PRIVILEGIA NE IRROGANTO           di Mauro Novelli               BIBLIOTECA


 

 

JOHN MILTON

 

 

IL PARADISO PERDUTO

 

Traduzione di LAZZARO PAPI

 

 

 

 

LIBRO PRIMO

 

 

 

In questo primo libro si propone in breve il soggetto del poema, cioè la disubbidienza dell’uomo e la perdita del paradiso in cui egli era stato collocato; e si accenna la prima cagione di sua caduta, cioè il serpente, o piuttosto Satáno nascosto entro il serpente, che già ribellandosi a Dio, e traendo alla sua parte molte legioni d’Angeli, fu per divino comando scacciato dal cielo con tutta la sua torma nel gran Profondo. Dopo ciò il poeta entra nel soggetto e rappresenta Satáno e gli angeli suoi in mezzo all’inferno, ch’è posto non già nel centro del mondo (poiché il cielo e la terra ancora non erano), ma in un luogo di tenebre esteriori, più acconciamente chiamato Caos. Là Satáno, giacente sul lago di fuoco co’ suoi Angeli, fulminato e stordito, ripiglia spirito e tien parole con Belzebù, il primo dopo di lui in potenza e dignità. Parlano eglino insieme della loro infelice caduta: Satáno risveglia le sue regioni che si alzano dalle fiamme. Loro numero, ordine di battaglia, e principali Capi sotto i nomi degl’idoli conosciuti di poi in Canaan e nelle vicine contrade. Il principe di Demonj rivolge loro il discorso, gli conforta con la speranza di racquistare il cielo, e loro parla infine d’un nuovo mondo, e d’una nuova creatura che doveva un giorno essere creata secondo un’antica profezia o racconto sparso in cielo, giacchè parecchi antichi Padri credono gli Angeli esser creati molto tempo innanzi a questo mondo visibile. Propone Satáno di esaminare in pieno consiglio il senso di quella profezia, e decidere quel che si possa in conseguenza tentare. Il Pandemonio, palagio di Satáno, sorge, fabbricato ad un tratto, fuori dal Profondo. gli spiriti infernali vi si raccolgono per deliberare.

 

 

 


Dell'uom la prima colpa e del vietato

Arbor ferale il malgustato frutto,

Che l'Eden ci rapì, che fu di morte

E d'ogni male apportator nel mondo,

Finchè un Uomo divin l'alto racquisto

Fa del seggio beato e a noi lo rende,

Canta, o Musa del ciel; tu che del Sina

dell'Orebbe in sul romito giogo

Inspirasti il pastor che primo instrusse

La stirpe eletta come i cieli e come

La terra in pria fuor del Caosse usciro;

se più di Sión t'aggrada il colle,

il rio di Siloè che al tempio augusto

Di Dio scorrea vicino, indi tua fida

Aita imploro all'animoso canto

Che d'innalzarsi a nobil volo aspira

Oltre l'Aonio monte, e a dir imprende

Cose ancor non tentate in prosa o rima.

E pria tu Divo Spirto, a cui più grato

È d'ogni tempo un retto core e puro,

Sii, tu che sai, maestro mio: presente

Dal principio tu fosti, e con distese

Ali robuste, di colomba in guisa,

Stesti covante sopra il vasto abisso,

E di virtù feconda il sen n'empiesti.

Tu quanto è oscuro in me rischiara, e quanto

È basso e infermo, in alto leva e reggi,

Onde sorgendo a par del tema eccelso,

Svelare all'uom la Provvidenza eterna

Io possa, e scioglier d'ogni dubbio gli alti

Di Dio consigli e le ragioni arcane.

Narra tu prima (poichè nulla il cielo,

Nulla l'inferno agli occhi tuoi nasconde),

Narra qual mai cagion gli antichi nostri

Padri, sì cari al cielo e in sì felice

Stato locati, a ribellarsi mosse

Da lui che gli creò. Mentre signori

Eran del mondo, un suo leggier divieto

Come romper fur osi? Al turpe eccesso

Chi sedusse gl'ingrati? Il Serpe reo

D'inferno fu. Mastro di frodi e punto

Da livore e vendetta egli l'antica

Nostra madre ingannò, quando l'insano

Orgoglio suo dal ciel cacciato l'ebbe

Con tutta l'oste de' rubelli Spirti.

Su lor coll'armi loro alto a levarsi

Ambìa l'iniquo e d'agguagliarsi a Dio

Pensò, se a Dio si fosse opposto. Il folle

Pensier superbo rivolgendo in mente,

Incontro al soglio del Monarca eterno

Mosse empia guerra e a temeraria pugna

Venne, ma invan. L'onnipossente braccio

Tra incendio immenso e orribile ruina

Fuor lo scagliò dalle superne sedi

Giù capovolto e divampante in nero,

Privo di fondo disperato abisso;

Ove in catene d'adamante stretto

A starsi fu dannato e in fiamme ultrici

Qual tracotato sfidator di Dio,

E già lo spazio che fra noi misura

La notte e 'l dì, nove fiate scorse,

Che con l'orrida ciurma avvolto ei stava

Nell'igneo golfo, tutto sbigottito

Benchè immortal. Pur lo serbava ancora

A maggior pena il suo decreto. Intanto

L'aspro pensiero del perduto bene,

E del futuro interminabil danno

Il cruccia alternamente. Intorno ei gira

Le bieche luci una profonda ambascia

Spiranti e un cupo abbattimento misto

D'odio tenace e d'indurato orgoglio:

Ed in un punto, quanto lungi il guardo

D'un Angelo si stende, ei l'occhio manda

Su quell'atroce, aspro, diserto sito;

Carcere orrendo, simile a fiammante

Fornace immensa; ma non già da quelle

Tetre fiamme esce luce; un torbo e nero

Baglior tramandan solo, onde si scorge

La tenebrosa avviluppata massa

E feri aspetti e luride ombre e campi

D'ambascia e duol, dove non pace mai,

Non mai posa si trova, e la speranza

Che per tutto penétra, unqua non scende.

Quivi è tormento senza fin, che ognora

Incalza più, quivi si spande eterno

Un diluvio di foco, ognor nudrito

Da sempre acceso e inconsumabil solfo.

Tal la Giustizia eterna a quei ribelli

Aveva apparecchiata orrenda chiostra

D'esterno tenebror, remota tanto

Dalla luce del ciel quant'è tre volte

Lontan dal centro della terra il polo

Dell'Universo. Oh dalla stanza prima

Stanza diversa! Egli i compagni quivi

Di sua caduta scerne urtati, avvolti

Fra i turbinosi vortici, fra i gorghi

Del tempestoso foco, ed al suo fianco

Voltolantesi quei che gli era in cielo

In potere e 'n delitto il più vicino,

E noto poscia e Belzebù nomato

Fu in Palestina. Ad esso il gran Nemico

(Satáno è detto in ciel) si volse, e in queste

Parole audaci il fier silenzio ruppe:

Se quel tu sei... (Ma qual ti miro, e quanto

Cangiato da colui che ne' beati

Regni di luce tante schiere e tante

Di Spirti fulgidissimi vincevi

Tutto vestito di fulgór!). Se quegli

Tu se' che nell'ardita illustre impresa

I conformi pensier, le stesse voglie,

Egual speranza ed egual rischio meco

Strinsero in salda lega e che or congiunge

Un crudo egual destin, da quale altezza

Vedi in qual ruinammo orribil fondo!

Tanto la folgor sua colui più forte

Rese di noi: fatale atroce telo!

Chi pria d'allor ne conoscea la possa?

Ma non io per quell'arme, e non per quanto

L'ira del vincitor su me s'aggravi,

Non io mi pento o cangio: invan son io

Di fuor cangiato, il cor lo stesso è sempre;

Del mio spregiato merto ivi entro impressa

Altamente ho l'ingiuria, hovvi confitto

Il fero sdegno che a lottar mi spinse

Con quel Possente. E che! Potei pur trarre

Contr'esso in campo innumerabil'oste

Di congiurati valorosi Spirti

Che il regno suo dannavano, che a lui

Me preferìan, che di virtù, d'ardire

Diero alte prove memorande incontro

Gli estremi sforzi suoi, che sugl'immensi

Lassù celesti campi in dubbia lance

Tenner vittoria e gli crollaro il trono!

Perduto è il campo, e sia: perduto il tutto

Dunque sarà? Quell'invincibil, fermo

Voler ci resta ancor, quel di vendetta

Fero desìo, quell'immortal rancore

E quel coraggio che non mai s'abbatte,

Che mai non si sommette. E che altro è mai

L'essere invitto ed invincibil? Questo

Vanto la rabbia sua, la sua possanza

No, non avrà da me. Ch'io grazia chieda?

Ch'io mi prostri al suo piè? che qual mio Nume,

Qual mio Signor lui riconosca e onori,

Lui che il terror di questo braccio mise

Testè del regno in forse? Ah! questa invero

Fora viltà, fora ignominia ed onta

Peggior della caduta. Or poichè 'l Fato

Tai ci formò che il vigor nostro e questa

Celestïal sustanza unqua non ponno

Venirci men, poichè la fresca prova

Di tanto evento noi peggiori in arme

Punto non rese, e il preveder ci accrebbe,

Con speranza miglior, nuova ostinata

Guerra eterna moviamgli, e forza e frode

S'impieghi contro lui ch'ebbro d'orgoglio

Ora gioisce ai nostri mali, e solo

Da tiranno nel ciel trionfa e regna.

Così Satán, nel tormentato fondo

Del cor premendo un disperar feroce,

Imbaldanziva favellando, e a lui

Tal diè risposta il suo compagno audace:

Prence di tanti Eroi, sovrano Duce

Di tanti Duci, che al tuo cenno intenti

De' Serafini le ordinate squadre

Condussero al conflitto, e sempre in ogni

Più duro scontro impavidi e tremendi

Poser l'Eterno in rischio, e prova fèro

S'ei per forza o per caso o per destino

Lassù tenesse il primo seggio, e come

Vuoi ch'io non vegga il lacrimabil caso

Che il ciel ne ha tolto, e sì grand'oste ha tutta

Spinta in ruina orribile, per quanto

Posson perir celesti Essenze e Numi?

Ah troppo il veggo, ah troppo il sento! È vero

Che sebben spenta sia la gloria nostra,

E quel primier felice stato assorto

In eterna miseria, un'alma in noi

Invincibil rimane, e al core, e al braccio

Il perduto vigor pronto ritorna;

Ma che valer ci può, qual pro che il nostro

Onnipossente vincitor (m'è forza

Ora crederlo tal, chè tal se in vero

Egli non fosse, soggiogar tentato

Un poter pari al nostro avrebbe invano),

Qual pro che questa forza e questo spirto

Ci lasci integri? Non vuol ei capaci

Così farci d'un duol che fin non abbia

Per pascer senza fin quel suo feroce

Di vendetta inesplebile talento?

Ah! che quai schiavi per ragion di guerra

A qualunque pensier gli sorga in mente

Egli ci serba; ad opre indegne e dure

Forse ei qui ci destina in mezzo al foco,

O messaggeri suoi pel tenebroso

Imo baràtro. Il non scemato adunque

Nostro vigor, la nostra essenza eterna

Altro fruttar ci può che eterna pena?

Caduto Cherubino (a lui risponde

Vivamente Satáno), alma che langue,

Nell'oprar, nel soffrir, misera è sempre.

Tu certo intanto sii che nostra impresa

Il ben non fia mai più. Nel male ognora,

Nel mal che opposto è per natura all'alto

Voler di quei cui facciam guerra, il sommo

Dobiam cercar nostro diletto e vanto.

Studi egli pur con provvido consiglio

Volgere in bene il male; ogni nostr'arte

Quel suo disegno a distornar si volga,

E fuor del seno ancor del bene stesso

Per nostre oblique trame il mal germogli.

Ciò può spesso avvenirci, e, s'io non erro.

Forse ei vedrà dolente i suoi più chiusi

Pensieri ir lungi dal proposto segno.

Ma vedi tu? Quel vincitore irato

Alle porte del cielo i suoi ministri

D'inseguimento e di vendetta indietro

Ha richiamati. Quel sulfureo nembo,

Quella rovente impetuosa folta

Grandine ond'ei nel precipizio nostro

Ci flagellava, dileguossi omai;

E 'l tuon dell'ali sue di rabbia e foco

Scarichi tutti e logri alfin gli strali

Ha forse, e cessa di mugghiar pel vasto

Abisso interminato. Afferriam pronti

L'occasion che, sia dispregio o sia

Sazio furore, or ci abbandona il nostro

Crudo nemico. Vedi tu quell'ermo

Lugubre piano, inospite, coverto

Di folta tenebrìa, tranne quel raggio

Che spaventoso e lurido vi getta

Di queste vampe il livido barlume?

Lungi colà dal tempestar di queste

Onde focose indirizziamci, ed ivi

Posiam, se posa esser vi puote alcuna;

E raccogliendo le disperse schiere,

Cerchiam qual via ci resti, onde al nemico

Più grave danno in avvenir s'arrechi;

Cerchiam qual sia della sconfitta nostra

Il riparo miglior, come sì cruda

Sciagura superar, qual dalla speme

Forza ritrarre, o, in fin, qual dar ci possa

La disperazïon consiglio estremo.

Così al compagno suo dicea Satáno

Colla testa alta fuor dell'onde, e fuori

Degli occhi folgorando orribil lume:

Prono su i flutti e galleggiante il resto

Delle immani sue membra un ampio e lungo

Spazio di molti iugeri coprìa.

Tali in lor mole della terra i figli

La favolosa Grecia a noi dipinse

Che osâr Giove assalir, quel Briaréo

O quel Tifóne, cui di Tarso antica

Il grand'antro accogliea. Tal è fors'anco

Quel mostro enorme, a cui null'altro eguale,

Fra quanti l'ampio mar rompon col nuoto,

Creonne Iddio. Sulle Norvegie spume

(Se la fama col falso il ver non mesce)

Ove in lui steso per dormir s'abbatta

Il pallido nocchier di picciol legno

In buia notte a naufragar vicino,

Spesso un'isola il crede, in sua scagliosa

Scorza l'áncora gitta e a lui s'afferra,

Finchè la notte il mar ricopre, e tarda

La sospirata aurora. Incatenato

Su quell'ardente pelago giacea

Così vasto e disteso il gran nemico;

Nè alzata mai, nè scossa pur l'altera

Cervice avrìa di là, se il ciel che tutto

Regge e governa, non lasciava appieno

Ai disegni di lui libero il corso;

Ond'egli colpe accumulando a colpe

E l'altrui mal cercando, anco sul capo

Dell'ira eterna s'accrescesse il peso,

E furibondo al fin non altro frutto

Fuor dell'arti sue prave uscir vedesse

Che infinita bontà, grazia, mercede

Sull'uom da lui sedotto, e piover doppio

Scorno sopra di sè, furor, vendetta.

Repente egli erge dal bollente gorgo

Sua vasta mole; d'ambo i lati spinte

Torcon le fiamme le appuntate cime

E raggirate in grosse onde nel mezzo

Lascian orrida valle. Alto egli spande

L'ali e dirizza il vol per l'aria fosca

Che stride al peso inusitato, e sovra

L'arida terra approda alfin, se terra

Quella pur è che di massiccio foco

Tutt'arde ognor, siccome il lago ardea

Di foco alliquidito; e tal rassembra

Qual di rabbiosi sotterranei fiati

Per la gran forza da Peloro svelto

E via scagliato alpestre masso; o quale

Di Mongibello il fracassato fianco,

Quando le gorgoglianti ime fornaci

Di solfo pregne e d'irritati venti

Fuore sbocca tonando e al guardo scopre

Tutte di fumo e di fetor ravvolte

Le arroventate orribili caverne.

Sopra sì fatto suol, dal suo compagno

Seguìto ognor, le maledette piante

Satáno arresta, e baldanzosi entrambi

Vantansi dalla Stigia accesa lama

Per la lor propria ricovrata forza,

Quai Dei, scampati, e che il gran Re del Tutto

Così permise, immaginar non sanno.

Quest'è la regïon, la terra è questa,

Disse Satáno allor, quest'è la sede

Che abitar ci convien del cielo invece?

Questo lugubre orror per quella viva

Serena luce? Or sia; poichè colui

Ch'adesso è Re, così dispone e assesta

Il retto e 'l giusto al suo piacer sovrano.

Sì, miglior sempre il più lontano albergo

Sarà da quegli, cui Ragione agli altri

Agguaglia, e Forza sopra gli altri innalza.

Addio, felici campi; addio, soggiorno

D'eterna gioia. Salve, o Mondo inferno,

Salvete, Orrori; e tu, profondo Abisso,

Il tuo novello possessore accogli;

Accogli quei che in petto un'alma serra

Per loco o tempo non mutabil mai.

L'alma in se stessa alberga, e in sè trasforma

Nel ciel l'inferno e nell'inferno il cielo:

Che importa ov'io mi sia, se ognor lo stesso,

E qual deggio, son io? se tutto io sono,

Fuorchè minor di lui che il fulmin solo

Fe' più grande di me? Liberi almeno,

Qui liberi sarem: questo soggiorno

Egli non fece onde lo invidii, e quindi

Sbandirci non vorrà: regnar sicuri

Qui noi possiamo, e, al parer mio, quaggiuso

Anco è bello il regnar; sì, miglior sempre

Che in ciel servaggio, è nell'inferno un regno.

Ma perchè i nostri sventurati e fidi

Compagni e amici, istupiditi, avvolti

Lasciam colà sul fero lago, e a parte

Non gl'invitiam con noi di nostra sorte?

Sì, consultiam, veggiam ciò che, raccolte

Nostr'armi, in cielo racquistar si possa,

O se a perder quaggiuso altro ci resta.

Così Satán parlava, e in questi accenti

Rispose Belzebù: Duce di quelle

Raggianti schiere, cui sconfigger solo

Potea chi tutto può, se ancora il suono

Di tua voce elle udran, di quella voce

Che, quando più ostinata, incerta, orrenda

La pugna inferocía, di loro speme

Fu il pegno animator, fu in ogni assalto

Il più sicuro ed ubbidito segno,

Se ancor la udran, nuovo coraggio in esse

Vedrai rinascer tosto e nuova vita.

Or se, qual noi testè, sull'igneo lago

Trambasciate si stan, stordite, inerti,

Meraviglia non è dopo cotanto

Spaventevol caduta. Aveva appena

Di dir cessato Belzebù che l'altro

Vèr la spiaggia movea. Dietro le spalle

Ei si gittò lo scudo, eterea tempra,

Ponderoso, massiccio, ampio, rotondo:

Il largo cerchio a tergo gli pendea

Simile a luna, quando a sera il grande

Toscan Maestro con suoi vetri industri

Dal Fiesolano colle o di Valdarno

La sta mirando a discoprir novelle

Terre e nuove montagne e nuovi fiumi

Nel maculato globo. All'asta sua

Se il più gran pin delle Norvegie selve

Troncato a farne smisurata antenna

Di regal nave, agguagli, è verga lieve

Nella sua man: con essa ei regge e ferma

Sulla rovente sabbia i passi, oh quanto

Da quei diversi che sul piano azzurro

Dell'Empireo movea! La torrid'aura,

Che sul suo capo l'ignea volta manda,

Forte anco il fiede e abbronza; ei nulla cura

Per tanto ed oltre va, finchè sul margo

Di quel mare infiammato il piede arresta.

Alza il grido colà verso le sue

Prostese innumerabili falangi

Che ammucchiate giacean qual sotto gli alti

Archi de' boschi opachi in Vallombrosa

S'ammassano e ricoprono i suggetti

Rivi in autunno le cadute foglie:

E forse è folta men l'alga ondeggiante

Quando Orión di feri venti armato

Tutto dall'imo fondo alza e sconvolge

Quel mar famoso, entro i cui flutti vide

Il perseguìto Ebreo dal salvo lido

Busiri andar con l'oste sua sommerso,

E galleggiar tra rotti carri i morti

Cavalli e cavalieri e fanti avvolti.

Così densa coprìa quel vasto gorgo

La perduta oste rea, che più se stessa

Per lo stupor del cangiamento strano

Non conosceva: alto ei chiamolla, e tutti

Rintronàr dell'inferno i cupi seni

A quella voce: O Potentati, o Prenci,

Guerrieri che del ciel l'onor già foste,

Del ciel già vostro, ed ora, oimè! perduto,

Se un letargo simìl voi, Spirti eterni,

Puote ingombrar così: questa dimora

Sceglieste forse a ristorar la stanca

Vostra virtù dopo la pugna? è questo,

Come lassù del ciel le amene valli,

Il loco adatto ai vostri sonni? o in tale

Postura abietta d'adorar giuraste

Il vincitor? Ch'ei dal suo trono or miri

Le vostre insegne, le vostr'armi sparte,

E voi medesimi in questo mar convolti,

Nulla curate? Ma che parlo? Forse

State attendendo che, il vantaggio scorto,

Quel suo veloce inseguitor drappello

Dalle soglie del ciel scenda a calcarci

Giù col piede le languide cervici,

O co' fulminei catenati strali

Di questo golfo ci conficchi al fondo?

Scuotetevi, sorgete, o eternamente

Siate perduti. Eglino udir, vergogna

Gli punse, e l'ali dibattendo, a un tratto

Tutti s'alzaro. Quasi talor sull'armi

Dal capitan temuto a dormir colte

Le sentinelle, non ben deste ancora

Rizzansi e mostra fan d'ardite e franche,

Tai sembravan coloro. Il crudo stato

Senton ben essi e le lor pene acerbe:

Ma pur del Duce al grido in un istante

Obbedisce ciascun; tutto all'intorno

Si scuote, tutto freme e tutto ondeggia.

Così al brandir della possente verga

Del figliuol d'Amràm vide l'Egitto

Inorridito in quel feral suo giorno,

Curva sull'Euro comparir repente

Caliginosa mormorante nube

Di voraci locuste, e, come notte,

Dell'empio Faraòn pender sul regno

E coprirlo di tenebre. Tal era

L'innumerabil numero di quelle

Malvagie squadre che laggiù d'inferno

Sotto la vôlta, tra le basse ed alte

E d'ogni lato circolanti vampe,

Stavan sospese sugli aperti vanni;

Finchè, qual segno, l'aggirata in alto

Asta del magno Imperador diresse

Il corso lor. Sulle librate penne

A quella vôlta giù tosto si calano

Sovra quel fermo solfo e 'l vasto piano

Ingombran tutto; immensa torma, a cui

Una simil non mai versò da' suoi

Ghiacciati fianchi il popoloso Norte,

Quando, varcata la Danoia e 'l Reno,

Come un diluvio, i barbari suoi figli

Cadder sull'Austro e passâr Calpe, e tutte

Le Libiche inondaro aduste sabbie.

Repente fuor d'ogni squadrone uscendo

I condottier colà s'affrettan dove

Stava il gran Duce lor; divine, eccelse

Sembianze e forme, ogni beltà terrena

Superanti d'assai; Principi e Regi

Ch'eran nel ciel poc'anzi assisi in trono.

Ogni memoria de' lor nomi spenta

Or è lassuso, cancellati e rasi

Per la lor fellonía da' libri eterni

Di vita eternamente, e nuovi nomi

D'Eva tra i figli non aveano ancora.

Iddio provar l'uom volle e lor permise

D'ir la terra scorrendo, e sì potero

La più gran parte dell'uman lignaggio

Togliere al culto del verace Dio

Con lor menzogne e loro inganni, ond'essa

Lui glorioso, onnipossente, eterno,

Non comprensibil, non visibil, spesso

Coll'insensata imagine d'un bruto

Tutta di pompe e d'ôr cinta e coperta

Scambiò miseramente, e, come Numi,

I Démoni adorò. Diversi allora

Ebber costoro in terra idoli e nomi.

Di', Musa, dunque i nomi lor; chi prima

Surse, chi poi da quel bollente letto,

Da quel letargo, e, dietro a sè lasciando

De' minori guerrier la turba immensa,

Solo avvïossi ove il gran Duce alzava

Su quella spiaggia orribile e deserta

La rampognante imperïosa voce.

Capi eran quei che dal profondo abisso,

Lungo tempo dipoi, di preda in traccia

All'aure usciti, di locar vicine

Alla sede di Dio lor sedi osaro

E l'are lor presso alla sua; che gli empi

Voti usurpar de' popoli e gl'incensi.

Di Iéova stesso in trono assiso e cinto

Da' Cherubini suoi lo sguardo e 'l braccio

Fulminator non spaventolli, e spesso

Dentro Sionne ancor, dentro il medesmo

Santuario di lui gli abbominandi

Lor simulacri spinsero, le auguste

Pompe e i riti ineffabili e tremendi

Profanar s'attentaro, e l'empie loro

Tenebre opporre all'immortal sua luce.

Primo è Molocco, orrido Re, che bebbe

L'umano sangue ed i materni pianti

Sugli altari crudeli, ove le strida

Delle vittime sue tra 'l foco avvolte

Soffocava un frastuono alto, incessante

Di tamburi e taballi. A lui prostrossi

L'Ammoníta entro Rabba; e nelle sue

Pianure acquose ed in Basanne e Argobbe

Fin dell'Arnonne alle rimote sponde:

Nè pago ancora di cotanto audace

Sua vicinanza, il saggio cor sedusse

Di Salomone fabbricargli un tempio

In faccia al divin tempio, in cima a quella

Montagna obbrobriosa, e suo boschetto

Fece d'Innòm la dilettosa valle

Ch'ebbe indi il nome di Toféto e d'atra

Géenna, dell'inferno orrida imago.

L'altro è Chemosse, di Moabbo a' figli

Spavento osceno da Aroarre a Nebo

Fin d'Abarimme alle remote australi

Erme contrade. In Esebòna ancora

Stese l'impero e in Oronài, reame

Di Seòne, e di Sibma oltre la valle

Di liete vigne e fior tutta ridente,

E corse audace in Eleal perfino

All'Asfaltico stagno. Ei di Peorre

Il nome ancor portò, quando Israello,

Mentre fuggìa dalle Niliache sponde,

Colà in Sittimme ai suoi lascivi riti

Fu sedotto da lui, riti che furo

Di tanti mali la fatal sorgente.

Ei distese di là sovra quel colle

D'infamia eterna, che sorgea vicino

Del fier Molocco alla cruenta selva,

L'orgie impudiche, e mescolò col sangue

Le libidini sue, finchè d'entrambi

A terra il buon Giosía gli altari sparse

E nell'inferno gli rispinse. Appresso

A questi due venìan quei Spirti impuri

Che dalle sponde del vicino Eufrate

Al rio che dall'Egitto Assiria parte,

Di Baalimmi e di Astarotte i nomi

Comuni avean tra numeroso stuolo;

Dei quelli, e Dive queste. A lor talento

Or l'uno or l'altro sesso ed ambi insieme

Prendon gli Spirti ancor: pieghevol tanto

È lor pura sustanza, e lieve e molle;

Tanto ella vince la mortal struttura

Che di polpe e di nervi e d'ossa insieme

È contesta ed ingombra. In ogni forma

Oscura o luminosa, o densa o rara,

Qual più lor giova, or d'odio, ora d'amore

Possono i rei disegni in opra porre.

Per essi i figli d'Israello infidi,

Al sommo Dio, lor viva forza, spesso

Volsero il tergo, e infrequentata e muta

Lasciando l'ara sua, curvâr le fronti

Dianzi a brutali Numi, onde quell'empie

Cervici lor di tanta colpa carche

Poscia in campo mietè vil ferro imbelle.

Venìa con lor quell'Astaréte in schiera,

Che da' Fenici poi fu detta Astarte,

Del ciel notturna regnatrice, ornata

Delle crescenti luminose corna.

Alla corrusca imagin sua fur use

Per l'aer bruno offrir lor voti ed inni

Le Sidonie donzelle, e culto ed ara

In Sionne ebbe ancor sull'empio monte

Fondata da quel Re che il saggio core

Tra femminili amor corruppe, e spinto

Da sue belle idolatre, idoli immondi

Pur cadde ad incensar. Venìa Tammuzo

Poi, la cui piaga riaperta ogn'anno

Ogn'anno ancor rinnovellava il duolo

Delle Siriache vergini che in triste

Note d'amore al Libano d'intorno

Tutto un estivo dì stavan piangendo

L'acerbo fato suo, mentre vermiglie

Adoni al mar volgea le placid'onde

Dalla natía sua rupe, e a lor parea

Mostrar in esse di Tammuzo il sangue.

Di pari ardor quell'amorosa fola

Infettò di Sionne ancor le figlie;

E ben le turpi lor fiamme lascive

Fin dentro i sacri portici scoprío

Ezechïel quando girò sull'empie

Idolatrie del ribellato Giuda

L'occhio ripien della virtù superna.

Quegli poscia venìa che vivo duolo

Sentì nel cor quando la propria imago

Entro il suo tempio stesso a un tratto monca

Farsi dall'arca prigioniera ei vide,

E via le tronche mani e la spiccata

Testa balzarne rotolando al suolo,

De' suoi scornati adoratori al piede.

Dagón fu il nome suo, marino mostro,

Uom sopra e pesce in basso: alto sorgea

Il suo tempio in Azóto e i lidi tutti

Di Palestina ed Ascalona e Gata

Fin d'Accarón ai termini e di Gaza

Temean suo scettro. Lo seguìa Rimmone

Ch'ebbe nel bel Damasco ameno seggio

D'Abbana e di Farfarre in sulle vaghe

Fertili rive. Egli pur erse incontro

Alla magion di Dio l'audace fronte,

E se un lebbroso Duce ei vide un giorno

Abbandonar suo culto, un Re pur vide

Prestargli omaggio: Aazo ei fu, quel folle

Suo vincitor, che del verace Dio

Spregiò, rimosse l'ara, e un'altra a guisa

Delle Assirie n'eresse, ov'empi incensi

Arse agli Dei già da lui vinti e domi.

Folta appo questi una gran torma apparve

Che sotto i nomi celebrati antichi

D'Isi e d'Osiri e d'Oro, e de' tanti altri

Seguaci lor, con mostruose forme

E con vani prestigi il cieco Egitto

Sì schernir seppe e i sacerdoti suoi,

Che andaro ognor sotto ferino aspetto,

Anzichè umano, or qua or là cercando

I lor vaganti Dei. Da quella peste

Non fu immune Israél quando in Orebbe

L'oro accattato ei del vitello fuse

Nell'immago adorata. Empiezza eguale

Vider bentosto Bettelemme e Dana

Doppiarsi da quel Re che osò ribelle

Paragonare a bue che l'erba pasce,

Iéova che lo creò, Iéova che quando

Dall'Egitto ei fuggìa, con un sol colpo,

In una sola notte, ogni fanciullo

Primonato percosse, e a terra stese

Ogni muggente Nume. Ultimo venne

Quel Belial, di cui più laido Spirto

Dal ciel non cadde e più del vizio in preda

Sol per amor del vizio: a lui non tempio

Sorgea, nè altar fumava; eppur qual altro

Soggiornò più di lui fra templi ed are?

Ei là sovente d'ogni Dio l'idea

Nei sacerdoti cancellò, qual d'Eli

Ne' figli avvenne, che di Dio la casa

Di vïolenza e di lascivie empiero.

Ei pur le Corti e i gran palagi alberga,

E le ricche città passeggia altero,

Ove il fragor della licenza oscena,

Degli oltraggi e dell'onte, oltre le cime

Delle più eccelse torri ascende e suona;

E quando della notte il fosco velo

Le strade abbuia, allor vagando intorno

Escon di Belialle i sozzi figli

Ebbri di vino e oltracotanza. Troppo

Di Sodoma le vie sepperlo un giorno,

E Gabaa il seppe in quella notte impura

Che, a distornare un peggior ratto, aprissi

L'ospital soglia e una matrona espose.

In ordine e possanza eran costoro

Primi fra gli altri, di cui troppo fora

Lungo il ridir, benchè lontana suoni

La fama lor; di Iávana la stirpe,

Gli Dei di Ionia che pur Dei tenuti

Fur, sebben dopo Cielo e dopo Terra

Vantati padri lor, venuti al mondo;

Quel Titano di Ciel primiera prole

Coll'enorme sua schiatta, al qual fur tolti

Dal più giovin Saturno e dritti e regno,

E questi che a vicenda egual destino

Provò dal figlio che di Rea gli nacque

E che di forza il vinse. Ebbesi Giove

Usurpator così l'impero. In Creta

Da prima e in Ida essi fur noti, e quindi

Del freddo Olimpo sul nevoso giogo,

Dell'aere medio, lor più alto cielo,

Ebber governo, o soggiornar di Delfo

Sulla rupe, o in Dodona e pe' confini

Del Dorico terren. Sovr'Adria gli altri

Coll'antico Saturno il vol drizzaro

Ai campi Esperj e Celtici, e per tutte

Le remote vagaro isole estreme.

Tutti costoro ed altri molti innanzi

S'affollaro a Satán, con occhi pregni

Di pianto e chini al suol; ma pur di gioia

In essi un fosco raggio insiem traspare,

Mentre non anco di speranza uscito

Veggono il Duce loro, e sè medesmi

Non affatto perduti in mezzo a tanta

Spaventevol ruina: a lui non meno

Un incerto color rapidamente

Passò sul volto, ma l'usato orgoglio

Tosto ei riprende, e con parole altere,

Pompose sì, ma vane, a poco a poco

Ravviva in essi gli abbattuti spirti

E le speranze lor scuote e raccende.

Quindi impon tosto che al guerriero suono

Di trombe e d'oricalchi il gran vessillo

S'innalzi: n'ebbe il glorïoso incarco

Per suo dritto Azazél, d'alte e superbe

Sembianze un Cherubin: dalla raggiante

Asta egli tosto disviluppa e stende

L'insegna imperïal ch'alto nell'aura

Tremolando, qual lucida rifulse

Meteora in fosco ciel: splendeanvi in mezzo

D'oro e di gemme riccamente inteste

L'arme e i trofei Serafici. I sonori

Metalli intanto un marzïal clangore

Lunge spandeano, a cui sì forte un grido

Tutta l'oste mandò che dell'inferno

Scosse la vôlta e del Caosse e della

Vetusta Notte spaventò l'impero.

In un momento diecimila alzarsi

Bandiere fur per quell'orror vedute,

E nell'aura ondeggiar pinte de' vivi

Color del sol nascente: insiem levossi

Di lancie ampia foresta, e d'elmi e scudi

Conserta e folta un'ordinanza apparve

Profonda, immensurabile. S'avanza

In maestoso e fiero aspetto il campo

Di tibie e flauti al Dorico concento;

Dolce e grave armonia che degli antichi

Eroi presti a pugnar gli animi ergea

A somma altezza, e non furor, ma fermo

Valor deliberato in lor spirava

Che temea, più che morte, esser rispinto;

Alta armonia che con sublimi note

Dalle mortali ed immortali menti

Dubbio, paura, angoscia e affanno sgombra

O molce almeno. Tacita, secura

In sua virtude, in sua congiunta possa

Così movea quell'oste al dolce suono

Che del bruciante suol l'ardor temprava

Sotto i suoi passi dolorosi. In mostra

Ecco a un punto s'arresta; orrida fronte

Di terribil lunghezza e d'abbaglianti

Armi, ai prischi guerrier simile in parte

Con aste e scudi in ordinanza, e attenta

Stassi ad udir quale al possente Duce

Comando piaccia imporre. Egli l'esperto

Sguardo dardeggia per le file, e tutta

Da un punto all'altro la falange immensa

Ne trascorre veloce; il ben disposto

Ordine, i volti e le stature eccelse,

Solo proprie di Numi, osserva e squadra,

E alfin somma il lor numero. D'orgoglio

Or più gonfia il suo core e più s'indura;

Poichè dal giorno, in cui fu l'uomo creato,

Non mai si ragunò tal'oste e tanta

Che, di questa al paraggio, assai simile

Non fosse a stormo di pimmei pugnanti

Di strepitose gru contro uno stuolo.

Taccia Flegra i giganti, ed Ilio e Tebe

Quella stirpe d'Eroi che d'ambo i lati

Pugnò frammista ai parteggianti Numi;

Nè favola o romanzo il prode Arturo

Da' suoi Britanni o Armorici campioni

Intorno cinto osi membrar (chè troppo

Spregevol fora il paragon), nè quanti

In Aspramonte o Montalban giostraro,

In Damasco, in Marocco o in Trebisonda

Cristiani o Saracini invitti Eroi,

Nè quei che dalle Maure aduste arene

Mandò fra noi Biserta allorchè il Magno

Carlo con tutti i Paladini sui

In Fontarabia cadde. Incontro a questi

Del ciel rivali uman valor è nulla.

Pur se ne stanno riverenti al loro

Temuto Duce. Alteramente eccelso

Ei di persona, e portamento sopra

Tutti gli altri torreggia; ancor perduto

Non ha tutto il natìo fulgor celeste,

E conquiso com'è, pur sempre in lui

Un Arcangel si vede, un offuscato

Di gloria eccesso. Tale il sol nascente

Timidi getta e pallidi pel grave

Aere nebbioso i raggi, e tal ei sparge,

Se Cintia il vela coll'opposto dosso,

Sovra mezza la terra un torbo e mesto

Lume che pel timor d'aspre vicende

Tien palpitante de' tiranni il core.

Oscurato così, tanto splendea

Sopr'ogn'altro Satáno: ancor dell'alte

Cicatrici del folgore rovente

Solcata avea la faccia, ancor gli stava

La cura e 'l duol sulla scaduta guancia;

Ma sotto il ciglio l'indomabil core

E 'l ponderato orgoglio intento tutto

Alla vendetta trasparìa; feroce

Ardeva l'occhio suo, pur di rimorso

Segni gettava e di cordoglio: ei mira

Spiriti innumerabili, già visti

In sì diversa sorte, ora dal cielo

E da sua luce eterna eternamente

Per sua cagion sbanditi e in quegli abissi

Spinti e dannati; e suoi compagni furo,

Anzi seguaci suoi! pur fidi ancora

Quanto gli sono e nella lor sventura

Qual mostran fermo generoso core!

Così qualor la rovinosa fiamma

Del ciel piombò sulla foresta e gli alti

Pini e le querce noderose antiche

Percosse, diramò, pur coll'arsiccia

Sfrondata cima stan gli alteri tronchi

Sul divampato suol fissi ed immoti.

Egli a parlar s'accinge, onde si curva

Vèr lui del campo il destro corno e 'l manco,

E in semicerchio co' più degni Duci

Raccolto viene: ciascheduno è muto

Per desìo d'ascoltar: ei per tre volte

Tentò parlare e per tre volte, ad onta

Del proprio scorno, in lagrime proruppe,

Ma quali Angel le sparge; alfin mescendo

Co' sospir le parole, ei così disse:

O d'immortali Spirti immense schiere,

O Forti, o comparabili soltanto

Con lui che tutto può, certo d'onore

Priva non fu l'alta contesa nostra,

Benchè seguìta da un evento atroce

Siccome questo loco, ahi! troppo attesta,

E quest'orribil cangiamento, ond'io

Parlar non oso. Ma qual mai presaga

Mente sublime e dagli eventi instrutta

Temer potea che tal di Numi unito

Esercito, che forze a queste eguali,

Sì intrepide, sì ferme, esser disfatte

Potesser mai? Chi crederà che ancora

Abbattuto, com'è, stuol sì gagliardo,

Di cui l'esilio ha fatto vòto il cielo,

Col suo valor là risalir non debba

E i suoi riposseder perduti seggi?

Tutta l'oste del ciel ne chiamo in prova;

Se discordanza di consigli o rischio

Da me schivato le speranze nostre

Ha rovesciate. Ma colui ch'or regna

Lassù Monarca, infino allor sedea

Sul trono suo qual chi securo appieno

Per vecchia stima, uso o consenso il tiene,

E piena pompa del suo regio stato

Facendo, intanto il suo poter celava.

Questo a tentar c'indusse, e cagion questo

Fu di nostra ruina. Ormai sua possa

Noi conosciamo e nostra possa a un tempo,

Onde nè provocar guerra novella,

Nè provocati paventarla. Il meglio

Ci resta ancor: dove il poter non giunse,

L'arte vi giunga e 'l ben oprato inganno;

E apprenda ei pur da noi che sol da forza

Vinto nemico è per metà sol vinto.

Dello spazio nel grembo ermo ed immenso

Novelli mondi sorger ponno, e in cielo

Fama correa ch'egli in pensier volgesse

Crearne un altro in breve, ed una stirpe

Locare in esso a lui gradita e cara

Quanto del cielo i più diletti figli.

Ivi a spïar, se non ad altro, in prima

Uscirem noi, là forse o altrove ancora:

Chè in servitù no ritener non debbe

Chiusi quaggiù questa infernal vorago

Spirti celesti e l'Erebo coprirli

Delle tenebre sue. Ma in pien consiglio

Questi pensier matureransi: or fermo

Stia che vana è di pace ogni speranza

Per chi servir, sottomettersi non voglia;

E chi vorrallo? Aperta guerra dunque

O ascosa si risolva, e guerra eterna.

Disse, e quei detti ad approvar, dal fianco

De' forti Cherubini ecco ad un punto

Più milïon di sguainati brandi

L'aria fendèro e mandàr fiamme e lampi

Onde lontan rifulse il bujo regno

Per ogni intorno. Di furor, di rabbia

Tutti contro l'Eterno han gonfio il core,

E con bestemmie e grida verso il cielo

Lor disfide lanciando, i risonanti

Scudi percuoton colle spade e un cupo

Destan di guerra assordator fracasso.

Sorgea di là non lunge un piccol monte

Che dalla cima squallida eruttava

Rote di fumo e fiamme, e in tutto il resto

D'una lucente gromma era coverto:

Non dubbio segno che celato in grembo,

Per opera del zolfo, un ricco ei serba

Metallico tesoro. Ivi ad un tratto

Di loro un folto stuol distese il volo,

Quale d'asce e di marre armata schiera

Di guastatori intrepidi precorre,

Ad iscavar trinciera, a innalzar vallo,

Un esercito regio. Era lor Duce

Mammon, di cui Spirto più vil non cadde

Con lor dal cielo: anco lassuso ei sempre

Tenea gli sguardi ed i pensier confitti

Sul ricco pavimento, e più quell'oro

Da lor calcato gli rapiva il core

D'ogni bëante visïon celeste.

Ei fu che all'uom da pria spirò l'avara

Sete delle ricchezze, esso gli apprese

A squarciare e predar con empia mano

Della terra le viscere, ed in luce

Quei tesori a recar che meglio stati

Foran là dentro eternamente ascosi.

Tosto la torma sua larga ferita

Aprì nel monte, e d'ôr fulgidi brani

Ne trasse fuor. Niun meraviglia prenda

Che quel metallo nell'inferno abbondi;

A qual altro terren meglio conviensi

Il prezïoso tosco? Or qui chi vanta

Mortali cose, e di Babelle e Menfi

Meravigliando le grand'opre estolle,

Vegga quanto sia lieve ad empi Spirti

Solo in un'ora superar quegli alti

Per arte umana o per umana forza

Monumenti famosi, eretti appena

In lunghe età da innumerabil braccia

E da sudor perenne. Ivi d'appresso

Sul piano, in molte preparate celle

Che sotto avean di liquefatte fiamme

Rivi sgorganti dal bollente lago,

Una seconda affaccendata schiera

Con stupendo lavor distempra e scevra

La metallica massa, e ne dischiuma

Tutta l'impura feccia. Un terzo stuolo

Colla prestezza stessa entro il terreno

Varie forme compose e per arcani

Canali empiè delle bollenti celle

Le varie cavità. D'un'aura il soffio

Nell'organo così per molte file

Di canne scorre, e vario suon respira.

A guisa di vapor che in alto saglia,

Ecco repente dal terreno alzarsi,

Di tempio in forma, un edificio immenso,

Al suono di soavi sinfonie

E dolci canti. Doriche colonne,

D'aureo architrave sotto il peso, intorno

Splendono in ordin lungo: ornati i fregi

E le cornici con mirabil'arte

Son di sculture e di rilievi; è il tetto

Solid'oro intagliato. Unqua non vide

Magnificenza egual l'Eufrate e il Nilo,

Quando de' Regi loro e de' lor Numi

I palagi ed i templi ergeano a gara

Più eccelsi e vasti, e di ricchezza e lusso

Contendevan tra lor. Compiuta alfine

Sovra le salde basi immobil sorge

La maestosa mole; e l'énee porte

Repente spalancandosi, le interne

Splendide sale immense e il liscio e terso

Pavimento il sorpreso occhio discopre.

Dal curvo tetto per sottile incanto

Pendean stellati mille lampe e mille,

In cui Nafta ed Asfalto una sì viva

Luce nudrìan che un ciel pareva l'inferno.

Meravigliando entra la folla, e questi

Loda il lavor, quei l'architetto in cielo

Egli era illustre già per molte eccelse

Edificate moli, ove soggiorno

Scettrati Angeli fean che il Re supremo

Al governo esaltò degli ordin vari

Di sue celesti rifulgenti squadre.

Nè senza nome o senza onor divini

Andò per Grecia e per Ausonia, dove

Vulcan fu detto: ivi che Giove irato

Via lo scagliò dai cristallini merli

Favoleggiossi: dal nascente sole

Alla metà del dì, da questa infino

Alla rorida sera, un lungo estivo

Giorno durò precipitando, e allora

Che il sol cadea nell'onde, in Lenno, antica

Isola dell'Egeo, piombò simile

A divelta dal ciel corrusca stella.

Favole e sogni! Ei da gran tempo innanzi

Con questa cadde insiem ribelle turba,

Nè punto gli giovâr le alte nel cielo

Costrutte torri, nè sottile ingegno;

Chè capovolto con sua ciurma industre

Giù negli abissi a fabbricar fu spinto.

Al suon di trombe e con gran pompa intanto

Per comando sovran gli alati Araldi

Vanno per tutta l'oste alto gridando

Che in Pandemonio, la superba Reggia

Del gran Satáno e de' suoi Pari, in breve

Solenne s'aprirà Consesso augusto;

E colà tosto da ciascuna schiera,

Da ciascuna falange i più distinti

Per dignitade o per sovrana scelta

Sono appellati. Là traggon repente

Tutti costor da nobile seguìti

Corteggio innumerabile. Ogni via,

Ogni atrio capacissimo, ogni porta

Gran calca ingombra e stringe, e l'ampia sala

Tutta n'ondeggia e bolle, ancor che pari

A quei recinti ella in grandezza fosse,

Ove arditi campioni in sella armati

Presentarsi eran usi, e innanzi al seggio

Del Soldano appellare il fior de' prodi

Pagani Cavalieri a mortal zuffa

O a correr lancia. Della gente inferna

Coverto è il suol, l'aria n'è ingombra, e tutta

Stride divisa dai fischianti vanni.

Soglion così le pecchie, allor che il sole

Riede col Tauro, all'alveare intorno

Versar lor folta giovinetta prole

In densi gruppi, che su i freschi fiori

E le novelle erbette rugiadose

Van poi volando e rivolando, o sovra

Liscia e testè di lor ceroso visco

Spalmata panca che fuor sporge e quasi

Del paglieresco lor castello è il borgo,

S'aggiran premurose e l'alte cure

Conferiscono del regno. Era simile

Quivi di tanti Spirti il popol denso

A cui mancava il loco, allor che diessi

Un cotal segno, ed (oh stupor!) coloro

Che in lor mole testè vincean la vasta

Terrestre prole gigantéa, li vedi

De' più piccoli Nani a un tratto farsi

Più piccioletti ancora, e breve stanza

Chiuder stormo infinito. A lor somiglia

Quell'umil stirpe di Pimmei (se narra

La fama il vero), che dell'Indie estreme

Vive oltra i monti, o quei Folletti Spirti

Che in notturni tripudi o vede o sogna

Vedere appresso una foresta o un fonte

Il tardo peregrin, mentre sul capo

Dritto gli pende della luna il raggio

Che più vicino a noi ruota il bicorne

Pallido carro: a lor carole e feste

Stan quelli intenti: a lui molce l'orecchia

Dolce concento, e fra timore e gioia

Gli balza il cor. Così quei Spirti inferni

Strinser le membra immani in brevi forme,

E benchè tanti, in quella regia sala

Tutti capean, ma lunge a dentro i Prenci

De' Cherubini e Serafini, in guisa

Di mille Semidei, tuttor serbando

L'alte fattezze prime, in chiusa eletta

Parte e in frequente e pien Senato, assisi

Sovr'aurei seggi luminosi stanno.

Si fe' breve silenzio, e letto in pria

L'invito, aprissi il gran Concilio orrendo.


LIBRO SECONDO

 

Cominciatasi la consulta, Satáno discute se un’altra battaglia abbia a tentarsi per ricuperare il cielo. Alcuni sono di questo avviso, altri vi si oppongono. Si conchiude di seguire il pensiero di Satáno e ricercare la verità di quella profezia o tradizione che correva in cielo intorno ad un altro mondo e ad un’altra specie di creature poco inferiori agli Angeli, e che doveano essere create all’incirca in quel tempo. Dubbj sopra chi dovrà mandarsi alla difficile scoperta. Satáno, loro Capo, intraprende solo il viaggio, e ne riceve onori ed applausi. Sciolta l’adunanza, gli Spiriti si dividono in varie schiere, e per recare qualche sollievo ai loro mali, si danno a vari esercizj secondo le diverse loro inclinazioni, aspettando il ritorno di Satáno. Egli arriva alle porte dell’Inferno che trova chiuse e guardate da due mostri. Gli vengono finalmente aperte. Scopre il gran golfo fra l’inferno e il cielo. Con quanta difficoltà attraversa l’abisso. Il Caos, Sovrano di quel luogo, gl’indica il cammino verso il nuovo mondo, di cui va in traccia.

 

 

 

 


In trono eccelso che più ricco assai

Splende d'Ormus, dell'Indo e del pomposo

Orïente colà dove più spande

Su i barbarici Re l'oro e le gemme,

Siede Satáno, a quell'altezza rea

Portato da' suoi merti, e dallo stesso

Disperar sollevato oltre ogni speme

Più alto aspira ognor: la vana e stolta

Guerra col cielo a proseguir lo spinge

Una superba irrequïeta brama,

E dagli eventi non istrutto ancora

Così dispiega i suoi disegni alteri:

O Principi, o Possanze, o Dei del cielo,

Poichè abisso non v'ha ch'entro i suoi golfi

Rattener possa un immortal vigore,

Benchè scaduto, e oppresso, il ciel non stimo

Perduto io già. Spirti superni e divi,

Dal lor cader sorgendo, assai più chiari

Mostreransi e tremendi, e contro un nuovo

Fato staranno in sè sicuri. Un giusto

Dritto e del ciel le fisse leggi in prima,

Quindi la vostra appien libera scelta

E quanto oprai col senno e colla mano

Non indegno di pregio, a me governo

Sopra di voi già diero; e in fin di questa

Perdita stessa i danni in parte almeno

Già da me riparati, oltre ogni tema,

Oltre ogn'invidia stabilito m'hanno

Su questo soglio, a cui concorde e intero

Il vostro assenso mi chiamò da pria.

Alto grado lassù nel bel soggiorno

Puote ai men alti esser d'invidia oggetto;

Ma qui chi un seggio agognerà che il renda

Ai colpi del Tonante il primo segno,

Lo schermo vostro, e a maggior parte il danni

Di dolor senza fine? Ov'è sbandito

Il ben, non entra ambizïosa gara.

Saravvi alcun che a maggioranza aspiri

In questo diro abisso? A chi sì scarsa

Pena toccò ch'altra cercar ne voglia,

Più alto onor bramando? In ferma lega

Congiunti dunque, in stabil pace e fede

Più che nel cielo esser mai possa, il nostro

A vendicar giusto retaggio antico

Or noi torniamo, e di felici eventi

Più certi siam che se propizia ognora

Ci fosse stata la Fortuna. Or quale

Sia miglior mezzo, aperta guerra, o frode,

Cercar si dee: chi a dar consiglio basta,

Apra, chè appien gli lice, il suo pensiero.

Disse; e Molocco alzossi, inclito Rege,

Il più feroce Spirito, il più forte

Che nel cielo pugnasse, ed or più fero

Fatto dal disperar. Ei coll'Eterno

Aver sperava d'egual possa il vanto,

E nulla sì, di lui minor non mai

Esser volea: con tal pensiero, tutti

I suoi timor perdeo; di Dio, d'inferno

O peggio ei nulla cura, e sì favella.

Aperta guerra è il voto mio; di frodi,

Men ch'altri in esse esperto, io non mi vanto:

Chi n'ha d'uopo, le ordisca, e quando è d'uopo:

Non ora. E che! Mentre qui lenti adunque

Van costoro macchinando arti ed inganni,

Dovrà un popolo intier coll'armi in pugno

Il segno sospirar di sua vendetta

E del suo scampo, e qui languendo starsi

Dal ciel sbandito, fuggitivo, in questa

Obbrobrïosa fossa, in questo nero

Carcer di quel tiranno, il qual per nostro

Indugio or regna sol? No, no: piuttosto

Di queste fiamme e di nostr'ire armati,

Scegliam di viva forza e tutti a un tempo

Del ciel sull'alte torri aprirci il varco.

Contro il tormentator canginsi questi

Nostri tormenti in orrid'armi: egli oda

L'infernal tuono rimugghiare incontro

L'onnipossente ordigno suo; rimiri

Di questo foco i sanguinosi lampi

Con egual furia sfolgorar sul volto

A sue schiere atterrite, e queste fiamme,

Quest'atre fiamme strane e questo zolfo

Tartareo, ond'ei medesmo è stato il fabro,

Tutto allagargli e avviluppargli il trono.

Ardua par forse e malagevol via

Con ali erette il sollevarsi incontro

Sovrastante nemico. E chi pensarlo

Può, se non quei che istupiditi ancora

Stan dal sorso sonnifero di quella

Obblivïosa lama? Invér la sede

Nostra nativa ci trasporta il nostro

Moto natìo: scender, cader, contrasta

A nostra essenza. E chi pur dianzi, allora

Che noi sconfitti perseguiva a tergo

Giù per l'immenso báratro il feroce

Nostro nemico con oltraggi e scherni,

Chi nol provò? Chi non sentì con quanto

Duro sforzo, con qual lena affannata

Profondammo quaggiù? L'ascender dunque

È agevole per noi. - Ma incerto è molto

Quel che avvenir ne può: se il più possente

Osiam di nuovo provocar, sua rabbia

Più fere guise di tormenti a nostro

Danno inventar saprà. - Ma che di peggio

Può in inferno temersi? Ov'è di questa

Più cruda stanza? D'ogni ben noi privi,

Scacciati di lassù, dannati in questo

Abborrito Profondo a estremi guai,

Ove ci dee d'inestinguibil foco

Lo strazio eterno esercitar, noi tristo

Bersaglio all'ira di colui, dal suo

Fischiante inesorabile flagello

E dalla tormentosa ora chiamati

A nuove pene ognor, che altro di peggio

Temer dobbiam? L'annientamento è quanto

Aspettarci potremmo. E perciò dunque

Temerem noi tutta affrontar quant'ira

Ei serra in cor? Stolto timore! O noi

Saremo allora annichilati e spenti

Dalla sua rabbia, e fia per noi migliore

Che in eterno dolor viver eterni;

O se divino è l'esser nostro e mai

Cessar non può, nulla perciò s'innaspra

La nostra somma inaccrescibil pena;

E per prova sentiam che forza è in noi

Bastante a disturbar quelle celesti

Sedi e infestargli con perenni assalti,

Ancor che inaccessibile, quel suo

Trono fatal. Se non è vincer questo,

Vendetta è almen. - Cessa, e da' torvi lumi

Tal di vendetta e guerra un foco avventa,

Che non ne sosterrìa l'atroce vista

Chiunque è men che Nume. In gentil atto

Dall'altro canto Belïalle alzossi.

Angel più vago da' celesti seggi

Di lui non ruinò: splendongli in volto

Grazia e decoro, ad alte imprese adatto

Ei par, ma tutto è in lui fallace e vano.

Mele sua lingua stilla, ottima sembra

Sulle sue labbra la ragion peggiore,

E i più saggi consigli involve e atterra:

Son bassi i suoi pensier, nel vizio è scaltro,

Ma all'opre illustri timoroso e lento;

Pur col dolce suo dir le orecchie incanta,

E sì comincia: Esser dovrei pur io,

Campioni illustri, per l'aperta guerra,

Io che, in odio, ad altrui punto non cedo;

Se la ragion, cui sovr'ogni altra estolle

Chi guerra senza indugio a noi consiglia,

Me più che ogni altra dall'audace avviso

Non ritraesse e sull'intero evento

Non gettasse un fatal presagio tristo.

Dunque chi più degli altri in armi vale,

Mal nell'armi fidando e male in quanto

Ei pur consiglia, il suo coraggio fonda

Sul disperar? Dunque all'estremo nostro

Disfacimento, al nostro fin son tutte

Vôlte le mire sue, purchè si compia

Qualche fiera vendetta? Ahi! qual vendetta?

Son le torri del ciel d'armate scolte

Ripiene, e chiusa n'è ogni via: sovente

In sulle rive del vicino abisso

Lor legïoni accampano, e sull'ali

Tacite e brune van con larghi giri

Qua e là scorrendo il regno della notte,

E di sorprese ridonsi. E se a viva

Forza potessim'anco aprirci il varco,

E dietro noi l'intero inferno a un tempo

Sorgesse inferocito a scagliar questa

Caligin tutta entro a quell'alma luce,

Pur sull'eterno incorruttibil trono

Il nostro gran nemico appien securo

E intatto sederìa. L'eterea tempra

Macchia temer non può di basso foco;

Chè tosto il vince e sperde, e come in pria,

D'un fulgòre purissimo sfavilla.

In questo crudo stato, estrema nostra

Speranza è il disperar: dobbiam, si dice,

L'onnipossente vincitore a tanto

Sdegno irritar, che la sua rabbia tutta

Su noi riversi, e ci consumi alfine:

Questo esser dee nostro disegno e cura;

Non esser più. Tristo disegno e cura!

E chi vorrà, benchè d'affanni colma,

Questa che intende e vuol, sublime essenza,

Questi d'eternità nel giro immenso

Spazïanti pensier lasciar per sempre,

E giuso d'ogni moto e senso privo

Piombar perduto, inabissato dentro

All'ampio sen dell'increata notte?

E sia pur questo un ben, chi sa se possa

Darloci il fier nemico, o il voglia mai?

Che il possa, è dubbio; ch'ei non voglia, è certo.

Ei saggio tanto, al suo furore il freno

Tutto sciorrà ad un tempo e vorrà, quasi

Mal avveduto, e mal di sè signore,

Far de' nemici suoi paghe le brame

E consumar nella sua rabbia quelli

Che la sua rabbia stessa ad infinito

Gastigo serbar vuol? - Perchè si cessa

(Dice chi vuol la guerra)? a noi che giova

Lo star timidi e lenti? A duolo eterno

Decretati, serbati, additti omai

Noi siam: checchè si faccia, altro possiamo

Soffrir di più, soffrir di peggio? - Adunque

Così seder, così tener consiglio,

Così lo starsi in armi è adunque il peggio?

E allor che fu, quando incalzati, quando

Da quell'atroce folgore percossi

Fuggivam ruinosi, e questo abisso

A ricovrarci imploravamo? Allora

Contro quelle ferite un dolce asilo

Qui ci parve trovare. E quando stemmo

Là catenati su quel lago ardente,

Peggio non era? E che sarìa se il soffio

Che quelle fiamme spaventose accese,

Destosi ancor, settemplice furore

Vi spirasse per entro e ad esse in fondo

C'immergesse dipoi? Se l'intermessa

Vendetta colassù quella rovente

Sua destra armasse ancor? Se quanto ei serba

Riposto, sprigionasse, e questa vôlta,

Questa vôlta infernal che tien sospeso

Sul nostro capo un igneo mar, crollando

S'aprisse un giorno, e gl'infocati fiumi

Per le tremende cateratte infrante

Su noi si rovesciassero? che fora,

Se mentre stiamo glorïosa guerra

Disegnando o esortando, orribil turbo

Di foco ognun di noi rotasse, e in cima

D'acuto scoglio lo lasciasse infitto,

In trastullo e balía d'atre bufére?

Oppur ricinto di catene e sotto

A quel bollente Oceano eternamente

Star dovesse sommerso in pianti e strida,

Senza pietà, riposo, o tregua mai

Al disperato interminabil duolo?

Questo inver fora il peggio! Aperta guerra

Quind'io sconsiglio al pari e guerra ascosa.

Che può forza con lui, che può l'inganno

Con chi tutte le cose a un punto vede?

Nostri vani disegni egli dall'alto

Del ciel mira e deride; ei non men forte

Contro il poter che incontro a frode accorto.

Ma che? vivremo in tal viltade e tanta

Noi dunque? Noi stirpe celeste e diva

Così sbanditi, calpestati e carchi

Qui sarem di catene e di tormenti?

Poichè il voler del vincitor, decreto

Onnipossente, inevitabil fato

Sì ne soggioga, assai miglior io stimo

Questo soffrir che incontrar peggio. All'opre,

Come alle pene, è nostra forza eguale:

Che val lagnarsi? Non ingiusta è quella

Legge che così vuol: così fu fisso,

Se noi saggi eravam, quando a contesa

Contro sì gran nemico in pria venimmo,

E così incerti dell'evento. Io rido,

Quando veggo taluni audaci e baldi

All'impugnar dell'asta, e quando poi

Essa lor falla, raggricchiar di tema

A quel che inevitabile pur sanno,

A esiglio, a infamia, a lacci, a pena, a quanto

Dannarli goda il vincitor superbo.

Tal'è per or la nostra sorte: un giorno,

Se soffrirla saprem, può forse il nostro

Alto nemico assai calmar suo sdegno;

Forse avverrà che assai contento alfine

Della presa vendetta, a noi sì lungi

Da lui nè più offensori, ei più non pensi;

E se nol desta il soffio suo, s'allenti

Questo rabido foco. Allor la nostra

Più pura essenza su quest'atre vampe

Fia che s'innalzi o non le senta, avvezza;

O alfin cangiata, e contemprata al loco

Riceverà quasi suo proprio, e scevro

Di pena, il fero ardor: per noi giocondo

Quest'orror diverrà, splendide e belle

Queste tenebre stesse. Infin, qual speme

Dar non ci dee l'interminabil corso

Dei dì futuri, il vario caso e qualche

D'un prudente indugiar degna vicenda?

Felice dunque, ancor che dura, questa

Sorte apparir ci dee, che, sia pur dura,

La peggior non è già, se addosso trarci

Più gravi danni non cerchiam noi stessi.

Sì con parole ch'han di ver sembianza,

Pace infingarda, ozio e torpor, non pace

Belìal consigliava; e appresso lui

Così parlò Mammon: O a tor di soglio

Il regnator del ciel tende la nostra

Guerra, se guerra è il meglio, o i nostri dritti

Perduti a racquistare. Allor balzarlo

Dal trono sol potrem sperar che al sempre

Volubil Caso il sempiterno Fato

Ceda, e il Caosse la contesa sciolga.

Vano è il primo sperar, vano il secondo

Quindi è pur anco: entro i confin del cielo

Qual sede aver possiam, se vinto in pria

Il Sovrano del ciel per noi non cade?

Pongasi pur che il suo furor ei calmi

E a tutti noi, sulla promessa nostra

Di vassallaggio nuovo, egli promulghi

Grazia e perdon, deh! con qual fronte mai,

Dite, potremo in sua presenza starci

Ad ogni cenno suo sommessi, umìli?

Al suo Nume innalzar forzate lodi?

Gorgheggiar inni a gloria sua, mentr'egli

Oggetto a noi d'amara invidia in soglio

Con ogni pompa signoril s'asside

Re nostro, e l'ara sua d'ambrosii odori,

D'ambrosii fior, nostre servili offerte,

Soave spira? Ecco qual fora in cielo

Nostro diletto sempre e nostra cura.

Rendere a chi si abborre eterni omaggi,

Qual trista eternità! Non cerchiam dunque

Quel che per forza cercheremmo invano,

E che in grazia ottenuto, ancor che in cielo,

Accettabil non fora, il vile stato

Di splendido servaggio: in noi medesmi

Cerchisi il nostro bene e sia nostr'opra:

Sì, viviamo a noi stessi, entro quest'ampia

Remota sede indipendenti e sciolti,

E dura libertade al facil giogo

Di servil pompa anteponghiam. Più chiara

Risplenderà nostra grandezza allora

Che da picciole cose uscir le grandi,

Il vantaggio dal danno, e dagli avversi.

Per noi vedransi i fortunati eventi;

E alfin, qualunque il nostro albergo sia,

Alla grave miseria, al duro stento

La costanza, il sudor, lo sforzo opporsi

Vittorïosi, e trionfar del Fato.

Questo in cupo buior ravvolto mondo

Paventiam noi? Ma, quanto spesso ei pure

L'alto del cielo regnator non sceglie

Sua sede in mezzo a folte oscure nubi

Senza che di sua gloria un raggio scemi?

Di maestoso tenebror non cinge

Egli il suo trono tutt'intorno, donde

Poscia profondo in suon di rabbia mugge

Il tuon sì che un inferno il ciel rassembra?

Com'ei le nostre tenebre, ancor noi

Imitar non possiam, quando ci aggrada,

La luce sua? Questo diserto suolo

Splendidi in sè vasti tesori asconde

Di gemme e d'oro; e di scïenza e d'arte

Noi non siam scarsi onde innalzar eccelse

Moli di Numi degne, emule al cielo.

Cangiar questi tormenti anco può il tempo

In elementi nostri, e queste fiamme

Quant'or son crude e penetranti, allora

(Fatta la nostra alla lor tempra eguale)

Allenirsi dovranno, ed ogni senso

Spegnersi del dolor. Tutto c'invita

A consigli di pace, e a fermi starci

Nell'ordine presente, onde possiamo

Cercare in sicurtade ai nostri mali

Il sollievo miglior, quai siam mirando

E dove siamo, ed ogni van pensiero

Lungi cacciando di rischiosa guerra.

Ecco il consiglio mio. - Finito appena

Egli avea di parlar che tutto intorno

Per quel consesso un mormorìo si sparse,

Come allor quando il suon de' feri venti

Che volser tutta notte il mar sossopra,

In cave rocce romoreggia ancora;

E i marinai ch'entro petroso seno,

Calmato il nembo, s'ancoraro a caso

Da lunga veglia e da fatica oppressi

Col rauco borbottar al sonno invita.

Tal fu l'applauso, il bisbigliar fu tale

Quand'ei finì: piacque il suo voto a tutti

Di pace consiglier; chè un'altra pugna

Temean più dell'inferno; a lor nel seno

Tanto tuttor del folgore, e del brando

Di Michele potea l'alto spavento,

E la brama non men di por laggiuso

Le basi a impero tal che poscia un giorno,

Da forti leggi sostenuto, sorga

Sì che n'abbia anco il cielo invidia e tema!

Tosto che Belzebù quei plausi udìo,

Belzebù, di cui niun (tranne Satáno)

Più sublime sedea, con grave aspetto

Surse, e di stato una colonna parve.

Pubblica cura, alti pensier maturi

Ha in fronte impressi, gli risplende in volto,

Nella ruina maestoso ancora,

Regal consiglio, e a sostener la mole

Dei più possenti imperi atto si mostra

Su gli omeri atlantèi. Qual cheta notte,

O l'aere immoto di meriggio estivo,

Profondamente taciti ed attenti

Tutti pendean dal labbro suo, quand'egli

Così comincia: O degli eterei seggi

Prenci, Possanze, Re, Figli del cielo,

Di questi eccelsi titoli il rifiuto

Dobbiam far dunque, e invece esser nomati

Prenci d'Abisso? A questo invero inchina

Il voto popolar: qui ferma sede

Stabilir vuolsi, qui fondare un vasto

Crescente impero: o cieche menti! o sogni

Torbidi e vani! E che? sicuro asilo

Dalla sua man fulminatrice è questo

Carcere adunque, a cui quel Dio possente

Ci condannò? Solo ei quaggiù ne spinse

Perchè viviam dall'alta sua ragione

Liberi e sciolti, e in nova lega uniti

Ci rivolgiam contro il suo trono? Adunque

Vero non è che in duro aspro servaggio

Dobbiam qui sempre starci, e benchè tanto

Lungi da lui, col freno in bocca ognora,

Folla di schiavi a' cenni suoi serbata?

Ah! ch'ei primiero, egli ultimo, nell'alte

Sedi e nelle profonde, a me credete,

Esser vuol solo regnator, nè mai

Perder del regno suo minima parte

Pel nostro ribellar. Ei sull'inferno,

Sopra di noi stender suo ferreo scettro

Vuol, come l'aureo suo lassuso in cielo

Sopra i Celesti. A che seggiam qui dunque

Pace e guerra librando? Il nostro fato

Già la guerra fermò, già ci percosse

D'irreparabil danno: e patto alcuno

Non fu di pace ancor concesso o cerco:

Poichè qual pace o patto aver possiamo

Dal duro vincitor noi schiavi omai,

Fuorchè catene e stretta guardia ed aspri

Flagelli e quali imporre e quante pene

Ad esso piaccia? E ch'altro aver da noi

In cambio ei può fuorchè ostinato, fero

Abborrimento e sempre accesa brama

D'una qualche vendetta, ancor che tarda,

Pur sempre intenta ad iscemargli il frutto

Di sue vittorie e quella gioia cruda

Ch'ei sente in aggravar le nostre pene?

Tempo più adatto a nostre mire, e un qualche

Destro non mancherà; nè mover l'armi

Dovrem con tanto rischio incontro al cielo

Di cui l'eccelse mura assalto, agguato

O assedio di quaggiù temer non ponno.

Che! qualch'altra per noi men dura impresa

Dunque non vi sarà? Sì; se l'antica

E profetica in ciel fama non erra,

Un loco v'è, v'è un altro mondo, in cui

Avrà felice sede un'altra nuova

Stirpe ch'Uomo dirassi. Ella creata

Intorno a questo tempo esser dovea,

Simile a noi, di noi però minore

In nobiltate e in possa, e pur a lui

Che lassù regna, più gradita e cara.

Tale il decreto fu che in mezzo ai Numi

Ei proferì, ch'ei confermò coll'alto

Suo giuramento, a cui del ciel l'immenso

Girò crollò. Là si rivolgan tutti

I pensier nostri, ivi s'apprenda quale

Schiatta v'abbia soggiorno, e di qual tempra,

Di qual natura; quai sue doti, e quale

Sia la sua possa, da qual parte meglio

Assalir si potrà, se forza o inganno

Più con lei vaglia. Benchè il ciel sia chiuso

E quel supremo Re segga sicuro

In sua possanza, tuttavia quel sito,

Confine estremo del suo regno, forse

Aperto stassi, e di chi 'l tien, lasciato

Alla difesa: qualche illustre prova

Compier colà con improvviso assalto

Forse potrem, quanto creovvi appieno

Con queste fiamme esterminare o il tutto

Far nostro, e come noi cacciati fummo,

Indi que' fiacchi abitatori e imbelli

Metter in bando, o a nostra parte trarli

Sì che il medesmo lor Fattor si cangi

In lor nimico, e con pentita mano

Il suo proprio lavor cancelli e strugga.

Non sarìa questa, no, vulgar vendetta,

Se di turbargli quel piacer ch'ei prende

Nel nostro scorno ci avvenisse: e quale

Fia nostra gioia in rimirar sua rabbia,

Quand'ei, quaggiù fra noi scagliati i cari

Suoi figli, udralli maledir la frale

Origin loro, il lor svanito bene,

E svanito sì tosto! Or voi librate

Se di noi degna è tale impresa, o meglio

Sia qui sedersi in quest'orror, sognando

E fabbricando imperj. - In cotal guisa

Espose Belzebù quel da Satáno

Già divisato e già proposto in parte

Infernale consiglio: e donde, fuori

Che dal solo Satán, dal sole autore

Di tutti i mali, sì profonda e nera

Nequizia uscir potea? d'infettar tutta

L'umana stirpe in sua radice e ad onta

Del Creator sovrano, inferno e terra

Mescer insiem? Ma far più bella solo

La gloria dell'Eterno, altro non puote

Il suo dispetto. Quel disegno audace

Piacque altamente all'infernal Consesso;

Gioia scintilla ne' lor occhi e a pieni

Voti l'assenso è dato. Allor ripiglia

Così a dir Belzebù: Saggio decreto,

Dopo lunga contesa, è il vostro alfine,

O Concilio di Numi, e di voi degne

Risolveste gran cose: in onta al Fato

Dal più cupo Profondo anco una volta

Appresso al nostro almo soggiorno antico

Noi leveremci ed alla vista forse

Di quei confini luminosi, donde,

Tempo cogliendo alle sorprese adatto

Colle propinque nostre forze, in cielo

Rïentrar potrem forse, o albergo e stanza

Trovar sicuri in qualche ameno sito

Ove del ciel si stenda il dolce lume,

Ed a quel puro sfavillante raggio

Terger da noi questa caligin atra.

Quella delizïosa aura soave,

Col soffio suo balsamico, le crude

Di questo foco e ancor non chiuse piaghe

Temprerà, salderà. Ma dite in prima:

A ricercar questo novello mondo

Chi di noi spedirem? Con piè rammingo

Il negro, immenso e senza fondo abisso

Chi tenterà? chi l'aspra, ignota via

Per quella troverà palpabil notte,

Ed il sublime sterminato volo

Fia che con ala infaticabil sopra

Al discosceso baratro distenda

Pria ch'alla fortunata isola arrive?

Qual sarà mai da tanto o forza od arte

Che salvo il meni per le caute scolte,

Pe' fitti posti d'Angeli veglianti

Per tutt'intorno? Egli avrà là ben d'uopo

D'ogni accortezza, e minor uopo or noi

Non ne abbiam nello scerlo: il peso in lui

Di tutto è posto e la final speranza.

Ciò detto, ei siede, e con sospesi sguardi

Rivolti in giro, se alcun sorga, attende,

Per oppugnar la perigliosa prova,

Per secondarla o imprenderla; ma tutti

Si stetter muti con pensier profondo

Librando il rischio, e l'un dell'altro in faccia,

La propria tema attonito leggea.

Niun fu tra quei della celeste guerra

Primi e scelti campioni audace tanto

Che a quel vïaggio spaventoso osasse

Offrirsi od accettarlo. Alfin Satáno

Che il proprio merto sente e va superbo

De' primi onori, con reale orgoglio

Surse intrepido, e disse: O empirei Troni,

O progenie del ciel, ben a ragione,

Ancorchè in noi l'usato ardir non manchi,

Profondamente taciti e sospesi

Stemmo finor: lungo è il cammino e duro

Dall'Erebo alla luce, e saldo invero

È questo nostro carcere: di foco

Orribil vallo nove volte intorno

N'accerchia e serra, e contro noi sbarrate

Roventi porte d'adamante stanno.

Varcate queste, se alcun mai le varca,

Ecco spalanca sue tremende gole

Il golfo della Notte, il Vôto immenso,

Muto regno del nulla, il qual minaccia

Spegnerlo e tranghiottirlo entro la sua

Sempiterna caligine profonda;

E se indi salvo in altro mondo o spiaggia

Ignota egli esce, nuovi rischi ignoti

Gli restan sempre, e non men arduo scampo.

Ma ben sarei di questo trono indegno

E di questo sovrano eccelso grado

Cinto di gloria e di possanza armato,

Se cosa qui proposta e al comun bene

Utile giudicata, unqua potesse

Sotto aspetto di rischio o di fatica

Me dalla prova spaventar. Se queste

Reali insegne io vesto e non ricuso

Di qui regnare, tanta parte ai rischi

Quanta agli onori io ricusar potrei?

L'una e l'altra a chi regna è al par dovuta;

E il periglio maggior dritto è che s'abbia

Quei che sugli altri più onorato siede.

