NON POSSIAMO PERMETTERCI SPRECHI DI
PENSIERO |
RECUPERIAMO
MARCO MINGHETTI
Aprile 2013
INDICE
Marco Minghetti e le sue opere
un liberale bolognese dal respiro
europeo
il liberalismo italiano tra scienza
e politica
I "limiti razionali"
dell'economia politica
Alle origini della partitocrazia
MARCO MINGHETTI: I PARTITI POLITICI
E LA LORO INGERENZA NELLA GIUSTIZIA E NELL'AMMINISTRAZIONE
DEL GOVERNO PARLAMENTARE COME
GOVERNO DI PARTITO DEI PREGI E DEI DIFETTI CHE GLI SONO INERENTI
SE SIA POSSIBILE UN GOVERNO
PARLAMENTARE SENZA PARTITI
______________________________________
MARCO MINGHETTI - DELLA ECONOMIA
PUBBLICA E DELLA SUA ATTINENZA COLLA MORALE E COL DIRITTO
______________________________________
Teledemocrazia: sudditi o cittadini
?
Piccola antologia del pensiero
liberale
Società Libera e i poteri neutri
La libertà dei moderni tra
liberalismo e democrazia
Marco Minghetti
1818 - Nasce a Bologna l’8 novembre, in un’agiata famiglia di proprietari
terrieri, da Giuseppe e Rosa Sarti. La madre appartiene a una famiglia borghese
di sentimenti liberali.
1828/1832 - con la morte del padre l’influsso della madre sulla sua formazione
si fa più esclusivo. Studia privatamente sotto la direzione del barnabita di
idee liberali Ugo Bassi.
1832/1845 - Inizia una lunga serie di viaggi all’estero che costituiscono la
sua vera formazione culturale (Parigi, Londra, Svizzera, Germania, Belgio,
Olanda e infine di nuovo Francia e Inghilterra). Nel frattempo stringe rapporti
con ambienti liberali, sia in Italia che all’estero.
1847/1849 - Sono gli anni del suo ingresso nella vita pubblica. Nel 1847 è
nominato membro della consulta di Stato; nel ‘48 è per poche settimane ministro
dei Lavori Pubblici dello Stato Pontificio. Eletto deputato, si dimette senza
esitazione, perché non approva lo scarso zelo con cui si conducono le indagini
sulla morte di Pellegrino Rossi. Rinuncia a presentare la propria candidatura
alla Costituente Romana.
1850/1856 - Abbandona temporaneamente l’attività politica ritirandosi in
campagna. Riprende i suoi viaggi all’estero.
1859 - Scrive Della economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col
diritto, frutto dei suoi studi giovanili.
1860 - E’ eletto deputato, carica che conserverà fino alla morte, dalla VII
alla XVI legislatura. Il 1° novembre è nominato ministro degli Interni nel
gabinetto Cavour, carica che conserverà anche nel successivo ministero
Ricasoli.
1862 - E’ nominato ministro delle Finanze nel gabinetto Farini.
1863/1864 - Dal 24 marzo 1863 al 24 settembre 1864 è presidente del Consiglio,
conservando però al tempo stesso il portafoglio delle Finanze.
1869 - Torna al governo come ministro dell’Agricoltura, industria e commercio
nel gabinetto Menabrea.
1873/1876 - E’ di nuovo presidente del Consiglio, conservando sempre il
ministero delle Finanze. La sua ambizione è di aver raggiunto il pareggio di
bilancio dello Stato. Con la caduta del suo governo, cade anche la Destra
storica, ma l’attività politica di Minghetti continuerà sino alla fine dai
banchi dell’opposizione.
1881 - Scrive I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e
nell’amministrazione.
1886 - Si spegne a Roma il 10 dicembre, dopo aver tenuto a Torino un memorabile
discorso su Cavour, il suo vero maestro.
Non è certamente
casuale che Società Libera, in occasione dell'edizione bolognese della nostra mostra
sul liberalismo, abbia voluto ricordare con un Convegno la figura e l'opera di
Marco Minghetti.
Certamente siamo stati influenzati dall'origine bolognese dello statista e
dalla coincidenza che Nicola Matteucci, appassionato estimatore di Minghetti, presiede
il nostro Comitato Scientifico.
Ma, ancor più determinante, è stata la profonda convinzione che il messaggio di
uno studioso, di un uomo politico a cent'anni dalla morte conservi una
sorprendente attualità rispetto a usi e costumi della nostra convivenza civile.
Il liberalismo di Minghetti non è gridato, vola alto con una concezione della
libertà pregna di responsabilità ed etica individuale. E' il liberalismo
dell'equilibrio e delle regole, la cui rilettura ci aiuta, anche oggi, a
comprendere meglio l'annoso dibattito sul ruolo e le funzioni dello Stato.
E' la stessa concezione del liberalismo a cui, come Società Libera, guardiamo,
convinti che vi debba essere sempre meno spazio per utilitarismi e concezioni
corporative della società. L'omaggio che abbiamo voluto riservare a Minghetti,
anche con la pubblicazione di questi atti, voglio qui ricordarlo, trova
nell'istituzione del premio annuale, istituito da Società Libera e a lui
dedicato, una continuità d'attenzione che come liberali noi tutti gli dobbiamo.
Vincenzo Olita
Milano, marzo 2001
1. Un pensatore
dimenticato
Il bolognese Marco Minghetti fu deputato al Parlamento italiano dal 1860, il
primo dopo l'Unità, al 1886, l'anno della sua morte, nonché più volte ministro
e due volte presidente del Consiglio, dal 24 marzo 1863 al 28 settembre 1864 e
dal 10 luglio 1873 al 18 marzo 1876. In questi ventisei anni di impegno nella
lotta politica il Minghetti scrisse anche tre grandi opere, che ormai la
memoria storica ha, in larga misura, dimenticato: Dell'economia pubblica e delle
sue attinenze colla morale e col diritto (1859), Stato e Chiesa (1878) e,
infine, I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e
nell'amministrazione (1881); e soltanto di quest'ultima opera si conserva il
ricordo1.
Una rapida scorsa alla bibliografia degli studi su Minghetti mostra quanto essa
sia povera: non certo nella qualità ma nella quantità degli scritti, dovuti in
gran parte a bolognesi2, che hanno avuto il grande merito di custodire il
ricordo di una personalità d'eccezione, mostrandone il ruolo in momenti
decisivi nella storia del nostro paese. La sola monografia su Minghetti,
purtroppo non portata a termine, resta quella di una nostra concittadina, Lilla
Lipparini3. Eppure Benedetto Croce, nella sua Storia d'Italia, parlando della
Destra storica che aveva governato l'Italia dalla morte di Cavour all'avvento
della Sinistra, aveva ripetutamente sottolineato il ruolo di Marco Minghetti:
assieme al Ricasoli, al Lamarmora, al Lanza, al Sella e allo Spaventa, egli
fece parte di "una aristocrazia spirituale, gentiluomini e galan-tuomini
di piena lealtà", che "di rado un popolo ebbe a capo della cosa
pubblica"4. Il giudizio di Federico Chabod, nelle sue famose Premesse alla
Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, è ancora più netto:
l'intelligente e colto Minghetti, l'uomo delle amicizie europee" appare
ormai come "la principale figura della parte moderata"5.
Solo in tempi abbastanza recenti l'attenzione si è di nuovo rivolta al
Minghetti da parte di una generazione che è meno interessata alla storia
politica e più sensibile alla storia delle istituzioni e a quella dei partiti,
alla storia amministrativa e a quella delle finanze, anche se non sempre si è
sottolineata la stretta connessione tra l'uomo politico e il pensatore politico,
che fa di Minghetti un personaggio quasi unico.
Croce non ricorda le opere del Minghetti, Federico Chabod le dissolve nel suo
grande affresco di storia delle idee. Una sfortuna ancor maggiore ha incontrato
Marco Minghetti con gli storici del pensiero politico. Guido De Ruggiero, nella
sua Storia del Liberalismo europeo, doverosamente cita soltanto due sue opere,
ma non lo ritiene un vero pensatore politico, perché lontano dalla filosofia6,
mentre la testa forte della Destra sarebbe soltanto Silvio (o al più Bertrando)
Spaventa. Luigi Salvatorelli, nel suo saggio dal titolo Il pensiero politico
italiano dal 1700 al 18707, non ricorda neppure di sfuggita il Minghetti.
Ancora: nella collana degli "Scrittori politici italiani", edita a
Bologna e diretta da Felice Battaglia, il nome di Minghetti non appare, quasi
che le sue opere sfigurassero accanto a quelle dei Turiello, dei De Sanctis,
dei De Meis e dei Fiorentino. La sola eccezione è rappresentata da Arturo Carlo
Jemolo: nella sua famosa opera Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento
anni, la figura di Marco Minghetti, con la sua ragionata tesi separatista, è
messa in primo piano. Non solo: per lo Jemolo nei sei "no" al Senato
all'approvazione del Concordato è presente la non morta fede nei valori del Risorgimento,
nei valori che furono di Cavour e di Minghetti8.
Questo silenzio sul pensatore Minghetti, anche da parte di coloro che sono alla
"ricerca di un'Italia liberale", stupisce davvero: eppure
Dell'economia pubblica ha avuto in Italia tre edizioni e una traduzione in
Francia; Stato e Chiesa due edizioni in Italia e due traduzioni, una in tedesco
ed una in francese; I partiti politici quattro edizioni in Italia ed una
parziale traduzione in tedesco. L'opera di Minghetti ha goduto all'estero di
una larga accoglienza e di un'ampia discussione, sia per le tematiche
affrontate, sia per il metodo seguito, sia per le soluzioni indicate: è,
quindi, un pensatore dalle larghe risonanze europee9.
Oggi gli scritti del Minghetti hanno una scarsa circolazione; e dire che la sua
pagina è semplice, ma non disadorna, elegante, ma non preziosa, senza cedimenti
letterari, di un'altissima leggibilità senza scadere nel superficiale: nel suo
stile c'è un classicismo reso essenziale e moderno da un gusto argomentativo e
didascalico, che mette a frutto la lezione galileiana e manzoniana del
"fare bene i conti" con i fatti, con la diligenza signorile, ma
attenta, dell'"osservatore" spregiudicato del reale.
In Italia è, però, rintracciabile una presenza di Marco Minghetti più segreta e
più nascosta: non nel campo della filosofia o del pensiero politico, bensì in
quello delle nascenti scienze sociali. Infatti Vittorio Emanuele Orlando, il
fondatore della scuola italiana del diritto pubblico, vede in Minghetti uno dei
suoi maestri, mentre è sempre al Minghetti che esplicitamente desiderano
riallacciarsi economisti come Luigi Luzzatti, Giuseppe Ricca-Salerno e Fedele
Lampertico10. Anche Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto ricordano il Minghetti come
un maestro, come un uomo di "non comune ingegno"11. Infine la più
importante iniziativa editoriale sorta in Italia per introdurre le scienze
politiche, amministrative e sociali, quella del Brunialti, ha come punto di
riferimento il Minghetti, che era stato anche un sostenitore di una Facoltà universitaria
di scienze, appunto, politiche, amministrative e sociali. Ma solo oggi si
comincia a prendere coscienza di questa storia più segreta della fortuna del
Minghetti. Gli economisti più ortodossamente liberisti - come Francesco Ferrara
- non condivisero, tuttavia, la politica economica disponibile
all'interventismo statale del Minghetti, come certamente Minghetti non si
sarebbe riconosciuto nel freddo realismo di Mosca e Pareto: nei due casi erano
in gioco i valori politici. Ridurre, però, il Minghetti a mero precursore delle
scienze politiche, amministrative e sociali rischia di mettere in ombra il
nucleo filosofico del suo pensiero politico.
Marco Minghetti uomo politico, ma anche pensatore politico di portata europea:
solo strappando Minghetti alla storia patria o alla storia del Risorgimento si
può rendergli debita giustizia. Infatti, nella seconda metà dell'Ottocento,
l'Italia venne investita, come le altre nazioni europee, da profonde
trasformazioni sociali, amministrative e istituzionali, che solo una storia
comparata può meglio chiarire. Solo la coscienza storica di questi grandi
processi in corso può farci penetrare meglio nel pensiero di Marco Minghetti,
che è un pensatore europeo, da non comprimere in una presunta autoctona
tradizione politica italiana.
In Marco Minghetti il momento del pensiero - o della riflessione teorica - e
quello dell'azione politica sono strettamente connessi: sono proprio i problemi
della pratica a spingerlo alla riflessione teorica, come questa, una volta
fissati i principi, resta la costante ispirazione dell'azione, pur con quella
indispensabile duttilità, così necessaria al politico che deve fare i conti con
la realtà. Il più bell'elogio di questa interna coerenza tra il pensiero e
l'azione è stato dato da uno studioso straniero, quando colse il filo
conduttore, che unifica in Minghetti il pensatore e l'uomo politico,
nell'esigenza di salvaguardare la libertà, mentre gli uomini di Stato -
generalmente - pensano soltanto a rafforzare il proprio potere12.
Più modestamente il Minghetti definì i suoi scritti negotia in otio, ossia un
momento di riflessione nelle pause della febbrile attività politica. Giova
soffermarsi un momento sulle date in cui queste opere sono state pubblicate:
Della economia pubb1ica e delle sue attinenze colla morale e col diritto fu
pubblicato nel 1859, prima del suo pieno ingresso nella vita politica, nella
quale appunto dovette mediare politicamente tra le ragioni dell'economia e
quelle dell'etica: gli ultimi scritti sulla Legislazione sociale (1882) e sul
Cittadino e lo Stato (1885) rispondono alla stessa iniziale impostazione
teorica del problema, anche se risentono della diversa situazione
costituzionale e sociale. Stato e Chiesa è pubblicato nel 1878 dopo la caduta
della Destra, ma soprattutto dopo il Sillabo (1864), che aveva approfondito il
fossato tra lo Stato liberale e la Chiesa cattolica: esso riprendeva i temi di
scritti giovanili, come le lettere sulla Libertà religiosa (1855). Infine, il
saggio in Italia assai più noto - quello su I partiti politici e la ingerenza
loro nella giustizia e nell'amministrazione - fu pubblicato nel 1881, nell'età
del trasformismo di Agostino Depretis, quel trasformismo che il Minghetti non
certo osteggiò frontalmente, come altri esponenti della Destra storica, ed anzi
giustificò sul piano teorico, ma di cui riconobbe, con realistica lucidità, i
pericoli che potevano derivarne per quell'idea di governo rappresentativo che
lo aveva sempre animato: quel governo rappresentativo, la cui peculiare natura
viene in quest'opera felicemente individuata.
Se il pensiero politico di Minghetti è così strettamente legato alla sua
esperienza di uomo, bisognerà cogliere nella sua formazione e nella sua vita
politica gli elementi salienti, che costituiscono il nucleo duro del suo
pensiero, o - in altri termini - il formarsi delle grandi "idee
madri" della sua riflessione teorica.
Pertanto questi accenni, solo apparentemente biografici, cercano di individuare
le concrete esperienze esperite e vissute, che sono alla radice del suo pensiero
politico.
2. Fra viaggi e letture
Sin dalle primissime battute dei suoi Ricordi13, Marco Minghetti, pur così
riluttante ad indugiare sulla sua vita privata, rammenta le sue origini
contadine: gli avi erano coltivatori diretti di un piccolo fondo. La fortuna la
fece il nonno con il commercio in età napoleonica, per cui egli si trovò
proprietario di circa 1.600 ettari. Non nobile, apparteneva alla classe - come
veniva definita allora - "mezzana"; ma fossero aristocratici come
Cavour o Bettino Ricasoli, o borghesi come Minghetti, Raffaello Lambruschini o
Stefano Jacini, la Destra storica aveva le sue radici nella terra e nei suoi
valori: i suoi esponenti erano sostanzialmente uomini di campagna e non di
città. Nel dirigere personalmente le loro proprietà erano abituati ad una vita
operosa e parsimoniosa, favorevole agli onesti agi, ma lontana dal lusso,
attenti al problema dell'amministrazione e del bilancio, estremamente prudenti
verso ogni forma di rischio, legati alle cose concrete, con un forte senso
pratico e con i piedi radicati sulla terra. La vita in campagna era, per
Minghetti, insieme "sana e savia"l4. Questo dovrebbe far riflettere:
il liberalismo matura in Italia in ceti agrari (nobili e non), impegnati nella
modernizzazione dell'agricoltura, e in ambienti intellettuali, e non è certo
l'espressione immediata del capitalismo.
L'orizzonte di Marco Minghetti non si fermava però ai confini della sua
proprietà. Proprio perché impegnato nel miglioramento agricolo dei suoi poderi,
coltivando prodotti per l'industria quali la canapa e il baco da seta, egli si
impegnò personalmente nel processo di industrializzazione del bolognese, sempre
attento a tutte le invenzioni e innovazioni tecnologiche. Minghetti non fu un
avversario dichiarato della rivoluzione industriale, come gran parte dei ceti
agrari: egli avvertì che il processo era inarrestabile, anche se era destinato
a porre nuovi gravi problemi sociali. Avrebbe voluto soltanto uno sviluppo
equilibrato tra industria e agricoltura.
C'era poi in Minghetti - fortissima - la consapevolezza che, per ogni politica
di modernizzazione, era necessario far crescere le infrastrutture della società
civile, affidandosi non tanto allo Stato, ma a libere associazioni o a
consorzi. Per questo divenne il protagonista della Società agraria di Bologna,
nella quale introdusse la discussione di temi economici e sociali; per questo
impartì privatamente lezioni di economia politica e progettò asili nido; per
questo partecipò alla fondazione della Cassa di Risparmio per i meno abbienti:
come scriverà più tardi, era impensabile un allargamento del suffragio senza
una crescita della società civile, con banche popolari, società di mutuo
soccorso, cooperative. L'impegno di Minghetti si muove su questo piano, quello
della massima utilizzazione dello strumento dell'associazione nella società
civile. Quando la politica comincia a bussare alle porte, diventa direttore del
"Felsineo", un giornale locale di ispirazione latamente liberale.
In campagna c'è una vita "sana e savia": ma, per appartenere al mondo
dei savi, bisogna anche conoscere. La formazione intellettuale di Minghetti
alterna lunghi viaggi e disordinate letture. In cinque viaggi percorre tutta
1'Europa, dalla Francia all'Inghilterra, dalla Germania all'Irlanda, dalla
Svizzera al Belgio e all'Olanda. Non sono viaggi di diverti-mento; e l'unica
distrazione, per lui così amante dell'arte, è la conoscenza dei tesori
artistici degli altri paesi. Si impratichisce delle lingue per poter parlare o
leggere il francese, l'inglese e il tedesco; frequenta corsi alla Sorbona o al
Collegio di Francia; conosce personalmente i principali uomini politici e i più
noti dotti del tempo. Ma la sua attenta curiosità è sempre rivolta alle realtà
economiche e sociali degli altri paesi: sin da fanciullo, in Inghilterra, aveva
visto la prima ferrovia e la prima prova di telegrafia elettrica, che gli
diedero la sensazione che il mondo stava entrando in un'età di rapida ed
accelerata trasformazione.
Poi le lunghe pause dedicate alla lettura: ricostruire l'itinerario della sua
formazione intellettuale nei suoi ritmi cro-nologici è ancora impossibile. Più
facile è tracciare un qua-dro del mondo culturale con cui fu in contatto, non
limitandosi ai Ricordi o alle citazioni contenute nelle sue grandi opere: bisognerebbe
esplorare sistematicamente i suoi manoscritti, contenuti nei cartoni depositati
all'Archiginnasio, esaminare la sua Biblioteca e, infine, seguire il suo
epistolario, che, già in parte ordinato e inventariato, meriterebbe di essere
finalmente pubblicato. L'immagine di Marco Minghetti uomo europeo troverebbe
così una facile conferma.
Dovendo parlare del suo pensiero politico, ci limiteremo a ricordare alcuni
nomi di pensatori stranieri, per sottolineare ancora una volta la cultura
europea del Minghetti. Ma non possiamo passare sotto silenzio la forte
influenza, che ebbe su di lui il cattolicesimo liberale di Antonio Rosmini: non
solo lo liberò dal giovanile sensismo, ma influenzò in parte il suo pensiero
politico con la rivalutazione dell'individuo-persona e con l'avversione verso
il socialismo e il comunismo, anche se non restano tracce in lui della teodicea
sociale rosminiana15. Anche verso il "politico" Vincenzo Gioberti il
Minghetti riconosce un particolare debito; ma stupisce - o forse non stupisce -
che egli non citi mai Carlo Cattaneo. Nella generazione precedente il pensiero
del Minghetti si riallaccia a quello di Giandomenico Romagnosi con la sua
elaborazione di una filosofia civile, capace di equilibrare ed armonizzare le
antitesi, ma non bisogna esagerare su questa influenza. Delle sue letture,
oltre ai classici (Platone e Aristotele, Machiavelli e Guicciardini),
ricorderemo soltanto, tra gli inglesi, Adam Smith e David Ricardo, Edmund Burke
e John Stuart Mill: fra i francesi, Benjamin Constant, Francois Guizot e Alexis
de Tocqueville; fra i tedeschi, Karl Wilhelm von Humboldt e Rudolf von Gneist;
fra gli svizzeri Simonde de Sismondi e Johann Kaspar Bluntschli. Sino al grande
tornante storico, rappresentato per il nostro paese dagli anni 1859-1860, Marco
Minghetti non ha mostrato una grande passione o una prepotente vocazione per la
politica. Parlando di se stesso, ironicamente un giorno affermò di voler far
scrivere sulla sua tomba "nacque per essere conservatore e fu condannato
ad essere rivoluzionario"16: rivoluzionario, certo, solo per prevenire
l'anarchia e il disordine, la demagogia e la violenza della "plebe".
Egli non fu certo un profeta o un protagonista del Risorgimento, e in politica
confessò di aver sempre preferito un ruolo non di primo piano. Rispetto
all'audacia di un Cavour appare un uomo "respettivo", ma fortissimo
fu in lui il senso di appartenenza a una classe politica "eletta",
con una ben precisa missione da compiere, anche se essa nel paese era una minoranza.
Nato nel 1818 da famiglia di sentimenti liberali (lo zio Pio Sarti fu dopo il
1830 esule a Parigi), educato alle idee liberali dal barnabita Ugo Bassi,
Minghetti non rimase certo estraneo alle passioni del suo tempo e nei suoi
lunghi viaggi frequentò gli ambienti dell'emigrazione. Due incontri sono da
ricordare: nel 1845 conobbe a Londra Giuseppe Mazzini ed ebbe con lui diversi
colloqui, nei quali discusse a lungo la soluzione rivoluzionaria, che non
riteneva realistica. Più proficuo fu l'incontro, avvenuto pochi mesi prima, con
il bolo-gnese Pellegrino Rossi, di cui seguì un corso al Collegio di Francia:
non dobbiamo dimenticare che il Rossi fu autore di numerose opere di economia e
di diritto, un tempo famose, sebbene oramai dimenticate. Accettò, così, di
divenire, per poche settimane (10 marzo-1° maggio 1848), ministro dei Lavori
pubblici dello Stato pontificio, dimettendosi poi per militare nelle file
dell'esercito sardo alla guerra contro l'Austria, partecipando alle battaglie
di Goito e di Custoza. Dopo l'assassinio di Pellegrino Rossi si dimise
pubblicamente da deputato, a causa dell'inerzia del governo nel ricercare gli
autori del delitto. Con il fallimento del progetto neoguelfo egli non aderì
alla Costituente romana del Mazzini, ma combatté anche contro una mera restaurazione
del governo pontificio. Senza saperlo, si muoveva sulla stessa linea del
ministro degli Esteri della Repubblica francese, Alexis de Tocqueville, uno dei
suoi autori prediletti. Questa rimase, però, una breve parentesi politica,
nella quale il Minghetti non lasciò alcuna vera impronta: forse perché aveva
solo trent'anni, o forse perché non condivise sino in fondo il sogno
neo-guelfo, come, invece, condividerà fra poco la scelta piemontese, seguendo -
in questo - il Gioberti del Rinnovamento.
L'incontro politico decisivo fu quello con il conte di Cavour: lo conosce nel
1851, a lungo discute con lui nel 1854 l'intervento del Piemonte in Crimea, nel
1856 gli porta a Parigi un memorandum sulle condizioni dello Stato pontificio:
diventa, così, l'accreditato portavoce delle Romagne presso il governo
piemontese e, alla vigilia della Seconda Guerra d'Indipendenza, diventa
segretario generale del ministero degli Affari esteri del Piemonte. Il primo
novembre 1860 è ministro degli Interni del governo Cavour, il primo che si era
insediato dopo l'unità d'Italia.
Col Cavour, più anziano di lui di otto anni, il Minghetti scoprì di avere una
profonda affinità intellettuale e morale: li univano i comuni studi di economia
e di agricoltura, la passione per la discussione delle idee, la fede nel
governo parlamentare e, infine, la comune convinzione che la soluzione del
problema italiano si giocava essenzialmente sull'azione diplomatica
(piemontese) presso le corti europee e non passava certo attraverso le sette e
le rivoluzioni. Poco prima di morire il Minghetti commemorò a Torino
l'anniversario della morte del grande Conte: parole commosse, anche se
equilibrate e sorvegliate, nelle quali tuttavia traspare, assieme
all'ammirazione per l'audacia del suo maestro, la consapevolezza che negli anni
1859-1860 tutto era accaduto troppo in fretta: il ceto moderato, che aveva
subito l'egemonia del Cavour, si sentiva preparato a governare uno Stato
nell'Italia settentrionale, magari con le Romagne e anche la Toscana, ma poi la
spedizione dei Mille e la conquista regia avevano reso più arduo ed
estremamente difficile il compito di governare l'Italia unita. E il grande
Conte era morto improvvisamente il 6 giugno 1861.
3. L'avventura politica
Iniziò così l'attività politica di Marco Minghetti. La Destra storica governò
per quindici anni dalla morte di Cavour (6 giugno 1861) all'avvento della
Sinistra (marzo 1876): fu questo un periodo di grande instabilità governativa,
dato che si avvicendarono ben tredici governi, la cui durata, nel maggiore dei
casi, non arrivò ad un anno. Sole eccezioni il governo Lanza e i due ministeri
Minghetti, soprattutto il secondo, che precedette l'awento della Sinistra.
Minghetti fu più volte ministro, anche nei governi che presiedeva. E
interessante notare le sue opzioni: una (o due volte, se consideriamo il
ministero Cavour) ministro degli Interni, tre volte alle Finanze (da ricordare
i suoi importanti scritti in materia finanziaria), una alla Agricoltura,
industria e commercio (da ricordare la promozione delle due famose inchieste,
industriale e agraria). Come presidente del Consiglio ebbe al suo fianco, agli
Esteri, Emilio Visconti Venosta, il grande stratega della diplomazia italiana,
che molti considerano il suo allievo.
Queste scelte fanno pensare: Minghetti sembra preferire dicasteri allora
considerati non politici, nei quali più forte era l'impatto amministrativo,
anche se le grandi scelte a monte restavano politiche. Si tratta di una chiara
scelta politica: per consolidare l'unità italiana, dopo la politica estera, il
problema centrale era - come egli ripetutamente ribadì - la "questione
amministrativa": nel gennaio del 1860 Minghetti si dichiarò ottimista per
le prospettive politiche, decisamente pessimista per il procedere
amministrativo17. L'ultimo suo governo, che non poggiava su una solida base
parlamentare, fu essenzialmente un governo di tecnici, che egli definì una
working majority, disposta ad accettare voti dalla Sinistra storica. Minghetti
fu, così, uno dei pochissimi uomini, che ebbe - altissimo - il senso
dell'amministrazione, della sua autonomia dal politico e della sua importanza
nel funzionamento di uno Stato, che voglia essere libero: un'amministrazione
oggettiva e neutrale, tecnica, che consenta però alla politica di poggiare su
solide basi.
Minghetti si alternò alle Finanze con Quintino Sella: con orgoglio proclamò,
nel suo ultimo governo, di avere finalmente raggiunto il pareggio, convinto di
avere con questo risolto un grande problema politico, perché, con un bilancio
dissestato, si aprono le porte alle "rivoluzioni col codazzo dell'anarchia
e del dispotismo"18. Minghetti volle mettere ordine in casa ed affrontare
i nuovi problemi, che la trasformazione economico-sociale imponeva: si
trattasse del riscatto dei privati delle ferrovie o di promuovere misure di
legislazione sociale a favore dei bambini e delle donne, tutte queste erano,
per Minghetti, decisioni amministrative, che rispondevano all'esigenza di una
"casa" ben ordinata e non a principi ideologici o filosofici.
A questo senso dell'amministrazione rispondevano anche i progetti che Minghetti
presentò, come ministro degli Interni, nel 1860-61 sulle autonomie locali e non
al fine di un mero decentramento burocratico. Essi prevedevano un sindaco
elettivo, l'erezione della Provincia - vero centro del sistema - ad ente
autonomo dotato di proprie competenze, l'elettorato attivo anche per gli
analfabeti che pagassero imposte dirette, e, infine, i Consorzi di Province
(che sono una cosa ben diversa dal regionalismo e dal federalismo), anch'essi
dotati di proprie competenze19. Fedele alla lezione di Alexis de Tocqueville,
il Minghetti riteneva, come il Cavour, che le autonomie locali fossero la prima
palestra della libertà politica; ma nell'ottobre 1861 venne sconfitto con i
decreti accentratori emanati dal governo Ricasoli. Eguale sorte era già toccata
ad Alexis de Tocqueville, nel 1848, nella Commissione incaricata di stendere
una nuova Costituzione per la Francia.
Fortissimo senso dell'amministrazione, dunque, ma anche grandissima sensibilità
nel cogliere il mutarsi degli equilibri politici e nel trovare un nuovo punto
di equilibrio. L'anglofilo Minghetti, con il suo ultimo governo, mostrò di non
credere più all'ortodossia del bipartitismo, cercando un sostegno nella
Sinistra storica: aprì così la strada al trasformismo di Agostino Depretis, di
cui - diversamente da molti dei suoi vecchi amici - fu un sostenitore, con
argomentazioni teoriche sotto l'influsso del Bluntschli. Nel linguaggio
politico "trasformismo" resta ancora una brutta parola, nonostante
che Benedetto Croce20 e Federico Chabod21, ed anche Adolfo Omodeo22 e Rosario
Romeo23, ne abbiano mo-strato la storica necessità per l'equilibrio del sistema
politico italiano. Le differenze tra la Destra e la Sinistra si erano venute in
quel quindicennio attenuando e sfumando, mentre alle due estreme si erano
venute formando e coagulando due nuove opposizioni, in gran parte estranee (ad
eccezione dei repubblicani) al moto risorgimentale il sistema politico
presentava così tendenze alla polarizzazione. Contro l'astratta e dottrinaria
teoria del bipartitismo il politico Minghetti giustamente vedeva come, in
Italia, la migliore attuazione del regime parlamentare passasse, invece,
attraverso un partito di centro o di centro-sinistro (come si diceva allora):
dal connubio di Cavour, al trasformismo di Depretis alle mediazioni di
Giolitti.
Riassumendo e concludendo questi accenni ai momenti salienti della biografia di
Marco Minghetti, conviene sottolineare tre momenti: la consapevolezza che la
società è uno spazio positivo per l'operosità umana e per l'azione sociale, il
cui dinamismo è una ricchezza per la comunità tutta, che non può far dipendere
le sue sorti solo dal governo; la scoperta che, per ben governare, è
indispensabile una razionale ed efficiente amministrazione, astretta ai nuovi
principi dello Stato di diritto. La tradizione inglese del self-government, che
non poteva non far breccia sul ceto terriero cui il Minghetti apparteneva,
aveva il suo apice nel governo rappresentativo; ma in Minghetti questa
tradizione si sposava - per necessità storiche - con la tradizione continentale
dello Stato amministrativo, che si voleva imparziale e neutrale nei confronti
del cittadino. Al di sopra il politico, che deve favorire l'autonomia della
società civile e dare impulso alla macchina amministrativa.
Sul Minghetti uomo politico abbiamo, infine, opposte versioni: c'è chi lo
descrive cauto, prudente, attento a ponderare le opposte tesi sino al punto di
mostrare poca decisione e scarsa mancanza di energia24, per timidezza d'animo o
per la natura problematica della sua mente; c'è, invece, chi coglie il nocciolo
duro del suo carattere, scoprendo, al momento della decisione, "una mano
di ferro sotto il guanto di velluto"25. Ma in realtà, forse, i due giudizi
non sono inconciliabili, dato che, nel momento della deliberazione, Marco
Minghetti amava - per un'attitudine congenita alla sua mente - ponderare tutti
i dati, mentre, una volta presa una decisione, era difficile farlo recedere:
infatti, detestando la vanità, che per lui era un grande peccato in politica,
non cercò mai la popolarità o un facile protagonismo.
4. Il progetto di un ordine politico liberale
Sullo sfondo di questa biografia di Marco Minghetti - colta nelle profonde
esperienze vissute - vanno esaminate le sue opere, perché - come si è detto -
esse nascono da problemi pratici e sono dirette a risolvere problemi pratici:
Minghetti non è certo un uomo che ami la pura speculazione, ma piuttosto un
politico - ripetiamo: un raro politico - che vuole rinfrancarsi e corroborarsi
nella riflessione teorica. Sbaglia, pertanto, chí dissolve o appiattisce il suo
pensiero, riducendolo a mero momento dell'azione, perché la mirabile
coesistenza in lui fra lo scrittore e il politico non si risolve, però, in una perfetta
coincidenza. Infatti, il politico Minghetti mostrò sempre una grande duttilità
e una notevole finezza nel perseguire solo il possibile, sino al punto da
essere accusato d'eccessiva arrendevolezza; ma lo scrittore Minghetti mostrò
una profonda coe-renza nei suoi principi e una ferma intransigenza nei suoi
valori, anche se fu pienamente consapevole che essi dovessero di-versamente
articolarsi a seconda delle varie situazioni storiche. Pertanto l'interprete
deve sapere tener ben distinti i due piani e non mettere sullo stesso piatto
un'opera e un discorso politico, perché quest'ultimo nasce spesso nella
contingenza e per la contingenza (lo stesso vale per gli inediti). Stato e
Chiesa, l'opera pensata per risolvere negli anni a venire il problema politico
centrale dell'Italia unita, non ebbe certo - per ragioni diverse - il pieno
consenso degli uomini del suo partito, come Bettino Ricasoli, Silvio Spaventa,
Emilio Visconti Venosta, Quintino Sella, Pasquale Stanislao Mancini, Della
economia pubblica, che ispirò la sua politica economica, trovò avversari
proprio negli economisti più decisamente liberisti; e, infine, il saggio su I
partiti politici suonò anche per alcuni come un duro atto di accusa contro il
trasformismo, che pure egli aveva contribuito a promuovere.
Chi studia il pensiero del Minghetti si imbatte subito in una definizione, vera
soltanto perché ripetuta: Minghetti è un eclettico. In cosa poi consista questo
eclettismo non è dato chiaramente sapere. Si possono formulare soltanto tre
ipotesi. Minghetti sarebbe un eclettico perché si sarebbe occupato di tre temi
tra loro assai lontani; ma l'autentico pensatore politico, che si pone - anche
su un piano teorico - i problemi concretissimi delle questioni politiche, non
mira a costruire un sistema dottrinario apparentemente coerente, bensì risolve,
di volta in volta, i problemi storici del suo tempo: è su questo piano che il
Minghetti va giudicato, verificando soltanto se vi sia una coerenza interna nel
suo pensiero al livello della metodologia e dei principi. Minghetti sarebbe un
eclettico per la ricchissima erudizione, che nutre le sue opere; ma l'autentico
pensatore politico deve essere estremamente attento alla realtà che lo
circonda, nelle teorie e nelle prassi, e solo gli autodidatti credono di poter
fare da soli nel dare un modello di società. Minghetti, in vero, ha una
conoscenza diretta di quanto avviene e si scrive in Francia, in Inghilterra, in
Germania e Stati Uniti. Infine, Minghetti sarebbe un eclettico perché, con il
principio dell'"armonia" o della "proporzione",
dell'"architettonica" o dell'"ordine", o - in sintesi -
della "medietà", sembra voler conciliare teorie diverse; ma allora
l'accusa dovrebbe essere quella di sincretismo, mostrando, però, come
quell'armonia non regga sul piano di una filosofia pratica, che, per sua
natura, deve essere aperta ai contenuti delle diverse discipline, che studiano
il comportamento dell'uomo nella società politica. Certamente Marco Minghetti
non è un pensatore geniale e originale come Alexis de Tocqueville, ed è
piuttosto un coerente sistematore di quanto nei campi più diversi e disparati
pensatori liberali avevano scritto; e il suo merito consiste nella coerenza del
suo progetto politico.
I temi, che il Minghetti affronta nelle sue opere, sono i temi forti e duri
della filosofia e della teoria politica: il rapporto tra la morale e
l'economia, la coesistenza dello Stato con la Chiesa, l'ufficio dei partiti nel
loro nesso con le istituzioni. Sono proprio i temi che, in chiave più
speculativa e meno politica, affronterà nel nostro secolo il liberale Benedetto
Croce. Pertanto la domanda corretta, che ci dobbiamo rivolgere, è la seguente:
su questi temi, che superano la contingenza storica, il Minghetti ha ancora
qualcosa da dirci, non ovviamente nelle immediate soluzioni pratiche, ma nelle
profonde idee ispiratrici? Infatti il Minghetti possiamo leggerlo mossi
soltanto da una doverosa curiosità storiografica, che deve ricostruire il
patrimonio della nostra tradizione politica anche nei suoi pensatori minori; ma
può anche essere letto per instaurare un dialogo con lui sotto l'urgere dei
nostri problemi. In questo secondo caso le sue opere acquistano una dimensione
di classicità, perché sono sottratte al tempo. Un problema di tale portata non
può essere certo risolto in questa sede; ma questo interrogativo bisogna
finalmente pur porselo.
Nel pensiero politico di Marco Minghetti vi è - a nostro avviso - una profonda
coerenza nel metodo e nei principi. Nel metodo, che è, insieme, razionale e
storico: egli fermamente respinge, per la sua natura profondamente illiberale,
il dottrinarismo settecentesco, o meglio quel razionalismo costruttivistico
dell'Illuminismo francese, che, posti alcuni principi, da essi deduce tutta
l'ideale architettonica della società, e, di conseguenza, pretende di
rimodellare e di ricostruire tutto dalle fondamenta. Egli aveva appreso il
senso della storia, che non è nostalgia verso il passato, dal liberalismo
francese dell'età della restaurazione; e questo senso della storia si era
facilmente sposato alla tradizione empiristica di un John Stuart Mill, nella
misura in cui queste diverse tradizioni imponevano di fare i conti con la
realtà, che sempre si presenta in guise diverse. Ma in questa realtà, così
diversa e così sfuggente, la mente umana rischia di disperdersi e poi di
perdersi: il Minghetti, sin dagli scritti giovanili, insiste sul fatto che la
diversità della storia, la molteplicità delle esperienze è tutta riconducibile
alla profonda unità della specie umana e all'identità della sua natura,
all'uomo cioè, che può mutare nelle sue manifestazioni storiche, pur restando
sempre uguale a se stesso. In altri termini, egli cerca l'unità nella
molteplicità, senza mai perdere nessuno dei due momenti, forse suggestionato da
Giambattista Vico, di cui conosceva le opere.
La chiave del suo pensiero politico, va, così, rintracciata nella sua
antropologia filosofica (sottolineo: filosofica). Negli uomini, secondo
Minghetti, troviamo le stesse "disposizioni o facoltà", che però si
mescolano diversamente: primordiale ed elementare è la spinta all'utile, che si
riferisce "ai bisogni fisici e materiali", ma poi viene il desiderio
del vero, l'amore per il bello, e, infine, la tendenza verso il bene, nella
quale la morale, sovente, si confonde o si identifica con la religione. Bello e
vero, utile e giusto sono, per Minghetti, valori ben distinti, anche se fra
loro "in strettissima relazione", dovendo però ciascuno esercitare le
"funzioni sue proprie" e perseguire il suo "fine speciale"26.
Unità, quindi, nella distinzione: quell'unità, che deve esprimersi
nell'armonia, nell'equilibrio; quell'armonia, dove tutti gli elementi
collaborano assieme, mentre la loro dissonanza provoca soltanto uno squilibrio
nell'individuo e una crisi nella società.
In Minghetti, forse per una reminiscenza platonica, questa distinzione delle
"disposizioni o facoltà" (e quindi dei valori) è valida sia per
profilare un ideale di uomo, sia per prospettare una società a più dimensioni.
Ma, venendo a tempi più recenti, attraverso Minghetti si può scoprire il
significato liberale della "Filosofia dei distinti" di Benedetto
Croce (interprete del Vico), anche se il filosofo napoletano giunge a questa
teoria attraverso una via meramente speculativa, mentre il nostro Minghetti la
prospetta per un impegno civile, senza però approfondire sino in fondo la sua
giovanile intuizione.
Da questa premessa antropologica egli trae la conclusione che il vero progresso
non risiede tanto nello sviluppo materiale finalizzato al mero "ben
essere", ma nel "perfezionamento" o nell'incivilimento,
possibile solo nelle "facoltà intellettuali e morali". Non si tratta
di due strade opposte, perché bisogna contemperare le due tendenze, cercando
quelle istituzioni "che sono mezzo al maggior possibile benessere e
perfezionamento degli uomini". Entra in scena, in tal modo, anche la
politica, come arte regia o architettonica per l'ordine nella vita sociale:
"quando gli elementi della società non sono nelle debite relazioni, non
conducono a civiltà vera"27. A questo punto è opportuno sottolineare due
cose: da un lato, il Minghetti mostra l'autonomia e il ruolo delle istituzioni
rispetto alla dinamica economica; dall'altro, la sua teoria della storia o
dell'incivilimento28 non è debitrice - come alcuni credono - verso la teoria positivistica
dell'evoluzione (e tanto meno a quella della lotta per la vita), perché le sue
fonti si trovano negli scrittori settecenteschi e dell'età della restaurazione,
che hanno messo a fuoco il lento formarsi della vita civile, cioè
l'incivilimento.
"Fossi e cavedagne benedicon le campagne": questo antico detto delle
terre emiliane può farci penetrare nella psicologia del Minghetti, pensatore
politico intento a tracciar fossi, più o meno profondi, o ad aprire cavedagne,
più o meno percorribili, fra i diversi campi della politica e della società.
Nessuno l'ha notato, ma tutte le sue opere politiche,- sin dal titolo,
s'ispirano al principio della distinzione, a distinzioni che non sono
empiriche, ma di concetti, e pertanto appartengono alla filosofia e alla teoria
politica: politica e morale, Stato e Chiesa, partiti e istituzioni sono
distinzioni al fondo delle quali si agita lo stesso problema pratico, quello di
una libertà da realizzare in un ben delineato ordine politico. Su questo piano
concettuale naufragano i così ripetuti rilievi rivolti al Minghetti di
eclettismo o di sincretismo. Eclettica è forse l'informazione o la letteratura
su cui fonda la sua indagine; ma il Minghetti non è persona di scuola che
ripete le parole del maestro Sincretistico può apparire il suo pensiero a chi
non ha colto questo difficile problema dell'unità nella distinzione, che è un
problema teorico, ma che in Minghetti nasce dalla pratica e per la pratica: il
suo è il problema di un possibile, ma libero, ordine politico, ottenuto
trasferendo la distinzione delle facoltà umane alle dimensioni della società.
L'analisi delle sue singole opere potrà ora meglio chiarire questo problema.
Sulle orme di Adam Smith e David Ricardo il Minghetti analizza la nuova scienza
economica, la quale si occupa delle leggi che governano la produzione, la
ripartizione, lo scambio e il consumo delle ricchezze. Il rilievo fondamentale,
che muove all'economia classica sulle orme di John Stuart Mill, è quello di
essersi occupata soltanto del momento della produzione della ricchezza, non di
quello della sua distribuzione, dell'economia e non dell'economia pubblica.
Minghetti è fautore e sostenitore del progresso economico, ma non è un ideologo
del mero sviluppo, quando questo entra in disarmonia con i valori etici,
producendo ricchezza, ma non incivilimento. La produzione è il regno del
mercato, la distribuzione è quello della politica, di una politica, però, che
non uccida il mercato.
Il vero problema del Minghetti è così diverso da quello di Adam Smith, anche se
gli riconosce il grande merito di aver dedicato la sua attenzione al problema
etico. Nell'Economia pubblica il problema centrale è quello di mostrare come
l'economia sia "distinta, ma non segregata, connessa, ma non
confusa"29 con la morale; e ritiene di natura filosofica il problema di
stabilire la loro relazione. Da questo suo assunto derivano tre conseguenze: in
primo luogo, il puro economista ha ragione nel suo campo, che però è astratto e
unilaterale, per cui, solo se dilata il proprio orizzonte conoscitivo acquista
una percezione della realtà più chiara e più profonda, e può così risolvere
problemi altrimenti difficilmente superabili per lui. In secondo luogo, nel
delineare una filosofia della pratica bisogna evitare di porre in assoluta
contraddizione l'utile (o il piacere) e il buono (o il dovere), ma anche di
identificarli, seguendo l'utilitarismo: l'economia, pur distinta dalla morale,
resta - in ultima istanza - circoscritta e limitata dai grandi principi
dell'etica. In terzo luogo, la politica è - come si è detto - lo strumento per
realizzare l'armonia fra questi due momenti, fra l'aumento della ricchezza e
una vita sociale ben ordinata: per agire bisogna conoscere l'economia, ma
essere consapevoli di questo suo limite. Tutta questa impostazione nasce da una
sfiducia nel puro liberismo, negli automatismi del mercato, perché Minghetti
considera troppo potente - come causa di disarmonia e di disordine - la
tendenza agli interessi materiali, non più equilibrata da fattori morali: per
questa ragione si rende talvolta necessario l'intervento del governo sia nel
campo della carità legale o pubblica, perché lo Stato - oltre a garantire i
diritti - deve tutelare i deboli, sia quando gli individui - da soli o
associati - non sono in grado di affrontare e risolvere problemi di interesse
generale.
Stato e Chiesa, invece, si ispira al più rigido separatismo, ostile ai
compromessi concordatari, risultato dalla "fatalissima"30 ricerca
della via del mezzo. Ma il separatismo implica, però - e qui è presente la lezione
di Alexis de Tocqueville - la ricerca di un'unione morale nelle coscienze e,
quindi, nella società, senza una contrapposizione di valori, per evitare quel
disordine che inevitabilmente nasce quando la Chiesa, col clericalismo, diventa
un partito, e lo Stato, con il laicismo positivista, si fa portatore di una
nuova religione intollerante: il Minghetti aspira - ricordando il Manzoni e il
Rosmini - ad una conciliazione della religione cattolica con le moderne libertà
liberali. A fondamento della sua tesi separatista c'è un preciso valore: non
quello della tolleranza, proprio degli Stati più o meno assoluti, ma quello del
diritto per ciascun individuo alla libertà di religione e di culto, in un
regime di eguaglianza. Vengono, così, posti - alla Humboldt - chiari limiti
allo Stato: la sua funzione primaria è la tutela o la garanzia - alla Constant
- dei diritti individuali e quella secondaria è la salvaguardia degli interessi
generali della società. Solo in questo senso abbiamo uno Stato giuridico, il
quale ha il monopolio della coazione, ma al quale non compete di intervenire
nella coscienza dei cittadini, privilegiando una religione, definendo un dogma,
proclamando una eticità statale. Sul piano della religione e della morale lo
Stato deve essere neutrale, perché in questo campo sovrana è soltanto la
coscienza, salvo però sempre il suo diritto-dovere di difendere i diritti degli
altri cittadini nonché l'ordine pubblico in caso di violazione. Questa
concezione dei limiti dello Stato (o dello Stato giuridico) si fonda su una ben
precisa premessa teorica: lo Stato è soltanto un organo (necessario) della
società, ma non è la società e con essa non coincide. La società è assai più
vasta e più complessa, ed esercita funzioni che non sono dello Stato, il quale
pertanto non può avere una dignità superiore al tutto, essendo di essa soltanto
una parte31.
Nell'ultima sua grande opera la distinzione tra partiti e amministrazione è
assoluta, anche se entrambi, sia pure in guise diverse, concorrono, adempiendo
alla propria funzione, alla realizzazione dell'ordine politico. Il problema
teorico e pratico, che l'italiano Minghetti affronta, è - come si è detto -
quello di conciliare il sistema costituzionale inglese e il sistema
amministrativo continentale, il governo parlamentare e la burocrazia, o, in
sintesi, la politica e l'amministrazione. Il governo parlamentare (o
rappresentativo della società civile) non può essere che un governo di partito:
è, questa, la prima chiara difesa in Italia in chiave teorica del partito politico,
che il Minghetti fonda in un dimenticato scritto di Edmund Burke. Il partito,
proprio in quanto "parte" rispetto al tutto, si fonda su un insieme
di uomini animati da un idem de repubblica sentire, cioè da una particolare
interpretazione (e qui si distacca dal Rosmini) del bene comune: I'indirizzo
generale del paese appartiene alla politica, cioè ai partiti. Ma vi è anche una
distinzione radicale tra il fare e l'applicare una legge: l'amministrazione e
la giustizia, preposti a questo secondo compito, devono essere imparziali,
neutrali ed oggettivi, cioè non di "parte". Queste strutture
burocratiche e gerarchiche costituiscono "una grande macchina" al
servizio di tutti i cittadini, per cui "la giustizia di partito e
l'amministrazione di partito sono la negazione dell'essenza e dello scopo
medesimo dello Stato"32. In questo caso non abbiamo più
"partiti" politici, ma vere e proprie "fazioni" che
sottomettono l'interesse pubblico ai loro propri interessi, abusando delle
istituzioni, che devono essere al servizio di tutti. Ma la partitocrazia - cioè
l'ingerenza dei partiti nella giustizia e nell'amministrazione - non è, per
Minghetti, una conseguenza necessaria del regime parlamentare. Il Minghetti,
per difendere l'amministrazione dalle fazioni, recupera da Rudolf von Gneist il
concetto tedesco di Rechtsstaat; tuttavia è necessario rilevare una differenza
rispetto ai suoi colleghi d'oltralpe. I tedeschi avevano allora una monarchia
costituzionale o limitata, non un governo parlamentare, per cui affidavano allo
Stato - e non certo ai partiti - il monopolio del "politico"; e
nell'unità dello Stato il momento amministrativo aveva un ruolo preponderante
nella figura del re, capo dell'esecutivo. Riassumendo e concludendo: è facile
vedere come, in opere così. diverse per argomento, sia operante una stessa
teoria dello Stato (limitato) o meglio del governo rappresentativo, proprio
perché il Minghetti usa il termine Stato in una accezione estremamente debole.
Il governo rappresentativo è solo il momento politico della società civile, non
la sua sintesi: esso è limitato dalla funzione primaria che ha, che è quella di
garantire i diritti dei cittadini; le sue altre funzioni si limitano alla
tutela dei deboli e agli interessi generali, ma non ha compiti religiosi, etici
o educativi". Se deve intervenire nell'economia e nella società, lo deve
fare soltanto per risolvere problemi pratici, non in nome di astratte e
dottrinarie teorie: non si tratta di governare di più o di meno, si tratta di
governare meglio33. Uno Stato tutto delineato, quindi, in vista della libertà,
un bene nel campo economico, nel campo religioso, nel campo politico, tenendo
però presente che "tutte le libertà si attraggono e si danno la
mano", per cui, alla fine, la libertà è una ed indivisibile: essa è il bene
più prezioso dell'uomo34. "Il soffio della vita non può venire che dalla
coscienza individuale": il sereno ottimismo del Minghetti affonda in
questa profonda convinzione, per cui egli teme una sola cosa: "da sfiducia
nella libertà"35.
Una rilettura delle opere del Minghetti dimostra quanto poco il suo pensiero
sia eclettico, anche se abbraccia i campi più diversi e più disparati del
sapere pratico. Certo, egli parla continuamente di armonia, di ordine, di
temperamento, di giusta proporzione, di "assiomi medi", di tendenza
media contro ogni unilateralità. Si è vista in questa sua insistenza una mera
estensione al campo della teoria della politica del juste milieu, del giusto
mezzo fra gli estremi, proprio del liberalismo dell'età della restaurazione.
Ma, in tal modo, non si è approfondito il quadro concettuale, che sta dietro
alla teoria dell'armonia del Minghetti: la sua teoria dei distinti lo porta a
mettere in luce la diversità delle funzioni di una società ben ordinata,
funzioni che devono essere armonizzate nella loro autonomia e non già mediate
per confonderle Inoltre la sua mentalità analitica lo porta a ridefinire il
concetto autentico, che si nasconde dietro alle parole comuni, per evitare ogni
confusione pratica di tipo trasformistico, che nell'eclettismo può trovare il
suo fondamento. Nel rigido separatismo fra Stato e Chiesa, nella radicale
separazione tra politica ed amministrazione non c'è, certo, traccia di un
giusto mezzo politico, perché queste distinzioni sono l'espressione di una
radicale coerenza teorica. Il problema dei rapporti tra l'economia e la morale
è - come si è detto - assai più complesso, perché il fine è quello di mediarle
e non già di separarle. Ma la soluzione, che il Minghetti offre sul piano
teorico, non si fonda certo su un opportunistico e contingente giusto mezzo, su
un com-promesso politico fra le opposte forze in campo. Nel pensiero di Marco
Minghetti c'è, però, un'altra novità: le distinzioni sono l'impianto teorico -
Minghetti direbbe "filosofico" - sul quale egli innesta la
valorizzazione delle allora nascenti (in Italia) scienze sociali, per cui tanti
lo riconobbero poi in questo campo come un precursore.
L'affermazione della distinzione dello Stato dalla Chiesa lo porta a porre le
basi del diritto pubblico, cioè di una teoria giuridica dello Stato. La
scoperta dell'autonoma funzione burocratica lo porta a farsi promotore dello
studio delle scienze amministrative, le quali forniscono una cultura non
politica, ma essenziale ai complessi meccanismi di uno Stato moderno. Più
complesso, invece, è il rapporto tra economia e morale, rapporto che, in ultima
istanza, ha solo nella politica il suo momento di mediazione, perché essa resta
l'arte architettonica del vivere sociale. Ma la soluzione di questa mediazione
il Minghetti non l'affida al politico puro, che fiuta il giusto mezzo per
raggiungere un mero compromesso. Per conciliare praticamente questa antitesi
fra economia e morale bisogna, innanzitutto, conoscere le leggi dell'economia
per non sperperare inutilmente ricchezza; in secondo luogo bisogna conoscere la
situazione del paese, perché l'azione dello Stato nel campo economico deve
essere di mera "supplenza" all'impossibilità degli individui e delle
associazioni di provvedere da soli, con il fine ultimo, però, di favorire non
la crescita dello Stato, ma quella della società civile, nella quale gli uomini
debbono essere stimolati dallo Stato ad agire da soli o fra loro associati. Col
termine "supplenza" il Minghetti volutamente indica una politica
provvisoria, destinata a non essere più legittima, quando vengono meno i
presupposti storici che l'hanno favorita. E ancora: per decidere, bisogna
conoscere la realtà in cui si opera, adottare un metodo sperimentale, lontano
da ogni estremismo ideologico, pronti a rettificare la rotta, se si hanno
risultati perversi; inoltre bisogna calcolare il rapporto dei costi con i
benefici o quello dei fini con i mezzi atti a raggiungerli. Per fare della
politica il ponte fra l'economia e la morale era pertanto necessaria una
cultura politica nuova, che si fondasse sulle scienze sociali, delle quali oggi
- giustamente - si comincia a riconoscere essere stato il Minghetti in Italia
un precursore. La mediazione e il giusto mezzo, per essere positivi, devono
così fondarsi sul conoscere. Gli scritti dell'ultimo Minghetti, quali la
Legislazione sociale o il Cittadino e lo Stato, pur avendo una finalità più
pratica, restano fedeli alle premesse teoriche del suo primo volume, quello
sull'Economia pubblica.
Marco Minghetti fu pienamente consapevole di vivere in un'età di crisi, segnata
non solo da grandi rivolgimenti politici e da profonde trasformazioni sociali
ed economiche, ma anche dall'incertezza delle menti e dall'irrequietezza degli
animi, in seguito al processo di secolarizzazione provocato dalla scienza36. A
questo contrappose con coerenza il suo progetto di ordine politico, fondato
sull'armonia e sulla giusta proporzione, sulla chiarezza concettuale e sulla
distinzione delle funzioni, per avere un ordine libero. Questa costruzione
concettuale rispondeva, in fondo, al suo temperamento, sempre calmo ed
equilibrato, lontano dalle polemiche e privo di rabbie, portato a dare ad ogni
cosa il suo giusto posto.
5. I pregiudizi ideologici e filosofici di un oblio
Abbiamo iniziato sottolineando la scarsa cittadinanza, che ha il pensiero di
Marco Minghetti nella storia del pensiero politico italiano. Per concludere,
giova tornare su questo tema, perché un così generalizzato silenzio non può
essere ascritto soltanto a dimenticanza o a malevolenza. A guardare le cose
sino in fondo tre possono essere i motivi storici di tale dimenticanza, due dei
quali affondano nel periodo stesso in cui il nostro stese le sue opere, un
periodo di profonda trasformazione e di mutamento dei valori politici.
Marco Minghetti, anche per la sua età, non appartiene alla stagione eroica del
Risorgimento; egli ne è perfettamente consapevole, tanto che, nel noto discorso
del 1875 a Cologna Veneta, affermò che alla sua generazione era spettato il
compito non della poesia, ma quello della prosa, un motivo della pubblicistica
del tempo, a cui forse il Croce si ispirò per le prime battute della sua Storia
d'Italia. Uomo della prosa e dell'ancor più prosaica amministrazione, in
Minghetti non troviamo la passione dei grandi miti del nostro Risorgimento: non
certamente quelli della Sinistra, come la rivoluzione e la repubblica, ma
neppure quelli condivisi dalla Destra, come la nazione, l'unità e
l'indipendenza. Quando scrive cominciano a maturare altre passioni e altri
ideali, che non potevano, per forza di cose, riallacciarsi al suo insegnamento
di cattolico liberale moderato: il dibattito politico è sempre più occupato
dall'opposizione cattolica, che non poteva, naturalmente, avere il suo testo in
Stato e Chiesa, e dai movimenti socialisti, che non potevano certo ispirarsi
alla Legislazione sociale, opera destinata allora ad apparire paternalistica.
Inoltre nel secondo dopoguerra si è privilegiata la ricerca - sotto
sollecitazioni politiche - del filone democratico (e socialista) del nostro Risorgimento,
quasi per tracciare una continuità dai giacobini al Partito d'Azione: ci si
muove però in un orizzonte meramente ideologico, che non si confronta con la
tradizione liberale, per soppesare lo spessore dei diversi autori e per
verificare l'attualità delle loro soluzioni istituzionali e delle loro
indicazioni politiche per i problemi di oggi.
In secondo luogo, dal 1870 assistiamo in Europa ad un grande tornante, nel
quale i valori politici della prima metà dell'Ottocento vengono dimenticati o
osteggiati. Per vie diverse trionfano nazionalismo e imperialismo, realismo
politico e statalismo (alla Bismarck), industrialismo e capitalismo, edonismo e
decadentismo, positivismo e materialismo. Un mondo di valori del tutto estraneo
a Marco Minghetti: egli ispirò la politica estera saggia e prudente di Visconti
Venosta, una politica nazionale senza alcun accenno nazionalistico o
imperialistico; accettò e anche promosse l'industrializzazione italiana,
ritenendola necessaria, ma sempre da controllare da parte di quel mondo di
savi, che solo nella terra hanno le loro radici; contro l'edonismo e il
decadentismo scrisse sin da giovane37, polemizzando contro la tendenza agli
interessi materiali del suo secolo; dal positivismo (anche liberale)38 e a
maggior ragione dal materialismo si sentì sempre estraneo, perché li
considerava incapaci di risolvere il suo problema, che era un problema di
libertà morale ed insieme politica. Fu accusato di bismarckismo, ma il suo
realismo politico era quello di tutti gli uomini politici: era il senso della
realtà e non una dottrina politica, che azzerasse i valori e gli ideali39.
Nella legislazione sociale continuamente ammoniva doversi seguire, se
possibile, la via inglese, che puntava sulle libere associazioni della società
civile, e non quella bismarckiana, che tutto affidava allo Stato, perché questa
scelta finiva per ridurre il cittadino a mero suddito.
Marco Minghetti, vissuto in un'età di transizione, resta però profondamente
legato ai valori del Risorgimento, anche se non si abbandona mai a grandi miti
o ad ostentate passioni. E un uomo europeo nel pensare e nell'agire, per cui
l'idea di nazione non sfocia nel nazionalismo; e l'unità e l'indipendenza resta
per lui eminentemente un problema di politica estera. Il valore della libertà
si è ormai tradotto in un compito assai più prosaico, quello pratico della
costruzione di uno Stato rappresentativo di diritto, in un periodo in cui
diventa dominante e centrale il problema amministrativo: il problema politico
fondamentale, quello della Costituzione, era stato risolto con la monarchia e
il governo rappresentativo, e ora si trattava di costruire l'amministrazione
dello Stato, dalle autonomie locali alle finanze, dalla promozione dello
sviluppo economico alla legislazione sociale, per non dimenticare il problema
centrale di ogni amministrazione liberale, quello dello Stato di diritto. Un
lavoro più oscuro, che spesso sfugge agli studiosi che amano puntualizzare le
idee-passioni, perché sono esse a creare nuove stagioni storiche. Minghetti resta
solo un esecutore, un amministratore degli ideali liberali del Risorgimento, ma
con una profondità di pensiero che altri raramente ebbero.
La scarsa o scarsissima attenzione verso il pensiero del Minghetti è dovuta,
però, anche ad un'altra causa, e questa, forse, è la più importante. Tutti gli
storici sottolineano che, nella Destra, la vera testa pensante fu quella di
Silvio Spaventa, rappresentante dello hegelismo napoletano (e non del pensiero
meridionale). Questo è dovuto ad un grave pregiudizio filosofico, che porta a
non intendere, o meglio a fraintendere, la vera natura del pensiero politico,
che non può essere ridotto ad una mera identificazione del "politico"
con lo Stato: in questo caso, infatti, nell'Ottocento, fra i maestri, si salva
solo lo Hegel e devono essere ignorati i Tocqueville o i Mill. Un pregiudizio
filosofico imposto fra le due guerre, dall'idealismo con le sue teorie dello
Stato etico, e ripreso, nel secondo dopoguerra da un certo marxi-smo, che
riscopriva in Spaventa il ruolo dello Stato nella realizzazione della giustizia
e dell'eguaglianza.
Sul piano pratico Marco Minghetti e Silvio Spaventa potevano consentire su
molte cose, sul riscatto delle ferrovie, sulla critica delle degenerazioni del
parlamentarismo, nel quale i deputati erano soltanto portavoce di interessi
locali o corporativi e non di valori generali, sulla difesa di una giustizia
amministrativa40 contro le ingerenze della partitocrazia, che poteva far
facilmente leva sulla mentalità di una burocrazia cresciuta sotto gli Stati
assoluti. Ma entrambi, in un pacatissimo dialogo a distanza negli anni
1879-18814l, erano perfettamente consapevoli che i loro presupposti teorici
erano assai lontani, anzi opposti. Lo storico non può privilegiare, perché
"forte", il presupposto teorico di Silvio Spaventa contro quello
"debole" di Marco Minghetti, perché nel loro dialogo assistiamo al
perenne scontro fra monisti e pluralisti, fra chi privilegia lo Stato, massima
sintesi dell'unità politica, e chi guarda alla società civile, come ad un nuovo
spazio per il vivere libero.
Per gli hegeliani di Napoli lo Stato è la verità dell'individuo, della
famiglia, della società civile, per cui lo Stato "che ci comanda, ci
obbliga e ci sforza al bene comune, è il nostro volere stesso": lo Stato è
"la coscienza direttiva" che deve guidare una nazione42, dirigere
tutta la vita del paese. Il "formale" Stato di diritto non basta, se
non realizza un'eguaglianza "sostanziale"43, convertendosi - per
dirla con termini attuali - in Stato di giustizia (attraverso l'azione
amministrativa). Marco Minghetti, invece, non vede nello Stato il protagonista
dell'azione sociale e gli riconosce soltanto una mera funzione di supplenza
quando gli individui da soli o associati - sono carenti. Proprio per questo non
usa come termine chiave la parola Stato, ma quella di go-verno rappresentativo,
che altro non è che un governo dei partiti, al quale egli vuole sottrarre
soltanto l'autonomia, nel suo compito specifico, dell'amministrazione. L'unità
politica non è un fatto imposto dall'alto, ma un processo che sale dal basso,
tramite i partiti, gli organi di autogoverno locale, i consorzi pubblici e
privati, gli enti morali autonomi, le li-bere associazioni della società
civile44. Per la sua visione pluralistica il Minghetti è ostile ad ogni
monismo, che definisce "cattolicismo statuale". E pensiero debole,
questo? Io credo che - oggi - tutti noi stiamo vivendo, con i nostri peculiari
problemi, proprio in quella tradizione o in quel filone di pensieri, a cui - a
pieno diritto - Marco Minghetti appartiene come pensatore politico. Sono ancor
oggi ogni giorno sul tappeto la questione del problematico rapporto fra le
ragioni dell'economia e quelle dell'etica, la riscoperta della distinzione tra
Stato e Chiesa, la difesa dell'amministrazione dalle ingerenze della
partitocrazia, la ricerca di un equilibrio fra professionismo politico e
compe-tenza tecnica.
Una città, una regione, un paese può trovare forza ed alimento nel prendere
coscienza di una parte della propria storia: le piazze e le strade, che
s'intitolano ai protagonisti del nostro passato, dovrebbero ogni tanto animarsi
anche dei loro pensieri e accompagnarci, così, nel nostro camminare nella città
politica.
1 Questi volumi,
assieme ai saggi dal titolo La legislazione sociale (1882) e Il cittadino e lo
Stato (1885), sono stati ripubblicati in M. Minghetti, Scritti politici, a cura
di Raffaella Gherardi, Roma, Direzione generale delle informazioni
dell'editoria e della proprietà letteraria artistica e scientifica, 1986;
questa edizione si avvale di una Prefazione di Rosario Romeo, di una
Introduzione e di una Bio-bibliografia di Raffaella Gherardi. A questa
edizione, quando è possibile, faremo sempre riferimento.
2 Cfr. soprattutto i lavori di A. Berselli e di U. Marcelli in Gherardi
Bio-bibliografia, cit.
3 L. Lipparini, Minghetti, con prefazione di N. Rodolico, 2 voll., Bologna,
1942.
4 B. Croce, Storia d'ltalia dal 1871 al 1915 (1927), Bari, 1943, p. 5.
5 F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, vol. I, Le
Premesse, Bari, 1951, p. 652
6 G. de Ruggiero, Storia del Liberalismo europeo (1925), Bari, 1945, pp.
344-359
7 L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870 (1935),
Torino, 1943. E.A. Albertoni, nella sua Storia delle dottrine politiche
italiane, Milano, 1985, p. 317, dedica al Minghetti due righe.
8 A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, 1948,
p. 656, ma cfr. pp. 156-8, 297-9 e passim. Un allievo di A.C. Jemolo ha scritto
un intelligente volume sul tema: cfr. G. Caputo, La libertà della Chiesa nel
pensiero di M. Minghetti, Milano, 1965.
9 Cfr. R. Gherardi, Introduzione a Minghetti, in Scritti politici, cit.
10 Ibidem
11 V Pareto. Scritti politici Torino. 1974 vol. 1, p. 378. ma cfr. anche pp.
523 e 547
12 Così Armand Lévy, citato da R. Gherardi nella già ricordata Introduzione, p.
5.
13 M. Minghetti, Ricordi, 3 voll., Torino, 1888-1890, vol. I, p. 2.
14 Ibidem, p 152.
15 Cfr. Minghetti, Della economia pubblica, in Scritti politici, cit, p. 597
16 Cit. in R. Zangheri, Bologna, Roma-Bari, p. 32. Ma cfr. anche M. Minghetti,
La legislazione sociale, in Scritti politici, cit., p. 783.
17 Cfr. Zangheri, Bologna cit., p. 35.
18 M. Minghetti, Discorso ai suoi elettori prununziato a Legnago alli 4 ottobre
1874 Roma, 1874.
19 Sui progetti del Minghetti cfr. A. Petracchi, Le origini
dell"ordinamento comunale e provinciale italiano Venezia, 1962; C. Pavone,
Amministrazione centrale e amministrazione periferica da Rattazzi a Ricasoli
Milano, 1964; R Gherardi, Le autonomie locali nel liberalismo italiano
(1861-1900) Milano, 1984.
20 Croce, Storia d'Italia cit., pp. 18-20, 75.
21 Chabod, Storia della politica estera italiana, cit., pp. 385, 638-9.
22 A Omodeo, L'opera politica del conte di Cavour, Firenze, 1945, vol. I, p.
144.
23 R. Romeo, Cavour e il suo tempo, vol. I, Bari, 1969, pp. 539-40.
24 Così Chabod, Storia della politica estera italiana, cit., p. 652, che segue
il giudizio di Riccardo Bacchelli
25 L'affermazione è del Crispi, riportata da D. Zanichelli nella sua
Introduzione a M. Minghetti, Scritti vari, a cura di A. Dallolio, Bologna,
1896, p. LXIII; e su questa linea si muove giustamente R. Romeo nella
Prefazione già citata, agli Scritti politici: basti pensare al comportamento
del Minghetti nella repressione del brigantaggio o dei tumulti scoppiati in
seguito all'annuncio della Convenzione di settembre (1864), Convenzione per la
quale dovette dimettersi da Presidente del Consiglio, ma che fu un'abilissima e
spregiudicata mossa diplomatica.
26 M. Minghetti, Intorno alla tendenza agli interessi materiali che è nel
secolo presente (1841), ora in Scritti vari, cit., pp. 24-28. Ma cfr. anche
Della economia pubblica, in Scritti politici, cit., p. 423, e Stato Chiesa, in
Scritti politici, cit., pp. 457-8, 585.
