NON POSSIAMO PERMETTERCI SPRECHI DI PENSIERO

 

 

 

RECUPERIAMO MARCO MINGHETTI

 

Aprile 2013



INDICE

BIOGRAFIA   ………………………………………………………………………………………..3

 

Marco Minghetti e le sue opere. 5

Introduzione. 5

un liberale dimenticato ** 6

un liberale bolognese dal respiro europeo. 25

il liberalismo italiano tra scienza e politica. 27

I "limiti razionali" dell'economia politica. 31

Libera Chiesa in libero Stato. 38

Alle origini della partitocrazia. 45

 

MARCO MINGHETTI: I PARTITI POLITICI E LA LORO INGERENZA NELLA GIUSTIZIA E NELL'AMMINISTRAZIONE. 55

PREFAZIONE. 55

DEL GOVERNO PARLAMENTARE COME GOVERNO DI PARTITO DEI PREGI E DEI DIFETTI CHE GLI SONO INERENTI 60

DI ALTRI MALI CONSEGUENTI DAL GOVERNO DI PARTITO. SUE INDEBITE INGERENZE NELLA GIUSTIZIA E NELL’AMMINISTRAZIONE. 69

SE SIA POSSIBILE UN GOVERNO PARLAMENTARE SENZA PARTITI 105

DEI RIMEDI 120

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MARCO MINGHETTI - DELLA ECONOMIA PUBBLICA E DELLA SUA ATTINENZA COLLA MORALE E COL DIRITTO

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Teledemocrazia: sudditi o cittadini ?

Piccola antologia del pensiero liberale

Società Libera e i poteri neutri

La libertà dei moderni tra liberalismo e democrazia

 

 


BIOGRAFIA

Marco Minghetti

1818 - Nasce a Bologna l’8 novembre, in un’agiata famiglia di proprietari terrieri, da Giuseppe e Rosa Sarti. La madre appartiene a una famiglia borghese di sentimenti liberali.

1828/1832 - con la morte del padre l’influsso della madre sulla sua formazione si fa più esclusivo. Studia privatamente sotto la direzione del barnabita di idee liberali Ugo Bassi.

1832/1845 - Inizia una lunga serie di viaggi all’estero che costituiscono la sua vera formazione culturale (Parigi, Londra, Svizzera, Germania, Belgio, Olanda e infine di nuovo Francia e Inghilterra). Nel frattempo stringe rapporti con ambienti liberali, sia in Italia che all’estero.

1847/1849 - Sono gli anni del suo ingresso nella vita pubblica. Nel 1847 è nominato membro della consulta di Stato; nel ‘48 è per poche settimane ministro dei Lavori Pubblici dello Stato Pontificio. Eletto deputato, si dimette senza esitazione, perché non approva lo scarso zelo con cui si conducono le indagini sulla morte di Pellegrino Rossi. Rinuncia a presentare la propria candidatura alla Costituente Romana.

1850/1856 - Abbandona temporaneamente l’attività politica ritirandosi in campagna. Riprende i suoi viaggi all’estero.

1859 - Scrive Della economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto, frutto dei suoi studi giovanili.

1860 - E’ eletto deputato, carica che conserverà fino alla morte, dalla VII alla XVI legislatura. Il 1° novembre è nominato ministro degli Interni nel gabinetto Cavour, carica che conserverà anche nel successivo ministero Ricasoli.

1862 - E’ nominato ministro delle Finanze nel gabinetto Farini.

1863/1864 - Dal 24 marzo 1863 al 24 settembre 1864 è presidente del Consiglio, conservando però al tempo stesso il portafoglio delle Finanze.

1869 - Torna al governo come ministro dell’Agricoltura, industria e commercio nel gabinetto Menabrea.

1873/1876 - E’ di nuovo presidente del Consiglio, conservando sempre il ministero delle Finanze. La sua ambizione è di aver raggiunto il pareggio di bilancio dello Stato. Con la caduta del suo governo, cade anche la Destra storica, ma l’attività politica di Minghetti continuerà sino alla fine dai banchi dell’opposizione.

1881 - Scrive I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione.

1886 - Si spegne a Roma il 10 dicembre, dopo aver tenuto a Torino un memorabile discorso su Cavour, il suo vero maestro.

 



 

Marco Minghetti e le sue opere

Introduzione

Non è certamente casuale che Società Libera, in occasione dell'edizione bolognese della nostra mostra sul liberalismo, abbia voluto ricordare con un Convegno la figura e l'opera di Marco Minghetti.
Certamente siamo stati influenzati dall'origine bolognese dello statista e dalla coincidenza che Nicola Matteucci, appassionato estimatore di Minghetti, presiede il nostro Comitato Scientifico.
Ma, ancor più determinante, è stata la profonda convinzione che il messaggio di uno studioso, di un uomo politico a cent'anni dalla morte conservi una sorprendente attualità rispetto a usi e costumi della nostra convivenza civile.
Il liberalismo di Minghetti non è gridato, vola alto con una concezione della libertà pregna di responsabilità ed etica individuale. E' il liberalismo dell'equilibrio e delle regole, la cui rilettura ci aiuta, anche oggi, a comprendere meglio l'annoso dibattito sul ruolo e le funzioni dello Stato.
E' la stessa concezione del liberalismo a cui, come Società Libera, guardiamo, convinti che vi debba essere sempre meno spazio per utilitarismi e concezioni corporative della società. L'omaggio che abbiamo voluto riservare a Minghetti, anche con la pubblicazione di questi atti, voglio qui ricordarlo, trova nell'istituzione del premio annuale, istituito da Società Libera e a lui dedicato, una continuità d'attenzione che come liberali noi tutti gli dobbiamo.

Vincenzo Olita

Milano, marzo 2001


 

Marco Minghetti, un liberale dimenticato **

Nicola Matteucci*

1. Un pensatore dimenticato

Il bolognese Marco Minghetti fu deputato al Parlamento italiano dal 1860, il primo dopo l'Unità, al 1886, l'anno della sua morte, nonché più volte ministro e due volte presidente del Consiglio, dal 24 marzo 1863 al 28 settembre 1864 e dal 10 luglio 1873 al 18 marzo 1876. In questi ventisei anni di impegno nella lotta politica il Minghetti scrisse anche tre grandi opere, che ormai la memoria storica ha, in larga misura, dimenticato: Dell'economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto (1859), Stato e Chiesa (1878) e, infine, I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione (1881); e soltanto di quest'ultima opera si conserva il ricordo1.
Una rapida scorsa alla bibliografia degli studi su Minghetti mostra quanto essa sia povera: non certo nella qualità ma nella quantità degli scritti, dovuti in gran parte a bolognesi2, che hanno avuto il grande merito di custodire il ricordo di una personalità d'eccezione, mostrandone il ruolo in momenti decisivi nella storia del nostro paese. La sola monografia su Minghetti, purtroppo non portata a termine, resta quella di una nostra concittadina, Lilla Lipparini3. Eppure Benedetto Croce, nella sua Storia d'Italia, parlando della Destra storica che aveva governato l'Italia dalla morte di Cavour all'avvento della Sinistra, aveva ripetutamente sottolineato il ruolo di Marco Minghetti: assieme al Ricasoli, al Lamarmora, al Lanza, al Sella e allo Spaventa, egli fece parte di "una aristocrazia spirituale, gentiluomini e galan-tuomini di piena lealtà", che "di rado un popolo ebbe a capo della cosa pubblica"4. Il giudizio di Federico Chabod, nelle sue famose Premesse alla Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, è ancora più netto: l'intelligente e colto Minghetti, l'uomo delle amicizie europee" appare ormai come "la principale figura della parte moderata"5. 
Solo in tempi abbastanza recenti l'attenzione si è di nuovo rivolta al Minghetti da parte di una generazione che è meno interessata alla storia politica e più sensibile alla storia delle istituzioni e a quella dei partiti, alla storia amministrativa e a quella delle finanze, anche se non sempre si è sottolineata la stretta connessione tra l'uomo politico e il pensatore politico, che fa di Minghetti un personaggio quasi unico.
Croce non ricorda le opere del Minghetti, Federico Chabod le dissolve nel suo grande affresco di storia delle idee. Una sfortuna ancor maggiore ha incontrato Marco Minghetti con gli storici del pensiero politico. Guido De Ruggiero, nella sua Storia del Liberalismo europeo, doverosamente cita soltanto due sue opere, ma non lo ritiene un vero pensatore politico, perché lontano dalla filosofia6, mentre la testa forte della Destra sarebbe soltanto Silvio (o al più Bertrando) Spaventa. Luigi Salvatorelli, nel suo saggio dal titolo Il pensiero politico italiano dal 1700 al 18707, non ricorda neppure di sfuggita il Minghetti. Ancora: nella collana degli "Scrittori politici italiani", edita a Bologna e diretta da Felice Battaglia, il nome di Minghetti non appare, quasi che le sue opere sfigurassero accanto a quelle dei Turiello, dei De Sanctis, dei De Meis e dei Fiorentino. La sola eccezione è rappresentata da Arturo Carlo Jemolo: nella sua famosa opera Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, la figura di Marco Minghetti, con la sua ragionata tesi separatista, è messa in primo piano. Non solo: per lo Jemolo nei sei "no" al Senato all'approvazione del Concordato è presente la non morta fede nei valori del Risorgimento, nei valori che furono di Cavour e di Minghetti8.
Questo silenzio sul pensatore Minghetti, anche da parte di coloro che sono alla "ricerca di un'Italia liberale", stupisce davvero: eppure Dell'economia pubblica ha avuto in Italia tre edizioni e una traduzione in Francia; Stato e Chiesa due edizioni in Italia e due traduzioni, una in tedesco ed una in francese; I partiti politici quattro edizioni in Italia ed una parziale traduzione in tedesco. L'opera di Minghetti ha goduto all'estero di una larga accoglienza e di un'ampia discussione, sia per le tematiche affrontate, sia per il metodo seguito, sia per le soluzioni indicate: è, quindi, un pensatore dalle larghe risonanze europee9.
Oggi gli scritti del Minghetti hanno una scarsa circolazione; e dire che la sua pagina è semplice, ma non disadorna, elegante, ma non preziosa, senza cedimenti letterari, di un'altissima leggibilità senza scadere nel superficiale: nel suo stile c'è un classicismo reso essenziale e moderno da un gusto argomentativo e didascalico, che mette a frutto la lezione galileiana e manzoniana del "fare bene i conti" con i fatti, con la diligenza signorile, ma attenta, dell'"osservatore" spregiudicato del reale.
In Italia è, però, rintracciabile una presenza di Marco Minghetti più segreta e più nascosta: non nel campo della filosofia o del pensiero politico, bensì in quello delle nascenti scienze sociali. Infatti Vittorio Emanuele Orlando, il fondatore della scuola italiana del diritto pubblico, vede in Minghetti uno dei suoi maestri, mentre è sempre al Minghetti che esplicitamente desiderano riallacciarsi economisti come Luigi Luzzatti, Giuseppe Ricca-Salerno e Fedele Lampertico10. Anche Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto ricordano il Minghetti come un maestro, come un uomo di "non comune ingegno"11. Infine la più importante iniziativa editoriale sorta in Italia per introdurre le scienze politiche, amministrative e sociali, quella del Brunialti, ha come punto di riferimento il Minghetti, che era stato anche un sostenitore di una Facoltà universitaria di scienze, appunto, politiche, amministrative e sociali. Ma solo oggi si comincia a prendere coscienza di questa storia più segreta della fortuna del Minghetti. Gli economisti più ortodossamente liberisti - come Francesco Ferrara - non condivisero, tuttavia, la politica economica disponibile all'interventismo statale del Minghetti, come certamente Minghetti non si sarebbe riconosciuto nel freddo realismo di Mosca e Pareto: nei due casi erano in gioco i valori politici. Ridurre, però, il Minghetti a mero precursore delle scienze politiche, amministrative e sociali rischia di mettere in ombra il nucleo filosofico del suo pensiero politico.
Marco Minghetti uomo politico, ma anche pensatore politico di portata europea: solo strappando Minghetti alla storia patria o alla storia del Risorgimento si può rendergli debita giustizia. Infatti, nella seconda metà dell'Ottocento, l'Italia venne investita, come le altre nazioni europee, da profonde trasformazioni sociali, amministrative e istituzionali, che solo una storia comparata può meglio chiarire. Solo la coscienza storica di questi grandi processi in corso può farci penetrare meglio nel pensiero di Marco Minghetti, che è un pensatore europeo, da non comprimere in una presunta autoctona tradizione politica italiana.
In Marco Minghetti il momento del pensiero - o della riflessione teorica - e quello dell'azione politica sono strettamente connessi: sono proprio i problemi della pratica a spingerlo alla riflessione teorica, come questa, una volta fissati i principi, resta la costante ispirazione dell'azione, pur con quella indispensabile duttilità, così necessaria al politico che deve fare i conti con la realtà. Il più bell'elogio di questa interna coerenza tra il pensiero e l'azione è stato dato da uno studioso straniero, quando colse il filo conduttore, che unifica in Minghetti il pensatore e l'uomo politico, nell'esigenza di salvaguardare la libertà, mentre gli uomini di Stato - generalmente - pensano soltanto a rafforzare il proprio potere12.
Più modestamente il Minghetti definì i suoi scritti negotia in otio, ossia un momento di riflessione nelle pause della febbrile attività politica. Giova soffermarsi un momento sulle date in cui queste opere sono state pubblicate: Della economia pubb1ica e delle sue attinenze colla morale e col diritto fu pubblicato nel 1859, prima del suo pieno ingresso nella vita politica, nella quale appunto dovette mediare politicamente tra le ragioni dell'economia e quelle dell'etica: gli ultimi scritti sulla Legislazione sociale (1882) e sul Cittadino e lo Stato (1885) rispondono alla stessa iniziale impostazione teorica del problema, anche se risentono della diversa situazione costituzionale e sociale. Stato e Chiesa è pubblicato nel 1878 dopo la caduta della Destra, ma soprattutto dopo il Sillabo (1864), che aveva approfondito il fossato tra lo Stato liberale e la Chiesa cattolica: esso riprendeva i temi di scritti giovanili, come le lettere sulla Libertà religiosa (1855). Infine, il saggio in Italia assai più noto - quello su I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione - fu pubblicato nel 1881, nell'età del trasformismo di Agostino Depretis, quel trasformismo che il Minghetti non certo osteggiò frontalmente, come altri esponenti della Destra storica, ed anzi giustificò sul piano teorico, ma di cui riconobbe, con realistica lucidità, i pericoli che potevano derivarne per quell'idea di governo rappresentativo che lo aveva sempre animato: quel governo rappresentativo, la cui peculiare natura viene in quest'opera felicemente individuata.
Se il pensiero politico di Minghetti è così strettamente legato alla sua esperienza di uomo, bisognerà cogliere nella sua formazione e nella sua vita politica gli elementi salienti, che costituiscono il nucleo duro del suo pensiero, o - in altri termini - il formarsi delle grandi "idee madri" della sua riflessione teorica.
Pertanto questi accenni, solo apparentemente biografici, cercano di individuare le concrete esperienze esperite e vissute, che sono alla radice del suo pensiero politico.

2. Fra viaggi e letture

Sin dalle primissime battute dei suoi Ricordi13, Marco Minghetti, pur così riluttante ad indugiare sulla sua vita privata, rammenta le sue origini contadine: gli avi erano coltivatori diretti di un piccolo fondo. La fortuna la fece il nonno con il commercio in età napoleonica, per cui egli si trovò proprietario di circa 1.600 ettari. Non nobile, apparteneva alla classe - come veniva definita allora - "mezzana"; ma fossero aristocratici come Cavour o Bettino Ricasoli, o borghesi come Minghetti, Raffaello Lambruschini o Stefano Jacini, la Destra storica aveva le sue radici nella terra e nei suoi valori: i suoi esponenti erano sostanzialmente uomini di campagna e non di città. Nel dirigere personalmente le loro proprietà erano abituati ad una vita operosa e parsimoniosa, favorevole agli onesti agi, ma lontana dal lusso, attenti al problema dell'amministrazione e del bilancio, estremamente prudenti verso ogni forma di rischio, legati alle cose concrete, con un forte senso pratico e con i piedi radicati sulla terra. La vita in campagna era, per Minghetti, insieme "sana e savia"l4. Questo dovrebbe far riflettere: il liberalismo matura in Italia in ceti agrari (nobili e non), impegnati nella modernizzazione dell'agricoltura, e in ambienti intellettuali, e non è certo l'espressione immediata del capitalismo.
L'orizzonte di Marco Minghetti non si fermava però ai confini della sua proprietà. Proprio perché impegnato nel miglioramento agricolo dei suoi poderi, coltivando prodotti per l'industria quali la canapa e il baco da seta, egli si impegnò personalmente nel processo di industrializzazione del bolognese, sempre attento a tutte le invenzioni e innovazioni tecnologiche. Minghetti non fu un avversario dichiarato della rivoluzione industriale, come gran parte dei ceti agrari: egli avvertì che il processo era inarrestabile, anche se era destinato a porre nuovi gravi problemi sociali. Avrebbe voluto soltanto uno sviluppo equilibrato tra industria e agricoltura.
C'era poi in Minghetti - fortissima - la consapevolezza che, per ogni politica di modernizzazione, era necessario far crescere le infrastrutture della società civile, affidandosi non tanto allo Stato, ma a libere associazioni o a consorzi. Per questo divenne il protagonista della Società agraria di Bologna, nella quale introdusse la discussione di temi economici e sociali; per questo impartì privatamente lezioni di economia politica e progettò asili nido; per questo partecipò alla fondazione della Cassa di Risparmio per i meno abbienti: come scriverà più tardi, era impensabile un allargamento del suffragio senza una crescita della società civile, con banche popolari, società di mutuo soccorso, cooperative. L'impegno di Minghetti si muove su questo piano, quello della massima utilizzazione dello strumento dell'associazione nella società civile. Quando la politica comincia a bussare alle porte, diventa direttore del "Felsineo", un giornale locale di ispirazione latamente liberale.
In campagna c'è una vita "sana e savia": ma, per appartenere al mondo dei savi, bisogna anche conoscere. La formazione intellettuale di Minghetti alterna lunghi viaggi e disordinate letture. In cinque viaggi percorre tutta 1'Europa, dalla Francia all'Inghilterra, dalla Germania all'Irlanda, dalla Svizzera al Belgio e all'Olanda. Non sono viaggi di diverti-mento; e l'unica distrazione, per lui così amante dell'arte, è la conoscenza dei tesori artistici degli altri paesi. Si impratichisce delle lingue per poter parlare o leggere il francese, l'inglese e il tedesco; frequenta corsi alla Sorbona o al Collegio di Francia; conosce personalmente i principali uomini politici e i più noti dotti del tempo. Ma la sua attenta curiosità è sempre rivolta alle realtà economiche e sociali degli altri paesi: sin da fanciullo, in Inghilterra, aveva visto la prima ferrovia e la prima prova di telegrafia elettrica, che gli diedero la sensazione che il mondo stava entrando in un'età di rapida ed accelerata trasformazione. 
Poi le lunghe pause dedicate alla lettura: ricostruire l'itinerario della sua formazione intellettuale nei suoi ritmi cro-nologici è ancora impossibile. Più facile è tracciare un qua-dro del mondo culturale con cui fu in contatto, non limitandosi ai Ricordi o alle citazioni contenute nelle sue grandi opere: bisognerebbe esplorare sistematicamente i suoi manoscritti, contenuti nei cartoni depositati all'Archiginnasio, esaminare la sua Biblioteca e, infine, seguire il suo epistolario, che, già in parte ordinato e inventariato, meriterebbe di essere finalmente pubblicato. L'immagine di Marco Minghetti uomo europeo troverebbe così una facile conferma.
Dovendo parlare del suo pensiero politico, ci limiteremo a ricordare alcuni nomi di pensatori stranieri, per sottolineare ancora una volta la cultura europea del Minghetti. Ma non possiamo passare sotto silenzio la forte influenza, che ebbe su di lui il cattolicesimo liberale di Antonio Rosmini: non solo lo liberò dal giovanile sensismo, ma influenzò in parte il suo pensiero politico con la rivalutazione dell'individuo-persona e con l'avversione verso il socialismo e il comunismo, anche se non restano tracce in lui della teodicea sociale rosminiana15. Anche verso il "politico" Vincenzo Gioberti il Minghetti riconosce un particolare debito; ma stupisce - o forse non stupisce - che egli non citi mai Carlo Cattaneo. Nella generazione precedente il pensiero del Minghetti si riallaccia a quello di Giandomenico Romagnosi con la sua elaborazione di una filosofia civile, capace di equilibrare ed armonizzare le antitesi, ma non bisogna esagerare su questa influenza. Delle sue letture, oltre ai classici (Platone e Aristotele, Machiavelli e Guicciardini), ricorderemo soltanto, tra gli inglesi, Adam Smith e David Ricardo, Edmund Burke e John Stuart Mill: fra i francesi, Benjamin Constant, Francois Guizot e Alexis de Tocqueville; fra i tedeschi, Karl Wilhelm von Humboldt e Rudolf von Gneist; fra gli svizzeri Simonde de Sismondi e Johann Kaspar Bluntschli. Sino al grande tornante storico, rappresentato per il nostro paese dagli anni 1859-1860, Marco Minghetti non ha mostrato una grande passione o una prepotente vocazione per la politica. Parlando di se stesso, ironicamente un giorno affermò di voler far scrivere sulla sua tomba "nacque per essere conservatore e fu condannato ad essere rivoluzionario"16: rivoluzionario, certo, solo per prevenire l'anarchia e il disordine, la demagogia e la violenza della "plebe". Egli non fu certo un profeta o un protagonista del Risorgimento, e in politica confessò di aver sempre preferito un ruolo non di primo piano. Rispetto all'audacia di un Cavour appare un uomo "respettivo", ma fortissimo fu in lui il senso di appartenenza a una classe politica "eletta", con una ben precisa missione da compiere, anche se essa nel paese era una minoranza.
Nato nel 1818 da famiglia di sentimenti liberali (lo zio Pio Sarti fu dopo il 1830 esule a Parigi), educato alle idee liberali dal barnabita Ugo Bassi, Minghetti non rimase certo estraneo alle passioni del suo tempo e nei suoi lunghi viaggi frequentò gli ambienti dell'emigrazione. Due incontri sono da ricordare: nel 1845 conobbe a Londra Giuseppe Mazzini ed ebbe con lui diversi colloqui, nei quali discusse a lungo la soluzione rivoluzionaria, che non riteneva realistica. Più proficuo fu l'incontro, avvenuto pochi mesi prima, con il bolo-gnese Pellegrino Rossi, di cui seguì un corso al Collegio di Francia: non dobbiamo dimenticare che il Rossi fu autore di numerose opere di economia e di diritto, un tempo famose, sebbene oramai dimenticate. Accettò, così, di divenire, per poche settimane (10 marzo-1° maggio 1848), ministro dei Lavori pubblici dello Stato pontificio, dimettendosi poi per militare nelle file dell'esercito sardo alla guerra contro l'Austria, partecipando alle battaglie di Goito e di Custoza. Dopo l'assassinio di Pellegrino Rossi si dimise pubblicamente da deputato, a causa dell'inerzia del governo nel ricercare gli autori del delitto. Con il fallimento del progetto neoguelfo egli non aderì alla Costituente romana del Mazzini, ma combatté anche contro una mera restaurazione del governo pontificio. Senza saperlo, si muoveva sulla stessa linea del ministro degli Esteri della Repubblica francese, Alexis de Tocqueville, uno dei suoi autori prediletti. Questa rimase, però, una breve parentesi politica, nella quale il Minghetti non lasciò alcuna vera impronta: forse perché aveva solo trent'anni, o forse perché non condivise sino in fondo il sogno neo-guelfo, come, invece, condividerà fra poco la scelta piemontese, seguendo - in questo - il Gioberti del Rinnovamento.
L'incontro politico decisivo fu quello con il conte di Cavour: lo conosce nel 1851, a lungo discute con lui nel 1854 l'intervento del Piemonte in Crimea, nel 1856 gli porta a Parigi un memorandum sulle condizioni dello Stato pontificio: diventa, così, l'accreditato portavoce delle Romagne presso il governo piemontese e, alla vigilia della Seconda Guerra d'Indipendenza, diventa segretario generale del ministero degli Affari esteri del Piemonte. Il primo novembre 1860 è ministro degli Interni del governo Cavour, il primo che si era insediato dopo l'unità d'Italia.
Col Cavour, più anziano di lui di otto anni, il Minghetti scoprì di avere una profonda affinità intellettuale e morale: li univano i comuni studi di economia e di agricoltura, la passione per la discussione delle idee, la fede nel governo parlamentare e, infine, la comune convinzione che la soluzione del problema italiano si giocava essenzialmente sull'azione diplomatica (piemontese) presso le corti europee e non passava certo attraverso le sette e le rivoluzioni. Poco prima di morire il Minghetti commemorò a Torino l'anniversario della morte del grande Conte: parole commosse, anche se equilibrate e sorvegliate, nelle quali tuttavia traspare, assieme all'ammirazione per l'audacia del suo maestro, la consapevolezza che negli anni 1859-1860 tutto era accaduto troppo in fretta: il ceto moderato, che aveva subito l'egemonia del Cavour, si sentiva preparato a governare uno Stato nell'Italia settentrionale, magari con le Romagne e anche la Toscana, ma poi la spedizione dei Mille e la conquista regia avevano reso più arduo ed estremamente difficile il compito di governare l'Italia unita. E il grande Conte era morto improvvisamente il 6 giugno 1861.

3. L'avventura politica

Iniziò così l'attività politica di Marco Minghetti. La Destra storica governò per quindici anni dalla morte di Cavour (6 giugno 1861) all'avvento della Sinistra (marzo 1876): fu questo un periodo di grande instabilità governativa, dato che si avvicendarono ben tredici governi, la cui durata, nel maggiore dei casi, non arrivò ad un anno. Sole eccezioni il governo Lanza e i due ministeri Minghetti, soprattutto il secondo, che precedette l'awento della Sinistra.
Minghetti fu più volte ministro, anche nei governi che presiedeva. E interessante notare le sue opzioni: una (o due volte, se consideriamo il ministero Cavour) ministro degli Interni, tre volte alle Finanze (da ricordare i suoi importanti scritti in materia finanziaria), una alla Agricoltura, industria e commercio (da ricordare la promozione delle due famose inchieste, industriale e agraria). Come presidente del Consiglio ebbe al suo fianco, agli Esteri, Emilio Visconti Venosta, il grande stratega della diplomazia italiana, che molti considerano il suo allievo.
Queste scelte fanno pensare: Minghetti sembra preferire dicasteri allora considerati non politici, nei quali più forte era l'impatto amministrativo, anche se le grandi scelte a monte restavano politiche. Si tratta di una chiara scelta politica: per consolidare l'unità italiana, dopo la politica estera, il problema centrale era - come egli ripetutamente ribadì - la "questione amministrativa": nel gennaio del 1860 Minghetti si dichiarò ottimista per le prospettive politiche, decisamente pessimista per il procedere amministrativo17. L'ultimo suo governo, che non poggiava su una solida base parlamentare, fu essenzialmente un governo di tecnici, che egli definì una working majority, disposta ad accettare voti dalla Sinistra storica. Minghetti fu, così, uno dei pochissimi uomini, che ebbe - altissimo - il senso dell'amministrazione, della sua autonomia dal politico e della sua importanza nel funzionamento di uno Stato, che voglia essere libero: un'amministrazione oggettiva e neutrale, tecnica, che consenta però alla politica di poggiare su solide basi.
Minghetti si alternò alle Finanze con Quintino Sella: con orgoglio proclamò, nel suo ultimo governo, di avere finalmente raggiunto il pareggio, convinto di avere con questo risolto un grande problema politico, perché, con un bilancio dissestato, si aprono le porte alle "rivoluzioni col codazzo dell'anarchia e del dispotismo"18. Minghetti volle mettere ordine in casa ed affrontare i nuovi problemi, che la trasformazione economico-sociale imponeva: si trattasse del riscatto dei privati delle ferrovie o di promuovere misure di legislazione sociale a favore dei bambini e delle donne, tutte queste erano, per Minghetti, decisioni amministrative, che rispondevano all'esigenza di una "casa" ben ordinata e non a principi ideologici o filosofici.
A questo senso dell'amministrazione rispondevano anche i progetti che Minghetti presentò, come ministro degli Interni, nel 1860-61 sulle autonomie locali e non al fine di un mero decentramento burocratico. Essi prevedevano un sindaco elettivo, l'erezione della Provincia - vero centro del sistema - ad ente autonomo dotato di proprie competenze, l'elettorato attivo anche per gli analfabeti che pagassero imposte dirette, e, infine, i Consorzi di Province (che sono una cosa ben diversa dal regionalismo e dal federalismo), anch'essi dotati di proprie competenze19. Fedele alla lezione di Alexis de Tocqueville, il Minghetti riteneva, come il Cavour, che le autonomie locali fossero la prima palestra della libertà politica; ma nell'ottobre 1861 venne sconfitto con i decreti accentratori emanati dal governo Ricasoli. Eguale sorte era già toccata ad Alexis de Tocqueville, nel 1848, nella Commissione incaricata di stendere una nuova Costituzione per la Francia.
Fortissimo senso dell'amministrazione, dunque, ma anche grandissima sensibilità nel cogliere il mutarsi degli equilibri politici e nel trovare un nuovo punto di equilibrio. L'anglofilo Minghetti, con il suo ultimo governo, mostrò di non credere più all'ortodossia del bipartitismo, cercando un sostegno nella Sinistra storica: aprì così la strada al trasformismo di Agostino Depretis, di cui - diversamente da molti dei suoi vecchi amici - fu un sostenitore, con argomentazioni teoriche sotto l'influsso del Bluntschli. Nel linguaggio politico "trasformismo" resta ancora una brutta parola, nonostante che Benedetto Croce20 e Federico Chabod21, ed anche Adolfo Omodeo22 e Rosario Romeo23, ne abbiano mo-strato la storica necessità per l'equilibrio del sistema politico italiano. Le differenze tra la Destra e la Sinistra si erano venute in quel quindicennio attenuando e sfumando, mentre alle due estreme si erano venute formando e coagulando due nuove opposizioni, in gran parte estranee (ad eccezione dei repubblicani) al moto risorgimentale il sistema politico presentava così tendenze alla polarizzazione. Contro l'astratta e dottrinaria teoria del bipartitismo il politico Minghetti giustamente vedeva come, in Italia, la migliore attuazione del regime parlamentare passasse, invece, attraverso un partito di centro o di centro-sinistro (come si diceva allora): dal connubio di Cavour, al trasformismo di Depretis alle mediazioni di Giolitti.
Riassumendo e concludendo questi accenni ai momenti salienti della biografia di Marco Minghetti, conviene sottolineare tre momenti: la consapevolezza che la società è uno spazio positivo per l'operosità umana e per l'azione sociale, il cui dinamismo è una ricchezza per la comunità tutta, che non può far dipendere le sue sorti solo dal governo; la scoperta che, per ben governare, è indispensabile una razionale ed efficiente amministrazione, astretta ai nuovi principi dello Stato di diritto. La tradizione inglese del self-government, che non poteva non far breccia sul ceto terriero cui il Minghetti apparteneva, aveva il suo apice nel governo rappresentativo; ma in Minghetti questa tradizione si sposava - per necessità storiche - con la tradizione continentale dello Stato amministrativo, che si voleva imparziale e neutrale nei confronti del cittadino. Al di sopra il politico, che deve favorire l'autonomia della società civile e dare impulso alla macchina amministrativa.
Sul Minghetti uomo politico abbiamo, infine, opposte versioni: c'è chi lo descrive cauto, prudente, attento a ponderare le opposte tesi sino al punto di mostrare poca decisione e scarsa mancanza di energia24, per timidezza d'animo o per la natura problematica della sua mente; c'è, invece, chi coglie il nocciolo duro del suo carattere, scoprendo, al momento della decisione, "una mano di ferro sotto il guanto di velluto"25. Ma in realtà, forse, i due giudizi non sono inconciliabili, dato che, nel momento della deliberazione, Marco Minghetti amava - per un'attitudine congenita alla sua mente - ponderare tutti i dati, mentre, una volta presa una decisione, era difficile farlo recedere: infatti, detestando la vanità, che per lui era un grande peccato in politica, non cercò mai la popolarità o un facile protagonismo.

4. Il progetto di un ordine politico liberale

Sullo sfondo di questa biografia di Marco Minghetti - colta nelle profonde esperienze vissute - vanno esaminate le sue opere, perché - come si è detto - esse nascono da problemi pratici e sono dirette a risolvere problemi pratici: Minghetti non è certo un uomo che ami la pura speculazione, ma piuttosto un politico - ripetiamo: un raro politico - che vuole rinfrancarsi e corroborarsi nella riflessione teorica. Sbaglia, pertanto, chí dissolve o appiattisce il suo pensiero, riducendolo a mero momento dell'azione, perché la mirabile coesistenza in lui fra lo scrittore e il politico non si risolve, però, in una perfetta coincidenza. Infatti, il politico Minghetti mostrò sempre una grande duttilità e una notevole finezza nel perseguire solo il possibile, sino al punto da essere accusato d'eccessiva arrendevolezza; ma lo scrittore Minghetti mostrò una profonda coe-renza nei suoi principi e una ferma intransigenza nei suoi valori, anche se fu pienamente consapevole che essi dovessero di-versamente articolarsi a seconda delle varie situazioni storiche. Pertanto l'interprete deve sapere tener ben distinti i due piani e non mettere sullo stesso piatto un'opera e un discorso politico, perché quest'ultimo nasce spesso nella contingenza e per la contingenza (lo stesso vale per gli inediti). Stato e Chiesa, l'opera pensata per risolvere negli anni a venire il problema politico centrale dell'Italia unita, non ebbe certo - per ragioni diverse - il pieno consenso degli uomini del suo partito, come Bettino Ricasoli, Silvio Spaventa, Emilio Visconti Venosta, Quintino Sella, Pasquale Stanislao Mancini, Della economia pubblica, che ispirò la sua politica economica, trovò avversari proprio negli economisti più decisamente liberisti; e, infine, il saggio su I partiti politici suonò anche per alcuni come un duro atto di accusa contro il trasformismo, che pure egli aveva contribuito a promuovere.
Chi studia il pensiero del Minghetti si imbatte subito in una definizione, vera soltanto perché ripetuta: Minghetti è un eclettico. In cosa poi consista questo eclettismo non è dato chiaramente sapere. Si possono formulare soltanto tre ipotesi. Minghetti sarebbe un eclettico perché si sarebbe occupato di tre temi tra loro assai lontani; ma l'autentico pensatore politico, che si pone - anche su un piano teorico - i problemi concretissimi delle questioni politiche, non mira a costruire un sistema dottrinario apparentemente coerente, bensì risolve, di volta in volta, i problemi storici del suo tempo: è su questo piano che il Minghetti va giudicato, verificando soltanto se vi sia una coerenza interna nel suo pensiero al livello della metodologia e dei principi. Minghetti sarebbe un eclettico per la ricchissima erudizione, che nutre le sue opere; ma l'autentico pensatore politico deve essere estremamente attento alla realtà che lo circonda, nelle teorie e nelle prassi, e solo gli autodidatti credono di poter fare da soli nel dare un modello di società. Minghetti, in vero, ha una conoscenza diretta di quanto avviene e si scrive in Francia, in Inghilterra, in Germania e Stati Uniti. Infine, Minghetti sarebbe un eclettico perché, con il principio dell'"armonia" o della "proporzione", dell'"architettonica" o dell'"ordine", o - in sintesi - della "medietà", sembra voler conciliare teorie diverse; ma allora l'accusa dovrebbe essere quella di sincretismo, mostrando, però, come quell'armonia non regga sul piano di una filosofia pratica, che, per sua natura, deve essere aperta ai contenuti delle diverse discipline, che studiano il comportamento dell'uomo nella società politica. Certamente Marco Minghetti non è un pensatore geniale e originale come Alexis de Tocqueville, ed è piuttosto un coerente sistematore di quanto nei campi più diversi e disparati pensatori liberali avevano scritto; e il suo merito consiste nella coerenza del suo progetto politico.
I temi, che il Minghetti affronta nelle sue opere, sono i temi forti e duri della filosofia e della teoria politica: il rapporto tra la morale e l'economia, la coesistenza dello Stato con la Chiesa, l'ufficio dei partiti nel loro nesso con le istituzioni. Sono proprio i temi che, in chiave più speculativa e meno politica, affronterà nel nostro secolo il liberale Benedetto Croce. Pertanto la domanda corretta, che ci dobbiamo rivolgere, è la seguente: su questi temi, che superano la contingenza storica, il Minghetti ha ancora qualcosa da dirci, non ovviamente nelle immediate soluzioni pratiche, ma nelle profonde idee ispiratrici? Infatti il Minghetti possiamo leggerlo mossi soltanto da una doverosa curiosità storiografica, che deve ricostruire il patrimonio della nostra tradizione politica anche nei suoi pensatori minori; ma può anche essere letto per instaurare un dialogo con lui sotto l'urgere dei nostri problemi. In questo secondo caso le sue opere acquistano una dimensione di classicità, perché sono sottratte al tempo. Un problema di tale portata non può essere certo risolto in questa sede; ma questo interrogativo bisogna finalmente pur porselo.
Nel pensiero politico di Marco Minghetti vi è - a nostro avviso - una profonda coerenza nel metodo e nei principi. Nel metodo, che è, insieme, razionale e storico: egli fermamente respinge, per la sua natura profondamente illiberale, il dottrinarismo settecentesco, o meglio quel razionalismo costruttivistico dell'Illuminismo francese, che, posti alcuni principi, da essi deduce tutta l'ideale architettonica della società, e, di conseguenza, pretende di rimodellare e di ricostruire tutto dalle fondamenta. Egli aveva appreso il senso della storia, che non è nostalgia verso il passato, dal liberalismo francese dell'età della restaurazione; e questo senso della storia si era facilmente sposato alla tradizione empiristica di un John Stuart Mill, nella misura in cui queste diverse tradizioni imponevano di fare i conti con la realtà, che sempre si presenta in guise diverse. Ma in questa realtà, così diversa e così sfuggente, la mente umana rischia di disperdersi e poi di perdersi: il Minghetti, sin dagli scritti giovanili, insiste sul fatto che la diversità della storia, la molteplicità delle esperienze è tutta riconducibile alla profonda unità della specie umana e all'identità della sua natura, all'uomo cioè, che può mutare nelle sue manifestazioni storiche, pur restando sempre uguale a se stesso. In altri termini, egli cerca l'unità nella molteplicità, senza mai perdere nessuno dei due momenti, forse suggestionato da Giambattista Vico, di cui conosceva le opere.
La chiave del suo pensiero politico, va, così, rintracciata nella sua antropologia filosofica (sottolineo: filosofica). Negli uomini, secondo Minghetti, troviamo le stesse "disposizioni o facoltà", che però si mescolano diversamente: primordiale ed elementare è la spinta all'utile, che si riferisce "ai bisogni fisici e materiali", ma poi viene il desiderio del vero, l'amore per il bello, e, infine, la tendenza verso il bene, nella quale la morale, sovente, si confonde o si identifica con la religione. Bello e vero, utile e giusto sono, per Minghetti, valori ben distinti, anche se fra loro "in strettissima relazione", dovendo però ciascuno esercitare le "funzioni sue proprie" e perseguire il suo "fine speciale"26. Unità, quindi, nella distinzione: quell'unità, che deve esprimersi nell'armonia, nell'equilibrio; quell'armonia, dove tutti gli elementi collaborano assieme, mentre la loro dissonanza provoca soltanto uno squilibrio nell'individuo e una crisi nella società.
In Minghetti, forse per una reminiscenza platonica, questa distinzione delle "disposizioni o facoltà" (e quindi dei valori) è valida sia per profilare un ideale di uomo, sia per prospettare una società a più dimensioni. Ma, venendo a tempi più recenti, attraverso Minghetti si può scoprire il significato liberale della "Filosofia dei distinti" di Benedetto Croce (interprete del Vico), anche se il filosofo napoletano giunge a questa teoria attraverso una via meramente speculativa, mentre il nostro Minghetti la prospetta per un impegno civile, senza però approfondire sino in fondo la sua giovanile intuizione.
Da questa premessa antropologica egli trae la conclusione che il vero progresso non risiede tanto nello sviluppo materiale finalizzato al mero "ben essere", ma nel "perfezionamento" o nell'incivilimento, possibile solo nelle "facoltà intellettuali e morali". Non si tratta di due strade opposte, perché bisogna contemperare le due tendenze, cercando quelle istituzioni "che sono mezzo al maggior possibile benessere e perfezionamento degli uomini". Entra in scena, in tal modo, anche la politica, come arte regia o architettonica per l'ordine nella vita sociale: "quando gli elementi della società non sono nelle debite relazioni, non conducono a civiltà vera"27. A questo punto è opportuno sottolineare due cose: da un lato, il Minghetti mostra l'autonomia e il ruolo delle istituzioni rispetto alla dinamica economica; dall'altro, la sua teoria della storia o dell'incivilimento28 non è debitrice - come alcuni credono - verso la teoria positivistica dell'evoluzione (e tanto meno a quella della lotta per la vita), perché le sue fonti si trovano negli scrittori settecenteschi e dell'età della restaurazione, che hanno messo a fuoco il lento formarsi della vita civile, cioè l'incivilimento.
"Fossi e cavedagne benedicon le campagne": questo antico detto delle terre emiliane può farci penetrare nella psicologia del Minghetti, pensatore politico intento a tracciar fossi, più o meno profondi, o ad aprire cavedagne, più o meno percorribili, fra i diversi campi della politica e della società. Nessuno l'ha notato, ma tutte le sue opere politiche,- sin dal titolo, s'ispirano al principio della distinzione, a distinzioni che non sono empiriche, ma di concetti, e pertanto appartengono alla filosofia e alla teoria politica: politica e morale, Stato e Chiesa, partiti e istituzioni sono distinzioni al fondo delle quali si agita lo stesso problema pratico, quello di una libertà da realizzare in un ben delineato ordine politico. Su questo piano concettuale naufragano i così ripetuti rilievi rivolti al Minghetti di eclettismo o di sincretismo. Eclettica è forse l'informazione o la letteratura su cui fonda la sua indagine; ma il Minghetti non è persona di scuola che ripete le parole del maestro Sincretistico può apparire il suo pensiero a chi non ha colto questo difficile problema dell'unità nella distinzione, che è un problema teorico, ma che in Minghetti nasce dalla pratica e per la pratica: il suo è il problema di un possibile, ma libero, ordine politico, ottenuto trasferendo la distinzione delle facoltà umane alle dimensioni della società. L'analisi delle sue singole opere potrà ora meglio chiarire questo problema.
Sulle orme di Adam Smith e David Ricardo il Minghetti analizza la nuova scienza economica, la quale si occupa delle leggi che governano la produzione, la ripartizione, lo scambio e il consumo delle ricchezze. Il rilievo fondamentale, che muove all'economia classica sulle orme di John Stuart Mill, è quello di essersi occupata soltanto del momento della produzione della ricchezza, non di quello della sua distribuzione, dell'economia e non dell'economia pubblica. Minghetti è fautore e sostenitore del progresso economico, ma non è un ideologo del mero sviluppo, quando questo entra in disarmonia con i valori etici, producendo ricchezza, ma non incivilimento. La produzione è il regno del mercato, la distribuzione è quello della politica, di una politica, però, che non uccida il mercato.
Il vero problema del Minghetti è così diverso da quello di Adam Smith, anche se gli riconosce il grande merito di aver dedicato la sua attenzione al problema etico. Nell'Economia pubblica il problema centrale è quello di mostrare come l'economia sia "distinta, ma non segregata, connessa, ma non confusa"29 con la morale; e ritiene di natura filosofica il problema di stabilire la loro relazione. Da questo suo assunto derivano tre conseguenze: in primo luogo, il puro economista ha ragione nel suo campo, che però è astratto e unilaterale, per cui, solo se dilata il proprio orizzonte conoscitivo acquista una percezione della realtà più chiara e più profonda, e può così risolvere problemi altrimenti difficilmente superabili per lui. In secondo luogo, nel delineare una filosofia della pratica bisogna evitare di porre in assoluta contraddizione l'utile (o il piacere) e il buono (o il dovere), ma anche di identificarli, seguendo l'utilitarismo: l'economia, pur distinta dalla morale, resta - in ultima istanza - circoscritta e limitata dai grandi principi dell'etica. In terzo luogo, la politica è - come si è detto - lo strumento per realizzare l'armonia fra questi due momenti, fra l'aumento della ricchezza e una vita sociale ben ordinata: per agire bisogna conoscere l'economia, ma essere consapevoli di questo suo limite. Tutta questa impostazione nasce da una sfiducia nel puro liberismo, negli automatismi del mercato, perché Minghetti considera troppo potente - come causa di disarmonia e di disordine - la tendenza agli interessi materiali, non più equilibrata da fattori morali: per questa ragione si rende talvolta necessario l'intervento del governo sia nel campo della carità legale o pubblica, perché lo Stato - oltre a garantire i diritti - deve tutelare i deboli, sia quando gli individui - da soli o associati - non sono in grado di affrontare e risolvere problemi di interesse generale.
Stato e Chiesa, invece, si ispira al più rigido separatismo, ostile ai compromessi concordatari, risultato dalla "fatalissima"30 ricerca della via del mezzo. Ma il separatismo implica, però - e qui è presente la lezione di Alexis de Tocqueville - la ricerca di un'unione morale nelle coscienze e, quindi, nella società, senza una contrapposizione di valori, per evitare quel disordine che inevitabilmente nasce quando la Chiesa, col clericalismo, diventa un partito, e lo Stato, con il laicismo positivista, si fa portatore di una nuova religione intollerante: il Minghetti aspira - ricordando il Manzoni e il Rosmini - ad una conciliazione della religione cattolica con le moderne libertà liberali. A fondamento della sua tesi separatista c'è un preciso valore: non quello della tolleranza, proprio degli Stati più o meno assoluti, ma quello del diritto per ciascun individuo alla libertà di religione e di culto, in un regime di eguaglianza. Vengono, così, posti - alla Humboldt - chiari limiti allo Stato: la sua funzione primaria è la tutela o la garanzia - alla Constant - dei diritti individuali e quella secondaria è la salvaguardia degli interessi generali della società. Solo in questo senso abbiamo uno Stato giuridico, il quale ha il monopolio della coazione, ma al quale non compete di intervenire nella coscienza dei cittadini, privilegiando una religione, definendo un dogma, proclamando una eticità statale. Sul piano della religione e della morale lo Stato deve essere neutrale, perché in questo campo sovrana è soltanto la coscienza, salvo però sempre il suo diritto-dovere di difendere i diritti degli altri cittadini nonché l'ordine pubblico in caso di violazione. Questa concezione dei limiti dello Stato (o dello Stato giuridico) si fonda su una ben precisa premessa teorica: lo Stato è soltanto un organo (necessario) della società, ma non è la società e con essa non coincide. La società è assai più vasta e più complessa, ed esercita funzioni che non sono dello Stato, il quale pertanto non può avere una dignità superiore al tutto, essendo di essa soltanto una parte31.
Nell'ultima sua grande opera la distinzione tra partiti e amministrazione è assoluta, anche se entrambi, sia pure in guise diverse, concorrono, adempiendo alla propria funzione, alla realizzazione dell'ordine politico. Il problema teorico e pratico, che l'italiano Minghetti affronta, è - come si è detto - quello di conciliare il sistema costituzionale inglese e il sistema amministrativo continentale, il governo parlamentare e la burocrazia, o, in sintesi, la politica e l'amministrazione. Il governo parlamentare (o rappresentativo della società civile) non può essere che un governo di partito: è, questa, la prima chiara difesa in Italia in chiave teorica del partito politico, che il Minghetti fonda in un dimenticato scritto di Edmund Burke. Il partito, proprio in quanto "parte" rispetto al tutto, si fonda su un insieme di uomini animati da un idem de repubblica sentire, cioè da una particolare interpretazione (e qui si distacca dal Rosmini) del bene comune: I'indirizzo generale del paese appartiene alla politica, cioè ai partiti. Ma vi è anche una distinzione radicale tra il fare e l'applicare una legge: l'amministrazione e la giustizia, preposti a questo secondo compito, devono essere imparziali, neutrali ed oggettivi, cioè non di "parte". Queste strutture burocratiche e gerarchiche costituiscono "una grande macchina" al servizio di tutti i cittadini, per cui "la giustizia di partito e l'amministrazione di partito sono la negazione dell'essenza e dello scopo medesimo dello Stato"32. In questo caso non abbiamo più "partiti" politici, ma vere e proprie "fazioni" che sottomettono l'interesse pubblico ai loro propri interessi, abusando delle istituzioni, che devono essere al servizio di tutti. Ma la partitocrazia - cioè l'ingerenza dei partiti nella giustizia e nell'amministrazione - non è, per Minghetti, una conseguenza necessaria del regime parlamentare. Il Minghetti, per difendere l'amministrazione dalle fazioni, recupera da Rudolf von Gneist il concetto tedesco di Rechtsstaat; tuttavia è necessario rilevare una differenza rispetto ai suoi colleghi d'oltralpe. I tedeschi avevano allora una monarchia costituzionale o limitata, non un governo parlamentare, per cui affidavano allo Stato - e non certo ai partiti - il monopolio del "politico"; e nell'unità dello Stato il momento amministrativo aveva un ruolo preponderante nella figura del re, capo dell'esecutivo. Riassumendo e concludendo: è facile vedere come, in opere così. diverse per argomento, sia operante una stessa teoria dello Stato (limitato) o meglio del governo rappresentativo, proprio perché il Minghetti usa il termine Stato in una accezione estremamente debole. Il governo rappresentativo è solo il momento politico della società civile, non la sua sintesi: esso è limitato dalla funzione primaria che ha, che è quella di garantire i diritti dei cittadini; le sue altre funzioni si limitano alla tutela dei deboli e agli interessi generali, ma non ha compiti religiosi, etici o educativi". Se deve intervenire nell'economia e nella società, lo deve fare soltanto per risolvere problemi pratici, non in nome di astratte e dottrinarie teorie: non si tratta di governare di più o di meno, si tratta di governare meglio33. Uno Stato tutto delineato, quindi, in vista della libertà, un bene nel campo economico, nel campo religioso, nel campo politico, tenendo però presente che "tutte le libertà si attraggono e si danno la mano", per cui, alla fine, la libertà è una ed indivisibile: essa è il bene più prezioso dell'uomo34. "Il soffio della vita non può venire che dalla coscienza individuale": il sereno ottimismo del Minghetti affonda in questa profonda convinzione, per cui egli teme una sola cosa: "da sfiducia nella libertà"35.
Una rilettura delle opere del Minghetti dimostra quanto poco il suo pensiero sia eclettico, anche se abbraccia i campi più diversi e più disparati del sapere pratico. Certo, egli parla continuamente di armonia, di ordine, di temperamento, di giusta proporzione, di "assiomi medi", di tendenza media contro ogni unilateralità. Si è vista in questa sua insistenza una mera estensione al campo della teoria della politica del juste milieu, del giusto mezzo fra gli estremi, proprio del liberalismo dell'età della restaurazione. Ma, in tal modo, non si è approfondito il quadro concettuale, che sta dietro alla teoria dell'armonia del Minghetti: la sua teoria dei distinti lo porta a mettere in luce la diversità delle funzioni di una società ben ordinata, funzioni che devono essere armonizzate nella loro autonomia e non già mediate per confonderle Inoltre la sua mentalità analitica lo porta a ridefinire il concetto autentico, che si nasconde dietro alle parole comuni, per evitare ogni confusione pratica di tipo trasformistico, che nell'eclettismo può trovare il suo fondamento. Nel rigido separatismo fra Stato e Chiesa, nella radicale separazione tra politica ed amministrazione non c'è, certo, traccia di un giusto mezzo politico, perché queste distinzioni sono l'espressione di una radicale coerenza teorica. Il problema dei rapporti tra l'economia e la morale è - come si è detto - assai più complesso, perché il fine è quello di mediarle e non già di separarle. Ma la soluzione, che il Minghetti offre sul piano teorico, non si fonda certo su un opportunistico e contingente giusto mezzo, su un com-promesso politico fra le opposte forze in campo. Nel pensiero di Marco Minghetti c'è, però, un'altra novità: le distinzioni sono l'impianto teorico - Minghetti direbbe "filosofico" - sul quale egli innesta la valorizzazione delle allora nascenti (in Italia) scienze sociali, per cui tanti lo riconobbero poi in questo campo come un precursore.
L'affermazione della distinzione dello Stato dalla Chiesa lo porta a porre le basi del diritto pubblico, cioè di una teoria giuridica dello Stato. La scoperta dell'autonoma funzione burocratica lo porta a farsi promotore dello studio delle scienze amministrative, le quali forniscono una cultura non politica, ma essenziale ai complessi meccanismi di uno Stato moderno. Più complesso, invece, è il rapporto tra economia e morale, rapporto che, in ultima istanza, ha solo nella politica il suo momento di mediazione, perché essa resta l'arte architettonica del vivere sociale. Ma la soluzione di questa mediazione il Minghetti non l'affida al politico puro, che fiuta il giusto mezzo per raggiungere un mero compromesso. Per conciliare praticamente questa antitesi fra economia e morale bisogna, innanzitutto, conoscere le leggi dell'economia per non sperperare inutilmente ricchezza; in secondo luogo bisogna conoscere la situazione del paese, perché l'azione dello Stato nel campo economico deve essere di mera "supplenza" all'impossibilità degli individui e delle associazioni di provvedere da soli, con il fine ultimo, però, di favorire non la crescita dello Stato, ma quella della società civile, nella quale gli uomini debbono essere stimolati dallo Stato ad agire da soli o fra loro associati. Col termine "supplenza" il Minghetti volutamente indica una politica provvisoria, destinata a non essere più legittima, quando vengono meno i presupposti storici che l'hanno favorita. E ancora: per decidere, bisogna conoscere la realtà in cui si opera, adottare un metodo sperimentale, lontano da ogni estremismo ideologico, pronti a rettificare la rotta, se si hanno risultati perversi; inoltre bisogna calcolare il rapporto dei costi con i benefici o quello dei fini con i mezzi atti a raggiungerli. Per fare della politica il ponte fra l'economia e la morale era pertanto necessaria una cultura politica nuova, che si fondasse sulle scienze sociali, delle quali oggi - giustamente - si comincia a riconoscere essere stato il Minghetti in Italia un precursore. La mediazione e il giusto mezzo, per essere positivi, devono così fondarsi sul conoscere. Gli scritti dell'ultimo Minghetti, quali la Legislazione sociale o il Cittadino e lo Stato, pur avendo una finalità più pratica, restano fedeli alle premesse teoriche del suo primo volume, quello sull'Economia pubblica.
Marco Minghetti fu pienamente consapevole di vivere in un'età di crisi, segnata non solo da grandi rivolgimenti politici e da profonde trasformazioni sociali ed economiche, ma anche dall'incertezza delle menti e dall'irrequietezza degli animi, in seguito al processo di secolarizzazione provocato dalla scienza36. A questo contrappose con coerenza il suo progetto di ordine politico, fondato sull'armonia e sulla giusta proporzione, sulla chiarezza concettuale e sulla distinzione delle funzioni, per avere un ordine libero. Questa costruzione concettuale rispondeva, in fondo, al suo temperamento, sempre calmo ed equilibrato, lontano dalle polemiche e privo di rabbie, portato a dare ad ogni cosa il suo giusto posto.

5. I pregiudizi ideologici e filosofici di un oblio

Abbiamo iniziato sottolineando la scarsa cittadinanza, che ha il pensiero di Marco Minghetti nella storia del pensiero politico italiano. Per concludere, giova tornare su questo tema, perché un così generalizzato silenzio non può essere ascritto soltanto a dimenticanza o a malevolenza. A guardare le cose sino in fondo tre possono essere i motivi storici di tale dimenticanza, due dei quali affondano nel periodo stesso in cui il nostro stese le sue opere, un periodo di profonda trasformazione e di mutamento dei valori politici.
Marco Minghetti, anche per la sua età, non appartiene alla stagione eroica del Risorgimento; egli ne è perfettamente consapevole, tanto che, nel noto discorso del 1875 a Cologna Veneta, affermò che alla sua generazione era spettato il compito non della poesia, ma quello della prosa, un motivo della pubblicistica del tempo, a cui forse il Croce si ispirò per le prime battute della sua Storia d'Italia. Uomo della prosa e dell'ancor più prosaica amministrazione, in Minghetti non troviamo la passione dei grandi miti del nostro Risorgimento: non certamente quelli della Sinistra, come la rivoluzione e la repubblica, ma neppure quelli condivisi dalla Destra, come la nazione, l'unità e l'indipendenza. Quando scrive cominciano a maturare altre passioni e altri ideali, che non potevano, per forza di cose, riallacciarsi al suo insegnamento di cattolico liberale moderato: il dibattito politico è sempre più occupato dall'opposizione cattolica, che non poteva, naturalmente, avere il suo testo in Stato e Chiesa, e dai movimenti socialisti, che non potevano certo ispirarsi alla Legislazione sociale, opera destinata allora ad apparire paternalistica. Inoltre nel secondo dopoguerra si è privilegiata la ricerca - sotto sollecitazioni politiche - del filone democratico (e socialista) del nostro Risorgimento, quasi per tracciare una continuità dai giacobini al Partito d'Azione: ci si muove però in un orizzonte meramente ideologico, che non si confronta con la tradizione liberale, per soppesare lo spessore dei diversi autori e per verificare l'attualità delle loro soluzioni istituzionali e delle loro indicazioni politiche per i problemi di oggi.
In secondo luogo, dal 1870 assistiamo in Europa ad un grande tornante, nel quale i valori politici della prima metà dell'Ottocento vengono dimenticati o osteggiati. Per vie diverse trionfano nazionalismo e imperialismo, realismo politico e statalismo (alla Bismarck), industrialismo e capitalismo, edonismo e decadentismo, positivismo e materialismo. Un mondo di valori del tutto estraneo a Marco Minghetti: egli ispirò la politica estera saggia e prudente di Visconti Venosta, una politica nazionale senza alcun accenno nazionalistico o imperialistico; accettò e anche promosse l'industrializzazione italiana, ritenendola necessaria, ma sempre da controllare da parte di quel mondo di savi, che solo nella terra hanno le loro radici; contro l'edonismo e il decadentismo scrisse sin da giovane37, polemizzando contro la tendenza agli interessi materiali del suo secolo; dal positivismo (anche liberale)38 e a maggior ragione dal materialismo si sentì sempre estraneo, perché li considerava incapaci di risolvere il suo problema, che era un problema di libertà morale ed insieme politica. Fu accusato di bismarckismo, ma il suo realismo politico era quello di tutti gli uomini politici: era il senso della realtà e non una dottrina politica, che azzerasse i valori e gli ideali39.
Nella legislazione sociale continuamente ammoniva doversi seguire, se possibile, la via inglese, che puntava sulle libere associazioni della società civile, e non quella bismarckiana, che tutto affidava allo Stato, perché questa scelta finiva per ridurre il cittadino a mero suddito.
Marco Minghetti, vissuto in un'età di transizione, resta però profondamente legato ai valori del Risorgimento, anche se non si abbandona mai a grandi miti o ad ostentate passioni. E un uomo europeo nel pensare e nell'agire, per cui l'idea di nazione non sfocia nel nazionalismo; e l'unità e l'indipendenza resta per lui eminentemente un problema di politica estera. Il valore della libertà si è ormai tradotto in un compito assai più prosaico, quello pratico della costruzione di uno Stato rappresentativo di diritto, in un periodo in cui diventa dominante e centrale il problema amministrativo: il problema politico fondamentale, quello della Costituzione, era stato risolto con la monarchia e il governo rappresentativo, e ora si trattava di costruire l'amministrazione dello Stato, dalle autonomie locali alle finanze, dalla promozione dello sviluppo economico alla legislazione sociale, per non dimenticare il problema centrale di ogni amministrazione liberale, quello dello Stato di diritto. Un lavoro più oscuro, che spesso sfugge agli studiosi che amano puntualizzare le idee-passioni, perché sono esse a creare nuove stagioni storiche. Minghetti resta solo un esecutore, un amministratore degli ideali liberali del Risorgimento, ma con una profondità di pensiero che altri raramente ebbero.
La scarsa o scarsissima attenzione verso il pensiero del Minghetti è dovuta, però, anche ad un'altra causa, e questa, forse, è la più importante. Tutti gli storici sottolineano che, nella Destra, la vera testa pensante fu quella di Silvio Spaventa, rappresentante dello hegelismo napoletano (e non del pensiero meridionale). Questo è dovuto ad un grave pregiudizio filosofico, che porta a non intendere, o meglio a fraintendere, la vera natura del pensiero politico, che non può essere ridotto ad una mera identificazione del "politico" con lo Stato: in questo caso, infatti, nell'Ottocento, fra i maestri, si salva solo lo Hegel e devono essere ignorati i Tocqueville o i Mill. Un pregiudizio filosofico imposto fra le due guerre, dall'idealismo con le sue teorie dello Stato etico, e ripreso, nel secondo dopoguerra da un certo marxi-smo, che riscopriva in Spaventa il ruolo dello Stato nella realizzazione della giustizia e dell'eguaglianza.
Sul piano pratico Marco Minghetti e Silvio Spaventa potevano consentire su molte cose, sul riscatto delle ferrovie, sulla critica delle degenerazioni del parlamentarismo, nel quale i deputati erano soltanto portavoce di interessi locali o corporativi e non di valori generali, sulla difesa di una giustizia amministrativa40 contro le ingerenze della partitocrazia, che poteva far facilmente leva sulla mentalità di una burocrazia cresciuta sotto gli Stati assoluti. Ma entrambi, in un pacatissimo dialogo a distanza negli anni 1879-18814l, erano perfettamente consapevoli che i loro presupposti teorici erano assai lontani, anzi opposti. Lo storico non può privilegiare, perché "forte", il presupposto teorico di Silvio Spaventa contro quello "debole" di Marco Minghetti, perché nel loro dialogo assistiamo al perenne scontro fra monisti e pluralisti, fra chi privilegia lo Stato, massima sintesi dell'unità politica, e chi guarda alla società civile, come ad un nuovo spazio per il vivere libero.
Per gli hegeliani di Napoli lo Stato è la verità dell'individuo, della famiglia, della società civile, per cui lo Stato "che ci comanda, ci obbliga e ci sforza al bene comune, è il nostro volere stesso": lo Stato è "la coscienza direttiva" che deve guidare una nazione42, dirigere tutta la vita del paese. Il "formale" Stato di diritto non basta, se non realizza un'eguaglianza "sostanziale"43, convertendosi - per dirla con termini attuali - in Stato di giustizia (attraverso l'azione amministrativa). Marco Minghetti, invece, non vede nello Stato il protagonista dell'azione sociale e gli riconosce soltanto una mera funzione di supplenza quando gli individui da soli o associati - sono carenti. Proprio per questo non usa come termine chiave la parola Stato, ma quella di go-verno rappresentativo, che altro non è che un governo dei partiti, al quale egli vuole sottrarre soltanto l'autonomia, nel suo compito specifico, dell'amministrazione. L'unità politica non è un fatto imposto dall'alto, ma un processo che sale dal basso, tramite i partiti, gli organi di autogoverno locale, i consorzi pubblici e privati, gli enti morali autonomi, le li-bere associazioni della società civile44. Per la sua visione pluralistica il Minghetti è ostile ad ogni monismo, che definisce "cattolicismo statuale". E pensiero debole, questo? Io credo che - oggi - tutti noi stiamo vivendo, con i nostri peculiari problemi, proprio in quella tradizione o in quel filone di pensieri, a cui - a pieno diritto - Marco Minghetti appartiene come pensatore politico. Sono ancor oggi ogni giorno sul tappeto la questione del problematico rapporto fra le ragioni dell'economia e quelle dell'etica, la riscoperta della distinzione tra Stato e Chiesa, la difesa dell'amministrazione dalle ingerenze della partitocrazia, la ricerca di un equilibrio fra professionismo politico e compe-tenza tecnica.
Una città, una regione, un paese può trovare forza ed alimento nel prendere coscienza di una parte della propria storia: le piazze e le strade, che s'intitolano ai protagonisti del nostro passato, dovrebbero ogni tanto animarsi anche dei loro pensieri e accompagnarci, così, nel nostro camminare nella città politica.


1 Questi volumi, assieme ai saggi dal titolo La legislazione sociale (1882) e Il cittadino e lo Stato (1885), sono stati ripubblicati in M. Minghetti, Scritti politici, a cura di Raffaella Gherardi, Roma, Direzione generale delle informazioni dell'editoria e della proprietà letteraria artistica e scientifica, 1986; questa edizione si avvale di una Prefazione di Rosario Romeo, di una Introduzione e di una Bio-bibliografia di Raffaella Gherardi. A questa edizione, quando è possibile, faremo sempre riferimento.
2 Cfr. soprattutto i lavori di A. Berselli e di U. Marcelli in Gherardi Bio-bibliografia, cit.
3 L. Lipparini, Minghetti, con prefazione di N. Rodolico, 2 voll., Bologna, 1942.
4 B. Croce, Storia d'ltalia dal 1871 al 1915 (1927), Bari, 1943, p. 5.
5 F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, vol. I, Le Premesse, Bari, 1951, p. 652
6 G. de Ruggiero, Storia del Liberalismo europeo (1925), Bari, 1945, pp. 344-359
7 L. Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870 (1935), Torino, 1943. E.A. Albertoni, nella sua Storia delle dottrine politiche italiane, Milano, 1985, p. 317, dedica al Minghetti due righe. 
8 A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, 1948, p. 656, ma cfr. pp. 156-8, 297-9 e passim. Un allievo di A.C. Jemolo ha scritto un intelligente volume sul tema: cfr. G. Caputo, La libertà della Chiesa nel pensiero di M. Minghetti, Milano, 1965. 
9 Cfr. R. Gherardi, Introduzione a Minghetti, in Scritti politici, cit.
10 Ibidem
11 V Pareto. Scritti politici Torino. 1974 vol. 1, p. 378. ma cfr. anche pp. 523 e 547
12 Così Armand Lévy, citato da R. Gherardi nella già ricordata Introduzione, p. 5.
13 M. Minghetti, Ricordi, 3 voll., Torino, 1888-1890, vol. I, p. 2.
14 Ibidem, p 152.
15 Cfr. Minghetti, Della economia pubblica, in Scritti politici, cit, p. 597
16 Cit. in R. Zangheri, Bologna, Roma-Bari, p. 32. Ma cfr. anche M. Minghetti, La legislazione sociale, in Scritti politici, cit., p. 783.
17 Cfr. Zangheri, Bologna cit., p. 35.
18 M. Minghetti, Discorso ai suoi elettori prununziato a Legnago alli 4 ottobre 1874 Roma, 1874.
19 Sui progetti del Minghetti cfr. A. Petracchi, Le origini dell"ordinamento comunale e provinciale italiano Venezia, 1962; C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica da Rattazzi a Ricasoli Milano, 1964; R Gherardi, Le autonomie locali nel liberalismo italiano (1861-1900) Milano, 1984.
20 Croce, Storia d'Italia cit., pp. 18-20, 75.
21 Chabod, Storia della politica estera italiana, cit., pp. 385, 638-9.
22 A Omodeo, L'opera politica del conte di Cavour, Firenze, 1945, vol. I, p. 144.
23 R. Romeo, Cavour e il suo tempo, vol. I, Bari, 1969, pp. 539-40.
24 Così Chabod, Storia della politica estera italiana, cit., p. 652, che segue il giudizio di Riccardo Bacchelli 
25 L'affermazione è del Crispi, riportata da D. Zanichelli nella sua Introduzione a M. Minghetti, Scritti vari, a cura di A. Dallolio, Bologna, 1896, p. LXIII; e su questa linea si muove giustamente R. Romeo nella Prefazione già citata, agli Scritti politici: basti pensare al comportamento del Minghetti nella repressione del brigantaggio o dei tumulti scoppiati in seguito all'annuncio della Convenzione di settembre (1864), Convenzione per la quale dovette dimettersi da Presidente del Consiglio, ma che fu un'abilissima e spregiudicata mossa diplomatica.
26 M. Minghetti, Intorno alla tendenza agli interessi materiali che è nel secolo presente (1841), ora in Scritti vari, cit., pp. 24-28. Ma cfr. anche Della economia pubblica, in Scritti politici, cit., p. 423, e Stato Chiesa, in Scritti politici, cit., pp. 457-8, 585.
27 Minghetti, Della tendenza agli interessi materiali, cit. pp. 25-28.
28 Minghetti, Ricordi, cit. vol. I, pp. 84-5, Stato e Chiesa, cit, pp. 589 ss.
29 Minghetti, Della economia pubblica, cit., pp. 114, 295, 297.
30 Minghetti, Stato e Chiesa, cit., p. 476.
31 Minghetti, Stato e Chiesa, cit., p 482.
32 Minghetti, I partiti politici, in Scritti politici, cit, p. 647.
33 M. Minghetti, Discorso all'Associazione Costituzionale delle Romagne pronunciato in Bologna il 17 novembre 1878, Bologna, 1878, pp. 14-15. 
34 Minghetti, Della economia pubblica, cit., pp. 418, 253.
35 Minghetti, Stato e Chiesa, cit., pp. 472, 553.
36 M. Minghetti, Dalla economia pubblica, cit., p. 349, e Stato e Chiesa, cit., pp. 569 ss.
37 Minghetti, Intorno alla tendenza agli interessi materiali, cit 
38 Minghetti, Ricordi, cit., vol III, pp 55, 79
39 "Noi credevamo alla giustizia e alla libertà, oggi si crede alla forza, ed al numero": così il Minghetti a Luigi Torelli il 21 ottobre 1886, in Chabod, Storia della politica estera italiana, cit, p. 104.
40 Cfr. Minghetti, I partiti politici, cit., pp. 711, 725-737: in fondo il Minghetti sembra però preferire i tribunali ordinari a quelli amministrativi. 
41 La polemica fra Marco Minghetti e Silvio Spaventa (e anche Francesco De Sanctis) va letta nella seguente sequenza: 21 marzo 1879: S. Spaventa, La politica e l'amministrazione della Destra e l'opera della Sinistra (ora in La politica della Destra, a cura di B. Croce, Bari, 1910, pp. 25-52), 8 gennaio 1880: Discorso di M. Minghetti nella Associazione Costituzionale di Napoli (Firenze, 1880); 7 maggio 1880: S Spaventa, La giustizia nell'amministrazione (ora in La politica della Destra, cit., pp. 53-106);1881: M. Minghetti, I partiti politici; 1882: S. Spaventa, L'allargamento del suffragio e i partiti politici (inedito, ora in La politica della Destra, cit., pp 459-476); 20 settembre 1886: Il potere temporale e l'Italia nuova (ora in La politica della Destra, cit., pp. 181-202).
Sempre polemico con Marco Minghetti, del quale non conosce le opere, è Francesco De Sanctis, che ora lo attacca duramente per il Discorso tenuto a Napoli: egli avrebbe utilizzato un suo saggio per una bassa polemica contro la Sinistra, dimostrando di essere incapace di salire a "quell'altezza dalla quale io guardava" (cfr. F. De Sanctis, I partiti e l'educazione della nuova Italia, Torino, 1970, pp. 389 e 95 ss.). Marco Minghetti rispose con I partiti politici, dimostrando, invece, di sapersi porre ad un livello concettuale ben superiore a quello del De Sanctis. Il dibattito sui partiti e sul parlamentarismo inizia con Stefano Jacini (I conservatori e l'evoluzione naturale dei partiti politici in Italia, Milano 1877) e impegna tutti i principali pubblicisti del tempo sino a Gaetano Mosca e Vittorio Emanuele Orlando, un dibattito che meriterebbe di essere ulteriormente approfondito.
42 S. Spaventa, La politica della Destra, cit., pp. 198-199, 226-227, e anche pp. 65-66.
43 Ibidem, pp. 419-420.
44 Minghetti, I partiti politici, cit., pp. 718 ss. e passim.