Itene dunque, incliti Eroi, terrore

Del cielo ancor nella ruina vostra,

Itene, e quanto più soffribil possa

Render l'inferno, infin che nostro albergo

Esser pur dee questa città dolente,

Volgetevi a cercar; tentate il modo

Onde si disacerbi o inganni almeno

La nostra angoscia; vigilate attenti

Contro vigil nemico, infin ch'io fuori

Tutte le buie piagge andrò spïando

Della distruzïone e a tutti noi

Procacciando uno scampo. Addio: con meco

Niuno esser dee di questa impresa a parte.

Così dicendo, egli levossi, e ogni altro

Dal più parlar cauto prevenne. Ei teme

Ch'altri or commossi dall'esempio ardito

E certi d'un rifiuto, all'alto onore

S'offran d'un rischio sì temuto in pria,

E, quali emuli suoi, la gloria e 'l vanto,

Onde a sì gran cimento egli s'espone,

S'usurpin di leggier. Ma quei non meno

Il periglio temean che di sua voce

Il severo divieto, e in un s'alzaro.

Il rumor del lor sorgere parea

Tuon che da lungi s'oda. Umili ad esso

E riverenti inchinansi; qual Nume

Al sommo Nume egual l'esaltan tutti;

E 'l suo gran cor ch'ave la propria a vile

Per la comun salute, ognun estolle,

Ognun ammira: chè l'idea pur anco

Fra que' malvagi di virtù si serba;

Onde sue gesta glorïose apprenda

L'uomo superbo a vantar men, che figlie,

Sotto manto di zel, sono sovente

Di vana ambizïon, di cieco orgoglio.

Così quella dubbiosa atra consulta

Recaro a fine, baldanzosi e lieti

Pel forte loro incomparabil Duce.

Sì qualor dorme in sue spelonche Borea,

E da' gioghi de' monti atre sollevansi

Nubi che tutta la ridente faccia

Del ciel coprendo folta pioggia e grandine

Sovra la terra intenebrata spandono,

Se con un dolce addio stende il suo raggio

Il sol cadente, i campi si ravvivano,

Ai dolci canti gli augelletti tornano,

E coi belati la lor gioja mostrano,

Le mandre, ond'alto e monti e valli echeggiano.

O vitupèro de' mortali! Insieme

Quei Spirti rei mutua concordia annoda;

L'uom solo è all'uom nemico, ed osa poi

Del celeste favor nudrir la speme.

Dio la pace alto grida, e guerra e morte

Gridan di rabbia e di vendetta ciechi

I feroci mortali, e del lor sangue

Spargon la trista desolata terra;

Come se quell'inferna oste che intenta

Sta dì e notte a' lor danni, e l'ire folli

Compor dovrebbe in alma pace, assai

De' mali lor non aggravasse il peso.

Così fu sciolto il parlamento, e fuori

Del superbo edificio i Grandi tutti

In bell'ordine usciro. Ad essi in mezzo,

Con pompa augusta che del cielo in parte

La maestade imita, il Sir possente

Viene, e non men che imperador temuto

De' tenebrosi regni, ei solo appare

Gran rivale del Cielo: intorno il cinge

Con raggianti bandiere ed orrid'armi

D'ardenti Serafini un folto stuolo.

Quindi, che il fin di quel consesso e 'l grande

Evento si promulghi al regal suono

Di trombe, ordin fu dato: ai quattro venti

Quattro leggieri Cherubini a un punto,

Gli squillanti oricalchi a bocca posti,

Ne diero il segno, a cui seguì la voce

Degli Araldi solenne: il cavo abisso

Tutto rimbomba, e tutta l'oste inferna

Con alto plauso intronator risponde.

Quindi men triste in core, e da superba

Fallace speme sollevate alquanto,

Disbandansi le schiere, e ognun, siccome

Proprio talento o trista scelta il guida,

Là volge i passi erranti ove più spera

Ingannar l'ore dolorose e qualche

Tregua trovar alle inquïete cure,

Finchè rieda il gran Duce. Altri sul piano,

Altri per l'aere in sulle forti penne

Gareggiano fra loro al corso, al volo,

Qual già soleano degli Olimpj ludi

O de' Pizi i campioni. Ignei corsieri

Frenan taluni o schivano la meta

Colle rapide rote: altri dispone

Schiere e falangi ad ordinata pugna;

Come allor quando nei turbati campi

Dell'etra, ad ammonir città superbe,

Appar di guerra portentoso appresto,

E fra le nubi l'un dell'altro a fronte

Due minaccianti eserciti si stanno,

Vansi prima ad urtar con lancie in resta

Gli aerei cavalieri; indi s'avventa

L'un'oste all'altra in folta mischia e tutto

D'orrendi scontri, dall'un polo all'altro,

Il firmamento romoreggia e avvampa.

Con gigantéo furor altri più felli

Squarcian rupi e montagne, e van su i nembi

Quell'aër nero trascorrendo: tanto

Fragore appena il vasto abisso cape.

Così d'Ecalia vincitor tornando

Ercol sentì del feral manto il tosco,

E da rabbioso duol spinto divelse

Dell'Eta i pini e nell'Euboico mare

Lica scagliò dall'alta vetta. Alcuni

Ch'han men fero talento, aman raccolti

Entro riposta valle, in man di nuovo

Prender le cetre, e con divini accenti

Le lor proprie cantare eroiche gesta,

La gran battaglia e l'infelice evento;

E accusano il Destin che al giogo indegno

Della Fortuna e della Forza avvinca

Il coraggio e 'l valor. Eran lor versi

Superbi e vani, ma le dive note

(Tanta è la possa del celeste canto!)

Calman l'inferno, e l'affollata turba

Tengon assorta in estasi profonda.

Altri, d'un ermo colle in vetta assisi,

In sublimi colloquj assai più dolci

D'ogni armonìa (chè questa i sensi alletta,

Quelli scendono nel cor) consuman l'ore;

E con alto pensar le arcane vie

Cercan scoprir di Dio, l'ordine eterno,

La prescïenza sua, l'immobil fato,

Il libero voler: per ciechi errando

Laberinti così, tentano invano

Di sempre nuovi dubbj il groppo sciorre.

Di lungo argomentar scabro subietto

Lor porgon quindi la cagione oscura

Del ben, del mal, la misera, e beata

Eternità, dell'alma i ciechi moti,

La piena requie lor, la gloria, e l'onta;

Inutile saper, fumosa e vana

Filosofia delle superbe menti!

Pur tessere a lor pene un dolce inganno

Così potean, o in sen destar fallace

Speme, o di dura sofferenza armarlo

Qual di triplice smalto. In grosse schiere

Pel disperato mondo altri sen vanno

A spïar lunge intrepidi se qualche

Men duro clima e men dolente stanza

Ponno trovar. Per quattro vie diverse

Drizzano il corso lor lungo le ripe

De' quattro fiumi che nell'igneo lago

Sgorgan acque angosciose; il crudo Stige

Ch'odio esala; Acheronte atro e profondo

Che gonfi di dolore i flutti volve;

Cocito che di mezzo a' gorghi suoi

Manda gemiti e strida ond'ebbe il nome;

E Flegetonte che fremendo aggira

Di fiamma e foco rapidissim'onde

Rabbia spiranti. Il lento e cheto Lete

Lungi da questi in tortuosi giri

Move il torpido umor, del qual chi bee,

Ogni memoria de' trascorsi tempi

E di se stesso e gioie e affanni obblìa.

Diserto, oscuro un agghiacciato mondo

Giace al di là, da turbini sonanti

E da sassosa grandine percosso

Eternamente: sulla salda terra

Non si scioglie essa mai, ma in rupi ed alpi

S'alza ed ammonta che d'antiche moli

Rassembran le ruine: il resto è tutto

Di gelo e neve altissimo baràtro,

Simile a quello che fra 'l Casio antico

S'apre e Damiata, e che fu già d'intere

Osti la tomba. Ivi l'acuto ed aspro

Aere brucia agghiacciando, e il gel del foco

Ha un effetto medesmo: ivi, ad un certo

Rivolger d'anni, strascinata tutta

Da Furie ch'han d'arpie gli unghiuti piedi

È dei dannati l'empia folla, ed ivi

Dei feri Estremi la vicenda cruda

Che più feri gli fa, soffre sommersa.

Colà dai letti di rabbioso foco

Vanno a languir nello stridente ghiado,

Finchè ogni stilla di calor sia spenta,

Irti, confitti, assiderati, immoti;

E risospinti nelle vive fiamme

Indi son poi. Sulla Letéa palude,

Per maggior cruccio lor, tornano e vanno,

E si struggon, si sforzano passando

Giugner l'acqua bramata, e con un leve

Sorso ogni pena lor spegner repente;

Ansanti già sporgonvi il labbro; invano:

S'oppone il Fato, co' terrori suoi

Gorgone truculenta il guado cinge,

E d'esser tocca da vivente labbro

Disdegna, e fugge per se stessa l'onda

Come favoleggiâr profane Muse

Che da' Tantalei labbri un dì fuggisse.

Così rinfuse, in via smarrite, incerte

Van quelle torme errando, e di spavento

Tremanti, smorte, con travolte luci

Or per la prima volta appien l'orrore

Veggono di lor sorte: in parte alcuna

Non trovano riposo, e duol per tutto.

Per molte buie spaventose valli,

Per molti atroci regni elle passaro,

Per molte alpi gelate e molte ardenti,

E per rocce, antri, laghi e gorghi e tane

E ferali ombre; per un mondo intero

Di ruina e di morte, odio di Dio

Che sì reo lo creò con sua tremenda

Parola imprecatrice, adatta sede

Del mal soltanto, ove ogni vita more

E sol vive la morte, ove di quanto

Colà produce la natura stessa

Inorridisce: i mostri ivi son tutti,

Tutti i prodigi abbominandi, a cui

Fra di noi manca il nome, assai più orrendi

Di quante mai la favella o 'l terrore

Anguicrinite imaginò Gorgóni,

Settemplici Idre, e triplici Chimere.

Fervido il cor, pieno la mente intanto

De' suoi disegni audaci il gran nemico

Degli uomini e di Dio, Satán dispiega

Sulle rapide penne il vol solingo

Vêr le porte d'Inferno. Egli or la manca

Scorre or la destra costa, or colle tese

Ali rade il Profondo, ora sublime

All'ignea vôlta s'erge. In simil guisa,

Là dove il sol le notti ai giorni agguaglia

E riconduce i regolari venti,

Ampio navilio, a cui gravò Bengala

O Ternate e Tidore il sen di ricche

Merci odorose, da lontan sul vasto

Etïopico mare invér l'estremo

Africo Capo veleggiar si scopre,

E par che dentro i gonfi immensi flutti

Or tutto s'innabissi, or d'essi in cima

Vada a toccar le nubi. Avea da lunge

Cotal sembianza il volator Nemico.

Alfine alzate dal profondo abisso

Fino all'orrida vôlta, ecco d'inferno

Appaiono le mura e le tre volte

Triplicate sue porte: eran di bronzo

Tre, tre di ferro e tre d'adamantino

Impenetrabil masso, e il foco eterno

Le fascia, le arroventa e nulla rode.

Stan due mostri terribili davanti

A ciascun lato delle porte: un d'essi

Infino al cinto vaga donna appare;

Ma poi con molte spire in vasto, immondo

A finir va scaglioso atro serpente

Di letal punta armato: al sen di lei

Intorno, intorno un ululo, un fracasso

Fan con cerberee spalancate gole

Inferni cani, alto, incessante; e dove

Sia quel gridar turbato, a voglia loro

Le s'acquattan nel ventre, ov'hanno il covo;

E là non visti i lor latrati ed urli

Seguon pur sempre. Erano assai men feri

Que' truci cani che di Scilla un giorno

Feron scempio in quel mar che dal sonante

Trinacrio lido la Calabria parte;

Nè più deformi mostri e più nefandi

Seguon giammai notturna Maga allora

Che in segreto chiamata e lunge il sangue

Fiutando de' fanciulli, in groppa assisa

Degli aerei cavalli a danzar vola

Fra le Lappone streghe, e a' loro incanti

La Luna intanto in ciel langue e s'oscura.

Quell'altra forma, se tal nome darsi

Pur puote a ciò che non ha forma alcuna

Distinta in membro od in giuntura, un cieco

Torbo Fantasma che sustanza ed ombra

A un tempo stesso rassomiglia, stava

Nera qual densa notte, a par di dieci

Furie crudel, come l'inferno orrenda,

E un fier dardo brandía: quel ch'esser fronte

In lei pareva, di regal corona

Avea sopra un'imago. Ad essa innanzi

Già sta Satán: quel mostro allor repente

Dal suo seggio vèr lui s'alza e si slancia

Con lunghi passi spaventosi: tutto

Tremò a que' passi l'Erebo. Satáno

Intrepido ammirò quel che ciò fosse,

Ammirò, non temè, Satán, cui nulla

(Tranne l'Eterno) è a spaventar bastante,

Ma a scherno prende ogni creata cosa;

E a lui con torvo lampeggiante sguardo

Sì prese a dir: Chi sei? Che vuoi? tremendo

Spettro ma non a me. Chi sei che innanzi

Osi a me farti e attraversarmi il passo

Di quelle porte? Io di varcarle intendo,

E a tuo dispetto varcherolle. Arrétrati,

Scostati, o questo braccio appien mostrarti

Saprà la tua follìa: vedrai per prova

Figlio d'inferno, se tu dèi con Spirti

Del cielo contrastar. E tu, di', chi sei?

(Feroce quello spettro a lui risponde).

Quell'Angelo fellon non se' tu forse

Che pace e fede invïolate in pria

Ruppe primo lassù? Quegli non sei

Che de' figli del ciel la terza parte

Cinta di ribellanti armi superbe

Teco traesti dall'Eterno a fronte,

Ond'ei te poscia e la tua torma rea

Dall'Empireo sbalzando, in questi abissi

Eterni giorni di miseria e duolo

A consumar dannovvi? e tu t'ascrivi

Fra gli Spirti del ciel, tu qui proscritto,

Traditor empio? tu minacce ed onte

Respiri ov'io do leggi, e dove io sono

Per tua rabbia maggior, tuo Rege e donno?

Va, disertor mendace, al tuo gastigo

Ritorna, ed ali alla tua fuga aggiungi,

O con flagello di aggroppati scorpi,

Se indugi ancor, t'incalzo, e strano orrore

Ti fo provar con questo dardo e ambasce

Non pria sentite. Così disse il truce

Irritato Fantasma, e sì parlando

E minacciando, dieci volte fessi

Più spaventoso e squallido. Satáno

Imperterrito stette e d'alto sdegno

Tutto avvampò: per l'iperboreo cielo

Arde men tetra un feral cometa

Che il vasto Ofiuco in sua lunghezza infiamma,

E dal sanguigno crin su gli atterriti

Mortali scuote pestilenza e guerra.

Ciascun di lor la fatal mira prende

Dell'altro al capo, e d'un secondo colpo

Non fan pensier: ne' tenebrosi e biechi

Sguardi rassembran due di lampi e tuoni

Gravide nubi che sul Caspio mare

S'avanzan negre, romorose e a fronte

Pendon l'una dell'altra infin che i venti.

Dien lor col soffio di cozzarsi il segno

A mezzo l'aere. A que' sembianti arcigni

Crebbe la notte dell'abisso: eguale

È il paragon, nè alcun di lor sì grande

Nemico incontra è per aver più mai,

Fuorchè sol uno, onde fien domi entrambi.

Già i lor gran colpi rintronato tutto

L'inferno avrìan, quando l'anguinea Maga

Che alla porta infernal sedeasi accanto

E custodíane la gran chiave, a un tratto

Surse, e fra lor con alto urlo lanciossi;

E, Padre, ella gridò, che tenti incontro

Quest'unica tua prole, e te, che germe

Se' d'ambo noi, qual furor cieco assale,

E quel dardo feral contro il paterno

Capo ti spinge ad avventar? Ah! sai,

Sai tu almeno per chi? Per lui che ride

Lassù nel cielo a' vostri sdegni intanto,

E destinato esecutore e servo

T'ha di quell'ira ch'ei giustizia appella,

Dell'ira sua per cui distrutti entrambi

Sarete un giorno. Ella sì disse, e 'l colpo

L'infernal peste a quel parlar rattenne.

Satán replica allor: Qual strano grido

E quai più strani detti or furo i tuoi?

Chi sei? rispondi (il mio furor sospendo),

Chi se' tu, strana doppia forma? E come

La prima volta ch'io t'incontro in questa

Valle d'abisso, me tuo padre appelli?

E com'è prole mia quella deforme

Larva? Io te non conosco, e d'ambo voi

Non vidi mai più abbominosi oggetti.

Dunque scordato m'hai così, soggiunse

Allor l'inferna Usciera, e agli occhi tuoi

Tanto deforme or sembro, io che sì bella

Comparvi in ciel? Recati a mente quando

Lassù nel mezzo alle falangi tutte

Che incontro a quel Sovrano in lega audace

S'unir con te, da fiero duol repente

Fosti assalito; in tenebre nuotaro

I foschi lumi tuoi, t'uscir di fronte

Dense e rapide fiamme, al manco lato

Quindi il tuo capo largamente aprissi,

E a te simil nel rifulgente aspetto,

Alma beltà celeste, armata Diva,

Io fuori ne balzai. Tutti stupiro,

Inorridiro a quella vista e indietro

Si trassero da pria, m'ebbero tutti

Qual portentoso segno, e tutti il nome

Mi dier di Colpa: a riguardarmi quindi

S'adusaron bentosto, e i vezzi miei

Fèr de' più schivi cor dolce rapina.

Più che ad altri, a te piacqui: e tu mirando

Sovente in me la tua medesma imago,

D'amor ardesti, e tal piacer di furto

Prendesti meco, che un crescente pondo

Il mio sen concepì. La guerra intanto

In ciel s'accese e si pugnò: restonne

(E ch'altro esser potea?) vittoria piena

Al nostro gran nemico e in fiera rotta

Tutti andarono i nostri, in questo fondo

Dal sommo ciel precipitati, e insieme

Io pur caddi cogli altri. In mano allora

Questa data mi fu possente chiave,

E di sempre tener guardate e chiuse

Queste porte fatali ebbi l'incarco,

Chè, s'io non le disserro, alcun non passa.

Pensosa e sola io qui sedea, nè lungo

Tempo sedei che il mio per te pregnante

Grembo in ampio volume omai cresciuto

Dentro sentissi portentosi moti

E acerbe doglie. Questa trista prole

Che vedi or qui, questo tuo germe, alfine

S'aperse il passo fuor per le squarciate

Viscere mie che duolo e orror distorse

Sì, che, qual miri, sfigurata tutta

Ne fu mia forma inferïor; ma questo

Innato mio nemico, uscito appena,

Lo struggitor brandì fatal suo dardo.

Spaventata io fuggii gridando, Morte!

Tremò tutto l'Inferno al nome orrendo,

E da tutte mandò le sue caverne

Gemiti ed ululati, e morte! morte!

Ripetè l'eco in ogni lato. Io fuggo,

Egli m'insegue, e di lascivia ardente

Par più che di furor: di me più ratto

M'aggiugne alfine e di sforzati amplessi

E laidi me sua sbigottita madre

Circonda e stringe: indi son nati questi

Urlanti mostri che mi stanno intorno,

Come or vedesti, con perpetuo grido,

Ognor concetti e riprodotti ognora

Con mio duolo infinito: entro quel seno

Ond'ebber vita, a grado lor di nuovo

Tornano, addoppian gli urli e pasto fanno

Delle viscere mie: riscoppian quindi

E con fredde paure e strazj alterni

Non cessano infierir sì, che un istante

Posa o tregua non ho. Quest'altro in faccia

Mostro arcigno mi sta, nemico a un tempo

E figlio mio, che me gli adizza incontro,

E per difetto d'altra preda, ad ora

Ad ora in me medesma anco la cupa

Sua fame volgería, ma sa che unito

È il mio destino al suo, che amaro pasto,

Se ciò tentasse, e suo veleno io fora,

E che del Fato è tal l'immobil legge.

Ma tu quel feral telo evita, o Padre,

(Io te n'avverto) e di codeste cinto,

Benchè temprate in cielo, armi lucenti,

Non sperarti securo: a' colpi suoi,

Tranne chi lassù regna, alcun non regge.

Scaltro Satán quel che di far gli è d'uopo

Ha scorto già, già l'ira ha spenta e dolce

Così risponde: Poichè me tuo padre,

O cara figlia, riconosci, e questa

Mia prole a me presenti, amato pegno

Di que' diletti che già teco io presi

Nel ciel, sì dolci allora, or tanto acerbi

A ricordarsi in quest'orribil nostro

Cangiamento impensato, io, qual nemico,

Sappi che qui non vengo. A trar da questo

Fero albergo d'angosce entrambi voi

E tutte insiem quelle celesti squadre

Che sursero coll'armi alla difesa

De' nostri giusti dritti e in questi abissi

Fur con noi spinte, io vengo. Io sol per loro

Calco quest'aspra via, solo per tutti

Spiando vo l'interminato abisso,

E per l'immenso Vôto un luogo io cerco

Che già predetto fu, che già creato

Esser dovrìa (se i concorrenti segni

Non son fallaci), fortunato albergo

Non lontano dal ciel, rotondo e vasto,

Ove di nuovi abitator locata

Una stirpe esser dee che forse un giorno

I nostri occuperà vacanti seggi.

Quel Dio che la creò, lungi per ora

La vuol da sè, forse temendo in cielo

Novelle trame, ov'ei lassù raccolga

Popol soverchio. Or questo siasi, od altro

Più ascoso, il suo consiglio, io là m'affretto

A scoprir meglio il tutto, indi qui riedo,

Ed ambo là vi scorgo ov'ampio e lieto

Soggiorno avrete e sulle tacit'ali

Quel puro scorrerete aere soave

Di grati odor sempre olezzante: appieno

Le vostre brame ivi fien sazie e tutto

Vostra preda sarà. Satán sì disse,

E udendo Morte che satolla fora

Sua lunga fame, con orribil ghigno

Digrignò le mascelle, e col rabbioso

Suo ventre s'allegrò serbato a tanta

Ventura alfin. Non men gioì la rea

Sua genitrice ed a Satán rispose:

Per dritto io serbo e per sovran comando

Del Re de' cieli onnipossente questa

Chiave infernale: è legge sua ch'io mai

Queste non schiuda adamantine porte,

E contro ogni poter sta Morte in pronto

Quel suo dardo a frappor che nulla teme

E tutta abbatte quanta forza vive.

Ma che mi stringe mai gli ordin superni

Di lui che m'odia ad eseguir, di lui

Che in questo mi gittò tartareo fondo,

Che a me del cielo abitatrice e nata

In ciel commise l'abborrito incarco

Di qui seder fra eterno duol, qui sempre

Cinta dagli urli e dai terror di questa

Mia prole stessa che di me si pasce?

Mio genitor tu sei, questa mia vita

Ell'è tuo dono: e chi obbedir, chi deggio

Seguire altri che te? Dietro i tuoi passi

Sarò lassù bentosto, in quel di luce

E di felicità novello mondo,

Fra que' beati Numi, ed ivi, come

Conviensi a tua diletta unica figlia,

Regnerò alla tua destra, e i giorni miei

Trapasserò d'eterna gioia in grembo.

In così dir, da lato ella si tolse

La fatal chiave, orribile strumento

D'ogni nostra sciagura, e vèr la porta,

L'atra divincolando anguinea coda,

Si strascinò. Senza niun sforzo ell'alza

La gran saracinesca, a tutte insieme

Le stigie braccia immobil pondo; spinge

Quindi e raggira la dentata chiave

Per gl'intricati ingegni, e le massicce

Sbarre di solidissimo adamante

Squassa e rimove: con discorde scroscio

Furïose balzâr le porte addietro

Spalancate, e scoppiò, ruggì sì forte

Dai cardini sonanti un tuon che tutto

Scosse il tartareo fondo. Ella le aperse,

Ma il riserrarle ogni sua forza eccede;

E spalancate si restaro. Un vasto

esercito per esse avrìa potuto

Passar di fronte con spiegate corna,

Cavalli e carri; e come dalla bocca

D'avvampante fornace, entro il gran Vano

Sgorgaro a un tratto vortici e torrenti

Di fumo e fiamme rosseggianti. Aperti

Or del Profondo antico ecco i segreti

Alla lor vista. Un Oceán si stende,

Per ogni parte, tenebroso, informe

Ch'ogni confine, ogni misura inghiotte,

Dove profondità, lunghezza, ampiezza

E tempo e loco s'inabissa e perde.

Ivi il Caosse e la vetusta Notte,

Della Natura antecessori, eterna

Mantengon la discordia, e d'incessanti

Guerre tra l'urto e lo scompiglio è posto

Il lor poter. Quattro Campion feroci,

L'Umido, il Secco, il Caldo, il Freddo insieme

Là contendon d'impero, ed alla pugna

Traggon gli atomi loro informi, erranti.

In varie torme a' lor vessilli intorno

S'aggiran questi, lisci, acuti, lievi,

Gravi, lenti, veloci, e in densi nembi

S'incalzano, si serrano, più spessi

Di quelle arene che per l'arse spiagge

Di Barca o di Cirene alzano i venti

In turbinose nuvole nemiche,

Onde librar lor troppo lievi penne,

Quando ad urtarsi vanno. Il Duce, a cui

Folla maggior d'atomi accorre, impera

In quel regno mutabile un istante;

Giudice il Caos siede e 'l gran contrasto

Per qual ei regna, co' decreti suoi

Raddoppia ognor. Tutto poi guida il Caso,

Grand'arbitro appo lui. Tal era il tetro

Sconvolto abisso, onde Natura emerse

E dove un dì fors'anco avrà la tomba.

Ivi terra non è, non mar, non foco,

Non aere, ma confusi insieme e misti

In lor pregnanti cause i germi oscuri

Combatton sempre, e fie la guerra eterna,

Se la Man creatrice un dì non svolge

La massa informe e nuovi mondi ordisce.

Colà sull'orlo dell'inferno alquanto

Satán ristassi, e gira intorno il guardo,

Ponderando il cammin; chè ancor non breve

Varco gli resta a superar. Un alto

Spaventoso fragor le orecchie a un tratto

Gli scuote e introna, a quel simil (se lice

A grandi assomigliar picciole cose)

Allor che Marte tempestoso tutte

Le fulminanti macchine rivolge

A crollare, a spiantar le mura e i tetti

Di superba città. Se il ciel medesmo

Infranto giù precipitasse e svelta

Dall'asse suo la stabil terra in polve

Per gli elementi ribellati andasse,

Fora men grande il suono. Alfine ei stende

L'ampie vele dell'ali, il suol percuote

Col piede, e dentro il gonfio ondante fumo

Si slancia e s'alza, e intrepido per lungo

Tratto poggiando va quasi portato

Sopra cocchio di nugoli, quand'ecco

Quel seggio gli vien meno, e un Vôto immenso

Incontra inaspettato: allor repente

In giù ben dieci e dieci mila braccia,

Precipitoso cadde come piombo,

L'ali invan dibattendo, e ancor cadrebbe,

Se per rea sorte l'improvvisa vampa

Di procellosa nube il sen ripiena

Di nitro e foco, un egual spazio in alto

Non l'avesse respinto. Alfin smorzossi

Tanta tempesta in paludosa sirte

Che non è mar nè fermo suol: con lena

Affannata, su i piè, sull'ali a un tempo.

Qual naviglio che remi e vele adopra,

Per quell'infida instabil lama innanzi

Ei pur sempre si spinge. In quella guisa

Che il cupido grifone, a cui di furto

Rapito ha l'oro l'Arimaspio astuto,

Per aspre rocce, erme boscaglie e cupe

Valli con forti infaticabil'ali

Insegue il predator, così per mille

Diverse vie quel rovinoso Spirto

Il suo cammin precipita a traverso

Stagni, rupi, erte balze e strette gole,

In aere or grave, ora leggier, coll'ali,

Co' piè, col capo, colle braccia, e or nuota

Or guada, ora s'attuffa, or striscia, or vola.

Universale altissimo fracasso

Alfin di strida e d'ululi tonanti

Che uscía dal vôto orror, con gran tempesta

Gli assal le orecchie. Ei là si volge audace

A rintracciar qual dell'estremo abisso

Poter, qual Spirto in quel rumor soggiorni,

Da cui ritrar dove del Buio giaccia

La costa ch'alla luce è più vicina.

A un tratto il soglio del Caosse innanzi

Gli s'appresenta ed ampiamente steso

Sulla vorago solitaria il nero

Suo padiglione. Atro-vestita in trono

Delle cose antichissima la Notte

Siede a parte con lui del regno immenso;

Stan l'Orco e l'Ade a lor dappresso e 'l truce

Demogorgóne, paventoso nome;

Indi il Rumore e 'l Caso ed il Tumulto

E la Confusïon, tutti in un gruppo,

E la Discordia con sue mille urlanti

Diverse bocche. Intrepido Satáno

A lor si volge e dice: O Voi, di questo

Ultimo abisso Regnatori e Dei,

Formidabil Caosse, antica Notte,

Del vostro impero io qui, de' vostri arcani

No, spïatore o sturbator non vengo.

Stretto a vagar per queste piagge oscure

In cerca di quel calle, onde per gli ampi

Vostri domíni alla superna luce

Uscir si può privo di scorta, solo,

Quasi smarrito, io di saper sol bramo

Il più breve sentier che là mi guidi

Ove co' vostri tenebrosi regni

Il ciel confina; o se l'etereo Rege

Qualch'altra parte ha di recente invaso

Di vostre regioni, io là son vôlto.

Deh! voi drizzate i passi miei; non lieve

Del beneficio ricompensa avrete:

Se al primo orror, se al vostro scettro quelle

Tolte provincie ricondur, se tutti

Gl'iniqui usurpator balzarne fuora

A me fia dato, e ripiantar le vostre

Nere insegne colà, sì, vostro appieno

Il frutto ne sarà, mia la vendetta.

Così parlò Satáno, e a lui con viso

Scomposto e rotti ed affoltati accenti

Il Signor del Disordine rispose:

Ti conosco, Stranier: tu quel possente

Angelo sei che al Re del ciel pur dianzi

Osò far fronte, ancor che invano. Io vidi

Abbastanza ed udii: nè giù per questo

Baratro spaventato oste sì grande

Fuggir poteva inosservato: in tanto

Viluppo traboccavano ravvolte

Le schiere sulle schiere, e le falangi

Sulle falangi, e sull'orror l'orrore;

E popol tanto le celesti porte

Versavan fuor che vincitor feroce

A tergo v'incalzava! Io qui soggiorno

Fo su questo confin, del regno mio

A conservar, se pur potrò, gli avanzi;

Chè troppo omai per vostre interne liti

È questo impero dell'antica Notte

Invaso e scemo: ampio, profondo sito

Sotto me si stendea che in carcer vostro,

In inferno cangiò quel Re supremo;

Ed or sovra il mio regno un altro mondo,

Cielo e terra, ei creò che là sospesi

Stan da catena d'ôr ver quella parte,

Donde tue schiere caddero. Se movi

Colà, lontano non ne sei, ma il risco

È tanto più vicino. Or va felice,

Disfà, depreda, semina ruine;

Quest'è 'l guadagno mio. Disse, e Satáno

Non fe' risposta, ma contento e lieto

Che omai di tanto mar s'appressi al lido,

Con nuovo ardor, con nuova forza s'erge,

Qual di foco piramide, pel vasto

Spazio deserto, ed apresi a traverso

Al fero urtar degli elementi in guerra

Che ovunque intorno romba, un varco alfine.

Con minor rischio e tra minori strette

Colà per mezzo al Bosforo sconvolto

E a' suoi cozzanti scogli, Argo trascorse;

E minacciato meno il destro Ulisse

Schivò Cariddi e rasentò l'urlante

Scilla vorace. Il duro, arduo tragitto

Satán così s'aprìa fra rischi e pene;

Arduo e duro per lui, ma dopo il fallo

Dell'uom bentosto, ahi cangiamento strano!

Con sforzo audace la satanic'orma

Colpa e Morte seguendo un ampio calle

E agevole costrussero (fu tale

Il celeste voler) sul negro abisso;

E il fiero golfo tempestoso un ponte

Di stupenda lunghezza a portar ebbe,

Che dall'inferno stendesi di questo

Misero mondo in fino all'orbe estremo.

Per esso a lor grand'agio or van scorrendo

Su e giù gl'iniqui Spirti e quei mortali

A sedurre o punir vengon che schermo

Non han di singolar grazia superna.

Ma il sacro influsso della luce alfine

Ecco apparir, che in sen del golfo orrore

Dalle rimote empiree torri scocca

Un tremolante albór. Quivi Natura

Ha del suo regno il più lontan confine,

E qual vinto nemico dagli estremi

Ripari suoi, cede e si volge addietro

Il Caosse, e le furie e 'l minaccioso

Fragore accheta. Con minore affanno,

E omai senza fatica, al fioco raggio

Tra l'onde or men crucciose oltre s'avanza

Lieto Satán, qual da feroci venti

Percossa nave che, sebben con rotte

Antenne e sarte, alfin il porto afferra.

Là di quel Vano tra i vapor men densi

Che d'aere hanno sembianza, egli si libra

Sulle robuste ali distese e 'l vasto

Giro de' cieli di lontan rimira

A suo grand'agio; ma confusa, incerta

La lor figura e nell'ampiezza assorta

Sfugge gli sguardi suoi: l'eccelse rocche

D'Opalo fulgidissimo e di vivo

Zaffiro ornati gli alti merli ei vede,

Già sua natìa dimora, e non più grande

Di stella piccolissima, dappresso

A lei che della notte il vel dirada,

Dalla catena d'ôr che al ciel lo lega

Pender questo Universo. Ivi spirante

Vendetta e rabbia, in maledetto punto

Affretta quel maligno i passi e 'l volo.


LIBRO TERZO

 

Dio dall’alto del suo trono vede Satáno che vola verso questo mondo allora novellamente creato. Lo addita al Figlio assiso alla sua destra: predice che Satáno riuscirà nel pervertire l’uomo, e dimostra che, avendo egli creato libero e capace di resistere al Tentatore, la sua divina giustizia e sapienza non possono in verun modo accusarsi. Dichiara che questa sua divina giustizia e sapienza non possono in alcun modo accusarsi. Dichiara che questa giustizia divina vuole una soddisfazione, e che l’uomo dee morire con tutta la sua posterità, se qualcun atto ad espiare la offesa di lui non si sottomette alla pena che gli è dovuta. Il Figlio di Dio si offerisce volontario, il Padre accetta, consente alla sua incarnazione, comanda a tutti gli Angeli di adorarlo, e tutti i Cori, unendo le voci loro al suono delle arpe, celebrano la gloria del Padre e del Figlio. Satáno intanto scende sull’erma convessità del più estremo orbe di questo universo; di là fa passaggio nel sole, ove egli trova Uriele reggitore di quella sfera; ma prima si trasforma in un Angelo dell’ordine minore, e col pretesto che uno zelo ardente l’ha spinto a intraprendere quel viaggio per contemplare le cose novellamente create e l’uomo principalmente, si informa del luogo ove questi dimora. Saputo ciò, si parte e cala sul monte Nifate.

 

 

 

 


Salve, o del cielo primigenia figlia,

O dell'Eterno coeterno raggio,

Se tal nomarti senza biasmo io posso,

O sacra luce. E nol potrò se Iddio,

Iddio medesmo è luce, ed altro albergo,

Fin dall'eternitade egli non ebbe

Che il tuo fiammante inaccessibil grembo,

O d'increata rifulgente essenza

Fulgido effondimento? O se piuttosto

Ami esser detta un puro etereo rivo,

La tua sorgente chi dirà? Tu pria

Fosti del sol, tu pria de' cieli, e all'alta

Voce di Dio, come d'un manto, il mondo

Di te stessa avvolgesti allor che, tolto

All'infinito informe Vôto, ei fuora

Dalle negre sorgeva acque profonde.

Or con ali più ardite a te ritorno

Da' laghi Stigi alfin scampato, ov'io

Tante or medie or estreme a varcar ebbi

Tenebre nel mio volo, e ad altro suono

Che quel soave della Tracia lira,

Della Notte e del Cao gli orror cantai.

Dalla celeste Musa a entrar nell'ima

Buia discesa instrutto e ver le stelle

A risalir per via solinga e dura,

Salvo a te riedo, o bella Luce, e sento

L'alma tua lampa che di vita è fonte;

Ma tu questi occhi a visitar non torni

Però, che in cerca del tuo raggio invano

Rotansi, e albór non trovano: tal denso

Vel li ricopre, o lor pupille ha spente

Maligno umor! Ma non per questo io cesso

D'ir là vagando ov'ha più spesso in uso

Di far sua stanza delle Muse il coro,

Lungo un limpido fonte, o in colle aprico,

O in ombroso boschetto: un così forte

Amor de' sacri carmi il sen m'infiamma.

Ma te, Sionne, in prima, e i tuoi fioriti

Soavemente mormoranti rivi

Che il sacro piè ti bagnano, notturno

A visitar io vengo, e spesso in mente

Mi tornano que' duo ch'ebber con meco

Egual destino (egual così foss'io

A loro in fama almen!), Tamiri il cieco

E 'l cieco Omero, e di que' Vati antichi,

Tiresia e Fíneo, mi sovvien pur anco.

Allor mi vo di que' pensier nudrendo

Onde sgorgano poi spontanei e pronti

Armonïosi versi, e a quel somiglio

Vigile augel che sott'ombrosa chiostra

Nascoso intuona il suo notturno canto.

Le stagioni così riedon coll'anno,

Ma il giorno a me non riede: io più non veggo

Nè i dolci raggi del mattin che spunta,

Nè quei del sol che cade; io più non veggo

Di primavera i fior, nè rosa estiva,

Non più scherzosi armenti, non più mandre,

E non più volto d'uom, divina imago:

Ma folta nube invece e buio eterno

Mi cinge intorno e dai piacer che dolce

Fanno la vita, mi divide: invano

Del bel saper, delle grand'opre sue

Apre natura il libro; è per me tutto

Oscuro, vôto, cancellato, e chiusa

M'è a Sapïenza una gran via per sempre.

Tanto più vivi dunque, o tu, celeste

Luce, i tuoi rai nella mia mente infondi

E ne illustra ogni parte, occhi migliori

Tu m'apri in essa e ne disgombra e tergi

Ogni bassa caligine terrena,

Onde scorgere io possa e altrui far conte

Negate a mortal guardo arcane cose.

Dal luminoso empireo, ov'egli siede

In alto soglio ch'ogni altezza avanza,

L'onnipossente Padre, in giù rivolse

Gli occhi a mirar le sue grand'opre e l'opre

Che uscivano da lor. Più che le stelle

Gli stanno innumerabili d'intorno

Gli eccelsi Cori che ineffabil gioia

Traggon della sua vista, ed ave a destra

Della sua gloria la raggiante imago,

L'unico Figlio: sulla terra i nostri

Due padri antichi, i soli due tuttora

Dell'umana progenie, ei mira in prima,

Che dell'almo giardin nella romita

Sede coglieano gl'immortali frutti

Di gioia e amor, di non turbata gioia,

D'amor senza rivali; indi l'inferno

E 'l golfo immenso che dal ciel lo parte,

Egli risguarda, e là Satán che il vallo

Del ciel costeggia ov'ha confin la notte,

Satán che in alto per quell'aer fosco

Con ali stanche e con bramoso piede

Piegava omai vèr l'erma esterna faccia

Di questo mondo che pareagli salda

Terra priva di cielo, e incerto egli era

Se aere o vasto Oceáno in sen l'abbracci.

Con quello sguardo, innanzi a cui s'aduna

Ogni passata, ogni presente ed ogni

Futura cosa, Iddio dall'alto il mira;

E 'l tutto antiveggendo, in questi accenti

Rivolto al figlio: Unico figlio, ei dice,

Vedi tu là d'atroce rabbia acceso

Il nostro fier nemico, a cui prescritti

Sono confini invan, cui non le sbarre,

Non le catene dell'inferno tutte

E non l'interminabile frapposto

Oceano ponno rattener? Vendetta,

Disperata vendetta ei sol respira

Che più pesante sull'altera testa

Pur gli dee ricader. Da tutti i suoi

Ritegni disfrenato, ei della luce

Entro i recinti, non lontan dal cielo

Or batte l'ali ed al testè creato

Mondo s'indrizza, onde tentar se possa

D'aperta forza incontro all'uom far uso,

O con danno maggior, gl'inganni oprando,

Dal dritto calle travïarlo, e fia

Ch'ei lo travolga. A sue lusinghe orecchio

Darà l'incauto e a sue menzogne, e il solo

Divieto mio, quel pegno sol ch'io volli

D'ubbidïenza ei romperà: ribelle

A me farassi, egli e sua stirpe infida.

Colpa di chi, se non di lui? L'ingrato

Quanto aver mai potea, da me tutt'ebbe:

Giusto e retto io lo fei, vigor bastante

A reggersi gli diedi, ancor che insieme

Libertade al cader. Tali io creai

Tutti gli eterei Spiriti diversi,

Quei che fedeli a me restaro e quelli

Che mi volsero il tergo. Ognun che stette,

Libero stette, e libero pur cadde

Ognun che cadde: e qual sincera prova

Di vera lealtà, di fè, d'amore

Darmi potean, da libertà divisi?

Quello così ch'eran d'oprar costretti

Sol fora apparso, e il lor voler non mai.

Se volontade, se ragion (chè questa

Pur nella scelta sta) senz'uso e vane,

Alla necessitade ivan soggette,

Qual dal loro ubbidir merito e lode

Potean essi raccorre, io qual diletto?

Come convenne, io li creai, nè ponno

La man che li formò, la loro essenza

Giustamente accusar, qual se catena

Alla lor volontà fosse un destino

In decreto immutabile e nell'alto

Mio preveder già fisso. Essi, non io,

Decretaro il lor fallo; e s'io 'l previdi,

La previdenza mia qual ebbe parte

Nella lor colpa? Se imprevista ell'era,

Sarìa stata men certa? In guisa alcuna

Il Fato dunque e l'antiscorger mio

Non li sforzò, non mosse; e fu lor opra

Il giudizio, la scelta e la ruina.

Liberi fur color, libero al pari

È l'uomo, e tal sarà, finchè nei turpi

Lacci per sè medesmo ei non s'avvolga.

Se no, cangiar la sua natura e quello

Eterno, irrevocabile, decreto

Dovrei per esso cancellare, ond'io

D'intera libertà gli feci il dono,

E per cui vuol cader ciascun che cade.

Figlia d'orgoglio reo, di scusa indegna

La colpa fu di que' celesti Spirti

Che depravâr, sedussero se stessi;

Ma gioco è l'uom di lor maligna frode;

Quindi ei trovi mercè, mercè non mai

Trovin color. Così la gloria mia

Per giustizia e pietà fia che risplenda

In terra e in ciel, ma di più vivo raggio

Prima ed estrema la pietà rifulga.

Mentre Dio sì parlò, d'ambrosia un'alma

Fragranza il cielo tutto intorno empieo,

E de' beati eletti Spirti in seno

Novello gaudio inenarrabil sparse.

Di gloria incomparabile fu visto

Splendere il divin Figlio; e tutto in lui

Mostrarsi espresso il sommo Padre: in volto

Pietà celeste, immenso amore, immensa

Grazia gli riluceano, e, Padre, ei disse,

Oh quanto dolce ne' tuoi detti estremi

Fu la parola che il perdon promette

All'uom caduto, onde tue laudi il Cielo

Farà sonare altissime e la terra

Con inni senza fine, e fia tuo nome

Benedetto in eterno! Alfin perduto

L'uom dunque andría per sempre, ei ch'è l'estrema

Opra delle tue mani e la più cara,

Egli che cade, è ver, ma tratto e spinto

Da iniqua frode al precipizio? Ah! Padre,

Sia da te lunge un tal rigor, sia lunge

Da te che sei d'ogni creata cosa

Il giustissimo giudice. Vorresti

L'empio disegno del nemico nostro

Far dunque lieto e vano il tuo? Fia paga

La sua malizia e tua bontà distrutta?

Dunque agli abissi suoi, benchè dannato

A maggior pena, ei tornería superbo

Della presa vendetta, e seco insieme

Nell'eterno dolor trarría l'intera

Da lui corrotta umana stirpe? Adunque

Tu l'opre tue strugger vorresti, e quello

Per lui disfar che per tua gloria festi?

Ah! che la tua bontà, la tua grandezza

Altro chieggon da te. Figlio, rispose

L'onnipossente Padre, o Figlio, in cui

La sua gioia maggior trova quest'alma,

Figlio di questo sen, che sei mio Verbo

E Sapïenza ed efficace Possa,

A' miei pensieri, a' miei decreti eterni

Ogni tuo detto appien consuona. Ogni uomo

Perduto non andrà; chi vuol, fia salvo;

Non già pel solo suo voler, ma retto

Da quella grazia ond'io farogli dono

Liberamente: io le languenti forze

In lui ravviverò ch'a impure e guaste

Voglie il peccar sommesse; anco una volta

Col mio sostegno il suo mortal nemico

Affronti in pari agon, ma vegga insieme

Quant'ei sia fral senza il sostegno mio,

E senta che il suo scampo a me si debbe,

A me sol, non ad altri. Io già fra tutti

Mi elessi alcuni e di mia grazia i doni

(Fu tale il mio voler) versai sovr'essi.

Gli altri sonarsi in core udran sovente

La voce mia che dalle torte vie

Richiameralli del fallir, l'offeso

Mio Nume ad implorar, finchè sia tempo

Di grazia e di perdon. Dai ciechi sensi,

Quanto lor basti, io la caligin densa

Disgombrerò: que' duri cori a' preghi,

Al pentimento, all'obbedir saranno

Ammolliti e piegati; e a' preghi loro,

Al pentimento, all'obbedir, se schiette

Saran lor brame e lor pensier, non sorda

Avrò l'orecchia mai, non chiusi i lumi.

Dentro il lor sen la Coscïenza, il mio

Incorruttibil giudice e sicura

Guida io porrò, cui se daranno ascolto,

Luce maggior da non spregiata luce

Otterran sempre, e, in lor proposto immoti,

Usciran salvi di lor corso a riva.

Ma chi di mia pietà disprezza i giorni

E 'l mio lungo soffrir, pietà non speri:

Alle tenebre sue tenebre aggiunte

Saran, durezza alla durezza, inciampo

A inciampo, e al suo cader cadute e morte.

Solo a costor la mia pietade è chiusa.

Ma tutto ancor questo non è: sleale

L'uom, col disubbidir, rompe ogni omaggio

Ed al suo Dio tenta agguagliarsi; ei tutto

Perde così, nè via gli resta alcuna

Ad espïar suo tradimento. A morte

Con tutti i figli suoi devoto e sacro

Egli è perciò; morir ei debbe, o debbe

Mia giustizia perir, se altra non s'offra

Vittima degna e volontaria il duro

A compier sacrificio, e morte accetti

Per l'altrui morte. Or dove fia che tanto

Amor si trovi? Chi di voi, celesti

Alte Possanze, esser vorrà mortale

A salvar l'uom dal suo mortal delitto?

Qual giusto andrà per un ingiusto a morte?

V'ha in tutto il ciel chi nudra un così bello

E sì sublime affetto? Ei disse, e niuno

Degli Spirti celesti il labbro mosse;

Alto silenzio in ciel si fe': dell'uomo

Niun difensore o intercessor comparve,

E meno ancor chi la mortale ammenda

E 'l gran riscatto di recare osasse

Sul proprio capo. Or la final sentenza

D'eterno danno sull'umana stirpe

Già si compieva; e già tenean lor preda

Morte ed inferno; ma il divino Figlio,

Che del divino amor tutti rinchiude

Gli ampi tesori in seno, ecco interponsi,

E sì favella: È proferita, o Padre,

La tua parola: sì, grazia e perdono

L'uom troverà. La grazia tua che tutte

S'apre le vie, che de' tuoi messi alati

È la più ratta, e le dimande, i preghi,

Le brame anco previen, dal corso usato

Or rimarrassi? Ah! che sarìa dell'uomo,

Se tal'ella non fosse? Ei nelle colpe

Morto e perduto, unqua cercar non puote

Il soccorso di lei, nè alcun restauro

A far per sè gli resta o degna offerta,

Di tutto debitor, di tutto privo.

Eccomi dunque, io per lui m'offro, io vita

Per vita do, sulla mia testa cada

Lo sdegno tuo, m'abbi qual uom, per lui

Il sen paterno io lasciar vo', partirmi

Dalla tua destra glorïosa, e pago

Son per lui di morire: in me rivolga

Morte sua rabbia e tutta in me la sfoghi.

Non rimarrò sotto il suo buio impero

A lungo io già; tu posseder mi desti

In me medesmo sempiterna vita:

Sì, per te vivo, ancor ch'io ceda a morte,

E quanto in me potrà perir, sia tutto

Di sua piena ragion; ma poichè reso

Quel tributo le avrò, tu me sua preda

Non lascerai, nè dell'immonda tomba

Entro gli orrori soffrirai che sempre

L'alma mia pura ed immortal soggiorni.

Sì, vincitore indi alzerommi, a Morte

Torrò sue spoglie, ed il suo dardo stesso

In lei torcendo, sotto i piè porrommi

L'altera vincitrice oppressa e vinta.

Del debellato e invan fremente inferno

Io le negre Possanze alto pe' vasti

Campi dell'etra al trïonfal mio carro

Trarrò in catene, e tu, contento, o Padre,

A me sorriderai dal soglio eterno

Per la mia man del tuo vigor ripiena

Veggendo spento ogni nemico, e Morte

Del suo scheletro stesso alfin la tomba

Empiere e disfamar. Così dal largo

Stuol de' redenti miei seguìto e cinto

Farò ritomo a queste sedi alfine,

E innanzi, o Padre, a te, sul cui sembiante,

Non più si mostrerà nube di sdegno,

Ma pien perdono, inalterabil pace

E amor e gioia splenderanno eterni.

Tacque, ciò detto, ma tuttor parlava

Anco tacendo il suo soave aspetto

Tutto spirante un immortale amore

Vèr l'uom mortale, amor che vinto in lui

Dall'alto ossequio filïal sol era.

Lieto di gire al sacrifizio, i cenni

Sol del gran Padre attende. Alto stupore

Tenea sospeso il ciel che i detti arcani

Non comprendea; ma senza indugio il sommo

Padre così soggiunse: O tu, che sei

Mio sol diletto, o tu, che in cielo e 'n terra

Resti al genere uman caduto in ira

Unica pace, unico asil, tu sai

Quanto a me l'opre mie tutte sian care;

E se l'uom, benchè estrema, ancor mi sia

Caro d'ogn'altra al par, mentr'io consento

Che tu dalla mia destra e dal mio seno

T'allontani per esso, onde un tal poco

Io te perdendo, la perduta intera

Sua stirpe salvi. A tua natura dunque

Quella di lor congiungi, i quai tu solo

Redimer puoi. Sovra la terra scendi,

Sii fra gli uomin laggiuso uomo tu stesso,

Con portentoso nascimento umana

Carne vestendo entro virgineo grembo,

Quando fia tempo; e dell'uman lignaggio

Capo e padre sii tu, d'Adamo invece,

Benchè figlio d'Adam. Com'essi a morte

Van tutti in lui, sì richiamati a vita,

Qual da nuova radice, in te saranno

Tutti color che otterran scampo, e niuno

L'otterrà senza te. Nel suo delitto,

D'infetto tronco infetti rami, involti

Son tutti i figli suoi; tuo merto quindi

Riparator sopra ciascun si stenda

Che l'opre ingiuste sue per te rifiuti,

Per te le giuste ancora; egli riceva,

Rigermogliando in te, vita novella,

Quasi in novello suol trasposta pianta.

Così ciò che l'uom dee, l'uom fia che paghi:

(Giusta ragion il vuole) a sua sentenza

Ei soggiaccia così, mora, risorga,

E, risorgendo, i suoi fratei che a prezzo

Di sua vita scampò, seco pur levi.

Sarà in tal guisa dal celeste amore

L'infernal odio vinto, ancor che troppo

Nobile e prezïosa ostia ripari

Quanto l'inferno per sì facil via

Distrusse e ancor distrugge in lor che sordi

Stan della Grazia all'amoroso invito.

Nè mentre tu dell'uom l'umil natura

In te rivesti, la tua propria e diva

Abbasserai perciò. Se lasci il trono,

Su cui tu siedi eguale a me, se lasci

Questa celeste gloria e questa eterna

Perfetta gioia, dagli estremi danni

Così tu salvi il condannato mondo;

E così, figlio mio, per proprio merto

Assai di più che per natío diritto

Ti mostrerai: la tua bontà sublime,

Più che la tua grandezza, al grado eccelso

Egual t'attesterà: maggior l'amore

Fu che la gloria in te; quindi fia teco,

Mercè tanta umiltà, la stessa ancora

Umanitade tua quassuso alzata,

Ed incarnato sederai su questo

Soglio medesmo, Uom Dio, prole divina

E umana insiem, Re universal dell'almo

Licore asperso della sacra oliva.

Ogni poter ti do, tuoi merti assumi,

Eterno impera, a te soggetti sono,

Come a supremo Sir, Principi e Troni,

Possanze e Regni. Quanto in cielo e 'n terra

E nel profondo tartaro soggiorna,

A te dinanzi incurverassi umìle;

E un giorno alfin verrà che intorno cinto

Di queste empiree squadre, in mezzo al cielo

Apparirai; di là tuoi messi alati

Dell'apprestato tribunal tremendo

Andran l'avviso ad arrecar: repente

I vivi tutti e tutti insiem gli estinti

D'ogni trascorsa età (tal suon dal lungo

Sonno fia che li scuota!) al tuo cospetto

La sovrana ad udir sentenza estrema

S'affretteran da tutti i punti a un tempo

Del costernato mondo. In mezzo all'ampio

Stuolo de' Santi tuoi gli Angeli rei

E i rei mortali il gran giudizio udranno

Che lanceralli entro l'abisso: allora

Sazio sarà l'inferno e le sue porte

Chiuse per sempre. Immense fiamme intanto

La terra, gli astri, ogni creata cosa

Alla tua voce struggeran, ma tosto

Dalle ceneri lor novella terra,

Novello cielo sorgeran più belli.

Ivi gli Eletti tuoi faran dimora,

E, dopo i lunghi tollerati affanni,

Aurei giorni vedran d'auree fecondi

Giustissim'opre e trïonfar tra loro

Amor e gioia e veritade e pace.

Tu allor porrai da canto il regio scettro;

Chè più non n'avrai d'uopo, e tutto in tutti

Iddio sarà. Voi, divi Spirti, intanto

Innanzi a lui che ad eseguir la grande

Impresa muor, prostratevi, ed onore

Eguale al genitor riceva il figlio.

Così dicea l'Onnipossente, e tutti

Gli Angeli allor d'un alto e dolce plauso,

Qual vien da immenso stuolo e da soavi

Beate voci, empiero il cielo, e lungi

Echeggiar fe' l'eterne sedi un lieto

Osanna glorïoso. Ai troni augusti

Profondamente ognun s'inchina e al suolo

Riverente ed umìl la sua depone

Aurea corona d'amaranto intesta,

D'amaranto immortal purpureo fiore

Che all'arbor della vita in Paradiso

Già cominciava a germogliar vicino;

Ma pel fallo dell'uom trasposto venne

In ciel ben presto ov'esso nacque in prima.

Ivi or cresce e s'infiora e della vita

Alto adombra la fonte e i campi, dove

Per mezzo al cielo il fiume della gioia

Più dell'elettro limpide e fragranti

L'onde sue placidissimo rivolge.

Di quei sempre vivaci eletti fiori

Si fan corona alle splendenti chiome

I divi Spirti, e ricoperto allora

Di tanti sparsi serti il suol celeste,

Simile a un mar di fulgido diaspro,

Ridea vermiglio e fiammeggiante intorno

Di quelle porporine eteree rose.

In fronte quindi si ripongon tutti

Le lor ghirlande, e l'arpe d'ôr lucenti

Che pendon loro quai faretre a lato,

Recansi in mano, arpe accordate ognora,

E discorrendo con maestre dita

Le corde in pria, preceder fanno al canto

Soave sinfonìa ch'erge a sublime

Estasi l'alme: indi dell'arpa al suono

Ciascun la voce accoppia, e non è voce

Che discordi lassù dove suprema

In tutto regna consonanza eterna.

Te in pria cantaro, onnipossente Padre,

Infinito, immutabile, immortale,

Eterno Re, te creator del tutto

Che se' fonte di luce e nell'immensa

Luce medesma che t'avvolge il soglio

Eccelso, inaccessibile, t'ascondi

Impenetrabilmente, e quando ancora

Con nube stesa intorno intorno, quasi

Tabernacol fiammante, adombri il pieno

Fulgór de' raggi tuoi, da' lembi estremi

Scintilli sì che tutto abbagli il cielo,

Nè da vicin può Serafino alcuno

Il lampo sostener che fuor ne sgorga,

Ma fa con ambe l'ali agli occhi un velo.

Indi a te, divin Figlio, a te, divina

Rassomiglianza, fu rivolto il canto,

A te che pria d'ogni creata cosa

Genito fosti, a te nel cui sembiante

Visibil fatto, senza nube splende

Il sommo Padre, in cui non può per altra

Guisa affisarsi occhio creato alcuno.

Dalla sua gloria in te l'ardente lume

Impresso sta, trasfuso in te riposa

L'ampio suo Spirto: egli de' cieli il cielo,

Egli per te le angeliche Possanze

Tutte creò, per te lo stolto orgoglio

Delle perverse ammutinate squadre

Traboccò negli abissi; in quel gran giorno

Di sue tremende folgori ministro

Fu il possente tuo braccio, e tu le vive

Del fero carro sfavillanti rote

Che l'eterna scuoteano empirea mole,

Sulle cervici a' rovesciati Spirti

Terribile aggirasti. Al tuo ritorno

Piene di gioia le fedeli schiere

Alto levár solenne plauso, e figlio

Te celebràr della paterna possa,

Te su i paterni perfidi nemici

Aspro vendicator; ma tal sull'uomo

No, non sarai. Di scellerato inganno

Vittima cade questi, onde tu, sommo

Padre di grazia e di mercè, temprasti

Coll'infelice il tuo rigor severo

E pendesti al perdon: ti scorse in volto

Di giustizia e pietà la gran contesa

L'unico tuo diletto Figlio e pronto

A finirla s'accinse. Ei dall'eterna

Gloria del ciel discende, ei s'offre a morte

Per l'umano fallir. Oh amor sublime!

Oh amore incomparabile, che solo

Nel sen d'un Dio può ritrovarsi! Salve,

O gran Figlio di Dio, salve, del guasto

Genere uman riparator possente;

De' nostri canti ampio suggetto ognora

Sarà tuo nome, ognor sull'arpe nostre

Suoneranno tue laudi, e mai da quelle

Del Padre tuo non suoneran disgiunte.

Così ne' regni di eterna luce

Essi spendeano in gioia e in dolci canti

L'ore beate. Sulla salda intanto

Del rotondo Universo opaca vôlta

Ch'ogni altra inferïor lucente sfera

In sè rinchiude e del Caosse affrena

E delle antiche Tenebre gli assalti,

Satán scende e passeggia. Un picciol globo

A lui parea da lunge, or terra immensa

Gli sembra, oscura, desolata ed erma;

Severo ciel che sotto il torvo aspetto

Di notte senza stelle ognor si giace,

E del Caosse che d'intorno freme

Sempre esposto al furor. Solo in quel lato

Che del ciel guarda le lontane mura,

Per l'aere da' furenti orridi nembi

Meno percosso, un fioco lume ondeggia.

Quivi l'iniquo Spirto in largo campo

Spazia a grand'agio, ed avoltoio sembra

Che là cresciuto ove il nevoso Imao

L'argine oppon degli ammontati ghiacci

Al vago Scita, dalla trista terra

Scarsa di preda sloggia e via sen vola

Di pingui agnelli e di capretti in cerca

Su per li colli ove le greggie han pasco,

Ver le fonti del Gange o dell'Idaspe

Dirizzando il cammin, ma scende intanto,

Stanco dal lungo vol, sugli arenosi

Campi di Sericana, ove sì destro

Guida il Cinese i suoi di canna intesti

Leggieri carri con le vele e 'l vento,

Che scorrer sembra il mar. Così Satáno,

Sovra quel suol simíle a mar ventoso,

Tutto anelante alla sua preda e solo

Su e giù cammina. Tutto solo egli era;

Chè là vivente o inanimata cosa

Non si trovava ancor, ma poscia allora

Che l'opre de' mortali ebbe la Colpa

Piene di vanità, lassù volaro,

Come aerei vapori, in larga copia

Le cose di quaggiù fugaci e vane.

Quest'orbe tenebroso in suo passaggio

Il reo Spirto rinvenne e a lungo errando

Per esso andò, ma un fil di dubbia luce

Tremolando improvviso a sè gli stanchi

Suoi passi in fretta volse. Ei lungi scopre

Superba mole che alle mura ascende

Del ciel per gradi splendidi e infiniti:

Ad essa in cima qual di regio tetto

Un'ampia porta appar, ma ricca e vaga

Oltr'ogni paragon, con fronte adorna

D'oro e diamanti: folgorava tutto

D'orïentali folte gemme intesto

Il grand'arco che in terra ingegno alcuno

Nè in rilevate, nè in dipinte forme

Solo adombrar non mai potrìa. Simíli

Eran le scale rilucenti a quelle,

Per cui, fuggendo la fraterna rabbia,

Sotto il notturno aperto ciel disteso

Là nel campo di Luza il buon Giacobbe

Discendere e salir fulgidi stuoli

D'Angeli vide in sogno e nel destarsi,

Quest'è, gridò, quest'è del ciel la porta.

In ogni grado alto divin mistero

Si nascondea, nè stettero là sempre

Immoti già, ma tratti in ciel talora

Fur da invisibil mano. Un luminoso

Mar di liquide perle o di diaspro

Al di sotto scorrea, su cui gli Eletti

Che varcâr poi di terra ai seggi eterni,

Fêro in braccio degli Angioli tragitto,

O fur rapiti da corsier di foco

Oltre quell'onde in su volante carro.

Giù la gran scala era calata allora,

O perchè dall'agevole salita

Lo Spirto reo fosse tentato, o a fargli

Sentir più crudo il sempiterno esiglio

Dalle beate porte. Incontro ad esse

Aprivasi di sotto in ver la terra

Un ampio varco che al felice appunto

Sito dell'Eden rispondea, più largo

Varco di quello assai che sul Sionne

E la promessa terra a Dio sì cara

Fu schiuso poscia, e per lo qual sovente

Gli spediti quaggiù celesti messi

A visitar quelle tribù felici

Venir soleano e ritornare, e Dio

Di là dove il Giordan l'origin prende

Fin dell'Arabia e dell'Egitto ai lidi.

L'amoroso stendea vigile sguardo.

Sì largo era quel varco, ove fur fissi

I confini alle tenebre, siccome

Del mare all'onde. Ivi Satán s'arresta,

E dal grado più basso, onde alla soglia

Del ciel conduce l'aurea scala, il guardo

In giù volgendo, ad un sol punto scopre

L'intero mondo, e all'improvvisa vista

Attonito riman. Così guerriero

Esplorator che per deserte e buie

Vie tutta notte andò fra rischi errando,

Sul ciglio alfin d'un erto monte asceso

Allo spuntar del mattutino albôre

S'arresta e guata, e di repente amene

Straniere terre in lontananza scorge

Non prima viste, ampia città famosa,

E splendenti palagi e torri eccelse

Che del sorgente sole il raggio indora.

Con tal stupor, sebbene al cielo avvezzo,

Va contemplando quel maligno Spirto

Quest'Universo; ma più forte il punse

Invidia ancor quando sì bello il vide.

Tutto per ogni banda egli lo spia

(E bene il può di là dove sublime

Sovrasta al fosco spazïoso manto

Che la notte distende in vasto giro)

Dal punto Oriental di Libra infino

Al velloso Monton che lungi porta

Oltre orizzonte per le atlantich'onde

Andromeda lucente. Indi col guardo

L'ampiezza tutta dall'un polo all'altro

Ei ne misura, e vêr le prime piagge,

D'indugio impazïente, in giù si lancia

Con vol precipitoso. Obliquo ei torce

Pel candid'aere puro il facil corso

Fra globi innumerabili che stelle

Paion da lunge e davvicin son mondi,

Vasti mondi, o felici isole amene

Simili a quegli Esperidi giardini

Sì rinomati un dì, beati campi,

Lieti boschetti, dilettose valli

Di fior vestite, e ben tre volte e quattro

Isole fortunate. Ei via trascorre,

E quai ne sien gli abitator felici

Non s'arresta a cercar; ma l'aureo sole,

Che più del ciel l'immensa luce imita,

Sovra ad ogn'altra stella a sè richiama

Lo sguardo suo: colà rivolge il corso

Pel firmamento placido (se in alto,

Ovvero in basso, o presso il centro, o lungi,

Chi 'l potría dir?) dove la nobil lampa

Lungi dal folto popolo degli astri

Che in convenevol lontananza stanno

Dall'occhio suo sovran, loro dispensa

Il tesor de' suoi rai. Con ordin vario,

Ma immutabile ognor ne' varj moti,

Al suo rallegrator lume d'intorno

La mestosa lor veloce danza

Menano quelli, e i giorni, i mesi, gli anni

Misuran seco; e forse in giro mossi

Son de' suoi rai dall'attraente forza

Che dolce scalda l'Universo e dolce

Ogni lontana e più riposta parte

Penetra e scuote coll'arcano ed almo

Foco sottil: sito ammirabil tanto

Fu fisso all'orbe animator del mondo!

Colà Satáno approda, e macchia pari

A quella ond'egli il lucid'astro adombra,

Sguardo mortal d'ottici ingegni armato

Forse giammai non vi scoperse: il loco

Egli trovò sopra ogni dir lucente,

E molto più che non rifulge in terra

Terso metallo o gemma. Ogni sua parte

Non è simìl, ma sfolgorante e piena,

Come di foco è pien rovente ferro,

D'egual lume è ciascuna. Oro là sembra,

Qua purissimo argento: ivi il fulgóre

Del crisolito imíta, o del rubino,

O del topazio, o del carbonchio; o quello

Dei dodici gioielli, onde d'Aronne

Il sacro petto fiammeggiava adorno;

Nè il nostro immaginar pinge sì bella

Quella mirabil pietra, a cui rivolto

Fu de' creduli Sofi invan tuttora

Lo studio ed il sudor, sebben in ceppi

Il fuggevole Erméte a por sia giunta

La lor arte possente, e su traendo

Dal marin fondo il vecchio Proteo sciolto

In varie guise ognor, stringerlo sappia

A ripigliar per vitrea angusta doccia

La sua forma natìa. Mirabil cosa

A chi dunque sarà, che spirin quivi

Puro elisir le regïoni e i campi,

E volgan aurei flutti i fonti e i fiumi,

Quando col tocco del sovrano raggio

Che nel terrestre umor s'infonda e mesca,

Il sol da noi sì lunge, in queste basse

Tenebre può produr tante e sì rare

Cose ammirande, e trasformar l'impuro

Loto in raggianti prezïose gemme?

Nulla abbagliato da cotanta luce,

Quivi d'alto stupor spettacol novo

Trova il maligno Démone, e col guardo

Ch'ombra od intoppo non incontra, tutti

Signoreggia dell'aere i campi immensi.

Come dal sommo vertice del cielo,

Colà dove la notte al dì s'adegua,

In sul meriggio a noi diritti vibra

Quel pianeta i suoi rai, dritti lassuso

Così li manda ognor per vie disgombre

D'ogni opaco ritegno, e l'eter puro,

Qual non è altrove, di Satán gli sguardi

Aguzza e guida ai più lontani oggetti.

Un Angel glorïoso a un tratto ei scorge,

Quell'Angelo medesmo ivi dipoi

Da Giovanni veduto: egli a Satáno

Volgea le spalle, ma il celeste lume

Non cela già che lo riveste; intorno

Gli sfavilla alla fronte aurea tïara

Intesta de' più puri eletti raggi,

E mollemente sull'alate spalle

Gli ondeggia sparso il folgorante crine.

Fisso in pensier profondo, ad alto incarco

Intento egli parea. S'allegra allora

Lo Spirto reo che ritrovato alfine

Spera d'aver chi all'Eden drizzi il suo

Errante volo, alla felice sede

Dell'uom, che al lungo suo viaggio è meta,

E principio sarà de' nostri affanni.

Ma per fuggire indugio o rischio, in pria

Cangiar la propria in altra forma ei pensa;

E tosto un Cherubin leggiadro e vago,

Ma non dei primi, ei si dimostra: in volto

Fresca gli ride gioventù celeste,

E concorde si sparge in ogni membro

Grazia e decoro. Il menzogner sembiante

Nulla smentisce in lui; vezzoso serto

Gli orna le tempie, ed alle gote intorno

Gli scherzano ravvolti in vaghe anella

I biondetti capelli; ali ha sul tergo

Di sparse d'oro variopinte penne;

Succinto e lieve è il suo vestir, e innanzi

A' composti suoi passi argentea verga

Ei stringe in man. Pria d'appressarsi, udito

Dall'Angel fu che il luminoso volto

Tosto a lui volse e manifesto apparve

L'Arcangelo Urïele, un di que' sette

Che, più vicini al solio dell'Eterno,

Stanno pronti a' suoi cenni, ed occhi suoi

Son quasi, che de' cieli e della terra

Le vaste piagge rapidi scorrendo,

Van sul suolo a portare, o van sull'onda

I suoi decreti. A lui Satán s'appressa

E così gli favella: O tu che sei

Uno, Urïele, di que' sette Spirti

Che vestiti di gloria innanzi al trono

Stan dell'Onnipossente, e per l'eccelse

Sfere interpetre sei, sei messaggiero

Di quell'alto voler che i figli suoi

Umili aspettan dal tuo labbro, e forse

Per supremo decreto egual onore

Or godi qui d'ir visitando attorno

Queste nuove da lui create cose,

A te ricorro. Ardente brama il petto

Di veder, di conoscere m'infiamma

Quest'opre sue stupende, e, più ch'ogni altra,

L'uomo, dell'amor suo, del suo favore

Oggetto singolar, l'uomo, per cui

In sì mirabil ordine ei dispose

Quest'Universo. Un tal desìo mi trasse

Così soletto a errar lungi dal coro

Degli altri Cherubini; ah! tu m'insegna,

Inclito Serafino, in qual di questi

Splendidi mondi stabilita all'uomo

Sia la dimora, o se dimora alcuna

Fissa ei non abbia ed in ciascuno scerre

La possa a grado suo. Fa ch'io trovarlo

Ed in segreto o apertamente io possa

Di lui goder la vista, a cui sì largo

Fu il sommo Creator di grazie tante

E liberale donator di mondi.

Così potrem nell'uom, come in ogn'altra

Cosa, esaltar quel Facitor sovrano

Che al fondo dell'inferno i suoi ribelli

Spinse a ragione, e a ripararne il danno

Questa nuova creò felice stirpe

Che più fedel gli fia. Sagge son tutte

L'opre e i disegni suoi. - Così quel falso

Angel parlò, nè il ben celato inganno

Urïel discoprì; chè dato ad uomo

O ad Angelo non è scorger la chiusa

Intenebrata Ipocrisia, quel solo

Mal che nascoso ad ogni sguardo, e chiaro

Soltanto a quel di Dio che andar lasciollo,

Della terra e del ciel le vie trascorre.

Così sovente la Prudenza ancora

Sta vigilante invan, spesso il Sospetto

Sulle soglie di lei s'acqueta e dorme,

E 'l proprio posto inavveduto cede

Alla semplicità che al mal non pensa

Dove niun male appar. Da sua bontade

Così il rettor del sol, quell'Urïele

Ch'ha sovr'ogn'altro Spirito del cielo

Acuto il guardo, nell'inganno è tratto;

E del suo schietto cor seguendo i moti,

Al frodolento infignitor maligno

Cotal risposta diede: Angel vezzoso,

Questa tua brama che a conoscer l'opre

È rivolta di Dio perchè s'esalti

Ognor più la sua gloria, anzi che biasmo,

Lode ben merta; e più di pregio è degno

Quanto più vivo è quello zel che spinto

T'ha sì lontan dal tuo celeste seggio

In questi lochi e così sol, co' tuoi

Occhi medesmi ad ammirar quel ch'altri

Forse d'udir per fama in ciel s'appaga.

Ah! degne inver d'altissimo stupore,

Degne che in lor sempre il pensier s'affissi,

Son l'opre di sua mano e viva fonte

Di puro soavissimo diletto.

Ma qual creata mente abbracciar puote

L'infinito lor numero o 'l profondo

Sapere investigar che fuor le tragge

Dal nulla e le alte lor cagioni asconde?

Presente io fui quando la massa informe

Della rude materia in groppo unita

Apparve; umile il Cao sua voce intese,

S'acchetò dell'abisso il fier muggito,

E Immensitade ebbe confini: il labbro

Egli di nuovo aperse e di repente

Fuggissi il buio, sfolgorò la luce,

E dal disordin fuor l'ordine surse.

L'acqua, la terra, l'aere, il foco allora

Ch'eran fra sè ravviluppati e misti,

Ai varj posti lor corser veloci;

E l'eterea del ciel sustanza pura,

Di varie forme impressa, in su volando

In giri si ravvolse, e gli astri, questo

D'ardenti faci innumerabil coro,

Venne a compor, qual vedi; e ognun suo loco,

Ognun suo corso ebbe prescritto. Il resto

In cerchio immenso la gran vôlta e 'l muro

Formò dell'Universo. Or gli occhi abbassa

A quel globo laggiù che a noi rimanda

Parte del lume che di qui gli piove

Sul lato incontro a noi; la terra è quella,

Dell'uom la sede, e quella luce è il giorno

Che la rischiara. Ora la notte abbuia

L'altro emisfero suo, ma la propinqua

Luna (così quell'altra stella ha nome)

Coll'improntato suo fulgor le presta

Opportuno soccorso, ed alternando

Il mensual suo giro, ora di luce

Empie ed or vôta il suo triforme aspetto;

E così della notte il fosco impero

Sopra la terra scema. Or gli occhi porgi

A quella macchia che colà t'addito:

Il soggiorno d'Adam, l'Eden è quello,

E quell'alte ombre il suo ritiro. Vanne;

Il tuo cammino errar non puoi: conviensi

A me seguire il mio. Ciò detto, altrove

L'Angelo si rivolse. A lui Satáno

Profondamente s'inchinò, qual suole

Spirto minore a maggior Spirto in cielo,

Ove dovuta riverenza e onore.

Niun mai trascura: indi affrettato e spinto

Dalla sua speme, in molte aeree ruote

In vêr la costa della bassa terra

Precipita il suo volo, e del Nifate

In sull'alpestre vetta alfin si cala.


LIBRO QUARTO

 

Satáno, alla vista dell’Eden e del luogo ove si propone di eseguire l’audace suo disegno contro Dio e contro l’uomo è agitato da molti dubbj e da molte passioni, dal timore, dall’invidia, dalla disperazione; ma alfine si conferma nel male e si avanza verso il paradiso, del quale si descrive l’esterno prospetto e il sito. Egli supera tutti gli ostacoli e si posa in forma di smergo sull’albero della vita, il più alto di tutti per ispiare all’intorno. Descrizione del giardino. Satáno vede per la prima volta Adamo ed Eva; riman preso da maraviglia alla nobiltà delle loro sembianze ed alla felicità del loro stato, ma persiste nella risoluzione di procurare la ruina loro; sta ad ascoltare i lor discorsi, ne raccoglie ch’era loro vietato sotto pena di morte il mangiare del frutto dell’albero della Scienza, e disegna di fondare sopra un tale divieto la sua tentazione e sedurli alla disubbidienza. Differisce il suo proponimento al fine di informarsi meglio del loro stato per qualche altro mezzo. Intanto Uriele, scendendo sopra un raggio del sole, avverte Gabriello, a cui era affidata la guardia delle porte del paradiso, che qualche malvagio Spirito erasi fuggito dall’abisso, ch’egli era passato verso l’ora del mezzodì per la sua sfera sotto le forme d’un Angelo beato; che di là era disceso verso il paradiso, e che i suoi gesti furiosi sul monte lo avevano scoperto. Gabriello promette di trovarlo prima del nuovo giorno. Adamo ed Eva trattengonsi parlando insieme, e alla fine del dì si ritirano a riposo nel loro albergo. Descrizione di questo, e loro preghiera della sera. Gabriello ordina di far la ronda agli Spiriti ch’eran di guardia, e invia due Angeli verso l’albergo di Adamo per timor che il maligno Spirito non tenti qualcosa contro i nostri primi padri mentre dormono. È trovato all’orecchia d’Eva occupato a tentarla in un sogno, ed è condotto a Gabriello. Risponde con orgoglio e ferocia e si prepara al combattimento, ma intimorito da un segno che appare in cielo, se ne fugge dal paradiso.