27 Minghetti, Della tendenza agli interessi materiali, cit. pp. 25-28.
28 Minghetti, Ricordi, cit. vol. I, pp. 84-5, Stato e Chiesa, cit, pp. 589 ss.
29 Minghetti, Della economia pubblica, cit., pp. 114, 295, 297.
30 Minghetti, Stato e Chiesa, cit., p. 476.
31 Minghetti, Stato e Chiesa, cit., p 482.
32 Minghetti, I partiti politici, in Scritti politici, cit, p. 647.
33 M. Minghetti, Discorso all'Associazione Costituzionale delle Romagne
pronunciato in Bologna il 17 novembre 1878, Bologna, 1878, pp. 14-15.
34 Minghetti, Della economia pubblica, cit., pp. 418, 253.
35 Minghetti, Stato e Chiesa, cit., pp. 472, 553.
36 M. Minghetti, Dalla economia pubblica, cit., p. 349, e Stato e Chiesa, cit.,
pp. 569 ss.
37 Minghetti, Intorno alla tendenza agli interessi materiali, cit
38 Minghetti, Ricordi, cit., vol III, pp 55, 79
39 "Noi credevamo alla giustizia e alla libertà, oggi si crede alla forza,
ed al numero": così il Minghetti a Luigi Torelli il 21 ottobre 1886, in
Chabod, Storia della politica estera italiana, cit, p. 104.
40 Cfr. Minghetti, I partiti politici, cit., pp. 711, 725-737: in fondo il
Minghetti sembra però preferire i tribunali ordinari a quelli
amministrativi.
41 La polemica fra Marco Minghetti e Silvio Spaventa (e anche Francesco De
Sanctis) va letta nella seguente sequenza: 21 marzo 1879: S. Spaventa, La
politica e l'amministrazione della Destra e l'opera della Sinistra (ora in La
politica della Destra, a cura di B. Croce, Bari, 1910, pp. 25-52), 8 gennaio
1880: Discorso di M. Minghetti nella Associazione Costituzionale di Napoli
(Firenze, 1880); 7 maggio 1880: S Spaventa, La giustizia nell'amministrazione
(ora in La politica della Destra, cit., pp. 53-106);1881: M. Minghetti, I
partiti politici; 1882: S. Spaventa, L'allargamento del suffragio e i partiti politici
(inedito, ora in La politica della Destra, cit., pp 459-476); 20 settembre
1886: Il potere temporale e l'Italia nuova (ora in La politica della Destra,
cit., pp. 181-202).
Sempre polemico con Marco Minghetti, del quale non conosce le opere, è Francesco
De Sanctis, che ora lo attacca duramente per il Discorso tenuto a Napoli: egli
avrebbe utilizzato un suo saggio per una bassa polemica contro la Sinistra,
dimostrando di essere incapace di salire a "quell'altezza dalla quale io
guardava" (cfr. F. De Sanctis, I partiti e l'educazione della nuova
Italia, Torino, 1970, pp. 389 e 95 ss.). Marco Minghetti rispose con I partiti
politici, dimostrando, invece, di sapersi porre ad un livello concettuale ben
superiore a quello del De Sanctis. Il dibattito sui partiti e sul
parlamentarismo inizia con Stefano Jacini (I conservatori e l'evoluzione
naturale dei partiti politici in Italia, Milano 1877) e impegna tutti i
principali pubblicisti del tempo sino a Gaetano Mosca e Vittorio Emanuele
Orlando, un dibattito che meriterebbe di essere ulteriormente approfondito.
42 S. Spaventa, La politica della Destra, cit., pp. 198-199, 226-227, e anche
pp. 65-66.
43 Ibidem, pp. 419-420.
44 Minghetti, I partiti politici, cit., pp. 718 ss. e passim.
*Professore Emerito
di Filosofia Morale - Università di Bologna
** Il saggio appare
nel volume Filosofi politici contemporanei - Ed. Il Mulino, 2001, pp. 187-218
A tutti voi
benvenuti a questo incontro che ha come oggetto di riflessione le opere ed il
pensiero di Marco Minghetti.
Ringrazio prima di tutto gli organizzatori, l'associazione Società Libera, che
oggi offre alla città di Bologna un'importante occasione di riflessione;
infatti non solo questa iniziativa su Marco Minghetti si svolge qui in questa sala
ma nel pomeriggio, in Palazzo Re Enzo, verrà inaugurata una mostra sul
liberalismo. Il filo conduttore di queste iniziative è una riflessione attorno
ai temi della libertà.
Questa parola fondamentale nella storia della nostra cultura non è proprietà di
alcuno, è proprietà, direi, di tutta la cultura politica democratica. La
riflessione sul rapporto della libertà, che è una sorta di opzione primaria
della cultura politica, con gli altri aspetti legati o al tema della
nazionalità o al tema del lavoro e dell'uguaglianza, costituisce il nucleo
fondante di tutta la riflessione politica.
Qualche parola in più va detta sulle ragioni di un convegno su Minghetti.
C'è una ragione un di campanile, nel senso che Bologna non sempre ha
valorizzato fino in fondo personaggi ed esperienze intellettuali di questa
città. Proprio nelle settimane scorse la nostra amministrazione comunale ha
istituito un premio letterario internazionale dedicato a Riccardo Bacchelli,
scrittore che ebbe grande successo da vivo, ma che poi é passato anche lui nel
dimenticatoio; eppure é un grandissimo scrittore bolognese.
Quindi sicuramente questo elemento della bolognesità è una delle ragioni che ci
porta a riflettere su Minghetti. Però non vorrei che questo venisse
interpretato come un limite, nel senso che è solo l'occasione, diciamo così,
non è l'essenza del problema; infatti il ruolo politico di Marco Minghetti ha
un'importanza nazionale nella storia d'Italia e perfino europea all'interno
della riflessione sul liberalismo. Essendo stato protagonista di prim'ordine
della vita politica negli anni immediatamente precedenti e successivi all'Unità
d'Italia, il suo ruolo politico merita di essere approfondito.
Il dibattito chiarirà tutti i termini del problema, ma io mi permetto anche di
sottolineare la straordinaria attualità dei temi che sono stati al centro
dell'azione e del pensiero di Minghetti. Sono tutti temi che abbiamo ben
presenti, mutati i termini ovviamente, nel dibattito dei nostri giorni.
Per esempio si è dibattuto molto, appena dopo l'Unità d'Italia, sul tema del
centralismo e del decentramento. Oggi questa discussione si sviluppa sotto
l'etichetta del Federalismo; si usano altre terminologie, ma il rapporto tra il
potere centrale dello stato e le articolazioni territoriali è stato uno dei
primi grandi dibattiti già alle origini.. Minghetti entrò in conflitto, i
relatori preciseranno meglio, con Ricasoli e con altri proprio perché era
favorevole all'istituzione delle Regioni e ad un sistema federale del nostro
territorio.
Questo è un problema sul quale Minghetti ha scritto e ha riflettuto. Le scelte
effettive dei governi furono di segno diverso.
L'altro problema di grandissima attualità è il rapporto che deve esistere tra
pubblico e privato, nazionalizzare o no le ferrovie, come organizzare i sistemi
dei servizi pubblici. I termini, ripeto, oggi sono cambiati, sicuramente i
problemi sono più complessi, però la natura del resta immutata. Di qualche
attualità è ancora il tema del rapporto tra Chiesa e Stato: laicità, qualità
della legislazione, la legislazione matrimoniale, la legislazione sulla
famiglia, che hanno visto storicamente liberali e cattolici su posizioni spesso
divergenti e conflittuali.
Forse il tema sul quale l'attualità è maggiore è scritto nel titolo stesso di
uno dei libri di Marco Minghetti sull'ingerenza dei partiti politici nella
giustizia e nell'amministrazione. E' un titolo molto significativo;
aggiornandolo, forse oggi dovremo parlare sull'ingerenza del sistema della
giustizia rispetto alla politica. In particolare sull'amministrazione, sul
rapporto tra partiti politici ed amministrazioni, cioè governi locali degli
enti e del territorio, il dibattito è di strettissima qualità. Se non altro per
il fatto che l'attuale amministrazione comunale di Bologna, che ho l'onore di
rappresentare, si è caratterizzata con il tentativo di dimostrare che
l'attualità delle scelte amministrative non può essere dedotta meccanicamente
dell'orientamento politico.
Questa è la sfida che abbiamo lanciato in questa città; anche culturale, dunque.
Tutte queste ragioni credo che giustifichino, insomma, lo scopo di questo
convegno. Perciò ringrazio i relatori altamente qualificati, studiosi di lunga
esperienza che hanno accettato di parteciparvi.
* Assessore del Comune di Bologna
"Non si può,
crediamo, fare al Minghetti come pubblicista elogio maggiore di questo; egli è
l'unico in Italia che splendidamente rappresenti quella scuola di pubblicisti
inglesi nei quali si fondono, si contemperano e vicendevolmente si completano
l'uomo di Stato e lo scrittore, la pratica della cosa pubblica e la nozione
scientifica di essa." (V.E. Orlando, 10 dicembre 1881)
La citazione sopra riportata, da parte di uno dei più illustri esponenti della
dottrina giuridica nonché della politica dell'Italia liberale tra Otto e
Novecento, Vittorio Emanuele Orlando, può essere assunta a manifesto del
criterio di fondo adottato quale giudizio positivo dall'intellighenzia italiana
ed europea contemporanea a proposito della pubblicistica minghettiana. Da
Gaetano Mosca a Émile de Laveleye i più bei nomi del pensiero politico italiano
ed europeo saranno infatti concordi nel sottolineare come riflessione teorica e
politica attiva siano sfere strettamente congiunte e integrantesi in Marco
Minghetti (1818-1886), emulo, in ciò, del grande Gladstone che egli conobbe e
di cui fu amico. L'aspetto ritenuto più importante del liberalismo di Minghetti
consiste, appunto, nell'aver saputo evitare gli sterili lidi di una teoria
pura, asetticamente disancorata dalla concreta prassi politica, così come, dal
punto di vista di quest'ultima, egli è stato in grado di utilizzare da vicino
le direttive dell'analisi scientifica, evitando i rischi di strategie
improntate a un carattere contingente e meramente empirico. Come uomo politico
Marco Minghetti è uno dei principali artefici della fondazione e della
costruzione dello Stato nazionale; chiamato alla politica attiva dallo stesso
Cavour ed eletto per la prima volta deputato per la Destra liberale nel 1860
egli verrà costantemente rieletto dalla VII alla XVI Legislatura, rivestendo
più volte la carica di Ministro (degli Interni, delle Finanze, dell'
Agricoltura, Industria e Commercio) e di Presidente del Consiglio (dal 1873 al
1876 egli presiede l'ultimo ministero della Destra storica e raggiunge
l'obiettivo del pareggio nel bilancio). Protagonista di primo piano della
Destra di governo1 e delle sue scelte di politica interna e internazionale,
dopo l'avvento al governo della Sinistra, egli continuerà a svolgere un'intensa
attività parlamentare e il suo nome comparirà tra i firmatari di importantissimi
progetti di legge (per esempio in tema di legislazione sociale); egli sarà
inoltre, a partire dai primi anni Ottanta, insieme con Agostino Depretis,
inventore del cosiddetto "trasformismo" che rappresenterà, a giudizio
di molti, una delle più durature costanti della politica italiana, ben al di là
dei limiti cronologici dell'età liberale. Di contro ai rischi corsi dal giovane
Stato unitario da parte dei "rossi" (i nascenti movimenti socialisti)
e dei "neri" (i cattolici), Minghetti terrà costantemente fermo a un
liberalismo che sappia far perno sul centro degli schieramenti parlamentari e
darsi carico di un'attenta opera di riforme, tese a smussare gli estremismi di
volta in volta in campo. Riforme amministrative e riforme sociali
rappresenteranno le linee maestre di tale strategia, in nome della costruzione
di uno Stato che, facendosi forte dell'apporto della "classe media"
deve saper svolgere un'attenta opera di composizione dei conflitti nell'età
nuova che si va profilando all'orizzonte: l'età dell'amministrazione. Anche dai
banchi del parlamento così come in molti suoi discorsi extraparlamentari
Minghetti, vera e propria punta di diamante del liberalismo italiano
contemporaneo, rivendicherà con forza a sé e al suo partito il merito di aver
saputo intraprendere la via di uno "sperimentalismo" che segue la
legge della "lenta evoluzione", secondo i dettami delle moderne
scienze sperimentali, sperimentalismo ormai affermatosi, a livello
metodologico, anche sotto il profilo delle nuove scienze politiche e sociali
(dall'economia, alla scienza delle finanze, alla scienza dell'amministrazione,
alla sociologia etc.). Più volte, in sintonia con i più grandi esponenti del
pensiero politico liberale italiano di fine Ottocento egli dichiarerà ormai
chiusa la cosiddetta "età della costituzione", l'età cioè in cui si
trattava di condurre la lotta contro i regimi assolutistici e per la formazione
dello Stato unitario, in nome del costituzionalismo e della salvaguardia dei
diritti individuali (battendosi quindi per ottenere la costituzione,
costituzione che l'Italia unita si è già data estendendo al Regno lo Statuto
albertino del 1848). Ben diversi sono per Minghetti gli obiettivi che il
liberalismo degli ultimi decenni dell'Ottocento deve perseguire, soprattutto, nella
fattispecie italiana, una volta portata a termine la costruzione dell'unità con
Roma capitale (1870): per l'Italia si tratta infatti di affrontare da vicino la
"questione finanziaria", la "questione amministrativa" e la
"questione sociale", quest' ultima, in particolare, secondo le linee
dei grandi modelli europei, in primo luogo il modello inglese e il modello
tedesco. Sullo sfondo c'è naturalmente un processo di amministrativizzazione
della politica che egli, come i suoi più illustri contemporanei italiani ed
europei (basti citare in tal senso le opere di Lorenz von Stein), ha ben
presente e che rappresenterà un riferimento obbligato anche per le sue più
importanti opere teoriche, al di là delle singole tematiche prese in esame, pur
di per sé rilevanti per il dibattito politico.
Se i contemporanei erano concordi nel riconoscere in Minghetti un maestro dal
punto di vista della riflessione politica, tale dimensione verrà man mano
sfuocandosi nel corso del Novecento da parte della storiografia, sotto il profilo,
almeno, dell'analisi complessiva e della metodologia d'indagine del
"politico". Il nome di Minghetti resterà in ombra anche da parte di
numerosi storici italiani che analizzeranno le differenti eredità teoriche del
liberalismo italiano della seconda metà del diciannovesimo secolo. Sarà per
iniziativa di Nicola Matteucci che la figura di Marco Minghetti come pensatore
politico ritornerà alla ribalta, dopo molti decenni di oblìo della dimensione
suddetta, da parte degli storici del pensiero politico2. Nel centenario della
morte dello statista bolognese, la pubblicazione degli Scritti politici e il
convegno internazionale tenutosi a Bologna, dal 7 al 10 ottobre 1986, su Marco
Minghetti e la cultura politica europea3 rappresenteranno un momento fondamentale
per un nuovo confronto con l'opera minghettiana nel suo insieme, spettro
d'osservazione privilegiato sia della politica che della cultura politica del
liberalismo italiano ed europeo4.
A partire dalla sua prima, grande opera dal titolo Della economia pubblica e
delle sue attinenze colla morale e col diritto (1859) (opera che verrà tradotta
in francese nel 1863), Minghetti scenderà sul campo del grande dibattito
metodologico e politico relativamente ai princìpi della scienza economica e
alle molteplici dimensioni dell'interventismo statale; egli si dimostrerà poi
in grado di misurarsi con i grandi temi del liberalismo contemporaneo, dal
rapporto tra la Chiesa e lo Stato (l'opera Stato e Chiesa, pubblicata nel 1878,
fu tradotta in tedesco nel 1881 e in francese nel 1882), alla problematica dei
partiti politici nel governo parlamentare (l'opera I partiti politici e la
ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione del 1881, sarà un punto
di riferimento obbligato per la pubblicistica successiva in proposito). Il filo
rosso delle sue considerazioni terrà ben fermo alla chiave di volta del
rapporto tra il cittadino e lo Stato e dei compiti che quest'ultimo deve
assumersi direttamente o, invece, lasciare alla società civile, di fronte
all'evolversi della civiltà contemporanea.
Nel sottolineare più e più volte il suo rifiuto di ogni apriorismo, egli
innalza, ne Il cittadino e lo Stato (1885) un vero e proprio inno a un' ottica
scientifico-sperimentale che gli appare come la sola, appropriata guida di una
politica che si possa configurare al tempo stesso come scienza e prassi
concreta. Il tema classico della libertà dell'individuo nei confronti dello
Stato segue dunque l'itinerario di uno sperimentalismo che traccia con
precisione i limiti delle diverse polarità in campo:
Io credo che la determinazione dei limiti della libertà del cittadino e della
ingerenza dello Stato non si possa fare a priori, ma che si debba esaminare
ogni speciale questione, pesare e notare ogni circostanza, procedere insomma
sperimentalmente. E' questa la conseguenza naturale del principio che io posi
dalle prime parole di questo scritto, cioè che il problema non si può
sciogliere in modo assoluto, ma relativamente alle condizioni di tempo, di
luogo, di civiltà di un popolo.5
Egli avrà comunque cura di ribadire costantemente il postulato liberale secondo
il quale lo Stato non deve sostituirsi alla iniziativa privata, ma soltanto
integrarla:
La prima [condizione] è che lo Stato non deve sostituirsi alla iniziativa
privata, ma integrarla e compierla. Laddove quella basti, l'ingerenza dello
Stato è soverchia e perciò non buona. Ciò che la giustifica, e la rende
opportuna è la necessità di provvedere ad interessi generali, ai quali non
giunge l'azione dei singoli cittadini, o delle loro libere associazioni. Il
determinare poi questa necessità è opera di accurato esame delle condizioni
speciali del tempo, del luogo, della vita economica di un popolo, in relazione
al fine che si vuol conseguire; è frutto di esperienza e non può essere
indicato a priori.
Ancora una volta e di nuovo a Bologna, il convegno su Marco Minghetti e le sue
opere, tenutosi in data 11 novembre 2000, ha ora il compito di rivisitare il
ruolo di Minghetti come statista e, soprattutto, come osservatore-scienziato
della politica e delle sue problematiche fondamentali; si tratta inoltre di
mettere in rilievo se e fino a che punto le opere suddette possano risultare
significative per l'indagine odierna della complessa sfera del
"politico". Gli atti che qui vengono presentati testimoniano, (alla
luce delle tematiche politiche e scientifiche più vive del passato-presente,
attentamente indagate da parte degli illustri studiosi partecipanti al
convegno), quanto l'indagine di Minghetti continui a rappresentare una sfida
anche per la politica del ventunesimo secolo.
1 Per una puntuale indagine sul ruolo svolto
da Minghetti come uomo di governo della Destra cfr. A.BERSELLI, Il governo
della Destra. Italia legale e Italia reale dopo l'Unità, Bologna, Il Mulino,
1997.
2 Cfr. N.MATTEUCCI, Introduzione a N.MATTEUCCI-R.LILL, Il
liberalismo in Italia e in Germania dalla rivoluzione del del'48 alla prima
guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 7-14. Matteucci svilupperà
ancora più compiutamente la sua tesi sull'importanza del pensiero politico di
Minghetti in N.MATTEUCCI, Marco Minghetti pensatore politico, in
R.GHERARDI-N.MATTEUCCI (a cura di), Marco Minghetti statista e pensatore polit
I, Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri, 1986. Gli atti del convegno
suddetto sono pubblicati nei due volumi seguenti: R.GHERARDI-N.MATTEUCCI (a
cura di), Marco Minghetti statista e pensatore politico. Dalla realtà italiana
alla dimensione europea, Bologna, il Mulino, 1988; N.MATTEUCCI-P.POMBENI (a
cura di), L'organizzazione della politica. Cultura, istituzioni, partiti
nell'Europa liberale, Bologna, Il Mulino, 1988.
4 Cfr. in tal senso, oltre alla mia Introduzione a M.MINGHETTI,
Scritti politici cit., pp. 1-54, R.GHERARDI, L'arte del compromesso. La
politica della mediazione nell'Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1993.
5 Cfr.M.MINGHETTI, Il cittadino e lo Stato, in M.MINGHETTI,
Scritti politici cit., p. 813. Questo scritto fu pubblicato dalla "Nuova
Antologia", come lunga recensione dell'opera di Spencer allora appena
pubblicata in italiano L'individuo e lo Stato. Per la citazione successiva cfr.
Ibidem, p. 825.
* Professore Ordinario di Storia delle
dottrine politiche Università di Bologna
1.Premessa:
economia politica e 'filosofia dell'economia'
I contributi di Marco Minghetti all'analisi economica occupano un campo di
considerevole ampiezza, che va dagli scritti sugli 'interessi materiali' e le
questioni agrarie (Minghetti, 1841a, 1841b, 1844, 1846, 1853) al contributo
sulla teoria classico-marxiana del valore di scambio pubblicato nel Giornale
degli Economisti (Minghetti, 1886). Il momento centrale di questa produzione
scientifica riguarda però il tentativo minghettiano di gettare le fondamenta di
una vera e propria disciplina, che 'avrebbe dai moderni il titolo di Filosofia
della Economia' (Minghetti, 1859, p. xi).
Le ricerche di Minghetti sulla 'filosofia della economia' confluiscono e
trovano presentazione organica nell'opera Della economia pubblica e delle sue
attinenze colla morale e col diritto, conclusa a Bologna nel novembre 1858 e pubblicata
a Firenze nel 1859 dall'Editore Le Monnier (Minghetti, 1859).
Gli obiettivi dell'analisi di Minghetti sono individuati con chiarezza nel
capitolo introduttivo, dove l'autore osserva che il suo scritto 'non è un
trattato formale di economia pubblica' (p. v). Al contrario, obiettivo dello
scritto è 'circoscrivere' i limiti dell'economia politica, e assegnare ad essa
'il posto che [...] le compete' nel sistema delle conoscenze (p. v). Il punto
di partenza della riflessione di Minghetti è la convinzione che
l'individuazione precisa della distinzione fra settori di indagine sia
condizione necessaria per lo sviluppo della conoscenza scientifica, e che
'all'esame analitico ' debba fare seguito 'il riassunto sintetico' (p. VIII),
cosicchè ogni scienza possa alla fine vedersi 'distinta, ma non segregata dalle
altre; connessa, ma non confusa con quelle' (ibidem).
2. I presupposti
dela teoria economica e le 'attinenze' dell'economia politica
Gli obiettivi fissati da Minghetti per la 'filosofia della economia' sono
quindi collegati alla ricostruzione analitica della struttura concettuale
dell'economia politica, in modo da mettere in luce i punti di partenza degli
schemi di teoria economica e i loro presupposti in concezioni più generali
sulla natura delle azioni umane e delle interazioni fra soggetti. Su questo
piano, Minghetti individua un collegamento interessante fra controversie
scientifiche e 'chiusura' dei sistemi assiomatici, osservando che, almeno in
parte, le controversie fra economisti derivano dal processo di 'frammentazione'
necessario durante la fase di consolidamento analitico della disciplina (pp.
vii-viii). In questa prospettiva, Minghetti propone una sorta di
'esplicitazione dei presupposti' che dovrebbe ridurre lo spazio delle
controversie e degli 'errori economici'. In particolare, i presupposti
dell'economia politica sono individuati da Minghetti nelle ipotesi su criteri
morali e norme giuridiche che si trovano spesso alla base delle
generalizzazioni economiche.
In questa prospettiva, Minghetti avvia la propria riflessione sull' 'oggetto e
metodo' dell'economia politica attraverso una ricostruzione delle 'unsettled
questions' dell'analisi economica a lui contemporanea1. In particolare,
Minghetti osserva che 'la discordia e il contrasto fra gli scrittori' in
materia economica siano in parte notevole
ascrivibili ad un difetto di individuazione dell'oggetto specifico
dell'economia politica (p. 69). Infatti, secondo Minghetti, un criterio
metodologico di carattere generale richiede che 'la definizione di una scienza'
si debba cercare 'non solo in lei stessa, ma ... nelle sue attinenze con tutte
le altre' (p. 70). Nel caso dell'economia politica, Minghetti osserva che il
campo di indagine proprio di questa disciplina si può derivare dalla
considerazione che 'gli scrittori economici, anche inconsciamente, sono
costretti a presupporre dei dati morali, anteriori e superiori alla scienza
loro, dei quali si giovano come di norma' (p. 93). In particolare, gli
economisti presuppongono la società 'organata in forme regolari, con una
partizione di uffici, ed un governo che tuteli in alcun modo i diritti degli
individui' (p; 93). In modo analogo, 'tutto ciò che si riferisce alla rendita
della terra assume dal diritto naturale la giustificazione della proprietà' (ibidem).
Infine, il problema della 'attinenza' fra interesse privato e bene pubblico
rinvia a dati che riguardano le discipline morali, e non può essere considerato
in modo indipendente dalle teorie della giustizia e dell'equità (p. 94).
3. Le 'libere operazioni'
e i 'limiti razionali' dell'economia politica
Il riconoscimento delle 'attinenze' fra l'economia politica e le 'discipline
morali' consente di individuare i 'limiti razionali' dell'economia politica (p.
96), cioè quell'insieme di postulati 'senza dei quali essa non potrebbe bene
comprendere tutte le sue leggi, né risolvere tutti i suoi problemi' (ibidem).
In questa prospettiva, Minghetti identifica l'oggetto dell'economia politica
nelle 'operazioni libere degli uomini sulle cose, in quanto esse sono atte ad
appagare i loro bisogni' e negli 'effetti che ne conseguono' (p. 73). Infatti,
le une e gli altri 'costituiscono una serie di fatti speciali, importanti,
necessariamente collegati fra loro' (ibidem).
In conclusione, Minghetti ritiene che lo studio dell'economia politica
presupponga un duplice processo di collegamento e di distinzione. Le
'operazioni libere degli uomini sulle cose' (volte a soddisfare bisogni),
insieme ai loro effetti, individuano un ambito specifico di indagine che
consente di distinguere l'economia politica dalle altre discipline morali.
D'altra parte, le condizioni specifiche che permettono ai soggetti di
soddisfare bisogni attraverso operazioni libere sulle cose non possono essere
determinate all'interno dell'economia politica, e rinviano a codici etici e a
istituzioni giuridiche e politiche . In altri termini, i 'limiti razionali'
posti all'economia politica da postulati che rinviano ad altre discipline
morali consentono alla stessa disciplina di individuare con maggiore precisione
il proprio ambito, e permettono ai soggetti di realizzare concretamente 'libere
operazioni' nelle forme appropriate a specifiche condizioni storiche.
4 Gli scambi e la
società civile
L'attenzione di Minghetti per i limiti razionali del ragionamento economico è
alla base delle sue osservazioni riguardanti la natura degli scambi e le
caratteristiche dell'interesse proprio (self-interest). In particolare,
Minghetti fa riferimento alle osservazioni di Richard Whately nelle sue
Introductory Lectures on Political Economy (Whately,1847; prima edizione 1831),
in cui si definisce l'economia politica come 'catallattica' o 'scienza degli
scambi'. A questo proposito, Minghetti scrive che l'economia presuppone 'come
condizione necessaria, un ordinamento civile' (p. 103), e che nella società
civile 'il fatto economico fondamentale è lo scambio' (ibidem, nostro corsivo).
Tuttavia sarebbe errato pensare che 'lo scambio sia il primo e quasi il solo
elementare fatto economico' (p. 105). Infatti, secondo Minghetti, l'insieme dei
fatti economici elementari comprende, oltre allo scambio, il lavoro umano e il
risparmio (ibidem). In conclusione, Minghetti identifica l'ambito proprio
dell'economia politica in una particolare intersezione tra fatti elementari
riguardanti il comportamento dei singoli (il lavoro e il risparmio) e fatti
elementari riguardanti l'interazione fra individui (lo scambio). In questo
modo, l'economia politica viene caratterizzata come disciplina morale che si
occupa del raggiungimento di stati mentali (di appagamento o soddisfazione)
utilizzando 'cose materiali [ ...] come strumento' (p. 107). Il raggiungimento
di tali stati mentali avviene attraverso 'libere operazioni' che presuppongono:
(i) la libertà 'etica' di scelta consentita dall'autonomia del soggetto che
utilizzi 'principii e ... condizioni morali' (p. 108); (ii) la libertà 'civile'
di scelta consentita dall'esistenza di ordinamenti che fanno riferimento ad un
criterio di giustizia (ibidem). Questo punto di vista mette in evidenza il
carattere 'misto' dell'economia politica secondo Minghetti, e quindi la sua
complessa articolazione come punto di equilibrio tra analisi di configurazioni
determinate dalle 'operazioni libere' dei soggetti e studio delle condizioni
morali e civili che rendono in concreto possibile l'esercizio della libertà di
scelta.
L'identificazione dell'economia politica come disciplina che si occupa della
concreta 'struttura della prassi' nel caso di operazioni libere atte ad
appagare bisogni conduce Minghetti a studiare con attenzione i presupposti
morali di quella classe di operazioni (i presupposti morali delle scelte
economiche). Infatti, le scelte economiche si riferiscono ad ambiti particolari
e determinati di scelta, che riflettono gli schemi mentali e quindi i criteri
morali dei soggetti. Le 'operazioni libere' dei soggetti in campo economico
richiedono l'esercizio del 'libero arbitrio' (libertà di scelta) ma
quest'ultimo non si identifica con l'utilizzazione di un singolo criterio di
scelta, quale il self interest (o self love), la benevolenza, oppure l'utilità
benthamiana (pp. 191-194). In particolare, la libertà di scelta si esprime
anche attraverso l'identificazione delle alternative fra cui scegliere, e la
messa a fuoco di queste ultime riflette 'principii e [...] condizioni morali'
(p. 108).
5. Produzione della
ricchezza, 'ripartizione' dei prodotti e condizioni morali
Questo punto di vista suggerisce a Minghetti un insieme di criteri per
orientare il giudizio relativo ad aspetti particolari dell'economia politica.
Nel caso della produzione e del progresso tecnico, Minghetti osserva che
criteri morali possono suggerire una 'messa a fuoco' di alternative che
orientano la libertà di scelta verso soluzioni graduali e cambiamenti meno
traumatici: 'la prima ed immediata conseguenza delle macchine e della cultura
in grande, sovrattutto dove il mutamento accadde repentino e vasto, fu una
perturbazione industriale' (p. 228). Tuttavia presupposti morali possono
modificare le caratteristiche della libertà economica, non tanto nel senso di
sottoporla a condizioni e vincoli esterni quanto nel senso di orientare la
scelta verso un diverso insieme di alternative. In questo modo è possibile
'temperare quei passaggi, e renderli meno aspri; e, quasi direi, fare che
gradatamente e senza scosse si compiano' (p. 229). Il particolare punto di
vista di Minghetti suggerisce in questo passo una possibilità interessante
anche per l'analisi economica contemporanea: le fasi di cambiamento
strutturale, quindi le fasi di 'trapasso da una condizione di cose ad un'altra'
(p. 228), possono determinare squilibri e costi sociali elevati; ma la
perturbazione industriale non è un fenomeno necessario, o almeno non è
necessaria una perturbazione di ampiezza data. Infatti, l'ampiezza delle
perturbazioni connesse a fasi di cambiamento strutturale può essere ridotta
attraverso opportune modificazioni delle funzioni di comportamento dei
soggetti, oppure attraverso modificazioni del campo di alternative a loro
disposizione.
Nel caso della distribuzione del prodotto complessivo fra gli individui (e fra
le classi sociali), Minghetti distingue fra due criteri fondamentali: (i)
ripartizione in base alla 'efficacia rispettiva' dei fattori produttivi (come
capitale e lavoro); (ii) ripartizione in base alle proporzioni relative dei fattori
produttivi impiegati (p. 284). I due criteri sono entrambi presenti nella
distribuzione effettiva dei prodotti. Tuttavia, Minghetti considera che il
secondo criterio (proporzioni relative) sia rilevante soprattutto nel breve e
medio termine, quando per l'influenza delle relazioni fra domanda e offerta dei
fattori produttivi esso 'modifica tanto il primo elemento sul quale, per così
dire, è innestato, che talora sembra da sé solo produrre ogni effetto' (p.
284). D'altra parte, il criterio della 'efficacia rispettiva' dei fattori
produttivi manifesta la propria influenza soprattutto nel lungo termine: 'nella
distribuzione de'prodotti, [dapprima] la proporzione fra i capitali e le
braccia sembra determinare il modo di riparto; ma sotto vi sta a modo di legge
e di ragion prima la efficacia rispettiva del capitale e del lavoro all'opera
della produzione' (p. 284). Diversa è la posizione dei due criteri distributivi
per quanto riguarda il ruolo di presupposti e condizioni morali. Infatti, un
criterio di giustizia può essere alla base della distribuzione
"naturale" che collega la ripartizione dei prodotti all'efficacia
rispettiva dei fattori produttivi. Invece la "distribuzione
effettiva" dei prodotti secondo le proporzioni relative tra fattori (e
quindi secondo la scarsità relativa di tali fattori) riflette criteri morali
solo in modo indiretto, attraverso l'influenza di questi ultimi sulla domanda e
offerta di risparmio e lavoro.
6. Sulle
conseguenze morali degli scambi: dalla 'catallattica' alla 'catallassi'
La ricostruzione razionale delle situazioni di scambio consente a Minghetti di
condurre un'indagine raffinata della relazione fra scambio e condizioni morali.
Il punto di partenza dell'analisi di Minghetti è l'osservazione che la
'giustizia dello scambio' non può essere individuata nella determinazione di
una 'norma allo scambio' distinta dal 'consenso dei contraenti' (p. 304). In
questa prospettiva, lo scambio 'giusto' è semplicemente una relazione di
scambio caratterizzata dalle due condizioni di 'veracità' e 'libertà' (ibidem).
Nel primo caso, si esclude 'ogni maniera d'inganno' nella comunicazione fra i
contraenti (ibidem). Nel secondo caso, si esclude che i contraenti siano
costretti allo scambio da forme di coercizione fisica o morale. L'attenzione per
le condizioni morali dello scambio suggerisce a Minghetti l'esistenza di una
relazione costitutiva fra scambio e benevolenza, e gli consente di individuare,
assai prima di Hayek, il nesso fra le relazioni di scambio della 'catallassi' e
il 'passaggio' dall'inimicizia all'amicizia. A questo proposito, Minghetti
osserva che 'la voce greca significa permuta, cambio; e ancora conciliazione,
alleanza' (p. 306 n). Questa osservazione è di grande interesse, perché mostra
come l'attenzione di Minghetti per la struttura degli scambi vada al di là
della 'catallattica oxoniense' proposta da Richard Whately (1847) e ripresa in
anni recenti da Sir John Hicks (Hicks, 1976). Infatti per Whately come per
Hicks è centrale la considerazione della transazione come trasferimento di beni
(o servizi) che risulta mutuamente vantaggiosa per i contraenti (Whately, 1847,
pp. 3-6; Hicks, 1976, p..212). Invece per Minghetti, che pure conosce bene gli
scritti di Whately, l'aspetto centrale dello scambio è costituito dalle sue
conseguenze morali piuttosto che dai risultati sul piano allocativo. Minghetti
riconosce che la varietà delle attitudini umane e della loro ripartizione rende
lo scambio una condizione necessaria per l'allocazione efficiente delle risorse
fra i diversi soggetti (p. 304). Tuttavia su questo aspetto Minghetti non
ritiene utile ' il soffermarvisi' (ibidem). Più importante è invece, nella sua
analisi, il fatto che 'lo scambio essendo una delle forme dell'associazione
umana [...] la sua radice è essenzialmente buona' (ibidem). In particolare,
secondo Minghetti, è convinzione consolidata negli usi linguistici che lo
scambio 'moltiplicando le relazioni [generi ] benevolenza' (p. 306). Queste
ultime osservazioni allontanano Minghetti dalla concezione 'catallattica' di
autori come Destutt de Tracy (1823) e Whately (1847) , e lo accostano in modo
significativo e per certi aspetti sorprendente alla concezione della società
civile come 'catallassi' (catallaxy) proposta in anni più vicini a noi da
Friedrich August von Hayek (1978). In particolare, la concezione della 'società
degli scambi' delineata da Minghetti appare vicina alla concezione hayekiana
della società civile come struttura relazionale aperta, caratterizzata da
atteggiamenti e propensioni comuni, ma non da una 'volontà comune' (Hayek,
1978, pp. 179 - 190).
6. Alcune
conclusioni
La riflessione economica di Minghetti, soprattutto nel saggio Dell'economia
pubblica, si colloca all'intersezione di differenti linee di ricerca, tutte
originate all'interno della grande tradizione dell'economia politica classica,
della quale anche Minghetti fa parte. In particolare, Minghetti guarda con
molta attenzione all'analisi della società civile elaborata nel corso del
diciottesimo secolo in Scozia e Inghilterra (ma non solo), filtrata nella
Wealth of Nations di Smith (Smith, 1776) e confluita nella sistemazione
concettuale di Giandomenico Romagnosi (Romagnosi, 1835). Questo punto di vista
costituisce un elemento di originalità degli scritti economici di Minghetti, e
distingue la sua posizione scientifica da altri sviluppi teorici interni alla
tradizione classica. In particolare, Minghetti si distingue sia dalla
concezione ricardiana dell'economia politica come scienza 'materiale' delle
interconnessioni tecnologiche e della distribuzione delle ricchezze, sia dalla
concezione dell'economia politica come scienza allocativa degli scambi
(catallattica) seguita da Destutt de Tracy (1823), Whately (1847) e altri
economisti.
In termini più specifici, l'economia politica di Minghetti parte dalla considerazione
dei nessi ('attinenze') fra società civile e analisi della riccchezza,
inserisce l'analisi della divisione del lavoro e del progresso tecnico
all'interno di una teoria degli ordinamenti civili, e mette in risalto il
collegamento costitutivo fra catallattica (scienza degli scambi) e società
civile.
Queste caratteristiche dell'analisi economica di Minghetti la collegano
direttamente alla matrice morale e civile della tradizione smithiana, ma al
tempo stesso la rendono prossima a importanti linee di riflessione della
letteratura economica più recente.
1 Il riferimento è
allo scritto di John Stuart Mill sulle 'unsettled quations of political
economy' (Mill, 1844), la cui prima edizione è presente nella biblioteca
privata di Minghetti (Gavelli, 1986, p. 168).
Riferimenti
bibliografici
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Whately, R. (1847) Introductory Lectures on Political Economy, delivered at
Oxford in Easter term, 1831, terza edizione riveduta e ampliata, London, John
W. Parker.
* Professore
ordinario di Analisi Economica Università di Bologna
La questione del
rapporto fra Stato e Chiesa può essere posta e affrontata ad almeno tre livelli
differenti.
Innanzitutto essa può venir posta a livello puramente giuridico, ed è questo,
in primo luogo, il modo, anche se non l'unico, in cui l'affronta Minghetti.
Ciò che colpisce è che Minghetti affronta la questione giuridica dal punto di
vista della comparazione. Diversamente, cioè, dai giuristi della sua epoca, e
di quelle successive, fino quasi al secondo dopoguerra, Minghetti non si
incammina verso l'analisi dogmatica delle definizioni giuridiche, e delle loro
conseguenze in termini di regole operazionali(1). Egli, piuttosto, pone il
problema come questione empirica, volto ad osservare come si è attuata, e come
si è risolta, la separazione Stato-Chiesa in Belgio, in Irlanda, negli Stati
Uniti d'America; compiendo, quindi, un'operazione intellettuale molto diversa
da quelle che nel giure italico venivano compiute alla sua epoca.
Un secondo modo di affrontare la questione è quello di porre la vera e propria
questione dell'autorità sopra l'etico "Ueber das Sittlichkeit" per
utilizzare l'espressione dello Hegel, nella sua Filosofia del diritto. In
realtà, se noi guardiamo il fondo delle cose, ciò che veramente ci interessa
non è qui tanto sapere se è la legge dello Stato, o il patto in quanto trattato
internazionale, che regola i rapporti Stato-Chiesa, ma la definizione dell'autorità
sopra quell'ambito di spazio che noi chiamiamo "etico". Uno spazio
che nella cognizione moderna dei gazzettieri è semplicemente ridotto alla
questione dei rapporti sessuali, della procreazione assistita, o quant'altro
mai fatto in provetta, quando invece le questioni sono ovviamente molto più
fondamentali e spinose, ed occorre che i laici tornino ad esserne consapevoli,
e a rimeditare, quindi, sulla questione che qui si pone come essenziale, e cioè
quella dell'autorità sopra l'etico.
Infine, un terzo punto di vista , che ancora riallaccia Minghetti
all'attualità, è quello di vedere i rapporti fra Stato e Chiesa come tratto
culturale essenziale, che distingue una civiltà dall'altra. Qui la riflessione
di Minghetti si sposa molto bene con il recente libro di Paolo Prodi, per
rimanere nell'ambito bolognese, sull'origine e la storia della giustizia. Un
libro per me essenziale, soprattutto rispetto ai riferimenti liberali classici
di Minghetti, nel mostrare come un certo modo di risolvere le questioni tra Stato
e Chiesa distingua nettamente una civiltà dall'altra. Basti pensare all'Islam,
alla Cina del confucianesimo di Stato, all'Ortodossia, all'Europa a base
culturale cattolica, all'Europa a base non cattolica, e agli Stati Uniti
d'America. Allora qui veramente i rapporti tra Stato e Chiesa si pongono come
questione essenziale nel mondo della globalizzazione; come ridefinizione delle
eredità culturali e delle nuove identità. Si pensi a quanto il problema del
Cristianesimo pesi sulla definizione dell'"heritage" a cui fare
riferimento nella definizione stessa dell'identità europea.
Cominciamo, allora, dall'analisi giuridica comparatistica di Minghetti.
Quali sono, in estrema sintesi, i capisaldi del suo pensiero?
Innanzitutto Minghetti dedica molta attenzione al Belgio, e pochissima alla
Francia.
E' proprio trattando del Belgio che egli pone il suo principio per cui "la
chiesa rinunzi alle inframmittenze politiche è che sia indipendente dal
bilancio dello Stato e che nella sua sfera d'azione ragionevole ed equa non
incontri ostacoli o molestie".
Questa proposizione sembra di per sé banale, ma in realtà non lo é affatto, nel
senso che la soluzione belga era quella di una certa integrazione del
sostentamento della chiesa a spese del bilancio dello Stato. Una soluzione in
realtà diversa da quella che si era realizzata durante la Rivoluzione Francese
con i "preti costituzionali", rispetto al clero refrattario, ma
soprattutto contraria a buona parte del pensiero laico dell'epoca. Un pensiero
che era piuttosto antireligioso che laico, laddove non si voleva soltanto una
chiesa "libera associazione", che non incontrasse ostacoli o
molestie, ma si voleva conculcare l'opera della chiesa. Un aspetto del laicismo
che oggi pochi amano ricordare, ma che non per questo non è esistito.
L'idea cardine di Minghetti è molto tipica, è quella della chiesa come
associazione privata, la quale deve essere però essenzialmente libera e,
infatti, passando all'analisi degli Stati Uniti d'America, rintuzza le
polemiche di chi paventa che la chiesa libera associazione cominci
immediatamente a possedere ospedali, scuole, partecipazioni finanziarie, ciò
che in effetti già avveniva in America, con evidente influenza sui parlamenti e
sulle amministrazioni locali.
Secondo Minghetti tale influenza non deve importare : non si può utilizzare lo
Stato per conculcare l'organizzazione stessa della chiesa, tant'é che, infatti,
in modo molto forte, Minghetti sostiene che lo Stato non potrebbe interferire
con l'amministrazione fiduciaria dei beni ecclesiastici. Si tratta, all'epoca,
di una presa di posizione forte perché, durante la Rivoluzione Francese,tale
interferenza si espresse pienamente. Tutto il Codice Civile francese è un
codice di battaglia politica, sebbene sia stato poi presentato come una geometria
della Ragione nel campo giuridico. In realtà il Code Napoléon è improntato a
una netta contrarietà ai rapporti fiduciari, a differenza dei sistemi di Common
Law che non hanno mai conosciuto la Rivoluzione, e dove il "Trust"
domina. Il diritto francese temeva che tramite i rapporti fiduciari si
potessero ricreare i rapporti feudali, ecclesiastici, di Ancien régime. Perciò
il Code civil ne ha orrore, e in ciò si distingue nettamente dal diritto
anglo-americano, dove appunto i beni delle chiese sono posseduti in Trust, cioè
tramite rapoprti fiduciari, e dove le Trust companies sono ormai le grandi
rivali delle società per azioni, soprattutto nel settore non-profit.
Un secondo caposaldo del pensiero di Minghetti è l'adesione alla legge delle
guarentige (13 maggio '71). Tale legge è da approvare. Punctum dolens è la
qualifica di sovrano attribuibile al pontefice. Sul punto Minghetti preferisce
mescolare principi e considerazioni pratiche. In principio preferirebbe non
riconoscere sovranità alcuna al pontefice, se non fosse che l'idea del Papa
come esule fuori Roma , quale "sublime mendico" per l'Europa,
giustamente lo spaventa dal punto di vista politico, e ne conclude che bisogna
quindi evitare di ridurre il pontefice a gran cappellano, a "limosiniere",
del Re d'Italia.
Qui, allora, la questione della "sovranità" si pone come essenziale,
e bisogna, innanzitutto ricordare come il problema della sovranità, della Santa
Sede non fu affare solamente italiano, e che l'attributo di soggetto
internazionale alla Santa Sede deriva non dalla legge delle guaretinge, ma da
un riconoscimento internazionale. Ovvero, sul punto, la questione dei rapporti
Stato-Chiesa non si pone come pura materia italiana, ma come questione di
diritto squisitamente internazionale, laddove la comunità degli Stati Europei
riconosce la soggettività internazionale della Santa Sede.
Ancora una volta tale riconoscimento non si pone affatto come banale, ma
rappresenta piuttosto una vistosa eccezione. Infatti normalmente la
soggettività internazionale viene riconosciuta o agli Stati, o a gruppi di
insorti che riescano a controllare stabilmente un determinato territorio, per
via del potere di fatto che essi hanno su quel territorio. La Santa sede non
era uno Stato, e, all'epoca, non aveva un territorio. In tal modo, quindi, si
creava un soggetto di diritto internazionale ad hoc, invocando la consuetudine,
cerimoniale, che riconosceva al pontefice il rango di un Capo di Stato.
Un modo di procedere che può stupire il laico, ma non il giurista, che quando
deve inventare qualcosa che non ha fondamento, invoca con facilità la
consuetudine immemmore. In tal caso, essendo stato il Papa un soggetto politico
rilevante per l'Europa, la consuetudine viene interpretata nel senso della
soggettività internazionale. Naturalmente, però, non mancarono le querelles de
chapelle. Alcuni giuristi tedeschi, come sempre estremamente logici, sostennero
che se si ha un soggetto di diritto internazionale, non si può non
riconoscergli un territorio. Perché? perché putacaso il Papa inciti i sudditi
tedeschi alla ribellione, la Germania non potrà esercitare la legittima
sanzione internazionale non avendo un territorio da aggredire. Essa non potrà
esercitare la legittima vendetta, che le compete secondo il diritto
internazionale, e quindi si avrebbe un soggetto di diritto internazionale privo
di responsabilità internazionale, il che é assurdo. In tale situazione la
Germania, potrebbe unicamente rivolgersi al Re d'Italia, che dovrebbe comminare
le sanzioni sul Papa, ma di nuovo avremmo un soggetto di diritto
internazionale, che però è suddito di un altro soggetto internazionale, il che
nuovamente è assurdo. Quindi avere un soggetto di diritto internazionale senza
territorio porta ad assurdità incompatibili, onde bisogna riconoscere un
territorio a questo soggetto.
Ecco allora che i due capisaldi del pensiero di Minghetti si rivelano in realtà
un poco traballanti: e cioè, da un lato, l'idea della Chiesa come associazione
privata, assolutamente libera, che non deve incontrare ostacoli da parte dello
Stato; e però, dall'altro lato, l'idea della soggettività di diritto
internazionale di tale associazione.
In questo pensiero ritroviamo, da un lato, l'idea della chiesa come "club
di tennis". Infatti dire che la chiesa è un'associazione privata, nei nostri
ordinamenti derivati dal Code Napoléon, significa dire che essa è regolata
dall'art. 36 ss. C.c., che recita semplicemente che le associazioni private
sono regolate dagli accordi tra gli associati. Il legislatore si occupa
soltanto dei rapporti coi terzi, ma non si occupa mai del rapporto interno.
L'associazione è veramente l'istituzione regolata soltanto dal contratto, ma
non come nel contratto di vendita e di appalto dove c'è fior fior di norme che
si applicano come un "block" alle operazioni economiche che facciamo.
Semplicemente non si dice nulla, non ci sono norme supplettive. L'associazione
privata è relegata nell'insignificanza giuridica. Conosciamo tutti benissimo la
battaglia rivoluzionaria di contro le varie associazioni, siano esse ecclesiastiche
o sindacali. Quindi la chiesa viene assimilata ad un club di tennis, così come
lo saranno sostanzialmente i partiti politici, nonostante il loro enorme ruolo.
Con la conseguenza, un po' paradossale, per cui quando rapiscono il presidente
della Democrazia Cristiana, cosa rapiscono? Rapiscono l'equivalente, per
l'ordinamento, di un presidente di una società di tennis e di cannottaggio,
senonché sappiamo che questa è una grande ipocrisia, e che non è affatto così.
Ma questa impostazione era, in realtà, un progetto politico, per ridurre la
chiesa ad un club di tennis, e tuttavia un club di tennis dotato di
soggettività internazionale, cui si riconosce, se non altro per ragioni di
opportunità politica, di essere un soggetto di diritto alla pari degli Stati Uniti
d'America, alla pari dell'Impero Turco, ma allora è evidente che questa
soluzione è traballante in sé; e, infatti, condurrà, come sviluppo inevitabile,
alla costituzione dello Stato della Città del Vaticano. Laddove tra Stato della
Città del Vaticano e Santa Sede si realizza un'unione reale, secondo la
definizione dei giuristi, in quanto l'organo supremo dell'uno e dell'altra è lo
stesso organo, non in virtù di una mera concordanza personale, ma in virtù
della realizzazione dei suoi scopi istituzionali, e quindi di una vera
necessità delle cose. Ne segue che il problema dei rapporti fra Stato e Chiesa
è interessantissimo, dal punto di vista della metafisica del diritto, proprio
all'interno dello Stato della Città del Vaticano.
Come, allora, i due capisaldi di Minghetti vengono tenuti insieme? Io direi
soprattutto in virtù della "mitologia".
Il primo mito, che domina il pensiero liberale sel suo secolo, è quello secondo
cui la separazione fra Stato e Chiesa è un portato della razionalità dello
Stato laico moderno. E' lo Stato laico che si costituisce come tale e ha
bisogno perciò di separarsi dalla Chiesa e assumere piena giurisdizione sul
diritto. La versione più nota e complessa di questo mito è naturalmente offerta
nella già ricordata Filosofia del diritto di Hegel. Se noi ben guardiamo al di
là di questa mitologia, possiamo renderci conto di come la separazione dei due
dominii, giuridico-mondano ed ecclesiale, sia in realtà molto più enracinée
nella nostra cultura, e lo dice molto bene Paolo Prodi, riprendendo la teoria
di Harold J. Berman dell'82, e cioé la duplicità dei fori che si crea in
Occidente col separarsi della chiesa dall'insieme dei doveri e delle sudditanze
feudali.
La chiesa di Gregorio VII non vuole l'investitura feudale dei vescovi, che
erano vescovi conti, vescovi principi, marchesi, perché non vuole sottostare al
potere feudale, e vuole essere al di fuori di questo sistema di fedeltà : ciò
che veramente attua la separazione dei due ordini è la riforma Gregoriana. La
riforma Gregoriana crea anzitutto, per la prima volta nella storia dell'umanità
un ordinamento giuridico in senso moderno, giacché il primo ordinamento
giuridico europeo nel senso moderno è quello della Chiesa. Maestro Graziano,
per tutti, è il costruttore della "stufenbau" cioé della gerarchia
delle norme, della teoria moderna delle fonti del diritto, e saranno gli Stati
europei a copiare tale modello di organizzazione: la Chancery del Re
d'Inghilterra copierà la cancelleria del Papa, i cui brevis diventeranno i
writs del diritto inglese, e così via. Forse questa duplicità di fori, che si
crea con Gregorio VII, non è un risultato voluto, ma il fallimento di un
tentativo teocratico.
Però questa duplicità dei fori, che si crea comunque per iniziativa della
Chiesa, é in realtà, badate bene, coessenziale alla civiltà occidentale, perché
questa pluralità dei fori è unica della civiltà occidentale. Certamente non si
realizza nell'Islam, dove la Sharia, e la stessa rivelazione divina, è la base
della legge del diritto. Non si realizza neanche nella Cina confuciana, dove
anzi il tratto giuridico scompare addirittura, a favore dell'elemento
moraleggiante, e burocratico, che amministra le regole giuridiche sulla base di
una ricopertura filosofica di Stato, ma con frammittenze religiose costanti. La
nostra immagine della Cina deve molto all'orientalismo dei lumi. Voltaire, ma
anche Rousseau(2) , utilizza spesso la Cina come contraltare della Francia dei
suoi tempi, piena di preti e gesuiti: la Cina Repubblica di atei laici, esempio
di morale. Un'immagine ideologica, giacché sappiamo che l'imperatore in Cina
aveva funzioni religiose enormi. Era lui che poteva sacrificare al cielo, che
poteva iniziare i raccolti e così via, tant'é che non a caso per la Città
proibita, come è noto, si creerà un arrengement molto simile a quello della
Città del Vaticano. Quando Yuan Shi Kai attua la prima Rivoluzione Cinese, nel
1912, concede praticamente alla città proibita uno status indipendente(3), così
che fuori delle sue mura c'è una Repubblica, ma all'interno c'è un imperatore
come rex sacrificulum, cioé un re addetto alle funzioni religiose , senza le
quali la vita cinese non potrebbe procedere.
Una vera pluralità di fori non si realizza neanche nell'Ortodossia con la sua
impronta cesaro-papista , né si realizzerà compiutamente nelle chiese nazionali
protestanti e nei loro rapporti costanti con lo Stato. Tale pluralità dei fori
che fa così parte della nostra cultura occidentale, della "Western legal
Tradition" , è proprio un lascito del Cattolicesimo romano, e ce la
dobbiamo tenere cara, perché, giustamente, la pluralità dei fori contrasta
l'attuale evoluzione verso un "diritto a una sola dimensione". Cioé
del diritto che si occupa di tutto, il che poi in termini pratici significa che
tutto può essere portato nell'aula di un giudice: dalla ricetta del medico,
all'affetto familiare, al modo che i genitori hanno di educare i figli,
sottraendo tutto ciò all'etica,e alla morale per affidarlo al giuridico. La
nostra civiltà, in virtù di evidenti trapianti di modelli culturali
dall'America, và in direzione del diritto ad una dimensione, rischiando di
perdere, in realtà, quella pluralità dei fori che è un suo tipico elemento
distintivo.
Allora che dire in conclusione? Che la questione del rapporto Stato-Chiesa così
come è impostata dal pensiero liberale, e quindi da Minghetti, conduce a
considerare la Chiesa come associazione privata, libera, ma di diritto
internazionale, con l'arrière à penser che tutto ciò sia una creazione della
razionalità laica dello Stato moderno. Questa impostazione a me sembra una
classica operazione ideologica, nel senso di ideologia come sostituzione di un
mito alla realtà.
La Chiesa non può essere considerata una associazione privata: questo è un
errore di fondo del pensiero. Un errore ancora più grave in bocca ad un
cattolico che a un laico. Un laicista può ancora pensare di operare affinché la
Chiesa sia ridotta al rango di un'associazione privata. Ma un cattolico non può
pensarlo(4). La visione stessa quindi di ridurre la Chiesa ad un'associazione è
una pecca del pensiero liberale, sia laico che cattolico. Può essere un
progetto, ma non una descrizione.
Si badi all'importanza che questa riflessione assume ai nostri giorni per la
ridefinizione dello spazio europeo. Ebbene questo Cattolicesimo romano, in
senso forte per distinguerlo dal Cristianesimo, questo Cattolicesimo romano è
alla base di buona parte della civiltà dell'Europa Continentale, ivi compreso
la Germania, che ha una storia protestante negli Sati del Nord, ma sicuramente
profonde radici cattoliche in quelli del sud. Questo cattolicesimo romano
dobbiamo tenercerlo caro, anche da laici perché noi comunque di questi quadri
viviamo, di essi é fatta la nostra cultura, di queste piazze, di queste chiese,
e questo retaggio ha una sua notevole importanza nel tipo di civiltà che
andiamo a creare, sopratutto rispetto alla civiltà americana, dove invece il
cattolicesimo romano si pone in modo diverso, perché ovviamente è una delle
tante chiese, una delle tante sette, e come tale viene trattata(5).
Questo cattolicesimo romano è essenziale su un punto: si pensi alla definizione
della dignità umana cardine della carta dei diritti europea; una classica
"battaglia di parole" da intellettuali, ma in cui gli intelletuali
americani hanno dimostrato di avere i nervi scoperti. Whitman di Yale scrive
ora un articolo per ipotizzare una continuità tra il concetto europeo di
dignità umana e quello nazista di onore(6). McCormick, sempre di Yale, ipotizza
una continuità nell'ideea di Europa come Grossraum tra Carl Schmidt e
Adenauer(7). Naturalmente salta agli occhi come questo sia un modo antagonista
e ideologico di procedere. Quanti autori, o singoli pensatori, hanno concepito
l'idea di Europa come Grossraum? Isolare Schmidt e Adenauer, e utilizzare l'etichetta
tedesca, invece di una banale etichetta come Enlarged Space, o Grand Espace, è
un modo per gettare un dubbio sull'operazione della stessa costruzione
dell'Europa intorno a questa concezione. Lo stesso valga per l'accostamento tra
Onore nazista e Dignità umana. Infatti se c'é un concetto giuridico che non
comapre nel Bill of Rights americano è quello della dignità umana(8). Vi
compaiono quasi tutti i concetti giuridici di libertà: il cittadino non può
essere conculcato nel suo diritto a portare liberamente armi, il congresso non
può varare una legge per far sì che un cittadino debba ospitare in casa sua, a
sue spese, un soldato della milizia; vi è anche una concezione molto ampia del
free speech , molto più ampia di quella europea; però il concetto di dignità
umana fa saltare i nervi nel dibattito intellettuale normale fra europei ed
americani, dimostrando l'esistenza di una tensione e una rivalità, che fino a
due anni fa erano insospettabili ed insospettate.
Questi rilievi assumono particolare rilevanza rispetto all'adesione verso il
modello americano sempre mostrata dal Minghetti. Un'adesione condizionata dagli
stessi crittotipi che hanno portato all'edificazione del mito americano
proposta da Tocqueville. Un mito che in fondo noi accettiamo come dato,
sopratutto all'interno del pensiero liberale; ma che si dovrebbe rivedere. Chi
altri se non Tocqueville, all'epoca, credeva veramente che l'America fosse la
democrazia principe nel mondo? Quale statista inglese, quale statista francese
dell'epoca lo avrebbe pensato ? Nemmeno gli storici americani lo pensano. Gli
storici americano adorano il periodo che giunge fino a Monroe, l'era dei buoni
sentimenti, ma il periodo in cui trionfa il mito coniato da Tocqueville non
l'adora nessuno: era quello di Tammany Hall, il periodo in cui New York era
amministrata soltanto sulla base della corruzione politica, l'epoca della legge
al di là del Pecos. La democrazia americana era un mito. Tocqueville, e il
liberalismo di fine '800, ivi incluso quello di Minghetti, hanno trasformato un
processo molto duro e molto brusco nel modello per eccellenza della democrazia,
quando ci sono invece molti altri modelli di liberalismo, da quello francese a
quello tedesco, che potrebbero essere ripresi in considerazione con vigore e con
interesse.
Ciò dimostra, ancora una volta, la forza e la permanenza dell'impostazione di
Minghetti nel dibattito italiano, ma mostra pure la via di una sua critica, e
di un suo superamento.
1 Magistrale ad
esempio sul punto il modo in cui il Mortati affronterà la medesima questione.
2 Il cui pensiero sembra quasi ricalcato sui primi versi del "Classico dei
tre caratteri" o San Zi Jing (cfr. l'edizione a cura di Wang Ying Lin,
Milano, 1999), libro su cui generazioni di giovani cinesi sono stati edicati
fino alla Rivoluzione culturale, e la cui prima rima si esprime nel modo
seguente "La natura delgi uomini all'origine è buona ed onesta. Gli uomini
sono simili per attitudine e temperamento, ma differiscono per le
abitudini". Sull'orientalismo nella cultura europea cfr. ovviamente Edward
W. Said, Orientalism, New York, 1979, ed in particolare su Voltaire e Rousseau
v. pp. 76 s., 119, 125, 138 et passim.
3 Sul punto cfr. Reginald F. Johnston, Twilight in the Firbidden City, Oxford,
1934, p. 78 ss., 95 ss.
4 Per puri motivi di sostegno della gerachia ecclesiastica nei confronti di
Hans Kueng, Arturo Carlo Jemolo giunse ad adottare la teoria della Chiesa come
"club di tennis" sostenendo che una associazione privata può
espellere chi vuole secondo le proprie regole, senza che altri abbia a
lamentarsene. Ma come può la Chiesa in quanto luogo in cui si manifesta
l'assistenza dello Spirito essere considerata come una associazione in cui si
espellono i membri indisciplinati. Semplicemente la Chiesa, luogo della rivelazione,
e dell'assistenza dello Spirito, non è nella disponibilità delgi uomini: non è
retta dagli "accordi tra gli associati". Questo potrà esser vero solo
d'una setta che, appunto, si ponga al di fuori della tradizione e della
"successione" apostolica.
5 Naturalmente io mi rifiuto di considerare gli anglicani dei veri protestanti,
venendo da famiglia protestante. Gli anglicani non sono protestanti, sono
cattolici che disconoscono la pienezza dell'autorità della Curia romana, ma
sono cattolici in tutto, nel modo di pensare. Infatti non ho mai capito come
Weber abbia potuto far passare la tesi che il protestantesimo ha a che fare con
la nascita del capitalismo, visto che esso nasce in ambiente anglicano, dove di
protestantev'era ben poco
6 James Whitman, From Nazi "Honor" to European "Dignity",
Paper for the Workshop at the European University Institute, 29 - 30 Sept.,
2000.
7 John P. McCormicck,
Carl Schmitt and Europe, ", Paper for the Workshop at the European
University Institute, 29 - 30 Sept., 2000.
8 È lo stesso J. Whitman, op.cit., 1, a rilevare che "This drive for
"dignity" has given a distinctive shape to European Law, setting it
sharply apart from the laww of the United States in particular", per
proseguire però dicendo "But does contemporary European "dignity"
really represent such a clear break with Fascism? When we look closely at the
record, the story il messier that one might like" <sic>.
* Professore
ordinario di Sistemi Giuridici Comparati Università di Torino
A centoventi anni
dalla prima edizione, I partiti politici e l'ingerenza loro nella giustizia e
nell'amministrazione (Zanichelli, Bologna, 1881) meritano una rilettura. Della
Destra Minghetti era stato l'ultimo Presidente del Consiglio, ma fu grazie a I
partiti che si percepì in Europa come e perché la stagione di quella Destra
fosse ormai esaurita. Il libro dimostrava quanto certe trasformazioni ci
fossero state e fossero state profonde, ma anche fossero esagerati certi timori
(sulla fine della libertà parlamentare, sul potere dittatoriale delle cosiddette
macchine di partito, sul carattere "plebiscitario" del liberalismo
organizzato e via dicendo).
Minghetti faceva oggetto delle sue riflessioni di politica costituzionale le
nuove realtà dei partiti. Ma sottolineava parimenti l'attitudine del vecchio Stato
liberale a non farsene travolgere, ma anzi a farsi sempre più Stato e sempre
più liberale. Nonostante i partiti, o magari proprio grazie ai partiti, avevano
potuto radicarsi in occidente la centralità dei parlamenti, i compromessi
all'interno di essi, la continuità delle classi dirigenti più salde
(tradizionali o rivoluzionarie che fossero).
Libro concepito e realizzato al modo di un "classico" della storia
del pensiero politico, quello di Minghetti aveva preso avvio da un "fatto
personale". Francesco De Sanctis aveva denunciato argomenti e toni
offensivi del Parlamento in un discorso del "trasformista" Minghetti
del gennaio del 1880 e Minghetti ritenne doveroso replicargli. Come si addice
alla trattazione di un fatto personale, secondo la sua replica si svolse tutta
e soltanto sul piano generale dell'analisi politica e dell'indagine
storiografica.
Forse anche per questo, nella Commemorazione, fatta insieme a Ruggero Bonghi
nel 1887, Francesco Crispi ebbe a definire Minghetti "il più nobile
cavaliere del Parlamento italiano". Ed è difficile ancor oggi sfuggire al
peso di tale definizione, nel ricostruire la stagione e l'occasione in cui nel
1881 apparvero I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e
nell'amministrazione.
"Questo libro - si legge nella sua Prefazione - ebbe origine da un fatto
che in linguaggio parlamentare chiamasi fatto personale; poiché taluni
giudicarono che in un discorso pubblico da me tenuto a Napoli l'8 gennaio 1880
vi fosse offesa alle prerogative del Parlamento. Laonde a me parve necessario
di spiegare più chiaramente i miei concetti, e di mostrare che lungi dal voler
menomare il prestigio delle nostre istituzioni, io ero sollecito di preservarle
da ogni corruzione. E non avendo potuto farlo colla parola viva dinanzi ai
deputati nella Camera, pensai di supplirvi collo scritto. Che se mi mosse un
sentimento di legittima difesa, pure ho cercato di serbarmi nei limiti della
massima temperanza; e se il lettore trovasse ciò nonostante qualche traccia di
pungente o di amaro, sappia che ciò è contrario ad ogni mia intenzione. Quello
che ho dovuto fare per necessità si è di soffermarmi alquanto lungamente sul
fatto personale. Ma pigliando quinci le mosse, ho inteso principalmente di
esaminare un quesito generale dei più importanti e dei più ardui nelle scienze
politiche: tanto più arduo in quanto che solo ora comincia ad essere studiato,
ma nei più cospicui trattati di Diritto costituzionale non se ne trova quasi
menzione.
Il problema è il seguente: - In qual modo si possa assicurare la imparzialità
nella giustizia e nell'amministrazione sotto un governo di partito - giovi
dichiararlo più distintamente. Il Governo costituzionale, e più ancora il
governo parlamentare, quale oggi prevale agli altri in molte parti dell'Europa
e dell'America con varie forme, è sempre un governo di partito. Esso come ogni
umana cosa ha pregi e difetti che gli sono inerenti, e per l'indole sua stessa
inevitabili, quand'anche il partito che governa si tenga strettamente nella
cerchia dell'azione politica. Ma ogni partito tende naturalmente ad uscirne e
ad esercitare un'ingerenza indebita nella giustizia e nell'amministrazione, e
ciò al fine di conservare e di estendere la sua propria potenza. Gli effetti
che da questa indebita ingerenza derivano sono gravissimi, e producono
perturbazioni e iattura ai diritti e agli interessi dei cittadini che le
istituzioni libere sarebbero invece destinate a tutelare".
L'orizzonte di
Minghetti nei I partiti è ben più ampio, come si vede, di quel profilo della
giustizia dell'amministrazione, che il suo discorso di Napoli del gennaio aveva
tracciato e che sarebbe stato poi sviluppato a Bergamo il 7 maggio da un
discorso di Silvio Spaventa, destinato a diventar più famoso di quello di
Minghetti a Napoli, proprio perché, appunto, più circoscritto. Ma non si tratta
soltanto di un orizzonte più ampio.
Evocata da Minghetti e recepita da Spaventa, la giustizia dell'amministrazione
era un tema di assai più facile acquisizione intellettuale e politica rispetto
a quello dei partiti e dell'ingerenza loro. Sia in Italia, sia in Europa, sia
nella comparazione fra sistemi americani ed europei, di un diritto naturale dei
partiti a farsi diritto costituzionale il liberalismo del secolo XIX stentava a
trovare la consapevolezza e la determinazione fatte valer su questo terreno dal
costituzionalismo di Hume e di Burke nel secolo XVIII.
Tocqueville, certo, aveva considerato i partiti "un male dei governi
liberi" e guardato ai "grandi partiti" rispetto ai "piccoli
partiti" con lo stesso occhio col quale Hume e più ancora Burke avevano
contrapposto i partiti alle fazioni. Lo avrebbe riscontrato Nicola Matteucci in
un lavoro del '68 nel primo numero de "Il Pensiero Politico"
specificamente dedicato a questi aspetti del pensiero di Tocqueville. Ma non
c'è dubbio che nel 1881 I partiti di Minghetti andassero assai più avanti di
Tocqueville, cioè più indietro, nel tempo: ad incontrare proprio il
costituzionalismo britannico del secolo precedente nelle sue più profonde ed
incisive intuizioni. Burkeana, oltre che esplicitamente antirousseauiana, la
sua definizione del partito: "una spontanea unione di uomini che si
adoperano a conseguire il fine del bene generale qual è da loro inteso, e con
mezzi legittimi". Burkeana, dettata da empirismo non volgare, anche la sua
preoccupazione di "indebite ingerenze" in grado di manifestarsi
"là dove il reggimento costituzionale non si svolse storicamente per una
serie lunga e non interrotta di ampliazioni e di adattamenti, ma successe di
subito a un reggimento assoluto, sia che lo Statuto venga ottriato dal Principe
stesso o strappato da impeto popolare". Burkeano il riconoscimento di una
connessione fra partiticità e vitalità delle tradizioni politiche: "laonde
non bisogna credere, come certe anime timide, che i partiti politici siano una
debolezza, malattia nello Stato moderno: imperocché sono al contrario segno di
vita, sana e forte. Il non appartenere ad alcun partito non è virtù del
cittadino, e il dire di uno statista che è estraneo ai partiti non è lode ma
biasimo".
