie, a tutto corso

i cavalli sferzò che desïosi

volavano. Arrivār tosto all'Olimpo,

eccelsa sede degli Eterni. Quivi

arrestò la veloce Iri i corsieri,

li disciolse dal giogo, e ristorolli

d'immortal cibo. La divina intanto

Venere al piede si gittò dell'alma

genitrice Dïona, che la figlia

raccogliendo al suo seno, e colla mano

la carezzando e interrogando, Oh! disse,

oh! chi mai de' Celesti si permise,

amata figlia, in te sì grave offesa,

come rea di gran fallo alla scoperta?

Il superbo Tidìde Dïomede,

rispose Citerea, l'empio ferimmi

perché il mio figlio, il mio sovra ogni cosa

diletto Enea sottrassi dalla pugna,

che pugna non è più di Teucri e Achivi,

ma d'Achivi e di numi. - E a lei Dïona

inclita Diva replicò: Sopporta

in pace, o figlia, il tuo dolor; ché molti

degl'Immortali con alterno danno

molte soffrimmo dai mortali offese.

Le soffrì Marte il dì che gli Aloìdi

Oto e il forte Efïalte l'annodaro

d'aspre catene. Un anno avvinto e un mese

in carcere di ferro egli si stette,

e forse vi perìa, se la leggiadra

madrigna Eeribèa nol rivelava

al buon Mercurio che di là furtivo

lo sottrasse, già tutto per la lunga

e dolorosa prigionìa consunto.

Le soffrì Giuno allor che il forte figlio

d'Anfitrïone con trisulco dardo

la destra poppa le piagò, sì ch'ella

d'alto duol ne fu colta. Anco il gran Pluto

dal medesmo mortal figlio di Giove

aspro sofferse di saetta un colpo

là su le porte dell'Inferno, e tale

lo conquise un dolor, che lamentoso

e con lo stral ne' duri omeri infisso

all'Olimpo sen venne, ove Peone,

di lenitivi farmaci spargendo

la ferita, il sanò; ché sua natura

mortal non era: ma ben era audace

e scellerato il feritor che d'ogni

nefario fatto si fea beffe, osando

fin gli abitanti saettar del cielo.

Oggi contro te pur spinse Minerva

il figlio di Tidèo. Stolto! ché seco

punto non pensa che son brevi i giorni

di chi combatte con gli Dei: né babbo

lo chiameran tornato dalla pugna

i figlioletti al suo ginocchio avvolti.

Benché forte d'assai, badi il Tidìde

ch'un più forte di te seco non pugni;

badi che l'Adrastina Egïalèa,

di Dïomede generosa moglie,

presto non debba risvegliar dal sonno

ululando i famigli, e il forte Acheo

plorar che colse il suo virgineo fiore.

In questo dir con ambedue le palme

la man le asterse dal rappreso icòre,

e la man si sanò, queta ogni doglia.

Riser Giuno e Minerva a quella vista,

e con amaro motteggiar la Diva

dalle glauche pupille il genitore

così prese a tentar. Padre, senz'ira

un fiero caso udir vuoi tu? Ciprigna

qualche leggiadra Achea sollecitando

a seguir seco i suoi Teucri diletti,

nel carezzarla ed acconciarle il peplo,

a un aurato ardiglione, ohimè! s'è punta

la dilicata mano. - Il sommo padre

grazïoso sorrise, e a sé chiamata

l'aurea Venere, Figlia, le dicea,

per te non sono della guerra i fieri

studi, ma l'opre d'Imeneo soavi.

A queste intendi, ed il pensier dell'armi

tutto a Marte lo lascia ed a Minerva.

Mentre in cielo seguìan queste favelle,

contro il figlio d'Anchise il bellicoso

Dïomede si spinge, né l'arresta

il saper che la man d'Apollo il copre.

Desïoso di porre Enea sotterra

e spogliarlo dell'armi peregrine,

nulla ei rispetta un sì gran Dio. Tre volte

a morte l'assalì, tre volte Apollo

gli scosse in faccia il luminoso scudo.

Ma come il forte Calidonio al quarto

impeto venne, il saettante nume

terribile gridò: Guarda che fai;

via di qua, Dïomede; il paragone

non tentar degli Dei, ché de' Celesti

e de' terrestri è disugual la schiatta.

Disse; e alquanto l'eroe ritrasse il piede

l'ira evitando dell'arciero Apollo,

che, fuor condutto della mischia Enea,

nella sagrata Pergamo fra l'are

del suo delubro il pose. Ivi Latona,

ivi l'amante dello stral Dïana

lo curār, l'onoraro. Intanto Apollo

formò di tenue nebbia una figura

in sembianza d'Enea; d'Enea le finse

l'armi, e dintorno al vano simulacro

Teucri ed Achei facean di targhe e scudi

un alterno spezzar che intorno ai petti

orrendo risonava. Allor si volse

al Dio dell'armi il Dio del giorno, e disse:

Eversor di città, Marte omicida,

che sol nel sangue esulti, e non andrai

ad aggredir tu dunque, a cacciar lungi

questo altiero mortal, questo Tidìde

che alle mani verrìa con Giove ancora?

Egli assalse e ferì prima Ciprigna

al carpo della mano; indi avventossi

a me medesmo coll'ardir d'un Dio.

Sì dicendo, s'assise alto sul colmo

della pergàmea rocca, e il rovinoso

Marte sen corse a concitar de' Teucri

le schiere, e preso d'Acamante il volto,

d'Acamante de' Traci esimio duce,

così prese a spronar di Priamo i figli:

Illustri Prïamìdi, e sino a quando

permetterete della vostra gente

per la man degli Achei sì rio macello?

Sin tanto forse che la strage arrivi

alle porte di Troia? A terra è steso

l'eroe che al pari del divino Ettorre

onoravamo, Enea preclaro figlio

del magnanimo Anchise. Andiam, si voli

alla difesa di cotanto amico.

Destār la forza e il cor d'ogni guerriero

queste parole. Sarpedon con aspre

rampogne allora rabbuffando Ettorre,

Dove andò, gli dicea, l'alto valore

che poc'anzi t'avevi? E pur t'udimmo

vantarti che tu sol senza l'aita

de' collegati, e co' tuoi soli affini

e co' fratei bastavi alla difesa

della città. Ma niuno io qui ne veggo,

niun ne ravviso di costor, ché tutti

trepidanti s'arretrano siccome

timidi veltri intorno ad un leone:

e qui frattanto combattiam noi soli,

noi venuti in sussidio. Io che mi sono

pur della lega, di lontana al certo

parte mi mossi, dalla licia terra,

dal vorticoso Xanto, ove la cara

moglie ed un figlio pargoletto e molti

lasciai di quegli averi a cui sospira

l'uomo mai sempre bisognoso. E pure

alleato, qual sono, i miei guerrieri

esorto alla battaglia, ed io medesmo

sto qui pronto a pugnar contra costui,

benché qui nulla io m'abbia che il nemico

rapir mi possa, né portarlo seco.

E tu ozïoso ti ristai? né almeno

agli altri accenni di far fronte, e in salvo

por le consorti? Guàrdati, che presi,

siccome in ragna che ogni cosa involve,

non divenghiate del crudel nemico

cattura e preda, e ch'ei tra poco al suolo

la vostr'alma cittade non adegui.

A te tocca l'aver di ciò pensiero

e giorno e notte, a te dell'alleanza

i capitani supplicar, che fermi

resistano al lor posto, e far che niuna

cagion più sorga di rampogne acerbe.

D'Ettore al cor fu morso amaro il detto

di Sarpedonte, sì che tosto a terra

saltò dal cocchio in tutto punto, e l'asta

scotendo ad animar corse veloce

d'ogni parte i Troiani alla battaglia,

e destò mischia dolorosa. Allora

voltār la fronte i Teucri, e impetuosi

fêrsi incontro agli Achei, che stretti insieme

gli aspettār di piè fermo e senza tema.

Come allor che di Zefiro lo spiro

disperde per le sacre aie la pula,

mentre la bionda Cerere la scevra

dal suo frutto gentil, che il buon villano

vien ventilando; lo leggier spulezzo

tutta imbianca la parte ove del vento

lo sospinge il soffiar: così gli Achivi

inalbava la polve al cielo alzata

dall'ugna de' cavalli entrati allora

sotto la sferza degli aurighi in zuffa.

Difilati portavano i Troiani

il valor delle destre, e furïoso

li soccorrea Gradivo discorrendo

il campo tutto, e tutta di gran buio

la battaglia coprendo. E sì di Febo

i precetti adempìa, di Febo Apollo

d'aurea spada precinto, che comando

dato gli avea d'accendere ne' Teucri

l'ardimento guerrier, vista partire

l'aiutatrice degli Achei Minerva.

Fuori intanto de' pingui aditi sacri

Enea messo da Febo, e per lui tutto

di gagliardìa ripieno appresentossi

a' suoi compagni che gioīr, vedendo

vivo e salvo il guerriero e rintegrato

delle pristine forze. Ma gravarlo

d'alcun dimando il fier nol consentìa

lavor dell'armi che dell'arco il divo

sire eccitava, e l'omicida Marte,

e la Discordia ognor furente e pazza.

D'altra parte gli Aiaci e Dïomede

e il re dulìchio anch'essi alla battaglia

raccendono gli Achei già per sé stessi

né la furia tementi né le grida

de' Dardani, ma fermi ad aspettarli.

Quai nubi che de' monti in su la cima

immote arresta di Saturno il figlio

quando l'aria è tranquilla e il furor dorme

degli Aquiloni o d'altro impetuoso

di nubi fugator vento sonoro;

di piè fermo così senza veruno

pensier di fuga attendono gli Achivi

de' Troiani l'assalto. E Agamennóne

per le file scorrendo, e molte cose

d'ogni parte avvertendo, Amici, ei grida,

uomini siate e di cor forte, e ognuno

nel calor della pugna il guardo tema

del suo compagno. De' guerrier che infiamma

generoso pudore, i salvi sono

più che gli uccisi; chi rossor di fuga

non sente, ha persa coll'onor la forza.

Scagliò l'asta, ciò detto, ed un guerriero

percosse de' primai, commilitone

del magnanimo Enea, Dėicoonte,

di Pèrgaso figliuol tenuto in pregio

dai Teucri al paro che di Priamo i figli,

perché presto a pugnar sempre tra' primi.

Colpillo Atride nell'opposto scudo

che difesa non fece. Trapassollo

tutto la lancia, e per lo cinto all'imo

ventre discese. Strepitoso ei cadde,

e l'armi rimbombār sovra il caduto.

Enea diè morte di rincontro a due

valentissimi, Orsiloco e Cretone,

figli a Dïòcle, della ben costrutta

città di Fere un ricco abitatore.

Scendea costui dal fiume Alfeo che largo

la pilia terra di bell'acque inonda:

Alfèo produsse Orsiloco di molte

genti signore, Orsiloco Dïòcle,

e Dïòcle costor, mastri di guerra

d'un sol parto acquistati. Aveano entrambi

già fatti adulti navigato a Troia

per onor degli Atridi, e qui la vita

entrambi terminār. Quai due leoni,

cui la madre sul monte entro i recessi

d'alto speco educò, fan ruba e guasto

delle mandre, de' greggi e delle stalle,

finché dal ferro de' pastor raggiunti

caggiono anch'essi; e tali allor dall'asta

d'Enea percossi caddero costoro

col fragor di recisi eccelsi abeti.

Strinse pietà dei due caduti il petto

del prode Menelao, che tosto innanzi

si spinse di lucenti armi vestito

l'asta squassando. E Marte, che domarlo

per man d'Enea fa stima, il cor gli attizza.

Del magnanimo Nestore il buon figlio

Antiloco osservollo, e un qualche danno

paventando all'Atride, un qualche grave

storpio all'impresa degli Achei, processe

nell'antiguardo. Già s'aveano incontro

abbassate le picche i due campioni

pronti a ferir, quando d'Atride al fianco

Antiloco comparve: e di due tali

viste le forze in un congiunte, Enea,

benché prode guerriero, retrocesse.

Trassero questi tra gli Achei gli estinti

Orsiloco e Cretone, e d'ambedue

le miserande spoglie in man deposte

degli amici, dier volta, e nella pugna

novellamente si mischiār tra' primi.

Fu morto il duce allor de' generosi

scudati Paflagoni, il marziale

Pilemene. Il ferì d'asta alla spalla

l'Atride Menelao. Lo suo sergente

ed auriga Midon, gagliardo figlio

d'Antimnio, cadde per la man d'Antiloco.

Dava questo Midon, per via fuggirsi,

la volta al cocchio. Antiloco nel pieno

del cubito il ferì con tale un colpo

di sasso, che gittògli al suol le belle

eburnee briglie. Gli fu tosto sopra

il feritor col brando, e su la tempia

d'un dritto l'attastò, che giù dal carro

lo travolse, e ficcògli nella sabbia

testa e spalle. Anelante in quello stato

ei restossi gran pezza, ché profondo

era il sabbion; finché i destrier del tutto

lo riversār calpesto nella polve.

Diè lor di piglio Antiloco, e veloce

col flagello li spinse al campo acheo.

Com'Ettore di mezzo all'ordinanze

vide lor prove, impetuoso mosse

con alte grida ad investirli, e dietro

de' Teucri si traea le forti squadre

cui Marte è duce e la feral Bellona.

Bellona in compagnìa vien dell'orrendo

tumulto della zuffa; e Marte in pugno

palleggia un'asta smisurata, e or dietro

or davanti cammina al grande Ettorre.

Turbossi a quella vista il bellicoso

Tidìde; e quale della strada ignaro

vïator che trascorsa un'ampia landa

giunge a rapido fiume che mugghiante

l'onda del mar devolve, e visto il flutto

che freme e spuma, di fuggir s'affretta

l'orme sue ricalcando: a questa guisa

retrocesse il Tidìde, e al suo drappello

volgendo le parole: Amici, ei disse,

qual fia stupor se forte d'asta e audace

combattente si mostra il duce Ettorre?

Sempre al fianco gli viene un qualche iddio

che alla morte l'invola; ed or lo stesso

Marte in sembianza d'un mortal l'assiste.

Non vogliate attaccar dunque co' numi

ostinata contesa, e date addietro,

ma col viso ognor vòlto all'inimico.

Mentr'egli sì dicea, scagliārsi i Teucri

addosso alla sua schiera. E quivi Ettorre

a morte mise due guerrier, nell'armi

assai valenti e in un sol cocchio ascesi,

Anchïalo e Meneste. Ebbe di loro

pietade il grande Telamonio Aiace,

e féssi avanti e stette, e la lucente

asta lanciando, Anfio colpì, che figlio

di Selago tenea suo seggio in Peso

ricco d'ampie campagne. Ma la nera

Parca ad Ilio il menò confederato

del re troiano e de' suoi figli. Il colse

sul cinto il lungo telamonio ferro,

e nell'imo del ventre si confisse.

Diè cadendo un rimbombo, e a dispogliarlo

corse l'illustre vincitor; ma un nembo

i Troiani piovean di frecce acute

che d'irta selva gli coprīr lo scudo.

Ben egli al morto avvicinossi, e il petto

calcandogli col piè, la fulgid'asta

ne sferrò, ma dall'omero le belle

armi rapirgli non poteo: sì densa

la grandine il premea delle saette.

E temendo l'eroe nol circuisse

de' Troiani la piena, che ristretti

erano e molti e poderosi, e tutti

con armi d'ogni guisa e d'ogni tiro

ad incalzarlo, a repulsarlo intesi,

ei benché forte e di gran corpo e d'alto

ardir diè volta, e si ritrasse addietro.

Mentre questi alle mani in questa parte

si travaglian così, nemico fato

contra l'illustre Sarpedon sospinse

l'Eraclide Tlepòlemo, guerriero

di gran persona e di gran possa. Or come

a fronte si trovār quinci il nepote

e quindi il figlio del Tonante Iddio,

Tlepòlemo primiero così disse:

Duce de' Licii Sarpedon, qual uopo

rozzo in guerra a tremar qua ti condusse?

È mentitor chi dell'Egìoco Giove

germe ti dice. Dal valor dei forti,

che nell'andata età nacquer di lui,

troppo lungi se' tu. Ben altro egli era

il mio gran genitor, forza divina,

cuor di leone. Qua venuto un giorno

a via menar del re Laomedonte

i promessi destrieri, egli con sole

sei navi e pochi armati Ilio distrusse,

e vedovate ne lasciò le vie.

Tu sei codardo, tu a perir qui traggi

i tuoi soldati, tu veruna aita,

col tuo venir di Licia, non darai

alla dardania gente; e quando pure

un gagliardo ti fossi, il braccio mio

qui stenderatti e spingeratti a Pluto.

E di rimando a lui de' Licii il duce:

Tlepòlemo, le sacre iliache mura

Ercole, è ver, distrusse, e la scempiezza

del frigio sire il meritò, che ingrato

al beneficio con acerbi detti

oltraggiollo; e i destrieri, alta cagione

di sua venuta, gli negò. Ma i vanti

paterni non torran che la mia lancia

qui non ti prostri. Tu morrai: son io

che tel predìco, e a me l'onor qui tosto

darai della vittoria, e l'alma a Pluto.

Ciò detto appena, sollevaro in alto

i ferrati lor cerri ambo i guerrieri,

ed ambo a un tempo gli scagliār. Percosse

Sarpedonte il nemico a mezzo il collo,

sì che tutto il passò l'asta crudele,

e a lui gli occhi coperse eterna notte.

Ma il telo uscito nel medesmo istante

dalla man di Tlepòlemo la manca

coscia ferì di Sarpedon. Passolla

infino all'osso la fulminea punta,

ma non diè morte, ché vietollo il padre.

Accorsero gli amici, e dal tumulto

sottrassero l'eroe che del confitto

telo di molto si dolea, né mente

v'avea posto verun, né s'avvisava

di sconficcarlo dalla coscia offesa,

onde espedirne il camminar: tant'era

del salvarlo la fretta e la faccenda.

Dall'altra parte i coturnati Achei

di Tlepòlemo anch'essi dalla pugna

ritraggono la salma. Al doloroso

spettacolo la forte alma d'Ulisse

si commosse altamente; e in suo pensiero

divisando ne vien s'ei prima insegua

di Giove il figlio, o più gli torni il darsi

alla strage de' Licii. Alla sua lancia

non concedean le Parche il porre a morte

del gran Tonante il valoroso seme.

Scagliasi ei dunque da Minerva spinto

nella folta dei Licii, e quivi uccide

l'un sovra l'altro Alastore, Cerano,

Cromio, Pritani, Alcandro, e Noemone

ed Alio: e più n'avrìa di lor prostrati

il divino guerrier, se il grande Ettorre

di lui non s'accorgea. Tra i primi ei dunque

processe di corrusche armi splendente,

e portante il terror ne' petti argivi.

Come il vide vicin fe' lieto il core

Sarpedonte, e con voce lamentosa:

Generoso Prïamide, dicea,

non lasciarmi giacer preda al nemico:

mi soccorri, e la vita m'abbandoni

nella vostra città, poiché m'è tolto

il tornarmi al natìo dolce terreno,

e d'allegrezza spargere la mia

diletta moglie e il pargoletto figlio.

Non rispose l'eroe; ma desïoso

di vendicarlo e ricacciar gli Achivi

colla strage di molti, oltre si spinse.

In questo mezzo la pietosa cura

de' compagni adagiò sotto un bel faggio

a Giove sacro Sarpedonte, e il telo

dalla piaga gli svelse il valoroso

diletto amico Pelagon. Nell'opra

svenne il ferito, e s'annebbiò la vista;

ma l'aura boreal, che fresca intorno

ventavagli, tornò ne' primi uffici

della vita gli spirti; e nell'anelo

petto affannoso ricreògli il core.

Da Marte intanto e dall'ardente Ettorre

assaliti gli Achei né paurosi

verso le navi si fuggìan, né arditi

farsi innanzi sapean. Ma quando il grido

corse tra lor che Marte era co' Teucri,

indietro si piegār sempre cedendo.

Or chi prima, chi poi fu l'abbattuto

dal ferreo Marte e dall'audace Ettorre?

Teutrante che sembianza avea d'un Dio,

l'agitatore di cavalli Oreste,

il vibrator di lancia Etolio Treco,

e l'Enopide Elèno, ed Enomào,

e d'armi adorno di color diverso

Oresbio che a far d'oro alte conserve

posto il pensier, tenea suo seggio in Ila

appo il lago Cefisio ov'altri assai

opulenti Beozi avean soggiorno.

Tale e tanta d'Achivi occisïone

Giuno mirando, a Pallade si volse,

e con preste parole: Ohimè! le disse,

invitta figlia dell'Egìoco Giove,

se libera lasciam dell'omicida

Marte la furia, indarno a Menelao

noi promettemmo dell'iliache torri

la caduta, e felice il suo ritorno.

Or via, scendiamo, e di valor noi pure

facciam prova laggiù. Disse, e Minerva

tenne l'invito. Allor la veneranda

Saturnia Giuno ad allestir veloce

corse i d'oro bardati almi destrieri.

Immantinente al cocchio Ebe le curve

ruote innesta. Un ventaglio apre ciascuna

d'otto raggi di bronzo, e si rivolve

sovra l'asse di ferro. Il giro è tutto

d'incorruttibil oro, ma di bronzo

le salde lame de' lor cerchi estremi.

Maraviglia a veder! Son puro argento

i rotondi lor mozzi, e vergolate

d'argento e d'ōr del cocchio anco le cinghie

con ambedue dell'orbe i semicerchi,

a cui sospese consegnar le guide.

Si dispicca da questo e scorre avanti

pur d'argento il timone, in cima a cui

Ebe attacca il bel giogo e le leggiadre

pettiere; e queste parimenti e quello

d'auro sono contesti. Desïosa

Giuno di zuffe e del rumor di guerra,

gli alipedi veloci al giogo adduce.

Né Minerva s'indugia. Ella diffuso

il suo peplo immortal sul pavimento

delle sale paterne, effigïato

peplo, stupendo di sua man lavoro,

e vestita di Giove la corazza,

di tutto punto al lagrimoso ballo

armasi. Intorno agli omeri divini

pon la ricca di fiocchi Egida orrenda,

che il Terror d'ogn'intorno incoronava.

Ivi era la Contesa, ivi la Forza,

ivi l'atroce Inseguimento, e il diro

Gorgonio capo, orribile prodigio

dell'Egìoco signore. Indi alla fronte

l'aurea celata impone irta di quattro

eccelsi coni, a ricoprir bastante

eserciti e città. Tale la Diva

monta il fulgido cocchio, e l'asta impugna

pesante, immensa, poderosa, ond'ella

intere degli eroi le squadre atterra

irata figlia di potente iddio.

Giuno, al governo delle briglie, affretta

col flagello i corsieri. Cigolando

per sé stesse s'aprīr l'eteree porte

custodite dall'Ore a cui commessa

del gran cielo è la cura e dell'Olimpo,

onde serrare e disserrar la densa

nube che asconde degli Dei la sede.

Per queste porte dirizzār le Dive

i docili cavalli, e ritrovaro

scevro dagli altri Sempiterni e solo

su l'alta vetta dell'Olimpo assiso

di Saturno il gran figlio. Ivi i destrieri

sostò la Diva dalle bianche braccia,

e il supremo de' numi interrogando:

Giove padre, gli disse, e non ti prende

sdegno de' fatti di Gradivo atroci?

Non vedi quanta e quale il furibondo

strage non giusta degli Achei commette?

Io ne son dolorosa: e queti intanto

si letiziano Apollo e Citerea,

essi che questo d'ogni legge schivo

forsennato aizzār. Padre, s'io scendo

a rintuzzar l'audace, a discacciarlo

dalla pugna, n'andrai tu meco in ira?

Va, le rispose delle nubi il sire,

spingi contra costui la predatrice

Minerva, a farlo assai dolente usata.

Di ciò lieta la Dea fe' su le groppe

de' corsieri sonar la sferza; e quelli

infra la terra e lo stellato cielo

desïosi volaro; e quanto vede

d'aereo spazio un uom che in alto assiso

stende il guardo sul mar, tanto d'un salto

ne varcār delle Dive i tempestosi

destrier. Là giunte dove l'onde amiche

confondono davanti all'alta Troia

Simoenta e Scamandro, ivi rattenne

Giuno i cavalli, gli staccò dal cocchio,

e di nebbia li cinse. Il Simoenta

loro un pasco fornì d'ambrosie erbette.

Tacite allora, e col leggiero incesso

di timide colombe ambe le Dive

appropinquārsi al campo acheo, bramose

di dar soccorso a' combattenti. E quando

arrivār dove molti e valorosi,

come stuol di cinghiali o di lïoni,

si stavano ristretti intorno al forte

figliuolo di Tidèo, presa la forma

di Stèntore che voce avea di ferro,

e pareggiava di cinquanta il grido,

Giuno sclamò: Vituperati Argivi,

mere apparenze di valor, vergogna!

Finché mostrossi in campo la divina

fronte d'Achille, non fur osi i Teucri

scostarsi mai dalle dardanie porte;

cotanto di sua lancia era il terrore.

Or lungi dalle mura insino al mare

vengono audaci a cimentar la pugna.

Sì dicendo svegliò di ciascheduno

e la forza e l'ardir. Sorgiunse in questa

la cerula Minerva a Dïomede

ch'appo il carro la piaga, onde l'offese

di Pandaro lo stral, refrigerava;

e colla stanca destra sollevando

dello scudo la soga tutta molle

di molesto sudor, tergea del negro

sangue la tabe. Colla man posata

sul giogo de' corsier la Dea sì disse:

Tidèo per certo generossi un figlio

che poco lo somiglia. Era Tidèo

picciol di corpo, ma guerriero; e quando

io gli vietava di pugnar, fremea.

E quando senza compagnìa venuto

ambasciatore a Tebe io co' Tebani

ne' regii alberghi a banchettar l'astrinsi,

non depose egli, no, la bellicosa

alma di prima, ma sfidando il fiore

de' giovani Cadmei, tutti li vinse

agevolmente col mio nume al fianco.

E al tuo fianco del pari io qui ne vegno,

e ti guardo e t'esorto e ti comando

di pugnar co' Troiani arditamente.

Ma te per certo o la fatica oppresse,

o qualche tema agghiaccia, e tu non sei

più, no, la prole del pugnace Enìde.

Ti riconosco, o Dea (tosto rispose

il valoroso eroe), ti riconosco,

figlia di Giove, e di buon grado e netta

mia ragione dirò. Né vil timore

né ignavia mi rattien, ma il tuo comando.

Non se' tu quella che pugnar poc'anzi

mi vietasti co' numi? E se la figlia

di Giove Citerea nel campo entrava,

non mi dicesti di ferirla? Il feci.

Ed or recedo, e agli altri Achivi imposi

d'accogliersi qui tutti, ora che Marte,

ben lo conosco, de' Troiani è il duce.

E a lui la Diva dalle luci azzurre:

Diletto Dïomede, alcuna tema

di questo Marte non aver, né d'altro

qualunque iddio, se tua difesa io sono.

Sorgi, e drizza in costui gl'impetuosi

tuoi corridori, e stringilo e il percuoti,

né riguardo t'arresti né rispetto

di questo insano ad ogni mal parato

e ad ogni parteggiar, che a me pur dianzi

e a Giuno promettea che contra i Teucri

a pro de' Greci avrìa pugnato; ed ora

immemore de' Greci i Teucri aiuta.

Sì dicendo afferrò colla possente

destra il figliuol di Capanèo, dal carro

traendolo; né quegli a dar fu tardo

un salto a terra; ed ella stessa ascese

sovra il cocchio da canto a Dïomede

infiammata di sdegno. Orrendamente

l'asse al gran pondo cigolò, ché carco

d'una gran Diva egli era e d'un gran prode.

Al sonoro flagello ed alle briglie

diè di piglio Minerva, e senza indugio

contra Marte sospinse i generosi

cornipedi. Lo giunse appunto in quella

che atterrato l'enorme Perifante

(un fortissimo Etòlo, egregio figlio

d'Ochesio), il Dio crudel lordo di sangue

lo trucidava. In arrivar si pose

Minerva di Pluton l'elmo alla fronte,

onde celarsi di quel fero al guardo.

Come il nume omicida ebbe veduto

l'illustre Dïomede, al suol disteso

lasciò l'immenso Perifante, e dritto

ad investir si spinse il cavaliero.

E tosto giunti l'un dell'altro a fronte,

Marte il primo scagliò l'asta di sopra

al giogo de' corsier lungo le briglie,

di rapirgli la vita desïoso:

ma prese colla man l'asta volante

la Dea Minerva e la stornò dal carro,

e vano il colpo riuscì. Secondo

spinse l'asta il Tidìde a tutta forza.

La diresse Minerva, e al Dio l'infisse

sotto il cinto nell'epa, e vulnerollo,

e lacerata la divina cute

l'asta ritrasse. Mugolò il ferito

nume, e ruppe in un tuon pari di nove

o dieci mila combattenti al grido

quando appiccan la zuffa. I Troi l'udiro,

l'udīr gli Achivi, e ne tremār: sì forte

fu di Marte il muggito. E quale pel grave

vento che spira dalla calda terra

si fa di nubi tenebroso il cielo;

tal parve il ferreo Marte a Dïomede,

mentre avvolto di nugoli alle sfere

dolorando salìa. Giunto alla sede

degli Dei su l'Olimpo, accanto a Giove

mesto s'assise, discoperse il sangue

immortal che scorrea dalla ferita,

e in suono di lamento: O padre, ei disse,

e non t'adiri a cotal vista, a fatti

sì nequitosi? Esizïosa sempre

a noi Divi tornò la mutua gara

di gratuir l'umana stirpe; e intanto

di nostre liti la cagion tu sei,

tu che una figlia generasti insana,

e di sterminii e di malvage imprese

invaghita mai sempre. Obbedïenti

hai quanti alberga Sempiterni il cielo;

tutti inchiniamo a te. Sola costei

né con fatti frenar né con parole

tu sai per anco, connivente padre

di pestifera furia. Ella pur dianzi

stimolò di Tidèo l'audace figlio

a pazzamente guerreggiar co' numi;

ella a ferir Ciprigna; ella a scagliarsi

contra me stesso, e pareggiarsi a un Dio.

E se più tardo il piè fuggìa, sarei

steso rimasto fra quei tanti uccisi

in lunghe pene, né morir potendo

m'avrìa de' colpi infranto la tempesta.

Bieco il guatò l'adunator de' nembi

Giove, e rispose: Querimonie e lai

non mi far qui seduto al fianco mio,

fazïoso incostante, e a me fra tutti

i Celesti odïoso. E risse e zuffe

e discordie e battaglie, ecco le care

tue delizie. Trasfuso in te conosco

di tua madre Giunon l'intollerando

inflessibile spirto, a cui mal posso

pur colle dolci riparar; né certo

d'altronde io penso che il tuo danno or scenda,

che dal suo torto consigliar. Non io

vo' per questo patir che tu sostegna

più lungo duolo: mi sei figlio, e caro

la Dea tua madre a me ti partorìa.

Se malvagio, qual sei, d'altro qualunque

nume nascevi, da gran tempo avresti

sorte incorsa peggior degli Uranìdi.

Così detto, a Peon comando ei fece

di risanarlo. La ferita ei sparse

di lenitivo medicame, e tolto

ogni dolore, il tornò sano al tutto,

ché mortale ei non era. E come il latte

per lo gaglio sbattuto si rappiglia,

e perde il suo fluir sotto la mano

del presto mescitor; presta del pari

la peonia virtù Marte guarìa.

Ebe poscia lavollo, e di leggiadre

vesti l'avvolse; ed egli accanto a Giove

dell'alto onor superbo si ripose.

Repressa del crudel Marte la strage,

tornār contente alla magion del padre

Giuno Argiva e Minerva Alalcomènia.

 

 

LIBRO SESTO

 

 

Soli senz'alcun Dio Teucri ed Achei

così restaro a battagliar. Più volte

tra il Simoenta e il Xanto impetuosi

si assaliro; più volte or da quel lato

ed or da questo con incerte penne

la Vittoria volò. Ruppe di Troi

primo una squadra il Telamonio Aiace,

presidio degli Achivi, e il primo raggio

portò di speme a' suoi, ferendo un Trace

fortissimo guerriero e di gran mole,

Acamante d'Eussòro. Il colse in fronte

nel cono dell'elmetto irto d'equine

chiome, e nell'osso gli piantò la punta

sì che i lumi gli chiuse il buio eterno.

Tolse la vita al Teutranìde Assilo

il marzio Dïomede. Era d'Arisbe

bella contrada Assilo abitatore,

uom di molta ricchezza, a tutti amico,

ché tutti in sua magion, posta lunghesso

la via frequente, ricevea cortese.

Ma degli ospiti ahi! niuno accorse allora,

niun da morte il campò. Solo il suo fido

servo Calesio, che reggeagli il cocchio,

morto ei pur dal Tidìde, al fianco cadde

del suo signore, e con lui scese a Pluto.

Eurìalo abbatte Ofelzio e Dreso; e poscia

Esepo assalta e Pedaso gemelli,

che al buon Bucolïone un dì produsse

la Naiade gentile Abarbarèa.

Bucolïon del re Laomedonte

primogenito figlio, ma di nozze

furtive acquisto, conducea la greggia

quando alla ninfa in amoroso amplesso

mischiossi, e di costor madre la feo.

Ma quivi tolse ad ambedue la vita

e la bella persona e l'armi il figlio

di Mecistèo. Fur morti a un tempo istesso

Astïalo dal forte Polipete;

il percosso Pidìte dall'acuta

asta d'Ulisse; Aretaon da Teucro.

D'Antiloco la lancia Ablero atterra,

Èlato quella del maggiore Atride,

Èlato che sua stanza avea nell'alta

Pedaso in riva dell'ameno fiume

Satnioente. Euripilo prostese

Melanzio; e l'asta dell'eroe Leìto

il fuggitivo Fìlaco trafisse.

Ma l'Atride minor, strenuo guerriero,

vivo Adrasto pigliò. Repente ombrando

li costui corridori, e via pel campo

paventosi fuggendo in un tenace

cespo implicārsi di mirica, e quivi

al piede del timon spezzato il carro

volār con altri spaventati in fuga

verso le mura. Prono nella polve

sdrucciolò dalla biga appo la ruota

quell'infelice. Colla lunga lancia

Menelao gli fu sopra; e Adrasto a lui

abbracciando i ginocchi e supplicando:

Pigliami vivo, Atride; e largo prezzo

del mio riscatto avrai. Figlio son io

di ricco padre, e gran conserva ei tiene

d'auro, di rame e di foggiato ferro.

Di questi largiratti il padre mio

molti doni, se vivo egli mi sappia

nelle argoliche navi. - A questo prego

già dell'Atride il cor si raddolcìa,

già fidavalo al servo, onde alle navi

l'adducesse; quand'ecco Agamennòne

che a lui ne corre minaccioso e grida:

Debole Menelao! e qual ti prende

de' Troiani pietà? Certo per loro

la tua casa è felice! Or su; nessuno

de' perfidi risparmi il nostro ferro,

né pur l'infante nel materno seno:

perano tutti in un con Ilio, tutti

senza onor di sepolcro e senza nome.

Cangiò di Menelao la mente il fiero

ma non torto parlar, sì ch'ei respinse

da sé con mano il supplicante, e lui

ferì tosto nel fianco Agamennòne,

e supino lo stese. Indi col piede

calcato il petto ne ritrasse il telo.

Nestore intanto in altra parte accende

l'acheo valor, gridando: Amici eroi,

Dànai di Marte alunni, alcun non sia

ch'ora badi alle spoglie, e per tornarne

carco alle navi si rimanga indietro.

Non badiam che ad uccidere, e gli uccisi

poi nel campo a bell'agio ispoglieremo.

Fatti animosi a questo dir gli Achei

piombār su i Teucri, che scorati e domi

di nuovo in Ilio si sarìan racchiusi,

se il prestante indovino Eleno, figlio

del re troiano, non volgea per tempo

ad Ettore e ad Enea queste parole:

Poiché tutta si folce in voi la speme

de' Troiani e de' Licii, e che voi siete

i miglior nella pugna e nel consiglio,

voi, Ettore ed Enea, qui state, e i nostri

alle porte fuggenti rattenete,

pria che, con riso del nemico, in braccio

si salvin delle mogli. E come tutte

ben rincorate le falangi avrete,

noi di piè fermo, benché lassi e in dura

necessitade, qui farem coll'armi

buon ripicco agli Achei. Ciò fatto, a Troia

tu, Ettore, ten vola, ed alla madre

di' che salga la rocca, e del delubro

a Minerva sacrato apra le porte,

e vi raccolga le matrone, e il peplo

il più grande, il più bello, e a lei più caro

di quanti in serbo ne' regali alberghi

ella ne tien, deponga umilemente

su le ginocchia della Diva, e dodici

giovenche le prometta ancor non dome,

se la nostra città commiserando

e le consorti e i figli, ella dal sacro

Ilio allontana il fiero Dïomede

combattente crudele, e vïolento

artefice di fuga, e per mio senno

il più gagliardo degli Achei. Né certo

noi tremammo giammai tanto il Pelìde,

benché figlio a una Dea, quanto costui

che fuor di modo inferocisce, e nullo

vien di forze con esso a paragone.

Disse: e al cenno fraterno obbedïente

Ettore armato si lanciò dal carro

con due dardi alla mano; e via scorrendo

per lo campo e animando ogni guerriero,

rinfrescò la battaglia: e tosto i Teucri

voltār la faccia, e coraggiosi incontro

fersi al nemico. S'arretrār gli Achivi,

e la strage cessò; ch'essi mirando

sì audaci i Teucri convertir le fronti,

stimār disceso in lor soccorso un Dio.

E tuttavia le sue genti Ettorre

confortando, gridava ad alta voce:

Magnanimi Troiani, e voi di Troia

generosi alleati, ah siate, amici,

siatemi prodi, e fuor mettete intera

la vostra gagliardìa, mentr'io per poco

men volo in Ilio ad intimar de' padri

e delle mogli i preghi e le votive

ecatombi agli Dei. - Parte, ciò detto.

Ondeggiano all'eroe, mentre cammina,

l'alte creste dell'elmo; e il negro cuoio,

che gli orli attorna dell'immenso scudo,

la cervice gli batte ed il tallone.

Di duellar bramosi allor nel mezzo

dell'un campo e dell'altro appresentārsi

Glauco, prole d'Ippoloco, e il Tidìde.

Come al tratto dell'armi ambo fur giunti,

primo il Tidìde favellò: Guerriero,

chi se' tu? Non ti vidi unqua ne' campi

della gloria finor. Ma tu d'ardire

ogni altro avanzi se aspettar non temi

la mia lancia. È figliuol d'un infelice

chi fassi incontro al mio valor. Se poi

tu se' qualche Immortal, non io per certo

co' numi pugnerò; ché lunghi giorni

né pur non visse di Drïante il forte

figlio Licurgo che agli Dei fe' guerra.

Su pel sacro Nisseio egli di Bacco

le nudrici inseguìa. Dal rio percosse

con pungolo crudel gittaro i tirsi

tutte insieme, e fuggīr: fuggì lo stesso

Bacco, e nel mar s'ascose, ove del fero

minacciar di Licurgo paventoso

Teti l'accolse. Ma sdegnārsi i numi

con quel superbo. Della luce il caro

raggio gli tolse di Saturno il figlio,

e detestato dagli Eterni tutti

breve vita egli visse. All'armi io dunque

non verrò con gli Dei. Ma se terreno

cibo ti nutre, accòstati; e più presto

qui della morte toccherai le mete.

E d'Ippoloco a lui l'inclito figlio:

Magnanimo Tidìde, a che dimandi

il mio lignaggio? Quale delle foglie,

tale è la stirpe degli umani. Il vento

brumal le sparge a terra, e le ricrea

la germogliante selva a primavera.

Così l'uom nasce, così muor. Ma s'oltre

brami saper di mia prosapia, a molti

ben manifesta, ti farò contento.

Siede nel fondo del paese argivo

Efira, una città, natìa contrada

di Sisifo che ognun vincea nel senno.

Dall'Eolide Sisifo fu nato

Glauco; da Glauco il buon Bellerofonte,

cui largiro gli Dei somma beltade,

e quel dolce valor che i cuori acquista.

Ma Preto macchinò la sua ruina,

e potente signor d'Argo che Giove

sottomessa gli avea, d'Argo l'espulse

per cagione d'Antèa sposa al tiranno.

Furïosa costei ne desïava

segretamente l'amoroso amplesso;

ma non valse a crollar del saggio e casto

Bellerofonte la virtù. Sdegnosa

del magnanimo niego l'impudica

volse l'ingegno alla calunnia, e disse

al marito così: Bellerofonte

meco in amor tentò meschiarsi a forza:

muori dunque, o l'uccidi. Arse di sdegno

Preto a questo parlar, ma non l'uccise,

di sacro orror compreso. In quella vece

spedillo in Licia apportator di chiuse

funeste cifre al re suocero, ond'egli

perir lo fêsse. Dagli Dei scortato

partì Bellerofonte, al Xanto giunse,

al re de' Licii appresentossi, e lieta

n'ebbe accoglienza ed ospital banchetto.

Nove giorni fumò su l'are amiche

di nove tauri il sangue. E quando apparve

della decima aurora il roseo lume

interrogollo il sire, e a lui la tèssera

del genero chiedea. Viste le crude

note di Preto, comandògli in prima

di dar morte all'indomita Chimera.

Era il mostro d'origine divina

lïon la testa, il petto capra, e drago

la coda; e dalla bocca orrende vampe

vomitava di foco. E nondimeno

col favor degli Dei l'eroe la spense.

Pugnò poscia co' Sòlimi, e fu questa,

per lo stesso suo dir, la più feroce

di sue pugne. Domò per terza impresa

le Amazzoni virili. Al suo ritorno

il re gli tese un altro inganno, e scelti

della Licia i più forti, in fosco agguato

li collocò; ma non redinne un solo:

tutti gli uccise l'innocente. Allora

chiaro veggendo che d'un qualche iddio

illustre seme egli era, a sé lo tenne,

e diegli a sposa la sua figlia, e mezza

la regal potestade. Ad esso inoltre

costituiro i Licii un separato

ed ameno tenér, di tutti il meglio,

d'alme viti fecondo e d'auree messi,

ond'egli a suo piacer lo si coltivi.

Partorì poi la moglie al virtuoso

Bellerofonte tre figliuoli, Isandro

e Ippoloco, ed alfin Laodamìa

che al gran Giove soggiacque, e padre il fece

del bellicoso Sarpedon. Ma quando

venne in odio agli Dei Bellerofonte,

solo e consunto da tristezza errava

pel campo Aleio l'infelice, e l'orme

de' viventi fuggìa. Da Marte ucciso

cadde Isandro co' Sòlimi pugnando;

Laodamìa perì sotto gli strali

dell'irata Diana; e a me la vita

Ippoloco donò, di cui m'è dolce

dirmi disceso. Il padre alle troiane

mura spedimmi, e generosi sproni

m'aggiunse di lanciarmi innanzi a tutti

nelle vie del valore, onde de' miei

padri la stirpe non macchiar, che fûro

d'Efira e delle licie ampie contrade

i più famosi. Ecco la schiatta e il sangue

di che nato mi vanto, o Dïomede.

Allegrossi di Glauco alle parole

il marzïal Tidìde, e l'asta in terra

conficcando, all'eroe dolce rispose:

Un antico paterno ospite mio,

Glauco, in te riconosco. Enèo, già tempo,

ne' suoi palagi accolse il valoroso

Bellerofonte, e lui ben venti interi

giorni ritenne, e di bei doni entrambi

si presentaro. Una purpurea cinta

Enèo donò, Bellerofonte un nappo

di doppio seno e d'ōr, che in serbo io posi

nel mio partir: ma di Tidèo non posso

farmi ricordo, ché bambino io m'era

quando ei lasciommi per seguire a Tebe

gli Achei che rotti vi periro. Io dunque

sarotti in Argo ed ospite ed amico,

tu in Licia a me, se nella Licia avvegna

ch'io mai porti i miei passi. Or nella pugna

evitiamci l'un l'altro. Assai mi resta

di Teucri e d'alleati, a cui dar morte,

quanti a' miei teli n'offriranno i numi,

od il mio piè ne giungerà. Tu pure

troverai fra gli Achivi in chi far prova

di tua prodezza. Di nostr'armi il cambio

mostri intanto a costor, che l'uno e l'altro

siam ospiti paterni. Così detto,

dal cocchio entrambi dismontār d'un salto,

strinser le destre, e si dier mutua fede.

Ma nel cambio dell'armi a Glauco tolse

Giove lo senno. Aveale Glauco d'oro,

Dïomede di bronzo: eran di quelle

cento tauri il valor, nove di queste.

Al faggio intanto delle porte Scee

Ettore giunge. Gli si fanno intorno

le troiane consorti e le fanciulle

per saper de' figliuoli e de' mariti

e de' fratelli e degli amici; ed egli,

Ite, risponde, a supplicar gli Dei

in devota ordinanza, itene tutte,

ch'oggi a molte sovrasta alta sciagura.

De' regali palagi indi s'avvìa

ai portici superbi. Avea cinquanta

talami la gran reggia edificati

l'un presso all'altro, e di polita pietra

splendidi tutti. Accanto alle consorti

dormono in questi i Priamìdi. A fronte

dodici altri ne serra il gran cortile

per le regie donzelle, al par de' primi

di bel marmo lucenti, e posti in fila.

Di Priamo in questi dormono gl'illustri

generi al fianco delle caste spose.

Qui giunto Ettore, ad incontrarlo corse

l'inclita madre che a trovar sen gìa

Laodice, la più delle sue figlie

avvenente e gentil. Chiamollo a nome,

e strettolo per mano: O figlio, disse,

perché, lasciato il guerreggiar, qua vieni?

Ohimè! per certo i detestati Achei

son già sotto alle mura, e te qui spinge

religioso zelo ad innalzare

là su la rocca le pie mani a Giove.

Ma deh! rimanti alquanto, ond'io d'un dolce

vino la spuma da libar ti rechi

primamente al gran Giove e agli altri Eterni,

indi a rifar le tue, se ne berai,

esauste forze. Di guerrier già stanco

rinfranca Bacco il core, e te pugnante

per la tua patria la fatica oppresse.

No, non recarmi, veneranda madre,

dolce vino verun, rispose Ettorre,

ch'egli scemar potrìa mie forze, e in petto

addormentarmi la natìa virtude.

Aggiungi che libar non oso a Giove

pria che di divo fiume onda mi lavi;

né certo lice colle man di polve

lorde e di sangue offerir voti al sommo

de' nembi adunator. Ma tu di Palla

predatrice t'invìa deh! tosto al tempio,

e rècavi i profumi accompagnata

dalle auguste matrone, e qual nell'arca

peplo ti serbi più leggiadro e caro,

prendilo, e umìle della Diva il poni

su le sacre ginocchia, e sei le vóta

giovenche e sei di collo ancor non tocco

se la cittade e le consorti e i figli

commiserando, dall'iliache mura

allontana il feroce Dïomede,

artefice di fuga e di spavento.

Corri dunque a placarla. Io ratto intanto

a Paride ne vado, onde svegliarlo

dal suo letargo, se darammi orecchio.

Oh gli s'aprisse il suolo, ed ingoiasse

questa del mio buon padre e di noi tutti

invïata da Giove alta sciagura.

Né penso che dal cor mi fia mai tolta

di sì spiacenti guai la rimembranza,

se pria non veggo costui spinto a Pluto.

Disse; e ne' regii alberghi Ecuba entrata

chiama le ancelle, e a ragunar le manda

per la cittade le matrone. Ed ella

nell'odorato talamo discende,

ove di pepli istorïati un serbo

tenea, lavor delle fenicie donne

che Paride, solcando il vasto mare,

da Sidon conducea quando la figlia

di Tindaro rapìo. Di questi Ecùba

un ne toglie il più grande, il più riposto,

fulgido come stella, ed a Minerva

offerta lo destina. Indi s'avvìa

dalle gravi matrone accompagnata.

Al tempio giunte di Minerva in vetta

all'ardua rocca, aperse loro i sacri

claustri la figlia di Cissèo, la bella

d'alme guance Teano, che lodata

d'Antènore consorte i giusti Teucri

di Minerva nomār sacerdotessa.

Tutte allora levār con alti pianti

a Pallade le palme, e preso il peplo,

su le ginocchia della Diva il pose

la modesta Teano: indi di Giove

alla gran figlia orò con questi accenti:

Veneranda Minerva, inclita Dea,

delle città custode, ah tu del fiero

Tidìde l'asta infrangi, e di tua mano

stendilo anciso su le porte Scee,

che noi tosto su l'are a te faremo

di dodici giovenche ancor non dome

scorrere il sangue, se di queste mura

e delle teucre spose, e de' lor cari

figli innocenti sentirai pietade.

Così pregār: ma non udìa la Diva

delle misere i voti. Ettore intanto

di Paride cammina alle leggiadre

case, di che egli stesso il prence avea

divisato il disegno, al magistero

de' più sperti di Troia architettori

fidandone l'effetto. E questi a lui

e stanza ed atrio e corte edificaro

sul sommo della rocca, appo i regali

di Priamo stesso e del maggior fratello

risplendenti soggiorni. Entrovvi Ettorre,

nelle mani la lunga asta tenendo

di ben undici cubiti. La punta

di terso ferro colla ghiera d'oro

al mutar de' gran passi scintillava.

Nel talamo il trovò che le sue belle

armi assettava, i curvi archi e lo scudo

e l'usbergo. L'argiva Elena, in mezzo

all'ancelle seduta, i bei lavori

ne dirigea. Com'ebbe in lui gli sguardi

fisso il grande guerrier, con detti acerbi

così l'invase: Sciagurato! il core

ira ti rode, il so; ma non è bello

il coltivarla. Intorno all'alte mura

cadono combattendo i cittadini,

e tanta strage e tanto affar di guerra

per te solo s'accende; e tu sei tale

che altrui vedendo abbandonar la pugna

rampognarlo oseresti. Or su, ti scuoti,

esci di qua pria che da' Greci accesa

venga a snidarti d'Ilïon la fiamma.

Bello, siccome un Dio, Paride allora

così rispose: Tu mi fai, fratello,

giusti rimprocci, e giusto al par mi sembra

ch'io ti risponda, e tu mi porga ascolto.

Né sdegno né rancor contra i Troiani

nel talamo regal mi rattenea,

ma desir solo di distrarre un mio

dolor segreto. E in questo punto istesso

con tenere parole anco la moglie

m'esortava a tornar nella battaglia,

e il cor mio stesso mi dicea che questo

era lo meglio; perocché nel campo

le palme alterna la vittoria. Or dunque

attendi che dell'armi io mi rivesta,

o mi precorri, ch'io ti seguo, e tosto

raggiungerti mi spero. - Così disse

Paride: e nulla gli rispose Ettorre;

a cui molli volgendo le parole

Elena soggiugnea: Dolce cognato,

cognato a me proterva, a me primiero

de' vostri mali detestando fonte,

oh m'avesse il dì stesso in che la madre

mi partoriva, un turbine divelta

dalle sue braccia, ed alle rupi infranta,

o del mar nell'irate onde sommersa

pria del bieco mio fallo! E poiché tale

e tanto danno statuīr gli Dei,

stata almeno foss'io consorte ad uomo

più valoroso, e che nel cor più addentro

i dispregi sentisse e le rampogne.

Ma di presente a costui manca il fermo

carattere dell'alma, e non ho speme

ch'ei lo s'acquisti in avvenir. M'avviso

quindi che presto pagheranne il fio.

Ma tu vien oltre, amato Ettorre, e siedi

su questo seggio, e il cor stanco ricrea

dal rio travaglio che per me sostieni,

per me d'obbrobrio carca, e per la colpa

del tuo fratello. Ahi lassa! un duro fato

Giove n'impose e tal ch'anco ai futuri

darem materia di canzon famosa.

Cortese donna, le rispose Ettorre,

non rattenermi. Il core, impazïente

di dar soccorso a' miei che me lontano

richiamano, fa vano il dolce invito.

Ma tu di cotestui sprona il coraggio,

onde s'affretti ei pure, e mi raggiunga

anzi ch'io m'esca di città. Veloce

corro intanto a' miei lari a veder l'uopo

di mia famiglia, e la diletta moglie

e il pargoletto mio, non mi sapendo

se alle lor braccia tornerò più mai,

o s'oggi è il dì che decretār gli Eterni

sotto le destre achee la mia caduta.

Parte, ciò detto, e giunge in un baleno

alla eccelsa magion; ma non vi trova

la sua dal bianco seno alma consorte;

ch'ella col caro figlio e coll'ancella

in elegante peplo tutta chiusa

su l'alto della torre era salita:

e là si stava in pianti ed in sospiri.

Come deserta Ettòr vide la stanza,

arrestossi alla soglia, ed all'ancelle

vòlto il parlar: Porgete il vero, ei disse;

Andromaca dov'è? Forse alle case

di qualcheduna delle sue congiunte,

o di Palla recossi ai santi altari

a placar colle troïche matrone

la terribile Dea? - No, gli rispose

la guardïana, e poiché brami il vero,

il vero parlerò. Né alle cognate

ella n'andò, né di Minerva all'are,

ma d'Ilio alla gran torre. Udito avendo

dell'inimico un furïoso assalto

e de' Teucri la rotta, la meschina

corre verso le mura a simiglianza

di forsennata, e la fedel nutrice

col pargoletto in braccio l'acccompagna.

Finito non avea queste parole

la guardïana, che veloce Ettorre

dalle soglie si spicca, e ripetendo

il già corso sentier, fende diritto

del grand'Ilio le piazze: ed alle Scee,

onde al campo è l'uscita, ecco d'incontro

Andromaca venirgli, illustre germe

d'Eezïone, abitator dell'alta

Ipoplaco selvosa, e de' Cilìci

dominator nell'ipoplacia Tebe.

Ei ricca di gran dote al grande Ettorre

diede a sposa costei ch'ivi allor corse

ad incontrarlo; e seco iva l'ancella

tra le braccia portando il pargoletto

unico figlio dell'eroe troiano,

bambin leggiadro come stella. Il padre

Scamandrio lo nomava, il vulgo tutto

Astïanatte, perché il padre ei solo

era dell'alta Troia il difensore.

Sorrise Ettorre nel vederlo, e tacque.

Ma di gran pianto Andromaca bagnata

accostossi al marito, e per la mano

strignendolo, e per nome in dolce suono

chiamandolo, proruppe: Oh troppo ardito!

il tuo valor ti perderà: nessuna

pietà del figlio né di me tu senti,

crudel, di me che vedova infelice

rimarrommi tra poco, perché tutti

di conserto gli Achei contro te solo

si scaglieranno a trucidarti intesi;

e a me fia meglio allor, se mi sei tolto,

l'andar sotterra. Di te priva, ahi lassa!

ch'altro mi resta che perpetuo pianto?

Orba del padre io sono e della madre.

M'uccise il padre lo spietato Achille

il dì che de' Cilìci egli l'eccelsa

popolosa città Tebe distrusse:

m'uccise, io dico, Eezïon quel crudo;

ma dispogliarlo non osò, compreso

da divino terror. Quindi con tutte

l'armi sul rogo il corpo ne compose,

e un tumulo gli alzò cui di frondosi

olmi le figlie dell'Egìoco Giove

l'Oreadi pietose incoronaro.

Di ben sette fratelli iva superba

la mia casa. Di questi in un sol giorno

lo stesso figlio della Dea sospinse

l'anime a Pluto, e li trafisse in mezzo

alle mugghianti mandre ed alle gregge.

Della boscosa Ipoplaco reina

mi rimanea la madre. Il vincitore

coll'altre prede qua l'addusse, e poscia

per largo prezzo in libertà la pose.

Ma questa pure, ahimè! nelle paterne

stanze lo stral d'Artèmide trafisse.

Or mi resti tu solo, Ettore caro,

tu padre mio, tu madre, tu fratello,

tu florido marito. Abbi deh! dunque

di me pietade, e qui rimanti meco

a questa torre, né voler che sia

vedova la consorte, orfano il figlio.

Al caprifico i tuoi guerrieri aduna,

ove il nemico alla città scoperse

più agevole salita e più spedito

lo scalar delle mura. O che agli Achei

abbia mostro quel varco un indovino,

o che spinti ve gli abbia il proprio ardire,

questo ti basti che i più forti quivi

già fêr tre volte di valor periglio,

ambo gli Aiaci, ambo gli Atridi, e il chiaro

sire di Creta ed il fatal Tidìde.

Dolce consorte, le rispose Ettorre,

ciò tutto che dicesti a me pur anco

ange il pensier; ma de' Troiani io temo

fortemente lo spregio, e dell'altere

Troiane donne, se guerrier codardo

mi tenessi in disparte, e della pugna

evitassi i cimenti. Ah nol consente,

no, questo cor. Da lungo tempo appresi

ad esser forte, ed a volar tra' primi

negli acerbi conflitti alla tutela

della paterna gloria e della mia.

Giorno verrà, presago il cor mel dice,

verrà giorno che il sacro iliaco muro

e Priamo e tutta la sua gente cada.

Ma né de' Teucri il rio dolor, né quello

d'Ecuba stessa, né del padre antico,

né de' fratei, che molti e valorosi

sotto il ferro nemico nella polve

cadran distesi, non mi accora, o donna,

sì di questi il dolor, quanto il crudele

tuo destino, se fia che qualche Acheo,

del sangue ancor de' tuoi lordo l'usbergo,

lagrimosa ti tragga in servitude.

Misera! in Argo all'insolente cenno

d'una straniera tesserai le tele.

Dal fonte di Messìde o d'Iperèa,

(ben repugnante, ma dal fato astretta)

alla superba recherai le linfe;

e vedendo talun piovere il pianto

dal tuo ciglio, dirà: Quella è d'Ettorre

l'alta consorte, di quel prode Ettorre

che fra' troiani eroi di generosi

cavalli agitatori era il primiero,

quando intorno a Ilïon si combattea.

Così dirassi da qualcuno; e allora

tu di nuovo dolor l'alma trafitta

più viva in petto sentirai la brama

di tal marito a scior le tue catene.

Ma pria morto la terra mi ricopra,

ch'io di te schiava i lai pietosi intenda.

Così detto, distese al caro figlio

l'aperte braccia. Acuto mise un grido

il bambinello, e declinato il volto,

tutto il nascose alla nudrice in seno,

dalle fiere atterrito armi paterne,

e dal cimiero che di chiome equine

alto su l'elmo orribilmente ondeggia.

Sorrise il genitor, sorrise anch'ella

la veneranda madre; e dalla fronte

l'intenerito eroe tosto si tolse

l'elmo, e raggiante sul terren lo pose.

Indi baciato con immenso affetto,

e dolcemente tra le mani alquanto

palleggiato l'infante, alzollo al cielo,

e supplice sclamò: Giove pietoso

e voi tutti, o Celesti, ah concedete

che di me degno un dì questo mio figlio

sia splendor della patria, e de' Troiani

forte e possente regnator. Deh fate

che il veggendo tornar dalla battaglia

dell'armi onusto de' nemici uccisi,

dica talun: Non fu sì forte il padre:

E il cor materno nell'udirlo esulti.

Così dicendo, in braccio alla diletta

sposa egli cesse il pargoletto; ed ella

con un misto di pianti almo sorriso

lo si raccolse all'odoroso seno.

Di secreta pietà l'alma percosso

riguardolla il marito, e colla mano

accarezzando la dolente: Oh! disse,

diletta mia, ti prego; oltre misura

non attristarti a mia cagion. Nessuno,

se il mio punto fatal non giunse ancora,

spingerammi a Pluton: ma nullo al mondo,

sia vil, sia forte, si sottragge al fato.

Or ti rincasa, e a' tuoi lavori intendi,

alla spola, al pennecchio, e delle ancelle

veglia su l'opre; e a noi, quanti nascemmo

fra le dardanie mura, a me primiero

lascia i doveri dell'acerba guerra.

Raccolse al terminar di questi accenti

l'elmo dal suolo il generoso Ettorre,

e muta alla magion la via riprese

l'amata donna, riguardando indietro,

e amaramente lagrimando. Giunta

agli ettorei palagi, ivi raccolte

trovò le ancelle, e le commosse al pianto.

Ploravan tutte l'ancor vivo Ettorre

nella casa d'Ettòr le dolorose,

rivederlo più mai non si sperando

reduce dalla pugna, e dalle fiere

mani scampato de' robusti Achei.

Non producea gl'indugi in questo mezzo

dentro l'alte sue soglie il Prïamìde

Paride: e già di tutte rivestito

le sue bell'armi, d'Ilio folgorando

traversava le vie con presto piede.

Come destriero che di largo cibo

ne' presepi pasciuto, ed a lavarsi

del fiume avvezzo alla bell'onda, alfine

rotti i legami per l'aperto corre

stampando con sonante ugna il terreno:

scherzan sul dosso i crini, alta s'estolle

la superba cervice, ed esultando

di sua bellezza, ai noti paschi ei vola

ove amor d'erbe o di puledre il tira;

tale di Priamo il figlio dalla rocca

di Pergamo scendea tutto nell'armi

esultante e corrusco come sole.

Sì ratti i piedi lo portār, ch'ei tosto

il germano raggiunse appunto in quella

che dal tristo parlar si dipartìa

della consorte. Favellò primiero

Paride, e disse: Alla tua giusta fretta

fui di lungo aspettar forse cagione,

venerando fratello, e non ti giunsi

sollecito, tem'io, come imponesti.

Generoso timor! rispose Ettorre;

null'uom, che l'opre drittamente estimi,

darà biasmo alle tue nel glorioso

mestier dell'armi; ché tu pur se' prode.

Ma, colpa del voler, spesso s'allenta

la tua virtude, e inoperosa giace.

Quindi è l'alto mio duol quando de' Teucri

per te solo infelici odo in tuo danno

le contumelie. Ma partiam, ché poscia

comporremo tra noi questa contesa,

se grazia ne farà Giove benigno

di poter lieti nelle nostre case

ai Celesti immortali offrir la coppa

dell'alma libertà, vinti gli Achei.

 

 

LIBRO SETTIMO

 

 

Così dicendo, dalle porte eruppe

seguìto dal fratello il grande Ettorre.

Ardono entrambi di far pugna: e quale

i naviganti allegra amico vento

che un Dio lor manda allor che stanchi ei sono

d'agitar le spumanti onde co' remi,

e cascano le membra di fatica;

tali al desìo de' Teucri essi appariro.

A prima giunta Paride stramazza

Menestio d'Arna abitatore, e figlio

del portator di clava Arėitòo,

a cui lo partorìa Filomedusa

per grand'occhi lodata. Ettore attasta

Eïoneo di lancia alla cervice

sotto l'elmetto, e morto lo distende.

Glauco, duce de' Licii, a un tempo istesso

d'un colpo di zagaglia ad Ifinòo,

prole di Dèssio, l'omero trafigge

appunto in quella che salìa sul cocchio,

e dal cocchio al terren morto il trabocca.

Vista la strage degli Achei, Minerva

dall'Olimpo calossi impetuosa

verso il sacro Ilïon. La vide Apollo

dalla pergàmea rocca, e vincitori

bramando i Teucri, le si fece incontro

vicino al faggio, e favellò primiero:

Figlia di Giove, e quale il cor t'invade

furia novella? E qual sì grande affetto

dall'Olimpo ti spinge? a portar forse

della pugna agli Achei la dubbia palma,

poiché niuna ti tocca il cor pietade

dello strazio de' Teucri? Or su, m'ascolta,

e fia lo meglio. Si sospenda in questo

giorno la zuffa, e alla novella aurora

si ripigli e s'incalzi infin che Troia

cada: da che la sua caduta a voi

possenti Dive il cor cotanto invoglia.

Sia così, Palla gli rispose: io scesi

fra i Troiani e gli Achei con questa mente.

Ma come avvisi di quetar la pugna?

Suscitiam, replicava il saettante

figlio di Giove, suscitiam la forte

alma d'Ettorre a provocar qualcuno

de' prodi Achivi a singolar tenzone:

e indignati gli Achivi un valoroso

spingano anch'essi a cimentarsi in campo

da solo a solo col troian guerriero.

Disse, e Minerva acconsentìa. Conobbe

de' consultanti iddii tosto il disegno

il Prïamide Elèno in suo pensiero,

e ad Ettore venuto: Ettore, ei disse,

pari a quello d'un nume è il tuo consiglio;

ma udir vuoi tu del tuo fratello il senno?

Fa dall'armi cessar Teucri ed Achei,

e degli Achei tu sfida il più valente

a singolar certame. Io ti fo certo

che il tuo giorno fatal non giunse ancora;

così mi dice degli Dei la voce.

Esultò di letizia all'alto invito

il valoroso: e presa per lo mezzo

la sua gran lancia, e tra l'un campo e l'altro

procedendo, fe' alto alle troiane

falangi; ed elle soffermārsi tutte.

Soffermārsi del pari al riverito

cenno d'Atride i coturnati Achivi,

e in forma d'avoltoi Minerva e Febo

sull'alto faggio s'arrestār di Giove,

con diletto mirando de' guerrieri

quinci e quindi seder dense le file

d'elmi orrende e di scudi e d'aste erette.

Quale è l'orror che di Favonio il soffio

nel suo primo spirar spande sul mare,

che destato s'arruffa e l'onde imbruna:

tale de' Teucri e degli Achei nel vasto

campo sedute comparìan le file.

Trasse Ettorre nel mezzo, e così disse:

Udite, o Teucri, udite attenti, o Achivi,

ciò che nel petto mi ragiona il core.

Ratificar non piacque all'alto Giove

i nostri giuramenti, e in suo segreto

agli uni e agli altri macchinar ne sembra

grandi infortunii, finché l'ora arrivi

ch'Ilio per voi s'atterri, o che voi stessi

atterrati restiate appo le navi.

Or quando il vostro campo il fior racchiude

degli achivi guerrieri, esca a duello

chi cuor si sente: lo disfida Ettorre.

Eccovi i patti del certame, e Giove

testimonio ne sia. Se il mio nemico

m'ucciderà, dell'armi ei mi dispogli,

e le si porti; ma il mio corpo renda,

onde i Troiani e le troiane spose

m'onorino del rogo. Ov'io lui spegna,

ed Apollo la palma a me conceda,

porteronne le tolte armi nel sacro

Ilio, e del nume appenderolle al tempio:

ma l'intatto cadavere alle navi

vi sarà rimandato, onde d'esequie

l'orni l'achea pietade e di sepolcro

su l'Ellesponto. Lo vedrà de' posteri

naviganti qualcuno, e fia che dica:

Ecco la tomba d'un antico prode

che combattendo coll'illustre Ettorre

glorïoso perì. Questo fia detto,

ed eterno vivrassi il nome mio.

All'audace disfida ammutoliro

gli Achei, tementi d'accettarla, e insieme

di recusarla vergognosi. Alfine

in piè rizzossi Menelao, nell'imo

del cor gemendo, ed in acerbi detti

prorompendo gridò: Vili superbi,

Achive, non Achei! Fia questo il colmo

dell'ignominia, se tra voi non trova

quell'audace Troian chi gli risponda.

Oh possiate voi tutti in nebbia e polve

resoluti sparir, voi che vi state

qui senza core immoti e senza onore.

Ma io medesmo, io sì, contra costui

scenderò nell'arena. In man de' numi

della vittoria i termini son posti.

Ciò detto, l'armi indossa. E certo allora

per le mani d'Ettorre, o Menelao,

trovato avresti di tua vita il fine,

(ch'egli di forza ti vincea d'assai)

se subito in piè surti i prenci achivi

non rattenean tua foga. Egli medesmo

il regnatore Atride Agamennóne

l'afferrò per la mano, e, Tu deliri,

disse, e il delirio non ti giova. Or via,

fa senno, e premi il tuo dolor, né spinto

da bellicosa gara avventurarti

con un più prode di cui tutti han tema,

col Prïamide Ettorre. Anco il Pelìde,

sì più forte di te, lo scontro teme

di quella lancia nel conflitto. Or dunque

ritorna alla tua schiera, e statti in posa.

Gli desteranno incontra altro più fermo

duellator gli Achivi, e tal ch'Ettorre,

intrepido quantunque ed indefesso,

metterà volentier, se dritto io veggo,

le ginocchia in riposo, ove pur sia

che netto egli esca dalla gran tenzone.

Svolge il saggio parlar del sommo Atride

del fratello il pensier, che obbedïente

quetossi, e lieti gli levār di dosso

le bell'arme i sergenti. Allor nel mezzo

surse Nestore, e disse: Eterni Dei!

Oh di che lutto ricoprirsi io veggio

la casa degli eroi, l'achea contrada!

Oh quanto in cor ne gemerà l'antico

di cocchi agitator Pelèo, di lingua

fra' Mirmidon sì chiaro e di consiglio;

egli che in sua magion solea di tutti

gli Achei le schiatte dimandarmi e i figli,

e giubilava nell'udirli! Ed ora

se per Ettorre ei tutti li sapesse

di terror costernati, oh come al cielo

alzerebbe le mani, e pregherebbe

di scendere dolente anima a Pluto!

O Giove padre, o Pallade, o divino

di Latona figliuol! ché non son io

nel fior degli anni, come quando in riva

pugnār del ratto Celadonte i Pilii

con la sperta di lancia arcade gente

sotto il muro di Fea verso le chiare

del Jàrdano correnti? Alla lor testa

Ereutalion venìa, che pari a nume

l'armatura regal d'Arėitòo

indosso avea, del divo Arėitòo

che gli uomini tutti e le ben cinte donne

clavigero nomār; perché non d'arco

né di lunga asta armato ei combattea,

ma con clava di ferro poderosa

rompea le schiere. A lui diè morte poscia,

pel valore non già, ma per inganno

Licurgo al varco d'un angusto calle,

ove il rotar della ferrata clava

al suo scampo non valse; ché Licurgo

prevenendone il colpo traforògli

l'epa coll'asta, e stramazzollo; e l'armi

così gli tolse che da Marte egli ebbe,

armi che poscia l'uccisor portava

ne' fervidi conflitti; insin che, fatto

per vecchiezza impotente, al suo diletto

prode scudiero Ereutalion le cesse.

Di queste dunque altero iva costui

disfidando i più forti, ed atterriti

n'eran sì tutti, che nessun si mosse.

Ma io mi mossi audace core, e d'anni

minor di tutti m'azzuffai con esso,

e col favor di Pallade lo spensi:

forte eccelso campion che in molta arena

giaceami steso al piede. Oh mi fiorisse

or quell'etade e la mia forza intégra!

Per certo Ettorre troverìa qui tosto

chi gli risponda. E voi del campo acheo

i più forti, i più degni, ad incontrarlo

voi non andrete con allegro petto?

Tacque: e rizzārsi subitani in piedi

nove guerrieri. Si rizzò primiero

il re de' prodi Agamennón; rizzossi

dopo lui Dïomede, indi ambedue

gl'impetuosi Aiaci; indi, col fido

Merïon bellicoso, Idomenèo;

e poscia d'Evemon l'inclito figlio

Eurìpilo, e Toante Andremonìde,

e il saggio Ulisse finalmente. Ognuno

chiese il certame coll'eroe troiano.

Disse allora il buon veglio: Arbitra sia

della scelta la sorta, e sia l'eletto,

salvo tornando dall'ardente agone,

degli Achei la salute e di sé stesso.

Segna a quel detto ognun sua sorte: e dentro

l'elmo la gitta del maggior Atride.

La turba intanto supplicante ai numi

sollevava le palme; e con gli sguardi

fissi nel cielo udìasi dire: O Giove,

fa che la sorte il Telamònio Aiace

nomi, o il Tidìde, o di Micene il sire.

Così pregava; e il cavalier Nestorre

agitava le sorti: ed ecco uscirne

quella che tutti desïār. La prese,

e a dritta e a manca ai prenci achivi in giro

la mostrava l'araldo, e nullo ancora

la conoscea per sua. Ma come, andando

dall'uno all'altro, il banditor pervenne

al Telamònio Aiace e gliela porse,

riconobbe l'eroe lieto il suo segno,

e gittatolo in mezzo, Amici, è mia,

gridò, la sorte, e ne gioisce il core,

che su l'illustre Ettòr spera la palma.

Voi, mentre l'arma io vesto, al sommo Giove

supplicate in silenzio, onde non sia

dai teucri orecchi il vostro prego udito;

o supplicate ad alta voce ancora,

se sì vi piace, ché nessuno io temo,

né guerriero v'avrà che mio malgrado

di me trionfi, né per fallo mio.

Sì rozzo in guerra non lasciommi, io spero,

la marzïal palestra in Salamina,

né il chiaro sangue di che nato io sono.

Disse; e gli Achivi alzār gli sguardi al cielo,

e a Giove supplicār con questi accenti:

Saturnio padre, che dall'Ida imperi

massimo, augusto! vincitor deh rendi

e glorioso Aiace; o se pur anco

t'è caro Ettorre e lo proteggi, almeno

forza ad entrambi e gloria ugual concedi.

Di splendid'armi frettoloso intanto

Aiace si vestiva: e poiché tutte

l'ebbe assunte dintorno alla persona,

concitato avvïossi, a camminava

quale incede il gran Marte allor che scende

tra fiere genti stimolate all'armi

dallo sdegno di Giove, e dall'insana

roditrice dell'alme émpia Contesa.

Tale si mosse degli Achei trinciera

lo smisurato Aiace, sorridendo

con terribile piglio, e misurava

a vasti passi il suol, l'asta crollando

che lunga sul terren l'ombra spandea.

Di letizia esultavano gli Achivi

a riguardarlo; ma per l'ossa ai Teucri

corse subito un gelo. Palpitonne

lo stesso Ettòr; ma né schivar per tema

il fier cimento, né tra' suoi ritrarsi

più non gli lice, ché fu sua la sfida.

E già gli è sopra Aiace coll'immenso

pavese che parea mobile torre;

opra di Tichio, d'Ila abitatore,

prestantissimo fabbro, che di sette

costruito l'avea ben salde e grosse

cuoia di tauro, e indóttavi di sopra

una falda d'acciar. Con questo al petto

enorme scudo il Telamònio eroe

féssi avanti al Troiano, e minaccioso

mosse queste parole: Ettore, or chiaro

saprai da solo a sol quai prodi ancora

rimangono agli Achei dopo il Pelìde

cuor di lïone e rompitor di schiere.

Irato coll'Atride egli alle navi

neghittoso si sta; ma noi siam tali,

che non temiamo lo tuo scontro, e molti.

Comincia or tu la pugna, e tira il primo.

Nobile prence Telamònio Aiace,

rispose Ettorre, a che mi tenti, e parli

come a imbelle fanciullo o femminetta

cui dell'armi il mestiero è pellegrino?

E anch'io trattar so il ferro e dar la morte,

e a dritta e a manca anch'io girar lo scudo,

e infaticato sostener l'attacco,

e a piè fermo danzar nel sanguinoso

ballo di Marte, o d'un salto sul cocchio

lanciarmi, e concitar nella battaglia

i veloci destrier. Né già vogl'io

un tuo pari ferire insidïoso,

ma discoperto, se arrivar ti posso.

Ciò detto, bilanciò colla man forte

la lunga lancia, e saettò d'Aiace

il settemplice scudo. Furïosa

la punta trapassò la ferrea falda

che di fuor lo copriva, e via scorrendo

squarciò sei giri del bovin tessuto,

e al settimo fermossi. Allor secondo

trasse Aiace, e colpì di Priamo il figlio

nella rotonda targa. Traforolla

il frassino veloce, e nell'usbergo

sì addentro si ficcò, che presso al lombo

lacerògli la tunica. Piegossi

Ettore a tempo, ed evitò la morte.

Ricovrò l'uno e l'altro il proprio telo,

e all'assalto tornār come per fame

fieri leoni, o per vigor tremendi

arruffati cinghiali alla montagna.

Di nuovo Ettorre coll'acuto cerro

colpì, lo scudo ostil, ma senza offesa,

ch'ivi la punta si curvò: di nuovo

trasse Aiace il suo telo, ed alla penna

dello scudo ferendo, a parte a parte

lo trapassò, gli punse il collo, e vivo

sangue spiccionne. Né per ciò l'attacco

lasciò l'audace Ettorre. Era nel campo

un negro ed aspro enorme sasso: a questo

diè di piglio il Troiano, e contra il Greco

lo fulminò. Percosse il duro scoglio

il colmo dello scudo, e orribilmente

ne rimbombò la ferrea piastra intorno.

Seguì l'esempio il gran Telamonìde,

ed afferrato e sollevato ei pure

un altro più d'assai rude macigno,

con forza immensa lo rotò, lo spinse

contra il nemico. Il molar sasso infranse

l'ettoreo scudo, e di tal colpo offese

lui nel ginocchio, che riverso ei cadde

con lo scudo sul petto: ma rizzollo

immantinente di Latona il figlio.

E qui tratte le spade i due campioni

più da vicino si ferìan, se ratti,

messaggieri di Giove e de' mortali,

non accorrean gli araldi, il teucro Idèo,

e l'achivo Taltìbio, ambo lodati

di prudente consiglio. Entrār costoro

con securtade in mezzo ai combattenti,

ed interposto fra le nude spade

il pacifico scettro, il saggio Idèo

così primiero favellò: Cessate,

diletti figli, la battaglia. Entrambi

siete cari al gran Giove, entrambi (e chiaro

ognun sel vede) acerrimi guerrieri:

ma la notte discende, e giova, o figli,

alla notte obbedir. - Dimandi Ettorre

questa tregua, rispose il fiero Aiace:

primo ei tutti sfidonne, e primo ei chiegga.

Ritirerommi, se l'esempio ei porga.

E l'illustre rival tosto riprese:

Aiace, i numi ti largīr cortesi

pari alla forza ed al valore il senno,

e nel valor tu vinci ogni altro Acheo.

Abbian riposo le nostr'armi, e cessi

la tenzon. Pugneremo altra fïata

finché la Parca ne divida, e intera

all'uno o all'altro la vittoria doni.

Or la notte già cade, e della notte

romper non dêssi la ragion. Tu riedi

dunque alle navi a rallegrar gli Achivi,

i congiunti, gli amici. Io nella sacra

città rïentro a serenar de' Teucri

le meste fronti e le dardanie donne,

che in lunghi pepli avvolte appiè dell'are

per me si stanno a supplicar. Ma pria

di dipartirci, un mutuo dono attesti

la nostra stima: e gli Achei poscia e i Teucri

diran: Costoro duellār coll'ira

di fier nemici, e separārsi amici.

Così dicendo, la sua propria spada

gli presentò d'argentei chiovi adorna

con fulgida vagina ed un pendaglio

di leggiadro lavoro; Aiace a lui

il risplendente suo purpureo cinto.

Così divisi, agli Achei l'uno, ai Teucri

l'altro avvïossi. Esilarārsi i Teucri,

vivo il lor duce ritornar veggendo

dalla forza scampato e dall'invitte

mani d'Aiace; e trepidanti ancora

del passato periglio alla cittade

l'accompagnaro. Dall'opposta parte

della palma superbo il lor campione

guidār gli Achivi al padiglion d'Atride,

che per tutti onorar tosto al Tonante

un bue quinquenne in sacrificio offerse.

Lo scuoiār, lo spaccār, lo fêro in brani

acconciamente, e negli spiedi infisso

l'abbrustolār con molta cura, e tolto

il tutto al foco, l'apprestār sul desco,

e banchettando ne cibò ciascuno

a pien talento. Ma l'immenso tergo

del sacro bue donollo Agamennóne

d'onore in segno al vincitor guerriero.

Del cibarsi e del ber spento il desìo,

il buon veglio Nestorre, di cui sempre

ottimo uscìa l'avviso, in questo dire

svolse il suo senno: Atride e duci achei,

questo giorno fatal la vita estinse

di molti prodi, del cui sangue rossa

fe' l'aspro Marte la scamandria riva,

e all'Orco ne passār l'ombre insepolte.

Al nuovo sole le nostr'armi adunque

si restino tranquille, e noi sul campo

convenendo, imporrem le salme esangui

su le carrette, e muli oprando e buoi,

qui ne faremo il pio trasporto, e al rogo

le darem lungi dalle navi alquanto,

onde al nostro tornar nel patrio suolo

le ceneri portarne ai mesti figli.

E dintorno alla pira una comune

tomba ergeremo, e di muraglia e d'alte

torri, a difesa delle navi e nostra,

con rapido lavor la cingeremo,

e salde vi apriremo e larghe porte

per l'egresso de' cocchi. Indi un'esterna

profonda fossa scaverem che tutta

circondi la muraglia, e de' cavalli

l'impeto affreni e de' pedon, se mai

de' Teucri irrompa l'orgoglioso ardire.

Disse, e tutti annuiro i prenci achei.

Di Prïamo alle soglie in questo mentre

su l'alta iliaca rocca i Teucri anch'essi

tenean confusa e trepida consulta.

Primo il saggio Antenòr sì prese a dire:

Dardanidi, Troiani, e voi venuti

in sussidio di Troia, i sensi udite

che il cor mi porge. Rendasi agli Atridi

con tutto il suo tesor l'argiva Elèna.

Vïolammo noi soli il giuramento,

e quindi inique le nostr'armi sono.

Se non si rende, non avrem che danno.

Così detto, s'assise. E surto in piedi

il bel marito della bella Argiva

così Pari rispose: Al cor m'è grave,

Antenore, il tuo detto, e so che porti

una miglior sentenza in tuo segreto.

Ché se parli davver, davvero i numi

ti han tolto il senno. Ma ben io qui schietti

i miei sensi aprirò. La donna io mai

non renderò, giammai. Quanto alle ricche

spoglie che d'Argo a queste rive addussi,

tutte render le voglio, ed altre ancora

aggiungeronne di mio proprio dritto.

Tacque, e sul seggio si raccolse. Allora

in sembianza d'un Dio levossi in mezzo

il Dardanide Prïamo, ed, Udite,

Teucri, ei disse, e alleati, il mio pensiero,

quale il cor lo significa. Pel campo

del consueto cibo si ristauri

ognuno, e attenda alla sua scolta, e vegli.

Col nuovo sole alle nemiche navi

Idèo sen vada, e ad ambedue gli Atridi

di Paride, cagion della contesa,

riferisca la mente, e una discreta

proposta aggiunga di cessar la guerra,

finché il rogo consunte abbia le morte

salme de' nostri, per pugnar di poi

finché la Parca ne spartisca, e agli uni

conceda o agli altri la vittoria intégra.

Tutti assentiro riverenti al detto:

indi pel campo procurār le cene

in divisi drappelli. Il dì novello

alle navi s'avvìa l'araldo Idèo,

e raccolti ritrova a parlamento

i bellicosi Achei davanti all'alta

agamennònia poppa. Appresentossi

tosto il canoro banditore, e disse:

Atridi e duci achei, mi diè comando

Priamo e di Troia gli ottimati insieme

di sporvi, se vi fia grato l'udirla,

di Paride, cagion di questa guerra,

una proferta. Le ricchezze tutte

ch'ei d'Argo addusse (oh pria perito ei fosse!)

ei tutte le vi rende, ed altre ancora

di sua ragion n'aggiungerà. Ma quanto

alla gentil tua donna, o Menelao,

di questa ei niega il rendimento, e indarno

l'esortano i Troiani. E un'altra io reco

di lor proposta: Se quetar vi piaccia

della guerra il furor, finché de' morti

le care spoglie il foco abbia combuste,

per indi razzuffarci infin che piena

tra noi decida la vittoria il fato.

Disse, e tutti ammutīr. Sciolse il Tidìde

alfin la voce; e, Niun di Pari, ei grida,

l'offerta accetti, né la stessa pure

rapita donna. Ai Dardani sovrasta,

un fanciullo il vedrìa, l'esizio estremo.

Plausero tutti al suo parlar gli Achivi

con alte grida, e n'ammiraro il senno.

Indi vòlto all'araldo il grande Atride:

Idèo, diss'egli, per te stesso udisti

degli Achei la risposta, e in un la mia.

Quanto agli estinti, di buon grado assento

che siano incesi; ché non dêssi avaro

esser di rogo a chi di vita è privo,

né porre indugio a consolarne l'ombra

coll'officio pietoso. Il fulminante

sposo di Giuno il nostro giuro ascolti.

Così dicendo alzò lo scettro al cielo,

e l'araldo tornossi entro la sacra

cittade ai Teucri, già del suo ritorno

impazïenti e in pien consesso accolti.

Giunse, e intromesso la risposta espose.

Si sparsero allor ratti, altri al carreggio

de' cadaveri intenti, altri al funèbre

taglio de' boschi. Dall'opposta parte

un cuor medesmo, una medesma cura

occupava gli Achivi. E già dal queto

grembo del mare al ciel montando il sole

co' rugiadosi lucidi suoi strali

le campagne ferìa, quando nell'atra

pianura si scontrār Teucri ed Achei

ognuno in cerca de' suoi morti, a tale

dal sangue sfigurati e dalla polve,

che mal se ne potea, senza lavarli,

ravvisar le sembianze. Alfin trovati

e conosciuti li ponean su i mesti

plaustri piangendo. Ma di Priamo il senno

non consentìa del pianto a' suoi lo sfogo:

quindi afflitti, ma muti, al rogo i Teucri

diero a mucchi le salme; ed arse tutte,

col cuor serrato alla città tornaro.

D'un medesmo dolor rotti gli Achei

i lor morti ammassār sovra la pira,

e come gli ebbe la funerea fiamma

consumati, del mar preser la via.

Non biancheggiava ancor l'alba novella,

ma il barlume soltanto antelucano,

quando d'Achei dintorno all'alto rogo

scelto stuolo affollossi. E primamente

alzār dappresso a quello una comune

tomba agli estinti, ed alla tomba accanto

una muraglia a edificar si diero

d'alti torrazzi ghirlandata, a schermo

delle navi e di sé: porte vi fêro

di salda imposta, e di gran varco al volo

de' bellicosi cocchi: indi lunghesso

l'esterno muro una profonda e vasta

fossa scavār di pali irta e gremita.

Degli Achei la stupenda opra tal era.

La contemplār maravigliando i numi

seduti intorno al Dio de' tuoni, e irato

sì prese a dir l'Enosigèo Nettunno:

Giove padre, chi fia più tra' mortali,

che gl'Immortali in avvenir consulti,

e n'implori il favor? Vedi tu quale

e quanto muro gli orgogliosi Achei

innanti alle lor navi abbian costrutto

e circondato d'un'immensa fossa

senza offerir solenni ostie agli Dei?

Di cotant'opra andrà certo la fama

ovunque giunge la divina luce,

e il grido morirà delle sacrate

mura che al re Laomedonte un tempo

intorno ad Ilïone Apollo ed io

edificammo con assai fatica.

Che dicesti? sdegnoso gli rispose

l'adunator de' numbi: altro qualunque

Iddio di forza a te minor potrebbe

di questo paventar. Ma del possente

Enosigèo la gloria al par dell'almo

raggio del sole splenderà per tutto.

Or ben: sì tosto che gli Achei faranno

veleggiando ritorno al patrio lido,

e tu quel muro abbatti e tutto quanto

sprofondalo nel mare, e d'alta arena

coprilo sì che ogni orma ne svanisca.

In questo favellar l'astro s'estinse

del giorno, e l'opra degli Achei fu piena.

Della sera allestite indi le mense

per le tende, cibār le opime carni

di scannati giovenchi, e ristorārsi

del vino che recato avean di Lenno

molti navigli; e li spediva Eunèo

d'Issipile figliuolo e di Giasone.

Mille sestieri in amichevol dono

Eunèo ne manda ad ambedue gli Atridi;

compra il resto l'armata, altri con bronzo,

altri con lame di lucente ferro;

qual con pelli bovine, e qual col corpo

del bue medesmo, o di robusto schiavo.

Lieto adunque imbandīr pronto convito

gli Achivi, e tutta banchettār la notte.

Banchettava del par nella cittade

con gli alleati la dardania gente.

Ma tutta notte di Saturno il figlio

con terribili tuoni annunzïava

alte sventure nel suo senno ordite.

Di pallido terror tutti compresi

dalle tazze spargean le spume a terra

devotamente, né veruno ardìa

appressarvi le labbra, se libato

pria non avesse al prepotente Giove.

Corcārsi alfine, e su lor scese il sonno.

 

 

LIBRO OTTAVO

 

 

Già spiegava l'aurora il croceo velo

sul volto della terra, e co' Celesti

su l'alto Olimpo il folgorante Giove

tenea consiglio. Ei parla, e riverenti

stansi gli Eterni ad ascoltar: M'udite

tutti, ed abbiate il mio voler palese;

e nessuno di voi né Dio né Diva

di frangere s'ardisca il mio decreto,

ma tutti insieme il secondate, ond'io

l'opra, che penso, a presto fin conduca.

Qualunque degli Dei vedrò furtivo

partir dal cielo, e scendere a soccorso

de' Troiani o de' Greci, egli all'Olimpo

di turpe piaga tornerassi offeso;

o l'afferrando di mia mano io stesso,

nel Tartaro remoto e tenebroso

lo gitterò, voragine profonda

che di bronzo ha la soglia e ferree porte,

e tanto in giù nell'Orco s'inabissa,

quanto va lungi dalla terra il cielo.

Allor saprà che degli Dei son io

il più possente. E vuolsene la prova?

D'oro al cielo appendete una catena,

e tutti a questa v'attaccate, o Divi

e voi Dive, e traete. E non per questo

dal ciel trarrete in terra il sommo Giove,

supremo senno, né pur tutte oprando

le vostre posse. Ma ben io, se il voglio,

la trarrò colla terra e il mar sospeso:

indi alla vetta dell'immoto Olimpo

annoderò la gran catena, ed alto

tutte da quella penderan le cose.