 

 

 

 


Dove ah! dov'è quella pietosa e fera

Voce che l'Inspirato udìo di Patmo

Dal profondo del ciel tonare un giorno

«Guai della terra agli abitanti» allora

Che, di nuovo sconfitto, a far scendea

Furibondo il Dragon le sue vendette

Sopra l'umana stirpe? Oh! perchè avviso,

Finchè n'è tempo ancora, ella non porge

Ai nostri primi sventurati padri

Del lor vicin nemico, onde i mortali

Schivar agguati suoi potesser forse?

Di rabbia acceso ecco Satán discende,

Pria tentator e accusator dipoi,

La prima volta in terra, e 'l suo furore

Per la perduta pugna e per l'orrenda

Caduta sua vien a sfogar sul frale

Uomo innocente; ei vien, ma benchè tanto

Intrepido da lunge, or non ritrova

Pei vinti rischi e pel suo presto arrivo

D'allegrarsi ragion. L'atro disegno,

Presso a scoppiar, nello sconvolto petto

Gli si raggira e bolle e 'l proprio fabbro

Si ritorce a colpir, come guerriera

Macchina fulminante indietro balza,

Mentre dal seno il tuon scaglia e la morte.

Dubbio, terror tutti confonde e mesce

I suoi pensier: d'inferno uscito invano

Egli è, l'inferno ha in cor, l'inferno intorno

Pertutto egli ha, nè per cangiar di loco

Al circondante orror più che a sè stesso

Può un sol passo involarsi. Il già sopito

Suo disperar di coscïenza al fero

Grido or si sveglia, e la mordace idea

Di quel ch'ei fu, di quel ch'egli è, di quello

Che in avvenir sarà, delle più gravi

Pene che sempre a maggior colpe aggiugne

La giustizia infallibile del cielo,

L'ange e spaventa. I dolorosi sguardi

All'Eden che fiorito e fresco e vago

Gli s'appresenta, or ei rivolge, ed ora

Al cielo, e al sol che in cima arde e lampeggia

Dell'alta sua meridiana torre;

Quindi così del cor l'ambascia cupa

Esalò sospirando: O tu, che cinto

Di tanta gloria, spazïando vai

Solo Signor lassù, che sembri Nume

Di questo nuovo mondo, e in faccia a cui

La scema fronte ogn'altra stella asconde,

Mi volgo a te, ma non con voce amica

Io già mi volgo, ed il tuo nome aggiungo,

O sol, per dirti in qual dispetto io m'abbia

I raggi tuoi che mi rammentan quale

Fosse il grado ond'io caddi, e la tua spera

Quant'io di gloria e di splendor vincessi.

Oimè! da quale stato un cieco orgoglio

Precipitommi! Io contro il re del cielo,

Io contro lui che paragon non ave,

Osai levar lassù la fronte e l'armi?

E perchè mai? No, tal ricambio invero

Ei non mertò da me, da me che a tanta

Altezza avea creato, ei che i suoi doni

Non mai rimproverò, che lievi e dolci

Servigi sol chiedeva, animo grato

E sacre laudi. E qual men grave omaggio

E qual più giusto? Eppur maligno tosco

Furo al mio core i benefici suoi,

E sol dier di nequizia orrido frutto.

Innalzato cotanto, a sdegno io presi

Lo star suggetto; un sol varcato passo

Credei che fatto a lui m'avrebbe eguale,

E il pondo insofferibile di mia

Riconoscenza per le grazie, ond'egli

Ognor mi ricolmava, a un tratto scosso

Avrei così da me; nè seppi allora

Che un grato cor, mentre confessa il dono,

Più debitor non è. Qual era dunque

Il mio gravoso incarco? Ah! se locato

Egli m'avesse in men sublime seggio,

Felice ancor sarei, nè spinte avrebbe

Una sfrenata ambizïosa speme

Sì lungi le mie brame. E se qualch'altro

Al par di me possente Angelo osava

Tentar la stessa impresa e me con seco

A sua parte traea? Ma che! son forse

Cadute altre Possanze a me simili,

E ferme e fide non si serban contro

Ogn'inganno, ogni assalto? Al par di quelle

Libera volontà fors'io non ebbi

Ed ugual forza? Ah! sì. Di che mi lagno

Dunque? Chi dunque accuserò? Quel Dio

Che fu d'eguale amor, di doni eguali

Largo con tutti? Maledetto dunque

Quell'amor e quei doni, a me, del pari

Che il feroce odio suo, cagion fatale

D'interminabil duolo; anzi in eterno

Maledetto io medesmo, il cui volere,

Contro il voler di lui, libero scelse

Questa ch'or merto e provo acerba sorte.

Dove, misero me! dove sottrarmi

All'immensa ira sua? Dove allo stesso

Mio furor disperato? Ovunque io fugga,

Trovo l'inferno, anzi del core in fondo

Meco lo porto: ivi un più cupo abisso

Di quell'abisso atroce in cui m'ha spinto

Il mio delitto, si spalanca, e tanto

Lo supera in orror che bello e dolce

L'inferno stesso è al paragone. Ah! cedi,

Cedi, Satáno, alfin. Che! loco alcuno

Al pentimento ed al perdon non resta?

No, se sommesso in pria, se umìl... Che dico?

Umil, sommesso io mai? Qual onta! Ah! furo,

Fra quei Spirti laggiù da me sedotti,

Ben altro fur le mie promesse e i vanti.

Io che l'Eterno a rovesciar dal solio

Bastante m'affermai, potrei fra loro

Servo e di servitù nunzio tornarmi?

Oimè! ch'essi non san quanto una vana

Mi costi ombra di gloria! essi non sanno

Fra quali angosce internamente io gema,

Mentre da lor sull'infernal mio solio

Adorato m'assido! A me che giova

Scettro e corona, se più ch'altri appunto

Io ruino perciò nel cupo centro

Di tutte le miserie e son supremo

Sol negli affanni? O ambizïon, son queste

Le gioie tue? Ma se a pentirmi ancora

Scender potessi, e col perdono il mio

Racquistar primo stato, i sensi alteri

In me rigermogliar quella grandezza

Non faría tosto, e tutto aver a sdegno

Quanto giurò mendace ossequio? I voti

Che duolo e forza mi svellea dal labbro,

Quai nulli e vani la cangiata sorte

Tutti terrebbe. No, rinascer vera

Amistade in quel cor non può giammai,

In cui d'odio mortal fur sì profonde

Ferite impresse. A più fatal caduta

Io sol risorgerei, la breve tregua

A prezzo d'addoppiati aspri tormenti

Solo comprata avrei. Ben sallo il mio

Sagace punitor che a darmi pace

Tanto avverso è perciò quant'io mi reco

A dispetto il cercarla! Or ecco, invece

Di noi cacciati in crudo esiglio indegno,

Ecco creato l'uom, tenero oggetto

Delle sue cure; ecco d'un mondo intero,

Liberal largitor, gli ha fatto il dono.

Fuggi dunque, o speranza, e tu con essa

Fuggi, o timor, da questo sen; fuggite,

Vani rimorsi miei; per me in eterno

È perduto ogni ben: tu solo, o male,

Sii mio sol bene omai; per te diviso

Col re del cielo almen tengo l'impero,

E più che la metà saprò fors'anco

Occuparne per te. Vedrai bentosto,

Uomo odïato, e tu, novello mondo,

La possa di Satán. - Mentr'ei sì parla,

Fera procella gli dibatte il core,

E un lurido pallor d'invidia e rabbia

E disperazïon gl'infosca il volto

A vicenda tre volte. Ad ogni sguardo

Le scompigliate sue mentite forme

Lo avrìen scoperto: chè sereni e sgombri

Da sì sconce tempeste il cor, la fronte

Hanno i Celesti ognor. Lo avvisa ei tosto,

E, artefice di fraude, appiana e copre

D'esterna calma ogni tumulto interno.

Egli il primiero fu che l'alma fella

D'aspra vendetta covatrice ascose

Sotto dolci sembianze. Esperto tanto

Non è però che ad Urïele accorto

Far possa inganno. In suo cammin coll'occhio

Egli seguillo, e sull'Assirio monte,

Più ch'a beato Spirto avvenga mai,

Disfigurato il vide. I gesti feri

Di lui che allora inosservato e solo

Colà credeasi, il torbid'occhio ardente

E 'l portamento furibondo e folle

L'Angel scôrse e notò. Così Satáno

Suo cammin segue e a' fortunati campi

Dell'Eden s'avvicina. Un verde giro

D'argine rustical cinge la vasta

Pianura stesa in cima ad erto monte,

Che di pungenti vepri e d'alti e densi

Rovi tra lor confusamente attorti

Ispidi ha i lati e d'ogni parte il varco

Impenetrabil fa. Gli abeti, i pini,

L'eccelso cedro e la ramosa palma

Torreggian sopra, e sull'agreste scena

Stendon lunghissim'ombra; e quanto il colle

Più si solleva, alte ognor più spargendo

L'ombre sull'ombre, un boschereccio, altero

Maestoso teatro offrono al guardo.

Ma più ancor di lor cime il verdeggiante

Muro del Paradiso in alto sorge,

E al nostro primo padre ampio prospetto

Dei sottoposti spazïosi regni

Presenta d'ogn'intorno. Oltre quel muro

Disposti in giro ergono al ciel le sempre

Chiomanti braccia i più fecondi e belli

Arbori carchi de' più dolci frutti.

Sul ramo stesso ivi matura e spunta

Insieme il frutto e 'l fior, ambi d'un vivo

Aureo colore, a cui del par lucenti

Si mescono mill'altri; e il sol più lieto

Co' ripercossi rai vi splende e scherza

Che in vaga nube a sera, o nell'acquosa

Iride bella quando ha sparsa Iddio

La pioggia sulla terra. Amabil tanto

È quel beato suol! Ride pertutto

Soave primavera, ognor più puro

Spira quell'aere a chi s'appressa, e tale

Un almo infonde avvivator conforto

Che può dal cor, se non uscì di speme,

Ogni affanno sgombrar. Gentili aurette

Le leggiere scotendo ali fragranti

Spandon pertutto i loro profumi, e sembra,

Che voglian dir coi lor susurri il loco

Donde involâr quelle odorose prede.

Come al Nocchier ch'oltre gli estremi Cafri

Veleggia, e Mozambico ha già varcato,

Il vento aquilonar dalle felici

Arabe spiagge odor Sabei tramanda,

Ond'egli preso da diletto allenta

Il suo cammino, e 'l vecchio Oceano stesso

Per ampio tratto si rallegra e ride:

Così allettato era il malvagio Spirto

Da quell'alme dolcezze, ei che venìa

Del suo veleno ad infettarle. A tardi

Passi e pensoso, di quell'erto colle

Giunto all'aspra salita egli era omai,

Quando per varcar oltre alcun sentiero

Più non appar; di così folti ed irti

Cespugli e dumi un'aggroppata selva

Impenetrabil s'opponea. Restava

Sola una porta dall'opposto lato

Vêr l'Orïente: videla il fellone,

Ma la sdegnò superbamente, e ratto

Oltre la ripid'erta e l'alto muro

Spiccò d'un salto e sovra i piè leggieri

Nel bel loco balzò. Qual lupo spinto

Da cupa fame a ricercar di preda

Novelle tracce, erra qua e là spiando

Ove i pastor nelle di vinchi inteste

Lor chiuse a sera di raccor son usi

Il sazio gregge, e con agevol lancio

Sopra la fratta, furibondo, ingordo

Nel recinto si scaglia; o qual notturno

Ladro che all'arca per molt'oro grave

D'un ricco cittadin le insidie ha volte,

Poichè assalto non temono le forti

Soglie e le ferree sbarre, ei s'apre il passo

Per le finestre, o sopra l'arduo tetto

Arrischievol s'arrampica; tal questo

Primo atroce ladrone entrò nel santo

Ovil di Dio. Quindi a vol s'erge e sopra

L'arbor di Vita, che l'altera cima

Nel mezzo al bel giardin sugli altri innalza,

Si posa in forma di rapace smergo:

Ivi della vital salubre pianta

L'alta virtude a meditar l'iniquo

Non stette già, ma sol tramò la morte

A color che vivean. Di quel sublime

Loco che a lui, se provvido era e saggio,

Stato saria d'immortal vita pegno,

Ei sol si fe' vedetta a stender lungi

L'indagator di preda avido sguardo.

Sì poco ognun (tranne sol Dio) conosce

Del bene il prezzo, ma strumento il rende

Spesso del male, o in usi indegni il torce.

Or con nuovo stupor mira Satáno

Sotto di sè, dentro non largo giro,

L'ampie ricchezze di natura accolte

A far pago dell'uomo ogni desìo;

Anzi gli par di rivedere il cielo

Sopra la terra. Quel felice suolo

D'Eden Iddio medesmo aveva eletto,

E sugli Eoi confini il bel giardino

Ei stesso vi piantò. Verso l'aurora

L'Eden si distendea da Auran fin dove

I greci Re dipoi le rocche altere

Di Seleucia innalzaro, o dove surse

Talata e dove in pria d'Eden i figli

Ebber soggiorno. In sì ridente terra

Più assai ridente il suo giardino adorno

Avea disposto Iddio. Gli arbori tutti

Più vaghi, più fragranti e più soavi

Cresceanvi rigogliosi, e ad essi in mezzo

Sublime, eccelso e germinante ognora

Di vegetabil oro ambrosie frutta

L'arbor sorgeva della Vita, e presso

Alla vita sorgea la nostra morte,

L'arbor della Scienza, arbor funesto

Che, il ben mostrando, al mal la strada aperse.

Per l'Eden verso l'austro un ampio fiume

Scorre, e d'un monte nel boscoso fianco,

Senza torcer suo corso, entra e s'ingolfa

Per sotterranee vie. Là posta avea

Di propria man quella montagna Iddio,

Qual sponda al suo giardino, alta sovresso

La rapida corrente: indi bevuta

Dalle segrete sitibonde vene

Del poroso terren sorgea gran parte

Di quell'acque in un chiaro, immenso fonte

Che dipartito in cento rivi e cento

Irrigava il giardin; quindi per l'erta

Balza, unito di nuovo, in giù cadea

La vasta piena a rincontrar che uscita

Alfin dal cupo varco al dì risale,

E con vario cammin, divisa in quattro

Maggiori fiumi, per lontane terre

Stende suo corso e per famosi regni.

Or qual arte giammai, qual alto e dolce

Stile ridir potrìa come da quella

Sorgente di zaffir scendon fuggendo

Sovr'aurea sabbia e orïentali perle

I ruscelletti garruli da lievi

Aure increspati? e come in mille e mille

Giri sorto le fresche ombre pendenti

Volgono il puro néttare dell'onde

A visitare ed a nudrir le piante

E i fiori tutti, di quel loco degni

Anzi del cielo? In brevi aiuole e gruppi

Non ordina colà difficil arte

Quelle piante e que' fior, ma in colle, in valle,

In pian con mano liberal gli spande

L'alma natura, e dove il sol percuote

Co' novelli suoi rai gli aperti campi,

E dove imbruna impenetrabil ombra

In sull'ore più calde i bei recessi.

Tal era e varia e maestosa e schietta

Del loco la beltà! Colà distilla

Gomme odorose e balsami il boschetto;

Qui aurate poma pendono ripiene

Di celeste sapor. Gli Esperid'orti

Favoleggiati poi, qui veri in prima,

Qui fur soltanto. Là ridenti prati,

Qua piagge amene, ove pascendo vanno

Le tener'erbe i fortunati armenti;

Qui coperto di palme un colle sorge,

Ed ivi s'apre il vario pinto grembo

D'irrigua valle, ove pomposa mostra

Fan tutti i fior più vaghi, e porporeggia

Senza spine la rosa. In altro lato

Vedi freschi ritiri, ombrose grotte,

Su cui lieta s'inerpica e distende

Lussureggiante le ritorte braccia

Gravi di biondi grappoli la vite.

Con grato mormorìo discendon l'acque

Dai colli aprici e van divise errando,

O uniscono i lor rivi in chiaro lago

Ch'offre il suo specchio cristallino al margo

Coronato di mirti. Odesi intorno

Almo d'augei concento, a cui le molli

Aurette carche di fragranti spoglie

Di campi e boschi accordano il susurro

Delle tremule fronde. Avria creduto

Forse la Grecia favolosa quivi

Veder danzanti Pan, le Grazie e l'Ore

E insiem guidar la primavera eterna.

Eran men belle assai l'Etnée campagne,

Dove involata fu dal fosco Dite,

De' fior ch'ella cogliea più vago fiore,

Proserpina gentil, per cui l'afflitta

Madre corse e cercò la terra intera.

Non quel di Dafne dilettoso bosco

Presso l'Oronte, di sì lieto suolo

Venga al confronto; non l'Aonie piagge

Cui l'onda sacra e inspiratrice irriga;

Non quella dal Triton bagnata e cinta

Isoletta Niséa, dove l'antico

Cam, che Libico Giove e Ammon nomato

Fu dai Gentili, il pargoletto Bacco

Ed Amaltea celava al vigil guardo

Della matrigna Rea; non l'erto monte

D'Amara, là del Nil presso alle fonti,

Che, di splendenti rocce intorno chiuso,

De' monarchi Abissini i bruni figli

Serba nel grembo, e i salitori stanca

Per un intero dì, montagna amena,

È ver, ma da talun creduta a torto

Del Paradiso la verace sede.

Volge Satán l'occhio geloso attorno,

E senza alcun diletto ogni diletto

Del bel giardino e l'infinita schiera

Delle viventi creature osserva;

Meraviglioso a lui spettacol novo.

D'assai più nobil forma, alte ed erette,

Erette in guisa di celesti Spirti,

Due là vestite di natìa bellezza

Nella lor nuda maestà, del Tutto

Sembran tenere, ed a ragion, l'impero.

Nei lor sembianti la divina imago

Del lor Fattore, verità, consiglio,

Pura ed austera santità risplende,

Austera sì, ma in filïal riposta

Libero ossequio, onde più bella e grande

Appar dell'uom la dignità sovrana.

Come diverso è il sesso lor, diversi

Son pur i pregi e diseguali: agli alti

Pensieri ed al valor formato è l'uno,

L'altra alle grazie e a' molli vezzi: è quegli

A Dio solo soggetto, a Dio soggetta

Ed allo sposo ell'è. Sovran signore

Allo sguardo sublime, all'ampia fronte

Ei si palesa: in crespe e folte ciocche

I giacintini suoi capei dall'alto

Cadon divisi in sulle larghe spalle,

Ma non più giù. Neglettamente sparse

Le trecce d'ôr fino allo snello fianco

Scendono a lei qual velo, e in vaghe anella

Rassomiglianti ai tenerelli germi

Onde s'aggrappa la pieghevol vite

Al vicin olmo, ondeggiano, e son quasi

Di quell'appoggio, ond'ella ha d'uopo, il segno.

Gentil impero ei prende, ella gliel cede

In ritrosetto amabile sembiante,

E quel modesto orgoglio e quelle molli

Ripulse e quegl'indugi assai più dolce

Fanno il suo consentir. Nè delle membra

Veruna parte allor geloso ammanto

Copriva ancor, nè la vergogna rea

Nè questo infame onor ne' petti umani

Era entrato per anco. Onor! Pudore!

Figli di Colpa, di virtude infinita

Vane ombre e larve ingannatrici, ahi come

Tutto avete quaggiù turbato e guasto!

Come sbandiste dall'umana vita

Quant'ella avea di più vitale ed almo,

Schietto candore ed innocenza pura!

Nuda così le belle membra e senza

Temer lo sguardo d'Angelo o di Dio,

Tenendosi per man, tra l'erbe e i fiori

Sen giva errando quella coppia, in cui

Reo pensiero non cade; amabil coppia,

Fra quante in dolci maritali amplessi

Dipoi ne strinse amor, la più gentile;

Egli il più bel di tutti i figli suoi,

Di tutte le sue figlie ella più vaga.

Sotto un ombroso susurrante gruppo

Di arbori, in mezzo al verde smalto, e presso

D'un fresco fonte essi adagiârsi, e tanto

Sol d'opra speso al bel giardino intorno

Quanto più grate le aleggianti aurette,

Più soave il riposo a far bastasse

E de' cibi e del ber più vivo il senso,

Della lor cena a saporar si diero

L'ambrosie frutta che i curvati rami,

Lungo il molle sedil tutto vestito

Di tener'erba e di fioretti sparso,

Offrir pareano in volontario omaggio.

Ne spremean essi la soave polpa,

E nella cava scorza il colmo rio

Quindi attingean; nè lusinghier sorriso

Fra lor mancava o parolette accorte,

O cari vezzi, o giovanili scherzi,

Qual si conviene a bella coppia in dolce

Coniugal nodo avvinta e sola. Intorno

Festosamente givanle ruzzando

Quanti animai, dipoi feroci e crudi,

Fuggiro ad abitar erme foreste

E boschi e tane. In carezzevol atto

Fra le sue branche dondola il lione

Il tenero capretto; ed orsi e tigri

E linci e pardi insiem giulivi e mansi

Saltabellano intorno. Il lento e grave

Elefante fra loro ogni sua prova

A sollazzarli tenta, e attorce e snoda

In cento guise la volubil tromba.

L'astuto serpe in tortuose spire

Cheto e leggier s'avvolge, e di sue frodi

Dà inosservato segno. Altri sull'erba

Accovacciati stannosi, e satolli

Guatan con occhio immoto; altri a sdraiarsi

Lenti, lenti s'inviano e il preso cibo

Van ruminando. Ver l'occaso intanto

Bassato il sol precipitava il corso,

E messaggiere della sera omai

Nella lance del ciel sorgean le stelle,

Quando Satán tuttor, qual prima, immoto

Per lo stupor, ricoverando alfine

La smarrita favella, in questi accenti

Angoscioso proruppe: Oh inferno! Oh rabbia!

E fia ver quel ch'io miro? Appresso tanto

Innalzati a quel ben ch'era già nostro

Costor son dunque, di novella tempra

Strano lavor che della terra forse

Uscio? costor non Spirti al certo, eppure

Ai rifulgenti Spiriti del cielo

Somiglianti così? Quant'io dappresso

Più li vo riguardando, in me maggiore

Sorge la meraviglia, e a mio dispetto

Amarli anco potrei: tanta risplende

In lor celeste somiglianza, e tanta

Grazia e beltà nei lor sembianti ha sparso

La man che li creò! Coppia gentile,

Ah tu non sai quanto a cangiarsi è presso

La sorte tua! come dispersi andranno

Bentosto i tuoi diletti, e del dolore

Tant'aspro e amaro più, quant'or più dolce

È questo tuo gioir, preda sarai!

Tu sei felice, è ver, ma saldo schermo

Tu non avresti, onde durar felice:

No, qual doveasi, quest'eccelso ed almo

Soggiorno tuo non fu munito e cinto

Da ripari bastanti a tener lungi

Tal nemico ch'entrovvi. In te non tutto

Vôlto è l'odio però che il sen m'attosca,

E ancor pietà di te meschina avrei

Bench'io pietà non trovi. A stringer vengo

Scambievole amistà, scambievol lega

Forte così che in avvenir tu debba

Viver meco in eterno od io con teco.

Gradito al par di questo bel giardino

Forse a te non sarà quel mio soggiorno;

Ma pur, qualunque siasi, in esso accogli

L'opra del tuo Fattore: egli a me diella,

Io volentier te l'offro. A voi davante

L'ampie sue porte schiuderà l'inferno,

E con gran festa manderavvi incontro

Tutti i suoi re. Non somigliante a questi

Brevi confini, ma capace e vasto

Sarà quel loco, a ricettar bastante

Il grande stuol de' vostri figli tutti;

E se miglior non è la stanza, a lui

Grado n'abbiate che su voi mi sforza

Immeritata ad eseguir vendetta

Di quell'ingiurie, onde sol egli è reo.

Pietà mi desta l'innocenza vostra,

Ma la pubblica causa, i torti atroci

Ch'io deggio vendicar, di questo nuovo

Mondo la omai vicina ampia conquista,

L'onor, la gloria, mio malgrado ancora,

Spingonmi a quello, ond'io, sebben laggiuso

Dannato eternamente, orrore avrei.

Così parlava quel maligno, e i suoi

Infernali disegni iva scusando

Colla necessità, discolpa usata

Sul labbro de' tiranni. Indi dall'alta

Cima ov'egli posava, a vol si gitta

Fra lo stuol sollazzevole di tanti

Quadrupedi animali, ed or dell'uno,

Ora dell'altro, qual conviensi meglio

Al suo proposto, le sembianze prende.

Più da vicino rimirar sua preda

Ei può così, così spïarne i detti

E gli atti inosservato, e aver contezza

Di lei più certa. Or con fiammanti luci,

Fatto leone, le passeggia intorno,

Ed or qual tigre che scherzar sul prato

Ha scorto a' caso due cervetti e corre

Ad acquattarsi presso lor, poi s'alza

E sceglie il suo terren, cangia gli agguati,

Onde con slancio più securo entrambi

Nell'una e l'altra branca insiem gli afferri.

Con Eva intanto Adam favella, e quegli

Tutto vér loro si protende, e sembra

Che drizzi mille orecchie al suon novello.

O sola, Adam diceva, o sola in tanti

Piacer compagna mia, tu che più cara

Mi sei di tutti, ah! quel sovran Signore

Che noi fece e per noi quest'ampio mondo,

Infinità bontà certo congiunge

Ad infinita possa, e de' suoi doni

È liberal come infinito. Ei fuora

Della polve ci trasse, in questo ameno

Di gioia albergo egli ci pose; e quali

Fur seco i merti nostri, o che possiamo

In cambio offrirgli ond'uopo egli abbia? È solo

Per tante grazie sue tal ci richiede

Prova di servitù che in ver più lieve

Esser non può per noi. Fra tanti e tanti

Di dolcissime frutta arbori carchi,

L'arbor della Scïenza ei sol ci vieta;

Quel solo ei vieta che vicino sorge

All'arbor della Vita: appresso tanto

Sta la vita alla morte! E checchè sia

La morte, al certo spaventevol cosa

Ella esser dee; chè Dio, tu ben lo sai,

Dio minacciolla a chi gustare il frutto

Di quell'arbore osasse, unico pegno

Di nostra ubbidïenza in mezzo a tanti

Impressi in noi di signoria, d'impero

Splendidi segni sovra quante il suolo

E l'onda e l'aere creature alberga.

Un sì leggier divieto, Eva diletta,

Potrìa duro sembrarci allor che tanto

Ampia ed intera libertà concessa

N'è sovra ogni altra cosa, e di sì vari

Diletti abbiam la scelta? Ah! no: s'esalti

Dunque da noi con sempiterne lodi

Quell'infinita sua bontade, e il caro

Lavor che ci affidò, seguasi intanto

Di crescer questi fiori e tôrre il troppo

Rigoglio a queste piante. È dolce l'opra,

Ma se grave anco fosse, ognor mi fora

Gioconda e bella al fianco tuo. Sì disse

Adamo; ed Eva: O tu, per cui, rispose,

E di cui mi formò la man superna,

O mia guida e signor, carne primiera

Di questa carne mia, tu, senza cui

Un'opra vana e di disegno priva

Fora stato il crearmi, ah! sì, ben giusto

E verace è il tuo dir: a Dio dobbiamo

Eterne lodi, eterne grazie, ed io

Principalmente, io che il destin più bello

Godo in goder di te che tanto sei

Di me maggior, mentre compagna eguale

Tu a te medesmo ritrovar non puoi.

Spesso quel giorno mi ritorna a mente,

In ch'io riscossa da profondo sonno

La prima volta, in grembo ai fior distesa

Mi trovai sotto l'ombra, e dov'io fossi

E chi mi fossi e da qual loco e come

Ivi recata, attonita men giva

Ricercando fra me. Di là non lunge

Un mormorío da cava rupe uscìa

D'acque sgorganti che più giuso in chiaro

Liquido pian si distendeano, e immote

Stavano e pure come un ciel sereno.

Con pensiero inesperto io là m'invio,

Seggo sul verde margo, e al liscio e terso

Lago m'affaccio che pareami un altro

Lucido firmamento. I lumi appena

Io chino a riguardar che incontro appunto

Nell'acquoso chiarore ecco una forma

M'appar che inchina mi riguarda. Indietro

Io balzo, indietro ella pur balza: io lieta

Tosto colà ritorno, e lieta anch'essa

Tosto ritorna e a' guardi miei risponde

Con guardi vicendevoli, spiranti

Pari amor, pari brame. Ivi tuttora

Terrei fisi quest'occhi e in van desìo

Mi struggerei, se un'amorosa voce

Così non m'avvertìa: quel ch'ivi scorgi,

Creatura gentil, quel ch'ivi ammiri,

È il tuo sembiante stesso; ei teco viene,

Teco sen va. Ma seguimi, e tua scorta

Sarò là dove il tuo venir e i tuoi

Teneri amplessi non attende un'ombra,

Ma tal, di cui tu se' l'imago. In dolce

Inseparabil nodo a lui congiunta

Vivrai beata, un'infinita stirpe

Uscirà dal tuo fianco, e sarai detta

Dell'uman gener madre. Io tosto (e ch'altro

Potev'io far?) quell'invisibil guida,

Ove m'invita, seguo, e te discopro

Sotto l'ombra d'un platano, te bello

E maestoso in ver, ma pur men vago,

Vezzoso men, men lusinghiero e dolce

Di quell'ondosa imago. Indietro io torco

Alla tua vista il passo, il passo affretti

Tu allor vér me gridando: ah! perchè fuggi?

Ritorna, Eva gentil, t'arresta, o cara;

Ah! da me fuggi, e mia tu sei; tu sei

Mia carne ed ossa: io dal mio lato fuori,

Dal lato al cor più presso, a darti vita

Io la sostanza porsi, onde tu poscia

Il mio conforto e 'l mio diletto fossi,

Dal mio fianco indivisa: io te ricerco,

Parte dell'alma mia, te chiedo e voglio

Qual altra mia metà. Con gentil atto

Nella tua la mia man prendesti allora,

Ed io m'arresi, e da quel punto intendo

Quanto sia vinta femminil beltade

Da viril grazia e da saggezza, in cui

Sol sta vera beltà. Così dicendo,

La nostra madre universal, con occhi

Raggianti un puro ardor, tenera e dolce

Sopra del nostro genitor primiero,

Per metade abbracciandolo, appoggiossi;

E con metà del colmo ignudo seno,

Sol adombrato dalle sciolte trecce

Sotto l'oro ondeggiante, a incontrar venne

Il sen di lui. Da quelle grazie umíli

E da tanta bellezza Adam rapito,

Con amorosa maestà sorride

Alla sua sposa, e con soavi baci

Preme le caste labbra. In tale aspetto

Sorridente a Giunon dipinto è Giove,

Quand'ei le nubi che di maggio i fiori

Spargon sul suol, feconda. Il guardo altrove

Il rio Demon punto d'invidia torse;

Pur con gelosa rabbia indi tornolli

A sogguardar traverso, e il suo dolore

Esalò in questi detti: Oh tormentosa

Vista! Oh vista abborrita! In braccio dunque

L'un dell'altro costor, di gioia in gioia

Passan l'ore felici, ed io dannato

Son per sempre laggiù, donde i piaceri

E amore han bando eterno, e dove un crudo

Non appagato mai desìo bollente

Fra tanti altri martír ne cruccia e strugge?

Ma non s'obblii quel che dal loro incauto

Labbro raccolsi. In lor arbitrio il tutto

Qui non è dunque; un arbore fatale

Vietato è lor, che del Saper si noma.

Che! vietato il saper? Iniqua legge

Che gelosia dettò! Quel lor Signore

Perchè tal pregio ad essi invidia? E fia

Colpa il saper? pena la morte? solo

Ignoranza li regge e in essa è posta

La lor felicità? quest'è di loro

Ubbidïenza e di lor fè la prova?

Oh! quale scorgo agli artifizi miei

Ed alla lor ruina aperto campo!

Fervida del saper dunque s'accenda

In lor la brama, e gl'invidi comandi

Traggansi a disprezzar che il sol disegno

Di tener ligi quei che al par de' Numi

La scïenza ergerebbe, ha lor prescritto.

Spinti da tal desìo gustino il frutto

E con esso la morte. Esser diverso

L'evento ne potrìa? Ma tutto intorno

Questo giardin prima s'indaghi, e niuna

Più chiusa parte inosservata resti.

Forse condur colà potrammi il caso

Ove in qualche celeste errante Spirto

Che presso un fonte o all'ombra delle piante

Stia soletto, io m'avvenga e da lui tragga

Qualche miglior contezza. Or vivi, intanto

Che il puoi, felice coppia; in fin ch'io torni,

Affrettati a goder; di lunghi guai

Già s'avvicina inevitabil corso.

Disse, ed il piè di là sdegnoso, altero

Torse, ma gli occhi rivolgendo intorno

Sagaci, intenti, e selve e colli e valli

A cercar diessi. Per l'estreme vie

Là dove il ciel coll'oceán confina,

Lento scendeva intanto il sol cadente,

E co' suoi vespertini opposti raggi

Del Paradiso saettava appunto

La porta orïental. Fino alle nubi

Un'ardua rupe d'alabastro ell'era

Che fea di sè lontana mostra, e solo

Avea da terra un accessibil varco

Che salìa tortuoso all'erta cima.

Era il restante aspra, scoscesa balza

D'impossibil salita, e qual pria surse,

Spaventosa pendea. Del masso aperto

Fra i gran pilastri Gabrïello, il Duce

Delle angeliche guardie, assiso stava

Aspettando la notte. A eroici ludi

S'esercitava intorno a lui l'inerme

Gioventude del ciel, ma pronti all'uopo

Pendean là presso per gran gemme ed oro

Raggianti, eterei scudi e usberghi ed elmi

Ed aste e spade. Ivi Urïel, scorrendo

Sovra un raggio del sol per l'aria fatta

Già mezzo bruna, rapido discese;

Come in autunno, quando è carco il cielo

D'ignei vapori, spiccasi talora

E con lucido solco il sen dell'ombre

Fende una stella che al nocchiero, intento

Sovra l'indica pietra, il punto insegna

Onde più l'ira ei dee temer de' venti.

Sollecito Urïel così rivolge

A Gabrïello i detti: In sorte avesti,

O generoso Gabrïel, l'incarco

Di star di queste mura a guardia ed ogni

Insidia allontanarne. Or odi: un Spirto

Sul pien meriggio alla mia sfera è giunto

In questo dì, che di conoscer meglio

L'opere uscite dall'eterna mano

Studïoso mostrossi e sovra ogni altra

L'uom che è di Dio la più recente imago.

Tutt'ansio egli era di partir, lo instrussi

Del suo cammino, per l'aereo volo

Riguardando lo stetti, e là sul monte

Che quinci a Borea giace e dove in prima

Egli calossi, il suo sembiante io vidi

Fuor d'ogni uso celeste, in modi strani

Scomporsi e ottenebrarsi. Io d'inseguirlo

Coll'occhio non cessai, ma sotto l'ombre

Ei mi disparve alfin. Qualcuno, io temo,

Della sbandita ciurma, a tentar nuove

Trame, sbucò quassù dal cieco fondo.

Il rintracciarlo a te s'aspetta. Ei disse,

E l'altro a lui: Se dal raggiante cerchio

Dell'astro, ov'hai tua stanza, Angel sublime,

Sì lungi ed ampiamente il guardo stendi,

Stupor non è. Per questo varco poi

Niun passa inosservato, e niun che appieno

Qui non sia noto e che dal ciel non venga;

Nè alcun dopo il meriggio indi qui scese.

Ma se maligno insidïoso Spirto

Oltre slanciossi a queste mura, il sai,

A incorporea sostanza è fral ritegno

Argin corporeo. Se però nel giro

Di questo loco, in qualsivoglia forma

Colui s'appiatta, onde favelli, al nuovo

Albóre io lo saprò. Tanto ei promise,

Ed all'ufficio suo tornò Urïele

Sul raggio stesso, onde l'alzata punta

Obliquamente per declive calle

Lo riportò nel sol caduto omai

Sotto le Azorre; o sia che là nel suo

Diurno giro oltra ogni creder ratto

Fosse trascorso quel grand'orbe, o sia

Che con più breve rota invêr l'aurora

Questa terra volgendosi, il lasciasse

Là sul suo trono occidentale, ond'egli

Tutta de' suoi color sgorga la piena,

E di porpore e d'ôr pinge ed ammanta

Le circondanti officïose nubi.

Già la sera innoltrava, e 'l grigio incerto

Suo lume rivestìa tutte le cose

D'un languido colore: a lei d'appresso

Il silenzio venìa; chè augelli e belve,

Quelli a' lor nidi e queste al letto erboso,

Eransi tutti ricovrati. Il solo

Vigile rossignuol la notte intera

Al bosco, all'aura intorno i suoi d'amore,

Onde le taciturne ombre molcea,

Ripetè soavissimi lamenti.

Già di vivi zaffir tutta del cielo

Arde la volta, ed Espero guidante

L'esercito stellato, in luminosa

Pompa s'avanza, quando alfin degli astri

La notturna reina alto levando

In nubilosa maestà la fronte,

La sua discopre incomparabil luce

E dispiega sull'ombre il vel d'argento.

Ad Eva allor sì parla Adam: Quest'ora

Notturna, o cara mia compagna, e questa

Comune requie delle cose, a noi

Un simile riposo ancor consiglia.

Per decreto divin fatica e giorno,

Notte e riposo con vicenda alterna

Succedere si denno; e già del sonno

Vien la rugiada ad aggravar con dolce

Peso le nostre ciglia. Il giorno intero

Van tutte l'altre creature errando

Senza incarco o pensiero, e minor uopo

Han di posa perciò; ma il suo lavoro

Di membra o d'intelletto all'uom prescritto

È giornalmente, del suo grado eccelso

Non dubbia prova e del vegliante ognora

Sovra tutti i suoi passi occhio del cielo.

Pria che diman la fresca alba novella

Rosseggi in orïente, all'opre nostre

Sorger dobbiamo, all'opre usate e care.

Qui questi archi fioriti e là que' verdi

Vïali ombrosi, ove a diporto andiamo

In sul caldo meriggio, hann'uopo assai

Di nostre cure. I rami lor cresciuti

Son omai di soverchio e 'l troppo scarso

Nostro lavor deludono: più braccia

Si converriano a diradare il folto

Rigoglio lor. Quei gran rampolli ancora

E quelle gomme che, stillando al suolo,

Fan scabro mucchio ed alla vista ingrato,

Convien pure sgombrar, se tor vogliamo

Al piè gl'inciampi. A riposare intanto

Ci fa la notte e la natura invito.

Disse, ed a lui d'ogni bellezza adorna

Eva rispose: O di mia vita fonte,

Amato arbitro mio, dal tuo bel labbro

Sempre dipenderò: Dio così vuole;

Tua legge è Dio, la mia tu sei. Di donna

Il più bel vanto ed il saper migliore

È il non saper di più. Se teco io parlo,

Mi fuggon l'ore; ogni stagione ed ogni

Vicenda lor mi scordo, e tutto al paro

Teco m'aggrada. È del mattin soave

L'auretta; è dolce il rimirar l'aurora

Che sorge al canto de' già desti augelli;

È bello il sol nascente allor che inaura

Questo ameno giardin co' raggi primi,

L'erbe, le piante, i frutti e i fior lucenti

Di tremolanti rugiadose stille;

Fragrante è il suolo appo una molle pioggia,

È dilettoso di tranquilla sera

Il languido imbrunir, grata la notte

Co' suoi silenzj e 'l tenero gorgheggio

Di questo augel melodïoso; è vaga

L'argentea luna e queste fiammeggianti

Gemme del cielo che le fan corona.

Ma nè l'auretta del mattin, nè il canto

De' lieti augelli, nè il nascente sole,

Nè l'erbe, i tronchi, i frutti, i fior cospersi

Di tremolanti rugiadose stille,

Nè grato odor che dopo molle pioggia

Esali dal terren, nè della sera

Il languido imbrunir, nè della notte

Le tacit'ombre e il tenero concento

Di questo augel, nè della luna al raggio

Lenti passeggi, o scintillar di stelle,

Nulla, ben mio, senza di te m'è caro.

Ma perchè, dimmi, tutta notte splende

Di questi astri la luce? e per chi fatto

È spettacol sì bello allor che il sonno

D'ogni vivente ha chiusi i lumi? O cara,

Di Dio figlia e dell'uom, bellissim'Eva,

Le rispondeva il comun padre, intorno

A questa terra essi il prescritto corso

Dall'uno all'altro sol compiendo vanno,

E portano così di piaggia in piaggia

L'apparecchiata per le varie genti

Ancor non nate, necessaria luce.

Senz'essi sovra il negro intero mondo

Ripiglierebbe il suo dominio antico

La notte universale, e fora estinta

La vita in ogni cosa. Il lor benigno

Foco sottil per la natura tutta,

Come il lor lume, spandesi, ne' vari

Corpi con vario influsso egli s'interna

E fomenta e riscalda e tempra e nudre

E abbella il mondo, e quanto in terra cresce

Prepara a sentir meglio i rai più forti

Del sol che tutto poi matura e affina.

Benchè null'occhio li rimiri, invano

Non splendon gli astri dunque, e, senza noi,

Non creder già che spettatori al cielo

Mancassero ed omaggi ed inni a Dio.

Mentre dormiam, mentre siam desti, errando

Spiriti innumerabili sen vanno

Per ogni dove, al nostro sguardo ascosi,

E notte e dì con incessanti lodi

Contemplan l'opre sue. Quanto sovente

Dal folto de' boschetti o dalle cime

Degli echeggianti colli, in mezzo all'alto

Silenzio angusto di tranquille notti,

Non abbiam noi celesti voci udite,

O sole o alterne, al Creator supremo

Cantar inni devoti? e quanto spesso

Intere squadre di quei Spirti, o mentre

Stanno a lor guardie o van scorrendo in ronda,

Alle soavi note in pieno coro

Unendo il suon di lor celesti lire

Si dividon la notte, e dolcemente

Levan di terra al ciel nostro intelletto!

Così parlando, se ne gían soletti,

Tenendosi per man, verso il felice

Albergo lor che Dio medesmo avea

Scelto e piantato allor che in prima all'uso

E al diletto dell'uom tutto dispose.

Strettamente intrecciati allori e mirti

E qual più cresce altr'arbore di salde,

Ampie e fragranti foglie il denso ombroso

Tetto ne feano; e il flessuoso acanto

Con ogni arbusto più odoroso e folto

Ne tessean quinci e quindi i verdi muri.

L'iri, la rosa, il gelsomino ed ogni

Più vago fiore ergean le fresche e liete

Cime e pingeano le pareti intorno

De' più leggiadri fregi: il suol smaltava

La violetta, il croco ed il giacinto

De' più vivaci e gai color che al guardo

Offrisse mai per ingegnosa mano

Di varie e vaghe pietre insiem contesto

Splendido pavimento. In sì bel loco

Penetrar non osava augello o belva

O insetto alcun: tal riverenza allora

Tutti aveano per l'uom! Non mai più sacro

Solingo, dilettevole boschetto

Pane o Silvano o Fauno o Ninfa accolse

In favolosi canti. Eva, novella

Sposa, di molli ed odorose erbette,

Di fiori e di ghirlande ornò la prima

Il nuzïal suo letto, e dalle sfere

Intuonâr l'imeneo celesti Cori

Nel fortunato dì che al primo padre

Guidolla il pronub'Angelo più adorna

In sua nuda beltade e più vezzosa

Di quella un dì favoleggiata e colma

De' doni degli Dei fatal Pandora

(Troppo ad Eva simíl nel tristo evento)

Quando da Erméte al malaccorto figlio

Di Giapéto condotta, ella i mortali

Allacciò co' suoi vezzi e fe' vendetta

Dell'involato al ciel foco primiero.

Giunti all'ombrosa chiostra, ambo fermârsi,

Ambo dier volta, e sotto aperto cielo

Adoraron quel Dio che il ciel, la terra

E l'aere e 'l firmamento e della luna

Il lucid'orbe e le stellanti rote

Trasse dal nulla. E tu la notte ancora

Festi, o supremo Fabro, e festi il die

Ch'or nell'opra commessa abbiam fornito,

Nell'aïta scambievole felici,

Felici appieno in questo mutuo amore,

Che tu medesmo c'imponesti e tutti

I tuoi favor corona. A te pur anco

Questa dobbiam delizïosa sede

Troppo ampia per noi soli, e dove i doni

In sì gran copia da te sparsi hann'uopo

Di chi nosco li goda e al suolo intanto

Caggion non colti; ma dal nostro dolce

Nodo, tu il promettesti, immensa debbe

Uscir progenie a popolar la terra

Che il tuo poter, la tua bontade esalti

Insiem con noi quando il nascente sole

All'opre ci richiami, e quando al sonno,

Soave dono tuo, facciano invito,

Com'ora, le cadenti ombre notturne.

Così dicean concordi, ed altro rito

Non seguitando che i devoti e puri

Sensi del core, a Dio più ch'altri accetti,

Ambo per mano, al bel segreto albergo

Si miser dentro, e dall'impaccio scevri

Di questi nostri abbigliamenti, a lato

L'un dell'altro si giacquero, nè volse

Le spalle Adamo alla gentil sua sposa,

Se ben m'avviso, nè gli arcani riti

Eva sdegnò del coniugale amore.

Salve, almo nodo coniugal, divina

Mistica legge, salve, o nobil fonte

Dell'umana progenie e solo bene

Che proprio fosti in paradiso e in mezzo

All'altre cose tutte in pria comuni.

Dagli uomini per te fra i bruti errando

Il cieco andò libidinoso ardore;

Strette per te, per te in ragion fondate

Le care parentele in prima furo,

E di padre e di figlio e di fratello

Uditi i dolci affettuosi nomi.

Sempre il mio labbro e la mia penna sempre

Tue lodi innalzeran, viva sorgente

Di sincere domestiche dolcezze

E santa e pura anco fra noi, qual fosti

Ne' prischi dì fra i Patriarchi e i Santi,

Salve, almo nodo coniugal; tu sei

Segno agli aurei d'amor più scelti strali;

Ei sol per te la sua durevol face

Accende, ei sopra te lieto s'aggira

Sulle purpuree penne; ei teco regna,

Teco gioisce; non di Taidi e Frini

Nel compro riso e nei bugiardi vezzi,

Non fra l'orgie e le maschere procaci,

Non fra 'l tumulto di notturne danze,

Non nelle infette Corti o nei dolenti

Versi che della luna al freddo raggio

L'assiderato amante all'aura sparge

Per la bella tiranna, assai più degna

D'abbandono e di scherno. - Al dolce canto

De' rossignuoli, l'un dell'altro in braccio

S'addormentâr gli sposi, e sulle ignude

Lor membra intanto dal fiorito tetto

Una pioggia scendea di molli rose

Che rinnovò l'alba vegnente. Oh! dormi,

Dormi, coppia beata, appien felice,

Se più felice esser non cerchi, e apprendi

A non saper di più! Ma già la notte

Della celeste vôlta ascesa al mezzo,

L'ombre spargea dall'alto, e fuori usciti

Per le notturne guardie all'ora usata

I Cherubini sull'eburnea porta

In bell'ordin guerrier stavano armati,

Quando a lui ch'appo sè là tien l'impero,

Gabrïel così disse: Esci, Uzzïello,

Colla metà di questi, e attento e destro

Costeggia l'austro: l'aquilon percorra

L'altra metade, e all'occidente entrambe

Si raffrontino poi. Ratta qual fiamma,

Si divide la schiera, altri allo scudo,

Altri all'asta girando. Indi a due prodi

Sagaci Spirti che gli stanno appresso,

Ei sì comoda: Iturïel, Zefóne,

Le preste ali spiegate, e niuna sfugga

Di questo loco più segreta parte

Alle ricerche vostre; e là più ancora

Spïate attenti ov'or del sonno in braccio

Quelle due vaghe creature stanno

Sciolte d'ogni timor. Celeste messo,

Qui giunto a sera, d'aver visto narra

Un de' rei Spirti che le sbarre infrante

Chi 'l crederia? d'inferno, a questa volta

Con qualche a lui commesso empio disegno

Se ne venía: costui cercate e preso

Qui lo traete. Disse, e le raggianti

Squadre che oscuran col fulgór dell'armi

Il fulgór della luna, ei mosse. Andaro

Dritti al boschetto i due campioni, ed ivi

Di lurido in sembianza immondo rospo

Acquattato trovaro il fier nemico

D'Eva all'orecchio. Con diabolic'arte

Ei della mobil fantasia procaccia

Gli organi penetrarle, e a suo talento

Destarvi immagin strane e larve e sogni,

O con alito infetto i tenuti spirti

Che, qual da chiaro rio sottili aurette,

Sorgon dal puro sangue, irle spargendo

D'atro veneno, e generar scontenti

Egri pensier così, speranze vane,

Vani disegni e stemperate brame

D'un cieco superbir tumide e calde.

Lui tutto intento all'opra rea coll'asta

Iturïello leggiermente punse;

E, poichè al tocco di celeste tempra

Sparisce ogn'arte ed ogni inganno, e riede

Tosto ogni cosa al suo verace aspetto,

In sua forma infernal s'alza repente

Sovrappreso Satán. Così se vola

Sul negro acervo di sulfurea polve

Che pronta sta per minacciata guerra,

Una lieve scintilla, in aere a un tratto

Scoppia converso in vasta orribil fiamma.

Da stupor côlti all'improvvisa vista

Del truce Re balzâr gli Angeli addietro;

Ma il serran tosto intrepidi, e: Chi sei

Tu di quegli empi nell'abisso spinti?

(Lo richiedon crucciosi), e come osasti

Sottrarti al carcer tuo? Che fai? Che tenti

Qui trasformato e vigile all'orecchio

Di chi tranquillo dorme? A voi son io,

Satán ripiglia dispettoso, a voi

Dunque ignoto son io? Lo credo: innanzi

A me che tanto sopra voi sedea,

Mai non aveste d'apparir l'onore.

Il non mi ravvisar secura prova

È che di quello stuol voi ciurma siete.

Ma se lassù del Signor vostro in Corte

Voi mi vedeste un giorno, a che la vana

Dimanda vostra? A lui Zefón con scherno

Ribattendo lo scherno: E che! risponde,

Le stesse ancor le tue sembianze credi,

Spirto ribelle? E quel fulgór che in cielo

Te puro e fido circondava, ancora

Ti pensi aver? No: quella gloria insieme

Perì colla tua fè; del tuo delitto

E del carcere tuo l'orrore in fronte

Or soltanto ti sta. Ma vieni, a lui,

Che invïolati di serbar c'impose

Questi bei lochi e questa coppia illesa,

Debita renderai ragion severa,

Disse, e in quel suo rimproverar feroce

Il vago scintillò giovin sembiante

Di grazia insuperabile. Smarrissi

Satáno, e quanto la bontà tremenda

E augusta sia, sentì; vide in sua forma

Quanto è amabil virtù; videlo, e tristo

Di sua perdita fu, ma più l'afflisse

Il ritrovarsi agli occhi altrui sì scemo

Dell'antico splendore. Audace e baldo

Pur tuttavia si mostra, e: Teco, dice,

Eccomi pronto; al Duce tuo si vada.

Se qui pugnar si dee, con lui che manda,

Col messaggier non già, col Duce io Duce

Deggio affrontarmi, o con voi tutti insieme:

Così più gloria acquisterò vincendo,

O men ne perderò, se vinto io sono.

Il tuo timor, Zefón replica ardito,

Or qui vieta il provar quanto di noi

Anco un minimo e solo, a fronte possa

Di te malvagio, e debil quindi. Invaso

D'alta rabbia Satán più non risponde,

Ma qual fero corsier che il duro morso

Rode, superbo s'incammina: ei stima

Il fuggire o 'l pugnar vano del pari:

Tale un terror superno agghiaccia e doma

Quel cor ch'altro non teme. Omai son presso

Al punto occidental dove, trascorso

Il mezzo giro lor, giungeano appunto

I due drappelli, e in densa squadra uniti

Attendean nuovi cenni. Ad essi grida

Gabrïello da fronte: Ascolto, amici,

Vêr noi di piede un calpestìo frequente,

E già Zefóne e Iturïel discerno

Pel dubbio lume fra quell'ombre. Un terzo

Con lor s'avanza di real presenza,

Ma di scemo splendor, che agli atti, al truce

Sembiante par d'inferno il Prence: altrove

Ei non vorrà di qui torcere il passo

Senza contesa, e torve e arcigne io scorgo

Sue ciglia già: voi saldi state. Appena

Egli finì che i due colà fur giunti,

E in brevi detti chi traeano, e dove,

In qual opra, in qual atto, in qual sembiante

Da lor fu colto, raccontaro. A lui

Con fero sguardo Gabrïel sì disse:

Perchè il confine al tuo fallir prescritto,

Satán, rompesti, e qui nel loro incarco

Vieni quelli a turbar che fidi stanno

Contro il tuo fello esempio? A noi s'aspetta

Aver di tanta audacia or qui ragione,

E delle insidie che tramando stavi

A quella coppia in dolce sonno immersa,

E che in questo felice almo soggiorno

Locata ha Dio. Con dispettoso ciglio

Risponde a lui Satán: Di saggio in cielo

Tu stima avevi, o Gabrïello, e tale

Io già ti tenni pur, ma quel ch'or chiedi,

Dubitar me ne fa. Dov'è colui

Ch'ami le pene sue? Chi non vorrebbe,

Trovandone la via, scampar d'Averno,

Ancorchè là dannato? E tu, tu stesso

Romper non cercheresti i lacci tuoi

E audacemente avventurarti ovunque

Fossi più lungi dalla pena, e dove

Di scambiar col riposo i tuoi tormenti,

E col gioir più pronto il duol passato

Ricompensar sperassi? Ecco quel ch'io

Qui ricercai. Ma forse a te che solo

Conosci il ben nè mai provasti il male,

Or parlo invan: la volontade in fine

Di quei che là ci confinò, m'opponi:

Ebben; munisca di più salde sbarre,

Se in quell'atra prigion guardarci intende,

Le sue porte di ferro. A tue dimande,

Ecco le mie risposte: il resto è vero;

Ov'essi han detto, mi trovâr; ma quindi

Vorresti tu di vïolenza o trame

Dunque accusarmi? Con amaro scherno

Ei sì parlava, e l'Angelo guerriero

Sdegnosamente sorridendo: Oh! disse,

Qual danno in ciel, dacchè Satán ne cadde,

Satán, l'esperto estimator di saggi,

Eppur di là per sua follia sbalzato!

Ei dal suo carcer fugge, e in dubbio stassi

Or gravemente se sia saggio o folle

Chi dell'audacia sua ragion gli chiede

E degl'infranti suoi limiti inferni!

Cotanto savia cosa ei stima al suo

Dolor sottrarsi, al suo gastigo! e poi

D'accrescerli non cura! Or resta, iniquo

Spirto superbo, in tuo pensier fintanto

Che di fiamma settemplice avvampando

L'ira superna, alla tua fuga in mezzo

Non ti raggiunga, e negli abissi al suono

Del suo flagel terribil non ripinga

Quest'alto senno tuo, che ancor non seppe

Come pena non avvi che all'acceso

D'un infinito Dio furor s'adegui.

Ma perchè qui tu sol? perchè non venne

Tutto con te lo scatenato inferno?

Men aspro è il duol pe' tuoi compagni, o meno

Atto al soffrir se' tu? Valente Duce

Primo a fuggir dal duol, se alle tue schiere

Cotal ragion di fuga avessi addotta,

Qui senza fallo il disertor tu solo

Or non saresti. - Con un torvo sguardo

Gli risponde Satáno: Al par d'ogni altro

Io soffrir so, nè sbigottisco al duolo,

Angelo insultatore, e ben per prova

Sai se fero lassù m'avesti incontra,

Allorchè in tuo favor la ruïnosa

Folgore velocissima discese,

E all'imbelle asta tua soccorse all'uopo.

Ma i tuoi pur sempre vaneggianti detti

Móstranti ignaro assai di ciò ch'a esperto

E fido capitan dopo le dure

Passate prove e disastrosi eventi

Far si convenga, onde a perigli ignoti

La somma delle cose ei non esponga.

Quindi d'abisso a valicar gl'immensi

Deserti io solo, io sol m'accinsi e questo

Nuovo mondo a spïar, di cui non tace

Anco laggiù la fama. Io dar qui spero

Miglior albergo in terra o in aere a' miei

Infelici compagni, ancor ch'io deggia

In tal conquisto far novella prova

Di ciò che tu, di ciò che ardiscan queste,

Incontro a me, tue leggiadrette schiere;

Di cui più facil fora e degno incarco

Servir lassuso al lor Signor, cantargli

Inni devoti intorno al trono, e starsi

Fra prescritte distanze umili e inchini

Che trattar l'asta e 'l brando. - A lui risponde

Tosto l'Angel guerrier: Dire e disdirsi,

Saggio vantarsi sfuggitor di pene,

Quindi un abbietto esplorator, conviensi,

A Duce, dimmi, o di menzogne e frodi

Ad un maligno artefice? E di fede

Tu favellar potesti? O sacro nome

Di fede profanato. E a cui tu fido?

A quella iniqua abbominevol, vile

Tua ciurma di ribelli, adatto corpo

Di capo tale? Oh! rara fede è quella

Fra voi giurata appunto allor che al vostro

Supremo re da voi rompeasi fede,

Ed apparir di libertà campione,

Mostro d'ipocrisia, vorresti adesso

Tu che sì basso il guardo, umil la fronte,

Più che alcun altro, alla presenza augusta

Del Re del ciel portavi? E perchè, dimmi,

Se non per torgli il trono e por te stesso

In vece sua? Ma quel ch'io dico, or nota

Va, là rifuggi onde fuggisti; se osi

Più in questi comparir sacri confini,

Con mille giri di catene avvinto

Giù ti strascino al tuo baràtro, ed ivi

Ti conficco così che a scherno poscia

Non avrai più di quelle porte mai

Le troppo lievi sbarre. - Ei sì minaccia;

Ma di minacce il fier Satán non cura,

E di più rabbia acceso. - Allor, soggiunge,

O gran custode di confini e porte

Altero Cherubin, parla di ceppi

Quand'io sia tuo prigion. Benchè sì spesso

Codeste alate spalle tue cavalchi

Il Re del cielo, e 'l trionfal suo carro

Cogli altri tuoi compagni al giogo avvezzi,

Per quelle vie d'astri smaltate, in giro

Tu strascini lassù, ben altro peso

Da questo braccio poderoso adesso

Aspettati a sentir. - Mentr'ei dicea,

Il rifulgente angelico squadrone

Più che fiamma si fe' corrusco e rosso,

Ed in sembianza di crescente luna

Aguzzate le corna, intorno il prende

Ad accerchiar coll'aste in resta. In ricco

Campo folta così torce la messe

L'irte crestute cime ove le spinge

Gagliardo vento, e 'l buon bifolco intanto

Riguarda e teme che sol triste paglie

Lascin sull'aia poi le vôte spiche.

Nel gran rischio Satán, tutta raccolta

L'estrema possa sua, grande ed immoto

Sta qual Atlante o Teneriffe; agli astri

Giunge sua mole, e in sulle nere penne

Del gran cimiero lo spavento ondeggia;

Nè di lancia la man, di scudo il braccio

Sforniti son. Terribile conflitto

Già fra lor cominciava, e all'urto orrendo

L'Eden non sol, ma la siderea vôlta

Forse del ciel crollato avrebbe, o tutti

Di questo mondo gli elementi almeno,

Naufraghi e sciolti, nel disordin primo

Saríen tornati, se repente in cielo

Non sospendea l'onnipossente destra

Quell'aurea lance ch'ivi ancor fiammeggia

Fra lo Scorpio ed Astrea. L'Eterno in essa

Librò da prima ogni creata cosa

E le sfere e la terra e l'aria e 'l mare,

E in essa libra ancor battaglie e regni

Ed ogni evento di quaggiù. Due pondi

Or su v'impose, un di battaglia segno,

L'altro di fuga e a Gabrïel n'ascrisse

L'uno, l'altro a Satán: rapido alzossi

Questo e l'asta toccò. Ciò mira e dice

L'Angelo all'empio Spirto: Io la tua possa,

Satán, conosco, e tu la mia, non nostre,

Ma sol di lui che le ci diè; che giova

L'armi tentar, se quanto sol permette

Il ciel, vale il tuo braccio e vale il mio,

In cui dall'alto ora cotal s'infonde

Doppio vigor ch'io sotto i piè qual fango

Calpestarti potrei? Solleva in prova

Colassù gli occhi a quel celeste segno,

E vedi quanto debole e leggiero

Tu sei, se a me resister osi. - Il guardo

Leva Satáno e vede alto balzata

La lance sua; nè più, ma via sen vola

Rabbiosamente mormorando, e seco

Si dileguano insiem l'ombre notturne.


LIBRO QUINTO

 

Allo spuntar del giorno Eva racconta ad Adamo un sogno che l’ha turbata nella scorsa notte. Egli, benché lo ascolti con dispiacere, pur la consola; e quindi escono ambedue a prender cura del giardino. Loro cantico mattutino sulla soglia dell’albergo. Dio per tôrre all’uomo ogni scusa, manda Rafaello ad ammonirlo di non partirsi dall’ubbidienza, di far buon uso della sua libertà e di stare in guardia contro il suo nimico; a scoprirgli in fine quanto può essergli utile di sapere. Rafaelo scende nel paradiso. Sua comparsa. Adamo lo scorge di lontano, gli va incontro e lo conduce alla sua dimora, ove lo invita al suo pranzo. Rafaelo eseguisce gli ordini avuti, avverte Adamo del suo stato e del suo nemico e gli espone chi questi sia: gli narra il principio e la cagione della guerra avvenuta in cielo e come Satáno strascinò seco le sue regioni verso la parte Aquilonare e le spinse a ribellarsi, eccettuato il solo Abdiello, zelante Serafino che disputa contro di lui e lo abbandona.

 

 

 

 


I rosei passi per le piagge Eoe

Inoltrava l'Aurora, e 'l verde grembo

Alla terra spargea d'indiche perle

Quando col giorno uso a levarsi Adamo

Si risvegliò. Dell'aere al par leggiero

Era il suo sonno, da temprati e puri

Cibi nudrito, e sol bastava a sciorlo

De' fumanti ruscelli il mormorìo,

Il tremolar degli arboscelli scossi

Dall'aura mattutina e 'l garrir lieto

De' vispi augei che d'ogni ramo uscìa.

Non desta ancor con maraviglia ei mira

Eva, scomposta il crin, le gote accesa,

Argomento di torbido riposo;

E appoggiato sul cubito, con guardi

D'amore ardenti sovra lei pendea

Fiso in quella beltà che, vegli o dorma,

Spira ognor nuove grazie. Indi la mano

Mollemente prendendole, con voce

Soave, qual di Zefiro è il susurro,

Sul sen di Flora, bisbigliolle: Sorgi,

Sposa, amor mio, mio bene, ultimo dono

E 'l più caro del ciel; svegliati, o sempre

Nuovo diletto mio: splende il mattino,

C'invita il fresco campo, e l'ora destra

Noi perdiam d'osservar come le piante

Da noi culte germoglino, e s'ingemmi

Quel boschetto vaghissimo de' cedri;

Come la mirra e 'l balsamo distilli,

Di quai color la terra e 'l ciel si pinga,

E come l'ape su pe' fior novelli

Si posi e sugga il liquido tesoro.

A que' bisbigli ella destossi, e vôlti

In Adam gli occhi paurosi, al seno

Lo strinse e disse: O solo in cui riposo

Trovano i miei pensier, mia gloria e mia

Felicità, con qual piacer riveggo

Il tuo sembiante e la risorta aurora!

Chè questa notte (ah! simil notte unquanco

Non trascorsi finor) sognai, se pure

Un sogno fu, non già, qual spesso io soglio,

Di te, dell'opre del passato giorno,

O di quelle che andiam pel nuovo sole

Divisando fra noi, ma un torbo e tetro

Sogno fu il mio, qual non s'offerse prima

Al mio spirto giammai. Presso l'orecchio

Una voce gentil (la tua mi parve)

Fuori a diporto m'invitò: Tu dormi,

Eva? diceami quella voce; ah! vieni:

Piacevol, fresca, taciturna è l'ora,

Se non che il vigil gorgheggiante augello

Rompe il silenzio della notte e sparge

Più dolci all'aure i suoi sospir d'amore.

Più chiaro il lume suo versa dal pieno

Orbe la luna e vagamente ombreggia

La faccia delle cose. A che sì bella

Vista, se alcun non la riguarda? Il cielo

Con tutti gli occhi suoi perchè si veglia

Se non per mirar te, che l'amor sei

Della natura tutta, e ovunque volgi

L'almo degli occhi tuoi fulgór sereno,

Desìo, diletto e maraviglia inspiri?

Ratta io mi levo a quella voce, come

Fosse la tua, ma te non trovo, e i passi

Volgendo a ricercarti, mi parea

Soletta e dubitosa andar per vie

Che d'improvviso guidanmi alla pianta

Del vietato Saper; bella appariva

All'avvinto pensier, più bella assai

Che non m'appar nel dì: mentre mirando

La sto meravigliata, ecco mi sembra

Veder a lei vicino un che all'aspetto

Color somiglia ed alle gemin'ali

Che noi veggiam dal ciel venir qui spesso.

D'ambrosia le sue chiome eran stillanti,

E su quell'arbor fise anch'ei tenendo

Le desïose luci: O vaga pianta,

Dicea, di frutti sovraccarca, or come

D'alleggerirti il peso alcun non degna,

Non Dio, non uomo, e l'alma tua dolcezza

Assaporar? Così spregiato e vile

Dunqu'è il Saper? qual mai divieto è questo

Se non quel dell'invidia? Eh, lo divieti

Chiunque vuolsi; il sommo ben che m'offri,

Arbor gentile, alcun non fia che a lungo

Più mi ritardi. E perchè qui locato

Saresti tu? Ciò detto, ei non ristassi,

Stende l'ardita mano, il frutto spicca,

L'ammira, il gusta. A quel parlar audace

Cui l'atto reo succede, un freddo orrore

Tutte mi ricercò le vene e l'ossa;

Ma quei gioioso ed esultante: Oh! disse,

Frutto divin, per te medesmo dolce,

Ma così colto ancor più dolce e solo

Vietato, come appar, perchè di Numi

Se' proprio cibo, e perchè insiem possente

Gli uomini in Numi a trasmutar tu sei!

E perchè dato agli uomini non fora

Divenir Dei? Quant'è più sparso il bene,

Tant'ei più cresce e più d'onor n'acquista,

Senz'alcun danno, l'amor suo. Deh! vieni,

Eva leggiadra, angelica Eva, a parte

Vienne tu pur: la tua felice sorte

Più felice esser può, benchè più degna

Esser tu non ne possa; il frutto gusta

E sii fra' Dei Diva tu ancor: la terra,

No, tuo confin non sia: qual dato è a noi,

Per gli eterei sentier tu pur ti leva,

Ascendi al ciel, com'è tuo merto, e vedi

Qual vita colassù vivon gli Dei,

E quella vivi. In così dir, dappresso

Ei mi si fece e presentommi parte

Del frutto ch'avea côlto; infino al labbro

Ei me lo sporse: quell'odor soave

Di tal vivo desìo tutta m'accese

Che del gustarlo (mi parea) non seppi

Più rattenermi. Sulle nubi a volo

Seco allor m'alzo immantenente, e stesa

Veggo sotto di me l'immensa terra,

Spettacol grande e vario! Io di sì strano

Mio cangiamento, di cotant'altezza

Ove mi trovo, attonita, confusa

Rimango; a un tratto la mia guida perdo,

E giù traboccar sembrami, ed in braccio

Cado del sonno. Or ch'io son desta, oh quanta

È la mia gioia in ritrovar che tutto

Fu vano sogno! - Eva sì disse, e mesto

Adam le rispondeva: - O di me stesso

Immagine miglior, metà più cara,

Tal sogno agitator del tuo riposo

Non minor turbamento in me pur desta;

Strano m'appar, non può piacermi, e temo

Che sia figlio del mal. Ma no: che dissi?

E d'onde il male? in te creata pura

Niun male albergar può. M'ascolta: in noi

Molte minori facoltà che serve

Sono della Ragion quasi reina,

Il Creatore ha posto, ed è primiera

La Fantasia fra queste: ella di quanto

Nei cinque si ritrae vigili sensi,

Imagini raccoglie, aeree forme

Che la Ragion dipoi congiunge o scevra,

Onde quanto da noi s'afferma o niega,

Quanto si crede o sa, l'origin prende.

Quando posa natura, in sua privata

Cella ricovra la Ragione, e allora

L'imitatrice Fantasia sovente

A contraffarla destasi, ma insieme

Le antiche e nuove idee mal accoppiando,

Vane chimere crea, prodigi e mostri.

Di quanto noi nella trascorsa sera

Insiem parlammo, in questo sogno parmi

Le simiglianze rintracciar, ma invero

Molto di strano evvi commisto ancora.

Non t'attristar però: chè i rei pensieri

Possono per le umane e dive menti

Riprovati passar, nè macchia o biasmo

Lasciarsi dietro: quel che tu dormendo

Abborristi sognar, non mai, lo spero,

Non mai tu desta acconsentir vorrai

Di porre in opra. Dal tuo sen sbandisci

Quindi ogni tema, ed ogni nube sgombra

Da que' begli occhi che sereni e lieti

Esser solean più del mattin che spunta,

Ed alla terra e al ciel sorride. Or vieni;

Torniamo all'opra, fra i boschetti, i fonti

E i freschi fior che dall'aperto seno

Or t'offrono i più rari eletti odori,

Di cui fer serbo nella notte. - Adamo

Così conforta la leggiadra sposa

Che si rincora, è ver, ma due vezzose

Lagrimette cader lascia dagli occhi

Tacitamente e le rasciuga tosto

Co' bei capelli: altre due care stille

Che tremolanti le pendean dal ciglio,

A suggere co' baci ei tosto corse,

Quai d'un cor puro grazïosi segni,

Di bel rimorso e pio terror sublime,

Così rasserenati il core e 'l volto

S'inviano entrambi al prato, e dell'ombroso

Arboreo tetto sulla soglia in pria

L'aurora e 'l sole ammirano che sopra

La fiammante quadriga, ancor a mezzo

Nell'onde immersa i rugiadosi rai

Vibrava a fior della terrestre faccia,

E tutta l'ampia orïental pianura

Di quel terren felice in vaga mostra

Presentava allo sguardo. Indi, sul suolo

Genuflessi ed umìli, al gran Fattore

L'usato lor di mattutine preci

E laudi offron tributo in vario stile;

Stil, che senz'arte, immeditato e caldo

Sol de' voti del cor, pronto discorre

Dalle lor labbra, or in faconda prosa,

Or in sonanti armonïosi carmi,

E non ha d'uopo di leùto o d'arpa

Che gli accresca dolcezza. O grande, o eccelso,

O fonte d'ogni bene, eterno Padre,

(Eglino incominciaro) opre son queste

Tutte della tua destra, è tuo lavoro

Questa dell'universo immensa mole

Mirabilmente bella. Oh! quanto dunque

Più mirabil di lei sarai tu stesso,

Tu sommo, tu ineffabile che siedi

Tant'oltre a quelle sfere ove non giunge

Il nostro infermo sguardo, e solo in queste

Opre tue di quaggiù, quasi per nebbia,

Trasparir lasci testimone un raggio

Della suprema tua possa e bontade

Ch'ogni confine, ogni pensier sorpassa!

Di lui parlate, o voi figlie di luce,

Voi, che meglio il potete, alate schiere

D'eterei Spirti, a cui mirarlo è dato,

Voi che lassù nel sempiterno giorno

Gli alzate attorno al solio in lieto coro

Inni di gioia e cantici d'amore.

Unitevi, del cielo e della terra,

Voi, creature tutte, e lui cantate

D'ogni cosa principio e centro e fine.

E tu dell'altre più lucente e vaga

Stella che chiudi l'aureo stuol di tante

Notturne faci e alla ridente aurora

Di luminoso cerchio il crin coroni,

Esaltalo in tua sfera or che rinasce

Questo lieto del dì tenero albòre.

O sol, che l'alma insieme e l'occhio sei

Di questo vasto mondo, umile adora

Lui che i raggi ti diede, e lui confessa

Tuo Fattor, tuo Signor: di sua grandezza

Quella ch'ei t'assegnò carriera eterna

Suoni ovunque le glorie e quando spunti,

E quando in mezzo al ciel t'ergi sublime,

E quando in seno all'océan t'ascondi.

Luna, che incontro al sol nascente or vai,

Ed or ten scosti colle fisse stelle,

Fisse nel lor veloce orbe rotante;

E voi, cinque altri erranti astri sereni,

Che non senz'armonia movete intorno

Mistica danza, risonar le lodi

Fate di lui che l'aurea luce fuori

Chiamò dal sen della profonda notte.

Aria, elementi, voi che prima prole

Foste della natura, e nel perenne

Vostro giro moltiplice mescete

Tutto e nudrite, a lui gli omaggi ancora

Nel cangiar vostro rinnovate sempre.

E voi, nebbie e vapor, che grigi e foschi

Dai monti uscite e dai fumanti laghi

Finchè i villosi margini dipinti

Non v'ha con l'oro de' suoi raggi il sole,

Voi pur rendete al sommo Fabro onore;

E mentre il ciel di multiformi nubi

V'alzate ad abbellir, mentre, disciolti

In fresche piogge, gli assetati campi

Scendete ad irrigare a lui porgete

Nel sorger, nel cader le vostre lodi.

Voi, venti, a cui dell'aere il vasto impero

Egli divise, or ne' soavi fiati,

Or nei gagliardi, il santo nome sempre

Risonate di lui. D'ossequio in segno

Piegate le ondeggianti altere cime,

O cedri, o pini: e voi, fontane, e voi,

Limpidi mormorevoli ruscelli,

Nel vostro dolce gorgogliar perenne

Ripetete sue glorie. O tutte voi,

Alme viventi, a celebrarlo unite

Le vostre voci; e voi, canori augelli,

Che il vol stendete alle celesti porte,

Sulle vostr'ali e ne' cocenti vostri

Per ogni spiaggia ite a portarne il nome,

Voi che guizzate in mar, voi che la terra

Strisciate umíli o passeggiate alteri,

Fatemi fè se nel mattin, se a sera

D'iterar le sue lodi io cesso mai

Ai monti ed alle valli, ai boschi e all'acque

Che ripeterle meco omai pur sanno.

Salve, o Signor del tutto. A noi deh! sempre

Sii largo de' tuoi beni: e se la notte

Celato avesse e intorno a noi raccolto

Alcun danno, alcun mal, com'or dilegua

L'ombre il sorgente dì, tu lo disperdi.

Così pregâr quegl'innocenti, e in core

Tosto rinacque lor l'usata calma:

Al campestre lavoro s'affrettan quindi

Fra dolci rugiadette e freschi fiori,

E dove piene di soverchio umore

Stendon le piante e gli arboscelli i troppo

Vaganti rami ad infecondi amplessi,

Volgon la mano emendatrice, o all'olmo

Sposan la vite che lo cinge intorno

Colle nubili braccia ed i soavi

Biondi grappoli suoi gli reca in dote,

Ond'ei s'adorna le frondose chiome.