Certo, in Italia, a differenza che in Gran Bretagna, come era chiaro a
Minghetti, la questione dei partiti era ancora impregnata di valori, scelte,
problemi, riconducibili alla rivoluzione nazionale. Parlamentari,
extra-parlamentari, anti-parlamentari, i partiti esistenti eran difficilmente
accreditabili nel nostro paese come i migliori strumenti per governare la
costituzione: alcuni sarebbero potuti apparire cavallo di Troia delle forze
anti-sistema; altri di ciò ne avrebbero potuto approfittare per teorizzare e
praticare eccessi di "ingerenza". La ricerca di "onorevoli
connessioni" fra loro recava in sé il rischio di contaminazioni
incestuose, stante la gracilità dello Stato liberale e la precarietà degli
stessi soggetti politici.
Minghetti non è che neghi, o sottovaluti, tutto questo. Ma alla questione dei
partiti, almeno dal punto di vista della "scienza politica", non
intende affatto rinunciare. "La questione - per lui, come piace constatare
a Paolo Pombeni - di che cosa siano o debbano essere i partiti è una questione
del sistema politico liberale in quanto tale e non di componenti isolate".
Non gli mancava consapevolezza di come, quanto, perché fosse arduo trasferire
nell'Italia del 1876-'81 la Gran Bretagna dei governi Walpole. Neanche in Gran
Bretagna, del resto, gli "old whigs" di burkeana memoria potevan
ormai più ergersi a garanti della "costituzione", intesa nel senso di
"country-tradition".
La politica in Europa, aveva compreso Minghetti, per esser politica liberale,
nella seconda metà del XIX secolo, doveva farsi carico di giustificare se
stessa da sola, non potendosi più supporre che questa giustificazione fosse
qualcosa di percepibile da tutta la comunità nazionale: in Gran Bretagna in
forza della "Glorious Revolution" del 1688, in Italia in forza della
proclamazione del Regno del 1861. Nel 1848 si era avvertita, per un verso, una
fortissima inattesa ed inedita dimensione extraparlamentare della politica e,
per altro verso, l'emergere di un conservatorismo politico, ben diverso da
quello dei vecchi "court-parties", cioè delle solidarietà
istituzionali delle antiche classi dirigenti.
Per diventare, o ridiventare, strutture naturali della politica nazionale, gli
stessi partiti inglesi si ridisegnano, si rimescolano, si ridefiniscono, in una
stagione segnata da una sequenza di riforme elettorali (1832, 1867, 1884/5),
non priva di implicazioni di teoria politica sul loro ruolo, ambito, limite6 .
Fin dai primi anni cinquanta, grazie all'aver potuto far conoscenza a Londra di
Palmerston, Gladstone, Russel, il citoyen d'Europa Minghetti si sente partecipe
di questi decisivi passaggi della "scienza politica".
Nella storia del costituzionalismo italiano, Minghetti ed Arcoleo rimarranno
fra i pochi (insieme ai Balbo e ai D'Azeglio, prima di loro, non certo ai Mosca
e agli Orlando, dopo di loro) a considerare i partiti politici come il maggior
elemento di originalità e ad un tempo di classicità del modello costituzionale
inglese e, quindi, fra i pochi ad esser a loro modo nel loro tempo scienziati
della politica. Si pensi alla definizione di "scienza della politica"
avanzata da Gaetano Arangio-Ruiz nella prefazione alla sua storia
costituzionale italiana del 1898, dove si parla di lavoro "diretto a
trarre dai fatti storici l'ammaestramento per i suoi giudizi, per le proposte
di riforma da apportare alle leggi ed alle istituzioni, al fin di eliminare i
mali, di far più rifulgere i pregi"
Il che è per l'appunto quanto Minghetti faceva nel 1881. La sua terapia seguiva
una triplice direzione: diminuire le attribuzioni dell'amministrazione,
lasciando ampio margine alla libertà individuale ed alla iniziativa privata;
decentrare l'amministrazione, in modo che essa fosse compiuta localmente o da
enti autonomi; infine, ammettere i ricorsi contro l'amministrazione stessa, da
giudicarsi e risolversi in una sede giurisdizionale indipendente, una sorta di
tribunale amministrativo supremo sul modello austro-ungarico. Egli giungeva
così a far intravvedere e sentire operante, con la cautela di non pervenire mai
a definirlo, un vitale nesso tra Amministrazione e Costituzione. Entrambe,
ovviamente, a lettere maiuscole.Il che si doveva fare per tener conto, senza
farsene "ricattare", del fatto storico della rivoluzione nazionale
italiana, che aveva appena abbandonato gli assetti assolutistici per introdurre
forme di governo rappresentativo.
"Questa transizione, però, non era stata senza difficoltà, rilevava tre
anni fa un politologo come Carlo Guanieri, nell'Introduzione alla più recente
edizione italiana de I partiti, apparsa nel gennaio del 1997 per iniziativa di
Società Aperta, undici anni dopo gli Scritti Politici, curati da Raffaella
Gherardi. I nuovi ordinamenti avevano dovuto non solo superare l'opposizione di
coloro che si sentivano legati ai passati regimi, ma soprattutto confrontarsi
con istituzioni, come l'amministrazione, create e sviluppate dai regimi
assoluti. Si trattava di un compito estremamente delicato, anche perché,
secondo la tradizione prevalente in Europa continentale, anche la giustizia,
benché con i suoi caratteri specifici, era collocata all'interno degli apparati
amministrativi" .
Sicchè, proprio il tema della "giustizia nell'amministrazione" -
minghettiano, spaventiano, della Destra storica italiana (seppur poi la Quarta
Sezione del Consiglio di Stato avrebbe visto la luce in tempi successivi, col
governo Crispi) - esigeva un nuovo raccordo fra Amministrazione e Costituzione:
perché l'una non fosse né potesse sentirsi "corpo separato" rispetto
all'altra. Accanto al saggio di Minghetti, il 1881 registrava, con lo stesso
timbro, pure quello di Giorgio Arcoleo, Il Gabinetto nei governi parlamentari,
che faceva anch'esso rientrare a pieno titolo i partiti nella dinamica della
forma di governo.
I libri di Minghetti e di Arcoleo reinserivano il costituzionalismo di Burke
nella Gran Bretagna del secolo XIX, riconnettendo al volto dei partiti il volto
di quella peculiare istituzione politica che ormai, alla fine dell'ottocento,
improntava di sé tutto il sistema inglese: il Gabinetto. All'Inghilterra dei
partiti, quella di Gladstone e Disraeli, radicatasi un secolo e mezzo dopo
quella di Walpole e Bolingbroke, l'anziano statista bolognese e il giovane
studioso siciliano erano arrivati grazie ad una intensissima e appassionata
consuetudine con la dottrina tedesca, attingendo a Blüntschli (tradotto a
Napoli negli anni settanta), a Röhmer, a Gneist (Arcoleo anche a Laband).
Se si prende come termine a quo la sconfitta elettorale subita da un governo in
carica (quello del duca di Wellington nel 1830) e come termine ad quem
l'instaurarsi definitivo e generalizzato di un tipo di lotta politica che
facesse del risultato elettorale il cardine del sistema (come dalla metà degli
anni '80), la vicenda politica e costituzionale britannica offre uno sviluppo
sempre più costituzionale dei partiti e sempre più partitico della
Costituzione. Si assiste ad una sempre più accentuata rivalutazione
dell'esecutivo, come momento squisitamente politico del government, già
affiorato nel precedente costituzionalismo liberale ed ora lucidamente descritto
dai classici Elements of Politics di Henry Sidgwick del 1891 (che sarebbe
davvero ingiusto ed ingeneroso non vedere largamente e non in superficie
anticipati dieci anni prima dai libri di Minghetti su I partiti e di Arcoleo su
Il Gabinetto).
Perfino in Inghilterra al principio degli anni '40 la realtà dei due partiti
storici sembravano più un portato della tradizione ideale che un effettivo dato
politico ed organizzativo. In Parlamento l'instabilità delle appartenenze era
la regola. Gli stessi Gladstone e Disraeli, prima di divenire simboli di
liberalismo aperto il primo e di conservatorismo popolare l'altro, avevano
vissuto appartenenze diverse ed incerte. Fra il '48 e gli anni '70 in Europa
l'irrompere in politica di "nouvelles couches", per usare la fatidica
espressione di Gambetta11, non aveva risparmiato l'Inghilterra, i suoi partiti,
il suo parlamentarismo, la sua società.
Se esiste un sistema costituzionale europeo, nel senso in cui ne parla Paolo
Pombeni, esso implica per i partiti politici "l'assegnazione di un ruolo
preciso e definito alla loro azione ed il consenso su una loro funzione
certamente positiva". Dalla legittimità di una libertà delle opinioni si
deve dedurre la legittimità di una loro istituzionalizzazione permanente. Almeno
due capitoli, il ventottesimo ed il ventinovesimo (intitolato Parties and party
government), degli Elements di Sidgwick del 1891 avrebbero già potuto leggersi
sui libri di Minghetti e Arcoleo del 1881.
"Il concetto del Gabinetto in Inghilterra - si legge in una pagina de I
partiti di Minghetti, che si direbbe scritta a quattro mani con l'Arcoleo de Il
Gabinetto - fu opera lenta, e ognor progressiva durante due secoli. Come ben
osserva il Gladstone: la teoria del governo misto e dei tre poteri, trasmessaci
dagli antichi e soprattutto da Cicerone è troppo fredda e cruda, né corrisponde
all'indole della costituzione inglese, mancandovi un elemento conciliatore, una
specie di organo di compensazione, che mantenga in bilancia le forze politiche,
le coordini fra loro, e le indirizzi ai fini del civile consorzio....Il
gabinetto è forse la più singolare creazione del mondo politico nei tempi
moderni, non per la sua dignità, ma per la sua sottigliezza, elasticità e
varietà, ed apparisce come il complemento di un intero sistema: sul quale
sembra poter sfidare tutti i pericoli anche nelle età future, né a tale scopo
altro richiede che una perfetta lealtà, e una discreta intelligenza in coloro
che lo adoperano. Questa istituzione che ha tanta parte nella vita politica inglese,
agisce per tacito consenso, senza che la legge scritta o la costituzione
contengano pur un verso che determini le sue relazioni col monarca, col
parlamento e colla nazione, né tengono le relazioni dei suoi membri fra loro e
col loro capo. Essa non fu il portato di un'idea preconcetta, né l'attuazione
di un disegno filosofico o di un principio astratto; ma l'azione lenta di forze
invisibili gli diede la struttura che il mondo oggi ammira. Crebbe senza
rumore, e si può dire di essa quel che il poeta dice del tempio di Gerusalemme:
non risuonarono acciai battenti del pesante martello, ma il superbo edificio
sorse come una palma gigantesca. Ora questa istituzione mentre dà maggior unità
e consenso a tutti gli atti del governo, per quanto riguarda la questione che
trattiamo, ha reso e tende a rendere più equa e temperata l'azione di
ciaschedun ministro, e ad attutire in esso gli spiriti partigiani che
deploriamo" .
Ritornare col
lessico dei nostri giorni al Gabinetto come istituzione di party government,
che i Minghetti e gli Arcoleo indicavano nel 1881 come forma irrinunciabile di
parliamentary government, non è affatto difficile. Una partiticità esplicita e
visibile doveva subentrare ad una partitocrazia implicita e invisibile. D'altro
canto, questo soprattutto aveva significato Gladstone e la sua idea del
Gabinetto nella trasformazione e ricomposizione del liberalismo d'oltre Manica
in quegli anni.
Cavouriano impenitente, Minghetti aveva continuato, negli anni seguiti alla
morte di Cavour, a coltivare simpatia intellettuale per Gladstone. Riferimenti
continui a Gladstone, Macaulay, Burke rendono I partiti di Minghetti un libro
di trasparente filosofia whig, nella stessa accezione per cui Hayek, ne La
società libera, amava anch'egli definirsi un old whig, al quale sarebbe
piaciuto poter ancora "parlare con lord Acton di Burke, Macaulay e
Gladstone come dei tre più grandi liberali".
Proponendosi la trasformazione e ricomposizione dei partiti storici italiani,
di quella Destra e di quella Sinistra legate al piccolo mondo antico del
parlamentarismo subalpino, ma certo incomparabili ai "nuovi" vecchi
partiti politici del grande mondo moderno britannico, Minghetti incontrò un
singolare destino. Gli toccò di favorire quel fenomeno di formazione
contingente delle maggioranze sulla presidenza del consiglio che prese il nome
di "trasformismo"; gli toccò di avere come inflessibile oppositore
del trasformismo proprio quel Crispi, destinato poi fra il 1887 e il 1896 a
fare del criterio della centralità del presidente del consiglio una sorta di
principio "monarchico" di garanzia dello Stato nazionale; gli toccò,
insomma, anticipare nelle sue pagine del 1881 tutte le pene (crispine,
giolittiane, fasciste, democratiche) sofferte dall'Italia a trovare un proprio
ubi consistam di costituzionalismo liberale.
La lotta contro l'uso partigiano della giustizia e dell'amministrazione aveva
per Minghetti l'obiettivo di garantire i diritti di libertà dei cittadini. A
tenere il potere del governo - e del parlamento da cui trae la sua investitura
- il più possibile distinto e separato da quello dell'amministrazione, e
soprattutto della giustizia, lo aveva guidato la preoccupazione di una
pericolosa concentrazione di potere in capo alla maggioranza politica:
preoccupazione in comune con i grandi liberali del secolo, da Tocqueville a
Mill.
Nefasta gli pareva già allora la spinta dei partiti a controllare
l'amministrazione al fine di adoperarla per mantenere ed espandere il consenso
elettorale; perniciosa l'idea di mettere l'amministrazione della giustizia in
diretta concorrenza con le altre istituzioni, allargando smisuratamente i
confini della responsabilità penale a scapito di quelli della responsabilità
politica. E non c'è dubbio che l'ascesa e la discesa dei partiti di massa
nell'ultimo cinquantennio italiano ci abbia fatto vivere molte delle
degenerazioni paventate da Minghetti. Ivi compreso quel perverso sconvolgimento
di ogni costituzionalismo liberale, che egli avrebbe voluto esorcizzare in
forza del Gabinetto all'inglese, quando ad una prassi di mediazione delle
questioni politiche riguardanti rapporti, accordi e contrasti tra i partiti
operata dal governo andò subentrando una prassi di mediazione delle questioni
di governo e dei rapporti, accordi e contrasti che esse comportano operata dai
partiti.
De te fabula narratur: sembrano dire, a centoventi anni di distanza, le
considerazioni di Minghetti rispetto ad una storia che ha visto il più
imperioso apogeo (fino al più scomposto declino) dei partiti di massa,
l'arrembante esorbitanza di pubblici ministeri autonominatisi giudici in forza
di poteri impliciti (fino alla dottrina e prassi della ricerca esplicita del
consenso) nell'esercizio della azione penale. Sull'amministrazione e sulla
giustizia l'"ingerenza loro" si è dilatata fino a registrare negli
ultimi anni, nati molto spesso proprio in seno all'amministrazione, alla
giustizia e, comunque, al di fuori di ogni circuito di democrazia liberale,
l'avvento di "partiti personali": quelli che Hume aveva considerato
tipici del mondo medievale . A rileggere oggi Minghetti la sensazione è di una
storia d'Italia avvitata su se stessa senza mai aver trovato quell'ubi
consistam di costituzionalismo liberale che aveva spinto l'intellettuale
Minghetti sulle orme di Burke, Macaulay, Gladstone, con la stessa loyalty di
cui lo statista Minghetti aveva dato prova nei confronti di Cavour.
All'Inghilterra Minghetti, non diversamente da Spaventa, arrivava attraverso la
Germania. Non tanto tramite l'hegeliano di centro Karl Rosenkranz, il quale in
una nota conferenza del 1843 sul concetto di partito aveva fatto derivare il
partito dal concetto di stato, sicché lo stato sarebbe la forma contenitrice
della libertà etica di un popolo ed il partito strumento dalla dialettica del
continuo perfezionarsi di tale libertà. Ed ancor meno tramite il saggio del
1853 di Robert von Mohl, teso a raccordare integralmente
"partiticità" e "statualità". Piuttosto, tramite quel
maestro di dottrina giuridica, Rhudolf Gneist, che con più acume di ogni altro,
secondo Minghetti, aveva nel 1869 indicato gli effetti di un governo di partito
impiantato sull'ordinamento amministrativo di uno stato monarchico
assoluto.
"Insomma,- era la conclusione che Minghetti deduceva da Gneist, pensando
alla politica costituzionale italiana - allorché si congiunge insieme il
sistema costituzionale inglese col sistema amministrativo continentale non ne
deriva già come in Inghilterra un partito che governa, ma un governo
partigiano, e il ministero non è come in Inghilterra il centro degli
ordinamenti legislativi, ma è lo strumento d'interessi collegati che hanno in
loro balia tutte le forze di un'amministrazione assoluta. Laonde a breve andare
si manifesta la sua impotenza a tutelare il diritto dei cittadini, e per
rimbalzo a mantenere integre le stesse istituzioni politiche, le quali non
bastano da sole a costituire un governo secondo la legge".
Insomma se lo Stato di diritto arretra, si insinua lo Stato etico: magari come
società dei partiti, incapace di farsi Stato dei partiti.
Se è vero che, come volle definirlo Crispi, Minghetti fu "il più nobile
cavaliere del Parlamento italiano", non c'è dubbio che nel 1881 egli si
proponesse di esserlo altrettanto Del governo parlamentare come governo di
partito (per citare il titolo del capitolo primo del libro). Non a caso, I
partiti facevano proprie le parole con le quali si concludeva l'altro libro
edito nel 1881, Il Gabinetto nei governi parlamentari, che parevano anch'esse
scritte a quattro mani da Minghetti ed Arcoleo, a proposito di quel
"difetto nello spirito delle istituzioni più o meno dissimulato dal rapido
e progressivo sviluppo delle forme rappresentative. Ciò che al volgo non pare,
e cerca raggiungere l'ideale suo con l'allargamento del suffragio, con
l'onnipotenza parlamentare, combattendo l'ingerenza dello Stato, la burocrazia,
le tradizioni, la gerarchia, proclamando come diritto fondamentale la
partecipazione di tutti ai poteri pubblici, considerati come mezzi al benessere
di ciascheduno, in modo che l'organismo dello stato medesimo diventi un problema
sociale da risolvere: ma la scienza deve preoccuparsi della instabilità
continua delle istituzioni, della mancanza di senso giuridico della vita
pubblica, del pericolo che la Politica uccida il Diritto... Il problema più
grave delle società moderne è: come accordare un governo secondo legge con un
governo secondo i partiti? Senza la prima attenenza mancherebbe la tutela dei
diritti, senza la seconda mancherebbe la guarentigia delle forme
parlamentari".
A Minghetti le
parole di Arcoleo sembravano una forma di accompagnamento musicale alle sue.
Esse ritmavano il necessario confine fra politica "liberale" e
politica "sociale"; per richiamare l'irrinunciabile distinzione fra
priorità di liberalismo e pressioni della democrazia. La problematica
dell'indirizzo politico, di solito poco presente nei giuristi dell'età
liberale, veniva intuita da Arcoleo nei suoi tratti caratterizzanti lo
svolgimento della forma di governo, peraltro per fissarne argini giuridici in
grado di contenere, appunto, l'"ingerenza loro".
Non dovevano i partiti, rispetto all'ordinamento, diventare istituzioni di
diritto pubblico. Come in Johan Kaspar Blüntschli, a garantire il Diritto dal
non esser ucciso dalla Politica, Minghetti ed Arcoleo credevano che la giusta
imparzialità dello Stato avrebbe parificato e a suo modo pacificato la giusta
parzialità dei partiti. Essi, a voler proseguire con il lessico di Arcoleo, dal
canto loro sarebbero anche serviti a garantire la Politica dal non esser uccisa
dal Diritto. "I più grandi uomini politici romani ed inglesi - aveva
notato Blüntschli - furono sempre magistrati e ministri imparziali, e noti capi
di partito".
Ovviamente, la lettura di Minghetti e Arcoleo dell'esperienza costituzionale
inglese degli ultimi cinquant'anni non coincideva con quella, assai più
incentrata sulla tradizionale dialettica Corona-Parlamento, che sempre in quel
1881 veniva suggerita da Attilio Brunialti. Decisivo per entrambi era il
gladstoniano "quarto potere" del Gabinetto: "pouvoir
conciliateur, una sorte de clearing-house des forces politiques, qui attire
tout a lui,met tout en ordre et en balance". Entrambi, comunque, alla Gran
Bretagna di Gladstone, capace di far respirare all'Europa qualcosa di nuovo,
anzi d'antico, cioè il costituzionalismo di Hume e di Burke, erano approdati
attraverso un sentimento kantiano dello Stato di diritto appreso dalla dottrina
tedesca. Il che, per Arcoleo, era avvenuto per risorse di storicismo insite
nella sua formazione.
Esisteva, secondo Gneist, nella realtà inglese un fondamentale profondo fattore
di equilibrio: l'autonomia nell'applicazione e nell'esecuzione delle leggi.
Tale fattore - Self-government rettamente inteso, al di fuori di ogni
fraintendimento continentale - impediva, e sempre avrebbe impedito, il
degenerare dello "spirito di partito" nel reggimento della cosa
pubblica in "spirito di fazione", arginando ab origine ogni
prepotenza dei vincitori sui vinti, secondo Minghetti.
Il Self-government inglese, concepito nel suo vero senso, non già di
decentramento o di esercizio di locali franchigie, ma d'una obbedienza
spontanea alle leggi generali della "civil society", era il solo
efficace correttivo della "tirannia" delle maggioranze e
dell'alternarsi dei partiti politici al governo dello Stato. E questo modulo
d'amministrazione non toglieva al governo alcuna delle sue necessarie
attribuzioni, né restringeva arbitrariamente la sfera di competenza del potere
centrale. Anzi, esso presentava l'opportunità di consentire una giurisdizione
amministrativa equa e ad un tempo severa, con la quale si esercitava un
controllo permanente su tutti i pubblici funzionari stipendiati ed onorifici.
Tanto il Self-government quanto la giurisdizione amministrativa che ad esso era
sottesa, sviluppata con una vastissima giurisprudenza di precedenti
parlamentari e giudiziari, si trovavano in Inghilterra già radicati nel tessuto
delle istituzioni e dei costumi, prima che la naturale evoluzione del sistema
parlamentare producesse come obbligata conseguenza il governo di gabinetto.
Nella piena sicurezza che l'applicazione della legge non venisse deviata, e
magari fuorviata, in senso partigiano, la nazione inglese poteva rimettersi con
fiducia al governo della maggioranza ed alla competizione fra i partiti.
"La nazione inglese - secondo Gneist - era divenuta nel XVIII secolo su
tali basi una società governantesi da se stessa nel suo intimo organismo. La
fiducia nella volontà arbitraria del re, un tempo così potente, era stata
scossa profondamente dalle gravi colpe degli Stuardi, da quattro cangiamenti di
dinastia, da un abuso senza esempio del potere politico ed ecclesiastico. La
poca importanza della burocrazia e la posizione precaria dell'esercito
permanente accanto all'importanza d'una potente aristocrazia territoriale ed al
diritto delle Camere di consentire il bilancio, posero sempre più il centro di
gravità del Governo nel Parlamento, specialmente nella Camera Bassa.
Ma prima ancora che si affermasse questa onnipotenza del Parlamento,
l'Inghilterra aveva stabilito il Governo giuridico e lo aveva assicurato contro
gli abusi dei partiti politici. Limiti precisi erano stati posti all'ingerenza
dei partiti nel Governo, l'approvazione del bilancio fu sottoposta alla legge,
il controllo del Parlamento nell'amministrazione era limitato dai tribunali e
così si era garantito il carattere di un governo secondo le leggi.
L'interpretazione delle leggi e l'intiera sfera dell'amministrazione interna
furono sottratte all'arbitrio ministeriale.
I capi di partito che dal Parlamento passano nel Consiglio ristretto della
Corona trovano funzioni ben definite, con una giurisprudenza amministrativa
completa, e con una precisa giurisdizione in ogni contestazione amministrativa.
Ogni ministro ha davanti a sé una sfera ben tracciata d'attribuzioni, nella
quale il più zelante uomo di partito non può rendere equivoca la norma
amministrativa, o mutarla altrimenti che per via di legge, cioè col consenso
del re e dell'Alta Camera. Non si cambia una massima, non un copista
nell'amministrazione comunale e provinciale, in seguito al mutarsi dei ministri.
Che un ministero Whig od uno Tory sia al potere, ciò non ha influenza
sull'amministrazione interna del paese".
La storia d'Italia
ha avuto tutt'altro corso.
Settimane addietro, proprio alla riunione a Roma dei circoli di Società libera
del 28 ottobre del 2000 Gianfranco Ciaurro, intellettuale che ha avuto
esperienze ai vertici dell'amministrazione della Camera dei deputati, del
Consiglio di Stato, ministro del primo governo Amato e più recentemente anche
Sindaco di Terni, ha ricordato uno dei casi meno vistosi eppur più ricorrenti
di "ingerenza loro". Si tratta dell'ormai diffusissimo
"bypassare" l'amministrazione con strutture consultive del potere
politico, da esso scelte, retribuite con contratti di diritto privato e per un
arco di tempo che "bypassi" la durata in carica di chi ha titolo a
procedere alle nomine. Minghetti sarebbe inorridito da questo spoil-system
all'amatriciana.
Anche perché lo spoil-system non gli piaceva neanche all'americana. Proprio il
quadriennale "power of public plunder" era fra le ragioni annoverate
da Minghetti a favore della superiorità della monarchia inglese sulla
repubblica statunitense: nella funzione stabilizzatrice, a tutela delle
minoranze, del re costituzionale liberali come Minghetti continuavano a
ravvisare un'importante risorsa di "potere neutro".
Quel "potere neutro" che molti in Italia si dichiarano oggi
orgogliosi di cancellare o di arruolare. C'è chi su "proprie"
strutture consultive costruisce il "proprio" partito personale. Un
politologo come Giuseppe Calise ha posto il fenomeno al centro della sua
analisi della crisi dei partiti "reali" nell'Italia di oggi e
dell'emergere dei partiti "personali". Insomma l'amministrazione
intesa e praticata fuori della costituzione, se non contro la costituzione, è
degenerazione - tutta a lettere minuscole - più attuale che mai.
L'Italia di Minghetti, di Spaventa, della Destra proprio non lo meritava. Del
resto liberali "thatcheriani" e liberali "blairiani" nelle
cronache nostrane imperversano. Sono liberalismi facili. Quello gladstoniano è,
invece, un liberalismo in salita: nel 2000, forse, ancor più arduo che nel
1881.
* Professore ordinario di
Storia delle dottrine politiche LUISS Roma
di Carlo Guarnieri
Se vogliamo, a
distanza di quasi 120 anni, riflettere ancora sulle proposte che Marco
Minghetti avanzava nel suo I partiti
politici e la loro ingerenza nella giustizia e nell’amministrazione,
dobbiamo innanzitutto riassumere, almeno brevemente, il contesto in cui il suo
intervento si colloca. Erano infatti più di 30 anni da che il modello
britannico di governo parlamentare era stato stabilmente introdotto in Italia e
20 da quando l’unificazione lo aveva esteso a quasi tutto il paese. Così, anche
l’Italia era entrata a far parte di quel gruppo di nazioni dell’Europa
continentale, sempre più numeroso, che aveva abbandonato gli assetti
assolutistici per introdurre forme di governo rappresentativo.
Questa transizione, però, non era stata senza difficoltà. I nuovi ordinamenti
avevano dovuto non solo superare l’opposizione di coloro che si sentivano
legati ai passati regimi ma soprattutto confrontarsi con istituzioni, come
l’amministrazione, create e sviluppate dai regimi assoluti. Si trattava di un
compito estremamente delicato, anche perchè, secondo la tradizione prevalente
in Europa continentale, anche la giustizia, benchè con i suoi caratteri
specifici, era collocata all’interno degli apparati amministrativi. La
necessità di cogliere la favorevole congiuntura internazionale per unificare il
paese - ma insieme anche la fragilità del risultato raggiunto - aveva spinto la
classe politica liberale a subordinare a questa impresa tutti gli apparati
dello Stato. L’ascesa al governo della Sinistra, nel 1876, pur contribuendo ad
allargare la base di consenso alle nuove istituzioni, non sembrava aver
prodotto le conseguenze positive attese dall’alternarsi di partiti diversi alla
guida del governo. Anzi, di lì a poco, anche di fronte alla pressione delle
forze rimaste estranee al regime costituzionale, la divisione fra Destra e
Sinistra cominciò progressivamente a sfumare, facendo venire meno in Parlamento
una chiara distinzione fra maggioranza e opposizione.
Sui caratteri della politica nei regimi parlamentari Minghetti, in polemica con
molti dei suoi contemporanei, è netto: la politica dei sistemi che hanno
adottato la forma parlamentare è politica di partito o, meglio, il governo di
partito è in questi regimi non solo inevitabile ma, tutto sommato, benefico.
Fra l’altro, solo il partito può dare sufficiente stabilità ai sistemi
rappresentativi. I vantaggi di questo assetto superano perciò di molto gli
svantaggi, che peraltro possono essere notevolmente limitati con opportuni
accorgimenti. È una posizione che Minghetti elabora a seguito di un’ampia
analisi storico-comparativa degli assetti istituzionali dei principali paesi:
Francia, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti, ma anche Spagna, Portogallo e
Grecia, questi ultimi per certi versi molto simili all’Italia. Proprio dal
raffronto fra sistemi politici diversi Minghetti arriva alla conclusione della
sostanziale superiorità dei governi di partito e della possibilità di evitare
molti dei difetti che ad esso vengono normalmente attribuiti. Da qui derivano
appunto le sue indicazioni riformatrici per affrontare le disfunzioni che sono
emerse in Italia.
Se però la capacità analitica e prescrittiva di Minghetti non è certo, almeno
per i suoi tempi, in discussione, cosa possiamo oggi ritenere della sua analisi
e, magari, delle sue raccomandazioni? In altre parole, quali mutamenti si sono
verificati rispetto ai tempi in cui Minghetti scriveva e quale valore va loro
attribuito? Se guardiamo al sistema politico, il periodo che ci separa da
Minghetti ha visto, anche in Italia, soprattutto la completa affermazione del
partito di massa come principale attore politico e poi, in questi ultimi tempi,
la sua crisi. Semmai, in Italia, l’affermarsi del partito di massa è avvenuta
in modo tormentato, attraverso due radicali mutamenti di regime - dal
liberalismo pre-fascista al fascismo e poi da questo alla democrazia
repubblicana - che hanno lasciato delle tracce - per lo più negative - sul
nostro sistema politico. Dai passaggi traumatici da un regime all’altro,
dall’ascesa al potere di un partito nemico della democrazia liberale, dalla
sconfitta militare e poi dall’affermarsi di partiti nuovi, estranei e in parte
anche ostili alla tradizione costituzionale del Risorgimento, le nostre
istituzioni sono uscite infatti notevolmente logorate, soprattutto in termini
di autonomia e capacità. Ma anche l’espansione del potere dei partiti di massa
non è stata priva di difficoltà. Come è stato di recente rilevato , i partiti
italiani hanno sì svolto in questo dopoguerra un ruolo politico preponderante,
ma il loro impatto sulle decisioni politiche è stato molto inferiore a quella
che sembra essere stata l’apparenza. Forte sulle microdecisioni
particolaristiche, è stato invece molto più debole sulle politiche di livello
intermedio - quelle di maggior rilievo per il funzionamento di un sistema
politico - mentre sempre forte è stata la loro capacità di influire sulle
metapolitiche, cioè sulle grandi scelte relative agli assetti politici di base.
Il risultato dell’importanza crescente della competizione particolaristica è
stato però che la spinta dei partiti a controllare l’amministrazione, almeno al
fine di adoperarla per mentenere ed espandere il consenso elettorale, è stata -
ed è ancora oggi - molto più forte di un tempo.
Mutamenti di rilievo si sono verificati anche nell’amministrazione e
soprattutto nella giustizia. È ormai luogo comune sottolineare l’espansione
delle funzioni dello Stato avvenuta in quest’ultimo secolo. Lo Stato
"guardiano notturno" è stato sostituito dallo Stato del benessere
che, pur con crescente fatica, cerca di provvedere a bisogni sempre più diversi
e numerosi. Ormai lo Stato non svolge più solo le tradizionali funzioni
d’ordine - che potevano essere facilmente definite in modo esecutorio, come
conseguenza dell’applicazione di regole generali - ma fornisce servizi e
interviene per influenzare lo sviluppo economico e sociale, compiti il cui
dispiego richiede che si vada al di là della semplice logica esecutoria per
introdurre invece decisioni basate sul criterio dell’efficacia nel
raggiungimento dei fini e, talvolta, dell’accettabilità delle decisioni da
parte degli interessati. Non è necessario qui discutere se, e in quali termini,
questo sviluppo vada considerato più o meno positivamente. Quello che va
sottolineato è che, in conseguenza di queste trasformazioni, i compiti
dell’amministrazione, per essere svolti con efficacia e efficienza, con sempre
maggiore difficoltà possono essere ingabbiati in un sistema di regole generali.
Avviene però così che ci si trovi spesso di fronte al dilemma se intralciare
l’azione amministrativa con regolamentazioni minute o rassegnarsi ad un
ulteriore dilatazione dei suoi poteri. D’altra parte, di fronte a questa
alternativa si è quasi sempre reagito, con una buona dose di schizofrenia,
moltiplicando i controlli di natura formale e allo stesso tempo tollerando lo
sviluppo di ampi - ed arbitrari - poteri di fatto. Poco o nulla si è fatto per
migliorare in generale le qualificazioni professionali dei dipendenti pubblici
e per introdurre le nuove capacità professionali richieste dai nuovi compiti
dell’amministrazione, elementi che sono in realtà la principale garanzia di
buon rendimento ma anche di correttezza amministrativa: infatti, il funzionario
capace è anche colui che meglio rispetta i diritti del cittadino. Al contrario,
molto si è fatto per mortificare le competenze professionali ed espellere dalla
nostra pubblica amministrazione anche quelle ancora presenti ai tempi di
Minghetti. Così, delicate funzioni tecniche si sono spostate all’esterno
dell’amministrazione, indebolendone sempre di più le reali capacità di
controllo. La venerazione del formalismo giuridico - progressivamente
affermatosi dall’inizio di questo secolo - è stata alla base di questa tendenza,
anche se la stessa qualità della formazione dei giuristi si è col tempo
deteriorata, in parallelo con l’indebolimento del vecchio assetto
meritocratico, che certi livelli di capacità comunque garantiva.
La crescita e il diversificarsi dell’amministrazione che i nuovi compiti hanno
portato con sè hanno avuto poi un’altra importante conseguenza, cioè l’aumento
del numero degli impiegati oltre che la loro crescente differenziazione e
disomogeneità. Così, si è sviluppato un fenomeno ai tempi di Minghetti ancora
sconosciuto: il sindacalismo del pubblico impiego. Ormai, i sindacati dei
dipendenti pubblici, talvolta in collegamento con le altre organizzazioni
sindacali, svolgono un ruolo cruciale all’interno dei processi di decisione
politico-amministrativa, frapponendosi ad attori tradizionali come il governo
ed i cittadini e favorendo spesso il processo di deprofessionalizzazione che
abbiamo appena ricordato. Non paradossalmente, la crescita delle garanzie degli
impiegati pubblici è stata effetto e causa di questo fenomeno. Così, la
presenza di questo nuovo attore pone oggi la questione dei rapporti fra
politica e amministrazione in termini molto diversi dai tempi di Minghetti,
dato che i politici di governo devono trattare con una nuova categoria di
politici, i dirigenti delle organizzazioni sindacali, spesso dotati di risorse
non indifferenti.
Mutamenti di forse ancor maggiore spessore hanno investito poi
l’amministrazione della giustizia. Il primo elemento da sottolineare è il
mutamento del rapporto fra giudice e legge, definito tradizionalmente in Europa
continentale in termini di subordinazione del primo alla seconda. È cambiato il
carattere della produzione legislativa: come conseguenza del maggiore
intervento dello Stato, leggi sempre più numerose investono settori sempre più
ampi della vita sociale e politica. L’esperienza dei regimi totalitari ed
autoritari che si sono affermati fra le due guerre mondiali in molti paesi
dell’Europa continentale ha portato all’introduzione del controllo giudiziario
di costituzionalità, stabilendo uno strumento per verificare l’adeguatezza di
ogni norma legislativa ai principi fondamentali che reggono i regimi politici e
quindi spingendo il giudice ad un atteggiamento critico nei confronti della
norma legislativa. Naturalmente, il moltiplicarsi delle norme di riferimento ha
accresciuto i margini di libertà di cui il giudice gode nel risolvere i casi.
Così, la legge e in generale le norme giuridiche esercitano oggi un’influenza
costrittiva minore del passato sia perchè spesso in contrasto fra loro sia
perchè formulate in modo più o meno volutamente vago sia infine perchè talvolta
deliberatamente delegano al giudice ampi poteri. Peraltro, l’espansione del
raggio d’azione del diritto legislativo non ha risparmiato neanche quello penale,
aumentando il numero di condotte sanzionabili penalmente e soprattutto
sfumandone i contorni. Così, anche il ruolo di chi è chiamato a richiedere
l’applicazione della legge, il pubblico ministero, ne è uscito fortemente
rafforzato, dato che ormai è in grado di intervenire con efficacia all’interno
di quasi tutti i processi politico-amministrativi. La conseguenza principale è
che il giudice, anzi l’intera magistratura, a causa del nuovo, forte potere di
cui dispone, è diventato oggetto di pressione politica da parte di chi intende
approfittare di questi nuovi canali decisionali. L’amministrazione della
giustizia è entrata così in diretta concorrenza con le altre istituzioni
politiche: ricerca il consenso dei cittadini cercando di dare risposta alle domande
che costoro in misura crescente le indirizzano. Inoltre, punto questo
estremamente importante, anche all’interno della magistratura si sono affermate
forme di sindacalismo. Semmai, qui la loro rilevanza è molto maggiore che
nell’amministrazione perchè maggiore è il potere che esercitano. L’istituzione
di un organo di autogoverno come il Consiglio superiore della magistratura,
composto a larga maggioranza da magistrati eletti direttamente dai propri
colleghi, ha contribuito a rafforzare questa tendenza, dato che i vari
raggruppamenti di magistrati svolgono un ruolo cruciale nel processo
elettorale. Da questo punto di vista, l’Italia sembra essere all’
"avanguardia" fra i paesi dell’Europa continentale, il paese dove
questo fenomeno si è sviluppato in modo più pieno.
Le soluzioni che Minghetti proponeva nel suo saggio del 1881 non sono quindi
più proponibili oggi. Del resto, alcune di esse sono state applicate. Per
restare nel campo della giustizia, l’indipendenza dei giudici è oggi certamente
molto più garantita di un tempo e le loro garanzie sono state estese al
pubblico ministero, anche al di là dei suggerimenti di Minghetti. Non si può
dire però che oggi la magistratura italiana risenta meno di un secolo fa di
logiche di parte. Anzi forse verrebbe di dire il contrario. Semmai è cambiata
la qualità della politicizzazione: venute meno le interferenza ministeriali,
fortemente diminuiti di incidenza gli interventi dei parlamentari, sono oggi
altre le vie dell’influenza politica. Essa scorre oggi soprattutto per tramite
del Csm, luogo istituzionale che concentra ormai tutte le decisioni cruciali in
tema di amministrazione della giustizia e dove i rappresentanti della classe
politica - i membri laici eletti dal parlamento - incontrano i rappresentanti
della magistratura, cioè gli esponenti delle varie correnti del sindacalismo
associativo. Perciò, le interferenze sull’attività giudiziaria non giungono più
tanto da ministri prepotenti - anche per la semplice ragione che non le possono
più esercitare - ma da fluttuanti alleanze fra gruppi di magistrati e gruppi di
politici, rappresentanti più o meno diretti di quei partiti che abbiamo visto
essere poco capaci di orientare le politiche di rilievo ma abbastanza efficaci
nell’influenzare le microdecisioni. Ma è far torto a Minghetti ritenere che le
sue prescrizioni abbiano contribuito a tali deviazioni. Le sue proposte nascono
da uno spirito non dottrinario, pragmatico, che si rivolge ad un contesto
specifico e si basa sull’osservazione e sulla discussione, pronto a rivedere le
proprie posizioni se sembrano inadeguate agli obiettivi che si è posto. È qui
infatti che sta l’attualità di Minghetti, nello spirito con cui affronta i
problemi del nuovo Stato unitario: è qui che possiamo ancora imparare.
Ancora di rilievo è infatti la sua lezione di metodo, un metodo di analisi dei
problemi politici e amministrativi empirico - perchè attento alla realtà,
all’applicazione concreta delle norme - e comparativo, perchè, non chiuso nella
considerazione provinciale di un solo sistema politico, cerca di apprendere dal
confronto con altre esperienze . È evidente che la ricerca di rimedi non può
non percorrere questa strada. Anzi, qui alcune delle proposte generali di
Minghetti non hanno perso d’attualità: ridurre l’area dell’intervento dello
Stato, decentrare, sviluppare i controlli sull’amministrazione sono misure che,
adattate ai tempi e combinate magari in modo diverso, possono ancora oggi
essere applicate con profitto. L’attenzione al dato empirico spinge poi
Minghetti a considerare l’importanza della formazione dei funzionari, a
sottolineare i limiti di una preparazione esclusivamente giuridica e a
raccomandare l’istituzione di apposite facoltà o scuole di scienze
amministrative, dove abbiano spazio anche gli studi empirici del funzionamento
della pubblica amministrazione . Basta, credo, questa sola notazione per
comprendere l’attualità di Minghetti: a distanza di più di un secolo si tratta
ancora di una raccomandazione solo in minima parte realizzata. Pochi sono
ancora i luoghi dove tali studi sono coltivati in Italia. Nell’università e nei
centri di formazione pubblici prevale ancora, e talvolta nelle forme più
deteriori, lo studio formalistico delle norme giuridiche, a spese di ogni
considerazione della loro applicabilità e delle loro reali conseguenze. La
formazione dei nostri funzionari pubblici resta ancora prevalentemente, se non
esclusivamente, giuridica.
Quanto a una radicale separazione fra politica, giustizia e amministrazione,
essa è, a ben vedere, difficile da realizzare in concreto, e forse neanche
augurabile, tanto più nelle condizioni dei regimi democratici contemporanei
che, lo abbiamo appena visto, si caratterizzano per una forte interpenetrazione
fra Stato e società. Ma le prescrizioni di Minghetti, al di là dei contenuti
specifici, vanno intese soprattutto per i fini generali che intendono
perseguire e cioè in quanto strumento per garantire i diritti di libertà dei
cittadini. La lotta contro l’uso partigiano della giustizia e
dell’amministrazione ha proprio questo obiettivo, quello di garantire i
cittadini da interventi di questo tipo separando, nella misura del possibile,
il potere del governo - e del parlamento da cui trae la sua investitura - da
quello dell’amministrazione e soprattutto della giustizia: "la libertà per
noi moderni consiste nel rispetto di tutti i diritti, e a guarentire questo
rispetto l’elezione è di per sè insufficiente" (p.158). In altre parole,
la lezione di Minghetti è un richiamo, ancora una volta, all’importanza di
separare i poteri, cioè le grandi istituzioni politiche, per evitare una
pericolosa concentrazione di potere in capo alla maggioranza politica che già,
legittimamente, controlla il governo. È quindi un richiamo alla necessità di
dotare le istituzioni pubbliche di un’autonomia sufficiente a farle funzionare
secondo la loro propria logica. Come si può vedere, in questi termini il
messaggio di Minghetti è tutt’altro che datato. Anzi, proprio quelle
trasformazioni cui abbiamo poco sopra fatto cenno ci indicano la loro concreta
attualità. L’ascesa dei partiti di massa nel nostro sistema politico è stata un
fenomeno probabilmente inevitabile e, tutto sommato, positivo, dato che ha
contribuito a superare le profonde fratture che avevano travagliato la vita
dello Stato liberale, ma non è stata priva di risvolti negativi. Di alcuni
abbiamo già fatto cenno. Un aspetto forse più di fondo è che questa
affermazione si è diffusa per tutte le istituzioni pubbliche e si è innestata
su una forma preesistente di monismo istituzionale: è così avvenuto che il
"cattolicesimo statuale" di cui parlava Minghetti è stato sostituito
dal "cattolicesimo dei partiti". Ancora oggi questi atteggiamenti,
che hanno esercitato una forte influenza durante tutto il periodo repubblicano,
mirano, di diritto o di fatto, a concentrare il potere negli organi
rappresentativi. Non si vuole qui certo negare l’importanza e la necessità di
rafforzare la capacità decisionale di queste istituzioni che, anzi, spesso
quelle posizioni non condividono, in quanto ritengono che la difesa delle
posizioni di individui e gruppi stia soprattutto nella complessità delle
procedure decisionali degli organi in cui il potere viene concentrato. Quello
che si vuole sottolineare è che questo rafforzamento deve accompagnarsi ad una
migliore articolazione delle istituzioni del nostro sistema politico che
permetta loro di funzionare da garanzia dei diritti di libertà del cittadino.
Vanno perciò pienamente condivisi gli argomenti di chi sostiene la necessità di
superare il monismo istituzionale che ha caratterizzato il periodo repubblicano
- e che per certi versi sembra aver ispirato anche l’azione della magistratura
in questi ultimi anni - per arrivare ad una concezione veramente pluralistica
del nostro assetto istituzionale, basata su articolazioni e poteri indipendenti
. Per realizzare questo tipo di assetto, però, il problema non è solo quello di
individuare garanzie e procedure idonee, è anche, se non soprattutto, un
problema di persone: in termini concreti - e ci riallacciamo qui ad un tema che
abbiamo appena trattato - si tratta di creare meccanismi in grado di
assicurarci un personale all’altezza dei compiti, provvedendo altresì - per
usare un termine minghettiano - alla loro "educazione".
Io prendo per dato
che, qualunque sia la forma di governo, gli uomini che hanno nelle mani la
somma della cosa pubblica, in generale mirano al bene del civile consorzio.
Codesta proposizione per taluni sarà da porre fra le illusioni più ingenue, e
degna appena di entrare in qualche utopia. E ci recheranno innanzi il tiranno
"che libito fè licito in sua legge", le oligarchie le quali
oppressero le classi misere per mantenere nella propria le ricchezze, la
potenza, i privilegi; i governi della borghesia dove i mediocri ed intriganti
tengono il campo; e infine le democrazie antiche e moderne nelle quali
dominatrice è l’invidia che calca i buoni, ed esalta i pravi. E coroneranno
questi esempi con un argomento tratto dallo studio della natura umana;
avvegnaché l’uomo mira all’utile proprio non all’altrui, anzi è pronto a
immolare questo a quello, e rinfrescheranno una massima che soprattutto nel
secolo scorso ebbe gran voga, cioè che così l’uomo singolo, come l’unione di
molti, e ogni classe della società e ogni corporazione tendono sempre ad
esorbitare, uscendo fuori dalla sfera dei loro diritti per invadere gli altrui;
onde la scienza delle costituzioni parve la scienza dei freni.
In tutto ciò havvi molto di vero, e nondimeno volgendo lo sguardo all’andamento
generale degli eventi umani, non a questo o a quel fatto peculiare, io sono
d’avviso contrario per due cagioni che dirò breve, non essendo qui luogo ad
entrare in una discussione morale dell’indole dell’uomo. Ma parmi certo che a
chiunque regge la cosa pubblica si parano innanzi ogni giorno molte
deliberazioni da prendere, nelle quali l’interesse proprio non ha parte, o ne
ha una remotissima, per modo che soverchia la previdenza comune, e in questi
casi l’uomo tende a fare il bene, salvo pochi efferati né quali il male per sé
stesso e cagione di diletto1 . E l’altra considerazione è che l’interesse di
ciascuno nella più parte dei casi consente coll’interesse generale, e spesso
quel che a noi pare gara, conflitto, e pugna torna a maggior utilità a tutti.
Veramente gli economisti hanno abusato di questo argomento quando vollero
dedurre dalla illimitata concorrenza in ogni tempo e in ogni luogo il massimo
dei beni della società, ma ciò non toglie che normalmente la concorrenza non sia
elemento necessario e benefico; e forse Adamo Smith ritrasse questo vero con
colori più temperati e più genuini dei suoi seguitatori. Ma oltre a ciò si vuol
notare che se la somma dei mali prodotti dagli uomini che governano e
ammaestrano i popoli più o meno direttamente superasse la somma dei beni, non
si spiegherebbe il progresso della civiltà, anzi la società a breve andare si
dissolverebbe, e cadrebbe in totale ruina. E questo mi pare argomento precipuo
contro il pessimismo storico. Laonde facendo pur ragione dei cattivi governi e
dei tristissimi loro effetti, non posso rinunziare al concetto onde io presi le
mosse; cioè che il complesso delle azioni di coloro che reggono la cosa
pubblica, è generalmente indirizzato più al bene che al male: maggiore o minore,
secondo i luoghi ed i tempi, ma pur in tal grado che presa una lunga tratta di
secoli, il bene può prevalere al male sulla terra.
Dalle considerazioni di filosofia morale passando a quella di filosofia
politica, gli studiosi si posero ad investigare qual sia la forma di Governo
nella quale possa presumersi che il massimo degli effetti buoni si consegna con
facilità e con sicurezza; e non ricorderò la sentenza di Aristotele professata
eziandio dai più grandi uomini a lui posteriori sino ai dì nostri, che il
governo misto sia da preferirsi; ma dirò solo non esservi un tipo assoluto di
tal fatta, acconcio a tutti i popoli in ogni età e sotto ogni plaga di cielo.
La storia dimostra primieramente che gli ordini di governo debbono conformarsi
allo stato economico, intellettivo e morale, insomma alla civiltà dei popoli, e
dimostra inoltre che non vi ha forma di governo che sia scevra d’inconvenienti.
Per la qual cosa il filosofo e l’uomo di stato sono costretti a scegliere
quella che ne contiene minor numero relativamente alle altre e che comporta un
certo grado di civiltà e favoreggiarla come ottima. Ma dal sopraddetto discende
eziandio questo vero, che qualunque essa sia, v’ha mestieri di contrappesi e di
freni che impediscono ad ognuno che partecipi alla potestà sovrana di
trasmodare. Or quando una società è giunta a certo grado di coltura ivi si
sveglia un desiderio intenso e se ne diffonde il sentimento, della
partecipazione dei cittadini al governo, la quale partecipazione può essere di
due sorta: consultiva e deliberativa. Consultiva è quando vi sono ordinati
consessi di uomini prudenti che il Governo interroga per avere informazione,
consiglio, apparecchio di leggi; deliberativa quando la potenza di fare le
leggi, e lo stanziamento delle entrate e delle spese appartengono ai cittadini
o direttamente o per mezzo dei loro rappresentanti.
E qui c’incontriamo nel regime rappresentativo, onde fu resa possibile la
partecipazione dei cittadini al governo anche nelle grandi e popolose nazioni,
e del quale tanto fu scritto che sarebbe superfluo ritornavi sopra. Ma da
questa forma generica si passa al regime costituzionale del quale sono cardini
fondamentali la rappresentanza elettiva del popolo in una e spesso anche in due
assemblee, e la responsabilità ministeriale sotto un’autorità suprema che
concilia i conflitti e modera l’andamento della complicata macchina. Però nello
stesso reggimento costituzionale vi sono forme diverse. In alcuni paesi come la
Germania e l’Austria, le assemblee pur votando le leggi e il bilancio, non
hanno se non per indiretto ingerenza nell’andamento quotidiano della cosa
pubblica, e nell’indirizzo politico interno ed esterno. Se il ministro dee alla
lunga mettersi d’accordo colle assemblee, non perciò hanno queste un influsso
immediato nella sua formazione. Ma in altri governi costituzionali non solo le
Assemblee esercitano un quotidiano sindacato sulla potestà esecutiva, ma questa
non può durare se non in quanto abbia la fiducia dell’assemblea elettiva che
col suo voto la designa o l’abbatte. Quest’ultima forma che è propriamente
quella che si chiama governo parlamentare si ritrova in Inghilterra, nel
Belgio, in Spagna, in Grecia, in Italia ed in Francia.
Ho citato anche la Francia fra questi governi; avvegnaché l’esser di monarchia
e di repubblica non muti punto la sostanza sua nella parte che noi
consideriamo. Che il magistrato supremo sia ereditario ovvero elettivo, a vita
o a tempo, ciò non toglie né menoma quegli effetti che noi vogliamo esaminare.
Ma dallo studio di queste varie forme di liberi reggimenti, sembra derivarne
come conseguenza necessaria, che la somma della cosa pubblica debba essere
affidata a coloro che esprimono in un dato momento la opinion pubblica nella
sua maggior parte, e nelle sue più spiccate tendenze: e che qualora codesta
opinione muti, anche gli uomini cedano il governo ad altri che meglio la
rappresentino. Insomma pare inevitabile che nei reggimenti liberi al mutarsi
della opinione generale della nazione, segua un alternarsi di partiti al
governo, però in grado diverso di estensione e di rapidità. Fra tutti poi il
governo parlamentare più ancora di quello strettamente costituzionale e
rappresentativo, sembra non potersi disciogliere dalla condizione di essere un
governo di partito.
E qui bisogna definire la parola partito. Io ritornerò fra breve sulle sue
origini, ma dico che oggi s’intende per partito un’accolta di uomini aventi
voce nella cosa pubblica i quali concordano nelle massime fondamentali circa il
modo di governare, e cooperano tutti insieme affinché siffatto modo e non altro
si tenga.
Sotto il governo assoluto è evidente che l’opinione del Capo dello Stato è la
sola decisiva. Se il più delle volte esso porge ascolto e si piega al consiglio
dei suoi ministri, se questi alla volta loro sentono l’influsso dell’opinione
pubblica, però la finale deliberazione spetta ad un solo il quale non ha
obbligo di consultare chicchessia, né di render conto ad alcuno del suo
operato. Vero è che anche nei governi assoluti formasi a poco a poco una
abitudine di regolarità e di legalità che è rappresentata da quella che
chiamasi burocrazia la quale talvolta tien fronte anche ai soprusi dei
superiori, ma veri e propri partiti politici non appariscono. Vi sono bensì
forze occulte, sette, cospirazioni, congiure nel popolo, e nelle corti intrighi
di anticamera, e quindi mutazioni di politica e paci e guerre per azione
segreta di ministri, o di cortigiani: ma non è ciò che noi trattiamo al
presente.
Quando invece i cittadini pigliano parte alla cosa pubblica, allora si formano e
si manifestano partiti diversi. Pongasi pure in tutti lo scopo sincero del bene
della patria, ma nel giudizio dei mezzi che vi conducono non può non esservi
diversità di opinione fra gli uomini. Onde discende che coloro i quali
intendono di seguire certi concetti loro comuni, e vogliono che si operi ad un
medesimo modo nelle parti più sostanziali del pubblico reggimento, fanno
accordo fra loro, e se non espressa pur vi ha una tacita intesa che li collega.
L’idem de republica sentire è insomma il fondamento che natura pone al partito
politico: ma siccome non tutti possono idem sentire in tutto, indi nasce la
distinzione dei partiti.
Molte poi sono le cagioni che a formarli cooperano. Dapprincipio la natura e la
disposizione dell’animo per la quale altri è spontaneamente avventuroso e
amatore di novità, altri cauto e peritoso teme che ogni cambiamento sia un
male, e questi sarà di necessità più conservatore di quello. Alla natural
disposizione bisogna aggiungere la tradizioni di famiglia, perché se qualche antenato
si è illustrato nella difesa di alcuni principi, molto probabilmente il figlio
o il nipote si terranno legati quasi dall’onore del casato a professare le
medesime idee con vivacità e fierezza, e di ciò abbiamo in Inghilterra
copiosissimi esempi. Segue l’educazione i cui effetti nella maggior parte degli
uomini sono sommamente notevoli. E infine le circostanze in mezzo alle quali un
uomo è vissuto, gli amici della sua giovinezza, i maestri, i compagni di studio
determinano nella sua mente una maniera di giudizio che diviene abituale, e
nella quale poi l’amor proprio, il sentimento di coerenza e di dignità lo
mantengono tenacemente.
Finalmente a tutte queste cose sovrasta, e profondamente le modifica
l’interesse privato, potentissima molla dei pensieri e delle azioni, che spinge
l’uomo ad abbracciare un partiti piuttosto che un altro, secondo la speranza
ch’egli ha di trovarvi potenza, ricchezza ed onori. Però l’interesse non è la
sola molla del cuore umano come taluni pretesero. Il dimostrarlo né si appartiene
a questo libro, né sarebbe qui opportuno; ma per riguardo ad opinioni
politiche, io ricordo di aver udito raccontare nella mia infanzia di due
bolognesi dei quali la legislazione napoleonica, improvvisamente introdotta,
mutò in tutto le condizioni. L’uno che doveva essere erede di un gran
patrimonio fidecommissario rimase pressoché misero, e l’altro per libertà del
testare divenne ricchissimo. Eppure questi perseverò nell’essere nemico giurato
dei nuovi ordini, quegli si gettò a piene vele nella tempesta della
rivoluzione. Pertanto si può concludere che i partiti hanno una necessità
razionale e storica e che molte e varie cagioni determinano gli uomini ad
aderire all’uno più che all’altro. Questo riguarda il singolo cittadino o, per
usare una locuzione moderna, il subbietto.
Ma ci è un’altra cagione obiettiva che contribuisce alla formazione dei
partiti, e dipende da ciò che le leggi sono proposte da pochi, ma discusse e
deliberate da molti, riuniti in una o più assemblee. Ora per guidare
un’assemblea ad un dato fine è d’uopo disciplinarla. Se ciascun membro di essa
in ogni articolo di legge volesse far prevalere il proprio concetto a quello
degli altri, e perciò votasse sempre e soltanto secondo il proprio giudizio
individuale, ne verrebbe tale una confusione nel risultamento delle discussioni
e delle votazioni da rendere l’opera legislativa dell’assemblea piena di
discrepanze. E il Ministero che dovrebbe goderne la fiducia sarebbe di giorno
in giorno messo a repentaglio di perderla. Quando invece si formano due grandi
opinioni o partiti, in favore e contro i principii generali che informano la
legge, ivi ognuno del trionfo di questi principii pospone una parte delle sue
opinioni secondarie, sicché l’opera legislativa riesce coordinata e fra sé
medesima congruente. Così il fatto stesso di procedersi per mezzo di assemblee
rende necessaria la costituzione dei partiti. E finalmente vi sono taluni casi
nei quali è mestieri che un’assemblea voti delle leggi o delle imposte che sono
impopolari. Indarno il deputato singolo cercherebbe in sé medesimo, o nel puro
sentimento del dovere la forza di sfidare questa impopolarità: ciò che lo
anima, lo rinfranca, lo induce a farlo, è il sentirsi strettamente unito a
molti altri suoi colleghi che hanno gli stessi interessi e gli stessi obblighi,
e che prendono con lui la responsabilità della deliberazione. Aggiungasi infine
che la Costituzione dei partiti induce necessità di stabilire principi
direttivi chiari e coerenza nel seguirli: e però fermezza di carattere in coloro
che li abbracciano, e nelle assemblee deliberanti una disciplina efficace.
Cesare Balbo in quel suo libro della monarchia rappresentativa in Italia che
sventuratamente rimase incompiuto2 pigliò apertamente la difesa delle parti
politiche non solo dal lato della necessità ma della utilità; disse virtù dei
governi liberi in generale far che le fazioni diventino parti, virtù dei
governi rappresentativi in particolare, portar le parti della piazza alle aule
parlamentari, virtù della educazione politica ridurre le parti di numerose e
complicate che si mostrano talvolta, ridurle dico a due sole, quella che
sostiene il ministero e la opposizione. Imperocché il ministero non sia che
l’una delle parti che ha i suoi capi al governo. E invocò nelle parti la
disciplina: nemico a quei centri, mezzi centri, centri destri, centri sinistri
quasi rose di venti e di tempeste: nemicissimo a quelli che si dicono
indipendenti, e che si destreggiano fra l’una parte e l’altra senza
convincimento di sorta alcuna.
Che se guardiamo all’Inghilterra come esemplare, ci è facile di scorgere che la
divisione dei partiti è la tessera che ci conclude attraverso la storia di
quella grande nazione. Il Macaulay nel suo libro ne registra per dir così la
data del nascimento3 : "Quel giorno, dic’egli, in cui le Camere di nuovo
si radunarono (narra del Parlamento, chiamato lungo, che dopo aver seduto per
dieci mesi, e pigliato un riposo di sei settimane, si riuniva di nuovo
nell’ottobre 1641) è una delle date più notevoli della storia inglese. Imperocché
da quel giorno presero ordinata forma i due grandi partiti che d’allora in poi
occuparono a vicenda il governo. In un certo senso può dirsi che esistevano
anche prima, e allora solo divennero manifesti, anzi può dirsi che v’erano
stati sempre, e sempre vi saranno. La differenza loro trae origine da
differenze naturali di temperamento, d’intelletto, d’interesse le quali non
verranno meno sinché le menti umane non cessino dall’essere tirate in opposta
parte dal compiacimento dell’abitudine, o dalla vaghezza della novità. Non solo
in politica, ma in letteratura ed in arte, nelle scienze stesse, nella
chirurgia, nella meccanica, nella nautica, perfino nella matematica se ne
scorgono i segni. In ogni tempo vi furono uomini che guardavano con affetto a
tutto ciò che è antico, a anche dopo esser stati convinti della bontà ed
utilità di una innovazione, non seppero risolversi ad accettarla che a mal in
cuore. In ogni tempo vi furono uomini di vivide speranze, e di calda fantasia
che inoltrandosi arditamente non tennero conto dei rischi e degli inconvenienti
che le innovazioni seco adducono, volenterosi di chiamar progresso qualsiasi
mutamento. Negli uni e negli altri v’ha una parte da approvare, ma gli
esemplari loro migliori si trovano non lungi dalla comune frontiera. Color che
più si dilungano da quel mezzo da una parte sono retrivi e bachettoni,
dall’altra empirici spensierati o temerari".
E il Grey4 notò similmente che il governo parlamentare è essenzialmente un
governo di partito, avvegnacché la condizione precipua della sua esistenza è
che i ministri della Corona possano dirigere l’opera del Parlamento, e
l’esperienza ha provato che nessuna assemblea popolare può essere diretta con
perseveranza senza capi riconosciuti, e senza un buon ordinamento di partiti. E
basta leggere gli scrittori speciali5 per esser persuaso di quanta efficacia il
sistema delle parti sia stato al governo della cosa pubblica, e al bene
nazionale.
Burke, uno degli ingegni più robusti e più acuti nelle scienze politiche,
definisce e difende il tema così: "Un partito è una riunione di uomini
collegati insieme per favorire in comune coi loro sforzi il bene della nazione,
inteso da essi secondo certi principi sui quali sono tutti d’accordo. Gli
uomini che pensano liberamente possono in qualche punto non pensare egualmente:
però siccome la maggior parte dei provvedimenti che si debbono pigliare, hanno
relazione o dipendenza da qualche principio che si reputa di grandissima
importanza per l’andamento della cosa pubblica, così è da credere che sarebbe
disavventurato colui che nella scelta dei suoi amici politici non accordasse
con essi delle dieci almeno nove volte". E altrove: "I buoni effetti
dello spirito di partito in Inghilterra son molteplici e importanti. Il primo è
che dà stabilità alle opinioni varie, sottili, fuggevoli degli uomini politici,
rannodandole in modo duraturo e principii saldi e costanti. Il vero uomo di
parte ha in sé certe norme generali di politica, simili alle leggi universali
della morale, secondo le quali risolve qualsivoglia questione nuova e dubbiosa.
La fede nella giustizia di quei principii lo mette in grado di resistere alle
tentazioni dell’interesse, e ai sofismi coi quali vengono innanzi o si
propugnano speciosi disegni; la sua condotta acquista un abito fermo, che si
collega alla dirittura della mente, e all’integrità dell’animo. Infine la
unione di più persone negli stessi pensieri accresce il vigore necessario a
sostenere provvedimenti che rimarrebbero negletti o ineffettuabili, e talora a
prima giunta repugnanti, i quali nondimeno mercé gli sforzi gagliardi e
indefessi di un partito, finirono per diventar legge e produrre frutti copiosi
di pubblica utilità ".
A questi pregi altri ancora se ne potrebbero aggiungere. Prima di tutto gli
uomini per la speranza di poter salire al governo quandocchessia
legittimamente, e far trionfare le opinione loro, sono indotti a vincere la
naturale impazienza che li spingerebbe a combattere a tutta oltranza ciò che
alla volontà loro si oppone, e a minacciare eziandio la pace pubblica piuttosto
che rassegnarsi ad attendere con longanimità che venga la volta loro di
governare. E’ questo un altro risguardo dell’idea già espressa che i partiti
spengono le fazioni, e che le divisioni utili spengono le dannose: la qual cosa
fu avvertita anche dal Macchiavelli come avrò occasione di ricordare più volte.
E certo se il partito opposizione in Francia al tempo di Luigi Filippo, non
fosse stato sempre troppo rigidamente tenuto lontano dalla cosa pubblica, si
può verosimilmente credere che la rivoluzione del 1848 o non sarebbe avvenuta,
o avrebbe ritardato di assai tempo. In questo senso potrebbe dirsi che sia
stato anche giovevole all’Italia che il partito della Sinistra sia venuto al
governo nel 1876.
Taluni scorgono eziandio nelle gare dei partiti e nell’alternarsi loro alla
direzione della cosa pubblica una feconda necessità di acuire l’ingegno e di
scoprire ognora nuove provvisioni e nuove sorti di beni pel popolo a fine di
guadagnare la fiducia. Imperocché come afferma un recente scrittore, in un
paese libero nessun partito può arrogarsi il monopolio degli statisti abili, e
neppure può dirsi in certi momenti esente da errori .
Ma il Grant Duff disse un giorno che nella mutabilità dei ministri, la quale è
effetto appunto di codesto alternarsi delle parti al governo di che parliamo,
scorgeva anche un altro vantaggio, quello cioè che di sciogliere le questioni
tecniche dalle pastoie dicasteriche. La burocrazia, diceva egli, finirebbe alla
lunga col signoreggiare i ministri ed imporrebbe loro una decisione a suo
grado. Ma l’intelligenza fresca del nuovo ministro vi si oppone, ed impedisce
che l’amministrazione irruginisca, divenga troppo sollecita delle forme, e
invada anche il campo della politica.
Da ciò si vede che la formazione dei partiti ha le sue cagioni naturali,
razionali, storiche, e di civile utilità. Non so che in Inghilterra questa
teoria sia stata contrastata da alcuno, che anzi forma per dir così un articolo
del credo di quegli uomini politici. Non già che non si avvertissero nel passato,
e non si avvertano anche oggi gli inconvenienti del sistema, ma i vantaggi
sembrano di gran lunga maggiori. Pure fra coloro che fecero più amara critica
dei partiti havvi lord Brougham del quale gioverà ricordare le considerazione .
Ciò che colpisce la sua mente innanzi tutto è che quando un partito ha il
governo nelle mani, l’altro che ne rimane escluso, non può rendere alla cosa
pubblica tutti i servigi ai quali sarebbe atto. Ecco, dic’egli, uomini
illustri, saggi, eloquenti, patriotti ardentissimi. Perché militano essi sotto
opposta bandiera? Se mirano a servire la patria collo stesso obbietto del
pubblico bene, perché i loro atti si contrariano invece di unirsi? Perché
adoprano gagliardi sforzi e pongono talvolta in atto virtù eroiche non al fine di
resistere a nemici della terra nativa, ma per combattersi fra loro? Invero chi
ben guardi direbbe che la sostituzione è una grande anomalia perché esclude dal
servire la patria una metà degli uomini più capaci, e costringe codesta metà a
logorar le sue forze in un conflitto coll’altra, anzicché riunirle insieme, e
rivolgerle al bene di tutti. Dicono i teorici, segue il Brougham, e i caldi
propugnatori del sistema, che la origine dei partiti sta nella differenza delle
opinioni e dei principii: ma chi ficca gli occhi al fondo ci trova invece di
questo testo romantico un testo più positivo, quello degli interessi. La storia
inglese è secondo il parer suo quella di alcuni grandi uomini e di alcune
nobili famiglie che si contendono la potestà, le ricchezze, gli onori. E le due
parti ebbero quasi sempre molte idee comuni, ma quel che era bene per gli uni
diventa un male se proposto dagli altri. Le leggi di coercizione, e la
sospensione anche temporanea della costituzione, erano abborrite dai Whigs se
le proponevano i Tories: venuti sù quelli, essi stessi le proponevano
egualmente. I Whigs quando ritornavano nell’opposizione, erano per la pace e
per le economie; saliti al governo non si curavano né dell’una né delle altre.
Se Burke e Fox fossero stati ministri al momento della grande ribellione
americana, non avrebbero certo ricusato di reprimerla né si sarebbero ritirati
dall’ufficio per questa cagione: ma essendo invece all’opposizione, divennero
caldi fautori degli americani. E perché la emancipazione dei cattolici, e le
altre riforme che i Tories avevano fieramente combattuto, furono poi da essi
stessi messo innanzi per ciò solo che riguardavano codeste riforme come mezzo
di conservare il governo? Però lo stesso autore fa poco appresso un’altra
considerazione che in parte distrugge l’efficacia del suo argomento ed ‘ la
seguente. Posto ancora che i partiti si formino per interesse e per cupidità,
non è men vero che sono costretti a scegliere un certo indirizzo e professare
certi principi determinanti che espongono al popolo con accento di persuasione.
E siccome il popolo non pone in dubbio la sincerità loro e poco si briga
d’investigare se le opinioni professate siano o no un mezzo di afferrare il
governo, ma le accetta in buona fede, così l’opinione popolare finisce per
esercitare un influsso notevole sui suoi capi, e per così dire li incatena
anche loro malgrado, alle massime che hanno proclamato. Ma rimane pur sempre
vero che da codesto sistema due mali inevitabilmente provengo: la impotenza
nella quale tutta una schiera di uomini abilissimi è messa di servire utilmente
il paese, perché non appartiene al partito che governa; e la perdita di forze
utili che nel giuoco dei partiti troppo sovente si logorano per combattersi a
vicenda anche a discapito del vero e del giusto.