*Professore Emerito di Filosofia Morale - Università di Bologna

** Il saggio appare nel volume Filosofi politici contemporanei - Ed. Il Mulino, 2001, pp. 187-218


 

Marco Minghetti: un liberale bolognese dal respiro europeo

Carlo Monaco*

A tutti voi benvenuti a questo incontro che ha come oggetto di riflessione le opere ed il pensiero di Marco Minghetti.
Ringrazio prima di tutto gli organizzatori, l'associazione Società Libera, che oggi offre alla città di Bologna un'importante occasione di riflessione; infatti non solo questa iniziativa su Marco Minghetti si svolge qui in questa sala ma nel pomeriggio, in Palazzo Re Enzo, verrà inaugurata una mostra sul liberalismo. Il filo conduttore di queste iniziative è una riflessione attorno ai temi della libertà. 
Questa parola fondamentale nella storia della nostra cultura non è proprietà di alcuno, è proprietà, direi, di tutta la cultura politica democratica. La riflessione sul rapporto della libertà, che è una sorta di opzione primaria della cultura politica, con gli altri aspetti legati o al tema della nazionalità o al tema del lavoro e dell'uguaglianza, costituisce il nucleo fondante di tutta la riflessione politica.
Qualche parola in più va detta sulle ragioni di un convegno su Minghetti.
C'è una ragione un di campanile, nel senso che Bologna non sempre ha valorizzato fino in fondo personaggi ed esperienze intellettuali di questa città. Proprio nelle settimane scorse la nostra amministrazione comunale ha istituito un premio letterario internazionale dedicato a Riccardo Bacchelli, scrittore che ebbe grande successo da vivo, ma che poi é passato anche lui nel dimenticatoio; eppure é un grandissimo scrittore bolognese.
Quindi sicuramente questo elemento della bolognesità è una delle ragioni che ci porta a riflettere su Minghetti. Però non vorrei che questo venisse interpretato come un limite, nel senso che è solo l'occasione, diciamo così, non è l'essenza del problema; infatti il ruolo politico di Marco Minghetti ha un'importanza nazionale nella storia d'Italia e perfino europea all'interno della riflessione sul liberalismo. Essendo stato protagonista di prim'ordine della vita politica negli anni immediatamente precedenti e successivi all'Unità d'Italia, il suo ruolo politico merita di essere approfondito. 
Il dibattito chiarirà tutti i termini del problema, ma io mi permetto anche di sottolineare la straordinaria attualità dei temi che sono stati al centro dell'azione e del pensiero di Minghetti. Sono tutti temi che abbiamo ben presenti, mutati i termini ovviamente, nel dibattito dei nostri giorni.
Per esempio si è dibattuto molto, appena dopo l'Unità d'Italia, sul tema del centralismo e del decentramento. Oggi questa discussione si sviluppa sotto l'etichetta del Federalismo; si usano altre terminologie, ma il rapporto tra il potere centrale dello stato e le articolazioni territoriali è stato uno dei primi grandi dibattiti già alle origini.. Minghetti entrò in conflitto, i relatori preciseranno meglio, con Ricasoli e con altri proprio perché era favorevole all'istituzione delle Regioni e ad un sistema federale del nostro territorio.
Questo è un problema sul quale Minghetti ha scritto e ha riflettuto. Le scelte effettive dei governi furono di segno diverso.
L'altro problema di grandissima attualità è il rapporto che deve esistere tra pubblico e privato, nazionalizzare o no le ferrovie, come organizzare i sistemi dei servizi pubblici. I termini, ripeto, oggi sono cambiati, sicuramente i problemi sono più complessi, però la natura del resta immutata. Di qualche attualità è ancora il tema del rapporto tra Chiesa e Stato: laicità, qualità della legislazione, la legislazione matrimoniale, la legislazione sulla famiglia, che hanno visto storicamente liberali e cattolici su posizioni spesso divergenti e conflittuali. 
Forse il tema sul quale l'attualità è maggiore è scritto nel titolo stesso di uno dei libri di Marco Minghetti sull'ingerenza dei partiti politici nella giustizia e nell'amministrazione. E' un titolo molto significativo; aggiornandolo, forse oggi dovremo parlare sull'ingerenza del sistema della giustizia rispetto alla politica. In particolare sull'amministrazione, sul rapporto tra partiti politici ed amministrazioni, cioè governi locali degli enti e del territorio, il dibattito è di strettissima qualità. Se non altro per il fatto che l'attuale amministrazione comunale di Bologna, che ho l'onore di rappresentare, si è caratterizzata con il tentativo di dimostrare che l'attualità delle scelte amministrative non può essere dedotta meccanicamente dell'orientamento politico.
Questa è la sfida che abbiamo lanciato in questa città; anche culturale, dunque. 
Tutte queste ragioni credo che giustifichino, insomma, lo scopo di questo convegno. Perciò ringrazio i relatori altamente qualificati, studiosi di lunga esperienza che hanno accettato di parteciparvi.

* Assessore del Comune di Bologna


 

Marco Minghetti: il liberalismo italiano tra scienza e politica

Raffaella Gherardi*

"Non si può, crediamo, fare al Minghetti come pubblicista elogio maggiore di questo; egli è l'unico in Italia che splendidamente rappresenti quella scuola di pubblicisti inglesi nei quali si fondono, si contemperano e vicendevolmente si completano l'uomo di Stato e lo scrittore, la pratica della cosa pubblica e la nozione scientifica di essa." (V.E. Orlando, 10 dicembre 1881)

La citazione sopra riportata, da parte di uno dei più illustri esponenti della dottrina giuridica nonché della politica dell'Italia liberale tra Otto e Novecento, Vittorio Emanuele Orlando, può essere assunta a manifesto del criterio di fondo adottato quale giudizio positivo dall'intellighenzia italiana ed europea contemporanea a proposito della pubblicistica minghettiana. Da Gaetano Mosca a Émile de Laveleye i più bei nomi del pensiero politico italiano ed europeo saranno infatti concordi nel sottolineare come riflessione teorica e politica attiva siano sfere strettamente congiunte e integrantesi in Marco Minghetti (1818-1886), emulo, in ciò, del grande Gladstone che egli conobbe e di cui fu amico. L'aspetto ritenuto più importante del liberalismo di Minghetti consiste, appunto, nell'aver saputo evitare gli sterili lidi di una teoria pura, asetticamente disancorata dalla concreta prassi politica, così come, dal punto di vista di quest'ultima, egli è stato in grado di utilizzare da vicino le direttive dell'analisi scientifica, evitando i rischi di strategie improntate a un carattere contingente e meramente empirico. Come uomo politico Marco Minghetti è uno dei principali artefici della fondazione e della costruzione dello Stato nazionale; chiamato alla politica attiva dallo stesso Cavour ed eletto per la prima volta deputato per la Destra liberale nel 1860 egli verrà costantemente rieletto dalla VII alla XVI Legislatura, rivestendo più volte la carica di Ministro (degli Interni, delle Finanze, dell' Agricoltura, Industria e Commercio) e di Presidente del Consiglio (dal 1873 al 1876 egli presiede l'ultimo ministero della Destra storica e raggiunge l'obiettivo del pareggio nel bilancio). Protagonista di primo piano della Destra di governo1 e delle sue scelte di politica interna e internazionale, dopo l'avvento al governo della Sinistra, egli continuerà a svolgere un'intensa attività parlamentare e il suo nome comparirà tra i firmatari di importantissimi progetti di legge (per esempio in tema di legislazione sociale); egli sarà inoltre, a partire dai primi anni Ottanta, insieme con Agostino Depretis, inventore del cosiddetto "trasformismo" che rappresenterà, a giudizio di molti, una delle più durature costanti della politica italiana, ben al di là dei limiti cronologici dell'età liberale. Di contro ai rischi corsi dal giovane Stato unitario da parte dei "rossi" (i nascenti movimenti socialisti) e dei "neri" (i cattolici), Minghetti terrà costantemente fermo a un liberalismo che sappia far perno sul centro degli schieramenti parlamentari e darsi carico di un'attenta opera di riforme, tese a smussare gli estremismi di volta in volta in campo. Riforme amministrative e riforme sociali rappresenteranno le linee maestre di tale strategia, in nome della costruzione di uno Stato che, facendosi forte dell'apporto della "classe media" deve saper svolgere un'attenta opera di composizione dei conflitti nell'età nuova che si va profilando all'orizzonte: l'età dell'amministrazione. Anche dai banchi del parlamento così come in molti suoi discorsi extraparlamentari Minghetti, vera e propria punta di diamante del liberalismo italiano contemporaneo, rivendicherà con forza a sé e al suo partito il merito di aver saputo intraprendere la via di uno "sperimentalismo" che segue la legge della "lenta evoluzione", secondo i dettami delle moderne scienze sperimentali, sperimentalismo ormai affermatosi, a livello metodologico, anche sotto il profilo delle nuove scienze politiche e sociali (dall'economia, alla scienza delle finanze, alla scienza dell'amministrazione, alla sociologia etc.). Più volte, in sintonia con i più grandi esponenti del pensiero politico liberale italiano di fine Ottocento egli dichiarerà ormai chiusa la cosiddetta "età della costituzione", l'età cioè in cui si trattava di condurre la lotta contro i regimi assolutistici e per la formazione dello Stato unitario, in nome del costituzionalismo e della salvaguardia dei diritti individuali (battendosi quindi per ottenere la costituzione, costituzione che l'Italia unita si è già data estendendo al Regno lo Statuto albertino del 1848). Ben diversi sono per Minghetti gli obiettivi che il liberalismo degli ultimi decenni dell'Ottocento deve perseguire, soprattutto, nella fattispecie italiana, una volta portata a termine la costruzione dell'unità con Roma capitale (1870): per l'Italia si tratta infatti di affrontare da vicino la "questione finanziaria", la "questione amministrativa" e la "questione sociale", quest' ultima, in particolare, secondo le linee dei grandi modelli europei, in primo luogo il modello inglese e il modello tedesco. Sullo sfondo c'è naturalmente un processo di amministrativizzazione della politica che egli, come i suoi più illustri contemporanei italiani ed europei (basti citare in tal senso le opere di Lorenz von Stein), ha ben presente e che rappresenterà un riferimento obbligato anche per le sue più importanti opere teoriche, al di là delle singole tematiche prese in esame, pur di per sé rilevanti per il dibattito politico. 
Se i contemporanei erano concordi nel riconoscere in Minghetti un maestro dal punto di vista della riflessione politica, tale dimensione verrà man mano sfuocandosi nel corso del Novecento da parte della storiografia, sotto il profilo, almeno, dell'analisi complessiva e della metodologia d'indagine del "politico". Il nome di Minghetti resterà in ombra anche da parte di numerosi storici italiani che analizzeranno le differenti eredità teoriche del liberalismo italiano della seconda metà del diciannovesimo secolo. Sarà per iniziativa di Nicola Matteucci che la figura di Marco Minghetti come pensatore politico ritornerà alla ribalta, dopo molti decenni di oblìo della dimensione suddetta, da parte degli storici del pensiero politico2. Nel centenario della morte dello statista bolognese, la pubblicazione degli Scritti politici e il convegno internazionale tenutosi a Bologna, dal 7 al 10 ottobre 1986, su Marco Minghetti e la cultura politica europea3 rappresenteranno un momento fondamentale per un nuovo confronto con l'opera minghettiana nel suo insieme, spettro d'osservazione privilegiato sia della politica che della cultura politica del liberalismo italiano ed europeo4.
A partire dalla sua prima, grande opera dal titolo Della economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto (1859) (opera che verrà tradotta in francese nel 1863), Minghetti scenderà sul campo del grande dibattito metodologico e politico relativamente ai princìpi della scienza economica e alle molteplici dimensioni dell'interventismo statale; egli si dimostrerà poi in grado di misurarsi con i grandi temi del liberalismo contemporaneo, dal rapporto tra la Chiesa e lo Stato (l'opera Stato e Chiesa, pubblicata nel 1878, fu tradotta in tedesco nel 1881 e in francese nel 1882), alla problematica dei partiti politici nel governo parlamentare (l'opera I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione del 1881, sarà un punto di riferimento obbligato per la pubblicistica successiva in proposito). Il filo rosso delle sue considerazioni terrà ben fermo alla chiave di volta del rapporto tra il cittadino e lo Stato e dei compiti che quest'ultimo deve assumersi direttamente o, invece, lasciare alla società civile, di fronte all'evolversi della civiltà contemporanea.
Nel sottolineare più e più volte il suo rifiuto di ogni apriorismo, egli innalza, ne Il cittadino e lo Stato (1885) un vero e proprio inno a un' ottica scientifico-sperimentale che gli appare come la sola, appropriata guida di una politica che si possa configurare al tempo stesso come scienza e prassi concreta. Il tema classico della libertà dell'individuo nei confronti dello Stato segue dunque l'itinerario di uno sperimentalismo che traccia con precisione i limiti delle diverse polarità in campo:
Io credo che la determinazione dei limiti della libertà del cittadino e della ingerenza dello Stato non si possa fare a priori, ma che si debba esaminare ogni speciale questione, pesare e notare ogni circostanza, procedere insomma sperimentalmente. E' questa la conseguenza naturale del principio che io posi dalle prime parole di questo scritto, cioè che il problema non si può sciogliere in modo assoluto, ma relativamente alle condizioni di tempo, di luogo, di civiltà di un popolo.5
Egli avrà comunque cura di ribadire costantemente il postulato liberale secondo il quale lo Stato non deve sostituirsi alla iniziativa privata, ma soltanto integrarla:
La prima [condizione] è che lo Stato non deve sostituirsi alla iniziativa privata, ma integrarla e compierla. Laddove quella basti, l'ingerenza dello Stato è soverchia e perciò non buona. Ciò che la giustifica, e la rende opportuna è la necessità di provvedere ad interessi generali, ai quali non giunge l'azione dei singoli cittadini, o delle loro libere associazioni. Il determinare poi questa necessità è opera di accurato esame delle condizioni speciali del tempo, del luogo, della vita economica di un popolo, in relazione al fine che si vuol conseguire; è frutto di esperienza e non può essere indicato a priori.
Ancora una volta e di nuovo a Bologna, il convegno su Marco Minghetti e le sue opere, tenutosi in data 11 novembre 2000, ha ora il compito di rivisitare il ruolo di Minghetti come statista e, soprattutto, come osservatore-scienziato della politica e delle sue problematiche fondamentali; si tratta inoltre di mettere in rilievo se e fino a che punto le opere suddette possano risultare significative per l'indagine odierna della complessa sfera del "politico". Gli atti che qui vengono presentati testimoniano, (alla luce delle tematiche politiche e scientifiche più vive del passato-presente, attentamente indagate da parte degli illustri studiosi partecipanti al convegno), quanto l'indagine di Minghetti continui a rappresentare una sfida anche per la politica del ventunesimo secolo.


1 Per una puntuale indagine sul ruolo svolto da Minghetti come uomo di governo della Destra cfr. A.BERSELLI, Il governo della Destra. Italia legale e Italia reale dopo l'Unità, Bologna, Il Mulino, 1997.
2 Cfr. N.MATTEUCCI, Introduzione a N.MATTEUCCI-R.LILL, Il liberalismo in Italia e in Germania dalla rivoluzione del del'48 alla prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 7-14. Matteucci svilupperà ancora più compiutamente la sua tesi sull'importanza del pensiero politico di Minghetti in N.MATTEUCCI, Marco Minghetti pensatore politico, in R.GHERARDI-N.MATTEUCCI (a cura di), Marco Minghetti statista e pensatore polit
I, Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri, 1986. Gli atti del convegno suddetto sono pubblicati nei due volumi seguenti: R.GHERARDI-N.MATTEUCCI (a cura di), Marco Minghetti statista e pensatore politico. Dalla realtà italiana alla dimensione europea, Bologna, il Mulino, 1988; N.MATTEUCCI-P.POMBENI (a cura di), L'organizzazione della politica. Cultura, istituzioni, partiti nell'Europa liberale, Bologna, Il Mulino, 1988.
4 Cfr. in tal senso, oltre alla mia Introduzione a M.MINGHETTI, Scritti politici cit., pp. 1-54, R.GHERARDI, L'arte del compromesso. La politica della mediazione nell'Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1993.
5 Cfr.M.MINGHETTI, Il cittadino e lo Stato, in M.MINGHETTI, Scritti politici cit., p. 813. Questo scritto fu pubblicato dalla "Nuova Antologia", come lunga recensione dell'opera di Spencer allora appena pubblicata in italiano L'individuo e lo Stato. Per la citazione successiva cfr. Ibidem, p. 825.

* Professore Ordinario di Storia delle dottrine politiche Università di Bologna


 

I "limiti razionali" dell'economia politica 

Roberto Scazzieri*

1.Premessa: economia politica e 'filosofia dell'economia'
I contributi di Marco Minghetti all'analisi economica occupano un campo di considerevole ampiezza, che va dagli scritti sugli 'interessi materiali' e le questioni agrarie (Minghetti, 1841a, 1841b, 1844, 1846, 1853) al contributo sulla teoria classico-marxiana del valore di scambio pubblicato nel Giornale degli Economisti (Minghetti, 1886). Il momento centrale di questa produzione scientifica riguarda però il tentativo minghettiano di gettare le fondamenta di una vera e propria disciplina, che 'avrebbe dai moderni il titolo di Filosofia della Economia' (Minghetti, 1859, p. xi). 
Le ricerche di Minghetti sulla 'filosofia della economia' confluiscono e trovano presentazione organica nell'opera Della economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto, conclusa a Bologna nel novembre 1858 e pubblicata a Firenze nel 1859 dall'Editore Le Monnier (Minghetti, 1859).
Gli obiettivi dell'analisi di Minghetti sono individuati con chiarezza nel capitolo introduttivo, dove l'autore osserva che il suo scritto 'non è un trattato formale di economia pubblica' (p. v). Al contrario, obiettivo dello scritto è 'circoscrivere' i limiti dell'economia politica, e assegnare ad essa 'il posto che [...] le compete' nel sistema delle conoscenze (p. v). Il punto di partenza della riflessione di Minghetti è la convinzione che l'individuazione precisa della distinzione fra settori di indagine sia condizione necessaria per lo sviluppo della conoscenza scientifica, e che 'all'esame analitico ' debba fare seguito 'il riassunto sintetico' (p. VIII), cosicchè ogni scienza possa alla fine vedersi 'distinta, ma non segregata dalle altre; connessa, ma non confusa con quelle' (ibidem).

2. I presupposti dela teoria economica e le 'attinenze' dell'economia politica
Gli obiettivi fissati da Minghetti per la 'filosofia della economia' sono quindi collegati alla ricostruzione analitica della struttura concettuale dell'economia politica, in modo da mettere in luce i punti di partenza degli schemi di teoria economica e i loro presupposti in concezioni più generali sulla natura delle azioni umane e delle interazioni fra soggetti. Su questo piano, Minghetti individua un collegamento interessante fra controversie scientifiche e 'chiusura' dei sistemi assiomatici, osservando che, almeno in parte, le controversie fra economisti derivano dal processo di 'frammentazione' necessario durante la fase di consolidamento analitico della disciplina (pp. vii-viii). In questa prospettiva, Minghetti propone una sorta di 'esplicitazione dei presupposti' che dovrebbe ridurre lo spazio delle controversie e degli 'errori economici'. In particolare, i presupposti dell'economia politica sono individuati da Minghetti nelle ipotesi su criteri morali e norme giuridiche che si trovano spesso alla base delle generalizzazioni economiche.
In questa prospettiva, Minghetti avvia la propria riflessione sull' 'oggetto e metodo' dell'economia politica attraverso una ricostruzione delle 'unsettled questions' dell'analisi economica a lui contemporanea1. In particolare, Minghetti osserva che 'la discordia e il contrasto fra gli scrittori' in materia economica siano in parte notevole 
ascrivibili ad un difetto di individuazione dell'oggetto specifico dell'economia politica (p. 69). Infatti, secondo Minghetti, un criterio metodologico di carattere generale richiede che 'la definizione di una scienza' si debba cercare 'non solo in lei stessa, ma ... nelle sue attinenze con tutte le altre' (p. 70). Nel caso dell'economia politica, Minghetti osserva che il campo di indagine proprio di questa disciplina si può derivare dalla considerazione che 'gli scrittori economici, anche inconsciamente, sono costretti a presupporre dei dati morali, anteriori e superiori alla scienza loro, dei quali si giovano come di norma' (p. 93). In particolare, gli economisti presuppongono la società 'organata in forme regolari, con una partizione di uffici, ed un governo che tuteli in alcun modo i diritti degli individui' (p; 93). In modo analogo, 'tutto ciò che si riferisce alla rendita della terra assume dal diritto naturale la giustificazione della proprietà' (ibidem). Infine, il problema della 'attinenza' fra interesse privato e bene pubblico rinvia a dati che riguardano le discipline morali, e non può essere considerato in modo indipendente dalle teorie della giustizia e dell'equità (p. 94).

3. Le 'libere operazioni' e i 'limiti razionali' dell'economia politica
Il riconoscimento delle 'attinenze' fra l'economia politica e le 'discipline morali' consente di individuare i 'limiti razionali' dell'economia politica (p. 96), cioè quell'insieme di postulati 'senza dei quali essa non potrebbe bene comprendere tutte le sue leggi, né risolvere tutti i suoi problemi' (ibidem). In questa prospettiva, Minghetti identifica l'oggetto dell'economia politica nelle 'operazioni libere degli uomini sulle cose, in quanto esse sono atte ad appagare i loro bisogni' e negli 'effetti che ne conseguono' (p. 73). Infatti, le une e gli altri 'costituiscono una serie di fatti speciali, importanti, necessariamente collegati fra loro' (ibidem).
In conclusione, Minghetti ritiene che lo studio dell'economia politica presupponga un duplice processo di collegamento e di distinzione. Le 'operazioni libere degli uomini sulle cose' (volte a soddisfare bisogni), insieme ai loro effetti, individuano un ambito specifico di indagine che consente di distinguere l'economia politica dalle altre discipline morali. D'altra parte, le condizioni specifiche che permettono ai soggetti di soddisfare bisogni attraverso operazioni libere sulle cose non possono essere determinate all'interno dell'economia politica, e rinviano a codici etici e a istituzioni giuridiche e politiche . In altri termini, i 'limiti razionali' posti all'economia politica da postulati che rinviano ad altre discipline morali consentono alla stessa disciplina di individuare con maggiore precisione il proprio ambito, e permettono ai soggetti di realizzare concretamente 'libere operazioni' nelle forme appropriate a specifiche condizioni storiche.

4 Gli scambi e la società civile
L'attenzione di Minghetti per i limiti razionali del ragionamento economico è alla base delle sue osservazioni riguardanti la natura degli scambi e le caratteristiche dell'interesse proprio (self-interest). In particolare, Minghetti fa riferimento alle osservazioni di Richard Whately nelle sue Introductory Lectures on Political Economy (Whately,1847; prima edizione 1831), in cui si definisce l'economia politica come 'catallattica' o 'scienza degli scambi'. A questo proposito, Minghetti scrive che l'economia presuppone 'come condizione necessaria, un ordinamento civile' (p. 103), e che nella società civile 'il fatto economico fondamentale è lo scambio' (ibidem, nostro corsivo). Tuttavia sarebbe errato pensare che 'lo scambio sia il primo e quasi il solo elementare fatto economico' (p. 105). Infatti, secondo Minghetti, l'insieme dei fatti economici elementari comprende, oltre allo scambio, il lavoro umano e il risparmio (ibidem). In conclusione, Minghetti identifica l'ambito proprio dell'economia politica in una particolare intersezione tra fatti elementari riguardanti il comportamento dei singoli (il lavoro e il risparmio) e fatti elementari riguardanti l'interazione fra individui (lo scambio). In questo modo, l'economia politica viene caratterizzata come disciplina morale che si occupa del raggiungimento di stati mentali (di appagamento o soddisfazione) utilizzando 'cose materiali [ ...] come strumento' (p. 107). Il raggiungimento di tali stati mentali avviene attraverso 'libere operazioni' che presuppongono: (i) la libertà 'etica' di scelta consentita dall'autonomia del soggetto che utilizzi 'principii e ... condizioni morali' (p. 108); (ii) la libertà 'civile' di scelta consentita dall'esistenza di ordinamenti che fanno riferimento ad un criterio di giustizia (ibidem). Questo punto di vista mette in evidenza il carattere 'misto' dell'economia politica secondo Minghetti, e quindi la sua complessa articolazione come punto di equilibrio tra analisi di configurazioni determinate dalle 'operazioni libere' dei soggetti e studio delle condizioni morali e civili che rendono in concreto possibile l'esercizio della libertà di scelta.
L'identificazione dell'economia politica come disciplina che si occupa della concreta 'struttura della prassi' nel caso di operazioni libere atte ad appagare bisogni conduce Minghetti a studiare con attenzione i presupposti morali di quella classe di operazioni (i presupposti morali delle scelte economiche). Infatti, le scelte economiche si riferiscono ad ambiti particolari e determinati di scelta, che riflettono gli schemi mentali e quindi i criteri morali dei soggetti. Le 'operazioni libere' dei soggetti in campo economico richiedono l'esercizio del 'libero arbitrio' (libertà di scelta) ma quest'ultimo non si identifica con l'utilizzazione di un singolo criterio di scelta, quale il self interest (o self love), la benevolenza, oppure l'utilità benthamiana (pp. 191-194). In particolare, la libertà di scelta si esprime anche attraverso l'identificazione delle alternative fra cui scegliere, e la messa a fuoco di queste ultime riflette 'principii e [...] condizioni morali' (p. 108). 

5. Produzione della ricchezza, 'ripartizione' dei prodotti e condizioni morali
Questo punto di vista suggerisce a Minghetti un insieme di criteri per orientare il giudizio relativo ad aspetti particolari dell'economia politica. Nel caso della produzione e del progresso tecnico, Minghetti osserva che criteri morali possono suggerire una 'messa a fuoco' di alternative che orientano la libertà di scelta verso soluzioni graduali e cambiamenti meno traumatici: 'la prima ed immediata conseguenza delle macchine e della cultura in grande, sovrattutto dove il mutamento accadde repentino e vasto, fu una perturbazione industriale' (p. 228). Tuttavia presupposti morali possono modificare le caratteristiche della libertà economica, non tanto nel senso di sottoporla a condizioni e vincoli esterni quanto nel senso di orientare la scelta verso un diverso insieme di alternative. In questo modo è possibile 'temperare quei passaggi, e renderli meno aspri; e, quasi direi, fare che gradatamente e senza scosse si compiano' (p. 229). Il particolare punto di vista di Minghetti suggerisce in questo passo una possibilità interessante anche per l'analisi economica contemporanea: le fasi di cambiamento strutturale, quindi le fasi di 'trapasso da una condizione di cose ad un'altra' (p. 228), possono determinare squilibri e costi sociali elevati; ma la perturbazione industriale non è un fenomeno necessario, o almeno non è necessaria una perturbazione di ampiezza data. Infatti, l'ampiezza delle perturbazioni connesse a fasi di cambiamento strutturale può essere ridotta attraverso opportune modificazioni delle funzioni di comportamento dei soggetti, oppure attraverso modificazioni del campo di alternative a loro disposizione.
Nel caso della distribuzione del prodotto complessivo fra gli individui (e fra le classi sociali), Minghetti distingue fra due criteri fondamentali: (i) ripartizione in base alla 'efficacia rispettiva' dei fattori produttivi (come capitale e lavoro); (ii) ripartizione in base alle proporzioni relative dei fattori produttivi impiegati (p. 284). I due criteri sono entrambi presenti nella distribuzione effettiva dei prodotti. Tuttavia, Minghetti considera che il secondo criterio (proporzioni relative) sia rilevante soprattutto nel breve e medio termine, quando per l'influenza delle relazioni fra domanda e offerta dei fattori produttivi esso 'modifica tanto il primo elemento sul quale, per così dire, è innestato, che talora sembra da sé solo produrre ogni effetto' (p. 284). D'altra parte, il criterio della 'efficacia rispettiva' dei fattori produttivi manifesta la propria influenza soprattutto nel lungo termine: 'nella distribuzione de'prodotti, [dapprima] la proporzione fra i capitali e le braccia sembra determinare il modo di riparto; ma sotto vi sta a modo di legge e di ragion prima la efficacia rispettiva del capitale e del lavoro all'opera della produzione' (p. 284). Diversa è la posizione dei due criteri distributivi per quanto riguarda il ruolo di presupposti e condizioni morali. Infatti, un criterio di giustizia può essere alla base della distribuzione "naturale" che collega la ripartizione dei prodotti all'efficacia rispettiva dei fattori produttivi. Invece la "distribuzione effettiva" dei prodotti secondo le proporzioni relative tra fattori (e quindi secondo la scarsità relativa di tali fattori) riflette criteri morali solo in modo indiretto, attraverso l'influenza di questi ultimi sulla domanda e offerta di risparmio e lavoro.

6. Sulle conseguenze morali degli scambi: dalla 'catallattica' alla 'catallassi'
La ricostruzione razionale delle situazioni di scambio consente a Minghetti di condurre un'indagine raffinata della relazione fra scambio e condizioni morali. Il punto di partenza dell'analisi di Minghetti è l'osservazione che la 'giustizia dello scambio' non può essere individuata nella determinazione di una 'norma allo scambio' distinta dal 'consenso dei contraenti' (p. 304). In questa prospettiva, lo scambio 'giusto' è semplicemente una relazione di scambio caratterizzata dalle due condizioni di 'veracità' e 'libertà' (ibidem). Nel primo caso, si esclude 'ogni maniera d'inganno' nella comunicazione fra i contraenti (ibidem). Nel secondo caso, si esclude che i contraenti siano costretti allo scambio da forme di coercizione fisica o morale. L'attenzione per le condizioni morali dello scambio suggerisce a Minghetti l'esistenza di una relazione costitutiva fra scambio e benevolenza, e gli consente di individuare, assai prima di Hayek, il nesso fra le relazioni di scambio della 'catallassi' e il 'passaggio' dall'inimicizia all'amicizia. A questo proposito, Minghetti osserva che 'la voce greca significa permuta, cambio; e ancora conciliazione, alleanza' (p. 306 n). Questa osservazione è di grande interesse, perché mostra come l'attenzione di Minghetti per la struttura degli scambi vada al di là della 'catallattica oxoniense' proposta da Richard Whately (1847) e ripresa in anni recenti da Sir John Hicks (Hicks, 1976). Infatti per Whately come per Hicks è centrale la considerazione della transazione come trasferimento di beni (o servizi) che risulta mutuamente vantaggiosa per i contraenti (Whately, 1847, pp. 3-6; Hicks, 1976, p..212). Invece per Minghetti, che pure conosce bene gli scritti di Whately, l'aspetto centrale dello scambio è costituito dalle sue conseguenze morali piuttosto che dai risultati sul piano allocativo. Minghetti riconosce che la varietà delle attitudini umane e della loro ripartizione rende lo scambio una condizione necessaria per l'allocazione efficiente delle risorse fra i diversi soggetti (p. 304). Tuttavia su questo aspetto Minghetti non ritiene utile ' il soffermarvisi' (ibidem). Più importante è invece, nella sua analisi, il fatto che 'lo scambio essendo una delle forme dell'associazione umana [...] la sua radice è essenzialmente buona' (ibidem). In particolare, secondo Minghetti, è convinzione consolidata negli usi linguistici che lo scambio 'moltiplicando le relazioni [generi ] benevolenza' (p. 306). Queste ultime osservazioni allontanano Minghetti dalla concezione 'catallattica' di autori come Destutt de Tracy (1823) e Whately (1847) , e lo accostano in modo significativo e per certi aspetti sorprendente alla concezione della società civile come 'catallassi' (catallaxy) proposta in anni più vicini a noi da Friedrich August von Hayek (1978). In particolare, la concezione della 'società degli scambi' delineata da Minghetti appare vicina alla concezione hayekiana della società civile come struttura relazionale aperta, caratterizzata da atteggiamenti e propensioni comuni, ma non da una 'volontà comune' (Hayek, 1978, pp. 179 - 190).

6. Alcune conclusioni 
La riflessione economica di Minghetti, soprattutto nel saggio Dell'economia pubblica, si colloca all'intersezione di differenti linee di ricerca, tutte originate all'interno della grande tradizione dell'economia politica classica, della quale anche Minghetti fa parte. In particolare, Minghetti guarda con molta attenzione all'analisi della società civile elaborata nel corso del diciottesimo secolo in Scozia e Inghilterra (ma non solo), filtrata nella Wealth of Nations di Smith (Smith, 1776) e confluita nella sistemazione concettuale di Giandomenico Romagnosi (Romagnosi, 1835). Questo punto di vista costituisce un elemento di originalità degli scritti economici di Minghetti, e distingue la sua posizione scientifica da altri sviluppi teorici interni alla tradizione classica. In particolare, Minghetti si distingue sia dalla concezione ricardiana dell'economia politica come scienza 'materiale' delle interconnessioni tecnologiche e della distribuzione delle ricchezze, sia dalla concezione dell'economia politica come scienza allocativa degli scambi (catallattica) seguita da Destutt de Tracy (1823), Whately (1847) e altri economisti.
In termini più specifici, l'economia politica di Minghetti parte dalla considerazione dei nessi ('attinenze') fra società civile e analisi della riccchezza, inserisce l'analisi della divisione del lavoro e del progresso tecnico all'interno di una teoria degli ordinamenti civili, e mette in risalto il collegamento costitutivo fra catallattica (scienza degli scambi) e società civile.
Queste caratteristiche dell'analisi economica di Minghetti la collegano direttamente alla matrice morale e civile della tradizione smithiana, ma al tempo stesso la rendono prossima a importanti linee di riflessione della letteratura economica più recente.


1 Il riferimento è allo scritto di John Stuart Mill sulle 'unsettled quations of political economy' (Mill, 1844), la cui prima edizione è presente nella biblioteca privata di Minghetti (Gavelli, 1986, p. 168).

Riferimenti bibliografici

Destutt de Tracy, A.C.L. (1823) Traité d'économie politique, Paris, Bougnet et Lévy.

Gavelli, M. (1986) Catalogo del Fondo "Marco Minghetti", Bologna, CLUEB.

Hayek, F.A. (1978) ' Competition as a Discovery Procedure', in F. A. Hayek, New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas, London and Henley: Routledge and Kegan Paul, pp. 179-190; anche in The Collected Works of Friedrich August Hayek, vol. I, a cura di by W. W. Bartley, III, London: Routledge, 1988. 

Hicks, J. (1974) ' "Revolutions" in Economics', in Method and Appraisal in Economics, ed. S.J. Latsis, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 207-218.
Mill, J.S. (1844) Essays on Some Unsettled Questions of Political Economy, London, John W. Parker.

Minghetti, M. (1841a) Intorno alla tendenza agli interessi materiali che è nel secolo presente, Firenze, Tipografia di Felice Lemonnier.

Minghetti, M. (1841b) Nuove osservazioni intorno alla tendenza agli interessi materiali che è nel secolo presente, in risposta alla Lettera del Sig. A.P. [Andrea Pizzoli] inserita nel Giornale "Il Solerte", anno iv, n. 8-9-10, Firenze, Tipografia di Felice Lemonnier.

Minghetti, M. (1844) Della proprietà rurale e dei patti tra il padrone e il lavoratore. Discorso letto alla Società agraria di Bologna, Bologna, tipi Sassi.

Minghetti, M. (1846) Della riforma delle leggi frumentarie in Inghilterra ... discorso letto alla Società Agraria di Bologna da ... Marco Minghetti, Bologna, Tip. Sassi.

Minghetti, M. (1853) Descrizione del podere di Tiptree Hall (Brano di discorso letto dal Signor Marco Minghetti alla Società agraria nel 1853), estratto dal "Propagatore agricolo", fascicolo di Novembre e Dicembre 1853, Bologna, Tip. Sassi.

Minghetti, M. (1859) Della economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto. Libri cinque, Firenze, Le Monnier.

Minghetti, M. (1886) "Di una proposizione di Ricardo non esattamente interpretata", Giornale degli Economisti, vol.
I, pp. 3-6.

Romagnosi, G. ( 1835) Opere, Firenze, nella Stamperia Piatti.

Smith, A. (1759) The Theory of Moral Sentiments, London-Edinbirgh, A. Millar - A. Kincaid and J. Bell.

Smith, A. (1762-1763) 'Lectures on Jurisprudence', Report of 1762-1763, in A.Smith, Lectures on Jurisprudence, edited by R.L. Meek, D.D. Raphael e P.G. Stein, Oxford, Clarendon Press, 1978, pp. 1 - 394.
Smith, A. (1766) 'Lectures on Jurisprudence', Report dated 1766, in A.Smith, Lectures on Jurisprudence, edited by R.L. Meek, D.D. Raphael e P.G. Stein, Oxford, Clarendon Press, 1978, pp. 395 - 558.

Smith, A. (1776) An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, London , W. Strahan and T. Cadell.

Whately, R. (1847) Introductory Lectures on Political Economy, delivered at Oxford in Easter term, 1831, terza edizione riveduta e ampliata, London, John W. Parker.

* Professore ordinario di Analisi Economica Università di Bologna


 

Libera Chiesa in libero Stato

Piergiuseppe Monateri*

La questione del rapporto fra Stato e Chiesa può essere posta e affrontata ad almeno tre livelli differenti.
Innanzitutto essa può venir posta a livello puramente giuridico, ed è questo, in primo luogo, il modo, anche se non l'unico, in cui l'affronta Minghetti.
Ciò che colpisce è che Minghetti affronta la questione giuridica dal punto di vista della comparazione. Diversamente, cioè, dai giuristi della sua epoca, e di quelle successive, fino quasi al secondo dopoguerra, Minghetti non si incammina verso l'analisi dogmatica delle definizioni giuridiche, e delle loro conseguenze in termini di regole operazionali(1). Egli, piuttosto, pone il problema come questione empirica, volto ad osservare come si è attuata, e come si è risolta, la separazione Stato-Chiesa in Belgio, in Irlanda, negli Stati Uniti d'America; compiendo, quindi, un'operazione intellettuale molto diversa da quelle che nel giure italico venivano compiute alla sua epoca. 
Un secondo modo di affrontare la questione è quello di porre la vera e propria questione dell'autorità sopra l'etico "Ueber das Sittlichkeit" per utilizzare l'espressione dello Hegel, nella sua Filosofia del diritto. In realtà, se noi guardiamo il fondo delle cose, ciò che veramente ci interessa non è qui tanto sapere se è la legge dello Stato, o il patto in quanto trattato internazionale, che regola i rapporti Stato-Chiesa, ma la definizione dell'autorità sopra quell'ambito di spazio che noi chiamiamo "etico". Uno spazio che nella cognizione moderna dei gazzettieri è semplicemente ridotto alla questione dei rapporti sessuali, della procreazione assistita, o quant'altro mai fatto in provetta, quando invece le questioni sono ovviamente molto più fondamentali e spinose, ed occorre che i laici tornino ad esserne consapevoli, e a rimeditare, quindi, sulla questione che qui si pone come essenziale, e cioè quella dell'autorità sopra l'etico.
Infine, un terzo punto di vista , che ancora riallaccia Minghetti all'attualità, è quello di vedere i rapporti fra Stato e Chiesa come tratto culturale essenziale, che distingue una civiltà dall'altra. Qui la riflessione di Minghetti si sposa molto bene con il recente libro di Paolo Prodi, per rimanere nell'ambito bolognese, sull'origine e la storia della giustizia. Un libro per me essenziale, soprattutto rispetto ai riferimenti liberali classici di Minghetti, nel mostrare come un certo modo di risolvere le questioni tra Stato e Chiesa distingua nettamente una civiltà dall'altra. Basti pensare all'Islam, alla Cina del confucianesimo di Stato, all'Ortodossia, all'Europa a base culturale cattolica, all'Europa a base non cattolica, e agli Stati Uniti d'America. Allora qui veramente i rapporti tra Stato e Chiesa si pongono come questione essenziale nel mondo della globalizzazione; come ridefinizione delle eredità culturali e delle nuove identità. Si pensi a quanto il problema del Cristianesimo pesi sulla definizione dell'"heritage" a cui fare riferimento nella definizione stessa dell'identità europea.
Cominciamo, allora, dall'analisi giuridica comparatistica di Minghetti.
Quali sono, in estrema sintesi, i capisaldi del suo pensiero? 
Innanzitutto Minghetti dedica molta attenzione al Belgio, e pochissima alla Francia.
E' proprio trattando del Belgio che egli pone il suo principio per cui "la chiesa rinunzi alle inframmittenze politiche è che sia indipendente dal bilancio dello Stato e che nella sua sfera d'azione ragionevole ed equa non incontri ostacoli o molestie". 
Questa proposizione sembra di per sé banale, ma in realtà non lo é affatto, nel senso che la soluzione belga era quella di una certa integrazione del sostentamento della chiesa a spese del bilancio dello Stato. Una soluzione in realtà diversa da quella che si era realizzata durante la Rivoluzione Francese con i "preti costituzionali", rispetto al clero refrattario, ma soprattutto contraria a buona parte del pensiero laico dell'epoca. Un pensiero che era piuttosto antireligioso che laico, laddove non si voleva soltanto una chiesa "libera associazione", che non incontrasse ostacoli o molestie, ma si voleva conculcare l'opera della chiesa. Un aspetto del laicismo che oggi pochi amano ricordare, ma che non per questo non è esistito.
L'idea cardine di Minghetti è molto tipica, è quella della chiesa come associazione privata, la quale deve essere però essenzialmente libera e, infatti, passando all'analisi degli Stati Uniti d'America, rintuzza le polemiche di chi paventa che la chiesa libera associazione cominci immediatamente a possedere ospedali, scuole, partecipazioni finanziarie, ciò che in effetti già avveniva in America, con evidente influenza sui parlamenti e sulle amministrazioni locali.
Secondo Minghetti tale influenza non deve importare : non si può utilizzare lo Stato per conculcare l'organizzazione stessa della chiesa, tant'é che, infatti, in modo molto forte, Minghetti sostiene che lo Stato non potrebbe interferire con l'amministrazione fiduciaria dei beni ecclesiastici. Si tratta, all'epoca, di una presa di posizione forte perché, durante la Rivoluzione Francese,tale interferenza si espresse pienamente. Tutto il Codice Civile francese è un codice di battaglia politica, sebbene sia stato poi presentato come una geometria della Ragione nel campo giuridico. In realtà il Code Napoléon è improntato a una netta contrarietà ai rapporti fiduciari, a differenza dei sistemi di Common Law che non hanno mai conosciuto la Rivoluzione, e dove il "Trust" domina. Il diritto francese temeva che tramite i rapporti fiduciari si potessero ricreare i rapporti feudali, ecclesiastici, di Ancien régime. Perciò il Code civil ne ha orrore, e in ciò si distingue nettamente dal diritto anglo-americano, dove appunto i beni delle chiese sono posseduti in Trust, cioè tramite rapoprti fiduciari, e dove le Trust companies sono ormai le grandi rivali delle società per azioni, soprattutto nel settore non-profit.
Un secondo caposaldo del pensiero di Minghetti è l'adesione alla legge delle guarentige (13 maggio '71). Tale legge è da approvare. Punctum dolens è la qualifica di sovrano attribuibile al pontefice. Sul punto Minghetti preferisce mescolare principi e considerazioni pratiche. In principio preferirebbe non riconoscere sovranità alcuna al pontefice, se non fosse che l'idea del Papa come esule fuori Roma , quale "sublime mendico" per l'Europa, giustamente lo spaventa dal punto di vista politico, e ne conclude che bisogna quindi evitare di ridurre il pontefice a gran cappellano, a "limosiniere", del Re d'Italia.
Qui, allora, la questione della "sovranità" si pone come essenziale, e bisogna, innanzitutto ricordare come il problema della sovranità, della Santa Sede non fu affare solamente italiano, e che l'attributo di soggetto internazionale alla Santa Sede deriva non dalla legge delle guaretinge, ma da un riconoscimento internazionale. Ovvero, sul punto, la questione dei rapporti Stato-Chiesa non si pone come pura materia italiana, ma come questione di diritto squisitamente internazionale, laddove la comunità degli Stati Europei riconosce la soggettività internazionale della Santa Sede.
Ancora una volta tale riconoscimento non si pone affatto come banale, ma rappresenta piuttosto una vistosa eccezione. Infatti normalmente la soggettività internazionale viene riconosciuta o agli Stati, o a gruppi di insorti che riescano a controllare stabilmente un determinato territorio, per via del potere di fatto che essi hanno su quel territorio. La Santa sede non era uno Stato, e, all'epoca, non aveva un territorio. In tal modo, quindi, si creava un soggetto di diritto internazionale ad hoc, invocando la consuetudine, cerimoniale, che riconosceva al pontefice il rango di un Capo di Stato.
Un modo di procedere che può stupire il laico, ma non il giurista, che quando deve inventare qualcosa che non ha fondamento, invoca con facilità la consuetudine immemmore. In tal caso, essendo stato il Papa un soggetto politico rilevante per l'Europa, la consuetudine viene interpretata nel senso della soggettività internazionale. Naturalmente, però, non mancarono le querelles de chapelle. Alcuni giuristi tedeschi, come sempre estremamente logici, sostennero che se si ha un soggetto di diritto internazionale, non si può non riconoscergli un territorio. Perché? perché putacaso il Papa inciti i sudditi tedeschi alla ribellione, la Germania non potrà esercitare la legittima sanzione internazionale non avendo un territorio da aggredire. Essa non potrà esercitare la legittima vendetta, che le compete secondo il diritto internazionale, e quindi si avrebbe un soggetto di diritto internazionale privo di responsabilità internazionale, il che é assurdo. In tale situazione la Germania, potrebbe unicamente rivolgersi al Re d'Italia, che dovrebbe comminare le sanzioni sul Papa, ma di nuovo avremmo un soggetto di diritto internazionale, che però è suddito di un altro soggetto internazionale, il che nuovamente è assurdo. Quindi avere un soggetto di diritto internazionale senza territorio porta ad assurdità incompatibili, onde bisogna riconoscere un territorio a questo soggetto. 
Ecco allora che i due capisaldi del pensiero di Minghetti si rivelano in realtà un poco traballanti: e cioè, da un lato, l'idea della Chiesa come associazione privata, assolutamente libera, che non deve incontrare ostacoli da parte dello Stato; e però, dall'altro lato, l'idea della soggettività di diritto internazionale di tale associazione. 
In questo pensiero ritroviamo, da un lato, l'idea della chiesa come "club di tennis". Infatti dire che la chiesa è un'associazione privata, nei nostri ordinamenti derivati dal Code Napoléon, significa dire che essa è regolata dall'art. 36 ss. C.c., che recita semplicemente che le associazioni private sono regolate dagli accordi tra gli associati. Il legislatore si occupa soltanto dei rapporti coi terzi, ma non si occupa mai del rapporto interno. L'associazione è veramente l'istituzione regolata soltanto dal contratto, ma non come nel contratto di vendita e di appalto dove c'è fior fior di norme che si applicano come un "block" alle operazioni economiche che facciamo. Semplicemente non si dice nulla, non ci sono norme supplettive. L'associazione privata è relegata nell'insignificanza giuridica. Conosciamo tutti benissimo la battaglia rivoluzionaria di contro le varie associazioni, siano esse ecclesiastiche o sindacali. Quindi la chiesa viene assimilata ad un club di tennis, così come lo saranno sostanzialmente i partiti politici, nonostante il loro enorme ruolo. Con la conseguenza, un po' paradossale, per cui quando rapiscono il presidente della Democrazia Cristiana, cosa rapiscono? Rapiscono l'equivalente, per l'ordinamento, di un presidente di una società di tennis e di cannottaggio, senonché sappiamo che questa è una grande ipocrisia, e che non è affatto così. Ma questa impostazione era, in realtà, un progetto politico, per ridurre la chiesa ad un club di tennis, e tuttavia un club di tennis dotato di soggettività internazionale, cui si riconosce, se non altro per ragioni di opportunità politica, di essere un soggetto di diritto alla pari degli Stati Uniti d'America, alla pari dell'Impero Turco, ma allora è evidente che questa soluzione è traballante in sé; e, infatti, condurrà, come sviluppo inevitabile, alla costituzione dello Stato della Città del Vaticano. Laddove tra Stato della Città del Vaticano e Santa Sede si realizza un'unione reale, secondo la definizione dei giuristi, in quanto l'organo supremo dell'uno e dell'altra è lo stesso organo, non in virtù di una mera concordanza personale, ma in virtù della realizzazione dei suoi scopi istituzionali, e quindi di una vera necessità delle cose. Ne segue che il problema dei rapporti fra Stato e Chiesa è interessantissimo, dal punto di vista della metafisica del diritto, proprio all'interno dello Stato della Città del Vaticano. 
Come, allora, i due capisaldi di Minghetti vengono tenuti insieme? Io direi soprattutto in virtù della "mitologia".
Il primo mito, che domina il pensiero liberale sel suo secolo, è quello secondo cui la separazione fra Stato e Chiesa è un portato della razionalità dello Stato laico moderno. E' lo Stato laico che si costituisce come tale e ha bisogno perciò di separarsi dalla Chiesa e assumere piena giurisdizione sul diritto. La versione più nota e complessa di questo mito è naturalmente offerta nella già ricordata Filosofia del diritto di Hegel. Se noi ben guardiamo al di là di questa mitologia, possiamo renderci conto di come la separazione dei due dominii, giuridico-mondano ed ecclesiale, sia in realtà molto più enracinée nella nostra cultura, e lo dice molto bene Paolo Prodi, riprendendo la teoria di Harold J. Berman dell'82, e cioé la duplicità dei fori che si crea in Occidente col separarsi della chiesa dall'insieme dei doveri e delle sudditanze feudali. 
La chiesa di Gregorio VII non vuole l'investitura feudale dei vescovi, che erano vescovi conti, vescovi principi, marchesi, perché non vuole sottostare al potere feudale, e vuole essere al di fuori di questo sistema di fedeltà : ciò che veramente attua la separazione dei due ordini è la riforma Gregoriana. La riforma Gregoriana crea anzitutto, per la prima volta nella storia dell'umanità un ordinamento giuridico in senso moderno, giacché il primo ordinamento giuridico europeo nel senso moderno è quello della Chiesa. Maestro Graziano, per tutti, è il costruttore della "stufenbau" cioé della gerarchia delle norme, della teoria moderna delle fonti del diritto, e saranno gli Stati europei a copiare tale modello di organizzazione: la Chancery del Re d'Inghilterra copierà la cancelleria del Papa, i cui brevis diventeranno i writs del diritto inglese, e così via. Forse questa duplicità di fori, che si crea con Gregorio VII, non è un risultato voluto, ma il fallimento di un tentativo teocratico. 
Però questa duplicità dei fori, che si crea comunque per iniziativa della Chiesa, é in realtà, badate bene, coessenziale alla civiltà occidentale, perché questa pluralità dei fori è unica della civiltà occidentale. Certamente non si realizza nell'Islam, dove la Sharia, e la stessa rivelazione divina, è la base della legge del diritto. Non si realizza neanche nella Cina confuciana, dove anzi il tratto giuridico scompare addirittura, a favore dell'elemento moraleggiante, e burocratico, che amministra le regole giuridiche sulla base di una ricopertura filosofica di Stato, ma con frammittenze religiose costanti. La nostra immagine della Cina deve molto all'orientalismo dei lumi. Voltaire, ma anche Rousseau(2) , utilizza spesso la Cina come contraltare della Francia dei suoi tempi, piena di preti e gesuiti: la Cina Repubblica di atei laici, esempio di morale. Un'immagine ideologica, giacché sappiamo che l'imperatore in Cina aveva funzioni religiose enormi. Era lui che poteva sacrificare al cielo, che poteva iniziare i raccolti e così via, tant'é che non a caso per la Città proibita, come è noto, si creerà un arrengement molto simile a quello della Città del Vaticano. Quando Yuan Shi Kai attua la prima Rivoluzione Cinese, nel 1912, concede praticamente alla città proibita uno status indipendente(3), così che fuori delle sue mura c'è una Repubblica, ma all'interno c'è un imperatore come rex sacrificulum, cioé un re addetto alle funzioni religiose , senza le quali la vita cinese non potrebbe procedere. 
Una vera pluralità di fori non si realizza neanche nell'Ortodossia con la sua impronta cesaro-papista , né si realizzerà compiutamente nelle chiese nazionali protestanti e nei loro rapporti costanti con lo Stato. Tale pluralità dei fori che fa così parte della nostra cultura occidentale, della "Western legal Tradition" , è proprio un lascito del Cattolicesimo romano, e ce la dobbiamo tenere cara, perché, giustamente, la pluralità dei fori contrasta l'attuale evoluzione verso un "diritto a una sola dimensione". Cioé del diritto che si occupa di tutto, il che poi in termini pratici significa che tutto può essere portato nell'aula di un giudice: dalla ricetta del medico, all'affetto familiare, al modo che i genitori hanno di educare i figli, sottraendo tutto ciò all'etica,e alla morale per affidarlo al giuridico. La nostra civiltà, in virtù di evidenti trapianti di modelli culturali dall'America, và in direzione del diritto ad una dimensione, rischiando di perdere, in realtà, quella pluralità dei fori che è un suo tipico elemento distintivo.
Allora che dire in conclusione? Che la questione del rapporto Stato-Chiesa così come è impostata dal pensiero liberale, e quindi da Minghetti, conduce a considerare la Chiesa come associazione privata, libera, ma di diritto internazionale, con l'arrière à penser che tutto ciò sia una creazione della razionalità laica dello Stato moderno. Questa impostazione a me sembra una classica operazione ideologica, nel senso di ideologia come sostituzione di un mito alla realtà. 
La Chiesa non può essere considerata una associazione privata: questo è un errore di fondo del pensiero. Un errore ancora più grave in bocca ad un cattolico che a un laico. Un laicista può ancora pensare di operare affinché la Chiesa sia ridotta al rango di un'associazione privata. Ma un cattolico non può pensarlo(4). La visione stessa quindi di ridurre la Chiesa ad un'associazione è una pecca del pensiero liberale, sia laico che cattolico. Può essere un progetto, ma non una descrizione.
Si badi all'importanza che questa riflessione assume ai nostri giorni per la ridefinizione dello spazio europeo. Ebbene questo Cattolicesimo romano, in senso forte per distinguerlo dal Cristianesimo, questo Cattolicesimo romano è alla base di buona parte della civiltà dell'Europa Continentale, ivi compreso la Germania, che ha una storia protestante negli Sati del Nord, ma sicuramente profonde radici cattoliche in quelli del sud. Questo cattolicesimo romano dobbiamo tenercerlo caro, anche da laici perché noi comunque di questi quadri viviamo, di essi é fatta la nostra cultura, di queste piazze, di queste chiese, e questo retaggio ha una sua notevole importanza nel tipo di civiltà che andiamo a creare, sopratutto rispetto alla civiltà americana, dove invece il cattolicesimo romano si pone in modo diverso, perché ovviamente è una delle tante chiese, una delle tante sette, e come tale viene trattata(5). 
Questo cattolicesimo romano è essenziale su un punto: si pensi alla definizione della dignità umana cardine della carta dei diritti europea; una classica "battaglia di parole" da intellettuali, ma in cui gli intelletuali americani hanno dimostrato di avere i nervi scoperti. Whitman di Yale scrive ora un articolo per ipotizzare una continuità tra il concetto europeo di dignità umana e quello nazista di onore(6). McCormick, sempre di Yale, ipotizza una continuità nell'ideea di Europa come Grossraum tra Carl Schmidt e Adenauer(7). Naturalmente salta agli occhi come questo sia un modo antagonista e ideologico di procedere. Quanti autori, o singoli pensatori, hanno concepito l'idea di Europa come Grossraum? Isolare Schmidt e Adenauer, e utilizzare l'etichetta tedesca, invece di una banale etichetta come Enlarged Space, o Grand Espace, è un modo per gettare un dubbio sull'operazione della stessa costruzione dell'Europa intorno a questa concezione. Lo stesso valga per l'accostamento tra Onore nazista e Dignità umana. Infatti se c'é un concetto giuridico che non comapre nel Bill of Rights americano è quello della dignità umana(8). Vi compaiono quasi tutti i concetti giuridici di libertà: il cittadino non può essere conculcato nel suo diritto a portare liberamente armi, il congresso non può varare una legge per far sì che un cittadino debba ospitare in casa sua, a sue spese, un soldato della milizia; vi è anche una concezione molto ampia del free speech , molto più ampia di quella europea; però il concetto di dignità umana fa saltare i nervi nel dibattito intellettuale normale fra europei ed americani, dimostrando l'esistenza di una tensione e una rivalità, che fino a due anni fa erano insospettabili ed insospettate. 
Questi rilievi assumono particolare rilevanza rispetto all'adesione verso il modello americano sempre mostrata dal Minghetti. Un'adesione condizionata dagli stessi crittotipi che hanno portato all'edificazione del mito americano proposta da Tocqueville. Un mito che in fondo noi accettiamo come dato, sopratutto all'interno del pensiero liberale; ma che si dovrebbe rivedere. Chi altri se non Tocqueville, all'epoca, credeva veramente che l'America fosse la democrazia principe nel mondo? Quale statista inglese, quale statista francese dell'epoca lo avrebbe pensato ? Nemmeno gli storici americani lo pensano. Gli storici americano adorano il periodo che giunge fino a Monroe, l'era dei buoni sentimenti, ma il periodo in cui trionfa il mito coniato da Tocqueville non l'adora nessuno: era quello di Tammany Hall, il periodo in cui New York era amministrata soltanto sulla base della corruzione politica, l'epoca della legge al di là del Pecos. La democrazia americana era un mito. Tocqueville, e il liberalismo di fine '800, ivi incluso quello di Minghetti, hanno trasformato un processo molto duro e molto brusco nel modello per eccellenza della democrazia, quando ci sono invece molti altri modelli di liberalismo, da quello francese a quello tedesco, che potrebbero essere ripresi in considerazione con vigore e con interesse.
Ciò dimostra, ancora una volta, la forza e la permanenza dell'impostazione di Minghetti nel dibattito italiano, ma mostra pure la via di una sua critica, e di un suo superamento.


1 Magistrale ad esempio sul punto il modo in cui il Mortati affronterà la medesima questione.
2 Il cui pensiero sembra quasi ricalcato sui primi versi del "Classico dei tre caratteri" o San Zi Jing (cfr. l'edizione a cura di Wang Ying Lin, Milano, 1999), libro su cui generazioni di giovani cinesi sono stati edicati fino alla Rivoluzione culturale, e la cui prima rima si esprime nel modo seguente "La natura delgi uomini all'origine è buona ed onesta. Gli uomini sono simili per attitudine e temperamento, ma differiscono per le abitudini". Sull'orientalismo nella cultura europea cfr. ovviamente Edward W. Said, Orientalism, New York, 1979, ed in particolare su Voltaire e Rousseau v. pp. 76 s., 119, 125, 138 et passim.
3 Sul punto cfr. Reginald F. Johnston, Twilight in the Firbidden City, Oxford, 1934, p. 78 ss., 95 ss.
4 Per puri motivi di sostegno della gerachia ecclesiastica nei confronti di Hans Kueng, Arturo Carlo Jemolo giunse ad adottare la teoria della Chiesa come "club di tennis" sostenendo che una associazione privata può espellere chi vuole secondo le proprie regole, senza che altri abbia a lamentarsene. Ma come può la Chiesa in quanto luogo in cui si manifesta l'assistenza dello Spirito essere considerata come una associazione in cui si espellono i membri indisciplinati. Semplicemente la Chiesa, luogo della rivelazione, e dell'assistenza dello Spirito, non è nella disponibilità delgi uomini: non è retta dagli "accordi tra gli associati". Questo potrà esser vero solo d'una setta che, appunto, si ponga al di fuori della tradizione e della "successione" apostolica.
5 Naturalmente io mi rifiuto di considerare gli anglicani dei veri protestanti, venendo da famiglia protestante. Gli anglicani non sono protestanti, sono cattolici che disconoscono la pienezza dell'autorità della Curia romana, ma sono cattolici in tutto, nel modo di pensare. Infatti non ho mai capito come Weber abbia potuto far passare la tesi che il protestantesimo ha a che fare con la nascita del capitalismo, visto che esso nasce in ambiente anglicano, dove di protestantev'era ben poco
6 James Whitman, From Nazi "Honor" to European "Dignity", Paper for the Workshop at the European University Institute, 29 - 30 Sept., 2000.
7 John P. McCormicck, Carl Schmitt and Europe, ", Paper for the Workshop at the European University Institute, 29 - 30 Sept., 2000.
8 È lo stesso J. Whitman, op.cit., 1, a rilevare che "This drive for "dignity" has given a distinctive shape to European Law, setting it sharply apart from the laww of the United States in particular", per proseguire però dicendo "But does contemporary European "dignity" really represent such a clear break with Fascism? When we look closely at the record, the story il messier that one might like" <sic>.

* Professore ordinario di Sistemi Giuridici Comparati Università di Torino


 

Alle origini della partitocrazia

Luigi Compagna*

A centoventi anni dalla prima edizione, I partiti politici e l'ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione (Zanichelli, Bologna, 1881) meritano una rilettura. Della Destra Minghetti era stato l'ultimo Presidente del Consiglio, ma fu grazie a I partiti che si percepì in Europa come e perché la stagione di quella Destra fosse ormai esaurita. Il libro dimostrava quanto certe trasformazioni ci fossero state e fossero state profonde, ma anche fossero esagerati certi timori (sulla fine della libertà parlamentare, sul potere dittatoriale delle cosiddette macchine di partito, sul carattere "plebiscitario" del liberalismo organizzato e via dicendo).
Minghetti faceva oggetto delle sue riflessioni di politica costituzionale le nuove realtà dei partiti. Ma sottolineava parimenti l'attitudine del vecchio Stato liberale a non farsene travolgere, ma anzi a farsi sempre più Stato e sempre più liberale. Nonostante i partiti, o magari proprio grazie ai partiti, avevano potuto radicarsi in occidente la centralità dei parlamenti, i compromessi all'interno di essi, la continuità delle classi dirigenti più salde (tradizionali o rivoluzionarie che fossero).
Libro concepito e realizzato al modo di un "classico" della storia del pensiero politico, quello di Minghetti aveva preso avvio da un "fatto personale". Francesco De Sanctis aveva denunciato argomenti e toni offensivi del Parlamento in un discorso del "trasformista" Minghetti del gennaio del 1880 e Minghetti ritenne doveroso replicargli. Come si addice alla trattazione di un fatto personale, secondo la sua replica si svolse tutta e soltanto sul piano generale dell'analisi politica e dell'indagine storiografica.
Forse anche per questo, nella Commemorazione, fatta insieme a Ruggero Bonghi nel 1887, Francesco Crispi ebbe a definire Minghetti "il più nobile cavaliere del Parlamento italiano". Ed è difficile ancor oggi sfuggire al peso di tale definizione, nel ricostruire la stagione e l'occasione in cui nel 1881 apparvero I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione. 
"Questo libro - si legge nella sua Prefazione - ebbe origine da un fatto che in linguaggio parlamentare chiamasi fatto personale; poiché taluni giudicarono che in un discorso pubblico da me tenuto a Napoli l'8 gennaio 1880 vi fosse offesa alle prerogative del Parlamento. Laonde a me parve necessario di spiegare più chiaramente i miei concetti, e di mostrare che lungi dal voler menomare il prestigio delle nostre istituzioni, io ero sollecito di preservarle da ogni corruzione. E non avendo potuto farlo colla parola viva dinanzi ai deputati nella Camera, pensai di supplirvi collo scritto. Che se mi mosse un sentimento di legittima difesa, pure ho cercato di serbarmi nei limiti della massima temperanza; e se il lettore trovasse ciò nonostante qualche traccia di pungente o di amaro, sappia che ciò è contrario ad ogni mia intenzione. Quello che ho dovuto fare per necessità si è di soffermarmi alquanto lungamente sul fatto personale. Ma pigliando quinci le mosse, ho inteso principalmente di esaminare un quesito generale dei più importanti e dei più ardui nelle scienze politiche: tanto più arduo in quanto che solo ora comincia ad essere studiato, ma nei più cospicui trattati di Diritto costituzionale non se ne trova quasi menzione.
Il problema è il seguente: - In qual modo si possa assicurare la imparzialità nella giustizia e nell'amministrazione sotto un governo di partito - giovi dichiararlo più distintamente. Il Governo costituzionale, e più ancora il governo parlamentare, quale oggi prevale agli altri in molte parti dell'Europa e dell'America con varie forme, è sempre un governo di partito. Esso come ogni umana cosa ha pregi e difetti che gli sono inerenti, e per l'indole sua stessa inevitabili, quand'anche il partito che governa si tenga strettamente nella cerchia dell'azione politica. Ma ogni partito tende naturalmente ad uscirne e ad esercitare un'ingerenza indebita nella giustizia e nell'amministrazione, e ciò al fine di conservare e di estendere la sua propria potenza. Gli effetti che da questa indebita ingerenza derivano sono gravissimi, e producono perturbazioni e iattura ai diritti e agli interessi dei cittadini che le istituzioni libere sarebbero invece destinate a tutelare".