In tai cure occupati, il Re del cielo

Con pietà li riguarda; indi a sè chiama

Rafaello, gentile, affabil Spirto,

Quel desso ch'a Tobia si fe' compagno

E con securo nodo unillo a Sara,

Vergine insieme e vedova di sette

Nel dì delle lor nozze estinti sposi.

- Già udisti, Rafael (l'Eterno disse),

Che, fuggito d'Averno, il fier Satáno

Pel tenebroso golfo in sulla terra

Alfin è giunto, e in questa notte stessa

Nel mezzo al Paradiso insidie e danni

Contro quella tramò coppia innocente;

E sai che in lei l'umana stirpe tutta

Perder a un tempo il perfido disegna.

Va dunque, e con Adam, qual suole amico

Con altro amico, in compagnia trapassa

Di questo giorno la metà là dove

Fuggendo del meriggio i caldi rai

Egli ricovra al rezzo, e si ristora

Col cibo o col riposo. A lui favella

Del ben che gode; i ricevuti doni

Tu gli rammenta, e che riposta è in lui,

Nel suo voler la sua felice sorte;

Che il suo voler libero è appieno, e quindi

Anco esposto a cangiarsi; ond'ei, fidando

Troppo in se stesso, dal diritto calle

L'orme non torca. Il suo periglio infine

Non gli tacer, nè chi lo trama; digli

Qual inimico, che testè dal cielo

Cacciato fu, va macchinando come

Altri con seco in simile ruina

Da un lieto stato simile pur tragga,

Per forza no (chè fia da me respinta),

Ma per menzogna e inganno. Ei questo sappia

Onde, se poscia volontario egli erra,

In sua discolpa d'arrecar non pensi,

Che fu sorpreso e inavvertito cadde. -

Sì Dio parlò, sì di giustizia tutte

Compiè le parti. Le ordinate cose

Udite appena il messaggier, dal loco

Dov'ei tra mille ardor celesti e mille

Velato stava di stellanti vanni,

Ratto e leggier spiccasi a vol: per tutto

Ripartite le angeliche falangi.

L'empirea via gli disgombraro: ei giugne

Alla porta del ciel, che per sè stessa

Sovra i cardini d'ôr rapida gira

E innanzi a lui spalancasi; con tanto

Magistero formolla il Fabro eterno!

Colà non astro si frappone o nube

Alla sua vista, ed il terrestre globo,

Per quanto picciol sia, discerne a tanti

Lucenti globi non disforme, e in esso

Coronato di cedri alto levarsi

Il bel giardin di Dio sovra ogni monte.

Del gran Tosco così gl'industri vetri

Mostran, ma certe men, le terre e i mari

Nell'orbe della luna; e tal su i piani

Liquidi dell'Egéo scorge il nocchiero

Delo o Samo apparir qual nebulosa

Lontana macchia. Indi all'ingiù si lancia

L'Angel con volo rapido le vaste

Onde äeree fendendo, e mondi e mondi

Lasciasi addietro. Or colle ferme penne

Striscia librato su i polari venti,

Or del cedevol etra i campi sferza

Col veloce remeggio. Alfin là giunto

Dove sulle robuste ali s'innalza

L'aquila altera, alle pennute torme

Sembrar potea quel rinascente e solo

Arabo augel, quando a locar nel tempio

Luminoso del sol gli avanzi suoi

Vola all'egizia Tebe. In sulla balza

Orïental del paradiso calasi

L'Angelo, ed in sua forma ivi si mostra.

Vela ed ammanta le celesti membra

Triplice coppia d'ali: esce la prima

Dall'ampie spalle e gli ricopre il petto

Con regal fregio d'ostro e d'oro: a' fianchi

Gli forma l'altra una stellata fascia

Di molle aurea lanugine che splende

Di superni color: sporge la terza

D'ambo i talloni, e d'un'eterea azzurra

Grana dipinta con piumosa maglia

I piè gli adombra. Al favoloso figlio

Di Maia ei stette somigliante, e scosse

Le penne ch'esalaro un'ampia intorno

Celestïal fragranza. Ogni drappello

Degli Angeli che a guardia eran là posti,

Tosto lo riconobbe, e al grado, all'alto

Messaggio suo (chè apportator lo avvisa

Di qualche alto messaggio) in piè si leva

Di riverenza in segno. Egli trapassa

Le fulgide lor tende e 'l piede inoltra

Nel suol felice fra selvette amene

Un odor soavissimo spiranti

Di balsamo, di nardo e cassia e mirra;

Larga, profusa ridondanza d'ogni

Don della terra: chè ripiena e calda

Di vigoría, di spirti ivi Natura

Libere e sciolte d'ogni legge e modo

Sue giovinette fantasie dispiega,

Ed è nel suo disordine più bella.

Venir per l'odorifera foresta

Da lunge il vide Adam, che stava assiso

Sulla soglia del suo fresco boschetto,

Mentre a scaldare il più riposto grembo

Della terra già il sole alto vibrava

Dritti i suoi raggi, e più gagliardi e vivi

Che Adam non avea d'uopo. Eva nel fondo

Pel loro pranzo saporose frutta

Apprestando sen gìa sull'ora usata,

A sano gusto ed a verace voglia

Soavi frutta che non fan men dolci

Le nettaree bevande a lor frammiste

Di grappoli, di bacche e latteo rivo.

Adam la chiama e dice: - Eva, t'affretta,

Vieni, vedi colà vêr l'Orïente

Qual degno de' tuoi sguardi illustre oggetto

Fra quelle piante inverso noi s'avanza.

Ei sembra un'altra scintillante aurora

Che sul meriggio sorga: un qualche Grande

Ci arreca, s'io non erro, ordin del cielo,

E forse in questo dì vuol farci degni

D'esser ospite nostro. Or vanne tosto,

Arreca fuor quanto riposto serbi

Ed abbondanza spargi, onde s'onori

Il sublime stranier. Noi ben possiamo

Lor doni ai donator rendere in parte,

E largamente dar quel che concesso

N'è così largamente. Il suo fecondo

Sen qui schiude Natura, e quanto i suoi

Tesor più spande, vie più ricca e bella

Mostrasi, e largità così c'insegna.

O Adamo (Eva risponde), o eletta parte

Di sacra terra, in cui spirò l'Eterno

Il soffio animatore, aver non giova

Qui molto in serbo, u' di mature frutta

Sempre da' rami sì gran copia pende.

Io sol quelle riposi, a cui più grata

E ferma polpa aggiugne il tempo e toglie

Il soperchio d'umor. Ma ratta or vado

E da ogni pianta ed arbuscello io voglio

Tal'eletta raccor d'ogni più vago,

Più saporoso e succulento pomo

Ch'oggi in mirar tanta ricchezza il grande

Nostr'ospite confessi aver Iddio

Sparse qui sulla terra al par che in cielo

Le grazie sue. - Così dicendo, il guardo

Volge intorno sollecito e sen parte;

E tutta intenta alle ospitali cure,

Va fra sè divisando a qual s'appigli

Scelta ed ordin migliore onde non sieno

Mal misti e mal graditi i sapor varj,

Ma più soave e dilicato all'uno

L'altro succeda. Diligente scorre

Per mezzo a tante piante, e ciò che l'alma

Terra, feconda madre, entro le rive

D'ambe l'Indie produce, o là nel Ponto,

O sul punico lido, o dove un giorno

Alcinöo regnò, tutto crescente

In quel ricco giardin, ella raduna,

Frutta d'ogni maniera, in liscia e molle,

In scabra e dura scorza, e tutto quindi

Con larga mano in sulla mensa ammonta.

Uve odorate spreme e bacche elette,

E bevande ne tempera e prepara

Di soave sapore; un almo latte

Dalle mandorle elice, e pure tazze

Non le mancano all'uopo; indi la terra

Sparge di rose e di squisiti odori

Tolti a' freschi arboscelli. Intanto il nostro

Primo gran padre ad incontrar se n'esce

L'ospite suo divin, nè d'altro è cinto

Che de' sommi suoi pregi: in lui medesmo

La sua grandezza è tutta, assai diversa

Dal vano fasto che circonda i regi,

Quando di palafreni e servil turba

Il gran corteggio oro-listato abbaglia

Lo stolto vulgo e a bocca aperta il tiene.

Senza timore alcun, ma pieno a un tempo

Di riverenza, all'Angelo s'appressa

Il primo padre, e, qual si debbe ad alma,

Superïor natura, a lui s'inchina

Profondamente in dolce aspetto e dice:

- Celeste abitator (chè sol dal cielo

Ponno venir sì nobili sembianze),

Poichè lasciar quelle beate sedi

Ti sei degnato e onorar queste, i tuoi

Favori ah! compi ancor; con noi che soli

Qui siamo e in don dal Creatore avemmo

Questo largo terren, piacciati, assiso

Di quel boschetto alla fresc'ombra lieta,

Prender riposo e insiem gustar di quanto

Più scelto a noi questo giardin comparte,

Finchè dechini il sole e non sì vivi

Spanda i suoi rai. - Sì, qui perciò ne venni

(Amorevole e dolce a lui risponde

L'Angelo allora), e tal creato, Adamo,

Non fosti tu, nè tal soggiorno è questo

Che possano i Celesti avere a sdegno

Di visitarvi spesso. Or sotto l'ombre

Del tuo boschetto andiamne pur, chè fino

All'imbrunir del dì teco mi lice

E giova dimorar. - Così dicendo,

Nella silvestre loggia entrâr che tutta,

Qual di Pomona pingesi l'albergo,

Ridea vestita d'olezzanti fiori.

Ignuda e sol di sè medesma adorna,

Amabilmente grazïosa e vaga

Più che silvestre ninfa e più di quella

Favoleggiata Dea che in Ida vinse

Le altre due di beltade e 'l pomo ottenne,

Eva ad accôr l'ospite suo celeste

In piè tosto levossi; uopo di velo

Non ha; virtù la copre, e le sue gote

Pensier non è che di rossore asperga.

- Ave (le disse Rafael, divino

Saluto ch'assai dopo udì pur anco

Maria, riparatrice Eva seconda),

Ave, o gran madre dell'uman lignaggio,

Del cui fecondo grembo uscir dee prole

Più numerosa mille volte e mille

Delle soavi frutta onde sì carca

Han questa mensa gli arbori di Dio. -

Sorgea d'erbose zolle il largo desco

Cinto all'intorno di muscosi seggi,

E sovr'esso raccolta era d'autunno

Ogni dovizia, ancor che là perenni

Il ricco autunno e la stagion de' fiori

Si tengano per man. Parlando in pria

Si stetter essi alquanto, e 'l primo nostro

Padre sì cominciò: - Stranier celeste,

Deh! questi doni di gustar ti piaccia.

Quegli da cui discende ogni perfetto,

Ogn'infinito ben, fuor della terra

Per alimento e per diletto nostro

Sorger li fe': delle celesti essenze

Son forse cibo insipido; ma questo

Soltanto io so che comun padre a tutti

È quei che li dispensa. Ingrato cibo

(L'Angelo a lui risponde) esser non puote

A puro Spirto quel ch'all'uomo, in parte

Incorporeo pur anche, ei diede in dono,

Ei le cui lodi sien cantate sempre.

Il tuo corpo ebbe un'alma, e i nostri spirti

Fur di sensi dotati; e se l'uom pensa

Ed intende e ragiona e tanto s'erge

Sull'incarco terren, l'Angelo ancora

Scende a nudirsi. Ei vista e udito e tatto

E gusto ha pur, siccome l'altro, e volge

In sua propria sustanza il preso cibo,

Quel ch'è corporeo in incorporeo: e sappi

Che quanto fu creato ha d'uopo ancora

Di sostegno e riparo. Il guardo gira

Sugli elementi: dal men puro sempre

Il più puro è nudrito; il mar riceve

L'onde sue dalla terra, e terra e mare

Nudriscon l'aere, e l'äer nutre quindi

Gli eterei fuochi, di cui splende il cielo,

E pria la bassa luna, ond'è che impressi

Quei foschi segni nel suo volto stanno,

Non purgati vapori e non ancora

Conversi in sua sostanza. In simil guisa

Dall'umido suo grembo anco la luna

Agli alti globi il nodrimento invia,

E 'l sol che luce all'Universo imparte,

Riceve anch'esso d'umorosi esali

Da tutte l'altre sfere ampia mercede

E a lunghi sorsi l'oceán si bee.

Ambrosie frutta a noi gli arbor di vita

Ministrano lassuso e néttar puro

L'uve celesti: d'ogni ramo e fronda,

Allor che sorge a noi la nostra aurora,

Stillan melliflui sughi, e il suol si copre

Di rugiada e di manna ignote in terra:

Pur qui sì varïati i doni suoi

Ha l'alto Creator che a quei superni

Non disconviensi il compararli, ed io

Non sarò schivo dal gustarne. A mensa

In così dir s'assise, e insiem con loro

Entrò del pranzo a parte. Eva leggiadra

D'almi liquori coronava intanto

I ridondanti calici odorosi

E ministrava ignuda. Oh del bel loco

Degna innocenza! Ah! se terreno oggetto

Destar potesse nei celesti petti

Foco amoroso, di perdono allora

Fatti gli avrìa tanta bellezza degni;

Ma un purissimo amor dei divi Spirti

Sol è la fiamma; ed era all'uomo ignota

Gelosa cura allor, che poi divenne

De' tristi amanti un infernal martiro.

Avean co' cibi soddisfatta omai,

Non gravata natura, allor che in seno

(Così destro veggendo il tempo e il loco)

Surse ad Adamo di saper desìo

Le oltramondane cose e aver contezza

Di lor che il cielo han per soggiorno, e tanto

In grado e 'n possa egli innalzati vede

Sopra di sè, di lor cui tanta parte

Fe' di sua luce Iddio. Quindi la voce

All'empireo ministro ei così volge

Accorta e rispettosa: - Oh! qual bontade,

Tu che col gran Fattore insieme alberghi,

Oggi hai mostro ver me! D'entrar ti piacque

Sotto quest'umil tetto e gradir queste,

Benchè indegne di te, terrestri frutta,

Al par di que' celesti almi conviti:

Pur qual fra loro è paragone! - Un solo

(L'Angel rispose) onnipossente Nume

E, fu, fia sempre, da cui scende il tutto,

E, se vizio nol guasta, a lui ritorna.

Tutte perfette uscîr da lui le cose,

Ed una in pria fu la materia tutta

Che tante poscia e sì diverse forme

Ebbe e sì varj di sostanza gradi,

Varj gradi di vita in ciò che vive.

Ma più affinata e spiritale e pura,

Quanto a Dio più s'accosta o a Dio più tende,

È ciascheduna cosa entro quel giro

Che assegnato le fu. Per ordin lungo

E ad ogni specie misurato aspira

A farsi spirto il corpo. Esce più lieve

Così da sua radice il verde stelo;

Indi più tenui spuntano le frondi,

Su cui più dilicato il fior s'innesta

E dolci olezzi spande, e i frutti poscia,

Fatti cibo dell'uomo, a gradi a gradi

Della vita, dell'alma e della mente

Servono e di ragion gli uffici vari;

Doppia ragion che, argomentando, il vero

Lenta rintraccia, o con un sol veloce

Lucido sguardo lo contempla e scerne.

Propria è dell'uom la prima, a noi concessa

Più spesso è la seconda, e vario è il grado

Lor, non la specie. Non stupirti adunque

Se quel che Dio per voi buono discerse

Io non rifiuto, ma, qual voi, lo volgo

In mia propria sustanza. Un giorno forse

Simili a noi voi pur sarete, e i nostri

Più lievi cibi a vostra essenza allora

Non si disconverran. Cangiati in spirti

Col rivolger degli anni anco saranno

I vostri corpi forse, e allor, qual noi,

Sovr'ali snelle per l'eteree piagge

Aggirarvi potrete, e a grado vostro

Qui far soggiorno o negli empirei campi.

Di meritar quella più lieta sorte

Or sia vostro pensier, sommessi, fidi,

Nell'amore immutabili del sommo

Vostro padre e signore; e tutto intanto

Il ben godete del presente stato,

Non capaci di più. Cortese Spirto

(A lui risponde Adamo), ospite amico,

Di qual puro splendor le nostre menti

Irradii col tuo dir! Come dal centro

Alla circonferenza hai tutto mostro

L'ordine di natura, onde per gradi,

In contemplando le create cose,

S'ascende al Creator! Ma perchè mai

Que' ricordi d'amarlo e quegli avvisi

D'obbedirlo aggiungesti? Ah! dimmi, e come

Mancar giammai d'ubbidïenza e amore

Potremmo verso lui che fuor del limo

Ci trasse e qui nel maggior colmo pose

Di ciò che uman desìo può chieder mai?

- Figlio del cielo e della terra (a lui

L'Angel rispose), ascolta: a Dio tu devi

La tua felicità: da te dipende

Il serbarla però. Fisso nell'alma

L'alto suo cenno ognor ti stia: riposta

È in ciò tua sorte, e a ciò mirò l'avviso

Che or or ti diedi. Ei ti creò perfetto,

Immutabil non già; buono ei ti fece,

Ma durar tale, in tua balìa lasciollo.

Libero per natura è il tuo volere

Nè di necessità sente o di fato

Freno o giogo veruno: Iddio richiede

Spontanei, non costretti i nostri omaggi,

Nè grati in altra guisa esser gli ponno.

E come un cor da fatal forza spinto

Dar prova indubitabile potrìa

D'obbedïenza e amor, se a lui non resta

Del contrario la scelta? Io stesso e meco

Tutta insiem l'oste angelica esultante

Presso al trono di Dio, quel ben supremo

Per merto sol d'obbedïenza e fede

Serbammo già, siccome il vostro a voi

Sol per tal mezzo or di serbare è dato.

D'amarlo e di servirlo un dì noi pure

O di lasciarlo appien liberi fummo,

E l'esser buoni o rei fu nostra scelta.

Quindi di noi gran parte a lui ribelle,

Non ha molto, si fece e fu dal cielo

Spinta nell'imo inferno. Ahi! da qual somma

Felicitade in qual orrendo abisso

Di sempiterna pena! - I detti tuoi,

Mio divino maestro (Adam risponde),

Di diletto maggior l'orecchie e 'l core

M'empion che nella notte i dolci canti

De' Cherubini a questi colli intorno.

Io ben sapea che il voler nostro e l'opre

Fece libere Iddio, ma pur in mente

Sempre mi stette e sta fermo il pensiero

Che del nostro Fattor scordar l'amore,

Scordar la nostra obbedïenza mai,

No, non potremo, e quel sì giusto e solo

Comando ch'ei ci fe'. Ma quanto in cielo

Pur or dicesti che addivenne, un qualche

Dubbio in me desta e maggior brama ancora

D'udirne raccontar l'istoria tutta,

Ove a te non incresca. Ella esser dee

Al certo strana e di profonda e sacra

Attenzïon ben degna. Ancor gran parte

Riman del dì: chè una metà pur ora

Di suo viaggio ha il sol fornita, e l'altra

Nel gran cerchio del ciel comincia appunto. -

Egli sì prega; Rafael consente

A sua dimanda, e dopo breve posa

Così comincia: - Luttuosa, acerba,

Difficil storia a raccontar m'inviti,

O degli uomini padre. Ai sensi umani

Come possibil fia pinger le gesta

D'Angeli guerreggianti, e senz'affanno

Di tanti spirti glorïosi un tempo

Narrar la miserabile ruina?

D'un altro mondo disvelar gli arcani

Concesso mi sarà? Ma sì: per tuo

Frutto ciò lice. Or tu la mente innalza,

Ch'io quel che i sensi tuoi troppo sorpassa,

Come fia meglio, cercherò ritrarti

Sotto corporee forme. Ombra ed imago

È la terra del cielo, e più di quello

Che forse credi, all'un l'altra somiglia.

Dalle tenebre antiche emerso ancora

Questo mondo non era, e dove or ruota

Il ciel stellante, ove la terra posa

Sul proprio centro equilibrata, il torbo

Caosse infigurabile regnava,

Quand'un giorno (chè il tempo in grembo ancora

A eternità, d'ogni durabil cosa,

Se il moto insiem supponi, è la misura),

Un giorno, qual lassù lo adduce il grande

Anno celeste, dai confini estremi

Di tutto il ciel, l'angelic'oste tutta

Per cenno dell'Eterno innanzi al trono

Si raccolse di lui: fulgide schiere

Senza fin, senza numero. Ben cento

E cento mila luminose insegne

Ondeggiando per l'aere, i varj gradi

Segnan, gli ordini varj e i varj duci;

O riccamente nel lor grembo inteste

Portan di santo amor, d'ardente zelo

Alte memorie. Allor che tutti in mille

E mille giri d'un'ampiezza immensa,

Cerchio entro cerchio, stettero, l'eterno

Padre, al cui fianco d'egual gioia in seno

Sedeva il Figlio, in mezzo a lor, dal monte

Che fiamme esala e 'l vertice sublime

Tra fulgóre ineffabile nasconde,

Così parlò: - Figli di luce, o Troni,

Principati, Virtù, Scettri, Possanze.

Angeli tutti, il mio decreto udite,

Il mio decreto irrevocabil. Oggi

Io generai Quei che dichiaro il mio

Unico Figlio; oggi il sacrai su questa

Santa montagna, e alla mia destra assiso

Ora il mirate: io lo destino vostro

Duce, e giurato ho pel mio nume stesso

Che ogni ginocchio in cielo a lui s'inchini,

Ch'egli tenga mie veci, e il riconosca

Suo signore ciascun. Tutti congiunti

In pace eterna ed in eterna gioia

Sotto una stessa indivisibil legge

Voi tutti siete. Me medesmo oltraggia

Chi lui disubbidisce, e lunge spinto

Dalla beante visïon divina

Nel buio esterïor quel giorno ei fia,

Nei golfi delle tenebre più cupi,

A gemer senza fine e senza speme,

Della giusta ira mia vittima eterna. -

Così parlò l'Onnipossente, e i suoi

Detti con lieto plauso ognun accolse,

Ma ognun non fu ne' plausi suoi sincero.

Tutto si spese al sacro monte intorno

Quel memorabil dì, qual è costume

Spender i più solenni, in canti e in danze,

Mistiche danze ai regolati errori

Rassomiglianti dell'eteree sfere

Mosse con ordin certo e stabil legge,

Che in lor diverse ed intrecciate e sempre

Pur medesime rote un sì soave

Destan concento che l'orecchia stessa

Di Dio n'ascolta con diletto il suono.

Già la sera appressava (abbiam noi pure

Sera e mattino a far più vario e vago

Del ciel l'aspetto), e tutti insiem dai lieti

Balli a solenne splendido convito

Ci rivolgemmo: ad ogni cerchio intorno

Fur le mense imbandite e colme a un tratto

Delle angeliche dapi; in coppe d'oro

Di perla e d'adamante il néttar scorre

Delizïoso in liquidi rubini,

Singolar frutto del celeste suolo.

Coronati di fior, su i fior distesi

Beviam vita immortal, gioia ed amore

In dolce fratellanza. Eccesso alcuno

Esser non può lassù, ma sol la piena

Misura del piacere; e a larga mano

Versando le sue grazie il Re del cielo

Gode al nostro goder. Già dal divino

Monte, onde alterna esce la luce e l'ombra,

S'alza la notte in vaporoso velo,

Che con dolce imbrunir tempra soltanto

Quell'immenso splendor, nè mai più scura

Ella sorge lassù. Già tutti i lumi

(Tranne quelli di Dio che veglian sempre),

Una rosea rugiada, alma, soave,

Al sonno invita. Sopra il largo piano,

Più largo assai che non saria di questo

Terrestre globo l'appianata massa

(Tai son gli atrj di Dio!), lunghesso i vivi

Ruscei che irrigan gli arbori di vita,

Si distendon le angeliche falangi

In varj campi, in ordin vago: sorge

Di padiglioni e tende immensa fila

In un momento, ove del sonno in braccio

Al molle susurrar di fresche aurette

S'abbandona ciascun: veglian soltanto

Quei che in loro vicenda intorno al soglio

Alternano di Dio la intera notte

Inni melodïosi. Era pur desto,

Ma non così, Satán (con questo nome

Or tu l'appella, chè il suo primo in cielo

Perdè per sempre). Tra i più grandi Spirti

Onorato lassù, se non il primo,

Ei sedeva in favore, in grado e 'n possa:

Pur gonfio il cor d'un cieco invido orgoglio

Contro il Figlio di Dio, quando dal sommo

Suo padre il vide a tanta gloria alzato.

Credè scema sua luce, e quella vista

Tollerar non potéo. Covando in seno

Quindi il dispetto e i suoi disegni iniqui,

A mezzo il corso della notte, allora

Ch'è più del sonno e del silenzio amica,

Indi sloggiar con le sue schiere tutte

Egli dispose, e dell'Eterno il trono

Privo lasciar di riverenza e onore.

Il primier dopo sè dal sonno ei scuote

E sì gli parla con sommessa voce:

- Dolce compagno, ah, dormi tu? Qual sonno

Ti può chiuder le ciglia? E non rimembri

Quel decreto che ier da' labbri uscìo

Di chi può tutto in cielo? I tuoi pensieri

Tu aprire a me solevi e aprirti i miei

Tutti soleva io pure: un'alma sola

Noi vegliando eravamo, e sì diversi

Or siam? Tranquillo tu riposi, ed io

Veglio nel duol! Quai nuove leggi a noi

Imposte sien, tu 'l vedi; e nuove leggi

Ponno in chi serve ancor nuovi pensieri

E nuovi suscitar consigli e inchieste

Sull'incerto avvenire. In questo loco

Più dir non è sicuro. I primi Capi

Di nostre immense schiere or tu raduna,

E annunzia lor che per divin comando.

Pria che la notte il nubiloso velo

Abbia raccolto, io con spediti vanni

Al nativo Aquilon deggio affrettarmi

Con ogni mio drappel: di' lor ch'io debbo

Apparecchiar colà gli onor dovuti

Al gran Messìa, nostro Sovran novello,

E ricever suoi cenni, e ch'egli a tutte

Le legïoni in trionfante aspetto

Tosto mostrarsi e dettar leggi intende.

Così parlò l'iniquo e 'l suo veleno

Nell'improvvido petto all'altro infuse,

Che incontanente e molti insieme appella

O ad un ad uno i varj Capi, e intíma,

Come Satán l'ammaestrò, che il grande

Gerarchico stendardo indi esser mosso

Dee per sovrano impero anzi che splenda

Il nuovo dì; la suggerita causa

Soggiunge, ambigui motti ad arte sparge

E semi di livore, onde lor fede

Quanta sia scorga, o la corrompa. Alcuno

Non osò dubitar; tutti fur pronti

Il segno usato e l'ordine supremo

Del lor duce a seguir; sì grande in cielo

Era il suo nome e 'l grado, e tanto impero

Avea su lor quel suo raggiante aspetto

Simile all'astro del mattin che guida

Dell'altre stelle il coro! Ei così trasse

La terza parte dell'empiree squadre

Sull'orme sue. Ma l'occhio eterno intanto

Dal sacro monte suo, di mezzo al giro,

Dell'auree lampe a lui d'intorno ardenti,

Senza lo cui splendore il tutto vede

E nel più cupo de' pensier s'interna,

Scoppiar la rea sedizïosa fiamma

Avea già scorto e che tra i figli stesa

S'era già del mattino, e quali e quante

Turbe sorgeano al suo voler rubelli:

E all'unico suo Figlio in dolce aspetto

Così favella: - O Figlio, eterno erede

Di tutto il mio poter, Figlio in cui piena

Tutta la luce di mia gloria splende,

Or ogni dubbio dileguar si dee

Di nostra onnipotenza, e quai sien l'armi

Che illesi qui terran per sempre i nostri

D'impero e deità diritti eterni,

Mostrare a tutto il ciel. Tu 'l vedi, un empio

Nemico è insorto che per tutto il vasto

Aquilonar paese alzar disegna

Suo trono al nostro egual; nè di ciò pago,

Qual sia nostra ragione e nostra possa

Vuol pugnando provar. Contro l'audace

Or noi volgiam quanti ci restan fidi,

E senza indugio il santuario nostro,

La gloria, i dritti e questo monte sacro

Si difenda e assecuri. - Ei tacque, e 'l Figlio

Con placido sembiante, onde partìa

Un vivo inesplicabile fulgóre,

Così rispose: - I tuoi nemici a scherno,

Lor vane trame e lor consigli stolti

Ben a ragion tu prendi, eccelso Padre;

Ma l'odio lor più luminosa e bella

Farà mia gloria e quel regale impero

Che tu mi desti, ond'io confonda e atterri

Un così folle orgoglio; e ben l'evento

Proverallo a quegli empj. - Ei disse. Intanto

Molto lontano in sulle rapid'ali

Il perfido Satáno era trascorso

Colle sue schiere; innumerabil oste,

Quai gli astri della notte o quai dell'alba

Le rugiadose stille rilucenti

A' rai del sol sopr'ogni fronda e fiore.

Vaste provincie, regïoni immense

Che Serafini, e Podestadi e Troni

In lor triplici gradi hanno in governo,

Quell'iniquo varcò; contrade, a cui

Se paragoni questa terra intera,

È assai minore, o Adam, che il tuo giardino

Appo la terra stessa e 'l mare, in vasto

E lungo pian dal globo lor distesi.

D'Aquilon ne' confini ei giunge alfine

Ed al suo regio albergo. In arduo giogo,

Simile a monte sovrapposto a monte,

Folgoreggiava coll'eccelse moli

Di torri e di piramidi che tratte

Furon da rocce d'adamante e d'oro,

Il gran palagio di Satán (con questo

Nome soltanto in tuo linguaggio io posso

Chiamar quella struttura). Ei, che l'Eterno

In tutto ambiva d'emular, quel loco,

Del monte a guisa ove del cielo in faccia

Fu Messia coronato il divin Figlio,

Volle nomar dell'Adunanza il monte,

Dacchè colà tutti raccolti i suoi

Ebbe con sue menzogne. Ivi s'arresta

Il traditore e avviluppando il vero

Così lor parla: - O Prenci, o Regi, o Troni,

O Possanze, o Virtù (se omai non sono

Un vôto suon questi pomposi nomi),

Per supremo decreto un signor nuovo,

Ch'è a voi già noto, ed unto re s'appella,

In sè riduce ogni potere e troppo

La nostra gloria oscura in ver. Per lui

Or qui, solo per lui, con ratti passi

V'ho tratti in questa notte e insiem raccolti,

E qui d'udire il vostro avviso io chieggo

Con quali onor fia meglio e con qual pompa

Novella ancor quest'altro Sir che viene

Le nostre a rimirar ginocchia inchine

Or per la prima volta... Omaggio indegno!

Vil bassamento! Assai non era ed anzi

Troppo non era il tributarlo ad uno,

Ch'ora a due lo dovremo, a lui dovremlo

Ed all'imagin sua? soffrir cotanto

Come si può? Ma se miglior consiglio

Le nostre menti ergesse, e questo giogo

Scuoter, spezzar alfin... Voi dunque il collo

Curvar scegliete? le ginocchia a terra

Riverenti piegar? No, s'io m'affido

Di conoscervi bene, o se appien voi

Conoscete voi stessi: in ciel nascemmo

Figli del ciel che innanzi a noi niun tenne

In suo dominio, e se non tutti eguali

Siam qui, siam non perciò liberi tutti,

E liberi del par; chè ordini e gradi

Non pugnan già con libertà, ma insieme

Ben si confan. Con qual ragione alzarsi

Altri può dunque in assoluto Sire

Sopra color che a lui son pari in dritto

E pari in libertà, sebbene in possa

E in altezza di grado a lui minori?

Perchè impor leggi a chi, da leggi sciolto,

Pur mai non lascia il retto calle? E il Figlio,

Il Figlio ancor, l'imagin sua, da noi

Or culto avrà, fia Signor nostro, ad onta

Di quegli eccelsi titoli che segno

D'impero son, non di servaggio, e i nostri

Ci rammentan pur sempre alti destini?

Così parlava quel superbo, e muti

Tutti l'udîr fin qui, quando levossi

Dal suo seggio Abdïel, di cui null'altro

Più venerava dell'Eterno i cenni

E n'era pronto esecutore. Ei tutto

Di zelo avvampa, e con severo aspetto

Così di quel furor l'impeto affronta:

- Oh falsi, audaci, scellerati detti!

Oh bestemmie che in cielo orecchia alcuna

Non mai s'attese d'ascoltar! E meno

Da te, ingrato, da te che tanto fosti

Sopra i tuoi pari sollevato! E l'empio

Tuo labbro quel giustissimo decreto

Osò biasmar di Dio che regio scettro

Ha dato al Figlio, e vuol che a lui s'inchini,

Come a sovran legittimo signore

Ogni ginocchio in ciel? Tu chiami ingiusto

Che un egual su gli eguali abbia l'impero,

E dritti alleghi e libertà discuti:

Ma chi se' tu ch'osi impor leggi a Dio,

A quel Dio che ti fe' quello che sei,

A quel Dio che creò tutte del cielo,

Come a lui piacque, le Possanze, e certi

Confini a lor prescrisse? A noi per prova

Palese è pur quanto benigno, e quanto

Del nostro ben, del nostro onor geloso

Sempre egli sia, quanto a scemarli avverso.

Ed or che sotto un capo insieme stretti

Ci vuol egli vie più, forse non mira

Il nostro ad innalzar felice stato?

Ma ingiusto siasi pur che un egual regni

Sopra gli eguali suoi, vorresti adunque

Tu te medesmo, ancor che illustre e grande,

O tutto ancora de' celesti Spirti

L'unito merto a quell'eccelso Figlio

Agguagliar dunque? al Figlio suo, per cui,

Come per Verbo, egli creò le cose

Tutte e te stesso e queste immense schiere

Di tanta luce incoronate, Troni,

Principati, Virtù, Scettri e Possanze?

No, questo nuovo regno un raggio solo

Non toglie a noi dell'alta gloria nostra,

Ch'anzi più chiara splende or ch'Ei diviene,

Benchè Signor, del nostro numer uno.

Son nostre leggi le sue leggi, e tutto

L'onor ch'a lui si rende, a noi ritorna.

Cessa dall'empio tuo furor; rimanti

Dal tentar gli altri, e l'adirato Padre

A placar vola e l'adirato Figlio,

Finchè concesso d'ottener perdono

T'è forse il tempo. - Fervido parlava

Abdïello così, ma niun seconda

Il zelo suo, che intempestivo e strano

A tutti sembra. Di ciò lieto allora

E altero più che mai, Satán soggiunge:

- Creati adunque fummo, e 'l Padre al Figlio

Diè di crearci incarco? Oh nuova invero

Pellegrina scoverta! e dond'hai questa

Dottrina, di', questi segreti appreso?

Chi mai dal nulla escir le cose vide?

Rammenti tu quell'ora, in cui da prima

Il tuo Fattor vita ti diè? Rammenti

Il tempo in cui non eri, o allor chi fosse?

Per propria forza animatrice noi,

Quando un corso fatal tutto compiuto

Ebbe 'l suo giro, per noi stessi al lume

Della vita sorgemmo eterei figli

Di questo natìo ciel parto maturo.

Da noi ci vien la nostra possa, e tosto

Saprà mostrare il nostro braccio a prova

Chi sia qui Signor nostro o nostro eguale.

Vedrai, vedrai se supplici d'intorno

Per impetrar mercè verremo al soglio

Di quel tiranno o a rovesciarlo: arreca

All'unto re tai nuove, e fuggi prima

Che al tuo fuggir la via si tronchi. - Ei disse,

E per quell'oste immensa un rauco e sordo

Mormorar, pari al suon d'acque profonde,

D'applausi echeggia a' detti suoi: non meno

Impavido perciò l'eroe celeste,

Ancor che cinto di nemici e solo,

Fiero risponde: - Oh Spirto a Dio ribelle,

Oh da Dio maledetto, oh d'ogni bene

Orbo rimaso Spirto! Omai secura

La tua ruina io scorgo, e questa, avvolta

Nella tua fraude, sventurata ciurma,

Come del nero tuo misfatto, a parte

Entrar vegg'io di tua terribil pena.

Non affannarti, no, come tu possa

Di Dio sottrarti al giogo: omai sì dolci

Leggi non son per te: per te ben altro

È uscito irrevocabile decreto

Dal labbro suo: quell'aureo scettro, a cui

Ricusasti obbedire, in ferrea verga

A sfracellar la tua cervice altera

Converso è già: bene avvertisti; io lascio,

Ma non pel tuo consiglio o per le vane

Minacce tue, quest'empie tende omai

All'esterminio condannare: io fuggo

Perchè la provocata ira superna

Qui non divampi in subitana fiamma

E m'avvolga con voi. Sì, già sul capo

Della tremenda folgore ti veggo

Scoppiar il foco vorator: bentosto

Saprai qual man ti fe' nel sentir quella

Che ti distrugge. - L'inclito Abdïello

Così parlò, solo fedel fra tante

Infide innumerabili caterve.

Non atterrito, non sedotto, immoto

La prima lealtà, l'amor, lo zelo

Ei sol mantenne, e dal verace calle

Nè l'esempio, nè 'l numero un sol passo

Storlo, potè. Di que' ribelli in mezzo

Per lunga strada egli trapassa, e tutte

Lor grida ed onte con tranquillo e fermo

Volto sostien: sol col dispregio a tanta

Furia risponde, e a quelle torri altere,

Già vicine a sentir l'orrendo peso

Del divino furor, volge le spalle.


LIBRO SESTO

 

Rafaelo prosegue a narrare come Michele e Gabriello furono spediti contro Satáno e gli Angeli seguaci di lui. Satáno col suo esercito si ritira nella notte: raduna un Consiglio: è inventore di macchine infernali che nella battaglia successiva mettono in qualche disordine l’esercito di Michele; ma finalmente gli Angeli fedeli, sotto le montagne da essi svelte e lanciate, opprimono le macchine di Satáno. Sempre più cresce il tumulto; onde l’Eterno spedisce nel terzo giorno il Figlio, a cui l’onore della vittoria era riserbato. Questi si reca sul campo di battaglia rivestito della paterna possanza, e vietando alle sue regioni di fare verun movimento, col suo occhio e col suo fulmine in mano si avventa in mezzo a’ nemici che sono di repente rovesciati, e gl’insegue fino al muro del cielo che da per sé si spalanca. I ribelli sono precipitati nel fondo dell’abisso dalla divina giustizia a loro preparato. Il Messia trionfante ritorna la Padre.

 

 

 


Tutta notte del ciel gl'immensi campi,

Senza che alcun l'insegna, a vol trascorre

L'intrepido Abdïello infin che l'alba,

Desta dall'ore circolanti, schiude

Con rosea mano all'almo dì le porte.

Nel divin monte e al divin soglio appresso,

S'apre con doppio varco un vasto speco,

D'onde con un perpetuo alterno giro

La luce o l'ombra uscendo, or con notturna

Or con dïurna imagine più vago

Rendono il cielo. Esce d'un lato il lume,

E tosto obbdïente entra per l'altro

L'oscurità fin che il momento arrivi

Di stendere il suo velo; onde la notte

Si fa lassù che a tramontante giorno

Sarìa quaggiù simíle: e già, qual suole,

Nel più eccelso del ciel sorgea l'Aurora

D'oro empireo vestita, e a lei davante

Si dileguava da' novelli raggi

Saettata la notte, allor che tutto

D'ordinati squadron, d'armi, di carri

E di celesti ignei corsier s'offerse

Dell'Angelo agli sguardi il vasto piano

Gremito, ricoverto, e fiamme e lampi

Lungi riverberante. Ei guerra vede,

Guerra imminente, e noto già quant'egli

Credea recar per nuova: all'oste amica

Lieto si mesce che fra sè con lungo

Ed alto plauso universal lo accoglie,

Come quell'un che non perduto riede

D'infra tanti perduti. Al sacro monte

Il guidan tosto e al sommo seggio innanzi,

Ove dal sen d'un'aurea nube questa

Voce soave risonò: - Ben festi,

Servo di Dio; della più dura prova

Trionfatore uscisti, incontro a tanto

Popol ribelle sostenendo invitto

Tu sol del Vero la ragion, tu solo

Più ch'esso in armi, ne' tuoi detti forte

Tu d'un'immensa moltitudin rea

L'onte e gli scherni a tollerar più duri

Che la forza medesima non fora,

Magnanimo affrontasti, e fu tua sola

Cura agli occhi di Dio serbarti integro.

Più agevole vittoria or ti rimane;

Da queste circondato amiche schiere

Là, con più gloria che non fu lo scorno

Nel partirne, ritorna, e chi per legge

Aver non volle la ragione, i miei

Giusti decreti e per sovrano il Figlio

Ch'ebbe per dritto de' suoi merti il regno,

Sia con la forza domo. O de' miei prodi

Prence, Michele, e tu ch'a lui sì presso

Stai per valore, o Gabrïel, di questi

Miei figli le invincibili coorti

Alla pugna guidate, incontro all'empie

Turbe un numero egual de' miei s'affronti

Angeli innumerevoli: col ferro

E con le fiamme intrepidi assalite

L'iniqua ciurma, e fin del ciel sull'orlo

Non cessate inseguirla: in bando eterno

Lungi da me nel Tartaro sia spinta,

Che a divorarla già l'avide gole

Spalanca e gli affocati immensi abissi.

Così parlò quell'alta voce, e il monte

Cominciò tutto d'improvvise nubi

Ad oscurarsi e tra fumose ruote

D'ora in ora a mandar vampe e baleni,

Di svegliato furor tremendo segno.

Nè spaventosi men dall'alta cima

I feri accenti dell'eterea tromba

Rintonaron repente. In quadra, densa,

Irresistibil, taciturna massa

Tosto s'avanzan le falangi al suono

Di bellica armonìa che loro in petto

Sparge un eroico ardor, sotto i raggianti

Lor duci che di numi hanno sembianza,

Di numi armati a sostener del nume

La causa e del Messìa. Non monte opposto,

Non stretta valle o bosco o fiume arresta

Il corso lor, nulla scompone il saldo

Indissolubil ordine; che i vasti

Fendeano empirei campi alto dal suolo,

E le lor sosteneva orme leggiere

L'aere soggetto. In ordinate file

Dinanzi a te le aligere caterve

Qui s'affrettâr così, quando lor desti

I varj nomi. Spazïosi regni,

Smisurate provincie, onde sol fora

Quest'umil terra un breve tratto, indietro

Il campo si lasciò. Verso Aquilone

Sull'orizzonte più remoto alfine

Vasta pianura ecco apparir che sembra

In aspetto guerrier da un margo all'altro

Una continua fiamma, e più d'appresso

Presenta al guardo un folto orrido bosco

Di dardi e d'aste; innumerabili elmi,

E scudi innumerabili, dipinti

Di pompose divise. Era Satáno

E gli empj suoi che furïosi all'armi

Eran già corsi, ed occupar di Dio

Credean per forza o per sorpresa il monte

Quel giorno stesso, e sul supremo soglio

Quell'invido locar fellon superbo.

Vani, stolti disegni, a mezzo il corso

Frastornati, dispersi! A quell'aspetto

Dubbio pensier da pria ci scosse. - Ah! dunque

Il cielo incontro al cielo, Angeli incontro

Angeli affronteransi? Essi che, figli

D'un sol gran padre, tante volte e tante

Furon compagni alle medesme feste

D'amor, di gioia, ed intuonaro insieme

Inni all'Eterno? - Entro il suo cor ciascuno

Di noi così dicea, quando di guerra

Il ruinoso suon troncò repente

Ogni dolce pensiero. Alto nel mezzo,

Su cocchio rifulgente a par del sole,

Il disertor del ciel, bugiarda imago

Di contraffata maestà divina,

Satán da lungi apparve intorno cinto

Di fiammeggianti Cherubin che schermo

D'aurei scudi gli fean: dal soglio eccelso

Ei balza quindi al suol: chè breve omai

E tremendo intervallo una dall'altra

De' campi dividea l'orride fronti

(Sterminata ordinanza!), e a lunghi passi,

Superbamente torreggiando, innanzi

Alle prime sue schiere ecco s'inoltra,

Tutto coperto d'adamante e d'oro,

Sull'orlo della pugna. A quell'aspetto

Freme Abdïello di magnanim'ira,

Abdïel che infiammato a illustri imprese

Tra i più prodi guerrier là stava, e seco

Così ragiona: - Oh cielo! e tanta ancora

Riman divina imago ove più fede

E lealtà non è? Perchè la possa

Colla virtù non manca, e 'l più superbo

Non diviene il più fiacco? In vista ei sembra

Invincibile, è ver; pur io, fidando

Nel tuo soccorso, onnipossente Dio,

Affronterollo, e d'atterrarlo ho speme

Al par di sue ragion fallaci e vane.

Sì, giusto è ben che vincitor nell'armi

Anco sia quei che insuperabil stette

Campion del Vero; e se vil guerra infame

Move la forza alla ragion, ben dritto

È che forza maggior la forza abbatta.

Sì parlando fra sè, fuor dell'armato

Suo stuol si slancia e 'l fier nemico, acceso

Di maggior rabbia a tal baldanza, affronta

E 'l rampogna così: - Scontrato alfine

Tu sei, fellon superbo? Era tua speme

Giugner senza contrasto all'alta meta

De' tuoi disegni rei? trovar pensasti

Pel terror di tua possa o per la forza

Di tua lingua deserto il divin soglio,

Il soglio di quel Dio ch'osti infinite

Trae con un cenno dalla polve fuora,

Di lui che stende il solitario braccio

Di là d'ogni confino, e con un lieve

Suo tocco, ei sol, te annichilar con quante

Schiere hai d'intorno, e giù nel buio eterno

Sommergere ti può? Ciascuno, il vedi,

Non seguì tuoi drappelli; ha Dio tuttora

Per sè qualche fedel: cieco a te cieco

Io parvi allor che a te, che a tanti iniqui

Oppormi osai: solo or non sono, e chiaro

Scorgi, ma tardi, che talor sol uno

Segue il dritto sentier, mentr'erran mille.

- Mal per te (disdegnoso a lui risponde

E torvo il gran nemico) il primo giungi,

Primo ti cerca la vendetta mia,

E primo avrai la tua mercè. Cotanta

Audacia tua che nel Senato augusto,

Ove raccolta stavasi la terza

Parte de' numi, ad innalzar ti spinse

Sedizïose voci, il braccio mio

Primiera sentirà. Niuno è fra questi

Che, mentre in cor l'eterea fiamma e 'l divo

Valor si sente, riconoscer voglia

Onnipotente alcuno. Alto desìo

Di gloria inver, ma periglioso troppo,

Ti spinge innanzi agli altri, e grato assai

Fiami il mostrar in te qual sia la sorte

Che lor sovrasta. Un qualche istante io solo

Sospenderolla, onde non sia tuo vanto

Il mio tacere. Odimi dunque: a Spirti

Celesti io mi pensai che fosse il cielo

E libertade una medesma cosa;

Ma veggo or ben che di torpore ingombro

Il numero maggior, tra feste e canti

Sol uso, ama il servir. Tai son le vili

Tue torme di cantori, imbelli schiavi,

Ch'osan servaggio a libertade opporre,

E tai quest'oggi il paragon dell'armi

Li mostrerà. - D'uno in un altro errore

(Torvo Abdïel soggiunge) ognor t'avvolgi,

Ribelle spirto, e poichè 'l dritto calle

Abbandonasti, anco avvolgendo sempre

T'andrai vie più. Dov'è il servaggio allora

Che quanto vuol natura e Dio s'adempie,

E sì sublime è di chi regna il merto?

Qual paragon fra noi, fra Dio? Chi saggio,

Chi buon, chi degno, chi possente al paro

Esser puote di lui? Ben quegli è schiavo

Che uno stolto signore a te simile

Scêrsi potè, che di servir sofferse

Un ribelle, un fellon: così codeste

Torme servono a te, così lo schiavo

Di te stesso tu sei, tu ch'osi audace

Il glorïoso ministero nostro

Rinfacciarci empiamente: a te dovuto

Regno è l'inferno, e là tra ferri aspetta

Il guiderdon di tua perfidia: in cielo

Eternamente io servirò l'Eterno,

Fedele e pronto osservator de' suoi

Giustissimi comandi. Abbiti intanto

Quell'omaggio che merti. - Ei dice, e sopra

Il superbo cimier ratto gli avventa

Con gran tempesta un colpo. Occhio o pensiero

Prevenir non potea, non che lo scudo

Tanta ruina. Barcollando indietro

Ben dieci lunghi passi andò Satáno,

Piegò i ginocchi alfin, ma si sostenne

Sulla sua lancia smisurata. Un monte

Così talor la ringorgata possa

D'acque o gl'irati sotterranei venti

Dal suo sito trabalzano e con tutti

I pini suoi l'affondan mezzo. Un alto

Stupor assalse le ribelli squadre

E rabbia anco maggior, veggendo a un tratto

Il lor più prode a terra: un lieto grido

Con fausto augurio alzano i nostri, e un fero

Di battaglia desìo gl'infiamma. Allora

Michele impon che della mischia il segno

Dia la gran tuba. Ne rimbomba tutta

Del ciel l'ampiezza, ed il celeste Osanna

Le fide schiere intuonano. Non stette

L'oste nemica a bada, e al fero scontro

Non men fera scagliossi. Or procellosa

Furia s'innalza e non più udito in cielo

Fragore immenso, universal: le urtate

Armi rendon discorde orribil suono,

E metton fiamme e folgori le ruote

Degli enei carri; d'infocati dardi

Fischia per l'aere un così denso nembo

Che quasi sotto ad ignea vôlta copre

L'un'oste e l'altra; di terribil mugghio

Lungi rintrona il cielo, e se allor v'era

La terra, tutta si sarìa la terra

Scossa dall'imo centro. In te stupore

Non desteran miei detti, o Adam, se pensi

Che d'ambo i lati milïoni insieme

D'Angeli s'affrontaro, onde sol uno

E 'l minimo di lor, brandito avrebbe

Questi elementi ed agguagliato tutta

La forza di lor masse. Or qual dovea

Dei due campi infiniti esser la possa

E l'urto immensurabile, bastante

Tutto a crollar dalle sue sedi il cielo,

Se quei che tutto può, certi confini

Alle lor forze non ponea? Là sembra

Un numeroso esercito ogni schiera,

E ad una schiera rassomiglia in forza

Ciascuna destra. A valoroso duce

È pari ogni guerrier, ciascun sa quando

Avanzarsi o star dee, quando lo sforzo

Della pugna girar, quando le file,

Fieri solchi di guerra, a chiuder s'hanno,

Quando ad aprir: niun di ritratta o fuga

Pensier, niun atto ignobile: ciascuno

Fida in se stesso, e nel suo braccio solo

Par che riposta la vittoria estimi.

Degne d'eterna fama illustri imprese

Ed infinite han loco; ampia si sparge

La zuffa e varia; or sullo stabil suolo

Fermano il piede, or sul vigor dell'ali

Ergonsi l'aria a tempestar che sembra

Tutta di foco un procelloso campo.

Dubbia per lungo tempo in lance eguale

La battaglia pendè, quando Satáno

Che valor portentoso avea dimostro

Tutto quel giorno e niuno a sè nell'armi

Trovato egual, colà s'avviene alfine

Ove dei Serafin più densa e fera

Arde la mischia, e di Michel la spada

Scorge che intere squadre a un colpo miete.

Alto brandito ad ambe man con lena

Immensa discendea l'orribil ferro

Sterminator. Ratto colà Satáno

S'affretta ad impedir tanta ruina,

E 'l suo scudo di decuplo adamante

V'oppon, rotonda, vasta, alpestre mole.

Al suo venir l'Arcangelo possente

Rattiene il braccio distruttore: ei spera

Che, sottomesso e strascinato in ceppi

Il duce de' ribelli, avrà pur fine

Quell'intestina guerra, e torvo il ciglio,

Acceso il volto, a dirgli prende: - Iniquo

Autor del male, del mal che nome ignoto

Fu sempre in cielo e v'infierisce or tanto

Con quest'acerba abbominevol lutta,

Di cui pur debbe alfine a te sul capo

Ed a' seguaci tuoi cadere il danno,

Ah! com'hai tu di quest'eterna pace

Il bel seren turbato ed a natura

Gittati in sen col tuo delitto i primi

Germi d'ogni miseria! ahi come in tanti

Già puri e fidi, or traditori e felli

Stillasti il tuo velen? Ma non pensarti

Di turbar qui l'almo riposo: il cielo,

Che di letizia è sede, opre non soffre

Di vïolenza e guerra, e in bando eterno

Da sè ti scaccia: vanne, e teco mena

Il male, empia tua prole; entro i suoi golfi

Te colla ciurma tua l'inferno attende.

Il tuo furor laggiuso e le tue trame

Traggi con te, laggiù t'affretta innanzi

Che questa spada ad eseguire imprenda

La tua condanna, o pria che l'ali impenni

L'ira divina e colaggiù t'avventi

Con pena assai maggior. - Tu pensi (bieco

Gli risponde Satán) col vano fiato

Di tue minacce atterrir lui che ancora

Non potesti coll'opre? Il men gagliardo

Hai tu de' miei per anco in fuga spinto,

O abbattuto così che tosto invitto

Non risorgesse? E or me più agevol stimi

Piegar co' detti imperïosi e quinci

Scacciarmi colla voce? Ah folle! questa

Che tu di fellonia chiamare ardisci,

E noi chiamiam di gloria alta contesa,

Così non finirà. Coll'armi in pugno

O qui trionferemo, o queste sedi

Noi cangeremo in quel medesmo inferno,

Di che tu cianci, liberi pur sempre

Se regnar non possiam. Tue forze estreme

Or tu raduna, e quelle insiem di lui

Che chiami onnipossente, anco v'aggiungi;

Non fuggo io, no, chè da lung'ora in cerca

Di te mi raggirai. - Dissero, e pronti

Eccoli al gran cimento. Or qual potrebbe

Lingua, benchè celeste, i fatti eccelsi

De' due campioni raccontare? e quale

Poss'io quaggiù fra le terrene cose

Paragon ritrovar che a tanta altezza

Di divino valor sollevi ed erga

L'umano imaginar? chè ben di numi

Hanno sembianza alla statura, all'armi,

Se movono, se stanno, atti del cielo

A decider l'impero. Or l'ignee spade

Ruotano e in fulminosi orrendi cerchi

Squarciano l'aere: due gran soli opposti

Sembran gli ardenti scudi. Orror, stupore

Le schiere ingombra, che repente indietro

Si fan, lasciando ai due guerrier sovrani,

La 've più folta era la mischia, un largo

Campo nel mezzo. Anco è periglio l'aura,

Che fischia e rugge ai colpi lor. Men grande

Fora l'urto e 'l fragor, se, di natura

L'ordin sconvolto e fra i celesti globi

Insorta guerra, furïosi incontro

L'uno dell'altro si scagliasser due

Astri nemici in mezzo al cielo e insieme

Confondesser le sfere. Ecco ad un punto

Ciascun di loro il poderoso braccio

Che sol dal divin braccio è vinto in forza,

Alza e tal colpo libra, onde per sempre

La gran contesa alfin decisa resti,

Era egual la destrezza, egual la possa;

Ma il brando che a Michel lo stesso Dio

Diè di sua mano, e dalla rocca avea

Dell'armi sue già tolto, è di tal tempra

Che al suo terribil filo acuta o salda

cosa non regge. Di Satán la spada

Che d'alto scende ruïnosa, a mezzo

L'aer esso incontra e ratto in due la parte;

Nè s'arresta Michel, ma con veloce

Giro al nemico d'un rovescio fende

Profondamente il destro lato. Allora

Satán da pria sentì 'l dolore, e tutto

Si contorse e fremè: sì fero e crudo

Gli aprì le membra quel superno acciaro!

Ma la sostanza eterea, a lungo mai

Non divisibil, con stupendo e pronto

Ricorrimento ammarginossi. Un rio

Di nettareo sgorgò sangue celeste

Dalla gran piaga fuor, qual dai superni

Spirti uscir puote, e il già sì terso arnese

Tutto gli tinse. D'ogni lato a un tratto

In suo soccorso e in sua difesa molti

Volâr de' suoi più forti, e su gli scudi

Altri al suo carro il riportaro intanto

Fuor della pugna. Ivi il posâr ringhiante

D'atroce rabbia, di dolor e d'onta,

Chè scorge aver chi lo pareggia, e doma

Sente cotanto quell'audace speme

D'agguagliarsi all'Eterno. Ei riede tosto

Sano però qual pria: chè all'uom simìli

Non son gli spirti già, ma vigor pari

Hanno di vita in ogni parte, e solo

Distrutti appien, ponno morir. Somiglia

La lor testura al fluido aere leggiero

Che scisso appena, è riunito: in essi

Tutto spira, ode, vede e sente e pensa,

E a grado loro or dense forme or rare

Prendon, vario color, vario sembiante,

Varia statura. Non men degne intanto

D'eterna fama luminose imprese

Han loco in altro lato ove il possente

Gabrïele combatte, e 'l denso stuolo

Del feroce Molocco urta e rovescia

Innanzi a' suoi stendardi. In suon d'orgoglio

Vantava questi strascinar avvinto

Del suo carro alle ruote il pio guerriero,

E contro il Santo Unico in ciel dal negro

Labbro scagliava empie bestemmie, allora

Che d'un subito colpo infino al cinto

Rimase fesso, e con squarciato usbergo

E fieri urli fuggì. Sull'una e l'altra

Ala Urïele e Rafaello in fuga

Spinsero i lor nemici Adramelecco

Ed Asmodéo, benchè membruti ed alti

E armati d'uno scoglio d'adamante,

Due Troni potentissimi e superbi

Ch'esser da men che numi aveano a sdegno;

Ma da ferite orribili squarciati

Per entro a piastra e maglia appreser tosto

Meno audaci pensier. Nè lento è altrove

A travagliar le ribellanti torme

Il valente Abdïel, chè stende al suolo

Con raddoppiati spaventosi colpi

Arïele, Arïocco, e quell'orrendo

Turbine Ramïel, da fero foco

Inceso ed arso. Or qui di mille e mille

Narrar le gesta ed eternare i nomi

Sulla terra potrei; ma quegli eletti

Spirti, contenti di lor fama in cielo,

D'umane lodi non si prendon cura;

E de' nemici lor, sebbene in possa

Meravigliosi ed in guerriere prove,

E di fama bramosi, il ciel per sempre

Ogni memoria cancellò da' suoi

Sacri volumi; onde nel nero obblìo

Si lascin senza nome. Allor che forza

È da giustizia e verità divisa,

Sol merta onta e disprezzo, ancor che aspiri

A gloria e cerchi coll'infamia fama:

Copra quegli empj alto silenzio eterno!

Dell'oste avversa i più famosi e forti

Già vinti e domi, ad ondeggiar comincia

L'intero campo loro, in molte parti

Percosso e rotto. Entra pertutto cieca

Confusïon, scompiglio; è sparto il suolo

Di fracassati arnesi; ignei spumanti

Corsieri e carri e condottieri insieme

Giaccion sossopra in spaventevol monte

Chi abbattuto non è, stanco s'arretra,

Spossato, trafelante; omai da freddo

Spavento presa e da languore oppressa

La maggior parte de' nemici, inetta

È alla difesa; in vergognosa fuga

Tutti già vanno. Del lor fallo in pena,

La tema ed il dolore, a cui suggetti

Non eran per l'innanzi, essi la prima

Volta or provaro. Tal non fu la sorte

Delle sciolte da colpa elette schiere:

In cubica falange intera e salda

Elleno s'avanzâr: delle lor armi

Egregia, impenetrabile è la tempra

Instancabile il braccio, e benchè smosse

Per la forza talor d'urto possente

Sien dal lor posto, pur sicure e immuni

Son da ferite e duol: grazia sovrana

Che alla lor fedeltade Iddio concede.

Alfin la notte ripigliando il corso

Pel fosco ciel, tregua e silenzio impone

Al fero suon dell'armi, ed ambo accoglie

Sotto al suo manto il vincitore e 'l vinto.

Sul conteso terren co' prodi suoi

Accampossi Michele, e a guardia intorno

Folgoreggianti Cherubin dispose:

Ma d'altra parte sotto l'ombre intanto

Sparve Satán co' suoi ribelli, e lunge

Ad attendarsi andò. Di rabbia pieno,

Di riposo incapace, ei là raguna

A notturno consiglio i suoi più grandi,

E impavido fra lor così favella:

- Or sì conosco il valor vostro a prova,

Compagni amati, e la passata pugna

Non solo insuperabili, non solo

Degni di libertà, troppo per noi

Umile oggetto, ma d'onor, d'impero,

Di gloria e fama degni appien mostrovvi.

Voi quanto il re del cielo aveva intorno

Al trono suo di più possente, in questo

Dì sostenuto avete, e se il poteste

Intero un dì, voi nol potrete ancora

Eterni giorni? Egli credea bastanti

Quelle sue forze a soggiogarci; eppure

Nol furon esse. Ad ingannarsi è dunque

Colui soggetto che infallibil sempre

Noi stimammo finor. D'armi men salde

Coperti, è ver, provato abbiam pugnando

Qualche svantaggio, e il non sentito in pria

Dolor sofferto, ma sprezzarlo ancora

Tosto sapemmo. Or sì veggiam per prova

Che a mortal danno soggiacer non puote

La nostra empirea forma, e le divise

Membra innata virtù tosto risalda.

D'un così lieve male anco fia lieve

Il riparo trovare: armi più ferme,

Dardi più violenti, in novo scontro

O ci daran vittoria, o in lance eguale,

(Giacchè eguali in valor ci fe' natura)

Terran sospeso della guerra il fato.

S'altra ascosa cagion rese migliore

L'ostil fortuna, mentre ancor serbiamo

Tutto il vigor di nostre menti illeso,

Or qui s'indaghi, ed il comun consiglio

Là ci discopra. - Ei siede, e in piè Nisroco

Tosto si leva, fra que' Prenci il primo.

Egli, dal crudo agon scampato appena,

Smagliata, infranta ha l'armatura, e tutto

Rabbuffato, affannato e fosco in vista

Così risponde: - O de' diritti nostri

Sostenitor magnanimo, o possente

Nostro liberator, sì, troppo è dura

Anco per numi e diseguale impresa

Pugnar con armi diseguali, e contro

Chi non ligio al dolor scaglia il dolore

Insiem coi colpi, ed ogni danno quindi,

Ogni nostra ruina uopo è che nasca.

Che mai giova il valor, che mai la possa,

Ancorchè senza pari, incontro ai crudi

Assalti di quell'aspro orribil senso

Ch'ogni più forte braccio abbatte e snerva?

Star privi del piacer ben si può forse

E la vita passar contenta e queta

In calma placidissima profonda;

Ma de' mali il peggior, miseria estrema

È il cruccio del dolor, che, giunto al colmo,

Rovescia ogni costanza. Or se avvi alcuno

Che inventar sappia con qual forza ed arte

Agl'inimici nostri intatti ancora

Possiam recare offesa o armarci almeno

Di schermo egual, nostra salvezza e quanto

Gli si convien per sì gran merto a dritto,

Noi gli dovrem. - Con grave ciglio a lui

Satáno allor: - Quel che all'impresa estimi

Tu di tanto momento, io qui l'arreco

Già divisato. Al rilucente aspetto

Di questo spazïoso etereo suolo

Tutto così di vaghe piante adorno,

D'ambrosj fiori e frutti e gemme ed oro,

Chi di noi volge un guardo e insiem non scorge

Che di quanto quassuso appar di fuore

Ei serbar dee gli occulti semi in grembo?

Sì, nell'ime sue viscere covando

Di spiritosa ignea natura stanno

Scure e crude materie in fin che tocche

Da' rai celesti e sviluppate e scosse

Rompan l'alta prigione e varie e vaghe

S'aprano al chiaro dì. Queste dall'alte

Latebre lor d'infernal fiamma pregne,

Trarransi fuora; in fondo a vôti ordigni,

Lunghi, rotondi in pria compresse, e quindi

Con igneo tocco ad un spiraglio angusto

Repente accese, con tonante scoppio

Avventeran contro lo stuol nemico

Tai di ruina orribili strumenti

Che quanto opponsi, fracassato, sparso,

Sterminato saranne, e sbigottita

Crederà l'oste quel fulmineo telo

Al Tonante di man strappato alfine.

Breve fia l'opra, e innanzi al dì l'evento

Compierà nostre brame. Ogni timore

Sgombrate intanto e dell'usato ardire

Armate il cor. Quando consiglio e forza

Congiunti son, non che mancar di speme,

Piana stimar dovete ogn'ardua impresa.

Con questi detti i lor languenti spirti

E la cadente speme egli ravviva.

La gran scoperta ognuno ammira, ognuno

Rapita a sè la crede: agevol tanto

Suol apparir quel che, mentr'era ignoto,

E scuro ed arduo ed impossibil parve!

Forse avverrà nelle future etadi,

O Adam, se fia che il mal prevalga e inondi

Questa or sì bella e fortunata terra,

Forse avverrà che alcun de' figli tuoi,

Agli altrui danni inteso, o dall'inferno

Inspirato ed instrutto, anco una volta

Que' feri ordegni e la satanic'arte

Dalle tenebre tragga, un don fatale

Al guasto per le colpe uman lignaggio,

Oimè! ne faccia, e delle mutue stragi

Moltiplichi le vie! Repente all'opra

Volò ciascun, nè in argomenti e dubbi

Quel consesso trattenne; a un tratto pronte

Fur mani innumerabili, ad un tratto

Un ampio giro del celeste suolo

Volser sossopra, e in lor recessi oscuri

Gli alti primordj e le segrete fonti

Miraron di natura: ivi del foco

Gli alimenti trovaro, informi masse

Di nitro e zolfo che mischiate in pria,

Poi con arte sottil disposte e secche

In negri sceverâr minuti grani

E ne feron conserva. Altri le vene

Delle pietre cercaro e de' metalli

(Nè dissimili viscere ha la terra),

E ne formaro i cavi ordigni e i globi

Fulminei rovinosi: altri i ministri

Di ratta fiamma calami provvide,

E così pria del rinascente albòre,

Sotto la sola consapevol notte,

Cheti, guardinghi, inosservati il tutto

Apprestaro e compiero. Or quando in cielo

Il bel mattin sorgea, sursero anch'essi

Gli Angeli vincitori: il suon di guerra

Sparse la tromba, e di lor armi d'oro

Da capo a piè coverte, in un istante

Tutte ordinârsi le raggianti schiere;

E tosto alcuni lievemente armati

Dagli albeggianti colli andaro intorno

Ogni piaggia spiando, ove il nemico

Siasi accampato, se alla pugna riede,

Che fa, se move o stassi. Ecco ad un tratto

Indi non lungi le ondeggianti insegne

Ne scorgon essi; ei s'avanzava in lenta,

Ma forte e salda massa. Indietro allora

Sovr'ali rapidissime di foco

Rivola, Zofïel, fra tutti i messi

Quei ch'ha più ratta e infaticabil penna,

E in mezzo l'aere alto sì grida: - All'armi,

Guerrieri, all'armi; ecco il nemico, in fuga

Mal lo credemmo, ed inseguirlo in questo

Dì non dovrem: non paventate amici,

Ch'oggi ci sfugga; ei vien qual densa nube,

E un risoluto disperato ardire

Ha in volto: ognun l'adamantino usbergo

S'adatti bene, ognun l'elmo si calchi

In testa, e forte il tondo scudo imbracci;

E questo il dì, s'io ben raccolgo i segni,

Che lieve pioggia no, ma ruïnosa

Cadrà tempesta di fiammanti strali.

Ei così parla alle già pronte squadre,

Ch'alla battaglia d'ogn'impaccio sciolte

Mosser repente, nè di là lontano

Il nemico scoprîr che denso e vasto

S'inoltrava con gravi alteri passi

In cubica falange, e ad essa in mezzo

Dai profondi squadron coperte e ascose

Le infernali sue macchine traea.

Fermârsi alquanto uno dell'altro a fronte

I due campi nemici allor che fuori

Delle sue schiere si lanciò Satáno,

Ed alto gridò loro: - A destra e a manca

S'apran le file, e veggan tutti omai

Quei che ci odian così, che accordo e pace

Da noi sol vuolsi, e con aperte braccia

Pronti siamo ad accôrli, ov'essi il tergo

A noi non volgan disdegnosi e crudi:

Di ciò sto in forse: testimone il cielo

Ne sia però che quanto a noi s'aspetta

Tutto compiemmo: or voi ch'io già de' miei

Disegni instrussi, le proposte nostre

Fate udir loro in brevi accenti e forti.

Queste ambigue parole ei disse appena,

Ch'a destra e a manca aprendosi veloce

Di sue schiere la fronte ripiegossi

Sull'uno e l'altro fianco, e agli occhi nostri,

Spettacol novo e strano! a un tratto offerse

Di cavi bronzi triplicata fila,

Che su ruote girevoli distesi

E di quercia o d'abete a grossi tronchi

Abbattuti e rimondi in monte o in selva,

O a gran pilastri simili, vêr noi

Sporgean le minaccianti orride bocche.

Dietro ognun d'essi un Serafin si stava

Che un calamo scotea d'accesa punta,

E mentre noi ne' pensier nostri assorti

Stiamo e sospesi, ecco di lor ciascuno

A un picciol foro la sua canna appressa

Con lieve tocco. D'improvvisa vampa

Tutto arse il ciel, di vortici fumosi

Tutto ingombrossi; un fiero tuon muggìo

Dalle profonde vomitanti gole

Di quegli ordigni, che dell'aere tutte

Le viscere squarciò: di ferrei globi,

D'incatenate folgori ad un punto

Contro noi rapidissima s'avventa

Grandinosa tempesta: in piè restarsi

Niun potè a tanta furia, ancor che saldo

Stesse qual rupe; ma rinfusi a mille

E a mille i guerrier nostri uno sull'altro

Precipitaro in un momento, e l'armi

A quel disastro ebber gran parte. Ah! senza

Il grave ingombro loro, in spazio breve,

Come a natura spiritale è dato,

Ristringendosi a un tratto, o con obbliquo

Veloce slancio avríen schivar potuto

Tanta ruina. Or tra le fide schiere

Tutto è scompiglio, e attonito ciascuno

Più che farsi non sa; chè s'elle incontro

A' nemici si scagliano, già in atto

Sta d'avventar l'irresistibil nembo

De' fulmini secondi un'altra fila

Di Serafini. Inutile il coraggio,

Inutile il valor veggono i nostri,

Ma pur la fuga hanno in orror. Satáno

Trïonfator già credesi, già pari

Al Tonante, all'Eterno, e in detti amari

Li rampogna e deride. In ira accesi

Eglino di colà si tolgon ratti,

Gittano l'armi ed a' vicini monti

(Chè il cielo ancora offre di monti e valli

Il vario ameno aspetto, e a quell'imago

L'ebbe poi questo suol) corron veloci,

Volan quai lampi. Or qui l'estrema possa

Che negli Angeli suoi pose l'Eterno,

Ammira, o Adam! quelle montagne stesse

Afferran, scrollan, svellono dall'ime

Radici coi lor rivi e scogli e boschi;

Per l'irte cime abbrancanle ed in alto

Le brandiscon travolte. Assalse tutta

L'oste nemica uno stupore, un gelo,

Quando venirsi spaventoso incontro

Vide de' monti il rovesciato fondo,

E sotto il peso lor sepolti, oppresse

Restar gli ordigni suoi, le sue speranze;

Indi se stessa dalle masse enormi

Anco investita che piombavan d'alto

Per l'aria intenebrata, e mille a un tempo

Ricoprian di lor mole armate squadre.

Crebbero il danno le armature infrante,

Schiacciate e infitte in lor sostanza, ond'aspro

Duolo insoffribil nacque, un gemer cupo

Sotto quel carcer ponderoso, un lungo

Divincolarsi, uno strisciar di quegli

Spirti che prima alla più pura luce

Eran simíli, e di più grosse forme

Or il fallo vestì. L'esempio nostro

Seguono gli altri, e de' vicini colli

Squarciati e svelti s'armano; con fero

Urto e riurto a mezzo l'aere i monti

Cozzan coi monti, ed in terribil ombra,

Quasi sotterra, arde la pugna. È tanto

Il furore e 'l fragor, ch'ogn'altra guerra

Parebbe un gioco al paragon. Si mesce

Sullo scompiglio orribile scompiglio,

E tutto sparso di ruine il cielo

In ultimo conquasso ito sarebbe;

Ma il Padre onnipossente dal celeste

Penetrale, dov'ei securo siede

E la gran somma delle cose libra,

Previsto ben tanto tumulto avea

Ed il tutto permesso onde far pieno

L'alto proposto di mostrare al cielo

Dell'unto Figlio suo la gloria, e tutta

Palesar la sua possa in lui traslata

E vendicarlo appien. Quindi rivolto

Vêr lui che a lato gli sedea, sì disse:

- O fulgor di mia gloria, amato Figlio,

Nel cui sembiante l'invisibil mia

Divinità visibile si rende,

Esecutor de' miei decreti eterni,

Onnipotenza egual, passati omai

Due giorni son, quai li contiamo in cielo,

Che condusse Michel le mie falangi

A domar que' perversi. Atroce e dura

Fu la battaglia, qual dovea, fra tali

Nemici in lor balìa da me lasciati

E che uguali io creai. Degli uni il fallo

Tra loro, è ver, un disagguaglio ha posto,

Ma lento si parrìa, mentr'io sospendo

La gran condanna che sugli empj dee

Cadere un giorno, e troppo lunga fora

Così quest'aspra lutta. Omai tutt'ebbe

Il suo corso la guerra, e d'armi invece,

A' monti stessi ancor dato ha di piglio

Lo sfrenato furor che il ciel minaccia

Disfare omai. Due dì passaro, il terzo

È tuo, per te l'ho fisso, e fin qui tutto

Soffrii perchè sol tua la gloria fosse

Di trarre a fin guerra sì grande, e solo

Il potrai tu. Tanta virtude e tanta

Grazia io trasfusi in te che cielo e inferno

Conosceranno il tuo poter maggiore,

Siccome il mio; d'ogni confronto, e spenta

Questa rabida fiamma, unico e degno

Tu d'ogni cosa apparirai, qual merti,

Per la sacra unzïone, erede e rege.

Vanne perciò, nella paterna possa

Onnipotente, sul mio carro ascendi,

Guida le rote rapide crollanti

L'empirea mole, l'apparecchio tutto

Traggi di guerra fuor, trai l'arco e i tuoni,

Rivesti l'armi onnipossenti, il brando

Al fortissimo fianco appendi, incalza

Que' figli delle tenebre, da tutti

I confini del ciel nel più profondo

Baratro li sommergi, e a voglia loro

Laggiù il mio Nume e l'unto Re Messia

Imparino a sprezzar. - Disse, e sul Figlio

Tutta versò de' raggi suoi la piena,

E questi in volto tutto il Padre espresso

Mostrò ineffabilmente e a lui rispose:

- Padre e Signore de' celesti troni,

Primiero, Ottimo, Massimo, Santissimo,

Sempre esaltar mia gloria è per te dolce,

Per me la tua, qual debbo. È mio diletto

E vanto e gloria mia che tu dichiari,

Pago di me, tua volontade empiuta,

Di che beato io son. Scettro e possanza,

Tuoi doni, io lieto assumo, e ancor più lieto

Li deporrò, quando alla fine in tutti

Tu sarai tutto, io sarò in te per sempre,

E in me stesso del par tutti saranno

I diletti da te. Ma quei che abborri,

Abborro io pur non meno, e vestir posso,

Come la tua clemenza, il tuo terrore,

In tutto imagin tua. Cinto del sommo

Tuo potere io bentosto avrò dal cielo

Quegl'iniqui sbanditi e al fondo spinti

Del preparato a lor tetro soggiorno,

Alle catene tenebrose, al sempre

Immortal verme del pensier che osaro

Al giusto impero tuo, viva sorgente

D'ogni felicità, farsi ribelli.

Allora i Santi tuoi, lunge divisi

Da quegl'impuri, risonar faranno

Di sublimi alleluia il sacro monte,

Ed io primo fra lor. - Disse, inchinossi

Sopra il suo scettro, e dalla destra surse,

Dalla destra di gloria ov'ei sedea.