Nondimeno dopo tutte queste considerazioni il Brougham non sa escogitare
miglior forma di reggimento, anzi non immagina pure che un’altra le si possa
sostituire, onde la necessità di accettare gli inconvenienti in risguardo ai
benefici, dei quali a vero dire usufruì largamente il gran Cancelliere: se non
che potrebbe dirsi che mentre esso fu eccessivo ed ingiusto nell’assegnare ai
partiti come origine il solo interesse privato, non fu poi abbastanza profondo
nell’analizzare gli inconvenienti.
E per vero anche rimanendo nello stesso ordine di idee da lui messe avanti,
quello cioè che una parte degli uomini più eletti sono rimossi per cagioni di
partito dal prestare utili servigi alla patria, egli avrebbe potuto andare più
innanzi, e deplorare altre conseguenze; come questa per esempio che un ministro
abilissimo talvolta sia costretto a rinunziare al suo ufficio per una questione
che non lo riguarda punto, e forse appena tocca l’indirizzo generale della cosa
pubblica. Poniamo un militare valoroso, sapiente ordinatore di eserciti, servo
nel mantenere la disciplina, pronto a cogliere e usufruttuare al bene della sua
nazione ogni miglioramento che la scienza e l’arte discoprono: eppure
quest’uomo potrà esser costretto a lasciar le redini del suo dicastero per una
questione di tariffe doganali, di relazioni fra Stato e Chiesa o checché altro,
quando il primo ministro ne abbia fatto argomento di fiducia o di sfiducia
dell’assemblea. E però non è destituita di fondamento l’osservazione di uno
scrittore americano che nel governo parlamentare rade volte l’uomo può
esercitare a prò della patria tutte le facoltà ond’è dotato, e n’é impedito tal
fiata per cagioni al tutto estranee alla propria abilità. E se si aggiunge che
il Parlamento piglia gran parte della sua giornata, non solo per giustificarsi
quanto ha operato, ma altresì per maneggiare quella che chiamasi tattica delle
assemblee, e che perciò egli deve in cose estranee al còmpito suo, dissipare
parte di quelle forze che più utilmente sarebbero state adoperate nell’ufficio
assegnatogli, se ne trae la conclusione che la forma parlamentare non sia atta
a cogliere il massimo e miglior lavoro che ciaschedun uomo potrebbe, secondo la
sua idoneità, fornire allo Stato.
Chi volesse ritrarre tutti gli argomenti che dalle condizioni dei partiti hanno
cavato le varie scuole filosofiche o politiche che per varie cagioni avversano
il reggimento costituzionale, avrebbe gran messe. Ma non potendo dilungarmi
troppo, né entrare in considerazioni spesso estrinseche al subbietto, dico solo
che il Brougham ha dimenticato più altri inconvenienti che pur colpiscono la
mente di chi media sull’argomento.
Gravissima è per me la contraddizione fra il motivo onde gli uomini politici
sono innalzati al governo della cosa pubblica, e una delle tendenze più
spiccate del tempo moderno. Imperocché il progresso delle scienze, e la
divisione del lavoro che ognor più si attua in ogni maniera di opere, e di
produzione, sembrano richiedere che il governo sia posto nelle mani non solo
degli uomini più capaci in modo generico, ma di quelli che sono più
specialmente versati, e propriamente periti nelle parti che debbono esercitare.
Avverta bene questo punto il lettore, che al nostro tempo ogni pubblico
servigio tende a diventare scientifico e tecnico. Ora la forma parlamentare e
il governo di partito sono l’antitesi di questo principio. Imperocché nella
scelta di un ministro più che della competenza si dee tener conto delle
opinioni politiche che egli professa: laonde se le due cose si trovano riunite
in un uomo, egli è più per accidente che per intrinseca necessità. Si direbbe
quasi che l’uomo di partito debba avere per virtù infusa tutte le attitudini,
avvegnacché non sia raro il caso che venga chiamato indifferentemente a reggere
le finanze, la marina o i lavori pubblici. Il quale difetto si riscontra
eziandio presso di noi, e fa pietà veder tal fiata collocati a reggere un
dicastero tecnicissimo degli uomini che in vita loro nulla mai conobbero, nulla
mai studiarono della materia.
Un altro difetto dei governi di partito è la esagerazione delle proprie idee
che nasce dal continuo considerare i fatti sotto un solo aspetto, e
dall’abitudine di contraddire ad ogni idea opposta alla propria, e quindi la
ostinazione nell’errore, la quale si coonesta col nome di fedeltà al partito, e
si glorifica come virtù. Di tal guisa l’uomo diviene unilaterale nei suoi
giudizi; e riesce poi inetto a scorgere ciò che può esservi altrove di vero; e
questa esagerazione delle proprie idee, e questa ostinazione nel negare ciò che
può esservi di buono nelle idee diverse, abitua gli spiriti alla parzialità dei
giudizi e il difetto ripetuto diventa vizio. Finalmente si forma quello spirito
politico che se non nerro il nostro abate Galiani parlando degli inglesi
chiamava monacale, onde un’accolta d’uomini che pur hanno libero pensiero, e
digiogata volontà, si acconciano a severa disciplina infrenatrice dell’uno e
castigatrice dell’altra; e si vantano di vivere in soggezione, fino al punto
che qualunque deviazione dalle idee del partito pare loro apostasia e delitto.
Lascio stare il patronato e la clientela che si forma di questa guisa, per la
qual cosa si cerca sempre di innalzare gli amici proprii, colmarli di favori,
respingere gli altri, e chiuder loro al possibile l’ardito a salire: ma di ciò
più innanzi. Egli è certo che pel maggior bene della cosa pubblica sarebbe a
desiderarsi che i dissensi fra coloro che rappresentano il popolo fossero men
lati, e men aspri che sia possibile, e si cercasse colla persuasione di
accostarli, o almeno di toglier loro ogni acerbità. Ma in quella vece lo
spirito di parte infervorandosi produce l’effetto contrario, rende cioè ogni
dissenso più spiegato ed acre, più ancora che nol sarebbe per sé medesimo
naturalmente. Di guisa che può dirsi che se la discrepanza delle opinioni è
cagione prima dei partiti, la costituzione dei partiti a sua volta stimola la
discrepanza delle opinioni, e ne allontana la conciliazione. Imperocché quando
si sono formate delle aderenze e delle tradizioni, sciolto un problema che
formava oggetto di disputa si va in traccia di un altro: sicché in taluni casi
non è la questione variamente intesa e risoluta che giustifica il partito, ma è
il partito che suscita la questione nel proprio interesse.
Ognun vede che di fronte ai pregi del governo di partito stanno non pochi
difetti. Oltre a quelli accennati da Lord Brougham, io vi scorgo la negazione
della tendenza scientifica e tecnica, la parzialità e la esagerazione delle
idee, la repugnanza infine a conciliare i dissidi col partito avverso, anche
laddove il farlo sia agevole ed utile alla patria.
Sarebbe possibile aver un governo libero, costituzionale, parlamentare, senza
che sia governo di partito? Questo fu proposto da alcuni, e fu anche tentato di
risolvere, ma ne parlerò più particolarmente nel capitolo terzo. Per ora mi
ristringo a dire che i difetti che abbiamo descritto sopra sembrano insiti a
tutte le forme di libero governo, ed esercitano un influsso notevole sulla
politica, sull’indirizzo generale interno ed esterno, e più o meno eziandio
sulla formazione delle leggi. Ma non sono i soli difetti. Ve n’hanno altri i
quali non sembrano così connaturali al governo di parte, ma che però facilmente
vi si aggiungono ed arrecano mali gravissimi. Uopo è dunque che li esaminiamo
con qualche diligenza, poiché, come porta anche il titolo del libro, è intorno
ad essi che si svolge principalmente la nostra trattazione.
I mali che intendo
descrivere in questo capitolo non sono così insiti al governo parlamentare, che
non sia agevole immaginarlo anche spoglio di questa triste accompagnatura. Si
potrebbero dire accidentali, sebbene la forma del governo vi presti occasione
ed aiuto, ma riescono assai più pericolosi di quelli che abbiamo discorso. E
sono di varie maniere; e chi volesse comparare il corpo sociale col corpo
umano, direbbe che gli uni sono morbi acuti, e cronici gli altri.
Ma dei primi non intendo intrattenermi. Così come non mi sono proposto
d’investigare il valore del governo parlamentare in sé stesso e in confronto
degli altri, in tal guisa non mi soffermo ad esaminare come possa rimutarsi per
la violenza dei partiti. Veramente qui non si tratta più di partiti propriamente
detti, ma di fazioni. ben potrebbe oppormisi che una volta costituito il
partito, sia facil cosa, e la storia ne porge abbondevoli esempi, che ove esso
senta di non poter giungere per vie legittime al governo, si sforzi di
afferrarlo con audaci usurpazioni. Poterono i francesi nel luglio 1830 addurre
a cagione del rivolgimento loro le ordinanze contrarie alla Carta, ma la Carta
era fondata sulla inviolabilità della Corona, e sulla responsabilità dei
ministri, sicché a buon diritto si dovevano accusare e condannare questi; non
dovevasi espellere la dinastia. Ma a Luigi Filippo non poté neppure imputarsi
la costituzione violata, sibbene una soverchia rigidezza nel non allargare le
franchigie, e anche pusillanimità, e poca cura della dignità nazionale. E che dire
della Spagna dove un manipolo di soldati abbatteva gli ordini costituti, e ne
costituiva dei nuovi, finché altri mosso da pari libidine di potere e parimente
assecondato da ambizioni militari, rinnovasse la prova di rovesciarli in senso
opposto? Che dire del Portogallo, dove un vecchio ottuagenario sprofondato nei
debiti, per cupidigia di danaro, sforzava il Re a mutare ministri contro la
volontà della nazione? Che dire della Grecia che mutò non solo ministri, ma Re?
Felice l’Italia dove finora né plebea violenza, né soldatesca indisciplina poté
attentare allo Statuto; e dove la dinastia è fondata sull’affetto e sulla
devozione popolare. Questo stato di cose durò prima dodici anni in Piemonte, e
dura da oltre venti anni in Italia, e se il filosofo può osservare che troppo è
breve il periodo per state a piena fidanza , che come in Inghilterra, le
fazioni non pervengano mai a impossessarsi della cosa pubblica, nondimeno dai
fatti passati giova prendere fiducia nell’avvenire.
Oltre a queste che chiamerei catastrofi, v’ha un altro guaio nei governi
elettivi ed è che lo spirito di parte mette in opera mezzi disonesti per far
eleggere i suoi, e mira a falsificare la rappresentanza nazionale, di che gli
esempi non sono rari. Laonde si fecero leggi dovunque per punire le frodi, le
venalità, le intimidazioni, i brogli elettorali. Ed è singolare che
l’Inghilterra donde prendiamo sempre giustamente gli esempi, n’é stata
grandemente inquinata in ispecie nel secondo passato. E non pure inganni e
brogli e corruzioni per essere eletto, ma per acquistare voti e per cattivarsi
proseliti dentro la Camera. Sarei troppo lungo se volessi riferire ciò che gli
scrittori inglesi unanimamente descrivono, soprattutto dei tempi di Roberto
Walpole primo ministro, del quale si narra che soleva dire aver egli la tariffa
della coscienza di tutti i deputati. E sebbene queste colpe degli elettori e
degli eletti siano venute colà sempre scemando, nondimeno si riconobbe
necessario di stabilire nuove e più severe leggi punitive, l’ultima delle quali
se non erro è del 1854. Ma io mi passo anche di questa categoria di mali che
pur sono accidentali, e intramezzano fra quelli che ho detto di violenza, e gli
altri dei quali entro a parlare.
Imperocché i mali dei quali intendo discorrere appartengono ad un’altra
categoria diversa da tutte quelle che ho sopra indicato; e come non si
riferiscono ai difetti che si apparvero per dir così inseparabili dal governo
di partito, così neppure a catastrofi violente di Stato, né a brogli frodolenti
di elezioni. Invero la forma parlamentare muove la inclinazione, appresta la
facilità, lo sdrucciolo ad incorrervi, pure non si dee riguardarli come sì
fattamente connaturali in essa da non potersi evitare almeno in gran parte. E
ciò basta perché siano studiati accuratamente in sé medesimi, e nei rimedi
loro. Perché se alle fortunose catastrofi, se alle storiche corruzioni, se alle
inevitabili imperfezioni del governo parlamentare si aggiungono anche altri
mali che non appartengono all’essenza sua propria, e che impediscono la
sicurezza e la prosperità del cittadino, può addivenire, come io dissi sopra,
che a lungo andare quel Governo non solo apparisca dannoso e contrario al bene
pubblico, ma eziandio spregevole alle popolazioni.
Innanzi tutto bisogna distinguere l’indirizzo generale della politica dalla
pubblica amministrazione, e dalla giustizia. L’indirizzo generale della
politica comprende i criteri ed i metodi da seguirsi nella condotta degli
affari interni e nelle relazioni coi potentati stranieri, e concetti secondo i
quali si mantengono o si riformano le leggi esistenti, o se ne propugnano di
nuove, e infine certi provvedimenti straordinari richiesti da pubbliche
necessità. E questo propriamente è il campo assai vasto dove la diversità delle
opinioni e l’azione dei partiti apparisce legittima. Codesto indirizzo generale
politico può adunque mutarsi col mutare del ministero, e sovra di esso al
Parlamento si appartiene esercitare continuo sindacato.
Ma tale non è la giustizia né la pubblica amministrazione. La giustizia è in
vero un ramo della potestà esecutiva, ma un ramo che indipendente opera, e per
mezzo di tribunali sentenzia del diritto dei cittadini e lo restaura se
violato, riconosce i delitti e li punisce: fondamento precipuo dell’ordine
sociale. Laonde il primo tratto si mostra dover essere estranea in tutto alle
mutazioni di partito. La qual verità è teoricamente riconosciuta da ognuno,
anzi non si fa altro che parlare della imparzialità dei magistrati, anche da
coloro che in fatto la insidiano.
Diversa dalla giustizia è l’amministrazione pubblica, della quale è bene
delineare le fattezze generali, imperocché il cittadino ha attinenze con essa
quasi in ogni momento della vita. Il Messedaglia1 notò molto accuratamente la
distinzione fra il giudice e l’amministratore. Il giudice non agisce
direttamente, e per effetto immediato della sua funzione, ma lascia che
agiscano gli altri, ed egli si limita a dirimere i conflitti, mantenere a
ciascheduno la sua posizione di diritto, reprimerne la violazione. Inoltre esso
risponde soltanto della legalità e giustizia delle sue decisioni secondo
coscienza, ma non mai delle conseguenze di utilità o di danno che ponno
derivarne. Quindi la sua funzione è assolutamente passiva, repressiva,
irresponsabile. L’amministratore per lo contrario deve agire in virtù del
proprio ufficio, ed al fine dell’interesse pubblico. La legge che lo riguarda
non è solo una norma che egli debba far rispettare da altri, ma è la norma dei
suoi proprii atti: la sua funzione è quindi essenzialmente attiva, preventiva,
responsabile.
L’azione dell’amministratore è complessa. Si può distinguere la direzione che
si estrinseca colle ordinanze, coi decreti, colle istruzioni; l’ispezione
all’adempimento delle leggi e dei regolamenti; l’esecuzione di tutto ciò che per
legge, o per facoltà speciale dee fare o crede necessario di fare pel pubblico
bene; il sindacato dei corpi civili che gli sono soggetti; e finalmente il
giudizio sui ricorsi. Ma di questa parte dei giudizi, e della distinzione fra
il contenzioso amministrativo e il contenzioso giudiziario tornerà opportuno il
discorrere là dove parleremo dei rimedi. Ciò che abbiamo detto sopra ci pare
bastevole a delineare la distinzione fra giustizia e amministrazione. A
mostrare poi la importanza di quest’ultima basti l’osservare che non c’è
cittadino che o per le tasse, o per la leva, o per la polizia, o per i servigi
pubblici, o per le scuole, o per la proprietà, o per l’industria, per pel
lavoro non si trovi quasi quotidianamente in attinenze coll’amministrazione: si
direbbe quasi ch’ella c’involge da ogni parte; imperocché nelle moderne
costituzioni ha preso anche in molti rispetti il posto della Chiesa come in
tutte le funzioni dello Stato civile dal nascimento sino alla morte.
Basta scorrere col pensiero le attribuzioni di tutti i ministeri onde è
composto un governo moderno per iscorgere la vasta tela dell’amministrazione
pubblica. Dico di tutti i ministeri, in quanto che anche quello di Grazia e
Giustizia è un organo amministrativo dirigente, non è per potestà giudicatoria.
Il ministero dell’interno ha nella società odierna un compito amplissimo. La
sua azione preventiva si stende a tutto ciò che riguarda la sicurezza pubblica
ed è quella parte che si chiama propriamente polizia, la quale comprende la
vigilanza e la prevenzione dei reati, e la immediata loro repressione. E quando
il tribunale abbia pronunziato una condanna, ad esso appartiene la custodia dei
rei, e l’ordinamento dei luoghi di pena. Né la vigilanza preventiva riguarda
solo i reati, ma inoltre tutto ciò che può mettere a repentaglio la sanità
pubblica, od offendere il costume. Quindi appartiene al ministero dell’Interno
fare provvisioni nei casi di malattie epidemiche, di epizoozie e ancora
sull’esercizio delle farmacie, sulla vaccinazione, sulle arti insalubri, od
pericolose e va dicendo. Un altro compito dell’amministrazione interna è l’alta
tutela dei corpi locali, Provincie, Comuni, Opere Pie tanto per la osservanza
della legge quanto per alcuni interessi generali. E quando esse vengono meno
agli uffici assegnati loro dalla legge, ne emenda il difetto inscrivendo nei
bilanci loro le spese obbligatorie, ne approva i resoconti e di alcune
istituzioni nomina persino i direttori. Spettano ad esso gli archivi pubblici,
ed eziandio alcune parti di beneficenza. L’ordinamento dell’esercizio di terra
e dell’armata di mare, e tutto ciò che serve alla difesa Stato è affidato
all’amministrazione della guerra e della marina. Quindi leva di soldati e di
marinai, costruzioni di fortilizi e di navi, caserme, armamenti,
approvvigionamenti, e a tutti codesti fini contratti di ogni genere; né ciò
solo, ma altresì scuole di guerra, e di nautica. E invero una parte notevole
dell’istruzione pubblica, o direttamente o indirettamente, appartiene
all’amministrazione. E’ lo Stato che abilita i giovani che escono dalle
Università o dagli Istituti ad esercitare le professioni che diconsi liberali:
e ancora che determina i programmi e il tempo degli studi che a tal uopo si
richieggono. E’ lo Stato che mantiene o sussidia le Università, gli Istituti
scientifici, le Accademie di belle arti, i Musei e i Ginnasi e i licei e le
scuole normali, che infine aiuta i Comuni a diffondere la istruzione
elementare; le quali cose sono per la maggior parte di ragione amministrativa.
Colla costruzione delle strade e colla manutenzione loro, coi porti,
coll’inalveazione dei fiumi, coll’apertura di canali, e con altre opere
pubbliche di ogni maniera, lo Stato agevola le comunicazioni dei paesi fra
loro, favorisce l’agricoltura, l’industria, i commerci e talvolta anche li
incoraggia direttamente con premi, e con pubbliche mostre. In taluni casi
guarentisce la qualità dei prodotti come nell’uffizio del marchio e in quello
delle carte valori; in altri casi come nella pubblicazione delle statistiche fornisce
utili notizie a tutti coloro che ne ponno abbisognare. Vigila gli Istituti di
credito, i mercati e le borse. La pesca, la caccia, le foreste, le miniere,
certe specie di coltivazioni sono soggette a norme amministrative prestabilite.
E lo Stato, fornisce esso medesimo pubblici servigi importantissimi come le
poste, i telegrafi, le ferrovie da esso esercitate. Inoltre una parte degli
uffici suoi delega o lascia esercitare ai corpi locali, alle Provincie e ai
Comuni. Di che si vede quanto ampia sia la sfera dell’amministrazione, la quale
non solo attua le leggi e i regolamenti, ma piglia provvedimenti minutissimi e
quotidiani. E questo còmpito gli porge facoltà di prescrivere certi atti,
d’impedirne altri, di farne spese, e persino di espropriare il cittadino
mediante proporzionata indennità. E per fare tutto ciò ha d’uopo di una grande
macchina composta di pubblici uffici fornita d’impiegati gerarchicamente
ordinati dai più alti minimi; e ha d’uopo altresì di mezzi pecuniari, al quale
fine riscuote le tasse che sono state decretate dal Parlamento, ed esercita
ogni negozio della finanza. E questa raccolta di danaro, e questo esercizio di
negozi forma un altro ramo vastissimo di amministrazione. Da ciò nascono
rapporti infiniti dello Stato cogli agenti suoi propri e per mezzo di essi coi
singoli cittadini, e similmente cogli Enti morali.
Ciò che si detto sopra brevemente è più a modo di esempio che di
particolareggiata enumerazione, basta ad argomentare che se la imparzialità è
necessaria nella giustizia, non lo è meno dell’amministrazione. E quindi
l’azione dei partiti non solo dovrebbe essere assolutamente esclusa come suol
dirsi dal santuario della giustizia, ma eziandio dai dicasteri amministrativi.
Non si creda già che io voglia escludere il Parlamento dall’esaminare e
sindacare se i regolamenti furono fatti in conformità della legge, se questa e
quelli furono eseguiti appuntino, se nella materia nella quale
l’amministrazione procedette secondo i propri criteri, la sua azione fu
necessaria ed utile. Ma ciò per molta parte non porge argomento a differenze di
opinioni, o lo porge soltanto là dove si tratta dell’indirizzo generale, il che
appartiene alla politica. In tutti i particolari, e qualunque sia il partito
che abbia nelle mano il reggimento, esso dovrebbe lasciare che
l’amministrazione proceda senza riguardo al partito stesso, ma sibbene al solo
intento di conseguire i vari fini di utilità pubblica che si ricercano nel
miglior modo e più spedito che si possibile.
Ed eccoci pervenuti al punto fondamentale sul quale desideriamo che
l’attenzione degli studiosi si rivolga. Imperocché per raccogliere tutto in un
concetto, se l’essenza e lo scopo dello Stato sta nel rendere giustizia a
ciascheduno, e nel fare il bene di tutti, se le istituzioni politiche non sono
altro che mezzi e guarentigie per l’ottenimento di quel fine, che non vede che
la giustizia di partito e l’amministrazione di partito sono la negazione
dell’essenza e dello scopo medesimo dello Stato? L’ufficio dello Stato è di
sottoporre l’interesse di ogni cittadino e di ogni classe all’interesse
pubblico, il governo di partito inverte la gerarchia e sottopone l’interesse
pubblico ai suoi propri interessi: laddove ove ciò fosse inevitabile nella
forma costituzionale e parlamentare, si dovrebbe concludere che vi è
contraddizione fra questa forma di governo e il fine razionale della società.
Ma sebbene ciò apparisca in massima evidente agli occhi di tutti, pure non può
negarsi che Ministri, Senatori, Deputati e uomini politici di ogni sorte hanno
una tendenza ad insinuarsi nella giustizia e nell’amministrazione, e farvi
penetrare spiriti partigiani per trarle a profitto di sé medesimi e degli
aderenti loro o almeno per conservare forte e vigoroso il partito, diffonderlo
coi benefici e colle minacce, e mantenere il governo nelle proprie mani.
Codesto periodo che spunta sempre dov’é governo il partito, cresce e
giganteggia là dove il reggimento costituzionale non si svolse storicamente per
una serie lunga e non interrotta di ampliazioni e di adattamenti; ma successe
di subito ad un reggimento assoluto, o sia che lo Statuto venga ottriato dal
Principe stesso o strappato da impeto popolare. Imperocché l’amministrazione
era ordinata conformemente all’indole e alle tradizioni di una potestà
dispotica, ne possiede tutti i congegni e le abitudini, sì dell’arbitrio nel
comandare sì della disciplina nell’obbedire. Ora tengasi questo a mente, che un
organismo fazionato ad obbedire ciecamente a chi comanda senza riguardo a
guarentigie, addiventa facile istrumento di un partito quando questo ha in mano
il governo.
Un dotto scrittore germanico, Rodolfo Gneist, che ha meditato queste cose con
più acume di ogni altro2 vien divisando così gli effetti di un governo di
partito impiantato com’egli dice sull’ordinamento amministrativo di uno Stato
monarchico assoluto. Il 1° effetto è l’abuso metodico delle forze governative
specialmente della polizia nell’interesse della maggioranza temporanea contro
la minoranza e delle classi più potenti contro le più deboli. Infinite tentazioni
ha il governo di valersi delle leggi e dei regolamenti per molestare o nelle
persone o negli averi coloro che la pensano in modo diverso dal partito
signoreggiante; quindi, premi ai suoi satelliti, vessazioni agli oppositori. 2°
Abuso metodico nella ripartizione degli impieghi per accordarli ai suoi
favoriti. Si pretende che l’impiegato partecipi a tutti i pregiudizii del
partito signoreggiante, o almeno facilmente vi si accomodi. Né il silenzio
basta sempre a preservarlo dalla persecuzione, e s’inventarono le parole di
bene o male intenzionato che furono argine di condiscendenza o di
animavversione. 3° dalle due cause precedenti nasce un’alterazione e
trasformazione profonda in tutto il diritto pubblico. La partecipazione
dell’impiegato al conflitto fra cittadini e cittadini divenendo condizione
necessaria alla conservazione del suo ufficio, lo abitua a giudicare le
legittimità di un atto non in sé medesimo ma a tenore della opinione politica
che domina. Le regole di avanzamento sono manomesse, le concessioni
industriali, le cautele della sicurezza pubblica, il diritto domicilio perdono
il loro natural valore, insomma tutti gli atti dello Stato sono trasformati in
promesse o in minacce. Lo scopo precipuo è quello di vincere nelle elezioni. E
mentre il Parlamento colla votazione del bilancio stima d’infrenar il
Ministero, questo invece con indebite ingerenze introduce i suoi creati in
parlamento, e lo padroneggia disonestamente, né rimette del suo arbitrio se non
quando sente certe correnti d’opinioni esser troppo forti per resistervi, o
quando teme di provocare conati rivoluzionarii. Insomma allorché si congiunge
insieme il sistema costituzionale inglese col sistema amministrativo
continentale non ne deriva già come in Inghilterra un partito che governa, ma un
governo partigiano, e il ministero non è come in Inghilterra il centro degli
ordinamenti legislativi, ma è lo strumento d’interessi collegati che hanno in
lor balìa tutte le forze di un’amministrazione assoluta. Laonde a breve andare
si manifesta la sua impotenza a tutelare il diritto dei cittadini, e per
rimbalzo a mantenere integre le stesse istituzioni politiche, le quali non
bastano da sole a costituire un governo secondo la legge. Il cambiamento di
sistema adunque non ha mutato in questo caso la sostanza delle cosa, ma solo ha
accelerato il processo di dissoluzione.
Fin qui ho riepilogato le idee dello Gneist. Ora se guardiamo ai fatti che
l’esperienza ci ha posto innanzi, vediamo che sebbene l’Inghilterra possa
citarsi anche in ciò a modello, pure non fu al tutto immune di tal lebbra. Vero
è che il self-government (governo autonomo) preservò la nazione dei più gravi
mali. Imperocché la mercé di esso il cittadino inglese è veramente libero e
l’amministrazione é essenzialmente locale e indipendente dal governo centrale,
il quale non può aversi alcuna azione continuata e diretta. Ma per opposte
cagioni nelle azioni del continente europeo la tendenza biasimevole di che
parliamo fu di gran lunga maggiore, soprattutto nella Francia, nella Spagna,
nella Grecia, nella Italia. Si dirà che anche gli Stati Uniti d’America ne
porgono scandalosi esempi, ed è vero: ma quivi per ragioni peculiari che
esporrò più innanzi, sebbene l’ingerenza partigiana abbia prodotto alcuni
effetti speciali iniquissimi, non impedisce alla società di correre il suo
arringo con tale operosità che non fu mai veduta l’uguale nel mondo.
Ho detto che anche l’Inghilterra non andò esente da difetti. E veramente quello
che fu chiamato patronage (patronato) fé sue prove di grande parzialità e talora
non senza scandalo. Fino a Giorgio III la Corona praticava il patronato
direttamente dando cariche ed emolumenti, inventando quei posti che si chiamano
sinecure per beneficare i suoi favoriti, assicurando la successione degli
uffici, assegnando pensioni segrete. Parecchi atti del Parlamento, soprattutto
quello del 1782 nel quale fu segnalata l’opera del Burke, posero qualche freno
a siffatti abusi. Ma le grandi famiglie whigs spiegarono uno zelo straordinario
nel patronato e quando furono al potere collocarono gli amici loro e i parenti
non solo negli uffici dipendenti dai ministeri, ma in quelli dello colonie e
della chiesa. Nella inchieste e nelle discussioni che seguirono alla guerra di
Crimea apparve eziandio non ultima causa di molti guai, la facoltà di comprare
i gradi di ufficiale nell’esercito. Ora il metodo degli esami introdotto nel
servigio militare, e nel civile, e sopra ogni altra cosa la ognor crescente
ritrosia della pubblica opinione, tenace dell’autonomia personale e locale,
hanno sì fattamente temperato gli slanci di questo patronato, che al nostro
tempo Sir James Graham giunto alla fine della sua lunga vita poté affermare
risolutamente nessun abuso notevole essere più da temere per questa parte. Né
diversa è l’opinione di E. Fischel nel suo libro sulla costituzione inglese il
quale dice così: "La vicenda dei partiti non ha alcuna influenza sui
funzionari dell’amministrazione, avvegnaché i partiti stessi abbiano gran cura
della imparzialità dei servigi pubblici. L’amministrazione Inglese è come una
base di bronzo sulla quale si può collocare or l’uno or l’altro ministero senza
scuoterla. Sia capo del governo Lord Russell o Lord Derby il piedistallo rimane
immobile3 ".
Bensì per amor del vero, dobbiamo aggiungere che scrittori odierni come il May
e più tardi il Todde4 che ne invoca l’autorità, affermano senza esitazione
essere giusto il privilegio del ministero di preferire nella nomina degli
impiegati gli amici politici e sostenitori suoi ed osservano che fra le facoltà
che appartengono ad un governo ve n’ha poche più essenziali, e più efficaci di
questa delle ricompense. Il patronato, dicono essi, può adoperarsi a promuovere
gli interessi e consolidare la forza del partito; e dentro certi limiti e
quando non vi sia violazione di legge, giova come mezzo di rimunerare i servigi
passati, e di assicurarsi futuri aiuti. Però si avverta che l’uno e l’altro di
questi scrittori subordinano cotale privilegio alla pubblica utilità. Tale è il
concetto in Inghilterra; quando alla pratica odierna ogni atto di tal genere si
contiene in termini moderatissimi, e per le ragioni dette sopra non può
produrre effetto notevole, né pericolo grave alcuno per l’avvenire.
In Francia le cose ebbero tutt’altro andamento: l’amministrazione fondata da
Napoleone I parve così coordinata, così perfetta (e lo era davvero sotto
l’aspetto delle prontezza e della efficacia di azione del governo, e della
puntuale obbedienza degli impiegati) che non solo non si pensò a mutarla, ma i
Borboni ritornando nel 1814 sul trono la conservarono e la riconfermarono. Ma
gli statisti non videro che soprapponendo a questa amministrazione un governo
parlamentare all’inglese, le due cose non solo non si unirebbero ma l’una
finirebbe con guastar l’altra.
L’Hello nel suo libro sul reggimento costituzionale ha rappresentato vivamente
lo stato delle cose a’ tempi della prima restaurazione, e della monarchia
orleanese. Ei descrive gli agenti dell’amministrazione trasformati in agenti
elettorali, e l’elettore spinto al voto più dagli stimoli loro che dalla
coscienza del proprio dovere; quindi il deputato stesso fatto sollecitatorie
degli affari de’ propri elettori, correre d’ufficio a mendicare il favore dei
ministri. Ma in ogni ministero, egli soggiunge, si tiene un conto aperto al
deputato: da un lato tutto le grazie che gli si accordano, dall’altro il suo
voto alla Camera nei momenti solenni, col quale deve saldar le partite. E gli
effetti di questo mercato si reputano tanto utili, che l’amministrazione
accredita essa medesima il deputato come necessario mediatore negli affari.
Essa lascia capire che ogni petizione, sia pur giusta, per ottenere esaudimento
con speditezza, vuol essere accompagnata dalla raccomandazione del deputato, ed
a lui ne partecipa l’esito prima che ad ogni altro, affinché possa farsene
merito presso i suoi protetti. Similmente nella nomina degli impiegati più che
delle doti pregevoli si tien conto della protezione, e chi vuol salire sa che è
spalleggiato meglio dal favore altrui, che dalla diligenza propria. Di guisa
che l’abilità elettorale in prima e l’abilità parlamentare poi danno il tratto
alla bilancia delle ricompense. Così la natura delle istituzioni si falsifica e
il governo rappresentativo non è che una larva di morale e di civiltà5.
L’ingerenza della Camera nella distribuzione di ogni piccolo impiego, dice il
Carnè6 diede esca ad una sorda opposizione del corpo amministrativo contro il
reggimento parlamentare, e fu questa una delle cause meno avvertite ma più
efficaci del discredito in cui cadde nell’animo delle popolazioni. La Camera
divenne un vivaio di ufficiali pubblici, e la possibilità che la deputazione
fossa scala agli impieghi e agli onori scatenò le più volgari ambizioni.
Chi discorra i gravami espressi sotto la prima restaurazione e nel tempo di
Luigi Filippo, troverà ripetute le accuse delle quali abbiamo levato solo due
saggi. Si finì per credere che i deputati erano servi degli elettori, e
cortigiani del governo, il quale a sua volta per poter fare assegnamento sopra
la maggioranza era costretto a soddisfare le meno oneste lor brame, o almeno a
lusingarne la vanità, e pascerli di speranze. Lo stesso Guizot che tanta parte
ebbe nel reggimento durante quel periodo, non può trattenersi nelle sue memorie
dal riconoscere quei difetti, ed elevandosi come ei soleva a considerazioni
generali afferma le seguenti proposizioni7: "Grande è il disaccordo fra il
governo rappresentativo istituito colla Carta del 1814 e la monarchia
amministrativa fondata da Luigi XIV e da Napoleone I. Là dove come in
Inghilterra e negli Stati Uniti di America, in Olanda ed in Belgio,
l’amministrazione è libera come la politica, e gli affari locali si trattano e
si decidono sul posto senza attendere impulso o risoluzione dell’autorità
centrale, il reggimento rappresentativo si concilia agevolmente cogli ordini
amministrativi perché questi non vi si collegano se non in poche e importanti
occasioni, ma quando la potestà nazionale ha il duplice compito di governare
colla libertà, e di amministrare colla centralità, di sostenere in parlamento
la pugna per i grandi interessi dello Stato, e contemporaneamente regolare
ovunque sotto la sua responsabilità quasi tutti i più minuti affari del paese,
ivi uno di questi due inconvenienti non tarda guari a scoppiare; o il ministero
intento agli affari generali e alla difesa propria trascura gli affari locali,
e li lascia disordinarsi ovvero li cura facendoli servire ai propri interessi,
e l’amministrazione intera dal suo apice alla sua base non è più che uno
strumento nelle mani dei partiti che si contendono il governo della cosa
pubblica. Non è mestieri insistere su questi inconvenienti che oggi sono
divenuti un tema comune degli avversari del sistema rappresentativo... Ma è
chiaro che bisogna risolvere il problema di svolgere tutte le forze locali di
esercitare autorità nella cerchia loro, e far penetrare nell’amministrazione lo
spirito di libertà... La monarchia costituzionale costretta sin dal suo nascere
a vincere le difficoltà della libertà politica, e insieme a portare il peso
della centralità amministrativa fu messa alla prova di due responsabilità
contraddittorie che soverchiarono l’abilità e la forza che si può richiedere ad
ogni governo".
Questo lato della questione che il Guizot accenna non è il solo, ma è pur assai
importante. E non sfuggì alla perspicacia di Cesare Balbo che dice8: "Dove
gli impieghi dipendenti dal ministero sono numerosissimi e sparsi in tutto il
suolo nazionale... i ministri diventano oltrapotenti; la macchina mirabile
trovata a distruggere l’antico e franco assolutismo, non ha fatto che produrre
uno nuovo ed insincero. Qui ci basterà osservare che tutte queste
amministrazioni così numerose e così concentrate nelle mani dei ministri sono
istituzioni di Napoleone e molto bene inventate da lui a suo scopo, molto male
subite poi... Il nec plus ultra delle slogicature fu in un paese, dove sotto il
governo assoluto non s’era stabilito mai l’ordinamento amministrativo
napoleonico, e si stabilì contemporaneamente colla monarchia rappresentativa. E
questo è il paese di Macchiavelli!"
E chi bene addentro rifletta scorgerà quanta analogia passi fra questo concetto
e quello che io esprimeva presentando al Parlamento nel 13 marzo 1861 il
disegno di un nuovo ordinamento del Regno, e adoperava queste parole: Se gli
ordini costituzionali in alcune parti d’Europa non fecero buona prova, egli è
da attribuirsi principalmente a ciò che il Comune e la Provincia non vi erano
ben ordinati né abbastanza liberi per la qual cosa trovandosi il cittadino da
sé solo di fronte all’onnipotenza dello Stato si corre non solo alla
democrazia, ma alla dittature e al dispotismo.
Ma tornando alla Francia non solo nell’amministrazione ma eziandio nella
giustizia s’infiltrava la indebita ingerenza della politica. Un uomo di grande
vaglia ed autorità, il vecchio duca di Broglie, lo diceva apertamente come si
vede nelle opere postume pubblicate da suo figlio9, e confessava esservi state
a sua memoria talune scelte di giudici manifestamente partigiane e riprovevoli,
talvolta odiose e ributtanti: nelle quali però nessuno osava apertamente
lagnarsi. Di vero lo stesso autore cerca la ragione dello sconcio in ciò che un
ministro può muovere a suo arbitrio una schiera di migliaia dio giudici, e
questo ministro è uomo politico, e per conseguenza uomo di parte, e quindi ha
amici ed avversari. Or come supporre che, per quanto buon volere ed
imparzialità si sforzi di avere, pure non ceda alle sollecitazioni, alle
importunità degli amici, al desiderio di rimeritare i servigi di chi lo aiuta,
lo sostiene, e partecipa alle sue idee e ai suoi sentimenti?
E non è a credere già che la repubblica abbia mutato il triste andazzo, perché
il male non ha nulla che fare, come dissi, con la eredità o la elezione del
supremo magistrato, anzi scorgiamo lucentemente che peggiore col succeder delle
forme parlamentari alle costituzionali. Poche settimane or sono un deputato
francese vantasi di avere per suoi rancori in pena di una sentenza datagli
contro per affari civili, ottenuto dal ministro il trasferimento di un
magistrato, come erra di più forte vendetta10. E mentre scrivo queste pagine mi
accade di leggere le seguenti parole: "Oggi prevale il concetto di
governare ed amministrare il paese, curando oltre misura gli interessi del
partito che governa: si cercano delle guarentigie contro la possibilità di
cambiamenti, allontanando da ogni funzione amministrativa e municipale coloro
che non hanno le idee e le vostre passioni, si vorrebbe se fosse possibile
escluderli da ogni vita pubblica e perseguitarli a oltranza. Questa è politica
di partito non di stato. Imperocché a chi non fraintende il senso delle parole,
un partito può avere una politica di stato quando soddisfa a tutte le esigenze
dell’ordine, della giustizia, della libertà, degli interessi nazionali, mentre
se la sua politica è di partito, immola tutti questi beni alle sue passioni e
agli interessi suoi proprii. La politica di stato ha un’ideale, più o meno
utile, più o meno retto nella scelta dei mezzi, ma codesto ideale sovrasta alle
ambizioni personali: la politica di partito mira a mantenere la potenza nel
cerchio dei propri aderenti e adopera del continuo espedienti a tal fine, senza
pensare agli interessi della nazione. E più oltre: I ministri non sono
indipendenti nell’amministrazione: i senatori e i deputati hanno l’ingerenza
massima sopra i funzionari, e sopra la trattazione degli affari, e le
pretensioni loro passano nel gabinetto o nel consiglio dei ministri solo per
esservi confermate. Ma questi padroni dei ministri hanno degli altri padroni a
lor volta e sono i membri dei comitati che li fecero eleggere. Questi intimano
gli ordini loro agli eletti ed essi li trasmettono ai ministri che ci appongono
la loro registrazione11".
Che più? Leggo citati alcuni brani di un discorso del Procuratore generale
innanzi alla Corte di appello di Parigi che non si perita di manifestare questi
pensieri: "I giudici di pace sono oggi più solleciti di sapere quali siano
le opinioni politiche dei loro giudicabili, che del merito dei loro processi, e
si domandano se una buona elezione non valga che un buon giudizio... A me è
lecito di sollevare il velo della mia amministrazione, ma io vi farei stupire,
mostrandovi quanti vi sono i quali credono dio poter verificarsi mediante una
denunzia politica di cattivi processi che hanno perduto in tribunale12."
Continuo questa rassegna in altri paesi, ma debbo avvertire il lettore che non
da esame accurato e personale dei fatti io traggo le informazioni che seguono,
ma le trovo scritte in libri ed effemeridi pregiate; sicché potrebbe in esse
insinuarsi inesattezza, o qualche torto giudizio, del quale io non vorrei esser
tenuto in colpa.
Nella Spagna è antico e universale il lamento: anzi non è raro il caso di
leggere le lodi dell’amministrazione francese, la quale almeno conserva una
certa integrità, in mezzo alle rivoluzioni politiche, e procede senza scosse e
senza interruzioni: laddove in Ispagna quella che nel 1870 il Castelar chiamò
empleomania è un male cronico ed esiziale. Perché quando il ministero cade,
trae seco nella caduta buona parte dell’amministrazione. Vi sono in Ispagna,
dice Mazade13, degli impiegati moderati, degli impiegati progressisti, ma
indarno si cercano impiegati che servano lo Stato anziché i partiti. Fra le
condizioni richieste alle riforme, prima sarebbe quella di sbandire
dall’amministrazione la politica che la perverte e fuggir tal costume, onde
ogni più rea opera si giustifica in nome del partito. E vi fu un periodo
(auguriamo che sia in sul declinare) nel quale entrare al ministero della cosa
pubblica era notoriamente il mezzo più efficace di arricchire in breve ore, e
non pur sé medesimo, ma i parenti e i famigliari. Però anche oggi si legge
scritto da uno che sciaguratamente fu vittima del proprio zelo: "La
mancanza di giustizia, l’arbitrio amministrativo, la centralità eccessiva, la
rassegnazione del popolo danno al governo della Spagna potestà più larga che in
alcun altro Stato. All’avvicinarsi delle elezioni può cambiare a suo grado
perfetti, giudici, impiegati, sono ai membri del municipio e ai consigli
generali, accelerare o ritardare a suo grado la soluzione dei ricorsi
amministrativi, esaudirli o negarli, chiudere gli occhi sui contribuenti che
sono addietro nei pagamenti delle imposte, ovvero usare con loro spietato
rigore nel riscuotere, accordare o negare sussidi per opere pubbliche. All’uopo
si ricorre alle minacce, alle violenza, alla falsificazione dello
scrutinio14."
Peggio ancora in Grecia, e n’è prova che dopo oltre cinquant’anni di
costituzione libera, i progressi veri dell’amministrazione, dell’istruzione,
dei lavori pubblici, dell’agricoltura, della ricchezza sono troppo scarsi, ed
anche la sicurezza pubblica è sempre mal guardata. Leggesi in uno scritto che
dipinge la Grecia contemporanea: "Le persone più rispettabili sdegnano di
far parte della Camera e ne fan parte invece taluni di abominevole fama.. La
faccia degli intriganti e degli ambiziosi s’inframette nella politica. Le
sessioni intere si logorano in sterili declamazioni, in grossolane ingiurie, di
personali accuse: e poi quando s’approssima l’ultimo giorno della sessione, si
votano senza discussione tutti i progetti presentati... Una delle più
caratteristiche fattezze del Parlamento greco è questa, che al principiar della
sessione tutti i gregari sono ministeriali, ma a poco a poco passano
all’opposizione, e sol quelli che hanno ottenuto un impiego restano fedeli,
sicché a vero dire non v’è ministero che possa reggersi a lungo contro le
coalizioni15". E’ da sperare che si sia esagerato, ma non si può negare
che altri indizi provano mali veri e disonesti.
L’Italia sta nel mezzo: il morbo è in essa ancora men grave che non è in Spagna
ed in Grecia, parte la novità delle istituzioni, parte per l’indole degli
abitanti, e lo stato della civiltà; ma temo sia già grave che in Francia, e
ch’essa volga rapidamente verso le due penisole che le stanno ad occidente e ad
oriente. Ma prima di parlare dell’Italia conviene che io dica alcuna cosa degli
Stati Uniti d’America.
Negli Stati Uniti d’America la corruzione nelle regione politiche, se mi è
lecito adoperar questa metafora, è grandissima e notoria. Sin dall’epoca che il
Tocqueville scriveva il suo libro magistrale egli non si ristette dal
descriverla e condannarla, e narrò che molti uomini dabbene, fra i più eminenti
per ingegno e per virtù rifuggivano dal prender parte alla cosa pubblica. Il
che è il contrapposto dell’antico concetto che il governo debba naturalmente
venire nelle mani degli ottimi. Ma dal tempo di Tocqueville in appreso, la
corruzione è smisuratamente cresciuta, e scandali recenti l’hanno messa ognora
più in aperto. Ora la cagione principalissima di questa corruzione reputasi la
maniera onde sono costituiti i partiti; imperocché fra il popolo e i suoi
medesimi eletti s’interpone una classe di uomini accaparratrice o sforzatrice
del voto. Questa è la classe dei (politicians) politicanti, i quali si
circondano di una schiera di agenti ai capi, addestrati a servir il partito
senza scrupoli, che corrono per le città e per le campagne, ingannano,
avviluppano, minacciano, sicché l’azione dell’ingenuo cittadino è annullata, se
non è pronto a gittarsi cogli altri nella mischia a capo fitto o ad ordire
cospirazioni contro cospiratori; ed anche in questo caso, secondo ogni
probabilità l’opera sua tornerebbe vana perché non preparata da acconci
ordinamenti. Il metodo del caucus unione dei politicanti più audaci e più
inframettenti, ha per fine d’imporre il voto alle moltitudini. Questo per le
elezioni: ma gli eletti poi hanno naturalmente un debito da sodisfare a coloro
che li portarono in seggio, ed essi medesimi cercano lucro e potenza anche per
vie oblique, donde gli accordi, gli anelli (rings) come colà si chiamano, e ciò
tanto nel partito che s’intitola repubblicano quanto in quello che prende nome
di democratico, e questi anelli somigliano a quel che in Italia si direbbe
camorra o mafia. Laonde avviene che, compiuta la elezione e soprattutto quella
del presidente, un nugolo di pretendenti si cala intorno ad esso, e ciascuno fa
valere i suoi diritti ai migliori impieghi per l’opera prestata, imperocché è
noto che il nuovo capo della repubblica può licenziare tutti gl’impiegati, e
nominarne altri a lui meglio affetti: e inoltre è mestieri contentare i
capitalisti i quali hanno fornito i denari per le spese della elezione, colla
mira di far qualche operazione di finanza col governo, o di ottenere qualche
concessione di miniere, di ferrovie, o di altre imprese. Così ogni quattro anni
si rinnova quella che con frase scolpita un recente scrittore americano chiamò
la balìa del pubblico saccheggio16.
Già da gran tempo fu chiesto da molti che una legge regolasse lo stato degli
impiegati; e gli uffici fossero conferiti secondo il merito, e mantenuti
stabilmente in chi adempì al proprio dovere; ma le istanze tornarono vane. Fin
dal 1867 una società di Filadelfia propose un premio a chi meglio sciogliesse
il problema dell’ordinamento delle elezioni al fine che il corpo politico fosse
sinceramente rappresentato. Fra le dissertazioni pubblicate17 parecchie
effigiavano al vivo gli inconvenienti del governo di partito e affermavano non
potersi onninamente chiamare libere istituzioni quelle che tali sconci
permettevano, né democratico un reggimento nel quale il popolo tanto è lungi
dal dirigere la cosa pubblica che al contrario è diretto da minoranze
artificiose, collegate in setta, e dove il privato cittadino non solo è
destituito di ogni azione nella politica nazionale, ma quasi non osa avere una
volontà.
Mi sia permesso levarne alcuni saggi curiosi e non abbastanza noti ancora appo
noi, i quali mettono raccapriccio; imperocché gli effetti più terribili del
sistema incominciarono a vedersi chiaramente durante la guerra civile fra il
nord ed il sud della repubblica.
Era presidente in quel tempo Abramo Lincoln, uomo noto per grande probità,
tantoché dal popolo aveva avuto il soprannome di onesto vegliardo (honest old
Abe). Eppure anch’egli dovette cedere alle violenze e pressure del partito18.
Un tale Cameron, svergognato nelle sue capacità, svergognatissimo nell’ambire
uffici superiori ad ogni suo merito, questo Cameron uno dei caporioni fra i
politicanti, fu da esso loro fiancheggiato perché Lincoln gli assegnasse un
portafoglio; ma la natura onesta del Presidente vi repugnava. Fu udito
esclamare più volte: che dirà il popolo di me sapendo che io accolgo il Cameron
fra i miei consiglieri? E ciò nonostante dové sobbarcarsi, e chiamò costui a
reggere prima il dicastero della marina e poi quello della guerra. Non appena
egli è assunto il nuovo ufficio, di subito trasferisce la commissione
dell’acquisto dei vascelli da un comandante marittimo com’era costume, ad un
proprio cognato, del quale è detto in una inchiesta posteriore fatta dalla
Camera che "gli mancava ogni ombra di esperienza, ed ogni capacità in
materia nautica, ed era al tutto ignorante del servizio navale e
dell’acquistare o costruire vascelli, alle quali cose può asseverarsi che,
prima di quel tempo, in sua vita egli non aveva pensato mai un’ora sola; e
nondimeno comprò delle navi per otto milioni (di lire italiani) e confessò di
aver preso in sette settimane 250 mila lire per compenso dell’opera sua".
Non meno profligatamente andarono le cose della guerra. I politicanti della
Camera eran divenuti i sensali delle intendenze militari, quando non erano essi
stessi colonnelli o generali. Chi legge le relazioni dei comitati che
esaminarono appresso la gestione finanziaria di quel tempo, prova un senso di
ribrezzo e d’indignazione. E non solo vi fu dispersione e furto sfacciato nelle
spese dell’esercito e della marina, ma il tesoro nutriva ed arredava in parte
l’esercito avversario. Sotto il pretesto di un commercio di cotone fra il
mezzodì e il settentrione, si mandavano provvisioni e fornimenti all’esercito
che si doveva combattere, e ciò facevasi con permessi della tesoreria firmati
dallo stesso Lincoln che era inconsapevole del tradimento che commettevasi.
Imperocché a ragione il comitato designa quel supposto traffico come un
tradimento alla patria. Di tal guisa dal 1870 durante la guerra di secessione
il governo solo spese quasi ventotto mila milioni (di lire italiane), e il gen.
Schofield19 uomo autorevole quant’altri mai non si peritò di affermare che
quella guerra poteva finirsi con la metà di vite umane, e di danaro sprecato,
se fosse stata condotta con senno e con onestà. Per finirla colla storia di
questo Cameron quando gli scandali furon giunti al colmo, il Presidente Lincoln
si decise a destituirlo. Ma qui ancora fatto il primo passo, bisognò ritrarlo;
imperocché tali erano intorno a lui le ingerenze e gli scalpori, che convenne
fingere che il ministro avesse dato spontaneo la rinuncia, e destinarlo
ambasciatore della Repubblica a Pietroburgo.
Nel tempo di che parliamo, cioè durante la guerra di secessione si videro
esempi notevoli di associazioni ordinate al fine di violar la legge sotto il
manto di legalità; e queste associazioni furono abili a soverchiare a lor grado
e muovere Corti di giustizia e assemblee legislative degli Stati, ottenendo
sentenze da quelle e riforme opportune da queste per imporre tasse, aumentare
le emissioni di carta moneta, perturbare i commerci. In somma pochi smisuratamente
arricchiti dalle spoglie di moltissimi.
Come ne Governo centrale così nei governi degli Stati e nei municipi si
manifestarono frequenti le menzogne e le frodi: ed è troppo nota la vicenda di
Tamany-Ring di Nuova-York perché io mi indugi ad esporla. Fatto è che una mano
di politicanti, vera banda di malfattori, s’impossessò dell’amministrazione
della città, impose giudici e impiegati suoi partigiani, dilapidò i danari del
comune, rubò a man salva molti milioni, e poté tiranneggiare parecchi anni in
mezzo alla incuria o al terrore degli amministrati. Io non ho presente agli
occhi, ma ricordo, un discorso tenuto dal Mundella nell’atto stesso che
lasciava New York per ritornare in Inghilterra, dove esprimeva nobilmente il
suo cordoglio per queste enormezze.
Chi voglia prender contezza di smisurate corruzioni, fra i vari libri, prenda a
leggerne uno curiosissimo dei signori Adams20. Ivi si vedrà narrata la storia
di una delle più cospicue ferrovie quella dell’Erie, fatta preda di un gruppo
di avventurieri senza onore, senza credito, senza beni di fortuna: i quali
mediante questa impresa riuscirono ad agire sinistramente sulla politica e
sulla economia nazionale. Si vedrà narrata similmente quella che fu chiamata
cospirazione dell’oro, per la quale con artefici frodolenti, e spacciando false
novelle si alzava e si abbassava l’aggio della moneta metallica a intervalli
rapidissimi, rovinando famiglie e popolazioni per saziare l’ingorda brama di
avidi speculatori. Ed è a notare eziandio che nei partiti e nella politica sì è
fatto un gergo di parole come quello dei galeotti e dei cammoristi e questo
come tutti i gerghi muta alla giornata secondo le circostanze21.
Non è dunque da meravigliare se un senso di tristezza occupa gli animi di
molti, e se l’Adams se ne sia fatto interprete con queste singolari
considerazioni che appaiono dettate da animo sdegnoso. Le generazioni si
susseguono sperando di lasciare i figli loro in condizione migliore, ma
s’ingannano. Si suppone che non vi siano più pirati, né briganti, né truffatori
al giuoco o in cricca: ma ci s’illude. I pirati hanno trasportate le loro
imprese in terra e le conducono più o meno d’accordo colla legge, ottenendone
tale profitti che mai non avrebbero potuto sperare quando scorazzavano in mare;
anche i briganti non vivono più nelle grotte delle montagne ma si pavoneggiano
nelle piazze, e non pigliano più quei soprannomi terribili e minacciosi di un
tempo, ma si fanno chiamare col nome proprio e col titolo di colonnello, di
generale, di presidente. E il giuoco di vantaggio s’è convertito in un affare,
e si tratta come una operazione di cambio. Cosicché si può con verità dire, che
strappando la maschera ingannatrice al secolo XIX, si troverà che la sua
gentilezza tanto vantata copre la brutalità del secolo XII, anzi si dovrà
concedere che questo era men reo e men disonesto del presente.
Né si può dire che ciò avvenisse solo in momenti di agitazione, e di disordine,
quando ferveva la guerra civile, o poco dopo, quasi fiotti di mare venuti dopo
la tempesta. Imperocché altri casi gravissimi seguirono subitamente sotto la
presidenza del generale Grant. Taluno dei suoi ministri ebbe a sostenere
processi di concussione e di peculato; e poiché questi fatti non erano stati
ignorati dal presidente, ciò contribuì non poco ad impedire che fosse eletto
per una terza volta. Il Molinari nelle sue lettere22 dice che Verre non
ispogliò la Sicilia tanto crudelmente quanto i carpet baggers saccheggiarono il
mezzodì, e descrive con grande vivezza quelle associazioni anonime che si
formano nell’America coll’intento prossimo d’impossessarsi del governo, ma col
proposito ulteriore di spogliare il paese23.
Colla presidenza dell’Hayes parve che un’aurora di moralità imbiancasse
l’orizzonte. Imperocché in una sua lettera riguardante la nomina degli
impiegati egli osò esprimersi con queste parole: "Sono già quaranta anni
che si svolge un sistema che ha per divisa: le spoglie al vincitore. La regola
antica, vera, che l’onestà e la capacità costituiscono i soli titoli agli
impieghi e che non v’ha fuor di quelli altro diritto, codesta regola ha ceduto
alla regola opposta, doversi guardare soprattutto ai servizi che uno ha reso al
partito politico, e ogni partito la mette in opera. E notasse bene che questa
regola s’è andata peggiorando nell’attuarsi. Perché dapprima era il Presidente
direttamente o per mezzo dei capi dei vari uffici che sceglieva gli impiegati,
ma a poco a poco la designazione di essi è passata nelle mani dei membri del
Congresso legislativo. Gli impiegati pubblici sono divenuti così la mercede dei
servigi resi a un partito, e peggio ancora dei servigi resi ai capi del
partito. Or questo sistema annulla ogni indipendenza negli uffici pubblici, e
mentre spinge a prodigare le spese, colloca nella amministrazione agenti
incapaci. Indi la tendenza ad operare disonestamente, indi un affievolirsi
della vigilanza dei superiori, e venir meno la responsabilità che assicura nel
servizio pubblico probità, ed efficacia. Imperocché i funzionari indegni non
possono essere prontamente revocati né rigorosamente puniti. Bisogna dunque che
la riforma sia generale, intera e dalla radice. Noi dobbiamo tornare alle
massime e alle pratiche dei fondatori delle nostre istituzioni, e se è
necessario, scrivere nelle leggi quelle massime per non diparticene mai più. Uopo
è che l’impiegato dia tutta l’opera sua all’amministrazione col solo intento
del pubblico bene, e sia assicurato che sino a tanto che adempia onestamente e
convenientemente le sue funzioni, egli conserverà il suo impiego".
Né dalle parole furono discordi gli atti. Egli incaricò il segretario di stato
Sherman di fare una inchiesta sulla condotta del generale Arthur che aveva
l’ufficio di collettore delle dogane a New-York. E poiché lo Sherman nella sua
relazione mostrò che gravi abusi in quelle dogane si commettevano, parte
insciente, parte consenziente il collettore, l’Hayes lo destituì e fu
bell’esempio, e imitabile. Ma non pare che producesse nel pubblico grande
effetto, poiché nessuno ha pronunziato il suo nome per la rielezione, e lo
stesso Generale Arthur fu eletto vice-presidente24. Vero è che alla presidenza
fu elevato il Generale Garfield uomo di grande saviezza ed integrità; ma la sua
virtù gli fu per avventura cagione di perdere la vita. Imperocché colui che lo
assassinò a tradimento, il Guitteau, non era mosso da fanatismo politico, ma da
vendetta privata, perocch’egli pretendeva in ricompensa delle sue fatiche
elettorali un posto che gli fu dal presidente negato. E’ da credere che
l’orrore fortissimo, suscitato nel popolo degli Stati Uniti da questo delitto,
sarà freno salutare al suo successore, e come si vede nella storia che talvolta
gli eccessi sono principio di ammenda nella legislazione e nel costume, così
giova sperare che affretti la riforma assai più che non avrebbero potuto farlo
le argomentazioni e i discorsi degli scrittori.
Ma onde mai questo fatto nuovo negli annali del mondo, che la corruzione delle
classi politiche non siasi rapidamente diffusa per tutto il popolo, e che un
governo abbia potuto sussistere in tali condizioni? La spiegazione di tal fatto
vuolsi ripetere da molte cagioni. E primieramente la vigoria, e se mi è lecito
dir così la giovanilità gagliarda di quel popolo, facile a superare ogni morbo
avventizio. Quando l’agricoltore trapianta dal vivaio al campo gli olmi e li
dispone in filari, s’accorge dopo breve tempo che in taluni le muffe hanno
attecchito, e ne ingialliscono la scorza: i piantoni vigorosi o le respingono,
o se ne liberano in brev’ora, mostrando una buccia fresca e lucida, mentre i
deboli o non possono liberarsene, o ne rimangono tisici. Tale in molte cose, è
la condizione dell’Europa rispetto a quella dell’America.
Aggiungi lo smisurato territorio nel quale la popolazione crescente può
stendersi e trovar lavoro, e rimunerazione condegna. Imperocché allora
principalmente le agitazioni intestine e le contese civili cominciano a
scoppiare, quando la popolazione moltiplicandosi, riesce difficile trovar il
modo onde campare la vita come accade nella vecchia Europa. Colà invece terre
fertilissime da coltivare, boschi vetusti da abbattere, miniere di carboni, di
olii, di pietre, di metalli da scavare, e tutto risponde l’un cento della tua
fatica e del tuo capitale. E’ un fatto nuovo nel mondo l’ardire, la temerità
colla quale s’intraprendono colà le opere più ardue dell’agricoltura,
dell’industria e del commercio, ed è parimente maraviglioso lo svolgimento
della produzione e della ricchezza. I grandi guai della guerra civile, le
dispersioni infinite di denari e di uomini furono riparate in poco d’ora, e ben
poté dire il presidente Hayes nel suo ultimo messaggio che la presente
condizione finanziaria degli Stati Uniti, considerata in relazione alla
crescente ricchezza della repubblica, alla estensione e varietà delle sue
attitudini, è più fortunata di quella di ogni altro paese al nostro tempo: anzi
non fu mai sorpassata da verun paese in qualsiasi periodo della storia25.
Anche si vuol attribuire il fatto di che parliamo alla razza anglo-sassone
fondatrice di quelle colonie, la quale ha un’indole seria ed operosa, e dove
l’amor della famiglia, il rispetto delle leggi, e il sentimento religioso
tengono un grande predominio.
E infine il Governo sia locale sia federale ha una cerchia assai ristretta di
attribuzione, e la massima parte degli atti amministrativi è interamente
sottratta alla ingerenza governativa. Lo Stato vi ha l’ufficio di tutelare la
sicurezza e di difendere la integrità territoriale, poco più; tutto il resto è
lasciato alla libertà del privato e delle associazioni spontanee. L’America
Settentrionale si trova in ciò al punto opposto di quello Stato moderno tutore,
educatore, distributore della ricchezza quale è descritto da parecchi scritti
che lo vagheggiano come tipo ideale.
Ad ogni modo la differenza sta in ciò che in Europa lo Stato e il governo che
lo rappresenta è guardato con riverenza, spesso con invidia, come organo
superiore della società, laddove in America si accetta quella teorica del
passato secolo che lo Stato è per così dire un male necessario, che fa
maggiore, anzi spesso minore di ogni altra opera civile di scienza, d’arti,
d’industrie. Il popolo americano ha attuato l’autonomia del cittadino quanto è
possibile, e mostra nella storia di avere il còmpito di svolgere al più alto
grado di condominio dell’uomo sulla natura, traendone ogni possibile benefizio,
e per così dire di foggiarla a civiltà, dissodando un continente fertilissimo
che era incolto, e introducendo tutte le maniere d’industrie e di commerci coi
metodi più perfezionati della meccanica e della chimica. E questo compito fu
maravigliosamente eseguito per iniziativa privata, senza direzione del governo.
Tu odi sovente l’americano parlare del governo in termini dispregiativi, ed ei
non si briga di migliorarlo salvocché non venisse meno interamente al suo
ufficio. Perdoni il lettore se io introduco un paragone volgare, ma egli è che
l’ho udito dalla bocca stessa di un americano. Ho udito dirgli: io so bene che
nell’amministrazione avvengono indegnità e dilapidazioni e peculati, e che ciò
torna ad aumento di tasse: ma a me giova piuttosto pagare un tanto di più che
occuparmene, imperocché il tempo che vi spenderei se lo dedico ad altre opere
mi rende il decuplo ed anche maggiormente. Il nostro caso è quello del signore
che ha un cuoco che gli ruba e sel sa: ma pazienta finché il furto non è
eccessivo e finché il pranzo è discreto. Certo se costui rubasse a man salva, e
per di più gli apprestasse cibi guasti o mal cotti, allora si risolverebbe a
discacciarnelo: similmente facciamo noi americani quando il male passa un certo
segno. E così le prevaricazioni del governo di Grant ci mossero a non
rieleggerlo più Presidente e così spazzammo via il tammany ring di Nuova York
quando la misura fu colma. Fino a quel punto lasciamo fare, e andiamo per la
nostra via più fruttuosa, più libera, e che ci infastidisce meno; e ci pare che
ogni altro impiego del nostro ingegno e della nostra attività valga meglio di
quello che mescolarsi nella vita pubblica26. Tale in generalità è il concetto
che allontana molti da quell’arringo, dove in Europa è per taluni adempimento
di un dovere, per altri premio di lunghi sforzi, per altri ancora palma di
nobile ambizione: tali sono le cagioni per cui un governo corrotto non corrompe
la moltitudine del popolo.
Ma durerà codesto stato di cose perpetuamente? Quando la popolazione che, parte
per sé medesima, parte per l’immigrazione, si moltiplica così rapidamente, sarà
divenuta numerosa rispetto al terreno da coltivare e alle industrie da
esercitare, potrà la cosa pubblica procedere come oggi, potrà lo Stato non
inframmettersi di molti servizi? o non avverranno colà ancora quegli sconci,
quelle discordie, quei rivolgimenti onde la storia del vecchio mondo è
intessuta? Fino ad ora, come ho detto, la grande moltitudine degli abitatori de
quel paese segue il suo cammino, nonostante la corruzione della classe politica
e ci dà in molte parti della civiltà maravigliosi esempi e degnissimi
d’imitazione27. E chi potrebbe parlare di quel grande popolo senza un
sentimento di stupore e di ammirazione? Ma poiché la indagine dell’avvenire oltrepassa
il tema che io mi sono proposto, e parmi di aver già dimostrato abbastanza che
tutti i governi parlamentari di qua e di là dell’Atlantico patiscono di questo
male; torno all’Italia, che, come dissi, tiene il mezzo a parer mio fra la
Francia e le due penisole iberica ed ellenica nel generare i cattivi effetti
del governo di partito.
E qui è mestieri ripetere che essendo mio scopo di mostrare i mali dei partiti,
non intesi farne io medesimo arma di partito come a taluni forse dei miei
accusatori poté parere. Certo parve al Desanctis del quale ho citato sopra
parecchi brani, il quale parlando poscia a Foggia l’11 marzo 1880 diceva queste
parole: "Io voglio prendere la parola per un fatto personale. Scrissi
alcune pagine in un giornale intitolato il Diritto, e di quelle pagine
l’onorevole Minghetti si fece arma contro la Sinistra. Egli m’impiccoliva; egli
non si pose a quell’altezza dalla quale io guardava. Non guardavo io alla
Destra o alla Sinistra, non è in questo o quel particolare che si deve cercare
lo spirito di un uomo; la mia mira era più alta. Io guardavo ad uno stato
morboso d’Italia e ne facevo la diagnosi. E il morbo è questo, che abbiamo
l’audacia e la violenza dei pochi e l’indifferenza dei molti, questo è lo
spettacolo che ci danno i popoli nei tempi della decadenza o della stanchezza.
Gli onesti si disgustano. I patriotti si ritirano. La fede nelle patrie sorti
s’indebolisce. E in mezzo all’accasciamento e all’apatia elettorale assisti al
tripudio osceno delle passioni e degli interessi più volgari".
Passando io per quella città tre giorni appresso, ed essendomi narrato delle
cose dette dall’onor. De Sanctis, poiché mi si offeriva opportuna occasione di
parlare a quella medesima popolazione che lui aveva udito, risposi fortemente
negando la ingiusta accusa. Imperocché mio intendimento era di notar questo
male come uno di quelli che si manifestavano nei governi parlamentari, ed al
quale bisognava rivolgere attento lo sguardo per cercarne i rimedi con
sollecitudine, qualunque sia il partito che regge la somma delle cose. La mia
sentenza era generale, e fu mossa solo da un grande amore delle nostre
istituzioni, parendomi che la corruzione rapidamente si dilati, e
l’amministrazione sia minacciata da una lebbra, la quale se si estende ancora produrrà
questo effetto: che il Governo invece di essere tutore dei diritti e degli
interessi dei cittadini, sarà mancipio di una classe o piuttosto di una
fazione. Sicché io lascio stare questa immeritata accusa, e ripeto che il mio
intento non riguarda persona alcuna, né questo o quel partito, ma vuol provare
che il male c’è, che s’allarga ogni giorno e che diverrà esiziale, se non vi si
pone qualche riparo. Che se talvolta al mio intendimento mal rispondesse lo
stile, io prego il lettore di considerare che questo scritto ebbe origine da
una difesa personale, e che il risentimento comecché giusto nella origine può
avere sparso su di esso, anche contro mia voglia, una certa asprezza.