Cotanto il mio poter vince de' numi

le forze e de' mortai. - Qui tacque, e tutti

dal minaccioso ragionar percossi

ammutolīr gli Dei. Ruppe Minerva

finalmente il silenzio, e così disse:

Padre e re de' Celesti, e noi pur anco

sappiam che invitta è la tua gran possanza.

Ma nondimen de' bellicosi Achei

pietà ne prende, che di fato iniquo

son vicini a perir. Noi dalla pugna,

se tu il comandi, ci terrem lontani;

ma non vietar che di consiglio almeno

sien giovati gli Achivi, onde non tutti

cadan nell'ira tua disfatti e morti.

Con un sorriso le rispose il sommo

de' nembi adunator: Conforta il core,

diletta figlia; favellai severo,

ma vo' teco esser mite. - E così detto,

gli orocriniti eripedi cavalli

come vento veloci al carro aggioga:

al divin corpo induce una lorica

tutta d'auro, e alla man data una sferza

pur d'auro intesta e di gentil lavoro,

monta il cocchio, e flagella a tutto corso

i corridori che volār bramosi

infra la terra e lo stellato Olimpo.

Tosto all'Ida, di belve e di rigosi

fonti altrice, arrivò su l'ardua cima

del Gargaro, ove sacro a lui frondeggia

un bosco, e fuma un odorato altare.

Qui degli uomini il padre e degli Dei

rattenne e dal timon sciolse i cavalli,

e di nebbia gli avvolse. Indi s'assise

esultante di gloria in su la vetta

di là lo sguardo a Troia rivolgendo

ed alle navi degli Achei, che preso

per le tende alla presta un parco cibo

armavansi. Ed all'armi anch'essi i Teucri

per la città correan; né gli sgomenta

il numero minor, ché per le spose

e pe' figli a pugnar pronti li rende

necessità. Spalancansi le porte:

erompono pedoni e cavalieri

con immenso tumulto, e giunti a fronte,

scudi a scudi, aste ad aste e petti a petti

oppongono, e di targhe odi e d'usberghi

un fiero cozzo, ed un fragor di pugna

che rinforza più sempre. De' cadenti

l'urlo si mesce coll'orribil vanto

de' vincitori, e il suol sangue correa.

Dall'ora che le porte apre al mattino

fino al merigge, d'ambedue le parti

durò la strage con egual fortuna.

Ma quando ascese a mezzo cielo il sole,

alto spiegò l'onnipossente Iddio

l'auree bilance, e due diversi fati

di sonnifera morte entro vi pose,

il troiano e l'acheo. Le prese in mezzo,

le librò, sollevolle, e degli Achivi

il fato dechinò, che traboccando

percosse in terra, e balzò l'altro al cielo.

Tonò tremendo allor Giove dall'Ida,

e un infocato fulmine nel campo

avventò degli Achei, che stupefatti

a quella vista impallidīr di tema.

Né Idomenèo né il grande Agamennóne,

né gli Aiaci, ambedue lampi di Marte,

fermi al lor posto rimaner fur osi.

Solo il Gerenio, degli Achei tutela,

Nestore vi restò, ma suo mal grado

ché un destrier l'impedìa, cui di saetta

d'Elena bella l'avvenente drudo

nella fronte ferì laddove spunta

nel teschio de' cavalli il primo crine,

ed è letale il loco alle ferite.

Inalberossi il corridor trafitto,

ché nel cerèbro entrata era la freccia,

e dintorno alla rota per l'acuto

dolor si voltolando, in iscompiglio

mettea gli altri cavalli. Or mentre il vecchio

gli si fa sopra colla daga, e tenta

tagliarne le tirelle, ecco veloci

fra la calca e il ferir de' combattenti

sopraggiungere d'Ettore i destrieri,

superbi di portar sì grande auriga.

E qui perduta il veglio avrìa la vita,

se del rischio di lui non s'accorgea

l'invitto Dïomede. Un grido orrendo

di pugna eccitator mise l'eroe

alla volta d'Ulisse: Ah dove immemore

di tua stirpe divina, dove fuggi,

astuto figlio di Laerte, e volgi,

come un codardo della turba, il tergo?

Bada che alcun le fuggitive spalle

non ti giunga coll'asta. Agl'inimici

volta la fronte, ed a salvar vien meco

dal furor di quel fiero il vecchio amico.

Quelle grida non ode, e ratto in salvo

fugge Ulisse alle navi. Allor rimasto

solo il Tidìde, si sospinse in mezzo

ai guerrier della fronte, avanti al cocchio

di Nestore piantossi, e lui chiamando

veloci gli drizzò queste parole:

Troppo feroce gioventù nemica

ti sta contra, o buon vecchio, e infermi troppo

sono i tuoi polsi: hai grave d'anni il dorso,

hai debole l'auriga e i corridori.

Monta il mio cocchio, e la virtù vedrai

dei cavalli di Troe, che dianzi io tolsi

d'Anchise al figlio, a maraviglia sperti

a fuggir ratti in campo e ad inseguire.

Lascia cotesti agli scudieri in cura,

drizziam questi ne' Teucri, e vegga Ettorre

s'anco in mia man la lancia è furibonda.

Disse: né il veglio ricusò l'invito.

Di Stènelo e del buon Eurimedonte,

valorosi scudieri, egli al governo

cesse le sue puledre, e tosto il cocchio

del Tidìde salito, in man si tolse

le bellissime briglie, e col flagello

i corsieri percosse. In un baleno

giunser d'Ettore a fronte, che diritto

lor d'incontro venìa con gran tempesta.

Trasse la lancia Dïomede, e il colpo

errò; ma su le poppe in mezzo al petto

colpì l'auriga Enïopèo, figliuolo

dell'inclito Tebèo. Cade il trafitto

giù tra le rote colle briglie in pugno:

s'arretrano i destrieri, e in quello stato

perde ogni forza l'infelice, e spira.

Del morto auriga addolorossi Ettorre,

e mesto di lasciar quivi il compagno

nella polve disteso, un altro audace

alla guida del carro iva cercando:

né di rettor gran tempo ebber bisogno

i suoi destrieri, ché gli occorse all'uopo

l'animoso Archepòlemo d'Ifito,

cui sul carro montar fa senza indugio,

e gli abbandona nella man le briglie.

Immensa strage allora e fatti orrendi

fōran d'arme seguìti, e come agnelli

stati in Ilio sarìan racchiusi i Teucri,

se de' Celesti il padre e de' mortali

tosto di ciò non s'accorgea. Tonando

con gran fragore un fulmine rovente

vibrò nel campo il nume, e il fece in terra

guizzar di Dïomede innanzi al cocchio:

e subita n'uscìa d'ardente zolfo

una terribil vampa. Spaventati

costernansi i destrier, scappan di mano

a Nestore le briglie; onde al Tidìde

rivoltosi tremante; Ah piega, ei grida,

piega indietro i cavalli, o Dïomede,

fuggiam: nol vedi? contro noi combatte

Giove irato, e a costui tutto dar vuole

di presente l'onor della battaglia.

Darallo, se gli piace, un'altra volta

a noi pur: ma di Giove oltrapossente

il supremo voler forza non pate.

Tutto ben parli, o vecchio, gli rispose

l'imperturbato eroe; ma il cor mi crucia

la dolorosa idea ch'Ettore un giorno

fra' Troiani dirà gonfio d'orgoglio:

Io fugai Dïomede, io lo costrinsi

a scampar nelle navi. - Ei questo vanto

menerà certo, e a me si fenda allora

sotto i piedi la terra, e mi divori.

E Nestore ripiglia: Ah che dicesti,

valoroso Tidìde? E quando avvegna

che un codardo, un imbelle Ettor ti chiami,

i Troiani non già sel crederanno,

né le troiane spose, a cui nell'atra

polve stendesti i floridi mariti.

Disse; e addietro girò tosto i cavalli

tra la calca fuggendo. Ettore e i Teucri

con urli orrendi li seguiro, e un nembo

piovean su lor d'acerbi strali, ed alto

gridar s'udiva de' Troiani il duce:

I cavalieri argivi, o Dïomede,

e di seggio e di tazze e di vivande

te finora onorār su gli altri a mensa;

ma deriso or n'andrai, che un cor palesi

di femminetta. Via di qua, fanciulla;

non salirai tu, no, fin ch'io respiro,

d'Ilio le torri, né trarrai cattive

le nostre mogli nelle navi, e morto

per la mia destra giacerai tu pria.

Stettesi in forse a quel parlar l'eroe

di dar volta ai cavalli, e d'affrontarlo.

Ben tre volte nel core e nella mente

gliene corse il desìo, tre volte Giove

rimormorò dall'Ida, e fe' securi

della vittoria con quel segno i Teucri.

Con orribile grido Ettore allora

animando le schiere: O Licii, o Dardani,

o Troiani, dicea, prodi compagni,

mostratevi valenti, e fuor mettete

le generose forze. Io non m'inganno,

Giove è propizio; di vittoria a noi

e d'esizio a' nemici ei diede il segno.

Stolti! che questo alzār debile muro,

troppo al nostro valor frale ritegno.

Quella lor fossa varcheran d'un salto

i miei cavalli; e quando emerso a vista

io sarò delle navi, allor le faci

ministrarmi qualcun si risovvegna,

ond'io que' legni incenda, e fra le vampe

sbalorditi dal fumo i Greci uccida.

Poi conforta i destrieri, e sì lor parla:

Xanto, Podargo, Etón, Lampo divino,

mercé del largo cibo or mi rendete,

che dell'illustre Eezïon la figlia

Andromaca vi porge, il dolce io dico

frumento, e l'alma di Lïeo bevanda,

ch'ella a voi mesce desïosi, a voi

pria che a me stesso che pur suo mi vanto

giovine sposo. Or via, volate; andiamo

alla conquista del nestòreo scudo

di cui va il grido al cielo, e tutto il dice

d'auro perfetto, e d'auro anco la guiggia.

Poi di dosso trarremo a Dïomede

l'usbergo, esimia di Vulcan fatica.

Se cotal preda ne riesce, io spero

che ratti i Greci su le navi in questa

notte medesma salperan dal lido.

Del superbo parlar forte sdegnossi

l'augusta Giuno, e s'agitò sul trono

sì che scosso tremonne il vasto Olimpo.

Quindi rivolte le parole al grande

dio Nettunno, sì disse: E sarà vero,

possente Enosigèo, che degli Argivi

a pietà non ti mova la ruina!

Pur son essi che in Elice ed in Ege

rècanti offerte graziose e molte.

E perché dunque non vorrai tu loro

la vittoria bramar? Certo se quanti

siam difensori degli Achivi in cielo

vorrem de' Teucri rintuzzar l'orgoglio

e al Tonante far forza, egli soletto

e sconsolato sederà su l'Ida.

Oh! che mai parli, temeraria Giuno?

le rispose sdegnoso il re Nettunno:

non sia, no mai, che col saturnio Giove

a cozzar ne sospinga il nostro ardire;

rammenta ch'egli è onnipossente, e taci.

Mentre seguìan tra lor queste parole,

quanto intervallo dalle navi al muro

la fossa comprendea, tutto era denso

di cavalli, di cocchi e di guerrieri

ivi dal fiero Ettòr serrati e chiusi,

che simigliante al rapido Gradivo

infuriava col favor di Giove.

E ben le navi avrìa messe in faville,

se l'alma Giuno in cor d'Agamennóne

il pensier non ponea di girne attorno

ratto egli stesso a incoraggiar gli Achivi.

Per le tende egli dunque e per le navi

sollecito correa, raccolto il grande

purpureo manto nel robusto pugno:

e cotal su la negra capitana

d'Ulisse si fermò, che vasta il mezzo

dell'armata tenea, donde distinta

d'ogni parte mandar potea la voce

fin d'Aiace e d'Achille al padiglione,

che l'eguali lor prore ai lati estremi,

nel valor delle braccia ambo securi,

avean dedotte all'arenoso lido.

Di là fec'egli rimbombar sul campo

quest'alto grido: Svergognati Achivi,

vitupèri nell'opre e sol d'aspetto

maravigliosi! dove dunque andaro

gli alteri vanti che menammo un giorno

di prodezza e di forza? In Lenno queste

fur le vostre burbanze allor che l'epa

v'empiean le polpe de' giovenchi uccisi,

e le ricolme tazze inghirlandate

si venìan tracannando, e si dicea

che un sol per cento e per dugento Teucri,

un sol Greco valea nella battaglia.

Ed or tutti ne fuga un solo Ettorre,

che ben tosto farà di queste navi

cenere e fumo. O Giove padre, e quale

altro mai re di tanti danni afflitto,

di tanto disonor carco volesti?

Pur io so ben, che quando a questo lido

il perverso destin mi conducea,

giammai veruno de' tuoi santi altari

navigando lasciai sprezzato indietro;

ma l'adipe a te sempre e i miglior fianchi

de' giovenchi abbruciai sovra ciascuno,

bramoso d'atterrar l'iliache mura.

Deh almen n'adempi questo voto, almeno

danne, o Giove, uno scampo colla fuga,

né per le mani del crudel Troiano

consentir degli Achivi un tanto scempio.

Così dicea piangendo. Ebbe pietade

di sue lagrime il nume, e ad accennargli

che non tutto il suo campo andrìa disfatto,

il più sicuro de' volanti augurio

un'aquila spedì che negli unghioni

tolto al covil della veloce madre

un cerbiatto stringendo, accanto all'ara,

ove l'ostie svenar solean gli Achivi

al fatidico Giove, dall'artiglio

cader lasciò la palpitante preda.

Gli Achei veduto il sacro augel, cui spinto

conobbero da Giove, ad affrontarsi

più coraggiosi ritornār co' Teucri,

e rinfrescār la pugna. Allor nessuno

pria del Tidìde fra cotanti Argivi

vanto si diede d'agitar pel campo

i veloci corsieri, ed oltre il fosso

cacciarli ed azzuffarsi. Egli primiero

anzi a tutti si spinse, e a prima giunta

Agelao di Fradmon tolse di mezzo

uom troiano. Costui piegàti in fuga

i suoi destrieri avea. Coll'asta il tergo

gli raggiunse il Tidìde, gliela fisse

tra gli omeri, e passar la fece al petto.

Cadde Agelao dal carro, e cupamente

l'armi sovr'esso rintonār. Secondo

Agamennón si mosse, indi il fratello,

indi gli Aiaci impetuosi, e poi

Idomenèo con esso il suo scudiero

Merïon che di Marte avea l'aspetto;

poi d'Evemon l'illustre figlio Eurìpilo,

ed ultimo giungea Teucro del curvo

elastic'arco tenditor famoso.

D'Aiace Telamònio egli locossi

dietro lo scudo, e dello scudo Aiace

gli antepose la mole. Ivi securo

l'eroe guatava intorno, e quando avea

saettato nel denso un inimico,

quegli cadendo perdea l'alma, e questi,

come fanciullo della madre al manto,

ricovrava al fratel che alla grand'ombra

dello splendido scudo il proteggea.

Or dall'egregio arcier chi de' Troiani

fu primo ucciso? Primamente Orsìloco,

indi Ormeno e Ofeleste: a questi aggiunse

Detore e Cromio, e per divin sembiante

Licofonte lodato, e Amopaone

Poliemonìde, e Melanippo, tutti

l'un dopo l'altro nella polve stesi.

Gioiva il re de' regi Agamennóne

mirandolo dall'arco vigoroso

lanciar la morte fra' nemici, e a lui

vicin venuto soffermossi, e disse:

Diletto capo Telamònio Teucro,

siegui l'arco a scoccar, porta, se puoi,

a' Dànai un raggio di salute, e onora

il tuo buon padre Telamon che un giorno

ti raccolse fanciullo, e benché frutto

di non giusto imeneo, pur con pietoso

tenero affetto in sua magion ti crebbe.

Or tu fa ch'egli salga in alta fama,

sebben lontano. Ti prometto io poi

(e sacra tieni la promessa mia)

che se Giove e Minerva mi daranno

d'Ilio il conquisto, tu primier t'avrai

il premio, dopo me, de' forti onore,

ed in tua man porrollo io stesso, un tripode,

o due cavalli ad un bel cocchio aggiunti,

o di vaghe sembianze una fanciulla

che teco il letto e l'amor tuo divida.

E Teucro gli rispose: Illustre Atride,

a che mi sproni, per me stesso assai

già fervido e corrente? Io non rimango

di far qui tutto il mio poter. Dal punto

che verso la città li respingemmo,

mi sto coll'arco ad aspettar costoro,

e li trafiggo. E già ben otto acuti

dardi dal nervo liberai, che tutti

profondamente si ficcār nel corpo

di giovani guerrieri, e non ancora

ferir m'è dato questo can rabbioso.

Disse; e di nuovo fe' volar dall'arco

contr'Ettore uno strale. Al colpo tutta

ei l'anima diresse, e nondimeno

fallì la freccia, ché l'accolse in petto

di Prïamo un valente esimio figlio

Gorgizïon, cui d'Esima condotta

partorì la gentil Castïanira,

che una Diva parea nella persona.

Come carco talor del proprio frutto,

e di troppa rugiada a primavera

il papaver nell'orto il capo abbassa,

così la testa dell'elmo gravata

su la spalla chinò quell'infelice.

E Teucro dalla corda ecco sprigiona

alla volta d'Ettorre altra saetta,

più che mai del suo sangue sitibondo.

E pur di nuovo uscì lo strale in fallo,

ché Apollo il devïò, ma colse al petto

d'Ettòr l'audace bellicoso auriga

Archepòlemo presso alla mammella.

Cadde ei rovescio giù dal cocchio, addietro

si piegaro i cavalli, e quivi a lui

il cor ghiacciossi, e l'anima si sciolse.

Di quella morte gravemente afflitto

il teucro duce, e di lasciar costretto,

mal suo grado, l'amico, a Cebrïone

di lui fratello che il seguìa, fe' cenno

di dar mano alle briglie. Ad obbedirlo

Cebrïon non fu lento; ed ei d'un salto

dallo splendido cocchio al suol disceso

con terribile grido un sasso afferra,

a Teucro s'addirizza, e di ferirlo

l'infiammava il desìo. Teucro in quel punto

traeva un altro doloroso telo

dalla faretra, e lo ponea sul nervo.

Mentre alla spalla lo ritragge in fretta,

e l'inimico adocchia, il sopraggiunge

crollando l'elmo Ettorre, e dove il collo

s'innesta al petto ed è letale il sito,

coll'aspro sasso il coglie, e rotto il nervo

gl'intorpidisce il braccio. Dalle dita

l'arco gli fugge, e sul ginocchio ei casca.

Il caduto fratello in abbandono

Aiace non lasciò, ma ratto accorse,

e col proteso scudo il ricoprìa,

finché lo si recār sovra le spalle

due suoi cari compagni, Mecistèo

d'Echìo figliuolo, e il nobile Alastorre,

e alle navi il portār che gravemente

sospirava e gemea. Ne' Teucri allora

di nuovo suscitò l'Olimpio Giove

tal forza e lena, che al profondo fosso

dirittamente ricacciār gli Achei.

Iva Ettorre alla testa, e dalle truci

sue pupille mettea lampi e paura.

Qual fiero alano che ne' presti piedi

confidando, un cinghial da tergo assalta,

od un lïone, e al suo voltarsi attento

or le cluni gli addenta, ora la coscia;

così gli Achivi insegue Ettorre, e sempre

uccidendo il postremo li disperde.

Ma poiché l'alto fosso ed il palizzo

ebber varcato i fuggitivi, e molti

il troiano valor n'avea già spenti,

giunti alle navi si fermaro, e insieme

mettendosi coraggio, e a tutti i numi

sollevando le man spingea ciascuno

con alta voce le preghiere al cielo.

Signor del campo d'ogni parte intanto

agitava i destrieri il grande Ettorre

di bel crine superbi, e rotar bieco

le luci si vedea come il Gorgóne,

o come Marte che nel sangue esulta.

Impietosita degli Achei la bianca

Giuno a Minerva si rivolse, e disse:

Invitta figlia dell'Egìoco Giove,

dunque, ohimè! non vorremo aver più nullo

pensier de' Greci già cadenti, almeno

nell'estremo lor punto? Eccoli tutti

l'empio lor fato a consumar vicini

per l'impeto d'un sol, del fiero Ettorre

che in suo furore intollerando omai

passa ogni modo, e ne fa troppe offese!

A cui la Diva dalle glauche luci

Minerva rispondea: Certo perduta

avrìa costui la furia e l'alma ancora,

a giacer posto nella patria terra

dal valor degli Achei; ma quel mio padre

di sdegnosi pensier calda ha la mente,

sempre avverso, e de' miei forti disegni

acerbo correttor; né si rimembra

quante volte servar gli seppi il figlio

dai duri d'Euristèo comandi oppresso.

Ei lagrimava lamentoso al cielo,

e me dal cielo allora ad aïtarlo

Giove spediva. Ma se il cor prudente

detto m'avesse le presenti cose,

quando alle ferree porte il suo tiranno

l'invïò dell'Averno a trar dal negro

Erebo il can dell'abborrito Pluto,

ei, no, scampato non avrìa di Stige

la profonda fiumana. Or m'odia il padre,

e di Teti adempir cerca le brame,

che lusinghiera gli baciò il ginocchio,

e accarezzògli colla destra il mento,

d'onorar supplicandolo il Pelìde

delle cittadi atterrator. Ma tempo,

sì, verrà tempo che la sua diletta

Glaucòpide a chiamarmi egli ritorni.

Or tu vanne, ed il carro m'apparecchia

co' veloci cornipedi, ché tosto

io ne vo dentro alle paterne stanze,

e dell'armi mi vesto per la pugna.

Vedrem se questo Ettòr, che sì superbo

crolla il cimiero, riderà quand'io

nel folto apparirò della battaglia.

Qualcun per certo de' Troiani ancora

presso le navi achee satolli e pingui

di sue polpe farà cani ed augelli.

Disse; né Giuno ricusò, ma corse

ai divini cavalli, e d'auree barde

in fretta li guarnìa, Giuno la figlia

del gran Saturno, veneranda Diva.

D'altra parte Minerva il rabescato

suo bellissimo peplo, delle stesse

immortali sue dita opra stupenda,

sul pavimento dell'Egìoco padre

lasciò cader diffuso; ed indossando

del nimbifero Giove il grande usbergo,

tutta s'armava a lagrimosa pugna.

Sul rilucente cocchio indi salita

impugnò la pesante e poderosa

gran lancia, ond'ella, allor che monta in ira,

di forte genitor figlia tremenda,

le schiere degli eroi rovescia e doma.

Stimolava Giunon velocemente

colla sferza i destrieri, e tosto fûro

alle celesti soglie, a cui custodi

vegliano l'Ore che il maggior de' cieli

hanno in cura e l'Olimpo, onde sgombrarlo

o circondarlo della sacra nube.

Cigolando s'aprīr per sé medesme

l'eteree porte, e docili al flagello

spinser per queste i corridor le Dive.

Come Giove dal Gàrgaro le vide,

forte sdegnossi, ed Iri a sé chiamando

ali-dorata Dea, Vola, le disse,

Iri veloce, le rivolgi indietro,

e lor divieta il venir oltre meco

ad inegual cimento. Io lo protesto,

e il fatto seguirà le mie parole,

io loro fiaccherò sotto la biga

i corridori, e dall'infranto cocchio

balzerò le superbe, e delle piaghe

che loro impresse lascerà il mio telo,

né pur due lustri salderanno il solco.

Saprà Minerva allor qual sia stoltezza

il cimentarsi col suo padre in guerra.

Quanto a Giunon, m'è forza esser con ella

meno irato: gli è questo il suo costume

di sempre attraversarmi ogni disegno.

Disse; ed Iri a portar l'alto messaggio

mosse veloce al par delle procelle;

ed ascesa dall'Ida al grande Olimpo

di molti gioghi altero, e su le soglie

incontrate le Dee, sì le rattenne,

e lor di Giove le parole espose:

Dove correte? Che furore è questo?

Sostate il piè, ché il dar soccorso ai Greci

nol vi consente Giove. Le minacce

dell'alto figlio di Saturno udite,

che fian messe ad effetto. Ei sotto il carro

storpieravvi i destrieri, e dall'infranto

carro voi stesse balzerà, né dieci

anni le piaghe salderan che impresse

lasceravvi il suo telo; e tu, Minerva,

allor saprai qual sia demenza il farti

al tuo padre nemica. Né con Giuno,

sempre usata a turbargli ogni disegno,

tanto s'adira, ei no, quanto con teco,

invereconda audace Dea, che ardisci

contra il Tonante sollevar la lancia.

Disse, e ratta sparì la messaggiera.

Ed a Minerva allor con questi accenti

Giuno si volse: Ohimè! più non si parli,

figlia di Giove, di pugnar con esso

per cagion de' mortali: io nol consento.

Di loro altri si muoia, altri si viva,

come piace alla sorte; e Giove intanto,

come dispon suo senno e sua giustizia,

fra i Troiani e gli Achei tempri il destino.

Sì dicendo la Dea ritorse indietro

i criniti destrieri, e l'Ore ancelle

li distaccār dal giogo, e li legaro

ai nettarei presepi, ed il bel cocchio

appoggiaro alla lucida parete.

Si raccolser le Dive in aureo seggio

con gli altri Dei confuse; e Giove intanto

dal Gàrgaro all'Olimpo i corridori

e le fulgide ruote alto spingea.

Giunto alle case de' Celesti, a lui

sciolse i corsieri l'inclito Nettunno,

rimesse il cocchio, e lo coprì d'un velo.

Giove sul trono si compose e tutto

tremò sotto il suo piè l'immenso Olimpo.

Ma Minerva e Giunon sole in disparte

sedean, né motto né dimanda a Giove

ardìan veruna indirizzar. S'avvide

de' lor pensieri il nume, e così disse:

Perché sì meste, o voi Minerva e Giuno?

e' non si par che molto affaticate

v'abbia finor la glorïosa pugna

in esizio de' Teucri, a cui sì grave

odio poneste. E v'è di mente uscito

che invitto è il braccio mio? che quanti ha numi

il ciel, cangiare il mio voler non ponno?

A voi bensì le delicate membra

prese un freddo tremor pria che la guerra

pur contemplaste, e della guerra i duri

esperimenti. Io vel dichiaro (e fōra

già seguìto l'effetto) che percosse

dalla folgore mia, no, non v'avrebbe

il vostro cocchio ricondotte al cielo,

albergo degli Eterni. - Il Dio sì disse,

e in secreto fremean Minerva e Giuno

sedendosi vicino, ed ai Troiani

meditando nel cor alte sciagure.

Stette muta Minerva, e contra il padre

l'acerbo che l'ardea sdegno represse;

ma sciolto all'ira il fren Giuno rispose:

Tremendissimo Giove, e che dicesti?

Ben anco a noi la tua possanza invitta

è manifesta; ma pietà ne prende

dei dannati a perir miseri Achei.

Noi certo l'armi lascerem, se questo

è il tuo strano voler; ma nondimeno

qualche ai Greci daremo util consiglio,

onde non tutti il tuo furor li spegna.

E Giove replicò: Più fiero ancora

vedrai dimani, se t'aggrada, o moglie,

l'onnipotente di Saturno figlio

dell'esercito achèo struggere il fiore.

Perocché dalla pugna il forte Ettorre

non pria desisterà, che finalmente

l'ozïosa si svegli ira d'Achille

il dì che in gran periglio appo le navi

combatterassi per Patròclo ucciso.

Tal de' fati è il voler, né de' tuoi sdegni

sollecito son io, no, s'anco ai muti

della terra e del mar confini estremi

andar ti piaccia, nel rimoto esiglio

di Giapeto e Saturno, che nel cupo

Tartaro chiusi né il superno raggio

del Sole, né di vento aura ricrea;

no, se tant'oltre pure il tuo dispetto

vagabonda ti porti, io non ti curo,

poiché d'ogni pudor possasti il segno.

Tacque; né Giuno osò pure d'un detto

fargli risposta. In grembo al mar frattanto

la splendida cadea lampa del Sole

l'atra notte traendo su la terra.

Della luce l'occaso i Teucri afflisse,

ma pregata più volte e sospirata

sovraggiunse agli Achei l'ombra notturna.

Fuor del campo navale Ettore allora

i Troiani ritrasse in su la riva

del rapido Scamandro, ed in pianura

da' cadaveri sgombra a parlamento

chiamolli; ed essi dismontār dai cocchi,

e affollati dintorno al gran guerriero

cura di Giove, a sue parole attenti

porgean gli orecchi. Una grand'asta in pugno

di ben undici cubiti sostiene:

tutta di bronzo folgora la punta,

e d'oro un cerchio le discorre intorno.

Appoggiato su questa, così disse:

Dardani, Teucri, Collegati, udite:

io poc'anzi sperai ch'arse le navi

e distrutti gli Argivi a Troia avremmo

fatto ritorno. Ma sì bella speme

ne rapīr le tenèbre invidiose,

che inopportune sul cruento lido

salvār le navi e i paurosi Achei.

Obbediamo alle negre ombre nemiche,

apparecchiam le cene. Ognun dal temo

sciolga i cavalli, e liberal sia loro

di largo cibo. Di voi parte intanto

alla città si affretti, e pingui agnelle

e giovenchi n'adduca, e di Lïeo

e di Cerere il frutto almo e gradito.

Sian di secche boscaglie anco raccolte

abbondanti cataste, e si cosparga,

finché regna la notte e l'alba arriva,

tutto di fuochi il campo e il ciel di luce,

onde dell'ombre nel silenzio i Greci

non prendano del mar su l'ampio dorso

taciturni la fuga; o i legni almeno

non salgano tranquilli, e la partenza

senza terror non sia; ma nell'imbarco

o di lancia piagato o di saetta

vada più d'uno alle paterne case

a curar la ferita, e rechi ai figli

l'orror de' Teucri, e così loro insegni

a non tentarli con funesta guerra.

Voi cari a Giove diligenti araldi,

per la città frattanto ite, e bandite

che i canuti vegliardi, e i giovinetti

a cui le guance il primo pelo infiora,

custodiscan le mura in su gli spaldi

dagli Dei fabbricati. Entro le case

allumino gran fuoco anco le donne,

e stazïon vi sia di sentinelle,

onde, sendo noi lungi, ostile insidia

nell'inerme città non s'introduca.

Quanto or dico s'adémpia, e non fia vano,

magnanimi compagni, il mio consiglio.

Dirò dimani ciò che far ne resta.

Spero ben io, se Giove e gli altri Eterni

avrem propizi, di cacciarne lungi

cotesti cani da funesto fato

qua su le prore addutti. Or per la notte

custodiamo noi stessi. Al primo raggio

del nuovo giorno in tutto punto armati

desteremo sul lido acre conflitto;

vedrem se Dïomede, questo forte

figliuolo di Tidèo, respingerammi

dalle navi alle mura, o s'io coll'asta

saprò passargli il fianco, e via portarne

le sanguinose spoglie. Egli dimani

manifesto farà se sua prodezza

tal sia che possa di mia lancia il duro

assalto sostener. Ma se fallace

non è mia speme, ei giacerà tra' primi

spento con molti de' compagni intorno,

ei sì, dimani, all'apparir del Sole.

Così immortal foss'io, né mai vecchiezza

vïolasse i miei giorni, ed onorato

foss'io del par che Pallade ed Apollo,

come fatale ai Greci è il dì futuro.

Tal fu d'Ettorre il favellar superbo,

e gli fêr plauso i Teucri. Immantinente

sciolsero dal timone i polverosi

destrier sudati, e colle briglie al carro

gli annodò ciascheduno. Indi menaro

pecore e buoi dalla cittade in fretta.

Altri vien carco di nettareo vino,

altri di cibo cereale; ed altri

cataste aduna di virgulti e tronchi.

Rapìan l'odor delle vivande i venti

da tutto il campo, e lo spargeano al cielo.

Ed essi gonfi di baldanza, e in torme

belliche assisi dispendean la notte,

tutta empiendo di fuochi la campagna.

Siccome quando in ciel tersa è la Luna,

e tremole e vezzose a lei dintorno

sfavillano le stelle, allor che l'aria

è senza vento, ed allo sguardo tutte

si scuoprono le torri e le foreste

e le cime de' monti; immenso e puro

l'etra si spande, gli astri tutti il volto

rivelano ridenti, e in cor ne gode

l'attonito pastor: tali al vederli,

e altrettanti apparìan de' Teucri i fuochi

tra le navi e del Xanto le correnti

sotto il muro di Troia. Erano mille

che di gran fiamma interrompeano il campo,

e cinquanta guerrieri a ciascheduno

sedeansi al lume delle vampe ardenti.

Presso i carri frattanto orzo ed avena

i cavalli pascevano, aspettando

che dal bel trono suo l'Alba sorgesse.

 

 

LIBRO NONO

 

 

Queste de' Teucri eran le veglie. Intanto

del gelido Terror negra compagna

la Fuga, dagli Dei ne' petti infusa,

l'achivo campo possedea. Percosso

da profonda tristezza era di tutti

i più forti lo spirto; e in quella guisa

che il pescoso Oceàno si rabbuffa,

quando improvviso dalla tracia tana

di Ponente sorgiunge e d'Aquilone

l'impetuoso soffio; alto s'estolle

l'onda, e si sparge di molt'alga il lido:

tale è l'interna degli Achei tempesta.

Sovra ogni altro l'Atride addolorato

di qua, di là s'aggira, ed agli araldi

comanda di chiamar tutti in segreto

ad uno ad uno i duci a parlamento.

Come fûro adunati, e mesti in volto

s'assisero, levossi Agamennóne.

Lagrimava simìle a cupo fonte

che tenebrosi da scoscesa rupe

versa i suoi rivi; e dal profondo seno

messo un sospiro, cominciò: Diletti

principi Argivi, in una ria sciagura

Giove m'avvolse. Dispietato! ei prima

mi promise e giurò che al suol prostrate

d'Ilio le mura, glorïoso in Argo

avrei fatto ritorno; ed or mi froda

indegnamente, e dopo tante in guerra

estinte vite, di partir m'impone

inonorato. Il piacimento è questo

del prepotente nume, che già molte

spianò cittadi eccelse, e molte ancora

ne spianerà, ché immenso è il suo potere.

Dunque al mio detto obbediam tutti, al vento

diam le vele, fuggiamo alla diletta

paterna terra, ché dell'alta Troia

lo sperato conquisto è vana impresa.

Ammutīr tutti a queste voci, e in cupo

lungo silenzio si restār dolenti

i figli degli Achei. Lo ruppe alfine

il bellicoso Dïomede, e disse:

Atride, al torto tuo parlar col vero

libero dir, che in libero consesso

lice ad ognun, risponderò. Tu m'odi

senza disdegno. Osasti, e fosti il primo,

alla presenza degli Achei pur dianzi

vituperarmi, e imbelle dirmi, e privo

d'ogni coraggio, e l'udīr tutti. Or io

dico a te di rimando, che se Giove

l'un ti diè de' suoi doni, l'onor sommo

dello scettro su noi, non ti concesse

l'altro più grande che lo scettro, il core.

Misero! e speri sì codardi e fiacchi,

come pur cianci, della Grecia i figli?

Se il cor ti sprona alla partenza, parti;

sono aperte le vie; le numerose

navi, che d'Argo ti seguīr, son pronte:

ma gli altri Achivi rimarran qui fermi

all'eccidio di Troia; e se pur essi

fuggiran sulle prore al patrio lido,

noi resteremo a guerreggiar; noi due

Stènelo e Dïomede, insin che giunga

il dì supremo d'Ilion; ché noi

qua ne venimmo col favor d'un Dio.

Tacque; e tutti mandār di plauso un grido,

del Tidìde ammirando i generosi

sensi; e di Pilo il venerabil veglio

surto in piedi dicea: Nelle battaglie

forte ti mostri, o Dïomede, e vinci

di senno insieme i coetani eroi.

Né biasmar né impugnar le tue parole

potrà qui nullo degli Achei: ma pure,

benché retti e prudenti e di noi degni,

non ferīr giusto i tuoi discorsi il segno.

Giovinetto se' tu, sì che il minore

esser potresti de' miei figli. Io dunque

che di te più d'assai vecchio mi vanto,

dironne il resto, né il mio dir veruno

biasmerà, non lo stesso Agamennóne.

È senza patria, senza leggi e senza

lari chi la civile orrenda guerra

desidera. Ma giovi or della fosca

diva dell'ombre rispettar l'impero.

S'apprestino le cene, ed ogni scolta

vegli al fosso del muro, e questo sia

de' giovani il pensier. Tu, sommo Atride,

come a capo s'addice, accogli a mensa

i più provetti; e ben lo puoi, ché piene

le tende hai tu del buon lïeo che ognora

pel vasto mar ti recano veloci

l'achive prore dalle tracie viti.

Nulla all'uopo ti manca, ed al tuo cenno

tutto obbedisce. Congregati i duci,

apra ognun la sua mente, e tu seconda

il consiglio miglior, ché di consiglio

utile e saggio or fa mestier davvero.

Imminente alle navi è l'inimico,

pien di fuochi il suo campo. E chi mirarli

può senza tema? Questa fia la notte

che l'esercito perda, o lo conservi.

Disse, e tutti obbediro. Immantinente

uscīr di rilucenti armi vestite

le sentinelle. N'eran sette i duci;

il Nestoride prence Trasimede,

di Marte i figli Ascàlafo e Jalmeno,

Merïon, Dėipìro ed Afarèo

con Licomede di Creonte; e cento

giovani prodi conducea ciascuno

di lunghe picche armati. In ordinanza

si difilār tra il fosso e il muro, e quivi

destaro i fuochi, e apposero le cene.

Nella tenda regal l'Atride intanto

convita i duci, di vivande grate

li ristaura; e sì tosto che de' cibi

e del bere in ciascun tacque il desìo,

il buon Nestorre, di cui sempre uscìa

ottimo il detto, cominciò primiero

a svolgere dal petto un suo consiglio,

e in questo saggio ragionar l'espose:

Agamennóne glorïoso Atride,

da te principio prenderan le mie

parole, e in te si finiranno, in te

di molte genti imperador, cui Giove,

per la salute de' suggetti, il carco

delle leggi commise e dello scettro.

Principalmente quindi a te conviensi

dir tua sentenza, ed ascoltar l'altrui,

e la porre ad effetto, ove da pura

coscïenza proceda, e il ben ne frutti;

ché il buon consiglio, da qualunque ei vegna,

tuo lo farai coll'eseguirlo. Io dunque

ciò che acconcio a me par, dirò palese,

né verun penserà miglior pensiero

di quel ch'io penso e mi pensai dal punto

che dalla tenda dell'irato Achille

via menasti, o gran re, la giovinetta

Brisėide, sprezzato il nostro avviso.

Ben io, lo sai, con molti e caldi preghi

ti sconfortai dall'opra: ma tu spinto

dall'altero tuo cor onta facesti

al fortissimo eroe, dagl'Immortali

stessi onorato, e il premio gli rapisti

de' suoi sudori, e ancor lo ti ritieni.

Or tempo egli è di consultar le guise

di blandirlo e piegarlo, o con eletti

doni o col dolce favellar che tocca.

Tu parli il vero, Agamennón rispose,

parli il vero pur troppo, enumerando

i miei torti, o buon vecchio. Errai, nol nego:

val molte squadre un valoroso in cui

ponga Giove il suo cor, siccome in questo

per lo cui solo onor doma gli Achei.

Ma se ascoltando un mal desìo l'offesi,

or vo' placarlo, e il presentar di molti

onorevoli doni, e a voi qui tutti

li dirò: sette tripodi, non anco

tocchi dal foco; dieci aurei talenti;

due volte tanti splendidi lebeti;

dodici velocissimi destrieri

usi nel corso a riportarmi i primi

premii, e di tanti già mi fêr l'acquisto,

che povero per certo e di ricchezze

desideroso non sarìa chi tutti

li possedesse. Donerogli in oltre

di suprema beltà sette captive

lesbie donzelle a meraviglia sperte

nell'opre di Minerva, e da me stesso

trascelte il dì che Lesbo ei prese. A queste

aggiungo la rapita a lui poc'anzi

Brisėide, e farò giuro solenne

ch'unqua il suo letto non calcai. Ciò tutto

senza indugio fia pronto. Ove gli Dei

ne concedano poscia il porre al fondo

la troiana città, primiero ei vada,

nel partir delle spoglie, a ricolmarsi

d'oro e bronzo le navi, e si trascelga

venti bei corpi di dardanie donne

dopo l'argiva Elèna le più belle.

Di più: se d'Argo riveder n'è dato

le care sponde, ei genero sarammi

onorato e diletto al par d'Oreste,

ch'unico germe a me del miglior sesso

ivi s'edùca alle dovizie in seno.

Ho di tre figlie nella reggia il fiore,

Crisotemi, Laòdice, Ifianassa.

Qual più d'esse il talenta a sposa ei prenda

senza dotarla, ed a Pelèo la meni.

Doterolla io medesmo, e di tal dote

qual non s'ebbe giammai altra donzella:

sette città, Cardàmile ed Enòpe,

le liete di bei prati Ira ed Antèa,

l'inclita Fere, Epèa la bella, e Pèdaso

d'alme viti feconda: elle son poste

tutte quante sul mar verso il confine

dell'arenosa Pilo, e dense tutte

di cittadini che di greggi e mandre

ricchissimi, co' doni al par d'un Dio

l'onoreranno, e di tributi opimi

faran bello il suo scettro. Ecco di quanto

gli farò dono se depor vuol l'ira.

Placar si lasci: inesorato è il solo

Pluto, e per questo il più abborrito iddio.

Rammenti ancora che di grado e d'anni

io gli vo sopra; lo rammenti, e ceda.

Potentissimo Atride Agamennóne,

riprese il veglio cavalier, pregiati

sono i doni che appresti al re Pelìde.

Senza dunque indugiar alla sua tenda

si mandino i legati. Io stesso, o sire,

li nomerò, né alcun mi fia ritroso:

primamente Fenice, al sommo Giove

carissimo mortale, e capo ei sia

dell'imbasciata. Il seguirà col grande

Aiace il divo Ulisse, e degli araldi

n'andran Hodio ed Eurìbate. Frattanto

date l'acqua alle mani, e comandate

alto silenzio, acciò che salga a Giove

la nostra prece, e la pietà ne svegli.

Disse; e a tutti fu caro il suo consiglio.

Dier le linfe alle mani i banditori;

lesti i donzelli coronār di liete

spume le tazze, e le portaro in giro:

e libato e gustato a pien talento

il devoto licore, uscīr veloci

dalla tenda regal gli ambasciadori;

e molti avvisi porgea lor per via

il buon veglio, girando a ciascheduno,

principalmente di Laerte al figlio,

le parlanti pupille, e a tentar tutte

le vie gli esorta d'ammansar quel fiero.

Del risonante mar lungo la riva

avviārsi i legati, supplicando

dall'imo cor l'Enosigèo Nettunno

perché d'Achille la grand'alma ei pieghi.

Alle tende venuti ed alle navi

de' Mirmidóni, ritrovār l'eroe

che ricreava colla cetra il core,

cetra arguta e gentil, che la traversa

avea d'argento, e spoglia era del sacco

della città d'Eezïon distrutta.

Su questa degli eroi le glorïose

geste cantando raddolcìa le cure:

Solo a rincontro gli sedea Patròclo

aspettando la fin del bellicoso

canto in silenzio riverente. Ed ecco

dall'Itaco precessi all'improvviso

avanzarsi i legati, e al suo cospetto

rispettosi sostar. Alzasi Achille

del vederli stupito, ed abbandona

colla cetra lo seggio; alzasi ei pure

di Menèzio il buon figlio, e lor porgendo

il Pelìde la man, Salvete, ei dice,

voi mi giungete assai graditi: al certo

vi trae grand'uopo: benché irato, io v'amo

sovra tutti gli Achei. - Così dicendo,

dentro la tenda interïor li guida,

in alti scanni fa sederli sopra

porporini tappeti, ed a Patròclo

che accanto gli venìa, Recami, disse,

o mio diletto, il mio maggior cratere,

e mesci del più puro, ed apparecchia

il suo nappo a ciascun: sotto il mio tetto

oggi entrār generose anime care.

Disse; e Patròclo del suo dolce amico

alla voce obbedì. Su l'ignee vampe

concavo bronzo di gran seno ei pose,

e dentro vi tuffò di pecorella

e di scelta capretta i lombi opimi

con esso il pingue saporoso tergo

di saginato porco. Intenerite

così le carni, Automedonte in alto

le sollevava; e con forbito acciaro

acconciamente le incidea lo stesso

divino Achille, e le infiggea ne' spiedi.

Destava intanto un grande foco il figlio

di Menèzio, e conversi in viva bragia

i crepitanti rami, e già del tutto

queta la fiamma, delle brage ei fece

ardente un letto, e gli schidion vi stese;

del sacro sal gli asperse, e tolte alfine

dagli alari le carni abbrustolate

sul desco le posò; prese di pani

un nitido canestro, e su la mensa

distribuilli; ma le apposte dapi

spartìa lo stesso Achille, assiso in faccia

ad Ulisse col tergo alla parete.

Ciò fatto, ingiunse al suo diletto amico

le sacre offerte ai numi; e quei nel foco

le primizie gettò. Stesero tutti

allor le mani all'imbandito cibo.

Come fur sazi, fe' degli occhi Aiace

al buon Fenice un cotal cenno: il vide

lo scaltro Ulisse, e ricolmato il nappo,

al grande Achille propinollo, e disse:

Salve, Achille; poc'anzi entro la tenda

d'Atride, ed ora nella tua di lieto

cibo noi certo ritroviam dovizia;

ma chi di cibo può sentir diletto

mentre sul capo ci veggiam pendente

un'orrenda sciagura, e sul periglio

delle navi si trema? E periranno,

se tu, sangue divin, non ti rivesti

di tua fortezza, e non ne rechi aita.

Gli orgogliosi Troiani e gli alleati

imminente all'armata e al nostro muro

han posto il campo, e mille fuochi accesi,

e fan minaccia d'avanzarsi arditi,

e le navi assalir. Giove co' lampi

del suo favor gli affida; Ettore i truci

occhi volgendo d'ogni parte, e molto

delle sue forze altero e del suo Giove,

terribilmente infuria, e non rispetta

né mortali né Dei (tanto gl'invade

furor la mente), e della nuova aurora

già le tardanze accusa, e freme, e giura

di venirne a schiantar di propria mano

delle navi gli aplustri, ed a scagliarvi

dentro le fiamme, e incenerirle tutte,

e tutti tra le vampe istupiditi

ancidere gli Achivi. Or io di forte

timor la mente contristar mi sento,

che le costui minacce avversi numi

non mandino ad effetto, e che non sia

delle Parche decreto il dover noi

lungi d'Argo perir su queste rive.

Ma tu deh! sorgi, e benché tardi, accorri

a preservar dall'inimico assalto

i desolati Achei. Se gli abbandoni,

alto cordoglio un dì n'avrai, né al danno

troverai più riparo. A tempo adunque

l'antivieni prudente, ed allontana

dall'argolica gente il giorno estremo.

Ricòrdati, mio caro, i saggi avvisi

del tuo padre Pelèo, quando di Ftia

invïotti all'Atride. Amato figlio,

(il buon vecchio dicea) Minerva e Giuno,

se fia lor grado, ti daran fortezza;

ma tu nel petto il cor superbo affrena,

ché cor più bello è il mansueto; e tienti

(onde più sempre e giovani e canuti

t'onorino gli Achei), tienti remoto

dalla feconda d'ogni mal Contesa.

Questi del veglio i bei ricordi fûro:

tu gli obblïasti. Ten sovvenga adesso,

e la trista una volta ira deponi.

Ti sarà, se lo fai, largo di cari

doni l'Atride. Nella tenda ei dianzi

l'impromessa ne fece: odili tutti.

Sette tripodi intatti, e dieci d'oro

talenti, e venti splendidi lebeti;

dodici velocissimi destrieri

usi nel corso a riportarne i primi

premii, e già tanti n'acquistār, che brama

più di ricchezze non avrìa chi tutti

li possedesse. Ti largisce inoltre

sette d'alma beltà lesbie donzelle

d'ago esperte e di spola, e da lui stesso

per lor suprema leggiadrìa trascelte

il dì che Lesbo tu espugnavi. A queste

la figlia aggiunge di Brisèo, giurando

che intatta, o prence, la ti rende. E tutte

pronte son queste cose. Ove poi Troia

ne sia dato atterrar, tu primo andrai,

nel partir della preda, a ricolmarti

d'oro e di bronzo i tuoi navigli, e dieci

captive e dieci ti scerrai tenute

dopo l'Argiva Elèna le più belle.

Di più: se d'Argo rivedrem le rive,

tu genero sarai del grande Atride,

e in onoranza e nella copia accolto

d'ogni cara dovizia al par del suo

unico Oreste. Delle tre che il fanno

beato genitor alme fanciulle,

Crisotemi, Laòdice, Ifianassa,

prendi quale vorrai senza dotarla.

Doteralla lo stesso Agamennóne

di tanta dote e tal, ch'altra giammai

regal donzella la simìl non s'ebbe;

sette città, Cardamile ed Enòpe,

Ira, Pedaso, Antèa, Fere ed Epèa,

tutte belle marittime contrade

verso il pilio confin, tutte frequenti

d'abitatori, a cui di molte mandre

s'alza il muggito, e che di bei tributi

t'onoreranno al par d'un Dio. Ciò tutto

daratti Atride, se lo sdegno acqueti.

Ché se lui sempre e i suoi presenti abborri,

abbi almeno pietà degli altri Achei

là nelle tende costernati e chiusi,

che t'avranno qual nume, ed alle stelle

la tua gloria alzeran. Vien dunque, e spegni

questo Ettòr che furente a te si para,

e vanta che nessun di quanti Achivi

qua navigaro, di valor l'eguaglia.

Divino senno, Laerzìade Ulisse,

rispose Achille, senza velo, e quali

il cor li detta e proveralli il fatto,

m'è d'uopo palesar dell'alma i sensi,

onde cessiate di garrirmi intorno.

Odio al par della porte atre di Pluto

colui ch'altro ha sul labbro, altro nel core:

ma ben io dirò netto il mio pensiero.

Né il grande Atride Agamennón, né alcuno

me degli Achivi piegherà. Qual prezzo,

qual ricompensa delle assidue pugne?

Di chi poltrisce e di chi suda in guerra

qui s'uguaglia la sorte: il vile usurpa

l'onor del prode, e una medesma tomba

l'infingardo riceve e l'operoso.

Ed io che tanto travagliai, che a tanti

rischi di Marte la mia vita esposi,

che guadagni, per dio, che guiderdone

su gli altri ottenni? In vero il meschinello

augel son io, che d'esca i suoi provvede

piccioli implumi, e sé medesmo obblìa.

Quante, senza dar sonno alle palpèbre,

trascorse notti! quanti giorni avvolto

in sanguinose pugne ho combattuto

per le ree mogli di costor! Conquisi

guerreggiando sul mar dodici altere

cittadi; ne conquisi undici a piede

dintorno ai campi d'Ilïon; da tutte

molte asportai pregiate spoglie, e tutte

all'Atride le cessi, a lui che inerte

rimasto indietro, nell'avare navi

le ricevea superbo, e dividendo

altrui lo peggio riserbossi il meglio;

o s'alcun dono agli altri duci ei fenne,

nol si ritolse almeno. Io sol del mio

premio fui spoglio, io solo; egli la donna

del mio cor si ritiene, e ne gioisce.

A che mai questa degli Achei co' Teucri

cotanta guerra? a che raccolse Atride

qui tant'armi? Non forse per la bella

Elena? Ma l'amor delle consorti

tocca egli forse il cor de' soli Atridi?

Ogni buono, ogni saggio ama la sua,

e tienla in pregio, siccom'io costei

carissima al mio cor, quantunque ancella.

Or ch'egli dalle man la mi rapìo

con fatto iniquo, di piegar non tenti

me da sue frodi ammaestrato assai.

Teco, Ulisse, e co' suoi re tanti ei dunque

consulti il modo di sottrar l'armata

alle fiamme nemiche. E quale ha d'uopo

ei del mio braccio? Senza me già fece

di gran cose. Innalzato ha un alto muro,

lungo il muro ha scavato un largo e cupo

fosso, e nel fosso un gran palizzo infisse.

Mirabil opra! che dal fiero Ettorre

nol fa sicuro ancor, da quell'Ettorre

che, mentre io parvi fra gli Achei, scostarsi

non ardìa dalle mura, o non giugnea

che sino al faggio delle porte Scee.

Sola una volta ei là m'attese, e a stento

poté sottrarsi all'asta mia. Ma nullo

più conflitto vogl'io con quel guerriero,

nullo: e offerti dimani al sommo Giove

e agli altri numi i sacrifici, e tratte

tutte nel mare le mie carche navi,

sì, dimani vedrai, se te ne cale,

coll'aurora spiegar sull'Ellesponto

i miei legni le vele, ed esultanti

tutte di lieti remator le sponde.

Se di prospero corso il buon Nettunno

cortese mi sarà, la terza luce

di Ftia porrammi su la dolce riva.

Ivi molta lasciai propria ricchezza

qua venendo in mal punto, ivi molt'altra

ne reco in oro, e in fulvo rame, e in terso

splendido ferro e in eleganti donne,

tutto tesoro a me sortito. Il solo

premio ne manca che mi diè l'Atride,

e re villano mel ritolse ei poscia.

Torna dunque all'ingrato, e gli riporta

tutto che dico, e a tutti in faccia, ond'anco

negli altri Achei si svegli una giust'ira

e un avvisato diffidar dell'arti

di quel franco impudente, che pur tale

non ardirebbe di mirarmi in fronte.

Digli che a parte non verrò giammai

né di fatto con lui né di consiglio;

che mi deluse; che mi fece oltraggio;

che gli basti l'aver tanto potuto

sola una volta, e che mal fonda in vane

ciance la speme d'un secondo inganno.

Digli che senza più turbarmi corra

alla ruina a cui l'incalza Giove

che di senno il privò: digli che abborro

suoi doni, e spregio come vil mancipio

il donator. Né s'egli e dieci e venti

volte gli addoppii, né se tutto ei m'offra

ciò ch'or possiede, e ciò ch'un dì venirgli

potrìa d'altronde, e quante entran ricchezze

in Orcomèno e nell'egizia Tebe

per le cento sue porte e li dugento

aurighi co' lor carri a ciascheduna;

mi fosse ei largo di tant'oro alfine

quanto di sabbia e polve si calpesta,

né così pur si speri Agamennóne

la mia mente inchinar prima che tutto

pagato ei m'abbia dell'offesa il fio.

Non vo' la figlia di costui. Foss'ella

pari a Minerva nell'ingegno, e il vanto

di beltà contendesse a Citerea,

non prenderolla in mia consorte io mai.

Serbila ad altro Acheo che al grand'Atride

più di grado s'adegui e di possanza.

A me, se salvo raddurranmi i numi

al patrio tetto, a me scerrà lo stesso

Pelèo lo sposa. Han molte Ellade e Ftia

figlie di regi assai possenti: e quale

di lor vorrò, legittima e diletta

moglie farolla, e mi godrò con essa

nella pace, a cui stanco il cor sospira,

il paterno retaggio. E parmi in vero

che di mia vita non pareggi il prezzo

né tutta l'opulenza in Ilio accolta

pria della giunta degli Achei, né quanto

tesor si chiude nel marmoreo templo

del saettante Apollo in sul petroso

balzo di Pito. Racquistar si ponno

e tripodi e cavalli e armenti e greggi;

ma l'alma, che passò del labbro il varco,

chi la racquista? chi del freddo petto

la riconduce a ravvivar la fiamma?

Meco io porto (la Dea madre mel dice)

doppio fato di morte. Se qui resto

a pugnar sotto Troia, al patrio lido

m'è tolto il ritornar, ma d'immortale

gloria l'acquisto mi farò. Se riedo

al dolce suol natìo, perdo la bella

gloria, ma il fiore de' miei dì non fia

tronco da morte innanzi tempo, ed io

lieta godrommi e dïuturna vita.

Questa m'eleggo, e gli altri tutti esorto

a rimbarcarsi e abbandonar di Troia

l'impossibil conquista. Il Dio de' tuoni

su lei stese la mano, e rincorārsi

i suoi guerrieri. Itene adunque, e come

di legati è dover, le mie risposte

ai prenci achivi riferendo, dite

che a preservar le navi e il campo argivo

lor fa mestiero ruminar novello

miglior partito, ché il già preso è vano.

Inesorata è l'ira mia. Fenice

qui rimanga e riposi: al nuovo giorno

seguirammi, se il vuole, alla diletta

patria. Di forza nol trarrò giammai.

Disse: e l'alto parlare e l'aspro niego

tutti li fece sbalorditi e muti.

Ruppe alfin quel silenzio il cavaliero

veglio Fenice, e sul destin tremando

delle argoliche navi, ed ai sospiri

mescendo i pianti, così prese a dire:

Se in tuo pensiero è fissa, inclito Achille,

la tua partenza, se nell'ira immoto

di niuna guisa allontanar non vuoi

gli ostili incendii dalla classe achea,

come, ahi come poss'io, diletto figlio,

qui restar senza te? Teco mandommi

il tuo canuto genitor Pelèo

quel giorno che all'Atride Agamennóne

invïotti da Ftia, fanciullo ancora

dell'arte ignaro dell'acerba guerra,

e dell'arte del dir che fama acquista.

Quindi ei teco spedimmi, onde di questi

studi erudirti, e farmi a te nell'opre

della lingua maestro e della mano.

A niun conto vorrei dunque, mio caro,

dispiccarmi da te, no, s'anco un Dio,

rasa la mia vecchiezza, mi prometta

rinverdir le mie membra, e ritornarmi

giovinetto qual era allor che il suolo

d'Ellade abbandonai, l'ira fuggendo

e un atroce imprecar del padre mio

Amintore d'Orméno. Era di questa

ira cagione un'avvenente druda

ch'egli, sprezzata la consorte, amava

follemente. Abbracciò le mie ginocchia

la tradita mia madre, e supplicommi

di mischiarmi in amor colla rivale,

e porle in odio il vecchio amante. Il feci.

Reso accorto di questo il genitore,

mi maledisse, ed invocò sul mio

capo l'orrendi Eumenidi, pregando

che mai concesso non mi fosse il porre

sul suo ginocchio un figlio mio. L'udiro

il sotterraneo Giove e la spietata

Proserpina, e il feral voto fu pieno.

Carco allor della sacra ira del padre,

non mi sofferse il cor di più restarmi

nelle case paterne. E servi e amici

e congiunti mi fean con caldi preghi

dolce ritegno, ed in allegre mense

stornar volendo il mio pensier, si diero

a far macco d'agnelle e di torelli,

a rosolar sul foco i saginati

lombi suìni, a tracannar del veglio

l'anfore in serbo. Nove notti al fianco

mi fur essi così con veglie alterne

e con perpetui fuochi, un sotto il portico

del ben chiuso cortil, l'altro alle soglie

della mia stanza nell'andron. Ma quando

della decima notte il buio venne,

l'uscio sconfissi, e della stanza evaso

varcai d'un salto della corte il muro,

né de' custodi alcun né dell'ancelle

di mia fuga s'avvide. Errai gran pezza

per l'ellade contrada, e giunto ai campi

della feconda pecorosa Ftia,

trassi al cospetto di Pelèo. M'accolse

lietamente il buon sire, e mi dilesse

come un padre il figliuol ch'unico in largo

aver gli nasca nell'età canuta:

e di popolo molto e di molt'oro

fattomi ricco, l'ultimo confine

di Ftia mi diede ad abitar, commesso

de' Dolopi il governo alla mia cura.

Son io, divino Achille, io mi son quegli

che ti crebbi qual sei, che caramente

t'amai; né tu volevi bambinello

ir con altri alla mensa, né vivanda

domestica gustar, ov'io non pria

adagiato t'avessi e carezzato

su' miei ginocchi, minuzzando il cibo,

e porgendo la beva che dal labbro

infantil traboccando a me sovente

irrigava sul petto il vestimento.

Così molto soffersi a tua cagione,

e consolava le mie pene il dolce

pensier che, i numi a me negando un figlio

generato da me, tu mi saresti

tal per amore divenuto, e tale

m'avresti salvo un dì da ria sciagura.

Doma dunque, cor mio, doma l'altero

tuo spirto: disconviene una spietata

anima a te che rassomigli i numi:

ché i numi stessi, sì di noi più grandi

d'onor, di forza, di virtù, son miti;

e con vittime e voti e libamenti

e odorosi olocausti il supplicante

mortal li placa nell'error caduto.

Perocché del gran Giove alme figliuole

son le Preghiere che dal pianto fatte

rugose e losche con incerto passo

van dietro ad Ate ad emendarla intese.

Vigorosa di piè questa nocente

forte Dea le precorre, e discorrendo

la terra tutta l'uman germe offende.

Esse van dopo, e degli offesi han cura.

Chi dispettoso queste Dee riceve,

ne va colmo di beni ed esaudito;

chi pertinace le respinge indietro,

ne spermenta lo sdegno. Esse del padre

si presentano al trono, e gli fan prego

ch'Ate ratta inseguisca, e al fio suggetti

l'inesorato che al pregar fu sordo.

Trovin dunque di Giove oggi le figlie

appo te quell'onor ch'anco de' forti

piega le menti. Se al tuo piè di molti

doni l'offerta non mettesse Atride

coll'impromessa di molt'altri poscia,

e persistesse in suo rancor, non io

t'esorterei di por giù l'ira, e all'uopo

degli Achivi volar, comunque afflitti;

ma molti di presente egli ne porge,

ed altri poi ne profferisce, e i duci

miglior trascelti tra gli Achei t'invìa,

e a te stesso i più cari a supplicarti.

Non disprezzarne la venuta e i preghi,

onde l'ira, che pria giusta pur era,

non torni ingiusta. Degli andati eroi

somma laude fu questa, allor che grave

li possedea corruccio, alle preghiere

placarsi, né sdegnar supplici doni.

Opportuno sovviemmi un fatto antico,

che quale avvenne io qui fra tutti amici

narrerò. Combattean ferocemente

con gli Etòli i Cureti anzi alle mura

di Calidone, ad espugnarla questi,

a difenderla quelli; e gli uni e gli altri,

gente d'alto valor, con mutue stragi

si distruggean. Commossa avea tal guerra

di Dïana uno sdegno, e del suo sdegno

fu la cagione Enèo che, de' suoi campi

terminata la messe, e offerti ai numi

i consueti sacrifici, sola

(fosse spregio od obblìo) lasciato avea

senza offerte la Diva. Ella di questo

altamente adirata un fero spinse

cinghial d'Enèo ne' campi, che tremendo

tutte atterrava col fulmineo dente

le fruttifere piante. Il forte Enìde

Meleagro alla fin, dalle propinque

città raccolto molto nerbo avendo

di cacciatori e cani, a morte il mise;

né minor forza si chiedea: tant'era

smisurata la belva, e tanti al rogo

n'avea sospinti. Ma la Dea pel teschio

e per la pelle dell'irsuta fera

tra i Cureti e gli Etòli una gran lite

suscitò. Finché in campo il bellicoso

Meleagro comparve, andār disfatti,

benché molti, i Cureti, e approssimarse

unqua alle mura non potean. Ma l'ira,

che anche i più saggi invade, il petto accese

di Meleagro, e la destò la madre

Altèa che, forte pe' fratelli uccisi

crucciosa, il figlio maledisse, e il suolo

colle man percotendo inginocchiata

e forsennata con orrendi preghi

di gran pianto confusi il negro Pluto

supplicava e la rigida mogliera

di dar morte all'eroe: né dal profondo

orco fu sorda l'implacata Erinni.

Del materno furor sdegnato il figlio

lungi dall'armi si ritrasse in braccio

alla bella consorte Cleopatra,

di Marpissa Evenina e del possente

Ida figliuola, di quell'Ida io dico

che tra' guerrieri de' suoi tempi il grido

di fortissimo avea, tanto che contra

lo stesso Apollo per la tolta ninfa

ardì l'arco impugnar. Mutato poscia

di Cleopatra il nome, i genitori

la chiamaro Alcïon, perché simìle

alla mesta Alcïon gemea la madre

quando rapilla il saettante Iddio.

Con gran furore intanto eran le porte

di Calidone e le turrite mura

combattute e percosse. Eletta schiera

di venerandi vegli e sacerdoti

a Meleagro deputati il prega

di venir, di respingere il nemico,

a sua scelta offerendo di cinquanta

iugeri il dono, del miglior terreno

di tutto il caledonio almo paese,

parte alle viti acconcio e parte al solco.

Molto egli pure il genitor lo prega,

dell'adirato figlio alle sublimi

soglie traendo il senil fianco, e in voce

supplicante del talamo picchiando

alle sbarrate porte. Anche le suore,

anche la madre già pentita orando

chiedean mercede; ed ei più fermo ognora

la ricusava. Accorsero gli amici

i più cari e diletti; e su quel core

nulla poteva degli amici il prego:

finché le porte da sonori e spessi

colpi battute, lo fêr certo alfine

che scalate i Cureti avean le mura,

e messo il foco alla città. Piangente

la sua bella consorte allor si fece

a deprecarlo, ed alla mente tutti

d'una presa città gli orrendi mali

gli dipinse: trafitti i cittadini,

arse le case, ed in catene i figli

strascinati e le spose. Si commosse

all'atroce pensier l'alma superba,

prese l'armi, volò, vinse, e gli Etòli

salvò; ma solo dal suo cor sospinto.

Quindi alcun dono non ottenne, e il tardo

beneficio rimase inonorato.

Non imitar cotesto esempio, o figlio,

né vi ti spinga demone maligno:

ché il soccorso indugiar, finché le navi

s'incendano, maggior onta sarìa.

Vieni, imita gli Dei, gli offerti doni

non disdegnar. Se li dispregi, e poscia

volontario combatti, egual non fia,

benché ritorni vincitor, l'onore.

Qui tacque il veglio, e brevemente Achille

in questi detti replicò: Fenice,

caro alunno di Giove, ed a me caro

padre, di questo onor non ho bisogno.

L'onor ch'io cerco mi verrà da Giove,

e qui pure davanti a queste antenne

l'avrò fin che vitale aura mi spiri,

fin che il piè mi sorregga. Altra or vo' dirti

cosa che in mente riporrai. Per farti

grato all'Atride non venir con pianti

né con lagni a turbarmi il cor più mai.

Non amar contra il giusto il mio nemico,

se l'amor mio t'è caro, e meco offendi

chi m'offende, ché questo ti sta meglio.

Del mio regno partecipa, e diviso

sia teco ogni onor mio. Riporteranno

questi le mie risposte, e tu qui dormi

sovra morbido letto. Al nuovo sole

consulterem se starci, o andar si debba.

Disse; e a Patròclo fe' degli occhi un cenno

d'allestire al buon veglio un colmo letto,

onde gli altri a lasciar tosto la tenda

volgessero il pensiero. In questo mezzo

vòlto ad Ulisse il gran Telamonìde,

Partiam, diss'egli, ché per questa via

parmi che vano il ragionar rïesca.

Benché ingrata, n'è forza il recar pronti

la risposta agli Achei, che impazïenti,

e forse ancora in assemblea seduti

l'attendono. Feroce alma superba

chiude Achille nel petto: indegnamente

l'amistà de' compagni egli calpesta,

né ricorda l'onor che gli rendemmo

su gli altri tutti. Dispietato! Il prezzo

qualcuno accetta dell'ucciso figlio,

o del fratello; e l'uccisor, pagata

del suo fallo la pena, in una stessa

città dimora col placato offeso.

Ma inesorata ed indomata è l'ira

che a te pose nel petto un dio nemico;

per chi? per una donzelletta! e sette

noi te n'offriamo a maraviglia belle,

e molt'altre più cose. Or via, rivesti

cor benigno una volta. Abbi rispetto

ai santi dritti dell'ospizio almeno,

ch'ospiti tuoi noi siamo, e dal consesso

degli Achei ne venimmo, a te fra tutti

i più cari ed amici. - Illustre figlio

di Telamone, gli rispose Achille,

ottimo io sento il tuo parlar; ma l'ira

mi rigonfia qualor penso a colui

che in mezzo degli Achei mi vilipese

come un vil vagabondo. Andate, e netta

la risposta ridite. Alcun pensiero

non tenterammi di pugnar, se prima

il Prïamìde bellicoso Ettorre

fino al quartier de' Mirmidoni il foco

e la strage non porti. Ov'egli ardisca

assalir questa tenda e questa nave,

saprò la furia rintuzzarne, io spero.

Sì disse; e quegli, alzato il nappo e fatta

la libagion, partīrsi; e taciturno

li precedeva di Laerte il figlio.

A' suoi sergenti intanto ed all'ancelle

Patroclo impone d'apprestar veloci

soffice letto al buon Fenice; e pronte

quelle obbedendo steser d'agnelline

pelli uno strato, vi spiegār di sopra

di finissimo lino una sottile

candida tela, e su la tela un'ampia

purpurea coltre; e qui ravvolto il vecchio

aspettando l'aurora si riposa.

Nel chiuso fondo della tenda ei pure

ritirossi il Pelìde, ed al suo fianco

lesbia fanciulla di Forbante figlia

si corcò la gentil Dïomedea.

Dormì Patròclo in altra parte, e a lato

Ifi gli giacque, un'elegante schiava

che il Pelìde donògli il dì che l'alta

Sciro egli prese d'Enïeo cittade.

Giunti i legati al padiglion d'Atride,

sursero tutti e con aurate tazze

e affollate dimande i prenci achivi

gli accolsero. Primiero interrogolli

il re de' forti Agamennón: Preclaro

della Grecia splendor, inclito Ulisse,

parla: vuol egli dalle fiamme ostili

servar l'armata? o d'ira ancor ripieno

il cor superbo, di venir ricusa?

Glorïoso signor, rispose il saggio

di Laerte figliuol, non che gli sdegni

ammorzar, li raccende egli più sempre,

e te dispregia e i tuoi presenti, e dice

che del come salvar le navi e il campo

co' duci achivi ti consulti. Aggiunse

poi la minaccia, che il novello sole

varar vedrallo le sue navi; e gli altri

a rimbarcarsi esorta, ché dell'alto

Ilio l'occaso non vedrem, dic'egli,

giammai: la mano del Tonante il copre,

e rincorārsi i Teucri. Ecco i suoi sensi,

che questi a me consorti, il grande Aiace

e i saggi araldi confermar ti ponno.

Il vegliardo Fenice è là rimasto

per suo cenno a dormir, onde dimani

seguitarlo, se il vuole, al patrio lido:

non farà forza al suo voler, se il niega.

D'alto stupor percossi alla feroce

risposta, tutti ammutoliro i duci,

e lunga pezza taciturni e mesti

si restār. Finalmente in questi detti

proruppe il fiero Dïomede: Eccelso

sire de' prodi, glorïoso Atride,

non avessi tu mai né supplicato

né fatta offerta di cotanti doni

all'altero Pelìde. Era superbo

egli già per se stesso; or tu n'hai fatto

montar l'orgoglio più d'assai. Ma vada,

o rimanga, di lui non più parole.

Lasciam che il proprio genio, o qualche iddio

lo ridesti alla pugna. Or secondiamo

tutti il mio dir. Di cibo e di lïeo,

fonte d'ogni vigor, vi ristorate,

e nel sonno immergete ogni pensiero.

Tosto che schiuda del mattin le porte

il roseo dito della bella Aurora,

metti in punto, o gran re, fanti e cavalli

nanzi alle navi, e a ben pugnar gl'istiga,

e combatti tu stesso alla lor testa.

Disse, e tutti applaudīr lodando a cielo

l'alto parlar di Dïomede i regi;

e fatti i libamenti, alla sua tenda

s'incamminò ciascuno. Ivi le stanche

membra accolser del sonno il dolce dono.

 

 

LIBRO DECIMO

 

 

Tutti per l'alta notte i duci achei

dormìan sul lido in sopor molle avvinti;

ma non l'Atride Agamennón, cui molti

toglieano il dolce sonno aspri pensieri.

Quale il marito di Giunon lampeggia

quando prepara una gran piova o grandine,

o folta neve ad inalbare i campi,

o fracasso di guerra voratrice;

spessi così dal sen d'Agamennóne

rompevano i sospiri, e il cor tremava.

Volge lo sguardo alle troiane tende,

e stupisce mirando i molti fuochi

ch'ardon dinanzi ad Ilio, e non ascolta

che di tibie la voce e di sampogne

e festivo fragor. Ma quando il campo

acheo contempla ed il tacente lido,

svellesi il crine, al ciel si lagna, ed alto

geme il cor generoso. Alfin gli parve

questo il miglior consiglio, ir del Nelìde

Nestore in traccia a consultarne il senno,

onde qualcuna divisar con esso

via di salute alla fortuna achea.

Alzasi in questa mente, intorno al petto

la tunica s'avvolge, ed imprigiona

ne' bei calzari il piede. Indi una fulva

pelle s'indossa di leon, che larga

gli discende al calcagno, e l'asta impugna.

Né di minor sgomento a Menelao

palpita il petto; e fura agli occhi il sonno

l'egro pensier de' periglianti Achivi,

che a sua cagione avean per tanto mare

portato ad Ilio temeraria guerra.

Sul largo dosso gittasi veloce

una di pardo maculata pelle,

ponsi l'elmo alla fronte, e via brandito

il giavellotto, a risvegliar s'affretta

l'onorato, qual nume, e dagli Argivi

tutti obbedito imperador germano;

ed alla poppa della nave il trova

che le bell'armi in fretta si vestìa.

Grato ei n'ebbe l'arrivo: e Menelao

a lui primiero, Perché t'armi, disse,

venerando fratello? Alcun vuoi forse

mandar de' nostri esplorator notturno

al campo de' Troiani? Assai tem'io

che alcuno imprenda d'arrischiarsi solo

per lo buio a spïar l'oste nemica,

ché molta vuolsi audacia a tanta impresa.

Rispose Agamennón: Fratello, è d'uopo

di prudenza ad entrambi e di consiglio

che gli Argivi ne scampi e queste navi,

or che di Giove si voltò la mente,

e d'Ettore ha preferti i sacrifici:

ch'io né vidi giammai né d'altri intesi,

che un solo in un sol dì tanti potesse

forti fatti operar quanti il valore

di questo Ettorre a nostro danno; e a lui

non fu madre una Dea, né padre un Dio:

e temo io ben che lungamente afflitti

di tanto strazio piangeran gli Achivi.

Or tu vanne, e d'Aiace e Idomenèo

ratto vola alle navi, e li risveglia,

ché a Nestore io ne vado ad esortarlo

di tosto alzarsi e di seguirmi al sacro

stuol delle guardie, e comandarle. A lui

presteran più che ad altri obbedïenza:

perocché delle guardie è capitano

Trasimède suo figlio, e Merïone

d'Idomenèo l'amico, a' quai commesso

è delle scolte il principal pensiero.

E che poi mi prescrive il tuo comando?

(replicò Menelao). Degg'io con essi

restarmi ad aspettar la tua venuta?

O, fatta l'imbasciata, a te veloce

tornar? - Rimanti, Agamennón ripiglia,

tu rimanti colà, ché disvïarci

nell'andar ne potrìan le molte strade

onde il campo è interrotto. Ovunque intanto

t'avvegna di passar leva la voce,

raccomanda le veglie, ognun col nome

chiama del padre e della stirpe, a tutti

largo ti mostra d'onoranze, e poni

l'alterezza in obblìo. Prendiam con gli altri

parte noi stessi alla comun fatica,

perché Giove noi pur fin dalla cuna,

benché regi, gravò d'alte sventure.

Così dicendo, in via mise il fratello

di tutto l'uopo ammaestrato; ed esso

a Nestore avvïossi. Ritrovollo

davanti alla sua nave entro la tenda

corco in morbido letto. A sé vicine

armi diverse avea, lo scudo e due

lung'aste e il lucid'elmo; e non lontana

giacea di vario lavorìo la cinta,

di che il buon veglio si fasciava il fianco

quando a battaglie sanguinose armato

le sue schiere movea; ché non ancora

alla triste vecchiezza egli perdona.

All'apparir d'Atride erto ei rizzossi

sul cubito, e levata alto la fronte,

l'interrogò dicendo: E chi sei tu

che pel campo ne vieni a queste navi

così soletto per la notte oscura,

mentre gli altri mortali han tregua e sonno?

Forse alcun de' veglianti o de' compagni

vai rintracciando? Parla, e taciturno

non appressarti: che ricerchi? - E a lui

il regnatore Atride: Oh degli Achei

inclita luce, Nestore Nelìde,

Agamennón son io, cui Giove opprime

d'infinito travaglio, e fia che duri

finché avrà spirto il petto e moto il piede.

Vagabondo ne vo poiché dal ciglio

fuggemi il sonno, e il rio pensier mi grava

di questa guerra e della clade achea.

De' Danai il rischio mi spaventa: inferma

stupidisce la mente, il cor mi fugge

da' suoi ripari, e tremebondo è il piede.

Tu se cosa ne mediti che giovi

(quando il sonno s'invola anco a' tuoi lumi),

sorgi, e alle guardie discendiam. Veggiamo

se da veglia stancate e da fatica

siensi date al dormir, posta in obblìo

la vigilanza. Del nemico il campo

non è lontano, né sappiam s'ei voglia

pur di notte tentar qualche conflitto.

Disse; e il gerenio cavalier rispose:

Agamennóne glorïoso Atride,

non tutti adempirà Giove pietoso

i disegni d'Ettore e le speranze.

Ben più vero cred'io che molti affanni

sudar d'ambascia gli faran la fronte

se desterassi Achille, e la tenace

ira funesta scuoterà dal petto.

Or io volonteroso ecco ti seguo:

andianne, risvegliam dal sonno i duci

Dïomede ed Ulisse, ed il veloce

Aiace d'Oilèo, e di Filèo

il forte figlio; e si spedisca intanto

alcun di tutta fretta a richiamarne

pur l'altro Aiace e Idomenèo che lungi

agli estremi del campo hanno le navi.

Ma quanto a Menelao, benché ne sia

d'onor degno ed amico, io non terrommi

di rampognarlo (ancor che debba il franco

mio parlare adirarti), e vergognarlo

farò del suo poltrir, tutte lasciando

a te le cure, or ch'è mestier di ressa

con tutti i duci e d'ogni umìl preghiera,

come crudel necessità dimanda.

Ben altra volta (Agamennón rispose)

ti pregai d'ammonirlo, o saggio antico,

ché spesso ei posa, e di fatica è schivo;

per pigrezza non già, né per difetto

d'accorta mente, ma perché miei cenni

meglio aspettar che antivenirli ei crede.

Pur questa volta mi precorse, e innanzi

mi comparve improvviso, ed io l'ho spinto

a chiamarne i guerrieri che tu cerchi.

Andiam, ché tutti fra le guardie, avanti

alle porte del vallo congregati

li troverem; ché tale è il mio comando.

E Nèstore a rincontro: Or degli Achei

niun ritroso a lui fia né disdegnoso,

o comandi od esorti. - In questo dire

la tunica s'avvolse intorno al petto;

al terso piede i bei calzari annoda;

quindi un'ampia s'affibbia e porporina

clamide doppia, in cui fiorìa la felpa.

Poi recossi alla man l'acuta e salda

lancia, e verso le navi incamminossi

de' loricati Achivi. E primamente

svegliò dal sonno il sapïente Ulisse

elevando la voce: e a lui quel grido

ferì l'orecchio appena, che veloce

della tenda n'uscì con questi accenti:

Chi siete che soletti errando andate

presso le navi per la dolce notte?

Qual vi spinge bisogno? - O di Laerte

magnanimo figliuol, prudente Ulisse,

(gli rispose di Pilo il cavaliero)

non isdegnarti, e del dolor ti caglia

de' travagliati Achei: vieni, che un altro

svegliarne è d'uopo, e consultar con esso

o la fuga o la pugna. - A questo detto

rïentrò l'Itacense nella tenda,

sul tergo si gittò lo scudo, e venne.

Proseguiro il cammin quindi alla volta

di Dïomede, e lo trovār di tutte

l'armi vestito, e fuor del padiglione.

Gli dormìano dintorno i suoi guerrieri

profondamente, e degli scudi al capo

s'avean fatto origlier. Fitto nel suolo

stassi il calce dell'aste, e il ferro in cima

mette splendor da lungi, a simiglianza

del baleno di Giove. Esso l'eroe

di bue selvaggio sulla dura pelle

dormìa disteso, ma purpureo e ricco

sotto il capo regale era un tappeto.

Giuntogli sopra, il cavalier toccollo

colla punta del piè, lo spinse, e forte

garrendo lo destò. Sorgi, Tidìde;

perché ne sfiori tutta notte il sonno?

Non odi che i Troiani in campo stanno

sovra il colle propinquo, e che disgiunti

di poco spazio dalle navi ei sono?

Disse; e quei si destò balzando in piedi

veloce come lampo, e a lui rivolto

con questi accenti rispondea: Sei troppo

delle fatiche tollerante, o veglio,

né ozïoso giammai. A risvegliarne

di quest'ora i re duci inopia forse

v'ha di giovani achei pronti alla ronda?

Ma tu sei veglio infaticato e strano.

E Nestore di nuovo: Illustre amico,

tu verace parlasti e generoso.

Padre io mi son d'egregi figli, e duce

di molti prodi che potrìan le veci

pur d'araldo adempir. Ma grande or preme

necessità gli Achivi, e morte e vita

stanno sul taglio della spada. Or vanne

tu che giovine sei, vanne, e il veloce

chiamami Aiace e di Filèo la prole,

se pietà senti del mio tardo piede.

Così parla il vegliardo. E Dïomede

sull'omero si getta una rossiccia

capace pelle di lïon, cadente

fino al tallone ed una picca impugna.

Andò l'eroe, volò, dal sonno entrambi

li destò, li condusse; e tutti in gruppo

s'avvïar delle guardie alle caterve:

né delle guardie abbandonato al sonno

duce alcuno trovār, ma vigilanti

tutti ed armati e in compagnia seduti.

Come i fidi molossi al pecorile

fan travagliosa sentinella udendo

calar dal monte una feroce belva

e stormir le boscaglie: un gran tumulto

s'alza sovr'essa di latrati e gridi,

e si rompe ogni sonno: così questi

rotto il dolce sopor su le palpebre,

notte vegliano amara, ognor del piano

alla parte conversi, ove s'udisse

nemico calpestìo. Gioinne il veglio,

e confortolli e disse: Vigilate

così sempre, o miei figli, e non si lasci

niun dal sonno allacciar, onde il Troiano

di noi non rida. Così detto, il varco

passò del fosso, e lo seguièno i regi

a consiglio chiamati. A lor s'aggiunse

compagno Merïone, e di Nestorre

l'inclito figlio, convocati anch'essi

alla consulta. Valicato il fosso,

fermārsi in loco dalla strage intatto,

in quel loco medesmo ove sorgiunto

Ettore dalla notte alla crudele

uccisïone degli Achei fin pose.

Quivi seduti cominciār la somma

a parlar delle cose; e in questi detti

Nestore aperse il parlamento: Amici,

havvi alcuna tra voi anima ardita

e in sé sicura, che furtiva ir voglia

de' fier Troiani al campo, onde qualcuno

de' nemici vaganti alle trinciere

far prigioniero? o tanto andar vicino,

che alcun discorso de' Troiani ascolti,

e ne scopra il pensier? se sia lor mente

qui rimanersi ad assediar le navi,

o alla città tornarsi, or che domata

han l'achiva possanza? Ei forse tutte

potrìa raccor tai cose, e ritornarne

salvo ed illeso. D'alta fama al mondo

farebbe acquisto, e n'otterrìa bel dono.

Quanti son delle navi i capitani

gli daranno una negra pecorella

coll'agnello alla poppa; e guiderdone

alcun altro non v'ha che questo adegui.

Poi ne' conviti e ne' banchetti ei fia

sempre onorato, desïato e caro.

Disse; e tutti restār pensosi e muti.

Ruppe l'alto silenzio il bellicoso

Dïomede e parlò: Saggio Nelìde,

quell'audace son io: me la fidanza,

me l'ardir persuade al gran periglio

d'insinuarmi nel dardanio campo.

Ma se meco verranne altro guerriero,

securtà crescerammi ed ardimento.

Se due ne vanno di conserva, l'uno

fa l'altro accorto del miglior partito.

Ma d'un solo, sebben veggente e prode,

tardo è il coraggio e debole il consiglio.

Disse: e molti volean di Dïomede

ir compagni: il volean ambo gli Aiaci,

il volea Merïon: più ch'altri il figlio

di Nestore il volea: chiedealo anch'esso

l'Atride Menelao: chiedea del pari

penetrar ne' troiani accampamenti

il forte Ulisse: perocché nel petto

sempre il cor gli volgea le ardite imprese.

Mosse allor le parole il grande Atride.

Diletto Dïomede, a tuo talento

un compagno ti scegli a sì grand'uopo,

qual ti sembra il miglior. Molti ne vedi

presti a seguirti; né verun rispetto

la tua scelta governi, onde non sia

che lasciato il miglior, pigli il peggiore;

né ti freni pudor, né riverenza

di lignaggio, né s'altri è re più grande.

Così parlava, del fratello amato

paventando il periglio: e fea risposta

Dïomede così: Se d'un compagno

mi comandate a senno mio l'eletta,

come scordarmi del divino Ulisse,

di cui provato è il cor, l'alma costante

nelle fatiche, e che di Palla è amore?

S'ei meco ne verrà, di mezzo ancora

alle fiamme uscirem; cotanto è saggio.

Non mi lodar né mi biasmar, Tidìde,

soverchiamente (gli rispose Ulisse),

ché tu parli nel mezzo ai consci Argivi.

Partiam: la notte se ne va veloce,

delle stelle il languir l'alba n'avvisa,

né dell'ombre riman che il terzo appena.

D'armi orrende, ciò detto, si vestiro.

A Dïomede, che il suo brando avea

obblïato alle navi, altro ne diede

di doppio taglio, ed il suo proprio scudo

il forte Trasimede. Indi alla fronte

una celata gli adattò di cuoio

taurin compatta, senza cono e cresta,

che barbuta si noma, e copre il capo

de' giovinetti. Merïone a gara

d'una spada, d'un arco e d'un turcasso

ad Ulisse fe' dono, e su la testa

un morïon gli pose aspro di pelle,

da molte lasse nell'interno tutto

saldamente frenato, e nel di fuore

di bianchissimi denti rivestito

di zannuto cinghial, tutti in ghirlanda

con vago lavorìo disposti e folti.

Grosso feltro il cucuzzolo guarnìa.

L'avea furato in Eleona un giorno

Autolico ad Amìntore d'Ormeno,

della casa rompendo i saldi muri;

quindi il ladro in Scandea diello al Citèrio

Amfidamante; Amfidamante a Molo

ospital donamento, e questi poscia

al figlio Merïon, che su la fronte

alfin lo pose dell'astuto Ulisse.

Racchiusi nelle orrende arme gli eroi

partīr, lasciando in quel recesso i duci.

E da man destra intanto su la via

spedì loro Minerva un aïrone.

Né già questi il vedean, ché agli occhi il vieta

la cieca notte, ma n'udìan lo strido.

Di quell'augurio l'Itacense allegro

a Minerva drizzò questa preghiera:

Odimi, o figlia dell'Egìoco Giove,

che l'opre mie del tuo nume proteggi,

né t'è veruno de' miei passi occulto.

Or tu benigna più che prima, o Dea,

dell'amor tuo m'affida, e ne concedi

glorïoso ritorno e un forte fatto,

tale che renda dolorosi i Teucri.

Pregò secondo Dïomede, e disse:

Di Giove invitta armipotente figlia,

odi adesso me pur: fausta mi segui

siccome allor che seguitasti a Tebe

il mio divino genitor Tidèo,

de' loricati Achivi ambasciadore

attendati d'Asopo alla riviera.

Di placido messaggio egli a' Tebani

fu portator; ma fieri fatti ei fece

nel suo ritorno col favor tuo solo,

ché nume amico gli venivi al fianco.

E tu propizia a me pur vieni, o Dea,

e salvami. Sull'ara una giovenca

ti ferirò d'un anno, ampia la fronte,

ancor non doma, ancor del giogo intatta.

Questa darotti, e avrà dorato il corno.

Così pregaro, e gli esaudìa la Diva.

Implorata di Giove la possente

figlia Minerva, proseguīr la via

quai due lïoni, per la notte oscura,

per la strage, per l'armi e pe' cadaveri

sparsi in morta di sangue atra laguna.

Né d'altra parte ai forti Teucri Ettorre

permette il sonno; ma de' prenci e duci

chiama tutti i migliori a parlamento;

e raccolti, lor apre il suo consiglio.

Chi di voi mi promette un'alta impresa

per grande premio che il farà contento?

Darogli un cocchio, e di cervice altera

due corsieri, i miglior dell'oste achea

(taccio la fama che n'avrà nel mondo).

Questo dono otterrà chiunque ardisca

appressarsi alle navi, e cauto esplori

se sian, qual pria, guardate, o pur se domo

da nostre forze l'inimico or segga

a consulta di fuga, e le notturne

veglie trascuri affaticato e stanco.

Disse, e il silenzio li fe' tutti muti.

Era un certo Dolone infra' Troiani,

uom che di bronzo e d'oro era possente,

figlio d'Eumede banditor famoso,

deforme il volto, ma veloce il piede,

e fra cinque sirocchie unico e solo.

Si trasse innanzi il tristo, e così disse:

Ettore, questo cor l'incarco assume

d'avvicinarsi a quelle navi, e tutto

scoprir. Lo scettro mi solleva e giura

che l'èneo cocchio e i corridori istessi

del gran Pelìde mi darai: né vano

esploratore io ti sarò: né vōta

fia la tua speme. Nell'acheo steccato

penetrerò, mi spingerò fin dentro

l'agamennònia nave, ove a consulta

forse i duci si stan di pugna o fuga.