A rosseggiar la terza aurora in cielo

Già cominciava, ed ecco, in suon d'orrendo

Turbo, fuor balza rovinoso il carro

Della paterna Deità tra un folto

Scagliar di fiamme. Si raggiran mosse

Da interno spirto animator le ruote

L'une entro l'altre, ma ne reggon quattro

Forme di Cherubini il corso, e quattro

Ha ciaschedun meravigliose facce.

D'occhi, quasi di stelle, erano sparsi

Lor corpi ed ali; non men d'occhi piene

Le rote di berillo, e nel lor corso

Via via foco avventavano. S'incurva

Sopra il lor capo cristallina vôlta,

E di zaffiro un rilucente solio

Sorge sovr'essa, ove al più puro elettro

I varj suoi color l'iride mesce.

Coverto di tutt'armi il Figlio appare,

Ed il mistico arnese, opra celeste

In cui lampeggia manifesto il Vero

Per infusa virtù, si cinge al petto

E 'l carro ascende. La Vittoria a destra

Gli sta con aquilini agili vanni;

Pendongli l'arco e la faretra piena

Delle trisulche folgori sul fianco,

E di fumo, di vampe e di faville

Gli ruota e stride intorno orribil nembo.

In mezzo a innumerabili migliaia

Di Santi ei s'avanzò. Splendea da lungi

Il suo venir. Ben ventimila carri

(Già il numero io ne intesi) a destra e a manca

Schierati l'accompagnano; sublime

Su trono di zaffiro e sulle penne

De' Cherubini assiso, ei vien fendendo

Con immenso fulgóre i cristallini

Celesti campi. Scerserlo da prima

I suoi, che pieni d'esultanza e gioia

A un tratto fur, quando il gran segno in cielo,

Il suo drappel dagli Angeli portato,

Per l'aere balenò. Pronto Michele

Tutte riduce allor le sparse squadre

Sott'esso in un sol corpo. A sè davante

Il divino poter sgombra la via;

Torna ciascuno de' divelti monti

Alla sua sede; udîr sua voce, e tosto

Mossero obbedïenti: il ciel ripiglia

L'usato aspetto, e di novelli fiori

Ride sparsa ogni valle, ogni collina.

La sciagurata oste ribelle il vide,

Ma vie più s'ostinò; per nova pugna,

Stolta! raccolse le sue forze e speme

Prese dal disperar. Ah! rabbia tanta

In Spiriti celesti ebbe ricetto?

Ma quali meraviglie e quai prodigi

Quei pertinaci cor, quel cieco orgoglio

Potean piegar? La lor protervia a quanto

Più frangerla potea, si fe' più dura.

La vista di sua gloria in essi innaspra

Il dolore, il livor, e a tanta altezza

Pur agognando, a ricompor più feri

Si dan le squadre lor, per forza o frode

Fermi d'aver di Dio vittoria alfine,

O nell'estrema universal ruina

Cader ravvolti: di ritratta o fuga

Ogni pensier quindi han sbandito. Intanto

Alle fide coorti a destra e a manca

Il gran Figlio di Dio così favella:

- Statevi pur, d'Angeli e Santi o voi

Rifulgenti ordinanze, oggi dall'armi

Vi rimanete, de' suoi fidi accette

Furo all'Eterno le guerriere prove,

E il valore invincibile ch'ei dievvi,

Mostraste appien; ma ad altra man s'aspetta

Su quella ciurma rea scagliar la pena;

Egli medesmo il debbe, o il braccio solo

Ch'ei destinò vindice suo. Di questo

Giorno l'impresa, no, d'armate mani

Copia non chiede. Statevi, e mirate

Come di Dio per me sovra quest'empj

Si versi l'ira. Io fui, non voi, l'oggetto

De' lor dispregi, anzi del lor livore,

E tutta contro me lor rabbia han volta,

Perocchè il Padre, a cui del ciel la somma

Gloria appartiensi, la possanza e 'l regno,

A suo grado onorommi. Il lor gastigo

Ei quindi a me rimise, ei vuol che a prova

Vengan, com'è lor brama, e chi più forte

Di noi pugnando sia, scorgano alfine,

Od essi insieme, o contro loro io solo.

Tutto è per lor la forza; ogn'altro pregio

E chi in quello gli avanza, hanno in non cale;

Fuorchè di forza dunque altra contesa

Con essi aver non vo'. - Disse, e il sembiante

Di tal terror vestì, che alcun la vista

Non potè sostenerne, e furïoso

Su i nemici si spinse. A un punto i quattro

Cherubini spiegâr l'ampie stellate

Ali che fean congiunte orribil'ombra;

E col fragor di ruinoso fiume

O d'oste innumerabile, si mosse

Il fero carro. Contro gli empj, fosco

Qual notte, egli s'avventa; il fisso empiro

Tutto crollò sotto l'ardenti ruote,

Fuorchè il trono di Dio; già loro è sopra,

Già dieci mila folgori nel pugno

Stringe, innanzi gli manda, e, tra le folte

Schiere balzando, atroci spasmi infigge

Nell'alme scellerate. Ecco ciascuno

Di quegli audaci ogni coraggio e forza

Perduto ha già, lor cadono di mano

Le inutili armi: sopra scudi ed elmi

E d'elmo invan coperte teste ei passa

Di stramazzati Serafin possenti

E Troni che, qual schermo al suo furore,

Le divelte montagne allor bramaro

Aver pur anco addosso. In ogni parte

Fioccan non meno tempestosi i dardi

Dalla faccia quadruplice dei quattro

Tremendi occhiuti e dalle vive ruote

D'occhi infiniti anch'esse sparse. Tutti

Gli regge un solo spirto; ogni occhio spande

Su i maladetti orrido lume, e tale

Scocca foco feral che infermi, emunti

Tutti li lascia del vigor primiero,

Sbigottiti, sfiniti, oppressi e domi.

Pur la metà del suo poter non volle

Mostrare il vincitor, ma a mezzo il corso

L'empito di sue folgori rattenne;

Chè struggerli non già, ma sol dal cielo

Sterminarli disegna. Egli dal suolo

Gli abbattuti rïalza, e a sè davanti,

Qual affollata paurosa mandra,

Con furie e con terror gl'incalza e spinge

Agli estremi confini, al cristallino

Muro del ciel, ch'ampio si fende, indentro,

Si ripiega, s'attorce, e vêr gli abissi

Vasta disserra spaventevol gola.

A quella vista mostruosa indietro

Trassersi con orror, ma li rìpinse

Lo spavento maggior che aveano a tergo:

Dall'altezza del ciel giù capovolti

Gittansi, ed han l'ardente, eterno sdegno

Sempre alle spalle per l'immensa via.

L'insoffribil fragore udì l'inferno,

E vide il ciel precipitar dal cielo;

Tremonne tutto e ne fuggìa, se meno

Alto gittate il Fato avea le nere

Sue basi e meno saldamente avvinte.

Cadder per nove dì: mugghiò stordito

Il Caosse, e del suo sconvolto regno

Ben dieci volte s'addoppiò l'orrore,

Tal l'ingombrò ruina! Alfin sue fauci,

Quant'eran larghe, spalancò l'inferno,

Tutti ingoiolli e sovra lor si chiuse;

L'inferno degna di quegli empj stanza,

D'inestinguibil foco atra vorago,

D'ogni dolor, d'ogni miseria albergo.

Scarco di lor s'allegra il cielo, e tosto

Richiude il muro suo, che al loco torna

Donde ravvolto s'era. Il trionfante

Suo carro indietro il vincitor ritorce:

Tutti gli Angeli suoi che muti in prima

Stavan sue gesta ad ammirar, con alti

Plausi gli vanno incontro, e in man ramose

Palme tenendo, ogni ordine lucente

Lui di vittoria Re cantando esalta,

Lui, figlio, erede e donno, a cui fu dato

Scettro, e 'l più degno è di regnar. Per mezzo

Al cielo in pompa trionfale ei passa

Alla sublime reggia, al tempio santo

Del Padre suo, che in trono eccelso assiso

Nella sua gloria lo raccoglie, ov'ora

Gli siede a destra nel gioire eterno.

Così agli oggetti di quaggiù le cose

Celesti assomigliando, a farti meglio

Per quel ch'avvenne accorto, io ti svelai,

Come bramasti, ciò che forse all'uomo

Fora stato altrimenti ognor nascoso;

Qual s'accese nel ciel discordia e guerra

Fra le angeliche squadre, e quanto acerba

Fu la sorte di lor che ribellanti

Con Satáno aspirar tropp'alto osaro.

Pel tuo felice stato or ei si strugge

D'amara invidia e macchinando stassi

Come sedur, come nel fallo stesso

Trar con seco ti possa, e di sua pena,

Dell'eterno suo duol vederti a parte.

Questo un sollievo, una vendetta fora

Dolce per lui che a far dispetto agogna

Al Re del ciel così. Chiudi l'orecchio

Al tentator nemico, avverti e reggi

Lei ch'è di te men forte, e quale il frutto

Sia del disubbidir, dalla tremenda

Narrata istoria aver ti giovi appreso.

Potean star saldi e caddero: rimembra

Il fero caso e di fallir paventa.


LIBRO SETTIMO

 

Rafaelo, pregato da Adamo, narra come e perché questo mondo fu creato che dio, dopo aver cacciato dal cielo Satáno ed i ribelli suoi Angeli, dichiarò il suo piacere di creare un altro mondo e altre creature che lo abitassero. L’Onnipotente manda il Figlio con uno splendido corteggio di Angeli a compiere l’opera della creazione in sei giorni. Gli Spiriti celesti la celebrano con inni e cantici e risalgono al cielo col Creatore.

 

 

 


Scendi, Urania, dal ciel, scendi, se questo

Nome a te si convien, la cui divina

Voce soave accompagnando, io m'ergo

Sopra l'Olimpio monte ed oltre il volo

Delle Pegásee favolose penne.

Un vôto nome io non invoco, ed una

Di quelle nove imaginate suore

Non sei per me, nè dell'Olimpo in vetta

La tua dimora è già: tu quella sei

Che nata in ciel pria che sorgesser colli

E scorressero fonti, insiem parlando

Colla germana Sapïenza eterna

E scherzando ti stavi innanzi al sommo

Padre e Signor, che de' tuoi dolci canti

Prendea diletto. Abitator terreno

Io, guidato da te, d'alzarmi osai

Fino all'empiree sedi e spirar l'almo

Purissim'aere che lassù tu spiri.

Tu salvo mi scorgesti; or salvo al pari

In grembo al mio natal basso elemento

Tu mi riduci, onde, portato a volo

Dal mio sfrenato corridor, qual cadde,

Ma da altezza minor, su i campi Aléi

Bellerofonte un dì, non caggia anch'io,

E vada errando abbandonato e solo.

Del canto la metà tuttor m'avanza;

Ma in più brevi confini e dentro il giro

Del sole or fia rinchiuso: io fermo il piede

In sulla terra alfine, ed oltre il polo

Non più rapito, con maggior baldanza

Spiego la voce che non muta o roca

Divenne ancor, sebbene in tempi rei,

In tempi rei sebbene e 'n triste lingue,

Sonmi avvenuto, e benchè buio intorno

E rischio e solitudine mi cinga.

Ma no, solo io non son, mentre tu vieni

Nel notturno silenzio i sonni miei

A visitar, celeste Musa, o quando

L'aurora innostra l'Orïente. Or segui

A reggere il mio canto; un scelto e degno

D'ascoltatori, ancor che piccol stuolo,

Tu gli procura, e 'l barbaro fragore

Lungi tienne di Bacco e dell'insana

Seguace turba sua, turba discesa

Dalla schiatta crudel che mise in brani

Il Treïcio cantor, mentre al divino

Suo carme ebbon orecchie e rupi e selve,

Finchè il feroce urlar coperse e spense

L'arpa e la voce, e non poteo la Musa

Salvar il figlio suo; ma tu, che il puoi,

Soccorri a chi t'implora, o Dèa verace,

E non, qual essa, un vôto nome, un sogno.

Or di' che fu poichè col fero esempio

Di ciò ch'avvenne ai ribellanti Spirti

Ebbe l'Angel cortese instrutto Adamo.

Del destino che a lui sovrasta ancora

E a tutti i figli suoi, se in mezzo a tanta

Copia di frutti onde il bel loco abbonda,

Un sol vietato frutto, un sol comando

Sì lieve e dolce, ei non rispetta e serba.

Con Eva al fianco, in gran pensiero assorto,

Tacito, attento, di stupor ripieno

Egli ascoltato avea sì strane ed alte

Incomprensibil cose; odio nel cielo,

Guerra sì presso al Dio di pace, e in seno

Alla felicità scompiglio tanto:

Ma quando udì che il mal, qual verso il fonte

Onda rispinta, sopra lor ricadde

Da cui l'origin ebbe, il mal che starsi

Là non potea dove ogni ben soggiorna,

Tutti del cor gl'insorti dubbj appieno

Ei disgombrò. Novella brama intanto,

Innocente tuttora, in lui si desta

Di saper nuove cose e al suo destino

Congiunte più, come principio avesse

Questa dell'universo opra ammiranda,

Quando, perchè, come creata, e quanto

Dentro l'Eden o fuor, prima ch'ei fosse,

Era avvenuto; onde, qual è chi spenta

Non ha sua sete appieno e il rio pur guata

Che mormorando ancor a ber l'invoglia,

L'ospite suo celeste in questi accenti

Ei segue a dimandar. - Sublimi cose,

Meravigliose ad intelletto umano

E da queste terrene assai diverse

N'hai rivelate, o interpetre divino,

Per sovrano favor dall'alte sedi

Quaggiù mandato a farci a tempo instrutti

Di quel che tanto il pensier nostro eccede,

E che ignorato esser cagion potea

Della nostra ruina. Eterne quindi

Grazie rendiamo a quell'immenso Bene,

E col fermo, immutabile proposto

D'ognor far nostro il voler suo supremo,

A che fummo creati, i suoi benigni

Avvisi riceviam. Ma poichè tanto

Cortese tu ci fosti, e, come piacque

All'alta Sapïenza, a noi palesi

Così riposti alti misteri hai fatto,

Scender più basso alquanto or non t'incresca,

E quello raccontar che util non meno

Forse a saper ci fia; dinne com'ebbe

Principio questo ciel che sì sublime

E sì da noi lontan cotanti aggira

Sul nostro capo fiammeggianti lumi,

E quest'aere scorrevole che tutti

Empie gli spazj e mollemente abbraccia

L'alma, ridente terra intorno intorno.

Di' qual mosse cagion l'alto Fattore

Dal sempiterno suo sacro riposo

Questa gran mole a fabbricar sì tardi

Nel vôto grembo del Caosse, e in quanto

Tempo ebbe fin la cominciata impresa.

Sì, s'ei nol vieta, di svelar ti piaccia

Quel che non già per esplorar gli arcani

Dell'alto impero suo, ma sol per meglio

L'opere celebrarne e 'l santo nome,

Noi cerchiamo saper. Molto rimane

Al grand'astro del dì, benchè dechini,

Di suo corso tuttor. Della tua voce,

Dell'amabil tua voce al suon possente

Par che sospeso in ciel s'arresti e brami

Ei pure udir dalle tue labbra il grande

Suo nascimento, e come in pria natura

Surse dall'invisibile Profondo:

E se al par desïoso il suo cammino

Colla compagna luna Espero affretti,

Starà la notte ossequïosa, attenta

A' detti tuoi, sospenderà sue leggi

Il sonno anch'esso, o il terrem lungi infino

Che il bel canto tu compia, e verso il cielo

Pria del novello albór riprenda il volo.

Sì prega Adamo, e dolcemente a lui

L'Angel risponde: - E questo ancora ottenga

Il tuo modesto addimandar. Ma quale,

Qual è di Serafin lingua che possa

L'opre narrar del braccio onnipossente,

O mente d'uom comprenderle? Pur quello

Che intender puoi, quel che la gloria giovi

Ad esaltar del gran Fattore e meglio

A farti insiem del ben che godi accorto,

Negato non ti fia; tal ordin ebbi

Io colassù di satisfar la brama

Ch'hai di saper, se temperata e saggia

Ella sarà. Ma da tropp'alte inchieste

Rimanti, Adam; nè lusinghiera speme

Ti mova a rintracciar le arcane cose

Che alla terra ed al cielo in densa notte

Quel re sommo, invisibile, del Tutto

Solo conoscitor, cela e ravvolge.

Altro abbastanza a investigar rimane,

Altro a saper; ma la scïenza è quale

Corporeo nudrimento, e legge e modo

Frenarla dee sì che la mente abbracci

Sol quanto accoglier puote: ingordo eccesso,

Come le membra, anco lo spirto aggrava,

E 'l soverchio saper follìa diviene.

Odimi dunque, Adam: poichè dal cielo

Con le avvampanti legïoni in fondo

Ai disperati abissi, al suo gastigo

Precipitò Lucifero (tal nome

Ebbe l'Arcangel tenebroso allora

Che fra l'angelic'oste ei più splendea

Della vaga del dì foriera stella

Alle altre stelle in mezzo), e poichè indietro

Ritornò trïonfante il divin Figlio

Co' Santi suoi, l'immenso stuol mironne

Dal solio suo l'onnipossente Padre,

E disse a lui rivolto: - Ecco distrutta

Dell'invido nemico appien la speme,

Che tutte al par di sè pensò ribelli

Trovar le mie falangi e signor farsi

Di questa eterna, inaccessibil rocca

Con le lor forze e noi sbalzarne. Ei molti

Trasse in sua frode che per sempre han vôti

I seggi lor, ma il numero maggiore

Serba tuttora i suoi: popol bastante

I vasti a posseder celesti regni

Meco è rimaso, e de' solenni riti

E del dovuto ministero il santo

Tempio mancar non può. Ma perchè altero

Del già commesso mal l'empio non vada

Entro il suo core, e d'aver scemo il cielo

Con danno mio non pensi, apprenda il folle

Quanto m'è lieve il riparar quel danno,

Se alcun ve n'ha nel rimaner disgombro

Da que' perversi. Un altro mondo a un cenno

Fia creato da me: là fuor d'un uomo,

D'un uomo solo, un'infinita stirpe

D'altr'uomini trarrò ch'ivi soggiorni,

Finchè per proprio merto e dopo lunghe

Di fede e di pietà sincere prove

S'apra quassù la strada, in terra il cielo

Cangisi, in ciel la terra, e solo un regno

Entrambi sien d'eterna gioia e pace.

Tutte son vostre queste sedi intanto,

O Possanze del cielo, e tu, mio Verbo,

Unico Figlio, va, per te mi piace

L'opra eseguir, parla e sia fatta: io spando

L'adombrante mio spirito e la possa

Entro il tuo sen: fra termini prescritti

Tu impon che terra e ciel sorgano in mezzo

Del Profondo infinito e pieno solo

Di me medesmo che gli spazj tutti

Occupo dell'Immenso, ancor che dentro

Me stesso incircoscritto io mi raccolga,

Nè di mia Deità sempre dispieghi

Fuor la bontade: ell'è d'oprare o starsi

Libero appieno e sempre: a me non caso,

A me necessità non mai s'appressa,

E son lo stesso il mio Volere e 'l Fato.

Così parlò l'Onnipossente appena

Che il Verbo, il Figlio suo, quelle parole

Ad effetto recò. Men ratti assai

Dell'eseguir di Dio son tempo e moto;

Ma per le orecchie nelle umane menti

Con succedevol ordine sol ponno

Trapassarne le idee. Gran gioia e festa

Si sparse in tutto il ciel quando l'eterna

Mente s'udì. - Gloria al Sovran del Tutto

(Lassù cantossi), agli uomini venturi

Santo volere e in lor soggiorno pace.

Sia gloria a Dio, cui la giust'ira ultrice

Sbalzò dal suo cospetto e dall'albergo

De' giusti gli empj; a lui sia gloria e lode

Che il male stesso in suo saper profondo

Fa sorgente di ben; che i vôti seggi

A rïempir de' rovesciati Spirti,

Crea nuova e miglior stirpe, e sovra mondi

E secoli infiniti ampio diffonde

Di sue grazie il tesor. - Così cantâro

Tutte le gerarchie. La grande intanto

Opra a compir, d'onnipotenza cinto,

E di raggiante maestà divina

Incoronato, il Figlio apparve. Immenso

Amore e Sapïenza e tutto il Padre

In lui splendeva. Al cocchio suo d'intorno

Innumerabil numero s'affolta

Di Cherubini e Serafini e Troni

E Possanze e Virtudi; alati Spirti

E alati carri che a migliaia stanno,

Fin dall'eternità di Dio fra l'armi,

Pei celesti guerrier ne' dì solenni

Apparecchiati sempre, in mezzo a due

Monti di bronzo; ed or spontanei e presti

(Chè vivo Spirto gli anima e governa)

Accorrono di là. Spalanca il cielo,

Sovra i cardini d'ôr l'eterne porte

Con suono armonïoso innanzi a' passi

Del Re di gloria che venìa, possente

In sua parola e spirito, novelli

Mondi a crear. Sul margine celeste

Il divin Figlio, i folti carri e i Cori

Fermârsi, e, qual da lido, indi miraro

Il vasto immensurabile baràtro

Torbido, nero, altomugghiante, orrendo,

Qual mar ch'abbian dal fondo irati venti

Sossopra vôlto e degli ondosi monti

Spinte le cime ad assalir le stelle

E a confonder col centro il polo. Allora

Il Verbo creator: - Tacete, disse,

O tempestosi flutti, e tu, Profondo,

Plácati; i furor vostri abbian qui fine. -

Nè s'arrestò, ma sulle penne alzato

De' Cherubini, e di fulgór paterno

Tutto fiammante, nel Caosse addentro,

Nel Caosse che umìl sua voce intese,

Si spinse e nell'ancor non nato mondo.

In lunga schiera luminosa tutti

Gli venìan dietro i Santi suoi, bramosi

Di rimirar le maraviglie eccelse

Della sua possa e l'apparir primiero

Delle cose novelle. Arrestò quindi

Le ardenti ruote e l'aurea Sesta prese

Che custodita nel tesoro eterno

Di Dio si stava a circonscriver questo

Ampio universo e quanto in lui si serra.

D'un piè fe' centro, e per la vasta oscura

Profondità l'altro aggirando, disse:

- Fin qui ti stendi; ecco i confini tuoi,

La tua circonferenza è questa, o Mondo. -

Così 'l ciel cominciò, così la terra,

Materia informe e vôta. Un denso orrore

L'abisso ricoprìa, ma sull'ondosa

Calma le fecondanti ali distese

Lo Spirito di Dio; vital virtude,

Vital calore entro la fluida massa

Per tutto infuse, e in giù le fredde e nere

Fecce, nemiche della vita, spinse

E sceverò. Le varie cose quindi

Egli fuse e temprò; colle simìli

Aggroppò le simìli, e in varj siti

Il resto compartì; l'aere leggiero

Fra gli spazj ei diffuse, e in sè librata

Stette la terra al proprio centro appesa.

- Sia la luce, - Iddio disse, e fu la luce,

La prima delle cose, etereo spirto,

Vivido, puro, che dall'imo fondo

Emerse e per lo folto aëreo buio

Dal nativo Orïente il cammin prese

Conglomerata in radïante nube;

Chè il sole ancor non era, ed ella intanto

Quel nuvoloso tabernacol ebbe

Per sua dimora. Rimirò la luce

L'Eterno e sen compiacque: ei la divise

Dalle tenebre quindi, e giorno lei,

Notte queste appellò. Così compiuto

Fu il primo dì, sera e mattin; nè il folto

Celeste coro senza onor lasciollo,

Quando mirò dal cupo abisso fuora,

A guisa di vapor, spiccarsi il grande

Luminoso tesoro, e splender lieto

Della terra e del cielo il dì natale.

Suonò di plausi e di letizia tutto

Dell'universo il cavo immenso giro,

E al concento divin dell'arpe d'oro

Fu celebrato il Creator sovrano

Del mattin primo e della prima sera.

Disse di nuovo Iddio: - Fra mezzo all'onde

Stendasi il firmamento, il qual divida

L'acque dall'acque: - E 'l firmamento ei feo,

Liquido, spanto, trasparente e puro

Etere elementar, diffuso in giro

Fin del grand'orbe all'ultimo convesso,

Argin saldo e sicuro, onde partite

Dalle soggette son l'acque superne.

Così al par della terra, il mondo ei pose

Tra circonfuse acque tranquille in ampio

Mar cristallino, e lungi del Caosse

Il rovinoso furïar sospinse;

Perchè all'intera mole oltraggio e danno

Le contigue pugnanti estreme parti

Non potesser recare: e il firmamento

Ei nomò ciel. Così del dì secondo

Cantâr l'alba e la sera i sommi Cori.

Era la terra, ma de' flutti in seno,

Qual immaturo parto, ancor ravvolta

Non apparìa. Sulla sua faccia intera

Ondeggiava un vastissimo oceáno,

E non invan; chè penetrando tutto

Della gran madre ed ammollendo il grembo

Con caldo, genïal, fecondo umore,

A mover la virtù de' germi ascosa

Atta rendeala, allor che disse Iddio:

- Acque che siete sotto il cielo, andate

A congregarvi entro un ricetto solo,

E fuor l'Arida appaia. - Ed ecco i vasti

Corpi sorger de' monti, infra le nubi

Le larghe sollevar sassose terga

E alteramente al cielo erger le fronti.

Quant'essi alto levârsi, in giù pur tanto

S'avvallò, s'adimò concavo e largo,

Capace letto all'acque, un alto fondo,

Ove repente s'affrettâr con lieta

Rapida fuga, raggruppate come

Globose gocce in sulla secca polve;

E parte ancor di cristalline mura

O di ripide balze ebber sembianza

Nel veloce cadere: impeto tanto

Impresse lor l'alto comando! e quali

Io già ti pinsi della tromba al primo

Squillo serrarsi le celesti schiere

A' lor vessilli, tal l'ondosa piena,

Flutto su flutto, ove trovò la via,

S'affollò, s'ammontò: dall'erte cime

Colà sonante e rovinosa cadde;

Qua per lo piano tacita si mosse

Con lento passo. Non montagna o rupe

Ne arresta il corso; ivi segreto varco

Ella s'apre sotterra, e qui vagando

In tortuosi serpentini giri

Trapassa ogni ritegno. In sen del molle

Cedevol limo con profondi solchi

Fassi agevole strada; asciutto è il resto,

E sol fra quelle sponde i fiumi vanno

L'ondoso rivolgendo altero corno.

Diede all'Arida Iddio di terra il nome,

E mar chiamò dell'acque il gran ricetto:

Indi, pago dell'opra: - Or sorgan, disse,

Verdi erbe e piante dalla terra, e fuori

Conformi alla lor specie e frutta e semi

Germoglino da loro, onde novelle

Erbe e piante dipoi. - Disse, e l'ignuda

Terra, sparuta, squallida, deforme,

Manda ad un tratto fuor minute e fresche

Erbe e d'un gajo verdeggiante ammanto

Tutta si veste e adorna; indi, virgulti

Spuntano e piante d'ogni fronda e fiore,

Onde il suo sen d'odori e color mille

Olezza e ride. Florida serpeggia

La racemosa vite, e l'ampio ventre

Posato al suol, striscia la zucca; in campo

S'alzan schierate le nodose canne,

Sorge l'umile arbusto e l'irto cespo

Con intrecciate chiome; ergonsi alfine,

Siccome agile stuol che sorge a danza,

I maestosi tronchi, e gli ampj rami

Distendon gravi di mature poma

O ingemmati di fior: d'alte boscaglie

S'incoronano i colli, ornan le valli

E cingono de' fiumi e delle fonti

Le amene ripe frondeggianti gruppi,

Dilettosi boschetti. Imago alfine

Parve del ciel la terra e degna sede,

Ove a diporto andar vagando ancora

Potessero i Celesti o far soggiorno

All'ombre sacre. Dalle nubi scesa

La fecondante pioggia ancor non era,

Nè avea la terra alcun cultor, ma fuori

Un rorido vapor le uscìa dal grembo

Che largamente ad irrigar cadea

Ogn'erba e pianta dall'Autor sovrano

Ivi creata, pria ch'a uscir dal germe

Per sè medesma e sopra il verde stelo

A crescer cominciasse. Iddio con gioia

Mirò del terzo dì l'opre novelle,

E disse quindi: - Nel disteso giro

Del cielo, a dipartir dal dì la notte,

Splendan raggianti lumi; e sien de' giorni,

Delle stagioni e de' girevoli anni

I certi segni, e, come lor prescrivo

Nella celeste ampiezza il ministero,

Versino luce in sulla terra. - Ei disse,

E così fu. Per le sublimi vie

Del firmamento, a pro dell'uom, due grandi

Astri splendero in maestevol pompa:

Al giorno il primo ed il maggior diè legge,

Alla notte il minor. Le stelle a un tempo

Egli pur fe' ch'a illuminar la terra

Ed a segnar con lor vicende alterne

I confini del giorno e della notte

Sospese nei celesti immensi campi:

Indi sull'opra sua volgendo il guardo

Buona ei la scôrse. Questo re degli astri,

Vasto fiammante orbe del sol, la tonda

Argentea luna e le sideree faci

Che sì varie di mole e così folte

Fur seminate negli eterei piani,

Prive di luce eran da pria, ma tosto

Ella sgorgò dal nubiloso albergo

E corse, qual torrente, in seno al grande

Astro del dì che insiem poroso e saldo

L'assorbì, la ritenne e fu di lei

Sfavillante palagio. Al suo fulgòre

Le corna indora il mattutin pianeta;

A lui, come a lor fonte, han l'altre stelle

Tutte ricorso; e le lor urne d'oro

Empion di luce, quante stelle, sparse

Ne' più remoti spazj, al vostro sguardo

Mostransi appena e di minuti punti

Hanno sembianza. Glorïoso, augusto

Del giorno reggitore in orïente

Egli da pria comparve, e lieto, altero

Di gire a misurar l'eterea via,

Co' vivi raggi l'orizzonte intorno

Folgorò tutto. Innanzi a lui, spargendo

Dolci influssi, le Pleiadi e l'Aurora

Carolavano liete, e ad esso opposta

Nell'occaso lontan dal pieno volto

Spandeva il mite pallidetto lume

La luna, ch'è suo specchio e bee da lui

Quanto di luce ha d'uopo. Il sol s'inoltra,

Ella s'invola, e in orïente quindi,

Sull'ampio roteando asse del cielo,

Ritorna ad apparir da mille cinta

E mille astri minor che seco il regno

Dividon della notte, e d'auree gemme

Spargono al firmamento il fosco velo.

Così dell'alme faci, onde rifulge

Alternamente il cielo, adorne e liete

Furon del quarto dì l'alba e la sera.

Disse di nuovo Iddio: - Generin l'acque

Squamee, feconde, nuotatrici torme,

E per l'aperto liquid'aere a volo

S'alzin gli augei sugli spiegati vanni.

Così le gran balene e quanto guizza

Per l'ampio mar, di tante specie e tante,

E quanto sulle penne il ciel trascorre,

Egli creò; buono lo scôrse e il tutto

Benedisse così: - Di larga prole

Siate feraci, o pesci, e fiumi e laghi

E mari empiete, e sulla terra voi

Multiplicate, o augelli. - E tosto i mari

Brulican tutti, i golfi, i stretti e i seni

Di multiforme popolo che l'onde

Cerulee solca con lucenti squame,

E in dense truppe unito, ingombra spesso,

Di sirti a guisa, i vasti equorei gorghi.

Di tanto marin gregge altri soletti,

Ed altri in compagnia pascendo vanno

I giunchi e l'alghe: questi in gai trastulli

Saltan, corron, s'aggirano fra i boschi

De' ramosi coralli e a' rai del sole

Spiegan co' vivi guizzi i varj e vaghi

Color de' rifulgenti aurati dossi;

Quelli in perlate conche attendon queti

Il lor guazzoso pasto; altri coverti

Di ben connesso arnese, ascosi e intenti

Sotto gli scogli ad aspettar si stanno

La solit'esca. In sull'ondosa calma

Trescando van l'enormi foche e i curvi

Delfini in frotta. La lor mole immane

Altri ravvoltolando in larghe rote

Tempestan l'Oceán. Colà si stende

La balena vastissima simìle

A un monte in sulle liquide campagne,

O se si move, un'isola natante

Tu la diresti: entro sue fauci un mare

Tragge ed ingorga, e per la cava tromba

Alto riversa un mar. Le ripe intanto,

I tiepid'antri, le paludi, i boschi

Numerosa non men covan la prole

Delle famiglie aligere che, uscendo

Dello scoppiato guscio ignude in pria

E tenerelle, si coprîr bentosto

Di varia e folta piuma, e valid'al

Stendendo al tergo, per le vie de' venti

Slanciârsi a volo e in ondeggiante, oscura

Nube distese, la soggetta terra

Sprezzâr con lieto risonante grido.

In cima agli alti cedri e all'erte rupi

I loro nidi a fabbricar volaro

L'aquila e la cicogna. Altri soletti

Fendon gli äerei piani; altri, più saggi,

E di stagioni esperti, in densa, acuta

Ordinanza schierati apronsi il calle,

E col concorde remigar dell'ali

Travarcan terre e mari e nubi e nembi.

Drizzan così le accorte gru su i venti

L'annuo vïaggio loro: ondeggia e romba

Dalle gagliarde innumerabil penne

L'aere sferzato e rotto. I pinti vanni

Di ramo in ramo dispiegaron lieti

Gli augei minori, e rallegrâr col canto

Infino a sera le tacenti selve;

Nè allor cessò da' suoi gorgheggi usati

Il tenero usignuol, ma in dolci note

Iterò tutta notte il suo lamento.

Altri de' fiumi e degli argentei laghi

Godon bagnar nelle chiare onde il molle

Piumoso petto: tale il collo inarca

Fra le distese candid'ali il cigno,

E sul piè vogator veleggia altero.

Pur spesso ancor dal basso letto ondoso

Stendon robusto il volo e van sublimi

Pel cielo in giro. Altri col piè la terra

Aman meglio calcar; così passeggia,

Vigile nunzio delle tacit'ore,

Il gallo altocrestuto, e chiama e sgrida

L'alba che indugia, con sonora voce:

Tal è il pavone ancor che di sè stesso

Fastoso ammirator dispiega e ruota

D'ogni color dell'iride splendente

L'occhiuta coda. Popolate l'onde

Furon così d'abitator squamosi,

E fu pien l'aere di pennute schiere

Tra 'l sorgere e 'l cader del quinto giorno.

Spuntava il sesto al suon dell'arpe, il sesto

Che del crear fu meta, e disse Iddio:

- Produci, o terra, anime vive, armenti,

Rettili e belve d'ogni specie. - Intese

La terra il suo comando e 'l fertil grembo

A un tratto aprendo, innumerabil copia

Di vive creature a un parto schiude,

Perfette e appien cresciute: escon dal suolo,

Qual da covile, le selvagge belve

Ne' lochi ov'usan, fra cespugli, in tane,

In selve ed in foreste: a paio a paio

Sbucaron fra le piante, e qua, là tosto

Mossero i passi, mentre a' campi in mezzo

E a' verdeggianti prati uscìan gli armenti.

Rare andâr quelle e solitarie, in branchi

Questi, e insiem pascolanti. Appar figliante

Ogni gleba, ogni cespo: infino al mezzo

Sorge il fulvo lione, e l'altre membra

A sprigionar, colla graffiante branca

Fende il terren; vinto ogn'impaccio alfine,

Su balza e scuote la vaiata chioma.

Così la lince, il leopardo, il tigre

Sopra di sè lo screpolato suolo,

Di talpa a guisa, alzano in monti, e all'almo

Raggio del sol emergono. Protende

L'arboree corna al ciel l'agile cervo,

E la pesante sua mole solleva

A grande stento l'elefante, il figlio

Della terra più vasto. Escon belando

Per colli e valli, numerose e folte,

Quai cespi in bosco, le lanose gregge;

Esce il marin cavallo, esce squamoso

Fuor dell'arena il cocodrillo, incerti

Se deggiano abitar la terra o l'onda.

Di quanto striscia il suol, d'insetti e vermi

Fuor sprigionossi l'infinito a un tratto

Popol minuto; le lievissim'ali

Nell'aer susurrante agitan quelli,

E le sì brevi e leggiadrette membra

Mostrano adorne di lucenti sprazzi

Aurati, porporini, azzurri e verdi,

E di quanti più vivi e gai colori

Ha Primavera: a tenue fil simìli

Si strascinano questi e oblique tracce

Stampan sul molle suol. Tutti non furo

Sì minimi però, ma in larghe spire,

Meravigliosi di lunghezza e mole,

Si raggrupparo i draghi, e in aere anch'essi

S'alzâr sull'ali. In bruni stuoli unite,

Parche, operose, del futuro accorte,

Chiudenti in picciol corpo un alto core

Se n'uscîr le formiche, un giorno forse

A popoli e cittadi esempio illustre

Di giusto eguale popolar governo.

Apparver quindi aggrumolate in densi

Sciami le pecchie che il nettareo succo

Raccoglier san nell'ingegnose celle,

Onde i pigri mariti involan poscia

Delizïoso e non mertato pasto.

Che giova il resto rammentar? Tu desti

Ad essi i vari nomi, e a te ben noti

Sono i lor genii e i lor costumi. Il serpe,

D'ogni altra belva più sagace, ancora

Tu ben conosci: egli, talora immane

In sua grandezza, occhi bronzini aggira

E squassa la villosa orrida chioma;

Ma, come ogn'altra fera, ode sommesso

E riverente di tua voce il suono,

E ognor l'udrà, se a Dio fedel ti serbi.

Già in tutta la sua gloria il ciel splendea

Rotando i giri suoi come diretti

Gli avea del primo gran Motor la mano,

E nella pompa di sue ricche spoglie

Amabilmente sorridea la terra:

Già trascorreano il suolo e l'aere e l'onda

Belve, augei, pesci in ampie torme, e parte

Restava ancor del sesto dì: la prima

Tuttor mancava e la più nobil opra,

D'ogni già fatta cosa il fin prefisso,

La creatura che non curva al suolo,

Siccome l'altre, ma il sublime e santo

Lume della ragione in sè portando,

Alto levasse la serena fronte

Vêr gli stellanti giri, e sovr'ogni altra

Dominio avesse; che, de' proprj eccelsi

Pregi a sè conscia, a corrisponder atta

Si stimasse col ciel, ma grata a un tempo

D'ogni suo ben lo confessasse il fonte,

Gli occhi, la voce, il cor sempre volgendo

Divotamente a venerar l'augusto

Artefice sovran che lei fe' capo

Di tutte l'opre sue. Quindi s'udìo

Così l'eterno, onnipresente Padre

Al Figlio favellar: - A imagin nostra

Or l'uom facciamo, e sugli augei, sui pesci,

Sulle belve del campo egli abbia impero

E su tutta la terra e sovra quanto

In sulla terra striscia. - E sì dicendo,

Te, Adamo, egli formò, te limo e polve

Di quella terra stessa, ed in tue nari

Soffiò spirto di vita; in te s'impresse

La sua medesma effigie, in te rifulse

Di Dio la sacra somiglianza, e viva

Anima divenisti. Eri tu solo

Del maschio sesso, e di femmineo tosto

Una dolce compagna egli ti diede,

Onde da voi progenie uscisse, e tutto

Benedicendo in voi l'umano germe:

- Moltiplicate, egli vi disse, empiete,

Dominate la terra, e quanto in mare

In aria e sopra il suol si move e spira,

Voi riconosca suoi signor. - Dal loco

Poscia ov'ei ti creò, qual che si fosse

(Chè nome ancor non hanno i lochi), in questo

Dilettoso boschetto egli t'addusse,

Tu rimembrar lo devi, in questo ameno

Giardin ch'ei stesso popolò di tanti

Sì dolci al gusto, a rimirar sì vaghi

Arbori e frutti, e libera la scelta

Infra lor ti lasciò. Quanto la terra

Tramanda ovunque dal fecondo seno,

Qui raccolto è per te: sol di quel frutto

Che del bene e del mal contezza arreca

A chi lo gusta, t'è il gustar vietato:

Morte è l'imposta pena, e 'l dì che il gusti,

Giorno è per te d'inevitabil morte.

Reggi tue voglie, di fallir paventa,

E morte che al fallir sarà compagna.

Ei qui diè fine, e quanto fe' mirando,

Buono lo scorse appien. Così dall'alba

E dalla sera il sesto dì fu chiuso.

Cessò dall'opra, e non già stanco, allora,

E al ciel de' cieli, alla superna sede

Ritorno fe', di contemplar bramoso

Dall'alto del suo trono il giovin mondo

Pur or aggiunto al vasto impero, e come

E buono e vago indi apparisse e al grande

Suo disegno conforme. In mezzo ai canti,

Ai plausi e al suono rapitor di dieci

Mila angeliche cetre egli levossi:

L'äer tutto echeggiò, tutta la terra,

Alla dolce armonia (tu lo rimembri,

Poichè l'udisti) risonâr le sfere,

Rispose il cielo, e s'arrestaro intenti

I pianeti ad udir, mentre ascendea

La festeggiante luminosa pompa.

- Apriti, o ciel (cantavasi), v'aprite,

Viventi, eterne porte: ecco ritorna

Il Creator di nuova gloria cinto

Dall'opra sua mirabile, dall'opra

Di sei dì, l'universo. Ei vien: v'aprite

Ora, e sovente in avvenir; chè spesso

Ei prenderà di visitar diletto

Le dimore de' giusti, e i nunzj alati

Lor spedirà del suo favor ministri

Con amica frequenza. - Il glorïoso

Coro in salir così cantava, ed egli

Attraversando il ciel, che le raggianti

Porte gli spalancò, verso l'eterna

Magion del sommo Padre il piè rivolse

Per ampia via che di folti astri e d'oro

Ha il pavimento, somigliante a quella

Che tutta sparsa di minute stelle

Sopra il tuo capo biancheggiar tu vedi

Nel seren della notte, e, quasi fascia,

Per mezzo al firmamento si distende.

Già del settimo giorno il sol cadea,

E tremolando fuor dall'orïente,

Foriero della notte, in sulla terra

Fosco barlume usciva, allor che al sacro

Monte, di cui l'inaccessibil vetta

Lo eternamente immobile sostiene

Divino trono, il Figlio giunse. A canto

Del suo gran Genitor egli s'assise,

Del Genitor che là sedea, ma insieme

Invisibil venuto era col Figlio

(Tal è di Dio l'onnipresenza!), e dato

Ordine all'opra aveva egli del Tutto

Autore e fine. Riposando allora

L'alto Fattor dalla fornita impresa,

Sacrò il settimo dì, qual termin posto

Alle grandi opre sue; ma non già mute

Stettero l'arpe: animator empieo

Musico soffio ed oricalchi e trombe,

Organi e flauti, ed ineffabil suono

Dall'auree disgorgò tremule corde

Che delle or sole ed or alterne voci

Accompagnò la melodia divina.

Da' turiboli d'ôr salìano intanto

Nubi d'incenso, e d'odoroso velo

Coprìano intorno il monte, e de' sei giorni,

Si celebrò così l'alto lavoro:

- Quanto, o Signor, son l'opre tue sublimi!

Quanta è tua possa! Qual pensiero arriva

A misurarti, e qual può lingua sciorre

Di te degne parole? Assai più grande

Or tu riedi fra noi che quando armato

Delle tremende folgori i giganti

Angeli iniqui sterminasti: allora

Distruggevi, or tu crei. Chi teco a prova,

Signor, chi può venir? Chi por confini

Al regno tuo? Delle ribelli squadre

Che lo splendor della tua gloria e i tuoi

Adoratori di scemar tentaro,

Che valser mai le scellerate trame?

Quanto agevol ti fu quel cieco orgoglio,

Quei stolti sforzi rovesciar? Chi guerra

Moverti ardisce, ei sol più grande e chiara

Fa la tua possa. Di quel mal tu saggio

Conosci l'uso, e in maggior bene il volgi.

Ecco un novello mondo, un altro cielo,

Da questo ciel non lungi, in sul lucente

Mar cristallino, al tuo comando è surto,

Di quasi immensa ampiezza: ecco infiniti

Astri gli fanno splendida corona,

E ciascun d'essi è forse un mondo, ov'altri

Abitator saran locati un giorno;

Ma il quando è a te sol noto. Ecco fra tanti

Globi la terra dal profondo intorno

Suo proprio mar cerchiata, ameno e lieto

Dell'uom soggiorno. Oh ben tre volte e quattro

Felice l'uomo e i figli suoi che a tanti

Favori Iddio sortì! La propria imago

Ei con mano amorosa in loro impresse,

Ei di quel vago albergo a lor fe' dono,

E sovra ogni opra sua diede l'impero

In terra, in aere, in mar, nè ad essi impose

Che di cantar sue lodi il dolce incarco,

E d'accrescergli ognor di giusti e santi

Adoratori una novella stirpe.

Oh lor felici appien, se scorger sanno

La lor felicitade, e fermi e fidi

La dritta via calcar! - Così cantaro

Gli empirei Cori, e d'alleluia lieti

Tutto il ciel risonò; così fu il primo

Sabbato celebrato. Or paga io fei

La tua richiesta di saper qual fosse

Di questo mondo e delle cose tutte

L'origin prima e 'l primo aspetto, e quanto

Pria del tuo tempo avvenne, onde contezza

N'abbian da te quei che verran. Se brami

Altro saper che di saper negato

All'uom non sia, la tua dimanda esponi.


LIBRO OTTAVO

 

 

Adamo fa varie domande intorno a’ movimenti celesti, alle quali riceve dubbie risposte, e viene esortato a cercare di istruirsi piuttosto di ciò che gli può veramente esser utile. Egli si conforma a questo consiglio, e per trattenere Raffaelo, gli riferisce le sue prime idee dopo che fu creato; gli narra come fu trasportato nel Paradiso terrestre; come parlò con Dio intorno alla solitudine e alla società; come ottenne una compagna, e quanto grande fu la sua gioia al primo vederla. L’Angelo gli dà sopra ciò alcuni utili insegnamenti, e dopo aver ripetute le sue ammonizioni fa ritorno al cielo.

 

 

 


Qui l'Angel tacque, e di sua voce il suono

Nell'orecchia d'Adam restò sì dolce

Che ancor d'udirla egli credeasi e intento

Pendea dal muto labbro. Alfin riscosso

Con grato cor così rispose: - Oh! come,

Istorico divin, render giammai

Grazie o mercè bastanti a te poss'io?

Tu la mia di sapere ardente brama

Largamente appagasti, e arcane cose

E per me imperscrutabili degnato

Ti se' svelar che di stupor, di gioia

M'empiono insieme e di devoto affetto

Vêr l'alto Creator. Ma pur sospesa

Tien la mia mente un qualche dubbio ancora,

Che tu sol puoi discior. Quand'io rimiro

Questo del cielo e della terra immenso,

Nobil teatro, e le diverse moli

Ne paragono insiem, null'altro io veggo

Esser la terra che una macchia, un solo

Punto, un atomo sol fra tanti e tanti

Astri ch'ardon lassuso. Eppur scorrendo

Dïurna immensa via questi sen vanno,

Se a lor distanza e al rapido ritorno

Si rivolga il pensier; ed altro intanto

Ministero non han, tranne sol quello

D'impartir luce a questa opaca terra

La notte e 'l giorno, a questo punto? E come

(Spesso meravigliando in cor favello)

Natura, in tutto così parca e saggia,

Qui non serbò misura, e a questo solo

Uso sì vaste e senza posa mai

Rotanti masse ha destinato, mentre

Questa picciola terra, atta con molto

Più breve a raggirarsi e facil moto,

Ferma e ozïosa in mezzo a lor si giace;

Ed esse, fatte di reïne ancelle,

Per via sì lunga e con rattezza tanta

Che nel notarla il numero vien meno,

Di luce e di calor le invian tributo?

Così diceva Adamo, ed al sembiante

Volgere in mente alti pensier mostrava.

Eva, allora dal loco ove in disparte

Sedeasi alquanto, chè di ciò s'accorse,

Alzossi e 'l piè di là rivolse altrove

Sì umìl, sì maestosa e sì gentile

Che a chi mirolla il suo partir increbbe

I frutti e i fior, sua dilettosa cura,

Vassen'ella a veder, se freschi e belli

Spuntavano e crescean. Dell'amorosa

Lor nudrice all'arrivo ornarsi tutti

Parvero di più lucidi colori

E tocchi da sua man sorger più lieti.

Nè già, perch'ella un tal parlar non curi,

O mal atta a gustar l'alte dottrine

Sia la sua mente, di colà si toglie;

Ma sol perchè il diletto a sè riserba

D'udirle poscia, ascoltatrice sola,

Dal labbro del consorte; e lui, più caro

Narrator dell'Arcangelo, s'elegge

D'interrogar, che a' detti suoi (ben sallo)

Dolci interrompimenti avrìa frammisti,

E le sublimi dispute disciolte

Fra maritali vezzi: ella non brama

Dalla bocca d'Adam sole parole.

Ah! dove coppia tal con sì bel nodo

D'amor, di mutua stima unita e stretta,

Dov'or si trova? In dolce atto celeste

E non senza corteggio ella partissi;

Chè di lei qual reina ivan sull'orme

Le Grazie a mille, ed amorosi strali

Scoccavan sì che desïosa intorno

Ogni cosa parea di sua dimora.

D'Adamo ai dubbj Rafaello intanto

Così risponde affabile e gentile:

- Di ricercar, d'intendere il desìo

In te non biasmo, Adamo: il cielo è quasi

Di Dio volume a te dinanzi aperto,

Ove legger di lui l'opre ammirande

Tu possa e l'ore e i giorni e i mesi e gli anni;

Ma che il cielo si mova oppur la terra,

Nulla importa per ciò, se dritto estimi.

All'Angel come all'uom nascose il resto

L'alto Architetto in suo saper, nè volle

Disvelar suoi segreti a lor, cui meglio

Che investigare, l'ammirar conviensi.

Ma se argomenti e conghietture vane

Ameranno i tuoi figli, un vasto campo

A lor tenzoni egli lasciò nel cielo,

Onde poi forse de' lor dotti sogni

Rida fra sè quando imitar vorranno

Co' lor ordigni que' superni giri

E misurar le stelle. In quante guise

Ravvolgeran la vasta mole! Oh quanto

Fabbricheranno e struggeranno a prova

Con incessante infruttuosa briga!

Di quanti cerchj avviluppato intorno

Quel lor mondo sarà! Fra l'uno e l'altro

Polo qual riporran confuso ingombro

D'orbite e zone, une entro l'altre! Io veggo,

Sì, veggo già dal tuo parlar che troppo

Saran tuoi figli a cotai studj intesi.

Strano ti sembra che a minori e foschi

Corpi servano sol quelle sì vaste

Lucenti masse, e che s'aggiri il cielo,

Per sì lungo cammin, mentre la terra

In tanto moto immobile sedendo,

Delle fatiche altrui tutto ella sola

Raccoglie il frutto. Or tu pon mente in pria,

Che delle cose misurare il prezzo

Sulla lor mole o sul fulgor non déssi;

E questa terra, a paragon del cielo

Piccola sì nè lucida, ben puote

Chiudere in sè maggior virtù del sole,

Che per sè steril splende e solo in essa

Fertil vigore infonde. A lei nel seno

Quella virtù che inoperosa fora,

Dispiegano i suoi rai; nè già le stelle

Versano a pro della terrestre mole

La luce lor; tutto è per te quel dono,

O della terra abitator. Sì vasta

De' cieli ampiezza poi ti mostri e dica

Qual sia del gran Fattor la possa e l'alta

Magnificenza che sì lungi stese

La creatrice man. Conosci, Adamo,

Che non è sol quaggiù la tua dimora;

Ma l'occhio volgi a quegli spazj immensi,

Al cui paraggio altro non sei che un punto

Tu con la terra insiem. Venera il resto

Fatto per usi arcani e noti solo

A quel supremo Autor. Di tante sfere

Nel rotar rapidissimo perenne

Scorger tu puoi quel braccio onnipossente

Ch'alla materia stessa imprimer seppe

Celerità quasi di spirto; e lento

Non stimerai tu me che al nascer primo

Del dì lasciate le celesti sedi,

Pur giunsi qui pria del meriggio, e tale

Spazio varcai che in numeri segnato

Esser non puote. A disgombrar tuoi dubbj

Se possa o no rotar l'eterea vôlta,

Così m'udisti argomentar, nè intendo

Asseverar perciò che il ciel si mova,

Qual sembra a te che fai quaggiù soggiorno.

Da questo basso suol locò sì lunge

I cieli e dagli umani infermi sensi

Quel gran Fattor, perchè, se umano sguardo

Gir presume lassù, niun frutto colga,

E si pasca d'error. Non potrìa forse

Centro dell'universo essere il sole,

E l'altre stelle da sua forza attratte

E dalla propria loro in un sospinte

Moversi a lui d'intorno in varj giri?

Tu vedi sei di lor ch'or alto or basso

Ed or innanzi ed or indietro vanno,

Or s'arrestano, or celansi; e la terra,

Benchè immota ti sembri all'aere in seno,

Settima unirsi non potrìa con esse,

E con moto tergemino diverso,

Nascosto a' sensi tuoi, rotarsi anch'ella?

Forza allor non sarìa che a tante sfere

In parti opposte obbliquamente spinte

Tu quei giri ascrivessi: ecco del sole

Cessato allora il faticoso corso,

E del primo invisibile grand'orbe

Che al di sopra d'ogn'astro, il moto imprime

A tutto il firmamento e sì la ruota

Della notte e del dì perpetuo gira,

Più non hai d'uopo: ecco sì lunghe vie

Finger non dèi, se vêr le piagge Eoe

A ricercar per sè medesma il giorno

Si volge allor sollecita la terra,

E mentre una sua parte al sole opposta

Via via coperta è dal notturno velo,

L'altro emisfero suo del pari incontro

Va del grand'astro ai raggi. E forse ancora

Pel limpid'aere non potrìa la terra

Diffonder luce alla propinqua luna,

E a lei render nel dì quel che da lei

Riceve in notte, con vicenda alterna

Ed opportuna, se abitanti e campi

Son pur lassù? Le macchie sue tu vedi

Simili a nubi; or ponno in pioggia sciorsi

Le nubi, e lieto far di piante e frutti

La pioggia può quell'ammollito suolo

Che adatto cibo a que' viventi appresti.

Forse altri soli ed altre lune un giorno

Si scopriranno ancor, di maschia luce

Raggianti quelli e di femminea queste

(Gemino sesso animator di tutto

Il magno corpo di natura), e forse

Avran chi pur in essi e viva e spiri;

Poichè sì vaste regïoni immense,

Vôte d'abitator, solinghe, mute

E solo fatte a scintillar d'un raggio

Che sì sottil, sì languidetto scende

Quaggiuso e indietro anco più debil torna,

No, creder non convien. Ma sia qual vuolsi

L'ordin dell'universo: in ciel s'aggiri

Regolator sopra la terra il sole,

O questa intorno a lui; dall'orïente

La fiammante carriera esso cominci,

O dall'occaso con leggiero e cheto

Equabil passo ella vêr lui s'inoltri,

E mollemente sul volubil asse

Te con le tacit'aure insiem trasporti,

In tali arcani travagliar tua mente

Ah! non voler, Adamo; a Dio li lascia,

Lui servi e temi, e l'ordine ei disponga,

A grado suo, delle create cose:

Tu i doni suoi, questo felice suolo

E la bell'Eva tua contento godi.

Per le ricerche tue tropp'alto è il cielo,

Umilmente sii saggio, a quel che presso

Ti sta volgi tue cure, i sogni vani

E d'altri mondi e di chi là soggiorni,

Da te disgombra, e che svelato io t'abbia

Della terra e del ciel quanto mi lice,

Pago rimanti. - Non più incerto allora

Adam soggiunge: - Oh come, eccelsa e pura,

Celeste Intelligenza, appien la sete

Del saper tu mi calmi! Il nodo hai tronco

Tu de' miei dubbj, e 'l più tranquillo e piano

Cammino io scorgo omai, lungi dall'aspre

Cure che attoscan della vita il dolce.

Sì, que' pensieri infesti Iddio, lo veggo,

Allontanò dall'uom, se lungi ei stesso

Con errante desìo, con studio vano

A cercarli non va: ma spingersi ama

Fuor di sentier l'irrequïeta mente

Senza alcun freno e senza meta alcuna,

Finchè ragione e la maestra prova

Non la richiama a quel verace e primo

Saper che di sottili astruse cose

In traccia non si volge e d'uso vôte,

Ma quelle sol che gli stan presso e donde

Raccor può frutto, a investigar s'adopra.

Un delirio orgoglioso, un fumo, un vento,

Null'altro è il resto, ed inesperti e tardi

Ci rende a quel che più ne importa, e solo

Di più oltre indagar cupidi sempre.

Ah! sì, da tant'altezza il vol s'abbassi,

E più vicine utili cose il tema

Sian de' nostri colloqui, onde a me sorga

Alcun suggetto d'opportuna inchiesta,

Se di tua sofferenza e dell'usato

Favor vorrai degnarmi. Udii con gioia

Di quel che innanzi a mia memoria avvenne

L'istoria dal tuo labbro; ora la mia

Poss'io sperar che tu d'udir non sdegni?

Tu forse ancor la ignori, e parte ancora

Riman del dì. Quant'io m'ingegni or vedi

Per trattenerti meco. A tanto ardire

Sieno discolpa la mia speme e 'l vivo

Desìo di tue risposte. Io teco assiso

Credo sedermi in cielo; e assai più dolci

Sono all'orecchio mio gli accenti tuoi

Che al rïarso e famelico palato,

Dopo il lavoro, i frutti della palma

Sull'ora calda che al ristoro invita.

Sazian bentosto quei, benchè soavi,

Ma non così le tue parole asperse

Della superna grazia. - E la tua lingua

(Con celeste dolcezza a lui soggiunge

L'Angelo allora) e le tue labbra, o Adamo,

Di venustade e d'eloquenza prive

Non sono già; chè largamente Iddio,

Come in sua bella imagine, diffuse

Nell'alma tua del par che nel sembiante

I doni suoi. Sia che tu parli o taccia,

Ogni gentile e nobil grazia è teco

E ogn'atto ne compone ed ogni accento.

Noi celeste famiglia in minor pregio

Te non abbiamo abitator terreno

Che di nostro conservo al sommo, eterno

Signor del Tutto, e le sue vie coll'uomo

Gioiosi investighiam, quant'ei t'onori,

O Adam, veggendo, e come al par che in noi

Il suo tenero amore ha in te riposto.

Or narra pur: lungi, ben lungi avvenne

Che per immensa ed aspra via spedito

Vêr le infernali tenebrose rive

Foss'io quel dì che tu spirasti in prima

L'aure di vita. In quadra e densa schiera

(Tal fu il comando) ad osservar ne andammo

Se dal carcer fuggirsi od altro ancora

Il nemico tentasse, onde nel mezzo

All'opra sua la creatrice mano

Convertir non dovesse irato Iddio

In man sterminatrice. È ver che indarno

Fora ogni sforzo di quegli empj uscito,

Non permettente lui; ma quel supremo

Re messaggi talor così ne invìa

A gloria del suo regno e a prova insieme

Di nostra pronta obbedïenza. Chiuse

Con stanghe e sbarre immobili trovammo

Le nere porte, e assai da lunge in prima

Ben altro suon che di celesti cetre

E liete danze entro v'udimmo; un tuono

Di grida lamentevoli n'uscìa,

Di disperata rabbia e d'urli orrendi.

Quindi contenti alle serene piagge,

Anzi 'l compier del sabbato, tornammo,

Com'era a noi prescritto. Or narra; attento

Tascolterò; chè se il mio dir t'è grato,

Io pur provo in udirti egual diletto.

Così parlò l'alta Possanza, e Adamo:

- Arduo per l'uom, riprese, è il dir com'ebbe

La sua vita principio. E chi se stesso

Nascendo ravvisò? Ma pur la brama

Di prolungar qui meco il tuo soggiorno

M'indusse a favellar. Da un alto sonno

Quasi riscosso, io mi trovai disteso

Tra l'erbe e i fiori mollemente e sparso

D'un ambrosio sudor che il sol bentosto

Coi caldi rai terse e lambì. Vêr l'etra

Gli occhi attoniti volgo, e l'ampia, azzurra

Vôlta col guardo trascorrendo intorno

Alquanto vo: da interna forza spinto

Quindi, com'io slanciarmi al ciel volessi,

Sovra i piè balzo e sto. Valli, colline

Mi rimiro all'intorno, ombrosi boschi,

Piagge e campagne apriche e fonti e laghi

E serpeggianti garruli ruscelli,

E sulle verdi rive un vario moto

D'animanti diversi. Altri la terra

Preme col piè, rapido il vol dispiega

Altri per l'aere, oppur di ramo in ramo

Lieto saltella e bei concenti alterna.

Tutto ride all'intorno, alme fragranze

Tutto spira e di gioja il cor m'inonda.

Me stesso indi contemplo e ad una ad una

Ogni mia parte osservo; i passi movo

Con snodate giunture or lenti or presti,

Qual più m'aggrada, vigorosi e fermi:

Ma chi mi fossi o come fossi o dove,

Io non sapea. Tento parlar, già parlo,

E ubbidïente a quanto veggo il nome

Dà la mia lingua. O sole, o dolce lampa,

Allora io dissi, o tu sì fresca e gaia

Terra inondata di serena luce,

O monti, o valli, o piani, o fiumi, o selve,

E voi che vita e movimento avete,

O vaghe creature, ah! voi mi dite,

Ditemi voi, se noto v'è, dond'io

Traggo l'origin mia, come qui sono.

Non già da me medesmo. Io l'opra dunque

Sì, l'opra io son di qualche eccelsa mano

Somma in poter, somma in bontade. Ah! voi

Com'io possa conoscerla mi dite,

Com'io possa adorar chi moto e vita

Mi diede, e più che non comprendo io stesso,

Mi fe' beato. Invan risposta io giva

Così chiedendo, e m'aggirava incerto

Lungi dal loco ove spirai da prima

Quest'aure e gli occhi all'alma luce apersi,

Quando alfin sotto l'ombre, in seno a verde

Fiorita sponda, m'adagiai pensoso.

Là per la prima volta un molle e cheto

Sonno mi prese ed un languor soave

Mi sparse per le membra; ad esso in braccio

Io mi diedi tranquillo, ancor che dentro

Al mio stato insensibile primiero

Di tornar mi sembrasse e a poco a poco

Nel nulla ricader. Leggiero un sogno

Sul capo allor mi stette, e i sensi interni

Piacevole movendo, a me, ch'io vivo

E son tuttor, fa fede. Innanzi agli occhi

Una forma divina aver mi parve,

Che: - Sorgi, uomo primier, sorgi, mi disse,

O tu che dèi dell'infinita umana

Famiglia essere il padre; il tuo soggiorno

T'attende, Adam: da te pregato io vengo,

Ed al giardino di delizie, stanza

Preparata per te, sarotti guida. -

In così dir per man mi prende e m'alza,

E lieve lieve per campagne ed acque,

Quasi per l'aere, senza imprimer orma,

Strisciando, alfine d'un selvoso, altero,

Monte m'adduce in vetta. Ivi si stende

Entro un ampio recinto ampia campagna

Degli arbori più eletti adorna, e lieta

D'andari e di boschetti. A par di questa,

Quant'io nell'altra terra avea già visto,

Tutto scemò di pregio. A me d'intorno

Carca ogni pianta di mature e fresche

Poma odorose distendeva i rami

E allettava i miei sguardi e m'accendea

Di viva brama de' suoi doni: a un punto

Si scioglie il sonno, e oh meraviglia! quanto

La visïon m'avea sì ben ritratto,

Tutto verace a me dinanzi io veggo:

E già di nuovo errando ito sarei,

Se fra l'ombre degli arbori improvvisa

Non m'appariva in manifesto lume

La scorta mia, Dio, Dio medesmo. Un dolce

Fremito allora di timor, di gioia

Tutto mi scorse, a piè gli caddi umíle

E l'adorai: la mano egli mi stese

E sollevommi, e: - Quei che cerchi io sono,

Dolcemente mi disse, autor di quanto

Sopra o sotto o d'intorno a te rimiri.

Di questo loco io ti fo don, tu l'abbi

Qual tuo, prendine cura, e quanto manda

La terra fuor del suo ferace grembo,

Côgli liberamente e lieto godi,

E inopia non temer. Quell'arbor solo

Che del bene e del male a lui che il gusta

La conoscenza infonde, arbor che in pegno

Della tua fede e ubbidïenza io posi

Nel mezzo del giardin (miralo appresso

All'arbor della vita, e quanto or dico

Bene in tua mente accogli e fisso il serba),

Guardati dal gustar: quel frutto è morte

Per te nel dì che tu ne mangi, e questo

Mio sol comando a trasgredir t'attenti.

Sì, morte inevitabile t'aspetta

Dopo quel dì; da queste amene sedi

Sarai sbandito, e fra pianto ed angosce

Per inospiti lidi errando andrai. -

Questo divieto ei proferì con tanto

Severa voce che tuttor mi tuona

Terribil nell'orecchio, ancor che appieno

Di non cadere e d'evitar la pena

Libera scelta io m'abbia. Egli riprese

Quindi il sereno aspetto e mi soggiunse

Placido e dolce: - Questi bei confini

A te non solo ed a' tuoi figli io dono,

Ma tutta ancor la terra: ampio stendete

Sovr'essa il regno, e quanto il suolo e l'aere

E 'l mare in sè contien, sia vostro il tutto,

Augelli, belve, pesci: ed ecco, in prova,

Che ogni belva, ogni augello al tuo cospetto,

Giusta la specie loro, io chiamo innanzi,

Onde suo nome ognun da te riceva,

E omaggio umìl ti renda. Il sol natante

Popol squamoso abitator dell'onde,

Non atto a respirar quest'aure lievi,

Qui non verrà, benchè degli altri al paro

Io 'l sottoponga a te. - Mentr'ei dicea,

Torme d'augelli e belve, a paio a paio,

Veggo appressarsi; mi s'inchinan queste,

Riverenti atterrando l'occhio e 'l muso,

In carezzevol atto, e quei sull'ale

Pendono umìli al lor signor davanti.

In lor passaggio, a ciasceduno io diedi,

Qual conveniasi a sua natura, il nome:

Tanto m'avea d'un chiaro lume a un tratto

Piena la mente Iddio! Ma in mezzo a tanti

Favor del cielo un'indistinta brama

Di cosa, onde pareami aver difetto,

Io mi sentiva, e al mio celeste Duce

Mover tai detti osai: - Deh! con qual nome

Io te chiamar potrò che tanto a queste

Opere tutte, all'uomo e a quanto puote

Esser di lui più nobile sovrasti?

Come adorarti io potrò mai, gran Padre

Dell'universo, altissima Possanza,

Fonte del ben, che sopra me con larga

Benigna mano hai tante grazie sparso?

Ma che, Signor! Non fia che meco a parte

Ne venga alcun? Qual può felice vita

Uom romito goder? Qual gioia piena,

Se tutto ancor quanto è di ben possegga,

Gustar potrà senza un compagno a lato? -

Di così dire ebbi ardimento. Allora

La luminosa imagine più bella

Lampeggiò in un sorriso, e: - Dunque, disse,

D'esser solo ti lagni? Or non son pieni

L'aere e la terra di sì varie e tante

Viventi creature? A' cenni tuoi

Pronte non corron esse e i lor trastulli

Non esercitan liete a te dinanzi?

Tu sai lor lingua e lor costumi, e un raggio

Han di ragione elleno ancor; con esse

Tu lor re ti sollazza: ampio è 'l tuo regno. -

Così dicea l'alto Signor del Tutto,

E comandar parea. Licenza imploro

Io di pur favellargli, e in un umil atto

Così soggiungo: - Ah! non ti spiaccia, o somma

Possanza, o mio Fattor, ch'io parli ancora,

E benigno m'ascolta. A far tue veci

Non m'hai tu qui locato, e non son io

Di que' viventi il re? Come star ponno

Diseguaglianza ed amistà? Qual dolce

Tenera compagnia, se non la stringe

Vicendevol piacer che al par si prenda

E al par si dia? Diletto egual non avvi

Fra i diseguali, ardor nell'un, freddezza

Regna nell'altro, e mutua noia tosto

Ogni amichevol vincolo dissolve.

Tale amistà, tal nodo io cerco e bramo

Che i piaceri del core e della mente

Ponga in gioconda comunanza e cara;

Ond'è che i bruti esser dell'uom compagni

Non mai potranno. Ognun di lor s'allegra

Colla specie sua propria, e a coppie insieme

Perciò tu ben li hai giunti: il lion ama

La lionessa, e 'l suo simìl cercando

Ogni simil sen va; ma non coi pesci

Si mescono gli augei, nè van gli augelli

Coi quadrupedi insieme, e non col toro

S'accompagna la scimmia. Or l'uom più molto

Che non essi fra lor, da lor diverso,

Di consorzio miglior non fia provvisto?

Allor con volto placido e sereno

Mi replicò l'Onnipossente: - A scelta

Felicità gentil veggo che aspiri

In compagnevol vita, e non t'appaga,

Se nol dividi, ogni piacer più caro.

Ma che dêi tu di me pensare adunque?

Ti sembra o no, che assai felice io sia,

Io che fui solo eternamente e solo

Sempre sarò, che simile o secondo

E molto meno egual giammai non ebbi?

Altri compagni ove trovar poss'io

Fuorchè quei ch'io creai, per gradi immensi

Inferïori a me più che non sono

A te quest'altre creature? - Ei tacque,

Ed io risposi umìl: - Stendersi invano

Tenta all'altezza ed ai profondi abissi

Dell'eterne tue vie l'uman pensiero,

O supremo Signor. Perfetto sei

Tu in te medesmo e a te medesmo basti:

Tal non è l'uomo e al suo simìl d'unirsi

Per aìta o conforto ei quindi brama.

Perchè infinito sei, tu sol d'alcuno

Uopo non hai, ma in suoi confini angusti

Ristretto è quegli, in unità si sente

Manchevol troppo e a propagare anela

Se stesso in altri, ond'ei n'ottenga quasi

Moltiplice così vita novella.

Tu, benchè solo, in tuoi recessi arcani

Per compagno hai te stesso, erger tu puoi

Della tua vicinanza a' divi onori

Le creature, ove così t'aggradi;

Ma non può già di questi muti armenti

Tra i disformi costumi aver diletto

Quella ragion, di cui mi festi il dono,

E che sovra di lor tanto m'innalza;

Nè i curvi petti lor poss'io dal suolo

Pur sollevare. - A così dir mi feo

La concessa licenza ardito e baldo.

Trovâr grazia i miei detti, e questa ottenni

Amorosa risposta: - Io fin qui volli

Provarti, Adam: quegli animai non solo,

A cui già desti il convenevol nome,

Conosci tu, ma te medesmo ancora

E tua nobil natura. Appien tu senti

Quel ch'io trasfusi in te sublime spirto,

Di me medesmo luminosa imago

A' bruti non concessa, e quindi il farti

Compagno lor liberamente a sdegno

Avesti con ragion: stabil rimanti

In tuo pensier: no, non piaceami, ancora

Prima del tuo parlar, lasciarti solo;

E neppur tai compagni io darti intesi

Quai finor li mirasti: a te dinanzi

Io sol li addussi onde provar se quanto

Conviensi o no, tu discernevi appieno.

Quel ch'or vedrai, stanne sicuro, Adamo,

Ti fia gradito; dolce imagin tua.

Tua metà, tuo sostegno, altro te stesso,

E a' voti del tuo core appien conforme. -

Qui tacque, o del suo dir null'altro intesi;

Chè quel fulgór, quella sovrana voce

Atti a più sostenere i miei terreni

Frali sensi non fur, già spinti al sommo

Della lor forza, e illanguiditi e vinti

Cercâr ristoro in grembo al sonno; ei venne

Tosto in aìta di natura, e gli occhi

Del suo vel mi coprì; gli occhi coprìo,

Ma della fantasia l'interna vista

Lasciò libera e aperta, e quello stesso

Loco dov'io giaceva, e quella imago

Fulgida, glorïosa, a cui dinanzi

Vegliando io stava, a me nel sonno immerso

E quasi tratto in estasi, di nuovo

Presenta in sogno. Quel divino aspetto,

Sopra di me curvandosi, m'apriva

Il manco lato, e ne traea grondante

Di vivo sangue e di vitali spirti

Calida costa. Grande era la piaga,

Ma di novella carne a un tratto empiessi,

Si risaldò, disparve. Egli la parte

Che da me dispiccò, tratta e figura

Fra le artefici dita, ed ella tosto

Crescendo vien, prende altra forma, e n'esce

A me simìl, ma differente in sesso,

Leggiadra creatura. Oh quale incanto

Di grazia e di beltà! Quant'io già visto

Avea di più vezzoso, innanzi a lei

O più tal non mi parve, o tutto accolto,

Tutto era in lei ristretto. I guardi suoi

Una dolcezza non sentita in pria

Da quel momento mi versaro in seno,

E dal suo bel sembiante si diffuse

Uno spirto d'amore ed un sorriso

Per tutta la natura. Ella disparve,

E tenebre e dolor lasciommi in core.

Mi scossi allor dal sonno e i presti passi

Volsi in traccia di lei, fermo in pensiero

Di ritrovarla, o consumarmi in pianto,

In pianto inconsolabile, e per sempre

Da me sbandire ogn'altra gioia, allora

Che, fuor d'ogni mia speme, ecco la scorgo

Non lontana da me, qual io già vista

L'avea nel sogno, tutt'adorna e bella

Di quanti a farla amabile potea

Sparger doni su lei la terra e 'l cielo.

Il celeste Fattor per man la guida,

Benchè non visto, e con la voce i passi

Ne drizza verso me; de' maritali

Arcani riti e delle sante leggi

Ell'era instrutta già. Le grazie vanno

Sull'orme sue, celeste raggio ha in viso,

E ogni atto spira dignitate e amore.

Ebro di gioia allor sclamai: Gran Dio,

Oh come adempi tue promesse! oh come

La passata tristezza or mi compensi,

Benigno padre mio! Sì, d'ogni bene

Sei liberale donator, ma questo,

Questo è 'l più bello de' tuoi doni, e alcuna

Invidia non men porti! Or sì, ch'io veggo

L'ossa dell'ossa mie, della mia carne

La carne, e me medesmo a me davante.

Tratta dal fianco mio la mia compagna

Quest'è; quest'è colei per cui gli stessi

Diletti genitori e 'l dolce albergo

L'uom lascerà; quest'è colei che seco

Diverrà, stretta in insolubil nodo,

Una carne medesma, un core, un'alma. -

Eva i miei detti intese, e, benchè Dio

Sua guida fosse, il verginal candore,

La modestia, il decoro, e il conscio merto

E quella ritrosìa che amore e vezzi

Pria d'arrendersi vuol, che offrirsi sdegna,

Benchè brami esser vinta, e dolcemente

Accrescendo i desir, la gioia accresce,

Natura stessa infin, benchè sì pura,

Le fean ritegno; alla mia vista indietro

Rivolse i passi, io la seguii, fu vinta

Dall'amor mio, dal suo dovere, e cesse

Con umil maestade ai dritti miei.

Al nuzïal boschetto io la condussi

Fresca come l'aurora e al par vermiglia.

Arrise il cielo, scintillâr le stelle

Di più bei raggi, ed i più scelti influssi

Scosser sull'ora fortunata; segno

Dierono d'esultanza i piani e i colli;

Ne gioiron gli augelli: a' boschi intorno

I dolci zefiretti e le fresch'aure

Susurrando lo dissero; e dell'ali

Scherzando fra di lor gittavan rose

E gittavan fragranze ai ridolenti

Arboscelli involate. Intanto sciolse

Al canto maritale i lieti versi

Il notturno amoroso augel, chiamando

Ad accender sua face in vetta al colle

La vespertina consapevol stella.