Nei primi tempi della nostra rivoluzione molte cagioni impedirono che il male
scoppiasse. Prima di tutto la novità, e l’imperizia, perché gli effetti di
questa indebita ingerenza non si sentono che per esperienza; e i vantaggi
privati che se ne possono trarre dagli uomini politici, vengono a poco a poco,
e anche la libidine dell’arbitro si risveglia gradatamente e scapestra per
impunità. Leggo che per giungere alla massima perfezione nella rea loro arte,
tre generazioni di politicanti occorsero in America28. Nei primi momenti del
nostro risorgimento l’entusiasmo soffocò le male passioni. L’Italia si
riscuoteva da secolare oppressione, dopo infiniti contrasti e martirii, e gli
uomini che avevano per lei operato e patito, ponevano ogni onore ed ogni
ambizione nel condurre a termine la gloriosa impresa. A ciò s’aggiungano i
pericoli che ne assiepavano da ogni banda, e minacciavano a tutte l’ore di
distruggere l’edificio le cui parti non erano ancora assolidate da cemento di
legge o di consuetudine. Non è dunque maraviglia se, posto la grandezza della
impresa, la natura degli uomini, il tempo, il fine, i pericoli in mezzo ai
quali versavasi, quel morbo di che parliamo non desse tai segni di sé medesimo
quali diè più tardi manifesti. E nondimeno anche in quel primo periodo,
soprattutto nei governi provvisori, non mancarono le ingiustizie, ma furono
mosse non tanto da interesse privato quando da reazione e da odio contro il
passato. Imperocché sebbene si fosse stabilita la massima di rispettare i
diritti acquisiti, e di non far vendette; anzi si andasse tant’oltre da
liquidare le pensioni a coloro stessi che avevano perseguitato acremente i
vincitori odierni (e ciò sarà gloria perpetua del nostro rivolgimento), non
mancò qualche caso nel quale vi furono destituzioni, o trasferimenti, o
dinieghi di pensione, parziali ed ingiustificati, e non mancarono neppure casi,
anzi furono più frequenti, di largizioni, di premi, e di compensi poco o nulla
meritati. Imperocché a tutti coloro che spingevansi innanzi in atto di vittime
della tirannide passata, e che avevano subito processi, condanne, o esiglio,
pareva aver diritto che lo Stato d’ora innanzi li mantenesse lautamente a spese
comuni. Vi furono dunque atti poco misurati e poco lodevoli, ma quanto a vere e
proprie ingerenze di deputati nell’amministrazione e ad arbitrii di ministri,
non negherò qualche caso di simpatia, e di avversione non conforme a giustizia,
ma fu certamente raro. Anzi era costume in quel tempo di dire che per ottenere
un favore da alcun ministro, bisognasse ricorrere ai suoi avversari, ch’esso
mirava sempre a propiziarsi29. La qual querela ripetuta con insistenza dagli
amici, e di cui anche alcuni uomini notevolissimi si fecero banditori, prova
che se una ingerenza parlamentare nell’amministrazione c’era, non poteva essere
né ampia né profonda poiché esercitavasi in ispecie a prò degli oppositori.
Oggi per verità, sarebbe difficile affermarlo, poiché i ministri medesimi non
cessano dal deplorare di esser fatti vittima dei loro amici, a cui si sforzano
qualche volta e nelle esigenze più enormi di resistere. Ma lasciamo ciò,
affinché io non paia contraddire al proposito d’imparzialità che ho sopra
accennato.
Il più grave effetto della ingerenza indebita si manifesta in quella parte
della potestà esecutiva delle leggi che è la più essenziale, la più delicata,
quella che ha mestieri di essere immune da ogni estranea azione, dico la
giustizia.
Lo aveva dipinto già Guicciardini, severamente condannando la parzialità dei
giudici del suo tempo: "Inumana e tirannica era quella parola con la quale
pareva loro scaricare anzi per dir meglio ingannare la coscienza, e che già era
venuta in proverbio, che negli Stati s’avevano a giudicare gli inimici con
rigore e li amici non favore: come se la giustizia ammetta queste distinzioni,
e come se la si dipinga con le bilancie di due sorte, l’una da pesare le cose
degli amici, l’altra quelle delli inimici"30. E altrove raccomanda che la
giustizia civile sia netta e piana, e chi ha lo Stato in mano non se ne
travagli e non se ne intrometta per via diretta o indiretta, di che nulla può
essere più pernicioso. E se a scusare le ingiustizie si allega la necessità di
farsi dei partigiani caldi, egli risponde che "questo modo non potrebbe
essere più dannoso, perché è d’infamia grande e fassi di molti inimici cioè non
solo quelli che sono oppressi ma etiam tutti quelli che sono d’attorno e
veggono che una tale disonestà sia comportata31 ".
In verità qualunque sia l’opinione che altri si formi sopra le attribuzioni che
lo Stato deve avere dirimpetto alla libertà e spontaneità sì dei privati che
delle associazioni, tutti però in un punto concordano che il rendere la
giustizia sia il suo fine primo e principalissimo. E si potrebbe dire che la
civiltà di un popolo si misura dalla imparzialità ond’è resa la giustizia,
sicché laddove nell’animo delle moltitudini possa ingenerarsi il dubbio della
sincerità della sentenza, e nascere sospetto dei magistrati, ivi può reputarsi
che ogni altra parte della cosa pubblica si scuota e crolli. Una delle maggiori
grandezze di Roma antica è certo nei suoi magistrati. Le repubbliche del medio
evo, sentirono tutta l’importanza di avere un giudice imparziale, e poiché le
città loro erano travagliate da fazioni, cercarono un podestà estraneo a
quelle, anzi forestiero, affinché le tradizioni, le affinità, le parentele non
lo distogliessero dal render giustizia. E la stessa istituzione dei giurati non
altro esprime nelle sue origini se non l’intendimento che si amministrata
imparzialmente la giustizia. Davide Hume meditando sugli uffici del tribunale
in risguardo al mantenimento dell’ordine sociale e al progresso dell’umanità,
viene a questa conclusione: "Tutto il nostro sistema politico, e ciascuno
degli organi suoi, l’esercito, la flotta, le due Camere e va dicendo, tutto ciò
non è che mezzo ad un solo ed unico fine, la conservazione e la libertà dei
dodici grandi giudici d’Inghilterra". Si credé pertanto che uno dei grandi
progressi della moderna civiltà consistesse nella inamovibilità dei giudici,
parendo non esservi cosa più contraria alla imparzialità e più corruttrice che
la tema di perdere il proprio ufficio per cagioni politiche, più corruttrice
ancora secondo Banjamin Constant che l’antico costume di comprare le cariche32.
E Pellegrino Rossi afferma che da momento che in Inghilterra il giudice non
poté più essere destituito per volontà del governo, la nobiltà dei sentimenti,
l’indipendenza delle opinioni, la fermezza nel resistere a tutte le seduzioni,
divennero retaggio della magistratura inglese. E soggiunge che dalla facoltà
del ministro di trasferire un giudice da una ad altra sede viene un
affievolimento del principio fondamentale dell’inamovibilità. Imperocché il
giudice, così come oggi è costituito, ha bisogno di volger gli occhi verso il
governo: soltanto laddove la perpetuità dell’ufficio è cambiata colla fissità
della sede ivi può dirsi assolutamente indipendente33.
La rivoluzione italiana in molte provincie rispettò i tribunali quali erano
sotto i governi passati, in talune altre e soprattutto nelle provincie
meridionali fu trascinata da quella smania che suol dirsi di purificazione, di
cui nessuna può essere più funesta all’amministrazione della giustizia. Invero
lo Statuto nostro all’art. 69 decreta che i giudici nominati dal Re ad
eccezione di quelli del mandamento sono inamovibili dopo tre anni di esercizio.
Se non che la espressione generica lascia dubbi sulla interpretazione, non
distinguendo la inamovibilità dell’ufficio da quella della sede. Laonde più
volte l’argomento fu trattato nel Parlamento, e con varia sentenza: due
tendenze opposte spuntavano, l’una di assicurare o i magistrati, non
permettendo che potessero essere trasferiti, o posti in aspettativa o a riposo,
senza il consenso loro, o almeno senza peculiari guarentigie; l’altra di
lasciare al ministro maggiore libertà di azione, e facoltà di trasferirli,
presupponendo che il ministro non lo farebbe che per utilità del servizio e con
savii accorgimenti, e in caso estremo confidando che potrebbe sempre essere
chiamato a rendere conto in Parlamento34. Ma prevalse soprattutto nel Senato il
concetto della guarentigia.
Finalmente con R. decreto del 3 ottobre 1873 il Ministro Vigliani fissava le
norme da seguirsi sulla materia. Il decreto disponeva che le nomine, promozioni
e trasmutamenti dei consiglieri della Corte, e dei funzionari della
magistratura giudicante nei tribunali, dovessero essere precedute dalle
relative proposte fatte da una Commissione scelta nella magistratura medesima,
e che trattandosi di tramutare un giudice inamovibile senza il suo consenso,
questi dovesse essere udito in persona o per iscritto sui motivi del
provvedimento. Ma poiché il partiti che era allora al governo ne fu rimosso, un
nuovo decreto del 5 gennaio 1878 abolì il precedente, allegandone due ragioni,
l’una che esso pareva ostacolo al retto e celere andamento dell’amministrazione
giudiziaria, l’altro che ritardava la unificazione della magistratura, ad
affrettare la quale pareva necessaria la balìa del ministro. Così d’un tratto
per diversi motivi furono tramutati in sei mesi ben 122 magistrati, anzi 211 se
si tenga conto anche di coloro che furono promossi. Io non pongo in dubbio le
buone intenzioni del ministro, ma egli è certo che vi fu un momento nel quale
parve che la magistratura perdesse quella sicurezza che è la migliore
guarentigia della sua indipendenza. Gli animi anche degli onesti ne furono
commossi, gli uomini fiacchi di carattere, come suole in simili casi, irruppero
nella servilità. Anche il Ministero Pubblico pigliava una insolita baldanza: e
poiché le accuse spesso soverchiano le colpe, si andava sino al punto
d’imputargli qua di esercitare una ingerenza eccessiva e contraria allo
imparziale adempimento della giustizia, là di rispondere alle dimande del
ministro più secondo le esigenze dei partiti che secondo la verità. Furono
mosse perciò interpellanze in parlamento, e più tarsi si cerco di correggere la
cattiva impressione prodotta nella pubblica opinione istituendo presso il
Ministero una Commissione consultiva di magistrati la quale esprimesse il suo
avviso in tutti i casi di che si tratta. Però notava che nel suo libro il Mirabelli
che "il prestigio dell’ordine giudiziario è stato mortalmente ferito né
può ritornare al suo stato sano e vigoroso senza togliere di mezzo la cagione
del male". Imperocché quando la indebita ingerenza della politica nella
giustizia si fa sentire, i magistrati come tutti gli altri impiegati dello
Stato van ricercando il loro patrono, del quale diventano satelliti, e lo
spirito di clientela soppianta il dovere dell’ufficio. E più si radica questo
vizio più è difficile sbarbicarlo, ed introdurre una riforma che tenderebbe a
scemare o togliere all’autorità governativa gli arbitri. Imperocché "nella
privazione o nel vincolo della facoltà del governo centrale l’affarista scorge
diminuita la materia della sua attività, onde concentra tutti i suoi sforzi ad
allargare i poteri del governo, covrendo questo schifoso egoismo colla speciosa
formula doversi in ogni materia aumentare o conservare la piena libertà di
azione dei ministri perché sia intera la loro responsabilità dinanzi al
Parlamento35 ".
Ho toccato sopra della ingerenza del ministro pubblico nella giustizia. Certo è
che un magistrato il quale vigili la esecuzione della legge, che rappresenti
l’interesse della società, e promuova la azione pubblica contro i reati sembra
indispensabile. Ma non sì che abbia il carattere di una vigilanza diffidente, e
di un’azione continua, e talora molesta del governo sui tribunali. Avvegnacché
la nostra legge all’articolo 129 definisce appunto il pubblico ministero come
rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudicatrice. E questo
aspetto fu per avventura una delle cagioni per le quali l’Inghilterra sentiva
una grande ripugnanza contro tale istituto; ripugnanza la quale pare faccia
luogo ad un sentimento contrario, tanto che fin dal 1875 la Corona in un suo
discorso annunciava al Parlamento britannico un progetto di legge per
introdurre negli ordini giudiziari il Ministero pubblico, il che significa che
l’opinione generale cominciava a mutarsi su questo capo. E’ anche fortemente
dubbioso se l’intervento del Ministero pubblico nelle cause civili sia utile,
perché ivi già si trovano a fronte le due parti contendenti dinanzi al giudice
cui spetta di pronunziare la sentenza. Checché sia di ciò, egli ci pare che
codesta istituzione, quale si trova ordinata appresso di noi, apra un varco ad
indebite ingerenze del governo sulla giustizia.
Inoltre la balìa del Ministero pubblico viene accresciuta da ciò, che sopra
talune materie, la legislazione non è ben chiara, o almeno l’interpretazione
delle leggi l’ha resa oscura; di guisa che il procuratore del re non procede
per azion pubblica con norme costanti, ma ha mestieri di esservi eccitato dal
governo. Laonde si vedono atti e trattamenti disformi, e a sbalzi; e talora
tradursi innanzi ai tribunali associazioni sovversive e comunistiche, talora
lasciarle fondare e liberamente e apertamente dilatarsi; e in simil modo in
qualche caso perseguìti i giornali, in altri identici casi non darsene per
inteso. Leggiamo di sovente offese contro al Re e contro al Pontefice, leggiamo
apologie di fatti qualificati nel codice come crimini o delitti, provocazioni
all’odio fra le classi; non di rado ancora sulle stampe si fa scempio dei buoni
costumi, senza le regie procure vi ponga, attenzione: E poi ad un tratto ecco
una specie di foga per la quale da un capo all’altro della penisola le regie
procure si agitano, denunziano, sequestrano. Di che la opinione popolare fa
questo giudizio, senza pur avvertirne la gravità, che l’azione loro non è
spontanea ma ordinata dal Ministero centrale. La quale differenza nel modo di
procedere in circostanze identiche perturba il senso morale, e non è senza
scapito del rispetto dovuto alla legge.
Potrà osservarsi da taluno che anche in Inghilterra vi sono delle leggi, le
quali per dissuetudine hanno dismesso dell’efficacia loro, e rimangono come
armi dimenticate nell’arsenale legislativo e solo se ne traggono e si adoperano
in casi straordinari. Ma la comparazione non regge, perché questa disusanza è
venuta cola a poco a poco, e per effetto del mutarsi delle idee e delle
abitudini civili, è un portato dello svolgersi e del contemperarsi delle leggi
e del costume; mentre qui le due opposte correnti della rilassatezza e del
rigore si alternano a sussulti, e inoltre trattasi di leggi recenti; onde la
pubblica opinione non intende come appena appena fatte debbano trascurarsi e
per qual motivo non sieno messe in atto. Pertanto agli occhi della moltitudine
anche questa apparisce una ingerenza indebita del governo nella giustizia.
Infine un male gravissimo vien dagli avvocati patrocinati i quali siedono nella
Camera dei deputati, perché quando si presentano al tribunale per difendere una
causa, s’ammantano di un cotal prestigio che suona minaccia o promessa quel
giorno che diventeranno ministri. Ed è poco lieto lo scorgere com’essi si
scambiano l’un l’altro l’incarico del patrocinio delle cause a seconda che
salgono o scendono dal governo. Dicono che essendo brevissima la vita
ministeriale non possono smettere definitivamente le clientele loro, e di ciò
traggono argomento di loro probità, ed hanno regione. Ma ciò non prova altro
fuorché gli avvocati patrocinati non dovrebbero in generale impigliarsi nella
vita parlamentare, e più di rado ancora essere assunti al ministero. Per
rimanente questa ingerenza vera o no, purtroppo è creduta, e ve ne sono state
apparenze. Si è visto da taluno sollevare nella Camera interpellanze circa
l’interpretazione di una legge in seguito ad una sentenza proferita contro i
suoi clienti dal tribunale di prima istanza, e mentre prendeva ancora la lite
in appello. Si sono viste cause difese e vinte contro lo Stato da deputati
eminenti, in onta all’opinione e all’aspettativa universale. E poniamo che ai
giudici apparisse chiarissima la ragione della parte in favore della quale
sentenziavano, ma sarebbe stato desiderabile che nessun prossimano avanzamento
avesse dato ansa a sospetti, che sempre tornano in detrimento del prestigio
onde la magistratura vuol essere adorna. Io non ho competenza in questi
argomenti, ma è mesto di leggere le critiche fatte da un esimio giureconsulo
alla decisione di una recente controversia matrimoniale. Appreso le quali
critiche egli conclude così: "Io ho voluto con questo mio lavoro critico
contribuire a far sì che le grandi piaghe ond’è afflitta la vita politica della
povera Italia non invadano anche la vita giuridica. Ho voluto contribuire a far
sì che l’equivoco predominante nelle divisioni dei partiti politici, e nelle
dottrine di ciascuno di questi, non sembri annidarsi anche nell’amministrazione
della giustizia; che non sembrino doversi distinguere due giustizie, l’una di
destra e l’altra di sinistra, in rispondenza alle divisioni parlamentari.
Còmpito certamente odioso, ma altrettanto doveroso per chi, oltre all’esser
cittadino italiano, è anche insegnante ed educatore della gioventù".
parole gravi e degne di esser meditate da chiunque ami la verità, la giustizia
e la patria.
Della ingerenza dei deputati nella nomina di qualche magistrato sarebbe
difficile dare la prova ma è una di quelle cose notorie, di che la coscienza
pubblica fa testimonio. Nondimeno qualche indizio se ne può addurre, traendolo
da fatti i quali mostrano come la cosa non sia creduta né illecita né tampoco
irregolare. Un deputato con un candore inverisimile eppur vero, si scusa dai
molesti assalti di un giornale che lo accusava di fare istanze presso il
Ministero per esulare dal tribunale i giudici della sua provincia, e gli
risponde così: Come mai può farmisi una imputazione tanto bislacca? Basta solo
confutarla il dire che il tribunale è tale oggi trovasi, specialmente per opera
mia, e che alcuni dei giudici che attualmente ne fanno parte furono da me
espressamente suggerito al ministero, certo com’era di rendere un vero servigio
al paese nostro e di agire nell’interesse della giustizia. Ecco un uomo che
stima certo di fare un’opera buona, anzi se ne vanta. E similmente non
credevano di far opera men che onesta coloro i quali rivolsero al Guardasigilli
la seguente petizione il 31 agosto 1877 e la diedero poscia alle stampe:
"I sottoscritti deputati ... non possono a meno di sciogliere un debito di
somma stima verso l’egregio ... col pregare vivamente l’onor. Ministero di
Grazia e Giustizia, ad emettere senza ulteriore indugio un decreto che dia
soddisfazione all’opinione degli uomini imparziali e solleciti del pubblico
bene e nello stesso tempo chiuda una polemica fastidiosa e molesta sul conto di
un uomo intemerato cui solo la implacabile ira di parte addenta e osteggia. Al
posto di procuratore generale della Corte di Appello ... niuno sarebbe più adatto
del prelodato ... sia pei non comuni meriti a sapere, di rettitudine, di
alacrità che l’onorano, sia per l’anzianità che vanta, sia per le immeritate
contrarietà di cui fu vittima per lo passato, vuoi infine per servigi non
ordinari tributati con rara costanza al paese, e al partito che ora ha i suoi
degni rappresentanti al governo della nazione. I sottoscritti assicurano
l’illustra Ministro di essere interpreti dell’opinione sana del pubblico
nell’invocare l’additata nomina e nutrono fiducia che sarà accettata".
Potrei narrare altri fatti di ingerenze indirette apparse in taluni giudizi
criminali: un uomo che aveva falsificato il suo nome e la professione, e che
era già stato condannato per volgari reati, compariva sul banco degli imputati,
munito di commendatizie di deputati. Ma parmi tutto ciò che ho detto
soverchiare il bisogno.
Aggiungerò solo che per le medesime cagioni non apparve sempre né dovunque
egualmente pronta e severa la percezione dei delitti; e che le grazie, gli
indulti, le amnistie rappresentano un lato gelosissimo della questione, come ne
rappresenta un altro lato l’indecoroso spettacolo teatrale che si permette alle
Corti d’assise nei processi criminali più clamorosi.
Tutto ciò fa sì che uomini provetti di età e ragguardevoli temono forte, e
taluni anzi osarono affermare che sotto i governi che dominarono l’Italia dal
1815 al 1860 la giustizia fosse meglio amministrata, e il ceto dei magistrati36
più rispettato e più rispettabile di quello che sia oggidì. Io non mi piego a
tale giudizio: però volendo essere imparziali, bisogna riconoscere che dove non
si trattasse di politica, in generale i tribunali di quel tempo sentenziavano
con sufficiente austerità in tutto ciò che si riferiva vuoi al codice civile o
al codice penale; taluni poi tra essi godevano una fama meritata di sapienza e
d’illibatezza. Il male nasceva, e giganteggiava tosto, quando trattavasi di
delitti di stato. Ivi si formavano tribunali statarii, abborracciati a furore,
con procedure irregolari, e parte militari, e ne uscivano sentenze iniquissime:
vendetta anziché giustizia. Né sarà mai ricordato con tanta indignazione che
basti, come certi governi assoluti, sia che la potestà spettasse ad una
monarchia, o ad una oligarchia, o a tribuni popolari, ponessero i tribunali al
servigio delle proprie passioni. Da Tacito sino ai testimonio della rivoluzione
francese nel 1793, gli storici abbondano di fatti giudiziari abbominevoli, onde
uomini innocenti furono ingiustamente condannati e tradotti al patibolo per
appagare le passione di coloro che tiranneggiavano. Gran vanto del governo
costituzionale è di aver introdotto negli ordini potestativi congegni atti a
frenare le esorbitanze di ogni suo elemento, e di aver separato la magistratura
giudiziaria degli altri uffici esecutivi. Nel suo normale esercizio, ciò
dovrebbe avere questo effetto che le porte del tribunale rimanessero
perpetuamente chiuse allo spirito di parte; ma in fatto non sempre avviene,
perché lo spirito di parte è inquieto, e vuol che tutti partecipino alle sue
pugne, e s’infiltra dovunque e nulla lascia d’intatto ai suoi rancori e alle
sue cupidigie. E la storia c’insegna che quanto più i ministri e le assemblee
sono inetti o cattivi, tanto si sforzano a trovare nel verdetto del giudice
un’apparenza di ragione, e ad accomodare i tribunali alle voglie loro. Di che
poi scende nel popolo il dubbio che la giustizia abbia abbandonato il suo
santuario, ed è questa, come dissi già, la peggiore iattura che in una nazione
civile possa incontrare.
Ma lo stato non è solo tutore del diritto, a mezzo dei tribunali per
reintegrarlo se offeso, e punire i violatori. Esso inoltre amministra
nell’intento di fare il pubblico bene. Non è qui luogo ad esaminare quali siano
i limiti dentro i quali si debba ristare l’azione dello Stato, e se alcuna
delle attribuzioni che ha oggi non sia soverchia e possa utilmente deporsi, per
lasciarne la cura ai privati cittadini, e alle libere loro associazioni. Di ciò
ho avuto occasione di parlare lungamente in altri scritti, e mi tornerà in
acconcio di riparlare nel capitolo dei rimedi. Qui trattandosi del fatto, mi
conviene prendere l’ordinamento dello Stato com’è nella nazioni civili e
soprattutto in Italia. Ed ho delineato sopra quanta sia l’importanza
dell’amministrazione, quali siano le fattezze che la diversificano dalla
giustizia.
Qui ovvio si presenta la mente per primo un quesito, ed è il seguente:
L’amministrazione dee proceder sciolta da ogni legge e per proprio arbitrio? E
la risposta vien sulle labbra di tutti negativa; ma si dirà che abbondano le
leggi e i regolamenti in molti rami d’amministrazione. Sta bene; nondimeno non
si può negare che una certa libertà di giudizio e di azione in parecchi casi è
indispensabile all’amministratore, il quale dee agire a seconda delle
opportunità, e in vista del bene pubblico. Guardando al fatto, nei paesi
nostri, questa larghezza è grandissima e in molti casi l’amministrazione si
svolge secondo il giudizio dei pubblici funzionari. Pertanto è lecito
desiderare che i regolamenti, i decreti, le istruzioni abbiano qualche cosa di
più strettamente conforme alla legge, e producano effetti giuridici: quando più
di chiarezza e di precisione hanno gli obblighi e i diritti dei cittadini,
tanto può dirsi che si procede nel cammin vero della civiltà. Però siano pur le
norme ben determinate, il governo quando amministra ha sempre mestieri di una
certa larghezza, ed è giudice della convenienza di fare o di tralasciare tale
atto, d’impellere o di negare tale opera.
Ora questa larghezza offre un campo immenso ai partiti per scorazzarvi con
piena balia, e spesso anche s’attentano a soperchiare i regolamenti e i
decreti. Non è più nell’interesse generale ma in quello del partito o di
singoli individui che si fanno gli atti amministrativi. Il favore e
l’avversione, l’indugio o il diniego di provvedere, l’abuso e il sopruso
divengono consuetudine e quindi poi nasce quella irrequietezza, e quello
scontento che rende ai popoli le istituzioni discare. E’ questo il male sul
quale abbiamo invocato le meditazioni e gli studi degli uomini desiderosi del
pubblico bene. E mi sia lecito ancora a costo di peccare di ripetizione lo
insistervi. Perché l’amministrazione sia retta e ottenga il fine suo che è
l’utilità generale, è necessario che sia imparziale. Ora poniamo che lo spirito
di parte s’insinui in essa, che i suoi atti siano regolati dallo intento di
giovare al partito, di assicurare il trionfo, di mantenere la potestà pubblica
nelle sue mani, di spegnere e di menomare le forze del partito opposto, di
esercitare vendetta contro gli avversari, chi non vede la lunga serie di guai e
la corruzione che da questo stato di cose derivano?
Abbiamo detto che occorrono all’amministrazione quanto più sia possibile norme
fisse e giuridiche. Pur nondimeno per quanto un governo e i suoi agenti siano
savi e bene intenzionati, non è possibile che talvolta non errino, ma quando il
male non eccede i limiti della naturale fragilità, il riparo non si appalesa
così urgente. Può a dir vero la previdenza legislativa antivenirvi, ma più
spesso la necessità e la urgenza del rimedio si appalesano solo dopo dure
esperienze. Ad ogni modo e nell’uno e nell’altro caso, quando havvi opportunità
di un riordinamento amministrativo, il quesito si mostra sotto questa forma:
"Il cittadino che si sente leso da un provvedimento amministrativo (e
sotto il nome di cittadino si comprende anche ogni ente morale e lo stesso
agente del governo) a chi deve ricorrere, e come può conseguire giustizia e
riparazione?37".
Si risponderà: al tribunale ordinario. Ma non tutte le questioni possono
essergli recate dinanzi, né esso è competente a tutte risolverle, come mostrerò
in appresso. Qui stiamo al fatto; e il fatto è che sebbene l’Italia pei suoi
ordini sia uno dei paesi nei quali è massimo il numero delle controversie che
appartengono al contenzioso giudiziario, pur nondimeno assai ne rimangono fuori
di questa cerchia. In simiglianti casi vi sono è vero alcuni corpi che hanno
giurisdizione amministrativa come la Corte dei conto nella liquidazione delle
pensioni e nell’esame dei conti, e il Consiglio si stato e finalmente alcune
Commissioni speciali in qualche materia, ma anche questo campo è
ristrettissimo. Nel maggior numero dei casi nei quali è ammesso il ricorso
amministrativo, esso va dinanzi all’autorità superiore a quella, contro la quale
il cittadino si grava. Ora se quest’autorità è sempre, quasi per naturale
istinto, inclinata a sorreggere il proprio agente, se il raro, e a mal suo
grado s’induce a dargli torto, questa inclinazione si trasforma in abitudine,
ed ingiustizia volontaria quando vi si mescolano le passioni di parte, ondeché
il ricorso diventa una vana formalità, e non arreca sostanziale ammenda.
Parmi opportuno di soffermarmi alquanto su questo punto, per mostrare entrambe
le proposizioni; che v’ha cioè indebita ingerenza della politica
nell’amministrazione, e che manca il modo di farsi rendere giustizia. L’on.
Spaventa in un discorso pronunziato a Bergamo il 6 maggio 1880 e che per la
verità delle cose espresse fece negli animi viva impressione, ha trattato il
tema che abbiamo per le mani. Egli pure ha preso le mosse dagli effetti del
governo parlamentare nelle pubbliche amministrazioni, e ne ha mostrato gli
inconvenienti. Che se le mie prime affermazioni di Napoli porsero a lui
occasione di esporre quelle idee, io posso rallegrarmi di avervi dato impulso,
e debbo dire a mia volta che il suo discorso di Bergamo fu per me incitamento e
conforto a scrivere questo libro. Lo Spaventa esaminò con severo criterio la
questione sotto gli aspetti che ho sopra indicati; la incertezza cioè e il
difetto di norme giuridiche le quali limitino e regolino le facoltà
dell’amministrazione, e la possibilità di trovare chi e come ammendi il torto
cagionato al cittadino o al corpo morale.
Ricordai antecedentemente la sentenza dello Gneist che i primi segni
dell’azione indebita del partito nell’amministrazione scorgonsi nella polizia.
Paragonando egli la Francia, la Grecia, l’Inghilterra venne a questo giudizio
per mo’ di conclusione, che il grado di legalità e di rettitudine che si
riscontra nella polizia preventiva, è per dir così la misura del grado di
legalità e di rettitudine in ogni altro ramo della cosa pubblica. Lo Spaventa
anch’egli si parte dalla legge di pubblica sicurezza, nella quale trova ben
dodici punti dove l’autorità è sciolta da ogni vincolo, e può agire secondo che
più le sembri opportuno. A ciò si aggiunge la parte che riguarda le ammonizioni
estese ampiamente colla legge del 1864. Questa legge fu giustificata dalle
tristissime condizioni e veramente straordinarie della sicurezza pubblica nelle
provincie meridionali a quel tempo, ma venuto lo Stato in condizioni normali
non è scevra di pericoli per la libertà del cittadino. E infine ei discorre
sulla materia delle associazioni nella quale non solo non v’è norma precisa, ma
pende incerta anche la giurisprudenza. Imperocché tutti consentono che il
silenzio dello Statuto abbia ad interpretarsi come favorevole alla libertà, ma
tutti riconoscono similmente che la libertà dee avere dei limiti. La
discrepanza nasce quando si tratta di ben determinare questi limiti, e fra
tutte le determinazioni possibili quella che ne fu data dal ministro
dell’interno alla Camera, il 20 marzo 1880, parve allo Spaventa che fosse la
più lontana dal vero, e celasse sotto apparenza di libertà un enorme arbitrio.
Per ben chiarire l’argomento della incertezza delle norme giuridiche nella
amministrazione, e il difetto della giurisdizione a cui ricorrere, bisognerebbe
prender ciascheduna legge e regolamento, e discorrendoli parte a parte scorgere
in che vadano emendate. Lo Spaventa ne toccò taluna, ed io ne aggiungerò qui
parecchie altre, ma più per esempio che colla presunzione di supplire ad un
lavoro di lunga lena che richiederebbe attentissimo esame, e non di un solo ma
di più uomini esperti nell’amministrazione, che congiungano alle nozioni
teoriche la quotidiana e minuta pratica.
Il ministro dell’Interno ha una specie di alta vigilanza sugli enti morali
Provincie, Comuni, Opere pie. Ma ella è ben più che un’altra vigilanza: è un
vero ed ultimo appello in tutte le questioni più importanti, come la regolarità
delle elezioni comunali e provinciali, lo scioglimento delle rappresentanze
loro, la convenienza dei provvedimenti di sicurezza e d’igiene pubblica presi
d’urgenza dai sindaci. Ora su questi punti chi può negare che molti arbitrii
siano possibili? Il senatore Zini nel suo discorso al Senato sul bilancio del
ministero dell’Interno del 1879, e in quello sul bilancio del 1880 e nei suoi
due volumi dei criteri di governo in Italia, dei quali dirò alcun che più oltre,
ha citato parecchi fatti di tal genere fra i quali il seguente. In un Comune,
in occasione della rinnovazione del quinto dei consiglieri, nacquero
contestazioni davanti al seggio elettorale: questo, secondo che gliene dà
facoltà la legge, decise e proclamò il risultamento dello scrutinio. Fu portato
ricorso al Consiglio comunale, e confermò il giudizio del seggio. Fu ricorso in
appello, e la deputazione provinciale fu di avviso conforme. La denunzia fu
recata al Re in Consiglio di stato, il quale trovò giusto il pronunziato del
seggio elettorale, del Consiglio comunale, della deputazione provinciale.
Nonostante questi quattro opinamenti concordi, il ministro dell’interno annullò
lo scrutinio o per dir più esatto corresse di suo moto proprio lo scrutinio, introducendo
piuttosto l’un che l’altro cittadino nel consiglio comunale. Similmente in più
recenti occasioni, il ministro dopo aver interrogato il Consiglio di Stato in
sezione sopra una modificazione di circoscrizione elettorale, ed avutone
responso negativo, interrogato di nuovo il Consiglio in sezioni riunite ed
avuta conferma del primo parere, pure ordinò che gli elettori fossero
trasmutati da uno ad altro Collegio.
Un altro argomento vitale è quello delle spese obbligatorie. In caso
d’inadempimento, se al difetto del Comune supplisce la deputazione provinciale,
al difetto della Provincia supplisce il prefetto, e nell’uno e nell’altro caso
il ricorso è risoluto definitivamente dal ministro dell’interno. Gravissimo è
il fatto di uno scioglimento del Consiglio provinciale o comunale. Lo prevede
la legge ma vi pone per condizione gravi motivi di ordine pubblico (art. 235).
Ora qual guarentigia vi è che il ministro abbia siffatti motivi, o non sia
piuttosto spinto da interessi di partito? Nessuna. Qui non si interroga neppure
il Consiglio di Stato, e neppure si pubblica nella Gazzetta ufficiale una
relazione che di quei gravi motivi dia contezza, anzi è venuto in costume che
non si pubblica neppure il decreto di scioglimento. Questo atto rilevantissimo
nella vita locale, rimane quasi un atto interno. E se trattandosi di grandi
città si ode talvolta una interpellanza in Parlamento, lo scioglimento del
Consiglio di piccoli Comuni passa senza che altri pur lo sappia o ne muova
querela, tanto più quando è fatto d’accordo col deputato del luogo, e per
servire alle sue passioni.
Per la sanità pubblica che pur dipende dal ministro dell’interno, havvi una
gerarchia di Consigli, ma questi non hanno che un solo attributo di
giurisdizione (art. 25, Legge 20 marzo 1865) quando ne siano richiesti dal
prefetto, e al fine unico di deliberare provvedimento disciplinari contro gli
esercenti professione sottoposta alla vigilanza loro: a questa giurisdizione
sono sottoposti medici, chirurgi, flebotomi, levatrici, dentisti, erbaiuoli,
semplicisti, droghieri, veterinarii. In ogni altra parte della sanità pubblica
i Consigli sono chiamati solo ad esprimere un parere. Ed è a notare quel che ho
avvertito sopra, che il Sindaco ha diritto per l’articolo 104 della legge
comunale e provinciale di fare i provvedimenti contingibili ed urgenti, e di
far eseguire gli ordini relativi a spese degli interessati. Intorno a ciò
nacquero molte contese, e furono portate davanti ai tribunali. Ma questi
dichiararono sempre che il giudicare se le spese erogate dal sindaco erano
state debitamente messe a carico del privato, avrebbe importato conoscere della
opportunità e convenienza dell’atto che il Sindaco compie come delegato
dell’amministrazione, il che in verun modo poteva competere all’autorità giudiziaria.
Né diverso è il caso delle Opere pie, dove sotto pretesto di riordinarle
possono dai ministri prendersi le più arbitrarie disposizioni. Lascio stare la
nomina di commissari stipendiati, scelti fra gli uomini parlamentari, e
mantenuti in ufficio fuor di legge, senza ricostituire un’amministrazione
normale. Lascio stare l’ordine impartito ai prefetti di cancellare dal bilancio
delle Opere pie le spese di culto prescritte dalle tavole di fondazione in quei
casi, nei quali l’adempimento di esse non avesse sanzione giuridica, e fosse
soltanto raccomandato alla coscienza degli amministratori. Ma non si può tacere
della riforma della Cassa di risparmio di Milano. Imperocché se ciò poteva
idealmente reputarsi utile, non era però praticamente urgente come la riforma
di tante altre Opere pie, delle quali da ogni banda si lamentava la mala
amministrazione, senza che il ministro degnasse pur volgervi un pensiero. Qui
invece tutti eran concordi nell’ammirare la probità somma, la oculatezza, la
parsimonia colla quale l’istituto era amministrato, e si lodava per ogni
regione d’Italia di essersi fatto iniziatore di concorsi a premio, al fine di
regolare e migliorare le associazioni di mutuo soccorso, e fornirle di utili
statistiche: eppure si volle a tutta forza precipitarne la riforma. Che se pur
tanto si voleva fare, non era necessario passar sopra alle clausole della
legge, al parere del Consiglio di stato, e alla opposizione della Corte dei
conti. Tutto ciò invece fu messo in non cale, e ben può reputarsi che la politica
non vi fu estranea. Ma posto il decreto, come e a chi poteva la Cassa di
Risparmio di Milano ricorrere per violazione di statuti, o per irregolarità nel
modo della riforma? La voce del Consiglio di stato, e quella della Corte dei
conti s’eran fatte udire indarno, il tribunale non era competente. Il ministro
dell’interno poteva dire anch’egli: "Papa locutus, causa finita".
In materia di polizia industriale la nostra legislazione è rudimentale. Per
tutte le industrie e mestieri, all’esercizio dei quali è necessaria una
licenza, questa si concede dall’autorità politica del circondario, dopo il voto
della giunta municipale, e i permessi possono revocarsi. La deputazione
provinciale, a richiesta della giunta municipale o di persona interessata,
dichiara quali manifatture, fabbriche, e depositi debbono considerarsi come
pericolosi, insalubri, incomodi. Questa dichiarazione approvata dal prefetto ha
per conseguenza di impedire nel comune l’impianto e l’esercizio di tali
manifatture, fabbriche e depositi, e contro queste decisioni, che pur toccano
interessi considerevoli, non v’ha altro ricorso possibile che in via
gerarchica.
Passo ai lavori pubblici. E’ noto che tutte le controversie circa la
classificazione delle strade comunali siano o no obbligatorie, la costituzione
dei consorzi, i contributi relativi, sono decise in ultima istanza
dall’autorità ministeriale. Similmente le questioni che riguardan le acque
pubbliche (salvo che non si tratti di risarcimento per danno dati), i consorzi
idraulici, la classificazione dei porti, la costituzione e i concorsi dei
relativi consorzi. Vero è che in parecchi casi debbonsi udire i pareri della
deputazione provinciale, e in moltissimi casi è richiesto l’avviso del
Consiglio superiore del lavori pubblici, ma codesti sono voti consultivi che
non obbligano il ministro.
E qui è da notare che nei paesi retti a governo parlamentare la materia dei
lavori pubblici è una delle più vessate dall’ingerenza dei deputati; imperocché
essi in tanto acquistano favore nel Collegio e lo conservano, in quanto valgano
ad ottenere una strada, un sussidio, una anticipazione a preferenza degli altri
e se ne vantano. Abbiamo assistito ad un largo dibattito sopra un piano di
costruzioni ferroviarie durante il quale furono introdotte mutazioni di classe,
nuove linee, e modificazioni sostanziali delle prime proposte: il pubblico
attribuivalo ad influsso di varii gruppi di deputati. Un somigliante esempio
s’è veduto nella legge per le strade, porti ed altri pubblici lavori, dove il
ministro avendo proposto una spesa di 165 milioni, fu dalle esigenze
parlamentari, e per contentare interessi locali, trascinato ad introdurre assai
più di lavori che non aveva creduto necessario, e a portare la somma a 225
milioni. Il relatore si querelava del diluvio delle dimande, il ministro
dolevasi che l’elenco dei lavori fosse avviluppato e fatto con troppa fretta,
altri trascorrevano a più acerbe accuse: ma fu indarno. Arroge che questa legge
abborracciata, lascia molte incertezze nella sua interpretazione, se la costituzione
delle nuove strade provinciali sarà eseguita dallo Stato ovvero dalle provincie
stesse, se i Consiglieri di queste che devono pur essere interrogati avranno
voto deliberativo, ovvero espresso il parere dovranno sobbarcarsi alla spesa
loro imposta e va dicendo. Tutto ciò mostra che noi continuiamo a far leggi
incerte, indeterminate, donde per necessità scaturisce l’arbitrio ministeriale
del quale il cittadino o l’ente civile offeso non trova ricorso possibile. E il
Senato non tralasciò di notare e nell’uno e nell’altro caso questi difetti:
dubitò eziandio se di tal guisa rimanessero inalterate le prerogative
d’entrambi i corpi legislativi, e notò che dal punto di vista tecnico questa
maniera d’improvvisare in fatto di lavori pubblici poteva produrre lamentevoli
conseguenze. Alle quali considerazioni si piò aggiungere altresì risguardando
l’avvenire che tutti questi lavori, ordinari e straordinari sono ripartiti in
una serie di molti anni, per la qual cosa la preferenza da darsi agli uni sugli
altri nel tempo di loro esecuzione, addiverrà occasione e stimolo a nuove
ingerenze parlamentari.
Leggasi l’inchiesta sulle ferrovie, e si vedrà qua e colà uscir fuori delle
deposizioni in questo senso: che i deputati invece di fare i legislatori fanno
i sollecitatori d’affari ferroviari. Uno degli interrogativi, testimonio
competente ed autorevole, risponde così: "Bisognerebbe che
l’amministrazione delle ferrovie fosse libera da tutte le influenza
parlamentari; a questa sola condizione, essa potrebbe camminare bene. Ma mi si
permetta di ripeterlo, nessuna amministrazione, e molto meno una
amministrazione ferroviaria, che ha infiniti rapporti col pubblico, potrà
procedere regolarmente e bene, se vi si mescolano le influenze e le esigenze
parlamentari. Basti un esempio. Tutti vogliono i treni diretti, e appena
stabiliti s’affollano le domande dei deputati per le fermate alle stazioni del
loro collegio, le quali per essere di poca o nessuna importanza non dovrebbero
essere ammesse, ma che purtroppo lo sono, a cagione della influenza dei
deputati del Ministero... Se si trovasse un Ministero il quale potesse dire di
no ai deputati ed un Consiglio che non si lasciasse imporre dei medesimi,
quando questi cercano di far pressione e per la loro benemerenza elettorale, od
anche pel solo desìo di far valere la loro protezione, credo che a qualche buon
risultato si potrebbe venire". E un altro testimone lamenta anch’egli
"i treni diretti soltanto di nome, che si fermano a tutte le stazioni.
Quelle fermate sono dovute spesso all’influenza dei deputati, e coll’orario
alla mano egli potrebbe dire a quel deputato si debba quasi ogni fermata38
".
E per verità quando si combatteva il concetto dell’esercizio ferroviario
governativo non mancarono molti i quali nella discussione39 accamparono il
pericolo che nella scelta degli impiegati, e nella condotta della impresa le
ragioni politiche prevalsero alle tecniche. Ciò pareva anzi all’on. Crispi una
conseguenza inevitabile perché "tal’è, diceva egli, la natura degli
uomini. I governi sono la rappresentanza dei partiti, ogni partito ha sempre
desiderio di vincere, e di vincere qualche volta schiacciando i propri
avversari; quindi è nel suo interesse di costituirsi un esercito d’amici, una
truppa di proseliti, della quale possa servirsi nelle circostanze".
Ma ritornando là donde mi sono dipartito, e restringendo il mio dire alle
controversi che possono nascere fra i privati e l’amministrazione in materia di
lavori pubblici, quivi ancora il ricorso è dall’autorità inferiore alla
superiore, e mancano forme giuridiche. Inoltre la decisione ultima spetta
sempre al ministro abbenché debba in molti casi udire il parere del Consiglio;
e non solo egli giudica definitivamente, ma gli è lecito eziandio di ritornare
dopo qualche tempo sopra la decisione pronunziata che gli altri tenevano per
definitiva, e appresso nuovo esame di mutarla. Laonde molte questioni durano
lunghissimamente, e queste variazioni a libito ministeriale, posto che qualche
volta correggano un errore commesso, possono apportare gravissime conseguenze.
In fatto d’istruzione pubblica la legge lascia parimenti non poche incertezze e
lacune, alle quali non si è supplito abbastanza coi regolamenti, e questi si
rimutarono alla lor volta, o furono emendati da circolari a iosa, ed anche
mancò la puntuale osservanza della legislazione scolastica. Per dare un
esempio, basti il guardare la questione dell’istruzione religiosa nelle scuole
elementari. Dove la legge dice una cosa, altra decisero taluni Comuni, il
Consiglio di stato opinò per la legge, il ministro pei Comuni, e la Camera
stimò con un ordine del giorno, che non ha nessun valore legislativo, aver
tutto composto. D’altra banda giova il riconoscere che in molti casi il
Consiglio superiore d’istruzione pubblica era efficace freno al ministro, in ciò
soprattutto che dirigendo i concorsi alle cattedre seppe tenerne sovente
lontano uomini mediocri o incapaci. Eppure, salvo il caso di provvedimenti
disciplinari da prendersi contro i Professori, il voto del Consiglio era
meramente consultivo, e il ministro potea trascurarne l’avviso senza che ne
rendesse ragione. Che se in talune materie aveva l’obbligo di consultarlo, in
molte era libero, e solo a decidere. Nonostante parve che anche in questi
ristretti termini, il Consiglio fosse d’impaccio alla libertà del ministro e ne
fu mutata la composizione e l’ordinamento per legge. Questi ebbe facoltà di
scegliere a suo grado le commissioni esaminatrici per le cattedre vacanti. Ora
apparisce chiaro come assai più difficile riesca ad un solo uomo di ben comporle
per ogni facoltà di studi; e se anche egli vi ponesse la migliore intenzione,
non eviterebbe qualche taccia di parzialità, di che oggi si odono dovunque
levare alte le grida. Similmente il ministro libero dalle pastoie del
Consiglio, mostrò di prendere sulla istruzione mezzana provvisioni che
contrastavano alla legge; i sussidi non apparvero dati con eque lance, in
generale l’arbitrio ministeriale è lamentato in questo ministero più fortemente
che in ogni altro.
Certo non mancarono irregolarità e talvolta soprusi nei primi tempi del nostro
risorgimento: uomini dappoco, e talvolta anche di fama men che onesta furon
chiamati all’insegnamento solo perché si vantavano di patriottismo, ovvero
erano preti spretati e frati sfratati, il che fu esempio pessimo e cagione di
danni all’insegnamento, dal quale molti padri di famiglia per ciò abborrivano.
Ora il favore è passato ai politicanti, e abbiamo veduto introdursi negli
uffici nuovi, ispettori e presidi mutati di circolo o promossi, per merito di
faccenderia elettorale e fatto man bassa sovra impiegati provetti e
rispettabili. Non parlo degli incoraggiamenti alle arti, né degli invii di
commissari e congressi e ad esposizioni internazionali, dove la politica
talvolta designò tali uomini che erano al tutto ignari della materia, e
l’Italia ne scapitò al cospetto degli stranieri. certo è che abusi partigiani
d’ogni maniera non mancarono.
Il ministro di agricoltura e commercio ha balìa in molti punti che le leggi non
determinano precisamente, e v’ha una materia sopra tutte delicatissima come
quella del credito nella quale le sua facoltà sono quasi effrenate. Imperocché
esso può trovar modo si concedere o negare alle società anonime la facoltà di
costituirsi in corpi morali, e può eziandio favoreggiare o contrariare gli istituti
di credito. Furono accusati fieramente i ministri dopo il 1859 di aver dato
irregolarmente alla Banca nazionale, fondata per il solo regno di Sardegna,
estensione e privilegio di emissione in tutti il regno d’Italia. Non intendo di
esaminare se il decreto eccedesse le facoltà amministrative, ma se accesso vi
fu, può trovar accettevole scusa in quei primi momenti delle annessioni; e ben
è lecito affermare che la istituzione delle sedi e delle succursali della Banca
in ogni capoluogo di provincia tornò utile all’industria e al commercio
nazionale. Ma venne un tempo di reazione nel quale si voleva assalire da ogni
parte la Banca e scuoterla, e se il partito di opposizione fosse andato allora
al governo ne avrebbe forse fatto scempio, con grane iattura della cosa
pubblica. La salvò nel 1874 una legge, la quale consorziando i vari istituti, e
mettendo limite alla emissione dei biglietti, attutì i clamori e temperò le
animavversioni. Nondimeno resta pur sempre una lata potestà nel ministro in
questa parte del credito pubblico.
La legge sulla pesca (4 marzo 1877) è in generale vaga ed incompiuta, ma ciò
che è veramente indeterminatissimo si è quanto riguarda la concessione di
tratti di spiagge, acque demaniali, e mar territoriale; imperocché si contenta
di porvi due riserve, che la concessione non possa eccedere i novantanove anni,
e che sia subordinata alle condizioni d’interesse generale, e al conseguimento
del fine richiesto. Invece la legge sui boschi (20 giugno 1877) dà adito ai
ricorsi contro le decisioni del comitato forestale circa i terreni vincolati, i
rimboschimenti, le possibilità e i modi di ridurre a coltura agraria i terreni
boschivi, e attribuisce al Consiglio di stato una vera giurisdizione
amministrativa, poiché ad esso spetta la finale decisione. Il che io indico per
mostrare la differenza e talvolta anche la incoerenza che regna nel nostro
diritto amministrativo. Nella legge sulle miniere (20 marzo 1859 parziale ad
alcune provincie) la concessione, e la chiusura fu riguardata sempre come atto amministrativo
che apparteneva al ministro, sentito il Consiglio delle miniere; ma le
questioni circa l’interpretazione, gli effetti e l’esecuzione dei decreti di
permesso di ricerca, e di concessione, circa la costruzione di officine, circa
i rapporti fra l’amministrazione e i concessionari erano devolute al
contenzioso amministrativo che esisteva ancora quando la legge fu fatta.
Abolito questo, con regolamento 20 dicembre 1865 molte delle predette quistioni
furono dal ministro avocate a sé, e serbate alla sua propria libera decisione.
Nel ministero della guerra toccherò un punto solo ma gravissimo, quello della
leva. Contro le decisioni del Consiglio di leva si può ricorrere; ma a chi? al
ministro. E con quali guarentigie? Il ministro dee udire il parere di una
commissione composta di un ufficiale generale, due ufficiali superiori, e due
consiglieri di stato che esaminano i ricorsi senza forme precise di
procedimento. E inoltre il parer loro non vincola il ministro, che può a suo
grado pronunziare l’ultima sentenza. M’affretto a dire che l’opinione pubblica
ha riconosciuto in generale una grande giustizia e imparzialità in codeste
decisioni. Ma oltrecché non mancarono tavolta gravi parole anche davanti ai
tribunali, questa imparzialità di fatto si deve alla rettitudine degli uomini
preposti a quegli uffici ma non toglie la possibilità di un pericolo, contro il
quale gli ordini nostri dovrebbero averci premunito. Ad ogni modo sia questa
lode d’Italia nel passato, e augurio dell’avvenire, che lima di spirito partigiano
non poté rodere sinora il ferro adamantino dell’esercito nazionale.
Anche nel ministero della marina, contro le decisioni del Consiglio di leva
presieduto dal capitano del porto v’ha ricorso al ministro, che sentita una
Commissione analoga alla sopradetta potrà riformare il primo giudizio. I
comandanti delle regie navi che trovandosi in paesi lontani, e temendo di
avventurare la missione loro affidata, provassero necessità di rifornirsi di
marinai, possono levarne sotto la propria responsabilità dai bastimenti
mercantili nazionali che fossero ancorati nei porti esteri, sino a concorrenza
del quarto dell’equipaggio loro. La legge (18 agosto 1871), dice, che dove
risiede un’autorità consolare quest’ordine di leva è dato dalla medesima, parla
eziandio di un risarcimento da darsi delle spese di rinvio dei marinai, ma non
accenna in alcun modo come l’armatore della nave, che fosse stato non equamente
scemata dei suoi marinai, possa farsi rendere giustizia, e conseguire almeno un
compenso dei danni sofferti. Dal Codice stesso di marina i capitani e gli
ufficiali di porto sono chiamati a giudicare controversie surte in assenza di
una parte, e senza appello (art. 15 Regol. per il Codice della marina
mercantile). Lo stabilire tonnare, ed opere di piscicultura, le concessioni
temporanee di spiaggia sono affidati interamente all’arbitrio del ministro.
Solo il giudizio per la legittimità delle prede e per la confisca sarà promosso
dinanzi ad una speciale commissione da istituirsi con decreto reale.
Di questo difetto di guarentigie non può dirsi immune neppure il ministero
delle finanze. Però se la necessità di stringere i freni, di riscuotere gli
assegnamenti, d’imporre e attuare nuove tasse, obbligò a dure leggi, non tolse
che qualche cautela fosse data a difesa del privato. Vero è che il pensiero
principale se non unico degli uomini che allora reggevano le finanze, era
quello di riordinare ed assettarle; ogni altro avvedimento cedeva a questo
intento, ma è strano che dopo il 18 marzo 1976 non si sia fatto quasi nulla per
ripararvi, mentre una delle precipue cause della caduta del ministero su
l’accusa e lo scalpore infinito che si menava per le vessazioni e per le
fiscalità. Nondimeno la revisione dei fabbricati si eseguì appresso senza
migliorare i procedimenti di accertamento, i quali sono pur gli stessi della
tassa di ricchezza mobile: una commissione di prima istanza mandamentale, una
commissione di appello provinciale, una commissione centrale di revisione quasi
a forma di cassazione. Ma la definizione del reddito imponibile appartiene alla
commissione provinciale, dinanzi alla quale il ricorrente può essere inteso, in
contraddittorio del rappresentante del fisco, ma è l’uopo che ne sia da lui
fatta espressa domanda. Quanto alle dogane, havvi a costa del ministro un
collegio di periti, e in caso di controversia fra il contribuente e gli
ufficiali di dogana rispetto alla qualificazione delle merci, il ministro delle
finanze, udito questo collegio, risolve a suo grado tali controversie con
decisione motivata. Rispetto al dazio di consumo, tutta la materia degli
abbonamenti coi Comuni è nelle mani del ministro. Certo quando un Comune si
accorgesse che, accettando la somma da lui determinata, ci perderebbe
irremissibilmente delle spese, si sobbarcherà piuttosto all’appaltatore
governativo; ma non è men vero che se non vi ha da parte di chi governa le
finanze grande giustizia ed equità, codesta potrebbe essere sorgente di favori
e di dispetti senza alcuna guarentigia: e so ben io per esperienza, di quante
difficoltà ed amarezze sia apportatrice una ferma risoluzione d’imparzialità.
Potrei noverare qualche altro punto nelle tasse di registro, e nelle questioni
per la riscossione delle imposte dirette, dove occorrerebbe qualche clausola in
difesa del contribuente; ma il lungo tema mi caccia, e qui più che per analisi
accurata io procedo per esemplificazione.
Anche in queste materie finanziarie, nelle quali la ferita è sensibile ad
ognuno, tornerebbe adunque opportuna una revisione delle leggi e dei
regolamenti per dare maggiori guarentigie al privato cittadino, ed aiutarlo a
meglio conseguire una riparazione, se torto gli sia fatto. Né giova che siansi
mandate circolari agli operosi agenti finanziari esortandoli a procedere con
forme di mitezza e di cortesia. Questi suggerimenti non davano alcuna cautela
d’imparzialità, e inoltre la questione vuol essere riguardata anche sotto
l’aspetto degli interessi dell’amministrazione. la quale non deve andar
soggetta alle inclinazioni personali, ai favori, ai capricci degli agenti e del
ministro. Però se da qualche anno si videro meno durezze, si videro più
condiscendenze illegali, quando specialmente c’era di mezzo qualche deputato.
Ho udito io stesso le seguenti parole da uomini competentissimi nel dicastero
del demanio o delle tasse: se voi volete che queste imposte fruttino, fate che
sia chiusa la porta delle raccomandazioni ai deputati. E qui giova dire che le
regole generali non mancano per metterci argine, ma l’abitudine vinse ogni
decreto del ministro, e le raccomandazioni continuano a piovere da ogni banda.
Mi si assicura che negli archivi della direzione delle imposte dirette esistono
documenti autentici i quali provano denunzie di redditi di ricchezza mobile
smaccatamente inferiori al vero, ma accettate per deferenza; adoperamenti,
interessati, per abbassare i redditi attribuiti ad altri, o per ottenere larghe
transizioni su quote di macinazione attribuite a mugnai, i quali avevano già
sperimentato giudizialmente i loro diritti ed erano stato condannati in prima
in seconda istanza ed in Cassazione. E’ noto che il Consiglio di stato ha
dovuto respingere talune proposte d’accordo con mugnai nelle quali il favore
sfolgorava troppo manifestante.
Il Consiglio di stato e la Corte dei conti è vero i due consessi che guardano
la conformità degli atti e dei contratti alla legge, e ove occorra metton freno
all’arbitrio ministeriale. Ma come dissi il Consiglio di stato non ha
giurisdizione che in pochissimi casi e da qualche anno a questa parte si è
preso l’andazzo in cose gravi di udirlo e poi di fare l’opposto dei suoi
pareri. Anche la Corte dei conti ha indarno cercato di opporsi ad alcuni
decreti che violavan la legge, rifiutandone la registrazione. Ma poiché si può
ordinare la registrazione con riserva, il ministero che ha la maggioranza nella
Camera, procede oltre, sicuro in ogni caso di conseguire non solo come dicesi
un bill d’indennità, ma un bill di glorificazione, se violando la legge abbia
servito gl’interessi e le passioni del suo partito.
L’enumerazione degli atti amministrativi che si compiono senza guarentigia o
con guarentigia insufficiente del cittadino, è ben lungi dall’esser qui
spiegata in tutti i rami della cosa pubblica. Io ho voluto levarne qualche
saggio per dimostrare che niuno dei ministeri ne va esente. Né volli fare atto
d’accusa contro alcuna persona, ma dimostrare che là dove è aperto il varco, la
politica s’insinua e le passioni di parte tentano di pigliare il luogo della
imparzialità.
Ma se ciò risponde ad uno dei fini del presente volume, a ben più alte
considerazioni ci chiama questa enumerazione, pur così imperfetta com’è.
L’amministrazione come dissi c’involve da tutte parti; con essa siamo in
cotidiane relazioni, i nostri interessi sono nelle sue mani. Ora si vede che
una non piccola parte degli atti amministrativi si compie, di guisa che colui
che se ne creda offeso non può far ricorso ai tribunali, perché sarebbero
incompetenti a giudicare. Gli rimane solo il rinfranco il ricorso in via
gerarchica. E’ desso sufficiente in una società libera o progredita? Non è
questo un grave difetto del nostro diritto pubblico interno? Non è principio di
corruzione? Ma quel rimedio a ciò? Risponderò a questa domanda nell’ultimo
capitolo: qui indico soltanto che la Prussia e la Germania posero il problema
dinanzi ai Parlamentari loro, e questi stimarono di averlo risoluto ordinando
una serie di provvedimenti, dei quali darò ragguaglio più oltre.
Mi resta anche a toccare un altro genere di rapporti, delicatissimi quanto gli
altri di che ho detto sopra, ed è quello che passa fra il governo e i suoi
medesimi impiegati. Imperocché l’ideale di una buona amministrazione dovrebbe
comprendere la stabilità dell’impiegato, la sua indipendenza da ogni influsso
politico, le sue promozioni regolari per anzianità o per merito. Ora qui cominciamo
altre dolenti note. Poterono i prefetti esser traslocati, rimutati, e persino
messi in aspettativa, e poi in disponibilità, e poi a riposo, senza che ne
fosse addotta altra ragione che la opportunità del servizio: ma bucinavasi che
in taluni casi la ragion vera fosse perché non garbavano ai deputati della
provincia, o alla maggioranza di essi. Abbiamo letto scritture di prefetti che,
per eccesso di zelo o per timore di peggio, pubblicamente lamentavano di non
essere riusciti nelle elezioni a sconfiggere il partito di opposizione, come se
il prefetto fosse mandato a reggere una provincia non per bene amministrare, ma
per fare gli interessi della parte politica. Che se i prefetti, e i
sottoprefetti sono da tal banda i più travagliati della gerarchia, ciò non
toglie che anche in ogni altro dicastero non avvengano ingiusti spostamenti per
ragioni meramente elettorali, con gravissimo danno del misero impiegato. E
anche fuori di questa contingenza, nella quale la parte politica par che
s’imponga, non è raro il caso che un impiegato per la sciagurata nota di male
intenzionato rimanga immobile nella sua carriera, mentre un altro che si reputa
bene intenzionato levasi di botto ad alti gradi indipendentemente da merito
singolare. Abbiamo veduto sospendere concorsi ad un impiego già inoltrati, e
non darvi più seguito perché codesti favoriti rimanessero nell’ufficio e
acquistassero titolo ad occuparlo definitivamente, godendone intanto i lucri.
Abbiamo veduto rimettere in posto tali uomini che già erano stati giudicati
indegni non pure di occuparli effettivamente, ma di ricevere pensione di
riposo. Qui ancora non vi è altra guarentigia che il beneplacito dei superiori.
Un sol caso, quello della destituzione, è sottoposto al giudizio di una
commissione.
E poiché ho parlato delle ingerenze politiche, ve n’ha una che sebbene non
illegale, pure sotto l’aspetto morale spicca maravigliosamente, ed è l’essersi
contravvenuto più volte alla legge delle incompatibilità parlamentari la quale
prescrive che durante il tempo in cui il deputato esercita il suo mandato, e
sei mesi dopo, non potrà essere nominato a verun ufficio retribuito. Vero è che
la legge soggiungeva che tali disposizioni andrebbero in esecuzione solo
coll’aprirsi della quattordicesima legislatura40 ma quando si pensa alla
fretta, e direi quasi all’impeto onde questa legge fu presentata e sancita in
Parlamento, come se veramente da essa dipendesse il buon andamento e la
moralità delle nostre istituzioni, e quasi la salute della patria, a ragione
può chiedersi se l’obbligo morale del ministero a mantenerla non cominciasse
dal giorno medesimo in che fu promulgata. Eppure se si paragone il tempo
trascorso dalla fondazione del regno d’Italia sino alla promulgazione di detta
legge con quello posteriore sino alla rinnovata legislatura, si vedrà che il
caso era stato relativamente assai più raro prima che non fosse di poi.
Finalmente chi non ricorda i settanta deputati datti Commendatori tutti in una
volta. La cosa menò gran vampo, e credo veramente che un esempio simigliante non
si trovi in nessun altro paese, e proverebbe che se noi siamo i sezzai nella
vita costituzionale, però nelle sue men nobili arti possiamo arrogarci di avere
il primato. Ma i ciondoli non bastano a contentar tutti, e chi andasse a
consultare i registri di qualche Banco di emissione, vedrebbe che l’ufficio di
deputato non gli fu di poco giovamento per la facilità di scontar cambiali, e
di queste ne troverebbe taluna che sta per avventura sepolta silenziosamente
fra le partite che chiamansi in sofferenza, ma cui si addice nome più proprio
quello di crediti inesigibili.
Ma non vorrei accusare più l’un partito che l’altro, e parmi di nuovo udire
che, sin dalla origine del regno d’Italia, occorsero, fatti di questa indebita
ingerenza della politica nell’amministrazione. E cogliendo al volo la mia
citazione dello Zini, mi si rimbeccherà che il suo libro dei criteri e dei modi
di governo nel regno d’Italia, pubblicato nel marzo 1876, raccoglie appunto
molti fatti contro le amministrazioni precedenti. E’ vero. Questo libro
comparso nel momento in cui la sinistra saliva al potere, ebbe grande
opportunità e parve un atto d’accusa contro il partito che dalle origini del
regno sino al 1876 aveva tenuto il governo della cosa pubblica. Piacque forse
più per le passioni che lusingava, di quello che fosse inteso per ciò che v’era
di giusto e di vero. Imperocché il punto che l’autore aveva preso a trattare ha
molta analogia con ciò che sin qui ho discorso. Io mi trovo alquanto a disagio
nel parlare, e chi ha letto questo libro dello Zini, e le sue istorie non
penerà ad intenderlo: però mi sforzerò di essere esatto nel riferire, equo nel
giudicare. Or dunque egli censura innanzi tutto quello zelo di autorità pel
quale il ministro rifugge dal sindacare l’operato dei suoi agenti, e dice che
ciò conduce a nascondere errori, dissimulare fuorviamenti, negare colpe,
scambiando la dignità e inviolabilità della legge con l’interesse del partito.
Hinc mali labe, non volersi rimuovere gli autori degli scandali a pretesto di
non iscemare l’autorità dei reggitori della cosa pubblica. E fin qui sono del
suo parere interamente. Appresso egli tocca del primo periodo del governo nuovo
e degli arbitrii che vi furono commessi: modificate circoscrizioni
amministrative per conformarle alle giudiziarie, e anche senza questo pretesto:
soppresse violentemente da un R. Commissario tutte le amministrazioni delle
Opere pie di una provincia contro il disposto delle tavole di fondazione, per
surrogarvi la Congregazione di carità. Critica le mutazioni introdotte per
semplice decreto nell’ordinamento del Consiglio dei ministri, la riunione nel
medesimo prefetto delle attribuzioni civili e militari: denunzia modi illegali
ed iniqui adoperati per estirpare il brigantaggio delle provincie napoletane,
mandati agenti provocatori per sorprenderli, e talune uccisioni fatte in
simulata fuga, messe guardie e piantoni a spese delle famiglie dei renitenti
alla leva, e dei disertori, e tagliati acquedotti per assestar terre che davan
loro rifugio. Accusa i ministeri precedenti di aver soldato e sovvenuto la
stampa, di aver tramutati e rimossi buoni prefetti perché non grati a qualche
deputato influente, e per la medesima ragione tolleratone altri, sebbene
dessero manifesti segni di mal costume. Poi dipinge quelli che chiama
proconsoli, cioè: questori e delegati ai quali si menava buono qualunque
sopruso, purché sapessero farsi belli di aver sventate congiure immaginarie, e
salvata la società da pericoli non mai esistiti; e intendenti e agenti della
finanza allora premiati quando tribolavano maggiormente i contribuenti. Vede il
lettore che io non attenuo le accuse.
Questi fatti poniam che in parte siano veri, in parte sono esagerati. E nel
primo periodo della nostra unità nazionale, trovano se non giustificazione
almeno scusa nella novità del regno, e nei pericoli ond’era attorniato. Così
per esempio la persecuzione del brigantaggio poteva riguardarsi come stato di
guerra, e non è equo sentenziarne col criterio dei tempi normali. E’ da pensare
alla diversità di legislazione in sette Stati, e all’incertezza della
giurisprudenza in un periodo di formazione. E’ anche da notare che dalla
salvezza delle finanze dipendeva il credito e l’onore del nuovo Stato. Laonde
l’autore errò a mio avviso giudicando certi fatti, come se lo Stato fosse in
condizioni ordinarie e non piuttosto straordinarissime, e attribuendo a colpe
di uomini ciò che era effetto del tempo, e delle circostanze almeno per la
massima parte. E non è da tralasciare questa considerazione, che mano a mano
che lo Stato si assolidava, e pigliava ordini comuni, quegli inconvenienti
venivano diminuendo. Ad ogni modo poi non si dee aver vergogna di confessare
che v’ha del vero nel libro dello Zini, che inconvenienti vi furono, che errori
si commisero, benché io per parte mia so e sento di poterli chiamare
involontari. Se non che l’autore medesimo avendo sperato che il 18 marzo 1876
ponesse fine non solo, ma riparo a questi inconvenienti, fece manifesta la sua
buona fede, quando più tardi e nelle lettere e nei discorsi che ho citati
sopra, riconosce che le sue speranze erano state frustrate, che la cosa
pubblica era andata peggiorando, che si erano rivelati fatti non mai prima
veduti, che le guarentigie della giustizia amministrativa venivano ognora più
scomparendo, che la parola riparazione era diventata uno scherzo melanconico.
Prima di chiudere il presente capitolo, voglio fare un’avvertenza che è
capitale. Io ho parlato sempre del governo, e delle sue indebite ingerenze
dell’amministrazione; ho mostrato i danni dello spirito di partito che vi
penetra e la guasta. Ma non vorrei che altri credesse che codesto spirito nei
paesi liberi rimanga solo nelle alte sfere del Parlamento, dei ministeri, degli
uffici centrali. Esso si svolge egualmente nella Provincia e nel Comune, e vi
produce i suoi letali effetti. Che se questi sono assai minori in estensione,
sono maggiori in intensità, imperocché i rancori locali attizzano le ire, e la
tirannide del tuo vicino è più vessatrice ed odiosa di quella di un’autorità
remota e centrale, la quale se non altro dà alle cose una importanza meno
sproporzionata al vero esser loro, e non è mossa comunemente da astii
personali. Laonde si può dire che fra arbitrio ed arbitrio, sia meno penoso
sobbarcarsi a quello del ministro, che a quello di una autorità locale
elettiva. Pertanto allorché investigheremo i rimedi al male che abbiamo
descritto, sarà mestieri che noi discendiamo dall’amministrazione nazionale
alle locali, e che cerchiamo come si possa estendere e mantenere la
imparzialità non solo nella prima ma eziandio nelle seconde.
In Italia vi sono delle Provincie amministrative in modo eccellente: vi sono
anche dei Municipi condotti con regolarità esemplare, e nei quali si direbbe
rivivere la vigoria e il sentimento intraprendente de’ nostri antichi padri. Ma
delle une e degli altri ve n’ha purtroppo che procedono male, e l’interesse
pubblico vi soggiace a quello di pochi, perché l’amministrazione è guasta e
viziata. Là i partiti pigliano la politica per manto, ma in realtà traggono
origine il più delle volte da odii inveterati fra le famiglie principali del
Comune, e l’una tende a porre l’altra sotto gravi pesi e quando riesce ad
assicurarsi la maggioranza, nessun riparo vi può far la gente. Imperocché il
partito vincitore occupa il Municipio, la Provincia, i Consigli direttivi delle
opere pie, delle scuole, e talvolta anche degli istituti di credito,
escludendone interamente i suoi oppositori; e quivi scapestra a suo libro. Le
tasse son votate nell’interesse del partito trionfante, e la sproporzione che si
vede in qualche luogo fra le imposte dirette e le indirette n’è argomento
manifesto. Si legge di qualche Comune dove le guardie daziarie, veri satelliti
dei padroni loro, lascian passare la roba degli aderenti e compensano il
bilancio comunale gravando la mano su quelle degli avversarii. Le rendite del
Municipio alimentano i parenti e gli amici: dànnosi loro gli appalti delle
opere pubbliche. E gli appaltatori, e gli avvocati che li difendono
signoreggiano senza freno. La polizia essendo in mano del sindaco, i
certificati di buona condotta, le informazioni al pretore per le ammonizioni, i
provvedimenti urgenti di sicurezza e di igiene, servono al partito. La lista
elettorale è compilata nell’intento di iscrivervi i nomi dei partigiani, e di
cancellarne gli avversari. Se altri ricorre, la sentenza della Corte d’appello
che ne ordina la rettificazione, spesso arriva tardi o ad elezione già fatta41.