Sì disse, e l'altro sollevò lo scettro,

e giurò: Testimon Giove mi sia,

Giove il tonante di Giunon marito,

che da que' bei corsieri altri tirato

non verrà de' Troiani, e che tu solo

glorïoso n'andrai. - Fu questo il giuro,

ma sperso all'aura; e da quel giuro intanto

incitato Dolone in su le spalle

tosto l'arco gittossi, e la persona

della pelle vestì di bigio lupo:

poi chiuse il brutto capo entro un elmetto

che d'ispida faìna era munito.

Impugnò un dardo acuto, ed alle navi,

per non più ritornarne apportatore

di novelle ad Ettorre, incamminossi.

Lasciata de' cavalli e de' pedoni

la compagnia, Dolon spedito e snello

battea la strada. Se n'accorse Ulisse

alla pesta de' piedi, e a Dïomede

sommesso favellò: Sento qualcuno

venir dal campo, né so dir se spia

di nostre navi, o spogliator di morti.

Lasciam che via trapassi, e gli saremo

ratti alle spalle, e il piglierem. Se avvegna

ch'ei di corso ne vinca, tu coll'asta

indefesso l'incalza, e verso il lido

serralo sì, che alla città non fugga.

Uscīr di via, ciò detto, e s'appiattaro

tra' morti corpi; ed egli incauto e celere

oltrepassò. Ma lontanato appena,

quanto è un solco di mule (che de' buoi

traggono meglio il ben connesso aratro

nel profondo maggese), gli fur sopra:

ed egli, udito il calpestìo, ristette,

qualcun sperando che de' suoi venisse

per comando d'Ettorre a richiamarlo.

Ma giunti d'asta al tiro e ancor più presso,

li conobbe nemici. Allor dier lesti

l'uno alla fuga il piè, gli altri alla caccia.

Quai due d'aguzzo dente esperti bracchi

o lepre o caprïol pel bosco incalzano

senza dar posa, ed ei precorre e bela;

tali Ulisse e il Tidìde all'infelice

si stringono inseguendo, e precidendo

sempre ogni scampo. E già nel suo fuggire

verso le navi sul momento egli era

di mischiarsi alle guardie, allor che lena

crebbe Minerva e forza a Dïomede,

onde niun degli Achei vanto si desse

di ferirlo primiero, egli secondo.

Alza l'asta l'eroe, Ferma, gridando,

o ch'io di lancia ti raggiungo e uccido.

Vibra il telo in ciò dir, ma vibra in fallo

a bello studio: gli strisciò la punta

l'omero destro e conficcossi in terra.

Ristette il fuggitivo, e di paura

smorto tremando, della bocca uscìa

stridor di denti che batteano insieme.

L'aggiungono anelanti i due guerrieri,

l'afferrano alle mani, ed ei piangendo

grida: Salvate questa vita, ed io

riscatterolla. Ho gran ricchezza in casa

d'oro, di rame e lavorato ferro.

Di questi il padre mio, se nelle navi

vivo mi sappia degli Achei, faravvi

per la mia libertà dono infinito.

Via, fa cor, rispondea lo scaltro Ulisse,

né veruno di morte abbi sospetto,

ma dinne, e sii verace: Ed a qual fine

dal campo te ne vai verso le navi

tutto solingo pel notturno buio

mentre ogni altro mortal nel sonno ha posa?

A spogliar forse estinti corpi? o forse

Ettor ti manda ad ispïar de' Greci

i navili, i pensieri, i portamenti?

O tuo genio ti mena e tuo diletto?

E a lui tremante di terror Dolone:

Misero! mi travolse Ettore il senno,

e in gran disastro mi cacciò, giurando

che in don m'avrebbe del famoso Achille

dato il cocchio e i destrieri a questo patto,

ch'io di notte traessi all'inimico

ad esplorar se, come pria, guardate

sien le navi, o se voi dal nostro ferro

domi teniate del fuggir consiglio,

schivi di veglie, e di fatica oppressi.

Sorrise Ulisse, e replicò: Gran dono

certo ambiva il tuo cor, del grande Achille

i destrier. Ma domarli e cavalcarli

uom mortale non può, tranne il Pelìde

cui fu madre una Dea. Ma questo ancora

contami, e non mentire: Ove lasciasti,

qua venendoti, Ettorre? ove si stanno

i suoi guerrieri arnesi? ove i cavalli?

quai son de' Teucri le vigilie e i sonni?

quai le consulte? Bloccheran le navi?

O in Ilio torneran, vinto il nemico?

Gli rispose Dolon: Nulla del vero

ti tacerò. Co' suoi più saggi Ettorre

in parte da rumor scevra e sicura

siede a consiglio al monumento d'Ilo.

Ma le guardie, o signor, di che mi chiedi,

nulla del campo alla custodia è fissa.

Ché quanti in Ilio han focolar, costretti

son cotesti alla veglia, e a far la scolta

s'esortano a vicenda: ma nel sonno

tutti giacccion sommersi i collegati,

che da diverse regïon raccolti,

né figli avendo né consorte al fianco,

lasciano ai Teucri delle guardie il peso.

Ma dormon essi co' Troian confusi

(ripiglia Ulisse), o segregati? Parla,

ch'io vo' saperlo. - E a lui d'Eumede il figlio:

Ciò pure ti sporrò schietto e sincero.

Quei della Caria, ed i Peonii arcieri,

i Lelegi, i Caucóni ed i Pelasghi

tutto il piano occupār che al mare inchina;

ma il pian di Timbra i Licii e i Misii alteri

e i frigii cavalieri, e con gli equestri

lor drappelli i Meonii. Ma dimande

tante perché? Se penetrar vi giova

nel nostro campo, ecco il quartier de' Traci

alleati novelli, che divisi

stansi ed estremi. Han duce Reso, il figlio

d'Eïonèo, e a lui vid'io destrieri

di gran corpo ammirandi e di bellezza,

una neve in candor, nel corso un vento.

Monta un cocchio costui tutto commesso

d'oro e d'argento, e smisurata e d'oro

(maraviglia a vedersi!) è l'armatura,

di mortale non già ma di celeste

petto sol degna. Che più dir? Traetemi

prigioniero alle navi, o in saldi nodi

qui lasciatemi avvinto infin che pure

vi ritorniate, e siavi chiaro a prova

se fu verace il labbro o menzognero.

Lo guatò bieco Dïomede, e disse:

Da che ti spinse in poter nostro il fato,

Dolon, di scampo non aver lusinga,

benché tu n'abbia rivelato il vero.

Se per riscatto o per pietà disciolto

ti mandiam, tu per certo ancor di nuovo

alle navi verresti esploratore,

o inimico palese in campo aperto.

Ma se qui perdi per mia man la vita,

più d'Argo ai figli non sarai nocente.

Disse; e il meschino già la man stendea

supplice al mento; ma calò di forza

quegli il brando sul collo, e ne recise

ambe le corde. La parlante testa

rotolò nella polve. Allor dal capo

gli tolsero l'elmetto, e l'arco e l'asta

e la lupina pelle. In man solleva

le tolte spoglie Ulisse, e a te, Minerva

predatrice, sacrandole, sì prega:

Godi di queste, o Dea, ché te primiera

de' Celesti in Olimpo invocheremo;

ma di nuovo propizia ai padiglioni

or tu de' traci cavalier ne guida.

Disse, e le spoglie su la cima impose

d'un tamarisco, e canne e ramoscelli

sterpando intorno, e di lor fatto un fascio,

segnal lo mette che per l'ombra incerta

nel loro ritornar lo sguardo avvisi.

Quindi inoltrār pestando sangue ed armi,

e fur tosto de' Traci allo squadrone.

Dormìano infranti di fatica, e stesi

in tre file, coll'armi al suol giacenti

a canto a ciascheduno. Ognun de' duci

tiensi dappresso due destrier da giogo:

dorme Reso nel mezzo; e a lui vicino

stansi i cavalli colle briglie avvinti

all'estremo del cocchio. Avvisto il primo

si fu di Reso Ulisse, e a Dïomede

l'additò: Dïomede, ecco il guerriero,

ecco i destrier che dianzi n'avvisava

quel Dolon che uccidemmo. Or tu fuor metti

l'usata gagliardìa, che qui passarla

neghittoso ed armato onta sarebbe.

Sciogli tu quei cavalli, o a morte mena

costor, ché de' cavalli è mia la cura.

Disse, e spirò Minerva a Dïomede

robustezza divina. A dritta, a manca

fora, taglia ed uccide, e degli uccisi

il gemito la muta aria ferìa.

Corre sangue il terren: come lïone

sopravvenendo al non guardato gregge

scagliarsi, e capre e agnelle empio diserta;

tal nel mezzo de' Traci è Dïomede.

Già dodici n'avea trafitti; e quanti

colla spada ne miete il valoroso,

tanti n'afferra dopo lui d'un piede

lo scaltro Ulisse, e fuor di via li tira,

nettando il passo a' bei destrieri, ond'elli

alla strage non usi in cor non tremino,

le morte salme calpestando. Intanto

piomba su Reso il fier Tidìde, e priva

lui tredicesmo della dolce vita.

Sospirante lo colse ed affannoso

perché per opra di Minerva apparso

appunto in quella gli pendea sul capo,

tremenda visïon, d'Enide il figlio.

Scioglie Ulisse i destrieri, e colle briglie

accoppiati, di mezzo a quella torma

via li mena, e coll'arco li percuote

(ché tor dal cocchio non pensò la sferza),

e d'un fischio fa cenno a Dïomede.

Ma questi in mente discorrea più arditi

fatti, e dubbiava se dar mano al cocchio

d'armi ingombro si debba, e pel timone

trarlo; o se imposto alle gagliarde spalle

via sel porti di peso; o se prosegua

d'altri più Traci a consumar le vite.

In questo dubbio gli si fece appresso

Minerva, e disse: Al partir pensa, o figlio

dell'invitto Tidèo, riedi alle navi,

se tornarvi non vuoi cacciato in fuga,

e che svegli i Troiani un Dio nemico.

Udì l'eroe la Diva, e ratto ascese

su l'uno de' corsier, su l'altro Ulisse

che via coll'arco li tempesta, e quelli

alle navi volavano veloci.

Il signor del sonante arco d'argento

stavasi Apollo alla vedetta, e vista

seguir Minerva del Tidìde i passi,

adirato alla Dea, mischiossi in mezzo

alle turbe troiane, e Ipocoonte

svegliò, de' Traci consigliero, e prode

consobrino di Reso. Ed ei balzando

dal sonno, e de' cavalli abbandonato

il quartiero mirando, e palpitanti

nella morte i compagni, e lordo tutto

di sangue il loco, urlò di doglia, e forte

chiamò per nome il suo diletto amico;

e un trambusto levossi e un alto grido

degli accorrenti Troi, che l'arduo fatto

dei due fuggenti contemplār stupiti.

Giungean questi frattanto ove d'Ettorre

avean l'incauto esploratore ucciso.

Qui ferma Ulisse de' corsieri il volo:

balza il Tidìde a terra, e nelle mani

dell'itaco guerrier le sanguinose

spoglie deposte, rapido rimonta

e flagella i corsier che verso il mare

divorano la via volonterosi.

Primo udinne il romor Nestore, e disse:

O amici, o degli Achei principi e duci,

non so se falso il cor mi parli o vero;

pur dirò: mi ferisce un calpestìo

di correnti cavalli. Oh fosse Ulisse!

Oh fosse Dïomede, che veloci

gli adducessero a noi tolti a' Troiani!

Ma mi turba timor che a questi prodi

non avvegna fra' Teucri un qualche danno.

Finite non avea queste parole,

che i campioni arrivār. Balzaro a terra;

e con voci di plauso e con allegro

toccar di mani gli accogliean gli amici.

Nestore il primo interrogolli: O sommo

degli Achivi splendore, inclito Ulisse,

che destrieri son questi? ove rapiti?

nel campo forse de' Troiani? o dielli

fattosi a voi d'incontro un qualche iddio?

Sono ai raggi del Sol pari in candore

mirabilmente; ed io che sempre in mezzo

a' Troiani m'avvolgo, e, benché veglio

guerrier, restarmi neghittoso abborro,

io né questi né pari altri corsieri

unqua vidi né seppi. Onde per via

qualcun mi penso degli Dei v'apparve,

e ven fe' dono; perocché voi cari

siete al gran Giove adunator di nembi,

e alla figlia di Giove alma Minerva.

Nestore, gloria degli Achei, rispose

l'accorto Ulisse, agevolmente un Dio

potrìa darli, volendo, anco migliori,

ché gli Dei ponno più d'assai. Ma questi,

di che chiedi, son traci e qua di poco

giunti: al re loro e a dodici de' primi

suoi compagni diè morte Dïomede,

e tredicesmo un altro n'uccidemmo

dai teucri duci esplorator spedito

del nostro campo. - Così detto, spinse

giubilando oltre il fosso i corridori,

e festeggianti lo seguīr gli Achivi.

Giunto al suo regio padigion, legolli

con salda briglia alle medesme greppie

ove dolci pascen biade i corsieri

Dïomedèi. Ulisse all'alta poppa

le spoglie di Dolon sospende, e a Palla

prepararsi comanda un sacrificio.

Tersero quindi entrambi alla marina

l'abbondante sudor, gambe lavando

e collo e fianchi. Riforbito il corpo

e ricreato il cor, si ripurgaro

nei nitidi lavacri. Indi odorosi

di pingue oliva si sedeano a mensa

pieni i nappi votando, ed a Minerva

libando di Lïèo l'almo licore.

 

 

LIBRO UNDECIMO

 

 

Dal croceo letto di Titon l'Aurora

sorgea, la terra illuminando e il cielo,

e vêr le navi achee Giove spedìa

la Discordia feral. Scotea di guerra

l'orrida insegna nella man la Dira,

e tal d'Ulisse s'arrestò su l'alta

capitana che posta era nel mezzo,

donde intorno mandar potea la voce

fin d'Aiace e d'Achille al padiglione,

che nella forza e nel gran cor securi

sottratte ai lati estremi avean le prore.

Qui ferma d'un acuto orrendo grido

empì l'achive orecchie, e tal ne' petti

un vigor suscitò, tale un desìo

di pugnar, d'azzuffarsi e di ferire,

che sonava nel cor dolce la guerra

più che il ritorno al caro patrio lido.

Alza Atride la voce, e a tutti impone

di porsi in tutto punto; e d'armi ei pure

folgoranti si veste. E pria circonda

di calzari le gambe ornati e stretti

d'argentee fibbie. Una lorica al petto

quindi si pon che Cinira gli avea

un dì mandata in ospital presente.

Perocché quando strepitosa in Cipro

corse la fama che l'achiva armata

verso Troia spiegar dovea le vele,

gratificar di quell'usbergo ei volle

l'amico Agamennón. Di bruno acciaro

dieci strisce il cingean, dodici d'oro,

venti di stagno. Lubrici sul collo

stendon le spire tre cerulei draghi

simiglianti alle pinte iri che Giove

suol nelle nubi colorar, portento

ai parlanti mortali. Indi la spada

agli omeri sospende rilucente

d'aurate bolle, e la vestìa d'argento

larga vagina col pendaglio d'oro.

Poi lo scudo imbracciò che vario e bello

e di facil maneggio tutto cuopre

il combattente. Ha dieci fasce intorno

di bronzo, e venti di forbito stagno

candidissimi colmi, e un altro in mezzo

di bruno acciar. Su questo era scolpita

terribile gli sguardi la Gorgone

col Terrore da lato e con la Fuga,

rilievo orrendo. Dallo scudo poscia

una gran lassa dipendea d'argento,

lungo la quale azzurro e sinuoso

serpe un drago a tre teste, che ritorte

d'una sola cervice eran germoglio.

Quindi al capo diè l'elmo adorno tutto

di lucenti chiavelli, irto di quattro

coni e d'equine setole con una

superba cresta che di sopra ondeggia

terribilmente. Alfin due lance impugna

massicce, acute, le cui ferree punte

mettean baleni di lontano. Intanto

Giuno e Palla onorando il grande Atride

dier di sua mossa con fragore il segno.

All'auriga ciascuno allor comanda

che parati in bell'ordine sostegna

alla fossa i destrier, mentre a gran passi

chiuse nell'armi le pedestri schiere

procedono al nemico. Ancor non vedi

spuntar l'aurora, e d'ogni parte immenso

romor già senti. Come tutto giunse

l'esercito alla fossa, immantinente

fur cavalli e pedoni in ordinanza,

questi primieri e quei secondi. Intanto

Giove dall'alto romoreggia, e piove

di sangue una rugiada, annunziatrice

delle molte che all'Orco in quel conflitto

anime generose avrìa sospinto.

D'altra parte i Troiani in su l'altezza

si schierano del poggio. In mezzo a loro

s'affaccendano i duci; il grande Ettorre,

d'Anchise il figlio che venìa qual nume

da' Troiani onorato, il giusto e pio

Polidamante, e i tre antenòrei figli,

Polibo, io dico, ed il preclaro Agènore,

ed Acamante, giovinetto a cui

di celeste beltà fiorìa la guancia.

Maestoso fra tutti Ettor si volve

coll'egual d'ogni parte ampio pavese.

E qual di Sirio la funesta stella

or senza vel fiammeggia ed or rientra

nel buio delle nubi, a tal sembianza

or nelle prime file or nell'estreme

Ettore comparìa dando per tutto

provvidenza e comandi, e tutta d'arme

rilucea la persona, e folgorava

come il baleno dell'Egìoco Giove.

Qual di ricco padron nel campo vanno

i mietitori con opposte fronti

falciando l'orzo od il frumento; in lunga

serie recise cadono le bionde

figlie de' solchi, e in un momento ingombra

di manipoli tutta è la campagna;

così Teucri ed Achei gli uni su gli altri

irruendo si mietono col ferro

in mutua strage. Immemore ciascuno

di vil fuga, e guerrier contra guerriero

pugnan tutti del pari, e si van contra

coll'impeto de' lupi. A riguardarli

sta la Discordia, e della strage esulta

a cui sola de' numi era presente.

Sedeansi gli altri taciturni in cielo

in sua magion ciascuno, edificata

su gli ardui gioghi del sereno Olimpo.

Ivi ognuno in suo cor fremea di sdegno

contro l'alto de' nembi addensatore,

che dar vittoria a' Troi volea; ma nullo

pensier si prende di quell'ira il padre

che in sua gloria esultante e tutto solo

in disparte sedea, Troia mirando

e l'achee navi, e il folgorar dell'armi,

e il ferire e il morir de' combattenti.

Finché il mattin processe, e crebbe il sacro

raggio del giorno, d'ambe parti eguale

si mantenne la strage. Ma nell'ora

che in montana foresta il legnaiuolo

pon mano al parco desinar, sentendo

dall'assiduo tagliar cerri ed abeti

stanche le braccia e fastidito il core,

e dolce per la mente e per le membra

serpe del cibo il natural desìo,

prevalse la virtù de' forti Argivi,

che animando lor file e compagnie

sbaragliār le nemiche. Agamennóne

saltò primier nel mezzo, e Bïanorre,

pastor di genti, uccise, indi Oilèo,

suo compagno ed auriga. Era dal carro

costui sceso d'un salto, e gli venìa

dirittamente contro. A mezza fronte

coll'acuta asta lo colpì l'Atride.

Non resse al colpo la celata; il ferro

penetrò l'elmo e l'osso, e tutto interna-

mente di sangue gli allagò il cerèbro.

Così l'audace assalitor fu domo.

Rapì d'ambo le spoglie Agamennóne,

e nudi il petto li lasciò supini.

Andò poscia diretto ad assalire

due di Priamo figliuoli, Iso ed Antifo,

l'un frutto d'Imeneo, l'altro d'Amore.

Venìano entrambi sul medesmo cocchio

i fratelli: reggeva Iso i destrieri,

Antifo combattea. Sul balzo d'Ida

aveali un giorno sopraggiunti Achille,

mentre pascean le gregge, e di pieghevoli

vermene avvinti, e poi disciolti a prezzo.

Ed or l'Atride Agamennón coll'asta

spalanca ad Iso tra le mamme il petto,

fiede di brando Antifo nella tempia,

e lo spiomba dal cocchio. Immantinente

delle bell'armi li dispoglia entrambi,

che ben li conoscea dal dì che Achille

dai boschi d'Ida prigionier li trasse

seco alle navi, ed ei notonne i volti.

Come quando un lïon nel covo entrato

d'agil cerva, ne sbrana agevolmente

i pargoli portati, e li maciulla

co' forti denti mormorando e sperde

l'anime tenerelle; la vicina

misera madre, non che dar soccorso,

compresa di terror fugge veloce

per le dense boscaglie, e trafelando

suda al pensier della possente belva:

così nullo de' Troi poteo da morte

salvar que' due: ma tutti anzi le spalle

conversero agli Achivi. Assalse ei dopo

Ippòloco e Pisandro, ambo figliuoli

del bellicoso Antìmaco, di quello

che da Paride compro per molt'oro

e ricchi doni, d'Elena impedìa

il rimando al marito. I figli adunque

di costui colse al varco Agamennóne

sovra un medesmo carro ambo volanti,

e turbati e smarriti; ché pel campo

sfrenaronsi i destrieri, e dalla mano

le scorrevoli briglie eran cadute.

Come lïon fu loro addosso, e quelli

s'inginocchiār, dal carro supplicando:

Lasciane vivi, Atride, e di riscatto

gran pezzo n'otterrai. Molta risplende

nella magion d'Antìmaco ricchezza,

d'oro, di bronzo e lavorato ferro.

Di questo il padre ti darà gran pondo

per la nostra riscossa, ov'egli intenda

vivi i suoi figli nelle navi achee.

Così piangendo supplicār con dolci

modi, ma dolce non rispose Atride.

Voi d'Antìmaco figli? di colui

che nel troiano parlamento osava

d'Ulisse e Menelao, venuti a Troia

ambasciatori, consigliar la morte?

Pagherete voi dunque ora del padre

l'indegna offesa. - Sì dicendo, immerge

l'asta in petto a Pisandro, e giù dal carro

supin lo stende sul terren. Ciò visto,

balza Ippoloco al suolo, e lui secondo

spaccia l'Atride; coll'acciar gli pota

ambe le mani, e poi la testa, e lungi

come palèo la scaglia a rotolarsi

fra la turba. Lasciati ivi costoro,

fulminando si spinge nel più caldo

tumulto della pugna, e l'accompagna

molta mano d'Achei. Fan strage i fanti

de' fanti fuggitivi, i cavalieri

de' cavalier. Si volve al ciel la polve

dalle sonanti zampe sollevata

de' fervidi corsieri, e Agamennóne

sempre insegue ed uccide, e gli altri accende.

Come quando s'appiglia a denso bosco

incendio struggitor, cui gruppo aggira

di fiero vento e d'ogni parte il gitta:

cadono i rami dall'invitta fiamma

atterrati e combusti; a questo modo

sotto l'Atride Agamennón le teste

cadean de' Teucri fuggitivi; e molti

colle chiome sul collo fluttuanti

destrier traean pel campo i vōti carri,

sgominando le file, ed il governo

desiderando de' lor primi aurighi:

ma quei giacean già spenti, agli avoltoi

gradita vista, alle consorti orrenda.

Fuori intanto dell'armi e della polve,

delle stragi, del sangue e del tumulto

condusse Giove Ettòr. Ma gl'inseguiti

Teucri dritto al sepolcro del vetusto

Dardanid'Ilo verso il caprifico

la piena fuga dirigean, bramosi

di ripararsi alla cittade; e sempre

gl'incalza Atride, e orrendo grida, e lorda

di polveroso sangue il braccio invitto.

Giunti alfine alle Scee quivi sostārsi

vicino al faggio, ed aspettār l'arrivo

de' compagni pel campo ancor fuggenti,

e simiglianti a torma d'atterrite

giovenche che lïon di notte assalta.

Alla prima che abbranca ei figge i duri

denti nel collo, e avidamente il sangue

succhiatone, n'incanna i palpitanti

visceri: e tale gl'inseguìa l'Atride

sempre il postremo atterrando, e quei sempre

spaventati fuggendo: e giù dal cocchio

altri cadea boccone, altri supino

sotto i colpi del re che innanzi a tutti

oltre modo coll'asta infurïava.

E già in cospetto gli venìan dell'alto

Ilio le mura, e vi giungea; quand'ecco

degli uomini il gran padre e degli Dei

scender dal cielo, e maestoso in cima

sedersi dell'acquosa Ida, stringendo

la folgore nel pugno. Iri a sé chiama

l'ali-dorata messaggiera, e, Vanne

vola, le disse, Iri veloce, e ad Ettore

porta queste parole. Infin ch'ei vegga

tra' primi combattenti Agamennóne

romper le file furibondo, ei cauto

stìasi in disparte, e d'animar sia pago

gli altri a far testa, e oprar le mani. Appena

o di lancia percosso o di saetta

l'Atride il cocchio monterà, si spinga

ei ratto nella mischia. Io porgerogli

alla strage la forza, infin che giunga

vincitore alle navi, e al dì caduto

della notte succeda il sacro orrore.

Disse; e veloce la veloce Diva

dal gioco idèo discende al campo, e trova

stante in piè sul suo carro il bellicoso

Prïamide: e appressata, O tu, gli disse,

che il consiglio d'un Dio porti nel core,

Ettore, le parole odi che Giove

per me ti manda. Infin che Agamennóne

vedrai tra' primi infurïar rompendo

de' guerrieri le file, il piè ritira

tu dal conflitto, e fa che col nemico

pugni il resto de' tuoi. Ma quando ei d'asta

o di strale ferito darà volta

sopra il suo cocchio, allor t'avanza. Avrai

tal da Giove un vigor ch'anco alle navi

la strage spingerai, finché la sacra

ombra si stenda su la morta luce.

Disse, e sparve. L'eroe balza dal cocchio

risonante nell'armi, e nella mano

palleggiando la lancia il campo scorre,

e raccende la pugna. Allor destossi

grande conflitto. Rivoltaro i Teucri

agli Achivi la faccia, e di rincontro

le lor falangi rinforzār gli Achivi.

Venuti a fronte, rinnovossi il cozzo,

e primiero si mosse Agamennóne

innanzi a tutti di pugnar bramoso.

Muse dell'alto Olimpo abitatrici,

or voi ne dite chi primier si spinse

o troiano guerriero od alleato

contro il supremo Atride. Ifidamante,

d'Antenore figliuolo, un giovinetto

d'altere forme e di gran cor, nudrito

nell'opima di greggi odrisia terra.

L'educò bambinetto in propria casa

della bella Teano il genitore

Cissèo l'avo materno, e maturati

di glorïosa pubertate i giorni

sposo alla figlia il diè. Ma colta appena

d'Imen la rosa, al talamo strappollo

da dodici navigli accompagnato

della venuta degli Achei la fama.

Quindi lasciate alla percopia riva

le sue navi, pedone ad Ilio ei venne,

e primo si piantò contro l'Atride.

Giunti al tiro dell'asta, Agamennóne

vibrò la sua, ma in fallo. Ifidamante

appuntò l'avversario alla cintura

sotto il torace, e colla man robusta

di tutta forza l'asta sospingea;

ma non valse a forarne il ben tessuto

cinto, e spuntossi nell'argentea lama

l'acuta punta, come piombo fosse.

A due mani l'afferra allor l'Atride

con ira di lïone, a sé la tira,

gliela svelle dal pugno; e tratto il brando,

lo percuote alla nuca, e lo distende.

Sì cadde, e chiuse in ferreo sonno i lumi.

Miserando garzon! venne a difesa

del patrio suolo e vi trovò la morte:

né gli compose i rai la giovinetta

consorte, né di lei frutto lasciava

che il ravvivasse; e sì l'avea con molti

doni acquistata: perocché da prima

di cento buoi dotolla, e mille in oltre

madri promise di lanute torme

che numerose gli pasceva il prato.

Spoglia Atride l'ucciso, e le bell'armi

ne porta ovante fra le turbe achee.

Come vide Coon morto il fratello,

(d'Antenore era questi il maggior figlio

e guerriero di grido), una gran nube

di dolor gl'ingombrò la mente e gli occhi.

Ponsi in agguato con un dardo in mano

al re di costa, e vibra. A mezzo il braccio

conficcossi la punta sotto il cubito,

e trapassollo. Inorridì del colpo

l'Atride regnator; ma non per questo

abbandona la pugna; anzi più fiero

colla salda dagli Euri asta nudrita

avventossi a Coon che frettoloso

dell'amato fratello Ifidamante

d'un piè traea la salma, alto chiedendo

de' più forti l'aita. Lo raggiunge

in quell'atto l'Atride, e sotto il colmo

dello scudo gli caccia impetuoso

la zagaglia, e l'atterra. Indi sul corpo

d'Ifidamante il capo gli recide.

Così n'andār, compiuto il fato, all'Orco

per man d'Atride gli antenòrei figli.

Finché fu calda la ferita, il sire

coll'asta, colla spada e con enormi

ciotti la pugna seguitò; ma come

stagnossi il sangue, e s'aggelò la piaga,

d'acerbe doglie saettar sentissi.

Qual trafigge la donna, al partorire,

l'acuto strale del dolor, vibrato

dalle figlie di Giuno alme Ilitìe,

d'amare fitte apportatrici; e tali

eran le punte che ferìan l'Atride.

Salì dunque sul carro, ed all'auriga

comandò di dar volta alla marina,

e cruccioso elevando alto la voce,

Prenci, amici, gridava, e voi valenti

capitani de' Greci, allontanate

dalle navi il conflitto, or che di Giove

non consente il voler ch'io qui compisca,

combattendo co' Teucri, il giorno intero.

Disse, e l'auriga flagellò i destrieri

verso le navi; e quei volār spargendo

le belle chiome all'aura; e il petto aspersi

d'alta spuma e di polve in un baleno

fuor del campo ebber tratto il re ferito.

Come dall'armi ritirarsi il vide,

diè un alto grido Ettorre, e rincorando

Troiani e Licii e Dardani tonava:

Uomini siate, amici, e richiamate

l'antica gagliardìa: lasciato ha il campo

quel fortissimo duce, e a me promette

l'Olimpio Giove la vittoria. Or via

gli animosi cornipedi spingete

dirittamente addosso ai forti Achivi,

e acquisto fate d'immortal corona.

Disse, e in tutti destò la forza e il core.

Come buon cacciator contra un lïone

o silvestre cignale il morso aizza

de' fier molossi, così l'ira instiga

de' magnanimi Troi contro gli Achivi

il Prïamide Marte: ed ei tra' primi

intrepido si volve, e nel più folto

della mischia coll'impeto si spinge

di sonante procella che dall'alto

piomba e solleva il ferrugineo flutto.

Allor chi pria, chi poi fu messo a morte

dal Prïamide eroe, quando a lui Giove

fu di gloria cortese? Assèo da prima,

Autònoo, Opìte, e Dòlope di Clito,

Ofeltio ed Agelao, Esimno, ed Oro

e il bellicoso Ippònoo. Fur questi

i dànai duci che il Troiano uccise:

dopo lor, molta plebe. Come quando

di Ponente il soffiar l'umide figlie

di Noto aggira, e con rapido vortice

le sbatte irato: il mar gonfiati e crebri

volve i flutti, e dal turbo in larghi sprazzi

sollevata diffondesi la spuma:

tal Ettore cader confuse e spesse

fa le teste plebee. Disfatta intera

allor sarìa seguìta, e colla strage

de' fuggitivi ineluttabil danno,

se con questo parlar l'accorto Ulisse

non destava il valor di Dïomede.

Magnanimo Tidìde, e qual disdetta

della nostra virtù ci toglie adesso

la ricordanza? Or su; ti metti, amico,

al mio fianco, e tien fermo: onta sarebbe

lasciar che piombi su le navi Ettorre.

E Dïomede di rincontro: Io certo

rimarrò, pugnerò; ma vano il nostro

sforzo sarà, ché la vittoria ai Teucri

dar vuole, non a noi, Giove nemico.

Disse; e coll'asta alla sinistra poppa

Timbrèo percosse, e il riversò dal carro.

Ulisse uccise Molïon, guerriero

d'apparenza divina, e valoroso

del re Timbrèo scudiero. E spenti questi,

si cacciār nella turba, simiglianti

a due cinghiali di gran cor, che il cerchio

sbarattano de' veltri; e impetuosi

voltando faccia sgominaro i Teucri,

sì che fuggenti dall'ettòreo ferro

preser conforto e respirār gli Achivi.

Combattean fra le turbe alti sul carro

fortissimi campioni i due figliuoli

di Merope Percòsio. Il genitore,

celebrato indovino, avea dell'armi

il funesto mestier loro interdetto.

Non l'obbediro i figli, e la possanza

seguīr del fato che traeali a morte.

Coll'asta in guerra sì famosa entrambi

gl'investì Dïomede, e colla vita

dell'armi li spogliò, mentre per mano

cadean d'Ulisse Ippòdamo e Ipiròco.

Contemplava dall'Ida i combattenti

di Saturno il gran figlio, e nel suo senno

equilibrava tuttavia la pugna,

e l'orror della strage. Infurïava

pedon tra' primi battaglianti il figlio

di Peone Agastròfo, e non avea

l'incauto eroe dappresso i suoi corsieri,

onde all'uopo salvarsi; ché in disparte

lo scudier li tenea. Mirollo, e ratto

l'assalse Dïomede, e all'anguinaglia

lo ferì di tal colpo che l'uccise.

Cader lo vide Ettorre, e tra le file

si spinse alto gridando, e lo seguièno

le troiane falangi. Al suo venire

turbossi il forte Dïomede, e vòlto

ad Ulisse, dicea: Ci piomba addosso

del furibondo Ettorre la ruina.

Stiam saldi, amico, e sosteniam lo scontro.

Disse, e drizzando alla nemica testa

la mira, fulminò l'asta vibrata,

e colse al sommo del cimier; ma il ferro

fu respinto dal ferro, e non offese

la bella fronte dell'eroe, ché il lungo

triplice elmetto l'impedì, fatato

dono d'Apollo. Sbalordì del colpo

Ettore, e lungi riparò tra' suoi.

Qui cadde su i ginocchi, puntellando

contro il suol la gran palma, e tenebroso

su le pupille gli si stese un velo.

Ma mentre corre a ricovrar Tidìde

la fitta nella sabbia asta possente,

si rïebbe il caduto, e sopra il carro

balzando, nella turba si confuse

novellamente, ed ischivò la morte.

Perocché il figlio di Tidèo coll'asta

un'altra volta l'assalìa gridando:

Cane troian, di nuovo tu la scappi

dalla Parca che già t'avea raggiunto.

Gli è Febo che ti salva, a cui, dell'armi

entrando nel fragor, ti raccomandi.

Ma se verrai per anco al paragone,

ti spaccerò, s'io pure ho qualche Dio.

Qualunque intanto mi verrà ghermito

sconterà la tua fuga. - E sì dicendo,

l'ucciso figlio di Peon spogliava.

Ma della ben chiomata Elena il drudo

Alessandro tenea contro il Tidìde

lo strale in cocca, standosi nascoso

diretro al cippo sepolcral che al santo

Dardanid'Ilo, antico padre, eresse

de' Teucri la pietà. Curvo l'eroe

di dosso al morto Agàstrofo traea

il varïato usbergo, ed il brocchiero

ed il pesante elmetto, allor che l'altro

lentò la corda, e non invan. Veloce

il quadrello volò, nell'ima parte

del destro piè s'infisse, e trapassando

conficcossi nel suolo. Uscì d'agguato

sghignazzando il fellone, e, Sei ferito,

glorïoso gridò: Ve' s'io t'ho cōlto

pur finalmente! Oh t'avess'io trafitta

più vital fibra, e tolta l'alma! Avrebbe

dall'affanno dell'armi respirato

il popolo troiano a cui se' orrendo

come il leone alle belanti agnelle.

Villan, cirrato arciero, e di fanciulle

vagheggiator codardo (gli rispose

nulla atterrito Dïomede), vieni

in aperta tenzon, vieni e vedrai

a che l'arco ti giova, e la di strali

piena faretra. Mi graffiasti un piede,

e sì gran vampo meni? Io de' tuoi colpi

prendo il timor che mi darebbe il fuso

di femminetta, o di fanciul lo stecco;

ché non fa piaga degl'imbelli il dardo.

Ma ben altro è il ferir di questa mano.

Ogni puntura del mio telo è morte

del mio nemico, e pianto de' suoi figli

e della sposa che le gote oltraggia;

mentre di sangue il suol quegli arrossando

imputridisce, e intorno gli s'accoglie,

più che di donne, d'avoltoi corona.

Così parlava. Accorso intanto Ulisse

di sé gli fea riparo: ed ei seduto

dell'amico alle spalle il dardo acuto

sconficcossi dal piede. Allor gli venne

per tutto il corpo un dolor grave e tanto,

che angosciato nell'alma e impazïente

montò sul cocchio, ed all'auriga impose

di portarlo volando alle sue tende.

Solo rimase di Laerte il figlio,

ché la paura avea tutti sbandati

gli Argivi; ond'egli addolorato e mesto

seco nel chiuso del gran cor dicea:

Misero, che farò? Male, se in fuga

mi volgo per timor: peggio, se solo

qui mi coglie il nemico ora che Giove

gli altri Achei sgominò. Ma quai pensieri

mi ragiona la mente? Ignoro io forse

che nell'armi il vil fugge, e resta il prode

a ferire o a morir morte onorata?

Mentre in cor queste cose egli discorre,

di scutati Troiani ecco venirne

una gran torma che l'accerchia. Stolti!

che il proprio danno si chiudean nel mezzo.

Come stuol di molossi e di fiorenti

giovani intorno ad un cinghial s'addensa

per investirlo, ed ei da folto vepre

sbocca aguzzando le fulminee sanne

tra le curve mascelle; d'ogni parte

impeto fassi, e suon di denti ascolti,

e della belva si sostien l'assalto,

benché tremenda irrompa e spaventosa:

tali intorno ad Ulisse furïosi

s'aggruppano i Troiani. Alto ei sull'asta

insorge, e primo all'omero ferisce

il buon Deïopìte; indi Toone

mette a morte ed Ennomo, e dopo questi

Chersidamante nel saltar che fea

dal cocchio a terra. Gli cacciò la picca

sotto il rotondo scudo all'umbilico,

e quei riverso nella polve strinse

colla palma la sabbia. Abbandonati

costor, coll'asta avventasi a Caropo,

d'Ippaso figlio, e dell'illustre Soco

fratel germano; e lo ferisce. Accorre

il dėiforme Soco in sua difesa,

e all'Itacense fattosi vicino

fermasi, e parla: Artefice di frodi

famoso, e sempre infatigato Ulisse,

oggi, o palma otterrai d'entrambi i figli

d'Ippaso, e, spenti, n'avrai l'armi; o colto

tu dal mio telo perderai la vita.

Vibrò, ciò detto, e lo colpì nel mezzo

della salda rotella. Il vïolento

dardo lo scudo traforò, ficcossi

nella corazza, e gli stracciò sul fianco

tutta la pelle: non permise al ferro

l'addentrarsi di più Palla Minerva.

Conobbe tosto che letal non era

il colpo Ulisse; e retrocesso alquanto,

Sciagurato, rispose al suo nemico,

or sì che morte al varco ti raggiunse.

Mi togliesti, egli è vero, il poter oltre

pugnar co' Teucri, ma ben io t'affermo

che questa di tua vita è l'ultim'ora,

e che tu dalla mia lancia qui domo,

la palma a me darai, lo spirto a Pluto.

Disse, e l'altro fuggiva. Al fuggitivo

scaglia Ulisse il suo cerro, e a mezzo il tergo

sì glielo pianta che gli passa al petto.

Diè d'armi un suono nel cadere, e il divo

vincitor l'insultò: Soco, del forte

Ippaso cavaliero audace figlio,

morte t'ha giunto innanzi tempo, e vana

fu la tua fuga. Misero! né il padre

gli occhi tuoi chiuderà né la pietosa

madre, ma densi a te gli scaveranno

gli avoltoi dibattendo le grandi ali

su la tua fronte; e me spento di tomba

onoreranno i generosi Achei.

Detto ciò, dalla pelle e dal ricolmo

brocchier si svelse del possente Soco

il duro giavellotto, e nel cavarlo

diè sangue, e forte dolorossi il fianco.

Visto il sangue d'Ulisse, i coraggiosi

Teucri l'un l'altro inanimando mossero

per assalirlo: ma l'accorto indietro

si ritrasse, e i compagni ad alta voce

chiamò. Tre volte a tutta gola ei grida,

tre volte il marzio Menelao l'intese,

e ad Aiace converso, Aiace, ei disse,

Telamònio regal seme divino,

sento all'orecchio risonarmi il grido

del sofferente Ulisse, e tal mi sembra

qual se, solo rimasto, ei sia da' Teucri

nel forte della mischia oppresso e chiuso.

Corriam, ché giusto è l'aitarlo: solo

fra nemici potrebbe il valoroso

grave danno patirne, e costerìa

la sua morte agli Achei molti sospiri.

Si mise in via, ciò detto, e lo seguiva

quel magnanimo, tale al portamento

che un Dio detto l'avresti: e il caro a Giove

Ulisse ritrovār da densa torma

accerchiato di Teucri. A quella guisa

che affamate s'attruppano le linci

dintorno a cervo di gran corna, a cui

fisse lo strale il cacciator nel fianco,

e il ferito fuggì dal feritore

finché fu caldo il sangue e lesto il piede;

ma domo alfine dallo stral nel bosco

lo dismembran le linci; allor, se guida

colà fortuna un fier lïon, disperse

sfrattano quelle, ed ei fa sua la preda:

molta turba così di valorosi

Teucri intorno al pugnace astuto Ulisse

aggirasi; ma l'asta dimenando

l'eroe tien lungi la fatal sua sera.

E comparir tremendo ecco d'Aiace

il torreggiante scudo, eccolo fermo

dinanzi a quell'oppresso, e scombuiarsi

chi qua chi là per lo spavento i Teucri.

Per man lo prende allora il generoso

minor Atride, e fuor dell'armi il tragge

finché l'auriga i corridor gli adduca.

Ma il Telamònio eroe contra i Troiani

irrompendo, il Prïamide bastardo

Doriclo uccide; e poi Pandoco, e poi

Lisandro fiede e Piraso e Pilarte.

E come quando ruinoso un fiume,

cui crebbe l'invernal pioggia di Giove,

si devolve dal monte alla pianura,

e molte aride querce e molti pini

rotando spinge una gran torba al mare:

tal cavalli tagliando e cavalieri

l'illustre Aiace furïoso insegue

per lo campo i Troiani; e non per anco

n'aveva Ettorre udita la ruina,

ch'ei della zuffa sul sinistro corno

pugnava in riva allo Scamandro, dove

il cader delle teste era più spesso,

e infinito il clamor dintorno al grande

Nestore e al marzio Idomenèo. Qui stava

Ettore, e oprava orrende cose, e densa

colla lancia e col carro distruggeva

la gioventude achea. Né ancor per tanto

avrian gli Argivi abbandonato il campo,

se il bel marito della bella Elèna

Alessandro ritrar non fea dall'armi

il bellicoso Macaon, ferendo

l'illustre duce all'omero diritto

con trisulca saetta. Di quel colpo

tremār gli Achivi, e si scorār, temendo

che, inclinata di Marte la fortuna,

non vi restasse il buon guerriero ucciso.

Onde a Nestore vòlto Idomenèo:

Eroe Nelìde, ei disse, alto splendore

degli Achivi, t'affretta, il carro ascendi

e Macaone vi raccogli, e ratto

sferza i cavalli al mar, salva quel prode,

ch'egli val molte vite, e non ha pari

nel cavar dardi dalle piaghe, e spargerle

di balsamiche stille. - A questo dire

montò l'antico cavaliero il cocchio

subitamente, vi raccolse il figlio

d'Esculapio divin medicatore,

sferzò i destrieri, e quei volaro al lido

volonterosi e dal desìo chiamati.

Vide in questa de' Teucri lo scompiglio

Cebrïon che d'Ettorre al fianco stava,

e rivolto a quel duce: Ettorre, ei disse,

noi di Dànai qui stiamo a far macello

nel corno estremo dell'orrenda mischia,

e gli altri Teucri intanto in fuga vanno

cavalli e battaglier cacciati e rotti

dal Telamònio Aiace: io ben lo scerno

all'ampio scudo che gli copre il petto.

Drizziamo il carro a quella volta, ch'ivi

più feroce de' fanti e cavalieri

è la zuffa, e più forti odo le grida.

Così dicendo, col flagel sonoro

i ben chiomati corridor percosse,

che sentita la sferza a tutto corso

fra i Troiani e gli Achei traean la biga,

cadaveri pestando ed elmi e scudi.

Era tutto di sangue orrido e lordo

l'asse di sotto e l'àmbito del cocchio,

cui l'ugna de' corsieri e la veloce

ruota spargean di larghi sprazzi. Anela

il teucro duce di sfondar la turba,

e spezzarla d'assalto. In un momento

gli Achivi sgominò, sempre coll'asta

fulminando; e scorrendo entro le file,

colla lancia, col brando e con enormi

macigni le rompea. Solo d'Aiace

evitava lo scontro. Ma l'Eterno

alto-sedente al cor d'Aiace incusse

tale un terror che attonito ristette,

e paventoso si gittò sul tergo

la settemplice pelle, e nel dar volta

come una fiera si guatava intorno

nel mezzo della turba, e tardi e lenti

alternando i ginocchi, all'inimico

ad or ad ora convertìa la fronte.

Come fulvo leon che dall'ovile

vien da' cani cacciato e da' pastori

che de' buoi gli frastornano la pingue

preda, la notte vigilando intera:

famelico di carne ei nondimeno

dritto si scaglia, e in van; ché dall'ardite

destre gli piove di saette un nembo

e di tizzi e di faci, onde il feroce

atterrito rifugge, e in sul mattino

mesto i campi traversa e si rinselva:

tale Aiace da' Teucri in suo cor tristo

e di mal grado assai si dipartìa

delle navi temendo. E quale intorno

ad un pigro somier, che nella messe

si ficcò, s'arrabattano i fanciulli

molte verghe rompendogli sul tergo,

ed ei pur segue a cimar l'alta biada,

né de' lor colpi cura la tempesta,

ché la forza è bambina, e appena il ponno

allontanar poiché satolla ha l'epa;

non altrimenti i Teucri e le coorti

collegate inseguìan senza riposo

il gran Telamonìde, e colle basse

lance nel mezzo gli ferìan lo scudo.

Ma memore l'eroe di sua virtude

or rivolta la faccia, e le falangi

respinge de' nemici, or lento i passi

move alla fuga: e sì potette ei solo

che di sboccarsi al mar tutti rattenne.

Ritto in mezzo ai Troiani ed agli Achivi

infurïava, e sostenea di strali

una gran selva sull'immenso scudo,

e molti a mezzo spazio e senza forza,

pria che il corpo gustar, perdeano il volo

desïosi di sangue. In questo stato

lo mirò d'Evemon l'inclito figlio

Euripilo, ed a lui, che sotto il nembo

degli strali languìa, fatto dappresso,

a vibrar cominciò l'asta lucente,

e il duce Apisaon, di Fausia figlio,

nell'epate percosse, e gli disciolse

de' ginocchi il vigor. Sovra il caduto

Euripilo avventossi, e le bell'armi

di dosso gli traea. Ma come il vide

Paride, il drudo di beltà divina,

del morto Apisaon l'armi rapire,

mise in cocca lo strale, e d'aspra punta

la destra coscia gli ferì. Si franse

il calamo pennuto, e tal nell'anca

spasmo destò, che ad ischivar la morte

gli fu mestieri ripararsi a' suoi,

alto gridando, O amici, o prenci achivi,

volgetevi, sostate, liberate

da morte Aiace; egli è da' teli oppresso,

sì ch'io pavento, ohimè! che più non abbia

scampo l'eroe: correte, circondate

de' vostri petti il Telamònio figlio.

Così disse il ferito: e quelli a gara

stretti inclinando agli omeri gli scudi,

e l'aste sollevando, al grande Aiace

si fêr dappresso; ed ei venuto in salvo

tra' suoi, di nuovo la terribil faccia

converse all'inimico. In cotal guisa,

come fiamma, tra questi ardea la zuffa.

Di sudor molli intanto e polverose

le cavalle nelèe fuor della pugna

traean col duce Macaon Nestorre.

Lo vide il divo Achille e lo conobbe,

mentre ritto si stava in su la poppa

della sua grande capitana, e il fiero

lavor di Marte, e degli Achei mirava

la lagrimosa fuga. Incontanente

mise un grido, e chiamò dall'alta nave

il compagno Patròclo: e questi appena

dalla tenda l'udì, che fuori apparve

in marzïal sembianza; e dal quel punto

ebbe inizio fatal la sua sventura.

Parlò primiero di Menèzio il figlio:

A che mi chiami, a che mi brami, Achille?

O mio diletto nobile Patròclo,

gli rispose il Pelìde, or sì che spero

supplicanti e prostesi a' miei ginocchi

veder gli Achivi, ché suprema e dura

necessità li preme. Or vanne, o caro,

vanne e chiedi a Nestòr chi quel ferito

sia, ch'ei ritragge dalla pugna. Il vidi

ben io da tergo, e Macaon mi parve,

d'Esculapio il figliuol; ma del guerriero

non vidi il volto, ché veloci innanzi

mi passār le cavalle, e via spariro.

Disse; e Patròclo obbedïente al cenno

dell'amico diletto già correa

tra le navi e le tende. E quelli intanto

del buon Nelìde al padiglion venuti

dismontaro, e l'auriga Eurimedonte

sciolse dal carro le nelèe puledre,

mentr'essi al vento asciugano sul lido

le tuniche sudate, e delle membra

rinfrescano la vampa: indi raccolti

dietro la tenda s'adagiār su i seggi.

Apparecchiava intanto una bevanda

la ricciuta Ecamède. Era costei

del magnanimo Arsìnoo una figliuola

che il buon vecchio da Tenedo condotta

avea quel dì che la distrusse Achille,

e a lui, perché vincea gli altri di senno,

fra cento eletta la donār gli Achivi.

Trass'ella innanzi a lor prima un bel desco

su piè sorretto d'un color che imbruna,

sovra il desco un taglier pose di rame,

e fresco miel sovresso, e la cipolla

del largo bere irritatrice, e il fiore

di sacra polve cereal. V'aggiunse

un bellissimo nappo, che recato

aveasi il veglio dal paterno tetto,

d'aurei chiovi trapunto, a doppio fondo,

con quattro orecchie, e intorno a ciascheduna

due beventi colombe, auree pur esse.

Altri a stento l'avrìa colmo rimosso;

l'alzava il veglio agevolmente. In questo

la simile alle Dee presta donzella

pramnio vino versava; indi tritando

su le spume caprin latte rappreso,

e spargendovi sovra un leggier nembo

di candida farina, una bevanda

uscir ne fece di cotal mistura,

che apprestata e libata, ai due guerrieri

la sete estinse e rinfrancò le forze.

Diersi, ciò fatto, a ricrear parlando

gli affaticati spirti; e sulla soglia

ecco apparir Patròclo, e soffermarsi

in sembianza di nume il giovinetto.

Nel vederlo levossi il vecchio in piedi

dal suo lucido seggio, e l'introdusse

presol per mano, e di seder pregollo.

Egli all'invito resistea, dicendo:

Di seder non m'è tempo, egregio veglio,

né obbedirti poss'io. Tremendo, iroso

è colui che mi manda a interrogarti

del guerrier che ferito hai qui condotto.

Or io mel so per me medesmo, e in lui

ravviso il duce Macaon. Ritorno

dunque ad Achille relator di tutto.

Sai quanto, augusto veglio, ei sia stizzoso

e a colpar pronto l'innocente ancora.

Disse, e il gerenio cavalier rispose:

E donde avvien che de' feriti Achivi

sente Achille pietà? Né ancor sa quanta

pel campo s'innalzò nube di lutto.

Piagati altri da lungi, altri da presso

nelle navi languiscono i più prodi.

Di saetta ferito è Dïomede,

d'asta l'inclito Ulisse e Agamennóne,

Euripilo di strale nella coscia,

e di strale egli pur questo che vedi

da me condotto. Il prode Achille intanto

niuna si prende né pietà né cura

degl'infelici Achivi. Aspetta ei forse

che mal grado di noi la fiamma ostile

arda al lido le navi, e che noi tutti

l'un su l'altro cadiam trafitti e spenti?

Ahi che la possa mia non è più quella

ch'agili un tempo mi facea le membra!

Oh quel fior m'avess'io d'anni e di forza,

ch'io m'ebbi allor che per rapiti armenti

tra noi surse e gli Elèi fiera contesa!

Io predai con ardita rappresaglia

del nemico le mandre, e l'elïese

Ipirochìde Itimonèo distesi.

Combattea de' suoi tauri alla difesa

l'uom forte, e un dardo di mia mano uscito

lui tra' primi percosse, e al suo cadere

l'agreste torma si disperse in fuga.

Noi molta preda n'adducemmo e ricca:

di buoi cinquanta armenti, ed altrettante

di porcelli, d'agnelle e di caprette,

distinte mandre, e cento oltre cinquanta

fulve cavalle, tutte madri, e molte

col poledro alla poppa. Ecco la preda

che noi di notte ne menammo in Pilo.

Gioì Nelèo vedendo il giovinetto

figlio guerrier di tante spoglie opimo.

Venuto il giorno, la sonora voce

de' banditor chiamò tutti cui fosse

qualche compenso dagli Elèi dovuto.

Di Pilo i capi congregārsi, e grande

sendo il dovere degli Elèi, fu tutta

scompartita la preda, e rintegrate

l'antiche offese. Perciocché la forza

d'Ercole avendo desolata un giorno

la nostra terra, e i più prestanti uccisi,

e di dodici figli di Nelèo

prodi guerrier rimasto io solo in Pilo

con altri pochi oppressi, i baldanzosi

Elèi di nostre disventure alteri

n'insultār, ne fêr danno. Or dunque in serbo

tenne il vecchio per sé di tauri intero

un armento trascelto, e un'ampia greggia

di ben trecento pecorelle, insieme

co' mandriani; giusta ricompensa

di quattro egregi corridor, mandati

in un col carro a conquistargli un tripode

nell'olimpica polve, e dall'elèo

rege rapiti, rimandando spoglio

de' bei corsieri il doloroso auriga.

Di questi oltraggi il vecchio padre irato

larga preda si tolse, e al popol diede,

giusta il dovuto, a ripartirsi il resto.

Mentre intenti ne stiamo a queste cose,

e offriam per tutta la città solenni

sacrifici agli Eterni, ecco nel terzo

giorno gli Elèi con tutte de' lor fanti

e cavalli le forze in campo uscire,

ed ambedue con essi i Molïoni,

giovinetti ancor sori ed inesperti

negl'impeti di Marte. Su l'Alfèo

in arduo colle assisa è una cittade

Trïoessa nomata, ultima terra

dell'arenosa Pilo. Desïosi

di porla al fondo la cingean d'assedio.

Ma come tutto superaro il campo,

frettolosa e notturna a noi discese

dall'Olimpo Minerva, ad avvisarne

di pigliar l'armi; e congregò le turbe

per la cittade, non già lente e schive,

ma tutte accese del desìo di guerra.

Non mi assentiva il genitor Nelèo

l'uscir con gli altri armato; e perché destro

nel fiero Marte ancor non mi credea,

occultommi i destrieri. Ed io pedone

v'andai scorto da Pallade, e tra' nostri

cavalier mi distinsi in quella pugna.

Sul fiume Minïèo che presso Arena

si devolve nel mar, noi squadra equestre

posammo ad aspettar l'alba divina,

finché n'avesse la pedestre aggiunti.

Riunito l'esercito, movemmo

ben armati ed accinti, e sul merigge

d'Alfèo giungemmo all'onde sacre. Quivi

propizïammo con opime offerte

l'onnipossente Giove; al fiume un toro

svenammo, un altro al gran Nettunno, e intatta

a Palla una giovenca. Indi pel campo

preso a drappelli della sera il cibo,

tutti ne demmo, ognun coll'armi indosso,

lungo il fiume a dormir. Stringean frattanto

d'assedio la cittade i forti Elèi

d'espugnarla bramosi. Ma di Marte

ebber tosto davanti una grand'opra.

Brillò sul volto della terra il sole,

e noi Minerva supplicando e Giove

appiccammo la zuffa. Aspro fu il cozzo

delle due genti, ed io primiero uccisi

(e i corsieri gli tolsi) il bellicoso

Mulio, gener d'Augìa, del quale in moglie

la maggior figlia possedea, la bionda

Agamède, cui nota era, di quante

l'almo sen della terra erbe produce,

la medica virtù. Questo io trafissi

coll'asta, e lo distesi, e, dell'ucciso

salito il cocchio, mi cacciai tra' primi.

Visto il duce cader de' cavalieri

che gli altri tutti di valor vincea,

si sgomentaro i generosi Elèi,

e fuggīr d'ogni parte. Io come turbo

mi serrai loro addosso, e di cinquanta

carri fei preda, e intorno a ciascheduno

mordean la polve dal mio ferro ancisi

due combattenti. E messi a morte avrei

gli Attòridi pur anco, i due medesmi

Molïoni, se fuor della battaglia

non li traea, coprendoli di nebbia,

il gran rege Nettunno. Al nostro ardire

alta vittoria allor Giove concesse.

Perocché per lo campo, tutto sparso

di scudi e di cadaveri, tant'oltre

gl'inseguimmo uccidendo, e raccogliendo

le bell'armi nemiche, che spingemmo

fino ai buprasii solchi i corridori,

fin all'olenio sasso, ed alla riva

d'Alèsio, al luogo che Calon si noma.

Qui fêr alto per cenno di Minerva

i vincitori, e qui l'estremo io spensi.

Da Buprasio frattanto i nostri prodi

riconduceano a Pilo i polverosi

carri, e dar laude si sentìa da tutti

a Giove in cielo, ed a Nestorre in terra.

Tal nelle pugne apparve il valor mio.

Ma del valor d'Achille il solo Achille

godrassi, e quando consumati ahi! tutti

vedrà gli Achivi, piangerà, ma indarno.

Caro Patròclo, nel pensier richiama

di Menèzio i precetti, onde il buon veglio

t'accompagnava il giorno che da Ftia

ti spediva all'Atride Agamennóne.

Fummo presenti, e gli ascoltammo interi

il divo Ulisse ed io Nestorre, entrambi

al regal tetto di Pelèo venuti

a far eletta di guerrieri achei.

Ivi l'eroe Menèzio e te vedemmo

d'Achille al fianco. Il cavalier Pelèo,

venerando vegliardo, entro il cortile

al fulminante Giove ardea le pingui

cosce d'un tauro, e sull'ardenti fibre

negro vino da nappo aureo versava.

Voi vi stavate preparando entrambi

le sacre carni, e noi giungemmo in quella

sul limitar. Stupì, levossi Achille,

per man ne prese, e n'introdusse, in seggio

ne collocò, ne pose innanzi i doni

che il santo dritto dell'ospizio chiede.

Ristorati di cibo e di bevanda,

io parlai primamente, e v'esortava

l'uno e l'altro a seguirne; e il bramavate

voi fortemente. E quai de' due canuti

fûro allora i conforti? Al figlio Achille

raccomandò Pelèo l'oprar mai sempre

da prode, e a tutti di valor star sopra.

Ma volto a te l'Attòride Menèzio,

Figlio, il vecchio dicea, ti vince Achille

di sangue, e tu lui d'anni; egli di forza,

tu di consiglio. Con prudenti avvisi

dunque il governa e l'ammonisci, e all'uopo

t'obbedirà. Tal era il suo precetto;

tu l'obblïasti. Or via, l'adempi adesso,

parla all'amico bellicoso, e tenta

süaderlo. Chi sa? Qualche buon Dio

animerà le tue parole, e l'alma

toccherà di quel fiero. Al cor va sempre

l'ammonimento d'un diletto amico.

Ché s'ei paventa in suo segreto un qualche

vaticinio, se alcuno a lui da Giove

la madre ne recò, te mandi almeno

co' Mirmidóni a confortar gli Achivi

nella battaglia, e l'armi sue ti ceda.

Forse ingannati dall'aspetto i Teucri

ti crederan lui stesso, e fuggiranno,

e gli egri Achei respireranno: è spesso

di gran momento in guerra un sol respiro.

E voi freschi guerrieri agevolmente

respingerete lo stanco nemico

dalle tende e dal mare alla cittade.

Sì disse il saggio, e tutto si commosse

il cor nel petto di Patròclo. Ei corse

lungo il lido ad Achille, e giunto all'alta

capitana d'Ulisse, ove nel mezzo

ai santi altari si tenea ragione

e parlamento, d'Evemone il figlio

Eurìpilo scontrò, che di saetta

ferito nella coscia e vacillante

dalla pugna partìa. Largo il sudore

gli discorrea dal capo e dalle spalle,

e molto sangue dalla ria ferita,

ma intrepida era l'alma. Il vide e n'ebbe

pietade il forte Menezìade, e a lui

lagrimando si volse: Oh sventurati

duci Achei! così dunque, ohimè! lontani

dai cari amici e dalla patria terra

de' vostri corpi sazïar di Troia

dovevate le belve? Eroe divino

Eurìpilo, rispondi: Sosterranno

gli Achei la possa dell'immane Ettorre,

o cadran spenti dal suo ferro? - Oh diva

stirpe, Patròclo, (Eurìpilo rispose)

nullo è più scampo per gli Achei, se scampo

non ne danno le navi. I più gagliardi

tutti giaccion feriti, e ognor più monta

de' Troiani la forza. Or tu cortese

conservami la vita. Alla mia nave

guidami, e svelli dalla coscia il dardo,

con tepid'onda lavane la piaga

e su vi spargi i farmaci salubri

de' quali è grido che imparata hai l'arte

dal Pelìde, e il Pelìde da Chirone

de' Centauri il più giusto. Or tu m'aita,

ché Podalirio e Macaon son lungi;

questi, credo, in sua tenda, anch'ei piagato

è di medica man necessitoso;

l'altro co' Teucri in campo si travaglia.

Qual fia dunque la fin di tanti affanni?

soggiunse di Menèzio il forte figlio,

e che faremo, Eurìpilo? Gran fretta

mi sospinge ad Achille a riportargli

del guardïano degli Achei Nestorre

una risposta: ma pietà non vuole

che in questo stato io t'abbandoni. - Il cinse

colle braccia, ciò detto, e nella tenda

il menò, l'adagiò sopra bovine

pelli dal servo acconciamente stese,

indi col ferro dispiccò dall'anca

l'acerbissimo strale, e con tepenti

linfe la tabe ne lavò. Vi spresse

poi colle palme il lenïente sugo

d'un'amara radice. Incontanente

calmossi il duolo, ristagnossi il sangue,

ed asciutta si chiuse la ferita.

 

 

LIBRO DUODECIMO

 

 

Così dentro alle tende medicava

d'Eurìpilo la piaga il valoroso

Menezìade. Frattanto alla rinfusa

pugnan Teucri ed Achei; né scampo a questi

è più la fossa omai, né l'ampio muro

che l'armata cingea. L'avean gli Achivi

senza vittime eretto a custodire

i navigli e le prede. Edificato

dunque malgrado degli Dei, gran tempo

non durò. Finché vivo Ettore fue,

e irato Achille, e Troia in piedi, il muro

saldo si stette; ma de' Teucri estinte

l'alme più prodi, e degli Achei pur molte,

e al decim'anno Ilio distrutto, e il resto

degli Argivi tornato al patrio lido,

decretār del gran muro la caduta

Nettunno e Apollo, l'impeto sfrenando

di quanti fiumi dalle cime idèe

si devolvono al mar, Reso, Granìco,

Rodio, Careso, Eptàporo ed Esèpo

e il divino Scamandro e Simoenta

che volge sotto l'onde agglomerati

tanti scudi, tant'elmi e tanti eroi.

Di questi rivoltò Febo le bocche

contro l'alta muraglia, e vi sospinse

nove giorni la piena. Intanto Giove,

perché più ratto l'ingoiasse il mare,

incessante piovea. Nettunno istesso

precorrea le fiumane, e col tridente

e coll'onda atterrò le fondamenta

che di travi e di sassi v'avean posto

i travagliosi Achivi; infin che tutta

al piano l'adeguò lungo la riva

dell'Ellesponto. Smantellato il muro,

fe' di quel tratto un arenoso lido,

e tornò le bell'acque al letto antico.

Di Nettunno quest'era e in un d'Apollo

l'opra futura. Ma la pugna intorno

a quel valido muro or ferve e mugge.

Cigolar delle torri odi percosse

le compàgi, e gli Achei dentro le navi

chiudonsi domi dal flagel di Giove,

e paventosi dell'ettoreo braccio,

impetuoso artefice di fuga;

perocché pari a turbine l'eroe

sempre combatte. E qual cinghiale o bieco

leon cui fanno cacciatori e cani

densa corona, di sue forze altero

volve dintorno i truci occhi, né teme

la tempesta de' dardi né la morte,

ma generoso si rigira e guarda

dove slanciarsi fra gli armati, e ovunque

urta, s'arretra degli armati il cerchio;

tal fra l'armi s'avvolge il teucro duce,

i suoi spronando a valicar la fossa.

Ma non l'ardìan gli ardenti corridori

che mettean fermi all'orlo alti nitriti,

dal varco spaventati arduo a saltarsi

e a tragittarsi: perocché dintorno

s'aprìan profondi precipizi, e il sommo

margo d'acuti pali era munito,

di che folto v'avean contro il nemico

confitto un bosco gli operosi Achei,

tal che passarvi non potean le rote

di volubile cocchio. Ma bramosi

ardean d'entrarvi e superarlo i fanti.

Fattosi innanzi allor Polidamante

ad Ettore sì disse: Ettore, e voi

duci troiani e collegati, udite.

Stolto ardire è il cacciar dentro la fossa

gli animosi cavalli. E non vedete

il difficile passo e la foresta

d'acute travi, che circonda il muro?

Di niuna guisa ai cavalier non lice

calarsi in quelle strette a far conflitto,

senza periglio di mortal ferita.

Se il Tonante in suo sdegno ha risoluta

degli Achei la ruina e il nostro scampo,

ben io vorrei che questo intervenisse

qui tosto, e che dal caro Argo lontani

perdesser tutti coll'onor la vita.

Ma se voltano fronte, e dalle navi

erompendo con impeto, nel fondo

ne stringono del fosso, allor, cred'io,

niuno in Troia di noi nunzio ritorna

salvo dal ferro de' conversi Achei.

Diam dunque effetto a un mio pensier. Sul fosso

ogni auriga rattenga i corridori,

e noi pedoni, corazzati e densi

tutti in punto seguiam l'orme d'Ettorre.

Non sosterranno il nostro urto gli Achivi,

se l'ora estrema del lor fato è giunta.

Disse; e ad Ettore piacque il saggio avviso.

Balzò dunque dal carro incontanente

tutto nell'armi, e balzār gli altri a gara,

visto l'esempio di quel divo. Ognuno

fe' precetto all'auriga di sostarsi

co' destrieri alla fossa in ordinanza;

ed essi in cinque battaglion divisi

seguiro i duci. Andò la prima squadra

con Ettore e col buon Polidamante,

ed era questa il fiore e il maggior nerbo

de' combattenti, desïosi tutti

di spezzar l'alto muro, e su le navi

portar la pugna: terzo condottiero

li seguìa Cebrïon, messo in sua vece

alla custodia dell'ettoreo carro

altro men prode auriga. Erano i duci

della seconda Paride, Alcatòo

ed Agenorre. Della terza il divo

Dėifobo ed Elèno ed Asio, il prode

d'Irtaco figlio, cui d'Arisba a Troia

portarono e dall'onda Selleente

due destrier di gran corpo e biondo pelo.

Capitan della quarta era d'Anchise

l'egregia prole, Enea, co' due d'Antènore

pugnaci figli Archìloco e Acamante.

Degl'incliti alleati è condottiero

Sarpedonte, con Glauco e Asteropèo,

da lui compagni del comando assunti

come i più forti dopo sé, tenuto

il più forte di tutti. In ordinanza

posti i cinque drappelli, e di taurine

targhe coperti, mossero animosi

contro gli Achei, sperando entro le navi

precipitarsi alfin senza ritegno.

Mentre tutti e Troiani ed alleati

al consiglio obbedìan dell'incolpato

Polidamante, il duce Asio sol esso

lasciar né auriga né corsier non volle,

ma vêr le navi li sospinse. Insano!

Que' corsieri, quel cocchio, ond'egli esulta,

nol torranno alla morte, e dalle navi

in Ilio no nol torneran. La nera

Parca già il copre, e all'asta lo consacra

del chiaro Deucalìde Idomenèo.

Alla sinistra del naval recinto

ove carri e cavalli in gran tumulto

venìan cacciando i fuggitivi Achei,

spins'egli i suoi corsier verso la porta,

non già di sbarre assicurata e chiusa,

ma spalancata e da guerrier difesa

a scampo de' fuggenti. Il coraggioso

flagellò drittamente i corridori

a quella volta, e con acute grida

altri il seguìan, sperandosi che rotti,

senza far testa, nelle navi in salvo

precipitosi fuggirìan gli Achivi.

Stolta speranza! Custodìan la porta

due fortissimi eroi, germi animosi

de' guerrieri Lapiti. Era l'un d'essi

Polipète, figliuol di Piritòo,

l'altro il feroce Leontèo. Sublimi

stavan quivi costor, sembianti a due

eccelse querce in cima alla montagna,

che ferme e colle lunghe ampie radici

abbracciando la terra, eternamente

sostengono la piova e le procelle;

così fidati nelle man robuste,

ben lungi dal voltar per tema il tergo,

voltan anzi la fronte i due guerrieri,

d'Asio aspettando la gran furia. Ed esso

coll'Asiade Acamante, e con Oreste

e Jameno e Toone ed Enomào

sollevando gli scudi, il forte muro

van con fracasso ad assalir. Ma fermi

sull'ingresso i due prodi altrui fan core

alla difesa delle navi. Alfine

visti i Teucri avventarsi alla muraglia

d'ogni parte, e fuggir con alto grido

di spavento gli Achivi, impeto fece

l'ardita coppia: e fiero anzi le porte

un conflitto attaccār, come silvestri

verri ch'odon sul monte avvicinarsi

il fragor della caccia: impetuosi

fulminando a traverso, a sé dintorno

rompon la selva, schiantano la rosta

dalle radici, e sentir fanno il suono

del terribile dente, infine che colti

d'acuto strale perdono la vita;

di questi due così sopra i percossi

petti sonava il luminoso acciaro,

e così combattean, nelle gagliarde

destre fidando, e nel valor di quelli

che di sopra dai merli e dalle torri

piovean nembi di sassi alla difesa

delle tende, dei legni e di se stessi.

Cadean spesse le pietre come spessa

la grandine cui vento impetuoso

di negre nubi agitator riversa

sull'alma terra; né piovean gli strali

sol dalle mani achive, ma ben anco

dalle troiane, e al grandinar de' sassi

smisurati mettean roco un rimbombo

gli elmi percossi e i risonanti scudi.

Fremendo allor si batté l'anca il figlio

d'Irtaco, e disse disdegnoso: O Giove

e tu pur ti se' fatto ora l'amico

della menzogna? Chi pensar potea

contro il nerbo di nostre invitte mani

tal resistenza dagli Achei? Ma vélli

che come vespe maculose in erti

nidi nascoste, a chi dà lor la caccia

s'avventano feroci, e per le cave

case e pe' figli battagliar le vedi:

così costor, benché due soli, addietro

dar non vonno che morti o prigionieri.

Così parlava, né perciò di Giove

si mutava il pensier, che al solo Ettorre

dar la palma volea. Aspro degli altri

all'altre porte intanto era il conflitto.

Ma dura impresa mi sarìa dir tutte,

come la lingua degli Dei, le cose.

Perocché quanto è lungo il saldo muro

tutto è vampo di Marte. Alta costringe

necessità, quantunque egri, gli Achei

a pugnar per le navi; e degli Achei

tutti eran mesti in cielo i numi amici.

Qui cominciār la pugna i due Lapiti.

Vibrò la lancia il forte Polipète,

e Damaso colpì tra le ferrate

guance dell'elmo. L'elmo non sostenne

la furïosa punta che, spezzati

i temporali, gli allagò di sangue

tutto il cerèbro, e morto lo distese:

indi all'Orco Pilon spinse ed Ormeno.

Né la strage è minor di Leontèo,

d'Antìmaco figliuolo anzi di Marte.

Sul confin della cintola ei percote

Ippomaco coll'asta: indi cavata

dal fodero la daga, per lo mezzo

della turba si scaglia, e pria d'un colpo

tasta Antifonte che supin stramazza;

poi rovescia Menon, Jameno, Oreste,

tutti l'un sovra l'altro nella polve.

Mentre che Polipète e Leontèo

delle bell'armi spogliano gli uccisi,

la numerosa e di gran core armata

troiana gioventude, impazïente

di spezzar la muraglia, arder le navi,

Polidamante ed Ettore seguìa,

i quai repente all'orlo della fossa

irresoluti s'arrestār dubbiando

di passar oltre: perocché sublime

un'aquila comparve, che sospeso

tenne il campo a sinistra. Il fero augello

stretto portava negli artigli un drago

insanguinato, smisurato e vivo,

ancor guizzante, e ancor pronto all'offese;

sì che volto a colei che lo ghermìa,

lubrico le vibrò tra il petto e il collo

una ferita. Allor la volatrice,

aperta l'ugna per dolor, lasciollo

cader dall'alto fra le turbe, e forte

stridendo sparve per le vie de' venti.

Visto in terra giacente il maculato

serpe, prodigio dell'Egìoco Giove,

inorridiro i Teucri, e fatto avanti

all'intrepido Ettòr Polidamante

sì prese a dir: Tu sempre, ancorché io porti

ottimi avvisi in parlamento, o duce,

hai pronta contro me qualche rampogna,

né pensi che non lice a cittadino

né in assemblea tradir né in mezzo all'armi

la verità, servendo all'augumento

di tua possanza. Dirò franco adunque

ciò che il meglio or mi sembra. Non si vada

coll'armi ad assalir le navi achee.

Il certo evento che n'attende è scritto

nell'augurio comparso alla sinistra

dell'esercito nostro, appunto in quella

che si volea travalicar la fossa,

dico il volo dell'aquila portante

nell'ugna un drago sanguinoso, immane

e vivo ancor. Com'ella cader tosto

lasciò la preda, pria che al caro nido

giungesse, e pasto la recasse a' suoi

dolci nati; così, quando n'accada

pur de' Greci atterrar le porte e il muro

e farne strage, non pensar per questo

di ritornarne con onor; ché indietro

molti Troiani lasceremo ancisi

dall'argolico ferro, combattente

per la tutela delle navi. Ognuno,

che ben la lingua de' prodigi intenda

e da' profani riverenza ottegna,

questo verace interpretar farìa.

Lo guatò bieco Ettorre, e gli rispose:

Polidamante, il tuo parlar non viemmi

grato all'orecchio, e una miglior sentenza

or dal tuo labbro m'attendea. Se parli

persuaso e davvero, io ti fo certo

che l'ira degli Dei ti tolse il senno,

poiché m'esorti ad obblïar di Giove

le giurate promesse, e all'ale erranti

degli augelli obbedir; de' quai non curo,

se volino alla dritta ove il Sol nasce,

o alla sinistra dove muor. Ben calmi

del gran Giove seguir l'alto consiglio,

ch'ei de' mortali e degli Eterni è il sommo

imperadore. Augurio ottimo e solo

è il pugnar per la patria. Perché tremi

tu dei perigli della pugna? Ov'anco

cadiam noi tutti tra le navi ancisi,

temer di morte tu non dei, ché cuore

tu non hai d'aspettar l'urto nemico,

né di pugnar. Se poi ti rimanendo

lontano dal conflitto, esorterai

con codarde parole altri a seguire

la tua viltà, per dio! che tu percosso

da questa lancia perderai la vita.

Si spinse avanti così detto, e gli altri

con alte grida lo seguiéno. Allora

il Folgorante dall'idèa montagna

un turbine destò, che drittamente

verso le navi sospingea la polve,

e agli Achivi rapìa gli occhi e l'ardire,

ad Ettorre il crescendo ed a' Troiani

che nel prodigio e nelle proprie forze

confidati assalīr l'alta muraglia

per diroccarla. E già divelti i merli

delle torri cadean, già le bertesche

si sfasciano, e le leve alto sollevano

gli sporgenti pilastri, eccelso e primo

fondamento alle torri. Intorno a questi

travagliansi i Troiani, ampia sperando

aprir la breccia. Né perciò d'un passo

s'arretrano gli Achei, ma di taurine

targhe schermo facendo alle bastite,

ferìan da quelle chi venìa di sotto.

Animosi dall'una all'altra torre

l'acheo valor svegliando ambo frattanto

scorrean gli Aiaci, e con parole or dure

or blande rampognando i neghittosi,

O compagni, dicean, quanti qui siamo

primi, secondi ed infimi (ché tutti

non siamo eguali nel pugnar, ma tutti

necessari), or gli è tempo, e lo vedete,

d'oprar le mani. Non vi sia chi pieghi

dunque alle navi per timor di vana

minaccia ostil, ma procedete avanti,

e l'un l'altro incoratevi, e mertate

che l'Olimpio Tonante vi conceda

di risospinger l'inimico, e rotto

inseguirlo fin dentro alle sue mura.

Sì sgridando, animār l'acheo certame.

Come cadono spessi ai dì vernali

i fiocchi della neve, allorché Giove

versa incessante, addormentati i venti,

i suoi candidi nembi, e l'alte cime

delle montagne inalba e i campi erbosi,

e i pingui seminati e i porti e i lidi:

l'onda sola del mar non soffre il velo

delle fioccanti falde onde il celeste

nembo ricopre delle cose il volto;

tale allor densa di volanti sassi

la tempesta piovea quinci da' Teucri

scagliata e quindi dagli Achivi; e immenso

sorgea rumor per tutto il lungo muro.

Ma né i Troiani né l'illustre Ettorre

n'avrìan le porte spezzato e le sbarre,

se alfin contro gli Achei non incitava

Giove l'ardir del figlio Sarpedonte,

quale in mandra di buoi fiero lïone.

Imbracciossi l'eroe subitamente

il bel rotondo scudo, ricoperto

di ben condotto sottil bronzo, e dentro

v'avea l'industre artefice cucito

cuoi taurini a più doppi, e orlato intorno

d'aurea verga perenne il cerchio intero.

Con questo innanzi al petto, e nella destra

due lanciotti vibrando, incamminossi

qual montano lïon che, stimolato

da lunga fame e dal gran cor, l'assalto

tenta di pieno ben munito ovile;

e quantunque da' cani e da' pastori

tutti sull'armi custodito il trovi,

senza prova non soffre esser respinto

dal pecorile, ma vi salta in mezzo

e vi fa preda, o da veloce telo

di man pronta riceve aspra ferita:

tale il divino Sarpedon dal forte

suo cor quel muro ad assalir fu spinto

e a spezzarne i ripari. E volto a Glauco

d'Ippoloco figliuol, Glauco, gli disse,

perché siam noi di seggio, e di vivande

e di ricolme tazze innanzi a tutti

nella Licia onorati ed ammirati

pur come numi? Ond'è che lungo il Xanto

una gran terra possediam d'ameno

sito, e di biade fertili e di viti?

Certo acciocché primieri andiam tra' Licii

nelle calde battaglie, onde alcun d'essi

gridar s'intenda: Glorïosi e degni

son del comando i nostri re: squisita

è lor vivanda, e dolce ambrosia il vino,

ma grande il core, e nella pugna i primi.

Se il fuggir dal conflitto, o caro amico,

ne partorisse eterna giovinezza,

non io certo vorrei primo di Marte

i perigli affrontar, ned invitarti

a cercar gloria ne' guerrieri affanni.

Ma mille essendo del morir le vie,

né scansar nullo le potendo, andiamo:

noi darem gloria ad altri, od altri a noi.

Disse, né Glauco si ritrasse indietro,

né ritroso il seguì. Con molta mano

dunque di Licii s'avviār. Li vide

rovinosi e diritti alla sua torre

affilarsi il Petìde Menestèo,

e sgomentossi. Girò gli occhi intorno

fra gli Achivi spïando un qualche duce

che lui soccorra e i suoi compagni insieme.

Scorge gli Aiaci che indefessi e fermi

sostenean la battaglia, e avean dappresso

Teucro pur dianzi della tenda uscito.

Ma non potea far loro a verun modo

le sue grida sentir, tanto è il fragore

di che l'aria rimbomba alle percosse

degli scudi, degli elmi e delle porte

tutte a un tempo assalite, onde spezzarle

e spalancarle. Immantinente ei dunque

manda ad Aiace il banditor Toota,

e, Va, gli dice, illustre araldo, vola,

chiama gli Aiaci, chiamali ambedue,

ché questo è il meglio in sì grand'uopo. Un'alta

strage qui veggo già imminente. I duci

del licio stuol con tutta la lor possa

qua piombano, e mostrār già in altro incontro

ch'elli son nelle zuffe impetuosi.

S'ambo gli eroi ch'io chiedo, in gran travaglio

si trovano di guerra, almen ne vegna

il forte Aiace Telamònio, e il segua

Teucro coll'arco di ferir maestro.

Corse l'araldo obbediente, e ratto

per la lunga muraglia traversando

le file degli Achei, giunse agli Aiaci,

e con preste parole, Aiaci, ei disse,

incliti duci degli Argivi, il caro

nobile figlio di Petèo vi prega

d'accorrere veloci, ed aitarlo

alcun poco nel rischio in che si trova.

Prègavi entrambi per lo meglio. Un'alta

strage gli è sopra: perocché di tutta

forza si vanno a rovesciar sovr'esso

i licii capitani, e di costoro

l'impeto è noto nel pugnar. Se voi

siete in gran briga voi medesmi, almeno

vien tu, forte figliuol di Telamone,

e tu, Teucro, signor d'arco tremendo.

Tacque, ed il grande Telamònio figlio

al figlio d'Oilèo si volse e disse:

Tu, Aiace, e tu forte Licomede

qui restatevi entrambi, ed infiammate

l'acheo coraggio alla battaglia. Io volo

colà allo scontro del nemico, e data

la chiesta aita, subito ritorno.

Partì l'eroe, ciò detto, ed il germano

Teucro il seguiva, e Pandïon portante

l'arco di Teucro. Costeggiando il muro

alla torre arrivār di Menestèo:

ed entrār nella zuffa, appunto in quella

che a negro turbo simiglianti i duci

animosi de' Licii avean de' merli

già vinto il sommo. Si scontrār gli eroi

fronte a fronte, e levossi alto clamore.

Primo l'Aiace Telamònio uccise

il magnanimo Epìcle, un caro amico

di Sarpedon. Giacea sull'ardua cima

della muraglia un aspro enorme sasso,

tal che niun de' presenti, anco sul fiore

delle forze, il potrebbe agevolmente

a due man sollevar. Ma lieve in alto

levollo Aiace, e lo scagliò. L'orrendo

colpo diruppe il bacinetto, e tutte

l'ossa del capo sfracellò. Dall'alta

torre il percosso a notator simìle

cadde, e l'alma fuggì. Teucro di poi

di strale a Glauco il nudo braccio impiaga

mentre il muro assalisce, e lo costrigne

la pugna abbandonar. Glauco d'un salto

giù dagli spaldi gittasi furtivo,

onde nessuno degli Achei s'avvegga

di sua ferita, e villanìa gli dica.

Ben se n'accorse Sarpedonte, ed alta

dell'amico al partir doglia il trafisse.

Ma non lentossi dalla pugna, e giunto

colla lancia il Testòride Alcmeone,

gliela ficca nel petto, e a sé la tira.

Segue il trafitto l'asta infissa, e cade

boccone, e l'armi risonār sovr'esso.

Colla man forte quindi il licio duce

un merlo afferra, a sé lo tragge, e tutto

lo dirocca. Snudossi al suo cadere

la superna muraglia, e larga a molti

fece la strada. Allor ristretti insieme

mossero contra Sarpedonte i due

Telamonìdi, e Teucro d'uno strale

al petto il saettò. Raccolse il colpo

il lucente fermaglio dell'immenso

scudo, ché Giove dal suo figlio allora

allontanò la Parca, e non permise

che davanti alle navi egli cadesse.

L'assalse Aiace ad un medesmo tempo,

e allo scudo il ferì. Tutto passollo

la fiera punta, ed aspramente il caldo

guerrier represse. Dagli spaldi adunque

recede alquanto ei sì, ma non del tutto,

ché il cor pur anco gli porgea speranza

della vittoria, e al suo fedel drappello

rivoltosi, gridò: Licii guerrieri,

perché l'impeto vostro si rallenta?

Benché forte io mi sia, solo poss'io

atterrar questo muro, ed alle navi

aprir la strada? A me v'unite or dunque,

ché forza unita tutto vince. - Ei disse,

e vergognosi rispettando i Licii

le regali rampogne, s'addensaro

dintorno al saggio condottier. Dall'altro

lato gli Argivi nell'interno muro

rinforzan le falangi, e d'ambe parti

cresce il travaglio della dura impresa.

Perocché né il valor degli animosi

Licii a traverso dell'infranto muro

alle navi potea farsi la strada,

né i saettanti Achei dall'occupata

muraglia i Licii discacciar: ma quale

in poder che comune abbia il confine,

fan due villan, la pertica alla mano,

del limite baruffa, e poca lista

di terra è tutto della lite il campo:

così dei merli combattean costoro,

e sovra i merli contrastati un fiero

spezzar si fea di scudi e di brocchieri

su gli anelanti petti; e molti intorno

cadean gli uccisi; altri dal crudo acciaro

nel voltarsi trafitti il tergo ignudo;

altri, ed erano i più, da parte a parte

trapassati le targhe. Da per tutto

torri e spaldi rosseggiano di sangue

e troiano ed acheo; né fra gli Achei

nullo ancor segno si vedea di fuga.

Siccome onesta femminetta, a cui

procaccia il vitto la conocchia, in mano

tien la bilancia, e vi sospende e pesa

con rigorosa trutina la lana,

onde i suoi figli sostentar di scarso

alimento; così de' combattenti

equilibrata si tenea la pugna,

finché l'ora pur venne in che dovea

spinto da Giove superar primiero

Ettore la muraglia. Alza ei repente

la terribile voce, ed, Accorrete,

grida, o forti Troiani, urtate il muro,

spezzatelo, gittate alfin le fiamme

vendicatrici nella classe achea.

L'udiro i Teucri, ed incitati e densi

avventārsi ai ripari, e sovra il muro

montār coll'aste in pugno. Appo le porte

un immane giacea macigno acuto:

non l'avrìan mosso agevolmente due

de' presenti mortali anche robusti

per carreggiarlo. A questo diè di piglio

Ettore; ed alto sollevollo, e solo

senza fatica l'agitò; ché Giove

in man del duce lo rendea leggiero.

E come nella manca il mandrïano

lieve sostien d'un arïète il vello,

insensibile peso; a questa guisa

Ettore porta sollevato in alto

l'enorme sasso, e va dirittamente

contro l'assito che compatto e grosso

delle porte munìa la doppia imposta,

da due forti sbarrata internamente

spranghe traverse, ed uno era il serrame.

Fattosi appresso, ed allargate e ferme

saldamente le gambe, onde con forza

il colpo liberar, percosse il mezzo.

Al fulmine del sasso sgangherārsi

i cardini dirotti; orrendamente

muggīr le porte, si spezzār le sbarre,

si sfracellò l'assito, e d'ogni parte

le schegge ne volār; tale fu il pondo

e l'impeto del sasso che di dentro

cadde e posò. Pel varco aperto Ettorre

si spinse innanzi simigliante a scura

ruinosa procella. Folgorava

tutto nell'armi di terribil luce;

scotea due lance nelle man; gli sguardi

mettean lampi e faville, e non l'avrìa,

quando ei fiero saltò dentro le porte,

rattenuto verun che Dio non fosse.

Alle sue schiere allor si volse, e a tutte

comandò di varcar l'achea trinciera.

Obbediro i Troiani; immantinente

altri il muro salīr, altri innondaro

le spalancate porte. Al mar gli Achivi

fuggono, e immenso ne seguìa tumulto.

 

 

LIBRO DECIMOTERZO

 

 

Poiché Giove appressati ebbe alle navi

con Ettore i Troiani, ivi in travaglio

incessante lasciolli: e volti indietro

i fulgid'occhi a riguardar si pose

del Trace di cavalli agitatore

la contrada e de' Misii a stretta pugna

valorosi guerrieri e de' famosi

Ippomolghi, giustissimi mortali

che di latte nudriti a lunga etade

producono i lor dì: né più di Troia

dava un guardo alle mura, in sé pensando

che nessun Dio discendere de' Teucri

o de' Greci in aita oso sarebbe.

Né invan si stava alla vedetta intanto

il re Nettunno che su l'alte assiso

selvose cime della tracia Samo

contemplava di là l'aspro conflitto;

e tutto l'Ida e Troia e degli Achei

le folte antenne si vedea davanti.

Ivi uscito dell'onde egli sedea,

e del cader de' Greci impietosito

contro Giove fremea d'alto disdegno.

Ratto spiccossi dall'alpestre vetta

e discese. Tremār le selve e i monti

sotto il piede immortal dell'incedente

irato Enosigèo. Tre passi ei fece,

e al quarto giunse alla sua meta in Ege,

ove d'auro corruschi in fondo al mare

sorgono eccelsi i suoi palagi eterni.

Qui venuto i veloci oro-criniti

eripedi cavalli al cocchio aggioga.

In aurea vesta si ravvolge tutta

la divina persona, ed impugnato

l'aureo flagello di gentil lavoro

monta il carro, e leggier vola su l'onda.

Dagl'imi gorghi uscite a lui dintorno,

conoscendo il re lor, l'ampie balene

esultano, e per gioia il mar si spiana.