Tutta così la sorte mia t'esposi,

E quale e quanto siasi il ben ch'io godo,

Ti strinsi in brevi detti. A me son cari

Tutti questi del ciel nobili doni,

Io lo confesso, ma niun d'essi impero

Ha sulla mente mia, niun mi desta

Vivo desìo nel core. Ogni diletto

Che con varia dolcezza i sensi molce,

Questi bei campi, l'erbe, i fior, le poma

E degli augei la melodia soave

Poco sarìan per me senz'Eva mia.

Ma presso lei ben altri affetti io provo:

Rapir mi sento s'io la miro; s'io

Stendo su lei la man, rapir mi sento;

Per lei da prima un non compreso e strano

Moto mi scosse, in pria per lei conobbi

Che cosa è amor: fermo e tranquillo io stommi

In ogni altro piacer, ma contro il guardo

Della beltade e la sua forza arcana

Qui sol debole io son: manchevol forse

Fu in me natura e a tanti vezzi incontro

Vigor bastante ella non diemmi, o troppo

Tolto mi fu dall'impiagato fianco.

Almen cert'è che con più larga mano

Sparse di grazia e leggiadrìa l'esterne

Sue forme il gran Fattor; sebben, lo veggo,

Della mente e del cor nei più sublimi

Interni pregi ella a me cede e meno

Di me pur anco nel suo volto esprime

Del Creator l'imago e i segni augusti

Di quell'impero ch'ei ci diè su tutti

Gli altri animai quaggiù. Pur quando a lei

M'accosto, sì perfetta in tutto apparmi,

Sì ben conscia di quanto a lei s'aspetta,

Ch'ogni suo detto, ogni opra sua m'è avviso

Di saggezza e prudenza essere il fiore,

Di virtù, di bontade. A lei dinanzi

Del più alto saper vien meno il lume,

E prende il senno di follia sembianza.

Autorità, ragion (quasi foss'ella

Nella divina idea disegno primo,

Non già secondo), ovunque il passo volga,

Con seco vanno: gentilezza infine

E magnanimi sensi in mezzo a tante

Amabili sue doti han posto il seggio,

Sì che una sacra riverenza intorno,

Quasi una guardia angelica, la cinge.

- Non accusar natura (austero il ciglio

Allor riprese il Messaggier celeste);

Ella compiè sue parti, a te s'aspetta

Compier le tue. No, non temer che mai

La ragion t'abbandoni, ove tu stesso

Nel bisogno maggior non sfugga e spregi

La sua scorta fedel, nè troppo esalti

In tuo pensier ciò che di te men vale,

Come tu stesso scorgi. Alfin che tanto

Ammiri in lei? Che sì t'accende e move?

Quell'esterne sembianze? Elle, i' nol niego,

Leggiadre son, dell'onor tuo son degne

E degli affetti tuoi, non già d'impero.

Libra con lei te stesso, e 'l valor quindi

Conosci d'ambedue. Nulla sovente

Più giova all'uom che in pregio aver se stesso,

In pregio, a cui modestia e dritto e vero

Sian debito sostegno. Esperto e saggio

Quanto in ciò più sarai, più agevol fia

Ch'ella signor ti riconosca e onori,

E sottoponga i suoi vistosi pregi

Ai più solidi tuoi. Così vezzosa

Per tuo piacer maggiore Iddio formolla,

E tanta de' suoi doni augusta luce

In lei versò perchè tu farla oggetto

Dell'amor tuo senza rossor potessi:

Ma se men saggio sei, con vigil occhio

Ben ella il noterà. Se poi sì vivo

Di quel diletto, onde l'umana stirpe

Dee propagarsi, a te rassembra il senso

E d'ogn'altro maggior, pensa che i bruti

Son del medesmo a parte ancor, nè fatto

Sarìa comune ed abbassato ad essi,

Se degno fosse d'occupar l'eccelsa

Mente dell'uomo e d'agitarne il core.

Quanto in lei di sublime e di gentile

Risplender vedi ed a ragion conforme,

Ad amar segui: amore io già non biasmo,

Ma sol quel cieco e furïoso affetto

Che dissimil n'è assai. Verace amore

La mente affina, accresce l'alma, ha il seggio

Nella ragione e nel consiglio, e scala

Fassi all'amor del Creator superno,

Se da' bassi piacer si spicca e s'erge.

Quindi niun degno si trovò fra i bruti

D'essere a te compagno. - Allor, non senza

Qualche rossor, così rispose Adamo:

- No, non è già quella beltade esterna,

O quel piacer, di cui con l'uomo a parte

Son gli animanti ancor (bench'io con alta

Misterïosa riverenza onori

Del letto marital le leggi sante)

Ciò che a lei più m'allaccia: assai maggiore

Han forza in me que' lusinghieri vezzi

E quelle tante grazie, ond'ella ogni atto,

Ogni moto accompagna ed ogni accento;

E facile e soave i nodi stringe

Di quel tenero amor che un'alma sola

Fa di nostr'alme; peregino accordo

Più dolce a rimirarsi in coppia amante

Che gentil soavissimo concento

All'orecchio non è. Pur ligio il core

Non ho perciò (gl'interni sensi appieno

Io ti disvelo), e nella varia schiera

De' multiformi imaginosi obbietti

Che per l'alma mi van, libera sempre

La mente mia discerne il vero, il meglio

Approva e a quei s'appiglia. In me l'amore

Già non biasmi tu stesso; al ciel, dicesti,

Ei ci solleva e n'è la strada e 'l duce.

Ma perdonami or tu, se troppo audace

Non è la mia richiesta: amano in cielo

Quegli Spirti beati? E per qual modo

Esprimono l'amor? Con mutui sguardi

Solo, o mescendo di lor pura luce

Insieme i raggi? Unisconsi da lunge

L'anime loro, oppur con stretti amplessi? -

L'Angel con un sorriso in cui rifulse

Delle rose del cielo il bel vermiglio

Onde Amor si colora: - A te, risponde,

Basti saper che siam lassù felici,

E ch'esser gioia senza amor non puote.

D'ogni puro diletto onde tu godi

Sotto corporeo vel (chè puro e mondo

Te ancor creò quella superna mano)

Noi godiam colassù la scelta e 'l fiore;

Nè di membra o giunture a noi frapponsi

Ritegno alcun. Più agevolmente ch'aura

Con aura non si mesce, onda con onda,

Bramosi d'accoppiar la lor purezza

Pienamente si mescono gli Spirti

In amplessi ineffabili, soavi;

Nè di quel modo hann'uopo onde le membra

S'uniscono alle membra e l'alme all'alme,

Mentre incarco terren le cinge e aggrava.

Ma più indugiar non posso: il sol trascorso

Oltre le verdeggianti esperie piagge

È segno al mio partir. Sérbati forte,

o caro Adam, vivi felice ed ama;

Ma Lui sovr'ogni cosa, il cui volere

Segue chi l'ama, e i suoi comandi adempie.

Non lasciar che giammai travolga e spinga

Impeto cieco la tua mente a quello

Che un libero voler riprova e fugge.

La tua felicità, la tua sciagura

Con quella insiem di tutti i figli tuoi

Riposta è in te; di tua costanza meco

Tutto il ciel gioirà: da te dipende

Il cadere o lo star; di proprie forze

Fornito appien, non ricercar d'altronde

Che da te stesso aita, e ad ogni assalto

Tieni di ree lusinghe immoto il petto.

Così dicendo egli levossi, e grato

Seguitandolo Adamo: - Addio, rispose,

Addio; va pur, se partir dèi, celeste

Amico, ospite mio, da quell'eccelsa

Bontà che adoro, a me quaggiù mandato.

Ogni mia brama affabile e benigno

Tu assecondasti, ed io nel cor la dolce

Memoria ognor ne serberò: ti serba

Tu ognor così propizio e spesso riedi. -

Così mossero entrambi, in vêr le stelle

Il divin Messo, e al suo boschetto Adamo.


LIBRO NONO

 

Satáno, avendo percorsa la terra con meditato inganno, ritorna di notte in forma di nebbia nel Paradiso, e s’insinua nel serpente che dorme. Adamo ed Eva al sorgere dell’aurora escono alle usate loro occupazioni. Eva propone al consorte di dividerle fra loro e che ciascuno lavori da sè a parte. Adamo vi si oppone, adducendo il suo timore che il nemico, del quale sono stati avvertiti, non venga a tentarla mentr’ella sarà sola. Eva, sdegnandosi perché egli non la crede né assai circospetta né assai ferma, persiste nel suo primo pensiero e vuol far prova di sua virtù. Adamo finalmente s’arrende. Il serpente la trova sola, le si accosta con destrezza, la rimira con meraviglia, le parla lusinghevolmente, innalzandola con le lodi sopra tutte le altre creature. Eva meravigliata nell’udirlo parlare, gli dimanda com’egli abbia acquistata la voce e la ragione umana che non ebbe fin allora. Il serpente le risponde aver ottenuto questi vantaggi pel frutto d’un certo albero ch’è nel giardino. Eva il prega di condurla a quell’albero, e trova ch’esso è quello della Scienza, a lei e ad Adamo vietato. Il serpente con molte astuzie e argomenti la induce alfine a mangiar delle frutta di quello: essa le trova squisite, e delibera per qualche tempo, se ne farà parte al suo sposo o no: finalmente gli porta un ramo carico di quei pomi. Adamo rimane attonito e costernato, ma per eccesso d’amore, risolve di perir secolei, e cercando estenuar la colpa, mangia anch’egli del frutto. Effetti di esso in ambedue. Eglino cercano di coprir la loro nudità: la discordia entra tra loro, e si accusano e rimproverano scambievolmente.

 

 

 


Non più di Dio che sulla terra scenda

Facil, benigno all'uom, non più m'è dato

D'Angelo favellar che al desco stesso

Coll'uom s'assida, ospite, amico, e in dolce,

Amorevol colloquio i ricchi doni

Con lui divida della terra. Or denno

Di triste note risonare i carmi,

E raccontar la rotta fè, la turpe

Diffidenza dell'uom, le calpestate

Celesti leggi, dell'offeso Nume

Il giusto sdegno, e la feral sentenza

Che il mondo empiêr di guai. La colpa or viene,

Vien seco indivisibile la morte,

E forieri di morte angoscia e pianto:

Dolente sì, ma più sublime tema

Di quel furor che per tre volte intorno

Spinse ai muri di Troia il fero Achille

Sul fuggente nemico; assai più grande

Dello sdegno di Turno allor che tolta

Gli fu la sposa, e più che gli odj acerbi

Di Nettuno e Giunone, ond'ebber tanto

Affanno i Greci e di Ciprigna il figlio.

Sì, ben più grande è l'argomento mio,

Se la Musa del ciel che mi protegge,

Darammi stil conforme, ella che suole,

Nel notturno silenzio a me scendendo,

Dettare od inspirare i pronti versi

Non implorata, fin dal dì che prima

Dopo lungo indugiare io scelsi alfine

L'alto subietto al canto. Armi e guerrieri,

Ch'altri stimò finor d'eroica tuba

Degna materia sol, l'ingegno mio

Destar non sanno, e per natura io sdegno

Di finti cavalieri in finte pugne

Nojosamente raccontar le stragi,

Mentre miglior fortezza in faccia agli empj,

Crudi tiranni di tormenti e morte

Sprezzatrice magnanima e costante

Celebrator non ha. Corse ed arringhi

Cantin pur gli altri, effigïati scudi,

Ricche divise, e per gran fregi e barde

D'argento e d'oro sfolgoranti intorno

Cavalieri e cavalli; indi le vaste

Adorne sale, i nobili conviti

E 'l pronto stuol di siniscalchi e paggi;

Vulgare e bassa impresa, ignobil arte,

Non qual di vate o di poema a dritto

Può la fama eternare. A me, che ignaro

Son di tai studj e non li curo, innanzi

Altro argomento sta per sè bastante

Ad innalzare il nome mio, se il peso

Degli anni e 'l freddo sangue e 'l freddo clima

Al disegnato vol deboli e manche

Non mi fan l'ali, e ben potrianlo, ov'io

Fossi dell'opra il solo autor, non quella

Che a notte nell'orecchio a me l'arreca.

Già s'era il sol nell'ocean nascoso,

Già diffondeva un fioco e dubbio lume

Espero sulla terra, e dal confine

D'un emispero all'altro il fosco ammanto

La notte distendea, quando Satáno

Che al minacciar di Gabrïello s'era

D'Eden fuggito, or fatto ancor più scaltro

In suoi disegni iniqui, e infellonito

Ognora più dell'uomo alla ruina,

Sprezzando ogni più grave e certo danno

Che a lui sovrasti, impavido ritenta

La prima via. Fuggì di notte, e, scorsa

Tutta la terra, della notte al mezzo

Tornò, la luce ognor cauto schivando

Per tema d'Urïel che già nel primo

Entrar suo lo scoperse e dienne avviso

Ai Cherubin custodi. Indi cacciato,

Pien di angoscia e di rabbia egli per sette

Continue notti andò vagando; il cerchio

Dell'equinozio trapassò tre volte,

E quattro volte il carro della notte

Da un polo all'altro. Nell'ottava alfine

Ei fe' ritorno, e per un varco opposto

De' Cherubini alle veglianti ascolte

Trovò furtiva, e non sospetta via.

Eravi un loco, onde più traccia alcuna

Or non riman (benchè il peccato oprasse

Tal cangiamento e non il tempo), dove

Del Paradiso alle radici il Tigri

S'ingolfava sotterra, e quindi appresso

L'arbor di Vita in larga fonte all'aura

Uscìa di nuovo in parte. Ivi col fiume

S'incavernò Satáno, e su con esso

Fra 'l nebbioso vapor poscia risalse,

E investigò dove celarsi. Ei tutta

Avea cerca la terra e tutto il mare

Oltre il Ponto salendo, oltre le pigre

Meotich'onde ed oltre l'Obio estremo,

E giù dell'Austro agli ultimi confini

Scendendo poscia: inver l'Esperie piagge

Ei quindi scorse di Panáma al seno,

E quindi al suol che l'Indo e 'l Gange inonda.

L'Orbe intero così spïando ei venne

Con sollecita cura e a parte a parte

Le creature tutte, in sè librando

Qual d'esse meglio alle sue trame adatta

Esser potesse, e alfin più scaltro il serpe

Di tutte giudicò. Fra tutte quindi,

Dopo un lungo ondeggiar fra i suoi pensieri,

Lui di sue fraudi atto strumento elesse,

E in lui d'entrare e al più sagace sguardo

Di celar s'avvisò le perfid'arti:

Chè ogni scaltrezza in chi sì astuto nacque,

Stata sarebbe di sospetto scevra,

Ma in altre belve, d'infernal possanza,

Che in loro oprasse oltre il brutal costume,

Dare indizio poteva. Ei sì risolse,

Ma prima lo scoppiante interno duolo

Prese a sfogar così: - Quanto se' vaga,

O terra, e al ciel simil, se anzi nol vinci

In tua beltà, degno di numi albergo

Più che dell'uomo, opra seconda, in cui

Forse il Fattor le prime idee corresse

(Poichè qual Dio crear vorrebbe il peggio

Dopo il miglior?), terrestre ciel che intorno

Hai nobil danza di rotanti cieli

Che sol per te, lume aggiungendo a lume,

Le ufizïose loro eteree fiamme,

Siccome appare, accendono, e nel seno

Ti vibran tutta de' lor raggi a prova

L'alma virtù! Qual d'ogni cosa è centro

Quel Nume in cielo e tutto a sè rivolge,

Tal sei tu pur di queste sfere il centro,

Chè tutte in sè non già, ma in te fan mostra

Di quell'igneo poter che informa e nudre

L'erbe e le piante, e agli animali imparte

Diversi gradi di più nobil vita,

Moto, senso, ragion, che tutti accolti

Son poi nell'uomo. Oh con qual gioia scorsa

Tutt'intorno io t'avrei, se gioia alcuna

Entrare potesse in me! Qual vario sempre

Giocondo aspetto! or monti or valli or fiumi

Or selve or piani or terra or mare or liti

Incoronati di foreste, rupi,

Antri, spelonche! Ma rifugio o posa

In loco alcun non io già trovo, e quante

Più delizie ho d'intorno, in cor più sento,

Come in sola d'affanno amara fonte,

Addoppiarsi i tormenti. In me veleno

Fassi ogni gioia, e in cielo, in cielo ancora

Sarìa peggior la sorte mia. No, starmi

Nè qui desìo nè colassù, se domo

Pria non giungo a veder quel re superbo.

Nè già scemar la mia miseria ho speme

Per quel ch'io cerco; al par di me dolente

Sol di far altri io spero, e peggio ancora

Seguane poi per me. Sparger ruine

Di questo cor feroce è il sol conforto;

E se per forza o fraude io traggo alfine

Nel precipizio quei, per cui create

Fur queste cose tutte, il tutto ancora

Che nel bene e nel mal con lui s'unisce,

In un pari destino andrà ravvolto.

Cada egli dunque, e furïoso scorra

Per ogni dove l'esterminio. Il vanto

Io solo avrò fra le possanze inferne

D'aver disfatto in un sol dì quel ch'opra

Fu di sei giorni e di sei notti intere

Per lui ch'è detto Onnipossente; e forse

Gran tempo innanzi ei meditolla ancora,

O l'ebbe almen da quella notte in mente,

In cui scior seppi da servaggio indegno

La metà quasi dell'angelic'oste,

E assai men folta colassù ridussi

La turba adoratrice. Egli, vendetta

Bramando, e il danno riparar sofferto,

Sia che a crear nuovi Angeli l'antica

Sua scemata virtude inabil fosse

(Seppur questi da lui l'origin hanno),

Sia per maggior nostr'onta, empier le nostre

Sedi risolse d'un terrestre fango,

E l'uom da tanta sua viltade ergendo,

De' bei doni del ciel, di nostre spoglie

Adornarlo, arricchirlo. Il suo decreto

Ad effetto recò, l'uom fe', per lui

Quest'Universo splendido costrusse,

Gli diè la terra per sua sede, in essa

Dichiarollo signore, ed, oh vergogna!

L'ale avvilì degli Angeli pur anco

Al suo servigio, e posegli d'intorno

Di fulgidi ministri ascolte e ronde.

A ingannar di costor la vigil cura

Forza mi fu penetrar qui fra i ciechi

Vapor notturni ascoso, e qui mi fia

Ora gran sorte il ritrovar fra queste

Macchie e cespugli addormentato il serpe,

Fra le cui torte spire io celi e copra

Me stesso e le mie frodi. Oh turpe, oh strano

Avvilimento! Io che pugnai co' Numi

Per ergermi sovr'essi, or son costretto

Dentro il loto a ravvolgermi e la bava

D'un bruto e questa mia divina essenza

Che già del cielo i primi onori ambìa,

Ad incarnare, ad imbestiar! Ma dove,

Di vendetta il desìo dove non mena?

A che non scende ambizïon? Quant'alta

È più la meta ov'ella aspira, è forza

Che tanto più s'abbassi e, prima o poi,

Soggiaccia ad ogni cosa indegna e vile.

E tu, vendetta, ancor che dolce in pria,

Come presto ti cangi, e il tosco amaro

In te stessa rivolgi! Ebben, nol curo;

Purchè a ferire ed atterrar tu giunga,

Se non giungesti a più sublime scopo,

Questo del mio livor secondo oggetto,

Quest'uom sì caro al ciel, questo novello

Figlio del suo dispetto, opra di fango

Che tal formata fu solo per nostro

Scherno maggiore. E non sarà ch'io renda

Odio all'odio, onta ad onta, oltraggio a oltraggio?

Così dicendo, come nebbia oscura

Che terra terra striscia, ogni palude,

Ogni boschetto andò spiando, e il serpe

A trovar non tardò che al sonno in preda

Giaceasi avvolto in raddoppiati giri,

E in mezzo ad essi riposava il capo

D'astuzie pieno. Egli innocente ancora

Non sotto l'orrid'ombre e in cupe tane,

Ma in grembo all'erba tenera dormìa

Senza timore e non temuto. Entrógli

Per le fauci Satán, tacito e leve

Del cerebro e del cor le intime vie

Gli penetrò, gli scorse, e aggiunse il lume

D'intelletto e ragione al brutal senso;

Ma non turbógli il sonno, e il nuovo albòre

Stette là chiuso ad aspettare. Or quando

In Eden cominciò la sacra luce

A scintillar sugli umidetti fiori

Esalanti l'incenso mattutino,

Mentre quanto germoglia e quanto spira

Dalla grand'ara della terra innalza

Mute laudi al gran Fabro e odor soavi,

Fuor se n'uscì l'umana coppia, e il suo

Vocal, divoto ossequio al muto Coro

Unì dell'altre creature. I freschi

Olezzi del mattino e l'aure molli

Va poi godendo insieme e divisando

Come possa in quel giorno affrettar l'opra

Che troppo per due soli in quel sì largo

Terren cresceva, e al suo consorte in pria

Eva sì prese a dir: - Ben possiam noi

Questo giardin rassettar sempre, o caro,

Sempre le piante e l'erbe e i fior disporne,

Nostro sì dolce incarco: in fin ch'aìta

Non ci recan più mani, invan represso

Sotto il nostro lavor, più sorge ognora

Il gran rigoglio lor. Quanto nel giorno

S'opra da noi, questi arboscei spogliando

Di troppi rami e ambizïose fronde

Od acconcio sostegno a lor giugnendo,

Tutto è perduto, e, nello spazio breve

D'una o due notti, la natura prende

Col suo vigor l'opere nostre a scherno;

Tutto a imboschir ritorna. Il tuo consiglio

Proponi dunque, o ciò che in mente or vienmi

Non ti spiaccia d'udir. Fra noi divisi

Sieno i lavori: ove il desìo ti guida

O il bisogno è maggior, tu vanne, e a questo

Boschetto intorno il caprifoglio avvolgi,

O là dirigi l'edera seguace

Ove meglio s'arrampichi e s'infrondi.

Io colà fra quei mirti e quelle rose

Fino al meriggio le mie cure intanto

Impiegherò; chè, mentre uniti all'opra

Passiam così l'un presso all'altro i giorni,

Qual meraviglia se in sorrisi e sguardi

Si perdon l'ore, e nuovi obietti sempre

A nuovo ragionar materia danno,

Talchè langue il lavor, sebbene impreso

Di buon mattino, e della cena intanto,

Che non abbiam mertata, il tempo arriva?

- O amata e sola mia compagna - a lei

Dolcemente così risponde Adamo -

O fra quanto creò l'eterna mano

Oltr'ogni paragone a me più cara,

Al tuo provvido avviso, a questa cura

D'affrettare il lavor che Dio c'impone,

Come negar potrei debite lodi?

Quale in donna esser può studio più bello

Che il domestico bene, e all'opre oneste

Il consorte eccitar? Pur sì severa,

No, Dio non fe' del faticar la legge,

Che necessario od opportun ristoro

A noi si vieti, o di colloquio, dolce

Nudrimento dell'anima, o di sguardi

E di sorrisi l'alternar soave,

Di teneri sorrisi, onde natura

Negò il bel dono a' bruti ed ornò solo

Il sembiante dell'uomo, esca gentile

Onde si pasce quell'amor che il nostro

Più basso fin non è. Creonne Iddio

Al travaglio non già penoso e duro,

Ma al piacer ci creò, piacer che giunto

Sia con ragione. A questi andari, a queste

Frondose volte, non temer, per quanto

Ad agïato passeggio uopo ci fia,

Torran le nostre mani agevolmente

Ogni selvaggio ingombro, ed altre nuove

In nostr'aìta giovinette braccia

Verran bentosto. Se però discaro

T'è il conversar soverchio, oppormi a breve

Lontananza fra noi non vo': chè solo

Starsi, è talor la compagnia migliore;

E a più dolce ritorno ci sospinge

Un picciolo ritiro. Io sol pavento

Che tu da me divisa un qualche danno

Possa incontrar: qual ci fu dato avviso

Dal ciel, tu il sai; tu sai qual vegli astuto

Nemico che il suo ben perdeo per sempre,

E or invido del nostro, a noi con scaltro

Assalto va tramando onta e ruina.

Certo in agguato ei sta non lunge, e 'l tempo

Del suo vantaggio e il loco, avido aspetta,

Quando disgiunti noi sarem, stimando

Vane le prove sue mentre l'un l'altro

Soccorrerci possiamo. O sia ch'ei tenti

A quel sommo Signor renderci infidi,

O il nostro disturbar tenero amore,

Che forse in lui maggior invidia desta

D'ogni altro nostro ben, sia questo, o ancora

Peggiore il suo disegno, ah! tu, mia cara,

Quel fido lato ah! non lasciar che vita

Ti diè da prima e ch'or ti guarda e copre.

Là dove onta o periglio ascosi stanno,

Il posto più dicevole e sicuro

È per la donna del suo sposo al fianco;

Ch'ei veglia a sua difesa o corre insieme

Ogni peggior destino. - A questi detti,

Qual chi amor pari all'amor suo non trova,

Dolce ed austera insiem, con tutta in volto

La maestà dell'innocenza accolta,

Eva così risponde: - O Adamo, o figlio

Della terra e del cielo, e re non meno

Dell'ampia terra tutta, il so che a trarci

Dentro i suoi lacci un fier nemico aspira:

Tu me n'avverti, e già l'udii pur anco

Dall'Angel che partìa, mentre sull'ora

Che i fior chiudon le foglie, indietro alquanto

Tra questi arbor frondosi il piè rattenni.

Ma che sorgerti in cor dubbio potesse

Di mia costante fè vêr te, vêr Dio

Perchè un nemico può tentarla, ah! questo

D'udir non m'attendea. L'aperta forza,

Incapaci, quai siam, di morte e pena,

È vana contro noi: dunque gl'inganni

Tu temi del nemico e temi a un tempo

Che l'amor mio, che la mia salda fede

Possan sedursi o vacillare. Ah! come

Questi pensieri, Adam, per lei che tanto

T'è cara, nel tuo sen trovan ricetto?

Con questi dolci allor teneri accenti

Procura Adam racconsolarla: - O vaga

Del ciel figlia e dell'uomo, Eva immortale,

Chè tal ti rende l'innocenza e 'l primo

Invïolato tuo candor, non io,

Perchè di te diffidi, ognor vicina

Ti bramo al fianco mio, ma perchè ancora

Gli assalti stessi del nemico nostro

Vorrei che tu schivassi. Anco sedurti

Tentando sol, di turpe nota ei sparge

La tua virtù che corruttibil crede

Nè contro l'arti sue secura appieno.

Un'onta è questa, ancor che vana, e sdegno

Tu medesma ne avresti. Or non ti spiaccia

Se da te sola io distornar procuro

Oltraggio tal, che l'inimico a un tempo,

Per quanto audace sia, contr'ambi noi

Non avrà forse di tentar baldanza,

O vôlti in me primier ne fian gli assalti.

Nè la malizia e le coperte vie

Tu dispregiar di lui: chi que' superni

Spirti sedur potè, sottile e destro

Ben esser dee. No, non stimar soverchia

L'aìta altrui: dai sguardi tuoi maggiore

Fassi ogni mia virtude: a te dinanzi

E più saggio e più vigile e più forte

Mi sento, ov'uopo il richiedesse, e l'onta

D'esser sugli occhi tuoi vinto o deluso,

Doppia virtù m'accenderebbe in petto.

E come tu del pari al fianco mio

Non sentiresti maggior forza al core,

E di venir coll'inimico a prova

Anzi non sceglieresti allor ch'hai presso

Di tua virtude il testimon migliore?

Le domestiche sue vigili cure

E 'l coniugal tenero affetto esprime

Ad Eva Adam così; pur ella assai

Apprezzata da lui sua fè non crede,

E dolce gli risponde: - In breve giro

Se rattenerci ognor così ristretti

Debbe un nemico o vïolento o scaltro,

E se niuno di noi per sè non basta

A stargli all'uopo incontra, e come in questa

Perpetua tema ci direm felici?

Ma che! niun mal, se nol precede il fallo

Puote avvenirci alfin: ci oltraggia il nostro

Nemico, è ver, con la sua turpe stima

Di poterci sedur, ma quella turpe

Speranza sua verun disnore in fronte

Non c'imprime però, che tutto torna

Sovr'esso a ricader. Perchè temerlo,

Perchè evitarlo dunque? Un doppio onore

Dallo schernito suo stolto disegno

Anzi noi ritrarrem, l'interna pace,

E dal ciel testimon di nostra fede

Grazia sempre maggior. La fè, l'amore,

La virtù che son mai, se all'uopo soli

E senz'aìta altrui secura prova

Di sè non danno? Ah! non crediam che scema

Nostra felice sorte abbia lasciata

Quel saggio Creator sì che del pari

Vivere in sicurtade uniti o soli

Noi non possiam. Troppo sarebbe incerto

In cotal guisa il nostro bene, e a tanto

Periglio sottoposta, indegna fora

Del titol suo questa beata sede.

- Non lagnarti del cielo (allor soggiunge

Fervidamente Adam); tutte le cose

Ottime uscîr di man del Fabro eterno:

Nulla quell'alta, onnipossente mano

Lasciò imperfetto: e l'uomo avrìa lasciato?

No, quanto sicurar da esterna offesa

Può 'l suo stato felice, appien tutt'ebbe.

Suo rischio in lui sta sol, sebben la possa

Stavvi ancor d'evitarlo, e mai non fia

Che contro il suo voler danno riceva.

Ma franco è il suo voler; chè franco è quello

Che obbedisce a ragione; e retta Iddio

Fe' la ragione, ma le impose ancora

Di sempre star tra le maligne e false

Imagini del ben guardinga e attenta,

Onde contro gli espressi alti divieti

La male istrutta volontà non torca.

Diffidenza non già, ma caldo amore

Mi move dunque ad iterar sì spesso

Gli avvisi miei con te; tu pur sovente

Porgimi, o cara, i tuoi. Fermi or noi stiamo,

Ma vacillar potremmo. Ah! sì, potrebbe

Qualche fallace, lusinghiera imago,

Qualche nemico, insidïoso laccio

Avviluppar ragion non così desta

Com'ella esser dovrìa. Non gir cercando

Dunque una pugna ch'evitar è il meglio,

E più agevole ancor, se tu non lasci

Il fianco mio. Non ricercato ancora

Il periglio verrà. Di tua fermezza

Brami dar prova? Ah! dammi quella in pria

Di tua docilità. Se lunge sei,

Testimon di tua fè, di tua costanza

Come sarò? Pur tuttavia se stimi

Che non cercato rischio a coglier abbia

Entrambi noi più sprovveduti e lenti

Di quel che tu, così avvertita, or sembri,

Va pur; chè, qui malvolentier restando,

Più lontana da me saresti ancora.

Va nel nativo tuo candor, riposa

In tua virtù, tutta la sveglia, Iddio

Le sue parti ha compiute, a te s'aspetta

Compier le tue. - Così diceale il nostro

Antico sire: ella però non lascia

Il suo proposto, ed ultima soggiunge,

Ma sommessa ed umìl: - Tu mel consenti,

E negli ultimi detti anco tu stesso

Pensi che un rischio inopinato entrambi

Assalir ci potrà men cauti forse

E men provvisti. Io più guardinga quindi

E più lieta men vo, nè già m'attendo

Ch'alla più debol parte in pria si volga

Un nemico sì altier, ma pur, se tale

È il suo disegno, con maggior vergogna

Rispinto ei partirà. - Così dicendo,

Dolcemente la mano ella ritira

Dalla man dello sposo, e qual fu pinta

Da' greci vati boschereccia ninfa

Oreade o Driade o del Latonio coro,

Leggiadra e snella avviasi; e Delia stessa

Al divin portamento, a' bei sembianti

Vinto avrebbe d'assai, benchè non d'arco,

Siccome quella, e di feretra armata,

Ma sol d'arnesi rustici quai l'arte

Dal foco intatta e rozza ancor, formolli,

O qualche Angel recati aveali in terra.

Pale o Pomona rassembrar piuttosto

Ella poteva o Cerere, in lor primo

Vezzoso fior di verginal beltade.

Con occhi accesi di desìo la segue

Adamo, e con la man vêr lei distesa

Di ritenerla agogna ancor; più volte

Di rieder tosto ei l'ammonì; più volte

Verso il meriggio ella tornar promise,

E nell'ordin miglior tutto disporre

Quanto alla mensa è d'uopo, e a gustar quindi

Grato riposo allor che il sol più ferve.

Eva infelice! Oh qual inganno è il tuo!

Qual ritorno ti fingi! Ahi fero evento!

No, dolce pasto e placida quïete

Da quell'ora fatale in paradiso

Non gusterai tu più. Tra i fiori e l'ombre

Sta nascoso infernal, invido agguato,

Che di fè, d'innocenza e d'ogni bene

Ignuda ti rimanda! Infin dal primo

Spuntar dell'alba, di verace serpe

Sotto le forme, iva spïando attento

Il fier nemico ove la prima e sola

Coppia ritrovi e faccia in lei di tutta

L'inchiusa stirpe un'ampia preda opima.

Cercò boschetti e campi, ove alcun gruppo

Sorgea più vago d'arbuscelli, e i segni

Apparìan di cultrice, industre mano,

O d'uman piè qualche vestigio impresso,

Or sul margin d'un fonte, ora d'un rio

Di liete ombre coperto. Ei tutto intorno

Col guardo interrogando, ambi ricerca,

Ma incontrar sopra tutto Eva in disparte

Egli desìa; desìa, sebben non spera

Ciò che sì rado avviene. Ai voti suoi

La sorte alfin oltre ogni speme arride,

E soletta la scorge. Un nuvoletto

D'alme fragranze le ondeggiava intorno,

E folti cespi di vermiglie rose

L'ascondean per metade: il molle stelo

Ella s'inchina a raddrizzar de' fiori

Che le incarnate, porporine, azzurre

O di bei spruzzi d'ôr dipinte teste

Lascian cadere a terra languidette,

E con tralci di mirto al lor sostegno

Gentilmente le annoda. Ah! ch'ella intanto

Fra tutti il più bel fior, se stessa, obblìa,

Chè lontano l'appoggio e sì vicina

Ha la procella! Spazïose vie,

Su cui dall'alto il cedro, il pin, la palma,

Diffondon ombra maestosa, allora

Ravvolgendosi audace in lunghe spire

Tra i folti arbusti e fior che quinci e quindi

Fan per mano di lei serto alle sponde,

Or nascosto, or visibile ei traversa,

Ed a lei si avvicina. Ameni e vaghi

Tanto non fur del redivivo Adone

Imaginati un dì gli orti famosi,

O quei d'Alcinoo, albergator cortese

Del figlio di Laerte, o quei non finti,

Ove con la leggiadra Egizia sposa

Iva a diporto il saggio Re. Satáno

Molto il loco ammirò, ma più la bella

Abitatrice. Qual chi chiuso a lungo

In città popolosa, ove le folte

Case e latrine attristan l'aere, uscendo

In bel mattino alla stagione estiva

Per ville amene a respirar le pure,

Campestri aurette, insolito diletto

Prova da quanto incontra, or dalle fresche,

Ora dalle recise erbe fragranti,

Ora dalle cascine, or dagli armenti,

Da ciascun suono e da ciascuna imago;

Ma se vezzosa forosetta intanto

Passa a Ninfa simìl, quanto gli piacque

Or per lei gli divien più vago e caro;

Più che in altro però, sovr'essa il guardo

Torna a fissar, nel cui leggiadro aspetto

Stima ogni gioia, ogni beltà raccolta:

Tal dolcezza nel cor scender sentissi

Satán, mirando il florido recesso

Ove così di buon mattino e sola

Eva giungea. Le angeliche sembianze

Di femminil, dolce mollezza sparse,

Le sue grazie innocenti, ogni più lieve

Suo moto ed atto la malizia in lui

Giungono ad affrenare, e con soave

Rapina a svergli dall'atroce petto

Il disegno feral. Stettesi alquanto

Di sua malvagità, di sua fierezza

Spogliato il crudo in stupida bontade,

Ed invidia, rancor, frodi, vendetta

Vinto obbliò. Ma quel che in sen gli bolle,

E in mezzo al ciel lo seguirebbe ancora,

Rovente inferno ripigliò bentosto

Novella forza, e l'ammiranda vista

Di tante gioie a lui negate accrebbe

Tutti i tormenti suoi. L'odio e la rabbia

Quindi ei raccoglie, se n'allegra e 'n questi

Accenti infiamma la feroce mente:

- A che venimmo, o miei pensieri? E quale

Dolce delirio immemori vi rende

Di ciò che qui ci trasse? Odio fu quello,

Amor non già, nè di cambiare in queste

Gioie gli affanni miei speranza alcuna.

Solo il piacer che dal distrugger nasce

Ogni piacere, a me s'aspetta; ogni altro

Perduto è omai. L'occasïon m'arride,

Trapassar non si lasci: ecco soletta

Ad ogni assalto mio s'offre la donna;

Lungi n'è Adam, per quant'io scorgo: è troppo

Colui sagace, vigoroso, altero;

Benchè fatto di creta, ei tal non sembra

Nelle sue forme eccelse, e forse ancora

Non spregevol nemico esser potrebbe.

Ah! sì, dal duol, dalle ferite immune

Egli è, tal non son io: così cangiato,

Avvilito così da qual ch'io m'era,

M'han le mie pene! È bella inver costei,

Divinamente bella e degno oggetto

Dell'amor degli Dei! Terror non spira,

Benchè terrore anco in amor si trovi

Ed in beltà, se lor non fassi incontro

Odio più forte; e l'odio è allor più fero

Che sotto il vel di finto amor si cela;

E così trarla a sua ruina intendo. -

Così fra sè dicea chiuso nel serpe

Il gran nemico dell'umana gente,

E ad Eva intanto s'avviò, non prono

Con ondeggianti, sinuose pieghe

Sul suol, com'indi in poi, ma di sua coda

Su circolar sostegno ei dritto s'erge

In moltiplici rote, una sull'altra,

Di torreggianti spire. Alto sormonta

Il crestato suo capo, e quai carbonchi,

Gli fiammeggiano gli occhi; il liscio collo

Arde d'un oro verdeggiante in mezzo

Ai pieghevoli giri, onde gli estremi

Volumi a fluttuar scendon sull'erba.

Dilettevole, amabile in sembianza

Egli si mostra, e serpe alcun più vago

Non fu visto giammai; non quelli, in cui

Cadmo ed Ermione e d'Epidauro il Nume

Cangiati fur, siccom'è fama, o quelli

In cui si tenne che l'Ammonio Giove

Ed il Capitolino un dì s'ascose,

Per Olimpiade l'un, l'altro per lei

Che in Scipio partorì di Roma il vanto.

Obbliquamente in pria, qual chi pur brama

D'appressarsi ad alcun, ma insiem paventa

Giugnere inopportuno, a lei di costa

Satán si tragge: o qual nocchiero esperto

Presso una foce o capo, ove più varj

Soffiano i venti, a questa parte e a quella,

A seconda di lor, cangia governo,

E torce obbliquo delle vele il grembo;

Tal egli ancor varia i suoi moti, e 'n cento

Scherzosi avvolgimenti a vista d'Eva

Il flessuoso strascico raggira

Onde allettarne i guardi. Ella ben ode

Di fronde uno stormir, ma ad altro intenta

Non si volge però; chè avvezza è spesso

Veder davanti a sè scherzar pe' campi

Le belve alla sua voce ubbidïenti

Più che non fu da greci vati pinto

Sommesso a Circe il trasformato gregge.

Più audace quindi le s'appressa in atto

Di meraviglia e di stupore, a lei

L'altera cresta e lo smaltato collo

Più volte inchina lusinghiero, e lambe

Il terren tocco dal leggiadro piede.

Quel muto favellar, que' guizzi alfine

Richiamâr d'Eva il guardo; egli n'esulta,

E la lingua del serpe a nuovi umani

Accenti disciogliendo, ovver spirando

Nell'aere un vocal suono, alle sue trame

Diè principio così: - Sovrana eccelsa,

Non istupir, seppur a te che chiudi

Tutte le meraviglie, oggetto alcuno

Mirabil esser può, nè gli occhi tuoi,

In cui tanta del ciel parte risplende,

Di sdegno armar, s'io così solo ardisco

Di farmiti d'appresso e pascer quella,

Ch'ho d'ammirarti, insazïabil brama;

Nè paventai l'augusta fronte e 'l ciglio

Che maggior maestà spirano ancora

Fra questi ermi recessi. In te, perfetta

Del grande Autore imagine sublime,

Tien fiso il guardo ogni vivente cosa

Ch'è a te per don del Creator soggetta,

E la celeste tua beltade adora,

Quella beltà che di più vasto degna

Altro teatro fora e d'altri onori.

Entro questo recinto, in mezzo a queste

Belve, insensate spettatrici, e inette

A discerner perfin de' pregi tuoi

Una piccola parte, or chi ti mira,

Tranne un sol uomo? Ed un sol uomo ch'è mai,

Mentre locata fra gli Dei tu Dea

E da perpetuo d'Angeli corteggio

Adorata e servita esser dovresti? -

Così la voce lusinghiera sciolse

Il tentator serpente, e d'Eva in core

Si fer strada quei detti. Al nuovo suono

Ella attonita resta, e: - Qual portento

Fia questo? alfin risponde - uman linguaggio

Nella bocca d'un bruto, e sensi umani!

Alle belve finor negato il primo

Stimai dal ciel che sol le fe' capaci

Di rozzi accenti e mormorio confuso.

Se luce di pensiero in esse splenda,

In dubbio io stonne; chè a' sembianti, agli atti

Molta ragione in lor sovente appare.

D'ogni altra belva più sottile e scaltro

Te, serpe, io conosca, ma voci umane

Atto a formar non ti credei. Rinnova

Or questa meraviglia, e narra come

A te già muto ora il parlar s'è aggiunto,

E come sì piacevole ed amico

Più di tanti animai che al mio cospetto

Stan tutto il dì, mi ti dimostri. Parla;

Chè ben d'ascolto un tal prodigio è degno.

- Bellissim'Eva, il tentatore astuto

Subito replicò, degna Reina

Di quanto in sè questo bel mondo serra,

A te l'imporre, a me s'aspetta i tuoi

Cenni obbedir, nè il soddisfarti adesso

Difficile mi fia. Qual l'altre belve

Che van pascendo le calcate erbette,

Io pur m'era da prima, e abbietti e vili

Eran, come il mio cibo, i miei pensieri.

Il cibo e 'l sesso io discernea soltanto,

Ma nulla di sublime e di gentile;

Finchè, per questi campi un dì vagando,

A scorger venni una superba pianta

Che tutta carca rifulgea da lunge

D'aurate insieme e porporine poma.

M'appresso a vagheggiarla, e tal si spande

Da lei soave peregrino odore

Che più i sensi m'alletta e mi lusinga

De' finocchietti teneri, fragranti,

E delle mamme che stillanti e colme

Recan di latte le pasciute gregge

In sulla sera e non succhiate ancora

Dai giovin figli alle lor tresche intenti.

Di gustare i bei frutti ardente brama

Tosto mi nacque, e d'appagarla tosto

Io pur presi consiglio, e fame e sete,

Due stimoli possenti, in me da quella

Dolce fragranza anco innaspriti, a un tratto

Mi spinser sulla pianta. Agli alti rami,

Che a gran fatica il tuo disteso braccio

Può giugnere a toccare o quel d'Adamo,

Avviticchiato pel muscoso tronco

Su, su m'alzai. D'un invido desire

Ogn'altra belva che a mirarmi stava,

Struggeasi a piè dell'arbore, agognando

Nè potendo salir. Giunto là dove

Pendeami intorno allettatrice e folta

Di que' pomi la copia, avidamente

Io mi diedi a spiccarli, e farne appieno

Sazie le voglie mie chè in pasco o fonte

Non mai trovato avean dolcezza tanta.

Satollo alfine, in me subito farsi

Sento mirabil cangiamento: un raggio

Di viva luce a rischiararmi scese,

Aura superna ricercommi il petto,

Nè il parlar mi mancò, bench'io serbassi,

Come tuttor, le prime forme. A grandi

Sublimi studj da quel punto io tutti

I miei pensier rivolsi e quanto il cielo,

L'aere e la terra abbraccia e quanto in essi

È di vago e di buon, colla capace

Mente tutto indagai, tutto discersi.

Ma guanto altrove di più bel si trova

E di miglior, nel tuo divino aspetto

Unito io vidi e nel celeste lume

Di tua bellezza. No, bellezza eguale

O simile alla tua certo non evvi.

Ciò mi spinse a venir, benchè importuno

Forse, per ammirarti, e omaggio e culto

Render a lei che, a gran ragion, d'ogni altra

Creatura e del mondo ebbe l'impero. -

Così ripien dell'infernal possanza

Dicea l'accorto serpe, e incauta e presa

Da maggior maraviglia Eva soggiunge:

- Le somme lodi, o serpe, onde cotanto

Tu di quel frutto la virtude estolli

Da te provata sol, sospeso, incerto

Tengono il creder mio. Ma di', tal pianta

Dove e quanto di qui cresce lontana?

Molte e diverse, a noi tuttora ignote,

Qui sorgon piante, e tal dovizia a noi

S'offre pertutto di squisite poma

Che non tocca di lor la più gran parte

Dai curvi rami incorruttibil pende;

Finchè a tante ricchezze un giorno sorga

Novella gente e sgravino altre mani

Alla natura l'ubertoso grembo.

- Breve, o Reina, e facile è la via,

Lieto risponde a lei l'astuto serpe:

Per la pianura, oltre un filar di mirti,

Appresso un fonte e dopo un bel boschetto

Di balsamo e di mirra. Ivi bentosto

Sarai, se accetti la mia scorta. - Andiamo,

Eva soggiunge: e al mal oprar veloce

Egli a vicenda or si raggruppa or scioglie

Ratto e lieve così che dritto sembra

In suoi viluppi camminar. La speme

Alto gli leva il collo, e per la gioia

D'una luce maggior gli arde la cresta.

Come pingue vapor, da gel notturno

Cinto e stretto talor, s'erge nei campi,

Indi agitato si converte in chiara,

Tremula vampa, a cui maligne larve

Spesso, siccom'è fama, unite vanno,

E col suo lume ingannator travia

Sovente il peregrin che dentro a ciechi

Burroni e stagni alfin s'affonda e perde

Privo d'aìta; tal risplende il serpe,

E la credula nostra antica madre

Conduce con sue fraudi alla radice

D'ogni mal nostro, all'arbore fatale.

Quand'ella il vede, al guidator rivolta,

- Ben potevám di qui lontani, o serpe,

Rimanerci, gli dice; ancor che tanta

Copia di frutte da quest'arbor penda,

La lor virtude, i lor stupendi effetti

Mostrinsi pur in te: toccar perfino

A noi non lice questa pianta: Iddio

Così c'impose, e di sua voce figlio

A noi lasciò questo divieto solo.

In nostro arbitrio è il resto, ed è soltanto

La ragion ch'ei ci diè la nostra legge.

- E fia ciò vero? - insidïoso a lei

Replica il tentator - non tutte dunque

Gustar potete queste frutta? e Dio

Così vi disse allor che tutto in terra

E nell'aer sommise al vostro impero?

- De' frutti d'ogni pianta, Eva soggiunge

Innocente tuttor, gustar ci lice;

Ma del frutto che dà quest'arbor vago

Posto in mezzo al giardino, Iddio medesmo:

Non ne gustate e nol toccate, o morte

Avrete inevitabile, ci disse.

I brevi detti ella chiudeva appena,

Che, fatto quel maligno anco più baldo,

Amor per l'uom fingendo e zelo e sdegno

Per l'oltraggio ch'ei soffre, un nuovo aspetto

Riveste, e par che fra magnanim'ira

Incerto ondeggi; maestoso e grave

Quindi si leva, e a dir sublimi cose

Pronto si mostra. Nell'antica etade

Tal in Atene o Roma, ove fiorìa,

Muto dipoi, libero dir facondo,

Celebrato orator quando al sostegno

Di gran causa accingeasi, in sè raccolto

Tutto si stava, e pria che l'aurea piena

Sgorgasse dalle labbra, il volto, il ciglio,

Ogni gesto, ogni moto in lui parlava

Ed ascolto chiedea; talor rapito

Dallo zelo del dritto e impazïente

D'esordj e indugi, all'argomento in mezzo

Fervido si slanciava. In simil guisa

S'atteggiò quell'iniquo, erto levossi

E all'arbor vôlto, impetuosamente

Così proruppe: - O sacra, o eccelsa pianta,

Di Saper madre e largitrice, or chiara

Sento in me la tua possa, or che discerno

Delle cose non sol le fonti e i semi,

Ma di que' sommi Artefici, per quanto

Saggi stimati sieno, ancor gli arcani.

No, Reina del mondo, a tai minacce

Di morte ah! non dar fè: voi non morrete:

Morir! perchè? pel frutto? Ei più sublime

Vita v'arreca sol. Morte paventi

Da chi la minacciò? Me, me riguarda

Che toccai, che gustai quell'almo cibo;

Eppur vivo non sol, ma vita n'ebbi

Di quella assai più luminosa ed alta

Che assegnommi il destin, calcato e vinto

Dal mio felice ardire. All'uom si nega

Ciò ch'è libero a' bruti? E così lieve

Trascorso accenderà d'un Dio lo sdegno?

Nè fia piuttosto ch'ei medesmo ammiri

Quell'audacia magnanima che, a vile

La morte avendo (checchè sia la morte)

E le minacce sue, più nobil grado

Cercò di vita, e 'l bene e 'l mal del paro

Conoscer volle? Aver del ben contezza

Troppo conviensi; e il mal (seppure un vôto

Nome ei non è) perchè celar si debbe?

Meglio l'evita chi 'l conosce. Iddio

Nuocervi ed esser giusto insiem non puote:

S'ei non è giusto, ei non è Dio; nè vuolsi

Più obbedire o temer. Così la stessa

Vostra tema di morte ardir v'insegna.

Qual esser può d'un tal divieto il fine?

Non vuol ei col timor tenervi ognora

Suoi ciechi, umìli, adoratori abietti?

Dal giorno, egli il sa ben, dal giorno in cui

Gustiate queste frutta, al vostro sguardo

Ch'or sì chiaro vi sembra, eppure è fosco,

Si squarcerà, si purgherà la nube;

Pari sarete a Numi, e al par vi fia

Del ben, del mal l'alta scïenza aperta.

S'io d'uom le interne facultadi ottenni,

Ben è ragion che somiglianti a Dei

Voi divenghiate. La brutale essenza

Io cangiai nell'umana, e voi l'umana

Cangerete in divina. Ecco la morte

Forse che vi s'intima, il depor questa

Vostra natura e rivestir quell'altra

Alma e celeste. Oh bel morire! oh folli

Minacce! oh lieto e desïabil danno!

E che son mai gli Dei talchè l'uom farsi

Non possa a loro egual, se eguale il pasca

Divino cibo? Essi fur primi, e quindi,

Che tutte cose di lor man fur opra,

Presso a chi venne poscia, acquistan fede.

Dubbio ciò parmi assai; dal sen di questa

Vaga terra che il sol scalda e feconda,

Tutto uscire io rimiro, e nulla mai

Da quei sterili Dei. S'eglino autori

Del Tutto son, chi la scïenza dunque

Del ben, del male in questa pianta ha chiusa

Sì che, malgrado lor, saggio ad un tratto

Dell'alme frutta il gustator diviene?

E in che gli offende l'uom, s'egli all'acquisto

Aspira del saper? qual danno a Dio

Dal saper vostro? E come mai, se tutto

Suggetto è a lui, contro sua voglia ancora

I doni suoi quest'arbore dispensa?

Forse ad un tal divieto invidia il mosse?

E nel seno d'un Nume invidia alberga?

Queste, sì queste ed altre assai ch'io taccio,

Ragioni appieno vi convincon quanto

Uopo del frutto abbiate. Umana Dea,

La man vi stendi e senza tema il gusta.

Tacque, e di lei nel cor facil la via

Ritrovaron que' detti. Il guardo affisa

Ella sul frutto, la cui vista sola

Era sì tentatrice, e 'l suon di quelle

Persuadevoli voci, in cui le sembra

Scorger espressa la ragione e 'l vero,

Le si raggira entro l'orecchie ancora.

A mezzo omai del suo celeste corso

S'avvicinava il sole, e già la fame

Che il saporoso odor de' vaghi pomi

Irritava ancor più, s'era in lei desta,

E di côrne e gustarne al cupid'occhio

Fea possente lusinga. Alquanto in prima

Però s'arresta incerta, e in sè rivolge

Questi pensieri: Alte, ammirande sono

Inver le tue virtudi, o d'ogni frutto

Frutto miglior, benchè per l'uom non sieno.

Gustato appena, tu snodasti al bruto

La rozza lingua al favellare inetta,

E gl'insegnasti a celebrar tue lodi:

Nè le tue lodi quei medesmo tacque

Che a noi ti divietò, quand'egli il nome

D'arbore del Saper ti diè, del grande

Saper che il bene e 'l mal libra e distingue.

E a noi poscia negotti! Ah! quel divieto

Le tue virtù più scopre, e quanto avrebbe

Uopo de' doni tuoi la nostra sorte.

Com'esser può che d'un ignoto bene

Ci procacciam l'acquisto? E un bene ignoto.

Mentr'anco il possediam, fors'è diverso

Da quello onde siam privi? Or s'egli dunque

Il saper c'interdice, un ben ci vieta,

Ci vieta l'esser saggi. Un tal comando

Obbligarci non può. Ma se dipoi

Nelle catene sue Morte ci serra,

Dai sublimi pensier, da questa nostra

Libertade qual pro? Nel dì che al frutto

Il labbro accosterete (è tal la legge),

Preda siete di morte. Or come il serpe

Morto non giace? Ei n'ha gustato e vive,

Vive e parla e ragiona e appien discerne

Ei ch'era privo di ragion. La morte

Per noi soli inventossi? e questo cibo

Che di superna luce empie la mente,

A belve si riserba e a noi si niega?

Sì, par ch'ai bruti ei si riserbi: eppure

Quei che primo fra lor ne fe' la prova,

Invidia non ne mostra, anzi con gioia

Del ben che gli toccò c'invita a parte,

Consiglier non sospetto, all'uomo amico,

Non ingannevol, non maligno. Adunque

Che mai pavento? anzi, conosco io forse

Ciò ch'io debba temer, se cieca, ignara

Vivo così del ben, del mal, di Dio,

Di morte e legge e pena? In questo divo

Frutto che il guardo appaga e 'l gusto alletta,

Qui il rimedio si sta: questo mi puote

Sparger l'alma di luce e saggia farmi.

Che dunque mi ritien? perchè nol colgo,

E corpo e mente io non ne pasco insieme?

Mentre così dicea, l'audace mano

(Ahi terribil momento!) al frutto stese,

Lo spiccò, lo gustò. D'orror la terra

Tutta fremè; dalle riposte sedi

Profondamente sospirò Natura

E per ogni opra sua segni di duolo

Diede e dell'alta universal ruina.

Ratto s'invola dentro al bosco intanto

Il serpe reo, nè già vi bada tutta

Al novello sapor la donna intesa.

Piacer sì dolce in alcun frutto mai

Di trovar non le parve, o così fosse

Veracemente, o l'agitata idea

Dalla speranza del Sapere accesa

E già sognante i divi eccelsi onori,

Inganno le facesse. Avidamente

Senza ritegno alcuno ella il divora,

Nè sa che morte inghiotte. Alfin satolla,

Di vinoso licor quasi ebra e calda,

Così esulta in suo core: - Arbor sovrano

Che tanto ogni altra pianta in pregio avanzi,

O di felicità, d'almo sapere

Dispensator possente, e tu finora

Negletto rimanesti e senza onore?

E quasi di natura un germe vano

Le belle poma tue pendêro intatte?

Ah! più non fia così. Mia prima cura

Tu sarai quind'innanzi: io le dovute

Lodi al tornar d'ogni novella aurora

Qui tornerò a cantarti, e i rami carchi

Di sì ricco tesoro a tutti aperto

Disgraverò, finchè, di te nudrita,

In sapienza io cresca e ugual divenga

A' Dei che tutto sanno, e invidian poscia

Altrui quel ben ch'essi largir non ponno,

Chè tanto qui, se dono lor tu fossi,

Cresciuto non saresti. A te dipoi,

O Sperïenza, incomparabil guida,

Quanto degg'io! Senza di te sugli occhi

Avrei tuttor dell'ignoranza il velo:

Tu mi sgombrasti del saper la via

E a que' misteri ebbi per te l'accesso

In cui s'asconde: e forse anch'io del cielo

Or m'ascondo agli sguardi. Alte e rimote

Troppo son quelle sedi onde si possa

Ogni cosa quaggiù scorger distinta.

Forse altre cure han disviato ancora

Il vigil occhio di quel sommo nostro

Divietator che appien si fida in tanti

Esploratori suoi. Ma come in faccia

Comparirò d'Adam? Degg'io svelargli

Qual io divenni, ed invitarlo a parte

Di mia felicitade, o meglio fia

Ch'io per me sola il gran vantaggio serbi

Ch'or m'acquistai? Quel ch'al mio sesso or manca,

Gli aggiugnerò così, così d'Adamo

Accrescerò l'amor, miei pregi eguali

Saranno a' suoi, forse maggiori ancora!

Chi sa? nè scopo de' miei voti indegno

Questo sarìa. Libero forse è mai

Quei ch'è minor? Sì, questo il meglio fora;

Ma se di ciò che feci Iddio s'accorse,

E morte me ne segue? Adam congiunto

Ad un'altr'Eva allor, godrà felice

Con lei la vita; ed io?... Mortal pensiero!

Son risoluta: Adam con me divida

Le mie gioie, i miei mali; ei m'è sì caro

Che andrei con seco a mille morti, e, priva

Di lui, la vita a me vita non fora.

Così dicendo, all'ospital possanza,

Che albergar nella pianta ella si crede,

Ed informar del néttare divino,

Del succo irraggiator le belle poma,

Umil s'inchina e di là torce il passo.

Desïoso aspettando il suo ritorno

Adamo intanto, ad adornarle il crine

E coronare il suo rural lavoro

Avea di scelti fior tessuto un serto,

Qual delle messi alla regina usati

Son d'offerire i mietitor sovente.

Qual contento, qual gioia in mente ei volge

Al ritorno di lei! Come del lungo

Indugio ei spera compensar l'affanno!

Ma pure il cor con interrotto e spesso

Palpitar gli porgea presagio tristo

Di qualche danno. Ad incontrarla alfine,

Per quella via ch'ella partendo tenne,

Verso la pianta del Sapere il piede

Egli rivolge, e in lei che riede appunto,

Colà presso s'avviene. In mano un ramo

Ella tenea di quelle vaghe frutta

Che côlte pur allor, ridean di molle

Lanugine cosperse, e ambrosio odore

Spargeano intorno. Ella ver lui s'affretta,

E già troppo sollecita nel volto,

Prima ch'ella parlasse, avea la scusa,

Che in queste a voglia sua dolci parole

Prosegue poi: - Non dell'indugio mio

Stupisti, Adam? Di tua presenza priva,

Oh quanto fur penose e a scorrer lente

L'ore per me! Qual non sentito innanzi

Struggimento amoroso a provar ebbi!

Ma fu la prima volta e fia l'estrema;

No, non più mai questo crudele affanno

Che inesperta cercai, soffrir vogl'io,

Di star lungi da te. Ma qual ventura

O qual prodigio mi ritenne, ascolta.

Qual ci fu detto, periglioso cibo

Quest'arbore non dà, nè schiude il varco

A ignoto mal, ma stenebra le luci

Per divina virtude, e cangia in Nume

Chi le frutta ne gusta. Il saggio serpe,

O non soggetto alla severa legge

Che a noi lo vieta, o dispregiarla osando,

Ne fe' la prova, e non già morte ei n'ebbe,

Siccome a noi si minacciò, ma voce

Umana e umani sensi e di ragione

Meraviglioso lume. Ei sì mi strinse

Co' detti suoi che ne gustai pur io,

E alle promesse corrisponder tosto

Sentii gli effetti; lucido lo sguardo

Di fosco ch'era in pria, più grande il core,

Più sublime lo spirto e caldo e pieno

Già di virtù divina. Io l'alto acquisto

Per te bramai, senza di te lo sdegno:

Chè sol teco m'è dolce ogni mia gioia,

E con te non divisa, amara tosto

E grave mi divien. Tu pure il frutto

Prendi dunque e l'assaggia, onde per sempre,

Come un eguale amor ci unisce e lega,

Egual gaudio ci unisca e sorte eguale;

Nè il tuo rifiuto sia cagion fra noi

D'ordin vario di vita, e tardi io voglia

Lasciar per te la diva essenza allora

Che più non mel consenta immobil fato.

Festante, sollazzevole dicea

Eva così, ma le accendea le gote

Un colpevole insolito rossore.

Il fatale misfatto udito appena,

Stupido, immoto, pallido si feo

Adamo, e tutte un freddo gel gli corse

Le vene e l'ossa, e le giunture sciolse.

Di man gli cade l'apprestato serto,

E le già fresche, or appassite rose

Van sparte al suol; la voce e le parole

Gli toglie un alto orror; nel cor gemente

Così tacito poi seco favella:

- O del mondo ornamento, o dell'Eterno

Ultim'opra e migliore, in cui quant'altro

D'amabil, di gentil, d'almo e divino

Può scorger occhio o imaginar pensiero,

Tutto splendea, come perduta sei!

Come a un tratto perduta! ed ogni vanto

Dell'onor tuo, di tua beltà disparve!

Oh vittima di morte! Al sacro frutto

Come la mano rea stender potesti

E 'l gran divieto vïolare? Ahi quale

Nemica ti deluse ignota frode

E trascinotti al precipizio ov'io,

Io pur trabocco; chè con te già fermo

Son d'incontrar la morte! E come privo

Di te viver poss'io? come lasciare

Tua dolce compagnia? come dal petto

Svellermi il forte amor che a te m'annoda,

E per questi ermi boschi errar solingo

Un'altra volta? Ah! se un'altr'Eva ancora

D'un'altra costa mi formasse Iddio,

Ah! mai del cor la tua diletta imago

Non m'uscirebbe, mai. No, no, lo sento,

Infrangibil catena a te mi stringe

Della natura: di mia carne sei

Tu carne, ossa dell'ossa, e 'l tuo destino,

Felice o tristo, il mio destin fia sempre.

Disse, e qual è chi d'angoscioso e fero

Sbigottimento in sè ritorna, e, vinto

Il tumulto del cor, sommesso cede

A irreparabil sorte, ad Eva questi

Detti volge tranquillo: - Ah quale ardire,

Eva, fu il tuo! Qual perigliosa prova

Far su quel pomo al digiun sacro osasti,

Mentre lungi non sol la mano e il labro

Star ne dovea, ma il cupid'occhio ancora!

Ma chi può rivocar le andate cose

E 'l già fatto disfar? Non Dio medesmo,

Non il Destin. Nè tu morrai, lo spero,

Nè cotanto odïoso è forse il fallo,

Da che nudrissi di quel frutto il Serpe

E il dissagrò col suo profano dente

E comun cibo il rese. A lui mortale

Esso non fu, tu lo dicesti, ei vive

E più sublime ancor grado di vita

Ottenne, all'uom fatto simìl: del pari

Dunque fia pur che noi sorgiamo a quello

D'Angeli e Semidei. Credere inoltre

No, non poss'io che quel sì saggio e grande

Del Tutto creator, benchè sì gravi

Fusser le sue minacce, al nulla primo

Voglia noi ritornar, noi che sull'altre

Opre sue tutte ei sollevò cotanto,

Di tanti doni ornò. Per noi creato

Fu il resto e a noi soggetto, e nosco insieme

Cadrebbe pur nella ruina stessa.

Dunque crear, distruggere, deluso

Rimaner, perder l'opra Iddio potrebbe?

Chi può pensarlo? A trar dal nulla un nuovo

Mondo il solo voler, lo so, gli basta;

Ma non perciò men ripugnante ei fia

Sempre al disfarci, onde il nemico altero

Con scherno a dir non abbia: Ecco la sorte

Di lor, cui Dio più favoreggia! a lungo

Chi puot'essergli caro? Io fui la prima

Vittima sua, l'uomo è seconda, or quali

E quante poi fien l'altre? A tai dileggi

Dar argomento ei non vorrà. Ma sia

Quel ch'esser puote, al tuo destin congiunto

Il mio fia sempre, e la sentenza pari

Sovr'ambedue: se morte a te m'unisce,

Mi fia cara la morte; un laccio io sento,

Un saldissimo laccio in questo seno

Che all'altra mia metà un'avvince e tira.

È mio ciò che tu sei, sola una carne

Noi siamo, un esser solo, e s'io ti perdo,

Perdo me stesso. - Oh glorïosa prova

D'un amor senza pari! (allor risponde

Eva) sublime esempio che m'infiamma

Ad emularti! ma, inegual cotanto,

Come il poss'io? Fuor del tuo caro lato

È gloria mia l'esser uscita, e tutto

Una soave gioia il sen m'inonda,

Quando del nostro amor, d'un cor, d'un'alma

In ambi noi t'odo parlare; e certa

Prova men reca questo giorno. Innanzi

Che morte, od altro più di morte orrendo,

Il nostro dolce nodo a romper venga,

Tu fermo sei d'entrar con meco a parte

Della mia colpa, se gustar è colpa,

Questo bel frutto che un sì caro pegno

(Forz'è ch'ognor dal bene il ben germogli)

Della tua tenerezza oggi mi porge:

La cui sublime tempra appien, com'ora,

Senz'esso, intesa io non avrei giammai.

Ah! s'io credessi che seguire al mio

Ardir dovesse l'intimata morte,

Ogni peggior destin soffrire io sola

Certo vorrei, sola morir piuttosto

Che farmi a te consigliatrice mai

D'alcun tuo danno, ed assai meno or quando

L'incomparabil tuo verace amore

Conosco a certi e manifesti segni.

Ma ben diversi i fortunati effetti

In me ne provo, e, non che morte, io sento

Fatta maggior la vita, acuto il guardo,

Nuove speranze, nuove gioie, e sparso

Il labbro mio di sì divin sapore,

Che quanto di più dolce in pria gustai,

Insulso od aspro or sembrami. T'affida

Alla mia prova, Adam; gustane, e 'l vano

Della morte timor consegna ai venti.

Così dicendo, ella abbracciollo e pianse

D'una tenera gioia, a tant'altezza

Spinto veggendo in cor di lui l'amore

Che per lei scelga d'affrontar la morte

E lo sdegno del cielo. In premio quindi

(Premio ch'è ben dovuto a quella rea

Condiscendenza) dal divelto ramo

A lui con mano liberal presenta

Le frutta allettatrici. Egli sospeso

Punto non sta, ma, benchè scorga il meglio,

Da troppo amore e da que' vezzi vinto

Le prende e le divora. Al nuovo eccesso

Che la gran colpa original compiea,

Dall'intime sue viscere la terra,

Come tra fiere ambasce, un'altra volta

Tutta tremò, mise natura un nuovo

Cupo lamento, rinfoscossi il cielo,

E al mormorar del tuono alcune stille

Gittò, quasi di pianto. Adam non prende

Di ciò pensiero, a satollarsi inteso;

Nè il primo fallo rinnovar paventa

Seco la donna e con l'esempio il molce.

Alfin, siccome dal fumoso esálo

Di fresco vin possente ambo compresi,

Nuotano nella gioia, e lor rassembra

Virtù divina entro sentir che il tergo

Lor cominci ad armar d'eterei vanni,

Onde fra poco aver la terra a scherno.

Ben altro in essi opra però da prima

Quel frutto ingannator, sfrenate, impure

Voglie destando: egli lascivo il guardo

Volge sopr'Eva, ed Eva al par lascivo

Lo rivolge su lui; fra lor divampa

Un cieco ardore, e con tai detti Adamo

Primo la invita: - Il fior, ben veggo, o cara,

Di squisitezza e d'eleganza intendi;

E le mie lodi in questo dì ben merti

Che vivanda apprestare eletta e rara

Hai saputo così. Quanto diletto,

Fuggendo i doni di sì nobil pianta,

Perduto abbiam finor! Quanto di vere

Saporose delizie ignari fummo!

Se i vietati piaceri han tal dolcezza,

Perchè vietato fu quest'arbor solo?

Ristorati così, dopo sì grato

Pasto, ad altri diletti amor ci chiama:

Vieni: dal dì ch'io ti mirai da prima

Di tanti pregi adorna e mia ti fei,

Non mai sì vivo ardor m'accese il petto,

Nè sì bella com'or, mercè di questo

Arbor possente, mi sembrasti mai.

Con questi detti ei mesce e sguardi e vezzi

Da lei compresi appien, da lei che vibra

Per le pupille tenere, languenti

Dolce contagio d'amorosa fiamma.

Per mano egli la prende, e sovra lieta

Sponda, a cui feano un verde tetto i folti

Rami intrecciati non restìa la guida.

D'asfodilli e giacinti e violette

Un letto morbidissimo la terra

Lor ivi offerse, ed alle accese brame

Pieno sfogo ivi dier, pegno e conforto

Del lor fallo comun, finchè le stanche

Lor membra il sonno ad irrigar discese.

Ma poichè spersa del fallace frutto

Fu quella forza vaporosa e dolce

Che, fervida scherzando al core intorno

Ed agli spirti, avea lor menti illuse;

E poichè si disciolse il grave sonno,

D'ebbrezza figlio, che turbato e scosso

Avean frequenti, minacciose larve,

Da quel riposo, anzi da quell'affanno

S'alzaron lassi, attoniti, l'un l'altro

Si riguardaro, e ben s'avvider tosto

Come schiusi avean gli occhi, e come cinte

Le menti di buior. L'alma innocenza

Che coperti li avea quasi di un velo,

E insino allor del mal la turpe faccia

Lor nascondea, fuggì: fuggì la bella

Mutua fidanza, la bontà, lo schietto

Candor primiero ed a colpevol'onta

Furon nudi lasciati. Invan coprirla

Essi vorrian, chè più palese ancora

La fan così. Qual dal lascivo grembo

Della druda infedel Sansone il forte

Raso s'alzò del suo vigor primiero,

Tal d'ogni onor di lor virtù spogliati

Si trovan essi. Uno appo l'altro assisi

Stetter gran tempo, sbigottiti, muti,

Cogli occhi al suolo affissi. Alfin, quantunque

Non men d'Eva confuso, Adam con pena

Questi flebili accenti al labro trasse:

- In qual punto fatale, oimè! l'orecchio

A quel bugiardo verme, Eva, porgesti,

Chiunque fosse che l'uman linguaggio

Contraffar gl'insegnò! Ben altra sorte

Veritier ci annunziò, ma, troppo falso,

Una sorte miglior: son gli occhi nostri

Or aperti pur troppo, appien pur troppo

Veggiamo il bene e 'l mal; perduto bene

Ed acquistato male. Oh! frutto reo

Del Saper, se Saper questo s'appella,

Che d'innocenza, di purezza e fede

Orbi ci lascia e d'ogni pregio antico;

E nel volto c'imprime i chiari segni

D'un turpe ardor, fonte di mali, e l'onta

Alfin che tutti gli accompagna e chiude

La trista schiera! Ah! come innanzi a Dio,

Come agli Angeli suoi, che pria sì spesso

Scender a noi con tanta gioia vidi,

Più mostrarmi io potrò? Queste or mortali

Pupille inferme a sostener capaci

Non saran più quello splendor superno.

Oh! potess'io trar qui selvaggia vita

In qualche burron cupo, ove del sole

E delle stelle a' rai mi ricoprisse

Boscaglia impenetrabile con ombra

Ampio stesa di folta eterna notte!

Vostri rami addensate, o cedri, o pini,

Copritemi, ascondetemi sì ch'io

Il ciel non vegga più. Ma intanto in questo

Misero stato nostro almen si cerchi

Come celar l'uno dell'altro al guardo

Quel ch'ora in noi sembra arrecare oltraggio

Al decoro, al pudor. Di qualche pianta

Le molli ed ampie foglie insiem congiunte

Cingano i lombi nostri, onde l'infesta

Onta che a perseguirci ha testè preso,

Sovra noi non si posi e ci rimprocci

Nostra bruttura. - Ei sì consiglia, ed ambo

Nel più folto del bosco insieme entraro,

E tosto il fico elessero, non quello

Che da' suoi dolci frutti ha nome e loda,

Ma quel ben noto anch'oggi agl'Indi adusti

Nel Malabar e nel Decan, che vaste

E lunghe stende le ramose braccia,

Da cui pendenti al suol nuovi rampolli

Metton nuove radici, ed ampia intorno

Cresce la prole alla materna pianta

In largo giro di colonne e d'archi

Frondosi, alteri, e d'echeggianti vie.

Ivi l'Indo pastor dal raggio ardente

Spesso ricovra, e per gli aperti spazj

Sta rimirando, alla fresc'ombra assiso,

Gli sparsi armenti pascolar sul piano.

Di quell'arbor le foglie eguali ad ampio

Scudo amazonio essi spiccaro, e come

Seppero il meglio, insiem le uniro e un cinto

Se ne formaro. Ahi vane cure! il turpe

Lor fallo e la temuta onta seguace

Non celan già! Quanto dal primo onore

D'ignuda purità, quanto è diverso

Quel tristo ammanto! In guisa tal fasciati

Di penne i fianchi e le altre membra ignudi

Trovò Colombo, non ha guari, erranti

Ir per foreste e per boscosi lidi

Gli abitator del discoperto mondo.

Così credero i nostri padri, almeno

In parte, aver la lor vergogna ascosa;

Nè men perciò tristi e dogliosi, in terra

A lagrimar s'assisero, nè solo

Larga versâr dagli occhi amara vena,

Ma di sconvolti impetuosi affetti

Nelle lor alme ad innalzarsi un nembo

Incominciò. Disdegno, odio, sospetto,

Diffidenza, discordia agita e scuote

Le misere lor menti, albergo in pria

Di calma e pace, or di tumulto e guerra.

Sulla ribelle volontà governo

Non ha più l'intelletto, ambi son fatti

De' sensi schiavi, e di ragion l'impero

Usurpan cieche, disfrenate voglie.

Alfine Adam, da quel ch'egli era un tempo

Non meno che nel cor, tutto cangiato

Nel volto e nella voce, il suo ripiglia

Interrotto parlare: - Ah! se l'orecchio,

Eva, tu davi al mio pregar, se quando

Quest'infausto mattin quella sì strana

Voglia d'errar, come non so, ti prese,

Se tu con me fossi rimasta, ancora

Noi saremmo felici, e privi adesso

Eccoci d'ogni ben, d'onta coperti,

Nudi, meschini! Ah! più non sia chi cerchi

Dar di sua fè non bisognevol prova:

Chi darla avido anela e vuol perigli

Temerario incontrar, sull'orlo ei pende

Già della sua ruina. - E quai, soggiunge

Eva punta a quel biasmo, e quai dal labbro

T'usciro, Adamo, acerbi detti? A mia

Colpa o voglia d'errar, qual tu la chiami,

Imputi ciò che presso a te non meno

Avvenirmi potea? ciò che a te stesso

Forse poteva anco avvenir? Se stato

Tu fossi allor presente, alcuno inganno,

Io ne son certa, in quel parlar del serpe,

No, scorto non avresti: entr'esso e noi

Cagion di nimistà non era alcuna;

Odiarmi ei non potea: perchè di danni

Dunque temerlo apportator? Non mai

Dunque io dovea dal fianco tuo staccarmi,

E, al par di prima, inanimata costa

Sempre ivi affissa rimaner? Se mio

Capo e signor tu sei, se tanto rischio

Mi vedevi incontrar, perchè divieto

Al mio partir con assoluto impero

Non festi tu? Facil pur troppo allora

Molto non ripugnasti, anzi l'assenso

E 'l commiato mi desti. Ah! se costante

E fermo stavi in tuo rifiuto, ancora

Io sarei, tu saresti anco innocente.

- È questo dunque l'amor tuo? ripiglia

Irato allor la prima volta Adamo;

E di mia tenerezza il premio è questo?