Né la tutela della deputazione provinciale consegue il fine pel quale è
ordinata, imperocché, lasciando stare che in alcuni luoghi i sindaci e gli
assessori della giunta sono contemporaneamente membri della deputazione, se
questa è formata collo stesso spirito, e composta di uomini che si sono già
accordati fra loro, invece di vigilare e correggere gli abusi li trascura o li
ribadisce. Ed i caporioni in compenso delle reticenze colpevoli e degli
affettati obblii, ricevono tutti gli aiuti necessari per diventare deputati,
mentre i capi del Comune e di tutti gli istituti che ne dipendono, gli
esattori, gli appaltatori pagano il debito loro, rendendosi agenti elettorali.
In vero spetterebbe al prefetto rintuzzare questa cattività, e sventare queste
trame, ma si cerca di nascondergli il vero, o di aggirarlo con falsi ragguagli.
Che se ciò nonostante vede tutto, e da probo e severo amministratore sente in
cuore l’obbligo di mettervi riparo, come può egli vincere la resistenza delle
deputazione provinciale, della giunta comunale, del deputato politico? A gran
pena ei salverà sé medesimo, destreggiandosi, e godendo di benefici del tempo;
al più ne farà relazione al governo aspettandone le risoluzioni. Anche in
questi casi il ricorso e le querele dei singoli cittadini vanno dispersi al
vento, e l’art. 110 della Legge comunale e provinciale dichiara che i sindaci
non possono esser chiamati a render conto dell’esercizio delle loro funzioni,
fuorché dalla superiore autorità amministrativa, né sottoposti a procedimento
per alcun atto di tale esercizio senza autorizzazione del Re, e previo il
parere del Consiglio di stato. Il problema dunque si pone negli stessi termini
che ho detto sopra rispetto al governo: il cittadino e l’ente civile che si
crede leso da un’atto amministrativo delle rappresentanze comunali e
provinciali, a chi dee ricorrere? e quali procedimenti debbono stabilirsi
perché il ricorso ottenga giustizia?
Conchiudo questo ormai troppo lungo discorso. Nel capitolo precedente mostrai
che la forma di governo costituzionale, e sopratutto parlamentare sembra aver
di necessità indole di governo di partito, in questo senso che l’indirizzo
generale politico vi appartiene e quell’accolta di uomini, che esprimono le
tendenze della pubblica opinione, nella sua maggioranza, in un dato momento.
Mostrai eziandio che il governo di partito ha alcuni inconvenienti insiti per
guisa che non sembrano potersegli torre senza per così dire alterarne
l’essenza. Né il discutere altre forme di governo o la possibilità stessa di un
reggimento diversamente ordinato conveniva alla mia trattazione. Ma oltre i
difetti politici congiunti ad ogni governo di partito, ve ne sono altri nei
quali esso sdrucciola assai facilmente, e che non gli sembrano così connaturati
da doversi dire che necessariamente e inevitabilmente lo seguano. Questi
difetti nascono quando lo spirito di parte, dalla politica s’insinua nell’amministrazione,
e nella giustizia civile e penale.
L’esperienza ci ha dimostrato che anche l’Inghilterra, che è l’esemplare di
questa forma, di governi ponderati e parlamentari, non fu scevra di tale
difetto, ma in piccole proporzioni, e se risanò ben presto per vigoria degli
animi, e per virtù della locale amministrazione decentrata. In America il male
scoppiò con terribile intensità, e perdura, anzi, cresce tanto da togliere al
Parlamento e gli ufficiali pubblici credito e rispetto. Ma la libertà individuale
è colà tanto grande, e le attribuzioni del governo così minime dirimpetto
all’attività sociale, che quella putredine sta ristretta in un piccol cerchio
di politicanti, e per ora almeno il popolo continua il suo cammino, e, pur
conoscendo e sovente spregiando i suoi reggitori, gli pare che il tempo possa
spendersi in alcun che di meglio che nel correggerli. Nei paesi germanici, il
parlamentarismo non essendo così spiegato, non vi generò tanti guai, nondimeno
poco bastò per rendere avvertito il pericolo, e per tentare di porvi un
rimedio. Maggiori inconvenienti si manifestarono nei popoli così detti di razza
latina, laddove l’amministrazione è accentrata, nella Francia, nella Spagna,
nella Grecia. Nell’Italia, sebbene venuta da poco tempo a libertà non fu
difficile avvertirne i segni fin dalla prima origine: gl’inconvenienti crebbero
rapidamente col cessare del periodo eroico del nostro risorgimento, e vanno
prendendo proporzioni spaventose.
Se le cose dovessero continuare di questo passo, è evidente che il governo
parlamentare perderebbe ogni prestigio, e verrebbe in uggia alle popolazioni,
le quali più che di guarentigie politiche, hanno bisogno di giustizia austera e
di amministrazione imparziale. Questa difficoltà aggiunta alle altre che
rendono cotal forma di reggimento assai delicata nel suo esercizio, potrebbe
porgere occasione a inquietudini, commovimenti, e sommosse, per l‘antico e
falso vezzo di sperare che mutata la forma di governo i mali cessassero; mentre
invece diverrebbero più gravi e più modesti. Però bisogna por mente ad essi con
sollecitudine, ed esaminare i mezzi di prevenirli e di rimediarvi; se non in
modo assoluto ed intero, almeno per la maggior parte e per la più pungente. Io
mi farò adunque ad indagare quali rimedi possano escogitarsi, affinché oltre ai
danni, direi così, inevitabili in un governo di parte, non ne sorgano altri
accidentali ma anche più temibili; o come, sorti che siano, possano essere
tolti. E perché la ricerca sia più piena, mi farò prima ad esaminare se fosse possibile
un governo parlamentare senza esser governo di partito.
Io ho delineato nel
capitolo primo i pregi ed i difetti del Governo di partito che sono per così
dire da esso inseparabili. Ho quindi toccato nel capitolo secondo di altri
difetti che facilmente vi si aggiungono e sono anche più pericolosi perché
s’insinuano nella giustizia e nell’amministrazione, e gustandole traggono la
società a mali altrettanto gravi e intollerabili quanto quelli del dispotismo.
Natural cosa era che gli avversari del governo costituzionale ne traessero
argomenti a fortemente combatterlo, e così fecero. Taluni hanno spinto il
furore sino a chiamarlo barbarico a cagione appunto del sistema della gara e
vicenda dei partiti, e delle differenze e contrapposizioni fra i pubblici
poteri. Ma costoro messi poi alla prova d’immaginare qualche cosa di più
perfetto falliscono, o disviano sovente in pedanterie rancide o in astrattezze
impraticabili. Imperocché essi non considerano ciò che toccai sopra, cioè che
disputando di forme di governo si tratta non d’immaginare l’ottimo, ma di
riconoscere ciò che arreca maggior numero di beni, e minore di mali, e
similmente che la stessa forma di governo non si attaglia egualmente alle condizioni
di tutti i tempi e di tutti i luoghi; e come oggi sarebbe impossibile applicare
la costituzione di Solone o di Licurgo o le istituzioni politiche romane, così
il governo parlamentare è quello che sembra meglio rispondere alle esigenze
della moderna società. Pertanto io lascio costoro alla orgogliosa ed ignorante
baldanza onde maledicendo a tutti, sé medesimi adorano.
Ma se il governo costituzionale, divenuto in alcuni paesi parlamentare, sembra
rispondere meglio alle condizioni della moderna società, pur nondimeno esso fu
introdotto troppo di recente nel mondo, perché possiamo giudicarlo colla
testimonianza dei fatti. La sola Inghilterra ci dà una prova di oltre due
secoli, veramente meravigliosa, ma oltrecché ivi la costituzione aveva sue
radici antichissime nella tradizione, e nel costume ancor più che nelle leggi,
si può dire che la vera forma parlamentare come oggi s’intende non vi si
esercita e non da trent’anni. Ebbe adunque ragione il Principe Alberto marito
della regina Vittoria quando pronunziò quella sentenza che a taluni inglesi
seppe di forte agrume: rapresentative government is on its trial. Che se il
governo rappresentativo in Inghilterra si può riguardare come ancora in prova,
che diremo noi degli Stati continentali d’Europa, nei quali appena comincia a
svolgersi e mostrare i suoi effetti? Certamente la Francia non ci ha dato un
esempio lusinghiero colle sue vicende di monarchia e di repubblica, e si
comprende che molti n’abbian sentito disdegno e ribrezzo. Si comprende ancora
che la mente di alcuni desiderosa del semplice, si mostri insofferente di far
dipendere la buona condotta della cosa pubblica da un sistema delicato e
complicatissimo di freni, di valvole, di contrappesi e di equilibrio: ma questi
non sono argomenti sufficienti per condannarlo, che anzi nella natura quanto
più gli esseri salgono sulla scala della perfezione, e più sono complessi e di
molteplici organi forniti: e d’altra banda bisognerebbe aver in mente un altro
sistema diverso dalle monarchie e dalle repubbliche rappresentative consuete, e
che più si attagliasse ai nostri tempi, e quindi farne soggetto di
comparizione. E invero il consiglio più pratico e direi il solo che vien dato è
di ritornare alla signoria di un solo, che però si suppone savia, scientifica
da corpi tecnici, e intenta solo al maggior bene delle moltitudini. Si fa
presto a dirlo, ma anche di ciò abbiamo avuto saggi dolorosi. E a me pare
veramente che sia da concludere col Principe Alberto che il governo
rappresentativo è in prova, e che studiandone al lume della esperienza gli
effetti, sia da tentare via via di correggerne le imperfezioni, e di renderlo
veramente efficace e benefico a tutte le classi della società. Ma codesta è
troppo ampia materia al mio assunto, il quale è d’investigare se possa intendersi
un governo parlamentare senza partiti, e per conseguenza senza gli
inconvenienti che da essi derivano. Ove ciò apparisse possibile, quivi sarebbe
il rimedio assoluto, ed è perciò che l’indagine si chiarisce in questo luogo
opportuna. Questa possibilità di sollevare il governo al di sopra dei partiti è
vagheggiata da molti, e non solo nei casi straordinari, ma eziandio nei casi
ordinari. E ciò spiega quel certo favore che accompagna sempre coloro che si
presentano ai comizi o nelle assemblee un proposito di personale indipendenza,
e una volontà risoluta di giudicare ed operare, in ogni singolo caso, secondo
quello che stimano bene della patria, all’infuori di ogni partito.
E piglierò le mosse da un grande filosofo, il maggiore forse dei filosofi del
nostro tempo, Antonio Rosmini, il quale non solo nella speculazione astratta,
ma eziandio nelle indagini giuridiche e politiche mostrò acume d’intelletto,
dirittura di guidicio, libertà di sentimenti, e piglierò il cap. 15 della
Società e del suo fine nella Filosofia della Politica, là dove egli
manifestamente invoca come ideale la fine dei partiti, e spera che possa
conseguirsi mercé una sana educazione del popolo. E dice così: "Ciò che
impedisce la giustizia e la moralità sociale sono i partiti politici. Ecco il
verme che rode la società, che confonde le previsioni dei filosofi, che rende
vane le più belle teorie. I partiti politici si possono riferire a tre origini,
gli interessi materiali, le opinioni sostenute da antiche credenze e inveterate
consuetudini, e le passioni... In qual modo adunque la civile associazione di
difenderà dal pericolo dei partiti? Ecco uno dei più difficili problemi per
l’uomo di stato, per la filosofia politica. Contro il pericolo predetto dei
partiti che tolgano la calma ai governanti e ai governati sono proposti due
espedienti:
1° Equilibrio dei partiti che si collidono. Sistema dell’antagonismo sociale.
2° Prevalenza di un partito sull’altro in modo che questo non abbia mai né
volontà né potenza di ribellarsi. Sistema dell’assolutismo.
Il primo può bensì fare che la società non rimanga sacrificata alla balìa di un
solo partito, ma non può mai appagar gli uomini, mantenendoli in uno stato
d’irritazione. Inoltre se può esservi equilibrio per un certo tempo fra i
grandi partiti (democratico, aristocratico, monarchico) non vi può essere fra i
minori, che sono innumerevoli come gli interessi, le opinioni, le consuetudini.
Finalmente chi può mantenere l’equilibrio dei partiti? o è un partito esso
stesso, ed entriamo nel secondo espediente, o è un Ente al disopra dei partiti,
e allora si dimanda qualche cosa di estraneo ad essi, il punto fermo di
Archimede.
Né la società è meglio garantita nel secondo caso (e qui ne allega alcuni
esempi). Vero è che un partito impossessatosi del governo acquista dal posto in
cui si trova delle viste di giustizia e di equità che non aveva prima. Ma
lasciando da parte la riflessione, che dee sempre trascorrere un poco di tempo
prima che il partito cangiatosi in governo abbia preso le abitudini di
giustizia e di moralità proprio dei governi, noi avremo allora un equo governo
perché l’un dei partiti governa, ma perché un partito ha cessato di esser
partito ed è diventato un equo governo. Inoltre le minorità a poco a poco si
ordinano, s’infiammano e finiscono per rovesciare il partito dominante".
La conclusione dell’autore è che i due mezzi sono inefficaci e che nessuna
combinazione politica è sufficiente a guarentire stabilmente la società del
cattivo effetto dei partiti politici. Rimedio solo è nell’impedire che nascano,
colla sana educazione delle generazioni venienti.
Qui primieramente è da notare che l’autore definisce il partito così: "Col
vocabolo di partito politico noi significhiamo un certo numero d’uomini che si
associano espressamente o tacitamente per influire sulla società e farla
servire al proprio vantaggio. Il partito ha per iscopo il proprio vantaggio non
la giustizia, la equità, la virtù morale. Partito adunque ed equità, giustizia
e virtù morale sono cose opposte". Ora se il governo della cosa pubblica
non avesse altro criterio che la giustizia e la virtù, si potrebbe consentire
coll’autore, imperocché due partiti in quest’ordine d’idee, non sono
ammissibili. Ma il governo della cosa pubblica sotto la suprema regola del
giusto e dell’onesto, ha un altro criterio ed è il più frequente, quello cioè
dell’utilità pubblica. Pertanto se intorno all’utilità pubblica possono aversi
idee diverse senza offendere la giustizia, non è così assurda l’esistenza dei
partiti come parve all’autore. Ed invero per seguir l’esempio che dà egli
medesimo non è egli agevole a comprendersi che altri favoreggi la democrazia,
l’aristocrazia, la monarchia senza perciò offendere la giustizia e l’equità?
per concludere a tal modo bisognerebbe prendere le mosse da più alta sentenza:
che non vi è pensiero né atto meramente lecito, ma che tutti sono doverosi. Se
il filosofo roveretano avesse posto mente a ciò, avrebbe inteso meglio la quasi
impossibilità di togliere i partiti, e soprattutto non avrebbe definito il
partito come una riunione di uomini aventi per unico fine l’interesse privato,
e la potenza lor propria. Certamente se si prende le mosse da quella
definizione, bisogna combattere a tutta oltranza l’esistenza stessa dei
partiti, perocché sono il contrapposto del bene pubblico. Ma il problema, mi
sia lecito dire, è mal posto. Imperocché tenendo pur fermo che in materia di
giustizia non vi possono essere più partiti, ma posto che sulla utilità
pubblica siano naturali e inevitabili le discrepanze di giudizio, come si può
condannare una spontanea unione di uomini che si adoperi a conseguire il fine
del bene generale qual è da loro inteso, e con mezzi legittimi? Così adunque
dovrebbe porsi ragionevolmente il problema: con quali modi si può impedire che
un partito si curi solo dell’utile privato, e si valga di mezzi non legittimi.
Nicolò Macchiavelli lo aveva visto chiaramente laddove dice: "Coloro che
sperano che una repubblica possa esser unita, assai di questa speranza
s’ingannano. Vera cosa è che alcune divisioni nuociono alle repubbliche, ed
altre giovano. Quelle nuocono che sono dalle sette e dai partigiani
accompagnate; quelle che senza sette e senza partigiani si mantengono. Non
potendo dunque provvedere un fondatore d’un repubblica che non siano nimicizie
in quella, ha da provvedere che non ci siano sette... Le nimicizie di Firenze
furono sempre con sette e perciò furon sempre dannose, né stette mai una setta
vincitrice unita, se non intanto quanto la setta inimica era viva1". Per
repubblica Macchiavelli intende sempre un governo libero, e per setta formata
di partigiani quel che Rosmini chiama partito, cioè una accolta di uomini
aventi per fine unico l’interesse privato e per mezzi la forza e la frode. Dove
anche Macchiavelli giudica che le sette siano esiziali alle repubbliche, ma non
le naturali divisioni; e conforme a questo concetto egli reputa che la
disunione della plebe e del senato romano fece libera e potente la Repubblica2.
Certo è che per stare alla storia moderna, il medio evo ebbe sette anzicché
partiti, sebbene anche nell’intimo senso dei Guelfi e dei Ghibellini si trovi
un’idea morale; ma le passioni imperversavano, la violenza era stimata il solo
mezzo per trionfare e l’odio e la vendetta rendevano le discordie implacabili.
Il Burckardt nel suo bel libro del Rinascimento italiano afferma che in
quell’epoca cominciassero a piegarsi i partiti, siccome noi li intendiano.
Colla fine della libertà e colla formazione delle grandi monarchie e dei
principati assoluti, i partiti vengono meno: anzi la stanchezza di loro iniquie
opere fu una delle cagioni principalissime perché i popoli si volgessero ad un
Principe. Nel secolo passato, quando dalla filosofia mosse di nuovo la
scintilla che doveva accender negli animi il desiderio di uno stato libero,
questo punto non si trova, per quanto è a mia notizia, esaminato da alcuno di
quegli scrittori che s’immaginavano di ricostruire la società dai fondamenti.
Essi volevano rifare al XVIII secolo Atene, e Sparta e Roma, e pur facevano
astrazione dalle fazioni che avevano insanguinato quelle città, e forse
l’essere cessato i partiti da due secoli aveva loro fatto obbliare intieramente
questo pericolo. Solo il Montesquieu ne dà un accenno. "Le divisioni si
pacificano più agevolmente negli stati governati a monarchia, perché il sovrano
ha nelle sue mani una potenza coercitiva che riconduce i due partiti; ma in una
repubblica sono più durevoli, perché il male s’attacca alla potenza stessa che
potrebbe guarirle". Montesquieu vede nella repubblica (ed egli con questo
nome intende come Macchiavelli ogni paese libero) un partito che s’impossessa
della cosa pubblica, e quindi lungi dal far cessare la divisione ha interesse a
tenerla viva, o almeno non può spegner l’altro: ma non va più oltre di questa
semplice considerazione. Nell’Enciclopedia che raccoglie il fiore della
dottrina francese del secolo scorso, trovi alla voce partito la definizione che
segue: "Una fazione, potenza, o interesse, che si considera opposto ad un
altro". Né Voltaire, né Rousseau che diedero come il vangelo alla rivoluzione
francese, fanno motto della questione che ora ci occupa. Napoleone I trovò la
Francia stanca delle fazioni e volle porsi sopra di loro, e le schiacciò come
diremo appresso. In quel tempo il Burke formulava forse pel primo la teorica
dei partiti come ho detto sopra, ma i francesi poco l’avvertivano. Più tardi
gli scrittori più eminenti di diritto costituzionale come il Benjamin Constant
e gli altri che lo seguirono appresso, non ne fanno quasi menzione, o almeno
non veggono le difficoltà che potevan sorgere dal contrapporsi dei partiti e
dall’alternarsi loro al governo.
Del Rosmini ho dato ragguaglio sopra: il Gioberti collega la questione delle
parti colla dialettica e ne parla così: "Le voci di parte e di setta
accennando disgiuntamente e rottura di un tutto, significano un non so che di
privativo, di manchevole, il vizioso, e però nella buona lingua le parti e
sette politiche si chiamano anche divisioni, quasi eresie speculative e scismi
pratici verso l’opinione e unità nazionale. E invero ciascuna di esse
rappresenta un solo aspetto dell’idea moltiforme che genere ed abbraccia
compitamente il concetto ed il fatto, il genio e l’essere della nazione... E
siccome nel lavorio dello spirito l’affetto ritrae dal concetto, elle sono
rissose e non pacifiche, intolleranti e non conciliative, parziali e non eque,
eccessive e non moderate, volgari e non generose, sollecite di se stesse anzi
che della patria, e licenziose intorno ai mezzi per sortire l’intento loro.
Tanto che assommata ogni cosa tengono più o meno del rovinoso e del retrogrado
anche quando si credono progressive o conservatrici. Non si vuol però inferire
che tutto sia falso nei loro dettati, o reo delle loro pratiche, perché se
fosse, non potrebbero avere vita, credito e potenza. Ogni setta è l’esagerazione
di un vero e di un bene parziale, nei quali sta il merito e il vizio,
l’efficacia e l’impotenza loro, atteso che anche il vero ed il bene si
corrompono ogni volta che trasmodano a pregiudizio di altri beni, e di altri
veri... Le parti sono effetto della civiltà immatura, come le scuole della
scienza primaticcia e manchevole; e quasi una reliquia dell’antica barbarie, ma
migliorata. Nella barbarie il conflitto è violento e si spedisce colle armi...
oggi per ordinario la pugna si esercita nel campo delle idee e dei maneggi,
sostituendo il pensiero e la parola, e spesso l’arte e l’astuzia, talvolta
anche i raggiri e la frode ai colpi e alla forza; il che è certo un notabile
avanzo, imperocché la lotta ridotta a questi termini, se non è pacifica né generosa
in se stessa, è pero men brutale e malefica per gli effetto. E, a mano a mano
che la civiltà cresce, le parti si emendano, diventano più eque e tolleranti,
più benevole e disposte agli accordi: passano dai libelli e dai conventicoli ai
giornali e ai parlamenti: pigliano una forma più moderata e sincera: di private
e spesso clandestine diventano pubbliche, di nocive utili; e si chiamano
opposizione: la quale è in politica un progresso dialettico, e somiglia alla
dissonanza artificiosa nella musica, alla critica, e all’obbiezione nella
dogmatica e polemica dottrinale. D’altra parte esse vanno scadendo d’importanza
e rimettendo di forze, per guisa che se la cultura potesse quandocché sia
toccare il colmo, elle affatto si dileguerebbero. Ma siccome l’idea e la
dialettica compiuta non possono raggiungersi che per via di avvicinamento; così
il progresso della civiltà verso le sette, consiste nel migliorarle
rivolgendole sempre più al bene, e rendendole meno attuose pel male ".
Sismondi nel suo bel libro delle Costituzioni dei popoli liberi, parlando del
regime rappresentativo, pone in luce che ciò che costituisce la sincerità del
governo libero si è che tutte le opinioni, tutti gli interessi possano essere
schiettamente espressi, dibattuti, pesati; e nota che i deputati vengono al
Parlamento recando i desideri, i bisogni di una provincia, di una città, di una
classe, di una facoltà, di una professione: ma qui si ferma, e non esamina come
questi deputati, secondo i desideri e i bisogni che rappresentato, tendano ad
aggrupparsi e disciplinarsi nella forma di partito.
Fu presso ai Tedeschi che lo studio dei partiti pigliò un metodo e una forma
scientifica. Teodoro Röhmer scrisse intorno a ciò un libro degnissimo di
menzione6 che poi è stato da molti in parte copiato. Scrisse eziandio più tardi
il Treitschke, e mirò ad esprimere i mali dei partiti, ma quegli che ha
esaminato a fondo la questione più di ogni altro è il Blüntschli7 il quale che
là dove è operosità di vita politica, ivi sorgono di necessità i partiti, giacciono
invece dove il popolo è neghittosamente indifferente ovvero oppresso dalla
violenza; di guisa che la mancanza di casi è degno d’inettitudine o di
oppressione, la esistenza loro di vitalità e di gagliardia.
I partiti politici, secondo il Blüntschli sono dunque tanto più vigorosi quanto
la vita politica è più ricca e più libera. La storia della repubblica romana,
lo svolgimento della monarchia inglese e dell’Unione americana non si spiega
altrimenti che col conflitto dei partiti. Le rivalità loro, e gli sforzi
generano le migliori istituzioni politiche e traggono in luce forze che prima
eran nascoste. Laonde non bisogna credere, come certe anime timide, che i
partiti politici siano una debolezza, e una malattia dello stato moderno:
imperocché sono al contrario argomento di vita sana e forte. Il non appartenere
ad alcun partito non è punto virtù del cittadino, e il dire di uno statista che
è estraneo ai partiti non è lode, ma biasimo. Però giova notare che partito
come dice il vocabolo stesso, è frazione di un tutto, per la quale cosa non può
senza orgoglio ed usurpazione prendere il luogo dello Stato. Esso può
combattere gli altri partiti, ma non gli è lecito finger d’ignorare l’esistenza
loro né sforzarsi di distruggerli. Solo nelle monarchie v’ha un uomo che deve
rimanere al di fuori e al di sopra dei partiti, ed è il Re. A lui spetta
accordare a ciascun di essi protezione e tutela nei limiti del diritto comune,
e tenendo conto del corso mutevole dell’opinione pubblica, accogliere nei
consigli del governo quel partito che meglio la rappresenti. Però il partito
non dee confondersi colla fazione. Questa ne è la degenerazione e il
corrompimento, e riesce perniciosa allo Stato quanto il partito gli è utile.
Avvegnacché ciò che distingue il partito nel vero e legittimo suo senso è che
esso non esclude gli altri partiti, ed ha un intento politico il quale è in
accordo coi fini dello Stato: ma diventa fazione quando sottopone il tutto alla
parte, gl’interessi dello Stato ai propri. La fazione è l’egoismo che trionfa e
usufrutta lo Stato a proprio vantaggio. Il partito ha sempre due interessi, uno
particolare ed uno generale come ogni cittadino come ogni corporazione: ma deve
sottoporre l’interesse particolare all’interesse generale. Sicché può dirsi che
il partito diviene fazione, e la fazione diviene partito per inversione dei
poli, secondocché vi prevale l’interesse generale o il particolare.
Queste cose aveva scorto anche il Balbo chiaramente:" Le diverse opinioni
sullo Stato sono dapertutto. Ma sotto ai governi assoluti non si possono
esprimere legalmente e quindi si producono le fazioni che sono appunto le parti
non legali. E le fazioni poi diventano congiure, sette, società segrete,
tumulti di palazzo, e di piazza; sventure tutte e vergognose nazionali. All’incontro
quando le opinioni diverse sullo Stato possono esprimersi, ed aspirare al
governo legalmente, esse da fazioni diventano parti politiche legittime,
legali, virtuose, onorevoli, e talora gloriose, utili allo Stato." Codeste
considerazioni del Balbo come quelle del Blüntschli che ho riferito, sono atte
a rispondere in gran parte alle cose dette dal Rosmini, mediante la distinzione
fra partito e fazione che è pur quella intraveduta dal Macchiavelli; solo
vuolsi aggiungere che è facile il trapasso dall’esser di partito a quello di
fazione, e per conseguenza la trasformazione di un organo le cui funzioni,
secondo gli autori menzionati, sono utili alla sanità del corpo intero, in un
fomite di malattia che lo corrompe e lo dissolve.
Nel libro medesimo di che ho parlato sopra, il Blüntschli viene investigando le
origine dei partiti, e li divide in sei classi. Quelli che attingono i loro
principi ad una confessione religiosa, mescolando l’ecclesiastico ed il civile,
some sarebbe il partito clericale o protestante; ovvero che s’appoggiano sopra
interessi territoriali o regionali, per esempio un partito del settentrione e
del mezzodì, e questi sono assai pericolosi. Già Washington aveva detto:
prendete guardia di non distinguere i partiti dalla postura geografica. Quelli
che hanno origine dagli interessi di classe e li rappresentano, come era nei
secoli scorsi la nobiltà, il clero, il terzo stato; di che anche la Germania
odierna ci dà un esemplare nei così detti Junker o feudali, e tale sarebbe
anche un partito di operai che sorgesse: e codesti parimente sono funesti.
Imperocché normalmente i partiti debbono aggregarsi per idee politiche, non
solo astraendo da confession religiose, da territorio o da regioni diverse del
paese, ma eziandio da ordini distinti nella società. Segue la classificazione
dei partiti secondo i principi costituzionali, e qui ci si parano innanzi
quelli che prendono nome dalla forma del governo, monarchici o repubblicani,
unitari o federali, accentratori o decentratori. Queste divisioni ebbero ed
hanno la ragion d’essere loro nelle grandi questioni sulla costituzione degli
Stati che da un secolo agitano il mondo; ma è evidente che una volta costituito
lo Stato in una data forma, e assicurata la sua durata sopra solide basi,
debbono scomparire. Io però osserverei al Blüntschli che per quanto una
costituzione sia assodata, pure vi sarà sempre una tendenza o all’accentramento
o al decentramento, ad unità o a federazione, a dare al monarca un potere più
forte ed efficace, o a pareggiarlo al presidente di una repubblica; e siffatte
tendenze senza essere la sola bandiera dei partiti, ne saranno pur nondimeno
uno degli amminicoli importanti. Il quinto modo di aggrupparsi è come partito
governativo e partito di opposizione. E’ il modo antico inglese onde si poté
dire che nella costituzione della Gran Bretagna è sempre un partito quello che
governa. Il fatto è che entrambi i partiti, whigs e tories tennero a vicenda e
secondo l’indirizzo della pubblica opinione, il governo della cosa pubblica, e
che per conseguenza ogni partito diventò a sua volta ministeriale e di
opposizione. Ed era questo l’ideale che si formava il nostro Balbo, cioè due
partiti sole quelle del ministero e quella dell’opposizione. Però il Blüntschli
avverte al duplice pericolo; dell’opposizione sistematica che recalcitra anche
ad intenti che in cuor suo giudica buoni, e del partito governativo ad oltranza
che non ha altro fine fuorché di sostenere il ministero, ed è composto da
impiegati o da uomini inclinati a servire l’autorità qual che ella sia e in
qualunque forma; i quali però sono a lungo andare per i ministeri un
debolissimo appoggio, e talora eziandio un pericolo. L’ultima forma che il
Blüntschli chiama la più pura e la più elevata è quella che facendo astrazione
dalla religione, dalla classe, dalla regione, dall’interesse, s’informa a
principii veramente politici e che accompagnano sempre lo svolgersi dello Stato
libero. Così fu gran progresso per l’Inghilterra quando i whigs s’intitolarono
liberali, i tories conservatori, lasciando da parte la tradizione, e fondandosi
sui due elementi di conservazione e di progresso che sono entrambi essenziali
alla vita di una nazione.
Il Blüntschli dà il tipo di quattro partiti di cui due sono normali e gli altri
due ne sono per così dire l’esagerazione e cioè il partito liberale, e il
partiti conservatore, indi il partito radicale ed il retrivo. E non alieno
dall’accogliere la comparazione del Röhmer che paragonava il partito radicale
alla infanzia, il liberale alla giovinezza, il conservatore alla virilità, il
retrivo alla vecchiaia. A me duole di non poter intrattenermi nell’esame delle
idee che ogni partito vien formandosi sulla nozione e la forma dello Stato, sul
concetto di diritto, di libertà, di nazionalità, infine sulle questioni economiche.
Ma in ciò egli era già stato preceduto dal Gioberti, che rispetto all’Italia
aveva diviso i partiti in democristiano, conservatore, puritano e municipale
con poca differenza dalle quattro categorie adottate dal Blüntschli: l’uno e
l’altro augurando che conservatori e liberali si alleassero, ed escludessero
gli estremi. Ma io mi dilungherei troppo dal pensiero fondamentale di questo
capitolo che vorrebbe indagare la possibilità di un governo libero che non sia
di partito.
Pertanto parmi di poter da tutte le cose sopra esposte indurre le proposizioni
seguenti. E’ inevitabile che nei governi liberi si generino opinioni diverse
non tanto sul fine che è la prosperità e il miglioramento dei cittadini, quanti
sui mezzi più acconci a raggiungerlo. Ho già toccato delle differenze naturali
che si riscontrano negli ingegni, nelle tradizioni, nell’ambiente in cui
ciascuno fu educato, soprattutto negl’interessi. E ho mostrato che coloro che
concordano nei concetti principali, relativi alla condotta della cosa pubblica,
sono sospinti naturalmente a riunirsi insieme, ed a congiungere i loro sforzi
per far prevalere i pensieri che hanno comuni. Da ciò la origine del partito.
Sembra difficile concepire nei paesi liberi uno andamento diverso. Piuttosto si
potrebbe dire, allargando il nostro esame, che ciò avviene non solo nella
politica, ma eziandio in ogni altra parte della vita scientifica e civile.
Persino la teologia non ne va immune, se consultiamo la storia. Vero è che la
Chiesa cattolica ha sciolto il problema delle spegnimento dei partiti collo
stabilire un’autorità ultima e suprema che definisce in modo infallibile i
punti necessari alla eterna salute (o essa risieda nel Concilio presieduto dal
Pontefice, come molti credevano un tempo, o nel Pontefice solo quando pronunzia
ex Cathedra come oggi s’insegna): ma ciò presuppone una perenne ispirazione
dello Spirito Santo, che non ha difetto mai quando si tratta delle cose
essenziali alla Fede. Se non che, in fuori di questa ristretta cerchia, anche
la teologia cattolica ha molte materie nelle quali una certa varietà di giudizi
è permessa e, come dice Sant’Agostino, intorno ad esse vuolsi lasciare ai
fedeli la libertà8; e quindi nasce la discrepanza di talune opinioni anche fra
i più ortodossi. Or questa discrepanza che è se non il principio del partito?
Ma presso i protestanti che non hanno questa autorità infallibile, i partiti
sono molti e ardente, i quali manifestano nelle varie lor confessioni tuttocché
abbiano una credenza comune nella divinità della Bibbia.
Lo stesso accade nella scienza in quella parte almeno che non è dimostrata in
modo assoluto, e rimane opinabile onde la filosofia antica e moderna fu divisa
in scuole: e così la medicina, l’economia, la legislazione e persino, secondo
Macaulay, le scienze fisiche, e le matematiche. Invero questo concetto piò
rannodarsi ad alcune leggi generali che regolano la natura fisica e morale. E
risalendo sino ad Empedocle a chi non è noto che la sua filosofia poneva nella
discordia il principio creatore e conservatore del mondo? Donde i versi del
poeta che attribuisce all’amore il principio della dissoluzione
... io pensai che l’universo
Sentisse amor: per lo qual è chi creda
Più volte il mondo in caos converso.
La quale teorica variante trasformata si trova sparsa in tutti i filosofi
dell’antichità e del medio evo sino ai moderni, fra i quali Hegel sentenziò che
la contraddizione è il ritmo della vita dello spirito. Gli stesso positivisti
odierni non si discostano da un’idea analoga, avvegnacché dicono che l’unità
non si estrinseca che per la diversità: ed i Darwiniani da una o più cellule
primitive fanno evolvere tutte le specie. Finalmente l’Herbert Spencer fonda la
sua dottrina in ciò che dall’omogeneo semplice ed indefinito erompe
l’eterogeneo complesso e definito.10 Il che in sostanza non è che un
riconoscere come legge di natura il contrasto che precede e fa luogo
all’armonia. Ma lasciando queste speculazioni, e venendo alla politica, nessuno
potrà maravigliarsi che se si trova la divisione ed il partito nella scienza e
nell’arte, là dove si tratta d’interesse che toccano ciascheduno da vicino,
quivi eziandio si manifesti.
Ma le sue gradazioni sono diverse. Anche nei reggimenti meramente consultativi
il partito fa sentirsi, e l’opinione della maggioranza finisce per avere un
predominio, però con azione lunga che procede inosservata, e spesso interrotta.
Nei governi prettamente costituzionali come la Germania e l’Austria-Ungheria,
lo influsso dei partiti è maggiore, ma non sempre decisivo, e rimane
contrappesato, talvolta dal volere del sovrano, talvolta dalle tradizioni
burocratiche, o dallo spirito militare. Nei giorni parlamentari è massimo.
perocché l’assemblea non solo ha potestà di far leggi e sindacare la condotta
quotidiana dei ministri, ma la sua espressa fiducia è per essi condizione
vitale, comecché la scelta loro appartenga al Principe. Dall’altra banda è di
sommo rilievo considerare che un’assemblea non potrebbe far opera efficace e
perseverante se non è organizzata, e se per conseguenza non v’ha chi sappia e
possa dirigerla; or spronandola, or frenandola; sicché è mestieri che abbia
capi riconosciuti, ed una maggioranza loro fedele.
Citano taluni ad esempio Napoleone I, e dicono che egli aveva fondato uno Stato
moderno civile, con assemblee deliberanti, e che nondimeno la massima
fondamentale dell’esser suo era il soprastare ai partiti. Imperocché secondo la
sentenza fa lui proferita al Consiglio di Stato, governare con essi è lo stesso
che mettersi in loro Balìa. Io non mi piegherò mai, aveva egli detto, a tale servaggio,
e voglio giovarmi di tutti coloro che hanno ingegno e non rifiutano di meco
procedere.11 Certamente quando Napoleone raccolse in sua mano la somma delle
cose, i partiti s’erano dilaniati sì crudelmente, e avevano immolato ai loro
insani furori tante vittime, e così profondamente perturbato tutta
l’amministrazione pubblica, che s’era ingenerato nel popolo un cordiale odio
contro di essi. Cosicché al giovane corso già famoso per le vinte battaglie, e
pei felici negoziati coi potentati stranieri, tutti si rivolsero come a
salvatore, affinché pigliasse la grande impresa di pacificare gli animi, e di
riordinare lo Stato. E così avviene ed avverrà sempre, se i partiti dimentichi
del fine come cioè dell’utile pubblico, si lacerino per motivi d’interesse o di
rancori privati e anche se le pugne loro imperversino in guisa da togliere al
cittadino la sicurezza degli averi e della persona. Allora i diritti politici
appaiono agli uomini piuttosto un pericolo che un privilegio, ed essi sono
pronti a farne gitto in favore di chi porge loro in cambio la quiete e
l’ordine. Così avvenne di napoleone, e vi si aggiunge il suo genio singolare, e
maravigliosamente atto ad intendere gli istinti popolari e le condizioni del
tempo in cui visse. Né la sua fu tirannide a solo profitto e gloria
dell’Imperatore, né fu governo paterno che si trascinasse sulle orme del
passato pur di non offendere troppi interessi; ma fu dittatura acclamata dal
popolo francese per introdurre nelle leggi e negli istituti pubblici tutto ciò
che lo spirito moderno aveva immaginato di più nobile e di più vantaggioso per
l’universale. E a lui invero si appartengono i codici, e l’ordinamento della
magistratura giudiziaria, e quello dell’amministrazione in ogni sua parte, a
lui la regola e la severità della finanza, a lui l’Università, e lo svolgimento
grandioso dei lavori pubblici. Cosicché non a torto, nonostante il suo furore
guerresco, egli poté dire, parlando un giorno al Consiglio di stato, che sino
al suo secolo due potestà sole s’eran vedute nel mondo, la militare e la
ecclesiastica; e ch’egli intendeva ora costituirne una terza, cioè la potestà
civile.12 Ma questa costituzione e le riforme in ogni parte della cosa pubblica
da lui prendevano le mosse, non dal libero dibattito di rappresentanti del popolo.
La sua macchina si muoveva per tre ruote: il Consiglio di stato che, sotto
l’indirizzo dei suoi suggerimenti, edificava il tempio delle leggi, il Corpo
legislativo al quale dette leggi eran poste innanzi; ed esso senza alcuna
iniziativa propria le accettava; e infine il Senato, corpo meramente destinato
a conservare la costituzione e gli ordini pubblici. Il tribunato, comecché
avesse tarpate le ali, non poté durare, e fu casso, perché ogni opposizione
ancorché lieve pareva intollerabile: così era perseguìta la stampa e ogni
manifestazione che si discostasse dai suoi intendimenti: tanto che ben può
dirsi che il governo napoleonico fu un governo ampiamente consultativo e anche
democratico, ma non un governo libero, perché padroneggiava sopra tutti e sempre
la volontà di un solo, quale ogni cittadino doveva inchinarsi.
E qui mi accade di fare una osservazione. Se il governo napoleonico era
arbitrario in politica, e non ammetteva contraddizioni, però in materia di
giustizia e di amministrazione era ordinariamente severo ed imparziale. E ciò
spiega il gran favore che accompagnò l’opera sua interna, e quella tradizione
che rimase generalmente della bontà degli ordini napoleonici, che noi abbiamo
udito decantare per tutto il tempo della nostra giovinezza. Eppure il popolo
francese non poté appagarsi lungamente di quella forma di governo; e lo provano
due cose, l’una che Napoleone stesso riconoscendo i pericoli di un’autorità
illimitata, meditava anche nell’apogèo della gloria, di porre freni a’ suoi
successori, affinché se non abusassero, l’altra che egli medesimo al ritorno
dall’isola dell’Elba stimò coll’atto addizionale, dare una costituzione sul
modello inglese. Né avvenne diversamente a Napoleone III, il quale dopo molti
anni di governo assoluto, sentì la necessità di ridonare alla nazione molti dei
diritti che egli aveva in sé raccolti, e di porre la piena autorità, sebbene i
plebisciti l’avessero in lui più volte confermata. Quel governo adunque, che
usa chiamarsi oggidì cesareo, dura ed ha gran forza sino a che si tratta di
liberare uno Stato dall’anarchia, e di riordinarlo, o di conquistare territori,
e potenza nel mondo: ma quando per l’efficacia sua propria ha ottenuto il primo
fine, e le circostanze gl’impediscono di raggiungere il secondo, subito nasce
nei popoli il desiderio di partecipare maggiormente alla cosa pubblica. Sicché
questa dittatura ci apparisce piuttosto come un freno temporaneo e riparatore,
che come una forma stabile e ordinata di reggimento.
Altri pigliando le mosse da ciò che noi abbiamo toccato sopra, cioè che nel
governo costituzionale la pugna dei partiti sia men cruda, e i danni loro men
gravi in raffronto al governo parlamentare, opinano che convenga tenersi
stretti al primo e non lasciarsi trascinare al secondo, o tentar di ricondurvisi
una volta disviati. Ma, prima di tutto, se è vero che molti difetti si
accrescono e spiccano maggiormente colla forma parlamentare, però è da
riconoscere enziandio che ne esistono i germi anche nella forma costituzionale
la più ristretta. E veramente in Inghilterra l’una ha surrogato l’altra a poco
a poco, ma il mutamento s’è compiuto propriamente durante il regno della Regina
Vittoria. E nondimeno anche in antico i partiti c’erano, e ferventissimi, anzi
più inframettenti che non siano oggi. E la Germania similmente, che è uno Stato
prettamente costituzionale, ha già avvertito quei pericoli onde abbiamo
discorso, e s’è messa a studiarne il riparo con quell’alacrità ed acutezza che
è propria del genio di quella nazione. E inoltre una volta che il passo della
forma costituzionale alla parlamentare è fatto, riesce difficile revocarlo.
L’Italia s’è, per dir così, ricreata in quest’ultima forma, e sarà già grande
merito se saprà tenervisi ferma, senza scender anche più in basso: voglio dire
che ciascuno dei tre poteri, il Re, il Senato, e la Camera elettiva conservino
i loro diritti e li esercitino con fermezza. Imperocché pur troppo veggiano i
sintomi di una degenerazione; la quale consiste nella tendenza di annullare le
prerogative della Corona, nello irritarsi al ogni opposizione del Senato e
volerne sforzare, e finalmente nell’atteggiarsi dei ministri quasi ad agenti e
commessi dell’assemblea elettiva. Dico che questa è una degenerazione, e rende
il governo monarchico peggiore della repubblica, soprattutto là dove il
presidente è eletto dal popolo, perché ivi almeno la potestà esecutiva ha una
intonazione e una vigoria sua propria, indipendente dai voleri mutabili e
spesso capricciosi delle assemblee.
Tuttavia vi sono stati alcuni che hanno immaginato possibile il governo
parlamentare senza partiti, e di questi anche recentemente a mia notizia due,
uno inglese W. Thornton ed un altro americano A. Stickney, dei quali per
esaurir l’argomento mi è d’uopo tener parola.
Lo Thornton prende le mosse precisamente dall’Italia, la quale offre a parer
suo uno spettacolo miserevole, colla vicenda continua dei ministeri; onde
l’amministrazione rimane incerta o perturbata e manca nella condotta della cosa
pubblica ogni legame di tradizione e coerenza. Questa idea era già stata, in
generalità, accennata dal Laveleye, il quale avrebbe voluto che qualche
dicastero, come quello della guerra, dell’istruzione, dei lavori pubblici fosse
retto da amministratori tecnici e permanenti. Questi sarebbero venuti una volta
l’anno a difendere il bilancio dinanzi all’assemblea, e senza assoggettarsi a
mutazioni ministeriali d’indole politica, avrebbero rinunziato all’ufficio sol
quando vi fosse una ragione tecnica o di personale responsabilità. Di ciò avrò
l’occasione di parlare in altro capitolo che riguarda i rimedi. Ora seguitando
l’inglese, questi prende le mosse dal concedere che in ogni assemblea, per
quanto i suoi componenti siano per singolo indipendenti, vi sono di necessità
due andazzi di pensiero, l’uno favorevole, l’altro avverso alle innovazioni. Ma
egli vorrebbe che i ministri sapessero acconciarsi sempre alla maggioranza
della Camera, e fossero per dir così gli esecutori della sua volontà, senza
tenersi punto obbligati a licenziarsi per un voto contrario, salvocché questo
implicasse una censura diretta ovvero una mancanza di fiducia espressa contro
la rettitudine o l’abilità del ministro. Similmente rallentando i vincoli che
uniscono i membri di un gabinetto, e dando a ciascheduno una maggior padronanza
e scioltezza di azione nel dicastero proprio, sì avrebbero per avventura e,
anche di rado, mutazioni di un ministro, ma non mai di tutti insieme, e
cesserebbero quelle perturbazioni che oggi si lamentano.
Qui prima di tutto è da osservare che il ministero secondo questo ideale, non
dee mai avere un piano proprio di buon governo, mai nessuna fede o presunzione
ferma, ma in ogni cosa sottomettersi alla opinione della maggioranza e non solo
sottomettersi ma farsene esecutore. In secondo luogo ogni ministro qui procede
per la sua via senza curarsi del nesso che costituisce l’indirizzo generale
della politica. Infine si dà alla assemblea elettiva una potestà illimitata, di
modo che il Senato e la Corona divengono quasi un fuor d’opera. Essa sola
decide, ma in tal caso i danni di una Camera unica, la quale dispone di tutto,
son tanto gravi da fare di questo governo non un tipo di bontà, ma un principio
di disordine. Imperocché un’assemblea, per quanto eletta, è sempre moltitudine,
quindi non può né ideare né tampoco seguire un piano ben congegnato se altri
non la guidi e non gli mostri un fine alto, e i mezzi per giungervi, e non la
costringa talora coll’autorità di una meritata fiducia, a non disviarne. E se
fra i ministri v’ha chi abbia il fermo convincimento di alcune verità, come potrà
patire di essere semplice strumento dell’assemblea? Vi si acconceranno per
avventura i mediocri, non color che sentano di avere tanto ingegno da guidare
altrui. Laonde il disegno di che parliamo muove da idee confuse e si mostra
impraticabile: in ogni caso si risolverebbe in una cattiva repubblica, privata
di un elemento importantissimo qual è il presidente eletto dal popolo.
La vera repubblica: tale è il titolo, tale lo scopo dello scrittore americano,
il quale dopo aver deplorato le condizioni della sua patria, e mostrato i
funesti effetti della divisione dei partiti, propone che si esca una buona
volta, e per sempre dal presente stato di cose. Il quale a suo avviso produce
tre effetti disastrosi: il primo che gli uomini non sono chiamati a fare ciò
che meglio saprebbero e potrebbero; il secondo che quand’anche siano chiamati
ad un ufficio i più adatti non si può ottener da loro il massimo di opera
utile: il terzo che la corruzione penetra da per tutto e tutto guasta e conduce
a rovina. Già ne levai alcuni saggi nel capitolo secondo, e fu codesto libro
che mi porse alcuni esempi spaventevoli della partigianeria che imperversa
negli Stati Uniti. Ad evitare questi mali egli propone in primo luogo che
ciascun impiegato pubblico sia destinato ad una sola qualità di lavoro, e debba
compierlo nel modo più assiduo, efficace, e produttivo possibile. A tal fine è
mestieri che il suo ufficio non sia a tempo (come è oggi in America) ma
permanente, e che cioè duri finché egli rende buon servigio. Indi che la sua
nomina non venga dal popolo (come di presente) ma dai suoi superiori conforme
certi titoli prestabiliti, finalmente che i superiori stessi abbiano la potestà
di rimuoverlo, se fa male. Fin qui si tratta di riordinare i dicasteri secondo
il sistema europeo. Segue che alla cima di tutti questi officiali pubblici sia
un Capo del potere esecutivo, eletto dal popolo, ma anch’egli a vita, e
responsabile di tutto l’andamento dell’amministrazione verso l’assemblea di che
diremo or ora: che in disparte da questa gerarchia esecutiva, vi sia un corpo
di giudici, sia pur questo eletto dal popolo, ma stabile anzi inamovibile: che
la potestà sovrana infine risieda in un’assemblea, cui spetti far le leggi,
decretar le imposte, e finalmente rimuovere qualunque impiegato esecutivo compreso
il capo dello Stato, e i giudici medesimi, quando nella medesima sentenza
concorra una maggioranza di due terzi dei voti. Ma l’assemblea non avrebbe né
facoltà di nominare impiegati, né ingerenza sulla nomina loro, né azione
diretta sulla amministrazione, ma solo un alto sindacato. I membri di
quest’assemblea sarebbero anch’essi a vita, non a tempo, e rimunerati in guisa
da poter dedicare tutta l’opera all’ufficio loro, senza darsi pensiero di
future elezioni.
La nomina degli ufficiali pubblici, fatta a vita e non a tempo, fatta dal
superiore e non ad elezione di popolo, fatta secondo certe regole che
stabiliscono i titoli della idoneità che si richiede ad occupare un dato posto
e non a capriccio; tutto ciò, come dissi, è già in Europa. E sebbene abbia qui
fornito occasione ad accuse infinite e gravissime contro quello che chiamasi
spirito burocratico, nondimeno io credo che il nostro metodo sia di gran lunga
migliore dell’americano, dove si tramutano e si rinominano tutti o molti
impiegati al mutarsi del presidente. E’ chiaro ed è dimostrato dall’esperienza
che quel metodo fruttifica la più ampia messe immaginabile d’interessi
partigiani, ed è giustamente accusato di convertire la carriera dei pubblici
impiegati in un lotto, mentre lo Stato ne ritrae il servizio minore e men
buono. Ma quand’anche il sistema europeo fosse introdotto in America, certo non
sarebbe sciolto interamente il problema. Di che fanno testimonianza i nostri
continui lagni. Quanto al capo dello Stato nominato a vita sarebbe questa una
specie di monarchia elettiva, con tutti i difetti che furono in essa
riconosciuti dall’esperienza, e che resero questa forma di governo la meno
sicura e la meno desiderata dai popoli. Avvegnacché la natura umana è così
fatta, che il presidente a vita o il monarca elettivo abbia un grande stimolo a
perpetuare la potenza e gli onori nella propria famiglia, e cospiri sempre a
convertire la propria dignità in ereditaria. Né gli riesce difficile il
conseguirlo, se fu benefico e glorioso, anzi quanto maggiori sono le sue
qualità tanto più il suffragio popolare lo spinge a porsi al di sopra della
costituzione. Che se è mediocre e fiacco non potrà osar tanto, ma si studierà
di arricchire la famiglia e i favoriti, come dimostrano infiniti esempi
storici, e il così detto nepotismo n’è un commentario perpetuo. Né più lodevole
è quell’assemblea sindacatrice, la quale per l’una parte non dà indirizzo
alcuno alla politica interna ed esterna, e per l’altra non attinge mai nelle
elezioni rinnovellate le forze vive dalla pubblica opinione. Dal giorno che i
suoi membri sono eletti, essi per dir così si distaccano dal popolo che solo
potrebbe loro infondere succo e sangue, e ne permangono separati; ond’é assai
presumibile che non partecipino alle mutazioni dei pensieri e dei sentimenti
generali; e un bel giorno si sentano in tutto staccati dalla nazione. Si dirà
che le elezioni avverrebbero per morte, ma è troppo lento questo succedersi,
per corrispondere al voto della democrazia. E quanto al sindacato dei pubblici
ufficiali, dove quest’assemblea effigia per dir così l’antico costume dorico,
svoltosi nel collegio degli efori, sarebbe assai raro il caso di rimozione del
capo del potere esecutivo, e di altri impiegati, non solo perché occorrerebbero
due terzi dei voti della assemblea, ma perché il presidente della repubblica
colla sua autorità vitalizia e coll’influsso che necessariamente accompagna le
aspettative lunghe, eserciterebbe una influenza stragrande sopra i membri
dell’assemblea. E forse si formerebbe fra loro una specie di compromesso, pel
quale ciascheduno vorrebbe vivere la vita quieta, senza troppo brigarsi del
rigoroso adempimento dei propri doveri. Cosicché questa forma di governo che
non mi par nuova, perché almeno in parte si è veduta nell’antichità, e non ha fatto
buona prova, potrà chiamarsi, se così piace al suo autore, la vera repubblica,
ma non è un vero governo libero.
Finalmente a prova della possibilità di un governo libero senza essere governo
di partito, si additerà qualche cantone della Svizzera, dove nel Consiglio di
stato, che è la potestà esecutiva, si trovano riuniti uomini di opinioni
diverse anzi opposte. Il che avviene per effetto del modo della elezione, la
quale non viene dall’assemblea ma direttamente dal popolo. E così manca uno dei
cardini del sistema parlamentare, cioè che il potere esecutivo non possa
reggersi che sostenuto dalla fiducia dell’assemblea elettiva. Ma oltre a ciò,
due cose sono a notare: l’una che questa convivenza di uomini che professano
idee opposte non è utile ai pubblici servigi, l’altra che se dura nei tempi
ordinari, vien meno e si spezza tosto che sorge una questione importante. Ed
anche così come quel Consiglio si trova composto, lungi dal cooperare
schiettamente con tutte le forze al comune fine, i membri di esso si astiano, e
ne nasce un palese contrasto che rallenta l’andamento regolare degli affari,
ovvero una guerra sorda che lo arresta.
Adunque sembra che nella condizione presente delle cose, e nella forma
costituzionale e più ancora nella forma parlamentare, la esistenza e la vicenda
dei partiti sia inevitabile. Dico nella condizione presente delle cose,
perciocché io non intendo di pronunziare qui un giudizio assoluto e perpetuo.
Passato è il tempo nel quale di certe proposizioni generali si facevano
del’idoli dinanzi ai quali non restava altro che chinar reverenti la fronte,
come quelli che dovevano regnare in ogni plaga di paese ed in tutti i secoli. A
me è d’avviso che quel credo, che fu con tanta passione difeso dagli scrittori
liberali della prima metà di questo secolo, meriti di esser riveduto e
notevolmente corretto; non già che ne restino parti importantissime confermate
dalla esperienza, ma del sicuro altre svaniranno o perderanno di loro
importanza. Che se mi fosse lecito far conghietture sull’avvenire, direi che il
progredire della scienza e della civiltà dee restringer la cerchia dei partiti,
ed attenuarne i dissensi. Imperocché mano a mano che una verità è stabilita in
modo indubitato, questa vien sottratta alla parte opinabile, e tutti si
accordano intorno ad essa. Così per esempio dal giorno che si è riconosciuto
non esser lecito sforzare la coscienza dell’uomo, e le sue credenze dover esser
sottratte alla inquisizione punitiva, i delitti di religione sono stati
cancellati dai codici, e non è più luogo a conflitto sulla tolleranza dei
culti13 . Similmente, per cercare un altro esempio in materia al tutto diversa,
le questioni monetarie poterono far parte dei programmi di partito in
Inghilterra, e secondo l’uno o l’altro se ne diedero soluzioni diverse: ma noi
abbiamo veduto un ministero conservatore qual era quello di lord Beaconsfield
scegliere senza esitazione nelle file del partito liberale un uomo
competentissimo, qual era il Goschen, sicuro che egli rappresentava
schiettamente anche le proprie idee.
E un’altra prova di questo menomarsi della distanza fra i partiti, la rinvengo
eziandio in Inghilterra e la deduco da questo fatto frequente, che spesso un
partito combatte, impedisce, ritarda le proposte dell’altro, e poi viene esso
stesso a dar loro l’ultima mano e ad eseguirle; come fu il caso
dell’emancipazione dei cattolici, della libertà dei commenti, della riforma
elettorale che messe innanzi dal partito whig furono poi recate in legge ed
attuate dal partito tory. E che altro significa ciò, se non che una quantità di
soggetti cessano di essere disputati, certe nuove forme sono da tutti accettate
come rispondenti alla pubblica opinione, e lo stesso indirizzo politico non è
più diametralmente opposto? Per usare il linguaggio dei matematici, l’angolo di
divergenza fra i due partiti s’è fatto ognora minore, e non solo un partito non
si vergogna di prendere dall’altro alcune idee, ma stima ciò esser suo debito e
sua gloria. Finalmente anche i Parlamenti si dividono non più in due parti
soli, ma in un maggior numero, quasi gradazioni, e sfumature, per le quali si
passa dall’uno all’altro. Ora queste stesse gradazioni e sfumature provano che
la differenza nel programma delle due parti non è più così recisa, e così
molteplice com’era altra volta, ma che s’è formato un certo raccostamento di
opinioni fra loro. Ho detto sopra che la tendenza scientifica del nostro tempo
produce l’effetto d’introdurre l’elemento tecnico in ogni parte della cosa
pubblica; e l’elemento tecnico è il contrapposto dell’elemento politico, e
quanto più quello prevarrà tanto più questo restringerà la sua efficacia, se
pure non si trovi come in meccanica una risultante delle due forze. Ad ogni
modo è da credere che nell’avvenire non sarà possibile chiamare al ministero di
agricoltura una maestro di musica, o a quello di marina un avvocato.
E similmente lo svolgersi della civiltà e la mitezza del costume non concederà
più certi rancori, e certe violenze, che in nome del partito, erano altra volta
nobilitate. I dissensi diverranno men aspri, le discordie meno stridenti, e fra
i due campi si disegnerà un terreno neutrale, dove sarà più facile lo
incontrarsi, senza venir meno alla dignità del carattere. Ma intanto, se
vogliamo esser pratici, fa mestieri considerare le cose quali sono al presente.
Laddove è libertà di opinioni politiche, laddove la maggioranza decide le
questioni, udita la discussione in contraddittorio, ivi convien rassegnarsi ad
avere un governo di partito. Suppongasi pure che ciascun partito si proponga
egualmente per fine il bene della patria, ma i modi di conseguirlo sono
diversi, secondo i principi donde l’uno e l’altro han preso le mosse. E ciò
posto, è mestieri sopportare questi inconvenienti, che sono per così dire
inerenti a tale costituzione. Ma poiché altri e più gravi mali sono evitabili,
fa d’uopo rivolgere attento lo studio ai mezzi di por freno a questi e di
prevenirli, o quando già esistono di estirparli. Né le difficoltà del tema
devono spaventare alcuno dall’affisarlo perché, come ho detto altrove, si
tratta o di consolidare le istituzioni sicché elleno siano amate e difese dal
popolo, ovvero di cadere in quella specie di scetticismo politico che è il
terreno più acconcio alle minoranze audaci per mettere a soqquadro lo Stato, e
precipitare la nazione in un mare di guai.
Troppo spesso
avviene che gli uomini vedendo i mali che nascono dagli ordinamenti ond’è retta
la civil compagnia nella età loro, e non sentendosi da tanto di emendarli, sono
tentati per disperato di mutarli di pianta, laddove se guardassero anche ai
mali che da altri ordinamenti derivano, tempererebbero d’assai i loro mutabili
ardori. Il vero è che il filosofo che studia le varie forme di governo, quando
s’incontra nel governo costituzionale, e soprattutto nel governo parlamentare,
dovrà porre i difetti che abbiamo sopra accennati, e non sono i soli, sull’uno
dei piatti della bilancia, ma dovrà anche contrappesarli nell’altro piatto coi
vantaggi, e se questi danno il tratto, pronunzierà favorevole la sentenza. E
pur divisando i rimedi agl’inconvenienti che vengono dal governo di partito,
dovrà rassegnarsi a sopportarne parecchi, perché nel consorzio umano è vano
sperare di aver tutto netto e senza difetto. Le quali cose si attagliano non a
questo solo capo, ma ad ogni altra istituzione. Imperocché la migliore non sarà
mai tale da assicurare ogni bene, e impedire ogni male; ma sarà quella che, in
un dato luogo e tempo, va accompagnata dai minimi danni, e produce i massimi
appagamenti possibili. Un’altra osservazione preliminare mi occorre di fare, ed
è che la politica, come il diritto e l’economia, non solo hanno attinenza colla
morale ma sottostanno ad essa. E per conseguenza il rimedio vero ed efficace
alle indebite ingerenze della politica dell’amministrazione non si può trovare
altrove che nella educazione nazionale. La quale opera per due modi: l’uno è
che dove il costume è buono, i comizi eleggono rappresentanti onesti e capaci;
in secondo luogo se un deputato prevarica, o influisce sinistramente, si
solleva nella pubblica opinione quel risentimento nobilissimo, che è uno dei
più fermi sostegni della moralità. Perché gli uomini si astengono dal misfare
quanto sanno che al misfatto segue universale la condanna. Al contrario, là
dove colui che ha commesso una mala azione è accolto con eguali riguardi e
favori dell’uomo illibato, là dove si chiama scaltrezza e abilità il sopraffare
e l’abusare, ivi per vero i rimedi esteriosi, quali che siano, hanno poco
valore, a quella guisa che nel corpo dove sono viziati gli umori, indarno la
medicina si affatica di curare un morbo parziale. Laonde tutto ciò che io son
per dire va soggetto alle considerazioni predette, cioè che senza moralità
pubblica nessun provvedimento ha virtù specifica, ma rimane un mero spediente
più o meno efficace.
Il difetto che noi ci proponiamo di emendare consiste nella indebita ingerenza
del partito politico rappresentato dal ministero, e dalla maggioranza
parlamentare nella giustizia e nella amministrazione. La imparzialità della
magistratura, e il rispetto del quale questa dee essere accompagnata dovunque,
è la prima e sostanziale condizione del viver libero. Qui cadrebbe veramente in
taglio la frase così sovente e vanamente ripetuta che la moglie di Cesare non
dee essere neppur presa in sospetto. Ma quali sono i mezzi per sottrarre la
magistratura ad ogni influsso politico, quali sono i rimedi, se tali influssi
vi hanno penetrato per purgarnela e impedirne i sinistri effetti nell’avvenire?
In questa materia io mi sento assolutamente deficiente di cognizioni proporzionate
all’uopo, per la qual cosa mi contenterò di notare alcuni punti che mi sembrano
comunemente accettati, e almeno a me si mostrano come forniti di efficacia
salutare.
Dissi che comunemente si ammette che il primo fondamento della indipendenza
della magistratura sta in quella prerogativa che chiamasi inamovibilità, o
irrevocabilità, quella prerogativa cioè che la legge attribuisce ad un pubblico
officiale, per la quale colui che n’è investito non può esserne privato fuorché
per ispontanea rinunzia, per colpa, o per morte naturale o civile. E questa a
ne pare una delle più importanti guarentigie del nostro diritto pubblico
rispetto ai giudici. Che se talvolta l’ira partigiana invoca le così dette
purificazioni, sotto il qual pretesto si vuol far luogo ai cupidi e agli
ambiziosi, l’opinione pubblica sino ad ora condannò severamente simili conati.
Ma non basta che il giudice non possa esser privato del suo ufficio: uopo è
ancora che non possa esser trasferito ad arbitrio di luogo in luogo. Nella
massima parte delle nazioni libere d’Europa, se non erro, la inamovibilità del
grado si allarga alla sede. Anche ho toccato sopra come il Vigliani stimasse a
ciò provvedere con un decreto del 3 ottobre 1873, come poi quel decreto dal
ministro che gli succedette fosse abolito e come ancora la magistratura porti i
segni della fiera percossa, e duri il senso di una istituzione perturbata. Io
non so se il decreto Vigliani avesse potuto porgere occasioni a qualche
inconveniente, e di questo non oso giudicare: ma parmi manifesto che il
rimettere all’arbitrio del ministro i trasferimenti di sede dei giudici sia una
facoltà grandemente pericolosa, e contraria a quello stabile assetto che
esercita tanto prestigio nelle popolazioni, e che noi desideriamo come
argomento di matura civiltà. Né giova invocare la responsabilità del ministro
come ben mostrò l’Inghilleri in un suo discorso1, ed io stesso ne parlerò più
distesamente altrove per indicare quanto e in quali limiti abbia valore. Ma
lasciando stare le considerazioni generali, allorché il partito che governa ha
per sé una maggioranza sicura in Parlamento, questa non solo lo assolve ma lo
glorifica anche dell’ingiustizia, se gli sembri che sia nell’interesse del
partito stesso. E finalmente è mestieri eziandio che la carriera del magistrato
sia assicurata nei suoi gradi, in guisa che senza gravi cagioni non possa
mancargli quell’avanzamento al quale ogni uomo naturalmente intende. Ed è
evidente che bastano alcune nomine o promozioni fatte a volta di cervelli
politici, per confondere il sentimento della gerarchia, ed offender diritti o
giuste aspettative. E così la speranza di avanzamenti precoci e il timore di
abbandoni immeritati menomano la indipendenza della magistratura.
Bisogna dunque che la legge stessa disponga di tutte queste cose, che le nomine
e le promozioni siano fatte con certe garanzie. E non si tema che il Governo
rimanga disarmato e impotente a correggere i difetti di un tribunale. Perché le
norme regolari delle nomine e delle promozioni, non possono mai toglierli del tutto
la libertà sì nello scegliere il giudice fra coloro che hanno le condizioni
richieste, sì nel destinargli la prima sede, sì nel ripartire periodicamente le
funzioni, sì nel vigilare l’adempimento delle discipline giudiziarie, sì nel
promuovere ove occorra dal tribunale contro un giudice o l’applicazione delle
pene disciplinari, o il trasferimento della sede, o la rimozione dall’ufficio.
Laonde se è utile e necessario che una legge regoli lo stato degli impiegati
tutti dell’amministrazione, e dia loro secure guerentigie, questa necessità ed
utilità si manifesta in sommo grado quando si tratta della magistratura
giudicatrice. E il medesimo dico eziandio della legge sulla responsabilità
loro: parendomi errore voler esentare il magistrato da ogni colpa di dolo, o di
violazione di legge. Che anzi qui la prova può esser più facile che
nell’amministrazione propriamente detta; imperocché sono entrambi rami nei
quali si diparte l’esecuzione della legge. E quindi non possono darsi che due
sole potestà, quella che fa la legge e quella che la eseguisce, l’ultima delle
quali secondo il differente obbietto e il diverso modo di azione si distingue
in giudiziaria e amministrativa.
Dissi nel capitolo secondo che la istituzione del Ministero pubblico qual è
oggi, cioè come rappresentante del governo presso l’autorità giudiziaria, apre
il varco ad indebite ingerenze: dissi come apparisca in alcuni casi molesta e
perturbatrice. Ma nello stesso tempo indicai la necessità di un magistrato che
vigili l’esecuzione della legge, che rappresenti l’interesse della società e
che promuova l’azione pubblica contro i reati. Da ciò ne segue che bisogna
modificare codesta istituzione senza annullarla bensì adattandola al nuovo
concetto, e sottraendola agli influssi governativi. Quali siano i modi speciali
di conseguire questo fine io non mi sento in grado specificamente d’indicare,
ma fra le altre modificazioni questo mi parrebbe importante di dare ai
procuratori del Re quella medesima inamovibilità che si richiede pei giudici
sedenti nel tribunale.
So bene quanto la istituzione dei giurati sia tenuta in pregio presso le razze
anglo-sassoni. Non si riguarda solo come un dovere del cittadino di render la
giustizia, ma come uno dei suoi diritti e dei più cari e dei più segnalati
nella vita libertà. Di ciò sin dai tempi antichi abbiamo esempi e presso Greci
e presso i Romani2. Ma l’Inghilterra ha perfezionato codesta istituzione, la
quale è siffattamente entrata nel costume che qualunque altra franchigia
sarebbe possibile a togliersi prima di questa. E non solo fu estesa dai giudizi
penali ai civili in parte, ma fu trasportata in tutte le sue colonie, anzi in
tutti i paesi che fan parte del suo dominio. Ed io delle cose inglesi
estimatore grandissimo, sarei inclinato a credere che avrà suo svolgimento e
sua durata anche altrove. Pure non posso interamente vincere due cagioni di
dubbietà: l’una che si trae dall’indole dei nostri popoli, l’altra dalla
tendenza scientifica, che io ho indicato sopra, d’introdurre dovunque
l’elemento tecnico. So bene che Seneca ha detto "de quibusdam etiam
imperitus judex (qui la parola imperitus allude proprio a mancanza di
tecnicità, di studio delle leggi) dimettere tabellam potest (cioè pronunziar la
sentenza) ubi fuisse aut non fuisse pronuncitatum est (quando cioè si tratta
del mero fatto)"3. Nondimeno è da considerare che in molti casi il fatto e
il diritto s’innestano, si confondono talmente che riesce arduo discernerli. Ad
ogni modo la scelta dei giurati è un tema arduo e bellissimo, come pure la
facoltà della recusazione sia da parte del pubblico ministero sia da parte del
giudicabile. Qui ancora abbiamo l’antico testo: "neminem voluerunt majores
nostri non modo de existimatione cujusquam, sed ne pecuniaria quidem de re
minima, esse judicem, nisi qui inter adversarios convenisset"4. Il
riconoscimento antecedente dei giudici è posto dunque come condizione del
riconoscimento del giudizio. Ma appo noi questa recusazione corre il rischio di
essere strumento di compiacenza o anche di sentimenti partigiani. Ad ogni modo
io mi tengo a questo voto, che colla scorta della esperienza l’istituzione sia
condotta a maggior perfezione, e possa un giorno come in Inghilterra divenir
succo e sangue nel popolo, imperocché rimanendo com’oggi è, troppo sarebbe
macilenta e stentata a guisa di una pianta in terreno disadatto che non porta
frutti saporosi.