Così rapide volano le rote

che dell'asse né pur si bagna il bronzo;

e gli agili cavalli a tutto corso

verso le navi achee portano il Dio.

Fra Tènedo e fra l'aspra Imbro nell'imo

s'apre dell'alto sale ampia spelonca.

Qui giunto il nume i corridor sostenne,

e dal temo gli sciolse, e ristorati

d'ambrosio cibo, gli allacciò di salde

auree pastoie d'insolubil nodo,

onde attendean lì fermi il redituro

re lor che al campo degli Achei s'indrizza.

Una fiamma sembianti o una procella,

affollati, indefessi, e d'alte grida

l'aria empiendo i Troiani e furïando

seguon d'Ettore i passi, il cor ripieni

della speranza d'occupar le navi,

e tra le navi sterminar gli Achei.

Ma di Calcante presa la sembianza

e la gran voce, raccendea Nettunno

gli argolici guerrieri; e pria rivolto

agli Aiaci gridava: Ah vi ricordi

che il campo achivo col valor si salva,

non col freddo timor. Non io de' Teucri,

che in folla superār l'alta muraglia,

le ardite mani agli altri posti or temo,

ove a tutti terran fronte gli Achei;

ma qui tem'io d'assai qualche sinistro,

qui dove questo inviperito Ettorre,

che del gran Giove si millanta figlio,

guida i Teucri, e s'avventa come fiamma.

Ma se in mente a voi pone un qualche iddio

di contrastargli, e di dar core altrui,

certo mi fo che lungi dalle navi

respingerete il suo furor, foss'anco

lo stesso Giove che gl'infonde ardire.

Così parla Nettunno, e collo scettro

toccandoli ambidue, per le lor membra

una divina vigorìa diffuse,

che tutta alleggerendo la persona

alle man polso aggiunse, ed ali al piede;

e ciò fatto, sparì colla prestezza

di veloce sparvier, che nella valle

visto un augello, da scoscesa rupe

si precipita a piombo su la preda.

Aiace d'Oilèo s'accorse il primo

del portento; e al figliuol di Telamone

di subito converso, Amico, ei disse,

colui che ne parlò non egli al certo

è l'indovino augurator Calcante,

ma qualche dell'Olimpo abitatore

che ne prese le forme, e ne comanda

di pugnar per le navi. Agevolmente

si riconosce un nume, ed io da tergo

lui conobbi all'incesso appunto in quella

che si partiva, e me l'avvisa il core

che di battaglia più che mai bramoso

mi ferve in petto sì, che mani e piedi

brillar mi sento del desìo di pugna.

E a me, risponde il gran Telamonìde,

a me pur brilla intorno a questa lancia

l'audace destra, e il cor mi cresce in seno,

e l'impulso de' piè sento di sotto

sì, che pur solo d'azzuffarmi anelo

coll'indomito Ettorre. - Era di questi

tale il discorso, e tal dell'armi il caldo

desir che in petto avea lor posto il nume.

Nettunno intanto degli Achei ridesta

l'ultime file, che scorate e stanche

dal marzïal travaglio appo i navigli

prendean respiro, e di gran duol cagione

era loro il veder che l'alto muro

avean varcato con tumulto i Teucri.

Piovea lor dalle ciglia a quella vista

un largo pianto, di scampar perduta

ogni speranza. Ma col pronto arrivo

le ravvivò Nettunno; e pria Leìto

e Teucro e Dėipìro e Penelèo

e Merïone e Antìloco e Toante,

tutti eroi bellicosi, inanimando,

Oh vergogna! esclamò, così combatte

or dell'argiva gioventude il fiore?

nel valor delle vostre armi io sperava

salve le navi: ma se voi la fiera

pugna cessate, il dì supremo è questo

della nostra caduta. Oh cielo! oh indegno

spettacolo ch'io veggo, e ch'io non mai

possibile credea! fino alle navi

irrompere i Troiani, essi che dianzi

non eran osi né un momento pure

far fronte ai Greci, e ne fuggìan la possa

come timide cerve, che vaganti

per la foresta, e imbelli e senza core

son di linci, di lupi e leopardi

l'ingorde canne a satollar serbate.

Or ecco che lontan dalla cittade

fino alle navi la battaglia spingono

colpa del duce Atride e noncuranza

de' guerrier che con esso incolloriti,

anzi che a scampo delle navi armarsi,

trucidar vi si fanno. E nondimeno

benché l'Atride eroe veracemente

sia di ciò tutto la cagion, per l'onta

ch'egli fece al Pelìde, a noi non lice

a verun patto abbandonar la pugna.

Via, s'emendi l'error: le generose

alme i lor falli a riparar son preste;

né voi, sendo i più forti, onestamente

il valor vostro rallentar potete;

ned io col vile che pugnar ricusa

so corrucciarmi, ma con voi mi sdegno

altamente, con voi che fatti or molli

ed ignavi e codardi un maggior danno

vi preparate. In sé ciascuno adunque

il pudor svegli e del disnor la tema.

Grande è il certame che s'accese: il prode

Ettore è quegli che le navi assalta,

e le porte già ruppe e l'alta sbarra.

Da questi di Nettunno acri conforti

incoraggiate le falangi achee

si strinsero agli Aiaci in sì bel cerchio,

che stupito n'avrìa Marte e la stessa

Minerva de' guerrieri eccitatrice.

Questo fior di gagliardi il duro assalto

de' Troiani e d'Ettòr fermo attendea,

come siepe stipando ed appoggiando

scudo a scudo, asta ad asta, ed elmo ad elmo

e guerriero a guerrier; sì che gli eccelsi

cimier su i coni rilucenti insieme

confondean l'onda delle chiome equine.

Così densati procedean di punta

contra il nemico questi forti, ognuno

nella robusta mano arditamente

bilanciando il suo telo, e di dar dentro

tutti vogliosi. Fur primieri i Teucri

stretti insieme a far impeto precorsi

dall'intrepido Ettòr, pari a veloce

rovinoso macigno che torrente

per gran pioggia cresciuto da petrosa

rupe divelse e spinse al basso; ei vola

precipite a gran salti, e si fa sotto

la selva risonar; né il corso allenta

finché giunto alla valle ivi si queta

immobile. Così pel campo Ettorre

seminando la strage, infino al mare

penetrar minacciava, e senza intoppo

fra le navi cacciarsi e fra le tende.

Ma come a fronte ei giunse della densa

falange s'arrestò, vano vedendo

di spezzarla ogni mezzo: e di rincontro

l'appuntār colle lance e colle spade

sì fieri i figli degli Achei, che a forza

l'allontanār. Respinto ei diede addietro,

ed alto a' suoi gridò: Troiani, e Licii

e Dardani, deh voi fermo tenete;

ché, benché denso, lo squadron nemico

non sosterrammi a lungo, e all'urto io spero

della mia lancia piegherà, se invano

non eccitommi il più possente Iddio,

l'altitonante di Giunon marito.

Di ciascuno destār la lena e il core

queste parole. Allor di Priamo il figlio

con grande ardir Dėìfobo si mosse,

e davanti portandosi lo scudo

che tutto il ricopriva, a lento passo

s'avanzò. Merïon di mira il prese

colla fulgida lancia, e in pieno il colse

nello scudo taurin, ma di forarlo

non gli successe, ché alla prima falda

l'asta si franse. Paventando il telo

del bellicoso Merïon, dal petto

discostossi Dėìfobo il brocchiero,

e l'argolico eroe vista spezzarsi

la lancia, e tolta la vittoria, irato

si ritrasse fra' suoi, quindi lunghesso

le navi ei corse alla sua tenda in cerca

d'un riposto lancion. La pugna intanto

cresce, ed immenso si solleva il grido.

Il Telamònio Teucro innanzi a tutti

Imbrio distese, acerrimo guerriero,

cui Mentore di ricche equestri razze

possessor generò. Tenea costui

pria dell'arrivo degli Achei suo seggio

in Pedèo, disposata la leggiadra

Medesicaste, del troiano Sire

spuria figliuola. Ma venuti i Greci

rivenne ad Ilio ei pure, e fra' Troiani

distinto di valor nelle regali

case abitava, e il re tenealo in pregio

del par che i figli. A costui l'asta infisse

sotto l'orecchio il buon Telamonìde,

e tosto ne la svelse. Imbrio cadéo

a frassino simìl, che su la cima

d'una montagna da lontan veduta

reciso dalla scure al suolo abbassa

le sue tenere chiome; così cadde

riverso, e l'armi gli sonār dintorno.

Di rapirle bramoso immantinente

Teucro accorse: ma pronto in lui diresse

la fulgid'asta Ettòr. L'altro che a tempo

del colpo s'avvisò, scansollo alquanto,

ed in sua vece lo raccolse in petto

il figliuol dell'Attoride Cteato

Amfimaco, che appunto in quel momento

entrava nella mischia. Strepitoso

ei cadde, e sopra gli tonò l'usbergo.

A levar del magnanimo caduto

dalla fronte il bell'elmo Ettore vola,

ma d'Aiace l'aggiunse il fulminato

splendido telo, che l'ettoreo petto

non offese egli, no (ché tutto quanto

era nel ferro orribilmente chiuso),

ma di tal forza gli percosse il colmo

dello scudo, che pur lo risospinse,

sì che scostarsi fu mestier dall'uno

cadavere e dall'altro, ed agli Achivi

abbandonarli. Amfimaco fra' suoi

fu ritratto da Stichio e Menestèo

Atenèi condottieri; Imbrio da' forti

Aiaci, simiglianti a due leoni

che tolta al dente di gagliardi cani

una capra talor, fra i densi arbusti

la portano del bosco alta da terra

nell'orrende mascelle. A questa guisa

sublime fra le braccia i due guerrieri

d'Imbrio la salma ne portaro, e a lui,

trattegli l'armi, il figlio d'Oilèo,

della morte d'Amfimaco sdegnoso,

mozza la testa fe' volar dal busto;

indi fra i Teucri la gittò rotata

come lubrico globo, e al piè d'Ettorre

la travolse sanguigna nella polve.

Non fu senz'alto di Nettun disdegno

d'Amfimaco la morte al Dio nipote.

Risoluto in suo cor de' Teucri il danno,

fra le navi e le tende il corruccioso

nume avvïossi ad animar gli Achivi.

Scontrollo Idomenèo, che appunto in quella

un amico lasciava a lui poc'anzi

fuor della pugna dai compagni addutto

e ferito al ginocchio. Ai medicanti

commessane la cura il re cretese

da quella tenda si partìa, pur sempre

desideroso di battaglia. Ed ecco

(preso il volto e la voce di Toante

d'Andremone figliuol, che di Pleurone

e dell'eccelsa Calidon signore

agli Etoli imperava, e al par d'un nume

lo riverìa la gente), ecco Nettunno

farglisi innanzi, e dire: Idomenèo

consiglier de' Cretesi, ove n'andaro

le minacciate ai Teucri alte minacce

da' figli degli Achei? - Nullo qui manca

al suo dover, rispose il gnossio duce,

nullo, per mio sentire, e sappiam tutti

pugnar. Nessun da vil tema è preso,

nessun fiaccato da desidia fugge

l'affanno marzïal. Ma del possente

Giove quest'è la fantasia, che lungi

dalla patria perire inonorati

qui debbano gli Achei. Ma tu che fosti

sempre un forte, o Toante, e altrui se' uso

destar coraggio, se allentar lo vedi,

segui a farlo, e rinfranca ogni guerriero.

Possa da Troia, replicò Nettunno,

non si far più ritorno, e qui de' cani

rimanersi sollazzo, ognun che cerchi

in questo giorno abbandonar la pugna.

Va, ti rïarma, e vieni, e tenteremo,

benché due soli, di far tale un fatto

ch'utile torni. La congiunta forza

pur degl'imbelli è di momento, e noi

ancor co' prodi guerreggiar sappiamo.

Disse, e mischiossi il Dio nel travaglioso

mortal conflitto. Rïentrò veloce

nella sua tenda Idomenèo, di belle

armi vestissi tutto quanto, e tolte

due lance s'avvïò, simile in vista

alla corrusca folgore che Giove

vibra dall'alto a sgomentar le genti,

e di lucidi solchi il ciel lampeggia;

così splendea l'acciaro intorno al petto

del frettoloso eroe. Lungi di poco

dalla tenda scontrollo il suo fedele

Merïon, che venìa d'altr'asta in cerca.

Figlio di Molo, Idomenèo gli disse,

ove corri sì ratto? e perché lasci,

diletto amico Merïon, la pugna?

Se' tu forse ferito, e qualche punta

ti tormenta di strale? od a recarmi

qualche avviso ne vieni? Andiam, ch'io stesso

non di riposi, ma di pugna ho brama.

Vengo, rispose Merïon, d'un'asta

a provedermi, Idomenèo, se alcuna

te ne rimase al padiglion. La mia

alla scudo la ruppi del feroce

Dėìfobo. - Non una, il re riprese,

ma venti, se le brami, alla parete

ne troverai poggiate entro la tenda,

tutte belle e troiane e da me tolte

ad uccisi nemici. Io li combatto

sempre dappresso, e così d'aste io feci

e d'elmetti e di scudi ombelicati

e di lucidi usberghi un tanto acquisto.

Ed io pur nella tenda e nella nave

ho molte spoglie de' Troiani in serbo,

soggiunse Merïon; ma lungi or sono.

E neppur io mi spero in obblïanza

aver posto il valor; ché anch'io ne' campi

della gloria so starmi in mezzo ai primi,

quando di Marte la tenzon si desta.

Forse al più degli Achei mal noto in guerra

è il mio valor, ma tu il conosci, io spero.

Sì, lo conosco, Idomenèo riprese,

ma che ridirlo or tu? L'agguato è il campo

ove in sua chiarità splende il coraggio,

e dal codardo si discerne il prode.

Color cangia il codardo, e il cor mal fermo

non gli permette di tenersi immoto

un solo istante; mancagli il ginocchio,

sul calcagno s'accascia, e immaginando

vicino il suo morir, l'alma nel seno

palpita e trema dibattendo i denti.

Ma collocato nell'insidia il forte

né cor cangia né volto, e della zuffa

il momento sospira. E a noi tenuti

tra' più gagliardi, se l'andar ne tocchi

d'un agguato al periglio, a noi pur anco

e del tuo braccio e del tuo cor palese

si farìa la virtù. Se nella pugna

fia che ti colga un qualche telo, al certo

il tergo no ma piagheratti il petto,

e diritto corrente all'inimico,

e tra' primieri avvolto, e nel più denso

della battaglia. Ma non più parole;

onde a caso qualcun sopravvenendo

di vanitosi cianciatori a dritto

non ci getti rampogna. Orsù, t'affretta

nella tenda, e una forte asta ti piglia.

Disse, e l'altro volò, prese veloce

una ferrata lancia, e la battaglia

anelando, raggiunse Idomenèo.

Qual s'avanza al conflitto il sanguinoso

nume dell'armi, e suo diletto figlio

l'accompagna il Terror che audace e forte

anco i più fermi fa tremar; l'orrenda

coppia lasciati della Tracia i lidi

va degli Efìri a guerreggiar le genti

o i magnanimi Flegii, e non ascolta

più quei che questi, ancor dubbiando a cui

la vittoria invïar; tali nel ferro

lampeggianti procedono alla pugna,

condottieri di prodi, Idomenèo

e Merïone, che primier dicea:

Da qual parte in battaglia entrar t'aggrada,

o Deucalìde valoroso? a destra

o pur nel centro? o sosterrem più tosto

la sinistra? Gli è quivi, a mio parere,

che di soccorso ai nostri è più mestiero.

Il centro ha buoni difensor, rispose

il re di Creta, ha l'uno e l'altro Aiace

e il più prestante saettier de' Greci

Teucro, gagliardo combattente insieme

a piè fermo. Daran questi ad Ettorre,

per audace ch'ei sia, molto travaglio

nella fervida mischia, e costar caro

gli faranno il tentar di superarne

l'invitta forza, e i minacciati legni

colle fiamme assalir, se pur lo stesso

Giove non scenda colle proprie mani

a gittarvi gl'incendii. A mortal uomo

che sia di frutto cereal nudrito,

e cui possa del ferro o delle pietre

il colpo vïolar, non fia che mai

il grande Aiace Telamònio ceda,

non allo stesso violento Achille

che di corso bensì, ma fior nol vince

nel pugnar di piè fermo. Or noi del campo

rivolgiamci alla manca, e vediam tosto

se darem gloria ad altri, od altri a noi.

Volār, ciò detto, alla prefissa meta.

I Troiani, veduto Idomenèo

come vampa di foco alla lor volta

col suo scudier venirne, orrendo ei pure

di scintillanti arnesi, inanimando

sé medesmi a vicenda, ad incontrarli

mossero tutti di conserto. Allora

surse avanti alle poppe aspro conflitto.

A quella guisa che ne' caldi giorni,

quando copre le vie la molta polve,

s'alza turbo di vento che solleva

sibilando di sabbia una gran nube;

tali ardendo nel cor di porsi a morte

co' ferri acuti, s'attaccār le schiere.

Irto era tutto il campo (orrida vista!)

di lunghe aste impugnate, e il ferreo lampo

degli usberghi, degli elmi e degli scudi

tutti in confuso folgoranti e tersi

facea barbaglio agli occhi; e stato ei fōra

ben audace quel cor che vista avesse

tranquillo e lieto la crudel contesa.

Così divisi di favor li due

possenti figli di Saturno, acerbe

ordìan gravezze ai combattenti eroi.

Di qua Giove ai Troiani e al forte Ettorre

la vittoria desìa; non ch'egli intero

voglia lo scempio della gente achea,

ma sol quanto a innalzar del grande Achille

basti la gloria ed onorar la madre:

di là furtivo da' suoi gorghi uscito

Nettunno infiamma colla dìa presenza

degli Argivi il coraggio, e del vederli

domi dai Teucri doloroso freme

contro Giove di sdegno. Una è d'entrambi

l'origine divina e il nascimento:

ma nacque Giove il primo, e più sapea.

Quindi il minor fratello alla scoperta

oso non era d'aitarli, e solo

celatamente ed in sembianza umana

infondea loro ardire. A questo modo

l'un nume e l'altro agli uni e agli altri iniqua

d'aspre discordie ordiro una catena

che né spezzare si potea né sciorre,

e che stese di molti al suol la forza.

Quantunque sparso di canizie il crine,

con vigor fresco allora Idomenèo,

fatto ai Greci coraggio, i Teucri assalse,

e sbaragliolli, ucciso Otrïonèo.

Di Càbeso poc'anzi era costui

venuto al grido della guerra, e a sposa

la più bella chiedea, senza dotarla,

delle fanciulle prïamèe, Cassandra;

e l'alta impresa di scacciar da Troia

lor malgrado gli Achivi impromettea.

Gli avea di questo intenzïon già data

il re vecchio e l'assenso, ed animato

dalle promesse il vantator pugnava

arditamente, ed incedea superbo.

Colla fulgida lancia Idomenèo

l'adocchiò, lo colpì, gl'infisse il telo

in mezzo all'epa dalle piastre invano

del torace difesa. Alto fragore

diè cadendo il guerriero, e l'insultando

il vincitor sì disse: Otrïonèo,

se tutte che tu festi al re troiano

alte promesse adempirai, su tutti

i mortali pur io terrotti in pregio.

Priamo la figlia ti promise, e noi

altra sposa t'offriam, la più leggiadra

delle figlie d'Atride, e lei qui tosto

farem d'Argo venir, a questo patto

che tu di Troia ad espugnar n'aiti

la superba città. Dunque ne segui,

onde alle navi contrattar le nozze,

e suoceri n'avrai larghi e cortesi.

Sì dicendo, per mezzo alla battaglia

strascinollo d'un piede. A vendicarlo

avanzossi pedon nanzi al suo carro

Asio, e anelanti al tergo gli guidava

il fido auriga i corridor. Mentr'egli

a ferir d'un bel colpo Idomenèo

tutto intende il suo cor, questi il prevenne

e la lancia gli spinse nella gola

sotto il mento, e passolla. Asio cadéo

siccome quercia o pioppo od alto pino

cui sul monte tagliār con raffilate

bipenni i fabbri a nautic'uso. Ei giacque

lungo a terra disteso innanzi al cocchio,

e digrignava i denti, e colle mani

strignea rabbioso la cruenta polve.

Smarrì l'auriga il cor, né per sottrarsi

alla man de' nemici addietro osava

dar volta al cocchio. Il giunse in quello stato

Antìloco coll'asta, e in mezzo al ventre

lo trivellò, che nulla lo difese

l'interzata lorica. Ei dal bel carro

riversossi anelante, ed ai cavalli

dato di piglio il vincitor, dai Teucri

li sospinse agli Achei. D'Asio caduto

Dėìfobo dolente colla picca

si strinse addosso al re di Creta, e trasse.

Previde il colpo, e curvo Idomenèo

sotto il grand'orbe si raccolse tutto

dello scudo taurin che di fulgente

ferro il contorno e doppia avea la guiggia.

Riparato da questo egli la punta

schivò dell'asta ostil che sorvolando

veloce delibò nel suo trascorso

lo scudo, e secco risonar lo fece.

Né indarno uscì dalla man forte il telo,

ma l'Ippaside Ipsènore percosse

sotto i precordi, e l'atterrò. Gran vanto

si diè sul morto l'uccisor, gridando:

Asio non giace inulto, e alle tremende

porte scendendo di Pluton mi spero

fia del compagno, ch'io gli do, contento.

Contristò degli Achei quel vanto i petti,

d'Antìloco su gli altri il bellicoso

cor ne fu tocco; né lasciò per questo

in abbandon l'amico, anzi accorrendo

lo coprì dello scudo, e lo protesse

sì che Alastorre e Mecistèo, due cari

dall'estinto compagni, in su le spalle

recarselo potero ed alle navi

trasportarlo, mettendo alti lamenti.

Non rallentava Idomenèo frattanto

il magnanimo core, e vie più sempre

l'infiammava la brama o di coprire

qualche Troiano dell'eterna notte,

o far di sua caduta egli medesmo

risonante il terren, sol che de' Greci

allontani l'eccidio. Era fra' Teucri

un caro figlio d'Esïèta, il prode

Alcatòo, già consorte alla maggiore

delle figlie d'Anchise Ippodamìa,

che al genitor carissima e alla madre

onoranda matrona, ogni compagna

vincea di volto e di prudenza, esperta

in tutte l'arti di Minerva; ond'ella

d'un de' più chiari fra gli eroi fu sposa

di quanti Ilio n'avea nel suo gran seno.

Ma sotto la cretense asta domollo

Nettunno; e prima gli annebbiò le luci,

poi per le belle membra gli diffuse

tale un torpor, che né fuggirsi addietro

né scansarsi potea, ma immoto e ritto

come colonna o pianta alto chiomata

stavasi; e tale lo colpì nel petto

d'Idomenèo la lancia, e la lorica,

della persona inutile difesa,

gli traforò. Diè un rauco e sordo suono

il lacerato usbergo; strepitoso

Alcatòo cadde, e il battere del core

fe' la cima tremar dell'asta infissa,

ch'ivi alfin tutta si quetò. Superbo

del glorïoso colpo Idomenèo

alto sclamò: Dėìfobo, e' ti sembra

che ben s'adegui con tre morti il conto

d'un solo? Inane fu il tuo vanto, o folle.

Viemmi a fronte e vedrai qual io mi vegna

qui rampollo di Giove. Ei primo ceppo

Minosse generò giusto di Creta

conservator, Minosse il generoso

Deucalïone, e questi me nell'ampia

Creta di molto popolo signore;

ed ora a Troia mi portār le navi

a te fatale e al padre e a tutti i Teucri.

Stette all'acre parlar fra due sospeso

Dėìfobo, se in cerca retroceda

d'un valoroso che l'aiuti, o s'egli

si cimenti pur solo. In tal pensiero

ir d'Anchise al figliuol gli parve il meglio,

e negli estremi lo trovò del campo

stante e il cor roso di perpetuo cruccio,

perché lui, che tra' prodi avea gran fama,

inonorato il re troian lasciava.

Venne a lui dunque, e così disse: Enea

chiaro de' Teucri capitan: se cura

de' congiunti ti tocca, il tuo cognato

esanime soccorri. Andiam, la morte

vendichiam d'Alcatòo che un dì marito

di tua sorella t'educò bambino,

e ch'or d'Idomenèo l'asta ti spense.

Si commosse l'eroe racceso il petto

del desìo della pugna, ed alla volta

d'Idomenèo volò. Né già si volse

come fanciullo in fuga il re cretese,

ma fermo stette ad aspettarlo. E quale

cinghial che sente le sue forze, aspetta

in solitario loco alla montagna

de' cacciator la turba: alto sul dosso

arriccia il pelo, e una terribil luce

lampeggiando dagli occhi i denti arruota,

di sbaragliar le torme impazïente

degli uomini e de' cani: in tal sembianza

fermo si stava Idomenèo, l'assalto

aspettando d'Enea. Pur volto a' suoi,

Ascàlafo chiamonne ed Afarèo

e Dėipìro e Merïone e Antìloco

mastri di guerra, e gl'incitò con queste

ratte parole: Amici, a darmi assalto

corre il figlio d'Anchise: egli è di stragi

operator gagliardo, e ciò che forma

il maggior nerbo, ha pur degli anni il fiore.

Io son qui solo, né del par la fresca

gioventù mi sorride. Ove ciò fosse,

con questo cor qui tosto glorïoso

o lui mia morte, o me la sua farebbe.

Disse, e tutti gli fur concordi al fianco

con gl'inclinati scudi. Enea dall'altra

parte eccitando i suoi compagni appella

Dėìfobo a soccorso e Pari e il divo

Agènore, che tutti eran con esso

condottieri de' Teucri, e li seguìa

molta man di guerrieri, a simiglianza

di pecorelle che dal prato al fonte

van su la traccia del lanoso duce,

e ne gode il pastor; tale d'Enea

pel seguace squadron l'alma gioisce.

Colle lungh'aste intorno ad Alcatòo

s'azzuffār questi e quelli. Intorno ai petti

orribilmente risonava il ferro

de' combattenti, e due guerrier famosi

d'Anchise il figlio e il regnator di Creta

pari a Marte ambedue con dispietato

ferro a vicenda di ferirsi han brama.

Trasse primiero Enea, ma visto il colpo,

l'avversario schivollo, e tremolante

al suol s'infisse la dardania punta

invan fuggita dalla man robusta.

Idomenèo percosse a mezzo il ventre

Enòmao. Spezzò l'asta l'incavo

della corazza, e gl'intestini incise,

sì ch'egli cadde nella polve, e strinse

colle pugna il sabbion. Svelse dal morto

la lancia il vincitor, ma le bell'armi

rapirgli non poteo, ché degli strali

l'opprimea la tempesta, e non avea

salde al correr le gambe e al ripigliarsi

l'asta scagliata, ed a schivar l'ostile.

Quindi a piè fermo ei ben sapea per anco

la morte allontanar, ma dal conflitto

mal nel bisogno sottraealo il piede.

Dėìfobo che caldo il cor di rabbia

sempre in lui mira, vistolo ritrarsi

a lenti passi, gli avventò, ma indarno

pur questa volta, il telo che veloce

via trasvolando Ascàlafo raggiunse

prole di Marte, e all'omero il trafisse.

Ei cadde, e steso brancicò la polve:

né del caduto figlio allor veruna

ebbe notizia il vïolento Iddio,

che dal comando di Giove impedito

stava in quel punto su le vette assiso

dell'Olimpo, e il coprìa d'oro una nube

misto agli altri Immortali a cui vietato

era dell'armi il sanguinoso ludo.

Una pugna crudel sul corpo intanto

d'Ascàlafo incomincia. Al morto invola

Dėìfobo il bell'elmo; e Merïone

tale sul braccio al rapitor disserra

di lancia un colpo, che di man gli sbalza

risonante al terren l'aguzzo elmetto.

E qui di nuovo Merïon scagliossi

come fiero avoltoio, e dal nemico

braccio sconfitta dell'astil la punta

si ritrasse tra' suoi. Corse al ferito

il suo german Polìte, e per traverso

l'abbracciando il cavò dal rio conflitto,

ed in parte venuto ove l'auriga

lungi dall'armi co' cavalli il cocchio

in pronto gli tenea, questi il portaro

gemente, afflitto e per la fresca piaga

tutto sangue la mano alla cittade.

Cresce intanto la pugna e al ciel ne vanno

immense grida. Enea d'asta colpisce

nella gola Afarèo Caletorìde

che l'investìa di fronte. Riversossi

dall'altra parte il capo, e n'andār seco

l'elmo e lo scudo, e lui la morte avvolse.

Visto Toone che volgea le terga,

Antìloco l'assalta, e al fuggitivo

netta incide la vena che pel dosso

quanto è lungo scorrendo al collo arriva,

netta l'incide, e resupino ei casca

nella sabbia, stendendo a' suoi compagni

ambe le mani. Gli fu ratto addosso

Antìloco, e dell'armi il dispogliando

gli occhi ai Teucri tenea, che d'ogni parte

serrandolo, il lucente ampio pavese

gli tempestan di dardi, e mai veruno

di tanti teli disfiorar del figlio

di Nestore il gentil corpo potea,

ché da tutti il guardava attentamente

l'Enosigèo Nettunno. Ed il guerriero,

non che ritrarsi dai nemici, sempre

coll'asta in moto s'avvolgea fra loro

pronto a ferir da lungi e da vicino.

Mentre in cor volge nuovi danni, il vede

l'Asïade Adamante, e in lui repente

impeto fatto colla lancia il fere

a mezza targa. Preservò del Greco

la vita il nume dalle chiome azzurre,

e spezzò le nemica asta che mezza

rimase infissa nello scudo a guisa

d'adusto palo, e mezza giacque a terra.

Diede addietro a tal vista il feritore

salvandosi fra' suoi. Ma Merïone

spinse l'asta nel ventre al fuggitivo

fra l'umbilico e il pube, ove del ferro

è mortal la ferita, e lo confisse.

Cadde il confitto su la lancia, e tutto

si contorcea qual bue, cui di ritorte

funi annodato su pel monte a forza

strascinano i bifolchi, e tale anch'egli

si dibattea; ma il suo penar fu breve:

ché tosto accorse Merïone, e svelta

l'asta dal corpo, l'acchetò per sempre.

Grande e battuta su le tracie incudi

alza Eleno la spada, ed alla tempia

Dėìpiro fendendo gli dirompe

l'elmo, e dal capo glielo sbalza in terra.

Ruzzolò risonante la celata

fra le gambe agli Achivi, e fu chi tosto

la raccolse: ma negra eterna notte

Dėìpiro coperse. Addolorato

del morto amico il buon minore Atride,

contro il regale eroe che a morte il mise,

minaccioso avanzossi, alto squassando

l'acuta lancia; ed Eleno a rincontro

l'arco tese. Affrontārsi ambo i guerrieri,

bramosi di vibrar quegli la picca,

questi lo strale. Saettò primiero

di Priamo il figlio, e colpì l'altro al petto

nel cavo del torace. Il rio quadrello

via volò di risalto, e a quella guisa

che per l'aia agitato in largo vaglio

al soffiar dell'auretta ed alle scosse

del vagliator sussulta della bruna

fava o del cece l'arido legume;

dall'usbergo così di Menelao

resultò risospinto il dardo acerbo.

Di risposta l'Atride al suo nemico

ferì la man che il liscio arco strignea,

e all'arco stesso la confisse. In salvo

retrocesse fra' suoi tosto il ferito,

cui penzolava dalla man l'infisso

frassìneo telo. Glielo svelse alfine

il generoso Agènore, e la piaga

destramente fasciò d'una lanosa

fionda che pronta il suo scudier gli avea.

Al trïonfante Atride si converse

Pisandro allor di punta, e negro fato

a cader lo spigneva in rio certame

sotto i tuoi colpi, o Menelao. Venuti

ambo all'assalto, gittò l'asta in fallo

il figliuolo d'Atrèo. Colse Pisandro

lo scudo ostil, ma non passollo il telo

dalla targa respinto e nell'estrema

parte spezzato; nondimen gioinne

colui nel core, e vincitor si tenne.

Tratto il fulgido brando, allor l'Atride

avventossi al nemico, e questi all'ombra

dello scudo impugnò ferrata e bella

una bipenne, nel polito e lungo

manico inserta di silvestre olivo.

Mossero entrambi ad un medesmo tempo.

Al cono dell'elmetto irto d'equine

chiome sotto il cimier Pisandro indarno

la scure dechinò; l'altro lui colse

nella fronte, e del naso alla radice.

Crepitò l'osso infranto, e sanguinosi

gli cascār gli occhi nella polve al piede.

Incurvossi cadendo, e Menelao

d'un piè calcato dell'ucciso il petto,

l'armi n'invola, e glorïoso esclama:

Ecco la via per cui de' bellicosi

Dànai le navi lascerete alfine,

perfidi Teucri ognor di sangue ingordi.

Vi fu poco l'aver, malvagi cani,

con altra fellonia, con altre offese

vïolati i miei lari, e del tonante

Giove ospital sprezzata la tremenda

ira che un giorno svellerà dal fondo

l'alta vostra città; poco il rapirmi

una giovine sposa e assai ricchezza

da nulla ingiuria offesi, anzi a cortese

ospizio accolti e accarezzati. Or anco

desìo vi strugge di gittar nel mezzo

delle navi le fiamme, e degli achivi

eroi far scempio. Ma verrà chi ponga

vostro malgrado a furor tanto il freno.

Giove padre, per certo uomini e Dei

di saggezza tu vinci, e nondimeno

da te vien tutto sì nefando eccesso,

da te de' Teucri difensor, di questa

sempre d'oltraggi e d'ingiustizie amica

razza iniqua che mai delle rie zuffe

di Marte non si sbrama. Il cor di tutte

cose alfin sente sazietà, del sonno,

della danza, del canto e dell'amore,

piacer più cari che la guerra; e mai

sazi di guerra non saranno i Teucri?

Tolse l'armi, ciò detto, a quell'estinto

di sangue asperse; e come in man rimesse

l'ebbe dei suoi, di nuovo all'inimico

volse la faccia nelle prime file.

Fiero l'assalse allor di Pilimène

il figlio Arpalïon, che il suo diletto

padre alla guerra accompagnò di Troia

per non mai più redire al patrio lido.

S'avanzò, fulminò l'asta nel colmo

dello scudo d'Atride; e senza effetto

visto il suo colpo, s'arretrò salvando

fra' suoi la vita, e d'ogni parte attento

guatando che nol giunga asta nemica.

Ed ecco dalla man di Merïone

una freccia volar che al destro clune

colse il fuggente, e sotto l'osso accanto

alla vescica penetrò diritto.

Caduto sul ginocchio egli nel mezzo

de' cari amici spirando giacea

steso al suol come verme, e in larga vena

il sangue sul terren facea ruscello.

Gli fur dintorno con pietosa cura

i generosi Paflagoni, e lui

collocato sul carro alla cittade

conducean dolorando. Iva con essi

tutto in lagrime il padre, e dell'ucciso

figlio nessuna il consolò vendetta.

Pel morto Arpalïon forte crucciossi

Paride, che cortese ospite l'ebbe

fra' Paflagoni un tempo, e dalla cocca

sfrenò di ferrea punta una saetta.

Era un certo Euchenòr, dell'indovino

Poliìde figliuol, uom prode e ricco

e di Corinto abitator, che appieno

del reo suo fato istrutto, avea di Troia

veleggiato alle rive. A lui sovente

detto aveva il buon veglio Poliìde

che d'atro morbo nel paterno tetto,

o di ferro troiano egli morrebbe

fra le argoliche navi: e più che morte,

di tetra infermità l'aspro martìre

e degli Achei lo spregio egli temette.

Di Paride lo stral colse costui

sotto l'orecchio alla mascella, e tosto

l'abbandonò la vita, ed un orrendo

perpetuo buio gli coprì le luci.

In questa guisa ardea la pugna, e ancora

il diletto di Giove alto guerriero

Ettore intesa non avea la strage

che di sue genti segue alla sinistra

della battaglia, e che omai piega il volo

la vittoria agli Achei; tale è l'impulso,

tale il nerbo e l'ardir di che furtivo

li soccorre Nettunno. A quella parte

stavasi Ettorre, ov'egli avea da prima

le porte a forza superato e il muro,

e rotte degli Achei le dense file.

Ivi d'Aiace e di Protesilao

coronavan le navi al secco il lido;

e perché da quel lato era più basso

edificato il muro, ivi più forte

de' cavalli e de' fanti era la pugna.

Ftii, Beozi, Locresi, e colle lunghe

lor tuniche gl'Ionii e i chiari Epei

ivi eran tutti, e tutti a tener lungi

dalle navi d'Ettorre la rovina

opravano le mani; e tanti insieme

a rintuzzar dell'infiammato eroe

non bastano la furia. Il fior d'Atene

stassi alle prime file, ed il Petìde

Menestèo li conduce, aiutatori

Stichio, Fida e Bïante. È degli Epei

duce Megete e Dracio ed Amfïone;

de' Ftii Medonte e il pugnator Podarce,

Podarce nato del Filàcio Ificlo,

Medonte d'Oilèo bastarda prole

e d'Aiace fratel, che dal paterno

suolo esulando in Fìlace abitava,

messo a morte il german della matrigna

Erïopide d'Oilèo mogliera.

Degli eletti di Ftia questi alla testa

giunti ai Beozi difendean le navi.

Aiace d'Oilèo mai sempre al fianco

del Telamònio combattea. Siccome

due negri buoi d'una medesma voglia

nella dura maggese il forte aratro

traggono, e al ceppo delle corna intorno

largo rompe il sudor, mentre dal solo

giogo divisi per lo solco eguali

stampano i passi, e dietro loro il seno

si squarcia della terra; a questa immago

pugnavano congiunti i duo guerrieri.

Molta e gagliarda gioventù seguiva

il Telamònio; e quando la fatica

e il sudor lo fiaccava, i suoi compagni

il grave scudo ne prendean. Ma i Locri,

a cui poco durar solea l'ardire

nella pugna a piè fermo, d'Oilèo

l'audace figlio non seguìan. Costoro

non elmi avean d'equino crine ondanti,

né tondi scudi, né frassìnee lance,

ma d'archi solo armati e di ben torte

lanose fionde ad Ilio il seguitaro,

e da quest'archi e queste fionde in campo

scagliavano la morte, e de' Troiani

le falangi rompean. Per questo modo,

mentre gli Aiaci nella prima fronte

di bell'arme precinti alla ruina

del fiero Ettòr fann'argine, al lor tergo

nascosti i Locri saettando sempre

e frombolando, le ordinanze tutte

turban de' Teucri omai smarriti e rotti.

D'alta strage percossi allora i Troi

da navi e tende si sarìan ritratti

al ventoso Ilïon, se non volgea

all'animoso Ettòr queste parole

Polidamante: Ettorre, ai saggi avvisi

tu mal presti l'orecchio. E perché Giove

alto ti diede militar favore,

vuoi tu forse per questo agli altri ir sopra

di prudenza e consiglio? Ad un sol tempo

tutto aver tu non puoi. Di Giove il senno

largisce a questi la virtù guerriera,

l'arte a quei della danza, ad altri il suono

e il canto delle muse, ad altri in petto

pon la saggezza che i mortai governa

e le città conserva; e sànne il prezzo

chi la possiede. Or io dirò l'avviso

che mi sembra il miglior. Per tutto, il vedi,

ti cinge il fuoco della guerra. I Teucri,

con magnanimo ardir passato il muro,

parte coll'armi già dan volta, e parte

pugnano ancor, ma pochi incontro a molti,

e spersi tutti fra le navi. Or dunque

tu ti ritraggi alquanto, e tutti aduna

qui del campo i migliori, e delle cose

consultata la somma, si decida

se delle navi ritentar si debba

l'assalto, ove pur voglia un qualche iddio

darne alfin la vittoria, o se più torni

l'abbandonarle illesi. Il cor mi turba

un timor che non paghi oggi il nemico

il debito di ieri. In quelle navi

posa un guerrier terribile, che all'armi

per mia credenza desterassi in breve.

Piacque ad Ettorre il salutar consiglio,

e d'un salto gittandosi dal carro

gridò: Polidamante, i più gagliardi

tu qui dunque rattien, ch'io là ne vado

a raddrizzar la pugna, e dato ai nostri

buon ordine, farò pronto ritorno.

Disse, e ratto partì con elevato

capo, sembiante ad un'eccelsa rupe,

e volando chiamava alto de' Teucri

e delle schiere collegate i duci,

che tosto, udita dell'eroe la voce,

alla volta correan del Pantoìde

Polidamante del valore amico.

Di Dėìfobo intanto e del regale

Eleno e dell'Asïade Adamante

e dell'Irtacid'Asio iva per tutto

qua e là tra i primi combattenti Ettorre

dimandando e cercando. Alfin gli avvenne

di ritrovarli, ma non tutti illesi

né tutti in vita, ché domati alcuni

dal ferro acheo giacean nanti alle poppe

cadaveri deformi, altri tra il muro

languìan feriti di diverso colpo.

Dell'orrendo conflitto alla sinistra

vide egli poscia della bella Argiva

lo sposo rapitor che i suoi compagni

confortava alla pugna. Gli fu sopra,

e acerbe gli tonò queste parole:

Ahi funesto di donne ingannatore,

che di bello non porti altro che il viso,

Dėìfobo dov'è? dove son l'armi

d'Eleno, d'Asio, d'Adamante? dove

Otrïonèo? Dal sommo ecco già tutto

il grand'Ilio precipita, e te pure

l'ultimo danno, o sciagurato, aspetta.

E il bel drudo a rincontro: Ettore, a torto

tu mi rampogni. In altri tempi io forse

un trascurato mi mostrai, non oggi.

La madre un vile non mi fe'. Dal punto

che il conflitto attaccasti appo le navi,

da quel punto qui fermo e senza posa

con gli Achei mi travaglio. I valorosi

di che tu chiedi, caddero. Due soli

Dėìfobo ed Elèno ambi alla mano

feriti si partīr, sottratti a morte

certo da Giove. Or dove il cor ti dice,

guidami: io pronto seguirotti, e quanto

potran mie forze, ti farò, mi spero,

il mio valor palese. Oltre sua possa,

benché abbondi il voler, nessuno è forte.

Piegār quei detti del fratello il core,

e di conserva entrambi ove più ferve

la mischia s'avvïār. Pugnano quivi

e Cebrïone e il buon Polidamante

e il divin Polifète e Falce e Ortèo,

e i tre d'Ippozïon gagliardi figli

Palmi, Mori ed Ascanio, dal gleboso

suol d'Ascania venuti il dì precesso,

e spinti all'armi dal voler de' numi.

Come di venti impetuosi un turbo

dal tuon di Giove generato piomba

su la campagna, e con fracasso orrendo

sovra il mar si diffonde: immensi e spessi

bollono i flutti di canuta spuma,

e con fiero mugghiar l'un l'altro incalza

al risonante lido: a questa guisa

in ristretti drappelli, e gli uni agli altri

succedenti i Troiani e scintillanti

tutti nell'armi ne venìan su l'orme

de' condottieri, e precorreali Ettorre

non minor del terribile Gradivo.

Un tessuto di cuoi tondo brocchiero

di molte piastre rinforzato il prode

tiensi davanti, ed alle tempie intorno

tutto lampeggia l'agitato elmetto.

Sicuro all'ombra del suo gran pavese

passo passo ei s'avanza, e d'ogni parte

forar si studia le nemiche file,

e sgominarle. Ma de' petti achei

non si turba il coraggio, e mossi Aiace

i larghi passi a provocarlo il primo:

Accòstati, gli disse: e che pretendi

tu fier spavaldo? sgomentar gli Achivi?

Non siam nell'arte marzïal fanciulli,

e chi ne doma non se' tu, ma Giove

con funesto flagello. Se le navi

strugger ti speri, a rintuzzarti pronte

e noi pur anco abbiam le mani, e tutta

struggeremo noi pria la tua superba

cittade. A te predìco io poi che l'ora

non è lontana, che tu stesso in fuga

manderai preghi a Giove e a tutti i Divi

che sian di penna di sparvier più ratti

i corridori, che, diffuse al vento

le belle chiome, porteranti a Troia

entro un nembo di polve. - Avea quel fiero

ciò detto appena, che alla dritta in alto

un'aquila comparve. Alzār le grida

fatti più franchi a quell'augurio i Greci,

ma non fu tardo alla risposta Ettorre:

Stupida massa di carname, Aiace

millantator, che parli? Eterno figlio

così foss'io di Giove e dell'augusta

Giuno, e onorato al par di Palla e Febo,

come m'accerto che funesto a tutti

vi sarà questo giorno: e tu fra' morti

tu medesmo cadrai, se di mia lancia

avrai l'ardire d'aspettar lo scontro.

Rotto da questa e qui disteso il tuo

vizzo corpaccio di sua pingue polpa

gli augei di Troia farà sazi e i cani.

Così detto, s'avanza, e con immenso

urlo animosi gli van dopo i Teucri.

Dall'altro lato memori gli Achivi

della virtù guerriera, e del più scelto

fiore di Troia intrepidi all'assalto,

misero anch'essi un alto grido; e d'ambi

gli eserciti il clamor ferìa le stelle

e i raggianti di Giove almi soggiorni.

 

 

LIBRO DECIMOQUARTO

 

 

De' combattenti udì l'alto fracasso

Nestore in quella che una colma tazza

accostava alle labbra; e d'Esculapio

rivolto al figlio: Oh, che mai fia, diss'egli,

divino Macaon? Presso alle navi

dell'usato maggiori odo le grida

de' giovani guerrieri. Alla vedetta

vado a saperne la cagion. Tu siedi

intanto, e bevi il rubicondo vino,

mentre i caldi lavacri t'apparecchia

la mia bionda Ecamède, onde del sangue,

di che vai sozzo, dilavar la gruma.

Del suo figliuol si tolse in questo dire

il brocchier che giacea dentro la tenda,

il fulgido brocchier di Trasimède

che il paterno portava. Indi una salda

asta d'acuta cuspide impugnata

fuor della tenda si sofferma, e vede

miserando spettacolo: cacciati

in fuga i Greci, e alle lor spalle i Teucri

inseguenti e furenti, e la muraglia

degli Achei rovesciata. Come quando

il vasto mar s'imbruna, e presentendo

de' rauchi venti il turbine vicino,

tace l'onda atterrita, ed in nessuna

parte si volve, finché d'alto scenda

la procella di Giove; in due pensieri

così del veglio il cor pendea diviso,

se fra i rapidi carri de' fuggenti

Dànai si getti, o se alla volta ei corra

del duce Atride Agamennón. Lo meglio

questo gli parve, e s'avvïò. Seguìa

la mutua strage intanto, e intorno al petto

de' combattenti risonava il ferro

dalle lance spezzato e dalle spade.

Fuor delle navi gli si fêro incontro

i re feriti Ulisse e Dïomede

e Agamennón. Di questi a fior di lido

stavan lungi dall'armi le carene.

L'altre, che prime lo toccār, dedotte

più dentro alla pianura, eran le navi

a cui dintorno fu costrutto il muro;

perocché il lido, benché largo, tutte

non potea contenerle, ed acervate

stavan le schiere. Statuiti adunque

l'uno appo l'altro, come scala, i legni

tutto empieano del lido il lungo seno

quanto del mare ne chiudean le gole.

Scossi al trambusto, che s'udìa, que' duci,

e di saper lo stato impazïenti

della battaglia, ne venìan conserti,

alle lance appoggiati, e gravi il petto

d'alta tristezza. Terror loro accrebbe

del veglio la comparsa, e Agamennóne

elevando la voce: O degli Achei

inclita luce, Nestore Nelìde,

perché lasci la pugna, e qui ne vieni?

Temo, ohimè! che d'Ettòr non si compisca

la minacciata nel troian consesso

fiera parola di non far ritorno

nella città, se pria spenti noi tutti,

tutte in faville non mettea le navi.

Ecco il detto adempirsi. Eterni Dei!

Dunque in ira son io, come ad Achille,

a tutto il campo acheo, sì che non voglia

più pugnar dell'armata alla difesa?

Ahi! pur troppo l'evento è manifesto,

Nestor rispose, né disfare il fatto

lo stesso tonator Giove potrebbe.

Il muro, che de' legni e di noi stessi

riparo invitto speravam, quel muro

cadde, il nemico ne combatte intorno

con ostinato ardire e senza posa:

né, come che tu l'occhio attento volga,

più ti sapresti da qual parte il danno

degli Achivi è maggior, tanto son essi

alla rinfusa uccisi, e tanti i gridi

di che l'aria risuona. Or noi qui tosto,

se verun più ne resta util consiglio,

consultiamo il da farsi. Entrar nel forte

della mischia non io però v'esorto,

ché mal combatte il battaglier ferito.

Saggio vegliardo, replicò l'Atride,

poiché fino alle tende hanno i nemici

spinta la pugna, e più non giova il vallo

né della fossa né dell'alto muro,

a cui tanto sudammo, e invïolato

schermo il tenemmo delle navi e nostro,

chiaro ne par che al prepossente Giove

caro è il nostro perir su questa riva

lungi d'Argo, infamati. Il vidi un tempo

proteggere gli Achei; lui veggo adesso

i Troiani onorar quanto gli stessi

beati Eterni, e incatenar le nostre

forze e l'ardir. Mia voce adunque udite.

Le navi, che ne stanno in secco al primo

lembo del lido, si sospingan tutte

nel vasto mare, e tutte sieno in alto

sull'àncora fermate insin che fitta

giunga la notte, dal cui velo ascosi

varar potremo il resto, ove pur sia

che ne dian tregua dalla pugna i Teucri.

Non è biasmo fuggir di notte ancora

il proprio danno, ed è pur sempre il meglio

scampar fuggendo, che restar captivo.

Lo guatò bieco Ulisse, e gli rispose:

Atride, e quale ti fuggì dal labbro

rovinosa parola? Imperadore

fossi oh! tu di vigliacchi, e non di noi,

di noi che Giove dalla verde etade

infino alla canuta agli ardui fatti

della guerra incitò, finché ciascuno

vi perisca onorato. E così dunque

puoi tu de' Teucri abbandonar l'altera

città che tanti già ne costa affanni?

Per dio! nol dire, dagli Achei non s'oda

questo sermone, della bocca indegno

d'uom di senno e scettrato, e, qual tu sei,

di tante schiere capitano. Io primo

il tuo parer condanno. Arde la pugna,

e tu comandi che nel mar lanciate

sien le navi? Ciò fōra un far più certo

de' Troiani il vantaggio, e più sicuro

il nostro eccidio: perocché gli Achivi

in quell'opra assaliti, anzi che fermi

sostener l'inimico, al mar terranno

rivolto il viso, a' Teucri il tergo: e allora

vedrai funesto, o duce, il tuo consiglio.

Rispose Agamennón: La tua pungente

rampogna, Ulisse, mi ferì nel core.

Ma mia mente non è che lor malgrado

traggan le navi in mar gli Achivi; e s'ora

altri sa darne più pensato avviso,

sia giovine, sia veglio, io l'avrò caro.

Chi darallo n'è presso (il bellicoso

Tidìde ripigliò), né fia mestieri

cercarlo a lungo, se ascoltar vorrete,

né, perché d'anni inferïor vi sono,

con disdegno spregiarmi. Anch'io mi vanto

figlio d'illustre genitor, del prode

Tidèo, di Cadmo nel terren sepolto.

Portèo tre figli generò dell'alta

Calidone abitanti e di Pleurone,

Agrio, Mela ed Enèo, tutti d'egregio

valor, ma tutti li vincea di molto

il cavaliero Enèo padre al mio padre.

Ivi egli visse; ma da' numi astretto

a gir vagando il padre mio, sua stanza

pose in Argo, e d'Adrasto a moglie tolse

una figlia; e signor di ricchi alberghi

e di campi frugiferi per molte

file di piante ombrosi, e di fecondo

copioso gregge, a tutti ancor gli Argivi

ei sovrastava nel vibrar dell'asta.

Conte vi sono queste cose, io penso,

tutte vere; e sapendomi voi quindi

nato di sangue generoso, a vile

non terrete il mio retto e franco avviso.

Orsù, crudel necessità ne spinge.

Al campo adunque, tuttoché feriti;

e perché piaga a piaga non s'aggiunga,

fuor di tiro si resti, ma propinqui

sì, che possiamo gl'indolenti almeno

incitar coll'aspetto e colla voce.

Piacque il consiglio, e s'avvïār precorsi

dal re supremo Agamennón. Li vide

Nettunno, e tolte di guerrier canuto

le sembianze, e per mano preso l'Atride,

fe' dal labbro volar queste parole:

Atride, or sì che degli Achei la strage

e la fuga gioir fa la crudele

alma d'Achille, poiché tutto l'ira

gli tolse il senno. Oh possa egli in mal punto

perire, e d'onta ricoprirlo un Dio!

Ma tutti a te non sono irati i numi,

e de' Teucri vedrai di nuovo i duci

empir di polve il piano, e dalle tende

e dalle navi alla città fuggirsi.

Disse, e corse, e gridò quanto di nove

o dieci mila combattenti alzarse

potrìa, nell'atto d'azzuffarsi, il grido:

tanto fu l'urlo che dal vasto petto

l'Enosigèo mandò. Risurse in seno

degli Achei la fortezza a quella voce,

e il desìo di pugnar senza riposo.

Su le vette d'Olimpo in aureo trono

sedea Giuno, e di là visto il divino

suo cognato e fratel che in gran faccenda

per la pugna scorrea, gioinne in core.

Sovra il giogo maggior scòrse ella poscia

dell'irrigua di fonti Ida seduto

l'abborrito consorte; e in suo pensiero

l'augusta Diva a ruminar si mise

d'ingannarlo una via. Calarsi all'Ida

in tutto il vezzo della sua persona,

infiammarlo d'amor, trarlo rapito

di sua beltà nelle sue braccia, e dolce

nelle palpebre e nell'accorta mente

insinuargli il sonno, ecco il partito

che le parve il miglior. Tosto al regale

suo talamo s'avvìa, che a lei l'amato

figlio Vulcano fabbricato avea

con salde porte, e un tal serrame arcano

che aperto non l'avrebbe iddio veruno.

Entrovvi: e chiusa la lucente soglia,

con ambrosio licor tutto si terse

pria l'amabile corpo, e d'oleosa

essenza l'irrigò, divina essenza

fragrante sì che negli eterni alberghi

del Tonante agitata e cielo e terra

d'almo profumo rïempìa. Ciò fatto,

le belle chiome al pettine commise,

e di sua mano intorno all'immortale

augusto capo le compose in vaghi

ondeggianti cincinni. Indi il divino

peplo s'indusse, che Minerva avea

con grand'arte intessuto, e con aurate

fulgide fibbie assicurollo al petto.

Poscia i bei fianchi d'un cintiglio a molte

frange ricinse, e ai ben forati orecchi

i gemmati sospese e rilucenti

suoi ciondoli a tre gocce. Una leggiadra

e chiara come sole intatta benda

dopo questo la Diva delle Dive

si ravvolse alla fronte. Al piè gentile

alfin legossi i bei coturni, e tutte

abbigliate le membra uscì pomposa,

ed in disparte Venere chiamata,

così le disse: Mi sarai tu, cara,

d'una grazia cortese? o meco irata,

perch'io gli Achivi, e tu li Teucri aiti,

negarmela vorrai? - Parla, rispose

l'alma figlia di Giove: il tuo desire

manifestami intero, o veneranda

Saturnia Giuno. Mi comanda il core

di far tutto (se il posso, e se pur lice)

il tuo voler, qual sia. - Dammi, riprese

la scaltra Giuno, l'amoroso incanto

che tutti al dolce tuo poter suggetta

i mortali e gli Dei. Dell'alma terra

ai fini estremi a visitar men vado

l'antica Teti e l'Oceàn de' numi

generator, che présami da Rea,

quando sotto la terra e le profonde

voragini del mar di Giove il tuono

precipitò Saturno, mi nudriro

ne' lor soggiorni, e m'educār con molta

cura ed affetto. A questi io vado, e solo

per ricomporne una difficil lite

ond'ei da molto a gravi sdegni in preda

e di letto e d'amor stansi divisi.

Se con parole ad acchetarli arrivo

e a rannodarne i cuori, io mi son certa

che sempre avranmi e veneranda e cara.

E l'amica del riso Citerèa,

Non lice, replicò, né dêssi a quella

che del tonante Iddio dorme sul petto,

far di quanto ella vuol niego veruno.

Disse; e dal seno il ben trapunto e vago

cinto si sciolse, in che raccolte e chiuse

erano tutte le lusinghe. V'era

d'amor la voluttà, v'era il desire

e degli amanti il favellìo segreto,

quel dolce favellìo ch'anco de' saggi

ruba la mente. In man gliel pose, e disse:

Prendi questo mio cinto in che si chiude

ogni dolcezza, prendilo, e nel seno

lo ti nascondi, e tornerai, lo spero,

tutte ottenute del tuo cor le brame.

L'alma Giuno sorrise, e di contento

lampeggiando i grand'occhi in quel sorriso,

lo si ripose in seno. Alle paterne

stanze Ciprigna incamminossi: e Giuno

frettolosa lasciò l'olimpie cime,

e la Pïeria sorvolando e i lieti

emazii campi, le nevose vette

varcò de' tracii monti, e non toccava

col piè santo la terra. Indi dell'Ato

superate le rupi, all'estuoso

Ponto discese, e nella sacra Lenno,

di Toante città, rattenne il volo.

Ivi al fratello della Morte, al Sonno

n'andò, lo strinse per la mano, e disse:

Sonno, re de' mortali e degli Dei,

s'unqua mi festi d'un desìo contenta,

or n'è d'uopo, e saprotti eterno grado.

Tosto ch'io l'abbia fra mie braccia avvinto,

m'addormenta di Giove, amico Dio,

le fulgide pupille: ed io d'un seggio

d'auro incorrotto ti farò bel dono,

che lavoro sarà maraviglioso

del mio figlio Vulcan, col suo sgabello

su cui si posi a mensa il tuo bel piede.

Saturnia Giuno, veneranda Dea,

rispose il Sonno, agevolmente io posso

ogni altro iddio sopir, ben anche i flutti

del gran fiume Oceàn di tutte cose

generatore; ma il Saturnio Giove

né il toccherò né il sopirò, se tanto

non comanda egli stesso. I tuoi medesmi

cenni di questo m'assennār quel giorno

ch'Ercole il suo gran figlio, Ilio distrutto,

navigava da Troia. Io su la mente

dolce mi sparsi dell'Egìoco Giove,

e l'assopii. Tu intanto in tuo segreto

macchinando al suo figlio una ruina,

di fieri venti sollevasti in mare

una negra procella, e lui svïando

dal suo cammin, spingesti a Coo, da tutti

i suoi cari lontano. Arse di sdegno

destatosi il Tonante, e per l'Olimpo

scompigliando i Celesti, in cerca andava

di me fra tutti, e avrìa dal ciel travolto

me meschino nel mar, se l'alma Notte,

de' numi domatrice e de' mortali,

non mi campava fuggitivo. Ei poscia

per lo rispetto della bruna Diva

placossi. E salvo da quel rischio appena

vuoi che con esso a perigliarmi io torni?

Di periglio che parli? e di che temi?

gli rispose Giunon; forse t'avvisi

che al par del figlio, per cui sdegno il prese,

Giove i Teucri protegga? Or via, mi segui,

ch'io la minore delle Grazie in moglie

ti darò, la vezzosa Pasitèa,

di cui so che sei vago e sempre amante.

Giuralo per la sacra onda di Stige,

tutto in gran giubilìo ripiglia il Sonno;

e l'alma terra d'una man, coll'altra

tocca del mar la superficie, e quanti

stansi intorno a Saturno inferni Dei

testimoni ne sian, che mia consorte

delle Grazie farai la più fanciulla,

la gentil Pasitèa cui sempre adoro.

Disse; e conforme a quel desir giurava

la bianca Diva, e i sotterranei numi

tutti invocava che Titani han nome.

Fatto il gran sacramento, abbandonaro

d'Imbro e di Lenno le cittadi, e cinti

di densa nebbia divorār la via.

D'Ida altrice di belve e di ruscelli

giunti alla falda, uscīr della marina

alla punta Lettèa. Preser leggieri

del monte la salita, e della selva

sotto i lor passi si scotea la cima.

Ivi il Sonno arrestossi, e per celarsi

di Giove agli occhi un alto abete ascese,

che sovrana innalzava al ciel la cima.

Quivi s'ascose tra le spesse fronde

in sembianza d'arguto augel montano

che noi Cimindi, e noman Calci i numi.

Con sollecito piede intanto Giuno

il Gàrgaro salìa. La vide il sommo

delle tempeste adunatore, e pronta

al cor gli corse l'amorosa fiamma,

siccome il dì che de' parenti al guardo

sottrattisi gustār commisti insieme

la furtiva d'amor prima dolcezza.

Si fece incontro alla consorte, e disse:

Giuno, a che vieni dall'Olimpo, e senza

cocchio e destrieri? - E a lui la scaltra: Io vado

dell'alma terra agli ultimi confini

a visitar de' numi il genitore

Oceano e Teti, che ne' loro alberghi

con grande cura m'educār fanciulla.

Vado a comporne la discordia: ei sono

e di letto e d'amor per ire acerbe

da gran tempo divisi. Alle radici

d'Ida lasciati ho i miei destrier che ratta

su la terra e sul mar mi porteranno.

Or qui vengo per te, ché meco irarti

non dovessi tu poi se taciturna

del vecchio iddio n'andassi alla magione.

Altra volta v'andrai, Giove rispose:

Or si gioisca in amoroso amplesso;

ché né per donna né per Dea giammai

mi si diffuse in cor fiamma sì viva:

non quando per la sposa Issïonèa,

che Piritòo, divin senno, produsse,

arsi d'amor, non quando alla gentile

figlia d'Acrisio generai Persèo,

prestantissimo eroe, né quando Europa

del divin Radamanto e di Minosse

padre mi fece. Né le due di Tebe

beltà famose Sèmele ed Alcmena,

d'Ercole questa genitrice, e quella

di Bacco dei mortali allegratore;

né Cerere la bionda, né Latona,

né tu stessa giammai, siccome adesso,

mi destasti d'amor tanto disìo.

E l'ingannevol Diva: Oh che mai parli,

importuno! Ascoltar vuoi tu d'amore

le fantasie qui d'Ida in su le vette

dove tutto si scorge? E se qualcuno

degli Dei ne mirasse, e agli altri Eterni

conto lo fêsse, rïentrar nel cielo

con che fronte ardirei? Ciò fōra indegno.

Pur se vera d'amor brama ti punge,

al talamo n'andiam, che il tuo diletto

figlio Vulcan ti fabbricò di salde

porte; e quivi di me fa il tuo volere.

Né d'uom mortale né d'iddio veruno

lo sguardo ne vedrà, Giove riprese.

Diffonderotti intorno un'aurea nube

tal che per essa né del Sol pur anco

la vista passerà quantunque acuta.

Disse, ed in grembo alla consorte il figlio

di Saturno s'infuse: e l'alma terra

di sotto germogliò novelle erbette

e il rugiadoso loto e il fior di croco

e il giacinto, che in alto li reggea

soffice e folto. Qui corcārsi, e densa

li ricopriva una dorata nube

che lucida piovea dolce rugiada.

Sul Gargaro così queto dormìa

Giove in braccio alla Dea, preda d'amore

e del soave Sonno che veloce

corse alle navi ad avvisarne il nume

scotitor della Terra; e a lui venuto,

con presto favellar, T'affretta, ei disse,

a soccorrer gli Achivi, o re Nettunno,

e almen per poco vincitor li rendi

finché Giove si dorme. Io lo ricinsi

d'un tener sopor mentre ingannato

dalla consorte in seno le riposa.

Sparve il Sonno, ciò detto, e de' mortali

su l'altere città l'ali distese.

Allor Nettunno d'aitar bramoso

più che prima gli Achei, diessi nel mezzo

alle file di fronte, alto gridando:

Achivi, lascerem di Priamo al figlio

noi dunque il vanto di novel trïonfo,

e la gloria d'averne arse le navi?

Ei certo lo si crede, e vampo mena,

perché d'Achille neghittosa è l'ira.

Ma d'Achille non fia molto il bisogno,

se noi far opra delle man sapremo,

e alternarci gli aiuti. Or su, concordi

seguiam tutti il mio detto. I più sicuri

e grandi scudi, che nel campo sièno,

imbracciamo, e copriam de' più lucenti

elmi le teste, e le più lunghe picche

strette in pugno, marciam: io vi precedo,

né per forte ch'ei sia l'audace Ettorre,

l'impeto nostro sosterrà. Chïunque

è guerrier valoroso, e di leggiero

scudo si copre, al men valente il ceda,

e allo scudo maggior sottentri ei stesso.

Obbedīr tutti al cenno. I re medesmi

Tidìde, Ulisse e Agamennón, sprezzate

le lor ferite, in ordinanza a gara

ponean le schiere, e via dell'armi il cambio

per le file facean; le forti al forte,

al peggior le peggiori. E poiché tutti

di lucido metallo la persona

ebber coverta, s'avvïār. Nettunno

li precorrea, nella robusta mano

sguäinata portandosi una lunga

orrenda spada che parea di Giove

la folgore, e mettea nel cor paura.

Misero quegli che la scontra in guerra!

Dall'altra parte il troian duce i suoi

pone ei pure in procinto, e senza indugio

l'illustre Ettorre ed il ceruleo Dio,

l'uno i Greci incorando e l'altro i Teucri

una fiera attaccār pugna crudele.

Gonfiasi il mare, e i padiglioni innonda

e gli argivi navigli, e con immenso

clamor si viene delle schiere al cozzo.

Non così la marina onda rimugge

dal tracio soffio flagellata al lido;

non così freme il foco alla montagna

quando va furibondo a divorarsi

l'arida selva; né d'eccelsa quercia

rugge sì fiero fra le chiome il vento,

come orrende de' Teucri e degli Achei

nell'assalirsi si sentìan le grida.

Contro Aiace, che voltagli la fronte,

scaglia Ettorre la lancia, e lo colpisce

ove del brando e dello scudo il doppio

balteo sul petto si distende; e questo

dal colpo lo salvò. Visto uscir vano

Ettore il telo, di rabbia fremendo

in securo fra' suoi si ritraea.

Mentr'ei recede, il gran Telamonìde

ad un sasso, de' molti che ritegno

delle navi giacean sparsi pel campo

de' combattenti al piè, dato di piglio,

l'avventò, lo rotò come palèo,

e sul girone dello scudo al petto

l'avversario ferì. Con quel fragore

che dal foco di Giove fulminata

giù ruina una quercia, e grave intorno

del grave zolfo si diffonde il puzzo:

l'arator, che cadersi accanto vede

la folgore tremenda, imbianca e trema:

così stramazza Ettòr; l'asta abbandona

la man, ma dietro gli va scudo ed elmo,

e rimbombano l'armi sul caduto.

V'accorsero con alti urli gli Achei,

strascinarlo sperandosi, e di strali

lo tempestando; ma nessun ferirlo

potéo, ché ratti gli fêr serra intorno

i più valenti, Enea, Polidamante,

Agènore, e de' Licii il condottiero

Sarpedonte con Glauco, e nulla in somma

de' suoi l'abbandonò, ch'altri gli scudi

gli anteposero, e lunge altri dall'armi

l'asportār su le braccia a' suoi veloci

destrier che fuori della pugna a lui

tenea pronti col cocchio il fido auriga.

Volār questi, e portār l'eroe gemente

verso l'alta città; ma giunti al guado

del vorticoso Xanto, ameno fiume

generato da Giove, ivi dal carro

posārlo a terra, gli spruzzār di fresca

onda la fronte, ed ei rinvenne, e aperte

girò le luci intorno, e sui ginocchi

suffulto vomitò sangue dal petto.

Ma di nuovo all'indietro in sul terreno

riversossi; e coll'alma ancor dal colpo

doma oscurārsi all'infelice i lumi.

Gli Achei, veduto uscir dal campo Ettorre,

si fêr più baldi addosso all'inimico,

e primo Aiace d'Oilèo d'assalto

Satnio ferì, che Naïde gentile

ad Enopo pastor lungo il bel fiume

Satnïoente partorito avea.

Lo colpì coll'acuta asta il veloce

Oilìde nel lombo; ei resupino

si versò nella polve, e intorno a lui

più che mai fiera si scaldò la zuffa.

A vendicar l'estinto oltre si spinge

Polidamante, e tale a Protenorre,

figliuol d'Arėilìco, un colpo libra,

che tutto la gagliarda asta gli passa

l'omero destro. Ei cadde, e il suol sanguigno

colla palma ghermì. Sovra il caduto

menò gran vanto il vincitor, gridando:

Dalla man del magnanimo Pantìde

non uscì, parmi, indarno il telo, e certo

lo raccolse nel corpo un qualche Acheo

che appoggiato a quell'asta or scende a Pluto.

Ferì gli Achivi di dolor quel vanto;

più che tutti ferì l'alma del grande

Telamonìde, al cui fianco caduto

era quel prode. E tosto al borïoso,

che indietro si traea, la folgorante

asta scagliò. Polidamante a tempo

schivò la morte con un salto obliquo;

e ricevella (degli Dei tal era

l'aspro decreto) l'antenòreo figlio

Archìloco. Lo colse il fatal ferro

alla vertebra estrema, ove nel collo

s'innesta il capo, e ne precise il doppio

tendine. Ei cadde, e del meschin la testa,

colla bocca davanti e le narici,

prima a terra n'andò, che la persona.

Alto allora a quel colpo Aiace esclama:

Polidamante, oh! guarda, e dinne il vero,

non val egli Protènore quest'altro

ch'io qui posi a giacer? Ned ei mi sembra

mica de' vili, né d'ignobil seme,

ma d'Antènore un figlio, o suo germano;

sì n'ha l'impronta della razza in viso.

Così parlava infinto, conoscendo

ben ei l'ucciso. Addolorārsi i Teucri;

ma del fratello vindice Acamante

a Pròmaco beòzio, che l'estinto

traea pe' piedi, fulminò di lancia

tale un sùbito colpo, che lo stese.

Alto allor grida l'uccisor superbo:

O voi guerrieri da balestra, e forti

sol di minacce! e voi pur anco, Argivi,

morderete la polve, e non saremo

noi soli al lutto. Dalla mia man domo

mirate di che sonno or dorme il vostro

Pròmaco, e paga del fratello mio

tosto lo sconto! Perciò preghi ognuno

di lasciar dopo sé vendicatore

di sua morte un fratel nel patrio tetto.

Destò quel vanto negli Achei lo sdegno:

sovra ogni altro crucciossi il bellicoso

Penelèo. Si scagliò questi con ira

contro Acamante che del re l'assalto

non attese; ed il colpo a lui diretto

Ilïonèo percosse, unica prole

di Forbante che ricco era di molto

gregge; e Mercurio, che d'assai l'amava,

di dovizie fra' Troi l'avea cresciuto.

Il colse Penelèo sotto le ciglia

dell'occhio alla radice, e la pupilla

schizzandone passar l'asta gli fece

via per l'occhio alla nuca. Ilïonèo

assiso cadde colle man distese:

ma stretta Penelèo l'acuta spada,

gli recise le canne, e il mozzo capo,

coll'elmo e l'asta ancor nell'occhio infissa,

gli mandò nella polve. Indi l'alzando

languente in cima alla picca e cadente

come lasso papavero, ai nemici

lo mostra, e altero esclama: In nome mio

dite, o Teucri, del chiaro Ilïonèo

ai genitor, che per la casa innalzino

il funebre ulular, da che né pure

di Pròmaco, figliuol d'Alegenorre,

la consorte potrà del caro aspetto

del marito gioir quando da Troia

farem ritorno alle paterne rive.

Sì disse, e tutti impallidīr di tema,

e col guardo ciascun giva cercando

di salvarsi una via. Celesti Muse,

or voi ne dite chi primier le spoglie

cruente riportò, poi che agli Achivi

fe' piegar la vittoria il re Nettunno.

Primiero Aiace Telamònio uccise

de' forti Misii il duce Irzio Girtìde;

Antìloco spogliò Falce e Mermèro:

da Merïon fu spento Ippozïone

con Mori: a Protoone e Perifete

Teucro diè morte: Menelao nel ventre

Iperènore colse, e dalla piaga

tutte ad un tempo uscīr le lacerate

intestina e la vita. Altri più molti

ne spense Aiace d'Oilèo; ché nullo

ratto al paro di lui gli spaventati

fuggitivi inseguìa, quando ne' petti

della fuga il terror Giove mettea.

 

 

LIBRO DECIMOQUINTO

 

 

Ma poiché il vallo superaro e il fosso,

con molta di lor strage, i fuggitivi

nel viso smorti di terror fermārsi

ai vōti cocchi; e Giove in quel momento

sull'Ida risvegliossi accanto a Giuno.

Surse, stette, e gli Achei vide e i Troiani,

questi incalzati, e quei coll'aste a tergo

incalzanti, e tra loro il re Nettunno.

Vide altrove prostrato Ettore, e intorno

stargli i compagni addolorati, ed esso

del sentimento uscito, e dall'anelo

petto a gran pena traendo il respiro

nero sangue sboccar; ché non l'avea

certo il più fiacco degli Achei percosso.

Pietà sentinne nel vederlo il padre

de' mortali e de' numi, e con obliquo

terribil occhio guatò Giuno, e disse:

Scaltra malvagia, la sottil tua frode

dalla pugna cessar fe' il divo Ettorre,

e i Troiani fuggir. Non so perch'io

or non t'afferri, e col flagel non faccia

a te prima saggiar del dolo il frutto.

E non rammenti il dì ch'ambe le mani

d'aureo nodo infrangibile t'avvinsi,

e alla celeste volta con due gravi

incudi al piede penzolon t'appesi?

Fra l'atre nubi nell'immenso vōto

tu pendola ondeggiavi, e per l'eccelso

Olimpo ne fremean di rabbia i Numi,

ma sciorti non potean; ché qual di loro

afferrato io m'avessi, giù dal cielo

l'avrei travolto semivivo in terra.

Né ciò tutto quetava ancor la bile

che mi bollìa nel cor, quando, commosse

d'Ercole a danno le procelle e i venti,

tu pel mar l'agitasti, e macchinando

la sua rovina lo svïasti a Coo,

donde io salvo poi trassi il travagliato

figlio, e in Argo il raddussi. Ora di queste

cose ben io farò che ti sovvegna,

onde svezzarti dagl'inganni, e tutto

il pro mostrarti de' tuoi falsi amplessi.

Raccapricciò d'orror la veneranda

Giuno a que' detti; e, Il ciel, la terra attesto

(diessi a gridare) e il sotterraneo Stige,

che degli Eterni è il più tremendo giuro,

ed il sacro tuo capo, e l'illibato

d'ogni spergiuro marital mio letto:

se agli Achivi soccorse e nocque ai Teucri

il re Nettunno, non fu mio consiglio,

ma del suo cor spontaneo moto, e pièta

de' mal condotti Argivi. Esorterollo

anzi io stessa a recarsi, ovunque il chiami,

terribile mio sire, il tuo comando.

Sorrise Giove, e replicò: Se meco

nel senato de' numi, augusta Giuno,

in un solo voler consentirai,

consentiravvi (e sia diversa pure

la sua mente) ben tosto anco Nettunno.

Or tu, se brami che per prova io vegga

sincero il tuo parlar, rimonta in cielo,

e qua m'invìa sull'Ida Iri ed Apollo.

Iri nel campo degli Achei discesa

a Nettunno farà l'alto precetto

d'abbandonar la pugna, e di tornarsi

ai marini soggiorni. Apollo all'armi

Ettore desterà, novello in petto

spirandogli vigor, sì che sanato

d'ogni dolore fra gli Achei di nuovo

sparga la vile paurosa fuga,

e gl'incalzi così che fra le navi

cadan, fuggendo, del Pelìde Achille.

Questi allor nella pugna il suo diletto

Patroclo manderà, che morta in campo

molta nemica gioventù col divo

mio figlio Sarpedon, morto egli stesso

cadrà, prostrato dall'ettòrea lancia.

Dell'ucciso compagno irato Achille

spegnerà l'uccisore, e da quel punto

farò che sempre sian respinti i Teucri,

finché per la divina arte di Palla

il superbo Ilïon prendan gli Achei.

Né l'ire io deporrò, né che veruno

degli Dei qui l'argive armi soccorra

sosterrò, se d'Achille in pria non veggo

adempirsi il desìo. Così promisi,

e le promesse confermai col cenno

del mio capo quel dì che i miei ginocchi

Teti abbracciando, d'onorar pregommi

coll'eccidio de' Greci il suo gran figlio.

Disse, e la Diva dalle bianche braccia

obbedïente dall'idèa montagna

all'Olimpo salì. Colla prestezza

con che vola il pensier del vïatore,

che scorse molte terre le rïanda

in suo secreto, e dice: Io quella riva,

io quell'altra toccai: colla medesma

rattezza allor la veneranda Giuno

volò dall'Ida sull'eccelso Olimpo,

e sopravvenne agl'Immortali, accolti

nelle stanze di Giove. Alzārsi i numi

tutti al vederla, e coll'ambrosie tazze

l'accolsero festosi. Ella, negletta

ogni altra offerta, la man porse al nappo

appresentato dalla bella Temi

che primiera a incontrar corse la Dea,

così dicendo: Perché riedi, o Giuno?

Tu ne sembri atterrita. Il tuo consorte

n'è forse la cagion? - Non dimandarlo,

Giuno rispose. Quell'altero e crudo

suo cor tu stessa già conosci, o Diva.

Presiedi ai nostri almi convivii, e tosto

qui con tutti i Celesti udrai di Giove

gli aspri comandi che per mio parere

de' mortali fra poco e degli Dei

le liete mense cangeranno in lutto.

Tacque, e s'assise. Contristārsi in cielo

i Sempiterni; e Giuno un cotal riso

a fior di labbro aprì, ma su le nere

ciglia la fronte non tornò serena.

Ruppe alfin disdegnosa in questi detti:

Oh, noi dementi! Inetta è la nostr'ira

contra Giove, o Celesti, e il faticarci

con parole a frenarlo o colla forza

è vana impresa. Assiso egli sull'Ida

né gli cale di noi né si rimove

dal suo proposto, ché gli Eterni tutti

di fortezza ei si vanta e di possanza

immensamente superar. Soffrite

quindi in pace ogni mal che più gli piaccia

inviarvi a ciascuno. E a Marte, io credo,

il suo già tocca: Ascàlafo, il più caro

d'ogni mortale al poderoso iddio

che proprio sangue lo confessa, è spento.

Si batté colle palme la robusta

anca Gradivo, e in suon d'alto dolore

gridò: Del cielo cittadini eterni,

non mi vogliate condannar, s'io scendo

l'ucciso figlio a vendicar, dovesse

steso fra' morti il fulmine di Giove

là tra il sangue gittarmi e tra la polve.

Disse; e alla Fuga impose e allo Spavento

d'aggiogargli i destrieri; e di fiammanti

armi egli stesso si vestiva. E allora

di ben altro furor contro gli Dei

di Giove acceso si sarebbe il core,

se per tutti i Celesti impaurita

non si spiccava dal suo trono, e ratta

fuor delle soglie non correa Minerva

a strappargli di fronte il rilucente

elmo, e lo scudo dalle spalle: e a forza

toltagli l'asta dalla man gagliarda,

la ripose, e il garrì: Cieco furente,

tu se' perduto. Per udir non hai

tu più dunque gli orecchi, e in te col senno

spento è pure il pudor? Dell'alma Giuno,

ch'or vien da Giove, non intendi i detti?

Vuoi tu forse, insensato, esser costretto

a ritornarti doloroso al cielo,

fatto di molti mali un rio guadagno,

e creata a noi tutta alta sciagura?

Perciocché, de' Troiani e degli Achei

abbandonate le contese, ei tosto

risalendo all'Olimpo, in iscompiglio

metterà gl'Immortali, ed afferrando

l'un dopo l'altro, od innocenti o rei,

noi tutti punirà. Del figlio adunque

la vendetta abbandona, io tel comando:

ch'altri di lui più prodi o già periro

o periranno. Involar tutta a morte

de' mortali la schiatta è dura impresa.

Sì dicendo, al suo seggio il vïolento

Dio ricondusse. Fuor dell'auree soglie

Giuno intanto a sé chiama Apollo ed Iri

la messaggiera, e lor presta sì parla:

Ite, Giove l'impon, veloci all'Ida;

arrivati colà fissate il guardo

in quel volto, e ne fate ogni volere.

Ciò detto, indietro ritornò l'augusta

Giuno, e di nuovo si compose in trono.

Quei mossero volando, e su l'altrice

di fontane e di belve Ida discesi,

di Saturno trovār l'onniveggente

figlio sull'erto Gàrgaro seduto;

e circonfusa intorno il coronava

un'odorosa nube. Essi del grande

di nembi adunator giunti al cospetto,

fermārsi: e satisfatto egli del pronto

loro obbedir della consorte ai detti,

ad Iri in prima il favellar rivolto,

Va, disse, Iri veloce, e al re Nettunno

nunzia verace il mio comando esponi.

Digli che il campo ei lasci e la battaglia,

e al ciel si torni o al mar. Se il cenno mio

ribelle sprezzerà, pensi ben seco

se, benché forte, s'avrà cor che basti

a sostener l'assalto mio: ricordi

che primo io nacqui, e che di forza il vinco,

quantunque egli osi a me vantarsi eguale,

a me che tutti fo tremar gli Dei.

Obbedì la veloce Iri, e discese

dalle montagne idèe. Come sospinta

da fiato d'aquilon serenatore

dalle nubi talor vola la neve

o la gelida grandine: a tal guisa

d'Ilio sui campi con rapido volo

Iri calossi, e al divo Enosigèo

fattasi innanzi, così prese a dire:

Ceruleo Nume, messaggiera io vegno

dell'Egìoco signore. Ei ti comanda

d'abbandonar la pugna, e di far tosto

o agli alberghi celesti o al mar ritorno.

Se sprezzi il cenno, ed obbedir ricusi,

minaccia di venirne egli medesmo

teco a battaglia. Ti consiglia quindi

d'evitar le sue mani; e ti ricorda

ch'ei d'etade è maggiore e di fortezza,

quantunque egual vantarti oso tu sia

a lui che mette agli altri Dei terrore.

Arse d'ira Nettunno, e le rispose:

Ch'ei sia possente il so; ma sue parole

sono superbe, se forzar pretende

me suo pari in onor. Figli a Saturno

tre germani siam noi da Rea produtti,

primo Giove, io secondo, e terzo il sire

dell'Inferno Pluton. Tutte divise

fur le cose in tre parti, e a ciascheduno

il suo regno sortì. Diede la sorte

l'imperio a me del mar, dell'ombre a Pluto,

del cielo a Giove negli aerei campi

soggiorno delle nubi. Olimpo e Terra

ne rimaser comuni, e il sono ancora.

Non farò dunque il suo voler; si goda

pur la sua forza, ma si resti cheto

nel suo regno, né tenti or colla destra

come un vile atterrirmi. Alle fanciulle,

ai bamboli suoi figli il terror porti

di sue minacce, e meglio fia. Tra questi

almen si avrà chi a forza l'obbedisca.

Dio del mar, la veloce Iri soggiunse,

questa dunque vuoi tu che a Giove io rechi

dura e forte risposta? E raddolcirla

in parte almeno non vorrai? De' buoni

pieghevole è la mente; e chi primiero

nacque ha ministre, tu lo sai, l'Erinni.

Tu parli, o Diva, il ver, l'altro riprese:

e gran ventura è messaggier che avvisa

ciò che più monta. Ma di sdegno avvampa

il cor quand'egli minaccioso oltraggia

me suo pari di grado e di destino.

Pur questa volta porrò freno all'ira,

e cederò. Ma ben vo' dirti io pure

(e dal cor parte la minaccia mia),

se Giove, a mio dispetto e di Minerva

e di Giuno e d'Ermete e di Vulcano,

risparmierà dell'alto Ilio le torri,

né atterrarle vorrà, né darne intera

la vittoria agli Achei, sappia che questo

fia tra noi seme di perpetua guerra.

Lasciò, ciò detto, il campo e in mar s'ascose,

e ne sentiro la partenza in petto

i combattenti Achei. Si volse allora

Giove ad Apollo, e disse: Or vanne, o caro,

al bellicoso Ettòr. Lo scotitore

della terra evitando il nostro sdegno

fe' ritorno nel mar. Se ciò non era,

della pugna il rimbombo avrìa ferito

anche l'orecchio degl'inferni Dei

stanti intorno a Saturno. Ad ambedue

me' però torna che schivato egli abbia,

fatto più senno, di mie mani il peso;

perché senza sudor la non sarìa

certo finita. Or tu la fimbrïata

Egida imbraccia, e forte la percoti,

e spaventa gli Achei. Cura ti prenda,

o Saettante, dell'illustre Ettorre,

e tal ne' polsi valentìa gli metti,

ch'egli fino alle navi e all'Ellesponto

cacci in fuga gli Achivi. Allor la via

troverò che i fuggenti abbian respiro.

Obbedì pronto Apollo, e dall'idèa

cima disceso, simile a veloce

di colombi uccisor forte sparviero

de' volanti il più ratto, al generoso

Prïamide n'andò. Dal suol già surto

e risensato il nobile guerriero

sedea, ripresa degli astanti amici

la conoscenza: perocché, dal punto

che in lui di Giove s'arrestò la mente,

l'anelito cessato era e il sudore.

Stettegli innanzi il Saettante, e disse:

Perché lungi dagli altri e sì spossato,

Ettore siedi? e che dolor ti opprime?

E a lui con fioca e languida favella

di Priamo il figlio: Chi se' tu che vieni,

ottimo nume, a interrogarmi? Ignori

che il forte Aiace, mentre che de' suoi

alle navi io facea strage, mi colse

d'un sasso al petto, e tolsemi le forze?

Già l'alma errava su le labbra; e certo

di veder mi credetti in questo giorno

l'ombre de' morti e la magion di Pluto.

Fa cor, riprese il Dio: Giove ti manda

soccorritore ed assistente il sire

dell'aurea spada, Apolline. Son io

che te finor protessi e queste mura.

Or via, sveglia il valor de' numerosi

squadroni equestri, ed a spronar gli esorta

verso le navi i corridori. Io poscia

li precedendo spianerò lor tutta

la strada, e fugherò gli achivi eroi.

Disse, ed al duce una gran forza infuse.

Come destrier di molto orzo in riposo

alle greppie pasciuto, e nella bella

uso a lavarsi correntìa del fiume,

rotti i legami, per l'aperto corre

insuperbito, e con sonante piede

batte il terren; sul collo agita il crine,

alta estolle la testa, e baldanzoso

di sua bellezza, al pasco usato ei vola

ove amor d'erbe il chiama e di puledre:

tale, udita del Dio la voce, Ettorre

move rapidi i passi, inanimando

i cavalieri. Ma gli Achei, siccome

veltri e villani che un cornuto cervo

inseguono, o una damma a cui fa schermo

alto dirupo o densa ombra di bosco,

poiché lor vieta di pigliarla il fato;

se a lor grida s'affaccia in su la via

un barbuto leon colle sbarrate

mascelle orrende, incontanente tutti,

benché animosi, volgono le terga:

così agli Achei, che stretti infino allora

senza posa inseguito aveano i Teucri

colle lance ferendo e colle spade,

visto aggirarsi tra le file Ettorre,

cadde a tutti il coraggio. Allor si mosse

Toante Andremonìde, il più gagliardo

degli etòli guerrieri. Era costui

di saetta del par che di battaglia

a piè fermo perito, e degli Achivi

pochi in arringhe lo vincean, se gara

fra giovani nascea nella bell'arte

del diserto parlar. - Numi! qual veggo

gran prodigio? (dicea questo Toante)

Dalla Parca scampato, e di bel nuovo

risurto Ettorre! E speravam noi tutti

che per le man d'Aiace egli giacesse.

Certo qualcuno de' Celesti i giorni

preservò di costui, che molti al suolo

degli Achivi già stese, e molti ancora

ne stenderà, mi credo; ché non senza

l'altitonante Giove egli sì franco

alla testa de' Teucri è ricomparso.

Tutti adunque seguiamo il mio consiglio.

La turba ai legni si raccosti; e noi,

quanti del campo achivo i più valenti

ci vantiamo, stiam fermi e coll'alzate

aste vediam di repulsarlo. Io spero

che quantunque animoso, ei nella calca

entrar non ardirà di scelti eroi.

Disse, e tutti obbedīr volonterosi.

Ambo gli Aiaci e Teucro e Idomenèo

e Merïone e il marzïal Megète

convocando i migliori, in ordinanza

contro i Teucri ed Ettòr poser la pugna.

Verso le navi intanto s'avvïava

de' men forti la turba. Allor primieri

e serrati fêr impeto i Troiani.

Li precede a gran passi camminando

l'eccelso Ettorre, e lui precede Apollo,

che di nebbia i divini omeri avvolto

l'irta di fiocchi, orrenda, impetuosa

egida tiene, di Vulcano a Giove

ammirabile dono, onde tonando

i mortali atterrir. Con questa al braccio

guidava i Teucri il Dio contro gli Achei

che stretti insieme n'attendean lo scontro.

Surse allor d'ambe parti un alto grido.

Dai nervi le saette, e dalle mani

vedi l'aste volar, altre nel corpo

de' giovani guerrieri, altre nel mezzo,

pria che il corpo saggiar, piantarsi in terra

di sangue sitibonde. Infin che immota

tenne l'egida Apollo, egual fu d'ambe

parti il ferire ed il cader. Ma come

dritto guardando l'agitò con forte

grido sul volto degli Achei, gelossi

ne' lor petti l'ardire e la fortezza.