L'orizzonte di Minghetti nei I partiti è ben più ampio, come si vede, di quel profilo della giustizia dell'amministrazione, che il suo discorso di Napoli del gennaio aveva tracciato e che sarebbe stato poi sviluppato a Bergamo il 7 maggio da un discorso di Silvio Spaventa, destinato a diventar più famoso di quello di Minghetti a Napoli, proprio perché, appunto, più circoscritto. Ma non si tratta soltanto di un orizzonte più ampio.
Evocata da Minghetti e recepita da Spaventa, la giustizia dell'amministrazione era un tema di assai più facile acquisizione intellettuale e politica rispetto a quello dei partiti e dell'ingerenza loro. Sia in Italia, sia in Europa, sia nella comparazione fra sistemi americani ed europei, di un diritto naturale dei partiti a farsi diritto costituzionale il liberalismo del secolo XIX stentava a trovare la consapevolezza e la determinazione fatte valer su questo terreno dal costituzionalismo di Hume e di Burke nel secolo XVIII. 
Tocqueville, certo, aveva considerato i partiti "un male dei governi liberi" e guardato ai "grandi partiti" rispetto ai "piccoli partiti" con lo stesso occhio col quale Hume e più ancora Burke avevano contrapposto i partiti alle fazioni. Lo avrebbe riscontrato Nicola Matteucci in un lavoro del '68 nel primo numero de "Il Pensiero Politico" specificamente dedicato a questi aspetti del pensiero di Tocqueville. Ma non c'è dubbio che nel 1881 I partiti di Minghetti andassero assai più avanti di Tocqueville, cioè più indietro, nel tempo: ad incontrare proprio il costituzionalismo britannico del secolo precedente nelle sue più profonde ed incisive intuizioni. Burkeana, oltre che esplicitamente antirousseauiana, la sua definizione del partito: "una spontanea unione di uomini che si adoperano a conseguire il fine del bene generale qual è da loro inteso, e con mezzi legittimi". Burkeana, dettata da empirismo non volgare, anche la sua preoccupazione di "indebite ingerenze" in grado di manifestarsi "là dove il reggimento costituzionale non si svolse storicamente per una serie lunga e non interrotta di ampliazioni e di adattamenti, ma successe di subito a un reggimento assoluto, sia che lo Statuto venga ottriato dal Principe stesso o strappato da impeto popolare". Burkeano il riconoscimento di una connessione fra partiticità e vitalità delle tradizioni politiche: "laonde non bisogna credere, come certe anime timide, che i partiti politici siano una debolezza, malattia nello Stato moderno: imperocché sono al contrario segno di vita, sana e forte. Il non appartenere ad alcun partito non è virtù del cittadino, e il dire di uno statista che è estraneo ai partiti non è lode ma biasimo".
Certo, in Italia, a differenza che in Gran Bretagna, come era chiaro a Minghetti, la questione dei partiti era ancora impregnata di valori, scelte, problemi, riconducibili alla rivoluzione nazionale. Parlamentari, extra-parlamentari, anti-parlamentari, i partiti esistenti eran difficilmente accreditabili nel nostro paese come i migliori strumenti per governare la costituzione: alcuni sarebbero potuti apparire cavallo di Troia delle forze anti-sistema; altri di ciò ne avrebbero potuto approfittare per teorizzare e praticare eccessi di "ingerenza". La ricerca di "onorevoli connessioni" fra loro recava in sé il rischio di contaminazioni incestuose, stante la gracilità dello Stato liberale e la precarietà degli stessi soggetti politici. 
Minghetti non è che neghi, o sottovaluti, tutto questo. Ma alla questione dei partiti, almeno dal punto di vista della "scienza politica", non intende affatto rinunciare. "La questione - per lui, come piace constatare a Paolo Pombeni - di che cosa siano o debbano essere i partiti è una questione del sistema politico liberale in quanto tale e non di componenti isolate". Non gli mancava consapevolezza di come, quanto, perché fosse arduo trasferire nell'Italia del 1876-'81 la Gran Bretagna dei governi Walpole. Neanche in Gran Bretagna, del resto, gli "old whigs" di burkeana memoria potevan ormai più ergersi a garanti della "costituzione", intesa nel senso di "country-tradition".
La politica in Europa, aveva compreso Minghetti, per esser politica liberale, nella seconda metà del XIX secolo, doveva farsi carico di giustificare se stessa da sola, non potendosi più supporre che questa giustificazione fosse qualcosa di percepibile da tutta la comunità nazionale: in Gran Bretagna in forza della "Glorious Revolution" del 1688, in Italia in forza della proclamazione del Regno del 1861. Nel 1848 si era avvertita, per un verso, una fortissima inattesa ed inedita dimensione extraparlamentare della politica e, per altro verso, l'emergere di un conservatorismo politico, ben diverso da quello dei vecchi "court-parties", cioè delle solidarietà istituzionali delle antiche classi dirigenti. 
Per diventare, o ridiventare, strutture naturali della politica nazionale, gli stessi partiti inglesi si ridisegnano, si rimescolano, si ridefiniscono, in una stagione segnata da una sequenza di riforme elettorali (1832, 1867, 1884/5), non priva di implicazioni di teoria politica sul loro ruolo, ambito, limite6 . Fin dai primi anni cinquanta, grazie all'aver potuto far conoscenza a Londra di Palmerston, Gladstone, Russel, il citoyen d'Europa Minghetti si sente partecipe di questi decisivi passaggi della "scienza politica". 
Nella storia del costituzionalismo italiano, Minghetti ed Arcoleo rimarranno fra i pochi (insieme ai Balbo e ai D'Azeglio, prima di loro, non certo ai Mosca e agli Orlando, dopo di loro) a considerare i partiti politici come il maggior elemento di originalità e ad un tempo di classicità del modello costituzionale inglese e, quindi, fra i pochi ad esser a loro modo nel loro tempo scienziati della politica. Si pensi alla definizione di "scienza della politica" avanzata da Gaetano Arangio-Ruiz nella prefazione alla sua storia costituzionale italiana del 1898, dove si parla di lavoro "diretto a trarre dai fatti storici l'ammaestramento per i suoi giudizi, per le proposte di riforma da apportare alle leggi ed alle istituzioni, al fin di eliminare i mali, di far più rifulgere i pregi" 
Il che è per l'appunto quanto Minghetti faceva nel 1881. La sua terapia seguiva una triplice direzione: diminuire le attribuzioni dell'amministrazione, lasciando ampio margine alla libertà individuale ed alla iniziativa privata; decentrare l'amministrazione, in modo che essa fosse compiuta localmente o da enti autonomi; infine, ammettere i ricorsi contro l'amministrazione stessa, da giudicarsi e risolversi in una sede giurisdizionale indipendente, una sorta di tribunale amministrativo supremo sul modello austro-ungarico. Egli giungeva così a far intravvedere e sentire operante, con la cautela di non pervenire mai a definirlo, un vitale nesso tra Amministrazione e Costituzione. Entrambe, ovviamente, a lettere maiuscole.Il che si doveva fare per tener conto, senza farsene "ricattare", del fatto storico della rivoluzione nazionale italiana, che aveva appena abbandonato gli assetti assolutistici per introdurre forme di governo rappresentativo.
"Questa transizione, però, non era stata senza difficoltà, rilevava tre anni fa un politologo come Carlo Guanieri, nell'Introduzione alla più recente edizione italiana de I partiti, apparsa nel gennaio del 1997 per iniziativa di Società Aperta, undici anni dopo gli Scritti Politici, curati da Raffaella Gherardi. I nuovi ordinamenti avevano dovuto non solo superare l'opposizione di coloro che si sentivano legati ai passati regimi, ma soprattutto confrontarsi con istituzioni, come l'amministrazione, create e sviluppate dai regimi assoluti. Si trattava di un compito estremamente delicato, anche perché, secondo la tradizione prevalente in Europa continentale, anche la giustizia, benché con i suoi caratteri specifici, era collocata all'interno degli apparati amministrativi" .
Sicchè, proprio il tema della "giustizia nell'amministrazione" - minghettiano, spaventiano, della Destra storica italiana (seppur poi la Quarta Sezione del Consiglio di Stato avrebbe visto la luce in tempi successivi, col governo Crispi) - esigeva un nuovo raccordo fra Amministrazione e Costituzione: perché l'una non fosse né potesse sentirsi "corpo separato" rispetto all'altra. Accanto al saggio di Minghetti, il 1881 registrava, con lo stesso timbro, pure quello di Giorgio Arcoleo, Il Gabinetto nei governi parlamentari, che faceva anch'esso rientrare a pieno titolo i partiti nella dinamica della forma di governo. 
I libri di Minghetti e di Arcoleo reinserivano il costituzionalismo di Burke nella Gran Bretagna del secolo XIX, riconnettendo al volto dei partiti il volto di quella peculiare istituzione politica che ormai, alla fine dell'ottocento, improntava di sé tutto il sistema inglese: il Gabinetto. All'Inghilterra dei partiti, quella di Gladstone e Disraeli, radicatasi un secolo e mezzo dopo quella di Walpole e Bolingbroke, l'anziano statista bolognese e il giovane studioso siciliano erano arrivati grazie ad una intensissima e appassionata consuetudine con la dottrina tedesca, attingendo a Blüntschli (tradotto a Napoli negli anni settanta), a Röhmer, a Gneist (Arcoleo anche a Laband).
Se si prende come termine a quo la sconfitta elettorale subita da un governo in carica (quello del duca di Wellington nel 1830) e come termine ad quem l'instaurarsi definitivo e generalizzato di un tipo di lotta politica che facesse del risultato elettorale il cardine del sistema (come dalla metà degli anni '80), la vicenda politica e costituzionale britannica offre uno sviluppo sempre più costituzionale dei partiti e sempre più partitico della Costituzione. Si assiste ad una sempre più accentuata rivalutazione dell'esecutivo, come momento squisitamente politico del government, già affiorato nel precedente costituzionalismo liberale ed ora lucidamente descritto dai classici Elements of Politics di Henry Sidgwick del 1891 (che sarebbe davvero ingiusto ed ingeneroso non vedere largamente e non in superficie anticipati dieci anni prima dai libri di Minghetti su I partiti e di Arcoleo su Il Gabinetto).
Perfino in Inghilterra al principio degli anni '40 la realtà dei due partiti storici sembravano più un portato della tradizione ideale che un effettivo dato politico ed organizzativo. In Parlamento l'instabilità delle appartenenze era la regola. Gli stessi Gladstone e Disraeli, prima di divenire simboli di liberalismo aperto il primo e di conservatorismo popolare l'altro, avevano vissuto appartenenze diverse ed incerte. Fra il '48 e gli anni '70 in Europa l'irrompere in politica di "nouvelles couches", per usare la fatidica espressione di Gambetta11, non aveva risparmiato l'Inghilterra, i suoi partiti, il suo parlamentarismo, la sua società.
Se esiste un sistema costituzionale europeo, nel senso in cui ne parla Paolo Pombeni, esso implica per i partiti politici "l'assegnazione di un ruolo preciso e definito alla loro azione ed il consenso su una loro funzione certamente positiva". Dalla legittimità di una libertà delle opinioni si deve dedurre la legittimità di una loro istituzionalizzazione permanente. Almeno due capitoli, il ventottesimo ed il ventinovesimo (intitolato Parties and party government), degli Elements di Sidgwick del 1891 avrebbero già potuto leggersi sui libri di Minghetti e Arcoleo del 1881. 
"Il concetto del Gabinetto in Inghilterra - si legge in una pagina de I partiti di Minghetti, che si direbbe scritta a quattro mani con l'Arcoleo de Il Gabinetto - fu opera lenta, e ognor progressiva durante due secoli. Come ben osserva il Gladstone: la teoria del governo misto e dei tre poteri, trasmessaci dagli antichi e soprattutto da Cicerone è troppo fredda e cruda, né corrisponde all'indole della costituzione inglese, mancandovi un elemento conciliatore, una specie di organo di compensazione, che mantenga in bilancia le forze politiche, le coordini fra loro, e le indirizzi ai fini del civile consorzio....Il gabinetto è forse la più singolare creazione del mondo politico nei tempi moderni, non per la sua dignità, ma per la sua sottigliezza, elasticità e varietà, ed apparisce come il complemento di un intero sistema: sul quale sembra poter sfidare tutti i pericoli anche nelle età future, né a tale scopo altro richiede che una perfetta lealtà, e una discreta intelligenza in coloro che lo adoperano. Questa istituzione che ha tanta parte nella vita politica inglese, agisce per tacito consenso, senza che la legge scritta o la costituzione contengano pur un verso che determini le sue relazioni col monarca, col parlamento e colla nazione, né tengono le relazioni dei suoi membri fra loro e col loro capo. Essa non fu il portato di un'idea preconcetta, né l'attuazione di un disegno filosofico o di un principio astratto; ma l'azione lenta di forze invisibili gli diede la struttura che il mondo oggi ammira. Crebbe senza rumore, e si può dire di essa quel che il poeta dice del tempio di Gerusalemme: non risuonarono acciai battenti del pesante martello, ma il superbo edificio sorse come una palma gigantesca. Ora questa istituzione mentre dà maggior unità e consenso a tutti gli atti del governo, per quanto riguarda la questione che trattiamo, ha reso e tende a rendere più equa e temperata l'azione di ciaschedun ministro, e ad attutire in esso gli spiriti partigiani che deploriamo" .

Ritornare col lessico dei nostri giorni al Gabinetto come istituzione di party government, che i Minghetti e gli Arcoleo indicavano nel 1881 come forma irrinunciabile di parliamentary government, non è affatto difficile. Una partiticità esplicita e visibile doveva subentrare ad una partitocrazia implicita e invisibile. D'altro canto, questo soprattutto aveva significato Gladstone e la sua idea del Gabinetto nella trasformazione e ricomposizione del liberalismo d'oltre Manica in quegli anni.
Cavouriano impenitente, Minghetti aveva continuato, negli anni seguiti alla morte di Cavour, a coltivare simpatia intellettuale per Gladstone. Riferimenti continui a Gladstone, Macaulay, Burke rendono I partiti di Minghetti un libro di trasparente filosofia whig, nella stessa accezione per cui Hayek, ne La società libera, amava anch'egli definirsi un old whig, al quale sarebbe piaciuto poter ancora "parlare con lord Acton di Burke, Macaulay e Gladstone come dei tre più grandi liberali".
Proponendosi la trasformazione e ricomposizione dei partiti storici italiani, di quella Destra e di quella Sinistra legate al piccolo mondo antico del parlamentarismo subalpino, ma certo incomparabili ai "nuovi" vecchi partiti politici del grande mondo moderno britannico, Minghetti incontrò un singolare destino. Gli toccò di favorire quel fenomeno di formazione contingente delle maggioranze sulla presidenza del consiglio che prese il nome di "trasformismo"; gli toccò di avere come inflessibile oppositore del trasformismo proprio quel Crispi, destinato poi fra il 1887 e il 1896 a fare del criterio della centralità del presidente del consiglio una sorta di principio "monarchico" di garanzia dello Stato nazionale; gli toccò, insomma, anticipare nelle sue pagine del 1881 tutte le pene (crispine, giolittiane, fasciste, democratiche) sofferte dall'Italia a trovare un proprio ubi consistam di costituzionalismo liberale.
La lotta contro l'uso partigiano della giustizia e dell'amministrazione aveva per Minghetti l'obiettivo di garantire i diritti di libertà dei cittadini. A tenere il potere del governo - e del parlamento da cui trae la sua investitura - il più possibile distinto e separato da quello dell'amministrazione, e soprattutto della giustizia, lo aveva guidato la preoccupazione di una pericolosa concentrazione di potere in capo alla maggioranza politica: preoccupazione in comune con i grandi liberali del secolo, da Tocqueville a Mill.
Nefasta gli pareva già allora la spinta dei partiti a controllare l'amministrazione al fine di adoperarla per mantenere ed espandere il consenso elettorale; perniciosa l'idea di mettere l'amministrazione della giustizia in diretta concorrenza con le altre istituzioni, allargando smisuratamente i confini della responsabilità penale a scapito di quelli della responsabilità politica. E non c'è dubbio che l'ascesa e la discesa dei partiti di massa nell'ultimo cinquantennio italiano ci abbia fatto vivere molte delle degenerazioni paventate da Minghetti. Ivi compreso quel perverso sconvolgimento di ogni costituzionalismo liberale, che egli avrebbe voluto esorcizzare in forza del Gabinetto all'inglese, quando ad una prassi di mediazione delle questioni politiche riguardanti rapporti, accordi e contrasti tra i partiti operata dal governo andò subentrando una prassi di mediazione delle questioni di governo e dei rapporti, accordi e contrasti che esse comportano operata dai partiti. 
De te fabula narratur: sembrano dire, a centoventi anni di distanza, le considerazioni di Minghetti rispetto ad una storia che ha visto il più imperioso apogeo (fino al più scomposto declino) dei partiti di massa, l'arrembante esorbitanza di pubblici ministeri autonominatisi giudici in forza di poteri impliciti (fino alla dottrina e prassi della ricerca esplicita del consenso) nell'esercizio della azione penale. Sull'amministrazione e sulla giustizia l'"ingerenza loro" si è dilatata fino a registrare negli ultimi anni, nati molto spesso proprio in seno all'amministrazione, alla giustizia e, comunque, al di fuori di ogni circuito di democrazia liberale, l'avvento di "partiti personali": quelli che Hume aveva considerato tipici del mondo medievale . A rileggere oggi Minghetti la sensazione è di una storia d'Italia avvitata su se stessa senza mai aver trovato quell'ubi consistam di costituzionalismo liberale che aveva spinto l'intellettuale Minghetti sulle orme di Burke, Macaulay, Gladstone, con la stessa loyalty di cui lo statista Minghetti aveva dato prova nei confronti di Cavour.
All'Inghilterra Minghetti, non diversamente da Spaventa, arrivava attraverso la Germania. Non tanto tramite l'hegeliano di centro Karl Rosenkranz, il quale in una nota conferenza del 1843 sul concetto di partito aveva fatto derivare il partito dal concetto di stato, sicché lo stato sarebbe la forma contenitrice della libertà etica di un popolo ed il partito strumento dalla dialettica del continuo perfezionarsi di tale libertà. Ed ancor meno tramite il saggio del 1853 di Robert von Mohl, teso a raccordare integralmente "partiticità" e "statualità". Piuttosto, tramite quel maestro di dottrina giuridica, Rhudolf Gneist, che con più acume di ogni altro, secondo Minghetti, aveva nel 1869 indicato gli effetti di un governo di partito impiantato sull'ordinamento amministrativo di uno stato monarchico assoluto. 
"Insomma,- era la conclusione che Minghetti deduceva da Gneist, pensando alla politica costituzionale italiana - allorché si congiunge insieme il sistema costituzionale inglese col sistema amministrativo continentale non ne deriva già come in Inghilterra un partito che governa, ma un governo partigiano, e il ministero non è come in Inghilterra il centro degli ordinamenti legislativi, ma è lo strumento d'interessi collegati che hanno in loro balia tutte le forze di un'amministrazione assoluta. Laonde a breve andare si manifesta la sua impotenza a tutelare il diritto dei cittadini, e per rimbalzo a mantenere integre le stesse istituzioni politiche, le quali non bastano da sole a costituire un governo secondo la legge".
Insomma se lo Stato di diritto arretra, si insinua lo Stato etico: magari come società dei partiti, incapace di farsi Stato dei partiti.
Se è vero che, come volle definirlo Crispi, Minghetti fu "il più nobile cavaliere del Parlamento italiano", non c'è dubbio che nel 1881 egli si proponesse di esserlo altrettanto Del governo parlamentare come governo di partito (per citare il titolo del capitolo primo del libro). Non a caso, I partiti facevano proprie le parole con le quali si concludeva l'altro libro edito nel 1881, Il Gabinetto nei governi parlamentari, che parevano anch'esse scritte a quattro mani da Minghetti ed Arcoleo, a proposito di quel "difetto nello spirito delle istituzioni più o meno dissimulato dal rapido e progressivo sviluppo delle forme rappresentative. Ciò che al volgo non pare, e cerca raggiungere l'ideale suo con l'allargamento del suffragio, con l'onnipotenza parlamentare, combattendo l'ingerenza dello Stato, la burocrazia, le tradizioni, la gerarchia, proclamando come diritto fondamentale la partecipazione di tutti ai poteri pubblici, considerati come mezzi al benessere di ciascheduno, in modo che l'organismo dello stato medesimo diventi un problema sociale da risolvere: ma la scienza deve preoccuparsi della instabilità continua delle istituzioni, della mancanza di senso giuridico della vita pubblica, del pericolo che la Politica uccida il Diritto... Il problema più grave delle società moderne è: come accordare un governo secondo legge con un governo secondo i partiti? Senza la prima attenenza mancherebbe la tutela dei diritti, senza la seconda mancherebbe la guarentigia delle forme parlamentari".

A Minghetti le parole di Arcoleo sembravano una forma di accompagnamento musicale alle sue. Esse ritmavano il necessario confine fra politica "liberale" e politica "sociale"; per richiamare l'irrinunciabile distinzione fra priorità di liberalismo e pressioni della democrazia. La problematica dell'indirizzo politico, di solito poco presente nei giuristi dell'età liberale, veniva intuita da Arcoleo nei suoi tratti caratterizzanti lo svolgimento della forma di governo, peraltro per fissarne argini giuridici in grado di contenere, appunto, l'"ingerenza loro".
Non dovevano i partiti, rispetto all'ordinamento, diventare istituzioni di diritto pubblico. Come in Johan Kaspar Blüntschli, a garantire il Diritto dal non esser ucciso dalla Politica, Minghetti ed Arcoleo credevano che la giusta imparzialità dello Stato avrebbe parificato e a suo modo pacificato la giusta parzialità dei partiti. Essi, a voler proseguire con il lessico di Arcoleo, dal canto loro sarebbero anche serviti a garantire la Politica dal non esser uccisa dal Diritto. "I più grandi uomini politici romani ed inglesi - aveva notato Blüntschli - furono sempre magistrati e ministri imparziali, e noti capi di partito". 
Ovviamente, la lettura di Minghetti e Arcoleo dell'esperienza costituzionale inglese degli ultimi cinquant'anni non coincideva con quella, assai più incentrata sulla tradizionale dialettica Corona-Parlamento, che sempre in quel 1881 veniva suggerita da Attilio Brunialti. Decisivo per entrambi era il gladstoniano "quarto potere" del Gabinetto: "pouvoir conciliateur, una sorte de clearing-house des forces politiques, qui attire tout a lui,met tout en ordre et en balance". Entrambi, comunque, alla Gran Bretagna di Gladstone, capace di far respirare all'Europa qualcosa di nuovo, anzi d'antico, cioè il costituzionalismo di Hume e di Burke, erano approdati attraverso un sentimento kantiano dello Stato di diritto appreso dalla dottrina tedesca. Il che, per Arcoleo, era avvenuto per risorse di storicismo insite nella sua formazione.
Esisteva, secondo Gneist, nella realtà inglese un fondamentale profondo fattore di equilibrio: l'autonomia nell'applicazione e nell'esecuzione delle leggi. Tale fattore - Self-government rettamente inteso, al di fuori di ogni fraintendimento continentale - impediva, e sempre avrebbe impedito, il degenerare dello "spirito di partito" nel reggimento della cosa pubblica in "spirito di fazione", arginando ab origine ogni prepotenza dei vincitori sui vinti, secondo Minghetti.
Il Self-government inglese, concepito nel suo vero senso, non già di decentramento o di esercizio di locali franchigie, ma d'una obbedienza spontanea alle leggi generali della "civil society", era il solo efficace correttivo della "tirannia" delle maggioranze e dell'alternarsi dei partiti politici al governo dello Stato. E questo modulo d'amministrazione non toglieva al governo alcuna delle sue necessarie attribuzioni, né restringeva arbitrariamente la sfera di competenza del potere centrale. Anzi, esso presentava l'opportunità di consentire una giurisdizione amministrativa equa e ad un tempo severa, con la quale si esercitava un controllo permanente su tutti i pubblici funzionari stipendiati ed onorifici.
Tanto il Self-government quanto la giurisdizione amministrativa che ad esso era sottesa, sviluppata con una vastissima giurisprudenza di precedenti parlamentari e giudiziari, si trovavano in Inghilterra già radicati nel tessuto delle istituzioni e dei costumi, prima che la naturale evoluzione del sistema parlamentare producesse come obbligata conseguenza il governo di gabinetto. Nella piena sicurezza che l'applicazione della legge non venisse deviata, e magari fuorviata, in senso partigiano, la nazione inglese poteva rimettersi con fiducia al governo della maggioranza ed alla competizione fra i partiti.
"La nazione inglese - secondo Gneist - era divenuta nel XVIII secolo su tali basi una società governantesi da se stessa nel suo intimo organismo. La fiducia nella volontà arbitraria del re, un tempo così potente, era stata scossa profondamente dalle gravi colpe degli Stuardi, da quattro cangiamenti di dinastia, da un abuso senza esempio del potere politico ed ecclesiastico. La poca importanza della burocrazia e la posizione precaria dell'esercito permanente accanto all'importanza d'una potente aristocrazia territoriale ed al diritto delle Camere di consentire il bilancio, posero sempre più il centro di gravità del Governo nel Parlamento, specialmente nella Camera Bassa.
Ma prima ancora che si affermasse questa onnipotenza del Parlamento, l'Inghilterra aveva stabilito il Governo giuridico e lo aveva assicurato contro gli abusi dei partiti politici. Limiti precisi erano stati posti all'ingerenza dei partiti nel Governo, l'approvazione del bilancio fu sottoposta alla legge, il controllo del Parlamento nell'amministrazione era limitato dai tribunali e così si era garantito il carattere di un governo secondo le leggi. L'interpretazione delle leggi e l'intiera sfera dell'amministrazione interna furono sottratte all'arbitrio ministeriale.
I capi di partito che dal Parlamento passano nel Consiglio ristretto della Corona trovano funzioni ben definite, con una giurisprudenza amministrativa completa, e con una precisa giurisdizione in ogni contestazione amministrativa. Ogni ministro ha davanti a sé una sfera ben tracciata d'attribuzioni, nella quale il più zelante uomo di partito non può rendere equivoca la norma amministrativa, o mutarla altrimenti che per via di legge, cioè col consenso del re e dell'Alta Camera. Non si cambia una massima, non un copista nell'amministrazione comunale e provinciale, in seguito al mutarsi dei ministri. Che un ministero Whig od uno Tory sia al potere, ciò non ha influenza sull'amministrazione interna del paese".

La storia d'Italia ha avuto tutt'altro corso.
Settimane addietro, proprio alla riunione a Roma dei circoli di Società libera del 28 ottobre del 2000 Gianfranco Ciaurro, intellettuale che ha avuto esperienze ai vertici dell'amministrazione della Camera dei deputati, del Consiglio di Stato, ministro del primo governo Amato e più recentemente anche Sindaco di Terni, ha ricordato uno dei casi meno vistosi eppur più ricorrenti di "ingerenza loro". Si tratta dell'ormai diffusissimo "bypassare" l'amministrazione con strutture consultive del potere politico, da esso scelte, retribuite con contratti di diritto privato e per un arco di tempo che "bypassi" la durata in carica di chi ha titolo a procedere alle nomine. Minghetti sarebbe inorridito da questo spoil-system all'amatriciana. 
Anche perché lo spoil-system non gli piaceva neanche all'americana. Proprio il quadriennale "power of public plunder" era fra le ragioni annoverate da Minghetti a favore della superiorità della monarchia inglese sulla repubblica statunitense: nella funzione stabilizzatrice, a tutela delle minoranze, del re costituzionale liberali come Minghetti continuavano a ravvisare un'importante risorsa di "potere neutro".
Quel "potere neutro" che molti in Italia si dichiarano oggi orgogliosi di cancellare o di arruolare. C'è chi su "proprie" strutture consultive costruisce il "proprio" partito personale. Un politologo come Giuseppe Calise ha posto il fenomeno al centro della sua analisi della crisi dei partiti "reali" nell'Italia di oggi e dell'emergere dei partiti "personali". Insomma l'amministrazione intesa e praticata fuori della costituzione, se non contro la costituzione, è degenerazione - tutta a lettere minuscole - più attuale che mai.
L'Italia di Minghetti, di Spaventa, della Destra proprio non lo meritava. Del resto liberali "thatcheriani" e liberali "blairiani" nelle cronache nostrane imperversano. Sono liberalismi facili. Quello gladstoniano è, invece, un liberalismo in salita: nel 2000, forse, ancor più arduo che nel 1881.

* Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche LUISS Roma



 

MARCO MINGHETTI: I PARTITI POLITICI E LA LORO INGERENZA NELLA GIUSTIZIA E NELL'AMMINISTRAZIONE

PREFAZIONE

di Carlo Guarnieri

Se vogliamo, a distanza di quasi 120 anni, riflettere ancora sulle proposte che Marco Minghetti avanzava nel suo I partiti politici e la loro ingerenza nella giustizia e nell’amministrazione, dobbiamo innanzitutto riassumere, almeno brevemente, il contesto in cui il suo intervento si colloca. Erano infatti più di 30 anni da che il modello britannico di governo parlamentare era stato stabilmente introdotto in Italia e 20 da quando l’unificazione lo aveva esteso a quasi tutto il paese. Così, anche l’Italia era entrata a far parte di quel gruppo di nazioni dell’Europa continentale, sempre più numeroso, che aveva abbandonato gli assetti assolutistici per introdurre forme di governo rappresentativo. 
Questa transizione, però, non era stata senza difficoltà. I nuovi ordinamenti avevano dovuto non solo superare l’opposizione di coloro che si sentivano legati ai passati regimi ma soprattutto confrontarsi con istituzioni, come l’amministrazione, create e sviluppate dai regimi assoluti. Si trattava di un compito estremamente delicato, anche perchè, secondo la tradizione prevalente in Europa continentale, anche la giustizia, benchè con i suoi caratteri specifici, era collocata all’interno degli apparati amministrativi. La necessità di cogliere la favorevole congiuntura internazionale per unificare il paese - ma insieme anche la fragilità del risultato raggiunto - aveva spinto la classe politica liberale a subordinare a questa impresa tutti gli apparati dello Stato. L’ascesa al governo della Sinistra, nel 1876, pur contribuendo ad allargare la base di consenso alle nuove istituzioni, non sembrava aver prodotto le conseguenze positive attese dall’alternarsi di partiti diversi alla guida del governo. Anzi, di lì a poco, anche di fronte alla pressione delle forze rimaste estranee al regime costituzionale, la divisione fra Destra e Sinistra cominciò progressivamente a sfumare, facendo venire meno in Parlamento una chiara distinzione fra maggioranza e opposizione.
Sui caratteri della politica nei regimi parlamentari Minghetti, in polemica con molti dei suoi contemporanei, è netto: la politica dei sistemi che hanno adottato la forma parlamentare è politica di partito o, meglio, il governo di partito è in questi regimi non solo inevitabile ma, tutto sommato, benefico. Fra l’altro, solo il partito può dare sufficiente stabilità ai sistemi rappresentativi. I vantaggi di questo assetto superano perciò di molto gli svantaggi, che peraltro possono essere notevolmente limitati con opportuni accorgimenti. È una posizione che Minghetti elabora a seguito di un’ampia analisi storico-comparativa degli assetti istituzionali dei principali paesi: Francia, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti, ma anche Spagna, Portogallo e Grecia, questi ultimi per certi versi molto simili all’Italia. Proprio dal raffronto fra sistemi politici diversi Minghetti arriva alla conclusione della sostanziale superiorità dei governi di partito e della possibilità di evitare molti dei difetti che ad esso vengono normalmente attribuiti. Da qui derivano appunto le sue indicazioni riformatrici per affrontare le disfunzioni che sono emerse in Italia.
Se però la capacità analitica e prescrittiva di Minghetti non è certo, almeno per i suoi tempi, in discussione, cosa possiamo oggi ritenere della sua analisi e, magari, delle sue raccomandazioni? In altre parole, quali mutamenti si sono verificati rispetto ai tempi in cui Minghetti scriveva e quale valore va loro attribuito? Se guardiamo al sistema politico, il periodo che ci separa da Minghetti ha visto, anche in Italia, soprattutto la completa affermazione del partito di massa come principale attore politico e poi, in questi ultimi tempi, la sua crisi. Semmai, in Italia, l’affermarsi del partito di massa è avvenuta in modo tormentato, attraverso due radicali mutamenti di regime - dal liberalismo pre-fascista al fascismo e poi da questo alla democrazia repubblicana - che hanno lasciato delle tracce - per lo più negative - sul nostro sistema politico. Dai passaggi traumatici da un regime all’altro, dall’ascesa al potere di un partito nemico della democrazia liberale, dalla sconfitta militare e poi dall’affermarsi di partiti nuovi, estranei e in parte anche ostili alla tradizione costituzionale del Risorgimento, le nostre istituzioni sono uscite infatti notevolmente logorate, soprattutto in termini di autonomia e capacità. Ma anche l’espansione del potere dei partiti di massa non è stata priva di difficoltà. Come è stato di recente rilevato , i partiti italiani hanno sì svolto in questo dopoguerra un ruolo politico preponderante, ma il loro impatto sulle decisioni politiche è stato molto inferiore a quella che sembra essere stata l’apparenza. Forte sulle microdecisioni particolaristiche, è stato invece molto più debole sulle politiche di livello intermedio - quelle di maggior rilievo per il funzionamento di un sistema politico - mentre sempre forte è stata la loro capacità di influire sulle metapolitiche, cioè sulle grandi scelte relative agli assetti politici di base. Il risultato dell’importanza crescente della competizione particolaristica è stato però che la spinta dei partiti a controllare l’amministrazione, almeno al fine di adoperarla per mentenere ed espandere il consenso elettorale, è stata - ed è ancora oggi - molto più forte di un tempo.
Mutamenti di rilievo si sono verificati anche nell’amministrazione e soprattutto nella giustizia. È ormai luogo comune sottolineare l’espansione delle funzioni dello Stato avvenuta in quest’ultimo secolo. Lo Stato "guardiano notturno" è stato sostituito dallo Stato del benessere che, pur con crescente fatica, cerca di provvedere a bisogni sempre più diversi e numerosi. Ormai lo Stato non svolge più solo le tradizionali funzioni d’ordine - che potevano essere facilmente definite in modo esecutorio, come conseguenza dell’applicazione di regole generali - ma fornisce servizi e interviene per influenzare lo sviluppo economico e sociale, compiti il cui dispiego richiede che si vada al di là della semplice logica esecutoria per introdurre invece decisioni basate sul criterio dell’efficacia nel raggiungimento dei fini e, talvolta, dell’accettabilità delle decisioni da parte degli interessati. Non è necessario qui discutere se, e in quali termini, questo sviluppo vada considerato più o meno positivamente. Quello che va sottolineato è che, in conseguenza di queste trasformazioni, i compiti dell’amministrazione, per essere svolti con efficacia e efficienza, con sempre maggiore difficoltà possono essere ingabbiati in un sistema di regole generali. Avviene però così che ci si trovi spesso di fronte al dilemma se intralciare l’azione amministrativa con regolamentazioni minute o rassegnarsi ad un ulteriore dilatazione dei suoi poteri. D’altra parte, di fronte a questa alternativa si è quasi sempre reagito, con una buona dose di schizofrenia, moltiplicando i controlli di natura formale e allo stesso tempo tollerando lo sviluppo di ampi - ed arbitrari - poteri di fatto. Poco o nulla si è fatto per migliorare in generale le qualificazioni professionali dei dipendenti pubblici e per introdurre le nuove capacità professionali richieste dai nuovi compiti dell’amministrazione, elementi che sono in realtà la principale garanzia di buon rendimento ma anche di correttezza amministrativa: infatti, il funzionario capace è anche colui che meglio rispetta i diritti del cittadino. Al contrario, molto si è fatto per mortificare le competenze professionali ed espellere dalla nostra pubblica amministrazione anche quelle ancora presenti ai tempi di Minghetti. Così, delicate funzioni tecniche si sono spostate all’esterno dell’amministrazione, indebolendone sempre di più le reali capacità di controllo. La venerazione del formalismo giuridico - progressivamente affermatosi dall’inizio di questo secolo - è stata alla base di questa tendenza, anche se la stessa qualità della formazione dei giuristi si è col tempo deteriorata, in parallelo con l’indebolimento del vecchio assetto meritocratico, che certi livelli di capacità comunque garantiva.
La crescita e il diversificarsi dell’amministrazione che i nuovi compiti hanno portato con sè hanno avuto poi un’altra importante conseguenza, cioè l’aumento del numero degli impiegati oltre che la loro crescente differenziazione e disomogeneità. Così, si è sviluppato un fenomeno ai tempi di Minghetti ancora sconosciuto: il sindacalismo del pubblico impiego. Ormai, i sindacati dei dipendenti pubblici, talvolta in collegamento con le altre organizzazioni sindacali, svolgono un ruolo cruciale all’interno dei processi di decisione politico-amministrativa, frapponendosi ad attori tradizionali come il governo ed i cittadini e favorendo spesso il processo di deprofessionalizzazione che abbiamo appena ricordato. Non paradossalmente, la crescita delle garanzie degli impiegati pubblici è stata effetto e causa di questo fenomeno. Così, la presenza di questo nuovo attore pone oggi la questione dei rapporti fra politica e amministrazione in termini molto diversi dai tempi di Minghetti, dato che i politici di governo devono trattare con una nuova categoria di politici, i dirigenti delle organizzazioni sindacali, spesso dotati di risorse non indifferenti.
Mutamenti di forse ancor maggiore spessore hanno investito poi l’amministrazione della giustizia. Il primo elemento da sottolineare è il mutamento del rapporto fra giudice e legge, definito tradizionalmente in Europa continentale in termini di subordinazione del primo alla seconda. È cambiato il carattere della produzione legislativa: come conseguenza del maggiore intervento dello Stato, leggi sempre più numerose investono settori sempre più ampi della vita sociale e politica. L’esperienza dei regimi totalitari ed autoritari che si sono affermati fra le due guerre mondiali in molti paesi dell’Europa continentale ha portato all’introduzione del controllo giudiziario di costituzionalità, stabilendo uno strumento per verificare l’adeguatezza di ogni norma legislativa ai principi fondamentali che reggono i regimi politici e quindi spingendo il giudice ad un atteggiamento critico nei confronti della norma legislativa. Naturalmente, il moltiplicarsi delle norme di riferimento ha accresciuto i margini di libertà di cui il giudice gode nel risolvere i casi. Così, la legge e in generale le norme giuridiche esercitano oggi un’influenza costrittiva minore del passato sia perchè spesso in contrasto fra loro sia perchè formulate in modo più o meno volutamente vago sia infine perchè talvolta deliberatamente delegano al giudice ampi poteri. Peraltro, l’espansione del raggio d’azione del diritto legislativo non ha risparmiato neanche quello penale, aumentando il numero di condotte sanzionabili penalmente e soprattutto sfumandone i contorni. Così, anche il ruolo di chi è chiamato a richiedere l’applicazione della legge, il pubblico ministero, ne è uscito fortemente rafforzato, dato che ormai è in grado di intervenire con efficacia all’interno di quasi tutti i processi politico-amministrativi. La conseguenza principale è che il giudice, anzi l’intera magistratura, a causa del nuovo, forte potere di cui dispone, è diventato oggetto di pressione politica da parte di chi intende approfittare di questi nuovi canali decisionali. L’amministrazione della giustizia è entrata così in diretta concorrenza con le altre istituzioni politiche: ricerca il consenso dei cittadini cercando di dare risposta alle domande che costoro in misura crescente le indirizzano. Inoltre, punto questo estremamente importante, anche all’interno della magistratura si sono affermate forme di sindacalismo. Semmai, qui la loro rilevanza è molto maggiore che nell’amministrazione perchè maggiore è il potere che esercitano. L’istituzione di un organo di autogoverno come il Consiglio superiore della magistratura, composto a larga maggioranza da magistrati eletti direttamente dai propri colleghi, ha contribuito a rafforzare questa tendenza, dato che i vari raggruppamenti di magistrati svolgono un ruolo cruciale nel processo elettorale. Da questo punto di vista, l’Italia sembra essere all’ "avanguardia" fra i paesi dell’Europa continentale, il paese dove questo fenomeno si è sviluppato in modo più pieno.
Le soluzioni che Minghetti proponeva nel suo saggio del 1881 non sono quindi più proponibili oggi. Del resto, alcune di esse sono state applicate. Per restare nel campo della giustizia, l’indipendenza dei giudici è oggi certamente molto più garantita di un tempo e le loro garanzie sono state estese al pubblico ministero, anche al di là dei suggerimenti di Minghetti. Non si può dire però che oggi la magistratura italiana risenta meno di un secolo fa di logiche di parte. Anzi forse verrebbe di dire il contrario. Semmai è cambiata la qualità della politicizzazione: venute meno le interferenza ministeriali, fortemente diminuiti di incidenza gli interventi dei parlamentari, sono oggi altre le vie dell’influenza politica. Essa scorre oggi soprattutto per tramite del Csm, luogo istituzionale che concentra ormai tutte le decisioni cruciali in tema di amministrazione della giustizia e dove i rappresentanti della classe politica - i membri laici eletti dal parlamento - incontrano i rappresentanti della magistratura, cioè gli esponenti delle varie correnti del sindacalismo associativo. Perciò, le interferenze sull’attività giudiziaria non giungono più tanto da ministri prepotenti - anche per la semplice ragione che non le possono più esercitare - ma da fluttuanti alleanze fra gruppi di magistrati e gruppi di politici, rappresentanti più o meno diretti di quei partiti che abbiamo visto essere poco capaci di orientare le politiche di rilievo ma abbastanza efficaci nell’influenzare le microdecisioni. Ma è far torto a Minghetti ritenere che le sue prescrizioni abbiano contribuito a tali deviazioni. Le sue proposte nascono da uno spirito non dottrinario, pragmatico, che si rivolge ad un contesto specifico e si basa sull’osservazione e sulla discussione, pronto a rivedere le proprie posizioni se sembrano inadeguate agli obiettivi che si è posto. È qui infatti che sta l’attualità di Minghetti, nello spirito con cui affronta i problemi del nuovo Stato unitario: è qui che possiamo ancora imparare.
Ancora di rilievo è infatti la sua lezione di metodo, un metodo di analisi dei problemi politici e amministrativi empirico - perchè attento alla realtà, all’applicazione concreta delle norme - e comparativo, perchè, non chiuso nella considerazione provinciale di un solo sistema politico, cerca di apprendere dal confronto con altre esperienze . È evidente che la ricerca di rimedi non può non percorrere questa strada. Anzi, qui alcune delle proposte generali di Minghetti non hanno perso d’attualità: ridurre l’area dell’intervento dello Stato, decentrare, sviluppare i controlli sull’amministrazione sono misure che, adattate ai tempi e combinate magari in modo diverso, possono ancora oggi essere applicate con profitto. L’attenzione al dato empirico spinge poi Minghetti a considerare l’importanza della formazione dei funzionari, a sottolineare i limiti di una preparazione esclusivamente giuridica e a raccomandare l’istituzione di apposite facoltà o scuole di scienze amministrative, dove abbiano spazio anche gli studi empirici del funzionamento della pubblica amministrazione . Basta, credo, questa sola notazione per comprendere l’attualità di Minghetti: a distanza di più di un secolo si tratta ancora di una raccomandazione solo in minima parte realizzata. Pochi sono ancora i luoghi dove tali studi sono coltivati in Italia. Nell’università e nei centri di formazione pubblici prevale ancora, e talvolta nelle forme più deteriori, lo studio formalistico delle norme giuridiche, a spese di ogni considerazione della loro applicabilità e delle loro reali conseguenze. La formazione dei nostri funzionari pubblici resta ancora prevalentemente, se non esclusivamente, giuridica.
Quanto a una radicale separazione fra politica, giustizia e amministrazione, essa è, a ben vedere, difficile da realizzare in concreto, e forse neanche augurabile, tanto più nelle condizioni dei regimi democratici contemporanei che, lo abbiamo appena visto, si caratterizzano per una forte interpenetrazione fra Stato e società. Ma le prescrizioni di Minghetti, al di là dei contenuti specifici, vanno intese soprattutto per i fini generali che intendono perseguire e cioè in quanto strumento per garantire i diritti di libertà dei cittadini. La lotta contro l’uso partigiano della giustizia e dell’amministrazione ha proprio questo obiettivo, quello di garantire i cittadini da interventi di questo tipo separando, nella misura del possibile, il potere del governo - e del parlamento da cui trae la sua investitura - da quello dell’amministrazione e soprattutto della giustizia: "la libertà per noi moderni consiste nel rispetto di tutti i diritti, e a guarentire questo rispetto l’elezione è di per sè insufficiente" (p.158). In altre parole, la lezione di Minghetti è un richiamo, ancora una volta, all’importanza di separare i poteri, cioè le grandi istituzioni politiche, per evitare una pericolosa concentrazione di potere in capo alla maggioranza politica che già, legittimamente, controlla il governo. È quindi un richiamo alla necessità di dotare le istituzioni pubbliche di un’autonomia sufficiente a farle funzionare secondo la loro propria logica. Come si può vedere, in questi termini il messaggio di Minghetti è tutt’altro che datato. Anzi, proprio quelle trasformazioni cui abbiamo poco sopra fatto cenno ci indicano la loro concreta attualità. L’ascesa dei partiti di massa nel nostro sistema politico è stata un fenomeno probabilmente inevitabile e, tutto sommato, positivo, dato che ha contribuito a superare le profonde fratture che avevano travagliato la vita dello Stato liberale, ma non è stata priva di risvolti negativi. Di alcuni abbiamo già fatto cenno. Un aspetto forse più di fondo è che questa affermazione si è diffusa per tutte le istituzioni pubbliche e si è innestata su una forma preesistente di monismo istituzionale: è così avvenuto che il "cattolicesimo statuale" di cui parlava Minghetti è stato sostituito dal "cattolicesimo dei partiti". Ancora oggi questi atteggiamenti, che hanno esercitato una forte influenza durante tutto il periodo repubblicano, mirano, di diritto o di fatto, a concentrare il potere negli organi rappresentativi. Non si vuole qui certo negare l’importanza e la necessità di rafforzare la capacità decisionale di queste istituzioni che, anzi, spesso quelle posizioni non condividono, in quanto ritengono che la difesa delle posizioni di individui e gruppi stia soprattutto nella complessità delle procedure decisionali degli organi in cui il potere viene concentrato. Quello che si vuole sottolineare è che questo rafforzamento deve accompagnarsi ad una migliore articolazione delle istituzioni del nostro sistema politico che permetta loro di funzionare da garanzia dei diritti di libertà del cittadino. Vanno perciò pienamente condivisi gli argomenti di chi sostiene la necessità di superare il monismo istituzionale che ha caratterizzato il periodo repubblicano - e che per certi versi sembra aver ispirato anche l’azione della magistratura in questi ultimi anni - per arrivare ad una concezione veramente pluralistica del nostro assetto istituzionale, basata su articolazioni e poteri indipendenti . Per realizzare questo tipo di assetto, però, il problema non è solo quello di individuare garanzie e procedure idonee, è anche, se non soprattutto, un problema di persone: in termini concreti - e ci riallacciamo qui ad un tema che abbiamo appena trattato - si tratta di creare meccanismi in grado di assicurarci un personale all’altezza dei compiti, provvedendo altresì - per usare un termine minghettiano - alla loro "educazione".

 

 

 

DEL GOVERNO PARLAMENTARE COME GOVERNO DI PARTITO DEI PREGI E DEI DIFETTI CHE GLI SONO INERENTI

Io prendo per dato che, qualunque sia la forma di governo, gli uomini che hanno nelle mani la somma della cosa pubblica, in generale mirano al bene del civile consorzio. Codesta proposizione per taluni sarà da porre fra le illusioni più ingenue, e degna appena di entrare in qualche utopia. E ci recheranno innanzi il tiranno "che libito fè licito in sua legge", le oligarchie le quali oppressero le classi misere per mantenere nella propria le ricchezze, la potenza, i privilegi; i governi della borghesia dove i mediocri ed intriganti tengono il campo; e infine le democrazie antiche e moderne nelle quali dominatrice è l’invidia che calca i buoni, ed esalta i pravi. E coroneranno questi esempi con un argomento tratto dallo studio della natura umana; avvegnaché l’uomo mira all’utile proprio non all’altrui, anzi è pronto a immolare questo a quello, e rinfrescheranno una massima che soprattutto nel secolo scorso ebbe gran voga, cioè che così l’uomo singolo, come l’unione di molti, e ogni classe della società e ogni corporazione tendono sempre ad esorbitare, uscendo fuori dalla sfera dei loro diritti per invadere gli altrui; onde la scienza delle costituzioni parve la scienza dei freni.
In tutto ciò havvi molto di vero, e nondimeno volgendo lo sguardo all’andamento generale degli eventi umani, non a questo o a quel fatto peculiare, io sono d’avviso contrario per due cagioni che dirò breve, non essendo qui luogo ad entrare in una discussione morale dell’indole dell’uomo. Ma parmi certo che a chiunque regge la cosa pubblica si parano innanzi ogni giorno molte deliberazioni da prendere, nelle quali l’interesse proprio non ha parte, o ne ha una remotissima, per modo che soverchia la previdenza comune, e in questi casi l’uomo tende a fare il bene, salvo pochi efferati né quali il male per sé stesso e cagione di diletto1 . E l’altra considerazione è che l’interesse di ciascuno nella più parte dei casi consente coll’interesse generale, e spesso quel che a noi pare gara, conflitto, e pugna torna a maggior utilità a tutti. Veramente gli economisti hanno abusato di questo argomento quando vollero dedurre dalla illimitata concorrenza in ogni tempo e in ogni luogo il massimo dei beni della società, ma ciò non toglie che normalmente la concorrenza non sia elemento necessario e benefico; e forse Adamo Smith ritrasse questo vero con colori più temperati e più genuini dei suoi seguitatori. Ma oltre a ciò si vuol notare che se la somma dei mali prodotti dagli uomini che governano e ammaestrano i popoli più o meno direttamente superasse la somma dei beni, non si spiegherebbe il progresso della civiltà, anzi la società a breve andare si dissolverebbe, e cadrebbe in totale ruina. E questo mi pare argomento precipuo contro il pessimismo storico. Laonde facendo pur ragione dei cattivi governi e dei tristissimi loro effetti, non posso rinunziare al concetto onde io presi le mosse; cioè che il complesso delle azioni di coloro che reggono la cosa pubblica, è generalmente indirizzato più al bene che al male: maggiore o minore, secondo i luoghi ed i tempi, ma pur in tal grado che presa una lunga tratta di secoli, il bene può prevalere al male sulla terra.
Dalle considerazioni di filosofia morale passando a quella di filosofia politica, gli studiosi si posero ad investigare qual sia la forma di Governo nella quale possa presumersi che il massimo degli effetti buoni si consegna con facilità e con sicurezza; e non ricorderò la sentenza di Aristotele professata eziandio dai più grandi uomini a lui posteriori sino ai dì nostri, che il governo misto sia da preferirsi; ma dirò solo non esservi un tipo assoluto di tal fatta, acconcio a tutti i popoli in ogni età e sotto ogni plaga di cielo. La storia dimostra primieramente che gli ordini di governo debbono conformarsi allo stato economico, intellettivo e morale, insomma alla civiltà dei popoli, e dimostra inoltre che non vi ha forma di governo che sia scevra d’inconvenienti. Per la qual cosa il filosofo e l’uomo di stato sono costretti a scegliere quella che ne contiene minor numero relativamente alle altre e che comporta un certo grado di civiltà e favoreggiarla come ottima. Ma dal sopraddetto discende eziandio questo vero, che qualunque essa sia, v’ha mestieri di contrappesi e di freni che impediscono ad ognuno che partecipi alla potestà sovrana di trasmodare. Or quando una società è giunta a certo grado di coltura ivi si sveglia un desiderio intenso e se ne diffonde il sentimento, della partecipazione dei cittadini al governo, la quale partecipazione può essere di due sorta: consultiva e deliberativa. Consultiva è quando vi sono ordinati consessi di uomini prudenti che il Governo interroga per avere informazione, consiglio, apparecchio di leggi; deliberativa quando la potenza di fare le leggi, e lo stanziamento delle entrate e delle spese appartengono ai cittadini o direttamente o per mezzo dei loro rappresentanti. 
E qui c’incontriamo nel regime rappresentativo, onde fu resa possibile la partecipazione dei cittadini al governo anche nelle grandi e popolose nazioni, e del quale tanto fu scritto che sarebbe superfluo ritornavi sopra. Ma da questa forma generica si passa al regime costituzionale del quale sono cardini fondamentali la rappresentanza elettiva del popolo in una e spesso anche in due assemblee, e la responsabilità ministeriale sotto un’autorità suprema che concilia i conflitti e modera l’andamento della complicata macchina. Però nello stesso reggimento costituzionale vi sono forme diverse. In alcuni paesi come la Germania e l’Austria, le assemblee pur votando le leggi e il bilancio, non hanno se non per indiretto ingerenza nell’andamento quotidiano della cosa pubblica, e nell’indirizzo politico interno ed esterno. Se il ministro dee alla lunga mettersi d’accordo colle assemblee, non perciò hanno queste un influsso immediato nella sua formazione. Ma in altri governi costituzionali non solo le Assemblee esercitano un quotidiano sindacato sulla potestà esecutiva, ma questa non può durare se non in quanto abbia la fiducia dell’assemblea elettiva che col suo voto la designa o l’abbatte. Quest’ultima forma che è propriamente quella che si chiama governo parlamentare si ritrova in Inghilterra, nel Belgio, in Spagna, in Grecia, in Italia ed in Francia.
Ho citato anche la Francia fra questi governi; avvegnaché l’esser di monarchia e di repubblica non muti punto la sostanza sua nella parte che noi consideriamo. Che il magistrato supremo sia ereditario ovvero elettivo, a vita o a tempo, ciò non toglie né menoma quegli effetti che noi vogliamo esaminare. Ma dallo studio di queste varie forme di liberi reggimenti, sembra derivarne come conseguenza necessaria, che la somma della cosa pubblica debba essere affidata a coloro che esprimono in un dato momento la opinion pubblica nella sua maggior parte, e nelle sue più spiccate tendenze: e che qualora codesta opinione muti, anche gli uomini cedano il governo ad altri che meglio la rappresentino. Insomma pare inevitabile che nei reggimenti liberi al mutarsi della opinione generale della nazione, segua un alternarsi di partiti al governo, però in grado diverso di estensione e di rapidità. Fra tutti poi il governo parlamentare più ancora di quello strettamente costituzionale e rappresentativo, sembra non potersi disciogliere dalla condizione di essere un governo di partito.
E qui bisogna definire la parola partito. Io ritornerò fra breve sulle sue origini, ma dico che oggi s’intende per partito un’accolta di uomini aventi voce nella cosa pubblica i quali concordano nelle massime fondamentali circa il modo di governare, e cooperano tutti insieme affinché siffatto modo e non altro si tenga.
Sotto il governo assoluto è evidente che l’opinione del Capo dello Stato è la sola decisiva. Se il più delle volte esso porge ascolto e si piega al consiglio dei suoi ministri, se questi alla volta loro sentono l’influsso dell’opinione pubblica, però la finale deliberazione spetta ad un solo il quale non ha obbligo di consultare chicchessia, né di render conto ad alcuno del suo operato. Vero è che anche nei governi assoluti formasi a poco a poco una abitudine di regolarità e di legalità che è rappresentata da quella che chiamasi burocrazia la quale talvolta tien fronte anche ai soprusi dei superiori, ma veri e propri partiti politici non appariscono. Vi sono bensì forze occulte, sette, cospirazioni, congiure nel popolo, e nelle corti intrighi di anticamera, e quindi mutazioni di politica e paci e guerre per azione segreta di ministri, o di cortigiani: ma non è ciò che noi trattiamo al presente.
Quando invece i cittadini pigliano parte alla cosa pubblica, allora si formano e si manifestano partiti diversi. Pongasi pure in tutti lo scopo sincero del bene della patria, ma nel giudizio dei mezzi che vi conducono non può non esservi diversità di opinione fra gli uomini. Onde discende che coloro i quali intendono di seguire certi concetti loro comuni, e vogliono che si operi ad un medesimo modo nelle parti più sostanziali del pubblico reggimento, fanno accordo fra loro, e se non espressa pur vi ha una tacita intesa che li collega. L’idem de republica sentire è insomma il fondamento che natura pone al partito politico: ma siccome non tutti possono idem sentire in tutto, indi nasce la distinzione dei partiti.
Molte poi sono le cagioni che a formarli cooperano. Dapprincipio la natura e la disposizione dell’animo per la quale altri è spontaneamente avventuroso e amatore di novità, altri cauto e peritoso teme che ogni cambiamento sia un male, e questi sarà di necessità più conservatore di quello. Alla natural disposizione bisogna aggiungere la tradizioni di famiglia, perché se qualche antenato si è illustrato nella difesa di alcuni principi, molto probabilmente il figlio o il nipote si terranno legati quasi dall’onore del casato a professare le medesime idee con vivacità e fierezza, e di ciò abbiamo in Inghilterra copiosissimi esempi. Segue l’educazione i cui effetti nella maggior parte degli uomini sono sommamente notevoli. E infine le circostanze in mezzo alle quali un uomo è vissuto, gli amici della sua giovinezza, i maestri, i compagni di studio determinano nella sua mente una maniera di giudizio che diviene abituale, e nella quale poi l’amor proprio, il sentimento di coerenza e di dignità lo mantengono tenacemente.
Finalmente a tutte queste cose sovrasta, e profondamente le modifica l’interesse privato, potentissima molla dei pensieri e delle azioni, che spinge l’uomo ad abbracciare un partiti piuttosto che un altro, secondo la speranza ch’egli ha di trovarvi potenza, ricchezza ed onori. Però l’interesse non è la sola molla del cuore umano come taluni pretesero. Il dimostrarlo né si appartiene a questo libro, né sarebbe qui opportuno; ma per riguardo ad opinioni politiche, io ricordo di aver udito raccontare nella mia infanzia di due bolognesi dei quali la legislazione napoleonica, improvvisamente introdotta, mutò in tutto le condizioni. L’uno che doveva essere erede di un gran patrimonio fidecommissario rimase pressoché misero, e l’altro per libertà del testare divenne ricchissimo. Eppure questi perseverò nell’essere nemico giurato dei nuovi ordini, quegli si gettò a piene vele nella tempesta della rivoluzione. Pertanto si può concludere che i partiti hanno una necessità razionale e storica e che molte e varie cagioni determinano gli uomini ad aderire all’uno più che all’altro. Questo riguarda il singolo cittadino o, per usare una locuzione moderna, il subbietto.
Ma ci è un’altra cagione obiettiva che contribuisce alla formazione dei partiti, e dipende da ciò che le leggi sono proposte da pochi, ma discusse e deliberate da molti, riuniti in una o più assemblee. Ora per guidare un’assemblea ad un dato fine è d’uopo disciplinarla. Se ciascun membro di essa in ogni articolo di legge volesse far prevalere il proprio concetto a quello degli altri, e perciò votasse sempre e soltanto secondo il proprio giudizio individuale, ne verrebbe tale una confusione nel risultamento delle discussioni e delle votazioni da rendere l’opera legislativa dell’assemblea piena di discrepanze. E il Ministero che dovrebbe goderne la fiducia sarebbe di giorno in giorno messo a repentaglio di perderla. Quando invece si formano due grandi opinioni o partiti, in favore e contro i principii generali che informano la legge, ivi ognuno del trionfo di questi principii pospone una parte delle sue opinioni secondarie, sicché l’opera legislativa riesce coordinata e fra sé medesima congruente. Così il fatto stesso di procedersi per mezzo di assemblee rende necessaria la costituzione dei partiti. E finalmente vi sono taluni casi nei quali è mestieri che un’assemblea voti delle leggi o delle imposte che sono impopolari. Indarno il deputato singolo cercherebbe in sé medesimo, o nel puro sentimento del dovere la forza di sfidare questa impopolarità: ciò che lo anima, lo rinfranca, lo induce a farlo, è il sentirsi strettamente unito a molti altri suoi colleghi che hanno gli stessi interessi e gli stessi obblighi, e che prendono con lui la responsabilità della deliberazione. Aggiungasi infine che la Costituzione dei partiti induce necessità di stabilire principi direttivi chiari e coerenza nel seguirli: e però fermezza di carattere in coloro che li abbracciano, e nelle assemblee deliberanti una disciplina efficace.
Cesare Balbo in quel suo libro della monarchia rappresentativa in Italia che sventuratamente rimase incompiuto2 pigliò apertamente la difesa delle parti politiche non solo dal lato della necessità ma della utilità; disse virtù dei governi liberi in generale far che le fazioni diventino parti, virtù dei governi rappresentativi in particolare, portar le parti della piazza alle aule parlamentari, virtù della educazione politica ridurre le parti di numerose e complicate che si mostrano talvolta, ridurle dico a due sole, quella che sostiene il ministero e la opposizione. Imperocché il ministero non sia che l’una delle parti che ha i suoi capi al governo. E invocò nelle parti la disciplina: nemico a quei centri, mezzi centri, centri destri, centri sinistri quasi rose di venti e di tempeste: nemicissimo a quelli che si dicono indipendenti, e che si destreggiano fra l’una parte e l’altra senza convincimento di sorta alcuna.
Che se guardiamo all’Inghilterra come esemplare, ci è facile di scorgere che la divisione dei partiti è la tessera che ci conclude attraverso la storia di quella grande nazione. Il Macaulay nel suo libro ne registra per dir così la data del nascimento3 : "Quel giorno, dic’egli, in cui le Camere di nuovo si radunarono (narra del Parlamento, chiamato lungo, che dopo aver seduto per dieci mesi, e pigliato un riposo di sei settimane, si riuniva di nuovo nell’ottobre 1641) è una delle date più notevoli della storia inglese. Imperocché da quel giorno presero ordinata forma i due grandi partiti che d’allora in poi occuparono a vicenda il governo. In un certo senso può dirsi che esistevano anche prima, e allora solo divennero manifesti, anzi può dirsi che v’erano stati sempre, e sempre vi saranno. La differenza loro trae origine da differenze naturali di temperamento, d’intelletto, d’interesse le quali non verranno meno sinché le menti umane non cessino dall’essere tirate in opposta parte dal compiacimento dell’abitudine, o dalla vaghezza della novità. Non solo in politica, ma in letteratura ed in arte, nelle scienze stesse, nella chirurgia, nella meccanica, nella nautica, perfino nella matematica se ne scorgono i segni. In ogni tempo vi furono uomini che guardavano con affetto a tutto ciò che è antico, a anche dopo esser stati convinti della bontà ed utilità di una innovazione, non seppero risolversi ad accettarla che a mal in cuore. In ogni tempo vi furono uomini di vivide speranze, e di calda fantasia che inoltrandosi arditamente non tennero conto dei rischi e degli inconvenienti che le innovazioni seco adducono, volenterosi di chiamar progresso qualsiasi mutamento. Negli uni e negli altri v’ha una parte da approvare, ma gli esemplari loro migliori si trovano non lungi dalla comune frontiera. Color che più si dilungano da quel mezzo da una parte sono retrivi e bachettoni, dall’altra empirici spensierati o temerari".
E il Grey4 notò similmente che il governo parlamentare è essenzialmente un governo di partito, avvegnacché la condizione precipua della sua esistenza è che i ministri della Corona possano dirigere l’opera del Parlamento, e l’esperienza ha provato che nessuna assemblea popolare può essere diretta con perseveranza senza capi riconosciuti, e senza un buon ordinamento di partiti. E basta leggere gli scrittori speciali5 per esser persuaso di quanta efficacia il sistema delle parti sia stato al governo della cosa pubblica, e al bene nazionale.
Burke, uno degli ingegni più robusti e più acuti nelle scienze politiche, definisce e difende il tema così: "Un partito è una riunione di uomini collegati insieme per favorire in comune coi loro sforzi il bene della nazione, inteso da essi secondo certi principi sui quali sono tutti d’accordo. Gli uomini che pensano liberamente possono in qualche punto non pensare egualmente: però siccome la maggior parte dei provvedimenti che si debbono pigliare, hanno relazione o dipendenza da qualche principio che si reputa di grandissima importanza per l’andamento della cosa pubblica, così è da credere che sarebbe disavventurato colui che nella scelta dei suoi amici politici non accordasse con essi delle dieci almeno nove volte". E altrove: "I buoni effetti dello spirito di partito in Inghilterra son molteplici e importanti. Il primo è che dà stabilità alle opinioni varie, sottili, fuggevoli degli uomini politici, rannodandole in modo duraturo e principii saldi e costanti. Il vero uomo di parte ha in sé certe norme generali di politica, simili alle leggi universali della morale, secondo le quali risolve qualsivoglia questione nuova e dubbiosa. La fede nella giustizia di quei principii lo mette in grado di resistere alle tentazioni dell’interesse, e ai sofismi coi quali vengono innanzi o si propugnano speciosi disegni; la sua condotta acquista un abito fermo, che si collega alla dirittura della mente, e all’integrità dell’animo. Infine la unione di più persone negli stessi pensieri accresce il vigore necessario a sostenere provvedimenti che rimarrebbero negletti o ineffettuabili, e talora a prima giunta repugnanti, i quali nondimeno mercé gli sforzi gagliardi e indefessi di un partito, finirono per diventar legge e produrre frutti copiosi di pubblica utilità ".
A questi pregi altri ancora se ne potrebbero aggiungere. Prima di tutto gli uomini per la speranza di poter salire al governo quandocchessia legittimamente, e far trionfare le opinione loro, sono indotti a vincere la naturale impazienza che li spingerebbe a combattere a tutta oltranza ciò che alla volontà loro si oppone, e a minacciare eziandio la pace pubblica piuttosto che rassegnarsi ad attendere con longanimità che venga la volta loro di governare. E’ questo un altro risguardo dell’idea già espressa che i partiti spengono le fazioni, e che le divisioni utili spengono le dannose: la qual cosa fu avvertita anche dal Macchiavelli come avrò occasione di ricordare più volte. E certo se il partito opposizione in Francia al tempo di Luigi Filippo, non fosse stato sempre troppo rigidamente tenuto lontano dalla cosa pubblica, si può verosimilmente credere che la rivoluzione del 1848 o non sarebbe avvenuta, o avrebbe ritardato di assai tempo. In questo senso potrebbe dirsi che sia stato anche giovevole all’Italia che il partito della Sinistra sia venuto al governo nel 1876.
Taluni scorgono eziandio nelle gare dei partiti e nell’alternarsi loro alla direzione della cosa pubblica una feconda necessità di acuire l’ingegno e di scoprire ognora nuove provvisioni e nuove sorti di beni pel popolo a fine di guadagnare la fiducia. Imperocché come afferma un recente scrittore, in un paese libero nessun partito può arrogarsi il monopolio degli statisti abili, e neppure può dirsi in certi momenti esente da errori .
Ma il Grant Duff disse un giorno che nella mutabilità dei ministri, la quale è effetto appunto di codesto alternarsi delle parti al governo di che parliamo, scorgeva anche un altro vantaggio, quello cioè che di sciogliere le questioni tecniche dalle pastoie dicasteriche. La burocrazia, diceva egli, finirebbe alla lunga col signoreggiare i ministri ed imporrebbe loro una decisione a suo grado. Ma l’intelligenza fresca del nuovo ministro vi si oppone, ed impedisce che l’amministrazione irruginisca, divenga troppo sollecita delle forme, e invada anche il campo della politica.
Da ciò si vede che la formazione dei partiti ha le sue cagioni naturali, razionali, storiche, e di civile utilità. Non so che in Inghilterra questa teoria sia stata contrastata da alcuno, che anzi forma per dir così un articolo del credo di quegli uomini politici. Non già che non si avvertissero nel passato, e non si avvertano anche oggi gli inconvenienti del sistema, ma i vantaggi sembrano di gran lunga maggiori. Pure fra coloro che fecero più amara critica dei partiti havvi lord Brougham del quale gioverà ricordare le considerazione .
Ciò che colpisce la sua mente innanzi tutto è che quando un partito ha il governo nelle mani, l’altro che ne rimane escluso, non può rendere alla cosa pubblica tutti i servigi ai quali sarebbe atto. Ecco, dic’egli, uomini illustri, saggi, eloquenti, patriotti ardentissimi. Perché militano essi sotto opposta bandiera? Se mirano a servire la patria collo stesso obbietto del pubblico bene, perché i loro atti si contrariano invece di unirsi? Perché adoprano gagliardi sforzi e pongono talvolta in atto virtù eroiche non al fine di resistere a nemici della terra nativa, ma per combattersi fra loro? Invero chi ben guardi direbbe che la sostituzione è una grande anomalia perché esclude dal servire la patria una metà degli uomini più capaci, e costringe codesta metà a logorar le sue forze in un conflitto coll’altra, anzicché riunirle insieme, e rivolgerle al bene di tutti. Dicono i teorici, segue il Brougham, e i caldi propugnatori del sistema, che la origine dei partiti sta nella differenza delle opinioni e dei principii: ma chi ficca gli occhi al fondo ci trova invece di questo testo romantico un testo più positivo, quello degli interessi. La storia inglese è secondo il parer suo quella di alcuni grandi uomini e di alcune nobili famiglie che si contendono la potestà, le ricchezze, gli onori. E le due parti ebbero quasi sempre molte idee comuni, ma quel che era bene per gli uni diventa un male se proposto dagli altri. Le leggi di coercizione, e la sospensione anche temporanea della costituzione, erano abborrite dai Whigs se le proponevano i Tories: venuti sù quelli, essi stessi le proponevano egualmente. I Whigs quando ritornavano nell’opposizione, erano per la pace e per le economie; saliti al governo non si curavano né dell’una né delle altre. Se Burke e Fox fossero stati ministri al momento della grande ribellione americana, non avrebbero certo ricusato di reprimerla né si sarebbero ritirati dall’ufficio per questa cagione: ma essendo invece all’opposizione, divennero caldi fautori degli americani. E perché la emancipazione dei cattolici, e le altre riforme che i Tories avevano fieramente combattuto, furono poi da essi stessi messo innanzi per ciò solo che riguardavano codeste riforme come mezzo di conservare il governo? Però lo stesso autore fa poco appresso un’altra considerazione che in parte distrugge l’efficacia del suo argomento ed ‘ la seguente. Posto ancora che i partiti si formino per interesse e per cupidità, non è men vero che sono costretti a scegliere un certo indirizzo e professare certi principi determinanti che espongono al popolo con accento di persuasione. E siccome il popolo non pone in dubbio la sincerità loro e poco si briga d’investigare se le opinioni professate siano o no un mezzo di afferrare il governo, ma le accetta in buona fede, così l’opinione popolare finisce per esercitare un influsso notevole sui suoi capi, e per così dire li incatena anche loro malgrado, alle massime che hanno proclamato. Ma rimane pur sempre vero che da codesto sistema due mali inevitabilmente provengo: la impotenza nella quale tutta una schiera di uomini abilissimi è messa di servire utilmente il paese, perché non appartiene al partito che governa; e la perdita di forze utili che nel giuoco dei partiti troppo sovente si logorano per combattersi a vicenda anche a discapito del vero e del giusto.
Nondimeno dopo tutte queste considerazioni il Brougham non sa escogitare miglior forma di reggimento, anzi non immagina pure che un’altra le si possa sostituire, onde la necessità di accettare gli inconvenienti in risguardo ai benefici, dei quali a vero dire usufruì largamente il gran Cancelliere: se non che potrebbe dirsi che mentre esso fu eccessivo ed ingiusto nell’assegnare ai partiti come origine il solo interesse privato, non fu poi abbastanza profondo nell’analizzare gli inconvenienti.
E per vero anche rimanendo nello stesso ordine di idee da lui messe avanti, quello cioè che una parte degli uomini più eletti sono rimossi per cagioni di partito dal prestare utili servigi alla patria, egli avrebbe potuto andare più innanzi, e deplorare altre conseguenze; come questa per esempio che un ministro abilissimo talvolta sia costretto a rinunziare al suo ufficio per una questione che non lo riguarda punto, e forse appena tocca l’indirizzo generale della cosa pubblica. Poniamo un militare valoroso, sapiente ordinatore di eserciti, servo nel mantenere la disciplina, pronto a cogliere e usufruttuare al bene della sua nazione ogni miglioramento che la scienza e l’arte discoprono: eppure quest’uomo potrà esser costretto a lasciar le redini del suo dicastero per una questione di tariffe doganali, di relazioni fra Stato e Chiesa o checché altro, quando il primo ministro ne abbia fatto argomento di fiducia o di sfiducia dell’assemblea. E però non è destituita di fondamento l’osservazione di uno scrittore americano che nel governo parlamentare rade volte l’uomo può esercitare a prò della patria tutte le facoltà ond’è dotato, e n’é impedito tal fiata per cagioni al tutto estranee alla propria abilità. E se si aggiunge che il Parlamento piglia gran parte della sua giornata, non solo per giustificarsi quanto ha operato, ma altresì per maneggiare quella che chiamasi tattica delle assemblee, e che perciò egli deve in cose estranee al còmpito suo, dissipare parte di quelle forze che più utilmente sarebbero state adoperate nell’ufficio assegnatogli, se ne trae la conclusione che la forma parlamentare non sia atta a cogliere il massimo e miglior lavoro che ciaschedun uomo potrebbe, secondo la sua idoneità, fornire allo Stato.
Chi volesse ritrarre tutti gli argomenti che dalle condizioni dei partiti hanno cavato le varie scuole filosofiche o politiche che per varie cagioni avversano il reggimento costituzionale, avrebbe gran messe. Ma non potendo dilungarmi troppo, né entrare in considerazioni spesso estrinseche al subbietto, dico solo che il Brougham ha dimenticato più altri inconvenienti che pur colpiscono la mente di chi media sull’argomento.
Gravissima è per me la contraddizione fra il motivo onde gli uomini politici sono innalzati al governo della cosa pubblica, e una delle tendenze più spiccate del tempo moderno. Imperocché il progresso delle scienze, e la divisione del lavoro che ognor più si attua in ogni maniera di opere, e di produzione, sembrano richiedere che il governo sia posto nelle mani non solo degli uomini più capaci in modo generico, ma di quelli che sono più specialmente versati, e propriamente periti nelle parti che debbono esercitare. Avverta bene questo punto il lettore, che al nostro tempo ogni pubblico servigio tende a diventare scientifico e tecnico. Ora la forma parlamentare e il governo di partito sono l’antitesi di questo principio. Imperocché nella scelta di un ministro più che della competenza si dee tener conto delle opinioni politiche che egli professa: laonde se le due cose si trovano riunite in un uomo, egli è più per accidente che per intrinseca necessità. Si direbbe quasi che l’uomo di partito debba avere per virtù infusa tutte le attitudini, avvegnacché non sia raro il caso che venga chiamato indifferentemente a reggere le finanze, la marina o i lavori pubblici. Il quale difetto si riscontra eziandio presso di noi, e fa pietà veder tal fiata collocati a reggere un dicastero tecnicissimo degli uomini che in vita loro nulla mai conobbero, nulla mai studiarono della materia.
Un altro difetto dei governi di partito è la esagerazione delle proprie idee che nasce dal continuo considerare i fatti sotto un solo aspetto, e dall’abitudine di contraddire ad ogni idea opposta alla propria, e quindi la ostinazione nell’errore, la quale si coonesta col nome di fedeltà al partito, e si glorifica come virtù. Di tal guisa l’uomo diviene unilaterale nei suoi giudizi; e riesce poi inetto a scorgere ciò che può esservi altrove di vero; e questa esagerazione delle proprie idee, e questa ostinazione nel negare ciò che può esservi di buono nelle idee diverse, abitua gli spiriti alla parzialità dei giudizi e il difetto ripetuto diventa vizio. Finalmente si forma quello spirito politico che se non nerro il nostro abate Galiani parlando degli inglesi chiamava monacale, onde un’accolta d’uomini che pur hanno libero pensiero, e digiogata volontà, si acconciano a severa disciplina infrenatrice dell’uno e castigatrice dell’altra; e si vantano di vivere in soggezione, fino al punto che qualunque deviazione dalle idee del partito pare loro apostasia e delitto. Lascio stare il patronato e la clientela che si forma di questa guisa, per la qual cosa si cerca sempre di innalzare gli amici proprii, colmarli di favori, respingere gli altri, e chiuder loro al possibile l’ardito a salire: ma di ciò più innanzi. Egli è certo che pel maggior bene della cosa pubblica sarebbe a desiderarsi che i dissensi fra coloro che rappresentano il popolo fossero men lati, e men aspri che sia possibile, e si cercasse colla persuasione di accostarli, o almeno di toglier loro ogni acerbità. Ma in quella vece lo spirito di parte infervorandosi produce l’effetto contrario, rende cioè ogni dissenso più spiegato ed acre, più ancora che nol sarebbe per sé medesimo naturalmente. Di guisa che può dirsi che se la discrepanza delle opinioni è cagione prima dei partiti, la costituzione dei partiti a sua volta stimola la discrepanza delle opinioni, e ne allontana la conciliazione. Imperocché quando si sono formate delle aderenze e delle tradizioni, sciolto un problema che formava oggetto di disputa si va in traccia di un altro: sicché in taluni casi non è la questione variamente intesa e risoluta che giustifica il partito, ma è il partito che suscita la questione nel proprio interesse.
Ognun vede che di fronte ai pregi del governo di partito stanno non pochi difetti. Oltre a quelli accennati da Lord Brougham, io vi scorgo la negazione della tendenza scientifica e tecnica, la parzialità e la esagerazione delle idee, la repugnanza infine a conciliare i dissidi col partito avverso, anche laddove il farlo sia agevole ed utile alla patria.
Sarebbe possibile aver un governo libero, costituzionale, parlamentare, senza che sia governo di partito? Questo fu proposto da alcuni, e fu anche tentato di risolvere, ma ne parlerò più particolarmente nel capitolo terzo. Per ora mi ristringo a dire che i difetti che abbiamo descritto sopra sembrano insiti a tutte le forme di libero governo, ed esercitano un influsso notevole sulla politica, sull’indirizzo generale interno ed esterno, e più o meno eziandio sulla formazione delle leggi. Ma non sono i soli difetti. Ve n’hanno altri i quali non sembrano così connaturali al governo di parte, ma che però facilmente vi si aggiungono ed arrecano mali gravissimi. Uopo è dunque che li esaminiamo con qualche diligenza, poiché, come porta anche il titolo del libro, è intorno ad essi che si svolge principalmente la nostra trattazione.