Piacemi ripetere ancora che non è in me competenza a discutere con profondità
questa materia: oltredicché ciascuno di questi argomenti, per essere trattato a
fondo, richiederebbe un libro speciale, ed io non fo che toccarne i sommi capi.
Nondimeno aggiungerò che il numero dei tribunali parmi abbondi soverchiamente.
Certo se si pigliasse per base organica della magistratura la terza istanza, il
primo grado verrebbe occupato dal giudice singolare. E pur mantenendo la base
organica attuale, non hanno ragion d’essere molti tribunali a cui mancano le
cause da giudicare, e inoltre cinque Corti di cassazione. Ora diminuendo il
numero dei giudici sarebbe più facile nel nominarli procedere con rigorosa
scelta, scartando gli uomini di mediocre levatura, e di dubbiosa moralità. E se
oltre a ciò si accrescesse lo stipendio loro, e si ponessero in condizioni tali
da poter vivere con decoro e convenienza, codesto ancora contribuirebbe a
sollevarne la dignità. Imperocché la sufficienza dei mezzi a ben vivere colla
famiglia, non solo sottrae l’uomo alle tentazioni, ma eziandio ispira un
sentimento d’indipendenza che è custode di virtù.
Risguardando la parte penale nasce dubbio se la indulgenza così grande nel
determinare e nell’infliggere i castighi non celi vaghezza di falsa popolarità
o influssi partigiani: della quale indulgenza, lasciando stare ogni
disquisizione astratta e tenendomi al metodo sperimentale e storico, io non
dirò altro se non che essa sembra convenir meno all’Italia dove i delitti
abbondano di numero e di ferocia5 di quello che alla Francia, alla Germania,
alla Inghilterra, dove assai minore è la delinquenza. Eppure quegli Stati
perseverano nelle severità del codice, e nel rigore della esecuzione. Quanto
poi al procedimento, egli è certo che in un paese libero non può ammettersi la
procedura scritta o segreta, ma sibbene la orale e pubblica. Ma qui ancora è
d’uopo esaminare i modi pei quali la pubblicità non addivenga a sua volta un
ostacolo alla imparzialità del magistrato. Laddove il giudizio piglia sembianze
di uno spettacolo, al quale si va ad assistere per moda, come la donna romana
ai ludi dei gladiatori nel tempo della decadenza, laddove l’incolpato non che
arrossire e mostrar pentimento inorgoglisce sfrontatamente, e si vanta del suo
delitto, o per lo contrario, come pur si vede talora, ai si sente in faccia al
popolo vilipeso e calpestato innanzi la condanna: laddove il difensore non ha
altro fine che di far pompa di eloquenza e di cattivarsi gli applausi della
moltitudine; in un ambiente siffatto è lecito dubitare se la giustizia sempre
trionfi. A tutto ciò si richieggono dei freni, ma io lascio agli uomini esperti
nella materia di divisarli. Conchiuderò solo che se la giustizia è la più
importante parte del governo, se anzi è l’elemento vitale d’ogni società, pure
i rimedi sono men difficili ad apprestare, e si può eziandio soggiungere che
oggidì sono meno urgenti.
Ora passando all’altra parte delle indebite ingerenze di che trattiamo, cioè
quella che si manifesta nell’amministrazione, qui mi sento alquanto più ad
agio, sebbene intenda di accennare piuttosto che di dimostrare. Ricorderò prima
quel che dissi nel capitolo secondo, cioè che nei paesi nostri
l’amministrazione c’involve da ogni parte, e abbiamo con essa continue
relazioni. Non v’è cittadino che o per le contribuzioni, o per la leva, o per
la polizia, o per i servigi pubblici, o per le scuole, o per la proprietà o per
le industrie, o pel lavoro non si trovi direi quasi quotidianamente a fronte
dell’amministrazione. La quale colle sue ordinanze e coi suoi atti tocca
all’interesse di tutti, vigila all’osservanza delle leggi e dei regolamenti, e
non solo decide sulle controversie, ma eseguisce le proprie decisioni. Questo
carattere di attività preventiva e responsabile è ciò che la differenzia dalla
giustizia giudiziaria, che sentenzia ma richiesta, reprime sempre ma non
previene, e non ha altra responsabilità fuor quella della legalità delle sue
decisioni secondo coscienza. Ora posto questo intimo nesso che esiste appo noi
fra i cittadini e l’autorità esecutrice in quanto amministra, chiara apparisce
la tentazione del partito che è al governo, di insinuarsi nell’amministrazione
e di valersi di questo potente mezzo e di influssi così frequenti ed estesi per
assicurarsi durevole potenza. In questo caso è troppo facile che l’interesse
pubblico venga sottoposto all’interesse del partito, e di coloro che lo
compongono.
Il quesito pertanto si presenta in questa forma: E’ egli possibile sottrarre
l’amministrazione alle ingerenze dei partiti? V’ha egli un rimedio come oggi
suol dirsi radicale, cioè che sterpi il male dalla radice? In verità questa
panacea non esiste, ma dallo studio che può farsi presso altre nazioni civili
si scorge che per tre modi si può temperare la perniciosa ingerenza di che
parliamo, e correggerne gli effetti.
O diminuendo le attribuzioni dell’amministrazione pubblica, e lasciando alla
libertà individuale e alla iniziativa privata la cura non solo degli interessi
parziali e locali ma eziandio in parte degli interessi generali.
O decentrando l’amministrazione in guisa che essa sia guidata e compiuta
localmente, e da enti morali autonomi.
O finalmente nel caso che l’amministrazione sia fornita di molte attribuzioni,
e guidata dal governo centrale, ammettendo ampiamente i ricorsi e disponendo in
guisa che siano risoluti e giudicati indipendentemente da esso; il che
presuppone che i regolamenti amministrativi abbiano effetti giuridici e che vi
sia una giurisdizione speciale.
Col primo di questi mezzi si toglie per così dire la materia soggetta
all’abuso, col secondo si tronca l’azione diretta del Ministero e del
Parlamento sull’amministrazione locale, col terzo si rivendica legalmente il
diritto violato. Del primo modo abbiamo un esemplare negli Stati Uniti, del
secondo nell’Inghilterra, del terzo nella Germania.
Qui si presenta, come in mille altre cose civili, la questione dei limiti dello
Stato, e l’altra che le è connessa se nella società moderna, esso sia
naturalmente indotto ad accrescere gli uffici suoi, ovvero a deporli
gradatamente. In questa materia si riscontrano due opinioni estreme; gli uni
riguardano lo Stato come un ostacolo alla libertà che convien sforzarsi quanto
è possibile di rimuovere, gli altri come una tutela provvida e benefica che
bisogna sempre rafforzare. Ma se la questione è ardua a sciogliersi in tesi
generale, lo è assai meno considerata storicamente, cioè in relazione ad un
dato tempo e luogo. Ed io ho avuto opportunità di trattarne sebbene per incidenza
in parecchi scritti6. A me pare che il fine dello Stato sia duplice,
primieramente la tutela del diritto, in secondo luogo, la cura di quegli
interessi veramente generali ai quali per sé stessi non possono supplire i
cittadini e le varie lor maniere di associazione. E siccome lo Stato è un
organismo naturale ed essenziale, mentre gli uomini si riuniscono in società,
così ne viene che abbia anche un terzo fine quasi sostegno o condizione degli
altri, cioè la conservazione propria e delle sue istituzioni fondamentali.
In questo concetto molti per avventura concorderanno: ma la difficoltà nasce
nell’attuazione. Imperocché se il primo di questi uffici può dirsi perpetuo ed
assoluto, non è così del secondo, anzi si allarga e si restringe secondo i
bisogni della società. Quindi nacque e nasce gran disputa sulla opportunità
dell’ingerenza dello Stato in molte materie. E v’ha chi stima che nella forma
odierna della società nostra, e col progresso della civiltà, lo Stato dee
pigliare un numero ognor maggore di servigi e di uffici e regolare nuove
rapporti tra i cittadini fra loro e collo Stato medesimo. Di ciò abbiamo
esempli frequenti nella parte economica: la trasformazione della industria per
la quale di piccola e casalinga che ell’era, è divenuta manifattura in grande,
ha richiesto delle nuove leggi che assicurino i cittadini poniamo dagli effetti
insalubri di alcune officine, o tutelino la vita e la sanità dei fanciulli, e
delle donne che vi sono impiegati. E la serie di leggi che gl’inglesi hanno
fatto recentemente e che chiamano legislazione sociale è la prova che persino
quella nazione che tanto aborriva dall’assegnare al governo nuove attribuzioni,
ha dovuto sobbarcarsi alle necessità del nostro tempo. Codesto è vero; cioè a
dire che dallo svolgersi della civiltà nascono nuove relazioni che vogliono
essere giuridicamente determinate. Ma è vero altresì che molti altri punti un
tempo erano soggetti all’azione dello Stato, ora sono lasciati alla libertà
individuale. Si pensi qual era nei secoli scorsi l’ingerenza dello Stato nelle
materie religiose; non pago di penetrare entro alle domestiche pareti, di
scrutare la coscienza del cittadino, voleva sforzare le sue credenze. Si pensi
qual era la sua ingerenza nella manifestazione del pensiero per mezzo della stampa,
quale nella conservazione dei privilegi delle classi nobili; si pensi a tutti
gli statuti che ordinavano le arti, le maestranze, prescrivevan loro metodi e
dando rigide forme all’industria ne punivano ogni trasgressione; e si vedrà che
da un secolo a questa parte si è fatto un gran spolvero di leggi restrittive
della libertà e il governo ha deposto molti carichi che gli parevano
connaturali. E basta il por mente agli Stati Uniti d’America per essere
persuaso che una società può progredire, arricchirsi, giganteggiare col minimo
d’ingerenza del governo. Ad ogni modo io credo che a mano a mano che i
cittadini e i consorzi loro si abilitano colla istruzione e col risparmio a
sopperire a certi uffici, lo Stato non ha più mestieri d’integrarne l’opera, e
dee restringere il suo compito. Anzi a questo restringimento dee mirare per
gradi come ad intento nobilissimo, in quantocché lascia ognor più largo campo
all’attività spontanea dell’uomo e ne solleva la dignità. Né questo sistema può
dirsi che contraddica razionalmente a quello che i tedeschi chiamano Stato di
diritto (Rech[ts]-Staat) e che pare loro il portato più nobile della moderna
civiltà: lo Stato cioè dove i doveri e i diritti di ciascheduno sono regolati
dalla legge, dove i cittadini sono pienamente guarentiti ed ogni adito è tolto
all’arbitrio. Il quale concetto essi contrappongono al buon governo di un
tempo, assoluto ma paterno, (Polizei-Staat) dove l’autorità ha piena balìa di
penetrare per dir così nella vita del cittadino. Dico che non v’è contraddizione,
perché questa norma giuridica, questa garanzia del diritto può riscontrarsi
tanto in una nazione dove l’azione preventiva del governo sia estesa, quanto in
una nazione dove invece la libertà individuale abbia un vasto campo: anzi
naturalmente sarebbe in quest’ultimo caso più facile e più pratico il
conseguirla, come è più facile e più pratico determinare e sancire pochi
anziché molti rapporti civili.
Ma per tornare agli Stati Uniti d’America, ci parrebbe impossibile il recare in
Italia immediatamente le consuetudini, e gli ordini di quel paese. Lo scrittore
brioso che ha fatto il confronto fra Parigi e New York7, può ben deplorare
tutte le inutili pastoie che impediscono al cittadino francese di operare con
la prontezza e spontaneità del cittadino americano; ma non potrebbe immaginarsi
che in un momento si facesse la trasformazione dei costumi dell’una nell’altra
città. Le condizioni speciali dell’America e soprattutto i terreni ampissimi da
coltivare, tanto ampi che bastano non pure agli indigeni, ma agli emigrati che
in gran numero l’Europa versa ogni anno in quelle contrade, permettono molte
libertà, che non sarebbero consentire altrove, specialmente dove la popolazione
vive agglomerata, e le terre sono tutte occupate. E quand’anche non vi fossero queste
così notevoli differenze fra il nuovo mondo e l’Europa, non si potrebbe neppure
immaginare il trapasso immediato dai nostri ordini a quelli, avvegnacché chi è
avvezzo alle fasce quando gli son tolte traballa e cade. Ma qui come in altre
simiglianti questioni, la differenza è di tendenze: ché laddove gli uni
vogliono fare dello Stato non solo un presidio dei diritti, non solo un
sussidio dell’attività privata a generale interesse, ma il tutore l’educatore
perenne del cittadino: gli altri in tanto accettano la tutela ed educazione dei
cittadini in quanto è necessariamente richiesta dalla condizione dei medesimi;
e non basta a questi il dire che taluni atti potrebbe fargli meglio, e più
compiutamente lo Stato; perché d’altra banda pongono sotto gli occhi i vantaggi
che ritrae l’uomo dall’esercizio libero delle sue facoltà, il tirocinio, e la
responsabilità morale. La prima di queste teoriche somiglia per dir così a un
cattolicismo statuale, ed è singolare a pensare che negando la unità della
Chiesa si voglia surrogarla collo Stato; laddove può rispondersi che se vi
fosse cosa che potesse giustificare l’accentramento e la tutela sarebbe appunto
la necessità di non errare in ciò che riguarda la eterna salute.
Concludiamo che se le leggi si moltiplicano per regolare nuovi rapporti fra i
cittadini, e da questa parte il còmpito dello Stato cresce, per un’altra parte
quella cioè della tutela e della integrazione, le sue funzioni scemano
d’intensità, poiché collo svolgersi della civiltà il cittadino si abilita man mano
ad operare da sé medesimo. E di quanto le funzioni dello Stato vanno scemando,
di tanto l’amministrazione è sottratta all’azione diretta del governo e per
natural conseguenza anche alle ingerenze della politica. Potrebbe adunque il
pregio di fare un rivista di tutte le leggi e di tutti i regolamenti vigenti
nel Regno collo scopo chiaro e determinato di cancellare ogni disposizione che
vincoli la spontaneità del cittadino, e non sia necessaria all’ordine sociale.
E di cotali disposizioni se ne troverebbero non poche, le quali possono essere
tolte di mezzo o modificate nel senso di lasciare maggior libertà al privato,
senza che perciò ne corra alcun pericolo l’andamento della cosa pubblica. Ma
codesto rimedio che pure noi suggeriamo come utile, di scemare le forze del
Governo accrescendo la libertà è di sua natura lento; onde sembrerà a taluni
che meglio possa convenire all’uopo e sia più pratico l’altro metodo che
abbiamo indicato come vigente in Inghilterra, cioè il decentramento.
Della parola decentramento si è usato ed abusato, e forse molti l’adoperano
anche oggidì senza averne ben chiara l’idea. Il decentramento, come lo si
intende generalmente, ha luogo in due forme, o per delegazione governativa ai
suoi agenti, o per facoltà attribuite a corpi elettivi. Ha luogo per
delegazione quando, rimanendo ferme nel governo tutte le attribuzioni che ha di
presente, pur esse sono esercitate a suo nome da funzionari locali senza uopo
di ricorrere al governo centrale: il che può praticarsi in modo assai più largo
che oggidì non si faccia. Imperocché v’ha sempre nei dicasteri ministeriali la
smania di richiamare al centro le decisioni anche dei minimi affari, la nomina
anche degli infimi impiegati. E questo nuove in due modi, prima perché rende il
disbrigo degli affari stessi più complicato e più tardo, secondo perché il
funzionario locale non sente più alcuna responsabilità dei suoi atti, e anche
laddove in effetto gli compete facoltà, trova più comodo di rispondere a
ciascuno se essere mero esecutore di ordini superiori. Il prefetto, per
esempio, dovrebbe avere allargata la sfera della sua azione, mentre formalmente
rappresenta tutto il ministero. E qualora i capi dei differenti servizi come il
procuratore del Re, l’intendente di finanza, l’ingegnere del genio civile, il
provveditore degli studi, il direttore delle poste e va dicendo, formassero il
suo consiglio ordinario, io non so perché la nomina di tutti gl’impiegati
inferiori non potrebbe essere attribuita loro interamente. E similmente
l’esercizio per gran parte del bilancio di spesa. Imperocché votato il bilancio
del Parlamento, nulla vieta che sia ripartito per provincie, assegnando la
somma corrispondente al prefetto ed ai capi di servizio da spendere. Dal
prefetto potrebbe nella condizion presente delle cose dipendere il servizio
sanitario, quello delle carceri e tutto ciò che riguarda agricoltura,
industria, commercio: da esso venire il consentimento ai comuni, provincie, ed
Opere pie di acquistare e permutare proprietà: e così va dicendo. Gli stessi
funzionari sopra indicati, perché non avrebbero maggiori facoltà che non abbian
ora? A me pare che gli intendenti dovrebbero in materia d’imposte dirette e di
ricchezza mobile giudicare ed eseguire sui richiami per errori materiali, per
cessazione di redditi, per iscrizioni duplicate sui ruoli; in materia di
demanio e, dentro certi limiti di tempo e di somma, annullare crediti
mesigibili, transigere piccole cause, affittare o riaffittare beni demaniali,
dare licenza di esecuzione ai contratti. In materia di gabelle provvedere agli
errori materiali e di trascrizione, egli errori di calcolo nella liquidazione
delle tasse doganali ed altro. Similmente nei lavori pubblici parmi che il capo
del Genio civile della provincia, una volta stabilito il piano dei lavori, dovrebbe
avere anche per le opere idrauliche di prima e seconda categoria maggiori
facoltà di attuazione, come pure dovrebbe avere balìa, sempre dentro certi
limiti di tempo e di somma di provvedere a tutte le opere di urgenza per le
quali ogni indugio può riuscire funesto. Io sono ben lungi dal trattare a fondo
l’argomento, intendo solo di segnarne alcuni lineamenti.
Veniamo al secondo punto che è quello di allargare le attribuzioni dei corpi
locali e dare a questi maggior libertà. Certo la legge che abbiamo non è avara
verso il comune e la provincia: direi anzi che a quest’ultima assegna un
compito che in certi casi soverchia le sue forze, come la cura dei mentecatti,
dei trovatelli. E dico che le soverchia, perché i trovatelli son portati anche
da provincie vicine alle maggiori città, si moltiplicano i manicomi con
dispendio esuberante, si è costretti perciò di risparmiare in lavori
produttivi, infine le provincie povere sono schiacciate dal peso di codesti
oneri. Però mi sia lecito di fare una osservazione preliminare. Quanto maggiori
sono le attribuzioni che si vogliono dare ad un Ente locale, tanto bisogna
assicurasi ch’esso abbia le forze corrispondenti a bene reggerlo. Dico le forze
non solo morali ma materiali: cosicché l’ordinamento amministrativo dei comuni
e delle provincie si collega in modo indissolubile all’ordinamento loro
finanziario. Un piccolo comune o una piccola provincia, posto che trovasse fra
i suoi cittadini uomini capaci di sopraintendere a tanti atti pubblici, avrebbe
pur sempre mestieri di poter attingere ai suoi contribuenti i mezzi pecuniari
che a tal fine occorrono. A lume di questo criterio gioverebbe esaminare sino a
che punto le attribuzioni degli Enti locali possono essere ampliate. Certo vi
sono delle funzioni che il Governo non può delegare ad alcuno: tale è la difesa
della patria, la rappresentanza esterna, il mantenimento del diritto privato e
pubblico, l’osservanza generale delle leggi, la giustizia e la finanza. Ma
altre funzioni potrebbero essere delegate, e in certi paesi lo sono, come dal
ministero dell’interno la polizia preventiva, le carceri di custodia, la sanità
pubblica; da quello dei lavori pubblici le strade, le acque, i porti minori; da
quello dell’agricoltura, industria e commercio la navigazione interna, le
foreste, la caccia, la pesca, infine tutto o parte del pubblico insegnamento,
delle biblioteche, degli archivi. Ma questo decentramento richiede, come dissi,
una forza materiale e morale proporzionata nell’Ente che assume le predette
funzioni, ed io persisto a credere che ciò non possa fondatamente sperarsi se
non da consorzi di provincie. Quando nel 1861 presentai un disegno di legge sul
riordinamento del nuovo regno d’Italia, v’introdussi un elemento nuovo che era
la regione. Dico nuovo rispetto all’ordinamento amministrativo vigente, ché
storicamente la regione aveva antichissime tradizioni sì nel medio evo, sì
presso i romani. La opportunità del disegno per quel tempo traevasi da questo
motivo principale: che la unificazione amministrativa non doveva a mio giudizio
farsi affrettatamente, imperocché essa avrebbe ferito, come ferì, molti
interessi, offese molte abitudini, suscitò molte animaversioni. E perciò la
regione era principalmente un organo transitorio affinché si operasse
lentamente il trapasso de sette legislazioni ed ordini diversi secondo i
diversi Stati, a coordinamento ed unità. Oggi quella unificazione fu compiuta
con molti spostamenti e molti dolori, ma fu compiuta, né potrebbe più la
regione avere quel medesimo fine. Però potrebbe averne un altro; se si
volessero dare ad Enti locali, e a corpi, elettivi quelle funzioni che ho detto
sopra togliendole al governo centrale, converrebbe di necessità che questi Enti
fossero più potenti delle provincie, o almeno di molte delle nostre provincie,
e supposto ancora che il Governo cedesse loro tanto parte d’imposte quanta
corrisponde alle relative spese che oggi sostiene; pure tornerebbe opportuno
formare dei consorzi parte obbligati parti facoltativi. Dei quali io non temeva
allora la tendenza troppo autonomica, e politicamente separativa, né la temerei
ora, purché i diritti e i doveri loro fossero ben definiti, e non si desse alle
rappresentanze interprovinciali carattere e procedimento di piccoli parlamenti.
Ai quali consorzi di provincie starebbero ottimamente anche i mentecatti ed i
trovatelli, come pure la formazione di quei regolamenti d’indole alquanto
generale, che mal si conviene a provincie piccole di fare. Fra le leggi che
proposi a quel tempo una ve n’era che stabiliva le regole per la formazione dei
consorzi sì obbligati sì facoltativi non solo fra privati, corpi morali, e
comuni ma eziandio fra provincie. Ma la legge posteriore del 20 marzo 1865 sui
lavori pubblici dispose dell’ordinamento dei consorzi ma per pochi casi,
strade, scoli opere idrauliche di difesa, e determinò il modo onde i consorzi
si costituiscono fra privati, corpi morali e comuni, e i modi anche onde si
mantengono, e qui ancora lasciò molte cose incerte o in balìa dell’arbitrio
ministeriale. Ma quanto a consorzi interprovinciali, anche ristrettivamente a
questo solo fine, non ne fece parola, limitandosi a dire che potranno essere
istituiti per legge. Converrebbe dunque riprendere questa materia, determinate
quali attribuzioni si possono dare ai consorzi di provincie e non solo di strade
e di acque, ma come accennai di polizia, di giudicatura, d’istruzione e va
dicendo: e quando vi sarebbe obbligo di consorziarsi, quando facoltà; il modo
di costituzione, la durata, e i tributi pecuniari. Per questa via soltanto
riuscirebbe agevole esonerare da molti affari il Governo centrale.
Rispetto ad allargare la libertà dei comuni e delle provincie io penso che sia
oggi conveniente ancora più che nel 1861 rendere il sindaco elettivo; e
togliere al prefetto la presidenza della deputazione provinciale: ma che nello
stesso tempo convenga che cessi nelle deputazione ogni autorità tutoria.
L’amministrazione e la tutela non si vogliono confondere: libera l’una ai corpi
locali, l’altra, per quanto riguarda l’osservanza delle leggi, spetti allo
Stato. Ho detto altrove che un argomento di abusi e di scandali nell’ordine dei
fatti onde favelliamo, fu l’art. 235 della Legge comunale e provinciale che
dice potere il Re per gravi motivi di ordine pubblico disciogliere i Consigli.
Imperocché codesta facoltà può divenire talvolta nelle mani dei ministri una
minaccia e una punizione per quei Consigli che ripugnino a mostrarsi ossequenti
alle voglie di alcuni deputati che vanno per la maggiore; e manca persino la
pubblicità di simili deliberazioni e i decreti ne sono sottratti alla
registrazione della Corte dei conti, laonde parecchi Consigli soprattutto di
piccoli comuni perirono nel silenzio per alta vendetta. Né il Consiglio
disciolto poteva più fare richiami, e intanto i commissari inviati
apparecchiavano nuove elezioni secondo gli intendimenti del governo e dei
deputati più influenti. E’ mestieri pertanto che la legge determini
precisamente i casi nei quali il Consiglio può esser disciolto, ne chiarisca il
procedimento, e lasci adito a una reintegrazione se il diritto fosse stato
violato.
Codesti sono modi di decentramento, ma non sono i soli. Ho insistito in tutti i
miei scritti intorno ad un altro modo che è quello delle istituzioni autonome
formanti Enti morali. Finché lo Stato avrà che fare con cittadini disgregati,
finché gli atomi disciolti si troveranno di contro quel oltrapotente corpo che
si chiama lo Stato, ogni conato di resistenza anche giusta sarà vano. Ed è
perciò che le democrazie sgranate (per servirmi di questa metafora introdotta
dal Romagnosi) si acconciano facilmente ad un padrone, e pur ch’egli rispetti
l’uguaglianza, calpesti e suo talento la libertà. L’associazione,
organizzandole, raddoppia le forze dei singoli che la compongono, le disciplina
e si rende atta per l’una parte a compiere maggiori cose, per l’altra a
resistere ad ogni usurpazione. Io ho sovente considerato quanto poco di valore
abbiano avuto ed abbiamo le istituzioni in Italia: sotto certi riguardi ne
hanno forse meno che in ogni altra contrada d’Europa. E se nel rivolgimento che
ci condusse all’unità della patria, abbiamo risoluto agevolmente dei problemi
che altrove sarebbe stato durissimo di affrontare, se di questo facile successo
ci diamo vanto legittimo, nondimeno è mestieri considerare che ciò prova anche
la fiacchezza di ogni corpo morale, che alla volontà ed anche agli arbitri di
un governo non osa tener testa. Ora guardando l’avvenire, importerebbe
assaissimo il costituire nuove istituzioni secondo la forma che la civiltà
moderna consente, e dal loro vita e vigore. Imperocché ciò che fu utile a noi
quando si trattava di distruggere il vecchio, potrebbe diventar pericoloso se
per un momento la maggioranza del Parlamento fosse nelle mani di quelli che si
appellano radicali. Ora niente vieta, e l’esperienza credo ne confermerebbe, i
buoni effetti che le università, le accademie, le diocesi, le parrocchie, molte
Opere pie, e sodalizi di mutuo soccorso e associazioni d’industria, di
commercio, d’agricoltura potessero costituirsi sotto determinate regole in Enti
giuridici, salvo l’alta vigilanza dello Stato.
Pertanto senza entrare in maggiori particolari che qui non avrebbero luogo, io
concludo che per tre canali può derivarsi la fonte dell’autorità dal centro
alla circonferenza: per delegazione che il governo centrale ne faccia ai suoi
agenti, per ampliazione di attribuzioni e maggior libertà ai corpi locali
elettivi, per istituzione di Enti giuridici autonomi. Al governo rimarrebbe
sempre la difesa nazionale, la garanzia dei diritti, l’indirizzo generale
politico interno ed esterno, la vigilanza suprema per l’osservanza delle leggi,
la cura di alcuni interessi importanti e veramente nazionali.
Ma non è ancora risoluto con questo il problema del cedentramento. Gli agenti
del governo, i corpi locali elettivi ed autonomi, gli stessi Enti morali
possono riprodurre tutti i mali che si attribuiscono al governo centrale. E’
questo un punto sul quale molti di coloro che parlano sempre di decentramento
non hanno recato mai attenzione, e così i piani loro rimangono davvero campati
in aria. Pare ad essi quel che pareva agli antichi che la libertà in ciò
soltanto consista di eleggersi chi li governi; laddove la libertà per noi
moderni consiste nel rispetto di tutti i diritti; e a guarentire questo
rispetto l’elezione è di per sé insufficiente. E di vero la indebita ingerenza
della politica nell’amministrazione non cessa per ciò che abbiamo sopra
descritto, ma trasporta per così dire i suoi penati dal centro alla
circonferenza. Il deputato non salirà e scenderà più le scale ministeriali, non
avrà più mestieri d’intime relazioni coi capi dei dicasteri centrali: ma farà
opera di imporsi alle autorità delegate, al prefetto, all’intendente, al capo
del Genio civile. E quanto ai corpi elettivi locali, la politica vi penetrerà
similmente: ma siccome si tratta di cose minori, supplirà coll’acerbità della
passione alla poca importanza della questione. Così noi veggiamo che taluni
consigli provinciali e comunali ti hanno proprio l’aria di parlamentini: vi si
fanno le interpellanze, gli ordini del giorno, vi si provocano le crisi
ministeriali, e la maggioranza vi esercita una tirannide sfrenata sulla
minoranza. In questi casi la condizione del cittadino è peggiore, avvegnacché
come ebbi occasione di notare di sopra , il tuo avversario prossimo è più duro,
più terribile del lontano. Questo ha sempre un certo senso degli interessi
nazionali che lo tempera, ed è scevro da quelle ire borghigiane che sono
rinfocolate alla dalla ristrettezza degli argomenti, dall’insistenza quotidiana
sui medesimi, dal pettegolezzo che li ripercuote e li ingrandisce.
Chi ha mai dubitato delle libertà locali dell’Inghilterra? Chi anzi non propone
ad esempio gli ordini suoi come esemplari di decentramento? Eppure l’elezione
entrò ben tardi come elemento organico in alcune amministrazioni locali, e si
ampliò nelle parrocchie e nei borghi. Il vero pernio del decentramento inglese
sta nella istituzione dei giudici di pace, la quale benché antichissima e forse
anzi per ciò stesso, fu poco esaminata e mal notata: ma esercita nella
costituzione inglese un ufficio importantissimo8. Che se come dissi il concetto
moderno della libertà sta nel rispetto massimo dei diritti e delle azioni del
cittadino sinché non viola i diritti altrui, ragion vuole che questi siano
determinati per legge, e che il giudizio di loro violazione non appartenga alla
potestà esecutiva.
Il giudice di pace in Inghilterra ha funzioni svariatissime: è magistrato di
polizia inquirente, giudice, e funzionario amministrativo. Come il suo titolo
annuncia, egli ha per fine di serbare la pace nel civile consorzio9. Perciò
riceve denuncie da tutti e soprattutto dagli ispettori governativi incaricati
di accertare che le leggi siano osservate; ordina comparse di imputati e di
testimoni, e li ascolta, esige prove, e forma l’istruzione e l’accusa che sarà
trasmessa alla Corte. Può dimandare cauzioni di buona condotta da persone
pregiudicate, spedisce mandati d’arresto, vigila i mendicanti, i vagabondi, gli
uomini perniciosi, impedisce le riunioni pericolose alla pubblica pace. Come
giudice, pronunzia sentenze per i reati minori contro le persone e le
proprietà, e per le contravvenzioni alle leggi di finanza, di tasse, di caccia,
di pesca e va dicendo; è giudice anche in talune materie civili, per esempio
sul pagamento delle decime, sui conflitti fra fabbricante ed operaio, fra
proprietario e contadino. Come funzionario amministrativo approva i ruoli delle
tasse dei poveri, e ne accerta i conti definitivi, dà potere di esecuzione
coattiva contro i contribuenti morosi, vigila sulle opere pubbliche, sulle
industrie insalubri, e perturbatrici: stabilisce in alcuni casi previsti dalle
leggi il domicilio o lo sfratto di un cittadino. Queste ed altre sono le
attribuzioni dei giudici di pace.
Ma chi elegge o nomina questi giudici di pace? quanti sono? come operano?
Questi giudici di pace non sono eletti, e si potrebbe anche dire che non sono
nominati, nel senso della parola quale noi l’intendiamo comunemente, sebbene vi
sia una nomina formale che direi quasi riconoscimento da parte del Gran
Cancelliere. Essi sono per la massima parte dei benestanti i quali appartengono
a famiglie onorate, vivono sulle loro terre, hanno una rendita abbastanza
copiosa, e formano quella mezzana aristocrazia terriera gentry che è nerbo
della nazione. A loro si aggiungono negozianti che hanno cessato dagli affare,
capitalisti, ecclesiastici, professori, giurisperiti, ingegneri, medici, che
cessano dal prestare l’opera loro per lucro. Gli avvocati e procuratori
patrocinanti ne sono espressamente esclusi. L’uomo che si trova in queste
condizioni, ed è maggiore d’età, si presenta al Lord luogotenente della Contea
il quale è un ufficiale onorario della Corona, e si fa inscrivere nell’elenco
dei giudici di pace, il che non può essergli rifiutato salvo che per gravi
motivi. Ed ecco perché io dissi che l’ufficio anzicché esser effetto di una
nomina, rampolla quasi da un diritto, Però questa iscrizione non dà che il
titolo onorario: perché divenga effettivo occorre una convalidazione che gli è
data dal Gran Cancelliere mediante una specie di bolla, writ, che dalla parole
colle quali comunica si appella dedimus potestam e investe colui al quale è
data di tutte le facoltà richieste all’esercizio delle sue funzioni. Ma questa
concessione e comunissima anzi non si negherebbe neppur essa, se non per causa
d’indegnità. Di oltre a diciotto mila giudici titolari che vi sono, solo otto
mila fanno veramente ufficio attivo; e sono a vita generalmente, ed hanno
potestà e giurisdizione nel distretto nel quale vivono, e talora nell’intera
contea. Operano in molti casi da soli, in altri casi si richiede la compagnia
di due che siano consenzienti nei giudizi. Ma inoltre v’hanno sessione
speciali, alle quali sono invitati tutti i giudici di pace del distretto per un
obbietto determinato. In queste assemblee si nominano gli ispettori dei poveri,
i constabili o agenti di polizia, si rivedono i conti delle opere stradali, si
decide sui ricorsi contro l’iscrizione per la tassa dei poveri, si formano le
liste dei giurati, si accordano licenze per aprire vendite di commestibili e di
liquori, permessi di caccia, e va dicendo. V’hanno poi le sessioni trimestrali
che si tengono nel marzo, giugno, ottobre e decembre, e quivi l’ufficio dei
giudici di pace è ancor più importante. Amministrativamente costituiscono la rappresentanza
principale e la più diretta degli interessi della contea: impongono tasse,
fanno regolamenti obbligativi nei limiti della legge, stabiliscono tutto ciò
che riguarda le spese della pubblica sicurezza, della giustizia, degli edifici
dei tribunali, delle carceri, possono modificare persino talune circoscrizioni
amministrative, provveggono ai mentecatti, ordinano il sindacato dei pesi e
misure; inoltre come tribunale giudicante sentenziano su contravvenzioni e
reati, maggiori di quelli che sono di competenza del giudice singolare, e fanno
ufficio di giudici istruttori e di camera di accusa contro reati e crimini
anche più gravi. Finalmente egli è a queste corti trimestrali che sono portati
i reclami contro i giudici e gli atti dei giudici singolari i quali sono tenuti
responsabili personalmente, quando l’atto loro possa reputarsi fatto con
malizia. Ma dalla corte stessa trimestrale, per quanto riguarda le funzioni sue
giudiziarie, vi ha appello al tribunale chiamato Banco della regina, e anche
più su sino alla Camera dei Lords.
Questi cenni, comecché imperfetti, bastano a mostrare la importanza dei giudici
di pace inglesi, e la parte notevolissima di essi non pure come magistratura
inquirente e giudicante, ma altresì amministrativa. La quale istituzione sorge
spontanea dai costumi e dalle tradizioni del paese, non dee sua vita, come
dissi, alla elezione popolare, né tampoco alla nomina regia sebbene ne abbia la
forma esteriore; è insomma un portato della storia inglese, e in essa è
principalmente riposto quello che noi chiamiamo decentramento e la maggiore
tutela della indipendenza, e della libertà del cittadino e di tutti gli Enti
giuridici. Tale istituzione come dissi è il pernio dell’organizzazione locale
inglese. Ma è arduo per non dire impossibile trasferirla così com’è sul
continente, e conviene adattarsi a ciò che le consuetudini, e le naturali
disposizioni dei cittadini ivi comportano in materia di decentramento.
Ma prima di procedere oltre è mestieri esaminare alcune considerazione di
Silvio Spaventa nel discorso che ho citato sopra là dove parla "dei poteri
delegati ai cittadini non come agenti dello Stato, sebbene come ordine,
investiti da esso di questi poteri da usare non nell’interesse proprio ma
generale, responsabili dell’uso che ne fanno e non stipendiati, ma per la loro
posizione sociale in grado di attendere gratuitamente agli uffici loro
commessi" ed è questo proprio il self-government come gli inglesi lo
intendono. Quivi egli roca innanzi alcuni dubbi: primieramente la tendenza prelevante
nella società moderna a ripartire il lavoro secondo gli obbietti a cui
l’attività umana si volge; e questo principio della divisione del lavoro si
stende anche agli uffici della vita pubblica. Quando oggi un cittadino ha
pagato l’imposta, egli non si crede in coscienza obbligato a dover fare altro
per lo Stato: il fungere oltre a ciò un ufficio pubblico pargli, come direbbero
teologi, opera di supererogazione. Una seconda difficoltà nasce dalla
condizione presente della proprietà stabile, imperocché per la facilità dei
trapassi e la divisione ereditaria è impedito che si formi una classe durevole
di possidenti ricchi, ed educati a sobbarcarsi e a portare il carico della cosa
pubblica. Né oggi la proprietà stabile è il centro di gravità delle relazioni sociali,
ma piuttosto la proprietà mobile, e i possessori di questa son di tutti i meno
disposti ad assumere uffici estranei alle occupazioni loro abituali. In terzo
luogo, supposto che questa ch’egli chiama delegazione dello Stato, si attui da
noi con maggiore larghezza, vi mancherebbe ogni garanzia di giustizia. I mali
che abbiamo deplorato si moltiplicherebbero, trasferendone la sede in ogni
Consiglio o corpo locale dove la passione di parte, e la prepotenza della
maggioranza sarà anche più impura e più acre che non al centro. Di quest’ultima
difficoltà ebbi testé anch’io a far parola nell’ordine della mia
argomentazione.
Queste tre obbiezioni sono gravi e bisognerà ad una ad una analizzarle. La
divisione del lavoro che ha penetrato in ogni parte della società, e n’è
divenuta per così dire una qualità fondamentale concorda con quell’altra
tendenza di che ho toccato sopra, cioè quella che mira ad introdurre l’elemento
tecnico dell’amministrazione della cosa pubblica, e quindi ad assegnare
ciaschedun ufficio ad uomini idonei che per istudi ed educazione siano i meglio
accomodati per adempierlo e non già ad altri. Però è da notare in primo luogo
che per la ripartizione del lavoro avviene nella società civile il medesimo che
avviene nei corpi formati da natura: che quanto più sono complessi, ed ogni
funzione peculiare ha suo peculiare organo che la esercita, tanto diventa più
necessario e più forte un organo comune coordinatore di tutte le azioni. E se
tu guardi la macchina del corpo umano, mirabilmente più molteplice per varietà,
e dove appunto gli organi hanno ciascuno suo peculiare funzione, ivi è massimo
l’accentramento nel cervello. In secondo luogo come la divisione del lavoro
portata ad estremo grado nella industria finirebbe per spegnere ogni
intelletto, e ogni sentimento nell’operaio, se non si cerca di bilanciarne gli
effetti con altre occupazioni materiali e mentali, in simil guisa il tecnicismo
messo nei singoli servigi pubblici farebbe perdere di vista il tutto, e
smarrire il concetto generale politico ed amministrativo, onde le parti
s’avvivano. Bisogna dunque contemperare l’una cosa coll’altra, e congiungere
dirò così l’elemento umano e comune all’elemento speciale e tecnico. Né io
crederei vantaggioso affidare tutti gli affari pubblici ad una burocrazia
chiusa ed immobile; eppure sarebbe questa la conseguenza ultima della
obbiezione che s’informa al principio della divisione del lavoro e alla
competenza tecnica. Reputo inoltre che per quanto ogni cittadino abbia una
occupazione personale nella industria, nell’agricoltura, nel commercio, cui
rivolge come a fine l’attività propria, pure non tutto il suo tempo è in ciò
adoperato, e qualche frazione gliene rimane per consacrarlo alla cosa pubblica.
E d’altra parte una legittima ambizione, il piacere di esercitare sane
influenze, la soddisfazione di essere eletto ad un ufficio pubblico, gli
rendono gradito il sedere nei consigli del comune e della provincia. Che se
veramente altri fosse persuaso che, pagata l’imposta, non è in coscienza
obbligato a far nulla pel consorzio civile nel quale vive, bisognerebbe
emendare questo errore, e mostrargli che, come nella sua giovinezza la legge lo
piglia e lo costringe a servir la patria col braccio nella milizia, così nella
sua virilità il sentimento morale lo obbliga a servirla coll’intelletto e
coll’opera.
Né tampoco mi par vera in tutto l’asserzione, che la proprietà stabile, avendo
cessato di essere per di così il pernio della società, e sovrastando invece la
proprietà mobile, i possessori di questa si rifiutino di assumere uffici che li
frastornano dalle loro abituali occupazioni. Queste al par di quelle della
proprietà terriera, non sono esclusive: anzi si dà frequentemente il caso che
lasciano l’attività del cittadino più libera dalla cura degli affari. Parlo di
coloro per esempio che posseggono titoli di rendita dello Stato o di compagnie,
dove tutta l’amministrazione del portatore di azioni o di obbligazioni si
riduce a riscuotere le cedole semestrali e i dividenti. Si dirà che le
occupazioni industriali e commerciali richieggono spesso il trasferirsi da un
luogo all’altro, e scemano in qualche guisa l’affetto al luogo natio; ma se la
premessa è vera, non è vera la conseguenza; anzi noi scorgiamo gli uomini che
hanno fatto qualche fortuna in lontani paesi, non appena possono avere dei
risparmi da investire, cercar qualche possesso che li riconduca alla terra che
li vide nascere. E poi questa mobilità da luogo a luogo, non è essa una delle
caratteristiche del tempo in che viviamo? eppure in certi paesi non impedisce di
accudire agli affari pubblici. Ma vi è un’altra considerazione da fare; ed è
che lo svolgimento della ricchezza e la sua diffusione hanno accresciuto
moltissimo il numero di coloro che possono attendervi o vivano essi di solo
risparmio, o vivano parte dei profitti di un capitale e parte di lavoro
odierno. Le classi che potevano fornire in altro tempo gli amministratori della
provincia, del comune, degli istituti educativi o benefici, erano
ristrettissime; oggi si può quasi dire che abbracciano il maggior numero; e
poiché piace al cittadino di esser chiamato dalla fiducia dei suoi conterranei
ad adempiere alcuni di questi uffici, non sarà difficile affidarli
gratuitamente.
Finalmente la storia disdice le induzioni contrarie, imperocché la vita libera,
e la partecipazione dei cittadini al governo, nacque e si ordinò nelle città
manifattrici e commerciali prima che in ogni altri luogo. Che se questo fatto
della divisione del lavoro nell’America reca l’effetto di allontanare i più fra
gli ottimi della cosa pubblica, ciò debbe attribuirsi ad alcune cause
specialissime che ho già toccato innanzi. L’una è che le facoltà del magistrato
sono scarsissime dirimpetto alla libertà individuale, sicché poco attraggono le
ambizioni: l’altra è che gli emigranti formano una parete non piccola della
popolazione,, i quali manifestamente non hanno tenerezza o predilezione per un
luogo più che per l’altro: la terza poi è il còmpito immenso agrario ed
industriale che sta innanzi a quei popoli ed offre larghissimi guadagni. Si direbbe
che sono dalla Provvidenza destinati a coltivare ed incivilire quel continente
vastissimo, e che il sentimento e la foga di questa impresa non consente loro
di pensare ad alcun altro intento. Ma in un paese dove le attribuzioni
governative sono molte, dove chi le esercita riscuote il rispetto, e si
procaccia gli onori, dove il movimento industriale non ha né piò avere quella
rapidità vertiginosa che tutto trascina al di là dell’Atlantico, il rifiutarsi
a prender parte alla cosa pubblica non sarebbe già segno di un progresso
civile, ma al contrario di regresso, e di decadenza, e preparerebbe in un
avvenire non remoto il dispotismo sotto qualsivoglia forma. Noi dunque non
abbiamo per ora nessun timore di accrescere le facoltà dei corpi locali
elettivi, imperocché speriamo che si troveranno dovunque gli uomini pronti a
sobbarcarsi agl’incarichi comuni, e a servir gratuitamente il loro paese.
Resterebbe un altro aspetto della questione, ed è che, dirimpetto allo
impiegato tecnico e stipendiato, quei cittadini faranno meno bene, e si avrà
tempo e spese impiegate con minore effetto utile. Ma di questo aspetto della
questione ho già detto innanzi alcuna cosa. E ripeto che quand’anche le
autorità elettive non facessero meglio né più rapidamente degli agenti del governo,
quand’anche le gestioni loro fossero più dispendiose (di che in molti casi
dubito fortemente, ma concedasi) sarebbe nondimeno desiderabile che a quelle in
preferenza di questi fosse affidata la direzione di molti affari pubblici.
Imperocché ciò educa il cittadino, lo rende affezionato alla propria terra
nativa, svolge il patriottismo, e la dignità personale, e finalmente contenta
molte ambizioni legittime, le quali potranno essere appagate da un ufficio
amministrativo, e altrimenti avrebbero una mira più alta, cioè la deputazione
politica. Al tempo di Luigi Filippo, così poco importanti e poco stimate erano
le funzioni locali, che non appena uno mostrava ingegno, o era roso da
cupidigia di primeggiare, una sola via vedeva aperta a sé, e quivi intendeva
gli sforzi cioè a farsi eleggere deputato: e questa specie di pletora fu una
delle cause della rivoluzione che lo balzò dal trono.
Ora posto che le amministrazioni comunali e provinciali siano più libere, che
il sindaco venga eletto dal Consiglio, e la deputazione provinciale avendo il
suo proprio presidente amministri al tutto indipendentemente dal prefetto,
posto che divenga possibile la formazione dei consorzi interprovinciali, e che
sia favoreggiata la costituzione di enti morali autonomi, resta ad esaminare la
terza obbiezione dello Spaventa che vede ripetersi negli enti locali i mali
deplorati oggi nelle amministrazioni locali. Questa obbiezione mi era già
venuta innanzi spontanea, e l’ho descritta sopra. Intorno ad essa notai che
l’alta vigilanza sopra l’andamento degli Enti locali non dee appartenere a loro
stessi ma allo Stato. Io esprimeva questo concetto sin dal 1861 presentando il
complesso delle leggi per l’ordinamento amministrativo del Regno: e diceva
queste parole: "In uno stato ben ordinato la superiore vigilanza non dee
mai venir meno. E questa vigilanza versa intorno a due punti, il primo è che le
leggi siano osservate e nella sostanza e nella forma, e che comuni e provincie
siano mantenute nel limite della loro competenza, il che appartiene al Governo
di guardare: l’altro punto riguarda quegli atti dei comuni e delle provincie
che vincolino l’avvenire (o tocchino ad interessi nazionali). E in questo caso
ancora la vigilanza deve essere governativa, imperocché chi rappresenta
veramente la società tutta intera e le generazioni avvenire, chi ha diritto di
impedire che le parti non lodano gli interessi del tutto, si è lo Stato".
Pertanto nel mio concetto dovrebbero cessare dell’aver vigore l’art. 82 § 2
della legge comunale e provinciale che pone gli stabilimenti di carità e di
beneficenza sotto la vigilanza del consiglio comunale, e l’altro articolo 172 §
17 che dà una potestà analoga al Consiglio provinciale, e finalmente l’art. 179
che attribuisce alla deputazione provinciale, presieduta com’è oggidì dal
prefetto, la tutela sopra i comuni, i consorzi, le Opere pie. Ma si dirà:
pongasi pure che la vigilanza in via diretta o per mezzo d’ispettori appartenga
all’autorità governativa; ma ciò non scioglie ancora il quesito, cioè di
guarentire i diritti di tutti, e di porgere adito a tutti i reclami contro la
violazione loro. Se l’autorità comunale o provinciale non deve esser giudice di
se stessa, neppure il ministro e l’agente di esso dev’essere giudice
definitivo. Importa che vi sia un’autorità indipendente e un procedimento con
tutte le garanzie di giustizia e di verità, che quell’autorità pronunzi
sentenza non solo intorno agli atti dei corpi morali ma altresì nelle
contestazioni di essi coi cittadini, e di questi e di quelli col governo. A
questo patto solo possono svolgersi i benefici effetti del decentramento, a
questo patto solo può esservi vera libertà individuale e locale.
Il primo pensiero che sorge nell’animo è di dare ai tribunali esistenti questa
facoltà di giudizio, e ci parve di averlo fatto nel 1865 quando abolimmo il
contenzioso amministrativo. Ma l’esame di quella legge, l’indagine delle
materie di che si tratta di giudicare, e finalmente la esperienza ci provano
che l’opera tentata allora lasciò una notevole lacuna. Lo dimostrerò più oltre.
Quindi il nostro pensiero si rivolge alla Germania e ai tentativi di essa, dopo
la costituzione dell’Impero, per isciogliere l’arduo problema10.
Per avere un concetto chiaro di questo ordinamento in Prussia bisogna riunire
quattro leggi: 13 dicembre 1872, 23 giugno 1875, 3 luglio 1875 e 26 luglio
1876. Erano i Circoli un’antica istituzione prussiana che colla prima di queste
leggi furono riordinati con maggior autonomia e con costituzione più
democratica. I Circoli sono o urbani o rurali. Ogni città che raggiunge la
popolazione di venticinque mila anime può costituire un Circolo indipendente. E
ve ne sono quattordici che dalla popolazione suindicata vanno sino a un milione
di abitanti. Poi vi sono i Circoli rurali che sono duecento quindici di numero,
e la cui popolazione sta fra un minimo di quindici mila e un massimo di
centomila. A lor volta i Circoli rurali si ripartono in baliaggi costituiti da
uno o più comuni. Ognuno di questi ha sue peculiari attribuzioni
gerarchicamente ordinate sino alla Dieta del Circolo che ne ha moltissimi.
Questa è elettiva da tre gruppi: l’uno dei grandi proprietari rurali, l’altro
dei comuni rurali, il terzo della città se nel Circolo ve ne sono. La Dieta ha
il suo magistrato esecutivo composto dal Landrath nominato dal governo sopra
una terna propostagli da essa, e di sei membri da essa pure eletti e
rinnovabili per terzi ogni due anni: obbligatoria per un triennio è la pubblica
funzione e gratuita, salvo casi previsti dalla legge, pena il pagamento di un
ottavo ad un quarto di più nelle imposte del Circolo.
Sopra il Circolo è la provincia, la quale per la sua estensione e popolazione
potrebbe chiamarsi veramente regione e ve ne sono cinque sole la Prussia, il
Brandeburgo, la Pomerania, la Slesia, e la Sassonia. Le attribuzioni delle
provincie sono grandi, la Dieta provinciale è composta dei delegati eletti
dalle Diete dei Circoli rurali ed urbani, in media due per circolo. Anch’essa
ha il suo magistrato esecutivo tutto elettivo, compreso il capitano o direttore
della provincia, che però deve essere confermato dal governo ed ha la
soprintendenza di tutti i servigi amministrativi. Dura da sei a dodici anni nel
suo ufficio che reputasi di grado molto alto, e bene rimunerato. Fra la
provincia e il Circolo v’è un altra circoscrizione il distretto (Bezirk) che
per popolazione e per territorio somiglia anzi supera la nostra provincia,
poiché va da mezzo milione a un milione di abitanti. Questo distretto non ha un
carattere di amministrazione autonoma, essendo governato da un Consiglio
nominato dalla Dieta provinciale; ma per lo contrario ha una importanza grande
nella giurisdizione amministrativa ed è ciò di che ci intratteniamo al
presente.
Venendo adunque a descrivere l’ordinamento della giurisdizione amministrativa,
uopo è innanzi tutto dire che la Giunta del circolo ha alcune funzioni
amministrative ma principalmente di giurisdizione. Dico che ha funzioni
amministrative nella gestione degli affari propri di quella circoscrizione, e
nella tutela dei comuni rurali, ma soprattutto ha funzioni giurisdizione, la
legge determina non solo le materie su cui può sentenziare, ma eziandio il
procedimento che è tutto speciale ed ha forme se non identiche, analoghe alle
giudiziarie. Cosicché la detta Giunta opera nelle prime funzioni e nelle
seconde con regole e modi totalmente distinti. Ma praticamente fa opera più
spesso di corpo giudicante che di consiglio amministrativo, ed è al Landrath
che spetta la parte sostanziale dell’amministrazione. Sopra al detto tribunale
di Circolo sta quello di Distretto; ed è al tutto scevro di attribuzioni
propriamente amministrative, ma ha solo quelle di giurisdizione. E’ composto di
cinque membri due dei quali scelti dal re e inamovibili, l’uno di carriera
giudiziaria, l’altro di carriera amministrativa, e di tre eletti dalla dieta
provinciale, i quali si mutano ogni tre anni. Finalmente vi ha la Corte suprema
a Berlino, la quale è in alcuni casi tribunale primo ed unico, in altri di
revisione, in altri di cassazione per mantener l’unità della giurisprudenza.
Tale l’organismo. Posto il quale è uopo dire come tutte le materie
amministrative siano divise in due categorie: quelle di amministrazione pura
nelle quali, come appo noi, non v’è richiamo se non in via gerarchica, e
l’ultima decisione appartiene al ministro o al suo delegato; e quelle di
amministrazione contenziosa dove è lecito portare il richiamo dinanzi al
tribunale, e trattarlo colle forme giudiziarie. E le materie contenziose a lor
volta sono di due qualità: le controversie nelle quali un interesse privato
sancito dalle leggi si trova in contrasto coll’interesse pubblico affidato
all’amministrazione; le controversie fra gli associati in pubbliche
corporazioni per effetto di diritti e di doveri nascenti dai rapporti sociali.
E si noti che in taluni casi, come quando si tratta di provvedimenti di polizia
locale delle città e delle campagne, la legge lascia l’opzione fra il ricorso
in via gerarchica, e l’azione contenziosa.
Adunque il problema della giustizia amministrativa è stato sollevato e risoluto
in occasione di un grandi riordinamento politico. La formazione dell’Impero
germanico ha dato origine a questa riforma, la quale ebbe altresì il duplice
fine: di toglier via certi avanzi del reggimento feudale nelle campagne, e di
preservare l’amministrazione dai mali effetti del governo parlamentare. La
maggior parte degli atti amministrativi che annoverai nel capitolo terzo, e sui
quali in Italia non è ricorso altro che all’autorità superiore in gerarchia a
quella che li ha eseguiti, sono portati in Prussia dinanzi al tribunale
amministrativo, dico tutto ciò che si riferisce alle deliberazioni illegali
delle rappresentanze locali, agli affari comunali e provinciali, alla polizia
preventiva, alla rurale, alla sanitaria, agli affari scolastici, alla caccia, alla
pesca, alle foreste, ai lavori pubblici, e finalmente tutto che si riferisce
alla disciplina degli impiegati e alle pene loro inflitte dai superiori11.
E’ degno di nota lo studio profondo, vario che si è fatto in questa materia in
Germania negli ultimi tempi: noi non ne abbiamo in generale quasi idea. Gli
effetti del nuovo ordinamento amministrativo sembrano sino ad ora produrre
buoni frutti. Né il numero degli affari è stragrande, imperocché non ha
superato quello di cinque a sei mila in tutti i tribunali amministrativi, e di
mille pel Consiglio supremo. La differenza sostanziale col sistema francese,
dove pure, sino dal principio dell’amministrazione napoleonica, v’ha il
contenzioso amministrativo, la differenza dico è in due punti. Primo, il
consiglio giudicante in Francia è il Consiglio di prefettura, cioè un ufficio
stesso dell’amministrazione attiva, in Germania è un tribunale indipendente:
che se v’ha miscela di attribuzioni nella Giunta di circolo, pure come accennai
l’autorità massima rispetto all’amministrazione attiva spetta al Landrath:
inoltre appena si sale di un grado, il tribunale diventa autonomo: in secondo
luogo i regolamento che servono di norma al giudizio hanno quivi forza di
legge, mentre in Francia sono naturalmente più indeterminati ed acquistano
vario valore secondo le interpretazioni dell’amministrazione stessa. Ma di ciò
più oltre.
L’esempio della Prussia fu seguito dagli altri Stati dell’Impero germanico con
qualche variazione, e in parte anche imitato dal Portogallo nella sua legge del
6 maggio 1878. Ivi il tribunale di distretto eletto sopra terna proposta dal
Consiglio provinciale è presieduto dal governatore civile, però havvi un
tribunale supremo amministrativo, e fu pubblicato contemporaneamente a questo
ordinamento un codice amministrativo12.
L’istituzione di una Corte suprema di giustizia amministrativa nella
Antustria-Ungheria data dalla legge 22 ottobre 1875 e merita special menzione,
come quella che soprapposta ad autorità locali in un ordinamento assai
decentrato, coordina e mantiene in esse il rispetto della legge e l’unità della
giurisprudenza. Ha per ufficio di conoscere i ricorsi che le sono recati
innanzi da ogni cittadino che si crede leso nei suoi diritti da decisione o da
provvedimento illegale di un’autorità amministrativa. E il ricorso può essere
fatto tanto contro le decisioni e i provvedimenti dell’amministrazione
centrale, quanto contro quelli delle amministrazioni provinciali,
compartimentali e municipali. A questo tribunale pertanto non si può ricorrere per
alcuno di quegli affari nei quali l’amministrazione è fornita di un potere
discrezionale e per gli altri affari vi si ricorre solo dopo avere sperimentato
i richiami ordinari in via amministrativa e gerarchica. Esso non giudica
d’altro che del diritto e della legalità o illegalità degli atti. Ma se il
tribunale supremo accoglie il ricorso del cittadino, e con sentenza motivata lo
dichiara giusto, le autorità sono tenute di ottemperarvi, anzi i principii
della sentenza addivengono norme dell’azione futura delle autorità
amministrative. La differenza col tribunale supremo germanico sta in ciò che
questo è propriamente una Corte d’appello dalle sentenze dei tribunali di prima
istanza, e il tribunale austro-ungarico potrebbe compararsi se non in tutto in
parte una Corte di Cassazione. Invero esso talvolta annullando l’atto
dell’autorità amministrativa, o perché la determinazione dei fatti apparisca
incompiuta, o perché talune forme essenziali della procedura non furono
osservate, annullando dico l’atto per questa cagioni, rinvia l’affare di nuovo
dinanzi all’autorità stessa amministrativa. Ma nessuna restituzione in integro
può aver luogo contro le decisioni di questa Corte suprema. V’ha un’autorità
sola che le sovrasta nel caso di conflitto di competenza fra essa e i tribunali
ordinari, ed è il tribunale supremo dell’Impero sancito dalla costituzione. Il
procedimento è fissato dalla legge, il dibattito orale. Tale è la guarentigia
che l’Austria-Ungheria dà al cittadino contro gli abusi dell’amministrazione,
ed a siffatta guarentigia si dà grandissima importanza eziandio come mezzo di
preservare il governo parlamentare dalla corruzione.
Ora può egli farsi qualche cosa di analogo in Italia? e sino a qual punto si
può andare?
Prima di tutto giova ricordare che l’Italia ebbe sino al 1866 varie forme di
contenzioso amministrativo, la più parte delle quali però si rannodava al
sistema francese. In Piemonte i Consiglieri d’intendenza erano i primi giudici,
il Consiglio di stato e la Corte dei conti giudicavano in appello secondo la
materia. In Napoli analogo ordinamento; prima istanza, al Consiglio di
Prefettura (ma secondo la legge i consiglieri non erano ufficiali di carriera
sibbene notabili della provincia, ed erano modestamente rimunerati) appello
alla Corte dei conti, alla Camera di giustizia e dell’interno, al supremo
Consiglio di cancelleria. In Parma la istituzione del contenzioso
amministrativo era foggiata alla francese ed ebbe molta importanza e meritata.
In Toscana, eccetto nei contratti di accollo per le strade e per le pensioni,
non vi era vera e propria giurisdizione di contenzioso amministrativo; la
massima parte delle controversie andava innanzi ai tribunali ordinari. Anche in
Lombardia e in Modena l’autorità amministrativa decideva essa la massima parte
delle questioni senza erigersi a tribunale collegiale con speciale procedura.
Laonde può dirsi che l’ordinamento del contenzioso amministrativo era diverso
secondo i vari Stati d’Italia, sì per la natura degli oggetto che sotto quel
titolo si comprendevano, sì per la giurisdizione alla quale erano sottoposti,
per la forma della procedura e per l’efficacia delle garanzie. Costituito il
regno d’Italia, e volendosi procedere al unificare dovunque questa materia, il
ministro dell’interno nel 186213 propose l’abolizione del contenzioso
amministrativo. Egli notò che la massima parte degli affari compresi sotto
questo titolo erano vere e proprie controversie di diritto privato, le quali
non richiedevano una giurisdizione speciale, ma potevano e dovevano rimettersi
ai tribunali ordinari. Per darne un esempio, ogni volta che l’amministrazione
pubblica agisce come qualunque cittadino o ente morale nell’interesse suo
proprio, non nell’interesse generale, non v’è ragione perché le sue
controversie non vadano dinanzi a quelli. Poniamo che nasca una lite di servitù
o di confine fra un podere demaniale ed il potere di un privato: non vi è
ragione perché questa lite debba essere sottratta alla giurisdizione comune.
Similmente una volta che l’amministrazione pubblica ha stipulato un contratto,
se nascono differenze fra essa e gli assuntori, il tribunale ordinario può
essere giudice delle conseguenze del contratto; così dicasi delle cause di
contravvenzione e va dicendo. Ma codesta osservazione del Ministro aveva un
valore generale? tutto ciò che era giudicato altre volte proprio del
contenzioso amministrativo poteva esser dato o restituito ai tribunali
ordinarii? il ministro proponente poneva a sé medesimo tale questione, e
riconosceva che no: "Oltre agli affari, diceva esso14, che possono esser
deferiti ai tribunali ordinari, ve ne sono altri di vera e pretta
amministrazione i quali erano stati attribuiti alla giurisdizione
amministrativa di primo e di secondo grado, al fine di dare agli amministratori
una maggiore guarentigia dei loro diritti, conciliabili col regolare andamento
della cosa pubblica. Occorreva quindi esaminare se, abolendo il contenzioso
amministrativo, tali affari dovessero riservarsi all’amministrazione attiva,
con regole e forme proprie le quali fossero nel tempo medesimo di sufficiente
garanzia agli interessati". Il ministro si risolveva per questo partito e
ne diceva la ragione e l’utilità. Pareva ad esso che mantenendo una speciale
giurisdizione amministrativa si corresse questo pericolo, che la massima parte
degli affari avrebbe continuato a portarsi dinanzi ad essa: sia per quella
naturale propensione che è nei cittadini a continuar pel sentiero battuto, e
valersi delle forme più semplici e spiccie, sia anche per evitare quistioni
delicate di competenza. Egli non taceva l’inconveniente a cui s’andava
incontro, cioè che l’amministrazione rimaneva più sciolta e porgeva guarentigie
minori nelle materie che non potevano portarsi dinanzi ai tribunali; non lo
dissimulava, sforzavasi bensì in parte di ripararvi. Lasciava integra la
giurisdizione contenziosa delle Corte dei conti, in materia di contabilità e di
pensioni, integra quella del Consiglio di stato per le materie in cui provvede
in prima ed ultima istanza, integre le facoltà delle Commissioni speciali, alle
quali fosse per legge deferita qualche giurisdizione speciale amministrativa:
però eran questi parziali ordinamenti, e l’inconveniente non era ovviato
interamente. Il problema era posto in chiaro, e non meno chiaramente messe in
evidenza le obbiezioni. "intendo bene che si ammetterà, diceva il
ministro, come progresso la restituzione ai tribunali ordinari di tutte le
questioni che potevano dirsi loro sottratte, ma si accuserà come regresso che
taluni affari che erano sottoposti ad un giudizio collegiale siano abbandonati
alla decisione della potestà amministrativa". Ma egli sperava che tali
affari fossero ridotti al minimo possibile, e per preservarsi dall’arbitrio
disponeva che l’autorità amministrativa dovesse decidere con decreto motivato,
ammesso la rappresentanza delle parti, e uditi i consigli amministrativi che
nei diversi gradi sono stabiliti dalla legge.
Quel disegno di legge ritardato per diversi eventi tornò alla Camera e fu
discusso nel 1864. La discussione fu assai vivace, e l’abolizione del contenzioso
amministrativo ebbe contraddittori vigorosi, come il Cordova, il Rattazzi, il
Crispi. Quegli oratori notarono che l’amministrazione in alcuni casi rimaneva
in balìa dell’arbitrio assai più di quel che fosse antecedentemente, ma come
nota giustamente lo Spaventa, nessuno degli avversari intravide il lato nuovo
della questione relativo alle guarentigie necessarie al diritto pubblico di un
paese sotto un governo parlamentare ossia di partito, né è da credere che i
fautori della legge avessero una coscienza più chiara di questa nuova faccia
del problema. Ora che da diecisette questa legge è vigente, è lecito
riguardarla al lume della esperienza. Ed io credo che sia stata autrice di
utilità, riconducendo ai tribunali ordinari tante questioni che appartengono al
diritto privato, e che a proposito volevansi giudicate dai Consigli di
prefettura. Ma la lacuna che lo stesso ministro proponente aveva indicata, e
che più manifestamente fu messa in aperto durante la discussione, esiste
veramente, ed è maggiore di quel che allora fu supposto; e diviene più
pericolosa ove si consideri l’amministrazione nei riguardi di che tratta questo
libro; e quindi se è possibile colmare questa lacuna, né palese la convenienza.
Certo gli effetti della maggior libertà amministrativa degenerati in arbitrio
hanno tardato a farsi sentire. Qui ancora i grandi fini ai quali l’Italia
mirava, e che a sé traevano le menti di tutti, valsero a preservare per un
tempo l’amministrazione dagli arbitrii e dagli abusi. Ma venne il giorno in cui
gli spiriti partigiani s’infiltrarono per entro di essa, e influirono sulle sue
decisioni come ho mostrato addietro, sicché il bisogno di compiere la legge del
1875 si rese più manifesto. A chi dunque dovrà riformare l’ordinamento
amministrativo il problema si para innanzi di nuovo reso dall’esperienza più
pratico, e illustrato dagli studi e dagli esempi della Germania.
Soffermiamoci alquanto in questo punto, e cerchiamo di chiarirlo, avvegnacché
esso sia importantissimo nella presente trattazione. La distinzione degli atti
civili in amministrativi e giudiziari è antichissima poiché sempre vi furono
nella società disposizioni di interesse pubblico al tutto distinte dalle
sentenze del pretore; nondimeno le due cose vennero spesso confuse. I tribunali
in qualche evento cassavano dei provvedimenti meramente amministrativi,
l’amministrazione a sua volta sospendeva l’esecuzione di talune sentenze. E fu
gran pregio dell’opera napoleonica l’aver disgiunto meglio l’una dall’altra
materia, abbenché nel suo ordinamento (che sino ad oggi continua in sostanza ad
essere vigente in Francia) l’amministrazione usurpò molte spettanze
giudiziarie, nel che noi dopo la legge del 1865 siamo invece assai più
corretti. Codesta è una questione di limiti come oggimai si mostrano tutti gli
ordinamenti che pigliano da varie scienze i loro principii. E’ più agevole
segnare queste distinzioni con gli esempi di quello che con una definizione, e
porgerne in copia sarebbe facilissimo. Però il lettore non ha che a ricordare
quanto noi abbiamo detto sopra nel Cap. III rispetto all’Italia: e anche senza
di ciò, pur solo riflettendo all’argomento potrà supplirvi colla sua esperienza
quotidiana. Pure a maggior chiarezza indichiamone alcuno. Pongasi che una legge
sia promulgata per la quale debbano espropriarsi certi dati terreni di ragion
privata al fin di aprirvi una strada ferrata. Fin qui l’opera è legislativa.
Appresso il Ministero dei lavori pubblici la delineare dai suoi ufficiali il
tracciato e lo rende noto al pubblico. Suppongasi che taluno creda quel
tracciato poco conveniente e a sé stesso dannoso; a chi può egli ricorrere?
Sarebbe egli possibile di andare dinanzi ai tribunali per simile piato? Qual
legge applicherebbe il tribunale sul merito di un tracciato di ferrovia?
Mancherebbe ogni base di sentenza. Codesto adunque appartiene
all’amministrazione, ed oggi il cittadino che ha obbiezioni le porge al
ministro dei lavori pubblici il quale, sentito il consiglio superiore,
pronunzia il giudizio. Ora supponiamo deciso e accettato il tracciato: trattasi
di fornire il risarcimento agli espropriati e pongasi che l’offerta del governo
non paia sufficiente al proprietario. Qui il tribunale è competente perché
trattasi di un diritto privato e di attribuire a ciascheduno il suo. Potrà il
tribunale delegare dei periti i quali valutino il terreno, ma esso è competente
a deliberare. Però si dirà; se il tribunale ha avuto facoltà di eleggere periti
prima di giudicare l’indennità dovuta al proprietario, perché non potrebbe
valersi similmente di periti, per giudicare il merito del tracciato
ferroviario? La ragione è questa che nell’un caso la perizia determina la
quantità del compenso, ma il diritto al compenso, è sancito dalla legge: nel
secondo caso il tribunale determinerebbe la legge stessa, il principio (figura
del tracciato) contro il quale il cittadino ha ricorso. Facciamo un altro
esempio e basti. Taluno chiede di erigere in città una fabbrica di prodotti,
che possono reputarsi insalubri, o pericolosi, o anche sol rumorosi e perciò
incomodi al pubblico. Il Prefetto sentito il consiglio comunale nega, o concede
il permesso con certe determinate condizioni. Se nega, può il petente
rivolgersi al tribunale ordinario? Come potrebbe questo conoscere le ragioni
igieniche o edilizie, e sentenziare sulla convenienza della permissione? Ma se
al cittadino fu concessa la creazione della fabbrica, e se egli adempì tutte le
condizioni che gli furono prescritte, e venne dopo un giorno nel quale
all’autorità municipale parve che la fabbrica divenisse intollerabile entro le
mura della città, e il prefetto ne ordinò la chiusura, allora sì che il
tribunale è competente giudicando sulle norme del diritto costituito, e può
colla sua sentenza o mantenere la fabbrica, o determinare il proporzionato
ristoro che si dovrà darne al possessore, qualora per ragioni amministrative si
voglia chiuderla.