Qual di bovi un armento o un pieno ovile

incustodito, all'improvviso arrivo

di due belve notturne si scompiglia;

così gli Achivi costernārsi; e Apollo

fra lor spargeva lo spavento, i Teucri

esaltando ed Ettorre. Allor turbata

l'ordinanza, seguìa strage confusa.

Ettore Stichio uccide e Arcesilao,

questi a' Beozi capitano, e quegli

un compagno fedel del generoso

Menestèo. Per le man poscia d'Enea

Jaso cade e Medonte. Era Medonte

del divino Oilèo bastardo figlio

e d'Aiace fratel: ma morto avendo

un diletto german della matrigna

Erïopìde d'Oilèo mogliera,

dalla paterna terra allontanato

in Filace abitava. Attico duce

era Jaso, e figliuol detto venìa

del Bucolide Sfelo. A Mecistèo

Polidamante nelle prime file

tolse la vita; ad Echïon Polìte,

ed Agenore a Clònio. A Dėijòco,

tra quei di fronte in fuga volto, al tergo

vibra Paride l'asta e lo trafigge.

Mentre l'armi rapìan questi agli uccisi,

giù nell'irto di pali orrendo fosso

precipitando i fuggitivi Achei

d'ogni parte correan, dalla crudele

necessità sospinti, entro il riparo

della muraglia: ed alto alle sue schiere

gridava Ettorre di lasciar le spoglie

sanguinolente, e sul navile a gitto

piombar: Qualunque scorgerò ristarsi

dalle navi lontan, di propria mano

l'ucciderò, né morto il metteranno

su la pira i fratei né le sorelle,

ma innanzi ad Ilio strazieranlo i cani.

Sì dicendo, sonar fe' su le groppe

de' cavalli il flagello e li sospinse

per le file, animando ogni guerriero.

Dietro al lor duce minacciosi i Teucri

con immenso clamor drizzaro i cocchi.

Iva Apollo davanti, e col leggiero

urto del piede lo ciglion del cupo

fosso abbattendo il riversò nel mezzo,

e ad immago di ponte un'ampia strada

spianovvi, e larga come d'asta il tiro,

quando a far di sue forze esperimento

un lanciator la scaglia. Essi a falangi

su questa via versavansi, ed Apollo

sempre alla testa, sollevando in alto

l'egida orrenda, degli Achivi il muro

atterrava con quella agevolezza

che un fanciullo talor lungo la riva

del mar per giuoco edifica l'arena,

e per giuoco co' piedi e colle mani

poco poi la rovescia e la rimesce.

Tale fu, Febo arcier, l'opra in che tanto

sudār gli Achivi, dispergesti, e loro

del gelo della fuga empiesti il petto.

Così spinti fermārsi appo le navi,

e a vicenda incuorandosi, e le mani

ai numi alzando, ognun porgea gran voti.

Ma più che tutti, degli Achei custode,

il Gerènio Nestorre allo stellato

cielo le palme sollevando orava:

Giove padre, se mai nelle feconde

piagge argive o di tauri o d'agnellette

sacrifici offerendo ti pregammo

di felice ritorno, e tu promessa

ne festi e cenno, or deh! il ricorda, e lungi,

dio pietoso, ne tieni il giorno estremo,

né voler sì da' Troi domi gli Achivi.

Così pregava. L'udì Giove, e forte

tuonò. Ma i Teucri dell'Egìoco Sire

udito il segno si scagliār più fieri

contro gli Achivi, ed incalzār la pugna.

Come del mar turbato un vasto flutto

da furia boreal cresciuto e spinto

rugge e sormonta della nave i fianchi;

tali i Teucri con alti urli saliro

la muraglia, e, cacciati entro i cavalli,

coll'aste incominciār sotto le poppe

un conflitto crudel, questi su i cocchi,

quei sul bordo de' legni colle lunghe,

che dentro vi giacean, stanghe commesse,

ed al bisogno di naval battaglia

accomodate colle ferree teste.

Finché fuor del navile intorno al muro

arse de' Teucri e degli Achei la pugna,

del valoroso Eurìpilo si stette

Patroclo nella tenda, e ragionando

il ricreava, e sull'acerba piaga

dell'amico, a placarne ogni dolore,

obblivïosi farmaci spargea.

Ma tosto che mirò su l'arduo muro

saliti a furia i Teucri, e l'urlo surse

degli Achivi e la fuga, in lai proruppe,

e battendosi l'anca, Ohimè! diss'egli

in suono di lamento, una feroce

mischia là veggo. Non mi lice, Eurìpilo,

all'uopo che pur n'hai, teco indugiarmi

più lungamente: assisteratti il servo;

io ne volo ad Achille onde eccitarlo

alla pugna. Chi sa? forse un propizio

nume darammi che mia voce il tocchi;

degli amici il pregar va dolce al core.

Così detto, volò. Gli Achivi intanto

fermi de' Teucri sostenean l'assalto;

ma dalle navi non sapean, quantunque

di numero minori, allontanarli;

né i Troiani potean romper de' Greci

le stipate falangi, e insinuarsi

tra le navi e le tende. E a quella guisa

che in man di fabbro da Minerva istrutto,

il rigo una naval trave pareggia;

così de' Teucri egual si diffondea

e degli Achei la pugna; ed altri a questa

nave attacca la zuffa, ed altri a quella.

Ma contro Aiace dispiccato Ettorre,

intorno ad un sol legno ambo gli eroi

travagliansi, né questi era possente

a fugar quello e il combattuto pino

incendere, né quegli a tener lunge

questo, ché un nume ve l'avea condotto.

Colpì coll'asta il Telamònio allora

Caletore di Clìzio in mezzo al petto,

mentre alle navi già venìa col foco.

Rimbombò nel cadere, e dalla mano

cascògli il tizzo. Come vide Ettorre

riverso nella polve anzi alla poppa

il consobrino, alzò la voce, e i suoi

animando gridò: Licii, Troiani,

Dardani bellicosi, ah dalla pugna

non ritraete in questo stremo il piede!

Deh non patite che di Clìzio il figlio,

da valoroso nel pugnar caduto,

sia dell'armi dispoglio. - E sì dicendo,

Aiace saettò colla fulgente

lancia, ma in fallo; e Licofron percosse

di Mastore figliuol che reo di sangue

dalla sacra Citera esule venne

al Telamònio, e v'ebbe asilo, e poscia

suo scudiero il seguì. Lo giunse il ferro

nella testa, da presso al suo signore,

sul confin dell'orecchia: e dalla poppa

resupino il travolse nella polve.

Raccapriccionne Aiace, e a Teucro disse:

Caro fratel, n'è spento il fido amico

Mastoride che noi ne' nostri tetti

da Citera ramingo in pregio avemmo

quanto i diletti genitor: l'uccise

Ettore. Dove or son le tue mortali

frecce, e quell'arco tuo, dono d'Apollo?

L'udì Teucro, e veloce a lui ne venne

coll'arco e la faretra, e via ne' Troi

dardeggiando ferì di Pisenorre

Clito illustre figliuol, caro al Pantìde

Polidamante a cui de' corridori

reggea le briglie. Or, mentre che bramoso

di mertarsi d'Ettorre e de' Troiani

e la grazia e la lode, ove dell'armi

lo scompiglio è maggior spinge i cavalli,

malgrado il presto suo girarsi il giunse

l'inevitabil suo destin; ché il dardo

lagrimoso gli entrò dentro la nuca.

Cadde il trafitto; s'arretrār turbati

i destrieri scotendo il vōto cocchio

orrendamente. Ma v'accorse pronto

di Panto il figlio, che parossi innanzi

ai frementi corsieri; e ad Astinòo

di Protaon fidandoli, con molto

raccomandar lo prega averli in cura

e seguirlo vicin. Ciò fatto, il prode

riede alla zuffa, e tra i primier si mesce.

Pose allor Teucro un altro dardo in cocca

alla mira d'Ettorre: e qui finita

tutta alle navi si sarìa la pugna,

se al fortissimo eroe togliea l'acerbo

quadrel la vita. Ma lo vide il guardo

della mente di Giove, che d'Ettorre

custodìa la persona, e privo fece

di quella gloria il Telamònio Teucro:

ché il Dio, nell'atto del tirar, gli ruppe

del bell'arco la corda, onde svïossi

il ferreo strale, e l'arco di man cadde.

Inorridito si rivolse Teucro

al suo fratello, e disse: Ohimè! precise

della nostra battaglia un Dio per certo

tutta la speme, un Dio che dalla mano

l'arco mi scosse, e il nervo ne diruppe

pur contorto di fresco, e ch'io medesmo

gli adattai questa mane, onde il frequente

scoccar de' dardi sostener potesse.

O mio diletto, gli rispose Aiace,

poiché l'arco ti franse un Dio, nemico

dell'onor degli Achivi, al suolo il lascia

con esso le saette; e l'asta impugna

e lo scudo, e co' Teucri entra in battaglia,

ed agli altri fa core; onde, se prese

esser denno le navi, almen non sia

senza fatica la vittoria. Ad altro

non pensiam dunque che a pugnar da forti.

Corse Teucro alla tenda, e vi ripose

l'arco, e preso un brocchier che avea di quattro

falde il tessuto, un elmo irto d'equine

chiome al capo si pose; e orribilmente

n'ondeggiava la cresta. Indi una salda

lancia impugnata, a cui d'acuto ferro

splendea la punta, s'avvïò veloce,

e raggiunse il fratello. Intanto Ettorre,

viste cader di Teucro le saette,

le sue schiere incuorando, alto gridava:

Teucri, Dardani, Licii, ecco il momento

d'esser prodi, e mostrar fra queste navi

il valor vostro, amici. Infrante ha Giove

d'un gran nemico (con quest'occhi il vidi)

le funeste quadrella. Agevolmente

si palesa del Dio l'alta possanza,

sia ch'esalti il mortal, sia che gli piaccia

abbassarne l'orgoglio, e l'abbandoni:

siccome appunto degli Achivi or doma

la baldanza, e le nostre armi protegge.

Pugnate adunque fortemente, e stretti

quelle navi assalite. Ognun che colto

o di lancia o di stral trovi la morte,

del suo morir s'allegri. È dolce e bello

morir pugnando per la patria, e salvi

lasciarne dopo sé la sposa, i figli

e la casa e l'aver, quando gli Achei

torneran navigando al patrio lido.

Fur quei detti una fiamma ad ogni core.

Dall'una parte i suoi conforta anch'esso

Aiace, e grida: Argivi, o qui morire,

o le navi salvar. Se fia che alfine

il nemico le pigli, a piè tornarvi

forse sperate alla natìa contrada?

E non udite di che modo Ettorre

d'incenerirle tutte impazïente

i suoi guerrieri istiga? Egli per certo

non alla tresca, ma di Marte al fiero

ballo gl'invita. Né partito adunque

né consiglio sicuro altro che questo,

menar le mani, e di gran cor. Gli è meglio

pure una volta aver salute o morte,

che a poco a poco in lungo aspro conflitto

qui consumarci invendicati e domi

per mano, oh scorno! di peggior nemico.

Rincorossi ciascuno, e allor la strage

d'ambe le parti si confuse. Ettorre

Schedio uccide, figliuol di Perimede,

condottier de' Focensi. Uccide Aiace

Laodamante, generosa prole

d'Antenore, e di fanti capitano.

Polidamante al suol stende il cillènio

Oto, compagno di Megète, e duce

de' magnanimi Epei. Visto Megète

cader l'amico, scagliasi diritto

su l'uccisor; ma questi obliquamente

chinando il fianco andar fe' vōto il colpo,

ché in quella zuffa non permise Apollo

del figliuolo di Panto la caduta,

e l'asta di Megète in mezzo al petto

di Cresmo si piantò, che orrendamente

rimbombò nel cader. Corse a spogliarlo

dell'armi il vincitor; ma gli si spinse

contra il gagliardo vibrator di picca

Dolope che di Lampo era germoglio,

di Lampo prestantissimo guerriero

Laomedontìde. Impetuoso ei corse

sopra Megète, e lo ferì nel mezzo

dello scudo; ma il cavo e grosso usbergo

l'asta sostenne, quell'usbergo istesso

che d'Efira di là dal Selleente

un dì Fileo portò, dono d'Eufete,

ospite suo. Con questo egli più volte

campò se stesso nelle pugne, ed ora

con questo a morte si sottrasse il figlio

che non fu tardo alle risposte. Al sommo

del ferrato e chiomato elmo ei percosse

l'assalitor coll'asta, e dispicconne

l'equina cresta, che così com'era

di purpureo color fulgida e fresca

tutta gli cadde nella polve. Or mentre

ei qui stassi con Dolope alle strette,

e vittoria ne spera, ecco venirne

a rapirgli la palma il bellicoso

minore Atride, che furtivo al fianco

di Dolope s'accosta, e via nel tergo

l'asta gli caccia. Trapassògli il petto

la furïosa punta oltre anelando:

boccon cadde il trafitto, e gli fur sopra

tosto que' due per dispogliarlo. Allora

il teucro duce incoraggiando tutti

i congiunti, si volse a Melanippo

d'Icetaon. Pasceva egli in Percote,

pria dell'arrivo degli Achei, le mandre.

Ma giunti questi ad Ilio, ei pur vi venne,

e risplendea fra' Teucri, ed abitava

col re medesmo che l'avea per figlio.

Lo punse Ettorre, e disse: E così dunque

ci starem neghittosi, o Melanippo?

E non ti senti il cor commosso al diro

caso del morto consobrin? Non vedi

lo studio che color dansi dintorno

a Dolope per l'armi? Orsù mi segui:

non è più tempo di pugnar da lungi

con questi Argivi. Sterminarli è d'uopo,

o veder Troia al fondo, ed allagate

per lor di sangue cittadin le vie.

Così detto, il precede, e l'altro il segue

in sembianza d'un Dio. Ma volto a' suoi

il gran Telamonìde, Amici, ei grida,

siate valenti, in cor v'entri la fiamma

della vergogna, e l'un dell'altro abbiate

tema e rispetto nella forte mischia.

De' prodi erubescenti i salvi sono

più che gli uccisi. Chi si volge in fuga,

corre all'infamia insieme ed alla morte.

Sì disse, e tutti per sé pur già pronti

alla difesa, si stampār nel core

que' detti, e fêr dell'armi un ferreo muro

alle navi; ma Giove era co' Teucri.

Prese allor Menelao con questi accenti

d'Antìloco a spronar la gagliardia:

Antìloco, tu se' del nostro campo

il più giovin guerriero e il più veloce,

e niun t'avanza di valor. Trascorri

dunque, e di sangue ostil tingi il tuo ferro.

Così l'accese e si ritrasse; e quegli

fuor di schiera balzando, e d'ogn'intorno

guatandosi vibrò l'asta lucente.

Visto quell'atto, si scansaro i Teucri,

ma il colpo in fallo non andò, ché colse

Melanippo nel petto alla mammella,

mentre animoso s'avanzava. Ei cadde

risonando nell'armi, e ratto a lui

Antìloco avventossi. A quella guisa

che il veltro corre al caprïol ferito,

cui, mentre uscìa dal covo, il cacciatore

di stral raggiunse, e sciolsegli le forze:

così sovra il tuo corpo, o Melanippo,

a spogliarti dell'armi il bellicoso

Antìloco si spinse. Il vide Ettorre,

e volò per la mischia ad assalirlo.

Non ardì l'altro, benché pro' guerriero,

aspettarne lo scontro, e si fuggìo

siccome lupo misfattor, che ucciso

presso l'armento il cane od il bifolco,

si rinselva fuggendo anzi che densa

lo circuisca dei villan la turba;

così diè volta sbigottito il figlio

di Nestore per mezzo alle saette

che alle sue spalle con immenso strido

i Troiani piovevano ed Ettorre;

né diè sosta al fuggir, né si converse

che giunto fra' compagni a salvamento.

Qui fu che i Teucri un furïoso assalto

diero alle navi, ed adempīr di Giove

il supremo voler, che vie più sempre

lor forza accresce, ed agli Achei la scema;

togliendo a questi la vittoria, e quelli

incoraggiando, perché tutto s'abbia

Ettor l'onore di gittar ne' curvi

legni le fiamme, e tutto sia di Teti

adempito il desìo. Quindi il veggente

nume il momento ad aspettar si stava

che il guardo gli ferisse alfin di qualche

incesa nave lo splendor, perch'egli

da quel punto volea che de' Troiani

cominciasse la fuga, e degli Achei

l'alta vittoria. In questa mente il Dio

sproni aggiungeva al cor d'Ettorre, e questi

furïando parea Marte che crolla

la grand'asta in battaglia, o di vorace

fuoco la vampa che ruggendo involve

una folta foresta alla montagna.

Manda spume la bocca, e sotto il torvo

ciglio lampeggia la pupilla: ai moti

del pugnar, la celata orrendamente

si squassa intorno alle sue tempie, e Giove

il proteggea dall'alto, e di lui solo

tra tanti eroi volea far chiaro il nome

a ricompensa di sua corta vita.

Perocché già Minerva il dì supremo,

che domar lo dovea sotto il Pelìde,

gl'incalzava alle spalle. Ove più dense

egli vede le file, e de' più forti

folgoreggiano l'armi, oltre si spigne

di sbaragliarle impazïente, e tutte

ne ritenta le vie; ma tuttavolta

gli esce vano il desìo, ché stretti insieme

resistono gli Achei siccome aprico

immane scoglio che nel mar si sporge,

e de' venti sostiene e del gigante

flutto la furia che si spezza e mugge:

tali a piè fermo sostenean gli Achei

l'urto de' Teucri. Finalmente Ettorre

scintillante di foco nella folta

precipitossi. Come quando un'onda

gonfia dal vento assale impetuosa

un veloce naviglio, e tutto il manda

ricoperto di spuma: il vento rugge

orribilmente nelle vele, e trema

ai naviganti il cor, ché dalla morte

non son divisi che d'un punto solo:

così tremava degli Achivi il petto;

ed Ettore parea crudo lïone

che in prato da palude ampia nudrito

un pingue assalta numeroso armento.

Ben egli il suo pastor vorrìa da morte

le giovenche campar; ma non esperto

a guerreggiar col mostro, or tra le prime

s'aggira ed or tra l'ultime; alfin l'empio

vi salta in mezzo, ed una ne divora,

e ne van l'altre impaurite in fuga:

così davanti ad Ettore ed a Giove

fuggìan percossi da divin terrore

tutti allora gli Achei. Restovvi il solo

Micenèo Perifète, amata prole

di quel Coprèo che un giorno al grande Alcide

venne dei duri d'Euristèo comandi

apportatore. Di malvagio padre

illustre figlio risplendea di tutte

virtù fornito Perifète, ed era

e nel corso e nell'armi e ne' consigli

tra' Micenèi pregiato e de' primieri.

Ed or qui diede di sua morte il vanto

alla lancia d'Ettòr. Ché mentre indietro

si volta nel fuggir, nell'orlo inciampa

dello scudo, che lungo insino al piede

dalle saette il difendea. Da questo

impedito il guerrier cadde supino,

e dintorno alle tempie in suono orrendo

la celata squillò. V'accorse Ettorre,

e l'asta in petto gli piantò, né alcuno

aitarlo potea de' mesti amici,

del teucro duce paurosi anch'essi.

Abbandonato delle navi il primo

ordin gli Achivi, come ria gli sforza

necessitade e l'incalzante ferro

de' Troiani, riparansi al secondo

alla marina più propinquo; e quivi

nanzi alle tende s'arrestār serrati

senza sbandarsi (ché vergogna e tema

li ratteneano) e alzando un incessante

grido a vicenda si mettean coraggio.

Anzi a tutti il buon Nestore, l'antico

guardïan degli Achivi, ad uno ad uno

pe' genitor li supplica: Deh siate,

siate forti, o miei cari, e di pudore

il cor v'infiammi la presenza altrui.

Della sua donna ognuno e de' suoi figli

e del suo tetto si rammenti; ognuno

si proponga de' padri, o spenti o vivi,

i bei fatti al pensiero: io qui per essi

che son lungi vi parlo, e vi scongiuro

di tener fermo e non voltarvi in fuga.

Rincorārsi a que' detti: allor repente

sgombrò Minerva la divina nube,

che il lor guardo abbuiava, e una gran luce

dintorno balenò. Vider le navi,

videro il campo e la battaglia e il prode

Ettore e tutti i suoi guerrier, sì quelli

che in riserbo tenea, sì quei che fanno

pugna alle navi. Non soffrì d'Aiace

il magnanimo cor di rimanersi

con gli altri Achivi indietro, ed impugnata

una gran trave da naval conflitto

con caviglie connessa, e ventidue

cubiti lunga, la scotea, per l'alte

de' navigii corsìe lesto balzando

a lunghi passi, simigliante a sperto

equestre saltator che giunti insieme

quattro scelti destrier gli sferza e spigne

per le pubbliche vie: maravigliando

stassi la turba, ed ei sicuro e ritto

dall'un passando all'altro il salto alterna

sui volanti cavalli; a tal sembianza

alternava l'eroe gl'immensi passi

per le coperte delle navi, e al cielo

la sua voce giugnea sempre gridando

terribilmente, e confortando i suoi

delle tende e de' legni alla difesa.

E né pur esso di rincontro Ettorre

tra' Teucri in turba si riman; ma quale

aquila falba che uno stormo invade

o di cigni o di gru che lungo il fiume

van pascolando; a questa guisa il prode

di schiera uscito avventasi di punta

contra una nave di cerulea prora.

Lo stesso Giove colla man possente

il sospinge da tergo, e gli altri incita,

e un novello vi desta aspro certame.

Detto avresti che fresca allora allora

s'attaccava la mischia, e che indefesse

eran le braccia: l'impeto è cotanto

de' combattenti con opposti affetti.

Nella credenza di perirvi tutti

pugnavano gli Achei; nella lusinga

di sterminarli i Teucri, ed in faville

mandar le navi. Ed in cotal pensiero

gli uni e gli altri mescean la zuffa e l'ire.

Ettore intanto colla destra afferra

d'una nave la poppa. Era la bella

veloce nave che di Troia al lido

Protesilao guidò senza ritorno.

Per questa si facea di Teucri e Achei

un orrido macello, e questi e quelli

d'un cor medesmo, non con archi e dardi

fan pugna da lontan, ma con acute

mannaie a corpo a corpo, e con bipenni

e con brandi e con aste a doppio taglio,

e con tersi coltelli di forbito

ebano indutti e di gran pomo; ed altri

ne cadean dalle spalle, altri dal pugno

de' guerrieri, e scorrea sangue la terra.

Dell'afferrata poppa Ettor tenendo

forte il timone colle man, gridava:

Foco, o Teucri, accorrete, e combattete;

ecco il dì che di tutti il conto adegua,

il dì che Giove nelle man ci mette

queste navi, a Ilïon contra il volere

venute degli Dei, queste che tanti

ne recār danni per codardi avvisi

de' nostri padri che mi fean divieto

di portar qui la guerra. Ma se Giove

confuse allor le nostre menti, or egli,

egli stesso n'incalza all'alta impresa.

Disse, e i Teucri maggior contro gli Argivi

impeto fêro. Degli strali allora

più non sostenne Aiace la ruina,

ma giunta del morir l'ora credendo,

lasciò la sponda del naviglio, e indietro

retrocesse alcun poco ad uno scanno

sette piè di lunghezza. E qui piantato

osservava il nemico, e sempre oprando

l'asta, i Troiani, che di faci ardenti

già s'avanzano armati, allontanava,

e sempre alzava la terribil voce:

Dànai di Marte alunni, amici eroi,

non ponete in obblìo vostra prodezza.

Sperate forse di trovarvi a tergo

chi ne soccorra, od un più saldo muro

che ne difenda? Non abbiam vicina

città munita che ne salvi, e nuove

falangi ne fornisca. In mezzo a fieri

inimici noi siam, chiusi dal mare,

lungi dal patrio suol. Nell'armi adunque,

non nella fuga, ogni salute è posta.

Così dicendo, colla lunga lancia

furïoso inseguìa qualunque osava

da Ettore sospinto avvicinarsi

colle fiamme alle navi. E di costoro

dodici dall'acuta asta trafitti

pose a giacer davanti alle carene.

 

 

LIBRO DECIMOSESTO

 

 

E così questi combattean la nave.

Presentossi davanti al fiero Achille

Patroclo intanto un caldo rio versando

di lagrime, siccome onda di cupo

fonte che in brune polle si devolve

da rupe alpestre. Riguardollo, e n'ebbe

pietà il guerriero piè-veloce, e disse:

Perché piangi, Patròclo? Bamboletta

sembri che dietro alla madre correndo

torla in braccio la prega, e la rattiene

attaccata alla gonna, ed i suoi passi

impedendo piangente la riguarda

finch'ella al petto la raccolga. Or donde

questo imbelle tuo pianto? Ai Mirmidóni

o a me medesmo d'una ria novella

sei forse annunziator? Forse di Ftia

la ti giunse segreta? E pur la fama

vivo ne dice ancor Menèzio, e vivo

tra i Mirmidón l'Eàcide Pelèo,

d'ambo i quali d'assai grave a noi fōra

certo la morte. O per gli Achei tu forse

le tue lagrime versi, e li compiagni

là tra le fiamme delle navi ancisi,

e dell'onta puniti che mi fêro?

Parla, m'apri il tuo duol, meco il dividi.

E tu dal cor rompendo alto un sospiro

così, Patròclo, rispondesti: O Achille,

o degli Achei fortissimo Pelìde,

non ti sdegnar del mio pianto. Lo chiede

degli Achei l'empio fato. Oimè, che quanti

eran dianzi i miglior, tutti alle navi

giaccion feriti, quale di saetta,

qual di fendente. Di saetta il forte

Tidìde Dïomede, e di fendente

l'inclito Ulisse e Agamennón; trafitta

ei pur di freccia Eurìpilo ha la coscia.

Intorno a lor di farmaci molt'opra

fan le mediche mani, e le ferite

ristorando ne vanno. E tu resisti

inesorato ancora? O Achille! oh mai

non mi s'appigli al cor, pari alla tua,

l'ira, o funesto valoroso! E s'oggi

sottrar nieghi gli Achivi a morte indegna,

chi fia che poscia da te speri aita?

Crudel! né padre a te Pelèo, né madre

Tetide fu: te il negro mare o il fianco

partorì delle rupi, e tu rinserri

cuor di rupe nel sen. Se doloroso

ti turba un qualche oracolo la mente;

se di Giove alcun cenno a te la madre

veneranda recò, me tosto almeno

invìa nel campo; e al mio comando i forti

Mirmidoni concedi, ond'io, se puossi,

qualche raggio di speme ai travagliati

compagni apporti. E questo ancor mi assenti,

ch'io, delle tue coperto armi le spalle,

m'appresenti al nemico, onde ingannato

dalla sembianza, in me comparso ei creda

lo stesso Achille, e fugga, e l'abbattuto

Acheo respiri. Nella pugna è spesso

una via di salute un sol respiro;

e noi di forze intégri agevolmente

ricaccerem la stanca oste alle mura

dalle navi respinta e dalle tende.

Così l'eroe pregò. Folle! ché morte

perorava a se stesso e reo destino.

E a lui gemendo di corruccio Achille:

Che dicesti, o Patròclo? In questo petto

terror d'udite profezie non passa,

né di Giove alcun cenno a me la diva

madre recò. Ma il cor mi rode acerba

doglia in pensando che rapirmi il mio

un mio pari s'ardisce, e del concesso

premio spogliarmi prepotente. È questo,

questo il tormento, il dispetto, la rabbia

onde l'alma è angosciata. Una donzella

di valor ricompensa, a me prescelta

da tutto il campo, e da me pria coll'asta

conquistata per mezzo alla ruina

di munita città, questa alle mie

mani ha ritolta l'orgoglioso Atride,

come a vil vagabondo. Ma le andate

cose sien poste nell'obblìo; ché l'ira

viver non debbe eterna. Io certo avea

fatto un severo nel mio cor decreto

di non porla, se prima non giugnesse

alle mie navi de' pugnanti il grido

e la pugna. Ma tu le mie ti vesti

armi temute, e alla battaglia guida

i bellicosi Tessali; ché fosco

di Teucri e fiero un nugolo vegg'io

circondar già le navi, e al lido stringersi

in poco spazio i Greci, e su lor tutta

Troia versarsi, audace fatta e balda

perché vicino balenar non vede

dell'elmo mio la fronte. Oh fosse meco

stato re giusto Agamennón! Ben io

t'affermo che costoro avrìan fuggendo

de' lor corpi ricolme allor le fosse.

Or ecco che n'han chiuso essi d'assedio:

perocché nella man di Dïomede,

a tener lunge dagli Achei la morte,

l'asta più non infuria, né d'Atride

la voce ascolto io più dall'abborrita

bocca scoppiante; ma sol quella intorno

dell'omicida Ettorre mi rimbomba

animante i Troiani. E questi alzando

liete grida guerriere il campo tutto

tengon già vincitori. E nondimeno

va, ti scaglia animoso, e dalle navi

quella peste allontana, né patire

che le si strugga il fuoco, e ne sia tolta

del desïato ritornar la via.

Ma, quale in mente la ti pongo, avverti

de' miei detti alla somma, e m'obbedisci,

se vuoi che gloria me ne torni, e grande

dai Greci onore, e che la bella schiava

con doni eletti alfin mi sia renduta.

Cacciati i Teucri, fa ritorno: e s'anco

l'altitonante di Giunon marito

ti prometta vittoria, incauta brama

di pugnar senza me con quei gagliardi

non ti seduca, né voler ch'io colga

di ciò vergogna e disonor: né spinto

dall'ardor della pugna alle fatali

dardanie mura avvicinar le schiere

della strage de' Teucri insuperbito;

onde non scenda dall'Olimpo un qualche

Immortale a tuo danno. Essi son cari,

non obblïarlo, al saettante Apollo.

Posti in salvo i navili, immantinente

dunque dà volta, e lascia ambo a vicenda

struggersi i campi. Oh Giove padre! oh Pallade!

e tu di Delo arciero Iddio, deh fate

che nessun possa né Troian né Greco

schivar morte, nessuno; onde del sacro

ilïaco muro la caduta sia

di noi due soli preservati il vanto.

Mentre seguìan tra lor queste parole

Aiace omai cedea l'arena oppresso

da gran selva di strali. Rintuzzava

le sue forze il voler di Giove e il nembo

delle teucre saette. Il rilucente

elmo percosso un suon mettea che orrendo

gl'intronava le tempie, ed incessante

sovra i chiavelli il martellar cadea.

Langue spossata la sinistra spalla

dall'assiduo maneggio affaticata

del versatile scudo. E tuttavolta

né la calca premente, né de' colpi

la tempesta il potea mover di loco.

Scuotegli i fianchi più affannato e spesso

l'anelito: il sudor discorre a rivi

per le membra, né puote a niuna guisa

pigliar respiro il valoroso. Intanto

d'ogni parte l'orror cresce e il periglio.

Muse dell'alto Olimpo abitatrici,

or voi ne dite per che modo il primo

fuoco alle navi degli Achei s'apprese.

Di frassino una grave asta scotea

Aiace. A questa avvicinato Ettorre

tal trasse un colpo della grande spada

che netta la tagliò là dove al tronco

si commette la punta. Invan vibrava

il Telamònio eroe l'asta privata

della sua cima, che lontan cadendo

risonò sul terren. Raccapricciossi

il magnanimo, e vide ivi d'un nume

manifesta la man; vide che avverso

l'Altitonante del pugnar le vie

tutte gli avea precise, e decretata

de' Teucri all'armi la vittoria. Ei dunque

lunge dai dardi si ritrasse; e ratto

i Troi gittaro nella nave il foco,

che tosto le si apprese, e d'ogni lato

l'inestinguibil fiamma si diffuse.

Si batté l'anca per dolore Achille,

vista la vampa divorante; e, Sorgi,

mio Patroclo, gridò: sorgi. Alle navi

l'impeto io veggo della fiamma ostile.

Deh che il nemico non le prenda, e tutti

ne precluda gli scampi: su via, tosto

armati; ché i miei forti io ti raduno.

Disse: e Patròclo si vestìa dell'armi

folgoranti. Alle gambe primamente

i bei schinieri si ravvolse adorni

d'argentee fibbie. La corazza al petto

poscia si mise del veloce Achille

screzïata di stelle. Indi la spada

di bei chiovi d'argento aspra e lucente

dall'omero sospese. Indi lo scudo

saldo e grande imbracciò: la valorosa

fronte nell'elmo imprigionò, su cui

d'equine chiome orrendamente ondeggia

una cresta. Alfin prese, atte al suo pugno,

valide lance; ed unica d'Achille

l'asta non prese, immensa, grave e salda

cui nullo palleggiar Greco potea,

tranne il braccio achillèo: massiccia antenna

sulle cime del Pèlio un dì recisa

dal buon Chirone, ed a Pelèo donata,

perché fosse in sua man strage d'eroi.

Comanda ei quindi che i cavalli al cocchio

subito aggioghi Automedon, guerriero

cui dopo Achille rompitor di squadre

sovra ogni altro ei pregiava: ed in battaglia

nel sostener gl'impetuosi assalti

del nemico, ad Achille era il più fido.

Rotti adunque gl'indugi, Automedonte

i veloci corsieri al giogo addusse

Balio e Xanto che un vento eran nel corso,

e partoriti a Zefiro gli avea

l'Arpia Podarge un dì ch'ella pascendo

iva nel prato lungo la corrente

dell'Oceàn. Dall'una banda ei poscia

Pedaso aggiunse, corridor gentile,

cui seco Achille un dì dalla disfatta

città d'Eezïon s'avea condotto;

e quantunque mortale iva del paro

co' destrieri immortali. Intanto Achille

su e giù scorrendo per le tende, tutti

di tutto punto i Mirmidóni armava.

Quai crudivori lupi il cor ripieni

di molta gagliardia, prostrato avendo

sul monte un cervo di gran corpo e corna,

sel trangugiano a brani, e sozze a tutti

rosseggiano di sangue le mascelle:

quindi calano in branco ad una bruna

fonte a lambir colle minute lingue

il nereggiante umor, carne ruttando

mista col sangue: il cor ne' petti audaci

s'allegra, e il ventre ne va gonfio e teso:

tali dintorno al bellicoso amico

del gran Pelìde intrepidi si affollano

i mirmidonii capitani; e in mezzo

a lor s'aggira il marzïale Achille

i cavalli animando e i battaglieri.

Cinquanta eran le prore che veloci

avea condotte a Troia il caro a Giove

Tessalo prence, e carca iva ciascuna

di cinquanta guerrieri. A cinque duci

n'avea dato il comando, ed ei la somma

potestà ne tenea. Guida la prima

squadra Menèstio, scintillante il petto

di varïato usbergo. Era costui

prole di Sperchio, fiume che da Giove

l'origine vantava; e di Pelèo

la bella figlia Polidora a Sperchio

partorito l'avea, donna mortale

commista con un Dio. Ma lui la fama

nel popolo dicea prole di Boro,

di Perierèo figliuol, che tolta in moglie

l'avea solenne e di gran dote ornata.

Guidava la seconda il marzio Eudoro

generato di furto, a cui fu madre

la figlia di Filante Polimela,

danzatrice leggiadra. Innamorossi

in lei Mercurio un dì che alle cantate

danze la vide della Dea che gode

del romor delle cacce e d'aureo strale;

la vide, e della casa alle superne

stanze salito giacquesi furtivo

il pacifico Iddio colla fanciulla,

e lei fe' madre d'un illustre figlio,

d'Eudoro, egregio nella pugna al pari

che rapido nel corso. E poiché tratto

fuor l'ebbe dal materno alvo Ilitìa

curatrice de' parti, e l'almo ei vide

raggio del Sol, la genitrice al prode

Attòride Echeclèo passò consorte,

di largo dono nuzïal dotata.

Nudrì poscia il fanciullo ed allevollo

l'avo Filante con paterna cura,

e di figlio diletto in loco il tenne.

Capitan della terza era il valente

Memalide Pisandro, il più perito

de' Mirmidóni nel vibrar dell'asta

dopo il compagno del Pelìde Achille.

La quarta il veglio cavalier Fenice,

e conducea la quinta Alcimedonte,

di Laerce buon figlio. Or poiché tutti

gli ebbe schierati co' lor duci Achille,

gravi ed alte parlò queste parole:

Mirmidoni, di voi nullo mi ponga

le minacce in obblìo, che, mentre immoti

su le navi la mia ira vi tenne,

fêste a' Troiani, me accusando tutti,

e dicendo: Implacabile Pelìde,

certo di bile ti nudrìo la madre:

crudel, che tieni a lor dispetto inerti

nelle navi i tuoi prodi. A Ftia deh almeno

redir ne lascia su le nostre prore,

da che nel cor ti cadde una tant'ira.

Questi biasmi in accolta a me sovente

mormoraste, o guerrieri. Or ecco è giunto

del gran conflitto che bramaste il giorno.

All'armi adunque; e chi cuor forte in petto

si chiude, a danno de' Troiani il mostri.

Sì dicendo, destò d'ogni guerriero

e la forza e l'ardir. Strinser più densa

tosto le schiere l'ordinanza, uditi

del lor sire gli accenti. E in quella guisa

che industre architettor l'una su l'altra

le pietre ammassa, e insieme le commette

acconciamente a costruir d'eccelso

palagio la muraglia all'urto invitta

del furente aquilon: non altramente

addensati venìan gli elmi e gli scudi.

Scudo a scudo, elmo ad elmo, e uomo ad uomo

s'appoggia; e al moto delle teste vedi

l'un coll'altro toccarsi i rilucenti

cimieri e l'onda delle chiome equine:

sì de' guerrier serrate eran le file.

Iva il paro d'eroi dinanzi a tutti

Patroclo e Automedonte, ambo d'un core

e d'una brama di dar dentro ei primi.

Con altra cura intanto alla sua tenda

avvïossi il Pelìde, ed un forziere

aprì di vago lavorìo, cui Teti

gli avea riposto nella nave e colmo

di tuniche e di clamidi del vento

riparatrici, e di vellosi strati.

Quivi una tazza in serbo egli tenea

di pregiato artificio, a cui null'altro

labbro mai non attinse il rubicondo

umor del tralcio, e fuor che a Giove, ei stesso

non libava con questa ad altro iddio.

Fuor la trasse dell'arca, e con lo zolfo

la purgò primamente: indi alla schietta

corrente la lavò. Lavossi ei pure

le mani, e il vino rosseggiante attinse.

Ritto poscia nel mezzo al suo recinto

libando, e gli occhi sollevando al cielo,

a Giove, che il vedea, fe' questo prego:

Dio che lungi fra' tuoni hai posto il trono,

Giove Pelasgo, regnator dell'alta

agghiacciata Dodona, ove gli austeri

Selli che han l'are a te sacrate in cura,

d'ogni lavacro schivi al fianco letto

fan del nudo terreno, i voti miei

già tu benigno un'altra volta udisti,

e dalle piaghe degli Achei vendetta

dell'onor mio prendesti. Or tu pur questa

fïata, o padre, le mie preci adempi.

Io qui fermo mi resto appo le navi;

ma in mia vece alla pugna ecco spedisco

con molti prodi il mio diletto amico.

Deh vittoria gl'invìa, tonante Iddio,

l'ardir gli afforza in petto, onde s'avvegga

Ettore se pugnar sappia pur solo

il mio compagno, o allor soltanto invitta

la sua destra infierir, quando al tremendo

lavor di Marte lo conduce Achille.

Ma dalle navi achee lungi rimosso

l'ostil furore, a me deh tosto il torna

con tutte l'armi e co' suoi forti illeso.

Sì disse orando, e il sapiente Giove

parte del prego udì, parte ne sperse.

Udì che dalle navi alfin respinta

fosse la pugna, e non udì che salvo

dalla pugna tornasse il caro amico.

Libato a Giove e supplicato, Achille

rïentrò, rinserrò nell'arca il sacro

nappo: e di nuovo della tenda uscito

ritto all'ingresso si fermò bramoso

di mirar de' Troiani e degli Achei

la terribile mischia. E questi al cenno

dell'ardito Patròclo in ordinati

squadroni, e tutti di gran cor precinti

già piombano su i Teucri, e si dispiccano

come rabide vespe, entro i lor nidi

lungo la strada stimolate all'ira

da procaci fanciulli, a cui diletta

travagliarle incessanti a loro usanza.

Stolti! ché a sé fan danno ed all'ignaro

passeggiero innocente. Le sdegnose

che ne' piccioli petti han grande il core,

sbucano in frotta, e alla difesa volano

de' cari parti. Coll'ardir di queste

si versār dalle navi i Mirmidóni.

N'era immenso il fracasso, e di Menèzio

confortandoli il figlio alto gridava:

Commilitoni del Pelìde Achille,

siate valenti; della vostra possa

ricordatevi, amici, e combattiamo

per la gloria di lui, forti campioni

del più forte de' Greci. Il suo fallire

vegga il superbo Atride, e dell'oltraggio

fatto al maggiore degli eroi si penta.

Sprone alle forze e al cor di ciascheduno

fur le parole. Si serrār, scagliārsi

sul nemico ad un punto; e si sentiva

terribilmente rimbombar le navi

al gridar degli Achei. Ma come i Teucri

di Menèzio mirār l'inclito figlio

esso e l'auriga Automedonte al fianco

folgoranti nell'armi, a tutti il core

tremò: le schiere scompigliārsi, ognuna

nella credenza che il Pelìde avesse

deposta l'ira, e l'amistà ripresa.

Studia ognuno la fuga, ognun procaccia

la sua salvezza. Allor Patròclo il primo

la fulgida vibrò lancia nel mezzo

dove più densa intorno all'alta poppa

del buon Protesilao ferve la calca:

e Pirecmo ferì, che dalle vaste

rive dell'Assio e d'Amidone avea

seco i peonii cavalier condutti.

Gli mise il colpo alla diritta spalla,

e quei riverso e gemebondo cadde

nella polve. Si volse al suo cadere

il peonio drappello in presta fuga,

e tutto si sbandò, morto il suo duce

prestantissimo in guerra. Repulsati

i nemici, l'eroe spense le vampe;

ma il naviglio restò mezz'arso e monco.

E qui fuggire e sgominarsi i Teucri,

e gli Achivi inseguirli, e via pe' banchi

delle navi cacciarli in gran tumulto.

Siccome allor che dall'eccelsa vetta

di gran monte le nubi atre disgombra

il balenante Giove, appaion tutte

subitamente le vedette e gli alti

gioghi e le selve, e immenso s'apre il cielo:

così respinta l'ostil fiamma, aprissi

de' Dànai il core e respirò. Ma tregua

non si fece alla zuffa; ancor non tutti

davan le spalle agl'incalzanti Achei

gli ostinati Troiani: e tuttavolta

resistendo, cedean forzati e lenti

gli occupati navigli. Allor diffusa

in maggior spazio la battaglia, ognuno

de' dànai duci un inimico uccise.

Fu Patroclo il primier che con acuto

cerro percosse Arėilìco al fianco

nel voltarsi che fea. Lo passa il ferro,

frange l'osso; e boccon cade il meschino.

Trafisse Menelao Toante al petto

scoperto dello scudo, e freddo il fece.

Il figliuol di Filèo, visto a rincontro

venirsi Anficlo d'assaltarlo in atto,

il previen, lo colpisce ove più ingrossa

della gamba la polpa. Infrange i nervi

la ferrea punta, e a lui le luci abbuia.

E voi l'armi d'ostil sangue non vile

Antìloco tingeste e Trasimède

valorosi Nestoridi. Coll'asta

Antìloco passò d'Antìmio il fianco,

e il distese boccon. Màride irato

per l'ucciso fratello innanzi al caro

cadavere si pianta, e contra Antìloco

la picca abbassa. Ma di lui più ratto

Trasimède il prevenne, e non indarno

volò la punta. All'omero lo giunse,

i muscoli segò del braccio estremo,

e netto l'osso ne recise. Ei cadde

fragoroso, e l'avvolse eterna notte.

Da due germani i due germani uccisi

così n'andaro a Dite, ambo valenti

di Sarpedon compagni, ambo famosi

lanciatori, figliuoi d'Amisodaro

che la Chimera, insuperabil mostro

di molte genti esizio, un dì nudriva.

Aiace d'Oilèo sovra Cleòbolo

correndo impetuoso il piglia vivo

nella calca impacciato, e via sul collo

l'enorme daga calando lo scanna.

Si tepefece per lo sangue il ferro;

e la purpurea morte e il vïolento

fato le luci gli occupò per sempre.

S'azzuffār Lico e Penelèo: ma in fallo

trasser ambo le lance. Allor più fieri

dier mano al brando. Del chiomato elmetto

Lico il cono percosse: ma la spada

si franse all'elsa. All'avversario il ferro

assestò Penelèo sotto l'orecchio,

e tutto ve l'immerse. Penzolava

in giù la testa dispiccata, e sola

tenea la pelle. Così cadde e giacque.

Merïon velocissimo correndo

Acamante raggiunse appunto in quella

che il cocchio ei monta, e al destro omero il fere.

Ruinò quel percosso dalla biga,

e morte gli tirò su gli occhi il velo.

Idomenèo la lancia nella bocca

d'Erimanto cacciò. La ferrea cima

apertasi la via sotto il cerèbro

rïuscì per la nuca, spezzò l'osso

del gorgozzule, e sgangherògli i denti;

talché di sangue s'empīr gli occhi, e sangue

soffiò dal naso e dalle fauci aperte.

Così concio il coprì l'ombra di morte.

E questi fûro i condottieri achei

che spensero ciascuno un inimico.

Qual su capri ed agnelle i lupi piombano

sterminatori, allor che per inospita

balza neglette dal pastor si sbrancano;

appena le adocchiār, che ratti avventansi

alle misere imbelli e ne fan strazio:

non altrimenti si vedeva i Dànai

dar sopra i Teucri che del core immemori

con orribile strepito fuggivano.

Nel folto della mischia il grande Aiace

sempre ad Ettòr volgea l'asta e la mira.

Ma quel mastro di guerra ricoperto

il largo petto di taurino scudo

all'acuto stridor delle saette

e al sibilo dell'aste attento bada,

ben s'accorgendo alla contraria parte

già piegar la vittoria: e tuttavolta

teneasi saldo alla salvezza intento

degli amati compagni. Alfin, siccome

per l'etere sereno al cielo ascende

su dal monte una nube allor che Giove

tenebrosa solleva la tempesta:

non altrimenti dalle navi i Teucri

dier volta urlando, e non avea ritegno

il ritrarsi e il fuggir. Lo stesso Ettorre,

via coll'armi dai rapidi destrieri

trasportato in mal punto, la difesa

abbandona de' suoi che la profonda

fossa accalca e impedisce. Ivi sossopra

molti destrier precipitando spezzano

e timoni e tirelle, e conquassati

lascian là dentro co' lor duci i carri.

E Patroclo gl'incalza, ed incitando

fieramente i compagni, alla suprema

ruina anela de' Troiani. E questi

d'alte grida e di fuga empion già tutte

sbaragliati le vie. Saliva al cielo

vorticosa di polve una procella:

spaventati i cavalli a tutta briglia

correan dal mare alla cittade; e dove

maggior vede l'eroe turba e scompiglio

minaccioso gridando a quella volta

drizza la biga. Traboccar dai cocchi

vedi sotto le ruote i fuggitivi,

e i vōti cocchi sobbalzando volano

risonanti. Varcār d'un salto il fosso

gl'immortali destrieri oltre anelando,

i destrier che a Pelèo diero gli Dei

preclaro dono. E tuttavia l'eroe

contra Ettòr li flagella, desïoso

pur d'arrivarlo e di ferir. Ma lui

traean già lunge i corridor veloci.

Come d'autunno procelloso nembo

tutta inonda la terra, allor che Giove

densissime dal ciel versa le piogge

quando contra i mortali arma il suo sdegno,

i quai, cacciata la giustizia in bando

e la vendetta degli Dei schernita,

vïolente nel fòro e nequitose

proferiscon sentenze: allor furenti

sboccan ne' campi i fiumi; giù dal monte

precipitando le sonanti piene

squarcian le ripe, e nel purpureo mare

devolvonsi mugghiando, e dal cultore

corrompono la speme e la fatica:

così gementi corrono e sbuffanti

i troiani cavalli. Intanto rotte

le prime schiere, di Menèzio il figlio

le ricaccia, le stringe alla marina,

lor tagliando il ritorno al desïato

Ilio; e tra il mare e il Xanto e l'alto muro

incalzava, uccideva e vendicava

molte morti d'eroi. E primamente

ferì d'asta Pronòo che mal di scudo

coprìasi il petto. Lo trafisse; e quegli

giù cadendo, nell'armi risonò.

Poi d'Enòpo il figliuol Tèstore assalse

impetuosamente. Iva costui

sovra elegante cocchio, la persona

curvo ed in atto di raccor le briglie,

che smarrito nel cor s'avea lasciato

dalle mani fuggir. Gli si fe' sopra

l'eroe coll'asta, e tal gli spinse un colpo

su la destra mascella, che la siepe

sprofondògli dei denti. A questo modo

infilzato nell'asta sollevollo

dalla conca del cocchio, e il trasse a terra.

Quale il buon pescator sovra sporgente

scoglio seduto colla lenza, armata

di fulgid'amo, fuor dell'onda estragge

enorme pesce; a cotal guisa il Greco

fuor del cocchio tirò colla lucente

asta il confitto boccheggiante, e poscia

lo scrollò dalla picca, e lungi al suolo

lo gittò sanguinoso e senza vita.

Quindi Erìalo, che contro gli venìa,

giunge d'un sasso al mezzo della fronte,

e in due, chiusa nel forte elmo, la spacca.

Boccon versossi nella sabbia, e morte

lo si recinse e gli rapìo la vita.

Indi Erimante, Anfòtero ed Epalte

e il figliuol di Damàstore Tlepòlemo,

l'Argèade Polimèlo ed Echio e Piro

e con Evippo Ifèo tutti in un mucchio

rovesciò, rassegnò morti alla terra.

Ma Sarpedonte visto de' compagni

per le man di Patròclo un tale e tanto

scempio, i suoi Licii rincorando, e insieme

rampognando, Oh vergogna! o Licii, ei grida,

dove, o Licii, fuggite? Ah per gli Dei

rivolate alla pugna! Io di costui

corro allo scontro, per saper chi sia

questo fiero campion che vi diserta,

che sì nuoce ai Troiani, e già di molti

forti disciolse le ginocchia. - Disse,

e via d'un salto a terra in tutto punto

si lanciò dalla biga. Ed a rincontro

come Patroclo il vide, ei pur nell'armi

si spiccò dalla sua. Qual due grifagni

ben unghiati avoltoi forte stridendo

sovra un erto dirupo si rabbuffano,

tal vennero quei due gridando a zuffa.

Li vide, e tocco di pietade il figlio

dell'astuto Saturno, in questi detti

a Giunon si rivolse: Ohimè, diletta

sorella e sposa! Sarpedon, ch'io m'aggio

de' mortali il più caro, è sacro a morte

pel ferro di Patròclo. Irresoluta

fra due pensieri la mia mente ondeggia,

se vivo il debba liberar da questo

lagrimoso conflitto, e a' suoi tornarlo

nell'opulenta Licia; o consentire

che qui lo domi la tessalic'asta.

E a lui grave i divini occhi girando

l'alma Giuno così: Che parli, o Giove?

che pretendi? Un mortale, un destinato

da gran tempo alla Parca, or della negra

diva ritorlo alla ragion? Fa pure,

fa pur tuo senno: ma degli altri Eterni

non isperar l'assenso. Anzi ti aggiungo,

e tu poni nel cor le mie parole:

se vivo e salvo alle paterne case

renderai Sarpedon, bada che poscia

del par non voglia più d'un altro iddio

alla pugna sottrarre il proprio figlio;

ché molti sotto alle dardanie mura

stan nell'armi a sudar figli di numi,

a cui porresti una grand'ira in seno.

Ché s'ei t'è caro e lo compiagni, il lascia

nella mischia perir domo dall'asta

del figliuol di Menèzio: ma deserto

dall'alma il corpo, al dolce Sonno imponi

ed alla Morte, che alla licia gente

il portino. I fratelli ivi e gli amici

l'onoreranno di funereo rito

e di tomba e di cippo, alle defunte

anime forti onor supremo e caro.

Disse; e al consiglio di Giunon s'attenne

degli uomini il gran padre e degli Dei,

e sangue piovve per onor del caro

figlio cui lungi dalle patrie arene

ne' frigii campi avrìa Patroclo ucciso.

Già l'uno all'altro si fa sotto e sono

alle prese. Patròclo a Trasimèlo,

di Sarpedonte valoroso auriga,

trapassò l'anguinaglia, e lo distese.

Mosse secondo Sarpedonte, e in fallo

la grand'asta vibrò, che trasvolando

la destra spalla a Pèdaso trafisse.

Si riversò sbuffando in su l'arena

il trafitto cavallo, e dal ferino

petto l'alma si sciolse gemebonda.

Visto il compagno corridor disteso

gli altri due costernārsi, e a calci, a salti

diersi; il timone cigolò; confuse

implicārsi le briglie. Ma riparo

l'intrepido vi mise Automedonte,

che rapido insorgendo, e via dal fianco

sguäinata la lunga acuta spada

tagliò netto al giacente le tirelle,

e fu l'opra d'un punto. Entrambi allora

rassettārsi i corsieri, e raddrizzārsi

al cenno della briglia obbedïenti.

E qui di nuovo alla crudel tenzone

si spinsero i campioni, e pur di nuovo

errò dell'asta Sarpedonte il tiro,

che via sovresso l'omero sinistro

di Patroclo trascorse e non l'offese.

Gli fe' risposta il Tessalo, né vano

il suo telo volò, ché dove è cinto

da' suoi ripari il cor gli aperse il petto.

Qual rovina una quercia o pioppo o pino

cui sul monte tagliò con affilata

bipenne il fabbro a nautico bisogno,

tal Sarpedonte rovinò. Giacea

steso innanzi alla biga, e colle mani

ghermìa la polve del suo sangue rossa,

e fremendo gemea pari a superbo

tauro, onor dell'armento e d'aureo pelo,

che da lïon, che il giunge alla sprovvista,

sbranato cade, e sotto la mascella

del vincitore mugolando spira.

Tale del licio condottier prostrato

dal tessalico ferro in sul morire

era il gemito e l'ira. E Glauco il suo

dolce amico per nome a sé chiamato,

Caro Glauco, gli disse, or t'è mestieri

buon guerriero mostrarti, e oprar le mani

audacemente. Tu dell'aspra pugna

se magnanimo sei, l'incarco assumi:

corri, vola, e de' Licii i capitani

alla difesa del mio corpo accendi.

Difendilo tu stesso, e per l'amico

combatti: infamia ti deriva eterna

se me dell'armi mie spoglia il nemico,

me pel certame delle navi ucciso;

tien saldo adunque e pugna, e di coraggio

tutte infiamma le squadre. - In questo dire

le narici affilò, travolse i lumi,

e la morte il coprì. Col piede il petto

calcògli il vincitor, l'asta ne trasse,

e il polmon la seguìa, sì che dal seno

il ferro a un tempo gli fu svelto e l'alma.

A' suoi sbuffanti corridori intanto

scioltisi e in atto di fuggir, lasciando

del lor signore il cocchio, i Mirmidoni

parārsi innanzi, e gli arrestār. Ma Glauco

dell'amico alla voce il cor compunto

di profondo dolor sospira e geme,

ché mal può dargli la richiesta aita.

L'impedisce la piaga al braccio infissa

dallo strale di Teucro allor che Glauco,

de' suoi volando alla difesa, assalse

l'alta muraglia degli Achei. Compresso

si tenea colla manca il braccio offeso

l'infelice, ed orando al saettante

nume di Delo, O re divino, ei disse,

o che di Licia, o che di Troia or bèi

tua presenza le rive, odi il mio prego;

ché dovunque tu sia puoi d'un dolente

qual, lasso! mi son io, la voce udire.

Di che grave ferita e di che doglia

trafitto io porti questo braccio il vedi;

né il sangue ancor mi si ristagna, e tale

incessante m'opprime una gravezza

l'omero tutto, che dell'asta al peso

mal reggo, e mal poss'io coll'inimico

avventurarmi alla battaglia. Intanto

di Giove il figlio Sarpedonte giace

fortissimo guerriero, e l'abbandona

ahi! pure il padre. Ma tu, Dio pietoso,

quest'acerba mia piaga or mi risana:

deh! placane il dolor, forza m'aggiungi,

sì che i Licii compagni inanimando,

io gli sproni al conflitto, e a me medesmo

pugnar sia dato per l'estinto amico.

Sì disse orando, ed esaudillo il nume:

della piaga sedò tosto il tormento,

stagnonne il sangue, e gagliardia gli crebbe.

Sentì del Dio la man, fe' lieto il core

l'esaudito guerrier: de' Licii in prima

a incitar corre d'ogni parte i duci

alla difesa dell'estinto: move

quindi a gran passi fra' Troiani, e chiama

Polidamante e Agènore, ed Enea

anco ed Ettorre, e in rapide parole

lor fattosi davanti, Ettore, ei grida,

tu dimentichi i prodi che per te

dalla patria lontani e dagli amici

spendono l'alma, e tu lor nieghi aita.

Giace de' Licii il condottiero, il giusto

forte lor prence Sarpedon. Gradivo

sotto Patròclo l'atterrò: correte,

v'infiammi, amici, una giust'ira il petto;

non patite, per dio! che i Mirmidóni

lo spoglino dell'armi, e villania

facciano al morto vendicando i Dànai

da noi spenti. - Sì disse, e ricoperse

dolor profondo le dardanie fronti;

ché un gran sostegno, benché stranio, egli era

d'Ilio, e molta seguìa gagliarda gente

lui fortissimo in guerra. Difilati

mosser dunque e serrati i teucri duci

contra il nemico, ed Ettore, fremente

del morto Sarpedon, li precorrea.

D'altra parte Patròclo, anima ardita,

sprona l'acheo valor. Gli Aiaci in prima,

già per sé caldi di coraggio, infiamma

con questi detti: Aiaci, ora vi caglia

di far testa a costoro, e vi mostrate

quali un tempo già foste, anzi migliori.

Il campion che primiero la bastita

saltò de' Greci, Sarpedonte è steso.

Oh se fargli pur onta e strascinarlo

e spogliarlo dell'armi ne si desse!

E stramazzargli accanto un qualcheduno

de' suoi compagni a disputarlo accinti!

Disse, e diè nel desìo de' due guerrieri.

Quinci e quindi le schiere inanimate

Troiani e Licii, Mirmidóni e Achei

sovra l'estinto s'azzuffār mettendo

orrende grida; e con fragore immenso

risonavano l'armi. Un fiero buio

su l'aspra pugna allor Giove diffuse,

onde costasse molta strage il corpo

dell'amato figliuol. Primi i Troiani

respinsero gli Achei, spento Epigèo.

Del magnanimo Agàcle era costui

illustre figlio, e fra gli audaci Tessali

audacissimo. A lui di Budio un giorno

l'alma terra obbedìa. Ma spento avendo

un suo valente consobrino, ei supplice

a Pelèo rifuggissi ed alla diva

consorte: e questi a guerreggiar co' Teucri

d'Ilio ne' campi lo spedīr compagno

dell'omicida Achille. Or qui costui

già l'animose mani al combattuto

cadavere mettea, quando d'un sasso

Ettore il giunse nella fronte, e tutta

in due gliela spezzò dentro l'elmetto.

Cadde prono sul morto l'infelice,

e chiuse i lumi nell'eterna notte.

Addolorato dell'ucciso amico

dritto tra' primi pugnator scagliossi

di Menèzio il buon figlio: e qual veloce

sparvier che gracci paventosi e storni

sparpaglia per lo cielo e li persegue;

tal nel denso de' Licii e de' Troiani

irrompesti, o Patròclo, alla vendetta

del caduto compagno. A Stenelao,

caro figliuol d'Itemenèo, percosse

d'un rude sasso la cervice, e i nervi

ne lacerò. Piegār, ciò visto, addietro

i combattenti della fronte: ei pure

piegò l'illustre Ettorre; e quanto è il tratto

di stral che in giostra o in omicida pugna

vibra un buon gittator, tanto i Troiani

dier volta addietro dall'Acheo repulsi.

Il primo che converse ardito il viso

fu de' Licii scudati il capitano

Glauco; e a Batìcle, di Calcon diletto

magnanimo figliuol, tolse la vita.

In Grecia egli era possessor di molte

splendide case, e per dovizia il primo

fra i Tessali tenuto. A lui si volse

il Licio all'improvvista, e il giavellotto

gli ficcò nelle coste appunto in quella

che costui l'inseguiva ed era in atto

già d'afferrarlo. Ei cadde, e un fragor cupo

dieder l'armi sovr'esso. Alla caduta

dell'egregio guerriero alto dolore

gli Achei comprese ed alta gioia i Teucri,

che stretti a Glauco s'avanzār più baldi.

Né si smarrīr gli Achivi, ma di punta

si spinsero allo scontro. E Merïone

Laogono prostese, audace figlio

d'Enètore che in Ida era di Giove

sacerdote, e qual nume il popol tutto

lo riveriva. Merïon lo colse

tra il confin dell'orecchio e della gota,

e tosto l'alma uscì dal corpo, e lui

un'orrenda ravvolse ombra di morte.

Incontro all'uccisor la ferrea lancia

Enea diresse, e a lui che sotto l'orbe

del gran pavese procedea securo,

assestarla sperò. Ma quei del colpo

avvistosi, e piegata la persona

l'asta schivò che sibilante e lunga

andò di retro a conficcarsi in terra.

Ne tremolò la coda, e quivi tutta

perdé l'impeto e l'ira che la spinse.

Come fitto nel suolo, e indarno uscito

Enea si vide dalla mano il telo;

Per certo, o Merïon, disse rabbioso,

un assai destro saltator tu sei:

ma questa lancia mia, se t'aggiungea,

t'avrìa ferme le gambe eternamente.

E Merïone di rimando: Enea,

forte sei, ma ti fia duro la possa

prostrar d'ognuno che al tuo scontro vegna,

ché mortal se' tu pure: e s'io con questa

in pieno ti corrò, con tutto il nerbo

delle tue mani e la tua gran baldanza

la palma a me darai, lo spirto a Pluto.

Disse: e Patròclo con rampogna acerba

garrendolo: Perché cianci sì vano

tu che sei valoroso, o Merïone?

Per contumelie, amico, unqua non fia

che l'inimico quell'esangue ceda,

ma col far che più d'un morda il terreno.

Orsù, lingua in consiglio, e braccio in guerra,

tregua alle ciance, e mano al ferro. - E dette

queste cose, s'avanza, e l'altro il segue.

Quale è il romor che fanno i legnaiuoli

in montana foresta, e lunge il suono

va gli orecchi a ferir, tale il rimbombo

per la vasta pianura si solleva

di celate, di scudi e di loriche,

altre di duro cuoio, altre di ferro,

ripercosse dall'aste e dalle spade:

ned occhio il più scernente affigurato

avrìa l'illustre Sarpedon: tant'era

negli strali, nel sangue e nella polve

sepolto tutto dalla fronte al piede.

Senza mai requie al freddo corpo intorno

facean tutti baruffa: e quale è il zonzo

con che soglion le mosche a primavera

assalir susurrando entro il presepe

i vasi pastorali, allor che pieni

sgorgan di latte; di costor tal era

la giravolta intorno a quell'estinto.

Fissi intanto tenea nell'aspra pugna

Giove gli sguardi lampeggianti, e seco

sul fato di Patròclo omai maturo

severamente nell'eterno senno

consultando venìa, se il grande Ettorre

là sul giacente Sarpedon l'uccida,

e dell'armi lo spogli; o se preceda

al suo morire di molt'altri il fato.

E questo parve lo miglior pensiero,

che del Pelìde Achille il bellicoso

scudier ricacci col lor duce i Teucri

alla cittade, e molte vite estingua.

Però d'Ettore al cor tale egli mise

una vil tema, che montato il cocchio

ratto in fuga si volse, ed alla fuga

i Troiani esortò, chiaro scorgendo

inclinarsi di Giove a suo periglio

le fatali bilance. Allor piè fermo

neppur de' Licii lo squadron non tenne,

ma tutti si fuggīr visto il trafitto

re lor giacente sotto monte orrendo

di cadaveri: tante su lui caddero

anime forti quando della pugna

a Giove piacque esasperar gli sdegni.

Così le corruscanti arme gli Achivi

trasser di dosso a Sarpedonte, e altero

alle navi invïolle il vincitore.

Allor l'eterno adunator de' nembi

ad Apollo così: Scendi veloce,

Febo diletto, e da quell'alto ingombro

d'armi sottraggi Sarpedonte, e terso

dall'atro sangue altrove il porta, e il lava

alla corrente, e lui d'ambrosia sparso

d'immortal veste avvolgi: indi alla Morte

ed al Sonno gemelli fa precetto

che all'opime di Licia alme contrade

il portino veloci, ove di tomba

e di colonna, onor de' morti, egli abbia

da' fratelli conforto e dagli amici.

Disse: e al paterno cenno obbedïente

calossi Apollo dall'idèa montagna

sul campo sanguinoso, e in un baleno

di sotto ai dardi Sarpedon levando,

e lontano il recando alla corrente

tutto lavollo, e l'irrigò d'ambrosia,

e di stola immortal lo ricoperse;

quindi al Sonno comanda ed alla Morte

d'indossarlo e portarselo veloci:

e quei subitamente ebber deposto

nella licia contrada il sacro incarco.

In questo mentre di Menèzio il figlio

i cavalli e l'auriga inanimando

ai Licii dava e ai Dardani la caccia.

Stolto! ché in danno gli tornò dassezzo.

Se d'Achille obbedìa saggio al comando,

schivato ei certo della Parca avrebbe

il decreto fatal: ma più possente

e di Giove il voler, che de' mortali.

Arbitro della tema ei mette in fuga

i più forti a suo senno, e allor pur anco

ch'egli medesmo a battagliar li sprona,

lor toglie la vittoria; e questo ei fece

d'audacia empiendo di Patròclo il petto.

Or qual prima, qual poi spingesti a Pluto,

quando alla morte ti chiamār gli Dei,

magnanimo guerrier? Fur primi Adresto,

Autònoo, Echeclo, ed Epistorre e Pèrimo

prole di Mega, e Melanippo; quindi

Elaso e Mulio con Pilarte; e come

stese questi al terren, gli altri non fûro

lenti alla fuga. E per Patròclo allora

(ch'ei dirotto nell'ira innanzi a tutti

furïava coll'asta) avrìan di Troia

consumato gli Achei l'alto conquisto;

ma Febo Apollo lo vietò calato

su l'erta d'una torre, alto disastro

meditando al guerriero, e scampo ai Teucri.

Tre volte il cavalier dell'arduo muro

su gli sproni montò; tre volte il nume

colla destra immortal lo risospinse,

forte picchiando sul lucente scudo.

Ma come più feroce al quarto assalto

l'eroe spiccossi, minacciollo irato

con fiera voce il saettante iddio:

Addietro, illustre baldanzoso, addietro:

alla tua lancia non concede il fato

espugnar la città de' generosi

Teucri, né a quella pur del grande Achille

sì più forte di te. - Questo sol disse:

ed il guerriero retrocesse e l'ira

schivò del nume che da lungi impiaga.

Avea frattanto su le porte Scee

de' suoi fuggenti corridori Ettorre

rattenuta la foga, e in cor dubbiava

se spronarli dovesse entro la mischia

novellamente, e rinfrescar la pugna

o chiamando a raccolta entro le mura

l'esercito ridurre. A lui nel mezzo

di questo dubbio appresentossi Apollo,

tolte d'Asio le forme. Era d'Ettorre

zio cotest'Asio ad Ecuba germano,

e nondimeno ancor di giovinezza

fresco e di forze, di Dimante figlio,

che del frigio Sangario in su le rive

tenea suo seggio. La costui sembianza

presa, il nume sì disse: Ettor, perché

cessi dall'armi? È d'un tuo pari indegna

questa desidia. Di vigor vincessi

io te quanto tu me! ben io pentirti

farei del tuo riposo. Orsù, converti

contra Patròclo que' destrieri, e trova

d'atterrarlo una via: fa che l'onore

di questa morte Apollo ti conceda.

Disse; e di nuovo il Dio nel travaglioso

conflitto si confuse. In sé riscosso

Ettore al franco Cebrïon fe' cenno

di sferzargli i destrieri alla battaglia:

ed Apollo per mezzo ai combattenti

scorrendo occulto seminava intanto

tra gli Achei lo scompiglio e la paura,

e fea vincenti col lor duce i Teucri.

Sdegnoso Ettorre di ferir sul volgo

de' nemici, spingea solo in Patròclo

i gagliardi cavalli, e ad incontrarlo

diè il Tessalo dal cocchio un salto in terra

coll'asta nella manca, e colla dritta

un macigno afferrò aspro che tutto

empiagli il pugno, e lo scagliò di forza.

Fallì la mira il colpo, ma d'un pelo;

né però vano uscì, ché nella fronte

l'ettòreo auriga Cebrïon percosse,

tutto al governo delle briglie intento,

Cebrïon che nascea del re troiano

valoroso bastardo. Il sasso acuto

l'un ciglio e l'altro sgretolò, né l'osso

sostenerlo poteo. Divelti al piede

gli schizzār gli occhi nella sabbia, ed esso,

qual suole il notator, fece cadendo

dal carro un tòmo, e l'agghiacciò la morte.

E tu, Patròclo, con amari accenti

lo schernisti così: Davvero è snello

questo Troiano: ve' ve' come ei tombola

con leggiadria! Se in pelago pescoso

capitasse costui, certo saprebbe

saltando in mar, foss'anche in gran fortuna,

dallo scoglio spiccar conchiglie e ricci

da saziarne molte epe: sì lesto

saltò pur or dal carro a capo in giuso.

Oh gli eccellenti notator che ha Troia!

Sì dicendo, avventossi a Cebrïone

come fiero lïon che disertando

una greggia, piagar si sente il petto,

e dal proprio valor morte riceve.

Ma ratto contra a quel furor si slancia

Ettore dalla biga; e i due superbi

incomincian col ferro a disputarsi

l'esangue Cebrïon. Qual due lïoni

che per gran fame e per gran cor feroci

s'azzuffano d'un monte in su la cima

per la contesa d'una cerva uccisa;

non altrimenti i due mastri di guerra,

l'intrepido Patròclo e il grande Ettorre,

ardono entrambi del crudel desìo

di trucidarsi. Il teucro eroe la testa

del cadavere afferra, e lo ghermisce

il Tessalo d'un piede, e la sua presa

né quei né questi di lasciar fa stima.

Allor Troiani e Achivi una battaglia

appiccār disperata: e qual gareggiano

d'Euro e di Noto i forti fiati a svellere

nelle selve montane il faggio e il frassino

ed il ruvido cornio; e questi all'aere

dibattendo le lunghe e larghe braccia

con immenso ruggito le confondono,

finché li vedi fracassarsi, e opprimere

fragorosi la valle: a questa immagine

l'un su l'altro scagliandosi combattono

Troiani e Dànai del fuggir dimentichi.

Dintorno a Cebrïon folta conficcasi

una selva d'acute aste e d'aligeri

dardi guizzanti dalle cocche; assidua

d'enormi sassi una tempesta crepita

su gli ammaccati scudi; ed ei nel vortice

della polve giacea grande cadavere

in grande spazio, eternamente, ahi misero!

dei cari in vita equestri studi immemore.

Finché del sole ascesero le rote

verso il mezzo del ciel, d'ambe le parti

uscìano i colpi con egual ruina,

e la gente cadea. Ma quando il giorno

su le vie dechinò dell'occidente,

prevalse il fato degli Achei che alfine

dall'acervo dei teli, e dalla serra

de' Troiani involār di Cebrïone

la salma, e l'armi gli rapīr di dosso.

Qui fu che pieno di crudel talento

urtò Patròclo i Troi. Tre volte il fiero

con gridi orrendi gli assalì, tre volte

spense nove guerrier; ma come il quarto

impeto fece, e parve un Dio, la Parca

del viver tuo raccolse il filo estremo,

miserando garzon, ché ad incontrarti

venìa tremendo nella mischia Apollo:

né camminar tra l'armi alla sua volta

l'eroe lo vide, ché una folta nebbia

le divine sembianze ricoprìa.

Vennegli a tergo il nume, e colla grave

palma sul dosso tra le late spalle

gli dechinò sì forte una percossa,

che abbacinossi al misero la vista

e girò l'intelletto. Indi dal capo

via saltar gli fe' l'elmo il Dio nemico,

e l'elmo al suolo rotolando fece

sotto il piè de' corsieri un tintinnìo,

e si bruttaro del cimier le creste

di sangue e polve; né di polve in pria

insozzar quel cimiero era concesso

quando l'intatto capo e la leggiadra

fronte copriva del divino Achille.

Ma in quel giorno fatal Giove permise

che d'Ettore passasse in su le chiome

vicino anch'esso al fato estremo. Allora

tutta a Patròclo nella man si franse

la ferrea, lunga, ponderosa e salda

smisurata sua lancia, e sul terreno

dalla manca gli cadde il gran pavese

rotto il guinzaglio. Di sua man l'usbergo

sciolsegli alfine di Latona il figlio,

e l'infelice allor del tutto uscìo

di sentimento; gli tremaro i polsi,

ristette immoto, sbalordito, e in quella

tra l'una spalla e l'altra lo percosse

coll'asta da vicin di Panto il figlio

l'audace Euforbo, un Dardano che al corso

e in trattar lancia e maneggiar destrieri

la pari gioventù vincea d'assai.

La prima volta che sublime ei parve

su la biga a imparar dell'armi il duro

mestier, venti guerrieri al paragone

riversò da' lor cocchi; ed or fu il primo

che ti ferì, Patròclo, e non t'uccise.

Anzi dal corpo ricovrando il ferro

si fuggì pauroso, e nella turba

si confuse il fellon, che di Patròclo

benché piagato e già dell'armi ignudo

non sostenne la vista. Da quel colpo

e più dall'urto dell'avverso Dio

abbattuto l'eroe si ritirava

fra' suoi compagni ad ischivar la morte.

Ed Ettore, veduto il suo nemico

retrocedente e già di piaga offeso,

tra le file vicino gli si strinse,

nell'imo cassò immerse l'asta e tutta

dall'altra parte rïuscir la fece.

Risonò nel cadere, ed un gran lutto

per l'esercito achivo si diffuse.

Come quando un lïone alla montagna

cinghial di forze smisurate assalta,

e l'uno e l'altro di gran cor fan lite

d'una povera fonte, al cui zampillo

venìano entrambi ad ammorzar la sete;

alfin la belva dai robusti artigli

stende anelo il nemico in su l'arena:

tal di Menèzio al generoso figlio

de' Teucri struggitor tolse la vita

il troian duce, e al moribondo eroe

orgoglioso insultando, Ecco, dicea,

ecco, o Patròclo, la città che dianzi

atterrar ti credesti, ecco le donne

che ti sperasti di condur captive

alla paterna Ftia. Folle! e non sai

che a difesa di queste anco i cavalli

d'Ettòr son pronti a guerreggiar co' piedi?

E che fra' Teucri bellicosi io stesso

non vil guerriero maneggiar so l'asta,

e preservarli da servil catena?

Tu frattanto qui statti orrido pasto

d'avoltoi. Che ti valse, o sventurato,

quel tuo sì forte Achille? Ei molti avvisi

ti diè certo al partire: O cavaliero

caro Patròclo, non mi far ritorno

alle navi se pria dell'omicida

Ettòr sul petto non avrai spezzato

il sanguinoso usbergo... Ei certo il disse,

e a te, stolto che fosti! il persuase.

E a lui così l'eroe languente: Or puoi

menar gran vampo, Ettorre, or che ti diero

di mia morte la palma Apollo e Giove.

Essi, non tu, m'han domo; essi m'han tratto

l'armi di dosso. Se pur venti a fronte

tuoi pari in campo mi venìan, qui tutti

questo braccio gli avrìa prostrati e spenti.

Ma me per rio destin qui Febo uccide

fra gl'Immortali, e tra' mortali Euforbo,

tu terzo mi dispogli. Or io vo' dirti

cosa che in mente collocar ben devi:

breve corso a te pur resta di vita:

già t'incalza la Parca, e tu cadrai

sotto la destra dell'invitto Achille.

Disse e spirò. Disciolta dalle membra

scese l'alma a Pluton la sua piangendo

sorte infelice e la perduta insieme

fortezza e gioventù. Sovra l'estinto

arrestatosi Ettorre, A che mi vai

profetando, dicea, morte funesta?

Chi sa che questo della bella Teti

vantato figlio, questo Achille a Dite

colto dall'asta mia non mi preceda?

Così dicendo, lo calcò d'un piede,

gli svelse il telo dalla piaga, e lungi

lui supino gittò. Poi ratto addosso

all'auriga d'Achille si disserra,

di ferirlo bramoso. Invan; ché altrove

gl'immortali sel portano corsieri,

che in bel dono a Pelèo diero gli Dei.

 

 

LIBRO DECIMOSETTIMO

 

 

Visto in campo cader dai Teucri ucciso

Patròclo, s'avanzò d'armi splendente

il bellicoso Menelao. Si pose

del morto alla difesa, e il circuiva

qual suole mugolando errar dintorno

alla tenera prole una giovenca

cui di madre sentir fe' il dolce affetto

del primo parto la fatica. Il forte

davanti gli sporgea l'asta e lo scudo,

pronto a ferir qual osi avvicinarsi.

Ma sul caduto eroe di Panto il figlio

rivolò, si fe' presso, e baldanzoso

all'Atride gridò: Duce di genti,

di Giove alunno Menelao, recedi;

quell'estinto abbandona, e a me le spoglie

sanguinose ne lascia, a me che primo

tra tutti e Teucri ed alleati in aspra

pugna il percossi. Non vietarmi adunque

quest'alta gloria fra' Troiani; o ch'io

col ferro ti trarrò l'alma dal petto.

Eterno Giove, gli rispose irato

il biondo Menelao, dove s'intese

più sconcio millantar? Né di pantera

né di lïon fu mai né di robusto

truculento cinghial tanto l'ardire

quanta spiran ferocia i Pantoìdi.

E pur che valse il fior di gioventude

a quel tuo di cavalli agitatore

fratello Iperenòr, quando chiamarmi

il più codardo de' guerrieri achei,

e aspettarmi s'ardì? Ma nol tornaro

i propri piedi alla magion, mi credo,

di molta festa obbietto ai venerandi

suoi genitori e alla diletta sposa.

Farò di te, se innoltri, ora lo stesso.

Ma t'esorto a ritrarti, e pria che qualche

danno ti colga, dilungarti. Il fatto

rende accorto, ma tardi, anche lo stolto.

Disse; e fermo in suo cor l'altro riprese.

Pagami or dunque, o Menelao, del morto

mio fratello la pena e del tuo vanto.

D'una giovine sposa, è ver, tu festi

vedovo il letto, e d'ineffabil lutto

fosti cagione ai genitor; ma dolce

farò ben io di quei meschini il pianto,

se carco del tuo capo e di tue spoglie

in man di Panto e della dìa Frontìde

le deporrò. Non più parole. Il ferro

provi qui tosto chi sia prode o vile.

Ferì, ciò detto, nel rotondo scudo,

ma nol passò, ché nella salda targa

si ritorse la punta. Impeto fece,

Giove invocando, dopo lui l'Atride,

e al nemico, che in guardia si traea,

nell'imo gorgozzul spinta la picca,

ve l'immerge di forza, e gli trafora

il delicato collo. Ei cadde, e sopra

gli tonār l'armi; e della chioma, a quella

delle Grazie simìl, le vaghe anella

d'auro avvinte e d'argento insanguinārsi.

Qual d'olivo gentil pianta nudrita

in lieto d'acque solitario loco

bella sorge e frondosa: il molle fiato

l'accarezza dell'aure, e mentre tutta

del suo candido fiore si riveste,

un improvviso turbine la schianta

dall'ime barbe, e la distende a terra;

tal l'Atride prostese il valoroso

figliuol di Panto Euforbo, e a dispogliarlo

corse dell'armi. Come quando un forte

lïon montano una giovenca afferra

fior dell'armento, co' robusti denti

prima il collo le frange, indi sbranata

le sanguinose viscere n'ingozza:

alto di cani intorno e di pastori

romor si leva, ma nïun s'accosta,

ché affrontarlo non osano compresi

di pallido timor: così nessuno

ardìa de' Teucri al baldanzoso Atride

farsi addosso; e all'ucciso ei tolte l'armi

agevolmente avrìa, se questa lode

gl'invidiando Apollo, incontro a lui

non incitava il marzïale Ettorre.

Di Menta, duce de' Ciconi, ei prese

le sembianze e gridò queste parole:

Ettore, a che del bellicoso Achille,

senza speranza d'arrivarli, insegui

gl'immortali corsieri? Umana destra

mal li doma, e guidarli altri non puote

che Achille, germe d'una Diva. Intanto

il forte Atride Menelao la salma

di Patroclo salvando, a morte ha messo

un illustre Troian, di Panto il figlio,

e ne spense il valor. - Ciò detto, il Dio

ritornò nella mischia. Alto dolore

l'ettòreo petto circondò: rivolse

l'eroe lo sguardo per le file in giro,

e tosto dell'esimie armi veduto

il rapitore, e l'altro al suol giacente

in un lago di sangue, oltre si spinse

scintillante nel ferro come lingua

del vivo fuoco di Vulcano, e mise

acuto un grido. Udillo, e sospirando

nel segreto suo cor disse l'Atride:

Misero che farò? Se queste belle

armi abbandono e di Menèzio il figlio

per onor mio qui steso, alla mia fuga

gli Achei per certo insulteran; se solo,

da pudor vinto, con Ettòr mi provo

e co' suoi forti, io sol da molti oppresso

cadrò, ché tutti il condottier troiano

seco i Teucri ne mena a questa volta.

Ma che dubbia il mio cor? Chi con avversi

numi un guerrier, che sia lor caro, affronta,

corre alla sua ruina. Alcun non fia

dunque de' Greci che con me s'adiri

se davanti ad Ettorre, a lui che pugna

per comando d'un nume, io mi ritraggo.

Pur se avverrà che in qualche parte io trovi

il magnanimo Aiace, entrambi all'armi

ritorneremo allor, pur contra un Dio,

e a sollievo de' mali opra faremo

di trar salvo ad Achille il morto amico.

Mentre tai cose gli ragiona il core,

da Ettore precorse ecco de' Teucri

sopravvenir le schiere. Allora ei cesse,

e il morto abbandonò, gli occhi volgendo

tratto tratto all'indietro, a simiglianza

di giubbato lïon cui da' presepi

caccian cani e pastor con dardi ed urli.

Freme la belva in suo gran core, e parte

mal suo grado dal chiuso: a tal sembianza

da Patroclo partissi il biondo Atride.

Giunto ai compagni, s'arrestò, si volse

cercando in giro collo sguardo il grande

figliuol di Telamone, e alla sinistra

della pugna il mirò, che alla battaglia

animava i suoi prodi a cui poc'anzi

Febo avea messo nelle vene il gelo

d'un divino terror. Corse, e veloce

raggiuntolo gridò: Qua tosto, Aiace,

vola, amico, affrettiamci alla difesa

di Patroclo; serbiamne al divo Achille

il nudo corpo almen, poiché dell'armi

già si fece signor l'altero Ettorre.

Turbār la generosa alma d'Aiace

queste parole: s'avvïò, si spinse

tra i guerrieri davanti, in compagnia

di Menelao. Per l'atra polve intanto

strascinava di Pàtroclo la nuda

salma il duce troiano, onde troncarne

dagli omeri la testa, e far del rotto

corpo ai cani di Troia orrido pasto.

Ma gli fu sopra col turrito scudo

il Telamònio: retrocesse Ettorre

nella torma de' suoi, d'un salto ascese

il cocchio, e le rapite armi famose

dielle ai Teucri a portar nella cittade,

d'alta sua gloria monumento. Allora

coll'ampio scudo ricoprendo il figlio

di Menèzio, fermossi il grande Aiace,

come lïon, cui, mentre al bosco mena

i leoncini, sopravvien la turba

de' cacciatori: si raggira il fiero,

che sente la sua forza, intorno ai figli,

e i truci occhi rivolve, e tutto abbassa

il sopracciglio che gli copre il lampo

delle pupille: a questo modo Aiace

circuisce e protegge il morto eroe.

Dall'altro lato è Menelao cui l'alta

doglia del petto tuttavia ricresce.

De' Licii il condottier Glauco, buon figlio

d'Ippòloco, ad Ettòr volgendo allora

bieco il guardo, con detti aspri il garrisce:

O di viso sol prode, e non di fatto,

Ettore! a torto te la fama estolle,

te sì pronto al fuggir. Pensa alla guisa

di salvar la cittade e le sue rocche

quindi innanzi tu sol colla tua gente,

ché nessuno de' Licii alla salvezza

d'Ilio co' Greci pugnerà, nessuno,

da che teco nessun merto s'acquista

col sempre battagliar contro il nemico.

Sciaurato! e qual dunque avrai tu cura

de' minori guerrier, tu che lasciasti

preda agli Argivi Sarpedon, che mentre

visse, a Troia fu scudo ed a te stesso?

E ti sofferse il cor d'abbandonarlo

allo strazio de' cani? Or se a mio senno

faranno i Licii, partiremci, e tosto;

e d'Ilio apparirà l'alta ruina.

Oh! s'or fosse ne' Troi quella fort'alma,

quell'intrepido ardir che ne' conflitti

scalda gli amici della patria veri,

noi dentr'Ilio trarremmo immantinente

di Patroclo la salma. Ove un cotanto

morto, sottratto dalla calda pugna,

strascinato di Prïamo ne fosse

dentro le mura, renderìan gli Achei

di Sarpedonte le bell'armi e il corpo

pronti a tal prezzo. Perocché l'ucciso

di quel forte è l'amico che di possa

tutti avanza gli Argivi, e schiera il segue

di bellicosi. Ma del fiero Aiace

tu non osasti sostener lo scontro

né lo sguardo fra l'armi, e via fuggisti,

perché minore di valor ti senti.

Con bieco piglio fe' risposta Ettorre:

Perché tale qual sei, Glauco, favelli

così superbo? Io ti credea per senno

miglior di quanti la feconda gleba

della Licia nudrisce. Or veggo a prova

che tu se' stolto, se affermar t'attenti

che d'Aiace lo scontro io non sostenni.

Né la pugna io, no mai, né il calpestìo

de' cavalli pavento, ma di Giove

l'alto consiglio che ogni forza eccede.

Egli in fuga ne mette a suo talento

anche i più prodi, e ne' conflitti or toglie

or dona la vittoria. Orsù, vien meco,

statti, amico, al mio fianco, e vedi al fatto

se quel vile sarò tutto quest'oggi

che tu dicesti, o se saprò l'ardire

di qualunque domar gagliardo Acheo

che del morto s'innoltri alla difesa.

Quindi le schiere inanimando grida:

Teucri, Dardani, Licii, or vi mostrate

uomini, e il petto vi conforti, amici,

dell'antico valor la rimembranza,

mentre l'armi d'Achille, da me tolte

all'ucciso Patroclo, io mi rivesto.

Disse, e corse e raggiunse in un baleno

delle bell'arme i portatori, e date

a recarsi nel sacro Ilio le sue,

fuor del conflitto ed a' suoi prodi in mezzo

le immortali si cinse armi d'Achille,

dono de' numi al genitor Pelèo,

che poi vecchio le cesse al suo gran figlio:

ma il figlio in quelle ad invecchiar non venne.

Come il sommo de' nembi adunatore

del Pelìde indossarsi le divine

armi lo vide, crollò il capo, e seco

nel suo cor favellò: Misero! al fianco

ti sta la morte, e tu nol pensi, e l'armi

ti vesti dell'eroe che de' guerrieri

tutti è il terrore, a cui tu il forte hai spento

mansueto compagno, armi d'eterna

tempra a lui tolte con oltraggio. Or io

d'alta vittoria ti farò superbo,

e compenso sarà del non doverti

Andromaca, al tornar dalla battaglia,

scioglier l'usbergo del Pelìde Achille.

Disse; e l'arco de' negri sopraccigli

abbassando, d'Ettorre alla persona

adattò l'armatura. Al suo contatto

infiammossi l'eroe d'un bellicoso

orribile furor, tutte di forza

sentì inondarsi e di valor le vene.

Degl'incliti alleati, alto gridando,

quindi avvïossi alle caterve, e a tutti

veder sembrava folgorar nell'armi

del magnanimo Achille Achille istesso.

E d'ogni parte ognun riconfortando,

Mestle, Glauco, Tersìloco, Medonte,

Asteropèo, Disènore, Ippotòo,

e Cròmio, e Forci, e l'indovino Ennòmo,

con questi accenti li raccese: Udite,

collegati: non io dalle vicine

cittadi ad Ilio ragunai le vostre

numerose coorti onde di gente

far molta mano, ché mestier non m'era;

ma perché meco da' feroci Achei

le teucre spose ne servaste e i figli

con pronti petti. Di tributi io gravo

in questo intendimento il popol mio

per satollarvi. Dover vostro è dunque

voltar dritta la fronte all'inimico,

e o salvarsi o perir, ché della guerra

questo è il commercio. A chi di voi costringa

Aiace in fuga, e de' Troiani al campo

tragga il morto Patròclo, a questi io cedo

la metà delle spoglie, e andrà divisa

egual con esso la mia gloria ancora.

Al fin delle parole alzār le lance

tutti, e al nemico s'addrizzār di punta

con grande in core di strappar speranza

dalle mani del gran Telamonìde

il morto: folli! ché sul morto istesso

quell'invitto dovea farne macello.

Allor rivolto Aice al battagliero

Menelao, così disse: Illustre Atride,

caro alunno di Giove, assai pavento

ch'or salvi usciamo dell'acerba pugna.