 

 

DI ALTRI MALI CONSEGUENTI DAL GOVERNO DI PARTITO.
SUE INDEBITE INGERENZE NELLA GIUSTIZIA E NELL’AMMINISTRAZIONE

I mali che intendo descrivere in questo capitolo non sono così insiti al governo parlamentare, che non sia agevole immaginarlo anche spoglio di questa triste accompagnatura. Si potrebbero dire accidentali, sebbene la forma del governo vi presti occasione ed aiuto, ma riescono assai più pericolosi di quelli che abbiamo discorso. E sono di varie maniere; e chi volesse comparare il corpo sociale col corpo umano, direbbe che gli uni sono morbi acuti, e cronici gli altri.
Ma dei primi non intendo intrattenermi. Così come non mi sono proposto d’investigare il valore del governo parlamentare in sé stesso e in confronto degli altri, in tal guisa non mi soffermo ad esaminare come possa rimutarsi per la violenza dei partiti. Veramente qui non si tratta più di partiti propriamente detti, ma di fazioni. ben potrebbe oppormisi che una volta costituito il partito, sia facil cosa, e la storia ne porge abbondevoli esempi, che ove esso senta di non poter giungere per vie legittime al governo, si sforzi di afferrarlo con audaci usurpazioni. Poterono i francesi nel luglio 1830 addurre a cagione del rivolgimento loro le ordinanze contrarie alla Carta, ma la Carta era fondata sulla inviolabilità della Corona, e sulla responsabilità dei ministri, sicché a buon diritto si dovevano accusare e condannare questi; non dovevasi espellere la dinastia. Ma a Luigi Filippo non poté neppure imputarsi la costituzione violata, sibbene una soverchia rigidezza nel non allargare le franchigie, e anche pusillanimità, e poca cura della dignità nazionale. E che dire della Spagna dove un manipolo di soldati abbatteva gli ordini costituti, e ne costituiva dei nuovi, finché altri mosso da pari libidine di potere e parimente assecondato da ambizioni militari, rinnovasse la prova di rovesciarli in senso opposto? Che dire del Portogallo, dove un vecchio ottuagenario sprofondato nei debiti, per cupidigia di danaro, sforzava il Re a mutare ministri contro la volontà della nazione? Che dire della Grecia che mutò non solo ministri, ma Re? Felice l’Italia dove finora né plebea violenza, né soldatesca indisciplina poté attentare allo Statuto; e dove la dinastia è fondata sull’affetto e sulla devozione popolare. Questo stato di cose durò prima dodici anni in Piemonte, e dura da oltre venti anni in Italia, e se il filosofo può osservare che troppo è breve il periodo per state a piena fidanza , che come in Inghilterra, le fazioni non pervengano mai a impossessarsi della cosa pubblica, nondimeno dai fatti passati giova prendere fiducia nell’avvenire.
Oltre a queste che chiamerei catastrofi, v’ha un altro guaio nei governi elettivi ed è che lo spirito di parte mette in opera mezzi disonesti per far eleggere i suoi, e mira a falsificare la rappresentanza nazionale, di che gli esempi non sono rari. Laonde si fecero leggi dovunque per punire le frodi, le venalità, le intimidazioni, i brogli elettorali. Ed è singolare che l’Inghilterra donde prendiamo sempre giustamente gli esempi, n’é stata grandemente inquinata in ispecie nel secondo passato. E non pure inganni e brogli e corruzioni per essere eletto, ma per acquistare voti e per cattivarsi proseliti dentro la Camera. Sarei troppo lungo se volessi riferire ciò che gli scrittori inglesi unanimamente descrivono, soprattutto dei tempi di Roberto Walpole primo ministro, del quale si narra che soleva dire aver egli la tariffa della coscienza di tutti i deputati. E sebbene queste colpe degli elettori e degli eletti siano venute colà sempre scemando, nondimeno si riconobbe necessario di stabilire nuove e più severe leggi punitive, l’ultima delle quali se non erro è del 1854. Ma io mi passo anche di questa categoria di mali che pur sono accidentali, e intramezzano fra quelli che ho detto di violenza, e gli altri dei quali entro a parlare.
Imperocché i mali dei quali intendo discorrere appartengono ad un’altra categoria diversa da tutte quelle che ho sopra indicato; e come non si riferiscono ai difetti che si apparvero per dir così inseparabili dal governo di partito, così neppure a catastrofi violente di Stato, né a brogli frodolenti di elezioni. Invero la forma parlamentare muove la inclinazione, appresta la facilità, lo sdrucciolo ad incorrervi, pure non si dee riguardarli come sì fattamente connaturali in essa da non potersi evitare almeno in gran parte. E ciò basta perché siano studiati accuratamente in sé medesimi, e nei rimedi loro. Perché se alle fortunose catastrofi, se alle storiche corruzioni, se alle inevitabili imperfezioni del governo parlamentare si aggiungono anche altri mali che non appartengono all’essenza sua propria, e che impediscono la sicurezza e la prosperità del cittadino, può addivenire, come io dissi sopra, che a lungo andare quel Governo non solo apparisca dannoso e contrario al bene pubblico, ma eziandio spregevole alle popolazioni.
Innanzi tutto bisogna distinguere l’indirizzo generale della politica dalla pubblica amministrazione, e dalla giustizia. L’indirizzo generale della politica comprende i criteri ed i metodi da seguirsi nella condotta degli affari interni e nelle relazioni coi potentati stranieri, e concetti secondo i quali si mantengono o si riformano le leggi esistenti, o se ne propugnano di nuove, e infine certi provvedimenti straordinari richiesti da pubbliche necessità. E questo propriamente è il campo assai vasto dove la diversità delle opinioni e l’azione dei partiti apparisce legittima. Codesto indirizzo generale politico può adunque mutarsi col mutare del ministero, e sovra di esso al Parlamento si appartiene esercitare continuo sindacato.
Ma tale non è la giustizia né la pubblica amministrazione. La giustizia è in vero un ramo della potestà esecutiva, ma un ramo che indipendente opera, e per mezzo di tribunali sentenzia del diritto dei cittadini e lo restaura se violato, riconosce i delitti e li punisce: fondamento precipuo dell’ordine sociale. Laonde il primo tratto si mostra dover essere estranea in tutto alle mutazioni di partito. La qual verità è teoricamente riconosciuta da ognuno, anzi non si fa altro che parlare della imparzialità dei magistrati, anche da coloro che in fatto la insidiano.
Diversa dalla giustizia è l’amministrazione pubblica, della quale è bene delineare le fattezze generali, imperocché il cittadino ha attinenze con essa quasi in ogni momento della vita. Il Messedaglia1 notò molto accuratamente la distinzione fra il giudice e l’amministratore. Il giudice non agisce direttamente, e per effetto immediato della sua funzione, ma lascia che agiscano gli altri, ed egli si limita a dirimere i conflitti, mantenere a ciascheduno la sua posizione di diritto, reprimerne la violazione. Inoltre esso risponde soltanto della legalità e giustizia delle sue decisioni secondo coscienza, ma non mai delle conseguenze di utilità o di danno che ponno derivarne. Quindi la sua funzione è assolutamente passiva, repressiva, irresponsabile. L’amministratore per lo contrario deve agire in virtù del proprio ufficio, ed al fine dell’interesse pubblico. La legge che lo riguarda non è solo una norma che egli debba far rispettare da altri, ma è la norma dei suoi proprii atti: la sua funzione è quindi essenzialmente attiva, preventiva, responsabile.
L’azione dell’amministratore è complessa. Si può distinguere la direzione che si estrinseca colle ordinanze, coi decreti, colle istruzioni; l’ispezione all’adempimento delle leggi e dei regolamenti; l’esecuzione di tutto ciò che per legge, o per facoltà speciale dee fare o crede necessario di fare pel pubblico bene; il sindacato dei corpi civili che gli sono soggetti; e finalmente il giudizio sui ricorsi. Ma di questa parte dei giudizi, e della distinzione fra il contenzioso amministrativo e il contenzioso giudiziario tornerà opportuno il discorrere là dove parleremo dei rimedi. Ciò che abbiamo detto sopra ci pare bastevole a delineare la distinzione fra giustizia e amministrazione. A mostrare poi la importanza di quest’ultima basti l’osservare che non c’è cittadino che o per le tasse, o per la leva, o per la polizia, o per i servigi pubblici, o per le scuole, o per la proprietà, o per l’industria, per pel lavoro non si trovi quasi quotidianamente in attinenze coll’amministrazione: si direbbe quasi ch’ella c’involge da ogni parte; imperocché nelle moderne costituzioni ha preso anche in molti rispetti il posto della Chiesa come in tutte le funzioni dello Stato civile dal nascimento sino alla morte.
Basta scorrere col pensiero le attribuzioni di tutti i ministeri onde è composto un governo moderno per iscorgere la vasta tela dell’amministrazione pubblica. Dico di tutti i ministeri, in quanto che anche quello di Grazia e Giustizia è un organo amministrativo dirigente, non è per potestà giudicatoria. Il ministero dell’interno ha nella società odierna un compito amplissimo. La sua azione preventiva si stende a tutto ciò che riguarda la sicurezza pubblica ed è quella parte che si chiama propriamente polizia, la quale comprende la vigilanza e la prevenzione dei reati, e la immediata loro repressione. E quando il tribunale abbia pronunziato una condanna, ad esso appartiene la custodia dei rei, e l’ordinamento dei luoghi di pena. Né la vigilanza preventiva riguarda solo i reati, ma inoltre tutto ciò che può mettere a repentaglio la sanità pubblica, od offendere il costume. Quindi appartiene al ministero dell’Interno fare provvisioni nei casi di malattie epidemiche, di epizoozie e ancora sull’esercizio delle farmacie, sulla vaccinazione, sulle arti insalubri, od pericolose e va dicendo. Un altro compito dell’amministrazione interna è l’alta tutela dei corpi locali, Provincie, Comuni, Opere Pie tanto per la osservanza della legge quanto per alcuni interessi generali. E quando esse vengono meno agli uffici assegnati loro dalla legge, ne emenda il difetto inscrivendo nei bilanci loro le spese obbligatorie, ne approva i resoconti e di alcune istituzioni nomina persino i direttori. Spettano ad esso gli archivi pubblici, ed eziandio alcune parti di beneficenza. L’ordinamento dell’esercizio di terra e dell’armata di mare, e tutto ciò che serve alla difesa Stato è affidato all’amministrazione della guerra e della marina. Quindi leva di soldati e di marinai, costruzioni di fortilizi e di navi, caserme, armamenti, approvvigionamenti, e a tutti codesti fini contratti di ogni genere; né ciò solo, ma altresì scuole di guerra, e di nautica. E invero una parte notevole dell’istruzione pubblica, o direttamente o indirettamente, appartiene all’amministrazione. E’ lo Stato che abilita i giovani che escono dalle Università o dagli Istituti ad esercitare le professioni che diconsi liberali: e ancora che determina i programmi e il tempo degli studi che a tal uopo si richieggono. E’ lo Stato che mantiene o sussidia le Università, gli Istituti scientifici, le Accademie di belle arti, i Musei e i Ginnasi e i licei e le scuole normali, che infine aiuta i Comuni a diffondere la istruzione elementare; le quali cose sono per la maggior parte di ragione amministrativa. Colla costruzione delle strade e colla manutenzione loro, coi porti, coll’inalveazione dei fiumi, coll’apertura di canali, e con altre opere pubbliche di ogni maniera, lo Stato agevola le comunicazioni dei paesi fra loro, favorisce l’agricoltura, l’industria, i commerci e talvolta anche li incoraggia direttamente con premi, e con pubbliche mostre. In taluni casi guarentisce la qualità dei prodotti come nell’uffizio del marchio e in quello delle carte valori; in altri casi come nella pubblicazione delle statistiche fornisce utili notizie a tutti coloro che ne ponno abbisognare. Vigila gli Istituti di credito, i mercati e le borse. La pesca, la caccia, le foreste, le miniere, certe specie di coltivazioni sono soggette a norme amministrative prestabilite. E lo Stato, fornisce esso medesimo pubblici servigi importantissimi come le poste, i telegrafi, le ferrovie da esso esercitate. Inoltre una parte degli uffici suoi delega o lascia esercitare ai corpi locali, alle Provincie e ai Comuni. Di che si vede quanto ampia sia la sfera dell’amministrazione, la quale non solo attua le leggi e i regolamenti, ma piglia provvedimenti minutissimi e quotidiani. E questo còmpito gli porge facoltà di prescrivere certi atti, d’impedirne altri, di farne spese, e persino di espropriare il cittadino mediante proporzionata indennità. E per fare tutto ciò ha d’uopo di una grande macchina composta di pubblici uffici fornita d’impiegati gerarchicamente ordinati dai più alti minimi; e ha d’uopo altresì di mezzi pecuniari, al quale fine riscuote le tasse che sono state decretate dal Parlamento, ed esercita ogni negozio della finanza. E questa raccolta di danaro, e questo esercizio di negozi forma un altro ramo vastissimo di amministrazione. Da ciò nascono rapporti infiniti dello Stato cogli agenti suoi propri e per mezzo di essi coi singoli cittadini, e similmente cogli Enti morali.
Ciò che si detto sopra brevemente è più a modo di esempio che di particolareggiata enumerazione, basta ad argomentare che se la imparzialità è necessaria nella giustizia, non lo è meno dell’amministrazione. E quindi l’azione dei partiti non solo dovrebbe essere assolutamente esclusa come suol dirsi dal santuario della giustizia, ma eziandio dai dicasteri amministrativi. Non si creda già che io voglia escludere il Parlamento dall’esaminare e sindacare se i regolamenti furono fatti in conformità della legge, se questa e quelli furono eseguiti appuntino, se nella materia nella quale l’amministrazione procedette secondo i propri criteri, la sua azione fu necessaria ed utile. Ma ciò per molta parte non porge argomento a differenze di opinioni, o lo porge soltanto là dove si tratta dell’indirizzo generale, il che appartiene alla politica. In tutti i particolari, e qualunque sia il partito che abbia nelle mano il reggimento, esso dovrebbe lasciare che l’amministrazione proceda senza riguardo al partito stesso, ma sibbene al solo intento di conseguire i vari fini di utilità pubblica che si ricercano nel miglior modo e più spedito che si possibile.
Ed eccoci pervenuti al punto fondamentale sul quale desideriamo che l’attenzione degli studiosi si rivolga. Imperocché per raccogliere tutto in un concetto, se l’essenza e lo scopo dello Stato sta nel rendere giustizia a ciascheduno, e nel fare il bene di tutti, se le istituzioni politiche non sono altro che mezzi e guarentigie per l’ottenimento di quel fine, che non vede che la giustizia di partito e l’amministrazione di partito sono la negazione dell’essenza e dello scopo medesimo dello Stato? L’ufficio dello Stato è di sottoporre l’interesse di ogni cittadino e di ogni classe all’interesse pubblico, il governo di partito inverte la gerarchia e sottopone l’interesse pubblico ai suoi propri interessi: laddove ove ciò fosse inevitabile nella forma costituzionale e parlamentare, si dovrebbe concludere che vi è contraddizione fra questa forma di governo e il fine razionale della società.
Ma sebbene ciò apparisca in massima evidente agli occhi di tutti, pure non può negarsi che Ministri, Senatori, Deputati e uomini politici di ogni sorte hanno una tendenza ad insinuarsi nella giustizia e nell’amministrazione, e farvi penetrare spiriti partigiani per trarle a profitto di sé medesimi e degli aderenti loro o almeno per conservare forte e vigoroso il partito, diffonderlo coi benefici e colle minacce, e mantenere il governo nelle proprie mani. Codesto periodo che spunta sempre dov’é governo il partito, cresce e giganteggia là dove il reggimento costituzionale non si svolse storicamente per una serie lunga e non interrotta di ampliazioni e di adattamenti; ma successe di subito ad un reggimento assoluto, o sia che lo Statuto venga ottriato dal Principe stesso o strappato da impeto popolare. Imperocché l’amministrazione era ordinata conformemente all’indole e alle tradizioni di una potestà dispotica, ne possiede tutti i congegni e le abitudini, sì dell’arbitrio nel comandare sì della disciplina nell’obbedire. Ora tengasi questo a mente, che un organismo fazionato ad obbedire ciecamente a chi comanda senza riguardo a guarentigie, addiventa facile istrumento di un partito quando questo ha in mano il governo.
Un dotto scrittore germanico, Rodolfo Gneist, che ha meditato queste cose con più acume di ogni altro2 vien divisando così gli effetti di un governo di partito impiantato com’egli dice sull’ordinamento amministrativo di uno Stato monarchico assoluto. Il 1° effetto è l’abuso metodico delle forze governative specialmente della polizia nell’interesse della maggioranza temporanea contro la minoranza e delle classi più potenti contro le più deboli. Infinite tentazioni ha il governo di valersi delle leggi e dei regolamenti per molestare o nelle persone o negli averi coloro che la pensano in modo diverso dal partito signoreggiante; quindi, premi ai suoi satelliti, vessazioni agli oppositori. 2° Abuso metodico nella ripartizione degli impieghi per accordarli ai suoi favoriti. Si pretende che l’impiegato partecipi a tutti i pregiudizii del partito signoreggiante, o almeno facilmente vi si accomodi. Né il silenzio basta sempre a preservarlo dalla persecuzione, e s’inventarono le parole di bene o male intenzionato che furono argine di condiscendenza o di animavversione. 3° dalle due cause precedenti nasce un’alterazione e trasformazione profonda in tutto il diritto pubblico. La partecipazione dell’impiegato al conflitto fra cittadini e cittadini divenendo condizione necessaria alla conservazione del suo ufficio, lo abitua a giudicare le legittimità di un atto non in sé medesimo ma a tenore della opinione politica che domina. Le regole di avanzamento sono manomesse, le concessioni industriali, le cautele della sicurezza pubblica, il diritto domicilio perdono il loro natural valore, insomma tutti gli atti dello Stato sono trasformati in promesse o in minacce. Lo scopo precipuo è quello di vincere nelle elezioni. E mentre il Parlamento colla votazione del bilancio stima d’infrenar il Ministero, questo invece con indebite ingerenze introduce i suoi creati in parlamento, e lo padroneggia disonestamente, né rimette del suo arbitrio se non quando sente certe correnti d’opinioni esser troppo forti per resistervi, o quando teme di provocare conati rivoluzionarii. Insomma allorché si congiunge insieme il sistema costituzionale inglese col sistema amministrativo continentale non ne deriva già come in Inghilterra un partito che governa, ma un governo partigiano, e il ministero non è come in Inghilterra il centro degli ordinamenti legislativi, ma è lo strumento d’interessi collegati che hanno in lor balìa tutte le forze di un’amministrazione assoluta. Laonde a breve andare si manifesta la sua impotenza a tutelare il diritto dei cittadini, e per rimbalzo a mantenere integre le stesse istituzioni politiche, le quali non bastano da sole a costituire un governo secondo la legge. Il cambiamento di sistema adunque non ha mutato in questo caso la sostanza delle cosa, ma solo ha accelerato il processo di dissoluzione.
Fin qui ho riepilogato le idee dello Gneist. Ora se guardiamo ai fatti che l’esperienza ci ha posto innanzi, vediamo che sebbene l’Inghilterra possa citarsi anche in ciò a modello, pure non fu al tutto immune di tal lebbra. Vero è che il self-government (governo autonomo) preservò la nazione dei più gravi mali. Imperocché la mercé di esso il cittadino inglese è veramente libero e l’amministrazione é essenzialmente locale e indipendente dal governo centrale, il quale non può aversi alcuna azione continuata e diretta. Ma per opposte cagioni nelle azioni del continente europeo la tendenza biasimevole di che parliamo fu di gran lunga maggiore, soprattutto nella Francia, nella Spagna, nella Grecia, nella Italia. Si dirà che anche gli Stati Uniti d’America ne porgono scandalosi esempi, ed è vero: ma quivi per ragioni peculiari che esporrò più innanzi, sebbene l’ingerenza partigiana abbia prodotto alcuni effetti speciali iniquissimi, non impedisce alla società di correre il suo arringo con tale operosità che non fu mai veduta l’uguale nel mondo.
Ho detto che anche l’Inghilterra non andò esente da difetti. E veramente quello che fu chiamato patronage (patronato) fé sue prove di grande parzialità e talora non senza scandalo. Fino a Giorgio III la Corona praticava il patronato direttamente dando cariche ed emolumenti, inventando quei posti che si chiamano sinecure per beneficare i suoi favoriti, assicurando la successione degli uffici, assegnando pensioni segrete. Parecchi atti del Parlamento, soprattutto quello del 1782 nel quale fu segnalata l’opera del Burke, posero qualche freno a siffatti abusi. Ma le grandi famiglie whigs spiegarono uno zelo straordinario nel patronato e quando furono al potere collocarono gli amici loro e i parenti non solo negli uffici dipendenti dai ministeri, ma in quelli dello colonie e della chiesa. Nella inchieste e nelle discussioni che seguirono alla guerra di Crimea apparve eziandio non ultima causa di molti guai, la facoltà di comprare i gradi di ufficiale nell’esercito. Ora il metodo degli esami introdotto nel servigio militare, e nel civile, e sopra ogni altra cosa la ognor crescente ritrosia della pubblica opinione, tenace dell’autonomia personale e locale, hanno sì fattamente temperato gli slanci di questo patronato, che al nostro tempo Sir James Graham giunto alla fine della sua lunga vita poté affermare risolutamente nessun abuso notevole essere più da temere per questa parte. Né diversa è l’opinione di E. Fischel nel suo libro sulla costituzione inglese il quale dice così: "La vicenda dei partiti non ha alcuna influenza sui funzionari dell’amministrazione, avvegnaché i partiti stessi abbiano gran cura della imparzialità dei servigi pubblici. L’amministrazione Inglese è come una base di bronzo sulla quale si può collocare or l’uno or l’altro ministero senza scuoterla. Sia capo del governo Lord Russell o Lord Derby il piedistallo rimane immobile3 ". 
Bensì per amor del vero, dobbiamo aggiungere che scrittori odierni come il May e più tardi il Todde4 che ne invoca l’autorità, affermano senza esitazione essere giusto il privilegio del ministero di preferire nella nomina degli impiegati gli amici politici e sostenitori suoi ed osservano che fra le facoltà che appartengono ad un governo ve n’ha poche più essenziali, e più efficaci di questa delle ricompense. Il patronato, dicono essi, può adoperarsi a promuovere gli interessi e consolidare la forza del partito; e dentro certi limiti e quando non vi sia violazione di legge, giova come mezzo di rimunerare i servigi passati, e di assicurarsi futuri aiuti. Però si avverta che l’uno e l’altro di questi scrittori subordinano cotale privilegio alla pubblica utilità. Tale è il concetto in Inghilterra; quando alla pratica odierna ogni atto di tal genere si contiene in termini moderatissimi, e per le ragioni dette sopra non può produrre effetto notevole, né pericolo grave alcuno per l’avvenire.
In Francia le cose ebbero tutt’altro andamento: l’amministrazione fondata da Napoleone I parve così coordinata, così perfetta (e lo era davvero sotto l’aspetto delle prontezza e della efficacia di azione del governo, e della puntuale obbedienza degli impiegati) che non solo non si pensò a mutarla, ma i Borboni ritornando nel 1814 sul trono la conservarono e la riconfermarono. Ma gli statisti non videro che soprapponendo a questa amministrazione un governo parlamentare all’inglese, le due cose non solo non si unirebbero ma l’una finirebbe con guastar l’altra.
L’Hello nel suo libro sul reggimento costituzionale ha rappresentato vivamente lo stato delle cose a’ tempi della prima restaurazione, e della monarchia orleanese. Ei descrive gli agenti dell’amministrazione trasformati in agenti elettorali, e l’elettore spinto al voto più dagli stimoli loro che dalla coscienza del proprio dovere; quindi il deputato stesso fatto sollecitatorie degli affari de’ propri elettori, correre d’ufficio a mendicare il favore dei ministri. Ma in ogni ministero, egli soggiunge, si tiene un conto aperto al deputato: da un lato tutto le grazie che gli si accordano, dall’altro il suo voto alla Camera nei momenti solenni, col quale deve saldar le partite. E gli effetti di questo mercato si reputano tanto utili, che l’amministrazione accredita essa medesima il deputato come necessario mediatore negli affari. Essa lascia capire che ogni petizione, sia pur giusta, per ottenere esaudimento con speditezza, vuol essere accompagnata dalla raccomandazione del deputato, ed a lui ne partecipa l’esito prima che ad ogni altro, affinché possa farsene merito presso i suoi protetti. Similmente nella nomina degli impiegati più che delle doti pregevoli si tien conto della protezione, e chi vuol salire sa che è spalleggiato meglio dal favore altrui, che dalla diligenza propria. Di guisa che l’abilità elettorale in prima e l’abilità parlamentare poi danno il tratto alla bilancia delle ricompense. Così la natura delle istituzioni si falsifica e il governo rappresentativo non è che una larva di morale e di civiltà5. L’ingerenza della Camera nella distribuzione di ogni piccolo impiego, dice il Carnè6 diede esca ad una sorda opposizione del corpo amministrativo contro il reggimento parlamentare, e fu questa una delle cause meno avvertite ma più efficaci del discredito in cui cadde nell’animo delle popolazioni. La Camera divenne un vivaio di ufficiali pubblici, e la possibilità che la deputazione fossa scala agli impieghi e agli onori scatenò le più volgari ambizioni.
Chi discorra i gravami espressi sotto la prima restaurazione e nel tempo di Luigi Filippo, troverà ripetute le accuse delle quali abbiamo levato solo due saggi. Si finì per credere che i deputati erano servi degli elettori, e cortigiani del governo, il quale a sua volta per poter fare assegnamento sopra la maggioranza era costretto a soddisfare le meno oneste lor brame, o almeno a lusingarne la vanità, e pascerli di speranze. Lo stesso Guizot che tanta parte ebbe nel reggimento durante quel periodo, non può trattenersi nelle sue memorie dal riconoscere quei difetti, ed elevandosi come ei soleva a considerazioni generali afferma le seguenti proposizioni7: "Grande è il disaccordo fra il governo rappresentativo istituito colla Carta del 1814 e la monarchia amministrativa fondata da Luigi XIV e da Napoleone I. Là dove come in Inghilterra e negli Stati Uniti di America, in Olanda ed in Belgio, l’amministrazione è libera come la politica, e gli affari locali si trattano e si decidono sul posto senza attendere impulso o risoluzione dell’autorità centrale, il reggimento rappresentativo si concilia agevolmente cogli ordini amministrativi perché questi non vi si collegano se non in poche e importanti occasioni, ma quando la potestà nazionale ha il duplice compito di governare colla libertà, e di amministrare colla centralità, di sostenere in parlamento la pugna per i grandi interessi dello Stato, e contemporaneamente regolare ovunque sotto la sua responsabilità quasi tutti i più minuti affari del paese, ivi uno di questi due inconvenienti non tarda guari a scoppiare; o il ministero intento agli affari generali e alla difesa propria trascura gli affari locali, e li lascia disordinarsi ovvero li cura facendoli servire ai propri interessi, e l’amministrazione intera dal suo apice alla sua base non è più che uno strumento nelle mani dei partiti che si contendono il governo della cosa pubblica. Non è mestieri insistere su questi inconvenienti che oggi sono divenuti un tema comune degli avversari del sistema rappresentativo... Ma è chiaro che bisogna risolvere il problema di svolgere tutte le forze locali di esercitare autorità nella cerchia loro, e far penetrare nell’amministrazione lo spirito di libertà... La monarchia costituzionale costretta sin dal suo nascere a vincere le difficoltà della libertà politica, e insieme a portare il peso della centralità amministrativa fu messa alla prova di due responsabilità contraddittorie che soverchiarono l’abilità e la forza che si può richiedere ad ogni governo".
Questo lato della questione che il Guizot accenna non è il solo, ma è pur assai importante. E non sfuggì alla perspicacia di Cesare Balbo che dice8: "Dove gli impieghi dipendenti dal ministero sono numerosissimi e sparsi in tutto il suolo nazionale... i ministri diventano oltrapotenti; la macchina mirabile trovata a distruggere l’antico e franco assolutismo, non ha fatto che produrre uno nuovo ed insincero. Qui ci basterà osservare che tutte queste amministrazioni così numerose e così concentrate nelle mani dei ministri sono istituzioni di Napoleone e molto bene inventate da lui a suo scopo, molto male subite poi... Il nec plus ultra delle slogicature fu in un paese, dove sotto il governo assoluto non s’era stabilito mai l’ordinamento amministrativo napoleonico, e si stabilì contemporaneamente colla monarchia rappresentativa. E questo è il paese di Macchiavelli!"
E chi bene addentro rifletta scorgerà quanta analogia passi fra questo concetto e quello che io esprimeva presentando al Parlamento nel 13 marzo 1861 il disegno di un nuovo ordinamento del Regno, e adoperava queste parole: Se gli ordini costituzionali in alcune parti d’Europa non fecero buona prova, egli è da attribuirsi principalmente a ciò che il Comune e la Provincia non vi erano ben ordinati né abbastanza liberi per la qual cosa trovandosi il cittadino da sé solo di fronte all’onnipotenza dello Stato si corre non solo alla democrazia, ma alla dittature e al dispotismo.
Ma tornando alla Francia non solo nell’amministrazione ma eziandio nella giustizia s’infiltrava la indebita ingerenza della politica. Un uomo di grande vaglia ed autorità, il vecchio duca di Broglie, lo diceva apertamente come si vede nelle opere postume pubblicate da suo figlio9, e confessava esservi state a sua memoria talune scelte di giudici manifestamente partigiane e riprovevoli, talvolta odiose e ributtanti: nelle quali però nessuno osava apertamente lagnarsi. Di vero lo stesso autore cerca la ragione dello sconcio in ciò che un ministro può muovere a suo arbitrio una schiera di migliaia dio giudici, e questo ministro è uomo politico, e per conseguenza uomo di parte, e quindi ha amici ed avversari. Or come supporre che, per quanto buon volere ed imparzialità si sforzi di avere, pure non ceda alle sollecitazioni, alle importunità degli amici, al desiderio di rimeritare i servigi di chi lo aiuta, lo sostiene, e partecipa alle sue idee e ai suoi sentimenti?
E non è a credere già che la repubblica abbia mutato il triste andazzo, perché il male non ha nulla che fare, come dissi, con la eredità o la elezione del supremo magistrato, anzi scorgiamo lucentemente che peggiore col succeder delle forme parlamentari alle costituzionali. Poche settimane or sono un deputato francese vantasi di avere per suoi rancori in pena di una sentenza datagli contro per affari civili, ottenuto dal ministro il trasferimento di un magistrato, come erra di più forte vendetta10. E mentre scrivo queste pagine mi accade di leggere le seguenti parole: "Oggi prevale il concetto di governare ed amministrare il paese, curando oltre misura gli interessi del partito che governa: si cercano delle guarentigie contro la possibilità di cambiamenti, allontanando da ogni funzione amministrativa e municipale coloro che non hanno le idee e le vostre passioni, si vorrebbe se fosse possibile escluderli da ogni vita pubblica e perseguitarli a oltranza. Questa è politica di partito non di stato. Imperocché a chi non fraintende il senso delle parole, un partito può avere una politica di stato quando soddisfa a tutte le esigenze dell’ordine, della giustizia, della libertà, degli interessi nazionali, mentre se la sua politica è di partito, immola tutti questi beni alle sue passioni e agli interessi suoi proprii. La politica di stato ha un’ideale, più o meno utile, più o meno retto nella scelta dei mezzi, ma codesto ideale sovrasta alle ambizioni personali: la politica di partito mira a mantenere la potenza nel cerchio dei propri aderenti e adopera del continuo espedienti a tal fine, senza pensare agli interessi della nazione. E più oltre: I ministri non sono indipendenti nell’amministrazione: i senatori e i deputati hanno l’ingerenza massima sopra i funzionari, e sopra la trattazione degli affari, e le pretensioni loro passano nel gabinetto o nel consiglio dei ministri solo per esservi confermate. Ma questi padroni dei ministri hanno degli altri padroni a lor volta e sono i membri dei comitati che li fecero eleggere. Questi intimano gli ordini loro agli eletti ed essi li trasmettono ai ministri che ci appongono la loro registrazione11".
Che più? Leggo citati alcuni brani di un discorso del Procuratore generale innanzi alla Corte di appello di Parigi che non si perita di manifestare questi pensieri: "I giudici di pace sono oggi più solleciti di sapere quali siano le opinioni politiche dei loro giudicabili, che del merito dei loro processi, e si domandano se una buona elezione non valga che un buon giudizio... A me è lecito di sollevare il velo della mia amministrazione, ma io vi farei stupire, mostrandovi quanti vi sono i quali credono dio poter verificarsi mediante una denunzia politica di cattivi processi che hanno perduto in tribunale12."
Continuo questa rassegna in altri paesi, ma debbo avvertire il lettore che non da esame accurato e personale dei fatti io traggo le informazioni che seguono, ma le trovo scritte in libri ed effemeridi pregiate; sicché potrebbe in esse insinuarsi inesattezza, o qualche torto giudizio, del quale io non vorrei esser tenuto in colpa.
Nella Spagna è antico e universale il lamento: anzi non è raro il caso di leggere le lodi dell’amministrazione francese, la quale almeno conserva una certa integrità, in mezzo alle rivoluzioni politiche, e procede senza scosse e senza interruzioni: laddove in Ispagna quella che nel 1870 il Castelar chiamò empleomania è un male cronico ed esiziale. Perché quando il ministero cade, trae seco nella caduta buona parte dell’amministrazione. Vi sono in Ispagna, dice Mazade13, degli impiegati moderati, degli impiegati progressisti, ma indarno si cercano impiegati che servano lo Stato anziché i partiti. Fra le condizioni richieste alle riforme, prima sarebbe quella di sbandire dall’amministrazione la politica che la perverte e fuggir tal costume, onde ogni più rea opera si giustifica in nome del partito. E vi fu un periodo (auguriamo che sia in sul declinare) nel quale entrare al ministero della cosa pubblica era notoriamente il mezzo più efficace di arricchire in breve ore, e non pur sé medesimo, ma i parenti e i famigliari. Però anche oggi si legge scritto da uno che sciaguratamente fu vittima del proprio zelo: "La mancanza di giustizia, l’arbitrio amministrativo, la centralità eccessiva, la rassegnazione del popolo danno al governo della Spagna potestà più larga che in alcun altro Stato. All’avvicinarsi delle elezioni può cambiare a suo grado perfetti, giudici, impiegati, sono ai membri del municipio e ai consigli generali, accelerare o ritardare a suo grado la soluzione dei ricorsi amministrativi, esaudirli o negarli, chiudere gli occhi sui contribuenti che sono addietro nei pagamenti delle imposte, ovvero usare con loro spietato rigore nel riscuotere, accordare o negare sussidi per opere pubbliche. All’uopo si ricorre alle minacce, alle violenza, alla falsificazione dello scrutinio14."
Peggio ancora in Grecia, e n’è prova che dopo oltre cinquant’anni di costituzione libera, i progressi veri dell’amministrazione, dell’istruzione, dei lavori pubblici, dell’agricoltura, della ricchezza sono troppo scarsi, ed anche la sicurezza pubblica è sempre mal guardata. Leggesi in uno scritto che dipinge la Grecia contemporanea: "Le persone più rispettabili sdegnano di far parte della Camera e ne fan parte invece taluni di abominevole fama.. La faccia degli intriganti e degli ambiziosi s’inframette nella politica. Le sessioni intere si logorano in sterili declamazioni, in grossolane ingiurie, di personali accuse: e poi quando s’approssima l’ultimo giorno della sessione, si votano senza discussione tutti i progetti presentati... Una delle più caratteristiche fattezze del Parlamento greco è questa, che al principiar della sessione tutti i gregari sono ministeriali, ma a poco a poco passano all’opposizione, e sol quelli che hanno ottenuto un impiego restano fedeli, sicché a vero dire non v’è ministero che possa reggersi a lungo contro le coalizioni15". E’ da sperare che si sia esagerato, ma non si può negare che altri indizi provano mali veri e disonesti.
L’Italia sta nel mezzo: il morbo è in essa ancora men grave che non è in Spagna ed in Grecia, parte la novità delle istituzioni, parte per l’indole degli abitanti, e lo stato della civiltà; ma temo sia già grave che in Francia, e ch’essa volga rapidamente verso le due penisole che le stanno ad occidente e ad oriente. Ma prima di parlare dell’Italia conviene che io dica alcuna cosa degli Stati Uniti d’America.
Negli Stati Uniti d’America la corruzione nelle regione politiche, se mi è lecito adoperar questa metafora, è grandissima e notoria. Sin dall’epoca che il Tocqueville scriveva il suo libro magistrale egli non si ristette dal descriverla e condannarla, e narrò che molti uomini dabbene, fra i più eminenti per ingegno e per virtù rifuggivano dal prender parte alla cosa pubblica. Il che è il contrapposto dell’antico concetto che il governo debba naturalmente venire nelle mani degli ottimi. Ma dal tempo di Tocqueville in appreso, la corruzione è smisuratamente cresciuta, e scandali recenti l’hanno messa ognora più in aperto. Ora la cagione principalissima di questa corruzione reputasi la maniera onde sono costituiti i partiti; imperocché fra il popolo e i suoi medesimi eletti s’interpone una classe di uomini accaparratrice o sforzatrice del voto. Questa è la classe dei (politicians) politicanti, i quali si circondano di una schiera di agenti ai capi, addestrati a servir il partito senza scrupoli, che corrono per le città e per le campagne, ingannano, avviluppano, minacciano, sicché l’azione dell’ingenuo cittadino è annullata, se non è pronto a gittarsi cogli altri nella mischia a capo fitto o ad ordire cospirazioni contro cospiratori; ed anche in questo caso, secondo ogni probabilità l’opera sua tornerebbe vana perché non preparata da acconci ordinamenti. Il metodo del caucus unione dei politicanti più audaci e più inframettenti, ha per fine d’imporre il voto alle moltitudini. Questo per le elezioni: ma gli eletti poi hanno naturalmente un debito da sodisfare a coloro che li portarono in seggio, ed essi medesimi cercano lucro e potenza anche per vie oblique, donde gli accordi, gli anelli (rings) come colà si chiamano, e ciò tanto nel partito che s’intitola repubblicano quanto in quello che prende nome di democratico, e questi anelli somigliano a quel che in Italia si direbbe camorra o mafia. Laonde avviene che, compiuta la elezione e soprattutto quella del presidente, un nugolo di pretendenti si cala intorno ad esso, e ciascuno fa valere i suoi diritti ai migliori impieghi per l’opera prestata, imperocché è noto che il nuovo capo della repubblica può licenziare tutti gl’impiegati, e nominarne altri a lui meglio affetti: e inoltre è mestieri contentare i capitalisti i quali hanno fornito i denari per le spese della elezione, colla mira di far qualche operazione di finanza col governo, o di ottenere qualche concessione di miniere, di ferrovie, o di altre imprese. Così ogni quattro anni si rinnova quella che con frase scolpita un recente scrittore americano chiamò la balìa del pubblico saccheggio16.
Già da gran tempo fu chiesto da molti che una legge regolasse lo stato degli impiegati; e gli uffici fossero conferiti secondo il merito, e mantenuti stabilmente in chi adempì al proprio dovere; ma le istanze tornarono vane. Fin dal 1867 una società di Filadelfia propose un premio a chi meglio sciogliesse il problema dell’ordinamento delle elezioni al fine che il corpo politico fosse sinceramente rappresentato. Fra le dissertazioni pubblicate17 parecchie effigiavano al vivo gli inconvenienti del governo di partito e affermavano non potersi onninamente chiamare libere istituzioni quelle che tali sconci permettevano, né democratico un reggimento nel quale il popolo tanto è lungi dal dirigere la cosa pubblica che al contrario è diretto da minoranze artificiose, collegate in setta, e dove il privato cittadino non solo è destituito di ogni azione nella politica nazionale, ma quasi non osa avere una volontà.
Mi sia permesso levarne alcuni saggi curiosi e non abbastanza noti ancora appo noi, i quali mettono raccapriccio; imperocché gli effetti più terribili del sistema incominciarono a vedersi chiaramente durante la guerra civile fra il nord ed il sud della repubblica.
Era presidente in quel tempo Abramo Lincoln, uomo noto per grande probità, tantoché dal popolo aveva avuto il soprannome di onesto vegliardo (honest old Abe). Eppure anch’egli dovette cedere alle violenze e pressure del partito18. Un tale Cameron, svergognato nelle sue capacità, svergognatissimo nell’ambire uffici superiori ad ogni suo merito, questo Cameron uno dei caporioni fra i politicanti, fu da esso loro fiancheggiato perché Lincoln gli assegnasse un portafoglio; ma la natura onesta del Presidente vi repugnava. Fu udito esclamare più volte: che dirà il popolo di me sapendo che io accolgo il Cameron fra i miei consiglieri? E ciò nonostante dové sobbarcarsi, e chiamò costui a reggere prima il dicastero della marina e poi quello della guerra. Non appena egli è assunto il nuovo ufficio, di subito trasferisce la commissione dell’acquisto dei vascelli da un comandante marittimo com’era costume, ad un proprio cognato, del quale è detto in una inchiesta posteriore fatta dalla Camera che "gli mancava ogni ombra di esperienza, ed ogni capacità in materia nautica, ed era al tutto ignorante del servizio navale e dell’acquistare o costruire vascelli, alle quali cose può asseverarsi che, prima di quel tempo, in sua vita egli non aveva pensato mai un’ora sola; e nondimeno comprò delle navi per otto milioni (di lire italiani) e confessò di aver preso in sette settimane 250 mila lire per compenso dell’opera sua". Non meno profligatamente andarono le cose della guerra. I politicanti della Camera eran divenuti i sensali delle intendenze militari, quando non erano essi stessi colonnelli o generali. Chi legge le relazioni dei comitati che esaminarono appresso la gestione finanziaria di quel tempo, prova un senso di ribrezzo e d’indignazione. E non solo vi fu dispersione e furto sfacciato nelle spese dell’esercito e della marina, ma il tesoro nutriva ed arredava in parte l’esercito avversario. Sotto il pretesto di un commercio di cotone fra il mezzodì e il settentrione, si mandavano provvisioni e fornimenti all’esercito che si doveva combattere, e ciò facevasi con permessi della tesoreria firmati dallo stesso Lincoln che era inconsapevole del tradimento che commettevasi. Imperocché a ragione il comitato designa quel supposto traffico come un tradimento alla patria. Di tal guisa dal 1870 durante la guerra di secessione il governo solo spese quasi ventotto mila milioni (di lire italiane), e il gen. Schofield19 uomo autorevole quant’altri mai non si peritò di affermare che quella guerra poteva finirsi con la metà di vite umane, e di danaro sprecato, se fosse stata condotta con senno e con onestà. Per finirla colla storia di questo Cameron quando gli scandali furon giunti al colmo, il Presidente Lincoln si decise a destituirlo. Ma qui ancora fatto il primo passo, bisognò ritrarlo; imperocché tali erano intorno a lui le ingerenze e gli scalpori, che convenne fingere che il ministro avesse dato spontaneo la rinuncia, e destinarlo ambasciatore della Repubblica a Pietroburgo.
Nel tempo di che parliamo, cioè durante la guerra di secessione si videro esempi notevoli di associazioni ordinate al fine di violar la legge sotto il manto di legalità; e queste associazioni furono abili a soverchiare a lor grado e muovere Corti di giustizia e assemblee legislative degli Stati, ottenendo sentenze da quelle e riforme opportune da queste per imporre tasse, aumentare le emissioni di carta moneta, perturbare i commerci. In somma pochi smisuratamente arricchiti dalle spoglie di moltissimi.
Come ne Governo centrale così nei governi degli Stati e nei municipi si manifestarono frequenti le menzogne e le frodi: ed è troppo nota la vicenda di Tamany-Ring di Nuova-York perché io mi indugi ad esporla. Fatto è che una mano di politicanti, vera banda di malfattori, s’impossessò dell’amministrazione della città, impose giudici e impiegati suoi partigiani, dilapidò i danari del comune, rubò a man salva molti milioni, e poté tiranneggiare parecchi anni in mezzo alla incuria o al terrore degli amministrati. Io non ho presente agli occhi, ma ricordo, un discorso tenuto dal Mundella nell’atto stesso che lasciava New York per ritornare in Inghilterra, dove esprimeva nobilmente il suo cordoglio per queste enormezze.
Chi voglia prender contezza di smisurate corruzioni, fra i vari libri, prenda a leggerne uno curiosissimo dei signori Adams20. Ivi si vedrà narrata la storia di una delle più cospicue ferrovie quella dell’Erie, fatta preda di un gruppo di avventurieri senza onore, senza credito, senza beni di fortuna: i quali mediante questa impresa riuscirono ad agire sinistramente sulla politica e sulla economia nazionale. Si vedrà narrata similmente quella che fu chiamata cospirazione dell’oro, per la quale con artefici frodolenti, e spacciando false novelle si alzava e si abbassava l’aggio della moneta metallica a intervalli rapidissimi, rovinando famiglie e popolazioni per saziare l’ingorda brama di avidi speculatori. Ed è a notare eziandio che nei partiti e nella politica sì è fatto un gergo di parole come quello dei galeotti e dei cammoristi e questo come tutti i gerghi muta alla giornata secondo le circostanze21.
Non è dunque da meravigliare se un senso di tristezza occupa gli animi di molti, e se l’Adams se ne sia fatto interprete con queste singolari considerazioni che appaiono dettate da animo sdegnoso. Le generazioni si susseguono sperando di lasciare i figli loro in condizione migliore, ma s’ingannano. Si suppone che non vi siano più pirati, né briganti, né truffatori al giuoco o in cricca: ma ci s’illude. I pirati hanno trasportate le loro imprese in terra e le conducono più o meno d’accordo colla legge, ottenendone tale profitti che mai non avrebbero potuto sperare quando scorazzavano in mare; anche i briganti non vivono più nelle grotte delle montagne ma si pavoneggiano nelle piazze, e non pigliano più quei soprannomi terribili e minacciosi di un tempo, ma si fanno chiamare col nome proprio e col titolo di colonnello, di generale, di presidente. E il giuoco di vantaggio s’è convertito in un affare, e si tratta come una operazione di cambio. Cosicché si può con verità dire, che strappando la maschera ingannatrice al secolo XIX, si troverà che la sua gentilezza tanto vantata copre la brutalità del secolo XII, anzi si dovrà concedere che questo era men reo e men disonesto del presente.
Né si può dire che ciò avvenisse solo in momenti di agitazione, e di disordine, quando ferveva la guerra civile, o poco dopo, quasi fiotti di mare venuti dopo la tempesta. Imperocché altri casi gravissimi seguirono subitamente sotto la presidenza del generale Grant. Taluno dei suoi ministri ebbe a sostenere processi di concussione e di peculato; e poiché questi fatti non erano stati ignorati dal presidente, ciò contribuì non poco ad impedire che fosse eletto per una terza volta. Il Molinari nelle sue lettere22 dice che Verre non ispogliò la Sicilia tanto crudelmente quanto i carpet baggers saccheggiarono il mezzodì, e descrive con grande vivezza quelle associazioni anonime che si formano nell’America coll’intento prossimo d’impossessarsi del governo, ma col proposito ulteriore di spogliare il paese23. 
Colla presidenza dell’Hayes parve che un’aurora di moralità imbiancasse l’orizzonte. Imperocché in una sua lettera riguardante la nomina degli impiegati egli osò esprimersi con queste parole: "Sono già quaranta anni che si svolge un sistema che ha per divisa: le spoglie al vincitore. La regola antica, vera, che l’onestà e la capacità costituiscono i soli titoli agli impieghi e che non v’ha fuor di quelli altro diritto, codesta regola ha ceduto alla regola opposta, doversi guardare soprattutto ai servizi che uno ha reso al partito politico, e ogni partito la mette in opera. E notasse bene che questa regola s’è andata peggiorando nell’attuarsi. Perché dapprima era il Presidente direttamente o per mezzo dei capi dei vari uffici che sceglieva gli impiegati, ma a poco a poco la designazione di essi è passata nelle mani dei membri del Congresso legislativo. Gli impiegati pubblici sono divenuti così la mercede dei servigi resi a un partito, e peggio ancora dei servigi resi ai capi del partito. Or questo sistema annulla ogni indipendenza negli uffici pubblici, e mentre spinge a prodigare le spese, colloca nella amministrazione agenti incapaci. Indi la tendenza ad operare disonestamente, indi un affievolirsi della vigilanza dei superiori, e venir meno la responsabilità che assicura nel servizio pubblico probità, ed efficacia. Imperocché i funzionari indegni non possono essere prontamente revocati né rigorosamente puniti. Bisogna dunque che la riforma sia generale, intera e dalla radice. Noi dobbiamo tornare alle massime e alle pratiche dei fondatori delle nostre istituzioni, e se è necessario, scrivere nelle leggi quelle massime per non diparticene mai più. Uopo è che l’impiegato dia tutta l’opera sua all’amministrazione col solo intento del pubblico bene, e sia assicurato che sino a tanto che adempia onestamente e convenientemente le sue funzioni, egli conserverà il suo impiego".
Né dalle parole furono discordi gli atti. Egli incaricò il segretario di stato Sherman di fare una inchiesta sulla condotta del generale Arthur che aveva l’ufficio di collettore delle dogane a New-York. E poiché lo Sherman nella sua relazione mostrò che gravi abusi in quelle dogane si commettevano, parte insciente, parte consenziente il collettore, l’Hayes lo destituì e fu bell’esempio, e imitabile. Ma non pare che producesse nel pubblico grande effetto, poiché nessuno ha pronunziato il suo nome per la rielezione, e lo stesso Generale Arthur fu eletto vice-presidente24. Vero è che alla presidenza fu elevato il Generale Garfield uomo di grande saviezza ed integrità; ma la sua virtù gli fu per avventura cagione di perdere la vita. Imperocché colui che lo assassinò a tradimento, il Guitteau, non era mosso da fanatismo politico, ma da vendetta privata, perocch’egli pretendeva in ricompensa delle sue fatiche elettorali un posto che gli fu dal presidente negato. E’ da credere che l’orrore fortissimo, suscitato nel popolo degli Stati Uniti da questo delitto, sarà freno salutare al suo successore, e come si vede nella storia che talvolta gli eccessi sono principio di ammenda nella legislazione e nel costume, così giova sperare che affretti la riforma assai più che non avrebbero potuto farlo le argomentazioni e i discorsi degli scrittori.
Ma onde mai questo fatto nuovo negli annali del mondo, che la corruzione delle classi politiche non siasi rapidamente diffusa per tutto il popolo, e che un governo abbia potuto sussistere in tali condizioni? La spiegazione di tal fatto vuolsi ripetere da molte cagioni. E primieramente la vigoria, e se mi è lecito dir così la giovanilità gagliarda di quel popolo, facile a superare ogni morbo avventizio. Quando l’agricoltore trapianta dal vivaio al campo gli olmi e li dispone in filari, s’accorge dopo breve tempo che in taluni le muffe hanno attecchito, e ne ingialliscono la scorza: i piantoni vigorosi o le respingono, o se ne liberano in brev’ora, mostrando una buccia fresca e lucida, mentre i deboli o non possono liberarsene, o ne rimangono tisici. Tale in molte cose, è la condizione dell’Europa rispetto a quella dell’America.
Aggiungi lo smisurato territorio nel quale la popolazione crescente può stendersi e trovar lavoro, e rimunerazione condegna. Imperocché allora principalmente le agitazioni intestine e le contese civili cominciano a scoppiare, quando la popolazione moltiplicandosi, riesce difficile trovar il modo onde campare la vita come accade nella vecchia Europa. Colà invece terre fertilissime da coltivare, boschi vetusti da abbattere, miniere di carboni, di olii, di pietre, di metalli da scavare, e tutto risponde l’un cento della tua fatica e del tuo capitale. E’ un fatto nuovo nel mondo l’ardire, la temerità colla quale s’intraprendono colà le opere più ardue dell’agricoltura, dell’industria e del commercio, ed è parimente maraviglioso lo svolgimento della produzione e della ricchezza. I grandi guai della guerra civile, le dispersioni infinite di denari e di uomini furono riparate in poco d’ora, e ben poté dire il presidente Hayes nel suo ultimo messaggio che la presente condizione finanziaria degli Stati Uniti, considerata in relazione alla crescente ricchezza della repubblica, alla estensione e varietà delle sue attitudini, è più fortunata di quella di ogni altro paese al nostro tempo: anzi non fu mai sorpassata da verun paese in qualsiasi periodo della storia25.
Anche si vuol attribuire il fatto di che parliamo alla razza anglo-sassone fondatrice di quelle colonie, la quale ha un’indole seria ed operosa, e dove l’amor della famiglia, il rispetto delle leggi, e il sentimento religioso tengono un grande predominio.
E infine il Governo sia locale sia federale ha una cerchia assai ristretta di attribuzione, e la massima parte degli atti amministrativi è interamente sottratta alla ingerenza governativa. Lo Stato vi ha l’ufficio di tutelare la sicurezza e di difendere la integrità territoriale, poco più; tutto il resto è lasciato alla libertà del privato e delle associazioni spontanee. L’America Settentrionale si trova in ciò al punto opposto di quello Stato moderno tutore, educatore, distributore della ricchezza quale è descritto da parecchi scritti che lo vagheggiano come tipo ideale.
Ad ogni modo la differenza sta in ciò che in Europa lo Stato e il governo che lo rappresenta è guardato con riverenza, spesso con invidia, come organo superiore della società, laddove in America si accetta quella teorica del passato secolo che lo Stato è per così dire un male necessario, che fa maggiore, anzi spesso minore di ogni altra opera civile di scienza, d’arti, d’industrie. Il popolo americano ha attuato l’autonomia del cittadino quanto è possibile, e mostra nella storia di avere il còmpito di svolgere al più alto grado di condominio dell’uomo sulla natura, traendone ogni possibile benefizio, e per così dire di foggiarla a civiltà, dissodando un continente fertilissimo che era incolto, e introducendo tutte le maniere d’industrie e di commerci coi metodi più perfezionati della meccanica e della chimica. E questo compito fu maravigliosamente eseguito per iniziativa privata, senza direzione del governo. Tu odi sovente l’americano parlare del governo in termini dispregiativi, ed ei non si briga di migliorarlo salvocché non venisse meno interamente al suo ufficio. Perdoni il lettore se io introduco un paragone volgare, ma egli è che l’ho udito dalla bocca stessa di un americano. Ho udito dirgli: io so bene che nell’amministrazione avvengono indegnità e dilapidazioni e peculati, e che ciò torna ad aumento di tasse: ma a me giova piuttosto pagare un tanto di più che occuparmene, imperocché il tempo che vi spenderei se lo dedico ad altre opere mi rende il decuplo ed anche maggiormente. Il nostro caso è quello del signore che ha un cuoco che gli ruba e sel sa: ma pazienta finché il furto non è eccessivo e finché il pranzo è discreto. Certo se costui rubasse a man salva, e per di più gli apprestasse cibi guasti o mal cotti, allora si risolverebbe a discacciarnelo: similmente facciamo noi americani quando il male passa un certo segno. E così le prevaricazioni del governo di Grant ci mossero a non rieleggerlo più Presidente e così spazzammo via il tammany ring di Nuova York quando la misura fu colma. Fino a quel punto lasciamo fare, e andiamo per la nostra via più fruttuosa, più libera, e che ci infastidisce meno; e ci pare che ogni altro impiego del nostro ingegno e della nostra attività valga meglio di quello che mescolarsi nella vita pubblica26. Tale in generalità è il concetto che allontana molti da quell’arringo, dove in Europa è per taluni adempimento di un dovere, per altri premio di lunghi sforzi, per altri ancora palma di nobile ambizione: tali sono le cagioni per cui un governo corrotto non corrompe la moltitudine del popolo.
Ma durerà codesto stato di cose perpetuamente? Quando la popolazione che, parte per sé medesima, parte per l’immigrazione, si moltiplica così rapidamente, sarà divenuta numerosa rispetto al terreno da coltivare e alle industrie da esercitare, potrà la cosa pubblica procedere come oggi, potrà lo Stato non inframmettersi di molti servizi? o non avverranno colà ancora quegli sconci, quelle discordie, quei rivolgimenti onde la storia del vecchio mondo è intessuta? Fino ad ora, come ho detto, la grande moltitudine degli abitatori de quel paese segue il suo cammino, nonostante la corruzione della classe politica e ci dà in molte parti della civiltà maravigliosi esempi e degnissimi d’imitazione27. E chi potrebbe parlare di quel grande popolo senza un sentimento di stupore e di ammirazione? Ma poiché la indagine dell’avvenire oltrepassa il tema che io mi sono proposto, e parmi di aver già dimostrato abbastanza che tutti i governi parlamentari di qua e di là dell’Atlantico patiscono di questo male; torno all’Italia, che, come dissi, tiene il mezzo a parer mio fra la Francia e le due penisole iberica ed ellenica nel generare i cattivi effetti del governo di partito.
E qui è mestieri ripetere che essendo mio scopo di mostrare i mali dei partiti, non intesi farne io medesimo arma di partito come a taluni forse dei miei accusatori poté parere. Certo parve al Desanctis del quale ho citato sopra parecchi brani, il quale parlando poscia a Foggia l’11 marzo 1880 diceva queste parole: "Io voglio prendere la parola per un fatto personale. Scrissi alcune pagine in un giornale intitolato il Diritto, e di quelle pagine l’onorevole Minghetti si fece arma contro la Sinistra. Egli m’impiccoliva; egli non si pose a quell’altezza dalla quale io guardava. Non guardavo io alla Destra o alla Sinistra, non è in questo o quel particolare che si deve cercare lo spirito di un uomo; la mia mira era più alta. Io guardavo ad uno stato morboso d’Italia e ne facevo la diagnosi. E il morbo è questo, che abbiamo l’audacia e la violenza dei pochi e l’indifferenza dei molti, questo è lo spettacolo che ci danno i popoli nei tempi della decadenza o della stanchezza. Gli onesti si disgustano. I patriotti si ritirano. La fede nelle patrie sorti s’indebolisce. E in mezzo all’accasciamento e all’apatia elettorale assisti al tripudio osceno delle passioni e degli interessi più volgari".
Passando io per quella città tre giorni appresso, ed essendomi narrato delle cose dette dall’onor. De Sanctis, poiché mi si offeriva opportuna occasione di parlare a quella medesima popolazione che lui aveva udito, risposi fortemente negando la ingiusta accusa. Imperocché mio intendimento era di notar questo male come uno di quelli che si manifestavano nei governi parlamentari, ed al quale bisognava rivolgere attento lo sguardo per cercarne i rimedi con sollecitudine, qualunque sia il partito che regge la somma delle cose. La mia sentenza era generale, e fu mossa solo da un grande amore delle nostre istituzioni, parendomi che la corruzione rapidamente si dilati, e l’amministrazione sia minacciata da una lebbra, la quale se si estende ancora produrrà questo effetto: che il Governo invece di essere tutore dei diritti e degli interessi dei cittadini, sarà mancipio di una classe o piuttosto di una fazione. Sicché io lascio stare questa immeritata accusa, e ripeto che il mio intento non riguarda persona alcuna, né questo o quel partito, ma vuol provare che il male c’è, che s’allarga ogni giorno e che diverrà esiziale, se non vi si pone qualche riparo. Che se talvolta al mio intendimento mal rispondesse lo stile, io prego il lettore di considerare che questo scritto ebbe origine da una difesa personale, e che il risentimento comecché giusto nella origine può avere sparso su di esso, anche contro mia voglia, una certa asprezza.
Nei primi tempi della nostra rivoluzione molte cagioni impedirono che il male scoppiasse. Prima di tutto la novità, e l’imperizia, perché gli effetti di questa indebita ingerenza non si sentono che per esperienza; e i vantaggi privati che se ne possono trarre dagli uomini politici, vengono a poco a poco, e anche la libidine dell’arbitro si risveglia gradatamente e scapestra per impunità. Leggo che per giungere alla massima perfezione nella rea loro arte, tre generazioni di politicanti occorsero in America28. Nei primi momenti del nostro risorgimento l’entusiasmo soffocò le male passioni. L’Italia si riscuoteva da secolare oppressione, dopo infiniti contrasti e martirii, e gli uomini che avevano per lei operato e patito, ponevano ogni onore ed ogni ambizione nel condurre a termine la gloriosa impresa. A ciò s’aggiungano i pericoli che ne assiepavano da ogni banda, e minacciavano a tutte l’ore di distruggere l’edificio le cui parti non erano ancora assolidate da cemento di legge o di consuetudine. Non è dunque maraviglia se, posto la grandezza della impresa, la natura degli uomini, il tempo, il fine, i pericoli in mezzo ai quali versavasi, quel morbo di che parliamo non desse tai segni di sé medesimo quali diè più tardi manifesti. E nondimeno anche in quel primo periodo, soprattutto nei governi provvisori, non mancarono le ingiustizie, ma furono mosse non tanto da interesse privato quando da reazione e da odio contro il passato. Imperocché sebbene si fosse stabilita la massima di rispettare i diritti acquisiti, e di non far vendette; anzi si andasse tant’oltre da liquidare le pensioni a coloro stessi che avevano perseguitato acremente i vincitori odierni (e ciò sarà gloria perpetua del nostro rivolgimento), non mancò qualche caso nel quale vi furono destituzioni, o trasferimenti, o dinieghi di pensione, parziali ed ingiustificati, e non mancarono neppure casi, anzi furono più frequenti, di largizioni, di premi, e di compensi poco o nulla meritati. Imperocché a tutti coloro che spingevansi innanzi in atto di vittime della tirannide passata, e che avevano subito processi, condanne, o esiglio, pareva aver diritto che lo Stato d’ora innanzi li mantenesse lautamente a spese comuni. Vi furono dunque atti poco misurati e poco lodevoli, ma quanto a vere e proprie ingerenze di deputati nell’amministrazione e ad arbitrii di ministri, non negherò qualche caso di simpatia, e di avversione non conforme a giustizia, ma fu certamente raro. Anzi era costume in quel tempo di dire che per ottenere un favore da alcun ministro, bisognasse ricorrere ai suoi avversari, ch’esso mirava sempre a propiziarsi29. La qual querela ripetuta con insistenza dagli amici, e di cui anche alcuni uomini notevolissimi si fecero banditori, prova che se una ingerenza parlamentare nell’amministrazione c’era, non poteva essere né ampia né profonda poiché esercitavasi in ispecie a prò degli oppositori. Oggi per verità, sarebbe difficile affermarlo, poiché i ministri medesimi non cessano dal deplorare di esser fatti vittima dei loro amici, a cui si sforzano qualche volta e nelle esigenze più enormi di resistere. Ma lasciamo ciò, affinché io non paia contraddire al proposito d’imparzialità che ho sopra accennato.
Il più grave effetto della ingerenza indebita si manifesta in quella parte della potestà esecutiva delle leggi che è la più essenziale, la più delicata, quella che ha mestieri di essere immune da ogni estranea azione, dico la giustizia.
Lo aveva dipinto già Guicciardini, severamente condannando la parzialità dei giudici del suo tempo: "Inumana e tirannica era quella parola con la quale pareva loro scaricare anzi per dir meglio ingannare la coscienza, e che già era venuta in proverbio, che negli Stati s’avevano a giudicare gli inimici con rigore e li amici non favore: come se la giustizia ammetta queste distinzioni, e come se la si dipinga con le bilancie di due sorte, l’una da pesare le cose degli amici, l’altra quelle delli inimici"30. E altrove raccomanda che la giustizia civile sia netta e piana, e chi ha lo Stato in mano non se ne travagli e non se ne intrometta per via diretta o indiretta, di che nulla può essere più pernicioso. E se a scusare le ingiustizie si allega la necessità di farsi dei partigiani caldi, egli risponde che "questo modo non potrebbe essere più dannoso, perché è d’infamia grande e fassi di molti inimici cioè non solo quelli che sono oppressi ma etiam tutti quelli che sono d’attorno e veggono che una tale disonestà sia comportata31 ".
In verità qualunque sia l’opinione che altri si formi sopra le attribuzioni che lo Stato deve avere dirimpetto alla libertà e spontaneità sì dei privati che delle associazioni, tutti però in un punto concordano che il rendere la giustizia sia il suo fine primo e principalissimo. E si potrebbe dire che la civiltà di un popolo si misura dalla imparzialità ond’è resa la giustizia, sicché laddove nell’animo delle moltitudini possa ingenerarsi il dubbio della sincerità della sentenza, e nascere sospetto dei magistrati, ivi può reputarsi che ogni altra parte della cosa pubblica si scuota e crolli. Una delle maggiori grandezze di Roma antica è certo nei suoi magistrati. Le repubbliche del medio evo, sentirono tutta l’importanza di avere un giudice imparziale, e poiché le città loro erano travagliate da fazioni, cercarono un podestà estraneo a quelle, anzi forestiero, affinché le tradizioni, le affinità, le parentele non lo distogliessero dal render giustizia. E la stessa istituzione dei giurati non altro esprime nelle sue origini se non l’intendimento che si amministrata imparzialmente la giustizia. Davide Hume meditando sugli uffici del tribunale in risguardo al mantenimento dell’ordine sociale e al progresso dell’umanità, viene a questa conclusione: "Tutto il nostro sistema politico, e ciascuno degli organi suoi, l’esercito, la flotta, le due Camere e va dicendo, tutto ciò non è che mezzo ad un solo ed unico fine, la conservazione e la libertà dei dodici grandi giudici d’Inghilterra". Si credé pertanto che uno dei grandi progressi della moderna civiltà consistesse nella inamovibilità dei giudici, parendo non esservi cosa più contraria alla imparzialità e più corruttrice che la tema di perdere il proprio ufficio per cagioni politiche, più corruttrice ancora secondo Banjamin Constant che l’antico costume di comprare le cariche32. E Pellegrino Rossi afferma che da momento che in Inghilterra il giudice non poté più essere destituito per volontà del governo, la nobiltà dei sentimenti, l’indipendenza delle opinioni, la fermezza nel resistere a tutte le seduzioni, divennero retaggio della magistratura inglese. E soggiunge che dalla facoltà del ministro di trasferire un giudice da una ad altra sede viene un affievolimento del principio fondamentale dell’inamovibilità. Imperocché il giudice, così come oggi è costituito, ha bisogno di volger gli occhi verso il governo: soltanto laddove la perpetuità dell’ufficio è cambiata colla fissità della sede ivi può dirsi assolutamente indipendente33.
La rivoluzione italiana in molte provincie rispettò i tribunali quali erano sotto i governi passati, in talune altre e soprattutto nelle provincie meridionali fu trascinata da quella smania che suol dirsi di purificazione, di cui nessuna può essere più funesta all’amministrazione della giustizia. Invero lo Statuto nostro all’art. 69 decreta che i giudici nominati dal Re ad eccezione di quelli del mandamento sono inamovibili dopo tre anni di esercizio. Se non che la espressione generica lascia dubbi sulla interpretazione, non distinguendo la inamovibilità dell’ufficio da quella della sede. Laonde più volte l’argomento fu trattato nel Parlamento, e con varia sentenza: due tendenze opposte spuntavano, l’una di assicurare o i magistrati, non permettendo che potessero essere trasferiti, o posti in aspettativa o a riposo, senza il consenso loro, o almeno senza peculiari guarentigie; l’altra di lasciare al ministro maggiore libertà di azione, e facoltà di trasferirli, presupponendo che il ministro non lo farebbe che per utilità del servizio e con savii accorgimenti, e in caso estremo confidando che potrebbe sempre essere chiamato a rendere conto in Parlamento34. Ma prevalse soprattutto nel Senato il concetto della guarentigia.