Eri tu già perduta, ed io per anco

Viver potea, potea goder eterno,

Felice stato; eppur con teco, ingrata!

Perdermi scelsi! e rinfacciarmi or sento

La cagion del tuo fallo? Assai severo

Non ti sembrai nel mio divieto! E ch'altro

Far io potea? Del tuo periglio accorta

Non ti fec'io? non tel predissi? Forse

Non ripetei che insidïosi lacci

Un fier nemico ci tendea? Restava

Sol forza usar con te; ma qui la forza

Un libero voler stringer non debbe.

Vana fidanza di te stessa allora

Ti trasportò, chè non trovar periglio

Ti promettevi, o rivolgesti solo

La vittoria e 'l trionfo in tuo pensiero.

Io forse ancora errai, tant'alta e pura

Credendo tua virtù che nulla mai

Di malvagio assalirla osato avrebbe;

Quest'è l'error ch'io piango, e che m'ha spinto

A quel misfatto, onde tu stessa or sei

L'accusatrice! E tal la sorte ognora

Fia di ciascun che, in femminil virtude

Posta soverchia fè, di donna in mano

Abbandoni il governo: altera, audace

Non soffrirà ritegno, e, a sè lasciata,

Del mal che avviene incolperà primiera

La debolezza e l'indulgenza altrui.

In amare così querele alterne

Essi l'ore spendean, ma niun se stesso

Mai dannava però, nè alcun di quelle

Vane contese lor fine apparìa.

 


LIBRO DECIMO

 

 

Gli angeli che stavano a guardia del Paradiso, conosciuta la disubbidienza dell’uomo, abbandonano i loro posti e risalgono al cielo per giustificare la vigilanza loro. Il figlio di Dio, mandato a giudicare i nostri progenitori colpevoli, scende e pronunzia la loro sentenza; indi, tocco dalla pietà. li riveste ambedue e risale al cielo. La Colpa e la Morte che fino allora stavano alle porte dell’inferno, avvedutesi per una meravigliosa simpatia del buon successo di Satáno nel nuovo mondo, e del delitto ivi commesso dall’uomo, risolvono di non trattenersi più a lungo nell’abisso, ma di portarsi verso la dimora dell’uomo sulla traccia di Satáno. A render più facile il tragitto dall’inferno a questo mondo, fabbricano uno stupendo ponte a traverso del Caos. Mentre sono per discendere sulla terra incontrano Satáno che ritorna all’inferno, superbo del suo buon successo. Loro scambievoli rallegramenti; Satáno arriva al Pandemonio; racconta con orgoglio in piena assemblea la vittoria da lui riportata sull’uomo; e invece degli aspettati applausi ascolta un sibilo generale degli uditori suoi trasformati improvvisamente con essoseco in serpenti, secondo la sentenza data nel paradiso. Un bosco di alberi somiglianti all’albero vietato della Scienza sorge presso di loro, vi salgono su avidamente per averne le frutta, ma solo masticano polvere e ceneri amare. La Colpa e la Morte infettano la natura. Dio predice la finale vittoria del suo Figlio sopra di loro e il rinnovamento di tutte le cose; e intanto comanda agli angeli di far diverse mutazioni nel cielo e negli elementi. Adamo, scorgendo sempre più decaduto il suo stato, piange amaramente, e respinge da sé Eva che cerca di confortarlo. Ella persiste e finalmente lo calma; quindi per distornare la maledizione che doveva cadere sopra i loro figli, propone ad Adamo violenti mezzi, che da lui non sono approvati. Egli concepisce migliori speranze, le rammenta la promessa a loro ultimamente fatta, che la stirpe di lei prenderà vendetta del serpe, e la esorta a unirsi seco per placare col pentimento e colle preghiere l’offesa Divinità.

 

 

 

 


Di Satán l'opra dispettosa e nera,

Com'egli ascoso entro l'anguinea scorza

Sedotto avea la nostra madre antica,

E questa indi il consorte, a côrre il pomo

Dell'arbore fatal, palese intanto

Era nel cielo. E chi di Dio lo sguardo

Evitar può che sovra il tutto è steso?

Chi sua mente ingannar, cui tutto è chiaro?

Ei giusto e saggio non vietò che all'uomo

Satán movesse assalto, all'uomo armato

D'integre forze e libero volere,

E tutte d'un nemico aperto o ascoso

Atto a scoprire, atto a rispinger l'arti.

Di non gustare il mortal frutto a quella

Coppia Dio stesso impose, e fisso ognora

Ella serbar l'alto comando in mente,

Qualunque fosse il tentator, dovea:

Pur trasgredillo, e quindi a dritto incorse

La pena inevitabile d'un fallo

Che tenea tanti falli in sè raccolti.

Mesti per la cangiata umana sorte

Ch'è lor già nota, e taciturni al cielo

Rapidamente gli angeli saliro,

Meravigliando assai com'entro il vago

Giardin furtivo penetrar potesse

Il perfido nemico. Appena giunta

La fatal nuova alle celesti porte,

A ognun increbbe, e dolorosa nube

Velò quel giorno le beate fronti,

Sebben quel duol, misto a pietà, l'eterna

Gioia non violò. Trasse dintorno

Al testè giunto angelico drappello

L'eterea gente, per udir del tristo

Caso l'istoria, ma veloce questo

Al divin s'affrettò supremo soglio

Del ben compiuto uffizio a render piena,

Agevole ragion, quando la voce

Dalla segreta nube, in cui si cela,

Il sommo eterno Padre, in mezzo al tuono

Così disciolse: - Angeli accolti, e voi

Ch'or ritornate dall'infausto incarco,

Cagion di turbamento o di dolore

Quello che in terra avvenne, a voi non sia.

Tutte le vostre cure opposte invano

Sariensi a ciò: ben lo predissi, quando

L'infernal golfo valicò da prima

Quel fello insidiator, che giunto ei fora

Ad ottener de' rei disegni il fine;

Che l'uom sarìa sedotto, e, all'esca preso

Di fallaci lusinghe, avida orecchia

Prestato avrebbe a menzogneri detti

Contra 'l suo Creatore. Alcun de' miei

Decreti al suo cader parte non ebbe,

Nè del più lieve tocco io mossi il pieno

Libero suo volere, in equa lance

A se stesso lasciato. Or ch'altro resta,

Poichè caduto egli è, se non che scenda

Sul fallo suo la meritata pena,

La morte che intimai? Già vana ei spera

Quella minaccia mia perchè veloce

Non la compiè, qual si credea, l'effetto;

Ma ben vedrà, pria che si chiuda il giorno,

Ch'altro è l'indugio, altro il perdon; nè fia

Che, qual la mia bontà, schernita torni

La mia giustizia. A giudicarli or dunque

Chi spedirò se te non mando, o Figlio,

Che in cielo, in terra e nel profondo abisso

A sostener mie veci eletto fosti?

Chiaro nella tua scelta è il mio disegno

D'unir pietade alla giustizia: io mando

In te dell'uom l'intercessor, l'amico,

Il volontario redentore e 'l prezzo

Del suo riscatto insiem, te mando alfine

Uomo promesso, a giudicar l'uom reo. -

Sì disse il Padre, e l'ampio fiume a destra

Spandendo de' suoi rai, tutto il suo nume

Fe' senza velo lampeggiar nel Figlio

Che manifeste in sè medesmo espresse

Le paterne sembianze, e con divina

Voce soave. - A te conviensi, o Padre,

Il decretar, rispose, a me la tua

Suprema volontade in cielo e 'n terra

Sta l'eseguire, onde tu pago ognora

In me riposi tuo diletto figlio.

Que' delinquenti a giudicare io scendo;

Ma sopra me dee ricader, lo sai,

Qual ch'ella sia, la lor condanna un giorno

Al compiersi de' tempi. A ciò m'offersi

Nel tuo cospetto, e, non pentito, adesso

Io quella pena d'addolcire ottengo

Che poi su me si stenderà. Pur fia

La giustizia così da me temprata

Colla pietà che satisfatte entrambe

Risplenderan più belle, e appien placato

Il tuo sdegno sarà. Di stuol seguace

Verun uopo io non ho; soli i due rei

Fiano presenti al mio giudicio: il terzo

Dal suo fuggir convinto e già ribelle

Ad ogni legge, condannato assente

Meglio sarà: convincimento al serpe

Non è dovuto alcun. - Ciò detto, alzossi

Dal folgorante soglio ov'ei sedea

Del padre in compagnia. Virtù, dominj,

Ministre podestà, principi e troni

Lo seguîr fino alle celesti soglie,

Donde l'Eden si scopre e tutte intorno

Sue belle piagge. In un sol punto sceso

È sulla terra; chè sebben sull'ale

De' più ratti momenti il tempo vola,

Non già di Dio la rapidezza adegua.

Già dal meriggio invêr l'occaso il sole

S'era abbassato, e le gentili aurette,

Foriere della sera, all'ora usata

Scotean lor vanni a rinfrescar la terra,

Quando in suo sdegno mansueto e dolce

Egli venne dal ciel, giudice e insieme

Intercessore, a profferir sull'uomo

Il suo giudicio. La colpevol coppia

Udì la voce da leggiero vento

Al su' orecchio portata, udì la voce

Di Dio che i passi pel giardin movea,

E dalla sua presenza entro il più folto

Si celò delle piante. Allor più presso

Iddio si fece, ed appellò con alta

Voce Adamo così: - Mi fuggi, Adamo?

Dove se' tu che con tal gioia e festa,

Scorgendomi da lunge, in pria solevi

Venirmi incontro? Io non ti trovo, e intorno

Sol trista solitudine mi veggo

Qui dove già, non ricercato ancora,

Tanto mi dimostravi affetto e zelo.

Qual io solea, non son? qual mai vicenda,

Qual caso or t'allontana o ti ritarda?

Vieni, ti mostra. - Ei viene, Eva lo segue;

Ma tanto or più restìa, quanto più pronta

Al fallo già; confusi entrambi in volto,

Tremanti in cor. Ne' loro sguardi amore

Nè vêr Dio, nè fra lor più non appare;

Ma sol colpa, terror, sdegno, vergogna,

Rancor protervia e frode. Incerto Adamo

Tenta, nè può parlare; in brevi accenti

Alfin così risponde: - Io nel giardino

La tua voce ascoltai, ma tema n'ebbi

Perch'ero nudo e mi nascosi. - A lui

Placido allora il Giudice soggiunge

Senza rampogna: - La mia voce spesso

Senza timore udisti, anzi con gioia;

E come sì terribile or divenne

Ella per te? Che tu se' nudo, or donde

Sapestil tu? Di quella pianta il frutto,

Ch'io toccar ti vietai, gustato hai forse? -

- Oimè! che fo? doglioso Adam soggiunge,

In dura stretta invero oggi dinanzi

Al mio Giudice sto: tutta m'è forza

In me recar la colpa, ovver la dolce

Mia compagna accusar, della mia vita

L'altra metà. Di lei che fida sempre

Pur mi riman, non io celar l'errore

Anzi dovrei che a biasmo ed onta esporla

Con le querele mie? Pur mi vi stringe

Mia dura sorte e ineluttabil fato,

Onde tutta su me l'orrida mole

Del fallo e del gastigo insiem non piombi.

E s'io tacessi ancor, qual cosa mai

Fugge, o Signore, il guardo tuo? La donna

Che ti piacque formar per mio sostegno

E ricevei come il miglior tuo dono,

Egregio dono, convenevol, caro

E divino così ch'io mai sospetto

D'alcun male non n'ebbi, ella che in tutte

L'opere sue, come di grazia, ancora

Di saggezza e virtù splender parea,

Ella il frutto mi porse ed io 'l gustai. -

- Fors'ella era il tuo Dio? (riprese allora

La manifesta maestà del cielo)

Che la voce ascoltar di lei piuttosto

Dovessi tu che la mia voce? Forse

Arbitra e guida di tua vita ell'era,

O t'era almeno egual che l'alto e degno

Viril tuo stato in sua balìa ponessi,

Quel nobil grado, in cui locato Iddio

T'avea sovr'essa che di te formata

E per te fu soltanto, e da te vinta

In ogni pregio più sublime e vero?

Beltade e vezzi per piacerti ell'ebbe,

Non già per farti servo. A chi soggiace,

Non a chi regge eran que' doni adatti

Ond'io la ornai. L'autorità, l'impero

A te si convenìa, se ben te stesso

Riconoscer sapevi. - Indi rivolto

Ad Eva disse: - E tu che festi, o donna? -

Allor coperta di vergogna e mesta,

All'augusto suo giudice davanti

Tutta tremante e cogli sguardi a terra,

Breve ella disse: - M'ha ingannata il serpe,

Ed il frutto gustai. - Ciò udito, Iddio

La sua condanna a profferir si volse

Senza indugio sul serpe. Ancor ch'ei solo

Dell'altrui fellonìa fusse strumento,

Nè la colpa recar sul reo potesse,

Pur, come infetto e dal primier natio

Suo fin contaminato in opra iniqua,

Egli fu maledetto. Utile all'uomo,

Del resto ignaro, il più saper non era,

Nè gli scemava il fallo. In voci arcane

Avvolger tuttavia piacque all'Eterno

Sul reo Satáno la sentenza, e in tali

Detti il serpe esecrò: - Perchè ciò festi,

Fra gli animali e fra le belve tutte

Sei maledetto: andrai carpon la terra

Sul tuo petto strisciando e fia tuo cibo

Per tutti i giorni tuoi del suol la polve.

Fra la femmina e te perpetua guerra

E fra 'l suo seme e 'l tuo porrò: tu sempre

Insidierai le sua calcagna, e 'l capo

Esso t'infrangerà. - Così predisse

L'oracol santo, e fu compiuto poi,

Quando Gesù dell'alma Vergin figlio,

Della nostra più pura Eva seconda,

Mirò Satán, prence dell'aria, in guisa

Di rovinosa folgore, dal cielo

Precipitare; e dalla tomba quindi

Sorgendo, vinti principati e scettri,

In pompa trionfal lungi splendente

Dietro si trasse i vincitor superbi

Incatenati per gli aerei campi

Che lungo tempo, qual suo regno, avea

Occupati Satán, Satán che sotto

A' nostri piè conquiso e infranto alfine

Per lui sarà che gliel predisse allora.

Ad Eva quindi si rivolse, e in questi

Detti il giudicio profferì: - Tue pene

Co' tuoi concepimenti insieme, o donna,

Io multiplicherò; con duolo i figli

Al dì darai; sarà soggetto a quello

Del tuo consorte il tuo volere, e impero

Egli avrà sopra te. Così dipoi

Adamo ei condannò: Perchè l'orecchio

Desti alla voce di tua donna e 'l frutto,

Ch'io ti vietai, gustasti, è pel tuo fallo

Maledetta la terra, onde con stento

Per tutti i giorni di tua vita il cibo

Ne ritrarrai: di triboli e di spine

Ferace ella sarà; l'erbe del campo

Ti daranno alimento, e pane avrai

Sol nel sudor della tua fronte infino

Che tu rieda alla terra, onde se' tolto,

All'origine tua: chè polve fosti

E polve tornerai. - Cotal decreto,

Giudice e salvator, sull'uomo ei rese

E allontanò dell'intimata morte

Il sovrastante colpo. Indi pietoso

Di lor che così nudi avea davanti

E all'aer esposti che cangiarsi or dee,

Infin d'allora non sdegnò di servo

Prender sembianze, e, come poscia i piedi

Lavò de' suoi discepoli, qual padre

Or questi figli suoi miseri e nudi

Con le pelli ammantò d'estinte belve,

O con le spoglie che lor tolse, e, come

In angue, rinnovò; nè sol le membra

De' suoi nemici rivestir degnossi

Ma quella ancor molto più turpe interna

Lor nudità, del sommo padre al guardo

Di sua giustizia ricoprì col manto.

Rapido al ciel quindi risale, e in tutto

Il beante splendor del sen paterno

Egli rientra: al Genitor placato

Piena ragion del suo messaggio rende,

Benchè quei nulla ignori, e per l'uom reo

Grazia e mercede d'implorar non cessa.

Prima del fallo e del giudicio intanto

Sulla terra avvenuti, entro le soglie

Del carcere infernale a fronte a fronte

Colpa e Morte sedean, mentre lontano

Dentro il buio Caosse ignei torrenti

Vomitavan le porte spalancate,

Da che la Colpa aperte e il fier nemico

L'ebbe varcate. Ella rivolta a Morte:

- O prole mia, perchè sediam qui, disse,

A riguardarci in faccia in ozio indegno,

Mentre il nostro gran padre in altri mondi

Inoltra i passi glorïosi, e a noi,

Suoi cari figli, miglior sede appresta?

Propizia sorte lo accompagna al certo:

Ov'altro fosse, dal furor rispinto

Di que' nemici suoi, fatto ritorno

Avrebbe omai quaggiù; chè adatto loco

Al suo gastigo ed alla lor vendetta

Più di questo non v'ha. Sentir già parmi

Vigor novello in seno, ali mi sembra

Sentir crescere a tergo, e ch'io già spieghi

Verso ampio regno a me concesso il volo

Fuori di questo orror; sì mi trasporta

Non so qual forza impetuosa, arcana,

Che le disgiunte ancor per tratto immenso

Conformi cose in amistà segreta

Congiunger può con ammirabil nodo.

Tu meco ne verrai, tu ch'ombra mia,

E dal mio fianco indivisibil sei;

E perchè questo interminabil, cupo

Báratro il ritornar di lui non tardi,

Tentiamo in prima un'opra audace e dura,

Ma di noi degna e al tuo potere e al mio

Non disegual. Sul vasto oceano orrendo

S'erga un sentier che dall'inferno arrivi

Fino a quel nuovo mondo, ov'or Satáno

È vincitore. Il monumento illustre

Dal grato infernal popolo con gioia

Sempre ammirato fia; chè facil varco

Avran sovr'esso e quei ch'a far soggiorno

Là chiamerà la sorte, e quei che d'ambo

Le parti andranno e torneran messaggi.

Nè già smarrir poss'io la via: tal nuovo

Impulso guidator colà mi tragge

E infallibile istinto. - A ciò risponde

Lo scarno spettro: - Ove ti guida il Fato

E 'l tuo possente genio, or vanne: addietro

Io non mi rimarrò, nè il dritto calle,

Te duce, errar poss'io. D'immensa strage

Già respiro la preda, e quanto ha vita

In sulla terra, mi tramanda un grato

Sapor di morte. Al fianco tuo m'avrai

Nell'opra disegnata, e teco a prova

Mie forze impiegherò. - Così dicendo,

Del feral tôsco, ond'or la terra è infetta

Fiuta il vapor con gioia, e qual da lungi

Un grande stormo di voraci augelli

Là stende il volo ove s'accampan due

Pronte a battaglia pel venturo giorno

Osti nemiche, e già presente l'ampio

Di que' vivi cadaveri macello,

Vittima della morte al nuovo sole

E grato pasto suo: così la torva

Squallida imago da distanza tanta,

Le aperte nari invêr la terra alzando,

Per la caliginosa aria l'odore

Attrae della sua preda. Ambo escon quindi

Dalle tartaree soglie, e sul fremente

Vasto regno del Caos, umido e nero,

Per diverso sentier slanciansi a volo:

Poi con robusta infaticabil lena

Su quell'acque librandosi, quant'ivi

O solido o viscoso a lor s'affaccia,

Come in irato mar su e giù travolto,

In ampj mucchi ragunando vanno,

E d'ogni lato il cacciano d'Averno

In vêr la bocca. Tai due venti usciti

Da poli opposti, sovra il cronio mare

Infurïando, smisurati monti

Accozzano di ghiaccio e chiudon oltre

Petzora il passo ai ricchi liti eoi

Del felice Cataio. Il vasto ammasso,

Con la pari a tridente, adusta e fredda

Clava che un gelo impietrator tramanda,

Morte percosse e l'assodò, qual fissa

Un giorno fu la già natante Delo;

Poi col gorgoneo sguardo il tutto rese

Rigido, immoto. Già dalle profonde

Radici dell'averno, insiem compatta

D'asfaltico bitume e larga al pari

Della soglia infernal, s'innalza e cresce

La ben fondata sponda: ecco s'incurva

Sullo spumante abisso in arco immenso

La vasta mole, un portentoso ponte

Che altissimo, lunghissimo distendesi

Fin dentro al muro immobile di questo

Mondo or aperto e dato a Morte in preda.

Ampio e agevol cammin di là conduce

Giù nell'inferno. Tal (se lice a grandi

Picciole cose assomigliar) bramoso

Di por la greca libertade in ceppi

Serse dall'alta sua mennonia reggia

Al mar sen venne, e 'l gran cammino imposto

Sull'Ellesponto, Asia ed Europa unío

E flagellò con replicati colpi

L'onde sdegnose. Con mirabil arte

Così compiuto avean que' fabbri inferni

L'alto lavoro e de' pendenti massi

L'enorme vôlta audacemente spinta

Sullo sconvolto báratro, lunghesso

La traccia di Satán fin dove appunto

Ei l'ali stanche ripiegò da prima

Fuor del Caosse, e posò salvo il piede

Del nuovo mondo in sull'esterna faccia.

Stanghe e catene d'adamante alfine

Tutta assodano l'opra, e troppo, ahi! troppo

Stabil la fanno. Or là son giunti i mostri

Ove tre vie fan capo: inverso il cielo

L'una conduce, a questo mondo l'altra;

E lunghissima a manca invêr l'averno

S'apre la terza. Già movean le due

Furie alla terra e al Paradiso, quando

Fra lo Scorpio e 'l Centauro ecco Satáno

In forma di celeste angel lucente

Lor si presenta, che sublime il volo,

Allor che entrava in Arïéte il sole,

Da questo suolo avea spiegato. Il padre,

Benchè in forme non sue, da' cari figli

Ravvisato è bentosto. Ei, già sedotta

Eva, nel vicin bosco erasi ascoso,

E là sott'altro aspetto, intento a quello

Che poscia ne avverrìa, tratto nel fallo

Vide da lei, benchè di frode ignara,

Adamo ancor; la lor vergogna vide

Cercare inutil vel: ma quando il Figlio

Scender di Dio per giudicarli ei scorse,

Spaventato fuggì, così sperando

Scampo non già, ma del divin presente

Furor sottrarsi, a súbita tempesta.

A notte poscia ei fe' ritorno, e dove

L'afflitta coppia ragionando insieme

E piangendo sedea, vôlto l'orecchio,

La sua propria sentenza indi raccolse,

E ch'or non già, ma in avvenir dovea

Su lui caderne il colpo. Ei lieto quindi

De' suoi trionfi, apportator tornava

D'alte nuove all'inferno, e là sul margo

Estremo del Caosse, appiè del nuovo

Prodigioso lavor, ne' due s'avvenne

Che incontro gli venian, diletti figli

Inaspettati. Gran letizia e festa

Fu quinci e quindi, e di Satán s'accrebbe

Anco la gioia alla stupenda vista

Del fabbricato ponte. A lungo ei stette

Meravigliato a riguardarlo, quando

La colpa alfin, sua lusinghiera figlia,

Ruppe il silenzio e disse: - Ammira, o padre,

Della tua gloria un monumento illustre

In quest'alta struttura; a te dovuta

Ell'è, se tu nol sai; tu primo autore

E artefice ne sei. Tal dolce e stretto

Legame di natura unisce e move

Con armonia segreta i nostri cori,

Che delle tue vittorie, ond'or mi fanno

Certa gli sguardi tuoi, fin di laggiuso

Ebbi fausto presagio, e mi sentii,

Benchè divisa per frapposti mondi,

Spinta vêr te da irresistibil forza

Con questo germe tuo; cotal per sempre

Noi tre congiunge ordin fatale! Omai

Più ritenerci non potè l'averno,

Nè quest'oscuro, innavigabil golfo

Nell'aperto da te nobil sentiero

Ci contese il seguirti. A noi, finora

Chiusi in quel tetro carcere, tu piena

Libertà procacciasti, il nostro regno

Le ben munite sue frontiere ha steso

Per te tant'oltre, e per te frena e doma

Questo ponte sublime il nero abisso.

Or questo mondo è tuo: quel ch'altri ha fatto

A te diè il tuo valor; più che dell'armi

Non ti tolse il destin, ricovrar seppe

L'alta tua mente e vendicare appieno

I danni in ciel sofferti. Ampio qui regno,

Che aver lassù non ti fu dato, avrai.

Lascia che in ciel (così decise il Fato)

Quel vincitor sia donno, or ch'egli stesso

Volontario ti lascia in abbandono

Questo novello mondo: egli di tutte

Cose divise dagli empirei fini

Teco parta l'impero: il quadro cielo

Ei s'abbia, e tu la mondïale spera;

O in te risurto un più che mai feroce

Nemico ei vegga e pel suo soglio tremi. -

- Mia vaga figlia, e tu mio doppio germe

(Delle tenebre il re lieto risponde),.

Un'alta prova oggi mi deste invero

D'esser voi stirpe di Satán (superbo

Di questo nome or vo che me rivale

Del re de' cieli onnipossente esprime),

E ampiamente di me, dell'oste inferna

Mertato avete, che fin qui, sì presso

Delle celesti porte, a' miei trionfi

Con quest'eccelsa, glorïosa mole

Uniste i vostri, e con sì stabil varco

Fêste di questo mondo e dell'inferno

Un solo regno ed una patria stessa.

Or mentr'io dunque per lo buio a quelle

Sozie possanze colaggiù discendo

Sul da voi fabbricato agevol calle

A dar contezza de' successi miei

E divider con lor le gioie nostre,

Voi per quest'altra via, fra mezzo a queste,

Or tutte vostre, numerose sfere

Dritto all'Eden scendete: ivi felici

Soggiornate e regnate; indi si stenda

Sulla terra e sull'aere il vostro impero,

E più sull'uom che dichiarato solo

Sovrano fu del tutto; egli sia vostro

Schiavo primiero, e alfin tuo pasto, o Morte.

Io vi mando in mia vece, e 'n vostre mani

La piena, incomparabile mia possa

Tutta rimetto: in voi, ne' vostri uniti

Sforzi di questo mio novello regno

Sta il securo possesso e delle inferne

Cose la gloria. Ite felici e forti. -

A questi detti, tra le folte stelle

Precipitan color rapido il corso

E di velen spargono il calle. Ogn'astro

Aduggiato scolorasi, dell'atra

Tartarea peste alla maligna forza

S'ecclissa e langue ogni pianeta. Intanto

Per l'altra e nuova via Satán scendea

Alle porte d'inferno. Alto mugghiando

Il diviso Caosse a destra e a manca

Assal con rovinose onde sonanti

La sovrapposta fabbrica che a scherno

Prende il vano furor. Varca Satáno

Le aperte soglie, da color lasciate

Che al nuov'orbe volaro, e tutto intorno

Trova deserto. Ritirata addentro

S'era l'oste infernale intorno a' muri

Del Pandemonio ch'è cittade e reggia

Dell'eccelso Lucifero (tal nome

Ebbe Satáno un dì dal fulgid'astro

Cui fu rassomigliato). In armi stava

Il campo tutto, e in general consesso

Sedeano i grandi della sorte incerti

Del sommo duce ch'eseguiti appieno

Gli ordini or trova al suo partir lasciati.

Come inseguìto dal nemico Russo

Là d'Astracan per li nevosi campi

Ritirasi lo Scita, o qual sen fugge

Il battrïan sofì verso i ripari

Di Tauri o di Casbìn, pieno di tema

All'apparir dell'ottomana luna,

E 'l regno d'Aladúl dietro si lassa

Fatto un deserto, tal quell'oste inferna

Dal ciel sbandita i neri suoi confini

Abbandonò per lungo spazio, e intorno

Alla suprema e più munita rocca

Con stretta guardia si ridusse, e quivi

Che l'audace suo re dall'alta impresa

Di gir cercando nuovi esterni mondi,

Faccia ritorno, d'ora in ora attende.

Egli, in sembianza di comun guerriero

Dell'ordine minore, inosservato

Passò fra lor; varcata indi la porta

Della sala real, sul trono eccelso

Che nel fondo sorgea con regia pompa

D'auro e di gemme riccamente intesto,

Invisibile ascende; ivi un tal poco

Egli s'assise, e il tutto a sè dintorno

Vide non visto: alfin come da nube

La sua fulgida fronte ecco si mostra,

E la forma qual astro ampio raggiante;

Anzi ancor più raggiante un falso lume

Spande, o gli avanzi della gloria prima

Che a Dio piacque lasciargli. All'improvviso

Folgoreggiar, quelle tartaree turbe

Volgon gli sguardi, e 'l sospirato duce

Veggon fra lor tornato. Alto risuona

Il plauso universale, ed ogni grande

Di quel nero consesso a un tratto s'alza,

E pien di gioia verso lui s'affretta

E 'l circonda e 'l festeggia. Egli con mano

Silenzio impone, e rispettoso, attento

Stassi ciascuno: - O principati, o troni,

Podestadi, virtù, dominj, ei dice,

Non sol pe' dritti vostri a voi si denno

Tai nomi ormai, ma pel possesso ancora

Degli espressi poteri or ch'io ritorno,

Oltr'ogni speme fortunato, a trarvi

Da quest'inferno, abbominevol antro

Di miseria e d'orror, da questo crudo

Carcer di quel tiranno. Un nuovo, un vasto

Mondo or vi chiamo a posseder che poco

Al nostro ciel natìo di pregio cede,

E ch'io fra mille rischj e mille affanni

Vi suggettai. Lungo il ridir sarebbe

Quello ch'io fei, quant'io soffersi, e come

I vôti, immensi, tempestosi guadi

Del feroce Disordine io trascorsi.

Quel varco, ov'or largo cammin costrutto

Han Colpa e Morte, ed appianato al vostro

Glorïoso tragitto, apersi io primo

Fra duri stenti: io mi slanciai, m'immersi

Nel tetro grembo del Caosse informe

E della notte ingenita che al mio

Viaggio audace s'opponean, gelosi

De' loro arcani, con orrenda rabbia;

E con fragor, con urli i gran decreti

Allegavan del fato. Al nuovo mondo

Che già predetto in ciel gran tempo innanzi

Avea la fama, vincitore alfine

Io giunsi; egregia fabbrica, perfetta,

Meravigliosa. Ivi in giardin felice

Era locato l'uom che al nostro esiglio

Dovea sua bella sorte. Al suo Fattore

Con l'arti mie lo fei ribelle, e un pomo

A lui vietato, il crederete? un pomo

A ciò bastommi. Per tal fatto (or voi

Ridete) acceso d'ira il re supremo

L'uom suo diletto e tutto il mondo insieme

Alla Colpa ed a Morte ha dati in preda,

E quindi a noi, senz'alcun rischio nostro

O pena o tema, a noi che là potremo

Soggiornar, spazïar, regnar sull'uomo,

Com'ei sul tutto in pria regnar dovea.

È ver (nol celo) che su me pur anco

Ei profferir la sua sentenza volle,

O piuttosto sul serpe, onde le forme

Io presi a sedur l'uom. Quel che mi spetta,

È mortal odio ch'ei fra me vuol porre

Ed il genere umano. Io deggio al piede

Tendergli insidie, ed il suo seme un giorno

Calpesterammi il capo; il quando poi

Non sepp'ei dir. Forse tropp'alto è il prezzo

Del conquisto d'un mondo? Eccovi esposti

I miei successi. Or ch'altro resta, o numi,

Se non andar di quei beati regni

Al pien possesso? - Egli, ciò detto, alquanto

Fermossi ad aspettar le liete grida

E 'l plauso universal; ma d'ogni lato

Ode, all'opposto, d'infinite lingue

Un orribile sibilo improvviso,

Suon di ludibrio general. Stupito,

Ma pochi istanti, ei ne riman; chè tosto

Maggior stupore ha di se stesso: ei sente

Che gli si stira e affila il volto, a' lati

Gli si affiggon le braccia, insiem le gambe

S'accoppian, s'attortigliano e bocconi,

Riluttante, ma invan, sul ventre cade

Mostruoso serpente a terra steso.

Or maggior della sua lo investe e doma

Una superna forza, e, come vuole

La sua condanna, in quella forma stessa,

In cui peccò, porta la pena. Ei tenta

Parlar, ma sol con la trisulca lingua

Sibili rende a' sibili dell'altre

Trisulche lingue; chè conversi i rei

Complici del suo fallo al par con lui

Son tutti in serpi. Un fero suon riempie

La vasta sala che d'attorte code

E spaventose teste ondeggia tutta

In orridi viluppi, e tutta ferve

Di que' rabbiosi mostri; aspi, cornute

Ceraste, anfesibène, idri, scorpioni,

Dipsadi, ellopj. Moltitudin tanta

Già non fu vista da quel suolo uscirne

Ove l'atro stillò gorgoneo sangue,

E non d'Ofiusa. In mezzo a lor grandeggia

Satán, dragone smisurato assai

Più di quel che dal fango il sol produsse

Pitone immane, e sovrastare agli altri

Sembra, come di forma, ancor di possa,

Seguillo ognun verso l'aperto campo

Ove l'intero esercito ribelle

Schierato stava cupido e superbo

Ad aspettar che il glorïoso duce

Si mostri in pompa trionfal, quand'ecco,

Oh vista ben diversa! un stuolo appare

Di deformi serpenti. Un freddo orrore

Assal tutta quell'oste e la percote

Il colpo stesso. In ciò che miran, tosto

Senton cangiarsi; cadono repente

L'aste e gli scudi al suolo, e cade a un tempo

Ogni guerrier: rinnovasi per tutto

L'orribil fischio, e quell'orribil forma

È di colpa comun comun gastigo.

Così fur vôlti in sibili di scorno

I loro applausi ed il trionfo in onta

Dalle proprie lor lingue. A far più grave

La pena loro, ivi dappresso un bosco

(Così piacque all'Eterno) a un tratto surse

Tutto carco di poma appien simìli

A quelle che a Satán fur l'esca ond'egli

Nel paradiso Eva ingannò. Gli sguardi

Sopra il novo stranissimo portento

Essi a lungo fissâr, da tema presi

Che, per un arbor solo, ivi cresciuta

D'arbor vietati sì gran copia fosse

A raddoppiar la lor vergogna e 'l danno.

Ma cruda fame e intollerabil sete

D'alto mandata sì gli assale e strugge

Che non san rattenersi: a torme, a mucchi

Tutti colà s'avvoltolaro, e sovra

Le piante inerpicandosi, dai rami

Così pendero attorcigliati e folti

Che fu men folto di Megera il crine.

Avidamente a dispiccar le frutta

Tosto si dier, vaghe e lucenti al guardo

Non men di quelle che un dì crebber poi

Appo il sulfureo lago, ove del cielo

Cadde la fiamma e Sodoma fe' polve.

Ma non al tatto solo, al gusto ancora

Fean queste inganno: essi calmar pensando

Con dolci poma la rabbiosa fame,

Amarissime ceneri mordaci

Solo col dente stringono, che tosto

Sono con ira e sibilante scroscio

Costretti a rigettar: tornan più volte

Spinti da fame e sete all'aspro assaggio,

Ed altrettante il sozzo, orrido pasto

Di ceneri e fuliggine distorce

Loro e bocca e mascelle. A quell'inganno

Sì fur spesso dannati essi che alteri

Ivan testè d'un sol trionfo e vano

Sovra l'uomo caduto, e tormentolli

Quello stridulo fischio e quell'atroce

Rabida fame infin che lor concesso

Fu ripigliar le prime forme. Ogni anno

Però, siccom'è voce, in fissi giorni

Quella pena e quell'onta in lor ricade

Ad abbassarne l'esultante orgoglio

Per l'uom sedotto. Incerta aura di fama

Pur del vantato lor trofeo si sparse

Fra le idolatre genti, onde cantaro

Che il serpe a cui d'Ofione il nome diessi,

Prima dell'alto Olimpo il regno tenne

Con Eurinome insieme (in lei fors'Eva

Che usurpò ambizïosa i dritti altrui,

Intesero nomare), e furo entrambi

Indi scacciati da Saturno ed Opi

Pria che al lume del dì sul ditteo giogo

Uscisse Giove. A' nostri danni intanto

Ahi! troppo ratta in paradiso è giunta

L'infernal coppia. Il sol poter stendea

Ivi la Colpa in prima, or ella stessa

Evvi in persona, e stabil sede avervi

Già fa disegno. Ne ricalca l'orme

Morte dappresso che non anco il tergo

Premea del suo corsier squallido e smunto,

Quando colei sì prese a dir: - O Morte,

O di Satán secondo illustre germe

Di tutto domator, di', che ti sembra

Di questo nostro impero? Ancor che duro

Cammin ci costi, assai miglior per noi

Non pensi tu che senza possa e nome

Lo starci a guardia colaggiù di quelle

Atre soglie infernali, ove per lungo

Digiun tu pur languivi? - A cui quel mostro

Così tosto rispose: - A me ch'eterna

Fame tormenta, paradiso, inferno,

O ciel che importa? Ov'è maggiore il pasto,

Ivi mia stanza anco è miglior; nè spero

Bench'io qui larga preda abbia davanti,

Empiermi il ventre già, nè stender mai

Intorno all'ossa mie la vôta pelle. -

- Intanto di quest'erbe e frutta e fiori,

Soggiunge allor l'incestuosa madre,

Pasciti in prima, indi d'augelli e pesci

E d'ogni belva, non spregevol cibo,

E quanto il tempo coll'adunca falce

Miete, col dente vorator tu struggi;

Finch'io sovra l'intera umana stirpe

Fermi mia sede e del mio tosco infetti

I suoi pensier, sguardi, parole ed opre,

E tua lo renda alfin più dolce preda. -

Ambo, ciò detto, per diverso calle

Volsero il piè, di spargere anelando

In ogni cosa di lor peste i semi,

E tosto o tardi, quanto vive, tutto

Maturare all'eccidio. Allor dal sommo

Soglio mirando ciò l'Eterno Padre,

Ai circostanti luminosi cori

Così parlò. - Mirate là que' sozzi

Mostri d'inferno con qual rabbia vanno

La terra a disertar ch'io non men vaga

Creai che buona, e tal serbata avrei

Se il folle error dell'uomo a quelle ree

Struggenti furie non ne aprìa l'ingresso.

Pur quel prence d'averno e gli empj suoi,

Perchè a' nemici miei facil consento

D'entrare in sì bel regno e avervi impero,

D'improvvidenza osan tacciarmi, e oggetto

A' lor dileggi io son, qual se da cieco

Disdegno preso, in lor balìa lasciato

Io tutto avessi e al lor furore in preda:

Nè san ch'io stesso que' mastini inferni

Di laggiù spinsi in sulla terra ond'essi

Quanto d'immondo e turpe il fallo umano

Sparse colà sovra le pure cose

Deggian tutto lambire e pascer sempre;

Finchè di quella sanie e quel sozzore

Satolli e gonfj, a un colpo sol del tuo

Vittorïoso braccio, o amato Figlio,

Con l'atra preda loro un'altra volta

Scagliati sien giù pel Caosse alfine

Dentro l'abisso, cui le ingorde fauci

Fian con suggello eterno allor serrate.

Più santi e puri allora il ciel, la terra

Di beltà nuova splenderan, nè mai

Soggetti a macchia più. Ma d'uopo è intanto

Che si purghi il misfatto e 'l mio s'adempia

Sovran giudicio. - Egli qui tacque, ed alto,

Come il fremer de' mari, in tutto 'l cielo

Dell'infinito angelico consesso

Risonâr gli alleluja: - È giusta e retta

Ogni tua via, Signor: giusti son tutti

In tutte l'opre i tuoi decreti eterni:

Chi fia che adombri la tua gloria? Al Figlio

Della perduta umana stirpe eletto

Ristorator quindi sia gloria e lode,

Per cui novello ciel, terra novella

Sorger vedranno le future etadi

O scender dall'empiro a' cenni suoi. -

Tai furon gl'inni, e 'l Creator frattanto

A sè chiamando i suoi ministri a nome,

Diverso incarco a ciascun diè, com'ora

L'ordin volea delle cangiate cose.

Di torcer la sua via così fu prima

Al sole imposto e tal vibrar sua luce

Che gelo e ardore intollerabil quasi

La terra alternamente ne sentisse,

Or dal rigore aquilonar percossa,

Or dalle infeste soffocanti vampe

Che il solstizio le avventa. Il proprio fue

Ministero alla luna indi fermato,

Ed agli altri pianeti i varj moti,

I varj siti, i varj spazj, ond'ora

Guardansi opposti con sinistre fronti,

Or s'uniscon maligni. Appreser quando

I loro influssi rei versar le fisse

Stelle dovean; qual d'esse a par col sole

Sorgendo o tramontando orridi nembi

Avesse a sollevar: fu il loco a' venti

Prescritto, e quando furïosi insieme

Dovrian mescere il mare e l'aria e i liti.

E quando il tuon le buie eteree volte

Crollerìa spaventoso. È fama ancora

Ch'a' suoi ministri comandò l'Eterno

Per venti gradi e più dal solar asse

Svolgere i poli della terra, e quelli

Non senza sforzo l'ampia e stabil mole

Spinsero e travoltâr. Per egual tratto,

Com'altri vuol, del suo Signore al cenno

Scostossi il sole dal cammino usato,

Pel Tauro, per le atlantidi sorelle

E i gemelli spartani infino al segno

Ascendendo del Cancro, e quindi in giuso

Pel Leon, per la Vergine e la Libra

Calando al Capricorno. I varj climi

Ebber così varia stagion: che in altra

Guisa un'eterna primavera in terra

Sarïasi vista e fresche erbette e fiori,

Con notti eguali a' giorni: ai poli il sole

Per compensarli di sua scarsa e troppo

Lontana luce, compartito avrebbe

Perpetuo dì, visibile girando

Senz'orto e senza occaso intorno intorno

All'orizzonte, nè d'eterni ghiacci

Forano state rigide le piagge

D'Estotilanda e i magellani liti.

Dall'empio assaggio del vietato frutto,

Qual dall'infando tïestèo convito,

Rivolse quel grand'astro i guardi e 'l corso:

Chè se, qual fu dipoi, tal fosse stato

Suo calle in pria, come il terrestre globo

Schivato avrìa, benchè di colpa scevro,

Gli acerbi freddi ed i cocenti ardori?

Cotai vicende in ciel trasserne in terra

E in mar, benchè più lente, altre simíli;

Splendero infausti gli astri; ignei vapori,

Caliginose nebbie ed atre pesti

L'aria infettâr: da Norumbéga estrema

E dai confin de' Samoiedi algenti,

Le lor di bronzo carceri squarciando

Borea ad Argeste e Cecia e Trascia armati

Di neve e gelo e turbini e procelle

S'avventano a schiantar le selve intere

E por sossopra i mari. Ad essi incontro

Si slanciano ruggendo Africo e Noto

Cinti di negre, fulminanti nubi

Dalla Serralïona e dalle porte

Del mezzodì. Di fianco in giostra viene

Con furia egual Zefiro ed Euro, e presso

Han Scirocco e Libeccio altomugghianti.

Tal fra le cose inanimate in pria

Trambusto surse, e della Colpa figlia

La Discordia bentosto il suo furore

Soffiò negli animali, e fu di morte

Fra lor ministra: cogli augei gli augelli,

Coi pesci i pesci ed ogni belva insieme

Cominciaron la guerra: i frutti e l'erbe

Obblìan feroci, e l'arrabbiato dente

Volgon l'une sull'altre; all'uomo alcuna

Più non serba rispetto, e il fugge o biechi

Torce sovr'esso nel passar gli sguardi.

Cotai furo i crescenti esterni mali

Che dalle folte e nere ombre del bosco,

U' s'era ascoso e abbandonato al duolo,

Già scorse in parte Adam, ma ben più feri

Nel seno altri ne prova, e 'n gran tempesta

Agitato d'affetti, il grave affanno

Cercò sfogar così: - Misero Adamo,

Tanto felice in pria! Di questo nuovo

Splendido mondo adunque il fine è questo?

A questo fin venn'io che dianzi n'era

L'ornamento più bello? Io che del cielo

Era testè l'amor, l'odio or ne sono?

E la vista di Dio, già di mie gioie

Suprema gioia, or di terror m'ingombra?

Ma de' miei mali almen qui fosse il fine!

Io li ho mertati e soffrireili in pace.

Ma che! quanto prolunga il fil di questa

Misera vita mia, la vita in altri

Da me diffusa, altro sarà che trista

Propaggin di miserie? Oh voce, oh voce

Con tanta gioja udita un dì! - Crescete,

Moltiplicate: - Oh voce or, più che morte,

Amara a ricordarsi! E ch'altro mai

Poss'io moltiplicar se non le altrui

Fere bestemmie sovra il capo mio?

Chi ne' venturi secoli, fra i tanti

Mali ch'io tratti avrò su lui, chi fia

Che non mi maledica? - Ecco il retaggio

D'Adamo, si dirà; mal s'abbia il reo

Nostro progenitor! - Così l'immenso

Carco dei danni, onde saranno oppressi

I miei più tardi sventurati figli,

Tutto sull'alma mia, quasi in suo centro

Ricaderà, s'aggraverà. Quai lunghi

Affanni, oimè, succederanno ai brevi

Piacer del Paradiso! Ah! t'ho fors'io

Richiesto, o Creator, di trarmi fuora

Dalle tenebre mie? Ti pregai forse

Da quel mio fango d'innalzarmi a questa

Forma vitale, e qui locarmi? A quello

Che festi, il mio voler parte non ebbe:

Giusto non fora il ritornarmi dunque

Nella mia polve? Io volontier vi torno,

Tutto quant'ebbi volentieri io rendo,

Io non atto a serbar quell'ardue leggi

Per cui quel bene ritener dovea

Che non ti chiesi. Io l'ho perduto, e basta;

Perchè tu dunque d'infiniti mali

V'aggiugni il peso? Inesplicabil sembra

La tua giustizia: pur tardi, il confesso,

Sì, troppo tardi, ora m'oppongo: allora

Che offerti furo, io ricusar dovea,

Quai che fossero, i patti. Il dono, Adamo,

Tu ricevesti, ne gioisti, ed ora

Contro la legge del goderlo, or movi

I tuoi vani argomenti? Iddio creotti

Senza il consenso tuo: ma che? se un reo

Figlio, mentre il riprendi, a te dicesse:

- Perchè mi generasti? Io non tel chiesi: -

L'oltraggiosa accettar discolpa audace

Vorresti tu? Pur non tua scelta diede,

Ma di natura necessaria legge

A lui la vita; e Dio crearti scelse,

E perchè grato il suo voler seguissi,

Trasfuse in te di sè medesmo un raggio.

Era suo dono il premio; a dritto or dunque

Sta in suo voler la pena: io mi sommetto;

Giusto è il giudicio suo: fui polve, e polve

Io tornerò. Deh ne giungesse il punto!

Ma perchè tarda la sua man quel colpo

Ch'oggi scagliar fermò? Perchè ancor vivo?

E son gioco di morte, e senza morte

Mi si prolunga il duolo? Oh come lieto

Alla data sentenza incontro andrei

Di ricadere in insensibil terra!

Quanto lieto a giacer porreimi in essa,

Come in grembo a mia madre! Ivi tranquillo

Avrei riposo, avrei sicuro sonno;

Non più di Dio la spaventevol voce

Mi tuonerebbe nelle orecchie allora;

Non più per me, pe' figli miei la tema

Mi cruceria con rinascenti pene

Di peggior sorte. Un dubbio aspro la mente

Però mi punge, che non tutto forse

Io morirò; che forse in un con questa

Corporea creta mia non verrà meno

Quell'aura pura che spirovvi Iddio:

E allor chi sa ch'io nella tomba o in qualche

Altro fero soggiorno ognor non provi

Senza morir la morte? Oh se ciò fosse!

Qual orrido pensier! Ma che! lo spirto

Di vita, ei sol, peccò; dannato a morte

È ciò che ha vita e colpa, e questo incarco

Terreno mio dell'una e l'altra è scevro.

Tutto dunque io morrò. Tacciano alfine

I dubbj miei: chè andar non sa più lungi

L'umana mente. Ah! se il Signor del tutto

È infinito, infinito anco il suo sdegno

Fia dunque? Sia; tal non è l'uom, che a morte

Ora è dannato. È come eterna l'ira

Dio sull'uom stenderebbe, a cui di vita

Fisso è un confin? Fare immortal la morte

Egli forse potria? Pugnanti cose

Ei stesso unir non può; chè fora questo

Di debolezza e non di possa un segno.

L'insazïabil sua vendetta dunque

Andrebbe oltre la polve, oltre le leggi

Della natura, onde ogni causa solo

Opra quanto il subietto in sè sostiene,

Non già quant'ella in sè medesma puote?

Pur se la morte un colpo sol non fosse,

Com'io supposi, che ogni senso spenga;

Ma serie interminabile di pene,

Che in me medesmo e fuor di me già sento

Incominciata, e se durar dovesse

Così per tempo eterno... Oimè! ritorna

Sull'ignudo mio capo il mio timore

A tuonar spaventoso. Io dunque e morte

Con sempiterno indissolubil nodo

Sarem congiunti? E non sol io, ma tutti

Andranno meco i miei più tardi figli,

Tutti perduti? Oh bel retaggio ch'io

Vi lascio, o figli! Consumarlo tutto

Io sol potessi almeno, e parte alcuna

A voi non ne lasciar! Quanto il mio nome

Benedireste allor, che un suon d'orrore

Così saravvi! E d'un sol uom pel fallo

Dunque dannato fia, benchè non reo,

Tutto il genere uman? Non reo! Che dico?

Ah! di mia colpa l'orrido fermento

Entro la massa di mia stirpe intera

Serpeggia e la corrompe: i figli miei

Saran d'infetta fonte infetti rivi:

Le lor menti, i pensier, le voglie e l'opre

Tutto fia pravo, e del suo sdegno Iddio

A dritto graveragli. Ah! sì, costretto

A confessar la sua giustizia io sono,

E per le buie, tortuose vie

De' miei vani argomenti io cerco indarno

Una fuga, uno scampo; ogni ragione

Al mio convincimento alfin mi guida.

Ultimo e primo io solo, io sol radice

Son d'ogni labe, e in me solo ricade

La colpa tutta. Oh ricadesse ancora

Tutta l'ira del ciel!... Che dissi? Ahi cieco

Desire! un peso io sostener potrei

Più della terra, più del mondo intero

Grave, orrendo a portar, sebben con quella

Trista donna diviso? E quanto bramo

E quanto temo, ogni speranza dunque

Distrugge di salute! O qual esempio

Insuperabil di miseria io sono!

Solo Satán, come in delitto, ancora

M'agguaglia in pena. O coscïenza, in quale

Abisso di terror m'immergi, ond'io

Se tento uscire, altro cammin non trovo

Che non mi tragga in un più cupo abisso! -

Questi mettea dal seno alti lamenti

Per la tacita notte afflitto Adamo,

Notte non più salubre e fresca e dolce,

Quale innanzi al peccar, ma ingombra e cinta

D'umide, spaventose, alte tenébre

Che all'atterrito cor presentan mille

In ogni oggetto orridi mostri e larve.

Sul suol, sul freddo, ignudo suol disteso

Ei spesso l'ora maledice, in cui

Creato fu, spesso la morte accusa

Che il suo colpo scagliar nel dì del fallo

Doveva, e ancor lo indugia. - Oh! perchè mai,

Perchè non vieni, o morte? egli pur torna

A replicar, perchè t'imploro invano?

Manca a' suoi detti un Dio? Perchè sì tarda

È la giustizia sua? Ma sorda è morte

A' voti miei, nè per preghiere e pianti

La divina giustizia affretta il passo.

Ben altre, o boschi, o fonti, o colli, o valli,

Ben altre note già dall'ombre vostre

Ripeter v'insegnai, ben altro canto. -

Quando sì vinto dal dolor lo vide

Eva dal loco ove piangendo stava,

Accorse, e quel furor con molli detti

Disacerbar tentò; ma: - Fuggi, fuggi,

Esecrabil serpente (egli le grida

Con severo sembiante), a te conviensi

Ben questo nome, a te che seco in lega

T'unisti, al par fallace e degna al pari

D'abborrimento. Oh perchè ancor non hai

Tu quelle forme stesse, onde altri avviso

Di tua nequizia interna avesse almeno,

Nè quel tuo lusinghier, celeste aspetto

D'infernal fraude occultator, nei lacci

Strascinasse così! Felice ancora

Io sarei senza te, senza quel vano

Orgoglio tuo che i miei consigli a vile

Ebbe nel maggior uopo, e 'l mio rispinse

Ah! troppo giusto diffidar. Dinanzi

Allo stesso Satán, di tua beltade

Desïasti far pompa, e 'l folle ardire

Di superarlo anco nudrivi! Intanto

Al primo incontro, nel tessuto inganno

Ecco schernita cadi; indi con teco

Nel precipizio me, perfida! traggi.

Ahi cieco me! me forsennato allora

Che saggia e ferma ed invincibil contro

Ad ogni assalto io ti credei, nè scorsi

Che verace virtude in te non era,

Ma vana mostra solo! Ah! perchè in terra

Un solo sesso ed il miglior non regna,

Siccome in ciel? Perchè quel grande e saggio

Supremo Facitor formò sì nuova

Creatura quaggiù, questo sì vago

Di natura difetto, ed altra via

L'umano seme a propagar non scelse?

Quest'orribile dì surto non fora

Allor per me, nè le venture etadi

Sariano esposte a mali tanti e gravi

Ch'io già preveggo. Una compagna adatta

Or l'uom non troverà, ma tale avralla

Qual trista sorte o inganno a lui la mena:

Or quella ch'ei più brama, a' voti suoi

Starà proterva e dura, e poscia in braccio

Darassi d'un indegno; or, se d'eguale

Amor ell'arda, s'opporran severi

I genitori: or quando alfin potrebbe

Ogni suo bel desìo far pago appieno,

Con laccio indissolubile già stretto

Ei troverassi a donna iniqua e rea

Che sarà l'odio suo, la sua vergogna.

Così sconvolta e travagliata sempre

Fia la pace domestica e la vita. -

Disse e 'l tergo le volse: Eva per questo

Non si sconforta, ma con largo pianto

E discomposte trecce, umile ai piedi

Gli si getta, li abbraccia e perdon chiede

E così geme e prega: - Ah! non lasciarmi,

Adam, così: m'è testimone il cielo

Qual io nel seno riverenza e amore

Senta per te: fu involontario il fallo,

E d'un funesto inganno io caddi preda.

Supplice adesso il tuo perdono imploro

E tue ginocchia stringo. Ah! non mi tôrre

Quegli sguardi soavi, ond'io sol vivo,

E i tuoi consigli e 'l tuo soccorso in questa

Estrema mia sciagura, o sol conforto,

Solo sostegno mio. Se m'abbandoni,

A chi ricorro? ove mi volgo? Ah! sia,

Almen finchè viviam (forse una breve

Ora soltanto), ah! fra noi due sia pace.

Entrambi offesi fummo, entrambi uniti

Contr'un nemico espressamente a noi

Decretato dal ciel, tutto volgiamo

L'odio nostro e 'l poter, contro quel crudo

Serpe: deh! pon giù l'ira: assai meschina,

Meschina troppo, e più di te son io.

Peccammo entrambi; contro il ciel tu solo,

Io contro il cielo e te. Sì, vo' tornarmi

A quel loco medesmo ove l'Eterno

Ci condannò. Là con preghiere e pianti

Lo stancherò ch'ei dal tuo capo svolga

La sua sentenza e la ritorca tutta

Sovra me sola d'ogni mal cagione,

Sovra me sola del suo sdegno intero

Ben giusto oggetto. - Ella finì spargendo

Un rio di pianto. In rimirarla umíle,

Inginocchiata, immobile, dal duolo

Oppressa e dai rimorsi, Adam sentissi

Tocco dalla pietà: gli parla il core

Per lei ch'era testè sua gioia sola,

Anzi sua vita, ed or prostrata, immersa

In disperato affanno ai piè si mira;

Per cotanta beltà che grazia chiede

E pietade e consiglio e aìta a lui

Ch'ella oltraggiò. Tutto il suo sdegno ei perde,

L'alza da terra, e placido le parla

In questi accenti: - Oh sconsigliata e troppo,

Siccome pria, nelle tue brame cieca!

Tutto sopra di te vorresti dunque

Ricevere il gastigo? Ah! prima apprendi

La tua metade a tollerar: non sai

L'ira soffrir del tuo consorte, ed atta

Ti credi a sostener l'orrenda piena

Dell'ira eterna, onde non provi ancora

Fuorchè minima parte? Oh! se co' preghi

Si potesser cangiar gli alti decreti,

Precederti a quel loco io ben vorrei

Con ratti passi, e con più forte voce

Chieder che sul mio capo il ciel versasse

Tutto il suo sdegno, e appien ne fosse immune

Un sesso frale a me fidato e ch'io

Mal seppi custodir. Ma sorgi, e omai

Da ogni alterno rimprovero si cessi;

D'altronde assai ne abbiam. Sol si contenda

In ufficj d'amore e in far più lieve

De' nostri guai scambievolmente il peso,

Giacchè la morte un súbito ritorno

Non fia nel nulla, s'io ben scorgo il vero,

Ma un lento mal che cogl'indugi suoi

Ci diverrà piu grave e fia trasmesso

Nei figli nostri. Ahi sventurati figli! -

Eva, ripreso cor, risponde allora:

- Troppo conosco, Adam, per trista prova

Che i miei consigli, del commesso errore

E di tanta sciagura a noi cagione,

Nulla mertar, fuorchè disprezzo, ponno:

Pur, giacchè 'l tuo favore, ancor che indegna

Io ne sia, tu mi rendi e insiem la speme

Di racquistarmi il tuo primiero affetto,

Che, vivendo o morendo, il mio conforto

Sempre sarà, non vo' celarti quali

Pensier mi van per l'agitata mente,

Onde ristoro o fine abbia l'estrema

Sciagura nostra; aspro compenso e duro,

Ma di quella men duro, e tal che puote

Ben anteporsi. Se il pensier ci affanna

De' figli nostri ch'a infallibil duolo

Nascer dovran, che preda alfin di morte

Tutti saranno (e miserabil certo

È il tramandar dal proprio sangue in questa

Dannata terra un'infelice stirpe

Che dopo tanti guai sia pasto alfine

Di quell'orrido mostro), in te scamparli

Sta dal crudo destin. Figli non hai,

Figli non acquistar: così delusa

Morte sarà, così l'ingordo ventre

Di noi due soli ad appagar costretta.

Ma se fra i vezzi usati e i dolci sguardi

E 'l dolce conversare, arduo tu stimi

Frenar l'ardor degli amorosi amplessi,

De' nuzïali riti, e di desìo

Senza speme languir dinanzi al caro

Oggetto d'egual brama anch'ei languente

(Tormento forse non minor di quanti

Noi ne temiamo), a liberar noi stessi

D'ogni terrore e i nostri figli a un tempo,

Cerchiam spedita via, cerchiam la morte;

O compian nostre mani, ov'ella indugi,

L'ufficio suo. Fra tremiti ed angosce

Perchè stiam noi, s'ella è di tutte il fine,

E tante strade a lei ci sono aperte?

Scelgasi la più breve, e si consumi

Coll'esterminio l'esterminio. - Pose

Eva qui fine, o de' suoi detti il resto

Troncò l'insana, disperata doglia;

E l'imagin di morte ond'ella ingombra

Tutta l'anima avea, le sparse il volto

D'un esangue pallor. Ma, nulla mosso

Da tai consigli, Adamo alzò la mente

Più attenta e grande a miglior speme, e disse:

- Il tuo sprezzar la vita, Eva, discopre

In te qualcosa più sublime e degna

Di ciò che sprezzi; ma il cercar la morte

Non è dispregio della vita, è duolo

Di perderla piuttosto e perder seco

Que' diletti, a cui troppo il cor s'appiglia.

Chè se qual fin delle miserie estremo

Brami la morte, e la prescritta pena

Pensi evitar così, lascia la vana

Speranza, o certa sii che Dio più saggio

La vindice ira sua così non arma

Ch'altri stornarla possa: anzi tem'io

Che se le mani vïolente e crude

Contro noi volgeremo, a noi s'accresca

La decretata pena, e più crucciato

L'alto Fattore alla protervia nostra,

Eterni in noi la morte stessa. Ad altro

Dunque ci rivolgiam miglior consiglio,

Che parmi ritrovar, se attento io peso

Parte di quel decreto: «Infranto il capo

Al serpe fia dal seme tuo.» Qual fora

Meschina ammenda questa, ove non sieno

Vôlti quei detti al nostro gran nemico,

A Satán, com'io penso, il qual ci ordìo

Sotto imagin del serpe il fero inganno?

Schiacciar l'empio suo capo alta vendetta

Sarebbe invero, e procacciando morte,

O senza prole i nostri dì passando,

Ella fora perduta. Il suo gastigo

Ei così fuggirebbe, e doppio in noi

Cadrebbe il nostro. Ogni pensier stia lunge

Dunque da noi di volontaria morte,

E di sterilità che tutte tronca

Nostre speranze, e sol dimostra orgoglio

E rancore e dispetto incontro a Dio

E 'l giusto giogo suo. Rammenta come

Benigno ei ci ascoltò, come senz'ira

Ci giudicò, senza rampogne. Noi

Súbita morte aspettavàmo, ed ecco

Solo del partorire a te predetti

Sono i dolori che bentosto in gioia

Si cangeran de' figli al dolce aspetto.

Cadde, strisciando sul mio capo appena,

La mia sentenza al suolo: io debbo il pane

Col sudor procacciarmi: ebben, peggiore

L'ozio stato sarìa. La mia fatica

Mi sosterrà: contro l'ardore e 'l gelo

Già la provvida sua mano paterna

Spontaneamente ci vestì non degni,

E, al par che giusto, ei si mostrò pietoso.

Or quanto più, se il pregherem divoti,

Facil sarà ch'apra l'orecchia e 'l core

Alla pietà? Delle stagion l'acerbo

Rigor come si schivi, o scemi o tempri

Egli c'insegnerà. Già vedi come

Per lo sconvolto ciel nembose nubi

Aggirando si van; di nevi e ghiacci

Già di questa montagna aspra è la cima,

E con acuto, umido soffio i venti

Sperdon di queste maestose piante

Le belle chiome. Ciò ne avverte, o sposa,

Un ricovro a cercar, dove le nostre

Abbrividate membra abbian conforto

Di maggior caldo; e pria ch'all'aspra, algente

Notte ci lasci la diurna lampa,

A tentar di raccor sovr'arid'esca

Gli addensati suoi raggi e trarvi il foco;

O di due corpi al rapid'urto e spesso

Dall'aer trito sprigionar la fiamma,

In quella guisa che testè dal cozzo

Delle aggruppate nubi in giostra spinte

Scender la tôrta folgore vedemmo

E incendere del pino e dell'abete

La gommosa corteccia e spander lungi

Un sì dolce calor che può del sole

Al difetto supplir. L'uso di questo

Foco e di quanto esser sollievo ai mali

Potrà che il nostro fallo in terra ha tratti,

Iddio ci mostrerà, se a lui devoti

Ricorso avrem. Sì, trapassar la vita,

Sostenuti da lui, potremo ancora

Assai contenta e lieta, infin che resi

Alla polve sarem, primiero nostro

Nativo nido e nostra requie estrema.

Ch'altro di meglio a far ci resta intanto

Se non colà 've giudicati fummo

Ambo tornar, prostesi e riverenti

Cadergli innanzi, confessare il fallo

E implorarne il perdon, bagnando il suolo

Di pianto e l'aere di sospiri empiendo

Tratti da cor compunto, in certa prova

Di vero duolo e d'umiltà sincera?

Certo a pietade egli fia mosso e l'ira

Distornerà. Nel suo sereno sguardo,

Quand'ei più irato e più severo apparve,

Favor non rilucea grazia e mercede? -

Sì disse il nostro penitente padre,

Nè fu minor d'Eva il rimorso. Al loco

Di lor condanna s'affrettaro entrambi

Ivi prostesi e riverenti, a Dio

Caddero innanzi, confessaro il fallo

E imploraro il perdon, bagnando il suolo

Di pianto e l'aere di sospiri empiendo

Tratti da cor compunto, in certa prova

Di vero duolo e d'umiltà sincera.

 


LIBRO UNDECIMO

 

 

Il Figlio di Dio presenta al Padre le preci dei nostri primi genitori pentiti e intercede per loro. Dio le accetta, ma dichiara che essi non debbono più a lungo rimanersi nel paradiso. Manda Michele con una schiera di cherubini a scacciarli da quel felice soggiorno, ma gli ordina al tempo stesso di rivelare prima ad Adamo le cose future. Discesa di Michele. Adamo addita ad Eva certi segni funesti, scorge Michele che si avvicina e va ad incontrarlo. L’angelo intima loro di partire. Lamenti di Eva. Adamo cerca di ottener grazia, ma finalmente si sottomette. L’angelo il conduce sopra un alto monte del paradiso e gli presenta in visione ciò che avverrà fino al Diluvio.

 

 

 


Supplice, umìle, nel dolor, nel pianto

Stava la coppia; chè dal sommo seggio

Della pietà, ne' petti lor discesa

Era la grazia, de' lor cori avea

Franto lo smalto e molle carne invece

Rigenerato in essi, onde profondi

Uscìan sospiri dallo spirto mossi

Della preghiera e con più rapid'ala,

Ch'alto e facondo stile unqua non sciolse,

Volanti al ciel. Non sì devoti e augusti

Fur nei sembianti e nel pregar sì caldi

Que' duo famosi nell'etade antica

(Meno però di quella ond'io favello),

Deucalïon e Pirra, allor che, innanzi

Al sacro altar di Temide prostrati,

Stavan della sommersa umana gente

Implorando il restauro. Al ciel s'alzaro

De' nostri primi genitor le preci,

Nè dal loro cammin torcerle il soffio

O sperderle poteo d'invidi venti,

Ma, da niun spazio rattenute, i santi

Aditi penetraro. Ivi dal sacro,

Che l'ara d'oro eternamente esala,

Incenso rivestite, il divin Figlio,

Supremo sacerdote, innanzi al trono

Le appresentò del Padre e s'interpose

Pronto e lieto così: - Rimira, o Padre,

Quai della grazia tua nell'uom trasfusa

Son sulla terra i bei rampolli primi,

Questi voti e sospir che al tuo cospetto

In quest'aureo turibolo fragrante

Tuo sacerdote io reco: essi dell'aura

Divina tua dentro il suo cor spirata

I frutti sono e più soavi e grati

Di quei che offrirti la cultrice e ancora

Innocente sua man potea da tutti

Gli arbor di Paradiso. Ai preghi suoi

Porgi dunque l'orecchio, e questi ascolta,

Benchè muti, sospiri. Ei, com'è d'uopo,

Supplicarti non sa; lascia ch'io dunque

Intercessore, interprete per lui

E vittima votiva alfine io sia.

O buone o ree sopra di me tu reca

Tutte l'opere sue: perfette quelle

Diverran per mio merto, e 'l sangue mio

Purgherà queste. Accettami, e per l'uomo

Questa di pace alma fragranza accogli

Dalle mie mani. In grazia tua tornato,

De' suoi prescritti dì, benchè dogliosi,

Il numero egli compia infin che morte

(Io d'addolcir non di stornar di prego

La sua sentenza) a miglior vita il renda,

In cui dal sangue mio tutte ricompre

Meco alberghin le genti in gioia eterna,

Unite a me, com'io con te son uno. -

- Quanto per l'uom richiedi, amato Figlio,

(A lui risponde con serena fronte

L'eterno Genitor) tutto è concesso

Ed ogni tua dimanda è mio decreto.

Ma il far più lunga in quel giardin dimora,

Per quelle leggi che a natura io diedi,

Vietato è all'uom. Di quell'ameno loco

I puri, incorruttibili elementi

D'ogni discorde mescolanza scevri

Lui, qual contaminata e avversa cosa

Rispingono da sè nel grosso e immondo

Aer e a cibo mortal che a gradi il tragga

Al suo disfacimento, opra del fallo

Che di venen le pure cose ha sparso.

Un doppio eletto don, quando il creai,

Ebbe l'uomo da me; la pura gioia

E la vita immortal. Poichè la prima

Follemente ei perdè, sol potea questa

Far eterni i suoi mali, ov'io di morte

Non l'avessi provvisto; ultimo dunque

Per lui rimedio è morte, ed essa alfine

Dopo una vita in duri affanni scorsa,

Dopo costanti luminose prove

Della sua fede, alla seconda vita

Pe' giusti decretata, a nuovo cielo,

A nuova terra gli aprirà la via.

Ma da tutti del ciel gli ampj confini

De' beati il concilio omai s'aduni,

Onde i giudizj miei sull'uomo intenda,

Come testè sulle ribelli turme

Li vide e in sua virtù si fe' più forte. -

Ei così detto appena avea che il Figlio

Al vigilante, fulgido ministro

Fe' segno, e questi incontanente il fiato

A quella tromba diè che forse poi

S'udì in Orebbe allor che Dio vi scese,

E nel gran dì de' premj e delle pene

S'udrà fors'anco. L'alto suono empieo

Tutte del ciel le regïoni, e tosto

Da' bei boschetti d'amaranto ombrosi,

Dalle fonti e da' rii d'acque vitali,

Sulle cui sponde in compagnia di gioia

Sedeano i figli della luce, all'alto

Ordine udito, accorrono veloci

Alle lor sedi. Il suo voler sovrano

Allor così l'Onnipotente espose

Dal sommo trono: - A noi simìle, o figli,

Del ben, del mal nella scïenza volle

L'uom divenir col divietato assaggio

Di quel frutto fatal: misero! oh quanto,

Anzichè aver dell'acquistato male

E del perduto ben l'infausto lume,

Miglior per lui, stata sarìa la sola

Conoscenza del ben, null'altro! Or geme,

Tocco da me, si pente e piange e prega;

Ma in sua balìa lasciato, appien conosco

Quant'è il suo cor mutabile e leggiero.

Perch'egli dunque ora la man non stenda

Fatta più audace all'arbore di vita,

Ond'eterno egli viva o il sogni almeno,

Fuori di quel giardin mandarlo ho fisso

Ad abitare e coltivar quel suolo

Ond'egli già fu tratto, e dove stanza

Avrà qual meglio a lui conviensi adesso.

È tuo, Michele, un tale incarco: scegli

Di fiammeggianti cherubini un stuolo

E in Eden teco il guida, onde non mova

(O in aìta dell'uom per onta mia,

O d'occupar bramoso il nuovo albergo)

Nuovi tumulti il rio Satán. T'affretta,

E, fermo nel tuo cor, dal terren sacro

Scaccia il profano abitatore, intíma

Alla coppia colpevole ed a quanti

Da lei discenderanno, eterno esiglio

Dal fortunato suol. Ma, perchè troppo

Su que' teneri cori, omai dal duolo

Oppressi e dai rimorsi, acerbo e grave

Della sentenza mia non cada il colpo,

Non t'armar di terror. Se al tuo comando

Docili ubbidiran, senza conforto

Non partano da te: d'Adamo al guardo

Svela l'istoria de' venturi tempi,

Com'io medesmo inspirerotti, e il patto

Non obblïar che col femineo seme

Io rinnovai. Mesti così, ma in pace

Di là tu li congeda. Al lato poi

Orïental del paradiso, ov'aspro

È men l'accesso dal soggetto piano,

Loca un drappel di cherubini, e fiamma

Lungi ondeggiante di fulmineo brando

Spaventi ognun ch'osi appressarsi, e 'l passo

Chiuda all'arbor di vita, onde ricovro

Il bel giardin non sia d'immondi spirti

Ch'ogn'arbor mio depredino e novelli

Tendano all'uom con quelle frutta inganni. -

Tacque, e 'l possente arcangelo s'appresta

Alla discesa. Fulgida coorte

Di vigilanti cherubini è seco:

Qual doppio Giano, ha quattro facce ognuno,

E d'occhi folgoreggia in ogni parte

La forma lor, più numerosi e desti

Che quei del favoloso Argo non furo,

Nè a ceder presti, come quelli, al tocco

Della cillenia verga o al molle suono

Dell'avena sonnifera. Sorgea

L'aurora intanto a salutar di nuovo

Col sacro raggio il mondo, e di sue fresche

Molli rugiade a ristorar la terra,

Quando, già fine alle sue preci imposto

L'umana coppia, da vigor novello

Sceso dall'alto e da novella speme

E gioia ancor, benchè a timor congiunta,

Sentì riconfortarsi; e Adam rivolse

Queste dolci parole ad Eva intanto:

- Eva, che quanto ben per noi si gode,

A noi scenda dal ciel, difficil cosa

Il discoprir non è; ma che da noi

Possa lassù nulla salir che vaglia

L'alta a toccar di Dio beata mente

Ed a piegare il suo voler supremo,

Duro a credersi sembra; eppur cotanto

Può la preghiera, e dall'umano petto

Un sol breve sospir che infino al soglio

S'alza di Dio. Poichè 'l suo nume offeso

Con umil core e con ginocchia inchine

Mi rivolsi a placar, benigno e dolce

Parvemi di vederlo a' preghi miei

Porgere orecchia; all'affannato core

Tornò la pace, e la promessa in mente

Pur mi tornò che dal tuo seme il nostro

Nemico alfin sarà conquiso. Allora

Nel mio sbigottimento appien quel detto

Io non ricolsi: or certo son per esso

Ch'è l'amarezza del morir passata

E che vivrem. Salve tu, dunque, o sposa,

Tu del genere umano a ragion detta

Madre e di tutte le viventi cose,

Poichè il sarai dell'uom, per cui quaggiuso

Tutte le cose han vita. - Umile e mesta

Eva rispose allora: - Un sì bel nome

Ah! troppo male ad una rea conviensi

Che, fatta a darti aìta, oimè! si feo

La tua ruina: diffidenza invece,

Rampogne e tutti i biasmi a me si denno.

Ma ben è del mio giudice infinita

Verso me la pietà; chè, mentre io fui

Di morte a tutti apportatrice, ei vuolmi

Pur di vita sorgente; e tu benigno

Ne seguisti l'esempio e del gran nome

Degnasti lei che ben diversa il merta.

Ma il campo alla fatica omai ci chiama,

Alla fatica or con sudore imposta,

Benchè senza riposo abbiam trascorsa

L'intera notte. Ah! vedi? i nostri affanni

Nulla curando ecco spuntar ridente

L'aurora e incominciar la rosea via.

Vadasi, Adam. Dal fianco tuo partirmi

No, non vogl'io più mai, dovunque il nostro

Lavor diurno che al cader del sole

Or prolungar ne converrà, ci chiami.

Ma che! mentre ci lice in questo ameno

Soggiorno rimaner, qual cosa mai

Increscer ne potrebbe? Ah! sì, contenti

Sebben tanto scaduta è nostra sorte,

Trapassiam qui la vita. - Erano questi

Dell'umil Eva addolorata i voti,

Ma il ciel non approvolli, e varj segni

Sugli augei, sulle belve, in aere 'n terra.

Ne diè natura. In orïente appena

L'aurora rosseggiò ch'a un tratto l'etra

Di ferrigna caligine infoscossi;

Dalle sublimi aeree vie calando

Alla lor vista un'aquila, su due

Delle più vaghe piume adorni augelli

Scagliossi infesta e gl'inseguì tremanti;

E 'l re de' boschi, predatore or fatto,

Giù da un colle cacciossi un cervo innanzi

Con la compagna sua, coppia gentile

Della foresta onor, che vêr la porta

Orïental del Paradiso in ratta

Fuga si diero. Li seguì cogli occhi

Adam, nè senza turbamento ad Eva:

- O sposa, disse, altre vicende e nuovi

Sovrastano destini: assai con questi

Muti portenti suoi lo svela il cielo,

Nunzj del suo proposto: a noi sicuri

Troppo del suo perdon, sol perchè morta

Sospesa è qualche giorno, essi son forse

Un minaccioso avviso. In buia notte

Celato sta quanto ci resti ancora

Di vita e quale ella sarà: sol chiaro

È che siam polve e torneremo in polve,

Nè più sarem. Perchè s'offerse mai

Agli occhi nostri una cotal di fuga

Sulla terra ed in ciel doppia comparsa,

In vêr la stessa parte e al tempo stesso?