Ma per tornare al proposito nostro cercasi qual sia il criterio, quale la nota
caratteristica onde si possa saggiare e discernere le materie contenziose
giudiziarie dalle materie contenziose amministrative: intorno a che parecchie
formule furono recate innanzi, ma forse nessuna ancora compiuta e per ogni
parte scientificamente soddisfacente. Si è detto: appartiene al contenzioso
giudiziario ogni controversia che può esser decisa con un testo preciso di
legge, di ordinanza, o di decreto: imperocché nel testo medesimo si trova già
anticipatamente la soluzione della questione, e il tribunale non ha altro
ufficio che di dedurla. Ogni controversi invece che sorge da un atto discretivo
del governo non può esser portata dinanzi ai tribunali, ma appartiene al
contenzioso amministrativo. Vi è certamente del vero in questa definizione, ma
non è intera né chiara. Ogni nuovo regolamento, ogni decreto che fissasse i
termini precisi elle obbligazioni del cittadino in una materia, farebbe per ciò
solo passare le controversie relative ad essa dall’amministrazione alla
magistratura giudiziaria. Eppure non è sempre così. Tutti i tribunali
amministrativi nella Germania e altrove giudicano colla norma di regolamenti ai
quali fu dato effetto giuridico, e noi dobbiamo desiderare che anche le materie
amministrative siano regolate da discipline fisse e non a discrezione.
Altri pone per criterio questo; che i diritti sono materia propria della
autorità giudiziaria, gli interessi dell’autorità amministrativa; il mandato
della prima è di proteggere e mantenere il diritto, dichiarandolo se negato,
reintegrandolo se violato, rifacendone i danni se è stato leso. Però la sua
facoltà, che non può toccare il merito di un atto amministrativo, si estende
anche a giudicare della sua illegittimità, quando esso pecchi per violazione di
forma, per difetto di competenza o per eccesso di potere15. Anche qui c’è parte
di vero, ma se il diritto suppone sempre un interesse sancito dalla legge
positiva, vi sono interessi che la legge non determina ma sono protetti da
ordinanze, da regolamenti, da consuetudini. Invero se noi avessimo la Corte di
equità come in Inghilterra, si potrebbe sostenere l’argomento; ma appo noi né
tutti i diritti sono portati dinanzi ai tribunali né tutti gli interessi
cessano in certi casi di piatire dinanzi a loro; e la distinzione diventa
talora sottilissima, e difficile quando si tratta di scendere alla pratica.
Si è detto infine che la differenza apparisce da ciò che il tribunale giudica
del diritto privato, del mio e del tuo fra due contendenti che cercano innanzi
ad esso le loro ragioni, e la Corte decide applicando la legge al caso: invece
spetta all’amministrazione (e per conseguenza anche ai tribunali amministrativi
dove esistono) tutto ciò che è di diritto pubblico interno, cioè che sorge dai
rapporti dei cittadini e degli Enti giuridici collo Stato, in quanto autorità
regolatrice e tutrice. Ricordi il lettore qual che abbiamo detto sopra, che lo
Stato in alcune circostanze conduce la gestione de’ suoi affari come un
privato, e quando ha fatto un contratto è obbligato similmente ad osservarne le
clausole, e in questi casi si presenta dinanzi al tribunale anch’esso come ogni
altri cittadino. Ma il più delle volte lo Stato impera come potestà pubblica, e
similmente le autorità locali sì delegate che elettive: ed è degli atti fatti a
fine di pubblica utilità che si tratta di presente. Questo criterio corrisponde
alla definizione datane dal Romagnosi: "essere per sé stesse questioni di
pubblica amministrazione tutte quelle che cadono sopra oggetti di loro natura
appartenenti alla ragione pubblica, considerata tanto in relazione alla persona
individuale dello Stato, quanto in relazione ai cittadini contemplati nelle loro
generalità"16. Però anche questo criterio non può ammettersi in tutta la
sua ampiezza, e di vero ne seguirebbe quel che l’autore stesso logicamente
deduce, che appartiene all’autorità amministrativa decidere di tutte le
controversie sopra obbligazioni o diritti che nascono dal fatto
dell’Amministrazione pubblica, ossia da un atto amministrativo. Ora vi sono
degli atti amministrativi che possono violare il diritto privato, e a giudicare
dei quali basta il testo del codice civile; sicché non v’è ragione di sottrarli
ai tribunali ordinarii.
Mediante un’accurata analisi dei casi di controversia, si può supplire in parte
a queste teoriche un po’ troppo assolute, pur riconoscendo che talvolta è
difficile determinare la competenza con precisione ed anticipatamente. Ma è
chiaro che sono di competenza giudiziaria tutte le questioni di stato civile, e
anche politico, tutte le questioni di proprietà o di obbligazioni, contratti
ecc., tutte le questioni intorno a un diritto privato che si ben determinato e
definitivamente acquisito. E rispetto alle questioni che nascono da atti
amministrativi, al giudice ordinario si appartiene pronunziare della legalità
di essi; né parmi esatto quello che taluni affermano che il giudice non possa
mai annullare l’atto amministrativo: così per esempio se il fondo per il culto
prendesse possesso di un ente, e l’apprensione fosse dichiarata illegittima,
l’atto stesso rimarrebbe annullato. Quanto al contenzioso amministrativo giova
notare in primo luogo che la controversia non è solo fra il privato cittadino e
l’amministrazione dello Stato, ma fra cittadini ed Enti morali, fra Stato ed
Enti morali ed anche fra il governo e i suoi agenti. Così appartiene a questo
genere di contenzioso ogni controversia che nasce fra Stato e Comune in materia
di attribuzioni: similmente se si tratta di aver trapassato le proprie facoltà,
poniamo il caso avvenuto non è guari che un municipio si faccia esercente di
un’industria, e per questo modo danneggi gli esercenti privati, limitando la
libera concorrenza. Così tutte le questioni di disciplina interna dei pubblici
ufficiali, e di responsabilità gerarchica, così dello stato degli impiegati e
va dicendo. Quando poi al ricorso del privato cittadino contro
l’amministrazione pubblica, anche qui è da notare che la controversia prende
sempre origine da un atto amministrativo, che l’amministrazione non vi è mai o
quasi attrice ma è convenuta, e difende la propria libertà d’azione; e che il
criterio di interpretazione nel giudicare deve essere più largo nel giudice amministrativo
che nel giudice civile. E in vero in molti casi l’atto amministrativo rimane
inalterato, e si attribuisce solo un ristoro al ricorrente, mentrecché la
potenza del tribunale ordinario reintegra il diritto che è stato offeso, e
restituisce le cose in pristino per quanto è possibile.
Le suddette avvertenze mi sembra che conducono naturalmente alla soluzione del
problema, e tuttavia il tema è ben lungi dall’essere esaurito, e manca ancora
la formula scientifica che raccolga ed esprima tutti i casi in una proporzione
generale. Io stesso sento che nel mio discorso v’ha qualche cosa di vago e di
oscuro. Ma per tornare dalla digressione al soggetto principale, posto che la
vita civile è intessuta di atti amministrativi indirizzati all’utile pubblico, ma
che possono tornare di nocumento al privato e posto che dev’essere permesso
contro questi atti il ricorso, e la querela, ma non dinanzi all’autorità
giudiziaria perché non è competente a giudicare, qual via dovrà tenersi? A chi
rivolgersi? Ho notato più sopra, e giova ripeterlo, esservi qualche atto o
provvedimento la cui indole urgente, il cui giudizio discretivo, il cui effetto
momentaneo impedisce che possa mai essere deferito a tribunali né giudiziarii
né amministrativi, ma questa non è, e non deve essere la regola generale.
L’arbitrio dell’amministrazione deve limitarsi il più che sia possibile e il
ricorso del cittadino deve avere una protezione od una guarentigia efficace. La
Germania, come ho detto sopra, v’ha posto mano ordinando tutta una gerarchia di
tribunali amministrativi parallela ai tribunali giudiziari, e questo
ordinamento sembra aver fatto buona prova.
E nondimeno io non oserei consigliare al mio paese tutta la macchina immensa
della giurisdizione prussiana, né tampoco è mio intendimento di proporre un
ordinamento preciso, descrivendolo nelle sue varie parti e quasi apparecchiando
uno schema di legge da discutere. Non è questo il compito del libro presente,
pago di segnare alcune linee generali. Però siccome anche questa semplice
delineazione vuol avere qualche forma pratica, parmi che in Italia si potrebbe
provvedere a ciò col metodo austro-ungarico, cioè colla creazione di un
tribunale amministrativo supremo. Che se questo sembrasse insufficiente,
perciocché detto tribunale conosce solo del diritto e la esperienza confermasse
tale insufficienza, si potrebbe supplirvi ordinando i Consigli di prefettura in
modo alquanto diverso da quello che è stabilito agli articoli 5 e 6 della legge
comunale e provinciale. E poiché accenno a questa idea piacemi di chiarirla
alquanto maggiormente. Ho detto altrove che il Consiglio di prefettura dovrebbe
per ciò che riguarda l’esecuzione degli atti importanti e per mantenere in
continuo accordo i vari servigi, comporsi dei capi di servizio stessi; e
mantengo questo concetto. Ma diverso è il Consiglio di chi io parlo: io parlo
di quello che esiste già secondo gli articoli 5 e 6 della nostra Legge comunale
e provinciale del 20 marzo 1865, la quale dice che il Consiglio di prefettura
si compone di un numero non maggiore di tre consiglieri e di due aggiunti, e
che le sue attribuzioni gli sono commesse dalle leggi. Ora di questi cinque
potrebbe il Governo sceglierne due, uno fra i funzionari della carriera
amministrativa e l’altro fra quelli della carriera giudiziaria, altri due
venire dalla elezione del Consiglio provinciale per un periodo di cinque o sei
anni, il quinto procederebbe per delegazione della Corte dei conti per
attendere più particolarmente al còmpito dell’esame di tutti i bilanci
consuntivi dei comuni e delle Opere pie. A questo corpo, che diventa una specie
di tribunale amministrativo, sottoporrebbe il prefetto le violazioni della
legge che gli Enti morali avessero commesso, e ricorrerebbero i cittadini e gli
Enti morali pei gravami fra loro o verso l’amministrazione.
E qui non posso fermarmi a determinare i particolari, né posso rispondere a una
quantità di piccole obbiezioni che mi si affollano innanzi, perché come già
accennai, non si tratta di porgere uno schema di legge a discussione, ma di
dare le linee generali di un disegno per soggettarlo ad esame e a correzione.
Nondimeno non posso pretermettere due difficoltà che si presenteranno alla
mente del lettore, e che appaiono gravi al primo sguardo. L’una è che tale
ordinamento sarebbe troppo complicato: ma esso non aggiunge che un solo organo
agli esistenti, e altri ne annulla o ne semplifica. I Consigli di prefettura
restano quali sono di numero, ma con una parte dei loro membri elettivi, e con
attribuzioni più chiare e distinte. Molte commissioni speciali e corpi
collegiali che vennero sorgendo mano a mano soprattutto in materia di
contenzioso finanziario, possono finire cedendo le attribuzioni loro ai
Consigli di prefettura. Un solo corpo realmente nuovo vi sarebbe cioè la Corte
suprema amministrativa, ma in un paese che ha cinque cassazioni e tanti
tribunali civili che soverchiano il bisogno, la diminuzione di una piccola
parte di questi sarebbe compenso più che sufficiente alla formazione di un
nuovo ed unico tribunale. La Corte dei conti rimarrebbe com’è al presente
La seconda obbiezione è che con ciò si menoma l’importanza dei Consigli
superiori che esistono presso i Ministeri, e tali sono il Consiglio di stato
che nel sistema francese è il pernio del contenzioso amministrativo, il
Consiglio dei lavori pubblici, d’istruzione pubblica, d’industria e commercio e
simiglianti. Io non lo credo punto. Le attribuzioni, siccome il titolo dice,
sono di consiglio e precedono l’atto; non sono di giurisdizione se non in
pochissimi casi, cioè per Consiglio di stato, nei casi indicati all’art. 10
della legge 20 marzo 1865, e di questi anche con altra legge del 31 marzo 1879
cessò il più importante che era la decisione sui conflitti che insorgono fra
l’autorità ma: ed un altro caso di giurisdizione è quello del Consiglio
d’istruzione superiore per le pene da infliggersi ai professori. Adunque
l’importanza di tali facoltà non è di gran momento, e l’opera loro non è meno
necessaria né meno proficua come sussidio, avviso, indirizzo del Ministro; dirò
anzi che questi in certi casi non dovrebbe poter operare diversamente
dall’avviso loro. Certo le leggi che li riguardano andrebbero lievemente
ritoccate, ma non alterandone la sostanza.
Lo Spaventa, nel discorso che ho più volte citato, indicò anch’egli le tre
maniere di rimedi che ho spiegato, maggior libertà individuale, decentramento,
giurisdizione amministrativa, ma venendo alle riforme pratiche, si tenne pago a
proporre alcune poche modificazioni alle leggi vigenti. Laonde io penso che la
differenza col mio disegno nasca principalmente da ciò che ci temette
scostandosi dagli ordini presenti di incorrere la taccia di troppo speculativo
e remoto dalla pratica, e volle colla parità delle apparenti mutazioni
rassicurare gli animi, laddove il progresso che l’opinione pubblica ha fatto di
poi in questa materia, permette di tagliar più sul vivo. Ad ogni modo se queste
differenze si vogliano divisare, elleno mi paiono le seguenti: lo Spaventa
manterrebbe nelle deputazioni provinciali il diritto di revisione, di tutela e
di giudizio amministrativo, purché il prefetto ne rimanga il presidente. Io
invece lascio alla deputazione piena autonomia e facoltà di amministrare la
provincia; ma gli tolgo ogni prerogativa tutoria, perché a mio avviso non le si
conviene. Similmente egli vorrebbe svolgere le facoltà giurisdizionali di
alcuni corpi amministrativi, laddove io preferirei di raccoglierne le
attribuzioni nei Consigli di prefettura. Infine egli modificherebbe nella
composizione e nelle attribuzioni il Consiglio di stato per accostarlo alquanto
ad un tribunale supremo amministrativo, io invece propongo la creazione di
questo tribunale. Dissi che le idee espresse dall’onorevole Spaventa hanno
cominciato a penetrare negli animi, e ciò può scorgersi anche nell’ultimo
progetto di legge che il Depretis aveva presentato al Parlamento per una
riforma del Consiglio di stato, perché vi si proponeva appunto di afforzare
alcune attribuzioni esistenti, di estenderle oltre i limiti odierni, e
di modificare la composizione del collegio17. Ma a me pare più semplice e più
efficace l’istituzione di un tribunale proprio, lasciando al Consiglio di stato
la sua grande e propria attribuzione di consigliere del governo.
L’idea di trasformare i consigli di prefettura non è nuova e la espose primo in
Italia, a mia notizia, Costantino Baer in una serie di articoli che avrebbero
meritato tutta la meditazione e lo esame degli uomini politici e di coloro che
studiano sulle condizioni della società odierna; ma passarono invece poco
osservati, perché la opinione non era matura ancora a tali indagini18, e poi
Roma e l’acquisto della capitale rapivano ancora a sé le menti di tutti. In
quegli articoli ei proponeva che i Consigli di prefettura nominati dal Governo
fra i notabili del paese e rinnovabili periodicamente avessero i seguenti
uffici: 1° Imporre ai comuni ed alle provincie l’adempimento degli obblighi
previsti dalle leggi mediante sentenza resa esecutiva. 2° Omologare come fanno
i tribunali per gli atti di giurisdizione volontaria tutti gli atti di
amministrazione che le leggi dichiarano sottoposti all’autorizzazione del
governo. 3° Giudicare dei conti consuntivi. 4° Giudicare della responsabilità
degli ufficiali pubblici e dell’adempimento dei loro doveri. 5° Decidere sulla
conformità alle leggi dei regolamenti generali per servizi affidati ai comuni
ed alle provincie. 6° Giudicare in prima istanza delle questioni elettorali. 7°
Decidere sui reclami in materia di tasse comunali, salvo che sia questione di
diritti da lasciarsi ai tribunali. Il prefetto faceva secondo lui l’ufficio di
pubblico Ministero presso i consigli. Come ognun vede il concetto che io ho
esposto in questa parte, non differisce sostanzialmente dalle predette idee19.
Soltanto io estenderei il giudizio sui ricorsi non solo alle materie di finanza
ma a tutta l’amministrazione.
Ed ora parmi tempo di raccogliere le vele. Ho studiato di mostrare per quale
via gli Stati Uniti d’America, l’Inghilterra, la Germania abbiano cercato di
porre freno al male di che parliamo. M’è parso che l’Italia non si trovi in
grado di seguire una sola di queste vie poiché la sua indole, le sue
tradizioni, il modo di suo svolgimento vi porrebbero troppo forti ostacoli.
Resta adunque che l’Italia attinga a ciascuno di questi tre esemplari ciò che
v’ha di meglio e di più confacente ai suoi costumi, e me faccia un tutto
organico che abbia importanza nazionale. Pertanto noi dovremmo sforzarci di
togliere tutte le pastoie alla libertà individuale che non sono punto
necessarie, al qual fine gioverebbe riprendere in esame parecchie leggi, e
soprattutto i regolamenti fatti dal governo, o approvati da esso, per sterparne
tutto ciò che non è strettamente richiesto dagli interessi generali e dai fini
dello Stato: e la parte restante e necessaria, salvarla e coordinarla insieme
dandole anzi un valore maggiore come dirò appresso. In secondo luogo noi
dovremmo fare opera di decentramento in ogni pubblico servigio ed ufficio, sia
per delegazione di facoltà data alle aziende provinciali e comunali, sia
togliendo ogni diretta ingerenza del governo nell’amministrazione loro vera e
propria, sia finalmente agevolando e favoreggiando la costituzione di
associazioni autonome aventi carattere di Ente giuridico, e avvalorando quel
che gli inglesi dicono diritto d’incorporazione sotto determinate leggi e cautele.
Finalmente noi dovremmo costituire la giustizia amministrativa, togliendo
all’amministratore stesso il sindacato dei suoi propri atti, e il definitivo
pronunciato sui medesimi, e ammettere il richiamo amministrativo per quelle
controversie che non posson essere giudicate dai tribunali ordinari. Al qual
uopo è mestieri dare ai regolamenti effetto giuridico e creare una
giurisdizione amministrativa. Forse basterebbe un tribunale supremo
amministrativo, ma ove si creda necessario dare guarentigie anche negli ordini
inferiori, ho indicato i lineamenti di un disegno che mi sembra non difficile
ad eseguirsi.
V’ha chi invoca un codice amministrativo; v’ha chi nega potersi in guisa alcuna
codificare l’amministrazione e i più fra i francesi propugnano questa ultima
idea20. In Italia un’autorità molto competente esprimeva pur dinanzi il
medesimo concetto21. "Il regolamento, dice il Mantellini, che volesse
descrivere ogni atto della vita civile di un popolo e di chi lo governa o
amministra rischierebbe di costituire il governo nella impossibilità di
muoversi e di agire per riuscire manchevole e arbitrario ad un tempo... E fra
l’arbitrio dell’uomo e l’arbitrio della regola, si rischia meno col primo che
col secondo. La regola che non risponde né può risponder di nulla,
necessariamente tracciata a priori in previsione dei casi avvenire, la si
applica strida o non strida, convenga o disconvenga col caso avvenuto o colle
sue fattispecie, si abbia per opportuna oppure no. E l’opportunità che è la
prima legge, il criterio costante da seguire nell’amministrazione dipende da un
insieme di circostanze che non si ripete e da un giudizio di prevalenza delle
une sulle altre che cambia da caso a caso".
Questa teoria ha una parte di vero, ma solo una parte; né io tacqui esserci
veramente dei casi nei quali il giudizio e l’atto amministrativo sono
determinati da un complesso di elementi che definire non si ponno, e questo
giudizio e questo atto dell’amministrazione bisogna accettarli senza dar luogo
a richiamo o al più rimettersene all’autorità superiore in gerarchia. Ho detto
inoltre non esservi legislazione amministrativa che possa tutto definire e
coercere sino nei particolari. Ma ho parimenti detto sopra che nelle materie
politiche e sociali, ella è questione di limiti più che di principii. Già
l’esperienza ha dimostrato quante controversie che altra volta erano reputate
amministrative potevan decidersi dai tribunali ordinari come controversie di
diritto privato. La legge del 1865 e la giurisprudenza da quel tempo sino ad
oggi lo hanno determinato sufficientemente. Ma l’esperienza ha mostrato ancora
che molte controversie che si volevano evitare del tutto per non offendere
l’azione libera dell’amministrazione, possono dar luogo a ricorso e a giudizio.
V’ha una quantità di atti amministrativi che si riferiscono a materie di
polizia, d’imposte, o stradali, o idrauliche o sanitarie e va dicendo, alle
quali non solo si possono prescriver delle norme, ma le norme sono già in gran
parte prescritte, mediante regolamenti, circolari, istruzioni. E si tratta di
dare a queste regole maggiore precisione e fissità,, e di statuire che
l’autorità che compie l’atto non sia quella medesima che giudichi dei richiami,
ma un’autorità diversa e collegiale che porga nella sua composizione, nella
procedura, nelle forme del giudizio le maggiori guarentigie possibili al
cittadino.
Già sin dal 1829 in alcuni suoi scritti sagaci e profondi il duca di Broglie
aveva preso ad esaminare lo stato del contenzioso amministrativo in Francia, e
a farne la critica22. il suo pensiero era di fare un lavoro di discriminazione
delle materie che erano allora di sua spettanza (ed oggi ancora in massima
parte gli spettano) e divideale in tre categorie. La prima doveva comprendere
tutte le controversie che oggi si reputano amministrative e veramente sono di
diritto privato e debbono sottoporsi ai tribunali ordinari, avvegnacché sotto
il nome di contenzioso amministrativo, dic’egli, il governo anche oggi decide
una quantità di questioni giudiziarie, che posson dirsi usurpate alla
giurisdizione ordinaria, e che è un dovere il restituirle: la seconda tutte le
controversie che sono materia peculiare di contenzioso amministrativo e sulle
quali pur mantenendo gli ordinamenti vigenti invoca talune modificazioni a
guarentigia del cittadino: La terza finalmente le questioni che non si possono
portare né dinanzi al tribunale ordinario né dinanzi ai Consigli
amministrativi; ma debbono essere decise unicamente dall’autorità che le ha
fatte sorgere. Il concetto da me espresso muove dalle stesse premesse del duca
di Broglie. Inoltre mi sembra che non debba esserne troppo ardua la esecuzione,
specialmente in Italia, dove la legge del 1865 e la giurisprudenza conseguente
ha restituito ai tribunali ordinari tutto ciò che era di loro appartenenza.
Ma invocando che le norme amministrative le quali oggi si trovano sparse in
regolamenti, istruzioni, circolari ecc., siano più precisamente fissate per
servire di fondamento ad un giudizio, non posso tacere che questo lavoro
vorrebbe essere compiuto, estendendolo anche a talune materie che si lasciaron
finora quasi a belle posta fuori della legge. Noi italiani, e anche i popoli
che sogliono chiamarsi di razza latina, abbiamo una cotale repugnanza a
stabilire regolamenti che abbian forza di legge, e siamo propensi a darne
piuttosto al governo la balia, e abilitarlo a provvedere con decreti ed
ordinanze che si rinnuovano, si contraddicono, e lasciano sempre incertezza e
modalità nelle regole amministrative. In Inghilterra le leggi sono
particolareggiate, minute e si stendono sin dove ne sia d’uopo. E inoltre ogni
anno di Parlamento vota centinaia di bill privati che hanno forza di legge, e
dai cittadini, sono invocati per interessi loro propri.
Sarebbe argomento degnissimo di esame, sino a qual punto in un reggimento
costituzionale possa stendersi la facoltà del governo o essergli delegata dal
Parlamento di provvedere alla esecuzione della legge mediante regolamento,
decreti, e circolari che hanno sempre qualche parte di legislativo: ma il lungo
tema mi caccia. Però questa facilità di lasciare tanta balia al governo deriva
eziandio da un certo timore di affisare taluni punti delicati della vita
politica, nei quali piuttosto che venire ad un determinazione precisa,
preferiamo di dare a chi comanda sconfinato arbitrio, il che è sorgente da un
lato di abusi, dall’altro di accuse e di rimprocci. Chi non ricorda le
discussioni seguite in Parlamento e fuori sul diritto di associazione e sui
suoi limiti, sul prevenire e sul reprimere? Anch’io vi presi parte non lieve, e
non vorrei ripetere le cose dette, ma chiederò solo: per qual motivo non si osa
fissarne le regole per legge? Oggi l’associazione è libera: tutti vi
consentono, ma tutti consentono similmente che siffatta libertà come ogni altra
ha i suoi limiti. Or bene, sian chiariti questi limiti: così né al Governo sarà
lecito oltrepassarli a danno del cittadino, né il cittadino potrà servirsi di
una libertà indefinita per attentare alla sicurezza dello Stato.
Il medesimo dicasi delle leggi che possono occorrere in certi eventi
straordinari. Poniamo che il territorio nazionale sia improvvisamente occupato,
poniamo una insurrezione interna a mano armata, poniamo una provincia dove
briganti scorazzino e incutendo il terrore impediscano il regolare
procedimento, dell’azione della polizia e del tribunale. In queste ricorrenze
le leggi generali non bastano, e tutti i paesi forti vi hanno provveduto con
leggi speciali determinando bene le circostanze e munendo l’autorità di facoltà
così dette eccezionali, ovvero vi provvedono volta per volta. In Inghilterra
non è raro il caso che le franchigie costituzionali siano in parte sospese:
oggi anche per l’Irlanda furono prese disposizioni severissime. In Francia fu
supposta la necessità dello stato d’assedio, e fu statuito che le Camere
debbano esse stesse bandirlo allorché seggono, se no il governo lo decreti di
proprio moto, salvo ad esse decidere appresso della convenienza e della
legalità del decreto23. In Germania la legge determina le norme, i limiti, le
competenze speciali dello stato d’assedio, ma lascia largo margine al Governo
di proclamarlo quando lo crede necessario. In Italia si è sempre sfuggito con
cura di definir questi casi, pur conoscendo in fatto che la potestà esecutiva
operi tutto ciò che stima necessario alla salute pubblica: salus publica
suprema lex. Così Genova fu posta in istato d’assedio il 3 agosto 1848 né il
parlamento subalpino se ne diede per inteso: similmente la provincia di
Sassari, con decreto del 29 febbraio 1852 e la Camera l’approvò con un ordine
del giorno puro e semplice. Il Ratazzi decretò lo stato d’assedio nelle
provincie siciliane il 27 agosto 1862, il 20 settembre nelle provincie
napoletane. Ma ciononostante quando nel 1875 il governo chiese la balìa di
poche e ben determinate facoltà straordinarie per le provincie che erano
infestate dal brigantaggio, trovò una opposizione forte, cavillosa, focosissima
sostenuta anche fuori dal Parlamento da molti, e riuscì a mala pena a condurre
in porto una legge gretta e stentata che per fortuna non fu necessario attuare,
per le migliorate condizioni della sicurezza pubblica, ma che probabilmente da
sé sola non sarebbe stata efficace. Eppure non mancavano taluni fra i più
furiosi oppositori, i quali assediavano l’ufficio del ministro per dirgli: fate
ciò che stimate necessario, anche oltre le leggi, ma non ci chiedete anticipate
facoltà, riescite, e sarete approvati e lodati. E questo fece il ministero dopo
il 18 marzo 1876: e non si può disconoscere che ottenne in Sicilia effetti
notevolissimi, ma trapassò senza scrupolo la legge e i diritti sanciti dallo
Statuto, negando sempre nei suoi giornali di farlo, e il pubblico tenendogli
bordone con tacito plauso, e le poche rimostranze fatte nella Camera si
attutirono come se fossero rivelazioni imprudenti. Questo stato dell’opinione
pubblica è a mio avviso morboso, e contrario alla buona e ordinata costituzione
di un reggimento libero; permettendo che si oscilli tra l’impotenza a reprimere
il male, e l’arbitrio governativo giustificato da susseguenti voti sopra assai
più che non paia, e ci riconduce al concetto che bisogna quanto è possibile
determinare con leggi precise tutto ciò che riguarda i diritti dei cittadini e
gli interessi sostanziali della società.
Oltre la triplice riforma dei nostri ordini amministrativi, occorrono a mio
avviso altre due leggi per compiere un sistema di guarentigie amministrative.
l’una sullo stato degli impiegati, l’altra sulla responsabilità di tutti gli
amministratori della cosa pubblica.
E’ utile e necessario stabilire per legge i diritti e i doveri degli impiegati?
La scuola che favoreggia il governo assoluto lo nega, imperocché vede
nell’impiegato un servizio del Principe il quale può prenderlo e licenziarlo ad
arbitrio. La scuola democratica giunge alle stesse conseguenze, perché il popolo
non si differenzia dal sovrano assoluto là dove può tutto. Laonde o egli stesso
direttamente elegge a certi tempo rettòri e giudici e impiegati, senza altra
giustificazione che un bollettino gittato nell’urna: ovvero se concede ai capi
del governo le nomine degli impiegati, tiene i primi dirimpetto a sé
responsabili di tutto, e non si cura degli agenti inferiori né li riconosce
come funzionari dello Stato. La scuola germanica sin dall’epoca della
restaurazione, nel 1815, rivolse a ciò le sue mire e lo Stein nell’ordinamento
dell’amministrazione prussiana pose fra gli ordini essenziali la legge sullo
stato degli impiegati. Fin d’allora furono scorti i vantaggi e gli
inconvenienti di questo sistema, e li notava più tardi, con quella precisione
che è propria della sua eloquenza il principe Bismarck in un suo discorso al
Reichstag, sul diritto elettorale, e sulla eligibilità degli impianti "Noi
abbiamo, diceva egli, nella Prussia in qualche modo due costituzioni che
corrono parallele: la vecchia del governo assoluto che trovava la sua difesa
contro l’arbitrio nella inamovibilità non pare potersi accordare. Il governo
prussiano checché faccia, e si muova, sentesi da ogni parte impacciato. Esso
non può revocare un impiegato che abbia obbedito alle istruzioni dategli,
stando alla lettera delle medesime; ancorché ne abbiano franteso lo spirito.
Eppure anche codesto ha i suoi grandi vantaggi: né io vorrei a verun costo
immolare l’integrità del funzionario prussiano, la sua dignità, il sentimento
che lo sottrae alle tentazioni di uno scarso e spesso insufficiente salario;
laonde preferisco di sopportare animoso gli inconvenienti di un governare
impacciato al gittarmi impreparato in altre difficoltà"24. In Francia
v’hanno norme per l’ammissione, per l’avanzamento, per le pensioni: ma garanzie
vere e proprie in favore dell’impiegato non vi sono: se ne eccettui la
magistratura, la quale però da ultimo ebbe anch’essa a patire iatture. Vi
supplisce in gran parte la tradizione solida, e rispettosa dei diritti
acquisiti, salvo nei momenti di rivoluzione, quando la smania delle così dette
purificazioni vela la cupidigia e la vendetta. In Inghilterra dove, come
dicemmo altrove, il maggior numero degli uffici pubblici rampolla da una
posizione sociale e si adempie gratuitamente, poco era da provvedere
sull’argomento: la massima parte degli impiegati veri e propri s’intendeva
assicurata del suo ufficio sino che non demeritasse (during good behaviour) e
il principio colà tanto operativo della sequitas ed bona fides aveva stabilito
per essi una inamovibilità di fatto. Però mano a mano che alcune forme
continentali penetrano nella costituzione britannica, si sente la convenienza
di regolare lo stato degli impiegati, e dal 1853 si cominciò dal sancire gli
esami di concorso per l’ammissione.
Un punto fondamentale da determinare è quello della responsabilità diretta
dell’impiegato, principio ammesso sostanzialmente in Germania, e per isbieco
introdotto nella nostra legge di contabilità all’art. 60 ma di ciò più oltre.
Non poté la legge sullo stato deg’impiegati essere recata innanzi nei primordi
del regno d’Italia: imperocché si trattava di disfare tutte le amministrazioni
passate, e di ricomporle in unico stampo, di guisa che sarebbe stato
impossibile il riuscirvi senza una certa libertà d’azione. Ma non appena
l’ordinamento parve almeno nelle sue parti principali assodato, cioè sin dal
1864 il Minghetti disegnò di presentare un apposito di legge, e ne accettò
l’invito dalla Camera in un ordine del giorno, ma le vicende de’ tempi ne impedirono
l’esecuzione. Più tardi il Lanza dapprima al senato nel marzo 187025, poscia
nel 1871 alla Camera dei deputati26 presentava il progetto di legge che
determinava le categorie degli impiegati, i titoli richiesti e gli esami che si
dovevan sostenere per essere ammessi: dava norma alle promozioni e ai
trasferimenti, alle disponibilità e alle aspettative. Stabiliva per quali
motivi l’impiegato potesse essere punito e con quali ammende, fino alla
destinazione, e fissava le guatentigie di esso dirimpetto al Governo: ancora
delineava i casi di collocamento a riposo, e i diritti a pensioni che
all’impiegato spettavano. La Giunta parlamentare fece una relazione accurata e
sostanzialmente accettò le idee del ministro; ma non ebbe luogo discussione.
Più tardi ancora, nel 1876, l’on. Depretis ripresentò un altro progetto27 ma in
termini più ristretti perché abbassava il grado di cultura richiesta dal suo
predecessore per l’ammissione agli impieghi: e lasciava al ministro troppo
maggiore larghezza nel licenziare gli impiegati dal servizioPubblico ogni volta
che ei lo giudicasse conveniente al servizio mesedimo. Portato innanzi alla
Camera questo disegno, toccava quasi il porto dopo parecchi giorni di
discussione, quando non so qual vento lo respinse in ignoti mari, donde non
uscì più mai sino ad oggi. Ora io credo che questa legge dello stato degli
impiegati sia una delle cose essenziali al fine che noi ci proponiamo, e
dovrebbe quindi senza indugio essere proposta al Parlamento in tali termini, da
sottrarre l’impiegato stesso all’arbitrio, al capriccio, alle influenze
parlamentari. A tal fine converrebbe ch’essa offrisse guarentigie sicure
all’impiegato non solo di non esser dimesso, ma neppure scaraventato da un capo
all’altro della penisola, per ciò solo che non seppe sobbarcarsi alle voglie di
un deputato, né consentì di farsi strumento dei soprusi di un partito, o
addiventare un agitatore zelante di elezioni. Ma d’altra parte converrebbe che
stabilisse eziandio regole e discipline severe contro l’impiegato che parteggia!
questo dupplice argomento renderebbe l’ufficiale pubblico più indipendente, e
frustrerebbe le indebite ingerenze della politica nell’amministrazione. Per ora
egli non ha verace difesa, ed a provarlo basterebbe una sentenza recente della
Corte di Cassazione la quale dichiara l’autorità giudiziaria incompetente, e
l’impiegato privo di ogni azione per ammenda di danni nel caso di destituzione.
E v’ha di peggio; ché lo spirito pubblico non si commove punto alle ingiustizie
di tal fatta; anzi udiamo risonare il plauso a cambiamenti repentini e
radicali, e il ministro andare lodato non che impunito, perché, dicesi, diede
prova di forza e seppe spezzar le maglie della burocrazia.
Ma è possibile questa legge senza menomare la responsabilità del ministro? La responsabilità,
dice la scuola radicale, deve essere solo e tutta di lui: ogni altra
menomerebbe la pienezza di sue facoltà, e del sindacato parlamentare.
Certamente il concetto della responsabilità dei ministri è fondamentale nel
governo costituzionale. Le sue origini in Inghilterra risalgono alle origini
stesse della monarchia28 e il principio che il Re non può far male e che esso è
inviolabile, si collega intimamente a ciò che ogni suo atto debba essere
controfirmato da un ministro che n’è responsabile. "E’ mirabile, dice il
Balbo, questa istituzione, questo mezzo termine, questo ritrovato non di nessun
uomo, ma dei tempi progrediti in civiltà, questa combinazione della
irresponsabilità del Principe colla responsabilità dei ministri, che fa
possibile ed effettiva la riunione di tutti i vantaggio della monarchia e della
repubblica nella monarchia rappresentativa"29. V’ha poi una responsabilità
collettiva fra tutti i ministri, e per quanto può attenersi al subietto di
questo libro, essa fu ben definita da Lord Derby30. L’essenza di un governo
responsabile è il vincolo mutuo fra i suoi membri pel quale essi agiscono come
partito, vanno insieme, consertano i loro atti, e se un di essi cade (salvo
casi speciali) cadon tutti con esso. Ma di responsabilità ve n’ha di più
specie: ve n’ha una tutta privata, quando il ministro opera come ogni altro
cittadino; e ve n’ha una veramente e propriamente ministeriale nell’esercizio
delle funzioni del governo, la quale può dar luogo a mettere i ministri in
istato di accusa secondo l’art. 36 dello Statuto. Ciò presuppone manifestamente
un delitto di alto tradimento, un attentato alla sicurezza dello Stato, la
violazione delle leggi costituzionali. Spesso si è parlato della necessità di
una legge precisa su questa materia, e ve n’ha eziandio qualche esempio. In
verità tutta la parte che riguarda il procedimento può ben determinarsi, come
pure la sanzione delle pene. Ma definire la responsabilità dei ministri è
grandemente difficile, e coloro che si commentarono si ristettero ai termini
generali di tradimento, concussione, prevaricazione. La legge austriaca del 25
luglio 1870 che è pure la più precisa parla anche essa di opere o di omissioni
colle quali si viola la costituzione e la legge.
Ma come ognun vede, non è questa la responsabilità che al nostro fine vogliamo
propriamente sottoporre ad analisi. V’ha una responsabilità che non è
giudiziaria o penale, ma piuttosto politica, ed è quella che si manifesta col
sindacato del Parlamento. Un ministro, poniamo, lascia gli affari in disordine,
favorisce gli uni a preferenza degli altri, ha poca parsimonia del pubblico
denaro, adopera una spietata fiscalità, suscita colle sue esosità liti allo
Stato, rasenta per arbitrii la violazione della legge senza però che apparisca
manifesta la intenzione di trasgredirla. Codeste sono tutte colpe per le quali
non si può metterlo in istato d’accusa: ma la Camera può esaminarle,
discuterle, e pronunziare il suo giudizio con una mozione, o con un ordine del
giorno che lo costringa a rassegnare il suo ufficio. Or ecco appunto il caso al
quale alludono i partigiani della scuola più sfrenata, dandovi una estensione
esagerata. Essi dicono: a che giova stabilire la responsabilità per gli
ufficiali pubblici? essi sono meri strumenti del ministero e debbono esser
tali. Il ministro è responsabile per tutti loro davanti alla Camera: è in lui
che debbono convergere tutte le accuse. Or qui ci troviamo fra un astrattezza e
una ipocrisia. E’ una astrattezza quella di supporre che il ministro possa
davvero prender sulle sue spalle la responsabilità di tutto ciò che gli agenti
dell’amministrazione in ogni parte del regno. Questo carico sarebbe tanto grave
e sproporzionato, che per la sproporzione sua stessa si risolverebbe in nulla.
Se un ufficiale pubblico ha commesso un atto scorretto nell’interpretazione e
nella esecuzione della legge e del regolamento, chi vorrà perciò condannare
seriamente il ministro, quando anch’esso non lo abbia punito e talora per
sentimento di solidarietà cerchi di difenderlo? E’ poi un’ipocrisia quella di
supporre che la decisione del Parlamento abbia sempre un valore di efficace
riparazione. Il Parlamento assolverà o come dicesi oggi, darà un bill
d’indennità, al ministro che ha commesso un’ingiustizia per assecondare la
passione del partito, e fors’anche un ordine del giorno consacrerà la
violazione del diritto. Questo è il punto sul quale insisto, e al quale io
prego il lettore di rivolgere il pensiero. Imperocché la responsabilità
ministeriale estesa così largamente non ha significato alcuno, o se ne ha uno è
di servire la maggioranza in tutti i suoi capricci.
E facciasi pure la legge della responsabilità ministeriale, ma restano due
quesiti. Gli ufficiali pubblici sono responsabili e possono esser chiamati in
giudizio pei loro atti? Provvede a ciò bastantemente il codice civile e penale?
O è necessaria una legge speciale? Nella presente legislazione, i prefetti, i
sotto prefetti e coloro che ne fanno le veci, come pure i sindaci, non
"possono essere chiamati a render conto dello esercizio delle loro
funzioni, fuorché dalla superiore autorità amministrativa, né sottoporsi a
procedimento per alcun atto di tale esercizio, senza autorizzazione del Re
previo parere del Consiglio di Stato"31. Questa disposizione di legge che
abbiamo imitata dalla Francia pur temperandola, non può andare in accordo colla
responsabilità vera degli impiegati. Uopo è che questi possano esser tradotti
in giudizio per violazione di legge, ed eziandio per risarcimento di danni;
insomma che l’azione penale e civile sia aperta contro di loro. Ma fino a che
limite? Ecco un problema delicato quanto mai. A risolverlo non mi par che basti
citare gli articoli del codice civile32 "che qualunque fatto dell’uomo che
arreca danno ad altri, obbliga quello per colpa del quale è accaduto il danno,
a risarcirlo; e che ciascuno è obbligato non solo pei danni cagionati per fatto
proprio, ma eziandio delle persone delle quali deve rispondere". E’ d’uopo
bensì esaminare a fondo quali sono i casi nei quali l’impiegato è responsabile,
quali i casi nei quali è responsabile per lui lo Stato, e finalmente quando né
egli né lo Stato può esser convenuto. Per accusare un ufficiale pubblico o
dimandargli un risarcimento di danni, è d’uopo che vi sia parte di lui o
accesso di potere, o diniego di giustizia, o offesa alle leggi, o negligenza
colpevole dei suoi doveri. Rispetto poi allo Stato, e ai casi nei quali lo si
possa chiamare responsabile di danni in via principale o sussidiaria, il tema è
lungi dall’essere chiarito in ogni sua parte. Certamente quando lo Stato agisce
e contratta come qualunque ente civile esso trovasi esposto al rifacimento del
danno secondo il diritto comune. Ma la forte questione non è ivi: è nei casi
nei quali lo Stato impera e provvede come ente politico, o agisce
nell’interesse della società. Imperocché non può accusarsi di intenzione
malvagia, mentre intende anzi a tutelare il pubblico bene, non può accusarsi
d’aver scelto un ufficiale più che un altro, perché la nomina degl’impiegati è
fatta secondo certe regole preordinate; e infine la società civile non è come
alcuni reputano identica a una società d’assicurazione. Anche s’ingannano
coloro che paragonano lo Stato ad un appaltatore di opere, perché l’uno dispone
e fa nell’interesse pubblico, mentre l’altro fa nell’interesse proprio, e se
corre rischio talvolta di perdere, nel più dei casi guadagna, e tale è il suo
intento. Poniamo che lo Stato modifichi le tariffe doganali abbassandole, non
v’è chi abbia diritto di ripetere da esso i lucri che gli cessano dal cessare
delle tariffe più alte. Invece certi atti, pur collegati colle funzioni
essenziali dello Stato, possono produrre danni meritevoli di risarcimento, per
esempio se ordini lavori di difesa alle ripe di un fiume che apportino la ruina
di edifizi, o scemino la proprietà di un privato sulla ripa opposta. Notisi che
la Corte di cassazione ha pronunziato in parecchie circostanze non essere
applicabile allo Stato la regola di diritto privato relativa ai delitti o quasi
delitti, e questa tesi è vigorosamente sostenuta dall’avvocato erariale33.
Finalmente non mi par che basti neppure la distinzione dello Stato quando
agisce e contratta come Ente civile, e risponde come ogni altro ente degli
effetti della sua gestione, dall’altro caso quando lo Stato provvede come Ente
politico nell’interesse generale, avvegnacché vi sono dei casi nei quali tal
distinzione è sottile, onde riesce difficile distinguere gli atti che dall’una
o dall’altra forma promanano. Da tutto ciò discende quello che accennai sopra,
cioè che la materia aspetta ancora una trattazione completa e definitiva. Mi
sia lecito ripetere anche qui ciò che più volte ho detto: trattasi una
questione di limiti, e questi limiti stessi si rimuovono a seconda delle
condizioni dei popoli e del progredire della civiltà. Ma qualunque sia la
teoria e la giurisprudenza che in tal materia prevalga, egli è certo che quando
siano fissate le regole rispetto alla responsabilità dello Stato e dei suoi
agenti, regole analoghe vogliono statuirsi rispetto alla provincia ed al
comune, e devono eziandio riferirsi agli amministratori di Opere pie e di
pubblici Istituti.
Un altro punto da esaminare è sino a qual grado l’ufficiale pubblico può essere
difeso dirimpetto al tribunale, dell’ordine preciso del suo superiore, il quale
sottentrerebbe in sua vece come reo convenuto. Il Mancini in un suo disegno di
legge non ammetteva l’eccezione dell’obbligo di obbedienza gerarchica, per
liberare l’esecutore dell’atto abusivo della solidaria responsabilità del
danno, qualora l’ordine dato dal superiore fosse manifestamente illegale, ma
codesta è dizione troppa vaga, e veramente pericolosa in quanto ché
abiliterebbe l’ufficiale subordinato ad una continua discussione sul valore
degli ordini che gli fossero dati. Certamente se il superiore ti comanda di
commettere un’azione che non abbia attinenza coll’obbligo del tuo ufficio o
che, se pur l’ha, costituisca per se medesima un delitto, la legge morale e il
sentimento della giustizia, impongono di rifiutare; ma vi sono degli atti, in
materia poniamo di prevenzione per cagione di pubblica sicurezza, la legalità
dei quali dipende da molte circostanze e fra queste eziandio dall’opportunità e
dalla possibilità della riuscita: ora lasciando illimitata discussione a chi
deve eseguire l’atto stesso, si avrebbero inconvenienti ad ogni ora, e il
rimedio sarebbe più pericoloso del male: tanto più che concedendo la
giustificazione per obbedienza gerarchica, la persona contro la quale si può
procedere per violato diritto c’è, anzi dal fatto stesso dell’ordine dato è
specificata e la responsabilità non vien meno passando dall’uno all’altro34. Il
nostro codice penale sui reati per abuso di autorità, attentato alla libertà
individuale, e violazione di domicilio, dichiara35 essere sciolto da ogni
responsabilità l’ufficiale o impiegato che ha agito per ordine dei superiori in
oggetti della competenza loro, e pei quali oggetti era ai medesimi dovuta
obbedienza.
Ma è ella veramente necessaria questa legge sulla responsabilità, o non basta
già il diritto comune? Non si trova nei nostri codici, nelle nostre leggi, nel
nostro Statuto tanto da provvedere ad ogni giusta esigenza? La tesi venne
sostenuta con molta sagacità e con soda erudizione dall’egregio Professore
Adeodato Bonasi36 il quale trovò nondimeno anch’egli una lacuna perciò che riguarda
i ministri. Imperocché lo Statuto avendoli sottratto alla giurisdizione
ordinaria, manca tuttora la procedura che debba seguirsi in questo giudizio
speciale. Parvegli eziandio che dovessero abrogarsi quelle disposizioni, le
quali senza alcuna ragione di grande interesse che le legittimi, potrebbero
essere di ostacolo alla piena applicazione del diritto comune a tutti i
pubblici funzionari. Consento nell’uno e nell’altro punto, ma non mi credo
abbastanza competente ad affermare o negare la proposizione generale sostenuta
dal Bonasi, la quale meriterebbe un’ampia disamina37, e confesso che ne rimango
in dubbio, per la qual cosa parlai di una legge fatta apposta. Egli stesso
riconosce che fra il codice e certe leggi speciali come quella di pubblica
sicurezza non vi è un coordinamento sufficiente e che bisognerebbe rivederle in
questo intento. Ora io aggiungo che almeno in occasione di codesta revisione,
oltre il desiderato coordinamento, debba esaminarsi accuratamente se qualche
deficienza non si riscontri, ed a questa supplire. Certo non è ben chiaro,
quando il pubblico ufficiale possa chiamarsi in giudizio, né tampoco è noto a
tutti quando gli amministratori dei comuni, delle provincie, delle Opere pie,
degli Istituti autonomi siano responsabili anche civilmente. Ciò vuol essere
posto in piena luce, imperocché è parte sostanziale della giustizia
amministrativa.
Ho detto delle tre vie per le quali si può procedere al fine che ci siamo
proposto; ho parlato inoltre di due leggi, l’una sullo stato degli impiegati,
l’altra sulla responsabilità degli agenti del governo e degli amministratori
della cosa pubblica, che dovrebbero far parte sostanziale dell’ordinamento di
che trattiamo. Ora mi conviene eziandio accennare all’importanza di dare nelle
nostre università allo studio del diritto amministrativo un più ampio
svolgimento, e di fondarvi una vera facoltà politica e amministrativa38. Gli
studi meramente giuridici tennero e tengono tuttavia il campo, ed è naturale in
quanto che offrono agli studiosi una carriera rapida e lucrosa, quella
dell’avvocato. Se non che il progresso degli studi rese manifesto che il
diritto privato non era che una parte del diritto generale, e quindi le facoltà
giuridiche si arricchirono di cattedre di diritto pubblico, costituzionale, e internazionale.
Talvolta anche vi si unì quella di diritto amministrativo, e di economia, ma
quasi accessorie e di completamento. Ora ciò non basta, e se l’amministrazione
deve essere esercitata da uomini esperti, uopo è che vi sia un corso di studi
destinato a formarli. Laonde mentre le cattedre che ho accennato sopra
sarebbero comuni ad entrambi gl’insegnamenti, ve ne sarebbero altre speciali
alla facoltà giuridica o alla facoltà politica amministrativa: queste si
dovrebbero bipartire come due rami da un tronco, ed avrebbero alla fine propri
esami e diplomi. Converrebbe perciò allargare il campo di tutte le scienze che
all’amministrazione si attengono: e per esempio non solo trattare il diritto
costituzionale, ma più propriamente gli uffici del governo, le sue relazioni
colle istituzioni ed associazioni civili, la sua azione ossia la politica: così
il diritto internazionale si svolgerebbe nell’arte diplomatica, così l’economia
andrebbe corredata dagli insegnamenti affini come la statica, la finanza, e la
ragioneria. Né dovrebbe mancare la parte tecnica, almeno in modo ausiliare,
come per esempio l’igiene pubblica, la condotta delle acque, l’ordinamento
della difesa nazionale. Laonde ben fece Ruggiero Bonghi allorché, essendo
ministro della pubblica istruzione, col regolamento 11 ottobre 1875 decretava
potersi istituire in alcune università corsi speciali di discipline politiche e
amministrative, e il de Sanctis più tardi (10 dicembre 1878) fondava in Roma un
corso di scienze economico-amministrative. Codesti germi bisognerebbe spargere,
imperocché se non si comincia dal dimostrare scientificamente quale debba
essere il compito del governo dal dimostrare scientificamente quale debba
essere il compito del governo, che cosa sia amministrazione pubblica, delineandone
le differenze colla giurisprudenza, sarà difficile che nella pratica sia
rettificato e si migliori l’andamento delle cose, e si tronchino dalla radice
gli abusi di che abbiamo parlato. Egli è alla gioventù che esce dalle scuole
pubbliche, innamorata del giusto e del buono non solo nella ragion privata, ma
eziandio nella pubblica, che si appartiene di preparar l’opinione, affinché
siano recati in atto legislativo i provvedimenti atti a riparare questi mali,
fondandolo lo Stato giuridico nella sua pienezza.
Intanto a menomare i mali discorsi, ed a preservare il sistema costituzionale
dagli abusi più manifesti e più dannosi, io indicherò alcuni rimedi indiretti,
ed altri secondari o piuttosto espedienti che pure avrebbero qualche efficacia
sul migliore andamento della cosa pubblica. E innanzi tutto gioverà che
ciascuna delle potestà che la nostra costituzione pone come essenziali, operi
secondo suo diritto e secondo suo dovere, e che la inerzia e la mala abitudine
non finiscano per cedere l’impero ai più audaci ed impronti. Così per mio
avviso la Corona dee accuratamente serbare le prerogative che le accorda lo
Statuto e mai lasciare che altri le usurpi, imperocché quelle prerogative ben
usate sia nella scelta dei ministro sia nello scioglimento della Camera possono
in talune circostanze salvare il paese. E fra le prerogative della Corona pongo
eziandio quella di vigilare che il suo governo non istenda radici partigiane
nella giustizia e nell’amministrazione, e dove ne vegga i segni ammonirlo e
trattenerlo. Credo che un ministro, richiamato dal Re all’osservanza della
equità nel momento che gli porge a firmare un decreto di nomina o di
promozione, si rassegnerebbe ossequente all’ammonizione e ne prenderebbe norma
per l’avvenire; tanto più che qui non si tratta d’indirizzo generale politico,
ma di fatti peculiari.
Un altro punto importante è quello che oggi chiamasi formazione e condotta del
Gabinetto, cioè del Consiglio dei ministri in quanto essi sono e si sentono in
solido sotto un capo che è il presidente del consiglio medesimo: ora il
Gabinetto è mediatore fra la Corona e il Parlamento, e fra i due rami del
Parlamento medesimo. Il concetto del Gabinetto in Inghilterra fu opera lenta, e
ognor progressiva durante due secoli. Come bene osserva il Gladstone, "la
teoria del governo misto e dei tre poteri, trasmessaci dagli antichi e
soprattutto da Cicerone nel suo libro della Repubblica, è troppo fredda e
cruda, né corrisponde all’indole della costituzione inglese, mancandovi un
elemento conciliatore, una specie di organo di compensazione, che mantenga in
bilancia le forze politiche, le coordini fra loro, e le indirizzi ai fini del
civile consorzio... Il gabinetto è forse la più singolare creazione del mondo
politico nei tempi moderni, non per la sua dignità, ma per la sua sottigliezza,
elasticità e varietà, ed apparisce come il complemento di un intero sistema: il
quale sembra poter sfidare tutti i pericoli anche nelle età future, né a tal
uopo altro richiede che una perfetta lealtà, e una discreta intelligenza in coloro
che lo adoperano. Questa istituzione che ha tanta parte nella vita politica
inglese, agisce per tacito consenso, senza che la legge scritta o la
costituzione contengano pur un verso che determini le sue relazioni col
monarca, col parlamento e colla nazione, né tampoco le relazioni dei suoi
membri fra loro e col loro capo. Essa non fu il portato di un’idea preconcetta,
né l’attuazione di un disegno filosofico o di un principio astratto; ma
l’azione lenta di forze invisibili gli diè la struttura che il mondo oggi
ammira. Crebbe senza rumore, e si può dire di essa quel che il poeta (Heber’s
Palestine) dice del tempio di Gerusalemme: - Non risuonarono acciari battuti
dal pesante martello, ma il superbo edificio sorse come una palma
gigantesca"39. Ora questa istituzione mentre dà maggior unità e consenso a
tutti gli atti del governo, per quanto riguarda la questione che trattiamo, ha
reso e tende a rendere più equa e temperata l’azione di ciaschedun ministro, e
ad attutire in esso gli spiriti partigiani che deploriamo40.
Sebbene il Presidente dei ministri sia libero nella scelta dei colleghi che
vuol presentare all’approvazione del Re, pure codesta scelta non dovrebbe che
in rari casi e come per eccezione uscir fuori dai due rami del Parlamento.
Nello spirito della costituzione è ovvio che l’uomo il quale è assunto al
governo abbia avuto occasione di esprimere pubblicamente la propria opinione,
si trovi in grado di difendere non solo ciò che è proprio del suo dicastero ma
anche la politica in generale, infine ch’ei pure eserciti una autorità
acquistata precedentemente sopra i membri del parlamento. Laonde il Presidente
del Consiglio pur cercando uomini esperti delle materie da reggere, dovrà avere
anche di mira l’elemento politico finché questo titolo predomina sovra
l’elemento tecnico. Ora in Italia noi abbiamo veduto avvenire di recente il
contrario, e in cinque anni una diecina di ministri essere inopinatamente
pescati fuori delle acque parlamentari. E perché poi avessero qualche requisito
politico, almeno apparente, si creavano senatori di botto, quasi questo
bastasse ad informare in essi l’arte parlamentare: né ciò era senza scapito del
Senato, prodigandosene il g rado quasi in difetto di ogni altra qualità: certo
non aggiunge prestigio o autorità a colui che di tal grado sia investito
improvvisamente e soltanto per occasione41.
Fu suggerito talvolta l’esempio inglese di die segretari generali di ogni
ministero, l’uno dei quali permanente, ed amministrativo, l’altro, politico e
transitorio insieme col ministro. Questi pubblici ufficiali permanenti (dice il
Wood)42 mantengono tutte le tradizioni dell’ufficio, e sbrigan tutti gli affari
ordinari. Essi porgon consiglio, e sino ad un certo punto mettono freno ai
nuovi ministri, sorti senza sufficiente esperienza; ma siccome d’altra banda la
permanenza in un ufficio tende a cambiar l’usato sentiero in solco, per ciò il
cambiamento del capo, quando è assistito da colui che sta sempre nell’ufficio,
produce utili effetti in ogni parte dell’amministrazione.
Può chiedersi se convenga mantenere presso i principali ministeri un Consiglio,
come dicono, superiore e si è molto disputrato se meglio convenga avere una
responsabilità per così dire accentrata in un solo o divisa in molti. Ma
siccome il Consiglio non è un vincolo assoluto al ministro se non in pochi casi
dalla legge prescritti, e siccome d’altra parte importa mantenere fissità nella
giurisprudenza, e nell’interpretazione delle leggi, uniformità nei contratti, e
nelle concessioni; ed alla compilazione dei regolamenti e dei disegni di legge
non basta l’opera degli impiegati comuni né quella di aiutatori avventizi,
perciò è da riconoscere la necessità e l’utilità di codesti Consigli, dei quali
anzi parmi che si dovrebbe afforzare il prestigio e l’autorità. E l’esperienza dimostra
che sono freno salutare, e quando il ministro ha voluto commettere un arbitrio,
ha dovuto calpestarne gli avvisi, sicché io non esisto punto ad adffermate la
convenienza loro anche a moderare il governo di aprtito, e le sue tendenze
sinistre ad insinuarsi nell’amministrazione e quindi ad esprimere il voto che
non solo si debbano mantenere ma eziandio rinvigorire.
Queste questioni costituzionali hanno moltissimi aspetti, ciascuno dei quali
vorrebbe essere trattato con ampiezza di considerazioni, ma ciò mi distorrebbe
dal mio tema, ed io ne tocco solo in quanto possano indirettamente ad esso
collegarsi. A qual risguardo a me pare che sarebbe anche da rivedere la legge
delle incompatibilità parlamentari. Io dubito forte se il magistrato giudicante
possa in nessun caso attorarsi nei combattimenti della politica. Parmi eziandio
che la presenza nella Camera del Sindaco di un comune o dei membri della
deputazione provinciale, sia cagione prossima a tentazioni. Perché costoro non
possono per così dire far astrazione degli interessi lcoali che rappresentano,
e il ministro concedendo o negando, proferisce loro una troppo grave seduzione
a sacrificare il voto politico allo interesse della città o della provincia
nativa. Sopratutto, notai fra i più gravi danni di alcune provincie che la
deputazione la quale dovrebbe essere intesa unicamente a ben amministrarle
diventa invece centro elettorale, e si fa autrice o complice di politiche
ingerenze. Io credo poi che dannosa e pericolosa sia la frequenza di avvocati
esercenti nelle assemblee deliberanti. Le cagioni son molte e notorie, e dalla
esperienza riconfermate: chi vuol avere contezza dell’azione malaugurata che
hanno gli avvocati nei parlamenti legga il Colletta, il Balbo, il Gioberti43.
Ma considerando la cosa solo nel riguardo di che si tratta, è evidente che la
professione loro li rende inchinevoli a farsi patrocinatori di questo o di
quell’affare. e anche rispetto ai tribunali toccai il danno che dai deputati
oranti nel foro e dagli influssi loro anche involontariamente deriva alla
giustizia. La nostra Camera è composta per un terzo di avvocati, non so se
tutti patrocinanti: certo la massima parte. Ora non sarebbe egli possibile
almeno mettere un limite al numero di essi, provvedendo col sorteggio? come si
fa oggi per le classi dei magistrati, e dei professori quando superano il
numero di dieci, e per tutti glialtri impiegati quando superano il numero di
venti: servolo non m’interno.
Checché ne sia delle incompatibilità parlamentari, un punto gravissimo per
l’avvenire delle istituzioni è questo, che il deputato, mentre nella Camera
dev’essere tutto cioè avere la pienezza della sua rappresentanza e delle sue
prerogative, quando è fuori di parlamento non possegga privilegio sopra alcuno
degli altri cittadini. Io credo cattiva la usanza, e generatrice di vanità e
corruzione, onde il deputato è visitato e careggiato dai prefetti e dagli
impiegati nelle provincie, gli si dà un posto migliore nelle ferrovie, eprsino
leggo che in alcune mostre, come a spettacoli, mentre tutti pagano, egli ha
l’ingresso libero e gratuito. Perché tali favori? Spacciando pretezione e
grandezza si falsa il carattere austero del deputato, e se le due iniziali M.P.
(Member Parliament) sono in Inghilterraun titolo di rispetto personale, non danno
però che io sappia alcun vantaggio materiale, e neppure apparenza di
maggioreggiare. Né saprei lodare le domande che si fanno e si esauriscono
d’inviare deputazioni a qualsivoglia cerimonia abbia un poco d’importanza. Si
innalza un monumento? Si apre una sala? Si accompagna un feretro? Ecco subito
una deputazione del Senato e della Camera la quale è ricevuta con onori reali a
suon di tamburo, come la sovranità sia impersonata in essa, e poi vengono
cerimunie e banchetti e feste d’ogni maniera. Persino le Commissioni che vanno
per inquirente sopra elezioni o sopra qualsiasi altro argomento sono ricevute
dalle autorità, e festeggiate dalle popolazioni, il che farebbe in Inghilterra
la più grande meraviglia. Tutto ciò a me sembra non iscevro da pericolo di guastare
lo spirito delle istituzioni, e di dare al popolo idee false, perché spontaneo
gli nasce il pensiero che presentando le suppliche ai deputati, da costoro
pioveranno le grazie, e assai meno si briga di sapere se facciano o no buone
leggi.
Parecchie modificazioni nel regolamento della Camera tornerebbero utili al fine
che ci proponiamo. Tale sarebbe quella di scemare l’importanza delle Giunte e
massime dei relatori loro. Egli è soprattutto nella Giunta generale del
bilancio che apparvero inconvenienti non lievi. Lasciamo stare che la Giunta
non paga di riferire com’è suo còmpito, vuol ingerirsi talvolta nei modi di
amministrazione, e anche nella politica. Ma ogni ministro sa che il relatore di
un bilancio è un personaggio col quale talvolta bisogna venire a patti. Il
ministro avrà per esempio proposto un aumento di dotazione ad un capitolo del
bilancio perché lo stima necessario al pubblico servizio. Il relatore glielo
nega sotto colore di rigorose economie, ma poi cede pur che si aumenti anche la
dotazione di un altro istituto che interessa la sua provincia. E il ministro
non crede di mancare al suo dovere facendo un atto di favore, perché il
vantaggio del servizio pubblico in generale scusa la propria coscienza. Invero
non sarebbero lecite le conferenze fra i relatori della Giunta e gli impiegati
superiori dei ministeri, ma si tengono. Allo stesso ministro le dimande
dovrebbero essere indirizzate per iscritto a mezzo della presidenza della
camera, chiamandolo dove occorre a dare di persona schiarimenti alla Giunta
plenaria; ma queste buone pratiche a poco a poco vanno in disuso, non già che
manchino le corrispondenze scritte, o le adunanze ove il ministro intervenga,
ma le une e le altre sovente non sono che la forma esteriore di ciò che in
privati colloqui è stato concordato.
E poiché mi è accaduto di aprlare di bilancio, un punto importante sarebbe di
sottrarre alla discussione annua quella parte delle spese pubbliche che nasce
da leggi in atto, le quali non si tratta in quel momento di mutare. Così gli inglesi
non ritornano mai, come noi facciamo, a rimettere in discussione tutta quella
parte di bilancio che si chiama intangibile, ma discutono soltanto qualla parte
che ha bisogno di speciale legge, o stanziamento che si rinnuova ogni anno. Né
certamente il bilancio è appo loro una specie di tessera per introdursi a
parlare di tutte le cose possibili, posto che ogni cosa ha una relazione più o
meno remota con esso; ma il dibattito vien sobriamente mantenuto nei limiti
richiesti dalla ragione o dalla opportunità.
Finalmente un altro punto che a prima giunta non pare aver diretto rapporto
coll’argomento che trattiamo, e pure ne ha moltissimo, è la frequenza delle
crisi ministeriali, e il nascer loro all’oscuro, sovra incidenti, non sopra
questioni vitali. Si comprende che quanfo vi ha una grande questione di essa
possa avere un significato di fiducia o di sfiducia in quanto che anticipa il
giudizio della Camera44, ma in generale questo porre le questioni di fiducia in
un episodio insignificante, o peggio ritirarsi senza discussione, o peggio
ancora serbar dopo il silenzio intorno alle cagioni della crisi, e al programma
del nuovo ministero, tutto ciò corrompe le vitali sorgenti della vita
costituzionale. Ben a ragione Guglielmo Pitt alla Camera, che gli era ostile,
domandava un fair play cioè una solenne occasione di dibattito prima di
rassegnare l’ufficio. Procedendo diversamente si formano nell’ombra accolte
d’uomini che pensano diversamente fra loro, ma che per rancori o cupidigia di
potere son pronti a trovarsi d’accordo anche cogli avversari, pur di nmegare al
Gabinetto le forze della sussistenza. Ma questo punto vorrebbe essere svolto
ampiamente, e richiederebbe per se solo un libro: imperocché è uno dei più
sostanziali per l’esercizio regolare della costituzione.
Io ho toccato a tanti e sì vari oggetti al solo intento di mostrare che, se
ogni potestà costituzionale adempiesse attivamente gli uffici propri, se il
Gabinetto serbasse quell’unità che gli è congenita sotto la vigilanza del suo
capo, se non cedesse che a sfiducia espressa in questioni vitali, se i Consigli
superiori che assistono il ministro fossero resi più forti e più liberi nel
senso stesso di ogni dicastero, se si introducesse un segretario generale
permanente e che mantenga le tradizioni dell’amministrazione centrale, se le
incompatibilità fossero meglio regolate, se il bilancio in alcune parti
sostanziali fosse sottratto alle disputazioni annue, se il regolamento della
Camera fosse migliorato, se la posizione del deputato altissima nell’assemblea
legislativa perdesse ogni trattativa fuori di essa; se insomma la costituzione
dello Stato fosse praticata più secondo gli abusi onde abbiamo parlato. Ma di
questo genere (di) rimedi al tutto indiretti sarebbe il numero grandissimo, e
si troverebbe in ogni ordine di fatti pubblici. Ed a me par tempo di finire.
Dissi già nella prefazione che l’accusa mossami di avere in un discorso tenuto
a Napoli offeso le prerogative del Parlamento, m’indusse a pigliar la penna. Ma
dalle considerazioni sul caso particolare fui naturalmente condotto a meditare
sopra i modi onde le istituzioni parlamentari si svolgono, e mi apparvero in
tutta la gravità loro taluni problemi, che sinora gli scrittori più sommi di
diritto costituzionale o hanno trascurato, o appena accennarono non dando ad
essi la debita importanza. Imperocché l’ordinamento del governo, la maniera
delle elezioni, le guarentigie della rappresentanza non sono al certo
l’obbietti precipuo al quale mira il cittadino. Il quale vuole godere la
massima libertà personale che sia compatibile colla sicurezza sociale, vuole
che la giustizia sia fatta sempre e imparzialmente, vuole che l’amministrazione
sia condotta con facilità, speditezza, e regolarità e col rispetto del diritto
di tutti. E’ questo, secondo la frase moderna, il contenuto vero e sostanziale
delle istituzioni politiche, le quali perciò si riguardano piuttosto come mezzi
al fine di assicurare siffatti beneficii al cittadino. Ciò posto, la ragione e
la esperienza dimostrano che il governo parlamentare è un governo di partito, e
come tale ha la tendenza a favoreggiare gli amici, e ad opprimere gli
avversari, e quindi s’ingerisce indebitamente nella giustizia e
nell’amministrazione, e ne perturba l’andamento, e ne guasta gli effetti
salutari. Di tal guisa la forma distrugge la sostanza, e i mezzi tanto tantati
a guarentigia. Si trovano essere i contraddizione col fine. Ora se questi fatti
fossero inevitabili, bisognerebbe concluderne che il governo parlamentare poco
s’addice a più matura civiltà. Io son lungi dal pronunziare siffatta sentenza,
anzi mi sforzai di delineare alcuni rimedi che mi parrebbero convenienti a
prevenire il male o a ripararlo; ma non dubito di affermare che il problema
proposto affaticherà ancora lungamente le menti degli studiosi. Io sarò pago di
averli chiamato a meditare intorno a siffatto tema, e di avere lumeraggiato
taluno dei suoi aspetti più di nota. Ma ciò che mi pare indubitabile si è
questa conclusione: che la durata e la efficacia del sistema parlamentare
dipenderanno molto dal suo collegamento con ordini tali, i quali salvino la
giustizia e l’amministrazione dalla ingerenza dei partiti politici.
Teledemocrazia: sudditi o cittadini ?
Piccola antologia del pensiero liberale
Società Libera e i poteri neutri
La libertà dei moderni tra liberalismo e democrazia