Né sì tem'io per Patroclo, che parmi

del suo corpo farà tosto di Troia

sazi i cani e gli augei, quanto pel mio

e pel tuo capo un qualche sconcio: vedi

quella nube di guerra che già tutto

ricopre il campo? D'Ettore son quelle

le falangi, e su noi pende una grave

manifesta rovina. Orsù de' Greci,

se udir ti ponno, i più valenti appella.

Non fe' niego il guerriero, e a tutta gola

gridava: Amici, capitani achei,

quanti alle mense degli Atridi in giro

propinate le tazze, ed onorati

dal sommo Giove i popoli reggete;

nell'ardor della zuffa il guardo mio

non vi distingue, ma chiunque ascolta

deh corra, e sdegno il prenda che Patròclo

ludibrio resti delle frigie belve.

Aiace, d'Oilèo veloce figlio,

udillo, e primo per la mischia accorse;

Idomenèo dop'esso e Merïone

in sembianza di Marte. E chi di tutti,

che poi la pugna rintegrār, potrìa

dire i nomi al pensier? Primieri i Teucri

stretti insieme fêr impeto, precorsi

dal grande Ettorre. Come quando all'alta

foce d'un fiume che da Giove è sceso,

freme ritroso alla corrente il flutto

eruttato dal mar: mugghian con vasto

rimbombo i lidi: simigliante a questo

fu de' Teucri il clamor. Dall'altro lato

tutti d'un cor con assiepati scudi

gli Achei fêr cerchio di Menèzio al figlio,

e il Saturnio dintorno ai rilucenti

elmi un'atra caligine spandea,

ché d'Achille l'amico il Dio dilesse,

mentre fu vivo, e ch'egli or sia di fiere

orrido cibo sofferir non puote.

A pugnar quindi per la sua difesa

i compagni eccitò. Nel primo cozzo

i Troiani respinsero gli Achivi

che sbigottiti abbandonār l'estinto;

né i Troiani però, benché bramosi,

dieder morte a verun, solo badando

a predar il cadavere; ma presto

si raccostār gli Achei, ché il grande Aiace,

e d'aspetto e di forze il più prestante

sovra tutti gli Achei dopo il Pelìde,

tostamente voltar fronte li fece.

Tra gl'innanzi l'eroe quindi si spinse,

pari ad ispido verro alla montagna,

che con sùbita furia si converte

fra le roste, e sbaraglia de' gagliardi

cacciatori la turba e de' molossi:

così di Telamon l'esimio figlio

de' Troiani disperde le falangi

che a Patroclo fan calca, e strascinarlo

si studiano in trïonfo entro le mura.

Illustre germe del Pelasgo Leto,

Ippòtoo gli avea d'un saldo cuoio

ai nervi del tallon l'un piede avvinto,

e di mezzo al ferir de' combattenti

per la sabbia il traea, grato sperando

farsi ad Ettorre ed ai Troiani; ed ecco

giungergli un danno che nessun, quantunque

desideroso, allontanar gli seppe.

Fra la turba avventossi, e su le guance

dell'elmo Aiace disserrògli un colpo

che tutto lo spezzò: tanto dell'asta

fu il picchio e tanto della mano il pondo.

Schizzār per l'aria le cervella e il sangue

dall'aperta ferita, e tosto a lui

quetārsi i polsi; dalle man gli cadde

del morto il piede, e sovra il morto ei pure

boccon cadde e spirò lungi dai campi

di Larissa fecondi: né poteo

dell'averlo educato ai genitori

rendere il premio, perocché d'Aiace

la gran lancia fe' brevi i giorni suoi.

Contro Aiace l'acuta asta allor trasse

Ettore; e l'altro, visto l'atto, alquanto

dechinossi, e schivolla. Era di costa

Schedio, d'Ifito generoso figlio,

fortissimo Focense che sua stanza,

di molta gente correttor, tenea

nell'inclita Panòpe. A mezza gola

colpillo, e tutta al sommo della spalla

la ferrea punta gli passò la strozza.

Cadde il trafitto con fragore, e cupo

s'udì dell'armi il tuon sopra il suo petto.

Aiace di rincontro in mezzo all'epa

di Fenòpo il figliuol Forci percosse,

forte guerrier che messo alla difesa

d'Ippòtoo s'era. Il furioso ferro

ruppe l'incavo del torace, ed alto

ne squarciò gl'intestini. Ei cadde, e strinse

colla palma il terren. Dier piega allora

i primi in zuffa, ripiegossi ei pure

l'illustre Ettorre, e con orrende grida

d'Ippòtoo e Forci strascinār gli Argivi

le morte salme, e le spogliār. Compresi

di viltade i Troiani, e dalle greche

lance incalzati allor verso le rocche

sarìan d'Ilio fuggiti, e avrìan gli Argivi

contro il decreto del tonante Iddio

in lor solo valor vinta la pugna,

se Apollo a tempo la virtù d'Enea

non ridestava. Le sembianze ei prese

dell'Epitide araldo Perifante,

che in tale officio a molta età venuto

del vecchio Anchise nelle case, istrutta

di fedeli consigli avea la mente.

Così cangiato, a lui disse il divino

figlio di Giove: Enea, l'eccelsa Troia

contro il volere degli Dei periglia.

Ché non la cerchi di salvar? l'esemplo

ché non imiti degli eroi ch'io vidi

d'ogni cimento trïonfar, fidàti

nel valor, nell'ardir, nella fortezza

del proprio petto e delle molte schiere

che li seguìano, invitte alla paura?

Più che agli Achivi, a noi Giove per certo

consente la vittoria; ma chi fugge

trepido e schiva di pugnar, la perde.

Fisse a tai detti Enea lo sguardo in viso

al saettante nume, e lo conobbe;

e d'Ettore alla volta alzando il grido,

Ettore, ei disse, e voi degli alleati

capitani e de' Teucri, oh qual vergogna

s'or per nostra viltà domi dal ferro

de' bellicosi Achei risaliremo

d'Ilio le mura! Un Dio m'apparve, e disse

che l'arbitro dell'armi eterno Giove

ne difende. Corriam dunque diritto

all'inimico, e almen non sia che il morto

Patroclo ei seco ne trasporti in pace.

Al fin delle parole innanzi a tutta

la prima fronte si sospinse, e stette.

Si conversero i Teucri, ed agli Achei

mostrār la faccia arditamente. Allora

coll'asta Enea Leòcrito figliuolo

d'Arisbante ferì, forte compagno

di Licomede che al caduto amico

pietoso accorse, e fattosi vicino

fermossi, e la fulgente asta vibrando

d'Ippaso il figlio Apisaon percosse

nell'èpate di sotto alla corata,

e l'atterrò. Venuto era costui

dalla fertil Peònia; ed era in guerra

il più valente dopo Asteropèo.

Sentì pietade del caduto il forte

Asteròpeo; e di zuffa desïoso

si scagliò tra gli Achei. Ma degli scudi

e dell'aste protese ei non potea

rompere il cerchio che Patròclo serra.

E Aiace intorno s'avvolgendo, a tutti

molti dava comandi, e non patìa

che alcun dal morto allontanasse il piede,

o fuor di fila ad azzuffarsi uscisse;

ma fea precetto a ciaschedun di starsi

saldi al suo fianco, e battagliar dappresso.

Tal dell'enorme Aiace era il volere,

e tutta in rosso si tingea la terra.

Teucri, Argivi, alleati alla rinfusa

cadon trafitti: ché neppur gli Argivi

senza sangue combattono, ma n'esce

minor la strage, perocché l'un l'altro

nel travaglio fatal si porge aita.

Così qual vasto incendio arde il conflitto;

e del Sol detto avresti e della Luna

spento il chiaror; cotanta era sul campo

l'atra caligo che dintorno al morto

Patroclo il fiore de' guerrier coprìa,

mentre l'un'oste e l'altra a ciel sereno

libera altrove combattea. Su questi

puro si spande della luce il fiume:

nessuna nube al pian, nessuna al monte.

Così la pugna ha i suoi riposi, e molto

spazio correndo tra i pugnanti, ognuno

dalle mutue si scherma aspre saette.

Ma cotesti di mezzo hanno travaglio

dall'armi a un tempo e dalla nebbia, e il ferro

i più prestanti crudelmente offende.

Sol due guerrieri non avean per anco

del buon Patròclo la ria morte udita,

due guerrier glorïosi, Trasimède

e Antìloco: ma vivo e tuttavolta

alle mani il credean co' Teucri al centro

della battaglia. E intanto essi la strage

de' compagni veduta e la paura,

pugnavano in disparte, e come imposto

fu lor dal padre, dalle negre navi

tenean lontano le nemiche offese.

Ma il conflitto maggior ferve dintorno

al valoroso del Pelìde amico,

terribile conflitto, e senza posa

fino al tramonto della luce. A tutti

dissolve la stanchezza e gambe e piedi

e ginocchia; il sudore a tutti insozza

e le mani e la faccia; e quale, allora

che a robusti garzoni il coreggiaio

la pingue pelle a rammollir commette

di gran tauro; disposti essi in corona

la stirano di forza; immantinente

l'umidor ne distilla, e l'adiposo

succo le fibre ne penètra, e tutto

a quel molto tirar si stende il cuoio:

tale in piccolo spazio i combattenti

gareggiando traean da opposti lati

il cadavere, questi nella speme

di strascinarlo entro le mura, e quelli

alle concave navi. Ognor più fiera

sull'estinto sorgea quindi la zuffa,

tal che Marte dell'armi eccitatore

nel vederla e Minerva anche nell'ira

commendata l'avrìa. Tanta in quel giorno

di cavalli e d'eroi Giove diffuse

sul corpo di Patròclo aspra contesa.

Né ancor del morto amico al divo Achille

giunt'era il grido: perocché di molto

dalle navi lontana ardea la pugna

sotto il muro troian; né in suo pensiero

di tal danno cadea pure il sospetto.

Spera egli anzi che dopo aver trascorso

fino alle porte, ei torni illeso indietro:

né ch'ei possa atterrar d'Ilio le mura

senza sé né con sé punto s'avvisa,

ché del contrario l'alma genitrice

fatto certo l'avea quando in segreto

a lui di Giove riferìa la mente;

e il fiero caso occorso, la caduta

del suo diletto amico ora gli tacque.

In questo d'abbassate aste lucenti

e di cozzi e di stragi alto trambusto

su quell'esangue, dalla parte achea

gridar s'udìa: Compagni, è perso il nostro

onor se indietro si ritorna. A tutti

s'apra piuttosto qui la terra; è meglio

ir nell'abisso, che ai Troiani il vanto

lasciar di trarre in Ilio una tal preda.

E di rincontro i Troi: Saldi, o fratelli,

niun s'arretri, per dio! dovesse il fato

qui su l'estinto sterminarci tutti.

Così d'ambe le parti ognuno infiamma

il vicino, e combatte. Il suon de' ferri

pe' deserti dell'aria iva alle stelle.

D'Achille intanto i corridor, veduto

il loro auriga dall'ettòrea lancia

nella polve disteso, allontanati

dalla pugna piangean. Di Dïorèo

il forte figlio Automedonte invano

or con presto flagello, ora con blande

parole, ed ora con minacce al corso

gli stimola. Ostinati essi né vonno

alla riva piegar dell'Ellesponto,

né rïentrar nella battaglia. Immoti

come colonna sul sepolcro ritta

di matrona o d'eroe, starsi li vedi

giunti al bel carro colle teste inchine,

e dolorosi del perduto auriga

calde stille versar dalle palpebre.

Per lo giogo diffusa al suol cadea

la bella chioma, e s'imbrattava. Il pianto

ne vide il figlio di Saturno, e tocco

di pietà scosse il capo, e così disse:

O sventurati! perché mai vi demmo

ad un mortale, al re Pelèo, non sendo

voi né a morte soggetti né a vecchiezza?

Forse perché partecipi de' mali

foste dell'uomo di cui nulla al mondo,

di quanto in terra ha spiro e moto, eguaglia

l'alta miseria? Ma non fia per certo

che da voi sia portato e da quel cocchio

il Prïāmide Ettorre: io nol consento.

E non basta che l'armi ei ne possegga,

e gran vampo ne meni? Or io nel petto

metterovvi e ne' piè forza novella,

onde fuor della mischia a salvamento

adduciate alle navi Automedonte.

Ch'io son fermo di far vittorïosi

per anco i Teucri insin che fino ai legni

spingan la strage, e il Sol tramonti, e il sacro

velo dell'ombre le sembianze asconda.

Così detto, spirò tale un vigore

ne' divini corsier, che dalle chiome

scossa la polve, in un balen portaro

fra i Teucri il cocchio e fra gli Achei. Sublime

combatteva su questo Automedonte,

benché dolente del compagno; e a guisa

d'avoltoio fra timidi volanti

stimolava i cavalli. Ed or lo vedi

ratto involarsi dai nemici, ed ora

impetuoso ricacciarsi in mezzo,

e le turbe inseguir: ma di lor nullo

nel suo corso uccidea, ché solo in cocchio

assalir colla lancia e de' cavalli

reggere a un tempo non potea le briglie.

Videlo alfine un suo compagno, il figlio

dell'Emònio Laerce Alcimedonte,

che dietro al cocchio si lanciò gridando:

Automedonte, e qual de' numi il senno

ti tolse, e il vano t'ispirò consiglio

d'assalir solo de' Troian la fronte?

Il tuo compagno è spento, e l'esultante

Ettore l'armi del Pelìde indossa.

E a lui di Dïorèo l'inclita prole:

Alcimedonte, l'indole di questi

sempiterni corsieri, e di domarli

l'arte, chi meglio tra gli Achei l'intende

di te dopo Patròclo in sin che visse?

Or che questo de' numi emulo giace,

tu prenditi la sferza e le lucenti

briglie, ch'io scendo a guerreggiar pedone.

Spiccò sul cocchio un salto a questo invito

Alcimedonte, ed alla man diè tosto

il flagello e le guide, e l'altro scese.

Avvisossene Ettorre, ed al propinquo

Enea rivolto, I destrier scorgo, ei disse,

del Pelìde tornar nella battaglia

con fiacchi aurighi. Enea, se mi secondi

col tuo coraggio, que' destrier son presi.

Non sosterran costoro il nostro assalto,

né di far fronte s'ardiran. - Sì disse,

né all'invito fu lento il valoroso

germe d'Anchise. S'avvïār diretti

e rinchiusi ambiduo nelle taurine

aride targhe che di molto ferro

splendean coperte. Mossero con essi

Cròmio ed Arèto di beltà divina,

con grande entrambi di predar speranza

que' superbi corsieri, e al suol trafitti

lasciarne i reggitor. Stolti! ché l'asta

d'Automedonte sanguinosa avrìa

lor preciso il ritorno. Egli, invocato

Giove, nell'imo si sentì del petto

correr la forza e l'ardimento. Quindi

all'amico drizzò queste parole:

Alcimedonte, non tener lontani

dal mio fianco i destrier: fa ch'io ne senta

l'anelito alle spalle. Al suo furore

Ettore modo non porrà, mi penso,

se pria d'Achille in suo poter non mette

i chiomati destrier, noi due trafitti,

e sbaragliate degli Achei le file;

o se tra' primi ei pur freddo non cade.

Agli Aiaci, ciò detto, e a Menelao

ei grida: Aiaci, Menelao, lasciate

ai più prodi del morto la difesa,

e il rintuzzar gli ostili assalti; e voi

qua correte a salvar noi vivi ancora.

I due più forti eroi troiani, Ettorre

ed Enea, furibondi a lagrimosa

pugna vêr noi discendono. L'evento

su le ginocchia degli Dei s'asside.

Sia qual vuolsi, farò di lancia un colpo

io pur: del resto avrà Giove il pensiero.

Sì dicendo, e la lunga asta vibrando,

ferì d'Arèto nel rotondo scudo,

cui tutto trapassò speditamente

le ferrea punta, e traforato il cinto,

l'imo ventre gli aperse. A quella guisa

che robusto garzon, levata in alto

la tagliente bipenne, fra le corna

di bue selvaggio la dechina, e tutto

tronco il nervo, la belva morta cade:

tal, dato un salto, supin cadde Arèto,

e tra le rotte viscere l'acuta

asta tremando gli rapì la vita.

Fe' contra Automedonte Ettore allora

la sua lancia volar; ma visto il colpo,

quegli curvossi, e la schivò. Gli rase

le terga il telo, e al suol piantossi; il fusto

tremonne, e quivi ogn'impeto consunto,

la valid'asta s'acchetò. Qui tratte

le fiere spade a più serrato assalto

i due prodi venìan, se quegli ardenti

spirti repente non spartìan gli Aiaci

d'Automedonte accorsi alla chiamata.

Venir li vide fra la turba Ettorre,

e con Cròmio di nuovo e con Enea

paventoso arretrossi, il lacerato

giacente Arèto abbandonando. Corse

sull'esangue il veloce Automedonte,

dispogliollo dell'armi, e glorïando

gridò: Non vale costui certo il figlio

di Menèzio; ma pur del morto eroe

questo ucciso mi tempra alquanto il lutto.

Sì dicendo, gittò le sanguinose

spoglie sul carro, e tutto sangue ei pure

mani e piè, vi salìa pari a lïone

che, divorato un toro, si rinselva.

Affannosa, arrabbiata e lagrimosa

sovra la salma di Patròclo intanto

si rinforza la pugna, e la raccende

Palla Minerva, ad animar gli Achivi

dall'Olimpo discesa; e la spedìa

cangiato di pensiero il suo gran padre.

Come quando dal ciel Giove ai mortali

dell'Iride dispiega il porporino

arco, di guerra indizio o di tempesta,

che tosto de' villani alla campagna

rompe i lavori, e gli animai contrista:

tal di purpureo nembo avviluppata

insinuossi fra gli Achei la Diva

eccitando ogni cor. Prima il vicino

minore Atride a confortar si diede,

e la voce sonora e la sembianza

di Fenice prendendo, così disse:

Se sotto Troia sbraneranno i cani

dell'illustre Pelìde il fido amico,

tua per certo fia l'onta, o Menelao,

e tuo lo scorno. Orsù tien forte, e tutti

a ben le mani oprar sprona gli Achei.

Veglio padre Fenice, gli rispose

l'egregio Atride, a Pallade piacesse

darmi forza novella, e dagli strali

preservarmi; e farei per la tutela

di Patroclo ogni prova. Il cor mi tocca

la sua caduta: ma l'ardente orrenda

forza d'Ettor n'è contra; ei dalla strage

mai non rimansi, e d'onor Giove il copre.

Gioì Minerva dell'udirsi, pria

d'ogni altro iddio, pregata; ed alla destra

polso gli aggiunse e al piede, e dentro il petto

l'ardir gli mise dell'impronta mosca

che, ognor cacciata, ognor ritorna e morde

ghiotta di sangue. Di cotal baldanza

pieno il torbido cor, ratto a Patròclo

appressossi, e scagliò la fulgid'asta.

Era fra' Teucri un certo Pode, un ricco

d'Eezïone valoroso figlio

in alto onor per Ettore tenuto,

e suo diletto commensal. Lo colse

il biondo Atride nella cinta in quella

ch'ei la fuga prendea. Passollo il ferro

da parte a parte, e con fragor lo stese.

Mentre vola sul morto, e a' suoi lo tragge

l'altero vincitor, calossi Apollo

d'Ettore al fianco, ed il sembiante assunto

dell'Asìade Fenòpo a lui diletto

ospite un tempo, e abitator d'Abido,

questa rampogna gli drizzò: Chi fia

che tra gli Achivi in avvenir ti tema,

se un Menelao ti fuga e ti spaventa,

un Menelao finor tenuto in conto

di debile guerriero, e ch'or da solo

di mezzo ai Teucri via si porta il fido

tuo compagno da lui tra i primi ucciso,

Pode io dico figliuol d'Eezïone?

Un negro di dolor velo coperse

a quell'annunzio dell'eroe la fronte.

Corse ei tosto a cacciossi innanzi a tutti

folgorante nell'armi. Allor di nubi

tutta fasciando la montagna idèa,

Giove in man la fiammante egida prese,

la scosse, e fra baleni orrendamente

tonando, ai Teucri di vittoria il segno

diè tosto, e sparse fra gli Achei la fuga.

Primo a fuggir fu de' Beoti il duce

Penelèo, di leggier colpo di lancia

ferito al sommo della spalla, mentre

tenea volta la fronte; il ferro acuto

lo graffiò fino all'osso, e il colpo venne

dalla man di Polìdama che sotto

gli si fece improvviso. Ettore poscia

al carpo della man colse Leìto

germe del prode Alettrïone, e il fece

dalla pugna cessar. Si volse in fuga

guatandosi dintorno sbigottito

il piagato guerrier, né più sperava

poter col telo nella destra infisso

combattere co' Troi. Mentre si scaglia

contra Leìto il feritor, gli spinge

Idomenèo dappresso alla mammella

nell'usbergo la picca: ma si franse

alla giuntura della ferrea punta

il frassino, e n'urlār di gioia i Teucri.

Rispose al colpo Ettorre, e il Deucalìde

stante sul carro saettò. D'un pelo

lo fallì; ma Ceran, scudiero e auriga

di Merïon, colpìo. Venuto egli era

dalla splendida Litto in compagnia

di Merïone che di questa guerra

al cominciar, sue navi abbandonando,

venne ad Ilio pedone, e di sua morte

avrìa qui fatto glorïosi i Teucri,

se co' pronti destrieri in suo soccorso

non accorrea Cerano. Ei del suo duce

campò la vita, ma la propria perse

per le mani d'Ettòr. L'asta al confine

della gota lo giunse e dell'orecchia,

e conquassògli le mascelle, e mezza

la lingua gli tagliò. Cadde dal carro

quell'infelice: abbandonate al suolo

si diffuser le briglie, che veloce

curvo da terra Merïon raccolse,

e volto a Idomenèo: Sferza, gli grida,

sferza, amico, i cavalli, e al mar ti salva,

ché per noi persa, il vedi, è la battaglia.

Sì disse, e l'altro costernato ei pure

verso le navi flagellò le groppe

de' chiomati destrier. Scorsero anch'essi

il magnanimo Aiace e Menelao,

che Giove ai Teucri concedea l'onore

dell'alterna vittoria; onde proruppe

in questi accenti il gran Telamonìde:

Anche uno stolto, per mia fé, vedrìa

che pe' Teucri sta Giove: ogni lor strale,

sia vil, sia forte il braccio che lo spinge,

porta ferite, e il Dio li drizza. I nostri

van tutti a vōto. Nondimen si pensi

qualche sano partito, un qualche modo

di salvar quell'estinto, e di tornarci

salvi noi stessi a rallegrar gli amici,

che con gli sguardi qua rivolti e mesti

stiman che lungi dal poter le invitte

mani d'Ettorre sostener, noi tutti

cadrem morti alle navi. Oh fosse alcuno

qui che ratto portasse al grande Achille

del periglio l'avviso! A lui, cred'io,

ancor non giunse dell'ucciso amico

la funesta novella; e tra gli Achei

ancor non veggo al doloroso officio

acconcio ambasciator, tanta nasconde

caligine i cavalli e i combattenti.

Giove padre, deh togli a questo buio

i figli degli Achei, spandi il sereno,

rendi agli occhi il vedere, e poiché spenti

ne vuoi, ci spegni nella luce almeno.

Così pregava. Udillo il padre, e visto

il pianto dell'eroe, si fe' pietoso,

e, rimossa la nebbia, in un baleno

il buio dissipò. Rifulse il Sole,

e tutta apparve la battaglia. Aiace

disse allora all'Atride: Or guarda intorno,

diletto Menelao, vedi se trovi

di Nestore ancor vivo il forte figlio

Antìloco, e di volo al grande Achille

nunzio del fato del suo caro il manda.

Mosse pronto a quei detti il generoso

Atride, e s'avvïò come lïone

che il bovile abbandona lasso e stanco

d'azzuffarsi co' veltri e co' pastori

tutta la notte vigilanti, e il pingue

lombo de' tori a contrastargli intesi.

Avido delle carni egli di fronte

tuttavolta si slancia, e nulla acquista;

ché dalle ardite mani una ruina

gli vien di strali addosso e di facelle,

dal cui lustro atterrito egli rifugge,

benché furente, finché mesto alfine

sul mattin si rimbosca. A questa guisa

di mal cuore da Pàtroclo si parte

il bellicoso Menelao, la tema

seco portando che gli Achei, compresi

di soverchio terror, preda al nemico

nol lascino fuggendo. Onde con molti

preghi agli Aiaci e a Merïon rivolto:

Duci argivi, dicea, deh vi sovvenga

quanto fu bello il cor dell'infelice

Pàtroclo, e come mansueto ei visse:

ahi! visse; e in braccio alla ria Parca or giace.

Partì, ciò detto, riguardando intorno

com'aquila che sopra ogni volante

aver acuta la pupilla è grido,

e che dall'alte nubi infra le spesse

chiome de' cespi discoperta avendo

la presta lepre, su lei piomba, e ratto

la ghermisce e l'uccide. E tu del pari,

o da Giove educato illustre Atride,

d'ogni parte volgevi i fulgid'occhi

fra le turbe de' tuoi, vivo spïando

di Nestore il buon figlio. Alla sinistra

alfin lo vide della pugna in atto

di far cuore ai compagni e rinfiammarli

alla battaglia. Gli si fece appresso,

e con ratto parlar: Vieni, gli disse,

vieni, Antìloco mio: t'annunzio un fiero

doloroso accidente, e oh! mai non fosse

intervenuto. Un Dio, tu stesso il senti,

i Dànai strugge, e i Teucri esalta: è morto

un fortissimo Acheo ch'alto ne lascia

desiderio di sé, morto è Patròclo.

Corri, avvisa il Pelìde, e fa che voli

a trarne in salvo il nudo corpo: l'armi

già venute in balìa sono d'Ettorre.

All'annunzio crudel muto d'orrore

Antìloco restò: di pianto un fiume

gli affogò le parole, e nondimeno,

l'armi in fretta rimesse al suo compagno

Laòdoco che fido a lui dappresso

i destrier gli reggea, corse d'Atride

il cenno ad eseguir. Piangea dirotto,

e volava l'eroe fuor della pugna

nunzio ad Achille della rea novella.

Del dipartir d'Antìloco dolenti

e bramose di lui le pilie schiere

in periglio restār; né tu potendo

dar loro aita, o Menelao, mettesti

alla lor testa il generoso duce

Trasimède, e di nuovo alla difesa

del morto eroe tornasti; e degli Aiaci

giunto al cospetto, sostenesti il piede,

e dicesti: Alle navi io l'ho spedito

verso il Pelìde: ma ch'ei pronto or vegna,

benché crucciato con Ettòr, nol credo;

ché per conto verun non fia ch'ei voglia

pugnar co' Teucri disarmato. Or dunque

la miglior guisa risolviam noi stessi

di sottrarre al furor dell'inimico

quell'estinto, e campar le proprie vite.

Saggio parlasti, o Menelao, rispose

il grande Aiace Telamònio. Or tosto

tu dunque e Merïon sotto all'esangue

mettetevi, e sul dosso alto il portate

fuor del tumulto: frenerem da tergo

noi de' Troiani e d'Ettore l'assalto,

noi che pari di nome e d'ardimento

la pugna uniti a sostener siam usi.

Disse; e quelli da terra alto levaro

il morto tra le braccia. A cotal vista

urlò la troica turba, e difilossi

furibonda, di cani a simiglianza

che precorrendo i cacciator s'avventano

a ferito cinghial, desiderosi

di farlo in brani: ma se quei repente

di sua forza securo in lor converte

l'orrido grifo, immantinente tutti

dan volta e per terror piglian la fuga

chi qua spersi, chi là: tali i Troiani

inseguono attruppati il fuggitivo

stuol, coll'aste il pungendo e colle spade.

Ma come rivolgean fermi sul piede

gli Aiaci il viso, di color cangiava

l'inseguente caterva, e non ardìa

niun farsi avanti, e disputar l'estinto,

che di mezzo al conflitto audacemente

venìa portato da quei forti al lido,

benché fiera su lor cresca la zuffa.

Come fuoco che involve all'improvviso

popolosa cittade, e ruinosi

sparir fa i tetti nella vasta fiamma,

che dal vento agitata esulta e rugge;

tale alle spalle dell'acheo drappello

de' guerrieri incalzanti e de' cavalli

rimbombava il tumulto. E a quella guisa

che per aspero calle giù dal monte

traggon due muli di robusta lena

o trave o antenna da volar sull'onda,

e di sudore infranti e di fatica

studian la via: del par que' due gagliardi

portavano affannati il tristo incarco

difesi a tergo dagli Aiaci. E quale

steso in larga pianura argin selvoso

de' fiumi affrena il vïolento corso,

e respinta devolve per lo chino

l'onda furente che spezzar nol puote;

così gli Aiaci l'irruente piena

rispingono de' Troi che tuttavolta

gl'inseguono ristretti, Enea tra questi

principalmente e il non mai stanco Ettorre.

Con quell'alto stridor che di mulacchie

fugge una nube o di stornei vedendo

venirsi incontro lo sparvier che strage

fa del minuto volatìo; con tali

acute grida innanzi alla ruina

de' due troiani eroi fuggìa dispersa

la turba degli Achei, posto di pugna

ogni pensier. Di belle armi, cadute

ai fuggitivi, ingombra era la fossa

e della fossa il margo; e il faticoso

lavor di Marte non avea respiro.

 

 

LIBRO DECIMOTTAVO

 

 

Tutta così qual fiamma arde la pugna.

Veloce messaggier correa frattanto

Antìloco ad Achille. Anzi all'eccelse

sue navi il trova, che nel cor già volge

l'accaduto disastro, e nel segreto

della grand'alma sospirando, dice:

Perché di nuovo, ohimè! verso le navi

fuggon gli Achivi con tumulto, e vanno

spaventati pel campo? Ah! non mi cómpia

l'ira de' numi la crudel sventura

che un dì la madre profetò, narrando

che, me vivente ancor, de' Mirmidóni

il più prode guerrier dai Teucri ucciso

del Sol la luce abbandonato avrìa.

Ah! certo di Menèzio il forte figlio

morì. Infelice! E pur gl'imposi io stesso

che risospinta la nemica fiamma

ritornasse alle navi, e con Ettorre

cimentarsi in battaglia oso non fosse.

In questo rio pensier l'aggiunse il figlio

di Nestore piangendo, e, Ohimè! gli disse,

magnanimo Pelìde; una novella

tristissima ti reco, e che nol fosse

oh piacesse agli Dei! Giace Patròclo;

sul cadavere nudo si combatte;

nudo; ché l'armi n'ha rapito Ettorre.

Una negra a que' detti il ricoperse

nube di duol; con ambedue le pugna

la cenere afferrò, giù per la testa

la sparse, e tutto ne bruttò il bel volto

e la veste odorosa. Ei col gran corpo

in grande spazio nella polve steso

giacea turbando colle man le chiome

e stracciandole a ciocche. Al suo lamento

accorsero d'Achille e di Patròclo

l'addolorate ancelle, e con alti urli

si fêr dintorno al bellicoso eroe

percotendosi il seno, e ciascheduna

sentìa mancarsi le ginocchia e il core.

Dall'altra parte Antìloco pietoso

lagrimando dirotto, e di cordoglio

spezzato il petto rattenea d'Achille

le terribili mani, onde col ferro

non si squarciasse per furor la gola.

Udì del figlio l'ululato orrendo

la veneranda Teti che del mare

sedea ne' gorghi al vecchio padre accanto.

Mise un gemito, e tutte a lei dintorno

si raccolser le Dee, quante ne serra

il mar profondo, di Nerèo figliuole

Glauce, Talìa, Cimòdoce, Nesea

e Spio vezzosa e Toe ed Alie bella

per bovine pupille, e la gentile

Cimòtoe ed Attea: quindi Melìte

e Limnòria e Anfitòe, Jera ed Agave,

Doto, Proto, Ferusa e Dinamena

e Desamena ed Amfinòma e seco

Callïanìra e Dori e Panopea,

e sovra tutte Galatea famosa;

v'era Apseude e Nemerte e con Janira

Callïanassa ed Ïanassa; alfine

l'alma Climene, e Mera ed Oritìa

ed Amatea dall'auree trecce, ed altre

Nerėidi dell'onda abitatrici.

Tutto di lor fu pieno in un momento

il cristallino speco, e tutte insieme

batteansi il petto, allorché Teti in mezzo

tal diè principio al lamentar: Sorelle,

m'udite, e quanto è il mio dolor vedete.

Ohimè misera! ohimè madre infelice

di fortissima prole! Io generai

un valoroso incomparabil figlio,

il più prestante degli eroi: lo crebbi,

lo coltivai siccome pianta eletta

in fertile terren: poscia ne' campi

d'Ilio lo spinsi su le navi io stessa

a pugnar co' Troiani. Ahi che m'è tolto

l'abbracciarlo tornato alla paterna

reggia! e finch'egli all'amor mio pur vive,

fin che gli è dato di fruir la luce,

di tristezza si pasce; ed io, comunque

a lui mi rechi, sovvenir nol posso.

Nondimeno v'andrò, del caro figlio

vedrò l'aspetto, e intenderò qual duolo

dalla guerra lontano il cor gl'ingombra.

Uscì, ciò detto, dallo speco, e quelle

piangendo la seguīr: l' onda ai lor passi

riverente s'aprìa. Come di Troia

attinsero le rive, in lunga fila

emersero sul lido ove frequenti

le mirmidònie antenne in ordinanza

facean selva e corona al grande Achille.

A lui che in gravi si struggea sospiri

la diva madre s'appressò, proruppe

in acuti ululati, ed abbracciando

l'amato capo, e lagrimando, disse:

Figlio, che piangi? Che dolore è questo?

Nol mi celar, deh parla. A compimento

mandò pur Giove il tuo pregar: gli Achivi

son pur, siccome supplicasti, astretti

ripararsi alle navi, e del tuo braccio

aver mestiero, di sciagure oppressi.

Con un forte sospir rispose Achille:

O madre mia, ben Giove a me compiacque

ogni preghiera: ma di ciò qual dolce

me ne procede, se il diletto amico,

se Pàtroclo è già spento? Io lo pregiava

sovra tutti i compagni; io di me stesso

al par l'amava, ahi lasso! e l'ho perduto.

L'uccise Ettorre, e lo spogliò dell'armi,

di quelle grandi e belle armi, a vedersi

maravigliose, che gli eterni Dei,

dono illustre, a Pelèo diero quel giorno

che te nel letto d'un mortal locaro.

Oh fossi tu dell'Oceàn rimasta

fra le divine abitatrici, e stretto

Pelèo si fosse a una mortal consorte!

Ché d'infinita angoscia il cor trafitto

or non avresti pel morir d'un figlio

che alle tue braccia nel paterno tetto

non tornerà più mai, poiché il dolore

né la vita né d'uom più mi consente

la presenza soffrir, se prima Ettorre

dalla mia lancia non cade trafitto,

e di Patròclo non mi paga il fio.

Figlio, nol dir (riprese lagrimando

la Dea), non dirlo, ché tua morte affretti:

dopo quello d'Ettòr pronto è il tuo fato.

Lo sia (con forte gemito interruppe

l'addolorato eroe), si muoia, e tosto,

se giovar mi fu tolto il morto amico.

Ahi che lontano dalla patria terra

il misero perì, desideroso

del mio soccorso nella sua sciagura.

Or poiché il fato riveder mi vieta

di Ftia le care arene, ed io crudele

né Pàtroclo aitai né gli altri amici

de' quai molti domò l'ettòrea lancia,

ma qui presso le navi inutil peso

della terra mi seggo, io fra gli Achei

nel travaglio dell'armi il più possente,

benché me di parole altri pur vinca,

pera nel cor de' numi e de' mortali

la discordia fatal, pera lo sdegno

ch'anco il più saggio a inferocir costrigne,

che dolce più che miel le valorose

anime investe come fumo e cresce.

Tal si fu l'ira che da te mi venne,

Agamennón. Ma su l'andate cose,

benché ne frema il cor, l'obblìo si sparga,

e l'alme in sen necessità ne domi.

Del caro capo l'uccisore Ettorre

or si corra a trovar; poi quando a Giove

e agli altri Eterni piacerà mia morte,

venga pur, ch'io l'accetto. Il forte Alcide,

dilettissimo a Giove e suo gran figlio,

Alcide stesso vi soggiacque, domo

dalla Parca e dall'aspra ira di Giuno.

Così pur io, se fato ugual m'aspetta,

estinto giacerò. Questo frattanto

tempo è di gloria. Sforzerò qualcuna

delle spose di Dardano e di Troe

ad asciugar con ambedue le mani

giù per le guance delicate il pianto,

e a trar dal largo petto alti sospiri.

Sappiano alfin che il braccio mio dall'armi

abbastanza cessò; né dalla pugna

tu, madre, mi svïar, ché indarno il tenti.

E a lui la Diva dall'argenteo piede:

Giusta, o figlio, è l'impresa e d'onor degna,

campar da scempio i travagliati amici.

Ma le tue scintillanti armi divine

son fra' Troiani, ed Ettore, quel fiero

dell'elmo crollator, sen fregia il dosso,

e dell'incarco esulta. Ma fia breve,

lo spero, il suo gioir, ché negra al fianco

già l'incalza la Parca. Or tu di Marte

per anco non entrar nel rio tumulto,

se tu qua pria venir non mi riveggia.

Verrò dimani al raggio mattutino,

e recherotti io stessa una forbita

bella armatura di Vulcan lavoro.

Così detto, dal figlio alle sorelle

ripiegò la persona, e, Voi, soggiunse,

rïentrate del mar nell'ampio grembo,

e del marino genitor canuto

rendetevi alle case, e tutto dite

che vedeste ed udiste. Al grande Olimpo

io salgo a ritrovar l'inclito fabbro

Vulcano, e il pregherò che luminose

armi stupende al figlio mio conceda.

Disse; e quelle del mar tosto nell'onde

discesero, e la Dea dal piè d'argento

avvïossi all'Olimpo a procacciarne

al diletto figliuolo armi divine.

Mentr'ella al ciel salìa, con urlo immenso

dal sanguinoso Ettòr cacciati in fuga

giunser gli Achivi delle navi al vallo

e al mugghiante Ellesponto. E non ancora

del compagno achillèo la morta spoglia

al nembo degli strali avean sottratta

gli argolici guerrieri. Un'altra volta

fiero assalto le dava una gran serra

di cavalli e di fanti, e innanzi a tutti

di Prìamo il figlio, l'indefesso Ettorre

che una fiamma parea. Tre volte il prode

per gli piedi il cadavere afferrando

provò di trarlo, e con orrenda voce

i Troiani chiamò: tre volte i due

impetuosi e vigorosi Aiaci

respinserlo dal morto. E nondimeno

saldo e securo in sua fortezza or dentro

nella turba ei s'avventa, ed or s'arresta,

e con gran voce tuttavia pur grida,

né d'un passo s'arretra. E qual di notte

vigilanti pastori alla campagna

da preso tauro allontanar non ponno

affamato lïon; così de' forti

Aiaci la virtù da quell'esangue

dispiccar non potea l'ardito Ettorre.

E l'avrìa tratto alfine e conseguita

immensa gloria, s'Iride veloce,

a Giove occulta e a ogni altro iddio, dall'alto

Olimpo non correa col vento al piede

messaggiera ad Achille; e la spedìa,

per eccitarlo alla battaglia, il cenno

dell'augusta Giunon. Gli parve al fianco

improvvisa la Diva, e questi accenti

fe' dal labbro volar: Sorgi, Pelìde

terribile guerriero, e di Patròclo

il cadavere salva. Intorno a lui

ferve avanti alle navi orrida pugna

con mutue stragi. In sua difesa i Greci

fan che puossi: per trarlo in Ilio i Teucri

s'avventano di punta. Il fiero Ettorre

innanzi a tutti di rapirlo agogna,

bramoso di mozzar dal dilicato

collo il bel capo, e d'un infame tronco

conficcarlo alla cima. Alzati, e pigro

più non giacer. Ti tocchi il cor vergogna

che de' cani di Troia il tuo diletto

debba le sanne trastullar. Se offesa

ne riceve la salma, è tuo lo smacco.

Rispose Achille: E quale a me de' numi

ti manda ambasciatrice, Iri divina?

Mi manda, replicò la Dea veloce,

Giunon, di Giove glorïosa moglie,

né Giove il sa, né verun altro iddio

de' sereni d'Olimpo abitatore.

Come al campo n'andrò, soggiunse Achille,

se in mano di color venner le mie

armi: e che d'armi or io mi cinga il vieta

la cara madre, se lei pria non veggio

da Vulcano tornar, come promise,

di leggiadra armatura apportatrice?

Di qual altra famosa or mi vestire

al bisogno non so, tranne lo scudo

dell'egregio figliuol di Telamone.

Ma pur egli, mi spero, in questo punto

sta combattendo pel mio spento amico.

E a lui di nuovo la taumànzia figlia:

Noto è ben anco a noi che le tue belle

armi or sono d'altrui. Ma su la fossa

anco inerme ti mostra all'inimico.

Lascerà spaventato la battaglia

solo al vederti, e respirar potranno

i travagliati Achei. Salute è spesso

nel calor della pugna un sol respiro.

Così disse, e disparve. In piedi allora

rizzossi Achille amor di Giove, e tutto

coll'egida Minerva il ricoperse.

D'un'aurea nube gli fasciò la fronte,

ed una fiamma dalla nube uscìa,

che dintorno accendea l'aria di luce.

Siccome quando al ciel s'innalza il fumo

d'isolana città, cui d'aspro assedio

cinge il nemico: con orrendo marte

combattono dal muro i cittadini

finché gli alluma il Sol; poi quando annotta,

destan fuochi frequenti alle vedette,

e al ciel ne sbalza uno splendor che manda

ai convicini del periglio il segno,

se per sorte venir con pronte antenne

volessero in aita: a questo modo

dalla testa d'Achille alta alle stelle

quella fiamma salìa. Varcato il muro,

sul primo margo s'arrestò del fosso,

né mischiossi agli Achei, ché della madre

al precetto obbedìa. Lì stando, un grido

mise, e d'un altro da lontan gli fece

eco Minerva, ed un terror ne' Teucri

immenso suscitò. Come sonoro

d'una tuba talor s'ode lo squillo,

quando d'assedio una città serrando

armi grida terribile il nemico,

così chiara d'Achille era la voce.

N'udiro i Teucri il ferreo suono, e a tutti

tremaro i petti; si rizzār sul collo

ai destrieri le chiome, e d'alto affanno

presaghi addietro rivolgean le bighe.

Gli aurighi sbigottīr, vista la fiamma

che da Minerva di repente accesa

orrenda e lunga su la fronte ardea

del magnanimo eroe. Tre volte Achille

dalla fossa gridò: tre volte i Teucri

e i collegati sgominārsi, e dodici

de' più prestanti fra i riversi cocchi

trafitti vi perīr dal proprio ferro.

Pronti intanto gli Achei di sotto ai densi

strali sottratto di Menèzio il figlio,

il locār nella bara, e gli fêr cerchio

lagrimando i compagni. Anch'ei veloce

v'accorse Achille, e si disciolse in pianto

nel feretro mirando il fido amico

d'acuta lancia trapassato il petto.

Egli stesso con carri, armi e destrieri

l'avea spedito alla battaglia, e freddo

lo rïebbe al ritorno e sanguinoso.

Costrinse allor la veneranda Giuno

suo malgrado a calar nelle correnti

dell'Oceàno l'instancabil Sole.

Ei si sommerse, e dal crudel conflitto

ebber tregua gli Achei. Dier posa all'armi

di rincontro i Troiani; i corridori

sciolser dai cocchi, e pria che a cibo alcuno

volger la mente, convocār consiglio.

Ritti in piedi aprīr essi il parlamento;

né verun di sedersi ebbe fidanza,

perché d'Achille la comparsa orrenda

facea loro tremar le vene e i polsi,

ché da lunga stagion ne' lagrimosi

campi di Marte non l'avean veduto.

Prese tra lor Polidamante il primo

a ragionar. Di Panto era costui

prudente figlio, e de' Troiani il solo

che le passate e le future cose

al guardo avea presenti. Egli d'Ettorre

era compagno, e una medesma notte

li produsse ambedue, l'un di parole,

l'altro d'asta valente. Ei dunque in mezzo

con saggio avviso così tolse a dire:

Librate, amici, la bisogna; ir dentro

alla cittade, e tosto, è mio consiglio,

senz'aspettar davanti a queste navi

l'alma luce del dì. Troppo siam lungi

qui dalle mura. Finché l'ira in petto

arse a questo guerrier contra l'Atride,

più lieve er'anco il debellar gli Achivi,

ed io pure vegliar godea le notti

presso le navi, nella dolce speme

d'occuparle. Or tremar fammi il Pelìde.

L'ardor che il mena non vorrà ristretto

contenersi nel campo ove l'acheo

col troiano valore in generose

prove la gloria marzïal divise:

ma per Ilio a pugnar e per le mogli

ne sforzerà. Nella cittade adunque

ripariamo, e si segua il mio sentire,

ché le cose avverran com'io v'assenno.

L'alma notte or sopito in dolce calma

tien d'Achille il furor: ma se dimani

all'assalto prorompe, e qui ne trova,

certo talun conoscerallo, e quanti

dar potranno le spalle, e dentro il sacro

Ilio camparsi, si terran beati;

ma pria ben molti rimarran pastura

di voraci avoltoi. Deh ch'io non oda

sì rio caso giammai! Se al mio ricordo,

benché non grato, obbedirem, la notte

spenderem ne' rinforzi e ne' consigli.

E le torri e le porte e i contrafforti

de' ben commessi tavolati intanto

faran sicura la città. Poi tutti

d'arme orrendi domani al nuovo Sole

starem su i merli. E s'ei lasciato il lido

verrà nosco a pugnar sotto le mura,

duro affar troveravvi, e poiché stanca

in vane giravolte avrà la foga

de' suoi superbi corridor, gli fia

forza alle navi ritornar confuso;

né di scagliarsi dentro alla cittade

daragli il cuore, e pria che porla al fondo,

ei farà sazii del suo corpo i cani.

Qui tacque; e bieco gli rispose Ettorre:

Tu non mi fai gradevole proposta,

Polidamante, no, quando n'esorti

a serrarci di nuovo entro le mura.

E non vi noia ancor di quelle torri

la prigionia? Fu tempo in cui le genti

di vario favellar tutte a una voce

dicean ricca di molto auro e di bronzo

la città prïameia. Or dalle case

dileguārsi i tesori. Alle contrade

dell'amena Meonia e della Frigia

molta ricchezza ne passò venduta

da che l'ira di Giove i Teucri oppresse.

Ed or che Giove innanzi a questi legni

d'alta vittoria mi fe' lieto, e diemmi

che al mar chiudessi le falangi achee,

non far palese, o stolto, ai cittadini

questo consiglio, ché nessuno avrai

fra i Troiani sì vil che lo secondi,

né patirollo io mai. Teucri, obbediamo

tutti al mio detto. Ristorate i corpi

al suo posto ciascuno, e vi sovvegna

delle scolte per tutto e delle ronde.

Qualunque de' Troiani in pensier stassi

di sue ricchezze, le raguni, e poscia

largo ai soldati le spartisca. E meglio

che alcun nostro ne goda, e non l'Acheo.

Sull'aurora dimani in tutto punto

assalirem le navi: e se il divino

Achille all'armi si svegliò davvero,

gli fia la pugna, se la vuol, funesta.

Non fuggirollo io, no, nell'affannoso

ballo di Marte, ma starogli a fronte

con intrepido petto. Uno de' due

d'un'illustre vittoria andrà superbo;

il cimento è comune, ed avvien spesso

che morte incontra chi di darla ha speme.

Disse, e i Teucri levār d'applauso un grido.

Stolti! ché Palla avea lor tolto il senno.

Tutti assentīr d'Ettorre al pazzo avviso,

nessuno al saggio del figliuol di Panto.

Mentre col cibo a rivocar le forze

intendono i Troiani, in alti lai

l'intera notte dispendean gli Achivi

sovra il morto Patròclo, e prorompea

fra loro in pianti sospirosi Achille,

la man tremenda sul gelato petto

dell'amico ponendo, e cupi e spessi

i gemiti mettea, come talvolta

ben chiomato lïone a cui rapìo

il cacciator nel bosco i lïoncini.

Crucciato il fiero del suo tardo arrivo,

tutta scorre la valle, e l'orme esplora

del predator, se mai di ritrovarlo

in qualche lato gli rïesca; e orrenda

gli divampa nel cor la rabbia e l'ira:

tal si cruccia il Pelìde, e con profondi

sospiri in mezzo ai Mirmidóni esclama:

Oh mie vane parole il dì ch'io diedi

a Menèzio il conforto, e la promessa

che in Opunta gli avrei carco di gloria

e di gran preda ricondotto il figlio

dall'atterrata Troia! Ahi che non tutti

Giove i disegni de' mortali adempie!

Sotto Troia il destino ambo ne danna

a far vermiglia una medesma terra,

ché me neppure abbraccerà tornato

il buon vecchio Pelèo nel patrio tetto,

né Teti genitrice; ma sepolcro

mi darà questo lido. Or poi che deggio

dopo te, mio fedel, scender sotterra,

tu, no, sul rogo non andrai, lo giuro,

se non t'arreco in prima io qui d'Ettorre,

del tuo crudo uccisor l'armi e la testa;

e dodici d'illustri iliaci figli

troncheronne davanti alla tua pira.

Giaci intanto così, caro compagno,

qui presso alle mie navi; e le troiane

e le dardanie ancelle il largo seno

tutte discinte intorno al tuo ferètro

notte e dì faran pianto, e ploreranno.

Esse ne fur comun fatica e preda

quando noi colla forza e colle lunghe

aste domando le nemiche genti

l'opime n'atterrammo ampie cittadi.

Ciò detto, comandò l'almo Pelìde

che dai compagni al fuoco si ponesse

sul tripode un gran vaso, onde veloci

di Pàtroclo lavar la sanguinosa

tabe. E quelli sul fuoco in un baleno

atto ai lavacri collocaro un bronzo,

e v'infusero l'onda, e di stecchiti

rami di sotto alimentār la fiamma.

Abbracciavan le vampe mormorando

del vaso il ventre, e rotto in sottil fumo

scaldavasi l'umor. Poiché nel cavo

rame la linfa al suo bollor pervenne,

diersi il corpo a lavar: l'unser di pingue

felice oliva, e le ferite empiero

di balsamo novenne. Indi al funèbre

letto renduto, dalla fronte al piede

in sottil lino avvolserlo, e superno

un bianco panno vi spiegār. Ciò fatto,

tornaro ai pianti, e intorno al mesto Achille

tutta in lamenti consumār la notte.

Giove in questo alla sua moglie e sorella

si volse e disse: Veneranda Giuno,

ecco pieni alla fine i tuoi desiri;

ecco all'armi tornato il grande Achille.

Di te nacque, cred'io, (cotanto l'ami)

l'argiva gente. - E Giuno a lui: Che parli,

tremendo figlio di Saturno? All'uomo

povero d'alma e di consigli è dato

il dannaggio tramar del suo simile;

ed io che incedo degli Dei reina,

perché saturnia prole e perché sposa

son dell'alto de' numi imperadore,

contra i Troiani co' Troiani irata

macchinar qualche offesa io non dovea?

Mentre seguìan tra lor queste contese,

Teti agli alberghi di Vulcan pervenne;

stellati eterni rilucenti alberghi,

fra i celesti i più belli, e dallo stesso

Vulcan costrutti di massiccio bronzo.

Tutto in sudor trovollo affaccendato

de' mantici al lavoro. Avea per mano

dieci tripodi e dieci, adornamento

di palagio regal. Sopposte a tutti

d'oro avea le rotelle, onde ne gisse

da sé ciascuno all'assemblea de' numi,

e da sé ne tornasse onde si tolse:

maraviglia a vederli! Omai compiuto

l'ammirando lavor, solo restava

ch'ei v'adattasse le polite orecchie,

e appunto all'uopo n'aguzzava i chiovi.

Mentre venìa tai cose elaborando

con egregio artificio, entro la soglia

l'alma Teti mettea l'argenteo piede.

La vide, e le si fe' Càrite incontro

ornata il capo d'eleganti bende,

dell'inclito Vulcan moglie vezzosa:

per man la strinse, e il roseo labbro aprendo,

Qual, le disse, cagione, o bella Teti,

ti guida inaspettata a queste case?

Rado suoli onorarle, e nondimeno

sempre cara vi giungi e riverita.

Inóltrati, perch'io pronta t'appresti

le vivande ospitali. - E sì dicendo,

la bellissima Dea l'altra introdusse,

e in un bel seggio collocolla, ornato

d'argentee borchie a lavorìo gentile

col suo sgabello al piede. Indi a chiamarne

corse l'esimio fabbro, e sì gli disse:

Vieni, Vulcan, ché ti vuol Teti. - Ed egli:

Venerevole Diva e d'onor degna

nella casa mi venne. Ella malconcio

e afflitto mi salvò quando dal cielo

mi feo gittar l'invereconda madre,

che il distorto mio piè volea celato;

e mille allor m'avrei doglie sofferto

se me del mar non raccogliean nel grembo

del rifluente Ocèano la figlia

Eurìnome e la Dea Teti. Di queste

quasi due lustri in compagnia mi vissi,

e di molte vi feci opre d'ingegno,

fibbie ed armille tortuose e vezzi

e bei monili, in cavo antro nascoso

a cui spumante intorno ed infinita

d'Oceàn la corrente mormorava;

né verun di mia stanza avea contezza,

né mortale né Dio, tranne le belle

mie servatrici. Or poiché Teti è giunta

alla nostra magion, piena le voglio

render mercé del benefizio antico.

Tu dinanzi sollecita le poni

il banchetto ospital, mentr'io veloce

questi mantici assetto e gli altri arnesi.

Disse, e dal ceppo dell'incude il mostro

abbronzato levossi zoppicando.

Moveansi sotto a gran stento le fiacche

gambe sottili. Allontanò dal fuoco

i mantici ventosi: ogni fabbrile

istrumento raccolse, e dentro un'arca

li ripose d'argento. Indi con molle

spugna ben tutto stropicciossi il volto

affumicato ed ambedue le mani

e il duro collo ed il peloso petto.

Poi la tunica mise; ed il pesante

scettro impugnato, tentennando uscìo.

Seguìan l'orrido rege, e a dritta e a manca

il passo ne reggean forme e figure

di vaghe ancelle, tutte d'oro, e a vive

giovinette simìli, entro il cui seno

avea messo il gran fabbro e voce e vita

e vigor d'intelletto e delle care

arti insegnate dai Celesti il senno.

Queste al fianco del Dio spedite e snelle

camminavano; ed egli a tardo passo

avvicinato a Teti, in un lucente

trono s'assise, e la sua man ponendo

nella man della Dea, così le disse:

Qual mai sorte t'adduce a queste soglie,

o sempre cara e veneranda Teti,

in quell'ampio tuo peplo ancor più bella?

Troppo rado ne fai di tua presenza

contenti e lieti. Or parla, e il tuo desire

libera esponi. A soddisfarlo il grato

cor mi sospinge, se pur farlo io possa,

e il farlo mi s'addica. - E a lui suffusa

di lagrime i bei rai Teti rispose:

Delle Dive d'Olimpo e qual sofferse

tanti, o Vulcano, tormentosi affanni

quanti in me Giove n'adunò? Me sola

fra le Dive del mar suggetta ei fece

ad un mortale, al re Pelèo. Ritrosa

ne sostenni gli amplessi; ed egli or giace

logro dagli anni nel regal suo tetto.

Né il tenor qui restò di mie sventure.

Mi nacque un figlio. Io l'educai gelosa,

e come pianta ei crebbe, e mi divenne

il maggior degli eroi. Questo germoglio

di fertile terren, questo diletto

unico figlio su le navi io stessa

spedii di Troia alle funeste rive

a guerreggiar co' Teucri. Avverso fato

gli dinega il ritorno; ed io non deggio

nella pelèa magion madre infelice

abbracciarlo più mai. Né questo è tutto.

Fin ch'ei mi vive, e la ria Parca il raggio

gli prolunga del Sole, ei lo consuma

nella tristezza, né giovarlo io posso.

Dagli Achivi ottenuta egli s'avea

premio di sue fatiche una fanciulla.

Agamennón gliela ritolse; ed esso

dell'onta irato, e nel dolor sepolto

si ritrasse dall'armi. I Teucri intanto

alle navi rinchiusero gli Achei,

né permettean l'uscita. Umìli allora

i duci argivi gli mandār preghiere

e d'orrevoli doni ampie profferte.

Egli fermo negò la chiesta aita:

ma cinse di sue stesse armi l'amico

Pàtroclo, e al campo l'invïò seguìto

da molti prodi. Su le porte Scee

tutto un giorno durò l'aspro conflitto.

E il dì stesso Ilïon sarìa caduto,

s'alta strage menar visto il gagliardo

di Menèzio figliuol, non l'uccidea

tra i combattenti della fronte Apollo,

esaltandone Ettorre. Or io pel figlio

vengo supplice madre al tuo ginocchio,

onde a conforto di sua corta vita

di scudo e d'elmo provveder tu il voglia,

e di forte lorica e di schinieri

con leggiadro fermaglio. A lui perdute

ha tutte l'armi dai Troiani ucciso

il suo fedel compagno, ed egli or giace

gittato a terra, e dal dolore oppresso.

Tacque; e il mal fermo Dio così rispose:

Ti riconforta, o Teti, e questa cura

non ti gravi il pensier. Così potessi

alla morte il celar quando la Parca

sul capo gli starà, com'io di belle

armi fornito manderollo, e tali

che al vederle ogni sguardo ne stupisca.

Lasciò la Dea, ciò detto, e impazïente

ai mantici tornò, li volse al fuoco,

e comandò suo moto a ciascheduno.

Eran venti che dentro la fornace

per venti bocche ne venìan soffiando,

e al fiato, che mettean dal cavo seno,

or gagliardo or leggier, come il bisogno

chiedea dell'opra e di Vulcano il senno,

sibilando prendea spirto la fiamma.

In un commisti allor gittò nel fuoco

argento ed auro prezïoso e stagno

ed indomito rame. Indi sul toppo

locò la dura risonante incude,

di pesante martello armò la dritta,

di tanaglie la manca; e primamente

un saldo ei fece smisurato scudo

di dèdalo rilievo, e d'auro intorno

tre ben fulgidi cerchi vi condusse,

poi d'argento al di fuor mise la soga.

Cinque dell'ampio scudo eran le zone,

e gl'intervalli, con divin sapere,

d'ammiranda scultura avea ripieni.

Ivi ei fece la terra, il mare, il cielo

e il Sole infaticabile, e la tonda

Luna, e gli astri diversi onde sfavilla

incoronata la celeste volta,

e le Pleiadi, e l'Iadi, e la stella

d'Orïon tempestosa, e la grand'Orsa

che pur Plaustro si noma. Intorno al polo

ella si gira ed Orïon riguarda,

dai lavacri del mar sola divisa.

Ivi inoltre scolpite avea due belle

popolose città. Vedi nell'una

conviti e nozze. Delle tede al chiaro

per le contrade ne venìan condotte

dal talamo le spose, e Imene, Imene

con molti s'intonava inni festivi.

Menan carole i giovinetti in giro

dai flauti accompagnate e dalle cetre,

mentre le donne sulla soglia ritte

stan la pompa a guardar maravigliose.

D'altra parte nel fōro una gran turba

convenir si vedea. Quivi contesa

era insorta fra due che d'un ucciso

piativano la multa. Un la mercede

già pagata asserìa; l'altro negava.

Finir davanti a un arbitro la lite

chiedeano entrambi, e i testimon produrre.

In due parti diviso era il favore

del popolo fremente, e i banditori

sedavano il tumulto. In sacro circo

sedeansi i padri su polite pietre,

e dalla mano degli araldi preso

il suo scettro ciascun, con questo in pugno

sorgeano, e l'uno dopo l'altro in piedi

lor sentenza dicean. Doppio talento

d'auro è nel mezzo da largirsi a quello

che più diritta sua ragion dimostri.

Era l'altra città dalle fulgenti

armi ristretta di due campi in due

parer divisi, o di spianar del tutto

l'opulento castello, o che di quante

son là dentro ricchezze in due partito

sia l'ammasso. I rinchiusi alla chiamata

non obbedìan per anco, e ad un agguato

armavansi di cheto. In su le mura

le care spose, i fanciulletti e i vegli

fan custodia e corona; e quelli intanto

taciturni s'avanzano. Minerva

li precorre e Gradivo entrambi d'oro,

e la veste han pur d'oro, ed alte e belle

le divine stature, e d'ogni parte

visibili: più bassa iva la torma.

Come in loco all'insidie atto fur giunti

presso un fiume, ove tutti a dissetarse

venìan gli armenti, s'appiattār que' prodi

chiusi nel ferro, collocati in pria

due di loro in disparte, che de' buoi

spïassero la giunta e delle gregge.

Ed eccole arrivar con due pastori

che, nulla insidia suspicando, al suono

delle zampogne si prendean diletto.

L'insidiator drappello alla sprovvista

gli assalìa, ne predava in un momento

de' buoi le mandre e delle bianche agnelle,

ed uccidea crudele anco i pastori.

Scossa all'alto rumor l'assediatrice

oste a consiglio tuttavia seduta,

de' veloci corsier subitamente

monta le groppe, i predatori insegue,

e li raggiunge. Allor si ferma, e fiera

sul fiume appicca la battaglia. Entrambe

si ferìan coll'acute aste le schiere.

Scorrea nel mezzo la Discordia, e seco

era il Tumulto e la terribil Parca

che un vivo già ferito e un altro illeso

artiglia colla dritta, e un morto afferra

ne' piè coll'altra, e per la strage il tira.

Manto di sangue tutto sozzo e rotto

le ricopre le spalle: i combattenti

parean vivi, e traean de' loro uccisi

i cadaveri in salvo alternamente.

Vi sculse poscia un morbido maggese

spazïoso, ubertoso e che tre volte

del vomero la piaga avea sentito.

Molti aratori lo venìan solcando,

e sotto il giogo in questa parte e in quella

stimolando i giovenchi. E come al capo

giungean del solco, un uom che giva in volta,

lor ponea nelle man spumante un nappo

di dolcissimo bacco; e quei tornando

ristorati al lavor, l'almo terreno

fendean, bramosi di finirlo tutto.

Dietro nereggia la sconvolta gleba:

vero arato sembrava, e nondimeno

tutta era d'òr. Mirabile fattura!

Altrove un campo effigïato avea

d'alta messe già biondo. Ivi le destre

d'acuta falce armati i segatori

mietean le spighe; e le recise manne

altre in terra cadean tra solco e solco,

altre con vinchi le venìan stringendo

tre legator da tergo, a cui festosi

tra le braccia recandole i fanciulli

senza posa porgean le tronche ariste.

In mezzo a tutti colla verga in pugno

sovra un solco sedea del campo il sire,

tacito e lieto della molta messe.

Sotto una quercia i suoi sergenti intanto

imbandiscon la mensa, e i lombi curano

d'un immolato bue, mentre le donne

intente a mescolar bianche farine,

van preparando ai mietitor la cena.

Seguìa quindi un vigneto oppresso e curvo

sotto il carco dell'uva. Il tralcio è d'oro,

nero il racemo, ed un filar prolisso

d'argentei pali sostenea le viti.

Lo circondava una cerulea fossa

e di stagno una siepe. Un sentier solo

al vendemmiante ne schiudea l'ingresso.

Allegri giovinetti e verginelle

portano ne' canestri il dolce frutto,

e fra loro un garzon tocca la cetra

soavemente. La percossa corda

con sottil voce rispondeagli, e quelli

con tripudio di piedi sufolando

e canticchiando ne seguìano il suono.

Di giovenche una mandra anco vi pose

con erette cervici. Erano sculte

in oro e stagno, e dal bovile uscièno

mugolando e correndo alla pastura

lungo le rive d'un sonante fiume

che tra giunchi volgea l'onda veloce.

Quattro pastori, tutti d'oro, in fila

gìan coll'armento, e li seguìan fedeli

nove bianchi mastini. Ed ecco uscire

due tremendi lïoni, ed avventarsi

tra le prime giovenche ad un gran tauro,

che abbrancato, ferito e strascinato

lamentosi mandava alti muggiti.

Per rïaverlo i cani ed i pastori

pronti accorrean: ma le superbe fiere

del tauro avendo già squarciato il fianco,

ne mettean dentro alle bramose canne

le palpitanti viscere ed il sangue.

Gl'inseguivano indarno i mandrïani

aizzando i mastini. Essi co' morsi

attaccar non osando i due feroci,

latravan loro addosso, e si schermivano.

Fecevi ancora il mastro ignipotente

in amena convalle una pastura

tutta di greggi biancheggiante, e sparsa

di capanne, di chiusi e pecorili.

Poi vi sculse una danza a quella eguale

che ad Arïanna dalle belle trecce

nell'ampia Creta Dedalo compose.

V'erano garzoncelli e verginette

di bellissimo corpo, che saltando

teneansi al carpo delle palme avvinti.

Queste un velo sottil, quelli un farsetto

ben tessuto vestìa, soavemente

lustro qual bacca di palladia fronda.

Portano queste al crin belle ghirlande,

quelli aurato trafiere al fianco appeso

da cintola d'argento. Ed or leggieri

danzano in tondo con maestri passi,

come rapida ruota che seduto

al mobil torno il vasellier rivolve,

or si spiegano in file. Numerosa

stava la turba a riguardar le belle

carole, e in cor godea. Finìan la danza

tre saltator che in varii caracolli

rotavansi, intonando una canzona.

Il gran fiume Oceàn l'orlo chiudea

dell'ammirando scudo. A fin condotto

questo lavoro, una lorica ei fece

che della fiamma lo splendor vincea;

poi di raro artificio un saldo e vago

elmo alle tempie ben acconcio, e sopra

d'auro tessuta v'innestò la cresta.

Fur l'ultima fatica i bei schinieri

di pieghevole stagno. E terminate

l'armi tutte, il gran fabbro alto levolle,

e al piè di Teti le depose. Ed ella,

co' bei doni del Dio, come sparviero

ratta calossi dal nevoso Olimpo.

 

 

LIBRO DECIMONONO

 

 

Uscìa del mar l'Aurora in croceo velo,

alla terra ed al ciel nunzia di luce,

e co' doni del Dio Teti giungea.

Singhiozzante da canto al morto amico

trovò l'amato figlio a cui dintorno

ploravano i compagni. Apparve in mezzo

l'augusta Diva, e strettolo per mano,

Figlio, disse, poiché piacque agli Dei

la sua morte, lasciam, benché dolenti,

che questi qui si giaccia; e tu le belle

armi ti prendi di Vulcan, che mai

mortal non indossò. - Così dicendo,

le depose al suo piè. Dier quelle un suono

che terror mise ai Mirmidóni: il guardo

non le sostenne, e si fuggīr. Ma come

le vide Achille, maggior surse l'ira,

e sotto le palpèbre orrendamente

gli occhi qual fiamma balenār. Godea

trattarle, vagheggiarle; e dilettato

del mirando lavor, si volse, e disse:

Madre, son degne del divino fabbro

quest'armi, né può tanto arte terrena.

Or le mi vesto; ma timor mi grava

che nelle piaghe di Patròclo intanto

vile insetto non entri, che di vermi

generator la salma (ahi! senza vita!)

ne guasti sì che tutta imputridisca.

Pensier di questo non ti prenda, o figlio,

gli rispose la Dea: l'infesto sciame

divoratore de' guerrieri uccisi

io ne terrò lontano. Ov'anco ei giaccia

intero un anno, farò sì che il corpo

incorrotto ne resti, e ancor più bello.

Or tu raccogli in assemblea gli Achivi,

e, placato all'Atride, àrmati ratto

per la battaglia, e di valor ti cingi.

Disse, e spirto audacissimo gl'infuse.

Indi ambrosia all'estinto, e rubicondo

nèttare, a farlo d'ogni tabe illeso,

nelle nari stillò. Lunghesso il lido

l'orrenda voce intanto alza il Pelìde;

né soli i prenci achei, ma tutte accorrono

le sparse schiere per le navi, e quanti

di navi han cura, remator, piloti

e vivandieri e dispensier, van tutti

a parlamento, di veder bramosi

dopo un lungo cessar l'apparso Achille.

Barcollanti v'andaro anche i due prodi

Dïomede ed Ulisse, per le gravi

piaghe all'asta appoggiati, e ne' primieri

seggi adagiārsi. Ultimo giunse il sommo

Atride, in forte mischia ei pur dal telo

di Coon Antenòride ferito.

Tutti adunati, Achille surse e disse:

Atride, a te del par che a me sarìa

meglio tornato che tra noi non fusse

mai surta la fatal lite che il core

sì ne róse a cagion d'una fanciulla.

Dovea Dïana saettarla il giorno

ch'io saccheggiai Lirnesso, e mia la feci,

ché tanti non avrìan trafitti Achivi,

mentre l'ira io covai, morso il terreno.

Ettore e i Teucri ne gioīr, ma lunga

rimarrà tra gli Achei, credo, ed amara

de' nostri piati la memoria. Or copra

obblìo le andate cose, e il cor nel petto

necessità ne domi. Io qui depongo

l'ira, né giusto è ch'io la serbi eterna.

Tu ridesta le schiere alla battaglia.

Vedrò se i Teucri al mio venir vorranno

presso le navi pernottar. Di gambe,

spero, fia lesto volentier chïunque

potrà sottrarsi in campo alla mia lancia.

Disse: e gli Achivi giubilār vedendo

alfin placato il generoso Achille.

Surse allora l'Atride, e dal suo seggio,

senza avanzarsi, favellò: M'udite,

eroi di Grecia, bellicosi amici,

né turbate il mio dir, ché lo frastuono

anche il più sperto dicitor confonde.

E chi far mente, chi parlar potrebbe

in cotanto tumulto, ove la voce

la più sonora verrìa meno? Io volgo

le parole ad Achille, e voi porgete

attento orecchio. Con rimprocci ed onte

spesso gli Achivi m'accusār d'un fallo

cui Giove e il Fato e la notturna Erinni

commisero, non io. Essi in consiglio

quel dì la mente m'offuscār, che il premio

ad Achille rapii. Che farmi? Un Dio

così dispose, la funesta a tutti

Ate, tremenda del Saturnio figlia.

Lieve ed alta dal suolo ella sul capo

de' mortali cammina, e lo perturba,

e a ben altri pur nocque. Anche allo stesso

degli uomini e de' numi arbitro Giove

fu nocente costei quando ingannollo

l'augusta Giuno il dì che in Tebe Alcmena

l'erculea forza partorir dovea.

Detto ai Celesti avea Giove per vanto:

Divi e Dive, ascoltate; io vo' del petto

rivelarvi un segreto: oggi Ilitìa

curatrice de' parti in luce un uomo

del mio sangue trarrà, che su le tutte

vicine genti stenderà lo scettro.

Mentirai, né atterrai la tua parola,

Giuno riprese meditando un frodo.

Giura, o Giove, il gran giuro, che nel vero

fia de' vicini regnator l'uom ch'oggi

di tua stirpe cadrà fra le ginocchia

d'una madre mortal. Giurollo il nume

senza sospetto, e ne fu poi pentito.

Ché Giuno dal ciel ratta in Argo scesa

del Perseìde Stènelo all'illustre

moglie sen venne. Avea grav'ella il seno

d'un caro figlio settimestre. A questo,

benché immaturo, accelerò la luce

Giuno, e d'Alcmena prolungando il parto,

ne represse le doglie. Indi a narrarne

corse al Saturnio la novella, e disse:

Giove, t'annunzio che mo' nacque un prode

che in Argo impererà, lo Stenelìde,

tua progenie, Euristèo d'Argo re degno.

D'alto dolor ferito infurïossi

Giove, e tosto ai capelli Ate afferrando

per lo Stige giurò che questa a tutti

furia dannosa non avrìa più mai

riveduto l'Olimpo. E sì dicendo,

la rotò colla destra, e fra' mortali

dagli astri la scagliò. Per la costei

colpa veggendo di travagli oppresso

il diletto figliuol sotto Euristèo

adiravasi Giove. E a me pur anco,

quando alle navi Ettòr struggea gli Achivi,

lacerava il pensier la rimembranza

di questa Diva che mi tolse il senno.

Ma poiché Giove il volle, io vo' del pari

farne l'emenda con immensi doni.

Sorgi Achille alla pugna, e gli altri accendi.

Tutto, che ieri nella tenda Ulisse

ti promise, io darotti: e se t'aggrada,

l'ardor sospendi che a pugnar ti sprona,

e dal mio legno farò tosto i doni

recar, che visti placheranti il core.

Duce de' prodi glorïoso Atride,

rispose Achille, il dar que' doni a norma

di tua giustizia o ritenerli, è tutto

nel tuo poter. Ma tempo non è questo

da parole: sia d'armi ogni pensiero,

né più s'indugi, ché il da farsi è assai.

Uop'è che Achille in campo rieda e sperda

le troiane falangi, e ch'altri il vegga,

e l'esempio n'imiti. - Illustre Achille,

soggiunse allor l'accorto Ulisse, è grande

il tuo valor; ma non menar digiuni

contro i Teucri gli Achei. Venuti al cozzo

una volta gli eserciti, e infiammati

quinci e quindi da un Dio, non fia sì breve

l'aspro certame. Nelle navi adunque

comanda che di cibo e di bevanda,

fonte di forza, si ristaurin tutti,

ché digiuno soldato un giorno intero

fino al tramonto non sostiene la pugna.

Sete, fame, fatica a poco a poco

dòman anco i più forti, e dispossato

casca il ginocchio. Ma guerrier, cui fresche

tornò le forze il cibo, il giorno tutto

intrepido combatte, e sua stanchezza

sol col finirsi del conflitto ei sente.

Dunque il campo congeda, e fa che pronte

mense imbandisca. Agamennón frattanto

qua rechi i doni, onde ogni Acheo li vegga,

e il tuo cor ne gioisca. Indi nel mezzo

del parlamento il re si levi, e giuri

che mai non giacque colla tua fanciulla;

e questo giuro il cor ti plachi. Ei poscia,

perché nulla si fraudi al tuo diritto,

di lauto desco nella propria tenda

ti presenti e t'onori. E tu più giusto

móstrati, Atride, in avvenir, ché bello

regal atto è il placar, qual sia, l'offeso.

A questo il sire Agamennón: M'è grato,

Ulisse, il saggio e acconciamente espresso

tuo ragionar. Io giurerò dall'imo

cuor, né dinanzi al Dio sarò spergiuro.

Ma tempri Achille del pugnar la foga

sino che giunga il donativo; e il sangue

della vittima fermi il giuramento,

qui presenti voi tutti. Or tu medesmo

vanne, Ulisse, e trascelto, io tel comando,

de' primi achivi giovinetti il fiore,

reca i doni promessi e le donzelle;

e Taltìbio mi cerchi e m'apparecchi

un cinghial da svenarsi a Giove e al Sole.

Inclito Atride, gli rispose Achille,

serbar si denno queste cose al tempo

che dall'armi avrem posa, e che non tanto

sdegno m'infiammi. Giacciono squarciati

nella polve gli eroi che spense Ettorre

favorito da Giove, e voi ne fate

ressa di cibo? Io, qual si trova, all'armi

senza ritardo il campo esorterei,

e vendicato l'onor nostro, allegre

cene abbondanti appresterei la sera.

Non verrà cibo al labbro mio né beva,

s'ulto pria non vedrò l'estinto amico.

D'acuto acciar trafitto egli mi giace

nella tenda co' piè volti all'uscita,

e gli fan cerchio i suoi compagni in pianto.

Non altro è dunque il mio pensier che strage

e sangue, e il cupo di chi muor sospiro.

E Ulisse a lui: Fortissimo Pelìde,

tu nell'asta me vinci, io te nel senno,

perché pria nacqui, e più imparai. Fa dunque

di quetarti al mio detto. Umano core

presto si sazia di conflitti in cui

molto miete l'acciar, poco raccoglie

il mietitor, se Giove, arbitro sommo

di nostre guerre, le bilance inclina.

Pianger col ventre non si dee gli estinti;

e qual respiro il pianto avrìa se mille

fa caderne la Parca ogni momento?

Intero un sole al lagrimar si doni,

poi con coraggio, chi morì s'intombi:

e noi che vivi della mischia uscimmo

confortiamci di cibo, onde più fieri

d'invitto ferro ricoperti il petto

alla pugna tornar, senza che sia

mestier novello incitamento. E guai

a chi terrassi su le navi inerte,

mentre gli altri animosi ad acre assalto

contra i Teucri dal vallo irromperanno!

Disse, e compagni i due figliuoi si prese

di Nestore, e Toante e Merïone

e il Filìde Megète e Melanippo

e Licomede di Creonte. Andaro

d'Atride al padiglion, presti il comando

n'adempiro, e arrecār le già promesse

cose; sette treppiè, venti lebèti,

dodici corridori; indi prestanti

d'ingegno e di beltà sette captive.

La figlia di Brisèo, guancia rosata,

ottava ne venìa. Li precedea

con dieci di buon peso aurei talenti

Ulisse, e lo seguìan con gli altri doni

gli altri giovani achei. Deposto il tutto

nell'assemblea, levossi Agamennóne;

e Taltìbio di voce a un Dio simìle

irto cinghial gli appresentò. Fuor trasse

il sospeso del brando alla vagina

trafier l'Atride, e della belva i primi

peli recisi, alzò le palme, e a Giove

pregò. Sedeansi tutti in riverente

giusto silenzio per udirlo; ed egli

guardando al cielo e supplicando disse:

Il sommo ottimo Iddio, la Terra, il Sole,

e l'Erinni laggiù gastigatrici

degli spergiuri, testimon mi sieno

che per desìo lascivo unqua io non posi

sopra la figlia di Brisèo le mani,

e che la tenni nelle tende intatta.

Mi mandino, s'io mento, ogni castigo

serbato al falso giurator gli Dei.

Disse, e l'ostia scannò; poscia ne' vasti

gorghi marini la scagliò l'araldo,

pasto de' pesci. Allor rizzossi Achille

e sclamò: Giove padre, oh di che danni

tu ne gravi! Non mai m'avrìa l'Atride

mosso all'ira, né mai per farmi oltraggio

rapita a mio mal grado egli la schiava:

ma tu il volesti, Iddio, tu che di tanti

Achei la morte decretavi. Or voi

itene al cibo, e all'armi indi si voli.

Disse, e sciolto il consesso, alla sua nave

si disperse ciascun. Ma co' presenti

i Mirmidóni s'avvïār d'Achille

verso le tende, e li posār, schierando

su bei seggi le donne; e nell'armento

fur dai sergenti i corridor sospinti.

Di beltà simigliante all'aurea Venere

come vide Brisėide del morto

Pàtroclo le ferite, abbandonossi

sull'estinto, e ululava e colle mani

laceravasi il petto e il delicato

collo e il bel viso, e sì dicea plorando:

Oh mio Patròclo! oh caro e dolce amico

d'una meschina! Io ti lasciai qui vivo

partendo; e ahi quale al mio tornar ti trovo!

Ahi come viemmi un mal su l'altro! Vidi

l'uomo a cui diermi i genitor, trafitto

dinanzi alla città, vidi d'acerba

morte rapiti tre fratei diletti;

e quando Achille il mio consorte uccise

e di Minete la città distrusse,

tu mi vietavi il piangere, e d'Achille

farmi sposa dicevi, e a Ftia condurmi

tu stesso, e m'apprestar fra' Mirmidóni

il nuzïal banchetto. Avrai tu dunque,

o sempre mite eroe, sempre il mio pianto.

Così piange: piangean l'altre donzelle

Pàtroclo in vista, e il proprio danno in core.

Stretti intanto ad Achille i senïori

lo confortano al cibo, ed egli il niega

gemebondo: Se restami un amico

che mi compiaccia, non m'esorti, il prego,

a toccar cibo in tanto duol: vo' starmi

fino a sera, e potrollo, in questo stato.

Tutti, ciò detto, accomiatò, ma seco

restār gli Atridi e Nestore ed Ulisse

e il re cretese e il buon Fenice, intenti

a stornarne il dolor: ma il cor sta chiuso

ad ogni dolce finché l'apra il grido

della battaglia sanguinosa. Or tutto

col pensier nell'amico alto sospira

e prorompe così: Caro infelice!

Tu pur ne' giorni di feral conflitto

degli Achivi co' Troi m'apparecchiavi

con presta cura nelle tende il cibo.

Or tu giaci, e digiuno io qui mi struggo

del desìo di te sol; né più cordoglio

mi graverìa se morto il padre udissi

(misero! ei forse or per me piange in Ftia,

per me fatto campione in stranio lido

dell'abborrita Argiva), o morto il mio

di divina beltà figlio diletto,

che a me si edùca, se pur vive, in Sciro.

Ahi! mi sperava di morir qui solo;

sperava che tu salvo a Ftia tornando

su presta nave, un dì da Sciro avresti

teco addutto il mio Pirro, e mostri a lui

i miei campi, i miei servi e l'alta reggia;

perocché temo che Pelèo pur troppo

o più non viva, o di dolor sol viva,

aspettando ogni dì veglio cadente

l'amaro annunzio della morte mia.

Così geme: gemean gli astanti eroi

ricordando ciascun gli abbandonati

suoi cari pegni. Di quel pianto Giove

impietosito, a Pallade si volse

immantinente, e sì le disse: O figlia,

perché lasci l'uom prode in abbandono?

Pensier d'Achille non hai più? Nol vedi

là seduto alle navi e lagrimoso

pel caro amico? Andār già tutti al desco;

ei sol ricusa ogni ristor. Va dunque,

e dolce ambrosia e nèttare nel petto,

onde non caggia di languor, gl'instilla.

Sprone aggiunse quel cenno alla già pronta

Minerva che d'un salto, con la foga

delle vaste ali di stridente nibbio,

calò dal cielo, e nèttare ed ambrosia

stillò d'Achille in petto, onde le forze

il suo fiero digiun non gli togliesse;

indi agli eterni del potente padre

soggiorni rivolò. Gli Achivi intanto

tutti in procinto dalle navi a torme

versavansi nel campo; e a quella guisa

che fioccano dal ciel, spinte dal soffio

serenatore d'aquilon, le nevi,

così dai legni uscir densi allor vedi

i lucid'elmi, i vasti scudi, e i forti

concavi usberghi e le frassinee lance.

Folgora ai lampi dell'acciaro il cielo

e ne brilla il terren, che al calpestìo

delle squadre rimbomba. In mezzo a queste

armasi Achille. Gli strideano i denti,

gli occhi eran fiamme, di dolore e d'ira

rompeasi il petto; e tale egli dell'armi

vulcanie si vestìa. Strinse alle gambe

i bei stinieri con argentee fibbie,

pose al petto l'usbergo, e di lucenti

chiovi fregiato agli omeri sospese

il forte brando; s'imbracciò lo scudo,

che immenso e saldo di lontan splendea

come luna, o qual foco ai naviganti

sovr'alta apparso solitaria cima,

quando lontani da' lor cari il vento

li travaglia nel mar: tale dal bello

e vario scudo dell'eroe saliva

all'etra lo splendor. Stella parea

su la fronte il grand'elmo irto d'equine

chiome, e fusa sul cono tremolava

l'aurea cresta. In quest'armi il divo Achille

tenta se stesso, e vi si vibra, e prova

se gli son atte; e gli erano qual piuma

ch'alto il solleva. Alfin dal suo riservo

cavò l'immensa e salda asta paterna,

cui nullo Achivo palleggiar potea

tranne il Pelìde, frassino d'eroi

sterminatore, da Chiron reciso

su le pelìache vette, e dato al padre.

Alcìmo intanto e Automedonte aggiogano

di belle barde adorni e di bei freni

i cavalli: e allungate ai saldi anelli

le guide, e tolta nella man la sferza,

salta sul cocchio Automedón. Vi monta

dopo, raggiante come Sole, Achille

tutto presto alla pugna, e con tremenda

voce ai paterni corridor sì grida:

Xanto e Bàlio a Podarge incliti figli,

sia vostra cura in salvo ricondurre

sazio di stragi il signor vostro; e morto

nol lasciate colà come Patròclo.

Chinò la testa l'immortal corsiero

Xanto: diffusa per lo giogo andava

fino a terra la chioma, ed ei da Giuno

fatto parlante udir fe' questi accenti:

Achille, in salvo questa volta ancora

ti trarremo noi, sì; ma ti sovrasta

l'ultim'ora, né fia nostra la colpa,

ma di Giove e del Fato. Se dell'armi

spogliār Patroclo i Troi, non accusarne

nostra pigrizia e tardità, ma il forte

di Latona figliuolo. Ei nella prima

fronte l'uccise, e dienne a Ettòr la palma.

Noi Zefiro sfidiamo, il più veloce

de' venti, al corso; ma nel Fato è scritto

che un Dio te domi ed un mortal... Troncaro

l'Erinni i detti. E a lui l'irato Achille:

Xanto, a che morte mi predir? Non tocca

questo a te. Qui cader deggio lontano,

lo so, dai cari genitor; ma pria

trarrò tutta di guerre a' Troi la voglia.

Disse, e gridando i corridor sospinse.

 

 

LIBRO VENTESIMO

 

 

Così dintorno a te, marzio Pelìde,

gli Achei metteansi in punto appo le navi,

e i Troi del campo sul rïalto. A Temi

Giove allor comandò che dalle molte

eminenze d'Olimpo a parlamento

convocasse gli Dei. Volò la Diva

d'ogni parte, e chiamolli alla stellata

magion di Giove. Accorser tutti, e, tranne

il canuto Oceàn, nullo de' Fiumi

né delle Ninfe vi mancò, de' boschi

e de' prati e de' fonti abitatrici.

Giunti del grande adunator de' nembi

alle stanze, si assisero su tersi

troni che a Giove con solerte cura

Vulcano fabbricò. Prese ciascuno

cheto il suo posto; ma dal mar venuto

obbedïente ei pure il re Nettunno,

tra i maggiori sedendosi, la mente

di Giove interrogò con questi accenti:

Perché di nuovo, fulminante Iddio,

chiami i numi a consiglio? Alfin decisa

de' Troiani vuoi forse e degli Achei

pronti a zuffa mortal l'ultima sorte?

Ben vedesti, o Nettunno, il mio pensiero,

Giove rispose; del chiamarvi è questa

la cagion: benché presso al fato estremo

e gli uni e gli altri in cor mi stanno. Assiso

su le cime d'Olimpo io qui mi resto

l'ire mortali a contemplar tranquillo.

Voi sul campo scendete, e a cui v'aggrada

de' Teucri e degli Achei recate aita.

Se pugna Achille ei sol, nol sosterranno

nè pur tampoco i Teucri, essi che ieri

solo al vederlo ne tremaro. Ed oggi,

che d'ira egli arde per l'amico, io temo

non anzi il dì fatal Troia rovini.

Disse, e di guerra un fier desire accese

de' Celesti nel cor, che in due divisi

nel campo si calār: verso le navi

Giuno e Palla Minerva e coll'accorto

util Mercurio s'avvïò Nettunno.

Li seguìa zoppicando, e truci intorno

gli occhi volgendo di sua forza altero

Vulcano, ed il sottil stinco di sotto

gli barcollava. Alla troiana parte

n'andār dell'elmo il crollator Gradivo,

l'intonso Febo colla madre e l'alma

cacciatrice sorella e Xanto e Venere

Dea del riso. Finché dalle mortali

turbe i numi fur lungi, orgoglio e festa

menavano gli Achei, perché comparso

dopo lungo riposo era il Pelìde,

e corse ai Teucri un freddo orror per l'ossa

visto nell'armi lampeggiar, sembiante

al Dio tremendo delle stragi, Achille.

Ma quando le celesti alle terrene

armi fur miste, una ineffabil surse

di genti agitatrici aspra contesa.

Terribile Minerva, or sull'estremo

fosso volando ed or sul rauco lido,

da questa parte orribilmente grida:

grida Marte dall'altra a tenebroso

turbin simìle, ed or dall'ardue cime

delle dardanie torri, ed or sul poggio

di Colone lunghesso il Simoenta

correndo, infiamma a tutta voce i Teucri.

Così l'un campo e l'altro inanimando

gli Dei beati gli azzuffār, commisti

in conflitto crudel. Dall'alto allora

de' mortali e de' numi orrendamente

il gran padre tuonò: scosse di sotto

l'ampia terra e de' monti le superbe

cime Nettunno. Traballār dell'Ida

le falde tutte e i gioghi e le troiane

rocche, e le navi degli Achei. Tremonne

Pluto il re de' sepolti e spaventato

diè un alto grido e si gittò dal trono,

temendo non gli squarci la terrena

volta sul capo il crollator Nettunno,

ed intromessa colaggiù la luce

agli Dei non discopra ed ai mortali

le sue squallide bolge, al guardo orrende

anco del ciel; cotanto era il fragore

che dal conflitto de' Celesti uscìa.

Contra Nettunno il re dell'arco Apollo,

contra Marte Minerva, e contra Giuno

sta delle cacce e degli strali amante

la sorella di Febo alma Dïana:

contra il dator de' lucri e servatore

di ricchezze Mercurio era Latona,

contra Vulcano il vorticoso fiume

dai mortali Scamandro e dagli Dei

Xanto nomato. E questo era di numi

contro numi il certame e l'ordinanza.

Ma di scagliarsi fra le turbe in cerca

del Priàmide Ettorre arde il Pelìde,

ché innanzi a tutto gli comanda il core

di far la rabbia marzïal satolla

di quel sangue abborrito. Allor destando

le guerriere faville Apollo spinse

contro il tessalo eroe d'Anchise il figlio,

e presa la favella e la sembianza

del Prïameio Licaon gl'infuse

ardimento e valor con questi accenti:

Illustre duce Enea dove n'andaro

le fatte tra le tazze alte promesse

al re de' Teucri, che pur solo avresti

contro il Pelìde Achille combattuto?