Perchè s'oscura in orïente il giorno

Anco pria del meriggio? e perchè splende

Su quella nube occidentale un lume,

Quasi d'aurora che un candor raggiante

Per lo ceruleo firmamento pinge;

E lento scende ed arrecar dimostra

Non so che di superno? - Imagin vana

Non l'ingannò, chè la celeste schiera

Per le tinte d'un liquido dïaspro

Aure giù scese, e del vicino colle

S'arrestò sulla vetta: alte, divine

Sembianze a rimirar, se Adam quel giorno

Da turbamento e da terror gli sguardi

Non avea tenebrati. Al pio Giacobbe

Non si mostrâr di Manaìm sul piano

Più luminose le attendate squadre

Degli angeli guerrieri, e più fiammante

Non apparì la dotanéa montagna

Tutta d'un igneo campo ricoperta

Contro quel siro re che trarre un solo

Uom ne' suoi lacci e in sua balìa bramando,

Qual assassino, apparecchiato avea

Non proclamata, insidïosa guerra.

All'eteree coorti il sommo duce

Di circondar con le lor armi impone

Il bel soggiorno, e tutto sol s'invia

Al ritiro d'Adam. Questi, da lunge

Scorgendolo venir, sì parla ad Eva:

- Ecco gran nuove, o sposa, ecco il decreto

Forse di nostra sorte, od altre leggi

Che si recano a noi. Da quella nube

Colà che cuopre fiammeggiando il colle,

Veggo qualcuno dell'empireo stuolo

A questa volta incamminarsi, e certo

A quella maestà che agli atti spira

E al portamento eccelso, alcun de' primi

Principi e regi del superno coro

Si manifesta. Minaccevol, fero

Egli non è sì che terror m'infonda,

Nè, come Rafael, benigno e dolce

Sì ch'io molto confidi. Augusto e grave,

Vedi? s'inoltra; ad incontrarlo è d'uopo

Ch'io vada riverente e tu ti scosti. -

Disse, e l'arcangel s'appressò. Lasciato

Egli ha il celeste e preso uman sembiante

Innanzi all'uomo: sopra le lucid'armi

Un militar fulgido manto ondeggia

D'ostro sì ardente che non mai l'eguale

Si tinse in Sarra o Melibea, d'antichi

Regi ed eroi bell'ornamento in pace.

Colorate ne avea l'ordite fila

L'iride stessa: la visiera alzata

Dello stellato elmetto al vigor primo

Della virilità nel vago volto

Misto scoprìa di giovinezza il fiore;

Stringe un'asta la mano, e dal bel cinto,

Qual da zodiaco scintillante, pende,

Spavento di Satán, la fera spada.

Umile Adamo a lui si prostra: ei serba

Senza inchinarsi dignità regale,

E perchè venne, in questi detti espone:

- Gli alti di Dio comandi uopo non hanno,

Adam, di lunghe, inutili parole:

Ti basti che i tuoi preghi accolti furo,

E morte, per sentenza a te dovuta

Quando peccasti, lascerà sua preda

Ancor per molti dì che il ciel ti dona

Onde appien tu ti penta, e l'atto reo

Con molte giuste e degne opre cancelli.

Allora il tuo Signor ben anco puote

Scamparti appieno dal rapace dritto

Che Morte ha sopra te; ma in questo loco

Più rimaner non ti permette. Io venni

A rimuoverti quindi, e quella terra

Condurti a coltivar, da cui già tratto

Fosti, e che meglio a te conviensi adesso. -

Più non diss'ei; chè un'agghiacciata mano

Strinse d'Adamo il core, e intenso affanno

Ogni senso gli chiuse. Eva che il tutto

Non vista udì, con lamentevol suono

L'ombroso loco ove teneasi ascosa

Così scoperse: - Oh inaspettato colpo

Peggior che quel di morte! Io così dunque

Lasciarti deggio, o Paradiso? Io deggio

Così lasciarti o natìo suol, di numi

Degno soggiorno? e voi lasciar, felici

Ombre, ameni passeggi? Invan sperai

Qui dunque, se non lieta, almen tranquilla

Passar la vita mia fino a quel giorno

Che ad ambi fia mortal! Fiori che altrove

Non potrete allignar, voi sull'aurora

Mia prima cura ed ultima la sera,

Voi ch'io con man sollecita dal primo

Vostro spuntar nudrii, cui posi il nome,

Chi ergerà i vostri steli a' rai del sole,

Chi disporrà vostre famiglie, e l'onda,

Ad irrigarvi, dall'ambrosio fonte,

V'arrecherà? Come da te, boschetto

Mio marital, che d'ogni arbusto e fiore

Ornai più vago e più fragrante, ah! come

Da te dividerommi? Ove in quel basso

Mondo, in confronto a questo, oscuro ed ermo

Il piede io volgerò? Come quel denso

Aere spirar potremo? avvezzi a questi

Frutti immortai... - Cessa i lamenti, o donna

(Dolcemente così l'Angelo allora

Nel suo dolore la interruppe) e quello

Che perdesti a ragion, rassegna in pace,

Nè locar troppo in non tue cose il core.

Sola non vai, vien teco Adam, tu dêi

Seguirlo, e ovunque il suo soggiomo fia,

Stimar che là sia la tua patria ancora. -

Dall'improvviso freddo orror riscosso

Adamo intanto e ricovrati i sensi,

Volse a Michele queste umili parole:

- Celeste abitatore, o fra i superni

Cori tu segga o sii fra lor primiero,

Chè a cotanto splendor prence di prenci

Ben ti dimostri, dolcemente invero

Il severo messaggio a noi recasti

Che in altra guisa di tropp'aspro e forse

Mortal dolor ci avrìa percossa l'alma.

Ma quanto tollerar la debil nostra

Natura può di tormentoso e fero,

Dall'annunzio feral che tu ci rechi

Noi tutto lo proviam. Conforto estremo

Fra le miserie nostre eraci questo

Felice asil, questi recessi ameni,

A cui son usi i nostri sguardi: ogni altro

Loco, deserto, inospite, straniero

Per noi sarà, qual noi sarem per esso.

Oh! se co' preghi io di cangiar sperassi

L'alto voler di lui che tutto puote,

Con supplici incessabili lamenti

Io stancarlo vorrei: ma contro i suoi

Assoluti decreti ah! non val priego;

Nulla più val che lieve soffio incontro

All'urto d'Aquilon ch'entro le labbra

Con furia il ripercuote onde fu spinto.

Quindi la fronte riverente io piego

Al comando sovran. Quel che più m'ange,

È che, lunge di qui, rimarrò privo

Di suo beante aspetto. Ad uno ad uno

Io qui divotamente avrei potuto

Tornar quei lochi a visitar sovente

Ch'egli degnò di sua presenza, e un giorno

Ridire a' figli miei: là su quel monte

Iddio, m'apparve, qui visibil stette

Sotto di questa pianta, udii sua voce

Fra questi pini, e qui con lui parlai

Presso questa fontana: eretto avrei

D'erbose zolle ricordevol ara

In ciascun di que' lochi, avrei raccolte

Tutte del rio le più lucenti pietre

E innalzato con esse ai dì venturi

Divoti monumenti, e offerto intanto

Sovra di lor dolce-olezzanti gomme

E frutta e fior. Ma colaggiù nel basso

Mondo, ove dato mi sarà di nuovo

Mirar l'alma sembianza? ove le tracce

De' piedi suoi? Chè s'io fuggii dinanzi

Al suo disdegno, or nondimen che il corso

Prolungò de' miei giorni e mi promise

Posteritade, io di sua gloria almeno

Gli ultimi raggi contemplar vorrei

E l'orme sante venerar da lungi.

- Adam, tu ben lo sai (risponde allora

A lui Michele con benigno sguardo),

Non questa rupe sol, ma il cielo è suo,

Suo l'universo; terra ed aere e mare,

Tutto è ripien di sua presenza, e quanto

Respira e vive, da sua possa immensa

Ha calor, spirto e vita. Egli a te diede

A possedere e dominar la terra,

Non picciol don. Del Paradiso adunque,

Ovver dell'Eden tra i confini angusti

Perchè ristretta or sua presenza credi?

Questa del regno tuo precipua sede

Forse stata sarìa; quindi le umane

Schiatte sariensi sparse, e tutte un giorno

Dai confin della terra avrien qui vôlto

Peregrinando il lor cammin le genti

Ad onorarti e celebrarti primo

Padre loro comun. Ma l'alto onore

E un sì bello avvenire or hai perduto,

E un suolo stesso co' tuoi figli scendi

Ad abitar. Pur dubbio in te non sorga

Che in piano e 'n valle, al par che qui, presente

L'Eterno a te non sia. Di sua bontade,

Del paterno amor suo chiari dovunque

Molti segni vedrai che del suo volto

Ti ritrarran la manifesta imago

E de' suoi piedi le divine tracce.

Ma perchè fede ai detti miei s'accresca,

E in te scemi il timor pria che da questo

Loco tu mova, di lassù mandato

Sappi ch'io sono a disvelarti quale

Destino a te si serba e a' figli tuoi

Ne' dì futuri. Or buone cose or ree

T'appresta ad ascoltar; fra la superna

Grazia e l'umana pravitade un spesso

Ostinato contrasto; e quindi ai mali

Verace sofferenza oppor saprai;

Quindi con pia tristezza e santa tema

Temprar la folle gioia, e con lo stesso

Sereno, imperturbabile sembiante

Mirar l'irata e la ridente sorte.

Più sicuro così trarrai la vita,

E, giunto alfine al tuo mortal passaggio,

Saprai varcarlo apparecchiato e fermo.

Vieni, poggiam su questo monte, ed Eva

A cui legai con grave sonno i sensi,

Qual tu dormivi allor che vita ell'ebbe,

Qui dormirà, mentre con me lassuso

Tu leggerai nell'avvenire. - Ascendi,

Grato risponde Adam, con teco io sono

Ove mi guidi, o mia sicura scorta,

Ed al braccio del ciel, sia pur severo,

Mi sottopongo: incontro a' mali il petto

Offro spontaneo, col soffrir m'appresto

A superarli ed a raccorre alfine,

Se così lice, da' sudori miei

Riposo e pace. - Ambo saliron quindi

Alle divine visïoni. Un monte

Altissimo sorgea nel Paradiso,

Dalla cui cima in chiaro, ampio prospetto,

Tutto quant'è per ogni parte steso

Apparìa della terra un emispero.

Più sublime non fu nè offrìa più larga

Vista là nel deserto il giogo alpestro,

Dove il maligno artefice d'inganni

Già trasportò con altro fine il nostro

Adam secondo, e sotto a' piè mostrogli

In lor superba pompa i varj regni

E la terra promise al Re del tutto.

Ampiamente di là potea lo sguardo

Signoreggiar gli spazj ove famose

Surser dipoi cittadi antiche o nove

E seggio fur de' più possenti imperi.

Da Cambalù che del gran Can fu reggia,

Da Samarcanda in riva all'Osso ov'ebbe

Regno Timùr, fino a Pechin, soggiorno

De' cinesi monarchi; ad Agra quindi

Ed a Laòr, del gran Mogol la sede,

Fin giuso all'aurea Chersoneso, e dove

In Ecbatán o in Ispaán il trono

Surse poscia di Persia, e dove il Czarre

Regge de' Russi il freno, e dove impugna

Ferreo scettro in Bisanzio il fier Sultano,

Adam scorgea; di là non men l'impero

Degli Abissini infino al porto estremo

D'Ercóco, e quei minori al mar vicini

Di Quiloa, di Mombáza e di Melinda

E di Sofála ch'altri Ofír credero,

Fino al Congo e ad Angóla; indi le rive

Del Negro e 'l monte Atlante, e d'Almansorre,

Di Sus, di Fessa, di Marocco e Algeri

E Tremiséne i regni; indi d'Europa

E dove Roma al vinto mondo un giorno

Dovea dar leggi. In spirito fors'anco

Ei vide il ricco Messico, dimora

Di Montezuma, e Cusco ancor più ricco

Là nel Perù, d'Atabalípa sede,

E la Guiána non predata allora,

Alla cui gran cittade i figli poscia

Di Gerïon diêr di Dorádo il nome.

Ma dagli occhi d'Adamo, onde a più grandi

Cose a veder sien atti, il fosco velo

Michel rimove, il fosco vel che steso

Quel frutto su v'avea; di miglior vista

Promettitor fallace; indi il visivo

Nervo ei ne purga con eufrasia e ruta,

E del fonte di vita entro vi stilla

Dipoi tre gocce. Penetrâr cotanto

Queste del mental guardo al seggio interno

Che chiuse gli occhi Adamo e cadde in terra

Tratto de' sensi fuor; ma l'Angel tosto

Lo rileva con mano e in lui ridesta

Così gli spirti: - Apri le luci, Adamo,

E di tua colpa original gli effetti

Prima osserva in talun che da te scende,

Che non distese al divietato pomo

La man, nè col serpente unissi in lega,

Nè fu reo del tuo fallo; eppur da questa

Sorgente infetta un rio veleno ei tragge

Ch'è d'orribili eccessi orribil seme. -

Schiuse Adam gli occhi, e una campagna vide

Parte arabile e culta, ove ammucchiate

Eran testè recise messi, e parte

Offrìa pasture, ovili e mandre; e in mezzo,

Qual confine, sorgea rustico altare

D'erbose glebe. Ivi a recar sen giva

Sudante mietitor le prime frutta

Del suo lavor, la verde e gialla spica,

Affastellate e quali il caso in mano

Gliel'avea poste. Mansueto e dolce

Un pastorello appresso ne veniva

Coi primi parti del suo gregge eletti

Infra i migliori; e il sacrificio offrendo,

Le pingui loro viscere spruzzate

D'incenso distendea su i tronchi rami

E ogni rito compiea. Propizia fiamma

Scesa dal ciel con rapido baleno

Arse tosto i suoi doni, onde si sparse

Grata fraganza intorno, e lasciò intatta

Del mietitor la non sincera offerta.

Gonfiossi a questi il cor di rabbia, e mentre

Con l'altro parla, in mezzo al petto un sasso

Gli avventa; al suol quegli stramazza, e tinto

Di mortale pallor l'anima versa

Infra i singulti e lo sgorgante sangue.

Inorridito a quella vista Adamo

E con subito grido all'Angel vôlto:

- Maestro, disse, ahi che vegg'io! che avvenne

A quel sì placid'uomo, a lui che offerse

Con tanto affetto i doni suoi? Di puro

Culto e pietà la ricompensa è questa? -

- Duo germani son quei, Michel commosso

Anch'egli replicò, che dal tuo sangue,

Adamo, nasceran. L'ingiusto al giusto

La morte dà, d'invida rabbia preso

Per la fraterna offerta al ciel gradita.

Ma inulto non andrà l'orrido fatto,

Nè senza pieno guiderdon la fede

Andrà dell'altro, ancorchè qui tra 'l sangue

Spirar tu il miri e tra la polve involto. -

E 'l nostro antico sire: - Ah! qual delitto!

E qual cagione! Ma veduta adesso

Dunque ho la morte? Ed il cammino è quello

Per cui tornar nella mia polve io deggio?

Oh terribile vista! oh morte, atroce

Allo sguardo, al pensier! or quanto, ahi quanto

Più orribile a provare! - Allor soggiunge

A lui così Michel: - Morte in sua prima

Imago or vista hai tu, ma son di lei

Molte le forme, e per sentier diversi,

Spaventevoli tutti, all'atra sua

Voragine si va, sebben l'ingresso

N'è orribil più che il cupo seno. Alcuni

Periran sotto a vïolento colpo,

Come testè vedesti, altri per foco,

Diluvj e fame; un numero maggiore

D'intemperanza vittime cadranno.

D'atroci morbi mostruosa turba

Sopra la terra essa trarrà che innanzi

Ora t'appariran perchè tu scorga

Di quanti danni l'ingordigia d'Eva

Sopra il genere uman sarà cagione. -

Disse, e repente un vasto loco agli occhi

S'offre d'Adam, lurido, tristo, fosco,

Qual d'egra infetta gente ampio ricetto.

D'ogni malor la spaventevol forma

Ivi raccolta stavasi. Là sono

Crudeli spasmi, orribili torture,

Ambasce, sfinimenti, atra coorte

Di varie febbri, epilessìe, catarri,

Fere tempeste di convulsi nervi,

Laceratrici interne pietre, sozze

Ulceri divoranti, smanïose

Coliche doglie, frenesìe, delìri,

E rabbia e tetra stupida tristezza.

Evvi la tabe estenuata e smunta

E l'asma soffocante, e 'l reuma, acerbo

Strazio delle giunture; evvi la scialba

Tumida idropisìa, v'è la feroce

Sterminatrice peste. Irrequïeto,

È delle membra l'agitar, profondo

Il gemer dappertutto. Era di letto

In letto affaccendata intorno agli egri

La Disperazïone, e il fatal dardo

Morte sovr'essi trïonfando scuote,

Ma spesso il colpo ne trattiene allora

Che invocata è da lor qual sommo bene

Ed ultima speranza. A ciglio asciutto

Qual uom di scoglio sostenere a lungo

Potea sì cruda vista? Adam nol puote;

E benchè nato egli non sia di donna,

In lacrime disciogliesi. Dell'uomo

La miglior parte da pietà fu vinta,

Ed alcun tempo abbandonossi al pianto,

Finchè pensier più fermi in lui frenaro

Del duol l'eccesso e ricovrando a stento

Il favellar, così proruppe: - Ahi tristo

Genere umano, in qual abisso cadi!

A qual serbato sei misera sorte!

Oh! perchè nelle tenebre del nulla

Non resti tu? Dunque del pari a forza

Ci fia data la vita e a forza tolta

Fra tanti orrori? Ah! se conoscer prima

Ciò che la vita sia, l'uomo potesse,

O dell'offerto don farìa rifiuto,

O bramerìa tosto deporlo e indietro

Tornarsi in pace. E può di Dio l'imago

Impressa in lui che tanto illustre e grande

Creato fu, benchè colpevol poi,

Esser depressa a sì deformi strazj,

A così fiere, mostruose pene?

Que' sacri avanzi ch'ei pur serba ancora

Della divina somiglianza prima

A ciò sottrar non lo dovrìan? - L'imago

Del gran Fattor, l'Arcangelo risponde,

Gli uomini allor lasciò che diêr se stessi

Vilmente in preda a cieche, avide brame,

Qual prima in Eva avvenne, e rivestiro

In sè del vizio, lor brutal tiranno,

La vergognosa forma. Abbietto tanto

È quindi il lor gastigo: esso di Dio

Non disfigura già l'effigie santa,

Ma sol la nuova lor cangiata e guasta,

Mentre, poste in non cal le savie norme

Della schietta natura, a sozzi morbi

In balìa dansi ed han condegna pena

D'aver sprezzata in sè di Dio l'imago. -

- Tutto è giusto, il confesso, Adam soggiunge,

E mi sommetto al ciel; ma via non evvi,

Fuor di queste sì crude, onde l'uom possa

Andar a morte e alla natìa sua polve

Rimescolarsi? - Evvi, Michel risponde,

Se del NON TROPPO la gran legge osservi;

Se nel cibo e nel ber tu cerchi solo

Debito nudrimento e non l'ingordo

Falso piacer: così molti anni e molti

Sul tuo capo rivolgersi vedrai,

Finchè qual cade al suol maturo frutto

O di leggier cede alla man che il coglie,

Cadrai tu pur della gran madre in seno,

Nè sarai dalla vita a forza svelto.

Vecchiezza è questa; ma convienti allora

Veder da te la gioventù, la forza,

La beltà dipartirsi e a gradi a gradi

Fiacchezza sottentrar, canizie e rughe.

Non più potrà gl'istupiditi sensi

Penetrare il piacer, non più la gioia

Ti sentirai, nè la speranza in core;

Ma un torpido languor le sceme e fredde

Vene t'occuperà, depressi e tristi

Fieno gli spirti, e 'l succo almo vitale

Inaridito alfin. - La morte omai,

Replica Adam, più di fuggir non curo,

Nè prolungar di troppo i giorni miei.

Unico mio pensier sarà piuttosto

Come portar fino al prescritto giorno

Io meglio possa questo grave incarco

E come meglio allor deporlo. - Vuolsi

Nè amar la vita nè abborrirla (a lui

L'arcangel replicò), tu, finchè vivi,

Di ben viver ti studia, e del suo lungo

O breve corso al ciel lascia la cura:

E a nuova vista t'apparecchia intanto. -

Ei mira, e vede in largo pian distese

Tende di color varj: all'une intorno

Pasceano armenti, uscìa dall'altre un dolce

D'organi o d'arpe armonico concento,

E dell'esperto musico la mano

Scorgeasi pur che rapida scorrendo

Or alto or basso le vibranti corde,

Con le dotte moltiplici misure

In mille guise varïar sapea

La discorde concordia. In altra parte

Sudar vedeasi affaccendato fabro

Di rame e ferro a due gran masse intorno,

O là trovate dove a caso il foco,

Struggendo i boschi, entro le accese vene

Del suol le aveva liquefatte e spinte

Di qualch'antro alla bocca, o dove all'aura

Lasciolle esposte rovinoso fiume.

Trascorre in preparate acconce forme

L'alliquidita massa: ei ne compone

In pria dell'arte gl'istrumenti varj,

E quindi ogni metallico lavoro

Scolpito o fuso. In altro lato un'altra

Dissimil gente dalle alpestri cime

De' patrj monti discendeva al piano:

Parean giusti al sembiante e aver rivolto

Lo studio tutto ad onorar con pio

Culto l'Eterno, a meditar l'eccelse

Della sua mano meraviglie e quanto

Può stabilir la libertà, la pace

Fra le umane adunanze. Eran non molto

Per la pianura andati allor che fuore

Ecco uscir delle tende un stuol di vaghe

Donne di gemme e ricche vesti ornate

Lascivamente. Della cetra al suono

Accordan molli, tenere canzoni,

E s'accostan movendo in lieti balli

Il piè leggiero. Senza fren lasciaro

Gli uomini, ancor che gravi, errar gli sguardi,

Onde ben tosto all'amoroso laccio

Ognuno è colto, e ognun colei si sceglie

Ch'è la sua fiamma: ognun d'amor ragiona,

Finchè nunzia d'amore in cielo appare

La vespertina stella. Allor bramosi

La teda nuzïale accendon tutti

E gridan tutti che s'invochi Imene,

Imen che allor ne' maritali riti

Fu invocato da pria: suona ogni tenda

Di concenti e di feste. Il dolce aspetto

Delle liete adunanze ove d'amore

E della gioventù coglieasi il frutto,

I molli scherzi, i giochi, i fiori, i serti,

Le sinfonìe mosser d'Adamo il petto

Che del piacere al natural talento

Non fu tardo ad aprirsi, ond'ei rivolto

A Michel, così disse: - Angel sovrano,

O verace apritor degli occhi miei,

Assai miglior questo spettacol sembra

Che i due già visti, e di tranquilli giorni

Porge più lieta speme: odio soltanto,

Morte e dolor più che la morte crudo

Appresentavan quei, ma fatta paga

In tutti i fini suoi qui par natura. -

- Da quando i sensi più lusinga e molce,

Benchè conforme alla natura appaia,

Non giudicar, risponde a lui Michele,

Di ciò che meglio sia, tu che creato

Fosti a più nobil fin, tu puro e santo,

Tu imagine di Dio. Le tende, or viste

Festevoli così, sono le tende

D'iniquitade, e albergheran la schiatta

Di lui che sparse del germano il sangue.

Opra saran delle sue mani industri

L'arti ch'ornan la vita, e illustre fama

Avrà di trovator sagace ingegno;

Ma quel sommo Fattore, onde le venne

Ogni sapere, in empio ingrato obblìo

Porrà superba e i ricevuti doni.

Pur vaga stirpe n'uscirà; già visto

Di quelle donne hai tu lo stuol leggiadro

Rassomiglianti a dee, sì vivo e gaio

E lusinghier; ma d'ogni dote prive

Elle saranno, in cui di donna è posto

Il domestico onor, la prima lode;

E nell'arti lascive instrutte solo

Dell'adornarsi, del danzar, del canto,

Di lezj e ciance e di procaci occhiate,

La savia stirpe di color che furo

Per la pietà figli di Dio nomati,

Di questa femminil profana turba

All'insidie, ai sorrisi ignobilmente

Immolerà la sua virtù primiera,

E la sua gloria. Ebbri di gioia insana

Or esultan costor, ma immenso pianto,

Vedrai, tosto gli attende e scempio orrendo. -

Svanito allor suo breve gaudio, Adamo

Esclama: - Ahi scorno, ahi duol! che chi di vita

Entrò con tanto ardor nel dritto calle,

Per torte vie poi volga il piede, o manchi

In mezzo del cammin. Ma veggo, ah! veggo

Che sempre avran quaggiù le colpe e i guai

Nel più debole sesso origin prima. -

- Anzi dell'uom nella mollezza rea,

L'Arcangel replicò, dell'uom che i dritti

Di sua maggiore dignità si scorda,

E quei ch'ebbe dal ciel doni migliori.

Ma volgi adesso ad altra scena il guardo. -

Adam rimira, e a sè dinanzi scorge

Ampio paese, culti campi e ville

E di cittadi popolose e vaste

Superbe porte e torreggianti moli:

Quindi un correr all'armi, orride facce

Guerra spiranti, e d'ossa e membra immani

Baldanzosi giganti; impugna e scuote

Altri le lucid'armi, ed altri affrena

Gli spumanti corsier; solo o schierato,

O fante o cavalier, niuno là stassi

In ozïosa mostra. Ecco da un lato

Scelto drappel che dal foraggio riede

E seco trae dai grassi, erbosi prati

Di pingui buoi, di belle vacche un branco

Per la pianura, e pecore ed agnelli

Belanti dietro alle rapite madri.

Scampano appena col fuggir la vita

I pallidi pastori, ad alte grida

Chiaman soccorso, e già feroce pugna

È incominciata. Con orribil urto

Ecco s'affrontan gli squadroni, e dove

Testè pascean le gregge, or tutto è d'armi

Sparso e d'estinti, sfigurati corpi

L'insanguinato solitario campo.

Ben munita città d'assedio stretta

Hann'altri intorno; con iscale e mine

E batterìe movonle assalto: un nembo

Scagliano i difensor dall'alte mura

Di dardi e pietre e di sulfureo foco;

Cruda è la strage, e spaventose e fere

Di qua e di là le gigantesche prove.

In altro lato da scettrati araldi

Un consiglio s'intima appo le porte

Della città: gravi e canuti padri

Misti ai guerrier s'adunano: diverse

Odonsi arringhe, e insorgono ben tosto

Discordie e parti. Uom saggio alfin si leva

D'anni maturo, maestoso e grave

Nel portamento, e sull'ingiusto e 'l giusto,

Sulla religïon, la fè, la pace

E i giudicj del ciel molto favella.

Ma di scorno e di riso il fan subietto

Del par giovani e vecchi, e già le mani

Rabbiose in lui stendean, se ratto scesa

Una nube dal ciel non lo togliea

Invisibil di là. Per ogni lato

Scorre allora il furor, la forza e l'empio

Diritto della spada, e fuga o scampo

Non havvi alcun. Si scioglie in pianto Adamo,

E pien d'angoscia, alla sua guida: - Oh! dice,

E chi son mai costor? Certo di morte

Ministri son, non uomini, che in mille

E mille doppj l'orrido misfatto

Ponno così moltiplicar di lui

Che del germano si bruttò nel sangue.

E non è questo ancor sangue fraterno

Ch'essi a torrenti spandono? Dell'uomo

Non è l'altr'uom fratel? Ma chi quel giusto

Fu che, senza del ciel la pronta aita,

Periva in sua giustizia? I tristi frutti

(L'Angelo gli risponde) eccoti, Adamo,

Di quelle diseguali infauste nozze

Ch'or or vedesti, in cui pietà s'unìo

All'empietà con discordevol nodo,

Ond'escon poscia mostruosi parti

E di mente e di corpo, e tai saranno

Questi giganti, onde sonar la fama

Per la terra s'udrà: chè sol la forza,

D'alto eroico valor sotto il bel nome,

Avrà ne' giorni loro il pregio e 'l vanto.

Vincer battaglie, ruinar cittadi,

Popoli soggiogar, sparger torrenti

D'umano sangue e di rapite spoglie

Tornar ricco ed onusto, ecco qual fia

La somma gloria. Trionfali onori

Quindi otterrà conquistator, eroe,

De' dritti umani protettore eccelso,

Figlio di numi ed egli stesso un nume,

Tal nomato sarà che fia soltanto

Degli uomini flagel, peste del mondo.

Per simil via s'otterrà fama in terra,

E ciò che più la merta, in muto obblio

Sepolto resterà. Ma quei che solo

Del giusto amico in un perverso mondo

Tu vedesti testè, della tua stirpe

Il settimo sarà. D'aspri nemici

All'odio ed al furor diverrà segno

Perchè seguir giustizia ei solo ardisce

E dire il ver, che a giudicarli Iddio

Verrebbe un dì vendicator severo

Con tutti i santi suoi. Corsieri alati,

Come vedesti, in odorosa nube

Alla lor rabbia il sottrarranno, e immune

Da morte, seco ne' superni regni

Di pace e gaudio il raccorrà l'Eterno.

Della bontade hai visto il premio; or mira

De' malvagi la pena. Adam riguarda,

E un novello di cose aspetto vede:

Non più rugge di guerra il rauco squillo,

E in giuochi, in scherzi, in pompa, in feste, in danze

Tutto è converso: maritaggi o stupri,

Adultéri o rapine ovunque han loco,

Siccome vuol la passeggiera insana

Voglia, e ben tosto alle spumanti tazze

Seguon civili risse. Alfine in mezzo

Alla sfrenata, nequitosa gente

Un veglio venerabile s'avanza,

Ed altamente con severa voce

I turpi eccessi lor condanna e sgrida.

Ei di lor feste e tresche i lochi spesso

Frequenta, e d'esortarli unqua non cessa

Lor colpe ad espìar quai rei fra ceppi,

A cui sovrasta la fatal sentenza;

Ma tutto è van. Quando ciò vede, ei lascia

L'inutile contrasto e le sue tende

Lungi trasporta. Indi sul monte atterra

Molte e gran travi, e a fabbricare un vasto

Navile imprende, in alto, in largo, in lungo

Misurato per cubiti, e di pece

Lo spalma intorno. In mezzo all'un de' lati

Fabbrica adatta porta, e dentro alloga

Per uomini e per belve in copia il vitto;

Quando, oh portento! d'animai, d'augelli

E di minuti insetti a paio a paio

O a sette a sette ogni maniera venne,

E per se stessi nella sacra nave

In bell'ordine entraro. Ultimo il veglio

Seguì coi tre suoi figli e con le quattro

Lor mogli, e Dio di fuor la porta chiuse.

Allor Noto si leva, e l'ampie, negre,

Pendenti ali battendo, aduna e addensa

Quante son nubi sotto il cielo; i monti

Tramandan su quanti han vapori e nebbie

Il fosco ammasso ad ingrossar: già l'etra

Vasta vôlta di tenebre rassembra;

Già impetuosa a gran rovesci piomba

La pioggia e mai non cessa, e tutta alfine

Sparisce al guardo la sommersa terra.

S'alza il naviglio galleggiante, l'onde

Cavalca altero, e con rostrata prora

Ne insulta e rompe lo spumante orgoglio.

Ne' suoi profondi gorghi il flutto immenso

Ogni altro albergo e le sue pompe aggira;

Da un mar che non ha lido, è il mar coverto,

E nei palagi, ove testè splendea

Ricchezza e lusso, or han la tana e 'l nido

Marini mostri. Di cotanta gente

Ch'empiea la terra, in breve legno ondeggia

Tutto l'avanzo. Oh qual dolor fu il tuo,

Adam, veggendo di tua prole tutta

Sì tristo fin, tanta ruina! Un altro

Di lagrime diluvio e di dolore

Te pur sommerse e oppresse in fin che alzato

Dall'angelica man, reggerti in piede

Potesti pur, ma inconsolabil sempre,

Qual genitor che tutti a un colpo spenti

I cari figli suoi si vede innanzi,

E questi detti sospirosi a stento

Articolasti: - Ahi visioni orrende!

Oh stato fosse a me chiuso per sempre

Un sì fero avvenir! Così la parte

Sol de' miei mali ch'ogni dì mi tocca

E m'è bastevol carco, avrei sofferta;

E tutto or sopra me s'ammassa e aggreva

Anco il peso di quei che fien divisi

Su molte etadi e pria del tempo han vita

Per lo mio preveder che un dì saranno.

Ah! più non sia chi di saper s'affanni

La sorte propria o de' suoi figli: a' mali,

Poichè denno avvenir, riparo alcuno

L'antiveder non reca, e sol presenti

E doppie fa le ancor lontane pene.

Ma invano or parlo: uomo non v'è che m'oda,

E i pochi che ancor vivi erran pel vasto

Deserto ondoso, alfin rabbiosa fame

E angoscia struggerà. Sperai, cessata

La vïolenza e 'l bellico furore,

Lieto il mondo veder, veder la pace

Incoronar l'umana stirpe alfine

Con lunga serie di felici giorni;

Ma quanto m'ingannai! La pace ancora,

Or veggo, è all'uomo infesta, e un reo diffonde

Veneno tal che le ruine stesse

Pareggia della guerra. Onde ciò nasca,

Deh! tu mi spiega, o mia celeste guida,

E se tutta ha qui fin l'umana stirpe. -

- Quei che lussureggiar fra pompe ed agi

Testè vedesti, a lui Michel risponde,

Son que' medesmi che superbi e gonfi

Di lor valore e lor guerriere imprese

Ivano in pria, ma di virtù verace

Erano vôti. Con gran sangue e stragi

Soggiogan genti e fan di fama acquisto,

Di titoli pomposi e ricche prede:

All'ozio quindi, alle delizie molli,

A intemperanza ed a lascivie in braccio

Si dan, finchè licenza e orgoglio insano

Destan contese e risse anco di pace

E d'amistade in sen. Color che vinti

E fatti schiavi son, con la perduta

Lor libertade, ogni virtude ed ogni

Tema di Dio pérdono a un tempo ancora,

Di Dio cui chiese invan soccorso e scampo

L'infinta lor pietà nel fero giorno

Della battaglia. Abbandonata quindi

Ogni divota cura, intesi solo

Saranno a trar la pigra e turpe vita

In securtà su quel che lor lasciato

Fia da' sazj tiranni; e larga assai

I doni suoi dispenserà la terra,

Onde dell'uom la temperanza a prova

Possa venir. Degenere, corrotto

Così tutto farassi; a tutti ignote

Giustizia, verità, modestia e fede

Saran, tranne ad un uomo, unico figlio

Di luce in buia età, che a' pravi esempi,

Alle lusinghe, agli usi, a un mondo irato

Intrepido opporrassi. Egli sprezzando

Gli altrui sprezzi, i rimproveri e la rabbia,

Rinfaccerà le lor perverse vie

All'empie genti, e di giustizia il calle,

Che il calle è in un di sicurezza e pace,

Lor mostrerà. L'ira del ciel pendente

Annunzierà sulle proterve fronti,

E deriso ne fia, ma lui con lieto

Occhio Iddio mirerà qual uom che solo

Seguace di virtù rimane in terra.

La vasta mole di mirabil'arca,

Com'hai già visto, ei per divin comando

Fabbricherà, dove fuggir co' suoi

La sovrastante universal ruina

Dato gli sia. Colà rinchiuso appena

Con sua progenie e con la lunga schiera

Degli animali a sopravviver scelti

Egli sarà, che spalancate tutte

L'ampie del cielo cateratte a un tempo

Continua sgorgheran crosciante piova

Il dì, la notte: del profondo abisso

Su sboccheran le fonti, e l'oceáno

Leverà il dorso altissimo, spumante

Finchè de' monti ancor l'estreme vette

Soverchi altero e le s'inghiotta il flutto.

Per la possa dell'acque allor divelto

Fia da sua sede questo monte stesso

Del Paradiso, giù pel vasto fiume

Travolto dal rapace ondoso corno

Con sua guasta verzura e i fluttuanti

Arbori in seno del vorace golfo;

Là prenderà nuove radici, fatto

Isola salsa e nuda, ad orche, a foche

Ed a marini, schiamazzanti augelli

Asilo e nido: e quindi, Adamo, apprendi

Che santo in faccia a Dio loco non evvi,

Se nol fa tale il cor devoto e puro

Degli abitanti suoi: Ma segui il resto

Or a mirare. - Adam riguarda e vede

Sul bassato oceán barcollar l'arca:

Sparite eran le nubi in fuga spinte

Da Borea acuto che col soffio adusto

Del diluvio increspando iva la faccia

Omai scaduta. In sull'acquoso, immenso

Cristallo il sol vibrava ardenti sguardi,

E a larghi sorsi il fresco umor bevea.

Con piè furtivo ritraeasi intanto

A poco a poco l'onda invêr l'abisso

Che i suoi sgorghi arrestò, come già chiuse

Il cielo avea sue cateratte. L'arca

Più non ondeggia omai, ma d'alto monte

Ferma in sul dorso appar; spuntan, quai scogli,

Le vette omai degli alti gioghi; al mare

Che si ritira, affollansi i torrenti

Sonori, impetuosi; ed ecco un corvo

Volar si scorge dalla nave, e quindi,

Nunzia più fida, una colomba parte

Per due volte a cercare o pianta o suolo

Ove posar il piede, e nel secondo

Rirorno suo, reca nel rostro un verde

D'olivo ramuscel, segno di pace.

Già si mostra la terra, e fuor con tutti

I suoi compagni il venerabil veglio

Della nave discende: ei tosto al cielo

Con grato cor gli occhi e le mani innalza

Divotamente, e rugiadosa nube

Sopra il capo si mira, a cui nel mezzo

Splende tricolorato arco ridente

Che con Dio pace annunzia e nuovi patti.

A quella vista il già si tristo core

D'Adamo esulta, e in questi detti il labbro

L'interna gioia esprime: - O tu che puoi,

Come presenti, le future cose

Recarmi innanzi, interprete del cielo,

Con questo nuovo consolante aspetto

Tu mi torni alla vita; io veggo, io veggo

Che l'uom vivrà cogli animali tutti,

Ed a' più tardi secoli serbato

Il lor seme sarà. Meno or mi grava

Un mondo intier di figli rei distrutto

Che non m'allegra quel sì pio, sì giusto

Uom che mertò di disarmar l'irata

Divina destra e d'un novello mondo

Esser principio. Ma perchè, deh! dimmi,

Quelle appaiono in ciel fulgide liste?

Imagin forse del placato ciglio

Di Dio son esse? o con leggiadro margo

Chiudono il grembo a quell'acquosa nube

Ond'ella ancor non si disciolga e torni

La terra ad allagar? - Sì, gli risponde

Michel, ben avvisasti; dell'Eterno

Placata è l'ira. Ei rimirò la terra

Di misfatti coperta, ed in sue vie

Ogni carne corrotta, ond'ebbe in core

D'aver creato l'uom rammarco e sdegno,

E i perversi punì: ma grazia tanta

Un sol uom giusto al suo cospetto trova,

Che sol per lui dall'esterminio estremo

L'uman genere scampa, e quind'innanzi

(Ei lo promette) a disolar la terra

Più non discenderan l'acque del cielo

Nè più trascorrerà fuor de' prescritti

Confini il mar. Tal è il suo patto, e quando

Egli le nubi stenderà per l'etra,

Quell'arco suo di tre colori impresso

Appariravvi ond'ei richiami in mente

La sua promessa. Il dì così, la notte,

Della semenza e della messe il tempo,

La state, il verno alterneran lor corso,

Finchè tutto rinnovi e purghi il foco,

E sorgan altri cieli ed altra terra

Ove un popol d'eletti avrà soggiorno.

 


LIBRO DUODECIMO

 

L’arcangelo Michele narra quel che avverrà dopo il diluvio: quindi, facendo menzione di Abramo, viene per gradi a spiegare quale sarà il seme della donna che fu promesso ad Adamo e ad Eva dopo la loro caduta. Incarnazione, morte e ascensione del Salvatore. Stato della chiesa fino alla seconda venuta dello stesso. Adamo consolato da questi racconti e promesse, scende con Michele dalla montagna, sveglia Eva che per tutto quel tempo aveva dormito, e la trova tranquilla e disposta a sommissione dai sogni favorevoli che avea fatti. Michele li prende ambedue per mano, e li conduce fuori del Paradiso. Si vede la spada di fuoco fiammeggiare dietro loro, e i cherubini prender i loro posti per guardare l’entrata del luogo.

 

 

 


Qual chi sul mezzodì s'arresta e posa,

Benchè bramoso di compir sua via,

Tal, fra lo spento e 'l rinascente mondo

L'Angel fermossi ad aspettar se forse

Qualche ricerca Adam frappor volea;

Indi così riprese: - Un mondo hai visto

Prender principio e gire al fine, e quasi

Rinascer l'uomo da novello tronco.

Molto è tuttor quel ch'a veder ti resta;

Ma ben m'accorgo che s'aggrava e langue

Il tuo sguardo mortal, nè regger puote

Al supremo splendor de' divi obbietti

L'umano senso; onde a narrarti io prendo

Quel che avvenir dovrà: tu porgi attenta

A' miei detti l'orecchia. In fin che pochi

Saranno i germi di quest'altra stirpe,

E vivo ancora avran l'orrore in mente

Del passato giudicio, andar lontani

Non oseranno dal diritto calle

E temeranno Dio: di larga prole

Cinti saran, coltiveran la terra,

E di biade, di vin, di pingui olive

Raccorranno ampie messi: a Dio sovente

Dalle lor mandre or offriran giovenco,

Or capretto, or agnel, fra le ricolme

Libate coppe e le divote feste.

Tranquilli giorni in innocente gioia

Essi così trarranno e in lunga pace

Per famiglie e tribù sotto il paterno

Soave impero. Alfin gonfio d'orgoglio

E fasto sorgerà chi non contento

Di bella egualità, fraterno stato,

S'arrogherà sopra i germani suoi

Iniquo scettro, di natura i dritti

Calcherà temerario, e dalla terra

Sbandirà la concordia. Egli col ferro,

Ei coll'insidie andrà non già le belve

Perseguitando, ma le umane genti

Che di portare il suo pesante giogo

Faran rifiuto. Cacciator possente

Sarà quindi nomato innanzi a Dio;

Sprezzerà il cielo, od il secondo scettro

Per dritto aver dal ciel darassi vanto:

Sedizïosi e ribellanti gli altri

Ei chiamerà, ma di ribelle il nome

Egli avrà con ragion. Seguìto e cinto

Da turba rea che un pari orgoglio unisce

Seco o sott'esso a farsi altrui tiranna,

Rivolge i passi all'occidente, e vasta

Pianura incontra, ove gorgoglia e bolle

Nera, bituminosa una vorago

Su di sotterra che profonda pare

Fauce infernal. Di quel tenace umore

Frammisto a cotta argilla ampia cittade

A fabbricar si danno ed ardua torre

Che al cielo erga la cima, onde risuoni

Alto il lor nome, ed in rimote e strane

Terre, ove poscia andran divisi, erranti,

La lor memoria o buona o rea non pera.

Ma Dio, che a visitar le umane genti

Spesso scende invisibile, e fra loro

D'ogni lor opra osservator s'aggira,

Dal sommo trono suo costor mirando,

Viene alla gran città pria che la torre

Alle torri del cielo emula surga;

E, con sorriso schernitore, infonde

Sulle lor lingue un vario spirto, il primo

Natìo linguaggio ne cancella, e invece

Vi sparge un suon di sconosciute voci

Discordante, confuso. Alto frastuono

Tra i fabbri allor si leva, invan l'un chiama,

Invan replica l'altro, a ignoto accento

Risponde accento ignoto, è rauco ognuno,

E ognun, quasi schernito, infuria e freme.

Il romoroso borbogliare e strano

Desta gran risa in ciel; pende la stolta

Mole lasciata in abbandono, e all'opra

Dalla confusïon rimane il nome. -

Acceso allora di paterno sdegno

Esclama Adamo: - Ahi detestabil figlio!

Ahi scellerato ardir! Tu sopra i tuoi

Fratelli osi innalzarti, e quell'impero

Che all'uomo Iddio non diè, così t'usurpi?

Sopra le belve, sugli augei, su i pesci

Assoluto dominio a noi concesse

Iddio soltanto: è dono suo tal dritto:

Ma l'uom dell'uomo egli non fe' signore;

A sè tal grado serba, e dell'umano

Giogo egli lascia l'uom disciolto e franco.

Ma non s'appaga di costui l'orgoglio

Nel calcare i suoi pari; il ciel medesmo

Con quella torre egli minaccia e sfida!

Ahi sciagurato! e qual trarrai lassuso

Vitto, onde te co' tuoi guerrier disfami,

Ove la stessa sottilissim'aura

Ti crucierà l'anelo petto, e 'l fiato

Ti verrà men, se non il cibo? - A lui

Michele allor: - Quel figlio a dritto abborri,

Quel figlio indegno che il felice stato

Dell'uom così sconvolse, e libertade,

Che unì con la ragion natura e Dio,

D'opprimer s'attentò: ma sappi ancora

Che dopo il tuo fallir perduta, Adamo,

È vera libertà che, nata insieme

Con la retta ragion, seco pur sempre

Soggiorna e senza lei vita non ave.

Se il lume di ragion nell'uom s'oscura,

Insane brame e ribellanti affetti

Prendon l'impero, ed in crudel servaggio

Traggono l'uom libero in pria: s'ei lascia

Da interni soggiogar tiranni indegni

Il proprio core, a vïolenti e feri

Signori esterni lo abbandona ancora

Il giustissimo Dio. Che siavi è d'uopo

La tirannia, ma non per ciò di scusa

Degno è il tiranno. Nazïoni intere

Dalla virtù ch'è la ragione stessa,

Allontanarsi si vedran talora,

E in tal viltà cader che fia ben dritto

Se il ciel le maledice e dàlle in preda

A straniero signor. Così quel figlio

Di lui che l'arca feo, dal padre offeso

Fia maledetto, e la sua stirpe iniqua

Condannata di servi ad esser serva.

Peggiorando in tal guisa andrà, del pari

Che il vecchio mondo, il nuovo ancor, fintanto

Che stanco Iddio dall'opre ree, ritragga,

L'augusta sua presenza e i santi sguardi

Da que' perversi, ed a lor empie e sozze

Vie gli abbandoni alfine. Un popol caro

Però fra loro ei si scerrà, da cui

Invocato sarà, popol che scende

Da un solo uomo fedel. Di qua soggiorno

Questi avrà dall'Eufrate e instrutto fia

De' falsi déi nel culto. O cieche menti!

Credere, Adam, potrai che, mentre ancora

Respira il santo veglio alle voraci

Acque scampato, le insensate genti

Obblïeranno il Dio vivente, e l'opre

Delle stesse lor mani in legno e 'n sasso,

Quai numi, adoreran! Ma Dio si degna

A quell'uomo apparire in sogno, e lungi

Dal patrio tetto e dai congiunti il chiama

E da que' falsi numi ad altre spiagge

Ch'ei mostreragli. Un popolo possente

Da lui vuol trarre e sì versar sovr'esso

I doni suoi che tutti in suo legnaggio

Fien benedetti i popoli. Veloce

Egli al cenno obbedisce, e benchè ignori

Sua meta, è fermo in sua credenza. Io 'l veggo,

Ma dato a te non è, con quanta fede

Numi ed amici e 'l natìo suol caldeo

Egli abbandona: ecco d'Arán il guado

Valica e seco un largo stuolo adduce

D'armenti e greggi e numerosi servi.

Meschino errando egli non va, ma l'ampie

Sue ricchezze confida a Dio che il chiama

A ignoti lidi. In Canaán ei giunge,

Di Sichen presso i muri e sul vicino

Piano di More le sue tende io scorgo

Piantate: quivi in don quell'ampie terre

Da divina promessa egli riceve

Pe' figli suoi dal boreale Amate

Fino al deserto austral (fian questi i nomi

Di que' lochi che nome ora non hanno)

E dal gran monte orïental dell'Ermo

Al vasto mare occidental: qua sorge

L'Ermo, là vedi il mare; a te rimpetto

Mira i lochi che addito. Ecco il Carmelo

In sulla riva, ecco il Giordan che scende

Da doppia fonte e verso l'orïente

Segna il confin; si stenderanno quindi

I figli suoi fino a Senìre, a quella

Lunga catena di montagne. Or membra

Che benedette di quest'uom nel seme

Saran tutte le genti: a te quel grande

Liberator si mostra omai, che il capo

Frangerà del serpente, e che più chiaro

Tosto predetto ti sarà. Da questo

Gran patriarca (i secoli futuri

Diranlo il fido Abramo) un figlio nasce

Ed un nipote poi, che a lui simíli

Saranno in fama, in sapïenza, in fede.

Da i lidi cananéi parte il nipote

Con sei figliuoli e sei verso una terra

Ch'Egitto nomerassi, ed è dall'onde

Del Nil divisa: questo fiume vedi

Che sgorga in mar per sette foci: ei vanne

Quel suolo ad abitar, dove lo invita,

Mentre rabida fame il popol strugge,

Il minor figlio ch'ai secondi onori

Del regno fia per le sue gesta alzato.

Là more il padre, e la sua stirpe lascia

Crescente in nazïon sì che ne prende

Sospetto ed odio il successor regnante.

Quindi a frenar la numerosa troppo

Progenie lor, tutti in non cale ei pone

Gli ospitali diritti, a rio servaggio

Danna ciascuno, e i maschi lor bambini

Consegna a morte. Due germani allora,

Aronne e Moisè, manda l'Eterno

A trar di ceppi il popol suo che carco

Di gloria e spoglie alla promessa terra

Con lor s'indrizza. Ma con feri segni

E severi giudizi il core in pria

Domo sarà del perfido tiranno

Che il lor gran Nume ed i messaggi suoi

Riconoscer non vuol. Cangiati in sangue

I fiumi si vedran; di mosche e rane

E di mordaci insetti un'oste immonda

Empierà la sua reggia e 'l regno intero

Inonderà; feroce lue le greggi

Tutte consumerà; del re, di tutto

Il popol suo le membra ulceri e bozze

Gonfieran, pasceran; l'egizio cielo

Squarceran tuoni orrendi a grandin misti,

E grandin mista a turbini di foco

Croscerà rovinosa, e ovunque passi,

Tutto devasterà. Ciò che non strugge

Il nembo, un'atra di locuste e folta

Nube con spaventevole stridore

Divorerà le biade, i frutti e quanto

Di verde in terra appar; nere ombre il regno

Tutto ricopriran, palpabili ombre

Per cui tre dì fian spenti: alfine, al mezzo

Di feral notte, piomberà su tutti

Gli egizj primogeniti improvviso

Colpo di morte. Sì da dieci piaghe

Il niliaco dragon trafitto e domo

Partir li lascia alfin: più volte il crudo

Suo cor si piega, ma qual gel che indura

Di più, poichè fu sciolto, ei pur ritorna

A ferocia maggiore, e quelli insegue

Cui già l'andar concesse: il mare allora

Con l'oste sua lo inghiotte, il mar che al tocco

Della mosaica verga in due si parte

Di liquido cristal pendenti mura,

E diviso rimane infin che tutta

L'eletta stirpe sull'opposto lido

Salva non pon l'asciutto piè. Tal possa

Dio concede all'uom santo! Anzi egli stesso

È seco lor nell'angel suo che siede

Nel dì sovra una nube e nella notte

Su colonna di foco, ed ora è scorta,

Precedendo, al lor corso, or li difende,

Girando a tergo, dal vicin tiranno.

Questi pien di furor la notte intera

Gl'incalza e preme, ma l'orror frapposto

Gli vieta d'appressar finchè nel cielo

L'alba novella spunti, e allora Iddio

Fuor dell'ignea colonna o della nube

Sporgendo il guardo, un subitan spavento

Manda per l'oste tutta, e de' lor carri

Le rote infrange. Per divin comando

Sul mar distende la possente verga

Mosè di nuovo, ed obbedisce il mare

Alla sua verga; furïose l'onde

Cadon sull'oste ed è sommersa. Il passo

Muove invêr Canaán l'eletta stirpe,

Non pel breve cammin, ma in lungo giro

Pel selvaggio deserto, onde allo scontro

Dell'armi Cananée subita tema

Non risospinga l'inesperte genti

Verso l'Egitto a scer piuttosto indegna

Vita servil: chè cara a tutti e dolce

Sien forti o vili, è la tranquilla vita,

Se all'armi non gl'infiamma impetuoso

Furor bollente. D'altro frutto ancora

Ferace ad essi quell'indugio fia

Per lo vasto deserto: ivi le basi

Porranno al lor governo, e 'l gran senato

Da dodici tribù scerran che tutto

Regga Israel con ordinate leggi.

Iddio dal Sina, la cui grigia vetta

Tremerà al suo venir, fra lampi e tuoni

E di trombe al clangore, Iddio medesmo

Detterà quelle leggi. Il civil dritto

Prescrivon l'une, ed altre il culto, i sacri

Riti e le feste: in mistiche figure

Ed ombre ei loro annunzierà pur quale

Seme a schiacciar del serpe il collo altero

È destinato, e come il duro giogo

Agli uomini ei torrà. Ma spaventosi

Ad orecchio mortal troppo gli accenti

Sono di Dio: chieggon perciò le turbe

Che di Mosè pel labbro ei lor dispieghi

Il suo volere e quel terror rimova.

Dio le lor preci ascolta, e apprendon quindi

Che senza intercessor non avvi accesso

Presso di lui. Mosè ne prende intanto

L'alto ufficio in figura in fin che venga

Un dì l'altro maggior, di cui predice

Ei stesso il tempo; e i sacri vati poi

Tutti cantar del gran Messia le lodi

S'udranno in varie età. Le leggi e i riti

Fermati in guisa tal, tanto diletto

Del buon popolo suo prende l'Eterno,

Che in mezzo ad essi di locar si degna

Il tabernacol proprio, e 'l Solo, il Santo

Co' mortali soggiorna. È per suo cenno

Di cedro e d'oro un santuario eretto

Che un'arca accoglie, e dentro l'arca è chiusa

La ricordanza del divino patto.

Di due raggianti cherubin fra l'ali

L'aureo seggio di grazia in alto splende,

E sette lampe che del ciel le faci,

Quasi in zodiaco, raffiguran, sempre

Ardongli innanzi: al padiglione in cima

Posa una nube il dì, che fiamma poscia

Divien la notte, eccetto allor che move

Sue tende il campo. In quella terra alfine

Che ad Abram fu promessa e a' figli suoi,

Fermano il piè. Lungo il ridir sarebbe

Tutte le pugne loro, i vinti regi,

I soggiogati regni, e come in cielo

Intero un giorno il sole immoto sta,

E 'l corso usato la notte trattiene,

Quando un uom griderà: Fermati, o sole,

In Gibeón, e tu t'arresta, o luna,

In valle d'Aialón, finchè Israello

Sia vincitor. Così chiamato fia

Il nipote di Abram, d'Isacco il figlio,

Che il nome stesso alla sua stirpe tutta

Di Canaán vittrice indi trasmette. -

- Celeste messo, che a sgombrar venisti

Le mie tenebre dense, Adam gli dice,

Oh con qual gioia rivelarmi ascolto

Questi segreti e quei del giusto Abramo

Sovra tutt'altri e di sua stirpe! Or sento

Questi occhi miei la prima volta aprirsi

Veracemente e confortarsi il core

Tant'ansio in pria sul mio destin futuro

E quel de' figli miei: già veggo il giorno

Di Quei che recherà letizia e pace

Sovr'ogni gente alfine. Oh grazia! o dono

Mal mertato da me, cui voglia insana

Spinse a cercar per divietate vie

Divietato saper! Ma pur non anco

Io comprender ben so perchè cotante

A quei s'impongan leggi e sì diverse,

Fra cui lo stesso Dio scender si degna

Ad abitar; di molte colpe sono

Molte leggi argomento: or come Iddio

Può soggiornar fra sì perversa gente? -

- Non dubitarne, a lui Michel risponde,

Fra lor pur troppo regnerà la colpa,

Poichè scendon da te: per ciò la legge

Fu data ad essi, onde la lor si mostri

Innata pravità che ognora è pronta

A pugnar contro lei. Così veggendo

Che può la legge sol scoprire il fallo,

Ma purgarlo non già (chè lieve e solo

Un'adombrata espïazion fia quella

Di tauri ed irchi in sacrificio offerti),

Conosceran che ben diverso sangue

Dovrà dell'uom perduto essere ammenda,

Sangue del giusto per l'ingiusto; e quindi,

Con viva fè, d'una tal ostia il merto

Recando in sè, potran di Dio la prisca

Grazia e dell'alma racquistar la pace.

Vani a tal fine e inefficaci i riti

Son della legge, di cui l'uom non puote

Lo spirito adempir, nè fia ch'ei viva,

Se non l'adempie. Ella imperfetta è dunque,

E data a lui soltanto onde il prepari

A migliore alleanza, a dì più lieti,

Quando fia tempo. Lo splendor del vero

All'adombrate, mistiche figure

Allor succederà, di strette leggi

Al giogo imposto, un inesausto fonte

Di grazia a ognun liberamente aperto,

A servil tema il filïal rispetto,

E all'opre della legge opre di fede.

Quindi Mosè, benchè sì caro a Dio,

Pur, poichè della legge è sol ministro,

Non condurrà nella promessa terra

Il popol suo; sol Giosuè ve 'l guida,

Che Gesù detto è fra i Gentili, e il nome

E l'officio di lui sostien che poscia

Il fero abbatterà nemico serpe,

E l'uom ricondurrà dai lunghi errori

Per lo mondano inospite deserto

Nel Paradiso dell'eterna pace.

Del Canaán terrestre i ricchi campi

Abiteranno intanto, e lieti giorni

Splender vedran per lungo tempo infino

Che nequizia comun non turbi e rompa

La comun pace, e contro lor non desti

Nemiche schiere irato Iddio. Pur sempre

A lor pentiti egli perdona, e sotto

I giudici da pria, poi sotto i regi

Li difende e li scampa. Il Re che al soglio

Ascenderà secondo, e fia non meno

Per la pietà che pel valore illustre,

Promessa irrevocabile da Dio

Riceverà che stabile in eterno

Sarà il suo trono. Canteran lo stesso

Tutti i profeti; che dal regio tronco

Di Davidde (così quel re s'appella)

Un figlio sorgerà, femineo seme,

A te, ad Abramo, ai re predetto, in cui

L'alta speranza poserà di tutte

Le nazïoni, e fia dei re l'estremo,

Perchè del regno suo non sarà fine.

Ma lunga serie di monarchi in prima

Terrà lo scettro. Di Davidde il figlio

Chiaro per senno e per ricchezze, all'arca

Di Dio che fino allor cinta di nubi

Errava fra le tende, un tempio augusto

Fonda e splendido culto. Appresso a lui

Vien ordin lungo di regnanti or giusti

Or rei, ma questi i più, ne' fasti inscritti,

Che sozzi ed empj riti ed altre colpe

Del lor popolo reo mescendo ai falli

Tanto provocheran di Dio lo sdegno

Ch'ei da lor partirassi, e 'l lor terreno,

La lor cittade, il tempio suo, la santa

Arca e gli arredi tutti in preda e scherno

Dati saranno alla città superba,

Di cui vedesti or or l'eccelse mura

In gran scompiglio abbandonate, ond'ebbe

Di Babilonia il nome. Ivi di sette

E sette lustri il doloroso giro

Passan fra le catene; alfin rimembra

Iddio la sua pietade e la giurata

Con Davidde alleanza a par de' giorni

Del cielo eterna, e agli oppressor toccando

Il cor, le genti sue scampa e riduce

Dal misero servaggio. Esse il distrutto

Suo tempio ergon di nuovo, e in picciol stato

Menan frugale e temperata vita

Per alcun tempo; ma cresciute poscia

In numero e in ricchezze, eccole in preda

A feroci tumulti; e scoppia in prima

Fra i sacerdoti stessi il foco reo

Della discordia, in mezzo a lor che sempre

Nella mente, nel cor, sul labbro pace

Dovriano aver; dall'empie lor contese

Contaminato è il tempio: i figli alfine

Disprezzan di Davidde ed allo scettro

Danno di piglio. In forestiere mani

Cader lo lascian quindi, e 'l gran Messia,

Il verace unto Re, da' dritti suoi

Escluso nasce; ma nel ciel risplende

Al nascer suo non più veduta stella

Che giunto lo palesa. A quel fulgore

Movon tre re dall'orïente i passi

In traccia di sua cuna, e incenso e mirra

Ed oro a offrir gli vengono. Dal cielo

Un nunzio scende, e a semplici pastori

Che nella notte vigilando stanno,

Il suo natale umil soggiorno addita.

Lieti colà s'affrettan essi, e gl'inni

Delle angeliche squadre odono intorno

Al testè nato pargoletto. Madre

Una Vergine gli è, suo genitore

Il poter dell'Eterno. Egli sul trono

Del Padre ascenderà; confine il mondo

Fia del suo regno, e di sua gloria il cielo. -

Ei qui cessò, scorgendo Adamo oppresso

Da gioia tanta che a dolor somiglia,

E già trabocca in lagrime, se sfogo

Di parole non ha. - Superno vate,

Adam prorompe allor, quai lieti eventi

Mi predicesti, e come appaghi tutti

Gli ultimi voti miei! Chiaro or comprendo

Ciò che tanto finora invan cercai,

Perchè detta sarà femineo seme

La gran speranza dell'umana gente.

Salve, o Vergine Madre, al ciel sì cara:

Eppur uscir tu di mia stirpe déi.

Eppur dee dal tuo grembo uscir la prole

Dell'altissimo Dio! Così l'Eterno

Con l'uom s'innesta, e con mortal ferita

Sarà dell'orrid'angue il capo infranto.

Ma dove e quando, dimmi, il gran conflitto

Avvenir dee? Qual morso il piè ferisce

Del vincitore? - Al che Michel: - La pugna

Mistica è sol, nè capo o piè ferito

Sarà veracemente: il divin Figlio

Le umane forme a rivestir non scende

Perchè Satán con maggior colpo atterri.

Non fia vinto così quei che dal cielo

Precipitando, di più gravi piaghe

Percosso fu, nè fu perciò men atto

A scagliar sopra te di morte il colpo.

Dalle fauci di questa a trarti viene

Il tuo Liberator, non già struggendo

Satán, ma di Satán l'opere inique

In te, nella sua stirpe. È d'uopo quindi

Che a quell'incarco, a cui tu debil fosti,

D'eseguir fido la superna legge,

Ei si sommetta, e la dovuta ammenda

Paghi di morte che il tuo fallo trasse

Sopra di te, sulla progenie tutta,

Tua trista erede: di cotal restauro

Solo fia paga la giustizia eterna.

Ei la legge del cielo adempie attento

D'amor e obbedïenza unico esempio,

Benchè adempierla solo amor potrebbe.

Cinto d'umana carne ei la tua pena

Viene a soffrire, aspri derisi giorni

E morte infame, egli salvezza e vita

Promette a tutti lor che fede avranno

In sua redenzïon, che i merti suoi

S'ascriveran colla medesma fede

E tutta in essi riporran la speme,

Non mai nell'opre lor, benchè conformi

Sieno alla legge. In mezzo agli odj, all'ire,

All'onte, alle bestemmie ei vive, e ceppi

Soffre e giudicio rio che a morte il danna

Obbrobrïosa e cruda. A dura croce

Dal suo medesmo popolo confitto

Ei muore: e muor perchè la vita arreca;

Ma su quel tronco stesso i tuoi nemici

Egli pur anche immola: ivi la legge

A te contraria, e dell'intero umano

Seme si stan tutte le colpe affisse.

Così dal timor prisco ognun fia sciolto

Che nel suo sparso sangue ha certa speme.

Ei muor, ma lungo sovra lui la morte

Non usurpa l'impero, e pria che spunti

In ciel la terza aurora, erger l'augusto

Capo lo veggon dal funereo sasso

Le mattutine stelle, assai più fresco

E più lucente del novello albòre.

Così pagato è nel suo sangue alfine

Il gran riscatto delle umane genti;

E salvo è ognun che il vuole e 'l sommo dono

Di lui con fè non vota d'opre accoglie.

Quest'opra eccelsa del divino amore

Cancella alfin quella sentenza, ond'eri

Dannato a morte pel tuo fallo eterna;

Frange a Satáno la cervice altera,

Colpa e Morte conquide, i due più forti

Di lui sostegni, e i dardi lor ritorce

In lui medesmo con più grave colpo

Che passeggiera e momentanea morte

Recar non può del vincitore al piede

Ed a' redenti suoi, morte simile

Ad un placido sonno, un lieve e dolce

Varco a vita immortale. Egli risorto

Quaggiù non resta a lungo, e sol talora

Ai discepoli suoi, che fidi sempre

Nel vïaggio terren gli fur compagni,

Fa di sè mostra: ei lor impon che quanto

Appresero da lui, vadan spargendo

Per tutti della terra i lidi estremi,

E di salute apran le vie, battesmo

Dando de' fiumi nelle limpid'onde

A ognun che crederà; mistico segno

Di lavacro maggior, per cui, le macchie

Asterse della colpa, a pura vita

L'uomo rinasce, ed è disposto e fermo

A incontrar morte, ov'uopo sia, simíle

A quella già dal Redentor sofferta.

La sua dottrina ad ogni popol conta

Sarà per essi; chè non solo i figli

D'Abram dopo quel dì saran chiamati

Di salute al sentier, ma i figli ancora

Della fede d'Abram per tutto l'ampio

Terrestre giro, e nel suo seme quindi

Fia beata ogni gente. Al ciel de' cieli

Egli ascende dipoi, de' suoi nemici

E de' tuoi trionfante, e nel suo volo

Dell'aria il Prence, il fero serpe afferra,

Per tutti i regni suoi stretto in catene

Lo tragge in mostra, ed al suo scorno alfine

Ei l'abbandona. Rientrando poscia

Nella sua gloria, alla paterna destra

Riprende seggio, e sopra i nomi tutti

Esaltato è il suo nome: indi, allor quando

Maturo fia per la sua fine il mondo,

Cinto di gloria e di poter verranne

Giudicator de' vivi e degli estinti,

Gl'infedeli a punire, a render degno

Guiderdone a' suoi fidi, e nell'eterna

Felicità seco raccorli in cielo,

O sulla terra; chè la terra allora

Fia tutta un paradiso, e più d'assai

Che quest'Eden non è, felice albergo

D'un più bel sol, di più bei dì lucente.

Qui s'arrestò l'Arcangelo, del mondo

Giunto alla meta estrema, e Adam ripieno

Di gioia e di stupor così rispose:

- O divina bontà, bontade immensa

Che tutto questo ben dal mal produce,

Che volge in bene il mal! prodigio ancora

Mirabil più che non fu trar dal folto

Antico orror la luce! In dubbio or stommi

Se più del fallo mio pentirmi io deggia

E della labe su i miei figli sparsa,

O più gioir che tanto ben ne scenda,

A Dio gloria maggior, sull'uom da Dio

Più larghe grazie, e sovra l'ira sparso

Il fonte di pietà. Ma di': se al cielo

Risalir debbe il Redentor, che fia

De' pochi fidi suoi, tra infida turba

E al vêr nemica abbandonati? Allora

Chi fia lor guida e difensor? Quegli empi,

Più che di lui non fèr, strazio crudele

Non farann'anco de' seguaci suoi?

- Certo il faran, l'Arcangelo risponde,

Ma lor bentosto ei spedirà dall'alto

Un tal Consolator, del sommo Padre

Promesso dono e Spirto suo, che in essi

Farà dimora, e della fè la legge

Che per amor tutt'opra e tutto vince,

Scriverà nei lor cori: essa lor guida

Sarà nell'arduo di virtù sentiero

E della verità: d'armi celesti

Essa ricopriralli, onde dell'empio

Satán gli assalti e gl'infuocati dardi

Possano rintuzzar. Quindi la rabbia

Affronteran degli uomini e la morte

Con saldo petto, e tale un dolce interno

Fra le lor pene sentiran conforto

Che di tanta costanza anco i più crudi

Tiranni avran stupor. L'aura divina

Scende in prima su lor che nunzi vanno

Del fausto alto preconio, e quindi al pari

Sovra ciascun che mondo uscì del sacro,

Salubre fonte, e portentosi doni

Ad essi imparte, onde a lor grado in ogni

Vario linguaggio di repente sciorre

Sanno le labbra, e quei prodigi stessi

Che il lor Signore oprò, dinanzi al mondo

Stupefatto iterar. Così di tutti

I popoli gran schiere andran con gioia

A ricever del ciel la nuova legge.

Il santo ministero alfin compiuto

E ben percorso il glorïoso arringo,

Dalla terrena alla celeste vita

Fanno tragitto, ma vergate carte

Di lor dottrina e di lor gesta in pria

Lascian quaggiù. Poscia d'ingordi lupi,

Già predetta da loro, a lor succede

Un'empia turba che del cielo i santi

Misteri tutti alla sfrenata, insana

Cupidigia d'onori e d'ôr fan servi;

E 'l sacrosanto ver, candido e puro

Lasciato in lor memorie, in mille guise

Sforman con vane imaginate fole.

Titoli quindi e dignitadi e nomi

Procacciando si vanno, e mentre vôlti

Mostran d'aver tutti i pensieri al cielo,

Van sol d'impero e di ricchezze in traccia.

Contro quel lume che a ciascun nell'alma

Dio stesso accese, opran la forza, e solo

In vani riti ed in pompose forme

Riposto è il culto lor: sen va sbandito

Il ver percosso dai maligni strali

Della calunnia, e solo in sen di pochi

Si nasconde e ricovra. Ai buoni infesto,

Propizio ai rei, sotto il suo peso stesso

Geme così, così prosegue il mondo

In suo cammin, finchè il gran giorno arrivi

Di requie a' giusti e di vendetta agli empi,

Il giorno, in cui tornar vedrassi alfine

Quei che in oscuri sensi a te promesso

Fu dianzi e meglio or riconosci, il tuo

Redentore e Signor. Nella paterna

Gloria, in mezzo alle nubi, egli dal cielo

Verrà sterminator del reo Satáno

E del corrotto mondo. Al foco in preda

Ei darà questo; indi novelli cieli

Per secoli infiniti e nuova terra

Dall'avvampante ripurgata massa

Fuori trarrà; giustizia e pace e amore

Stabil v'avranno eterna, sede, e frutti

Di gioia interminabile daranno. -

Qui l'Angel tacque, e per l'estrema volta

Così Adam replicogli: - Oh! come ratto

Il tuo sguardo profetico di questo

Fugace mondo ha misurato il corso

Ed il volo del tempo, infin che immoto

Il tempo rimarrà. Di là si stende

Per ogni parte il tenebroso abisso

D'eternità, nel cui profondo immenso

Ogni sguardo vien meno. Instrutto assai,

Assai tranquillo io di qui parto: tutto

Quel saper ricevei, di cui capace

È quest'angusto mio vasello. Oh quanto

Fui folle, a cercar oltre! Alfin comprendo

Ciò che di tutto è il meglio, e fermo sono

D'amar sempre e obbedir quel grande e solo

Padre e Signor, sempre pensar ch'io stommi

Nel suo cospetto, ognor serbare in mente

La provvidenza sua, sempre riporre

Ogni mia speme in sue paterne cure.

Ei quanto fe', con amoroso sguardo

Mira e soccorre con pietosa mano:

Col ben del mal trionfa, ad opre eccelse

Del debole si val, con lievi mezzi

Ogni gran forza atterra, e l'uman senno

Con la semplicità vince e confonde.

A difesa del vero i mali tutti

Costante sopportar veggo che sola

È d'altissimo onor degna fortezza:

Che del fedel la morte è solo un varco

Alla vita immortale, e ciò m'insegna

L'alto esempio di Lui ch'io lieto adoro,

E da cui sol la mia salvezza attendo. -

Allor Michel l'ultima volta anch'egli

Così risponde: - Appresso ciò, giungesti

Del saper alla cima; altro non resta:

Più oltre non bramar, quand'anco tutti

Gli astri del ciel, le angeliche possanze

Potessi annoverar, del gran profondo

Scoprir gli arcani, e di natura e Dio

Ogn'opra in cielo, in terra, in aria, in mare,

E tutte posseder quante ricchezze

Rinserra il mondo, ed il sovrano impero

Tu solo averne. Al tuo saper aggiugni

Opre conformi e basta; aggiugni fede,

Virtù, fortezza, temperanza, amore,

Alma d'ogni virtù, che detto poi

Fia carità. Ritroso allor da questo

Non partirai beato suol; che in seno

Un più felice paradiso avrai.

Ma vieni alfin, da quest'eccelsa vetta

Scender convien; n'è giunta l'ora. Vedi?

Le guardie che lasciai là su quel colle

Stanno a moversi preste, e in fronte ad esse

Lo sfolgorante ferro a cerchio ondeggia

Che intima il tuo partir. Vanne, risveglia

La tua consorte: a lei non men con dolci

Sogni presaghi di felici eventi,

Rasserenai lo spirto e la disposi

A sofferenza umìl. Di ciò che udisti

Tu le fa parte a miglior tempo, e quello

Più le ripeti che a fermar sua fede

Più gioverà; ripetile che un giorno

Dèe dal sen d'una donna uscir il germe

Del mondo salvator. Così concordi

In una stessa fè viver possiate

I vostri dì che saran molti, e possa

Il vostro duol, della commessa colpa

Tristo e debito frutto, aver conforto

Nel pensier dolce del promesso fine. -

Qui tacque, ed ambi scesero dal monte:

Adam là tosto s'affrettò dov'era

Eva rimasta in alto sonno immersa;

Ma desta ritrovolla, e funne accolto

Con questi detti in placido sembiante:

- So dove fosti e donde torni: Iddio

Scende nel sonno ancor; di lieti eventi

Auspici sogni ei m'inviò pur ora,

Quando dal duolo e dall'ambascia vinta

Caddi in braccio del sonno. Or tu mi guida;

Son pronta, andiam; fia paradiso ancora

Ogn'altro suolo a me, se teco io sono;

E senza te nè qui giammai nè altrove

Ritrovarlo potrei: tu, Adamo, il tutto

Sei per me sotto il ciel, tu che da questo

Loco se' per mia colpa in bando spinto.

Un altro alfin certissimo conforto

Meco ne vien che, se cagione io fui

Della ruina universal, di tanto

Non mertato favor degnommi il cielo,

Che nascerà pur dal mio sangue il grande

Riparator della comun ruina. -

Eva sì disse, e ne fu lieto Adamo,

Ma non rispose; chè dappresso troppo

L'Arcangel era, e dall'opposto colle

A' destinati posti in rifulgente

Ordin scendeano i cherubini, a guisa

Di leggiere meteore il suol radendo.

Così nebbia talor dal fiume uscita,

Lieve strisciando, il paludoso piano

Trascorre in sulla sera, e del bifolco

Che ritorna all'albergo, i passi incalza.

Innanzi ad essi balenava in alto

La brandita di Dio rovente spada

A cometa simile, e, a par dell'arso

Libico ciel, quel già sì dolce clima

Con sua vampa affocava. Allor Michele

Prendendo i nostri padri ambi per mano,

L'indugio ne affrettò, dritto alla porta

Orïental guidolli, e di là ratto

Giù per la rupe alla pianura, e sparve.

Essi al perduto lor felice albergo

Volsero indietro gli occhi, e l'igneo brando

Vider rotante in fulminosi giri

Su tutto il lato orïentale e folte

In sulla porta star tremende facce

Ed armi ardenti. Alle lor ciglia alquante

Stille di pianto allor mandò natura,

Ma tosto le asciugaro. A sè dinanzi

Avean tutta la terra, ove un soggiorno

Scegliersi di riposo, e loro scorta

Era la Provvidenza. A incerti e lenti

Passi, dell'Eden pei solinghi campi,

Tenendosi per man, preser la via.