Finalmente con R. decreto del 3 ottobre 1873 il Ministro Vigliani fissava le norme da seguirsi sulla materia. Il decreto disponeva che le nomine, promozioni e trasmutamenti dei consiglieri della Corte, e dei funzionari della magistratura giudicante nei tribunali, dovessero essere precedute dalle relative proposte fatte da una Commissione scelta nella magistratura medesima, e che trattandosi di tramutare un giudice inamovibile senza il suo consenso, questi dovesse essere udito in persona o per iscritto sui motivi del provvedimento. Ma poiché il partiti che era allora al governo ne fu rimosso, un nuovo decreto del 5 gennaio 1878 abolì il precedente, allegandone due ragioni, l’una che esso pareva ostacolo al retto e celere andamento dell’amministrazione giudiziaria, l’altro che ritardava la unificazione della magistratura, ad affrettare la quale pareva necessaria la balìa del ministro. Così d’un tratto per diversi motivi furono tramutati in sei mesi ben 122 magistrati, anzi 211 se si tenga conto anche di coloro che furono promossi. Io non pongo in dubbio le buone intenzioni del ministro, ma egli è certo che vi fu un momento nel quale parve che la magistratura perdesse quella sicurezza che è la migliore guarentigia della sua indipendenza. Gli animi anche degli onesti ne furono commossi, gli uomini fiacchi di carattere, come suole in simili casi, irruppero nella servilità. Anche il Ministero Pubblico pigliava una insolita baldanza: e poiché le accuse spesso soverchiano le colpe, si andava sino al punto d’imputargli qua di esercitare una ingerenza eccessiva e contraria allo imparziale adempimento della giustizia, là di rispondere alle dimande del ministro più secondo le esigenze dei partiti che secondo la verità. Furono mosse perciò interpellanze in parlamento, e più tarsi si cerco di correggere la cattiva impressione prodotta nella pubblica opinione istituendo presso il Ministero una Commissione consultiva di magistrati la quale esprimesse il suo avviso in tutti i casi di che si tratta. Però notava che nel suo libro il Mirabelli che "il prestigio dell’ordine giudiziario è stato mortalmente ferito né può ritornare al suo stato sano e vigoroso senza togliere di mezzo la cagione del male". Imperocché quando la indebita ingerenza della politica nella giustizia si fa sentire, i magistrati come tutti gli altri impiegati dello Stato van ricercando il loro patrono, del quale diventano satelliti, e lo spirito di clientela soppianta il dovere dell’ufficio. E più si radica questo vizio più è difficile sbarbicarlo, ed introdurre una riforma che tenderebbe a scemare o togliere all’autorità governativa gli arbitri. Imperocché "nella privazione o nel vincolo della facoltà del governo centrale l’affarista scorge diminuita la materia della sua attività, onde concentra tutti i suoi sforzi ad allargare i poteri del governo, covrendo questo schifoso egoismo colla speciosa formula doversi in ogni materia aumentare o conservare la piena libertà di azione dei ministri perché sia intera la loro responsabilità dinanzi al Parlamento35 ".
Ho toccato sopra della ingerenza del ministro pubblico nella giustizia. Certo è che un magistrato il quale vigili la esecuzione della legge, che rappresenti l’interesse della società, e promuova la azione pubblica contro i reati sembra indispensabile. Ma non sì che abbia il carattere di una vigilanza diffidente, e di un’azione continua, e talora molesta del governo sui tribunali. Avvegnacché la nostra legge all’articolo 129 definisce appunto il pubblico ministero come rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudicatrice. E questo aspetto fu per avventura una delle cagioni per le quali l’Inghilterra sentiva una grande ripugnanza contro tale istituto; ripugnanza la quale pare faccia luogo ad un sentimento contrario, tanto che fin dal 1875 la Corona in un suo discorso annunciava al Parlamento britannico un progetto di legge per introdurre negli ordini giudiziari il Ministero pubblico, il che significa che l’opinione generale cominciava a mutarsi su questo capo. E’ anche fortemente dubbioso se l’intervento del Ministero pubblico nelle cause civili sia utile, perché ivi già si trovano a fronte le due parti contendenti dinanzi al giudice cui spetta di pronunziare la sentenza. Checché sia di ciò, egli ci pare che codesta istituzione, quale si trova ordinata appresso di noi, apra un varco ad indebite ingerenze del governo sulla giustizia.
Inoltre la balìa del Ministero pubblico viene accresciuta da ciò, che sopra talune materie, la legislazione non è ben chiara, o almeno l’interpretazione delle leggi l’ha resa oscura; di guisa che il procuratore del re non procede per azion pubblica con norme costanti, ma ha mestieri di esservi eccitato dal governo. Laonde si vedono atti e trattamenti disformi, e a sbalzi; e talora tradursi innanzi ai tribunali associazioni sovversive e comunistiche, talora lasciarle fondare e liberamente e apertamente dilatarsi; e in simil modo in qualche caso perseguìti i giornali, in altri identici casi non darsene per inteso. Leggiamo di sovente offese contro al Re e contro al Pontefice, leggiamo apologie di fatti qualificati nel codice come crimini o delitti, provocazioni all’odio fra le classi; non di rado ancora sulle stampe si fa scempio dei buoni costumi, senza le regie procure vi ponga, attenzione: E poi ad un tratto ecco una specie di foga per la quale da un capo all’altro della penisola le regie procure si agitano, denunziano, sequestrano. Di che la opinione popolare fa questo giudizio, senza pur avvertirne la gravità, che l’azione loro non è spontanea ma ordinata dal Ministero centrale. La quale differenza nel modo di procedere in circostanze identiche perturba il senso morale, e non è senza scapito del rispetto dovuto alla legge.
Potrà osservarsi da taluno che anche in Inghilterra vi sono delle leggi, le quali per dissuetudine hanno dismesso dell’efficacia loro, e rimangono come armi dimenticate nell’arsenale legislativo e solo se ne traggono e si adoperano in casi straordinari. Ma la comparazione non regge, perché questa disusanza è venuta cola a poco a poco, e per effetto del mutarsi delle idee e delle abitudini civili, è un portato dello svolgersi e del contemperarsi delle leggi e del costume; mentre qui le due opposte correnti della rilassatezza e del rigore si alternano a sussulti, e inoltre trattasi di leggi recenti; onde la pubblica opinione non intende come appena appena fatte debbano trascurarsi e per qual motivo non sieno messe in atto. Pertanto agli occhi della moltitudine anche questa apparisce una ingerenza indebita del governo nella giustizia.
Infine un male gravissimo vien dagli avvocati patrocinati i quali siedono nella Camera dei deputati, perché quando si presentano al tribunale per difendere una causa, s’ammantano di un cotal prestigio che suona minaccia o promessa quel giorno che diventeranno ministri. Ed è poco lieto lo scorgere com’essi si scambiano l’un l’altro l’incarico del patrocinio delle cause a seconda che salgono o scendono dal governo. Dicono che essendo brevissima la vita ministeriale non possono smettere definitivamente le clientele loro, e di ciò traggono argomento di loro probità, ed hanno regione. Ma ciò non prova altro fuorché gli avvocati patrocinati non dovrebbero in generale impigliarsi nella vita parlamentare, e più di rado ancora essere assunti al ministero. Per rimanente questa ingerenza vera o no, purtroppo è creduta, e ve ne sono state apparenze. Si è visto da taluno sollevare nella Camera interpellanze circa l’interpretazione di una legge in seguito ad una sentenza proferita contro i suoi clienti dal tribunale di prima istanza, e mentre prendeva ancora la lite in appello. Si sono viste cause difese e vinte contro lo Stato da deputati eminenti, in onta all’opinione e all’aspettativa universale. E poniamo che ai giudici apparisse chiarissima la ragione della parte in favore della quale sentenziavano, ma sarebbe stato desiderabile che nessun prossimano avanzamento avesse dato ansa a sospetti, che sempre tornano in detrimento del prestigio onde la magistratura vuol essere adorna. Io non ho competenza in questi argomenti, ma è mesto di leggere le critiche fatte da un esimio giureconsulo alla decisione di una recente controversia matrimoniale. Appreso le quali critiche egli conclude così: "Io ho voluto con questo mio lavoro critico contribuire a far sì che le grandi piaghe ond’è afflitta la vita politica della povera Italia non invadano anche la vita giuridica. Ho voluto contribuire a far sì che l’equivoco predominante nelle divisioni dei partiti politici, e nelle dottrine di ciascuno di questi, non sembri annidarsi anche nell’amministrazione della giustizia; che non sembrino doversi distinguere due giustizie, l’una di destra e l’altra di sinistra, in rispondenza alle divisioni parlamentari. Còmpito certamente odioso, ma altrettanto doveroso per chi, oltre all’esser cittadino italiano, è anche insegnante ed educatore della gioventù". parole gravi e degne di esser meditate da chiunque ami la verità, la giustizia e la patria.
Della ingerenza dei deputati nella nomina di qualche magistrato sarebbe difficile dare la prova ma è una di quelle cose notorie, di che la coscienza pubblica fa testimonio. Nondimeno qualche indizio se ne può addurre, traendolo da fatti i quali mostrano come la cosa non sia creduta né illecita né tampoco irregolare. Un deputato con un candore inverisimile eppur vero, si scusa dai molesti assalti di un giornale che lo accusava di fare istanze presso il Ministero per esulare dal tribunale i giudici della sua provincia, e gli risponde così: Come mai può farmisi una imputazione tanto bislacca? Basta solo confutarla il dire che il tribunale è tale oggi trovasi, specialmente per opera mia, e che alcuni dei giudici che attualmente ne fanno parte furono da me espressamente suggerito al ministero, certo com’era di rendere un vero servigio al paese nostro e di agire nell’interesse della giustizia. Ecco un uomo che stima certo di fare un’opera buona, anzi se ne vanta. E similmente non credevano di far opera men che onesta coloro i quali rivolsero al Guardasigilli la seguente petizione il 31 agosto 1877 e la diedero poscia alle stampe: "I sottoscritti deputati ... non possono a meno di sciogliere un debito di somma stima verso l’egregio ... col pregare vivamente l’onor. Ministero di Grazia e Giustizia, ad emettere senza ulteriore indugio un decreto che dia soddisfazione all’opinione degli uomini imparziali e solleciti del pubblico bene e nello stesso tempo chiuda una polemica fastidiosa e molesta sul conto di un uomo intemerato cui solo la implacabile ira di parte addenta e osteggia. Al posto di procuratore generale della Corte di Appello ... niuno sarebbe più adatto del prelodato ... sia pei non comuni meriti a sapere, di rettitudine, di alacrità che l’onorano, sia per l’anzianità che vanta, sia per le immeritate contrarietà di cui fu vittima per lo passato, vuoi infine per servigi non ordinari tributati con rara costanza al paese, e al partito che ora ha i suoi degni rappresentanti al governo della nazione. I sottoscritti assicurano l’illustra Ministro di essere interpreti dell’opinione sana del pubblico nell’invocare l’additata nomina e nutrono fiducia che sarà accettata". Potrei narrare altri fatti di ingerenze indirette apparse in taluni giudizi criminali: un uomo che aveva falsificato il suo nome e la professione, e che era già stato condannato per volgari reati, compariva sul banco degli imputati, munito di commendatizie di deputati. Ma parmi tutto ciò che ho detto soverchiare il bisogno.
Aggiungerò solo che per le medesime cagioni non apparve sempre né dovunque egualmente pronta e severa la percezione dei delitti; e che le grazie, gli indulti, le amnistie rappresentano un lato gelosissimo della questione, come ne rappresenta un altro lato l’indecoroso spettacolo teatrale che si permette alle Corti d’assise nei processi criminali più clamorosi.
Tutto ciò fa sì che uomini provetti di età e ragguardevoli temono forte, e taluni anzi osarono affermare che sotto i governi che dominarono l’Italia dal 1815 al 1860 la giustizia fosse meglio amministrata, e il ceto dei magistrati36 più rispettato e più rispettabile di quello che sia oggidì. Io non mi piego a tale giudizio: però volendo essere imparziali, bisogna riconoscere che dove non si trattasse di politica, in generale i tribunali di quel tempo sentenziavano con sufficiente austerità in tutto ciò che si riferiva vuoi al codice civile o al codice penale; taluni poi tra essi godevano una fama meritata di sapienza e d’illibatezza. Il male nasceva, e giganteggiava tosto, quando trattavasi di delitti di stato. Ivi si formavano tribunali statarii, abborracciati a furore, con procedure irregolari, e parte militari, e ne uscivano sentenze iniquissime: vendetta anziché giustizia. Né sarà mai ricordato con tanta indignazione che basti, come certi governi assoluti, sia che la potestà spettasse ad una monarchia, o ad una oligarchia, o a tribuni popolari, ponessero i tribunali al servigio delle proprie passioni. Da Tacito sino ai testimonio della rivoluzione francese nel 1793, gli storici abbondano di fatti giudiziari abbominevoli, onde uomini innocenti furono ingiustamente condannati e tradotti al patibolo per appagare le passione di coloro che tiranneggiavano. Gran vanto del governo costituzionale è di aver introdotto negli ordini potestativi congegni atti a frenare le esorbitanze di ogni suo elemento, e di aver separato la magistratura giudiziaria degli altri uffici esecutivi. Nel suo normale esercizio, ciò dovrebbe avere questo effetto che le porte del tribunale rimanessero perpetuamente chiuse allo spirito di parte; ma in fatto non sempre avviene, perché lo spirito di parte è inquieto, e vuol che tutti partecipino alle sue pugne, e s’infiltra dovunque e nulla lascia d’intatto ai suoi rancori e alle sue cupidigie. E la storia c’insegna che quanto più i ministri e le assemblee sono inetti o cattivi, tanto si sforzano a trovare nel verdetto del giudice un’apparenza di ragione, e ad accomodare i tribunali alle voglie loro. Di che poi scende nel popolo il dubbio che la giustizia abbia abbandonato il suo santuario, ed è questa, come dissi già, la peggiore iattura che in una nazione civile possa incontrare.
Ma lo stato non è solo tutore del diritto, a mezzo dei tribunali per reintegrarlo se offeso, e punire i violatori. Esso inoltre amministra nell’intento di fare il pubblico bene. Non è qui luogo ad esaminare quali siano i limiti dentro i quali si debba ristare l’azione dello Stato, e se alcuna delle attribuzioni che ha oggi non sia soverchia e possa utilmente deporsi, per lasciarne la cura ai privati cittadini, e alle libere loro associazioni. Di ciò ho avuto occasione di parlare lungamente in altri scritti, e mi tornerà in acconcio di riparlare nel capitolo dei rimedi. Qui trattandosi del fatto, mi conviene prendere l’ordinamento dello Stato com’è nella nazioni civili e soprattutto in Italia. Ed ho delineato sopra quanta sia l’importanza dell’amministrazione, quali siano le fattezze che la diversificano dalla giustizia.
Qui ovvio si presenta la mente per primo un quesito, ed è il seguente: L’amministrazione dee proceder sciolta da ogni legge e per proprio arbitrio? E la risposta vien sulle labbra di tutti negativa; ma si dirà che abbondano le leggi e i regolamenti in molti rami d’amministrazione. Sta bene; nondimeno non si può negare che una certa libertà di giudizio e di azione in parecchi casi è indispensabile all’amministratore, il quale dee agire a seconda delle opportunità, e in vista del bene pubblico. Guardando al fatto, nei paesi nostri, questa larghezza è grandissima e in molti casi l’amministrazione si svolge secondo il giudizio dei pubblici funzionari. Pertanto è lecito desiderare che i regolamenti, i decreti, le istruzioni abbiano qualche cosa di più strettamente conforme alla legge, e producano effetti giuridici: quando più di chiarezza e di precisione hanno gli obblighi e i diritti dei cittadini, tanto può dirsi che si procede nel cammin vero della civiltà. Però siano pur le norme ben determinate, il governo quando amministra ha sempre mestieri di una certa larghezza, ed è giudice della convenienza di fare o di tralasciare tale atto, d’impellere o di negare tale opera.
Ora questa larghezza offre un campo immenso ai partiti per scorazzarvi con piena balia, e spesso anche s’attentano a soperchiare i regolamenti e i decreti. Non è più nell’interesse generale ma in quello del partito o di singoli individui che si fanno gli atti amministrativi. Il favore e l’avversione, l’indugio o il diniego di provvedere, l’abuso e il sopruso divengono consuetudine e quindi poi nasce quella irrequietezza, e quello scontento che rende ai popoli le istituzioni discare. E’ questo il male sul quale abbiamo invocato le meditazioni e gli studi degli uomini desiderosi del pubblico bene. E mi sia lecito ancora a costo di peccare di ripetizione lo insistervi. Perché l’amministrazione sia retta e ottenga il fine suo che è l’utilità generale, è necessario che sia imparziale. Ora poniamo che lo spirito di parte s’insinui in essa, che i suoi atti siano regolati dallo intento di giovare al partito, di assicurare il trionfo, di mantenere la potestà pubblica nelle sue mani, di spegnere e di menomare le forze del partito opposto, di esercitare vendetta contro gli avversari, chi non vede la lunga serie di guai e la corruzione che da questo stato di cose derivano?
Abbiamo detto che occorrono all’amministrazione quanto più sia possibile norme fisse e giuridiche. Pur nondimeno per quanto un governo e i suoi agenti siano savi e bene intenzionati, non è possibile che talvolta non errino, ma quando il male non eccede i limiti della naturale fragilità, il riparo non si appalesa così urgente. Può a dir vero la previdenza legislativa antivenirvi, ma più spesso la necessità e la urgenza del rimedio si appalesano solo dopo dure esperienze. Ad ogni modo e nell’uno e nell’altro caso, quando havvi opportunità di un riordinamento amministrativo, il quesito si mostra sotto questa forma: "Il cittadino che si sente leso da un provvedimento amministrativo (e sotto il nome di cittadino si comprende anche ogni ente morale e lo stesso agente del governo) a chi deve ricorrere, e come può conseguire giustizia e riparazione?37".
Si risponderà: al tribunale ordinario. Ma non tutte le questioni possono essergli recate dinanzi, né esso è competente a tutte risolverle, come mostrerò in appresso. Qui stiamo al fatto; e il fatto è che sebbene l’Italia pei suoi ordini sia uno dei paesi nei quali è massimo il numero delle controversie che appartengono al contenzioso giudiziario, pur nondimeno assai ne rimangono fuori di questa cerchia. In simiglianti casi vi sono è vero alcuni corpi che hanno giurisdizione amministrativa come la Corte dei conto nella liquidazione delle pensioni e nell’esame dei conti, e il Consiglio si stato e finalmente alcune Commissioni speciali in qualche materia, ma anche questo campo è ristrettissimo. Nel maggior numero dei casi nei quali è ammesso il ricorso amministrativo, esso va dinanzi all’autorità superiore a quella, contro la quale il cittadino si grava. Ora se quest’autorità è sempre, quasi per naturale istinto, inclinata a sorreggere il proprio agente, se il raro, e a mal suo grado s’induce a dargli torto, questa inclinazione si trasforma in abitudine, ed ingiustizia volontaria quando vi si mescolano le passioni di parte, ondeché il ricorso diventa una vana formalità, e non arreca sostanziale ammenda.
Parmi opportuno di soffermarmi alquanto su questo punto, per mostrare entrambe le proposizioni; che v’ha cioè indebita ingerenza della politica nell’amministrazione, e che manca il modo di farsi rendere giustizia. L’on. Spaventa in un discorso pronunziato a Bergamo il 6 maggio 1880 e che per la verità delle cose espresse fece negli animi viva impressione, ha trattato il tema che abbiamo per le mani. Egli pure ha preso le mosse dagli effetti del governo parlamentare nelle pubbliche amministrazioni, e ne ha mostrato gli inconvenienti. Che se le mie prime affermazioni di Napoli porsero a lui occasione di esporre quelle idee, io posso rallegrarmi di avervi dato impulso, e debbo dire a mia volta che il suo discorso di Bergamo fu per me incitamento e conforto a scrivere questo libro. Lo Spaventa esaminò con severo criterio la questione sotto gli aspetti che ho sopra indicati; la incertezza cioè e il difetto di norme giuridiche le quali limitino e regolino le facoltà dell’amministrazione, e la possibilità di trovare chi e come ammendi il torto cagionato al cittadino o al corpo morale.
Ricordai antecedentemente la sentenza dello Gneist che i primi segni dell’azione indebita del partito nell’amministrazione scorgonsi nella polizia. Paragonando egli la Francia, la Grecia, l’Inghilterra venne a questo giudizio per mo’ di conclusione, che il grado di legalità e di rettitudine che si riscontra nella polizia preventiva, è per dir così la misura del grado di legalità e di rettitudine in ogni altro ramo della cosa pubblica. Lo Spaventa anch’egli si parte dalla legge di pubblica sicurezza, nella quale trova ben dodici punti dove l’autorità è sciolta da ogni vincolo, e può agire secondo che più le sembri opportuno. A ciò si aggiunge la parte che riguarda le ammonizioni estese ampiamente colla legge del 1864. Questa legge fu giustificata dalle tristissime condizioni e veramente straordinarie della sicurezza pubblica nelle provincie meridionali a quel tempo, ma venuto lo Stato in condizioni normali non è scevra di pericoli per la libertà del cittadino. E infine ei discorre sulla materia delle associazioni nella quale non solo non v’è norma precisa, ma pende incerta anche la giurisprudenza. Imperocché tutti consentono che il silenzio dello Statuto abbia ad interpretarsi come favorevole alla libertà, ma tutti riconoscono similmente che la libertà dee avere dei limiti. La discrepanza nasce quando si tratta di ben determinare questi limiti, e fra tutte le determinazioni possibili quella che ne fu data dal ministro dell’interno alla Camera, il 20 marzo 1880, parve allo Spaventa che fosse la più lontana dal vero, e celasse sotto apparenza di libertà un enorme arbitrio.
Per ben chiarire l’argomento della incertezza delle norme giuridiche nella amministrazione, e il difetto della giurisdizione a cui ricorrere, bisognerebbe prender ciascheduna legge e regolamento, e discorrendoli parte a parte scorgere in che vadano emendate. Lo Spaventa ne toccò taluna, ed io ne aggiungerò qui parecchie altre, ma più per esempio che colla presunzione di supplire ad un lavoro di lunga lena che richiederebbe attentissimo esame, e non di un solo ma di più uomini esperti nell’amministrazione, che congiungano alle nozioni teoriche la quotidiana e minuta pratica.
Il ministro dell’Interno ha una specie di alta vigilanza sugli enti morali Provincie, Comuni, Opere pie. Ma ella è ben più che un’altra vigilanza: è un vero ed ultimo appello in tutte le questioni più importanti, come la regolarità delle elezioni comunali e provinciali, lo scioglimento delle rappresentanze loro, la convenienza dei provvedimenti di sicurezza e d’igiene pubblica presi d’urgenza dai sindaci. Ora su questi punti chi può negare che molti arbitrii siano possibili? Il senatore Zini nel suo discorso al Senato sul bilancio del ministero dell’Interno del 1879, e in quello sul bilancio del 1880 e nei suoi due volumi dei criteri di governo in Italia, dei quali dirò alcun che più oltre, ha citato parecchi fatti di tal genere fra i quali il seguente. In un Comune, in occasione della rinnovazione del quinto dei consiglieri, nacquero contestazioni davanti al seggio elettorale: questo, secondo che gliene dà facoltà la legge, decise e proclamò il risultamento dello scrutinio. Fu portato ricorso al Consiglio comunale, e confermò il giudizio del seggio. Fu ricorso in appello, e la deputazione provinciale fu di avviso conforme. La denunzia fu recata al Re in Consiglio di stato, il quale trovò giusto il pronunziato del seggio elettorale, del Consiglio comunale, della deputazione provinciale. Nonostante questi quattro opinamenti concordi, il ministro dell’interno annullò lo scrutinio o per dir più esatto corresse di suo moto proprio lo scrutinio, introducendo piuttosto l’un che l’altro cittadino nel consiglio comunale. Similmente in più recenti occasioni, il ministro dopo aver interrogato il Consiglio di Stato in sezione sopra una modificazione di circoscrizione elettorale, ed avutone responso negativo, interrogato di nuovo il Consiglio in sezioni riunite ed avuta conferma del primo parere, pure ordinò che gli elettori fossero trasmutati da uno ad altro Collegio.
Un altro argomento vitale è quello delle spese obbligatorie. In caso d’inadempimento, se al difetto del Comune supplisce la deputazione provinciale, al difetto della Provincia supplisce il prefetto, e nell’uno e nell’altro caso il ricorso è risoluto definitivamente dal ministro dell’interno. Gravissimo è il fatto di uno scioglimento del Consiglio provinciale o comunale. Lo prevede la legge ma vi pone per condizione gravi motivi di ordine pubblico (art. 235). Ora qual guarentigia vi è che il ministro abbia siffatti motivi, o non sia piuttosto spinto da interessi di partito? Nessuna. Qui non si interroga neppure il Consiglio di Stato, e neppure si pubblica nella Gazzetta ufficiale una relazione che di quei gravi motivi dia contezza, anzi è venuto in costume che non si pubblica neppure il decreto di scioglimento. Questo atto rilevantissimo nella vita locale, rimane quasi un atto interno. E se trattandosi di grandi città si ode talvolta una interpellanza in Parlamento, lo scioglimento del Consiglio di piccoli Comuni passa senza che altri pur lo sappia o ne muova querela, tanto più quando è fatto d’accordo col deputato del luogo, e per servire alle sue passioni.
Per la sanità pubblica che pur dipende dal ministro dell’interno, havvi una gerarchia di Consigli, ma questi non hanno che un solo attributo di giurisdizione (art. 25, Legge 20 marzo 1865) quando ne siano richiesti dal prefetto, e al fine unico di deliberare provvedimento disciplinari contro gli esercenti professione sottoposta alla vigilanza loro: a questa giurisdizione sono sottoposti medici, chirurgi, flebotomi, levatrici, dentisti, erbaiuoli, semplicisti, droghieri, veterinarii. In ogni altra parte della sanità pubblica i Consigli sono chiamati solo ad esprimere un parere. Ed è a notare quel che ho avvertito sopra, che il Sindaco ha diritto per l’articolo 104 della legge comunale e provinciale di fare i provvedimenti contingibili ed urgenti, e di far eseguire gli ordini relativi a spese degli interessati. Intorno a ciò nacquero molte contese, e furono portate davanti ai tribunali. Ma questi dichiararono sempre che il giudicare se le spese erogate dal sindaco erano state debitamente messe a carico del privato, avrebbe importato conoscere della opportunità e convenienza dell’atto che il Sindaco compie come delegato dell’amministrazione, il che in verun modo poteva competere all’autorità giudiziaria.
Né diverso è il caso delle Opere pie, dove sotto pretesto di riordinarle possono dai ministri prendersi le più arbitrarie disposizioni. Lascio stare la nomina di commissari stipendiati, scelti fra gli uomini parlamentari, e mantenuti in ufficio fuor di legge, senza ricostituire un’amministrazione normale. Lascio stare l’ordine impartito ai prefetti di cancellare dal bilancio delle Opere pie le spese di culto prescritte dalle tavole di fondazione in quei casi, nei quali l’adempimento di esse non avesse sanzione giuridica, e fosse soltanto raccomandato alla coscienza degli amministratori. Ma non si può tacere della riforma della Cassa di risparmio di Milano. Imperocché se ciò poteva idealmente reputarsi utile, non era però praticamente urgente come la riforma di tante altre Opere pie, delle quali da ogni banda si lamentava la mala amministrazione, senza che il ministro degnasse pur volgervi un pensiero. Qui invece tutti eran concordi nell’ammirare la probità somma, la oculatezza, la parsimonia colla quale l’istituto era amministrato, e si lodava per ogni regione d’Italia di essersi fatto iniziatore di concorsi a premio, al fine di regolare e migliorare le associazioni di mutuo soccorso, e fornirle di utili statistiche: eppure si volle a tutta forza precipitarne la riforma. Che se pur tanto si voleva fare, non era necessario passar sopra alle clausole della legge, al parere del Consiglio di stato, e alla opposizione della Corte dei conti. Tutto ciò invece fu messo in non cale, e ben può reputarsi che la politica non vi fu estranea. Ma posto il decreto, come e a chi poteva la Cassa di Risparmio di Milano ricorrere per violazione di statuti, o per irregolarità nel modo della riforma? La voce del Consiglio di stato, e quella della Corte dei conti s’eran fatte udire indarno, il tribunale non era competente. Il ministro dell’interno poteva dire anch’egli: "Papa locutus, causa finita".
In materia di polizia industriale la nostra legislazione è rudimentale. Per tutte le industrie e mestieri, all’esercizio dei quali è necessaria una licenza, questa si concede dall’autorità politica del circondario, dopo il voto della giunta municipale, e i permessi possono revocarsi. La deputazione provinciale, a richiesta della giunta municipale o di persona interessata, dichiara quali manifatture, fabbriche, e depositi debbono considerarsi come pericolosi, insalubri, incomodi. Questa dichiarazione approvata dal prefetto ha per conseguenza di impedire nel comune l’impianto e l’esercizio di tali manifatture, fabbriche e depositi, e contro queste decisioni, che pur toccano interessi considerevoli, non v’ha altro ricorso possibile che in via gerarchica.
Passo ai lavori pubblici. E’ noto che tutte le controversie circa la classificazione delle strade comunali siano o no obbligatorie, la costituzione dei consorzi, i contributi relativi, sono decise in ultima istanza dall’autorità ministeriale. Similmente le questioni che riguardan le acque pubbliche (salvo che non si tratti di risarcimento per danno dati), i consorzi idraulici, la classificazione dei porti, la costituzione e i concorsi dei relativi consorzi. Vero è che in parecchi casi debbonsi udire i pareri della deputazione provinciale, e in moltissimi casi è richiesto l’avviso del Consiglio superiore del lavori pubblici, ma codesti sono voti consultivi che non obbligano il ministro.
E qui è da notare che nei paesi retti a governo parlamentare la materia dei lavori pubblici è una delle più vessate dall’ingerenza dei deputati; imperocché essi in tanto acquistano favore nel Collegio e lo conservano, in quanto valgano ad ottenere una strada, un sussidio, una anticipazione a preferenza degli altri e se ne vantano. Abbiamo assistito ad un largo dibattito sopra un piano di costruzioni ferroviarie durante il quale furono introdotte mutazioni di classe, nuove linee, e modificazioni sostanziali delle prime proposte: il pubblico attribuivalo ad influsso di varii gruppi di deputati. Un somigliante esempio s’è veduto nella legge per le strade, porti ed altri pubblici lavori, dove il ministro avendo proposto una spesa di 165 milioni, fu dalle esigenze parlamentari, e per contentare interessi locali, trascinato ad introdurre assai più di lavori che non aveva creduto necessario, e a portare la somma a 225 milioni. Il relatore si querelava del diluvio delle dimande, il ministro dolevasi che l’elenco dei lavori fosse avviluppato e fatto con troppa fretta, altri trascorrevano a più acerbe accuse: ma fu indarno. Arroge che questa legge abborracciata, lascia molte incertezze nella sua interpretazione, se la costituzione delle nuove strade provinciali sarà eseguita dallo Stato ovvero dalle provincie stesse, se i Consiglieri di queste che devono pur essere interrogati avranno voto deliberativo, ovvero espresso il parere dovranno sobbarcarsi alla spesa loro imposta e va dicendo. Tutto ciò mostra che noi continuiamo a far leggi incerte, indeterminate, donde per necessità scaturisce l’arbitrio ministeriale del quale il cittadino o l’ente civile offeso non trova ricorso possibile. E il Senato non tralasciò di notare e nell’uno e nell’altro caso questi difetti: dubitò eziandio se di tal guisa rimanessero inalterate le prerogative d’entrambi i corpi legislativi, e notò che dal punto di vista tecnico questa maniera d’improvvisare in fatto di lavori pubblici poteva produrre lamentevoli conseguenze. Alle quali considerazioni si piò aggiungere altresì risguardando l’avvenire che tutti questi lavori, ordinari e straordinari sono ripartiti in una serie di molti anni, per la qual cosa la preferenza da darsi agli uni sugli altri nel tempo di loro esecuzione, addiverrà occasione e stimolo a nuove ingerenze parlamentari.
Leggasi l’inchiesta sulle ferrovie, e si vedrà qua e colà uscir fuori delle deposizioni in questo senso: che i deputati invece di fare i legislatori fanno i sollecitatori d’affari ferroviari. Uno degli interrogativi, testimonio competente ed autorevole, risponde così: "Bisognerebbe che l’amministrazione delle ferrovie fosse libera da tutte le influenza parlamentari; a questa sola condizione, essa potrebbe camminare bene. Ma mi si permetta di ripeterlo, nessuna amministrazione, e molto meno una amministrazione ferroviaria, che ha infiniti rapporti col pubblico, potrà procedere regolarmente e bene, se vi si mescolano le influenze e le esigenze parlamentari. Basti un esempio. Tutti vogliono i treni diretti, e appena stabiliti s’affollano le domande dei deputati per le fermate alle stazioni del loro collegio, le quali per essere di poca o nessuna importanza non dovrebbero essere ammesse, ma che purtroppo lo sono, a cagione della influenza dei deputati del Ministero... Se si trovasse un Ministero il quale potesse dire di no ai deputati ed un Consiglio che non si lasciasse imporre dei medesimi, quando questi cercano di far pressione e per la loro benemerenza elettorale, od anche pel solo desìo di far valere la loro protezione, credo che a qualche buon risultato si potrebbe venire". E un altro testimone lamenta anch’egli "i treni diretti soltanto di nome, che si fermano a tutte le stazioni. Quelle fermate sono dovute spesso all’influenza dei deputati, e coll’orario alla mano egli potrebbe dire a quel deputato si debba quasi ogni fermata38 ".
E per verità quando si combatteva il concetto dell’esercizio ferroviario governativo non mancarono molti i quali nella discussione39 accamparono il pericolo che nella scelta degli impiegati, e nella condotta della impresa le ragioni politiche prevalsero alle tecniche. Ciò pareva anzi all’on. Crispi una conseguenza inevitabile perché "tal’è, diceva egli, la natura degli uomini. I governi sono la rappresentanza dei partiti, ogni partito ha sempre desiderio di vincere, e di vincere qualche volta schiacciando i propri avversari; quindi è nel suo interesse di costituirsi un esercito d’amici, una truppa di proseliti, della quale possa servirsi nelle circostanze".
Ma ritornando là donde mi sono dipartito, e restringendo il mio dire alle controversi che possono nascere fra i privati e l’amministrazione in materia di lavori pubblici, quivi ancora il ricorso è dall’autorità inferiore alla superiore, e mancano forme giuridiche. Inoltre la decisione ultima spetta sempre al ministro abbenché debba in molti casi udire il parere del Consiglio; e non solo egli giudica definitivamente, ma gli è lecito eziandio di ritornare dopo qualche tempo sopra la decisione pronunziata che gli altri tenevano per definitiva, e appresso nuovo esame di mutarla. Laonde molte questioni durano lunghissimamente, e queste variazioni a libito ministeriale, posto che qualche volta correggano un errore commesso, possono apportare gravissime conseguenze.
In fatto d’istruzione pubblica la legge lascia parimenti non poche incertezze e lacune, alle quali non si è supplito abbastanza coi regolamenti, e questi si rimutarono alla lor volta, o furono emendati da circolari a iosa, ed anche mancò la puntuale osservanza della legislazione scolastica. Per dare un esempio, basti il guardare la questione dell’istruzione religiosa nelle scuole elementari. Dove la legge dice una cosa, altra decisero taluni Comuni, il Consiglio di stato opinò per la legge, il ministro pei Comuni, e la Camera stimò con un ordine del giorno, che non ha nessun valore legislativo, aver tutto composto. D’altra banda giova il riconoscere che in molti casi il Consiglio superiore d’istruzione pubblica era efficace freno al ministro, in ciò soprattutto che dirigendo i concorsi alle cattedre seppe tenerne sovente lontano uomini mediocri o incapaci. Eppure, salvo il caso di provvedimenti disciplinari da prendersi contro i Professori, il voto del Consiglio era meramente consultivo, e il ministro potea trascurarne l’avviso senza che ne rendesse ragione. Che se in talune materie aveva l’obbligo di consultarlo, in molte era libero, e solo a decidere. Nonostante parve che anche in questi ristretti termini, il Consiglio fosse d’impaccio alla libertà del ministro e ne fu mutata la composizione e l’ordinamento per legge. Questi ebbe facoltà di scegliere a suo grado le commissioni esaminatrici per le cattedre vacanti. Ora apparisce chiaro come assai più difficile riesca ad un solo uomo di ben comporle per ogni facoltà di studi; e se anche egli vi ponesse la migliore intenzione, non eviterebbe qualche taccia di parzialità, di che oggi si odono dovunque levare alte le grida. Similmente il ministro libero dalle pastoie del Consiglio, mostrò di prendere sulla istruzione mezzana provvisioni che contrastavano alla legge; i sussidi non apparvero dati con eque lance, in generale l’arbitrio ministeriale è lamentato in questo ministero più fortemente che in ogni altro.
Certo non mancarono irregolarità e talvolta soprusi nei primi tempi del nostro risorgimento: uomini dappoco, e talvolta anche di fama men che onesta furon chiamati all’insegnamento solo perché si vantavano di patriottismo, ovvero erano preti spretati e frati sfratati, il che fu esempio pessimo e cagione di danni all’insegnamento, dal quale molti padri di famiglia per ciò abborrivano. Ora il favore è passato ai politicanti, e abbiamo veduto introdursi negli uffici nuovi, ispettori e presidi mutati di circolo o promossi, per merito di faccenderia elettorale e fatto man bassa sovra impiegati provetti e rispettabili. Non parlo degli incoraggiamenti alle arti, né degli invii di commissari e congressi e ad esposizioni internazionali, dove la politica talvolta designò tali uomini che erano al tutto ignari della materia, e l’Italia ne scapitò al cospetto degli stranieri. certo è che abusi partigiani d’ogni maniera non mancarono.
Il ministro di agricoltura e commercio ha balìa in molti punti che le leggi non determinano precisamente, e v’ha una materia sopra tutte delicatissima come quella del credito nella quale le sua facoltà sono quasi effrenate. Imperocché esso può trovar modo si concedere o negare alle società anonime la facoltà di costituirsi in corpi morali, e può eziandio favoreggiare o contrariare gli istituti di credito. Furono accusati fieramente i ministri dopo il 1859 di aver dato irregolarmente alla Banca nazionale, fondata per il solo regno di Sardegna, estensione e privilegio di emissione in tutti il regno d’Italia. Non intendo di esaminare se il decreto eccedesse le facoltà amministrative, ma se accesso vi fu, può trovar accettevole scusa in quei primi momenti delle annessioni; e ben è lecito affermare che la istituzione delle sedi e delle succursali della Banca in ogni capoluogo di provincia tornò utile all’industria e al commercio nazionale. Ma venne un tempo di reazione nel quale si voleva assalire da ogni parte la Banca e scuoterla, e se il partito di opposizione fosse andato allora al governo ne avrebbe forse fatto scempio, con grane iattura della cosa pubblica. La salvò nel 1874 una legge, la quale consorziando i vari istituti, e mettendo limite alla emissione dei biglietti, attutì i clamori e temperò le animavversioni. Nondimeno resta pur sempre una lata potestà nel ministro in questa parte del credito pubblico.
La legge sulla pesca (4 marzo 1877) è in generale vaga ed incompiuta, ma ciò che è veramente indeterminatissimo si è quanto riguarda la concessione di tratti di spiagge, acque demaniali, e mar territoriale; imperocché si contenta di porvi due riserve, che la concessione non possa eccedere i novantanove anni, e che sia subordinata alle condizioni d’interesse generale, e al conseguimento del fine richiesto. Invece la legge sui boschi (20 giugno 1877) dà adito ai ricorsi contro le decisioni del comitato forestale circa i terreni vincolati, i rimboschimenti, le possibilità e i modi di ridurre a coltura agraria i terreni boschivi, e attribuisce al Consiglio di stato una vera giurisdizione amministrativa, poiché ad esso spetta la finale decisione. Il che io indico per mostrare la differenza e talvolta anche la incoerenza che regna nel nostro diritto amministrativo. Nella legge sulle miniere (20 marzo 1859 parziale ad alcune provincie) la concessione, e la chiusura fu riguardata sempre come atto amministrativo che apparteneva al ministro, sentito il Consiglio delle miniere; ma le questioni circa l’interpretazione, gli effetti e l’esecuzione dei decreti di permesso di ricerca, e di concessione, circa la costruzione di officine, circa i rapporti fra l’amministrazione e i concessionari erano devolute al contenzioso amministrativo che esisteva ancora quando la legge fu fatta. Abolito questo, con regolamento 20 dicembre 1865 molte delle predette quistioni furono dal ministro avocate a sé, e serbate alla sua propria libera decisione.
Nel ministero della guerra toccherò un punto solo ma gravissimo, quello della leva. Contro le decisioni del Consiglio di leva si può ricorrere; ma a chi? al ministro. E con quali guarentigie? Il ministro dee udire il parere di una commissione composta di un ufficiale generale, due ufficiali superiori, e due consiglieri di stato che esaminano i ricorsi senza forme precise di procedimento. E inoltre il parer loro non vincola il ministro, che può a suo grado pronunziare l’ultima sentenza. M’affretto a dire che l’opinione pubblica ha riconosciuto in generale una grande giustizia e imparzialità in codeste decisioni. Ma oltrecché non mancarono tavolta gravi parole anche davanti ai tribunali, questa imparzialità di fatto si deve alla rettitudine degli uomini preposti a quegli uffici ma non toglie la possibilità di un pericolo, contro il quale gli ordini nostri dovrebbero averci premunito. Ad ogni modo sia questa lode d’Italia nel passato, e augurio dell’avvenire, che lima di spirito partigiano non poté rodere sinora il ferro adamantino dell’esercito nazionale.
Anche nel ministero della marina, contro le decisioni del Consiglio di leva presieduto dal capitano del porto v’ha ricorso al ministro, che sentita una Commissione analoga alla sopradetta potrà riformare il primo giudizio. I comandanti delle regie navi che trovandosi in paesi lontani, e temendo di avventurare la missione loro affidata, provassero necessità di rifornirsi di marinai, possono levarne sotto la propria responsabilità dai bastimenti mercantili nazionali che fossero ancorati nei porti esteri, sino a concorrenza del quarto dell’equipaggio loro. La legge (18 agosto 1871), dice, che dove risiede un’autorità consolare quest’ordine di leva è dato dalla medesima, parla eziandio di un risarcimento da darsi delle spese di rinvio dei marinai, ma non accenna in alcun modo come l’armatore della nave, che fosse stato non equamente scemata dei suoi marinai, possa farsi rendere giustizia, e conseguire almeno un compenso dei danni sofferti. Dal Codice stesso di marina i capitani e gli ufficiali di porto sono chiamati a giudicare controversie surte in assenza di una parte, e senza appello (art. 15 Regol. per il Codice della marina mercantile). Lo stabilire tonnare, ed opere di piscicultura, le concessioni temporanee di spiaggia sono affidati interamente all’arbitrio del ministro. Solo il giudizio per la legittimità delle prede e per la confisca sarà promosso dinanzi ad una speciale commissione da istituirsi con decreto reale.
Di questo difetto di guarentigie non può dirsi immune neppure il ministero delle finanze. Però se la necessità di stringere i freni, di riscuotere gli assegnamenti, d’imporre e attuare nuove tasse, obbligò a dure leggi, non tolse che qualche cautela fosse data a difesa del privato. Vero è che il pensiero principale se non unico degli uomini che allora reggevano le finanze, era quello di riordinare ed assettarle; ogni altro avvedimento cedeva a questo intento, ma è strano che dopo il 18 marzo 1976 non si sia fatto quasi nulla per ripararvi, mentre una delle precipue cause della caduta del ministero su l’accusa e lo scalpore infinito che si menava per le vessazioni e per le fiscalità. Nondimeno la revisione dei fabbricati si eseguì appresso senza migliorare i procedimenti di accertamento, i quali sono pur gli stessi della tassa di ricchezza mobile: una commissione di prima istanza mandamentale, una commissione di appello provinciale, una commissione centrale di revisione quasi a forma di cassazione. Ma la definizione del reddito imponibile appartiene alla commissione provinciale, dinanzi alla quale il ricorrente può essere inteso, in contraddittorio del rappresentante del fisco, ma è l’uopo che ne sia da lui fatta espressa domanda. Quanto alle dogane, havvi a costa del ministro un collegio di periti, e in caso di controversia fra il contribuente e gli ufficiali di dogana rispetto alla qualificazione delle merci, il ministro delle finanze, udito questo collegio, risolve a suo grado tali controversie con decisione motivata. Rispetto al dazio di consumo, tutta la materia degli abbonamenti coi Comuni è nelle mani del ministro. Certo quando un Comune si accorgesse che, accettando la somma da lui determinata, ci perderebbe irremissibilmente delle spese, si sobbarcherà piuttosto all’appaltatore governativo; ma non è men vero che se non vi ha da parte di chi governa le finanze grande giustizia ed equità, codesta potrebbe essere sorgente di favori e di dispetti senza alcuna guarentigia: e so ben io per esperienza, di quante difficoltà ed amarezze sia apportatrice una ferma risoluzione d’imparzialità. Potrei noverare qualche altro punto nelle tasse di registro, e nelle questioni per la riscossione delle imposte dirette, dove occorrerebbe qualche clausola in difesa del contribuente; ma il lungo tema mi caccia, e qui più che per analisi accurata io procedo per esemplificazione.
Anche in queste materie finanziarie, nelle quali la ferita è sensibile ad ognuno, tornerebbe adunque opportuna una revisione delle leggi e dei regolamenti per dare maggiori guarentigie al privato cittadino, ed aiutarlo a meglio conseguire una riparazione, se torto gli sia fatto. Né giova che siansi mandate circolari agli operosi agenti finanziari esortandoli a procedere con forme di mitezza e di cortesia. Questi suggerimenti non davano alcuna cautela d’imparzialità, e inoltre la questione vuol essere riguardata anche sotto l’aspetto degli interessi dell’amministrazione. la quale non deve andar soggetta alle inclinazioni personali, ai favori, ai capricci degli agenti e del ministro. Però se da qualche anno si videro meno durezze, si videro più condiscendenze illegali, quando specialmente c’era di mezzo qualche deputato. Ho udito io stesso le seguenti parole da uomini competentissimi nel dicastero del demanio o delle tasse: se voi volete che queste imposte fruttino, fate che sia chiusa la porta delle raccomandazioni ai deputati. E qui giova dire che le regole generali non mancano per metterci argine, ma l’abitudine vinse ogni decreto del ministro, e le raccomandazioni continuano a piovere da ogni banda. Mi si assicura che negli archivi della direzione delle imposte dirette esistono documenti autentici i quali provano denunzie di redditi di ricchezza mobile smaccatamente inferiori al vero, ma accettate per deferenza; adoperamenti, interessati, per abbassare i redditi attribuiti ad altri, o per ottenere larghe transizioni su quote di macinazione attribuite a mugnai, i quali avevano già sperimentato giudizialmente i loro diritti ed erano stato condannati in prima in seconda istanza ed in Cassazione. E’ noto che il Consiglio di stato ha dovuto respingere talune proposte d’accordo con mugnai nelle quali il favore sfolgorava troppo manifestante.
Il Consiglio di stato e la Corte dei conti è vero i due consessi che guardano la conformità degli atti e dei contratti alla legge, e ove occorra metton freno all’arbitrio ministeriale. Ma come dissi il Consiglio di stato non ha giurisdizione che in pochissimi casi e da qualche anno a questa parte si è preso l’andazzo in cose gravi di udirlo e poi di fare l’opposto dei suoi pareri. Anche la Corte dei conti ha indarno cercato di opporsi ad alcuni decreti che violavan la legge, rifiutandone la registrazione. Ma poiché si può ordinare la registrazione con riserva, il ministero che ha la maggioranza nella Camera, procede oltre, sicuro in ogni caso di conseguire non solo come dicesi un bill d’indennità, ma un bill di glorificazione, se violando la legge abbia servito gl’interessi e le passioni del suo partito.
L’enumerazione degli atti amministrativi che si compiono senza guarentigia o con guarentigia insufficiente del cittadino, è ben lungi dall’esser qui spiegata in tutti i rami della cosa pubblica. Io ho voluto levarne qualche saggio per dimostrare che niuno dei ministeri ne va esente. Né volli fare atto d’accusa contro alcuna persona, ma dimostrare che là dove è aperto il varco, la politica s’insinua e le passioni di parte tentano di pigliare il luogo della imparzialità.
Ma se ciò risponde ad uno dei fini del presente volume, a ben più alte considerazioni ci chiama questa enumerazione, pur così imperfetta com’è. L’amministrazione come dissi c’involve da tutte parti; con essa siamo in cotidiane relazioni, i nostri interessi sono nelle sue mani. Ora si vede che una non piccola parte degli atti amministrativi si compie, di guisa che colui che se ne creda offeso non può far ricorso ai tribunali, perché sarebbero incompetenti a giudicare. Gli rimane solo il rinfranco il ricorso in via gerarchica. E’ desso sufficiente in una società libera o progredita? Non è questo un grave difetto del nostro diritto pubblico interno? Non è principio di corruzione? Ma quel rimedio a ciò? Risponderò a questa domanda nell’ultimo capitolo: qui indico soltanto che la Prussia e la Germania posero il problema dinanzi ai Parlamentari loro, e questi stimarono di averlo risoluto ordinando una serie di provvedimenti, dei quali darò ragguaglio più oltre.
Mi resta anche a toccare un altro genere di rapporti, delicatissimi quanto gli altri di che ho detto sopra, ed è quello che passa fra il governo e i suoi medesimi impiegati. Imperocché l’ideale di una buona amministrazione dovrebbe comprendere la stabilità dell’impiegato, la sua indipendenza da ogni influsso politico, le sue promozioni regolari per anzianità o per merito. Ora qui cominciamo altre dolenti note. Poterono i prefetti esser traslocati, rimutati, e persino messi in aspettativa, e poi in disponibilità, e poi a riposo, senza che ne fosse addotta altra ragione che la opportunità del servizio: ma bucinavasi che in taluni casi la ragion vera fosse perché non garbavano ai deputati della provincia, o alla maggioranza di essi. Abbiamo letto scritture di prefetti che, per eccesso di zelo o per timore di peggio, pubblicamente lamentavano di non essere riusciti nelle elezioni a sconfiggere il partito di opposizione, come se il prefetto fosse mandato a reggere una provincia non per bene amministrare, ma per fare gli interessi della parte politica. Che se i prefetti, e i sottoprefetti sono da tal banda i più travagliati della gerarchia, ciò non toglie che anche in ogni altro dicastero non avvengano ingiusti spostamenti per ragioni meramente elettorali, con gravissimo danno del misero impiegato. E anche fuori di questa contingenza, nella quale la parte politica par che s’imponga, non è raro il caso che un impiegato per la sciagurata nota di male intenzionato rimanga immobile nella sua carriera, mentre un altro che si reputa bene intenzionato levasi di botto ad alti gradi indipendentemente da merito singolare. Abbiamo veduto sospendere concorsi ad un impiego già inoltrati, e non darvi più seguito perché codesti favoriti rimanessero nell’ufficio e acquistassero titolo ad occuparlo definitivamente, godendone intanto i lucri. Abbiamo veduto rimettere in posto tali uomini che già erano stati giudicati indegni non pure di occuparli effettivamente, ma di ricevere pensione di riposo. Qui ancora non vi è altra guarentigia che il beneplacito dei superiori. Un sol caso, quello della destituzione, è sottoposto al giudizio di una commissione.
E poiché ho parlato delle ingerenze politiche, ve n’ha una che sebbene non illegale, pure sotto l’aspetto morale spicca maravigliosamente, ed è l’essersi contravvenuto più volte alla legge delle incompatibilità parlamentari la quale prescrive che durante il tempo in cui il deputato esercita il suo mandato, e sei mesi dopo, non potrà essere nominato a verun ufficio retribuito. Vero è che la legge soggiungeva che tali disposizioni andrebbero in esecuzione solo coll’aprirsi della quattordicesima legislatura40 ma quando si pensa alla fretta, e direi quasi all’impeto onde questa legge fu presentata e sancita in Parlamento, come se veramente da essa dipendesse il buon andamento e la moralità delle nostre istituzioni, e quasi la salute della patria, a ragione può chiedersi se l’obbligo morale del ministero a mantenerla non cominciasse dal giorno medesimo in che fu promulgata. Eppure se si paragone il tempo trascorso dalla fondazione del regno d’Italia sino alla promulgazione di detta legge con quello posteriore sino alla rinnovata legislatura, si vedrà che il caso era stato relativamente assai più raro prima che non fosse di poi. Finalmente chi non ricorda i settanta deputati datti Commendatori tutti in una volta. La cosa menò gran vampo, e credo veramente che un esempio simigliante non si trovi in nessun altro paese, e proverebbe che se noi siamo i sezzai nella vita costituzionale, però nelle sue men nobili arti possiamo arrogarci di avere il primato. Ma i ciondoli non bastano a contentar tutti, e chi andasse a consultare i registri di qualche Banco di emissione, vedrebbe che l’ufficio di deputato non gli fu di poco giovamento per la facilità di scontar cambiali, e di queste ne troverebbe taluna che sta per avventura sepolta silenziosamente fra le partite che chiamansi in sofferenza, ma cui si addice nome più proprio quello di crediti inesigibili.
Ma non vorrei accusare più l’un partito che l’altro, e parmi di nuovo udire che, sin dalla origine del regno d’Italia, occorsero, fatti di questa indebita ingerenza della politica nell’amministrazione. E cogliendo al volo la mia citazione dello Zini, mi si rimbeccherà che il suo libro dei criteri e dei modi di governo nel regno d’Italia, pubblicato nel marzo 1876, raccoglie appunto molti fatti contro le amministrazioni precedenti. E’ vero. Questo libro comparso nel momento in cui la sinistra saliva al potere, ebbe grande opportunità e parve un atto d’accusa contro il partito che dalle origini del regno sino al 1876 aveva tenuto il governo della cosa pubblica. Piacque forse più per le passioni che lusingava, di quello che fosse inteso per ciò che v’era di giusto e di vero. Imperocché il punto che l’autore aveva preso a trattare ha molta analogia con ciò che sin qui ho discorso. Io mi trovo alquanto a disagio nel parlare, e chi ha letto questo libro dello Zini, e le sue istorie non penerà ad intenderlo: però mi sforzerò di essere esatto nel riferire, equo nel giudicare. Or dunque egli censura innanzi tutto quello zelo di autorità pel quale il ministro rifugge dal sindacare l’operato dei suoi agenti, e dice che ciò conduce a nascondere errori, dissimulare fuorviamenti, negare colpe, scambiando la dignità e inviolabilità della legge con l’interesse del partito. Hinc mali labe, non volersi rimuovere gli autori degli scandali a pretesto di non iscemare l’autorità dei reggitori della cosa pubblica. E fin qui sono del suo parere interamente. Appresso egli tocca del primo periodo del governo nuovo e degli arbitrii che vi furono commessi: modificate circoscrizioni amministrative per conformarle alle giudiziarie, e anche senza questo pretesto: soppresse violentemente da un R. Commissario tutte le amministrazioni delle Opere pie di una provincia contro il disposto delle tavole di fondazione, per surrogarvi la Congregazione di carità. Critica le mutazioni introdotte per semplice decreto nell’ordinamento del Consiglio dei ministri, la riunione nel medesimo prefetto delle attribuzioni civili e militari: denunzia modi illegali ed iniqui adoperati per estirpare il brigantaggio delle provincie napoletane, mandati agenti provocatori per sorprenderli, e talune uccisioni fatte in simulata fuga, messe guardie e piantoni a spese delle famiglie dei renitenti alla leva, e dei disertori, e tagliati acquedotti per assestar terre che davan loro rifugio. Accusa i ministeri precedenti di aver soldato e sovvenuto la stampa, di aver tramutati e rimossi buoni prefetti perché non grati a qualche deputato influente, e per la medesima ragione tolleratone altri, sebbene dessero manifesti segni di mal costume. Poi dipinge quelli che chiama proconsoli, cioè: questori e delegati ai quali si menava buono qualunque sopruso, purché sapessero farsi belli di aver sventate congiure immaginarie, e salvata la società da pericoli non mai esistiti; e intendenti e agenti della finanza allora premiati quando tribolavano maggiormente i contribuenti. Vede il lettore che io non attenuo le accuse.
Questi fatti poniam che in parte siano veri, in parte sono esagerati. E nel primo periodo della nostra unità nazionale, trovano se non giustificazione almeno scusa nella novità del regno, e nei pericoli ond’era attorniato. Così per esempio la persecuzione del brigantaggio poteva riguardarsi come stato di guerra, e non è equo sentenziarne col criterio dei tempi normali. E’ da pensare alla diversità di legislazione in sette Stati, e all’incertezza della giurisprudenza in un periodo di formazione. E’ anche da notare che dalla salvezza delle finanze dipendeva il credito e l’onore del nuovo Stato. Laonde l’autore errò a mio avviso giudicando certi fatti, come se lo Stato fosse in condizioni ordinarie e non piuttosto straordinarissime, e attribuendo a colpe di uomini ciò che era effetto del tempo, e delle circostanze almeno per la massima parte. E non è da tralasciare questa considerazione, che mano a mano che lo Stato si assolidava, e pigliava ordini comuni, quegli inconvenienti venivano diminuendo. Ad ogni modo poi non si dee aver vergogna di confessare che v’ha del vero nel libro dello Zini, che inconvenienti vi furono, che errori si commisero, benché io per parte mia so e sento di poterli chiamare involontari. Se non che l’autore medesimo avendo sperato che il 18 marzo 1876 ponesse fine non solo, ma riparo a questi inconvenienti, fece manifesta la sua buona fede, quando più tardi e nelle lettere e nei discorsi che ho citati sopra, riconosce che le sue speranze erano state frustrate, che la cosa pubblica era andata peggiorando, che si erano rivelati fatti non mai prima veduti, che le guarentigie della giustizia amministrativa venivano ognora più scomparendo, che la parola riparazione era diventata uno scherzo melanconico.
Prima di chiudere il presente capitolo, voglio fare un’avvertenza che è capitale. Io ho parlato sempre del governo, e delle sue indebite ingerenze dell’amministrazione; ho mostrato i danni dello spirito di partito che vi penetra e la guasta. Ma non vorrei che altri credesse che codesto spirito nei paesi liberi rimanga solo nelle alte sfere del Parlamento, dei ministeri, degli uffici centrali. Esso si svolge egualmente nella Provincia e nel Comune, e vi produce i suoi letali effetti. Che se questi sono assai minori in estensione, sono maggiori in intensità, imperocché i rancori locali attizzano le ire, e la tirannide del tuo vicino è più vessatrice ed odiosa di quella di un’autorità remota e centrale, la quale se non altro dà alle cose una importanza meno sproporzionata al vero esser loro, e non è mossa comunemente da astii personali. Laonde si può dire che fra arbitrio ed arbitrio, sia meno penoso sobbarcarsi a quello del ministro, che a quello di una autorità locale elettiva. Pertanto allorché investigheremo i rimedi al male che abbiamo descritto, sarà mestieri che noi discendiamo dall’amministrazione nazionale alle locali, e che cerchiamo come si possa estendere e mantenere la imparzialità non solo nella prima ma eziandio nelle seconde.
In Italia vi sono delle Provincie amministrative in modo eccellente: vi sono anche dei Municipi condotti con regolarità esemplare, e nei quali si direbbe rivivere la vigoria e il sentimento intraprendente de’ nostri antichi padri. Ma delle une e degli altri ve n’ha purtroppo che procedono male, e l’interesse pubblico vi soggiace a quello di pochi, perché l’amministrazione è guasta e viziata. Là i partiti pigliano la politica per manto, ma in realtà traggono origine il più delle volte da odii inveterati fra le famiglie principali del Comune, e l’una tende a porre l’altra sotto gravi pesi e quando riesce ad assicurarsi la maggioranza, nessun riparo vi può far la gente. Imperocché il partito vincitore occupa il Municipio, la Provincia, i Consigli direttivi delle opere pie, delle scuole, e talvolta anche degli istituti di credito, escludendone interamente i suoi oppositori; e quivi scapestra a suo libro. Le tasse son votate nell’interesse del partito trionfante, e la sproporzione che si vede in qualche luogo fra le imposte dirette e le indirette n’è argomento manifesto. Si legge di qualche Comune dove le guardie daziarie, veri satelliti dei padroni loro, lascian passare la roba degli aderenti e compensano il bilancio comunale gravando la mano su quelle degli avversarii. Le rendite del Municipio alimentano i parenti e gli amici: dànnosi loro gli appalti delle opere pubbliche. E gli appaltatori, e gli avvocati che li difendono signoreggiano senza freno. La polizia essendo in mano del sindaco, i certificati di buona condotta, le informazioni al pretore per le ammonizioni, i provvedimenti urgenti di sicurezza e di igiene, servono al partito. La lista elettorale è compilata nell’intento di iscrivervi i nomi dei partigiani, e di cancellarne gli avversari. Se altri ricorre, la sentenza della Corte d’appello che ne ordina la rettificazione, spesso arriva tardi o ad elezione già fatta41. Né la tutela della deputazione provinciale consegue il fine pel quale è ordinata, imperocché, lasciando stare che in alcuni luoghi i sindaci e gli assessori della giunta sono contemporaneamente membri della deputazione, se questa è formata collo stesso spirito, e composta di uomini che si sono già accordati fra loro, invece di vigilare e correggere gli abusi li trascura o li ribadisce. Ed i caporioni in compenso delle reticenze colpevoli e degli affettati obblii, ricevono tutti gli aiuti necessari per diventare deputati, mentre i capi del Comune e di tutti gli istituti che ne dipendono, gli esattori, gli appaltatori pagano il debito loro, rendendosi agenti elettorali. In vero spetterebbe al prefetto rintuzzare questa cattività, e sventare queste trame, ma si cerca di nascondergli il vero, o di aggirarlo con falsi ragguagli. Che se ciò nonostante vede tutto, e da probo e severo amministratore sente in cuore l’obbligo di mettervi riparo, come può egli vincere la resistenza delle deputazione provinciale, della giunta comunale, del deputato politico? A gran pena ei salverà sé medesimo, destreggiandosi, e godendo di benefici del tempo; al più ne farà relazione al governo aspettandone le risoluzioni. Anche in questi casi il ricorso e le querele dei singoli cittadini vanno dispersi al vento, e l’art. 110 della Legge comunale e provinciale dichiara che i sindaci non possono esser chiamati a render conto dell’esercizio delle loro funzioni, fuorché dalla superiore autorità amministrativa, né sottoposti a procedimento per alcun atto di tale esercizio senza autorizzazione del Re, e previo il parere del Consiglio di stato. Il problema dunque si pone negli stessi termini che ho detto sopra rispetto al governo: il cittadino e l’ente civile che si crede leso da un’atto amministrativo delle rappresentanze comunali e provinciali, a chi dee ricorrere? e quali procedimenti debbono stabilirsi perché il ricorso ottenga giustizia?
Conchiudo questo ormai troppo lungo discorso. Nel capitolo precedente mostrai che la forma di governo costituzionale, e sopratutto parlamentare sembra aver di necessità indole di governo di partito, in questo senso che l’indirizzo generale politico vi appartiene e quell’accolta di uomini, che esprimono le tendenze della pubblica opinione, nella sua maggioranza, in un dato momento. Mostrai eziandio che il governo di partito ha alcuni inconvenienti insiti per guisa che non sembrano potersegli torre senza per così dire alterarne l’essenza. Né il discutere altre forme di governo o la possibilità stessa di un reggimento diversamente ordinato conveniva alla mia trattazione. Ma oltre i difetti politici congiunti ad ogni governo di partito, ve ne sono altri nei quali esso sdrucciola assai facilmente, e che non gli sembrano così connaturati da doversi dire che necessariamente e inevitabilmente lo seguano. Questi difetti nascono quando lo spirito di parte, dalla politica s’insinua nell’amministrazione, e nella giustizia civile e penale.
L’esperienza ci ha dimostrato che anche l’Inghilterra, che è l’esemplare di questa forma, di governi ponderati e parlamentari, non fu scevra di tale difetto, ma in piccole proporzioni, e se risanò ben presto per vigoria degli animi, e per virtù della locale amministrazione decentrata. In America il male scoppiò con terribile intensità, e perdura, anzi, cresce tanto da togliere al Parlamento e gli ufficiali pubblici credito e rispetto. Ma la libertà individuale è colà tanto grande, e le attribuzioni del governo così minime dirimpetto all’attività sociale, che quella putredine sta ristretta in un piccol cerchio di politicanti, e per ora almeno il popolo continua il suo cammino, e, pur conoscendo e sovente spregiando i suoi reggitori, gli pare che il tempo possa spendersi in alcun che di meglio che nel correggerli. Nei paesi germanici, il parlamentarismo non essendo così spiegato, non vi generò tanti guai, nondimeno poco bastò per rendere avvertito il pericolo, e per tentare di porvi un rimedio. Maggiori inconvenienti si manifestarono nei popoli così detti di razza latina, laddove l’amministrazione è accentrata, nella Francia, nella Spagna, nella Grecia. Nell’Italia, sebbene venuta da poco tempo a libertà non fu difficile avvertirne i segni fin dalla prima origine: gl’inconvenienti crebbero rapidamente col cessare del periodo eroico del nostro risorgimento, e vanno prendendo proporzioni spaventose.
Se le cose dovessero continuare di questo passo, è evidente che il governo parlamentare perderebbe ogni prestigio, e verrebbe in uggia alle popolazioni, le quali più che di guarentigie politiche, hanno bisogno di giustizia austera e di amministrazione imparziale. Questa difficoltà aggiunta alle altre che rendono cotal forma di reggimento assai delicata nel suo esercizio, potrebbe porgere occasione a inquietudini, commovimenti, e sommosse, per l‘antico e falso vezzo di sperare che mutata la forma di governo i mali cessassero; mentre invece diverrebbero più gravi e più modesti. Però bisogna por mente ad essi con sollecitudine, ed esaminare i mezzi di prevenirli e di rimediarvi; se non in modo assoluto ed intero, almeno per la maggior parte e per la più pungente. Io mi farò adunque ad indagare quali rimedi possano escogitarsi, affinché oltre ai danni, direi così, inevitabili in un governo di parte, non ne sorgano altri accidentali ma anche più temibili; o come, sorti che siano, possano essere tolti. E perché la ricerca sia più piena, mi farò prima ad esaminare se fosse possibile un governo parlamentare senza esser governo di partito.