Prïamìde, e perché, contro mia voglia,

Enea rispose, ad affrontar mi sproni

quell'invitto guerrier? Gli stetti a fronte

pur altra volta, ed altra volta in fuga

la sua lancia dall'Ida mi sospinse,

quando, assaliti i nostri armenti, ei Pèdaso

e Lirnesso atterrò. Giove protesse

il mio ratto fuggir: senza il suo nume

m'avrìa domo il Pelìde, esso e Minerva

che il precorrendo lo spargea di luce,

e de' Teucri e de' Lèlegi alla strage

la sua lancia animava. Alcun non sia

dunque che pugni col Pelìde. Un Dio

sempre va seco che il difende, e dritto

vola sempre il suo telo, e non s'arresta

finché non passi del nemico il petto.

Se della guerra si librasse eguale

dai Sampiterni la bilancia, ei certo,

fosse tutto qual vantasi di ferro,

non avrìa meco agevolmente il meglio.

E tu pur prega i numi, o valoroso,

rispose Apollo, ché tu pure, è fama,

di Venere nascesti, ed ei di Diva

inferïor, ché quella a Giove, e questa

al marin vecchio è figlia. Orsù dirizza

in lui l'invitto acciaro, e non lasciarti

per minacce fugar dure e superbe.

Fatto animoso a questi detti il duce,

processe di lucenti armi vestito

tra i guerrieri di fronte. E lui veduto

per le file avanzarsi arditamente

contro il Pelìde, ai collegati numi

si volse Giuno e disse: Il cor volgete,

tu Nettunno e tu Pallade, al periglio

che ne sovrasta. Enea tutto nell'armi

folgorante s'avvìa contro il Pelìde,

e Febo Apollo ve lo spinge. Or noi

o forziamlo a dar volta, o pur d'Achille

vada in aiuto alcun di noi, che forza

all'uopo gli ministri, onde s'avvegga

ch'egli ai Celesti più possenti è caro,

e che di Troia i difensor fann'opra

infruttuosa. Vi rammenti, o numi,

che noi tutti scendemmo a questa pugna

perché nullo da' Teucri egli riceva

questo dì nocumento. Abbiasi dopo

quella sorte che a lui filò la Parca

quando la madre il partorìo. Se istrutto

di ciò nol renda degli Dei la voce,

temerà nel veder venirsi incontro

fra l'armi un nume: perocché tremendi

son gli Eterni veduti alla scoperta.

Fuor di ragione non irarti, o Giuno,

ché ciò sconvienti, rispondea Nettunno.

Non sia che primi commettiam la pugna

noi che siamo i più forti. Alla vedetta

di qualche poggio dalla via remoto

assidiamci piuttosto, ed ai mortali

resti la cura del pugnar. Se poscia

cominceran la zuffa o Marte o Febo,

e rattenendo Achille impediranno

ch'egli entri nella mischia, e noi pur tosto

susciteremo allor l'aspro conflitto,

e presto, io spero, dal valor del nostro

braccio domati, per le vie d'Olimpo

ritorneranno all'immortal consesso.

Li precorse, ciò detto, il nume azzurro

verso l'alta bastìa che pel divino

Ercole un giorno con Minerva i Teucri

innalzār, perché a quella egli potesse

riparato schivar della vorace

orca l'assalto allor che furibonda

l'inseguisse dal lido alla pianura.

Qui co' numi alleati il Dio s'assise

d'impenetrabil nube circonfuso.

Sul ciglio anch'essi s'adagiār dell'erto

Callicolon gli opposti numi intorno

a te, divino saettante Apollo,

e a Marte di cittadi atterratore.

Così di qua, di là deliberando

siedono i Divi, e niuna parte ardisce,

benché Giove gli sproni, aprir la pugna.

E già tutto d'armati il campo è pieno,

e di lampi che manda il riforbito

bronzo de' cocchi e de' guerrieri, e suona

sotto il fervido piè de' concorrenti

eserciti la terra. Ed ecco in mezzo

affrontarsi di pugna desïosi

due fortissimi eroi, d'Anchise il figlio

ed Achille. Avanzossi Enea primiero

minacciando e crollando il poderoso

elmo, e proteso il forte scudo al petto,

la grand'asta vibrava. Ad incontrarlo

mosse il Pelìde impetuoso, e parve

truculento lïone alla cui vita

denso stuol di garzoni, anzi l'intero

borgo si scaglia: incede egli da prima

sprezzatamente; ma se alcun de' forti

assalitor coll'asta il tocca, ei fiero

spalancando le fauci si rivolve

colla schiuma alle sanne; la gagliarda

alma in cor gli sospira, i fianchi e i lombi

flagella colla coda, e se medesmo

alla battaglia irrita: indi repente

con torvi sguardi avventasi ruggendo,

di dar morte già fermo o di morire:

tal la forza e il coraggio incontro al franco

Enea sospinser l'orgoglioso Achille,

e giunti a fronte, favellò primiero

il gran Pelìde: Enea, perché tant'oltre

fuor della turba ti spingesti? Forse

meco agogni pugnar perché su i Teucri

di Prìamo speri un dì stender lo scettro?

Ma s'egli avvegna ancor che tu m'uccida,

ei non porrallo alle tue mani, ei padre

di più figli, e d'età sano e di mente:

o forse i Teucri, se mi metti a morte,

un eletto poder bello di viti

ti statuiro e di fecondi solchi?

Ma dura impresa t'assumesti, io spero;

ch'altra volta, mi par, ti pose in fuga

questa mia lancia. Non rammenti il giorno

che soletto ti colsi, e con veloce

corso dall'Ida ti cacciai lontano

dalle tue mandre? Tu volavi, e, mai

non volgendo la fronte, entro Lirnesso

ti riparasti. Col favore io poi

di Giove e Palla la città distrussi,

e ne predai le donne, e tolta loro

la cara libertà, meco le trassi.

Gli Dei quel giorno ti scampār; non oggi

lo faranno, cred'io, come t'avvisi.

Va, ritìrati adunque, io te n'assenno,

rientra in turba, né mi star di fronte,

se il tuo peggio non vuoi, ché dopo il fatto

anche lo stolto dell'error si pente.

Me co' detti atterrir come fanciullo

indarno tenti, Enea rispose; anch'io

so dir minacce ed onte, e l'un dell'altro

i natali sappiamo, e per udita

i genitori; ché né tu conosci

per vista i miei, ned io li tuoi. Te prole

dell'egregio Pelèo dice la fama,

e della bella equòrea Teti. Io nato

di Venere mi vanto, e generommi

il magnanimo Anchise. Oggi per certo

o gli uni o gli altri piangeranno il figlio.

Ché veruno di noi di puerili

ciance contento non vorrà, cred'io,

separarsi ed uscir di questo arringo.

Ma se più brami di mia stirpe udire

al mondo chiara, primamente Giove

Dàrdano generò, che fondamento

pose qui poscia alle dardanie mura.

Perocché non ancora allor nel piano

sorgean le sacre ilìache torri, e il molto

suo popolo le idèe falde copriva.

Di Dàrdano fu nato il re d'ogni altro

più opulente Erittònio. A lui tre mila

di teneri puledri allegre madri

le convalli pascean. Innamorossi

Borea di loro, e di destrier morello

presa la forma alquante ne compresse,

che sei puledre e sei gli partoriro.

Queste talor ruzzando alla campagna

correan sul capo delle bionde ariste

senza pur sgretolarle; e se co' salti

prendean sul dorso a lascivir del mare,

su le spume volavano de' flutti

senza toccarli. D'Erittònio nacque

Tröe re de' Troiani, e poi di Troe

generosi tre figli Ilo ed Assàraco,

e il deïforme Ganimede, al tutto

de' mortali il più bello, e dagli Dei

rapito in cielo, perché fosse a Giove

di coppa mescitor per sua beltade,

ed abitasse con gli Eterni. Ad Ilo

nacque l'alto figliuol Laomedonte;

Titone a questo e Prìamo e Lampo e Clìzio

e l'alunno di Marte Icetaone:

Assàraco ebbe Capi, e Capi Anchise,

mio venitore, e Prìamo il divo Ettorre.

Ecco il sangue ch'io vanto. Il resto scende

tutto da Giove che ne' petti umani

il valor cresce o scema a suo talento,

potentissimo iddio. Ma tregua omai

fra l'armi a borie fanciullesche. Entrambi

possiam d'ingiurie aver dovizia e tanta

che nave non potrìa di cento remi

levarne il pondo. De' mortai volubile

e la lingua, e ne piovono parole

d'ogni maniera in largo campo, e quale

dirai motto, cotal ti fia rimesso.

Ma perché d'onte tenzonar siccome

stizzose femminette che nel mezzo

della via si rabbuffano, col vero,

spinte dall'ira, affastellando il falso?

Me qui pronto a pugnar non distorrai

colle minacce dal cimento. Or via

alle prove dell'asta. - E così detto,

la ferrea lancia fulminò nel vasto

terribile brocchier che dell'acuta

cuspide al picchio rimugghiò. Turbossi

il Pelìde, e dal petto colla forte

mano lo scudo allontanò, temendo

nol trafori la lunga ombrosa lancia

del magnanimo Enea. Di mente uscito

eragli, stolto! che mortal possanza

difficilmente doma armi divine.

Non ruppe la gagliarda asta troiana

il pavese achillèo, ché la rattenne

dell'aurea piastra l'immortal fattura,

e sol due falde ne forò di cinque

che Vulcano v'avea l'una sull'altra

ribattute; di bronzo le due prime,

le due dentro di stagno, e tutta d'oro

la media che il crudel tronco represse.

Vibrò secondo la sua lunga trave

il Pelìde, e colpì dell'inimico

l'orbicolar rotella all'orlo estremo,

ove sottil di rame era condotta

una falda, e sottile il sovrapposto

cuoio taurino. La pelìaca antenna

da parte a parte lo passò. La targa

rimbombò sotto il colpo: esterrefatto

rannicchiossi e scostò dalla persona

Enea lo scudo sollevato; e l'asta,

rotti i due cerchi che il cingean, sul dorso

trasvolò furïosa, e al suol si fisse.

Scansato il colpo, si ristette, e immenso

duol di paura gli abbuiò le luci,

sentita la vicina asta confitta.

Pronto il Pelìde allor tratta la spada,

con terribile grido si disserra

contro il nemico. Era nel campo un sasso

d'enorme pondo che soverchio fōra

alle forze di due quai la presente

età produce. Diè di piglio Enea

a questo sasso, e agevolmente solo

l'agitando, si volse all'aggressore.

E nel vulcanio scudo o nell'elmetto

avventato l'avrìa, ma senza offesa,

e a lui per certo del Pelìde il brando

togliea la vita, se di ciò per tempo

avvistosi Nettunno, ai circostanti

celesti non facea queste parole:

Duolmi, o numi, d'assai del generoso

Enea che domo dal Pelìde all'Orco

irne tosto dovrà, dalle lusinghe

mal consigliato dell'arciero Apollo.

Insensato! ché nulla incontro a morte

gli varrà questo Dio. Ma della colpa

altrui la pena perché dee patirla

quest'innocente, liberal di grati

doni mai sempre agl'Immortali? Or via

moviamo in suo soccorso, e s'impedisca

che il Pelìde l'uccida, e che di Giove

l'ire risvegli la sua morte. I fati

decretār ch'egli viva, onde la stirpe

di Dardano non pera interamente,

di lui che Giove innanzi a quanti figli

alvo mortal gli partorìo, dilesse:

perocché da gran tempo egli la gente

di Prìamo abborre, e su i Troiani omai

d'Enea la forza regnerà con tutti

de' figli i figli e chi verrà da quelli.

Pensa tu teco stesso, o re Nettunno,

Giuno rispose, se sottrarre a morte

Enea si debba, o consentir, malgrado

la sua virtude, che lo domi Achille.

Quanto a Pallade e a me, presenti i numi,

noi giurammo solenne giuramento

di non mai da' Troiani la ruina

allontanar, no, s'anco tutta in cenere

Troia cadesse tra le fiamme achee.

Udito quel parlar, corse per mezzo

alla mischia e al fragor delle volanti

aste Nettunno, e giunto ove d'Enea

e dell'inclito Achille era la pugna,

una sùbita nube intorno agli occhi

del Pelìde diffuse, e dallo scudo

del magnanimo Enea svelto il ferrato

frassino, al piede del rival lo pose.

Indi spinse di forza, e dalla terra

levò sublime Enea, che preso il volo

dalla mano del Dio, varcò d'un salto

molte file d'eroi, molte di cocchi,

e all'estremo arrivò del rio conflitto,

ove in procinto si mettean di pugna

de' Càuconi le schiere. Ivi davanti

gli si fece Nettunno, e così disse:

Sconsigliato! qual Dio contra il Pelìde

ti sedusse a pugnar, contra un guerriero

di te più caro ai numi e più gagliardo?

S'altra volta lo scontri, ti ritira,

onde anzi tempo non andar sotterra.

Morto Achille, combatti audacemente,

ché nullo Acheo t'ucciderà. - Disparve

dopo questo precetto, e alle pupille

del Pelìde sgombrò la portentosa

caligine: tornār tutto ad un tempo

chiari al guardo gli obbietti, onde fremendo

nel magnanimo cor: Numi, diss'egli,

quale strano prodigio? Al suol giacente

veggo il mio telo, ma il guerrier non veggo

in cui bramoso di ferir lo spinsi.

Dunque è caro a' Celesti ei pur davvero

questo figlio d'Anchise! ed io stimava

falso il suo vanto. E ben si salvi. Andata

gli sarà, spero, di provarsi meco

in avvenir la voglia, assai felice

d'aver posta in sicuro oggi la vita.

Orsù, l'acheo valor riconfortato,

facciam degli altri Teucri esperimento.

Sì dicendo, saltò dentro alle file

e tutti rincuorò: Prestanti Achei,

non vogliate discosto or più tenervi

da' nemici: guerrier contra guerriero

scagliatevi, e pugnate ardimentosi.

Per forte ch'io mi sia, m'è dura impresa

sol con tutti azzuffarmi ed inseguirli.

Né Marte pure immortal Dio né Palla

a tanti armati reggerìan. Ma quanto

queste man, questi piedi e questo petto

potranno, io tutto vel consacro, e giuro

di non posarmi un sol momento. Io vado

a sfondar quelle file, e non fia lieto

chi la mia lancia scontrerà, mi penso.

Così gli sprona; e minaccioso anch'esso

Ettore i suoi conforta, e contro Achille

ir si promette: Del Pelìde, o prodi,

non temete le borie: anch'io saprei

pur co' numi combattere a parole,

coll'asta, no, ch'ei son più forti assai.

Né tutti avran d'Achille i vanti effetto:

se l'un pieno gli andrà, l'altro gli fia

tronco nel mezzo. Ad incontrarlo io vado

s'anco la man di fuoco egli s'avesse,

sì, di fuoco la man, di ferro il polso.

Da questo dire accesi, alto levaro

l'aste avverse i Troiani, e con immenso

romor le forze s'accozzār. Si strinse

allora Apollo al teucro duce, e disse:

Ettore, non andar contro il Pelìde

fuor di fila: ma tienti entro la schiera,

e dalla turba lo ricevi, e bada

che di brando o di stral non ti raggiunga.

Udì del Dio la voce, e sbigottito

nella turba de' suoi l'eroe s'immerse.

Ma di gran forza il cor vestito Achille

con gridi orrendi si balzò nel mezzo

de' Troiani, e prostese a prima giunta

di numerose genti un condottiero,

il prode Ifizïon che ad Otrintèo

guastator di città nell'opulento

popolo d'Ide sul nevoso Tmolo

Näide Ninfa partorì. Venìa

costui di punta a furia. Il divo Achille

coll'asta a mezzo capo lo percosse,

e in due lo fésse. Rimbombando ei cadde,

ed orgoglioso il vincitor sovr'esso

esclamò: Tremendissimo Otrintìde,

eccoti a terra: e tu sepolcro umìle

in questa sabbia avrai, tu che superba

cuna sortisti alla gigèa palude

ne' paterni poderi appo il pescoso

Illo e dell'Ermo il vorticoso flutto.

Così l'oltraggia; della morte il buio

coprì gli occhi al meschino, e de' cavalli

l'ugna e li chiovi delle rote achee

il lasciār nella calca infranto e pesto.

Ferì dopo costui Demoleonte,

d'Antènore figliuolo e valoroso

combattitore; lo ferì sul polso

della tempia, né valse alla difesa

la ferrea guancia del polito elmetto.

L'impetuosa punta spezzò l'osso,

sgominò le cervella, che di sangue

tutte insozzārsi, e così giacque il fiero.

Gittatosi dal carro, Ippodamante

dinanzi gli fuggìa. L'asta d'Achille

lo raggiunse nel tergo. L'infelice

esalava lo spirto, e mugolava

come tauro che a forza innanzi all'are

d'Elice è tratto da garzon robusti,

e ne gode Nettunno: a questa guisa

muggìa quell'alma feroce, e spirava.

S'avventò dopo questi a Polidoro.

Era costui di Prìamo un figlio: il padre

gli avea difeso di pugnar, siccome

il minor de' suoi nati e il più diletto,

che tutti al corso li vincea. Di questa

sua virtute di piè con fanciullesca

demenza vanitoso egli tra' primi

combattenti correa senza consiglio,

finché morto vi cadde. Il colse a tergo

in quei trascorsi Achille ove la cinta

dall'auree fibbie s'annodava, e doppio

scontravasi l'usbergo. Il telo acuto

rïuscì di rimpetto all'ombilico:

ululò quel trafitto, e su i ginocchi

cascò: curvato colla man compresse

le intestina, e mortal nube lo cinse.

Come in quell'atto miserando il vide

il suo germano Ettorre, una profonda

nube di duolo gl'ingombrò le luci,

né gli sofferse il cor di più ristarsi

dentro la turba; ma crollando immensa

una lancia, volò contro il Pelìde

come fiamma ondeggiante. A quella vista

saltò di gioia Achille, e baldanzoso,

Ecco l'uom, disse, che nel cor m'aperse

sì gran piaga, colui che il mio m'uccise

caro compagno: or più non fuggiremo

l'un l'altro a lungo pei sentier di guerra.

Disse, e al divino Ettòr bieco guatando,

gridò: T'accosta, ché al tuo fin se' giunto.

Non pensar, gli rispose imperturbato

l'eroe troiano, non pensar di darmi

per minacce terror come a fanciullo,

ché oprar so l'armi della lingua io pure,

e conosco tue forze, e mi confesso

men valente di te: ma in grembo ai numi

sta la vittoria, ed avvenir può forse

ch'io men prode dal sen l'alma ti svelga.

Affilata ha la punta anche il mio telo.

Disse, e l'asta scagliò: ma dal divino

petto d'Achille la svïò Minerva

con levissimo soffio. Risospinta

dall'alito immortal, l'asta ritorno

fece ad Ettorre, e al piè gli cadde. Allora

con orribile grido disserrossi

furibondo il Pelìde, impazïente

di trucidarlo. Ma gliel tolse Apollo,

lieve impresa ad un Dio, tutto coprendo

di folta nebbia Ettòr. Tre volte Achille

coll'asta l'assalì, tre volte un vano

fumo trafisse, e con furor venendo

il divino guerriero al quarto assalto,

minaccioso tuonò queste parole:

Cane troian, di nuovo ecco fuggisti

l'estremo fato che t'avea raggiunto,

e Febo ti scampò, quel Febo a cui

tra il sibilo dei dardi alzi le preci.

Ma s'altra volta mi darai nell'ugna,

e se a me pure assiste un qualche iddio,

ti finirò. Di quanti in man frattanto

mi verranno de' tuoi farò macello.

Così dicendo, a Drïope sospinse

sotto il mento la picca, e questi al piede

gli traboccò. Così lasciollo, e ratto

scagliandosi a Demùco, un grande e prode

di Filètore figlio, alle ginocchia

lo ferì, l'arrestò, poscia col brando

l'alma gli tolse. Dopo questi Dardano

e Laògono assalse, illustri figli

di Bïante, e travolti ambo dal cocchio

l'un di lancia atterrò, l'altro di spada.

Poi distese il troiano Alastorìde

che a' suoi ginocchi supplice cadendo

chiedea la vita in dono, ed ai conformi

suoi verd'anni pietà. Stolto! ché vano

il pregar non sapea, né quanto egli era

mite no, ma feroce. In umil atto

gli abbracciava i ginocchi, ed altro dire

volea pure il meschin; ma quegli il ferro

nell'èpate gl'immerse, che di fuori

riversossi, e di sangue un nero fiume

gli fe' lago nel seno. Venne manco

l'alma, e gli occhi coprì di morte il velo.

Indi Mulio investendo, entro un'orecchia

gli fisse il telo, e uscir per l'altra il fece.

Ad Echeclo d'Agènore un fendente

calò di spada al mezzo della testa,

e la spaccò; si tepefece il grande

acciar nel sangue, e la purpurea morte

e la Parca possente i rai gli chiuse.

Colse dopo di punta nella destra

Deucalïon là dove i nervi vanno

del cubito ad unirsi. Intormentito

nella mano il guerrier vedeasi innanzi

la morte, e passo non movea. Gli mena

un mandritto il Pelìde alla cervice,

netto il capo gli mozza, e via coll'elmo

lungi il butta. Schizzār dalle vertèbre

le midolle, e disteso il tronco giacque.

Rigmo poscia aggredì, Rigmo dai pingui

tracii campi venuto, e di Pirèo

generoso figliuol. Lo colse al ventre

il tessalico telo, e giù dal cocchio

lo scosse. Allor diè volta ai corridori

l'auriga Arėitòo; ma del Pelìde

l'asta il giunge alle spalle, e capovolto

tra i turbati cavalli lo precipita.

Quale infuria talor per le profonde

valli d'arido monte un vasto fuoco

che divora le selve, e in ogni lato

l'agita e spande di Garbino il soffio;

tale in sembianza d'un irato iddio

d'ogni parte si volve furibondo

il Pelìde, ed insegue e uccide e rossa

fa di sangue la terra. E come quando

nella tonda e polita aia il villano

due tauri accoppia di ben larga fronte

di Cerere a trebbiar le bionde ariste,

fuor del guscio in un subito saltella

di sotto al piede de' mugghianti il grano:

del magnanimo Achille in questa forma

gl'immortali cornipedi sospinti

i cadaveri calcano e gli scudi.

L'orbe tutto del cocchio e tutto l'asse

gronda di sangue dalle zampe sparso

de' cavalli a gran sprazzi e dalle rote.

Desìo di gloria il cuor d'Achille infiamma,

e l'invitte sue mani tutte sozze

son di polve, di tabe e di sudore.

 

 

LIBRO VENTESIMOPRIMO

 

 

Ma divenuti i Teucri alle bell'onde

del vorticoso Xanto, ameno fiume

generato da Giove, ivi il Pelìde

intercise i fuggenti; e parte al muro

per lo piano ne incalza ove testeso

davan le spalle al furibondo Ettorre

scompigliati gli Achei (per l'orme istesse

or dispersi si versano i Troiani,

e a tardarne il fuggir densa una nebbia

Giuno intorno spandea), parte negli alti

gorghi si getta dell'argenteo fiume

con tumulto. La rotta onda rimbomba,

ne gemono le ripe, e quei mettendo

cupi ululati, nuotano dispersi

come il rapido vortice li gira.

Qual cacciate dall'impeto del fuoco

alzan repente le locuste il volo

sul margo del ruscello: arde veloce

l'inopinata fiamma, e quelle in fretta

spaventate si gettano nel rio:

tal dinanzi al Pelìde la sonante

corsìa di Xanto rïempìasi tutta

di guerrieri e cavalli alla rinfusa.

Su la sponda del fiume allor poggiata

alle mirìci la pelìaca antenna,

strinse l'eroe la spada, e dentro il flutto

come demón lanciossi, rivolgendo

opre orrende nel cor. Menava a cerchio

il terribile acciar; s'udìa lugùbre

dei trafitti il lamento, e tinta in rosso

l'onda correa. Qual fugge innanzi al vasto

delfin la torma del minuto pesce,

che di tranquillo porto si ripara

nei recessi atterrito, ed ei n'ingoia

quanti ne giunge: paurosi i Teucri

così ne' greti s'ascondean del fiume.

Poiché stanca d'ucciderli il Pelìde

sentì la destra, dodici ne prese

vivi e di scelta gioventù, che il fio

dovean pagargli dell'estinto amico.

Stupidi per terror come cervetti

fuor degli antri ei li tira, e co' politi

cuoi di che strette avean le gonne, a tutti

dietro annoda le mani, e a' suoi compagni

onde trarli alle navi li commette.

Vago ei poscia di stragi in mezzo all'acque

diessi di nuovo impetuoso, e il figlio

del dardànide Prìamo Licaone

gli occorse in quella che fuggìa dal fiume.

Ne' paterni poderi un'altra volta,

venutovi notturno, egli l'avea

sorpreso e seco a viva forza addutto

mentre inaccorto con tagliente accetta

i nuovi rami recidendo stava

di selvatico fico, onde foggiarne

di bel carro il contorno: all'improvvista

gli fu sopra in quell'opra il divo Achille,

che trattolo alle navi in Lenno il cesse

per prezzo al figlio di Giasone Eunèo.

Ospite poi d'Eunèo con molti doni

ne fe' riscatto l'imbrio Eezióne,

che in Arisba il mandò. Di là fuggito

nascostamente, alle paterne case

avea fatto ritorno, e già la luce

undecima splendea, che con gli amici

si ricreava di servaggio uscito;

quando di nuovo il dodicesmo giorno

un Dio nemico tra le mani il pose

del terribile Achille, onde invïarlo

suo malgrado alle porte atre di Pluto.

Riguardollo il Pelìde; e siccom'era

nudo la fronte (ché celata e scudo

e lancia e tutto avea gittato oppresso

dalla fatica nel fuggir dal fiume,

e vacillava di stanchezza il piede),

lo riconobbe, e irato in suo cor disse:

Quale agli occhi mi vien strano portento?

Che sì che i Teucri dal mio ferro ancisi

tornan dall'ombre di Cocito al giorno!

Come vivo costui? come, venduto

già tempo in Lenno, del frapposto mare

poté l'onda passar che a tutti è freno?

Or ben, dell'asta mia gusti la punta.

Vedrem s'ei torna di là pure, ovvero

se l'alma terra che ritien costretti

anche i più forti, riterrà costui.

Queste cose ei discorre in suo segreto

senza far passo. Sbigottito intanto

Licaon s'avvicina desïoso

d'abbracciargli i ginocchi, e al nero artiglio

della Parca involarsi. Alza il Pelìde

la lunga lancia per ferir; ma quello

gli si fa sotto a tutto corso, e chino

atterrasi al suo piè. Divincolando

l'asta sul capo gli trapassa, e in terra

sitibonda di sangue si conficca.

Supplichevole allor coll'una mano

le ginocchia gli stringe il meschinello,

coll'altra gli rattien l'asta confitta,

né l'abbandona, e tuttavia pregando,

Deh ferma, ei grida: umilemente io tocco

le tue ginocchia, Achille: ah, mi rispetta;

miserere di me: pensa che sacro

tuo supplice son io, pensa, o divino

germe di Giove, che nudrito fui

del tuo pane quel dì che nel paterno

poder tua preda mi facesti, e tratto

lungi dal padre e dagli amici in Lenno,

di cento buoi ti valsi il prezzo, ed ora

tre volte tanti io ti varrò redento.

È questa a me la dodicesma aurora

che dopo molti affanni in Ilio giunsi,

ed ecco che crudel fato mi mette

in tuo poter: ciò chiaro assai mi mostra

che in odio a Giove io sono. Ahi! che a ben corta

vita la madre a partorir mi venne,

la madre Laotòe d'Alte figliuola,

di quell'Alte che vecchio ai bellicosi

Lelegi impera, e tien suo seggio al fiume

Satnïoente nell'eccelsa Pèdaso.

Di questo ebbe la figlia il re troiano

fra le molte sue spose, e due nascemmo

di lei, serbati a insanguinarti il ferro.

E l'un tra i fanti della prima fronte

già domasti coll'asta, il generoso

mio fratel Polidoro, ed or me pure

ria sorte attende; ché non io già spero,

poiché nemico mi vi spinse un Dio,

le tue mani sfuggir. E nondimeno

nuovo un prego ti porgo, e tu del core

la via gli schiudi. Non volermi, Achille,

trucidar: d'uno stesso alvo io non nacqui

con Ettor che t'ha morto il caro amico.

Così pregava umìl di Prìamo il figlio;

ma dispietata la risposta intese.

Non parlar, stolto, di riscatto, e taci.

Pria che Patròclo il dì fatal compiesse,

erami dolce il perdonar de' Teucri

alla vita, e di vivi assai ne presi,

ed assai ne vendetti: ora di quanti

fia che ne mandi alle mie mani Iddio,

nessun da morte scamperà, nessuno

de' Teucri, e meno del tuo padre i figli.

Muori dunque tu pur. Perché sì piangi?

Morì Patròclo che miglior ben era.

E me bello qual vedi e valoroso

e di gran padre nato e di una Diva,

me pur la morte ad ogni istante aspetta,

e di lancia o di strale un qualcheduno

anche ad Achille rapirà la vita.

Sentì mancarsi le ginocchia e il core

a quel dir l'infelice, e abbandonata

l'asta, accosciossi coll'aperte braccia.

Strinse Achille la spada, e alla giuntura

lo percosse del collo. Addentro tutto

gli si nascose l'affilato acciaro,

e boccon egli cadde in sul terreno

steso in lago di sangue. Allor d'un piede

presolo Achille, lo gittò nell'onda,

e con acerbo insulto, Or qui ti giaci,

disse, tra' pesci che di tua ferita

il negro sangue lambiran securi.

Né te la madre sul funereo letto

piangerà, ma del mar nell'ampio seno

ti trarrà lo Scamandro impetuoso,

e là qualcuno del guizzante armento

ti salterà dintorno, e sotto l'atre

crespe dell'onda l'adipose polpe

di Licaon si roderà. Possiate

così tutti perir finché del sacro

Ilio sia nostra la città, voi sempre

fuggendo, e io sempre colle stragi al tergo.

Né gioveranvi i vortici di questo

argenteo fiume a cui di molti tori

fate sovente sacrificio, e vivi

gettar solete i corridor nell'onda.

Né per questo sarà che non vi tocchi

di rio fato perir, finché la morte

di Patroclo sia sconta e in un la strage

che, me lontano, degli Achei faceste.

Dagl'imi gorghi udì Xanto d'Achille

le superbe parole, e d'alto sdegno

fremendo, divisava in suo pensiero

come alla furia dell'eroe por modo,

e de' Teucri impedir l'ultimo danno.

Intanto il figlio di Pelèo brandita

a nuove stragi la gran lancia, assalse

Asteropèo, figliuol di Pelegone,

di Pelegon cui l'Assio ampio-corrente

generò Dio commisto a Peribèa,

d'Acessameno la maggior fanciulla.

A costui si fe' sopra il grande Achille,

e quei del fiume uscendo ad incontrarlo

con due lance ne venne. Animo e forza

gli avea messo nel cor lo Xanto irato

pe' tanti in mezzo alle sue limpid'onde

giovani prodi dal Pelìde uccisi

spietatamente. Avvicinati entrambi,

disse Achille primiero: Chi se' tu

ch'osi farmiti incontro, e di che gente?

Chi m'attenta è figliuol d'un infelice.

E a lui di Pelegon l'inclita prole:

Magnanimo Pelìde, a che mi chiedi

del mio lignaggio? Dai remoti campi

della Peonia qua ne venni (è questo

già l'undecimo sole), e alla battaglia

guido i Peonii dalle lunghe picche.

Del nostro sangue è autor l'Assio di larga

bellissima corrente, e genitore

del bellicoso Pelegon. Di questo

io nacqui, e basta. Or mano all'armi, o prode.

All'altere minacce alto solleva

il divo Achille la pelìaca trave.

Fassi avanti del par con due gran teli

l'ambidestro campione Asteropèo.

Coglie col primo l'inimico scudo,

ma nol giunge a forar, ché l'aurea squama

lo vieta, opra d'un Dio: sfiora coll'altro

il destro braccio dell'eroe, di nero

sangue lo sprizza, e dopo lui si figge

di maggior piaga desïoso in terra.

Fe' secondo volar contro il nemico

la sua lancia il Pelìde, intento tutto

a trapassargli il cor, ma colse in fallo:

colse la ripa, e mezzo infitto in quella

il gran fusto restò. Dal fianco allora

trasse Achille la spada, e furibondo

assalse Asteropèo che invan dall'alta

sponda si studia di sferrar d'Achille

il frassino: tre volte egli lo scosse

colla robusta mano, e lui tre volte

la forza abbandonò. Mentre s'accinge

ad incurvarlo colla quarta prova

e spezzarlo, d'Achille il folgorante

brando il prevenne arrecator di morte.

Lo percosse nell'epa all'ombelico;

n'andār per terra gl'intestini; in negra

caligine ravvolti ei chiuse i lumi,

e spirò. L'uccisor gli calca il petto,

lo dispoglia dell'armi, e sì l'insulta:

Statti così, meschino, e benché nato

d'un fiume, impara che il cozzar co' figli

del saturnio signor t'è dura impresa.

Tu dell'Assio che larghe ha le correnti

ti lodavi rampollo, ed io di Giove

sangue mi vanto, e generommi il prode

Eàcide Pelèo che i numerosi

Mirmidóni corregge, e discendea

Eaco da Giove. Or quanto è questo Dio

maggior de' fiumi che nel vasto grembo

devolvonsi del mar, tanto sua stirpe

la stirpe avanza che da lor procede.

Eccoti innanzi un alto fiume, il Xanto;

di' che ti porga, se lo puote, aita.

Ma che puot'egli contra Giove a cui

né il regale Achelòo né la gran possa

del profondo Oceàno si pareggia?

E l'Oceàn che a tutti e fiumi e mari

e fonti e laghi è genitor, pur egli

della folgore trema, e dell'orrendo

fragor che mette del gran Giove il tuono.

Sì dicendo, divelse dalla ripa

la ferrea lancia, e su la sabbia steso

l'esamine lasciò. Bruna il bagnava

la corrente, e famelici dintorno

affollavansi i pesci a divorarlo.

Visto il forte lor duce Asteropèo

cader domato dal Pelìde, in fuga

spaventati si volsero i Peonii

lungo il rapido fiume, flagellando

prontamente i corsier. Gl'insegue Achille

e Tersìloco uccide e Trasio e Mneso,

Enio, Midone, Astìpilo, Ofeleste,

e più n'avrìa trafitti il valoroso,

se irato il fiume dai profondi gorghi

non levava in mortal forma la fronte

con questo grido: Achille, tu di forza

ogni altro vinci, è ver, ma il vinci insieme

di fatti indegni, e troppo insuperbisci

del favor degli Dei che sempre hai teco.

Se ti concesse di Saturno il figlio

di tutti i Troi la morte, dal mio letto

cacciali, e in campo almen fa tue prodezze.

Di cadaveri e d'armi ingombra è tutta

la mia bella corrente, ed impedita

da tante salme aprirsi al mar la via

più non puote; e tu segui a farle intoppo

di nuova strage. Orsù, desisti, o fiero

prence, e ti basti il mio stupor. - Scamandro

figlio di Giove, gli rispose Achille,

sia che vuoi; ma non io degli spergiuri

Teucri l'eccidio cesserò, se pria

dentr'Ilio non li chiudo, e corpo a corpo

non mi cimento con Ettòr. Qui deve

restar privo di vita od esso od io.

Sì dicendo, coll'impeto d'un nume

avventossi ai Troiani. Allor si volse

Xanto ad Apollo: Saettante iddio,

Giove fatto t'avea l'alto comando

di dar soccorso ai Teucri insin che giunga

la sera, e il volto della terra adombri.

E tu del padre non adempi il cenno?

Mentr'egli sì dicea, l'audace Achille

si scagliò dalla ripa in mezzo al fiume.

Il fiume allor si rabbuffò, gonfiossi,

intorbidossi, e furïando sciolse

a tutte l'onde il freno: urtò la stipa

de' cadaveri opposti, e li respinse,

mugghiando come tauro, alla pianura,

servati i vivi ed occultati in seno

a' suoi vasti recessi. Orrenda intorno

al Pelìde ruggìa la torbid'onda,

e gli urtava lo scudo impetuosa,

sì ch'ei fermarsi non potea su i piedi.

A un eccelso e grand'olmo alfin s'apprese

colle robuste mani, ma divelta

dalle radici ruinò la pianta,

seco trasse la ripa, e coi prostrati

folti rami la fiera onda rattenne,

e le sponde congiunse come ponte.

Fuor balza allor l'eroe dalla vorago,

e, messe l'ali al piè, nel campo vola

sbigottito. Nè il Dio perciò si resta,

ma colmo e negro rinforzando il flutto

vie più gonfio l'insegue, onde di Marte

rintuzzargli le furie, e de' Troiani

l'eccidio allontanar. Diè un salto Achille

quanto è il tratto d'un'asta, ed il suo corso

somigliava il volar di cacciatrice

aquila fosca che i volanti tutti

di forza vince e di prestezza. Il bronzo

dell'usbergo gli squilla orribilmente

sul vasto petto; con obliqua fuga

scappar dal fiume ei tenta, e il fiume a tergo

con più spesse e sonanti onde l'incalza.

Come quando per l'orto e pe' filari

di liete piante il fontanier deduce

di limpida sorgente un ruscelletto,

e, la marra alla man, sgombra gl'intoppi

alla rapida linfa che correndo

i lapilli rimescola, e si volve

giù per la china gorgogliando, e avanza

pur chi la guida: così sempre insegue

l'alto flutto il Pelìde, e lo raggiunge

benché presto di piè: ché non resiste

mortal virtude all'immortal. Quantunque

volte la fronte gli converse il forte,

mirando se giurati a porlo in fuga

tutti fosser gli Dei, tante il sovrano

fiotto del fiume gli avvolgea le spalle.

Conturbato nell'alma egli non cessa

d'espedirsi e saltar verso la riva,

ma con rapide ruote il fiero fiume

sottentrato gli snerva le ginocchia,

e di costa aggirandolo, gli ruba

di sotto ai piedi la fuggente arena.

Levò lo sguardo al cielo il generoso,

ed urlò: Giove padre, adunque nullo

de' numi aita l'infelice Achille

contro quest'onda! Ah ch'io la fugga, e poi

contento patirò qualsia sventura.

Ma nullo ha colpa de' Celesti meco

quanto la madre mia che di menzogne

mi lattò, profetando che di Troia

sotto le mura perirei trafitto

dagli strali d'Apollo! Oh foss'io morto

sotto i colpi d'Ettorre, il più gagliardo

che qui si crebbe! Avrìa rapito un forte

d'un altro forte almen l'armi e la vita.

Or vuole il Fato che sommerso io pera

d'oscura morte, ohimè! come fanciullo

di mandre guardian cui ne' piovosi

tempi il torrente, nel guardarlo, affoga.

Accorsero veloci al suo lamento,

e appressārsi all'eroe Palla e Nettunno

in sembianza mortal: lo confortaro,

il presero per mano, e della terra

sì disse il grande scotitor: Pelìde,

non trepidar: qui siamo in tua difesa

due gran Divi, Minerva ed io Nettunno,

né Giove il vieta, né dal Fato è fisso

che ti conquida un fiume; e tu di questo

vedrai tra poco abbonacciarsi il flutto.

Un saggio avviso porgeremti intanto,

se obbedirne vorrai. Dalla battaglia

non ti ristar se pria dentro le mura

dell'alta Troia non rinserri i Teucri

quanti potranno dalla man fuggirti,

né alle navi tornar che spento Ettorre:

noi ti daremo di sua morte il vanto.

Disparvero, ciò detto, e ai congiurati

Numi tornār. Riconfortato Achille

dal celeste comando, in mezzo al campo

precipitossi. Il campo era già tutto

una vasta palude in cui disperse

de' trafitti nuotavano le belle

armature e le salme. Alto al Pelìde

saltavano i ginocchi, ed ei diretto

la fiumana rompea, che a rattenerlo

più non bastava: perocché Minerva

gli avea nel petto una gran forza infuso.

Né rallentò per questo lo Scamandro

gl'impeti suoi, ma più che pria sdegnoso

contro il Pelìde sollevossi in alto

arricciando le spume, e al Simoenta,

destandolo, gridò queste parole:

Caro germano, ad affrenar vien meco

la costui furia, o le dardànie torri

vedrai tosto atterrate, e tolta ai Teucri

di resister la speme. Or tu deh corri

veloce in mio soccorso, apri le fonti,

tutti gonfia i tuoi rivi, e con superbe

onde t'innalza e tronchi aduna e sassi,

e con fracasso ruotali nel petto

di questo immane guastator che tenta

uguagliarsi agli Dei. Ben io t'affermo

che né bellezza gli varrà, né forza,

né quel divin suo scudo, che di limo

giacerà ricoperto in qualche gorgo

voraginoso. Ed io di negra sabbia

involverò lui stesso, e tale un monte

di ghiaia immenso e di pattume intorno

gli verserò, gli ammasserò, che l'ossa

gli Achei raccorne non potran: cotanta

la belletta sarà che lo nasconda.

Fia questo il suo sepolcro, onde non v'abbia

mestier di fossa nell'esequie sue.

Disse, ed alto insorgendo e d'atre spume

ribollendo e di sangue e corpi estinti,

con tempesta piombò sopra il Pelìde.

E già la sollevata onda vermiglia

occupava l'eroe, quando temendo

che vorticoso nol rapisca il fiume,

diè Giuno un alto grido, ed a Vulcano

Sorgi, disse, mio figlio; a te si spetta

pugnar col Xanto: non tardar, risveglia

le tremende tue fiamme. Io di Ponente

e di Noto a destar dalla marina

vo le gravi procelle, onde l'incendio

per lor cresciuto i corpi involva e l'arme

de' Troiani, e le bruci. E tu del Xanto

lungo il margo le piante incenerisci,

fa che avvampi egli stesso; e non lasciarti

né per minacce né per dolci preghi

svolger dall'opra, né allentar la forza

s'io non ten porga con un grido il segno.

Frena allora gl'incendii e ti ritira.

Ciò detto appena, un vasto foco accese

Vulcano, e lo scagliò. Si sparse quello

prima pel campo, e i tanti, di che pieno

il Pelìde l'avea, morti combusse.

Si dileguār le limpid'acque, e tutto

seccossi il pian, qual suole in un istante

d'autunnale aquilon sciugarsi al soffio

l'orto irrigato di recente, e in core

ne gode il suo cultor. Seccato il campo,

e combusti i cadaveri, si volse

contro il fiume la vampa. Ardean stridendo

i salci e gli olmi e i tamarigi, ardea

il loto e l'alga ed il cipero in molta

copia cresciuti su la verde ripa.

Dal caldo spirto di Vulcano afflitti,

e qua e là per le belle onde dispersi

guizzano i pesci. Il cupo fiume istesso

s'infoca, e in voce dolorosa esclama:

Vulcano, al tuo poter nullo resiste

de' numi: io cedo alle tue fiamme. Ah cessa

dalla contesa: immantinente Achille

scacci pur tutti di cittade i Teucri;

di soccorsi e di risse a me che cale? -

Così rïarso dalle fiamme ei parla.

Come ferve a gran fuoco ampio lebète

in cui di verro saginato il pingue

lombo si frolla; alla sonora vampa

crescon forza di sotto i crepitanti

virgulti, e l'onda d'ogni parte esulta:

sì la bella del Xanto acqua infocata

bolle, né puote più fluir consunta

ed impedita dalla forza infesta

dell'ignifero Dio. Quindi a Giunone

quell'offeso pregò con questi accenti:

perché prese il tuo figlio, augusta Giuno,

su l'altre a tormentar la mia corrente?

Reo ti son forse più che gli altri tutti

protettori de' Troi? Pur se il comandi,

mi rimarrò, ma si rimanga anch'esso

questo nemico, e non sarà, lo giuro,

mai de' Teucri per me conteso il fato,

no, s'anco tutta per la man dovesse

de' forti Achivi andar Troia in faville.

La Dea l'intese, ed a Vulcan rivolta,

Férmati, disse, glorïoso figlio:

dar cotanto martìr non si conviene

per cagion de' mortali a un Immortale.

Spense Vulcano della madre al cenno

quell'incendio divino, e ne' bei rivi

retrograda tornò l'onda lucente.

Domo il Xanto, quetārsi i due rivali,

ché così Giuno comandò, quantunque

calda di sdegno; ma tra gli altri numi

più tremenda risurse la contesa.

Scissi in due parti s'avanzār sdegnosi

l'un contro l'altro con fracasso orrendo:

ne muggì l'ampia terra, e le celesti

tube squillār: sull'alte vette assiso

dell'Olimpo n'udì Giove il clangore,

e il cor di gioia gli ridea mirando

la divina tenzone: e già sparisce

tra gli eterni guerrieri ogn'intervallo.

Truce di scudi forator diè Marte

le mosse, e primo colla lancia assalse

Minerva, e ontoso favellò: Proterva

audacissima Dea, perché de' numi

l'ire attizzi così? Non ti ricorda

quando a ferirmi concitasti il figlio

di Tidèo Dïomede, e dirigendo

della sua lancia tu medesma il colpo,

lacerasti il mio corpo? Il tempo è giunto

che tu mi paghi dell'oltraggio il fio.

Sì dicendo, avventò l'insanguinato

Marte il gran telo, e ne ferì l'orrenda

egida, che di Giove anco resiste

alle saette. Si ritrasse indietro

la Diva, e ratta colla man robusta

un macigno afferrò, che negro e grande

giacea nel campo dalle prische genti

posto a confine di poder. Con questo

colpì l'impetuoso iddio nel collo,

e gli sciolse le membra. Ei cadde, e steso

ingombrò sette jugeri; le chiome

insozzārsi di polve, e orrendamente

l'armi sul corpo gli tonār. Sorrise

Pallade, e altera l'insultò: Demente!

che meco ardisci gareggiar, non vedi

quant'io t'avanzo di valor? Va, sconta

di tua madre le furie, e dal suo sdegno

maggior castigo, dell'aver tradito

pe' Teucri infidi i giusti Achei, t'aspetta.

Così detto, le lucide pupille

volse altrove. Frattanto al Dio prostrato

Venere accorse, per la mano il prese,

e lui che grave sospira, e a fatica

riaver può gli spirti, altrove adduce.

L'alma Giuno li vide, ed a Minerva,

Guarda, disse, di Giove invitta figlia,

guarda quella impudente: ella di nuovo

fuor dell'aspro conflitto via ne mena

quell'omicida. Ah vola, e su lor piomba.

Volò Minerva, e gl'inseguì. Di gioia

il cor balzava, e fattasi lor sopra,

colla terribil mano a Citerea

tal diè un tocco nel petto, che la stese:

giaceano entrambi riversati, e altera

su lor Minerva glorïossi, e disse:

Fosser tutti così questi di Troia

proteggitori a disfidar venuti

i loricati Achei! Fossero tutti

di fermezza e d'ardir pari a Ciprigna

di Marte aiutatrice e mia rivale!

E noi, distrutte d'Ilïon le torri,

già poste l'armi da gran tempo avremmo.

Udì la Diva dalle bianche braccia

il motteggio, e sorrise. A Febo allora

disse il sire del mar: Febo, già sono

gli altri alle prese; e noi ci stiamo in posa?

ciò del tutto sconviensi; onta sarìa

tornar di Giove ai rilucenti alberghi

senza far d'armi paragon. Comincia

tu minore d'età; ché non è bello

a me, più saggio e antico, esser primiero.

Oh povero di senno e d'intelletto!

non ricordi più dunque i tanti affanni

che noi da Giove ad esular costretti

intorno ad Ilio sopportammo insieme,

noi soli e numi, allor che all'orgoglioso

Laomedonte intero un anno a prezzo

pattuimmo il servir? Duri comandi

il tiranno ne dava. Ed io di Troia

l'alta cittade edificai, di belle

ampie mura la cinsi, e di securi

baluardi; e tu, Febo, alle selvose

idèe pendici pascolavi intanto

le cornigere mandre. Ma condotta

dalle grate Ore del servir la fine,

ne frodò la mercede il re crudele,

e minaccioso ne scacciò, giurando

che te di lacci avvinto e mani e piedi

in isola remota avrìa venduto,

e mozze inoltre ad ambeduo l'orecchie.

Frementi di rancor per la negata

pattuita mercede, immantinente

noi ne partimmo. È questo forse il merto

ch'or le sue genti a favorir ti move,

anzi che nosco procurar di questi

fedìfraghi Troiani e de' lor figli

e delle mogli la total ruina?

Possente Enosigèo, rispose Apollo,

stolto davvero ti parrei se teco

a cagion de' mortali io combattessi,

che miseri e quai foglie or freschi sono,

or languidi e appassiti. Usciamo adunque

del campo, e sia tra lor tutta la briga.

Ciò detto, altrove s'avviò, né volle

alle mani venir, per lo rispetto

di quel Nume a lui zio. Ma la sorella

di belve agitatrice aspra Dïana

con acri motti il rampognò: Tu fuggi,

tu che lunge saetti? e tutta cedi

senza contrasto al re Nettun la palma?

Vile! a che dunque nella man quell'arco?

Ch'io non t'oda più mai nella paterna

reggia tra' numi, come pria, vantarti

di combattere solo il re Nettunno.

Non le rispose Apollo; ma sdegnosa

si rivolse alla Dea di strali amante

la veneranda Giuno, e sì la punse

con acerbo ripiglio: E come ardisci

starmi a fronte, o proterva? Di possanza

mal tu puoi meco gareggiar, quantunque

d'arco armata. Gli è ver che fra le donne

ti fe' Giove un lïone, e qual ti piaccia

ti concesse ferir. Ma per le selve

meglio ti fia dar morte a capri e cervi,

che pugnar co' più forti. E se provarti

vuoi pur, ti prova, e al paragone impara

quanto io sono da più. - Ciò detto, al polso

colla manca le afferra ambe le mani,

colla dritta dagli omeri le strappa

gli aurei strali, e ridendo su l'orecchia

li sbatte alla rival che d'ogni parte

si divincola; e sparse al suol ne vanno

le aligere saette. Alfin di sotto

le si tolse, e fuggì come colomba

che da grifagno augel per venturoso

fato scampata ad appiattarsi vola

nel cavo d'una rupe. Ella piangendo

così fuggìa, lasciate ivi le frecce.

Parlò quindi a Latóna il messaggiero

argicìda: Latóna, io non vo' teco

cimentarmi; il pugnar colle consorti

del nimbifero Giove è dura impresa.

Va dunque; e franca fra gli eterni Dei

d'avermi vinto per valor ti vanta.

Così dicea Mercurio, e quella intanto

gli sparsi per la polve archi e quadrelli

raccogliea della figlia, e la seguìa,

ché all'Olimpo salita entro l'eterne

stanze di Giove avea già messo il piede.

Su i paterni ginocchi lagrimando

la vergine s'assise, e le tremava

l'ambrosio manto sul bel corpo. Il padre

la si raccolse al petto, e con un dolce

sorriso dimandò: Chi de' Celesti

temerario t'offese, o mia diletta,

come colta in error? - La tua consorte,

Cinzia rispose, mi percosse, o padre,

Giunon che sparge fra gli Dei le risse.

Mentre in cielo seguìan queste parole,

Febo entrava nel sacro Ilio a difesa

dell'alto muro, perocché temea

nol prendesse in quel dì pria del destino

degli Achivi il valor. Ma gli altri Eterni

all'Olimpo tornaro, irati i vinti,

festosi i vincitori, e ognun dintorno

al procelloso genitor s'assise.

Il Pelìde struggea pel campo intanto

i Troiani, e stendea confusamente

cavalli e cavalier. Come fra densi

globi di fumo che si volve al cielo

un gran fuoco, in cui soffia ira divina,

una cittade incende, e a tutti arreca

travaglio e a molti esizio; a questa immago

dava Achille ai Troiani angoscia e morte.

Stava sull'alto d'una torre il veglio

Prìamo, e visti fuggir senza ritegno,

senza far più difesa, i Troi davanti

al gigante guerrier, mise uno strido,

e calò dalla torre, onde ai custodi

degli ingressi lasciar lungo le mura

questi avvisi: Alle man tenete, o prodi,

spalancate le porte insin che tutti

nella città sien salvi i fuggitivi

dal diro Achille sbaragliati. Ahi giunto

forse è l'ultimo danno! Come dentro

siensi messe le schiere, e ognun respiri,

riserrate le porte, e saldamente

sbarratele; ch'io temo non irrompa

fin qua dentro il furor di questo fiero.

Al comando regal schiusero quelli

tosto le porte, e ne levār le sbarre.

Onde una via s'aperse di salute.

Fuor delle soglie allor lanciossi Apollo

in soccorso de' Troi che dritto al muro

fuggìan da tutto il campo arsi di sete,

sozzi di polve. E impetuoso Achille,

come il porta furor, rabbia, ira e brama

di sterminarli, gl'inseguìa coll'asta;

ed era questo il punto in che gli Achei

dell'alta Troia avrìan fatto il conquisto,

se Febo Apollo l'antenòreo figlio

Agènore, guerrier d'alta prestanza,

non eccitava alla battaglia. Il Dio

gli fe' coraggio, gli si mise al fianco,

onde lungi tenergli della Parca

i gravi artigli, ed appoggiato a un faggio,

di caligine tutto si ricinse.

Come Agènore il truce ebbe veduto

guastator di città, fermossi, e molti

pensier volgendo, gli ondeggiava il core,

e dicea doloroso in suo segreto:

Misero me! se dietro agli altri io fuggo

per timor di quel crudo, egli malgrado

la mia rattezza prenderammi, e morte

non decorosa mi darà. Se mentre

ei va questi inseguendo, io d'altra parte

m'involo, e d'Ilio traversando il piano,

dell'Ida ai gioghi mi riparo, e quivi

nei roveti m'appiatto, indi la sera

lavato al fiume, e rinfrescato a Troia

mi ritorno... Oh che penso? Egli non puote

non veder la mia fuga, e arriverammi

precipitoso con più presti piedi.

E allor dall'ugna di costui, che tutti

vince di forza, chi mi scampa? Or dunque,

poiché certa è mia morte, ad incontrarlo

vadasi in faccia alla cittade. Ei pure

ha corpo che si fora, e un'alma sola;

e benché Giove glorïoso il renda,

mortal cosa lo dice il comun grido.

Verso Achille, in ciò dir, volta la fronte,

e desïoso di pugnar l'aspetta.

Come da folto bosco una pantera

sbucando affronta il cacciator, né teme

i latrati, né fugge, e s'anco avvegna

ch'ei l'impiaghi primier, la generosa

il furor non rallenta, innanzi ch'ella

o gli si stringa addosso, o resti uccisa:

così ricusa di fuggir l'ardito

d'Antènore figliuol, se col Pelìde

pria non fa prova di valor. Protese

dunque al petto lo scudo, e nel nemico

tolta la mira, alto gridò: Per certo

de' magnanimi Teucri, illustre Achille,

atterrar ti speravi oggi le mura.

Stolto! n'avrai penoso affare ancora,

ché là dentro siam molti e valorosi

che ai cari padri, alle consorti, ai figli

difendiam la cittade, e tu, quantunque

guerrier tremendo, giacerai qui steso.

Sì dicendo, lanciò con vigoroso

polso la picca, e nello stinco il colse

sotto il ginocchio. Risonò lo stagno

dell'intatto stinier, ma il ferro acuto

senza forarlo rimbalzò respinto

dalle tempre divine. Impetuoso

scagliossi Achille al feritor, ma ratto

gl'invidïando quella lode Apollo,

involò l'avversario alla sua vista

l'avvolgendo di nebbia, e queto queto

dal certame lo trasse, e via lo spinse.

Indi tolta d'Agènore la forma,

diessi in fuga, e svïò con quest'inganno

dalla turba il Pelìde che veloce

dietro gli move e incalzalo, e piegarne

vêr lo Scamandro studiasi la fuga.

Nol precorre il fuggente a tutto corso,

ma di poco intervallo, e colla speme

sempre l'alletta d'una pronta presa,

e sempre lo delude. Intanto a torme

spaventati si versano i Troiani

dentro le porte. In un momento tutta

di lor fu piena la città, ché nullo

rimanersene fuori non sostenne,

né il compagno aspettar, né dei campati

dimandar, né de' morti. Ognun che snelle

a salvarsi ha le piante, alla rinfusa

dentro si getta, e dal terror respira.

 

 

LIBRO VENTESIMOSECONDO

 

 

Così, quai cervi paurosi, i Teucri

nella città fuggìan confusamente,

e davano appoggiati agli alti merli

al sudor refrigerio ed alla sete,

mentre gli Achei con inclinati scudi

si fan sotto alle mura. Ma la Parca

dinanzi ad Ilio su le porte Scee

rattenne immoto, come astretto in ceppi,

lo sventurato Ettòr. Fece ad Achille

l'arciero Apollo allor queste parole:

Perché mortale un Immortal persegui,

o figlio di Pelèo? Non anco avvisi,

cieco furente, che un Celeste io sono?

Dei fugati Troiani e nel riparo

d'Ilio già chiusi ogni pensier ponesti,

e qua svïasti il tuo furor. Che speri?

uccidermi? Son nume. - E nume infesto,

e di tutti il peggior (rispose acceso

di grand'ira il Pelìde). A questa parte

m'hai devïato dalle mura, e tolto

che molti, prima d'arrivar là dentro,

mordessero la polve. Ah mi rapisti

un gran vanto, e quei vili in salvo hai messo

perché non temi la vendetta mia;

ma la farei ben io, se la potessi.

Tacque, e drizzossi alla città volgendo

terribili pensieri, e il piè movea

rapido come vincitor de' ludi

animoso destrier che per l'arena

fa le ruote volar. Primo lo vide

precipitoso correre pel campo

Prìamo, e da lungi folgorar, siccome

l'astro che cane d'Orïon s'appella,

e precorre l'Autunno: scintillanti

fra numerose stelle in densa notte

manda i suoi raggi; splendissim'astro,

ma luttuoso e di cocenti morbi

ai miseri mortali apportatore.

Tal del volante eroe sul vasto petto

splendean l'armi. Ululava, e colle mani

alto levate si battea la fronte

il buon vecchio, e chiamava a tutta voce

l'amato figlio supplicando: e questi

fermo innanzi alle porte altro non ode

che il desìo di pugnar col suo nemico.

Allor le palme il misero gli stese,

e questi profferì pietosi accenti:

Mio diletto figliuolo, Ettore mio,

deh lontano da' tuoi da solo a solo

non affrontar costui che di fortezza

d'assai t'è sopra. Oh fosse in odio il crudo

agli Dei quanto a me! Pasto di belve

ei giacerìa qui steso (e del mio petto

avrìa fine l'angoscia), ei che di tanti

orbo mi fece valorosi figli,

quale ucciso, qual tratto alle remote

rive e venduto. Ed or fra i qui rinchiusi

Teucri i due figli, ahi lasso! ancor non veggo

che l'esimia consorte Laotòe

a me produsse, Polidoro io dico

e Licaon. Se prigionieri ei sono,

con auro e bronzo ne farem riscatto,

ch'io n'ho molte conserve, e molto avere

diè l'egregio vegliardo Alte alla figlia.

Se poi ne' regni già passār di Pluto,

alto sarà su la lor morte il pianto

della madre ed il mio, ma brevi i lutti

del popolo, ove spento tu non cada

dal Pelìde, tu pur. Rïentra adunque,

mio dolce figlio, nelle mura, e i Teucri

conservane e le spose. Al diro Achille

non lasciar sì gran lode: abbi pensiero

della cara tua vita, abbi pietade

di me meschino a cui non tolse ancora

la sventura il sentir, di me che misi

già nelle soglie di vecchiezza il piede,

dall'alta condannato ira di Giove

di ria morte a perir, vista di mali

prima ogni faccia, trucidati i figli,

rapite le fanciulle, i casti letti

contaminati, crudelmente infranti

contro terra i bambini, e strascinate

dall'empio braccio degli Achei, le nuore.

Ed ultimo me pur su le regali

porte trafitto e spoglia abbandonata

voraci i cani sbraneran, que' cani

che custodi io nudrìa del regio tetto

alla mia mensa io stesso; e allor da ingorda

rabbia sospinti disputar vedransi

il mio sangue; e di questo alfin satolli

ne' portici sdraiarsi. Ah, bello è in campo

del giovine il morir! Coperto il petto

d'onorate ferite, onta non avvi,

non offesa che morto il disonesti.

Ma che ludibrio sia degli affamati

mastini il capo venerando e il bianco

mento d'un veglio indegnamente ucciso,

che sia bruttato il nudo e verecondo

suo cadavere, ah! questo, è questo il colmo

dell'umane sventure. E sì dicendo,

strappasi il veglio dall'augusto capo

i canuti capei; ma non si piega

l'alma d'Ettorre. Desolata accorse

d'altra parte la madre, e lagrimando

e nudandosi il seno, la materna

poppa scoperse, e, A questa abbi rispetto,

singhiozzante sclamava, a questa, o figlio,

che calmò, lo ricorda, i tuoi vagiti.

Rïentra, Ettore mio, fuggi cotesto

sterminatore, non istargli a petto,

sciaurato! Non io, s'egli t'uccide,

non io darti potrò, caro germoglio

delle viscere mie, su la funèbre

bara il mio pianto, né il potrà l'illustre

tua consorte: e tu lungi appo le navi

giacerai degli Achivi, esca alle belve.

Questi preghi di lagrime interrotti

porgono al figlio i dolorosi, e nulla

persuadon l'eroe che fermo attende

lo smisurato già vicino Achille.

Quale in tana di tristi erbe pasciuto

fero colùbro il vïandante aspetta,

e gonfio di grand'ira, orribilmente

guatando intorno, nelle sue latèbre

lubrico si convolve; e tale il duce

Troian, di sdegni generosi acceso,

appoggiato lo scudo a una sporgente

torre, sta saldo; e nel gran cor rivolge

questi pensieri: Che farò? Se metto

là dentro il piè, Polidamante il primo

rampognerammi acerbo, ei che la scorsa

notte esortommi alla città ritrarre,

comparso Achille, i Teucri; ed io nol feci:

e sì quest'era il meglio. Or che la mia

pertinacia fatal tutti li trasse

nella ruina, sostener l'aspetto

più non oso de' Troi né dell'altere

Troiane, e parmi già i peggiori udire:

Ecco là quell'Ettòr che di sue forze

troppo fidando il popolo distrusse.

Così diranno, e meglio allor mi fia

combattere, e redir, prostrato Achille,

nella cittade, o per la patria mia

aver qui morte glorïosa io stesso.

Pur se deposto e scudo e lancia ed elmo,

io medesmo mi fêssi incontro a questo

magnanimo rivale, e la spartana

donna cagion di tanta guerra, e tutte

gli promettessi le con lei portate

da Paride ricchezze, ed altre ancora

da partirsi agli Achei, quante ne chiude

questa città; se con tremendo giuro

quindi i Troiani a rivelar stringessi

i riposti tesori, ed in due parti

dividendoli tutti... Oh che vaneggia

mai la mia mente! Io supplice, io dimesso

presentarmi? Il crudel, nulla m'avendo

né pietà né rispetto (ov'io dell'armi

nudo a lui vada), disarmato ancora,

qual donna imbelle, metterammi a morte,

ch'ei non è tale da poter con esso

novellar dal querceto o dalla rupe

come amanti garzoni e donzellette.

A donzellette adunque ed a garzoni

le dolci fole, a me la pugna; e tosto

vedrassi cui darà Giove la palma.

Così seco ragiona, e fermo aspetta.

Ed ecco Achille avvicinarsi, al truce

dell'elmo agitator Marte simìle.

Nella destra scotea la spaventosa

pelìaca trave; come viva fiamma,

o come disco di nascente Sole

balenava il suo scudo. Il riconobbe

Ettore, e freddo corsegli per l'ossa

un tremor, né aspettarlo ei più sostenne,

ma lasciate le porte, a fuggir diessi

atterrito. Spiccossi ad inseguirlo

fidato Achille ne' veloci piedi;

qual ne' monti sparvier che, de' volanti

il più ratto, si scaglia impetuoso

su pavida colomba: ella sen fugge

obbliquamente, e quei doppiando il volo

vie più l'incalza con acuti stridi,

di ghermirla bramoso: a questa guisa

l'ardente Achille difilato vola

dietro il trepido Ettòr che in tutta fuga

mena il rapido piè rasente il muro.

Trascorsero veloci la collina

delle vedette, oltrepassār, lunghesso

la callaia, il selvaggio aereo fico

sempre sotto alle mura; e già venuti

son dell'alto Scamandro alle due fonti.

Calida è l'una, e qual di fuoco acceso

spandesi intorno di sue linfe il fumo:

fredda come gragnuola o ghiaccio o neve

scorre l'altra di state: ambe son cinte

d'ampii lavacri di polita pietra,

a cui, pria che l'Acheo venisse i giorni

della pace a turbar, solean de' Teucri

liete le spose e le avvenenti figlie

i bei veli lavar. Da questa parte

volano i due campion, l'uno fuggendo,

l'altro inseguendo. Il fuggitivo è forte,

ma più forte e più ratto è chi l'insegue,

e d'un tauro non già, né della pelle

si gareggia d'un bue, premio a veloce

di corsa vincitor, ma della vita

del grande Ettorre. E quale a vincer usi

giran le mete corridori ardenti,

a cui proposto è di gentil donzella

o d'un tripode il premio, ad onoranza

d'alcun defunto eroe; così tre volte

dell'ilìaca città fêr questi il giro

velocemente. A riguardarli intento

stava il consesso de' Celesti, e Giove

a dir si fece: Ahi sorte indegna! io veggo

d'Ilio intorno alle mura esagitato

un diletto mortal; duolmi d'Ettorre

che su l'idèe pendici e sull'eccelsa

pergàmea rocca a me solea di scelte

vittime offrire i pingui lombi, ed ora

del minaccioso Achille il presto piede

l'incalza intorno alla città. Pensate,

vedete, o numi, se per noi si debba

dalla morte camparlo, o pur, quantunque

così prode, il domar sotto il Pelìde.

Procelloso Tonante, oh che dicesti,

gli rispose Minerva, e che t'avvisi?

Alla morte involar uomo sacro a morte?

E tu l'invola. Ma non tutti al certo

noi Celesti tal fatto assentiremo.

T'accheta, o figlia, replicò de' nembi

l'adunator, ch'io nulla ho fermo ancora,

e nulla io voglio a te negar. Fa tutto,

senza punto ristarti, il tuo desire.

Spronò quel detto la già pronta Diva

che dall'olimpie cime impetuosa

spiccossi, e scese. Alla dirotta intanto

incalza Achille il fuggitivo Ettorre.

Come veltro cerviero alla montagna

giù per convalli e per boscaglie insegue

dalla tana destato un caprïuolo:

sotto un arbusto il meschinel s'appiatta

tutto tremante, e l'altro ne ritesse

l'orme, e corre e ricorre irrequïeto

finché lo trova: così tutte Achille

del sottrarsi ad Ettòr tronca le vie.

Quante volte sfilar diritto ei tenta

alle dardanie porte, o delle torri

sotto gli spaldi, onde co' dardi aita

gli dian di sopra i suoi, tante il Pelìde

lo previene e il ricaccia alla pianura,

vicino alla città. Come nel sogno

talor ne sembra con lena affannata

uom che fugge inseguir, né questi ha forza

d'involarsi, né noi di conseguirlo;

così né Achille aggiugner puote Ettorre,

né questi a quello dileguarsi. E intanto

come schivar potuto avrìa la Parca

di Prìamo il figlio, se l'estrema volta

nuovo al petto vigor non gli porgea

propizio Apollo, e nuova lena al piede?

Accennava col capo il divo Achille

alle sue genti di non far co' dardi

al fuggitivo offesa, onde veruno,

ferendolo, l'onor non gli precida

del primo colpo. Ma venuti entrambi

la quarta volta alle scamandrie fonti,

l'auree bilance sollevò nel cielo

il gran Padre, e due sorti entro vi pose

di mortal sonno eterno, una d'Achille,

l'altra d'Ettorre: le librò nel mezzo,

e del duce troiano il fatal giorno

cadde, e vêr l'Orco dechinò. Dolente

Febo allora lasciollo in abbandono;

ed al Pelìde fattasi vicina,

sì Minerva parlò: Diletto a Giove

inclito Achille, or sì che giunto io spero

il momento in che noi su queste rive,

spento alla fine il bellicoso Ettorre,

d'alta gloria andrem lieti. Ei più non puote

scapparne ei no, quand'anche il Saettante,

ai piè prostrato dell'Egìoco Padre,

di liberarlo s'argomenti. Or tu

qui sòstati e respira. Andronne io stessa

al tuo nemico, e metterogli in core

di venir teco a singolar conflitto.

Obbedì, s'appoggiò lieto al ferrato

suo frassino il Pelìde, e dipartita

da lui la Diva, al volto, alla favella

Dėìfobo si fece, e all'anelante

Ettor venuta, O mio german, dicea,

troppo costui dintorno a queste mura

con piè ratto t'incalza e ti travaglia.

Or via restiamci, e difendiamci a fermo.

Rispose Ettòr: Dėìfobo, di quanti

mi diè fratelli Prïamo ed Ecùba,

sempre il più caro tu mi fosti, ed ora

lo mi sei più che prima, e più mi traggi

ad onorarti, perocché tu solo

da quelle mura osasti a mia difesa,

tu solo uscir, veduto il mio periglio.

Fratello amato, replicò la Diva,

i venerandi genitori, e tutti

stringendosi gli amici a' miei ginocchi

di non uscire mi pregār, cotanto

terror gl'ingombra: ma l'interno vinse,

che per te mi struggea, fiero dolore.

Combattiam dunque arditamente, e nullo

sia più d'aste risparmio, onde si vegga

s'egli, noi spenti, tornerà di nostre

spoglie onusto alle navi, o se piuttosto

qui cadrà per la tua lancia trafitto.

Sì dicendo, la Diva ingannatrice

precorse, e quelli l'un dell'altro a fronte

divenuti, primier l'armi crollando

fe' questi detti l'animoso Ettorre:

Più non fuggo, o Pelìde. Intorno all'alte

ilìache mura mi aggirai tre volte,

né aspettarti sostenni. Ora son io

che intrepido t'affronto, e darò morte,

o l'avrò. Ma gli Dei, fidi custodi

de' giuramenti, testimon ne sièno,

che se Giove l'onor di tua caduta

mi concede, non io sarò spietato

col cadavere tuo, ma renderollo,

toltene solo le bell'armi, intatto

a' tuoi. Tu giura in mio favor lo stesso.

Non parlarmi d'accordi, abbominato

nemico, ripigliò torvo il Pelìde:

nessun patto fra l'uomo ed il lïone,

nessuna pace tra l'eterna guerra

dell'agnello e del lupo, e tra noi due

né giuramento né amistà nessuna,

finché l'uno di noi steso col sangue

l'invitto Marte non satolli. Or bada,

ché n'hai mestiero, a richiamar la tutta

tua prodezza, e a lanciar dritta la punta.

Ogni scampo è preciso, e già Minerva

per l'asta mia ti doma. Ecco il momento

che dei morti da te miei cari amici

tutte ad un tempo sconterai le pene.

Disse, e forte avventò la bilanciata

lunga lancia. Antivide Ettorre il tiro,

e piegato il ginocchio e la persona,

lo schivò. Sorvolando il ferreo telo

si confisse nel suol, ma ne lo svelse

invisibile ad Ettore Minerva,

e tornollo al Pelìde. - Errasti il colpo,

gridò l'eroe troian, né Giove ancora,

come dianzi cianciasti, il mio destino

ti fe' palese. Dėiforme sei,

ma cinguettiero, ché con vani accenti

atterrirmi ti speri, e nella mente

addormentarmi la virtude antica.

Ma nel dorso tu, no, non pianterai

l'asta ad Ettorre che diritto viene

ad assalirti, e ti presenta il petto;

piantala in questo se t'assiste un Dio.

Schiva intanto tu pur la ferrea punta

di mia lancia. Oh si possa entro il tuo corpo

seppellir tutta quanta, e della guerra

ai Teucri il peso allevïar, te spento,

te lor funesta principal rovina.

Disse, e l'asta di lunga ombra squassando,

la scagliò di gran forza, e del Pelìde

colpì senza fallir lo smisurato

scudo nel mezzo. Ma il divino arnese

la respinse lontan. Crucciossi Ettorre,

visto uscir vano il colpo, e non gli essendo

pronta altra lancia, chinò mesto il volto,

e a gran voce Dėìfobo chiamando,

una picca chiedea: ma lungi egli era.

Allor s'accorse dell'inganno, e disse:

Misero! a morte m'appellār gli Dei.

Credeami aver Dėìfobo presente;

egli è dentro le mura, e mi deluse

Minerva. Al fianco ho già la morte, e nullo

v'è più scampo per me. Fu cara un tempo

a Giove la mia vita, e al saettante

suo figlio, ed essi mi campār cortesi

ne' guerrieri perigli. Or mi raggiunse

la negra Parca. Ma non fia per questo

che da codardo io cada: periremo,

ma glorïosi, e alle future genti

qualche bel fatto porterà il mio nome.

Ciò detto, scintillar dalla vagina

fe' la spada che acuta e grande e forte

dal fianco gli pendea. Con questa in pugno

drizza il viso al nemico, e si disserra

com'aquila che d'alto per le fosche

nubi a piombo sul campo si precipita

a ghermir una lepre o un'agnelletta:

tale, agitando l'affilato acciaro,

si scaglia Ettorre. Scagliasi del pari

gonfio il cor di feroce ira il Pelìde

impetuoso. Gli ricopre il petto

l'ammirando brocchier: sovra il guernito

di quattro coni fulgid'elmo ondeggia

l'aureo pennacchio che Vulcan v'avea

sulla cima diffuso. E qual sfavilla

nei notturni sereni in fra le stelle

Espero il più leggiadro astro del cielo;

tale l'acuta cuspide lampeggia

nella destra d'Achille che l'estremo

danno in cor volge dell'illustre Ettorre,

e tutto con attenti occhi spïando

il bel corpo, pon mente ove al ferire

più spedita è la via. Chiuso il nemico

era tutto nell'armi luminose

che all'ucciso Patròclo avea rapite.

Sol, dove il collo all'omero s'innesta,

nuda una parte della gola appare,

mortalissima parte. A questa Achille

l'asta diresse con furor: la punta

il collo trapassò, ma non offese

della voce le vie, sì che precluso

fosse del tutto alle parole il varco.

Cadde il ferito nella sabbia, e altero

sclamò sovr'esso il feritor divino:

Ettore, il giorno che spogliasti il morto

Patroclo, in salvo ti credesti, e nullo

terror ti prese del lontano Achille.

Stolto! restava sulle navi al mio

trafitto amico un vindice, di molto

più gagliardo di lui: io vi restava,

io che qui ti distesi. Or cani e corvi

te strazieranno turpemente, e quegli

avrà pomposa dagli Achei la tomba.

E a lui così l'eroe languente: Achille,

per la tua vita, per le tue ginoccnia,

per li tuoi genitori io ti scongiuro,

deh non far che di belve io sia pastura

alla presenza degli Achei: ti piaccia

l'oro e il bronzo accettar che il padre mio

e la mia veneranda genitrice

ti daranno in gran copia, e tu lor rendi

questo mio corpo, onde l'onor del rogo

dai Teucri io m'abbia e dalle teucre donne.

Con atroce cipiglio gli rispose

il fiero Achille: Non pregarmi, iniquo,

non supplicarmi né pe' miei ginocchi

né pe' miei genitor. Potessi io preso

dal mio furore minuzzar le tue

carni, ed io stesso, per l'immensa offesa

che mi facesti, divorarle crude.

No, nessun la tua testa al fero morso

de' cani involerà: né s'anco dieci

e venti volte mi s'addoppii il prezzo

del tuo riscatto, né se d'altri doni

mi si faccia promessa, né se Prìamo

a peso d'oro il corpo tuo redima,

no, mai non fia che sul funereo letto

la tua madre ti pianga. Io vo' che tutto

ti squarcino le belve a brano a brano.

Ben lo previdi che pregato indarno

t'avrei, riprese il moribondo Ettorre.

Hai cor di ferro, e lo sapea. Ma bada

che di qualche celeste ira cagione

io non ti sia quel dì che Febo Apollo

e Paride, malgrado il tuo valore,

t'ancideranno su le porte Scee.

Così detto, spirò. Sciolta dal corpo

prese l'alma il suo vol verso l'abisso,

lamentando il suo fato ed il perduto

fior della forte gioventude. E a lui,

già fredda spoglia, il vincitor soggiunse:

Muori; ché poscia la mia morte io pure,

quando a Giove sia grado e agli altri Eterni,

contento accetterò. Così dicendo,

svelse dal morto la ferrata lancia,

in disparte la pose, e dalle spalle

l'armi gli tolse insanguinate. Intanto

d'ogn'intorno v'accorsero gli Achivi

contemplando d'Ettòr maravigliosi

l'ammirande sembianze e la statura;

né vi fu chi di fargli una ferita

non si godesse, al suo vicin dicendo:

Per gli Dei, che a toccarsi egli s'è fatto

più tenero che quando arse le navi:

e in questo dir coll'asta il ripungea.

Spoglio ch'ei l'ebbe, fra gli astanti Achei

ritto Achille parlò queste parole:

Amici e prenci e capitani, udite.

Poiché diermi gli Dei che domo alfine

costui ne fosse, che d'assai più nocque

che gli altri tutti insieme, alla cittade

volgiam l'armi, e vediam se, spento Ettorre,

fanno i Teucri pensier d'abbandonarla,

o, benché privi di cotanto aiuto,

coraggiosi resistere... Ma quale

vano consiglio mi ragiona il core?

Senza pianto sul lido e senza tomba

giace il morto Patròclo. Insin che queste

mie membra animerà soffio di vita,

ei fia presente al mio pensiero; e s'anco

laggiù nell'Orco obblivïon scendesse

della vita primiera, anco nell'Orco

mi seguirà del mio diletto amico

la rimembranza. Or via, dunque si rieda

alle navi, e costui vi si strascini.

E voi frattanto, giovinetti achivi,

intonate il peana: alto è il trionfo

che riportammo: il grande Ettòr, dai Teucri

adorato qual nume, è qui disteso.

Disse, e contra l'estinto opra crudele

meditando, de' piè gli fora i nervi

dal calcagno al tallone, ed un guinzaglio

insertovi bovino, al cocchio il lega,

andar lasciando strascinato a terra

il bel capo. Sul carro indi salito

con l'elevate glorïose spoglie,

stimolò col flagello a tutto corso

i corridori che volār bramosi.

Lo strascinato cadavere un nembo

sollevava di polve onde la sparta

negra chioma agitata e il volto tutto

bruttavasi, quel volto in pria sì bello,

allor da Giove abbandonato all'ira

degl'inimici nella patria terra.

All'atroce spettacolo si svelse

la genitrice i crini, e via gittando

il regal velo, un ululato mise,

che alle stelle n'andò. Plorava il padre

miseramente, e gemiti e singulti

per la città s'udìan, come se tutta

dall'eccelse sue cime arsa cadesse.

Rattenevano a stento i cittadini

il re canuto, che di duol scoppiando

dalle dardànie porte a tutto costo

fuor voleva gittarsi. S'avvolgea

il misero nel fango, e tutti a nome

chiamandoli e pregando, Ah! vi scostate,

lasciatemi, gridava; è intempestivo

ogni vostro timor; lasciate, amici,

ch'io me n'esca, ch'io vada tutto solo

alle navi nemiche. Io vo' cadere

supplichevole ai piè di quell'iniquo

violento uccisor. Chi sa che il crudo

il mio crin bianco non rispetti e senta

pietà di mia vecchiezza. Ei pure ha un padre

d'anni carco, Pelèo che generollo

e de' Teucri nudrillo alla ruina,

soprattutto alla mia, tanti uccidendo

giovinetti miei figli: né mi dolgo

sì di lor tutti, ohimè! quanto d'un solo,

quanto d'Ettòr, di cui trarrammi in breve

l'empia doglia alla tomba. Oh fosse ei morto

tra le mie braccia almen! così la madre,

che sventurata partorillo, e io stesso

sfogo avremmo di pianti e di sospiri.

Questo ei dicea piangendo, e co' lamenti

facean eco al suo pianto i cittadini.

Dalle Tröadi intanto circondata,

in alti lai rompea la madre: Oh figlio!

tu se' morto, ed io vivo? io giunta al sommo

delle sventure te perdendo, ahi lassa!

te che in ogni momento eri la mia

gloria e il sostegno della patria tutta

che t'accogliea qual nume. Ahi! ne saresti,

vivo, il decoro; e ne sei, morto, il lutto.

Seguìa questo parlar di pianto un fiume.

Ma del fato d'Ettòr nulla per anco

Andròmaca sapea, ché nullo a lei

del marito rimasto anzi alle porte

recato avea l'avviso. Nell'interne

regie stanze tessendo ella si stava

a doppie fila una lucente tela

di diverso rabesco. E per suo cenno

avean frattanto le leggiadre ancelle

posto un tripode al fuoco, onde al consorte

pronto fosse, al tornar dalla battaglia,

caldo un lavacro. Non sapea, demente!

che da' lavacri assai lungi domato

l'avea Minerva per la man d'Achille.

Ma come dalla torre un suon confuso

d'ululi intese e di lamenti, tutte

le tremaro le membra, al suol le cadde

la spola, e volta alle donzelle, disse:

Accorrete sollecite, seguitemi

due di voi tosto: vo' veder che avvenne.

Dell'onoranda suocera la voce

mi percuote l'orecchio, e il cor mi balza

con sussulto nel petto, e manca il piede.

Certo, qualche gran danno, ohimè! sovrasta

di Prìamo ai figli. Allontanate, o numi,

questo presagio: ma ben forte io temo

che il divo Achille all'animoso Ettorre

non abbia del salvarsi entro le mura

già tagliata la strada, ed or pel campo

lo m'insegua da tutti abbandonato;

e la bravura esizïal non domi

che il possedea: restarsi egli non seppe

mai nella folla, e sempre oltre si spinse,

a nessun prode di valor secondo.

Così dicendo, della reggia uscìo

qual forsennata, e le tremava il core.

La seguivan le ancelle; e fra le turbe

giunta alla torre, s'arrestò, girando

lo sguardo intorno dalle mura. Il vide,

il riconobbe da corsier veloci

strascinato davanti alla cittade

verso le navi indegnamente. Oscura

notte i rai le coperse, ed ella cadde

all'indietro svenuta. Si scomposero

i leggiadri del capo adornamenti

e nastri e bende e l'intrecciata mitra

e la rete ed il vel che dielle in dono

l'aurea Venere il dì che dalle case

d'Eezïòne Ettòr la si condusse

di molti doni nuzïali ornata.

Affollārsi pietose a lei dintorno

le cognate che smorta tra le braccia

reggean l'afflitta di morir bramosa

per immenso dolor. Come in se stessa

alfin rivenne, e l'alma al cor s'accolse,

fe' degli occhi due fonti, e così disse:

Oh me deserta! oh sposo mio! noi dunque

nascemmo entrambi col medesmo fato,

tu nella reggia del tuo padre, ed io

nella tebana Ipòplaco selvosa

seggio d'Eezïón che pargoletta

allevommi, meschino una meschina!

Oh non m'avesse generata! Ai regni

tu di Pluto discendi entro il profondo

sen della terra, e me qui lasci al lutto

vedova in reggia desolata. Intanto

del figlio, ohimè! che fia? Figlio infelice

di miserandi genitor, bambino

egli è del tutto ancor, né tu puoi morto

più farti suo sostegno, Ettore mio,

ned egli il padre vendicar: ché dove

pur sia che degli Achei la lagrimosa

guerra egli sfugga, nondimen dolenti

trarrà sempre i suoi giorni, e a lui l'avaro

vicin mutando i termini del campo

spoglierallo di questo. Abbandonato

da' suoi compagni è l'orfanello; ei porta

ognor dimesso il volto, e lagrimosa

la smunta guancia. Supplice indigente

va del padre agli amici, e all'uno il saio,

tocca all'altro la veste. Il più pietoso

gli accosta alquanto il nappo, e il labbro bagna,

non il palato. Ed altro tal che lieto

va di padre e di madre, alteramente

dalla mensa il ributta, e lo percote,

e villano gli grida: Sciagurato,

esci: il tuo padre qui non siede al desco.

Torna allor lagrimando Astïanatte

alla vedova madre, egli che dianzi

d'eletti cibi si nudrìa, scherzando

sul paterno ginocchio. E quando ei stanco

d'innocenti trastulli al dolce sonno

chiudea le luci alla nudrice in grembo,

dentro il suo letticciuol su molli piume,

sazio di gioia il cor, s'addormentava.

E quanti or privo dell'amato padre,

ahi quanti affanni soffrirà! né punto

d'Astïanatte gioveragli il nome

che gli posero i Troi, perché le porte

tu sol ne difendevi e l'ardue mura.

Or te sul lido fra le navi, e lungi

da chi vita ti diè, lubrici i vermi

roderan, come sazio avrai de' veltri

nudo le gole; ahi nudo! e nella reggia

tante avevi leggiadre ed esquisite

vesti, lavoro dell'esperte ancelle.

Or poiché vane a te son fatte, e tolto

n'è il coprirti di queste in sul ferètro,

tutte alle fiamme gitterolle io stessa,

onde al cospetto de' Troiani almeno

questo segno d'onor ti sia renduto.

Così dicea piangendo, ed al suo pianto

co' sospiri facean eco le donne.

 

 

LIBRO VENTESIMOTERZO

 

 

Mentre in Troia si piange, all'Ellesponto

giungon gli Achivi, e spargesi ciascuno

alla sua nave. Ma l'andar dispersi

non permise il Pelìde ai bellicosi

suoi Mirmidóni, da cui cinto disse:

Miei diletti compagni e cavalieri,

non distacchiamo per ancor dai cocchi

i corridori: procediam con questi

a piagnere Patròclo, a tributargli

l'onor dovuto ai trapassati. E quando

avrem del pianto al cor dato il diletto,

sciolti i destrieri, appresterem le cene.

Disse, e tutti innalzār ristretti insieme

il fùnebre lamento, Achille il primo.

Corser tre volte colle bighe intorno

all'estinto ululando, e ne' lor petti

destò Teti di pianto alto desìo.

Si bagnava di lagrime l'arena,

di lagrime gli usberghi; cotant'era

il desiderio dell'eroe perduto.

Ma fra tutti piagnea dirottamente

Achille, e poste le omicide mani

dell'amico sul cor, Salve, dicea,

salve, caro Patròclo, anco sotterra.

Tutto io voglio compir che ti promisi.

D'Ettore il corpo al tuo piè strascinato

farò pasto de' cani, e alla tua pira

dodici capi troncherò d'eletti

figli de' Teucri, di tua morte irato.

Disse; ed opra crudel contra il divino

Ettor volgendo in suo pensiero, il trasse

per la polve boccon presso al ferètro

del figliuol di Menèzio: e gli altri intanto

scinsero le corrusche armi, e staccati

gli annitrenti corsier, folti sull'alta

capitana d'Achille a lauto desco

s'assisero. Muggìan sotto la scure

molti candidi buoi, molte belando

cadean capre scannate e pecorelle,

e molti di pinguedine fiorenti

cinghiai sannuti alle vulcanie vampe

venìan distesi a brustolarsi. Il sangue

scorrea dintorno al morto in larghi rivi.

Al sommo Atride intanto i prenci achei

scortār vinto da' preghi, e per l'amico

sempre d'ira infiammato il re Pelìde.

Giunti i duci alla tenda, immantinente

ai prodi araldi Agamennón comanda

che alle fiamme un gran tripode si metta,

onde il Pelìde indur, se gli rïesca,

a lavarsi del sangue ogni sozzura.

Recusollo il feroce, e fermamente

giurò: Non sia per Giove ottimo e sommo

che lavacro mi tocchi anzi ch'io ponga

l'amico mio sul rogo, e gli consacri

sull'eretto sepolcro il crin reciso.

Ah! mai pari dolor, fin ch'io mi viva,

in questo petto non cadrà, giammai.

Nondimeno si segga all'abborrita

mensa: ma tu, supremo Atride, imponi

alla tua gente che domàn per tempo

molta selva qua porti; e qual conviensi

ad illustre defunto che nell'atra

notte discende, le cataste appresti,

onde rapido il foco lo consumi,

e tolto agli occhi il doloroso obbietto,

tornin le schiere ai consueti offici.

Obbedīr tutti al detto, e prontamente

poste le mense, a convivar si diero,

e vivandò ciascuno a suo talento.

Del cibarsi e del ber spenta la voglia,

tutti sbandārsi alle lor tende, e al sonno

cesser le membra. Ma del mar sonante

lungo il lido si stese in mezzo ai folti

tessali Achille su la nuda arena,

di cui l'onda gli estremi orli lambìa.

Ivi stanco di gemiti e sospiri

e della molta in perseguendo Ettorre

sostenuta fatica, il dolce sonno

alleggiator dell'aspre cure il prese,

soavemente circonfuso. Ed ecco

comparirgli del misero Patròclo

in visïon lo spettro, a lui del tutto

ne' begli occhi simìle e nella voce,

nella statura, nelle vesti, e tale

sovra il capo gli stette, e così disse:

Tu dormi, Achille, né di me più pensi.

Vivo m'amasti, e morto m'abbandoni.

Deh tosto mi sotterra, onde mi sia

dato nell'Orco penetrar. Respinto

io ne son dalle vane ombre defunte,

né meschiarmi con lor di là dal fiume

mi si concede. Vagabondo io quindi

m'aggiro intorno alla magion di Pluto.

Or deh porgi la man, ché teco io pianga

anco una volta: perocché consunto

dalle fiamme del rogo a te dall'Orco

non tornerò più mai. Più non potremo

vivi entrambi, e lontan dagli altri amici

seduti in dolci parlamenti aprire

i segreti del cor: ché preda io sono

della Parca crudele a me nascente

un dì sortita. E a te pur anco, Achille,

a te che un Dio somigli, è destinato

il perir sotto le dardanie mura.

Ben ti prego, o mio caro, e raccomando

che tu non voglia, se mi sei cortese,

dal tuo disgiunto il cener mio. Noi fummo

nella tua reggia allor nudriti insieme

che Menèzio d'Opunte a Ftia menommi

giovinetto quel dì che per la lite

degli astragali irato e fuor di senno

d'Anfidamante a morte misi il figlio,

mio malgrado. M'accolse il re Pelèo

ne' suoi palagi umanamente, e posta

nell'educarmi diligente cura,

mi nomò tuo donzello. Una sol'urna

chiuda adunque le nostre ossa, quell'urna

che d'ōr ti diè la tua madre divina.

A che ne vieni, o anima diletta?

gli rispose il Pelìde; e a che m'ingiungi

partitamente queste cose? Io tutto

che comandi farò: ma deh t'appressa,

ch'io t'abbracci, che stretti almen per poco

gustiam la trista voluttà del pianto.

Così dicendo, coll'aperte braccia

amoroso avventossi, e nulla strinse,

ché stridendo calò l'ombra sotterra,

e svanì come fumo. In piè rizzossi

sbalordito il Pelìde, e palma a palma

battendo, in suono di lamento disse:

Oh ciel! dell'Orco gli abitanti han dunque

spirito ed ombra, ma non corpo alcuno?

Del misero Patròclo in questa notte

sovra il capo mi stette il sospiroso

spettro piangente, tutto desso al vivo,

e più cose m'ingiunse ad una ad una.

Ridestār delle lagrime la brama

queste parole: raddoppiossi il lutto

sul miserando corpo, e l'Alba intanto

col roseo dito l'Orïente aprìa.

Da tutte parti allor fece l'Atride

dalle trabacche uscir giumenti e turbe

per lo trasporto del funereo bosco,

duce il valente Merïon, del prode

Idomenèo scudier. Givan costoro

di corde armati e di taglienti scuri

co' giumenti dinanzi. E per distorti

aspri greppi montando e discendendo

e rimontando, agli erti boschi alfine

giunser dell'Ida che di fonti abbonda.

Qui dier sùbita man con affilate

bipenni al taglio dell'aeree querce

che strepitose al suol cadeano, e poscia

legavansi spaccate in su la schiena

de' giumenti, che ratte orme stampando

scendean bramosi d'arrivar pe' folti

roveti alla pianura: e li seguièno

carchi il dosso di ciocchi i tagliatori;

ché tal di Merïon era il precetto.

Giunti sul lido, scaricār le some,

ne fêr catasta al luogo ove il Pelìde

un tumulo sublime al morto amico

ed a se stesso disegnato avea.

E tutta apparecchiata in questa guisa

l'immensa selva, riposār seduti,

nuovi cenni aspettando. Intanto Achille

ai bellicosi Mirmidón comanda

di porsi in armi, ed aggiogar ciascuno

alle bighe i destrier. Sursero quelli

frettolosi, e fur tutti in tutto punto.

Montan su i cocchi aurighi e duci, e danno

alla pompa principio. Immenso un nembo

di pedoni li segue, e a questi in mezzo

di Patròclo procede il cataletto

da' compagni portato, che sul morto

venìan gittando le recise chiome,

di che tutto il coprìan. Di retro Achille

colla man gli reggea la tremolante

testa, e plorava sui fùnebri onori

con che all'Orco spedìa l'illustre amico.

Giunti al luogo lor detto, il mesto incarco

deposero, e a ribocco intorno a quello

adunār pronti la funerea selva.

Recatosi in se stesso, un altro avviso

fece allora il Pelìde. Allontanossi

dal rogo alquanto, e il biondo si recise,

che allo Sperchio nudrìa, florido crine,

e al mar guardando con dolor, sì disse:

Sperchio, invan ti promise il padre mio

che tomando al natìo dolce terreno

io t'avrei tronco la mia chioma, e offerto

una sacra ecatombe, ed immolato

cinquanta agnelli accanto alla tua fonte

ov'hai delubro, ed odorati altari.

Del canuto Pelèo fu questo il voto:

tu nol compiesti. Poiché dunque or tolto

n'è alla patria il ritorno, abbia il mio crine

l'eroe Patròclo, e lo si porti seco.

Così detto, alla man del caro amico

pose la chioma, e rinnovossi il pianto

de' circostanti: e tra gli omei gli avrìa

colti il cader della dïurna luce,

se non si fea davanti al grande Atride

il figlio di Pelèo con questi accenti:

Agamennón, di lagrime potremo

satollarci altra volta. Or tu, cui tutti

obbediscon gli Achei, tu li congeda

da questa pira, e a ristorar li manda

colla mensa le membra. Avrem del resto

noi la cura, ché nostro innanzi a tutti

dell'esequie è il pensiero, e rimarranno

nosco, a tal uopo di pietade, i duci.

Udito questo, Agamennón disperse

tosto le schiere per le tende, e soli

vi restaro i deletti al ministero

dell'esequie e del rogo. Essi una pira

cento piedi sublime in ogni lato

innalzār primamente, e sovra il sommo,

d'angoscia oppressi, collocār l'estinto;

poi davanti alla pira una gran torma

scuoiār di pingui agnelle e di giovenchi,

e traendone l'adipe il Pelìde

coprìane il morto dalla fronte al piede,

e le scuoiate vittime dintorno

gli accumolò. Da canto indi gli pose

colle bocche sul fèretro inclinate

due di miele e d'unguento urne ricolme.

Precipitoso ei poscia e sospiroso

sulla pira gittò quattro corsieri

d'alta cervice, e due smembrati cani

di nove che del sir nudrìa la mensa.

Preso alfin da spietata ira, le gole

di dodici segò prestanti figli

de' magnanimi Teucri, e sulla pira

scagliandoli, destò del fuoco in quella

l'invitto spirto struggitor, che il tutto

divorasse, e chiamò con dolorosi

gridi l'amico: Addio, Patròclo, addio

ne' regni anche di Pluto. Ecco adempite

le mie promesse: dodici d'illustre

sangue Troiani si consuman teco

in queste fiamme, ed Ettore fia pasto

delle fiamme non già, ma delle belve.

Queste minacce ei fea; ma gl'incitati

mastin la salma non toccār d'Ettorre,

ché notte e dì sollecita la figlia

di Giove Citerea gli allontanava,

e il cadavere ugnea d'una celeste

rosata essenza che impedìa del corpo

strascinato l'offesa. Intanto Apollo

sul campo indusse una cerulea nube

che tutto intorno ricoprìa lo spazio

dal cadavere ingombro, onde alle membra

e de' nervi al tessuto innocua fosse

dell'igneo Sole la virtute attiva.

Ma del morto Patròclo il rogo ancora

non avvampa. Allor prende altro consiglio

il divo Achille. Trattosi in disparte,

ai due venti Ponente e Tramontana

supplicando, solenni ostie promette,

e in aurea coppa ad ambedue libando,

di venirne li prega, e intorno al morto

sì le fiamme animar, che in un momento

lo si struggano tutto, esso e la pira.

Udito la veloce Iride il prego,

ai venti lo recò, che accolti insieme

nella reggia di Zefiro un festivo

tenean convito. S'arrestò la Diva

su la marmorea soglia, e alla sua vista

sursero tutti frettolosi: ognuno

a sé chiamolla, ognun le offerse il seggio,

ma ricusollo la Taumànzia, e disse:

Di seder non è tempo: alle correnti

dell'Oceàno ritornar mi deggio

nell'etìope terreno ove s'appresta

agl'Immortali un'ecatombe, e bramo

ne' sacrifici aver mia parte io pure.

Ma il Pelìde te, Borea, e te, sonoro

Zefiro, prega di soffiar nel rogo

su cui giace di Pàtroclo la spoglia

dagli Achei tutti deplorata, e molte

vittime ei v'offre, se avvampar lo fate.

Così detto, disparve; e quei levārsi

con immenso stridor, densate innanzi

a sé le nubi. Si sfrenār soffiando

sulla marina, sollevaro i flutti,

e di Troia arrivati alla pianura,

riunār su la pira; e strepitoso

immane incendio si destò. Dai forti

soffii agitata divampò sublime

tutta notte la fiamma, e tutta notte

il Pelìde da vasto aureo cratere

il vino attinse con ritonda coppa,

e spargendolo al suol devotamente,

n'irrigava la terra, e l'infelice

ombra invocava dell'estinto amico.

Come un padre talor piange bruciando

l'ossa d'un figlio che morì già sposo,

e morendo lasciò gli sventurati

suoi genitori di cordoglio oppressi;

così dando alle fiamme il suo compagno,

geme il Pelìde, e crebri alti sospiri

traendo, intorno al rogo si strascina.

Come poi nunzio della luce al mondo

Lucifero brillò, dopo cui stende

sul pelago l'Aurora il croceo velo,

morì la vampa sul consunto rogo,

e per lo tracio mar, che rabbuffato

muggìa, tornaro alle lor case i venti.

Stanco allora il Pelìde, e dalla pira

scostatosi, sdraiossi, e dolce il sonno

l'occupò. Ma il tumulto e il calpestìo

de' capitani, che all'Atride in folla

si raccogliean, destollo; ei surse, e assiso

così loro parlò: Supremo Atride,

e voi primati degli Achei, spegnete

voi tutti or meco con purpureo vino

di tutto il rogo in pria la brage, e poscia

raccogliam di Patròclo attentamente

le sacrate ossa; e scernerle fia lieve,

imperocché nel mezzo ei si giacea

della catasta, e gli altri all'orlo estremo

separati, fur arsi alla rinfusa

e uomini e cavalli. Indi d'opimo

doppio zirbo ravvolte, in urna d'oro

le riporremo, finché vegna il giorno

ch'io pur di Pluto alla magion discenda.

Non vo' gli s'erga una superba tomba,

ma modesta. Potrete ampia e sublime

voi poscia alzarla, o duci achei, che vivi

dopo me rimarrete a questa riva.

Del Pelìde al comando obbedïenti

con larghi sprazzi di vermiglio bacco

di tutto il rogo ei spensero alla prima

le vive brage, e giù cadde profonda

la cenere. Adunār quindi piangendo

del mansueto eroe le candid'ossa;

le composer nell'urna avvolte in doppio

adipe, e dentro il padiglion deposte,

di sottil lino le coprīr. Ciò fatto,

disegnār presti in tondo il monumento,

ne gittaro dintorno all'arsa pira

i fondamenti, v'ammassār di sopra

lo scavato terreno, e a fin condotta

la tomba, si partìan. Ma li rattenne

il Pelìde, e lì fatto in ampio agone

il popolo seder, de' ludi i premii

fe' dai legni recar; tripodi e vasi

e destrieri e giumenti e generosi

tauri e captive di gentil cintiglio

e forbite armature. E primamente

alla corsa de' cocchi il premio pose:

una leggiadra in bei lavori esperta

donzella a chi primier tocca la meta,

con un tripode a doppia ansa, e capace

di ventidue misure. Una giumenta

che al sest'anno già venne, ancor non doma,

e il sen già grave di bastarda prole

al secondo. Un lebète intatto e bello

e di quattro misure al terzo auriga;

al quarto un doppio aureo talento, e al quinto

una coppa dal foco ancor non tocca.

Surto in piedi allor disse: Atride, Argivi,

gioventù bellicosa, a voi dinanzi

ecco i premii che attendono nel circo

degli aurighi il valor. S'altra cagione

questi ludi eccitasse, i primi onori

miei per certo sarìan, ché la prestezza

de' miei destrieri non ha pari, e voi

lo vi sapete: perocché son essi

immortali, e donolli il re Nettunno

al mio padre Pelèo, che a me li cesse.

Queto io dunque starommi, e queti insieme

i miei cavalli. I miseri perduto

hanno il lor forte condottiero e mite,

che lavarne solea le belle chiome

alla chiara corrente, ed irrorarle

di liquid'olio rilucente; ed ora

piangonlo immoti, colle meste giubbe

al suol diffuse, e il cor di doglia oppresso.

Chïunque degli Achei pertanto ha speme

ne' cocchi e ne' destrier, si metta in punto.

Ciò disse appena, che animosi e pronti

presentārsi gli aurighi; Eumelo il primo,

regal germe d'Admeto, e delle bighe

perito agitator. Mosse secondo

il gagliardo Tidìde Dïomède

co' destrieri di Troe tolti ad Enea,

cui da morte campò l'opra d'Apollo.

Il biondo Menelao, sangue di Giove,

levossi il terzo, e sotto al giogo addusse

due veloci cavalli, il suo Podargo,

ed Eta, del fratello una puledra,

dell'aringo bramosa a meraviglia.

Donata al rege Agamennón l'avea

l'Anchisìade Echepòlo, onde francarsi

dal seguitarlo a Troia, e neghittoso

nell'opulenta Sicïon sua stanza

rimanersi a fruir le concedute

dal saturnio Signor molte ricchezze.

Del magnanimo Nèstore buon figlio

Antìloco aggiogò quarto i criniti

suoi cavalli di Pilo, ancor del cocchio

buoni al tiro. Si trasse il vecchio padre

a lui già saggio per se stesso, e un saggio

utile avviso gli porgea dicendo:

Antìloco, te amār Giove e Nettunno

giovane ancora, e t'erudīr di tutta

l'arte equestre: perciò poco fia l'uopo

d'ammaestrarti, perocché sai destro

girar la meta: ma son tardi al corso

i tuoi destrieri, e qualche danno io temo.

Destrier più ratti han gli altri, ma non arte

né scïenza maggior. Dunque, o mio caro,

tutti richiama al cor gli accorgimenti,

se vuoi che il premio da tue man non fugga.

L'arte più che la forza al fabbro è buona;

coll'arte in mar da venti combattuto

regge il piloto la sua presta nave,

e coll'arte il cocchier passa il cocchiero.

Chi sol del cocchio e de' corsier si fida,

qua e là s'aggira senza senno; incerti

divagano i cavalli, ed ei non puote

più governarli. Ma l'esperto auriga,

benché meno valenti i suoi sospinga,

sempre ha l'occhio alla meta, e volta stretto,

e sa come lentar, sa come a tempo

con fermi polsi rattener le briglie,

ed osserva il rival che lo precede.

Or la meta, perché tu senza errore

la distingua, dirò. Sorge da terra

alto sei piedi un tronco di larìce

o di quercia che sia, secco e da pioggia

non putrefatto ancor. Stan quinci e quindi,

dove sbocca la via, due bianche pietre

da cui si stende tutto piano in giro

de' cavalli lo stadio. O che sepolcro

questo si fosse d'un illustre estinto,

o confin posto dalla prisca gente,

meta al corso lo fece oggi il Pelìde.

Tu fa di rasentarla, e vi sospingi

vicin vicino il cocchio e i corridori,

alcun poco piegando alla sinistra

la persona, e flagella e incalza e sgrida

il cavallo alla dritta, e gli abbandona

tutta la briglia, e fa che l'altro intanto

rada la meta sì che paia il mozzo

della ruota volubile toccarla;

ma vedi, ve', che non la tocchi, infranto

n'andrebbe il carro, offesi i corridori,

e tu deriso e di disnor coperto.

Sii dunque saggio e cauto. Ove la meta

trascorrer netto ti rïesca, alcuno

non fia che poi t'aggiunga o ti trapassi,

no, s'anco a tergo ti venisse a volo

quel d'Adrasto corsier nato d'un Dio,

il veloce Arïone, o quei famosi

che qui Laomedonte un dì nudrìa.

Divisate al figliuol distintamente

queste avvertenze, si raccolse il veglio

nell'erboso suo seggio. Ultimo intanto

con bella coppia di corsier superbi

Merïon nella lizza era venuto.

Montati i carri, si gittār le sorti.

Agitolle il Pelìde, e uscì primiero

Antìloco; indi Eumelo, indi l'Atride,

fu quarto Merïon, quinto il fortissimo

Dïomede. Locārsi in ordinanza

tutti, ed Achille mostrò lor lontana

nel pian la meta a cui giudice avea

posto del padre lo scudier Fenice

venerando vegliardo, onde notasse

le corse attento, e riferisse il vero.

Stavano tutti colle sferze alzate

su gli ardenti destrieri, e dato il segno,

lentār tutti le briglie, e co' flagelli

e co' gridi animaro i generosi

corsier che ratti si lanciār nel campo,

e dal lido spariro in un baleno.

Sorge sotto i lor petti alta la polve

che di nugolo a guisa o di procella

si condensa, ed al vento abbandonate

svolazzano le giubbe. Or vedi i cocchi

rader bassi la terra, ed or sublimi

balzarsi, né perciò perde mai piede

degli aurighi veruno, e batte a tutti

per desiderio della palma il core;

e in un nembo di polve ognun dà spirto

a' suoi volanti alipedi. Varcata

la meta, e preso il rimanente corso

di ritorno alle mosse, allor rifulse

di ciascun la prodezza, allor si stese

nello stadio ogni cocchio. Innanzi a tutti

le puledre volavano veloci

del Ferezìade Eumelo; e dopo queste,

ma di poco intervallo, i corridori

di Troe, guidati dal Tidìde, e tanto

imminenti che ognor parean sul carro

montar d'Eumelo, a cui co' fiati ardenti

già scaldano le spalle, e già le toccano

colle fervide teste. E oltrepassato

forse l'avrebbe, o pareggiato almeno,

se al figlio di Tidèo Febo la palma

invidïando, non gli fea sdegnoso

balzar dal pugno la lucente sferza.

Lagrime d'ira e di dolor le gote

inondār dell'eroe, vista d'Eumelo

lontanarsi più rapida la biga,

e per difetto di flagel più lenta

correr la sua. Ma Pallade d'Apollo

scorta la frode, e del Tidìde il danno,

presta a lui corse, e alla sua man rimessa

la sferza, aggiunse ai corridor la lena.

Indi al figlio d'Admeto avvicinossi

irata, e il giogo gli spezzò. Turbate

si svïar le cavalle, andò per terra

il timon, riversossi il cavaliero

presso alla ruota, e il cubito e la bocca

lacerossi e le nari, e su le ciglia

n'ebbe pesta la fronte: le pupille

s'empīr di pianto, s'arrestò la voce,

e Dïomede il trapassò sferzando

gli animosi destrier che innanzi a tutti

scappan di molto, perocché Minerva

gli afforza, e vincitor vuole il Tidìde.

Vien dopo questi Menelao cui preme

di Nèstore il figliuol che confortando

i paterni destrier, grida: Correte,

stendetevi prestissimi: non io

già vi comando gareggiar con quelli

del forte Dïomède, a' quai Minerva

diè l'ali al piede, e a lui la palma: solo

raggiungete l'Atride, e non soffrite

restando addietro, ch'Eta, una giumenta,

vi sorpassi di corso e disonori.

Che lentezza s'è questa? ov'è l'antica

vostra prestanza? Io lo vi giuro, e il giuro

s'adempirà; se pigri un premio vile

riporterem, negletti, anzi trafitti

da Nèstore sarete. Or via, volate,

ch'io di astuzia giovandomi senz'erro

trapasserò l'Atride nello stretto.

Antìloco sì disse, e quei temendo

le sue minacce rinforzaro il corso;

ed ecco dopo poco il passo angusto

del concavo cammin. V'era una frana

ove l'acqua invernal, raccolta in copia,

dirotta avea la strada, e tutto intorno

affondato il terren. Per quella parte

si drizzava l'Atride, onde il concorso

ischivar delle bighe. Ivi si spinse

Antìloco pur esso; e devïando

dalla carriera un cotal poco, e forte

flagellando i corsier, lo stringe, e tenta

prevenirlo. Temettene l'Atride,

e gridò: Dove vai, pazzo? rattieni,

Antìloco, i destrier: stretta è la via.

Aspetta che s'allarghi, e trapassarmi

potrai: qui entrambi romperemo i cocchi.

Antìloco non l'ode, e stimolando

più veemente i corridor, s'avanza.

Quanto è il tratto d'un disco da robusto

giovin scagliato per provar sue forze,

tanto trascorse la nestòrea biga.

Iscansossi l'Atride, e volontario

i suoi destrieri rallentò, temendo

che da quegli altri urtati in quello stretto

non gli versino il cocchio, e al suol stramazzino

essi medesmi nel voler per troppo

amor di lode acccelerarsi. Intanto

dietro al figlio di Nèstore l'Atride

gridar s'udiva: Antìloco, non avvi

il più tristo di te: va pure: a torto

noi saggio ti tenemmo: ma tu premio

non toccherai, per dio! se pria non giuri.

Quindi animando i suoi corsier, dicea:

non v'impigrite, non mi state afflitti;

pria di voi perderan quelli la lena,

ch'ei son vecchi ambidue. - Così lor grida,

e docili i destrieri alla sua voce

doppiaro il corso, e tosto li raggiunsero.

Nel circo assisi intanto i prenci achei

stavansi attenti ad osservar da lungi

i volanti cavalli che nel campo

sollevavan la polve. Idomeneo

re de' Cretesi gli avvisò primiero,

che fuor del circo si sedea sublime

a una vedetta. E di lontano udita

del primo auriga che venìa, la voce,

lo conobbe, e distinse il precorrente

destrier che tutto sauro in fronte avea

bianca una macchia, tonda come luna.

Rizzossi in piedi, e disse: O degli Achei

prenci amici, m'inganno, o ravvisate

quei cavalli voi pure? Altri mi sembrano

da quei di prima, ed altro il condottiero.

Le puledre che dianzi eran davanti

forse sofferto han qualche sconcio. Al certo

girar primiere le vid'io la meta;

or come che pel campo il guardo io volga,

più non le scorgo. O che scappār di mano

all'auriga le briglie, o ch'ei non seppe

rattenerne la foga, e non fe' netto

il giro della meta. Ei forse quivi

cadde, e infranse la biga, e le cavalle

deviār furïose. Or voi pur anco

alzatevi e guardate: io non discerno

abbastanza; ma parmi esser quel primo

l'ètolo prence argivo Dïomede.

Che vai tu vaneggiando? aspro riprese

Aiace d'Oilèo. Quelle che miri

da lungi a noi volar son le puledre.

Più non sei giovinetto, o Idomenèo:

la vista hai corta, e ciance assai, né il farne

molte t'è bello ov'altri è più prestante.

Quelle davanti son, qual pria, d'Eumelo

le puledre, e ne regge esso le briglie.

E a lui cruccioso de' Cretesi il sire:

Malèdico rissoso, in questo solo

tra noi valente, ed ultimo nel resto,

villano Aiace, deponiam su via

un tripode o un lebète, e Agamennóne

giudichi e dica che corsier sian primi,

e pagando il saprai. Sorgea parato

a far risposta con acerbi detti

lo stizzito Oilìde, e la contesa

crescea: ma grave la precise Achille:

Fine, o duci, a un ontoso ed indecoro

parlar che in altri biasmereste. In pace

sedetevi e guardate. I gareggianti

corridori son presso, e voi ben tosto

chi sia primo saprete, e chi secondo.

Fra questo dire, a furia ecco il Tidìde

avanzarsi, e le groppe senza posa

tempestar de' cavalli che sublimi

divorano la via. Schizzi di polve

incessanti percuotono l'auriga.

D'ōr raggiante e di stagno si rivolve

dietro i ratti corsier sì lieve il cocchio

che appena vedi della ruota il solco

nella sabbia sottil. Giunto alle mosse,

fra le plaudenti turbe il vincitore

fermossi. Un rivo di sudor dal collo

e dal petto scorrea degli anelanti

corsieri, ed esso dal lucente carro

leggier d'un salto al suol gittossi, e al giogo

lo scudiscio appoggiò. Né stette a bada

Stenelo, il forte suo scudier, che pronto

il tripode si tolse e la donzella

premio del corso, e consegnato il tutto

ai prodi amici, i corridor disciolse.

Secondo giunse Antìloco che avea

non per rattezza di destrier precorso

Menelao, ma per arte; e nondimeno

questi a tergo gli è sì, che quasi il tocca.

Quanto si scosta dalla ruota il piede

di corsier che pel campo alla distesa

tragge sul cocchio il suo signor, lambendo

co' crini estremi della coda il cerchio

del volubile giro che diviso

da minimo intervallo ognor si volve

dietro i rapidi passi; iva l'Atride

sol di tanto discosto allor dal figlio

di Nèstore, quantunque egli da prima

fosse rimasto un trar di disco indietro.

Ma dell'agamennònia Eta fu tale

la prestezza e il valor, che tosto il giunse.

E l'avrìa pure oltrepassato, e fatta

non dubbia la vittoria, ove più lunga

stata si fosse d'ambedue la corsa.

Seguìa l'Atride Merïon, preclaro

scudier d'Idomenèo, distante il tiro

d'una lancia, perché belli, ma pigri

i corridori egli ebbe, e perché desso

era il men destro nel guidar la biga.

Ultimo ne venìa d'Admeto il figlio,

a stento il cocchio traendo, e dinanzi

cacciandosi i destrieri. Lo compianse,

come lo vide, Achille, e circondato

dagli Achei, profferì queste parole:

Ultimo giunge il più valente. Or via,

diamgli il premio secondo; egli n'è degno.

Ma il primo al figlio di Tidèo si resti.

Lodār tutti il decreto, e fra gli applausi

degli Achei sull'istante egli donata

la giumenta gli avrìa, se posta in campo

la sua ragione Antìloco al Pelìde

non si volgea dicendo: Achille, io teco

mi corruccio davver, se il tuo disegno

metti ad effetto. Perché un Dio gli offese

i cavalli ed il cocchio, e non gli valse

la sua prodezza, mi vorrai tu dunque

il mio premio rapir? Ché non pors'egli

prima ai numi i suoi voti? Ei non sarìa

ultimo giunto nell'illustre aringo.

Ché se di lui pietà ti move, e questo

al cor t'è grato, nella tenda hai molte

d'auro e bronzo conserve, hai molto gregge,

hai fanciulle e cavalli. E tu il presenta

di queste cose, e sian maggiori ancora,

ma in altro tempo, o se il vuoi, pure adesso,

onde ten vegna degli Achei la lode.

Ma questa io non vo' darla, e dovrà meco

sperimentarsi ogni uom che la pretenda.

Delle franche d'Antìloco parole

compiaciuto, sorrise il divo Achille,

cui caro amico egli era; e gli rispose:

Antìloco, tu vuoi che s'abbia Eumelo

di ciò che in serbo io tengo, altro presente;

e l'avrà. Gli darò d'Asteropeo

la di bronzo lorica, a cui dintorno

scorre un bell'orlo di fulgente stagno;

lavoro di gran pregio. - E così detto,

al suo fedele Automedonte impose

di recar dalla tenda la lorica.

Volò quegli, e recolla al suo signore

che in man la pose dell'allegro Eumelo.

Contro Antìloco allor surse il cor pieno

di doglia e d'ira Menelao. L'araldo

misegli tosto nelle man lo scettro,

e silenzio intimò. Quindi l'eroe

così a dir prese: O tu, che per l'innanzi

grido avevi di saggio, che facesti?

Disonestasti, o Antìloco, la mia

gloria, e cacciati per inganno avanti

li tuoi corsieri assai da meno, i miei

sconciamente offendesti. Or voi qui fate,

prenci achivi, ragione ad ambedue

senza rispetti; ch'io non vo' che poi

dica qualcuno degli Achei: L'Atride

colle menzogne Antìloco aggravando

via la giumenta si menò, vincendo

di cavalli non già, ma di possanza

e di forza. Ma che? Senza paura

di biasmo io stesso finirò la lite,

e fia retto il giudizio. Orsù, t'accosta,

prode alunno di Giove, e giusta il rito

statti innanzi alla biga, e d'una mano

impugnando la sfera agitatrice,

e sì coll'altra i corridor toccando,

giura a Nettunno non aver volente

né con frode impedito il cocchio mio.

Re Menelao, mi compatisci, accorto

l'altro rispose: giovinetto ancora

son io: tu d'anni e di virtù mi vinci,

e dell'etade giovanil ben sai

i difetti: cuor caldo e poco senno.

Siimi dunque benigno. Ecco a te cedo

l'ottenuta giumenta; e s'altro brami

del mio, darollo di cuor pronto, e tosto,

anzi che l'amor tuo per sempre, o prence,

perdere e farmi ai sommi iddii spergiuro.

Sì dicendo, di Nèstore il buon figlio

la giumenta condusse, ed alle mani

la ponea dell'Atride a cui di gioia

intenerissi il cor. Siccome quando

su i sitibondi culti la rugiada

spargesi e avviva le crescenti spighe:

a te del pari, o Menelao, nel petto

si sparse la letizia, e dolcemente

gli rispondesti: Antìloco, a te cedo,

deposta l'ira, io stesso. Unqua non fosti

né leggier né bizzarro. Oggi fu vinto

da sconsigliata giovinezza il senno.

Ma il ben guardarsi dagl'inganni è bello

co' maggiori. Nessun m'avrìa placato

sì facilmente degli Achei: ma molto

coll'egregio tuo padre e col fratello

per mia cagion tu soffri, e molto sudi;

perciò m'arrendo al tuo pregare, e questa,

ch'è mia, ti dono, a fin che ognun si vegga

che né fier né superbo ho il cor nel petto.

Diè, ciò detto, d'Antìloco al compagno

Nöemón la giumenta, indi si tolse

il fulgido lebète; e Merïone,

che quarto giunse, i due talenti d'oro.

Restava il quinto guiderdon, la coppa.

La prese Achille, e traversando il pieno

circo, accostossi al buon Nestorre, e lieto

presentolla all'eroe con questi accenti:

Tieni, illustre vegliardo, e questo dono

ricordanza ti sia delle funèbri

pompe del nostro Pàtroclo, cui, lasso!

non rivedrem più mai. Questo vogl'io

che gratuito sia, poiché del cesto,

e dell'arco il certame e della lotta,

e del corso pedestre a te si vieta

dalla triste vecchiezza che ti grava.

Tacque, e la coppa fra le man gli mise.

Lieto il veglio accettolla, e sì rispose:

Ben parli, o figlio: le mie forze tutte

sono inferme, o mio caro: il piè va lento:

dispossato mi pende dalle spalle

l'un braccio e l'altro. Oh! giovine foss'io

e intero di vigor siccome il giorno

che in Buprasio gli Epei diero al sepolcro

il rege Amarincèo, proposti i ludi

dai regali suoi figli! Ivi nessuno

né degli Epei né de' medesmi Pilii

pari mi stette di valor, né manco

de' magnanimi Etòli. Io vinsi al cesto

il figliuolo d'Enòpe Clitomède,

Alceo Pleurònio nella lotta a cui

m'avea sfidato: superai nel corso

l'agile Ificlo, e nel vibrar dell'asta

Polidoro e Filèo. Soli all'equestre

lizza innanzi m'andār d'Attore i figli,

che due contr'un gelosi invidiārmi

una vittoria d'infinito prezzo.

Indivisi gemelli, uno reggeva

sempre sempre i destrier, l'altro di sferza

li percotea. Tal fui già tempo: or lascio

siffatte imprese ai giovinetti, e forza

m'è l'obbedire alla feral vecchiezza.

Ma tra gli eroi fui chiaro anch'io. Tu segui

del morto amico ad onorar la tomba

co' fùnebri certami. Il tuo bel dono

m'è caro, e il prendo. Mi gioisce il core

al veder che di me, che t'amo, ognora

sei memore, e sai quale al mio canuto

crine si debba dagli Achivi onore:

di ciò ti dien gli Dei larga mercede.

Tutta udita di Nestore la lode,

entrò il Pelìde nella calca, e il duro

pugilato propose. Addur si fece

ed annodar nel circo una gagliarda

infaticabil mula, a cui già il sesto

anno fiorìa, non doma, ed a domarsi

malagevole: premio al vincitore.

Pel vinto pose una ritonda coppa.

Indi surse, e parlava: Atridi, Achei,

ecco i premii alli due che valorosi

vorranno al cesto perigliarsi. Quegli,

cui doni amico la vittoria il figlio

di Latona, e l'affermino gli Achei,

s'abbia la mula, e il perditor la coppa.

Disse, e un uom si levò forte, membruto,

pugilatore assai perito, Epèo,

di Panope figliuol. Stese alla mula

costui la mano, e favellò: S'accosti

chi vuol la coppa, ché la mula è mia.

Niun degli Achivi vincerammi, io spero,

nel certame del cesto, in che mi vanto

prestantissimo. E che? forse non basta

che agli altri io ceda in battagliar? Non puote

a verun patto un solo esser di tutte

arti maestro. Io vel dichiaro, e il fatto

proverà ciò che dico: al mio rivale

spezzerò il corpo e l'ossa. Abbia vicino

molti assistenti a trasportarlo pronti

fuor della lizza da mie forze domo.

Tacque, e tutti ammutiro. Eravi un figlio

del Taleònio Mecistèo, di quello

che un dì nell'alta Tebe ai sepolcrali

ludi venuto del defunto Edippo,

tutti vinse i Cadmei. Costui di nome

Eurïalo, e guerrier di divo aspetto,

fu il solo che s'alzò. Molto dintorno

gli si adoprava il grande Dïomede,

e co' detti il pungea, lui desïando

vincitore. Egli stesso al fianco il cinto

gli avvinse, e il guanto gli fornì di duro

cuoio, già spoglia di selvaggio bue.

Come in punto si furo, ambi nel mezzo

presentārsi gli atleti, e sollevate

l'un contra l'altro le robuste pugna,

si mischiār fieramente. Odesi orrendo

sotto i colpi il crosciar delle mascelle,

e da tutte le membra il sudor piove.

Il terribile Epèo con improvvisa

furia si scaglia all'avversario, e mentre

questi bada a mirar dove ferire,

Epèo la guancia gli tempesta in guisa,

che il meschin più non regge, e balenando

con tutto il corpo si rovescia in terra.

Qual di Borea al soffiar l'onda sul lido

gitta il pesce talvolta, e lo risorbe;

tale l'invitto Epèo stese al terreno

il suo rivale, e tosto generosa

la man gli porse, e il rïalzò. Pietosi

accorsero del vinto i fidi amici

che fuor del circo lo menār gittante

atro sangue, e i ginocchi egri traente

col capo spenzolato, ed in disparte

condottolo, il posār de' sensi uscito:

ed altri intorno gli restaro, ed altri

a tor ne giro la ritonda coppa.

Tronco ogn'indugio, Achille il terzo giuoco

propose, il giuoco della dura lotta,

e de' premii fe' mostra; al vincitore

un tripode da fuoco, e a cui di dodici

tauri il valore dagli Achei si dava,

ed al perdente una leggiadra ancella

quattro tauri estimata, e che di molti

bei lavori donneschi era perita.

Rizzossi Achille, e a quegli eroi rivolto,

Sorga, disse, chi vuole in questo ludo

del suo valor far prova. Immantinente

surse l'immane Telamònio Aiace,

e il saggio mastro delle frodi Ulisse.

Nel mezzo della lizza entrambi accinti

presentārsi, e stringendosi a vicenda

colle man forti s'afferrār, siccome

due travi che valente architettore

congegna insieme a sostener d'eccelso

edificio il colmigno, agli urti invitto

degli aquiloni. Allo stirar de' validi

polsi intrecciati scricchiolar si sentono

le spalle, il sudor gronda, e spessi appaiono

pe' larghi dossi e per le coste i lividi

rosseggianti di sangue. Ambi del tripode

a tutta prova la conquista agognano,

ma né Ulisse può mai l'altro dismuovere

e atterrarlo, né il puote il Telamònio,

ché del rivale la gran forza il vieta.

Gli Achei noiando omai la zuffa, Aiace

all'emolo guerrier fe' questo invito:

Nobile figlio di Laerte, in alto

sollevami, o sollevo io te: del resto

abbia Giove la cura. E così detto,

l'abbranca, e l'alza. Ma di sue malizie

memore Ulisse col tallon gli sferra,

al ginocchio di retro ove si piega,

tale un sùbito colpo, che le forze

sciolse ad Aiace, e resupino il gitta

con Ulisse sul petto. Alto levossi

de' riguardanti stupefatti il grido.

Tentò secondo il sofferente Ulisse

alzar da terra l'avversario, e alquanto

lo mosse ei sì, ma non alzollo. Intanto

l'altro gl'impaccia le ginocchia in guisa

che sossopra ambedue si riversaro

e lordārsi di polve. E già risurti

sarìano al terzo paragon venuti,

se il figlio di Pelèo levato in piedi

non l'impedìa, dicendo: Oltre non vada

la tenzon, né vi state, o valorosi,

a consumar le forze. Ambo vinceste,

e v'avrete egual premio. Itene, e resti

agli altri Achivi libero l'aringo.

Obbedīr quegli al detto, e dalle membra

tersa la polve, ripigliār le vesti.

Pose, ciò fatto, i premii alla pedestre

corsa: al primo un cratere ampio d'argento,

messo a rilievi, contenea sei metri,

né al mondo si vedea vaso più bello.

Era d'industri artefici sidonii

ammirando lavoro, e per l'azzurre

onde ai porti di Lenno trasportato

l'avean fenicii mercatanti, e in dono

cesso a Toante. A Pàtroclo poi diello

il Giasònide Eunèo, prezzo del figlio

di Prìamo Licaone: ed or l'espose

premio il Pelìde al vincitor del corso

in onor dell'amico. Un grande e pingue

tauro al secondo; all'ultimo d'ōr mette

mezzo talento, e ritto alza la voce:

Sorga chi al premio delle corse aspira.

E sursero di sùbito il veloce

Aiace d'Oilèo, lo scaltro Ulisse,

e il Nestòride Antìloco, il più ratto

de' giovinetti achei. Posti in diritta

riga alle mosse, additò lor la meta

il Pelìde, e diè il segno. In un baleno

s'avventār dalla sbarra, e innanzi a tutti

l'Oilìde spiccossi: Ulisse a lui

vicino si spingea quanto di snella

tessitrice al sen candido la spola,

quando presta dall'una all'altra mano

la gitta, e svolge per la trama il filo,

e sull'opra gentil pende col petto:

così l'incalza Ulisse, e col seguace

piè ne preme i vestigi anzi che s'alzi

il polverìo dintorno; e sì correndo

gli manda il fiato nella nuca. Un grido

sorge di plauso d'ogni parte, e tutti

gli fan cuore alla palma a cui sospira.

Eran del corso ormai presso alla fine,

quando a Minerva l'Itaco dal core

mandò questa preghiera: Odimi, o Dea,

e soccorri al mio piè. - La Dea l'intese,

gli fe' lievi le membra, i piè, le braccia;

e come fur per avventarsi entrambi

ad un tempo sul premio, l'Oilìde

da Minerva sospinto sdrucciolò

in lubrico terren sparso del fimo

de' buoi mugghianti dal Pelìde uccisi

di Pàtroclo alla pira. Ivi il caduto

nari e bocca insozzossi. Il precorrente

divo Ulisse il cratere ampio si prese,

e l'Oilìde il bue. Della selvaggia

fera il corno impugnò l'eroe doglioso,

la lordura sputando, e fra la turba

ruppe in questo lamento: Empio destino!

Per certo i piedi mi rubò la Dea

che da gran tempo va d'Ulisse al fianco,

e qual madre sel guarda. - Accompagnaro

tutti il suo cruccio con un dolce riso.

Ultimo giunto Antìloco si tolse

l'ultimo premio, e sorridendo disse:

Amici, i numi, lo vedete, onorano

i provetti mortali. Aiace innanzi

mi va di poca etade: Ulisse al tempo

de' nostri padri è nato, e nondimeno

egli è rubizzo e verde, e nullo al corso

superarlo potrìa, tranne il Pelìde.

Questo sol disse: e l'esaltato Achille

così rispose: Antìloco, non fia

detta invan la tua lode. Eccoti d'oro

altro mezzo talento. - E sì dicendo

gliel porse, e quegli giubilando il prese.

Dopo ciò, fe' recarsi, e nell'arena

depose Achille una lunghissim'asta,

uno scudo ed un elmo, armi rapite

già da Patròclo a Sarpedonte; e ritto

nel mezzo degli Achei, Vogliamo, ei disse,

che per l'esposto guiderdone armati

due guerrieri de' più forti con acuto

tagliente acciar davanti all'adunanza

combattano. Chi pria punga la pelle

dell'avversario, e rotte l'armi, il sangue

ne tragga, avrassi questo brando in dono

di tracia lama, e bello e tempestato

d'argentei chiovi. Di quest'arme io stesso

Asteropèo spogliai. L'altre saranno

premio comune. Ai combattenti io poscia

nelle tende farò lauto banchetto.

Surse subitamente al fiero invito

lo smisurato Telamònio Aiace,

surse del par l'invitto Dïomède,

e armatisi in disparte ambo nel campo

pronti alla pugna s'avanzār gli eroi

con terribili sguardi. Alto stupore

tutti occupava i circostanti Achei.

L'uno all'altro appressati a fiero assalto

si disserrār tre volte, e tre alla vita

impetuosi s'investīr. Primiero

Aiace traforò di Dïomède

il rotondo brocchier, ma non la pelle

dall'usbergo difesa. Indi il Tidìde

sopra la penna dello scudo all'altro

spinse rapido l'asta, e nella strozza

gliel'appuntò. D'Aiace al fier periglio

spaventārsi gli Achivi, e della pugna

gridār la fine, e premio egual. Ma il brando

col bel cinto l'eroe diello al Tidìde.

Grezzo, qual già dalla fornace uscìo,

un gran disco il Pelìde allor nel mezzo

collocò. Lo solea l'immensa forza

scagliar d'Eezïone; a costui morte

diè poscia il divo Achille, e nelle navi

con altre spoglie si portò quel peso.

Ritto alzossi, e gridò: Sorga chi brama

così bel premio meritarsi. In questo

il vincitor s'avrà per cinque interi

giri di Sole di che all'uopo tutto

provveder de' suoi campi anche remoti:

né suoi bifolchi né pastori andranno

per bisogno di ferro alla cittade,

ché questo ne darà quanto è mestiero.

Levossi il bellicoso Polipete;

levossi Leontèo, forza divina;

levossi Aiace Telamònio, e seco

il muscoloso Epèo. Locārsi in fila,

e primo Epèo scagliò l'orbe rotato,

ma sì mal destro, che ne rise ognuno.

Il rampollo di Marte Leontèo

fu secondo a lanciar: terzo il gran figlio

di Telamone, che con man robusta

ogni segno passò: quarto alla fine

con fermo polso Polipete il disco

afferrò. Quanto lungi un pastorello

gitta il vincastro che rotato in alto

vola sopra l'armento; andò di tanto

fuor del circo il suo tiro. Applause tutto

il consesso: affollārsi i fidi amici

del forte Polipete, e alla sua nave

portār del disco la pesante massa.

Invitò quindi i saettieri, e in mezzo

dieci bipenni espose e dieci accette;

e piantato lontano nell'arena

un albero navale, avvinse a questo

con sottil fune al piede una colomba,

segno alle frecce. Le bipenni prenda

chi l'augel coglie, e le si porti. Quello

che il fallisca, e a toccar vada la fune,

essendo inferïor, s'abbia l'accette.

Ciò detto appena, presentossi il forte

re Teucro, e Merïon d'Idomenèo

prode sergente, e in un sonoro elmetto

agitate le sorti, uscì primiero

Teucro, e tosto lo stral tirò di forza.

Ma perché non aveva votata a Febo

di primo-nati agnelli un'ecatombe,

sfallì l'augello (ché tal lode il Dio

gl'invidïò); sol colse al piè la fune

che legato il tenea. Tagliolla il dardo;

libera la colomba a volo alzossi

per lo cielo, e fuggì; cadde la fune,

e di plausi sonar s'udìa l'arena.

Ratto allora di mano a Teucro tolse

Merïon l'arco, e ben presa la mira

colla cocca sul nervo, al saettante

nume promise un'ecatombe; e in alto

adocchiata la timida colomba

che in vario giro s'avvolgea, la colse

sotto l'ala. Passolla il dardo acuto,

e ricadde, e s'infisse alto nel suolo

di Merïone al piè. Ma la ferita

colomba si posò sovra l'antenna,

stese il collo, abbassò l'ali diffuse,

e dal corpo volata la veloce

alma, dal tronco piombò. Stupefatte

guardavano le turbe. Allor si tolse

le scuri Merïon, Teucro l'accette.

Produsse Achille all'ultimo nel mezzo

una lunga lunga asta, ed un lebète

non vïolato dalle fiamme ancora,

del valore d'un tauro, e sculto a fiori,

premio alla prova delle lance. Alzossi

l'ampio-regnante Atride Agamennóne

e il compagno fedel del re cretese

Merïon. Ma levatosi il Pelìde,

trasse innanzi, e parlò: Figlio d'Atrèo,

sappiam noi tutti come tutti avanzi

e nel vibrar dell'asta e nella possa.

Prenditi dunque questo premio, e il manda

alla tua nave. A Merïon daremo,

se il consenti, la lancia; ed io ten prego.

Acconsentì l'Atride. A Merïone

diede Achille la lancia, ed all'araldo

d'Agamennón lo splendido lebète.

 

 

LIBRO VENTESIMOQUARTO

 

 

Finiti i ludi, s'avviār le sciolte

turbe alle navi per diverse vie,

e preso il cibo, a placido riposo

s'abbandonār. Ma memore il Pelìde

dell'amato compagno, in nuovo pianto

scioglieasi, né serrar poteagli il sonno,

di tutte cure domator, le ciglia.

Di qua, di là si rivolgea membrando

il valor di Patròclo, e la grand'alma,

e le comuni imprese, e i tollerati

guerrieri affanni insieme, e i perigliosi

trascorsi flutti. E in queste ricordanze

dirottamente lagrimava, ed ora

giacea su i fianchi, or prono, ora supino;

poi di repente in piè balzato errava

mesto sul lido. E quando i campi e l'onde

illumina l'Aurora, egli di nuovo,

aggiogati i corsier, di retro al cocchio

Ettore avvince, e trattolo tre volte

di Pàtroclo dintorno al monumento,

a riposar si torna entro la tenda,

boccon lasciando nella polve steso

l'esangue corpo. Ma del morto eroe

impietosito Apollo ogni bruttura

ne tien rimossa, e tutto coll'aurata

egida il copre, perché nulla offesa

lo strascinato corpo ne riceva.

Visto del divo Ettòr lo strazio indegno,

pietà ne venne ai fortunati Eterni,

e il vegliante Argicida ad involarlo

incitando venìan. Questo di tutti

era il vivo desìo, ma non di Giuno,

né di Nettunno, né dell'aspra vergine

dall'azzurre pupille. Alto riposta

nella mente sedea di queste Dive

di Paride l'ingiuria, e la sprezzata

lor beltade quel dì che a lui venute

nel suo tugurio, ei preferì lor quella

che di funesto amor contento il fece.

Quindi l'odio immortal delle superbe

contro le sacre ilìache mura, e Prìamo

e tutta insieme la dardania gente.

Ma il duodecimo sole apparso al mondo,

Febo agli Eterni così prese a dire:

Numi crudeli, che vi fece Ettorre?

Forse che su gli altari a voi non arse

e di mugghianti e di lanosi armenti

vittime elette ei sempre? Ed or che fiera

morte lo spense, che furor s'è questo

di non renderne il corpo alla consorte,

alla madre, al figliuolo, al genitore,

al popol tutto, acciò che tosto ei s'abbia

l'onor del rogo e della tomba? E tante

onte a qual fine? Per servir d'Achille

alle furie; d'Achille, a cui nel seno

né amor del giusto né pietà s'alberga,

ma cuor selvaggio di lïon che spinto

dall'ardir, dalla forza e dalla fame

il gregge assalta a procacciarsi il cibo.

Tale il Pelìde gittò via dal petto

ogni senso pietoso, e quel pudore

che l'uom castiga co' rimorsi e il giova.

Perde taluno ancor più cari oggetti,

il fratello od il figlio. E nondimeno,

finito il pianto, al suo dolor dà tregua;

ché nell'uom pose il Fato alma soffrente.

Ma non sazio costui della già spenta

vita d'Ettorre, al carro il lega, e morto

pur dintorno alla tomba lo strascina

dell'amico. Non è questo per lui

né utile né bello: e badi il crudo

che, quantunque sì prode, egli le nostre

ire non desti infurïando e tanta

onta facendo a un'insensibil terra.

Tacque: e irata Giunon così rispose:

Se d'Ettore e d'Achille a una bilancia

l'onor dee porsi, e così piace ai numi,

s'adémpia, o re dell'arco, il tuo discorso.

Ma di padre mortale Ettore è figlio,

e mortal poppa l'allattò. Divino

germe è il Pelìde, ed io nudrìa la Diva

sua madre, io stessa l'educava, e sposa

la concessi a Pelèo diletto ai numi.

Voi tutti a quelle nozze, o Dei, scendeste,

e tu medesmo, o disleal compagno

de' malvagi, toccasti allor la cetra,

e misto agli altri banchettasti allegro.

Contro gli Dei non adirarti, o Giuno,

l'interruppe il Tonante. Eguale onore

dar non vuolsi, no certo, ai due guerrieri;

ma carissimo ai numi era pur anco

tra i Teucri tutti Ettorre, e a Giove in prima.

Ostie elette mai sempre gli m'offerse,

né l'are mie per esso ebber difetto

mai di convivii, né di pingui odori,

né di tazze libate, onor che solo

ai Celesti è sortito. Ma si ponga

ogni pensiero d'involar l'offeso

cadavere; e sottrarlo ora di furto

al fiero Achille non si può, ché Teti

notte e dì gli è dintorno e tutto osserva.

Pur se alcuno di voi Teti a me chiami,

io tale un motto le farò discreto,

che tutti accetterà di Prìamo i doni

placato Achille, e renderagli il figlio.

Disse, ed Iri col piè che le tempeste

nel corso adegua, si spiccò. Fra Samo

e l'aspra Imbro calò sovra le brune

onde del mare, e il mar sotto le piante

della Diva muggìa. Quindi s'immerse

come ghianda di piombo che a bovino

corno fidata a disertar giù scende

i crudivori pesci; e in cavo speco

Teti trovò che dalle sue sorelle

circondata piagnea la già vicina

morte del figlio che ne' frigii campi

perir lungi dovea dal patrio lido.

Le parve innanzi all'improvviso, e disse:

Sorgi, o Teti: il gran padre a sé ti chiama.

E che vuole da me l'Onnipotente?

Teti rispose. Afflitta, come sono,

di mischiarmi arrossisco agl'Immortali.

Pur vadasi e s'adémpia il suo volere.

Ciò detto, si coprì l'augusta Diva

d'un atro vel di che null'altro il nero

color lugùbre eguaglia, e in via si mise.

Iva innanzi la presta Iri, e sonora

intorno a lor s'apria l' onda marina.

Sul lido emerse al ciel volaro: e Giove

trovār seduto tra gli accolti Eterni.

Qui Teti accanto al sommo Iddio s'assise

(cesso a lei da Minerva il proprio seggio):

un aureo nappo in man Giuno le pose

con dolci accenti di conforto; ed ella

vōtollo, e il rese grazïosa. Allora

il gran padre dicea queste parole:

Teti, malgrado il tuo dolor (ch'io tutto

ben conosco e so quanto il cor t'aggrava),

tu salisti all'Olimpo, ed io dirotti

la cagion del chiamarti. È questo il nono

giorno che in cielo si destò tra i numi

pel morto Ettòr gran lite e per Achille.

Voleano i più che l'Argicida il corpo

n'involasse di furto. Io non v'assento

e per l'onor d'Achille, e pel rispetto

e per l'amor ch'io t'aggio e aver ti voglio

eternamente. Frettolosa adunque

scendi, o Diva, sul campo, e al figlio porta

i miei precetti. Digli che adirati

son con esso gli Dei, ch'io stesso il sono

sovra tutti, da che sì furibondo

agli strazii ei rattien l'ettòrea salma,

e per riscatto non la rende ancora.

Ma renderalla, se il mio cenno ei teme.

A Prìamo intanto io spedirò di Giuno

la messaggiera, ond'egli immantinente

ito alle navi degli Achei, co' doni

plachi il Pelìde, e il figlio suo redima.

Obbedïente a quel parlar la Diva

mosse i candidi piedi, e dall'Olimpo

scese d'un salto al padiglion d'Achille.

Il trovò sospiroso; affaccendati

a lui dintorno i suoi diletti amici

apprestavan la mensa, ucciso un grande

e lanoso arïète. Entrò, s'assise

dolce al suo fianco la divina madre,

accarezzollo colla destra, e disse:

E fino a quando, o figlio, in pianti e lutti

ti struggerai, immemore del cibo,

e deserto nel letto? Eppur di cara

donna l'amplesso il cor consola: il tempo,

ch'a me vivrai, gli è breve, e vïolenta

già t'incalza la Parca. Or via, m'ascolta,

ch'io di Giove a te vengo ambasciatrice.

I numi, ed esso primamente, sono

teco irati, perché nel tuo furore

ostinato ritieni appo le navi

d'Ettore il corpo, e al genitor nol rendi.

Rendilo, e il prezzo del riscatto accetta.

E ben, rispose sospirando Achille,

venga chi lo redima e via sel porti,

se tal di Giove è l'assoluto impero.

Mentre in questo parlar stassi col figlio

la genitrice Dea dentro la tenda,

Giove alla sacra Troia Iri spedìa.

Su, t'affretta, veloce Iri, e dal cielo

vola in Ilio, ed a Prïamo comanda

che alle navi si tragga e seco apporti

a riscatto del figlio eletti doni,

onde si plachi del Pelìde il core.

Ma solo ei vada, né verun lo scorti

de' Teucri, eccetto un attempato araldo

che d'un plaustro mular segga al governo,

su cui la salma dal Pelìde uccisa

alla cittade trasportar. Né tema

di morte il cor gli turbi o d'altro danno.

Gli darem l'Argicida a condottiero,

che fin d'Achille al padiglion lo guidi.

L'eroe vedrallo al suo cospetto, e lungi

dal porlo a morte, terrà gli altri a freno,

ch'ei non è stolto né villan né iniquo,

e benigno farassi a chi lo prega.

Ratta, come del turbine le penne,

partì la Diva messaggiera, e a Prìamo

giunta, il trovò tra pianti e grida. I figli

dintorno al padre doloroso accolti

inondavan di lagrime le vesti.

Stavasi in mezzo il venerando veglio

tutto chiuso nel manto, ed insozzato

il capo e il collo dell'immonda polve

di che bruttato di sua mano ei s'era

sul terren voltolandosi. La turba

delle misere figlie e delle nuore

empiea la reggia d'ululati, e quale

ricordava il fratel, quale il marito,

ché valorosi e molti eran caduti

sotto le lance degli Achei. Comparve

improvvisa davanti al re canuto

la ministra di Giove, e a lui che tutto

al vederla tremò, dicea sommesso:

Prìamo, fa core, né timor ti prenda.

Nunzia di mali non vengh'io, ma tutta

del tuo meglio bramosa. A te mi manda

l'Olimpio Giove che lontano ancora

su te veglia pietoso. Ei ti comanda

di redimere il figlio, e recar molti

doni ad Achille per placarlo. A lui

vanne adunque, ma solo, e che nessuno

t'accompagni de' Troi, salvo un araldo

d'età provetta, reggitor del plaustro

che il corpo trasportar del figlio ucciso

ti dee qua dentro: né temer di morte

o d'altra offesa. Condottiero avrai

l'Argicida che te fino al cospetto

d'Achille scorterà. Lungi l'eroe

dal trucidarti, terrà gli altri a freno.

Ei non è stolto né villan né iniquo,

e benigno farassi a chi lo prega.

Disse, e sparve. Riscosso il re dolente,

senza punto indugiarsi, ai figli impone

d'apprestargli il mular plaustro veloce,

e di legar su quello una grand'arca.

Indi salito ad un'eccelsa stanza

odorosa di cedro, ov'egli in serbo

tenea di molti preziosi arredi,

chiamò dentro la moglie Ecuba, e disse:

Infelice, m'ascolta: la celeste

messaggiera recommi or or di Giove

un comando. Egli vuol che degli Achei

m'incammini alle navi, ed al Pelìde

il prezzo io porti del diletto figlio.

Che ne senti? A quel campo, a quelle tende

certo mi spinge fortemente il core.

Ululò la consorte, e gli rispose:

Misera! ahi dove ti fuggìa quel senno

che alle tue genti e alle straniere un giorno

glorïoso ti fea? Solo alle navi

inimiche avvïarti? esporti solo

alla presenza di colui che tanti

figli t'uccise? oh cuor di ferro! e quale,

s'ei ti scopre, se cadi in suo potere,

qual mai pietade o riverenza speri

da quell'alma crudele e senza fede?

Deh piangiamlo qui soli. Era destino

dalle Parche filato all'infelice,

quand'io meschina il partorii; che lungi

dai genitori satollar dovesse

d'un barbaro i mastini. Oh potess'io

stretto tenerne fra le mani il core,

e strazïarlo, divorarlo! Allora

del mio figlio sarìa sconta l'offesa,

ch'ei da codardo non morì, ma in campo

per la patria pugnando, e fermo il piede,

senza smarrirsi o declinar la fronte.

Cessa, il vecchio riprese: il mio partire

è risoluto; non mi far ritegno,

non volermi tu stessa esser funesta

auguratrice: il distornarmi è vano.

Se mi desse un mortal questo comando,

o aruspice o indovino o sacerdote,

lo terremmo menzogna, e spregeremmo:

ma vidi io stesso, io stesso udii la Diva.

Dunque si vada, ed obbediam. Se il Fato

vuol che fra' Greci io pera, io pure il voglio.

Morrò trafitto, ma stringendo il figlio,

e tutto il dolce esaurirò del pianto.

Aprì ciò detto, i bei forzieri, e fuora

dodici ne cavò splendidi pepli,

ed altrettante clamidi e tappeti

e tuniche ed ammanti, e dieci insieme

aurei talenti, due forbiti tripodi,

quattro lebèti, e finalmente un nappo

bellissimo, dai Traci avuto in dono

quando andovvi orator; raro presente:

e nondimen di questo pure il veglio

si fe' privo: cotanto al cor gli preme

il riscatto del figlio. Uscito ei quindi,

tutto discaccia de' Troiani il vulgo

ai portici raccolto, e acerbo grida:

Via, perversi, di qua: forse vi manca

domestico dolor, ché qui venite

ad aggravarmi il mio? forse n'è poco

l'alto affanno in che Giove mi sommerse

il più forte togliendomi de' figli?

Ma voi medesmi vel saprete in breve,

voi che senza difesa, or ch'egli è morto,

sotto le spade degli Achei cadrete.

Ma deh! pria che veder Troia distrutta,

deh ch'io discenda alla magion di Pluto.

Così grida il tapino, e con lo scettro

fuor ne mette la turba che sommessa

si dileguava. Irrequïeto poscia

i suoi figli bravando li rampogna,

Eleno e Pari e Antifono e Pammone

e l'illustre Agatone e il prode in guerra

buon Polite e Dėìfobo ed Agàvo,

di divina sembianza giovinetto,

ed Ippotòo. Si volge a questi nove

con acerbi rabbuffi il doloroso,

e, Studiatevi, grida: a che vi state,

nequitosi infingardi? oh foste tutti

spenti in vece d'Ettorre! Oh me infelice!

Re dell'eccelsa Troia io generai

fortissimi figliuoli, e nullo in vita

ne rimase. Caduto è il dėiforme

mio Mèstore; caduto è il bellicoso

Tròilo di cocchi agitatore; ed ora

Ettore cadde, quell'Ettòr che un Dio

fra' mortali parea; no, d'un mortale

figlio ei non parve, ma d'un Dio. La guerra

mi tolse i buoni, e mi lasciò cotesti

vituperii; sì voi, prodi soltanto

alle danze, agl'inganni, alle rapine.

Su, che si tarda? Apparecchiate il carro,

ponetevi que' doni, e vi spedite,

onde senza più starmi io m'incammini.

Rispettosi al garrir del genitore

corser quelli e dier fuora incontanente

l'agile plaustro tutto nuovo e bello,

e una grand'arca vi legār di sopra.

Indi un giogo mulin di bosso, ornato

d'un umbilico con anel ben messo,

dal pïuòlo spiccār: poscia di nove

cubiti tratta la giogal gombìna,

al capo accomodār del liscio temo

acconciamente il giogo, e sovrapposto

alla caviglia del timon l'anello,

con triplicato giro all'umbilico

l'avvinghiār quinci e quindi, e fatto un nodo,

della gombìna ripiegār la punta

nella parte di sotto. Ciò finito,

giù recār dalla stanza i destinati

doni al riscatto dell'ettòrea testa,

immensi doni; e sul pulito plaustro

gl'imposero, e del plaustro al giogo addussero

senza ritardo due gagliarde mule,

de' Misii illustre dono al re troiano.

Quindi allestiti presentaro al padre

del regale suo cocchio i corridori,

cui Prìamo stesso governar solea

ne' nitidi presepi: ed or gli accoppia

ei medesmo alla biga il mesto veglio

sotto i portici eccelsi, esso e il suo fido

araldo, entrambi pensierosi e muti.

Féssi allor la dolente Ecuba incontro

al re marito, nella man tenendo

di soave licore un aureo nappo,

onde ai numi libasse anzi il partire.

Stette avanti ai corsieri, e, Tien, gli disse,

liba a Giove, e lo prega che ti voglia

dai nemici tornar salvo al tuo tetto,

poiché, malgrado il mio dissenso, hai ferma

la tua partenza. Or tu la supplicante

voce innalza all'idèo Giove nemboso,

che d'alto guarda la cittade, e chiedi

che messaggier ti mandi alla diritta

quel fortissimo suo veloce augello

sovra tutti a lui caro, onde tal vista

il tuo vïaggio affidi al campo acheo.

Se il Dio ricusa d'invïarti questo

suo propizio messaggio, io ti scongiuro

di non rischiar tuoi passi a quelle navi,

e di dar bando al fier desìo che porti.

Facciasi, o donna, il tuo voler, rispose

il nobile vegliardo: ai numi è buono

alzar le palme ed implorar mercede.

Disse; e all'ancella dispensiera impose

di versargli una pura onda alle mani;

e l'ancella appressossi, e colla manca

sostenendo il bacin, versò coll'altra

da tersa idria l'umor. Lavato ei prese

l'offerta coppa, e ritto in piè nel mezzo

dell'atrio, in atto supplicante alzati

gli occhi al cielo, libò con questi accenti:

Giove massimo Iddio, che glorïoso

dall'Ida imperi, fa che grato io giunga

ad Achille, e pietà di me gl'ispira.

Mandami a dritta il tuo veloce e caro

re de' volanti, e ch'io lo vegga: e certo

per lui del tuo favore, alle nemiche

tende i miei passi volgerò sicuro.

Esaudì Giove il prego, e il più perfetto

degli augurii mandò, l'aquila fosca,

cacciatrice, che detta è ancor la Bruna.

Larghe quanto la porta di sublime

stanza regal spiegava il negro augello

le sue vaste ali, dirigendo a destra

sulla cittade il volo. Esilarossi

a tutti il core nel vederla. Il veglio

montò il bel cocchio frettoloso, e fuora

dei risonanti portici lo spinse.

Traenti il plaustro precedean le mule

dal saggio Idèo guidate, e lo seguièno

della biga i corsier che il re canuto

per l'ampie strade colla sferza affretta.

L'accompagnan piangendo i suoi più cari,

come se a morte ei gisse. Alfin venuti

alle porte, lasciārsi. Il re discese

verso il campo nemico, e lagrimosi

nella cittade ritornārsi i figli.

Vide Giove dall'alto i due soletti

pellegrini inoltrarsi alla pianura.

Pietà gli venne dell'antico sire,

e a Mercurio parlò: Diletto figlio,

tu che guida ai mortali esser ti piaci,

e pietoso gli ascolti, va veloce,

ed alle navi achee Prìamo conduci

occulto in guisa che nessuno il vegga

de' vigilanti Argivi e se n'accorga,

pria che d'Achille alla presenza ei sia.

Mercurio ad obbedir tosto s'accinge

i precetti del padre. E prima ai piedi

i bei talari adatta. Ali son queste

d'incorruttibil auro, ond'ei volando

l'immensa terra e il mar ratto trascorre

collo spiro de' venti. Indi la verga,

che dona e toglie a suo talento il sonno,

nella destra si reca, e scioglie il volo.

In un batter di ciglio all'Ellesponto

giunge e al campo troian. Qui prende il volto

di regal giovinetto a cui fiorìa

del primo pelo la venusta guancia,

e, così fatto, il nume s'incammina.

Già Prìamo con Idèo d'Ilo la tomba

avea trascorsa, e qui sostato alquanto,

alla chiara corrente abbeverava

e le mule e i destrier. L'ombra notturna

sulla terra scendea, quando l'araldo

del nume s'avvisò che alla lor volta

già s'appressava, e sbigottito disse:

Bada, o re; qui si vuol tutta prudenza.

Veggo un nemico, e siam perduti. O ratto

diamci in fuga, o abbracciam le sue ginocchia

implorando pietà. - Smarrissi il veglio,

il terror gli arricciò su le canute

tempie le chiome, il brivido gli corse

per le tremule membra; e stupidito

s'arrestò: Ma si fece innanzi il nume,

e presolo per mano interrogollo:

Dove, o padre, dirigi esti corsieri

così pel buio della dolce notte

mentre gli altri han riposo? E non paventi

i furibondi Achei, che ti son presso,

fieri nemici? Se qualcun di loro

per l'ombra oscura portator ti coglie

di quei tesori, che farai? Garzone

tu non sei, né cotesto che ti segue,

onde far petto a chi t'assalti infesto.

Ma di me non temer, ch'io qui mi sono

in tuo danno non già, ma in tua difesa,

perocché come padre a me sei caro.

E Prìamo a lui: La va, come tu dici,

mio dolce figlio. Ma propizio ancora

tien su me la sua mano un qualche iddio,

che tal mi manda della via compagno

ben augurato, come te, di corpo

bello e di volto, e di mirando senno,

e di beati genitor germoglio.

Gli è ver, ti guarda un Dio, siccome avvisi

(ripiglia il nume): ma rispondi, e schietto

parlami il vero. In regïon straniera

porti tu forse, per salvarli, questi

prezïosi tesori? O forse tutti

di spavento compresi abbandonate

la città, da che spento è il tuo gran figlio

che a nullo Achivo di valor cedea?

Oh chi se' tu? riprese intenerito

l'esimio rege, chi se' tu che parli

del mio morto figliuol così cortese?

E chi son dunque i tuoi parenti, o caro?

Allor Mercurio: Tu mi tenti, o veglio,

col tuo dimando. Or ben: nella battaglia

onoratrice de' guerrieri io vidi

con quest'occhi più volte il divo Ettorre,

massimamente il dì che degli Achei

strage egli fece col fulmineo ferro

cacciandoli alle navi. Ad ammirarlo

noi fermi ci stavam; ché irato Achille

col sommo Atride a noi non consentìa

l'entrar dentro alla mischia. Io suo soldato

qua ne venni con esso in una stessa

nave: di schiatta Mirmidóne io sono;

Polìtore m'è padre: a lui son molte

ricchezze e molta età pari alla tua,

e settimo de' figli io fui sortito

a questa guerra. Esplorator del campo

or qui ne venni: perocché dimani

di buon tempo gli Achivi alla cittade

daran l'assalto. Di riposo ei sono

tutti sdegnosi, e contenerne il fiero

desìo di pugna più non ponno i duci.

Udito questo, replicò de' Teucri

l'augusto sire: Se davver soldato

del Pelìde tu sei, tutto deh fammi

palese il vero. Il mio figliuol giac'egli

per anco intero nelle tende, o fatto,

misero! in brani, lo gittò pastura

de' suoi mastini l'uccisor? - No, pronto

l'Argicida rispose. Ei giace intatto

tuttavia dalle belve appo la nave

capitana d'Achille entro la tenda

senza segno d'onor. La dodicesma

luce rifulse sul giacente, e ancora

il suo corpo è incorrotto, ed il vorace

morso de' vermi che gli estinti in guerra

tutti consuma, il figlio tuo rispetta.

Vero gli è ben che dell'amico intorno

alla tomba, col sorgere dell'alba,

spietatamente Achille lo strascina;

né per ciò giunge a deturparlo, e quando

tu medesmo il vedessi, maraviglia

ti prenderebbe nel trovarlo tutto

mondo dal tabo e fresco e rugiadoso,

in ogni parte intégro, e le ferite,

che molte ei n'ebbe, tutte chiuse. Tanto

gl'iddii beati, a cui diletto egli era,

dell'estinto tuo figlio ebber pensiero.

Gioinne il vecchio, e replicò: Per certo

torna in gran bene agl'Immortali offrire

ogni debito onor, né il mio figliuolo,

finché si visse, degli Dei gli altari

dimenticò. Quind'essi alla sua morte

ricordārsi di lui. Ma tu ricevi,

deh ricevi da me questo bel nappo;

custodiscilo, e fausti i sommi Dei,

del Pelìde alla tenda m'accompagna.

Buon vecchio, replicò con un sorriso

l'Argicida, tu tenti l'inesperta

mia giovinezza, ma la tenti in vano.

Inscio Achille, non fia che doni io prenda.

Temo il mio duce, e più il rubar; né voglio

che guaio me n'incolga. Io scorterotti

così pur senza doni e di buon grado,

e per terra e per mar, come ti piace,

anche d'Argo alle rive, né veruno

su te le mani metterà, me duce.

Così detto, balzò sopra la biga,

e alle man date col flagel le briglie

ne' cavalli trasfuse e nelle mule

una gagliarda lena. Eran già presso

delle navi alle torri ed alla fossa,

e davano le scolte opra alle cene.

Tutte Mercurio addormentolle, e tosto,

levatene le sbarre, aprì le porte,

e di Prìamo la biga, e de' bei doni

l'onusto carro v'introdusse. Il passo

drizzār quindi d'Achille al padiglione,

che splendido e sublime i Mirmidóni

gli avean costrutto di robusto abete.

Irsuto e spesso di campestri giunchi

il culmine s'estolle: ampio di pali

folto steccato lo circonda, e sola

una trave la porta n'assicura,

trave immensa, abetina, che a levarsi

e a riporsi di tre chiedea la forza,

ed il Pelìde vi bastava ei solo.

L'aperse il nume, ed intromesso il vecchio

co' recati ad Achille incliti doni,

scese d'un salto a terra, e così disse:

O Prìamo, io sono il sempiterno iddio

Mercurio; il padre mi spedì tua guida,

e qui ti lascio, ché il menarti io stesso

del Pelìde al cospetto, e tanto innanzi

favorire un mortale, a un Immortale

disconviensi. Tu entra, ed abbracciando

le sue ginocchia per la madre il prega

e pel padre e pel figlio, onde si plachi.

Sparve, ciò detto, ed all'olimpie cime

risalì. Prìamo scese, ed alla cura

de' cavalli lasciato e delle mule

l'araldo, s'avvïò dritto d'Achille

alle stanze riposte. Avea di Giove

l'eroe diletto in quel medesmo punto

dato fine alla cena. I suoi sergenti

in disparte sedean. Soli al guerriero

ministravano in piedi Automedonte

ed Alcimo, di Marte almo rampollo.

Tolta non era ancor la mensa, e ancora

sedeavi Achille. Il venerando veglio

entrò non visto da veruno, e tosto

fattosi innanzi, tra le man si prese

le ginocchia d'Achille, e singhiozzando

la tremenda baciò destra omicida

che di tanti suoi figli orbo lo fece.

Come avvien talor se un infelice

reo del sangue d'alcun del patrio suolo

fugge in altro paese, e ad un possente

s'appresentando, i riguardanti ingombra

d'improvviso stupor; tale il Pelìde

del dėiforme Prìamo alla vista

stupì. Stupiro e si guardaro in viso

gli altri con muta maraviglia, e allora

il supplice così sciolse la voce:

Divino Achille, ti rammenta il padre,

il padre tuo da ria vecchiezza oppresso

qual io mi sono. Io questo punto ei forse

da' potenti vicini assediato

non ha chi lo soccorra, e all'imminente

periglio il tolga. Nondimeno, udendo

che tu sei vivo, si conforta, e spera

ad ogn'istante riveder tornato

da Troia il figlio suo diletto. Ed io,

miserrimo! io che a tanti e valorosi

figli fui padre, ahi! più nol sono, e parmi

già di tutti esser privo. Di cinquanta

lieto io vivea de' Greci alla venuta.

Dieci e nove di questi eran d'un solo

alvo prodotti; mi venìano gli altri

da diverse consorti, e i più ne spense

l'orrido Marte. Mi restava Ettorre,

l'unico Ettorre, che de' suoi fratelli

e di Troia e di tutti era il sostegno;

e questo pure per le patrie mura

combattendo cadéo dianzi al tuo piede.

Per lui supplice io vegno, ed infiniti

doni ti reco a riscattarlo, Achille!

Abbi ai numi rispetto, abbi pietade

di me: ricorda il padre tuo: deh! pensa

ch'io mi sono più misero, io che soffro

disventura che mai altro mortale

non soffrì, supplicante alla mia bocca

la man premendo che i miei figli uccise.

A queste voci intenerito Achille,

membrando il genitor, proruppe in pianto,

e preso il vecchio per la man, scostollo

dolcemente. Piangea questi il perduto

Ettorre ai piè dell'uccisore, e quegli

or il padre, or l'amico, e risonava

di gemiti la stanza. Alfin satollo

di lagrime il Pelìde, e ritornati

tranquilli i sensi, si rizzò dal seggio,

e colla destra sollevò il cadente

veglio, il bianco suo crin commiserando

ed il mento canuto. Indi rispose:

Infelice! per vero alte sventure

il tuo cor tollerò. Come potesti

venir solo alle navi ed al cospetto

dell'uccisore de' tuoi forti figli?

Hai tu di ferro il core? Or via, ti siedi,

e diam tregua a un dolor che più non giova.

Liberi i numi d'ogni cura al pianto

condannano il mortal. Stansi di Giove

sul limitar due dogli, uno del bene,

l'altro del male. A cui d'entrambi ei porga,

quegli mista col bene ha la sventura.

A cui sol porga del funesto vaso,

quei va carco d'oltraggi, e lui la dura

calamitade su la terra incalza,

e ramingo lo manda e disprezzato

dagli uomini e da' numi. Ebbe Pelèo

al nascimento suo molti da Giove

illustri doni. Ei ricco, egli felice

sovra tutti i viventi, il regno ottenne

de' Mirmidóni, e una consorte Diva

benché mortale. Ma lui pure il nume

d'un disastro gravò. Nell'alta reggia

prole negògli del suo scettro erede,

né gli concesse che di corta vita

un unico figliuolo, ed io son quello;

io che di lui già vecchio esser non posso

dolce sostegno, e negl'ilìaci campi

seggo lontano dalla patria, infesto

a' tuoi figli e a te sesso. E te pur anco

udimmo un tempo, o vecchio, esser beato

posseditor di quanta hanno ricchezza

Lesbo sede di Màcare, e la Frigia

ed il lungo Ellesponto. All'opulenza

di queste terre numerosi figli

la fama t'aggiungea. Ma poiché i numi

in questa guerra ti cacciār, meschino!

ch'altro vedesti intorno alle tue mura

che perpetue battaglie e sangue e morti?

Pur datti pace, né voler ch'eterno

ti consumi il dolor. Nullo è il profitto

del piangere il tuo figlio, e pria che in vita

richiamarlo, ti resta altro soffrire.

Deh non far ch'io mi segga, almo guerriero,

l'antico sire ripigliò: là dentro

senza onor di sepolcro il mio diletto

Ettore giace: rendilo al mio sguardo;

rendilo prontamente, e i molti doni

che ti rechiamo, accetta, e ne fruisci,

e dìati il ciel di salvo ritornarti

al tuo loco natìo, poiché pietoso

e la vita mi lasci e i rai del Sole.

Non m'irritar co' tuoi rifiuti, o veglio,

bieco Achille riprese. Io stesso avea

statuito nel cor, che alfin renduto

ti fosse il figlio, perocché la diva

Nerėide mia madre a me di Giove

già fe' chiaro il voler. Né si nasconde

al mio vedere, al mio sentir, che un nume

ti fu scorta alle navi a cui veruno

mortal non fōra d'inoltrarsi ardito,

né le guardie ingannar, né delle porte

avrìa le sbarre disserrar potuto

neppur di tutto il suo vigor nel fiore.

Con querimonie adunque il mio corruccio

non rinfrescarmi, se non vuoi ti metta,

benché supplice mio, fuor della tenda,

e del Tonante trasgredisca il cenno.

Tremonne il vecchio, ed obbedì. Balzossi

fuor della tenda allor come lïone

il Pelìde con esso i due scudieri

Automedonte ed Alcimo, cui, dopo

il morto amico, tra' compagni egli ebbe

in più pregio ed amor. Sciolsero questi

i corsieri e le mule, ed intromesso

l'antico araldo l'adagiaro in seggio.

Poscia dal plaustro i prezïosi doni

del riscatto levār, ma due pomposi

manti lasciārvi, ed una ben tessuta

tunica all'uopo di mandar coperto

il cadavere in Ilio. Indi chiamate

le ancelle, comandò che tutto fosse

e lavato e di balsami perfuso

in disparte dal padre, onde il meschino,

veduto il figlio, in impeti non rompa

subitamente di dolore e d'ira,

sì che la sua destando anche il Pelìde

contro il cenno di Giove nol trafigga.

Lavato adunque dall'ancelle ed unto

di balsami odorati, e di leggiadra

tunica avvolto, e poi di risplendente

pallio coperto, il gran Pelìde istesso

alzatolo di peso, in sul ferètro

collocollo; e composto i suoi compagni

sul liscio plaustro lo portār. Dal petto

trasse allora l'eroe cupo un sospiro,

e il diletto chiamando estinto amico

sclamò: Patròclo, non volerti meco

adirar, se nell'Orco udrai ch'io rendo

Ettore al padre. In suo riscatto ei diemmi

convenevoli doni, e la migliore

parte a te sarà sacra, anima cara.

Rïentrò quindi nella tenda, e sopra

il suo seggio col tergo alla parete

sedutosi di fronte a Prìamo, disse:

Buon vecchio, il tuo figliuol, siccome hai chiesto,

è in tuo potere, e nel ferètro ei giace.

Potrai dell'alba all'apparir vederlo,

e via portarlo. Si rivolga adesso

alla mensa il pensier, ch'anco l'afflitta

Nìobe del cibo ricordossi il giorno

che dodici figliuoi morti le furo,

sei del leggiadro e sei del forte sesso,

tutti nel fior di giovinezza. Ai primi

recò morte Diana, ed ai secondi

il saettante Apollo, ambo sdegnati

che Nìobe ardisse all'immortal Latona

uguagliarsi d'onor, perché la Dea

sol di due parti fu feconda, ed essa

di ben molti di più. Ma i molti furo

dai due trafitti. Nove volte il Sole

stesi li vide nella strage, e nullo

fu che di poca terra li coprisse,

perché converso in dure pietre avea

Giove la gente. Alfin lor diero i numi

nella decima luce sepoltura.

Stanca la madre del suo molto pianto,

non fu schiva di cibo. Or poi fra i sassi

del Sipilo deserti, ove le stanze

son delle Ninfe che sul verde margo

danzano d'Achelèo, cangiata in rupe

sensibilmente ancor piagne, e in ruscelli

sfoga l'affanno che gli Dei le diero.

E noi pure, o divin vecchio, pensiamo

al nutrimento. Ritornato poscia

col figlio a Troia, il piangerai di nuovo,

ché molto è il pianto che ti resta ancora.

Così detto, levossi frettoloso,

e un'agnella sgozzò di bianco pelo.

La scuoiaro i compagni, e acconciamente

l'apprestār minuzzandola con molta

perizia; e infissa negli spiedi, e quindi

ben rosolata la levār dal foco.

Da nitido canestro Automedonte

pose il pan su la mensa, ed il Pelìde

spartì le carni. La man porse ognuno

alle vivande apparecchiate, e spento

del cibarsi il desìo, Prìamo si pose

maravigliando a contemplar d'Achille

le divine sembianze, e quale e quanto

il portamento. Stupefatto ei pure

sul dardànide eroe tenea le luci

fisse il Pelìde, e il venerando volto

n'ammirava e il parlar pieno di senno.

Come fur sazii del mirarsi, ruppe

Prìamo il tacer: Preclaro ospite mio,

mettimi or tosto a riposar, ch'io possa

gustar di dolce sonno alcuna stilla.

Dal dì che sotto la tua man possente

il mio figlio spirò, mai non fur chiuse

queste palpebre, mai; ch'altro non seppi

da quel punto che piangere, ululare,

voltolarmi per gli atrii nella polve,

mille ambasce ingoiando. Dopo tanto

fiero digiuno, or ecco che gustato

ho qualche cibo alfine e qualche sorso.

Questo udendo, ai compagni ed all'ancelle

pronto il Pelìde comandò di porre

nel padiglione esterïor due letti

con distesi tappeti, e porporine

belle coltrici, e vesti altre vellose

da ricoprirsi. Obbedïenti al cenno

uscīr le ancelle colle faci in mano,

e tosto i letti apparecchiār. Di lui

sollecito il Pelìde, allor gli punse

di tema il cor, dicendo: Ottimo padre,

dormi qua fuor. Potrìa de' prenci achivi,

che qui son per consulte a tutte l'ore,

recarsi a me talun, siccome è l'uso,

e vederti, e ridirlo al sommo duce

Agamennóne, e farsi impedimento

al riscatto d'Ettorre. Or mi dichiara

veracemente. A' suoi funebri onori

quanti vuoi giorni? Io terrò l'armi in posa

per altrettanti, e frenerò le schiere.

Se ne consenti (Prïamo rispose)

placide esequie al figlio mio, per certo

mi fai cosa ben grata, o generoso.

Siam rinchiusi, lo sai, dentro le mura;

sai che n'è lungi il monte, ove la selva

tagliar pel rogo, e sai quanto de' Teucri

è lo spavento. Nove giorni al pianto

consacreremo nelle case: al decimo

arderemo la pira, e imbandirassi

per la cittade il funeral banchetto.

Gli darem tomba nel seguente, e l'armi

nell'altro piglierem, se stremo il chiede.

Buon vecchio, sia così, soggiunse Achille:

tanto l'armi staran quanto tu brami.

Così dicendo, la sua destra pose

nella destra di quello, onde sgombrargli

ogni temenza. Prïamo e l'araldo

nell'atrio coricārsi; entro i recessi

della tenda il Pelìde; ed al suo fianco

la bella figlia di Brisèo si giacque.

Tutti dormìan sepolti in dolce sonno

i guerrieri e gli Dei, ma non l'amico

de' mortali Mercurio, che venìa

pur divisando in suo pensier la guisa

di trarre, dalle guardie inosservato,

fuor del dorico vallo il re troiano.

Stettegli adunque su la fronte, e disse:

Re, così dormi fra' nemici? e nulla

ti cal del rischio in che ti trovi, uscito

dagli artigli d'Achille? A caro prezzo

redimesti l'amato estinto figlio.

Ma per te che sei vivo, Agamennóne

se qui sapratti, e tutto il campo acheo,

tre volte tanto chiederanno ai figli

che rimasti ti sono. - E più non disse.

Destasi il vecchio sbigottito, e sveglia

l'araldo: aggioga l'Argicida istesso

i cavalli e le mule, e presto presto

spinti i carri, invisibile traversa

gli accampamenti. Alla corrente giunti

del genito da Giove ondoso Xanto

nell'ora che sul mondo il suo vermiglio

velo dispiega di Titon l'amica,

volò Mercurio al cielo, e i due canuti

con gemiti e lamenti alla cittade

celeravan la via. Grave del caro

cadavere davanti iva il carretto,

né d'uomo orecchio, né di donna ancora

il fragor ne sentìa. L'udì primiera

la vergine Cassandra, e su la rocca

di Pergamo salita, il suo diletto

padre e l'araldo riconobbe eccelsi

sovra i carri, e la spoglia inanimata

che sul plaustro giacea. Mise a tal vista

alti gridi e ululati, e per le vie,

Troi, Troiane, gridava, eccone Ettorre;

accorrete, vedetelo, gli è quello

che ritornando dalla pugna empiea

tutti, un tempo, di gioia i vostri petti.

Né verun né veruna a questo annunzio

nella cittade si restò, ma tutti

d'intollerando duolo il cuor compresi

si versār dalle porte, e fersi incontro

al lugubre convoglio. Ivi primiere

lacerandosi i crini la diletta

sposa e l'augusta genitrice al carro

s'avventār furïose, e sull'amata

pallida fronte abbandonār le bocche,

tutta dintorno piangendo la turba.

E le lagrime, i gemiti, le grida

sul deplorato Ettorre avrìan l'intero

giorno consunto su le meste porte,

se Prïamo dal cocchio all'inondante

turba rivolto non dicea: Sgombrate

al carro il varco: pascervi di pianto

su quel corpo potrete entro la reggia.

S'aprì la folta, passò il carro, e giunse

negl'incliti palagi. Ivi deposto

il cadavere in regio cataletto,

il lugubre sovr'esso incominciaro

inno i cantori de' lamenti, e al mesto

canto pietose rispondean le donne:

fra cui plorando Andròmaca, e strignendo

d'Ettore il capo fra le bianche braccia,

fe' primiera sonar queste querele:

Eccoti spento, o mio consorte, e spento

sul fior degli anni! e vedova me lasci

nella tua reggia, ed orfanello il figlio

di sventurato amor misero frutto,

bambino ancora, e senza pur la speme

che pubertade la sua guancia infiori.

Perocché dalla cima Ilio sovverso

ruinerà tra poco or che tu giaci,

tu che n'eri il custode, e gli servavi

i dolci pargoletti e le pudiche

spose, che tosto ai legni achei n'andranno

strascinate in catene, ed io con esse.

E tu, povero figlio, o ne verrai

meco in servaggio di crudel signore

che ad opre indegne danneratti, o forse

qualche barbaro Acheo dall'alta torre

ti scaglierà sdegnoso, vendicando

o il padre, o il figlio, od il fratel dall'asta

d'Ettor prostrati; ché per certo molti

di costoro per lui mordon la terra.

Terribile ai nemici era il tuo padre

nelle battaglie, e quindi è il duol che tragge

da tutti gli occhi cittadini il pianto.

Ineffabile angoscia, Ettore mio,

tu partoristi ai genitor, ma nulla

si pareggia al dolor dell'infelice

tua consorte. Spirasti, e la mancante

mano dal letto, ohimè! non mi porgesti,

non mi lasciasti alcun tuo savio avviso,

ch'or giorno e notte nel fedel pensiero

dolce mi fōra richiamar piangendo.

Accompagnār co' gemiti le donne

d'Andròmaca i lamenti, e li seguiva

il compianto d'Ecùba in questa voce:

O de' miei figli, Ettorre, il più diletto!

Fosti caro agli Dei mentre vivevi,

e il sei, qui morto, ancora. Il crudo Achille

di Samo e d'Imbro e dell'infida Lenno

su le remote tempestose rive

quanti a man gli venìan, tutti vendeva

gli altri miei figli; e tu dal suo spietato

ferro trafitto, e tante volte intorno

strascinato alla tomba dell'amico

che gli prostrasti (né per questo in vita

lo ritornò), tu fresco e rugiadoso

or mi giaci davanti, e fior somigli

dai dolci strali della luce ucciso.

A questo pianto rinnovossi il lutto,

ed Elena fe' terza il suo lamento:

O a me il più caro de' cognati, Ettorre,

poiché il Fato mi trasse a queste rive

di Paride consorte! oh morta io fossi

pria che venirvi! Venti volte il Sole

il suo giro compì da che lasciato

ho il patrio nido, e una maligna o dura

sola parola sul tuo labbro io mai

mai non intesi. E se talvolta o suora

o fratello o cognata, o la medesma

veneranda tua madre (ché benigno

a me fu Prìamo ognor) mi rampognava,

tu mansueto, con dolce ripiglio

gli ammonendo, placavi ogni corruccio.

Quind'io te piango e in un la mia sventura,

ché in tutta Troia io non ho più chi m'ami

o compatisca, a tutti abbominosa.

Così sclamava lagrimando, e seco

il popolo gemea. Si volse alfine

Prìamo alla turba, e favellò: Troiani,

si pensi al rogo. Andate, e dalla selva

qua recate il bisogno, né vi prenda

timor d'insidie. Mi promise Achille,

nel congedarmi, di non farne offesa

anzi che spunti il dodicesmo Sole.

Disse; e muli e giovenchi in un momento

sotto il giogo fur pronti, e dalle porte

proruppero. Durò ben nove interi

giorni il trasporto delle tronche selve.

Come rifulse su la terra il raggio

della decima aurora, lagrimando

dal feretro levār del valoroso

Ettore il corpo, e postolo sul rogo,

il foco vi destār. Rïapparita

la rosea figlia del mattin, s'accolse

il popolo dintorno all'alta pira,

e pria con onde di purpureo vino

tutte estinser le brage. Indi per tutto

queto il foco, i fratelli e i fidi amici

pieni il volto di pianto e sospirosi

raccolsero le bianche ossa, e composte

in urna d'oro le coprīr d'un molle

cremisino. Ciò fatto, in cava buca

le posero, e di spesse e grandi pietre

un lastrico vi fêro, e prestamente

il tumulo elevār. Le scolte intanto

vigilavan dintorno, onde un ostile

non irrompesse repentino assalto

pria che fosse al suo fin l'opra pietosa.

Innalzato il sepolcro dipartīrsi

tutti in grande frequenza, e nella vasta

di Prïamo adunati eccelsa reggia

funebre celebrār lauto convito.

Questi furo gli estremi onor renduti

al domatore di cavalli Ettorre.