 

 

 

SE SIA POSSIBILE UN GOVERNO PARLAMENTARE SENZA PARTITI

Io ho delineato nel capitolo primo i pregi ed i difetti del Governo di partito che sono per così dire da esso inseparabili. Ho quindi toccato nel capitolo secondo di altri difetti che facilmente vi si aggiungono e sono anche più pericolosi perché s’insinuano nella giustizia e nell’amministrazione, e gustandole traggono la società a mali altrettanto gravi e intollerabili quanto quelli del dispotismo. Natural cosa era che gli avversari del governo costituzionale ne traessero argomenti a fortemente combatterlo, e così fecero. Taluni hanno spinto il furore sino a chiamarlo barbarico a cagione appunto del sistema della gara e vicenda dei partiti, e delle differenze e contrapposizioni fra i pubblici poteri. Ma costoro messi poi alla prova d’immaginare qualche cosa di più perfetto falliscono, o disviano sovente in pedanterie rancide o in astrattezze impraticabili. Imperocché essi non considerano ciò che toccai sopra, cioè che disputando di forme di governo si tratta non d’immaginare l’ottimo, ma di riconoscere ciò che arreca maggior numero di beni, e minore di mali, e similmente che la stessa forma di governo non si attaglia egualmente alle condizioni di tutti i tempi e di tutti i luoghi; e come oggi sarebbe impossibile applicare la costituzione di Solone o di Licurgo o le istituzioni politiche romane, così il governo parlamentare è quello che sembra meglio rispondere alle esigenze della moderna società. Pertanto io lascio costoro alla orgogliosa ed ignorante baldanza onde maledicendo a tutti, sé medesimi adorano.
Ma se il governo costituzionale, divenuto in alcuni paesi parlamentare, sembra rispondere meglio alle condizioni della moderna società, pur nondimeno esso fu introdotto troppo di recente nel mondo, perché possiamo giudicarlo colla testimonianza dei fatti. La sola Inghilterra ci dà una prova di oltre due secoli, veramente meravigliosa, ma oltrecché ivi la costituzione aveva sue radici antichissime nella tradizione, e nel costume ancor più che nelle leggi, si può dire che la vera forma parlamentare come oggi s’intende non vi si esercita e non da trent’anni. Ebbe adunque ragione il Principe Alberto marito della regina Vittoria quando pronunziò quella sentenza che a taluni inglesi seppe di forte agrume: rapresentative government is on its trial. Che se il governo rappresentativo in Inghilterra si può riguardare come ancora in prova, che diremo noi degli Stati continentali d’Europa, nei quali appena comincia a svolgersi e mostrare i suoi effetti? Certamente la Francia non ci ha dato un esempio lusinghiero colle sue vicende di monarchia e di repubblica, e si comprende che molti n’abbian sentito disdegno e ribrezzo. Si comprende ancora che la mente di alcuni desiderosa del semplice, si mostri insofferente di far dipendere la buona condotta della cosa pubblica da un sistema delicato e complicatissimo di freni, di valvole, di contrappesi e di equilibrio: ma questi non sono argomenti sufficienti per condannarlo, che anzi nella natura quanto più gli esseri salgono sulla scala della perfezione, e più sono complessi e di molteplici organi forniti: e d’altra banda bisognerebbe aver in mente un altro sistema diverso dalle monarchie e dalle repubbliche rappresentative consuete, e che più si attagliasse ai nostri tempi, e quindi farne soggetto di comparizione. E invero il consiglio più pratico e direi il solo che vien dato è di ritornare alla signoria di un solo, che però si suppone savia, scientifica da corpi tecnici, e intenta solo al maggior bene delle moltitudini. Si fa presto a dirlo, ma anche di ciò abbiamo avuto saggi dolorosi. E a me pare veramente che sia da concludere col Principe Alberto che il governo rappresentativo è in prova, e che studiandone al lume della esperienza gli effetti, sia da tentare via via di correggerne le imperfezioni, e di renderlo veramente efficace e benefico a tutte le classi della società. Ma codesta è troppo ampia materia al mio assunto, il quale è d’investigare se possa intendersi un governo parlamentare senza partiti, e per conseguenza senza gli inconvenienti che da essi derivano. Ove ciò apparisse possibile, quivi sarebbe il rimedio assoluto, ed è perciò che l’indagine si chiarisce in questo luogo opportuna. Questa possibilità di sollevare il governo al di sopra dei partiti è vagheggiata da molti, e non solo nei casi straordinari, ma eziandio nei casi ordinari. E ciò spiega quel certo favore che accompagna sempre coloro che si presentano ai comizi o nelle assemblee un proposito di personale indipendenza, e una volontà risoluta di giudicare ed operare, in ogni singolo caso, secondo quello che stimano bene della patria, all’infuori di ogni partito.
E piglierò le mosse da un grande filosofo, il maggiore forse dei filosofi del nostro tempo, Antonio Rosmini, il quale non solo nella speculazione astratta, ma eziandio nelle indagini giuridiche e politiche mostrò acume d’intelletto, dirittura di guidicio, libertà di sentimenti, e piglierò il cap. 15 della Società e del suo fine nella Filosofia della Politica, là dove egli manifestamente invoca come ideale la fine dei partiti, e spera che possa conseguirsi mercé una sana educazione del popolo. E dice così: "Ciò che impedisce la giustizia e la moralità sociale sono i partiti politici. Ecco il verme che rode la società, che confonde le previsioni dei filosofi, che rende vane le più belle teorie. I partiti politici si possono riferire a tre origini, gli interessi materiali, le opinioni sostenute da antiche credenze e inveterate consuetudini, e le passioni... In qual modo adunque la civile associazione di difenderà dal pericolo dei partiti? Ecco uno dei più difficili problemi per l’uomo di stato, per la filosofia politica. Contro il pericolo predetto dei partiti che tolgano la calma ai governanti e ai governati sono proposti due espedienti:

1° Equilibrio dei partiti che si collidono. Sistema dell’antagonismo sociale.
2° Prevalenza di un partito sull’altro in modo che questo non abbia mai né volontà né potenza di ribellarsi. Sistema dell’assolutismo.

Il primo può bensì fare che la società non rimanga sacrificata alla balìa di un solo partito, ma non può mai appagar gli uomini, mantenendoli in uno stato d’irritazione. Inoltre se può esservi equilibrio per un certo tempo fra i grandi partiti (democratico, aristocratico, monarchico) non vi può essere fra i minori, che sono innumerevoli come gli interessi, le opinioni, le consuetudini. Finalmente chi può mantenere l’equilibrio dei partiti? o è un partito esso stesso, ed entriamo nel secondo espediente, o è un Ente al disopra dei partiti, e allora si dimanda qualche cosa di estraneo ad essi, il punto fermo di Archimede.
Né la società è meglio garantita nel secondo caso (e qui ne allega alcuni esempi). Vero è che un partito impossessatosi del governo acquista dal posto in cui si trova delle viste di giustizia e di equità che non aveva prima. Ma lasciando da parte la riflessione, che dee sempre trascorrere un poco di tempo prima che il partito cangiatosi in governo abbia preso le abitudini di giustizia e di moralità proprio dei governi, noi avremo allora un equo governo perché l’un dei partiti governa, ma perché un partito ha cessato di esser partito ed è diventato un equo governo. Inoltre le minorità a poco a poco si ordinano, s’infiammano e finiscono per rovesciare il partito dominante". La conclusione dell’autore è che i due mezzi sono inefficaci e che nessuna combinazione politica è sufficiente a guarentire stabilmente la società del cattivo effetto dei partiti politici. Rimedio solo è nell’impedire che nascano, colla sana educazione delle generazioni venienti.
Qui primieramente è da notare che l’autore definisce il partito così: "Col vocabolo di partito politico noi significhiamo un certo numero d’uomini che si associano espressamente o tacitamente per influire sulla società e farla servire al proprio vantaggio. Il partito ha per iscopo il proprio vantaggio non la giustizia, la equità, la virtù morale. Partito adunque ed equità, giustizia e virtù morale sono cose opposte". Ora se il governo della cosa pubblica non avesse altro criterio che la giustizia e la virtù, si potrebbe consentire coll’autore, imperocché due partiti in quest’ordine d’idee, non sono ammissibili. Ma il governo della cosa pubblica sotto la suprema regola del giusto e dell’onesto, ha un altro criterio ed è il più frequente, quello cioè dell’utilità pubblica. Pertanto se intorno all’utilità pubblica possono aversi idee diverse senza offendere la giustizia, non è così assurda l’esistenza dei partiti come parve all’autore. Ed invero per seguir l’esempio che dà egli medesimo non è egli agevole a comprendersi che altri favoreggi la democrazia, l’aristocrazia, la monarchia senza perciò offendere la giustizia e l’equità? per concludere a tal modo bisognerebbe prendere le mosse da più alta sentenza: che non vi è pensiero né atto meramente lecito, ma che tutti sono doverosi. Se il filosofo roveretano avesse posto mente a ciò, avrebbe inteso meglio la quasi impossibilità di togliere i partiti, e soprattutto non avrebbe definito il partito come una riunione di uomini aventi per unico fine l’interesse privato, e la potenza lor propria. Certamente se si prende le mosse da quella definizione, bisogna combattere a tutta oltranza l’esistenza stessa dei partiti, perocché sono il contrapposto del bene pubblico. Ma il problema, mi sia lecito dire, è mal posto. Imperocché tenendo pur fermo che in materia di giustizia non vi possono essere più partiti, ma posto che sulla utilità pubblica siano naturali e inevitabili le discrepanze di giudizio, come si può condannare una spontanea unione di uomini che si adoperi a conseguire il fine del bene generale qual è da loro inteso, e con mezzi legittimi? Così adunque dovrebbe porsi ragionevolmente il problema: con quali modi si può impedire che un partito si curi solo dell’utile privato, e si valga di mezzi non legittimi. Nicolò Macchiavelli lo aveva visto chiaramente laddove dice: "Coloro che sperano che una repubblica possa esser unita, assai di questa speranza s’ingannano. Vera cosa è che alcune divisioni nuociono alle repubbliche, ed altre giovano. Quelle nuocono che sono dalle sette e dai partigiani accompagnate; quelle che senza sette e senza partigiani si mantengono. Non potendo dunque provvedere un fondatore d’un repubblica che non siano nimicizie in quella, ha da provvedere che non ci siano sette... Le nimicizie di Firenze furono sempre con sette e perciò furon sempre dannose, né stette mai una setta vincitrice unita, se non intanto quanto la setta inimica era viva1". Per repubblica Macchiavelli intende sempre un governo libero, e per setta formata di partigiani quel che Rosmini chiama partito, cioè una accolta di uomini aventi per fine unico l’interesse privato e per mezzi la forza e la frode. Dove anche Macchiavelli giudica che le sette siano esiziali alle repubbliche, ma non le naturali divisioni; e conforme a questo concetto egli reputa che la disunione della plebe e del senato romano fece libera e potente la Repubblica2.
Certo è che per stare alla storia moderna, il medio evo ebbe sette anzicché partiti, sebbene anche nell’intimo senso dei Guelfi e dei Ghibellini si trovi un’idea morale; ma le passioni imperversavano, la violenza era stimata il solo mezzo per trionfare e l’odio e la vendetta rendevano le discordie implacabili. Il Burckardt nel suo bel libro del Rinascimento italiano afferma che in quell’epoca cominciassero a piegarsi i partiti, siccome noi li intendiano. Colla fine della libertà e colla formazione delle grandi monarchie e dei principati assoluti, i partiti vengono meno: anzi la stanchezza di loro iniquie opere fu una delle cagioni principalissime perché i popoli si volgessero ad un Principe. Nel secolo passato, quando dalla filosofia mosse di nuovo la scintilla che doveva accender negli animi il desiderio di uno stato libero, questo punto non si trova, per quanto è a mia notizia, esaminato da alcuno di quegli scrittori che s’immaginavano di ricostruire la società dai fondamenti. Essi volevano rifare al XVIII secolo Atene, e Sparta e Roma, e pur facevano astrazione dalle fazioni che avevano insanguinato quelle città, e forse l’essere cessato i partiti da due secoli aveva loro fatto obbliare intieramente questo pericolo. Solo il Montesquieu ne dà un accenno. "Le divisioni si pacificano più agevolmente negli stati governati a monarchia, perché il sovrano ha nelle sue mani una potenza coercitiva che riconduce i due partiti; ma in una repubblica sono più durevoli, perché il male s’attacca alla potenza stessa che potrebbe guarirle". Montesquieu vede nella repubblica (ed egli con questo nome intende come Macchiavelli ogni paese libero) un partito che s’impossessa della cosa pubblica, e quindi lungi dal far cessare la divisione ha interesse a tenerla viva, o almeno non può spegner l’altro: ma non va più oltre di questa semplice considerazione. Nell’Enciclopedia che raccoglie il fiore della dottrina francese del secolo scorso, trovi alla voce partito la definizione che segue: "Una fazione, potenza, o interesse, che si considera opposto ad un altro". Né Voltaire, né Rousseau che diedero come il vangelo alla rivoluzione francese, fanno motto della questione che ora ci occupa. Napoleone I trovò la Francia stanca delle fazioni e volle porsi sopra di loro, e le schiacciò come diremo appresso. In quel tempo il Burke formulava forse pel primo la teorica dei partiti come ho detto sopra, ma i francesi poco l’avvertivano. Più tardi gli scrittori più eminenti di diritto costituzionale come il Benjamin Constant e gli altri che lo seguirono appresso, non ne fanno quasi menzione, o almeno non veggono le difficoltà che potevan sorgere dal contrapporsi dei partiti e dall’alternarsi loro al governo.
Del Rosmini ho dato ragguaglio sopra: il Gioberti collega la questione delle parti colla dialettica e ne parla così: "Le voci di parte e di setta accennando disgiuntamente e rottura di un tutto, significano un non so che di privativo, di manchevole, il vizioso, e però nella buona lingua le parti e sette politiche si chiamano anche divisioni, quasi eresie speculative e scismi pratici verso l’opinione e unità nazionale. E invero ciascuna di esse rappresenta un solo aspetto dell’idea moltiforme che genere ed abbraccia compitamente il concetto ed il fatto, il genio e l’essere della nazione... E siccome nel lavorio dello spirito l’affetto ritrae dal concetto, elle sono rissose e non pacifiche, intolleranti e non conciliative, parziali e non eque, eccessive e non moderate, volgari e non generose, sollecite di se stesse anzi che della patria, e licenziose intorno ai mezzi per sortire l’intento loro. Tanto che assommata ogni cosa tengono più o meno del rovinoso e del retrogrado anche quando si credono progressive o conservatrici. Non si vuol però inferire che tutto sia falso nei loro dettati, o reo delle loro pratiche, perché se fosse, non potrebbero avere vita, credito e potenza. Ogni setta è l’esagerazione di un vero e di un bene parziale, nei quali sta il merito e il vizio, l’efficacia e l’impotenza loro, atteso che anche il vero ed il bene si corrompono ogni volta che trasmodano a pregiudizio di altri beni, e di altri veri... Le parti sono effetto della civiltà immatura, come le scuole della scienza primaticcia e manchevole; e quasi una reliquia dell’antica barbarie, ma migliorata. Nella barbarie il conflitto è violento e si spedisce colle armi... oggi per ordinario la pugna si esercita nel campo delle idee e dei maneggi, sostituendo il pensiero e la parola, e spesso l’arte e l’astuzia, talvolta anche i raggiri e la frode ai colpi e alla forza; il che è certo un notabile avanzo, imperocché la lotta ridotta a questi termini, se non è pacifica né generosa in se stessa, è pero men brutale e malefica per gli effetto. E, a mano a mano che la civiltà cresce, le parti si emendano, diventano più eque e tolleranti, più benevole e disposte agli accordi: passano dai libelli e dai conventicoli ai giornali e ai parlamenti: pigliano una forma più moderata e sincera: di private e spesso clandestine diventano pubbliche, di nocive utili; e si chiamano opposizione: la quale è in politica un progresso dialettico, e somiglia alla dissonanza artificiosa nella musica, alla critica, e all’obbiezione nella dogmatica e polemica dottrinale. D’altra parte esse vanno scadendo d’importanza e rimettendo di forze, per guisa che se la cultura potesse quandocché sia toccare il colmo, elle affatto si dileguerebbero. Ma siccome l’idea e la dialettica compiuta non possono raggiungersi che per via di avvicinamento; così il progresso della civiltà verso le sette, consiste nel migliorarle rivolgendole sempre più al bene, e rendendole meno attuose pel male ".
Sismondi nel suo bel libro delle Costituzioni dei popoli liberi, parlando del regime rappresentativo, pone in luce che ciò che costituisce la sincerità del governo libero si è che tutte le opinioni, tutti gli interessi possano essere schiettamente espressi, dibattuti, pesati; e nota che i deputati vengono al Parlamento recando i desideri, i bisogni di una provincia, di una città, di una classe, di una facoltà, di una professione: ma qui si ferma, e non esamina come questi deputati, secondo i desideri e i bisogni che rappresentato, tendano ad aggrupparsi e disciplinarsi nella forma di partito.
Fu presso ai Tedeschi che lo studio dei partiti pigliò un metodo e una forma scientifica. Teodoro Röhmer scrisse intorno a ciò un libro degnissimo di menzione6 che poi è stato da molti in parte copiato. Scrisse eziandio più tardi il Treitschke, e mirò ad esprimere i mali dei partiti, ma quegli che ha esaminato a fondo la questione più di ogni altro è il Blüntschli7 il quale che là dove è operosità di vita politica, ivi sorgono di necessità i partiti, giacciono invece dove il popolo è neghittosamente indifferente ovvero oppresso dalla violenza; di guisa che la mancanza di casi è degno d’inettitudine o di oppressione, la esistenza loro di vitalità e di gagliardia.
I partiti politici, secondo il Blüntschli sono dunque tanto più vigorosi quanto la vita politica è più ricca e più libera. La storia della repubblica romana, lo svolgimento della monarchia inglese e dell’Unione americana non si spiega altrimenti che col conflitto dei partiti. Le rivalità loro, e gli sforzi generano le migliori istituzioni politiche e traggono in luce forze che prima eran nascoste. Laonde non bisogna credere, come certe anime timide, che i partiti politici siano una debolezza, e una malattia dello stato moderno: imperocché sono al contrario argomento di vita sana e forte. Il non appartenere ad alcun partito non è punto virtù del cittadino, e il dire di uno statista che è estraneo ai partiti non è lode, ma biasimo. Però giova notare che partito come dice il vocabolo stesso, è frazione di un tutto, per la quale cosa non può senza orgoglio ed usurpazione prendere il luogo dello Stato. Esso può combattere gli altri partiti, ma non gli è lecito finger d’ignorare l’esistenza loro né sforzarsi di distruggerli. Solo nelle monarchie v’ha un uomo che deve rimanere al di fuori e al di sopra dei partiti, ed è il Re. A lui spetta accordare a ciascun di essi protezione e tutela nei limiti del diritto comune, e tenendo conto del corso mutevole dell’opinione pubblica, accogliere nei consigli del governo quel partito che meglio la rappresenti. Però il partito non dee confondersi colla fazione. Questa ne è la degenerazione e il corrompimento, e riesce perniciosa allo Stato quanto il partito gli è utile. Avvegnacché ciò che distingue il partito nel vero e legittimo suo senso è che esso non esclude gli altri partiti, ed ha un intento politico il quale è in accordo coi fini dello Stato: ma diventa fazione quando sottopone il tutto alla parte, gl’interessi dello Stato ai propri. La fazione è l’egoismo che trionfa e usufrutta lo Stato a proprio vantaggio. Il partito ha sempre due interessi, uno particolare ed uno generale come ogni cittadino come ogni corporazione: ma deve sottoporre l’interesse particolare all’interesse generale. Sicché può dirsi che il partito diviene fazione, e la fazione diviene partito per inversione dei poli, secondocché vi prevale l’interesse generale o il particolare.
Queste cose aveva scorto anche il Balbo chiaramente:" Le diverse opinioni sullo Stato sono dapertutto. Ma sotto ai governi assoluti non si possono esprimere legalmente e quindi si producono le fazioni che sono appunto le parti non legali. E le fazioni poi diventano congiure, sette, società segrete, tumulti di palazzo, e di piazza; sventure tutte e vergognose nazionali. All’incontro quando le opinioni diverse sullo Stato possono esprimersi, ed aspirare al governo legalmente, esse da fazioni diventano parti politiche legittime, legali, virtuose, onorevoli, e talora gloriose, utili allo Stato." Codeste considerazioni del Balbo come quelle del Blüntschli che ho riferito, sono atte a rispondere in gran parte alle cose dette dal Rosmini, mediante la distinzione fra partito e fazione che è pur quella intraveduta dal Macchiavelli; solo vuolsi aggiungere che è facile il trapasso dall’esser di partito a quello di fazione, e per conseguenza la trasformazione di un organo le cui funzioni, secondo gli autori menzionati, sono utili alla sanità del corpo intero, in un fomite di malattia che lo corrompe e lo dissolve.
Nel libro medesimo di che ho parlato sopra, il Blüntschli viene investigando le origine dei partiti, e li divide in sei classi. Quelli che attingono i loro principi ad una confessione religiosa, mescolando l’ecclesiastico ed il civile, some sarebbe il partito clericale o protestante; ovvero che s’appoggiano sopra interessi territoriali o regionali, per esempio un partito del settentrione e del mezzodì, e questi sono assai pericolosi. Già Washington aveva detto: prendete guardia di non distinguere i partiti dalla postura geografica. Quelli che hanno origine dagli interessi di classe e li rappresentano, come era nei secoli scorsi la nobiltà, il clero, il terzo stato; di che anche la Germania odierna ci dà un esemplare nei così detti Junker o feudali, e tale sarebbe anche un partito di operai che sorgesse: e codesti parimente sono funesti. Imperocché normalmente i partiti debbono aggregarsi per idee politiche, non solo astraendo da confession religiose, da territorio o da regioni diverse del paese, ma eziandio da ordini distinti nella società. Segue la classificazione dei partiti secondo i principi costituzionali, e qui ci si parano innanzi quelli che prendono nome dalla forma del governo, monarchici o repubblicani, unitari o federali, accentratori o decentratori. Queste divisioni ebbero ed hanno la ragion d’essere loro nelle grandi questioni sulla costituzione degli Stati che da un secolo agitano il mondo; ma è evidente che una volta costituito lo Stato in una data forma, e assicurata la sua durata sopra solide basi, debbono scomparire. Io però osserverei al Blüntschli che per quanto una costituzione sia assodata, pure vi sarà sempre una tendenza o all’accentramento o al decentramento, ad unità o a federazione, a dare al monarca un potere più forte ed efficace, o a pareggiarlo al presidente di una repubblica; e siffatte tendenze senza essere la sola bandiera dei partiti, ne saranno pur nondimeno uno degli amminicoli importanti. Il quinto modo di aggrupparsi è come partito governativo e partito di opposizione. E’ il modo antico inglese onde si poté dire che nella costituzione della Gran Bretagna è sempre un partito quello che governa. Il fatto è che entrambi i partiti, whigs e tories tennero a vicenda e secondo l’indirizzo della pubblica opinione, il governo della cosa pubblica, e che per conseguenza ogni partito diventò a sua volta ministeriale e di opposizione. Ed era questo l’ideale che si formava il nostro Balbo, cioè due partiti sole quelle del ministero e quella dell’opposizione. Però il Blüntschli avverte al duplice pericolo; dell’opposizione sistematica che recalcitra anche ad intenti che in cuor suo giudica buoni, e del partito governativo ad oltranza che non ha altro fine fuorché di sostenere il ministero, ed è composto da impiegati o da uomini inclinati a servire l’autorità qual che ella sia e in qualunque forma; i quali però sono a lungo andare per i ministeri un debolissimo appoggio, e talora eziandio un pericolo. L’ultima forma che il Blüntschli chiama la più pura e la più elevata è quella che facendo astrazione dalla religione, dalla classe, dalla regione, dall’interesse, s’informa a principii veramente politici e che accompagnano sempre lo svolgersi dello Stato libero. Così fu gran progresso per l’Inghilterra quando i whigs s’intitolarono liberali, i tories conservatori, lasciando da parte la tradizione, e fondandosi sui due elementi di conservazione e di progresso che sono entrambi essenziali alla vita di una nazione.
Il Blüntschli dà il tipo di quattro partiti di cui due sono normali e gli altri due ne sono per così dire l’esagerazione e cioè il partito liberale, e il partiti conservatore, indi il partito radicale ed il retrivo. E non alieno dall’accogliere la comparazione del Röhmer che paragonava il partito radicale alla infanzia, il liberale alla giovinezza, il conservatore alla virilità, il retrivo alla vecchiaia. A me duole di non poter intrattenermi nell’esame delle idee che ogni partito vien formandosi sulla nozione e la forma dello Stato, sul concetto di diritto, di libertà, di nazionalità, infine sulle questioni economiche. Ma in ciò egli era già stato preceduto dal Gioberti, che rispetto all’Italia aveva diviso i partiti in democristiano, conservatore, puritano e municipale con poca differenza dalle quattro categorie adottate dal Blüntschli: l’uno e l’altro augurando che conservatori e liberali si alleassero, ed escludessero gli estremi. Ma io mi dilungherei troppo dal pensiero fondamentale di questo capitolo che vorrebbe indagare la possibilità di un governo libero che non sia di partito.
Pertanto parmi di poter da tutte le cose sopra esposte indurre le proposizioni seguenti. E’ inevitabile che nei governi liberi si generino opinioni diverse non tanto sul fine che è la prosperità e il miglioramento dei cittadini, quanti sui mezzi più acconci a raggiungerlo. Ho già toccato delle differenze naturali che si riscontrano negli ingegni, nelle tradizioni, nell’ambiente in cui ciascuno fu educato, soprattutto negl’interessi. E ho mostrato che coloro che concordano nei concetti principali, relativi alla condotta della cosa pubblica, sono sospinti naturalmente a riunirsi insieme, ed a congiungere i loro sforzi per far prevalere i pensieri che hanno comuni. Da ciò la origine del partito. Sembra difficile concepire nei paesi liberi uno andamento diverso. Piuttosto si potrebbe dire, allargando il nostro esame, che ciò avviene non solo nella politica, ma eziandio in ogni altra parte della vita scientifica e civile. Persino la teologia non ne va immune, se consultiamo la storia. Vero è che la Chiesa cattolica ha sciolto il problema delle spegnimento dei partiti collo stabilire un’autorità ultima e suprema che definisce in modo infallibile i punti necessari alla eterna salute (o essa risieda nel Concilio presieduto dal Pontefice, come molti credevano un tempo, o nel Pontefice solo quando pronunzia ex Cathedra come oggi s’insegna): ma ciò presuppone una perenne ispirazione dello Spirito Santo, che non ha difetto mai quando si tratta delle cose essenziali alla Fede. Se non che, in fuori di questa ristretta cerchia, anche la teologia cattolica ha molte materie nelle quali una certa varietà di giudizi è permessa e, come dice Sant’Agostino, intorno ad esse vuolsi lasciare ai fedeli la libertà8; e quindi nasce la discrepanza di talune opinioni anche fra i più ortodossi. Or questa discrepanza che è se non il principio del partito? Ma presso i protestanti che non hanno questa autorità infallibile, i partiti sono molti e ardente, i quali manifestano nelle varie lor confessioni tuttocché abbiano una credenza comune nella divinità della Bibbia.
Lo stesso accade nella scienza in quella parte almeno che non è dimostrata in modo assoluto, e rimane opinabile onde la filosofia antica e moderna fu divisa in scuole: e così la medicina, l’economia, la legislazione e persino, secondo Macaulay, le scienze fisiche, e le matematiche. Invero questo concetto piò rannodarsi ad alcune leggi generali che regolano la natura fisica e morale. E risalendo sino ad Empedocle a chi non è noto che la sua filosofia poneva nella discordia il principio creatore e conservatore del mondo? Donde i versi del poeta che attribuisce all’amore il principio della dissoluzione

... io pensai che l’universo
Sentisse amor: per lo qual è chi creda
Più volte il mondo in caos converso. 

La quale teorica variante trasformata si trova sparsa in tutti i filosofi dell’antichità e del medio evo sino ai moderni, fra i quali Hegel sentenziò che la contraddizione è il ritmo della vita dello spirito. Gli stesso positivisti odierni non si discostano da un’idea analoga, avvegnacché dicono che l’unità non si estrinseca che per la diversità: ed i Darwiniani da una o più cellule primitive fanno evolvere tutte le specie. Finalmente l’Herbert Spencer fonda la sua dottrina in ciò che dall’omogeneo semplice ed indefinito erompe l’eterogeneo complesso e definito.10 Il che in sostanza non è che un riconoscere come legge di natura il contrasto che precede e fa luogo all’armonia. Ma lasciando queste speculazioni, e venendo alla politica, nessuno potrà maravigliarsi che se si trova la divisione ed il partito nella scienza e nell’arte, là dove si tratta d’interesse che toccano ciascheduno da vicino, quivi eziandio si manifesti.
Ma le sue gradazioni sono diverse. Anche nei reggimenti meramente consultativi il partito fa sentirsi, e l’opinione della maggioranza finisce per avere un predominio, però con azione lunga che procede inosservata, e spesso interrotta. Nei governi prettamente costituzionali come la Germania e l’Austria-Ungheria, lo influsso dei partiti è maggiore, ma non sempre decisivo, e rimane contrappesato, talvolta dal volere del sovrano, talvolta dalle tradizioni burocratiche, o dallo spirito militare. Nei giorni parlamentari è massimo. perocché l’assemblea non solo ha potestà di far leggi e sindacare la condotta quotidiana dei ministri, ma la sua espressa fiducia è per essi condizione vitale, comecché la scelta loro appartenga al Principe. Dall’altra banda è di sommo rilievo considerare che un’assemblea non potrebbe far opera efficace e perseverante se non è organizzata, e se per conseguenza non v’ha chi sappia e possa dirigerla; or spronandola, or frenandola; sicché è mestieri che abbia capi riconosciuti, ed una maggioranza loro fedele.
Citano taluni ad esempio Napoleone I, e dicono che egli aveva fondato uno Stato moderno civile, con assemblee deliberanti, e che nondimeno la massima fondamentale dell’esser suo era il soprastare ai partiti. Imperocché secondo la sentenza fa lui proferita al Consiglio di Stato, governare con essi è lo stesso che mettersi in loro Balìa. Io non mi piegherò mai, aveva egli detto, a tale servaggio, e voglio giovarmi di tutti coloro che hanno ingegno e non rifiutano di meco procedere.11 Certamente quando Napoleone raccolse in sua mano la somma delle cose, i partiti s’erano dilaniati sì crudelmente, e avevano immolato ai loro insani furori tante vittime, e così profondamente perturbato tutta l’amministrazione pubblica, che s’era ingenerato nel popolo un cordiale odio contro di essi. Cosicché al giovane corso già famoso per le vinte battaglie, e pei felici negoziati coi potentati stranieri, tutti si rivolsero come a salvatore, affinché pigliasse la grande impresa di pacificare gli animi, e di riordinare lo Stato. E così avviene ed avverrà sempre, se i partiti dimentichi del fine come cioè dell’utile pubblico, si lacerino per motivi d’interesse o di rancori privati e anche se le pugne loro imperversino in guisa da togliere al cittadino la sicurezza degli averi e della persona. Allora i diritti politici appaiono agli uomini piuttosto un pericolo che un privilegio, ed essi sono pronti a farne gitto in favore di chi porge loro in cambio la quiete e l’ordine. Così avvenne di napoleone, e vi si aggiunge il suo genio singolare, e maravigliosamente atto ad intendere gli istinti popolari e le condizioni del tempo in cui visse. Né la sua fu tirannide a solo profitto e gloria dell’Imperatore, né fu governo paterno che si trascinasse sulle orme del passato pur di non offendere troppi interessi; ma fu dittatura acclamata dal popolo francese per introdurre nelle leggi e negli istituti pubblici tutto ciò che lo spirito moderno aveva immaginato di più nobile e di più vantaggioso per l’universale. E a lui invero si appartengono i codici, e l’ordinamento della magistratura giudiziaria, e quello dell’amministrazione in ogni sua parte, a lui la regola e la severità della finanza, a lui l’Università, e lo svolgimento grandioso dei lavori pubblici. Cosicché non a torto, nonostante il suo furore guerresco, egli poté dire, parlando un giorno al Consiglio di stato, che sino al suo secolo due potestà sole s’eran vedute nel mondo, la militare e la ecclesiastica; e ch’egli intendeva ora costituirne una terza, cioè la potestà civile.12 Ma questa costituzione e le riforme in ogni parte della cosa pubblica da lui prendevano le mosse, non dal libero dibattito di rappresentanti del popolo. La sua macchina si muoveva per tre ruote: il Consiglio di stato che, sotto l’indirizzo dei suoi suggerimenti, edificava il tempio delle leggi, il Corpo legislativo al quale dette leggi eran poste innanzi; ed esso senza alcuna iniziativa propria le accettava; e infine il Senato, corpo meramente destinato a conservare la costituzione e gli ordini pubblici. Il tribunato, comecché avesse tarpate le ali, non poté durare, e fu casso, perché ogni opposizione ancorché lieve pareva intollerabile: così era perseguìta la stampa e ogni manifestazione che si discostasse dai suoi intendimenti: tanto che ben può dirsi che il governo napoleonico fu un governo ampiamente consultativo e anche democratico, ma non un governo libero, perché padroneggiava sopra tutti e sempre la volontà di un solo, quale ogni cittadino doveva inchinarsi.
E qui mi accade di fare una osservazione. Se il governo napoleonico era arbitrario in politica, e non ammetteva contraddizioni, però in materia di giustizia e di amministrazione era ordinariamente severo ed imparziale. E ciò spiega il gran favore che accompagnò l’opera sua interna, e quella tradizione che rimase generalmente della bontà degli ordini napoleonici, che noi abbiamo udito decantare per tutto il tempo della nostra giovinezza. Eppure il popolo francese non poté appagarsi lungamente di quella forma di governo; e lo provano due cose, l’una che Napoleone stesso riconoscendo i pericoli di un’autorità illimitata, meditava anche nell’apogèo della gloria, di porre freni a’ suoi successori, affinché se non abusassero, l’altra che egli medesimo al ritorno dall’isola dell’Elba stimò coll’atto addizionale, dare una costituzione sul modello inglese. Né avvenne diversamente a Napoleone III, il quale dopo molti anni di governo assoluto, sentì la necessità di ridonare alla nazione molti dei diritti che egli aveva in sé raccolti, e di porre la piena autorità, sebbene i plebisciti l’avessero in lui più volte confermata. Quel governo adunque, che usa chiamarsi oggidì cesareo, dura ed ha gran forza sino a che si tratta di liberare uno Stato dall’anarchia, e di riordinarlo, o di conquistare territori, e potenza nel mondo: ma quando per l’efficacia sua propria ha ottenuto il primo fine, e le circostanze gl’impediscono di raggiungere il secondo, subito nasce nei popoli il desiderio di partecipare maggiormente alla cosa pubblica. Sicché questa dittatura ci apparisce piuttosto come un freno temporaneo e riparatore, che come una forma stabile e ordinata di reggimento.
Altri pigliando le mosse da ciò che noi abbiamo toccato sopra, cioè che nel governo costituzionale la pugna dei partiti sia men cruda, e i danni loro men gravi in raffronto al governo parlamentare, opinano che convenga tenersi stretti al primo e non lasciarsi trascinare al secondo, o tentar di ricondurvisi una volta disviati. Ma, prima di tutto, se è vero che molti difetti si accrescono e spiccano maggiormente colla forma parlamentare, però è da riconoscere enziandio che ne esistono i germi anche nella forma costituzionale la più ristretta. E veramente in Inghilterra l’una ha surrogato l’altra a poco a poco, ma il mutamento s’è compiuto propriamente durante il regno della Regina Vittoria. E nondimeno anche in antico i partiti c’erano, e ferventissimi, anzi più inframettenti che non siano oggi. E la Germania similmente, che è uno Stato prettamente costituzionale, ha già avvertito quei pericoli onde abbiamo discorso, e s’è messa a studiarne il riparo con quell’alacrità ed acutezza che è propria del genio di quella nazione. E inoltre una volta che il passo della forma costituzionale alla parlamentare è fatto, riesce difficile revocarlo. L’Italia s’è, per dir così, ricreata in quest’ultima forma, e sarà già grande merito se saprà tenervisi ferma, senza scender anche più in basso: voglio dire che ciascuno dei tre poteri, il Re, il Senato, e la Camera elettiva conservino i loro diritti e li esercitino con fermezza. Imperocché pur troppo veggiano i sintomi di una degenerazione; la quale consiste nella tendenza di annullare le prerogative della Corona, nello irritarsi al ogni opposizione del Senato e volerne sforzare, e finalmente nell’atteggiarsi dei ministri quasi ad agenti e commessi dell’assemblea elettiva. Dico che questa è una degenerazione, e rende il governo monarchico peggiore della repubblica, soprattutto là dove il presidente è eletto dal popolo, perché ivi almeno la potestà esecutiva ha una intonazione e una vigoria sua propria, indipendente dai voleri mutabili e spesso capricciosi delle assemblee.
Tuttavia vi sono stati alcuni che hanno immaginato possibile il governo parlamentare senza partiti, e di questi anche recentemente a mia notizia due, uno inglese W. Thornton ed un altro americano A. Stickney, dei quali per esaurir l’argomento mi è d’uopo tener parola.
Lo Thornton prende le mosse precisamente dall’Italia, la quale offre a parer suo uno spettacolo miserevole, colla vicenda continua dei ministeri; onde l’amministrazione rimane incerta o perturbata e manca nella condotta della cosa pubblica ogni legame di tradizione e coerenza. Questa idea era già stata, in generalità, accennata dal Laveleye, il quale avrebbe voluto che qualche dicastero, come quello della guerra, dell’istruzione, dei lavori pubblici fosse retto da amministratori tecnici e permanenti. Questi sarebbero venuti una volta l’anno a difendere il bilancio dinanzi all’assemblea, e senza assoggettarsi a mutazioni ministeriali d’indole politica, avrebbero rinunziato all’ufficio sol quando vi fosse una ragione tecnica o di personale responsabilità. Di ciò avrò l’occasione di parlare in altro capitolo che riguarda i rimedi. Ora seguitando l’inglese, questi prende le mosse dal concedere che in ogni assemblea, per quanto i suoi componenti siano per singolo indipendenti, vi sono di necessità due andazzi di pensiero, l’uno favorevole, l’altro avverso alle innovazioni. Ma egli vorrebbe che i ministri sapessero acconciarsi sempre alla maggioranza della Camera, e fossero per dir così gli esecutori della sua volontà, senza tenersi punto obbligati a licenziarsi per un voto contrario, salvocché questo implicasse una censura diretta ovvero una mancanza di fiducia espressa contro la rettitudine o l’abilità del ministro. Similmente rallentando i vincoli che uniscono i membri di un gabinetto, e dando a ciascheduno una maggior padronanza e scioltezza di azione nel dicastero proprio, sì avrebbero per avventura e, anche di rado, mutazioni di un ministro, ma non mai di tutti insieme, e cesserebbero quelle perturbazioni che oggi si lamentano.
Qui prima di tutto è da osservare che il ministero secondo questo ideale, non dee mai avere un piano proprio di buon governo, mai nessuna fede o presunzione ferma, ma in ogni cosa sottomettersi alla opinione della maggioranza e non solo sottomettersi ma farsene esecutore. In secondo luogo ogni ministro qui procede per la sua via senza curarsi del nesso che costituisce l’indirizzo generale della politica. Infine si dà alla assemblea elettiva una potestà illimitata, di modo che il Senato e la Corona divengono quasi un fuor d’opera. Essa sola decide, ma in tal caso i danni di una Camera unica, la quale dispone di tutto, son tanto gravi da fare di questo governo non un tipo di bontà, ma un principio di disordine. Imperocché un’assemblea, per quanto eletta, è sempre moltitudine, quindi non può né ideare né tampoco seguire un piano ben congegnato se altri non la guidi e non gli mostri un fine alto, e i mezzi per giungervi, e non la costringa talora coll’autorità di una meritata fiducia, a non disviarne. E se fra i ministri v’ha chi abbia il fermo convincimento di alcune verità, come potrà patire di essere semplice strumento dell’assemblea? Vi si acconceranno per avventura i mediocri, non color che sentano di avere tanto ingegno da guidare altrui. Laonde il disegno di che parliamo muove da idee confuse e si mostra impraticabile: in ogni caso si risolverebbe in una cattiva repubblica, privata di un elemento importantissimo qual è il presidente eletto dal popolo.
La vera repubblica: tale è il titolo, tale lo scopo dello scrittore americano, il quale dopo aver deplorato le condizioni della sua patria, e mostrato i funesti effetti della divisione dei partiti, propone che si esca una buona volta, e per sempre dal presente stato di cose. Il quale a suo avviso produce tre effetti disastrosi: il primo che gli uomini non sono chiamati a fare ciò che meglio saprebbero e potrebbero; il secondo che quand’anche siano chiamati ad un ufficio i più adatti non si può ottener da loro il massimo di opera utile: il terzo che la corruzione penetra da per tutto e tutto guasta e conduce a rovina. Già ne levai alcuni saggi nel capitolo secondo, e fu codesto libro che mi porse alcuni esempi spaventevoli della partigianeria che imperversa negli Stati Uniti. Ad evitare questi mali egli propone in primo luogo che ciascun impiegato pubblico sia destinato ad una sola qualità di lavoro, e debba compierlo nel modo più assiduo, efficace, e produttivo possibile. A tal fine è mestieri che il suo ufficio non sia a tempo (come è oggi in America) ma permanente, e che cioè duri finché egli rende buon servigio. Indi che la sua nomina non venga dal popolo (come di presente) ma dai suoi superiori conforme certi titoli prestabiliti, finalmente che i superiori stessi abbiano la potestà di rimuoverlo, se fa male. Fin qui si tratta di riordinare i dicasteri secondo il sistema europeo. Segue che alla cima di tutti questi officiali pubblici sia un Capo del potere esecutivo, eletto dal popolo, ma anch’egli a vita, e responsabile di tutto l’andamento dell’amministrazione verso l’assemblea di che diremo or ora: che in disparte da questa gerarchia esecutiva, vi sia un corpo di giudici, sia pur questo eletto dal popolo, ma stabile anzi inamovibile: che la potestà sovrana infine risieda in un’assemblea, cui spetti far le leggi, decretar le imposte, e finalmente rimuovere qualunque impiegato esecutivo compreso il capo dello Stato, e i giudici medesimi, quando nella medesima sentenza concorra una maggioranza di due terzi dei voti. Ma l’assemblea non avrebbe né facoltà di nominare impiegati, né ingerenza sulla nomina loro, né azione diretta sulla amministrazione, ma solo un alto sindacato. I membri di quest’assemblea sarebbero anch’essi a vita, non a tempo, e rimunerati in guisa da poter dedicare tutta l’opera all’ufficio loro, senza darsi pensiero di future elezioni.
La nomina degli ufficiali pubblici, fatta a vita e non a tempo, fatta dal superiore e non ad elezione di popolo, fatta secondo certe regole che stabiliscono i titoli della idoneità che si richiede ad occupare un dato posto e non a capriccio; tutto ciò, come dissi, è già in Europa. E sebbene abbia qui fornito occasione ad accuse infinite e gravissime contro quello che chiamasi spirito burocratico, nondimeno io credo che il nostro metodo sia di gran lunga migliore dell’americano, dove si tramutano e si rinominano tutti o molti impiegati al mutarsi del presidente. E’ chiaro ed è dimostrato dall’esperienza che quel metodo fruttifica la più ampia messe immaginabile d’interessi partigiani, ed è giustamente accusato di convertire la carriera dei pubblici impiegati in un lotto, mentre lo Stato ne ritrae il servizio minore e men buono. Ma quand’anche il sistema europeo fosse introdotto in America, certo non sarebbe sciolto interamente il problema. Di che fanno testimonianza i nostri continui lagni. Quanto al capo dello Stato nominato a vita sarebbe questa una specie di monarchia elettiva, con tutti i difetti che furono in essa riconosciuti dall’esperienza, e che resero questa forma di governo la meno sicura e la meno desiderata dai popoli. Avvegnacché la natura umana è così fatta, che il presidente a vita o il monarca elettivo abbia un grande stimolo a perpetuare la potenza e gli onori nella propria famiglia, e cospiri sempre a convertire la propria dignità in ereditaria. Né gli riesce difficile il conseguirlo, se fu benefico e glorioso, anzi quanto maggiori sono le sue qualità tanto più il suffragio popolare lo spinge a porsi al di sopra della costituzione. Che se è mediocre e fiacco non potrà osar tanto, ma si studierà di arricchire la famiglia e i favoriti, come dimostrano infiniti esempi storici, e il così detto nepotismo n’è un commentario perpetuo. Né più lodevole è quell’assemblea sindacatrice, la quale per l’una parte non dà indirizzo alcuno alla politica interna ed esterna, e per l’altra non attinge mai nelle elezioni rinnovellate le forze vive dalla pubblica opinione. Dal giorno che i suoi membri sono eletti, essi per dir così si distaccano dal popolo che solo potrebbe loro infondere succo e sangue, e ne permangono separati; ond’é assai presumibile che non partecipino alle mutazioni dei pensieri e dei sentimenti generali; e un bel giorno si sentano in tutto staccati dalla nazione. Si dirà che le elezioni avverrebbero per morte, ma è troppo lento questo succedersi, per corrispondere al voto della democrazia. E quanto al sindacato dei pubblici ufficiali, dove quest’assemblea effigia per dir così l’antico costume dorico, svoltosi nel collegio degli efori, sarebbe assai raro il caso di rimozione del capo del potere esecutivo, e di altri impiegati, non solo perché occorrerebbero due terzi dei voti della assemblea, ma perché il presidente della repubblica colla sua autorità vitalizia e coll’influsso che necessariamente accompagna le aspettative lunghe, eserciterebbe una influenza stragrande sopra i membri dell’assemblea. E forse si formerebbe fra loro una specie di compromesso, pel quale ciascheduno vorrebbe vivere la vita quieta, senza troppo brigarsi del rigoroso adempimento dei propri doveri. Cosicché questa forma di governo che non mi par nuova, perché almeno in parte si è veduta nell’antichità, e non ha fatto buona prova, potrà chiamarsi, se così piace al suo autore, la vera repubblica, ma non è un vero governo libero.
Finalmente a prova della possibilità di un governo libero senza essere governo di partito, si additerà qualche cantone della Svizzera, dove nel Consiglio di stato, che è la potestà esecutiva, si trovano riuniti uomini di opinioni diverse anzi opposte. Il che avviene per effetto del modo della elezione, la quale non viene dall’assemblea ma direttamente dal popolo. E così manca uno dei cardini del sistema parlamentare, cioè che il potere esecutivo non possa reggersi che sostenuto dalla fiducia dell’assemblea elettiva. Ma oltre a ciò, due cose sono a notare: l’una che questa convivenza di uomini che professano idee opposte non è utile ai pubblici servigi, l’altra che se dura nei tempi ordinari, vien meno e si spezza tosto che sorge una questione importante. Ed anche così come quel Consiglio si trova composto, lungi dal cooperare schiettamente con tutte le forze al comune fine, i membri di esso si astiano, e ne nasce un palese contrasto che rallenta l’andamento regolare degli affari, ovvero una guerra sorda che lo arresta.
Adunque sembra che nella condizione presente delle cose, e nella forma costituzionale e più ancora nella forma parlamentare, la esistenza e la vicenda dei partiti sia inevitabile. Dico nella condizione presente delle cose, perciocché io non intendo di pronunziare qui un giudizio assoluto e perpetuo. Passato è il tempo nel quale di certe proposizioni generali si facevano del’idoli dinanzi ai quali non restava altro che chinar reverenti la fronte, come quelli che dovevano regnare in ogni plaga di paese ed in tutti i secoli. A me è d’avviso che quel credo, che fu con tanta passione difeso dagli scrittori liberali della prima metà di questo secolo, meriti di esser riveduto e notevolmente corretto; non già che ne restino parti importantissime confermate dalla esperienza, ma del sicuro altre svaniranno o perderanno di loro importanza. Che se mi fosse lecito far conghietture sull’avvenire, direi che il progredire della scienza e della civiltà dee restringer la cerchia dei partiti, ed attenuarne i dissensi. Imperocché mano a mano che una verità è stabilita in modo indubitato, questa vien sottratta alla parte opinabile, e tutti si accordano intorno ad essa. Così per esempio dal giorno che si è riconosciuto non esser lecito sforzare la coscienza dell’uomo, e le sue credenze dover esser sottratte alla inquisizione punitiva, i delitti di religione sono stati cancellati dai codici, e non è più luogo a conflitto sulla tolleranza dei culti13 . Similmente, per cercare un altro esempio in materia al tutto diversa, le questioni monetarie poterono far parte dei programmi di partito in Inghilterra, e secondo l’uno o l’altro se ne diedero soluzioni diverse: ma noi abbiamo veduto un ministero conservatore qual era quello di lord Beaconsfield scegliere senza esitazione nelle file del partito liberale un uomo competentissimo, qual era il Goschen, sicuro che egli rappresentava schiettamente anche le proprie idee.
E un’altra prova di questo menomarsi della distanza fra i partiti, la rinvengo eziandio in Inghilterra e la deduco da questo fatto frequente, che spesso un partito combatte, impedisce, ritarda le proposte dell’altro, e poi viene esso stesso a dar loro l’ultima mano e ad eseguirle; come fu il caso dell’emancipazione dei cattolici, della libertà dei commenti, della riforma elettorale che messe innanzi dal partito whig furono poi recate in legge ed attuate dal partito tory. E che altro significa ciò, se non che una quantità di soggetti cessano di essere disputati, certe nuove forme sono da tutti accettate come rispondenti alla pubblica opinione, e lo stesso indirizzo politico non è più diametralmente opposto? Per usare il linguaggio dei matematici, l’angolo di divergenza fra i due partiti s’è fatto ognora minore, e non solo un partito non si vergogna di prendere dall’altro alcune idee, ma stima ciò esser suo debito e sua gloria. Finalmente anche i Parlamenti si dividono non più in due parti soli, ma in un maggior numero, quasi gradazioni, e sfumature, per le quali si passa dall’uno all’altro. Ora queste stesse gradazioni e sfumature provano che la differenza nel programma delle due parti non è più così recisa, e così molteplice com’era altra volta, ma che s’è formato un certo raccostamento di opinioni fra loro. Ho detto sopra che la tendenza scientifica del nostro tempo produce l’effetto d’introdurre l’elemento tecnico in ogni parte della cosa pubblica; e l’elemento tecnico è il contrapposto dell’elemento politico, e quanto più quello prevarrà tanto più questo restringerà la sua efficacia, se pure non si trovi come in meccanica una risultante delle due forze. Ad ogni modo è da credere che nell’avvenire non sarà possibile chiamare al ministero di agricoltura una maestro di musica, o a quello di marina un avvocato.
E similmente lo svolgersi della civiltà e la mitezza del costume non concederà più certi rancori, e certe violenze, che in nome del partito, erano altra volta nobilitate. I dissensi diverranno men aspri, le discordie meno stridenti, e fra i due campi si disegnerà un terreno neutrale, dove sarà più facile lo incontrarsi, senza venir meno alla dignità del carattere. Ma intanto, se vogliamo esser pratici, fa mestieri considerare le cose quali sono al presente. Laddove è libertà di opinioni politiche, laddove la maggioranza decide le questioni, udita la discussione in contraddittorio, ivi convien rassegnarsi ad avere un governo di partito. Suppongasi pure che ciascun partito si proponga egualmente per fine il bene della patria, ma i modi di conseguirlo sono diversi, secondo i principi donde l’uno e l’altro han preso le mosse. E ciò posto, è mestieri sopportare questi inconvenienti, che sono per così dire inerenti a tale costituzione. Ma poiché altri e più gravi mali sono evitabili, fa d’uopo rivolgere attento lo studio ai mezzi di por freno a questi e di prevenirli, o quando già esistono di estirparli. Né le difficoltà del tema devono spaventare alcuno dall’affisarlo perché, come ho detto altrove, si tratta o di consolidare le istituzioni sicché elleno siano amate e difese dal popolo, ovvero di cadere in quella specie di scetticismo politico che è il terreno più acconcio alle minoranze audaci per mettere a soqquadro lo Stato, e precipitare la nazione in un mare di guai.

 

DEI RIMEDI

Troppo spesso avviene che gli uomini vedendo i mali che nascono dagli ordinamenti ond’è retta la civil compagnia nella età loro, e non sentendosi da tanto di emendarli, sono tentati per disperato di mutarli di pianta, laddove se guardassero anche ai mali che da altri ordinamenti derivano, tempererebbero d’assai i loro mutabili ardori. Il vero è che il filosofo che studia le varie forme di governo, quando s’incontra nel governo costituzionale, e soprattutto nel governo parlamentare, dovrà porre i difetti che abbiamo sopra accennati, e non sono i soli, sull’uno dei piatti della bilancia, ma dovrà anche contrappesarli nell’altro piatto coi vantaggi, e se questi danno il tratto, pronunzierà favorevole la sentenza. E pur divisando i rimedi agl’inconvenienti che vengono dal governo di partito, dovrà rassegnarsi a sopportarne parecchi, perché nel consorzio umano è vano sperare di aver tutto netto e senza difetto. Le quali cose si attagliano non a questo solo capo, ma ad ogni altra istituzione. Imperocché la migliore non sarà mai tale da assicurare ogni bene, e impedire ogni male; ma sarà quella che, in un dato luogo e tempo, va accompagnata dai minimi danni, e produce i massimi appagamenti possibili. Un’altra osservazione preliminare mi occorre di fare, ed è che la politica, come il diritto e l’economia, non solo hanno attinenza colla morale ma sottostanno ad essa. E per conseguenza il rimedio vero ed efficace alle indebite ingerenze della politica dell’amministrazione non si può trovare altrove che nella educazione nazionale. La quale opera per due modi: l’uno è che dove il costume è buono, i comizi eleggono rappresentanti onesti e capaci; in secondo luogo se un deputato prevarica, o influisce sinistramente, si solleva nella pubblica opinione quel risentimento nobilissimo, che è uno dei più fermi sostegni della moralità. Perché gli uomini si astengono dal misfare quanto sanno che al misfatto segue universale la condanna. Al contrario, là dove colui che ha commesso una mala azione è accolto con eguali riguardi e favori dell’uomo illibato, là dove si chiama scaltrezza e abilità il sopraffare e l’abusare, ivi per vero i rimedi esteriosi, quali che siano, hanno poco valore, a quella guisa che nel corpo dove sono viziati gli umori, indarno la medicina si affatica di curare un morbo parziale. Laonde tutto ciò che io son per dire va soggetto alle considerazioni predette, cioè che senza moralità pubblica nessun provvedimento ha virtù specifica, ma rimane un mero spediente più o meno efficace.
Il difetto che noi ci proponiamo di emendare consiste nella indebita ingerenza del partito politico rappresentato dal ministero, e dalla maggioranza parlamentare nella giustizia e nella amministrazione. La imparzialità della magistratura, e il rispetto del quale questa dee essere accompagnata dovunque, è la prima e sostanziale condizione del viver libero. Qui cadrebbe veramente in taglio la frase così sovente e vanamente ripetuta che la moglie di Cesare non dee essere neppur presa in sospetto. Ma quali sono i mezzi per sottrarre la magistratura ad ogni influsso politico, quali sono i rimedi, se tali influssi vi hanno penetrato per purgarnela e impedirne i sinistri effetti nell’avvenire? In questa materia io mi sento assolutamente deficiente di cognizioni proporzionate all’uopo, per la qual cosa mi contenterò di notare alcuni punti che mi sembrano comunemente accettati, e almeno a me si mostrano come forniti di efficacia salutare.
Dissi che comunemente si ammette che il primo fondamento della indipendenza della magistratura sta in quella prerogativa che chiamasi inamovibilità, o irrevocabilità, quella prerogativa cioè che la legge attribuisce ad un pubblico officiale, per la quale colui che n’è investito non può esserne privato fuorché per ispontanea rinunzia, per colpa, o per morte naturale o civile. E questa a ne pare una delle più importanti guarentigie del nostro diritto pubblico rispetto ai giudici. Che se talvolta l’ira partigiana invoca le così dette purificazioni, sotto il qual pretesto si vuol far luogo ai cupidi e agli ambiziosi, l’opinione pubblica sino ad ora condannò severamente simili conati. Ma non basta che il giudice non possa esser privato del suo ufficio: uopo è ancora che non possa esser trasferito ad arbitrio di luogo in luogo. Nella massima parte delle nazioni libere d’Europa, se non erro, la inamovibilità del grado si allarga alla sede. Anche ho toccato sopra come il Vigliani stimasse a ciò provvedere con un decreto del 3 ottobre 1873, come poi quel decreto dal ministro che gli succedette fosse abolito e come ancora la magistratura porti i segni della fiera percossa, e duri il senso di una istituzione perturbata. Io non so se il decreto Vigliani avesse potuto porgere occasioni a qualche inconveniente, e di questo non oso giudicare: ma parmi manifesto che il rimettere all’arbitrio del ministro i trasferimenti di sede dei giudici sia una facoltà grandemente pericolosa, e contraria a quello stabile assetto che esercita tanto prestigio nelle popolazioni, e che noi desideriamo come argomento di matura civiltà. Né giova invocare la responsabilità del ministro come ben mostrò l’Inghilleri in un suo discorso1, ed io stesso ne parlerò più distesamente altrove per indicare quanto e in quali limiti abbia valore. Ma lasciando stare le considerazioni generali, allorché il partito che governa ha per sé una maggioranza sicura in Parlamento, questa non solo lo assolve ma lo glorifica anche dell’ingiustizia, se gli sembri che sia nell’interesse del partito stesso. E finalmente è mestieri eziandio che la carriera del magistrato sia assicurata nei suoi gradi, in guisa che senza gravi cagioni non possa mancargli quell’avanzamento al quale ogni uomo naturalmente intende. Ed è evidente che bastano alcune nomine o promozioni fatte a volta di cervelli politici, per confondere il sentimento della gerarchia, ed offender diritti o giuste aspettative. E così la speranza di avanzamenti precoci e il timore di abbandoni immeritati menomano la indipendenza della magistratura.
Bisogna dunque che la legge stessa disponga di tutte queste cose, che le nomine e le promozioni siano fatte con certe garanzie. E non si tema che il Governo rimanga disarmato e impotente a correggere i difetti di un tribunale. Perché le norme regolari delle nomine e delle promozioni, non possono mai toglierli del tutto la libertà sì nello scegliere il giudice fra coloro che hanno le condizioni richieste, sì nel destinargli la prima sede, sì nel ripartire periodicamente le funzioni, sì nel vigilare l’adempimento delle discipline giudiziarie, sì nel promuovere ove occorra dal tribunale contro un giudice o l’applicazione delle pene disciplinari, o il trasferimento della sede, o la rimozione dall’ufficio. Laonde se è utile e necessario che una legge regoli lo stato degli impiegati tutti dell’amministrazione, e dia loro secure guerentigie, questa necessità ed utilità si manifesta in sommo grado quando si tratta della magistratura giudicatrice. E il medesimo dico eziandio della legge sulla responsabilità loro: parendomi errore voler esentare il magistrato da ogni colpa di dolo, o di violazione di legge. Che anzi qui la prova può esser più facile che nell’amministrazione propriamente detta; imperocché sono entrambi rami nei quali si diparte l’esecuzione della legge. E quindi non possono darsi che due sole potestà, quella che fa la legge e quella che la eseguisce, l’ultima delle quali secondo il differente obbietto e il diverso modo di azione si distingue in giudiziaria e amministrativa.
Dissi nel capitolo secondo che la istituzione del Ministero pubblico qual è oggi, cioè come rappresentante del governo presso l’autorità giudiziaria, apre il varco ad indebite ingerenze: dissi come apparisca in alcuni casi molesta e perturbatrice. Ma nello stesso tempo indicai la necessità di un magistrato che vigili l’esecuzione della legge, che rappresenti l’interesse della società e che promuova l’azione pubblica contro i reati. Da ciò ne segue che bisogna modificare codesta istituzione senza annullarla bensì adattandola al nuovo concetto, e sottraendola agli influssi governativi. Quali siano i modi speciali di conseguire questo fine io non mi sento in grado specificamente d’indicare, ma fra le altre modificazioni questo mi parrebbe importante di dare ai procuratori del Re quella medesima inamovibilità che si richiede pei giudici sedenti nel tribunale.
So bene quanto la istituzione dei giurati sia tenuta in pregio presso le razze anglo-sassoni. Non si riguarda solo come un dovere del cittadino di render la giustizia, ma come uno dei suoi diritti e dei più cari e dei più segnalati nella vita libertà. Di ciò sin dai tempi antichi abbiamo esempi e presso Greci e presso i Romani2. Ma l’Inghilterra ha perfezionato codesta istituzione, la quale è siffattamente entrata nel costume che qualunque altra franchigia sarebbe possibile a togliersi prima di questa. E non solo fu estesa dai giudizi penali ai civili in parte, ma fu trasportata in tutte le sue colonie, anzi in tutti i paesi che fan parte del suo dominio. Ed io delle cose inglesi estimatore grandissimo, sarei inclinato a credere che avrà suo svolgimento e sua durata anche altrove. Pure non posso interamente vincere due cagioni di dubbietà: l’una che si trae dall’indole dei nostri popoli, l’altra dalla tendenza scientifica, che io ho indicato sopra, d’introdurre dovunque l’elemento tecnico. So bene che Seneca ha detto "de quibusdam etiam imperitus judex (qui la parola imperitus allude proprio a mancanza di tecnicità, di studio delle leggi) dimettere tabellam potest (cioè pronunziar la sentenza) ubi fuisse aut non fuisse pronuncitatum est (quando cioè si tratta del mero fatto)"3. Nondimeno è da considerare che in molti casi il fatto e il diritto s’innestano, si confondono talmente che riesce arduo discernerli. Ad ogni modo la scelta dei giurati è un tema arduo e bellissimo, come pure la facoltà della recusazione sia da parte del pubblico ministero sia da parte del giudicabile. Qui ancora abbiamo l’antico testo: "neminem voluerunt majores nostri non modo de existimatione cujusquam, sed ne pecuniaria quidem de re minima, esse judicem, nisi qui inter adversarios convenisset"4. Il riconoscimento antecedente dei giudici è posto dunque come condizione del riconoscimento del giudizio. Ma appo noi questa recusazione corre il rischio di essere strumento di compiacenza o anche di sentimenti partigiani. Ad ogni modo io mi tengo a questo voto, che colla scorta della esperienza l’istituzione sia condotta a maggior perfezione, e possa un giorno come in Inghilterra divenir succo e sangue nel popolo, imperocché rimanendo com’oggi è, troppo sarebbe macilenta e stentata a guisa di una pianta in terreno disadatto che non porta frutti saporosi.
Piacemi ripetere ancora che non è in me competenza a discutere con profondità questa materia: oltredicché ciascuno di questi argomenti, per essere trattato a fondo, richiederebbe un libro speciale, ed io non fo che toccarne i sommi capi. Nondimeno aggiungerò che il numero dei tribunali parmi abbondi soverchiamente. Certo se si pigliasse per base organica della magistratura la terza istanza, il primo grado verrebbe occupato dal giudice singolare. E pur mantenendo la base organica attuale, non hanno ragion d’essere molti tribunali a cui mancano le cause da giudicare, e inoltre cinque Corti di cassazione. Ora diminuendo il numero dei giudici sarebbe più facile nel nominarli procedere con rigorosa scelta, scartando gli uomini di mediocre levatura, e di dubbiosa moralità. E se oltre a ciò si accrescesse lo stipendio loro, e si ponessero in condizioni tali da poter vivere con decoro e convenienza, codesto ancora contribuirebbe a sollevarne la dignità. Imperocché la sufficienza dei mezzi a ben vivere colla famiglia, non solo sottrae l’uomo alle tentazioni, ma eziandio ispira un sentimento d’indipendenza che è custode di virtù.
Risguardando la parte penale nasce dubbio se la indulgenza così grande nel determinare e nell’infliggere i castighi non celi vaghezza di falsa popolarità o influssi partigiani: della quale indulgenza, lasciando stare ogni disquisizione astratta e tenendomi al metodo sperimentale e storico, io non dirò altro se non che essa sembra convenir meno all’Italia dove i delitti abbondano di numero e di ferocia5 di quello che alla Francia, alla Germania, alla Inghilterra, dove assai minore è la delinquenza. Eppure quegli Stati perseverano nelle severità del codice, e nel rigore della esecuzione. Quanto poi al procedimento, egli è certo che in un paese libero non può ammettersi la procedura scritta o segreta, ma sibbene la orale e pubblica. Ma qui ancora è d’uopo esaminare i modi pei quali la pubblicità non addivenga a sua volta un ostacolo alla imparzialità del magistrato. Laddove il giudizio piglia sembianze di uno spettacolo, al quale si va ad assistere per moda, come la donna romana ai ludi dei gladiatori nel tempo della decadenza, laddove l’incolpato non che arrossire e mostrar pentimento inorgoglisce sfrontatamente, e si vanta del suo delitto, o per lo contrario, come pur si vede talora, ai si sente in faccia al popolo vilipeso e calpestato innanzi la condanna: laddove il difensore non ha altro fine che di far pompa di eloquenza e di cattivarsi gli applausi della moltitudine; in un ambiente siffatto è lecito dubitare se la giustizia sempre trionfi. A tutto ciò si richieggono dei freni, ma io lascio agli uomini esperti nella materia di divisarli. Conchiuderò solo che se la giustizia è la più importante parte del governo, se anzi è l’elemento vitale d’ogni società, pure i rimedi sono men difficili ad apprestare, e si può eziandio soggiungere che oggidì sono meno urgenti.
Ora passando all’altra parte delle indebite ingerenze di che trattiamo, cioè quella che si manifesta nell’amministrazione, qui mi sento alquanto più ad agio, sebbene intenda di accennare piuttosto che di dimostrare. Ricorderò prima quel che dissi nel capitolo secondo, cioè che nei paesi nostri l’amministrazione c’involve da ogni parte, e abbiamo con essa continue relazioni. Non v’è cittadino che o per le contribuzioni, o per la leva, o per la polizia, o per i servigi pubblici, o per le scuole, o per la proprietà o per le industrie, o pel lavoro non si trovi direi quasi quotidianamente a fronte dell’amministrazione. La quale colle sue ordinanze e coi suoi atti tocca all’interesse di tutti, vigila all’osservanza delle leggi e dei regolamenti, e non solo decide sulle controversie, ma eseguisce le proprie decisioni. Questo carattere di attività preventiva e responsabile è ciò che la differenzia dalla giustizia giudiziaria, che sentenzia ma richiesta, reprime sempre ma non previene, e non ha altra responsabilità fuor quella della legalità delle sue decisioni secondo coscienza. Ora posto questo intimo nesso che esiste appo noi fra i cittadini e l’autorità esecutrice in quanto amministra, chiara apparisce la tentazione del partito che è al governo, di insinuarsi nell’amministrazione e di valersi di questo potente mezzo e di influssi così frequenti ed estesi per assicurarsi durevole potenza. In questo caso è troppo facile che l’interesse pubblico venga sottoposto all’interesse del partito, e di coloro che lo compongono.
Il quesito pertanto si presenta in questa forma: E’ egli possibile sottrarre l’amministrazione alle ingerenze dei partiti? V’ha egli un rimedio come oggi suol dirsi radicale, cioè che sterpi il male dalla radice? In verità questa panacea non esiste, ma dallo studio che può farsi presso altre nazioni civili si scorge che per tre modi si può temperare la perniciosa ingerenza di che parliamo, e correggerne gli effetti.
O diminuendo le attribuzioni dell’amministrazione pubblica, e lasciando alla libertà individuale e alla iniziativa privata la cura non solo degli interessi parziali e locali ma eziandio in parte degli interessi generali.
O decentrando l’amministrazione in guisa che essa sia guidata e compiuta localmente, e da enti morali autonomi.
O finalmente nel caso che l’amministrazione sia fornita di molte attribuzioni, e guidata dal governo centrale, ammettendo ampiamente i ricorsi e disponendo in guisa che siano risoluti e giudicati indipendentemente da esso; il che presuppone che i regolamenti amministrativi abbiano effetti giuridici e che vi sia una giurisdizione speciale.
Col primo di questi mezzi si toglie per così dire la materia soggetta all’abuso, col secondo si tronca l’azione diretta del Ministero e del Parlamento sull’amministrazione locale, col terzo si rivendica legalmente il diritto violato. Del primo modo abbiamo un esemplare negli Stati Uniti, del secondo nell’Inghilterra, del terzo nella Germania.
Qui si presenta, come in mille altre cose civili, la questione dei limiti dello Stato, e l’altra che le è connessa se nella società moderna, esso sia naturalmente indotto ad accrescere gli uffici suoi, ovvero a deporli gradatamente. In questa materia si riscontrano due opinioni estreme; gli uni riguardano lo Stato come un ostacolo alla libertà che convien sforzarsi quanto è possibile di rimuovere, gli altri come una tutela provvida e benefica che bisogna sempre rafforzare. Ma se la questione è ardua a sciogliersi in tesi generale, lo è assai meno considerata storicamente, cioè in relazione ad un dato tempo e luogo. Ed io ho avuto opportunità di trattarne sebbene per incidenza in parecchi scritti6. A me pare che il fine dello Stato sia duplice, primieramente la tutela del diritto, in secondo luogo, la cura di quegli interessi veramente generali ai quali per sé stessi non possono supplire i cittadini e le varie lor maniere di associazione. E siccome lo Stato è un organismo naturale ed essenziale, mentre gli uomini si riuniscono in società, così ne viene che abbia anche un terzo fine quasi sostegno o condizione degli altri, cioè la conservazione propria e delle sue istituzioni fondamentali.
In questo concetto molti per avventura concorderanno: ma la difficoltà nasce nell’attuazione. Imperocché se il primo di questi uffici può dirsi perpetuo ed assoluto, non è così del secondo, anzi si allarga e si restringe secondo i bisogni della società. Quindi nacque e nasce gran disputa sulla opportunità dell’ingerenza dello Stato in molte materie. E v’ha chi stima che nella forma odierna della società nostra, e col progresso della civiltà, lo Stato dee pigliare un numero ognor maggore di servigi e di uffici e regolare nuove rapporti tra i cittadini fra loro e collo Stato medesimo. Di ciò abbiamo esempli frequenti nella parte economica: la trasformazione della industria per la quale di piccola e casalinga che ell’era, è divenuta manifattura in grande, ha richiesto delle nuove leggi che assicurino i cittadini poniamo dagli effetti insalubri di alcune officine, o tutelino la vita e la sanità dei fanciulli, e delle donne che vi sono impiegati. E la serie di leggi che gl’inglesi hanno fatto recentemente e che chiamano legislazione sociale è la prova che persino quella nazione che tanto aborriva dall’assegnare al governo nuove attribuzioni, ha dovuto sobbarcarsi alle necessità del nostro tempo. Codesto è vero; cioè a dire che dallo svolgersi della civiltà nascono nuove relazioni che vogliono essere giuridicamente determinate. Ma è vero altresì che molti altri punti un tempo erano soggetti all’azione dello Stato, ora sono lasciati alla libertà individuale. Si pensi qual era nei secoli scorsi l’ingerenza dello Stato nelle materie religiose; non pago di penetrare entro alle domestiche pareti, di scrutare la coscienza del cittadino, voleva sforzare le sue credenze. Si pensi qual era la sua ingerenza nella manifestazione del pensiero per mezzo della stampa, quale nella conservazione dei privilegi delle classi nobili; si pensi a tutti gli statuti che ordinavano le arti, le maestranze, prescrivevan loro metodi e dando rigide forme all’industria ne punivano ogni trasgressione; e si vedrà che da un secolo a questa parte si è fatto un gran spolvero di leggi restrittive della libertà e il governo ha deposto molti carichi che gli parevano connaturali. E basta il por mente agli Stati Uniti d’America per essere persuaso che una società può progredire, arricchirsi, giganteggiare col minimo d’ingerenza del governo. Ad ogni modo io credo che a mano a mano che i cittadini e i consorzi loro si abilitano colla istruzione e col risparmio a sopperire a certi uffici, lo Stato non ha più mestieri d’integrarne l’opera, e dee restringere il suo compito. Anzi a questo restringimento dee mirare per gradi come ad intento nobilissimo, in quantocché lascia ognor più largo campo all’attività spontanea dell’uomo e ne solleva la dignità. Né questo sistema può dirsi che contraddica razionalmente a quello che i tedeschi chiamano Stato di diritto (Rech[ts]-Staat) e che pare loro il portato più nobile della moderna civiltà: lo Stato cioè dove i doveri e i diritti di ciascheduno sono regolati dalla legge, dove i cittadini sono pienamente guarentiti ed ogni adito è tolto all’arbitrio. Il quale concetto essi contrappongono al buon governo di un tempo, assoluto ma paterno, (Polizei-Staat) dove l’autorità ha piena balìa di penetrare per dir così nella vita del cittadino. Dico che non v’è contraddizione, perché questa norma giuridica, questa garanzia del diritto può riscontrarsi tanto in una nazione dove l’azione preventiva del governo sia estesa, quanto in una nazione dove invece la libertà individuale abbia un vasto campo: anzi naturalmente sarebbe in quest’ultimo caso più facile e più pratico il conseguirla, come è più facile e più pratico determinare e sancire pochi anziché molti rapporti civili.
Ma per tornare agli Stati Uniti d’America, ci parrebbe impossibile il recare in Italia immediatamente le consuetudini, e gli ordini di quel paese. Lo scrittore brioso che ha fatto il confronto fra Parigi e New York7, può ben deplorare tutte le inutili pastoie che impediscono al cittadino francese di operare con la prontezza e spontaneità del cittadino americano; ma non potrebbe immaginarsi che in un momento si facesse la trasformazione dei costumi dell’una nell’altra città. Le condizioni speciali dell’America e soprattutto i terreni ampissimi da coltivare, tanto ampi che bastano non pure agli indigeni, ma agli emigrati che in gran numero l’Europa versa ogni anno in quelle contrade, permettono molte libertà, che non sarebbero consentire altrove, specialmente dove la popolazione vive agglomerata, e le terre sono tutte occupate. E quand’anche non vi fossero queste così notevoli differenze fra il nuovo mondo e l’Europa, non si potrebbe neppure immaginare il trapasso immediato dai nostri ordini a quelli, avvegnacché chi è avvezzo alle fasce quando gli son tolte traballa e cade. Ma qui come in altre simiglianti questioni, la differenza è di tendenze: ché laddove gli uni vogliono fare dello Stato non solo un presidio dei diritti, non solo un sussidio dell’attività privata a generale interesse, ma il tutore l’educatore perenne del cittadino: gli altri in tanto accettano la tutela ed educazione dei cittadini in quanto è necessariamente richiesta dalla condizione dei medesimi; e non basta a questi il dire che taluni atti potrebbe fargli meglio, e più compiutamente lo Stato; perché d’altra banda pongono sotto gli occhi i vantaggi che ritrae l’uomo dall’esercizio libero delle sue facoltà, il tirocinio, e la responsabilità morale. La prima di queste teoriche somiglia per dir così a un cattolicismo statuale, ed è singolare a pensare che negando la unità della Chiesa si voglia surrogarla collo Stato; laddove può rispondersi che se vi fosse cosa che potesse giustificare l’accentramento e la tutela sarebbe appunto la necessità di non errare in ciò che riguarda la eterna salute.
Concludiamo che se le leggi si moltiplicano per regolare nuovi rapporti fra i cittadini, e da questa parte il còmpito dello Stato cresce, per un’altra parte quella cioè della tutela e della integrazione, le sue funzioni scemano d’intensità, poiché collo svolgersi della civiltà il cittadino si abilita man mano ad operare da sé medesimo. E di quanto le funzioni dello Stato vanno scemando, di tanto l’amministrazione è sottratta all’azione diretta del governo e per natural conseguenza anche alle ingerenze della politica. Potrebbe adunque il pregio di fare un rivista di tutte le leggi e di tutti i regolamenti vigenti nel Regno collo scopo chiaro e determinato di cancellare ogni disposizione che vincoli la spontaneità del cittadino, e non sia necessaria all’ordine sociale. E di cotali disposizioni se ne troverebbero non poche, le quali possono essere tolte di mezzo o modificate nel senso di lasciare maggior libertà al privato, senza che perciò ne corra alcun pericolo l’andamento della cosa pubblica. Ma codesto rimedio che pure noi suggeriamo come utile, di scemare le forze del Governo accrescendo la libertà è di sua natura lento; onde sembrerà a taluni che meglio possa convenire all’uopo e sia più pratico l’altro metodo che abbiamo indicato come vigente in Inghilterra, cioè il decentramento.
Della parola decentramento si è usato ed abusato, e forse molti l’adoperano anche oggidì senza averne ben chiara l’idea. Il decentramento, come lo si intende generalmente, ha luogo in due forme, o per delegazione governativa ai suoi agenti, o per facoltà attribuite a corpi elettivi. Ha luogo per delegazione quando, rimanendo ferme nel governo tutte le attribuzioni che ha di presente, pur esse sono esercitate a suo nome da funzionari locali senza uopo di ricorrere al governo centrale: il che può praticarsi in modo assai più largo che oggidì non si faccia. Imperocché v’ha sempre nei dicasteri ministeriali la smania di richiamare al centro le decisioni anche dei minimi affari, la nomina anche degli infimi impiegati. E questo nuove in due modi, prima perché rende il disbrigo degli affari stessi più complicato e più tardo, secondo perché il funzionario locale non sente più alcuna responsabilità dei suoi atti, e anche laddove in effetto gli compete facoltà, trova più comodo di rispondere a ciascuno se essere mero esecutore di ordini superiori. Il prefetto, per esempio, dovrebbe avere allargata la sfera della sua azione, mentre formalmente rappresenta tutto il ministero. E qualora i capi dei differenti servizi come il procuratore del Re, l’intendente di finanza, l’ingegnere del genio civile, il provveditore degli studi, il direttore delle poste e va dicendo, formassero il suo consiglio ordinario, io non so perché la nomina di tutti gl’impiegati inferiori non potrebbe essere attribuita loro interamente. E similmente l’esercizio per gran parte del bilancio di spesa. Imperocché votato il bilancio del Parlamento, nulla vieta che sia ripartito per provincie, assegnando la somma corrispondente al prefetto ed ai capi di servizio da spendere. Dal prefetto potrebbe nella condizion presente delle cose dipendere il servizio sanitario, quello delle carceri e tutto ciò che riguarda agricoltura, industria, commercio: da esso venire il consentimento ai comuni, provincie, ed Opere pie di acquistare e permutare proprietà: e così va dicendo. Gli stessi funzionari sopra indicati, perché non avrebbero maggiori facoltà che non abbian ora? A me pare che gli intendenti dovrebbero in materia d’imposte dirette e di ricchezza mobile giudicare ed eseguire sui richiami per errori materiali, per cessazione di redditi, per iscrizioni duplicate sui ruoli; in materia di demanio e, dentro certi limiti di tempo e di somma, annullare crediti mesigibili, transigere piccole cause, affittare o riaffittare beni demaniali, dare licenza di esecuzione ai contratti. In materia di gabelle provvedere agli errori materiali e di trascrizione, egli errori di calcolo nella liquidazione delle tasse doganali ed altro. Similmente nei lavori pubblici parmi che il capo del Genio civile della provincia, una volta stabilito il piano dei lavori, dovrebbe avere anche per le opere idrauliche di prima e seconda categoria maggiori facoltà di attuazione, come pure dovrebbe avere balìa, sempre dentro certi limiti di tempo e di somma di provvedere a tutte le opere di urgenza per le quali ogni indugio può riuscire funesto. Io sono ben lungi dal trattare a fondo l’argomento, intendo solo di segnarne alcuni lineamenti.
Veniamo al secondo punto che è quello di allargare le attribuzioni dei corpi locali e dare a questi maggior libertà. Certo la legge che abbiamo non è avara verso il comune e la provincia: direi anzi che a quest’ultima assegna un compito che in certi casi soverchia le sue forze, come la cura dei mentecatti, dei trovatelli. E dico che le soverchia, perché i trovatelli son portati anche da provincie vicine alle maggiori città, si moltiplicano i manicomi con dispendio esuberante, si è costretti perciò di risparmiare in lavori produttivi, infine le provincie povere sono schiacciate dal peso di codesti oneri. Però mi sia lecito di fare una osservazione preliminare. Quanto maggiori sono le attribuzioni che si vogliono dare ad un Ente locale, tanto bisogna assicurasi ch’esso abbia le forze corrispondenti a bene reggerlo. Dico le forze non solo morali ma materiali: cosicché l’ordinamento amministrativo dei comuni e delle provincie si collega in modo indissolubile all’ordinamento loro finanziario. Un piccolo comune o una piccola provincia, posto che trovasse fra i suoi cittadini uomini capaci di sopraintendere a tanti atti pubblici, avrebbe pur sempre mestieri di poter attingere ai suoi contribuenti i mezzi pecuniari che a tal fine occorrono. A lume di questo criterio gioverebbe esaminare sino a che punto le attribuzioni degli Enti locali possono essere ampliate. Certo vi sono delle funzioni che il Governo non può delegare ad alcuno: tale è la difesa della patria, la rappresentanza esterna, il mantenimento del diritto privato e pubblico, l’osservanza generale delle leggi, la giustizia e la finanza. Ma altre funzioni potrebbero essere delegate, e in certi paesi lo sono, come dal ministero dell’interno la polizia preventiva, le carceri di custodia, la sanità pubblica; da quello dei lavori pubblici le strade, le acque, i porti minori; da quello dell’agricoltura, industria e commercio la navigazione interna, le foreste, la caccia, la pesca, infine tutto o parte del pubblico insegnamento, delle biblioteche, degli archivi. Ma questo decentramento richiede, come dissi, una forza materiale e morale proporzionata nell’Ente che assume le predette funzioni, ed io persisto a credere che ciò non possa fondatamente sperarsi se non da consorzi di provincie. Quando nel 1861 presentai un disegno di legge sul riordinamento del nuovo regno d’Italia, v’introdussi un elemento nuovo che era la regione. Dico nuovo rispetto all’ordinamento amministrativo vigente, ché storicamente la regione aveva antichissime tradizioni sì nel medio evo, sì presso i romani. La opportunità del disegno per quel tempo traevasi da questo motivo principale: che la unificazione amministrativa non doveva a mio giudizio farsi affrettatamente, imperocché essa avrebbe ferito, come ferì, molti interessi, offese molte abitudini, suscitò molte animaversioni. E perciò la regione era principalmente un organo transitorio affinché si operasse lentamente il trapasso de sette legislazioni ed ordini diversi secondo i diversi Stati, a coordinamento ed unità. Oggi quella unificazione fu compiuta con molti spostamenti e molti dolori, ma fu compiuta, né potrebbe più la regione avere quel medesimo fine. Però potrebbe averne un altro; se si volessero dare ad Enti locali, e a corpi, elettivi quelle funzioni che ho detto sopra togliendole al governo centrale, converrebbe di necessità che questi Enti fossero più potenti delle provincie, o almeno di molte delle nostre provincie, e supposto ancora che il Governo cedesse loro tanto parte d’imposte quanta corrisponde alle relative spese che oggi sostiene; pure tornerebbe opportuno formare dei consorzi parte obbligati parti facoltativi. Dei quali io non temeva allora la tendenza troppo autonomica, e politicamente separativa, né la temerei ora, purché i diritti e i doveri loro fossero ben definiti, e non si desse alle rappresentanze interprovinciali carattere e procedimento di piccoli parlamenti. Ai quali consorzi di provincie starebbero ottimamente anche i mentecatti ed i trovatelli, come pure la formazione di quei regolamenti d’indole alquanto generale, che mal si conviene a provincie piccole di fare. Fra le leggi che proposi a quel tempo una ve n’era che stabiliva le regole per la formazione dei consorzi sì obbligati sì facoltativi non solo fra privati, corpi morali, e comuni ma eziandio fra provincie. Ma la legge posteriore del 20 marzo 1865 sui lavori pubblici dispose dell’ordinamento dei consorzi ma per pochi casi, strade, scoli opere idrauliche di difesa, e determinò il modo onde i consorzi si costituiscono fra privati, corpi morali e comuni, e i modi anche onde si mantengono, e qui ancora lasciò molte cose incerte o in balìa dell’arbitrio ministeriale. Ma quanto a consorzi interprovinciali, anche ristrettivamente a questo solo fine, non ne fece parola, limitandosi a dire che potranno essere istituiti per legge. Converrebbe dunque riprendere questa materia, determinate quali attribuzioni si possono dare ai consorzi di provincie e non solo di strade e di acque, ma come accennai di polizia, di giudicatura, d’istruzione e va dicendo: e quando vi sarebbe obbligo di consorziarsi, quando facoltà; il modo di costituzione, la durata, e i tributi pecuniari. Per questa via soltanto riuscirebbe agevole esonerare da molti affari il Governo centrale.
Rispetto ad allargare la libertà dei comuni e delle provincie io penso che sia oggi conveniente ancora più che nel 1861 rendere il sindaco elettivo; e togliere al prefetto la presidenza della deputazione provinciale: ma che nello stesso tempo convenga che cessi nelle deputazione ogni autorità tutoria. L’amministrazione e la tutela non si vogliono confondere: libera l’una ai corpi locali, l’altra, per quanto riguarda l’osservanza delle leggi, spetti allo Stato. Ho detto altrove che un argomento di abusi e di scandali nell’ordine dei fatti onde favelliamo, fu l’art. 235 della Legge comunale e provinciale che dice potere il Re per gravi motivi di ordine pubblico disciogliere i Consigli. Imperocché codesta facoltà può divenire talvolta nelle mani dei ministri una minaccia e una punizione per quei Consigli che ripugnino a mostrarsi ossequenti alle voglie di alcuni deputati che vanno per la maggiore; e manca persino la pubblicità di simili deliberazioni e i decreti ne sono sottratti alla registrazione della Corte dei conti, laonde parecchi Consigli soprattutto di piccoli comuni perirono nel silenzio per alta vendetta. Né il Consiglio disciolto poteva più fare richiami, e intanto i commissari inviati apparecchiavano nuove elezioni secondo gli intendimenti del governo e dei deputati più influenti. E’ mestieri pertanto che la legge determini precisamente i casi nei quali il Consiglio può esser disciolto, ne chiarisca il procedimento, e lasci adito a una reintegrazione se il diritto fosse stato violato.
Codesti sono modi di decentramento, ma non sono i soli. Ho insistito in tutti i miei scritti intorno ad un altro modo che è quello delle istituzioni autonome formanti Enti morali. Finché lo Stato avrà che fare con cittadini disgregati, finché gli atomi disciolti si troveranno di contro quel oltrapotente corpo che si chiama lo Stato, ogni conato di resistenza anche giusta sarà vano. Ed è perciò che le democrazie sgranate (per servirmi di questa metafora introdotta dal Romagnosi) si acconciano facilmente ad un padrone, e pur ch’egli rispetti l’uguaglianza, calpesti e suo talento la libertà. L’associazione, organizzandole, raddoppia le forze dei singoli che la compongono, le disciplina e si rende atta per l’una parte a compiere maggiori cose, per l’altra a resistere ad ogni usurpazione. Io ho sovente considerato quanto poco di valore abbiano avuto ed abbiamo le istituzioni in Italia: sotto certi riguardi ne hanno forse meno che in ogni altra contrada d’Europa. E se nel rivolgimento che ci condusse all’unità della patria, abbiamo risoluto agevolmente dei problemi che altrove sarebbe stato durissimo di affrontare, se di questo facile successo ci diamo vanto legittimo, nondimeno è mestieri considerare che ciò prova anche la fiacchezza di ogni corpo morale, che alla volontà ed anche agli arbitri di un governo non osa tener testa. Ora guardando l’avvenire, importerebbe assaissimo il costituire nuove istituzioni secondo la forma che la civiltà moderna consente, e dal loro vita e vigore. Imperocché ciò che fu utile a noi quando si trattava di distruggere il vecchio, potrebbe diventar pericoloso se per un momento la maggioranza del Parlamento fosse nelle mani di quelli che si appellano radicali. Ora niente vieta, e l’esperienza credo ne confermerebbe, i buoni effetti che le università, le accademie, le diocesi, le parrocchie, molte Opere pie, e sodalizi di mutuo soccorso e associazioni d’industria, di commercio, d’agricoltura potessero costituirsi sotto determinate regole in Enti giuridici, salvo l’alta vigilanza dello Stato.
Pertanto senza entrare in maggiori particolari che qui non avrebbero luogo, io concludo che per tre canali può derivarsi la fonte dell’autorità dal centro alla circonferenza: per delegazione che il governo centrale ne faccia ai suoi agenti, per ampliazione di attribuzioni e maggior libertà ai corpi locali elettivi, per istituzione di Enti giuridici autonomi. Al governo rimarrebbe sempre la difesa nazionale, la garanzia dei diritti, l’indirizzo generale politico interno ed esterno, la vigilanza suprema per l’osservanza delle leggi, la cura di alcuni interessi importanti e veramente nazionali.
Ma non è ancora risoluto con questo il problema del cedentramento. Gli agenti del governo, i corpi locali elettivi ed autonomi, gli stessi Enti morali possono riprodurre tutti i mali che si attribuiscono al governo centrale. E’ questo un punto sul quale molti di coloro che parlano sempre di decentramento non hanno recato mai attenzione, e così i piani loro rimangono davvero campati in aria. Pare ad essi quel che pareva agli antichi che la libertà in ciò soltanto consista di eleggersi chi li governi; laddove la libertà per noi moderni consiste nel rispetto di tutti i diritti; e a guarentire questo rispetto l’elezione è di per sé insufficiente. E di vero la indebita ingerenza della politica nell’amministrazione non cessa per ciò che abbiamo sopra descritto, ma trasporta per così dire i suoi penati dal centro alla circonferenza. Il deputato non salirà e scenderà più le scale ministeriali, non avrà più mestieri d’intime relazioni coi capi dei dicasteri centrali: ma farà opera di imporsi alle autorità delegate, al prefetto, all’intendente, al capo del Genio civile. E quanto ai corpi elettivi locali, la politica vi penetrerà similmente: ma siccome si tratta di cose minori, supplirà coll’acerbità della passione alla poca importanza della questione. Così noi veggiamo che taluni consigli provinciali e comunali ti hanno proprio l’aria di parlamentini: vi si fanno le interpellanze, gli ordini del giorno, vi si provocano le crisi ministeriali, e la maggioranza vi esercita una tirannide sfrenata sulla minoranza. In questi casi la condizione del cittadino è peggiore, avvegnacché come ebbi occasione di notare di sopra , il tuo avversario prossimo è più duro, più terribile del lontano. Questo ha sempre un certo senso degli interessi nazionali che lo tempera, ed è scevro da quelle ire borghigiane che sono rinfocolate alla dalla ristrettezza degli argomenti, dall’insistenza quotidiana sui medesimi, dal pettegolezzo che li ripercuote e li ingrandisce.
Chi ha mai dubitato delle libertà locali dell’Inghilterra? Chi anzi non propone ad esempio gli ordini suoi come esemplari di decentramento? Eppure l’elezione entrò ben tardi come elemento organico in alcune amministrazioni locali, e si ampliò nelle parrocchie e nei borghi. Il vero pernio del decentramento inglese sta nella istituzione dei giudici di pace, la quale benché antichissima e forse anzi per ciò stesso, fu poco esaminata e mal notata: ma esercita nella costituzione inglese un ufficio importantissimo8. Che se come dissi il concetto moderno della libertà sta nel rispetto massimo dei diritti e delle azioni del cittadino sinché non viola i diritti altrui, ragion vuole che questi siano determinati per legge, e che il giudizio di loro violazione non appartenga alla potestà esecutiva.
Il giudice di pace in Inghilterra ha funzioni svariatissime: è magistrato di polizia inquirente, giudice, e funzionario amministrativo. Come il suo titolo annuncia, egli ha per fine di serbare la pace nel civile consorzio9. Perciò riceve denuncie da tutti e soprattutto dagli ispettori governativi incaricati di accertare che le leggi siano osservate; ordina comparse di imputati e di testimoni, e li ascolta, esige prove, e forma l’istruzione e l’accusa che sarà trasmessa alla Corte. Può dimandare cauzioni di buona condotta da persone pregiudicate, spedisce mandati d’arresto, vigila i mendicanti, i vagabondi, gli uomini perniciosi, impedisce le riunioni pericolose alla pubblica pace. Come giudice, pronunzia sentenze per i reati minori contro le persone e le proprietà, e per le contravvenzioni alle leggi di finanza, di tasse, di caccia, di pesca e va dicendo; è giudice anche in talune materie civili, per esempio sul pagamento delle decime, sui conflitti fra fabbricante ed operaio, fra proprietario e contadino. Come funzionario amministrativo approva i ruoli delle tasse dei poveri, e ne accerta i conti definitivi, dà potere di esecuzione coattiva contro i contribuenti morosi, vigila sulle opere pubbliche, sulle industrie insalubri, e perturbatrici: stabilisce in alcuni casi previsti dalle leggi il domicilio o lo sfratto di un cittadino. Queste ed altre sono le attribuzioni dei giudici di pace.
Ma chi elegge o nomina questi giudici di pace? quanti sono? come operano? Questi giudici di pace non sono eletti, e si potrebbe anche dire che non sono nominati, nel senso della parola quale noi l’intendiamo comunemente, sebbene vi sia una nomina formale che direi quasi riconoscimento da parte del Gran Cancelliere. Essi sono per la massima parte dei benestanti i quali appartengono a famiglie onorate, vivono sulle loro terre, hanno una rendita abbastanza copiosa, e formano quella mezzana aristocrazia terriera gentry che è nerbo della nazione. A loro si aggiungono negozianti che hanno cessato dagli affare, capitalisti, ecclesiastici, professori, giurisperiti, ingegneri, medici, che cessano dal prestare l’opera loro per lucro. Gli avvocati e procuratori patrocinanti ne sono espressamente esclusi. L’uomo che si trova in queste condizioni, ed è maggiore d’età, si presenta al Lord luogotenente della Contea il quale è un ufficiale onorario della Corona, e si fa inscrivere nell’elenco dei giudici di pace, il che non può essergli rifiutato salvo che per gravi motivi. Ed ecco perché io dissi che l’ufficio anzicché esser effetto di una nomina, rampolla quasi da un diritto, Però questa iscrizione non dà che il titolo onorario: perché divenga effettivo occorre una convalidazione che gli è data dal Gran Cancelliere mediante una specie di bolla, writ, che dalla parole colle quali comunica si appella dedimus potestam e investe colui al quale è data di tutte le facoltà richieste all’esercizio delle sue funzioni. Ma questa concessione e comunissima anzi non si negherebbe neppur essa, se non per causa d’indegnità. Di oltre a diciotto mila giudici titolari che vi sono, solo otto mila fanno veramente ufficio attivo; e sono a vita generalmente, ed hanno potestà e giurisdizione nel distretto nel quale vivono, e talora nell’intera contea. Operano in molti casi da soli, in altri casi si richiede la compagnia di due che siano consenzienti nei giudizi. Ma inoltre v’hanno sessione speciali, alle quali sono invitati tutti i giudici di pace del distretto per un obbietto determinato. In queste assemblee si nominano gli ispettori dei poveri, i constabili o agenti di polizia, si rivedono i conti delle opere stradali, si decide sui ricorsi contro l’iscrizione per la tassa dei poveri, si formano le liste dei giurati, si accordano licenze per aprire vendite di commestibili e di liquori, permessi di caccia, e va dicendo. V’hanno poi le sessioni trimestrali che si tengono nel marzo, giugno, ottobre e decembre, e quivi l’ufficio dei giudici di pace è ancor più importante. Amministrativamente costituiscono la rappresentanza principale e la più diretta degli interessi della contea: impongono tasse, fanno regolamenti obbligativi nei limiti della legge, stabiliscono tutto ciò che riguarda le spese della pubblica sicurezza, della giustizia, degli edifici dei tribunali, delle carceri, possono modificare persino talune circoscrizioni amministrative, provveggono ai mentecatti, ordinano il sindacato dei pesi e misure; inoltre come tribunale giudicante sentenziano su contravvenzioni e reati, maggiori di quelli che sono di competenza del giudice singolare, e fanno ufficio di giudici istruttori e di camera di accusa contro reati e crimini anche più gravi. Finalmente egli è a queste corti trimestrali che sono portati i reclami contro i giudici e gli atti dei giudici singolari i quali sono tenuti responsabili personalmente, quando l’atto loro possa reputarsi fatto con malizia. Ma dalla corte stessa trimestrale, per quanto riguarda le funzioni sue giudiziarie, vi ha appello al tribunale chiamato Banco della regina, e anche più su sino alla Camera dei Lords.
Questi cenni, comecché imperfetti, bastano a mostrare la importanza dei giudici di pace inglesi, e la parte notevolissima di essi non pure come magistratura inquirente e giudicante, ma altresì amministrativa. La quale istituzione sorge spontanea dai costumi e dalle tradizioni del paese, non dee sua vita, come dissi, alla elezione popolare, né tampoco alla nomina regia sebbene ne abbia la forma esteriore; è insomma un portato della storia inglese, e in essa è principalmente riposto quello che noi chiamiamo decentramento e la maggiore tutela della indipendenza, e della libertà del cittadino e di tutti gli Enti giuridici. Tale istituzione come dissi è il pernio dell’organizzazione locale inglese. Ma è arduo per non dire impossibile trasferirla così com’è sul continente, e conviene adattarsi a ciò che le consuetudini, e le naturali disposizioni dei cittadini ivi comportano in materia di decentramento.
Ma prima di procedere oltre è mestieri esaminare alcune considerazione di Silvio Spaventa nel discorso che ho citato sopra là dove parla "dei poteri delegati ai cittadini non come agenti dello Stato, sebbene come ordine, investiti da esso di questi poteri da usare non nell’interesse proprio ma generale, responsabili dell’uso che ne fanno e non stipendiati, ma per la loro posizione sociale in grado di attendere gratuitamente agli uffici loro commessi" ed è questo proprio il self-government come gli inglesi lo intendono. Quivi egli roca innanzi alcuni dubbi: primieramente la tendenza prelevante nella società moderna a ripartire il lavoro secondo gli obbietti a cui l’attività umana si volge; e questo principio della divisione del lavoro si stende anche agli uffici della vita pubblica. Quando oggi un cittadino ha pagato l’imposta, egli non si crede in coscienza obbligato a dover fare altro per lo Stato: il fungere oltre a ciò un ufficio pubblico pargli, come direbbero teologi, opera di supererogazione. Una seconda difficoltà nasce dalla condizione presente della proprietà stabile, imperocché per la facilità dei trapassi e la divisione ereditaria è impedito che si formi una classe durevole di possidenti ricchi, ed educati a sobbarcarsi e a portare il carico della cosa pubblica. Né oggi la proprietà stabile è il centro di gravità delle relazioni sociali, ma piuttosto la proprietà mobile, e i possessori di questa son di tutti i meno disposti ad assumere uffici estranei alle occupazioni loro abituali. In terzo luogo, supposto che questa ch’egli chiama delegazione dello Stato, si attui da noi con maggiore larghezza, vi mancherebbe ogni garanzia di giustizia. I mali che abbiamo deplorato si moltiplicherebbero, trasferendone la sede in ogni Consiglio o corpo locale dove la passione di parte, e la prepotenza della maggioranza sarà anche più impura e più acre che non al centro. Di quest’ultima difficoltà ebbi testé anch’io a far parola nell’ordine della mia argomentazione.
Queste tre obbiezioni sono gravi e bisognerà ad una ad una analizzarle. La divisione del lavoro che ha penetrato in ogni parte della società, e n’è divenuta per così dire una qualità fondamentale concorda con quell’altra tendenza di che ho toccato sopra, cioè quella che mira ad introdurre l’elemento tecnico dell’amministrazione della cosa pubblica, e quindi ad assegnare ciaschedun ufficio ad uomini idonei che per istudi ed educazione siano i meglio accomodati per adempierlo e non già ad altri. Però è da notare in primo luogo che per la ripartizione del lavoro avviene nella società civile il medesimo che avviene nei corpi formati da natura: che quanto più sono complessi, ed ogni funzione peculiare ha suo peculiare organo che la esercita, tanto diventa più necessario e più forte un organo comune coordinatore di tutte le azioni. E se tu guardi la macchina del corpo umano, mirabilmente più molteplice per varietà, e dove appunto gli organi hanno ciascuno suo peculiare funzione, ivi è massimo l’accentramento nel cervello. In secondo luogo come la divisione del lavoro portata ad estremo grado nella industria finirebbe per spegnere ogni intelletto, e ogni sentimento nell’operaio, se non si cerca di bilanciarne gli effetti con altre occupazioni materiali e mentali, in simil guisa il tecnicismo messo nei singoli servigi pubblici farebbe perdere di vista il tutto, e smarrire il concetto generale politico ed amministrativo, onde le parti s’avvivano. Bisogna dunque contemperare l’una cosa coll’altra, e congiungere dirò così l’elemento umano e comune all’elemento speciale e tecnico. Né io crederei vantaggioso affidare tutti gli affari pubblici ad una burocrazia chiusa ed immobile; eppure sarebbe questa la conseguenza ultima della obbiezione che s’informa al principio della divisione del lavoro e alla competenza tecnica. Reputo inoltre che per quanto ogni cittadino abbia una occupazione personale nella industria, nell’agricoltura, nel commercio, cui rivolge come a fine l’attività propria, pure non tutto il suo tempo è in ciò adoperato, e qualche frazione gliene rimane per consacrarlo alla cosa pubblica. E d’altra parte una legittima ambizione, il piacere di esercitare sane influenze, la soddisfazione di essere eletto ad un ufficio pubblico, gli rendono gradito il sedere nei consigli del comune e della provincia. Che se veramente altri fosse persuaso che, pagata l’imposta, non è in coscienza obbligato a far nulla pel consorzio civile nel quale vive, bisognerebbe emendare questo errore, e mostrargli che, come nella sua giovinezza la legge lo piglia e lo costringe a servir la patria col braccio nella milizia, così nella sua virilità il sentimento morale lo obbliga a servirla coll’intelletto e coll’opera.
Né tampoco mi par vera in tutto l’asserzione, che la proprietà stabile, avendo cessato di essere per di così il pernio della società, e sovrastando invece la proprietà mobile, i possessori di questa si rifiutino di assumere uffici che li frastornano dalle loro abituali occupazioni. Queste al par di quelle della proprietà terriera, non sono esclusive: anzi si dà frequentemente il caso che lasciano l’attività del cittadino più libera dalla cura degli affari. Parlo di coloro per esempio che posseggono titoli di rendita dello Stato o di compagnie, dove tutta l’amministrazione del portatore di azioni o di obbligazioni si riduce a riscuotere le cedole semestrali e i dividenti. Si dirà che le occupazioni industriali e commerciali richieggono spesso il trasferirsi da un luogo all’altro, e scemano in qualche guisa l’affetto al luogo natio; ma se la premessa è vera, non è vera la conseguenza; anzi noi scorgiamo gli uomini che hanno fatto qualche fortuna in lontani paesi, non appena possono avere dei risparmi da investire, cercar qualche possesso che li riconduca alla terra che li vide nascere. E poi questa mobilità da luogo a luogo, non è essa una delle caratteristiche del tempo in che viviamo? eppure in certi paesi non impedisce di accudire agli affari pubblici. Ma vi è un’altra considerazione da fare; ed è che lo svolgimento della ricchezza e la sua diffusione hanno accresciuto moltissimo il numero di coloro che possono attendervi o vivano essi di solo risparmio, o vivano parte dei profitti di un capitale e parte di lavoro odierno. Le classi che potevano fornire in altro tempo gli amministratori della provincia, del comune, degli istituti educativi o benefici, erano ristrettissime; oggi si può quasi dire che abbracciano il maggior numero; e poiché piace al cittadino di esser chiamato dalla fiducia dei suoi conterranei ad adempiere alcuni di questi uffici, non sarà difficile affidarli gratuitamente.
Finalmente la storia disdice le induzioni contrarie, imperocché la vita libera, e la partecipazione dei cittadini al governo, nacque e si ordinò nelle città manifattrici e commerciali prima che in ogni altri luogo. Che se questo fatto della divisione del lavoro nell’America reca l’effetto di allontanare i più fra gli ottimi della cosa pubblica, ciò debbe attribuirsi ad alcune cause specialissime che ho già toccato innanzi. L’una è che le facoltà del magistrato sono scarsissime dirimpetto alla libertà individuale, sicché poco attraggono le ambizioni: l’altra è che gli emigranti formano una parete non piccola della popolazione,, i quali manifestamente non hanno tenerezza o predilezione per un luogo più che per l’altro: la terza poi è il còmpito immenso agrario ed industriale che sta innanzi a quei popoli ed offre larghissimi guadagni. Si direbbe che sono dalla Provvidenza destinati a coltivare ed incivilire quel continente vastissimo, e che il sentimento e la foga di questa impresa non consente loro di pensare ad alcun altro intento. Ma in un paese dove le attribuzioni governative sono molte, dove chi le esercita riscuote il rispetto, e si procaccia gli onori, dove il movimento industriale non ha né piò avere quella rapidità vertiginosa che tutto trascina al di là dell’Atlantico, il rifiutarsi a prender parte alla cosa pubblica non sarebbe già segno di un progresso civile, ma al contrario di regresso, e di decadenza, e preparerebbe in un avvenire non remoto il dispotismo sotto qualsivoglia forma. Noi dunque non abbiamo per ora nessun timore di accrescere le facoltà dei corpi locali elettivi, imperocché speriamo che si troveranno dovunque gli uomini pronti a sobbarcarsi agl’incarichi comuni, e a servir gratuitamente il loro paese.
Resterebbe un altro aspetto della questione, ed è che, dirimpetto allo impiegato tecnico e stipendiato, quei cittadini faranno meno bene, e si avrà tempo e spese impiegate con minore effetto utile. Ma di questo aspetto della questione ho già detto innanzi alcuna cosa. E ripeto che quand’anche le autorità elettive non facessero meglio né più rapidamente degli agenti del governo, quand’anche le gestioni loro fossero più dispendiose (di che in molti casi dubito fortemente, ma concedasi) sarebbe nondimeno desiderabile che a quelle in preferenza di questi fosse affidata la direzione di molti affari pubblici. Imperocché ciò educa il cittadino, lo rende affezionato alla propria terra nativa, svolge il patriottismo, e la dignità personale, e finalmente contenta molte ambizioni legittime, le quali potranno essere appagate da un ufficio amministrativo, e altrimenti avrebbero una mira più alta, cioè la deputazione politica. Al tempo di Luigi Filippo, così poco importanti e poco stimate erano le funzioni locali, che non appena uno mostrava ingegno, o era roso da cupidigia di primeggiare, una sola via vedeva aperta a sé, e quivi intendeva gli sforzi cioè a farsi eleggere deputato: e questa specie di pletora fu una delle cause della rivoluzione che lo balzò dal trono.
Ora posto che le amministrazioni comunali e provinciali siano più libere, che il sindaco venga eletto dal Consiglio, e la deputazione provinciale avendo il suo proprio presidente amministri al tutto indipendentemente dal prefetto, posto che divenga possibile la formazione dei consorzi interprovinciali, e che sia favoreggiata la costituzione di enti morali autonomi, resta ad esaminare la terza obbiezione dello Spaventa che vede ripetersi negli enti locali i mali deplorati oggi nelle amministrazioni locali. Questa obbiezione mi era già venuta innanzi spontanea, e l’ho descritta sopra. Intorno ad essa notai che l’alta vigilanza sopra l’andamento degli Enti locali non dee appartenere a loro stessi ma allo Stato. Io esprimeva questo concetto sin dal 1861 presentando il complesso delle leggi per l’ordinamento amministrativo del Regno: e diceva queste parole: "In uno stato ben ordinato la superiore vigilanza non dee mai venir meno. E questa vigilanza versa intorno a due punti, il primo è che le leggi siano osservate e nella sostanza e nella forma, e che comuni e provincie siano mantenute nel limite della loro competenza, il che appartiene al Governo di guardare: l’altro punto riguarda quegli atti dei comuni e delle provincie che vincolino l’avvenire (o tocchino ad interessi nazionali). E in questo caso ancora la vigilanza deve essere governativa, imperocché chi rappresenta veramente la società tutta intera e le generazioni avvenire, chi ha diritto di impedire che le parti non lodano gli interessi del tutto, si è lo Stato".
Pertanto nel mio concetto dovrebbero cessare dell’aver vigore l’art. 82 § 2 della legge comunale e provinciale che pone gli stabilimenti di carità e di beneficenza sotto la vigilanza del consiglio comunale, e l’altro articolo 172 § 17 che dà una potestà analoga al Consiglio provinciale, e finalmente l’art. 179 che attribuisce alla deputazione provinciale, presieduta com’è oggidì dal prefetto, la tutela sopra i comuni, i consorzi, le Opere pie. Ma si dirà: pongasi pure che la vigilanza in via diretta o per mezzo d’ispettori appartenga all’autorità governativa; ma ciò non scioglie ancora il quesito, cioè di guarentire i diritti di tutti, e di porgere adito a tutti i reclami contro la violazione loro. Se l’autorità comunale o provinciale non deve esser giudice di se stessa, neppure il ministro e l’agente di esso dev’essere giudice definitivo. Importa che vi sia un’autorità indipendente e un procedimento con tutte le garanzie di giustizia e di verità, che quell’autorità pronunzi sentenza non solo intorno agli atti dei corpi morali ma altresì nelle contestazioni di essi coi cittadini, e di questi e di quelli col governo. A questo patto solo possono svolgersi i benefici effetti del decentramento, a questo patto solo può esservi vera libertà individuale e locale.
Il primo pensiero che sorge nell’animo è di dare ai tribunali esistenti questa facoltà di giudizio, e ci parve di averlo fatto nel 1865 quando abolimmo il contenzioso amministrativo. Ma l’esame di quella legge, l’indagine delle materie di che si tratta di giudicare, e finalmente la esperienza ci provano che l’opera tentata allora lasciò una notevole lacuna. Lo dimostrerò più oltre. Quindi il nostro pensiero si rivolge alla Germania e ai tentativi di essa, dopo la costituzione dell’Impero, per isciogliere l’arduo problema10.
Per avere un concetto chiaro di questo ordinamento in Prussia bisogna riunire quattro leggi: 13 dicembre 1872, 23 giugno 1875, 3 luglio 1875 e 26 luglio 1876. Erano i Circoli un’antica istituzione prussiana che colla prima di queste leggi furono riordinati con maggior autonomia e con costituzione più democratica. I Circoli sono o urbani o rurali. Ogni città che raggiunge la popolazione di venticinque mila anime può costituire un Circolo indipendente. E ve ne sono quattordici che dalla popolazione suindicata vanno sino a un milione di abitanti. Poi vi sono i Circoli rurali che sono duecento quindici di numero, e la cui popolazione sta fra un minimo di quindici mila e un massimo di centomila. A lor volta i Circoli rurali si ripartono in baliaggi costituiti da uno o più comuni. Ognuno di questi ha sue peculiari attribuzioni gerarchicamente ordinate sino alla Dieta del Circolo che ne ha moltissimi. Questa è elettiva da tre gruppi: l’uno dei grandi proprietari rurali, l’altro dei comuni rurali, il terzo della città se nel Circolo ve ne sono. La Dieta ha il suo magistrato esecutivo composto dal Landrath nominato dal governo sopra una terna propostagli da essa, e di sei membri da essa pure eletti e rinnovabili per terzi ogni due anni: obbligatoria per un triennio è la pubblica funzione e gratuita, salvo casi previsti dalla legge, pena il pagamento di un ottavo ad un quarto di più nelle imposte del Circolo.
Sopra il Circolo è la provincia, la quale per la sua estensione e popolazione potrebbe chiamarsi veramente regione e ve ne sono cinque sole la Prussia, il Brandeburgo, la Pomerania, la Slesia, e la Sassonia. Le attribuzioni delle provincie sono grandi, la Dieta provinciale è composta dei delegati eletti dalle Diete dei Circoli rurali ed urbani, in media due per circolo. Anch’essa ha il suo magistrato esecutivo tutto elettivo, compreso il capitano o direttore della provincia, che però deve essere confermato dal governo ed ha la soprintendenza di tutti i servigi amministrativi. Dura da sei a dodici anni nel suo ufficio che reputasi di grado molto alto, e bene rimunerato. Fra la provincia e il Circolo v’è un altra circoscrizione il distretto (Bezirk) che per popolazione e per territorio somiglia anzi supera la nostra provincia, poiché va da mezzo milione a un milione di abitanti. Questo distretto non ha un carattere di amministrazione autonoma, essendo governato da un Consiglio nominato dalla Dieta provinciale; ma per lo contrario ha una importanza grande nella giurisdizione amministrativa ed è ciò di che ci intratteniamo al presente.
Venendo adunque a descrivere l’ordinamento della giurisdizione amministrativa, uopo è innanzi tutto dire che la Giunta del circolo ha alcune funzioni amministrative ma principalmente di giurisdizione. Dico che ha funzioni amministrative nella gestione degli affari propri di quella circoscrizione, e nella tutela dei comuni rurali, ma soprattutto ha funzioni giurisdizione, la legge determina non solo le materie su cui può sentenziare, ma eziandio il procedimento che è tutto speciale ed ha forme se non identiche, analoghe alle giudiziarie. Cosicché la detta Giunta opera nelle prime funzioni e nelle seconde con regole e modi totalmente distinti. Ma praticamente fa opera più spesso di corpo giudicante che di consiglio amministrativo, ed è al Landrath che spetta la parte sostanziale dell’amministrazione. Sopra al detto tribunale di Circolo sta quello di Distretto; ed è al tutto scevro di attribuzioni propriamente amministrative, ma ha solo quelle di giurisdizione. E’ composto di cinque membri due dei quali scelti dal re e inamovibili, l’uno di carriera giudiziaria, l’altro di carriera amministrativa, e di tre eletti dalla dieta provinciale, i quali si mutano ogni tre anni. Finalmente vi ha la Corte suprema a Berlino, la quale è in alcuni casi tribunale primo ed unico, in altri di revisione, in altri di cassazione per mantener l’unità della giurisprudenza.
Tale l’organismo. Posto il quale è uopo dire come tutte le materie amministrative siano divise in due categorie: quelle di amministrazione pura nelle quali, come appo noi, non v’è richiamo se non in via gerarchica, e l’ultima decisione appartiene al ministro o al suo delegato; e quelle di amministrazione contenziosa dove è lecito portare il richiamo dinanzi al tribunale, e trattarlo colle forme giudiziarie. E le materie contenziose a lor volta sono di due qualità: le controversie nelle quali un interesse privato sancito dalle leggi si trova in contrasto coll’interesse pubblico affidato all’amministrazione; le controversie fra gli associati in pubbliche corporazioni per effetto di diritti e di doveri nascenti dai rapporti sociali. E si noti che in taluni casi, come quando si tratta di provvedimenti di polizia locale delle città e delle campagne, la legge lascia l’opzione fra il ricorso in via gerarchica, e l’azione contenziosa.
Adunque il problema della giustizia amministrativa è stato sollevato e risoluto in occasione di un grandi riordinamento politico. La formazione dell’Impero germanico ha dato origine a questa riforma, la quale ebbe altresì il duplice fine: di toglier via certi avanzi del reggimento feudale nelle campagne, e di preservare l’amministrazione dai mali effetti del governo parlamentare. La maggior parte degli atti amministrativi che annoverai nel capitolo terzo, e sui quali in Italia non è ricorso altro che all’autorità superiore in gerarchia a quella che li ha eseguiti, sono portati in Prussia dinanzi al tribunale amministrativo, dico tutto ciò che si riferisce alle deliberazioni illegali delle rappresentanze locali, agli affari comunali e provinciali, alla polizia preventiva, alla rurale, alla sanitaria, agli affari scolastici, alla caccia, alla pesca, alle foreste, ai lavori pubblici, e finalmente tutto che si riferisce alla disciplina degli impiegati e alle pene loro inflitte dai superiori11.
E’ degno di nota lo studio profondo, vario che si è fatto in questa materia in Germania negli ultimi tempi: noi non ne abbiamo in generale quasi idea. Gli effetti del nuovo ordinamento amministrativo sembrano sino ad ora produrre buoni frutti. Né il numero degli affari è stragrande, imperocché non ha superato quello di cinque a sei mila in tutti i tribunali amministrativi, e di mille pel Consiglio supremo. La differenza sostanziale col sistema francese, dove pure, sino dal principio dell’amministrazione napoleonica, v’ha il contenzioso amministrativo, la differenza dico è in due punti. Primo, il consiglio giudicante in Francia è il Consiglio di prefettura, cioè un ufficio stesso dell’amministrazione attiva, in Germania è un tribunale indipendente: che se v’ha miscela di attribuzioni nella Giunta di circolo, pure come accennai l’autorità massima rispetto all’amministrazione attiva spetta al Landrath: inoltre appena si sale di un grado, il tribunale diventa autonomo: in secondo luogo i regolamento che servono di norma al giudizio hanno quivi forza di legge, mentre in Francia sono naturalmente più indeterminati ed acquistano vario valore secondo le interpretazioni dell’amministrazione stessa. Ma di ciò più oltre.
L’esempio della Prussia fu seguito dagli altri Stati dell’Impero germanico con qualche variazione, e in parte anche imitato dal Portogallo nella sua legge del 6 maggio 1878. Ivi il tribunale di distretto eletto sopra terna proposta dal Consiglio provinciale è presieduto dal governatore civile, però havvi un tribunale supremo amministrativo, e fu pubblicato contemporaneamente a questo ordinamento un codice amministrativo12.
L’istituzione di una Corte suprema di giustizia amministrativa nella Antustria-Ungheria data dalla legge 22 ottobre 1875 e merita special menzione, come quella che soprapposta ad autorità locali in un ordinamento assai decentrato, coordina e mantiene in esse il rispetto della legge e l’unità della giurisprudenza. Ha per ufficio di conoscere i ricorsi che le sono recati innanzi da ogni cittadino che si crede leso nei suoi diritti da decisione o da provvedimento illegale di un’autorità amministrativa. E il ricorso può essere fatto tanto contro le decisioni e i provvedimenti dell’amministrazione centrale, quanto contro quelli delle amministrazioni provinciali, compartimentali e municipali. A questo tribunale pertanto non si può ricorrere per alcuno di quegli affari nei quali l’amministrazione è fornita di un potere discrezionale e per gli altri affari vi si ricorre solo dopo avere sperimentato i richiami ordinari in via amministrativa e gerarchica. Esso non giudica d’altro che del diritto e della legalità o illegalità degli atti. Ma se il tribunale supremo accoglie il ricorso del cittadino, e con sentenza motivata lo dichiara giusto, le autorità sono tenute di ottemperarvi, anzi i principii della sentenza addivengono norme dell’azione futura delle autorità amministrative. La differenza col tribunale supremo germanico sta in ciò che questo è propriamente una Corte d’appello dalle sentenze dei tribunali di prima istanza, e il tribunale austro-ungarico potrebbe compararsi se non in tutto in parte una Corte di Cassazione. Invero esso talvolta annullando l’atto dell’autorità amministrativa, o perché la determinazione dei fatti apparisca incompiuta, o perché talune forme essenziali della procedura non furono osservate, annullando dico l’atto per questa cagioni, rinvia l’affare di nuovo dinanzi all’autorità stessa amministrativa. Ma nessuna restituzione in integro può aver luogo contro le decisioni di questa Corte suprema. V’ha un’autorità sola che le sovrasta nel caso di conflitto di competenza fra essa e i tribunali ordinari, ed è il tribunale supremo dell’Impero sancito dalla costituzione. Il procedimento è fissato dalla legge, il dibattito orale. Tale è la guarentigia che l’Austria-Ungheria dà al cittadino contro gli abusi dell’amministrazione, ed a siffatta guarentigia si dà grandissima importanza eziandio come mezzo di preservare il governo parlamentare dalla corruzione.
Ora può egli farsi qualche cosa di analogo in Italia? e sino a qual punto si può andare?
Prima di tutto giova ricordare che l’Italia ebbe sino al 1866 varie forme di contenzioso amministrativo, la più parte delle quali però si rannodava al sistema francese. In Piemonte i Consiglieri d’intendenza erano i primi giudici, il Consiglio di stato e la Corte dei conti giudicavano in appello secondo la materia. In Napoli analogo ordinamento; prima istanza, al Consiglio di Prefettura (ma secondo la legge i consiglieri non erano ufficiali di carriera sibbene notabili della provincia, ed erano modestamente rimunerati) appello alla Corte dei conti, alla Camera di giustizia e dell’interno, al supremo Consiglio di cancelleria. In Parma la istituzione del contenzioso amministrativo era foggiata alla francese ed ebbe molta importanza e meritata. In Toscana, eccetto nei contratti di accollo per le strade e per le pensioni, non vi era vera e propria giurisdizione di contenzioso amministrativo; la massima parte delle controversie andava innanzi ai tribunali ordinari. Anche in Lombardia e in Modena l’autorità amministrativa decideva essa la massima parte delle questioni senza erigersi a tribunale collegiale con speciale procedura. Laonde può dirsi che l’ordinamento del contenzioso amministrativo era diverso secondo i vari Stati d’Italia, sì per la natura degli oggetto che sotto quel titolo si comprendevano, sì per la giurisdizione alla quale erano sottoposti, per la forma della procedura e per l’efficacia delle garanzie. Costituito il regno d’Italia, e volendosi procedere al unificare dovunque questa materia, il ministro dell’interno nel 186213 propose l’abolizione del contenzioso amministrativo. Egli notò che la massima parte degli affari compresi sotto questo titolo erano vere e proprie controversie di diritto privato, le quali non richiedevano una giurisdizione speciale, ma potevano e dovevano rimettersi ai tribunali ordinari. Per darne un esempio, ogni volta che l’amministrazione pubblica agisce come qualunque cittadino o ente morale nell’interesse suo proprio, non nell’interesse generale, non v’è ragione perché le sue controversie non vadano dinanzi a quelli. Poniamo che nasca una lite di servitù o di confine fra un podere demaniale ed il potere di un privato: non vi è ragione perché questa lite debba essere sottratta alla giurisdizione comune. Similmente una volta che l’amministrazione pubblica ha stipulato un contratto, se nascono differenze fra essa e gli assuntori, il tribunale ordinario può essere giudice delle conseguenze del contratto; così dicasi delle cause di contravvenzione e va dicendo. Ma codesta osservazione del Ministro aveva un valore generale? tutto ciò che era giudicato altre volte proprio del contenzioso amministrativo poteva esser dato o restituito ai tribunali ordinarii? il ministro proponente poneva a sé medesimo tale questione, e riconosceva che no: "Oltre agli affari, diceva esso14, che possono esser deferiti ai tribunali ordinari, ve ne sono altri di vera e pretta amministrazione i quali erano stati attribuiti alla giurisdizione amministrativa di primo e di secondo grado, al fine di dare agli amministratori una maggiore guarentigia dei loro diritti, conciliabili col regolare andamento della cosa pubblica. Occorreva quindi esaminare se, abolendo il contenzioso amministrativo, tali affari dovessero riservarsi all’amministrazione attiva, con regole e forme proprie le quali fossero nel tempo medesimo di sufficiente garanzia agli interessati". Il ministro si risolveva per questo partito e ne diceva la ragione e l’utilità. Pareva ad esso che mantenendo una speciale giurisdizione amministrativa si corresse questo pericolo, che la massima parte degli affari avrebbe continuato a portarsi dinanzi ad essa: sia per quella naturale propensione che è nei cittadini a continuar pel sentiero battuto, e valersi delle forme più semplici e spiccie, sia anche per evitare quistioni delicate di competenza. Egli non taceva l’inconveniente a cui s’andava incontro, cioè che l’amministrazione rimaneva più sciolta e porgeva guarentigie minori nelle materie che non potevano portarsi dinanzi ai tribunali; non lo dissimulava, sforzavasi bensì in parte di ripararvi. Lasciava integra la giurisdizione contenziosa delle Corte dei conti, in materia di contabilità e di pensioni, integra quella del Consiglio di stato per le materie in cui provvede in prima ed ultima istanza, integre le facoltà delle Commissioni speciali, alle quali fosse per legge deferita qualche giurisdizione speciale amministrativa: però eran questi parziali ordinamenti, e l’inconveniente non era ovviato interamente. Il problema era posto in chiaro, e non meno chiaramente messe in evidenza le obbiezioni. "intendo bene che si ammetterà, diceva il ministro, come progresso la restituzione ai tribunali ordinari di tutte le questioni che potevano dirsi loro sottratte, ma si accuserà come regresso che taluni affari che erano sottoposti ad un giudizio collegiale siano abbandonati alla decisione della potestà amministrativa". Ma egli sperava che tali affari fossero ridotti al minimo possibile, e per preservarsi dall’arbitrio disponeva che l’autorità amministrativa dovesse decidere con decreto motivato, ammesso la rappresentanza delle parti, e uditi i consigli amministrativi che nei diversi gradi sono stabiliti dalla legge.
Quel disegno di legge ritardato per diversi eventi tornò alla Camera e fu discusso nel 1864. La discussione fu assai vivace, e l’abolizione del contenzioso amministrativo ebbe contraddittori vigorosi, come il Cordova, il Rattazzi, il Crispi. Quegli oratori notarono che l’amministrazione in alcuni casi rimaneva in balìa dell’arbitrio assai più di quel che fosse antecedentemente, ma come nota giustamente lo Spaventa, nessuno degli avversari intravide il lato nuovo della questione relativo alle guarentigie necessarie al diritto pubblico di un paese sotto un governo parlamentare ossia di partito, né è da credere che i fautori della legge avessero una coscienza più chiara di questa nuova faccia del problema. Ora che da diecisette questa legge è vigente, è lecito riguardarla al lume della esperienza. Ed io credo che sia stata autrice di utilità, riconducendo ai tribunali ordinari tante questioni che appartengono al diritto privato, e che a proposito volevansi giudicate dai Consigli di prefettura. Ma la lacuna che lo stesso ministro proponente aveva indicata, e che più manifestamente fu messa in aperto durante la discussione, esiste veramente, ed è maggiore di quel che allora fu supposto; e diviene più pericolosa ove si consideri l’amministrazione nei riguardi di che tratta questo libro; e quindi se è possibile colmare questa lacuna, né palese la convenienza. Certo gli effetti della maggior libertà amministrativa degenerati in arbitrio hanno tardato a farsi sentire. Qui ancora i grandi fini ai quali l’Italia mirava, e che a sé traevano le menti di tutti, valsero a preservare per un tempo l’amministrazione dagli arbitrii e dagli abusi. Ma venne il giorno in cui gli spiriti partigiani s’infiltrarono per entro di essa, e influirono sulle sue decisioni come ho mostrato addietro, sicché il bisogno di compiere la legge del 1875 si rese più manifesto. A chi dunque dovrà riformare l’ordinamento amministrativo il problema si para innanzi di nuovo reso dall’esperienza più pratico, e illustrato dagli studi e dagli esempi della Germania.
Soffermiamoci alquanto in questo punto, e cerchiamo di chiarirlo, avvegnacché esso sia importantissimo nella presente trattazione. La distinzione degli atti civili in amministrativi e giudiziari è antichissima poiché sempre vi furono nella società disposizioni di interesse pubblico al tutto distinte dalle sentenze del pretore; nondimeno le due cose vennero spesso confuse. I tribunali in qualche evento cassavano dei provvedimenti meramente amministrativi, l’amministrazione a sua volta sospendeva l’esecuzione di talune sentenze. E fu gran pregio dell’opera napoleonica l’aver disgiunto meglio l’una dall’altra materia, abbenché nel suo ordinamento (che sino ad oggi continua in sostanza ad essere vigente in Francia) l’amministrazione usurpò molte spettanze giudiziarie, nel che noi dopo la legge del 1865 siamo invece assai più corretti. Codesta è una questione di limiti come oggimai si mostrano tutti gli ordinamenti che pigliano da varie scienze i loro principii. E’ più agevole segnare queste distinzioni con gli esempi di quello che con una definizione, e porgerne in copia sarebbe facilissimo. Però il lettore non ha che a ricordare quanto noi abbiamo detto sopra nel Cap. III rispetto all’Italia: e anche senza di ciò, pur solo riflettendo all’argomento potrà supplirvi colla sua esperienza quotidiana. Pure a maggior chiarezza indichiamone alcuno. Pongasi che una legge sia promulgata per la quale debbano espropriarsi certi dati terreni di ragion privata al fin di aprirvi una strada ferrata. Fin qui l’opera è legislativa. Appresso il Ministero dei lavori pubblici la delineare dai suoi ufficiali il tracciato e lo rende noto al pubblico. Suppongasi che taluno creda quel tracciato poco conveniente e a sé stesso dannoso; a chi può egli ricorrere? Sarebbe egli possibile di andare dinanzi ai tribunali per simile piato? Qual legge applicherebbe il tribunale sul merito di un tracciato di ferrovia? Mancherebbe ogni base di sentenza. Codesto adunque appartiene all’amministrazione, ed oggi il cittadino che ha obbiezioni le porge al ministro dei lavori pubblici il quale, sentito il consiglio superiore, pronunzia il giudizio. Ora supponiamo deciso e accettato il tracciato: trattasi di fornire il risarcimento agli espropriati e pongasi che l’offerta del governo non paia sufficiente al proprietario. Qui il tribunale è competente perché trattasi di un diritto privato e di attribuire a ciascheduno il suo. Potrà il tribunale delegare dei periti i quali valutino il terreno, ma esso è competente a deliberare. Però si dirà; se il tribunale ha avuto facoltà di eleggere periti prima di giudicare l’indennità dovuta al proprietario, perché non potrebbe valersi similmente di periti, per giudicare il merito del tracciato ferroviario? La ragione è questa che nell’un caso la perizia determina la quantità del compenso, ma il diritto al compenso, è sancito dalla legge: nel secondo caso il tribunale determinerebbe la legge stessa, il principio (figura del tracciato) contro il quale il cittadino ha ricorso. Facciamo un altro esempio e basti. Taluno chiede di erigere in città una fabbrica di prodotti, che possono reputarsi insalubri, o pericolosi, o anche sol rumorosi e perciò incomodi al pubblico. Il Prefetto sentito il consiglio comunale nega, o concede il permesso con certe determinate condizioni. Se nega, può il petente rivolgersi al tribunale ordinario? Come potrebbe questo conoscere le ragioni igieniche o edilizie, e sentenziare sulla convenienza della permissione? Ma se al cittadino fu concessa la creazione della fabbrica, e se egli adempì tutte le condizioni che gli furono prescritte, e venne dopo un giorno nel quale all’autorità municipale parve che la fabbrica divenisse intollerabile entro le mura della città, e il prefetto ne ordinò la chiusura, allora sì che il tribunale è competente giudicando sulle norme del diritto costituito, e può colla sua sentenza o mantenere la fabbrica, o determinare il proporzionato ristoro che si dovrà darne al possessore, qualora per ragioni amministrative si voglia chiuderla. 
Ma per tornare al proposito nostro cercasi qual sia il criterio, quale la nota caratteristica onde si possa saggiare e discernere le materie contenziose giudiziarie dalle materie contenziose amministrative: intorno a che parecchie formule furono recate innanzi, ma forse nessuna ancora compiuta e per ogni parte scientificamente soddisfacente. Si è detto: appartiene al contenzioso giudiziario ogni controversia che può esser decisa con un testo preciso di legge, di ordinanza, o di decreto: imperocché nel testo medesimo si trova già anticipatamente la soluzione della questione, e il tribunale non ha altro ufficio che di dedurla. Ogni controversi invece che sorge da un atto discretivo del governo non può esser portata dinanzi ai tribunali, ma appartiene al contenzioso amministrativo. Vi è certamente del vero in questa definizione, ma non è intera né chiara. Ogni nuovo regolamento, ogni decreto che fissasse i termini precisi elle obbligazioni del cittadino in una materia, farebbe per ciò solo passare le controversie relative ad essa dall’amministrazione alla magistratura giudiziaria. Eppure non è sempre così. Tutti i tribunali amministrativi nella Germania e altrove giudicano colla norma di regolamenti ai quali fu dato effetto giuridico, e noi dobbiamo desiderare che anche le materie amministrative siano regolate da discipline fisse e non a discrezione.
Altri pone per criterio questo; che i diritti sono materia propria della autorità giudiziaria, gli interessi dell’autorità amministrativa; il mandato della prima è di proteggere e mantenere il diritto, dichiarandolo se negato, reintegrandolo se violato, rifacendone i danni se è stato leso. Però la sua facoltà, che non può toccare il merito di un atto amministrativo, si estende anche a giudicare della sua illegittimità, quando esso pecchi per violazione di forma, per difetto di competenza o per eccesso di potere15. Anche qui c’è parte di vero, ma se il diritto suppone sempre un interesse sancito dalla legge positiva, vi sono interessi che la legge non determina ma sono protetti da ordinanze, da regolamenti, da consuetudini. Invero se noi avessimo la Corte di equità come in Inghilterra, si potrebbe sostenere l’argomento; ma appo noi né tutti i diritti sono portati dinanzi ai tribunali né tutti gli interessi cessano in certi casi di piatire dinanzi a loro; e la distinzione diventa talora sottilissima, e difficile quando si tratta di scendere alla pratica.
Si è detto infine che la differenza apparisce da ciò che il tribunale giudica del diritto privato, del mio e del tuo fra due contendenti che cercano innanzi ad esso le loro ragioni, e la Corte decide applicando la legge al caso: invece spetta all’amministrazione (e per conseguenza anche ai tribunali amministrativi dove esistono) tutto ciò che è di diritto pubblico interno, cioè che sorge dai rapporti dei cittadini e degli Enti giuridici collo Stato, in quanto autorità regolatrice e tutrice. Ricordi il lettore qual che abbiamo detto sopra, che lo Stato in alcune circostanze conduce la gestione de’ suoi affari come un privato, e quando ha fatto un contratto è obbligato similmente ad osservarne le clausole, e in questi casi si presenta dinanzi al tribunale anch’esso come ogni altri cittadino. Ma il più delle volte lo Stato impera come potestà pubblica, e similmente le autorità locali sì delegate che elettive: ed è degli atti fatti a fine di pubblica utilità che si tratta di presente. Questo criterio corrisponde alla definizione datane dal Romagnosi: "essere per sé stesse questioni di pubblica amministrazione tutte quelle che cadono sopra oggetti di loro natura appartenenti alla ragione pubblica, considerata tanto in relazione alla persona individuale dello Stato, quanto in relazione ai cittadini contemplati nelle loro generalità"16. Però anche questo criterio non può ammettersi in tutta la sua ampiezza, e di vero ne seguirebbe quel che l’autore stesso logicamente deduce, che appartiene all’autorità amministrativa decidere di tutte le controversie sopra obbligazioni o diritti che nascono dal fatto dell’Amministrazione pubblica, ossia da un atto amministrativo. Ora vi sono degli atti amministrativi che possono violare il diritto privato, e a giudicare dei quali basta il testo del codice civile; sicché non v’è ragione di sottrarli ai tribunali ordinarii.
Mediante un’accurata analisi dei casi di controversia, si può supplire in parte a queste teoriche un po’ troppo assolute, pur riconoscendo che talvolta è difficile determinare la competenza con precisione ed anticipatamente. Ma è chiaro che sono di competenza giudiziaria tutte le questioni di stato civile, e anche politico, tutte le questioni di proprietà o di obbligazioni, contratti ecc., tutte le questioni intorno a un diritto privato che si ben determinato e definitivamente acquisito. E rispetto alle questioni che nascono da atti amministrativi, al giudice ordinario si appartiene pronunziare della legalità di essi; né parmi esatto quello che taluni affermano che il giudice non possa mai annullare l’atto amministrativo: così per esempio se il fondo per il culto prendesse possesso di un ente, e l’apprensione fosse dichiarata illegittima, l’atto stesso rimarrebbe annullato. Quanto al contenzioso amministrativo giova notare in primo luogo che la controversia non è solo fra il privato cittadino e l’amministrazione dello Stato, ma fra cittadini ed Enti morali, fra Stato ed Enti morali ed anche fra il governo e i suoi agenti. Così appartiene a questo genere di contenzioso ogni controversia che nasce fra Stato e Comune in materia di attribuzioni: similmente se si tratta di aver trapassato le proprie facoltà, poniamo il caso avvenuto non è guari che un municipio si faccia esercente di un’industria, e per questo modo danneggi gli esercenti privati, limitando la libera concorrenza. Così tutte le questioni di disciplina interna dei pubblici ufficiali, e di responsabilità gerarchica, così dello stato degli impiegati e va dicendo. Quando poi al ricorso del privato cittadino contro l’amministrazione pubblica, anche qui è da notare che la controversia prende sempre origine da un atto amministrativo, che l’amministrazione non vi è mai o quasi attrice ma è convenuta, e difende la propria libertà d’azione; e che il criterio di interpretazione nel giudicare deve essere più largo nel giudice amministrativo che nel giudice civile. E in vero in molti casi l’atto amministrativo rimane inalterato, e si attribuisce solo un ristoro al ricorrente, mentrecché la potenza del tribunale ordinario reintegra il diritto che è stato offeso, e restituisce le cose in pristino per quanto è possibile.
Le suddette avvertenze mi sembra che conducono naturalmente alla soluzione del problema, e tuttavia il tema è ben lungi dall’essere esaurito, e manca ancora la formula scientifica che raccolga ed esprima tutti i casi in una proporzione generale. Io stesso sento che nel mio discorso v’ha qualche cosa di vago e di oscuro. Ma per tornare dalla digressione al soggetto principale, posto che la vita civile è intessuta di atti amministrativi indirizzati all’utile pubblico, ma che possono tornare di nocumento al privato e posto che dev’essere permesso contro questi atti il ricorso, e la querela, ma non dinanzi all’autorità giudiziaria perché non è competente a giudicare, qual via dovrà tenersi? A chi rivolgersi? Ho notato più sopra, e giova ripeterlo, esservi qualche atto o provvedimento la cui indole urgente, il cui giudizio discretivo, il cui effetto momentaneo impedisce che possa mai essere deferito a tribunali né giudiziarii né amministrativi, ma questa non è, e non deve essere la regola generale. L’arbitrio dell’amministrazione deve limitarsi il più che sia possibile e il ricorso del cittadino deve avere una protezione od una guarentigia efficace. La Germania, come ho detto sopra, v’ha posto mano ordinando tutta una gerarchia di tribunali amministrativi parallela ai tribunali giudiziari, e questo ordinamento sembra aver fatto buona prova.
E nondimeno io non oserei consigliare al mio paese tutta la macchina immensa della giurisdizione prussiana, né tampoco è mio intendimento di proporre un ordinamento preciso, descrivendolo nelle sue varie parti e quasi apparecchiando uno schema di legge da discutere. Non è questo il compito del libro presente, pago di segnare alcune linee generali. Però siccome anche questa semplice delineazione vuol avere qualche forma pratica, parmi che in Italia si potrebbe provvedere a ciò col metodo austro-ungarico, cioè colla creazione di un tribunale amministrativo supremo. Che se questo sembrasse insufficiente, perciocché detto tribunale conosce solo del diritto e la esperienza confermasse tale insufficienza, si potrebbe supplirvi ordinando i Consigli di prefettura in modo alquanto diverso da quello che è stabilito agli articoli 5 e 6 della legge comunale e provinciale. E poiché accenno a questa idea piacemi di chiarirla alquanto maggiormente. Ho detto altrove che il Consiglio di prefettura dovrebbe per ciò che riguarda l’esecuzione degli atti importanti e per mantenere in continuo accordo i vari servigi, comporsi dei capi di servizio stessi; e mantengo questo concetto. Ma diverso è il Consiglio di chi io parlo: io parlo di quello che esiste già secondo gli articoli 5 e 6 della nostra Legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865, la quale dice che il Consiglio di prefettura si compone di un numero non maggiore di tre consiglieri e di due aggiunti, e che le sue attribuzioni gli sono commesse dalle leggi. Ora di questi cinque potrebbe il Governo sceglierne due, uno fra i funzionari della carriera amministrativa e l’altro fra quelli della carriera giudiziaria, altri due venire dalla elezione del Consiglio provinciale per un periodo di cinque o sei anni, il quinto procederebbe per delegazione della Corte dei conti per attendere più particolarmente al còmpito dell’esame di tutti i bilanci consuntivi dei comuni e delle Opere pie. A questo corpo, che diventa una specie di tribunale amministrativo, sottoporrebbe il prefetto le violazioni della legge che gli Enti morali avessero commesso, e ricorrerebbero i cittadini e gli Enti morali pei gravami fra loro o verso l’amministrazione.
E qui non posso fermarmi a determinare i particolari, né posso rispondere a una quantità di piccole obbiezioni che mi si affollano innanzi, perché come già accennai, non si tratta di porgere uno schema di legge a discussione, ma di dare le linee generali di un disegno per soggettarlo ad esame e a correzione. Nondimeno non posso pretermettere due difficoltà che si presenteranno alla mente del lettore, e che appaiono gravi al primo sguardo. L’una è che tale ordinamento sarebbe troppo complicato: ma esso non aggiunge che un solo organo agli esistenti, e altri ne annulla o ne semplifica. I Consigli di prefettura restano quali sono di numero, ma con una parte dei loro membri elettivi, e con attribuzioni più chiare e distinte. Molte commissioni speciali e corpi collegiali che vennero sorgendo mano a mano soprattutto in materia di contenzioso finanziario, possono finire cedendo le attribuzioni loro ai Consigli di prefettura. Un solo corpo realmente nuovo vi sarebbe cioè la Corte suprema amministrativa, ma in un paese che ha cinque cassazioni e tanti tribunali civili che soverchiano il bisogno, la diminuzione di una piccola parte di questi sarebbe compenso più che sufficiente alla formazione di un nuovo ed unico tribunale. La Corte dei conti rimarrebbe com’è al presente
La seconda obbiezione è che con ciò si menoma l’importanza dei Consigli superiori che esistono presso i Ministeri, e tali sono il Consiglio di stato che nel sistema francese è il pernio del contenzioso amministrativo, il Consiglio dei lavori pubblici, d’istruzione pubblica, d’industria e commercio e simiglianti. Io non lo credo punto. Le attribuzioni, siccome il titolo dice, sono di consiglio e precedono l’atto; non sono di giurisdizione se non in pochissimi casi, cioè per Consiglio di stato, nei casi indicati all’art. 10 della legge 20 marzo 1865, e di questi anche con altra legge del 31 marzo 1879 cessò il più importante che era la decisione sui conflitti che insorgono fra l’autorità ma: ed un altro caso di giurisdizione è quello del Consiglio d’istruzione superiore per le pene da infliggersi ai professori. Adunque l’importanza di tali facoltà non è di gran momento, e l’opera loro non è meno necessaria né meno proficua come sussidio, avviso, indirizzo del Ministro; dirò anzi che questi in certi casi non dovrebbe poter operare diversamente dall’avviso loro. Certo le leggi che li riguardano andrebbero lievemente ritoccate, ma non alterandone la sostanza.
Lo Spaventa, nel discorso che ho più volte citato, indicò anch’egli le tre maniere di rimedi che ho spiegato, maggior libertà individuale, decentramento, giurisdizione amministrativa, ma venendo alle riforme pratiche, si tenne pago a proporre alcune poche modificazioni alle leggi vigenti. Laonde io penso che la differenza col mio disegno nasca principalmente da ciò che ci temette scostandosi dagli ordini presenti di incorrere la taccia di troppo speculativo e remoto dalla pratica, e volle colla parità delle apparenti mutazioni rassicurare gli animi, laddove il progresso che l’opinione pubblica ha fatto di poi in questa materia, permette di tagliar più sul vivo. Ad ogni modo se queste differenze si vogliano divisare, elleno mi paiono le seguenti: lo Spaventa manterrebbe nelle deputazioni provinciali il diritto di revisione, di tutela e di giudizio amministrativo, purché il prefetto ne rimanga il presidente. Io invece lascio alla deputazione piena autonomia e facoltà di amministrare la provincia; ma gli tolgo ogni prerogativa tutoria, perché a mio avviso non le si conviene. Similmente egli vorrebbe svolgere le facoltà giurisdizionali di alcuni corpi amministrativi, laddove io preferirei di raccoglierne le attribuzioni nei Consigli di prefettura. Infine egli modificherebbe nella composizione e nelle attribuzioni il Consiglio di stato per accostarlo alquanto ad un tribunale supremo amministrativo, io invece propongo la creazione di questo tribunale. Dissi che le idee espresse dall’onorevole Spaventa hanno cominciato a penetrare negli animi, e ciò può scorgersi anche nell’ultimo progetto di legge che il Depretis aveva presentato al Parlamento per una riforma del Consiglio di stato, perché vi si proponeva appunto di afforzare alcune attribuzioni esistenti, di estenderle oltre i limiti odierni, e

di modificare la composizione del collegio17. Ma a me pare più semplice e più efficace l’istituzione di un tribunale proprio, lasciando al Consiglio di stato la sua grande e propria attribuzione di consigliere del governo.
L’idea di trasformare i consigli di prefettura non è nuova e la espose primo in Italia, a mia notizia, Costantino Baer in una serie di articoli che avrebbero meritato tutta la meditazione e lo esame degli uomini politici e di coloro che studiano sulle condizioni della società odierna; ma passarono invece poco osservati, perché la opinione non era matura ancora a tali indagini18, e poi Roma e l’acquisto della capitale rapivano ancora a sé le menti di tutti. In quegli articoli ei proponeva che i Consigli di prefettura nominati dal Governo fra i notabili del paese e rinnovabili periodicamente avessero i seguenti uffici: 1° Imporre ai comuni ed alle provincie l’adempimento degli obblighi previsti dalle leggi mediante sentenza resa esecutiva. 2° Omologare come fanno i tribunali per gli atti di giurisdizione volontaria tutti gli atti di amministrazione che le leggi dichiarano sottoposti all’autorizzazione del governo. 3° Giudicare dei conti consuntivi. 4° Giudicare della responsabilità degli ufficiali pubblici e dell’adempimento dei loro doveri. 5° Decidere sulla conformità alle leggi dei regolamenti generali per servizi affidati ai comuni ed alle provincie. 6° Giudicare in prima istanza delle questioni elettorali. 7° Decidere sui reclami in materia di tasse comunali, salvo che sia questione di diritti da lasciarsi ai tribunali. Il prefetto faceva secondo lui l’ufficio di pubblico Ministero presso i consigli. Come ognun vede il concetto che io ho esposto in questa parte, non differisce sostanzialmente dalle predette idee19. Soltanto io estenderei il giudizio sui ricorsi non solo alle materie di finanza ma a tutta l’amministrazione.
Ed ora parmi tempo di raccogliere le vele. Ho studiato di mostrare per quale via gli Stati Uniti d’America, l’Inghilterra, la Germania abbiano cercato di porre freno al male di che parliamo. M’è parso che l’Italia non si trovi in grado di seguire una sola di queste vie poiché la sua indole, le sue tradizioni, il modo di suo svolgimento vi porrebbero troppo forti ostacoli. Resta adunque che l’Italia attinga a ciascuno di questi tre esemplari ciò che v’ha di meglio e di più confacente ai suoi costumi, e me faccia un tutto organico che abbia importanza nazionale. Pertanto noi dovremmo sforzarci di togliere tutte le pastoie alla libertà individuale che non sono punto necessarie, al qual fine gioverebbe riprendere in esame parecchie leggi, e soprattutto i regolamenti fatti dal governo, o approvati da esso, per sterparne tutto ciò che non è strettamente richiesto dagli interessi generali e dai fini dello Stato: e la parte restante e necessaria, salvarla e coordinarla insieme dandole anzi un valore maggiore come dirò appresso. In secondo luogo noi dovremmo fare opera di decentramento in ogni pubblico servigio ed ufficio, sia per delegazione di facoltà data alle aziende provinciali e comunali, sia togliendo ogni diretta ingerenza del governo nell’amministrazione loro vera e propria, sia finalmente agevolando e favoreggiando la costituzione di associazioni autonome aventi carattere di Ente giuridico, e avvalorando quel che gli inglesi dicono diritto d’incorporazione sotto determinate leggi e cautele. Finalmente noi dovremmo costituire la giustizia amministrativa, togliendo all’amministratore stesso il sindacato dei suoi propri atti, e il definitivo pronunciato sui medesimi, e ammettere il richiamo amministrativo per quelle controversie che non posson essere giudicate dai tribunali ordinari. Al qual uopo è mestieri dare ai regolamenti effetto giuridico e creare una giurisdizione amministrativa. Forse basterebbe un tribunale supremo amministrativo, ma ove si creda necessario dare guarentigie anche negli ordini inferiori, ho indicato i lineamenti di un disegno che mi sembra non difficile ad eseguirsi.
V’ha chi invoca un codice amministrativo; v’ha chi nega potersi in guisa alcuna codificare l’amministrazione e i più fra i francesi propugnano questa ultima idea20. In Italia un’autorità molto competente esprimeva pur dinanzi il medesimo concetto21. "Il regolamento, dice il Mantellini, che volesse descrivere ogni atto della vita civile di un popolo e di chi lo governa o amministra rischierebbe di costituire il governo nella impossibilità di muoversi e di agire per riuscire manchevole e arbitrario ad un tempo... E fra l’arbitrio dell’uomo e l’arbitrio della regola, si rischia meno col primo che col secondo. La regola che non risponde né può risponder di nulla, necessariamente tracciata a priori in previsione dei casi avvenire, la si applica strida o non strida, convenga o disconvenga col caso avvenuto o colle sue fattispecie, si abbia per opportuna oppure no. E l’opportunità che è la prima legge, il criterio costante da seguire nell’amministrazione dipende da un insieme di circostanze che non si ripete e da un giudizio di prevalenza delle une sulle altre che cambia da caso a caso".
Questa teoria ha una parte di vero, ma solo una parte; né io tacqui esserci veramente dei casi nei quali il giudizio e l’atto amministrativo sono determinati da un complesso di elementi che definire non si ponno, e questo giudizio e questo atto dell’amministrazione bisogna accettarli senza dar luogo a richiamo o al più rimettersene all’autorità superiore in gerarchia. Ho detto inoltre non esservi legislazione amministrativa che possa tutto definire e coercere sino nei particolari. Ma ho parimenti detto sopra che nelle materie politiche e sociali, ella è questione di limiti più che di principii. Già l’esperienza ha dimostrato quante controversie che altra volta erano reputate amministrative potevan decidersi dai tribunali ordinari come controversie di diritto privato. La legge del 1865 e la giurisprudenza da quel tempo sino ad oggi lo hanno determinato sufficientemente. Ma l’esperienza ha mostrato ancora che molte controversie che si volevano evitare del tutto per non offendere l’azione libera dell’amministrazione, possono dar luogo a ricorso e a giudizio. V’ha una quantità di atti amministrativi che si riferiscono a materie di polizia, d’imposte, o stradali, o idrauliche o sanitarie e va dicendo, alle quali non solo si possono prescriver delle norme, ma le norme sono già in gran parte prescritte, mediante regolamenti, circolari, istruzioni. E si tratta di dare a queste regole maggiore precisione e fissità,, e di statuire che l’autorità che compie l’atto non sia quella medesima che giudichi dei richiami, ma un’autorità diversa e collegiale che porga nella sua composizione, nella procedura, nelle forme del giudizio le maggiori guarentigie possibili al cittadino.
Già sin dal 1829 in alcuni suoi scritti sagaci e profondi il duca di Broglie aveva preso ad esaminare lo stato del contenzioso amministrativo in Francia, e a farne la critica22. il suo pensiero era di fare un lavoro di discriminazione delle materie che erano allora di sua spettanza (ed oggi ancora in massima parte gli spettano) e divideale in tre categorie. La prima doveva comprendere tutte le controversie che oggi si reputano amministrative e veramente sono di diritto privato e debbono sottoporsi ai tribunali ordinari, avvegnacché sotto il nome di contenzioso amministrativo, dic’egli, il governo anche oggi decide una quantità di questioni giudiziarie, che posson dirsi usurpate alla giurisdizione ordinaria, e che è un dovere il restituirle: la seconda tutte le controversie che sono materia peculiare di contenzioso amministrativo e sulle quali pur mantenendo gli ordinamenti vigenti invoca talune modificazioni a guarentigia del cittadino: La terza finalmente le questioni che non si possono portare né dinanzi al tribunale ordinario né dinanzi ai Consigli amministrativi; ma debbono essere decise unicamente dall’autorità che le ha fatte sorgere. Il concetto da me espresso muove dalle stesse premesse del duca di Broglie. Inoltre mi sembra che non debba esserne troppo ardua la esecuzione, specialmente in Italia, dove la legge del 1865 e la giurisprudenza conseguente ha restituito ai tribunali ordinari tutto ciò che era di loro appartenenza.
Ma invocando che le norme amministrative le quali oggi si trovano sparse in regolamenti, istruzioni, circolari ecc., siano più precisamente fissate per servire di fondamento ad un giudizio, non posso tacere che questo lavoro vorrebbe essere compiuto, estendendolo anche a talune materie che si lasciaron finora quasi a belle posta fuori della legge. Noi italiani, e anche i popoli che sogliono chiamarsi di razza latina, abbiamo una cotale repugnanza a stabilire regolamenti che abbian forza di legge, e siamo propensi a darne piuttosto al governo la balia, e abilitarlo a provvedere con decreti ed ordinanze che si rinnuovano, si contraddicono, e lasciano sempre incertezza e modalità nelle regole amministrative. In Inghilterra le leggi sono particolareggiate, minute e si stendono sin dove ne sia d’uopo. E inoltre ogni anno di Parlamento vota centinaia di bill privati che hanno forza di legge, e dai cittadini, sono invocati per interessi loro propri.
Sarebbe argomento degnissimo di esame, sino a qual punto in un reggimento costituzionale possa stendersi la facoltà del governo o essergli delegata dal Parlamento di provvedere alla esecuzione della legge mediante regolamento, decreti, e circolari che hanno sempre qualche parte di legislativo: ma il lungo tema mi caccia. Però questa facilità di lasciare tanta balia al governo deriva eziandio da un certo timore di affisare taluni punti delicati della vita politica, nei quali piuttosto che venire ad un determinazione precisa, preferiamo di dare a chi comanda sconfinato arbitrio, il che è sorgente da un lato di abusi, dall’altro di accuse e di rimprocci. Chi non ricorda le discussioni seguite in Parlamento e fuori sul diritto di associazione e sui suoi limiti, sul prevenire e sul reprimere? Anch’io vi presi parte non lieve, e non vorrei ripetere le cose dette, ma chiederò solo: per qual motivo non si osa fissarne le regole per legge? Oggi l’associazione è libera: tutti vi consentono, ma tutti consentono similmente che siffatta libertà come ogni altra ha i suoi limiti. Or bene, sian chiariti questi limiti: così né al Governo sarà lecito oltrepassarli a danno del cittadino, né il cittadino potrà servirsi di una libertà indefinita per attentare alla sicurezza dello Stato.
Il medesimo dicasi delle leggi che possono occorrere in certi eventi straordinari. Poniamo che il territorio nazionale sia improvvisamente occupato, poniamo una insurrezione interna a mano armata, poniamo una provincia dove briganti scorazzino e incutendo il terrore impediscano il regolare procedimento, dell’azione della polizia e del tribunale. In queste ricorrenze le leggi generali non bastano, e tutti i paesi forti vi hanno provveduto con leggi speciali determinando bene le circostanze e munendo l’autorità di facoltà così dette eccezionali, ovvero vi provvedono volta per volta. In Inghilterra non è raro il caso che le franchigie costituzionali siano in parte sospese: oggi anche per l’Irlanda furono prese disposizioni severissime. In Francia fu supposta la necessità dello stato d’assedio, e fu statuito che le Camere debbano esse stesse bandirlo allorché seggono, se no il governo lo decreti di proprio moto, salvo ad esse decidere appresso della convenienza e della legalità del decreto23. In Germania la legge determina le norme, i limiti, le competenze speciali dello stato d’assedio, ma lascia largo margine al Governo di proclamarlo quando lo crede necessario. In Italia si è sempre sfuggito con cura di definir questi casi, pur conoscendo in fatto che la potestà esecutiva operi tutto ciò che stima necessario alla salute pubblica: salus publica suprema lex. Così Genova fu posta in istato d’assedio il 3 agosto 1848 né il parlamento subalpino se ne diede per inteso: similmente la provincia di Sassari, con decreto del 29 febbraio 1852 e la Camera l’approvò con un ordine del giorno puro e semplice. Il Ratazzi decretò lo stato d’assedio nelle provincie siciliane il 27 agosto 1862, il 20 settembre nelle provincie napoletane. Ma ciononostante quando nel 1875 il governo chiese la balìa di poche e ben determinate facoltà straordinarie per le provincie che erano infestate dal brigantaggio, trovò una opposizione forte, cavillosa, focosissima sostenuta anche fuori dal Parlamento da molti, e riuscì a mala pena a condurre in porto una legge gretta e stentata che per fortuna non fu necessario attuare, per le migliorate condizioni della sicurezza pubblica, ma che probabilmente da sé sola non sarebbe stata efficace. Eppure non mancavano taluni fra i più furiosi oppositori, i quali assediavano l’ufficio del ministro per dirgli: fate ciò che stimate necessario, anche oltre le leggi, ma non ci chiedete anticipate facoltà, riescite, e sarete approvati e lodati. E questo fece il ministero dopo il 18 marzo 1876: e non si può disconoscere che ottenne in Sicilia effetti notevolissimi, ma trapassò senza scrupolo la legge e i diritti sanciti dallo Statuto, negando sempre nei suoi giornali di farlo, e il pubblico tenendogli bordone con tacito plauso, e le poche rimostranze fatte nella Camera si attutirono come se fossero rivelazioni imprudenti. Questo stato dell’opinione pubblica è a mio avviso morboso, e contrario alla buona e ordinata costituzione di un reggimento libero; permettendo che si oscilli tra l’impotenza a reprimere il male, e l’arbitrio governativo giustificato da susseguenti voti sopra assai più che non paia, e ci riconduce al concetto che bisogna quanto è possibile determinare con leggi precise tutto ciò che riguarda i diritti dei cittadini e gli interessi sostanziali della società.
Oltre la triplice riforma dei nostri ordini amministrativi, occorrono a mio avviso altre due leggi per compiere un sistema di guarentigie amministrative. l’una sullo stato degli impiegati, l’altra sulla responsabilità di tutti gli amministratori della cosa pubblica.
E’ utile e necessario stabilire per legge i diritti e i doveri degli impiegati? La scuola che favoreggia il governo assoluto lo nega, imperocché vede nell’impiegato un servizio del Principe il quale può prenderlo e licenziarlo ad arbitrio. La scuola democratica giunge alle stesse conseguenze, perché il popolo non si differenzia dal sovrano assoluto là dove può tutto. Laonde o egli stesso direttamente elegge a certi tempo rettòri e giudici e impiegati, senza altra giustificazione che un bollettino gittato nell’urna: ovvero se concede ai capi del governo le nomine degli impiegati, tiene i primi dirimpetto a sé responsabili di tutto, e non si cura degli agenti inferiori né li riconosce come funzionari dello Stato. La scuola germanica sin dall’epoca della restaurazione, nel 1815, rivolse a ciò le sue mire e lo Stein nell’ordinamento dell’amministrazione prussiana pose fra gli ordini essenziali la legge sullo stato degli impiegati. Fin d’allora furono scorti i vantaggi e gli inconvenienti di questo sistema, e li notava più tardi, con quella precisione che è propria della sua eloquenza il principe Bismarck in un suo discorso al Reichstag, sul diritto elettorale, e sulla eligibilità degli impianti "Noi abbiamo, diceva egli, nella Prussia in qualche modo due costituzioni che corrono parallele: la vecchia del governo assoluto che trovava la sua difesa contro l’arbitrio nella inamovibilità non pare potersi accordare. Il governo prussiano checché faccia, e si muova, sentesi da ogni parte impacciato. Esso non può revocare un impiegato che abbia obbedito alle istruzioni dategli, stando alla lettera delle medesime; ancorché ne abbiano franteso lo spirito. Eppure anche codesto ha i suoi grandi vantaggi: né io vorrei a verun costo immolare l’integrità del funzionario prussiano, la sua dignità, il sentimento che lo sottrae alle tentazioni di uno scarso e spesso insufficiente salario; laonde preferisco di sopportare animoso gli inconvenienti di un governare impacciato al gittarmi impreparato in altre difficoltà"24. In Francia v’hanno norme per l’ammissione, per l’avanzamento, per le pensioni: ma garanzie vere e proprie in favore dell’impiegato non vi sono: se ne eccettui la magistratura, la quale però da ultimo ebbe anch’essa a patire iatture. Vi supplisce in gran parte la tradizione solida, e rispettosa dei diritti acquisiti, salvo nei momenti di rivoluzione, quando la smania delle così dette purificazioni vela la cupidigia e la vendetta. In Inghilterra dove, come dicemmo altrove, il maggior numero degli uffici pubblici rampolla da una posizione sociale e si adempie gratuitamente, poco era da provvedere sull’argomento: la massima parte degli impiegati veri e propri s’intendeva assicurata del suo ufficio sino che non demeritasse (during good behaviour) e il principio colà tanto operativo della sequitas ed bona fides aveva stabilito per essi una inamovibilità di fatto. Però mano a mano che alcune forme continentali penetrano nella costituzione britannica, si sente la convenienza di regolare lo stato degli impiegati, e dal 1853 si cominciò dal sancire gli esami di concorso per l’ammissione.
Un punto fondamentale da determinare è quello della responsabilità diretta dell’impiegato, principio ammesso sostanzialmente in Germania, e per isbieco introdotto nella nostra legge di contabilità all’art. 60 ma di ciò più oltre. Non poté la legge sullo stato deg’impiegati essere recata innanzi nei primordi del regno d’Italia: imperocché si trattava di disfare tutte le amministrazioni passate, e di ricomporle in unico stampo, di guisa che sarebbe stato impossibile il riuscirvi senza una certa libertà d’azione. Ma non appena l’ordinamento parve almeno nelle sue parti principali assodato, cioè sin dal 1864 il Minghetti disegnò di presentare un apposito di legge, e ne accettò l’invito dalla Camera in un ordine del giorno, ma le vicende de’ tempi ne impedirono l’esecuzione. Più tardi il Lanza dapprima al senato nel marzo 187025, poscia nel 1871 alla Camera dei deputati26 presentava il progetto di legge che determinava le categorie degli impiegati, i titoli richiesti e gli esami che si dovevan sostenere per essere ammessi: dava norma alle promozioni e ai trasferimenti, alle disponibilità e alle aspettative. Stabiliva per quali motivi l’impiegato potesse essere punito e con quali ammende, fino alla destinazione, e fissava le guatentigie di esso dirimpetto al Governo: ancora delineava i casi di collocamento a riposo, e i diritti a pensioni che all’impiegato spettavano. La Giunta parlamentare fece una relazione accurata e sostanzialmente accettò le idee del ministro; ma non ebbe luogo discussione. Più tardi ancora, nel 1876, l’on. Depretis ripresentò un altro progetto27 ma in termini più ristretti perché abbassava il grado di cultura richiesta dal suo predecessore per l’ammissione agli impieghi: e lasciava al ministro troppo maggiore larghezza nel licenziare gli impiegati dal servizioPubblico ogni volta che ei lo giudicasse conveniente al servizio mesedimo. Portato innanzi alla Camera questo disegno, toccava quasi il porto dopo parecchi giorni di discussione, quando non so qual vento lo respinse in ignoti mari, donde non uscì più mai sino ad oggi. Ora io credo che questa legge dello stato degli impiegati sia una delle cose essenziali al fine che noi ci proponiamo, e dovrebbe quindi senza indugio essere proposta al Parlamento in tali termini, da sottrarre l’impiegato stesso all’arbitrio, al capriccio, alle influenze parlamentari. A tal fine converrebbe ch’essa offrisse guarentigie sicure all’impiegato non solo di non esser dimesso, ma neppure scaraventato da un capo all’altro della penisola, per ciò solo che non seppe sobbarcarsi alle voglie di un deputato, né consentì di farsi strumento dei soprusi di un partito, o addiventare un agitatore zelante di elezioni. Ma d’altra parte converrebbe che stabilisse eziandio regole e discipline severe contro l’impiegato che parteggia! questo dupplice argomento renderebbe l’ufficiale pubblico più indipendente, e frustrerebbe le indebite ingerenze della politica nell’amministrazione. Per ora egli non ha verace difesa, ed a provarlo basterebbe una sentenza recente della Corte di Cassazione la quale dichiara l’autorità giudiziaria incompetente, e l’impiegato privo di ogni azione per ammenda di danni nel caso di destituzione. E v’ha di peggio; ché lo spirito pubblico non si commove punto alle ingiustizie di tal fatta; anzi udiamo risonare il plauso a cambiamenti repentini e radicali, e il ministro andare lodato non che impunito, perché, dicesi, diede prova di forza e seppe spezzar le maglie della burocrazia.
Ma è possibile questa legge senza menomare la responsabilità del ministro? La responsabilità, dice la scuola radicale, deve essere solo e tutta di lui: ogni altra menomerebbe la pienezza di sue facoltà, e del sindacato parlamentare. Certamente il concetto della responsabilità dei ministri è fondamentale nel governo costituzionale. Le sue origini in Inghilterra risalgono alle origini stesse della monarchia28 e il principio che il Re non può far male e che esso è inviolabile, si collega intimamente a ciò che ogni suo atto debba essere controfirmato da un ministro che n’è responsabile. "E’ mirabile, dice il Balbo, questa istituzione, questo mezzo termine, questo ritrovato non di nessun uomo, ma dei tempi progrediti in civiltà, questa combinazione della irresponsabilità del Principe colla responsabilità dei ministri, che fa possibile ed effettiva la riunione di tutti i vantaggio della monarchia e della repubblica nella monarchia rappresentativa"29. V’ha poi una responsabilità collettiva fra tutti i ministri, e per quanto può attenersi al subietto di questo libro, essa fu ben definita da Lord Derby30. L’essenza di un governo responsabile è il vincolo mutuo fra i suoi membri pel quale essi agiscono come partito, vanno insieme, consertano i loro atti, e se un di essi cade (salvo casi speciali) cadon tutti con esso. Ma di responsabilità ve n’ha di più specie: ve n’ha una tutta privata, quando il ministro opera come ogni altro cittadino; e ve n’ha una veramente e propriamente ministeriale nell’esercizio delle funzioni del governo, la quale può dar luogo a mettere i ministri in istato di accusa secondo l’art. 36 dello Statuto. Ciò presuppone manifestamente un delitto di alto tradimento, un attentato alla sicurezza dello Stato, la violazione delle leggi costituzionali. Spesso si è parlato della necessità di una legge precisa su questa materia, e ve n’ha eziandio qualche esempio. In verità tutta la parte che riguarda il procedimento può ben determinarsi, come pure la sanzione delle pene. Ma definire la responsabilità dei ministri è grandemente difficile, e coloro che si commentarono si ristettero ai termini generali di tradimento, concussione, prevaricazione. La legge austriaca del 25 luglio 1870 che è pure la più precisa parla anche essa di opere o di omissioni colle quali si viola la costituzione e la legge.
Ma come ognun vede, non è questa la responsabilità che al nostro fine vogliamo propriamente sottoporre ad analisi. V’ha una responsabilità che non è giudiziaria o penale, ma piuttosto politica, ed è quella che si manifesta col sindacato del Parlamento. Un ministro, poniamo, lascia gli affari in disordine, favorisce gli uni a preferenza degli altri, ha poca parsimonia del pubblico denaro, adopera una spietata fiscalità, suscita colle sue esosità liti allo Stato, rasenta per arbitrii la violazione della legge senza però che apparisca manifesta la intenzione di trasgredirla. Codeste sono tutte colpe per le quali non si può metterlo in istato d’accusa: ma la Camera può esaminarle, discuterle, e pronunziare il suo giudizio con una mozione, o con un ordine del giorno che lo costringa a rassegnare il suo ufficio. Or ecco appunto il caso al quale alludono i partigiani della scuola più sfrenata, dandovi una estensione esagerata. Essi dicono: a che giova stabilire la responsabilità per gli ufficiali pubblici? essi sono meri strumenti del ministero e debbono esser tali. Il ministro è responsabile per tutti loro davanti alla Camera: è in lui che debbono convergere tutte le accuse. Or qui ci troviamo fra un astrattezza e una ipocrisia. E’ una astrattezza quella di supporre che il ministro possa davvero prender sulle sue spalle la responsabilità di tutto ciò che gli agenti dell’amministrazione in ogni parte del regno. Questo carico sarebbe tanto grave e sproporzionato, che per la sproporzione sua stessa si risolverebbe in nulla. Se un ufficiale pubblico ha commesso un atto scorretto nell’interpretazione e nella esecuzione della legge e del regolamento, chi vorrà perciò condannare seriamente il ministro, quando anch’esso non lo abbia punito e talora per sentimento di solidarietà cerchi di difenderlo? E’ poi un’ipocrisia quella di supporre che la decisione del Parlamento abbia sempre un valore di efficace riparazione. Il Parlamento assolverà o come dicesi oggi, darà un bill d’indennità, al ministro che ha commesso un’ingiustizia per assecondare la passione del partito, e fors’anche un ordine del giorno consacrerà la violazione del diritto. Questo è il punto sul quale insisto, e al quale io prego il lettore di rivolgere il pensiero. Imperocché la responsabilità ministeriale estesa così largamente non ha significato alcuno, o se ne ha uno è di servire la maggioranza in tutti i suoi capricci.
E facciasi pure la legge della responsabilità ministeriale, ma restano due quesiti. Gli ufficiali pubblici sono responsabili e possono esser chiamati in giudizio pei loro atti? Provvede a ciò bastantemente il codice civile e penale? O è necessaria una legge speciale? Nella presente legislazione, i prefetti, i sotto prefetti e coloro che ne fanno le veci, come pure i sindaci, non "possono essere chiamati a render conto dello esercizio delle loro funzioni, fuorché dalla superiore autorità amministrativa, né sottoporsi a procedimento per alcun atto di tale esercizio, senza autorizzazione del Re previo parere del Consiglio di Stato"31. Questa disposizione di legge che abbiamo imitata dalla Francia pur temperandola, non può andare in accordo colla responsabilità vera degli impiegati. Uopo è che questi possano esser tradotti in giudizio per violazione di legge, ed eziandio per risarcimento di danni; insomma che l’azione penale e civile sia aperta contro di loro. Ma fino a che limite? Ecco un problema delicato quanto mai. A risolverlo non mi par che basti citare gli articoli del codice civile32 "che qualunque fatto dell’uomo che arreca danno ad altri, obbliga quello per colpa del quale è accaduto il danno, a risarcirlo; e che ciascuno è obbligato non solo pei danni cagionati per fatto proprio, ma eziandio delle persone delle quali deve rispondere". E’ d’uopo bensì esaminare a fondo quali sono i casi nei quali l’impiegato è responsabile, quali i casi nei quali è responsabile per lui lo Stato, e finalmente quando né egli né lo Stato può esser convenuto. Per accusare un ufficiale pubblico o dimandargli un risarcimento di danni, è d’uopo che vi sia parte di lui o accesso di potere, o diniego di giustizia, o offesa alle leggi, o negligenza colpevole dei suoi doveri. Rispetto poi allo Stato, e ai casi nei quali lo si possa chiamare responsabile di danni in via principale o sussidiaria, il tema è lungi dall’essere chiarito in ogni sua parte. Certamente quando lo Stato agisce e contratta come qualunque ente civile esso trovasi esposto al rifacimento del danno secondo il diritto comune. Ma la forte questione non è ivi: è nei casi nei quali lo Stato impera e provvede come ente politico, o agisce nell’interesse della società. Imperocché non può accusarsi di intenzione malvagia, mentre intende anzi a tutelare il pubblico bene, non può accusarsi d’aver scelto un ufficiale più che un altro, perché la nomina degl’impiegati è fatta secondo certe regole preordinate; e infine la società civile non è come alcuni reputano identica a una società d’assicurazione. Anche s’ingannano coloro che paragonano lo Stato ad un appaltatore di opere, perché l’uno dispone e fa nell’interesse pubblico, mentre l’altro fa nell’interesse proprio, e se corre rischio talvolta di perdere, nel più dei casi guadagna, e tale è il suo intento. Poniamo che lo Stato modifichi le tariffe doganali abbassandole, non v’è chi abbia diritto di ripetere da esso i lucri che gli cessano dal cessare delle tariffe più alte. Invece certi atti, pur collegati colle funzioni essenziali dello Stato, possono produrre danni meritevoli di risarcimento, per esempio se ordini lavori di difesa alle ripe di un fiume che apportino la ruina di edifizi, o scemino la proprietà di un privato sulla ripa opposta. Notisi che la Corte di cassazione ha pronunziato in parecchie circostanze non essere applicabile allo Stato la regola di diritto privato relativa ai delitti o quasi delitti, e questa tesi è vigorosamente sostenuta dall’avvocato erariale33.
Finalmente non mi par che basti neppure la distinzione dello Stato quando agisce e contratta come Ente civile, e risponde come ogni altro ente degli effetti della sua gestione, dall’altro caso quando lo Stato provvede come Ente politico nell’interesse generale, avvegnacché vi sono dei casi nei quali tal distinzione è sottile, onde riesce difficile distinguere gli atti che dall’una o dall’altra forma promanano. Da tutto ciò discende quello che accennai sopra, cioè che la materia aspetta ancora una trattazione completa e definitiva. Mi sia lecito ripetere anche qui ciò che più volte ho detto: trattasi una questione di limiti, e questi limiti stessi si rimuovono a seconda delle condizioni dei popoli e del progredire della civiltà. Ma qualunque sia la teoria e la giurisprudenza che in tal materia prevalga, egli è certo che quando siano fissate le regole rispetto alla responsabilità dello Stato e dei suoi agenti, regole analoghe vogliono statuirsi rispetto alla provincia ed al comune, e devono eziandio riferirsi agli amministratori di Opere pie e di pubblici Istituti.
Un altro punto da esaminare è sino a qual grado l’ufficiale pubblico può essere difeso dirimpetto al tribunale, dell’ordine preciso del suo superiore, il quale sottentrerebbe in sua vece come reo convenuto. Il Mancini in un suo disegno di legge non ammetteva l’eccezione dell’obbligo di obbedienza gerarchica, per liberare l’esecutore dell’atto abusivo della solidaria responsabilità del danno, qualora l’ordine dato dal superiore fosse manifestamente illegale, ma codesta è dizione troppa vaga, e veramente pericolosa in quanto ché abiliterebbe l’ufficiale subordinato ad una continua discussione sul valore degli ordini che gli fossero dati. Certamente se il superiore ti comanda di commettere un’azione che non abbia attinenza coll’obbligo del tuo ufficio o che, se pur l’ha, costituisca per se medesima un delitto, la legge morale e il sentimento della giustizia, impongono di rifiutare; ma vi sono degli atti, in materia poniamo di prevenzione per cagione di pubblica sicurezza, la legalità dei quali dipende da molte circostanze e fra queste eziandio dall’opportunità e dalla possibilità della riuscita: ora lasciando illimitata discussione a chi deve eseguire l’atto stesso, si avrebbero inconvenienti ad ogni ora, e il rimedio sarebbe più pericoloso del male: tanto più che concedendo la giustificazione per obbedienza gerarchica, la persona contro la quale si può procedere per violato diritto c’è, anzi dal fatto stesso dell’ordine dato è specificata e la responsabilità non vien meno passando dall’uno all’altro34. Il nostro codice penale sui reati per abuso di autorità, attentato alla libertà individuale, e violazione di domicilio, dichiara35 essere sciolto da ogni responsabilità l’ufficiale o impiegato che ha agito per ordine dei superiori in oggetti della competenza loro, e pei quali oggetti era ai medesimi dovuta obbedienza.
Ma è ella veramente necessaria questa legge sulla responsabilità, o non basta già il diritto comune? Non si trova nei nostri codici, nelle nostre leggi, nel nostro Statuto tanto da provvedere ad ogni giusta esigenza? La tesi venne sostenuta con molta sagacità e con soda erudizione dall’egregio Professore Adeodato Bonasi36 il quale trovò nondimeno anch’egli una lacuna perciò che riguarda i ministri. Imperocché lo Statuto avendoli sottratto alla giurisdizione ordinaria, manca tuttora la procedura che debba seguirsi in questo giudizio speciale. Parvegli eziandio che dovessero abrogarsi quelle disposizioni, le quali senza alcuna ragione di grande interesse che le legittimi, potrebbero essere di ostacolo alla piena applicazione del diritto comune a tutti i pubblici funzionari. Consento nell’uno e nell’altro punto, ma non mi credo abbastanza competente ad affermare o negare la proposizione generale sostenuta dal Bonasi, la quale meriterebbe un’ampia disamina37, e confesso che ne rimango in dubbio, per la qual cosa parlai di una legge fatta apposta. Egli stesso riconosce che fra il codice e certe leggi speciali come quella di pubblica sicurezza non vi è un coordinamento sufficiente e che bisognerebbe rivederle in questo intento. Ora io aggiungo che almeno in occasione di codesta revisione, oltre il desiderato coordinamento, debba esaminarsi accuratamente se qualche deficienza non si riscontri, ed a questa supplire. Certo non è ben chiaro, quando il pubblico ufficiale possa chiamarsi in giudizio, né tampoco è noto a tutti quando gli amministratori dei comuni, delle provincie, delle Opere pie, degli Istituti autonomi siano responsabili anche civilmente. Ciò vuol essere posto in piena luce, imperocché è parte sostanziale della giustizia amministrativa.
Ho detto delle tre vie per le quali si può procedere al fine che ci siamo proposto; ho parlato inoltre di due leggi, l’una sullo stato degli impiegati, l’altra sulla responsabilità degli agenti del governo e degli amministratori della cosa pubblica, che dovrebbero far parte sostanziale dell’ordinamento di che trattiamo. Ora mi conviene eziandio accennare all’importanza di dare nelle nostre università allo studio del diritto amministrativo un più ampio svolgimento, e di fondarvi una vera facoltà politica e amministrativa38. Gli studi meramente giuridici tennero e tengono tuttavia il campo, ed è naturale in quanto che offrono agli studiosi una carriera rapida e lucrosa, quella dell’avvocato. Se non che il progresso degli studi rese manifesto che il diritto privato non era che una parte del diritto generale, e quindi le facoltà giuridiche si arricchirono di cattedre di diritto pubblico, costituzionale, e internazionale. Talvolta anche vi si unì quella di diritto amministrativo, e di economia, ma quasi accessorie e di completamento. Ora ciò non basta, e se l’amministrazione deve essere esercitata da uomini esperti, uopo è che vi sia un corso di studi destinato a formarli. Laonde mentre le cattedre che ho accennato sopra sarebbero comuni ad entrambi gl’insegnamenti, ve ne sarebbero altre speciali alla facoltà giuridica o alla facoltà politica amministrativa: queste si dovrebbero bipartire come due rami da un tronco, ed avrebbero alla fine propri esami e diplomi. Converrebbe perciò allargare il campo di tutte le scienze che all’amministrazione si attengono: e per esempio non solo trattare il diritto costituzionale, ma più propriamente gli uffici del governo, le sue relazioni colle istituzioni ed associazioni civili, la sua azione ossia la politica: così il diritto internazionale si svolgerebbe nell’arte diplomatica, così l’economia andrebbe corredata dagli insegnamenti affini come la statica, la finanza, e la ragioneria. Né dovrebbe mancare la parte tecnica, almeno in modo ausiliare, come per esempio l’igiene pubblica, la condotta delle acque, l’ordinamento della difesa nazionale. Laonde ben fece Ruggiero Bonghi allorché, essendo ministro della pubblica istruzione, col regolamento 11 ottobre 1875 decretava potersi istituire in alcune università corsi speciali di discipline politiche e amministrative, e il de Sanctis più tardi (10 dicembre 1878) fondava in Roma un corso di scienze economico-amministrative. Codesti germi bisognerebbe spargere, imperocché se non si comincia dal dimostrare scientificamente quale debba essere il compito del governo dal dimostrare scientificamente quale debba essere il compito del governo, che cosa sia amministrazione pubblica, delineandone le differenze colla giurisprudenza, sarà difficile che nella pratica sia rettificato e si migliori l’andamento delle cose, e si tronchino dalla radice gli abusi di che abbiamo parlato. Egli è alla gioventù che esce dalle scuole pubbliche, innamorata del giusto e del buono non solo nella ragion privata, ma eziandio nella pubblica, che si appartiene di preparar l’opinione, affinché siano recati in atto legislativo i provvedimenti atti a riparare questi mali, fondandolo lo Stato giuridico nella sua pienezza.
Intanto a menomare i mali discorsi, ed a preservare il sistema costituzionale dagli abusi più manifesti e più dannosi, io indicherò alcuni rimedi indiretti, ed altri secondari o piuttosto espedienti che pure avrebbero qualche efficacia sul migliore andamento della cosa pubblica. E innanzi tutto gioverà che ciascuna delle potestà che la nostra costituzione pone come essenziali, operi secondo suo diritto e secondo suo dovere, e che la inerzia e la mala abitudine non finiscano per cedere l’impero ai più audaci ed impronti. Così per mio avviso la Corona dee accuratamente serbare le prerogative che le accorda lo Statuto e mai lasciare che altri le usurpi, imperocché quelle prerogative ben usate sia nella scelta dei ministro sia nello scioglimento della Camera possono in talune circostanze salvare il paese. E fra le prerogative della Corona pongo eziandio quella di vigilare che il suo governo non istenda radici partigiane nella giustizia e nell’amministrazione, e dove ne vegga i segni ammonirlo e trattenerlo. Credo che un ministro, richiamato dal Re all’osservanza della equità nel momento che gli porge a firmare un decreto di nomina o di promozione, si rassegnerebbe ossequente all’ammonizione e ne prenderebbe norma per l’avvenire; tanto più che qui non si tratta d’indirizzo generale politico, ma di fatti peculiari.
Un altro punto importante è quello che oggi chiamasi formazione e condotta del Gabinetto, cioè del Consiglio dei ministri in quanto essi sono e si sentono in solido sotto un capo che è il presidente del consiglio medesimo: ora il Gabinetto è mediatore fra la Corona e il Parlamento, e fra i due rami del Parlamento medesimo. Il concetto del Gabinetto in Inghilterra fu opera lenta, e ognor progressiva durante due secoli. Come bene osserva il Gladstone, "la teoria del governo misto e dei tre poteri, trasmessaci dagli antichi e soprattutto da Cicerone nel suo libro della Repubblica, è troppo fredda e cruda, né corrisponde all’indole della costituzione inglese, mancandovi un elemento conciliatore, una specie di organo di compensazione, che mantenga in bilancia le forze politiche, le coordini fra loro, e le indirizzi ai fini del civile consorzio... Il gabinetto è forse la più singolare creazione del mondo politico nei tempi moderni, non per la sua dignità, ma per la sua sottigliezza, elasticità e varietà, ed apparisce come il complemento di un intero sistema: il quale sembra poter sfidare tutti i pericoli anche nelle età future, né a tal uopo altro richiede che una perfetta lealtà, e una discreta intelligenza in coloro che lo adoperano. Questa istituzione che ha tanta parte nella vita politica inglese, agisce per tacito consenso, senza che la legge scritta o la costituzione contengano pur un verso che determini le sue relazioni col monarca, col parlamento e colla nazione, né tampoco le relazioni dei suoi membri fra loro e col loro capo. Essa non fu il portato di un’idea preconcetta, né l’attuazione di un disegno filosofico o di un principio astratto; ma l’azione lenta di forze invisibili gli diè la struttura che il mondo oggi ammira. Crebbe senza rumore, e si può dire di essa quel che il poeta (Heber’s Palestine) dice del tempio di Gerusalemme: - Non risuonarono acciari battuti dal pesante martello, ma il superbo edificio sorse come una palma gigantesca"39. Ora questa istituzione mentre dà maggior unità e consenso a tutti gli atti del governo, per quanto riguarda la questione che trattiamo, ha reso e tende a rendere più equa e temperata l’azione di ciaschedun ministro, e ad attutire in esso gli spiriti partigiani che deploriamo40.
Sebbene il Presidente dei ministri sia libero nella scelta dei colleghi che vuol presentare all’approvazione del Re, pure codesta scelta non dovrebbe che in rari casi e come per eccezione uscir fuori dai due rami del Parlamento. Nello spirito della costituzione è ovvio che l’uomo il quale è assunto al governo abbia avuto occasione di esprimere pubblicamente la propria opinione, si trovi in grado di difendere non solo ciò che è proprio del suo dicastero ma anche la politica in generale, infine ch’ei pure eserciti una autorità acquistata precedentemente sopra i membri del parlamento. Laonde il Presidente del Consiglio pur cercando uomini esperti delle materie da reggere, dovrà avere anche di mira l’elemento politico finché questo titolo predomina sovra l’elemento tecnico. Ora in Italia noi abbiamo veduto avvenire di recente il contrario, e in cinque anni una diecina di ministri essere inopinatamente pescati fuori delle acque parlamentari. E perché poi avessero qualche requisito politico, almeno apparente, si creavano senatori di botto, quasi questo bastasse ad informare in essi l’arte parlamentare: né ciò era senza scapito del Senato, prodigandosene il g rado quasi in difetto di ogni altra qualità: certo non aggiunge prestigio o autorità a colui che di tal grado sia investito improvvisamente e soltanto per occasione41.
Fu suggerito talvolta l’esempio inglese di die segretari generali di ogni ministero, l’uno dei quali permanente, ed amministrativo, l’altro, politico e transitorio insieme col ministro. Questi pubblici ufficiali permanenti (dice il Wood)42 mantengono tutte le tradizioni dell’ufficio, e sbrigan tutti gli affari ordinari. Essi porgon consiglio, e sino ad un certo punto mettono freno ai nuovi ministri, sorti senza sufficiente esperienza; ma siccome d’altra banda la permanenza in un ufficio tende a cambiar l’usato sentiero in solco, per ciò il cambiamento del capo, quando è assistito da colui che sta sempre nell’ufficio, produce utili effetti in ogni parte dell’amministrazione.
Può chiedersi se convenga mantenere presso i principali ministeri un Consiglio, come dicono, superiore e si è molto disputrato se meglio convenga avere una responsabilità per così dire accentrata in un solo o divisa in molti. Ma siccome il Consiglio non è un vincolo assoluto al ministro se non in pochi casi dalla legge prescritti, e siccome d’altra parte importa mantenere fissità nella giurisprudenza, e nell’interpretazione delle leggi, uniformità nei contratti, e nelle concessioni; ed alla compilazione dei regolamenti e dei disegni di legge non basta l’opera degli impiegati comuni né quella di aiutatori avventizi, perciò è da riconoscere la necessità e l’utilità di codesti Consigli, dei quali anzi parmi che si dovrebbe afforzare il prestigio e l’autorità. E l’esperienza dimostra che sono freno salutare, e quando il ministro ha voluto commettere un arbitrio, ha dovuto calpestarne gli avvisi, sicché io non esisto punto ad adffermate la convenienza loro anche a moderare il governo di aprtito, e le sue tendenze sinistre ad insinuarsi nell’amministrazione e quindi ad esprimere il voto che non solo si debbano mantenere ma eziandio rinvigorire.
Queste questioni costituzionali hanno moltissimi aspetti, ciascuno dei quali vorrebbe essere trattato con ampiezza di considerazioni, ma ciò mi distorrebbe dal mio tema, ed io ne tocco solo in quanto possano indirettamente ad esso collegarsi. A qual risguardo a me pare che sarebbe anche da rivedere la legge delle incompatibilità parlamentari. Io dubito forte se il magistrato giudicante possa in nessun caso attorarsi nei combattimenti della politica. Parmi eziandio che la presenza nella Camera del Sindaco di un comune o dei membri della deputazione provinciale, sia cagione prossima a tentazioni. Perché costoro non possono per così dire far astrazione degli interessi lcoali che rappresentano, e il ministro concedendo o negando, proferisce loro una troppo grave seduzione a sacrificare il voto politico allo interesse della città o della provincia nativa. Sopratutto, notai fra i più gravi danni di alcune provincie che la deputazione la quale dovrebbe essere intesa unicamente a ben amministrarle diventa invece centro elettorale, e si fa autrice o complice di politiche ingerenze. Io credo poi che dannosa e pericolosa sia la frequenza di avvocati esercenti nelle assemblee deliberanti. Le cagioni son molte e notorie, e dalla esperienza riconfermate: chi vuol avere contezza dell’azione malaugurata che hanno gli avvocati nei parlamenti legga il Colletta, il Balbo, il Gioberti43. Ma considerando la cosa solo nel riguardo di che si tratta, è evidente che la professione loro li rende inchinevoli a farsi patrocinatori di questo o di quell’affare. e anche rispetto ai tribunali toccai il danno che dai deputati oranti nel foro e dagli influssi loro anche involontariamente deriva alla giustizia. La nostra Camera è composta per un terzo di avvocati, non so se tutti patrocinanti: certo la massima parte. Ora non sarebbe egli possibile almeno mettere un limite al numero di essi, provvedendo col sorteggio? come si fa oggi per le classi dei magistrati, e dei professori quando superano il numero di dieci, e per tutti glialtri impiegati quando superano il numero di venti: servolo non m’interno.
Checché ne sia delle incompatibilità parlamentari, un punto gravissimo per l’avvenire delle istituzioni è questo, che il deputato, mentre nella Camera dev’essere tutto cioè avere la pienezza della sua rappresentanza e delle sue prerogative, quando è fuori di parlamento non possegga privilegio sopra alcuno degli altri cittadini. Io credo cattiva la usanza, e generatrice di vanità e corruzione, onde il deputato è visitato e careggiato dai prefetti e dagli impiegati nelle provincie, gli si dà un posto migliore nelle ferrovie, eprsino leggo che in alcune mostre, come a spettacoli, mentre tutti pagano, egli ha l’ingresso libero e gratuito. Perché tali favori? Spacciando pretezione e grandezza si falsa il carattere austero del deputato, e se le due iniziali M.P. (Member Parliament) sono in Inghilterraun titolo di rispetto personale, non danno però che io sappia alcun vantaggio materiale, e neppure apparenza di maggioreggiare. Né saprei lodare le domande che si fanno e si esauriscono d’inviare deputazioni a qualsivoglia cerimonia abbia un poco d’importanza. Si innalza un monumento? Si apre una sala? Si accompagna un feretro? Ecco subito una deputazione del Senato e della Camera la quale è ricevuta con onori reali a suon di tamburo, come la sovranità sia impersonata in essa, e poi vengono cerimunie e banchetti e feste d’ogni maniera. Persino le Commissioni che vanno per inquirente sopra elezioni o sopra qualsiasi altro argomento sono ricevute dalle autorità, e festeggiate dalle popolazioni, il che farebbe in Inghilterra la più grande meraviglia. Tutto ciò a me sembra non iscevro da pericolo di guastare lo spirito delle istituzioni, e di dare al popolo idee false, perché spontaneo gli nasce il pensiero che presentando le suppliche ai deputati, da costoro pioveranno le grazie, e assai meno si briga di sapere se facciano o no buone leggi.
Parecchie modificazioni nel regolamento della Camera tornerebbero utili al fine che ci proponiamo. Tale sarebbe quella di scemare l’importanza delle Giunte e massime dei relatori loro. Egli è soprattutto nella Giunta generale del bilancio che apparvero inconvenienti non lievi. Lasciamo stare che la Giunta non paga di riferire com’è suo còmpito, vuol ingerirsi talvolta nei modi di amministrazione, e anche nella politica. Ma ogni ministro sa che il relatore di un bilancio è un personaggio col quale talvolta bisogna venire a patti. Il ministro avrà per esempio proposto un aumento di dotazione ad un capitolo del bilancio perché lo stima necessario al pubblico servizio. Il relatore glielo nega sotto colore di rigorose economie, ma poi cede pur che si aumenti anche la dotazione di un altro istituto che interessa la sua provincia. E il ministro non crede di mancare al suo dovere facendo un atto di favore, perché il vantaggio del servizio pubblico in generale scusa la propria coscienza. Invero non sarebbero lecite le conferenze fra i relatori della Giunta e gli impiegati superiori dei ministeri, ma si tengono. Allo stesso ministro le dimande dovrebbero essere indirizzate per iscritto a mezzo della presidenza della camera, chiamandolo dove occorre a dare di persona schiarimenti alla Giunta plenaria; ma queste buone pratiche a poco a poco vanno in disuso, non già che manchino le corrispondenze scritte, o le adunanze ove il ministro intervenga, ma le une e le altre sovente non sono che la forma esteriore di ciò che in privati colloqui è stato concordato.
E poiché mi è accaduto di aprlare di bilancio, un punto importante sarebbe di sottrarre alla discussione annua quella parte delle spese pubbliche che nasce da leggi in atto, le quali non si tratta in quel momento di mutare. Così gli inglesi non ritornano mai, come noi facciamo, a rimettere in discussione tutta quella parte di bilancio che si chiama intangibile, ma discutono soltanto qualla parte che ha bisogno di speciale legge, o stanziamento che si rinnuova ogni anno. Né certamente il bilancio è appo loro una specie di tessera per introdursi a parlare di tutte le cose possibili, posto che ogni cosa ha una relazione più o meno remota con esso; ma il dibattito vien sobriamente mantenuto nei limiti richiesti dalla ragione o dalla opportunità.
Finalmente un altro punto che a prima giunta non pare aver diretto rapporto coll’argomento che trattiamo, e pure ne ha moltissimo, è la frequenza delle crisi ministeriali, e il nascer loro all’oscuro, sovra incidenti, non sopra questioni vitali. Si comprende che quanfo vi ha una grande questione di essa possa avere un significato di fiducia o di sfiducia in quanto che anticipa il giudizio della Camera44, ma in generale questo porre le questioni di fiducia in un episodio insignificante, o peggio ritirarsi senza discussione, o peggio ancora serbar dopo il silenzio intorno alle cagioni della crisi, e al programma del nuovo ministero, tutto ciò corrompe le vitali sorgenti della vita costituzionale. Ben a ragione Guglielmo Pitt alla Camera, che gli era ostile, domandava un fair play cioè una solenne occasione di dibattito prima di rassegnare l’ufficio. Procedendo diversamente si formano nell’ombra accolte d’uomini che pensano diversamente fra loro, ma che per rancori o cupidigia di potere son pronti a trovarsi d’accordo anche cogli avversari, pur di nmegare al Gabinetto le forze della sussistenza. Ma questo punto vorrebbe essere svolto ampiamente, e richiederebbe per se solo un libro: imperocché è uno dei più sostanziali per l’esercizio regolare della costituzione.
Io ho toccato a tanti e sì vari oggetti al solo intento di mostrare che, se ogni potestà costituzionale adempiesse attivamente gli uffici propri, se il Gabinetto serbasse quell’unità che gli è congenita sotto la vigilanza del suo capo, se non cedesse che a sfiducia espressa in questioni vitali, se i Consigli superiori che assistono il ministro fossero resi più forti e più liberi nel senso stesso di ogni dicastero, se si introducesse un segretario generale permanente e che mantenga le tradizioni dell’amministrazione centrale, se le incompatibilità fossero meglio regolate, se il bilancio in alcune parti sostanziali fosse sottratto alle disputazioni annue, se il regolamento della Camera fosse migliorato, se la posizione del deputato altissima nell’assemblea legislativa perdesse ogni trattativa fuori di essa; se insomma la costituzione dello Stato fosse praticata più secondo gli abusi onde abbiamo parlato. Ma di questo genere (di) rimedi al tutto indiretti sarebbe il numero grandissimo, e si troverebbe in ogni ordine di fatti pubblici. Ed a me par tempo di finire.
Dissi già nella prefazione che l’accusa mossami di avere in un discorso tenuto a Napoli offeso le prerogative del Parlamento, m’indusse a pigliar la penna. Ma dalle considerazioni sul caso particolare fui naturalmente condotto a meditare sopra i modi onde le istituzioni parlamentari si svolgono, e mi apparvero in tutta la gravità loro taluni problemi, che sinora gli scrittori più sommi di diritto costituzionale o hanno trascurato, o appena accennarono non dando ad essi la debita importanza. Imperocché l’ordinamento del governo, la maniera delle elezioni, le guarentigie della rappresentanza non sono al certo l’obbietti precipuo al quale mira il cittadino. Il quale vuole godere la massima libertà personale che sia compatibile colla sicurezza sociale, vuole che la giustizia sia fatta sempre e imparzialmente, vuole che l’amministrazione sia condotta con facilità, speditezza, e regolarità e col rispetto del diritto di tutti. E’ questo, secondo la frase moderna, il contenuto vero e sostanziale delle istituzioni politiche, le quali perciò si riguardano piuttosto come mezzi al fine di assicurare siffatti beneficii al cittadino. Ciò posto, la ragione e la esperienza dimostrano che il governo parlamentare è un governo di partito, e come tale ha la tendenza a favoreggiare gli amici, e ad opprimere gli avversari, e quindi s’ingerisce indebitamente nella giustizia e nell’amministrazione, e ne perturba l’andamento, e ne guasta gli effetti salutari. Di tal guisa la forma distrugge la sostanza, e i mezzi tanto tantati a guarentigia. Si trovano essere i contraddizione col fine. Ora se questi fatti fossero inevitabili, bisognerebbe concluderne che il governo parlamentare poco s’addice a più matura civiltà. Io son lungi dal pronunziare siffatta sentenza, anzi mi sforzai di delineare alcuni rimedi che mi parrebbero convenienti a prevenire il male o a ripararlo; ma non dubito di affermare che il problema proposto affaticherà ancora lungamente le menti degli studiosi. Io sarò pago di averli chiamato a meditare intorno a siffatto tema, e di avere lumeraggiato taluno dei suoi aspetti più di nota. Ma ciò che mi pare indubitabile si è questa conclusione: che la durata e la efficacia del sistema parlamentare dipenderanno molto dal suo collegamento con ordini tali, i quali salvino la giustizia e l’amministrazione dalla ingerenza dei partiti politici.


                Marco Minghetti - Della economia pubblica e della sua attinenza colla morale e col diritto


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